Memorie d'un disertore, vol. 3/3

By Giuseppe Guerzoni

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Title: Memorie d'un disertore, vol. 3/3

Author: Giuseppe Guerzoni

Release date: July 17, 2025 [eBook #76518]

Language: Italian

Original publication: Milano: Treves, 1871

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE D'UN DISERTORE, VOL. 3/3 ***


                         MEMORIE D’UN DISERTORE

                   STORIA D’UNA FAMIGLIA DI PATRIOTTI


                                NARRATA

                                   DA
                           GIUSEPPE GUERZONI

                               VOLUME III



                                 MILANO
                           F. TREVES, EDITORE
                                 1871.




                         Proprietà letteraria.

                              TIP. TREVES




MEMORIE D’UN DISERTORE




PARTE SECONDA.

IL FIGLIO




XVIII.

APPARECCHI DI LOTTA.


Pochi giorni sono trascorsi dagli avvenimenti che abbiamo narrati.
Tutti gli studenti che non hanno potuto fuggire alla strage
dell’Università e dalle zanne della Polizia, giacciono quali sui letti
degli Ospedali militari, quali rinchiusi nelle cittadelle d’Ivrea, di
Finestrelle e d’Alessandria.

La Polizia è sempre spavalda e provocatrice; la corte, cieca e
testarda; l’esercito, diviso in due campi e combattuto da opposti
sentimenti; Carlo Alberto sempre misterioso, tentennante; e i capi
della Rivoluzione, incerti e dubbiosi come l’uomo di cui subivano la
letale malìa.

Tuttavia malgrado questi tristi esordii ognuno sentiva che si camminava
a gran passi verso una catastrofe. La gioventù cominciava a riaversi
dalle toccate percosse, e mormorava apertamente propositi di vendetta;
qualche studente tornava a far capolino ed a gettare nella folla
ardenti parole; i federali dell’esercito ripigliavano ardire; e Carlo
Alberto stesso pareva fare qualche passo più ardito e arrivava persino
a visitare i feriti studenti negli ospedali o dispensar loro parole di
conforto che in bocca sua parevano tanti gridi di riscossa.

Durava invece sempre uguale a sè stessa la grande indifferenza
della popolazione. Come un pubblico invitato ad uno spettacolo, essa
aspettava che qualcuno alzasse il sipario, pronta ad applaudire il
vincitore.

Ernesto Gastone e Pietro Muschietti, in capo a due mesi, mercè le
materne cure di Caterina e di Carrera e l’allegra compagnia degli
amici che facevano a gara per allietarne la lenta convalescenza,
s’erano interamente riavuti. Muschietti non aveva alcun segno visibile
di ferite: Ernesto invece portava dalla fronte alla guancia una
larga cicatrice che in luogo di deturparlo suggellava sul suo volto
l’impronta della natìa fierezza.

Essi, appena risanati, vollero vedere a che punto erano le cose e
s’accorsero che malgrado le rettoriche declamazioni si era molto
addietro. Essi correvano dall’uno all’altro, da Santarosa a Lisio,
dai capi militari ai professori, pregando, spronando, rimproverando,
e raccoglievano gran messe di promesse _pretereaque nihil_. In alcuni
trovavano ardore quanto in loro; ma erano i soliti: Ferrero, Gambini,
Laneri e Giorgio.

Giorgio era senza paragone il più deliberato. Egli sosteneva che
bastava impadronirsi del comandante della Cittadella, e dominarvi per
24 ore per aver la rivoluzione trionfante.

Ma contro i suoi consigli prevalevano quelli degli ufficiali che
non rischiavano a tentare il colpo senza aver la città o una parte
almeno del presidio di fuori che li appoggiasse. Ferrero allora si
riprometteva far la sua parte colla sua compagnia; ma se questo era
troppo per Gastone, per Santafiori, per Muschietti, era poco per
gli altri;.... e si consumava il tempo io almanacchi ed in sterili
discussioni.

Però nei primi di marzo venne a Torino segretamente un uomo, che doveva
avere una influenza decisiva sulle sorti della rivoluzione e di cui
la storia non poteva dimenticare il nome. Era il capitano Garelli del
reggimento di Genova. Era allora di presidio ad Alessandria e veniva
a Torino ad annunziare in brevi termini ai federati Torinesi che il
presidio d’Alessandria aveva deciso di sollevarsi per il giorno _nove
di marzo_, ed a chiedere che Torino secondasse il movimento. Aggiungeva
che Ansaldi era deciso a rompere gl’indugi ed a mettersi a capo
dell’impresa, e che la vittoria era certa. Che si sarebbe proclamata la
costituzione di Spagna, costituita una _Giunta provvisoria di governo_
e fatto della fortezza il centro dell’insurrezione.

— E Torino non starà colle mani alla cintola — fece Ferrero quando
Garelli ebbe finito il suo rapporto.

— Non ci starà, — rispose Giorgio, — dovessi fare io solo la
rivoluzione in cittadella.

Allora sorse un altro argomento di disputa. Si doveva uscir tutti
da Torino e muovere armati in soccorso d’Alessandria o sollevare la
capitale e quivi concentrare tutto il moto delle provincie?

La discussione durò ardente, disordinata, intollerante, com’è il
costume de’ congiurati, fin quasi al mattino, e non si approdò a nulla.
Si decise rimettersi al giudizio di Lisio e Santarosa, e appena giorno,
Muschietti fu ad interpellarli a nome degli amici.

Il consiglio, anzi il volere del Comitato era che il moto dovesse far
capo ad Alessandria; ivi raccogliere tutte le forze; proclamarsi il
governo, e ordinato un esercito, marciare in massa contro Torino.

Questo consiglio significava tre cose chiarissime: guadagnar tempo,
lasciar la responsabilità dell’iniziativa ad Alessandria, e la libertà
dell’azione a Torino; e questo consiglio non poteva venire suggerito
che da Carlo Alberto.

Quest’ordine scontentò i più ardenti; tutti finsero accettarlo per amor
di concordia, ma tutti si proposero o sperarono poterlo deludere per il
più sicuro trionfo della causa stessa alla quale si erano consacrati.
La mattina del 10 marzo non tardarono a giungere a Torino le notizie
della sollevazione d’Alessandria.

«Narravasi, così il Brofferio, che il capitano Palma alla testa del
reggimento di Genova, stanziato nella Cittadella, aveva alzato il
primo stendardo di libertà; che i Dragoni del Re, condotti dal capitano
Baronis e dal sottotenente Bianco, si fossero congiunti al reggimento
di Genova; che il colonnello Ansaldi avesse in nome della Costituzione
preso il comando della Cittadella, che una grande maggioranza di
cittadini si fosse unita ai militari; e finalmente che si fosse
composta una _Giunta provvisoria_».

Ogni altra mora sarebbe parsa vile ai federati torinesi. L’ora era
giunta: propizia a chi l’avesse saputa afferrare; irreparabile a
chi l’avesse lasciata sfuggire. Si sentiva da tutti, anche dai più
titubanti, che bisognava agire e agire subito; la cittadinanza stessa
estranea alla congiura era invasa dall’ansia di pronti avvenimenti.
E per quelle battaglie avventurose che si chiamano _Rivoluzioni_ e in
cui tutto dipende dall’audacia di pochi, anche questa ansia è una forza
perchè è un consenso.

Ma come si sarebbe agito? d’onde sarebbe venuto il primo colpo? Chi
avrebbe cominciato?

Si era sempre al problema di pochi giorni prima, e le due opposte
opinioni cozzavano sempre negli animi, sebbene scopertamente si
dichiarasse di obbedire agli ordini del comitato.

E questo, che non aveva mai immaginato nè sperato altro che una
congiura militare, e che era più dominato da pregiudizii di strategia
soldatesca che guidato da fede rivoluzionaria, stava sempre per il
concentramento in Alessandria, dove già sventolava il vessillo della
libertà, salda base d’operazione, formidabile rocca per le disperate
difese.

Fu quindi ordinato che tutti i federati marciassero in Alessandria, e
la voce pubblica che in tali giorni crea e divora le notizie, voleva
già che Santarosa, Lisio, Collegno, San Marzano fossero fuori di Torino
alla testa dei sollevati.

Quest’ordine perentorio arrivò contemporaneamente al capitano Gambini
per i Federati della cittadella, ed al capitano Ferrero per la sua
compagnia della Legione.

Gambini lo trovava assurdo, ma non aveva il coraggio di opporvisi
apertamente e mandò a rispondere: «Ubbidisco: ma avverto che non potrò
mettermi in viaggio che la notte seguente e con pochissima gente».

Giorgio portò egli stesso il biglietto di Gambini a Santarosa. Fu la
prima volta che questi due uomini, l’uomo della storia e l’uomo della
cronaca, s’incontravano.

Santarosa restò un po’ meravigliato nel vedere che il Gambini riponesse
tanta fiducia in un artigliere a segno da confidargli una lettera
aperta, e squadrandolo da capo a fondo dietro i suoi occhiali d’oro,
gli disse:

— Come ti chiami?

— Giorgio Santafiori.

— È un pezzo che sei Federato?

— Io credo d’esserlo stato nella mente di mio padre, che insegnerebbe a
molti eroi d’oggigiorno come si fanno le rivoluzioni.

— Sei severo, artigliere!.... e chi era tuo padre?

— Mio padre?.... Nulla.... a sette anni gettava sassi nella testa de’
Tedeschi con Balilla e Pittamuli.

— È un esordio rispettabile.... e tu vorresti imitarlo?

— Io vorrei, colonnello, — fece Giorgio abbassando la voce e
avvicinandosi agli orecchi di Santorre — io vorrei darvi nella mano la
cittadella questa notte istessa.

— Tu?.... sei pazzo.

— Colonnello... — fece Giorgio Santafiori, ponendosi sul _guardavoi_, —
non avete altro a comandarmi?

— Altro — e lo congedò.

Giorgio uscì mormorando tra sè «lo vedrà se sono pazzo».

Ferrero nel tempo stesso che riceveva l’ordine segreto de’ suoi capi di
recarsi ad Alessandria, riceveva da’ suoi capi ufficiali, dal Ministero
della guerra l’ordine d’andar a prendere colla compagnia il presidio
della città di Cuneo.

Egli comunicò quel doppio ordine a’ suoi amici. Gastone voleva che non
partisse: Muschietti più prudente diceva:

— Partire da Torino lo deve, perchè non potrebbe giustificare il suo
rifiuto al Ministero e correrebbe il certo rischio d’essere fatto
prigioniero assieme a’ suoi soldati prima di poter agire. Ma la
partenza non deve essere che una manovra per accontentare il comitato
e sopire il sospetto del governo. Giunti poi alla prima tappa fa un
_dietro fronte_ e al passo di carica marcia su Torino: noi gli andiamo
incontro, la cittadella si solleva, la città si copre di bandiere, si
proclama la costituzione e l’affare è fatto.

Ferrero esitò un momento; poi deposta la sua larga mano in quella del
giovane disse: — Voi promettete che gli studenti mi verranno incontro e
che la cittadella insorgerà?

— Lo promettiamo...

— Allora viva la Libertà!... domattina il capitano Ferrero sarà alle
porte di Torino.

E come promise mantenne. La mattina dell’11 marzo Torino svegliandosi
sentiva dire che una colonna di truppa, un battaglione, un reggimento,
era fuori di Porta Nuova accampato nei dintorni di San Salvario, che la
comandava un colonnello, un generale: era stata gridata la costituzione
di Spagna, che centinaia di studenti armati di tutto punto accorrevano
da tutte le parti a ingrossare i sollevati.

La verità era che il bravo Ferrero si trovava solo con 80 uomini: che
le centinaia di studenti si riducevano al centinaio, e le armi di tutto
punto ai soliti randelli.

In breve ora, tutto fu in moto: la popolazione correva a frotte verso
il campo degli insorti, ma, giunta da presso veduto, quel sottile
manipolo di soldati e quelle poche decine di giovani, come una gente
delusa dalla speranza dello spettacolo, restava stupida e immota ad
aspettare se qualche nuovo attore compariva che lo compensasse della
miseria del prologo.

Il governo invece non sapeva quel che annaspasse. Come tutti i
governi in faccia alla rivoluzione aveva perduta la testa. Mandava
due battaglioni d’Aosta con una compagnia d’artiglieri, con ordini
equivoci, e poi gli richiamava. Forse era corsa la voce a corte che
in quei reggimenti e fra quelli artiglieri specialmente c’erano molti
Federati e che si rischiava, lasciandoveli in contatto, di vederli
passare al nemico. Intanto sotto gli occhi della polizia, della truppa
e dell’intera città passava un carro di fucili e di munizioni, diretto
ad armare gli studenti e arrivava sano e salvo a San Salvario.

Poi pentito di quel richiamo, mandava un mezzo squadrone di Carabinieri
a cavallo e mezzo squadrone di Piemonte Reale, senza pensare che questa
forza sarebbe stata insufficiente e inesorabilmente battuta.

E prova di maggior buon senso, se non di coraggio, diedero il maggiore
Ducco e capitano Caravadossi che comandavano quei cavalieri. Perchè
veduto che Ferrero avea formato il quadrato, e si disponeva a resistere
a oltranza, si ritirarono in bell’ordine e stettero in osservazione.

La città continuava a guardare colla sua cheta curiosità: i regii non
avanzavano: i Federati stavan fermi: la bilancia delle due sorti era
equilibrata, e si capiva che il più lieve soffio la poteva ad ogni
istante far traboccare da un lato o dall’altro irrimediabilmente, e
l’evento lo dimostrò.

A corte si era presa alfine una risoluzione: mandar il cavalier
Raimondi, colonnello della legione Regia, nella quale era capitano
Ferrero, ad arringare i ribellati ed a richiamarli al dovere.

Ferrero da lontano lo vide arrivare al galoppo, e comprese subito che
tutto era perduto se quell’uomo poteva parlare alle truppe: egli non
ha che un mezzo, precorrerlo. Ferrero si toglie dalla sua compagnia,
s’avanza con passo risoluto verso il suo colonnello e lo arresta con
queste parole:

— Noi siamo qui per la libertà e per la indipendenza della patria: se
volete riconoscere la nostra bandiera, siamo pronti ad obbedirvi, se
no, ritiratevi o faremo fuoco sopra di voi.

— Sono vostro superiore, — ripigliò Raimondi, e come tale vi ordino di
obbedirmi.

— In questo momento, — replicò Ferrero, — non ho altri superiori che
Dio. Vi replico di ritirarvi; e se pure volete rimanere, fuori la spada
e sia decisa la quistione fra noi due.

Raimondi trasse la spada, non per combattere con Ferrero, ma per
comandare ai soldati di eseguire i suoi ordini, e sprona per arrivare
fino ai soldati; Ferrero non ha più la forza di trattenerlo: i soldati
forse hanno udito la sua voce.

Ernesto che aveva il comando in secondo della colonna, aveva tutto
osservato e indovinato. Egli stava ansioso ad aspettare la conclusione
del colloquio quando udì dietro sè alcuni soldati esclamare:

— È il nostro Colonnello; gridiamo: Viva il nostro Colonnello!

Egli misurò tutta l’urgenza del pericolo e capì che l’esitazione d’un
istante avrebbe tutto perduto. Il cavaliere Raimondi aveva già brandito
la spada, era arrivato al cospetto dei soldati, e già aveva aperta
la bocca per parlare. Ernesto non ci vedeva più: puntò la sua pistola
contro il petto del Colonnello e lo stramazzò da cavallo inondato nel
suo sangue.

I soldati che stavano per gridare: Viva il Colonnello, gridano: Viva
i fratelli studenti! e l’audacia di Ernesto salva da certa disfatta
quella colonna.

Ma la città era inerte: dalla cittadella non si udiva nessun segnale,
il giorno calava: la truppa riavutasi da una prima sorpresa, si
preparava ad un estremo assalto. Ferrero credette che fosse vano lo
stare in quella posizione e ordinò la ritirata su Alessandria.

Anche la ritirata era un atto disperato perocchè gli era d’uopo
attraversare mezzo Torino, sotto gli occhi d’un esercito ostile, venti
volte più forte: tragittare un fiume come il Po, probabilmente sotto
il fuoco del nemico che non avrebbe lasciato fuggire l’occasione di
massacrare al varco la piccola colonna.

Ferrero rischiava troppo: mentre poteva aspettare la notte, più
favorevole a sparire se la ritirata era necessaria, più propizia a
marciare se la cittadella come speravasi insorgeva.

Muschietti si oppose con tutte le sue forze alla ritirata: Ferrero
insistette: Muschietti rispose:

— Voi partite, io resto. La lotta è qui!




XIX.

LA CITTADELLA.


Malgrado la comparsa di Ferrero, Torino non dava segno di vita. I capi
della federazione raccolti a consiglio avevano mandato dal Principe di
Carignano a chiedergli una parola d’ordine, e il Principe aveva mandato
in un’ora due diverse risposte.

Collegno era tornato colla promessa che il Principe sarebbe montato la
sera stessa a cavallo e avrebbe proclamata la costituzione.

Lisio veniva dietro a lui a dire che il principe aveva deciso
soprassedere ancora un giorno per aspettare più recenti notizie
d’Alessandria.

Il comitato era in balìa di questa marea di risoluzioni e di
irresoluzioni e non sapeva a qual riva approdare. S’agitava
febbrilmente su quattro poltrone d’una stanza nascosta e non faceva
nulla. Amleto gli aveva comunicato il suo male.

Nella Cittadella verso le nove della sera durava ancora lo stesso
ondeggiamento. Tolti i giovani ufficiali che vi erano di presidio,
Errico e Gambini fra i primi, Rossi del Genio, Recciocchi, Rigolino
e Cassana del Reggimento d’Aosta, si dichiaravano decisi a gettarsi
nella mischia, ma, presi anch’essi dal contagio comune, perdevano
il tempo in piani assurdi, in sterili strategie e non arrivavano a
conclusione alcuna. Nessuno d’altronde aveva il coraggio d’assumere
la responsabilità dell’iniziativa e l’iniziativa nelle rivoluzioni,
ce l’ha insegnato sedici secoli fa Mosca Lamberti, è più che la metà
dell’opera.

Poteva essere mezzanotte. Tutta la guarnigione dormiva. Gambini si
era ritirato nella sua stanza affranto dall’emozione della giornata,
e stava dolorosamente meditando le conseguenze della fallita impresa,
quando udì picchiare al suo uscio. Quantunque stupito che a quell’ora
insolita si venisse a cercarlo, pure s’alzò e andò ad aprire egli
stesso.

— Giorgio?! — fece maravigliato nel vedere l’artigliere, — qualche
novità forse?

— Ce ne saranno se voi, Capitano, mi secondate. Vedo che tra questo sì
e no non si conchiude nulla; il miglior progetto ve l’ho già detto:
impadronirsi a forza del comandante: piantare alle sue finestre e su
tutti i bastioni le bandiere della libertà: dare, appena albeggi, nei
tamburi e nelle trombe: proclamare la costituzione. Fare adesione alla
giunta d’Alessandria, prendere tra le vostre mani, come più anziano,
il comando della Cittadella, farsi riconoscere dagli ufficiali e nessun
combattimento. La truppa imiterà i capi e non avrà forza d’opporsi....

— Ma... fece Gambini dopo una pausa silenziosa, come si fa ad entrare
nella stanza del Comandante? C’è il corpo di guardia e bisognerà
combattere per sbarazzarsene.

— No.... il picchetto di guardia lo comanda un sergente dei nostri:
Rittatore.

— Ed egli è a parte di tutto il progetto?

— Egli dice che se voi vi presenterete darà ordine di lasciarvi passare.

La testa del capitano ardeva. Il genio dell’irresoluzione e il genio
dell’audacia lottavano in un duello a morte nell’anima sua. Giorgio lo
vide e decise superare tutti gli ostacoli.

— Ebbene! se voi esitate, capitano, datemi la vostra uniforme e la
vostra spada; farò da me: voi mi seguirete.

— La mia spada? mai.... io ti precedo, — e stampato un bacio sopra il
ritratto d’una donna che aveva sul tavolino (perocchè anch’egli aveva
un occhio di donna che lo guardava nell’ombra) cinse la spada ed uscì
con Giorgio.

Il cavaliere Des Geneis comandante la Cittadella dormiva al primo piano
dell’ala sinistra del quartiere. Appiedi della scala c’era il corpo
di guardia: salita la scala il primo uscio di faccia era il suo, e una
sentinella in fazione ne guardava giorno e notte l’ingresso.

Gambini e Giorgio s’incamminarono verso il corpo di guardia avvolti
ne’ loro pastrani: scambiarono poche parole con un sergente d’Aosta
che li aspettava sulla porta. Poi il sergente infilò per il primo la
scala. Arrivato al sommo disse altre due parole alla sentinella: questa
si mise a pied’arm, e lasciò passare i due incogniti. Rittatore restò
sull’uscio e si mise a far chiacchierare la sentinella:

— Se ci fosse una mezzina d’Asti ogni ora di fazione, come sarebbe
bello il fare la sentinella.

— E meglio se una montanina della Val d’Aosta ve lo potesse mescere.

E su questo tema continuarono a conversare.

Intanto i due congiurati erano penetrati fino nella stanza del
colonnello, fiocamente rischiarata da un lumicino a olio confinato in
un angolo che permetteva appena di vedere dove si metteva il piede e
di non urtare i mobili. Esso lasciava anche vedere la testa canuta e
rispettabile del colonnello che dormiva supino a bocca aperta nel suo
letto.

Gambini e Giorgio in faccia a quel sonno tranquillo ebbero un minuto
d’esitazione; forse pareva loro di commettere un delitto; certo non era
un’impresa eroica.

Giorgio s’avvicinò per il primo e pose la sua mano robusta sul braccio
destro del dormente; questi si scosse subito, ma Gambini intanto gli
aveva afferrato il braccio sinistro. Il colonnello spalancò gli occhi,
li fissò un’istante su quelle due ombre che gli stavano al fianco,
poi desto al sentimento della verità sferrò con erculeo sforzo le sue
braccia e allungò la mano per afferrare la pistola che aveva vicino
al suo letto. Ma Giorgio aveva preveduto il movimento, e prima che il
colonnello avesse potuto arrivarvi s’era già impadronito della pistola.

