Martin Eden

By Jack London

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Title: Martin Eden

Author: Jack London

Translator: Gian Dàuli

Release date: April 10, 2024 [eBook #73373]

Language: Italian

Original publication: Milano: Modernissima, 1925

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MARTIN EDEN ***


                              JACK LONDON


                              MARTIN EDEN


                                ROMANZO

                          A cura di GIAN DÀULI



                              MODERNISSIMA
                      MILANO (13) — Via Vivaio, 10




                          PROPRIETÀ LETTERARIA

                    Impresso da FED. SACCHETTI e C.
                               in Milano

                          _Copyright 1925 by_

                      Casa Editrice «MODERNISSIMA»

                            PRINTED IN ITALY




_Pubblicammo prima i due romanzi: «Il Richiamo della foresta» e «Zanna
Bianca», volutamente, per mostrare la potenza visiva e intuitiva
del London, e la vastità della sua esperienza d’osservatore, e cioè,
accanto all’artista sempre vigile, la forza volitiva e l’irrefrenabile
impeto avventuroso dell’uomo._

_I due primi volumi sono il poema delle forze vergini e delle creature
primitive, della lotta disperata e crudele, eppur grandiosa, delle
cose vive contro la insidia della morte. Simbolo di questa tragedia
è il lupo che, ucciso il rivale, ulula, col muso verso le stelle, il
tormento millenario della carne che dilania e divora, per non essere
dilaniata e divorata, ma che sa, tuttavia, come la vittoria finale
spetti, non già alla vita, ma alla morte._

_La vita contro la morte!_

_Par di udire l’antico canto caldeo drammatizzato in una
rappresentazione favolosa di animali e di uomini, fra le solitudini
nevose e le foreste vergini dell’Alaska._

  «L’Angelo della morte ha ucciso lo scannatore che scannò il bue,
  il bue che bevve l’acqua, l’acqua che spense il fuoco, il fuoco che
  bruciò il bastone, il bastone che battè il cane, il cane che morse
  il gatto, il gatto che divorò il capretto, l’unico figlio della
  capra!

                                         _Chad Gadya! Chad Gadya!_«

Chad Gadya! Chad Gadya! _E chi verrà ad uccidere l’Angelo della Morte?_

«E il Santo Uno, sia Egli benedetto, viene e uccide l’Angelo della
Morte». _conclude l’antico canto caldeo, e il London ripete la
profezia. Per lui, il Santo Uno è l’Amore!_

                                 * * *

L’Amore.

_Forse nessuno l’ha sentito, desiderato, cercato, sofferto, cantato
come Jack London._

_Per l’amore egli è vissuto, per l’amore è morto: per questa essenza
divina che illumina e pacifica il mondo. L’amore che accomuna tutte
le creature viventi, gli uomini, gli animali, le piante, i macigni, le
stelle; l’amore che riempie l’infinito, supera la morte e scioglie ogni
mistero: l’amore, vita, bellezza, luce!_

_Quest’innamorato dell’amore, finì, così, coll’amare la vita degli
altri più della propria; al punto che la terra gli parve angusta e la
propria forza impari a un sogno che abbracciava l’universo._

_La giovinezza di Jack London fu come un razzo infocato lanciato nelle
tenebre del mondo, come uno sprazzo di luce abbagliante che ascende,
prodigiosamente, poi precipita, e si spegne. A vent’anni è già un uomo
maturo; a trenta, vecchio; a quaranta, scomparso._

_Anche per lui l’Angelo della Morte viene prima del Santo Uno e gli
strozza in gola il suo Chad Gadya._

_Ma quanta intensità di vita, quanta luce d’ideali, quanta grandezza
morale e spirituale in quei suoi quarant’anni! e quale miseria, la
nostra, al confronto!_

_Bastano questi quattro possenti volumi — e ne ha scritti più di
quaranta — per rivelarci tutta l’angustia del nostro orizzonte e la
povertà dell’animo nostro di letterati che cianciamo d’amore e d’arte e
di lotte politiche e sociali; scettici, egoistici, meschini._

                                 * * *

_Non a caso, ripeto, pubblicammo prima «Il Richiamo della foresta» e
«Zanna Bianca», cioè il poema della vita selvaggia. Volevamo, mediante
«una folata d’aria gelida, purificatrice», far sentire l’ossigeno agli
sparuti e intristiti uomini che fanno da padroni nelle patrie accademie
dell’arte; e dare almeno un guizzo al loro lucignolo dell’ideale,
fumoso e pestilenziale; alla gentaccia inorpellata, irretita
negl’intrighi eppure altosonante, per mostrare la differenza che passa
tra il volo di un’aquila e lo starnazzare di un’anitra._

_E col terzo volume, «Il Tallone di Ferro», ci proponemmo di mostrare
l’uomo nell’artista, e come non vi sia artista grande dove non è
grandezza d’uomo e altezza morale e spirituale, altruismo, in una
parola, cioè sogno del bene assoluto, universale, e dedizione di tutta
una vita a questo sogno._

_«Il Tallone di Ferro» è il crogiolo ardente che fonde in un’orribile
massa d’odio le miserie, le vergogne, le crudeltà dell’epoca nostra.
Non più canto, ma urlo: non l’urlo per i proprî dolori, ma per i dolori
degli altri._

I dolori degli altri.

_Ecco, in sintesi, una realtà e una fede sofferte con cuore tra
cristiano e prometeico: una fede e un programma di redenzione. I
dolori degli altri sono il problema della torbida e perigliosa vita
contemporanea._

_E qui, il cuore di London, uomo, non è inferiore alla mente
dell’artista. Egli ci rivela, nel_ Tallone di Ferro, _la sua forza e
la sua dolcezza, il suo coraggio e la sua saggezza, e ci addita la via
che ogni uomo onesto deve seguire; una via che non mena ai facili onori
e alle più facili ricchezze, premii plutocratici, ma con gli umili, i
denutriti, con le creature dell’abisso, conduce alla verità e al cielo
della bontà. Oggi, il mondo è tale, che «vive pericolosamente» colui
che difende la propria rettitudine, secondo gli immortali principî di
bontà, libertà e giustizia, ch’è più facile sentire che definire._

_Il London ci mostra che la lotta è mortale, e che, sebbene nolenti e
riluttanti, come ieri dovemmo partecipare ad una guerra non nostra,
così domani dovremo partecipare alla rivoluzione degli altri; ma
ci mostra anche che nella libertà di scelta del nostro posto di
combattimento, sta il giudizio dell’anima nostra, e la sua salvezza._

                                 * * *

_Ed ora che dai primi tre volumi ci è dato il modo di conoscere
l’artista e l’uomo, ecco in «Martin Eden» la sua vita._

_Ogni commento è inutile, ogni chiarificazione superflua: davanti ad
una vita vissuta con così semplice e profonda umanità, e rappresentata
con tale scultorea, precisa evidenza, ciascuno di noi può vedere il
meglio del proprio cuore e riconoscere la propria anima._

_Ma benchè in «Martin Eden» il London racconti la propria anima di
scrittore e tutto il tormento per realizzare il suo sogno d’arte, temo
che molti letterati e critici italiani stenteranno a riconoscersi in
Martin Eden, e considereranno forse questo romanzo autobiografico,
o come «noioso», o, addirittura, come falso, perchè qui è la vita
e non una meschina parodia della vita; perchè qui è l’arte, e non
virtuosismo, mestiere, commercio._

_No, questi volumi del London non sono fatti per animucce letterate._

_Vanno per il mondo a cercare cuori che non abbiano ancora perduto
il sentimento romantico e cavalleresco della vita; a cercar cuori in
cui canti ancora una canzone, in cui palpiti ancora una fede. Cuori
che, per fortuna dell’anima nostra e dell’Umanità, esistono ancora. I
fratelli di Martin Eden sono fuori delle accademie, fuori dei partiti
politici, fuori delle consorterie e delle camorrette di vanità; fuori
della gazzarra che infuria per le piazze e per le vie. Essi vivono
in solitudine, ma in solitudine lavorano, meditano e soffrono. Oh
potessero conoscersi tutti, ed unirsi per raccogliere e riagitare la
fiaccola che cadde bruscamente dalle mani di Jack London, quarantenne!_

                                 * * *

_Veramente, Martin Eden ci dice che la fiaccola non gli cadde dalle
mani, ma che egli la gettò perchè credette che gli fosse venuto
meno l’amore. Senza l’amore, la gloria gli apparve vana, e la vita
insopportabile. Jack London morì come Martin Eden, sprofondato
volontariamente e disperatamente negli abissi dell’Oceano?_

_Noi non sappiamo come Jack London sia morto._

_Però se tale non fu la sua morte, certo egli tale l’immaginò e
desiderò. E forse non v’è uomo di genio che nella sua vita non abbia
pensato, almeno una volta, a questa suprema sfida, a questo atto sereno
di volontà dell’uomo che sfugge al ricatto dell’istinto per varcare,
sdegnoso d’ogni legge umana e divina, la soglia del Mistero._

_Per due cose soltanto l’uomo può sentirsi proletario dell’Eternità:
per l’Amore e per la Gloria. Ma se esse mancano o tradiscono, come
adattarsi ad accrescere, sino a vedere decadere in sè ogni bellezza ed
ogni forza, il numero dei morti-vivi o dei vivi che non vivono?_

_Anche se il Santo Uno ritarda, sia benedetto l’Angelo della morte, il
liberatore!_

_Il tristo Angelo strozzò in gola a Jack London quarantenne il canto
del_ Chad Gadya, _ma non l’uccise. Le sue opere serbano l’impronta
eterna del suo cuore e del suo genio, e tramandano, con la bellezza,
fede e speranza agli uomini._

_Passi, dunque, in altre mani la sua fiaccola e su altre labbra il_
Chad Gadya: _il Santo Uno verrà, l’Angelo della Morte sarà ucciso;
e Prometeo, dal cuore incatenato, sarà finalmente libero fra uomini
liberi e padroni della propria anima._

  Rapallo, aprile del 1925.

                                                          GIAN DÀULI.




MARTIN EDEN




CAPITOLO I.


Arturo aprì la porta ed entrò, seguito da un giovane che si tolse,
con gesto goffo, il berretto. Costui indossava un rozzo vestito da
marinaio, che stonava in mondo singolare con quell’_hall_ grandioso.

Il copricapo lo imbarazzava molto, e già egli se lo ficcava in tasca,
quand’ecco Arturo toglierglielo dalle mani, con un gesto così naturale,
che il giovanotto intimidito ne apprezzò l’intento: «Si capisce!... —
disse fra sè, — mi ha aiutato a trarmi d’impaccio.»

Camminava sulle calcagna dell’altro, ondeggiando colle spalle e
inarcando le gambe sull’impiantito, senza volerlo, come per resistere
a un rullìo immaginario. Quelle sale spaziose sembravano troppo
anguste al suo cammino, ed egli era addirittura spaventato dal timore
di collusioni delle sue larghe spalle con gli stipiti delle porte o
con i ninnoli delle mensole. Si scostava bruscamente da un oggetto
per isfuggirne un altro e si esagerava i pericoli che in realtà erano
solo nella sua immaginazione. Fra il pianoforte a coda e la grande
tavola centrale sulla quale erano accatastati innumerevoli libri,
avrebbero potuto procedere di fronte una mezza dozzina di persone;
eppure egli vi s’arrischiò con angoscia. Non sapeva dove tener le
mani e le braccia che gli pendevano pesantemente lungo i fianchi, e
quando nell’immaginazione atterrita gli si prospettò la possibilità di
sfiorare col gomito i libri della tavola, egli scartò così bruscamente,
che mancò poco non rovesciasse lo sgabelletto del pianoforte.
L’andatura disinvolta di Arturo lo colpì, e per la prima volta egli
s’avvide che la sua differiva da quella degli altri uomini. Una punta
di vergogna gli strinse il cuore, ed egli si fermò per asciugarsi la
fronte dalla quale gocciava il sudore.

— Un momento, Arturo, ragazzo mio! — fece egli, tentando di dissimulare
la sua angoscia. — Francamente! tutto questo in una volta è troppo
per me!... Datemi il tempo di rimettermi. Sapete bene che non volevo
venire, e penso che la vostra famiglia non morrebbe dalla voglia di
vedermi!...

— Va bene! — fu la risposta rassicurante. — Non abbiate timore; noi
siamo gente alla buona... Toh! una lettera per me.

Arturo s’avvicinò alla tavola, lacerò la busta e incominciò a leggere,
dando così modo al forestiero di riacquistare la padronanza di sè. E
il forestiero capì e gliene fu grato. Questa simpatia intelligente gli
tolse il disagio; egli s’asciugò nuovamente la fronte madida e lanciò
sguardi furtivi attorno a sè. Il suo viso era diventato calmo, ma gli
occhi avevano l’espressione degli animali selvatici presi in trappola.
Era circondato da mistero, pieno di preoccupazione per l’ignoto,
ignaro di ciò che dovesse fare, conscio soltanto del suo impaccio, e
temeva che tutto in lui potesse essere ugualmente spiacevole. Egli era
eccessivamente sensibile, e così deplorevolmente compreso della sua
inferiorità, che gli sguardi di persona che se la gode lanciatigli
dall’altro di sulla lettera, lo ferivano come punte di spilli; ma
egli non fiatava, giacchè aveva appreso, tra le altre cose, ad essere
padrone di se stesso. Poi, quei colpi di spilli ferirono il suo
orgoglio; pur maledicendo all’idea che gli era venuta di andar là,
decise di resistere a quella prova, a qualunque costo. I lineamenti
del viso gli s’irrigidirono e negli occhi gli s’accese un chiarore
come di chi si prepari a una lotta. Egli si guardò intorno con maggior
libertà, osservando tutto con acume, in modo da imprimere nella mente
ogni particolare di quella bella casa. Nulla sfuggì alla vista de’
suoi occhi spalancati; i quali, a mano a mano che si rendevano conto
dell’ambiente, perdevano quel bagliore combattivo per cedere il posto
a una calda luminosità. C’era della bellezza intorno a lui, ed egli
sentiva la bellezza.

Un quadro gli attira e trattiene lo sguardo. Rappresentava uno scoglio
assalito da una mareggiata furibonda, sopra la quale della nuvolaglia
d’uragano copriva il cielo basso; oltre lo scoglio, uno schooner dalle
vele serrate e così sbandato, che mostrava tutti i particolari del
ponte, spiccava su un tramonto drammatico. Era una bella cosa, che
l’attraeva irresistibilmente. Egli dimenticò le sue movenze impacciate,
si accostò di più al quadro... e ogni bellezza scomparve dalla tela.
Sbalordito, egli fissò quel che gli pareva ora uno scarabocchio
qualsiasi, e indietreggiò. Ed ecco riapparire quel magico splendore.
«È un dipinto che illude,» fece egli fra sè, e non vi pensò più che
tanto, pur risentendo una certa indignazione pel fatto che tanta
bellezza potesse essere soggetta a un inganno. Egli non aveva mai visto
dei quadri; la sua educazione artistica s’era formata su oleografie
e litografie, i cui contorni netti e definiti, visti da vicino o da
lontano, erano sempre gli stessi. Vero è che aveva visto delle pitture
a olio nelle mostre dei negozî, ma i vetri gli avevano impedito di
osservarle da vicino.

Egli lanciò uno sguardo verso l’amico che seguitava a leggere la
lettera e vide i libri sulla tavola; allora nei suoi occhi risplendette
la luce d’un desiderio vivissimo, simile a quello d’un uomo che muoia
di fame, alla vista di un pezzo di pane. D’un passo, fu vicino alla
tavola, dove incominciò a maneggiare i libri con mano quasi tenera. Con
occhi carezzevoli diede uno sguardo ai titoli e ai nomi degli autori;
lesse qua e là qualche brano, e a un tratto riconobbe un libro che
aveva già letto un tempo. Poi, capitatogli un volume di Swinburne,
incominciò a leggerlo attentamente, dimentico del luogo dove si
trovava. Aveva il viso raggiante; due volte egli girò il volume per
leggere il nome dell’autore... «Swinburne». Non avrebbe dimenticato
quel nome. Quell’uomo aveva il dono dell’osservazione; quale senso del
colore! che luce!... Ma chi era quel Swinburne? forse era morto da
secoli, come tanti poeti? oppure viveva ancora? scriveva ancora?...
Scorse nuovamente il titolo; sì, aveva scritto altri libri. Ebbene,
la mattina dopo sarebbe andato alla biblioteca popolare per cercare
di trovare un’opera di quel genere. Poi s’immerse nel testo e vi si
abbandonò al punto che non s’accorse neppure di una giovane che era
entrata. Se ne avvide solo quando udì la voce di Arturo che diceva: —
Ruth, ecco il signor Eden...

Il suo dito segnava ancora la pagina del libro chiuso, quando la
sua persona, già prima di voltarsi, sussultò, non tanto, forse,
per l’apparizione della giovane, quanto per le parole pronunziate
dal fratello di lei. Quel corpo d’atleta nascondeva una sensibilità
straordinariamente sviluppata. Al minimo urto, pensieri, simpatie,
emozioni, balzavano in lui, insorgendo come fiamme vive. La sua
immaginazione meravigliosamente ricettiva, sempre desta, tendeva senza
requie a stabilire rapporti fra le cause e gli effetti. «Il Signor
Eden». Queste parole lo avevano colpito, giacchè, durante la sua
vita, lo avevano sempre chiamato «Eden» o «Martin», semplicemente.
«Signore»!... che stonatura! Nel suo cervello, mutato in un’ampia
camera nera, sfilarono innumerevoli quadri della sua vita, camere di
macchine e castelli di prua, accampamenti e sponde, prigioni e bettole,
ospedali e viuzze sordide, che gli si associavano nella mente a seconda
del modo come era stato pronunziato il suo nome in quei luoghi diversi.

Poi si volse, e quelle fantasmagorie del cervello scomparvero. Era
una creatura eterea, pallida, aureolata di capelli d’oro, dai grandi
occhi immateriali. Egli non vide com’era vestita; vide soltanto che la
sua veste era meravigliosa come lei. E la paragonò a un fiore d’oro
pallido, su uno stelo fragile. No! era uno spirito, una divinità,
un idolo!... Una bellezza tanto sublime non era di questa terra.
O poteva darsi che i libri avessero ragione, e che ce ne fossero
come lei nelle sfere superiori della vita. Swinburne avrebbe potuto
cantarla: forse egli pensava a un essere così fatto quando descrisse
la sua «Isotta». Visioni, sentimenti, pensieri in grande abbondanza
gli affluirono insieme nella mente. Egli vide lei stender la mano e
guardarlo fissamente negli occhi, dandogli uno schietto shake-hand
un po’ mascolino. Le donne ch’egli aveva conosciute non davano la
mano a quel modo, anzi, di solito, non la davano affatto. Fu inondato
da un fiotto di ricordi ch’egli però respinse lontano, e la guardò.
Non aveva visto mai una donna simile! Le donne da lui conosciute!...
Per un momento che gli parve eterno, egli s’immaginò trasportato in
una specie di pinacoteca piena di ritratti. Nel centro troneggiava
l’immagine di Ruth, tutte le altre erano assoggettate alla prova d’un
confronto. Egli vide clorotiche facce di operaie di officina e le
ragazze sciocche e rumorose di South-Market, le guardiane di bestiame
dei «ranches» e le femmine abbronzate del vecchio Messico che fumavano
la loro eterna sigaretta. Poi, in loro vece, le giapponesi, bambolette
leziose che trotterellavano sui loro zoccoli di legno; poi le eurasiane
dai lineamenti delicati e degenerati, e le polinesiane incoronate di
fiori, dai bei corpi bruni. Poi tutto ciò fu cancellato da un brulicame
grottesco e terribile, e furono le abbiette creature di White-Chapel,
che trascinavano le ciabatte, megere gonfie di gin, dei luoghi di
malaffare, e la teoria diabolica di quelle disgustose arpie dalla
parola sudicia che fanno la parte di femmine presso i marinai — preda
facile — e che sono il rifiuto dei porti e la feccia della più bassa
umanità.

— Non vuol sedere, signor Eden? — fece la giovane. — Desideravo vederla
dacchè Arturo ci ha parlato tanto di lei. Com’è stato coraggioso!

Egli fece un gesto negativo e mormorò che non aveva fatto proprio
niente e che chiunque si sarebbe comportato allo stesso modo. Lei
osservò che tutt’e due le mani di lui erano ricoperte di scorticature
non ancora guarite, che una cicatrice gli attraversava una guancia,
un’altra, attraverso la fronte, gli si perdeva fra i capelli, e una
terza spariva a mezzo sotto il colletto inamidato. Ella contenne un
sorriso alla vista della riga rossa prodotta dallo sfregamento del
colletto contro il collo abbronzato; evidentemente, quell’indumento
non era usato di solito da lui! Il suo occhio di donna osservò anche i
vestiti a buon mercato, dal taglio inelegante, le pieghe della giacca e
delle maniche che nascondevano male i bicipiti rigonfi.

Pur protestando che egli non aveva fatto nulla, intanto cedeva
all’invito di lei e si dirigeva in modo maldestro verso una poltrona
di faccia a lei. Con che disinvoltura vi si sedeva lei!... Ed ecco
una nuova impressione. In tutta la sua vita, egli non s’era mai
chiesto se fosse grazioso o goffo. Sedette con cura all’orlo della
poltrona, imbarazzatissimo dalle mani. Dovunque le mettesse, le mani lo
impacciavano. Così che quando Arturo uscì dalla stanza, Martin Eden lo
seguì con uno sguardo d’invidia. Si sentiva perduto, come abbandonato
in quel salotto, con quella donna spirituale, simile a uno spirito. Non
c’era lì, purtroppo!, neppur traccia d’un bar-man cui chiedere delle
bibite, neppure un piccolo groom da mandare al cantone per l’acquisto
d’una piccola birra, allo scopo di suscitare una corrente di simpatia
mediante una bevanda di quelle che rendono comunicativi...

— Che cicatrice ha sul collo, signor Eden! — esclamò la giovane. — Come
se l’è fatta? Certamente in seguito a un’avventura!

— È stato un messicano, col suo coltello, signorina! — rispose lui.
E inumidì le labbra inaridite e tossì per schiarirsi la voce. — Fu
un combattimento. Quando gli ho tolto il coltello, ha cercato di
strapparmi il naso con i denti.

Non era cosa ben detta, ma davanti ai suoi occhi passò la visione
sontuosa di quella calda notte stellata, a Salina-Cruz, con la lunga
spiaggia bianca, i lumi degli steamers carichi di zucchero, ammarrati
nel porto, le voci dei marinai ubriachi in lontananza, la calca degli
«stevadores», il bagliore degli occhi di carnivoro del messicano, e,
a un tratto, il morso dell’acciaio sul collo, il flottar del sangue,
la folla e le grida. I due corpi, il suo e quello del messicano,
avvinghiati rotolavano nella sabbia che volava, e, chissà da dove,
veniva un melodioso tintinnìo di chitarra. Tale era la scena, ed egli
vibrò evocandone il ricordo. Colui che aveva dipinto lo schooner,
laggiù sul muro, sarebbe stato capace di dipingere quella scena?...
Egli pensò che la spiaggia bianca, le stelle, i lumi degli steamers
sarebbero apparsi uno spettacolo superbo, come pure quel capannello
fosco, sulla sabbia, attorno agli avversarî in lotta. Anche il coltello
avrebbe fatto un bell’effetto, così lucente al lume delle stelle! Ma di
tutto ciò, nulla trasparve dalle sue parole.

— Ha tentato di strapparmi il naso con i denti, — concluse.

— Oh! — esclamò la fanciulla, con voce fioca; ed egli osservò la
contrazione dei lineamenti delicati di lei. Egli stesso risentì un
urto; un rossore d’imbarazzo gli si diffuse sulle guance abbronzate,
e il viso gli scottò, come se fosse stato esposto alla fornace della
ferriera. Evidentemente, delle cose così brutte e sconvenienti,
delle risse a coltellate, non erano argomenti da trattare in una
conversazione con una donna. In quel genere di società, la gente di
cui parlano i libri, non s’occupa di argomenti simili, forse li ignora
persino. La conversazione ch’essi cercavano di avviare subì una piccola
sosta. Poi lei lo interrogò circa la cicatrice sulla guancia. Egli
osservò immediatamente che lei faceva uno sforzo per mettersi a livello
di lui, e decise: «Sarò io a mettermi al suo livello!»

— Fu per un accidente, — diss’egli indicando la guancia. — Una notte,
per una mareggiata, il buttafuori dell’albero maestro fu strappato, e
anche il paranco. Il buttafuori era di filo d’acciaio e s’attorcigliava
nell’aria come un serpente. Tutti gli uomini di guardia tentavano
di strapparlo. Allora, io mi ci sono gettato sopra, e mi son fatto
taccheggiare.

— Oh! — fece lei, stavolta con accento di comprensione, sebbene,
in fondo, quella spiegazione di lui fosse ebraico per lei, che si
domandava che cosa significasse un «buttafuori» e «taccheggiare».

— Quest’uomo, Swinburne, — riprese lui, seguendo il filo d’un’idea
fissa, — è morto da molto tempo?

— Ma non ho sentito dire che sia morto! — fece lei guardandolo con
curiosità. — Dove lo ha conosciuto?

— Io?... non so neppure come sia fatto. Ma prima che lei entrasse
leggevo alcuni versi di lui, in quel libro là, sulla tavola. Le piace
quella poesia?

Allora lei cominciò a parlare a suo agio, con vivacità, attorno a
quell’argomento lanciato da lui. Egli si sentì rinfrancato e s’affondò
un po’ di più nella poltrona, alla quale s’aggrappava con tutt’e due
le mani, per paura che non gli sfuggisse di sotto. Finalmente, egli
era riuscito a farla parlare, e mentre lei chiacchierava, egli cercava
di seguirla, meravigliandosi di tutta la scienza accumulata in quella
testa graziosa e impregnandosi della pallida bellezza di quel viso.
E gli riusciva di seguirla, sebbene turbato dalle parole sconosciute
che lei usava, dalle critiche e dal processo del pensiero di lei,
tutte cose nuove per lui, ma che però gli stimolavano la mente e la
facevano vibrare. «Ecco la vita intellettuale! — si diceva — ed ecco
della bellezza intensa e meravigliosa». Egli dimenticò se stesso e se
la divorò con sguardo d’affamato. Vivere per una donna simile!... per
meritarsela, per conquistarla, ah, sì!... e morire per lei. I libri
avevano ragione: donne simili esistevano: lei era una di quelle. Ella
dava ali all’immaginazione di lui, così che grandi quadri luminosi
gli si stendevano davanti, contesti di vaghi e giganteschi profili
d’amore, di poesia e di gesti eroici compiuti per una donna, per
una pallida donna simile a un fiore d’oro. E attraverso la visione
lucente palpitante, come attraverso un magico miraggio, egli guardava
avidamente la donna reale seduta presso di lui, che parlava di
letteratura e d’arte. La guardò febbrilmente, inconscio della fissità
del suo sguardo e del fatto che tutta la virilità della sua maschia
natura gli luceva negli occhi. Ma lei, che sapeva poco degli uomini,
sentiva il bruciore di quello sguardo. Mai un uomo l’aveva guardata
in quel modo, e ne rimase turbata. Si impigliò nel mezzo d’una frase
e si fermò lì, avendo perso di botto il filo delle idee. Egli la
spaventava, ma intanto provava piacere nell’essere guardata così. La
sua educazione la avvertiva d’un pericolo e d’una tentazione cattiva,
sottile, misteriosa. D’altra parte sentiva prepotente in tutta la
persona la voce dell’istinto che l’induceva a respingere lo spirito di
casta e a sedurre quell’abitante d’un altro mondo, dalle mani piene di
cicatrici, dal collo segnato a vivo dallo sfregamento d’un coltello, e,
in modo troppo evidente, insozzato, degradato da una vita grossolana.
Ella era pura, e sentiva il suo senso morale ribellarsi, ma era donna e
cominciava a imparare i paradossi della donna.

— Come le dicevo... Ma che le stavo dicendo, dunque? — E lei si
interruppe a un tratto e rise della sua storditaggine.

— Lei diceva così che quell’uomo — Swinburne — non è stato un grande
poeta, perchè... E a questo punto s’è fermata, signorina, — fece egli
con premura. Sentiva, ad un tratto, una specie di fame, e piccoli
deliziosi fremiti percorrergli la spina dorsale, ascoltando il suono
del riso di lei.

— Come d’argento! — diss’egli fra sè. — Un accordo veramente: un
_carillon_ di sonagli d’argento! — E immediatamente, per un attimo
solo, si sentì trasportato in un paese lontano, dove, sotto ciliegi in
fiore, egli fumava una sigaretta ascoltando le campanelle d’una pagoda
puntuta che chiamavano alla preghiera i fedeli dai sandali di treccia
di paglia.

— Sì, grazie, — disse lei. — Swinburne ci delude, insomma, perchè,
Dio mio, manca di delicatezza. Molti poemi suoi non dovrebbero neppure
esser letti. Un poeta veramente grande non scrive neppure un rigo che
non sia pieno di magnifiche verità e che non sia rivolto alla parte
nobile e pura ch’è in noi. Non si dovrebbe poter togliere neppure
un rigo d’un grande poeta senza causare un’irreparabile perdita del
patrimonio comune!

— M’è parso bello. — fece egli esitando, — quel poco che ho letto.
Non pensavo neppure che potesse essere un così... cattivo soggetto.
Immagino che riesca meglio negli altri libri suoi.

— Nel volume che leggevate, ci sono tante cose che potevano essere
evitate, — disse lei con voce sicura, dommatica.

— Mi debbono essere sfuggite, — affermò egli. — Ciò che ho letto era
sorprendente. Era tutto chiaro e caldo, e mi ha penetrato, riscaldato
come il sole, e illuminato come un riflettore. Questo effetto ha
prodotto in me... Ma può darsi che io non capisca gran che, della
poesia, signorina.

E si fermò impacciato; era confuso, penosamente cosciente della sua
inettitudine a esprimersi. Egli sentiva la grandezza, l’intensità
di ciò che aveva letto, ma le parole sfuggivano al suo pensiero e
non poteva descrivere ciò che risentiva, e si paragonò a un marinaio
sperduto in una notte buia su un mare ignoto, che manovrasse alla
cieca. Ebbene! — decise egli fra sè —; spettava a lui avvezzarsi a quel
mondo nuovo. Non c’era cosa ch’egli non avesse ottenuta quando aveva
voluto, ed era tempo ch’egli imparasse ad esprimere ciò che sentiva
in sè, perchè Ella potesse comprenderlo. «Ella» riempiva già tutto
l’orizzonte di lui.

— Ora, Longfellow, — disse lei.

— Sì, l’ho letto, — interruppe egli vivamente, desideroso di far
valere il suo piccolo corredo letterario e di mostrarle che non era
assolutamente un imbecille. — Il _Salmo della Vita, Excelsior e..._
Credo che non vi sia altro.

Ella scosse il capo affermativamente, sorrise, ed egli sentì che il
sorriso di lei era accondiscendente, pieno di pietà. Era pazzo nel
tentare di farsi valere su quell’argomento! Quel Longfellow doveva
avere scritto una quantità d’altre cose.

— Scusi, signorina, se parlo a vanvera. Francamente non conosco
gran che di tutte queste faccende. Non sono cose familiari, del mio
mestiere. Ma farò il possibile perchè lo diventino.

L’affermazione risuonò come una minaccia; la voce di lui era risoluta,
i suoi occhi lanciavano lampi, i lineamenti gli s’erano induriti. Lei
vide che le mascelle gli si contraevano; gli angoli erano diventati
spiacevolmente aggressivi. Nello stesso tempo, una virilità intensa
parve emanare da lui, sommergendolo come un’onda.

— Credo che potrebbe riuscirci, infatti, — concluse lei ridendo. — Lei
è fortissimo!

Per un istante lo sguardo di lei fissò la nuca del torello
possentemente muscolosa, abbronzata dal sole, impressionante per salute
e forza. E, sebbene egli se ne stesse umilmente seduto, arrossendo
nuovamente, ella si sentì attratta verso di lui. Un pensiero folle le
attraversò la mente; le sembrò che posando tutt’e due le sue mani su
quella nuca, tutta quella forza e tutta quella salute sarebbero passate
in lei. E questo pensiero la urtò, giacchè le parve che rivelasse una
insospettata depravazione della sua natura, tanto più che sino a quel
giorno, la forza fisica le era apparsa come cosa brutale e volgare.
Il suo ideale di bellezza maschile era sempre stato un ideale formato
tutto da grazia e finezza. Eppure quel desiderio strano persisteva;
ella ammattiva pensando che potesse avere la voglia di posare le sue
mani su quel collo adusto. In realtà non si rendeva conto che era
l’istinto che la spingeva ad attingere la forza di cui il suo organismo
mancava. Essa non sapeva altro che questo, che mai alcun uomo l’aveva
impressionata come quello, che, pure, la urtava ogni momento con quel
suo impossibile modo di esprimersi.

— Sì, non sono uno stupido, — diss’egli. — Alla occorrenza, so digerire
ciottoli!... Ma, ora come ora, sono affetto da dispepsia morale!...
Non sono allenato, capisce? Mi piacciono i libri e la poesia e ogni
qual volta ho avuto del tempo libero, ho letto, ma la lettura non mi
ha fatto mai riflettere come lei. Ecco perchè non posso parlarne.
Sono come un navigante alla deriva, su un mare ignoto, senza carta
nè bussola. Ora voglio mettermici d’impegno. Forse lei potrebbe
aiutarmi... Come ha fatto a imparare tutto quanto mi ha detto sin qui?

— A scuola, evidentemente, e lavorando.

— Io sono stato a scuola che ero un marmocchio...

— Sì, ma parlo delle scuole superiori, dei corsi, dell’Università!...

— Lei è stata all’Università!

Egli era confuso dallo stupore; gli pareva che lei si fosse allontanata
da lui d’un milione di leghe perlomeno.

— Io ci vado sempre. Frequento i corsi superiori di letteratura inglese.

Egli ignorava che cosa lei volesse significare con ciò, ma si limitò a
rilevare mentalmente quella nuova prova d’ignoranza e passò oltre.

— Quanto tempo bisognerebbe lavorare per entrare all’Università? —
domandò egli.

Essa gli rivolse un raggiante sorriso d’incoraggiamento e rispose:

— Dipende dagli studi che lei ha fatti sinora. Non è mai stato al
liceo? No, naturalmente. Ma ha compiuto le classi elementari?

— Mi rimanevano due anni da fare quando le ho abbandonate, — rispose
lui. — Ma mi son portato sempre abbastanza bene, — s’affrettò ad
aggiungere. E subito, furioso per essersi così vantato, strinse il
braccio della poltrona con tanta violenza, che le punte delle unghie
ne formicolarono. Nello stesso tempo si accorse che una donna entrava
nella stanza. La giovane si alzò e corse a lei. Egli pensò che dovesse
essere la madre della signorina. Era una donna bionda, dalla persona
alta, sottile, maestosa, magnifica. Egli godette nel contemplarne
la linea armoniosa della veste che gli fece ricordare delle donne
viste sulla scena. Poi gli venne in mente d’aver visto delle grandi
dame simili, vestite nello stesso modo, entrando a teatro, a Londra,
mentr’egli guardava, in piedi, e una guardia di città lo respingeva
fuori del tendone, sotto la pioggia. D’un balzo, l’immaginazione lo
portò a Yokohama, dove, lungo la passeggiata, egli aveva incontrato
altre grandi dame. Come in un caleidoscopio, il porto e la città di
Yokohama gli sfilarono davanti agli occhi. Ma egli scacciò subito
quella visione, oppresso com’era dal richiamo urgente della realtà.
Sapeva che doveva essere presentato, dimodochè si alzò penosamente sui
piedi, con i calzoni segnati da ginocchielli, le braccia penzoloni, e
il viso contratto dallo sforzo di quella prova da sostenere.




CAPITOLO II.


Fu un’operazione da incubo, per lui, recarsi nella camera da
pranzo. Gli parve di non arrivar mai, e vi giunse infatti a furia di
vacillamenti, trabalzi e sterzate. Ma finalmente arrivò e si trovò
seduto accanto a Lei. Lo spiegamento dei coltelli e delle forchette
lo spaventò e gli parve erto d’insidie. Egli osservò le posate,
affascinato, al punto che il loro luccichio divenne come quello di uno
specchio sul fondo del quale si movesse una successione d’immagini. Si
rivide sulla coperta di uno _schooner_; egli e i compagni mangiavano
della carne di bue salata, con le dita e con i coltelli a scatto, o
prendevano, con i cucchiai di ferro ammaccati, una densa minestra di
piselli in grosse gavette. Allucinante, il lezzo del manzo di cattiva
qualità gli empì le narici, mentre egli udiva i rumorosi scricchiolii
delle mascelle che accompagnavano quelli dell’ossatura della nave
e il gemere degli scompartimenti-stagni. Guardò i suoi compagni che
mangiavano e fu colto da un immenso disgusto, da una profonda tristezza
al pensiero che rassomigliava a loro. Ebbene! no! non avrebbe più
rassomigliato a quella gente, e tutta la sua volontà si sarebbe tesa
a quello scopo. Il suo sguardo fece il giro della tavola. Arturo e
Norman erano in faccia a lui. Erano suoi fratelli, fratelli di Lei.
Il suo cuore fu mosso da un generoso slancio verso di loro. Com’era
affiatata quella famiglia... Egli rivide la giovane che correva
incontro alla madre, il loro bacio, il quadro che tutt’e due formavano
avanzando con le braccia intrecciate. Simili prove d’affetto tra
figlioli e genitori non esistevano punto, nel suo ambiente! Era una
rivelazione di cose che solo quel mondo superiore poteva pretendere, ed
egli ne rimase abbagliato, e per simpatia si sentì il cuore pieno di
tenerezza. Durante tutta la sua vita egli era stato affamato d’amore,
ma aveva dovuto farne senza, e s’era indurito al compito. Aveva
ignorato che l’amore gli era necessario, e persino in quel momento
seguitava a ignorarlo. Ma ne vedeva manifestazioni che lo commovevano
profondamente.

Il signor Morse non era là, grazie a Dio. Egli era già abbastanza
scottato dal dover parlare con Lei, la madre e il fratello Norman.
(Arturo lo conosceva già da un po’). Durante la sua vita non aveva
penato mai tanto; così gli pareva. I lavori più faticosi erano stati
trastulli da ragazzi al confronto di quello!... Aveva la fronte madida
di sudore e la camicia bagnata, per tanti esercizî insoliti. Gli
toccava mangiare in modo al quale non era avvezzo, servirsi di strani
utensili, adocchiare furtivamente intorno per sapere come compiere
ogni nuovo rito; inoltre accogliere il flusso d’impressioni nuove che
l’inondavano, distinguerle, classificarle. Forse lo sforzo più duro era
quello di frenare quello slancio verso di Lei, che lo attanagliava in
una forma d’irrequietezza sorda e dolorosa, con un desiderio tormentoso
di accostarla, di seguire lo stesso cammino. Ma come diminuire la
spaventosa distanza che li separava?... Doveva anche furtivamente
spiare gli altri per decidere dell’impiego opportuno del coltello
o della forchetta, imprimere i lineamenti della persona, valutarli
e paragonarli a quelli della Donna Spirituale. Inoltre, doveva
parlare, ascoltare e rispondere al momento opportuno, sorvegliandosi
severamente, proprio lui, avvezzo a un’assoluta licenza di linguaggio!
E, per colmo d’imbarazzo, c’era l’incessante minaccia del maggiordomo,
terribile sfinge che gli appariva silenziosamente dietro la spalla
e parlava per enigmi che bisognava risolvere immediatamente. Durante
tutto il pranzo fu oppresso dal pensiero dello sciacquabocca il cui
spettro non cessava dall’ossessionarlo. Quando sarebbero venuti?
e a che cosa potevano verosimilmente assomigliare?... fra pochi
minuti forse sarebbero là, ed egli, Martin Eden, seduto alla stessa
tavola alla quale sedevano i superuomini che ne facevano uso, se ne
sarebbe servito come loro! Infine, sopra tutto, dominava il ritorno
dell’angoscioso problema: quale contegno tenere? Ora, vilmente, egli
decideva di sostenere una parte; ora, più vilmente ancora, si diceva
che non vi sarebbe riuscito, che non era adatto alla menzogna, e che
sarebbe diventato ridicolo.

Al principio del pranzo fu taciturno, tanto grande era la tensione
nervosa di tutta la sua persona. Egli ignorava che il suo silenzio
avrebbe dato una smentita ad Arturo che il giorno prima aveva
annunziato che avrebbe condotto a pranzo un selvaggio, ma che non
c’era da spaventarsi, perchè quel selvaggio li avrebbe certamente
interessati. Mai, Martin Eden avrebbe immaginato il fratello del suo
idolo capace di un tale tradimento, dato specialmente il fatto che
egli aveva avuto la fortuna di aiutare quel fratello a trarsi fuori
d’una baruffa dalla quale l’uscita minacciava di diventar fastidiosa.
Egli era dunque seduto a quella tavola, turbato dalla sua indegnità
e, insieme, affascinato da quanto accadeva attorno a lui. Per la
prima volta egli rilevava come l’atto di mangiare potesse essere una
manifestazione che non fosse una semplice funzione. D’altra parte,
ignorava la natura di ciò che mangiava; era del nutrimento, ecco!
Egli alimentava la sua gran fame di bellezza a quella tavola dove il
mangiare diventava estetico. Il cervello gli ribolliva. Egli udiva
parole che per lui non avevano alcun significato, altre che aveva viste
solo nei libri e che neppure una delle persone di sua conoscenza, di
prima, sarebbe stata capace di pronunziare. Quand’egli udiva una di
quelle parole cadere distrattamente dalle labbra di un membro di quella
straordinaria famiglia, la famiglia di Lei, un brivido delizioso gli
percorreva la persona. Tutto il romanzesco, tutta la bellezza dei libri
si realizzavano. Egli si trovava in quello stato raro e meraviglioso
di chi vede i sogni svincolarsi dai limbi della fantasia e acquistar
corpo.

Egli si teneva quindi sullo sfondo, ascoltando, gustando, rispondendo a
monosillabi, dicendo «Sì, signora» e «no, signorina», «no, signorina» e
«sì, signorina». Soffriva a non dire come i marinai: «Sì, Capitano,» al
fratello, ma sentiva che avrebbe dato un’altra prova d’inferiorità; e
che cosa avrebbe detto Colei ch’egli voleva conquistare?...

— Perbacco! — si diceva orgogliosamente, — io valgo quanto loro, e, se
è vero che essi sanno un mucchio di cose che io non so, è vero anche
che io potrei insegnare loro altre che non immaginano neppure.

Un momento dopo, quando Lei o sua madre lo chiamavano signor Eden, il
suo aggressivo orgoglio svaniva, ed egli esultava dalla gioia. Era una
persona civile, perdiana!, e pranzava a fianco a fianco con degli eroi
da romanzo; egli stesso agiva in quel romanzo, e i suoi fatti e le sue
gesta sarebbero un giorno impressi in un libro.

Intanto, mentre egli dava ad Arturo una così flagrante smentita
rivelandosi un agnello belante e timido, il suo cervello si torturava
ad elaborare un modo di comportarsi, giacchè non aveva veramente nulla
dell’agnello belante, e una parte di second’ordine non conveniva punto
alla sua natura orgogliosa. Egli parlava soltanto quando era proprio
necessario, e allora la sua conversazione rassomigliava alla sua
entrata nella sala da pranzo; piena d’intoppi e di bruschi arresti,
mentr’egli sfogliava nel suo vocabolario, in cerca della parola
propria, esitando nel servirsi di parole ch’egli sapeva giuste, ma che
temeva di non pronunziare in modo esatto, scartando altre che riteneva
grossolane. Ma egli era, durante tutto questo tempo, oppresso dalla
sensazione che quella ricerca di espressioni lo rendesse stupido e
gl’impedisse di esprimere il suo pensiero intimo. Anche il suo amor di
libertà s’inalberava contro la costrizione, così del pensiero, come
di quella specie di collare che gli circondava il collo, in forma di
colletto. Eppoi, egli non sapeva se potesse resistervi. La sua potenza
di pensiero e di sensibilità era tanto grande, quanto pertinace e
vivo era il suo spirito; così che, trascinato dalla spontaneità delle
sensazioni, gli capitava di dimenticare dov’era, e finiva coll’usare il
suo povero linguaggio d’una volta.

A un certo punto, avendolo il cameriere interrotto per offrirgli un
piatto, egli rifiutò con un «Puh!» enfatico, sonoro, che fu una gioia
pel cameriere e per tutta la tavola, e lo riempì di vergogna. Ma egli
si rimise subito e spiegò:

— È una parola di gergo, che significa «finito». M’è venuta con la più
grande naturalezza.

Poi, siccome la fanciulla gli guardava curiosamente le mani, continuò:

— Son ritornato da un viaggio lungo le coste, su uno dei corrieri
del Pacifico. Siccome era in ritardo, abbiamo dovuto, nei porti del
Puget-Sound, scarpinare come negri per imbarcare il carico — nolo
misto... Loro sanno di che si tratta, no? Ecco, perchè la mia pelle è
lacerata.

— Oh! non è questo, — rispose lei vivamente. — Le sue mani sono troppo
piccole pel suo corpo.

Egli arrossì, persuaso ch’ella avesse scoperto in lui una nuova tara.

— Sì, — disse scusandosi. — Non sono abbastanza forti pel resto. Con le
mie braccia e le spalle posso picchiare come un mulo; ma quando rovino
la faccia di qualcuno, anche le mie mani si guastano. — Ma subito si
dolse di questa frase e si disgustò di se stesso. Aveva parlato senza
riflettere, di cose brutte.

— È bello da parte sua, essere andato in aiuto di Arturo, come ha fatto
lei che era un estraneo, — disse gentilmente la giovane, scorgendone
l’imbarazzo, di cui, d’altra parte, ignorava la causa. Egli la
comprese, e la calda riconoscenza che gli invase l’animo, gli fece
ancora una volta dimenticare quella sua lingua così maldestra.

— Non conta parlarne, — diss’egli. — Un altro avrebbe fatto
altrettanto. Quella banda di mascalzoni andava in cerca di litigi, e
Arturo non badava. Gli sono piombati addosso... e allora io mi son
messo in mezzo... E appunto nel far cadere loro qualche dente, mi
sono lacerate le mani... Non volevo a nessun costo lasciarmi mancare
un colpo simile! Quando vedo... — Si fermò di botto, a bocca aperta,
cosciente dell’abisso che la separava da lui e lo rendeva indegno
di respirare l’aria ch’essa respirava. E, mentre Arturo, per la
ventesima volta, raccontava la sua avventura con gli ubriachi sul
trasbordatore, e come Martin Eden, balzando in suo aiuto, lo avesse
soccorso, il Martin Eden in questione, con le sopracciglia aggrottate,
meditava sulla sua incorreggibile volgarità e rifletteva nuovamente
al problema arduo della sua condotta di faccia a quella gente là.
Sino a quel punto, egli aveva compiuto certamente delle goffaggini.
Egli disse a se stesso che non era della loro razza e ch’era inutile
far finta d’esserlo; quel travisamento non sarebbe riuscito, e,
d’altra parte, egli odiava ogni specie di simulazione. Non poteva non
essere sincero... a qualunque costo. Pel momento non parlava il loro
linguaggio, ma un giorno sarebbe riuscito a parlarlo, com’era sua ferma
intenzione. Pel momento bisognava parlare magari il proprio linguaggio,
intonato, beninteso, alla loro comprensione e dirozzato in modo da
non urtarli. Eppoi egli non si darebbe l’aria, sia pure tacita, di
conoscere cose che gli erano totalmente ignote. In fede di che, quando
i due fratelli, che parlavano dei loro studi, usarono più volte la
parola «trigo», Martin Eden domandò loro:

— Trigo? che cosa significa?

— Trigonometria, — rispose Norman. — Una forma superiore di «mat».

— E che cos’è un «mat»?

— Le matematiche, l’aritmetica, — rispose Norman ridendo. Martino
scosse il capo. Intravedeva orizzonti infiniti di scienza, orizzonti
sconfinati. E questo pensiero diventava tangibile, giacchè la sua
anormale potenza di visione gli faceva concretare le cose più astratte.
Trasformate dal suo cervello ribollente, trigonometria, matematica e
tutto il vasto campo del sapere ch’esse comprendevano, si mutarono in
altrettanti paesaggi. Egli vedeva radure dolcemente luminose, fughe
di fogliame fresco brutalmente forato dai raggi d’un sole ardente.
In lontananza, l’orizzonte si perdeva in una caligine di porpora:
ma, egli ne era certo, dietro quella caligine purpurea abitava
l’ignoto meraviglioso, dalle incantevoli attrattive. Egli si sentì
come inebriato, giacchè là era l’avventura da tentare, il mondo da
conquistare, e dal fondo di lui folgorò un pensiero: diventare degno di
Lei, conquistarlo, quel giglio pallido che fioriva là, accanto a lui.

La visione magica fu fatta svanire da Arturo che, durante tutta la
sera, s’era sforzato di mostrare «l’uomo selvaggio» a proprio profitto.
Martin ricordò a se stesso la decisione presa: per la prima volta
egli si mostrò qual era, con un certo sforzo dapprima, ma subito
si abbandonò a se stesso osservando come il suo modo di raccontare
piacesse all’uditorio. Egli aveva fatto parte dell’equipaggio del
contrabbandiere «Alcione» quando questo fu catturato da un caccia delle
Dogane. E seppe far vedere loro ciò che i suoi occhi avevano visto:
rievocò il gran mare violento, i battelli, i marinai, con tale potenza,
che sembrò loro di essere con lui. Con tocco d’artista egli sceglieva
i particolari più significanti, l’immagine chiara, balzante, e dava ad
essi, poi, un colore ed una luce così vive, che i suoi uditori erano
trascinati dall’eloquenza irresistibile del suo entusiasmo creatore.
In certi momenti, li urtava con la crudezza realistica della parola,
ma sempre la brutalità era unita alla bellezza, e, spesso, il tragico
era temperato dall’umorismo, quando raccontava le strane uscite e le
trovate dei marinai.

E mentre parlava, la fanciulla non cessava di guardarlo, stupita.
Essa s’accendeva a quella fiamma... Era stata dunque, sin allora,
nient’altro che una fredda statua?... Le veniva la voglia di curvarsi
su quel braciere umano che proiettava forza, salute, un inesauribile
vigore. Essa si sentiva irresistibilmente spinta verso di lui.
D’altra parte, un sentimento contrario la indisponeva: le mani di
lui malconce, talmente insudiciate dal lavoro, che tutta la sozzura
della fatica quotidiana sembrava le avesse incrostate, suscitavano
in lei una violenta repulsione, come la striscia della nuca e i
muscoli rigonfi. Quella rudezza la spaventava; la crudezza di quel
linguaggio le insultava l’orecchio; i rudi episodî della vita di
lui le insultavano l’anima. Eppure, nonostante questo, l’attrattiva
persisteva, così che lei lo immaginò dotato d’una potenza malefica.
Tutto quanto era solidamente fondato nel suo cervello, tutto un mondo
di convenzioni sociali vacillava, era abbattuto dal vento eroico del
romanzesco e dell’avventura. Davanti ai suoi pericoli quotidiani e
alla sua gaiezza sempre pronta, la vita non appariva più come uno
sforzo e una costrizione, ma diventava un oggetto di divertimento, un
gioco a occhio e croce, da respingere poi, negligentemente. «Dunque
divertiti!», le gridava una voce interiore. «Chinati su di lui, giacchè
ti piace, e posa tutt’e due le mani sulla sua nuca!» L’arditezza
di questo pensiero fu tale, che mancò poco ch’ella non gridasse ad
alta voce. Invano fece appello alla propria cultura, alla propria
raffinatezza, contrapponendo tutto ciò che essa valeva, a tutto ciò
ch’egli non valeva. Attorno a lei, gli altri se lo divoravano cogli
occhi; ella avrebbe disperato se non avesse visto del terrore negli
sguardi di sua madre, del terrore pieno di ammirazione, sia pure, ma,
comunque, del terrore. Sì, quell’uomo venuto dalle tenebre era una
potenza malefica. Sua madre lo sentiva, e sua madre aveva ragione. Essa
si sarebbe confidata con lei, in quella come nelle altre cose. E la
fiamma cessò, a un tratto, di bruciarla, e lei cessò di temerlo. Dopo,
ella suonò al pianoforte, per lui, contro di lui, per dir così, in modo
aggressivo, con la vaga intenzione di accentuare l’insuperabile abisso
che li separava. Come una mazzata, ella gli assestava la sua musica nel
cervello, brutalmente; ed egli ne rimase stordito, quasi schiacciato,
ma più eccitato che mai. La contemplava con stupore rispettoso. Certo,
anche nella sua mente, l’abisso s’allargava, ma più rapida cresceva
in lui l’ambizione di superarlo. Egli era, d’altra parte, d’una
sensibilità troppo complessa, per contemplare quell’abisso durante
una sera intera, specialmente ascoltando della musica, alla quale era
molto sensibile. Come alcool, ella s’impadroniva dell’immaginazione
di lui, gli sovreccitava i sensi e lo trascinava oltre le brutture
della vita, in un infinito vaporoso nel quale l’animo suo volava,
libero d’ogni materialità volgare. Egli non comprendeva quella musica
suonata da lei; musica che non poteva essere paragonata al frastuono
dei pesta-pianoforti dei balli pubblici, nè ai rumorosi suoni degli
organetti di villaggio, uditi da lui. Le sue letture gli avevano
fatto presentire vagamente l’esistenza di quel genere di musica. Egli
l’ascoltava religiosamente, contento, dapprima, dei motivi semplici
e facili, sorpreso poi quando questi motivi cessavano. Proprio nel
momento in cui ne aveva compreso il disegno o la sua immaginazione
s’involava per seguirli, un caos di suoni li inghiottiva, e la sua
immaginazione, scoraggiata, ricadeva pesantemente sulla terra.

A un punto, egli credette che tutto ciò fosse fatto a bella posta per
respingerlo. Egli si rese conto dell’antagonismo voluto, e si sforzò
d’indovinare il linguaggio aggressivo delle mani sulla tastiera. Poi,
questa idea gli parve impossibile, indegna di Lei, ed egli la respinse
e s’abbandonò nuovamente. E nuovamente il suo animo s’involò, liberato
dall’involucro carnale; davanti ai suoi occhi e di là, risplendeva
una luce trionfale; tutto ciò che lo circondava esteriormente sparì,
ed egli partì verso mondi ignoti... Vide strane sponde inondate dal
sole, accampamenti selvaggi ed inesplorati, s’inebriò dell’aroma
drogato delle isole, quale aveva respirato in certe notti ardenti,
sul mare! Egli seguì coste deserte, in pomeriggi tropicali; e dallo
specchiettìo di flutti color di turchese emergevano isolotti di corallo
incoronati di palme. Rapidissimamente, le immagini si succedevano. Ora
egli cavalcava un cavallo selvaggio, e galoppava per un deserto color
di sogno; un momento dopo, dalla cima di una montagna, contemplava,
in una calda luce sfarfallante, il sepolcro imbiancato della Valle
della Morte; oppure remava sull’Oceano Artico tra le grandi banchine
scintillanti al sole, oppure si rivedeva, in una calda notte di profumi
voluttuosi, disteso sulla sabbia corallina d’una spiaggia orlata da
palme di cocco. Alla luce fantasticamente azzurrina d’un relitto di
nave in fiamme, gli «hulas» danzavano al suono di selvagge nenie,
di tintinnanti «ukuleles» e di sonori «tam-tams». All’orizzonte, un
vulcano proiettava la sua lingua di fuoco sul cielo; al disopra di esso
brillava una pallida falce di luna e, laggiù, in fondo, la Croce del
Sud.

Egli vibrava come un’arpa; gli occhi della sua vita passata erano le
corde. Il flusso delle melodie che passava come una brezza attraverso
le corde, ne faceva cantare i ricordi e i sogni. Ma non erano semplici
sensazioni, ma sensazioni che rivestivano di forma, di colori, di raggi
e di ardori l’animo suo esaltato che si contraddiceva in modo magico.
Il Passato, il Presente, l’Avvenire si confondevano; egli vagava di
là dai vasti mondi, attraverso avventure e nobili azioni; vagava verso
Lei per conquistarla, tenendola fra le braccia, continuava il suo volo,
trascinato dalla sua fantasia trionfante.

Di sfuggita, ella lo guardò e vide una traccia di tutto ciò sul viso di
lui, viso trasfigurato, nel quale i grandi occhi raggianti sembravano
vedere molto più in là di ciò ch’ella suonava: la corsa e il balzo
della vita e tutti i sogni meravigliosi dell’imaginazione. Ella ne
fu avvinta. Il rustico, grossolano marinaio, erano scomparsi, sebbene
il vestito mal fatto, le mani malconce fossero ancora lì; sembravano
essere il travestimento terrestre d’una grande anima condannata al
silenzio per colpa delle sue labbra inabili. In un lampo ella vide
tutto ciò: poi, il rustico riapparve agli occhi di lei... e lei si
burlò di sè. Pure, l’impressione di quel breve lampo le rimase, e
quando Martin Eden fece la sua partenza maldestra come la venuta, essa
gli prestò due volumi di Swinburne e di Browning. Lei stava studiando
Browning, allora.

In piedi, davanti alla giovane, tutto rosso e balbettando
ringraziamenti, egli aveva talmente l’aria d’un fanciullo timido, che
un’onda di pietà materna invase lei. Dimenticò il rustico, la grande
anima travisata, l’uomo i cui sguardi avidi l’avevano spaventata e
rapita; non vide altro che un fanciullo che le stringeva la mano con
delle callosità ruvide come una raspa e le diceva goffamente:

— La migliore serata della mia vita!... Io non sono avvezzo a questo
genere di cose, capite... — Ed egli si guardò intorno come per invocar
soccorso. — A gente come voialtri e a case come questa... Tutto ciò è
nuovo e mi piace.

— Spero che ritornerete, — fece lei, mentr’egli si congedava dai
fratelli.

Egli si ficcò il berretto sul capo, fece una specie di sterzata verso
la porta e disparve.

— Ebbene! che ne pensi di lui? — interrogò Arturo.

— Interessantissimo!... un soffio d’ozono! — rispose lei. — Quanti anni
ha?

— Vent’anni, quasi ventuno... Gliel’ho domandato nel pomeriggio, oggi.
Non lo credevo così giovane.

... E io, ne ho tre di più! — fece lei tra sè, abbracciando i fratelli.




CAPITOLO III.


Scendendo le scale, Martin Eden mise la mano in tasca, ne trasse un
foglietto di carta di riso bruno, un pizzico di tabacco messicano e
arrotolò una sigaretta. Profondamente ne aspirò la prima boccata e
respinse il fumo con voluttà.

«Buon Dio!», esclamò con accento di rispettosa ammirazione. E, più
piano, ripetè altre due volte: «Buon Dio!» Poi strappò il colletto e
se lo ficcò in tasca. Un’acquerugiola gelida cadeva, ma egli si scoprì
e si sbottonò la giacca, con perfetta noncuranza. S’accorgeva almeno
della pioggia? Egli camminava come in sogno, rivivendo le sue ultime
estasi e le ore trascorse..

Finalmente aveva incontrato la donna, colei alla quale aveva pensato
poco, giacchè egli pensava poco alle donne, ma ch’egli aveva atteso,
forse inconsciamente, e che doveva venire. Egli l’aveva avuta accanto,
a tavola, ne aveva stretta la mano, aveva visto negli sguardi di lei il
riflesso d’un’anima splendida, bella come gli occhi la riflettevano,
bella come la carne che l’incarnava. Egli non pensava, d’altra parte,
a quella carne come alla carne delle altre donne; di solito, questa
soltanto lo interessava. Quella di lei era d’essenza diversa, doveva
sfuggire ai mali e alle fragilità umane. Quel corpo era più che la
guaina dell’anima; era l’emanazione stessa di quell’anima, una graziosa
e pura cristallizzazione del suo essere divino. Questo sentimento del
divino lo colpì dapprima, poi egli richiamò nella sua mente riflessioni
più calme. Questa percezione del divino non l’aveva mai colpito; egli
era stato sempre incredulo e si burlava allegramente dei bigotti e
dell’immortalità dell’anima. Non c’era vita futura, sosteneva egli con
risolutezza; bisognava vivere e ben vivere, e poi sparire nel nulla.
Ma negli occhi di quella donna egli aveva visto un’anima, un’anima
imperitura. Nessun’altra gli aveva mai dato quella sensazione, ch’egli
aveva avuto dal primo incontro dei loro sguardi. Camminando, egli
non cessava di vederne il viso, pallido e serio, soave e delicato,
sorridente con una pietà e una tenerezza immateriali, e puro... ah!
puro, incredibilmente!... Quella purezza lo colpiva più di tutto il
resto. Egli aveva conosciuto del vizio e della bontà, ma della purezza,
mai, e l’ignorava totalmente. Ora, concepiva la purezza come il
superlativo della bontà e del senso morale, come l’essenza stessa della
vita eterna... E subito sentì il desiderio ambizioso di conquistare la
vita eterna. Evidentemente, egli non era degno di sciogliere i lacci
delle scarpe di lei; era persino un incredibile caso fortunato il fatto
che aveva potuto conoscerla, accostarsi a lei, parlarle quella sera.
Era un caso ch’egli non aveva suscitato e che non meritava. Pervaso
da una specie di umiltà religiosa, accasciato e pieno di disgusto di
sè, egli sentiva profondamente il peso dei suoi peccati. Ma, come
il peccatore che si prostra davanti al tribunale della penitenza,
intravede dal fondo della sua umile miseria, la speranza d’una celeste
e radiosa vita, così egli concepiva la suprema salvezza mediante la
conquista di quella donna. Quella conquista, d’altra parte, rimaneva
irreale, nebulosa, totalmente diversa dal senso ch’egli le dava di
solito. Trascinato dalla sua ambiziosa fantasia, egli si vedeva spaziar
con lei nelle alture spirituali, attingere in comune alle stesse
fonti d’arte e di bellezza. Il suo sogno non andava oltre un possesso
d’anima assolutamente eterea, oltre un’amicizia cerebrale ch’egli
stesso non avrebbe saputo definire. Egli non era assolutamente in
condizioni di definire alcunchè in quel momento. La sensazione vinceva
il ragionamento, ed egli palpitava d’emozioni ignote, abbandonandosi
deliziosamente al flusso d’impressioni nuove che lo trascinavano verso
inaccessibili cime.

Vacillava come un ubriaco, mormorando con fervore: «Dio mio! Dio mio!»

A un cantone, una guardia lo guardava venire e, con occhio diffidente
ne osservava l’andatura incerta.

— Dove ti sei ridotto in quello stato? — gli domandò.

Martin Eden ripose i piedi sulla terra; e poichè, per istinto,
s’adattava immediatamente alle circostanze, fu il solito Martin Eden
che rispose ridendo alla guardia:

— Che piacere, eh? E credo bene che facessi dei discorsi ad alta voce...

— E fra breve canterai, — previde la guardia.

— No, questo no! Datemi un po’ di fuoco, chè voglio cercare di prendere
l’ultimo tram.

E, accesa la sigaretta, ringraziò e proseguì il cammino borbottando:

— Pensa un po’!... no, ma potrebbe darsi!... Lo sbirro mi credeva
ubriaco! — E sorrise e riflettè un po’. — Lo ero... ma non di vino...

Salì sul tranvai di Berkeley, ch’era pieno di giovanotti che vociavano
cantando canzoni e ritornelli in voga nei collegi. Con curiosità,
Martin li studiò: erano studenti universitarî, che frequentavano
evidentemente la stessa università di lei, appartenevano alla stessa
classe sociale, la conoscevano, forse, e potevano a loro agio vederla
tutti i giorni... E dunque perchè, quella sera, erano in quel tranvai,
anzichè presso di lei, a farla segno d’una rispettosa adorazione?...
Egli osservò un giovanotto dagli occhietti rugosi, dal labbro pendulo,
un vizioso certamente, si disse. A bordo, quello lì sarebbe stato il
piaggiatore, il piagnucolone, la spia dell’equipaggio. Egli, Martin
Eden, era ben diverso da quel giovanotto!... Questo pensiero gli
fece piacere, perchè sembrava accostarlo a Lei. Ed egli continuò il
paragone. A mano a mano ch’egli osservava gli studenti, si rendeva
conto del bel meccanismo delle sue membra e della sua superiorità
fisica. Sì, ma il loro cervello inzeppato di scienza permetteva loro
di parlare lo stesso linguaggio di Lei, e questo pensiero lo depresse
nuovamente.

Ma a che serve il cervello?... Ciò che essi avevano fatto poteva
essere fatto anche da lui; essi avevano appreso la vita nei libri, ed
egli l’aveva vissuta. Il suo cervello conteneva tante cose quante ne
conteneva il loro; ma erano diverse: ecco la differenza. Quanti fra
loro erano capaci d’annodare un tirante, reggere la barra e fare il
nodo?

La sua vita gli si svolgeva davanti in quadri — avventure, pericoli,
lavoro da romper le reni, colpi d’audacia disperata... Egli ricordava
le disavventure del principio, tutte le avarie sofferte. D’altra
parte, era meglio così: quelli avrebbero dovuto a loro volta imparare a
vivere. Benissimo! Egli, durante questo tempo avrebbe imparato l’altro
lato della vita sui libri.

Mentre il tranvai attraversava la zona cosparsa di miseri abituri che
separa Oakland da Berkeley, egli spiava la casa familiare, a due piani,
la cui facciata recava questa orgogliosa insegna: _Bazar Alimentare
Higgingbotham_. Giunto là, egli discese, e contemplò un momento
l’insegna. Essa racchiudeva per lui, un profondo significato: dalle
lettere stesse sembrava emanare tutto un mondo di meschinità, d’egoismo
e di bassa ipocrisia. Bernardo Higgingbotham era il marito di sua
sorella, ed egli lo conosceva bene.

Aprì la porta con la chiave e s’arrampicò con precauzione sino al
secondo piano, dove abitava il cognato. La drogheria era giù; un tanfo
di vecchi legumi vagava per l’aria. Tastoni, attraverso il vestibolo,
egli intoppò in una carrozzina di bambola che uno dei suoi numerosi
nipoti aveva abbandonata là, e la mandò rotoloni, con fracasso, contro
la porta.

— Quel vecchio spilorcio! — fece tra sè. — È così scortichino che
non spende venticinque centesimi pel gas, per impedire che i suoi
pensionanti si rompano l’osso del collo! — Procedendo tastoni, egli
girò il pomo della porta ed entrò in una stanza illuminata dove erano
seduti sua sorella e Bernardo Higgingbotham. Ella rammendava un paio di
calzoni, ed egli, sdraiato su due sedie, con delle ciabatte di stoffa
sbrendolate, che gli pendevano a brani dai piedi, leggeva un giornale.
Egli sollevò gli occhi neri penetranti e falsi, e Martin Eden, come
sempre, provò un senso di repulsione. Che cosa di buono aveva trovato
sua sorella in quell’uomo? Gli pareva come un verme da schiacciare
col piede. «Un giorno o l’altro gli rompo il grugno», diceva spesso
a se stesso, per frenarsi e aver la forza di pazientare. Gli occhi di
faina, crudeli e orlati di rosso, lo osservavano con un’espressione di
rampogna.

— Ebbene, — domandò Martin, — che c’è?

— Ho fatto ridipingere questa porta la settimana scorsa, — si lamentò
il signor Higgingbotham, — e voi sapete quanto costa la mano d’opera.
Dovreste usare più attenzione.

Martin sentì la voglia di rispondergli, ma tacque sapendo quanto fosse
inutile. Egli guardò l’oleografia che adornava il muro e fu colpito
dalla mostruosa volgarità di essa. Sino a quel giorno gli era piaciuta,
ma gli parve che la vedesse per la prima volta; era una povera cosa,
come tutto il resto, in quella casa. Ed egli ripensò all’appartamento
dal quale veniva; rivide dapprima i quadri, poi, subito dopo, lei e
la tenera dolcezza del suo saluto. Dimenticò completamente dov’era e
persino che esistesse Bernardo Higgingbotham, sino al momento in cui
costui non lo interrogò:

— Vedete forse qualche fantasma?

Martin rivide allora gli occhi di cattivo rosicante, beffardi, paurosi,
crudeli, poi se li immaginò subito quali erano giù al banco: servili,
dolciastri, complimentosi.

— Sì, — rispose, — ho visto un fantasma... Buona sera, Geltrude! —
E voltò le spalle con vivacità, inciampando nell’orlo sdrucito del
tappeto sudicio.

— Non sbattete la porta, — raccomandò il signor Higgingbotham.

Egli arrossì dalla collera, ma si trattenne e chiuse delicatamente la
porta dietro di sè.

Esultante di perfida gioia, il signor Higgingbotham si voltò verso la
moglie.

— Ha bevuto! — borbottò con voce enfatica. — Te lo avevo detto che si
sarebbe ubriacato.

Ella scosse il capo con rassegnazione, dicendo remissivamente:

— Gli occhi gli lucevano, e non aveva più il colletto che si era messo
quando è uscito: ho visto. Ma forse ha bevuto due o tre bicchieri.

— Camminava di sbieco, — affermò il marito. — L’ho osservato.
Nell’attraversare la camera vacillava. Non l’hai sentito nell’andito? A
momenti cadeva.

— Dev’essere stato quando è andato sopra la carrozzella di Alice, —
rispose lei. — Non l’ha vista, allo scuro.

Il signor Higgingbotham alzò la voce e, con essa, la collera. Durante
tutta la giornata egli rodeva il freno, nel negozio, e si riserbava la
sera, in famiglia, il privilegio di mostrarsi qual era.

— Ti dico che il tuo delizioso fratello era ubriaco.

La sua voce fredda, tagliente, spiccava le parole come col taglio netto
d’uno stampo. Sua moglie sospirò e tacque. Era una donna corpulenta,
spettorata, che sembrava sempre oppressa dal peso del corpo, del lavoro
e del marito.

— Ha ripreso da suo padre, ti dico, — proseguì il signor Higgingbotham.
— E finirà nella strada come lui, vedrai. — Lei fece segno di sì
con la testa, sospirò e seguitò a cucire. Martin Eden era rientrato
ubriaco; bisognava riconoscerlo. Se la loro anima fosse stata capace
di comprendere la bellezza, non avrebbero visto in quei suoi occhi
raggianti, su tutto il suo volto ardente, il segno evidente del primo
amore?

— Un bell’esempio per i bambini! — borbottò ad un tratto il signor
Higgingbotham, dopo un silenzio di cui egli tenne il broncio a sua
moglie, giacchè avrebbe preferito essere contraddetto di più. — Se
ricomincia lo mando via! Capito? Non sopporto più queste sue belle
pratiche! Depravare dei poveri innocenti con lo spettacolo delle
proprie sbornie!

Al signor Higgingbotham piaceva la parola «depravare», spigolata in un
giornale e aggiunta di fresco al suo vocabolario. — Proprio così; non
c’è altra parola: li deprava.

Sua moglie sospirò nuovamente, scosse tristemente il capo e seguitò a
cucire. Il signor Higgingbotham riprese la lettura.

— Ha pagato la pensione della settimana scorsa?... — lanciò a un tratto
di sopra al giornale.

Essa fece segno di sì e aggiunse: — Ha ancora un po’ di denaro.

— Quando s’imbarca?

— Quando avrà consumato la paga, credo. — rispose lei. — È stato ieri
a S. Francisco, per l’imbarco. Ma siccome ha ancora del danaro, è
meticoloso nella scelta del piroscafo.

— Solo un pidocchioso come lui può fare lo schifiltoso così, — brontolò
il signor Higgingbotham. — Gli giova fare il difficile.

— Ha parlato d’uno schooner che si prepara per un viaggio verso un
paese lontano in cerca di un tesoro... Se il denaro gli dura, parte con
quello.

— Se avesse un po’ di voglia di sistemarsi, potrei impiegarlo qui,
a guidar la carrozza, — fece il marito, che non mostrava la minima
benevolenza. — Tom se ne va.

La moglie lo fissò con uno sguardo interrogativo e ansioso insieme.

— Se ne va stasera. Va da Carruthers, che gli dà di più.

— Te lo avevo detto che se ne sarebbe andato! — esclamò lei. — Valeva
di più di quanto gli davi!

— Senti, vecchia! — ruggì Higgingbotham minacciosamente. — Te l’ho già
detto cento volte che non devi ficcare il naso nei fatti miei. Non te
lo ripeterò più.

— Per me è lo stesso, — fece lei con le lacrime agli occhi. — Tom era
un buon garzone!

Suo marito la fulminò collo sguardo. Era il colmo dell’insolenza,
quella.

— Se quel tuo bel fratello non fosse un buono a nulla potrebbe guidar
la carrozza, — sibilò.

— Egli paga la pensione come un altro, — ribattè lei. — È mio fratello,
e sinchè non ti è debitore, tu non hai il diritto d’insultarlo
continuamente. Eppoi, anch’io ho un cuore, sebbene sia tua moglie da
sette anni.

— Gli hai detto che pagherà il consumo del gas, se seguita a leggere a
letto?

La signora Higgingbotham non rispose: era passata la ribellione, ella
era vinta dalla sua carne stanca, e il marito trionfava, aveva il
sopravvento. Gli occhi di lui ammiccavano viziosamente, mentr’egli
si rallegrava perchè gli era riuscito di farla piangere. Era un gran
piacere per lui affannarla, e lei s’angustiava facilmente, ora, molto
più di prima del matrimonio, prima che i parti numerosi e le continue
grettezze di lui l’avessero avvilita.

— Glielo dirai domani, ecco; — fece lui. — E, a proposito, bisognerà
fare cercare Marianna domani perchè badi ai bambini. Andato via Tom,
io sarò fuori tutto il giorno con la vettura, e tu puoi prepararti a
rimanere al banco, giù.

— Ma domani è giorno di bucato! — fece lei debolmente.

— Tu t’alzerai presto e laverai prima. Prima delle dieci non parto. —
E, spiegato rabbiosamente il giornale, proseguì la lettura.




CAPITOLO IV.


Martin Eden, ancora irritato dal contrasto col cognato, seguì
nell’oscurità il corridoio ed entrò in camera sua, una specie di
nicchietta che conteneva a malapena un letto, un lavandino e una
poltrona. Il signor Higgingbotham, da quell’uomo sin troppo pratico
ch’era, si guardava bene dall’assumere una domestica, giacchè aveva
la moglie. D’altra parte, la camera per la domestica gli dava modo di
tenere, anzichè uno, due pensionanti.

Martin posò i volumi di Swinburne e di Browning sulla poltrona;
si tolse il soprabito e sedette sul letto risentendo lo stridore
lamentoso delle molle sotto il suo peso. S’era curvato per togliersi
le scarpe, ma si fermò a un tratto e incominciò a fissare dirimpetto
il muro di gesso che la pioggia, filtrando dal tetto, aveva rigato di
lunghe bavature brune. Su quel misero sfondo, riapparvero le visioni,
come immagini luminose. Egli dimenticò le scarpe e rimase lungamente
immobile, sino al momento in cui le sue labbra tremanti mormorarono:
Ruth!

Ripetè questo nome infinite volte, come un talismano, una parola
magica. Ogni qualvolta lo pronunziava, infatti, il volto amato gli
appariva davanti agli occhi, illuminava il povero muro d’un chiarore
radioso. E questo chiarore invadeva tutte le cose, gli trasportava
l’anima verso di Lei su raggi incandescenti... Tutto quanto era di
meglio in lui s’ampliava, magnificamente nobilitato e purificato...
Sensazione stranamente nuova!... Mai una donna lo aveva migliorato;
anzi! Eppure, molte fra loro avevano fatto il possibile per ciò, ed
egli non se n’era accorto. Egli ignorava, privo di vanità com’era,
l’attrattiva che esercitava sulle donne la sua bella giovinezza;
spesso, anzi, se n’era stancato. Curandosi poco dell’amore, non gli era
mai venuto il pensiero d’aver potuto rendere migliori certe donne. Sino
a quel giorno era vissuto in perfetta indifferenza; ora gli pareva di
aver avuto rapporti solo con persone basse e amori avvilenti; il che
era ingiusto per esse e per lui. Ma poichè acquistava coscienza di sè
per la prima volta, non era in condizioni da giudicare serenamente, e
sprofondava totalmente nella vergogna di ciò ch’egli credeva ricordi
infami.

Bruscamente egli si alzò e si sforzò di guardarsi nello specchio
offuscato del lavabo. Lo deterse, poi si guardò nuovamente a lungo
e minuziosamente, per la prima volta in vita sua. Ora i suoi occhi
sapevano vedere; ma sino a quel momento egli se n’era servito soltanto
per guardare il mondo nei suoi panorami sempre mutevoli, e non aveva
mai speso del tempo per guardare se stesso.

Ciò che vide — senza che egli sapesse rendersene conto — fu il
viso d’un giovanotto di vent’anni, dalla fronte quadrata, convessa,
incorniciata da una massa folta di capelli castani, i cui riccioli
leggermente inanellati dovevano tentare le mani carezzevoli delle
donne. Ma egli non degnò d’alcuna attenzione un oggetto così indegno
di Lei, limitandosi a studiare a lungo la sua gran fronte quadrata,
sforzandosi di penetrarla, di valutarne il contenuto. Che razza di
cervello stava lì dentro? Di che cosa era capace? Sino a che punto
avrebbe potuto condurlo? Sino a Lei?... Egli si domandò che cosa
riflettessero i suoi occhi di acciaio, talvolta azzurri, avvivati dalla
brezza salina dei mari soleggiati. Che cosa aveva pensato Lei di quegli
occhi? Egli tentò di sostituirsi a Lei... inutilmente. Che sapeva lui
del modo di giudicare di Lei? Come avrebbe potuto indovinare uno solo
dei suoi pensieri? In Lei tutto era incantamento e mistero.

Ebbene, concluse, sono occhi onesti, senza sottintesi e senza astuzia.

Il colore del suo viso lo sorprese; egli non lo credeva così
abbronzato dal sole. Subito, egli rimboccò la manica della camicia per
rassicurarsi. Sì, la sua pelle era bianca, in fin dei conti, quantunque
le sue braccia fossero anch’esse d’un color tané. Egli tese il braccio
e ne tastò i muscoli e cercò il punto meno toccato dal sole... Bene:
era bianchissimo... Il pensiero che un tempo il suo viso era stato così
bianco, lo fece ridere. Non immaginò neppure per un attimo che poche
donne bionde potessero vantarsi d’avere la pelle così bianca e così
dolce come la sua, nei punti dove era sfuggita ai raggi del sole.

Aveva la bocca infantile, quando le labbra turgide, sensuali, non si
contraevano con troppa durezza sui denti, che allora diventava severa
e persino ascetica quella bocca sensuale veramente fatta per l’amore
e per la lotta... Si sentiva ch’essa era capace sia di gustare le
dolcezze della vita, sia di rinunziare ad esse per dominar la vita.
Il mento, la mascella, forti e un po’ aggressivi, la sensualità, la
tonificavano in certo qual modo. E i denti, bianchi regolari e solidi,
non avevano avuto mai bisogno dell’opera del dentista; com’egli
osservò con piacere proseguendo l’esame. Ma un pensiero lo turbò ad
un tratto: non c’era della gente che si lava i denti tutti i giorni?
gente superiore a lui, di molto, certamente, gente appartenente
alla classe sociale di cui faceva parte Lei... Lei, naturalmente,
si lavava i denti tutti i giorni... Che avrebbe pensato di lui se
avesse saputo che durante tutta la sua vita egli non se li era mai
puliti? Decise, dunque, di comperare uno spazzolino da denti e di
prendere quell’abitudine dal giorno dopo. Dei tentativi eroici, non
sarebbero bastati a conquistarla: bisognava un’educazione compiuta in
tutte le cose; avvezzarsi persino a portare il colletto duro, sebbene
gli bastasse pensar questo per sentire un vero vincolo alla sua
indipendenza.

Egli stese la mano, ne tastò col pollice la palma callosa e contemplò
il grassume che vi si era incrostato, ribelle a qualsiasi pulizia.
Com’era diversa la palma della mano di Lei! Egli ebbe un tremito
delizioso a quel ricordo. Essa era d’un color di petalo di rosa —
diss’egli a se stesso — e fresca e dolce come un fiocco di neve. Come
mai una semplice mano di donna poteva essere così adorabilmente soave?
Immaginando ciò che potesse essere la carezza d’una mano simile,
egli arrossì come colto in fallo, si rimproverò un tale pensiero,
incompatibile con la venerazione mistica ch’egli votava a quella
creatura eterea. Però la soavità di quella mano lo assillò; egli era
avvezzo alla pelle rugosa delle operaie e delle donne del popolo. Pure!
egli sapeva perchè le mani di queste erano aspre! La mano di Lei era
liscia perchè non aveva mai lavorato. L’abisso che li separava si scavò
di più, al pensiero conturbante di alcuni che non avevano bisogno di
lavorare per vivere. Egli concepì tutto ad un tratto l’aristocrazia;
cioè la gente che non ha bisogno di far nulla, e sul muro, davanti
agli occhi. Lei assunse forma d’una possente statua di bronzo che
lo sfidava con tutta la sua gigantesca statura. Egli aveva sempre
lavorato, come tutta la sua famiglia. E Geltrude... quando le sue mani
non erano indurite dalle faccende domestiche, erano rosse e screpolate
dal bucato. E sua sorella Marianna! Aveva lavorato in una fabbrica di
conserve l’estate precedente, e le sue belle mani fini erano tutte
tagliuzzate pel taglio dei pomodori. L’altro inverno l’estremità di
due dita era stata asportata da una macchina in una manifattura di
scatole di cartone. Egli ricordò le mani rugose di sua madre, stesa
nella bara... E suo padre, che aveva lavoralo sino all’ultimo respiro:
l’epidermide delle sue mani doveva avere lo spessore di un centimetro,
quand’egli morì... Ma le mani di Lei erano lisce, come quelle della
madre e dei fratelli. Quest’ultimo pensiero lo stupì; era quello un
segno terribilmente preciso della loro casta superiore e dell’enorme
distanza che li separava da lui.

Egli risedette sul letto, con un riso amaro. Era pazzo: un viso
di donna, le mani bianche e morbide di una donna lo avevano
ubriacato. Poi, sul muro screpolato, un’altra visione apparve. Egli
si vide davanti una sinistra casa di alloggio, una notte a Londra,
nell’East-End. Davanti a lui stava Maggie, una piccola operaia di
fabbrica, di quindici anni. Egli l’aveva accompagnata a casa, dopo il
«beanfeast», in quella sinistra casa dove lei abitava e che i porci
avrebbero rifiutato. Egli le avevo teso la mano dicendo buonasera,
ed essa gli aveva porto le labbra. Ma lei aveva rinchiuso la sua
mano su quella di lui e l’aveva stretta febbrilmente. Egli sentiva i
calli delle sue mani sfregarsi su quelli di Lei, e una gran pietà gli
gonfiava gli occhi. Vedeva quegli occhi affamati, pieni di desiderio
e il povero corpo di giovane femmina mal nutrita, d’una maturità
precoce già appassita. Allora, dolcemente, l’aveva circondata con le
due braccia, s’era abbassato e l’aveva baciata sulle labbra. Risentiva
ancora negli orecchi il piccolo grido felice di lei e la sentiva che si
strofinava addosso a lui come una gatta. Povera piccola disgraziata! La
visione di quella notte lo perseguitava; le carni gli rabbrividivano
ancora come allora quando lei s’era attaccata a lui disperatamente, e
il suo cuore era inondato da pietà. Era una sera grigia, d’un grigio
sporco, con una pioggia triste che insudiciava il suolo. Poi una luce
calda illuminò il muro, sostituendo a quella visione il bianco viso
dell’Altra, incoronata d’oro, lontana, inaccessibile come una stella.

Egli prese i volumi di Browning e Swinburne sulla poltrona e li baciò.

— Eppure m’ha detto di tornare, — fece tra sè. E guardatosi nello
specchio per l’ultima volta, dichiarò ad alta voce solennemente: —
Martin Eden, domattina, presto, andrai alla biblioteca popolare e
imparerai le buone maniere. Capito?...

Spense il gas, e le molle cigolarono lamentosamente sotto il suo peso.

— Ma bisogna smettere di bestemmiare, Martin, ragazzo mio; bisogna
smetterla assolutamente, — concluse.

Poi s’addormentò e fece sogni simili a quelli dei mangiatori di
haschich.




CAPITOLO V.


La mattina dopo, allo svegliarsi, i profumi snervanti dei suoi sogni
d’oro s’erano dileguati per dare luogo a un grave odor di liscivia
e di biancheria sudicia, che pareva l’emanazione stessa d’una vita
miserabile e lamentevole. Uscendo di camera, egli sentì uno scroscio
d’acqua, un’esclamazione irritata e il rumore sonoro d’uno schiaffo che
sua sorella regalava ora all’uno ora all’altro membro della numerosa
figliolanza. Gli strilli del bambino gli urtarono in modo spiacevole i
nervi. Egli sentì che tutto ciò, e persino l’aria che respirava, era
sordido e ripugnante. Quanta diversità dall’atmosfera pacifica della
casa di Ruth! Laggiù tutto era spirito: qui, tutto era materia, e bassa
materia.

— Vieni qui, Alfredo, — diss’egli al fanciullo che piangeva; e frugava
intanto nella tasca dei calzoni, dove, secondo il solito, teneva il
denaro. Ne trasse fuori dieci soldi ch’egli mise nella mano del piccino
dopo averlo vezzeggiato un po’. — Va’, subito, corri a comperare delle
caramelle d’orzo, e non dimenticare di darne anche ai fratellini e alle
sorelline. Soprattutto, cerca di comperare di quelle che durano molto!

Sua sorella sollevò la faccia accalorata, che teneva china sul bucato e
lo guardò.

— Bastavano due soldi — disse. — È ben fatto, di’? Non hai alcuna idea
del valore del danaro. Il ragazzo ne avrà un’indigestione.

— Va bene, sia. — rispose Martin allegramente. — Quei dieci soldi
stanno bene dove sono. Se tu non fossi così occupata ti darei un bacio.
— Aveva voglia di essere affettuoso con sua sorella che era buona e
l’amava a suo modo. Ma, più gli anni passavano, più essa mutava, più
lo sconcertava. Egli pensò che fosse a causa del lavoro così faticoso,
dei numerosi bambini, delle eterne grettezze del marito, e gli parve a
un tratto ch’essa rassomigliasse un po’ ai suoi legumi sfatti, a quella
liscivia, a tutta quella moneta sporca che maneggiava da mattina a
sera.

— Va’! va’ a far colazione! — fece lei di cattivo umore, ma contenta in
fondo, giacchè di tutti quanti i suoi fratelli nomadi, egli era stato
sempre il prediletto. — Be’, in fin dei conti, ti voglio dare un bacio!
— aggiunse lei, col cuore un po’ intenerito.

Col dorso della mano ella pulì la spuma del sapone che le scolava dalle
braccia, e, quand’egli, abbracciatane la persona massiccia, l’ebbe
baciata su tutt’e due le gote, si sentì gli occhi pieni di lacrime,
non tanto per la tenerezza quanto per la stanchezza. Poi lo respinse
subito, ma egli vide le tracce dell’intenerimento di lei.

— Troverai la colazione nel forno, — fece lei precipitosamente. — Ormai
Jim dev’essere alzato. È stato necessario alzarmi presto per lavare.
Ora va... e cerca di uscir di casa prestino. La casa non dev’essere
sottosopra, oggi che Tom è andato via e Bernardo è costretto a guidar
la vettura.

Martin se la battè in cucina, con un peso sul cuore: la vista del
volto congestionato di sua sorella e del suo corpo rilassato, gli
faceva male. Egli finì col concludere che lei gli avrebbe voluto molto
bene se ne avesse avuto il tempo; ma, in realtà, lavorava in modo
da creparne. Bernardo Higgingbotham era un bruto, giacchè le faceva
rompere lo schiena a quel modo. D’altra parte egli non potè fare a meno
di riconoscere che quel bacio datole era privo di qualsiasi gusto. Vero
è ch’era molto insolito; da lungo tempo, egli la baciava solo quando
partiva o ritornava dal viaggio. Quel bacio col sapore di spuma di
sapone mancava d’ogni attrattiva; non era un bacio fraterno e cordiale.
Essa lo aveva baciato come una donna così stanca, dopo un tempo così
lungo, che pareva avesse dimenticato che cosa fosse un bacio. Egli se
la ricordò quand’era giovinetta, lei, e ballava tutta la notte, con le
migliori danzatrici, dopo un’aspra giornata di lavatura di biancheria,
senza preoccuparsi del duro domani. Poi pensò a Ruth e immaginò
la dolcezza delle sue labbra. Il bacio di lei doveva rassomigliare
alla stretta di mano e allo sguardo: doveva essere sostenuto e soave
insieme. Sì, egli osò evocare la visione della bocca di lei sulla
sua, e questo così al vivo, che fu colto da vertigine e gli sembrò di
turbinare in una nuvola di petali di rose profumate.

In cucina trovò Jim, l’altro pensionante, che mangiava la minestra
con aria dolente e gli occhi distratti e vaghi. Jim era apprendista
piombatore: il suo mento floscio e il temperamento linfatico congiunti
a una certa apatia nervosa, non erano certo segno ch’egli dovesse
arrivar prima nella corsa al pane e al companatico.

— Perchè non mangi? — diss’egli, mentre Martin immergeva con disgusto
il cucchiaio nella minestra di avena fredda e mal cotta. — Eri
nuovamente ubriaco ieri sera?

Martin scosse negativamente il capo; la sconcezza di tutto ciò lo
disanimava. Ruth Morse gli sembrava sempre più lontana.

— Io, lo ero, — proseguì Jim, con un ghigno rumoroso, — e come un
asino! Oh! che bella figliuola! Billy m’ha ricondotto a casa.

Martin fece un cenno affermativo (era solito ascoltare sempre colui che
parlava) e si versò una tazza di caffè tiepido.

— Vai al ballo del Club del Loto? — domandò Jim. — Avranno della
birra e se viene la banda del Temescal, vi sarà del chiasso. Però,
io me infischio. Comunque, conduco con me la mia amica! Zitto! acqua
in bocca! — E fece una smorfia e sentì il dovere di correggere quel
cattivo gusto con del caffè.

— Conosci Giulia?

Martin fece segno di no.

— È la mia amica, — spiegò Jim. — Un amore! Te la presenterei
volentieri, ma me la prenderesti. Non so davvero che fai tu alle
donne... ma le sgraffigni ai compagni in un modo scoraggiante.

— Io non t’ho mai tolto nessuna, — rispose Martin indolentemente, tanto
per dire qualche cosa.

— Proprio? — affermò l’altro con calore. — Maggie, per esempio.

— Non c’è stata mai nessuna relazione tra noi. Ho ballato con lei
soltanto quella notte.

— Appunto! E questo è stato la causa di tutto! — esclamò Jim. — Tu
hai ballato con lei e l’hai guardata semplicemente, e basta: fatta!
Certamente, tu non dai molta importanza alla cosa... Ma questo non
impedisce il fatto che sono stato soppiantato! Lei non mi ha degnato
più neppure di uno sguardo. Chiedeva d’allora in poi, sempre, prima te,
che me. Bastava che tu ti chinassi, per prenderla, se avessi voluto.

— Ma non volevo.

— Pure, lei m’ha piantato lo stesso. — E Jim lo guardò con ammirazione.
— Come fai, di’, Mart...

— Io me ne infischio, — fu la risposta.

— Tu fai credere loro che te ne infischi? — interruppe Jim vivamente.

Martin riflettè un istante, poi rispose:

— È un buon sistema, ma per me è diversa la cosa. Io non me ne sono
mai curato troppo... Se tu potessi far finta, andrebbe bene lo stesso,
credo.

— Avresti dovuto venire al cascinale di Riley, — dichiarò Jim, le
cui idee mancavano di nesso logico. — C’era un mucchio di gente in
baldoria. C’era un tipo meraviglioso di West-Oakland, che si chiama «Il
Topo», agile come un’anguilla. Nessuno ha potuto farlo cadere. Noi ti
abbiamo rimpianto. Dov’eri dunque, in conclusione?

— A Oakland, — rispose Martin.

— Allo spettacolo?...

Martin respinse il piatto e si alzò.

— Verrai al ballo questa sera? — gli gridò l’altro.

— No, non credo, — rispose egli.

Uscì e respirò l’aria a pieni polmoni. Quell’atmosfera lo aveva
soffocato e la chiacchiera dell’apprendista l’aveva esasperato. In
alcuni momenti aveva dovuto lottare con se stesso per non ficcargli la
testa nella zuppa. Più l’altro ciarlava più Ruth sembrava allontanarsi
da lui. Come avrebbe potuto, in quel gregge di bruti, diventar degno
di Lei? Il compito che si era assunto lo atterriva, tanto si sentiva
ostacolato dall’atavismo della sua classe. Tutto era coalizzato contro
di lui per impedirgli di elevarsi: la sorella, la casa di sua sorella
e la famiglia, Jim l’apprendista, tutti i conoscenti e i minimi vincoli
relativi. Ed egli sentì che la vita aveva un sapore amaro per lui. Sin
allora egli l’aveva accettata quale era, e trovata buona; non l’aveva
interrogata, tranne nei libri; ma quei libri erano per lui come favole
d’un mondo impossibile e magnifico. Ora che aveva visto quel mondo
come reale e possibile, un mondo di cui quel fiore di donna, Ruth, era
il centro, tutto il resto non era che amarezza, desiderî dolorosi e
disperazioni esasperate dalla stessa speranza.

Egli aveva esitato fra la Biblioteca popolare di Berkeley e quella di
Oakland; si decise per quest’ultima, perchè Ruth abitava a Oakland.
Si poteva sapere?... Una biblioteca era un punto dov’ella capitava,
ed egli avrebbe potuto incontrarla. Poichè egli ignorava il modo
di regolarsi là, errò fra innumerevoli scaffali di romanzi, sino al
momento in cui la gentile ragazza dall’aspetto francese che sembrava
preposta al luogo, gli disse che il servizio delle informazioni era
in alto. Egli, che non era abbastanza sicuro per rivolgersi all’uomo
dal pulpito, si arrischiò nella sala riservata alla filosofia. Aveva
sentito parlare di filosofia, ma non immaginava che tanti libri fossero
stati scritti su questa materia. Gli alti palchetti che si piegavano
sotto il peso dei grevi volumi, l’umiliarono e lo stimolarono nello
stesso tempo. Quale buon compito pel suo cervello vigoroso! S’imbattè
in libri di trigonometria nella sezione di matematica, li sfogliò e
contemplò, incantato, formule e figure incomprensibili... Certo, egli
comprendeva l’inglese, ma quell’inglese gli sembrò ebraico. Norman e
Arturo conoscevano quella lingua; l’avevano parlata davanti a lui.
Ed erano i fratelli di lei! Egli abbandonò la sala della filosofia
disperato. Da tutti i lati i libri sembravano accostarsi a lui per
dileggiarlo, sopraffarlo. Mai non s’era immaginato che la scienza
umana potesse costituire una massa così imponente di libri, e questo
lo spaventava. Come avrebbe potuto il suo cervello immagazzinare tutta
quella roba?... Poi ricordò che altri, molti altri, lo avevano fatto;
e, sottovoce ardentemente egli giurò a se stesso di far produrre al suo
cervello ciò che altri avevano saputo far produrre al loro.

Vagò nuovamente, ora depresso, ora sperando, visitando gli scaffali
zeppi di scienza. In una sezione di «varie» mise gli occhi addosso a
un _Epitome_ di Norric, e lo scorse con deferenza; finalmente, ecco
un linguaggio che capiva; come lui, quell’uomo parlava del mare. Poi
trovò un Bowditch e dei libri di Leckey e di Marshall. Ecco, imparava
la navigazione. Cessato di bere, avrebbe lavorato e sarebbe diventato
capitano, avrebbe potuto sposarla, se ella lo avesse voluto. E se non
avesse voluto, be’, avrebbe vissuto una vita migliore fra gli uomini,
a causa di Lei, e non avrebbe cessato meno di bere. Poi ebbe presenti
gli assicuratori e gli armatori — padroni forzosi del capitano —
che avrebbero potuto vessarlo e i cui interessi erano diametralmente
opposti ai suoi. Egli lanciò uno sguardo attraverso la sala e abbassò
gli occhi davanti ai diecimila volumi. Non più il mare per lui; c’erano
infinite ricchezze in tutti quei libri, e se egli fosse riuscito a
trarne grandi cose, le avrebbe compiute sulla terra. D’altra parte un
capitano non può condurre con sè la moglie.

Venne mezzogiorno, poi il pomeriggio. Egli si dimenticò di mangiare
e seguitò a cercar libri sulle buone maniere; giacchè, oltre che
dalla scelta d’una professione, la sua mente era assillata da un
problema più immediato; questo: _se una signorina vi dice di farle
visita, quando potete andare?_ Ma imbattutosi nella scansia dei
libri in questione, cercò invano una risposta. I mille e uno arcani
dell’etichetta lo confusero molto, ed egli si smarrì in un labirinto
di casi vari riguardanti lo scambio di carte da visita fra gente della
buona società. Egli si diede per vinto senza essere riuscito a trovare
ciò che cercava, ma scoprendo che non basta la vita di un uomo per
acquistare una perfetta conoscenza del modo di saper trattare, e che
egli, personalmente, avrebbe dovuto consumar tutta la sua esistenza
prima di imparare a diventare una persona di modi distinti.

— Ha trovato ciò che cercava? — gli domandò l’uomo del pulpito,
quand’egli uscì.

— Sì, signore, — rispose. — Lei ha lì una bella biblioteca.

L’uomo fece un segno di assenso.

— Avremmo molto piacere di rivederla spesso. È marinaio lei?

— Sì, signore, sono marinaio, — rispose Martin. — Ritornerò.

— Come ha fatto a vederlo? — si domandò egli scendendo le scale.

E lungo la via, durante alcuni minuti, si sforzò di procedere con
un’andatura rigida, compassata, goffa, sino al momento in cui, assorto
nei suoi pensieri, egli riprese quel grazioso ondulamento che gli era
solito.




CAPITOLO VI.


Una terribile irrequietezza nervosa, una vera fame dell’anima,
tormentò Martin Eden. Egli aveva fame di vedere la giovane le cui mani
delicate s’erano impadronite della sua vita, e non riusciva a trovare
il coraggio di andarla a visitare. Temeva, andando da lei con troppa
precipitazione, di compiere una grave infrazione a quella spaventevole
cosa che si chiama etichetta. Egli passava lunghe ore nelle biblioteche
di Oakland e di Berkeley, e riempiva le cedole di abbonamento per
sè, per le sorelle Geltrude e Marianna, e per Jimmy, dai quali aveva
ottenuto il consenso, con qualche bicchiere di birra. Con la provvista
di libri che quattro cedole gli permettevano di portare a casa,
egli consumava tanto gas nella sua povera cameretta, che il signor
Higgingbotham gli fece pagare due franchi e cinquanta di supplemento.

