Memorie d'un disertore, vol. 2/3

By Giuseppe Guerzoni

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Title: Memorie d'un disertore, vol. 2/3

Author: Giuseppe Guerzoni

Release date: July 17, 2025 [eBook #76517]

Language: Italian

Original publication: Milano: Treves, 1871

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE D'UN DISERTORE, VOL. 2/3 ***


                         MEMORIE D’UN DISERTORE

                   STORIA D’UNA FAMIGLIA DI PATRIOTTI


                                NARRATA

                                   DA
                           GIUSEPPE GUERZONI

                               VOLUME II



                                 MILANO
                           F. TREVES, EDITORE
                                  1871.




                         Proprietà letteraria.

                              TIP. TREVES




MEMORIE D’UN DISERTORE




PARTE PRIMA.

IL PADRE

(_Continuazione_).




XXI.

SOPRA UNA TOMBA.


Giorgio, sebbene l’immagine di suo padre non l’abbandonasse un istante,
non si era ancora recato a visitarlo al suo sepolcreto, perchè era
sicuro che il primo mezzo per onorarlo era di attendere ai negozi
abbastanza intricati e di rendere felice la sua famiglia. Le donne
avevano adempiuto per lui al pietoso ufficio.

Una sera però si sentì oltre l’usato melanconico e dolente: un fiero
spasimo contorcevagli il cuore e provava un insuperabile bisogno di
esser solo e di piangere. Uscì di casa, infilò la prima viottoletta,
si pose a camminare senza direzione e senza scopo, sebbene nel turbine
di pensieri che gli rombava nel cervello, uno più possente degli altri
lo dominasse e guidasse i suoi passi. Andò lungo tratto di via a capo
chino, ora cogli occhi al cielo, ora arrestandosi dinanzi al mormorio
d’un’acqua corrente come se dovesse favellare con essa, ora spezzando
i rami d’albero che gli si paravano innanzi, come se volesse trarre
vendetta di un nemico, distratto, assorto, non vedendo e non udendo
nulla, nè coi sensi, nè collo spirito, di quanto lo circondava.

Già era giunto alla siepe d’albospino che egli stesso aveva piantato,
e non se ne era accorto; sicchè sorpreso e quasi irritato di
quell’oggetto che si frapponeva alla corrente delle sue meditazioni,
s’arretrò di botto, alzando la testa e guardando, fissamente il luogo
in cui si trovava.

Era la tomba di suo padre. Scosse un fremito passeggiero come tocco
di scintilla elettrica, entrò nel piccolo cancelletto della barriera,
andò al tumulo, vi si prostese, immerse la sua faccia nell’erba che
l’incoronava, e vi rimase a lungo come persona morta. Quando levò
la faccia inzuppata di pianto, s’assise sul tumulo stesso, colla
fronte appoggiata a una mano, l’occhio vagante nell’infinito, muto,
insensibile e quasi sculturale.

Durava così il tacito colloquio da pochi minuti, quando una forma
umana uscì dalle file dei cipressi dietro alle spalle di Giorgio, sola
rompendo col fruscio della lunga veste il silenzio profondo della selva
eridania. Giorgio non intese, e solo quando l’umana forma gli passò
davanti, scosse il letargo e la guardò. La guardò e la riconobbe. — La
riconobbe e impallidì, e si imporporò ad un tempo, e le lagrime gli si
disseccarono e il sangue gli rimase al cuore; tentò alzarsi e nol potè,
cercò la voce e non trovò che una parola affiacchita: «Giusta!»

— Sono io, signor Giorgio, vi disturbo, lo so, ed era per andarmene; ma
per uscire dalla siepe dovea passarvi dinanzi..... Scusatemi.

— Oh, signora Giusta.... realmente la siepe è un po’ alta.... perdonate
a me. Capisco che non so bene quel che mi dico. La vostra comparsa fu
sì improvvisa.... e insperata.

— Lo credo. E’ pare che siamo destinati ad incontrarci sempre nei
luoghi solitari!

— Eh sì.... ma l’altra volta era ben in altro luogo.... ed era io che
vi sorprendeva e la cosa cambia assai. Poi, vi dico il vero, era così
lontano dall’aspettarmi.... l’onore — (voleva dire la consolazione, ma
non ardì) — d’una vostra visita qui, che non sono ancora rimesso dallo
stordimento. Perdono ancora — fece Giorgio alzandosi e interamente
riavuto. — Volete sedervi qui? l’erba cresce sì molle in questi tristi
luoghi! O volete che v’accompagni fuori del bosco?

— Grazie.... la strada questa volta la so.... mi sederò poichè lo
permettete. — E i due giovani si assisero sul tumulo che per essere
stretto li obbligava a restare molto vicini.

— Vi siete venuta molte volte? — riprese Giorgio, guardando fisa la
fanciulla.

— Molte no — ma perchè nasconderlo? alcune sì.

— E posso osare di chiedervi il perchè?

— Il perchè? Voi dovreste intenderlo, o Giorgio. Sono un po’ romantica
e mi piacciono le stranezze sentimentali.

— Oh, non dite così!... nol crederò mai.

— Ebbene vi dirò anche che sono sovente triste. Quando la melanconia
mi coglie scappo di casa e corro nei prati, pei boschi, sui sentieri
abbandonati... dove mi capita. Ho veduto questa selva e me ne piacque
il silenzio e vi ritornai volentieri. Come vi trovai una tomba, quella
di vostro padre, o Giorgio, la foresta mi venne ancor più cara e decisi
di visitarla spesso.

— Non è tutto, signora Giusta. Dite che in voi pure s’è desto il culto
delle sante cose; dite che il visitar questa fossa maledetta dagli
uomini vi parve una protesta coraggiosa e un ufficio gentile; dite
che avete voluto dividere con noi, orfani, il tributo di compianto
che rendiamo all’uomo che è qui dentro.... dite questo e vi crederò...
Rispondete, signora Giusta, di chi sono queste viole sparse qui sulla
terra?... Di mia madre nè di mia sorella nol sono, perchè gli è più di
tre giorni ch’esse non vengono qui.

— Sono mie.... e mi concederete, o Giorgio, che passare dinanzi alla
tomba di un defunto senza gettarle un fiore gli è peggio ancora che
passare dinanzi a un povero senza gettargli un soldo.

— Lo concedo sì.... ma concedete a me di dirvi che siete una santa....
ma sappiate che da quest’ora io v’appartengo.... Mi credono un
fanciullo ma non è così... io posso nulla ma la mia vita è vostra. Non
so quale servigio possa rendersi ad una fanciulla oggi. Un tempo davano
la vita, ora non so; ma tutto quello che voi chiederete l’avrete da me.
Non potrei mentirvi in questo sito. Io dubito che abbiate dei corrucci,
che la vostra casa deve contenere dei terribili misteri ai quali non
aveste che l’iniziazione della vittima.... Ma comunque, se io, la
mia casa, tutto quel po’ che avanza ai Santafiori valesse a mitigare
un solo dei vostri dolori, ad appagare un solo dei vostri desiderii,
sappiate ch’io non crederò mai di avere fatto abbastanza che valga il
profumo che sfugge da una sola di queste viole, che ricompensi una sola
delle occhiate di pietà che avete gettate su questa tomba scomunicata.

Giorgio s’era esaltato e la parola, che prima uscivagli balzana e
stentata, sgorgò in sul fluire ardente e veloce. L’agitazione gli aveva
offuscato quel sentimento riguardoso che il luogo e la persona gli
imponevano, e si era accostato a Giusta tanto che oramai le teste dei
due giovani potevano toccarsi.

Per questo Giusta, commossa quanto il suo interlocutore, ma preservata
dal natìo pudore, indietreggiò alquanto senza nessuna espressione di
rimprovero o di esagerato decoro, ma che tuttavia gelò in un subito il
repentino entusiasmo di Giorgio.

E poichè come dicemmo egli non voleva confessare d’amarla, l’atto della
fanciulla lo richiamò al suo proponimento, e lo sforzò quasi a gettare
un po’ d’acqua fresca su tutto quel bollore che egli aveva lasciato
scappare per la via della gratitudine, ma che era già entrato in quella
dell’amore, e architettò nella testa quest’altro discorso il quale non
poteva essere nè più goffo nè più ingiusto.

— Scusatemi, signora Giusta, non è la prima volta che siamo soli e
potete avere fiducia nel mio onore. In qualunque luogo vi trovassi non
vi mancherei mai di rispetto, ma qui, sotto gli occhi di mio padre,
mi farei piuttosto ardere vivo. So, non ne dubitate, quale distanza
mi separa da voi.... io sono povero e sfortunato e voi siete ricca e
destinata alla fortuna. Vi ho confessata la mia gratitudine, perchè
questo sentimento è più forte di me stesso e non potea reprimerlo. Esso
potrà esservi indifferente, lo capisco, ma non offendetevi.

— Basta così, signor Giorgio.... Voi non sapete più quel che vi dite.
— E la fanciulla, voltate le spalle al suo interlocutore, abbandonò il
sacrato e s’incamminò verso l’uscita del bosco.

Giorgio restò senza fiato e senza moto a contemplare Giusta che spariva
fra gli alberi, quasi incredulo che egli avesse potuto lacerare colle
proprie mani la più bella, la sola larva poetica che gli sorridesse
ancora sulla terra.

La fanciulla camminava celeremente e si era allontanata d’un buon
tratto di strada, ma pensava; e più pensava più sentiva che il passo
le si rallentava; una forza più potente del suo sdegno la tratteneva e
finì coll’arrestarsi.

— Povero Giorgio! perchè gli aggiungerò a tanti dolori anche questo
disgusto? Non poteva certo volermi offendere.... egli che mi ama,
sebbene lo neghi. — E senza altro riflettere ritornò sopra i suoi passi
e rientrò ancor non vista nel sacrato dove Giorgio era rimasto colla
testa fra le mani, colle dita abbrancate nei capelli, preso da una
specie di vertigine mentale.

— Giorgio — fece la giovinetta, toccandogli appena la spalla.

Giorgio la rivide, balzò in piedi, si precipitò alle sue ginocchia, e
stringendole convulsivamente la mano gridava:

— Perdono... perdono....

— Vi ho perdonato. Ora tocca a voi a perdonarmi il mio atto di dispetto.

— L’ho meritato.

— No, voi siete infelice e l’infelicità rende aspri e diffidenti.
Io doveva comprendervi, Giorgio, e in luogo di volgervi le spalle,
stendervi la mano come faccio ora, e in luogo della vostra gratitudine
chiedervi la vostra amicizia.

— L’avete da lungo tempo, Giusta — rispose Giorgio rasserenato e
tornando a risentire i suoi scrupoli amorosi — e se non ho osato
proferirvela si è che.... — e s’arrestava di nuovo.

— Che cosa? — rispose Giusta, gioendo interiormente e ormai deliberata
a provocare una spiegazione (da tanto tempo desiderata) e di cui il
cuor suo aveva bisogno. Certo ella arrivava talvolta a manifestazioni
che, adoprate da una men giovane o men pura di lei, sarebbero parse
civetterie, e osservate da uno men cieco di Giorgio avrebbero espresso
meglio che le parole i sentimenti di quell’anima. Ma, lo ripetiamo,
essa amava, e non sapeva nascondere il suo affetto come colei che
ignorava il male, il male maggiore dei nostri tempi, la vergogna
del bene. A noi del resto la ritrosìa parve spesso una larva della
scaltrezza, e l’ars velare artem in femmine principalmente, è assai più
pericolosa dell’ingenuo abbandono e della pudica schiettezza.

— Si è che — riprese il giovane — se vi avessi confessata questa
amicizia or sono dodici mesi, credete voi che oggi potrei padroneggiare
il mio cuore? E che sarebbe avvenuto, Giusta, di me, se un giorno
non potendo più ingannarmi o ingannarvi, dissimulare o tacere, vi
avessi gettato ai piedi la dichiarazione di un affetto che non era
quello che mi era permesso di nutrire per voi, che non era quello che
voi nutrivate per me?... ve lo lascio pensare. Se aveste rifiutato,
avreste uccisa ogni gioia della mia vita.... se accettato, vi sareste
incatenata a un destino tetro e maledetto, e non avremmo avuto altra
consolazione nel naufragio che di sommergerci insieme.

— Che importa — disse Giusta pensatamente. Mano mano che essa scopriva
l’arte falsa di Giorgio per negarle l’affetto, più ella si sentiva
deliberata a confessarlo interamente.

— Che importa? — esclamò il giovane un po’ sbalordito — ma pensate voi,
Giusta, tutto il valore di quel che mi dite; sapete voi quanto bene e
quanto male può racchiudere una vostra parola? Voi siete troppo buona
per trastullarvi col cuore d’un giovane.

Giusta stette alquanto pensierosa, guardò a lungo Giorgio, indi, come
vinta da un interno divisamento, proruppe:

— Ascoltatemi bene, o Giorgio. Non so che valga l’essere ricca....
so bene piuttosto che la mia ricchezza non mi ha dato un solo minuto
di gioia.... Pensate a vostro padre, pensate al mio, e dite chi di
noi due deve abbassare la testa, se io ricca o voi povero! Voi non lo
crederete, Giorgio, e vi parrà superbia la mia, ma sono più infelice di
voi. Voi foste percosso da fiere sventure, e non son molti giorni dalla
suprema; ma lasciate che ve lo dica, delle vostre sventure il cuore
può consolarsi. Quando si ha una famiglia come la vostra, i conforti
non mancano mai; quando si è vissuti in mezzo alle pure dolcezze ed ai
santi esempi che vostro padre ha versato sul vostro capo, le avversità
ponno lasciare qualche ruga sul volto, ma passano via senza offendere
lo spirito. Sapete voi quale è la sventura che non si vince e non si
guarisce? La lotta con sè stessi, l’isolamento del cuore, la morte
dell’anima. Sapete voi il tormento che non lascia un’ora di pace? Il
pensiero d’essere circondati da quelli che non possono e non vogliono
intendervi; d’avere un ideale e di vedervelo ogni giorno stracciato
sul viso; d’avere una fede e di vedervela ogni giorno insultata....;
d’avere nell’anima amore e di respirare d’intorno a voi odio;
d’essere puro e di assorbire i miasmi della colpa; sentir desiderio
d’abbracciare vostro padre.... e, mio Dio; non poterlo. Questa è la
sciagura vera, incurabile, mortale. Vedete, o Giorgio, ch’io non potrei
scherzare.... Vedete che il bisogno d’un anima che risponda alla mia
non è un capriccio, vedete che se voi mi profferiste anche più della
vostra amicizia sarei io che dovrei benedirvi.