Des Geneis non si arrese, e si precipitò giù dal letto gridando con
quanta voce aveva nel petto «all’armi»; ma Giorgio e Gambini gli furono
sopra, lo atterrarono e mentre il capitano gli teneva le braccia,
Giorgio gli premeva coi ginocchi il petto e colle mani la bocca per
impedirgli di gridare.... ci fu qualche minuto di sosta.... il vecchio
respirava appena, schizzava gli occhi fuori dell’orbite e mugolava
sordamente.

Il capitano Gambini colse questo lucido intervallo per farsi
riconoscere.

— Colonnello — disse il capitano — non mi riconoscete? Sono il capitano
Gambini. Non vi voglio fare alcun male, ma in nome della libertà e
della costituzione v’intimo d’arrendervi e di affidarmi le chiavi della
Cittadella.

— Mai.... — urlò l’atterrato.... — prima si muore.

— Colonnello, la vostra resistenza è inutile... tutta la guarnigione è
con noi e domani ci sarà tutta la città.

— Mai... — replicò.... — viva il Re.... e cogliendo un momento in
cui Giorgio aveva allentata la stretta per lasciarlo parlare, balzò
da terra colla agilità d’un giovane, e prima ancora che i suoi due
avversarii avessero potuto metter mano alle loro, aveva staccato dalla
parete la sua spada e la brandiva con ammirabile gesto di sfida.

Giorgio lo assalì colla sua sciabola corta da artigliere: il cavaliere
Des Geneis gli misurò un terribile fendente alla testa, Giorgio lo
parò metà colla lama, metà col braccio, ma senza nemmeno accorgersi
della ricevuta ferita e del sangue che ne grondava, infilò con un colpo
disperato il petto del colonnello e glielo passò fuor fuora.

Gambini aveva assistito al breve combattimento appoggiato alla sua
spada, e quando vide che Giorgio ebbe vinto, disse: — se tu soccombevi
sarei subentrato io, ma in due contro un vecchio mi sarebbe parso un
assassinio.

— È giusto; e questo sangue mi fa bene, — rispose Giorgio additando la
sua mano che penzolava quasi tronca — mi pare riscatti la morte di quel
bravo uomo.

Il colpo era fatto: usciti trovarono Rittatore che faceva mettere in
rango il suo corpo di guardia. Il capitano Gambini annunzia loro che
prendeva il comando della Cittadella in nome della costituzione e
li invito ad inalberare con lui la bandiera nazionale. Quei soldati
vedevano un capitano che parlava, un sergente che assentiva, e non
chiesero di più, e per opera loro in una notte tutta la cittadella fu
coperta di vessilli tricolori.

Gambini corse a svegliare gli ufficiali suoi amici annunciando
l’accaduto, essi l’udivano con gioia: finalmente uno aveva osato
cominciare, finalmente avevano un capo: era la sola cosa che
desideravano.

Appena albeggiato fu dato nei tamburi, tutta la guarnigione fu messa
sotto le armi, e stanca di passare di incertezza in incertezza,
d’allarme in allarme, accettò il fatto compiuto e con una delle solite
baldorie di caserma, lo ratificò.

Il cannone annunziò l’avvenimento, e Torino vide sventolare sulla
caserma i vessilli costituzionali, ancora incredula di quel miracolo
compito. L’annunzio fu portato al comitato che ne fu meravigliato: fu
portato al Carignano il quale, non volendo mostrarsi nè troppo credulo
nè troppo scettico, mandò ad accertarsene. Un dragone a stento potè
andare e tornare col messaggio. Tutta la popolazione era intorno agli
spalti della trionfata fortezza a salutare il fausto avvenimento.

Era giunta l’ora anche per Carlo Alberto; se egli esitava ancora, tutti
quei giorni di lotte, di dubbi, tutte quelle promesse dispensate,
quelle speranze nutrite diventavano una commedia sfruttata, una
scandalosa menzogna.

Gli amici gli stavano d’attorno, lo premevano, lo incalzavano, gli
conducevano il cavallo, gli presentavano la spada e la bandiera, ed
egli girava gli occhi incerto, ansioso, dall’una all’altra, non sapendo
decidersi ad accettarle, non volendo decidersi a rifiutarle. Alla
fine montò in sella sperando ancora che un improvviso avvenimento gli
avrebbe lasciato tempo, e dubbioso sempre se avrebbe trattato il popolo
al quale andava incontro come amico o come ribelle.

Andava spinto dal soffio del dubbio come una nave senza bussola, come
uno spirito senza coscienza.

Giunto in piazza Castello, fatti forse cinquanta passi, gli giungono
all’orecchio le grida di «Guerra all’Austria! viva la costituzione di
Spagna! viva la libertà!»

Carlo Alberto non ha più il coraggio di avanzarsi, quella franchezza
popolare gli dà le vertigini. Sente che era venuto il momento di dire
il suo _est est non non_ ed egli non sa, non vuole, non osa, vorrebbe
e non vorrebbe... tentenna; una voce lo incalza e gli grida: avanti! è
quella d’Italia, del popolo, dell’onore, della gloria, e il cuore gli
balza in petto e spinge il suo cavallo; ma un’altra voce lo affronta
e gli intima «indietro!» è forse quella della sua casa, de’ suoi avi,
del Re, del trono, della sicurezza, della pace, e si arresta, e gira le
redini e rifa le sue orme.

Muschietti gli era sempre stato vicino, l’aveva osservato, l’aveva
compreso. Quando vede che il Principe si volta per tornare indietro si
slancia alla testa del suo cavallo, ne afferra la briglia e facendogli
splendere sugli occhi la canna d’una pistola, gli grida:

— Altezza! la strada del ritorno è quella del tradimento, la strada
dell’ardire è quella della gloria: qui su queste pietre è il circolo di
Popilio; decidete.

In ogni tempo la massima tortura fu quella del dubbio. Carlo Alberto
sarebbe morto più volentieri che dire in quel momento _voglio_. Ma
tutta la città, tutti i suoi amici carbonari, tutti i federati che
avevano confidato ne’ suoi giuramenti, lo guardavano: la coscienza d’un
popolo intero lo metteva in mora, e gli fu forza piegare ed aver suo
malgrado la volontà.

Decise d’andare avanti e proclamò la costituzione. Carlo Alberto in
quel giorno parve agli occhi di tutti un eroe, ma da quell’ora la sua
timida coscienza non ebbe più riposo e non trovò una notte di sonno.




XX.

SENTIAMO TACCHINI.


Una mattina del mese di gennaio i nostri abbonati alla bottega dello
speziale, Onofrio, che il lettore non avrà del tutto dimenticati
discutevano, commentavano, e straziavano a modo loro le notizie giunte
allora di fresco, già guaste e sfigurate nel tragitto, della comparsa
al Teatro _d’Angennes_ dei quattro studenti che erano diventati
_quaranta_; e del conflitto dell’Università che aveva pigliato
sulle labbra del cancelliere Frustadenti e nella mente del credulo
farmacopula le proporzioni di una giornata campale.

Quando entrava in bottega il maresciallo Malagana e buttava là a
pascolo della voracità comune queste parole:

— Sapete che il sindaco Arena è partito ieri sera: e non si sa nè per
dove, nè perchè?

— Partito? — risposero in coro i congregati.

— È impossibile!.... l’avrebbe detto a me, rispose il cancelliere
Frustadenti sedendosi, e facendo rientrare orgogliosamente il suo mento
nella scatola, sempre pronta a riceverlo, del suo cravattone nero...

— Pure se a qualcuno doveva dirlo, per primo era a me, che sono il
primo rappresentante del Re.... — fece il Maresciallo dei Carabinieri
con stizza manifesta.

— E pazienza loro due! Ma non dir nulla al Parroco che deve rispondere
a Dio ed ai suoi vicarii sulla terra delle anime della parrocchia.

— Scusino veh! — fece lo speziale, — ma salvo gli errori del
popolo, i primi a cui doveva parlar del suo viaggio erano quelli
di sua famiglia.... ora se si vuol sapere qualcosa è da tornare in
famiglia.... e.... salvo sempre gli errori....

— La famiglia non sa nulla, rispose il Maresciallo. Io l’ho interrogata.

— Ma allora dove sarà andato?

— Perchè sarà andato?

— Che sia anch’egli coi _Carbonari_!

— Orrore!

— O sia stato chiamato dal Della Torre! Gli vuol tanto bene!

— Baie!

— Sarà andato per vendere il grano che ha ancora sul granaio dell’anno
scorso.

— Se volete saperlo, il sindaco Arena ha una missione politica. E chi
non mi crede scommetta, conchiuse il Frustadenti sputando questa sua
affermazione con tanta risolutezza da lasciar mogi e silenziosi i suoi
contraddittori.

Infatti dov’era andato così improvvisamente il sindaco Arena, e che
cosa era accaduto per indurlo a partire all’insaputa di tutti e con
tant’aria di mistero?

Il lettore qualcosa deve avere indovinato. Una lettera giunta da Torino
non aveva tardato a raccontare l’episodio del Teatro _d’Angennes_, la
complicità, l’arresto del figliuolo, e la sua prigionia nella fortezza
di Fenestrelle... Il padre a questo annunzio restò fulminato. Di tutta
la casa il solo che amasse, e se questa parola stuona per un carattere
come l’Arena impastato d’odio, il solo che prediligesse era Adolfo.
Anche l’orso bianco deve avere qualche orsetto che preferisce agli
altri e risparmia. Adolfo era il nome, la casa, la nobile stirpe degli
Arena propagata sulla terra! Su quel figliuolo ci aveva fatti sopra
tanti sogni, e vi aveva confidate tante speranze; era predestinato a un
sì splendido avvenire, che l’idea di vederselo a un tratto sospettato
di Carboneria, tradotto in un carcere come rivoluzionario, caduto nella
disgrazia del Re, egli, figlio d’uno dei più fedeli lacchè della Corte,
gli fu insopportabile. Fu il primo vero e profondo martirio che l’Arena
provò in vita sua....

Però letta la lettera, meditatala un po’, ebbe persino vergogna di
confessare la sua disgrazia e quella del figliuolo. Gli pareva,
divulgandola, di accrescerla; gli pareva che tutti i suoi nemici
dovessero sorridere, e che ognuno dovesse fare a gara per gettargli
sul volto col nome di suo figlio, l’insulto di «rivoluzionario» peggio
assai che «ladro».

La sorte del figliuolo interessava una madre e due sorelle; ma che
cosa poteva calere a lui dei diritti del cuore? Che cosa avrebbero
potuto farci quelle tre donne? Piangere o pregare qualche sdruscita
immagine di Madonna! Le donne — diceva — non sanno far altro e sono
guastamestieri.

Partì quindi senza dir nulla ad anima viva; si fece condurre dalla sua
carrozza fino a Voghera; licenziò carrozza e cocchiere, e quando fu
certo di non esser veduto montò nella diligenza per Torino.

Trovò la capitale tutta agitata e fremente ancora del sangue sparso
all’Università, e sentì che non era prudenza indugiarsi troppo in
quell’ardente atmosfera. Affrettò i passi e arrivò prima dell’annottare
al palazzo Della Torre. Il conte era il solo che gli poteva ottenere la
grazia e la liberazione del figliuolo ed egli era disposto a qualunque
sacrifizio per ridestar la generosità del suo antico padrino.

Dopo una lunga anticamera, giacchè il Della Torre in città non derogava
così facilmente dalla sua etichetta feudale, fu introdotto e potè
narrare il suo caso. Il signor Arena fu per la prima e per l’ultima
volta in vita sua eloquente. Descrisse le abitudini, la probità, le
virtù del figliuolo; rammentò la educazione e gli esempi paterni;
toccò con modesta riserbatezza de’ servizii da lui resi al trono ed
all’altare; mostrò un avvenire perduto, una giovinezza rovinata;
dipinse il suo dolore e quello di sua madre, e arrivò persino,
mostruoso sforzo, a far comparire ne’ suoi occhi una goccia d’acqua che
assomigliava ad una lacrima.

Il Della Torre, ultimo fra i piloti della Reggia in quella tempesta,
aveva troppi pensieri per il capo in quel momento per occuparsi d’uno
studente, e rispondeva come il solito:

— Il caso mi par grave, cavaliere Arena; tuttavia sentiamo quel
che dice Tacchini, — e suonò il campanello per chiamare il fido
consigliere.

Arena sentì che egli era posto di fronte ad un nemico, e si preparò
alla battaglia.

Tacchini entrò quasi subito; adocchiò di sbieco l’Arena, ma finse non
vederlo, e andando diritto al Conte gli chiese rispettosamente «cosa
desiderasse da lui».

— Senti un po’ cosa ti dice qui il Sindaco Arena...

— Ah! — fece voltandosi ratto come se al suono di quel nome si fosse
sentito ferire alle spalle. — Ah il signor Sindaco Cavaliere.... So
già quello che chiede. Ma è impossibile. Non si può mica mancare ai
doveri di magistrato e di cittadino, e lasciar calpestare la legge
per favorire un amico. Che cosa sarebbe del Trono; che cosa direbbero
tutti i suoi fedeli sudditi se vedessero in questo momento un atto di
debolezza che sarebbe per giunta un atto d’ingiustizia? Se ci è anzi
necessità di dare un esempio che resti memorabile gli è con quegli
scapestrati che furono i primi ad accendere le ree scintille che
oggi minaccian d’incendio, qualora una mano vigorosa e potente non le
comprima. Per me i quattro studenti del Teatro _d’Angennes_, sono i
più colpevoli di tutti, e come tali proporrò che siano in ogni caso
trattenuti come ostaggi, e severamente giudicati... Quest’è la mia
opinione; il signor Conte ha troppo senno per non poter prender da sè
una deliberazione; ma egli vorrà considerare che oggi la fiducia di S.
M. il Re lo pone fra i principali sostegni del trono vacillante, e che
ogni suo atto assume in faccia all’Augusta Dinastia, alla Nazione, a
Dio, una grande responsabilità.

— Ed a questa responsabilità un Della Torre non fallirà. Caro Arena,
noi non possiamo far nulla per vostro figlio.

— Ma se mio figlio fosse innocente?

— Innocente! — sclamò Tacchini meravigliato. — Era fra i quattro
arrestati quello che urlava più di tutti, e che alla porta del
_d’Angennes_ si difese disperatamente... non ci sarà, ne son certo
per il decoro della magistratura piemontese, alcun giudice che oserà
proporre la sua assoluzione! Ed io qui vado più oltre; io non so come
il governo in questo frangente sopporti che il padre d’un ribelle
rappresenti colle vesti di Sindaco la sacra persona del Re o la maestà
della legge. Io consiglierei Arena, perchè gli sono ancora amico, a
dare la sua rinunzia.

A quest’ultima parola Arena restò atterrito, e sentì che aveva di
fronte un nemico implacabile che non gli avrebbe accordato quartiere e
non volle perdere il tempo nè a pregare nè a perorare.

S’inchinò profondamente al Conte, incrociò francamente il suo sogghigno
col sogghigno di Tacchini, cozzo elettrico di due demoni, ed uscì.




XXI.

VOLPE E SERPENTE.


Ebbe una notte insonne piena di negri fantasmi e di più negri
proponimenti. Alla fine verso l’alba parve adagiarsi nella calma d’un
pensiero e s’addormentò.

Svegliatosi, si vestì in fretta, e si diresse alla casa del conte Della
Torre. Ma questa volta invece di chiedere del Conte, domandò d’essere
introdotto addirittura da Tacchini.

Dopo un’altra anticamera, e un va e vieni di camerieri, fu introdotto.

Il Tacchini l’aspettava scaldandosi le spalle alle fiamme d’un gran
camino e lo accolse con queste parole:

— Mi fa male, Arena, il vedervi: io vi ho lasciato entrare per non
usarvi scortesia; ma non posso proprio far nulla....

— Se il Senatore mi permette di sedere ne parleremo, disse Arena senza
scomporsi dell’antifona.

— Fate pure.... venite qui vicino al fuoco: la giornata è rigida...
posso farvi servir qualche cosa?...

— Grazie, Senatore. Ho troppo fretta di venire al discorso che mi
conduce.

— Lasciamolo quell’argomento... fate a modo mio.

— Lasciamolo.... ma e cosa avverrà di mio figlio se lo lascio?

— Avverrà... non lo so... non me lo chiedete... non lo posso dire a un
padre...

— Basta... anche detto troppo... Pure, se permettete, io persisto a
credere tre cose...

— Quali?

— Che voi siete convinto che egli è il meno colpevole di tutti; che non
è, e non fu mai rivoluzionario; che potè fare, riscaldato dal vino, una
bravata di ragazzi; che anzi non sapeva quel che si faceva. In somma
che egli è innocente; in secondo luogo che voi potreste salvarlo. E in
terzo che voi volete perderlo...

— Ma, caro Arena, voi pretendete indovinare troppe cose. Io farò
osservare la legge... e facendola anche osservare mitemente, saranno
20 anni di galera; se pure le rappresaglie della rivoluzione non
imporranno al governo più severi obblighi...

— Pure un uomo come il Senatore Tacchini dovrebbe trovare un mezzo per
conciliare l’osservanza della legge co’ suoi interessi e quelli d’un
amico...

— Sono un cattivo inventore io, caro Arena, rispose ghignando il
Magistrato.

— Allora ve lo suggerirò io... se prima permettete...

— Suggerite pure... ma badate che nelle case dei grandi, i servi
sogliono origliare alle porte.

— Grazie dell’avviso, fece l’Arena... abbasserò la voce.... e,
avvicinando la sua seggiola a quella del Senatore, riprese:

— Il mezzo ch’io potrei suggerirvi, avrebbe... 18 anni.

— È conveniente.... avanti.

— Capelli biondi.... occhi azzurri....

— Avanti....

— Gentile.... melanconica....

— Avanti.

— E si chiama Giusta....

— Arena... ci vuol poco a capirvi... Ero certo che vi avrei capito...
Pure c’è un ma!

— C’è un ma?

— E vivente, in carne, pelle, ed ossa!

— Sarebbe a dire?

— C’è un amante...

— Ah! rispose crollando la testa Arena.... So di che volete parlare.
Amori di collegio, follie, fanciullaggini, non ve ne occupate.

— Ma se la fanciulla rifiutasse?

— Non rifiuterà.

— Ma se rifiutasse?

— Allora... — l’Arena aggrottò torvamente il sopracciglio; pensò un
istante, poi con voce cupa... — allora la ucciderò.

— Sarebbe uno sproposito; io avrei il rammarico di fare il vostro
processo... Ma facciamo l’ipotesi che non rifiuti.

— Ella è vostra....

— E quando?

— Quando mio figlio avrà una sentenza d’assoluzione, ed un
salvacondotto per l’estero finchè sia finita la rivoluzione.

— No... no... così non si va intesi. Prima vostra figlia dica di sì
all’altare; e prima di uscir di chiesa voi avrete la sentenza e il
salvacondotto...

— E chi mi assicura della vostra parola? fece l’Arena.

— E chi mi assicura della vostra?

I due interlocutori sospesero per pochi istanti il dialogo. Entrambi
avevano ragione, la fede dell’uno valeva la fede dell’altro; pesando
quelle due coscienze sarebbe stato impossibile conoscere quale delle
due soverchiasse la capacità del tradimento.

— Non c’è che una transazione, — disse Arena rompendo pel primo il
silenzio.

— Quale? proponete.

— Che le due carte sieno depositate nelle mani del conte Della Torre.

— Questo patto non mi conviene. Il signor Conte è scrupoloso in fatto
di giustizia; egli si fida di me perchè mi crede la Nemesi in persona.

— Allora lasciatemi pensare... Ho trovato... Si consegnano le due
carte chiuse in un plico suggellato al Conte stesso, e si pone tra le
clausole del contratto che quando il Senatore Tacchini avrà sposato la
signora Giusta Arena, gli verranno trasmesse le carte che guarentiscono
la dote della fanciulla, affidate al conte Della Torre e contenute nel
plico suggellato con tal suggello che porti l’indirizzo del cavaliere
Arena e il numero tale... che vi pare?

— L’idea non è perfetta ma è praticabile... allora, quando sareste
pronto voi?

— Io fra quindici giorni, se vi piace?

— Sì — fra quindici giorni... ma a proposito, non si è parlato del più
importante...

— Cioè?

— Della dote....

— La dote... senatore Tacchini, noi abbiamo negoziato la figlia e non
la dote...

— Noi abbiamo negoziato una moglie, e una donna senza dote non è una
moglie.

— Sicchè voi vorreste fanciulla e dote?

— Perchè no? Se voi volete sentenza d’assoluzione, salvacondotto e
deposito...

— Ma, dolce mio Senatore, lasciatemi chiamarvi con questo nome,
io credevo che per rendere giustizia, perchè in fondo mio figlio è
innocente, il sacrificio d’una fanciulla di 18 anni a un uomo come voi
potrebbe bastare.

— Ah ah! — rispose scoppiando in una chioccia risata il Senatore, — voi
parlate di giustizia e di sacrificio... — voi!.... Vi credeva un uomo
di spirito, m’accorgo che non siete che un Sindaco di villaggio e per
poco anche questo...

Arena sentì subito che gli era forza transigere, e come un destro
generale che ha riconosciute le forze del nemico e non esita a
impegnare una parte delle sue truppe per salvare il grosso del suo
esercito, si fece avanti un passo e gli disse...

— Ebbene... cosa chiedereste?...

— Mezzo milione...

— Pazzie! non arriverei alle 150 mila!

— Mezzo milioncino.... ripicchiava il Senatore sonando il tamburo colle
dita sul bracciale della poltrona....

— Oh insomma, cifra tonda, 200 mila e non un soldo di più.

— Mezzo milioncino e non un soldo di meno...

— Mezzo milioncino... andrò a gettarmi ai piedi della Regina e vedrete
che Salomone Arena non ha perduto tutto il suo potere alla corte; ma se
vinco state in guardia anche voi. Vi restituirei questo cattivo quarto
d’ora.

E così dicendo si voltò di nuovo ed uscì sbatacchiando con gran
fracasso l’uscio della sala.