Il cumulo di libri ch’egli lesse non gli servì ad altro che ad eccitare
la sua impazienza; la pagina d’ogni volume gli schiudeva appena un
minuscolo spiraglio del paradiso intellettuale, e l’appetito, stimolato
dalla lettura, aumentava in proporzione. Poi, egli non sapeva da qual
parte incominciare, e soffriva continuamente della mancanza di studî
preparatorî. I più semplici riferimenti (evidentemente compresi da
un lettore qualunque) gli sfuggivano. Lo stesso accadde per la poesia
ch’egli adorava. Lesse il libro di Swinburne prestatogli da Ruth, ne
lesse altri, capì _Dolores_ da cima a fondo, ma sentenziò, in cuor suo,
che Ruth non poteva capirlo! Come l’avrebbe potuto, vivendo una vita
così raffinata? Gli capitarono, per caso, alcuni poemi di Kipling,
il cui ritmo, slancio, estro, che trasformavano le minime cose, i
cui particolari più familiari, lo entusiasmavano. La comprensione
di quell’uomo, la sua psicologìa così evidente e netta lo stupivano.
«Psicologìa» era una nuova parola nel vocabolario di Martin. Il quale
aveva comperato un dizionario, facendo così una breccia alquanto grave
nei suoi risparmi, e anticipando la data dell’imbarco. Inoltre, ciò
irritava il signor Higgingbotham, che avrebbe preferito che quel denaro
andasse a lui.

Di giorno, egli non osava arrischiarsi nei dintorni di Ruth, ma, di
notte, s’aggirava come un ladro attorno alla casa dei Morse, guardando
furtivamente le finestre, intenerito soltanto alla vista dei muri
che la riparavano. Parecchie volte mancò poco che non fosse sorpreso
dai fratelli di lei, e una sera seguì il signor Morse in città,
studiandone la faccia al chiarore delle vie, e augurandogli di tutto
cuore un terribile accidente che gli permettesse di balzare in aiuto
e salvare il padre della sua prediletta. Un’altra volta la sua attesa
fu premiata, perchè potè intravedere il profilo di Ruth a una finestra
del secondo piano. Con le braccia sollevate, essa s’acconciava davanti
ad uno specchio. In realtà non ne vide che la testa e le spalle, in un
attimo, che gli parve un’eternità di delizie ardenti. Poi, lei fece
ricadere la tendina; ma ormai egli sapeva dov’era la camera di lei,
e ritornò a spiare di sovente, nascosto nell’ombra di un albero, sul
marciapiedi opposto, fumando innumerevoli sigarette. Un pomeriggio
incontrò la madre di lei, che usciva da una banca; e il particolare
gli mostrò nuovamente l’enorme distanza che lo separava da Ruth. Ella
apparteneva alla classe che si serviva delle banche. Egli non era mai
penetrato in uno di quei santuarî, e immaginava che potessero essere
frequentati solo dai milionari e dai potenti della terra.

Era soggetto a una specie di rivolgimento morale: la purezza, la
bellezza d’animo del suo idolo, avevano operato in lui una reazione,
sicchè provava un ardente bisogno di nettezza. Bisognava ch’egli fosse
pulito, per essere degno di respirare l’aria che essa respirava. Si
lavò i denti, si spazzolò le mani con una spazzola per pulir l’acciaio,
sino al giorno in cui, visto uno spazzolino per le unghie nella mostra
d’un droghiere, indovinatone l’uso, lo comperò. Il venditore, dato
uno sguardo alle unghie, propose l’acquisto d’una lima, ed egli fece
acquisto immediato di quel nuovo arnese per toeletta. Dopo aver scorso
un libro d’igiene personale, decise che gli occorreva un bagno freddo
tutti i giorni, facendo stupire Jim e indignare Higgingbotham che
non aveva alcuna simpatia per quelle invenzioni d’abracadabra e si
domandò seriamente se non era il caso di far pagare a Martin l’acqua
che consumava in più. Un altro progresso fu compiuto, riguardante la
piega dei calzoni. Martin, orientato verso quel genere di cose, osservò
subito la diversità fra i calzoni dell’operaio, che fanno ginocchiello,
e quelli la cui linea diritta segnata dal piede all’anca indica gente
di un ambiente più elegante. Egli agitò la questione e mise sottosopra
la cucina della sorella per cercare dei ferri e una tavola da stiro.
Dapprima non riuscì, bruciò un calzone e fu costretto ad acquistarne un
altro paio, anticipando così ancora la data dell’imbarco.

Ma il mutamento non avveniva soltanto all’esterno della persona, ma
in lui. Fumava ancora, ma non beveva più. Sino a quel tempo, egli
aveva pensato che un uomo dovesse bere e s’era vantato d’aver la testa
resistente; ciò che gli permetteva di vedere tutti i compagni andare a
finire sotto la tavola, mentre egli conservava un aspetto e contegno
apparentemente decenti. Quando, per esempio, incontrava un compagno
di bordo, ed egli ne aveva parecchi a S. Francisco, l’invitava, o
era invitato, come un tempo; ma ora non ordinava altro per sè, che
_ginger-ale_, o limonata, e sopportava allegramente i loro frizzi.

E, mentre essi diventavano brilli, e la bestia ch’era in loro saliva e
s’impadroniva della persona, egli li studiava e ringraziava Dio perchè
non rassomigliava a loro. Bisognava che dimenticassero le loro miserie;
e durante la loro ebbrezza quei bruti istupiditi si sentivano simili a
dei e regnavano nel loro paradiso d’attossicati.

D’altra parte, Martin non sentiva più bisogno d’alcool; era ebbro in
mille altri modi nuovi ma molto più gravi; ebbro di Ruth che gli aveva
acceso il cuore d’amore e di desiderio d’immortalità; ebbro di letture,
che avevano fatto sorgere in lui innumerevoli aspirazioni; ebbro,
infine, della propria forza, raddoppiata dalle cure ch’egli usava al
suo corpo e che gli davano un equilibrio gaio e magnifico.

Andò una sera a teatro sperando vagamente ch’ella vi andasse, ed
ecco, dalla seconda fila dov’era seduto, la vide a un tratto! La vide
arrivare per uno dei corridoi laterali, con Arturo e un giovanotto
interamente calvo e munito d’un paio d’occhiali, la cui vista lo fece
sprofondare in angosce di diffidenza e di gelosia. La vide sedere
nelle poltrone di prima fila, e in tutta la serata non distinse altro
che questo: delle delicate spalle bianche e una massa di capelli d’oro
pallido, fatti più pallidi dalla lontananza. Ma anche altra gente era
distratta, ed egli osservò, guardandosi intorno, due ragazze sedute non
lontano da lui, che gli sorridevano con aria sfrontata. Egli era stato
sempre uomo di facili avventure, per natura, giacchè non era solito
mandar via la gente. Un tempo avrebbe ricambiato il sorrisetto, e, con
l’atteggiamento, incoraggiato il loro sorriso; ma ora le condizioni
erano diverse. Egli rispose al sorriso; poi si volse e non guardò più
da quella parte. Pure, parecchie volte, senza farlo di proposito,
il suo sguardo incontrò il loro sorriso. Non ci si trasforma in un
giorno, ed egli non poteva modificare la gentilezza naturale del suo
carattere. Così che finì col sorridere alle ragazze, per puro bisogno
di cordialità espansiva. Che gli portavano infatti di nuovo? Egli
sapeva bene ch’esse tendevano verso di lui le loro mani carezzevoli,
ma... ma ora, laggiù, presso l’orchestra, era la donna unica, così
incredibilmente diversa da quelle due ragazze della sua classe,
ch’egli non poteva fare a meno di considerarle con senso di pena e di
pietà. Egli desiderava con tutto il cuore che gli fosse concesso di
possedere, fosse pure per un attimo, un po’ della bontà di Ruth e del
suo splendore morale. Ma per nulla al mondo avrebbe voluto ferirle per
i loro maneggi, che, d’altra parte, non lo lusingavano; egli risentiva
perfino una vaga vergogna della propria inferiorità, che giustificava
il loro contegno. Se egli fosse stato uno della classe di Ruth, quelle
ragazze non si sarebbero permesse alcuna familiarità; i loro sguardi
gli sembravano muniti di artigli minacciosi che s’aggrappavano a lui
per mantenerlo al loro livello.

S’alzò prima che calasse il sipario, per tentare di vedere Ruth.
C’era sempre della gente sotto il peristilio del teatro, così che,
calcandosi il cappello sugli occhi, lei non lo avrebbe riconosciuto.
Egli uscì per primo tra la folla; ma s’era appena avviato all’uscita,
quand’ecco apparire le due ragazze. Esse lo avevano seguito, era
evidente; e là per là egli maledisse il fascino che esercitava sulle
donne. Esse avanzavano lentamente, nel più folto della folla, così che,
sfiorandole, una d’esse s’accorse di lui. Era una flessuosa ragazza
bruna, dagli occhi cupi, pieni di sfida. Tutt’e due gli sorrisero, ed
egli rispose loro.

— Oh! chi si vede! — diss’egli automaticamente, come aveva fatto
in tanti casi simili! D’altra parte, non gli era possibile agire
altrimenti, data la sua grande indulgenza e il bisogno di cordialità
inerenti alla sua natura. La ragazza dagli occhi neri rinforzò
il suo sorriso e fece l’atto di fermarsi, come anche l’amica che
l’accompagnava e che rideva, torcendosi. Egli riflettè rapidamente.
Bisognava evitare che «Lei», uscendo, lo vedesse in compagnia di quelle
ragazze. Con molta disinvoltura, egli manovrò in modo da spingere
la bruna verso l’uscita. Là, era libero di sè, e a suo agio; anzichè
manifestare impaccio o timidezza, egli scherzò allegramente, usando
con un certo brio il gergo e il complimento gentile, preliminari
obbligatori in quel genere di avventure rapide. Al cantone, egli
volle lasciar la folla che seguiva la strada, per prendere una via
trasversale, ma la ragazza dagli occhi neri lo prese pel braccio, ed
esclamò trascinando la compagna:

— Fermatevi! Bill! dove correte con tanta fretta?... Non ci vorrete
piantare così?...

Egli si fermò, rise, fece un voltafaccia. Al disopra delle loro spalle
vedeva la folla che si moveva, passare sotto i riverberi di luce. Il
punto in cui si trovava non era illuminato, così che poteva vederla
passare senz’essere visto. Lei doveva passare di là, giacchè quella era
la via di casa sua.

— Come si chiama? — domandò alla compagna indicando la ragazza bruna...

— Domandaglielo! — rispose lei.

— Dunque, come vi chiamate? — domandò egli, voltandosi alla ragazza.

— Voi non mi avete ancora detto il vostro nome, — ribattè quella.

— Non me l’avete chiesto, — fece lui sorridendo. — D’altra parte
l’avete indovinato: mi chiamo proprio Bill.

— Là! Là! — E lei lo guardò negli occhi, mentre i suoi s’intenerivano.
— È proprio vero?...

Lei seguitava a fissarlo; l’eterna femminilità luceva negli occhi
eloquenti. Ed egli la scrutava, negligentemente, sapendo già che se
egli si fosse mostrato aggressivo, lei si sarebbe messa in guardia,
con riserbo e pudore a un tratto, ma pronta a invertire le parti
s’egli avesse indietreggiato. Da uomo qual era, egli però ne sentiva
l’attrattiva e nell’intimo apprezzava quella lusinghiera insistenza.
Ah! come conosceva tutto ciò! sin troppo bene, dall’A alla Z... Lei
era bella come una dea; sì, come una dea può essere in quell’ambiente,
quando si lavora faticosamente, si è mal pagati e si disdegna di
vendersi per vivere meglio, e si è ardentemente assetati d’un sorso di
felicità per allietare la propria triste vita, e non si ha davanti a
sè altra alternativa che una penosa eternità di lavoro o il cupo gorgo
d’una miseria anche più terribile, ma che uccide presto ed è meglio
pagata.

— Bill, — rispose egli scotendo il capo. — Ve l’assicuro: Bill o Pietro.

— Seriamente?

— Non si chiama affatto Bill, — interruppe l’altra.

— Che ne sapete voi? — disse lui. — Voi non mi conoscete.

— Non c’è bisogno di conoscervi per sapere che dite una bugia.

— Seriamente, Bill, qual è il vostro nome? — disse la bruna.

— Bill mi sta benissimo, — rispose Martin.

Essa gli prese il braccio ridendo.

— Io so che voi mentite, ma, pure, siete gentile lo stesso.

Egli prese la mano che s’offriva, ne sentì subito i segni e le
deformazioni famigliari.

— Da quanto tempo avete abbandonato la fabbrica di conserve? — domandò.

— Come lo sapete?... Be’, è uno stregone! — esclamarono le ragazze, a
coro.

Mentr’egli scambiava con loro tutte le stupidaggini solite, sentiva
passare e ripassare nella mente gl’innumerevoli scaffali della
biblioteca dove si accumulavano le meraviglie dei secoli passati. E
l’incoerenza dei suoi pensieri lo fece sorridere.

Intanto i segni intimi e la celia ch’egli simulava non gl’impedivano
di tener d’occhio l’uscita del teatro. E ad un tratto scorse Ruth,
nella luce, tra il fratello e il giovanotto dagli occhiali; e il
cuore parve che gli si fermasse. Come aveva sperato quel momento! Ebbe
appena il tempo di scorgere il velo leggero che velava la persona di
lei nell’abbigliamento, quando lei rialzò la gonna: poi essa sparve ed
egli si ritrovò di faccia alle due operaie con i loro vani tentativi
di eleganza e di nettezza, accanto ai loro vestiti a buon mercato e
ai loro gioielli da bazar. Sentì che gli tiravano il braccio, sentì
vagamente che gli parlavano:

— Svegliatevi, Bill, che vi succede?

— Che?... dicevate?...

— Oh! niente! — rispose la bruna, con un cenno vivace del capo. —
Dicevo soltanto fra me...

— Che cosa?...

— Be’, dicevo fra me e me che sarebbe una buona idea se conduceste con
noi un amico... per lei, (e indicò la compagna) e allora andremmo in
qualche luogo a prendere un «ice-cream soda» o qualche altra cosa.

Una nausea morale lo scosse. Accanto agli occhi arditi di quella
ragazza, egli vedeva i chiari occhi luminosi di Ruth, il suo sguardo
angelico che veniva a lui dalla più profonda purezza. Egli si sentì a
un tratto superiore a quell’avventura. La vita aveva per lui un altro
significato: non si limitava a degli «ice-cream sodas» in quattro.
Egli ricordò che aveva sempre coltivato, come in un giardino segreto,
pensieri rari e preziosi. Quando aveva tentato di farne partecipe
qualcuno, non aveva trovato nè donna nè uomo capaci di comprenderlo.
E poichè quei pensieri superavano la comprensione di quella gente,
egli ne concludeva, ora, che doveva essere superiore ad essa. Egli
strinse i pugni. Giacchè la vita significava per lui molto di più,
toccava a lui domandare molto di più alla vita; ma non ci voleva quella
compagnia; gli arditi occhi neri non gli potevamo offrire nulla di
nuovo. Egli sapeva ciò che riserbavano: _ice-cream_ o altro del genere.
Ma gli occhi angelici, laggiù, gli offrivano molto di meglio e più
che non potesse immaginare; libri e pittura, riposo e bellezza, tutte
le eleganze fisiche e morali d’una vita raffinata. Egli conosceva a
mente ciò che dissimulavano così malamente quegli occhi neri; vedeva,
come in un interno d’orologio, tutte le rotelle della povera meccanica
cerebrale; il basso piacere n’era lo scopo, il cupo piacere che portava
alla morte definitiva d’ogni speranza. Ma negli occhi angelici, si
offrivano il mistero, l’incanto, l’al di là; in essi era il riflesso
d’un’anima e anche un po’ dell’anima sua.

— Il programma va bene, ma c’è un _ma_: sono impegnato.

Gli occhi neri della bruna lo fulminarono.

— Dovete assistere un amico malato, certamente? — fece lei
beffardamente.

— No, ho un «appuntamento» con — ed egli esitò — con una ragazza.

— Mi prendete in giro? — disse lei con gravità.

Egli la guardò negli occhi e rispose:

— Niente affatto, ve lo assicuro. Ma non potremmo vederci un altro
giorno? Non m’avete detto ancora il nome vostro nè dove abitate.

— Lizzie, — rispose lei, raddolcita, e appoggiandosi a lui gli premeva
il braccio. — Lizzie Connolly. E abito a Fifth and Market.

Egli chiacchierò qualche altro minuto e augurò loro la buona notte. Ma
anzichè tornare direttamente a casa, andò sino all’albero, all’ombra
del quale aveva sognato tante volte, alzò la testa verso la finestra e
mormorò:

— L’appuntamento era con voi, Ruth. Son venuto.




CAPITOLO VII.


Dalla serata in casa di Ruth Morse, era trascorsa una settimana
impiegata soltanto nella lettura; ed egli non aveva ancora osato
ritornare da lei. Di tanto in tanto si faceva coraggio, ma davanti
ai dubbi che l’assalivano finiva coll’indietreggiare. A quale
ora bisognava andare? Nessuno poteva dirglielo, ed egli temeva di
compiere un’irreparabile sciocchezza. Liberatosi dall’ambiente e dalle
abitudini passate, e non avendo stretto nuove relazioni, non aveva
altra occupazione che quella di leggere, e ne abusava in modo che un
altro, dagli occhi meno resistenti, si sarebbe guastato la vista.
Inoltre il suo cervello, vergine in tutto ciò che si riferisse al
pensiero astratto, era maturo per una semina benefica, giacchè non
era affaticato da studi, e s’accaniva nel lavoro intellettuale, con
sorprendente tenacia.

Alla fine della settimana, gli parve, — tanto lontani egli vedeva
la sua vita passata e l’antico modo di vivere, — d’aver vissuto
cent’anni. Ma la mancanza di studi preparatorî lo impacciava molto.
Egli tentava di leggere cose che richiedevano anni di applicazione,
e poichè s’immergeva un giorno nella lettura d’un libro di filosofia
antica, il giorno dopo in un altro di filosofia ultra moderna, nella
testa gli turbinavano le idee più contradditorie. Con gli economisti,
era lo stesso. Nella stessa fila, nella biblioteca, trovò Carlo Marx,
Riccardo, Adamo Smith e Mill, e le idee astratte dell’uno non portavano
punto alla conclusione che le idee dell’altro fossero superate. Egli
era disorientato, ma assetato dal desiderio di istruirsi. In un giorno
solo, l’economia sociale, l’industria, la politica, lo appassionarono.
Nel Parco di City-Hall, aveva osservato un gruppo d’uomini in mezzo ai
quali declamavano una mezza dozzina di persone, col volto infiammato,
la voce eccitata, discutendo con calore. Egli si unì al pubblico ed
ascoltò il linguaggio, per lui nuovo, dei filosofi popolari. Il primo
era un vagabondo, il secondo un operaio, il terzo uno studente di
legge e gli altri operai ciarloni. Per la prima volta egli udì parlare
di socialismo, di anarchia, di tassa ridotta, e seppe che esistevano
filosofi sociali contraddittorî. Udì centinaia di parole tecniche
ignote, giacchè facevano parte di materie di studio ch’egli non
aveva ancora iniziate. Gli fu impossibile perciò seguire bene i loro
argomenti, e potè soltanto indovinare le idee espresse da frasi così
nuove. C’era anche un garzone di caffè, teosofo, un fornaio agnostico,
un vecchio che li confuse tutti con una teoria strana, affermando
che «ciò che è, ha ragione d’essere», e un altro vecchio che perorò
interminabilmente sul cosmo, sull’atomo-maschio, e sull’atomo-femmina.

Dopo parecchie ore, Martin Eden se ne andò completamente abbrutito,
e corse alla biblioteca per studiare la definizione di una dozzina
di parole inusitate. E ne uscì portando sotto braccio quattro volumi
della signora Blavatsky: _La dottrina occulta_, _Povertà e Progresso_,
_La Quintessenza del Socialismo_. Disgraziatamente egli incominciò
con _La Dottrina Occulta_, ogni rigo della quale era irto di parole
polisillabe ch’egli non comprendeva. Seduto sul letto, con un
dizionario aperto accanto al libro, egli cercava tante parole di cui
aveva già dimenticato il significato, quando gli si ripresentavano,
così che doveva cercarle nuovamente. Finalmente stanco, egli si decise
a scrivere quelle parole su un taccuino, e in breve ne riempì pagine
intere. Ma non capiva più di prima. Lesse sino alle tre del mattino;
il cervello pareva che gli dovesse scoppiare, senza essere riuscito
ad afferrare una sola idea essenziale del testo. E allora si fermò:
la camera parve beccheggiare, rullare, immergersi come nave in mare;
così che, furibondo, egli lanciò la _Dottrina Occulta_ per la camera,
bestemmiando sino a vuotare il sacco, spense il gas... e s’addormentò.

Con gli altri tre volumi non ebbe maggior fortuna. Eppure non aveva un
cervello debole o pigro; avrebbe potuto comprendere quelle idee, senza
quella mancanza di abitudine alla riflessione, e senza l’ignoranza
dei mezzi tecnici per riuscirvi. Egli intuì questo, e si fermò un po’
nel proposito di non leggere altro che il dizionario, sino al giorno
in cui avesse potuto capire tutte le parole. La poesia, pure, era una
grande consolatrice per lui; egli ne leggeva molta, preferendo i poeti
semplici, che capiva meglio. Come la musica, la poesia lo commuoveva
profondamente; cosicchè, sebbene inconsciamente, egli preparava la
mente alla fatica più ardua che avrebbe dovuto affrontare. Le pagine
bianche della sua mente si riempivano di cose ch’egli amava, dimodochè
egli potè in breve, con sua grande gioia, recitare poemi interi che
gli piacevano. Poi scoprì i _Miti Classici_ di Gayely, e l’_Epoca
Mitologica_ di Bullfinch, che empirono di una grande luce la sua
totale ignoranza dell’argomento; e, più che mai, egli si mise a divorar
poesia.

In biblioteca, l’uomo dal pulpito aveva visto così spesso Martin,
ch’era diventato molto cortese, accogliendolo ogni giorno,
all’ingresso, con un sorriso e un cenno del capo. Incoraggiato da
questo atteggiamento, Martin, un bel giorno, s’arrischiò, e mentre
l’uomo appuntava le sue carte, egli lanciò con un certo sforzo:

— Dica un po’, io vorrei domandarle una cosa...

L’uomo sorrise e attese.

— Quando lei incontra una signora che la prega di andarle a far visita,
quando può andarci?

Martin sentiva che la camicia madida di sudore gli s’attaccava alle
costole, tanto era imbarazzato.

— Be’, quando vuole! — rispose l’uomo.

— Sì, ma il caso è diverso, — spiegò Martin — Lei... io... Senta,
la cosa è così. Può darsi che lei non sia in casa, giacchè frequenta
l’università.

— Ritorni, allora!

— Senta, non è proprio così, — confessò Martin, balbettando, deciso
a confidarsi interamente. — Ecco, io non sono altro che un povero
diavolo e non conosco gli usi della buona società. La signorina è tutto
quanto non sono io, e io non sono niente di tutto quanto è lei... Spero
che non creda che io voglia prenderla in giro, no? — interrogò egli
bruscamente.

— No, no, nient’affatto, gliel’assicuro. — protestò l’altro. — La sua
richiesta non è compresa precisamente tra i miei compiti, ma io sarò
molto lieto se potrò giovarle.

Martin lo guardò con ammirazione.

— Se io potessi essere così, la cosa andrebbe da sè! — fece.

— Come ha detto, scusi?

— Dico: se sapessi parlare come lei, facilmente, cortesemente, e via
dicendo.

— Ah! sì, — fece l’altro, con simpatia.

— A quale ora bisogna andarci? Il pomeriggio, non tanto presto, dopo
colazione?... O la sera? o una domenica?...

— Senta! — fece il bibliotecario. — Perchè non la chiama per telefono?

— È una buona idea! — disse Martin, prendendo i libri. E, fatti due
passi, si voltò:

— Quando lei rivolge la parola a una signorina, supponiamo, alla
signorina Lizzie Smith, deve dire: signorina Lizzie, o signorina Smith?

— Dica signorina Smith! — dichiarò il bibliotecario, con autorità. —
Dica sempre signorina Smith, sinchè non la conosce meglio.

E così Martin risolse la quistione.

— Venga quando vuole, ci sarò tutto il pomeriggio, — fu la risposta di
Ruth al telefono, quand’egli ebbe domandato, balbettando, il giorno in
cui poteva riportarle i libri prestatigli.

Lo ricevette lei in persona sulla soglia del salotto, osservando con
occhi femminili, immediatamente, la piega dei calzoni e un mutamento
indefinibile ma certo, in tutta la persona di lui. La colpì anche il
viso; una forza violenta, sana, emanava da lui e sembrava scorrere
verso di lei con onde possenti. Nuovamente, ella sentì il desiderio
di chinarsi verso quella forza, per riscaldarvisi, e si stupì ancora
dell’effetto che produceva su di lei la sua presenza. Ed egli, a sua
volta, risentì la divina sensazione di beatitudine infinita solo al
contatto della mano di lei. C’era però diversità fra loro due: lei era
fredda e calma, e lui rosso sino alla radice dei capelli. Egli la seguì
vacillando, impacciato come la prima volta, ondeggiando e oscillando
con le spalle in modo inquietante. Ma quando fu seduto nel salotto, si
sentì più libero, più che non s’aspettasse. Lei lo aiutò come meglio
potè, con una buona volontà graziosa che gliela rese più follemente
cara che mai. Parlarono dapprima dei libri prestati, di Swinburne,
ch’egli adorava, e di Browning che non aveva capito, e lei condusse
la conversazione da un argomento all’altro, domandando come potesse
essergli utile. Spesso, dopo il loro primo colloquio, ella aveva
pensato a lui. Egli aveva destato in lei una pietà, una tenerezza che
nessuno le aveva mai fatto provare prima, più che per la compassione
ch’egli poteva ispirare, per un incosciente sentimento materno. La sua
pietà non poteva essere banale, giacchè l’uomo che gliela ispirava era
troppo virile, per non turbare il suo pudore e l’animo, stranamente.
Come la prima volta, la nuca di lui l’affascinava, e lei frenava il
desiderio di posarvi le mani su. Era un istinto impudico, sia pure; ma
ormai lei si era assuefatta a quell’idea.

Non immaginava neppure un momento che un sentimento simile potesse
essere il principio dell’amore, e neppure che potesse trattarsi
d’amore. Credeva d’interessarsi a lui come a un raro campione che
possedeva certi poteri occulti, e si compiaceva persino nel credere
che si trattasse di filantropia. Ignorava il desiderio. Egli, invece,
sapeva di amarla, e la desiderava come mai aveva desiderato nessuna
al mondo. Amava la poesia perchè gli piaceva la bellezza; ma dacchè
l’aveva incontrata, le porte d’oro che davano accesso ai campi divini
dell’amore, s’erano aperte. Più che Bullfinch e Gayley, lei sapeva
fargli capire le cose dell’amore. Una settimana prima, egli non
avrebbe neppure rilevato questa frase: «L’amante folle d’amore, che
muore d’un bacio». Ora, ne era assillato; si meravigliava di trovarla
così vera, e contemplando Ruth, sentiva che sarebbe morto volentieri
d’un bacio di lei. Il fatto solo di sapersi un amante folle d’amore
lo inorgogliva come il possesso d’un titolo nobiliare. Finalmente
conosceva il senso della vita e perchè era sulla terra! A mano a mano
che la guardava e l’ascoltava, i suoi pensieri diventavano più audaci.
Egli ricordò la gioia viva che gli aveva dato la stretta di mano
di lei, quand’era entrato, e la desiderò ancora appassionatamente.
Ma non c’era nulla di materiale e di grossolano in quel desiderio:
egli risentiva un piacere squisito nello studiare ogni movimento, la
minima piega delle sue labbra, che gli parevano diverse da tutte le
altre, fatte d’altra sostanza. Erano le labbra d’un puro spirito; e
il desiderio ch’egli ne risentiva, non rassomigliava al desiderio che
aveva potuto avere per altre labbra di donna... Se egli avesse dovuto
mai baciare quella bocca, l’avrebbe fatto col fervore e colla pietà
con cui si bacia la veste di Dio. Egli non si rendeva conto di quella
trasposizione di valori in lui e non immaginava che la lucentezza del
suo sguardo era simile a quella che avviva lo sguardo del maschio
preso da desiderio d’amore. Non conosceva l’ardore del suo sguardo
la cui fiamma ardente dissolveva a poco a poco l’ordine sapiente e
ben composto di quel cervello di vergine savia. Il profumo di castità
ch’essa spandeva, esaltava i suoi sentimenti, ne camuffava l’essenza
materiale, così che egli fu molto sorpreso nell’accorgersi che la
lucentezza del suo sguardo avviluppava come in onde calde la giovane,
comunicandole una fiamma sottile che la conturbava... Parecchie volte,
senza saper perchè, quelle ondate di delizia ruppero il filo delle sue
idee, la costrinsero a parlare a casaccio, come veniva! Essa parlava
di solito con grande facilità: e quel turbamento anormale l’avrebbe
impacciata molto, se, di proposito, non ne avesse attribuito la causa
all’individualità notevole di Martin. Essendo sensibilissima, non
doveva parere strano il fatto che l’irradiamento psichico di quel
pellegrino d’un altro ambiente l’aveva impressionata.

Però risorgeva sempre il problema di sapere come potergli essere utile;
così che lei avviò la conversazione in tal senso. Martin stesso, del
resto, le porse l’occasione.

— Io mi domando se lei potrebbe darmi un consiglio, — diss’egli, e
il segno di assenso ricevuto gli fece balzare il cuore dalla gioia. —
Ricorda che l’altra sera le ho detto che non potevo parlare di libri
e d’altre cose del genere, perchè non so come regolarmi? Ebbene,
da allora ho riflettuto molto. Ho passato il tempo in biblioteca;
ma la maggior parte dei libri che ho letto, sono troppo difficili.
Bisognerebbe forse cominciare dal principio. Me n’è mancata sempre
l’occasione. Da bambino ho incominciato a lavorar duramente, e dacchè
vado in quella biblioteca e leggo con nuovi occhi, nuovi libri, ho
capito che non ho mai letto ciò che bisognava leggere. Così i libri che
si trovano nei quadrati e nella dispensa di bordo, non rassomigliano
ai vostri, capite? Ebbene, io ero avvezzo a questo genere di letture.
Eppure, non per vantarmi, sono stato sempre diverso dai miei compagni.
Non già perchè io sia migliore dei marinai o dei bovari con i quali
lavoravo... Sì, per un po’ di tempo sono stato bovaro, ma perchè m’è
piaciuto sempre leggere, leggere tutto ciò che mi capitava sottomano,
e... Dio mio! credo di pensare diversamente dalla maggior parte di
quella gente! Ora, ecco la conclusione alla quale volevo giungere:
non ero mai entrato in una casa come questa. Quando sono venuto la
settimana scorsa e ho visto tutto questo, vostra madre, voi, i vostri
fratelli e tutto il resto, tutto ciò mi è piaciuto! Mi avevano detto
che questo esisteva e c’erano libri che lo raccontavano; vedendo la
vostra casa, ho capito che i libri dicevano la verità. Ma, veramente
volevo dire questo: tutto ciò m’è piaciuto. E me n’è venuto subito un
gran desiderio. Io voglio respirare un’atmosfera simile, un’atmosfera
di lettura, di quadri e di belle cose, dove la gente ha la voce dolce,
vestiti puliti e pensieri decenti. L’atmosfera che ho sempre respirato
puzzava di bettola, di alloggio d’infimo ordine, di rifiuti, d’alcool,
e là non ho mai sentito parlare d’altro che di questo. Dio! quando lei
ha attraversato la camera per baciare la mamma, è stata la cosa più
bella che abbia mai visto. E ne ho viste di cose in vita mia! molte
di più di quante ne avessero viste i miei compagni. Mi piace vedere,
e voglio vedere di più e voglio imparare a vedere in modo diverso. Ma
questa non è ancora la questione! Ecco! io voglio percorrere la mia
strada verso una direzione come la sua. Nella vita non c’è altro che
sbornie, un lavoro che rompe le reni, e vagabondaggio. Solo, qual è
il modo di arrivarvi? Come cominciare? Io non domando di meglio che di
pagare di persona, sa! e quando si tratta di lavorare faticosamente, io
vinco gli altri. Una volta amato, lavorerò giorno e notte... Forse deve
sembrarle un po’ buffo che le domandi tutto ciò? Lei è l’ultima persona
alla quale dovrei rivolgermi, ma non conosco altri... tranne Arturo;
forse avrei dovuto domandarlo a lui. Se fossi... — La voce gli si
spense; i suoi propositi venivano meno davanti all’orribile impressione
d’aver forse commesso una goffaggine non rivolgendosi ad Arturo, e
d’essersi reso ridicolo. Assorta, Ruth non rispose immediatamente; essa
si sforzava d’armonizzare quel discorso maldestro, incerto, barocco ed
ingenuo, con ciò che gli vedeva sul viso. Non aveva mai visto degli
occhi esprimere tanta energia: con la potenza espressa da quel viso,
quell’uomo poteva riuscire in tutto. Ma come stonava col modo com’egli
esprimeva il suo pensiero! Pareva un gigante legato che si dibattesse
per rompere i suoi vincoli.

Quando lei parlò lo fece con gran simpatia.

— Di ciò che le occorre, lei stesso si rende conto. Lei dovrebbe
ritornare a scuola, studiar la grammatica, poi seguire i corsi
superiori e quelli dell’università.

— Ma occorre del danaro per questo! — interruppe lui.

— Ah! non avevo pensato a questo! — esclamò lei. — Ma lei avrà i
genitori, qualcuno che possa aiutarla.

Egli scosse la testa.

— Mio padre e mia madre sono morti. Ho due sorelle, l’una maritata, e
l’altra che lo sarà in breve, credo. E poi ho una sequela di fratelli
— io sono il minore, — che però non hanno aiutato mai nessuno. Vanno in
giro pel mondo, in cerca di buoni affari. Il maggiore è morto in India;
due sono nell’Africa del Sud, un altro pesca le balene, un altro lavora
in un circo, fa gli esercizi al trapezio. Quando è morta mia madre
avevo undici anni, e sono rimasto abbandonato a me stesso. Bisogna
dunque che mi metta a lavorar da solo, e bisogna che sappia di dove
incominciare.

— Mi sembra che lei debba, per prima cosa, procurarsi una grammatica.
Il suo modo di parlare è... — lei aveva intenzione di dire «orribile»,
ma attenuò dicendo: — molto scorretto.

Egli arrossì, e la fronte gli s’imperlò di sudore.

— Lo so, io parlo in gergo, dico un cumulo di parole che lei non
comprende. Ma ecco... Sono le sole parole che sappia pronunziare, in
realtà. Nel mio cervello ho altre parole diverse, parole spigolate nei
libri, ma siccome non le so pronunziare, non me ne servo.

— Non è tanto ciò che lei dice, ma il modo di dirlo. Non le dispiace la
mia franchezza? Non vorrei ferirla.

— No, no, — esclamò lui, benedicendola nel suo animo. — Diamine!
bisogna che io sappia, e preferisco mille volte saperlo da lei!

— Ebbene! lei dice «un atmosfero» invece di «un’atmosfera» che è
femminile, e «che io so» per «ch’io sappia». Lei fa delle «doppie
negazioni»...

— Che significa una doppia negazione? — domandò egli, aggiungendo
umilmente: — Vede, non capisco neppure le sue spiegazioni.

— La verità è che non gliel’ho spiegato, — fece lei sorridendo. — Si
avrebbe una doppia negazione quando, per esempio, ecco, lei dicesse:
«Non saprei non spiegartelo». La prima parte della frase è negativa, la
seconda parte è anch’essa negativa; secondo la regola che due negazioni
formano un’affermazione, il significato della sua frase sarebbe questo:
che lei saprebbe spiegarlo.

— È chiarissimo! non ci avevo mai pensato, — fece lui dopo aver
ascoltato attentamente, — e certo non commetterò mai più un errore come
questo.

La rapidità con la quale egli comprendeva sorprese lei e le fece
piacere.

— Lei troverà tutto ciò nella grammatica, — continuò lei. — E poi,
un’altra cosa, ho osservato nel suo modo di parlare. Lei dice: «Che i
ho detto», invece di «che gli ho detto». Non le urta l’orecchio: _che i
ho detto_?

Egli riflettè un momento, poi confessò con semplicità: — N’ posso dire
che mi urta.

— Perchè, a proposito, non dice: _non_ posso dire? — aggiunse lei. E il
modo col quale lei si mangia metà delle parole è terribile!

Egli si piegò davanti, tentato dal desiderio d’inginocchiarsi davanti a
una creatura così meravigliosamente istruita.

— Senta, mi è impossibile correggerla in tutto. Le occorre una
grammatica. Gliene cercherò una e le mostrerò come deve cominciare.

E lei si alzò e lui fece altrettanto, esitando tra il vago ricordo
d’una norma di buon contegno letto in un libro di buone maniere e il
timore che lei credesse che andasse via.

— A proposito, signor Eden, — fece lei nell’uscire dalla camera, — che
cos’è una «cotta»? Lei l’ha ripetuta parecchie volte.

— Oh! una cotta? — esclamò lui ridendo. — È una parola del gergo!

— Senta! non usi in questo caso il pronome «si» ma «io», — obbiettò la
giovane scherzosamente.

Quando lei tornò colla grammatica, accostò la poltrona (egli si domandò
se doveva aiutarla) e sedette accanto a lui. Leggendo insieme, le loro
teste chine si sfioravano; così ch’egli poteva a malapena seguire
le sue spiegazioni, tanto quella vicinanza deliziosa lo turbava. Ma
quando lei incominciò a mostrargli l’importanza delle coniugazioni,
egli dimenticò tutto. Non aveva mai udito parlare di coniugazioni, e fu
meravigliato di quanto intravedeva, circa la composizione della lingua.
Egli si chinò di più sul libro, e i capelli biondi gli accarezzarono
la guancia. Una volta sola era svenuto, nella vita, e poco mancò che
non svenisse la seconda volta; respirava a stento; tutto il sangue
parve che gli affluisse alla gola dal cuore, come per soffocarlo. Mai
lei gli era sembrata così accessibile; pel momento, era gettato come
un ponte sul baratro che li separava. Eppure il suo rispetto per lei
non era punto diminuito; lei non era discesa dalle altezze; ma era lui
a innalzarsi fra le nubi verso di lei, tanto il sentimento rimaneva
fervido e immateriale. Gli sembrò di avere illecitamente toccato
un tabernacolo sacro, e con premura allontanò la sua testa da quel
contatto delizioso che l’aveva elettrizzato in tutta la persona, senza
che lei s’accorgesse minimamente della cosa.




CAPITOLO VIII.


Passarono parecchie settimane, durante le quali Martin Eden s’applicò
alla grammatica, ripassò il libro delle buone maniere e divorò i volumi
che lo attraevano. Non vide nessuno del suo ambiente. I frequentatori
assidui del Club del Loto si domandavano che cosa gli fosse accaduto,
e opprimevano Jim di domande, e qualche giovanotto, di quelli che
soperchiavano nel «Kiley’s», si rallegrava dell’assenza di Martin.

Egli aveva fatto in biblioteca la scoperta di un nuovo tesoro. Come
la grammatica gli aveva mostrato la composizione della lingua, quel
tesoro gli mostrò quella della poesia, ed egli potè così imparare
delle nozioni circa la metrica, la rima, la forma, insomma delle cose
che gli piacevano. Un altro volume trattava della poesia come arte
rappresentativa, con tante citazioni tratte dalle opere più belle.
Nessun romanzo lo aveva appassionato come quei libri; e il suo cervello
di vent’anni, maturo per il lavoro intellettuale, riteneva quelle
letture con un potere di assimilazione insolito in cervelli anche
meglio preparati.

Allorchè egli guardava al passato, dall’alto del cammino percorso,
il vecchio mondo da lui conosciuto, il mondo della città e del mare,
dei marinai e delle ragazze facili, gli appariva molto meschino;
eppure, quel vecchio mondo si congiungeva col nuovo, così che egli
rimase stupito nello scoprire i punti di contatto che li univano.
L’altezza del pensiero, tutta la bellezza ch’egli trovava nei libri,
lo nobilitavano, ed egli ne era cosciente, al punto di credere, più
fermamente che mai, che nella classe di Ruth e della sua famiglia
tutti pensassero in modo così elevato e bello e vivessero nello stesso
modo. Nella suburra dov’egli viveva, stava la bruttura, ed egli decise
di purificarsi delle brutture che avevano lordato tutta la sua vita
passata e di innalzarsi sino a quelle elevate regioni nelle quali
vivevano le classi superiori. La sua infanzia e la sua adolescenza
erano state continuamente turbate da una vaga irrequietezza; senza
sapere ciò che desiderasse, egli desiderava qualche cosa che aveva
cercato invano, sino al giorno in cui aveva incontrato Ruth. Ora
quell’irrequietezza era diventata acuta, dolorosa, giacchè sapeva
finalmente, chiaramente, che cosa gli occorresse: la bellezza, la
cultura intellettuale e l’amore.

Durante alcune settimane, vide Ruth cinque o sei volte, e ogni volta
fu un nuovo progresso. Lei lo aiutava a parlare correttamente,
ne correggeva l’inglese, e gli fece incominciare lo studio
dell’aritmetica. I loro colloquii non erano, d’altra parte, limitati a
quei secchi studi elementari. Egli aveva visto troppe cose, aveva la
mente troppo matura, per contentarsi di frazioni, di radici cubiche,
d’analisi e di coniugazioni; parlavano, a volte, degli ultimi libri
ch’egli aveva letti, dell’ultimo poema studiato. E quando lei gli
leggeva ad alta voce i suoi brani prediletti, egli era al colmo della
gioia. Non aveva sentito mai voce come quella: la minima intonazione lo
inebriava, e ogni parola che lei pronunziava, lo faceva rabbrividire
in tutta la persona. Ascoltando, egli ricordava le vociferazioni
acute delle femmine selvagge, delle megere avvinazzate, e — meno
atroci, ma ugualmente sgradevoli nel ricordo — voci acute e stridule
di popolane. Poi le rivide nell’immaginazione; le vide sfilare
come gregge miserabile, ognuno dei quali esaltava, al confronto, le
qualità di Ruth. E il sentire che leggendo le opere che aveva letto
lei poteva vibrare delle stesse gioie, gli raddoppiava il godimento.
Essa gli lesse una gran parte de _La Principessa_, e spesso vide i
suoi occhi pieni di lacrime, tanto la sua natura estetica risentiva
della bellezza. In quei momenti egli si sentiva simile a un Dio! La
guardava, l’ascoltava, gli pareva di vedere il viso stesso della vita
e di scoprirne i segreti. Allora, cosciente del grado di sensibilità
acquistato, egli si diceva che in ciò consisteva veramente l’amore,
sola ragione d’essere al mondo. Egli ripassava nella mente il ricordo
di tutti i brividi sentiti, delle fiamme d’un tempo, e dell’ebbrezza
dell’alcool, dei baci delle donne, degli occhi violenti, della febbre
dei colpi dati e ricevuti, e tutto ciò gli sembrava triviale e basso,
accanto a quel sublime ardore che lo trasportava.

Quanto a Ruth, era una condizione di cose molto buia. Essa non aveva
alcuna esperienza personale delle cose del cuore, essendo stata avvezza
dalle sue letture a vedere i fatti soliti della vita trasposti, da una
letteratura fantastica, nel dominio dell’irreale. E lei non immaginava
che quel rude marinaio le s’insinuasse nel cuore, dove s’accumulavano a
poco a poco energie latenti che, un bel giorno, l’avrebbero infiammata
tutta quanta. Lei non s’era ancora scottata al fuoco d’amore, ma aveva,
dell’amore, una conoscenza puramente teorica, concependolo come la
fiamma leggera, soave, d’una lampada fedele, come una fredda stella
lucente nel cupo velluto d’una notte d’estate. Le piaceva immaginarselo
come un placido affetto, come il dolce culto d’una creatura in
una atmosfera calma, profumata di fiori, dalle luci attenuate. Non
immaginava neppure vagamente le vulcaniche scosse dell’amore, l’ardenza
divoratrice dei suoi fuochi e i suoi deserti di cenere. Le forze
dell’amore le erano ignote; gli abissi della vita si trasformavano per
lei in oceani d’illusioni. L’affetto coniugale tra i suoi genitori
le sembrava l’ideale delle affinità tra innamorati, e aspettava
tranquillamente il giorno in cui, senza scosse nè complicazioni, lei
sarebbe passata, dalla sua vita di giovanetta, a una vita in due, dello
stesso genere, pacifica e tenera.

Martin Eden le apparve come una novità bizzarra, una persona strana, e
considerò anche come una novità e bizzarria l’effetto ch’egli produceva
in lei. Insomma, non era naturale tutto ciò? Lei s’interessava di
lui, come si sarebbe interessata delle belve di un serraglio o dello
spettacolo d’una tempesta che l’avesse fatta rabbrividire coi suoi
lampi. Come le belve, l’uragano, la folgore, egli era una forza libera
della natura; le portava come odor di lontananza e il respiro dei
grandi spazî, il riflesso del sole tropicale sul suo viso accalorato,
e nei muscoli rigonfi, tutto il vigore primordiale della vita. Egli era
tutto improntato di quel misterioso mondo di rudi marinai e d’avventure
anche più aspro, delle quali lei non poteva immaginare neppure la più
mediocre. Era incolto, selvatico, e lei era lusingata dalla vanità
di vederlo accostare così prontamente ai suoi cenni, e si divertiva
nell’addomesticare la belva feroce. In fondo in fondo, quasi senza
accorgersene, ella sentiva il desiderio di rimodellare quell’argilla
informe, a simiglianza di suo padre, che rappresentava ai suoi occhi
l’ideale maschile. E la sua inesperienza assoluta le impediva di capire
che l’attrattiva che la spingeva verso di lui era la più istintiva
delle attrattive, quella la cui potenza fa precipitare uomini e donne
gli uni nelle braccia delle altre, spinge gli animali ad uccidersi fra
loro durante la stagione della foia e costringe gli stessi elementi a
congiungersi.

La rapidità dei suoi progressi era una fonte di sorpresa e d’interesse.
Essa scopriva in lui possibilità inaspettate, fiorenti tutti i giorni
come piante in un suolo fertile. Spesso, leggendogli dei versi di
Browning, essa si meravigliava delle strane interpretazioni ch’egli
dava a certi brani discutibili e non poteva comprendere come, con la
sola conoscenza dell’umanità e della vita, le interpretazioni di lui
fossero spesso più giuste delle sue. La concezione ch’egli aveva delle
cose, le pareva ingenua, sebbene ella fosse tante volte elettrizzata
dall’audacia del suo slancio che seguiva un volo dalla traiettoria così
tesa, che lei non poteva seguirla. Essa si contentava allora di vibrare
all’urto di quella potenza inconscia.

Essa suonò al pianoforte — per _lui_, non _contro_ di lui, questa
volta, — e lo provò con un genere di musica la cui profondità
sorpassava, d’altra parte, le sue stesse capacità di comprensione. Come
un fiore al sole, l’animo di Martin si aprì all’armonia, e fu rapido
il passaggio dai «rag-times» e dai «two-steeps» del suo ambiente di una
volta, ai capolavori classici ai quali essa lo iniziava oggi. Però egli
dedicò a Wagner — quand’essa gliene ebbe dato la chiave, — al preludio
del _Tannhaüser_, particolarmente, un’ammirazione essenzialmente
democratica: del repertorio di Ruth, nulla lo attraeva tanto, giacchè
era la personificazione stessa della vita sua sino a quel tempo,
giacchè per lui il motivo del Venusberg significava la sua vita
passata, e Ruth era identificata nel coro dei Pellegrini.

Con le domande che le rivolgeva talvolta, egli giungeva a farla
dubitare delle proprie definizioni e della sua comprensione musicale;
ma egli non ne discuteva il canto; il suo canto era lei tutta quanta.
Il timbro angelico del suo puro soprano l’estasiava sempre; egli non
poteva far di meno di paragonarlo ai pigolii acuti, ai tremolìo gracile
delle operaie malaticce, e al vocìo avvinazzato delle ragazze dei covi
di marinai.

A Ruth piaceva suonare e cantare per lui. In verità, era la prima volta
che lei aveva un’anima fra le sue mani, e l’argilla di quell’anima
era delicata nel modellarla, giacchè lei immaginava di modellarla, e
aveva buone intenzioni. D’altra parte, la sua compagnia le riusciva
piacevole; egli non la spaventava più; quel primo spavento, dovuto
in realtà alla scoperta del suo io ignoto, era svanito. Essa, ora,
sentiva di avere dei diritti sui di lui, ed egli esercitava su di lei
un influsso tonico. Dopo lo studio nell’Università, uscendo fuori di
quei libri polverosi, essa si abbandonava al soffio fresco e forte
della personalità di lui. La forza! Essa aveva bisogno di forza, ed
egli gliene dava generosamente. Essere accanto a lui, parlargli, era
come bere dell’essenza di vita. Dopo la sua partenza, essa ritornava ai
suoi libri con un interesse più vivo e una nuova provvista di energia.
Sebbene conoscesse profondamente Browning, non aveva mai pensato che
potesse essere pericoloso giocare con un’anima. A mano a mano che
aumentava il suo interessamento per Martin, essa si appassionava sempre
più all’idea di rimodellarlo.

— Lei conosce Butler, vero? — gli disse lei un pomeriggio, quando
lo studio della grammatica, dell’aritmetica e della poesia fu
finito. — Ebbene, i suoi inizi furono molto difficili. Suo padre
era cassiere in una banca, ma, ammalatosi di petto, vegetò a lungo,
e morì nell’Arizona; dimodochè, alla sua morte, Butler — Carlo
Butler — si trovò solo al mondo e senza un soldo. Suo padre era
australiano; dunque, egli non aveva alcun parente in California.
Egli entrò in una stamperia — gliene ho sentito parlare parecchie
volte — con uno stipendio di quindici lire al mese. Ora guadagna
150.000 lire all’anno. Come ha fatto? È stato onesto, devoto, economo
e lavoratore; ha rinunziato a tutti i piaceri dei giovanotti della
sua età. Si costringeva a mettere da parte un tanto per settimana, a
costo di qualsiasi sacrificio. S’intende che in breve ha guadagnato
più di quindici lire al mese, ma a mano a mano che aumentavano i suoi
guadagni, aumentavano in proporzione i suoi risparmi. Egli lavorava
di giorno in ufficio e la sera studiava. Non perdeva mai di vista il
suo avvenire. In seguito, frequentò, la sera, i corsi superiori. A
diciassette anni guadagnava eccellenti paghe come tipografo; ma era
ambizioso. Voleva fare strada, non rimanere un povero diavolo che
sbarca il lunario, e poco gl’importava di sacrificare le comodità
dell’oggi per quelle future. Egli scelse gli studi di diritto, ed entrò
nello studio di mio padre come fattorino — pensi un po’! — con venti
lire la settimana. Ma aveva imparato ad essere economo, e fece economia
anche sulle venti lire.

Essa si fermò per riprender fiato e per vedere come Martin ascoltava.
Egli sembrava vivamente interessato dalla giovinezza difficile del
signor Butler, ma un aggrottamento delle sopracciglia rivelò una certa
agitazione.

— Per un giovanotto, vivere tutti i giorni così non dev’essere stato
molto simpatico, evidentemente, — fece lui. — Venti lire la settimana!
Come poteva vivere con venti lire? Certo, non era in condizione di
comprarsi delle calze di seta! Ebbene, io pago ora venticinque lire la
settimana per la pensione, e le assicuro che non c’è da godere troppo.
Egli doveva vivere come un cane. Il suo vitto...

— Se lo preparava da sè, — interruppe lei, — cucinando su un
fornelletto a petrolio.

— Il suo nutrimento doveva essere peggiore di quello dei marinai sui
peggiori trabiccoli, e certo non ve n’è di più infetto al mondo.

— Ma pensi che cos’è diventato ora! — esclamò lei con entusiasmo. —
Pensi quanto guadagna! È mille volte ricompensato delle privazioni
passate.

Martin la guardò attentamente.

— Senta, — fece lui, — il signor Butler, diventato ricco, non è più
allegro per questo! S’è stretta la cintola per anni e anni, e sono
sicurissimo che il suo stomaco si vendica, ora.

Essa abbassò gli occhi davanti allo sguardo interrogativo di lui.

— Scommetto che soffre di dipsepsia! — disse Martin.

— Sì, è così, — confessò Ruth, — ma...

— E scommetto — aggiunse Martin — ch’è solenne e triste come un vecchio
gufo, e che non si diverte, sebbene guadagni 150.000 lire all’anno.. E
scommetto che non deve provare alcun piacere nel vedere che gli altri
si divertono. Ho ragione, o no?

Essa fece segno di sì, e s’affrettò a spiegare:

— Ma non è uomo da divertirsi. È naturalmente calmo e serio; ed è stato
sempre così.

— Di questo n’ero sicuro, — proclamò Martin. — Quindici lire la
settimana, poi venti, da ragazzo; cucinare su un fornello a petrolio,
economizzare sempre, lavorare tutto il giorno, studiare tutta la notte,
lavorare, insomma, sempre e non divertirsi mai, non saper neppure
in che consista il divertimento, per poi guadagnare 150.000 lire!
Naturalmente le 150.000 lire sono giunte troppo tardi!

Con la sua immaginazione accesa, egli aveva visto immediatamente i
mille particolari di quella vita giovanile e del suo povero sviluppo
intellettuale, che avevano ottenuto lo scopo di fare un uomo che valeva
150.000 lire di rendita. In un batter d’occhio, tutta la vita di Carlo
Butler gli apparve come su uno schermo cinematografico, nel cervello.

— Lei sa che io compiango il signor Butler, — diss’egli. — Era troppo
giovane per sapere, ma egli ha rinunziato alla vita per amore delle
150.000 lire l’anno, di rendita. Ebbene! Tutto questo denaro non gli
servirà neppure per comperare ciò che avrebbe potuto avere — con i
quattro soldi che risparmiava —: caramelle d’orzo, il divertimento al
bigliardo o dei posti al Guignol.

Questo modo di giudicare le cose sorprendeva Ruth, giacchè non solo
le riusciva nuovo e contrario ai suoi sentimenti, ma conteneva
particelle di verità che minacciavano di sgretolare e modificare
le sue convinzioni. A 14 anni, forse le sue idee avrebbero potuto
cambiare, ma a 24 anni, conservatrice per natura ed educazione qual
era, fissata nell’ambiente dov’era nata e che l’aveva formata, i
ragionamenti bizzarri di Martin la turbavano là per là, ma essa li
attribuiva alla stranezza di quella esistenza, e li dimenticava subito.
Tuttavia, pur disapprovandoli, la convinzione con cui li manifestava,
il lampeggiar degli occhi e la gravità del volto, la turbavano ogni
volta e l’attiravano verso di lui. Lei non avrebbe mai immaginato, in
quei momenti, che quell’uomo venuto da luoghi così lontani e così bassi
la sorpassasse, per grandezza e profondità di convinzioni. Come tutti
gli spiriti limitati che non sanno far altro che riconoscere dei limiti
agli altri, essa giudicò che le sue concezioni della vita erano davvero
vastissime, che le diversità del modo di vedere che li separavano
segnavano i limiti dell’orizzonte di Martin, e sognò di aiutarlo a
vedere come vedeva lei, d’ingrandirgli la mente in misura della sua.

— Ma non ho finito il racconto della sua vita, — fece lei. — Mio padre
afferma che non ha mai visto un lavoratore della forza del signor
Butler, quando questi era fattorino. Era sempre pronto al lavoro;
non soltanto non si presentava mai in ritardo, ma veniva di solito in
ufficio alcuni minuti prima dell’ora. E con tutto ciò, trovava il modo
di studiare, a tempo perso. Studiava la contabilità, la dattilografia
e prendeva lezioni di stenografia la notte, facendo fare dei dettati
a un cronista giudiziario, che aveva bisogno di esercitarsi. Divenne
rapidamente commesso e rese inestimabili servigi. Fu papà a spingerlo
a studiare diritto. Divenne notaio, e appena ritornò in ufficio, papà
lo associò. È un uomo notevole. Ha rifiutato parecchie volte di entrare
nel Senato degli Stati Uniti, e papà dice che può essere nominato
giudice della Corte Suprema di Cassazione, alla prima votazione, se
ne ha voglia. Una vita simile è un bell’esempio per ciascuno di noi;
essa prova come, con la volontà, ognuno possa elevarsi al disopra
dell’ambiente nel quale vive.

— È un uomo notevole, — disse Martin, sinceramente.

Ma gli parve che in quella storia ci fosse qualche cosa che urtava il
suo senso di bellezza e della vita. Non riusciva a trovare una ragione
sufficiente alla vita di stenti e di miseria del signor Butler. Se
l’avesse fatto per l’amore d’una donna o d’un ideale di perfezione,
l’avrebbe compreso. «L’amante folle d’amore» fa qualsiasi cosa per un
bacio, ma non per 150.000 lire di rendita. Fatta questa riflessione, la
carriera del signor Butler non lo soddisfaceva. In fondo, aveva qualche
cosa di meschino! 150.000 lire di rendita sono una gran bella cosa!...
ma la dispepsia e l’incapacità d’essere felice, tolgono, di colpo,
molto del loro valore.

Egli spiegò tutto ciò a Ruth, la scontentò e la persuase più che mai
della necessità d’un rimaneggiamento totale della sua persona. Essa
aveva una mentalità come ce n’è tante; di quelle menti persuase che
le loro credenze, i loro sentimenti e le loro opinioni sieno le sole
buone, e che la gente che pensa diversamente è della povera gente da
compiangere. Questa forma mentale produce oggi il missionario che se
ne va in capo al mondo per sostituire il suo Dio agli altri dei di cui
un’infinità di brava gente si contenta molto bene. A Ruth, questa forma
mentale diede il desiderio di formare quell’uomo secondo un’essenza
diversa, a simiglianza delle banalità che la circondavano e le
rassomigliavano.




CAPITOLO IX.


Ancora una volta, Martin Eden ritornò in California, questa volta con
un’impazienza d’amante. Esaurite le sue risorse, s’era imbarcato come
marinaio di bordo sullo _schooner_ che andava in cerca di tesoro. Alle
Isole Salomone, dopo otto mesi di vane ricerche, la spedizione s’era
sciolta. L’equipaggio era stato congedato in Australia, e Martin aveva
immediatamente ripreso la via del ritorno, su un piccolo bastimento
diretto a S. Francisco. In quegli otto mesi aveva guadagnato non solo
quanto gli bastava per rimanere parecchio tempo a terra, ma anche del
denaro in più per leggere e studiare molto. Egli aveva una smania di
studiare, una grande facilità, una volontà indomabile, e soprattutto,
l’amore di Ruth come mèta. Egli s’era applicato alla grammatica
portata con sè, sinchè il suo cervello vergine non l’aveva posseduta
interamente. Il linguaggio scorretto che usavano i suoi compagni lo
urtava, ora, ed egli si divertiva mentalmente a correggere i loro
barbarismi. Con sua grande gioia, scoprì che l’orecchio gli si educava
e che avrebbe acquistato il senso della grammatica.

Egli s’era applicato allo studio del vocabolario, e aveva aggiunto
venti parole al giorno al suo dizionario. Fu un compito difficile:
al timone o in vedetta, egli si sforzava di ripassare indefinitamente
accenti e definizioni, e le ripeteva addormentandosi, per avvezzarsi a
parlare la lingua di Ruth. Un giorno, con sua grande sorpresa, osservò
che cominciava a parlare un inglese più corretto di quello che usavano
gli stessi ufficiali e quella specie di «gentiluomini avventurieri» che
avevano organizzato la spedizione.

Il capitano, un norvegese dagli occhi di pesce, possedeva, Dio sa per
quale caso, uno Shakespeare che non leggeva mai, e Martin, per ottenere
il permesso di leggere il prezioso volume, lavò la biancheria al
capitano. Quella lettura gli educava l’orecchio e gli faceva apprezzare
un inglese più raffinato; in cambio, accumulò molte parole arcaiche e
antiquate.

Insomma, quegli otto mesi erano stati bene impiegati; oltre ciò che
aveva studiato, egli aveva imparato parecchie cose che riguardavano
lui. Col senso della propria ignoranza, s’ingrandiva in lui il senso
della propria potenza. Egli sentiva una gran differenza fra i suoi
compagni di bordo e lui, ma era abbastanza assennato per riconoscere
che tale diversità consisteva più in possibilità che in fatti. Essi
avrebbero potuto fare ciò che egli faceva; ma in fondo a sè egli
sentiva un oscuro lievito che fermentava e che gli faceva presentire
di avere in sè qualche cosa di meglio e di più. L’adorabile splendore
del mondo lo affascinava, ed egli si augurava ardentemente di potere
goderne con Ruth. Decise di descriverle tutto quanto avrebbe potuto
delle bellezze dei mari del Sud. A questo pensiero, lo spirito creatore
ch’era in lui si svegliò, e gli suggerì di ricreare quelle bellezze
per un pubblico più numeroso. Allora, in un’aureola di splendore
e di gloria, nacque la grande idea: avrebbe scritto! Sarebbe stato
uno di quegli esseri privilegiati mediante i quali il mondo intero
vede, capisce e sente. Avrebbe scritto — che cosa? di tutto — versi e
prosa, romanzi e drammi come quelli di Shakespeare. Ecco la sua vera
carriera e il cammino verso la conquista di Ruth. I letterati erano
i conquistatori del mondo; e gli sembravano ben altrimenti ammirevoli
che non tutti i Butler che guadagnavano 150.000 lire l’anno; persone
che avrebbero potuto essere giudici nella Corte Suprema, se avessero
voluto.

Ficcatasi questa idea nella testa, egli la possedette interamente,
e fece quel viaggio di ritorno a San Francisco come in un sogno. Era
ebbro di forze inconscie e incatenate. Ed ecco, un giorno, sul vasto
mare deserto, nascere in lui il senso della prospettiva. Per la prima
volta, nettamente, vide Ruth e il suo ambiente, come una cosa che
si può prendere con le mani, girare e rigirare a piacere. C’erano,
veramente, dei punti vaghi, nebulosi, nella sua visione di quel mondo,
ma ne intravedeva l’assieme, non i particolari, e vedeva anche il modo
di possederlo. Scrivere!... Arso da questo pensiero, cominciò appena
ritornato. Prima di tutto avrebbe descritto il viaggio dei cercatori
di tesori; e avrebbe portato lo scritto a un giornale qualunque, a
San Francisco, senza dir nulla a Ruth, che sarebbe rimasta sorpresa e
contenta nel vedere stampato il nome di lui. Pure scrivendo, avrebbe
continuato a studiare. I giorni non erano fatti di ventiquattro ore?
Egli era invincibile. Sapeva come si lavora, e le cittadelle più
imprendibili sarebbero cadute davanti a lui. Egli non avrebbe corso più
il mare — almeno in qualità di marinaio — e per un momento ebbe persino
la visione d’un _steam-yacht_. S’intende, diceva fra sè, prudentemente,
che non sarebbe riuscito subito, e per qualche tempo si sarebbe dovuto
contentare di guadagnare con la letteratura quanto gli sarebbe bastato
per proseguire gli studî. Poi, dopo un tempo indeterminato — molto
indeterminato, — fatta la necessaria preparazione, avrebbe scritto una
grande opera, e il suo nome sarebbe diventato celebre.

Ma non basta: oltre tutto questo trionfo, c’era dell’altro; egli
si sarebbe mostrato degno di Ruth. La gloria, va bene, ma Ruth era
la realizzazione di un sogno divino. Non era un arrivista, lui, ma
«l’amante folle d’amore»... semplicemente.

Quando fu a Oakland, con un somma rotondetta in tasca, frutto della
paga, rioccupò la vecchia camera in casa di Bernardo Higgingbotham
e si mise al lavoro, senza far conoscere il suo ritorno neppure a
Ruth. Sarebbe andato a trovarla quando avesse finito l’articolo sui
cercatori di tesori. L’eccitamento violento prodotto dall’estro,
gli avrebbe fatto sentire meno il peso di quell’assenza volontaria.
D’altra parte, la natura stessa dell’argomento che trattava, gliela
rendeva meno lontana. Non sapendo bene quale dovesse essere la
lunghezza dell’articolo, egli si regolò su un articolo di due pagine
del supplemento della _Rivista di San Francisco_, di cui contò le
parole. Dopo tre giorni di lavoro da forsennato, ecco il lavoro
finito; ma quando l’ebbe accuratamente copiato, con una larga scrittura
infantile, facile a leggersi, vide in un libro di retorica trovato in
biblioteca, che esistevano certe cose chiamate «paragrafi» e «rinvii».
Ricominciò dunque il lavoro con l’aiuto del libro di retorica, e in
un giorno seppe circa il comporre, più di quanto apprende uno scolaro
medio in un anno. Dopo aver ricopiato l’articolo una seconda volta e
averlo preziosamente arrotolato, lesse in un giornale una notizia, in
alcune avvertenze ai dilettanti, che prescriveva che i manoscritti
non dovevano essere arrotolati, nè scritti su tutt’e due le pagine
del foglio. Egli aveva dunque violato doppiamente la norma. Secondo
quell’avvertenza, gli articoli di prim’ordine erano pagati cinquanta
lire la colonna. Si consolò, quindi, ricopiando il manoscritto per la
terza volta, col pensare che gli spettavano cinquanta lire moltiplicate
per dieci, cioè cinquecento lire, e decise in cuor suo che quello
era un affare migliore del navigare. Senza errori, avrebbe finito
l’articolo in tre giorni. Cinquecento lire in tre giorni!... Sul
mare avrebbe dovuto lavorare tre mesi e di più per guadagnare tanto.
Com’era idiota fare il marinaio quando è possibile fare il letterato!
— concluse. Però, egli non teneva al denaro pel denaro, ma perchè
dà l’indipendenza, dei vestiti decenti, e perchè poteva avvicinarlo,
infine, il più presto possibile, alla fragile e pallida giovane che gli
aveva rivelato il senso della vita e l’aveva ispirato.

Egli mise il manoscritto in una busta grande e lo indirizzò all’editore
della _Rivista di San Francisco_. Pensava che tutto quanto era
accettato da un giornale fosse immediatamente pubblicato; così
che, avendo spedito il manoscritto il venerdì, s’aspettò di vederlo
apparire la domenica seguente. Sarebbe stato magnifico far sapere in
quel modo il suo ritorno a Ruth! La domenica, nel pomeriggio, sarebbe
andato a trovarla. Gli era venuta anche un’altra idea particolarmente
morale, prudente e modesta, che lo lusingava. Avrebbe scritto una
storia d’avventure per bambini, e l’avrebbe mandata al _Compagno della
gioventù_. Nella sala della biblioteca popolare, egli passò in rivista
la collezione del Compagno della gioventù. Le storie d’appendice
vi erano regolarmente pubblicate in cinque parti, di tremila parole
ciascuna, circa. Qualche storia era in sette parti; ed egli si decise
di scriverne una di uguale lunghezza. Aveva fatto su una baleniera
un viaggio antartico, alcuni anni prima, viaggio che doveva durare
tre anni e che era terminato con un naufragio, dopo sei mesi. Con
un’immaginazione piena di fantasia, talvolta da sognatore, quale egli
aveva, e col suo amore fondamentale per la verità, si sentiva spinto
a descrivere le cose viste. Egli, che conosceva la pesca della balena,
con la sua esperienza vissuta presa come dato, incominciò a raccontare
la storia fittizia di due ragazzi. Un’opera facile — diss’egli a se
stesso — il sabato sera. La sera stessa aveva finito la prima parte,
di tremila parole, con gran divertimento di Jim e tra i sarcasmi del
signor Higgingbotham che si beffò, durante tutto il pranzo, dello
«scribacchino» che avevano scoperto in famiglia.

Martin si contentò di immaginare la sorpresa di suo cognato quando,
la domenica mattina, aprendo la _Rivista_, avrebbe visto l’articolo
sui cercatori di tesori. Di buon’ora, quel giorno, era sulla soglia
dell’uscio, scorrendo nervosamente i numerosi fogli del giornale.
Ricominciò una seconda volta con molta cura, poi lo ripiegò, e lo
lasciò dove lo aveva trovato. Per fortuna, non aveva parlato a nessuno
dell’articolo! Riflettendo sulla cosa, egli concluse col dire che
s’era ingannato circa la rapidità con la quale le cose si pubblicano.
D’altra parte, il suo articolo non era forse d’urgente attualità, e
molto probabilmente l’editore gli avrebbe scritto prima di pubblicarlo.
Dopo colazione, lavorò attorno alla sua storia. Le frasi gli
scorrevano dalla penna, sebbene s’interrompesse spesso per consultare
il dizionario o il libro di retorica. Componeva capitoli interi e si
consolava pensando che, anche se non avesse scritto le grandi cose
ch’egli sentiva in sè, avrebbe, se non altro, imparato a comporre
e si sarebbe allenato nel formare delle immagini e nell’esprimere
dei pensieri. Lavorò fino alla notte, poi andò nella biblioteca a
sfogliare riviste e giornali illustrati sino in fondo. Tale fu il suo
programma durante una settimana. Ogni giorno scriveva tremila parole,
e ogni sera spigolava nei giornali illustrati, prendendo appunti sulle
novelle, sugli articoli e poemi. Una cosa era certa: che ciò che quella
moltitudine di scrittori faceva, anch’egli poteva fare; se ne avesse
avuto il tempo, avrebbe fatto di meglio. Rimase incantato leggendo nei
«Libri nuovi», una notizia riguardante il compenso degli scrittori
di riviste, non già dal fatto che pagavano a Rudyard Kipling cinque
lire la parola, ma che il minimo pagato dai giornali illustrati più
apprezzati era di due soldi la parola. Il _Compagno della gioventù_
era certamente uno dei meglio apprezzati; comunque, le tremila parole
ch’egli aveva scritte quel giorno gli avrebbero fruttato trecento lire,
cioè quanto due mesi di paga sul mare.

Il giovedì sera, la storia in sette parti fu finita, e comprendeva
ventunmila parole. Egli calcolò che, a due soldi la parola, avrebbe
avuto 2100 lire, che non rappresentavano una brutta settimana! Non
aveva mai avuto tanto denaro in una volta. Come spenderlo? Aveva
scoperto una miniera d’oro in apparenza inesauribile.

Egli fece il disegno di comperare parecchi abiti, di abbonarsi a
qualche giornale illustrato e di comperare una quantità di cataloghi
che era costretto a consultare in biblioteca.

Tutte queste folli spese però avrebbero a malapena intaccato la
somma di 2100 lire. Come spendere il resto? A forza di tormentarsi il
cervello, ebbe l’idea di pagare una cameriera per Geltrude e comprare
una bicicletta a Marianna.

Il voluminoso manoscritto fu spedito al _Compagno della gioventù_,
e il sabato, nel pomeriggio, dopo aver elaborato il disegno d’un
articolo sulla pesca delle perle, andò a visitare Ruth, dopo averla
avvertita per telefono. Lei stessa lo ricevette, sulla porta; così che
come allora, il fresco soffio di sana vitalità che emanava da lui la
penetrò deliziosamente; le parve che un liquido ardente s’infiltrasse
nelle sue vene e facesse vibrare i suoi nervi come corde tese. Egli
arrossì violentemente quando si strinsero la mano, ed egli incontrò il
suo sguardo azzurro, ma la recente abbronzatura di quegli otto mesi di
sole, nascose quel rossore, sebbene egli fosse impotente a nascondere
la striscia rossa prodotta dal colletto sul collo potente. Essa si
divertì nell’osservare quest’ultimo particolare, poi, continuando
l’esame si stupì: il vestito gli stava benissimo; era — per la
prima volta — fatto su misura, e lo faceva apparire più agile e più
disinvolto. Il berretto era stato sostituito con un feltro floscio,
ch’ella lo pregò di rimettere sul capo per giudicare dell’assieme; e
si congratulò con lui. Non ricordava d’essere stata mai così contenta;
quel mutamento era opera sua, e ne era orgogliosa, e sempre più
desiderosa di essergli utile.

Ma rimase soprattutto meravigliata del suo progresso nella lingua. Il
mutamento, qui, era radicale; egli non solo parlava correttamente,
ma con maggiore scioltezza, scegliendo le parole, tranne quando
s’accalorava troppo, chè allora ricadeva nelle vecchie abitudini.

Talvolta, anche quando cercava parole nuove, esitava, impacciato.
D’altra parte, egli dava prova di una leggerezza, d’uno spirito che
l’incantarono.

Quell’»humour», quell’ironia leggera, l’avevano reso popolare tra
i compagni, un tempo, ma sino a quel giorno egli non aveva potuto
darne prova a lei, per mancanza di parole adatte e per timidezza.
Ora cominciava a orientarsi, a sentirsi padrone di sè. Si lanciava,
trascinando Ruth sulle ali della fantasia e della gaiezza, senza però
osare di sorpassarla. Le raccontò ciò che aveva fatto, le parlò dei
disegni riguardanti i suoi studi; ma, qui, fu deluso; parve che lei non
approvasse i suoi propositi.

— Capirà, — disse lei francamente, — che lo scrivere è un mestiere come
gli altri. Io non so nulla di preciso, s’intende, ma l’ho sentito dire.
Per diventare fabbro, bisogna lavorare tre anni, o cinque, non ricordo
bene. E poichè gli scrittori sono pagati meglio dei fabbri, deve
esservi molta gente alla quale piacerebbe scrivere... e...

— Ma perchè non dovrei avere speciali attitudini allo scrivere?
— insistè lui, incantato, nel suo interiore, dall’eleganza della
frase usata, giacchè la sua immaginazione vivace gli richiamava, per
contrasto, scene della sua vita passata, grossolane, rudi, crude e
bestiali.

In un lampo rapido, sfilano visioni e spariscono senza interrompere
la conversazione nè il calmo incanto dei suoi pensieri. Egli si vede,
seduto accanto a quella bella e soave giovinetta, a chiacchierare
in inglese di buon gusto, in una stanza piena di libri e di quadri,
doviziosa e raffinata, respirando solida ricchezza ed eleganza.

E attraverso un nebbione ondeggiante, trapassato dai raggi diabolici
d’una lampada rossa, egli si vede in un bar, con alcuni _cow-boys_ che
bevono del _whisky_. Come loro, egli bestemmia selvaggiamente, sotto
la lampada a olio fumosa, mentre sulla tavola sbattono le carte tra
il rumore di vetri infranti, nella atmosfera greve di fumo e di fiati
avvinazzati... Egli si vede sul castello di prua della _Susquehanna_,
nudo sino alla cintola, con i pugni stretti, il giorno del suo grande
scontro col _Rosso_ di Liverpool, e si vede sul ponte insanguinato del
_John Roggers_, il giorno dell’ammutinamento, un triste mattino grigio,
col vecchio nostromo che s’aggrappava al mezzo ponte, negli spasimi
della morte, e il capitano che, con la rivoltella in pugno, abbatteva
gli uomini dalle facce di bruti, i quali cadevano urlando bestemmie.

Egli vide tutto ciò, poi si ritrovò nella luce soave del gran salotto,
a conversare con Ruth, fra libri e quadri, non lontano dal pianoforte a
coda, che essa avrebbe aperto fra poco, e udì l’eco della propria voce
che diceva con parole scelte:

— Ma perchè non dovrei avere particolari attitudini allo scrivere?

— Anche un fabbro può avere particolari attitudini pel suo mestiere!
— fece lei ridendo, — ma non ho mai sentito dire che possa fare senza
apprenderlo.

— Che mi consiglia lei? — domandò lui. — Non dimentichi che io sento
quest’attitudine allo scrivere. Non posso spiegarglielo esattamente, ma
sento soltanto che l’ho.

— Le occorre tutto un corso di studî, — rispose lei; — si dedichi o
no alla letteratura. Qualsiasi carriera lei voglia seguire, questa
istruzione è indispensabile, e bisogna che sia profonda e seria. Lei
dovrebbe frequentare la scuola superiore.

— Sì, — fece lui. — Ma lei l’interruppe per aggiungere:

— S’intende che, intanto, lei potrebbe seguitare a scrivere.

— È necessario, — fece lui con tono reciso.

— Perchè?

E lo guardò gentilmente perplessa, giacchè non le piaceva punto
l’ostinazione con la quale egli perseguiva quell’idea.

— Perchè se non scrivessi, addio università. Bisogna che viva, che
comperi dei libri e dei vestiti, sa!

— Avevo dimenticato questo particolare, — disse lei ridendo. — Perchè
non è nato con delle rendite?

— Preferisco avere una buona salute e dell’immaginazione, — rispose
lui. — Quanto alle rendite, me ne frego; posso cavarmela lo stesso,
facendone senza; quanto al resto... — Stava per dire: Non giungerei mai
sino a lei, ma corresse la frase: — Non riuscirei a nulla.

— Non dica: me ne frego, — esclamò lei, con una impertinenza
civettuola. — È una frase di gergo popolare, orribile!

Egli arrossì, balbettò:

— È giusto. Vorrei che lei mi correggesse, ogni volta.

— Io... io vorrei con piacere, — fece lei esitando. — Lei ha tante
buone qualità, che la vorrei perfetta.

Egli divenne allora come una cera molle nelle mani di lei, tanto
impaziente d’essere modellato da quelle mani, quant’ella era desiderosa
di foggiarlo secondo il suo ideale maschile. Quando lei gli fece
osservare che bisognava affrettarsi, giacchè gli esami di ammissione
alla scuola superiore cominciavano il lunedì seguente, egli si dichiarò
pronto ad affrontarli.

Poi lei suonò e cantò per lui, mentre egli se la beveva con gli occhi,
inebriandosi della sua bellezza, e sorpreso di non vedere attorno a
lei una folla di ammiratori ad ascoltarla e a desiderarla, com’egli
l’ascoltava e la desiderava.




CAPITOLO X.


Fu trattenuto a pranzo, quella sera, e, con gran soddisfazione di Ruth,
fece una buona impressione a suo padre. Si parlò della carriera del
marinaio, argomento che Martin possedeva sulla punta delle dita; e il
signor Morse dichiarò, poi, che gli sembrava un giovane di molto buon
senso.

Dato il suo desiderio di parlare correttamente, Martin era costretto a
parlare lentamente, il che gli permise di esprimere meglio il proprio
pensiero. Egli si sentiva più libero di sè, che non all’altro pranzo;
la sua modestia e riservatezza piacquero alla signora Morse, che non
mancò di far rilevare quei progressi evidenti.

— È la prima volta che Ruth osserva un uomo — disse lei a suo marito.
— È stata sempre così estranea a tutto ciò che riguarda gli uomini, che
ne risentivo un gran fastidio.

Il signor Morte guardò sua moglie con curiosità.

— Hai intenzione di servirti di quel giovane marinaio per destarla? —
le domandò.

— Voglio fare in modo, comunque, ch’essa non muoia zitellona. Se quel
giovane Eden può destarle interesse per l’umanità in genere, tanto
meglio!

— Benissimo, — ribattè il signor Morse. — Ma supponiamo, giacchè certe
volte bisogna suppone l’impossibile, cara mia, supponiamo ch’egli desti
in lei un interesse troppo spinto?

— Impossibile, — fece la signora Morse ridendo. — Prima di tutto, lei
ha tre anni di più di lui, e poi... no, è impossibile. Niente di simile
succederà, credimi!

Mentre il compito di Martin si precisava così, egli meditava,
trascinato da Arturo e Norman, una stranezza. Essi avevano deciso una
gita in bicicletta per la domenica mattina; e la cosa interessò Martin
solo quando seppe che Ruth partecipava anch’essa. Egli non sapeva
andare in bicicletta, e d’altra parte, non ne aveva; ma giacchè Ruth
sapeva adoperarla, non gli rimaneva altro che imparare: così disse
fra sè. Nel ritornare a casa, dunque, egli entrò in un deposito di
biciclette e ne comperò una di duecento lire, spendendo un mese di paga
faticosamente guadagnata!

Quella spesa riduceva notevolmente i suoi risparmi; ma egli riflettè
che, aggiungendo alle cinquecento che avrebbe avuto dalla _Rivista_,
le duemila che gli avrebbe dato il _Compagno della Gioventù_, avrebbe
riassestato le sue finanze. Egli considerò con la stessa indifferenza
il fatto di sciupare il vestito nuovo tentando di ritornare a casa in
bicicletta quella sera! Arrivato al negozio del signor Higgingbotham,
ordinò per telefono un vestito nuovo al sarto. Poi, lungo la scalinata
stretta, rapida come una scaletta di salvataggio da pompieri sospesa ai
fianchi della casa, egli sollevò la bicicletta e scoprì che, scostando
il letto dal muro rimaneva uno spazio appena sufficiente, nella
cameretta, per lui e la macchina.

Egli aveva avuto l’intenzione di dedicare tutta la domenica alla
preparazione del famoso esame; ma l’articolo sui pescatori di perle
lo trascinò, ed egli trascorse la giornata a esprimere febbrilmente
le belle immagini che lo assillavano. Il fatto che la rivista di quel
giorno aveva dimenticato di pubblicare il suo articolo sui «Cercatori
di tesori» non l’affliggeva punto; egli mirava molto più in alto.
Poichè aveva fatto l’orecchio sordo a tutti i richiami, rinunziò
al greve pranzo domenicale che il signor Higgingbotham regalava
invariabilmente alla sua famiglia. Pel signor Higgingbotham, quel
pranzo rappresentava il segno esteriore della sua condizione sociale
e prosperità, ed egli lo festeggiava con delle idee piatte circa le
istituzioni americane, e la riconoscenza che si deve a tali istituzioni
che permettono a qualsiasi onesto lavoratore di elevarsi, e in quel
caso «elevarsi» significava, com’egli osservava, infallibilmente,
diventare, da garzone di droghiere, proprietario delle _Derrate
alimentari Higgingbotham_.

Quel mattino di lunedì, Martin Eden salutò con un sospiro «i pescatori
di perle» non terminati, e prese il tranvai per Oakland e il collegio.
E, quando, giorni dopo, potè sapere il risultato dei suoi esami, vide
che aveva dato cattiva prova in tutte le materie fuorchè in grammatica.

— La sua grammatica è eccellente, — gli disse il professore Hilton
sbirciandolo attraverso i grossi occhiali, — ma lei ignora tutto,
assolutamente tutto, delle altre materie, e la sua storia degli Stati
Uniti è abominevole. Io le consiglierei...

Il professore Hilton s’interruppe, fissandolo ancora, con l’ostilità
e l’incomprensione con le quali avrebbe fissato i suoi provini. Egli
era professore di fisica all’Università, aveva una numerosa famiglia,
un magro stipendio e tutta una riserva di scienza imparata al modo dei
pappagalli.

— Sì, signore, — disse umilmente Martin, che rimpiangeva molto di non
avere dirimpetto l’impiegato della biblioteca, anzichè il professore
Hilton.

— Io le consiglierei dunque di ritornare a scuola per altri due anni
almeno. Buona sera.

Neppure quest’altro fiasco turbò Martin, il quale anzi fu sorpreso
dell’aria imbronciata di Ruth, quando le riferì il consiglio del
professore. Era così viva quella delusione, ch’egli si sentì afflitto
della riprovazione, a causa di lei, soprattutto.

— Vede che avevo ragione, — disse lei. — Lei ne sa molto di più di
tutti gli studenti che entrano nel liceo, eppure è bocciato agli esami,
perchè la sua istruzione è parziale e superficiale. A lei manca quella
disciplina nello studio, che solo dei professori provetti possono dare.
Le occorrono serie basi. Il professore Hilton ha ragione, e se fossi in
lei andrei alla scuola serale. Un anno e mezzo le basterebbero. D’altra
parte avrebbe il tempo di scrivere, o, se non potesse guadagnarsi da
vivere con la penna, potrebbe trovare un impiego.

— Ma se di giorno mi toccherà lavorare e di sera studiare, quando potrò
vederla? — si disse Martin, ma non espresse questo pensiero e si limitò
a dire:

— Mi parrebbe così puerile andare alla scuola serale. Pure lo farei
se pensassi che mi possa giovare in certo qual modo; ma non lo credo.
Io posso imparare più rapidamente ch’essi non facciano ad insegnarmi.
Sarebbe una perdita di tempo, — egli pensò al desiderio che aveva di
lei, — e io non voglio perdere tempo. Infatti: non ho più tempo da
perdere. C’è tante cose necessarie! — E lei lo guardò così gentilmente,
ch’egli sentì ch’era un bruto a resisterle.

— La fisica e la chimica lei non può trattarle da sè, senza studi di
laboratorio e senza guida. L’algebra e l’aritmetica la scoraggeranno;
occorrono professori provetti, specialisti nell’arte d’insegnare.

Egli rimase un momento silenzioso, cercando il modo meno vanitoso di
esprimersi.

— La prego di non credermi un vantatore, — fece egli finalmente. — Non
so esprimermi, ma ho il senso di essere ciò che direi «istintivamente
scientifico». Io so di studiare da solo, naturalmente, come un’anitra
sa navigare. Lei stessa ha visto ciò che ho fatto con la grammatica;
e ho imparato molte altre cose, quante lei non immagina. E siamo
all’inizio! Aspetti che m’avvii un po’! Soltanto ora comincio a vedere
chiaro,... a mettermi in forma...

— A «mettermi in forma»? — interruppe lei, accentuando maliziosamente.

— A sapere di _che si rigira_, — si affrettò a spiegare Martin.

— Questo non significa nulla, in linguaggio corretto, — aggiunse lei.

Egli seguitò ad esprimersi in gergo.

— Voglio dire che comincio a vedere il modo di _accostare_.

Per pietà, lei non insistette, ed egli continuò:

— La scienza mi fa l’effetto d’un ufficio di informazioni. Ogni
volta che vado in biblioteca, ho la stessa impressione. Il compito
del professore consiste nel dare delle notizie agli scolari in
modo sistematico. Non sono altro che guide, ecco: non danno nulla
di se stessi, non creano nulla. Tutto è contenuto nell’ufficio
d’informazioni, ed essi non fanno altro che indicare ai clienti ciò di
cui hanno bisogno, per impedir loro di errare infinitamente. Ma io non
mi perdo facilmente: ho la bussola d’orientamento, e so sempre dove
sono, «evvero»? Che? quale altro sproposito ho detto?

— Non dica «evvero».

— Ha ragione, — fece lui con riconoscenza. — È vero. Dunque, evvero,
cioè, scusi: non è vero?... Dunque, che cosa dicevo? Ah! ecco! sì,
nell’ufficio d’informazioni. Ebbene! c’è dei tipi...

— Della gente! — corresse lei.

— Della gente che ha bisogno di guide, quasi tutti; ma io credo di
poter farne senza, per conto mio.

Ho passato un tempo infinito nell’ufficio d’informazioni, e comincio
a orientarmi, a sapere ciò che voglio trovare, quali rive voglio
esplorare. E stando al modo come mi regolo, navigherò meglio da solo.
La rotta d’una squadra è regolata a seconda della velocità della nave
meno veloce, sa: nell’insegnamento è la stessa cosa. I professori non
possono procedere più rapidamente della media dei loro scolari; mentre
il mio passo sarebbe più rapido di quello di tutta la classe.

— Chi vuol procedere alla svelta, deve viaggiare da solo! — citò Ruth.

Egli sentì la voglia di risponderle: — Con lei viaggierei anche più
rapidamente, giacchè vedeva apparire la visione d’un mondo d’infinita
chiarezza, che egli percorreva tenendo lei fra le braccia, con la
carezza dei suoi capelli d’oro pallido, sulle guance. Dio! com’era
pietosa quell’impotenza a esprimere ciò ch’egli sentiva! Era punto
da un desiderio lancinante: quello di potere descrivere le visioni
che gli fiammeggiavano nel cervello. Ah! ora capiva! Aveva la chiave
del mistero: ecco ciò che esprimevano i grandi scrittori, i grandi
poeti, ecco perchè erano dei titani! Essi sapevano esprimere il loro
pensiero, i loro sogni, i loro sentimenti. Spesso, addormentati al
sole, i cani gemono, abbaiano, ma sono incapaci di dire ciò che li fa
gemere o abbaiare. Così era lui: un cane addormentato al sole. Delle
visioni nobili e magnifiche gli apparivano, ed egli non sapeva far
altro che gemere ed abbaiare verso Ruth. Ma non s’addormenterebbe più
al sole. Dapprima, con gli occhi spalancati, lotterebbe, lavorerebbe,
soffrirebbe, sino al giorno in cui, con la lingua slegata e gli occhi
non velati dalle ciglia, saprebbe farla partecipe delle sue ricchezze
cerebrali. Perchè non avrebbe trovato, come tanti altri, il modo di
formar le parole, di dominar la lingua, d’asservire la materia al suo
sogno?...

L’apparizione del mistero lo commosse profondamente, e nuovamente
la visione dei grandi spazî stellati lo trasportò lontano... sino al
momento in cui, colpito dal silenzio, vide ad un tratto Ruth che lo
guardava con aria divertita.

«Una visione m’è apparsa,» diss’egli, e il suono della propria voce
lo fece sussultare. Donde venivano le parole, espressione adeguata
dell’interruzione che il suo sogno aveva causato alla conversazione?
Qual era quel miracolo? Mai aveva espresso così chiaramente un
pensiero elevato. Vero è che non aveva mai tentato; ma Swinburne,
Tennyson, Kipling e tutti gli altri poeti l’avevano fatto. A un tratto
gli tornarono in mente i suoi «Pescatori di perle». Egli non s’era
ancora lanciato verso grandi cose, in quelle che egli avrebbe potuto
avvivare con la gran fiamma che lo bruciava. Ma quando l’avesse finito,
quell’articolo sarebbe stato diverso. La bellezza dell’argomento
lo colpì d’un tratto; si domandò audacemente perchè non tentava di
celebrare quella bellezza in versi. E perchè non cantare le delizie
infinite e l’incanto senza pari del suo amore per Ruth? Tanti poeti
avevano celebrato l’amore. Così avrebbe fatto lui, perdio!

Al suo orecchio stupito riecheggiò questa esclamazione in modo chiaro
e sonoro; trascinato dell’entusiasmo, egli aveva pensato ad alta voce.
Il sangue gli affluì al viso, con ondate così violente da vincere
l’abbronzatura e farlo arrossire sino alla radice dei capelli.

— Io... io le domando scusa... — balbettò egli. — Pensavo.

— Sembrava che pregasse, — fece lei, con una certa ironia, sebbene
nell’animo si sentisse profondamente urtata. Era la prima volta che un
uomo di sua conoscenza bestemmiava in sua presenza, e questo la feriva
non solo nei suoi principî e nell’educazione, ma anche nell’animo,
la cui peluria verginale non era stata financo macchiata dal brutale
respiro della vita.

Ma lei lo scusò e rimase stupita dalla facilità colla quale lo fece.
Egli non aveva avuto la fortuna di nascere come tanti altri, faceva il
possibile e progrediva molto rapidamente. Lei non immaginò neppure che
potesse avere altre ragioni per essere così benevola verso di lui; ma
era cosciente della tenerezza che la piegava su di lui. Come avrebbe
potuto accorgersene? La serenità di ventiquattro anni di vita tutta
candida, non poteva darle la percezione netta dei proprî sentimenti;
non essendosi mai bruciate le ali, lei non sentiva il pericolo della
fiamma.




CAPITOLO XI.


Martin si rimise a lavorare attorno all’articolo «I Pescatori di
perle», che avrebbe finito più presto se non l’avesse interrotto
frequentemente con i suoi saggi di poesia. I suoi versi erano,
s’intende, versi d’amore, ispirati da Ruth, e mai finiti. Non è
possibile, infatti, imparare in un giorno a cantare un così nobile
argomento. Già, per se stessi, ritmo, metrica e forma erano una
faccenda seria, senza dire che c’era inoltre una cosa intangibile,
impalpabile, che si sente in ogni bel poema e che egli non riusciva ad
afferrare. Era l’inafferrabile spirito della poesia stessa che non si
lasciava imprigionare. Egli se lo sentiva attorno come un fuoco fatuo,
come un calmo e molle vapore, a portata di mano, eppure fuori della
presa. Talvolta egli ne afferrava qualche lembo, uno strascico di nube,
e ne riteneva frasi che gli cantavano nel cervello e svanivano come
nebbia leggera. Era scoraggiante; egli era tormentato dal desiderio
di esprimersi liricamente, e non riusciva ad altro che a farfugliare
prosaicamente, come tutti! Lesse ad alta voce i suoi saggi: i versi
avevano il numero di sillabe voluto, le rime erano impeccabili, ma
l’ispirazione, il colpo d’ala mancavano. C’era da non raccapezzarcisi,
e così, stanco, disperato, depresso, vinto, egli si rimise attorno al
suo articolo. Certamente la prosa era più facile a trattare. Dopo «I
Pescatori di perle», scrisse un articolo sulla carriera del marinaio,
un altro sulla caccia alla tartaruga, e un terzo sugli alisei del
nord-est. Poi, per esercitarsi, tutta una breve novella e, giacchè
ci s’era messo, ne fece altre sei, ch’egli spedì a parecchi giornali
illustrati.

Scriveva senza tregua, dalla mattina alla sera, sino a notte tarda,
interrompendosi soltanto per recarsi in biblioteca a prendere dei libri
di abbonamento, o per vedere Ruth. Era profondamente felice; la vita
gli appariva intensa e bella. La sua febbre d’entusiasmo non cessò mai,
giacchè l’ebbrezza creatrice degli dei era in lui. Il mondo esterno,
il tanfo dei legumi putrefatti e di liscivia, l’aspetto rilassato di
sua sorella e la faccia ironica del signor Higgingbotham non erano
altro che un sogno. Il mondo vero era quello del suo cervello, e le
storie che scriveva erano la sola realtà possibile. I giorni erano
brevi. Voleva studiare tante cose! Non dormì più di cinque ore, che
gli parvero anche troppe, così che cercò di lesinare una mezz’oretta,
ma fu costretto, con suo gran rammarico, a ritornare alle cinque ore.
Egli cessava di scrivere per studiare, con rimpianto, e con rimpianto
cessava di studiare per andare in biblioteca, o si strappava di là,
dalla sala di lettura piena di opere di quegli scrittori fortunati
ch’erano riusciti a collocare la loro merce. Era un crepacuore, quando,
in casa di Ruth, bisognava alzarsi e andar via, ed egli galoppava
lungo le tetre viuzze per ritrovare il più presto possibile i suoi
cari volumi. Il più duro per lui era quando doveva chiudere i libri
di fisica e d’algebra, ordinare taccuino e matita e chiudere gli occhi
per addormentarsi. Egli odiava l’idea che cessava di vivere, sia pure
per poco tempo, e si consolava soltanto al pensiero che avrebbe udito
la sveglia cinque ore dopo. In somma, perdeva soltanto cinque ore, poi
la suoneria lo avrebbe fatto balzare, togliendolo dall’incoscienza
e avrebbe avuto nuovamente davanti a sè un’ammirevole giornata di
diciotto ore. Con tutto ciò, passavano le settimane e il denaro anche,
e non c’erano introiti. Un mese dopo l’invio al _Compagno della
Gioventù_, il seguito delle avventure per bambini gli fu rimandato
con parole di rifiuto così cortesi e accorte, ch’egli non provò
risentimento verso l’editore. Ma non accadde lo stesso con l’editore
della _Rivista di San Francisco_. Dopo avere atteso due settimane,
Martin gli aveva scritto. Ricominciò otto giorni dopo. Alla fine del
mese, andò a San Francisco, dall’editore, ma senza poter parlar con
questo autorevole personaggio, a causa d’un cerbero d’una dozzina
d’anni, dai capelli color carota, che custodiva la porta. Al termine
della quinta settimana, il manoscritto gli fu restituito per mezzo
della posta, senza commenti, senza spiegazioni, senza nulla. Gli altri
articoli gli furono rimandati nello stesso modo. Egli allora li spedì
immediatamente ad altri giornali illustrati dell’est, questa volta, che
li rinviarono rapidamente, accompagnandoli sempre con frasi di rifiuto,
stampate. Anche le novelle gli furono respinte. Egli le rilesse
parecchie volte e gli parvero ben fatte, così che non potè capire
la ragione del rinvio, sino al giorno in cui lesse in un giornale
che i manoscritti dovevano essere sempre scritti a macchina. Ecco la
spiegazione di tutto! S’intendeva che gli editori erano troppo occupati
per perdere il tempo a decifrare degli scritti. Martin noleggiò subito
una macchina da scrivere e possò un giorno a imparare a servirsene.
Tutti i giorni copiava l’ultima composizione e ricopiava i manoscritti
a mano a mano che glieli rimandavano. Fu stupito il giorno in cui
cominciarono a ritornare anche i manoscritti dattilografati. Egli
strinse le mascelle, sporse un po’ il mento, aggressivamente, e mandò i
manoscritti ad altri editori.

Giunse allora a domandarsi se era in grado di giudicare le proprie
opere, e le lesse a Geltrude, che lo guardò con occhi lucidi di
orgoglio e dichiarò:

— Eppure, è bello sapere scrivere delle cose come queste!

— Sì, sì, — fece lui, con impazienza. — Ma la storia? Come ti pare?

— Magnifica, assolutamente magnifica. E interessante anche. N’ero tutta
sconvolta.

Egli osservò che lei non esprimeva il suo pensiero; la sua buona faccia
era perplessa, ed egli attese.

— Ma di’, Martin, — fece lei dopo una lunga esitazione, — come
finisce?... Questo giovanotto così _poseur_ l’ha conquistata
insomma?...

Egli le spiegò la fine, che, pure, egli credeva così chiara, e
artisticamente curata. Allora lei dichiarò:

— Questo volevo sapere! Perchè non l’hai raccontato così nella storia?

Dopo aver letto un certo numero delle sue elucubrazioni, egli fu almeno
certo d’una cosa: che a lei piaceva il lieto finale.

— Questa storia è assolutamente magnifica, — fece lei, raddrizzando,
con un sospiro di stanchezza, il suo corpo pesante, curvo sulla tavola
da strofinare i panni, asciugando col dorso della mano rossa la fronte
che le sudava. — Ma mi fa diventare triste. Ho voglia di piangere. Ci
sono cose tristi nella vita, vedi, e io preferisco le storie allegre
che mi fanno ridere. Se l’avesse sposato, è vero?... e... Questo non
ti fa dispiacere, Mart? — interrogò lei, preoccupata. — Io ho questa
idea perchè sono stanca, credo. Ma, pure, la tua storia è splendida lo
stesso, molto splendida. Dove vai a venderla?

— Quanto a questo, è un altro paio di maniche, — fece lui ridendo.

— Ma se la vendi, quanto pigli?

— Oh! cinquecento lire, per lo meno, dato il valore di queste cose.

— Dio! spero che la venderai!

— Sono guadagnate facilmente, eh! — e aggiunse con orgoglio: — L’ho
scritta in due giorni, guadagnando così duecentocinquanta lire al
giorno.

Egli moriva dalla voglia di leggere la sua letteratura a Ruth, ma non
osò. Decise d’aspettare che uno dei suoi racconti fosse pubblicato;
allora lei avrebbe capito la ragione della sua ostinazione a scrivere.
E, aspettando quel momento, seguitò a lavorare con accanimento. Mai
il suo spirito avventuroso s’era lanciato con tanta passione in ciò
ch’egli chiamava l’esplorazione del suo cervello.