Solo un mentecatto non avrebbe inteso; e prima ancora che la fanciulla
avesse finito, Giorgio si era gettato — no, non è la parola — si
era lasciato cascare nelle braccia di Giusta, ed avea stampato le
sue labbra, divampanti di tutta la sete di quella passione tanto
tempo contenuta, su quella fronte illuminata dalla celeste aureola
dell’amore. Giusta, non indietreggiò, nol respinse; e quelle due anime
giovani ed innocenti si smarrirono, come Mario e Cosetta, nel delirio
del primo ed ultimo bacio. Quando si disciolsero, Giorgio tremava,
Giusta aveva gli occhi rossi, ma irradiava da tutto il suo volto fiamme
di angelica gioia. Il giovinetto nel volgere gli occhi vide la tomba
del padre e s’abbrunì, e indicandola a Giusta disse: — È questo un ben
triste auspicio a un giuramento d’amore.

— No, l’amore è più forte che la morte — fece la fanciulla ponendo la
sua nella destra di Giorgio e risuggellando su quella lugubre ara il
giuramento eterno dei loro cuori.




PARTE SECONDA.

IL FIGLIO

                              — Où va tu, jeune soldat?...

                              — Je vais combattre pour les lois
                                eternelles descendues d’en haut.

                              — Que tes armes soient bénies, jeune
                                soldat!

                                 LAMENNAIS — _Parole d’un Croyant_.




I.

È IL DÌ DEI COSCRITTI.


Il giorno in cui i coscritti s’adunano al palazzo del comune per tirare
il numero, passa inosservato nell’obblioso oceano delle grandi città,
ma per un villaggio è solenne e memorabile quanto lo può essere il
battesimo d’una nuova campana o il passaggio, con rispetto parlando,
d’un principe ereditario.

Il paesello quel dì è melanconico: i campi son deserti di lavoratori;
le mandre muggono abbandonate nei vaccili; le fanciulle si lascian
cascar di mano i lavori, e le madri si stringono replicatamente al
petto i portati delle loro viscere come se con quelli abbracciamenti
volessero scongiurare la sorte che pende sui loro capi.

Tutti sentono che la famiglia — perocchè un villaggio è una famiglia
dove ciascuno si conosce per nome e s’accompagna dalla culla alla fossa
— tutti sentono, diciamo, che la famiglia va ed essere vedovata dei
migliori figliuoli, e il lavoro privato delle braccia più vigorose;
talchè persino i più incalliti ed egoisti, non fosse altro per quella
brutta ragione del tornaconto, la quale fa parer belle certe azioni che
in fondo nol sono, si trovano spinti ad espandere quel po’ di carità
che rampolla in loro in mezzo al pelo del cuore.

Se il dottore e lo speziale — diciamo questi perchè sono, come ognuno
sa, i soliti politicanti della comunità, — si peritano a qualche
perorazione «sugli obblighi del cittadino» o «sulla necessità di Stato»
non è improbabile il caso che qualche giovinotto bell’umore, di quelli
cui la leva piace come al montanino il mal di mare, risponda alle
arringhe degli onorevoli oratori collo stesso frasario che il senatore
schiavista della Carolina del Sud adoperò contro il suo oppositore
umanitario in pien Senato americano.

E non vogliam dire che le busse tengan per ragioni nè nel vecchio nè
nel nuovo mondo; vogliam dire soltanto che in quell’ora quasi mortale
in cui i figli stan per essere divelti ai parenti e alle fidanzate
gli sposi, tanta è la passione e la concitazione degli animi in povere
genti che non han altro bene che il loro focolare e il loro solco, che
nessuna ragione pare buona, se non quella che parla per essi, e con
essi piange e deplora.

Quando nel fesso d’una roccia crepita una fiamma viva, e voi vi gettate
sopra acqua diaccia, anzichè spegnere la fiamma, spaccate la roccia.

Ora il 7 settembre 1820, era una di quelle giornate per il piccolo
villaggio di X.... Numerosi capannelli fin dal mattino ingombrano la
piazzuola del comune. Nel mezzo il crocchio più numeroso che canta
in un tuono rauco e melanconico una vecchia cantilena d’amore; sono i
coscritti che pensano la tristezza star bene affogata nel bicchiere,
e il cuore doversi intronare di risa perchè non oda i singhiozzi del
dolore. Cattivi medici e peggior medicina!...

In sui canti, o passeggiando, altri giovani messi come i primi alla
sorte; taluni si bisbigliano mesti addii, altri raccomandano agli
amici le case e le donne, pochi ascoltano silenziosi e indifferenti
i racconti di qualche veterano che ha veduto il grande esercito,
Austerlitz e Moskowa. Frammisti a costoro i soliti curiosi e
sfaccendati, che guizzano da un crocchio all’altro, beccando una
novella di qua, e vomitandola di là, lasciando dovunque passano
un atomo di fiele e una stilla di maldicenza, i due veri elementi
primitivi del pettegolezzo e della poltroneria.

Più spiccati di tutti il parroco e il maresciallo de’ Carabinieri,
a braccetto, solcando a passi solenni un tramite aperto dalla folla,
sulla quale i due personaggi lasciavan cascare di quando in quando due
occhiate sprezzanti e imperiose che parevano dire:

— Siamo il papato e l’impero, fateci largo.

Solamente, dobbiamo notarlo per fedeltà di cronisti, il parroco, il
quale a confronto del maresciallo pareva un anitrocolo accanto ad
uno struzzo, non poteva assolutamente appaiarsi col passo del suo
gigantesco compagno, talchè era costretto trascinarsi dietro di lui,
tenendosi agguantato al suo braccio per non perdere il beneficio di
quel rimorchio e non restare arenato nella maramaglia. I pochi villani,
che non avevano il rispetto della paura, non potevano tenersi dal
ridere di quella pariglia così scompagnata; e se un filosofo fosse
stato lì, avrebbe forse pensato alla terzina di Dante

    . . . . . . . . . è giunta la spada
    Col pastorale; e l’una e l’altro insieme
    Per viva forza mal convien che vada;

o veduta, in quel gendarme che trascina via il prete, raffigurata tutta
la storia moderna.

Il tocco delle 10 era fissato per l’estrazione del numero. Non appena
cessarono di suonare al campanile del villaggio, la turba cominciò a
ondulare e a sospingersi come quando un buffo repentino di borea agita
una marina già prima tranquilla.

Il maresciallo dei carabinieri, che aveva stentorea la voce, come
erculea la figura, gridò ai coscritti nel natio gianduia, sola lingua
ufficiale a quei tempi:

— Avanti, giovinotti, facciamo presto!...

E poichè l’avviso aveva tutta l’aria del comando, i giovani designati
presero la scala del comune e montarono volonterosi come le anime della
barca di Caronte nel tragittare l’ultimo fiume.

In coda ad essi il resto della gente; ma come ognuno immagina, la sala
del comune di X.... non misurava i trecento piedi di lunghezza ed i
cento di larghezza della sala della Ragione di Padova, ed a mala pena
capiva, oltre le tavole e le seggiole del sindaco e degli assessori
appanciollati, una cinquantina di persone.

Per tal modo soltanto da dieci o dodici metà monelli e metà notabili,
quelli per privilegio della piccolezza e questi per quello della
grandezza, avevano potuto penetrare. Gli esclusi erano rimasti
sul pianerottolo, sulla scalinata o sotto la porta ad aspettare la
proclamazione.

    Son sette i garzoni richiesti al comune.
    Son poste nell’urna le sette fortune
    Ciascun vi si accosta col tremito in cor.

Il primo ad essere chiamato fu il figlio stesso del sindaco, Adolfo
Arena.

Quand’egli si mosse dal suo posto per andare all’urna, pareva che
passasse un carico d’_acqua di Colonia_ e di pomata di _mille fiori_.

Accostossi all’urna colla testa alta, baldo e sprezzante; cavò una
palla e senza nemmeno guardarla la diede a suo padre.

— _Quindici!_... — gridò questi mostrando con due dita la palla al
pubblico e a’ suoi colleghi.

— _Quindici?!_... — ripeterono molti fra i coscritti in atto di
sorpresa e quasi d’incredulità.

Ma il sindaco teneva sempre alto e visibile il numero come il cerretano
della piazza fa colle uova che estrae dal viscere misterioso del suo
sacco.

A vedere che quel riccone sfondolato, quel fannullone imbecille,
che poteva col denaro delle pomate e delle essenze comperarsi _dieci
cambii_, era così fortunato da sortire col numero più alto, un mormorìo
sordo e lungo corse tutta la sala, mormorìo che voleva chiaramente
significare al padre e al figliuolo:

— Non meritate la vostra fortuna.

Giorgio Santafiori, uno dei coscritti, fu il solo che si avvicinasse ad
Adolfo e stringendogli la mano gli dicesse:

— Me ne congratulo di cuore. — E fu tosto la volta di Giorgio stesso.

Egli immerse lentamente la mano dentro l’urna, rimescolò le palle, ne
estrasse una, la guardò, impallidì, ma pronunciò con voce abbastanza
ferma e chiara.

— _Uno!_...

— _Uno_ — replicò sonoramente il sindaco colla stessa manovra.

Giorgio si mosse per uscire; molti di quei coscritti pensarono
certamente in cuor loro:

— Meglio lui che noi; — ma tutti si sentivano il dovere di mostrarsi,
pubblicamente almeno, tocchi dalla sua disgrazia; ciascuno gli aperse
rispettosamente il passo fino alla scala.

Dopo Giorgio ci fu un momento di cicalìo, di colpi di tosse e di
soffiate di naso.

Un maggiorente tra gli spettatori disse al vicino:

— Se quel giovane avesse avuto cervello, oggi potrebbe ancora pagarsi
il _cambio_.

— Dite suo padre che doveva aver cervello — rispose il vicino.

E il maresciallo de’ Carabinieri, chinandosi all’orecchio del parroco
che stavagli a dritta:

— È uno scavezzacollo di meno.

A cui il parroco, sempre sottovoce:

— È un eretico.

— Sarà dei primi a marciare — continuò il maresciallo; — e volgendosi
al sindaco che aveva alla sua sinistra: — Non è vero, signor
cavaliere?...

— Il _Buon Governo_ è nelle vostre mani, signor maresciallo: fate voi.
Noi non possiamo che prestarvi l’appoggio della nostra autorità. Ma
ripigliamo.

E il sindaco con la conosciuta sonorità chiamò un altro nome.

Un giovinotto alto, erculeo, color ciliegia, cogli occhi fiammeggianti
ma piccini come quelli d’un falco, s’avanzò traballando fino alla
tavola e cavò il suo numero.

— _Sette!_... — esclamò, e con rinforzo di trachea:

_Settanta?_...

Ma nello sforzo di porgere la palla al sindaco cadde rovescioni
traverso la tavola e vi restò.

Il lettore, mi si lasci l’illusione d’averne almeno uno, abbandonerà
volentieri gli altri coscritti alla loro partita di fortuna e seguiterà
con me i passi degli altri personaggi che più ci debbono interessare.




II.

È UNA MADRE.


Giorgio Santafiori s’era diretto difilato a casa sua, l’ultima del
paese. Il colpo che lo aveva percosso, l’avea quasi sbalordito, ma
appena fuori e all’aria aperta si ricordò ch’era suo dovere mostrarsi
uomo e comparire innanzi alle donne di sua famiglia più calmo e sereno
che gli fosse possibile. Strada facendo pensava che se fosse una
disgrazia da potersi nascondere o confessare più tardi, egli l’avrebbe
fatto; ma come mai celare ciò che tutto il paese conosceva, che cento
bocche si sarebbero affrettate a riportare a sua madre e a sua sorella
caso mai l’ignorassero ancora?

— Se non si può nascondere la verità — diceva a sè stesso il giovane —
bisogna almeno dar l’esempio del coraggio nel sopportarla.

E temendo d’essere pallido, suo malgrado mettevasi a correre a perdita
di lena, per poter cancellare col rossore violento della corsa, la
traccia di dolore dell’anima sua.

Ma Giorgio non poteva presentire che sua madre sapesse già tutto.

Balilla, il fratello minore del coscritto, uno di quei misteriosi
fanciulli riboccanti di vitalità, padroneggiati da istinti generosi
e selvaggi a un tempo, che a sette anni vi dicono delle parole così
serie e così virili che vi fanno paura e sui quali pende certamente
l’inesorabile dilemma «o grandi uomini o miserabili» secondochè
nell’ora suprema della loro vita, nel passaggio decisivo dell’infanzia
all’adolescenza — dall’istinto alla ragione — avranno trovato accanto a
sè l’austera sentinella dell’educazione paterna, o l’ombra indulgente
della compassione materna — Balilla, dicevamo, era uno di quegli
scappatacci che s’era ficcato fra le gambe dei notabili per entrare
nella sala; sicchè, appena intese la sorte del fratello, per la stessa
via ond’era venuto, cioè fra le gambe sullodate, era sgattaiolato fuori
della sala e a gambe levate era corso a casa sua a portare la novella.

— Mamma!... Livia! — gridò il fanciullo tutto sgolato, appena giunto
sulla soglia — Giorgio ha cavato il numero _uno_.

Una martellata sul cervello, un ferro rovente nel cuore non potevano
far più male a quelle due donne.

Nessuna svenne, perchè madre e figlia erano da lungo tempo temperate
alla fiamma viva della sventura; ma si precipitarono l’una nelle
braccia dell’altra, vinte da quell’angoscia che impedisce di piangere
e di parlare. Passata quella prima ambascia la madre rivoltasi al
figliuolo che aveste recata la novella:

— È impossibile!... — esclamò — è impossibile — e udendo nell’andito
vicino i passi di Giorgio, si slanciò verso di esso ripetendo ancora. —
Ah!... dimmi che non è vero Giorgio, dimmelo per pietà.

Giorgio balbettò alcune parole, e tutto il coraggio che aveva raccolto
per istrada si disfece innanzi al dolore di sua madre. Dopo quel primo
sfogo, la signora Rosalia — così chiamavano per tutto il paese la
madre del nostro coscritto — si sentì più calma; quell’impeto di dolore
abbonacciavasi: ma non come s’abbonaccia un oceano quando la bufera è
passata, ma per sprofondarsi sempre più e impadronirsi dei centri della
vita, per ingigantire colà non visto, silenzioso e implacabile.

Oh perchè mai quella donna che vedevasi tolto, è vero, il figliuolo ma
non per sempre e forse per poco, provava uno spasimo che sarebbe stato
solo legittimo dinnanzi a una tomba?... Il lettore che ci rivolgesse
questa domanda continui questo racconto; per ora rispetti con noi i
presagi e il dolore d’una madre.

I suoi figli le stavano d’attorno e cercavano riconfortarla: Livia
rimutava i guanciali del seggiolone; Giorgio le sottoponeva ai piedi lo
sgabelletto. Balilla si sforzava a portarle dei bicchieri d’acqua che
si rovesciava incorreggibilmente addosso prima di giungere al segno.