Tacchini indovinò subito nelle parole dell’Arena il linguaggio d’una
disperata risoluzione, e capì che non gli conveniva per vincer troppo
lasciarsi sfuggire di mano tutta la vittoria.

Corse adunque in due salti all’uscio, sporse metà della persona,
raggiunse l’Arena che non aveva ancora toccate le scale.... e con un
colpo di tosse lo richiamò...

Arena diede alla sua volta in una risata, gli voltò le spalle, finse di
uscire...

— Buon viaggio, Arena... mi dispiace per quel povero ragazzo che
rischia d’essere fucilato, fischiò il vecchio serpente quando Arena
toccava la soglia dell’uscio per andarsene.

A quella parola _fucilato_, Salomone restò quasi pietrificato, un
freddo sudore gli scorse per l’ossa e non ebbe per alcuni istanti il
coraggio di fiatare.

Poi asciugati i diacciati goccioloni del volto si fece ancora avanti e
disse:

— Siamo onesti Tacchini! 200 mila possono bastarvi...

— Mezzo milione — fece il Tacchini ghignando a quella invocazione
all’onestà, e gongolando di gioia nel vedere il nemico prossimo
alla resa. — È impossibile.... se volessi non avrei tanto danaro....
arriverei tutt’al più ai 250 mila.

Tacchini gli sorrise e disse a bassa voce ancora una parola.

Arena tornò indietro; Tacchini lo invitò a rientrare e rientrò.

— Non ci riscaldiamo il sangue come i ragazzi. Dunque dite che non
potete dare che 300 mila.

— L’ho detto, Senatore, non un soldo di più.

— Ebbene, voglio mostrarvi che sta a cuore anche a me quel bravo
giovine.... toccate la mano, caro suocero.

Salomone stese la sua mano grossa e pelosa nella gialla e scheletrita
del Senatore, e il patto satanico fu suggellato.




XXI.

MANOVRE.


Salomone Arena non frappose indugio a tornare al suo villaggio,
deciso ad affrettare l’adempimento del suo contratto. Egli conosceva
l’amore di Giusta per Giorgio, e per quanto la ritenesse una puerile
esaltazione, pure gli era forza confessarsi che il carattere di Giusta
era tra quelli che contro la violenza si spezzano e che solamente colla
persuasione si piegano.

Si preparava perciò a vincere cogli inganni ma capiva che per
prepararli gli sarebbe occorso tempo e pazienza. Ad ogni modo se gli
stratagemmi non gli fossero riusciti avrebbe adoperata tutta la forza
di cui la sua paterna tirannia fosse stata capace.

Lungo il viaggio abozzò il progetto, e giunto al villaggio l’aveva
compiuto.

Egli non era così ignaro delle astuzie degli amanti per non essere
persuaso che anche lontano l’artigliere Santafiori avrebbe trovato
il mezzo di scrivere alla sua Giusta. Gli restava soltanto a
scoprire questo mezzo, e almanaccando non tardò a persuadersi che
l’intermediaria delle corrispondenze clandestine doveva essere Livia,
la sorella stessa di Giorgio. Ma non era certo, e prima d’ogni altro
passo risolvette assicurarsene.

Giunto al villaggio, prima ancora d’entrare in casa sua, si diresse
difilato al Maresciallo de’ Carabinieri Malagana e gli parlò in questi
termini:

— Maresciallo: vengo da Torino: l’augusta casa del nostro Re è
minacciata da una rivoluzione che pare abbia le sue radici in alcuni
traditori dell’esercito. Fra questi scellerati, il senatore Tacchini
ha fondata ragione per credere che vi sia anche Giorgio Santafiori
del 1.º d’artiglieria, ed io ebbi l’incarico di far sorvegliare il suo
carteggio. Vi prego perciò, e all’uopo vi invito a far trattenere tutte
le sue lettere che venissero al villaggio a sua sorella, da lui, ed a
consegnarmele. Lo farete?

— E perchè no? tutto per il servizio del Re — rispose il Maresciallo.

In quei tempi d’arbitrio non c’erano che i rivoluzionarii che
pensassero all’inviolabilità del suggello epistolare, e ognuno credeva,
dal Re all’ultimo dei suoi servi, che arrestare le lettere d’un uomo
sospetto era un dovere di coscienza ed un atto meritorio.

Salomone entrato in casa atteggiò il suo volto ad un profondo dolore;
si stroppicciò iteratamente gli occhi per fargli credere stanchi da
un lungo pianto e si lasciò cadere sopra una sedia. Nè la signora
Angelica aveva mai veduto suo marito, nè Giusta, nè Virginia il loro
padre a quel modo. Bisognava essere educate alla scuola della finzione
per leggere traverso la maschera di quel volto. Tutte credettero, e
furono d’attorno al misero uomo ansiose e commosse a chiedergli quale
disgrazia gli fosse sopraggiunta.

Salomone si agitò lungamente in cupe smanie come se gli pesasse rendere
partecipe la sua famiglia del suo affanno; poi alla fine, eccitato
dalle lacrime delle donne a parlare, si sfogò a un tratto così:

— Ci hanno imprigionato il figliuolo. Adolfo fu colto, credo per
errore, lo credo fermamente, in una sommossa di studenti e fu tradotto
a Fenestrelle.... e — Salomone s’arrestò.....

— Ebbene? — chiese Giusta la più agitata di tutte.

— Ebbene: lo sottoporranno a un giudizio statario e sarà....

Salomone s’arrestò di nuovo nascondendosi il volto tra le mani e
urlando come un torturato. Avrebbe dato uno de’ suoi poderi per poter
trovare in quel momento un po’ di lacrime anche finte; ma la menzogna
di questo sfogo concesso soltanto ai cuori sinceri gli fu interdetta.

Le donne però furono ugualmente spaventate e insistettero perchè
continuasse.

— Quando volete che vi dica tutto... se non interviene un miracolo del
cielo, sarà fucilato.

La signora Angelica svenne: Giusta diè un grido e s’affrettò a
soccorrere sua madre: Virginia restò a confortare suo padre.

Dopo alcuni istanti di pausa, e quando il primo impeto di terrore parve
quietato, Giusta si voltò al padre e con un tuono di voce che spirava
tutta la solennità e la mestizia d’un giuramento, disse:

— Padre mio, se per salvarlo credeste utile la mia vita, essa è vostra.
Ma se frattanto occorresse molto denaro, vi pregherei a dare tutto
quello che un giorno mi potrebbe appartenere. La povertà mi pare bella,
comprata a tale prezzo.

— Oh date tutto.... tutto.... la mia dote, il mio sangue, — disse
Angelica — ma salvatelo.

Virginia in questa gara di sacrificii stava ad ascoltare.

Salomone si rivolse a Giusta e parlandole per la prima volta in vita
sua con un accento d’insolita affabilità, le disse:

— Grazie, Giusta, forse verrà il momento in cui ti chiederò
l’adempimento della tua promessa. Però ora non disperiamoci: c’è ancora
un mezzo e dipenderà molto da noi per metterlo in opera.

— Un mezzo, padre mio? e perchè tardiamo allora? — fece Giusta.

— Per ora non posso manifestarlo. A tempo e luogo lo saprete; intanto
preghiamo il Signore che ci tenga nella sua santa protezione. Prendete
Angelica: è un luigi nuovo, farete dire a Don Fulgenzio una messa
secondo la nostra intenzione.

E acquetate con altre parole le tre donne uscì di casa in cerca
del Malagana. Il Maresciallo aveva appunto nelle mani una lettera
proveniente da Torino alla sig.a Livia Santafiori.

— È qui il morto, — disse il Maresciallo mostrandola al Sindaco.

— Date.... date subito: bisogna che legga e che ci faccia sopra il mio
rapporto. — E pigliata la lettera andò a rinserrarsi nel suo gabinetto
del Palazzo Comunale e ne stracciò il suggello.

Non s’era ingannato; vi trovò dentro una lettera per Livia tutta cose
e affetti domestici e un’altra per Giusta. Quando l’ebbe percorsa
tutta la gettò sul tavolo rabbioso di non trovarvi quello che aveva
sperato. Erano le usate fantasie d’amore, i consueti sogni, i soliti
giuramenti, ma non una parola di politica. Il Sindaco s’era lusingato
che l’artigliere svelasse alla sua amica tutti i suoi segreti, e quindi
anche quelli delle sue patriottiche utopie delle quali lo credeva
appestato; chè se una sola confidenza gli fosse sfuggita, Giorgio era
spacciato e il problema del matrimonio con Tacchini risolto. Invece
silenzio assoluto. Nè cospiratore, se Giorgio lo era, fu mai più
guardingo, nè lettera d’amanti più discreta.

Salomone non ebbe altro a fare che trattenere la lettera e aspettare
gli avvenimenti.

Intanto era venuto il marzo: la voce pubblica portava da Torino ed
anche dalle provincie le più strane notizie; tutti quelli che avevano
parenti o figliuoli lontani erano inquieti e accorrevano alla posta
ansiosi a cercarne le nuove. E tosto o tardi, o liete o sconsolanti le
ricevevano.... per due sole persone la posta era muta da oltre quindici
giorni: per Giusta e per Livia.

Giorgio non scriveva, o almeno esse non ne ricevevano lettere, e non
sapevano più che pensarne; Giusta straziata anche dall’altra pena del
fratello aveva perduta persino la forza di piangere e Livia non faceva
che pregare.

Naturalmente i gazzettini della spezieria esageravano com’era lor
costume le notizie quando non le fabbricavano di pianta, ed empivano
il credulo e pacifico villaggio di favole stravaganti e paurose. E
tutte quelle voci di combattimenti, di stragi, di prigionie, andavano a
ripercuotersi sul cuore delle due derelitte e non vi lasciavano un’ora
di pace.

Esse si trovavano tutte le sere in Chiesa e quando ai rintocchi
dell’Ave Maria il sagristano andava a spegnere i ceri, e gli ultimi
preganti s’erano ritirati, quelle due sorelle di dolore si avvicinavano
cautamente, si toccavano le mani ancora umide dell’acqua benedetta e
sommessamente sicchè solo Dio poteva udirle, si chiedevano:

— Nulla?

— Nulla.

— Preghiamo per lui, — replicava Livia, e con un sospiro si separavano.

Ma scorsi altri pochi giorni e continuando a mancare le lettere, Livia
decise uscire d’incertezza e sapere ad ogni costo la verità.

Il suo confessore le aveva suggerito di rivolgersi al Sindaco Arena,
il solo che potesse per le vie ufficiali attingere nella confusione di
quei giorni, certe notizie.

Livia non poteva amare il sindaco Arena, ma la sua pietà le vietava
anche di odiarlo. Sapeva inoltre ch’egli era stato cagione di molti
guai per la sua famiglia, ma preferiva dimenticarlo. Si pose adunque
sulla testa il suo velo nero e andò a presentarsi al Sindaco nel suo
stesso Ufficio.

Salomone Arena appena l’udì annunziare capì subito di che si trattava e
si preparò a recitare la sua parte: raccolse col sorriso sulle labbra e
il miele sulla lingua: si mostrò premuroso, cortese, intenerito: disse
che anch’egli era colpito da una grande sciagura, che era quindi in
grado di comprendere quelle degli altri: alla fine promise che avrebbe
scritto al Governatore di Torino per sapere tutto quanto avrebbe potuto
sul conto di suo fratello.

Livia volle baciargli la mano; e partì commossa da tanta bontà e quasi
persuasa che quell’uomo fosse stato fino allora calunniato.

Scorsi cinque giorni, giunse al Sindaco di S... un plico suggellato da
Torino che portava queste parole:

«In risposta al foglio della S. V. in data primo marzo si partecipa che
il nominato Giorgio Santafiori soldato nel 1.º Reggimento d’artiglieria
reale fu arrestato sette giorni sono e tradotto nella fortezza di
Casale per sospetto fondato di fellonia».

Quando Salomone Arena ebbe ricevuto questo plico, lo mandò a Livia
Santafiori con una parola di condoglianza, che pareva sincera; e
fiutata una presa di tabacco disse fra sè con trionfante compiacenza:

— Ora è il momento di smascherare tutte le batterie.




XXII.

BATTERIE SMASCHERATE.


Rientrato in casa dove aveva sempre saputo conservare la sua tinta di
mestizia, i suoi occhi rossi, raccolse nel salotto la sua famiglia e
parlò così:

— Vi aveva detto, miei cari, che sperava di scoprire un mezzo per
salvare il vostro fratello. Oggi finalmente posso annunziarvi che
questo mezzo c’è, purchè voi specialmente Giusta vogliate secondarmi.
Per salvare Adolfo non c’è altro che farlo comparire imparentato con
un casato che per i servigi e la devozione al Re ed alla sua famiglia
sia superiore ad ogni sospetto. Se Adolfo avesse trovato in quel
casato una sposa.... sarebbe forse stato meglio; ma non ci sono donne.
Mercè l’illustre nostro protettore il conte Della Torre si potrà
invece trovare un marito.... anzi s’è trovato; è un uomo che onorerà
e proteggerà la nostra famiglia, potente nella Corte e nel foro; uno
dei primi Magistrati di Piemonte. Egli ama una di voi due — e pone per
condizione alla liberazione d’Adolfo la mano di....

Giusta si sentì piegare sotto le ginocchia.

Salomone non aveva ancora detto «sei tu» pure ella aveva subito sentito
che la vittima era lei. Angelica cinse delle sue mani la figliuola e la
sostenne dicendole sommessamente «coraggio».

Virginia invece con voce ferma esclamò «Credo che chiunque di noi sia
la preferita sarà lieta di salvare a così poco prezzo la vita di suo
fratello».

— La preferita è.... — il padre sospese ancora la parola, quasi si
dilettasse d’infliggere quella tortura preparatoria alla figlia che
aveva condannato.... Poi ripigliò.... — è Giusta.

Giusta si era preparata, diè un leggero pianto che compresse con una
stretta febbrile al cuore; s’appoggiò ad una sedia per non cadere e
riprese:

— Questo è impossibile, padre mio.

— Impossibile!.... non dir subito questa parola, fanciulla mia.

— È impossibile, come il delitto, come lo spergiuro; è più facile
morire. Se quell’uomo vuole la morte di una di noi, lo ringrazio della
preferenza, ma l’amore, la fede mia è impossibile.

— Allora Adolfo dovrà morire.

Il dilemma pareva crudo come il labbro che lo proferiva. La madre diè
in un singhiozzo. Giusta si sentì tremar tutta e il cuore le diè un
balzo così forte che ne sentì l’urto co’ proprii orecchi. Il padre
proseguì:

— La qual morte sarebbe necessariamente seguita da quella di vostra
madre e di vostro padre.... Se si trattasse d’un atto disonorevole
capirei che tu esitassi.... che tu rifiutassi persino.... ma si
tratta del matrimonio con un uomo rispettabile.... di un matrimonio
che ti lascia dopo pochi mesi la piena libertà di te stessa e la vera
felicità... via, Giusta, fa senno e mostra ora quel cuore del quale hai
sempre preteso avere il privilegio.

Giusta alzò i suoi begl’occhi in faccia al padre, si asciugò le lacrime
e rispose:

— Padre mio, se si trattasse solo del mio sacrificio, Dio m’è
testimonio che per quanto mi sembri più atroce del morire non esiterei,
e vita, per vita, darei la mia. Ma non si tratta solo di un sacrificio,
si tratta d’uno spergiuro. Non è solo della mia vita che dispongo ma...
perchè tacerei ora?.... ma di quella d’un altro... che amo, infelice
più di noi tutti, al quale non potrei ritogliere la mia parola senza
torgli la vita....

— Tu dunque l’ami ancora.... sciagurata.... Ah! noi perduti per
sempre! — esclamò il padre coll’accento d’un dolore che nessuno avrebbe
sospettato mentito.

Tutti tacquero.

— Tu l’ami.... ed io stolto che l’ho sempre creduto un trastullo di
gioventù. Oh! perchè non ho repressa questa passione nascente quand’era
ancora in tempo! Tu l’ami e mentre perdi tuo fratello non salvi lui e
ti leghi ad un moribondo.

— Come salvarlo?.... da qual pericolo?... Oh dite padre mio? dite per
pietà — io son pronta a tutto; ma nelle vostre ultime parole c’è un
mistero che mi uccide.

— Il mistero è che Giorgio Santafiori è prigioniero, come tuo fratello,
accusato della stessa colpa ed esposto alla stessa condanna.

— Ah no! padre mio, non è vero, dite che non è vero.... lo sento....
lo giuro che non è vero — fece la giovinetta gettandosi ai piedi di suo
padre e invocando da lui disperatamente un’altra parola.

— Non è vero tu dici?.... stolta.... aspettami e vedrai.

E Salomone afferrato il suo cappello uscì a balzi di casa.

Le tre donne stettero mute, atterrite, ad aspettare, come tre smarrite
sull’orlo d’un abisso che hanno udito rumoreggiare il tuono e che ne
aspettano lo scroscio.

Non erano scorsi dieci minuti che Salomone rientrava conducendo seco
per mano una donna. Era Livia Santafiori.

— Questa illusa non crede alla disgrazia di vostro fratello, — disse
Salomone, gettando con una spinta quel testimonio in mezzo alla
sala....

— Pur troppo, signora Giusta!.... Quest’è almeno la lettera che scrive
il Segretario del Governatore di Torino.

Giusta s’alzò; afferrò la lettera; la lesse, la rilesse, e quand’ebbe
finito, gridò con un accento d’ineffabile speranza:

— Ma non è lui che scrive... non è lui!.... non può essere vero.

— Insensata, — replicò il padre, — forse che i prigionieri di Stato
possono scrivere alle loro amanti!...

Giusta restò colpita da questa ragione, poi seguendo la corrente
interna de’ suoi pensieri continuò:

— Poi, che importa se è prigioniero! Vuol dire che è infelice di più,
e che egli ha più diritto di prima al mio amore! È prigioniero, ma è
vivo: e vivo lui, sono sua: morto, della sua tomba.

— Disgraziata, tu lo ucciderai — rispose Arena alzandosi e con voce,
per la prima volta in quella scena, minacciosa. — Mentre tu potresti,
salvarlo in un sol atto.... lui e tuo fratello.

— Salvarlo, disse Livia, correndo all’uomo che aveva proferite queste
ultime parole, e tremante per l’emozione e la paura di non aver udito
il vero.

— Eh di certo! diteglielo voi, signorina, giacchè da me non lo vorrebbe
intendere — salvarlo! sposando l’uomo che deve entrambi giudicarli....

Livia non pensò in quel momento che alla vita di suo fratello, e si
voltò verso Giusta senza profferire una parola, ma con tale sguardo
di atterrita pietà che ognuno, non che Giusta, l’avrebbe compreso e
interpretato. Però la intelligente fanciulla non volle nemmeno che
Livia pronunziasse la parola che già aveva eloquentemente espresso col
suo sguardo, e disse:

— Tradirlo per salvarlo; ucciderlo col mio spergiuro, per sentirmi
maledetta da lui nel suo ultimo respiro... È questo che mi proponete,
Livia, per amor di vostro fratello?...

Livia non osò parlare ed abbassò la fronte.

— Se voi potete provarmi che egli sopravviverà e mi perdonerà.... —
continuò la fanciulla.

Una voce soave e mesta che non s’era fatta udire fino allora, uscì
dall’angolo della sala e interruppe......

— Ti perdonerà, perchè con lui avrai voluto salvare tuo fratello... e
tua madre...

— Anche voi, madre mia! — esclamò la fanciulla.... — Ma questo è
troppo.... — e si lasciò cadere sopra una seggiola senza fiato e senza
moto.

Tutti sentivano che la crisi era vicina e tutti aspettavano, sebbene
animati da un diverso sentimento, la stessa risposta.

Giusta se n’avvide, e coll’accento più soave che creatura umana potesse
trovare disse:

— Tutti lo volete, sarà.... non ho che una condizione, cercar da me
stessa le prove di quello che voi dite.... Poi sarà fatta la volontà di
Dio.

E si sentì passare sugli occhi la caligine dell’agonia.




XXIII.

DUE RIGHE DI STORIA.


Il colpo che aveva atterrato per mano di Giorgio Santafiori il
Comandante della Cittadella poteva essere il fendente d’Alessandro sul
famoso nodo se ad altri cuori e ad altre menti fosse stato commesso il
capitanato della impresa. Al contrario, tra i tentennamenti dei capi,
la più volgare astuzia doveva parere somma pazienza e sfruttare con un
sgorbio di penna l’atto più magnanimo.

Arrivata a Corte la notizia della Cittadella, lo sgomento fu grande;
massime nell’animo imbelle del Re. Tutti avevano perduta la testa; e
la paura suggeriva i più strani e codardi consigli. Un uomo solo aveva
conservato il proprio sangue freddo e indovinato lo stato delle cose.
Egli aveva compreso, meglio d’ogni altro, che una rivoluzione scoppiata
più per impulso de’ gregarii, che per volontà de’ capi, senza mente e
senza volontà, si sarebbe arrestata al primo ostacolo e che ogni più
sottile intoppo l’avrebbe rovesciata.

Però egli diede al suo Re il più saggio di certo ma il più naturale
e il più semplice consiglio che uom potesse dare, abdicare a favore
del fratello Carlo Felice duca del Genovese, che allora era in Modena
a compiere la sua educazione sotto Francesco d’Este e il conte del
Carretto. Con questo consiglio, a un Re prigioniero subentrava un re
libero; e la monarchia, vinta per poche ore in Torino, risuscitava
forte di tutti i suoi privilegi in Modena.

Ma il consiglio sarebbe stato vano se la rivoluzione piemontese avesse
avuto altro capo. Perocchè bastava che Carlo Alberto, proclamando
la costituzione si associasse al partito che dichiarava decaduta la
dinastia che cospirava fuori dello Stato collo straniero, e afferrasse
egli stesso la corona che suo zio lasciava per raccogliere intorno a sè
quanto di patriottico e di liberale gli offriva il paese, far cessare
le ambiguità e le esitazioni, ordinare e segnare chiaramente il suo
campo, e forzare la profuga dinastia a farsi portare dalle baionette
straniere contro la forza e la volontà d’un popolo intero.