Comperò libri di fisica e di chimica e, con l’aiuto dell’algebra,
s’immerse in problemi e dimostrazioni. La sua intensa potenza
d’immaginazione gli permetteva di comprendere le reazioni chimiche
senza vederne fare la prova, più facilmente della media degli
studenti che vanno al laboratorio. Martin proseguì da solo il cammino
attraverso pesanti testi di scienza, entusiasmato dalle spiegazioni
circa la natura delle cose, che trovava in essi. Prima accettava il
mondo qual era, senza cercare più lontano; egli ne comprendeva ora il
gioco e le correnti contrarie della forza e della materia. Soluzioni
spontanee sorsero nella sua mente, su tanti piccoli particolari del
suo mestiere di un tempo; le leggi della navigazione, secondo le
quali le navi seguono infallibilmente la loro via attraverso l’oceano
sconfinato, gli furono spiegate, come pure i misteri degli elementi;
ed egli si domandò se non avesse scritto, disgraziatamente, troppo
presto l’articolo sui venti alisei del nord-est. Comunque, comprese
che l’avrebbe fatto meglio, ora. Un pomeriggio, Arturo lo condusse
all’Università californiana, dove, trattenendo il respiro, e con un
rispetto quasi religioso, egli visitò i laboratori, fu presente a
delle prove e alla lezione di fisica d’un professore. Ma nulla gli
faceva trascurare lo scrivere. Un torrente di novelle scorse dalla sua
penna, ed egli si lanciò nei versi più facili, del genere di quelli
che vedeva nei giornali illustrati. Intanto, una tragedia in versi
liberi gli torturava il cervello; gli faceva perdere due settimane,
giacchè gli fu rimandata da una mezza dozzina di giornali, con una
celerità che lo sorprese. Poi scoprì Henley, il che gli fece scrivere
una serie di poemi marinari sul tipo delle «Impressioni d’ospedale»;
dei poemi semplici e romanzeschi, pieni di luce, di calore e d’azione,
ch’egli chiamò «Poemi del mare» e giudicò migliori di tutto quanto
aveva scritto precedentemente. Erano trenta, ed egli li terminò in un
mese, scrivendone uno al giorno, dopo aver finito il lavoro quotidiano,
che equivaleva a una settimana di lavoro d’uno scrittore comune. Il
lavoro non gli costava sforzo; per lui non era lavoro; egli non faceva
altro che dare semplicemente libero sfogo al tesoro di bellezza e
di meraviglia che, durante lunghi anni, le sue labbra suggellate non
avevano saputo esprimere.

I suoi «Poemi del mare» non furono fatti vedere a nessuno, neppure
agli editori, dei quali egli, d’altra parte, cominciava a diffidare.
Ma non era la diffidenza a impedirgli di sottoporre al loro giudizio i
«Poemi del Mare»: questi gli piacevano tanto, che sentiva il desiderio
di tenerli segreti, sino al giorno glorioso, lontano, purtroppo!,
in cui avrebbe osato farne partecipe la bellezza di Ruth. Li serbò
dunque per sè, rileggendoli ad alta voce, imparandoli a memoria. Egli
viveva intensamente le ore di veglia e le ore del sonno; anche queste,
giacchè la sua mente soggettiva, durante quelle cinque ore di tregua,
trasformava i pensieri e gli avvenimenti del giorno in grottesche
e fantastiche avventure. In realtà, egli non riposava mai; un
temperamento meno solido e un cervello meno equilibrato non avrebbero
resistito. Le visite del pomeriggio a Ruth erano rare, ora, giacchè
si approssimava il giugno e lei doveva sostenere gli esami di laurea
all’università. «Laureata in lettere». Sembrava che lei s’involasse a
lontananze tali, che non avrebbe potuto mai raggiungerla.

Essa gli concedeva un pomeriggio la settimana, ed egli, siccome andava
tardi, rimaneva di solito a pranzo; poi lei suonava della musica.
Egli segnava quel giorno con bianca pietra. L’ambiente della casa che
contrastava tanto con quella dove egli viveva, e la sola presenza
di Ruth, radicavano in lui, ogni volta più solidamente, la volontà
di salire in alto. Superiore al desiderio imperioso di creare della
bellezza era in lui il desiderio di conquistarla in una gran lotta.
Era un amante dell’amore, e la magnifica avventura della sua anima gli
sembrava più miracolosa di quella del cervello. La genesi del mondo era
per lui un miracolo minore della presenza di Ruth nel mondo. Per lui
nulla era così sorprendente, inaudito, come Ruth.

Intanto la distanza che li separava seguitava a opprimerlo. Come
superarla? Nel suo ambiente egli aveva avuto molti buoni successi
con le donne, senza affezionarsi mai particolarmente ad alcuna, ma
amava Ruth, e la considerava non solo come una creatura d’una classe
superiore, ma come un essere particolare, talmente singolare, che
ignorava il modo di poterla avvicinare. Pure, più si educava, e più le
si accostava, parlando lo stesso linguaggio, comunicando con le stesse
idee e con gli stessi godimenti intellettuali. Ma nulla di tutto ciò
riusciva a soddisfare la nostalgia del suo cuore. La sua immaginazione
d’innamorato l’aveva fatta diventare troppo ideale, perchè potesse
sognare d’accostarsi a lei altrimenti che con lo spirito. Il suo stesso
amore lo allontanava da lei e glielo rendeva inafferrabile; l’amore
stesso gli rifiutava la sola cosa ch’egli desiderasse.

E un bel giorno, bruscamente, fu lanciato un ponticello sull’abisso,
che, sebbene continuasse a esistere, divenne meno ampio. Avevano
mangiato delle ciliege nere e lucenti, dal succo color di vino nero.
Dopo, mentre lei leggeva un brano della «_Principessa_«, egli osservò
che le ciliege le avevano macchiate le labbra. In un momento, là
per là, la sua essenza divina svaporò. Lei era fatta d’argilla,
in sostanza, come lui, come tutti! Le sue labbra erano d’una carne
simile alla sua poichè il sangue delle ciliege le avevano macchiate
ugualmente. Lei era donna interamente, come tutte le donne! Questa
rivelazione lo sbalordì. Gli sembrò che il sole morisse nel cielo, che
pure le stelle si spegnessero.

Quindi egli si rese conto del significato di ciò, e il suo cuore si
mise a danzare, ed egli pensò a far la corte a quella donna, giacchè
era, non già un puro spirito, ma una semplice donna le cui labbra
potevano essere macchiate dalle ciliege. L’audacia di questo pensiero
lo fece tremare, ma l’anima sua cantava lietamente, e il buon senso,
trionfalmente, proclamava che egli aveva ragione. Ruth dovette sentire
un po’ questo cambiamento che s’operava in lui, giacchè interruppe
la lettura, lo guardò e sorrise. Gli occhi di Martin scivolarono dai
suoi occhi turchini alle labbra, e la vista del loro colore purpureo
e sanguinoso gli fece perdere la testa. Mancò poco che non aprisse
le braccia e le richiudesse su di lei, come faceva un tempo, al
tempo della sua vita sregolata! Essa si chinava su di lui e sembrava
attendere... Con uno sforzo di tutta la sua volontà egli si frenò.

— Lei non ha sentito neppure una parola! — fece lei, con voce
imbronciata. Poi diede in uno scroscio di risa, rapita dalla sua
confusione, e quand’egli la guardò negli occhi, vide che lei non aveva
indovinato nulla di quanto era accaduto in lui. Allora ebbe vergogna:
veramente il suo pensiero era andato troppo oltre. Tutte le donne
ch’egli aveva conosciuto si sarebbero accorte della cosa. Ed ecco la
diversità fra loro e Ruth: Ruth non aveva capito nulla.

Egli fu nuovamente desolato della sua grossolanità, religiosamente
commosso dall’innocenza squisita di Ruth, e si ritrovò all’altra sponda
dell’abisso. Il ponticello era stato rotto.

Però quell’incidente li accostò. Quand’egli si sentiva particolarmente
scoraggiato, il ricordo di quel minuto gli tornava alla mente, ed
egli lo gustava avidamente. Sì, l’abisso era meno profondo; egli aveva
compiuto quel giorno una cosa molto più difficile dell’addottoramento
in lettere e di tutti i dottorati del mondo. Essa era pura, divinamente
pura, è vero, ma... delle ciliege avevano macchiato le sue labbra. Lei
era soggetta alle leggi dell’universo, inesorabilmente, tale quale lui.
Bisognava che mangiasse per vivere, e quando si bagnava i piedi, si
buscava un raffreddore. Ma la questione non era lì. Se lei risentiva
gli stimoli della fame, della sete e del freddo, poteva ugualmente
risentire quelli dell’amore, dell’amore per un uomo. E perchè non
poteva essere lui quell’uomo?... «Questo dipende da me, — mormorò
Martin con fervore. — Io voglio essere quest’uomo. Sarò quest’uomo!»




CAPITOLO XII.


Una sera, di buon’ora, mentre Martin lottava con un sonetto nel quale
si sforzava invano d’esprimere le idee che gli vagavano nel cervello
come luminosi vapori, fu chiamato al telefono.

— È una voce di donna, di donna _chic_! — ghignò il signor
Higgingbotham.

Martin corse al telefono, in un angolo della camera, e quando udì la
voce di Ruth, fu invaso da una gioia infinita. Nella lotta col sonetto
aveva dimenticato la sua vita: così che il suono della voce amata gli
diede un colpo al cuore. Quale voce! delicatamente sfumata, come una
musica lontana, come _carillon_ d’argento, d’una purezza cristallina,
con qualche cosa di celeste che proveniva da un altro mondo. Fu tale
l’estasi, che udì a malapena ciò che lei diceva, ma non manifestò
punto il suo turbamento, sentendo gli occhi di furetto del signor
Higgingbotham fissi su di lui.

Ruth gli disse semplicemente che Norman, che doveva accompagnarla
ad una conferenza, quella sera, soffriva di mal di testa, e a lei
dispiaceva mancare, perchè aveva i biglietti. Se egli non aveva
impegni, era disposto od accompagnarla?

Se era disposto? Egli cercò di mitigare l’ardore della sua voce
felice. Che cosa inaudita! Egli l’aveva vista soltanto in casa, e
non aveva mai osato chiederle il permesso di accompagnarla in qualche
luogo. Di botto, pur seguitando a parlarle, egli decise di morire per
lei, e sogni d’eroici sacrificî gli attraversarono il cervello tutto
sconvolto. Egli l’amava tanto! tanto disperatamente! Il fatto che
lei si degnava di uscire con lui, — con lui, Martin Eden, — lo faceva
delirare dalla gioia, d’una tale gioia, che gli pareva di non poter
meritarla se non morendo per lei. Come tutti i veri amanti, solo con
questo mezzo desiderava esprimerle la sua sovrumana riconoscenza. Morir
per lei non significava aver ben vissuto e bene amato? Aveva ventun
anni e amava per la prima volta. Gli pareva di venir meno, e la mano
tremava attaccando il ricevitore.

— È un appuntamento in città, eh!.... — malignò il cognato. — Si sa che
significa! È roba che va a finire davanti al giudice penale!

Ma Martin, tutto assorto nel suo sogno stellato, non gli dava ascolto.
La volgarità dell’allusione non gli giunse neppure all’orecchio; egli
si sentiva pari agli dei, e non avrebbe provato altro che una profonda
pietà per quel macaco, se l’avesse visto; ma i suoi occhi lo sfiorarono
senza neppure osservarlo, e sognava ancora, lasciando la camera per
andare a vestirsi. Soltanto nell’annodar la cravatta, il suo orecchio
percepì l’eco d’un suono sgradito, come una specie di russo col quale
Bernardo Higgiagbotham aveva sottolineato e punteggiato la frase.

Quando la porta d’ingresso della casa di Ruth si richiuse alle loro
spalle, ed essi scesero le scale, egli cominciò coll’essere alquanto
turbato. Non tutto era roseo in quella passeggiata improvvisata; egli
non sapeva esattamente che fare. Nelle vie aveva osservato che certe
donne davano il braccio agli uomini che le accompagnavano. Sì...
ma qualche volta esse non lo davano; egli si domandò se si offriva
il braccio soltanto la sera, oppure se quell’uso era riservato agli
sposi ed ai genitori. Proprio quand’era per giungere a un marciapiede
si ricordò di Minnie. Minnie sputava sentenze sempre, in tutto. La
seconda volta che essi erano usciti insieme essa l’aveva ripreso perchè
camminava dal lato interno, partendo dalla regola che il cavaliere
deve sempre procedere tenendosi all’esterno. E Minnie non mancava mai
di camminargli sulle calcagna ogni qualvolta attraversavano una via,
per ricordargli di cambiar lato. Egli si domandò dove lei poteva aver
imparato quelle regole, e se erano corrette.

In fin dei conti non rischiava nulla a tentare, si disse, quando giunse
al marciapiede, e, precipitandosi dietro Ruth, prese il suo posto
all’esterno. Ma ecco sorgere un altro problema; bisognava offrirle
il braccio? Questo caso non gli era capitato mai, giacchè le ragazze
ch’egli frequentava, non ne avevano l’abitudine. Le prime volte
procedevano a fianco a fianco; poi le braccia cingevano la vita, e le
teste s’appoggiavano sulla spalla dell’amante, nelle vie oscure. Questa
volta il caso era diverso: lei non era di quelle, bisognava inventare
un’altra cosa.

Egli incurvò il braccio molto lievemente, senza ostentazione, come se
fosse solito comportarsi così camminando. E... che cosa straordinaria
avvenne! Lei gli pose la mano sotto il braccio. Quel contatto lo fece
rabbrividire deliziosamente, così ch’egli credette per un momento
d’aver lasciato la terra su una nuvola magica. Ma vi ricadde subito,
tormentato da nuove complicazioni. Bisognava attraversar la via; egli
si sarebbe trovato quindi dalla parte esterna. Doveva svincolare
il braccio o offrirle l’altro? E in questo caso, ricominciava la
stessa manovra ogni volta? Problema insolubile, di cui decise di
non preoccuparsi poi tanto, Però, quando gli capitava di trovarsi
all’interno, per nascondere il disagio, parlava frettolosamente e
calorosamente, fingendo d’essere talmente assorto nell’argomento, che
se avesse compiuta una scorrettezza, doveva essergli perdonata a causa
dell’entusiasmo.

Attraversando Broadway, un altro problema gli si presentò: alla luce
viva dell’elettricità, egli scorse ad un tratto Lizzie Connolly
e la sua amica motteggiatrice. Egli esitò un attimo solo, poi
salutò. No, non avrebbe rinnegato la gente della sua razza! E il suo
saluto fu rivolto a tutti. Essa rispose con un cenno del capo, non
coll’espressione soave e gentile di Ruth, ma con lo sguardo profondo
e insistente dei suoi begli occhi duri; poi il suo sguardo passò da
lui su Ruth, scrutandone il viso, la veste, la condizione. Ed egli
osservò che Ruth l’avvolgeva a sua volta in uno sguardo rapido, timido
e dolce, ma critico: uno sguardo che sfiorava l’eleganza a buon mercato
dell’operaia, il cappellino eccentrico molto in voga, a quel tempo, fra
le operaie.

— Che bella ragazza! — disse Ruth, poco dopo.

Martin l’avrebbe benedetta per quella parola.

— Io non ne so niente, è questione di gusto, evidentemente, ma lei non
mi colpisce tanto per la bellezza.

— Come! poche donne hanno lineamenti regolari come i suoi, e
così belli. Il suo profilo è d’una purezza di cammeo. E ha occhi
meravigliosi.

— Le pare? — fece Martin con indifferenza; giacchè per lui non
esisteva altra bellezza al mondo se non quella che procedeva al suo
braccio. — Bisognerebbe insegnarle a parlare. Sono sicuro che lei non
comprenderebbe la quarta parte di ciò che essa dice.

— Quale idea! lei è ostinato come Arturo quando vuole aver ragione.

— Lei dimentica come parlavo quando l’ho conosciuta. Dopo, ho imparato;
ma prima parlavo come quella ragazza. Ora posso farmi capire abbastanza
nella sua lingua per dirle che lei non conosce l’altro linguaggio. Sa,
d’altra parte, perchè quella giovane si mantiene così? Prima, io non
pensavo a tutto ciò, ma ora comincio a capire tutte queste cose.

— E perchè, dunque?

— Perchè da anni lavora lunghe ore, attorno alle macchine. Quando si
è giovani, il corpo è malleabile, e il lavoro lo deforma secondo la
natura del lavoro. Io sono in grado d’indovinare, al primo sguardo,
il mestiere della maggior parte degli operai che incontro per le
strade. Guardi me: perchè le mie spalle ondeggiano? A causa degli
anni trascorsi in mare. Se fossi stato cow-boy durante tutto questo
questo, non ondeggerei con le spalle, ma avrei le gambe arcuate. Lo
stesso accade di quella ragazza. Ha osservato il suo sguardo così duro?
Nessuno l’ha curata; essa è cresciuta come ha potuto, e una ragazza
che non ha che se stessa per difesa, non può avere uno sguardo dolce,
gentile, come... come il suo, per esempio.

— Credo che abbia ragione, — mormorò Ruth. — È triste. Graziosa com’è!

Egli vide che gli occhi di lei erano illuminati di pietà, poi ricordò
che l’amava e si meravigliò ancora della fortuna che gli permetteva
di averla così al fianco. Quella sera, quand’egli fu in camera sua,
egli fece questo soliloquio, guardandosi nello specchio, lungamente,
curiosamente: «Chi sei tu? Donde vieni? In realtà tu appartieni alle
ragazze come Lizzie Connolly, alla legione delle lavoratrici, a tutto
quanto è basso, volgare e brutto. Tu sei della stessa specie del
bestiame e degli schiavi che vivono nelle immondizie e nel puzzo,
nel lezzo degli avanzi dei legumi, come questi (queste patate sono
putrefatte! Senti!... che orrore!) Eppure, tu osi aprire un libro,
ascoltare della musica meravigliosa; tu impari ad apprezzare la bella
pittura, a parlare un inglese corretto, a pensare come nessuno pensa
nel tuo ambiente, ad allontanarti dal bestiame e da Lizzie Connolly;
tu osi amare un’adorabile donna che vive a centomila leghe lontano da
te, fra le stelle. Chi sei, e che cosa sei?» Mostrò i pugni alla sua
figura riflessa, sedette sulla sponda del letto e incominciò a sognare
cogli occhi spalancati. Poi aprì taccuino e algebra e si perse nelle
equazioni. Le ore passarono, le stelle impallidirono e l’alba grigia
che appariva alla finestra lo sorprese ancora a tavolino.




CAPITOLO XIII.


I responsabili della grande scoperta furono un pugno di socialisti
verbosi e di filosofi operai che tenevano circolo nel Parco di
City-Hall, nei pomeriggi caldi. Una o due volte al mese, percorrendo
il Parco per recarsi in biblioteca, Martin scendeva dalla bicicletta,
ascoltava le controversie e si staccava di lì con rimpianto, ogni
volta. Il tono della discussione era là molto meno elevato di quello
della tavola del signor Morse, e l’assemblea non era nè grave, nè
degna. Essi s’adiravano facilmente, s’insultavano; bestemmie ed
allusioni oscene condivano i loro alterchi. Una o due volte vennero
persino alle mani. Eppure (non sapeva perchè), qualcosa di vivo emanava
da quell’apparente confusione. La loro retorica stimolava molto più
il suo intelletto, che non il dogmatismo ponderato del signor Morse.
Quegli uomini che assassinavano l’inglese, che gesticolavano come pazzi
e combattevano gli uni le idee degli altri con una violenza primitiva,
gli sembravano più vivi che non il signor Morse e il suo fedele socio
signor Butler.

Parecchie volte Martin aveva sentito citare Herbert Spencer, in
quel parco. E, un pomeriggio, apparve un discepolo di Spencer — un
misero vagabondo, il cui pastrano sudicio, abbottonato sino al mento,
dissimulava l’assenza di camicia. La battaglia fu impegnata tra il fumo
di innumerevoli sigarette e di getti di saliva scura, e il vagabondo se
la cavò con onore, persino di fronte a un operaio socialista che lanciò
con un ghigno:

— Non c’è altro Dio che l’ignoto, e Herbert Spencer è il suo profeta.

Martin si domandò quale fosse l’argomento della discussione, ma
proseguì il cammino verso la biblioteca, animato da un nuovo interesse
per Herbert Spencer; e poichè il vagabondo aveva citato spesso i «Primi
Principî», egli prese questo volume.

Così fece la grande scoperta. Già una volta aveva tentato di accostarsi
al pensiero di Spencer, ma, avendo scelto i «Principî di Psicologia»,
come inizio, vi si era perso pietosamente, come con Blavatsky. Non
vi aveva capito nulla e l’aveva riportato. Ma quella notte, dopo la
fisica, l’algebra e i tentativi di poemi, si coricò e aprì «I Primi
Principî». All’alba leggeva ancora, e non scrisse nulla tutto il
giorno. Disteso sul letto, lesse: poi, stanco del letto, si distese per
terra e lesse, cambiando posizione di tanto in tanto. La notte seguente
dormì, e tutto il mattino scrisse; poi il libro lo attrasse nuovamente,
ed egli lesse il pomeriggio intero dimenticando tutto, persino che quel
giorno era uno di quelli che Ruth gli concedeva per visitarla. Riprese
coscienza del mondo esterno solo quando Bernardo Higgingbotham, aprendo
violentemente la porta, gli domandò se credeva davvero di trovarsi in
una trattoria.

Durante tutta la sua vita, Martin Eden era stato dominato dalla
curiosità. Voleva sapere, saper tutto, e questo desiderio appunto
lo spinse ad avventurarsi pel mondo. Ma Spencer gli insegnava, oggi,
ch’egli non sapeva nulla, e che non avrebbe saputo mai nulla, anche se
avesse seguitato a navigare, a errare eternamente. Egli aveva sfiorato
soltanto la superficie delle cose, aveva osservato soltanto fenomeni
singoli, accumulato fatti frammentarii, non aveva fatto altro che
generalizzare in modo superficialissimo, e tutto ciò senza metodo,
affidandosi al capriccio del caso e al suo capriccio. Egli aveva
studiato, comprendendo, la tecnica del volo degli uccelli, ma non aveva
mai cercato il modo come gli uccelli s’erano sviluppati come meccanismi
volanti. Non immaginava neppure che un processo di questo genere
esistesse; gli uccelli erano stati creati così, e questo gli bastava.

La stessa cosa era pel resto: i suoi maldestri tentativi filosofici
erano falliti per mancanza di preparazione; la metafisica medievale
di Kant non gli era servita a nulla, tranne che a dubitare dei proprî
mezzi intellettuali. Così, il suo tentativo di studiare l’origine della
specie s’era limitato a seguire uno studio aridamente scientifico di
Romanes. Egli non ci aveva capito nulla, tranne questo: che quella
teoria arida e polverosa apparteneva esclusivamente a un piccolo numero
di menti meschine, il cui vocabolario copioso era inintelligente. Ed
ecco che egli imparava, ora, che l’evoluzione della materia, anzichè
una teoria astratta, era un modo di sviluppo accettato da tutti i
dotti, salvo qualche diversità di metodo. Spencer gli semplificava
tutto ciò e presentava al suo sguardo attonito un universo così
perfettamente concretato, che gli pareva di vedere uno di quei
minuscoli modelli di navi che i marinai mettono entro bottiglie
trasparenti. Nulla era dovuto al caso: tutto obbediva a delle leggi.
L’uccello ubbidiva a una legge, volando; e la stessa legge aveva
formato il fango della terra, l’aveva fatto fermentare, gli aveva fatto
nascere le ali perchè diventasse uccello.

Martin, di cima in cima, saliva sempre. I misteri della creazione gli
si venivano svelando davanti agli occhi; egli era ebbro di curiosità
e d’intelligenza. La notte, durante il sonno, egli si moveva fra gli
dei, in colossali incubi; desto, viveva come un sonnambulo, con lo
sguardo smarrito, immerso nell’universo ch’egli scopriva. A tavola,
non udiva le conversazioni meschine e volgari. Nelle sue posate vedeva
splendere il sole e ne seguiva le trasformazioni sino alla loro origine
a centinaia di milioni di leghe; oppure studiava i riflessi dei muscoli
delle sue braccia che gli permettevano di tagliar la carne, li seguiva
sin nel cervello donde sorgeva la volontà muovendo quei riflessi.

Viveva nella ipnosi, senza udire il ritornello mormorato da Jim, senza
vedere gli sguardi inquieti di sua sorella, nè il gesto schernitore
di Bernardo Higgingbotham, che imitava un ipotetico ragno che abitava,
evidentemente, secondo lui, nel cervello di suo cognato.

Ciò che, in certo qual modo, impressionava più di tutto Martin, era la
correlazione fra tutte le scienze. Egli aveva sempre immaginato belle
cose, ma in caselle separate del suo cervello. Così egli ne sapeva
moltissimo sulla navigazione, e aveva anche una grande esperienza delle
donne; ma tra questi due argomenti non istabiliva alcun rapporto. Che
dal punto di vista scientifico potesse esservi un rapporto qualsiasi
tra una donna isterica e uno schooner che sfidava la tempesta, gli
sarebbe sembrato ridicolo, impossibile. Herbert Spencer gli dimostrò
che anzi è impossibile che non vi sia correlazione. Tutto è legato al
tutto, dalle miriadi di stelle nell’etere, sino alle miriadi di atomi,
che compongono un granello di sabbia sulla spiaggia. Questa nuova
concezione immerse Martin in uno stupore continuo. Egli formò una lista
di cose più eterogenee; amore, poesia, terremoto, fuoco, serpenti a
sonagli, arcobaleno, pietre preziose, orologi, tramonti, leone che
ruggisce, elettricità, cannibalismo, bellezza, assassino, puleggia e
tabacco; giubilante quando riusciva a imparentarle fra loro. Unificava
così l’universo e lo contemplava, oppure procedeva attraverso la sua
jungla, da pacifico viandante, osservando, annotando, familiarizzando
con tutto ciò che voleva conoscere ancora. E più imparava, più
ammirava la creazione, la vita, e la propria esistenza fra tutte quelle
meraviglie.

— Imbecille! — gridava alla sua immagine nello specchio. — Tu volevi
scrivere, tentavi di scrivere, e che cosa avevi in te? qualche nozione
infantile, qualche sentimento non maturo, molta bellezza mal digerita,
un’enorme ignoranza, un cuore pieno d’amore da scoppiarne, un’ambizione
grande come il tuo amore e la tua ignoranza. E volevi scrivere! ma
cominci oggi soltanto ad acquistare, in te, ciò che ti occorre per
questo! Volevi creare della bellezza! Volevi parlare della vita e
ignoravi tutto ciò che forma l’essenza stessa della vita! Volevi
parlare dell’uiverso e dei problemi dell’universo, quando l’universo
non era altro per te che un rebus cinese! Ma coraggio! Martin, ragazzo
mio! C’è speranza, questa volta, quantunque tu sia ancora alquanto
sciocco e molto ignorante. Un bel giorno, con un po’ di fortuna, saprai
press’a poco ciò che bisogna sapere. Quel giorno scriverai.

Egli fece partecipe Ruth di quella grande scoperta, affinchè anch’essa
ne gioisse; ma lei non manifestò alcun entusiasmo particolare; quelle
cose le erano evidentemente familiari a causa dei suoi studi personali.
Arturo e Norman credevano all’evoluzione e avevano letto Spencer, senza
averne ricevuto un’impressione molto profonda, a quanto pareva. E Will
Olney, il giovanotto dagli occhiali, ghignò in modo poco simpatico
al nome di Spencer e ripetè l’epigramma: «Non c’è altro Dio che
l’inconoscibile, e Herbert Spencer è il suo profeta».

Ma Martin gli perdonò il dileggio, giacchè s’era accorto che Olney non
era innamorato di Ruth. Dopo, diversi piccoli fatti, gli fecero capire,
con suo grande stupore, che non solo non ne era innamorato, ma che lei
gli era poco simpatica. Martin fu impotente a stabilire un nesso fra
questo e gli altri fenomeni della natura, e si limitò a compiangere il
giovanotto che non era capace di apprezzare giustamente la finezza di
Ruth e la sua bellezza.

Essi fecero, la domenica, parecchie gite in bicicletta, in campagna,
e Martin potè osservare liberamente come esistesse una specie di pace
armata fra Ruth e Olney, il quale se la intendeva molto bene con Norman
e lasciava Arturo e Martin occuparsi di Ruth; del che Martin gli fu
grato.

Furono belle domeniche per Martin, dapprima a causa di Ruth, poi dei
rapporti da pari a pari, che si creavano tra lui e i giovanotti di
quell’ambiente. Egli si sentiva intellettualmente loro pari, a dispetto
di tutti i loro anni d’istruzione e di disciplina cerebrale, e le sue
ore di conversazione con essi erano altrettante ore utili, durante le
quali egli si esercitava ad applicar le regole di quella grammatica che
aveva tanto studiata. Aveva abbandonato i libri di galateo, limitandosi
ad osservare da sè ciò che fosse conveniente fare. Tranne quando si
lasciava trascinare dall’ardore dei suoi entusiasmi, la vigilanza
ch’egli esercitava su di sè non si allentava mai; nessuno dei loro modi
gli sfuggiva, ed egli imparava da loro, senza tregua, nuovi esempi di
cortesia e di raffinatezza mondana.

Per un certo tempo rimase sorpreso di vedere che, in conclusione,
Spencer era poco letto.

— Herbert Spencer, — gli disse l’uomo dalla cattedra, — sì... un gran
cervello.

Ma gli sembrò che non sapesse nulla del contenuto di quel gran cervello.

Una sera, a pranzo al quale era invitato anche il signor Butler, Martin
attaccò il discorso su Spencer.

Il signor Morse condannò con una certa asprezza l’agnosticismo del
filosofo inglese, pur confermando di non aver letto «I Primi Principî».
Il signor Butler dichiarò che Spencer lo esasperava, che non ne aveva
letto mai un rigo, e che, ciononostante, non era diventato infelice.

Nella mente di Martin sorsero dei dubbî; egli avrebbe abbandonato
Spencer per essere d’accordo col parere di tutti, se la sua personalità
fosse stata meno temprata. Ma, nonostante ciò, le spiegazioni di
Spencer gli parevano convincenti, ed egli si disse che abbandonare
Spencer era lo stesso, per un navigante, che gettare a mare compasso
e cronometro. Martin continuò dunque ad approfondire i suoi studî
sull’evoluzione, sempre più convinto dalle testimonianze corroboranti
d’un migliaio di scrittori indipendenti. Più lavorava, e più gli si
apriva davanti il campo della scienza; finì addirittura col sentire
una specie di rimpianto malsano, pel fatto che i giorni erano di
ventiquattro ore soltanto. Data la brevità dei giorni, egli abbandonò
l’algebra e la geometria. Della trigonometria non s’era ancora
occupato. Poi tolse di mezzo la chimica e si limitò alla fisica.

— Non sono uno specialista, — diss’egli per scusarsi con Ruth. — E non
voglio tentare di diventarlo. Vi sono troppi specialisti, perchè un
uomo solo possa, in una vita sola, possedere profondamente una sola
briciola. Debbono bastarmi delle idee generali, in fatto di scienza.
Quando avrò bisogno di specialisti, ricorrerò ai loro libri.

— Ma non sarà come se possedesse l’argomento, — fece lei protestando.

— È inutile; noi ci gioviamo del lavoro degli specialisti, che son
fatti per questo. Sono degli specialisti, è vero? Ebbene! quando
avranno finito, lei sarà contenta della nettezza dei suoi caminetti,
senza preoccuparsi punto del modo come sono stati fatti!

— È una conclusione un po’ artificiosa!

Essa lo guardò con curiosità ed egli sentì un vago rimprovero nello
sguardo di lei, nel suo atteggiamento; ma era sicuro d’aver ragione.

— Tutte le grandi intelligenze generali, i più grandi pensatori, per
esempio, si fidano degli specialisti. Così faceva Herbert Spencer: egli
generalizzava sulle scoperte di migliaia di ricercatori. Volendo fare
tutto da sè, avrebbe dovuto vivere parecchie vite. Darwin, ugualmente,
si serviva di tutto ciò che gli avevano insegnato i botanici e gli
allevatori.

— Lei ha ragione, Martin, — disse Olney. — Lei sa che cosa vuole, e
Ruth non ne sa nulla; ignora che cosa voglia lei stessa.

— ... Oh! certamente! — continuò Olney, senz’attendere risposta. — Io
so che lei chiama ciò: cultura generale. Ma se lei vuole acquistare
una cultura generale, importa poco la natura dei suoi studî. Lei può
imparare il francese o il tedesco, e persino l’esperanto, e perciò
non sarà meno colto. Lei può studiare il latino o il greco, e non le
serviranno a nulla, ma, però, le daranno la cultura. Per esempio...
Ruth studia da due anni l’inglese antico, e sa che cosa ha imparato?
_When that sweet April with his showers soote._ Non è così? — Ed egli
seguitò ridendo, senza tener conto delle interruzioni di lei. — Ma la
cultura generale l’ha; lo so; frequentavamo la stessa classe!

— Lei parla di cultura come d’un mezzo per ottenere qualche cosa!
— esclamò Ruth; e aveva gli occhi scintillanti e le guance delicate
arrossite dalla collera. — La cultura dev’essere lo scopo.

— Ma Martin non ha bisogno di questo.

— Che ne sa lei?

— Di che cosa ha bisogno Martin? — domandò Olney, voltandosi
bruscamente verso di lui.

Martin, molto impacciato, lanciò uno sguardo d’aiuto a Ruth.

— Sì, di che cosa sente il bisogno? — domandò Ruth. — La risposta
risolverebbe la questione.

— Ma, s’intende, ho bisogno di cultura, — balbettò Martin. — A me piace
la bellezza, e la cultura me la farà valutar meglio.

Trionfante, lei fece un segno di consenso.

— Questo è privo di buon senso, e loro lo sanno, — fece Olney. — Martin
ha bisogno di una carriera, e non di cultura. Ma capita, in questo
caso, che la cultura sia indispensabile alla carriera. Se volesse
essere chimico, sarebbe inutile. Martin vuole scrivere, ma egli ha
paura di dirglielo perchè così verrebbe a dimostrare che lei ha torto.

E, continuando:

— Perchè Martin vuole scrivere?... perchè non nuota nell’oro. Perchè
lei si empie la testa di francese antico e di cultura generale? Perchè
lei non ha bisogno di guadagnarsi il pane. Suo padre ha pensato a
questo: egli le compera i vestiti e tutto il resto. A che diavolo
serve la nostra istruzione, la sua, la mia, quella di Arturo e di
Norman? Noi ci siamo abbeverati di cultura generale, e se i nostri
buoni genitori dovessero morire questa sera, saremmo ridotti a dar
lezioni per le case. Lei, Ruth, non potrebbe desiderar di meglio che un
posto d’istitutrice o di insegnante di pianoforte in un educandato di
giovinette.

— E lei che farebbe, scusi? — domandò lei.

— Niente di grande e di famoso. Guadagnerei cinque lire al giorno, di
giorno in giorno, e potrei forse entrare come professore nella scuola
dei laureati a macchina, a Hanley. Dico «forse», capisce! perchè
potrebbe darsi benissimo che fossi mandato via dopo otto giorni, per
semplice incapacità.

Martin seguiva il vivo della discussione e, pur essendo persuaso che
Olney avesse ragione, disapprovava il suo modo poco cavalleresco di
trattare Ruth. Una nuova concezione dell’amore si formava nel suo
cervello, ascoltandolo. La ragione non ha nulla a che fare coll’amore.
Poco importa che la donna amata ragioni più o meno giustamente:
l’amore è superiore alla ragione. Se accadeva a Ruth, per caso, di non
riconoscere chiaramente il suo bisogno assoluto di una professione,
non perciò lei era meno adorabile. Lei era adorabile, e le sue idee non
entravano per nulla nel suo fascino.

— Che? che ne dice lei? — Olney, parlandogli, gli aveva interrotto il
filo delle considerazioni.

— Dicevo: spero bene che lei non sia così sciocco da perdersi col
latino.

— Ma il latino è, più che la cultura, il fondamento di essa, — fece
Ruth.

— Ebbene, vi si dedicherà? — insistette Olney.

Martin ne fu annoiatissimo, giacchè vedeva che Ruth attendeva
ansiosamente la sua risposta.

— Temo di non averne il tempo, — rispose lui finalmente, — ma mi
piacerebbe.

— Ecco! Martin non cerca la cultura! — fece Olney esultante. — Egli
cerca di riuscire in qualche cosa, di fare qualche cosa!

— Ma è un allenamento mentale! che disciplina il cervello!

E Ruth guardò Martin, come se attendesse un mutamento d’idee. — I
giocatori di foot-ball hanno bisogno di allenarsi prima di sostenere i
grandi _matchs_. Così, il latino serve all’intelletto: lo allena.

— Idiozia e puerilità! così ci dicono quando siamo piccoli. Ma c’è
una cosa che ci si guarda bene dal dire e che ci si lascia la cura di
trovar da noi in seguito! — Olney si fermò per ottenere un migliore
effetto, e aggiunse: — Quello che non ci viene detto è questo: che
tutti debbono aver studiato il latino, ma che nessuno ha bisogno di
saperlo!

— Com’è in mala fede lei! — esclamò Ruth. — Sapevo bene che voleva
cavarsela così.

— È evidentemente molto abile, ma però anche molto giusto; le
sole persone che sappiano di latino sono i farmacisti, i notai e i
professori di latino. Ora, se Martin vuole essere uno di costoro, io
mi lascio impiccare. D’altra parte, che rapporto c’è fra tutto questo
ed Herbert Spencer? Martin ha scoperto Spencer e ne va matto. Perchè?
perchè Spencer lo conduce verso una mèta. Ora, Spencer non può condurre
a nessuna mèta, neppure lei. Non ci occorre. Lei, Ruth, si sposerà, e
io non dovrò far altro che sorvegliare i notai e gli uomini d’affari
che prenderanno cura del denaro che mio padre mi lascerà un giorno.

Olney si alzò per congedarsi, ma, sulla porta, si volse per lanciare la
freccia del Parto.

— Lasci dunque in pace Martin, Ruth! Egli sa ciò che meglio gli
conviene. Guardi ciò che ha già fatto! Qualche volta mi fa vergognare;
ormai, egli ne sa, sulla vita, sull’universo, sugli uomini e il resto,
più di Arturo, Norman, me e lei. Sì; lei, a dispetto di tutto il suo
francese, di tutto il suo latino, di tutto il suo inglese antico e
moderno e della sua cultura.

— Ma Ruth è la mia professoressa! — rispose cortesemente Martin. — È a
lei che debbo il poco che so.

— Ah! neh!... — E Olney lanciò uno sguardo malizioso a Ruth. — Immagino
che mi dirà, la prossima volta, che ha letto Spencer perchè glielo ha
raccomandato lei: soltanto, sarà falso! E lei non ne sa, su Darwin e
sull’evoluzione della materia, più che non sappia delle miniere di re
Salomone. Già, che cos’è questa definizione mirabolante di Spencer
circa non so che, che lei ha detto l’altro giorno? Quella faccenda
incoerente circa l’omogeneità? La lasci lì! e vedrà che lei non ci
capisce neppure una parola! giacchè questa non è cultura, capisce? Be’,
arrivederci! E se lei si perde nel latino, Martin, non avrò più alcuna
stima di lei!

Durante tutto questo tempo, sebbene interessato alla discussione,
Martin s’era annoiato un po’. Si parlava di studî e di lezioni, di
scienze rudimentali, con un tono di scolari, che stonava con le grandi
idee che ribollivano in lui, con l’abbraccio nel quale egli sognava di
contener la vita come in una stretta d’aquila, con i brividi di potenza
che lo scuotevano quasi dolorosamente; con la nascente coscienza del
suo valore. Egli sembrava a se stesso un poeta naufrago gettato su
una riva straniera, e che cercasse invano di cantare secondo il modo
barbaro degli abitanti di quel paese nuovo. Per lui, era la stessa
cosa; potentemente conscio delle bellezze universali, era costretto
a trascinarsi, a marcire tra chiacchiericci puerili, e discutere se
dovesse imparare o no il latino.

— Che diavolo ha che fare il latino con tutto questo? — fu la domanda
ch’egli rivolse allo specchio quella notte. — Vorrei proprio che i
morti rimanessero dove sono. Perchè dei morti dovrebbero dettarmi
leggi? La bellezza è viva ed eterna. E le lingue passano, come polvere
dei morti.




CAPITOLO XIV.


Non per dar retta a Olney, ma a dispetto di Ruth e persino del suo
amore per lei, egli decise finalmente di non imparare il latino.
C’erano tante altre cose, oltre il latino, tanti studî la cui
necessità era più imperiosa. E a lui bisognava scrivere, bisognava
guadagnar denaro. Non gli avevano accettato nulla ancora; due rotoli
di manoscritti facevano il giro delle riviste. Egli passava lunghe
ore nella sale di lettura, ripassando i libri altrui, criticandoli,
paragonandoli con i suoi lavori e cercando, cercando sempre il «trucco»
che aveva permesso a quegli scrittori di vendere la loro prosa. Come
facevano? L’enorme quantità di letteratura mummificata lo sorprendeva;
nessuna luce, nessun calore, nessuna vita l’animavano, eppure, si
vendeva, a due soldi la parola, a cento lire, mille! Gli annunzî dei
giornali lo dicevano. Egli era sorpreso del numero incalcolabile di
novelle leggermente e accortamente scritte, è vero, ma senza vitalità,
senza realtà. La vita era così strana, così meravigliosa, piena di
una tale immensità di problemi, di sogni e di tentativi eroici! Eppure
quelle storielle non trattavano d’altro che di banalità. Ma il peso,
la stretta della vita, con le sue febbri e le sue angosce e le sue
rivolte selvagge, bisognava trattare! Egli voleva cantare i cacciatori
di chimere, gli eterni amanti, i giganti che lottano tra dolore e
orrore, tra il terrore e il dramma, facendo scricchiolar la vita sotto
i loro sforzi disperati. Eppure, le novelle di quei giornali illustrati
sembravano compiacersi nel glorificare i Butler, tutti i sordidi
cacciatori di dollari e i volgari amorazzi della volgare piccola gente,
forse perchè gli editori stessi erano volgari? si domandò. O perchè la
vita faceva loro paura, paura a tutti, editori e lettori?

Era punto soprattutto dal fatto che non conosceva alcun editore,
alcuno scrittore, anzi, non conosceva nessuno che avesse tentato di
scrivere, che potesse consigliarlo, indicargli la via da seguire.
Finì col domandarsi se gli editori non fossero semplicemente le ruote
d’una macchina e non già degli esseri vivi. Ma sì, erano macchine
e nient’altro. Egli metteva tutta l’anima sua nei poemi, nelle sue
novelle o negli articoli che affidava a una macchina. Piegava i fogli,
li ficcava, con dei francobolli, in una grande busta, che suggellava,
affrancava e gettava tutto nella buca delle lettere. Dopo un giro sul
continente e un certo lasso di tempo, un fattorino gli riportava il
manoscritto in un’altra busta affrancata con gli stessi francobolli
mandati. Non c’era evidentemente alcun editore in carne ed ossa
dall’altra parte, ma un ingegnoso meccanismo che cambiava la busta al
manoscritto e l’affrancava tale quale quei distributori automatici
che, mediante due soldi, vi presentano, secondo la fessura dove li
avete introdotti, generalmente a caso, una tavoletta di cioccolatta o
una caramella di gomma. Il gettone di rifiuto integrava il paragone;
impresso a macchina. Ne aveva ricevuti a centinaia: se avesse ricevuto
almeno qualche rigo di risposta personale, il rifiuto gli sarebbe
dispiaciuto meno. Ma no, mai! Decisamente, non c’era alcuno dall’altra
parte, tranne il congegno bene oliato di una macchina meravigliosa.

Martin era un buon lottatore ostinato e coraggioso; egli avrebbe
continuato ad alimentare la macchina per anni ed anni, ma si
dissanguava completamente, e non era questione d’anni ma di settimane,
perchè si avverasse la fine del combattimento. Ogni otto giorni,
il conto della pensione e spesso l’affrancatura d’una quarantina di
manoscritti, lo avvicinavano alla rovina. Non comperava più libri e
faceva economia su tutto per ritardare la scadenza fatale; che però
anticipò di una settimana, dando a Marianna venticinque lire per
l’acquisto d’un vestito.

Senza consiglio, senza incoraggiamento, anzi profondamente scoraggiato,
egli lottava nella notte. La stessa Geltrude cominciava a guardarlo
di traverso. Dapprima, la sua tenerezza fraterna le aveva fatto
tollerare ciò che lei considerava come una stranezza di cervello; ora,
quel suo ticchio, la rendeva inquieta; le pareva che avesse un che di
folle. Martin lo sapeva e ne soffriva più che non soffrisse a causa
del disprezzo confesso e ostinato di Bernardo Higgingbotham. Eppure,
conservava la fede in se stesso; ma era il solo ad averla. Ruth non
ne aveva alcuna; essa augurava ch’egli continuasse gli studî e, senza
disapprovare apertamente i suoi scritti, non l’incoraggiava.

Egli non le aveva chiesto il permesso di farle vedere i suoi lavori,
per una discrezione eccessiva. D’altra parte, poichè lei lavorava molto
all’Università, gli ripugnava di farle perdere tempo. Ma, quando essa
ebbe sostenuti gli esami di diploma, con buon esito, fu lei stessa
a chiedergli di farle vedere qualche lavoro. Martin ebbe un accesso
di gioia e di ansia, insieme. Ecco finalmente un giudice! Essa era
laureata in lettere, aveva studiato la letteratura con dotti professori
e l’avrebbe trattato diversamente dagli editori. Forse questi erano
buoni critici, ma Ruth, se non altro, non gli avrebbe porto un rifiuto
stereotipato, se l’opera non le fosse piaciuta, pur riconoscendogli
magari un certo merito. Essa, infine, si sarebbe espressa in modo vivo
e gaio e, cosa più importante di tutte, avrebbe conosciuto il vero
Martin Eden. Avrebbe visto, lei, di che natura ne fossero il cuore e
l’anima, e sarebbe riuscita forse a capire qualche cosa, un tantino
tantino delle sue aspirazioni e della sua forza di volontà.

Martin scelse un certo numero delle sue novelle, poi, dopo un attimo
d’incertezza, aggiunse ad esse i «Poemi del Mare».

Un pomeriggio d’autunno, sul tardi, andarono a fare un giro in
bicicletta dalla parte delle colline. Era la seconda volta ch’egli
usciva solo con lei, e mentre essi pedalavano insieme, sventolati da
una brezza tiepida e salmastra, egli si disse che veramente il mondo
era bello e ordinato e che era un godimento vivere ed amare.

Scesero dalle loro macchine sui margini della strada, e s’arrampicarono
in cima a un poggetto dove l’erba bruciata dal sole aveva un odore
delizioso e riposante di messe matura.

— Il suo compito è finito, — disse Martin quando si furono collocati,
lei sul suo soprabito, lui disteso sulla terra tiepida, respirando
voluttuosamente l’odore soave dell’erba. — Non ha più ragion
d’essere, e quindi ha cessato d’esistere, — proseguì egli accarezzando
amichevolmente l’erba appassita. — Piena d’ambizione, essa è cresciuta
sotto le lunghe tempeste dell’ultimo inverno, ha lottato contro la
violenza della primavera, è fiorita d’estate seducendo api e altri
insetti, ha affidato al vento il suo seme, ha lottato con la vita e...

— Perchè analizzare sempre tutto in modo così terribile? — interruppe
lei.

— Perchè ho studiato l’evoluzione della materia, credo. Da poco tempo
ho degli occhi, insomma.

— Ma mi sembra che lei perda il senso della bellezza, in questo modo;
che la distrugga, come i bambini quando prendono le farfalle e ne
sciupano il velluto delle ali lucenti.

Egli scosse negativamente il capo.

— Sinchè ignoravo il significato della bellezza, che però s’imponeva
a me, senza che io ne capissi il come e il perchè. Ora comincio a
sapere. Quest’erba, ora che so perchè è erba, e come è diventata tale,
mi sembra più bella. E come! Ma è tutto un romanzo la storia del minimo
filo d’erba, e un romanzo d’avventure! La sola idea di ciò mi commuove.
Quando io rifletto a tutto questo dramma della forza e della materia,
e alla loro formidabile lotta, mi viene voglia di scrivere l’epopea del
filo d’erba!

— Come parla bene! — disse lei, con aria assente; ed egli osservò che
lei lo guardava con attenzione.

Era tale la confusione, ch’egli arrossì sino ai capelli.

— Spero di far progresso, — balbettò. — C’è tante cose in me che vorrei
dire! Ma non posso riuscirvi. Mi sembra a volte che l’universo intero
abiti in me e m’abbia scelto per cantarlo.

Sento — ah! non posso descriverglielo!... — sento la grandezza di tutto
ciò, e non posso far altro che balbettare come un neonato. È un compito
grandioso esprimere sentimenti e sensazioni con parole scritte o
parlate, che daranno a colui che ascolta o legge la stessa impressione
che n’ebbe il creatore. Guardi! io affondo la mia faccia nell’erba, e
l’odore che aspirano le mie narici evoca in me mille pensieri, mille
sogni. È il respiro dell’universo che ho respirato, la sua canzone e il
suo riso, il suo dolore, le sue lacrime, la sua lotta e la sua morte.
Mi piacerebbe dirle, dire a lei, all’umanità tutta quanta, le visioni
evocate in me da questo odor d’erba.... Ma come potrei? La mia lingua è
legata! Ho cercato di descriverle ciò che evocava in me questo profumo,
e non ho fatto altro che farfugliare pietosamente. Oh! — e fece un
gesto disperato, — è impossibile! impossibile!

— Ma lei parla benissimo, — insistè Ruth. — Guardi quanto progresso
ha fatto dacchè la conosco! Il signor Butler è un oratore notevole;
il Comitato di cui fa parte lo prega sempre di parlare nelle riunioni
pubbliche durante la lotta elettorale. Eppure, lei parla non meno
bene di lui; soltanto, lui ha più sangue freddo. Lei, lei si eccita
troppo; col tempo si modererà. Dio mio! sa che sarebbe un buon oratore?
Lei farebbe molta strada se volesse. Avrebbe dell’autorità di cui si
saprebbe servire per condurre gli uomini: lei può riuscire in tutto
ciò che vuole, se lo fa con passione come ha fatto lo studio della
grammatica. Perchè non diventare avvocato? o uomo politico? Chi
le impedisce di diventare un secondo signor Butler?... dispepsia a
parte!... — aggiunse lei sorridendo.

Chiacchierarono: lei come al solito, mite e testarda, ritornando
sempre all’idea dell’importanza di una solida base di studî e dei
vantaggi del latino come materia fondamentale di qualsiasi carriera.
Essa delineò l’uomo arrivato, un che di misto fra suo padre ed il
signor Butler, ed egli ascoltò appassionatamente, disteso sul dorso,
guardandola, godendosi il minimo movimento delle labbra di lei. Ma il
suo cervello era soltanto vagamente attento; nulla, nei campioni che
essa gli mostrava, l’attirava; ed egli risentiva nell’ascoltarla una
specie di delusione dolorosa; il suo amore ne era esasperato sino alla
sofferenza. In tutto ciò che lei diceva non entravano i suoi lavori; e
i manoscritti ch’egli aveva portati giacevano a terra, dimenticati.

Finalmente, durante una pausa, egli guardò il sole come per misurarne
l’altezza sull’orizzonte, e il gesto ch’egli fece raccogliendo i suoi
manoscritti richiamò il loro ricordo.

— Avevo dimenticato, — disse lei pronta. — E dire che sono tanto
impaziente di ascoltare!

Egli le lesse dapprima una novella che gli piaceva più di tutte le
altre; era intitolata «Il Vino della Vita», e l’ebbrezza che gli era
salita al cervello scrivendola, l’invase, nel rileggerla. La concezione
era originale; egli l’aveva adornata di frasi colorate e d’immagini
luminose. Trascinato dall’ardore della concezione originaria, egli
non s’accorgeva nè degli errori nè delle lacune. Ma lo stesso non
accadeva a Ruth; il suo orecchio esercitato rilevava le debolezze e
le esagerazioni, l’enfasi del novizio, la mancanza di ritmo, oppure
la forma troppo infiorettata. Insomma, era il lavoro d’un dilettante.
Ma lei, anzichè dirgli questo, si limitò, quand’egli ebbe finito la
lettura, a criticare alcuni difetti lievi, dichiarò che la storia le
piaceva.

Come ne rimase deluso! Le sue critiche erano giuste; ed egli lo
confessò a se stesso, pur dicendosi che egli non le leggeva il
lavoro al solo scopo di farselo correggere, come uno scolaretto. Che
importavano i particolari? Avrebbe imparato da sè a correggerli.

L’importante era questo: egli aveva tratto dalla vita una cosa grande
che aveva tentato di racchiudere in quel racconto; era riuscito o no
a fargliela vedere come i suoi occhi l’avevano vista? Il suo cervello
l’aveva compreso, il suo cuore l’aveva sentita?... Giudicò che non
era riuscito. Forse gli editori avevano ragione. Egli dissimulò il
suo cruccio, e fu talmente d’accordo con quelle critiche, che lei non
potè immaginare la profonda delusione che egli ne provava in fondo
all’anima.

— Questo l’ho intitolato «La Marmitta» — diss’egli spiegando un
altro manoscritto, — Quattro o cinque giornali illustrati l’hanno già
rifiutato, ma io credo però che non sia mal fatto. In realtà, non so
che cosa pensarne di preciso: mi sembra originale... Ma forse lei non
sarà dello stesso parere. È breve: di duemila parole soltanto.

— Che spaventevole cosa! — esclamò lei, quando fu terminata la lettura.
— È orribile oltre ogni dire!

Con una segreta soddisfazione, egli ne osservò il pallore, lo sguardo
teso e dilatato, le mani contratte. Egli era dunque riuscito a
comunicarle ciò che esso risentiva. Aveva fatto colpo. Che le fosse
piaciuto o no, era un’altra faccenda; certo, lei era rimasta colpita,
afflitta; questa volta non avrebbe badato a particolari.

— È la vita, — disse lui; — e la vita non sempre è bella. Eppure, sarà
perchè sono fatto in modo strano! Trovo qui dentro qualche cosa di
splendido. Mi sembra proprio che la...

— Ma perchè quella disgraziata donna non ha... — e s’interruppe
disorientata. — Poi riprese indignata: — Oh! quanto pervertimento!
quanta infamia! che brutture!... quanta villania!

Là per là, gli parve che il cuore cessasse di battere. «Villania»!:
egli non se l’aspettava; tutta la novella gli parve scritta in lettere
di fuoco, ed egli vi cercò invano qualche cosa che esprimesse bruttura.
Poi l’angoscia cessò; non ne aveva colpa. Intanto Ruth aveva ripreso:
— Perchè non scegliere un bell’argomento? Noi tutti sappiamo che nel
mondo vi sono delle cose brutte, ma questa non è una ragione...

Essa seguitava a sfogare la sua indignazione, ma egli non l’ascoltava
più; sorridendo in se stesso, egli le guardava il viso virgineo
d’una purezza così viva che gli pareva che penetrasse in lui, e lo
illuminasse d’un raggio fresco, soave, limpido come una luce stellare.
«Tutti sappiamo che vi sono delle cose brutte nel mondo». Egli immaginò
ciò che lei potesse, suppergiù, sapere, ed ebbe voglia di ridere, come
d’uno scherzo. Poi, ad un tratto, sospirò pensando all’immensità delle
cose «brutte» che aveva conosciute, studiate, e le perdonò di non
aver capito nulla di quel racconto. Non era colpa sua. E ringraziò Dio
d’averne così protetto il candore. Ma egli che conosceva la vita, nelle
sue brutture e nella sua bellezza, nella sua grandezza, a dispetto del
fango che la insudiciava, per Dio! l’avrebbe espressa qual era. I santi
del paradiso possono veder altro se non bellezza, purezza? Ma dei santi
in mezzo al fango, ecco il miracolo eterno! Ecco ciò che dà valore alla
vita! Veder la grandezza morale svincolarsi dal fango; intravvedere la
bellezza attraverso una cortina di fango; poi, a poco a poco, sorgente
dall’abisso d’incoscienza, di vizio, vederla salire, aumentar di forza,
verità, splendore.

Egli afferrò a volo una delle critiche di lei.

— Il diapason di tutto ciò è basso. E vi sono tante cose elevate! Per
esempio! «In memoriam».

Egli ebbe voglia di suggerirle «Locksley Hall», e l’avrebbe fatto se,
guardandola nuovamente, non l’avesse meravigliato questo fatto strano:
Ruth, la donna della sua razza, era uscita dal fermento originario;
era salita, larva informe, rampicante, lungo la scala infinita delle
incarnazioni successive, durante migliaia e migliaia di secoli, per
arrivare finalmente in cima e diventare quella Ruth tanto bella e pura,
quasi divina, la Ruth che gli aveva fatto conoscere l’amore e aveva
fatto aspirare alla purezza, alla divinità un uomo come lui, Martin
Eden, uscito anch’esso dagli abissi senza fondo della creazione. Ecco
una cosa romanzesca, fantastica, sovrannaturale! Ecco ciò che bisognava
scrivere, se avesse potuto trovare parole tanto belle!

I santi del paradiso?! Non erano altro che santi, in fondo, incapaci di
cavarsela! Ma lui era un uomo!

Egli udì che lei diceva:

— Lei ha della potenza; ma della potenza non regolata.

— Un toro in un negozio di porcellane! — suggerì lui. Un sorriso gli
rispose.

— E bisogna acquistar discernimento, gusto, finezza, senso di misura.

— Ho troppa audacia, — mormorò lui.

Ella approvò con un sorriso e si riadagiò in attesa d’un nuovo racconto.

— Io non so che penserà di questo, — diss’egli scusandosi. — È una
cosa bizzarra: temo d’aver sorpassato le mie forze, ma l’intenzione
era buona. Non si fermi sui particolari, ma cerchi di afferrarne il
sentimento, che ha della grandezza e della verità. Può darsi il caso,
disgraziatamente, che non sia riuscito a rappresentarli.

Egli lesse, spiando il volto di lei. Finalmente aveva raggiunto lo
scopo. Immobile, senza distogliere lo sguardo, respirando a stento,
egli la credette presa, incatenata dalla magìa della sua evocazione.
Quella storia si chiamava «Avventura» ed era l’apoteosi dell’avventura,
non già della banale avventura dei libri d’immagini, ma della vera
avventura infedele e capricciosa, — guida feroce, formidabile nelle
sue punizioni e formidabile nelle sue ricompense, — quella che esige
una terribile pazienza e la fatica che uccide, che offre un trionfo
soleggiato o la morte lugubre dopo la fame e i deliri angosciosi della
febbre tra sudore, sangue e putredine, quella che conduce, tra ignobili
confronti, alle cime magnifiche e al dominio del mondo.

Egli aveva messo tutto questo e di più, in quella storia, e credette
che lei la comprendesse. Con gli occhi dilatati, e un rossore che
le si diffondeva per le gote pallide, essa ascoltava un po’ ansante,
veramente appassionata. Ma non era la storia ad appassionarla: era lui.
Di quel racconto lei non pensava gran che, ma risentiva la volontà di
Martin, la sovrabbondanza della sua forza, come una festuca di paglia è
trascinata e travolta da un torrente. Quando proprio credeva di essere
trascinata da quel racconto, era in realtà trascinata da una cosa
totalmente diversa, da un’idea insensata, pericolosa, quale le appariva
a un tratto nella mente. S’era sorpresa nel pensiero del matrimonio;
e, cosa orribile, s’era compiaciuta di quell’idea, l’aveva accarezzata
ardentemente. Era indegno di lei. Sino ad allora, lei aveva vissuto
nel paese dei sogni poetici di Tennyson, inaccessibile persino alle sue
delicate allusioni alla materialità possibile nei rapporti fra regine e
cavalieri. Lei dormiva nel suo castello incantato, ed ecco che la vita
batteva imperiosamente alla porta. Esitante fra il timore e l’istinto
di donna essa era combattuta fra il desiderio di sprangare quella porta
e la voglia di spalancarla per far entrare il visitatore ignoto.

Martin attendeva il verdetto con una certa soddisfazione. Egli lo
conosceva già; pure, fu sorpreso quando la udì che diceva:

— È bello....

— È bellissimo. — ripetè lei con enfasi, dopo un silenzio.

Sì, era bello; ma lì dentro c’era più che la bellezza; c’era qualche
cosa di superiore e di più penetrante. Bocconi sull’erba, silenzioso,
egli sentiva salire davanti ai suoi occhi l’orribile visione di un
gran dubbio. Non era riuscito; non aveva saputo esprimere una cosa
ammirevole e sentita.

— Che ne pensa del... — Egli si fermò, esitante nell’uso d’una parola
nuova. — Del... motivo?

— È confuso, — rispose lei. — È questo il solo punto critico,
generalmente parlando. Io ho seguito la trama, ma, vede, il racconto
è troppo verboso. Lei soffoca l’azione introducendo particolari
superflui.

— Io parlo del motivo principale, — si affrettò ad aggiungere lui,
— del grande motivo cosmico ed universale. Ho cercato d’impedire che
sorpassasse il racconto stesso, che non è altro che un pretesto, ma,
senza dubbio non ho potuto trattarlo come si doveva. Non son riuscito
a suggerire ciò che volevo. Sarà per un’altra volta. — Lei non lo
seguiva; era laureata in lettere, ma egli l’aveva sorpassata; e lei non
l’immaginava neppure, attribuendo la sua incomprensione all’incoerenza
di Martin.

— Manca di concisione, — disse lei, — ma a tratti è molto bello.

La sua voce gli giunse vagamente, giacchè egli si stava domandando
se era il caso di leggere i «Poemi del Mare». Egli rimaneva là,
scoraggiato, mentre lei l’osservava, turbata dalle sue idee di
matrimonio.

— Lei vuol diventare celebre? — interrogò bruscamente.

— Sì, — confessò lui. — Questo fa parte dell’avventura. Ma non tanto
l’essere celebre, quanto il modo di riuscire importa. In fondo, per me,
la celebrità non è che un mezzo per giungere ad altro. Io desidero di
essere celebre, anche per... esserlo. — Stava per aggiungere «anche per
lei», e l’avrebbe fatto se lei avesse mostrato entusiasmo per le sue
opere.

Ma lei era troppo occupata a scegliergli una carriera possibile, perchè
le venisse in mente di domandargli la ragione del suo «anche».

La letteratura non era cosa per lui; n’era convinta. Egli l’aveva
provato poco prima, con la sua prosa dilettantesca, da collegiale.
Certo, egli parlava bene, ma non sapeva esprimersi letterariamente.
Essa lo paragonava a Tennyson, a Browning e ad altri prosatori
prediletti, e le apparve assolutamente inferiore. Pure, non gli disse
apertamente il suo pensiero, giacchè lo strano interesse ch’egli
suscitava in lei la induceva a temporeggiare. Il suo desiderio di
scrivere non era altro, in sostanza, che una piccola debolezza, che gli
sarebbe passata, col tempo. Egli si sarebbe dedicato allora a faccende
più serie, n’era sicura. Con quella forza di volontà, non poteva non
riuscire.... se però avesse cessato di scrivere.

— Vorrei che lei mi facesse vedere tutto ciò che scrive, signor Eden, —
disse lei.

Egli arrossì di piacere; sicuramente lei s’interessava a ciò che egli
faceva, perchè non solo non gli aveva dato delle ripulse stenografate,
ma aveva trovato belle certe parti dell’opera sua, dandogli così il
primo incoraggiamento.

— Lo farò. — disse lui ardentemente. — E le prometto, signorina Morse,
che giungerò al successo. Ho progredito, lo so, e ho ancora molta
strada da percorrere e la farò magari in ginocchio. — Egli le mostrò un
fascio di manoscritti. — Ecco i «Poemi del Mare». Quando lei tornerà a
casa, glieli lascerò, perchè possa leggerli con comodo. Soprattutto mi
dica la sua impressione. Io ho bisogno soprattutto di sentir la voce
della critica. La prego, sia sincera!

— Sarò assolutamente sincera. — promise lei, pensando, con una specie
di disagio, che non lo era stata quella sera e forse non lo sarebbe
neppure un’altra volta.




CAPITOLO XV.


— Ecco il primo combattimento tentato e perduto, — fece Martin allo
specchio dieci giorni dopo. — Ma ve ne sarà un secondo e un terzo, e
così di seguito, salvo che...

Interruppe la frase per dare uno sguardo alla sua povera cameretta: i
suoi occhi si posarono tristemente sulla pila di manoscritti rifiutati
che, nelle loro buste, ingombravano un angolo del pavimento.

Egli non poteva ormai comperare francobolli, per rispedirli, e da una
settimana, la pila cresceva sempre più. Il giorno dopo ne sarebbero
giunti altri e posdomani altri, sinchè non fossero tutti ritornati.
Era debitore d’un mese di nolo per la macchina da scrivere, e non
gli rimaneva altro che l’importo della settimana di pensione e quanto
bastava per pagare l’agenzia di collocamento.

Sedette e guardò pensoso la tavola; era macchiata d’inchiostro, e
quella vista lo intenerì.

— Cara vecchia tavola, — disse fra sè: — io ho passato con te ore
buone, così che, in conclusione, tu sei stata per me una vera amica. Tu
non hai mai recalcitrato. Tu non m’hai rifiutato mai il permesso della
copiatura, non ti sei mai lamentata del troppo lavoro....

E abbandonate le braccia sulla tavola, vi sprofondò il volto. La gola
contratta gli faceva male; e non poteva piangere. Questo gli fece
ricordare la prima battaglia, quando aveva sei anni; il suo avversario,
maggiore di due anni, l’aveva picchiato a sangue, sinchè non ne aveva
potuto più. Ma lui, pur piangendo tutte le lacrime dei suoi occhi,
seguitava a picchiare, picchiare, con tutta la collera dei suoi piccoli
pugni. Vide il cerchio dei ragazzi attorno a loro due, lanciar grida
selvagge quando egli cadde finalmente, quasi svenuto, sanguinante
dal naso, con gli occhi dai quali scorrevano le lacrime. — Povero
marmocchietto! — mormorò. — Oggi sei battuto come allora, fracassato,
finito, vinto.

Il ricordo di quella prima lotta dileguò, e altri ricordi apparvero,
quelli delle battaglie che avevano seguito quella. Sei mesi dopo,
«Testa di formaggio», — tale era il nome del ragazzetto — l’aveva
picchiato nuovamente. Ma, questa volta, gli aveva pestato un occhio; e
la storia era continuata così: egli, sempre battuto, Testa di formaggio
diabolicamente trionfante. Ma non era fuggito mai, e questo ricordo lo
riconfortò. Ogni volta aveva «incassato» coraggiosamente, a dispetto
della cattiveria implacabile di Testa di formaggio che, neppure una
volta, l’aveva risparmiato. Egli aveva accettato la sfida come ora.

Poi vide un vicoletto angusto fra case sfabbricate. Il vicoletto
era ostruito da un edificio di mattoni, a un piano, donde veniva il
fragore ritmico delle rotative che stampavano la seconda edizione de
_L’Inchiesta_. Aveva undici anni, allora; Testa di formaggio ne aveva
tredici, e tutt’e due vendevano _L’Inchiesta_, ed erano là in attesa
dei pacchi. Naturalmente, Testa di formaggio gli era piombato addosso,
ma il risultato della lotta fu incerto, giacchè, alle quattro meno un
quarto, vennero aperte le porte dello tipografia, e tutto il gregge dei
monelli si precipitò per piegare i giornali.

— Domani ti picchio! — promise Testa di formaggio; ed egli udì la
propria voce, acuta e tremante di lacrime represse, assicurare che si
sarebbe recato al convegno il giorno dopo.

E il giorno dopo, s’era sbrigato nell’uscire dalla scuola, per
anticipare di due minuti l’arrivo di Testa di formaggio. Gli altri
ragazzi l’incoraggiarono, l’oppressero di consigli, e mostrandogli i
suoi difetti di boxeur, promisero la vittoria se avesse seguito le
loro indicazioni. Però essi diedero gli stessi consigli a Testa di
formaggio. E come li colmò di gioia quella battaglia! Certo, oggi, egli
invidiava loro lo spettacolo indicibile offerto da lui e da Testa di
formaggio. La lotta continuò senza sosta, durante trenta minuti, sino
all’apertura della porta della tipografia.

Egli si rivide, quand’era ancora un piccolo scolaro, e lasciava
quotidianamente la classe per galoppare a _L’Inchiesta_. Indolenzito,
confuso da quelle lotte incessanti, egli non correva tanto svelto:
aveva le braccia tutte lividure per i colpi ricevuti, e qua e là
persino delle piaghe che marcivano: aveva il mal di capo, i lombi
addolorati e il cervello pesante, che gli mulinava per vertigine.

Non giocava nella ricreazione e non lavorava neanche; persino il
rimanere tranquillamente seduto sul banco era per lui una vera tortura.
Viveva in un incubo continuo di cui non intravedeva la fine. Perchè
non poteva a sua volta picchiare Testa di Formaggio? — si domandava
spesso; — così le sue miserie sarebbero terminate. Non gli veniva
neppure in mente il pensiero di starsene lì, a lasciarsi picchiare
una volta per sempre da Testa di Formaggio, senza reagire. E tutti i
giorni, egli si trascinava sino al vicoletto del giornale, con le reni
spezzate, disgustato ma sempre paziente, per affrontare il nemico che,
anch’egli malconcio, avrebbe certamente accettato la pace, senza tutta
la banda di monelli, in faccia ai quali conveniva ostentare un orgoglio
che talvolta gli dava fastidio. Un pomeriggio, dopo venti minuti di
lotta disperata in attesa di un _Knock-out_ definitivo, combattimento
condotto secondo norme severe che escludevano le pedate, i colpi
all’addome e sull’avversario atterrato, Testa di formaggio, ansante,
titubante, propose a Martin di ritenersi pari. E Martin d’oggi, col
capo nelle mani, ricordò con orgoglio il piccolo Martin d’allora,
che, vacillante, ansante, soffocato dal sangue che gli colava dal
labbro spaccato, e ch’egli inghiottiva, s’avanzò titubante su Testa di
formaggio, sputò un sorso di sangue, per poter parlare e gli gridò che
non potevano essere pari neppure se Testa di formaggio cedeva. Testa di
formaggio non cedette e la lotta continuò.

Il giorno dopo, l’altro, i giorni seguenti, la lotta quotidiana si
rinnovò. All’atto di mettersi in guardia, le braccia gli facevano male,
un male angoscioso, e i primi colpi dati e ricevuti gli strappavano le
viscere; poi, il dolore s’assopiva, ed egli picchiava come un sordo
scorgendo, come attraverso un nebbione, la larga faccia e gli occhi
fiammeggianti di Testa di formaggio. Egli non vedeva altro che quella
faccia; tutto il resto non era che vuoto turbinante. Non esisteva per
lui che quella faccia: non avrebbe conosciuto riposo, il divino riposo,
se non quando i suoi pugni sanguinanti non avessero fracassato quella
faccia, o quando i pugni sanguinanti dell’altro non avessero fracassato
la sua. Allora soltanto avrebbe riposato in tutti i modi. Ma abbandonar
la lotta, da parte sua, di lui, Martin? era impossibile.

Ed ecco che un bel giorno — Martin s’era trascinato sino al vicoletto
cieco — Testa di formaggio non comparve. I monelli lo complimentarono e
gli annunziarono che egli aveva vinto Testa di formaggio. Ma Martin non
era soddisfatto; egli non aveva vinto Testa di formaggio, come questi
non aveva vinto lui. La questione non era risolta: si seppe poi che il
padre di Testa di formaggio era morto improvvisamente, quel giorno.

Martin saltò alcuni anni e si vide una sera in piccionaia,
all’Auditorium. Ha 17 anni, e ritorna da un viaggio di mare. Scoppia
una rissa; Martin s’interpone e si trova a faccia a faccia con Testa di
formaggio, i cui occhi fiammeggiano.

— Ti accomodo io dopo lo spettacolo, — gli fischia l’antico nemico.
Martin fa cenno di sì; il verificatore della piccionaia si dirige alla
lor volta.

— Dopo il primo atto, fuori, — sussurra Martin. — Voglio seguire quello
che succede sulla scena.

Il verificatore li fulmina con lo sguardo e se ne va.

— Hai i tuoi secondi? — domanda Martin a Testa di formaggio,
nell’intervallo.

— Certamente!

— Allora vado a cercare i miei.

Durante gl’intermezzi egli aduna i secondi; tre individui conosciuti
alla fabbrica dei chiodi, un fuochista ferroviario, una mezza dozzina
di tipacci della banda dei «Boo-Gang», e qualcuno della terribile,
banda dei «Diciotto del Mercato».

Dopo il teatro, i due gruppi avanzarono senza dar nell’occhio, a
ciascun lato della via, poi si riunirono in un cantuccio tranquillo e
tennero consiglio.

— Il ponte dell’ottava via andrò benissimo, — dichiarò uno della cricca
di Testa di formaggio. — Si batteranno nel mezzo, in piena luce; e se
sopravviene uno sbirro, ci «squagliamo» da una parte e dall’altra.

— Sta bene! — fece Martin dopo aver consultato i capi della sua banda.
Il ponte dell’ottava via, che attraversa un braccio dell’estuario di
Sant’Antonio è lunghissimo. Alle due estremità e nel mezzo vi sono
delle lampade elettriche. È impossibile che una guardia si avvicini
senz’essere vista. Il posto è bene scelto, per la sfida di cui Martin
rivede ora lo svolgimento con gli occhi della mente. Egli vede le due
bande, silenziose, aggressive che si tengono alla distanza stabilita,
rigorosamente, e sostengono il rispettivo campione.

Testa di formaggio e lui si svestirono; furono poste delle sentinelle
non lontano, per sorvegliare le due estremità del ponte. Uno dei
«Boo-Gang» tiene la giacca, la camicia e il berretto di Martin, pronto
a portarle via, al galoppo, se la polizia dovesse intervenire.

Martin s’avanza al centro del «ring», di faccia a Testa di formaggio,
e, alzando la mano, lancia l’avvertimento finale:

— Niente riconciliazione in quest’affare! Capito? Uno dei due sarà
spacciato. — Testa di formaggio esita. — Martin lo vede, — ma davanti
alle due bande, si lascia trascinare dall’orgoglio d’un tempo.

— Fa’ pure! — risponde lui. — È inutile far tante chiacchere. Io sono
sicuro di buggerarti!

Allora, come giovani torelli, essi balzano l’uno addosso all’altro, a
pugni nudi, con tutta la loro violenza giovanile e tutto l’ardore del
loro odio, con tutto il desiderio di distruggere, di ammazzare. Che
sono diventate le migliaia d’anni di civiltà e di nobili aspirazioni?
Non rimane altro che la luce elettrica, per segnare il cammino percorso
dalla grande avventura umana: Martin e Testa di formaggio sono
ridiventati due selvaggi dell’età della pietra: sono ridiscesi nel
più profondo degli abissi fangosi, nel fango primordiale, e lottano
ciecamente, istintivamente, come tutta la polvere delle stelle, come
lotteranno gli atomi dell’universo, eternamente.

— Dio! noi non eravamo che animali, tetri bruti! — mormora Martin che
segue sempre, come in un caleidoscopio, le peripezie della battaglia
d’un tempo. Spettatore e attore insieme, l’essere raffinato ch’egli
è diventato, rabbrividisce dal disgusto, a questo spettacolo; poi il
presente si cancella, i fantasmi del tempo passato lo possiedono: non
c’è altro che Martin Eden, a diciassette anni, che lotta con Testa
di formaggio sul ponte dell’ottava via. Egli soffre, picchia, suda,
sanguina, ed esulta quando i suoi pugni colpiscono al segno. Simili
a due turbini d’odio, essi si colluttano furiosamente. Il tempo
passa, e le due bande tacciono stranamente; non hanno mai sentito
tanta intensità di ferocia, e sono colpiti, perciò, da una specie di
rispetto. Quei due bruti lì, sono superiori.

Il primo impeto di giovinezza e le forze eccellenti si sono logorate;
essi lottano, ora, più prudentemente, con maggiore calcolo. Sino a
questo punto, la lotta dà risultati pari. «È una lotta qualunque»,
sente dire Martin. In quel momento, una finta col destro e col sinistro
riceve una risposta feroce, e la guancia gli s’apre fino all’osso.
Effetto d’un colpo di pugno nudo!

Mormorii spaventati si fanno udire; egli è pieno di sangue, ma non dice
nulla. Sente un peso al cuore, perchè s’accorge dell’astuzia bassa,
della sorniona vigliaccheria dei suoi pari. Aspetta, spia, finge un
assalto fulminante e si ferma a mezzo: ha visto luccicare un bagliore
di metallo.

— In alto le mani! Che cos’hai in mano?

Le due bande si precipitano, brontolando e ringhiando. In un secondo
avviene una mischia generale, ed egli teme d’essere privato della sua
vendetta; è fuori di sè.

— Indietro, voialtri! — ruggisce, con la voce rauca. — Capito?
indietro, per Dio!

Essi indietreggiano: sono bruti, ma egli è superbruto: un essere
terribile che li domina con tutta la sua potenza.

— È una faccenda che riguarda me, e io vi proibisco di mettervi di
mezzo!... Tu, dammi l’oggetto.

Testa di formaggio, raffreddatosi, e vagamente preoccupato, stende
l’arma traditrice.

— Oè, Testa Rossa, l’hai passata tu poco fa! — continua Martin,
lanciando gli anelli d’acciaio nell’acqua. — Io ti ho visto scivolargli
dietro e mi domandavo che cosa tu facessi là. Se ricominci un colpo del
genere, ti picchio a morte. Capito?

Ripresero la lotta con la schiena rotta, mezzo morti, sino al
momento in cui quel pubblico di bruti, saturo di sangue, non li
prega imparzialmente di cessare. E Testa di formaggio, sul punto
di morire per terra o in piedi, — un Testa di formaggio mostruoso,
irriconoscibile, — esita, ma Martin balza e picchia, picchia sempre.
Passano alcuni minuti che parvero un secolo, durante i quali Testa
di formaggio viene meno, a quanto pare. A un tratto, in un corpo a
corpo, uno scricchiolio si fa udire, e il braccio destro di Martin
ricade, floscio, al fianco. Tutti comprendono, e Testa di formaggio,
balzando come una tigre, precipita colpi su colpi. I secondi di Martin
vogliono interporsi, ma Martin, abbrutito da quella valanga terribile,
li respinge insultandoli e singhiozza ad alta voce la sua impotenza
disperata.

Con la sinistra soltanto, ora egli colpisce, semi-incosciente, e ode,
come se provenissero chissà da quale lontananza, dei mormorii di orrore
e una voce tremante che dice: «Ormai non è più una lotta, ragazzi...
È un assassinio, e dovremmo far cessare questo.» Ma lasciano fare, ed
egli ne è contento: colpisce in modo monotono e continuo, con l’unico
braccio sulla cosa sanguinante che è in faccia a lui: non più un volto
umano, ma un orrore senza nome, vacillante, oscillante davanti agli
occhi che lappolano, e che non vuole sparire. E picchia sempre, sempre
più debolmente, con quel po’ di vitalità che gli resta, e gli sembra
che passino secoli e che ciò non finirà mai, quando ad un tratto si
rende vagamente conto che l’orrore senza nome, dolcemente, cade sul
parapetto del ponte... Poco dopo, vacillando sulle gambe tremanti, egli
si china sulla cosa caduta e dice con una voce che non riconosce:

— Ne vuoi ancora?... di’?... Ne vuoi ancora?...

Ripete a più non posso queste parole, lo scongiura, minaccia perchè gli
risponda se «ne vuole ancora», sino al momento in cui i compagni gli
battono amichevolmente sulla schiena e si sforzano di fargli indossare
il soprabito...

Poi un ondata di oscurità, e l’oblìo lo sommerge.

Come allora, Martin Eden, col volto fra le mani, non ode più nulla: ha
vissuto con tanta intensità l’orribile scena d’un tempo, che è venuto
meno, come allora.

Un lungo minuto: tutto in lui è oblìo, oscurità... Poi, come un uomo
che si svegli fra i morti, balza in piedi con occhi scintillanti, il
viso madido di sudore, gridando:

— Te le ho suonate. Testa di formaggio! Ho perduto undici anni di vita,
ma te le ho suonate!

Le ginocchia gli venivano meno, ed egli ricadde sul letto. Ancora mal
desto, si guardò attorno, perplesso, domandandosi ove fosse. Finalmente
il suo occhio incontrò la pila dei manoscritti ammucchiati in un canto.
Allora egli riprese piede nel presente, si ricordò dei libri letti e
delle ricchezze infinite che vi aveva attinte, dei suoi sogni, delle
sue ambizioni. Ricordò il suo amore per un pallido fiore di serra,
sensitivo, irreale, che sarebbe morto d’orrore se fosse stato presente,
sia pure per un attimo, alla scena da lui rivissuta, se fosse vissuto
solo un attimo tra il fango ond’egli era invaso.

S’alzò e andò allo specchio.

— E così, sei uscito dal fango, Martin Eden, — diss’egli solennemente:
— tu hai immerso i tuoi occhi in un divino chiarore e, innalzandoti
sino alle stelle, hai ucciso «il serpente e la tigre», per conquistare
il più gran tesoro che vi sia.

Poi si guardò più attentamente e si mise a ridere.

— Un po’ d’isterismo e un bel po’ di melodramma, eh? — diss’egli con
tono ironico. — Ma non importa: tu hai conciato per le feste Testa di
formaggio, e concerai per bene gli editori, dovessi aspettare undici
anni. Tu non puoi fermarti così: bisogna continuare. È una lotta senza
quartiere, sai?




CAPITOLO XVI.


Suonò la sveglia, strappando Martin dal sonno, con una brutalità
capace di far venire un’emicrania a un altro uomo robusto. Sebbene
profondamente addormentato, egli si svegliò di botto, come i gatti,
tutto contento del fatto che le sue cinque ore d’incoscienza erano
trascorse. Già prima che la pendola avesse terminato il suo trillo,
eccolo che col capo immerso nel catino, si sciacquava, sotto il morso
dell’acqua gelida.

Ma quel giorno egli non seguì il solito programma. Nessuna storia
incompiuta l’attendeva; nessun poema nuovo richiedeva un definitivo
ritocco: i suoi studi gli avevano fatto far tardi, e l’ora della
colazione era prossima. Egli tentò di leggere un capitolo di Fiske,
ma sentendosi il cervello snervato, chiuse il libro. Quel giorno
cominciava una nuova lotta, e per un periodo di tempo bisognava
metter da parte la letteratura. La tristezza ch’egli ne provò fu
simile a quella di chi abbandoni la famiglia e il focolare. Ecco!
Egli abbandonava quei suoi miseri disonorati figliuoli che nessuno
voleva. S’accostò ad essi e incominciò a sfogliarli, rileggendo qua e
là brani prediletti; rilesse anche «La Marmitta», ad alta voce, come
«L’Avventura», «Gioia», il suo ultimo nato del giorno prima, ch’egli
aveva gettato in un cantuccio, per la stizza di non aver francobolli,
gli piacque più che mai.

— Non capisco, — mormorò, — o meglio: sono gli editori che non
capiscono... C’è qualche cosa di bizzarro qua dentro. E intanto gli
scritti ch’essi pubblicano diventano peggiori, di mese in mese! Quasi
tutto è cattivo...

Dopo la colazione, mise la macchina da scrivere nella custodia e la
portò ad Oakland.

— Io vi sono debitore di un mese, — diss’egli all’impiegato. — Ma
direte al padrone che vado a lavorare; che di qui a un mese circa sarò
tornato e rifornito.

Egli prese il battello per San Francisco e corse all’agenzia di
collocamento.

— Un lavoro qualsiasi, purchè non si tratti di commercio, — disse egli
all’agente. Fu subito interrotto da un nuovo venuto, vestito con la
ricercatezza vistosa di certi operai portati, d’istinto, all’eleganza.
L’agente scosse negativamente il capo.

— Niente che possa andar bene, eh? — fece l’altro. — Non c’è che dire,
bisogna che trovi qualcuno, oggi.

Voltatosi, egli vide Martin, e Martin a sua volta, lo guardò.
L’individuo, delicato e bello, aveva un volto pallido, gonfio; si
sentiva che aveva digerito una sbornia di quelle solenni!

— Lei cerca impiego? — interruppe egli. — Che cosa sa fare?

— I lavori più faticosi; posso anche navigare, scrivere a macchina,
andare a cavallo; posso fare qualunque cosa e applicarmi a tutto. — fu
la risposta.

L’altro scosse il capo.

— Potrebbe andare! Io mi chiamo Dawson, Joe Dawson, e cerco un
lavandaio.

— È troppo difficile per me. — Martin, divertito, s’immaginava in atto
di ripassare la biancheria da donna. Ma siccome l’altro gli piaceva,
aggiunse:

— Veramente, saprei fare il bucato di grosso. Ho imparato sul mare. —
Joe Dawson riflettè un momento:

— Aspetti un po’! Vediamo se c’è modo di combinare. Lei mi ascolta? —
Martin fece segno di sì.

— È una piccola lavanderia, in campagna, alle Acque Termali di Shelley
— l’Hôtel, lo conosce? Due uomini pel lavoro, uno capo e l’altro
dipendente. Il capo sono io. Lei non lavora per me, ma ai miei ordini.
Le va?

Martin tacque; quel miraggio lo tentava; qualche mese di
quell’occupazione, e del tempo per studiare... Avrebbe potuto lavorare
molto, studiar molto.

— Vitto buono e una camera separata per lei.

Una camera a sua disposizione, dove avrebbe potuto tenere il lume
acceso fino a mezzanotte! L’affare fu deciso.

— Ma un lavoro d’inferno! — aggiunse l’altro.

Martin accarezzò i suoi bicipiti rigonfi, con gesto significativo.

— Allora, senta. — Joe si portò la mano al capo. — Ho la testa che
mi schiaccia. Ci vedo a malapena. Ieri sera «ne ho presa una», una di
quelle...

Ecco di che si tratta: per due, lo stipendio è di 500 lire, vitto
e alloggio. Io ne prendo 300, il mio aiuto 200. Ma lei è novizio;
bisognerò che le insegni, e, a principio specialmente, mi toccherà
lavorare più di lei. Supponiamo che lei cominci con 150 lire? In
parola! appena lei si sarà impratichito, avrà 200 lire.

— Va bene! — rispose Martin porgendogli la mano, che l’altro strinse. —
Nessun anticipo pel biglietto ferroviario e le prime spese?

— L’ho bevuto! — disse tristemente Joe, con un gesto espressivo. — Non
mi resta altro che il biglietto di ritorno.

— Ed io avrò le tasche pulite quando avrò pagato la pensione.

— Non la paghi!

— Impossibile: la debbo a mia sorella.

Joe, perplesso, emise un lungo sibilo e parve scavarsi il cervello.

— Ho ancora tanto, da bere in due, — disse finalmente. — Venga: forse
troveremo un’idea.

Martin rifiutò.

— Bevitore d’acqua fresca?

Martin fece segno di sì, e Joe gemette:

— Vorrei esserlo anch’io! Ma, incredibile: non posso! — fece egli
con aria disperata. — Dopo aver lavorato come un dannato tutta la
settimana, bisogna che prenda una sbornia. Se non la pigliassi mi
taglierei la gola o darei fuoco alla baracca. Ma son contento che lei
beva acqua. Continui.

Martin, nonostante l’enorme distanza che lo separava da quell’uomo,
abisso che i libri avevano scavato, non provava alcuna difficoltà a
mettersi al suo livello. Durante la sua vita era stato in compagnia di
operai, e il cameratismo che nasce dal lavoro era in lui una seconda
natura. Egli risolse il problema del viaggio, troppo arduo, data
la siccità dell’altro, in questo modo: col biglietto di Joe avrebbe
spedito il suo baule alle Acque Termali di Shelley, e sarebbe andato
in bicicletta. Il luogo era distante 75 chilometri circa; partendo la
domenica, sarebbe al lavoro lunedì, di mattina. Intanto sarebbe andato
a casa a ordinare la sua roba. Non c’era gente da salutare: Ruth e la
sua famiglia passavano l’estate sulla Sierra, sul lago di Tahoe.

La domenica, a sera, arrivò alle Acque Termali di Shelley, stanco e
polveroso, e fu accolto a braccia aperte da Joe, che, con un tovagliolo
bagnato, attorno alla sua testa malata, usciva dal lavoro.

— La biancheria dell’ultima settimana s’è ammonticchiata, mentre venivo
a cercarvi, e ho del lavoro arretrato, — spiegò lui. — Il vostro baule
è arrivato senza incidenti; è in camera vostra. Ma è una bella idea
quella di chiamarlo un baule! che c’è dentro?... delle sbarre d’oro?...

Egli sedette sul letto, mentre Martin sballava. Il baule non era altro
che una vecchia cassa da imballar generi alimentari, che il signor
Higgingbotham gli aveva ceduto mediante il corrispettivo di Lire 2,50.
Due impugnature di corda, fissate da Martin, l’avevano trasformata in
una specie di valigia. Joe con occhi spalancati, ne vide trarre fuori
alcune camice, qualche arnese da toeletta, poi libri e libri.

— Ce n’è ancora sino in fondo? — interrogò egli. Martin fece cenno di
sì, e seguitò a disporre i libri sulla tavola della cucina, che serviva
da lavandino.

— Sst, allora! — esclamò Joe, poi riflettè lungamente, e infine
dichiarò:

— Dite un po’, voi non dovete curarvi molto delle donne, no?...

— No, — rispose Martin. — Prima di dedicarmi alla lettura, le coltivavo
mica male; ma dopo, mi è mancato il tempo.

— E vi mancherà anche qui. Qui non c’è da far altro che lavorare e
dormire.

Martin pensò alle sue cinque ore di sonno per notte e sorrise. La sua
camera era sopra la lavanderia, nello stesso fabbricato dov’era la
macchina che pompava l’acqua, produceva l’elettricità e faceva andare
il lavoro pel bucato.

Il meccanico che abitava nella camera vicina, venne a far la conoscenza
del nuovo impiegato, e aiutò Martin a collocare una lampadina elettrica
all’estremità d’un filo abbastanza lungo per poterla trasportare dalla
tavola al letto.

Il mattino dopo, Martin fu strappato dal letto alle sei meno un quarto,
e fece stupire Joe, prendendo una doccia fredda.

— Sei un uomo straordinario! — dichiarò egli, quando furono seduti
per la colazione in un cantuccio della tavola di cucina dell’_hôtel_.
C’erano anche il meccanico, il giardiniere, l’aiutante e due o tre
palafrenieri. Essi mangiarono alla svelta, con aria arcigna, in
silenzio, e Martin ascoltandoli, potè vedere quanto egli fosse lontano
da loro. La loro bassa mentalità lo depresse, cosicchè, quand’ebbe
terminata la poco appetitosa colazione, s’alzò, sospirò con un senso di
liberazione, chiudendosi alle spalle la porta della cucina.

La piccola lavanderia era perfettamente organizzata; le macchine più
moderne vi facevano tutto ciò che è possibile, per delle macchine.
Martin dopo alcune indicazioni, fece la cernita dei grossi mucchi di
biancheria sporca, mentre Joe avviava la macchina e preparava nuove
provviste di sapone molle, la cui mordente composizione l’obbligava a
salvaguardarsi il naso, la bocca e gli occhi, con un tovagliolo, così
che rassomigliava a una mummia. Finita la cernita, Martin lo aiutò a
torcere la biancheria, immergendola in una rotativa che, con qualche
migliaio di giri al minuto, ne spremeva l’acqua. Poi Martin alternò
la sua opera tra lo stenditoio e la torcitrice, scuotendo di tanto in
tanto, sottane e calzette. Alla fine del pomeriggio, Joe stendendole e
Martin sovrapponendole, assestarono sottane e calze sotto il cilindro,
mentre i ferri si riscaldavano. Poi venne la stiratura dei capi più
grossi, sino alle sei. Allora Joe scosse il capo, con aria di dubbio.

— In ritardo, — disse. — Bisognerà lavorare dopo pranzo.

E così, dopo pranzo, lavorarono fino alle dieci, sotto l’accecante luce
elettrica, e stirarono tutte le camìce, sino all’ultima; poi piegarono
il tutto in un’altra camera. Era una calda notte californiana, e,
sebbene le finestre fossero aperte, la camera, col suo fornello da
stiro riscaldato al calor bianco, sembrava una vera fornace.

— Rassomiglia allo stivaggio d’un carico, sotto il sole tropicale, —
fece Martin, quando risalirono in camera.

— Farai un affare, — rispose Joe. — Tu ti applichi con bravura.
Se continui, avrai 200 lire, dal prossimo mese. Ma non venirmi a
raccontare che non hai stirato mai: non sono un idiota.

— Parola! non ho mai stirato neppure un fazzoletto, — assicurò Martin.
Fu sorpreso di sentirsi tanto stanco entrando in camera sua, avendo
dimenticato che era in piedi da 14 ore, lavorando senza sosta. Egli
mise la sveglia sulle sei, e calcolò che, tolte cinque ore di sonno,
avrebbe potuto leggere sino all’una. Si tolse le scarpe per lasciar
liberi i piedi gonfi, sedette a tavolino davanti ai libri, aprì Fiske,
che aveva cominciato due giorni prima, e incominciò la lettura. Ma
dalle prime parole, stentò a concentrar l’attenzione e si accinse a
rileggerle. Poi... si svegliò, rattrappito dal vento della montagna che
penetrava dalla finestra. Guardò la pendola: segnava le due di notte.
Aveva dormito quattro ore! Si svestì in fretta, si ficcò nel letto e si
addormentò.

Anche il martedì, lavorarono senza tregua. La sveltezza con la quale
Martin compiva il lavoro destava l’ammirazione di Joe. Questi era un
vero demonio nel lavoro; non avendo altro che quello pel capo, non
perdeva neppure un minuto, cercando senza posa il modo di guadagnar
tempo; mostrava a Martin come si poteva eseguire in tre movimenti
ciò che l’altro faceva in cinque, e in due ciò che l’altro faceva in
tre. Processo d’eliminazione, diceva Martin imitandolo. Egli stesso,
era però un buon lavoratore, accorto, rapido, che considerava come
un punto d’onore il fatto di non permettere a nessuno di aiutarlo o
sorpassarlo. Egli assimilò dunque rapidamente i consigli del compagno,
e inamidò colletti e manichini in modo da non lasciar adito alla minima
bolla d’aria, per la stiratura; con una sveltezza e accortezza tale da
meritare i complimenti di Joe.

Non c’era mai sosta. Joe non attendeva nulla nè alcuno, e balzava da
un compito all’altro. Inamidarono duecento camìce bianche: afferrando,
con la destra con un solo movimento circolare, la camicia, in modo da
far cadere polsini, colletti e petto, con la mano sinistra alzava il
corpo per preservarlo dall’amido. Poi, la mano sinistra s’immergeva
nell’amido caldo, talmente caldo che bisognava continuamente bagnar le
mani in un catino d’acqua fredda per distaccarne la pasta. E quella
sera inamidarono, sino alle dieci e mezza, civettuole e leggere
cianciafruscole di donna.

— Benedetti, per me, i tropici e la foglia di fico, — disse Martin
ridendo.

— E allora io perderei il posto, — rispose Joe seriamente. — Non so
nulla, tranne la stiratura.

— Ma questa la conosci a fondo.

— Sì, ma per mia disgrazia. Ho cominciato alla Contra Costa, a
Oakland, che avevo undici anni, a scuotere le calze pel cilindro.
Sono diciassette anni di questo mestiere, e non ho mai fatto altro.
Ma questa faccenda è la più dura di tutte, per me. Bisognerebbe avere
un altro uomo almeno. Lavoreremo anche la notte, domani. Cilindreremo
sempre tutti i mercoledì colli e manichini.

Martin ricaricò la sveglia, sedette a tavola e aprì Fiske; ma non potè
finire il primo paragrafo: le righe gli s’imbrogliavano davanti agli
occhi e la testa gli ricadeva ogni momento sul petto. Camminò su e giù,
si diede dei gran colpi di pugni sul capo, ma tutto ciò fu inutile.
Allora si piantò il libro davanti, sostenne le palpebre colla punta
delle dita... e s’addormentò con gli occhi spalancati; così che finì
col confessarsi vinto, e si coricò. Un pesante sonno di bruto gli gravò
addosso per sette ore; quando ne fu bruscamente tratto dal suono della
sveglia, sentì di non aver dormito abbastanza.

— Letto molto? — domandò Joe.

Martin scosse la testa.

— Non importa! stasera si cilindra, ma giovedì avremo terminato alle
sei, e tu potrai rifarti.

Quel giorno, Martin lavò della laneria a mano, in una gran tinozza
con sapone molle e con l’aiuto d’un congegno ch’era causa di grande
orgoglio per Joe.

— Mia invenzione, — disse questi, orgogliosamente. — Sostituisce
l’asse, fa risparmiare le ginocchia, e perlomeno quindici minuti di
tempo; il che non è da disprezzare in questo inferno!

La cilindratura dei manichini e dei colli era anch’essa invenzione di
Joe. Quella notte, durante il lavoro alla luce elettrica, egli glielo
spiegò.

— Nessuno lo fa, tranne me. E bisogna farlo, se voglio aver finito pel
pomeriggio di sabato alle tre. Ma conosco il modo, e in questo consiste
tutta la diversità. Occorre il calore adatto, la pressione adatta, poi
passar tre volte. Guardate questo! — E sollevò un manichino in aria. —
A mano non si potrebbe far meglio.

Il giovedì, Joe fu preso da una vera e folle rabbia; una balla
supplementare «di roba fantasia» da stirare, era stata portata.

— Io me ne vado! — urlò. — Ne ho abbastanza. Io me ne vado
tranquillamente. A che serve lavorare come uno schiavo tutta la
settimana, senza perdere un minuto, per vedersi poi appioppare un
«lavoro di fantasia», per colmo di tutto?... Noi siamo in un paese
libero, e voglio dire a quel grosso olandese il fatto mio. E non glielo
mando a dire. Gliele darò io le fantasie supplementari!... Lavoriamo,
questa sera, — fece un momento dopo, rassegnato alla sua sorte.

E quella sera, Martin non tentò neppure di lottare. Durante tutta
la settimana non aveva letto il giornale, che pure (strano) non gli
mancava: le notizie non lo interessavano più. Era troppo stanco, troppo
abbrutito per interessarsi di qualsiasi cosa, benchè pensasse, se il
lavoro fosse terminato per sabato alle tre, di partire per Oakland
in bicicletta. Settantacinque chilometri all’andata, altrettanti pel
ritorno, nel pomeriggio della domenica, non erano certo una buona
preparazione pel lavoro della settimana seguente. Sarebbe stato più
pratico prendere il treno, ma il biglietto costava dieci e cinquanta,
ed egli voleva fare economia.




CAPITOLO XVII.


Martin imparò a fare parecchie cose. Nel corso della prima settimana,
in un pomeriggio, i due uomini apparecchiarono duecento camìce bianche.
Joe manovrava la macchina — composta d’un ferro caldo infisso a una
molla d’acciaio che lo premeva, — stirava così il petto, i polsi, il
collo, ch’egli rivoltava ad angoli retti, e terminava con una perfetta
lustratura. Finita così la camicia, la lanciava su una rastrelliera,
donde Martin la prendeva e ne stirava tutta la parte non inamidata. Era
un lavoro sfibrante, che durava ore od ore senza tregua, con la massima
sveltezza.

Sotto la spaziose verande dell’_Hôtel_, intanto, uomini e donne,
biancovestiti, sorbivano ghiacciate, mantenendosi in uno gradevole
temperatura. Ma nella stiratoria, l’aria era opprimente; il gran
fornello ronfava, arroventato, e dai ferri passati sulla biancheria
umida s’alzavano nubi di vapore. Quei ferri erano diversi da quelli
di cui si servono le massaie provandone il calore con la punta del
dito inumidito; essi richiedevano un gran calore, ch’essi provavano
accostandoli alle guance.