Livia la sorella era più sensibile di tutti nella casa; essa tremava e
aveva la febbre, ma pur tuttavia con quella virtù di rassegnazione, che
è l’eroismo delle donne, trovava ancora la forza di dire:

— Via mamma!... Giorgio tornerà presto, gli daranno dei permessi come
l’anno scorso a Michele.... Andrò io, se mai, a gettarmi ai piedi del
Re.

— Del Re?!... — fece Giorgio sorridendo e diremmo sogghignando
amaramente.

— Michele! — sospirò alla sua volta la signora Rosalia....

Vi fu un istante di pausa. Giorgio la interruppe levando la mano verso
un quadro che pendeva alla parete di fronte a lui e esclamando:

— Quell’uomo solo m’avrebbe insegnato quel che bisognava fare quando
non si vuol essere schiavi.

Le donne, il bambino, tutti, levarono gli occhi verso il quadro: era il
ritratto del capo della famiglia, del marito di Rosalia, del padre di
Giorgio, Livia e Balilla.

Stettero tutti quattro contemplando quella figura, quasi aspettando
che parlasse, poi la madre per la prima inginocchiossi, e i figli
l’imitarono assorti in un voto, in una preghiera comune.

Chi conosce la vita di quel vecchio innanzi alla cui immagine stava
genuflessa quella famiglia, intenderà com’egli potesse essere invocato
senza idolatria.

Se la Chiesa ha i suoi santi, perchè non li avrà la casa?

Quel giorno, Rocco, un vecchio contadino imbambolito, che faceva i
grossi servizi della casa, non intendendo come un dispiacere così da
poco potesse guastare l’appetito, dopo che egli avea proprio il giorno
del funerale di sua moglie mangiato col miglior gusto del mondo la più
bella tacchina del pollaio, — Rocco, diciamo, avea preparato il solito
desinare, ma nessuno vi toccò, meno Balilla, per quella gran ragione
dell’età che potrebbe, anche dai filosofi, essere data per spiegazione
di molte cose buone e cattive senza bisogno di pescarle nelle monadi di
Leibnizio o nei bernoccoli di Gall.

E certo quella legge che proporziona ai bambini le afflizioni è
provvidenziale perchè li prepara alle maggiori prove dell’età adulta
senza vulnerare troppo quella sensibilità che debbe essere la molla
della loro virtù.

Passò l’ora del desinare, venne la sera e Giorgio s’era scostato un po’
da sua madre ed era montato nella sua stanza. Quivi tirò da un vecchio
stipo alcuni scartafacci, ne sfogliò alcune pagine, poi giunto a un
certo punto si lasciò cadere il capo fra le mani e sospirò.

— Ah!... mio padre aveva ragione: servitù e miseria!...

Frattanto la notte calava, e un’allegra banda di coscritti attraversava
la strada sfilando in battaglia sotto le finestre del Santafiori e
cantando a perdita di flato, con grande accompagnamento di strilli, uno
stornello della contrada, del quale per caso conosciamo il tenore:

    Va là bellina che il mio cor non falla
    Tu mi vorresti collo schioppo in spalla.
    Va là bellina ch’ora so il tuo male
    Tu vorresti sposare un caporale;
    Ma uccel di bosco non sta bene in gabbia
    E tu bellina creperai di rabbia.

Giorgio si scosse, s’affacciò alla finestra e dietro gli scuri
socchiusi accompagnò lungamente collo sguardo quella spensierata
comitiva, le cui voci si perdevano già nell’immenso sfondo della
pianura eridania.

— Essi non lasciano nulla dietro di sè, mentre io....

E una lagrima lunga e silenziosa gli rigava la guancia....

Poi come spinto da un interno divisamento, prese da un canto un
randello, e in punta di piedi, per non farsi udire dai suoi di casa,
uscì per il muro del giardino e prese la via dei campi.




III.

DISCUSSIONE AL BUIO.


Giorgio camminava da circa dieci minuti, ma si poteva dire ch’egli
aveva fatta strada per trenta. Dal modo sicuro e rapido col quale
saltava fossati e cansava cespugli e spinai senza mai sviarsi d’un
passo dalla traccia d’un sentieretto, che la notte avrebbe intieramente
nascosto per uno meno addestrato, si capiva che il giovine s’era
lungamente esercitato per quel cammino e che non doveva esser quella la
prima notte che lo percorreva.

Attraversata una vasta prateria tutta imperlata di rugiada, il di
cui umidore montavagli fino al ginocchio, Giorgio si trovò in faccia
a una di quelle larghe gore che sono tanto frequenti nelle campagne
circumpadane, serbatoio ad un tempo d’acque irrigue, peschiere
fecondissime e confini a vasti poderi. Un ponte di pietra solido ma
svelto cavalcava la gora; ma dalla parte opposta a quella d’onde il
nostro coscritto veniva, lo sbarrava un cancello di ferro fiancheggiato
da due ali di muro e munito alle sue estremità superiori da lance
fitte e acuminate. Quel cancello stava aperto fino alla prima ora
di notte, poscia serravasi; sicchè per passare oltre o bisognava
gettarsi nell’acqua, o scavalcare il cancello o possederne la chiave; e
quantunque buon nuotatore, trovava più spedito e più comodo, quando la
necessità non costringevalo altramente, lottare d’agilità colle punte
di ferro della cancellata.

Quella notte Giorgio non aveva, a quel che sembra, alcun motivo per
non passare per la via consueta, e marciò difilato sul ponte. Arrivato
alla cancellata cominciò ad arrampicarsi alle sue aste, agile come
un martoro, finchè potè abbrancarsi alla spranga che inchiodava
trasversalmente le verticali; quivi puntatosi a tutta forza di polsi si
sollevò di peso tanto appena da sormontare le lance e, colto il destro,
diedesi una spinta in fuori e fu in terra senza nemmanco toccarla con
un dito. Quella sera Giorgio, bisogna confessarlo, si sentiva qualche
cosa nel sangue che raddoppiavagli l’agilità e l’energia.

Una stradetta s’apre immediatamente in faccia al cancello, e Giorgio la
imbocca senza esitare, cominciando però ad alleggerire i suoi passi e
ad aprire più diligentemente l’orecchio. Dalle sue risvolte tenuissime,
scorgevasi che la stradetta serpeggiava lungo il fianco d’una
collina: quando ad uno dei suoi meandri un enorme fabbricato dalle cui
frequenti finestre tremolava ad ora ad ora qualche fuggevole fiamma
di lume, presentossi dinnanzi agli occhi attenti del nostro notturno
personaggio. A quella comparsa il suo calpestìo divenne più sordo e il
suo orecchio più teso.

Di lì a poco egli giunse al termine della stradetta di fronte al
portone maggiore del cortile, la di cui muraglia serrava tutto in
giro la casa che sorgeva solitaria come un castello, sul dorso della
collina. E castello non era nè di nome nè d’architettura e assai meno
per tradizioni d’avi patrizii o per privilegio di nipoti. Era invece un
casone di campagna rizzato lassù per sottrarlo alle alluvioni del Po,
largo, solido, con tutti i comodi per gli uomini e per le bestie, senza
gusto, senza eleganza, monotono alla luce, al buio cupo.

Giorgio — il lettore lo avrà pensato — non aveva la chiave del portone
come non aveva quella del cancello, e d’altra parte nulla gli avrebbe
importato l’averla, per la ragione semplicissima ch’esso non voleva
entrare. Girò invece la muraglia e arrivò a salti alla parte posteriore
della casa. Quivi, a ridosso della muraglia di cinta e piantato anzi
nella fondamenta di quella, ergevasi un secondo fabbricato destinato
agli uffici rustici, che riceveva luce da una fila di finestroni,
alti da terra non più di un metro, sbarrati da inferriate e alcuni da
graticci fittissimi.

Là, Giorgio s’arrestò; tenne il respiro, ascoltò; rassicuratosi,
accostossi ad uno dei finestroni, e leggiero come uno spiro d’aria,
bisbigliò questa parola:

— Giusta!

— Giorgio — rispose da una inferriata una voce ancora più sommessa.

— Oh grazie, Giusta, d’essere venuta — fece il giovane allungando
la mano entro la finestra e stringendo quella della donna che aveva
parlato.

— Mancare oggi che un’altra disgrazia ti ha colpito?! Sarebbe stata una
viltà.

— Tu lo sai dunque?!

— E come non saperlo — rispose con un sospiro la fanciulla che era,
come ognun vede, l’amante di Giorgio: mio fratello Alfredo fu il primo
a raccontarmelo. Mio padre ne parlò durante il pranzo.

— E con gioia m’immagino — fece Giorgio con un amaro sorriso.

La donna vi rispose con un sospiro, ma il giovine finse di non
intenderla e continuò:

— Dopo aver perseguitato il padre e ruinata la famiglia sarà una festa
per lui vederle portato via l’unico braccio che le restava.

La fanciulla trovò appena il coraggio di dire:

— Giorgio!?

Ma Giorgio capì tutto quello che voleva esprimere quell’invocazione del
suo nome. Era la figlia che pativa dei torti del padre e che implorava
dal suo amante perdono.

— Parliamo d’altro.... sono venuto apposta.... ho bisogno di un tuo
consiglio.... Giusta, mi vuoi bene?... — È questo l’eterno esordio di
tutti gli amanti anche bugiardi e nessuno stupirà che anche Giorgio, il
quale amava invece dell’amore più sincero e profondo, l’adoperasse....

Giusta non parlò; ma l’anima sua, tutta colma d’amore, le sfavillò
dagli occhi.

— Se mi vuoi bene — continuò Giorgio — devi aiutarmi.

— Parla — disse Giusta — tu sai ch’io sono tua.

— Ebbene.... io voglio fuggire.... non voglio essere soldato.

— Fuggire?

— Sì!... fuggire, disertare.

— Oh, Giorgio — esclamò la fanciulla coll’accento della paura — che
pensi mai?...

— Penso che se vado soldato,... che se vado lontano, quattro, sei,
otto anni, nol so, io, mia madre, mia sorella, mio fratello, siamo
tutti precipitati.... Tanti anni lontano e senza poter soccorrere la
mia famiglia, è spingere mia madre al cimitero, i miei fratelli nella
miseria.... e Dio sa dove... Penso che io, riparando in un altro paese,
potrò se non altro trovar da lavorare.... Tu sai ch’io so fare un po’
di tutto.... mezzo agricoltore, mezzo meccanico, mezzo marinaio, e
colle lingue che mio padre m’ha insegnato posso avventurarmi a girare
il mondo senza paura...

— Ma i pericoli? — e se t’arrestano, Giorgio!... Tu non ci pensi —
rispose sempre più inquieta la giovane.

— Quanto ai pericoli sono il retaggio della vita.... Eppoi?! lasciami
arrivare fino al mare e chi mi piglia sarà bravo.

— Oh mio Dio! — che cosa ti passa mai per il capo.... ma non sai che
pei soldati vi sono dei rigori terribili?

— Tu vuoi farmi paura, Giusta: ma sai bene che è difficile.

— Ma io ho paura, — interruppe Giusta — io ho paura, se non l’hai
tu.... Se t’arrestano.... se ti condannano, se ti chiudono in quegli
orribili luoghi, dove comandano cogli staffili in mano degli uomini
sinistri, dove si trascina una palla al piede tutta la vita.

— Bah!... tutta la vita!?

— Tutta la vita, o un anno o un giorno che so io!... non è forse lo
stesso per me che ti amo?... Noi donne siamo forti per noi stesse,
ma per quelli che amiamo non sappiamo che piangere o tremare. Lascia
me ai tuoi pericoli; mi troverai coraggiosa; ma quando ci sei tu
non pretendere da me che la febbre della paura. Non vorrei vederti
partire, vorrei che tu restassi qui accanto a me e a tua madre; ma
piuttosto che saperti perseguitato, bandito, nascosto ne’ boschi,
senza rifugio, senza pane, senza sonno, forse morente... minacciato
ad ogni ora da quell’orrenda palla al piede.... oh sì.... amo meglio
vederti soldato.... anche otto anni.... son lunghi, lo so; ma non
sono _sempre_. Da soldati si torna soldati, si può starsi vicino,
vedersi qualche volta, scriversi.... E a’ tuoi.... mio Dio qualcuno ci
penserà.... Giù in fondo alla miseria non lo siete; io sono una povera
schiava, io non ho nemmeno la libertà di fare tutte le carità che
voglio, ma infine io sono qui per te.... io sono te stesso.

Giorgio l’aveva ascoltata commosso ma non vinto; quindi perseverò.

— Le tue parole sono quelle d’un angelo, Giusta, ma tu ti fingi il
destino più nero di quello che deve essere. A Genova o a Nizza, dove
ho degli amici, potrò imbarcarmi; di là guadagnare sicuro l’America,
l’America che è piena dei ricordi di mio padre e che non rifiuterà
lavoro a suo figlio. Appena che la fortuna mi sorrida, manderò i miei
risparmi alla mia famiglia e cercherò di farla trasmigrare per non
separarmene mai più.

— E me?... — chiese Giusta con accento di doloroso rimprovero.

— E te — rispose Giorgio dopo un momento di esitazione — abbi coraggio,
Giusta, e guarda in faccia come me tutta la verità... Oggi farti
mia sai che è impossibile. Tuo padre e la mia povertà, e la condanna
che mi è piombata sul capo, lo impediscono inesorabilmente. Fra otto
anni, quando potrò spogliarmi della divisa, credi tu che io sarò meno
miserabile, o tuo padre meno avverso di prima?... No, Giusta!... Non
ci è altra speranza per il nostro amore che assalire con un colpo
disperato il destino e gettare tutte le nostre poste sul tavoliere
della fortuna. Se l’America mi è propizia, io posso tornare ricco, tuo
padre mansuefarsi al mio nuovo stato, tu essere già padrona della tua
volontà.... infine, giunto all’estremo, rapirti con me.

— Oh tu ti perdi!... tu non mi ami.... — rispondeva Giusta con voce
quasi spenta.

— Perduti siamo io e tu fatalmente se resto — ripigliava Giorgio — sii
ragionevole, anima mia; è per non perderci che io gitto la mia vita
nella mischia disperata del destino... è perchè ti amo che non voglio
porgere volontariamente la mano ad una catena che mi ti rapirebbe per
sempre.

Giusta scrollava il capo, ma Giorgio non vedeva e continuava:

— Eppoi, Giusta, vi è un’altra ragione che tu sai, che tu taci forse,
perchè temi di evocarla contro di te. Tu conosci l’educazione che mio
padre m’ha dato; la sua vita intera è per me un sacro testamento ch’io
debbo rispettare; la sua fede è la mia, e mi parrebbe tradirla assieme
alla memoria dell’uomo che cominciò coll’amicizia di Balilla e finì con
quella di Washington.