E un’altra cosa aveva da fare Carlo Alberto: eccitare e soccorrere
la insurrezione delle provincie Lombarde. Quando invece queste rinate
alla speranza della riscossa piemontese mandarono le loro Deputazioni
al Reggente per chiedere una parola d’incoraggiamento e una promessa
d’aiuti, ebbero per risposta le usate frasi evasive, e dovettero
rivarcare il Ticino disperate d’ogni soccorso.

Ma non era certo l’uomo, che mentre proclamava la rivoluzione meditava
la fuga e forse sognava gli allori del Trocadero, capace di intendere e
di tentar siffatte imprese. Ed a sua discolpa, rispondiamo agli storici
cortigiani, che ancora oggi ne ritentano la bugiarda apologia, non
potrà stare che questo:

Fu, da uomini troppo confidenti nella sua inetta vanità, trascinato
in un’impresa alla quale ripugnava l’educazione del Principe, l’animo
dell’uomo; laonde sarà dubbio se sia stata più colpevole la sua immensa
cecità, o la sua meditata perfidia.

Tuttavia nessuno comprese allora l’insidia nascosta nel consiglio del
San Marzano, e l’abdicazione di Vittorio Emanuele fu salutata con feste
e luminarie. Persino i dubitanti si credettero sicuri; persino gli eroi
del giorno dopo credettero l’affare finito e fecero capolino fuori
delle finestre, a gridar viva la costituzione. Persino un colonnello
Ciravegna e un generale Gifflenga azzardavano di coprire i loro vecchi
ciondoli monarchici di coccarde nazionali.

Nessuno esitava più, tranne il simbolo vivente dell’esitazione: Carlo
Alberto.

Il Re era già lontano, i suoi amici sgominati, il suo esercito diviso
e impotente, un popolo gli gridava «dateci una costituzione e siate
nostro capo»: pure il Reggente vacillava, tentennava ancora.

Gliela dovettero letteralmente strappare di bocca, letteralmente
mettergli la penna in mano perchè ne sottoscrivesse il manifesto;
letteralmente sospingerlo al balcone e fargli pronunciare la
contrastata parola.

Fu il dott. Crivelli che ebbe questo merito, egli invase le stanze
del principe, arrivò fino a lui, lo mise alle strette e lo strinse a
parlare. Quel che Muschietti aveva fatto pochi giorni prima in piazza,
egli lo fece in casa, ed il suo nome ha diritto a un posto nella storia
di quell’avvenimento meglio assai di tanti altri che l’usurparono
senz’aver fatto altro che recitare la parte di mute comparse.

Carlo Alberto nelle strozze del dilemma parlò, giurò, ma quali parole e
quali giuramenti!

Mentre prometteva di osservare la costituzione, giurava ubbidienza al
legittimo re Carlo Felice; e diceva e disdiceva, voleva e non voleva,
nel primo, nell’unico atto pubblico che potè parere un atto di energia
e di risolutezza.

Era naturale che Carlo Felice, circondato dai consiglieri della Corte
di Modena, rispondesse ad una costituzione proclamata così fiaccamente,
con violente proteste e con una serie di atti rigorosi contro i quali
i vaganti propositi del Principe Reggente e della rivoluzione a lui
fidata si sarebbero rotti. Carlo Felice affrettava l’intervento
austriaco che certo non aveva uopo d’eccitamenti; sconfessava la
costituzione; investiva de’ suoi poteri tre Governatori Generali,
fra i quali il nostro Della Torre per Novara; spodestava di fatto il
Reggente, ravvivava la vacillante fedeltà dei soldati e dei sudditi,
invocava le preghiere dei vescovi e la benedizione di Roma: faceva
insomma in una parola tutto quello che la più semplice arte di Stato
doveva suggerire a un Principe nel suo caso.

Al contrario i Costituzionali aggiungevano errori ad errori, debolezze
a debolezze, e si lasciavano grandeggiar in casa il nemico senza
prepararsi a combatterlo.

«Prima cura del Reggente e della Giunta Provvisoria doveva essere la
convocazione del Parlamento: e nessuno vi pensò.

«Non meno importava dichiarare incontanente la guerra all’Austria,
mentre, per i casi di Napoli, mal custodita si trovava la Lombardia; e
non solo la guerra non fu dichiarata, ma l’ambasciatore austriaco si
lasciò in Torino a cospirare impunemente colla nobiltà, col clero e
colla diplomazia.

«Non la intese tuttavia in egual modo il popolo torinese che, fatto
accorto delle trame del barone Binder, si recò minaccioso al palazzo
della legazione di Vienna, e costrinse l’insidioso diplomatico ad
allontanarsi dal Piemonte.

«Era debito dei governanti di chiamare ai principali impieghi,
specialmente nell’amministrazione politica e militare, gli uomini che
non erano macchiati da antica lue, e mostrati eransi più affezionati
al nuovo ordine di cose; e non se ne fece nulla. A tutte le cariche
si lasciarono i vecchi impiegati; a reggere le provincie rimasero
tranquillamente comandanti e governatori, notissimi a Corte e maestri
consumati di despotismo.

«Per dar base alla Guardia Nazionale se ne compose un simulacro in
Torino; e perchè la parodia fosse più compiuta si nominava comandante
in capo il marchese Vittorio Maria della Chiesa di Rodi.

«Nel ministero, creato in fretta nei primi giorni, si fece qualche
mutamento, senza gran frutto per la pubblica amministrazione. Al
marchese di Breme succedette negli affari esteri il conte Ludovico
Sauli. Il cavaliere di Villamarina, o fosse ammalato o volesse
esserlo, si mostrava tentennante. Continuarono nei loro uffizi il conte
Cristiani, il cavaliere Dal Pozzo, il cavaliere Degubernatis, e questa
litania di Marchesi, di Conti e di Cavalieri ci avverte che, ad onta
della rivoluzione, durava a Corte l’antico vezzo dei titoli e delle
pergamene»[1].

Pure la rivoluzione volgeva apparentemente vittoriosa.

Tutte le città principali erano insorte; Genova, Biella, Ivrea,
Vercelli, Saluzzo, Pinerolo, Vigevano, Voghera, avevano, prima o poi,
seguito l’esempio di Alessandria e di Torino e levata la bandiera
costituzionale.

Restava Genova sola, per antica educazione repubblicana, diffidente
d’un moto principesco; ma alla fine quando vide affiggersi per le
vie le proteste di Carlo Felice contro la Costituzione non ebbe più
freno e si levò in armi. Fu lotta breve, e in poche ore un consiglio
governativo di liberali assumeva col consenso e la sanzione del
Governatore Des Geneis, ostaggio degli insorti, il governo della
liberata città.

Ma tutto ciò era poco al paragone del vigoroso e compatto sforzo che
facevano i reazionari guidati dal consiglio di Modena per riacquistare
il perduto terreno. Essi cospiravano apertamente e nessuno ne li
impediva o castigava. Da Modena Carlo Felice comunicava liberamente
co’ suoi amici, gli Andezeno, i Thaon di Revel, i Des Geneis; il
governatore di Cuneo cospirava, il governatore di Nizza cospirava.

Gli scritti, le parole, le promesse del Re correvano libere nelle
file dell’esercito: i due governi di Alessandria e di Torino erano in
conflitto tra di loro e diffidavano, e Carlo Alberto faceva dire al
suo Regio cugino che si sottometteva a’ suoi ordini, e abbandonava già
segretamente quella causa della quale agli occhi del pubblico pareva
ancora il campione.




XXIV.

IL RACCONTO DELLA SENTINELLA.


Tre sole persone a noi note avevano cominciato a sospettare gli
andamenti del Principe Carignano: lo studente Muschietti, il capitano
Gambini e l’artigliere Santafiori.

Più avveduti, o più ardenti degli altri che si cullavano in una beata
fiducia, essi avevano letto nelle esitazioni del Principe i presagi
della defezione futura e avevano deciso sottoporlo ad una segreta
sorveglianza.

La Guardia del Principe era solidamente montata da artiglieri, e perchè
egli era capo di questo corpo, e perchè poneva in essi una singolare
predilezione e fiducia.

Un ufficiale d’artiglieria comandava tutto il picchetto, il quale aveva
l’incarico di vegliare lo scalone, le anticamere e tutti gli sbocchi
del principesco appartamento. Fra le altre una sentinella guardava
giorno e notte la terrazza che dalla sua camera da letto dava nei
giardini del Palazzo Carignano. Questa sentinella, la meno visibile di
tutte, era la più prossima a lui.

Ai tre amici era facile provvedere perchè questo posto fosse sempre
affidato alla custodia di un servo fidato. Il capitano Gambini,
nominato dopo la rivoluzione della Cittadella, maggiore, comandava la
sezione d’artiglieria di stazione in Piazza Castello e poteva destinare
la guardia che avesse voluto.

Giorgio, nominato sergente, poteva avere il comando d’un posto e
scegliere la sentinella tra i più sicuri camerati.

Così fu deliberato; e il Principe di Carignano aveva dì e notte
intorno a sè una rete inavvertita di scolte che spiavano i suoi passi e
potevano quasi udire le sue stesse parole.

La notte del 22 marzo Giorgio non aveva potuto trovare alcuno di sicuro
a cui confidare la guardia della terrazza; risolse di farla egli
stesso. La notte era calma e stellata; il servizio non era pesante;
il luogo era deserto e nessuno poteva venir a chiedere il perchè un
sergente montasse di sentinella in luogo d’un soldato semplice. Inoltre
Giorgio sperava, se pur c’era a scoprire qualche cosa, di scoprire più
co’ proprii occhi, e co’ proprii orecchi, che con quelli degli altri.
Prese adunque la carabina della sentinella e le disse: Tu va a dormire:
resto qui io per questa notte.

La sentinella non se lo fece dire due volte e ruzzolò giù dalle scale a
precipizio.

La terrazza sulla quale era rimasto Giorgio era ampia quanto un vasto
cortile, e le sentinelle avevano l’ordine di stare all’orlo estremo
per sorvegliare il cortile. Giorgio però, spinto dalla curiosità, e
convinto che il Principe aveva più bisogno di sorveglianza che i ladri
o i congiuratori immaginarii che potevano montar dal giardino, invece
di stare al posto fissato, cercava tenersi vicino all’appartamento per
poter meglio spiare ciò che vi accadeva.

Egli non fu ingannato nella sua aspettazione, e la mattina appresso
corse a fare al capitano Gambini ed a Muschietti il seguente racconto:

— «Poteva essere mezzanotte. Io aveva udito il Principe rientrare nella
sua camera da letto; e veduta la sua ombra passare più volte davanti
alla grande finestrata che dà sulla terrazza. Poi per un gran pezzo
non udii e non vidi più nulla: notai anzi che gli scuri interni della
finestrata erano stati chiusi per di dentro: tuttavia un raggio lungo
e sottile che trapelava dalla fessura, mi avvertiva che un lume doveva
essere ancora acceso nelle stanze del Principe. Io m’era accostato
alla finestrata per tentar di cogliere tutti i suoni che partissero
dalla stanza; e dopo un’ora circa d’aspettazione sentii il sordo rumore
d’un passo sul tappeto; poi un altro; poi un altro ancora: era un uomo
che camminava. Chi era? Un valletto? od il Principe in persona? non
lo poteva ancora indovinare. Tesi l’orecchio e contenni il respiro e
udii un altro suono che si confondeva col gemito e colle parole. Avrei
dato una metà del mio sangue per poter distinguere una sillaba in quel
bisbiglio.... ma nulla. Era quasi un’ora che origliava, e già disperava
di poterne raccapezzare qualche cosa, quando a un tratto mi giunsero
chiare e distinte all’orecchio queste due parole «fuggire? chi mi dice
di fuggire?!»

Io restai immobile, sbalordito, ma non era ancora rinvenuto dal mio
stupore quando l’uscio della stanza del Principe che dà sulla terrazza
scricchiolò sopra i suoi cardini e s’aperse.

Io posto in gran pericolo d’essere scoperto corsi a nascondermi nella
mia garretta, esplorando con occhi intenti dal pertugio fatto per la
spia delle sentinelle, quel che accadeva sull’uscio.

Un’ombra lunga, magra, fosca, avvolta in una zimarra nera che le
cascava fino a’ piedi ne sbucò a un tratto a precipizio come se
fosse stata inseguita da alcuno, e andò a fermarsi al parapetto della
terrazza restandovi lunga pezza immota, intenta sull’ombre folte del
giardino. Poi mosse un braccio come per asciugarsi la fronte e cominciò
a camminare coi passi del sonnambulo e finalmente a parlare...

«La Corona d’Italia — diceva.... — splendida gemma; ma quale sarà
il braccio che avrà forza per afferrarla: essa si compone dei
frammenti delle corone di tanti principi; tutti miei parenti; metter
la mano all’arca santa dei Re... unirsi ai rivoluzionarii... ai
bestemmiatori... ai miscredenti... ai nemici di tutte le Podestà.... ai
miei!... salire in trono maledetto dal Vicario di Dio... Io... mai...
piuttosto restar il più oscuro de’ Principi... Pure era un magico
sogno ed io l’ho carezzato: esso m’ha fatto balzar di gioia virile ne’
miei sogni e quante volte ho sentito squillar l’ora di montare sul mio
cavallo di battaglia e marciare contro gli stranieri invasori del mio
bel paese... Austria maledetta!

«Per questo ho promesso! Per la speranza di poter combattere questa
nemica in campo aperto coll’armi in pugno sotto il comando del mio
Re... pure ho promesso... e questo Santarosa, questo Collegno, questo
Lisio, questi _carbonari_ coi quali mi sono accomunato, propagheranno
domani per tutta Europa i nostri colloqui, i nostri piani, i miei
giuramenti, ed io sarò disonorato.

«Stoltezze! Il disonore è mancar di fede al proprio principe che ti
ha confidato il suo regno, ribellarsi alla propria casa e mancare alla
tradizione del proprio nome. Io ho promulgato una Costituzione credendo
che il legittimo Re l’avrebbe sanzionata. Il Re la ripudia: il mio
dovere è stare col Re... sì, domani stesso lo dichiarerò pubblicamente,
casserò quello che ho scritto, ritratterò quello che ho fatto... domani
tornerò il principe di Savoia e Carignano... domani...

«Ma domani non sarò più solo nella notte, domani sarò in pieno giorno,
in faccia ad una folla che peserà tutti i miei atti e tutte le mie
parole... E chi mi darà forza di sfidare quelle migliaia di sguardi
fissi sopra di me; chi mi salverà dalla voce della mia coscienza
ripetuta da mille labbra... No parlare..... no.... aspettare ancora....
aspettare sempre.... aspettare la mia stella. _J’attends mon astre_».

Il principe giunto a queste parole del suo monologo si sedette colle
gambe incrociate, come il Dervis orientale, sopra il nudo suolo della
terrazza, vi stette lungamente impietrato a guardare l’immenso spazio
rischiarato di stelle.

Dal mio nascondiglio lo vedeva bene! aveva tutti i capelli scomposti,
le labbra tremanti, il petto ansante, ed era bianco come una testa da
morto....

Io era solo con lui ed ebbi, lo confesso, una terribile tentazione di
ucciderlo. Quell’uomo ci tradiva e meritava la morte; ma l’idea d’un
assassinio mi fe’ raccapricciare e la discacciai. Risolsi invece di
venire io stesso tutte le notti a rinnovar la sentinella per entrar più
addentro nel mistero di quel sonnambulo.

A un tratto il Principe s’alzò di nuovo e a testa china a passi lenti
si avviò verso la sua stanza. Giunto sul limitare dell’uscio s’arrestò
e col monotono accento d’Amleto che studia il suo problema, disse: —
fuggire, — mentire — restare — perire.... ecco il problema.

E rientrato nella sua stanza vi si chiuse dentro ed io non vidi, non
udii più nulla».


Quando Giorgio ebbe terminato il suo racconto i tre amici si guardavano
lungamente in faccia senza far motto. Muschietti interruppe per il
primo il silenzio.

— Io lo prevedeva. Questo uomo ci tradisce....

— E medita una fuga.... — continuò il capitano Gambini.

— Bisogna impedirlo a qualunque costo, — riprese il Muschietti.

— Lo pensava anch’io, — fece Giorgio.... — e non c’è che un mezzo.

— Quale?

— Impadronirsi di lui, farne un ostaggio della rivoluzione....

— Giorgio dice bene... ma l’impresa non è facile.... — fece il capitano
Gambini.

— È facilissima purchè ci siano dodici uomini fidati che aspettino la
sua carrozza sulla strada di Moncalieri.

— Ma il principe non va tutte le sere al castello, replicò Gambini.

— Bisogna spiare quando va.... — ripigliò il Muschietti. — Appostare i
dodici uomini sulla strada e rapirlo a viva forza.

— Egli resisterà, — disse il capitano.

— Allora ucciderlo — fece Giorgio.

— Giorgio mi comprende e Giorgio potrà capitanare quest’impresa.
Accetti?....

— Datemi i dodici uomini e accetto.

— Li avrai; ma silenzio con tutti e principalmente co’ membri della
Giunta: comprometterebbero ogni cosa, soggiunse il severo Muschietti.

— Poichè lo volete — fece il capitano — sia; io vi prometto....

— Ed io lo giuro: — esclamò Giorgio ponendo la sua nella mano già
incrociata de’ suoi amici.




XXV.

BALILLA E LEON.


Era la sera del 22, tutti i preparativi del colpo erano stati con
minuta cura compiuti. Il Principe doveva essere rapito la notte stessa
tra la mezzanotte e il tocco al suo ritorno da Moncalieri.

Era stato studiato accuratamente il terreno e destinato il punto
preciso, alla metà della salita dove i cavalli sono costretti a
rallentare.

Una fune tesa al sommo dell’erta, da una scarpa all’altra della strada,
doveva arrestare il battistrada che precedeva; quand’egli fosse stato
rovesciato col suo cavallo, due uomini dovevano gettarsi sopra di lui
e per amore o per forza impedirgli di gridare l’allarme. Altri uomini
dovevano assalire i due carabinieri di scorta e metterli comunque
fuori di combattimento. Intanto un altro manipolo si sarebbe slanciato
sulla vettura, e avrebbe intimato al Principe colle pistole alla gola
di ubbedire e tacere, e impadronitosi del cocchiere e delle redini
avrebbe condotto il Principe in una casa dei dintorni, e ve l’avrebbero
tenuto sotto forte custodia. Fatto il colpo, sarebbero stati svelati
alla Giunta provvisoria i disegni di fuga del Principe, dimostrata
la necessità dell’arresto, e chiesto che egli fosse trattenuto, per
decreto della Nazione, in ostaggio fino a che la rivoluzione fosse
fuori di pericolo; i congiurati erano certi che la Giunta, come non
avrebbe mai osato un simile tentativo, avrebbe ratificato e applaudito
il fatto compiuto.

Giorgio doveva dirigere l’azione. Muschietti veniva secondo: gli altri
uomini erano dati da studenti, da soldati travestiti e da carbonari.
Tutto pareva esattamente calcolato; ognuno aveva prescritta chiaramente
la sua parte e doveva trovarsi al punto fissato prima delle undici di
notte.

Giorgio non temeva che d’una cosa sola; che il Principe quella notte
per qualche imprevisto accidente non andasse a Moncalieri e gli tardava
d’assicurarsene. Era appena suonala l’Ave Maria — era quella l’ora in
cui il Carignano soleva partire per la sua corsa.

Giorgio decise di fare una passeggiata a piedi, senza parere,
fuori di Porta Nuova, per la quale, se il Principe usciva, doveva
necessariamente passare la sua carrozza. Se n’andava col capo nelle
nubi pensando a mille cose diverse, a Giusta di cui non aveva notizie,
alla sua casa deserta, alle vicende della sua vita, all’atto che stava
per compiere, al destino che l’aspettava, e sprofondavasi sempre più
in una specie di sogno fantastico che gli toglieva quasi il senso e
l’aspetto delle cose circostanti.

Non ci volle che il grido d’un battistrada a cavallo che precedeva
una ricca carrozza chiusa, a due cavalli, per svegliarlo dalla sua
letargica meditazione.

Giorgio allora si voltò e riconobbe la carrozza del Principe Carignano.

Egli si arrestò su due piedi, fece fronte alla carrozza, portò la sua
mano al kepì e stette nell’atteggiamento del saluto militare finchè il
corteo fosse passato.

Quando la nube di polvere in cui era stato avvolto fu dileguata,
l’artigliere allungò la mano con gesto di minaccia dalla parte donde
il legno era sparito e disse forte: — Va o Principe, fra sei ore quella
carrozza ci riporterà assieme.

E si voltò per tornare in città, ma aveva appena girata la faccia
che un mugolato più amico che minaccioso lo forzò a rivoltarsi di
nuovo, e nell’istesso tempo si sentì assalito alle spalle dalle zampe
d’un grosso cane, che sordo alla voce ed alla mano che lo infrenava
saltava, gemeva, latrava di gioia, si rotolava nella polvere, e dalla
polvere gli balzava di nuovo alle mani, al fianco, al collo, con tutti
quelli atti e voci di festa così eloquenti nel loro incomprensibile
linguaggio, così schietti nella loro espansione, onde il nobile animale
che raffigura la fedeltà, saluta un padrone od un amico scoperto da lui
e non veduto da molto tempo.

Giorgio l’aveva riconosciuto, era _Leon_, il magnifico molosso di
Terranuova della sua Giusta. Ma riconoscerlo fu per lui una così chiara
rivelazione d’un istantaneo pericolo, che in luogo di rispondere alle
carezze del fido animale, si sentì rimescolar il cuore e sbalordito,
atterrito, stette con occhi spalancati a guatare nell’ombra se alcuno
compariva dietro a lui a spiegargli l’enigma di quella improvvisa
comparsa.

Ma poco stette che vide ancora alle sue spalle un piccolo fantasma
correre a precipizio e gridando a squarcia gola _Leon!_... _Leon!_...
Giorgio aguzzò la vista, tese l’udito; ma stava appunto per uscire dal
dubbio, quando un fanciullo a lui noto gli venne a cascar ansante e
molle di sudore fra le braccia.