Martin ammirava quel procedimento, pur non comprendendolo. Quando i
ferri erano troppo caldi, venivano fissati a delle bacchette di ferro
e immersi in acqua fredda. Questa operazione richiedeva anche essa un
occhio accorto e sicuro; bastava immergerli un attimo di secondo più
del necessario, per ricominciare da capo. Martin si rallegrò della
precisione acquistata quasi automaticamente e fondata sull’osservazione
di sintomi quasi imponderabili. Ma non aveva molto tempo per riflettere
e rallegrarsi; tutto il suo io cosciente era applicato al compito; il
suo cervello e il suo corpo, incessantemente attivi, erano ormai una
macchina intelligente nella quale i problemi insondabili dell’universo
non trovavano più àdito nè posto. Tutta la sua persona era come uno
stretto vano, la cabina direttrice che guidava i muscoli delle braccia
e delle agili dita, le quali, a loro volta, guidavano i ferri rapidi
e le loro lunghe scivolate fumanti, misurate quasi a millimetro,
lungo interminabili maniche, dorsi e fianchi. Poi, lo stesso braccio,
meccanicamente, lanciava la camicia sulla rastrelliera apposita, senza
gualcirla, e afferrandone immediatamente un’altra. E tutto ciò durante
ore e ore torride, quando tutti boccheggiavano quasi, sotto il sole
californiano. Ma nella stiratoria surriscaldata mancava persino il
tempo di ansare; i clienti al fresco sotto la veranda avevano bisogno
della biancheria pulita.

Martin era madido di sudore; beveva un’enorme quantità d’acqua, ma
il calore era così grande, che tutta quell’acqua se ne andava in
sudore, prima d’arrivare allo stomaco. Un tempo, in mare, il lavoro
gli lasciava quasi sempre il piacere di ritemprarsi in se stesso.
Il padrone del battello era padrone del suo tempo, ma il padrone
dell’hôtel era anche padrone dei pensieri di lui; tutti i suoi pensieri
erano assorbiti da quel lavoro che sfibrava il corpo ed esasperava
i nervi. Oltre quello, impossibile pensare. Non sapeva più se amasse
Ruth; lei non esisteva, giacchè egli, che sentiva l’anima quasi spenta,
non aveva il tempo di ricordarsi di lei. Soltanto la sera, quando
cadeva sul letto, oppure all’ora della prima colazione, la mattina,
delle fugaci visioni gli apparivano.

— È l’inferno, eh? — disse un giorno Joe.

Martin rispose con un cenno irritato; rilevare un fatto così evidente
era inutile. Durante il lavoro non parlavano, giacchè una conversazione
avrebbe interrotto il procedere automatico di esso. Questa volta
accadde a Martin di sbagliare un colpo di ferro e di essere costretto a
fare due movimenti di più per riprendersi.

La mattina del venerdì fu il turno del bucato. Due volte la settimana
essi facevano la «biancheria grossa» dell’hôtel: lenzuola, federe,
tovaglie e tovaglioli. Poi si posero all’inamidatura della biancheria
fine: lavoro lungo, noioso e delicato che Martin affrontò con maggior
senso di difficoltà e che non poteva essere appreso se non procedendo
con tatto, giacchè il minimo errore poteva essere disastroso.

— Guarda questo. — fece Joe mostrandogli un copribusto che pareva un
lavoro di ragno, e che egli avrebbe potuto nascondere nel cavo d’una
mano. — Rovinami questo, e ti costerà cento lire sullo stipendio.

Ma Martin, sebbene la sua tensione nervosa aumentasse sempre più,
allentò la tensione muscolare e non guastò nulla; anzi porse persino
con simpatia l’orecchio alle bestemmie di Joe che sibilava e penava
sulle attraenti cianfrusaglie che portano le donne che non lavano la
biancheria con le proprie mani.

La stiratura della biancheria fine era l’incubo di Martin e di Joe,
privati perfino di qualche minuto per ripigliar fiato. Tutto il giorno
essi vi lavoravano intorno. Alle sette di sera lo interrompevano
per cilindrar la biancheria dell’hôtel; alle dieci, quando i clienti
andavano a dormire, i due stiratori sudavano nuovamente nello stirare
la roba fine, sino a mezzanotte, all’una, qualche volta alle due del
mattino. Alle due e mezza se ne andavano. La mattina del sabato, a
furia di raddoppiare, alle tre il lavoro della settimana fu terminato.

— Non vorrai accollarti 75 chilometri di qui a Oakland, dopo quest’ira
di Dio! — domandò Joe quando, seduti sulla scalinata, ebbero acceso una
sigaretta trionfale.

— Debbo, — fu la risposta.

— Perchè: per una donna?

— No: per risparmiare dieci e cinquanta e cambiare dei libri in
biblioteca.

— Perchè non li mandi coll’accelerato? Spenderesti una lira e sessanta
centesimi.

Martin riflettè.

— Così riposerai domani: ne hai bisogno. Anch’io sono fiaccato.

Si vedeva; instancabile com’era, a furia di lavorare senza fermarsi
mai, di lottare tutta la settimana per guadagnare un minuto o un
secondo di più, di sviare tutte le difficoltà, di superare tutti gli
ostacoli, colosso d’energia indomita, demonio d’acciaio, qual era,
appena finito il proprio compito, cadeva in una specie di coma. Egli si
trascinava con aria torva, col bel volto incavato ed estenuato: tutto
l’ardore, tutto lo slancio erano spariti: e il morale era basso.

— E la settimana prossima bisognerà ricominciar da capo, — diss’egli
tristemente. — E per far che? per ottenere che cosa? eh?... In certi
momenti vorrei essere vagabondo; non si lavora e si è nutriti. Sst!
un bicchiere di birra mi piacerebbe, ma non ho il coraggio d’andare
sino al villaggio, per questo. Rimani dunque qui e manda i libri per
espresso, o sei un imbecille.

— Ma che farò tutta la domenica? — domandò Martin.

— Ti riposerai; non hai neppure coscienza di tutta la tua stanchezza.
Io sono così sfibrato, la domenica, che non posso leggere neppure i
giornali. Una volta mi sono ammalato di tifo, e sono stato due mesi e
mezzo all’ospedale senza far nulla. Quella sì, ch’era vita.

— Era la vita! — ripetè egli fantasticando, un momento dopo.

Martin, dopo aver preso un bagno, s’accorse della sparizione del capo
stiratore. — Deve essere andato a bere un bicchiere di birra, — fece
Martin fra sè, e riconobbe che i settecento metri da fare sino al
villaggio erano un viaggio troppo lungo per lui. Si distese sul letto,
dopo essersi tolte le scarpe, e si sforzò di riprender coscienza.
Non tentò neppure di leggere, e intanto si sentiva tanto stanco, da
non aver sonno. In uno stato di semi-incoscienza, quasi istupidito
dalla spossatezza, egli rimase lì, sino all’ora di pranzo. Joe non
tornò. E quando Martin udì il giardiniere annunziare che probabilmente
stava dando fondo al bar, capì la ragione dell’assenza. Martin andò
a coricarsi subito dopo, e fu certo, la mattina dopo, di aver molto
riposato.

Siccome Joe era ancora assente, Martin si procurò un giornale e sedette
all’ombra di un albero. La mattinata passò, senza che egli se ne
accorgesse. Non aveva dormito, nessuno lo aveva disturbato, ed egli non
aveva terminato il giornale. Ritornò allo stesso punto, nel pomeriggio,
dopo colazione e, questa volta, s’addormentò. Così passò la domenica,
e la mattina del lunedì fu nuovamente al lavoro di cernita della
biancheria, mentre Joe, che gemeva e bestemmiava, metteva in moto la
macchina del bucato e preparava il sapone molle.

— Non posso farne senza! — spiegò. — Quando viene la sera del sabato,
bisogna che mi ubriachi.

Passò un’altra settimana di giorni sfibranti, d’intollerabili notti
al chiarore della luce elettrica, sino al pomeriggio del sabato, alle
tre, quando Joe gustò un momento di soddisfazione di sè e partì subito
pel villaggio... per dimenticare. La domenica di Martin fu come la
precedente; egli dormì all’ombra degli alberi, diede una vaga scorsa
al giornale e passò lunghe ore disteso sul dorso, senza far nulla,
senza pensare. Era troppo abbrutito per pensare, sebbene scontento di
sè; sentiva disgusto di se stesso, come se si fosse assoggettato a una
degradazione morale, a una diminuzione del suo valore intrinseco. Tutto
ciò che lo rendeva simile agli dei era annientato: nessuna ambizione
lo spronava, ormai; la sua anima sembrava morta. Non era altro che una
bestia, una bestia da soma. La bellezza del sole che penetrava colle
sue frecce d’oro nel fogliame, non lo colpiva più: l’azzurro del cielo
non gli sussurrava nulla; i segreti della natura e l’immensità del
misterioso universo non l’attraevano più. La vita era intollerabilmente
monotona, stupidamente amara al gusto. Una specie di tetro parafuoco
ricopriva lo specchio della sua visione interiore, e la fantasia
dormiva in una camera di malato dove non penetrava nessun raggio di
sole. Egli invidiava Joe laggiù nel villaggio, che trascinava i gomiti
sullo zinco del bar, ruminava le sue idee fisse, rilevava in modo
inetto delle inezie qualunque, dimenticando nell’ebbrezza il lunedì
mattina e la sfibrante settimana che incominciava.

Passò la terza settimana, e Martin si maledisse e maledisse la vita.
L’oppresse la sensazione di un fallimento. C’era una ragione nel
fatto che gli editori gli rifiutavano le opere; ora lo vedeva, e
derideva se stesso e i propri sogni. Ruth gli rimandò i «Poemi del
Mare», per posta. Egli lesse la lettera di lei, apaticamente. Gli
porgeva vivissimi rallegramenti; ma non sapeva mentire, ed egli lesse
la disapprovazione tra le righe mondanamente encomiastiche. Ed aveva
ragione, lei; ne fu convinto rileggendo il suo poema. Caduto l’incanto,
egli si domandò come mai gli fosse passata per la mente quella roba,
quando la scrisse. L’audacia della sua fraseologia gli parve grottesca,
il suo lirismo espressivo, mostruoso: tutto era astratto, irreale,
impossibile. Avrebbe bruciato là per là i «Poemi del Mare», se non
avesse dovuto fare uno sforzo di volontà. C’era, è vero, lì, il
focolare delle caldaie, ma la fatica da affrontare per portarli sin
lì era grande! Egli aveva logorato tutte le sue energie per lavare
la biancheria altrui; non gliene rimanevano più per le sue faccende
personali.

Decise di riprendersi la domenica seguente e di rispondere a Ruth.
Ma il pomeriggio del sabato, terminato il lavoro e preso il bagno,
fu trascinato dal desiderio di dimenticare. «Voglio andare a vedere
che cosa sta combinando Joe», disse a se stesso, a mo’ di pretesto,
sapendo benissimo che mentiva. Ma non volle riconoscerlo, perchè voleva
dimenticare. S’avviò dapprima lentamente, come per caso, verso il
villaggio, accelerando l’andatura senza accorgersene, a mano a mano che
s’accostava al caffè.

— Credevo che facessi _qua qua_ tra le ranocchie! — fu il saluto di Joe.

Martin non si degnò di dargli delle spiegazioni; ma ordinò del whisky e
ne empì un bicchiere sino all’orlo, prima di passar la bottiglia.

— Non tenertela tutta la notte, — disse con tono ruvido.

L’altro scherzava colla bottiglia, sicchè Martin, annoiato dall’attesa,
inghiottì in un batter d’occhio tutto il liquido del bicchiere, che
riempì nuovamente.

— Ora posso aspettare, — disse con aria imbronciata, — ma sbrigati.

Joe si sbrigò, e bevvero insieme.

— È il lavoro che ti fa quest’effetto, eh? — domandò Joe.

Ma Martin rifiutò ogni discussione, sull’argomento.

— Ah, sì! è un bell’inferno, — continuò l’altro; — solo mi disgusta il
vederti ridotto a questo punto. Mart. Be’, là! è così.

Silenziosamente, Martin beveva, ordinando con voce mordente e
atterrendo il tenitore del bar, giovane campagnolo effemminato, dagli
occhi azzurri acquosi, dai capelli divisi da una scriminatura.

— Il modo come ci trattano, noialtri poveri diavoli, è scandaloso —
enunziò Joe. — Se non mi ubriacassi, scoppierei, e brucerei la loro
stiratoria! La bevanda mi salva, te lo giuro!

Ma Martin non rispose. Dopo aver bevuto ancora un po’, ecco le
fantasmagorie provocate dall’intossicazione mettergli in moto il
cervello. Ah! ecco nuovamente il senso della vita! la prima boccata
d’aria vitale ch’egli respirava dopo tre settimane!... I sogni gli
riapparvero; la fantasia fuggì dalla camera tetra e, tutta velata
di fiammeggiante chiarore, gli fece segno. Lo specchio della sua
visione interiore rifletteva nuovamente, trasparente come cristallo,
immagini splendide. L’incanto e la bellezza, con le mani intrecciate,
gli sorridevano: tutto il potere che aveva, era ritornato in lui.
Egli tentava di esprimerlo a Joe, ma Joe, assorto nelle sue fisime
personali, esponeva infallibili disegni per mezzo del quali si sarebbe
sottratto alla schiavitù della stiratoria, per diventare proprietario
d’una grande lavanderia a vapore.

— Ti dico io. Mart, che non avrò un marmocchio a lavorare nella mia
lavanderia; no, neppur uno, parola! E neppure un’anima turbinerà
dopo le sei di sera. Capisci? Il lavoro sarà fatto a ore decenti.
E, Mart, m’aiuterai, di’? Io ti nominerò sovrintendente alla cassa,
al laboratorio, a tutto. Ora, ecco qua il progetto: divento bevitore
d’acqua, durante due anni faccio delle economie, e allora...

Ma Martin, voltandosi, lasciò che facesse le sue confidenze al tenitore
del bar, sino al momento in cui questi fu chiamato per dar da bere a
due fittavoli, che accettarono l’invito di Martin. Martin fu generoso,
invitò tutti quelli che entravano: bifolchi, cocchieri, l’aiutante
giardiniere dell hôtel, il tenitore del bar e il silenzioso vagabondo
che s’insinuò come un’ombra nel bar e come un’ombra si nascose in un
cantuccio.




CAPITOLO XVIII.


La mattina del lunedì, Joe gemette alla prima infornata di biancheria
immersa nel liscivatore.

— Senti!

— Non parlarmi! — brontolò Martin.

— Scusa, Joe, — gli fece, a mezzogiorno, quando andarono insieme a
colazione.

Delle lacrime bagnarono gli occhi dell’altro.

— È così, è così, vecchio mio! — disse. — Noi siamo nell’inferno e
non ci possiamo far nulla. Soltanto, sai, mi ricambî male. Questo m’è
dispiaciuto. Tu mi sei stato subito simpatico.

Martin gli strinse la mano.

— Se lasciassimo questa baracca! — suggerì Joe. — Abbandoniamola e
facciamo i vagabondi. Non ho mai tentato, ma deve esser facile come
dire buongiorno. E niente da fare, pensa un po’! niente da fare! Mi
sono ammalato una volta di tifoide all’ospedale: era meraviglioso!
Vorrei proprio ricader malato.

La settimana fu lunga. L’Hôtel era pieno, e la «biancheria fine»
s’accumulava. Fecero prodigi; lavoravano sin tardi la notte, mangiando
alla svelta e cominciando persino mezz’ora prima della colazione del
mattino. Martin non prendeva più il bagno freddo. Ogni istante era
prezioso, e Joe, guardiano attento del gregge, non ne perdeva uno,
e contava e ricominciava come un avaro col suo tesoro, s’affaticava
febbrilmente, simile a una macchina folle, aiutata da un’altra
macchina. Martin Eden, ex-uomo.

Ma erano rari i momenti durante i quali Martin poteva permettersi di
pensare. La casa dei pensieri era chiusa, le imposte serrate, e di
quella casa egli era il cupo custode. Joe aveva ragione: tutt’e due
non erano altro che ombre che lavoravano nei limbi eterni dello stento.
Oppure era un sogno?... Talvolta, tra i fumi del vapore bollente, pur
movendo su e giù i pesanti ferri sulla biancheria candida, gli sembrava
di vivere in sogno. Fra breve, o forse fra un secolo o due, egli
si sarebbe svegliato nella sua cameretta presso la tavola macchiata
d’inchiostro, e avrebbe ripreso la sua letteratura al punto in cui
l’aveva lasciata il giorno prima. Oppure, se anche questo era un sogno,
l’uomo di guardia lo avrebbe destato; balzando dalla sua cuccetta
di bordo, e scosso dal rullìo, egli avrebbe preso la barra, sentito
la frescura dei venti alisei accarezzargli le carni, sotto il chiaro
sguardo delle stelle tropicali.

Venne il sabato, e il suo precario trionfo di tre ore.

— Credo bene che andrò a bere un bicchiere di birra! — disse Joe, con
una voce strana, stonata, che annunziava il coma settimanale.

Martin parve svegliarsi a un tratto. Aprì il sacco di cuoio degli
accessorii, oliò le ruote, mise della piombaggine sulla catena,
aggiustò il sellino. Joe non era giunto a metà del cammino dal
bar, quando Martin l’oltrepassò, curvo sul manubrio, pedalando
vigorosamente, evidentemente deciso a divorare i suoi 75 chilometri
di polvere e di calore, al più presto possibile. Arrivò a Oakland per
dormire, rifece, la domenica, i 75 chilometri del ritorno, e la mattina
si rimise al lavoro, stanco.

Ma non aveva bevuto.

Passò la quinta settimana, poi una sesta, durante le quali visse come
una macchina; non gli rimaneva altro nell’anima che una specie di
scintilla che lo costringeva, alla fine di ogni settimana, a divorare
i 150 chilometri, non per riposare, ma per cercare, anzi, di spegnere
quella piccola favilla, ultimo vestigio della sua vita passata. Alla
fine della settima settimana, contro voglia, ma incapace di resistere,
egli scese nel paesetto, con Joe, e bevve l’oblìo e la gioia di vivere
sino alla mattina di lunedì.

Poi, un sabato, rifece i 150 chilometri, scacciando la spossatezza
causata dallo sforzo eccessivo, con uno sforzo maggiore. Dopo tre mesi,
rivisse, e a un tratto, illuminato, vide il bruto ch’egli stava per
diventare, non a causa del bere, ma a causa del lavoro. Il bere era un
effetto, non la causa, e susseguiva inevitabilmente al lavoro, come la
notte sussegue al giorno. Non sarebbe salito col diventare una bestia
da soma — gli sussurrò il whisky all’orecchio, — ed egli ne approvò il
parere. Il whisky era savio e conosceva bene l’opera sua. Egli chiese
carta, una matita, offrì da bere a tutti e, mentre bevevano alla sua
salute, si appoggiò al bar e scarabocchiò qualche cosa.

— Un telegramma, Joe, — disse. — Leggi.

Joe lesse con occhio vago comicamente torvo. Ma quel che lesse lo
disebriò, facendolo tornare in sè. Guardò Martin con disperazione;
delle lacrime gli sgorgarono dagli occhi e gli scesero lungo le gote.

— Non vorrai mica lasciarmi, Mart? — interrogò con voce lamentosa.

Martin fece segno di sì e pregò il garzone di portare il telegramma
alla posta.

— Aspetta, — bofonchiò, con la bocca impastata Joe, — lasciami
riflettere. — E s’aggrappò al banco, con le gambe tremanti, mentre
Martin cingendogli la vita con un braccio, lo teneva in equilibrio.

— Di’: due lavandai! — fece egli bruscamente. — Ecco deciso!

— Perchè vuoi lasciare l’impiego? — domandò Martin.

— Per la stessa ragione tua.

— Ma io vado a imbarcarmi! Tu non ne sai nulla, tu!

— No! — rispose l’altro. — Ma posso andarmene pel mondo, sicuro! sicuro!

Martin lo guardò attentamente un momento, poi esclamò:

— Se non altro, vivrai, vecchio mio! e ti capiterà per la prima volta!

— Sono stato una volta all’ospedale, — corresse Joe. — Era
meraviglioso. Tifoide, non te l’ho detto?...

Martin modificò il testo del telegramma, mise «due lavandai», e Joe
proseguì:

— All’ospedale non ho mai avuto voglia di bere. Buffo, eh? Ma quando ho
stentato come uno schiavo tutta la settimana, bisogna che prenda una
sbornia. Non hai osservato che i cuochi bevono come botti? e i fornai
anche?... È il lavoro. Non possono fare altrimenti. To’, lasciami
pagare metà della spesa pel telegramma...

— Lo giocheremo, — propose Martin.

— Su, da bere a tutti! — gridò Joe, mentre i dadi rotolavano sullo
zinco impiastricciato.

La mattina del lunedì, Joe era folle d’impazienza: non badava alla sua
emicrania e non s’interessava punto al lavoro. I minuti si perdevano a
uno a uno come i capi di un gregge sbandato, mentre il loro guardiano
disattento guardava attraverso la finestra il sole e gli alberi.

— Guarda! guarda! — esclamò. — Tutto questo è mio! Entrata libera!
Posso coricarmi sotto gli alberi e dormire cent’anni, se mi piace. Su,
Mart, filiamo! Perchè aspettare un altro minuto? In carrozza, pel paese
della fiamma eterna! Ho il biglietto, e non è un biglietto d’andata e
ritorno, te lo giuro!

Pochi minuti dopo, riempiendo la conca di biancheria sporca, Joe scorse
la camicia del padrone dell’hôtel, di cui conosceva il segno. In una
crisi frenetica d’indipendenza, egli la gettò per terra e la calpestò.

— Vorrei che tu vi fossi dentro, sporco olandesaccio! — urlò. — Dentro
e sotto i miei piedi! Piglia su, to’, e quest’altro ancora, sudicione!
Tienimi o ne faccio una grossa.

Martin, ridendo, gli fece riprendere il lavoro. Il martedì sera,
giunsero i nuovi lavandai, e il resto della settimana passò tra le
istruzioni ai successori. Joe, seduto, spiegava il suo metodo, ma non
lavorava più.

— Neppure una briciola! — annunziò egli. — Mi fucilino se vogliono,
ma, se lo fanno me ne vado _illico!_ Pochissimo per me, grazie tante!
A me le strade, i prati e le sieste all’ombra, sotto gli alberi...
Coraggio, schiavi! Va bene! benissimo! sfacchinate e sudate! sudate
e sfacchinate! E quando sarete morti v’imputridirete come me. Prima
di tutto, che importa che voi viviate o no? eh?... dite, che cosa
importa?...

Il sabato furono pagati e si salutarono.

— Credi che non valga la pena che ti chieda di mutare idea e di girare
il mondo con me? — interrogò Joe disperatamente.

Martin scosse la testa, e s’accinse a inforcar la bicicletta. Si
strinsero la mano. Joe trattenne la sua un momento, poi disse:

— Ti rivedrò, Mart: sii saggio! Ti voglio un gran diavolo di bene,
sai!...

E come un’ombra desolata, nel mezzo della via, aspettò sinchè Martin
non fu sparito nella svolta.

— È un buon diavolo, quel ragazzo, — brontolò, — un buon diavolo.

Poi s’incamminò lentamente verso i pozzi, dove una mezza dozzina di
serbatoi attendevano, sul margine, i convogli che salivano.




CAPITOLO XIX.


Ruth e la sua famiglia erano di ritorno, e Martin, dal suo arrivo, li
vide spesso. Essa aveva compito gli studî; lui, depresso fisicamente e
intellettualmente, non scriveva. Poterono dunque vedersi a loro agio,
per la prima volta, e la loro intimità crebbe rapidamente. Dapprima
Martin non fece altro che riposare; dormì moltissimo, passò lunghe ore
fantasticando, pensando, senza far nulla. Era come un convalescente
guarito d’una lunga malattia. Il primo segno della rinascita si
verificò il giorno in cui s’interessò nuovamente della lettura dei
giornali. Allora ricominciò a leggere novelle frivole, versi, e giorni
dopo ripiombò nuovamente, a testa bassa, nella lettura di Fiske tanto
negletto. Il suo temperamento e la sua salute eccezionali avevano
ripreso il sopravvento, ed egli godeva più che mai delle energie
profonde della sua giovinezza.

Ruth, quando seppe che egli, appena riposatosi, avrebbe ripreso la
navigazione, non seppe nascondere il suo malumore.

— Perchè fa questo? — disso lei.

— Per guadagnar denaro, — rispose Martin. — Bisogna che mi provveda di
nuove risorse, in previsione d’una nuova lotta contro gli editori. Il
denaro è l’anima della guerra, specialmente nel caso mio — il denaro e
la pazienza.

— Ma se le occorre soltanto del denaro, perchè non è rimasto nella
lavanderia?

— Perchè la lavanderia faceva di me un bruto. Un lavoro come quello
spinge fatalmente a bere.

— Non mi vorrà dire che lei!... — E lo fissò con occhi spalancati
dall’orrore.

Egli avrebbe potuto facilmente eludere la domanda; ma era schietto ed
istintivo per natura, e ricordò la risoluzione presa, una volta, di
essere sincero a qualunque costo.

— Sì, — rispose, — proprio così. Parecchie volte.

Con un brivido lei si scostò da lui.

— Nessuno degli uomini che mi hanno avvicinata, ha fatto questo.

— Perchè non hanno mai lavorato nella lavanderia delle Acque Termali di
Shelley, — fece lui ridendo amaramente. — Il lavoro è una buona cosa,
è necessario alla salute umana, come dicono i predicatori; e Dio sa se
mi ha fatto mai paura! Ma «il troppo stroppia», dice il proverbio, e la
stiratoria esagerava, veramente. Ecco perchè riprendo la navigazione.
Credo che sarà il mio ultimo viaggio, giacchè, al ritorno, mi affermerò
con le mie opere. Ne sono sicuro.

Lei rimase silenziosa, ostile, ed egli l’osservava malinconicamente,
considerando com’ella fosse incapace di capire la sua dolorosa
esperienza.

— Un giorno scriverò su «L’avvilimento causato dal lavoro», o
«Psicologia del vizio di bere nella classe operaia», qualche cosa di
simile.

Mai come in quel momento, dal loro primo incontro, s’erano sentiti
così lontani l’una dall’altro. Quella confessione così schietta fatta
con uno spirito di ribellione l’aveva disgustata. Il suo abbrutimento
la urtava molto più che non la causa diretta di esso; lei dovette
riconoscere come e quanto si fosse accostata a lui, e, ammesso questo,
la necessità di vedere sino a qual punto la loro intimità potesse
consolidarsi. In lei si ridestavano, con un senso di pietà, anche
ingenui e idealistici propositi di rieducazione. Essa avrebbe salvato
quella frusta giovinezza piena di tanta buona volontà. L’avrebbe
salvato dall’influsso maledetto del suo ambiente d’un tempo, a dispetto
di lui. Tutto ciò le sembrava frutto d’un nobilissimo stato d’animo, e
lei non immaginava neppure che potesse essere semplicemente gelosia e
desiderio d’amore.

Fecero molte gite in bicicletta, durante quei deliziosi pomeriggi
della fine d’autunno, e laggiù, sulla collina, lessero, ad alta voce,
dei versi — ora l’uno ora l’altro di quei nobili poemi che innalzano
l’animo. La rinunzia, la pazienza, lo studio, il dovere, l’ordine erano
principî ch’essa gli inculcava in quel modo indiretto e che le erano
stati inculcati da suo padre, dal signor Butler, e da Andrew Carnegie,
che, da povero piccolo emigrante, era poi diventato il gran dispensiere
di libri dell’universo.

Martin apprezzava tutto ciò e ne godeva. Ora egli seguiva meglio la
mentalità di Ruth, la cui anima aveva cessato di essere un cofano
misterioso dalle sorprese sempre nuove. Intellettualmente, egli si
sentiva uguale a lei; ma i loro contrasti non turbavano il suo amore,
ch’era più forte, più ardente che mai; giacchè egli l’amava per ciò che
lei era, e la fragilità fisica di lei ne accresceva il fascino, ai suoi
occhi. Egli aveva letto la storia della malattia di Elisabetta Barret,
che, dopo aver passato tanti anni a letto, ne fu tratta un giorno da
Browning e guarita per forza viva d’amore. E ciò che Browning aveva
fatto per Elisabetta, Martin decise di fare per Ruth. Ma bisognava,
prima di tutto, che lei lo amasse; egli le avrebbe dato quindi la forza
e la salute. Ed egli intravide la loro vita futura; in un ambiente
di lavoro e di agiatezza, dove egli e Ruth miglioravano, leggevano
versi, parlavano d’arte. Ruth distesa su monticelli di cuscini sparsi.
Talvolta lei leggeva ad alta voce; oppure era lui a leggere e lei gli
appoggiava il capo sulla spalla. Altre volte contemplavano insieme
delle incisioni; poi, siccome anche lei amava la natura, la sua
generosa immaginazione mutava l’ambiente delle loro letture. Leggevano
in profonde gole, oppure seduti su praterie soleggiate, in montagna;
oppure su una distesa di sabbia grigio-perla dove le onde creavano
festoni e ghirlande ai loro piedi; oppure lontanissimo, in qualche
isola tropicale dove le cascate, versandosi nel mare, si dissolvono in
vapori leggeri che tremano e ondeggiano alla minima brezza. Ma sempre,
in primo piano, dominavano loro due, Ruth e Martin, come re di quei
reami d’eterna bellezza, e al di là del paesaggio naturale, appariva
un altro, nebuloso — quello del lavoro, del buon successo, e del danaro
guadagnato, che li avevano resi indipendenti dal mondo.

— Raccomando alla mia figlietta d’esser prudente... — disse un giorno
la signora Morse a Ruth, con aria piena di reticenza.

— Capisco ciò che vuoi dire; ma è impossibile. Egli non è della mia...

Ruth arrossì d’un rossore di vergine che per la prima volta discute dei
problemi sacri della vita, con una madre rispettata.

— ... della tua condizione, — terminò la madre.

Ruth fece segno di sì.

— Non osavo dirlo, ma è così: rude, brutale, forte, troppo forte. Non
ha...

Lei esitò ancora, non osando proseguire. Mai aveva parlato d’un
argomento simile, con sua madre. E nuovamente questa compì la frase.

— Non ha mai vissuto una vita corretta, vuoi dire.

Ruth approvò e arrossì nuovamente.

— È così, — disse: — la colpa non è sua, ma egli ha scherzato molto
col...

— Col fuoco?

— Sì, col fuoco. E mi spaventa. Qualche volta ne ho un vero terrore,
quando mi racconta le cose che ha fatte, nel modo più naturale del
mondo, come se ciò non avesse alcuna importanza. Ma ne hanno, non è
vero?

Erano sedute, l’una fra le braccia dell’altra; e silenziosamente,
la madre accarezzò la mano che s’abbandonava, in attesa che lei
proseguisse.

— Ma m’interessa follemente. Egli è, insomma, il primo amico che abbia
avuto tra gli uomini, cioè, non proprio, il mio amico, ma un protetto e
un amico insieme. Qualche altra volta, quando mi fa paura, pare come un
bull-dog che m’abbiano dato per trastullo e che mi tiri per la catena,
mi mostri i denti e minacci di strappar tutto.

Sua madre attese ancora.

— Mi pare che mi diverta come un bull-dog. Ci sono molte cose buone
in lui; ma ce ne sono anche molte altre che non mi piacciono... Vedi,
ho riflettuto molto. Egli bestemmia, fuma, beve, dava pugni, — me lo
confessa e non se ne rammarica, — come mi ha detto. È insomma ciò che
un uomo non dev’essere, un uomo che non vorrei (la sua voce si attenuò
in un sussurro) per marito. Eppoi, è troppo atletico. Il mio Principe
Azzurro sarà grande, flessuoso, sottile e bruno, pieno d’eleganza e di
grazia. No, non c’è pericolo che m’innamori di Martin Eden. Sarebbe la
cosa più terribile che potesse accadermi.

— Ma non parlavo di questo, — disse la madre, con finezza. — Hai
pensato mai a lui? Non c’entra, lui, per nessun rapporto: non è
possibile. Ma supponiamo che sia lui a innamorarsi di te?

— Ma mi ama... già! — esclamò Ruth.

— Era da prevedere, — disse dolcemente la signora Morse. — Come
potrebbe essere altrimenti, per un uomo che t’avvicina?

— Olney mi odia! — disse lei con violenza. — E io odio Olney. Quando è
qui mi sento spuntare grinfie di gatta; bisogna che diventi cattiva per
forza, o quando non lo sono io, lo è lui! Ma con Martin Eden io sono
contenta. Nessuno m’ha mai amato prima di lui — nessun uomo, s’intende
— e a questo modo. E piace essere amati... così. Capisci ciò che voglio
dire, mamma cara? È così dolce sentirsi veramente, profondamente donna
a questo modo!

E nascondendo il suo volto sulle ginocchia della mamma, lei singhiozzò:

— Ti sembro orribile, lo so; ma sono onesta, e ti dico appunto ciò che
risento; com’è.

La signora Morse ne fu, insieme, triste e lieta: la sua figlietta,
la studentessa di lettere aveva ceduto il posto a una giovane, a una
donna. L’esperimento era riuscito; il temperamento così stranamente
apatico di Ruth s’era destato, senz’urto nè dramma; quel rozzo marinaio
ne era stato lo strumento, e aveva risvegliato in Ruth — che non
l’amava — la femminilità.

— La sua mano trema, — confessò Ruth arrossendo. — È una cosa ridicola
e divertente insieme; ma qualche volta mi càpita di compiangerlo. E
quando la sua mano trema troppo, e gli occhi luccicano troppo, be’,
io gli tengo un predicozzo e gli indico il modo di correggersi. Ma
mi adora, lo so; i suoi occhi e la sua mano non mentono. E questo
pensiero mi fa sentire più donna; sento che ho in me una cosa alla
quale ho diritto, una cosa che mi rende simile alle altre signorine...
e alle donne. Io so anche che prima non ero simile a loro, e che questo
t’infastidiva. Pensavate che io non vedessi, ma ho visto, e volevo...
fare il mio possibile, come dice Martin Eden.

Fu un’ora deliziosa, per madre e figlia; i loro occhi erano umidi,
mentre conversavano nella penombra; Ruth, tutta innocenza e franchezza,
sua madre piena di comprensione, animata da dolce simpatia, spiegando
tutto e consigliando con calma e chiarezza.

— Ha quattro anni meno di te, non ha una «posizione», non ha beni, ed
è privo assolutamente di senso pratico. Amandoti, dovrebbe, se avesse
del buon senso, fare qualche cosa che gli desse un giorno il diritto
di sposarti, anzichè perdere il tempo a scrivere dei sonetti e a fare
sogni puerili. Martin Eden, lo temo, non diventerà mai una persona
seria. Egli non si prospetta neppure l’idea d’un mestiere conveniente,
come l’hanno fatto certi amici nostri, — il signor Butler, per esempio.
Temo anche che non diventerà mai ricco, Martin Eden. E questo mondo
è cosiffatto, che il danaro è necessario per essere felici. Oh! non
parlo d’una grande ricchezza... ma di quanto basta per assicurarsi
l’agiatezza e una vita esteriore conveniente. Egli... egli non ha mai
parlato?...

— Non mi ha detto mai una parola, ma se l’avesse fatto, lo avrei
fermato, giacchè, lo sai, non sono innamorata di lui!

— Tanto meglio. Non sarei contenta di vedere la mia bambina, l’unica
figlia, così candida, così pura, amare un uomo come quello. Vi sono
al mondo uomini retti, fedeli, virili; attendi uno di questi. Lo
troverai un giorno, l’amerai ed egli ti amerà e sarete, insieme, felici
come siamo stati tuo padre ed io. È una cosa alla quale devi pensare
sempre...

— Sì, mamma.

La voce della signora Morse si attenuò e s’addolcì per dire:

— Bisogna pensare ai figlioli.

— Sì... ci ho pensato... — confessò Ruth; e arrossì ancora ricordando i
pensieri voluttuosi che aveva avuti.

— Ed è appunto il pensiero dei figlioli che mi fa apparire impossibile
il signor Eden, — proseguì la signora Morse, con voce incisiva.
— La loro eredità dev’essere netta, e la sua non può esserlo. Tuo
padre m’ha raccontato la vita dei marinai e... tu mi capisci. — Ruth
premette la mano della madre in segno di consenso; la capiva, sebbene
quell’allusione le sembrasse vaga, strana, orribile e superiore alla
sua immaginazione.

— Tu sai che ti ho detto tutto, — disse lei. — Solo, qualche volta,
bisogna interpellarmi, come hai fatto oggi. Volevo parlartene, ma
non sapevo come incominciare. È falsa vergogna, lo so, ma tu, così,
mi faciliti le cose. Giacchè, mamma, sei donna anche tu! — esclamò
lei, con esaltazione. In piedi, lei afferrò le mani della madre, e
tutt’e due, a faccia a faccia, nella penombra che ingrandiva ebbero
coscienza della loro eguaglianza davanti all’uomo. — Io non ti avrei
mai conosciuto senza questa conversazione: è stato necessario che mi
scoprissi donna, per sapere che sei una donna anche tu!

— Sì, siamo donne tutt’e due, — disse la madre, attirandola a sè e
abbracciandola. Così abbracciate, uscirono dalla camera, col cuore
gonfio d’una nuova tenerezza, come di compagne.

— La nostra figlietta è diventata una donna! — disse la signora Morse
al marito, un’ora dopo.

— Significa, questo, — diss’egli, dopo un lungo sguardo alla moglie, —
significa che è innamorata.

— No, ma che è amata, — rispose l’altra sorridendo. — L’esperimento è
riuscito; s’è svegliata.

— Allora bisogna che ci sbarazziamo del giovane, — rispose il signor
Morse, col suo tono preciso d’uomo d’affari.

Ma la moglie scosse il capo:

— È inutile. Ruth dice che egli partirà in navigazione fra pochi
giorni. Quando ritornerà, lei non sarà più qui. La manderemo nell’est,
presso la zia Clara. D’altra parte, un anno nell’est, col cambiamento
di clima, d’idee, d’ambiente, le farà un gran bene.




CAPITOLO XX.


Nuovamente, Martin fu ripreso dal desiderio di scrivere; trame di
romanzi, di poemi, sorgevano spontaneamente nel suo cervello, ed egli
le annotava per ritrovarle in seguito e dare loro una forma. Ma non
scriveva: s’era permesso un congedo, e voleva impiegare quel tempo
riposando, e vi riusciva molto bene. Ma in breve la sua vitalità
prepotente ebbe il sopravvento e, come altre volte, Ruth risentì di
quella strana sensazione di forza e di salute che le davano una specie
di urto fisico.

— Sii prudente! — le ripetè un giorno sua madre. — Temo che tu veda
troppo spesso Martin Eden.

Ma Ruth, dall’alto della sua torre d’avorio, rideva: si sentiva sicura
di se stessa. Fra pochi giorni egli si sarebbe imbarcato e, al ritorno,
lei sarebbe andata via. Però, quella esuberanza vitale di Martin era
quasi magnetica. Saputa l’idea del viaggio nell’est, egli sentiva che
doveva affrettarsi, e, d’altra parte, non sapeva come far la corte a
una signorina come Ruth, giacchè la sua esperienza passata non poteva
servirgli a nulla. Le donne che aveva frequentate differivano troppo
da Ruth; esse erano esperte in fatto di _flirt_ e di civetteria,
mentre Ruth non ne aveva neppure conoscenza. Il prodigioso candore di
lei lo seduceva, gli gelava sulle labbra ogni parola appassionata, lo
convinceva, a dispetto di lui, della sua indegnità. Inoltre, c’era
un’altra causa di debolezza: egli non aveva mai amato. Le donne gli
erano piaciute, al tempo della sua vita avventurosa, e alcune erano
riuscite a irretirlo per un po’ di tempo, ma non aveva mai sentito
amore per esse. Per possederle, era bastato ch’egli le chiamasse
senza grande premura, ed erano accorse. Ma erano stati incidenti,
distrazioni, e non altro. E ora, il supplichevole, il timido, il tenero
e dubitoso di sè, era lui. Egli non conosceva alcuna delle astuzie
dell’amore, e il linguaggio e il luminoso candore della sua prediletta
lo spaventavano. Vivendo in ambienti varî, tra forme diverse di vita,
aveva imparato la regola di condotta che consiste, quando si gioca a
un gioco ignoto, nel costringere l’avversario a iniziar la partita.
Parecchie volte questo gli era riuscito, ed egli ne aveva tratto
utili insegnamenti. Sapeva cogliere i sintomi, attendere una debolezza
dell’avversario per trarne profitto, scegliere il momento propizio.
Era, insomma, come un gioco di finte e di parole, a boxe; e quando la
finta richiamava il colpo ch’egli riceveva, sapeva poi come profittarne
e colpiva giusto.

Attese dunque, con Ruth, desiderando confessarle il suo amore, e non
osando. Temeva di urtarla e diffidava di sè. Eppure, senza averne
coscienza, usava con lei il modo migliore. L’amore nacque sulla
terra prima della parola; il suo sviluppo, i suoi colpi e le sue
manifestazioni, sono sempre le stesse. Ora, fu nel modo più primitivo,
che Martin conquistò Ruth, senz’accorgersene neppure, dapprima. Il
contatto della sua mano su quella di lei era più efficace di tutte
le parole; l’effetto della sua forza sulla immaginazione di lei
l’affascinava più di qualsiasi poema e dei discorsi appassionati di
tutti gli amanti celebri. I sentimenti ch’egli avrebbe potuto esprimere
le avrebbero in certo qual modo colpito il cuore, ma il tocco della
sua mano, col semplice contatto, colpiva l’istinto. La ragione di Ruth
era giovanile come lei, ma l’istinto che l’animava era vecchio come
il mondo; nato con l’amore, era maturato con esso, e la sua potenza
prevaleva sulle convenzioni e sui pregiudizî di casta o d’idee. La sua
ragione dunque non entrò per nulla nel conto di questi sentimenti,
e lei ebbe coscienza degli sforzi costanti di Martin sul suo cuore.
Ch’egli la amasse, d’altra parte, era chiaro come la luce del giorno,
e lei prendeva diletto alle manifestazioni di quell’amore — al lume
di tenerezza dei suoi occhi appassionati, al tremore delle mani, ai
rossori cupi che imporporavano il viso abbronzato di Martin. Lei andò
anche più lontano: timidamente, con un tocco così delicato, che egli
non se ne accorgeva neppure, lo provocava. La prova del suo potere
che la proclamava donna, la estasiava, e lei godeva deliziosamente nel
tormentarlo, e scherzava col pericolo.

Per inesperienza e per troppo amore, Martin continuava i suoi approcci
mediante il semplice influsso fisico, col solo contatto. Egli non
sapeva come il tocco della sua mano piacesse molto a Ruth, ma sentiva
che non doveva dispiacerle. Non è a dire che essi avessero spesso
occasione di stringersi la mano, tranne quando si salutavano, ma le
gite in bicicletta, che suscitavano mille piccoli contatti, la lettura
dello stesso libro, in campagna, stretti l’una addosso all’altro,
fornivano molti pretesti a sfioramenti apparentemente involontarî.
Capitava, per caso, per esempio, che una ciocca bionda accarezzasse la
guancia bruna, che una spalla sfiorasse l’altra spalla, mentre essi si
chinavano insieme sullo stesso libro.

Lei sorrideva fra sè e sè delle voglie improvvise di passargli la mano
tra i capelli, a ritroso; lui, da parte sua, s’augurava, a lettura
terminata, di posarle la testa sulle ginocchia, chiudere gli occhi e
sognare il loro comune avvenire. Un tempo, durante certe scampagnate
della domenica a Shellmound Park o a Schuetson Park, egli aveva posato
il capo su ginocchia molto diverse; allora egli vi si addormentava
profondamente, mentre la prediletta del momento gli riparava la faccia
dal sole, lo contemplava e si stupiva della massima indifferenza con
la quale egli riceveva gli omaggi. Posare il capo sulle ginocchia
di una donna era stato per lui, prima, l’atto più facile del mondo,
mentre le ginocchia di Ruth gli parevano una fortezza inaccessibile,
imprendibile. Pure, senza averne coscienza, sentiva, che, sin lì, non
aveva ancora ragione di osar nulla.

A causa di questa stessa riservatezza, lei non si teneva in guardia,
non avendo coscienza del pericolo ch’essa sfiorava durante i colloqui
da solo a solo. In modo sottile e impercettibile, lei si accostava
a lui, ed egli, sentendo quell’accostamento progredire di giorno in
giorno, voleva osare e... non osava.

Un giorno osò; un pomeriggio in cui la trovò nel salotto oscuro,
sofferente d’una insopportabile emicrania.

— Non giova nulla, — rispose lei alle sue domande. — D’altra parte, io
non prendo medicine; il dottor Hall non me lo permette!

— Io posso guarirla, credo, e senza medicine. — disse Martin. — Non ne
sono sicuro, s’intende, ma vorrei tentare. È una forma di massaggio
insegnatomi da un giapponese — i giapponesi sono massaggiatori di
razza, se si può dir così! Poi ne ho apprese le varianti presso gli
hawaiani, che chiamano questo metodo «Lomi-lomi». E il «Lomi-lomi»
ottiene, su per giù, lo stesso effetto che producono le medicine, se
non di più.

Appena le sue mani le toccarono la fronte, lei emise un profondo
sospiro.

Una mezz’ora dopo, lei disse ancora:

— Non è stanco?

La domanda era inutile giacchè lei sapeva la risposta, e si perse
subito in una beata ammirazione del fluido calmante ch’egli possedeva.
La salute pareva zampillargli dalla punta delle dita, fugando il
dolore in modo magico, al punto che, quasi ebbra di benessere, lei
s’addormentò, ed egli si ritirò silenziosamente. La sera lei lo chiamò
al telefono per ringraziarlo.

— Ho dormito sino all’ora del pranzo, — disse. — Lei mi ha
perfettamente guarita, signor Eden, e io non so come ringraziarla.

Estasiato e premuroso, egli balbettò la sua gioia di saperla
ristabilita, e durante la conversazione non fece che pensare a Browning
e alla malaticcia Elisabetta Barret. Ciò che s’era fatto, poteva essere
ripetuto, ed egli, Martin Eden, lo avrebbe fatto nuovamente per Ruth
Morse.

Ritornò in camera sua e al volume di Spencer, la Sociologia, ch’era
rimasto aperto sul letto; ma non potè leggere. L’amore lo tormentava
e gli annientava la volontà, al punto, che, nonostante la sua
risoluzione, si ritrovò alla piccola tavola macchiata d’inchiostro. Il
sonetto che compose quella notte fu il primo d’un ciclo di cinquanta
sonetti d’amore, che fu finito in due mesi. Ispirato vagamente dai
«Sonetti d’amore portoghese», egli li scrisse nelle migliori condizioni
per fare una bella opera, al colmo della sua vitalità, della sua divina
follìa d’amore.

Tutte le ore ch’egli passava lontano da Ruth le impiegava attorno al
«Ciclo d’amore», o leggendo, o in biblioteca, giacchè voleva seguire
la produzione letteraria. Le ore passate con Ruth erano tutte simili,
sovraccariche di promesse e d’incertezze.

Una settimana dopo la guarigione dell’emicrania, Norman, Olney e
Arturo concordarono una gita in barca sul lago Merritt, al lume
della luna. Poichè Martin era il solo che sapesse condurre la barca,
fu naturalmente invitato. Ruth sedette dietro, accanto a lui, e i
tre giovani si distesero un po’ discosto, per discutere di donne e
d’inezie.

La luna non era ancora sorta, e Ruth che contemplava il cielo stellato,
in silenzio, si sentì a un tratto sola sola. Essa guardò Martin. Il
battello, spinto da una fresca brezza, s’inchinava a un lato, al punto
che l’acqua ne sfiorava l’orlo, ed egli, con una mano al timone e
l’altra alla vela, orzava leggermente, pur sorvegliando attentamente
la riva prossima davanti a loro. Non s’accorgeva dello sguardo di
lei, e lei l’osservava appassionatamente, domandandosi perchè quel
bel giovanotto così ben piantato s’accanisse in modo così strano a
sciupare il suo tempo scrivendo storielle e versi fatalmente destinati
alla mediocrità e all’insuccesso. Il suo sguardo vagò lungo il collo
possente, a malapena schiarito dalla luce delle stelle, si soffermò
sulla testa altera, e lei fu vinta dal vecchio desiderio di posare
tutt’e due le mani sulla sua nuca. Quella forza che odiava, l’attraeva
insieme. Poi essa si sentì anche più sola e stanca. La posizione
inclinata della barca la stancava; lei ricordò l’emicrania ch’egli
aveva guarita mediante il fluido calmante che emanava. Egli era seduto
accanto a lei, vicino vicino, e il battello pareva spingerla verso di
lui. E poi, a un tratto, senza ch’ella avesse il tempo di resistere,
cedette all’impulso. Fu il movimento di una ondata?... Chissà! Lei
seppe soltanto che s’appoggiava a lui e godeva. Fosse o no colpa
del battello, fatto si è che lei non fece nulla per raddrizzarsi.
Si appoggiò alla spalla di lui, leggermente, è vero, ma continuò ad
appoggiarsi quand’egli si collocò in modo da farla star comoda.

Era follìa, ma lei non volle considerarla tale; Ruth non era più Ruth,
ma una donna, una debole donna che aveva bisogno d’appoggio. Ella stava
bene così, non sentiva più alcuna stanchezza. Martin, per fortuna,
non diceva nulla, giacchè sarebbe bastata una parola sua per rompere
l’incanto. Era trattenuto dalla timidezza, e abbagliato, stordito,
incapace di capire ciò che gli succedeva. Talmente meraviglioso
gli appariva quel fatto, che non poteva essere che un sogno. Egli
resistette a stento al desiderio folle di lasciar andare timone e vela
per stringersela appassionatamente fra le braccia; ma l’istinto gli
suggerì di non muoversi, ed egli fu contento del fatto che la direzione
della barca gli permettesse di respingere la tentazione. Ma orzò meno
leggermente, allentando esageratamente per bordeggiare più a lungo
davanti la costa nord, giacchè, giunto presso la costa, egli sarebbe
stato costretto a virar di bordo e a interrompere il contatto. Navigò
accortamente, senza destar l’attenzione dei conversatori, benedicendo
nel suo cuore le più pericolose peripezie che gli avevano procurato
quella notte meravigliosa, giacchè aveva acquistato, nelle traversìe,
la padronanza delle onde e del vento, e perciò la sua prediletta poteva
abbandonarsi, fiduciosa, alla sua spalla.

Sorse la luna indorando la barca d’un chiarore madreperlaceo. Ruth si
scostò vivacemente. Egli fece lo stesso. Così tutt’e due mostravano
d’essere d’accordo nella tàcita intesa di dissimulare qualche cosa,
d’avere un segreto comune. Le guance le s’infiammarono dalla vergogna;
lei ebbe coscienza, a un tratto, del suo gesto. S’era resa colpevole
d’un’azione da nascondere ai suoi fratelli, a Olney. Perchè l’aveva
commessa?... Mai — eppure aveva fatto tante altre gite in barca al lume
di luna con dei giovanotti... — mai nulla le era accaduto, non solo, ma
non le era venuta neppure la voglia. La vergogna la oppresse, e anche
il mistero della sua nascente femminilità. Essa arrischiò uno sguardo
verso Martin occupatissimo a virar di bordo, e fu sul punto di odiarlo
perchè era stato la causa di quell’abbandono a un atto sconveniente.
Lui, specialmente. Forse sua madre aveva ragione: lo vedeva troppo
spesso... In seguito l’avrebbe visto meno di frequente, e mai, mai
sarebbe accaduto un fatto simile!

A un punto, le venne in mente l’idea folle di raccontargli ch’era
stata colta da debolezza, prima che sorgesse la luna, e costretta
ad appoggiarsi a lui. Poi lei ricordò il movimento simultaneo nello
scostarsi tutt’e due l’una dall’altro, temendo il chiarore rivelatore,
e capì ch’egli si sarebbe accorto della menzogna.

Nei giorni che seguirono, lei non fu la stessa ma una strana creatura,
incapace di giudizio o di analisi, restìa assolutamente a guardar
nell’avvenire, a riflettere ai pericoli di quella sua tendenza. Tutta
fremente d’una febbre misteriosa, ora come incantata, ora spaventata,
essa viveva in uno stato continuo di sogno. Una sola idea ragionevole
le rimaneva, che doveva essere una garanzia della sua sicurezza:
lei non avrebbe permesso a Martin di dichiarare il suo amore. Sinchè
avesse coraggio, tutto andrebbe bene; fra pochi giorni egli si sarebbe
imbarcato. D’altra parte, anche se egli avesse parlato, non era detto
che tutto fosse perduto, s’intende, giacchè lei non l’amava. Sarebbe
stata una mezz’ora penosa per lui, imbarazzante per lei, giacchè quella
era la prima richiesta di matrimonio. Rabbrividì deliziosamente, a
questo pensiero: lei era diventata donna davvero, giacchè un uomo le
proponeva il matrimonio! Il matrimonio, quest’eterna, irresistibile
attrattiva del suo sesso! Come una farfalla attratta dalla fiamma,
il suo pensiero turbato svolazzava, smarrito, attorno alla trappola
divina. Essa immaginò Martin nell’atto di fare la dichiarazione,
immaginò ciò ch’egli avrebbe detto; udì se stessa rifiutare con
dolcezza, esortarlo a diventare un uomo, un brav’uomo. Lo avrebbe
pregato soprattutto di non fumare... Ma no, bisognava prima di tutto
impedirgli di far la dichiarazione; e questo lei lo avrebbe fatto: lo
aveva promesso a sua madre. Palpitante e piena di ardenti rimorsi, lei
rinunziò alla scena pericolosa che le piaceva tanto. La prima offerta
di matrimonio doveva venirle da un pretendente più degno di lei e in un
momento più opportuno.




CAPITOLO XXI.


Era un meraviglioso pomeriggio, sul finir dell’estate, languido e
caldo, un vero pomeriggio d’estate californiana, dal sole temperato,
e lievi brezze vagavano senza turbar la sonnolenza dell’aria, e come
un sentore di tardo autunno si spandeva malinconicamente nell’aria.
Nubi aeree, color di porpora, si nascondevano nel cavo delle valli
che dominano San Francisco avvolto da fumo impenetrabile. Il golfo,
simile a una velata tovaglia di metallo fuso, era cosparso di battelli
immobili, o mollemente cullati dalla svogliata marea. Lontano, si
scorgeva a malapena il Tamalpais, la cui immensa mole si perdeva tra
la caligine, presso la Porta d’Oro che il tramonto faceva parere come
un sentiero d’oro pallido. Di là, il Pacifico si confondeva con la
pesante nuvolaglia, che preannunziava minacciosamente i primi soffi
dell’inverno.

L’estate era alla fine; eppure, sulle colline indugiava ancora con
dolce tenerezza, si stendeva voluttuosamente nella porpora delle valli
e intesseva, nelle caligini che impallidivano, il lenzuolo saturo di
bellezza dove stava per morire, felice d’aver vissuto, e ben vissuto.
E sulla collina, al posto prediletto, erano seduti Ruth e Martin, a
fianco a fianco, chini tutt’e due sullo stesso libro. Martin leggeva
ad alta voce dei sonetti d’amore: quelli che Browning ha dedicati alla
donna amata come poche donne furono. Ma la lettura languiva. Attorno ad
essi l’incanto della bellezza morente era troppo potente. La stagione
vermiglia languiva, come una magnifica peccatrice che non si pente,
e il ricordo delle sue ebbrezze appesantiva gli spazî aerei. Essa
penetrava in loro, con i suoi sogni e i suoi languori, ammolliva i
loro nervi, avvolgeva la loro volontà, la loro ragione in una caligine
vaporosa. Martin si scioglieva in tenerezza, e talvolta era percorso
come da onde ardenti. Le loro teste si sfioravano quasi, e quando il
respiro d’una impercettibile brezza arruffava, muovendoli verso il viso
di lui, i capelli d’oro, le righe danzavano subito davanti agli occhi
di Martin.

— Io non credo che lei abbia capito una parola di ciò che ha letto! —
disse lei, quando egli ebbe perso di vista il brano che leggeva.

Egli fissò su di lei i suoi occhi divoratori, ma questa volta non
s’intimidì, e rispose colla massima naturalezza:

— Neppure lei, d’altra parte. Di che trattava l’ultimo sonetto?...

— Non lo so! — confessò lei ridendo. — L’ho già dimenticato. Non
leggiamo più: la giornata è troppo bella.

— È l’ultima nostra, sulla collina, per un certo tempo, — diss’egli
gravemente. — Si prepara un uragano all’orizzonte.

Il libro scivolò sull’erba, e rimasero silenziosi, immobili, perdendo
verso il golfo addormentato lo sguardo dei loro occhi che non vedevano.

Ruth, talvolta, insinuava uno sguardo verso il collo di lui,
inevitabile come il destino: involontariamente, la sua spalla sfiorò
l’altra spalla, con la leggerezza d’una farfalla che sfiora un fiore.
Lei sentì il brivido che rispondeva a quel contatto, e ch’era tempo
che si scostasse; ma la volontà non le obbediva più, e lei non pensò
neppure a resistere, invasa da un’inebbriante follìa.

Dolcemente, egli la circondò col braccio; deliziosamente tormentata,
lei ne seguì i gesti lenti. Aspettava — non sapeva bene che cosa —
ansante, con le labbra secche ed ardenti, col cuore che le balzava, la
febbre nelle vene. Dolcemente, con moto infinitamente carezzevole, il
braccio risalì e l’attrasse. Con un grosso sospiro di stanchezza, essa
abbandonò la testa sul petto di lui, che si chinò tendendo verso di lei
le labbra, mentre quelle di Ruth s’accostavano a mezzo.

— Ecco, è l’amore! — disse lei fra sè, in un barlume di ragione. — Se
non è amore, non mi rimane che morir di vergogna.

Ma non poteva essere che amore; lei amava quell’uomo che la stringeva
fra le braccia, le cui labbra le premevano le labbra. Essa gli si
rannicchiò contro, con un movimento malizioso di tutto il corpo, e, a
un tratto, svincolandosi dalla stretta esultante, posò tutt’e due le
mani sul collo abbronzato di Martin. La sensazione di quel desiderio
realizzato fu così violenta, che con un sordo gemito lei gli abbandonò
le mani e gli ricadde, mezzo svenuta, tra le braccia.

Neppure una parola era stata detta, neppure una parola scambiata, per
parecchi lunghi minuti. Due volte egli si chinò per baciarle le labbra;
ogni volta, le sue labbra ricevevano timidamente il bacio e lei gli si
rannicchiava sempre più addosso. Non poteva allontanarsi da lui; ed
egli, tenendola stretta al suo cuore, guardava la gran città immersa
nel fumo, di là dal golfo, senza vederla.

Questa volta, almeno, il suo cervello non era agitato da sogni; la
luce, il colore, tutta la bellezza del mondo erano là, splendenti come
il giorno, ardenti come il suo amore. Egli si chinò su di lei, che
mormorò:

— Da quanto tempo mi amate?...

— Da sempre; dal giorno che vi ho vista la prima volta. Sono partito,
pazzo d’amore, e da quel tempo, la mia follìa non ha fatto che
crescere. E ora, cara, sono più pazzo che mai. Non so più che sia... la
testa mi gira, dalla gioia.

— Sono felice, Martin... caro! — fece lei, con un lungo sospiro.

Egli se la strinse al petto, sin quasi a soffocarla, poi domandò:

— E voi, quando ve ne siete accorta?

— Oh! ma l’ho capito subito! quasi subito.

— E io non ho visto nulla! — esclamò lui, piccato. — Me ne sono accorto
soltanto... ora, quando vi ho abbracciata.

— Non volevo dir questo! — e lei si raddrizzò un po’, e lo guardò. —
Voglio dire che dal principio ho capito che m’amavate.

— E voi, quando mi avete amato?

— È avvenuto d’improvviso. — Lei parlava molto lentamente, e negli
occhi le luceva come il riflesso d’una fiamma vacillante e tenue, e
sulle guance un delicato rossore, che l’animava.

— Non ne ho saputo nulla sino al momento in cui... m’avete stretta tra
le braccia. E non avevo affatto l’intenzione di sposarvi, Martin...
sino a quel momento. Che avete fatto per farmi innamorare?

— Non ne so nulla, — disse lui ridendo, — salvo che non sia successo a
forza d’amarvi, giacchè il mio amore era immenso e avrebbe intenerito
una pietra, e quindi, tanto più il vostro tenero cuoricino, cara.

— Io immaginavo l’amore in un modo assolutamente diverso, — disse lei
bruscamente.

— Come lo immaginavate?

— Non lo credevo così. — Lei abbassò gli occhi e continuò:

— Non immaginavo che cosa fosse, ecco.

Egli la ricinse con le braccia e la strinse, ma col timore d’apparire
indiscreto. Il corpo di lei, però, s’abbandonò e, nuovamente, le loro
labbra s’unirono.

— Che dirà la mia famiglia? — fece lei, poi, con timore improvviso.

— Lo vedremo subito.

— Ma se mammà dovesse fare delle obbiezioni?... ho paura a dirglielo.

— Lasciatemi fare, — fece Martin coraggiosamente. — Credo che la mamma
non mi veda di buon occhio, ma tenterò di rendermela favorevole. L’uomo
che è riuscito a conquistarvi, può ottener tutto.

— E se non dovessimo riuscire...

— Ebbene?

— Noi ci vorremmo bene lo stesso. Ma è impossibile che vostra madre non
acconsenta al nostro matrimonio; vi vuole troppo bene.

— Non voglio darle un crepacuore, — disse Ruth pensosa.

Egli ebbe voglia di rassicurarla dicendo che un cuore di madre non si
spezza tanto facilmente, ma si limitò ad aggiungere:

— L’amore è la più bella cosa del mondo.

— Sapete, Martin, che mi spaventate, qualche volta? Quando penso a
quello che eravate mi fate paura! Bisognerà essere molto, molto buono
con me. Ricordatevi, che, in fondo, sono una bambina. Non ho mai amato.

— Neppure io. Siamo due bambini. E siamo molto fortunati, giacchè
abbiamo trovato, reciprocamente, il nostro primo amore.

— Ma è impossibile, — esclamò lei respingendolo con un gesto
appassionato. — È impossibile per voi! Siete stato marinaio, e m’hanno
detto che i marinai sono... hanno...

— Hanno necessariamente una donna in ogni porto, — terminò lui. —
Questo volete dire?

— Sì, — fece lei sottovoce.

— Ma quello non è amore, — affermò egli con accento autoritario. — Io
sono sbarcato in tanti porti, ma, prima di conoscervi, non sono stato
neppure sfiorato dall’amore. Sapete che quella sera quando vi lasciai
per la prima volta, c’è mancato poco che non mi arrestassero?

— Arrestare?...

— Sì: una guardia mi credeva ubriaco. Io lo ero... ma di voi.

— Ma dicevate che eravamo bambini, e io dicevo che per voi questo era
impossibile, e abbiamo parlato d’altro.

— Dicevo che non avevo amato se non voi, — rispose lui. — Voi siete il
mio primo, solo amore.

— Eppure eravate marinaio, — insistè lei.

— Ma questo non impedisce che voi siate lo stesso la sola che abbia
amato.

— Ma ci sono state altre donne... altre donne, oh!...

E con gran sorpresa di Martin, essa diede in un pianto tale che
occorsero molti baci e molte carezze per calmarla. E intanto egli era
assillato da questa frase di Kipling: _E la moglie del colonnello
e Giuditta O’ Grady son sorelle per la pelle_. — È vero, si disse,
sebbene molte letture l’avessero indotto a pensare diversamente. Egli
credeva, e quell’errore era imputabile ai romanzi, che nelle classi
elevate, soltanto le richieste ufficiali di matrimonio avessero corso,
e che soltanto nel suo ambiente d’una volta, i giovanotti e le ragazze
si ottenessero per contatto fisico.

Eppure, i romanzi avevano torto; eccone la prova. Quei mezzi,
quelle carezze, quei baci, quelle parole che seducevano le operaie
seducevano anche le donne come Ruth. Erano fatte tutte della stessa
carne, «sorelle per la pelle»; egli avrebbe dovuto saperlo se si
fosse ricordato di Spencer. E, mentre stringeva Ruth fra le braccia
calmandola, provò un gran conforto pensando che la moglie del
colonnello e Judy O’ Grady si rassomigliavano in modo strano. Ruth gli
parve più prossima, più accessibile. Le preziose carni di lei erano
simili a tutte le altre carni, alla sua stessa carne. Non c’era alcun
ostacolo per il loro matrimonio; c’era, sì, la diversità di classe
sociale, ma la classe sociale è una cosa estrinseca, di cui ci si può
sbarazzare. Uno schiavo, aveva letto, s’era innalzato sino all’onore
della porpora romana; dunque egli poteva innalzarsi sino a Ruth. Con
tutta la sua cultura, la sua purezza, la sua infinita bellezza d’animo,
lei rimaneva umana, tale quale Lizzie Connelly e tutte le sue pari.
Tutto ciò che lei provava, Ruth lo provava; essa poteva amare e odiare,
soffrire di nervi, senza dubbio, sicuramente essere gelosa come era
in quel momento, che soffocava gli ultimi singhiozzi fra le braccia di
lui.

— Eppoi, sono più anziana di voi, — disse lei, aprendo gli occhi e
guardandolo: — ho quattro anni di più.

— Zitta!... voi siete una bambina, e io ho perlomeno quarant’anni più
di voi, quanto a esperienza, — rispose lui.

In realtà, per tutto quanto riguardava l’amore, erano tutt’e due
bambini, sebbene lei fosse zeppa di cultura universitaria, e lui
infarcito di filosofia scientifica e delle dure lezioni della vita.

Rimasero così, nella morente gloria del giorno, a parlare come parlano
gl’innamorati, meravigliandosi del loro amore e del loro destino
che li aveva gettati così stranamente l’uno sul cammino dell’altra,
persuasi che s’amavano come nessuno aveva amato prima di loro. E
sempre rievocavano le loro prime impressioni e si ingegnavano invano
ad analizzare la natura dei loro sentimenti reciproci e la loro
profondità.

Il sole calò dietro le nuvole minacciose verso la Porta d’Oro;
l’orizzonte divenne roseo, tutto il cielo si infiammò. Una luce
purpurea l’inondò, mentre Ruth cantava: «Addio dolce giornata». Cantava
con voce soave, distesa fra le sue braccia, colle mani nelle mani di
lui, il cuore sul cuore, come una bambina che s’addormenta.




CAPITOLO XXII.


La signora Morse non dovette stentar molto a capire, dal contegno
di Ruth quando fu a casa, che qualche cosa era accaduto. Il rossore
persistente del volto e soprattutto gli occhioni lucidi rivelavano un
gran turbamento di felicità.

— Che è successo? — domandò la signora Morse, con labbra tremanti.

E senza attendere la risposta, la madre la cinse con le braccia e le
accarezzò dolcemente i capelli.

— »Non ha parlato, — proseguì Ruth disperatamente. — Io non me lo
aspettavo, e non l’avrei mai lasciato parlare... ma non ha detto nulla.

— Ma se non ha detto nulla, nulla è dunque accaduto, non è vero?

— Ma... sì, appunto.

— Dio mio, figliola, che mi racconti! — fece la signora Morse
disorientata. — Allora non ci capisco più nulla. Che è successo,
dunque?

Sorpresa, Ruth guardò sua madre. — Pensavo che avessi capito. Ebbene
siamo fidanzati, Martin ed io.

La signora Morse diede in uno scroscio di risa incredule.

— No, egli non ha detto nulla, — spiegò Ruth. — Mi amava, ecco. Sono
rimasta stupita come te: non ha detto una parola: mi ha soltanto
passato il braccio adorno alla vita e... e io non sono stata più io. E
mi ha abbracciata e io l’ho abbracciato, senza poter resistere; era una
forza superiore alla mia volontà. Allora ho capito che l’amavo.

Lei s’interruppe, sperando nell’assoluzione materna, ma la signora
Morse si chiuse in un gelido silenzio.

— So: è una disgrazia imperdonabile, — proseguì Ruth con voce incerta;
— io non so come potrai perdonarmi, ma non ho potuto resistere. Non
immaginavo d’amarlo prima di quel momento. Dillo a papà... Io non ne
avrei mai il coraggio.

— È meglio non dir nulla a tuo padre. Io vedrò Martin Eden, gli
parlerò, gli spiegherò, egli capirà e ti libererà dalla promessa fatta.

— No, no! — esclamò Ruth sussultando. — Non voglio! L’amo, e l’amore è
dolcissimo. Voglio sposarlo!... se lo permettete, s’intende.

— Noi avevamo concepito diversamente il tuo avvenire, io e tuo padre,
cara Ruth, e io... oh! no, no! non è fissato nulla, non abbiamo
presente nessuno. Noi pensiamo soltanto al tuo matrimonio con uno della
tua condizione, con un uomo onorevole e perbene, che sceglierai tu
stessa e che amerai.

— Ma io amo Martin! — protestò Ruth, con voce piagnucolosa.

— Noi non ostacoleremo la tua scelta, in alcun modo: tu sei la nostra
figlia unica, e non potremmo ammettere che tu possa fare un matrimonio
simile. In cambio della tua educazione raffinata, di tutto ciò che
è fine e delicato in te, non ha altro da offrirti che rozzezza,
grossolanità. Non è un partito per te, in alcun modo. Egli non ha mezzi
per mantenerti. Noi non nutriamo pregiudizi stupidi circa la ricchezza,
ma una certa agiatezza è indispensabile, e nostra figlia deve sposare
un uomo che può darle perlomeno questo, e non già un avventuriero senza
un soldo, un marinaio, un contrabbandiere di Dio sa che, il quale,
inoltre, è, come se non bastasse, uno scervellato e un irresponsabile.

Ruth rimase muta, riconoscendo la verità di ogni parola.

— Egli perde il tempo con la letteratura, tentando di fare, a furia
di cocciutaggine, ciò che ottengono di rado i geni e qualche raro
uomo dotato d’una perfetta cultura universitaria. Un uomo che voglia
sposarsi deve prepararsi al matrimonio; ma lui! Come ti ho già detto,
— e so che tu sei del mio parere, — egli è irresponsabile. E come non
lo sarebbe? Ha il temperamento di marinaio; non ha mai imparato a fare
economie o a diventar sobrio; la sua folle giovinezza gli ha lasciato
l’impronta per sempre. Non è colpa sua, s’intende, ma la sua natura
non muterà per questo. E hai riflettuto agli anni di scostumatezza che
è stato costretto a vivere? Hai pensato mai a questo, figliola? Tu sai
che significa il matrimonio?

Ruth rabbrividì e si strinse a sua madre.

— Ho riflettuto. — E attese un po’ per chiarire il suo pensiero. — Ed
è terribile: solo il pensarlo mi fa ammalare. Te l’ho detto: il mio
amore per lui è una orribile disgrazia... ma non posso, impedirlo. Tu
hai potuto rinunziare all’amore per mio padre? Ebbene! per me, è la
stessa cosa. C’è qualche cosa in me, in lui, che ignoravo sino a questo
giorno; ma è una cosa che esiste e che mi costringe ad amarlo. Io non
ho mai pensato di poter amarlo, eppure l’amo! — concluse lei, con un
leggero accento di trionfo.

Parlarono lungamente senza giungere ad altra conclusione, se non a
questa, che bisognava aspettare un tempo indeterminato, senza far
nulla.

La confessione sincera dell’insuccesso del suo esperimento, fatta dalla
signora Morse a suo marito, dopo, ebbe la stessa conclusione.

— Era quasi fatale, — giudicò il signor Morse. — Quel giovane marinaio
era il solo uomo col quale lei aveva contatto. Un giorno o l’altro,
lei doveva svegliarsi, in tutti i modi; e s’è svegliata, e siccome
quel marinaio era presente e senza rivali, lei s’è sentita spinta
ad innamorarsi subito o a credere di esserne innamorata; il che è lo
stesso.

La signora Morse si dichiarò pronta a influire indirettamente su Ruth,
senza farlo apparire, anzichè contraddirla apertamente. C’era il tempo
di farlo, giacchè Martin non era in condizioni di potersi ammogliare.

— Lasciaglielo vedere sinchè vorrà, — consigliò il signor Morse. — Più
lo conoscerà e meno lo amerà, scommetto. E falle fare dei confronti.
Circondala di signorine e di giovanotti — d’ogni sorta di giovanotti
intelligenti che abbiano fatto qualche cosa o stiano per affermarsi; di
uomini del nostro ambiente, insomma, di gentiluomini!

Lei sarà costretta a far dei paragoni, che le mostreranno chi è lui:
un marinaio! D’altra parte ha vent’un anno appena, è quasi un ragazzo;
e anche Ruth è una bambina. Sono amori da _nursery_, che passeranno
subito.

Le cose rimasero a questo punto. Rimase inteso in famiglia che Ruth e
Martin erano fidanzati, ma non ufficialmente; si pensava giustamente
di non giungere a questo. E fu tacitamente inteso che il fidanzamento
sarebbe durato a lungo. Non essendovi alcuna voglia d’incoraggiare
Martin a mettersi sulla buona strada, non gli fu chiesto nè di cercare
una sistemazione, nè di cessar di scrivere. Ed egli seguì a occhi
chiusi questi subdoli disegni, giacchè non pensava neppur per sogno a
sistemarsi.

— Io mi domando se approverete ciò che ho fatto, — diss’egli a Ruth
alcuni giorni dopo. — Siccome la pensione presso mia sorella costa
troppo, voglio abitare da solo. Ho fittato perciò una cameretta nel
quartiere nord di Oakland, un posto tranquillo, che va benissimo, e ho
comperato un fornelletto a petrolio per cucinare.

Ruth ne fu entusiasta: il fornello a petrolio, specialmente, le piaceva.

— Così ha cominciato il signor Butler, — fece lei.

Martin non apprezzò come meritava quell’allusione ai meriti del degno
gentiluomo, e proseguì:

— Ho affrancati tutti i miei manoscritti, e li ho spediti a nuovi
editori. Oggi ho sgomberato e domani mi metto al lavoro.

— E non me l’avevate detto! Di che si tratta? — Una sistemazione! —
esclamò lei, e tutta beata gli si strinse addosso, e gli prese la mano
sorridendo.

— Voglio dire: mi rimetto a scrivere. — Vedendo l’amara delusione
di lei, egli s’affrettò ad aggiungere: — Capirete bene che non mi
metto all’opera, questa volta, con idee stravaganti; ma ne faccio un
affare, freddamente, prosaicamente. Meglio questo, anzichè riprendere
la navigazione, tanto più che mi darà quanto il mestiere che potrei
esercitare a Oakland, senza competenze speciali.

— Vedete, il riposo che mi son preso, mi ha dato un senso di
prospettiva: non ho affaticato il corpo e non ho scritto, per
pubblicare, almeno. Non ho fatto altro che amarvi e riflettere. Ho
letto anche un po’ di giornali illustrati. Ho ripensato a me, al mondo,
al posto che vi occupo, alle possibilità di conquistarvi un posto degno
di voi; ho letto anche la _Filosofia dello stile_ di Spencer e vi ho
trovate molte notizie interessanti. E il risultato di tutto questo,
delle mie riflessioni, delle mie letture e del mio amore, è il fatto
che mi sono stabilito in via Grub. Metto da parte i capolavori per fare
«del lavoro commerciale»: articoli allegri, ritratti, versi umoristici,
versi da declamare in società, tutte sciocchezzuole che vedo molto
richieste. Poi, ci sono i sindacati dei cronisti, e i sindacati dei
supplementi della domenica. Io fornirò loro ciò di cui hanno bisogno
e guadagnerò discretamente. Voi sapete che vi sono dei pubblicisti
indipendenti che guadagnano due o tremila lire al mese. Io non tengo
a diventare uno di questi; ma posso guadagnarmi da vivere in un modo
conveniente e avere un bel po’ di tempo disponibile; ciò che sarebbe
impossibile con qualsiasi altro impiego.

Avrò così il tempo di studiare e di lavorare per me. Finito il lavoro,
potrò allenarmi a una grande opera, e mi ci preparerò. Veramente, a
ripensarci, sono stupito del cammino fatto! Dapprima, non sapevo che
cosa scrivere, a parte alcune esperienze banali, mal comprese e peggio
analizzate. Non osavo pensare, e non possedevo neppure gli elementi
per questo; le mie esperienze personali erano quasi senz’anima. Poi,
accrescendo le mie cognizioni e il mio vocabolario, tutto ciò m’è
apparso diverso, e ho trovato il vero modo d’interpretare i miei
quadri. Ho cominciato a fare del buon lavoro scrivendo «Avventura»,
«Gioia», «La Marmitta», «Il Vino della Vita», «Lo scompiglio», «Il
Cielo dell’Amore», e i «Poemi del Mare». Ma ne scriverò altri come
questi, e migliori, durante le ore libere. Ora, i miei piedi poggiano
solidamente sulla Terra! Lavoro commerciale e danaro, prima di tutto!,
i capolavori, poi. Per mostrarveli, ho scritto ieri una mezza dozzina
di sciocchezzuole per giornali umoristici; in una mezz’ora ne avevo
ponzati quattro! Valgono cento soldi al pezzo! Venti lire guadagnate in
pochi minuti persi prima di prender sonno.

Naturalmente tutto ciò non ha alcun valore: è un lavoro fastidioso, che
accoppa. Ma non è nè più fastidioso nè più tedioso di quello di tenere
la contabilità a trecento lire il mese, sommando interminabili colonne
di numeri, sinchè si muore. E, d’altra parte, questo lavoro mi mantiene
in contatto col mondo letterario e mi dà il tempo di tentare cose più
grandi.

— Ma a che servono queste grandi cose, questi capolavori? — domandò
Ruth. — Voi non li vendete.

— Oh! sì che li venderò, — disse lui. Ma lei lo interruppe.

— Di tutte le opere che mi avete enumerate e che dite buone, non ne
avete venduta neppur una. Ora noi non potremo accasarci coll’aiuto di
capolavori invendibili.

— Allora ci accaseremo con delle canzonette che si vendono! — affermò
lui, con enfasi attirando a sè la prediletta molto poco entusiasta.
— Volete sentir questo? — continuò egli con finta allegria. — Non è
arte... ma è un dollaro!

    «He came in
    When I was out.
    To borrow one tin
    Was why he came in.
    And he went without;
      So I was in
      And he was out.»[1]

L’allegra monelleria ch’egli mise nel declamare lo scherzo cedette a
un’espressione d’afflizione, quando egli vide che Ruth, non solo non
rideva affatto ma lo guardava con aria perplessa e imbronciata.

— Può darsi che sia un dollaro, questo, ma un dollaro falso, — fece
lei. — Non vedete che tutto ciò è umiliante? Io voglio che l’uomo che
amo e che stimo sia qualcosa di più d’un facitore di versi burleschi e
stupidi.

— Volete che rassomigli al... signor Butler, per esempio?

— So che il signor Butler non vi è simpatico, — disse lei, ma egli
l’interruppe.

— No, no: tutt’altro! Solo, non approvo la sua indigestione. Ma,
quanto a me, non capisco perchè non dovrei fare dei versi umoristici
o degl’indovinelli, anzichè scrivere a macchina, copiare o far di
conto, ottenendo, in fondo, la stessa cosa. Voi partite dal principio
che bisogna che cominci assolutamente coll’allineare delle cifre, per
diventare poi un bravo notaio o un uomo d’affari. Io voglio cominciare
in una forma di basso giornalismo per diventare poi un bravo scrittore.

— C’è una differenza, — obbiettò Ruth.

— Quale?

— Dio mio... voi non potete vendere la vostra buona letteratura, quella
che considerate buona. Avete tentato, non è vero? ma nessun editore ne
vuole.

— Datemi del tempo, cara, — pregò egli. — Questo giornalismo non è che
un mezzo, che non prendo per nulla sul serio. Datemi due anni. Allora
sarò riuscito, e gli editori saranno felici di prendere delle buone
opere. So quel che dico: ho fede in me; so quello di cui sono capace, e
so quanto vale la letteratura attuale; conosco a memoria tutta quella
prosa rancida che una quantità enorme di gente pretenziosa e fallita
ponza tutti i giorni; e so che in due anni sarò sulla strada del buon
successo. Quanto agli affari, non riuscirò mai, non avendo nessuna
passione per essi. Comunque, non mi adatterò mai a farne. Non potrei
diventar altro che commesso di notaio, e che faremmo, Dio buono, dei
miseri proventi d’un commesso?...

Io voglio che siate circondata di quanto v’è di meglio e di più bello,
in seguito. E l’otterrò, otterrò tutto. A confronto dei guadagni
d’un autore alla moda, quelli del signor Butler sono insignificanti.
Un autore alla moda guadagna facilmente dalle duecentomila alle
trecentomila lire l’anno, sia l’annata buona o cattiva, lo sapete?

Lei non rispose nulla; giacchè, evidentemente, non approvava.

— Ebbene? — interrogò lui.

— Io avevo altre speranze e altre idee. Avevo pensato, e penso ancora,
che la miglior cosa per voi sarebbe di studiare la stenografia, —
sapete già dattilografare, — e di entrare nello studio di mio padre.
Voi avete un cervello solido e quadrato, e son sicura che diventereste
un ottimo notaio.




CAPITOLO XXIII.


Il fatto che Ruth non aveva alcuna fede nell’avvenire di Martin come
scrittore non la diminuì agli occhi di lui. Durante il riposo delle
vacanze, egli aveva trascorso lunghe ore ad esaminare e studiare se
stesso. Scoprì che prediligeva, più che la gloria, la bellezza, e che
s’augurava la celebrità per Ruth, soprattutto. Voleva essere «grande»
agli occhi del mondo, affinchè la donna ch’egli amava fosse orgogliosa
di lui e lo considerasse degno di lei. Ma, quanto a lui, amava
appassionatamente la bellezza e gli bastava la gioia di esprimerla;
e, più che la bellezza, amava Ruth. Egli considerava l’amore come la
cosa più meravigliosa, al mondo. Era l’amore che aveva prodotto in lui
quella straordinaria trasformazione, facendo d’un marinaio grossolano
uno studente e un artista: l’amore dunque superava la scienza e l’arte.
Egli aveva già scoperto che intellettualmente superava Ruth, come
superava i fratelli e il padre di lei. A dispetto dei vantaggi della
cultura universitaria, dei suoi diplomi di laureata in lettere, lei
rimaneva molto inferiore alla potenza intellettuale di lui, al quale un
anno di studî da solo, donavano una conoscenza della vita, dell’arte,
che lei non avrebbe acquistata mai.

Egli si rendeva conto di tutto ciò, ma senza amarla meno e senza che
lei lo amasse meno. C’era forse il minimo rapporto tra il loro amore e
la diversità delle loro idee sull’arte, sulla morale, sulla rivoluzione
francese, e sul suffragio universale? Queste idee erano ragionevoli,
e l’amore, invece era di là dalla ragione. L’amore abita le alte cime,
molto al disopra delle valli della ragione, e colui che coglie questo
fiore raro non può discendere tra gli uomini sinchè il fiore non sia
appassito. Per mezzo dei filosofi positivisti ch’egli prediligeva,
aveva conosciuto il significato biologico dell’amore, ma procedendo
secondo lo stesso ragionamento scientifico, egli giunse a questa
conclusione, che l’organismo conquista il massimo dello sviluppo per
mezzo dell’amore e che questo non dev’essere discusso, ma accettato
come la suprema ricompensa della vita. Egli giudicava dunque che
l’amore nobilitasse ogni creatura, e gli piaceva pensare a «L’Amante
eterno» che s’innalza al disopra di tutte le cose terrestri, al disopra
delle ricchezze e del giudizio degli uomini, dell’opinione pubblica e
della gloria, al disopra della vita stessa e «muore per un bacio».

Pur riflettendo a queste cose, Martin lavorava senza tregua tranne
quando andava a trovare Ruth, e viveva da spartano; pagava dodici lire
al mese la cameretta ch’egli abitava presso una vedova portoghese,
Maria Silva, dura nel lavoro e dura di carattere, la quale allevava
come poteva la sua numerosa prole e annegava talvolta le sue
preoccupazioni e la sua stanchezza in un acre vinaccio da dieci
soldi il litro, comprato dalla drogheria dell’angolo. Martin cominciò
coll’odiare lei e la sua terribile lingua; poi l’ammirò per la sua
intrepidezza. La casetta comprendeva quattro camere in tutto: una di
esse, — il salotto adorno d’un vivace tappeto a fiorami e del ritratto
funebre d’uno dei numerosi figliuoli, — era rigorosamente riservata
alle visite. Le imposte ne erano sempre chiuse, e l’ingresso ne era
severamente proibito alla marmaglia scalza, tranne nelle occasioni
solenni. Si mangiava nella cucina dove lei lavava, insaldava e stirava
tutti i giorni. — tranne la domenica, — per i vicini, e questo lavoro
costituiva la più chiara delle sue rendite. Rimaneva un’unica camera
da letto, piccola come quella di Martin, nella quale si agitavano
e dormivano i sette marmocchi e la loro madre. Martin si domandava
sempre per mezzo di quale miracolo potessero riuscirvi quando la sera,
attraverso il sottile tramezzo, gli pervenivano tutti i particolari
della loro andata a letto, i cicalecci e i pigolii, simili a quelli
degli uccelli quando s’addormentano. Una delle fonti dei proventi di
Maria, erano le due vacche che lei mungeva mattina e sera, e che si
nutrivano, bene o male, dell’erba dei terreni incolti, guardate da uno
dei suoi due marmocchi cenciosi il cui compito principale consisteva
nell’eludere la vigilanza dei guardiani delle tenute.

Nella sua cameretta, Martin studiava, scriveva e si governava da sè.
Davanti l’unica finestra, che affacciava sul portico minuscolo, era
la tavola da cucina che fungeva, di volta in volta, da scrittoio,
da biblioteca e da sostegno per la macchina da scrivere. Il letto,
appoggiato al muro di fondo, occupava due terzi della camera. La tavola
era fiancheggiata, a un lato, da uno scrittoio fastoso che serviva, più
che altro, da ornamento, giacchè la sottile impiallacciatura saltava
a scaglie, ogni giorno di più. Nell’angolo opposto, erano posati la
cucina, il fornello a petrolio, una scatola di biscotti inservibile,
che conteneva piatti e diversi arnesi, un’asse fissa al muro, per le
provviste, e, a terra, un secchio d’acqua. Martin doveva andare ad
attingere acqua al rubinetto, di fuori. Al disopra del letto, appesa a
una puleggia, pendeva la bicicletta ch’egli dapprima aveva tentato di
lasciare negli scantinati, ma siccome la tribù dei Silva si divertiva
a smontarne il manubrio e a forarne le gomme, aveva dovuto rinunziare
a tenerla lì. Aveva cercato poi di ripararla sotto il portico, ma dopo
che un violento uragano l’ebbe inondata tutta una notte, l’aveva appesa
finalmente in camera, a mo’ di baldacchino.

Un minuscolo stanzino conteneva i vestiti e i libri che s’accumulavano
talmente, da non trovar posto nè sulla tavola, nè sotto.

Egli aveva presa l’abitudine di annotare leggendo, e in modo così
copioso, che tutta la camera sarebbe diventata inabitabile, senza
alcune cordicelle tese da un muro all’altro, sulle quali egli appendeva
le note, come biancheria da asciugare. Ciò nonostante, la camera era
talmente ingombra, che percorrerla era una impresa difficile, così che
egli non poteva aprir la porta d’entrata senza chiudere prima quella
dello stanzino, e viceversa. Quanto ad attraversare la camera in linea
retta, non era il caso di pensarvi nemmeno; il tragitto non poteva
essere fatto in linea retta, e di giorno soltanto. Dopo aver risoluta
la questione delle porte, bisognava girare ad angolo retto, per evitare
la cucina, poi a sinistra; per non urtare contro il piede del letto,
ma delicatamente, altrimenti si correva il rischio di sbattere contro
lo spigolo della tavola. Accadeva che quando questa non serviva,
era posata sul letto. Gli capitava spesso di sorvegliare la cucina
leggendo, oppure di scrivere un paragrafo o due mentre arrostiva la
bistecca. D’altra parte, l’angoletto che formava la cucina era così
angusto, ch’egli, stando seduto, poteva badare a tutto; in piedi,
invece, occupava troppo spazio e dava impaccio a se stesso con la sua
persona.

Fornito com’era d’uno stomaco di struzzo, egli sapeva quali erano gli
alimenti insieme nutritivi e a buon mercato. La minestra di piselli
passati, le patate e i fagioli scuri cotti alla messicana, formavano in
gran parte il suo alimento. Il riso, cucinato come le massaie messicane
non sapranno mai fare, compariva sulla tavola di Martin almeno una
volta al giorno. Siccome la frutta secca era meno cara di quella
fresca, egli ne aveva sempre un vasetto di già cotta, giacchè egli ne
spalmava il pane, invece di burro. Talvolta si concedeva il lusso di
una fetta di manzo e d’un bollito. Due volte al giorno, prendeva il
caffè, e la sera, del tè, ch’egli preparava in modo eccellente.

Bisognava assolutamente fare economia. Durante le vacanze aveva
consumato quasi tutto il danaro guadagnato nella stiratoria, e,
passarono altre settimane senza ch’egli potesse sperare di ottenere il
frutto del suo lavoro attuale. Tranne per qualche visita a Ruth o a suo
sorella Geltrude, egli non usciva, ma viveva come un recluso, facendo
ogni giorno perlomeno tanto lavoro quanto ne può fare un lavoratore
comune in tre giorni. Dormiva cinque ore appena, e bisognava avere
una costituzione di ferro per sopportare, come faceva lui, diciannove
ore continue di lavoro. Non perdeva neppure un minuto secondo; aveva
esposto allo specchio delle liste di definizioni, di modi di pronunzia,
e radendosi, vestendosi, pettinandosi, egli ripassava quelle liste!
Altre liste erano attaccate mediante spilli al muro sopra il fornello,
ed egli le consultava mentre cucinava o lavava le stoviglie. Appena le
imparava a memoria, le sostituiva con altre. Ogni parola nuova o non
compresa trovata nei libri che leggeva, era immediatamente segnata.
Egli portava persino con sè quelle liste in tasca e le studiava per la
via, aspettando il suo turno, dal macellaio o dal droghiere.

Ma non basta: leggendo le opere di coloro che avevano ottenuto il
successo, egli annotava i risultati ottenuti da loro, gli espedienti
usati, e poi li studiava. Non plagiava ma cercava dei principî. Così
formò delle liste di procedimenti abili, poi ebbe egli stesso delle
trovate che s’ingegnò di applicare in modo originale. Allo stesso modo
collezionò frasi parlate, frasi mordenti come acido, o brucianti come
fiamma, altre soavi, luminose e fresche come fonti d’acqua viva nel
deserto arido del linguaggio convenzionale.

Dovunque cercava la regola e il metodo. L’apparenza soltanto della
bellezza non lo soddisfaceva più; egli la sezionava nel suo laboratorio
dove gli odori di cucina s’alternavano col chiasso da serraglio della
tribù dei Silva; e, conoscendo l’anatomia della bellezza, egli sentiva
accresciuto il potere di crearne.

Era incapace di lavorare senza capire, come un cieco che s’affidi
semplicemente al caso e alla sua buona stella... Secondo lui, nulla
doveva essere fatto a caso; voleva sapere il perchè e il come. Il suo
talento era risolutamente creatore, così che, prima di cominciare un
racconto o un poema, l’opera era già tutta viva nel suo cervello,
con la conclusione e il modo di giungere a tale conclusione nella
maniera più interessante. D’altra parte egli si meravigliava di qualche
trovata spontanea che si rivelava alla prova della più severa analisi.
E sebbene sezionasse la bellezza per scoprirne i principî esoterici,
rimaneva sempre convinto che l’essenza stessa di quella bellezza è
impenetrabile. Sapeva benissimo, dalla lettura dello Spencer, che
nessuno può conquistare l’assoluta conoscenza e che il mistero inerente
alla bellezza è imperscrutabile come quello della vita; che, anzi, le
fibre della bellezza e della vita sono intimamente congiunte, e che
egli stesso era una particella dell’inconoscibile, contrasto di sole,
di polvere stellare e d’etere.

Pieno di questi pensieri, egli scrisse il saggio intitolato «Polvere
di Stelle», nel quale difendeva, non i principi della critica,
ma le critiche più celebri. Era profondo, brillante, filosofico
e deliziosamente spirituale. Anche questo fu respinto da tutte le
riviste, con una unanimità notevole. Ma, sbarazzatasene la mente,
egli proseguì il cammino con serenità. Era un’abitudine, ora: appena
concepito l’argomento, egli lo concretava immediatamente scrivendolo
a macchina. Il fatto che fosse pubblicato o no, aveva un’importanza
relativa; l’importante era liberarsi la mente da un fardello che
l’ingombrava, per poter chiarire altri problemi e maturare altri
pensieri. Rassomigliava un po’ a coloro che, tormentati da una
sofferenza, — vera o falsa, — rompono periodicamente un silenzio
meritorio, per dare addosso all’oggetto del loro martirio, con tanta
maggior violenza, quanto più contenuta.




CAPITOLO XXIV.


Le settimane passavano, e Martin non aveva neppure un soldo, e gli
_chèques_ degli editori si facevano aspettare. I suoi manoscritti,
ormai invecchiati, erano ritornati, poi ripartiti; e il suo giornalismo
non era più fortunato. La lista delle sue vivande divenne, di giorno
in giorno, d’una semplicità sempre rudimentale. Durante cinque giorni
visse con un mezzo sacco di riso e con qualche chilogrammo di fagioli
secchi. Poi cercò di vivere a credito. Il droghiere portoghese, che
sino ad allora era stato pagato in contanti, rifiutò ogni anticipo,
quando il conto di Martin ebbe raggiunto l’enorme somma di L. 15,60.

— Sentite, — egli fece, — vedo bene che non trovate lavoro e che
perderei il mio danaro.

E Martin non ebbe nulla da replicare. A che scopo dare delle
spiegazioni? La più elementare concezione commerciale vietava che si
facesse credito a un vigoroso giovanotto, evidentemente troppo pigro
per lavorare.

— Se trovate del lavoro, vi fornirò della merce. — assicurò il
droghiere, — ma niente lavoro, e niente merce. Così vanno gli affari.

Poi, per dimostrargli proprio che non gli voleva male, propose: —
Andiamo a bere un bicchiere al banco: rimaniamo amici lo stesso.

Martin bevve, per mostrare che anche lui non gli serbava rancore, poi
andò a letto, senza cena.

Il negozio dove Martin faceva acquisto di legumi era tenuto da un
americano, i cui principî commerciali erano tanto deboli da lasciar
crescere il conto sino alla somma di venticinque lire!

Martin, facendo il computo dei debiti, si disse di averne per
l’ammontare di settantacinque lire, senza tener conto di ciò che
doveva per la macchina da scrivere: poi si disse che avrebbe ottenuto
certamente due mesi di credito; ma, passati i due mesi...

L’ultimo acquisto lo fece presso il fruttivendolo comperando un sacco
di patate, e durante otto giorni mangiò patate, nient’altro che patate,
tre volte al giorno. Un pranzo in casa di Ruth, di tanto in tanto,
l’aiutava a mantenersi su, ma egli soffriva sforzandosi di essere
discreto per rispetto alle convenienze, quando sentiva un appetito
rabbioso, vedendo tante buone pietanze esposte davanti a lui. Talvolta
egli entrava in casa di sua sorella al momento dei pasti e mangiava a
soddisfazione, come non osava mai fare presso i Morse.

E continuava a lavorare; e tutti i giorni il portalettere gli riportava
dei manoscritti rifiutati, che, quando egli non ebbe più denaro per
affrancarli, s’accumularono sotto la tavola. Poi venne il giorno in
cui non ebbe più da mangiare, e così un altro. Egli non poteva fare
affidamento su un pranzo da Ruth, giacchè lei era andata a San Rafael
per quindici giorni, e una falsa vergogna gl’impediva d’andare da
sua sorella. Per colmo di sfortuna, il portalettere gli consegnò nel
pomeriggio cinque manoscritti rifiutati. Allora Martin andò a portare
il soprabito al Monte di pietà di Oakland e ritornò con venticinque
lire in tasca. Egli diede cinque lire d’acconto a ciascuno dei quattro
suoi fornitori, comperò una bistecca e delle cipolle fritte, bevve del
caffè e fece cuocere un gran vaso di prugne; poi, saziatosi, sedette
a tavola e finì un saggio, ch’egli intitolò: _Dell’Usura, istituzione
filantropica_. Dattilografatolo, lo gettò sotto la tavola, giacchè
non gli rimaneva nulla delle venticinque lire, per acquistare dei
francobolli. Tempo dopo, egli diede in pegno l’orologio e la bicicletta
e, trattenendo dal danaro così ottenuto un minimo per l’acquisto
delle provviste, affrancò tutti i manoscritti e li spedì nuovamente.
Il suo giornalismo lo deludeva; nessuno si curava di prendergli
gli articoli. Eppure, confrontandoli con quelli che egli vedeva nei
giornali, nelle pubblicazioni settimanali e nelle riviste popolari,
li stimò recisamente migliori, molto migliori della media. Eppure
non si vendevano! S’accorse allora che i giornali ne pubblicavano di
quelli che in gergo di mestiere chiamano «plate stuff», e si procurò
l’indirizzo del sindacato che ne forniva. Gli fu restituito il lavoro
con una frase scritta a macchina che l’informava che la Casa bastava a
se stessa.

In uno dei grandi periodici per la gioventù, osservò delle colonne
intere di novelle e di aneddoti. Egli tentò anche questa possibilità,
invano. In seguito, quando egli non ne ebbe più bisogno, seppe che i
redattori erano soliti di accrescere i loro proventi, fornendo essi
stessi quel genere di prosa. I giornali umoristici gli rimandarono
gl’indovinelli e i poemi burleschi; i «versi da dire in società»
non ebbero più lieta accoglienza nei giornali illustrati. Rimanevano
ancora le novelle per quotidiani. Egli sapeva che le sue erano migliori
di quelle che si pubblicavano: avendo ottenuto gl’indirizzi di due
sindacati di giornali, inondò questi di novelle. Quando ne ebbe scritte
una ventina senza successo, vi rinunziò. Eppure ogni giorno leggeva,
nei quotidiani e nei settimanali, masse di novelle di cui neppure una
valeva le sue. Scoraggiato, egli giunse alla conclusione che non c’era
alcun giudizio, ch’egli si suggestionava su ciò che scriveva, insomma,
ch’egli non era altro che un illuso pieno di pretensione.

L’immane macchina editoriale seguiva il suo cammino solito. Egli univa
i francobolli ai suoi manoscritti, e ficcava questi nella cassetta;
circa tre settimane dopo il portalettere saliva le scale e glieli
riportava. Certamente nulla di umano era in fondo a tutto ciò: erano
congegni perfezionati, ingranaggi ben composti, distributori automatici
e specie di oliatori. Nella sua disperazione, egli giunse al punto di
dubitare persino dell’esistenza degli editori. Neppur uno di essi aveva
dato segni di vita, così ch’era perfettamente giustificata l’ipotesi
d’una grande manifattura anonima mossa da meccanici, da tipografi e da
strilloni. Le ore che passava con Ruth erano le sole felici, ma non
tutte. Una specie di morbida angoscia lo attanagliava continuamente,
ed era molto più snervante ora che lei lo amava, giacchè, il possesso
reale gli appariva più lontano che mai. Egli aveva chiesto due anni;
il tempo passava, ed egli non veniva a capo di nulla. Inoltre, si
rendeva conto benissimo del fatto che lei non approvava punto il suo
genere di vita. Non per risentimento, giacchè lei aveva un carattere
mite, ma perchè delusa dal fatto che quell’uomo che lei aveva deciso di
modellare a modo suo, rifiutava di lasciarselo fare. Sino a un certo
punto, egli s’era prestato a quel rimaneggiamento; poi, urtato a un
tratto, aveva rifiutato di essere formato a somiglianza del signor
Butler o del signor Morse.