Giorgio aveva dato alle sue ultime parole un accento solenne e Giusta
non scrollava più il capo ma pensava. Dopo alcuni istanti di pausa essa
riprese:

— E Michele.... e tuo fratello?...

— Michele non è più mio fratello. Dal giorno che egli obbliò i
beneficii di mio padre e le preghiere di sua madre per vendere la
sua mano ai nemici della nostra fede e della nostra casa egli non
può più sperare che io accetti cosa alcuna da lui. E inoltre egli
non farà nulla. Da tre anni non scrive più, e dacchè seppe che la
miseria picchiava alla porta della casa che l’aveva ricettato, ci
ha abbandonati. Eppoi che cosa potrebbe un sottotenentuccio pieno di
vizi, di debiti, giuocatore e infingardo?... Giusta, non è di qui la
speranza.

La fanciulla non avea che un’ultima ragione — la più debole di tutte —
ma s’afferrò anche a quella come alla tavola del naufragio.

— E l’affittanza?...

— L’affittanza?... — rispose il coscritto — e quale?... Tu sai che
l’ultima piena ci ha lasciate le campagne rase come una mano e tu sai
quello che mio padre ha dato ai poveri che l’innondazione ridusse senza
tetto e senza pane. Fu l’ultimo nostro colpo. Per pagare gli affitti
ci fu d’uopo fare dei debiti e quei debiti non si poterono pagare e
raddoppiarono; poi — e qui la fronte di Giorgio diveniva color della
notte che ravvolgeva — poi tuo padre comperò le cambiali e noi siamo
nelle sue mani. Il prodotto di un anno non basterà a saldare le tratte
e a noi non resterà più un soldo di capitale per condurre innanzi
la locazione. Ci converrà vendere quel po’ di bestiame e strumenti
avanzati e non ci resterà più nulla fuorchè la casa. Finchè c’era
io, il tetto per coprirci e il mio braccio per campare bastavano; ma
ora.... Oh Cristo!...

Giusta vide inabissarsi anche l’ultima tavola. Disperata però dei
trovati della mente, il sapiente istinto della donna l’avvertì che
la sola arma invincibile era il suo cuore e affidò a questa l’estrema
difesa.

Allora afferrando attraverso la inferriata la mano di Giorgio e
tirandola a sè con tutta la forza di cui quel suo corpo d’etere poteva
essere capace, proruppe:

— Infine, non voglio che tu fugga!... se tu lo fai.... dirò che non
mi vuoi bene.... che mi abbandoni.... e se m’abbandoni io morirò....
Oh, allora sarai contento quando mi vedrai morta, morta come la nostra
povera madre, perchè la tua è anche mia madre!...

E la parola che usciva dapprima trarotta e singhiozzante dal suo
labbro, finì in uno scoppio di dirottissimo pianto.

— Ma no, non piangere Giusta!... io tradirti?... io non ti voglio
bene?... Lontano, te ne vorrò cento doppi di più — e le asciugava gli
occhi — ci penserò ancora.... non ho deciso.... torneremo a vedere. —
(Giusta continuava a singhiozzare). — Credimi.... te lo giuro... ho un
mese di tempo... chi sa!... io stesso muterò pensiero.... ma per carità
Giusta!...

E mentre il giovane tentava sorpassare il varco della ferriata per
posare un bacio sulla fronte della vergine sua, un calpestìo d’uomini,
un bisbiglio di voci e il cigolare dei catenacci d’una porta pustierla,
sospesero le parole, gli affetti e il battito dei due amanti....

— È mio padre, — esclamò Giusta spaventata — fuggi.

— Fuggire?.... — disse Giorgio, brandendo il suo randello.

In quel punto un’ombra compariva per di dietro alle spalle di Giusta,
la quale, prima ancora che questa si rivolgesse, afferratala per un
braccio e facendola ruotare sopra sè stessa, la scaraventava con un
terribile slancio contro la opposta parete.

— Assassino! — urlò Giorgio a tal vista, aggrappandosi alla ferriata e
scuotendola freneticamente.

Frattanto dalla pustierla erano già sbucati quattro uomini armati di
fucili, di ronche e di forche; Giorgio si mosse ad incontrarli risoluto
e disperato, quando un colpo di fuoco partito da uno di quegli uomini
lo fece rinculare di alcuni passi e cadere stramazzoni sul suolo.

— Non è che una carica di lepre — esclamò l’individuo che aveva sparato
— un po’ di bruciore per questa volta e basterà.

— Portatelo di là dal ponte — gridò una voce dall’interno della stessa
stessa finestra dove era accaduto il colloquio dei due amanti.

— Va bene, signor cavaliere, — rispose l’uomo stesso dell’archibugiata.

E i quattro uomini alzato di peso il corpo di Giorgio sempre svenuto,
eseguirono il comando del loro padrone.




IV.

NAPOLEONE.


La freschezza dell’erba su cui era stato lasciato e l’aria notturna
risvegliarono dopo pochi minuti il ferito.

Se egli non disse come gli eroi delle tragedie — «dove son io?» —
si guardò veramente d’attorno per capire in che luogo si trovava e
ricordarsi in qual modo, dopo aver durato tanta fatica per scavalcare
il cancello, riposasse oltre le sue sbarre sopra un molle tappeto di
trifoglio e di lugliuola.

In un attimo si orientò; ma quanto allo spiegare come fosse lì era un
altro problema e la sua mente si perdeva in un labirinto di congetture
e di supposizioni, tutte del più al meno, vane ed inverosimili.

Si tastò la coscia dov’era stato ferito; sentì lo spasimo del dolore
e la umidezza del sangue, ma comprese che le palline avevano appena
penetrate le carni e non tocche le ossa del femore.

Allora, animoso per natura, tentò uno sforzo per rialzarsi, ma non
potè, e ricadde nella giacitura di prima.

Non si smarrì; ricordossi dei consigli di suo padre; cercò nelle sue
tasche il coltello che non lasciava mai; trascinossi fino alla sponda
della gora; cavò il fazzoletto, ve lo inzuppò; col coltello squarciossi
i calzoni e bendò la piaga con quella compressa improvvisata. Al
frigore dell’acqua rinacque; abbrancossi a un salcio che sorgeva sulla
riva e reggendosi al suo tronco rizzossi.

— E camminare?... — pensò appena fu in piedi.

Si guardò in giro un istante, scorse coll’occhio la nera pianura del
prato, guatò la gora, affinò l’udito per ascoltare se qualche rumore
moveva dalla perfida casa che aveva dietro di sè e tutto gli parve
sepolto nel silenzio della notte.

— Ah se avessi il mio bastone — ripensò ancora — poi come se avesse
avuto un’ispirazione subitanea, esclamò forte, quasi confabulasse con
alcuno:

— Ma con un coltello e un salice se ne può tagliare uno.

E dal pensiero passando tosto all’azione si agguantò colla manca
all’albero e colla destra si mise a menare colpi alla cieca contro il
primo ramo che gli capitò sotto il tiro del suo braccio.

Ma il ramo, grosso e tenace, croccava, gemeva, ma resisteva; Giorgio
cominciava già a sudare e a disperare di troncarlo. Ad un tratto,
mentre riprendeva un po’ di fiato, sentì dalla opposta parte della
cancellata un gran tonfo nella gora, e subito quel chiasso senza nome
di un’acqua che sia tagliata da un nuotatore o battuta da un remo.

Giorgio naturalmente si volse; cercò con occhi spalancati la causa di
quell’inaspettato fenomeno; ma egli, dal salice, e mascherato diremo
così da due pilastri del cancello, non poteva, per quanto si sforzasse,
vedere oltre di essi. Gli restava l’udire, e tese infatti l’orecchio,
smorzando ogni più lieve moto della sua persona.

— È uno che viene a nuoto — pensò Giorgio. — Chi sarà mai?... — e in
questo serrava nel pugno il suo coltello, e s’appuntellava più forte
all’albero in atto di difesa.

A un tratto un’enorme ombra nera balza sulla ripa della roccia e
s’arresta, immobile, taciturna e misteriosa.

Giorgio con un po’ di fantasia, e non ne mancava, poteva paragonarla a
una di quelle sfingi che il pellegrino notturno incontra ai piedi delle
piramidi di Gizek o dei templi ruinati di Karnak.

Ma Giorgio, giova ripeterlo, non poteva dal suo posto discernere oltre
il ponte; solo parevagli veder ruotare nelle tenebre due bragie cupe e
formidabili le quali acceleravano nel suo cuore quel battito indomabile
che accompagna sempre la sensazione dello ignoto anche ne’ petti più
coraggiosi.

Però l’incertezza di Giorgio durò men che non s’immagini.

Prima ancora che lo spettro si fosse mosso, Giorgio aveva detto a
sè stesso. — È una bestia... forse un cane. — E prima ancora che il
cane avesse dato segno di sè scrollando dalla criniera l’acqua che lo
inzuppava con uno scroscio che corse echeggiato per tutta la campagna,
il nostro ferito senza mai muoversi disse, e forte questa volta:

— È _Leon_... ma che cosa può aver in bocca?!...

Il cane che Giorgio battezzava per Leone era ben degno del suo nome.
Figuratevi un gigantesco molosso di Terra Nuova, nero come l’ebano,
vellutato come un merinos, muscoloso come un torello, nella cui
magnifica testa, che il re delle foreste non avrebbe dispregiata,
splendevano due occhi bigi e ritondi, sfavillanti di quella calma
luce che denota assieme al coraggio ed alla forza la generosità e la
dolcezza, e avrete uno schizzo imperfetto dell’animale che ora diviene
un personaggio di questo racconto.

E quelle quattro qualità che in lui erano discese per patrizio retaggio
col sangue della sua razza il nobile mastino non tralasciava mai di
confermare coi fatti, ogni qualvolta glie ne era pôrta l’occasione.

La sua vita era una storia di prodezze. Quanti pollai non aveva difesi
dalla volpe, quanti agnelli contrastati al lupo, quanti bambini, quante
donne non aveva tratte a salvamento dalle acque straripate del Po;
uomini e bestie gli dovevano essere grati, ma forse le bestie soltanto
lo erano.

Oltre le grandi imprese egli contava i piccoli servigi che erano
infiniti. Destro in tutti gli esercizii del corpo, alla corsa come al
nuoto, esperto nel portare nello scrigno d’avorio della sua bocca ogni
oggetto le fosse confidato, la lettera dell’uno, il bastone dell’altro,
il cesto di quell’altro, fornito d’un olfatto più maraviglioso della
memoria di Pico della Mirandola, per cui nè un uomo, nè una cosa, nè un
sito gli sfuggivano più, una volta li avesse odorati.

_Leone_ era il paggio, il messaggero, il confidente più veloce, più
sicuro, più segreto, che dar si potesse. Servizievole e cortese senza
parzialità, egli s’affezionava specialmente, come tutti i forti,
a tutti quelli che il suo nobile istinto gli indicava come buoni,
perseguitati od impotenti.

_Leone_ non era però il primo suo nome; se il lettore ama sapere
come egli si chiamasse dapprima, voglia anzitutto ricordarsi come
ancora oggi nelle nostre campagne, gli epigrammisti e i begli spiriti
impongano ai cani i nomi o le qualità d’una persona e di una cosa rea
od odiata. Quanti _Radetzki_, quanti _Giulay_ non udimmo noi condannati
a latrare dalla satirica vendetta del popolano Lombardo! E non
conosciamo noi forse un cane nero che si chiama _Aspromonte_?

Ecco la storia:

La maggiore resistenza che le truppe di S. M. il re fedelissimo di
Sardegna, guidate dal generale Gifflenga, incontrassero nel 1814 sotto
le mura di Grenoble, fu — dopo quella del vecchio Dumoulin — da un
portentoso alano di Terranova che solo, come Giovanna d’Arco, difese
per più ore la breccia della città bonapartista.

Finalmente però, egli fu ferito in una gamba, e le truppe Piemontesi
entrarono trionfalmente nella conquistata fortezza conducendo
prigioniero nelle loro file il domato Orazio Coclite della razza
canina.

Ora uno dei soldati della spedizione di Gifflenga aveva promesso al suo
padrino, sindaco e cavaliere del villaggio d’X... di riportargli, se
tornava sano e salvo, un trofeo della campagna; e con molto acume, per
dire il vero, stimò che il più glorioso di tutti, era il cane stesso
che aveva fatto tanto sudare le Regie Truppe sulle mura di Grenoble.

Così infatti avvenne, e l’audace avventuriere di Terranuova passò dalla
vita militare alla civile divenendo proprietà del sindaco cavaliere.

Ma nel torno di quei giorni arrivavano le notizie che il generale
Buonaparte era sotto la buona custodia degl’Inglesi, sicchè il nostro
sindaco, il quale sebbene avesse sempre odiato per amore della
legittima la illegittima tirannia Napoleonide, non aveva però mai
osato di ridire una parola contro di lui quando faceva e disfaceva
i re d’Europa; ora che tutti strizzavano il loro sputo sul gigante
abbattuto, credette quasi di sciogliere un voto doveroso perpetuando in
qualcosa di vivo e di presente l’odio che aveva dovuto per tanti anni
masticare in silenzio.

Quindi il Terranoviere entrò nella casa del sindaco cavaliere come in
un’altra Sant’Elena, col collare al collo, e col nome di Napoleone; e
così lo chiamarono per parecchi mesi; ma alla fine i fanciulli, i quali
sono i primi confidenti degli animali, si radunarono una bella sera
intorno al loro padre e gli dissero:

— Sentite babbo: _Napoleone_ è così bravo, così dolce, così carezzevole
che dovreste togliergli il collare.

Il babbo cavaliere diede a _Napoleone_ una occhiata da Hudson-Lowe; ma
dopo aver riflesso che libero farebbe meglio la guardia disse:

— Ebbene, toglietegli il collare.

Ridonato così alla vita libera, _Napoleone_ sentì crescere l’affetto
per i suoi giovani intercessori e specialmente per Giusta, la figlia
minore, che era stata la più ardente di tutti.

Il cane inoltre sentiva che quella debole creatura era la migliore
della famiglia, e forse la più infelice, e s’attaccò a lei con tutta
la fedele devozione onde quegli animali sono divenuti il simbolo
proverbiale.

Giusta, d’altro canto, ricambiavalo colle carezze, coi regalucci, coi
trastulli, con quei lunghi discorsi che i bambini fanno agli animali, e
gli animali ascoltano coll’orecchio ritto, l’occhio fisso, rispondendo
talvolta con un gemito che è forse la radice d’una parola che gorgoglia
impotente nella loro gola.