Era il piccolo Balilla; i due fratelli guidati dalla voce di _Leon_
s’eran riconosciuti nel punto stesso. Sono momenti difficili a
descriversi; sfuggono non solo alla penna ed al pennello, ma alla
memoria stessa di chi li ha provati. Tanto più quando al trionfo del
ritrovarsi, alla gioia del rivedersi si mescola l’amarezza d’una cura
segreta e il presagio d’una sventura.

Balilla tuttavia, colla gaiezza della sua età, non lasciò tempo a
Giorgio d’impensierirsi, e sciogliendosi da’ suoi abbracciamenti,
esclamò subito:

-Lo diceva io che _Leon_ t’avrebbe trovato.... Tu non sei dunque
prigioniero?

— Prigioniero di chi?....

— Oh bella dei Realisti... Non sei tu dunque rivoluzionario?

— Lo sono, — fece Giorgio sorridendo del fiero piglio con cui il
giovinetto aveva pronunciato quell’interrogazione, — ma non capisco
perchè debba essere prigioniero.

— Al villaggio è venuta una lettera la quale diceva che tu eri
prigioniero.

— È una menzogna.... io non lo sono mai stato.

— Una menzogna! ma intanto tutti l’abbiamo creduto... Livia e la
Giusta.... ed io.... Era dunque un inganno, tu sei libero e ti sei
battuto non è vero?...

— Lo credi, Balilla? ma di ciò parleremo dopo.... ora spiegami perchè
tu sei qui e come hai fatto ad arrivarci.

— Eh! ell’è una storia lunga. È meglio che prima tu legga questa
lettera che preme.

— Hai una lettera?.... di Giusta forse?

— Di lei...

— Dammela — e la prese.

La notte splendeva di tutto il bianco chiarore del plenilunio; si
sarebbe potuto trovare uno spillo per terra come in pieno mezzogiorno.

— Questa bella luna ci giova, disse Giorgio, dissuggellando con mano
febbrile la lettera.

Essa conteneva queste parole:

  «Giorgio — Da un mese mi ripetono che voi e mio fratello siete
  entrambi prigionieri e minacciati di morte, e mi assicurano ch’io
  sola posso salvarvi accordando la mia mano a colui che deve essere
  vostro giudice. Io avrei accettato anche questo sacrificio, purchè
  avessi avuto la certezza di salvarvi.... Ma il cuore me l’ha
  sempre detto che noi eravamo vittime d’un inganno, ed ho combattuto
  fino ad ora disperatamente contro le preghiere di mio padre e le
  stesse lacrime di mia madre; or sono all’estremo e m’afferro al
  mezzo disperato di mandare Balilla a cercar notizie di voi. Io
  vi ho scritto tutti i giorni, ma tutto mi dice che voi non avete
  potuto ricevere le mie lettere altrimenti avreste anche risposto,
  ne sono certa, perchè sono certa del tuo amore. Se Balilla non
  ti trova libero, se è vero che sei ostaggio de’ nostri nemici e
  presso alla morte, io ti pregherò a perdonarmi, ma ti salverò anche
  a costo di morire dopo io stessa, dilaniata del martirio d’una
  orribile catena. Ma se invece sei ancora padrone di te, vieni in
  mio soccorso... non indugiare un minuto. La mattina del 24 marzo
  potrebbe ancora essere tardi. Io aspetterò l’estremo minuto prima
  di pronunciare il sì fatale che mi dovrà dividere per sempre da
  te; e se tu od un tuo scritto non comparirà, vorrà dire che io ti
  ho perduto e lascerò che si compia il mio destino. Ma dannata alla
  catena d’un servaggio infame, il mio cuore, finchè batterà, sarà
  tuo e la mia anima non tarderà a raggiungerti nel cielo.

  «Balilla ti dirà più a voce. Addio mio Giorgio: la mia sola
  speranza è che Dio guidi l’intrepido fanciullo messaggiero di
  questo foglio e che tu lo possa leggere ancora. Addio.

                                                     «Tua in eterno
                                                        «_Giusta_».

Giorgio restò fulminato.

Quel colpo cadutogli così improvviso sul capo lo annichilì. Non trovava
più un’idea, non sentiva più una volontà: credeva morire... Pure la sua
energica tempra prese il sopravvento sul suo dolore e voltosi a Balilla
che lo guatava pensoso e commosso:

— Giusta t’ha detto qualche cosa per me?

— M’ha detto che t’aspetta domani sera.

— M’aspetta.... m’aspetta — e se non potessi andare?!...

Balilla abbassò la testa: poi dopo un po’ di pausa rispose:

— Credo che non la troveresti più...

— Basta, Balilla.... torniamo a Torino, rifletterò.

E con passo concitato, quasi a corsa, si posero in cammino.

Lungo le vie il misero amante non fece che agitare ne’ suoi mille
tormentosi aspetti, il nuovo dilemma che gli era proposto.

Da un lato un terribile dovere, un sacro impegno verso la patria; la
responsabilità e il comando d’una impresa forse decisiva; la fiducia
degli amici; i vincoli di partito; la voce di suo padre che dal
sepolcro lo incalzava a mantenere la sua fede di patriota: dall’altro
il grido della fanciulla da lui amata che l’invocava per sottrarsi
al sacrificio affrontato per amor suo, un nefando delitto consumato,
lo strazio d’una vergine compiuto, e l’idolo del suo cuore rapito, il
sogno della sua giovinezza, l’ultima stella della sua vita desolata,
spariti per sempre.

Era un tragico conflitto, era un momento terribile!

Ad ogni passo, soverchiando un sentimento, prendeva una risoluzione,
che al passo dopo, soverchiando il sentimento contrario, rompeva.
Era in preda ad un uragano di affetti tutti più grandi e più forti di
lui. E intanto che la tempesta inferociva, i minuti passavano e gli
era d’uopo deliberare. Aveva cercata una uscita, una transazione, uno
spediente, invano! Il dilemma terribile lo strozzava: o per la patria,
o per l’amante. Aveva voluto affrontare i due più grandi doveri ed
affetti della vita; ora il momento della battaglia era giunto e gli
toccava provare che non era indegno di quella nobile disfida.

Alla fine credette vedere aperto uno spiraglio di luce e vi si cacciò
dietro. Sperava ancora trovare Muschietti, narrargli il caso, affidare
a lui il comando dell’imminente tentativo, cercare un cavallo,
travestirsi, correre al villaggio, e a qualunque costo strappar Giusta
dalle mani dei suoi tiranni e ripartire con essa per Torino: ecco il
piano. Ma il desiderio ha le ali e il compimento i piedi di piombo.

Cominciò a non trovare in casa sua Muschietti e a non poter raccapezzar
dove fosse in quell’ora. Quest’era un grave ostacolo poichè Muschietti
solo poteva pigliare le parti di Giorgio. V’era sopratutto una parola
d’ordine, e un segnale che solo il capo poteva dare, e se Giorgio
mancava non c’era che Muschietti che lo potesse sostituire.

A questo primo intoppo si sentì mancar il coraggio, si credette
perduto: e tornò di nuovo in balìa ai tormenti dell’incertezza.

Abbandonare senza avvertirli i suoi amici non lo poteva; perisse pure
Giusta e il suo amore, non lo poteva. Avesse almeno trovato un uomo
fidalo e intelligente a cui affidare un messaggio... ma nessuno.

Il sergente Carrera era ad Alessandria comandante una compagnia
d’insorti e aveva lasciato gli _Animali parlanti_ nelle mani della
sua Caterina. La congiura, perchè riescisse, era stata circoscritta
a pochi, e tutti erano in quell’ora della notte sbandati. Avrebbe
potuto andare egli stesso al luogo designato e aspettarvi gli amici, e
confessare il suo caso, ma perdeva almeno tre ore, che forse bastavano
per salvar Giusta.

Intanto riparò col fratello agli _Animali parlanti_, dove mamma
Caterina sospirava da più giorni il ritorno del suo sergente.

Nel colmo dell’ambascia gittò gli occhi macchinalmente su Balilla che
lo guardava in silenzio mentre dividea con _Leon_, accasciato ai suoi
piedi, una crosta di pane, e gli venne in pensiero.

— Balilla, disse, rifaresti stanotte la strada fino a mezza via di
Moncalieri?

— Se fosse per te.... e con _Leon_ perchè no? — rispose il fanciullo.

— Ma sarai stanco.

— Che stanco! alle mie gambe ci comando io...

— Si tratterebbe di cosa grave...... senza della quale io non potrei
andare da Giusta..... capisci?

— Capisco!

— Bisognerebbe che tu portassi un mio biglietto ad un amico che
troverai alla salita di Moncalieri stanotte alle undici.... hai tu
paura alla notte?....

Il fanciullo si mise a ridere, poi soggiunse:

— Che paura! in ogni caso mi darai un’arma.

— Ti darò la mia daga d’artigliere.

— Buona anche quella!

— Arrivato al sommo delle salita, seduto vicino alla pietra migliare
che segna il 90.mo miglio troverai un uomo; ti avvicinerai facendo tre
volte il grido della civetta. Sai farlo?

— Eh eh! io so far di tutto.... vuoi sentire?

E il ragazzo si mise ad imitare con perfezione ancor maggiore di quello
di Giorgio, lo stridolo canto del notturno animale.

— Va bene. Dato tre volte questo grido l’uomo ti verrà incontro: tu gli
dirai a bassa voce, _Moncalieri_ — egli risponderà — _Artiglieri_. —
Allora gli darai senz’altro il mio biglietto.

— E dov’è il biglietto? — fece impaziente il fanciullo.

— Ora lo scrivo. — E sopra il primo foglio di carta capitatogli scrisse:

«Muschietti. Un dovere, che la mia coscienza mi dice più alto di quello
che abbiamo assunto di adempiere assieme, mi porta lontano da Torino.
Prendi tu per me il comando del tentativo e che la sorte arrida alla
giusta causa. Il giovinetto che ti da questo foglio è mio fratello —
Giorgio».

Piegò il biglietto, baciò in fronte l’intrepido fanciullo, gli ripetè
alcune raccomandazioni e gli disse:

— Ora vado a cercare un cavallo che mi conduca fuori di Torino. Dovrà
fare 160 miglia[2] in 30 ore, sarà un vero miracolo.

E stretta la mano di Donna Caterina, che aveva guardato a bocca aperta
tutte le mosse del giovine senza capir nulla, lasciò a precipizio
l’osteria.




XXVI.

SCHIARIMENTI.


Il lettore avrà trovato nell’ultima parte di questo racconto alcuni
punti oscuri e noi siamo in obbligo di chiarirli.

Come mai il Governatore di Torino avesse scritto al Sindaco di S....
che l’artigliere Santafiori era arrestato per sospetto di fellonia, il
lettore l’avrà immaginato. Salomone Arena aveva scritto al consigliere
Tacchini che quella falsa testimonianza era necessaria, ed il Tacchini
valendosi della sua onnipotente autorità negli ufficii governativi,
gliel’aveva fatta mandare. Fabbricare documenti falsi fu sempre un’arte
facile alle tirannie. E fu con quella lettera bugiarda che furono
ingannate le sorelle e l’amante di Giorgio.

E queste avevano creduto: d’altronde come accertare la verità? Non
mancavano di scrivere ogni giorno, ma tutte le lettere che venivano
a Livia dal Santafiori, o che partivano dal villaggio per esso,
erano intercettate dall’arbitrio irresponsabile del Maresciallo dei
Carabinieri, d’accordo col Sindaco.

E la continuata mancanza di lettere non faceva che confermare sempre
più il racconto di Salomone Arena, e la testimonianza ufficiale del
Governatore di Torino.

Intanto i giorni passavano e l’ora imposta a Giusta per la fatale
risoluzione s’approssimava.

La misera fanciulla subiva già un’anticipazione del martirio che
l’aspettava e non sperava più che nella morte.

Avesse almeno avuta la certezza che quello che le si diceva era vero;
che l’olocausto terribile che le si chiedeva avrebbe fruttato la salute
del suo amante e di suo fratello, la pace di sua madre; ma no. Dubbio,
incertezza, tenebre! L’unica prova che avesse era la parola di suo
padre, troppo interessato perchè non celasse almeno in parte la verità,
e un pezzo di carta scritto da una mano straniera.

V’è in ogni spasimo una trafittura più atroce di tutte: ora nella
disgrazia di Giusta il non saper nulla di Giorgio, era la pugnalata che
l’uccideva.

Balilla un giorno, tornò a casa dicendo a sua sorella... Livia ti
saluto, io parto!

— Parti! e per dove?

— Vado a cercar di Giorgio ed a combattere con lui se è vivo, a
vendicarlo se è morto.

— Qual pazzia, Balilla? un giovinetto di dodici anni.

— Il Balilla di cui porto il nome ne aveva dieci quando ruppe la testa
ai granatieri tedeschi. Poi non voglio lasciar solo mio fratello....

— No, Balilla! tu non puoi lasciarmi qui sola.... Giorgio lo
proibirebbe.

— Baie! Giorgio ed io ci intendiamo. Poi è questo il solo mezzo per
saper sue notizie e riportarle a te. Poi io ho sempre detto che il
foglio del Governatore di Torino dice una bugia e ve lo proverò. Non mi
dir altro, sorella.... ho deciso.... Domani parto...... Se hai qualche
cosa da darmi per Giorgio preparalo e avverti la signora Giusta di fare
altrettanto.

Livia voleva disperarsi, ma fu invano. A grande stento ottenne che
avrebbe aspettato ancora un giorno per rendere avvertita la signora
Giusta.

— Allora, — disse il monello, — chiederai _Leon_ alla signora Giusta.
Egli sarà il mio compagno di viaggio ed il mio difensore;... poi mi
aiuterà meglio a scoprire Giorgio. Lo fiuterebbe lontano due miglia!

Ed il monello se n’andò a fare i così detti preparativi di partenza.

Frattanto Salomone e Tacchini avevano continuato a carteggiare tra
di loro. Il Senatore sollecitava con minacciose parole l’adempimento
del patto: il Sindaco rispondeva allegando una malattia di Giusta,
rinnovando le sue promesse e chiedendo ancora qualche giorno d’indugio.

Ma Tacchini perdette la pazienza. Il Conte della Torre diventando
Governatore di Novara e Luogotenente del Re legittimo, e Capo supremo
dell’esercito della Reazione, non aveva potuto privarsi della fida
Egeria, del suo Tacchini, e lo aveva condotto seco a Novara. Il
Tacchini non aveva osato disubbedirlo, ma prima di partire gli diede
per misura di precauzione il consiglio di condurre in ostaggio i
quattro studenti autori del baccano _D’Angennes_. E il Della Torre,
come sempre, l’aveva ascoltato. Da Novara il Senatore tempestava il
Sindaco. A lui premeva che il contratto fosse conchiuso prima della
catastrofe, perchè questa, quale si fosse, non poteva che nuocere al
suo disegno. Od era favorevole alla rivoluzione, e allora gli toccava
forse fuggire, lasciar gli ostaggi, abbandonare la moglie e la dote e
tutti i sogni che la sua avara libidine vi aveva architettati sopra;
se vinceva la causa del legittimo Re, diceva lui, e allora succederà
di certo un’amnistia, un perdono generale, e gli ostaggi gli sfuggivano
per altre vie ed egli restava inerme in faccia allo scaltro Arena.

Scrisse perciò un _ultimatum_ nel quale dichiarava «che la sua
longanimità era agli estremi e che gli accordava ancora una settimana.

«Se al mattino del settimo giorno egli non conduceva all’altare
la signora Giusta Arena, la giustizia avrebbe fatto il suo corso.
Soggiungeva che il Vescovo di Voghera avrebbe ricevuto ordine di passar
sopra tutte le formalità superflue degli sponsali, e che egli, quando
fosse stato avvertito, sarebbe venuto a S..... avrebbe fatto benedire
il matrimonio dal curato del villaggio e sarebbe ripartito il giorno
stesso per Novara, da dove gli affari di Stato non gli permettevano di
restar lungamente assente».

Salomone Arena si presentò con questa lettera a Giusta e le disse:

— «Vengo a chiedervi per l’ultima volta se volete salvar vostro
fratello e noi da una certa morte. Io però ho cessato di pregare: ora
comando se non vi troverò ubbidiente uscirete da questa casa per non
rientrarvi mai più, e la maledizione di vostro padre e di vostra madre
vi accompagnerà finchè vivrete».

Nemmeno queste violente parole avrebbero piegata l’anima amante della
fanciulla; ma sua madre le singhiozzava allato ed ella sentì che le
estreme forze della lotta le venivano meno. Rispose coraggiosamente:
«Fra sette giorni, se sarò viva, ubbidirò».

Aveva ragione di dire «se sarò viva»; quella sera le entrò una febbre
violenta che fece temere per ventiquattr’ore della sua esistenza. Ma il
destino la risparmiava per altri dolori.

Fu durante queste ore di malattia e di solitudine che Livia, entrata in
un momento d’assenza del padre, le comunicò l’idea bizzarra e generosa
di Balilla.

Giusta sentì rinascere un alito di speranza e volle confidare al
giovinetto audace le sue ultime parole. Balilla venne più tardi a
prenderle egli stesso: pose un bacio sulla fronte della bellissima
fanciulla, si legò al braccio il fedele _Leon_ che dai salti e
dagli squassi di coda pareva intendesse d’essere destinato ad una
straordinaria missione, e partì dicendo alle due donne che lasciava: —
Non dubitate, io troverò Giorgio e ve lo rimanderò!

I suoi preparativi di viaggio erano stati brevi: una funicella per
legare _Leon_; un randello per difesa; una bisaccia di pane e 25 soldi.
Infilando la strada di Torino in una bella notte di marzo, uscì dal
villaggio accompagnato dal viatico eterno della sua età — la giovinezza
e la fede.




XXVII.

ACCIDENTI DI VIAGGIO.


Finalmente verso le dieci Giorgio fu pronto a partire. Aveva cambiato
la sua uniforme di artigliere in un completo costume da fittaiuolo
di campagna, trovato a nolo un buon cavallo savoiardo attaccato ad un
leggerissimo biroccino, per poter fare molta strada in minor tempo e
s’era messo in viaggio. Aveva calcolato che da Torino a S...... c’erano
160 miglia ed egli aveva 32 ore di tempo. Il cavallo doveva dunque far
quasi sei miglia all’ora per guadagnare le tre o quattro ore necessarie
a nutrirlo e farlo riposare.

Esperto di questa sorte di viaggi, sapeva che il solo mezzo per
riuscire era non affaticare troppo il corridore sulle prime per
riserbarsi d’ottenere uno sforzo supremo all’ultimo, quando fosse stato
necessario. Perciò uscì di buon trotto, e alla mattina, albeggiando,
dopo sei ore, s’accorse che aveva fatte sei miglia all’ora.

Presagì bene del futuro; rinfrescò ad Asti... e continuò il suo viaggio
senza incidenti; a mezzogiorno era a Spinetta, la patria del famoso
Majno, e si fermò di nuovo per far riposare il suo generoso animale che
faceva miracoli.

Allora contò che in 14 ore aveva fatte quasi 80 miglia, e si credette
sicuro. Tutta la sua cura era arrivare a tempo, ed ora che gli pareva
quasi risolta la quistione, ebbe persino il coraggio di desiderare da
mangiare. Erano 20 ore che non prendeva cibo anche lui e ne aveva il
diritto: pure non vi si potè risolvere subito parendogli che Giusta
avrebbe potuto rimproverargli d’essersi attardato alla mensa della
taverna nel momento che ella era minacciata da un pericolo mortale.

Verso l’ave-maria era per entrare in Godiasco quando si sentì alle
spalle la cornata e gli scoppii d’una frusta d’una carrozza da posta.
Egli tirò in disparte per lasciar passare, ma sia che non lo facesse
abbastanza, sia che il postiglione fosse mal destro, o fosse briaco,
fatto sta che la grave e forte vettura urtò nella ruota del suo esile
biroccino e lo rovesciò d’un colpo in un fossato alto cinque metri.
Giorgio scagliò una bestemmia, la prima forse che profferiva in vita
sua, ma il carrozzone proseguì indifferentemente il suo cammino.

Tutto era andato in frantumi — finimenti, ruote, stanghe, ed era il
meno: il bravo Savoiardo aveva rotto un ginocchio e non poteva quasi
più muoversi: il dolore gli faceva esalare dalle larghi narici un
rantolo che pareva un gemito umano, egli guatava col suo grande occhio
nero il suo giovine padrone con tale espressione di sguardo che si
sarebbe detto che gli chiedesse perdono di quella disgrazia di cui egli
non era colpevole.

Giorgio si strappava i capelli disperato; aveva voglia di piangere;
in tali momenti si fa quello che non si è mai fatto: non avete mai
bestemmiato, e la bestemmia viene sulle vostre labbra; non avete mai
pianto, e le lacrime sgorgano da’ vostri occhi; siete delicato e vi
tocca di trascinare sopra una ripa a forza di braccia un legno rotto:
siete pittore o poeta vi tocca di fare il falegname: siete stanco vi
tocca di lavorare: avete fretta, vi tocca d’andare a piedi.

Un incidente di viaggio è spesso una pagina di storia. Che cos’è
Waterloo? un incidente di viaggio di Blücher! — Che cosa ha portato sul
patibolo Luigi Capeto? un incidente di viaggio!... Una carrozza che si
rompe; un uragano che v’impedisce d’avanzare; una tempesta che vi getta
sopra uno scoglio; un cavallo restìo; un postiglione briaco, bastano
a scompigliare col colpo di mano dell’ignoto i piani più meditati,
i calcoli più giusti, le speranze più certe: il sogno della _grande
armada_ di Filippo, come il voto del pellegrino che ha camminato
giorno e notte per arrivare in tempo a deporre sulle labbra della madre
morente l’ultimo suo bacio, e non arriva che per deporta sotterra.

Giorgio sfogata la prima disperazione riprese coraggio; passò di là
un contadino, il solito inviato ignoto della provvidenza, e lo aiutò
a tirare sulla strada il biroccino, a rialzare il povero cavallo per
arrivare fino al villaggio ed a cercare un altro cavallo. Il biroccino
si poteva alla meglio racconciare; ma il cavallo non si reggeva più e
bisognava trovarne un altro. Godiasco non brillava per ippici modelli.
Il miglior cavallo che si desse a nolo era una rozza ungherese che
aveva per lo meno trent’anni, famosa per aver caricato brillantemente
sui piani di Marengo, vent’anni prima, ma che ora non offriva altro
pregio che quello d’una rispettabile memoria.