Ciò ch’era grande, potente, originale in lui, lei non vedeva o,
peggio non comprendeva. Quell’uomo d’una materia intellettuale così
pieghevole, che permetteva, a lui così grande, di vivere in un buco
da talpe, era giudicato da lei un essere limitato, perchè lei non
poteva costringerlo a vivere nel suo buco da talpe, il solo che ella
conoscesse. Era incapace di seguirne i voli della mente, così che
quando il cervello di lui superava quello di lei, egli le pareva pazzo,
semplicemente. Lei non era stata superata mai da alcuno; suo padre,
sua madre, i fratelli e Olney erano al suo livello; dunque, giacchè lei
non poteva seguire Martin, era lui il manchevole; si ripeteva l’eterna
commedia dell’isolano che vuol dettar legge all’universo intero.

— Voi siete un’adoratrice della Cosa stabilita, — le disse un giorno
lui, in una discussione su Praps e Vandervater. — Ammetto che questi
siano i due critici più progrediti degli Stati Uniti. Tutti i maestri
di scuola del paese guardano a Vandervater come al maestro sommo
della critica. Io ho letto la sua prosa, e mi sembra il non plus ultra
della stupidaggine; non è altro che un pomposo soporifero, come dice
Colette Burgess. E Praps non vale molto di più; il suo _Hemlok Mosses_,
in compenso, è scritto in modo meraviglioso: non manca nemmeno una
virgola! E, il diapason ne è così alto, così superlativamente sublime!
È egli il critico meglio pagato degli Stati Uniti; soltanto, buon
Dio! non è punto un critico. In Inghilterra fanno di meglio. Ma ecco,
essi conoscono il loro pubblico e lo lusingano magnificamente, con
perfetta serenità e una moralità a tutta prova. Le loro riviste mi
fanno ricordare una domenica londinese; sono il portavoce del popolo.
Sostengono i vostri professori d’inglese i quali sostengono esse; non
c’è un’idea originale nelle loro opere; essi non conoscono altro che la
cosa stabilita; in realtà sono essi le cosa stabilita. Il loro povero
cervello è fortemente colpito dalla cosa stabilita, come il montone
dal marchio del gregge. E la loro funzione consiste nel mettere lo
stampo su tutti i giovani universitarî, e nello scacciarne tutto ciò
che possono avere d’originale nel cervello e nel segnarli col suggello
della «Cosa Stabilita».

— Io credo d’essere più vicina alla verità, — rispose Ruth, —
attenendomi alla cosa stabilita, che non voi colla vostra rabbia
iconoclastica simile a quella dei selvaggi delle isole dell’Arcipelago.

— Sono stati i missionari a rompere le immagini! — replicò lui ridendo.
— Disgraziatamente, tutti i missionarî sono partiti in missione presso
i pagani, dimodochè non ne rimangono da noi, per infrangere questi
vecchi idoli, Vandervater e Praps!

— Dimenticate i professori delle Università. — aggiunse lei.

Egli scosse il capo con enfasi. — Bisogna lasciar vivere i professori
di scienza; essi sono veramente grandi. Ma sarebbe davvero una bella
opera sterminare il novantanove per cento dei professori di letteratura
inglese, che hanno un cervello da pappagalli.

Questo giudizio severo era per Ruth una bestemmia.

Essa non poteva far di meno di paragonare i professori, — delicati,
dotti, ben vestiti, che parlavano con voce modulata e respiravano la
cultura più raffinata, — con quell’indescrivibile giovanotto che lei
amava, Dio sa perchè: sempre un po’ disordinato nel vestire, con dei
grossi muscoli che rivelavano un passato volgare, e che s’eccitava
parlando, esagerando tutto, scattando alla minima contraddizione.
Eppoi, essi, se non altro, guadagnavano tanto da vivere con larga
agiatezza, mentre egli non era capace di guadagnare un penny. Lei non
giudicava gli argomenti di Martin dalle parole, ma riteneva in cuor
suo, semplicemente — inconsciamente, è vero — che fossero falsi. I
professori avevano ragione, perchè erano riusciti; Martin aveva torto,
perchè falliva. Per dirla con le sue parole: essi erano qualche cosa,
e lui era niente. D’altra parte, sarebbe stato veramente irragionevole
che avesse ragione lui che lei vedeva ancora, poco tempo prima, in
piedi nello stesso salotto, goffo e tutto rosso, in atto di guardarsi
attorno timidamente, spaventato nel pensare che le sue spalle potessero
rovesciare qualche ninnolo; proprio lui che domandava da quanti
anni Swinburne fosse morto, e annunziava trionfalmente d’aver letto
_Excelsior_ e _I Salmi della vita_!

Incoscientemente, Ruth dava la prova che lei non stimava altro che
la Cosa Stabilita. Martin seguiva lo sviluppo dei suoi pensieri, ma
non voleva andar oltre. Egli non l’amava per le idee che lei aveva su
Praps, Vandevaler e i professori di letteratura inglese, e si convinse
sempre più di possedere delle capacità cerebrali e un’ampiezza di
sguardo filosofico che lei non avrebbe potuto mai capire e neppure
immaginare.

In fatto di musica, lei lo giudicò insensato, e in materia teatrale,
pervertito.

— Be’, che ne dite? — gli domandò lei una sera, — tornando a casa dal
teatro lirico, dov’egli l’aveva condotta a furia di lesinare in modo
sordido sul vitto. Commossa e turbata dalla musica, lei aveva atteso
invano ch’egli parlasse.

— Il preludio m’è piaciuto, è meraviglioso, — disse lui.

— Sì, ma l’opera per se stessa?

— Meravigliosa anch’essa; la musica, s’intende; sarebbe stata perfetta
se quegli epilettici fossero rimasti tranquilli o avessero abbandonata
la scena.

Ruth rimase sbalordita.

— Parlate della Tetraloni o di Barillo? Ma sono dei grandi artisti! —
disse lei protestando.

— Eppure hanno sciupato la musica, con quel loro atteggiamento falso e
convenzionale.

— Ma non vi piace la voce di Barillo?... È la migliore, dopo quella di
Caruso, a quanto pare.

— Sì che mi piace, sebbene preferisca la Tetraloni, la cui voce è
squisita, almeno secondo me.

— Ma, ma... — balbettò Ruth. — Non capisco ciò che vogliate dire,
allora. Voi ammirate la loro voce, eppure dite che guastano la musica!

— Precisamente. Pagherei molto per udirli in un concerto, e anche più
per udirli senza orchestra. Vedete, io temo di essere uno spaventoso
realista, ma i grandi cantanti non sono grandi attori...

Sentire Barillo che canta un motivo d’amore con voce celeste, sentir
la Tetraloni rispondergli con voce egualmente celeste, e udirli tutt’e
due accompagnati da una musica colorata, scorrevole, è un regalo
assolutamente meraviglioso. E, più che ammetterlo, io lo affermo. Ma
tutto l’effetto è sciupato, quando li guardo, quando vedo la Tetraloni
— cento chilogrammi, e un metro e 85 centimetri, e Barillo, con la
sua faccia untuosa, il torso tozzo e le gambe troppo corte, — assumere
tutt’e due delle pose plastiche, colpirsi il petto, agitar le braccia,
con un’aria di pazzi scappati da un manicomio! E quando si pretenda
che io pensi di assistere a una scena d’amore fra una giovane e bella
principessa e il principe Azzurro, ebbene no, non posso ammettere ciò,
ecco!... È stupido, assurdo e falso! falso soprattutto. Non mi dite che
nessuno al mondo ha mai cantato il suo Amore in questo modo; come! ma
se io vi facessi la corte così voi mi prendereste a schiaffi!

— Ma v’ingannate, — protestò Ruth. — Ogni forma d’arte ha i suoi
limiti. (Lei faceva il possibile per ricordare una conferenza sulla
convenzione nelle arti, sentita all’Universilà). In pittura non avete
che due dimensioni sulla tela; eppure accettate l’illusione delle tre
dimensioni che l’arte del pittore gli permette di rappresentare. Per la
letteratura, accade lo stesso; voi trovate perfettamente legittimo che
l’autore vi descriva i pensieri intimi della sua protagonista, eppure
sapete che essa era sola e che nè l’autore, nè alcuno poteva sapere
ciò che lei pensasse. E lo stesso accade nel teatro, nella scultura,
nell’opera lirica, in tutte le manifestazioni dell’arte. Certe cose
inevitabili debbono essere accettate.

— Sì, capisco, — fece Martin. — Ogni arte ha le sue forme convenzionali.

(Ruth si stupì udendo questa frase; si sarebbe detto ch’egli avesse
studiato all’università, anzichè spigolato a caso nei libri della
biblioteca). Ma le convenzioni debbono accostarsi alla realtà. Noi
ammettiamo che degli alberi dipinti grossolanamente su cartone e
drizzati a ciascun lato della scena rappresentino una foresta; bene;
ma, d’altra parte, non ammetteremmo che questa foresta possa essere
rappresentata da un paesaggio marino; sarebbe illogico, un’illogicità
che non possiamo accettare. E voi stessa non potete, cioè non dovreste,
ammettere che le smanie ridicole, i contorcimenti e le smorfie penose
dei due pazzi di questa sera siano considerate come manifestazioni
d’una scena d’amore.

— Non vi credete, per caso, superiore a tutti i critici musicali, no?...

— No, no: per ora almeno, no! Io faccio uso del mio diritto
individuale, semplicemente. Vi ho detto ciò che ne penso, per farvi
capire perchè gli sgambetti elefantini della signora Tetraloni mi
sciupano la musica. I grandi giudici musicali possono avere ragione
tutti quanti; ma io sono io, e non assoggetterò il mio gusto al
giudizio concorde del pubblico. Se una cosa non mi piace, non mi piace,
ecco; e nulla al mondo me la farà piacere per scimmiottatura, perchè
piace a gran parte de’ miei contemporanei, o perchè fanno finta che
piaccia.

I miei gusti e le mie antipatie non possono seguir la moda.

— Ma, sapete, per capir la musica occorre un’educazione musicale. —
obiettò Ruth, — specialmente per l’opera lirica. Non credete che...

— Che non sia abbastanza colto per l’opera lirica? — domandò lui
vivacemente.

Lei fece un segno affermativo.

— Appunto, — disse lui. — E mi considero fortunatissimo di non
essere stato educato da piccolo. Se lo fossi stato, questa sera avrei
versato dolci lacrime, e le buffonerie ormai vecchie di quella coppia
delirante avrebbero fatto risaltar meglio, ai miei occhi, la bellezza
della loro voce e quella della musica. Avete ragione; sì, è questione
d’educazione. Ma ormai sono troppo vecchio; mi occorre della verità,
o niente affatto. Un’illusione che non è altro che una parodia è
una vile e semplice menzogna; ed ecco l’effetto che produce in me la
grande opera, quando il piccolo Barillo, come arrabbiato a un tratto,
s’affanna a schiacciare col suo petto la voluminosa Tetraloni anch’essa
arrabbiata, e le urla all’orecchio quanto l’adori.

Nuovamente, Ruth lo condannò in nome dei pregiudizi e della sua fede
nella Cosa Stabilita. Perchè doveva aver ragione contro il parere
della gente colta? Quei discorsi e quei pensieri non producevano alcuna
impressione in lei. Essa avevo troppo rispetto delle idee ufficialmente
accreditate, per concedere la minima simpatia alle idee rivoluzionarie.
La musica e l’opera lirica le erano sempre piaciute, come piacevano
alle persone ch’essa frequentava. Con qual diritto Martin Eden, appena
uscito dai «Rag-times» e dalle canzoni popolari, s’erigeva a giudice
della musica dell’ambiente di lei?...

Mentre gli camminava al fianco, essa s’innervosiva e si sentiva
vagamente ferita nell’orgoglio; pure sforzandosi d’essere molto
indulgente, considerava quella manifestazione d’idee come un capriccio
di pessimo gusto, una monelleria un po’ fuori posto. Ma quando, davanti
al portone di casa, egli la strinse con tenerezza fra le braccia e la
baciò amorosamente, lei dimenticò tutto.

E dopo, col capo sul cuscino, lei si domandò, con un senso di stupore,
come faceva spesso da un po’ di tempo, come mai avesse potuto amare un
uomo così strano e come l’amasse nonostante l’opposizione dei suoi.

Il giorno dopo, Martin Eden, messo da parte il giornalismo, ancora
vibrante della discussione della sera precedente, si mise a scrivere un
saggio che intitolò: «_Della Filosofia dell’illusione_«, e, finitolo
d’un fiato, lo affrancò e lo spedì subito. Ma dovette affrancarlo
parecchie volte, dopo, e rispedirlo spesso durante i mesi che
seguirono.




CAPITOLO XXV.


Maria Silva era povera, e nulla di ciò che la povertà comporta le era
estraneo. Per Ruth, essere povero, significava semplicemente vivere un
genere di vita privo di divertimenti; questo è quanto ella conosceva
al riguardo. Sapeva che Martin era povero e paragonava volentieri
le sue condizioni con quelle di Abramo Lincoln giovane, del signor
Butler o di qualche altro giunto poi alla prosperità. D’altra parte,
pur pensando che la povertà non avesse in sè nulla di allegro, era
convinta, da buona borghese, che fosse una cosa salutare e una specie
di eccellente frustata per spingere al successo ogni uomo non nato
irrimediabilmente schiavo. Il conoscere che Martin era così povero,
che aveva impegnato l’orologio e il soprabito non la turbò dunque. Lei
considerava persino questo fatto come molto soddisfacente, pensando che
prima o poi si sarebbe stancato di quella vita e deciso ad abbandonate
la letteratura. Lei non aveva mai indovinato la fame sul volto di
Martin, le cui gote s’incavavano sempre più, di giorno in giorno;
osservava, anzi, il mutamento con soddisfazione; egli le sembrava più
affinato, perdeva un po’ di quell’animalità vigorosa che l’attraeva e
le ripugnava. Talvolta, quando gli occhi di lui avevano una lucentezza
più febbrile, lei se ne rallegrava, perchè le pareva che rassomigliasse
più a un dotto o a un poeta, come lei in fondo avrebbe avuto piacere
che egli fosse. Ma Maria Silva vide ben altro nelle guance incavate e
negli occhi febbrili del suo locatario, e osservava i cambiamenti di
giorno in giorno, secondo le alternative della borsa. Lo vedeva andar
via col soprabito e ritornar senza, sebbene l’aria fosse rigida e
pungente. Quel giorno le sue guance s’erano riempite un po’ e la febbre
degli occhi s’era attenuata. Lei vide anche sparire la bicicletta e
l’orologio e, a ogni sparizione, migliorare momentaneamente l’aspetto
del volto. Misurò anche l’intensità del suo lavoro dalla quantità
d’olio che bruciava la notte e capì che egli la superava nel lavoro,
benchè quello di lui fosse diverso dal suo. Rimase però stupita dal
fatto che meno egli mangiava e più lavorava. Talvolta, quando le pareva
che il bisogno si facesse troppo sentire, gli mandava del pane tostato
da lei, con la scusa che certamente egli non sapeva farlo così bene;
oppure gli mandava, per mezzo d’uno dei marmocchi, una gran ciotola
di minestra, pur domandandosi se aveva il diritto di privarne la sua
nidiata. E Martin gliene era grato, giacchè conosceva la vita dei
poveri e sapeva che se c’è della carità sulla terra, quella era la
vera.

Un giorno che Maria aveva sfamato la sua nidiata con tutto ciò che
rimaneva in casa, e speso gli ultimi dieci soldi per l’acquisto d’un
litro di vinello, Martin, entrato in cucina per chiedere dell’acqua, fu
invitato a sedersi e bere un bicchiere con lei. Egli bevve alla salute
di lei, e lei bevve alla salute di lui, poi alla buona riuscita dei
suoi affari, ed egli bevve alla speranza che James Grant le pagasse
il conto della lavatura (James Grant era un carpentiere che lavorava a
giornata, non pagava volontieri e doveva a Maria quindici lire).

Maria e Martin bevvero il loro litro, e per lo stomaco vuoto e per
l’aspro vino nuovo, sentirono in breve i fumi alla testa. Sebbene
diversi, la loro miseria era uguale, e, sebbene tacitamente ignorata,
l’indulgenza li accostava. Maria rimase impressionata quando seppe
ch’egli era stato nelle Azzorre, dove lei aveva vissuto sino all’età di
undici anni: e lo fu di più nel sapere ch’egli conosceva le isole Hawai
dove ella aveva emigrato poi colla famiglia. Ma la sorpresa divenne
stupore quando egli le disse ch’era stato a Mani, l’isola dove lei
s’era maritata. A Kalului, dove lei aveva conosciuto suo marito, egli
era stato due volte. Sì, lei ricordava i piroscafi carichi di zucchero,
ed egli, Martin, era a bordo di essi! Veramente il mondo è piccolo! E
Wailuku! anche là! Conosceva il capo della piantagione?... Sì, aveva
persino bevuto qualche bicchiere con lui. Così tutt’e due rievocavano
il passato, ingannando la fame col vinello aspro. L’avvenire parve a
Martin meno nero; il successo gli tremolava sulla punta delle dita come
una stella; in breve, egli lo avrebbe afferrato. Poi osservò la faccia
solcata di rughe della donna logorata, invecchiata dal lavoro, ricordò
le minestre e le pagnotte, e una calda ondata di riconoscenza e di
filantropia gli gonfiò il petto a un tratto.

— Maria! — esclamò egli a bruciapelo. — Che vorreste avere?

Ella lo guardò impacciata.

— Che vorreste avere subito, sul momento, se poteste?

— Delle scarpe per i mocciosi, sette paia di scarpe.

— Le avrete! — assicurò lui, mentre lei scuoteva gravemente il capo. —
Ma volevo dire: che vi augurereste di bello, proprio bello davvero?

Gli occhi di Maria luccicavano allegramente: egli aveva voglia di
scherzare con lei; e la gente non scherzava troppo con lei, ora.

— Ripensateci bene! — raccomandò lui, vedendo che apriva la bocca per
parlare.

— Sì, sì, — fece lei. — Ho riflettuto bene; vorrei avere questa casa;
la vorrei mia, propria mia, tutta quanta, per non pagare più l’affitto,
trentacinque lire al mese.

— L’avrete, — promise lui, — e fra breve. Ora esprimete un altro
desiderio, proprio bello. Immaginate che io sia il buon Dio e che vi
dica: tutto ciò che desiderate vi sarà concesso. Su! Io ascolto!

Maria riflettè solennemente un momento.

— Non avete paura? — lo avvertì lei.

— No, no! — fece lui ridendo. — Non temo: su!

— È un gran bel boccone!

— Va bene: mettetelo fuori tutto!

— Be’, ecco... — Ed emise un sospirone, come i bambini quando
s’arrischiano a domandare un regalo impossibile. — Mi piacerebbe avere
una fattoria, una gran fattoria, con molte vacche, un gran terreno,
molta verdura, non lontano da San Leandro, dove abita mia sorella.
Venderei il latte a Oakland, e guadagnerei molto denaro. Joe e Nich non
guarderebbero le vacche, ma andrebbero a scuola. Un giorno potrebbero
diventar ingegneri, costruire delle ferrovie. Sì, mi piacerebbe avere
una gran fattoria.

Si fermò e guardò Martin con occhi lucenti.

— L’avrete, — diss’egli subito.

Ella scosse il capo e bevve cortesemente alla salute del donatore di
quel regalo che non avrebbe mai avuto, ma che le faceva apprezzare il
buon cuore e l’intento generoso di lui.

— No, Maria, — proseguì Martin. — Joe e Nick non avranno bisogno di
occuparsi del latte; e tutti i vostri ragazzi andranno a scuola e
calzeranno scarpe tutto l’anno. Sarà una bella fattoria, la vostra, con
tutto quanto il necessario. Vi sarà una casa d’abitazione, una scuderia
per i cavalli, e, naturalmente, la vaccheria. Vi saranno dei volatili,
dei maiali, dei legumi, degli alberi fruttiferi e molte altre cose; e
le vacche saranno tante da permettervi di assumere bifolchi. Voi dunque
non avrete altro da fare che occuparvi dei ragazzi. Se vi capiterà un
buon marito, farete bene a sposarvelo e a godervela un po’ mentre egli
si occuperà della fattoria.

Poi, avendo distribuito doni così generosi e ipotecato l’avvenire,
Martin corse a prendere il vestito migliore e andò a impegnarlo,
facendo un disperato e sommo sacrificio, giacchè così veniva a
separarsi da Ruth. L’altro vestito non era decente, e se poteva
indossarlo per recarsi dal macellaio, dal fornaio o da sua sorella, non
poteva però servirsene per presentarsi nella casa dei Morse, date le
condizioni misere di esso.

Egli seguitava ad affannarsi, spoglio di tutto e quasi senza speranza.
La sua dodicesima battaglia era perduta, senza dubbio, ed ecco
ch’egli era costretto a cercarsi un lavoro qualsiasi. Rassegnandosi,
egli avrebbe soddisfatto tutti; il droghiere, sua sorella, Ruth e la
stessa Maria alla quale doveva un mese di pensione. Per la macchina
da scrivere egli doveva due mensili, e l’agenzia lo assillava perchè
pagasse e restituisse la macchina. Disperato, ma, pure, più che mai
deciso a non arrendersi, e, in certo qual modo, per concludere un
armistizio col destino, egli prese parte a un concorso per essere
ammesso tra il personale delle ferrovia. Con sua grande sorpresa riuscì
primo. Il pane era dunque assicurato, sebbene egli non avesse alcuna
idea circa il tempo dell’ammissione.

Ma a questo punto, cioè in un periodo di estrema difficoltà per
lui, il meccanismo editoriale, di solito così bene oliato, ebbe un
incomprensibile arresto. Dovette essersi rotto qualche sostegno o
esaurito un oliatore, giacchè una mattina il portalettere gli consegnò
una busta piccola e sottile in un angolo della quale erano impressi
nome e indirizzo della rivista mensile _Transcontinental_. Il cuore
gli balzò, in tumulto, ed egli si sentì improvvisamente debole, con
una strana sensazione alle ginocchia. Incerto, rientrò in camera,
sedette sul letto, tenendo la busta ancora chiusa in mano, e comprese
a un tratto come possa accadere che della gente muoia improvvisamente
all’annunzio d’una notizia straordinaria.

Era proprio una notizia straordinaria: la piccola busta non conteneva
manoscritti, dunque doveva contenere un’accettazione. Egli aveva
mandato alla _Transcontinental_ «L’appello delle campane», racconto
tragico, di cinquemila parole.

Poichè le riviste principali pagavano sempre all’accettazione del
manoscritto, la busta doveva contenere evidentemente uno _chèque_.
Calcolando a dieci centesimi la parola, e 100 lire il migliaio,
lo chèque doveva essere di cinquecento lire. Cinquecento lire!...
Lacerando la busta, egli sommò mentalmente i suoi debiti: doveva 16
lire al droghiere, 20 lire giuste al macellaio; 25 al fruttivendolo; 61
lire in tutto. Poi c’era la camera: 12 lire, più un mese d’anticipo,
12 lire; due mensili per la macchina da scrivere, 40 lire, e un mese
d’anticipo, 20 lire: in tutto 145 lire. E per finire, i suoi pegni, più
gl’interessi: orologio, 26 lire, soprabito, 26 lire, bicicletta, lire
38,50; vestito, 26 lire, e il 60% d’interesse; ma che cos’era tutto
questo? In tutto, lire 271,50. Gli rimanevano dunque in tasca dopo aver
pagato tutti i debiti, lire 218,50, pagando anticipatamente un mensile
per la macchina e un mese di pensione.

Egli aveva finito col ritirare dalla busta un foglio dattilografato,
e l’aveva spiegato... Non conteneva chèque alcuno. Egli frugò nella
busta, la guardò contro luce, e finalmente, non credendo ai suoi occhi,
la disfece interamente, con dita tremanti... Non c’era chèque. Lesse la
lettera, rigo per rigo, sorvolando le lodi dell’editore, per giungere
alla sola cosa importante, la ragione dell’assenza di _chèque_. Non
ne trovò, ma trovò altra cosa, che lo fece a un tratto venir meno. La
lettera gli scivolò dalle mani, egli cadde sul cuscino, gli occhi gli
vacillarono, e quando egli s’ebbe tirate addosso le coperte si sentì
di botto il corpo percorso da un gran brivido. Venticinque lire per
«L’appello delle campane», venticinque lire per cinquemila parole!
Invece di due soldi la parola, dieci parole per un soldo. E l’editore,
per giunta, si congratulava con lui! Lo _chèque_ gli sarebbe mandato
subito dopo la pubblicazione del racconto. Allora, quei due soldi
la parola, al minimo, pagati in anticipo erano una vendita di fumo!
Egli non avrebbe mai tentato di scrivere, se avesse saputo che le
cose stavano così; si sarebbe sistemato per amore di Ruth. Ricordò
il giorno in cui aveva scritto la prima volta e rimase spaventato
dall’enorme tempo perduto, per un soldo dieci parole! Dunque, tutto ciò
che si diceva circa i grandi proventi degli autori «arrivati» doveva
esser falso. La _Transcontinental_ si vendeva a una lira e 25, ed era
proclamata, dalla sua pomposa ed artistica copertina, come una delle
prime riviste illustrate. Era un periodico serio, rispettabile, nato
molto prima di lui, Martin, e aveva continuato le sue pubblicazioni
senz’alcuna interruzione. Tutti i mesi, sulla copertina, appariva una
frase d’uno dei grandi pontefici della letteratura, che proclamava
l’azione benefica della _Transcontinental_, la quale, pubblicandogli le
prime elucubrazioni, gli aveva dato il modo di diventare illustre.

E proprio la _Transcontinental_, la rivista ispirata dagli dei, pagava
25 lire 5.000 parole! Quel grande pontefice era morto all’estero, —
però nella più nera miseria, — cosa molto naturale, questa, dato il
modo generoso di pagar gli autori.

Ebbene! egli aveva abboccato all’amo: i grandi giornali mentivano
quando parlavano degli scrittori e del compenso che davano loro; ed
egli aveva perduto due anni. Ma ora, era proprio finita: non avrebbe
scritto più un rigo. Avrebbe fatto secondo la volontà di Ruth, come
tutti volevano che facesse; si sarebbe creata una «posizione». Questa
decisione gli fece pensare a Joe, che vagabondava per monti e per
valli, senza far nulla; e Martin emise un sospirone d’invidia.

La reazione di quel regime di diciannove ore di lavoro per tanto
tempo si faceva sentire. Soltanto, ecco: Joe non era innamorato, e
se mangiava il pane del vagabondo la cosa riguardava lui soltanto;
mentre egli, Martin, aveva uno scopo, pel quale lavorare! Domattina, di
buon’ora, sarebbe andato in cerca di una sistemazione; e avrebbe fatto
sapere a Ruth che s’era ricreduto e che non desiderava di meglio che
entrare nello studio di suo padre.

Venticinque lire cinquemila parole, dieci parole per un soldo, come
incoraggiamento all’Arte! La delusione, la menzogna, l’infamia di
tutto ciò l’assillarono; sotto le palpebre chiuse, scottanti, facevano
ridda in cifra di fuoco le 15 lire ch’egli doveva al droghiere.
Egli rabbrividì e sentì che le ossa gli dolevano; anche le reni
gli dolevano; e sentiva male alla fronte, alla nuca, al cervello;
la testa gli pareva smisuratamente gonfia, e il dolore alla fronte
diventava intollerabile. E sotto le palpebre seguitavano a danzare,
inesorabilmente, le 15 lire. Aprì gli occhi per sfuggir loro, ma la
luce bianca gli fece tanto male, che dovette richiuderli, chiudendo con
essi le 15 lire diaboliche.

— Venticinque lire per cinquemila parole, dieci parole per un soldo!
— riprendeva il suo cervello: ed egli non poteva più sfuggire al
pensiero di non poter distogliere più gli occhi da quelle 15 lire. Poi
la cifra mutò, ed egli vide che apparivano, invece di 15, dieci lire.
Ah! sì! il fornaio! Poi apparve il numero 12,50, ed egli si domandò
che significasse, come se quella fosse una questione di vita o di
morte per lui. Egli doveva quelle 12,50 a qualcuno, ma a chi?... Cercò
penosamente, scavando in tutti i cantucci del suo cervello, invano. A
un tratto, il problema fu risolto: a Maria! a Maria Silva!

Sollevato, egli credette di poter riposare; ma no! sotto le palpebre
le 12,50 furono sostituite da 40 lire! Che significava quell’altro
numero? Gli toccava fare il giro del cervello estenuato, per trovare.
Egli non seppe la durata delle sue angosce, ma dopo un tempo che gli
sembrò infinito, un colpo battuto alla porta lo fece rientrare in sè:
era Maria che gli domandava se fosse malato. Egli rispose, con voce
sorda, irriconoscibile, che stava sommando. L’oscurità della camera
lo sorprese: era notte, dunque? Aveva ricevuto la lettera alle due
del pomeriggio... Allora si accorse d’essere ammalato. In breve, le 40
lire ricominciarono a danzare davanti ai suoi occhi chiusi, ed egli fu
ripreso dalla tormentosa schiavitù dei numeri. Ma lottando con accanita
astuzia contro se stesso, egli si proibiva d’indagare colla mente. A
quale scopo? Non era stato altro che un pazzo. Ebbe la sensazione di
maneggiare una leva, e il cervello gli cominciò a girare intorno, come
una ruota mostruosa, di cui i ricordi erano i razzi, sfera vertiginosa
di tutto lo scibile.

Sempre più veloce, follemente, girava; poi egli fu trascinato
dal turbine e lanciato a vorticare in un baratro nero. Con grande
naturalezza ecco che si ritrova davanti a un cilindro, con un mucchio
di manichini inamidati davanti. Ma a mano a mano ch’egli li cilindrava,
ecco apparirvi su delle cifre. Un nuovo modo di segnar la biancheria!
diss’egli fra sè; ma guardando da vicino, vide 15 lire segnate su un
manichino. Ricordò allora ch’era il conto del droghiere: dunque egli
immaginava di cilindrare i conti dei fornitori. E a questo punto ebbe
un’idea luminosa; avrebbe gettati i conti a terra, per evitare di
pagarli. Ma a mano a mano che i manichini, rabbiosamente gualciti,
cospargevano il sudicio pavimento, il loro mucchio cresceva sempre più;
quei conti avevano centinaia di duplicati. Ma uno solo di questi gli
colpì lo sguardo: uno di 12 lire, quello di Maria. Brava Maria! Questo
significava evidentemente che lei attendeva, con pazienza, d’essere
pagata, così ch’egli decise generosamente di pagare lei sola. Si
mise dunque a cercare il conto di lei nel mucchio, e cercava da tempo
infinito, quand’ecco entrare il padrone dell’hôtel, il grosso olandese.
La sua grassa faccia era collerica e minacciosa; ed egli urlò con voce
stentorea: «Tratterrò il costo di questi manichini sullo stipendio!»
La pila dei manichini cresceva sempre; era una montagna, ora, e Martin
capì che doveva lavorare un migliaio d’anni per pagarli. Ebbene!
Non gli rimaneva dunque altro che uccidere il padrone e bruciare la
stiratoria. Ma il grosso olandese, indovinando questo proposito, lo
afferrò per la pelle del collo e lo fece volare attraverso la camera;
lo lanciò sulla tavola da stiro, contro il fornello, lo precipitò nel
lavatoio, attraverso lo stenditoio e il lisciviatore. Martin fu scosso
in modo tale che pareva che dovessero allentarglisi i denti, e gli
girava la testa dolorosamente, ed era stupito del vigore del grosso
olandese. Ed ecco che si ritrova davanti al cilindro e riceve questa
volta i manichini che l’editore d’una rivista introduceva dall’altro
lato. Ogni manichino era uno _chèque_. Martin li esaminò tutti
ansiosamente, ma vide ch’erano tutti in bianco. Durante un milione
d’anni circa, rimase là, non osando andarsene pel timore di perdere
l’unico _chèque_ riempito. Finalmente, eccone uno... di venticinque
lire. Ah! ah! — ghignò l’editore dall’altra parte del cilindro. — Bene!
— fece Martin, — vi ammazzo. — E andò a cercare l’accetta nel lavatoio,
e trovò Joe che inamidava dei manoscritti. Egli tentò d’impedirglielo,
poi sollevò l’accetta, ma l’arma rimase sospesa in aria, e Martin si
ritrovò nell’altra camera, fra una tormenta di neve. Ma no, non era
neve, ma erano formidabili chèques, il minimo dei quali di cinquemila
lire. Egli sentì il dovere di farne dei pacchetti da cento, che legò
solidamente con dello spago. Quindi, alzando gli occhi, vide Joe, in
piedi, davanti a lui, che si divertiva con ferri da stiro, camìce
e manoscritti. A volte egli prendeva un fascio di manoscritti e lo
lanciava nel turbine di biancheria e di carte che, attraverso il tetto,
volavano al cielo. Martin alzò l’accetta su di lui, ma Joe l’afferrò e
la lanciò nel turbine, poi afferrò Martin in persona e lanciò anche lui
nel turbine. Martin volò attraverso il tetto, s’aggrappò a un mucchio
di manoscritti, ricadde a terra con essi, fu lanciato nuovamente in
aria, ricadde, e così di seguito, mentre una voce infantile cantava:
«Balla con me, Willie; su, un altro valzer...»

Finì col rimettere la mano sull’accetta, nel bel mezzo del turbine
nevoso di _chèques_, di biancheria e di manoscritti, e si accinse a
uccidere Joe, appena fosse ricaduto a terra.

Ma questa consolazione gli fu negata: ebbe, invece, alle due circa di
notte, la visita di Maria che, attraverso il sottile tramezzo, aveva
udito i gemiti. Essa lo riscaldò per mezzo di ferri caldi e gli posò la
mano sulla fronte che scottava, applicando delle pezzuole bagnate.




CAPITOLO XXVI.


Il giorno dopo, Martin non andò in cerca di una sistemazione; verso
la fine del pomeriggio, il suo delirio cessò e gli occhi stanchi
percorsero con uno sguardo vagante la camera. Mary, una delle piccine
di Silva, dell’età di otto anni, che lo vegliava, lanciò un grido
vedendogli riprendere coscienza, e Maria, dal fondo della cucina,
accorse subito. Essa posò la sua mano callosa sulla fronte che
scottava, e gli tastò il polso.

— Volete mangiare? — gli domandò.

Egli scosse il capo; mangiare era proprio l’ultimo dei suoi desiderî,
al punto che egli si domandò se avesse avuto mai fame in vita sua.

— Sono malato, Maria, — disse lui, con voce fioca. — Che cos’è?...
Sapete di che si tratta?

— È influenza, — rispose lei. — Fra tre o quattro giorni sarà finita.

— Non mangiate: è meglio. Dopo domani, forse.

Martin non era avvezzo alla malattia; egli tentò di alzarsi e di
vestirsi, quando Maria e la piccine furono uscite. Con uno sforzo
supremo di volontà, col cervello che sembrava svanirgli e gli occhi
così indolenziti, che non gli riusciva di tenerli aperti, egli si
trasse fuori del letto, dove, con gli occhi chiusi, esaminò con cura
il suo male. Maria entrò parecchie volte per rinfrescargli le pezzuole
postegli sulla fronte; ciò fatto, usciva e lo lasciava in pace, essendo
donna troppo accorta, per annoiarlo colle chiacchiere. Egli ne fu
commosso e mormorò fra sè:

«Maria, avrete la fattoria; quest’è certo, certissimo». Poi riebbe
coscienza del giorno prima, come di un ricordo lontano, lontano! Gli
sembrò che fossero passati dei secoli, dacchè era giunta la lettera
della _Transcontinental_; tutta una vita era trascorsa, giacchè tutto
ciò era finito, seppellito, e bisognava voltar pagina. Egli aveva
tentato l’ultimo colpo e ora era atterrato. Se non si fosse lasciato
morire di fame, l’influenza non avrebbe avuto presa su di lui; era
diventato anemico, e i microbi avevano trovato un terreno favorevole in
lui, ecco!

— A che serve scrivere tanti libri da formarne una biblioteca, per poi
sciupare la propria vita? — diss’egli ad alta voce. — Non è un buon
affare per me: non più letteratura! A me, il tavolo, il libro mastro,
un onesto stipendio e una casetta con Ruth.

Due giorni dopo, mangiato che ebbe un uovo, due «toasts» e bevuto una
tazza di tè, richiese le lettere; ma gli occhi gli dolevano tanto da
impedirgli di leggere.

— Leggetemi questo, Maria, — diss’egli. — Non le buste grandi e lunghe,
gettatele sotto la tavola; ma le lettere piccole.

— Non posso, io, — rispose Maria: — Teresa, che va a scuola, sa leggere.

Teresa Silva, di nove anni, aprì dunque le lettere e lesse.

Egli ascoltò vagamente una lunga lettera del commerciante di macchine
da scrivere, con la mente assorta nella ricerca del modo come trovare
del lavoro. A un tratto, una frase udita per caso lo fece sussultare.

— Vi offriamo duecento lire per i diritti d’autore della vostra
novella; — spiccava lentamente Teresa; — col patto che ci lasciate fare
tutti i mutamenti che giudicheremo utili.

— Quale rivista è? — gridò Martin. — Su, dammela.

Ora vedeva benissimo e non sentiva più alcuna stanchezza. Era
il _Sorcio Bianco_, che gli offriva duecento lire per la novella
intitolata «_Il Turbine_«, uno dei suoi racconti drammatici. Egli
rilesse la lettera più di dieci volte. L’editore gli diceva che non
aveva espresso bene il concetto del racconto, ma che questo era molto
originale, ed egli perciò lo acquistava. Se poteva accorciarlo di un
terzo, egli lo avrebbe preso e gli avrebbe mandato le duecento lire
appena ricevuta la risposta.

Martin chiese inchiostro e penna e rispose che potevano tagliarne anche
tre quarti, se volevano, e che attendeva le duecento lire.

Poi Teresa andò a imbucare la lettera ed egli si coricò nuovamente e
si mise a riflettere. Dunque, non era una vendita di fumo: Il _Sorcio
Bianco_ pagava anticipatamente. «Il Turbine» comprendeva 3000 parole,
che, ridotte a una terzo, sarebbero diventate 1000; dunque erano
due soldi la parola. I giornali avevano detto la verità, ed egli
che credeva che il Sorcio Bianco fosse una rivista di terz’ordine!
Evidentemente, non se ne intendeva. Comunque, era certo questo: che
appena guarito non avrebbe cercato lavoro. Aveva nella mente tante
altre storie buone come «Il Turbine»: a duecento lire il lavoro,
avrebbe guadagnato molto di più che con qualsiasi altra occupazione.
Proprio quando credeva la battaglia perduta, ecco che vinceva.
Egli aveva ottenuto la prova che voleva; la sua via era tracciata:
all’inizio del _Sorcio Bianco_ avrebbero fatto seguito inevitabilmente
le altre riviste. La questione materiale poteva essere eliminata;
aveva perduto del tempo, giacchè non aveva guadagnato neppure una
lira! Si sarebbe dedicato alla letteratura, alla vera arte, e avrebbe
espresso quanto di meglio era in lui. Egli desiderò ardentemente di
far partecipe Ruth della sua gloria, ed ecco che, scorrendo le lettere
sparse sul letto, ne trovò una di lei, che gentilmente lo rimproverava,
domandandogli perchè non avesse dato sue notizie da tanto tempo. Egli
rilesse con gioia la lettera adorata, e finì col baciare la firma.
Nella risposta egli le disse francamente che non era andato a trovarla
perchè aveva impegnato il vestito, e che era stato malato, ma che era
quasi guarito e che fra dieci o quindici giorni (quanti ne occorrevano
per mandare una lettera a New York e riceverne la risposta) egli
avrebbe disimpegnato gli abiti e sarebbe andato a trovarla.

Ma Ruth non volle attendere dieci o quindici giorni; d’altra parte, il
suo innamorato era ammalato. Il giorno dopo, accompagnata da Arturo,
eccola venire nella carrozza dei Morse, con gran gioia della tribù dei
Silva e di tutta la marmaglia del vicinato, ma con gran disperazione
di Maria; la quale schiaffeggiò i Silva che si premevano attorno
ai visitatori, sotto il portichetto d’ingresso, e fece il possibile
per iscusarsi del modo com’era vestita, in un inglese più atroce del
solito. Le sue maniche rimboccate sulle braccia bianche di sapone, una
vecchia tela da lavare attorno alla vita, indicavano chiaramente il
genere di lavoro che stava facendo. Sbalordita addirittura della visita
di quei giovani così signorili, ella dimenticò di invitarli a sedere
nel salottino. Per entrare nella camera di Martin, essi passarono
attraverso la cucina piena di ranno caldo.

Era tale l’agitazione di Maria, che essa chiuse la porta d’entrata
contro quella del ripostiglio rimasta aperta, così che per cinque
minuti, attraverso la porta socchiusa, nubi di vapore con un lezzo di
sapone e di sporcizia invasero la camera.

Ruth, serpeggiando fra gli ostacoli, pervenne al capezzale di Martin,
senza incidenti; ma Arturo girò troppo bruscamente e finì col battere,
con gran fracasso, contro le casseruole e altri arnesi di cucina.
Però non resistette a lungo; pensando di aver compiuto il suo dovere
e vedendo che Ruth occupava l’unica sedia, uscì e attese presso il
cancello, attorniato dai sette piccoli Silva, che lo guardavano a bocca
spalancata, e se lo divoravano dall’ammirazione, cogli occhi, come
un fenomeno della fiera. Torno torno alla carrozza, erano accalcati i
ragazzi del vicinato, nell’attesa impaziente del tragico e terribile
epilogo, — giacchè in quella via non s’arrischiavano carrozze, se non
per i matrimoni o i funerali, e siccome non era questo il caso, doveva
accadere qualche altra cosa straordinaria, evidentemente.

Martin, vedendo Ruth, si sentì quasi impazzire. Egli era di natura
affettuosa, avido di simpatia, anzi, d’intelligente comprensione;
e ignorava ancora che la simpatia di Ruth era dovuta, più alla
gentilezza della sua natura, che alla comprensione dell’oggetto della
sua simpatia. Mentre Martin le diceva tutta la gioia che provava
nel vederla, lei gli stringeva teneramente la mano senza rispondere,
con gli occhi umidi alla vista della debolezza di lui e delle tracce
lasciategli sul volto dalla sofferenza.

Ma quando egli le parlò del suo insperato successo, delle due
accettazioni, e della sua disperazione nel leggere quella della
_Transcontinental_, e della sua grande contentezza nel ricevere quella
del _Sorcio Bianco_, lei non lo seguì più. Lei ne capiva le parole
nel loro senso letterale, ma non la disperazione e la gioia, che non
sentiva. Che le importavano quelle storie di riviste?

Soltanto il matrimonio la interessava. Ma lei non lo immaginava
neppure, e avrebbe arrossito dalla vergogna se qualcuno le avesse detto
crudamente che ciò che lei desiderava in Martin era lui e non altro.
Indignata, essa avrebbe proclamato che solo suo scopo era l’interesse
di Martin e soprattutto il suo successo. Mentre il fidanzato le
manifestava i suoi sentimenti a cuore aperto, dicendole tutta la sua
gioia perchè era finalmente sulla via del trionfo, lei l’ascoltava
distrattamente e guardava la camera di sfuggita, urtata da ciò che
vedeva.

Per la prima volta, Ruth vedeva da vicino l’immagine della povertà.
Sino a quel giorno, gli innamorati che muoiono di fame le erano
sembrati romanzeschi; ma lei non immaginava punto come vivessero gli
innamorati che muoiono di fame. Ed era così! Il suo sguardo girava
senza posa dalla camera a Martin, da Martin alla camera.

Quel lezzo di biancheria sporca, che proveniva dalla cucina, la
nauseava. Martin doveva esserne impregnato, — pensava lei — se
quell’orribile donna aveva l’abitudine di lavare spesso. E, guardando
Martin, le pareva che l’ambiente dov’egli viveva l’avesse lordato.
Siccome l’aveva visto sempre rasato di fresco, quella barba di tre
giorni le ripugnava; essa era intonata a quell’ambiente sordido e
sinistro, accentuava maggiormente quell’animalità possente ch’ella
aborriva. Ed ecco che quelle due malcapitate accettazioni gli
radicavano sempre più quella follìa! Ancora pochi giorni, ed egli
avrebbe ceduto, avrebbe accettato un lavoro serio; ora, avrebbe
continuato a vivere in quell’orribile casa scrivendo e morendo di fame
durante qualche mese.

— Che cos’è quest’odore? — domandò lei ad un tratto.

— Uno dei profumi di lisciva di Maria, credo, — fu la risposta.

— No, no, non questo: qualche altra cosa, come un odore disgustoso,
nauseante...

Martin annusò l’aria coscienziosamente prima di rispondere.

— Non sento altro che puzzo di tabacco...

— È questo! È orribile! Perchè fumate tanto, Martin?

— Non so... fumo di più quando sono solo. Eppoi è una inveterata
abitudine! Fumavo già da bambino.

— Non è una bell’abitudine, — rimproverò lei. — Manda un puzzo cattivo.

— La colpa è del tabacco: non posso prendere se non quello a buon
mercato. Ma aspettate che abbia avuto le mie duecento lire! Fumerò
del tabacco che non darà fastidio neppure agli angeli del paradiso!
Ma non è vero che non c’è male: due accettazioni in tre giorni? Queste
duecento lire serviranno a pagare tutti i miei debiti.

— Duecento lire per due mesi di lavoro? — interrogò Ruth.

— No, per meno di una settimana di lavoro. Volete darmi, per favore,
quel libro di conti rilegato in grigio ch’è all’altro capo della
tavola?

Egli l’aprì, ne sfogliò rapidamente le pagine. — Sì, ho ragione:
quattro giorni per «L’appello delle campane», e due giorni per il
«Turbine»; cioè duecentoventicinque lire la settimana, novecento lire
al mese. Nessun impiego mi darebbe tanto. E, d’altra parte, questi sono
gl’inizi. Cinquemila lire al mese non sono troppe per comprarvi tutto
ciò che voglio che voi abbiate. Mi occorre non meno di tanto. Aspettate
un po’ che avvii il lavoro, e poi vedrete che andrà a gonfie vele!

Ruth non capì lo scherzo e tornò alla faccenda delle sigarette.

— Voi fumate molto più del lecito, e la qualità del tabacco non può
influire gran che; è il fumare per se stesso che non è molto simpatico.
Voi siete una ciminiera, un vulcano ambulante, una stufa mobile, una
vera desolazione, Martin caro. Non ve ne accorgete?

Lei si chinò su di lui, supplichevole, e alla vista di quel viso
delicato e di quegli occhioni timidi, egli fu colpito dalla propria
indegnità.

— Vorrei tanto che non fumaste più! — mormorò lei. — Ve ne prego,
fatelo... per amor mio!

— Bene! è stabilito! — esclamò lui, — Farò tutto ciò che vorrete,
tutto, voi lo sapete bene!

Una gran tentazione la colse: ebbe voglia di pregarlo di rinunziare a
scrivere. Durante il breve silenzio che seguì, le parole irreparabili
le tremarono sulle labbra, ma le mancò il coraggio; così che, china su
di lui, gli mormorò semplicemente:

— Sapete, in realtà, non lo dico per me, Martin, ma pel vostro
interesse. Sono sicura che il fumo vi fa male, e d’altra parte non
bisogna essere schiavi di nulla, e tanto meno d’una brutta droga!

— Io voglio essere soltanto il vostro schiavo, per sempre, — fece lui
sorridendo.

— Se è così, vi detterò i miei ordini!

E gli lanciò uno sguardo malizioso, sebbene, nel suo intimo lei si
pentisse di non avergli domandato di più.

— Vostra Maestà sarà ubbidita!

— Ebbene, ecco il mio primo comandamento;

    _Ti raderai con cura_,
    _E lo farai giornalmente!_

— Guardate come mi avete graffiato la guancia!...

E la cosa finì con carezze e baci.

Lei aveva ottenuto una vittoria, e pel momento bastava; il suo
orgoglio femminile era già lusingato dal fatto d’aver ottenuto
ch’egli rinunziasse al fumo. Un’altra volta lei lo avrebbe persuaso ad
accettare un’occupazione; non aveva giurato di fare tutto ciò che lei
voleva?

Lei abbandonò il capezzale per esplorare la camera, esaminò le file di
note appese alle cordicelle, si fece spiegare il sistema di sospensione
della bicicletta, e s’afflisse vedendo il mucchio di manoscritti sotto
la tavola, che rappresentava, secondo lei, un’enorme perdita di tempo.
Il fornello a petrolio fu causa d’ammirazione; ma, esplorando la tavola
delle provviste, la trovò vuota.

— Ma non avete nulla da mangiare, povero caro! — esclamò lei, con
tenera pietà. — Voi dovete morir di fame!

— Io metto le mie provviste nella dispensa di Maria, — disse lui
mentendo. — Si conservano meglio. Non c’è pericolo che muoia di fame.
Guardate!

Essa era ritornata presso di lui, e gli vide contrarre i bicipiti,
irrigidire i muscoli enormi, duri come ferro. Questa vista la disgustò;
cerebralmente, lei aveva orrore di ciò. Ma il suo istinto, i suoi
nervi, tutta la sua femminilità erano innamorati di tutto ciò, ne
avevano un irresistibile bisogno, e, come sempre, lei si chinò e
cedette alla sua stretta; così, quasi schiacciata da quella stretta, il
cervello le si ribellava e dibatteva, e il cuore, i sensi, esultavano,
trionfavano. In quei momenti lei sentiva profondo amore per Martin,
giacchè il godimento che lei provava sentendo quelle braccia potenti
stringerla disperatamente sino a farle male, la faceva quasi svenire.
In quei momenti lei si sentiva quasi giustificata nel tradimento dei
suoi pregiudizî, del suo ideale, della tacita disobbedienza ai suoi
genitori che disapprovavano quel matrimonio e che erano urtati da
quell’amore. Però, lontana dalla presenza di lui, ridivenuta fredda e
padrona di sè, anche lei ne rimaneva urtata. Quando erano assieme lei
lo amava, d’un amore talvolta eccitato, è vero, ma più forte della sua
volontà.

— Questa _grippe_ è cosa da nulla! — disse lui. — Cosa noiosa: si sente
molto male al capo; ma non è nulla al confronto della febbre reumatica.

— Anche voi l’avete avuta? — disse lei distrattamente, assorta nella
giustificazione preziosa del godimento che provava standogli fra le
braccia.

Egli proseguì, senza che lei badasse molto alle parole, quando a un
tratto una parola la fece sussultare; egli aveva preso quel male in una
colonia di segregazione formata da trenta lebbrosi che vivevano su una
delle isole Hawai.

— Ma perchè ci siete andato? — domandò Ruth, alla quale sembrava
delittuosa una leggerezza simile.

— Perchè non ne sapevo nulla, — rispose Martin. — Io non pensavo
neanche lontanamente ai lebbrosi. Quand’ebbi disertato dallo
_schooner_, accostai e mi diressi nell’interno in cerca di un luogo
sicuro. Per tre giorni mi nutrii di _guavas_, pere d’oliva e di banane
che nascevano abbondantemente nella jungla. Il quarto giorno, trovai
una traccia, una semplice traccia di pedoni, che conduceva verso
l’interno, e la seguii. Essa era improntata da orme recenti; in certi
punti non aveva più di tre piedi di larghezza, lungo una cresta era
sottile come una lama di rasoio, fiancheggiata da precipizi di cui
non si vedeva il fondo. Un buon posto per un agguato! Colà un uomo
solo provvisto di munizioni poteva tener testa a diecimila. D’altra
parte non c’era altra strada. Dopo tre ore di cammino, trovai il
nascondiglio: una piccola valle nel cavo della montagna, una specie
di buca tra picchi di lava, con una costruzione di piani a terrazze
sovrapposte. Degli alberi fruttiferi vi crescevano, e c’erano otto o
dieci capanne rudimentali; ma appena vidi gli abitanti capii subito di
che si trattava: bastò uno sguardo solo.

— Che avete fatto? — domandò Ruth, ansante.

— Non c’era nulla da fare. Il loro capo era un buon vecchione già
decomposto, ma d’un’autorità indiscussa. Egli aveva scoperto quella
vallata e fondato quella colonia, assolutamente fuori legge; ma aveva
fucili, e molti proiettili, e quei selvaggi, allenati a cacciare le
belve e i cinghiali, erano infallibili tiratori. No, — disse Martin
Eden, — non potevo sfuggire in alcun modo; e vi rimasi tre mesi.

— Ma come avete fatto a fuggire?

— Sarei ancora laggiù, senza una giovane, metà cinese, con un quarto di
sangue europeo, un quarto di sangue hawaiano. Una gran bella figliuola,
povera creatura, e bene educata. Sua madre, a Honolulu, valeva un
milione. Ora, questa ragazza riuscì a farmi fuggire, finalmente. Era
sua madre che manteneva la colonia, capite, e la ragazza non temeva
di farsi punire favorendo la mia fuga. Ma prima di tutto lei mi fece
giurare che non avrei mai rivelato il loro nascondiglio, e ho mantenuto
la promessa. Essa aveva i primi sintomi della lebbra, le dita della
sua mano destra erano leggermente contorte, e aveva una macchiolina sul
braccio, non altro. Credo che sia morta, ormai.

— Ma non avevate paura?... Non siete stato felice d’esservene fuggito
senz’aver preso quella spaventosa malattia?

— Dio mio, — confessò lui, — dapprima non mi sentivo certo tranquillo!
Ma mi sono avvezzato. Eppoi compiangevo tanto quella povera figliola!
Mi faceva dimenticare la mia paura. Era bella d’anima e di corpo!
La malattia l’aveva a malapena toccata, eppure era votata a quella
vita orribile di selvaggia, a una morte anche più spaventosa, a un
lento dissolvimento. La lebbra è una malattia più terribile di quanto
possiate immaginare.

— Povera creatura! — mormorò Ruth. — Come ha potuto farvi partire?

— Che intendete dire?

— Perchè doveva amarvi, — disse Ruth, con voce tenera. — Sentiamo,
sinceramente, vi amava?

L’abbronzatura del volto di Martin era sparita, a causa della vita
sedentaria, degli stenti, della malattia, che gli avevano impallidito
la faccia, così che apparve il rossore che gli si diffuse sul viso
lentamente. Egli aprì la bocca per parlare, ma lei gli troncò la
parola, ridendo:

— Non importa; non rispondete. È proprio inutile!

Ma a lui parve che vi fosse qualche cosa di metallico in quel riso e
che negli occhi di lei splendesse una luce fredda. Là per là gli fece
l’effetto d’una tempesta invernale come ne aveva viste tante nel nord
del Pacifico. Egli rivide a un tratto quella notte, il cielo chiaro,
la tempesta e le onde immense sotto la luce gelida del plenilunio, e
poi rivide la giovane lebbrosa e il suo amore. Era un fatto che lei lo
aveva lasciato andar via.

— Aveva un’anima bella, — diss’egli semplicemente. — Mi ha permesso di
vivere.

E non aggiunse altro su quell’argomento; senonchè, a un tratto vide
Ruth voltarsi verso la finestra e soffocare un singhiozzo, ch’egli
udì. Poi lei tornò verso di lui, senz’alcuna traccia di tempesta negli
occhi.

— Che bestia sono io! — disse lei piagnucolosamente. — E non posso
resistere; vi amo tanto... Martin, tanto, tanto! Col tempo diventerò
ragionevole, ma pel momento non posso non essere gelosa di tutti questi
fantasmi del vostro passato, giacchè, lo sapete, il vostro passato è
pieno di questi fantasmi!

E poichè egli faceva l’atto di protestare, lei lo fermò:

— È fatale, non potrebbe essere diversamente. Ma ecco che il povero
Arturo mi fa segno. È stanco d’aspettare. Andiamo, su, arrivederci,
caro...

— C’è una specie di pozione che vendono i farmacisti, per ottenere la
denicotinizzazione, — disse lei sull’uscio. — Ve ne manderò.

La porta si chiuse, poi si riaprì.

— Vi amo tanto, tanto! — sussurrò lei; poi la porta si chiuse
definitivamente.

Maria, che, nonostante la grande agitazione, aveva potuto osservare
il colore del vestito di Ruth, e il taglio (un taglio assolutamente
nuovo, d’un effetto meraviglioso) l’accompagnò alla carrozza. I
marmocchi aggruppati, rimasero piantati lì, delusi, sinchè lei non fu
scomparsa, poi contemplarono Maria diventata a un tratto un personaggio
importante. Ma avendo uno dei ragazzi rivelato che i mirifici
visitatori erano andati a trovare un loro inquilino, Maria ricadde
nell’oscurità e Martin ebbe il beneficio della rispettosa stima del
vicinato e di Maria.

Quanto al droghiere portoghese, se avesse visto quell’avvenimento
inaudito, avrebbe accresciuto perlomeno di quindici lire il credito di
Martin.




CAPITOLO XXVII.


La ruota della fortuna girava: la mattina dopo la visita di Ruth,
egli ricevette uno chèque di quindici lire da un giornale settimanale
di New York, per tre dei suoi scherzi in versi. Due giorni dopo, un
giornale di Chicago accettò i suoi _Cacciatori di Tesori_, con promessa
di pagarglieli cinquanta lire dopo la pubblicazione. Era poco, ma
quell’articolo era il primo scritto da lui. Il secondo saggio, il
seguito delle avventure per ragazzi, fu accettato alla fine della
settimana da una rivista mensile intitolata _Gioventù e Maturità_. Vero
è che questo seguito comprendeva ventiduemila parole e che gli venivano
offerte ottanta lire dopo la pubblicazione; ma era anche vero che si
trattava del suo secondo lavoro, del quale egli conosceva benissimo
i difetti. Eppure, persino nei suoi primi lavori non c’era nulla
d’inabile; solo c’era da osservare la pesantezza d’un temperamento
troppo potente, l’inesperienza del novizio che vuole afferrare le
farfalle a colpi di mazza e schizzare quadretti con un attizzatoio.
Martin fu dunque felice di sbarazzarsi dei suoi saggi giovanili ch’egli
aveva giudicati secondo il loro valore. Egli aveva riposte tutte le
sue speranze nelle opere recenti, nelle quali aveva tentato di esser
da più e meglio di uno scrittore dei soliti da riviste illustrate.
D’altra parte, non aveva soffocato il suo temperamento, ma l’aveva
semplicemente disciplinato, senza sacrificar nemmeno l’amore per la
verità. Le sue opere erano realistiche; più che fantastiche, talvolta
mistiche. Egli tendeva a un realismo appassionato, ma profondamente
umano e credente; voleva mostrar la vita qual era, con tutte le
aspirazioni dello spirito e tutta la sete d’ideale. Durante le sue
letture, egli aveva potuto scorgere due scuole; l’una che faceva
dell’uomo un dio ignaro della sua origine terrestre; l’altra che ne
faceva un mucchio di fango, ignaro della sua essenza celeste e delle
sue possibilità divine.

Secondo Martin, Dio e mucchio di fango erano ugualmente falsi, e le
due scuole s’ingannavano. La verità stava nel mezzo. Nella sua novella
«L’avventura», ch’egli aveva sottoposta al giudizio di Ruth, Martin
credeva d’essersi accostato alla verità, e nel suo saggio «Dio e il
fango» aveva espresso le sue idee generali sull’argomento.

Ma «L’avventura» e i suoi migliori lavori proseguivano il loro viaggio
presso gli editori. Le sue prime opere non valevano, ai suoi occhi, se
non pel danaro ch’esse portavano, ed egli non stimava maggiormente i
suoi racconti drammatici, di cui due erano venduti.

Erano per lui semplici capricci d’immaginazione, sebbene pieni di
tutta l’emozione della realtà; e in questo consisteva il loro fascino.
Egli considerava quella mescolanza di grottesco e d’impossibile con la
realtà come un trucco abile, e nient’altro; non erano opere letterarie
d’un valore superiore. Certo, c’era dell’arte, ma dell’arte senza
valore, che non derivava da una fonte umana. L’abilità consisteva nel
dissimulare la finzione sotto la maschera della realtà, e questo egli
aveva fatto in una mezza dozzina di storie tragiche ch’egli aveva
scritte prima di slanciarsi verso le cime, con «L’avventura», «La
Gioia», «La Marmitta», «Il Vino della Vita». Le quindici lire ricevute
per gli scherzi in versi gli servivano per cavarsela sino all’arrivo
dello _chèque_ del _Sorcio Bianco_. Egli cambiò il primo presso il
diffidente droghiere portoghese, dandogli cinque lire in conto, e
divise le altre dieci lire tra il fornaio e il fruttivendolo. Non fu
in grado ancora di comperare della carne, e i suoi cibi erano ridotti
ai minimi termini, quando giunse lo _chèque_ del _Sorcio Bianco_.
Egli esitò circa il modo d’incassarlo. Egli non solo non era mai
entrato in una banca, ma non aveva mai trattato d’affari; così che fu
preso dal puerile e ingenuo desiderio d’entrare in una grande banca
d’Oakland per cambiare lo chèque di duecento lire. Però il buon senso
più elementare gl’imponeva di cambiarlo dal droghiere, in modo da
fargli un’impressione tale, che gli avrebbe concesso maggior credito
in avvenire. A malincuore Martin cedette davanti alle proteste di
questo fornitore, gli pagò tutto il conto e ricevette in cambio una
manata di monete sonanti e tremolanti. Pagò anche gli altri debiti,
disimpegnò abiti e bicicletta, diede un mese d’anticipo per la macchina
da scrivere, e a Maria ciò che le doveva, più un mensile anticipato.
Gli rimanevano in tasca circa 15 lire per le spese minute. Questa
piccola somma rappresentava, per se stessa, un patrimonio. Appena
egli ebbe il vestito, andò a visitare Ruth, e, camminando, non potè
far di meno di scuotere la tasca, per far risuonare il tintinnìo del
suo tesoro. Era tanto tempo che egli non vedeva danaro, e, come un
uomo che ha corso rischio di morir di fame e cova con lo sguardo i
cibi che non può più consumare, egli sentiva il bisogno di maneggiare
quei pochi suoi quattrinelli. Però non era nè avaro nè meschino: quel
danaro rappresentava per lui ben altro che lire e soldi; rappresentava
il successo, e quelle aquile incise sulle monete, erano altrettante
vittorie alate. Egli giunse a pensare che il mondo fosse davvero
meraviglioso. Durante settimane, gli era parso molto triste, tetro; ma,
ora, con quasi tutti i debiti pagati, con 15 lire che gli tintinnavano
in tasca e la certezza del successo in cuore, il sole gli pareva
splendido, e persino il temporale che lo bagnò in un batter d’occhio,
gli parve affascinante. Mentre moriva di fame, pensava continuamente
ai milioni di esseri sparsi pel mondo, che morivano di fame come lui:
oggi, ch’era soddisfatto, li dimenticava, ma poichè era innamorato,
pensò agl’innumerevoli innamorati, e motivi di poemi d’amore gli
occuparono la mente. Assorto nell’ispirazione, egli scese dal tranvai
elettrico due stazioni dopo, senza guastarsi però il buon umore. Nella
casa dei Morse, c’era della gente. Le due cugine di San Raffaele erano
venute a trovar Ruth, e la signora Morse, col pretesto di distrarle,
aveva invitato parecchi uomini. Il suo programma di accerchiamento
aveva avuto inizio durante l’assenza involontaria di Martin, ed era
in pieno sviluppo. Essa faceva il possibile per avere in casa gente
di valore; cosicchè, oltre le cugine Dorotea e Fiorenza, Martin fece
conoscenza di due professori d’Università, l’uno di latino, l’altro,
di letteratura inglese —; d’un giovane ufficiale di ritorno dalle
Filippine, compagno di collegio di Ruth; d’un giovanotto chiamato
Melville, segretario privato di Giuseppe Perkins, direttore della
Società dei _Trusts_ di San Francisco, e infine di un banchiere di
trentacinque anni, Carlo Hapgood, laureato dell’Università di Stanford,
membro dei Clubs del Nilo e dell’Unità, oratore nelle pubbliche
riunioni del partito repubblicano durante le elezioni, insomma, un
giovane dall’avvenire luminoso. Tra le donne c’erano: una pittrice di
ritratti, una musicista di professione e una dottoressa di sociologia,
celebrità locale, a causa delle sue case di lavoro nei quartieri poveri
di San Francisco. Ma le donne non contavano gran che nel programma
della signora Morse, e non erano altro che accessori indispensabili per
attirare gli uomini in modo qualsiasi.

— Non vi riscaldate nel parlare! — raccomandò Ruth, prima d’iniziare le
presentazioni.

Impacciato dal timore di sembrar goffo, rattenuto dalla vecchia
preoccupazione di rompere i ninnoli, Martin fu dapprima come
paralizzato. Non era stato mai a contatto di persone così
ragguardevoli, nè con tanta gente insieme, e n’era intimidito.
Melville, il segretario, l’ipnotizzava, ed egli decise d’interrogarlo,
alla prima occasione favorevole; giacchè, nonostante il suo rispetto
pieno d’ammirazione, egli aveva troppa coscienza del proprio valore,
per non desiderare di tener testa a quegli uomini e a quelle donne, e
scoprire ciò che sapessero più di lui, circa i libri e la vita.

Ruth, che gli lanciava frequenti sguardi per vedere come se la sarebbe
cavata, fu sorpresa e rapita dalla disinvoltura con la quale egli
chiacchierava con le cugine. Egli non si eccitava affatto, parlava
posatamente, e, appena seduto, non si sentì turbato dalla scompostezza
dei suoi gesti. Quanto alle cugine, dopo, quand’esse andarono a letto,
non trovavano parole per cantar le lodi di Martin, cosa che stupì
Ruth la quale le conosceva come ragazze intelligenti, brillanti, ma
superficiali. Egli, d’altra parte, ch’era stato un tempo animatore di
tutti i balli e delle scampagnate domenicali, s’era mostrato spiritoso,
allegro senza volgarità, come se avesse trascorso tutta la vita nei
salotti. Egli sentiva, quella sera, che godeva il successo, e una voce
gli mormorava all’orecchio che tutto andava bene, che poteva dunque
ridere, far ridere e godersi il momento.

Però, poco dopo, le preoccupazioni di Ruth parvero avverarsi: Martin
e il professor Caldwell s’erano appartati in un cantuccio: e, sebbene
Martin avesse perduto la fastidiosa manìa di far grandi gesti, l’occhio
critico di Ruth rilevò e biasimò l’ardore eccessivo della parola di
lui, la fiamma troppo viva dei suoi occhi, il rossore del viso acceso.
Egli mancava di decoro e di sangue freddo e contrastava singolarmente
col giovane professore d’inglese, suo compagno.

Ma Martin non si preoccupava punto delle apparenze; e non aveva
impiegato molto tempo a rilevare la cultura mentale dell’altro e ad
apprezzarne il corredo scientifico. Inoltre, il professore Caldwell era
diverso dal solito tipo di professore inglese. Martin voleva indurlo
a parlare di cose professionali, e sebbene dapprima trovasse delle
difficoltà, vi riuscì. Martin non capiva perchè la gente non volesse
parlare di cose della propria professione. — È assurda e ridicola, —
aveva dichiarato a Ruth la settimana precedente, — questa ripugnanza a
parlare di cose «del mestiere»: perchè uomini e donne si riuniscono,
se non per scambiare quanto di meglio hanno in essi? E ciò che hanno
di meglio, è tutto quanto li interessa: la loro specialità, la loro
ragione di vivere, ciò che li fa riflettere e sognare. Immaginate
il signor Butler che annuncia delle idee su Verlaine o sull’arte
drammatica tedesca, o sui romanzi di D’Annunzio?... Sarebbe da morirne
dalla noia! Da parte mia, se sono assolutamente costretto ad ascoltare
Butler, preferisco sentirlo parlar di codici, cioè di cose ch’egli
conosce meglio delle altre; e la vita è così breve, che voglio ottenere
da ogni creatura il massimo che può darmi.

— Ma, — aveva obbiettato Ruth. — esistono argomenti d’interesse
generale.

— E questo è il vostro errore, — aveva aggiunto lui. — In generale,
le persone hanno la tendenza a scimmiottar coloro di cui conoscono la
superiorità e ch’essi scelgono come modelli. E chi sono questi modelli?
Gli oziosi, i ricchi oziosi, i quali non sanno nulla, generalmente,
di ciò che sanno coloro che lavorano e s’annoieranno mortalmente
udendoli chiacchierare dei fatti loro. Così vien decretata la
convenzione secondo la quale tale genere di conversazione è un parlare
«professionale» anzi bottegaio, e che parlare di cose professionali o
bottegaie è tutt’altro che simpatico. Così gli oziosi decidono anche
nello stabilire quali sono le cose di genere non bottegaio, delle quali
si può parlare: l’ultima novità teatrale, il libro d’attualità, il
gioco, il bigliardo, i _cocktails_, l’automobile, le riunioni ippiche,
la pesca della trota, le partite di caccia grossa, lo _yachting_, ecc.,
giacchè, notate bene, questi sono argomenti che gli oziosi conoscono.
Insomma, essi soltanto possono parlare di cose della loro «bottega»;
e il buffo è che molte persone intelligenti, e tutti coloro che fanno
finta di esserlo, permettono agli oziosi di imporre la legge. Quanto
a me, io desidero da un uomo quanto v’è di meglio in lui, ciò che voi
chiamate cose professionali, bottegaie, di mestiere, o come vi pare.

E Ruth non aveva capito: questo assalto contro la Cosa Stabilita le era
parso molto arbitrario.

Dunque, Martin, comunicando al professor Caldwell un po’ della propria
intensità, l’aveva costretto a esprimere le sue idee. Passando vicino a
loro due, Ruth udì Martin che diceva:

— Certamente lei non professerà delle eresìe simili nell’Università di
California.

Il professore Caldwell alzò le spalle.

— È la parola dell’onesto contribuente e del politicante, capite!
Sacramento assegna gl’impieghi, e perciò noi facciamo dei salamelecchi
a Sacramento, dove il consiglio d’amministrazione dei Reggenti possiede
la stampa di tutt’e due i partiti.

— È chiaro; ma lei? — insistè Martin. — Lei dev’essere come un pesce
fuor d’acqua.

— Ce n’è pochi come me, nel pantano universitario. Evidentemente, mi
capita talvolta di sentirmi spaesato; sento che starei meglio a Parigi,
o in Grub Street, o in una grotta d’eremiti, o tra la più scapigliata
bohème, in qualche trattoria a buon mercato del Quartiere latino, a
predicare idee radicali davanti a un uditorio tumultuoso. Veramente,
io sono quasi sicuro d’esser nato radicale, ma ecco!... ci sono troppe
questioni di cui non sono certo. Divento timido quando mi trovo di
fronte la mia mingherlina personalità che mi impedisce d’afferrare
tutti gli elementi d’un problema, dei grandi problemi umani, vitali.

E mentre egli seguitava a parlare, Martin s’accorse che l’altro
sussurrava la «Canzone dei Venti Alisei»:

    _Io sono fortissimo a mezzogiorno,_
    _ma sotto la luna tendo il canapo della vela._

Ne canticchiò le parole quasi sottovoce e si rese conto che l’altro gli
ricordava i venti alisei del nordest, freschi, continui e potenti. Egli
era imparziale: si poteva fare affidamento su di lui; inoltre, c’era in
lui una specie di riserbo autorevole.

Martin ebbe la sensazione che l’altro non rivelasse quasi mai
interamente il suo pensiero, come aveva avuto spesso la sensazione che
gli alisei non soffino mai con tutta la loro forza, ma serbino sempre
delle riserve di forze non usate. Il potere immaginativo di Martin era
più possente che mai. Qualsiasi cosa accadesse, gli si presentavano
al cervello delle associazioni di contrarî e di similitudini che
s’esprimevano quasi sempre con visioni, in modo automatico. Come il
volto di Ruth gelosa gli aveva fatto ricordare una burrasca polare al
lume di luna, così il professore Caldwell gli fece rivedere i venti
alisei che frustavano la bianca spuma delle onde del mare purpureo.
Così, a ogni momento, rievocate da una parola, da una frase, nuove
visioni gli apparivano, senza perciò rompere il filo delle sensazioni
del momento, classificandole, anzi, o identificandole con le azioni o
con i fatti del passato.

Pur ascoltando il parlare elegante del professore, la sua conversazione
d’uomo intelligente, letterato, Martin seguitava a vedersi nel passato.
Egli si vide giovane dappoco, col cappello sulle ventitrè, il soprabito
corto, largo di spalle, ciondoloni, con la coscienza di rappresentare
il tipo più perfetto del malandrino. Egli non tentò affatto di
nascondere il fatto, o di scusarlo; in un periodo della sua vita non
era stato altro che un disutile qualunque, capo d’una banda che dava
filo da torcere alla polizia e atterriva le oneste massaie. Dopo, il
suo ideale era mutato... Egli comprese in uno sguardo quella riunione
elegante, di gente bene educata, respirò profondamente quell’atmosfera
raffinata e vide nello stesso tempo lo spettro della sua adolescenza,
il cappello sulle ventitrè, attraversare il salotto dondolandosi, e
venire a chiacchierare col professore Caldwell. In fin dei conti, egli
non aveva trovato sin allora un punto dove fissarsi definitivamente;
s’era adattato dovunque, era piaciuto dappertutto e a tutti per la
sua facilità nel lavoro e nel gioco, per la volontà di far valere i
proprî diritti, che imponeva rispetto. Ma non s’era mai radicato in
alcun luogo; s’era adattato abbastanza per soddisfare gli altri, ma
non per soddisfare se stesso. Dovunque, era stato perseguitato da un
senso d’irrequietudine; dovunque una voce l’aveva chiamato altrove, ed
egli aveva vagato attraverso la vita, insistendo, sino al giorno in
cui aveva trovato i libri, l’arte, l’amore. Ed ecco che egli era là,
in quel salotto, il solo, fra i suoi compagni d’un tempo, che avesse
saputo rendersi degno d’essere accolto dai Morse.

Tutte queste riflessioni però non gl’impedivano punto di seguire
attentamente la parola del professore Caldwell e di notare come questi
avesse un vasto campo culturale. Di tanto in tanto egli scopriva,
durante la conversazione, enormi lacune nella sua istruzione, materie
che gli erano totalmente ignote. Pure vide, — e lo doveva a Spencer. —
i limiti delle sue nozioni generali per riempire i quali era questione
soltanto di tempo. — Dunque attenzione! — si disse. — Tutti sul ponte!
— Egli ebbe la sensazione d’essere seduto in atto di attenta adorazione
ai piedi del professore; poi, ad un tratto, credette di scorgere un
punto debole nei giudizi enunciati ma fugaci, a mala pena percettibili,
e concluse subito ch’erano intellettualmente eguali.

Ruth ripassò davanti a loro, proprio nel momento in cui Martin
incominciava a parlare.

— Le dirò dov’è il suo torto, o, meglio, il punto debole del suo
giudizio, — fece lui. — Lei non ha studiato la biologia, che non
entra punto nel suo modo di veder le cose. Oh! io parlo della vera
biologia esplicativa, fondamentale, dal laboratorio e dai provini,
sino alle generalizzazioni sociologiche ed estetiche più scapigliate.
— Ruth era confusa; essa aveva frequentato il corso del professore
Caldwell ch’ella considerava come il vivente ricettacolo della scienza
tramandata.

— Io non la seguo bene, — disse questi con aria indecisa.

Martin si domandò se lo aveva mai seguito.

— Cercherò di farmi capire, — diss’egli. — Ricordo d’aver letto nella
storia egiziana, come sia impossibile capire l’arte egizia senza aver
prima studiato il paese.

— Proprio così, — disse il professore.

— E mi sembra. — proseguì Martin, — che, d’altra parte, la conoscenza
d’un paese, non possa acquistarsi senza quella dell’ordinamento
stesso della vita in questo paese. Come possiamo noi comprendere le
leggi e le istituzioni, la religione e i costumi, senza aver capito
prima di tutto, non solo la natura di coloro che le hanno fatte, ma
la composizione di tale natura? La letteratura è forse meno umana
dell’architettura o della scultura egizia? C’è una cosa sola, in tutto
l’universo, che non sia soggetta alla legge dell’evoluzione? Oh! io so
che esiste una teoria complessa sull’evoluzione nell’arte, ma mi sembra
troppo meccanica. Dell’evoluzione umana non si parla punto. Lo sviluppo
dello strumento, della musica, della danza e del canto, è mirabilmente
compreso e descritto, ma che ne sa lei dello sviluppo dell’uomo, dello
sviluppo dell’essere intrinseco ch’egli fu, prima di avere costrutto il
primo utensile e balbettato il primo canto?

Questo le importa poco, ed è ciò che io chiamo biologìa nel senso più
elevato.

Io so che mi esprimo in modo incongruo, ma cerco di manifestar le mie
idee come posso; mi sono venute mentre lei parlava. Ha detto lei stesso
che la fragilità umana impedisce di considerare tutti gli elementi;
eppoi, ecco che lei lascia da parte il fattore più importante, quello
biologico, che è il tessuto primo di ogni arte, la trama, la catena
d’ogni azione umana e delle meraviglie ch’essa produce!

Ruth vide con stupore che Martin non era immediatamente schiacciato;
la risposta del professore le parve che fosse stata data per indulgere
alla giovinezza di Martin. Per un bel po’, il professore Caldwell
rimase silenzioso, gingillandosi con la catena dell’orologio.

— Sa lei, — diss’egli finalmente. — che un giorno mi fu già rivolta
la stessa critica? Era un gran dotto e un evoluzionista, Giuseppe le
Conte; ma è morto, e pensavo, che non dovesse essere più anatomizzato;
invece, ecco anche lei, col suo occhio inquisitorio! Seriamente! ed
ecco, però, — e questa è una confessione — io credo che vi sia qualche
cosa di vero nella sua critica: molto di vero persino. Io sono troppo
classico circa l’interpretazione dei rami diversi della scienza e non
posso che addurre l’insufficienza della mia dottrina e un’indolenza
naturale che mi ha impedito d’approfondire l’argomento come avrei
dovuto. Crede lei che non ho messo mai piede in un laboratorio di
fisica o di chimica? No, mai. Le Conte aveva ragione, e anche lei,
signor Eden; però sino a un certo punto.

Con un pretesto qualunque, Ruth trasse Martin da parte, e gli disse
sottovoce:

— Non avreste dovuto fermarvi tanto tempo a conversare col professore
Caldwell; anche gli altri hanno desiderio di parlare con lui.

— Chiedo scusa! — rispose Martin confuso. — Ma l’ho costretto a
manifestarsi un po’, ed era così interessante, che non ho riflettuto.
Sapete: è l’uomo più intelligente, più brillante, che abbia mai
incontrato. E voglio confessarvi un’altra cosa: credevo una volta che
tutti quelli che uscivano dall’Università o avevano alte cariche nella
società fossero brillanti o intelligenti come lui!

— È un’eccezione, — disse lei.

— Me ne sono accorto. Con chi volete che parli, ora? Oh! sentite!
presentatemi a quel giovane cassiere.

Martin e costui conversarono un quarto d’ora, e Ruth non ebbe a fare
alcun appunto circa il modo di comportarsi del suo innamorato, i cui
occhi lampeggiarono, il cui viso rimase calmo, il cui linguaggio fu
corretto, al punto che lei ne rimase stupita.

Ma dalla stima di Martin cadde tutta la categoria dei cassieri, e
durante tutta la sera egli ebbe questa sensazione, che cassieri e
dicitori di banalità fossero sinonimi. L’ufficiale gli parve un buon
ragazzo, semplice e sano, contento d’occupare nella vita un posto che
la nascita e la fortuna gli avevano conferito. Sapendo che l’altro
aveva frequentato due anni l’Università, Martin si sforzò invano di
sapere dove mai avesse potuto nascondere ciò che aveva imparato. Però
lo preferiva al banale e piatto cassiere.

— Veramente, le banalità sono tutte uguali, per me, — diss’egli
poi a Ruth. — Ma mi esaspera soprattutto la presunzione boriosa, la
convinzione profonda con le quali vengono pronunziate e il tempo che
s’impiega per ciò. Come! ma io avrei potuto insegnare a quell’individuo
tutta la storia della Riforma, mentre egli mi raccontava come il
partito dell’Unione dei Lavoratori si fosse fuso con i democratici.
Egli pesa le parole con la cura che mette un giocatore di professione,
di poker, nello scegliere le carte che deve battere. Un giorno vi
imiterò il suo modo di fare.

— Mi rincresce che non vi piaccia, — rispose Ruth. — Il signor Butler
ne ha molta stima. Il signor Butler dice che è onesto, di assoluta
fiducia; lo chiama la Roccia o Pietra, e dice che si potrebbe
costituire su di lui qualunque istituto bancario.

— Non ne dubito, sebbene l’abbia visto poco e udito anche meno; ma le
banche si sono un po’ abbassate nella mia stima. Non ve ne avrete a
male, se vi parlo con tanta franchezza, cara?

— No, no... è molto interessante.

— Non è vero? — prosegui allegramente Martin. — Io non sono altro
che un barbaro messo per la prima volta a contatto con la civiltà.
Sensazioni nuove come queste devono sembrare divertenti alle persone
civili.

— Che ne pensate delle mie cugine? — domandò Ruth.

— Le preferisco alle altre donne: sono un po’ buffe, ma hanno poche
pretese.

— Ma le altre donne vi piacciono?

Egli scosse il capo negativamente.

— Quella donna delle case di lavoro operaie non è che un pappagallo
sociologico; scommetto che a guardarla contro la luce non si trova in
lei neppure un’idea originale. Quanto alla donna pittrice, è noiosa in
modo odioso: sarebbe una moglie perfetta pel cassiere. E la musicista!
A me importa poco che abbia delle dita straordinarie, che la sua
tecnica sia perfetta e il suo sentimento meraviglioso; certo si è che
non capisce nulla di musica.

— Suona magnificamente, — protestò Ruth.

— Sì, la sua ginnastica musicale è perfetta; ma le ho domandato ciò che
la musica significasse per lei, — voi sapete come questo genere di cose
m’incuriosisca, — e mi ha risposto che non sa altro se non che adora la
musica che è la più grande delle arti, e che lei vive solo per essa.

— Voi le avete costrette tutte a parlar di cose del mestiere!

— Debbo confessarvelo? E se non sono riuscite a interessarmi, pensate
un po’ quale sofferenza mi avrebbero procurato se m’avessero parlato
d’altro! Sentite, io credevo un tempo che qui, in questo ambiente dove
si godono tutti i benefici della cultura...

Egli si fermò un momento e rivide lo spettro dei suoi anni giovanili,
che, col cappello sulle ventitrè, dondolandosi, entrava e attraversava
il salotto. — Sì, vi dicevo: credevo che tutti gli uomini raggiassero
d’intelligenza; e, invece, sono sorpreso di vedere che coloro che
non sono delle nullità addirittura sono opprimenti. Evidentemente, il
professore Caldwell è diverso; questo sì che è un uomo, nel quale la
minima particella della materia grigia è intelligente.

La faccia di Ruth s’illuminò.

— Parlatemi di lui, — disse lei, — non della sua ampiezza d’idee nè del
suo brio, qualità che conosco, ma invece, di ciò che criticate, in lui;
sono curiosa di saperlo.

— Sarò vituperato, senza dubbio! — dichiarò Martin allegramente. —
Se parlaste voi per la prima? Ma forse voi lo considerate perfetto in
tutto, no?

— Io ho frequentato due corsi di lezioni fatte da lui e lo conosco da
due anni; vorrei dunque conoscere la vostra prima impressione.

— Una cattiva impressione, volete dire! Ebbene, ecco: tutte le belle
cose che pensate di lui sono giuste, credo; comunque, è il più bel
campione d’intellettualità, che abbia mai conosciuto. Ma è rôso da un
segreto rimorso, — oh! nulla di volgare e di basso! Mi pare che sia un
uomo il quale, avendo approfondito le cose, ha avuto tanta paura di ciò
che ha visto, che vuol persuadersi di non aver visto. Ecco un’altra
spiegazione, giacchè può darsi che questa non sia molto chiara. Un
uomo ha scoperto il cammino che conduce al tempio misterioso e non ha
seguito questo cammino; forse ha scorto il frontone radioso e cerca
di convincersi ch’è stato ingannato da una specie di miraggio. Volete
anche un’altra spiegazione? Un uomo avrebbe potuto far delle cose,
ma non ha dato loro molta importanza, e poi, nel più profondo del
cuore, rimpiange di non averle fatte; egli che rideva delle possibili
ricompense, ora le rimpiange amaramente, e piange anche per aver
rinunziato alla gioia dell’azione.

— Il mio modo di vedere non è punto questo, — fece lei. — E, d’altra
parte, non capisco bene ciò che volete dire.

— È una vaga impressione, — corresse Martin, — che non è fondata su
nulla di preciso: non è che un’impressione, fors’anche falsa. Voi lo
conoscete meglio di me.

Martin riportò da quella serata trascorsa presso i Morse un’impressione
confusa di sentimenti opposti; l’ambiente, le cime alle quali aveva
aspirato, la gente di cui aveva sognato di diventare l’uguale, lo
deludevano. D’altra parte, il buon successo ottenuto lo incoraggiava.
L’ascesa era stata più facile che non credesse; eppoi, — egli dovette
confessarselo senza falsa modestia, — aveva conquistato il suo fine:
egli si sentiva superiore a quella gente, tranne, però, il professore
Caldwell. Ne sapeva più di loro, circa la vita e i libri, e si domandò
ancora a che cosa servisse la loro istruzione. Ciò ch’egli ignorava,
era il fatto d’essere dotato d’una potenza cerebrale straordinaria,
e che le persone di vero valore non s’incontrano nei salotti del
genere di quello dei Morse; e non immaginava neppure che le persone
d’eccezionale valore sono simili alle grandi aquile solitarie che
volano molto in alto nell’azzurro, al disopra della terra e della sua
supina banalità.




CAPITOLO XXVIII.


Ma il successo abbandonava nuovamente Martin: nessun messaggero veniva
a picchiare alla sua porta. Durante venticinque giorni, domeniche e
feste comprese, egli lavorò attorno a «_La Vergogna del Sole_«, lungo
saggio di circa 30.000 parole, nel quale egli moveva deliberatamente
contro il misticismo di Maeterlinck. Egli si poneva dal punto di vista
della scienza positiva, contro i cacciatori di chimere, pur ammettendo
tutto l’ideale, tutto il sogno non ismentiti dai fatti accertati. Tempo
dopo, egli proseguì le sue critiche con due brevi saggi: «I Cacciatori
di chimere» e «La Misura dell’io». E i viaggi d’andata e ritorno, di
rivista in rivista, ricominciarono.

Durante i venticinque giorni spesi per «La Vergogna del Sole», egli
vendette qualche sciocchezzuola giornalistica per 31 lire; uno
scherzo in rime che gli procurò lire 2,50, un altro, 5 lire; due
poemi umoristici che gli furono pagati rispettivamente 10 e 15 lire.
Poi, dato fondo al credito presso i fornitori (sebbene avesse fatto
salire a venticinque lire il conto presso il droghiere), la bicicletta
e il vestito ritornarono al Monte di pietà; e l’agenzia delle
macchine da scrivere ricominciò le sue richieste, insistendo sulla
clausola del contratto, secondo la quale il nolo doveva essere pagato
anticipatamente.

Incoraggiato da questi piccoli guadagni, Martin proseguì il «lavoro
di grosso», che forse gli poteva dar da vivere... Le venti novelle
rifiutate dal Sindacato delle novelle, giacevano sotto la tavola: egli
le rilesse, per vedere come _non_ bisognava scriverle, e così ne scoprì
la formula perfetta. Una novella per giornali non deve avere mai un
finale triste, non deve contenere alcuna bellezza di stile, nè pensieri
sottili, nè vera delicatezza di sentimenti; pure, dev’essere piena di
belli e nobili sentimenti (di quelli che egli applaudiva, quand’era
giovanissimo, dall’alto della piccionaia, e col solito marchio: «Per
Dio, per lo Zar», e «Sono povero, ma onesto»).

Messo così sull’avviso, Martin consultò _La Duchessa_, come diapason, e
si mise al lavoro secondo la formula, la quale era divisa in tre parti:

  1.º Una coppia d’innamorati che viene separata;
  2.º Un avvenimento qualunque che li riunisce;
  3.º Matrimonio.

Le due prime parti potevano variare all’infinito, ma la terza era
immutabile. Così, la coppia d’innamorati poteva essere separata: 1.º
per errore; 2.º per fatalità; 3.º a causa dei rivali gelosi; 4.º per
crudeltà dei genitori; 5.º per malizia dei tutori; 6.º a causa di
vicini avidi, ecc. ccc. I due potevano essere riuniti: 1.º da una
buona azione dell’innamorato o dell’innamorata: 2.º da un mutamento
di sentimento dell’uno o dell’altra; 3.º dalla confessione volontaria
o coartata del tutore astuto, dal vicino cupido o dal rivale geloso;
4.º dalla scoperta d’un segreto; 5.º dalla presa d’assalto del cuore
della ragazza; 6.º da un sublime atto di abnegazione del giovanotto, e
così di seguito, all’infinito. Era molto divertente fare in modo che la
ragazza fosse la prima a dichiarare il suo amore; poi Martin scoprì,
a poco a poco, altri mezzucci piccanti e ingegnosi; ma, s’aprissero
le cateratte del cielo o cadesse il fulmine in modo catastrofico, il
matrimonio finale doveva avvenire, comunque. La formula prescriveva
un minimo di 1.100 parole, e un massimo di 1.500. Prima di progredire
in quest’arte, Martin si fece una mezza dozzina di schemi, ch’egli
consultava sempre prima di scrivere una novella. Questi schemi erano
simili a quelle ingegnose tavole usate dai matematici, che possono
consultarsi dall’alto, dal basso, a destra, a sinistra, in mezzo a
una quantità di righe e di colonne, e dalle quali si può trarre, senza
ragionamento e senza calcolo, migliaia di conclusioni diverse, tutte
invariabilmente precise ed esatte. In questo modo, Martin poteva, con
l’aiuto degli schemi, in una mezz’ora, fare una dozzina di novelle,
ch’egli metteva da parte e poi sviluppava con comodo.

Dopo una giornata di lavoro serio, egli ne faceva una facilmente
prima di coricarsi. Confessò persino a Ruth, poi, che le scriveva
quasi dormendo. Solo, la costruzione degli schemi richiedeva una certa
applicazione, ch’era però puramente meccanica.

Egli non dubitò punto della sua formula e capì finalmente la mentalità
degli editori il giorno in cui scommise con se stesso che le prime
due novelle sarebbero state accettate. Infatti, dopo dodici giorni
gli furono pagate venti lire l’una. Intanto egli faceva allarmanti
scoperte circa le riviste illustrate: sebbene la _Transcontinental_
avesse pubblicato «L’appello delle Campane», non aveva più mandato lo
_chèque_, e Martin, poichè ne aveva bisogno, lo richiese. Gli giunse
una risposta reticente, con la richiesta d’altre novelle. Intanto, in
attesa della risposta, egli rimase due giorni digiuno, e fu costretto a
impegnar nuovamente la bicicletta.

Due volte la settimana, regolarmente, egli scrisse alla
_Transcontinental_ per avere le venticinque lire. Gli veniva risposto
di tanto in tanto; egli ignorava che la _Transcontinental_ vivacchiava
da alcuni anni, ed era una rivista di decimo ordine, senza solide
fondamenta, con una tiratura basata, parte su soffietti, parte su
appelli patriottici, e con una pubblicità che consisteva soprattutto
in doni caritatevoli. Ignorava anche che la _Transcontinental_
rappresentava l’unica fonte di vita per l’editore e pel gerente, che
non potevano cavarsela se non rifiutando il pagamento della pigione,
e ogni altro pagamento; e tanto meno poteva sapere che le venticinque
lire spettantigli erano state spese dal gerente per ridipingere la casa
dove abitava a Alameda, e che quest’opera d’arte era stata compiuta
dal gerente in persona, una domenica, perchè non aveva di che pagare
un pittore e anche perchè l’imbianchino che aveva chiamato era caduto
dall’alto della scala e s’era spezzata la clavicola.

Neppure le 50 lire per i «Cacciatori di Chimere» venduti al giornale
di Chicago, si fecero vedere; l’articolo era stato pubblicato, come
egli stesso potè rilevare nella sala di lettura Centrale, ma l’editore
rimase sordo a ogni richiamo. Le sue lettere furono ignorate, puramente
e semplicemente; sebbene parecchie di esse fossero raccomandate. Era un
furto, nè più nè meno, — concluse lui, — un furto cinico: mentre egli
moriva di fame, gli rubavano la merce, la cui vendita costituiva per
lui l’unico provento per vivere.

_Gioventù e Maturità_, era una rivista settimanale: essa aveva appena
pubblicato i due terzi della serie di 21.000 parole, quando fallì; e
così svanì la speranza di intascare le 80 lire.

Per colmo di disgrazia, «La Marmitta», ch’egli giudicava come uno dei
suoi migliori lavori, andò perduto. Disperato, non sapendo più dove
rivolgersi, egli aveva finito col mandarlo a _L’Onda_, settimanale
mondano di San Francisco. Siccome non c’era di mezzo che il golfo, di
lì a Oakland, la risposta doveva essere sollecita, se non altro. Due
settimane dopo diede un balzo di gioia, vedendo, nell’ultimo numero
pubblicato, l’intero suo racconto, illustrato, e al posto d’onore.
Ritornò a casa raggiante, domandandosi quanto gli avrebbero pagato la
sua opera migliore. La prontezza con la quale l’avevano pubblicata era
di buon augurio; e il fatto che l’editore non l’aveva neppure informato
aumentava la sorpresa. Dopo aver aspettato otto giorni, la timidezza fu
vinta dall’impazienza, ed egli scrisse all’editore de _L’Onda_ dicendo
che probabilmente, per errore, avevano trascurato di regolargli il
conticino.

— Anche se ne ricavassi 25 lire, — disse Martin a se stesso, — potrei
comperare i fagioli e i piselli per la zuppa, e così avere il tempo per
scriverne un’altra mezza dozzina forse ugualmente buone.

La lettera che l’editore gli scrisse suscitò, pel suo freddo cinismo,
l’ammirazione di Martin.

— Noi vi ringraziamo, — diceva, — della vostra eccellente
collaborazione. Il vostro articolo ci è piaciuto moltissimo, e, come
vedete, l’abbiamo messo al posto d’onore e pubblicato immediatamente.
Speriamo che le illustrazioni vi siano piaciute. Rileggendo la vostra
lettera, ci sembra che vi sia un malinteso da parte vostra circa gli
usi del nostro giornale. Noi, di regola, non paghiamo per manoscritti
non richiesti; e tale è il caso vostro. Credevamo, naturalmente, che
voi conosceste i nostri principî. Siamo veramente dolenti di questo
increscioso malinteso, vi ringraziamo nuovamente della vostra simpatica
collaborazione, e, con la speranza che voi vogliate continuarla, vi
porgiamo, ecc. ecc.

In un _post-scriptum_ era aggiunto che sebbene _L’Onda_ non desse nulla
gratis, lo avrebbe incluso con piacere tra gli abbonati che ricevevano
gratuitamente il giornale, pel prossimo anno.

Edotto da questa esperienza, Martin non mancò di segnare sul primo
foglio d’ogni manoscritto: «Si accetta il vostro compenso solito».

— Un bel giorno. — disse a se stesso, per consolarsi, — il compenso
sarà fissato da me.

Durante questo periodo, si mise con accanimento a rimaneggiare e a
limare «Lo Scompiglio», «Il Vino della Vita», «Gioia», «I Poemi del
Mare», e altri lavori fatti nei primi tempi. Come una volta, non gli
bastavano diciannove ore al giorno: egli scriveva prodigiosamente,
leggeva prodigiosamente, dimenticando nel lavoro le sofferenze causate
dalla rinunzia alle sigarette. La droga disintossicante di Ruth,
adorna d’una lussuosa etichetta, fu messa nel cantuccio più riposto del
cassetto. Specialmente durante questi periodi di fame, egli soffriva
della privazione del tabacco: pure, egli teneva duro, dicendosi che
compiva l’atto più eroico della sua vita. Quanto a Ruth, lei era del
parere ch’egli non compiva il suo dovere; comprato che gli ebbe, di
tasca sua, il rimedio denicotinizzante, non pensò più alla cosa, per
alcuni giorni.

Intanto le novelle «buttate giù» ch’egli disprezzava, ottenevano buon
successo; e gli permisero di pagare i debiti e di rinnovar le gomme
alla bicicletta. Le novelle gli davano il pane, pur lasciandogli il
tempo di lavorar seriamente, mentre le 200 lire ch’egli aveva ricevute
dal _Sorcio Bianco_ gli alimentavano le speranze. Là egli riponeva
tutta la sua fiducia, convinto com’era che una rivista veramente di
prim’ordine avrebbe ricompensato un autore ignoto con la stessa somma,
e magari gli avrebbe dato di più.

Ma come riuscire a farsi accettare da una rivista di prim’ordine?
Le sue migliori novelle, i suoi poemi, continuavano le loro
peregrinazioni, e tutti i mesi egli leggeva mucchi di prosa noiosa,
piatta e inartistica sotto copertine diverse. Almeno uno di quegli
editori — si diceva talvolta — si fosse degnato di scendere dal suo
piedistallo per scrivergli un rigo d’incoraggiamento! «Anche se la mia
letteratura è strana, e non intonata al giornale, certamente deve avere
qualche pregio, modesto che sia, emanare un «non so che» che dovrebbero
degnarsi d’apprezzare». E qui, egli disseppelliva questo o quel
manoscritto, «L’Avventura» per esempio, e lo rileggeva severamente,
cercando a ogni costo di spiegarsi il silenzio degli editori.

Sopravvenne la mite primavera californiana e con essa riapparvero
i peggiori giorni d’indigenza. Già da parecchie settimane lo strano
silenzio del sindacato delle novelle giornalistiche lo preoccupava;
ed ecco, un bel giorno, venire il portalettere e consegnargli dieci
delle più impeccabili novelle. Erano accompagnate da una breve
lettera che diceva come il sindacato rigurgitasse di roba, per
parecchi mesi. Martin contava tanto su quelle novelle! Avevano finito
coll’accettargliele tutte, pagandogliele sino a 25 lire l’una, così che
aveva considerate come vendute quelle dieci, e come corrispondenti a
un deposito di 250 lire in banca, che gli avrebbero permesso di vivere.
I giorni magri riapparvero bruscamente; egli seguitò a vendere i primi
lavori a periodici che non pagavano e a sottoporre i suoi ultimi lavori
a riviste che non gliene comperavano; e i viaggi al Monte di Pietà di
Oakland ricominciarono.

Qualche scherzo in rima e parecchi poemi umoristici pubblicati nei
settimanali di New-York lo aiutavano a vivere miseramente. Fu allora
ch’egli scrisse a parecchi periodici mensili e settimanali per avere
informazioni, e seppe che gli articoli non richiesti erano raramente
accettati e che di solito erano richiesti a specialisti noti e
autorevoli del genere.




CAPITOLO XXIX.


Fu un’estate dura per Martin; editori e lettori di manoscritti erano
in vacanza, e le risposte che di solito gli giungevano dopo tre
settimane, ora impiegavano mesi. Egli si consolò coll’osservare che la
morta stagione gli avrebbe fatto risparmiare i francobolli. Soltanto i
saccheggiatori di articoli proseguivano attivamente i loro affari, e i
primi lavori di Martin, quali «I Pescatori di Perle», «La Carriera del
Marinaio», «La Caccia alla Tartaruga», e i «Venti alisei del Nord-est»
furono pubblicati mercè le loro cure interessate.