Però quando Giusta capì che il nome di Napoleone era imposto al suo
fido come un marchio di disonore, giurò di toglierglielo; e fedele al
proposito, cominciò da quell’ora a chiamarlo coll’ultima sillaba non
meno formidabile dell’intero nome: — _Leon_.

I famigliari a poco a poco trovarono più spiccio il secondo appellativo
e glielo confermarono, mentre il padre, dopo avere borbottato un po’,
si ridusse a fare questo ragionamento che fu il più giusto di tutta
la sua vita: — Poichè vogliono che il cane sia buono e generoso e
che non debba più portare il collare, sarebbe un’immoralità chiamarlo
_Napoleone_.

_Leone_ adunque, eretto il muso, dilatate le narici, si pose a fiutare
il vento, girò due volte intorno a sè poi come se avesse trovato,
sotto il suo olfatto, la traccia dell’oggetto che ricercava, si pose a
galoppare a gran salti nella direzione di Giorgio.

— _Leon!_... — fece questi, quando l’ebbe a pochi passi.

_Leon_ s’arrestò, fissò i suoi occhi penetranti e sereni nell’individuo
che lo chiamava, lo riconobbe, fe’ cascarsi di bocca gli oggetti che
portava e gettò le sue zampe leonine sul petto di Giorgio con tale
gemito di gioia, con un amplesso così amoroso da far pur troppo pensare
come meno sinceri e affettuosi sieno talvolta gli abbracciamenti
dell’uomo.

Giorgio rispose alla festa dell’animale passandogli una mano dalla
cervice in sulla groppa, ma punto dall’impazienza di sapere che cosa
recasse stretto nei denti, lo lasciò subito dicendogli:

— Porta, _Leon_... porta qui.

Il cane obbediente riprese da terra un oggetto bianco che i fiocchi
d’erba e le tenebre avevano fino allora nascosto, e lo porse a Giorgio.
Questi afferrò; era un sasso avvolto in una carta, e la carta era una
lettera. Due tocchi più veloci del cuore gli dissero che era di Giusta.
— Allora l’aperse, tentò cogli occhi decifrare le parole, ma il buio
non gliene lasciò Indovinare che una sola: il nome di Lei. Ogni altro
sforzo fu vano.

_Leon_ frattanto aveva riafferrato l’altro oggetto che aveva portato e
lo porgeva col muso allungato al suo giovine amico.

— Il mio bastone!...... — esclamò Giorgio. — Oh che fortuna!... E dove
l’hai trovato _Leon_?...

Se il cane avesse potuto rispondere avrebbe detto, che ripercorrendo la
stradetta dove Giorgio era passato poche ore prima l’aveva inciampato,
e riconosciuto al fiuto per quello dell’amico di Giusta, addentato e
portato seco in compagnia della lettera.

Ma il bravo _Leon_ non potè dare altra risposta che una dimenata di
coda e un mugolato. Giorgio intanto si appoggiò al randello, tentò
muovere un passo, e sebbene con qualche dolore pure gli riuscì. Ne
tentò un secondo, e s’accorse che lentamente sì, ma pure avrebbe potuto
guadagnare la casa. Quando il cane lo vide camminare, tornò a fare
una capriola e si pose a trottargli davanti, colla coda in resta, il
naso all’aria, battendo tutti i cespugli, annusando tutte le piante,
avanguardo e guida ad un tempo del nostro ferito.

Dopo un’ora circa, dopo frequenti riposi, dopo aver ribagnata la ferita
coll’acqua fresca e scorrente d’un rivo, Giorgio e il suo compagno
arrivarono innanzi alla soglia di casa Santafiori.

Prima di entrare, il giovine prese _Leon_ per la gorgiera, lo accarezzò
e gli disse in amichevole comando:

— A cuccia qui, neh, _Leon!_.... aspettami.

_Leon_, data un’occhiata in giro, senza esitare un momento si accucciò
sotto una di quelle panchette di marmo che solitamente fiancheggiano
i grandi portoni delle agiate case campagnuole, poste forse con
intendimento di lusso e di ornamento, ma sulle quali molte notti
trovano un letto meno ingrato della strada, le stanche ossa del
mendicante e del proscritto.

La signora Rosalia e Livia avevano aspettato Giorgio senza coricarsi
ruminando nella mente i più angosciosi e strani commenti di
quell’insueto ritardo.

La perdita decretata al mattino del figliuolo e del fratello le
rendeva naturalmente credule del proverbio — che rivela certamente
i pretensiosi apotegmi dei filosofi. «Le disgrazie non vanno mai
scompagnate».

E ciascuna in suo cuor dubitava.

Inoltre Giorgio usciva frequenti sere per un cammino alle due donne
ben conosciuto; ma d’attardarsi tanto non eragli mai toccato, chè dai
piaceri e dai bagordi egli era alieno più che mai.

Quando lo videro zoppicante, reggentesi a stento, madre e sorella
misero un grido; e mentre il figliuolo sedevasi sulla prima scranna
capitata, esse gli furono tosto d’attorno a chiedergli che fosse.

— Non è nulla — fece Giorgio sostenendo con una contrazione del labbro
le sue parole — nel saltare il fossato asciutto della canapaia mi fallì
un piede e me lo sono torto un po’.

La madre lo guardò e indovinando la pietosa bugia del figliuolo:

— Tu non mi dici la verità — esclamò — tu zoppicavi forte, tu soffri
assai.

— Adesso sì perchè la botta è ancora viva.... ma passerà, purchè possa
andare a letto. Vuoi darmi un lume, Livia?!...

La signora Rosalia e Livia, insistettero per osservare la piaga e
medicarla. Volevano svegliar Rocco, chiamare il chirurgo; ma Giorgio
per tagliar corto alle interrogazioni e schivare delle cure che
l’avrebbero costretto a confessare la verità, prese il lume, infilò
le scale tenendosi più ritto che dato gli fosse, e canticchiando per
ingannare l’amorosa sollecitudine delle due donne, la strofa dello
stornello dei coscritti

    Va là bellina ch’ora so il tuo male
    Tu vorresti sposare un caporale,

montò nella stanza.

Nessuno crederà che egli colla lettera di Giusta in tasca pensasse
prima alla sua ferita.

Chiavato dunque l’uscio della camera per di dentro, cavò la lettera,
la riaperse, e senza tremare, è vero, ma un po’ agitato, lesse quel che
segue:

      «Giorgio,

  «Che ti accadde?... Ho udito una schioppettata; t’hanno dunque
  ferito?.... e molto?... e dove?... per pietà dammi tue notizie, o
  mi farai morire.

  «Mio padre mi ha imprigionata nella mia stanza, e per di fuori odo
  i zoccoli dei villani che fanno la sentinella. Per fortuna quando
  sentii che _Leon_, il solo amico che mi resta qui, ululava sotto
  la mia finestra come volesse dirmi: «son qua io per aiutarti»
  pensai subito di scriverti queste righe e gliele gettai dal balcone
  dicendogli «Cerca Giorgio». Il nostro amico partì a gran salti,
  ed io spero che tu pure l’adoprerai per dirmi se debbo vivere o
  seguitarti.

  «_P. S._ Mio padre comandò a tutti di non dir nulla dell’accaduto a
  persona viva. Egli ha dunque paura?...»

Giorgio baciò commosso il foglio, afferrò una penna e rispose.

      «Giusta,

  «Nulla di grave. Pochi pallini che mi han scalfitta la pelle: sta
  dunque tranquilla.

  «Però se tuo padre non ti rispetta io commetterò uno sproposito e
  a costo di farmi bruciare le cervella verrò a strapparti dalla tua
  prigione.

  «Io pure non parlerò, non per paura, ma per non trascinare per le
  bocche della piazza il tuo angelico nome.

                                                         «GIORGIO.»

Scritto e sigillato legò la lettera all’istessa pietra di Giusta,
aperse piano piano la finestra, e sussurrò quasi insensibilmente:
«_Leon_». Il cane accovacciato, balzò ritto come gli fosse fischiata
nell’orecchio una palla.

— Porta a Giusta — disse Giorgio. _Leon_ dati due squassi di coda,
sprofondossi a saltelloni nella fosca campagna.

Giorgio allora scoperse la piaga e vide che pochi grani di piombo
avevano appena sfiorate le carni. Egli vi applicò altri bagnuoli,
si bendò, e cacciossi subito sotto le coltri a cercarvi riposo alle
membra, non allo spirito suo.

Di lì a qualche minuto, seguendo la corrente de’ suoi pensieri, egli
sclamò:

— Era ben meglio che m’avessero fracassata la gamba!

La madre passando inquieta dinanzi all’uscio del suo figliuolo raccolse
questa esclamazione e mormorò sospirando:

— Qui c’è ancora la mano di Salomone Arena.




V.

IL TESTAMENTO DI BATTISTA.


Fra le poche carte lasciate da Battista vi era uno scartafaccio di
ricordi, appunti e pensieri, indice interrotto della sua storia,
fronde sparte del suo spirito, radunare e disporre le quali era studio
religioso e sollievo gradito di Giorgio nelle brevissime ore di ozio
che i peggiorati negozii di casa gli concedevano. Un foglietto staccato
che portava il suo nome a una data più recente attrasse particolarmente
l’attenzione del giovine, il quale lesse e rilesse più volte quanto
segue:

      «A Giorgio

                                                    _Gennajo_ 1817.

  «Una cosa sola ti ha taciuto tuo padre, benchè da’ discorsi
  della casa, da’ libri o dalle gazzette tu ne debba a metà essere
  istruito. Ma a parlartene mi tratteneva, e la tua età ancora
  immatura e il timore di sospingerti io stesso in un inestricabile
  labirinto di guai e d’affanni dei quali la famiglia nostra fu già
  afflitta abbastanza. Però considerai meco stesso che alla fine era
  dovere l’apprenderti la verità, perchè se è detto che questa debba
  nuocere e chi la bandisce, giova poi sempre a chi la intende, e il
  vantaggio dell’uno riscatta il danno dell’altro.

  «De’ doveri nostri verso la patria conversai teco più volte, ma più
  che le mie parole e l’oscuro esempio della mia vita, ti favellerà
  il cuore che hai, lo so, onesto e generoso. Non importa adunque
  che io vi aggiunga un jota e su questo conchiuderò: ama la tua
  patria collo spirito e colle opere, e adora la libertà, che è il
  compimento della giustizia sulla terra.

  «Codesta patria, — tel dissi — è tutta Italia, e Dio le volle
  dare per confini eterni le Alpi ed il mare: però tutto quanto la
  frantuma o la cincischia o la deturpa dee sparire e sparirà. Dee
  sparire l’impero forastiero e l’impero pretesco, devono sparire
  i regoli mancipii dell’uno e dell’altro, e le barriere e le izze
  municipali devono sparire, e le caste e i privilegi, e le leggi
  tiranne e i codici barbarici, l’ignoranza e il pregiudizio devono
  sparire, e l’Italia ridiventar libera come la Repubblica di
  Savonarola e potente come la monarchia che Dante ha vaticinato. In
  qual tempo questa opera si compirà, non te lo posso profetare, ma
  sento di poterne accennare il modo.

  «Non t’inganni la calma stagnante della superficie. Per di sotto
  è minato, e nel momento in cui ti scrivo l’Europa è solcata da
  una rete di fuoco, e le maglie sono le _Società segrete_. Molte
  fra esse son tenui come ragnatele impotenti, ma tutte mirano al
  medesimo intento e recano la stessa minaccia. Anni fa erano più
  numerose e più sparpagliate, e ti so dire anche lontane assai
  dal fine alto e schietto di patria e di libertà. Le componevano e
  guidavano per lo più vecchi armigeri di Bonaparte, e i nomi stessi
  mostravano l’inanità del concetto e la picciolezza del fine. Ma gli
  _Avvoltoi di Bonaparte_, i _Cavalieri del Sole_ e dello _Spillo
  Nero_, a poco a poco, e mano mano che la idea d’Italia brillava
  più chiara, si andavano via via fondendo in una sola, sorta, non
  corrono molti anni, nelle terre degli Abbruzzi dapprima sotto velo
  di ministerio umanitario, poi svelatamente politico, denunciata e
  tradita da quel re Giacchino Murat che l’avea chiamata e favorita,
  e, tienlo per mio testamento, destinata a incorrere egual sorte
  ogni qual volta essa fiderà nei principi e non si guarderà dagli
  ambiziosi. Vo’ dire la _Carboneria_, il nome della quale non t’ha
  ad essere ignoto.

  «Ora codesta Società barbifica in tutta Italia, ed in Piemonte ha
  ramificazione e capi che ti dirò di poi. Non è, bada bene, che non
  si debba desiderarla migliore. Le sue formole son vuote, il suo
  fine è vago, e i suoi riti ricordano troppo le iniziazioni delle
  antiche caste religiose perchè uomini liberi le debbano osservare.
  Per resistere e limare la credo ancora utile, ma riedificare ne
  dubito; e inoltre essa è come certe acque che irrigano soltanto
  un terreno privilegiato e non solcano mai i vasti campi delle
  moltitudini. In ciò sta proprio la fiacchezza sua: essa è casta:
  essa è un brandello della società non la società intera. Spera
  tutto dai nobili, dagli impiegati, dai soldati; teme il popolo, non
  lo educa, e lo trascura, laonde verrà giorno, se non muta stile,
  che il popolo le starà dinanzi spettatore sbadato e stupito, come a
  una commedia che non capisce.

  «Spero però che muterà, e che il tempo e l’esperienza le
  schiariranno la via. Comunque, essa in oggi è il nucleo dei
  patriotti italiani, ha nelle sue file uomini onorandi, è il punto
  di leva del despotismo, vuole rompere le catene della patria, e
  bisogna darle la mano ed associarsi. Io non l’ho fatto, figliuol
  mio, perchè mi sentiva già vecchio alla politica, perchè i negozii
  nostri m’imponevano di consacrarmi alla casa, perchè infine non
  avrei potuto entrare ne’ suoi ordini senza tentare una riforma
  che sarebbe spiaciuta e forse tenuta per pericolosa semenza di
  discordia. Ma tu sei giovine, tu sei a tempo di vederla riformata;
  tu puoi forse un dì o l’altro ajutare questa opera, e devi
  profferirle il tuo nome.

  «Ti dirigerai in nome mio al dottore Gastone in Torino, contrada
  della Consolata, e gli presenterai il bigliettino che vedi
  unito a questo foglio. Il dottore è carbonaro, ha un grado nella
  _Vendita centrale_ di Piemonte e potrà iniziarti. Se ti propongono
  giuramenti e formole accettale; e se ti paiono stravaganti pensa al
  fine, che è retto.