E in tutti questi sforzi, ricerche e lavori aveva perduto quattro
ore buone. Era mezzanotte, aveva 40 buone miglia da fare e non aveva
davanti a sè che sei ore. Per il bravo Savoiardo sarebbe stato nulla
anche malgrado la disgrazia sopraggiunta, ma per la vecchia ungherese
erano un problema forse insolubile.

— Se ci riesce, pensava Giorgio, sarà certo la sua ultima campagna.

Finalmente potè rimontare nel suo biroccino. Prima di dare la frustata
di partenza, perchè la frusta doveva ormai avere una parte principale,
chiese al contadino che l’aveva soccorso ed agli altri curiosi o
pietosi che gli facevano crocchio d’intorno:

— Vorrei, per altro, cavarmi la curiosità di sapere chi c’era in quella
carrozza che m’ha rovesciato.

— C’era il Senatore Tacchini con un altro signore, disse una voce dalla
folla.

— Lui! — mugolò Giorgio, e azzeccò tale frustata alla vetusta
ronzinante che malgrado i suoi trent’anni di servizio, portò via a
carriera il biroccino e il suo auriga.




XXVIII.

UN MINUTO DOPO.


Alla quarta ora la veterana ungherese cominciava a chieder
misericordia, e quantunque all’occhio paresse che trottasse ancora, in
realtà non faceva che agitare per traverso le sue magre e lunghe gambe
senza avanzare, più che non avrebbe fatto il più modesto quadrupede di
medico del villaggio al ritorno delle visite.

Giorgio le faceva coraggio colla voce e colla frusta; ma ormai
l’emulazione come il castigo erano impotenti in quel corpo esausto.
Alla quinta ora il trottarello era divenuto passo di vecchio ansante.
Giorgio si provò ad adoperare la frusta a guisa di bastone, ma la
magiara che un dì non avrebbe tollerato nemmeno il solletico d’un
tallone, ora non era più in grado di risentirsi di quell’insulto e
rispondeva al suo tormentatore con una sdegnosa lentezza.

Alla sesta ora si fermò: al campanile di Broni suonavano le sei;
Giorgio aveva ancora cinque miglia da fare; egli era di nuovo arrestato
in mezzo alla campagna, solo, a piedi, esausto egli stesso di forze.
Cominciò a temere di non arrivare più a tempo; l’alba era spuntata,
ed anche correndo sempre a piedi non sarebbe arrivato ad S.... prima
d’un’ora, e forse fra un’ora sarebbe stato tardi e il sacrificio
consumato.

Tuttavia l’urgenza del pericolo, l’immagine sempre più chiara, quanto
più si avvicinava, della vittima che andava a liberare, gli aveva
trasfuso nel sangue una disperata energia. Piantò sulla strada rozza
e carretta e si diede a correre con quanta forza aveva nelle gambe
nella direzione di S.... Aveva le ali ai piedi. Automedonte si era
trasformato in Diomede. Ma i contadini che l’incontravano non potendo
ricorrere a questi eroici nomi, dicevano: — È matto, oppure, è un
saltimbanco che ha fatto una scommessa.... e s’arrestavano a canzonarlo
o ad ammirarlo finchè l’occhio poteva seguirlo.

Giorgio era gagliardo, rotto a tutti i ginnastici esercizii, ma non
c’è forse umano polmone che regga a cinque miglia di corsa. Egli aveva
appena cominciato a vedere le prime case del villaggio che la lena a un
tratto gli mancò e dovette lasciarsi andare boccone sul ciglio della
strada. Ansava come se nel petto gli si fosse scatenato un uragano e
provava il nuovo affanno di sentir ballare i suoi visceri nel suo corpo
travolti in una specie di ridda indemoniata.

Forse non si sarebbe più mosso di là; quando lo percosse al tempo
stesso un concerto di campane suonanti a distesa e uno sparo di
mortaretti. Era sfinito ma non dissennato, e gli bastarono quei segni
di festa per richiamarlo al sentimento della realtà e per ridestargli
nell’animo le semi-spente faville di vitalità che ancora vi rimanevano.
— «Suonano per lei!... forse non sono più a tempo» pensò più che non
disse il valoroso, mentre con uno sforzo disperato s’alzava da terra
e riprendeva la sua corsa. Traversò sempre correndo tutta la gran
contrada del villaggio ingombra di gente insolita, vestita a festa,
ornata di fiori e di nastri, e arrivò sulla piazza della chiesa.

Ivi la folla era più grande. In un angolo, un contadino metteva
la miccia ad una fila di mortaretti e li faceva saltar tutti in un
punto; una banda musicale venuta da Voghera in grande uniforme, con
degli enormi pennacchi bianchi che facevano l’ammirazione di tutto il
villaggio, aspettava impettita sulla porta della chiesa il segnale di
dar fiato a’ suoi strumenti; tre carrozze, in una delle quali Giorgio
riconobbe subito quella che l’avea rovesciato, attendevano circondate
da altri ammiratori in un angolo della piazza. Giorgio passò in mezzo
alla banda, ai mortaretti, alla carrozza ed alla gente, notando tutto,
ma senza fermarsi ad osservar nulla, e tanto era rapida la sua corsa,
che tranne quei pochi che dovette necessariamente urtare per passare,
nessuno vi badò. Nessuno poi lo riconobbe.

Giorgio entrò in chiesa dalla porta di mezzo e appena dentro vide in
fondo alla navata presso all’altar maggiore un gruppo di persone in
abito nero, una figura vestita di bianco, ed un prete. Indovinò subito
che là era l’ara del sacrificio, e che la figura coronata di rose era
la vittima, e con quanta forza potevagli essere restata in quel momento
gridò, sicchè tutta la vôlta ne risuonò:

— Giusta!

Dal fondo della chiesa, dal gruppo delle persone, gli rispose un grido
acuto e sottile, e nello stesso tempo, mentre continuava a correre
verso l’altare, vide urtarsi in gran confusione tutta la gente che vi
era stipata d’intorno.

— Giusta! urlò una seconda volta e con un salto balzava in mezzo
al corteo nuziale. Uno stormo di uccelli occupati a festeggiare la
scoperta di un campo di miglio, che si vede piombare nel mezzo del
suo tranquillo banchetto il terribile grifo del falco, non si disperde
più rapido di quello che tutti quei signori in cravatta bianca fecero
alla comparsa improvvisa dello sconosciuto. Fu così improvviso e
ratto il suo apparire, che lo credettero calato dal cielo o vomitato
dall’inferno. D’altronde Giorgio era in quel momento spaventoso. Le
fatiche di due giorni di viaggio, la corsa di quella notte, la tempesta
che gli soffiava nell’anima, l’avevano stravolto e dato al suo sguardo
e al suo sogghigno un accento sinistro e formidabile. Ebbero paura
tutti quanti, prete colla stola, marito col mazzo da nozze, testimoni,
parenti, si diedero tutti a fuggire per di qua e di là, senza dar tempo
a riflettere, senza nemmeno pensare alla probabilità d’una resistenza.
Giorgio perciò si trovò per alcuni minuti in faccia a Giusta svenuta
a’ piedi dell’altare. Egli stette un istante a contemplarla, la chiamò
un’altra volta per nome, e vedendo che non risensava e che nessuno gli
faceva ostacolo s’inchinò per prenderla nelle sue braccia. A quell’atto
il Tacchini che aveva già ricuperato coraggio, e che aveva in parte
indovinato il nome di quello straniero, gli gridò: — Non toccate quella
donna, essa è mia moglie.

— Vostra! fece Giorgio allontanando le mani dal corpo che già
cingeva.... Vostra! ripetè restando senza moto e senza respiro a
guatare l’uomo che gli aveva inviato quella intimazione.

— Sua in faccia a Dio ed in faccia agli uomini, — gridò solennemente
Don Fulgenzio. — E tu che vieni a profanare il tempio del Signore sarai
maledetto!

— Voi maledetti, — replicò Giorgio, — che avete fatto mercato
d’un’anima umana. No! Dio non può aver consacrato un giuramento
strappato colla frode e colla violenza. Questa donna non è moglie
d’alcuno fuorchè di colui al quale ha promesso spontaneamente la sua
fede, qui io solo sono suo marito, perchè io solo amo questa donna
— Addietro voi tutti.... essa non appartiene che a me — Guai chi la
tocca.

L’accento di Giorgio ripercosso dalle sonore pareti della chiesa era
formidabile: nessuno osò muoversi. Soltanto si udiva montar dal di
fuori un sordo rumore simile a quello d’una moltitudine che tumultua o
ad una marea che sale.

Giorgio per altro non vi badò e levato sulle braccia gagliarde il corpo
della sua vergine girando gli occhi in atto di disfida sui pochi che
ancora gli stavano d’attorno, s’avviò con passo sicuro onusto del dolce
peso verso la porta.

Giusta nel sentirsi muovere si destò, e quando conobbe d’essere nelle
braccia del suo fedele, lo salutò con un celestiale sorriso, e richiuse
gli occhi per addormentarsi un istante nella beatitudine di quel sogno
tante volte invocato.

Ma appena affacciatosi alla Piazza l’artigliere si vide di fronte a una
turba di popolo là raccolta per aspettarlo e chiudergli il varco, e che
urlava con frenetico tumulto:

— Morte all’eretico!..... morte al sacrilego!...

Egli s’arrestò per studiar le sue mosse, ma la folla non gli lasciò
tempo a meditare. Appena lo riconobbe si gettò contro di lui, ed egli
ebbe appena tempo di deporre Giusta e di cavar dal petto una pistola,
che già i più audaci gli erano addosso. Ma la vista di quelle due canne
contenne per un istante l’onda fremente; nessuno voleva essere il primo
a farne la prova. Giusta frattanto s’avvinghiava al suo Giorgio e gli
faceva schermo della sua persona. Il popolo nel vedere quella delicata
figura, pallida, scarmigliata, tutta sciolta in lacrime abbracciare
colui che esso teneva già per figlio del demonio, provò un istante di
superstizioso rispetto e non ebbe il coraggio di avanzarsi.

Ma rompendo la folla, guidato da Salomone Arena in persona e
dal Tacchini, avanzava il maresciallo Malagana co’ suoi quattro
carabinieri.

Giorgio sentì il pericolo, e allontanato con dolce violenza dalla sua
Giusta s’avanzò verso i carabinieri e togliendo dalla tasca un foglio
di carta lo agitava al vento gridando:

— Carabinieri. In nome della Giunta Provvisoria, lasciatemi passare e
obbeditemi.

— In nome del legittimo Re Carlo Felice, arrestatelo... è un fellone,
un disertore, e ne renderà conto alla giustizia.

Malagana non era uomo da esitar fra i due ordini e fece spianare le
baionette marciando contro al giovine.

Giorgio si sentì acciecare dall’ira, e quasi senza prendere di mira
nessuno lasciò partire i due colpi dalla sua pistola in mezzo alla
folla. Una palla ferì in una spalla il carabiniere, un’altra andò a
passare diritta nel cuore di Salomone Arena.

I carabinieri gli furono sopra, e a stento poterono sottrarlo al furore
della moltitudine che voleva sbranarlo.

Legato, incatenato come un galeotto, pesto, rotto in tutte le parti del
corpo, fu tradotto in carcere e di là, per ordine del Tacchini, sotto
buona scorta a Novara.




XXIX.

TROPPA LUNA!


Balilla, senza sbagliare un solo dei segnali convenuti, aveva trovato
il Muschietti al posto designatogli e gli aveva consegnato il biglietto
di suo fratello. Lo studente nel leggere che l’animoso artigliere non
sarebbe stato della partita, scosse tristamente il capo e disse:

— È una gran perdita! un uomo come Giorgio non si sostituisce così
facilmente.

— Ma ci son io per lui, esclamò il piccolo Balilla guardando fieramente
in faccia lo studente.

— Tu?

— E _Leon_ — fece additando il cane che gli era al fianco.

— Credo al tuo buon volere; ma facesti meglio a nasconderti in quella
fratta. Qui sulla strada ti potrebbe incoglier pericolo.

— Io vi domando — rispose il fanciullo — quale sarebbe stato il posto
di mio fratello.

— Alla carrozza del Principe.

— Ebbene, quel posto è il mio.... lasciatemi fare. Sono anch’io un
Santafiori, e poi vedete, — trasse di sotto alla giubba la daga di
Giorgio — mio fratello mi ha armato..... segno che anch’io devo far
qualcosa.

— Allora vieni: ci son molti uomini che valgono meno di te.

E insieme si perdettero nella campagna.

Chi fosse passato verso le 11 e mezzanotte per quella strada avrebbe
sentito un gran stridere di gufi e di civette, e probabilmente avrebbe
affrettato il passo per fuggire ai sinistri augurii di quei funerei
abitatori dei sepolcri e delle rovine. Erano le voci dei dodici
congiurati che si richiamavano e si riconoscevano.

A mezzanotte, la fune che doveva rovesciar il battistrada fu tirata,
ognuno era al suo posto. Balilla fremeva più di tutti d’impazienza che
il momento arrivasse.

A un tratto si sentì il galoppo d’un cavallo. — È lui, è il lacchè
del Principe! — Subito dopo segue il fragore di quattro ruote: è la
carrozza del Principe stesso. — Attenti tutti; quando il lacchè cade
addosso a lui per impedirgli di gridare: Balilla con altri due da
questa parte, gli altri, secondo il convenuto, prendano di mira la
carrozza e la sua scorta e badino di non sbagliare.

La luna splendeva superbamente in un cielo azzurro e inargentava la
notte di tutta la luce del meriggio. I congiurati avevano fatto notare
al capo l’ostacolo di tanta luce e avevano proposto di rimettere il
colpo ad un’altra volta. Muschietti non volle saperne di indugiare,
allegando la perentoria ragione che una notte dopo sarebbe stato
troppo tardi. Però i più tra i congiurati posseduti dal presagio che il
tentativo sarebbe fallito vi si acconciavano timorosi e svogliati.

Essi avevano ragione. Quella stessa luna che aveva aiutato Giorgio
a leggere la lettera dell’amante tradiva il disegno dei cospiratori.
Poichè la natura guarda con sprezzante indifferenza i bisogni degli
uomini, schernisce con tutto il fulgore del suo sole al condannato che
sale il patibolo colla notte della morte nel cuore e inonda di maligna
piova e d’immondo fango un corteo di nozze che aveva sognato sul suo
sentiero la pompa della luce e dei fiori.

La fune tesa sulla strada in mezzo a quella luce vi spiccava come
un trave. Se il battistrada fosse stato cieco, il suo cavallo
avrebbe dovuto vederlo anche da lontano e sarebbe stato il primo a
dar l’allarme. Così fu. Giunto a dieci passi dalla fune il cavallo
s’arrestò di botto sulle due gambe davanti; il cavaliero che non aveva
ancora notato l’ostacolo lo toccò collo sperone, il cavallo s’impennò,
e questo bastò perchè il cavaliero avesse tempo di vedere la fune,
di girar le redini e di gridare con quanta voce aveva nella gola
l’allarme.

Dal loro nascondiglio i tre congiurati avevano veduto le mosse
del battistrada, ma credendo ormai impossibile il raggiungerlo non
s’erano mossi. Uno solo — Balilla, non aveva esitato a slanciarsi sul
cavaliere; e nel momento appunto in cui questi voltava le briglie, con
un salto portentoso balzava sulla groppa del cavaliere, e abbrancatosi
alla gola dello scudiero cercava impedirgli di gridare. Ma le mani di
Balilla erano troppo piccole per quest’ufficio, e lo scudiere giunto
presso la carrozza del Principe stava per liberarsene cavando fuori
il suo coltello da caccia, se Balilla senza perdere un minuto non gli
avesse cacciata la sua daga nelle reni.

Il legno all’allarme del battistrada s’arrestò: i carabinieri armarono
le loro carabine; i due staffieri di serpa e di coda estrassero le
loro pistole e si prepararono alla difesa. I congiurati soverchiavano
sempre di numero; ma il contrattempo aveva messo lo scompiglio nelle
loro fila. Non era più ad una sorpresa che andavano, ma ad un aperto
combattimento. Ci furono quindi alcuni istanti di disordine e di
esitazione.

Finalmente spronati dalla voce e dall’esempio di Muschietti, saltarono
sulla strada, e attaccarono a colpi di pistola la carrozza e la
scorta. Il conflitto continuò sordo, accanito per oltre mezz’ora; i
due carabinieri erano ancora a cavallo agli sportelli della carrozza
ruotando le loro sciabole e tenendo lontano gli assalitori.

Alla fine Muschietti riescì a mettere una palla di pistola nella
testa d’un carabiniere e tutto il fianco sinistro della carrozza restò
scoperto.

— Coraggio amici, egli gridò balzando nel legno. Il Principe è in
nostre mani!.... e in quel mentre anche il cavallo di quell’altro
cadeva atterrato.

— Il Principe è fuggito per di qui, — gridò una voce... dalla schiera
dei combattenti.

— Per Dio, ha ragione Balilla! il Principe non c’è più! sclamò
Muschietti mettendosi disperato le mani nei capelli.

— È fuggito per di qui, vi dico.... inseguiamolo.... _Leon_, cerca...
e il fanciullo preceduto dal suo cane si gettò giù dalla strada nelle
boscaglie che fiancheggiano il Po alla caccia dell’uomo che avevano
perduto.

— Inseguiamolo.... egli non può essere lontano — gridò Muschietti.

E piantati sulla strada cavalli e servi, feriti e malconci, si
precipitarono dietro le orme di Balilla e di _Leon_.

Infatti il Principe era scomparso non visto. Egli aveva udito per il
primo le grida di soccorso dello scudiere, e veduto in confuso che egli
era stato assalito da un uomo, senza esitare un istante diè un balzo
fuori di carrozza dicendo ai carabinieri: difendete la carrozza fino
alla morte, saprò ricompensare i valorosi. E senza aggiungere altro,
prima ancora che i congiurati distratti dall’accidente del battistrada
avessero potuto scorgerlo, s’era gettato a caso nella sottoposta
campagna.

Molte voci erano giunte all’orecchio del Principe, di minacce e di
tentativi contro la sua persona e la sua vita; e il sospetto lo teneva
vigilante. Non voleva mostrar paura nè diffidenza, ma stava all’erta.
Appena vide il caso dello scudiere indovinò rapidamente che era caduto
in uno degli agguati sospettati, e sentendosi debole a resistere non
esitò a salvarsi colla fuga.

Intanto che i suoi fedeli si battevano sullo stradone coi congiurati,
egli aveva già fatto molto cammino nella campagna ed era giunto alla
riva del Po.

Ivi sperava trovar una delle solite barche da traghetto, e giunto
all’altra sponda non temeva più nulla. Ma non una barca, non un uomo:
davanti un fiume silenzioso, alle spalle una fitta boscaglia agitata
dal vento, d’intorno la solitudine e la notte. Ebbe in quel momento
paura. Egli, Carignano, stirpe d’eroi, intrepido nel pericolo, cuor di
soldato, ebbe paura. Meno di quei pochi uomini che l’avevano assalito,
meno della morte, che della sua coscienza.

Solo, in quel deserto, non poteva più ingannare sè stesso col gergo
del linguaggio umano; ivi ogni cosa prendeva il suo vero nome, ivi il
Principe acclamato, festeggiato, diveniva quel che era, un traditore
bandito, che domani forse la legge consegnerebbe ai ministri della
giustizia ed alla gogna. E come Caino, gli pareva che avrebbe potuto
salvarsi da tutti i nemici della terra, ma che avrebbe portato sotto
tutti i climi, e fra tutti i popoli un assalitore indomabile che
l’avrebbe dilaniato fino alla morte: il rimorso.

Uno scricchiolìo di frondi pestate lo svegliò dalla sua tetra
meditazione; si voltò e vide davanti a sè l’ombra nera e gigantesca
d’un animale. Sentì di nuovo il pericolo, e prossimo il nemico, e
ravvivando il natìo coraggio puntò sull’animale una pistola e lo mandò
a rotolare colle cervella cadenti a dieci passi da sè.

_Leon_ cadeva martire della sua fedeltà e suggellava con una morte
degna di lui la sua storica vita! Il Principe aveva già udito un
tumulto di voci appressarsi; non ebbe che il tempo di gettarsi nel Po;
e prima ancora che i suoi nemici fossero giunti a scoprirlo, egli aveva
toccata l’altra riva.

Frattanto i servi riconducendo l’abbandonata carrozza erano giunti a
Moncalieri, avevano dato l’allarme alle guardie del Castello, che si
erano precipitate a cavallo in tutte le direzioni alla caccia degli
assalitori.

Muschietti dal bosco udì il galoppo dei cavalli sulla strada, capì
che fra poco tutti gli sbocchi della boscaglia sarebbero stati
occupati e la boscaglia stessa frugata. Però disse ai suoi compagni:
«disperdiamoci, non abbiamo un momento da perdere; il colpo è fallito».
E quali passando a nuoto il Po, quali risalendone la corrente, quali
appiattandosi nel fitto della foresta, cercarono salvarsi.

Poche ore dopo i soldati entrati nella foresta trovarono un fanciullo
che piangeva silenziosamente seduto vicino al cadavere d’un cane, e lo
tradussero seco a viva forza.

Era Balilla che piangeva la morte del suo _Leon_ e che non voleva
staccarsene.




XXX.

CATASTROFE.


Il giorno dopo fu sparsa per tutta Torino la voce bugiarda che si era
tentato assassinare il principe Carignano. E quelli che ancora fidavano
in lui, e quelli che avevano interesse a corteggiarlo, ed erano i
più, non mancavano di levare al cielo alte grida di raccapriccio
e di maledizione contro gli autori di tanto delitto. Il Principe
rientrando nel mattino alla capitale fu salutato con grandi evviva
come un liberatore, e ricevette da tutte le parti visite e indirizzi di
felicitazioni e di gioia. — Nè il Principe disse parola per smentire la
popolare credenza; quell’aspetto di vittima giovava a’ suoi disegni.