Egli non ne ricavò neppure un soldo; senonchè — a dir la verità — dopo
sei mesi di corrispondenza, gli fu mandato un rasoio di sicurezza, per
compenso de «La Caccia allo Tartaruga»; e la rivista «L’Acropoli», che
aveva promesso di dargli 25 lire in danaro e l’abbonamento gratuito
per cinque anni, si limitò ad eseguire la seconda metà degli obblighi
pattuiti.

Per un sonetto su Stevenson, egli riuscì ad ottenere a stento 10 lire
da un editore di Boston che pubblicava una rivista del tipo di Matthew
Arnold, col capitale di 0,00 lire. «La Peri e la Perla», abile poema
di duecento righe, appena uscitogli dal cervello, attrasse un editore
di San Francisco la cui rivista era sostenuta da una grande società
ferroviaria; che gli offrì il compenso in forma di viaggi gratuiti.
Martin domandò se poteva ottenere il rimborso di quei viaggi, ma
poichè non era possibile averne il prezzo in contanti, richiese il
suo poema. Gli fu rimandato con i rimpianti dell’editore; e Martin
lo rispedì a San Francisco, questa volta a «_La Vespa_«, pretenziosa
rivista mensile che ebbe un momento di notorietà al tempo del brillante
giornalista che l’aveva fondata, la cui stella era impallidita molto
tempo prima che Martin nascesse. L’editore gli promise 75 lire pel
poema, ma quando l’ebbe pubblicato, s’affrettò a dimenticare l’impegno
preso. Parecchie lettere mandate erano rimaste senza risposta, e allora
Martin ne scrisse una più risentita, alla quale fu risposto. Era un
nuovo editore che l’informava freddamente com’egli non assumesse
alcuna responsabilità degli errori dei suoi predecessori, e come,
d’altra parte, personalmente, non avesse una grande stima de «La
Peri e la Perla». Ma fu «_Il Globo_«, rivista di Chicago, a trattare
Martin più crudelmente di tutti: Martin, solo quando fu spinto dalla
fame, si decise a mandare «I Poemi del Mare». Era una serie di trenta
poemi, e dovevano pagarglieli cinque lire l’uno. Il primo mese ne
furono pubblicati quattro, ed egli ricevette subito uno _chèque_ di
venti lire. Senonchè, leggendoli sulla rivista, il modo com’erano
saccheggiati lo costernò. Persino i titoli erano stati alterati,
«Finito», per esempio, era stato sostituito da «La fine», e «La Canzone
dell’ultimo racconto», mutata ne «La Canzone del Banco di Corallo».
Erano giunti sino a sostituire un titolo assolutamente diverso,
incomprensibile, al titolo appropriato. Invece delle «Meduse iridate»
era stampato: «Il sentiero del ritorno». E non era tutto; persino i
versi erano irriconoscibili. Martin bestemmiò strappandosi i capelli
dalla rabbia, e dalla disperazione: frasi, righe, strofe intere erano
tagliate, posposte, travisate nel modo più incomprensibile. In certi
punti avevano interpolato versi che non gli appartenevano. Egli non
poteva credere che un editore, che non fosse uno squilibrato, potesse
essere capace d’una simile infamia e si disse, come sempre, che i
suoi poemi dovevano essere stati maltrattati da un fattorino o dallo
stenografo. E scrisse immediatamente all’editore di interrompere la
pubblicazione dei suoi poemi e di rimandarglieli. Scrisse lettere
su lettere, pregando, supplicando, minacciando, ma inutilmente: il
massacro continuò tutti i mesi, sinchè i trenta poemi non furono
pubblicati — tutti i mesi egli riceveva uno _chèque_ per quello
apparso.

A dispetto di queste disavventure varie, però il ricordo dello
chèque di 200 lire del _Sorcio Bianco_ lo sorreggeva, sebbene egli
fosse ridotto sempre più «al lavoro di grosso». Egli trovò di che
mangiare collaborando nei giornali settimanali di agricoltura e nelle
riviste professionali, ma in cambio, nei giornali religiosi, nulla:
poteva morir di fame. Nel momento più critico, quando l’abito nero
era al Monte di Pietà, egli fece un colpo da maestro; in un concorso
organizzato dal comitato locale del partito repubblicano. Il concorso
riguardava tre prove distinte ed egli riuscì in tutte tre, ridendo
amaramente di quel povero diavolo che s’era ridotto a quel punto, per
vivere. Il suo poema vinse il primo premio di cinquanta lire, la sua
canzone vagabonda il secondo, di 25 lire, il saggio sui principî del
partito repubblicano, il primo premio di 125 lire; il che gli fece un
gran piacere sino al momento in cui tentò di essere pagato. Le cose
non procedevano bene nel Consiglio d’amministrazione, e, sebbene un
ricco banchiere e un senatore ne fossero membri, danaro non ne entrava.
Mentre questa faccenda si trascinava per le lunghe, egli diede prova
di comprendere i principî del partito democratico, vincendo il primo
premio in un concorso del genere. Questa volta ricevette il danaro,
125 lire; ma delle 220 lire del premio del concorso non sentì mai più
parlare.

Costretto a ricorrere a stratagemmi per poter vedere Ruth, e
considerato che l’andare e tornare a piedi gli faceva perdere troppo
tempo, egli lasciò il vestito al Monte di Pietà e tenne la bicicletta.
In questo modo faceva dell’esercizio, guadagnava del tempo per
lavorare e poteva vedere anche Ruth. Un paio di calzoni e un vecchio
_chandail_ formavono un vestito sportivo abbastanza decente per
passeggiare con Ruth, il pomeriggio. D’altra parte non gli capitava
l’occasione di vederla in casa, dove la signora Morse seguitava
a svolgere sistematicamente il suo programma d’accerchiamento. Le
persone superiori ch’egli incontrava, anzichè continuare ad essere
per lui soggetti degni d’ammirazione, l’annoiavano; la loro sedicente
superiorità non l’impressionava più: gli stenti, le delusioni, il
lavoro accanito lo facevano diventar nervoso, irritabile, così che la
conversazione con quella gente lo esasperava. Egli paragonava, oggi, la
loro angustia mentale al volo dei pensatori di cui leggeva le opere,
o osservava come non avesse mai incontrato, da Ruth, una persona di
valore, a parte il professore Caldwell, ch’egli aveva visto una volta
sola. La loro ignoranza, soprattutto, lo stupiva. A che cosa era
giovata la loro istruzione? Essi avevano attinto alle stesse fonti; ma
come facevano perchè non fosse possibile accorgersene?...

Egli sapeva che esistevano menti grandi, pensatori profondi e
razionali; i loro libri lo avevano istruito, facendogli superare
il livello dei Morse. Egli sapeva anche che menti intellettuali più
elevate erano in ambienti diversi da quello dei Morse. Nei romanzi
mondani inglesi, si trattava di donne e di uomini che parlavano di
politica e di filosofia, ed egli aveva sentito dire anche che in
certi salotti delle grandi città, negli Stati Uniti, erano fuse arte
e intellettualità. Un tempo, egli pensava ingenuamente che tutto
ciò che era fuori della classe operaia, tutte le persone _perbene_,
avessero intelligenza superiore e il gusto della bellezza: la cultura e
l’eleganza gli pareva che dovessero andar di pari passo; ed egli aveva
commesso il solenne errore di confondere educazione con intelligenza!
Ebbene! sarebbe salito più in alto ancora! e avrebbe condotto Ruth con
sè, Ruth ch’egli amava tanto e che dovunque avrebbe fatto un’ottima
figura; egli n’era convinto. Ma era ugualmente convinto che lei
era stata ostacolata dall’ambiente, com’egli era stato ostacolato
dal suo. Lei non aveva avuto l’occasione di svilupparsi; i libri
della biblioteca di suo padre, i quadri nel salotto, e perfino il
pianoforte, tutto in casa loro non era altro che mostra di vanità. I
Morse e loro pari erano sordi e ciechi a ogni vera forma letteraria,
a ogni vera pittura, a ogni vera musica; e per giunta erano ignari
della vita, profondamente, disperatamente ignoranti. A dispetto delle
loro disposizioni unitarie e della loro apparente comprensione, erano
in ritardo di due generazioni riguardo alla scienza interpretativa;
il loro processo mentale era medievale, le loro idee circa i grandi
problemi della vita e dell’Universo sembravano datare dall’epoca delle
caverne e da tempo anche più antico.

Tali erano le riflessioni di Martin, così che egli finì col domandarsi
se la diversità tra i lavoratori del suo ambiente d’una volta e i
notai, gli ufficiali, gli uomini d’affari, i cassieri dell’ambiente che
frequentava ora non consistesse soltanto nella diversità del vitto, dei
vestiti e delle relazioni. Evidentemente, essi erano privi totalmente
d’una qualche cosa ch’egli, Martin, aveva, e che era anche nei libri.
I Morse gli avevano mostrato quanto di meglio poteva offrire la loro
condizione sociale... ed era poco. Da parte sua, egli era senza un
soldo, preda e schiavo degli usurai e del suo lavoro, ma si sentiva
superiore a tutta quella gente, e quando l’unico vestito decente non
era al Monte di Pietà, egli procedeva fra loro come un sovrano, con
lo stesso senso d’orgoglio ferito che deve avere un re in esilio fra
bovari.

— Voi odiate i socialisti e ne avete paura, — diss’egli una sera a
pranzo, al signor Morse. — Ma perchè? Voi non conoscete nè essi nè la
loro dottrina.

La conversazione era stata avviata su quest’argomento dalla signora
Morse, che, insidiosamente, aveva decantato le lodi del signor Hapgood.
Il cassiere era una bestia nera per Martin, il quale s’infastidiva
facilmente quando si trattava del «dicitore di cose piatte».

— Sì, — aveva dichiarato lui, — Charlie Hapgood è quel che si chiama
un giovane dal brillante avvenire, a quanto pare. — Ed è vero. Sarà
certamente Direttore generale della Banca, prima di morire, e — chissà?
— forse Senatore degli Stati Uniti.

— Da che cosa lo arguite? — domandò la signora Morse.

— L’ho sentito parlare in una riunione pubblica; il suo discorso
era così meravigliosamente stupido, così banale e così convincente,
che i capipartito non possono non considerarlo come un uomo sicuro e
d’assoluta fiducia. D’altra parte, le cose piatte ch’egli enuncia sono
tanto somiglianti alle cose piatte di tutti coloro che votano, che...
Dio mio! voi fate sempre piacere a un signore, quando gli presentate le
sue idee ben decorate, su un piatto d’argento!

— Credo che siate geloso del signor Hapgood, — l’indispettì Ruth.

— Dio me ne guardi!

L’espressione di orrore di Martin eccitò la combattività della signora
Morse.

— Non vorrete dire, certamente, che il signor Hapgood sia una bestia?

— Non più bestia della media dei repubblicani. — rispose l’altro, —
o della media dei democratici; sono tutti idioti, quando non sono dei
volponi raffinati; e pochissimi tra loro sono dei volponi fini.

I soli repubblicani accorti sono i milionarî e loro servitori
coscienti. Costoro sanno, se non altro, da quale parte è il pane
imburrato e perchè.

— Io sono repubblicano, — fece, senza dar peso, il signor Morse. — In
quale categoria mi mettete, per piacere?

— Oh! voi siete il servitore incosciente.

— Un servitore?

— Dio mio!, sì. Voi lavorate per la vostra corporazione; i vostri
clienti non appartengono nè alla classe operaia nè a quella dei
criminali. I vostri proventi non dipendono nè dai maltrattatori delle
proprie mogli, nè dai _pickpockets_. Siete pagato dai padroni della
Società, e «chi nutre un uomo ne è padrone». Sì, siete un servitore:
non fate che difendere gl’interessi del capitalismo che servite.

Il signor Morse era diventato un po’ rosso.

— In verità, signore, — disse, — voi mi sembrate uno dei masnadieri
socialisti.

E allora Martin gli fece osservare:

— Voi odiate i socialisti e ne avete paura! Ma perchè? Non conoscete nè
loro, nè la loro dottrina.

— La vostra teoria, comunque, rassomiglia in modo singolare a quella
dei socialisti, — ribattè il signor Morse, mentre gli sguardi di Ruth
correvano ansiosamente dall’uno all’altro e la signora Morse esultava
di quell’occasione che eccitava l’antagonismo del suo signore e
padrone.

— Dall’affermare come faccio io, che i repubblicani son bestie, che
la libertà, l’eguaglianza, la fraternità non sono altro che bolle di
sapone non si può trarre la conclusione che io sia socialista, — disse
sorridendo Martin. — Dal fatto che io interrogo Jefferson e il Francese
ignaro che l’ha istruito, non si può indurre che io sia socialista.
Credetemi, signor Morse, voi siete molto più vicino al socialismo, che
non sia io, suo nemico giurato.

— Voi scherzate, — fu l’unica risposta dell’altro.

— Niente affatto: parlo con molta serietà. Voi credete ancora
all’eguaglianza — e intanto lavorate per le corporazioni che, ogni
giorno più, calpestano l’uguaglianza. E mi chiamate socialista, perchè
nego l’uguaglianza, perchè affermo il perchè voi vivete. I repubblicani
sono i nemici dell’uguaglianza e la combattono nel suo nome: ecco
perchè mi sembrano stupidi. Quanto a me, io sono individualista; io
credo che la corsa sia vinta dal più rapido, che la vita sia del più
forte. Questo me l’ha insegnato la biologia; credo almeno d’averlo
imparato. Sì, sono individualista, e l’individualismo è il nemico
eterno, ereditario del socialismo.

— Ma frequentate dei comizi socialisti! — lanciò il signor Morse.

— Certamente! così come gli spioni frequentano i campi nemici.
Come sapreste altrimenti ciò che accade? Del resto, mi ci diverto:
sono dei buoni lottatori, e, abbiano torto o ragione, hanno i loro
autori. Il minore tra loro s’intende di sociologia più che la media
degl’industriali. Sì, ho assistito a qualche loro comizio! Ma non
perciò sono diventato socialista, allo stesso modo che non sono
diventato repubblicano ascoltando Charlie Hapgood.

— Non so perchè, — fece debolmente il signor Morse, — ma credo che voi
tendiate al socialismo.

— Dio me ne guardi! — disse fra sè Martin: — non ha ancora capito
una parola di ciò che gli ho detto. E lui, che ne ha fatto della sua
istruzione?

Fu così che Martin si trovò a faccia a faccia con la morale economica
o morale delle classi, la quale gli apparve in breve come uno
spaventapasseri. Personalmente, egli era un moralista intellettuale, e
la morale della gente che gli era attorno gli ripugnava più che non la
piattezza pomposa dei ragionatori. Questa morale era un misto curioso
d’economia politica, di metafisica, di sentimentalismo e di spirito
d’imitazione.

Egli trovò un esempio di questa morale bizzarra e confusionaria nel suo
ambiente più immediato. Sua sorella Marianna era stata corteggiata da
un giovane meccanico d’origine tedesca che, dopo aver coscienziosamente
imparato il suo mestiere, aveva messo su una bottega di riparazione di
biciclette, e poichè egli era anche rappresentante di una ditta (di
second’ordine), il suo commercio prosperava. Marianna, era andata ad
annunziare, tempo prima, il suo fidanzamento a Martin, e, scherzando
gli aveva esaminato le linee della mano e gli aveva predetto la buona
ventura. Nella visita che seguì, lei condusse con sè Hermann von
Schmidt. Martin li accolse con tutti gli onori, e si rallegrò con
tutti e due, e con tanta cordialità e disinvoltura, che quello zotico
del fidanzato ne rimase impressionato in modo sfavorevole. La cattiva
impressione s’accrebbe quando Martin gli lesse qualche strofa che aveva
composto, in ricordo della visita precedente di Marianna. Erano versi
leggeri e delicati, ch’egli aveva intitolati «La Chiromante». Rimase
sorpreso vedendo, quand’ebbe finito di leggere, che sua sorella non
solo non mostrava piacere ma guardava ansiosamente il suo fidanzato; e
Martin, seguendo la direzione degli sguardi di lei, vide che la faccia
asimmetrica del bravo ragazzo rifletteva una cupa disapprovazione. Non
avvenne nessuna spiegazione, però; la coppia se la svignò prontamente,
e Martin dimenticò subito quell’incidente, sebbene rimanesse molto
stupito, là per là, dal fatto che una donna, sia pure del popolo,
potesse essere così insensibile a dei versi fatti in suo onore.

Sere dopo, Marianna tornò a trovarlo, sola, questa volta. Lei andò
diritta allo scopo e lo riprese con buone maniere, per quanto aveva
fatto.

— Come, Marianna! — disse Martin, con aria di dolce rimprovero, — tu
parli come se avessi vergogna della tua famiglia, di tuo fratello,
comunque!

— Certo che ho vergogna! — esclamò lei.

Martin vide ch’ella aveva gli occhi pieni di lacrime, per umiliazione:
il dolore di lei, comunque, era sincero.

— Ma Marianna, perchè il tuo Hermann dovrebbe esser geloso pel fatto
che io ho scritto dei versi su mia sorella?

— Non è geloso, — singhiozzò lei: — dice che è indecente, oh!... osceno!

Martin fece udire un lungo sibilo d’incredulità, poi andò a cercare una
copia della «Chiromante» e la lesse.

— Non vedo, — disse poi porgendole il manoscritto; — leggimelo tu e
mostrami dov’è ciò che ti sembra oscenità, — non ha detto così?

— Proprio così, e deve intendersene. — rispose Marianna, respingendo il
manoscritto con aria di disgusto. — E dice che devi lacerarlo. Dice che
non vuol saperne d’una donna sulla quale hanno scritto delle cose che
tutti possono leggere. Dice che è una vergogna e che non gli va.

— Senti, Marianna, tutto questo è idiota, — cominciò Martin: poi si
fermò: aveva mutato idea. Vide la povera ragazza triste, si rese conto
dell’inutilità dei suoi sforzi per convincere lei e il suo fidanzato, e
decise di cedere, sebbene considerasse quell’incidente come illogico e
ingiurioso.

— Benissimo! — dichiarò, lacerando il manoscritto e gettandolo nel
cestino.

Gli bastava sapere che l’originale era già presso la redazione d’una
rivista di New York; Marianna e il suo fidanzato non ne avrebbero
saputo nulla, e nè essi nè altri avrebbero peggiorato le loro
condizioni, se quel grazioso e innocente poema fosse stato pubblicato.

Marianna fece l’atto di stendere le mani verso il cestino, ma si
trattenne.

— Posso? — domandò con voce supplichevole.

Egli fece segno di sì, e la guardò con aria pensosa, mentre lei
raccoglieva i pezzetti di carta e se li ficcava nella tasca della
giacca, per provare il successo del suo tentativo. Essa gli fece
ricordare Lizzie Connolly, sebbene quella ragazza, ch’egli aveva visto
due volte, fosse più vivace, più vibrante; ma si rassomigliavano tutt’e
due nell’andatura e nell’insieme, ed egli si divertì a immaginare l’una
o l’altra in atto di entrare nel salotto della signora Morse.

Poi il divertimento venne meno, ed egli si sentì infinitamente solo.
Sua sorella e il salotto dei Morse erano come limiti lungo il cammino
pel quale procedeva, e li aveva oltrepassati. Egli diede uno sguardo
amichevole ai suoi libri; erano i soli compagni che gli rimanessero.

— Su, che c’è? — fece lui di soprassalto.

Marianna ripetè la domanda.

— Perchè non lavoro? — E rise di malincuore. — Il tuo Hermann t’ha
raccontato delle bestialità.

Ella scosse la testa negativamente.

— Non mentire! — disse lui; e poichè essa taceva; — Senti, dirai al
tuo Hermann che pensi ai fatti suoi. Quando io scrivo dei versi a una
ragazza alla quale fa la corte, la cosa lo riguarda; ma oltre questo,
non ha ragione di dirmi altro. Capito?

— Dunque, tu non credi al mio avvenire di scrittore, di’? — proseguì
lui. — Credi che io sia un fannullone? un uomo perduto, un disonore per
la famiglia?

— Credo che sarebbe meglio che tu scegliessi un mestiere, — disse lei
con fermezza, ed egli vide ch’era profondamente convinta. — Hermann
dice...

— Vada al diavolo il tuo Hermann! — interruppe lui allegramente. —
Vorrei sapere piuttosto quando vi sposerete. Cerca di sapere anche se
il tuo Hermann si degnerà di accettare un regalo da me, pel vostro
matrimonio. — Egli riflettè a quell’incidente, dopo la partenza
di Marianna, ed ebbe un riso amaro pensando a sua sorella e al suo
fidanzato, a tutti quelli della sua classe sociale, a tutti coloro
che appartenevano alla classe di Ruth, o regolavano la loro meschina
piccola vita secondo meschine piccole formole, — fantocci pedissequi,
che modellavano la loro vita su quella del vicino, incapaci di
vivere realmente la vita, a causa dei pregiudizi che li guidavano.
Egli se li vedeva sfilare davanti, processionalmente: Bernardo
Higgingbotham sottobraccio col signor Butler, Hermann von Schmidt con
Charlie Hapgood, e altri, pari pari, che egli esaminava, giudicava e
respingeva. Vanamente si domandava: dove sono le grandi anime? Dove
sono i grandi pensatori? E tra la folla di persone indifferenti,
informi, stupide, ch’egli evocava, non trovava nulla. Fu vinto dal
disgusto, simile a quello che deve aver sentito Circe per la sua
mandria di porci.

Quando egli, il respinto, l’ultimo, si credette solo, finalmente, un
nuovo venuto apparve d’improvviso, non chiamato. Martin lo guardò e
si vide di fronte, con un cappello sulle ventitrè, un soprabito troppo
corto, il giovane dappoco ch’egli era stato, e che si pavoneggiava.

— Tu eri come gli altri, giovanotto, — schernì Martin. — La tua
morale e le tue nozioni somigliavano alle loro; non avevi alcuna
personalità; le tue idee, come i tuoi vestiti, erano bell’e fatte;
agivi pel pubblico; eri il galletto della compagnia, perchè gli altri
ti acclamavano. Tu comandavi la tua banda e lottavi; non per gusto,
giacchè in fondo ne avevi disprezzo, ma perchè gli altri ti battevano
sulla spalla e ti adulavano. Hai conciato per le feste Testa di
Formaggio perchè non voleva cedere, prima di tutto perchè eri l’ultimo
dei bruti, eppoi perchè credevi, come tutti coloro che ti attorniavano,
che la virilità d’un uomo fosse in proporzione della ferocia di cui dà
prova riducendo a brandelli il proprio simile. Come, giovane sciocco?
tu rubavi loro le fidanzate, non per desiderio, ma perchè nella midolla
dei tuoi genitori fermentava l’istinto dello stallone selvaggio e del
toro. Ebbene, sono passati degli anni; che ne pensi tu, ora?...

Come per rispondergli, la visione mutò subito; il feltro floscio,
il soprabito corto scomparvero, sostituiti da vestiti più sobrî;
l’indolenza del viso, la durezza dello sguardo cedettero a
un’espressione serena, luminosa, che sembrava il riflesso d’una
meravigliosa chiarezza interiore. Quel fantasma rassomigliava
stranamente al Martin Eden attuale; guardando meglio, egli vide la
lampadina che lo illuminava, il libro che studiava. Lesse il titolo:
_Scienza dell’Estetica_. Era proprio lui... Egli alimentò la lampada
e riprese la lettura della _Scienza dell’Estetica_, nel punto dove
l’aveva interrotta.




CAPITOLO XXX.


In un bel pomeriggio della fine d’estate, simile al giorno in cui
egli vide sbocciare il suo amore, un anno prima, Martin lesse il suo
«Ciclo d’Amore» a Ruth. Come allora, essi erano adagiati nel cantuccio
prediletto sulla collina. Di tanto in tanto lei aveva interrotto la
lettura con delle esclamazioni di piacere: quando ebbe sovrapposto
l’ultimo foglio sugli altri, egli attese il giudizio di lei. Lei
lo fece aspettare, poi parlò, tra pause, esitando nell’esprimere la
durezza del suo pensiero.

— Mi sembrano bellissimi, veramente molto belli; ma non riuscite a
venderli, non è vero?.. Capite ciò che voglio dire? — fece lei con
voce quasi implorante. — La vostra letteratura è invendibile. Vi sono
delle cose là dentro che v’impediscono di guadagnarvi da vivere con...
Forse la colpa è degli altri... Ma, caro, comprendetemi bene. Io sono
orgogliosa, lusingata — quale vera donna non lo sarebbe? — del fatto
che voi avete scritto dei poemi su me; ma essi non faranno in modo da
rendere possibile il nostro matrimonio. Non lo credete, Martin?... Non
crediate che io sia venale; sono tormentata dall’amore, dal pensiero
del nostro avvenire. È passato un anno intero dacchè abbiamo dichiarato
il nostro reciproco amore, e il nostro matrimonio è ancora lontano. Non
mi giudicate male, Martin; si tratta davvero di tutto il mio cuore, di
tutta me stessa. Perchè non tentare d’entrare in un giornale, giacchè
tenete assolutamente a scrivere? Perchè non diventate _reporter_...
almeno per un po’ di tempo?

— Mi guasterei lo stile, — fece lui a voce bassa, monotona. — Voi non
sapete quanto lavoro mi è costato lo stile.

— Ma quelle novelle? — insistè Ruth. — Voi le chiamate «lavoro di
grosso» e ne avete scritte molte. Non vi hanno guastato anch’esse lo
stile?

— No, il caso è diverso. Le novelle nascevano spontaneamente, dopo
una lunga giornata di lavoro di stile; ma il lavoro d’un _reporter_
è compito di tutti i minuti e assorbe completamente. Non è più una
vita, ma un turbine, senza passato, senz’avvenire, e certo senz’alcuna
preoccupazione di stile o letteraria. Ma fare il _reporter_ proprio ora
che il mio stile si assoda, significherebbe suicidarsi letterariamente.
Pensate un po’, a ogni novella, la minima parola d’ogni novella feriva
il rispetto di me stesso, il rispetto che ho della bellezza, al punto
da farmi ammalare. Mi pareva di commettere un peccato! E quando me le
rifiutavano, in fondo ne ero contento, sebbene dovessi riportare gli
abiti all’agenzia dei pegni! Ma oh! la gioia di scrivere «Il Ciclo
d’Amore»!... la gioia del creatore, nella sua più nobile espressione.
Mi ricompensava di tutto, di tutto!...

Martin non seppe sino a qual punto queste parole lasciassero Ruth
indifferente. «La gioia di creare» era però una frase che egli aveva
udita per la prima volta dalla labbra di lei. Essa l’aveva letta, ne
aveva studiato il significato all’Università lavorando per la laurea;
ma lei non aveva alcuna originalità; il dono di creare le mancava
totalmente, e la sua cultura era un semplice riflesso di quella degli
altri.

— Insomma, l’editore non ha ragione di correggere i vostri «Poemi del
Mare»? — domandò lei. — Ricordatevi che bisogna che gli editori abbiano
dato prova di buone attitudini.

— Questo rientra perfettamente nell’onnipotenza della cosa stabilita,
— replicò lui. — Ciò che è, non solo è bene, ma non potrebbe essere
meglio. Il fatto che una cosa esiste basta da solo a giustificarla!
Notate che solo l’ignoranza della gente fa credere una stupidaggine
simile; la loro ignoranza, che non è altro che l’omicida mentale
descritto da Weininger. La gente immagina di pensare, e accade che
degli esseri senza pensiero si erigano ad arbitri di coloro che pensano
davvero.

Egli tacque, essendosi accorto d’aver oltrepassato la comprensione
mentale di Ruth.

— Io non conosco questo Weininger, — fece lei. — E voi generalizzate
talmente, che non posso seguirvi. Dicevo che gli editori sono gente di
qualità...

— Vi dirò, — interruppe Martin, — che il novantanove per cento degli
editori è rappresentato da persone fallite, che non sono riuscite
come scrittori. Non crediate ch’essi preferiscano lo loro fatica
burocratica, il loro asservimento al pubblico e agli accomandatari alla
gioia di scrivere; hanno tentato, ma non sono riusciti. Ed ecco appunto
il paradosso idiota della cosa: tutte le porte della letteratura
sono guardate da questi cerberi, dai falliti della letteratura.
Editori, redattori, direttori letterari di riviste e librai, tutti,
o quasi, hanno voluto scrivere e si sono mostrati inetti. Ed è
questa gente — meno dotata di qualità — che decide di ciò che deve
o non deve essere pubblicato! E questa gente, che ha provato la sua
mancanza di originalità e d’ingegno, è incaricata proprio di giudicar
dell’originalità e dell’ingegno degli altri! Poi vengono i critici
di riviste — gente fallita anch’essi. — Anch’essi hanno sognato di
scrivere versi o romanzi, e non hanno potuto. Come! ma la media delle
riviste è nauseante, a volerla mandar giù, come l’olio di fegato di
merluzzo!... Ma vi ho già detto tutto ciò; vi sono dei grandi critici,
certo, ma sono rari come le comete. Comunque, se dovessi fallire come
scrittore, sarei maturo per la professione d’editore; avrei pane,
companatico e persino il dolce assicurato.

Lo spirito pronto di Ruth e la disapprovazione delle idee del suo
fidanzato le fecero sorvolare la contraddizione che le pareva implicita
in quella diatriba.

— Ma, Martin, se è così, se tutte le porte sono chiuse, come
dimostrate, come hanno fatto i grandi scrittori per conquistare il
successo?...

— Hanno fatto l’impossibile, — rispose lui: — hanno fatto cose tanto
meravigliose, inaudite, che alla loro fiamma le porte di bronzo si
sono fuse. Sono «arrivati» per miracolo, nella proporzione di uno
su mille; sono arrivati perchè simili ai «giganti sfregiati» di cui
parla Carlyle, che nulla può abbattere. Ed ecco: bisogna che io compia
l’impossibile.

— Ma se non doveste riuscire, Martin?... Eppoi sembra che dimentichiate
che ci sono anch’io!

— Se non dovessi riuscire?... — Egli la guardò un momento, come se
l’ipotesi enunciata fosse impossibile, poi, col volto illuminato,
disse: — Se dovessi fallire, farò l’editore, e voi sarete la moglie di
un editore.

Essa aggrottò le sopracciglia, a questa trovata, con una mossa così
civettuola, che egli la strinse fra le braccia e la coprì di baci.

— Basta, basta, — dichiarò lei, svincolandosi con uno sforzo di volontà
dalla dolce stretta. — Ho parlato con i miei genitori, e non li ho
mai affrontati così, da figliola molto poco ubbidiente. Essi vi sono
contrari, Martin; ma io li ho talmente convinti del mio amore per
voi, che infine mio padre ha dichiarato che vi accoglierebbe nello
studio, se voleste. Egli ha detto persino, spontaneamente, che vi
ricompenserebbe bene, anche all’inizio, in modo da poter sposare e
avere una casetta nostra. Non è molto gentile, questo?

Martin, che aveva la disperazione nel cuore, emise alcuni suoni
inarticolati, mentre cercava distrattamente in tasca l’occorrente per
fare una sigaretta, — invano, però, perchè non aveva indosso nè tabacco
nè carta, — e Ruth proseguì:

— Francamente, e spero che non ve ne abbiate a male, ve lo dico perchè
sappiate esattamente come regolarvi, non gli piacciono le vostre idee
radicali, e pensa che siate pigro. S’intende che io so che non lo siete
punto, ma che anzi lavorate molto.

Sino a qual punto, lei, certo, non immaginava; pensò Martin.

— Bene, — rispose lui. — E quanto alle mie idee mi credete veramente
radicale?

Egli la fissò, aspettando una risposta.

— Le vostre idee... be’!... mi sembrano molto imbarazzanti, — fece lei.

Egli era edotto; e la vita gli parve a un tratto così cupa, così
grigia, ch’egli dimenticò l’offerta d’un impiego presso il padre di
lei.

Quanto a Ruth, poichè oramai il dado era tratto, essa decise di
attendere e di risuscitar la questione in un momento più favorevole. Ma
aspettò a lungo; Martin aveva anch’egli una domanda da rivolgerle. Egli
desiderava accertarsi della misura esatta della fiducia di lei in lui;
in una settimana le due questioni furono risolute, e la soluzione fu
affrettata dalla lettura che le fece Martin de «La Vergogna del Sole.»

— Perchè dunque non fate il giornalista? — domandò lei quand’egli ebbe
finito. — Vi piace tanto scrivere, e sono sicura che riuscirete. Vi
distinguereste subito e vi fareste un buon nome. C’è un gran numero
di corrispondenti speciali che hanno ottimi stipendî e uno sterminato
campo d’azione. Li mandano dappertutto, nel cuore dell’Africa, come
Stanley — a Roma per intervistare il Papa, o nel Thibet, a esplorare
terre sconosciute.

— Dunque, non vi piace il mio saggio? — fece lui con insistenza. —
Credete che possa avere un buon successo in giornalismo e nessuna
fortuna in letteratura?

— Ma sì, ma sì, mi piace. Suona bene; ma temo che non sia compreso dai
lettori; comunque, io non lo capisco bene, sebbene mi sembri bello.
Il vostro gergo scientifico supera le mie cognizioni. Voi sapete,
caro, che siete un estremista, e ciò che vi sembra intelligibile, può
sembrare benissimo inintelligibile alla maggioranza dei lettori comuni.

— Credo che sia il gergo filosofico che vi dà fastidio, — fece lui non
sapendo che dire.

Egli era ancora infiammato dalla lettura, e risentiva l’impressione del
pensiero più maturo che avesse mai espresso; così, il verdetto di Ruth
lo colpiva brutalmente.

— Non badate tanto alla forma, che forse risente di qualche
imperfezione, — insistè lui. — Ma in fondo, nel pensiero... non vedete
nulla?... — Lei scosse il capo.

— No, è diverso da tutto quanto ho letto. Ho capito Maeterlinck...

— Avete capito il suo misticismo? — arrischiò Martin.

— Sì, ma ciò che avete voluto esprimere, — e che credo sia una
critica demolitrice di Maeterlinck, — non lo capisco. Naturalmente, se
l’originalità ha la sua importanza...

Egli l’interruppe con un gesto impaziente, poi si accorse a un tratto
che lei parlava, parlava anche da un bel po’.

— In fin dei conti avete scritto per divertirvi, — diceva lei, — Ora vi
siete divertito abbastanza, ed è tempo di prendere la vita sul serio,
Martin. Sinora non avete pensato che alla vostra.

— Voi vorreste che m’impiegassi?

— Sì, papà ha offerto...

— Lo so, — interruppe Martin, — ma m’interessa sapere se, sì o no, voi
avete perduto la fiducia in me.

Lei gli prese la mano, e delle lacrime le apparvero agli occhi.

— Nel vostro avvenire letterario, sì, caro, — confessò a bassa voce.

— Voi avete lette molte mie elucubrazioni. — proseguì lui bruscamente.
— Che ne pensate voi? Non c’è alcuna speranza? Rispetto agli altri,
come sono?

— Ma essi vendono le loro opere, e voi... no.

— Non rispondete alla mia domanda. Credete davvero che non abbia alcuna
attitudine letteraria?

— Allora vi risponderò. — Essa fece appello a tutto il suo coraggio. —
No, io non credo che abbiate attitudini per questo. Scusatemi, caro,
voi mi chiedete di dirvi il mio pensiero, e sapete che in fatto di
letteratura me ne intendo un po’ più di voi.

— Sì, vi siete laureata in lettere, — diss’egli pensosamente: — dovete
sapere.

— Ma voglio dirvi ancora questo, — proseguì egli dopo un penoso
silenzio. — Io conosco ciò che ho in me; nessun altro lo sa; io so che
riuscirò, e non voglio lasciarmi soffocare. Io non vi chiedo di credete
in me nè nel mio avvenire letterario; non vi chiedo altro se non che mi
amiate e che abbiate fiducia nell’amore.

Un anno fa vi ho chiesto due anni; mi rimane ancora un anno; e credo
davvero — ve ne dò la parola d’onore — che prima d’un anno sarò
riuscito. Ricordate ciò che mi avete detto, parecchio tempo fa: che
dovevo esercitarmi, prima?... L’ho fatto e ben fatto, ve lo giuro,
giacchè voi eravate la meta e aspettavate. Sapete che ho dimenticato
che significhi dormire in pace?... Un tempo, — mi sembra che siano
passati dei secoli, — dormivo della grossa e mi svegliavo dopo aver
riposato abbastanza. Ora, è sempre la sveglia a destarmi; m’addormenti
presto o tardi, dormo sempre lo stesso numero di ore; il ricaricar
la pendola e lo spegnere la lampada sono per me gli ultimi due atti
incoscienti. Quando comincio ad aver sonno, cambio libro sostituendo
un volume troppo difficile che sto leggendo con un altro più leggero,
e quando mi ci addormento su, mi dò dei pugni sul capo per scacciarne
il sonno. Ho letto la storia di un uomo che aveva paura di dormire;
un racconto di Kipling. Quell’uomo aveva fissato uno sprone in tal
modo, che la stelletta d’acciaio gli penetrava nelle carni quand’egli
cedeva al sonno. Ebbene! io ho fatto lo stesso; guardo l’ora e decido
di non staccare lo sprone prima di mezzanotte o dell’una, o delle due
o delle tre del mattino. E sprono la mia carne stanca sino all’ora
che ho detto. Quello sperone è stato mio compagno di letto da alcuni
mesi; è diventato tale il mio accanimento al lavoro, che non dormo più
di cinque ore e mezza. Ne dormo quattro, ora! Sono affamato di sonno.
Ci sono momenti in cui avverto delle vertigini, tale è il bisogno di
sonno, dei momenti nei quali la morte, donatrice di riposo, mi tenta,
dei momenti nei quali sono assillato da questi versi di Longfellow:

    _Il mare è silente e profondo,_
    _vi posa ogni cosa del mondo:_
    _basta un passo perchè sia finita,_
    _un tuffo, una bolla; e più nulla è la vita._

S’intende che questo non può durare; è nervosismo dovuto a una
eccessiva tensione cerebrale... Ma ecco la conclusione alla quale
voglio giungere: Perchè ho fatto tutto questo? Per voi; per affrettare
la mia preparazione, per affrettare il successo. Ora la preparazione
è finita; io conosco il mio corredo. Vi giuro che imparo più io in
un mese, che non la media degli universitarî in un anno. Lo so, vi
dico! D’altra parte, se il mio bisogno d’essere compreso da voi non
fosse disperato, non vi avrei detto nulla. Voi sapete che non mi
vanto; giudico i risultati dai libri. Ora, i vostri fratelli sono dei
barbari ignoranti, in confronto a me e alla somma di cognizioni che io
ho strappato dai libri mentre essi dormivano! Una volta mi proponevo
d’esser celebre, ora non voglio altro che voi; sono più assetato di
voi, che non della gloria o del successo. Non sogno altro che questo:
posare la testa sul vostro cuore, per sempre. E questo sogno, fra un
anno, diventerà realtà.

Un fluido irresistibile emanava da lui, in onde potenti; e a mano
a mano che la sua volontà s’ergeva contro quella di Ruth, questa
s’abbandonava, irresistibilmente attratta. La sua voce appassionata,
i suoi occhi ardenti, erano fiammeggianti di vita intensa e
d’intelligenza. In quel minuto — solo in quel minuto — il velo si
lacerò, e lei vide il vero Martin Eden splendido e trionfante; e come
il domatore che dubita ad un tratto del suo potere sulle belve, lei
dubitò del suo sullo spirito indipendente di quell’uomo.

— Un’altra cosa, — proseguì egli con foga: — voi mi amate, ma perchè
mi amate? a causa appunto di ciò che sentite in me, di questa forza
irresistibile che mi costringe a scrivere: mi amate perchè sono
diverso dagli uomini che avete conosciuti e che forse avreste amati.
Io non sono nato per vivere la vita dell’impiegato sedentario e per
i conti correnti, per i piccoli cavilli degli affari e le maliziette
dei legulei. Fatemi diventare come loro, fatemi fare lo stesso lavoro,
respirare la stessa aria, vedere la vita dallo stesso punto di vista, e
avrete distrutto Martin Eden, avrete distrutto il vostro amore. Per me,
il bisogno di scrivere è un bisogno vitale. Se non fossi stato altro
che un fantoccio non mi sarei mai sognato di scrivere e voi non vi
sareste mai sognata di sposarmi.

— Ma voi dimenticate una cosa, — interruppe lei, contenta d’aver
trovato un argomento. — Voi dimenticate quegl’inventori illusi che
consumano tutta la loro vita a correre dietro alle chimere, mentre la
loro famiglia muore di fame. Le mogli li amano lo stesso, certamente,
ed esse soffrono con loro, per loro, non a causa del loro folle
traviamento, ma a dispetto di esso.

— È vero, — rispose Martin, — ma vi sono altri inventori che non sono
degl’illusi, che muoiono di fame cercando d’inventare mirabili cose e
che talvolta, riescono. Dio sa che io non cerco l’impossibile.

— Eppure, avete detto proprio così.

— Parlavo figuratamente; io cerco di fare ciò che altri, prima di me,
hanno fatto; tento di scrivere e vivere col lavoro della mia penna.

Il silenzio di lei lo punse vivamente.

— Allora, secondo voi, io tendo a una chimera folle, come la ricerca
del moto perpetuo? — fece lui.

Lei gli rispose tacitamente, stringendogli la mano, con pietà, come
una madre calma il figliolo malato. Infatti egli divenne, agli occhi di
lei, come un bimbo malato, l’illuso assetato d’impossibile.

Alla fine di questo colloquio, essa gli ricordò ancora l’opposizione
dei genitori.

— Ma mi amate? — domandò Martin.

— Sì, sì, vi amo! — rispose Ruth.

— E allora, nulla può separarci, — dichiarò egli trionfalmente. —
Giacchè ho fede nel vostro amore, e l’antipatia dei vostri genitori
non mi fa paura. Tutto, in questo basso mondo, può andare a male, ma
non l’amore, che se non è un povero aborto debole e tremante, deve
trionfare.




CAPITOLO XXXI.


Martin per caso aveva incontrato sua sorella Geltrude, in Broadway —
caso favorevole ma alquanto imbarazzante, come vedremo.

Essa, che aspettava il tranvai a un angolo della via, lo vide per
prima: ne vide anche i lineamenti contratti, stanchi, e lo sguardo
affannato, disperato, degli occhi incavati. Infatti, stanco, disperato
egli era, perchè al Monte di Pietà avevano rifiutato di prestargli
qualche altra lira, sul pegno della bicicletta. Poichè incominciava il
cattivo tempo, Martin aveva impegnato la bicicletta e ritirato l’abito
nero.

— Ecco l’abito nero, — gli aveva risposto il prestatore su pegni,
che ne conosceva nei minimi particolari l’attivo. — Ma se so che
l’impegnate presso quel maledetto ebreo, Lipka...

Martin, spaventato da quella velata minaccia, si affrettò a rispondere:

— No, no! ne ho bisogno: debbo mettermelo!

— Bene, — fece l’usuraio, raddolcito, — ma non avrete neppure un soldo
di più: non voglio rimetterci di tasca mia.

— Ma è una bicicletta che vale duecento lire, in ottime condizioni, —
insistè Martin. — Mi avete dato soltanto trentacinque lire, anzi, no!
trentaquattro! giacchè vi siete preso l’interesse anticipatamente.

— Se volete di più, portatemi il vestito.

E Martin era uscito dalla miserabile bottega, così disperato, che sua
sorella ne fu colpita. S’erano appena salutati, quand’ecco il tranvai
di Telegraph Avenue fermarsi per scaricare una folla frettolosa. La
signora Higgingbotham, che Martin aiutava a salire, sentendo a un
tratto che la mano di lui non la seguiva, si voltò indietro e rimase
angosciata vedendo la faccia del fratello.

— Tu non vieni? — gli domandò, e scese subito.

— No, vado a piedi: bisogna far della ginnastica...

— T’accompagno un momento, — dichiarò lei. — Forse mi farà bene. Da
qualche giorno non mi sento come il solito.

Martin le diede uno sguardo: effettivamente, l’assieme della persona
di sua sorella, il suo grasso malsano, le spalle incurvate, la faccia
tirata, rugosa, l’andatura pesante, non erano certamente segni di buona
salute.

— Faresti meglio a fermarti qui, — le disse lui al prossimo crocicchio,
dove già lei riprendeva fiato, — e a salire nel primo tranvai.

— Dio! come sono stanca già! — fece lei col sopraffiato. — Anch’io non
posso andare avanti, come te con quelle scarpe ai piedi: sono così mal
ridotte che creperanno prima di arrivare a Nord-Oakland.

— Ne ho un altro paio in casa, — disse lui.

— Vieni a pranzo da me, domani, — suggerì Geltrude bruscamente. —
Bernardo non ci sarà: va a San Leandro per affari.

Martin scosse la testa, ma non potè contenere l’espressione di affamato
dei suoi occhi, all’idea d’un pranzo.

— Tu non hai un soldo, Mart! Ecco perchè vai a piedi. Altro che
ginnastica!... — Lei si sforzò di fiutare con disprezzo, ma il
disprezzo non venne. — Aspetta, lasciami vedere!

E, frugato nella borsetta, essa gli ficcò una moneta da venti lire
in mano. — Ho dimenticato di farti gli augurî pel compleanno, Mart, —
mormorò lei confusa.

Istintivamente Martin aveva chiuso la mano sulla moneta d’oro.
Poi egli si disse che non doveva accettare e lottò tra le angosce
dell’indecisione. Quell’oro significava il nutrimento, la vita, la
luce pel corpo e pel cervello, poter continuare a scrivere e — chissà —
scrivere forse l’opera che gli avrebbe dato dell’oro, molto oro. Nella
mente gli fiammeggiavano i titoli di due saggi che aveva finiti: «I
grandi Sacerdoti del Mistero» e «La Culla della Bellezza». Egli li vide
sotto la tavola, tra un cumulo di manoscritti respinti, che egli non
poteva più affrancare. Quei lavori non erano conosciuti da nessuno, e
non valevano meno degli altri: se avesse potuto comperare i francobolli
per spedirli! Poi, la certezza dell’ultimo successo si affermò; egli
sentì la sua fame e... con un gesto vivace si ficcò in tasca la moneta
d’oro.

— Te la restituirò cento volte, Geltrude, — fece lui con sforzo, la
gola contratta, gli occhi umidi. — Ricordati di questo; prima che
l’anno sia finito, ti rimetterò in mano un centinaio di queste monete
d’oro. Non ti chiedo di credermi: aspetta e vedrai.

Lei non credette punto, naturalmente, e, un po’ impacciata, messo da
parte ogni sottinteso, gli disse:

— So che hai fame, Mart: si vede a occhio nudo. Vieni da me a
mangiare quando vuoi. Ti manderò uno dei ragazzi a farti sapere quando
Higgingbotham non c’è. E, Mart, senti...

Egli attese, pur immaginando ciò che lei avrebbe detto.

— Non credi, tu, che sia tempo di metterti al lavoro?

— Non credi alla mia riuscita? — ribattè lui.

Lentamente, lei fece segno di no, colla testa.

— Nessuno crede in me, Geltrude, nessuno... tranne me. — La sua voce
calda era piena di sfida: — Ho già fatto del buon lavoro, molto buon
lavoro, e, prima o poi, si venderà.

— Come fai a sapere che è buono?

— Perchè... — Egli si fermò sentendo ch’era inutile spiegarle la
ragione della sua fiducia. — Dio mio, perchè è migliore di quasi tutto
ciò che appare nelle riviste.

— Vorrei che tu fossi ragionevole, — fece lei timidamente, ma
soddisfatta d’avere indovinato ciò che lo tormentava. — Vorrei che tu
fossi ragionevole e che venissi a far colazione domani a casa.

Quando lei fu salita sul tranvai, Martin corse alla posta, comperò
quindici lire di francobolli e, poi, andando a casa dei Morse, vi
ritornò, fece pesare un grosso pacco di lunghe e voluminose buste,
sulle quali applicò i francobolli, con cura minuziosa.

Fu una notte memorabile per Martin, giacchè conobbe Russ Brissenden.
Come si trovasse là, costui, di chi fosse amico, chi l’avesse condotto
là, egli non sapeva e non ebbe neppure la curiosità di domandarlo a
Ruth. Là per là, egli parve a Martin superficiale, insignificante;
ma un’ora dopo, Martin giudicò che Brissenden era più selvaggio d’un
selvaggio, dal modo come irrompeva da uno camera all’altra, dal modo di
guardare i quadri e di sfogliare senza tanti riguardi libri e riviste
illustrate ch’egli prendeva sulla tavola o da uno scaffale della
biblioteca.

Sebbene fosse l’ultimo venuto nella casa, egli finì col rannicchiarsi
in una profonda poltrona, e, tratto di tasca un sottile libriccino,
immergersi nella lettura, isolandosi totalmente dal resto della
compagnia. Mentre leggeva si passava una mano distratta e carezzevole
tra i capelli. Poi Martin cessò d’osservarlo; ma tempo dopo l’udì che
faceva dello spirito, con successo, tra uno sciame di signorine. Ma il
caso volle che, andando via, Martin si ritrovasse con Brissenden, in
istrada.

— Toh! è lei? — fece Martin.

L’altro emise una specie di aspro grugnito, ma accordò il passo con
Martin. Tacquero tutt’e due per un po’.

— Che vecchio asino pomposo!

L’impulsività, la violenza di questa esclamazione sorpresero Martin
e lo divertirono, pur non diminuendo per nulla l’antipatia ch’egli
sentiva per quel tipo.

— Perchè va da quella gente? — lanciò Brissenden, bruscamente, dopo un
lungo silenzio.

— E lei? — ribattè Martin.

— Parola d’onore che non lo so! D’altra parte, è il primo tentativo. Il
giorno è composto di ventiquattr’ore, e bisogna pure che le passi in un
modo qualsiasi. Andiamo a bere qualche cosa.

— Accetto, — rispose Martin.

Ma si pentì subito di aver accettato così facilmente. A casa
l’aspettava un «lavoro di grosso», per la durata di parecchie
ore, da sbrigare prima di andare a letto, come pure un volume di
Weissmann, senza contare l’autobiografia di Herbert Spencer, la cui
vita avventurosa l’appassionava come il più interessante dei romanzi.
Perchè perdere il tempo con quell’uomo che gli dispiaceva? Ma non
aveva accettato per lui, o per bere, ma per i lumi splendidi, per
gli specchi, per lo scintillio dei cristalli e delle argenterie, per
le facce felici e ridenti, e pel chiasso delle voci. Sì, per questo
soprattutto: egli aveva bisogno di udir le voci di quegli uomini
felici, «arrivati», che spendevano e godevano. Si sentiva solo,
terribilmente solo: ecco perchè egli era andato incontro all’invito,
come _boniti_ che saltano sul cencio bianco alla punta dell’amo.

Dal tempo di Joe e delle acque termali di Shelley, e tranne quando
aveva bevuto qualche bicchiere col droghiere portoghese, Martin non
aveva messo piede in un bar. La fatica cerebrale non gli faceva sentire
il bisogno imperioso di bere, che la spossatezza fisica, invece, gli
aveva fatto sentire; non sentiva punto la privazione del bere. In
quel momento egli ebbe bisogno, anzichè della bevanda, per se stessa,
dell’atmosfera del bar.

Entrarono nel «Grotto», s’adagiarono in comode poltrone, bevvero dello
Scotch Whisky con soda, e conversarono.

Parlarono di molte cose, ciascuno ordinando a turno il whisky con soda.
Martin, che aveva la testa eccezionalmente solida, ammirò la capacità
del compagno, e s’interruppe talvolta per ammirarne la conversazione.
Non gli ci volle molto per accorgersi che Brissenden possedeva ciò che
mancava al professor Caldwell: la fiamma. La sua parola sprizzava come
da una fonte viva; le sue labbra sottili, simili a tenaglie affilate,
cesellavano frasi taglienti, incisive, e altre dolci, vellutate,
carezzevoli frasi di bellezza e di luce, che riflettevano tutto il
mistero imperscrutabile della vita. Altre volte ancora le labbra
sottili riecheggiavano un tumulto di lotte cosmiche, e frasi color
d’argento lunare, scintillanti come un cielo stellato, che riesumavano
tutta la scienza, con parole di poeta.

Martin aveva dimenticato la sua prima impressione ostile; egli trovava
finalmente ciò che i libri gli avevano promesso; un’intelligenza, un
uomo vivo, da osservare, da studiare. — Io sono per terra, nel fango,
ai vostri piedi, — si ripeteva.

— Lei ha studiato la biologia? — diss’egli ad alta voce.

Con grande stupore di Martin, l’altro scosse il capo.

— Ma lei esprime delle verità che soltanto la biologia può dare,
— insistè Martin mentre l’altro lo fissava con aria indecisa. — Le
conclusioni sono le stesse.

— Felicissimo di saperlo! — rispose l’altro. — È molto rassicurante,
per me, sapere che le mie povere cognizioni mi hanno condotto, di
scorcio, alla verità. Quanto a me, non mi preoccupo mai di sapere se
abbia ragione o no. Questo non ha importanza alcuna: l’uomo non può mai
giungere all’ultima verità.

— Lei è un discepolo di Spencer! — esclamò Martin trionfalmente.

— Dalla mia adolescenza, non l’ho aperto; e anche allora, non ho letto
che la sua _Educazione_.

— Vorrei sapere quel che lei sa e averlo appreso con tanta facilità, —
dichiarò Martin, una mezz’ora dopo, quand’ebbe considerato attentamente
il corredo intellettuale di Brissenden. — A lei basta uno sguardo per
trovare la soluzione giusta: con uno scorcio che ha del prodigioso, lei
giunge alla verità.

— Sì, il padre Giuseppe, e frate Dutton ne erano molto seccati, —
rispose Brissenden. — Oh! no! — aggiunse: — io non sono nulla. Un caso
fortunato mi ha permesso di compiere la mia educazione in un collegio
cattolico. E lei? dove ha raccolto tutto ciò che sa?

Martin glielo raccontò; nello stesso tempo esaminava Brissenden,
dalla lunga e fine faccia aristocratica, dalle spalle cadenti, sino al
soprabito gettato sulla sedia vicina, le cui tasche beavano, sformate
com’erano dai libri di cui troppo spesso erano rigonfie. Il lungo
volto di Brissenden, le sue lunghe fini mani erano abbronzate dal sole,
molto abbronzate; cosa che diede da pensare a Martin. Evidentemente,
Brissenden non era un cultore dello sport; ora, come mai il sole aveva
potuto abbronzarlo così? Qualche cosa di morbido si celava lì sotto,
pensò Martin, riesaminando quel volto allungato, dai pomelli sporgenti,
dalle gote incavate, dal naso aquilino, il più fine, il più delicato
che Martin avesse visto. La grandezza come il colore dei suoi occhi
non avevano nulla di particolare; erano mediani e d’un castano comune,
ma in essi covava una fiamma stranamente complessa, contraddittoria.
Quegli occhi eccessivamente duri e alteri sfidavano, e nello stesso
tempo destavano pietà. E Martin lo compianse, infatti, senza sapere il
perchè.

— Sì, sono tisico, — dichiarò Brissenden poco dopo, con noncuranza,
avendo detto che era al ritorno da Arizona. — Ho vissuto due anni là,
pel clima.

— Non avete avuto paura di arrischiarvi sin qui?

— Paura?...

Egli non aveva messo in questa interrogazione alcuna enfasi; ma Martin
lesse su quel volto ascetico, che quello lì non aveva paura di nulla.
Gli occhi fissi rassomigliavano a quelli delle aquile: il naso, dalle
narici dilatate con espressione di sfida, aggressivo, era simile al
becco d’un uccello da preda. — Magnifico! — concluse Martin fra sè. —
Poi ad alta voce citò il poeta:

    _Sotto i colpi di clava del Caso,_
    _La testa mi sanguina, ma non si curva._

— Le piace Henley? — domandò Brissenden, con una voce a un tratto
tenera e piena di fascino. — Naturalmente! Dovevo aspettarmelo da lei.
Oh! Henley! Che bell’anima! Egli è, rispetto ai rimaioli contemporanei,
ai rimaioli da rivista, come un gladiatore rispetto ad un gregge
d’eunuchi.

— A lei non piacciono le riviste illustrate? — domandò Martin, con tono
leggermente aggressivo.

— E a lei? — fu la risposta, brontolata con accento così selvaggio, che
Martin ne sussultò.

— Io... scrivo, o meglio, tento di scrivere per i periodici illustrati,
— balbettò Martin.

— Così va bene, — rispose l’altro raddolcito. — Lei tenta, ma senza
riuscire! D’altra parte intuisco ciò che lei scrive, cioè delle cose
che comprendono elementi incompatibili con un periodico illustrato
qualsiasi. Vi sono delle viscere, lì dentro, e i periodici illustrati
non contengono roba di questo genere. Vogliono della broda, decotti di
malva. E Dio sa se gliene danno! Ma non lei!

— Io non disprezzo la questione «materiale», — confessò Martin.

— Anzi, — e Brissenden si fermò per esaminare con uno sguardo insolente
la povertà decente di Martin, passando dal nodo della cravatta un
po’ logoro, al colletto leggermente liso, ai gomiti lucenti, e al
polsino un tantino ragnato; poi lo sguardo si posò sul volto incavato
dell’altro. — Anzi, è la materia che disprezza lei, al punto che non
c’è probabilità alcuna che ella possa giungere sino a lei. E come!
ragazzo mio: sarebbe per esempio un insulto invitarla a venire a
mangiare qualche cosa!

Martin divenne così rosso, a un tratto, che Brissenden rise con aria
trionfante, e aggiunse:

— Un uomo sazio non si considera insultato da un invito simile.

— Lei è diabolico! — esclamò Martin, irritato.

— Comunque, io non l’ho invitato!

— Lei non ha osato.

— Secondo. D’altra parte, la invito ora.

E, parlando, Brissenden s’era alzato a mezzo, con l’evidente proposito
di andare subito in trattoria. Martin aveva stretto i pugni, mentre il
sangue gli martellava le tempie.

— Attenzione, signori e signore! Se li mangia tutti crudi, tutti
crudi!... — esclamò Brissenden, imitando l’impresario d’un famoso
divoratore di serpenti che in quel momento faceva accorrere tutto il
pubblico di Oakland.

— Di lei... certamente farei un solo boccone! — fece Martin, mettendo
a nudo, a sua volta, con uno sguardo insolente, la misera anatomia
dell’altro.

— Soltanto, non mette conto.

— Sì, — riflettè Martin, — ma l’incidente per sè stesso non merita! —
E rise d’un riso di buon figliolo, senza rancore. — Sono stato idiota,
Brissenden: ho fame, e lei ha indovinato...

Sono fenomeni molto ordinarî e che non hanno nulla di disonorevole.
Vede, io rido dei piccoli pregiudizî correnti, poi giunge lei, e con
una frase giusta, tagliente, mi dimostra come sia io stesso schiavo di
questi meschini, piccoli pregiudizî.

— Lei si è creduto insultato, eh?

— Un momento fa, sì. È un resto di gioventù, sa! È la mia mentalità
d’un tempo, di cui mi rimane qualche traccia. È il mio piccolo museo
personale di fossili!

— Ma la porta è chiusa, ora?

— Col catenaccio!

— Ne è sicuro?

— Assolutamente.

— Be’, allora andiamo a mangiare qualche cosa.

— Bene, la seguo, — rispose Martin, che volle cambiare la sua ultima
moneta da dieci lire per pagare i whisky con soda; senonchè Brissenden,
mal trattando il cameriere, rimise la moneta sulla tavola. Martin la
intascò con una smorfia e sentì in quel momento la mano di Brissenden
che gli si posava con simpatia sulla spalla.




CAPITOLO XXXII.


Il pomeriggio seguente, di buon mattino, Maria fu nuovamente agitata
da un’altra visita fatta a Martin, ma questa volta lei non perse la
testa; e fece entrare subito Brissenden nel salotto per i forestieri di
riguardo, invitandolo a sedere.

— Spero di non disturbarla, — disse Brissenden quando fu nella camera
di Martin.

— No, no, niente affatto, — rispose Martin, stringendogli la mano, e
gli porse l’unica sedia, e sedette sul letto. — Ma che diavolo ha fatto
per sapere dove abito?

— L’ho saputo dai Morse. Ho telefonato alla signorina Morse ed eccomi
qua. — Egli si frugò nella tasca del soprabito, ne trasse un sottile
volumetto e lo gettò sulla tavola. — Ecco il libro d’un poeta; lo legga
e se lo tenga. — E poichè Martin protestava: — Ho forse bisogno di
libri, io? Ho avuto questa mattina una nuova emorragia. Ha del whisky?
No, naturalmente. Aspetti.

E scomparve. Martin ne vide la lunga persona scendere le scale,
chiudere il cancello, e rimase commosso da quelle spalle incavate, dal
petto infossato... Preparò due bicchieri, e incominciò a leggere il
volume di versi, opera recente di Henry Vaughan Marlow.

— Niente Scotch Whisky, — annunziò Brissenden, al ritorno. — Quel
brigante non vende altro che dell’Americano. Eccone un quarto.

— Manderò uno dei ragazzi a cercare dei limoni; faremo un _toddy_,
— propose Martin; poi riprese, indicando il libro in questione: — Mi
domando quanto possa guadagnare Marlow, con un libro come questo.

— Forse duecentocinquanta lire. — rispose Brissenden. — Ma può
considerarsi fortunato se le ha, e specialmente del fatto d’aver
persuaso l’editore a pubblicarglielo.

— Allora, è impossibile vivere scrivendo versi?

— Certo; solo gl’imbecilli lo credono; facendo i rimaiuoli, sì. Guardi
Bruce e Virginia Spring e Sedgwick, per esempio: se la cavano con buona
grazia. Ma la poesia, la vera? Sa come Vaughan Marlow si guadagna da
vivere? È professore di liceo in Pennsylvania; e di tutti gl’inferni,
quello porta la palma. Io non accetterei il suo posto, neanche in
cambio di cinquant’anni di vita. Eppure, le sue opere spiccano sul
grigiore dei versificatori contemporanei come una rosa fra i cardi.
E sapesse che cosa dicono di lui i critici! Che sinistri idioti sono
tutti quanti!

— Gli uomini senza talento sfogano la loro rabbia giudicando coloro che
ne hanno, — confermò Martin. — Io sono rimasto stupito dalla montagna
di sciocchezze che hanno scritto su Stevenson e la sua opera.

— Vampiri e arpie! — brontolò Brissenden, digrignando i denti, come per
mordere. — Sì, conosco questa razza d’animali; essi gli danno addosso a
beccate, a proposito della lettera al padre Damiano: lo analizzano, lo
pesano.

— Lo misurano a palmi, secondo la misura della loro nullità. — fece
Martin.

— Sì, è così, ben definito! Essi sconciano e insozzano la Verità,
la Bontà, la Bellezza, pur battendogli sul dorso e dicendogli: «Buon
Fedele! buon cane!» Puah! Riccardo Realfe, la notte in cui morì, li
chiamò «piccoli feti ciarlieri».

— Si piluccherebbero le stelle a una a una, col loro becco, — proseguì
Martin, con calore. — Io ho scritto una satira, a questo riguardo, sui
critici e sui rivistai, specialmente.

— Ah, faccia vedere, — pregò Brissenden, con insistenza.

Martin allora disseppellì una copia di «Polvere di stelle», e
Brissenden lesse, ridendo, sottecchi, fregandosi le mani, dimenticando
del tutto di bere il suo _toddy_.

— Ma anche lei mi sembra polvere di stelle gettata in un mondo di nomi
ciechi, — fece egli poi. — Naturalmente, non è stato accettato da una
rivista di prim’ordine?

Martin sfogliò le pagine d’un taccuino.

— È stata rifiutata da ventisette riviste.

Brissenden s’abbandonò a un lungo scroscio di risa allegre, interrotto
da un colpo di tosse.

— Senta, non mi dirà che non ha coltivato le muse, — disse poi
quand’ebbe ripreso fiato. — Mi faccia vedere qualche cosa.

— Non legga, ora, — pregò Martin. — È meglio chiacchierare. Io ne farò
un pacchetto che lei porterà a casa.

Brissenden andò via, portando con sè «Il Ciclo d’amore» e «La Peri e la
Perla». E il giorno dopo ritornò salutando Martin con un:

— Ne voglio ancora.

E assicurò Martin che era un vero poeta; e Martin comprese che anche
l’altro era un poeta sebbene non avesse mai tentato di far pubblicare i
suoi versi.

— Vadano a tutti i diavoli questi editori! — rispos’egli a Martin che
gli proponeva di occuparsi della pubblicazione dei suoi lavori. — Ami
la bellezza per se stessa e lasci in pace le riviste. Ritorni alle navi
e al mare, Martin Eden; questo è il consiglio che le dò. Che bisogno
ha lei di queste città malsane e putride? Lei si uccide quando cerca
di prostituire la bellezza: quest’è la verità. Che cosa mi citava
l’altro giorno? Ah, ecco! «Un uomo, ultimo degli effimeri». Ebbene,
lei, l’ultimo degli effimeri, che bisogno ha della gloria? Se dovesse
conquistarla, essa l’avvelenerebbe. Lei è troppo semplice, elementare!
troppo razionale per riuscire in quest’imbroglio. Parola mia! Spero
bene che neppure una rivista le pubblichi mai le sue cose: non bisogna
essere schiavi che della bellezza. La serva e mandi al diavolo la folla
imbecille. Il successo! Il successo è là, nel suo sonetto su Stevenson,
che supera «_L’apparizione_« di Henley, e nel «Cielo d’Amore», e nei
«Poemi del Mare». La nostra gioia non consiste nel successo che si
ottiene, ma nel fatto che si scrive. Io lo so, e anche lei lo sa. La
bellezza l’assilla; essa è in lei come un dolore che rode, come una
piaga che non vuol cicatrizzarsi, come uno stile di fiamma. E lei vuote
mutarla in danaro? D’altra parte, lei non può in nessun modo! Ma mette
conto davvero agitarsi per questo?... Legga le riviste durante dieci
secoli, e lei non troverà un rigo che valga una parola di Keats. Lasci
stare la gloria e la fortuna, firmi un contratto d’imbarco, domani, e
ritorni sul mare.

— Non si tratta di gloria, ma d’amore, — disse Martin ridendo. — Sembra
che l’amore non occupi un gran posto nel vostro Cosmo: nel mio, la
Bellezza è l’ancella dell’Amore.

Brissenden gli lanciò uno sguardo che esprimeva, insieme, pietà e
ammirazione.

— Com’è giovane, mio piccolo Martin, com’è giovane! Lei andrà molto
in alto, ma le sue ali sono formate da un velo molto delicato, da una
peluria finissima; non le sciupi. Ma ormai è già fatto. Il «cielo
d’Amore» è stato scritto in onore d’una donna qualunque, ed è un
peccato.

— È stato scritto anche a gloria dell’amore, — ribattè Martin,
allegramente.

— La filosofia della folla, — continuò l’altro. — I sogni dello
_haschich_ me ne hanno insegnato tanto. Ma badi! La grande città,
i filistei, la fanno perdere. Per esempio! guardi quel covo di
commercianti dove l’ho incontrato: non è altro che putridume. È
impossibile conservare la propria personalità in un’atmosfera simile:
non ce n’è uno là dentro, uomo o donna, che valga qualche cosa:
non sono altro che stomaci guidati da pregiudizî intellettuali e
artistici...

Egli s’interruppe bruscamente, guardò Martin e indovinò a un tratto
la verità; il suo viso assunse a un tratto un’espressione d’orrore
stupefatto!

— E per lei ha scritto questo meraviglioso «Ciclo d’Amore»! per
quell’insignificante pupattola raggrinzita!...

Ma non aveva finito di pronunziare queste parole che la mano di Martin
l’aveva afferrato alla gola, e lo scuoteva furiosamente, come un
fox-terrier scuote un topo. Senonchè negli occhi dell’altro, Martin non
vide alcun segno di spavento, ma una curiosità divertita e ironica.
Ridiventato padrone di sè, egli lasciò la presa, e Brissenden andò a
finire sul letto, dove rimase un minuto, ansante, tentando di riprender
fiato, e poi rise dolcemente.

— Le sarei rimasto grato in eterno, se avesse spento la fiamma! — disse
lui.

— Ho i nervi scoperti, in questo momento, — disse Martin, scusandosi. —
Spero che non le abbia fatto male! Aspetti! preparo un altro «_toddy_«.

— Ah, giovane Ercole! — proseguì Brissenden. — Io mi domando se lei
è cosciente della sua forza fisica! Lei ha una diavola di forza,
lioncello mio! Soltanto, disgraziatamente... lei sconterà questa bella
forza.

— Che intende dire? — domandò Martin con curiosità, porgendogli un
bicchiere pieno. — Su, mandi giù questo, per cortesia.

— A causa... — Brissenden inghiottì il suo «toddy», con una smorfia di
soddisfazione, — a causa delle donne, che la tormenteranno sino alla
morte, come l’hanno già tormentato, se non m’inganno grossolanamente.
— No, è inutile strozzarmi; dirò quello che debbo dire. Certo è che
questo è il primo capriccio, ma per amor della Bellezza, scelga meglio,
la prossima volta! Che diavolo vuol farsene lei di una borghesuccia?
Lasci stare, dunque: si scelga qualche bella creatura di fiamma e di
voluttà, che rida della vita, che si beffi della morte, innamorata
dell’amore. Essa l’amerà come uno qualunque di questi gracili prodotti
delle serre calde della borghesia.

— Gracili? — protestò Martin.

— Proprio: gracili e timorosi, timorosi davanti alla vita e confitti
nella piccola morale meschina inculcata loro da gente confitta nelle
meschinità. Esse l’ameranno, Martin, ma ameranno soprattutto la loro
piccola morale. A lei occorre il magnifico abbandono di se stesso, una
grande anima libera, una farfalla splendida, e non la piccola tignuola
grigia. Oh! lei si stancherà molto presto, d’altra parte, di queste
puerilità femminili, se avrà la disgrazia di vivere; ma lei non vivrà;
lei non ritornerà alle sue navi e al suo mare, ma si trascinerà per le
città putride, sino al momento in cui sarà rôso dal disgusto, e allora
morrà.

— Mi biasimi sinchè vuole, — fece Martin, — ma non mi farà mutare idea.
In fondo, lei giudica a seconda del suo temperamento, e io giudico
secondo il mio, che è diverso.

Infatti, le loro idee sull’amore, sulle riviste, su molte altre cose
erano diverse, ma essi si piacevano l’un l’altro; e Martin provava una
profonda simpatia pel suo nuovo amico.

Si videro ogni giorno; tutti i giorni Brissenden andava a passare
un’ora nella cameretta ingombra. Egli portava regolarmente il suo
quarto di whisky, e quando pranzavano insieme, beveva dello «Scotch
and Soda» durante il pasto. Era sempre lui che pagava, e per mezzo di
lui Martin conobbe tutte le raffinatezze del cibo, e per la prima volta
bevve dello Champagne e del vino del Reno.

Senonchè Brissenden rimaneva un enigma; contrariarmente alla sua
apparenza ascetica, egli era, con tutta la forza declinante del
suo sangue impoverito, un voluttuoso. Incurante della morte, pieno
d’amarezza e di cinismo davanti alla vita, quel moribondo adorava
la vita, nelle sue minime manifestazioni. Voleva godersi la vita
sino all’ultima goccia, vibrare sino all’ultimo brivido, «per
riconquistare senza rimpianto il mio posticino d’atomo nel Gran Tutto
donde provengo», si diceva egli. Egli aveva tentato tutti i paradisi
artificiali, molte cose strane, cercando nuovi brividi, sensazioni
inedite. Raccontò a Martin che aveva passato tre giorni senza bere,
appositamente, per provare le squisite delizie della sete soddisfatta!
Ma Martin ignorò sempre chi fosse, che cosa fosse. Era un uomo senza
passato, dall’avvenire tetro, dall’amaro presente, pieno di desiderî
febbrili.




CAPITOLO XXXIII.


E Martin lentamente, — ma sicuramente, — perdeva la battaglia. Sebbene
facesse economia, il giornalismo non gli dava da vivere abbastanza.
Quando fu la festa nazionale, poichè il suo vestito nero si trovava
nuovamente al Monte di Pietà, egli non potè accettare l’invito a
pranzo fattogli dai Morse. Ruth ne fu desolata e Martin disperato. Egli
allora dichiarò che sarebbe andato lo stesso, che sarebbe andato a San
Francisco a richiedere le venticinque lire che gli erano dovute, in
modo da poter disimpegnare il vestito.

Nel mattino, prese in prestito da Maria cinquanta centesimi. Avrebbe
preferito chiederli a Brissenden, ma quel bel tipo era scomparso;
Martin non lo vedeva da quindici giorni, e si scavava il cervello
per sapere se lo aveva urtato in qualche modo; ma invano. Con i
cinquanta centesimi di Maria, Martin potè prendere il vaporetto per
San Francisco; e durante tutta la lunghezza di Market-Street non fece
altro che domandarsi che avrebbe fatto nel caso in cui non gli avessero
dato il danaro. Non avrebbe potuto ritornare in alcun modo a Oakland,
giacchè non conosceva a San Francisco nessuno che gli potesse prestare
cinquanta centesimi.

La porta della redazione della _Transcontinental_ era socchiusa,
e Martin, che s’accingeva a spingerla, si fermò udendo una voce
proveniente dall’interno, che gridava:

— Qui non si discute, signor Ford, (Martin sapeva, per uno scambio
di lettere, che Ford era il nome dell’editore). Si tratta di sapere
se lei è pronto a pagare in danaro contante! L’avvenire della
_Transcontinental_ non m’interessa per nulla, e ciò che lei si propone
di fare l’anno venturo, mi lascia freddo. Io voglio essere pagato, e le
giuro che il numero di Natale non sarà stampato se non avrò avuto tutta
la somma. Buon giorno! Quando sarà pronto venga a trovarmi.

La porta s’aprì con violenza, e un uomo furibondo ne balzò fuori e
scomparve lungo il corridoio, bestemmiando e stringendo i pugni.

Martin, pensando che era preferibile non entrare immediatamente, attese
un quarto d’ora nell’atrio, poi spinse la porta ed entrò. Era la prima
volta che penetrava in uno studio editoriale; ed era evidentemente
inutile presentare un biglietto di visita, giacchè un fattorino,
schiudendo un’altra porta, annunziò colla massima semplicità che «c’era
uno che voleva parlare col signor Ford». A un cenno del fattorino,
Martin s’avanzò, e fu introdotto nel santuario sacrosanto. Egli rimase
molto colpito dal massimo disordine della camera; poi vide un giovane
fornito di basette, seduto davanti a uno scrittoio cilindrico, che
lo sbirciava con curiosità. Martin si stupì della serenità di quella
faccia: era evidente che il litigio col tipografo non lo aveva turbato
gran che.

— Io sono... io sono Martin Eden, — disse Martin, che ebbe voglia
di aggiungere: — e pretendo le mie venticinque lire! — ma date le
circostanze, non volle spaventare l’editore. Con grande sorpresa di
Martin, il signor Ford saltò in piedi con un «Impossibile!» entusiasta,
e strinse tutt’e due le mani di Martin, con molta cordialità.

— Non so dirle come sia felice di conoscerla, signor Eden! Spesso mi
sono domandato che aspetto avesse, lei.

E qui, indietreggiò, per osservare meglio Martin, e con uno sguardo
intenerito percorse il misero vestito, i cui calzoni, però, serbavano
la piega, per merito dei ferri di Martin.

— Però le confesso che me lo immaginavo molto più vecchio. Il suo
articolo rivelava tanto vigore, tanta profondità, tale maturità,
un tale respiro!... Un capolavoro, quel racconto! Già al sesto rigo
m’ero fissato. Le racconterò come l’ho detto. Ma no, venga qui, che le
presento prima di tutto la redazione.

Così parlando, il signor Ford lo condusse in un altro studio dove lo
presentò al suo socio, signor White, piccolo uomo mingherlino dalle
basette setolose e brizzolate che pareva tremare come per un freddo
continuo.

— È il signor Ends, signor Eden. Il signor Ends è nostro gerente.

Martin strinse la mano d’un uomo calvo, dall’occhio vivace, dal viso
apparentemente giovanile, almeno quel tanto che si vedeva, giacchè era
quasi tutto nascosto da una barba come neve, pettinata con cura, dalla
mano della signora Ends, tutte le domeniche.

I tre uomini circondarono Martin, parlando tutti insieme e nel modo più
ammirativo, così ch’egli si domandò se tutto ciò non fosse il risultato
d’una scommessa.

— Noi ci siamo domandati perchè lei non venisse, — diceva il signor
White.

— Non avevo i soldi pel tranvai, e abito dall’altra parte del golfo,
— rispose Martin, deciso a mostrare il suo urgente bisogno di danaro.
Certamente, si disse, questi cenci gloriosi sono un’indicazione
abbastanza eloquente!

Di tanto in tanto, appena l’occasione si presentava, egli accennava
allo scopo della visita; ma i suoi ammiratori facevano l’orecchio
sordo. Gli cantavano le lodi, gli raccontavano ciò che avevano pensato
del suo racconto, a prima vista, poi ciò che le loro mogli e i loro
parenti ne avevano pensato, ma non manifestavano neppure la minima
intenzione di esprimere la loro ammirazione in modo più rimunerativo.

— Le ho detto come ho letto la sua novella la prima volta? — disse
il signor Ford. — Ma no, naturalmente. Ebbene! tornavo da New-York
e, quando il diretto si fermò a Agden, il _groom_ corse a portarmi
l’ultimo numero della _Transcontinental_.

— Perdinci! — fece tra sè Martin, — tu ti permetti il lusso di
viaggiare in Pulman mentre io crepo di fame a causa delle venticinque
lire che non mi dai. — E si sentì come sommerso da un’ondata di
collera. Il torto fattogli dalla _Transcontinental_ gli parve enorme;
tutti quei lunghi mesi di vana attesa, di privazioni e di fame gli
sorsero davanti agli occhi, e, con lo stomaco morso da una brutta
bestia, ricordò di non aver mangiato dal giorno prima, e, quel giorno,
così poco, che non era il caso di parlarne neppure. Immediatamente
vide rosso. Quelli non erano neppure dei briganti, ma dei vili
imbroglioni! Con promesse false e menzogne, lo avevano derubato del
racconto. Ebbene, avrebbero visto! E giurò di non metter piede fuori
dell’ufficio, senz’avere avuto il danaro. Ricordò che senza quel danaro
non poteva ritornare a Oakland. Con uno sforzo egli si dominò, ma
era tale la sua espressione di belva affamata, che i tre complici ne
parvero inquieti. Essi parlarono con maggiore volubilità; il signor
Ford ricominciò a raccontare come aveva letto la prima volta «L’appello
delle Campane», e il signor Ends, nello stesso tempo, si sforzava di
ripetere il giudizio della nipote su «L’Appello delle Campane»: sua
nipote era istitutrice ad Alameda.

— E ora, — finì col dire Martin, — se vogliono sapere perchè sono
venuto, lo dirò: sono venuto per aver pagato il racconto che piace
tanto a tutti loro. Se ben ricordo, mi avevano promesso 25 lire, alla
pubblicazione.

Il mobile viso del signor Ford espresse subito la più entusiastica
accondiscendenza: egli fece l’atto di frugarsi in tasca, poi si voltò
verso il signor Ends e gli disse d’aver lasciato il suo portamonete in
casa di lui, del signor Ends. Il signor Ends, con aria molto scontenta,
fece il gesto di proteggere la tasca dei suoi calzoni dove Martin, — a
giudicare della mossa, — capì che doveva essere il denaro.

— Sono proprio desolato, — fece il signor Ends, — ma ho pagato
il tipografo, un’ora fa, e non mi è rimasto un soldo. Certo è una
leggerezza da parte mia rimanere talmente sprovvisto, ma ho dovuto
anticipare, e l’acconto dato al tipografo è stato una spesa proprio
imprevista.

I due uomini si voltarono con aria interrogativa verso il signor
White, ma questo gentiluomo si mise a ridere e scosse le spalle.
Costui almeno aveva la coscienza pulita; era entrato nella redazione
della _Transcontinental_ per impratichirsi in fatto di letteratura
da riviste, e invece, ne aveva, a sue spese, imparato i principî
finanziari. La _Transcontinental_ gli doveva quattro mesi di stipendio
ed egli sapeva che bisognava tacitare il tipografo prima del socio.

— È davvero ridicolo, signor Eden, essere colti in una posizione così
cattiva, — fece il signor Ford con aria disinvolta. — Ma le dirò come
faremo: domattina, presto, le mando uno _chèque_. Avete l’indirizzo del
signor Eden, non è vero, signor Ends?

Sì, il signor Ends aveva l’indirizzo, e lo chèque sarebbe stato spedito
la mattina dopo. Martin, sebbene poco esperto in materia di banche e
di _chèques_, non riusciva però a capire perchè non gli dessero quel
danaro lo stesso giorno.

— Allora, d’accordo, signor Eden: le manderemo lo _chèque_ domani, —
fece il signor Ford.

— Ho bisogno oggi di questo denaro, — rispose Martin, con voce risoluta.

— Che caso sfortunato! se lei fosse venuto un altro giorno... — fece
soavemente il signor Ford; ma fu interrotto dal signor Ends, il cui
occhio era segno d’un carattere irascibile.

— Il signor Ford ha già spiegato come stanno le cose, — fece egli con
accento aggressivo, — e anch’io; lo chèque sarà spedito domani e...

— E io, — tagliò corto Martin, — ho già spiegato che ho bisogno di
questo danaro oggi. — Il suo polso si era leggermente accelerato, al
tono brusco del gerente, ch’egli vigilava attentamente con un occhio,
sicuro che i fondi di cassa della _Transcontinental_ giacevano nella
tasca dei calzoni di quel degno gentiluomo.

— È veramente un caso disgraziato, — cominciò il signor Ford.

Ma proprio in quel momento, il signor Ends, spazientito, fece un mezzo
giro per lasciar la camera: nello stesso momento, Martin balzò su di
lui, e, con una mano gli afferrò la gola in modo tale, che la barba
nevosa del signor Ends, sempre impeccabilmente pettinata, puntò verso
il soffitto con un angolo di 45°. Atterriti, il signor White e il
signor Ford videro il loro gerente scosso come il più volgare tappeto.

— Frugatevi in tasca, venerabile oppressore di talenti giovanili! —
consigliò Martin, — frugatevi! o vi scuoto sinchè l’ultimo soldo non
vi rotoli dalla tasca. — Poi, rivolto ai due spettatori spaventati. — E
voialtri non vi accostate: vi potreste far male.

Il signor Ends, che soffocava, potè manifestare la sua acquiescenza
soltanto quando la mano di Martin ebbe allentata la stretta. Dopo
ch’egli ebbe frugato nelle sue diverse tasche, quella dei calzoni
riversò lire 20.75.

— Rovesciate le tasche! — ordinò Martin.

Caddero altri cinquanta centesimi. Martin fece il conto del risultato
del suo _raid_, per esserne sicuro.

— A voi! — gridò al signor Ford. — Mancano ancora 3.75.

Senza aspettare, il signor Ford si frugò nelle tasche ma ne trasse
fuori soltanto tre lire.

— Non c’è altro? — interrogò Martin con accento minaccioso,
impadronendosi del danaro. — E nelle tasche della giacca?

Per provare la sua buona fede, il signor Ford rovesciò le sue tasche.
Ne cadde un pezzo di cartone che egli si accingeva a rimettersi in
tasca, quando Martin esclamò:

— Che cosa è? Un biglietto di _ferry-boat_. Datemelo: vale cinquanta
centesimi. Ho avuto dunque 24.75, contando il biglietto: mancano ancora
venticinque centesimi.

Egli guardò fisso il signor White, e l’ometto debole, tutto tremante,
glieli porse subito.

— Grazie, — disse Martin rivolto a tutti e tre i giornalisti. — Vi
auguro il buon giorno.

— Brigante! — sibilò il signor Ends, quando vide Martin sull’uscio.

— Vilissimi ladri! — fece Martin di rimando, sbattendosi la porta alle
spalle.

Martin era in un umore così gaio, che ricordando che _La Vespa_ gli
doveva 75 lire per «La Peri e la Perla», decise subito di andar là, e
di farsele dare, nello stesso modo, se occorreva. Ma la redazione de
_La Vespa_ era composta d’una banda di solidi giovanotti, filibustieri
autentici, che rubavano tutto, e a tutti, e si derubavano a vicenda.
Dopo aver messo sottosopra il mobilio dell’ufficio, l’editore,
un ex-boxeur di professione, aiutato dal gerente, da un agente di
pubblicità e dal portiere, riuscì ad espellere Martin e a fargli
scendere tutt’un piano, a rotoli.

— Ritornate, signor Eden! saremo sempre felicissimi di vedervi! — gli
gridarono dal pianerottolo ridendo.

Martin ghignò rialzandosi:

— Bah! — fece, di rimando, con calma. — Nella _Transcontinental_
c’erano soltanto dei ladri, ma qui, almeno, voi siete tutti campioni di
_boxe_.

— Bisogna dire, signor Eden, — gli gridò dall’alto l’editore de _La
Vespa_, — che, per poeta, siete abbastanza campione anche voi! Dove
dunque, avete imparato quel _cross_ col destro, se è lecito?

— Là dove voi avete imparato quella mezza-nelson, — rispose Martin. —
Comunque, avete un occhio pesto.

— Spero che a voi non venga il torcicollo, — disse l’editore, con
premura. — E dite un po’: se andassimo a bere un bicchiere tutti
insieme?

E così, ladri e derubato bevvero insieme, d’accordo su questo: che
aveva vinto il più forte, e che le 75 lire de «La Peri e la Perla»
appartenevano di diritto al personale de _La Vespa_.




CAPITOLO XXXIV.


Arturo rimase al cancello, mentre Ruth s’arrampicava per la scaletta
di Maria. Essa udì il ticchettìo rapido della macchina da scrivere,
e trovò Martin, il quale stava per finire l’ultima pagina d’un
manoscritto. Lei veniva ad accertarsi s’egli si sarebbe, sì o no,
recato a pranzo da loro il giorno della festa nazionale; ma prima che
avesse aperto la bocca, Martin saltò subito sull’argomento di cui era
tutto pieno.

— Sentite! lasciatemi leggervi questo! — esclamò raccogliendo i fogli
del manoscritto. — È il mio ultimo lavoro, ed è molto diverso da tutto
ciò che ho scritto sinora; così diverso, che mi fa un po’ paura...
Eppure mi pare che debba andar bene. Giudicatene. È una storia di
Hawai, e l’ho intitolata «Wiki-Wiki».

Il suo volto era raggiante di gioia creatrice. Sebbene Ruth fosse
rimasta colpita dalle mani gelide di lui e tremasse nella camera non
riscaldata, pareva non sentire il freddo. Essa ascoltò attentamente; e,
sebbene egli non avesse osservato altro che disapprovazione sul volto
di lei, le domandò lo stesso, alla fine della lettura:

— Francamente, che ve ne pare?

— Non ne so niente... — rispose lei. — Credete che questo si venderà?

— Temo di no, — confessò lui. — È troppo forte per le riviste. Ma è
vero, parola mia! Proprio così!

— Ma perchè persistere a scrivere cose simili, se sapete che non
si vendono? — proseguì lei, inesorabilmente. — Voi scrivete per
guadagnarvi da vivere?

— È vero; ma è superiore alla mia volontà. Non ho potuto rinunziare a
scrivere questa storia.

— Ma quest’individuo, questo Wiki-Wiki, perchè lo fate parlare così
grossolanamente? Voi urtereste i vostri lettori, e certamente questa è
la ragione per la quale gli editori vi rifiutano le opere.

— Il vero Wiki-Wiki parlerebbe così!

— Ma è difetto di gusto.

— È la vita, — diss’egli bruscamente. — È la vera vita: io non posso
rappresentare la vita in modo diverso da quale è.

Lei non rispose; seguì un lungo silenzio imbarazzante: l’amore per lei
gl’impediva di comprenderla bene, e lei non poteva comprenderlo, perchè
egli era troppo superiore.

— Ebbene, ho avuto il danaro dalla _Transcontinental_, — disse lui,
tentando d’avviare la conversazione su un argomento meno spinoso. — Il
ricordo del terzetto dalle basette, quale aveva visto, col conforto di
lire ventiquattro e cinquanta, e un biglietto pel piroscafo, lo fece
ridere.

— Allora, venite? — esclamò lei, con grande allegrezza. — Sono venuta
appunto per saperlo.

— Se vengo!... — mormorò lui distrattamente. — Dove?

— Come! ma a pranzo, domani! Voi dovevate disimpegnare il vestito se
avevate del danaro.

— L’ho proprio dimenticato, — confessò egli umilmente. — Dovete sapere
che questa mattina, il guardiano della tenuta ha preso le due vacche di
Maria e il vitellino e... Dio mio, siccome Maria non aveva danaro, ho
dovuto pagare io per farle riavere le vacche. «L’Appello delle Campane»
è andato a finire nelle tasche del guardiano!

— Dunque, non venite?

— Non posso.

Negli occhi azzurri di Ruth brillarono delle lacrime di delusione e di
rampogna; ma lei non rispose.

— Alla prossima festa nazionale pranzeremo insieme al Delmonico, —
fece lui allegramente, — o a Londra, o a Parigi, o dove vorrete! ve lo
prometto!

— A proposito, — fece lei a bruciapelo, — ho visto che hanno fatto
delle nomine nella società delle Ferrovie locali. Voi eravate il primo,
mi pare, no?

Egli fu costretto a convenire che infatti gli avevano offerto un posto,
ma che l’aveva rifiutato.

— Sono così sicuro di me! — concluse. — Tra un anno guadagnerò di più
di tutto il personale della società messo insieme.

— Aspettate! vedrete.

— Davvero? — fece lei seccamente. E s’alzò, infilò i guanti. — Bisogna
che me ne vada, Martin. Arturo mi aspetta.

Lei si lasciò abbracciare, passivamente, senza un gesto di tenerezza,
senza una parola carezzevole. Dopo averla accompagnata al cancello,
egli si disse che lei gli teneva il broncio. Ma perchè? Evidentemente
era una cosa spiacevole il fatto che il guardiano aveva sequestrato le
vacche di Maria, ma egli non poteva far nulla. Non gli veniva neppure
in mente l’idea che avrebbe potuto comportarsi diversamente. C’era, sì,
quella faccenda della Società ferroviaria, ch’egli aveva avuto forse il
torto di rifiutare; eppoi «Wiki-Wiki» che non le era piaciuto.

Sul pianerottolo incontrò il fattorino che faceva il giro pomeridiano.
Una curiosità impaziente, sempre nuova, stimolava Martin in modo
febbrile, ogni qual volta portavano la posta. C’era, quel giorno, oltre
un pacchetto di lunghe buste, una sottile letterina in un angolo della
quale era stampato l’indirizzo de _Lo Spettatore di New-York_. Egli si
disse, prima di aprirla, che non poteva essere un’accettazione, giacchè
egli non aveva mandato nulla a quella rivista: forse, e il cuore gli
diede un balzo a quel pensiero, forse gli si chiedeva un articolo! ma
egli rinunziò subito a una speranza così impossibile.

Era l’editore che l’informava brevemente e semplicemente come avesse
ricevuto una lettera che univa alla sua e l’assicurava che essi non
tenevano in alcuna considerazione quel genere di corrispondenza.

La lettera anonima in questione era scritta grossolanamente a mano,
con un cumulo d’insulti e di calunnie su Martin. Vi si affermava
che il detto Martin Eden non aveva nulla dello scrittore, ma si
limitava a rubacchiare qua e là degli articoli, togliendoli da vecchi
giornali, firmandoli e inviandoli poi alle riviste come roba sua.
La busta era timbrata da San Leandro, così che Martin non dovette
scervellarsi tanto per scoprirne l’autore. L’ortografia di Bernardo
Higgingbotham, lo stile di Bernardo Higgingbotham, la mentalità di
Bernardo Higgingbotham, vi si rivelavano in modo trasparente. Sì, era
stata proprio la zampa grossolana di suo cognato a scrivere quelle
righe imbecilli. Ma perchè? Egli se lo chiese invano. Che male gli
aveva fatto? La cosa era così insensata, così folle, che non v’era
spiegazione possibile. Durante la settimana, una dozzina di lettere
simili gli furono rimandate dagli editori di parecchie riviste
dell’est, e Martin pensò che, trattandosi di un ignoto, qual egli era,
esse, in conclusione, lo trattavano molto bene; qualcuna mostrava
persino una certa simpatia. Era evidente che quelle riviste avevano
orrore degli anonimi, e che la malvagia speranza di danneggiarlo era
fallita. Anzi, forse avrebbe finito col giovargli, ora che il suo
nome aveva attirato l’attenzione. Non era impossibile che un giorno,
leggendo uno dei suoi manoscritti, ricordassero la persona che era
stata oggetto di lettere anonime. E chissà se il loro giudizio non
poteva riceverne un influsso favorevole?

Ora, in questo periodo, la stima di Maria per Martin salì molto.

Una mattina egli la trovò nella cucina, che gemeva dal dolore e
piangeva per la stanchezza davanti a un grosso mucchio di biancheria da
stirare. Egli diagnosticò subito l’influenza, le diede del whisky caldo
(avanzo della liberalità di Brissenden) e le ordinò del latte. Ma Maria
non voleva saperne: la stiratura doveva essere fatta, altrimenti i
sette piccoli Silva affamati non avrebbero avuto la minestra il giorno
dopo.

Con grande stupore di Maria (la quale sino all’ultimo sospiro non cessò
mai di ricordare quell’episodio), Martin Eden prese un ferro di sul
fornello e gettò una camicetta fantasia sulla tavola da stiro.

Era quella la più civettuola delle camicette della domenica di Kate
Flanagan, la più difficile e la più elegante delle clienti di Maria.
Miss Kate aveva detto chiaramente che la camicetta doveva essere pronta
per la sera stessa.

Com’era noto, Miss Flanagan e il signor Collins dovevano andare il
giorno dopo al Golden Gate Park. Maria tentò invano di salvare la
preziosa biancheria: Martin la sorresse, accompagnandone i passi
vacillanti, sino alla poltrona dond’ella lo sorvegliò con occhio torvo.
Non trascorse un quarto del tempo che avrebbe impiegato lei per farlo,
e la camicetta fu stirata non meno bene.

— Lavorerei con maggior sveltezza, — disse lui, — se i vostri ferri
fossero più caldi.

Lei non avrebbe mai osato servirsi di ferri così caldi come quelli che
usava lui.

— Il vostro modo di spruzzare non è buono, — osservò lui, poi. —
Guardate, vi voglio mostrare come si fa a bagnare. Bisogna premere,
nello stesso tempo, se volete stirare alla svelta.

Poi si fabbricò una cassetta dal mucchio di legname ch’era in cantina,
vi aggiustò un coperchio e adunò tutti i ferri vecchi di cui la tribù
dei Silva faceva raccolta per darli al rivenditore; fece una pila della
biancheria bagnata di fresco, nella cassetta, la compresse con l’aiuto
del coperchio premuto dal mucchio di ferraglia, e la cosa fu fatta.

— E quand’ebbe finito di stirare, ha lavato gl’indumenti di lana, —
raccontò dopo, Maria, — e ha detto: «Maria come siete ridicola! Vi
voglio far vedere come si lava la roba di lana!», e me lo ha fatto
vedere, sicuro! In due minuti costruì la macchina, un barile, una
vecchia ruota, due pertiche, proprio così.

Martin aveva imparato quel metodo da Joe, alle Acque Termali di Shelley.

— Maria non ha più lavato le flanelle a mano, — affermava lei
invariabilmente, finendo il racconto.

— I ragazzi facevano girar la pertica, il barile e la ruota. Ah! era un
uomo intelligente, il signor Eden!

Però, dopo questa notevole opera, Martin cadde dal piedistallo dove lei
lo aveva posto. L’aureola romanzesca che la sua immaginazione gli aveva
creato intorno dileguò alla luce cruda di questo fatto: egli era dunque
nient’altro che un ex-lavandaio. I suoi libri, i suoi amici della buona
società che venivano a visitarlo in carrozza o forniti d’innumerevoli
bottiglie di whisky, tutto ciò fu ridotto a nulla. Egli non era in
fondo che un semplice operaio come lei, come tutti quelli del suo
ambiente e della sua classe, e s’egli, perciò, appariva più umano e più
accostabile, aveva perduto però tutto il suo misterioso fascino.

Martin seguitava a rimanere in freddi rapporti con la sua famiglia.
Anche Hermann von Schmidt, imitando il signor Higgingbotham, si svelò.
La vendita fortunata di qualche novella, di parecchi poemi burleschi
e di altre sciocchezzuole, aveva procurato a Martin una precaria
prosperità. Egli aveva pagati i conti, disimpegnato il vestito e la
bicicletta; e poichè questa aveva bisogno d’esser riparata egli la
mandò gentilmente a suo cognato.

Il pomeriggio dello stesso giorno, Martin ebbe il piacere di vedersi
riportare la bicicletta da un piccolo commesso, e ne concluse che von
Schmidt doveva esser ben disposto verso di lui; senonchè, esaminata la
macchina, vide che non era stata toccata neppure.

Poco dopo egli telefonò al negozio, e il fidanzato della sorella gli
rispose che non voleva avere rapporti con lui, di nessun genere.

— Hermann von Schmidt, — gli rispose Martin, piacevolmente, — ho una
gran voglia di pestarvi il vostro naso di tedesco.

— Provatevi un po’. — gli fu risposto, — e mando a chiamare la polizia.
E vi farò ficcare dentro, nè più nè meno! Oh! vi conosco, ma non mi
fate paura. Io non voglio avere alcun rapporto con individui come voi.
Voi non siete altro che un fannullone. Non vorrete farmi imbestialire
perchè mi capita di sposare vostra sorella, vero?... Perchè non
vi procurate del lavoro e non vi guadagnate la vita onestamente?
Rispondete un po’ a questo!

Martin fece appello a tutta la sua filosofia, frenò la collera che
incominciava a sentire e riappese il ricevitore, con un lungo sibilo
ironico. Poi venne la reazione e il senso angoscioso della solitudine.
Nessuno lo capiva; nessuno si curava di lui, tranne Brissenden, che
però era scomparso, Dio sa dove.

Cadeva il crepuscolo, quando Martin uscì dalla bottega del
fruttivendolo e si diresse verso casa, con le provviste sotto il
braccio. All’angolo della via, s’era fermato un tranvai, ed egli,
riconoscendo una figura famigliare che ne discendeva, si sentì il cuore
balzare dalla gioia. Era Brissenden, e Martin potè vedere, alla luce
dei fanali del tranvai che si moveva, che le tasche di Brissenden erano
piene di libri, da un lato, di whisky, dall’altro.




CAPITOLO XXXV.


Brissenden non spiegò la ragione della sua lunga assenza, e Martin, da
parte sua, non cercò di saperla. Egli era contento di vedere il volto
cadaverico del suo amico, dirimpetto, davanti a un bicchiere di «toddy»
fumante.

— Neppure io sono rimasto in ozio. — annunziò Brissenden, quando Martin
ebbe fatto un resoconto del suo lavoro. E, tratto dalla tasca del
soprabito un manoscritto, lo porse a Martin, che ne lesse il titolo,
con curiosità, poi guardò l’altro con aria interrogativa.