  «Nota che ti parleranno della federazione italiana. Secondo me
  codesta federazione dovrebbe essere il patto solidale che lega
  fra loro tutte le terre d’Italia nel pericolo e nella battaglia
  dapprima, nella vittoria e nella libertà di poi. Ma vi sono molti,
  pei quali l’Italia non varca la siepe nel proprio villaggio; e per
  costoro la federazione non è che vaghezza o proposito di unione
  tutt’affatto accademica, o tutt’al più accordo in un’ora comune
  d’azione per imprese diverse, non per un fine unico o fraterno.
  Colla scorta della tua mente e del tuo cuore tu correggerai questo
  concetto sbagliato. Che se un giorno la _Carboneria_ fallisse
  al suo segno, o le sorgessero dattorno associazioni di popolo
  educatrici e militanti a un tempo, stringiti a queste; perocchè
  questa sola è la vera via della patria e la patria stessa.

                                          «Tuo padre — _Battista_».

Chi ha seguitato le vicende della vita del Santafiori non meraviglierà
se egli professava opinioni che certo in allora erano ancora germinate
in poche menti, forse nella sola altissima di Foscolo, il quale legava
ai venturi un volume di sapienza in poche parole: «Per far l’Italia
bisogna disfare le sette». In Battista come in Ugo quelle opinioni non
erano anacronismi; all’uno le avea dettate l’esperienza delle cose
vedute e delle quali era stato sì gran parte, all’altro il limpido
raggio dell’intelletto, lo studio dell’antica saggezza e la sventura.

Giorgio avea già preso il suo partito. Fece alla sordina i suoi
preparativi di viaggio; diede a credere a sua madre che partiva per
una gita d’affari, corse alla nota inferriata — che il lettore non
avrà dimenticato — a dare una stretta di mano a Giusta, e fatto un
fardelletto di biancherie, leggero come il bagaglio d’un poeta, si
pose la strada di Voghera fra le gambe e via. In questa città trovò
la diligenza che partiva tutti i giorni per Alessandria; carcassa di
animale paleontologico alla vista, macchina tormentatoria alla prova, e
in verità non sappiamo ancora come quel capo ameno di Galeazzo Visconti
abbia dimenticato di porre in uno de’ giorni dispari della sua famosa
quaresima, in luogo del camminare sui ceci colle piante scorticate,
e dello stare a cavalcioni d’un trave coi pesi di piombo ai piedi,
«squassi di diligenza.»

Ma Giorgio, cui la lettera di suo padre ronzava senza posa per il
capo, non badò punto, non sospettò nemmeno gli atroci spasimi di
viscere che l’aspettavano, e fu il primo ad entrare nella _macchina_
e ad appollaiarvisi. Dopo Balzac e Paolo di Kock sarebbe superfluità
e temerità ad un tempo metter mano alla tavolozza per dipingere
la popolazione che si stipa consuetamente nelle diligenze e negli
_omnibus_, e noi siamo franchi dalla spesa di eccitar la fantasia del
lettore per fargli capire ciò che indovinerà assai meglio senza il
nostro soccorso.

Sia però detto per l’esattezza storica: mancavano, è vero, il porchetto
da latte e la balia che fa la _toeletta_ del suo marmocchio, sotto
il naso dei viaggiatori, senza correttivo d’acque odorose; ma v’era
il solito convoglio di mercanti vignaiuoli, la faccia rubiconda e
contenta d’un caporale dei granatieri che «andava in permesso» e la
famiglia numerosa di un impiegato del regio bollo che tornava dagli
ozii della campagna ai sudori del telonio, e proprio a costa di Giorgio
l’impiegato in persona. E poichè il nostro amico amava gl’impiegati
come i cani il cimorro, così l’idea di balzar fuori dalla carrozza
e d’andarsene a piedi non fu l’ultima che gli passò per il capo, e
intanto che la maturava si tirò sulle gambe il pastrano, e sugli occhi
il cappello, sprofondò il mento nel collare della camicia e prese
l’attitudine seria e ingrugnata di chi non vuole appiccare discorso.

L’impiegato, che aveva il talento d’osservazione proprio della specie,
pensò che il suo vicino fosse noiato del silenzio che da pochi minuti
regnava, e aprì tostamente il fuoco così:

— Andate a Tortona, bel giovine?

Giorgio avea nelle vesti e nel volto l’aspetto d’un campagnuolo
benestante e il regio funzionario avrebbe creduto venir meno alla
dignità del regio bollo dandogli del signore.

— No — rispose secco Giorgio.

— Ah! ho capito.... andrete forse alla fiera di Serravalle?

— Nemmeno.

L’impiegato si pose a manovrare sopra un altro fianco.

— La può dirsi ancora una buona diligenza questa qui di Voghera! I
prezzi un po’ caretti... è vero?

— Eh! — fece Giorgio quasi grugnendo, e, per quanto gli era permesso
dall’incassamento, voltando il fianco al regio impiegato.

— La Società fa buoni affari, perchè i cavalli non sono che gli scarti
del nostro _treno_ e agli incanti si possono portar via per una pipa di
tabacco... eppoi, tutti questi paesotti han mercati tutte le settimane
e fiere quasi tutti i mesi; dunque c’è movimento per gli stradoni.
È vero che i vaccari e i porcari vanno a piedi, ma la diligenza è
piena lo stesso... Che vi pare?... Io credo che la sola fiera di San
Gaudenzio a Castelnuovo Scrivia mette in giro... non dico per dire, ma
un dieci mila anime...

«Alle anime messe in giro» Giorgio fece uno sforzo disperato, e girò
anch’egli completamente le spalle all’arrigatore, brontolando fra sè
«che se i porcari e vaccari andavano a piedi, i rompiscatole andavano
pur sempre in carrozza».

L’impiegato, visto l’atto e quasi indovinate le parole, esclamò:

— Anche la gioventù di campagna è senza rispetto in questi tempi? — e
si voltò a tormentare il caporale dei granatieri che avea dirimpetto.

Più rapido assai del carrozzone, camminava il pensiero di Giorgio. Egli
era dunque per essere addentrato in un solenne mistero. Egli avrebbe
dunque avuta una missione ancor più grande di quella di difendere
sua madre, di lavorare per la sua famiglia e di adorare Giusta? Egli
andrebbe a pronunciare un giuramento solenne? E stava per diventar
uomo davvero? Che cosa gli avrebbe mai detto quel dottore a cui lo
inviava suo padre? Quale sarebbe mai stata la prova a cui l’avrebbero
sottoposto? E l’avrebbe egli sostenuta con onore? E il coraggio non
gli sarebbe fallito? E una volta _carbonaro_, che farebbe? combattere?
morire anche? che importa! Ma se gli impongono uffici di sangue? Ne
sarebbe egli capace? Che cosa è mai codesto presentimento tormentoso
che si è attortigliato intorno al suo e come serpe gli avvelena la
speranza?...

Questi e altri quesiti mulinavano confusamente, tumultuariamente
innanzi al suo spirito, non interrotti nè dalle fiere scrollate della
diligenza, nè dal cicaleccio della compagnia, nè dagli aspetti mutevoli
e vaghi della campagna che sfilava dinanzi ai suoi occhi per l’ovale di
luce lasciato penetrare dal cristallo della carrozza.

Alla fine, pesto, rotto, maciullato, ma non ancora sveglio dal suo
pensiero fisso giunse in sul far della notte ad Alessandria; smontò
all’Albergo della Posta, dove la diligenza avevalo condotto, e chiese
alloggio.

Il cameriere, squadratolo dal capo alle piante e notate le umili vesti,
l’umile bagaglio e il più umile contegno, lo fece caritatevolmente
montare un centinaio di scalini, e traversato un androne stretto e
sudicio, lo fe’ entrare in una stanzaccia gialla; gli accese una
candela di sego sopra un tavolino da notte di larice dipinto, e
additandogli una specie di cataletto, gli disse:

— Ecco il vostro letto... ma prima il vostro nome.

— Giorgio Santafiori.

— Patria?

— S......

— Condizione?

— Possidente.

— Possidente?? — fece il cameriere proprio con due punti
d’interrogazione, appoggiati da un sorriso d’incredulità.

— Sissignore — rispose Giorgio che non sapeva i pericoli del dar del
lei ai camerieri, specie felina cui più accarezzi, più arricciano il
pelo e graffiano. E com’egli vedeva che il valletto, scritto su un
libraccio, disponevasi a uscire dalla stanza lo arrestò subitamente con
questa domanda:

— Mi faccia il piacere, signore, di dirmi a che ora parte la diligenza
per Torino domani mattina?

La domanda era mossa dalla ferma deliberazione di Giorgio di non
lasciarsi più incastonare nell’interno della carcassa, e di non aver
più la gramola d’un impiegato regio sulle costole.

— Alle cinque — rispose il cameriere voltandosi appena.

— Allora sia compiacente di prendermi un posto; ma se si potesse avere
lo vorrei sul davanti.

— Volete dire in _coupè?_

— Sarà bene in _coupè_.

— Si paga un franco di più per posta, mio caro, e credo....

— Eccovi il di più — e dal taschino del panciotto cavò la moneta
occorrente e la diede al cameriere.

— E la mancia per me, _signore?_

Alla luce dei marenghini di Giorgio aveva mutato sembianze, e il
cameriere s’andava persuadendo di avere in faccia un possidente
davvero.

— Scusi! ha ragione! — e il giovane gli diede un pezzo nuovo fiammante
di due franchi, coll’effigie di Luigi XVIII da un lato e nell’esergo i
tre gigli, schietta immagine del candore dei regnanti di Francia.

Il cameriere lo voltò e rivoltò, con una levata di berretto partì
convinto del tutto d’aver sbagliato ad alloggiare «quel possidente»
nella stanza dei carrettieri, al primo piano sotto il tetto.

Quanto a Giorgio lo scarrozzamento e i suoi diciotto anni non tardarono
a persuadergli il sonno, e malgrado l’assito del suo cataletto,
s’addormentò profondamente.

Alla mattina era in piedi un’ora prima della chiamata, e i cavalli non
erano ancora attaccati, che egli era già nicchiato nel suo _coupè_.




VI.

I GIOVANI SON PRESTO AMICI.


Divideva il sedile con un altro giovinotto press’a poco dell’età sua,
biondo melagranato, vivace, col caschetto gettato di sghimbescio sulla
fronte, una certa eleganza trascurata nelle vesti, la pipa di schiuma
in bocca «che pipava eternamente», sempre in moto e in trambusto con
tutti i suoi sensi e le sue facoltà, ora canticchiando e zufolando
allegramente tutte le canzoni che gli frullavano pel capo, e battendo
la misura col piede, ora sdraiandosi animalescamente sul sedile, colle
gambe sulla serpa, ora rizzandosi in piedi a ciarlar col postiglione
e a dar la voce ai cavalli, ora lanciando facezie non troppo castigate
alle contadinelle, o motteggi non troppo cortesi a viaggiatori pedestri
che la diligenza incontrava sulla via.

Giorgio, per fortuna, non era così imbronciato come la mattina
precedente, e quel tramenìo non lo indispettiva punto, forse perchè
si era detto che quel giovane avea l’aria franca e la cera gioviale, e
la gioventù e la schiettezza han diritto talvolta di farsi perdonare i
peccati delle loro virtù.

Un accidente di viaggio cooperò a domesticare i due viaggiatori del
_coupè_.

Nel giungere a Felizzano, a una posta e mezza d’Alessandria, il
postiglione che era a cassetta non fu presto ad arrestare i cavalli,
e un fanciullino abbandonato in mezzo alla strada corse pericolo di
essere schiacciato dalle zampe. I due giovani, che avevano avvertito
e la buaggine del postiglione e la foga dei cavalli e il pericolo
del bambino, senza profferire una parola nè l’uno nè l’altro s’erano
slanciati insieme fuor della carrozza, e con pari rapidità s’eran
trovati alla testa dei cavalli, agguantandoli al freno con una mano e
coll’altra facendo schermo al fanciullino che ebbe tempo a scampare.

L’impresa finì lì; ma i due giovinotti trovarono buona l’occasione
e per dirsi scambievolmente un complimento e per stringersi la mano;
laonde quando rimontarono in carrozza erano già più che conoscenti, e
se non fosse abusare della parola, un miccino amici.

— Vorrei mangiare attraverso uno dei cani del professor Cridis,
se son capaci di farmi vedere un servizio di posta più sciancato o
antidiluviano di cotesto. — E voi? — fece il giovane della pipa.

— Io ho viaggiato così poco.... anzi nulla che a dir vero...

— E per Dio! foste restato tutta la vita sotto il grembiale della
mamma, credo ancora che ve ne accorgereste!

— In verità il carrozzone è tormentoso, rispose Giorgio.

— E i cavalli? non sembrano forse usciti dalle scuderie di don
Chisciotte? Mettete insieme dei postiglioni sempre briachi, e dei
maestri di posta superbi come i gran maestri dell’ordine Mauriziano e
avrete il resto della derrata.... Che cuccagna dopo il felice ritorno
dell’angusto monarca!... ma finirà, oh finirà!...

— Cszs! signore, credo che quei di dentro possano sentirvi.

— Eh che cosa importa a me! Avete paura voi?

— Non è per me, signor mio: egli è per voi. Sento a dire che
s’incontrano spioni dappertutto come i funghi d’autunno.

— Già!

    «Ogni parete un delator nel seno
    «Nasconder può.

come dice Pilade ad Oreste.... Ed io auguro a tutti, quattro strettoni
di corda a costo di far da contrappeso io stesso! — rispose il
giovinetto abbassando però d’una mezza ottava la voce, giacchè anche
lui aveva pensato d’essersi troppo azzardato con uno che pareva, è
vero, un buon diavolo, ma che in fin dei conti eragli sconosciuto.

Giorgio pure aveva avuto lo stesso pensiero, e capì che il suo giovine
vicino doveva essere un po’ inquieto delle imprudenti parole lasciate
scappare; onde pensò di rassicurarlo, e fu egli stesso che ruppe il
silenzio così:

— Io la penso come voi, signore, e però, giacchè ci siamo conosciuti in
una buona azione, penso che ci riterremo ambidue galantuomini. Intanto,
come i galantuomini non hanno nulla da celare, così comincierò dal
dirvi il mio nome se lo desiderate.

— Ed io il mio.... se vi pare.

— Io sono Giorgio Santafiori.

— Ed io Ernesto Gastone.

Giorgio diè un balzo sul sedile ed esclamò:

— Gastone! ma è impossibile....

— Curiosa anche questa! E perchè mo’ deve essere impossibile ch’io mi
chiami Gastone piuttostochè.... Bortolone?

— Eh lo so io!... Scusate!... Ma siete voi davvero suo parente?