Un uomo però che aveva, può dirsi, assunto per impegno d’essere
l’accusatore pubblico del Principe, il Muschietti, non tardava a
scoprire il vero ed a manifestare le vere intenzioni dei congiurati e
le ragioni del loro tentativo.

Egli corse ad Alessandria, dove erano Santarosa, Lisio e gli altri capi
della Giunta, meno il Dalpozzo, e ivi, in presenza di tutti, ripeteva
tutte le cose udite e vedute da Giorgio in sentinella sulla terrazza
del Palazzo Carignano; esponeva tutte le prove dei propositi di fuga
del Principe; dimostrava la necessità di impadronirsi della sua persona
per salvar la rivoluzione, e aver nelle mani un sicuro ostaggio;
confessava d’avere egli con Giorgio l’artigliere e il capitano Gambini
ordita la congiura per rapire il Carignano; ma affermava altamente il
loro deciso proponimento di rispettarne ad ogni costo la vita; respinse
fieramente ogni accusa di assassinio, sebbene osasse sostenere che
qualche volta la morte dei traditori della patria sia una necessità
che si trasforma in dovere; e chiedeva instantemente che la Giunta
adempisse all’obbligo suo, corresse a Torino e impedisse in qualunque
modo la fuga che era protratta ma non abbandonata dal Principe.

Santarosa e Lisio si rifiutavano a credere; avevano notate le mille
tergiversazioni ed esitazioni del Principe, ma non lo potevano
immaginare capace di tanta perfidia.

Muschietti vide la loro incredulità decisa a rovesciare tutti gli
ostacoli, e gridò:

— Io vi giuro sulla mia testa che quanto vi ho detto è la verità.
Prendete in garanzia la mia vita, ma anche domani potrebbe essere
troppo tardi. Se voi non farete il vostro dovere, io, a costo di
sollevare il popolo, farò il mio.

I membri del Governo, sebbene increduli ancora, non potevano assumere
la responsabilità del minacciato avvenimento senza aver fatto quanto
era in loro per scongiurarlo, e partirono la sera stessa per Torino.

Appena arrivati si presentarono al Palazzo Carignano. Il Principe era
coricato, e li fece avvertire ch’era ammalato e non poteva riceverli.
Però li pregava a passare da lui il domani di buon mattino che aveva
bisogno di conferire con essi d’affari di somma urgenza.

Al far dell’alba, molto prima dell’ora fissata, Lisio, Collegno,
Santarosa, erano pronti al convegno. Chiesero del Principe, e
l’uffiziale di guardia rispose che andava a vedere. Aspettarono un
quarto d’ora, mezz’ora, alla fine l’ufficiale ritornò, dicendo: che uno
de’ suoi camerieri l’aveva incaricato di riferire che il Principe non
riceveva.

I tre gentiluomini insistettero, dicendo: che avevano avuto invito di
recarsi a quell’ora al Palazzo dal Principe stesso, e dichiararono che
se non erano annunziati a lui, sarebbero penetrati anche a forza nella
sua stanza.

L’ufficiale, pallido e contraffatto, confessò che il Principe era
partito la notte stessa alla volta di Novara.

Conduceva seco per iscorta una compagnia delle guardie del Corpo, una
batteria d’artiglieria e qualche squadrone di cavalleria.

A Novara chiese del conte Della Torre, che si presentò burbanzoso e
fiero come ad un soggetto, e continuò la sua strada per Milano.

Ivi s’arrestò a mendicare gli elogi del suo tradimento dal Vicerè
austriaco, e fu accolto dal terribile sarcasmo del generale Bubna che
la storia ha registrato: «Altezza, vi presento il Re d’Italia!»

A Modena sperò trovare miglior accoglienza. Ma persino il re, per
il quale aveva macchiato di disonore la sua giovinezza, ricusò di
riceverlo.

Egli si rifugiò in Toscana lasciando miseramente tacitare ad uno ad
uno i suoi compagni di lotta e d’infortunio, aspettando che una guerra
liberticida gli offrisse l’occasione di scontare «di gloria un breve
fallo al Trocadero».

Ormai le sorti dello rivoluzione sono segnate: la reazione ha
ripigliato il sopravvento: la discordia e la sfiducia è entrata nelle
file dei liberali; molti ufficiali, come i Gifflenga, i Bellotti, che
avevano preparato la costituzione, imitano l’esempio del Principe e
passano nel campo nemico.

Solo un uomo resta a fronteggiar lo sfacelo, Santorre Santa Rosa.
Debole, illuso, esitante o trascinato negli errori comuni fino alla
fuga di Carlo Alberto, riprende in quel momento di disperato pericolo
tutto il natìo vigore dell’anima sua e in un proclama splendido per
la nobiltà del tribuno e l’energia d’un soldato antico, decreta, egli
dittatore, la resistenza contro lo straniero.

— «Voi mi porrete in accusa, gridava egli alla Giunta costituzionale,
che esitava a sancire i suoi energici decreti, se tale sarà il
piacer vostro; io frattanto farò il mio dovere e la patria non sarà
abbandonata».

E tosto sono apprestati tutti i provvedimenti pel magnanimo conato:
chiamati nei ranghi i provinciali, ordinati in corpi volontari gli
studenti, rinnovati nelle provincie i rappresentanti del governo,
represse le sedizioni delle truppe fedeli al Re, raccolto denaro,
riunito l’esercito, eccitata la Lombardia ad insorgere, preparato tutto
l’esercito fedele alla libertà, all’estrema battaglia.

Ma a tanto ardire mal rispondevano ormai gli uomini e le cose.

I più celebrati tra i generali, come Bellotti, Bussolino, Gifflenga,
nomi che la esecrazione dei posteri non deve dimenticare, erano passati
a capo delle schiere e guidavano essi stessi sul campo, contro i
fratelli che avevano tradito, l’esercito straniero.

All’Agrogna presso Novara si compirono le sorti della rivoluzione
Piemontese. I liberali combatterono disperatamente, Ferrero, Gozzani,
Garelli, Laneri, Regis, Rossi, fecero prove disperate di valore.
Ernesto Gastone nella compagnia degli studenti inseguì fin sotto le
mura d’Alessandria i fuggenti dragoni austriaci, e colpito nel petto
da una scarica di mitraglia vi chiuse, invidiato da’ superstiti, la
nobil vita. Ma frattanto arrivarono sul campo le fresche divisioni
austriache, e le sorti della giornata furono compite. Dell’esercito
costituzionale, circondato, decimato, inseguito, non rimanevano più
dopo dodici ore che poche centinaia di sbandati e molte migliaia di
prigionieri.

Santa Rosa tentò un ultimo sforzo per raccogliere le superstiti forze
e condurle ad estrema difesa dietro le mura di Genova; ma Genova
spaventata dalle minacce dei generali austriaci che marciavano da tutte
le parti contro di essa, sentì venir meno l’avito ardimento e chiuse le
sue porte in faccia alle reliquie della rivoluzione.

Allora cominciarono pe’ patriotti l’esiglio ed il martirio, pei tiranni
il trionfo e le vendette.




XXXI.

I DUE FRATELLI.


La capitale era già in potere del conte Della Torre; tutto il Piemonte
era sottomesso; le carceri rigurgitanti di prigionieri; le contrade
risuonanti di bandi regi inviati da Modena che prescrivevano le
vendette, istituivano le corti marziali e designavano le vittime.
Nessuna restaurazione fu inaugurata con tanto terrore. Commissioni per
giudicare i rei d’alto tradimento, commissioni per scrutare la condotta
degli ufficiali, commissioni per giudicare degli impiegati; chiusa
l’Università, abolito il Magistrato degli studi, perseguitati con fieri
editti di morte, di proscrizione e di confische gli studenti, i loro
maestri e rettori.

Incaricato di istruire i processi della commissione militare un uomo
di terribile nostra conoscenza, il Tacchini. Quando si udì pronunciare
questo nome, ognuno comprese che la sola speranza dei vinti era non
sperare salute. E chi non aveva già precorso il pericolo s’affrettava
ai passi delle Alpi ed agli sbocchi del mare sulla sconfinata via della
fuga e dell’esiglio. Così si salvò dal patibolo Santorre, serbato
al glorioso martirio di Sfacteria; così Collegno, il difensore di
Navarino; così Lisio, Rattazzi, Regis, Ansaldi, Perrone, Dal Pozzo,
Panchiarotti, Ravina, il dott. Crivelli, colui che strappò dal labbro
di Carlo Alberto la parola Costituzione; Marrocchetti, futuro soldato
di Roma; l’eroe di San Salvario, Vincenzo Ferrero; e così Carlo Massa
d’Asti, maestro nel collegio delle provincie; Francesco Tubi, avvocato
collegiato, scampato per miracolo; Fecchini, Carta, Rossi, Gillo,
medici e avvocati, compagni al Ferrero nell’audace tentativo.

Di tutti costoro le galere contesero al carnefice la loro parte e
ingoiarono tutto quanto di più generoso aveva potuto o voluto cercar
salvezza nella fuga. Non poterono salvarsi dalla decretata morte
nè il sottotenente Moda, nè il luogotenente Laneri; non lo volle il
capitano Garelli. Salirono il patibolo con fortezza spartana in mezzo
ai cachinni d’una plebaglia briaca e invocando dalle loro ossa il
vendicatore.

Ad uno de’ nostri amici pendeva pure sul capo lo stesso destino.
Stato trasportato da Novara a Torino dietro il carro del vincitore e
rinchiuso nella cittadella, quivi aspettava la sua sentenza. Non si
faceva più illusione, sapeva che doveva morire e lo desiderava. Colpito
nei due soli affetti che avevano formata la religione della sua vita,
tradita e vinta la causa per cui aveva combattuto, esuli o morti gli
amici, perduta colei che sola sulla terra gli aveva fatto conoscere
qualche istante di gioia, agognava la morte come un riposo ed un
rifugio. Vivendo dopo tante sventure e tante ingiustizie sentiva che
sarebbe stato malvagio, che non avrebbe potuto più credere a nulla, che
non avrebbe perdonato, che si sarebbe vendicato degli uomini e della
società che gli avevano fatto tanto male nel mondo. Però nel breve
e sommario processo che ebbe a sostenere, confessò tutto: confessò
anche quello per cui non fu sospettato, laonde fra tutti i soldati
dell’esercito passati alla rivoluzione egli solo potè godere il triste
privilegio d’una condanna capitale.

Infatti re Carlo Felice, da Modena, aveva prescritto che i soldati
fossero amnistiati e che soltanto gli ufficiali fossero sottoposti a
processo e condannati. Giorgio quindi avrebbe potuto ancora salvarsi se
l’avesse desiderato.

Ma egli sdegnò: confessò d’aver egli arsa coll’acido prussico la
sentinella dell’università la notte del 10 marzo: egli ferito a morte
il comandante della Cittadella Des Geneis; egli ordito tutto il piano
dell’arresto del principe di Carignano. Ve n’era anche di troppo per
essere fucilato in quei giorni; ma se non fosse bastato c’era l’odio
del Tacchini, e il tentativo di rapimento della sua sposa e l’uccisione
del sindaco Salomone Arena.

Giorgio però a questo punto del suo interrogatorio volle avere ancora
un istante di rivincita, e in faccia ai giudici attoniti e inorriditi,
narrò tutto il reo tradimento di Tacchini e di Salomone.

«No, Giusta Arena non è sua moglie; essa non è che la vittima d’un
mercato infame. Quest’uomo che ora siede qui per giudicare me, ha
comperata la mano d’una fanciulla col tradimento e la menzogna. Ha
venduto, per possedere quella impagabile ricchezza, il suo voto e la
sua coscienza di giudice, ha inventata la mia morte e ne ha scritto
l’annunzio, empita la mente d’un padre stolto e codardo d’immaginari
terrori e prostituita la giustizia alla sua libidine. Io era nel mio
diritto liberando colei che aveva tratta all’altare coll’inganno, e se
alcuno qui deve rispondere del sangue di Salomone Arena, è colui che
presiede a questo tribunale. La palla che gli ha trapassato il cuore,
non è partita dalla mia mano ma da quella di Dio. Giudici, — esclamava
additando Tacchini pallido e fremente sullo scanno — se volete fare il
vostro dovere eccovi il reo».

— È pazzo furioso, urlò il Tacchini, trascinatelo in prigione a viva
forza! Signori giudici, voi non vorrete dare ascolto alle parole d’un
ribelle che ha sulla coscienza tre assassinj.

I giudici sentivano che quell’uomo parlava il linguaggio della verità,
ma Tacchini era allora troppo potente perchè alcuno potesse osare di
resistergli impunemente e assentirono a quello che a lui piacque.

Fu decretata la morte per fucilazione nella schiena.

Tacchini però coll’acuto olfatto della vecchia volpe di polizia
aveva indovinato che Giorgio aveva avuto nella rivoluzione Piemontese
un’importanza anche maggiore di quella che le indagini del processo e
le sue stesse confessioni avevano denunziato. Egli, secondo il giudizio
del Senatore, doveva possedere la chiave di importanti rivelazioni
e poteva offrire al governo il mezzo di più ampie scoperte. Prima
di ucciderlo era perciò spediente tentare di strappargli di bocca
i segreti che certo custodiva. Ma a chi confidare questa delicata
missione? Non poteva essere nè un nemico di Giorgio nè un sospetto;
poteva avere l’aspetto di un inviato dal Governo; doveva avere l’aria
spontanea e amichevole d’un fratello che soccorre in un supremo
pericolo il fratello.

Dopo molto cercare e frugare nella buia mente il Tacchini si risovvenne
del Michele Santafiori — e pensò di metterlo all’opera. Michele,
aiutante di campo del conte Della Torre, divenuto per necessità di
insaziabili bisogni una delle lance spezzate della reazione, anima
guasta e vendereccia, e d’altro lato camuffato del nome di fratello
di Giorgio e facilmente creduto partecipe delle sue pene, era l’uomo
che occorreva al Tacchini. D’una cosa sola temeva il Senatore: che
avesse la mente meno cattiva del cuore, e che per imbecillità fosse
incapace di condurre a buon fine una cattiva azione. Tuttavia provò a
interpellarlo e non fu malcontento della risposta.

— Si tratta di promettergli la libertà purchè faccia delle rivelazioni
— disse il luogotenente Michele.

— Perfettamente! Vedo che le nostre due menti son fatte per intendersi;
— rispose il Tacchini.

— Credo che la libertà e la vita saranno poco, riprese dopo una pausa
il Santafiori.

— Che cosa potremmo offrirgli di più?

— Non saprei... per esempio.... di facilitargli una fuga con.... la
signora Giusta....

— Oh mai.... questo; vada a rompicollo il Piemonte, questo mai.

— Ma, signor Tacchini, altro è promettere, altro è mantenere.

— Oh! ora capisco! bestia che son io! bravo Santafiori, esclamò il
Tacchini, e mentalmente soggiunse «Vedo che ci sono ancora dei birbanti
più scellerati di me....

E forse glie ne dispiaceva!

In sul fare della sera del giorno stesso in cui Giorgio aveva udito la
sua sentenza, egli vide ad un tratto aprirsi la porta del suo carcere.
— Non ebbe paura, e credendo che venissero per trarlo al supplizio,
chiese con voce calma dal fondo del suo giaciglio....

— È dunque per stanotte? la luce del sole vi fa dunque paura?

— Nè per stanotte, nè per domani, nè per mai, fratello, rispose dalla
porta una voce che Giorgio durò fatica a riconoscere.

— Chi mi parla così? chiese il prigioniero....

— Son io, Giorgio.... sono Michele.

— Tu! esclamò l’artigliere balzando in piedi e spalancando gli occhi
per l’incredulità e la meraviglia.

— Io! ma parla piano; la cosa per cui vengo non deve essere udita
nemmeno dalla muraglia.

— Ma cosa può volere da un ribelle l’aiutante del Generale Della Torre?

— Qui non ci sono più ribelli, nè aiutanti, nè generali, qui non ci
sono che due fratelli. E prima di tutto dimmi se credi che io possa
esserti ancora fratello.

Giorgio esitò a rispondere: poi con accento breve....

— Parla, disse; lo saprò dalle tue parole. Di che si tratta?

— Si tratta di salvarti.

— Salvar me!.... fece Giorgio sorridendo tristamente — non credo
che alcuno lo possa... se lo si potesse non lo vorrei.... desidero
morire....

— A ventitrè anni con tanto avvenire davanti è una follia desiderare la
morte... ma non si tratta di te solo.

— E di chi adunque?....

— D’un’altra.... di Giusta....

— Giusta!.... Oh perchè hai pronunciato quel nome.... ne hai tu nuove,
Michele?... dimmi che fa.... come vive.... che pensa di me!.... come la
tratta quel suo feroce marito.... Oh! perchè arrivai troppo tardi!....
un minuto prima ed era salva.... Come sopporterà domani la nuova della
mia morte!? M’avrà ella perdonato la morte di suo padre?.... Ah sento
che quella morte mi ha per sempre diviso da lei!

Giorgio profferì tutte queste parole a precipizio interrompendosi
soltanto per lasciar uscir dalla gola un cupo singhiozzo. Nel dire le
ultime parole cadde sul suo pagliericcio e vi restò sprofondato in una
ambascia mortale.

Michele vide che la corda dava ancora suoni, che la piaga era ancora
viva e continuò:

— Diviso, perchè? E se ti fosse offerto di rivederla; di sottrarla al
suo tiranno, di fuggire in una terra lontana e di vivere sicuri da ogni
persecuzione il resto de’ vostri giorni?

— Non mi tentare, non mi ammaliare con questi sogni di incomprensibile
felicità — se mi fosse concesso tutto questo.... Michele, ti perdonerei
tutto il male che hai fatto a nostro padre....

— Povero padre! disse Michele con un sospiro. Poi continuò: — Ebbene,
tutto ciò è possibile. Tu non hai che a confidarti in me.

— Ma tu vaneggi più di me, Michele! Come si può fuggire di qui; come
fuggire da Torino, come fuggiremo dal Piemonte?

— Con un salvocondotto.

— Un salvocondotto! Ma chi me lo darà.... ed a qual prezzo?

— Io te lo darò, il prezzo è.... una cosa da nulla: riempier questa
carta di nomi...

— Di nomi? di quali nomi?...

— Di quelli che hai incontrati in questi ultimi mesi.

— Incontrato! ma dove? spiegati non intendo.

— Incontrati tra le file della rivoluzione....

Giorgio lo guardò; e si passò una mano sulla fronte per scacciarne
un’idea: prese il foglio di carta che Michele gli offriva, gli si
avvicinò e disse: — sono dunque rivelazioni che mi si chiedono?

Michele non ebbe coraggio di dir la parola; ma accennò di sì col capo.

Giorgio mandò un ruggito e si gettò sull’ufficiale col lancio d’un
tigre. Se l’avesse arrivato lo strozzava. Ma Michele indietreggiò e
Giorgio legato dalla catena infissa nella muraglia non poteva avanzare
di più. Sentendosi trattenuto e impotente a colpire colle sue mani,
ricorse alla vendetta di Garibaldi torturato dagli sgherri di Rosas:
sputò in faccia allo sgherro di Tacchini....

Michele indietreggiò sino alla porta non avendo saputo trovare
nell’anima vile che una bestemmia ed una minaccia!




XXXII.

IL SALVACONDOTTO.


Giusta, caldo ancora il cadavere di suo padre, era stata trasportata
da suo marito fino a Novara e di là, seguendone le sorti, a Torino.
Percossa a un punto da tanto colpo, le povere forze della sua vita
erano giunte in poche ore all’estremo, e non restava più di lei
che un’ombra. Chiusa nella stanza d’un triste palazzotto di Torino,
piangeva senza posa e si disfaceva lentamente come la Pia all’aura
malsana della sua torre di Maremma. Non poteva staccar gli occhi
dall’immagine di colui che aveva messo a cimento la vita per salvarla
da un abborrito destino, nè poteva levarli sull’uomo che l’aveva
comprata come la schiava sul mercato e resa infelice per sempre.
Indarno Tacchini nelle sue ore d’ozio veniva a chiedere alla bella
fanciulla un sorriso od una grazia. Giusta rispondeva inflessibilmente:
potete farmi morire a foco lento, ma non sarò vostra mai.

Ed anche per lei il morire era la sola speranza che le rimaneva. Quando
si è giunti a tale estremo, la morte è la più felice soluzione, la
più generosa concessione del destino. Sulla terra non aveva altro:
nulla per il presente, nulla per l’avvenire: se avesse potuto vivere
per perdonare, l’avrebbe fatto: se avesse dovuto vivere per pregare,
l’avrebbe fatto; ma ella pure non aveva più la forza di perdonare
ad alcuno, e quelli pei quali avrebbe volontieri pregato stavano per
precederla in cielo. Avrebbe dunque pregato con loro lassù. Se avesse
avuto il sospetto di sopravvivere a lungo al suo Giorgio e avesse
temuto che il tempo potesse temprare il suo dolore, se in mezzo a tanti
esempi di coraggio il suicidio non le fosse sembrato una fuga codarda,
si sarebbe uccisa.

Lo pensò più volte perchè gl’infelici non ponno non pensarvi, ma
altrettante ne discacciò il pensiero.

Era giunta così senza saperlo alla vigilia del giorno in cui Giorgio
doveva essere tratto a morte. Guai se l’avesse soltanto sospettato;
l’ambascia l’avrebbe di certo finita. Tutto taceva nella sua casa,
Tacchini era uscito a festeggiare in un banchetto di generali traditori
la vittoria della reazione; i servi disattenti sonnecchiavano o
giuocavano; Giusta era sola nella sua stanza guardando da una finestra
le ultime iridi infuocate del tramonto, simbolo del suo destino,
quando la scosse un lieve calpestio. Si volse — guardò; le apparve un
piccolo spettro che si spiccava nell’ombra della portiera, lo guardò
più fissamente senza aver paura: dubitò perchè l’inaspettato, anche
se è innegabile, solleva sempre il dubbio e alla fine credette averlo
riconosciuto. Ma non aveva ancora aperte le labbra per pronunciare il
nome, che già il piccolo Balilla — poichè era lui! — s’era slanciato
fra le sue braccia.