— Sì, proprio così; — fece Brissenden ridendo. — Mica male come titolo,
eh?... _Effimero_... proprio la parola che ci voleva. E voi ne siete
il responsabile, giacchè si tratta del vostro uomo, della creatura
inorganica, momentaneamente animata, il più evoluto degli effimeri,
che un grado di più di calore fa schiudere. Io l’avevo in mente, e ho
dovuto scriverlo per liberarmene. Ditemi che ne pensate.

La faccia di Martin, dapprima colorita da vivacità, impallidì,
leggendo. Era arte pura: la forma vinceva la sostanza, compresa nei
suoi atomi più imponderabili; e Martin, estasiato, sentì lacrime
di ammirazione salirgli agli occhi e un brivido scuotergli tutta la
persona. Era un lungo poema di sei o settecento righe, fantastico,
terrificante, inaudito, sovrumano; trattava dell’uomo e dei suoi
rapporti ultimi con la sua anima, tastoni, attraverso gli abissi
dello spazio, e questa interrogava, a testimonianza, i soli spenti e i
riflessi dell’arcobaleno. Era un’orgia di immagini, la folle ebbrezza
di un moribondo che ora singhiozza sottovoce e subito dopo si lancia,
pieno di selvaggia speranza, al ritmo disordinato d’un cuore che si
spegne. Maestosamente, il poema s’innalzava sino al tumulto gelido
delle lotte stellari, al caos dei soli raffreddati e all’incendio delle
nebulose illuminanti le tenebre dell’infinito. E attraverso tutto ciò,
strideva, incessante e fragile, simile a un brivido cristallino, la
debole voce flautata dell’uomo, gracile pigolìo tra il fracasso dei
pianeti e lo scricchiolìo dei mondi.

— Non esiste nulla di simile in letteratura, — fece Martin quando
potè parlare. — È inaudito! Ne ho le vertigini, ne sono ebbro! Questo
problema prodigioso, eterno, continuo, il vagito dell’uomo, risuona
sempre al mio orecchio; come la marcia funebre d’una zanzara tra il
barrito degli elefanti e il ruggito dei leoni. L’insaziabilità del
desiderio microscopico. Io so che sono ridicolo in questo momento,
ma la colpa non è mia. Voi siete... non so... voi siete inaudito,
ecco... Ma come fate? Come fate? — Martin interruppe un momento la sua
rapsodia, poi riprese con foga. — Io non scriverò mai più... non sono
altro che un tetro artiere. Voi mi mostrate che cosa sia il genio.
Il genio! più che il genio. Ogni rigo è bulinato nel diamante della
verità. Io mi domando se ve ne rendiate conto, razza di dogmatico!... È
il verbo del profeta che parla mediante l’olifante bronzeo del Cosmo,
e i cui ritmi possenti sono luce e splendore. E ora, basta! Io sono
schiacciato, vinto. Però, una parola: permettete che mi occupi della
pubblicazione!

Brissenden ghignò.

— Neppure una delle riviste della cristianità oserà mai pubblicarlo, lo
sapete bene!

— Son sicuro, invece, che tutte vi si precipiteranno su. Esse non
ricevono tutti i giorni roba simile. Non è il poema dell’anno: è il
poema del secolo.

— Ho una gran voglia di prendervi alla lettera!

— Non siate cinico, — consigliò Martin. — Gli editori non sono tutti
idioti; e voglio proprio accettar la scommessa. Scommetto tutto ciò
che volete, che _Effimero_ sarà accettato alla prima o alla seconda
offerta.

— Una cosa sola m’impedisce di mantener la scommessa. — E Brissenden
tacque un momento. — Quel coso lì è solido, la cosa più solida che
io abbia fatto. È il mio canto del cigno: io ne sono orgoglioso, e
l’ammiro; è migliore del whisky. È la realizzazione del mio sogno
giovanile, quando ero un adolescente dalle dolci illusioni, dal puro
ideale. E ora che ho concretato, prima di morire, questo sogno di
tutta la mia vita, non voglio ch’esso sia mercanteggiato, manipolato,
insudiciato da una mandria di porci. No, rinunzio alla scommessa.
Questo poema è mio, è la mia opera, e un po’ anche la vostra.

— Ma pensate agli altri! Il compito della bellezza è di dar gioia.

— Questa bellezza mi appartiene.

— Non siate egoista!

— Non sono egoista. — Brissenden accennò un ghigno leggero, com’era
solito di fare prima di dire qualche cosa che lo divertiva. — Io non
sono più egoista d’un cane affamato.

Invano Martin tentò di fargli mutare idea: l’altro dichiarò che il suo
odio per le riviste illustrate era morboso; e ch’egli si comportava
in modo più spregevole del giovane Erostrato che bruciò il tempio di
Diana a Efeso. Brissenden ricevette una valanga di ingiurie, con aria
soddisfatta, mentre sorbiva il suo «toddy», e gli affermò che esse
erano giustissime, fuorchè riguardo agli editori. Il suo odio contro
costoro non conosceva alcun limite, e su questo argomento, il suo
vocabolario non era mai a corto d’ingiurie, superando di molto quello
di Martin.

— Copiatemi quegli scarabocchi a macchina, — diss’egli. — Sarà fatto
molto meglio che non da qualsiasi dattilografa! E ora, permettetemi
qualche consiglio. — Egli trasse, dalla tasca esterna del suo
soprabito, un voluminoso manoscritto. — Ecco la vostra «Vergogna del
Sole»; l’ho letto, non una, ma tre o quattro volte, e quest’è il più
gran complimento che possa farvi.

Dopo ciò che m’avete detto di _Effimero_, non posso far altro che
tacere. Però lasciatemi dire questo: Quando «La Vergogna del Sole»
comparirà, meraviglierà, susciterà discussioni che vi daranno una
grande notorietà.

Martin si mise a ridere.

— Non manca altro che questo: che abbiate l’audacia di consigliarmi di
sottoporlo all’esame delle riviste illustrate!

— Se volete che appaia, certo, no! Offritelo a una casa editrice di
prim’ordine: potrete incappare in un tipo così matto o ubriaco, che
può darsi che l’accetti. L’essenza stessa, il sangue concentrato di
tutto ciò che avete letto di bello, filtrato attraverso l’alambicco
del cervello di Martin Eden, è espresso ne «La Vergogna del Sole
«, e Martin Eden, un giorno, sarà celebre in gran parte a causa di
quest’opera. Dunque, mi farete il piacere di cercare un editore al più
presto possibile.

Brissenden si fermò parecchio tempo, quella sera; poi, quand’era già
sulla predella del tranvai, si voltò vivamente verso Martin e gli
lasciò in mano un pezzetto di carta tutto gualcito.

— Su, prendete questo, — disse. — Sono stato alle corse, oggi, e ho
avuto fortuna.

Il campanello suonò e il tranvai si mosse lasciando Martin sul rialzo
della via, a domandarsi che potesse essere quel pezzo di carta untuosa.
Ritornato in camera sua, egli vide che era un biglietto da cinquecento.
E non ebbe alcuno scrupolo ad accettarlo, prima di tutto, perchè
sapeva che il suo amico era ben provvisto di danaro, e poi perchè era
assolutamente sicuro di poterglielo restituire un giorno. Il giorno
dopo pagò tutti i suoi conti, diede tre mensili anticipati a Maria, e
disimpegnò tutto ciò che aveva portato al Monte di Pietà; poi comprò
il regalo di nozze per Marianna, e dei regali di Natale per Ruth e
Geltrude. Finalmente condusse tutta la tribù dei Silva per Oakland, e,
mantenendo la sua promessa, sebbene con ritardo di qualche mese, comprò
a tutti, compresa Maria, quelle scarpe. Trombette, bambole, chilogrammi
di dolciumi, ingombrarono finalmente le braccia dei sette marmocchi,
storditi dalla gioia.

Proprio nel momento in cui entrava con Maria in una pasticceria,
seguito da quella straordinaria processione che gli si premeva alle
calcagna, in cerca d’una gigantesca caramella d’orzo, egli incontrò
Ruth e sua madre. La signora Morse ne fu urtata. Ruth rimase male,
giacchè aveva una certa cura delle apparenze, e la vista del suo
innamorato che dava il braccio a Maria e si trascinava dietro un’orda
di piccoli cenciosi, non era tale da lusingarla. Ma lei non diede
tanta importanza all’incidente; ciò che l’affliggeva soprattutto era
il fatto che lei vedeva, in ciò, l’impossibilità di fargli rompere
i rapporti con quell’ambiente. Ma c’era dell’altro: egli ostentava
la cosa apertamente, di fronte alla gente della sua classe, della
classe sodale di lei. Veramente, era un po’ troppo spinto: sebbene il
fidanzamento con Martin fosse mantenuto segreto, la loro lunga intimità
aveva dato motivo a pettegolezzi, cosicchè nei negozi lei aveva visto
che parecchia gente che conosceva aveva sbirciato il suo innamorato
e lo strano seguito. Angusta e convenzionale com’era, mentre Martin
era generoso e liberale, le riusciva impossibile innalzarsi al disopra
degli eventi. Lei rimase dunque punta sul vivo, ulcerata nel profondo
dell’anima, a tal punto che, quando andò da lei, dopo, Martin, conservò
in tasca il regalo di Natale, aspettando un’occasione più favorevole.
Ruth, in lacrime, piangente di vergogna e di collera, fu per lui
una rivelazione. Egli si disse che era un bruto, ma senza sapere
propriamente nè il come nè il perchè; giacchè l’idea d’aver vergogna
dei suoi amici non gli venne neppure per un momento nella mente, così
come gli parve che Ruth non potesse in alcun modo aversene a male,
perchè egli aveva dato un po’ di felicità ai Silva, pel Natale. Poi,
quando Ruth gli ebbe spiegato il suo modo di vedere, egli comprese, e
la considerò come una debolezza propria delle donne, di cui persino le
migliori, risentono.




CAPITOLO XXXVI.


Per prima cosa, Martin, la mattina dopo, fece come voleva Brissenden,
seguendone i consigli. Egli incominciò con lo spedire «La Vergogna del
Sole» a «_L’Acropoli_«, pensando che se riusciva a farlo pubblicare
da una rivista, una casa editrice glie l’avrebbe pubblicato, poi, più
facilmente. Mandò anche «L’Effimero» a una rivista.

A dispetto di quella vera _rivistofobia_ di cui soffriva Brissenden,
Martin era deciso a far sì che quel meraviglioso poema vedesse la
luce; non perchè credesse di poter permettersi di farlo pubblicare
contro la volontà di Brissenden, ma perchè, se una grande rivista lo
avesse accettato, sperava di ottenere il consenso dell’amico. Quella
mattina, Martin cominciò un racconto abbozzato alcune settimane
prima e che lo assillava continuamente. Doveva essere un racconto del
secolo ventesimo, e la scena avvenire sul mare, piena di avventure
romanzesche, in un modo reale, fra personaggi reali, in condizioni
verosimili. Ma attraverso la trama pittoresca del racconto, vi sarebbe
stata un’altra cosa che un lettore superficiale non avrebbe sentita
forse e che avrebbe avuto tutto il suo valore per colui che avesse
saputo leggere fra le righe.

«Troppo tardi» doveva esserne il titolo, e il racconto doveva
comprendere un minimo di sessantamila parole, — un’inezia, data la
facilità con la quale egli scriveva.

S’immerse quel giorno nel lavoro, col senso delizioso dell’artefice che
sa maneggiare i suoi istrumenti e non teme che un movimento maldestro
gli guasti il lavoro. I suoi lunghi mesi d’applicazione e di studio
davano i loro frutti: ora, sorvolando sui particolari, egli poteva
applicarsi con mano sicura a segnar le grandi linee d’un opera, e d’ora
in ora, si rendeva conto, come mai prima, del modo solido e largo col
quale capiva la vita e le cose della vita. — Per merito di Spencer,
diss’egli tra sè, interrompendo per un minuto lo scrivere. — Sì, egli
doveva a Spencer il fatto che possedeva ora il segreto della vita:
l’evoluzione.

Sentì che ciò che scriveva sarebbe stato opera d’ampio respiro. «Così
va bene! così va bene!» si ripeteva egli senza tregua.

Finalmente aveva scoperto il genere di cose che sarebbe piaciuto
necessariamente alle riviste illustrate; e tutta la storia gli folgorò
davanti. S’interruppe per inserire nel suo taccuino, un lungo capitolo,
l’ultimo di «Troppo tardi!» Tutto il libro era così perfettamente
composto nel suo cervello, che egli avrebbe potuto scriverlo dal
principio alla fine. Lo paragonò ai racconti dei marinai che egli
conosceva; — Non ce n’è che uno solo che possa reggere al paragone,
— mormorò ad alta voce; — ed è Conrad. E anche lui potrebbe venire a
stringermi la mano e dirmi: «Va bene, Martin, ragazzo mio!»

Lavorò tutto il giorno, ricordando sino all’ultimo momento il pranzo
in casa dei Morse. Con l’aiuto di Brissenden, egli aveva potuto
disimpegnare il vestito nero, così che era in condizioni di recarsi
a pranzo in città. Prima egli corse in una libreria a comperare il
«Ciclo della Vita», un saggio su Spencer, di cui Brissenden gli aveva
parlato. Salito sul tranvai, egli l’aprì, e a mano a mano che leggeva,
cresceva in lui la collera: col sangue al volto, le mascelle strette,
egli chiudeva e riapriva i pugni, come per afferrare e spezzare qualche
cosa odiosa. Sceso dal tranvai, andò su e giù furiosamente lungo
il marciapiede, e suonò alla porta dei Morse, con tale impeto che,
calmatosi a un tratto, sorrise egli stesso della sua collera. Appena
entrò in casa dei Morse, si sentì oppresso. Borghesi, bottegai, li
aveva chiamati Brissenden... Ma che importava? — fece egli tra sè, con
sdegno. — Egli sposava Ruth e non la famiglia.

Gli parve che Ruth non fosse stata mai così bella, così eterea e pure
così bene in salute; le sue guance erano colorite, ed egli non poteva
far di meno di guardarla con insistenza negli occhi, occhi nei quali
aveva letto per la prima volta l’immortalità! Ma in quel momento negli
occhi di Ruth egli leggeva l’argomento senza parole che annientava
gli argomenti più speciosi. Ogni discussione cadeva davanti a quegli
occhi, giacchè egli vedeva in essi l’amore; un amore indefinibile,
incomprensibile, infinito; tale era la sua teoria appassionata. Prima
del pranzo, egli ebbe con lei una mezz’ora di colloquio che lo rese
totalmente felice e lieto di vivere; ma a tavola l’inevitabile reazione
della sua dura giornata di lavoro si fece sentire; sentiva male agli
occhi, si sentiva irritabile, nervoso. Ricordò che a quella stessa
tavola, ch’egli ora denigrava e dove s’annoiava molto frequentemente,
aveva per la prima volta mangiato con gente civile, in un ambiente che
allora gli pareva il più alto intellettualmente e il più raffinato.
Egli rievocò il patetico Martin Eden di quella sera, primitivo
selvaggio impacciato da se stesso, che sudava preoccupazione da tutti
i pori, spaventato davanti ai misteri dell’agiatezza, affascinato dal
maggiordomo che gli pareva un orco; Martin Eden che tentava di varcar
d’un colpo l’abisso enorme che lo separava da quegli esseri superiori e
che si decideva finalmente a rimanere qual era e a non scimmiottare più
a lungo maniere che non aveva.

Egli lanciò uno sguardo inquieto a Ruth, facendo in certo qual modo
come quei passeggieri che, presi da panico improvviso, cercano con gli
occhi la cintura di salvataggio. Ebbene! anche se tutto il resto fosse
fallito, egli aveva però conquistato l’amore di Ruth; soltanto Ruth e
l’amore avevano resistito alla prova dei libri e meritato la sanzione
biologica. L’amore era l’espressione più ardente della vita. La natura
aveva lavorato un milione di secoli per far sbocciare quel capolavoro,
perfezionarlo, abbellirlo di tutte le meraviglie dell’immaginazione,
per lanciarlo poi su questo pianeta allo scopo di vibrare, di amare, e
di unirsi.

La sua mano cercò quella di Ruth sotto la tavola, e Ruth ricambiò la
stretta con ardore. Ruth lo guardò rapidamente; i suoi occhi raggianti
erano pieni di tenerezza. Ed egli sentì un brivido, non rendendosi
conto che ciò che di bello aveva visto in quello sguardo non era altro
che il riflesso di ciò che aveva proiettato il suo.

Dirimpetto a lui, a destra del signor Morse, era seduto il signor
Blount, giudice nella Corte d’appello del luogo. Martin lo aveva
visto parecchie volte, ma non era riuscito a stimarlo. Il giudice e
il signor Morse discutevano di politica, del partito dei lavoratori,
delle condizioni locali, di socialismo, e il signor Morse si sforzava
di attirare Martin nella discussione in modo da fargli aver torto. In
fine, il giudice Blount lanciò uno sguardo, insieme indulgente e pieno
di paterna pietà, che fece sorridere Martin nell’intimo.

— Vi passerà, giovanotto, — diss’egli con tono melato. — Il tempo è il
miglior rimedio per moderare gli eccessi della gioventù. — E si voltò
verso Morse: — In casi simili la discussione non giova: non serve ad
altro che a rinforzare l’ostinazione del paziente.

— È vero, — rispose gravemente il signor Morse; — non è bene talvolta
far capire al paziente il suo stato.

Martin rise, d’un riso allegro, ma non spontaneo. Quella giornata
di lavoro troppo lungo, troppo intenso, provocava in lui una penosa
reazione.

— Non dubito che siate eccellenti medici tutti e due, — diss’egli, —
ma se non vi date nessuna cura di conoscere il parere del paziente,
permettetemi di dirvi che la vostra diagnosi non vale gran che. La
filosofia socialista, che avete tentato penosamente di digerire, non mi
riguarda; io non l’ho neppure inghiottita.

— Mica male! mica male! — mormorò il giudice. — È un’ottima malizia, in
una discussione, rovesciare i termini della questione.

— Da parte vostra! — e nel dir ciò, Martin lanciava lampi dagli
occhi, ma si contenne. — Vedete, signor giudice, io ho sentito i
vostri discorsi durante la campagna elettorale. Per un fenomeno
di auto-suggestione, voi vi persuadete di credere al metodo delle
competizioni, e alla supremazia del più forte, e nello stesso tempo voi
approvate, tanto più, tutte le norme capaci di diminuire la potenza del
più forte.

— Giovanotto...

— Ricordate che ho ascoltato i vostri discorsi, — ripetè Martin. — È
evidente che il vostro modo di vedere in materia d’ordinamento degli
scambî interni, del trust delle ferrovie, e per ciò che riguarda la
«Standard Oil», la conservazione delle foreste e molte altre norme
restrittive, è nettamente socialista.

— E vorreste farmi credere che voi non approvate il regolamento di
quegli odiosi abusi di potere?

— Questa è un’altra questione. Io tengo soltanto a provarvi l’inanità
della vostra diagnosi. Voglio dirvi che il microbo del socialismo non
mi ha toccato, e che invece rode e castra voi. Quanto a me, io sono un
avversario deciso del socialismo, come anche della vostra democrazia
ibrida, che non è altro che un pseudo socialismo ricoperto d’orpello
di contrabbando. Io sono reazionario, talmente reazionario, che le mie
idee vi debbono sembrare incomprensibili, incomprensibili a voialtri
che vivete nella menzogna d’un’organizzazione sociale truccata, e che
non avete una vista abbastanza penetrante per scoprire il trucco. Voi
fate finta di credere alla prevalenza del più forte e alle leggi del
più forte; io credo; ecco la diversità. Non molto tempo fa, io ero come
voi; le vostre idee mi avevano persuaso; ma i mercanti, i commercianti,
sono al massimo dei padroni paurosi che passano la vita leccando
piattini. Allora, vedete, mi sono orientato verso l’aristocrazia.
Qui, a questa tavola, io sono il solo individualista. Secondo me, lo
Stato non è nulla. Io attendo l’uomo forte, il Cavaliere senza paura,
che verrà a salvar lo Stato da questo nulla fangoso. Nietzsche aveva
ragione — non perderò il tempo a spiegarvi chi fosse Nietzsche — ma
aveva ragione. Il mondo è dei forti, di coloro che uniscono la forza
alla nobiltà d’animo, che non s’avvoltolano nei pantani putridi dei
compromessi, nei boccali, e negli affari più o meno sospetti. Il mondo
appartiene al gran bruto di razza, a colui che non ha che una parola
e la rispetta, ai veri aristocratici. Ed essi mangeranno voialtri
socialisti spaventati dal socialismo; la vostra bassa e vile morale
da schiavi non vi salverà. Io so benissimo che tutto ciò è ebraico per
voi, e non vi annoierò di più, ma ricordatevi di questo: vi saranno non
più di dodici individualisti in tutta Oakland, e Martin Eden è uno di
questi.

Egli si voltò verso Ruth, volendo significarle che era deciso a non
discutere oltre.

— Sono esausto, — diss’egli con voce fioca. — Non mi rimane che la
forza d’amarvi.

E fece finta di non udire il signor Morse che diceva:

— Non sono convinto: tutti i socialisti sono gesuiti nel profondo
dell’animo. Ecco che cosa bisogna dir loro.

— Pure, riusciremo un giorno a far di voi un buon repubblicano, — fece
il giudice Blount.

— Il Cavaliere senza paura verrà prima d’allora, — rispose Martin, di
buon umore, poi si voltò nuovamente verso Ruth.

Ma il signor Morse non era soddisfatto; la pigrizia del suo futuro
genero e la sua repugnanza a ogni lavoro «serio», le sue idee
preoccupanti, la sua natura incomprensibile, gli procuravano un vivo
dispiacere. Il signor Morse avviò dunque la conversazione su Herbert
Spencer, e il giudice fece del suo meglio per assecondarlo. Martin, che
aveva teso l’orecchio, udendo pronunziare il nome del filosofo, sentì
il degno magistrato pronunciare con compiacimento una requisitoria
severa contro Spencer. Di tanto in tanto, il signor Morse lanciava uno
sguardo furtivo a Martin, come per dire: — A te, ragazzo mio, a te!

— Sinistri barbieri! — borbottò Martin e seguitò a conversare con
Ruth, senonchè il lavoro della giornata l’aveva stancato, ed egli era
nervoso.

— Che avete? — gli domandò Ruth, a un tratto, preoccupata nel vedere lo
sforzo ch’egli faceva per frenarsi.

— Non v’è altro Dio che l’ignoto, e Herbert Spencer è il suo profeta! —
diceva il giudice, proprio in quel momento.

Martin si voltò verso di lui.

— Giudizio facile, — disse con calma. — L’ho sentito la prima volta
al City-Hall Park, da uno del popolo, che avrebbe dovuto essere
meglio informato. Poi, l’ho sentito ripetere spesso, e, ogni volta,
la bestialità odiosa di questa frase, mi ha nauseato. Dovreste
vergognarvene. Udire il nome di questo grand’uomo sulle vostre labbra è
come trovare una rosa in una sentina.

Voi mi fate schifo.

Fu catastrofico! Il giudice lo fulminò con lo sguardo e parve colto da
apoplessia. Il signor Morse se la godeva dentro di sè; sua figlia era
evidentemente urtata, ed egli voleva ottenere appunto questo: spingere
quell’uomo che non gli andava a genio a rivelare il suo ruffianesimo
innato.

La mano di Ruth, implorante, andò a cercare quella di Martin, sotto la
tavola, ma la belva era ormai scatenata. La presunzione intellettuale e
la menzogna di coloro che occupano le più alte cariche, lo indignavano.
Un giudice di Corte d’Appello! — E dire che pochi anni prima quelle
gloriose entità gli erano parse come semidei! Il giudice si padroneggiò
e tentò di continuare la discussione simulando una cortesia che (Martin
lo comprese benissimo) era dovuta soltanto alle donne presenti. E
questo lo esasperò maggiormente. Non c’era proprio alcuna sincerità al
mondo?

— Voi non potete discutere di Spencer con me! — esclamò. — Voi non lo
conoscete, come non lo conoscono i suoi conterranei. Ma la colpa non è
vostra — lo ammetto, — ma della spregevole ignoranza dei nostri tempi.
Un filosofo dell’Accademia, che non era neppure degno di respirare
l’aria che Spencer respirava, lo ha chiamato «Il Filosofo della gente
mezzo colta!». Io non credo che abbiate letto dieci pagine di Spencer:
ma certi critici, probabilmente più intelligenti di voi, non ne hanno
letto di più, e osano sfidare i suoi discepoli, a trovare una sola
idea in tutti i suoi scritti, negli scritti di Spencer! dell’uomo il
cui genio ha improntato la scienza e il pensiero moderno, di colui che
ha rivoluzionato la pedagogìa moderna in modo tale che il contadinello
francese, quando impara a leggere, ne applica i principî! E questi
piccoli microbi d’uomini tentano di insudiciare la sua memoria, quando
quel po’ di nozioni di cui hanno inzeppato il cervello lo debbono in
gran parte a lui!

Eppure un uomo come Fairbanks, il Rettore di Oxford, un uomo che ha
una carica più elevata della vostra, signor giudice, ha dichiarato
che Spencer sarà considerato dai posteri come un poeta e un sognatore,
anzichè come pensatore. Botoli e fantocci! I suoi «Primi Principî» non
mancano totalmente d’un certo fascino letterario, ha detto un altro.
E altri hanno aggiunto che era un compilatore laborioso, anzichè un
pensatore originale. Botoli e fantocci! Botoli e fantocci!

Martin si fermò. Seguì un silenzio mortale: tutta la famiglia Morse,
che considerava il giudice Blount come un uomo ragguardevole e
potente, rimase inorridita, allo scatto di Martin. Il pranzo finì
in un’atmosfera di cerimonia funebre: il giudice e il signor Morse
parlavano quasi sempre fra loro due: gli altri parlavano a tratti. Poi,
quando Ruth e Martin furono soli, accadde una scenata orribile.

— Voi siete un uomo impossibile! — singhiozzò lei.

Ancora furibondo, Martin borbottava: — Che bruti! oh, che bruti!

Quando ella affermò che egli aveva insultato il giudice, Martin ribattè:

— Perchè gli ho detto la verità?

— Vero o falso che sia, per me è lo stesso! — esclamò lei. — Ci sono
dei limiti che non bisogna superare; e voi non avevate il diritto
d’insultare nessuno.

— Allora perchè il giudice Blount si arroga il diritto di falsare la
verità? — domandò Martin. — Falsare la verità è una cosa molto più
grave, che non insultare una misera persona, come quella del giudice!
Egli ha fatto di peggio: ha insozzato la memoria d’un grande. Oh! che
bruti! che bruti!

La sua collera, complessa com’era, si ridestò davanti a Ruth
spaventata, che non l’aveva visto mai così furibondo e lo giudicava
irragionevole e incomprensibile. Eppure, nonostante il risentimento e
il timore, lei si sentiva attratta dal fàscino di lui, da quel fàscino
che l’aveva spinta un tempo a intrecciare le sue mani attorno alla nuca
di lui. E anche quella sera, sebbene umiliata e ferita dalla scena
accaduta a pranzo, essa s’abbandonò tutta vibrante nelle braccia di
lui, mentr’egli ripeteva: — Che bruti! oh, che bruti! — aggiungendo
finalmente: — Io non mi siederò più alla vostra tavola, cara. Non mi
vogliono bene, ed è male da parte mia imporre una vista spiacevole.
Puah! mi fanno ammalare. E dire che nella mia ingenuità avevo creduto
che le persone che hanno cariche elevate, che abitano in belle case e
hanno buoni modi e un conto corrente in banca fossero tutte superiori!




CAPITOLO XXXVII.


— Venite! andiamo alla riunione, — gli disse Brissenden, ancora debole
per una emorragia avuta una mezz’ora prima, la seconda in tre giorni.
Tutto tremante ancora, col suo eterno bicchiere di whisky in mano,
inghiottì il liquido d’un fiato.

— Ho forse bisogno di socialismo? — domandò Martin.

— Agli _outsiders_ è permesso parlare per cinque minuti, — insistè il
malato. — Alzatevi e andiamo! Dite loro perchè il socialismo non vi
piace; dite loro ciò che pensate di essi e della loro etica superata.
Sbattete loro in faccia Nietzsche, e avanti senza cerimonie! Fate
baccano. Farà bene a quella gente che ha bisogno di discutere, come
voi. Vedete, vorrei vedervi diventar socialista, prima che io chiuda
gli occhi. È la sola cosa che vi salverà dalla delusione che vi
attende.

— Io non riesco a capire come voi, voialtri tutti, possiate essere
socialisti, — osservò Martin con stupore. — Voi odiate tanto il
«popolo». Veramente, non c’è nulla, nella canaglia, che possa piacere
all’animo vostro così estetizzante! — E accennò con la punta del dito
al bicchiere di whisky che l’amico riempiva nuovamente. — Non sembra
che il socialismo debba guarirvi!

— Io sono molto malato, — rispose l’altro. — Ma per voi la cosa è
diversa. Voi avete la salute e mille ragioni di vivere. E bisogna che
vi attacchiate alla vita in modo definitivo. Vi domandate perchè sono
socialista; perchè il socialismo è inevitabile; perchè il sistema
attuale è irragionevole e imputridito; perchè sono passati i tempi del
vostro cavaliere senza paura. Gli schiavi non ne vorranno sapere: essi
sono molto numerosi, e, a qualunque costo, faranno cadere il cavaliere
prima ch’egli si sia lanciato nell’arena. Voi non potrete scansarvi e
sarete costretto a ingoiare tutta questa morale di schiavi. Non sarà
bello, proprio bello, lo confesso; ma, quando si è in ballo, bisogna
ballare. Voi siete antidiluviano, d’altra parte, con le vostre idee
nietzschiane. Il passato è passato, e colui che dice che la storia si
ripete, è bugiardo. Naturalmente, io odio la folla; ma che fare? Ogni
altra cosa è preferibile al timido branco di porci che ci governa.
Comunque, venite! Ora sono al punto giusto, mentre se rimango qui
divento brillo. Eppoi, sapete cosa dice quel dottore, che il diavolo lo
porti? che gli faccio perdere tempo e fatica, vedrete!

Era una sera di domenica, così che i due trovarono la piccola sala
zeppa di socialisti di Oakland, quasi tutti operai. L’oratore,
ebreo intelligente, suscitò insieme l’ammirazione e lo spirito di
contraddizione di Martin. Con quelle spalle incurvate, il petto
angusto, egli riaffermava la natura della sua origine e della sua
razza, e Martin risentiva potentemente la lotta secolare dei deboli,
miserabili schiavi, contro il pugno d’uomini che li governano e li
governeranno sino alla fine dei secoli. Per Martin, quell’essere
rattrappito era un simbolo; egli rappresentava davvero tutta quella
miserabile folla di gracili, d’incapaci, che periscono secondo le
leggi biologiche, perchè non hanno la forza di lottare per vivere. Per
eliminazione. A dispetto dei loro ragionamenti filosofici e delle loro
astuzie, la natura li rigetta, per scegliere l’uomo eccezionale. Da
tutte le meravigliose seminagioni fatte dalla sua mano prolifica, essa
trae e conserva i migliori, così come l’uomo, scimmiottandola, alleva
i cavalli, e coltiva i melloni. S’intende che i sacrificati non si
lasciano sopprimere senza lanciare alte grida. I socialisti non hanno
mai cessato di gridare come gridavano quell’oratore rachitico e il suo
pubblico sovraeccitato; che reclamavano con grandi grida e cianciavano
sul modo di ridurre al minimo le miserie della vita.

Tali furono le riflessioni di Martin, e così parlò quando Brissenden
lo invitò a «scuotere loro le pulci di dosso». Egli salì sul palco, e,
come d’uso, si rivolse al presidente della riunione; in piedi, parlò a
voce bassa, tra pause, raccogliendo le idee che il discorso dell’ebreo
gli aveva suscitate nella mente. In quei comizî erano concessi cinque
minuti a ciascun oratore; ma dopo cinque minuti Martin era lanciato
di gran carriera, l’interesse del pubblico era destato, così che,
per acclamazione, fu chiesto al presidente di lasciarlo parlare. Il
pubblico stimava quell’avversario degno di esso, ne beveva la parola
infiammata, convinta. Tuttavia non garbava punto a quella gente la
verità dura, che attaccava con franchezza gli schiavi, la loro morale,
la loro tattica, e non nascondeva che si trattava di loro. Egli citò
Spencer, Malthus e la legge biologica dell’evoluzione.

— Dunque, — concluse, riassumendo rapidamente, — uno Stato composto di
schiavi, non può vivere: domina sempre l’antica legge dello sviluppo
delle razze. Come ho dimostrato, i forti e loro discendenti soltanto
tendono a sopravvivere nella lotta per la vita, mentre i deboli e loro
discendenti dovranno essere schiacciati. Ne viene perciò di conseguenza
che, sopravvivendo soltanto i forti, la forza di ogni generazione
aumenterà. Tale è la legge. Ma voialtri schiavi, — è triste essere
schiavi, lo riconosco, — sognate una società dalla quale sarà bandita
l’evoluzione, nella quale i deboli e gl’incapaci potranno soddisfare
la loro fame, tutto il giorno se vogliono, nella quale sposeranno
e procreeranno come tutti i forti. Quale risultato otterrete voi?
La forza e il valore della razza diminuiranno di generazione in
generazione; la vostra società di schiavi, creata da schiavi e per
gli schiavi, deve fatalmente dissolversi, cadere in polvere. La vostra
filosofia da schiavi avrà allora la sua Nemesi.

Io vi ricordo che parlo secondo fatti biologici, e non secondo l’etica
sentimentale. Nessun governo di schiavi può esistere.

— E che dite degli Stati Uniti? — urlò una voce tra gli ascoltatori.

— Degli Stati Uniti — rispose Martin. — Ascoltate! Le tredici colonie
si sbarazzarono un giorno dei loro capi e formarono una sedicente
repubblica; e i servi diventarono loro capi. Ma poichè non potevano
non obbedire, una nuova specie di padroni sorse, formata non già
da uomini grandi, virili, nobili, ma da mercanti astuti e pieni di
cautele, da usurai avidi. Ed essi ridussero nuovamente a schiavitù
non già francamente, come avrebbero fatto dei veri uomini, con la
potenza del loro braccio e del loro reale valore, ma ipocritamente,
mediante losche macchinazioni, basse moine e menzogne sfrontate. Essi
hanno comperato i vostri giudici, corrotto la magistratura, e ridotto
a orrori peggiori della schiavitù i vostri figliuoli: due milioni
di fanciulli penano, ora come ora, in questa oligarchia commerciale
che sono gli Stati Uniti; due milioni di schiavi a malapena nutriti,
a malapena ricoverati! Ma ritorno all’argomento. Ho dimostrato che
non può esistere nessuna società di schiavi, perchè, per sua stessa
natura, essa annulla la legge dello sviluppo. Se un organismo di tal
genere dovesse sorgere, esso conterrebbe subito in sè il germe della
propria dissoluzione. Vi è facile parlare d’annullare questa legge
dell’evoluzione, ma ne conoscete un’altra che manterrà la vostra forza?
Se ne conoscete una, ditelo.

Martin si rimise a sedere, fra un tumulto indescrivibile. Una ventina
di persone, in piedi, chiedevano tutte la parola, con grandi urla.
A uno a uno, incoraggiati dai richiami e dagli applausi, quegli
uomini risposero all’attacco di Martin, fragorosamente, con un
gran gesticolare. Fu una notte epica, ma tutta di combattimenti
intellettuali, di lotta per le idee! Quasi tutti si rivolsero
direttamente a Martin, alcuni troppo sinceri per poter essere cortesi,
cosicchè più d’una volta il presidente dovette picchiare sul tavolo e
richiamare all’ordine.

Intanto, si trovava tra la folla un giovane _reporter_ in cerca
d’argomenti sensazionali. Non era certo un gran _reporter_; egli non
possedeva altro che una certa facilità e un certo brio. La discussione
era un po’ ardua per lui, sebbene egli si confortasse pensando di
essere infinitamente superiore a tutti quei chiacchieroni fanatici.
Egli aveva anche un enorme rispetto per i grandi idoli, per coloro
che dirigono la polizia delle nazioni e dispongono della stampa.
Infine, egli aveva un ideale: quello di riuscire ad essere un perfetto
_reporter_, il _reporter_ tipo, colui che, d’un piccolo episodio di
cronaca, è capace di fare una catastrofe sensazionale.

Ignorava completamente di che si trattasse, e d’altra parte non
era necessario che lo sapesse. A simiglianza del paleontologo
che ricostruisce tutto uno scheletro con un osso di fossile, egli
era capace di ricostruire tutto un discorso su questa sola parola
«Rivoluzione». E così fece quella sera, molto bene, però; e poichè
Martin aveva fatto chiasso, egli attribuì a lui i discorsi di tutti gli
oratori e ne fece l’arcianarchico di tutta la riunione, trasformando
l’individualismo reazionario di lui in socialismo ad oltranza, del
rosso più acceso. Il giovane _reporter_ era un artista; egli fece
un ampio quadro, con gran cura del color locale, di quei degenerati
nevrastenici, dai lunghi capelli, dagli occhi selvaggi, che tendevano i
pugni stretti, urlavano le loro rivendicazioni con occhi d’arrabbiati,
tra urli, ingiurie e i rochi brontolii di una folla furiosa.




CAPITOLO XXXVIII.


La mattina dopo, nella sua cameretta, Martin lesse il giornale, bevendo
il caffè, e si trovò bene in vista in prima pagina e fu molto sorpreso
nel leggere ch’egli era il _leader_ più noto dei socialisti d’Oakland.
Scorrendo il discorso violento che il giovane _reporter_ gli aveva
attribuito, prima s’infuriò e poi buttò via il giornale e ne rise.

— O quell’uomo era ubriaco, o è un simpatico burlone, — dichiarò
egli il pomeriggio, appollaiato sul letto, quando Brissenden, appena
entrato, si lasciò andare sull’unica sedia.

— E che importa? — disse Brissenden. — Penso che l’approvazione dei
lerci borghesi che leggono quel giornale debba importarvi poco, no?

Martin riflettè un momento, poi rispose:

— No: non mi fa nè caldo nè freddo. Però è probabile che i miei
rapporti con la famiglia di Ruth diventino un tantino più bruschi. Suo
padre mi ha sempre immaginalo socialista, e questa stupida storia par
fatta a bella posta per rinforzare tale convincimento. Non che mi curi
della sua stima, ma a che scopo? Vorrei leggervi ciò che ho fatto oggi.
Si tratta di «Troppo tardi», s’intende: ne ho già fatto quasi la metà.

Egli leggeva ad alta voce, quando Martin aprì la porta, fece entrare
un giovanotto tutto lindo, il cui sguardo vivo, fatto un giro intorno,
osservò il fornello a petrolio, e gli utensili di cucina, prima
d’arrivare sino a Martin.

— Segga, — disse Brissenden.

Martin fece posto al giovanotto, sul letto, e aspettò ch’egli
comunicasse loro lo scopo della visita.

— L’ho sentita parlare ieri sera, signor Eden, e vengo a intervistarla,
— fece lui.

Brissenden scoppiava dal ridere.

— Un compagno socialista? — domandò il _reporter_, che con occhio
svelto aveva già sbirciato il cadaverico personaggio.

— È lui l’autore di quest’articolo! — fece soavemente Martin. — Come!
ma è addirittura un ragazzo!

— Perchè non lo pigliate a pugni? — rispose Brissenden. — Io pagherei
un biglietto da mille dollari, per avere, durante cinque minuti
soltanto, i miei polmoni di un tempo.

Il giovane _reporter_ rimase un tantino perplesso per la piega che
prendeva la conversazione, conversazione che avveniva alle sue spalle e
a suo danno. Ma s’erano rallegrati con lui per la brillante descrizione
del comizio socialista, ed egli era stato mandato a intervistare
personalmente Martin Eden, il principale maneggione d’un pericolo
sociale. Egli si considerava dunque in servizio, per ordine ricevuto.

— E lei non oppone alcuna difficoltà a farsi fotografare, signor Eden?
— diss’egli. — Il fotografo è fuori e dice che sarebbe preferibile
farle un’istantanea, mentre è ancora giorno. Poi potremmo occuparci
dell’intervista.

— Un fotografo! — disse Brissenden, fantasticando. — Cazzottatelo,
Martin, cazzottatelo!

— Credo che invecchio, — disse Martin. — Dovrei picchiarlo, è evidente:
ma non ne ho il coraggio. Credete davvero che metta conto di farlo?

— Fatelo per sua madre! — insistè Brissenden.

— È una giusta considerazione, — replicò Martin; — ma temo veramente di
stancarmi inutilmente. Ci vuole dell’energia, sapete, per cazzottare un
bel tipo del genere. E poi, a che giova?

— Benissimo! così va presa la cosa! — dichiarò il giovanotto con aria
disinvolta, sebbene adocchiasse la porta con sguardi irrequieti.

— Ma non ha scritto neppure una parola, che corrisponda alla verità, —
proseguì Martin, rivolto sempre a Brissenden.

— Non era altro insomma, che una relazione molto generica, — arrischiò
il giovanottino, — e d’altra parte, è un’ottima _réclame_, che è ciò
che importa soprattutto. Le ho fatto un favore.

— È un’ottima _réclame_, Martin, vecchio mio! — ripetè solennemente
Brissenden.

— Ed è un favore che mi hanno fatto, pensate! — aggiunse Martin.

— Sentiamo un po’, signor Eden, lei dov’è nato? — interrogò il
_reporter_, fingendo un’aria di profondo interesse.

— E non prende neppure appunti, — fece Brissenden. — Che memoria!

— Questo mi basta. — Il giovincello faceva il possibile per non lasciar
trasparire il suo malumore. — Un _reporter_ che sa il fatto suo, non ha
bisogno di appunti.

— Questo le è bastato ieri sera, evidentemente! — E Brissenden, che
non era certo un esempio di mitezza, mutò bruscamente atteggiamento. —
Martin, — disse, — se non lo picchiate, lo picchio io, anche a costo di
cadere morto.

— Una buona sculacciata risolverebbe la faccenda? — domandò Martin.

Brissenden riflettè un momento, poi fece cenno di sì.

Un minuto dopo, il giovane _reporter_ era disteso bocconi, fra le
ginocchia di Martin, e mantenuto con mano ferma.

— Oè, non morda, — ammonì Martin, — altrimenti sarei costretto a
sfigurarle la faccia, e sarebbe un peccato: una faccia come la sua!...

E la mano discese, risalì, ridiscese, con ritmo rapido e vigoroso.

Il giovincello si torse, ingiuriò, guaì, ma non tentò neppure di
mordere. Brissenden guardava con gravità: un momento solo s’animò,
impugnò la bottiglia di whisky e implorò:

— Martin, lasciatemi dare un colpetto! uno solo!...

— Mi dispiace tanto, ma la mia mano non ne vuol sapere più, — fece
Martin, lasciandolo finalmente. — È tutta intormentita.

E risollevato il _reporter_ lo issò in piedi sul letto.

— Vi farò arrestare! — stridette costui, mentre le lacrime gli
scorrevano dagli occhi, diventato cremisi. — Me la pagherete! vedrete!

— Oh, che bel signorino! — osservò Martin. — Non s’accorge che scivola
lungo la china fatale. Non è onesto, non è pulito, non è virile, dire
delle menzogne, come ha fatto, e non se n’accorge neppure!

— È venuto da noi per impararlo, — disse Brissenden, solennemente, dopo
un breve silenzio.

— Sì, è venuto da me, dopo avermi maltrattato e danneggiato. Il mio
droghiere certamente non mi farà più credito, ora. E il più triste
si è che questo povero piccolo brav’uomo farà carriera così, sino al
naufragio totale, sinchè non diventerà un giornalista di prim’ordine e
una canaglia d’alto bordo.

— Ha ancora del tempo davanti a sè, — fece Brissenden, incoraggiante.
— Chissà! forse ha trovato in voi lo strumento di redenzione. Perchè
non mi avete lasciato picchiar su, una volta almeno? Avrei voluto
partecipare a quest’opera meritoria.

— Vi farò arrestare tutti e due, pezzi di brutaloni!... — singhiozzò il
giovincello.

— Com’è delicata la sua bocca! — e Martin scosse il capo con aria
lugubre. — Temo d’essermi stancata la mano per nulla. Questo giovanotto
è incorreggibile. Diventerà in seguito un grandissimo giornalista,
molto celebre; non ha punta coscienza; e questo basta a fargli avere un
buon successo.

A queste parole il giovanottino se la svignò e scomparve
precipitosamente, tant’era la sua paura di ricevere sulla schiena la
bottiglia che Brissenden brandiva ancora.

Nel giornale del giorno dopo, Martin apprese una quantità di cose
nuove: «Noi siamo nemici giurati della società», — gli si faceva dire
nell’intervista che apparve nuovamente in prima pagina. — »No, non
siamo anarchici, ma socialisti.»

E quando il _reporter_ aveva osservato che gli sembrava che vi fosse
poca diversità fra le due tendenze, Martin aveva alzato le spalle,
affermativamente. La faccia di Martin era così descritta: assimmetria
bilaterale, con parecchi segni di degenerazione. Le sue mani di
lottatore erano formidabili, e gli occhi iniettati di sangue lanciavano
fiamme. Egli seppe anche che parlava tutte le sere agli operai di
City-Hall Park e che fra i vari agitatori che infiammavano la mente del
popolo, egli, più degli altri, attirava gente e pronunziava i discorsi
più sovversivi. Il giovincello fece uno schizzo pittoresco della misera
camera col fornello a petrolio, l’unica sedia, il vagabondo dalla testa
di morto che faceva compagnia a Martin e pareva fosse uscito allora dal
carcere, dopo vent’anni di reclusione.

Il piccolo _reporter_ se l’era avuta a male: aveva frugato, annusato
dappertutto e, scoperta finalmente la famiglia di Martin, aveva
pubblicato una fotografia del negozio Higgingbotham, con Bernardo
Higgingbotham in persona, sulla soglia. Questo gentiluomo era
raffigurato come un uomo d’affari degno e intelligente, al quale
ripugnavano le idee socialiste di suo cognato, nonchè il cognato, che
egli definiva come un fannullone che non aveva voluto mai accettare il
lavoro che gli veniva offerto, e che sarebbe finito in prigione.

Hermann von Schmidt, marito di Marianna, intervistato anche lui,
dichiarò che Martin era la pecora rognosa della famiglia, e lo
rinnegava. «Ha tentato di conquistarmi, ma io ho fermato subito la
cosa», — aveva detto Hermann von Schmidt al _reporter_; — e non c’è
pericolo che venga a gironzolare da queste parti. Un uomo che non vuole
lavorare non vale un chiodo, credetemi.»

Questa volta Martin s’infuriò davvero. Brissenden si sforzò di
presentargli la cosa come uno scherzo, ma non riuscì a consolarlo,
giacchè Martin sapeva che non sarebbe stato facile spiegar la
cosa a Ruth. Quanto al padre, doveva essere felicissimo di ciò che
accadeva e avrebbe fatto certamente tutto il possibile per rompere
il fidanzamento. Martin se ne accorse immediatamente. La posta
del pomeriggio gli portò una lettera di Ruth; Martin l’aprì, col
presentimento d’una catastrofe, e la lesse in piedi sulla soglia della
porta, nello stesso punto dove il portalettere gliel’aveva consegnata;
proseguendo la lettura, la sua mano, con gesto incosciente, frugava
nelle tasche, — in cerca della carta e del tabacco per sigarette, come
un tempo — senza rendersi conto neppure ch’erano vuote.

Non era una lettera irritata; non serbava traccia di collera; ma dalla
prima all’ultima parola, era piena d’orgoglio ferito e di amarezza.
Lei sospettava qualche cosa di diverso e di meglio da lui; aveva
pensato ch’egli superasse quel suo temperamento di selvaggio, la foga
giovanile; e che per amor di lei si fosse deciso a considerare la
vita seriamente, decentemente. Ma ora i suoi genitori avevano parlato
chiaramente e ordinato di rompere il fidanzamento. E lei non poteva far
altro che dar loro ragione; la loro unione non sarebbe stata felice,
come, del resto, aveva sentito sin dal principio. In tutta la lettera
spiccava soprattutto un rimpianto di lei, che angosciò profondamente
Martin.

«Aveste accettato almeno un impiego qualunque e tentato di diventar
_qualcuno_! Ma non poteva essere: la vostra vita passata è stata troppo
_bohème_, troppo irregolare. La colpa non è vostra, capisco: voi non
potevate comportarvi diversamente dalla vostra natura e dalla prima
educazione ricevuta. Dunque, io non vi biasimo, Martin, ricordatevene:
c’è stato un malinteso, e non altro. Come hanno detto i miei genitori,
noi non eravamo fatti l’uno per l’altra, e dovremmo essere felici
d’essercene accorti prima che fosse troppo tardi...» Poi, come fine:
«È inutile tentare di vedermi; sarebbe un colloquio troppo penoso per
tutti e due, come per mia madre. Le ho già procurato tanti dispiaceri e
preoccupazioni, che ci vorrà del tempo per farmi perdonare.»

Egli rilesse la lettera la seconda volta, attentamente, poi sedette
a tavola e rispose. Le riferì il discorso del comizio socialista,
facendole osservare che era proprio il contrario di quello che il
giornale aveva presentato; e finendo appassionatamente, la supplicava
di seguitare a volergli bene. «Rispondete, ve ne prego! — diceva. — Non
vi domando altro che questo: Mi amate? Basta. Rispondete a questa sola
domanda».

Ma non venne risposta nè il giorno dopo, nè l’altro. «Troppo tardi»
giaceva sulla tavola com’era rimasto, e ogni giorno la pila dei
manoscritti sotto la tavola cresceva. Per la prima volta, egli conobbe
l’insonnia e il nervosismo delle lunghe notti bianche. Andò tre volte a
suonare il campanello alla porta dei Morse, ma ogni volta il cameriere
lo rimandò. Brissenden era in albergo, tanto malato, che non poteva
muoversi, e Martin, pur tenendogli compagnia, non voleva annoiarlo con
le sue tristezze.

Giacchè gli affanni di Martin erano numerosi. Le conseguenze della
propaganda vendicativa del giovanetto picchiato erano state più gravi
che Martin non pensasse. Il droghiere portoghese gli rifiutò nuovamente
ogni credito, mentre il fruttivendolo, — americano orgogliosissimo
di esserlo, — lo chiamava traditore della patria, e gli proibiva di
rimettere i piedi nel negozio, e spinse il suo patriottismo al punto
da annullare ogni avere e da vietargli di pagare il conto. Il vicinato
si comportò non diversamente, e Martin fu esecrato da tutti; nessuno
voleva aver rapporti con un traditore socialista. La povera Maria,
indecisa, spaventata, rimaneva però fedele. I mocciosi del vicinato,
vinto lo stupore d’ammirazione per la magnifica carrozza che avevano
vista un giorno davanti alla porta di Martin, si godettero il maligno
piacere di chiamarlo «vagabondo», «lazzarone», «brigante», tenendosi
però, si capisce, a prudente distanza. La tribù dei Silva lo difendeva
coraggiosamente, e non passava giorno che i ragazzi non tornassero a
casa con un occhio pesto o col naso sanguinante, accrescendo così le
preoccupazioni e le incertezze di Maria!

Un giorno, Martin incontrò Geltrude per la strada e seppe ciò che
sapeva ch’era inevitabile, e cioè che Bernardo Higgingbotham, furibondo
perchè Martin aveva compromesso pubblicamente la famiglia, gli proibiva
di entrare in casa.

— Perchè non vai via, Martin? — implorò Geltrude. — Parti, cercati in
un altro luogo un’occupazione e diventa serio. Dopo, quando le cose si
saranno acquietate, ritornerai.

Martin scosse la testa, ma senza dare spiegazioni. Che doveva spiegare?
Era spaventato dall’orribile abisso che lo separava dalla gente della
sua classe. Non c’era parola della lingua inglese o di qualsiasi altra
lingua, capace di far capire loro che il suo atteggiamento e la sua
condotta consistevano, nel caso particolare, in una sistemazione;
e dicendo ciò, essi dicevano tutto. Trovare un impiego! Mettersi a
lavorare! Poveri schiavi stupidi! — diceva egli fra sè, mentre la
sorella parlava. — Non era davvero sorprendente che il mondo fosse
dei forti! I servi erano ossessionati dalla proprio schiavitù; per
essi «farsi una posizione» era la frase cabalistica per eccellenza.
Egli scosse il capo quando Geltrude gli offrì del danaro, sebbene, non
ignorasse che quel giorno stesso doveva andare al Monte di Pietà.

— Non avvicinare Bernardo in questo momento, — raccomandò la brava
donna. — Fra qualche mese, quando si sarà calmato, forse potrai guidare
la sua vettura per le consegne. E, Martin, se dovessi aver bisogno di
me, fammi chiamare e verrò. Non dimenticarlo!

Lei s’allontanò, piangendo a bassa voce, e, col cuore angosciato: egli
seguì con lo sguardo il corpo pesante e l’andatura di sguattera della
sorella. Ora, a questo punto, l’edificio nietzschiano tremò leggermente
dalle fondamenta e parve vacillare. In astratto, la classe degli
schiavi era perfetta, ma quando si trattava della propria famiglia,
la cosa non era tale da soddisfare pienamente. Eppure, sua sorella
Geltrude era l’esempio evidente del debole schiacciato dal più forte.
Egli rise amaramente di questo paradosso. Un bel filosofo era quello
davvero, se accadeva in realtà che i suoi principî fossero scossi
alla prima prova sentimentale! e, peggio, scossi dalla stessa morale
da schiavi; giacchè la sua pietà per sua sorella non era altro che
questo. I veri uomini, gli eletti, superavano l’abusata pietà e la
puerile compassione; pietà e compassione erano chiuse negli ergastoli
sotterranei, ed erano nate dal sudore d’agonia d’un’umanità miserabile.




CAPITOLO XXXIX.


«Troppo tardi» giaceva ancora, dimenticato, sulla tavola. Sotto, i
manoscritti, dei quali neppur uno era stato accettato, avevano ripreso
il loro posto, tranne, però, quello di Brissenden, «Effimero» che,
solo, proseguiva il suo giro, di editore in editore. Bicicletta e
vestito nero erano stati nuovamente impegnati, e il commerciante di
macchine da scrivere richiedeva con insistenza il nolo.

Ma questo genere di preoccupazioni non l’affliggeva più; egli cercava
un nuovo orientamento, e perciò la sua vita ne risentiva una specie di
stasi. Dopo parecchie settimane, accadde ciò ch’egli non aveva cessato
di sperare: l’incontro con Ruth, nella strada. Era accompagnata dal
fratello Norman, e tutt’e due finsero di non vederlo; poi, Norman cercò
persino di sbarrargli il passo dicendogli con voce di minaccia:

— Se persistete a mettervi di mezzo, vi faccio arrestare. Lei non
desidera parlare con voi, e la vostra insistenza è insultante.

— Se persistete a mettervi di mezzo, sarete costretto infatti a
chiamare una guardia, e il vostro nome comparirà sui giornali. —
rispose Martin, con lo stesso tono. — E ora, lasciatemi passare e
chiamate la guardia, se credete. Io voglio parlare con Ruth.

— Voglio avere una risposta dalla vostra bocca, — le disse lui.

Lei era pallida e tremante, ma si dominò e lo guardò con aria
interrogativa.

— La risposta alla domanda che vi ho rivolto nella lettera.

Lei scosse il capo negativamente.

— Agite per vostra decisa volontà? — insistè Martin.

— Di volontà mia, — fece lei, con voce bassa e ferma, senza esitazione.
— Voi mi avete umiliata a tal punto che ho vergogna di rivedere i miei
amici. Tutti parlano di me, lo so. Non posso dirvi altro, se non che
m’avete resa molto infelice, e spero di non rivedervi mai più.

— I vostri amici! Pettegolezzi! Falsi resoconti di giornali!... Ma
l’amore è più forte di tutte queste cose futili, io credo! Oppure, non
mi avete mai amato.

Un vivo rossore le colorì il viso pallido.

— Dopo tutto quanto è successo? — diss’ella con voce fioca. — Martin,
non sapete ciò che dite; io non ho un animo volgare.

— Vedete dunque che lei non vuol saperne di voi, — lanciò Norman,
trascinando via sua sorella.

Martin si scostò per lasciarli passare, e con gesto inconscio si frugò
in tasca per cercarvi tabacco e carta da sigarette, che non c’erano.
Ritornò a casa come un sonnambulo, sedette sulla sponda del letto
e girò attorno uno sguardo vago. Poi, scorto ch’ebbe «Troppo tardi»
sparso sulla tavola, sedette e prese la penna. Per istinto, egli non
poteva tollerare una cosa incompiuta, e quel lavoro era incompiuto.
Finito oramai l’essenziale della sua vita, egli si rimetteva al lavoro,
per portarlo a termine. Dopo, si sarebbe visto il da fare. Egli non
sapeva; sapeva soltanto di essere a un punto critico, a una svolta
della sua vita, ch’egli stava per prendere al laccio, incerto della
direzione.

L’avvenire ormai non l’interessava più; avrebbe visto in breve ciò che
gli era riservato; ma la cosa non aveva alcuna importanza: nulla aveva
più importanza, ormai.

Durante cinque giorni egli s’affaticò intorno a «Troppo tardi», non
andando in nessun luogo, non vedendo nessuno, mangiando appena. Il
sesto giorno, la mattina, il portalettere gli consegnò una lettera
dell’editore del «Partenone». «Effimero» era accettato. «Abbiamo
sottoposto il poema all’esame del signor Cartwright Bruce, — diceva
l’editore, — che l’ha giudicato favorevolmente, con tanto calore, che
non possiamo non accettarlo. Lo pubblicheremo dunque nel nostro numero
di Agosto, essendo già composto quello di Luglio. Trasmettete i nostri
ringraziamenti e l’espressione della nostra gratitudine al signor
Brissenden, e mandateci, in cambio, la sua fotografia e biografia. Se
il nostro compenso non gli dovesse sembrare sufficiente, telegrafateci
subito la somma che vi sembra accettabile.»

Il compenso offerto era di milleottocento lire, cosicchè Martin giudicò
che era inutile telegrafare; bisognava però ottenere il consenso
di Brissenden. Ebbene! aveva avuto ragione, in fondo! C’era almeno
un’editore di rivista illustrata che s’intendeva di vera poesia. Ora,
anche se «Effimero» era il poema del secolo, il prezzo offerto era
magnifico. Quanto a Cartwright Bruce, Martin ricordò il solo critico
pel quale Brissenden avesse un certo rispetto.

Martin scese in città col tranvai, e mentre guardava distrattamente
le case e le vie che sfilavano oltre i vetri, si rammaricava di non
sentire tutta la contentezza che avrebbe dovuto pel trionfo del suo
amico e di quanto aveva previsto personalmente. Ma la fonte del suo
entusiasmo sembrava inaridita, e l’impazienza di vedere Brissenden
era più forte del piacere di portargli buone notizie. Durante i cinque
giorni di lavoro dedicati a «Troppo tardi», non aveva udito parlare di
Brissenden e non aveva neppure pensato a lui. Per la prima volta Martin
s’accorse come si fosse assorto, e si vergognò d’aver dimenticato il
suo amico. Ma persino la sua vergogna mancava di fervore; egli viveva
in una specie d’aura ipnotica, insensibile a tutto ciò che non fosse
«Troppo tardi». In quello stesso tranvai, tutto ciò che lo circondava
sembrava irreale, lontano: al punto che se la grande cupola della
chiesa che il tranvai oltrepassava gli fosse caduta a pezzi sulla
testa, egli ne avrebbe risentito una lieve emozione.

Giunto all’albergo, egli corse alla camera di Brissenden, ma ne
ridiscese di corsa; la camera era vuota, senza traccia di bauli.

— Il signor Brissenden, non ha lasciato l’indirizzo? — domandò
all’impiegato che lo guardava con curiosità.

— Come? non sa?

Martin fece segno di no.

— Ma i giornali non hanno parlato d’altro!... Lo hanno trovato morto
nel letto; s’è sparato un colpo di rivoltella nella testa.

— Lo hanno seppellito già? — domandò Martin, con una voce strana, che
non gli parve la sua.

— No, dopo le indagini, il corpo è stato mandato nell’est. Se ne sono
occupati gli uomini d’affari della famiglia.

— Hanno fatto alla svelta, mi sembra.

— Le pare? È successo cinque giorni fa.

— Cinque giorni fa?

— Sì, cinque giorni.

— Ah! — disse Martin, e, fatto mezzo giro, uscì. Si fermò nel prossimo
ufficio telegrafico, per mandare un telegramma al _Partenone_,
pregandolo di pubblicare il poema. Poichè aveva in tasca solo sei
soldi, mandò il telegramma con porto assegnato. Ritornato a casa, si
rimise al lavoro. Passavano i giorni, passavano le notti senza ch’egli
abbandonasse il tavolino. Usciva solo per andare al Monte di Pietà,
mangiava quando aveva fame, e roba da mangiare, e quando non aveva
nulla, rinunziava. L’opera era composta, capitolo per capitolo, ma egli
vi aggiunse una prefazione di duemila parole, che la rese più potente.
Non era spinto dalla voglia di fare cosa perfetta, ma costretto in
certo qual modo dal suo senso artistico. Lavorava come in sogno,
stranamente distaccato da tutto ciò che lo circondava, come un fantasma
trattenuto da una specie d’incanto sui luoghi della sua vita anteriore.
Un fantasma è l’anima d’un morto che non sa d’essere morto, — gli
avevano detto un giorno, ed egli si domandava se non fosse morto, per
caso, senz’accorgersene.

Finalmente «Troppo tardi» fu compiuto. Il commerciante di macchine
da scrivere ero venuto a riprendersi la macchina, e sedeva sul
letto, mentre Martin, sull’unica sedia, copiava le ultime pagine del
manoscritto.

— _Fine_ — scrisse in lettere maiuscole, e davvero quella parola aveva
un significato profondo per lui. Egli vide sparire l’impiegato che
portava con sè la macchina, con un senso di liberazione; poi si stese
sul letto. La testa gli girava, dalla fame. Da trentasei ore, infatti,
non mangiava, ma egli non pensava neppure a questo: disteso sul dorso,
con gli occhi chiusi, non pensava a nulla, invaso da un torpore che
cresceva, tra incubo e delirio. Si mise a recitare ad alta voce i versi
d’un poeta anonimo, che Brissenden recitava con piacere. Maria, che
l’ascoltava in ansia, dietro la porta, fu colpita dal tono monotono di
quella specie di litania, di cui non comprese il senso.

«È finita» era il titolo del poema.

    _È finita,_
    _ora taci, o lïuto._
    _Canzoni e canti del tempo perduto,_
      _canzoni e canti_
    _son passati come ombre vaganti_
    _fra trifogli di vivo incarnato._
      _È finita,_
      _ora taci, o lïuto._
    _Cantavo un tempo come a primavera_
    _l’allodola tra cespi di rugiada,_
      _ed oggi sono muto,_
    _simile ad un fringuello affaticato._
    _La gola ogni canto ha perduto._
    _È finita,_
    _ora taci, o lïuto._

Maria non resse più, e corse in cucina a riempire una ciotola di
minestra, con tutti i pezzi di carne e di legumi che il cucchiaio potè
raccogliere dal fondo della pentola. Martin si raddrizzò e cominciò a
mangiare, assicurando a Maria, tra un boccone e l’altro, che non aveva
delirato e che non aveva febbre.

Quando lei l’ebbe lasciato, egli rimase seduto sulla sponda del letto,
con gli occhi tetri e vaghi, sino al momento in cui lo sguardo gli si
posò sulla fascetta lacerata d’una rivista giunta la mattina e ch’egli
non aveva aperta, e un lampo gli attraversò il cervello assopito.

— È _Il Partenone_, si disse, — _Il Partenone_ del mese di Agosto, che
contiene certamente «Effimero». Se il mio povero Brissenden potesse
vedere questo!

Appena ebbe sfogliato la rivista illustrata, ecco apparire «Effimero»
adorno d’un magnifico «cappello» che lo precedeva e d’illustrazioni
del genere di Beardsley, in margine. A un lato del «cappello» era
la fotografia di Brissenden; dall’altro quella di Sir John Value,
ambasciatore di Gran Bretagna. Precedeva una nota redazionale, nella
quale era citata una frase di Sir John Value che dichiarava come non vi
fossero poeti in America; la pubblicazione di «Effimero» era quindi una
risposta alla bolla di Sir John Value! Cartwright vi appariva come il
più grande critico d’America, e veniva citato il brano dove egli aveva
dichiarato che «Effimero» era il più grande poema che fosse stato mai
scritto in America. La prefazione della redazione finiva così: «Noi non
abbiamo potuto ancora valutare «Effimero» come merita; forse non sarà
mai possibile. Ma l’abbiamo riletto più volte, ammirandone le idee e la
forma meravigliosa.» Seguiva il poema.

— Briss, vecchio mio, avete fatto bene a morire. — mormorò Martin
lasciando cadere la rivista illustrata. La volgarità, la banalità,
che ne sprigionavano erano scoraggianti, ma nel suo stato di apatìa,
egli osservò come il suo disgusto fosse superficiale. Avrebbe voluto
adirarsi, ma non poteva, non se ne sentiva la forza: come un fiume
gelato, il suo sangue non riusciva a spezzare il ghiaccio che pesava
sulla sua indignazione interiore. In fondo, che cosa importava tutto
ciò? era bene intonato alla società borghese che Brissenden odiava
tanto.

— Povero Bris! — prosegui Martin: — non me lo avrebbe mai perdonato.
— S’alzò con uno sforzo di volontà e aprì una scatola che usava un
tempo per riporvi della carta da scrivere a macchina. Ne trasse fuori
undici poemi che il suo amico aveva scritti e li lacerò in parecchi
pezzi che gettò poi nel paniere. Egli compì questi gesti languidamente,
poi, quand’ebbe finito, sedette sulla sponda del letto, e ricominciò a
fissare il vuoto.

Non seppe quanto tempo rimanesse così. A un tratto, sullo schermo vago
della mente, egli vide formarsi una lunga linea bianca, orizzontale,
strana, che si precisò e divenne una catena di banchi di corallo,
frustata dalle spumeggianti ondate del Pacifico. Poi, nella linea degli
scogli, egli distinse una piroga. Indietro, un giovane dio di bronzo,
dal perizoma scarlatto, remava, e la pagaia sgocciolante luceva al
sole. Egli lo riconobbe: era Moti, il più giovane figlio di Toti, il
gran capo; lì era Tahiti, e di là, da quella bianca linea di scogliere
fioriva la dolce laguna; all’imboccatura del fiume era nascosta la
capanna di fogliame del gran capo. Cadeva il crepuscolo: Moti rientrava
dalla pesca. Egli attese il balzo dell’ondata che l’avrebbe portato al
disopra dei banchi.

... Poi vide se stesso, seduto sul davanti della piroga, come aveva
fatto tante volte un tempo, con la pagaia in mano, in attesa del grido
breve di Moti, per immergerla violentemente nel gran muro d’acqua
turchese, nel momento in cui s’innalzasse dietro di loro. L’acqua
sibilava sotto la prua, con un getto di vapore, e ricadeva in pioggia
attorno a loro. Un urto, un rombo, un sordo ruggito come di tuono, e la
piroga ondeggiava sulla calma laguna turchina. Moti rideva, scuoteva
le goccioline salate, dalle sue ciglia, e tutt’e due remavano insieme
verso la spiaggia corallina. Attraverso le palme dei datteri, i muri
di verzura di Toti si doravano al tramonto. La visione si spense,
e davanti ai suoi occhi, ridiventati lucidi, apparve in mostra il
disordine della sua misera cameretta. Invano, egli tentò d’evocare
Tahiti: egli sapeva che c’erano delle canzoni fra i datteri e che le
ragazze ballavano al lume della luna, ma non riusciva a vederle. Non
vide altro che la tavola in disordine, il posto vuoto della macchina
da scrivere e il vetro ingrassato. Con un gemito, chiuse gli occhi e
s’addormentò!




CAPITOLO XL.


Dormì d’un sonno pesante tutta la notte; la mattina fu svegliato dal
postino. Martin, stanco e senza slancio, diede uno sguardo indolente
alle lettere. Una rivista illustrata, alla quale chiedeva da un anno
il compenso che gli spettava, gli mandava 110 lire, ch’egli segnò
sul libro dei suoi conti, senza alcuna gioia. Era passata la gioia
febbrile dei primi _chèques_ ricevuti; era finito il tempo delle grandi
speranze. Ora, riceveva uno _chèque_ di centodieci lire per mangiare,
non altro. Con la stessa posta, un settimanale di New York gli mandava
uno _chèque_ di cinquanta lire, quale compenso di versi umoristici
pubblicati parecchi mesi prima. Ebbe un’idea, che egli considerò con
attenzione: poichè non sapeva che cosa avrebbe fatto, e non aveva
desiderio di fare checchessia, e, d’altra parte bisognava vivere e
pagare i numerosi debiti, non sarebbe stato un buon tentativo quello di
affrancare tutto il mucchio di manoscritti accumulati sotto la tavola,
mandandoli nuovamente in giro pel mondo? Ne avrebbero accettato forse
uno o due... così avrebbe potuto vivere.

Dopo aver riscosso gli _chèques_ alla Banca d’Oakland, comperò
cinquanta lire di francobolli, poi pensò alla colazione; ma il pensiero
di dover tornare a cucinarsi il pasto nella cameretta ingombra, gli
ripugnava, sebbene così facesse una seria economia. Andò dunque al
caffè del Foro, ordinò una colazione da dieci lire, diede due lire di
mancia al cameriere e comperò un pacchetto di sigarette egiziane da
lire due e cinquanta. Era quella la prima volta che fumava, dacchè Ruth
lo aveva pregato di non farlo più. Ma, a che scopo, ora, rinunziare a
quel piacere? con dieci soldi, evidentemente, avrebbe potuto comperare
un pacchetto di Durham, e della carta da sigarette, in modo da fare
quaranta sigarette; ma perchè poi? il danaro non era altro, per lui,
che un mezzo per soddisfare un desiderio momentaneo. Senza bussola,
senza remo, senza porto all’orizzonte, egli s’abbandonava alla deriva,
senza lottare ulteriormente, giacchè lottare significa vivere, e vivere
soffrire.

I giorni passavano; egli dormiva regolarmente otto ore ogni notte, e
sebbene consumasse i pasti, in attesa di nuovi _chèques_, in trattorie
giapponesi dove spendeva dieci soldi, pure, incominciava a rimetter
carne e a riempire le guance infossate. Non s’estenuava più, ora,
privandosi di sonno e lavorando troppo; non scriveva più, non apriva un
libro, girava molto per i campi, e vagabondava per ore e ore nei parchi
tranquilli. Non aveva nè amici, nè conoscenti, e non cercava neppure di
farsene, non pigliava gusto a nulla. Attendeva che un impulso nuovo,
— di dove?... non sapeva nulla — gli riordinasse la vita. E i giorni
passavano, vuoti, piatti, senza interesse.

Talvolta, egli sfogliava giornali e riviste, per vedere sino a
qual punto «Effimero» fosse stato maltrattato. Era un successo,
naturalmente; ma quale successo! Tutti leggevano il poema e tutti
discutevano, per sapere se si trattasse o no di vera poesia. I giornali
locali se ne erano impadroniti, e pubblicavano tutti i giorni colonne
intere di dotte critiche e di lettere di lettori convintissimi.

Elena Della Delmar, proclamata, con l’aiuto d’una gran _réclame_
e spinte, la più notevole poetessa degli Stati Uniti, rifiutava
assolutamente a Brissenden un seggio in Parnaso, a lato a lei, e si
sforzava di provare in tutti i giornali com’egli non avesse nulla del
poeta.

Il numero seguente del _Partenone_ conteneva abbondanti
congratulazioni, fatte a se stesso pel movimento suscitato, faceva
della ironia su Sir John Value e sfruttava la morte di Brissenden
nel modo più sfacciato. Un giornale che aveva una tiratura di
cinquecentomila copie pubblicò un poema inedito di Elena Della Delmar,
nel quale lei scherzava su Brissenden; in un altro, lo parodiava.

Parecchie volte, Martin dovette riconoscere che il suo amico aveva
fatto bene a morire. Egli odiava tanto la folla, ed ecco che tutto ciò
ch’egli aveva di più sacro e di più alto in sè, diventava pasto della
folla. Tutti i giorni la vivisezione della Bellezza continuava: persino
gl’infimi scribacchini s’aggrappavano alla coda del Pegaso che portava
Brissenden, per aver modo, così, di farsi distinguere davanti al
pubblico.

Un giornale scriveva: «Riceviamo proprio ora la lettera di uno che
scrisse un poema quasi simile — ma molto superiore — poco tempo fa». Un
altro giornale, con imperturbabile serietà, biasimava la parodia della
signorina Delmar, e aggiungeva:

«Evidentemente, la signorina Delmar ha scritto per celia, ma ha
dimenticato il rispetto che un grande poeta deve sentire per un
altro poeta, specialmente quando costui è forse più grande di tutti.
Però, sia o non sia gelosa la signorina Delmar di colui che scrisse
«Effimero», il certo è che non può non rimanere impressionata da questa
opera, come tutti, e che verrà un giorno in cui, senza dubbio, lei si
sforzerà di emularlo».

Dei pastori tuonavano dal pulpito contro l’_Effimero_; il solo che ne
prese le difese fu espulso come eretico. Il gran poema fu anche una
fonte enorme di allegria. I versaioli umoristici, i caricaturisti,
se ne impadronirono e se lo godettero a piacere; esso fu fonte
inesauribile di scherzi d’ogni genere. Così Charles Frenshan confidava
ad Archia Jennings, col vincolo del segreto, che cinque righe
dell’_Effimero_ davano ad un uomo il ballo di San Vito, e che dopo
dieci righe, al disgraziato non rimaneva altro che annegarsi.

Martin, nè rideva, nè digrignava i denti; era profondamente rattristato
da tutto ciò. Rispetto alla caduta del suo ideale, di cui l’amore era
la mèta radiosa, lo svanire delle sue illusioni circa i letterati
e il pubblico era poca cosa, in verità. Brissenden aveva avuto
ragione, mille volte ragione, ed egli, Martin, aveva perduto in un
lavoro stupido, da forsennato, parecchi anni della sua giovinezza
per scoprire a sua volta, che le riviste illustrate, le riviste
letterarie, i giornali, non erano altro che bassa _réclame_, snobismo
e vile traffico: ebbene, era finita! si diceva per consolarsi. Partito
diritto per volare verso una stella, egli era naufragato in un pantano
pestilenziale.

Sovente, gli si ripresentavano alla mente visioni di Tahiti, della
chiara e dolce Tahiti, e anche di Paumotu, e delle montagnose Marchesi.
Egli si vedeva spesso a bordo d’uno _schooner_ mercantile o di un
fragile trabaccolo che scivolava all’alba tra gli _atolls_ cosparsi di
ostriche perlifere, sino a Nuka-Hiva e al golfo di Taiohae.

Là, Tamari — lo sapeva — avrebbe ucciso un maiale per fargli onore,
e le sue figlie dai capelli fioriti l’avrebbero preso per mano e,
fra canti e risa, incoronato di fiori. I mari del Sud lo chiamavano,
ed egli sapeva che un giorno o l’altro avrebbe risposto al richiamo.
Intanto, egli girava a caso, si riposava, si stendeva, dopo un lungo
viaggio nel paese della scienza. Quando il _Partenone_ gli mandò lo
_chèque_ di milleottocento lire, egli lo rispedì al notaio della
famiglia di Brissenden, e se ne fece dare ricevuta, poi firmò un
biglietto di riconoscimento del prestito di 500 lire, che Brissenden
gli aveva dato.

In breve, Martin cessò di frequentare le bettole giapponesi. Quando
proprio stava per abbandonar la lotta, ecco che la fortuna gli si
mostrava favorevole, — troppo tardi —. Senza il minimo fremito di
piacere, egli aprì una busta mandatagli dal _Millennio_, ne trasse
uno _chèque_ di millecinquecento lire, e vide che si trattava de
«L’avventura».

Quand’ebbe pagato tutti i debiti e restituite le 500 lire di Brissenden
al notaio, rimase con 500 lire. Ordinò allora un vestito nuovo, e prese
i pasti nelle migliori trattorie. Dormiva sempre nella cameretta in
casa di Maria; senonchè, vedendo il suo vestito nuovo, i monelli del
vicinato cessarono di chiamarlo «vagabondo» e «buono a nulla», nascosti
dietro gli steccati, o appollaiati sui tetti delle casupole.

Il _Warren’s Monthly_ gli prese «Wiki-Wiki», la novella hawaiana, per
un compenso di 1250 lire; la _Rivista del Nord_ gli pubblicò il saggio
«La Culla della Bellezza» e il _Makintosh’s Magazine_, la «Chiromante»,
il famoso poema scritto per Marianna.

Editori e lettori erano ritornati dalle vacanze, e gli affari andavano
bene. Ma Martin non riusciva a capire per quale strano capriccio tutto
ciò che era stato ostinatamente rifiutato durante due anni, gli venisse
ora accettalo di colpo. Egli non aveva pubblicato nulla; fuori di
Oakland nessuno lo conosceva, e a Oakland quella poca gente che credeva
di conoscerlo, lo considerava come un noto anarchico. Nulla spiegava
dunque quel ricredimento improvviso, che era dunque un capriccio del
destino.

Poichè «La Vergogna del Sole» era stata rifiutata da un buon numero di
riviste, egli finì col seguire il consiglio di Brissenden, e si mise
in cerca di una Casa Editrice. Dopo aver sopportato parecchi rifiuti,
Singletree, Darnley e C. lo accettarono, promettendo di pubblicarlo
integralmente. Senonchè, quando Martin chiese un anticipo, essi
risposero che per principio non ne davano; che non solo i libri del
genere di rado rifondevano le spese, ma che essi dubitavano di poterne
vendere più di mille copie.

Martin calcolò che se così stavano le cose, poichè il libro era venduto
a 5 lire la copia, col 15%, avrebbe avuto settecentocinquanta lire, e
si rammaricò di non essersi specializzato nel romanzo. «L’avventura»,
infatti, che era poco più lunga, gli aveva procurato il doppio.

In fondo, il famoso avviso del giornale, letto un tempo, diceva il
vero: le riviste illustrate di prim’ordine pagavano anticipatamente
e pagavano bene, tanto che il _Millennio_ gli aveva dato, non due ma
quattro soldi per parola. Essi prendevano il meglio della letteratura;
non prendevano infatti la sua?

Scrisse a Singletree, Darnley e C. offrendo loro la cessione dei suoi
diritti d’autore su «La Vergogna del Sole», mediante compenso di 500
lire; ma essi non osarono assumere quel rischio. Egli non aveva bisogno
di denaro in quel momento, giacchè parecchi dei suoi primi lavori erano
stati accettati e pagati subito. Dopo aver pagato i suoi primi debiti,
egli fece persino aprire un conto corrente in banca, d’un migliaio di
lire. «Troppo tardi», che era stato rifiutato parecchie volte, riuscì
a collocarsi presso la Casa Meredith Lowel. Allora Martin si ricordò
delle venti lire dategli da Geltrude un giorno e della promessa di
restituirgliele centuplicate. Chiese perciò un anticipo di 2000 lire,
e, con sua grande sorpresa, l’editore gli mandò subito lo _chèque_, con
un contratto, da rimandare a rigor di posta. Egli cambiò lo _chèque_ in
monete d’oro e telefonò a Geltrude che aveva bisogno di vederla.

Lei giunse, ansante, trafelata, per essersi sbrigata in fretta. Certa
che Martin dovesse trovarsi in mezzo a guai, aveva ficcato nella sua
borsa qualche suo risparmio. Era così convinta d’una disgrazia, che gli
si precipitò fra le braccia singhiozzando, mentre gli porgeva la borsa.

— Sarei venuto volentieri da te, — disse lui, — ma mi dava fastidio il
pensare a una inevitabile scenata col signor Higgingbotham.

— Si calmerà certamente, un giorno, — assicurò lei, mentre si domandava
che diamine fosse accaduto a Martin. — Ma tu faresti meglio a trovare
un impiego, prima di tutto; un’occupazione seria. Bernardo stima un
onesto lavoratore. Quella faccenda dei giornali lo ha sconvolto; non
l’ho visto mai così inferocito.

— Io non cercherò impieghi, — disse Martin con un sorriso. — Puoi
dirglielo da parte mia. Non ho bisogno d’impieghi, ed ecco qua la
prova. — E le quaranta monete d’oro si sparpagliarono sulle ginocchia
di Geltrude con un chiaro tintinnìo.

— Ricordi il luigi che mi hai dato un giorno in cui non avevo da pagare
il biglietto del tranvai? Ebbene, te lo restituisco, con novantanove
piccoli fratelli, diversi per età, ma della stessa grandezza.

Geltrude aveva paura, quando giunse, ma ora era atterrita; i suoi
sospetti, giustificati, diventarono certezza. Essa guardò Martin con
occhi pieni d’orrore e sussultò al contatto dell’oro, come se fosse
ferro arroventato.

— Sono tuoi! — diss’egli ridendo.

Lei incominciò a singhiozzare e gemere con voce strozzata: — Povero
figlio, povero figlio!...

Là per là Martin rimase perplesso; poi, indovinando la causa del suo
sconcerto, le porse la lettera di Meredith-Lowell, che accompagnava
lo _chèque_. Essa lesse avidamente, asciugandosi le lacrime, e domandò
quand’ebbe finito:

— E questo vuol dire che tu hai guadagnato onestamente questo danaro?

— Molto più onestamente che al giuoco; l’ho guadagnato col mio lavoro.

Essa riacquistò un po’ di fiducia, e rilesse attentamente la lettera.

Martin dovette stentare un po’ a spiegarle come quel danaro gli fosse
venuto, e ancor di più, per farle capire che glielo regalava veramente
e non ne aveva personalmente alcun bisogno.

— Te lo deposito in una banca, — disse lei infine.

— Tu non farai niente di tutto questo; il danaro è tuo; spendilo come
ti piace; se non lo vuoi lo darò a Maria, che saprà farne buon uso, te
l’assicuro. Intanto provvedi a procurarti una serva e a goderti un buon
riposo.

— Racconterò tutto questo a Bernardo, — dichiarò lei andandosene.

Martin fece una smorfia ironica e disse: — Fa’ così. Forse allora
m’inviterà nuovamente a pranzo.

— Ma sicuro che t’inviterà, ne sono sicura e certa! — esclamò lei
abbracciandolo con fervore.




CAPITOLO XLI.


Un bel giorno, Martin si sentì solo, vigoroso com’era, in buona salute
e inattivo. La cessazione d’ogni lavoro, la morte di Brissenden, la
rottura della relazione con Ruth avevano lasciato un gran vuoto nella
sua vita. Certamente non era sufficiente per lui mangiare in una buona
trattoria e fumare delle sigarette egiziane. Il mare lo chiamava,
è vero, ma gli pareva che gli rimanesse ancora qualche cosa da fare
negli Stati Uniti, e che potesse ricavarne altro danaro. Avrebbe atteso
dunque per farne una buona provvista da portare laggiù. Alle Isole
Marchesi, conosceva una vallata e una baia che si potevano avere per
mille dollari cileni; la vallata si stendeva dalla baia in forma di
ferro di cavallo, sino ai picchi lontani le cui cime si perdono nelle
nuvole, per un’ampiezza di circa mille chilometri quadrati.

Essa era piena dei frutti dei tropici, di galline selvatiche, di
cinghiali, e anche di bestiame selvaggio, e sulle alture passavano
branchi di capre cacciate da bande di cani selvaggi. Tutto il luogo era
selvaggio, non abitato da creatura umana. Egli poteva averlo per mille
dollari cileni. La baia, — lo ricordava benissimo, — era magnifica, con
una pesca d’acqua sufficiente alle navi più grosse e così sicura, che
la Società del Pacifico la raccomandava come la migliore a cento leghe
in giro. Egli avrebbe comperato uno di quegli _schooners_ accomodati a
_yacht_, carenati di rame, che filano come il diavolo, e avrebbe fatto
commercio di perle attorno alle isole. La vallata sarebbe stata il suo
quartiere generale; là avrebbe costruito una casa di verzura, simile a
quella di Toti, e si sarebbe fatto servire da negri. Il direttore della
fattoria di Taiohae, i capitani di bastimenti mercantili, tutto il
fior fiore dei pirati del Pacifico, sarebbero suoi ospiti. Egli sarebbe
ospitale con tutti, riceverebbe come un sovrano e dimenticherebbe tutto
ciò che aveva letto e il mondo che lo aveva così amaramente deluso.

Ma per fare tutto ciò, bisognava rimanere in California il tempo
necessario per riempire la cassa. Già, giornalmente, il danaro
arrivava a fiotti, che aumentavano. Bastava che uno solo dei suoi
libri avesse avuto successo, e il valore di tutti i suoi manoscritti
sarebbe cresciuto. Egli poteva anche raccogliere novelle e poemi in
volumi e assicurarsi in breve l’acquisto della vallata, della baia e
dello _schooner_. Poi non avrebbe scritto mai più. In attesa, intanto
bisognava scuotere quell’apatia normale e vivere in modo meno stupido e
meno abbrutito che non facesse lui in quel momento.

Una mattina di domenica seppe che la scampagnata dei Fornaciai avveniva
quel giorno allo Shell Mound Park, e vi andò. Egli aveva troppo spesso
frequentato una volta quei divertimenti popolari, per non conoscerne i
minimi aspetti, così che, appena entrato, risentì tutte le sensazioni
d’una volta, ampliate. In fondo, quello era il suo ambiente! Egli era
nato là in mezzo, vi era cresciuto e benchè se ne fosse volontariamente
allontanato, gli piaceva ritrovarcisi.

— Vorrei essere impiccato se quello lì non è Mart!... — disse una voce,
e una mano cordiale gli battè sulla spalla. — Dove sei stato durante
tutto questo tempo? Hai navigato? Vieni a bere un bicchiere!

Ritrovò tutta la sua banda, la sua banda d’una volta, tranne qualcuno
che mancava e qualche faccia nuova. Non erano affatto dei fornaciai,
ma come un tempo, frequentavano i ritrovi della domenica, per il ballo,
le lotte ed il divertimento. Martin bevve in loro compagnia e si sentì
rivivere. Quale follia averli lasciati! — riflettè; certo, sarebbe
stato mille volte più felice se fosse rimasto fra loro, senza libri,
senza cultura, senza alte relazioni. Eppure, la birra gli sembrava
meno buona d’una volta; Brissenden gli aveva guastato le bevande a buon
mercato; i libri gli avrebbero anche guastato i compagni di gioventù?
Egli non volle riflettere a queste cose, e si diresse verso la sala da
ballo, dove incontrò Jimmy, il piombatore, in compagnia d’una biondona
che lo lasciò immediatamente per Martin.

— Bah! è come una volta! — dichiarò Jimmy alla compagnia che lo
pigliava in giro vedendo che Martin e la bionda ballavano con slancio.

— E io me ne infischio un po’! sono troppo contento di rivederlo!
Guardate come balla bene! È meraviglioso! E la capisco, quella ragazza!

Ma Martin rese la bionda a Jimmy, e la banda dei compagni si divertì
a guardare le coppie che giravano come un vortice ridendo e celiando a
gara. Tutti erano contentoni di rivedere Martin. Essi ignoravano tutto
della sua carriera letteraria durante quei lunghi mesi, ma l’amavano
come uomo. Il cuore solitario si adagiò in quel bagno di cordialità;
egli si sentiva come un sovrano ritornato d’esilio.

Così se la godette liberamente, e come al tempo d’una volta, quando
ritornava dal mare, fornito della paga, gettò il denaro a piene mani.
A un certo punto, egli scorse Lizzie Connolly che ballava con un
giovane operaio; poco dopo, facendo il giro della sala egli la ritrovò
seduta a un tavolino, che prendeva dei rinfreschi. Sorpresa e tutta
contenta di rivederlo, lei gli chiese di accompagnarla in giardino,
dove avrebbero potuto parlare senza che la sua voce fosse soffocata dal
frastuono dell’orchestra. Dalle prime parole scambiate egli la sentì
sua. Tutto lo provava: l’orgoglioso abbandono de’ suoi occhi, il dono
carezzevole della persona tesa verso di lui, il modo come lei beveva le
minime parole. Non era più la giovinetta ch’egli aveva conosciuta, ma
una donna, ora; e la sua bellezza non aveva perduto nulla del fascino
selvaggio, il cui ardore sembrava più contenuto, più discreto.

Com’era bella! Dio! com’era bella!... Egli sentiva che bastava che le
dicesse: «Vieni», perchè lei lo seguisse in capo al mondo.

Stava così meditando, quand’ecco, sulla sua testa, un colpo così
formidabile che per poco non lo buttò a terra. Era un magistrale colpo
di pugno assestatogli con tale precipitazione e con tale furore, che
non aveva raggiunto il bersaglio: la mascella di Martin. Il quale
si voltò vacillando e, vedendosi nuovamente il pugno addosso, con
la rapidità d’un bolide, s’abbassò vivacemente. Il colpo passò senza
sfiorarlo neppure, trascinando l’uomo, che girò su se stesso. Martin
lo seguì con un vigoroso _crochet_ di destro, accompagnato dal peso di
tutto il corpo. L’uomo cadde sul fianco, si rialzò di balzo, si lanciò
nuovamente come un forsennato. Martin vide una faccia convulsa dalla
collera e si domandò quale potesse esserne la causa; ma, pur sorpreso
com’era, lo colpì con un formidabile destro, e l’uomo cadde rovescio
indietro, inanimato. Jimmy e la sua banda accorsero verso di essi.

Martin era tutto eccitato e vibrante. Ecco che ritrovava i giorni d’una
volta, con i balli, le lotte e i divertimenti! Pur vigilando con occhio
prudente il suo avversario, egli guardò Lizzie. Di solito, le donne
lanciano delle grida quando accadono di queste cose; ma lei non aveva
gridato: trattenendo il respiro, leggermente curva innanzi, col volto
avvivato, guardava con interesse appassionato e con occhi nei quali
fiammeggiava un’ardente ammirazione.

L’uomo s’era rialzato e si dibatteva fra le mani che cercavano di
trattenerlo.

— Mi aspettava, lei! mi aspettava, lei! — gridava a squarciagola.
— Aspettava che ritornassi, e poi quel ruffiano lì è venuto a
togliermela.

Lasciatemi, vi dico! Lo voglio conciare per le feste!

— Che ti piglia? — disse Jimmy, tenendolo solidamente. — Quel
_ruffiano_ è Martin Eden, e non ha le mani di pasta frolla, t’avverto,
e ti mangia vivo, se lo stuzzichi.

— Io non voglio essere derubato così! — esclamò l’altro.

— Egli ha vinto Flying Dutchman, lo conosci, quello? — proseguì Jimmy,
con tono conciliante. — E in cinque _rounds_. Tu non resisteresti
neppure un minuto contro di lui, sai!

Questa informazione parve produrre un effetto calmante, perchè
l’irascibile giovanotto degnò Martin d’uno sguardo calcolatore.

— Non ha l’aria d’essere così _bravo_, — ghignò poi, diventato già più
calmo.

— Così, appunto, aveva pensato Flying Dutchman, — rispose Jimmy. — Su,
vieni. Non mancano donne. Vieni dunque.

Il giovanotto acconsentì a lasciarsi tirare verso la sala da ballo, e
tutta la banda lo seguì.

— Chi è quello? — disse Martin a Lizzie. — E poi, che diavolo l’ha
preso?

Già, l’eccitazione della lotta, tanto durevole e viva un tempo, era
venuta meno; ed egli sentì che ora analizzava troppo quella vita
proprio primitiva, per poterla vivere con allegria cordiale. Lizzie
fece un gesto d’impazienza.

— Quello lì? un uomo da nulla, — fece lei. — Mi corteggiava. Come
capirete, mi sentivo terribilmente sola. Ma non vi ho dimenticato. —
Lei abbassò la voce guardando diritto davanti a sè. — L’avrei piantato
per voi, in qualunque momento.

Martin lanciò uno sguardo verso la faccia che si voltava; sapeva che
bastava che stendesse la mano per averla, e si domandò se, in fondo,
un linguaggio corretto, perfettamente grammaticale, fosse veramente
indispensabile alla felicità. Poichè egli non rispondeva nulla, lei
aggiunse ridendo: — L’avete conciato ben bene!

— Però è un giovanotto robusto! — concesse egli generosamente. — Se non
l’avessero trascinato fuori, forse non l’avrei domato facilmente.

— Chi era dunque quella signora colla quale vi ho incontrato una sera?
— interrogò lei bruscamente.

— Un’amica, non altro.

— È passato molto tempo da allora, — mormorò lei penosamente. — Mi
sembra che siano passati dei secoli.

Ma Martin cambiò argomento. La condusse al _buffet_, le offrì del vino,
le paste più costose; poi tutt’e due ballarono insieme e seguitarono
finchè lei fu stanca. Egli ballava bene, e lei lo seguiva nel vortice
della danza, appoggiandogli la testa sulla spalla, in una vertigine
d’estasi, ch’essa s’augurava eterna.

Poi andarono a passeggiare sotto gli alberi; e, come aveva fatto tante
volte, egli s’allungò per terra, con la testa sulle ginocchia della
compagna. Egli era semi addormentato, e lei gli accarezzava i capelli
e lo contemplava con adorazione. Alzando a un tratto gli occhi, egli
lesse la tenera conferma su quel volto appassionato, e lei prima
abbassò i suoi, poi lo guardò fisso con audace tenerezza.

— Mi sono guardata, durante tutto questo tempo, — mormorò lei, con voce
così bassa, ch’egli l’udì appena.

E Martin comprese ch’era la verità, la miracolosa verità, e si sentì
il cuore dolcemente tentato. Dipendeva da lui renderla felice; e se la
felicità era stata negata a lui, doveva perciò negarla a quella donna?
Bastava sposarla e condurla laggiù, nel suo palazzo di verzura delle
isole Marchesi. Il desiderio d’agire era forte, ma più forte era in
lui la fedeltà all’amore; finito ormai il tempo dei capricci e degli
abbandoni! Egli era mutato, e ora capiva sino a qual punto.

— Morrò vecchio scapolo, Lizzie, — diss’egli lievemente.

La mano che gli accarezzava i capelli si fermò un momento, poi riprese
il gesto sapiente. Egli vide il volto di lei mutare espressione,
diventar duro come per una risoluzione improvvisa e luminosa.

— Non volevo dir questo, — fece lei, poi s’interruppe. — Comunque,
non ci tengo. Oh! non importa! — ripetè. — Sarò orgogliosa d’essere la
vostra amica. Per voi, farei qualunque cosa.

Martin si raddrizzò e le prese la mano; in quel semplice gesto c’era
una gran franchezza, una calda simpatia, ma così poca passione, che lei
ne rimase gelata.

— Non parliamo di questo, — disse lei.

— Voi siete una nobile donna! — disse Martin. — Io dovrei essere
orgoglioso di conoscervi; e lo sono, Lizzie. Voi siete il raggio di
sole della mia tetra vita, e voglio essere sincero, perciò, come siete
stata voi.

— Che lo siate o no, è lo stesso. Fate di me ciò che volete: potete
gettarmi nel fango e calpestarmi, se vi piace. E sareste il solo,
quanto a questo! — fece lei con aria di sfida. — Non per nulla ho
imparato a difendermi dacchè ero piccola!

— E perciò non lo farò, — diss’egli con dolcezza. — Voi siete così
retta, così generosamente fiduciosa, che voglio trattarvi come
meritate. Non voglio ammogliarmi, e... non voglio amare senza sposare.
Una volta non era così; si cambia. Mi dispiace d’essere venuto qui,
oggi, e d’avervi incontrata; ma che farci, ormai? Veramente io non
immaginavo che le cose dovessero finire così! Ma, Lizzie, sentite:
io non so dirvi quanta amicizia senta per voi; v’è di più, anzi: vi
ammiro e vi rispetto. Voi siete ammirevole e adorabilmente buona. Ma, a
che scopo tutto ciò?... Intanto, vorrei fare qualche cosa per voi; la
vostra vita non è stata facile sinora; permettete che l’agevoli. (Un
lampo di gioia attraversò i suoi occhi, poi si spense). Io sono quasi
sicuro d’aver fra breve un bel po’ di danaro, molto danaro.

Egli abbandonava il sogno tanto accarezzato della vallata laggiù, del
palazzo di verdura e del bel yacht bianco. In fondo, che importava
tutto ciò? Egli se ne sarebbe andato come tante altre volte, su una
nave qualunque, in un luogo qualunque.

— Bisognerà parlare di questo, insieme. Voi avete desiderio di
qualche cosa, no? di istruirvi, per esempio? Non vi piacerebbe essere
stenografa? Penserei io a questo. Forse i vostri genitori sono ancora
viventi? Potrei metterli in una drogheria o in altro negozio del
genere. Dite ciò che vi piacerebbe, qualunque cosa, e l’avrete.

Lei non rispose nulla; con gli occhi fissi, immobili, rimaneva
apparentemente insensibile; ma Martin sentiva che soffriva, e in un
modo tale che egli ne soffrì e si pentì di averle parlato.

Ciò che le aveva offerto, del danaro, così volgarmente, sembrava tanto
meschino a paragone di ciò che gli offriva lei. Egli le offriva una
cosa estranea, alla quale lei non teneva, mentre lei gli offriva tutta
se stessa, col suo fardello di vergogna, di sacrificio e di peccato.

— Non parliamo di questo, — disse lei finalmente con un singhiozzo
ch’essa coprì con un colpettino di tosse. Poi, alzandosi: — Andiamo,
venite, mi sento stanca morta.

La festa era terminata, e la gioventù s’era in gran parte dispersa.
Ma quando Martin e Lizzie lasciarono l’ombra degli alberi, trovarono
la banda dei compagni, che li aspettava. Martin capì immediatamente il
perchè: c’era odor di battaglia nell’aria, e la banda gli si offriva a
guardia del corpo. Essi varcarono il cancello del parco, seguiti a una
certa distanza dall’altra banda, quella degli amici che l’innamorato
respinto di Lizzie aveva adunati, per vendicarlo della perdita della
propria dama. Alcune guardie, temendo risse, cercarono di impedirle,
spingendo i due gruppi separatamente verso il tranvai di San Francisco.

Martin dichiarò a Jimmy che sarebbe sceso alla stazione della 16ª
strada per prendere il tranvai elettrico di Oakland.

Lizzie, calmissima, pareva che non s’interessasse punto di quanto
si stava tramando. Allorchè si fermò alla stazione che s’è detto, il
tranvai era lì, pronto a partire, col manovratore che faceva risuonare,
impazientemente, la campanella.

— Eccola! — consigliò Jimmy. — Corri! pigliala su! Intanto noi lo
tratterremo. Su, va’! Spicciati!

Questa manovra sconcertò la banda avversaria, per un momento; poi, essa
si lanciò all’inseguimento del tranvai. I bravi borghesi d’Oakland che
s’affollavano sul tranvai osservarono appena il giovanotto e la giovane
che s’erano affrettati a salire e s’erano seduti davanti, all’esterno.
Essi non istabilirono alcun rapporto fra questa coppia e Jimmy che,
saltando sul marciapiede, gridò al conduttore:

— Via vecchio! lasciali tutti giù.