— Ma parente di chi?... Ohe! Dareste volta proprio adesso!

— Perdono.... ma io voleva dire se eravate parente del dottor Gastone.

— Sentite! mia madre era una donna onesta e credo proprio di sì. Ma voi
come conoscete mio padre?

— E dunque siete suo figlio?

— Credo almeno.... ma dunque voi conoscete mio padre?

— Io non lo conosco.... è il mio che conosceva lui.

— Vostro padre? e come si chiamava?

— Battista Santafiori.

— E cosa faceva?

— L’affittaiuolo.

— Battista Santafiori! Non è la prima volta che mi vien all’orecchio
questo nome.

— Può darsi! Perchè mio padre era molto amico del vostro — disse
Giorgio.

— L’ho udito a nominare, vi ripeto.... ma vattelapesca come e perchè —
rimuginava Ernesto — vostro padre ov’è ora?

— Partito! — sospirò Giorgio, accennando colla mano il cielo.

— Ah! non gli dico buon viaggio perchè non gli posso dire buon ritorno.

— E il vostro sta bene?

— Il mio, eh! eh! Ma non credo che potranno dire così i suoi ammalati
dopo la prima visita.

A Giorgio piaceva poco quello scherzare sopra i parenti e non rispose
nulla.

Ernesto, burlone per natura, non se ne avvide e continuò:

— Quando andate a Torino ci verrete dunque a trovare.

— Ci vado ora.

— A Torino?

— A Torino e a trovarvi.

— Me ne dispiace.

— Ve ne dispiace? e perchè?

— Perchè se venite a trovare il medico è segno che siete ammalato....
Male della nostra età.... questo s’intende. Oggi non c’è mela senza
macchie e.... Basta! Mio padre è.... e vi guarirà, ve ne do parola io.

Giorgio durava fatica a capire; ma siccome non era gonzo, alla fine
chiarì che cosa si intendesse dire il Gastone, e pensò bene, per
nascondere meglio il segreto della sua gita, di lasciarlo nell’errore
suo pagandolo di un sorriso che dir volerà: — È così!

— Mio bravo signor Giorgio: vedo che la civiltà è penetrata anche in
mezzo alle Fillidi del villaggio. Davvero se lo sapesse il vergine
professore Alardi se ne scandolizzerebbe. A proposito di professori
siete studente anche voi?

— Eh no! Sono campagnuolo come il mio povero padre.

— Peccato! Con quella faccia e quelle spalle fareste onore alla brigata.

— E voi siete studente?

— Già! e di terz’anno di legge! — fece Ernesto rizzandosi un po’
orgogliosamente sul sedile e cacciando fuori un buffo di fumo dalla sua
pipa che poteva rivaleggiare col fumaiuolo d’un camino di ferro.

— È una vita allegra lo studente, a quel che ho inteso dire.

— Una volta, dicono di sì. Poco da studiare, i professori che vi
dettavano i quaderni, roba da poter smaltire in quindici giorni; eppoi
meno birri e men gesuiti intorno; i babbi più mansueti, la borsa meno
smilza e le donnine più cortesi. Ma adesso, oh che orrore! La sola
_economia politica_ di quella testa da morto del Cridis basterebbe
a far scappare dall’università. I papà che stringono sempre più i
cordoni e che parlano anch’essi di economia privata; gli scolari che
hanno imparato a sgobbare, e che si ritirano nei retro bottega da
caffè a commentare la costituzione del _dodici_; il _barbera_ più
caro; i bigliardi guardati eternamente da facce patibolari e..... delle
gonnelle non dico nulla. È una vera quaresima. A Torino non trovereste
più un zinzino di ragazza passabile a volerla pagare una laurea
dottorale. C’è la Gigina di fianco al teatro d’Angennes, ma da poco
tempo in qua è divenuta magra e trasparente come un foglio di carta
oliata. Ci sarebbe anche la Cloe di Piazza Vittorio, ma andare in casa
sua è come _ficcarsi_ in un alveare; se ne esce con un po’ di miele
sulle labbra ma colla persona tutta morsicata. Non so se mi spieghi! La
migliore è la Bombason sopra all’osteria degli _animali parlanti_... O
a proposito sapete dove sono gli _animali parlanti?_

Giorgio che era vissuto fino allora nella vita rigida e quasi monacale
della casa e del villaggio, Giorgio che non avrebbe mai pensato vi
potesse essere al mondo un uomo che pensasse a due donne in una volta
e che avrebbe certo afferrato per il collo il primo che avesse ardito
parlare senza rispetto della sua Giusta, fu come colui che cammina
sopra una bella prateria smaltata di fiori e che a un tratto si trova
sotto il piede la melma d’un pantano dove non osa inoltrarsi per timore
di sprofondare. Però quando Ernesto gli chiese se sapeva dove fosse
l’osteria degli _animali parlanti_, non volle chiedere alcuna ulteriore
spiegazione e rispose secco:

— Oh no.

— No? ma siete dunque mai stato a Torino?

— Mai.

— Non importa! Non siete perciò scusato. Un giovine che ignora
l’esistenza degli _Animali parlanti_ — parlo dell’Osteria — è come un
leguleio che ignora l’esistenza delle dodici tavole, o un filosofo
della botte d’Eidelberga. Gli _Animali parlanti_, — dice il mio
amico Grandis, un altro studente che vi farò conoscere se verrete a
Torino — gli _Animali parlanti_ sono la più bella istituzione degli
Stati di S. M. il Re di Sardegna, come la Università è la più brutta.
Ed è una istituzione davvero. Voi la credete forse una bettola, ma
v’ingannate. C’è il suo statuto che ha il vantaggio d’essere mutabile e
riformabile a piacimento; c’è il suo presidente — perchè la istituzione
è repubblicana, — i suoi censori, i suoi tribuni, e come il fuoco sacro
dell’allegria e dell’amore non mancano mai, così ci sono anche le sue
Vestali per custodirlo... e vi assicuro io che la fiamma non muore.
Venite e vedrete... e forse vincerete. Vi farò conoscere Grandis,
quel che vi ho già nominato, che chiamano il _gran cucù_, perchè si è
pensato essere consono a una società d’animali parlanti, che ciascuno
portasse il nome d’un animale. V’è l’_orangotano_, l’_alocco_, e
l’_ibi_, ecc., e perfino le sacerdotesse hanno il loro soprannome
gentilizio.

E mentre Ernesto finiva il suo discorso, la diligenza arrivava ad Asti
davanti all’Albergo col _Leon d’oro_, dove il nostro studente e il
nostro campagnolo scesero a stirizzire le gambe ed a mescere insieme un
bicchiere del più mascagno alla salute degli _Animali parlanti_ e della
loro amicizia.

Quando rientrarono nella catapulta ambulante, il sole tramontava
dietro i colli di Superga: una fascia grigia listata di frange d’oro
incoronava l’orizzonte, e una ombra sempre più lunga e silenziosa
copriva di soave melanconia la terra.

Il postiglione avea smesso di chioccare la sua frusta, i cavalli
trottavano a testa bassa; il cinguettio della vettura andava po’ a po’
smorendo e tutti erano dominati dalla malia possente di quell’ora che
«ai naviganti volge il desìo e intenerisce il core».

Ma oltre questo, Ernesto risentiva gli effetti d’un altro sortilegio,
quello dell’Asti che aveva largamente sorseggiato. Però appena fu in
carrozza si accoccolò nell’angolo e vi s’addormentò, mentre Giorgio
ripigliava il filo dei suoi pensieri, interrotti dal giorno precedente,
gittando appena l’occhio sulle comitive di contadini che tornavano dai
campi, invitate dalle colonne di fumo che si innalzavano dai lontani
casolari, nunzie della cena che le vigili massaie stavano preparando.

Era già notte. Ernesto dormiva e Giorgio lo guardava. Lo guardava con
bontà e, quasi diremo, con intenerimento. Il campagnuolo presentiva che
anche in quell’esistenza un po’ guasta e appannata, v’era un raggio di
bellezza e di generosità, e ascoltava già con certo compiacimento la
voce che dal fondo gli susurrava «sarò tuo amico». Un ciottolone su cui
passò la ruota scombussolò nelle più intime latebre, ci si perdoni la
frase, la carrozza, e fe’ sobbalzare Ernesto che si svegliò.

— Ah finirò col proporre agli _Animali parlanti_ una rivoluzione contro
le regie poste — esclamò tastandosi... dove aveva preso il colpo.

— Per fortuna siamo presto alla fine.

— Dove siamo?

— Il postiglione dice a Moncalieri.

— Ah sì! Veggo «i merli del re».

— I merli del re?

— Sì! in luogo «dei merli del castello del re». Sono abbreviazioni che
ti insegneremo quando sarai nella nostra società..... Ora che vi penso
noi ci diamo ancora del _voi_ a quel che pare! È un’infrazione agli
statuti! Te la senti di darmi del _tu?_

— Con tutto il cuore. — E lì al buio i due giovani si diedero un’altra
volta la mano, nè mai amicizia giurata in faccia al sole fu più sincera
e fedele di questa.

— Viva l’amicizia! Peccato che non c’è la bottiglia per il brindisi...
Ma domani mio caro... Spadafuori.... cioè.... no.... come ti chiami
infine?

— Santafiori! L’hai di già dimenticato.

— Non farci caso.... il nome non importa. Se t’imbrancherai fra gli
_Animali parlanti_ dovrai anche tu rinunziare al tuo nome e pigliarti
per amore o per forza il nome di qualche bestia della zoologia del
Buffon.

— Ed io l’accetterò ben volentieri. Ma dimmi un po’, come potrò entrare
nella vostra istituzione se non sono studente?

— Lascia fare! Ti presenterò io come federato.

— Come federato?

— Sì! È una storia lunga che ti narrerò poi... Verrai dunque?

— Verrò.... ma prima....

— Prima che?

— Prima vorrei che mi aiutassi a trovar la casa di tuo padre il dottor
Gastone.

— Oh bella! s’intende! Se è la prima volta che vieni a Torino dove
vorresti dar del capo?

— In una locanda qualsiasi.

— A farti pelare... Se hai dei quattrini non temere, che la _Bombason_
te ne alleggerirà.

— Ma dove vuoi che vada?

— E non te l’ho detto ancora? A casa mia.

— Impossibile! Sarebbe un’indiscretezza....

— Parola abolita dal nostro dizionario — interruppe tostamente Ernesto.
— Inoltre se vuoi metterti in cura sotto mio padre, è meglio essergli
vicino.

— No, Ernesto. Verrò a trovarti dove vuoi e quando vuoi, ma accasarmi
da te mi è veramente impossibile.

— Ebbene, facciamo un patto. Stasera ti condurrò da Cloe.... e domani
verrò a prenderti.

— Cloe! Non è l’alveare — fece Giorgio sorridendo.

— L’alveare — confermò Ernesto.

— Ti sono infinitamente obbligato.

— Allora fai a modo mio e vieni a piantar le tende nella mia stanza.
Non s’incomoda nessuno. Ti cedo il mio letto; ed io mi sdraio sul sofà.

— Oh, questo poi no — rispose Giorgio che già cominciava a cedere
terreno.

— E _vada todos!_ Bada che è l’ultima transazione. Io terrò il letto e
tu sarai condannato al sofà. È convenuto?

— Ebbene, è convenuto. Ma permettimi un po’ una domanda. I tuoi amici
degli _Animali parlanti_ hanno tutti il tuo cuore, Ernesto?

— Tutti. Col vantaggio che hanno spesse volte la testa migliore.

La diligenza entrava da S. Salvario nell’_Augusta Taurinorum_ e andava
a metter testa al _Bue Rosso_, scalo delle corriere del Tanaro.

I viaggiatori aggranchiti erano smontati, i bagagli calati e ciascuno
avea presa la sua volta.

— Vieni con me, Giorgio — disse Ernesto — e sopratutto non guardar per
aria camminando. Perderesti credito e ti prenderebbero per un poeta o
un almanaccatore. Tutti gli uomini serii a Torino guardano per terra.

Giorgio fece della raccomandazione dell’amico l’uso che credette
e si diede a seguitarlo fedelmente fino a che, dopo buon tratto di
strada, Ernesto picchiava a una casa d’aspetto modesto di piazza della
Consolata, dicendo: — Questa è casa mia. — E apertosi per di dentro il
portello, i due amici entrarono.




VII.

IL PIÙ TINTO DEI CARBONARI.


Il medico Gastone aspettava il figliuolo di ritorno dalla campagna in
un ampio stanzone che servivagli di studio, tutto tappezzato di scansie
e vetrine, piene di volumi, di strumenti chirurgici e d’ogni maniera
di preparati di chimica e d’anatomia. Tutta questa suppellettile
scientifica, a dir vero, non serviva che d’insegna alla bottega, e ben
considerato era messa in mostra più per rinforzare il credito nella
dottrina del Dottor Gastone, il quale aveva accattato bensì una certa
riputazione nella scuola rabbiosamente _brousseista_ di Torino, ma era
ben lontano dall’usare troppo spesso del suo armamentario e della sua
biblioteca.

Nel momento in cui lo troviamo, coi gomiti puntati sul tavolino
passeggiando liberamente con una mano sopra la lucida curva d’una testa
brulla d’ogni lanugine come la guancia d’una giovinetta, il dottor
Gastone pensava... Alla scienza?... no!.... A suo figlio? nemmeno...
sebbene l’amasse di tenero affetto. Pensava alla _Carboneria:_ alla
_Carboneria_ di cui egli era stato il primo apportatore in Piemonte,
che era il suo genio famigliare, il suo sogno, il suo nutrimento, la
sua ambizione e la sua vita.

Nel 1812, in occasione di un viaggio di istruzione che aveva fatto
nel mezzodì, era stato ascritto ai Carbonari del Cilento, e come
laggiù i meridionali hanno il genio, dove genio è necessario, di ogni
scienza simbolica, e le società segrete che ne facevano professione
erano divulgate e potenti, così il Gastone riportò di là tutto il
severo convincimento dei suoi maestri e non provò mai la tentazione
così facile di posporre un punto d’interrogazione dubitativo a certe
ritualità che anche a molti fra i credenti parevano istrioniche.
Fin dai primi gradi erasi avvezzo ad osservare colla religione di
un neofita tutti i precetti del rituale carbonaresco; e quando fu
innanzi nella gerarchia non permise mai ad alcuno di schermirsene e di
deriderlo.