Giusta lo strinse al petto come avrebbe stretto al seno il suo angiolo
custode, se da spirito si fosse fatto persona. E voleva meravigliarsi,
chiedere, sapere, ma il giovinetto ponendole rattamente una mano sulla
bocca......

— Lascia le interrogazioni.... le disse: tutto... ti dirò tutto.... e
pensa a rinchiudermi subito nella stanza di tuo.... del Tacchini....

— Nella sua stanza.... ma Balilla, cosa pensi?....

— In due parole, e non c’è un momento da perdere. Se io fossi trovato
qui, sarebbe tutto rovinato. Tu non sai che domani.... come farò a
dirtelo? Infine, Giusta, coraggio.... domani Giorgio dev’essere...

— Silenzio... non proseguire... ho capito tutto.... è dunque domani,
fece Giusta con voce interrotta dall’affanno. Ebbene, tu sei qui per
salvarlo, non è vero? soggiunse afferrando convulsamente la testa del
giovinetto e cercando leggergli fin nel fondo dell’anima... Presto! Che
cosa bisogna fare per salvarlo?

— Bisogna condurmi nella stanza del Tacchini, secondarmi ed essere
pronta a partire stanotte.

Giusta riflettè alcuni istanti: poi disse:

— Va bene! entra qui, e con un gesto risoluto condusse Balilla
nell’interno della stanza del Senatore e lo nascose nel suo gabinetto
da bagno.

Quando Balilla fa a posto, ella soggiunse: ed io, cosa debbo fare?

— Tu devi cercare de’ panni da uomo, e se fosse possibile una livrea
de’ tuoi servi, meglio; vestirti e tenerti presso questa porta ad
origliare. Quando udrai un mugolato entra: ti darò un foglio, correrai
con quello alla Cittadella, ti farai aprire la prigione di Giorgio e
fuggirete insieme.

— Ma, e di lui?... disse Giusta accennando il letto dove doveva andare
a coricarsi il Senatore.

— Farò di tutto per lasciarlo vivo. Mi dimenticava di dirti due cose:
primo, che passerai dalla porta del tuo giardino e la lascerai aperta
per me, poi che troverai in fianco alla porta della Cittadella una
carrozza con un sol lampione acceso e un cocchiere che risponderà a
questa parola: _Animali parlanti_: egli è il sergente Carrera nostro
amico e potrete fidarvene, egli vi condurrà fuori di Torino. Hai
inteso? coraggio Giusta....

— Per lui... dieci vite sarebbero poche! — rispose la fanciulla
ritirandosi ad eseguire il convenuto.

Giusta infatti in quel supremo momento si era in pochi istanti
trasformata. Bastò quella notizia, quel nome, quell’idea d’aver
lei nelle mani la vita del suo amato, perchè il suo mite e gentile
carattere si inebbriasse a tutto l’entusiasmo della lotta e del
sacrificio, la gazzella s’era mutata in leonessa!

Tacchini tornò a casa verso mezzanotte e i vapori del vino largamente
tracannato, e l’orgia del banchetto gli avevano dato alla testa, e
appena giunto nella sua stanza si lasciò cascare mezzo vestito sul suo
letto, e vi si addormentò russando di lì a pochi minuti fragorosamente.

A un certo punto Balilla spinse la sua nera testolina fuori delle
cortine del gabinetto; s’assicurò che il Tacchini dormiva, che la
stanza era deserta e la casa silenziosa; poi fece un passo, montò sopra
una seggiola e tagliò più alto che potè il cordone del campanello:
prese da un tavolino un foglio di carta timbrato e stampato col nome
di «Senatore Tacchini Procuratore Generale di S. M. il Re di Sardegna»
e vi scrisse sopra queste parole: «Al ricevere della presente si lasci
immediatamente in libertà il nominato Giorgio Santafiori, detenuto
nelle carceri della Cittadella, amnistiato per grazia sovrana di S.
M.». Prese dal tavolo stesso calamaio e penna e lo portò vicino al
letto di Tacchini; cavò di tasca un coltello, saltò sul suo letto
costringendo con quanta forza aveva nel pugno la gola del dormiente,
gli susurrò all’orecchio: «Svegliati Tacchini, o sei morto!»

Il Senatore appena sentì mancarsi il fiato si svegliò in sussulto,
rantolando chiocciamente dalla poca fessura che gli lasciava Balilla
e sbarrando sul fantasma che gli stava addosso i suoi occhi ancora
imbambolati dal vino.

— Poche parole.... Tacchini. Qui resistere è impossibile, e gridare
meno. O firmare questo foglio o morire. — E così dicendo gli strofinava
colla punta del coltello la gola.

Tacchini voleva parlare, muoversi, spiegarsi, ma Balilla colla sua
terribile punta sempre a fior di carne gli impediva ogni conato.

Alla fine il Senatore riescì a dir mezzo strozzato.

— Ma quale carta?

— Lo saprai domani! ora non importa! scrivi e basta...

— Ma senza sapere...

— Finiamola — e due.... alla terza queste quattro dita di lama ti
entrano per la gola e ti passano per la nuca.

Tacchini diè un’ultima occhiata d’intorno per vedere se qualche
cosa poteva venire in suo soccorso; chiese alla natìa scaltrezza
un’ispirazione, uno spediente, uno scampo, e quando fu ben persuaso che
questo miracolo era impossibile rispose con quel fil di voce che gli
era concessa dal pugno di Balilla: «dammi, scriverò».

Balilla sporse con una mano la penna intinta a Tacchini, intanto che
coll’altra lo minacciava colla punta del coltello.

Tacchini steso supino non poteva scrivere. Balilla dovette confessare
che aveva ragione e disse: «Ti concedo d’alzarti fin qui; ma bada a non
fiatare o sei morto». E aiutando il Senatore a rizzarsi sul guanciale
tenendogli sempre la mano alla bocca e il pugnale alla gola.

— E scrivi chiaro: soggiunse il fiero giovinetto... vedendo che la mano
del suo prigioniero tremava sulla carta.

Quando Tacchini ebbe scritto alla meglio il suo nome, Balilla senza mai
muoversi dalla sua postura, mandò un sottile miagolato, e Tacchini vide
subito dopo entrar nella sua stanza un giovinetto vestito colla livrea
dei suoi servi, prendere il foglio dalle mani del fanciullo, e senza
dire una parola, senza voltarsi indietro, uscire rapidamente dalla
camera.

Il prigioniero vedeva tutto e non poteva capire nulla. Egli non
conosceva Balilla; non sapeva quale carta avesse firmata; non aveva
potuto riconoscere il lacchè. Subiva una violenza, e quella firma
doveva servire certo ai disegni di qualche suo nemico; e probabilmente
pensava a qualcuno dei tanti ribelli che erano nelle carceri sotto il
suo giudizio; ma non poteva indovinare a quale. Se anche fosse stato
libero non avrebbe potuto impedire la esecuzione dell’ordine che aveva
firmato, nè arrestar coloro che glie l’avevano strappato perchè non li
conosceva.

Ma Balilla non era sì gonzo da lasciarlo subitamente padrone di sè;
e per un’ora continua lo tenne sempre nello stesso atteggiamento di
immobilità e di silenzio sotto la minaccia del suo ferro.

Pure bisognava che anch’egli o prima o poi pensasse alla fuga. Erano
già suonate le due dopo mezzanotte; ancora poche ore e sarebbe stato
giorno e non aveva tempo da perdere. Poteva uccidere il Tacchini e
finirla con un colpo; ma l’assassinio non era ne’ gusti e nei propositi
del giovinetto. Se per salvar suo fratello fosse stato necessario un
po’ di sangue non avrebbe indietreggiato; ma bagnarsene le mani per
mera vendetta non lo poteva.

Pensò che non gli restava altro mezzo che legare il Tacchini e in modo
che non potesse gridare. Purchè avesse due o tre ore di tempo, a lui ed
a’ suoi amici potevano bastare.

Ma l’operazione non era facile, prima di tutto bisognava legargli le
mani per metterlo fuori d’azione, poi fasciargli la bocca. Balilla
riflettè un istante; poi con un accento che non ammetteva replica disse
al suo Senatore:

— Mettiti boccone.... non capisci?.... mettiti boccone o la finiamo.

E gli fece sentire un pochino di punta nell’epidermide.

Tacchini, tremante sempre di vedersi scannato ad ogni momento, si
voltò colla bocca sul guanciale. Allora Balilla, prese il cordone
del campanello che aveva tagliato e intimò di nuovo al Tacchini colla
solita voce:

— Dammi le tue mani... per di dietro.... così....

E afferrate le due mani del Senatore glie le legò iteratamente
con quanta forza aveva nel mezzo della schiena. Assicuratosi così
dell’azione, pensò alla parola, e tolta la fodera del guanciale glie
la passò a guisa di berretto sulla testa, col suo fazzoletto glie la
strinse fortemente tra la bocca e la nuca e lo lasciò là senza che
potesse più nè muoversi, nè parlare, nè vedere, nè quasi udire.

Poi, senza perdere un istante, infilato lo scalone silenzioso e
deserto, per la porta stessa del giardino che Giusta aveva lasciata
aperta, si trovò con pochi salti in istrada.

Quando fu libero esalò un gran respiro e s’avviò a gran passi verso la
Cittadella.

Il lettore chiederà come Balilla fatto prigioniero nelle boscaglie
del Po si fosse trovato così improvvisamente nella casa di Giusta
in Torino ad operare tanti prodigi. Ma che cosa non può la volontà e
la scaltrezza d’un monello di dodici anni, mal guardato, che nessuno
sospetta, col quale gli stessi custodi scherzano e fanno a fidanza?
Balilla condotto a Moncalieri e da Moncalieri a Torino in faccia al
Principe di Carignano, aveva così bene rappresentata la parte del
gonzo e dello stupido vagabondo, occupato soltanto del suo cane che
continuava a piangere, che Carlo Alberto ordinò fosse messo in libertà.

Allora egli non ebbe altro pensiero che trovare suo fratello lasciato
in viaggio per S... Tornò al suo villaggio, vide Livia, udì tutta la
storia della chiesa, sentì che suo fratello era stato tradotto a Novara
e s’avviò per Novara. A mezza strada incontrò i fuggenti dell’esercito
costituzionale e udì la notizia che il Della Torre era entrato in
Torino. Comprese tosto che Giorgio doveva essere tra i prigionieri
tradotti in trionfo e mutò cammino. A Torino non tardò a sapere che
il fratello era nella Cittadella e fece di tutto per penetrarvi.
Si trasformò in mendico, in rivendugliolo d’acquavite, ma non potè
arrivare che nel primo cortile. Tuttavia i soldati di guardia, un po’
tardi, è vero, sapevano tutte le notizie del forte e ne discorrevano.

Una sera sentì a dire che l’artigliere Santafiori era stato condannato
alla fucilazione nella schiena e che la condanna doveva essere eseguita
la mattina dopo.

Allora ideò e compì il disegno nel quale l’abbiamo visto alla prova.

Balilla frattanto, arrivando dopo pochi minuti davanti alla Cittadella,
cercò per prima cosa la carrozza coll’unico lampione acceso e non la
vide più.

— Sono salvi! — sclamò dando un salto di gioia — ma è meglio
accertarsene.

Con Carrera, col quale aveva combinata molta parte del piano, aveva
convenuto, che se il colpo riesciva avrebbe lasciato al posto stesso
della carrozza a piedi del quarto albero del viale andando verso porta
Susa l’altro lampione spento. Se il lampione non c’era voleva dire che
la cosa era fallita e che anche il sergente aveva dovuto mettersi in
salvo.

Balilla corse al quarto albero, e appena si fu chinato per cercare, si
vide sotto gli occhi il globo nero del segnale convenuto.

Il fanciullo strinse in atto di trionfo quell’oggetto, inerte
messaggiero di tanta felice certezza, ed esclamò di nuovo: «Sono salvi
davvero!».




XXXIII.

SUL SAN BERNARDO.


Infatti Giorgio e Giusta guidati dal fedele Carrera correvano da
circa due ore sulla libera strada dei campi. Giusta, presentandosi
alla Cittadella sotto le vesti di un servo di casa Tacchini, e con
quell’ordine perentorio, scritto su quella carta conosciuta, firmato da
quel nome, non aveva trovato ostacolo veruno.

Il carceriere disse: — «se non fosse per il Senatore Tacchini vi direi,
tornate domani, ma con quell’uomo non si scherza». Poi camminando verso
la prigione: — E dove lo conducono a quest’ora?

La fanciulla rispose cercando d’alterare la sua voce — Ordine del Re di
condurlo subito a Modena.

— Ah! capisco, — soggiunse il carceriere — avrà delle rivelazioni a
fare. Tutti traditori questi rivoluzionari! borbottò di nuovo intanto
che apriva il carcere del condannato.

Rinunciamo a descrivere la sensazione di Giorgio alla comparsa di
Giusta nel suo carcere nel cuore della notte, in mezzo alle larve della
morte imminente, nel naufragio ormai consumato d’ogni speranza. Vi
sono crisi dell’animo che si sentono una volta in vita ma che non si
ripetono più, che ognuno prova diversamente e che non possono essere nè
riprodotte nè dipinte sullo stampo altrui.

Giusta però non durò fatica a far comprendere al suo amico che una
sola parola imprudente gli avrebbe perduti. L’Artigliere aveva tosto
indovinato che quell’ordine di liberazione non veniva certamente
spontaneo da’ suoi nemici, e che era il frutto d’una lunga e rischiosa
congiura, e non voleva aver egli la colpa d’aver mandato a male tanti
sforzi e tante speranze. Però fino a che non furono fuori, fino a che
non misero il piede sul legno di Carrera, non una parola, non una
mossa, non uno sguardo che li potesse scoprire. Ma liberi di poter
parlare e sfogarsi, la piena di gioia e d’amore lungamente compressa
non ebbe più freno. S’abbracciavano, piangevano, si mormoravano gemiti
incomprensibili fuorchè per essi, dimenticavano la terra e non vedevano
che l’estasi del Cielo.

La realtà però non tardò anche per essi a riprendere il suo dominio.
S’era fatto giorno chiaro. Carrera pensava a condurli sui monti di
Aosta presso una vecchia parente di sua moglie e là tenerveli nascosti
fino a che si fosse offerta l’opportunità di passare in Francia. Ma
si era ancora lontani dalla meta e bisognava correre molte ore prima
d’arrivarvi. Poi non parve prudente entrare di giorno nei villaggi
tutti tre assieme in una carrozza che in quelle valli primitive dava
nell’occhio e che non avrebbe mancato di servir di traccia alla polizia
che certo doveva aver sguinzagliati dietro i fuggiaschi tutti i suoi
bracchi. Perciò poche miglia prima di Montalto i due amanti smontarono:
Giusta mutò i suoi abiti da uomo nelle vesti d’una semplice montanina
che Carrera aveva saputo trovare nell’armadio della sua Caterina.
Giorgio cambiò pure qualche parte del suo abbigliamento e si separarono
dandosi col sergente convegno d’arrivare per diverse vie alla casa
convenuta. Dopo due giorni di marcia a piedi, senza incidenti e
senza pericoli, arrivarono per sentieri nascosti sull’alpe che doveva
ospitarli. Carrera che gli aveva preceduti per preparare i quartieri
venne loro incontro: sulla porta d’una bianca casetta appiattata dietro
un padiglione di castagni e di pini gli accolse una vecchierella
con queste semplici parole: — siate benedetti col Signore che vi
accompagna! E i due giovani vi entrarono non sospettati e non visti da
nessuno.

Carrera però quand’ebbero riposato poche ore disse loro: — non bisogna
dimenticarsi nella felicità del momento, che a quest’ora tutta la
polizia del Tacchini sarà in moto e che la bestia ha l’olfatto fine.
Però domattina all’alba è forza rimettersi in marcia e guadagnare il
confine.

Giorgio e Giusta si sentivano così bene nella pace di quel nascondiglio
che non sapevano trovare il coraggio di staccarsene. Pure capivano che
Carrera aveva ragione e si dissero pronti a ripartire.

— E dove andate, figliuoli? disse la vecchia.

— Dove si va quando si fugge: rispose Giorgio, alla ventura.

— Cattivo consiglio! ripetè la donna, in questi momenti vi sarà
difficile passare il confine che è minutamente guardato pei
contrabbandieri.

— E allora che ci consiglieresti, mamma? fece Carrera.

— Qui alla cima estrema delle nostre montagne c’è un ricovero che la
polizia non sospetta, innanzi al quale i gendarmi passano facendosi il
segno della croce e che i potenti della terra visitano con rispetto.

— L’ospizio del San Bernardo forse? sclamò Giorgio.

— L’hai detto, figliolo, rispose la vecchia, quello, se vuoi salvarti,
dev’essere l’ultimo rifugio della tua vita.

— Ma e Giusta? — fece Giorgio.

— Giusta potrà accompagnarti. I monaci del S. Bernardo ricoverano
spesso le donne ed hanno vicino al grande ospizio una piccola casa
custodita da poche suore dove ricettano le infelici che nei disastri
della nevicata riescono a disseppellire viventi. Tu la potrai condurre
lassù e finire se non con lei, vicino a lei, la tua vita.

— È un ridente sogno quello che ci proponete, o santa donna, e noi
l’accettiamo; non è vero Giorgio? fece Giusta.

— Deve accettarlo, soggiunse Carrera. Fuori del consiglio della nonna
non veggo altra via di salute.

— Ma — fece Giorgio — .... e quei frati mi accetteranno?

— Andate a nome di mamma Beatrice, che sono io, dal Padre Priore e
presentategli questa medaglia di S. Agostino. Egli vi riconoscerà
e vi riceverà, ne son certa, almeno come servo.... mettetevi in
cammino domattina prima dell’alba e alla sera prima di notte sarete
all’ospizio.... Addio figliuoli, siate benedetti e pregate per me. Io
farò altrettanto per voi.

Carrera due ore prima di giorno svegliò i suoi due amici, e col solito
gergo militare che non aveva mai smesso, disse loro: — È il momento di
partire: _En avant_ — _pas-acceleré_ — _marsch_.

Giorgio e Giusta s’incamminarono dietro i passi del vecchio sergente e
si perderono in poche ore negli anfratti della montagna.

                             . . . . . . .

Un mese dopo arrivava all’ospizio di San Bernardo una gran squadra di
soldati e carabinieri comandati da un ufficiale e chiedevano ospitalità
per quella notte. Il Padre Priore si affrettò, secondo il suo pio
costume, a spalancar loro le porte del sacro rifugio.

— Sono venti giorni, buon padre, disse l’ufficiale, che si cammina per
queste alpi in cerca d’un assassino fuggitivo colla sua druda e siamo
costretti a tornare indietro colle mani vuote.

— E come si chiama il fuggitivo? — disse il Priore.

— Giorgio Santafiori.

Un giovine romito che stava dietro al Priore colla testa chiusa nel suo
cappuccio diede un soprassalto così visibile che guai se l’ufficiale
avesse avuti gli occhi sopra di lui!

Egli avrebbe subito riconosciuto l’uomo che cercava.

Giorgio Santafiori monaco del S. Bernardo vede ogni giorno Giusta
Arena, custode dell’ospizio delle donne. Essi si sorridono, si dicono
addio e guardano insieme nel cielo dove sperano d’abbracciarsi poichè
la regola del chiostro e le leggi degli uomini glie l’hanno omai
vietato sulla terra.

Scorsi altri due anni, i cani dell’ospizio dissotterrarono da una
valanga della montagna un corpo stecchito dal gelo ma il di cui cuore
batteva ancora. I monaci gli furono d’attorno colle usate cure per
richiamarlo alla vita. Quando aperse gli occhi, Giorgio riconobbe il
sergente Carrera.

Fu quello un giorno di festa per lui e per Giusta. Calmata la gioia e
la meraviglia, gli furono chieste le nuove del mondo d’onde veniva.

Carrera aveva perduta la sua Caterina, Napoleone era morto a S. Elena e
saliva lassù per finire i suoi giorni accanto agli ultimi suoi cari.

Tacchini era morto soffocato nel suo letto la notte stessa della loro
fuga.

Michele divenuto un arnese di corte aveva sposato Virginia Arena
e vi menavano assieme una vita di turpi piaceri e di vigliacche
condiscendenze.

Donna Angelica, sola nella sua casa, s’era addormentata nella quiete
del sepolcro benedicendo alla sua Giusta. Livia ne aveva raccolto
l’ultimo sospiro ed era andata a chiudere la sua vita in un convento di
Benedettine.

Balilla era andato a combattere per la libertà della Grecia a fianco di
Santarosa.

Per questo si potrebbe dire che la Storia di questa famiglia di
patriotti non è ancora finita, e chi sa che un giorno sulle orme
dell’eroico fanciullo non abbiamo occasione di riprenderla.


  FINE.




INDICE


  PARTE SECONDA: IL FIGLIO

  XVIII. Apparecchi di lotta.           Pag. 3
  XIX. La cittadella.                       13
  XX. Sentiamo Tacchini.                    21
  XXI. Volpe e serpente.                    27
  XXI. Manovre.                             34
  XXII. Batterie smascherate.               41
  XXIII. Due righe di storia.               46
  XXIV. Il racconto della sentinella.       52
  XXV. Balilla e Leon.                      59
  XXVI. Schiarimenti.                       69
  XXVII. Accidenti di viaggio.              74
  XXVIII. Un minuto dopo.                   78
  XXIX. Troppa luna!                        85
  XXX. Catastrofe.                          91
  XXXI. I due fratelli.                     96
  XXXII. Il salvacondotto.                 104
  XXXIII. Sul San Bernardo.                114




NOTE:


[1] Brofferio. _Storia del Piemonte._

[2] Miglia italiane da 60 al grado e di 1,800 metri.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. Per comodità di lettura
è stato inserito un indice a fine volume. La numerazione errata dei
capitoli (il numero XXI per errore è ripetuto due volte) non è stata
modificata.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE D'UN DISERTORE, VOL. 3/3 ***


    

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Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s
goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg™ and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
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where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
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International donations are gratefully accepted, but we cannot make
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Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
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Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
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