Nello stesso tempo Jimmy fece una piroetta su se stesso, e i
viaggiatori lo videro che assestava un pugno sulla faccia d’un uomo
che tentava di salire sulla vettura. E da ogni parte calarono pugni
sulle facce. Era la banda di Jimmy, che, proteggendo l’accesso al
tranvai, riceveva l’assalto della banda nemica. Poi il tranvai partì
velocemente, scampanellando con grande fracasso, abbandonando i
combattenti; e i viaggiatori, stupiti, non indovinarono mai che il
tranquillo giovanotto e la graziosa operaia seduti in un cantuccio,
all’esterno, erano la causa di tutta quella confusione. Quella
confusione aveva divertito Martin; gli aveva fatto risentire un
po’ della febbre combattiva d’un tempo, che però venne subito meno,
lasciando il posto a una grande tristezza, che l’oppresse. Egli si
sentì ad un tratto più invecchiato, molto più invecchiato dei suoi
incuranti compagni del passato. Egli s’era allontanato di troppo, per
poter ritornare al loro modo di vivere, che un giorno era stato anche
suo e ora gli dispiaceva. Tutto gli dava fastidio; era diventato un
estraneo. Come la birra, che gli sembrava aspra, così anche la loro
compagnia gli sembrava grossolana.

Egli s’era troppo evoluto; troppi libri aperti li separavano. Aveva
fatto un viaggio così lungo nel paese dell’intelligenza, che non
riusciva più a trovare la strada del ritorno. D’altra parte, il suo
bisogno umano di avere dei compagni rimaneva insoddisfatto. Egli
non aveva potuto formarsi un nuovo focolare. Come i suoi compagni
d’una volta non potevano comprenderlo, e neppure la sua famiglia,
nè la borghesia, così anche quella ragazza seduta accanto a lui e
ch’egli stimava con tutto il cuore, era incapace di comprenderlo, di
comprendere lui e il sentimento ch’egli nutriva per lei. Riflettendovi,
la sua tristezza diventava piena d’amarezza.

— Rappaciatevi con lui, — consigliò a Lizzie, lasciandola davanti al
casamento operaio dov’ella abitava, presso Sixth and Market.

Alludeva al giovanotto che aveva soppiantato, quel giorno.

— Non posso.... ora, — disse lei.

— Andiamo, su! — diss’egli allegramente. — Basta un fischio, ed egli
tornerà di gran carriera.

— Non volevo dir questo, — fece lei con semplicità.

Ed egli comprese.

Sul punto di salutarla, lei si chinò su di lui — oh, senza civetteria,
senza impudicizia, ma ardentemente, umilmente. Egli ne rimase commosso
nel profondo del suo gran cuore indulgente. Cingendola con le braccia,
egli la baciò sulla bocca, e il bacio che gli fu reso, fu certo il più
sincero che un uomo abbia mai ricevuto.

— Dio mio! — singhiozzò lei. — Vorrei morire per voi! vorrei morire per
voi!

E si svincolò precipitosamente e salì le scale correndo.

Egli si sentì gli occhi umidi di pianto.

— Martin Eden, — confessò a se stesso, — tu non sei un bruto e non
sei che un meschino nietzschiano. Se tu potessi, la sposeresti e
riempiresti così di felicità quel povero cuore fremente. Ma non puoi!
Tu non puoi! Che maledetta vergogna!...

— Il povero vecchio vagabondo parla delle sue povere vecchie ulcere,
— borbottò egli, ricordando Hanley, — Credo che la vita non sia che
equivoci, e una vergogna. È vero: un equivoco e una vergogna.




CAPITOLO XLII.


«La Vergogna del Sole» fu pubblicata in ottobre. Nel tagliare la
cordicella che legava una mezza dozzina di copie mandate in omaggio
dall’editore, Martin fu colto da pesante tristezza. Egli immaginò
quale sarebbe stata la sua gioia delirante, mesi prima, e la paragonò
all’indifferenza attuale. Il suo libro! il primo libro! E il polso non
gli s’era accelerato, ed egli non provava altro che cupa tristezza!

Che gl’importava, ormai?... C’era da aspettarsi del danaro,
evidentemente, ed egli non sentiva la passione del danaro.

Portò una copia in cucina e la porse a Maria, confusa e agitata.

— È mio, — le disse. — Ho scritto questo libro nella mia camera, e,
certo, le vostre buone minestre hanno molto contribuito. È vostro: un
semplice ricordo.

Egli era mosso dal pensiero di farle piacere, di renderla orgogliosa
di lui, di giustificare la fiducia che lei non aveva cessato di
manifestargli. Essa collocò il libro in salotto, accanto alla bibbia
famigliare, come una cosa sacra, feticcio dell’amicizia. Ecco una cosa
che attenuava la delusione di sapere il suo inquilino lavandaio; e
sebbene essa non capisse neppure un rigo del libro, sentiva oscuramente
che ogni frase ne era nobile e bella. Era una popolana, lei, semplice
e terra terra, ma aveva un cuore bennato. Egli lesse con la stessa
indifferenza le recensioni su «La Vergogna del Sole», che l’_Argo
della stampa_ gli mandava tutte le settimane. Il suo libro faceva
chiasso, era evidente; il portafogli si arrotondava. Egli avrebbe
potuto collocare Lizzie, liberarsi dei suoi impegni e avere ancora
tanto da costruirsi il castello di verzura; Singletree, Darnley e C.,
prudentemente, s’erano limitati a fare un’edizione di 1500 copie,
ma, dopo le critiche favorevoli, ne fecero una seconda di 3000,
poi una terza di 5000 copie. Una casa di Londra chiese il permesso,
telegraficamente, per un’edizione inglese; e si seppe, nello stesso
tempo, che in Francia, in Germania, in Isvezia, stavano preparando
delle traduzioni.

L’attacco alla scuola di Maeterlinck non poteva essere lanciato in
un momento migliore. Sorsero delle polemiche vivacissime: Salceby
e Haeckel erano per caso d’accordo nell’approvare e difendere «La
Vergogna del Sole». Crookes e Wallace si schierarono contro, mentre
Sir Oliver Lodge tentava una conciliazione in conformità delle sue
teorie cosmiche. I discepoli di Maeterlinck si strinsero attorno
allo stendardo del misticismo. Chesterton provocò un riso universale
pubblicando una serie di saggi scritti da avversarî pazzi furiosi. Ma
tutti, partigiani e nemici, furono schiacciati da una nota fulminante
di Giorgio Bernardo Shaw. Inutile dire che l’arena era zeppa di
combattenti meno illustri, che però non sollevarono meno polvere e
facevano un chiasso e una confusione spaventose.

«È un prodigio assolutamente sbalorditivo, — scrisse a Martin la Casa
Singletree, Darnley e C. — il fatto d’un saggio filosofico e critico
che si vende come un romanzo. Quest’opera è destinata a vincere tutti i
_records_.

«È qui incluso il duplicato d’un contratto per la vostra prossima
opera. Vi preghiamo di osservare che abbiamo portato la vostra
percentuale al 20%, che è quasi il massimo che una casa editrice possa
offrire. Se l’offerta vi conviene, vi preghiamo di scrivere il titolo
del vostro libro nello spazio riservato su questo foglio. Quanto
all’argomento, vi lasciamo piena libertà: c’importa poco. Se avete
un lavoro già pronto, tanto meglio. Bisogna battere il ferro sinchè è
caldo.

«Appena riceveremo il contratto firmato, avremo il piacere di mandarvi
un anticipo di 25.000 lire, per darvi prova della nostra fiducia.
Vorremmo anche discutere le clausole di un contratto per parecchi
anni, — supponiamo dieci, — durante i quali il diritto esclusivo alla
pubblicazione di ogni vostra opera in volume sarebbe riservato a noi.
Ma di questo, un’altra volta.»

Martin mise la lettera da parte e, abbandonatosi a un calcolo mentale,
concluse con questa scoperta, che 75 centesimi moltiplicati per
sessantamila facevano 45.000 lire. Egli firmò il contratto, ne riempì
lo spazio bianco col titolo «Il falò di gioia», e lo mandò agli
editori, con le venti novelle scritte un tempo. E, per volta di posta,
giunse lo _chèque_ di 25.000 lire di Singletree, Darnley e C.

— Volete venire con me in città, Maria, questo pomeriggio, verso le
due? — propose Martin la mattina. — O, meglio, trovatevi all’angolo di
Broadway con la 14ª strada, alle due. Mi troverete là.

Essa fu puntuale. La sola spiegazione che lei avesse trovata per quel
mistero fu la parola «scarpe», e la sua delusione fu grande, quando
Martin, sorpassando una grande calzoleria, la trascinò in un’agenzia
di compra-vendita d’immobili. Quel che avvenne poi fu come un sogno,
e tale le rimase nella mente, sino alla morte. Dei bei signori le
sorrisero con simpatia, mentre parlavano tra loro e con Martin, poi
una macchina da scrivere fece udire il suo ticchettio, delle firme
furono apposte appiè d’un documento imponente; il suo padrone di casa,
chiamato, firmò anche lui. E quando tutto fu finito ed essi furono
usciti, il suo padrone di casa le disse: — Ebbene, Maria, questo mese
non dovrete pagarmi le 35 lire! — Maria, sbalordita, non sapeva che
dire.

— Neppure il mese prossimo, nè il seguente, nè l’altro, — continuò il
proprietario.

Essa ringraziò, con incoerenza, come d’un favore. E solo quando
ritornarono a Nord Oakland, dopo aver conferito con amici e col
droghiere portoghese, essa capì ch’era diventata proprietaria della
casetta che abitava da tanto tempo.

— Perchè non comperate più nulla da me? — domandò il droghiere
portoghese a Martin, quel giorno, avvicinandolo, alla discesa dal
tranvai. Martin spiegò che non cucinava più, e dovette entrare a bere
un bicchiere. Egli osservò che quel vino era il migliore della cantina.

— Maria, — dichiarò Martin quella stessa sera, — vi lascio. E anche
voi tra breve andrete via di qui. Voi affitterete la casa ad altri e
ne riscuoterete la pigione. Mi avete detto che vostro fratello abita a
San Leandro, Haywards o altrove, non ricordo: gli direte di venirmi a
trovare. Sarò all’_Hôtel Metropole_ a Oakland. Egli s’ìntende di belle
fattorie e glie ne farò vedere una.

Così Maria divenne proprietaria d’una casa in città e d’una fattoria
in campagna, con due bifolchi per i lavori e un deposito in banca, che
aumentava di giorno in giorno; e tutta la sua prole era provvista di
scarpe e andava a scuola. Poche persone incontrano i buoni genî che
hanno sognato, ma Maria, che aveva lavorato sodo e aveva la testa dura
e non aveva mai sognato fate, trovò il suo spirito benigno in forma
d’un ex-lavandaio.

Intanto la gente incominciava a domandarsi: — Ma chi è, dunque, questo
Martin Eden? — Egli aveva rifiutata la sua biografia agli editori,
ma i giornali non si scoraggiavano per questo. Nella stessa Oakland,
i _reporters_ scovarono una quantità di persone capaci di fornire
delle notizie preziose, su chi era, e chi non era, tutto ciò che aveva
fatto e specialmente ciò che non aveva fatto; tutto ciò fu dimostrato
un giorno, pel più vivo godimento del pubblico, e accompagnato da
istantanee e da fotografie.

Dapprima il suo disgusto per le riviste illustrate e per la società
borghese fu tale e tanto, ch’egli tentò di lottare contro la
pubblicità; poi, per indolenza, finì col cedere. Pensò che non poteva
respingere i corrispondenti che venivano da lontano a trovarlo. Poi,
siccome i giorni erano lunghi, ora che non li impiegava per lavorare
e scrivere, bisognava pure ammazzare il tempo in un modo qualunque.
Cedette a ciò che egli considerava un soffocamento, concesse delle
interviste, espresse delle idee sulla letteratura e sulla filosofia, e
accettò persino degl’inviti nelle famiglie borghesi. Egli si adagiava
in un nuovo stato d’animo strano e comodo; tutto gli era indifferente.
Perdonò a tutti, persino al giovane _reporter_ sculacciato che aveva
fatto di lui un anarchico militante, e al quale concesse una pagina
intera, con fotografia speciale.

Vedeva di tanto in tanto Lizzie, alla quale dispiacevano le nuove
grandezze di Martin, giacchè quegli onori aumentavano la distanza che
li separava. Con la speranza di accorciarla, forse, essa si lasciò
persuadere a seguire i corsi serali e a farsi fare i vestiti da una
grande sarta che si faceva pagare in modo favoloso.

Essa faceva progressi di giorno in giorno, al punto che Martin finì
col domandarsi se egli faceva bene a comportarsi così, sapendo che
tutto ciò che lei faceva, lo faceva con la speranza di piacergli. Essa
cercava di acquistar valore agli occhi di lui, d’un genere di valore
ch’egli sembrava apprezzare. Eppure, egli non le dava alcuna speranza,
la trattava in modo veramente fraterno, e la vedeva di rado.

«Troppo tardi» fu lanciato dalla Società Ed. Meredith-Lowell, con
la massima popolarità; essendo esso un romanzo, il prezzo di vendita
fu molto maggiore di quello de «La Vergogna del Sole». Passavano le
settimane, ed egli manteneva il _record_, senza precedenti, d’avere
due libri di gran successo in vetrina, nello stesso tempo, giacchè
gli ammiratori de «La Vergogna del Sole», erano ugualmente attratti
dall’enciclopedica padronanza con la quale aveva trattato il suo
romanzo d’avventure marinaresche. Nell’uno aveva combattuto la
letteratura mistica, con rara efficacia; nell’altro aveva svolto con
rara facilità i principî ch’egli bandiva, provando così la versatilità
del suo genio e rivelandosi, insieme, critico e creatore.

Il danaro, la celebrità, affluivano verso di lui; come una cometa
egli splendeva nel cielo letterario, e il successo ch’egli creava lo
divertiva, più che non lo interessasse. Una cosa sola lo stupiva, —
una cosa da nulla. Parecchia gente sarebbe rimasta perplessa, se avesse
potuto dubitare del suo stupore: il giudice Blount lo invitò a pranzo!
Questo piccolo incidente gli doveva poi diventare una grande cosa nella
mente. Egli aveva insultato il giudice, l’aveva maltrattato in modo
odioso, e, il giudice, incontratolo per la strada, l’aveva invitato
a pranzo!... Martin enumerò le numerose occasioni capitate al giudice
Blount in casa dei Morse, per invitarlo a pranzo; allora non l’aveva
fatto. Perchè non l’aveva invitato allora? Eppure egli, Martin, non
era mutato in nulla; era lo stesso Martin Eden. Quale differenza c’era
dunque d’allora a ora? Il fatto che le sue opere erano state stampate?
Ma le aveva già scritte proprio quando il giudice, seguendo il parere
di tutti, rideva delle idee di lui e di Spencer. Dunque, non a causa
del suo valore reale, ma a causa d’un valore puramente fittizio, il
giudice Blount lo invitava a pranzo! Martin ghignò e accettò l’invito,
pur meravigliandosi della sua magnanimità. E a quel pranzo, di cui
Martin fu il beniamino, e al quale partecipavano una mezza dozzina di
persone altolocate, con le loro mogli, il giudice Blount, caldamente
sostenuto dal giudice Hanwell, supplicò Martin di far parte dello
«Stige», _club_ ultra-aristocratico, di cui facevano parte non solo i
ricchi ma i grandi ingegni.

Martin non accettò, e rimase più che mai stupito. I suoi manoscritti
partivano l’uno dopo l’altro, tutti; egli era sopraffatto dalle
richieste degli editori. Avevano scoperto ch’egli era uno stilista e
un pensatore insieme. La _Rivista del Nord_, dopo aver pubblicato «La
Culla della Bellezza», gli aveva chiesto una mezza dozzina di saggi del
genere; ed egli l’avrebbe fatto, se il _Burton’s Magazine_, avido di
speculazione, non gliene avesse chiesti cinque, a 2500 lire l’uno. Egli
rispose che accettava, ma, ricordando che tutti i manoscritti erano
stati rifiutati freddamente, bestialmente, sistematicamente, dalle
stesse riviste illustrate che ora l’imploravano, chiedeva 5000 lire
per saggio. Essi gli avevano fatto sudare sangue e acqua, un tempo; ora
toccava a lui marchiarli a fuoco!

E il _Burton’s Magazine_ accettò quel prezzo, e i quattro saggi che
rimanevano furono presi, con le stesse condizioni, dal _Makintosh’s
Monthly_, essendo _La Rivista del Nord_ troppo povera per sostenere
le spese. Così furono sparsi pel mondo: «I Grandi Sacerdoti del
Mistero», «I Cacciatori di chimere», «La misura dell’Io», «La filosofia
dell’illusione», «Dio e fango», «L’Arte e la Biologia», «Critiche e
prove», «Polvere di stelle» e «La dignità dell’usura», che scatenarono
tempeste difficilmente placate.

Degli editori gli scrissero pregandolo di fissare egli stesso il
compenso, ed egli ciò fece, ma sempre per opere già scritte. Rifiutò
nettamente di occuparsi di qualsiasi lavoro nuovo; il pensiero di dover
mettere del nero sul bianco ancora lo faceva diventar pazzo furioso.
Aveva visto Brissenden ridotto a brani dal pubblico, e sebbene non
fosse lo stesso per lui, — chè anzi il pubblico lo acclamava, — non
s’era ancora rimesso dalla scossa avutane, e non poteva far altro che
disprezzare quel pubblico. La sua popolarità gli sembrava un’onta, e un
tradimento di fronte a Brissenden. Col disgusto nell’animo, egli decise
di seguitare a ingrossare la sua provvista di danaro. Ricevette dagli
editori delle lettere così concepite:

«Circa un anno fa dovemmo con rincrescimento rifiutare la vostra serie
di poemi d’amore: non perchè non ci avessero colpito, ma per impegni
già presi che c’impedivano allora d’accettarli. Se li avete ancora,
saremmo felicissimi di pubblicarli interi. Fissatene pure il prezzo.
Noi saremmo ugualmente dispostissimi a farvi delle offerte molto
vantaggiose per raccoglierli in volume da pubblicare».

Martin ricordò la sua tragedia in versi liberi e la mandò in vece dei
«Poemi d’amore», dopo averla riletta. Gli pareva degna, al massimo,
d’un dilettante presuntuoso e senz’alcuna traccia di personalità; ma
la mandò, ed essa fu pubblicata, a eterno rimpianto dell’editore. Il
pubblico ne fu indignato e stupito; dal nobile talento di Martin Eden
a quel pasticcio insipido, c’era un bel divario. Si affermò che egli
non l’aveva scritta, che la rivista illustrata l’aveva plagiata in
modo molto grossolano, oppure che Martin Eden, plagiando Dumas padre,
faceva scrivere le sue opere da un altro, ora ch’era all’apogeo del
successo. Ma, quand’egli ebbe spiegato che quella tragedia era un’opera
giovanile e che la rivista illustrata aveva implorato per averla, fu
un formidabile scoppio di risa a spese della rivista, che fu costretta
a licenziare il suo redattore capo. La tragedia non ebbe gli onori
della pubblicazione in volume, sebbene Martin avesse già ottenuto gli
anticipi concessigli.

Poco tempo dopo, Martin ebbe dal _Coleman’s Weekly_ un lungo telegramma
di circa 1500 lire, col quale gli si chiedevano venti articoli a 5000
lire l’uno. Doveva viaggiare attraverso gli Stati Uniti, a spese del
giornale, e scegliere gli argomenti che gli sembravano interessanti
in un certo ordine d’idee, di cui gli si dava la lista e senz’altra
condizione se non di limitarsi agli Stati Uniti. Martin non accettò
e telegrafò, con porto assegnato, il suo rincrescimento. «Wiki-Wiki»
pubblicato nel _Warren’s Monthly_ ebbe un successo fulmineo. Apparve
subito in un magnifico volume, splendidamente edito e illustrato, le
cui copie si vendettero come si trattasse di leccornie. La critica
fu concorde nel dichiarare che «Wiki-Wiki» non sfigurava accanto ai
capolavori di due grandi scrittori classici: «Il diavoletto nella
bottiglia» e «La pelle di zigrino».

Il pubblico però accolse la serie dei «Falò di gioia» con alquanta
freddezza; l’audacia di queste novelle così assolutamente fuori d’ogni
convenzionalismo urtò la morale ed i pregiudizî borghesi; ma quando
si seppe che la loro traduzione otteneva a Parigi un folle successo,
il pubblico inglese e americano seguì la corrente, e le copie furono
vendute in tale quantità, che Martin obbligò la solida Casa Editrice
Singletree, Darnley e C. a dargli il venticinque per cento per un terzo
libro e il trenta per cento pel quarto. Questi due volumi comprendevano
tutte le novelle già pubblicate nelle riviste e nei giornali in corso
di pubblicazione.

Martin emise un sospiro di sollievo, quand’ebbe fatta la cessione
dell’ultimo manoscritto: il castello di verzura e il bel _yacht_
bianco s’avvicinavano a vista. Ebbene! aveva avuto ragione, in fondo,
contro il parere di Brissenden, che affermava che nessuna opera di
valore poteva aver successo presso le riviste illustrate. Il successo
che aveva ottenuto dimostrava il contrario. Eppure, gli sembrava
confusamente che Brissenden avesse ragione, tuttavia. «La Vergogna
del Sole» era stata la causa prima del successo, molto più che il
resto del suo bagaglio letterario, di cui nessuna rivista aveva
voluto mai sapere. Senza «La Vergogna del Sole», egli sarebbe rimasto
ignoto: e c’era voluto un vero miracolo perchè «La Vergogna del Sole»
ottenesse tanto. Singletree, Darnley e C.º erano là ad attestarlo:
essi ne avevano dapprima fatto un’edizione di 1500 copie, dubitando
di poterla smerciare. La loro esperienza era notoria, ed essi erano
rimasti confusi dal trionfo che n’era seguìto. Eppure il successo
c’era, e indiscutibile, per un colpo di fortuna unico, misterioso. Così
ragionando, Martin giunse a dubitare del valore della sua popolarità.
Era la borghesia che gli comperava i libri, gli riempiva d’oro le
tasche; ora, da quanto egli sapeva di essa, gli sembrava difficile
affermare ch’essa potesse apprezzare e comprendere quella specie di
letteratura. La bellezza intrinseca, la potenza delle sue opere non
esistevano per le centinaia di migliaia di persone che l’acclamavano.
Egli non era che il capriccio dell’ora, l’avventuriero che s’era
intrufolato nel Parnaso durante il sonno degli Dei. La folla lo
leggeva, lo portava alle stelle, con la stupida incomprensione con la
quale aveva sbranato «Effimero» di Brissenden. La torma dei lupi lo
leccava, anzichè sgozzarlo, ecco; era questione di fortuna. Una cosa
sola rimaneva evidente: «Effimero» superava di molto tutto ciò che egli
aveva scritto e tutto ciò che avrebbe potuto mai scrivere... Era dunque
quello proprio un misero tributo che la canaglia gli pagava, giacchè la
stessa canaglia aveva annegato «Effimero» nel fango.

Emise perciò un profondo respiro di viva soddisfazione, felice che
il suo ultimo manoscritto fosse venduto, vedendo così avvicinarsi il
momento in cui tutto sarebbe finito.




CAPITOLO XLIII.


Un giorno il signor Morse incontrò Martin al _bureau_ dell’_Hôtel
Metropole_. Martin non riuscì a capire chiaramente se Morse si trovasse
là casualmente, per affari, o se fosse andato con lo scopo d’invitarlo
a pranzo; ma inclinò verso questa seconda ipotesi. Il certo era questo:
ch’egli era invitato a pranzo dal signor Morse, padre di Ruth, che
gli aveva proibito di andare a casa, e aveva rotto il fidanzamento.
Martin non risentì alcuna collera, nè si rivestì della sua dignità; si
chiese, semplicemente, perchè il signor Morse s’abbassasse così, e se
ne sentisse l’umiliazione. E non rifiutò l’invito, ma rimandò la cosa
a tempo indeterminato, chiedendo notizie della famiglia, e di Ruth,
particolarmente. Il nome di lei gli venne alle labbra naturalmente,
senza esitazione; e rimase persino sorpreso di non risentirne la più
piccola stretta al cuore.

Martin ebbe molti inviti a pranzo, alcuni dei quali accettò; c’era
della gente che si faceva presentare a lui, per avere il piacere
d’invitarlo. Ed egli continuò ad essere impacciato di quell’inerzia
che diventava una cosa grave. Fu invitato a pranzo da Bernardo
Higgingbotham, e la cosa lo impacciò maggiormente. Ricordò i suoi
giorni di miseria disperata, quando nessuno l’invitava a pranzo; allora
ne avrebbe avuto bisogno, quando il bisogno era estremo, ed egli
correva rischio di crepare... Paradosso ridicolo! Quando aveva fame
nessuno gli dava da mangiare; ora che poteva satollarsi a piacere,
i pranzi affluivano da ogni parte. Perchè? Che cosa aveva fatto per
giustificare quel cambiamento? Egli era quello di prima. Il signor
Morse e sua moglie l’avevano condannato come fannullone, incapace,
e per mezzo di Ruth, gli avevano offerto un posto di commesso in uno
studio. I suoi meriti li conoscevano giacchè Ruth aveva fatto leggere
loro i manoscritti, da allora; erano gli stessi, precisamente quelli
che, dopo, avevano fatto il suo nome celebre. Dunque, quella celebrità
gli aveva procurato gl’inviti a casa loro.

Una cosa, intanto, era evidente: i Morse non si curavano nè di lui, nè
delle sue opere, ma si sentivano attratti dal suo trionfo attuale e —
perchè no? — dall’aureola delle cinque o seicentomila lire. In questo
modo la società apprezza gli uomini!... Perchè la cosa doveva essere
diversa per Martin? Ma tale trasformazione ripugnava al suo orgoglio;
egli voleva essere apprezzato per se stesso; pel suo lavoro, che non
era che l’espressione del suo _io_. Lizzie, lo amava per lui stesso;
agli occhi di lei la sua opera non contava. Jimmy il piombatore, tutti
i suoi compagni d’un tempo, lo amavano per lui stesso. Gliene avevano
dato la prova parecchie volte, dal tempo in cui egli era uno dei
loro; gliene avevano dato la prova ancora una volta, in quella famosa
domenica a Shell Mound Park. Poco importava ad essi della sua opera!...
Colui ch’essi amavano, colui che difendevano di fronte a tutti e contro
tutti era Martin Eden, semplicemente, cioè il loro compagno, un bravo
ragazzo.

C’era anche Ruth: che lei lo avesse amato per lui stesso, era
indiscutibile; eppure essa aveva preferito a lui la sua angusta
morale borghese. Essa aveva osteggiato le opere letterarie di Martin,
specialmente perchè — a quanto diceva — non gli procuravano denaro.

Del «Ciclo d’Amore» non aveva saputo dir altro. Anche lei lo aveva
supplicato di «formarsi una posizione»! Egli le aveva letto tutto ciò
che aveva scritto: poemi, saggi, novelle, «Wiki-Wiki», «La Vergogna
del Sole», tutto. E sempre, ostinatamente, lei lo aveva esortato a
diventar «serio», a trovare «un’occupazione»! Gran Dio! come se non
avesse lavorato, privandosi persino del sonno e del cibo, lavorato sino
a morirne, per innalzarsi sino a lei!...

E quell’inerzia seguitava a ingrandire. Egli godeva buona salute,
mangiava bene, dormiva bene, eppure quell’inerzia diventava
un’ossessione. «Ero lo stesso»: questo pensiero gli assillava il
cervello. Una domenica, a pranzo, seduto dirimpetto a Bernardo
Higgingbotham, egli dovette fare uno sforzo per non urlare: — Sono
quello di prima! Ed ora mi rimpinzate, e allora m’avete lasciato
morir di fame, m’avete chiuso in faccia la porta della vostra casa,
m’avete rinnegato, perchè non volevo «cercare un’occupazione». Ero lo
stesso, e tutto ciò che ho fatto era già fatto. Ora, v’interrompete
rispettosamente quando parlo io, mi ascoltate con la massima
attenzione, ammirate sperticatamente le minime parole che io pronunzio.
Vi dico che il vostro partito è putrido, e voi, anzichè adirarvi, fate
«hum» e «ah!» e riconoscete che c’è molto di vero in ciò che affermo.
E perchè? Non già perchè io sia Martin Eden, un buon ragazzo, non
totalmente idiota, ma perchè sono celebre, perchè ho del danaro, molto
danaro. Se vi dicessi che la luna è un formaggio verde, applaudireste,
o, perlomeno, non osereste contraddirmi, perchè sono ricco. E io sono
lo stesso d’allora, quando mi facevate rotolare nel fango, sotto i
vostri piedi.

Ma Martin si trattenne; questi pensieri gli rodevano il cervello senza
tregua, ma egli sorrise e riuscì a nascondere la tensione dei suoi
nervi. Poichè taceva, Bernardo Higgingbotham tenne lui conversazione,
e non l’abbandonò. Egli era un «self-made man», e sentiva tutto
l’orgoglio di esserlo; nessuno lo aveva mai aiutato; egli non doveva
niente a nessuno, e adempiva i suoi doveri di cittadino e di capo
d’una numerosa famiglia. La casa Higgingbotham era il monumento della
sua capacità e del suo indefesso lavoro. Egli sentiva per la casa
Higgingbotham quella tenerezza che altri provano per la moglie. Ed egli
aprì il suo cuore a Martin, rivelandogli la somma di intelligenza e
di perseveranza ch’era occorsa per fondar la ditta. Egli aveva anche
dei disegni ambiziosi; il quartiere diventava sempre più popoloso, e
il negozio era veramente troppo piccolo; se ci fosse stato più spazio,
egli avrebbe aggiunto una ventina di miglioramenti che avrebbero fatto
guadagnar tempo e danaro. E un giorno lo avrebbe fatto. Tutti i suoi
sforzi tendevano a questo scopo: avere il necessario per comperare
il terreno confinante e farvi un altro edifizio di due piani. Avrebbe
affittato il piano superiore, e i pianterreni dei due edifizî sarebbero
stati uniti al negozio Higgingbotham. Gli occhi gli lucevano, quando
egli parlò delle vetrine nuove che avrebbero compreso il tutto.

Martin ad un certo punto non ascoltò più; l’incessante ritornello;
«Ero quello di prima», che gli assillava il cervello sopraffaceva la
verbosità dell’altro. Questo ritornello lo rendeva pazzo, ed egli cercò
di sottrarglisi.

— Quanto vi potrà costare? — domandò egli ad un tratto.

Suo cognato s’interruppe nel bel mezzo del discorso circa la quantità
d’affari che facevano i negozianti del quartiere. Egli non aveva detto
quanto gli sarebbe costato tutto ciò, ma lo sapeva, avendolo calcolato
tante volte.

— Dato il costo del materiale, oggi, — disse, — si potrebbe farlo con
ventimila lire.

— Compresa la mostra?

— Non l’ho contata; ma, costrutta la casa, verrà da sè.

— E il terreno?

— Quindicimila lire.

Egli si chinò avanti, mordicchiandosi nervosamente le labbra, aprendo e
chiudendo macchinalmente le mani, mentre Martin scriveva uno _chèque_,
che gli porse poi: era di trentacinquemila lire.

— Io... io non posso dare più del sei per cento. — disse l’altro con
voce sorda.

Martin ebbe voglia di ridere, ma domandò semplicemente:

— Quanto verrebbe ad essere?

— Aspettate! al sei per cento, sono duemilacento lire.

— Un po’ più di settantacinque lire al mese, non è vero?

Higgingbotham fece un segno di assenso.

— Allora, se non trovate difficoltà, possiamo accomodare la faccenda
così (e lanciò uno sguardo a Geltrude): io vi lascio gl’interessi,
col patto che spendiate queste settantacinque lire al mese per la
biancheria, la cura della casa e la cucina. Queste trentacinquemila
lire sono vostre, se v’impegnate a permettere a Geltrude di riposare.
Accettate?

Il signor Higginbotham aveva la gola contratta; il pensiero che sua
moglie non si curasse più delle faccende domestiche riempiva d’amarezza
la sua anima sordida. Quel dono magnifico indorava una pillola che
non voleva andar giù. Sua moglie non avrebbe lavorato più! C’era da
arrabbiarsi.

— Benissimo! allora, — fece Martin, — pagherò io le settantacinque lire
al mese, e...

Egli fece l’atto di riprendersi lo _chèque_, ma Bernardo Higginbotham
se ne impadronì precipitosamente, esclamando:

— Accetto, accetto!

Quando Martin prese il tranvai, era stanco da piangerne. Egli alzò gli
occhi verso l’insegna del negoziante.

— Maiale! — borbottò. — Oh! che maiale! che maiale!

Allorchè il _Macintosh’s Magazine_ pubblicò la «Chiromante», adorna
d’illustrazioni di Berthier e di due incisioni di Wenn, Hermann von
Schmidt dimenticò d’aver considerato quei versi come osceni, e gridò a
tutti i cantoni che erano stati ispirati da sua moglie, fece in modo
da farlo sapere a un cronista e si lasciò intervistare da un estroso
giornalista accompagnato da un non meno estroso fotografo e da un
disegnatore di grido. Ne venne fuori, nel supplemento della domenica,
una pagina intera piena di fotografie e di schizzi di Marianna
idealizzata, di una folla di particolari intimi di Martin Eden e della
sua famiglia e del testo integro della «Chiromante» a grossi caratteri
ripubblicata col permesso del _Makintosh’s Magazine_.

La sensazione fu enorme nel quartiere, e delle brave massaie si
gonfiarono d’orgoglio perchè avevano relazione colla sorella del
grande scrittore, mentre quelle che l’avevano disprezzata sino a quel
giorno si affrettarono a rimediare all’errore. Hermann von Schmidt
rideva sornionamente nella sua botteguccia di riparazioni, e decise di
ordinare una nuova insegna.

— Sorprendente come _rèclame_ — diss’egli a Marianna. — E non costa un
soldo.

— Faremmo bene a invitarlo a pranzo, — suggerì Marianna.

E Martin andò a pranzo partecipandovi in compagnia di un grasso
macellaio in grosso, accompagnato dalla moglie più grassa di lui, gente
importante che poteva esser utile all’ambizioso Hermann von Schmidt.
C’era voluta l’attrattiva del celebre cognato per deciderli, come
anche pel direttore capo delle agenzie per la Costa del Pacifico della
bicicletta di marca «Asa», al quale von Schmidt desiderava far piacere
per ottenere la rappresentanza di questa marca in Oakland. Insomma,
era una buona fortuna avere Martin Eden per cognato, sebbene, nel
suo intimo, von Schmidt non potesse capirne la ragione. Nel silenzio
delle notti, mentre sua moglie dormiva, egli lottava, lottava con
gli scritti di Martin, per giungere alla conclusione che la gente
era pazza a comperare quella roba. Da parte sua, Martin capiva sin
troppo bene come stavano le cose, mentre, appoggiato allo schienale
della sedia, accarezzava con lo sguardo la testa del cognato, sognando
di schiacciargli con qualche pugno bene assestato la stupida faccia
ghignante di tedesco!

Però gli piaceva una cosa in lui: benchè povero e ambizioso, egli
aveva preso una serva per risparmiare le grosse faccende alla moglie.
Martin conversò col direttore delle agenzie «Asa» e dopo pranzo lo
trasse in un angolo, con Hermann, dichiarando che avrebbe assunto
l’accomandita del futuro negozio di biciclette e riparazioni di
Hermann, che doveva essere il più bello di Oakland. Fece di più, anzi,
ed esortò confidenzialmente Hermann a cercare un’agenzia di automobili
con _garage_, giacchè era in condizioni di far prosperare tutt’e due le
officine contemporaneamente.

Quando si lasciarono, Marianna, con le lacrime agli occhi, gettò le
braccia al collo di Martin dicendogli come l’amasse e quanto l’avesse
sempre amato. Questo sfogo fu interrotto, è vero, da un silenzio un
po’ imbarazzante, ch’essa però riempì con nuove lacrime, nuovi baci
e con balbettii incoerenti. Martin credette che lo facesse per fargli
dimenticare il tempo in cui aveva perduto la fiducia in lui e insistito
perchè egli trovasse «un’occupazione».

— È incapace di far economia del suo danaro, è evidente, — confidò
Hermann von Schmidt a sua moglie. — Quando gli ho parlato d’interessi,
sembrava impazzito, e m’ha dichiarato che se gli avessi riparlato della
cosa mi avrebbe rotto la mia sporca testa di tedesco. Proprio così: la
mia sporca testa di tedesco! Non importa; non è un uomo d’affari, ma è
un brav’uomo. Mi dà una gran bella spinta; ed è bello, da parte sua.

Gli inviti a pranzo piovvero da tutte le parti, e Martin seguitava a
stupirsene. Nel banchetto al _Club della Bohème_, egli fu il commensale
più notevole tra uomini noti di cui aveva sentito parlare tante volte,
in vita sua, e che gli raccontarono come, leggendo «L’Appello delle
Campane», nella _Transcontinental_ e la «Peri e la Perla», ne la
«Vespa», l’avevano immediatamente considerato come vincitore.

— Dio mio! e dire che durante quel tempo crepavo di fame e avevo
addosso dei cenci! — fece egli tra sè. — Perchè non m’avete invitato a
pranzo allora? Era il momento buono. Sono quello d’allora. E nè allora,
nè dopo fu detta una parola a proposito de «L’Appello delle Campane»
e della «Peri e la Perla». Ma no, ora non m’invitate perchè sono quel
che sono; m’invitate perchè tutti gli altri m’invitano, perchè così è
la moda. Voi m’invitate ora perchè siete degli stupidi animali, perchè
siete la folla, perchè, in questo stesso momento, il cieco e pecorile
capriccio della folla vuole accarezzarmi. Ah! come contano poco
Martin Eden e l’opera di Martin Eden in tutto questo!... — concluse
lui lamentosamente. Poi s’alzò e rispose spiritosamente a un _toast_
spiritoso.

E dovunque si trovasse, al _Club della stampa_, al _Club delle Carte_ o
a dei tè poetici, o nelle riunioni letterarie, dovunque, era ricordato
«L’Appello delle Campane» e «La Peri e la Perla», e il bene che ne
avevano subito pensato. E sempre, Martin si domandava, esasperato: —
Ma perchè non m’hanno teso la mano? ero lo stesso, «L’Appello delle
Campane», «La Peri e la Perla», non hanno cambiato neppure d’una
virgola: contenevano altrettanta arte, avevano lo stesso valore. Ma
del loro valore e della loro arte, voi ve ne infischiate. Voi ora mi
nutrite perchè la folla imbecille si disputa l’onore di nutrirmi.

Spesso, allora, vedeva a un tratto apparire, nel bel mezzo della
compagnia, un giovinastro con un soprabito troppo corto e un feltro
sull’orecchio. Questo gli accadde un pomeriggio, alla società _Ebell_
d’Oakland. S’avviava al palco e avanzava verso il pubblico, quando
vide entrare altezzosamente nel salone il giovinastro dal cappello
floscio sull’orecchio. Cinquecento donne eleganti si voltarono subito
per vedere ciò che Martin fissava con tanta intensità. Esse non videro
altro che il passaggio centrale vuoto, ma egli vedeva il robusto
giovanotto seguire, ciondolandosi, quel passaggio, e si domandò se
quello si sarebbe levato il cappello, sebbene sapesse che non era
avvezzo a farlo. Proseguì lungo il passaggio sino in fondo, e salì sul
palco. A Martin venne voglia di piangere su quel fantasma della sua
giovinezza pensando a tutta la sofferenza alla quale andava incontro;
poi, sul palco, andò diritto su Martin e scomparve. Le cinquecento
donne applaudirono dolcemente, per incoraggiare il grand’uomo timido
che era loro ospite, e Martin, scacciando quella visione dalla mente,
sorrise e cominciò la conferenza.

Il direttore delle scuole, degno vecchio, fermò Martin per la strada e
gli ricordò cordialmente certe scene avvenute nel suo ufficio, dopo le
quali Martin venne espulso dalla scuola, per le sue battaglie.

— Ho letto il vostro «Appello delle Campane», quando è apparso tempo
fa, — disse egli. — È degno di Edgardo Poe. È magnifico! Ho detto
leggendolo; — Magnifico!..

E Martin voleva rispondere: — Sì, nei mesi che seguirono, vi ho
incontrato due volte e avete fatto finta di non vedermi. Tutt’e due le
volte avevo fame, e andavo al Monte di Pietà. Ero lo stesso di oggi,
allora. E non m’avete riconosciuto. Perchè mi riconoscete oggi?

— Dicevo proprio l’altro giorno a mia moglie, — proseguì il degno
vecchio, — che sarebbe una buona idea quella di venire a pranzo da noi,
una di queste sere. Lei è dello stesso parere mio, dello stesso parere.

— A pranzo? — fece Martin, con accento così aggressivo, che l’altro ne
sussultò.

— Dio mio, sì, sì... a pranzo. Oh! bisognerà contentarsi in casa del
vostro vecchio direttore, eh? brigante! — fece egli, nervosamente, con
un timido tentativo di frecciata, che voleva essere gioviale.

Martin scese la via, con una specie di torpore addosso. Si fermò
all’angolo e diede uno sguardo vago in giro.

— Vorrei essere dannato, — mormorò, finalmente, — se il vecchio non ha
avuto paura di me!




CAPITOLO XLIV.


Un giorno, nella via, la carrozza della signora Morse passò proprio
accanto a Martin. Lei salutò sorridendo, egli ricambiò il saluto e il
sorriso. L’incidente non lo sorprese punto. Un mese prima, ne sarebbe
rimasto disgustato o impacciato e avrebbe cercato di rendersi conto
del grado d’incoscienza della signora Morse. Ora, non ci pensò neppure
un minuto: lo dimenticò come avrebbe dimenticato la banca centrale o
City Hall, dopo essere passato davanti ad esse. Aveva il cervello in
subbuglio, con i pensieri che vi giravano senza posa, sempre nello
stesso cerchio. Al centro di questo cerchio le parole: «Ero lo stesso»
gli rodevano il cervello, come un verme tenace rode un frutto. Le
ritrovava svegliandosi, le udiva nei sonni; i più piccoli particolari
della vita erano percepiti attraverso quelle parole: «Ero lo stesso»;
cosicchè una logica implacabile lo indusse infine a concludere
ch’egli non era nulla, assolutamente nulla. Mart Eden, il giovinastro,
Mart Eden il marinaio, erano esistiti come tali; ma Martin Eden, il
«celebre» scrittore, non esisteva: Martin Eden, il celebre scrittore,
era un’illusione creata dall’immaginazione della folla. Ma egli non
vi si lasciava prendere: non era quell’idolo che la folla adorava e
al quale essa offriva il nutrimento in sacrifizio propiziatorio: egli
sapeva il perchè nascosto di ciò. Lesse degli articoli sul suo conto
e si stupì davanti ai ritratti nei quali fu incapace di scoprire la
minima rassomiglianza con se stesso. Egli era colui che ha vissuto,
vibrato, amato; colui il cui carattere mite e tollerante era pieno
d’indulgenza per le debolezze della vita; colui che, al suo posto sul
castello di prua di qualche nave, aveva navigato verso strani e lontani
paesi; oppure colui che, alla testa di una banda di malandrini, aveva
lottato in numerose risse. Egli era colui che tante migliaia di libri
in biblioteca avevano spaventato e fatto indietreggiare la prima volta;
e colui che s’era fatto strada tra essi e li aveva conquistati; era
colui, infine, che punse con uno sperone la carne nuda per scacciare
il sonno e lavorare oltre ogni limite di resistenza umana. Tutto questo
era; ma non quella specie d’orco dal mostruoso appetito che il pubblico
s’ostinava a voler inghiottire. Alcune cose nelle riviste illustrate lo
divertivano, però.

Tutti si disputavano la gloria d’averlo lanciato: il _Warren’s
Monthly_ annunziò agli abbonati che, essendo sempre in cerca di novità
letterarie, era stato esso a presentare, tra gli altri, Martin Eden ai
lettori. Il _Sorcio Bianco_, reclamò la priorità, e lo stesso fecero la
_Rivista del Nord_ e il _Makintosh’s Magazine_; ma il _Globo_ li fece
tacere riesumando, dei suoi numeri, quelli che avevano pubblicato i
«Poemi del Mare» così vergognosamente straziati. _Gioventù e Maturità_,
risorta senza aver mai pagato i debiti, e letta soltanto da giovani
provinciali, reclamò a sua volta. La _Transcontinental_ raccontò in
modo degno e convincente come avesse scoperto Martin Eden, prerogativa
questa che però le fu contestata con calore da _La Vespa_, che mostrò
a prova «La Peri e la Perla». Nella mischia, i modesti diritti di
Singletree, Darnley e C. sparvero interamente. D’altra parte, questa
casa che non aveva azioni in nessuna rivista illustrata, non seppe mai
rivendicare i suoi diritti.

I giornali discussero dei guadagni di Martin Eden: in un modo o in un
altro, trapelarono le magnifiche offerte di certe riviste illustrate;
dei degni pastori di Oakland gli fecero delle visite amichevoli, e dei
pitocchi di professione gli mandarono una valanga di lettere. Ma le
donne erano peggiori; le sue fotografie furono disseminate, e degli
scrittori s’occuparono della sua persona, descrivendo il suo rude
volto abbronzato, sfregiato, le sue larghe spalle, i suoi chiari occhi
tranquilli, e i suoi lineamenti emaciati, che definirono ascetici.
Egli pensò alla sua giovinezza battagliera, e sorrise. Spesso, tra le
donne che incontrava, questa o quella, lo guardava, lo valutava, lo
sceglieva.

Ma egli non faceva che riderne; ricordava la minaccia di Brissenden
e rideva di più; le donne non erano un pericolo per lui, di sicuro,
avendo superato il tempo critico.

Una sera, avendo accompagnato Lizzie alla scuola serale, si vide
fissato risolutamente da una donna elegante e graziosa. Quello
sguardo era un po’ troppo insistente e prolungato. Lizzie ne capì il
significato e si raddrizzò; furiosamente. Martin se ne accorse, come
s’era accorto della causa, e le disse che era avvezzo a quelle cose e
che se ne infischiava.

— Non dovreste infischiarvene! — rispose lei, con gli occhi lucenti di
collera. — Non è possibile; voi siete malato!

— Non sono stato mai così bene! Peso dieci libbre più d’una volta.

— Non parlo del vostro fisico, ma della mente. C’è qualche cosa che
non funziona bene, nella vostra macchina mentale. Persino io che sono
niente, lo vedo!

Egli camminava a fianco di lei, pensoso.

— Darei non so che cosa per vedervi liberato da questo malore! —
esclamò bruscamente. — Un uomo come voi dovrebbe provar piacere quando
si sente guardato così da una donna! Non è naturale. È cosa che va bene
per dei ragazzetti, ma voi siete un uomo. E, mi crediate o no, io sarei
felice il giorno in cui vi capitasse una donna che vi piacesse.

Quand’ebbe lasciato Lizzie alla scuola serale, ritornò difilato al
_Metropole_, e, giunto in camera sua, si lasciò andare su una grande
poltrona e si mise a fissare il vuoto, davanti a sè. Non era in
dormiveglia, non pensava a nulla: sentiva il cervello vuoto, e non
vedeva nulla, se non, di tanto in tanto, delle macchie colorate,
luminose che gli formavano delle immagini vaghe sotto le palpebre.
Egli le vedeva come in sogno, eppure non dormiva. A un certo punto si
raddrizzò e guardò l’ora; erano le otto precise. Egli non aveva nulla
da fare, ed era troppo presto per andare a letto. Poi il cervello gli
si vuotò nuovamente e altre immagini apparvero, e sparirono sotto le
palpebre. Queste immagini erano tutte uguali fra loro; rappresentavano
sempre delle masse di fogliame e di cespugli attraversati dai raggi
ardenti del sole.

A un tratto, un colpo alla porta lo fece sussultare. Pensò che si
trattasse d’un telegramma, d’una lettera... o fosse la stiratrice che
gli portava la biancheria. Poi, gli passò per la mente il ricordo di
Joe e si domandò dove potesse essere mai, mentre rispondeva:

— Avanti!

Pensava ancora o Joe e non si voltò neppure verso la porta, che si
richiuse dolcemente. Seguì un lungo silenzio. Avendo dimenticato
che avevano bussato, egli s’era immerso nuovamente nel suo torpore,
quand’ecco che ode un singhiozzo di donna, un singhiozzo cupo,
trattenuto, spasmodico. Allora si voltò e balzò in piedi.

— Ruth! — esclamò stupito, sconvolto.

Lei stava appoggiata alla porta; aveva il viso pallido e contratto
e una mano sul cuore, come per frenarne i battiti. Poi lei tese le
braccia verso di lui con aria supplichevole e fece un passo avanti.
Egli le prese tutt’e due le mani e sentì ch’erano gelide. Dopo averla
accompagnata alla poltrona, ne accostò un’altra e sedette sul bracciale
di questa. Era come paralizzato da un profondo impaccio. Nella sua
mente, quell’avventura era finita, seppellita; se per un colpo di
bacchetta magica, la lavanderia delle Acque Termali di Shelley fosse
stata trasportata di botto nell’Hôtel Metropole, presentandogli davanti
agli occhi il lavoro di una settimana di stiratura di biancheria,
certo non ne sarebbe rimasto annoiato. Parecchie volte fu sul punto di
parlare, senza riuscire a trovare la frase adatta.

— Nessuno sa che io sono qui, — disse Ruth con voce fioca e con un
sorriso supplice.

— Che dite?

Egli rimase stupito dal suono della propria voce.

Lei ripetè la frase.

— Ah, sì? — disse lui, domandandosi che cosa dire poi.

— Vi ho visto entrare e ho aspettato un po’.

— Ah, sì? — ripetè lui.

In vita sua, non s’era mai sentito così scarso d’idee.

— E allora siete entrata, — diss’egli finalmente.

Lei fece un piccolo gesto affermativo; i suoi occhi ebbero un lampo
maliziosetto, e sciolse la sciarpa che teneva avvolta al collo.

— Vi ho visto subito dall’altro lato del marciapiede, quando eravate
con quella ragazza.

— Sì? — domandò lui semplicemente. — L’accompagnavo alla scuola serale.

— Ebbene, non siete contento di rivedermi? — disse lei dopo un nuovo
silenzio.

— Sì, sì! — fece lui rapidamente. — Ma non avete agito un po’
leggermente, venendo qui?

— Nessuno lo sa. Volevo vedervi. Sono venuta per dirvi che sono
stata proprio sciocca; sono venuta perchè non ne potevo più, perchè
il mio cuore mi spingeva, perchè... perchè avevo bisogno di vivere.
— Lei s’alzò, gli si avvicinò, gli posò una mano sulla spalla, un
momento, ansante, poi gli scivolò fra le braccia. E poichè sentiva
che respingendola le avrebbe inferto la più grave ferita che una
donna possa ricevere, egli chiuse le braccia attorno a lei e la tenne
stretta contro di lui. Ma in quella stretta non c’era alcun calore,
alcun fremito. Lei gli era venuta tra le braccia, ed egli la teneva.
Ecco. Lei gli si rannicchiò addosso, poi gli passò le mani attorno al
collo e gli cinse la nuca; ma la carne di lui rimase fredda sotto la
solita carezza; egli si sentiva sempre più a disagio, estraneo ad ogni
conforto.

— Perchè tremate così? — le domandò lui. — Sentite freddo? Volete che
vi accenda il fuoco?

E fece l’atto di svincolarsi; ma lei lo strinse con maggior forza,
tremando violentemente.

— È un po’ di nervosismo, — disse lei battendo i denti. — Fra un minuto
passerà. Ecco! mi sento già meglio.

I suoi brividi diminuivano a poco a poco. Egli se la teneva sempre fra
le braccia, ma la sorpresa e il disagio erano venuti meno.

— Mia madre voleva che sposassi Charley Hapgood, — disse lei.

— Charley Hapgood! quel grammofono d’idee piatte! — gemette Martin... —
Poi aggiunse: — E ora, penso che vostra madre desideri che sposiate me.
— Non era una domanda, la sua: era l’affermazione d’una certezza.

— Lei non si opporrà più, lo so, — disse Ruth.

— Mi considera come un ottimo partito, senza dubbio?

Ruth fece segno di sì.

— Eppure non sono un fidanzato più conveniente ora, che non quando lei
volle rotto il fidanzamento, — disse lui pensoso. — Non sono mutato per
nulla; sono lo stesso Martin Eden: no! peggio: fumo più che mai. Non
sentite?

Senza rispondergli, lei posò le dita sulle labbra di Martin,
graziosamente, e attese il bacio che quel gesto le procurava, un tempo.
Ma il bacio non venne. Martin aspettò che lei avesse ritirato le sue
dita, e proseguì:

— Io non sono mutato: non ho «un’occupazione», non ne cerco, non ne
cercherò. E ho sempre la convinzione che Herbert Spencer è un nobile e
grande uomo, e che il giudice Blount è un asino calzato e vestito. Ho
pranzato da lui l’altra sera, e le mie idee al riguardo hanno avuto una
nuova conferma.

— Ma non avete accettato l’invito di mio padre, — disse lei con voce di
gentile rimprovero.

— Toh! lo sapete anche voi? L’aveva mandato vostra madre?

Lei tacque.

— È stata vostra madre: lo pensavo. Penso che sia stata anche lei a
mandarvi qui, non è vero?

— Nessuno sa che sia venuta, — disse lei protestando, — Credete che mia
madre me l’avrebbe permesso?

— Essa vi permetterebbe di sposarmi, questo è certo.

Lei lanciò un grido:

— Oh, Martin! come siete crudele! Non mi avete abbracciata neppure una
volta. Siete freddo come un marmo. Pensate a quello che ho osato fare!
— Lei lanciò uno sguardo intorno, tremando, ma con una certa curiosità.

— Pensate che sono qui, in camera vostra!

(«Vorrei morire per voi, morire per voi!» La voce di Lizzie cantava
ancora al suo orecchio).

— Perchè non avete avuto il coraggio di farlo prima? — interrogò
egli con voce aspra. — Quando non avevo nulla? Quando morivo di fame?
Quando ero nè più nè meno quale sono oggi, lo stesso uomo, lo stesso
artista, lo stesso Martin Eden?... Ecco la domanda che io mi rivolgo
da parecchi giorni, non riguardo a voi, ma in modo generale. Io non
sono mutato, vedete, sebbene l’improvviso apprezzamento del mio valore
da parte della gente mi porti continuamente a tranquillizzarmi al
riguardo. La mia carne è rimasta la stessa, e così le mie dita e il
volto. Io non ho acquistato maggior forza e neppure una qualità di più.
Il mio cervello è rimasto tale quale era: non ho neppure inventato più
nulla di nuovo in fatto di letteratura e di filosofia. Il mio valore
personale è precisamente uguale a quello che era prima, quando nessuno
voleva sapere di me. Perchè mi vogliono ora?... Questo mi disorienta.
È evidente che non è per me stesso, giacchè sono rimasto quale ero
quando non mi volevano: dunque è per una ragione esteriore, per una
cosa che non riguarda il mio _io_. Volete che vi dica che cos’è? La
consacrazione del mio talento da parte del pubblico; non altro; e
così, tutto il danaro che ho guadagnato e che continuo a guadagnare.
E perciò, a causa di questa consacrazione e di questo danaro, oggi mi
volete.

— Voi mi spezzate il cuore, — singhiozzò Ruth. — Sapete che vi amo, che
sono venuta perchè vi amo.

— Temo che non abbiate capito bene la cosa, — diss’egli con dolcezza.
— Voglio dire questo: giacchè mi amate, come va che il vostro amore
attuale sia così forte, quando il vostro amore di allora era così
debole, debole al punto da respingermi?

— Dimenticate tutto ciò e perdonatemi! — esclamò lei ardentemente. —
Io non ho mai cessato d’amarvi, ricordatevene! E sono qua, ora, tra le
vostre braccia.

— Ho paura d’essere un mercante pieno di diffidenza, attento al peso,
che si sforza di pesare il vostro amore, e temo d’accorgermi che il
peso non è giusto.

Essa gli si svincolò dalle braccia, si raddrizzò e lo guardò a lungo,
profondamente; fu sul punto di parlare, ma esitò e tacque.

— Sentite, vi spiegherò il modo di vedere le cose, — proseguì Martin. —
Prima, quando non avevo ricevuto la consacrazione ufficiale, fuori del
mio ambiente, nessuno si curava di me. Quando scrivevo i miei libri,
nessuno di quelli che lessero i manoscritti, si curò di me; anzi,
pareva che mi stimassero meno; pareva davvero che scrivendo commettessi
un atto perlomeno scorretto. E tutti mi dicevano; procuratevi il pane!

Lei fece un cenno di diniego.

— Sì, sì, — disse lui, — tranne voi. Voi mi dicevate: cercatevi
un’occupazione! La frase famigliare: procuratevi il pane. — come tante
altre parole che ho scritto, — vi urta: è brutale. Io vi rispondo che
anche a me sembrava brutale quando tutti me la gettavano in faccia,
come si raccomanda la buona condotta a una persona traviata. Ma io
divago.

La pubblicazione dei miei libri, l’accoglienza avuta dal pubblico,
hanno mutato la natura del vostro amore. Voi non volevate sposare
quel Martin Eden che era null’altro che Martin Eden; non l’amavate
così; oggi, il vostro amore s’è ingigantito, e io non posso non
concluderne che è cresciuto in proporzione del favore del pubblico che
ha consacrato il mio talento. Per voi non si tratta del mio danaro, lo
so, benchè sia sicuro che entra nel mutamento ch’è avvenuto nei vostri
genitori. Tutto questo, naturalmente, non mi lusinga molto; ma il
peggio si è che mi fa dubitare dell’Amore... del divino amore. L’amore
è dunque cosa tanto materiale che dev’essere nutrito di _rèclame_ e di
popolarità? Pare di sì. È un pensiero che mi ha assillato al punto da
farmi diventar quasi pazzo.

— Povera cara testa! — E lei stese la mano, gli passò dolcemente le
dita tra i capelli. — Lasciate stare tutti questi brutti pensieri.
Ricominciamo da capo. Io non ho mai cessato di volervi bene. Sì,
ho peccato di debolezza cedendo alla volontà di mia madre; non
avrei dovuto farlo, ma vi ho sentito parlare così spesso, con tanta
generosità, della fragilità dei poveri esseri umani! Stendetela su di
me questa carità... Ho peccato per ignoranza! Perdonatemi!...

— Oh, vi perdono! — diss’egli con impazienza. — Veramente non c’è
nulla da perdonare; ognuno opera come sa, e non può far di più.
Sarebbe come se vi domandassi di perdonarmi di non aver potuto trovare
«un’occupazione».

— Io credevo di far bene, — protestò Ruth. — Voi lo sapete. Vi avrei
amato se non avessi creduto di farlo pel vostro bene?

— Bene! ma credendo di far bene, voi volevate distruggere ciò che
forma la mia personalità. Sì! (Lei voleva interromperlo, ma egli glielo
impedì). Sì, voi avreste distrutto la mia letteratura, il mio avvenire.
La mia natura è improntata da realismo, e lo spirito borghese odia il
realismo, per vigliaccheria, per paura della vita. Voi avete fatto di
tutto per farmi temere la vita; voi mi avreste fatto diventar banale in
misura della vostra vita borghese, nella quale tutto è meschino, falso
e volgare.

Ella fece un gesto di protesta.

— La volgarità, — una volgarità cordiale, lo ammetto, — è la base
della cultura borghese e delle sue raffinatezze. Come vi ho detto,
voi volevate modellarmi a immagine dei vostri, secondo l’ideale della
vostra classe. (Egli scosse tristemente il capo). E anche in questo
momento non comprendete; le mie parole per voi non significano nulla
di ciò che cerco di mettervi. Per voi, si tratta di pura fantasia;
al massimo, vi disorienta, e vi diverte il fatto che questo giovane
selvaggio uscito da un abisso di fango si permetta di giudicare la
vostra classe e di considerarla volgare.

Essa appoggiò la testa contro la spalla di lui, con stanchezza, e
fu scossa da un nuovo tremito nervoso. Poichè rimaneva pensosa, egli
proseguì:

— E ora, volete ricominciare il nostro amore, volete sposarmi, mi
volete. Eppure, ascoltate, se i miei libri non fossero stati segnalati,
io sarei rimasto lo stesso!... Ma voi non sareste venuta. Sono tutti
questi libri, perdio...

— Non bestemmiate, — interruppe lei.

Il rimprovero lo fece ridere d’un riso amaro.

— Ecco! è proprio così, — diss’egli. — In un momento critico, quando
è in rischio ciò che voi credete la felicità della vostra vita, una
bestemmia vi fa paura, una bestemmia molto innocente, francamente!

Queste parole fecero sentire a Ruth la puerilità della sua
esclamazione; ma a lei parve che egli esagerasse e se ne ebbe a male.
Seguì un lungo silenzio. Lei rifletteva disperatamente, escogitando
il modo di riaverlo, mentre egli pensava disperatamente al suo amore
defunto. Egli non l’aveva mai amata veramente, ora lo sapeva; aveva
amato una Ruth ideale, una creatura eterea, uscita tutta quanta dalla
sua immaginazione, la musa ardente e luminosa dei suoi poemi d’amore;
la vera Ruth, quella di tutti i pregiudizî borghesi, segnata dal
marchio indelebile della meschinità borghese, quella, non l’aveva mai
amata.

Essa incominciò a parlare a un tratto:

— Io so che c’è molto di vero in ciò che mi dite: io ho paura della
vita; non vi ho amato abbastanza; ma ho imparato a capir meglio
l’amore. Oggi, vi amo come siete diventato, per ciò che siete. Vi
amo perciò, per tutto ciò che vi fa diverso da quella che chiamate
«la mia classe», e a causa di tutte le vostre credenze che io non
comprendo, ma che imparerò a comprendere, lo so. Io farò di tutto per
comprenderle. Su! fumate, bestemmiate; tutto ciò fa parte di voi e mi
piacerà per questo. Imparerò, vedrete! In dieci minuti ho già appreso
molto. Il fatto che mi sono arrischiata a venire sin qui è una prova
di ciò che ho già appreso. Oh, Martin!... — Essa gli si strinse addosso
singhiozzando.

Per la prima volta le braccia di lui la cinsero con tenerezza, e lei lo
ringraziò con un sorriso felice.

— Troppo tardi! — diss’egli. La frase di Lizzie gli tornò in monte. —
Sono malato — oh, non fisicamente!... ma la mia anima, il cervello sono
malati. Ho perduto il gusto di vivere. Tutto per me è lo stesso. Se
m’aveste detto questo pochi mesi fa, la cosa sarebbe stata diversa. Ora
è troppo tardi.

— Non è troppo tardi! — esclamò lei. — Vedrete! Vi proverò che il mio
amore è ingrandito, che tengo più ad esso che alla «mia classe» e a
tutto ciò che mi è caro! Io metto sotto i piedi tutti i pregiudizî;
la vita non mi fa più paura. Io abbandonerò mio padre e mia madre, e
i miei amici non oseranno più pronunciare il mio nome. Se volete, sono
vostra, da ora, felice e orgogliosa di essere la vostra amante. Se ho
tradito l’amore, voglio ora, per amor dell’Amore, tradire tutto ciò che
me l’aveva fatto rinnegare.

Lei si alzò, stette davanti a lui, radiosa.

— Aspetto, Martin... — mormorò. — Aspetto che voi mi vogliate.
Guardatemi.

Egli la guardò. La vide splendida. Essa riscattava davvero la sua
condotta passata, si mostrava finalmente una vera donna, superiore alle
leggi di ferro delle convenzioni borghesi. Era splendida, magnifica,
sublime. Eppure... che gli succedeva dunque? Ciò che lei faceva non
lo toccava nè lo commoveva; egli l’apprezzava freddamente, l’ammirava
cerebralmente; ma il suo cuore non aveva sussultato; egli non la
desiderava più. Nuovamente la frase di Lizzie gli tornò alla mente.

— Sono malato, molto malato, — diss’egli con un gesto disperato. —
Sino a qual punto, ora soltanto me n’accorgo: qualche cosa in me s’è
spenta. Io non ho mai avuto paura della vita, ma non avrei mai creduto
di poter essere stufo della vita. La vita m’ha talmente saturato
d’emozioni, che sono svuotato d’ogni desiderio di qualunque cosa.
Se potessi desiderare, desidererei voi. Vedete come sono malato! —
Egli rovesciò il capo e chiuse gli occhi; e come il fanciullo che,
piangendo, dimentica il suo dolore per spiare i cerchi luminosi che
danzano sotto le palpebre umide, Martin dimenticò la sua malattia, la
presenza di Ruth, tutto, per abbandonarsi alla visione di un’immensa
cortina di fogliame attraversato dai raggi del sole ardente, che si
formava e fiammeggiava sotto le sue palpebre. Quel sole troppo vivo
l’abbagliava, gli faceva male; eppure egli lo guardava... perchè?
Riacquistò coscienza di sè, al rumore della maniglia della porta. Ruth
se ne andava.

— Come farò a uscire? — disse lei, con voce di pianto. — Ho paura!

— Oh! chiedo scusa! — esclamò lui, saltando in piedi. — Sono fuori di
me, come vedete. Avevo dimenticato che siete qui.

Si toccò la testa col dito. — Vedete, non sto molto bene. Vi accompagno
io. Usciremo per la porta di servizio, e nessuno ci vedrà. Abbassate il
velo, e tutto andrà bene.

Essa gli si tenne aggrappata al braccio, lungo i corridoi male
illuminati, e l’angusta scalinata.

— Sono in salvo, — disse lei, quando furono sul marciapiede, e,
vivacemente, lei fece un movimento per svincolare il braccio.

— No, no, vi accompagno sino a casa, — rispose Martin.

— No, ve ne prego; è inutile, — disse lei.

E nuovamente essa tentò di svincolare il braccio.

Martin ebbe un barlume di curiosità: ora che lei era sicura, aveva
paura! Non aveva che un’idea sola: sbarazzarsi di lui, al più presto.
Egli rinunziò a comprendere la ragione di questo, che attribuì a
nervosità, e trattenendola sotto il braccio, dolcemente, continuò ad
accompagnarla.

Prima dell’angolo della via, un uomo si ficcò di colpo in un portone:
sebbene avesse il bavero alzato, fu riconosciuto da Martin: era Norman,
il fratello di Ruth.

Procedendo, Ruth e Martin, conversarono un po’: lei era come inebetita;
egli apatico. Egli le annunziò soltanto che partiva, ritornava nei
mari del sud, lei gli chiese scusa d’essere andata da lui. E non vi
fu altro. Si salutarono, si strinsero la mano, si dissero buona sera,
egli si tolse il cappello, poi la porta si rinchiuse con fracasso, egli
accese una sigaretta e tornò indietro. Nel passare davanti il portone
nel quale aveva visto sparire Norman, si fermò per affermare ad alta
voce:

— Lei mentiva! lei mi faceva credere che affrontava i peggiori rischi,
mentre sapeva benissimo che suo fratello, che l’aveva accompagnata,
l’attendeva per ricondurla a casa.

E diede in uno scroscio di risa.

— Oh, questi borghesi! Quand’ero povero, non mi si doveva vedere con
sua sorella; ora che ho un conto corrente in banca, è lui a condurmela.
— E già voltava i tacchi per andarsene, quando un vagabondo che seguiva
la stessa direzione, gli chiese l’elemosina.

— Sentite, datemi dieci soldi per dormire all’asilo notturno! — questa
voce fece voltare Martin. Un momento dopo, egli stringeva la mano di
Joe.

— Ti ricordi quando ci siamo lasciati alle Acque Termali? — disse
l’altro. — Ti ho detto che ci saremmo riveduti; lo sentivo. Ed
eccoci qua! — Tu hai un buon aspetto, — fece Martin, con accento di
ammirazione. — Sembri ingrassato.

— Ma sicuro, perdiana! — e la faccia di Joe era raggiante di gioia.

— Non sapevo che cosa volesse dire vivere, prima di fare il vagabondo.
Ora peso quindici libbre di più e sto benone, proprio benone. Perbacco!
mi mangiavo il sangue, a forza di lavorare, una volta! Fare il
vagabondo è una faccenda che mi va benissimo.

— Ma intanto sei costretto a cercarti un letto. — disse Martin,
celiando.

— E fa freddo, questa sera.

— Ah, neh! io cerco un letto! — Joe si frugò nella tasca dei calzoni
e ne trasse fuori una manciata di moneta spicciola: — To’! e questo? —
diss’egli trionfalmente. — Tu avevi un’aria _chic_, perciò ho tirato il
colpo!

Martin si mise a ridere, e si confessò vinto.

— Pochissimo per me, — dichiarò l’altro. — Non mi ubriaco più; sebbene
non vi sia nulla che me lo impedisca, se voglio. Mi sono ubriacato una
volta sola dacchè ti ho visto, e l’ho fatto apposta: perchè avevo la
pancia vuota. Quando lavoro come un bruto, bevo come un bruto; quando
vivo da uomo libero, bevo da uomo libero; un bicchiere di tanto in
tanto, quando mi salta in testa, e basta.

Martin gli diede convegno pel giorno dopo e rientrò nell’albergo.

Si fermò al _bureau_ per sapere la partenza dei piroscafi.

La _Mariposa_ sarebbe partita per Tahiti cinque giorni dopo.

— Telefonate domattina e fissatemi una cabina di lusso, — disse
all’impiegato. — Non sul ponte, ma in basso, all’esterno, da babordo.
Ricordatevi: a babordo. Segnatelo: sarà meglio.

Giunto in camera, si mise a letto e si addormentò come un bambino.

Gli avvenimenti della sera non gli avevano fatto alcuna impressione:
nessuna sensazione lasciava traccia nel suo spirito, ormai: quel guizzo
di piacere provato nel vedere Joe era durato un breve istante. Subito
dopo, la presenza dell’ex-lavandaio, la stanchezza della conversazione,
l’avevano annoiato. Anche il pensiero di partire fra cinque giorni, pel
suo caro Pacifico, non lo entusiasmava punto. Chiuse dunque gli occhi
e dormì normalmente, riposatamente, otto ore filate, senza muoversi,
senza sognare. Il sonno era l’oblìo, così che ogni giorno egli si
svegliava con rammarico. La vita era una noia spaventosa, per lui; e
tanto lunga, la vita!...




CAPITOLO XLV.


— Senti un po’, Joe! — così l’accolse il vecchio compagno dei giorni
tristi, la mattina dopo. — Io conosco un francese che abita nella 28.ª
strada: egli ha guadagnato un bel po’, ritorna in Francia e vende la
sua lavanderia, una bella piccola lavanderia a vapore, magnifica. Se ti
vuoi sistemare, ecco un affare che va bene per te. To’, prendi questo;
comprati della roba decente e va alle dieci nell’ufficio di questo
tale.

Egli mi ha fatto vedere la lavanderia; e la mostrerà anche a te. Se ti
piace e se credi che valga il prezzo — 60.000 — dimmelo, e sarà tua.
Ora lasciami: ho da fare; ti vedrò dopo.

— Senti, Mart, — fece l’altro, con voce lenta, nella quale si veniva
accumulando la collera. — Io sono venuto questa mattina per vederti,
capisci? Non sono venuto per vedere una lavanderia. Vengo per
chiacchierare, da vecchio buon compagno, e tu mi pianti una lavanderia
sulla testa. Be’, ti dirò: te la puoi tenere la tua lavanderia, e
andartene al diavolo!...

E già s’avviava, furioso, quando Martin l’afferrò per la spalla e gli
fece fare una giravolta.

— Ascolta, Joe! — diss’egli, — se fai l’imbecille, ti rompo la faccia.
E in ricordo della nostra vecchia amicizia, te la rompo per bene. Su,
vuoi o non vuoi?

Joe l’aveva abbracciato, ma siccome Martin aveva il vantaggio della
presa, tentò invano di svincolarsi: vacillando per la camera, andarono
a finire, con gran fracasso, su una poltroncina di vimini, che si
ruppe in parecchi pezzi. Joe giaceva sotto, con le braccia in croce,
solidamente mantenuto, e un ginocchio di Martin sullo stomaco: ansava,
soffiava, sbuffava come una foca, quando Martin lo lasciò.

— Ora, parliamo un po’, — disse Martin. — Non giova fare il cattivo con
me, vecchio mio. Voglio prima di tutto terminare questa faccenda della
lavanderia; poi potrai ritornare e parleremo del buon vecchio tempo.
T’ho detto ch’ero occupato. Guarda! — Un cameriere era entrato con un
voluminoso fascio di lettere e riviste.

— Come vuoi che faccia a guardare tutta questa roba e a chiacchierare
nello stesso tempo? Va’ a vedere la lavanderia, e poi ritornerai.

— Be’, — finì per ammettere Joe con malagrazia. — Credevo che tu
volessi sbarazzarti di me; mi sono ingannato. Ma sai, Mart, non mi
vinci alla _boxe_: ho le braccia più lunghe delle tue.

— Ci metteremo i guanti, un giorno di questi, e vedremo! — disse Martin
sorridendo.

— Sicuro! appena la lavanderia sarà avviata. — Joe allungò il braccio;

— Vedi questo? Be’, lo sentirai.

Martin emise un respiro di sollievo quando la porta si rinchiuse dietro
il lavandaio. Diventava misantropo; di giorno in giorno, gli riusciva
sempre più difficile mostrarsi cortese col prossimo. La presenza della
gente l’annoiava, la loro conversazione l’irritava; egli diventava
nervoso, e subito dopo il primo contatto, cercava un pretesto per
sbarazzarsene.

Anzichè fare lo spoglio dello corrispondenza, egli rimase a poltrire
sdraiato, per una mezz’ora, senza far nulla, quasi senza pensare. Poi
si scosse, e incominciò lo spoglio. C’erano una dozzina di richieste
d’autografi, che con uno sguardo solo egli riconobbe; delle richieste
di danaro da mendicanti di professione; delle lettere di pazzi,
dall’inventore d’una macchina a motore perpetuo e dallo scienziato che
ha scoperto che la terra è l’interno d’una sfera vuota sino all’illuso,
che chiede dei mezzi per comperare la penisola della California
meridionale e fondarci una colonia comunista.

Poi delle lettere di donne che volevano conoscerlo; tra le quali una
sola lo fece sorridere, perchè conteneva la ricevuta del noleggio della
sedia in chiesa, quale prova di pietà e rispettabilità.

Redattori di giornali e di riviste e case editrici contribuivano in
gran parte a formar la valanga quotidiana delle lettere: i primi gli
si inginocchiavano per avere manoscritti; i secondi per avere i suoi
libri. Poveri manoscritti disprezzati! E dire che per essi aveva
impegnato tutto quanto possedeva, per lunghi penosi mesi! La posta gli
portava anche degli _chèques_ inaspettati dall’Inghilterra, per diritti
di pubblicazione su traduzioni straniere.

Il suo agente inglese gli annunciava la vendita dei diritti di
traduzione in tedesco per tre libri e l’informava che le edizioni
svedesi sulle quali non gli spettava nulla — la Svezia non faceva parte
della convenzione di Berna, — erano già in vendita. Gli si domandava
anche il permesso di tradurre in russo una delle sue opere, essendo la
Russia esclusa anch’essa dalla convenzione di Berna.

Egli esaminò il grosso mucchio di ritagli che l’_Argo della Stampa_
gli mandava, lesse ciò che dicevano di lui e della sua voga, ch’era
diventata incredibile. Ciò dipendeva senza dubbio dal fatto che tutta
la sua produzione letteraria era stata lanciata al pubblico in un
torrente magnifico che lo aveva preso d’assalto. Anche per Kipling
era accaduto lo stesso: egli era quasi moribondo quando la folla
capricciosa si mise di colpo a leggerlo. E questa stessa folla, —
Martin se ne ricordava molto bene. — avendo letto Kipling e avendolo
acclamato, senza però capirne neppure la prima parola, aveva poi fatto
un brusco voltafaccia, mesi dopo, e l’aveva straziato per bene.

Martin, così pensando, ghignò. Certo, lo stesso trattamento avrebbero
usato a lui.

Perchè no? Ebbene, egli avrebbe giocato a quella folla un bel tiro a
modo suo: se ne andava laggiù nei mari del sud, dove avrebbe costruito
la sua casa di verzura, commerciato in perle e copra, avrebbe saltato i
banchi di scogli su fragili piroghe e pescato il pescecane, e cacciato
la capra selvatica sui picchi che strapiombano nella vallata di
Taiohae.

E, a un tratto, tutta la disperazione del suo stato gli apparve; vide
chiaramente che era entrato in una via senza uscita. Tutta la vita che
era in lui si avvizziva, svaniva, se ne andava verso la morte. Egli
sentì in tutta la sua profondità il desiderio di dormire per sempre.
Un tempo odiava il sonno che gli rubava momenti preziosi di vita: sulle
ventiquattr’ore le quattro ore di sonno lo privavano di quattro ore di
vita. Con quanto rammarico s’addormentava allora! Con quanto rammarico
viveva ora! La vita non era buona; mancava di sale, aveva un sapore
amaro. Ora, poichè tutta la vita che non aspira a continuare è prossima
alla cessazione, Martin si mise per una china pericolosa. Un vago
istinto di conservazione gli fece sentire che doveva partire al più
presto.

Egli si guardò intorno, e il pensiero di dover fare le valige l’annoiò
tanto che decise di farle all’ultimo momento. Intanto si sarebbe
occupato del suo equipaggiamento.

Uscì, entrò in un negozio di strumenti da caccia e da pesca, e vi
trascorse la mattinata a scegliere carabine automatiche, proiettili
e lenze perfezionate. Ma per comperare la mercanzia in previsione di
scambi futuri, gli bisognava giungere prima a destinazione, giacchè
quel genere di commercio era soggetto, come gli altri, ai mutamenti
della moda. D’altra parte, la sua mercanzia poteva comperarla in
Australia. Questa soluzione lo sollevò: l’idea di iniziare un’attività
qualsiasi gli ripugnava in quel momento.

Ritornò dunque all’albergo, pensando con gran contentezza alla comoda
poltrona che l’aspettava, e lanciò un borbottio disperato quando,
entrando in camera, trovò Joe che vi stava con gran sussiego. Joe
era entusiasta della lavanderia; tutto era concordato: egli poteva
prenderne possesso dal giorno dopo. Martin s’era steso sul letto e
aveva chiuso gli occhi mentre l’altro chiacchierava. I suoi pensieri
lo conducevano lontano, tanto lontano, ch’egli non s’accorgeva neppure
di pensare. Doveva fare un vero e proprio sforzo per rispondere,
a intervalli, a una domanda di Joe. Eppure, aveva avuto sempre
dell’affetto per Joe. Ma ecco! Joe era troppo esuberante, e si
espandeva in modo così chiassoso da stancare lo spirito malato di
Martin ed esasperarne i nervi ipersensibili.

Quando Joe gli ricordò che dovevano fare una partita di pugilato, un
giorno, loro due, egli avrebbe voluto urlare, dall’irritazione.

— Ricordati, Joe, che dovrai far funzionare la lavanderia secondo le
regole che ti stavano a cuore, alle Acque Termali, — gli disse. — Un
lavoro non eccessivo; niente lavoro notturno, e neppure ragazzi al
cilindro; niente impiego di ragazzi; e salarî convenienti.

Joe fece un segno d’assenso, e mostrò il taccuino.

— Guarda, vecchio! Ho segnato qui le regole, prima di colazione, questa
mattina. Che te ne pare?

E le lesse ad alta voce, e Martin approvò, mentre s’augurava che Joe lo
liberasse al più presto della sua presenza.

Quando si svegliò, il pomeriggio era inoltrato. Lentamente egli
riacquistò coscienza della vita e si guardò intorno: Joe se
l’era svignata vedendolo addormentato, evidentemente. È stata una
delicatezza, da parte sua, — fece egli tra sè; — poi chiuse nuovamente
gli occhi e si riaddormentò.

Nei giorni che seguirono, Joe fu troppo assorto nell’ordinamento della
lavanderia, per annoiarlo troppo; e solo alla vigilia dell’imbarco, i
giornali annunciavano che Martin Eden partiva sulla «Mariposa». Durante
uno di quei rari momenti nei quali l’istinto della conservazione era
ancora desto, egli andò da un medico per farsi visitare accuratamente.
Il medico non gli trovò nulla: il cuore, i polmoni furono dichiarati
perfetti; tutti i suoi organi, stando al giudizio del dottore, erano
sani e funzionavano normalmente.

— Voi non avete nulla, signor Eden, — disse. — Voi siete in condizioni
perfette. Sinceramente, ammiro la vostra salute; è meravigliosa.
Guardate che torace! Qui, e nello stomaco, sta il segreto della vostra
eccezionale costituzione fisica. Fisicamente, non c’è un uomo su mille
che sia così ben fatto; neppure uno su mille. Se non vi capita qualche
disgrazia, potete campare sino a cent’anni.

E Martin capì che la diagnosi di Lizzie era giusta: fisicamente egli
stava benone: era la sua «macchina per pensare» che s’era sviata, e
nulla poteva guarirla, tranne i mari del sud.

Deplorevole, però, era il fatto che, ora, proprio al momento di
partire, non aveva più voglia d’andar via; i mari del sud non
l’attraevano più che non l’attraesse la civiltà borghese; il pensiero
della partenza non lo stimolava in alcun modo, e l’atto stesso
richiedeva una quantità di sforzi faticosi. Avrebbe voluto trovarsi a
bordo e in alto mare.

L’ultimo giorno fu duro: avendo saputo della partenza dai giornali
del mattino, Bernardo Higgingbotham, Geltrude e tutta la famiglia si
recarono da lui, con Herman von Schmidt e Marianna, per salutarlo.
Poi bisognò regolare degli affari, pagare dei conti, sopportare gli
eterni _reporters_. Egli disse addio a Lizzie Connolly bruscamente,
all’entrata della scuola e s’affrettò ad andarsene. All’albergo
trovò Joe, che non era andato prima perchè occupato tutto il giorno
a ordinare la lavanderia. Era l’ultima fatica? Martin, aggrappato al
braccio della poltrona, parlò ed ascoltò durante una mezz’ora.

— Tu sai, Joe, — diss’egli, — che non hai sposato la lavanderia. Non
sei obbligato a rimanervi per forza, ma potrai, quando vorrai, venderla
e spendere il danaro come meglio crederai. Quando ti sarai stancato e
avrai voglia di riprendere il vagabondaggio, fa pure, ragazzo mio! Fa
ciò che ti piace.

— Non più strada per me, grazie tanto! Essere vagabondo, va bene,
benissimo, tranne per una cosa: le donne. Io non posso farne senza;
sono un uomo al quale piacciono le donne. Non posso farne senza, no;
e bisogna rinunziare, quando si fa il vagabondo. Tutte le volte che
passavo davanti le case dove si ballava o si divertivano, e sentivo
risate di donne e vedevo attraverso i vetri le loro vesti bianche e i
loro sorrisi, vedi, soffrivo troppo! Mi piace il ballo, mi piacciono
le scampagnate, le passeggiate al lume di luna, e il resto; mi piace
troppo tutto questo! A me la lavanderia, una buona reputazione e dei
buoni dollari sonanti in tasca! Ho visto una ragazza, to’, proprio
ieri: ebbene, figurati! ho una certa idea che sposerò lei. Tutto il
giorno ho cantato e pensato a lei. È una bellezza: ha gli occhi più
carini e la voce più bella del mondo. Sì, andremo bene noi due... Di’
un po’ perchè non sposi anche tu, con tanto danaro che hai? Potresti
scegliere la più bella ragazza del paese.

Martin scosse il capo sorridendo; nel profondo del cuore si domandava
perchè gli uomini tengano tanto ad ammogliarsi; la cosa gli pareva
stupefacente, incomprensibile.

Dal ponte della «Mariposa», al momento di levar l’ancora, egli vide sul
viale Lizzie Connolly che si nascondeva fra la folla.

— Prendila con te, dunque! — gli soffiò una voce interiore. — È facile
essere buoni; tu la farai tanto felice!

Divenne quasi una tentazione, quel pensiero; poi, un momento dopo, una
specie di terrore l’invase, ed egli si voltò gemendo: — Povero vecchio
mio, tu sei troppo malato!

Si rifugiò nella sua cabina di lusso, dove rimase nascosto sino al
momento in cui il piroscafo fu uscito dal porto. Nella sala da pranzo,
a colazione, ebbe il posto d’onore, a destra del capitano; e non tardò
molto a scoprire ch’egli era il personaggio più cospicuo, a bordo.
Ma giammai un gran personaggio diede meno piacere ai passeggieri d’un
piroscafo. Egli passava il pomeriggio su un divano, sul ponte, con gli
occhi chiusi, sonnecchiando quasi di continuo e, la sera, andando a
letto presto.

Dopo due giorni, guariti dal mal di mare, i passeggieri apparvero
tutti; e non incontrarono nessuna simpatia in lui; eppure, erano brava
gente, simpatica, — fu costretto a riconoscerlo; — erano simpatici
e cordiali, da buoni borghesi quali erano, con tutta la meschinità
e frivolezza intellettuale del loro ambiente. La loro conversazione
l’annoiava a morte. Quanto ai giovanotti, la loro esuberanza rumorosa
e il loro incessante bisogno di prodigarsi, lo snervavano. Non stavano
mai quieti; e dalla mattina alla sera, erano giochi, passeggiate, urla
e corse folli da un capo all’altro per veder saltare le tartarughe
marine o balzare i primi squadroni di pesci volanti.

Egli dormiva enormemente. Dopo colazione, si abbandonava sul divano,
con una rivista illustrata che non leggeva mai. La stampa lo stancava;
egli si domandava come mai le gente potesse avere ancora cose da
raccontare, e riflettendo s’addormentava. Quando il gong lo svegliava
per la merenda, si sentiva esasperato; era tutt’altro che allegro
essere svegliato.

Egli tentò una volta di scuotere il suo letargo e si rifugiò nel
castello di prua, a vedere i marinai; ma la loro mentalità sembrava
mutata, dal tempo in cui viveva fra loro; e non gli riuscì di trovare
nessun vincolo di cameratismo fra lui e quei bruti dalle facce stupide,
dai cervelli di ruminanti. Egli era ridotto alla disperazione.

In alto, nessuno s’interessava di Martin Eden, per quello che
rappresentava come uomo; in basso, non poteva più sopportare coloro che
sarebbero stati suoi amici, un tempo. Come la luce troppo viva ferisce
gli occhi stanchi di un malato, così la vita cosciente lo feriva, ed
egli era accecato da quella luce abbagliante. Era una sofferenza, una
intollerabile sofferenza. Mai, prima d’allora, Martin aveva viaggiato
in prima classe; sul mare, era stato sempre sul castello di prua, al
timone, o nelle cupe profondità delle stive carbonaie. Allora, quando
s’arrampicava per uscir fuori del baratro soffocante, su per la scala
di ferro, e scorgeva i passeggieri, biancovestiti, che oziavano o
si divertivano, sotto tende che li riparavano dal sole e dal vento,
serviti da _stewards_ impeccabili che indovinavano i minimi bisogni,
i più lievi desideri, allora gli pareva di scorgere perlomeno un
cantuccio di paradiso. Oggi, egli era il gran personaggio di bordo,
che il capitano faceva sedere alla destra, era bersaglio di tutti gli
sguardi, e dal castello di prua sino alle caldaie, vagava invano in
cerca del paradiso perduto.

Tentò di scuotersi, di trovare un soggetto interessante, si mischiò
persino tra i sottufficiali; ma la loro banalità lo fece battere in
ritirata. Chiaccherò con un quartiermastro, persona intelligente, che
lo trascinò subito nella propaganda socialista e gli riempì le tasche
di opuscoli e di volumetti di critica. Ascoltando quell’uomo che
esponeva la morale degli schiavi, egli paragonò questa, languidamente,
alla sua filosofia nietzschiana. Ma che valeva tutto ciò, in fin dei
conti? Ricordò una delle più folli affermazioni di Nietzsche, quella
della inesistenza della verità. Chissà? forse Nietzsche aveva ragione;
forse la verità non era altro che un’illusione. Poi la stanchezza del
pensare lo vinse, ed egli fu lieto di ritrovare il suo divano e di
dormire.

In breve, nuove preoccupazioni lo assillarono. Che sarebbe avvenuto
quando la nave fosse giunta a Tahiti? Bisognava scendere a terra,
ordinare la mercanzia, trovare un battello in partenza per le
isole Marchesi, compiere mille e mille cose il cui solo pensiero lo
atterriva. Ogni volta ch’egli si sforzava di riflettere, il pericolo
delle sue condizioni gli appariva. In verità egli avanzava nella Tetra
Valle... s’inoltrava a gran passi, senza timore, e qui era il pericolo.
La paura lo avrebbe riattaccato alla vita, ma, non avendo paura,
affondava sempre più nelle tenebre. Le cose che l’incantavano un tempo,
tutte le cose famigliari tanto amate, ora gli erano estranee.

La «Mariposa», intanto, vogava attraverso gli alisei del Nord-est;
ma il soffio snervante di questo vento l’esasperò, così che dovette
far cambiar posto al divano per isfuggire agli abbracci di quel forte
compagno dei giorni di pena d’una volta, durante le notti così miti.

Il giorno in cui la «Mariposa» passò l’Equatore, Martin era più
infelice che mai. Non poteva più dormire; saturo com’era di sonno,
doveva, ora, rimanere sveglio e sopportare l’accecante luce della vita.
Andava e veniva, senza trovare riposo. Gli uragani torrenziali non
riuscivano a rinfrescare l’atmosfera umida, opprimente. Egli soffriva
di vivere, atrocemente. Passeggiò sul _dek_, sino a quando non ne potè
più, poi sedette, poi ricominciò a camminare, coi nervi tesi sino allo
spasimo. Finì col costringersi a terminar la lettura della rivista,
poi andò alla biblioteca di bordo, a scegliersi parecchi volumi di
poesia; ma non riuscì a interessarsi, e ricominciò ad andar su e giù,
disperatamente.

Dopo pranzo, rimase a lungo sul ponte, ma invano, giacchè in cabina non
potè addormentarsi. Questa protrazione di vita, che sino a poco prima
il sonno gli aveva procurato, gli veniva negata. Era troppo, questa
volta. Accese la luce elettrica e si sforzò di leggere Swinburne;
disteso sul letto, egli sfogliò il libro, e s’accorse ad un tratto
che prendeva interesse a quanto leggeva. Finì il poema, tentò di
continuare, ritornò al precedente; poi posò il libro aperto, sul petto,
e riflettè.

Era quella, sì, era quella! Come mai non lo aveva pensato primo?...

Era quella lo spiegazione suprema: l’aveva cercata per tanto tempo, e
ora Swinburne gli mostrava la via, la via del riposo. Egli avevo tanto
bisogno di riposo!...

Lanciò uno sguardo all’_hublot_: sì, era abbastanza largo. Per la
prima volta, durante lunghe settimane, egli fu felice; avevo finalmente
trovato il rimedio ai suoi mali. Riprese il libro, rilesse la strofa ad
alta voce, lentamente...

    _Della troppa fede nella vita,_
    _di troppa speranza e timore,_
    _ringraziamo, con breve preghiera_
    _agli dei perchè ne liberino._
    _Grazie a loro perchè niuna vita_
    _è eterna, perchè non v’è morte_
    _che rinasca giammai,_
    _perchè sino il fiume più stanco_
    _trova un giorno riposo nel mare._

I suoi sguardi seguitavano a posarsi sull’_hublot_ aperto.

Swinburne gli aveva rivelato il segreto: la vita era malvagia, o,
meglio, era diventata tale; era diventata intollerabile. «Perchè non
v’è morte che rinasca giammai!»

Questo verso lo commosse di profonda riconoscenza. Era quella una
delle poche cose benefiche della creazione: quando la vita diventava
troppo dolorosa o troppo faticosa, la morte era pronta a cullare tutti
i dolori, tutte le stanchezze nell’eterno sonno. Che aspettava dunque?
Era tempo di partire.

S’alzò, passò la testa attraverso l’_hublot_; guardò il mare color di
latte. Poichè la «Mariposa» era molto carica, bastava tenersi sospeso
per le mani, e i piedi avrebbero toccato l’acqua. Poteva scivolare
senza rumore; nessuno avrebbe udito.

Uno spruzzo di spuma saltò, gli bagnò il viso, gl’inumidì le labbra
facendogli sentire un sapore squisito. Egli si domandò se doveva
scrivere il canto del cigno; poi quell’idea lo fece ridere; non aveva
tempo veramente. Spense la luce e discese, attraversando l’apertura
dell’_hublot_, con i piedi avanti; ma le spalle non passavano; allora
risalì e ricominciò da capo l’operazione, questa volta ficcando un
braccio dopo l’altro. Un movimento della nave l’aiutò, ed egli si trovò
fuori, sospeso per le mani.

Quando i piedi ebbero toccato l’acqua, si lasciò andare. Il mare era
simile a musco bianco; come un muro cupo punteggiato da lumi lucenti,
il fianco della «Mariposa» scivolò lungo il corpo di lui, rapidamente.
Certo essa sarebbe arrivata prima... Quasi senz’accorgersene, la nave
lo sorpassò, ed egli nuotò mollemente nella schiuma crepitante. Un
bonito, attratto dal corpo bianco, s’avvicinò e lo morse. Gli aveva
tolto un pezzettino: allora il piccolo dolore che ne risentì gli fece
ricordare perchè era là. L’azione glielo aveva fatto dimenticare. I
lumi della «Mariposa» svanivano nella lontananza, ed egli era là, che
nuotava tranquillamente come se avesse l’intenzione di approdare alla
riva più prossima, a un migliaio di leghe circa.

L’istinto di conservazione si faceva ancora sentire; egli cessò di
nuotare, ma appena sentì che l’acqua gli copriva le labbra, battè forte
le mani per risalire a galla. — Il desiderio di vivere! — riflettè,
beffandosi di se stesso. — Ebbene! egli aveva volontà, molta volontà di
finirla, e, con un ultimo sforzo, di cessare d’essere.

Mutò posizione, si mise diritto; guardò le stelle, le stelle serene, e
scacciò tutta l’aria dal petto; con una vigorosa spinta delle mani e
dei piedi, sollevò il busto fuori dell’acqua per prendere lo slancio
verso il profondo; poi si abbandonò e discese, immobile, come una
statua bianca nei flutti. Aspirò l’acqua, profondamente, con tutte
le sue forze, come un anestetico. Poichè soffocava, inconsciamente
le braccia e le gambe s’aggrapparono all’acqua con violenza, ed egli
risalì alla superficie, sotto il chiaro lume delle stelle.

— Il desiderio di vivere! — si disse con disprezzo, cercando invano
d’impedire ai polmoni che scoppiavano di aspirar l’aria. Bisognava
tentare di scendere giù, giù; poi s’immerse a capofitto nuotando
con tutte le forze e con tutta la volontà, sempre più profondamente.
Aveva gli occhi aperti e vedeva i boniti increspar l’acqua di frecce
fosforescenti. Sperò che essi non lo assalissero, giacchè la tensione
della sua volontà avrebbe potuto allentarsi; ma essi non s’occuparono
di lui, ed egli ringraziò la vita, di quell’ultimo favore.

Seguitò a nuotare, sempre più giù, sempre più giù; le braccia e le
gambe, come rotte dallo sforzo, oramai si movevano debolmente. Era
giunto a una grande profondità, certamente; la pressione dell’acqua era
dolorosa ai timpani, e la testa gli ronzava.

La sua resistenza era agli estremi: ma egli si sforzò di sprofondare
più giù, sino al momento in cui la volontà lo abbandonò e l’aria gli
sfuggì dal petto, con violenza. Come minuscole palline, piccole bolle,
— le sue ultime riserve vitali, — scivolarono rimbalzandogli sulle
guance e sugli occhi in un’ascesa che si perse verso la superficie.
Poi sopravvennero le sofferenze e il soffocamento. Non era ancora la
morte — come diss’egli a se stesso sfiorando il limite fra coscienza
e incoscienza. — La morte non fa soffrire; era ancora la vita,
quell’atroce sensazione di soffoco; era l’ultimo colpo che gl’infieriva
la vita.

Le mani e i piedi, in un ultimo sussulto di volontà, incominciarono
a battere, a graffiar l’acqua, debolmente, spasmodicamente. Ma
ogni sforzo loro era inutile: per quanto tentassero, non avrebbero
potuto mai farlo risalire a galla; era troppo giù, era troppo
lontano. Ondeggiava languidamente, cullato da un fiotto di visioni
dolcissime: colori delicatissimi, una radiosa luce lo avvolgevano, lo
penetravano. Che cos’era? Sembrava un faro. Ma no; era nel suo cervello
quell’abbagliante luce bianca. Essa luceva sempre più splendida.

Seguì un lungo rombo: gli parve di scivolare lungo una china infinita,
e in fondo in fondo, sprofondò nel buio. Ebbe quest’ultima sensazione:
seppe di sprofondare nel buio.

E nel momento stesso in cui lo seppe, cessò di saperlo.


  FINE.




INDICE


  Capitolo
        I            pag. 11
       II             »   25
      III             »   37
       IV             »   46
        V             »   52
       VI             »   60
      VII             »   70
     VIII             »   82
       IX             »   93
        X             »  104
       XI             »  112
      XII             »  121
     XIII             »  127
      XIV             »  139
       XV             »  152
      XVI             »  162
     XVII             »  172
    XVIII             »  181
      XIX             »  187
       XX             »  196
      XXI             »  205
     XXII             »  213
    XXIII             »  222
     XXIV             »  229
      XXV             »  240
     XXVI             »  251
    XXVII             »  264
   XXVIII             »  280
     XXIX             »  287
      XXX             »  300
     XXXI             »  310
    XXXII             »  320
   XXXIII             »  327
    XXXIV             »  335
     XXXV             »  343
    XXXVI             »  349
   XXXVII             »  359
  XXXVIII             »  365
    XXXIX             »  375
       XL             »  384
      XLI             »  392
     XLII             »  404
    XLIII             »  415
     XLIV             »  426
      XLV             »  443




OPERE COMPLETE DI JACK LONDON

a cura di GIAN DÀULI


1. — IL RICHIAMO DELLA FORESTA (The Call of the Wild) — _Romanzo_. L.
8. —

  _C’è nei libri di Jack London un largo senso di simpatia per tutti,
  uomini e animali, e un senso di fraternità direi quasi francescana
  che gli fa capire tutti gli esseri del creato non rispetto gli
  uomini, ma rispetto alla natura. E con questo, una rara potenza
  di narrazione, una fervida fantasia messa al servizio di un’idea
  alta e buona, la quale rimane nell’anima dei lettori come una gioia
  conquistata e una tappa raggiunta._

                           «Il Marzocco» — Firenze, 20 luglio 1924.

2. — ZANNA BIANCA (White Fang) — _Romanzo_. L. 8. —

  ... _bello, buono, interessante..._

                                «Giornale della Libreria» — 18-4-25

3. — IL TALLONE DI FERRO (The Iron Heel) — _Romanzo di previsione
sociale_. L. 9. —

  .... _Hélas! Jack London avait le genie qui voit ce qui est caché
  à la foule des hommes et possedait une science qui lui permettait
  d’anticiper sur les temps...._

                                                    Anatole France.

4. — MARTIN EDEN — _Romanzo_. L. 10. —

5. — IL FIGLIO DEL SOLE (A Son of the Sun) — _Romanzo_.

6. — RADIOSA AURORA (Burning Daylight) — _Romanzo_.

7. — LA FIGLIA DELLE NEVI (A Daughter of the Snows). _Romanzo_.


  «MODERNISSIMA»
  VIA VIVAIO N. 10
  MILANO (13)




NOTE:


[1] Traduzione libera e scherzosa di un intraducibile, alla lettera,
bisticcio inglese.

    «Venne di dentro
    quand’ero fuori,
    per portar fuori
    quel ch’era dentro.
    Ma uscì di fuori
    senza il di dentro
    ch’ebbi di dentro,
    perchè ero fuori.»






Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MARTIN EDEN ***


    

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