Il dottor Gastone poteva dirsi il perfetto Carbonaro. Non motto segreto
ch’egli ignorasse, non segno cabalistico ch’ei non sapesse eseguire
con drammatica perfezione. Conosceva la storia della Carboneria come i
padri guardiani d’un tempo conoscevano la storia del loro convento, e
le dava anch’egli, e sul serio, origini antiche ed auguste, facendola
scendere da Salomone, da Manete, e via via dai templari, dagli
illuminati, dai framassoni; ogni dì aveva sulle dita i titoli e le
sedi di tutte le vendite, e ti snocciolava all’occorrenza i nomi di
tutti i venerabili e de’ grand’orienti, come avrebbe potuto fare un
_Almanacco di Gotha_ della _Carboneria_. Sapeva a memoria un numero
stragrande di aneddoti e li spacciava sicuro e convinto, e fra le
altre rimuginava una storia completa del modo con cui la Carboneria
aveva aiutato Napoleone a fuggire dall’isola d’Elba, che avrebbe dato
clandestinamente alle stampe per edificazione dei fedeli; e infine
era il bibliotecario, l’archeologo, l’erudito e il giurisperito della
Società.

Con tali attributi e tale fervore di credenza nessuno meraviglierà
s’egli facesse propaganda e se la sua messe fosse copiosa.

Non appena reduce in Piemonte, il suo primo pensiero e il suo primo
sforzo fu di impiantare una _vendita_ a Torino e vi riuscì. I _buoni
cugini_ non si contarono dapprima che sulle palme della mano, ma
poi raddoppiarono, moltiplicarono, e la _vendita locale_ divenne
_centrale_, cui ben presto prestarono sudditanza e fecero corona molte
altre vendite in tutte le città del Piemonte, penetrate in breve nelle
magistrature, nelle milizie, nelle scuole, a’ piedi dell’altare,
nell’aula della reggia, formidabile serpe laocontea che montava
invisibile ma sicura al collo dei tiranni d’Italia, e li avrebbe di
certo strozzati, se essi medesimi non si fossero vestiti delle sue
sembianze e non l’avessero ingannata.

Il nostro dottore però rappresentava la vecchia Carboneria; quella
a cui bastava radunarsi in un sotterraneo addobbato di simboli tetri
per pronunciarvi sopra lo stocco e il gomitolo una tragica formola.
Perciò i patriotti piemontesi, i quali verso il 1818 cominciavano
a comprendere come le opere sole avrebbero potuto suggellare i
magnifici giuramenti delle _vendite_ e che pensavano seriamente ad una
rivoluzione, sebbene fossero pieni di stima per la probità del loro
fondatore, si diedero piano piano a emanciparsi da lui, a celare una
parte dei loro segreti e a non considerarlo più che come uno strumento
passato d’uso o tutt’al più come l’uomo tecnico delle controversie
disciplinari. Però non gli assegnarono che un grado mediocre nella
gerarchia, e lo crearono solamente Censore. Il povero Gastone versò
lagrime amare e sincere per quell’oblìo che a lui pareva ingratitudine;
pensò un momento rassegnare la dignità; ma alla fine non ebbe cuore di
separarsi da quella che chiamava la sua seconda famiglia.

E naturalmente la famiglia prima, cioè la vera, ne pativa alquanto. Gli
interessi andavano alla carlona; l’educazione del figlio ne scapitava;
i malati gli andavano al camposanto, e il dottor Gastone non se ne
accorgeva, parendogli che dal giorno in cui Ernesto aveva presi i primi
gradi dell’ordine fosse in buon porto di salvazione e la famiglia al
sicuro da ogni disastro sotto le grand’ali della Carboneria.

Quando Ernesto entrò nello studio, traendo seco Giorgio che stava di
dietro timidamente, il dottore si scosse dalla meditazione, s’alzò e
baciò ripetutamente il figliuolo che gli corse nelle braccia.

— Babbo... ti presento un mio amico.... un amico.... che ho trovato per
istrada.

— Oh bravo, bravo Ernesto... ho molto piacere — e il dottore
agguantava la mano di Giorgio stringendola più volte col triplice segno
carbonaresco; segno che il nostro campagnolo non solo non capiva ma non
avvertiva nemmeno.

— E come si chiama il signore? — riprese un po’ secco il Gastone, che
non vedendosi corrisposto al segno cominciava a raffreddarsi.

Ernesto declinò il nome del suo amico.

— Come!... Santafiori?... Santafiori di S....

— Sissignore — fece Giorgio.

— E figlio di Battista?...

— Sissignore.

— Oh mio caro e buon ragazzo.... qua un bacio.... un altro ancora....
già la disgrazia la ho saputa subito.... non parliamone più. Gran buon
uomo quel Battista... peccato che non abbia voluto.... basta.... ma c’è
il figlio.... il figlio si farà cuore.

Queste parole che il dottore pronunziava a strascico, unite insieme
e rinterzate dal necessario significavano: «peccato che Battista non
abbia voluto farsi carbonaro. Basta, ci vuole pazienza! ma c’è il
figlio da pescare e si pescherà».

Giorgio naturalmente non aveva capito un ette. Ernesto invece indovinò
l’antifona e pensò subito di tagliar corto.

— Ho offerto a Santafiori l’ospitalità in casa nostra.

— Benone — esclamò il dottore.

— E vado a far preparare un po’ di cena per riparare ai guasti che le
diligenze di S. M. hanno fatto nei nostri ventricoli. Intanto ti lascio
solo con Giorgio che ha una malattia segreta da confidarti.

— Oh! — fece il dottore guardando fra dolente e stupito l’ospite suo
che sorrideva. — Via parlate signor Santafiori — ripigliò il medico
quando si fu accorto che Ernesto era uscito. — Sedete e parlate.

— Signore — fece Giorgio restando in piedi e pigliando una certa aria
solenne. — La mia malattia è una fantasia di suo figlio che io non ho
voluto contraddire per poter conservare più gelosamente il segreto che
mi conduce da lei.

— Non si tratta dunque di medicina!... E di che cosa si tratta allora?
— rispose Gastone ravvivato nelle sue segrete speranze e avvicinando la
seggiola.

— La prego di leggere questa lettera — e Giorgio porse al dottore il
biglietto che gli aveva lasciato suo padre. Gastone pose a cavallo del
naso un paio d’occhiali e si mise a borbottare più che a leggere queste
parole:

                                                    _Gennaio_ 1827.

      «Caro Gastone.

  «Quando mi proponeste or sono cinque anni di dare il mio nome alla
  Carboneria non lo volli e ve ne diedi le ragioni, che ripetere non
  giova.

  «Nullameno se a ottant’anni, dopo aver percorse tutte le società
  segrete di due secoli e di due mondi, non poteva sentirmi invaghito
  d’entrarvi, mio figlio che pose oggi il piede sulla soglia della
  vita, non dee restare ignaro di ciò che si pensa, si spera e
  si prepara per la libertà del suo paese, ed io desidero ch’egli
  offra il suo braccio alla Carboneria, fidente che alla religione
  del giuramento egli non mancherà mai. Però lo mando a voi, caro
  Dottore, perchè l’iniziate.

  «Fate che il suo amore alla libertà ed il suo odio alla tirannia,
  fruttino opere generose alla patria e che egli vegga compito il
  sogno che io porto meco nella sepoltura.

                                             «BATTISTA SANTAFIORI».

La faccia del dottore mano mano che procedeva nella lettura era
divenuta porporina, copiose stille di sudore imperlavano la sua calva
fronte, due grosse lagrime gli colavano sulle guance, un sorriso di
contentezza gli tremava sulle labbra, e il foglio pareva gli volesse
saltar fuori dalle mani come lo avesse colto la paralisi.

Appena finita la lettera si gettò egli stesso nelle braccia di Giorgio,
gli afferrò colle mani la testa e baciucchiandolo di nuovo: — Ah sì!...
— gridava — oggi stesso.... subito.... mio caro cugino.... mio buon
cugino.... che sii benedetto tu e il padre tuo.

Giorgio non poteva comprender bene il significato di quelle parole
«buon cugino»; tuttavia alla vista di quel vecchio commosso e
tremante non potè vincere egli stesso un fremito d’emozione e dovette
appoggiarsi ad una sedia per non traballare. Quale mai doveva essere
quel mistero a cui suo padre lo avviava dalla tomba, che faceva
piangere un vegliardo e a lui, giovane provato alle percosse, battere i
polsi?

Però come la prima sfuriata quetò, Gastone prese a dire:

— E voi siete ben preparato, figliuol mio?

— Lo sono.

— E se v’imponessero prove terribili?

— Le subirei.

— E se vi comandassero un delitto?

— Un delitto! — chiese Giorgio meravigliato — mio padre non può volere
ch’io m’ascriva a una setta di malfattori.

— Bene! domani sera vi condurrò io stesso alla _vendita_ e sarete
ordinato.

E in quel mentre entrava Ernesto ad annunziare che la cena era
imbandita con soddisfazione di tutti, ma principalmente del dottore cui
la conquista di un nuovo accolito aveva risvegliato uno straordinario
appetito.

La notte Giorgio non potè, come l’inferma di Dante, trovar posa sulle
piume; il domani stavagli confitto come chiodo nella mente e il sonno
stesso non potè sconficcarlo. Quando verso il mattino s’addormentò, i
pensieri della veglia divennero le larve del sogno e nella lor forma
impalpabile sembrarono più terribili. Povero giovane!... quei sogni
erano forse profezie.

Quando si svegliò aveva le ossa peste, le arterie lo martellavano
ancora, e le nebbie della notte non peranco s’erano dileguate
dall’anima sua.

Cercò Ernesto, era all’università; cercò il dottore, era alle sue
visite: si trovò male nella solitudine di quella casa e uscì. Si pose a
vagare solo soletto per Torino, ma ben presto fu annoiato dai monotoni
rettilinei di quelle contrade, dalla perenne penombra di quelle
viottole umide e strette, dove non era vestigio di gloriose memorie
antiche, dove era rachitico il moto della vita moderna, dove una
popolazione nana, taciturna, povera, insassata, senza raggio veruno di
brio e di vivezza italiana, passava e ripassava come popolo di fantasmi
in una squallida necropoli.

Quest’era l’impressione di Giorgio quaranta e più anni fa; e certo
chi confronta la povera capitale dei poveri re di Sardegna e i suoi
sessantacinque mila abitanti colla splendida sede del regno d’Italia,
animata dalle sue duecento mila persone, co’ suoi monumenti, le
sue ricchezze, le sue industrie e il suo splendore odierni, troverà
legittimo il giudizio e onesto il commento che il narratore delle sue
memorie ci appulcra.




VIII.

DELUSIONE.


Giorgio s’era fermato in mezzo a piazza Castello a contemplare la
magnifica facciata del palazzo Madama, lavoro di Filippo Juvara,
lamentando anch’egli che alle altre tre parti dell’edificio mancassero
gli ornamenti della fronte come a un bel viso di donna le grazie
dell’imbusto e l’armonia dell’insieme.

La sua contemplazione però non era così assorta che egli non avesse
scorta subitamente la cavalcata di tre persone preceduta da uno
staffiere in livrea che sbucava sulla piazza destra di Po.

Il cavaliere di destra sembrava gentiluomo d’alto affare, perocchè
gente che già cominciava ad accalcarsi ed a far ala convergeva su
lui principalmente gli sguardi e a lui solo dirigeva gli inchini e
le rispettose sberrettate. Ci fu anzi un tentativo, un preludio di
battimani che smorì via, non sapremmo ben dire se per un sentimento di
decoro popolesco o per mancanza di sego alla macchina dell’adulazione.

Era un giovane lungo, magro, patito, giallo come l’itterizia o il
rimorso, dal mento osseo e nudo d’ogni onore, dagli occhi grigi ora
vaganti e inquieti, ora vitrei e fissi, incavernati dentro i zigomi
prominenti e gli orli sporgenti delle ciglia, simili a fatue fiammelle
nel cavo d’una tomba. Il vestito era nero, abbottonato, disadorno come
quello d’un giovane collegiale uscito di recente dalle austere chiostre
dei Gesuiti: le gambe straordinariamente prolisse gli cascavano più
che non poggiassero sulle staffe; il braccio destro che non reggeva
le redini penzolava come sfibrato lungo il fianco; sulla sua fronte,
nel suo sguardo, nel portamento, nella persona tutta, un marchio
indefinibile di fatalità, un misto di tragico, di grottesco, di
ascetico; don Chisciotte coll’occhio d’Amleto nelle vesti di Lojola.
Guatava sotto le pupille a destra ed a sinistra, rispondeva ai saluti
portando automaticamente la mano all’ala del cappello e facendo ad ora
ad ora caracollare il bianco destriero, esercizio nel quale sembrava
maestro.

— Chi è questo signore? — chiese Giorgio percosso dalla visione di
questa figura.

— Oh curioso! non lo conoscete? — fece uno degli ammiratori — è il
principe Carlo Alberto di Carignano.

— Lui!... — e Giorgio stette a bocca aperta guardando lungamente dietro
la cavalcata che era già sparita dietro le cancellate del palazzo
reale.

La sera giunse, e il dottor Gastone, fatte altre raccomandazioni al
neofita, per vie torte e recondite lo condusse seco alla residenza
dei carbonari. Era questa l’ultima casa a destra in via Santa Teresa;
s’entrava per una pusterla, v’era un atrio nudo ed umido, una scala
larga e scivolante; in cima al secondo pianerottolo un grand’usciale
forato nel suo centro da uno di quei finestrini che si chiamano occhio
di bue.

Gastone picchiò tre colpi colla mano: un occhio si presentò al
finestrino e poco dopo l’usciale si aprì. Tre uscieri o guardiani
coperti da maschere nere stavano impalati all’ingresso, e solo al venir
di Gastone si diedero tre trinciate traverso al petto, saluto e segno
di riconoscimento dei Carbonari.

— Bendategli gli occhi — disse il dottore a uno dei tre uscieri; — è
necessario, amico — riprese volgendosi a Giorgio; — aspettate qui nel
vestibolo finchè sarete chiamato.

E dati ancora tre picchi alla porta di una stanza attigua, vi entrò.

I tre avvolsero intorno alla testa di Giorgio due fazzoletti,
s’assicurarono che luce non potesse entrarvi nè uscirne, lo presero
per mano e gl’intimarono di seguitarli. Il giovine sentiva schiudere e
chiavare delle porte, urtava talvolta i ginocchi nelle seggiole e così
a mano cieca credette di percorrere molte stanze. Ma s’ingannava: egli
non aveva fatto che girare intorno alla medesima sala che il dottore
chiamava vestibolo e i chiavistelli che croccavano non erano che quelli
della medesima porta d’entrata.

Alla fine sentì al suo orecchio la voce del dottore Gastone che gli
susurrò: — venite meco.

Sempre al buio camminò; e come egli credeva d’aver fatto un lungo giro,
gli era impossibile nemmeno colla mente d’orientarsi. Avvertì soltanto
sotto i suoi piedi qualcosa di molle che smorzava i suoi passi, ma non
potè distinguere se fosse erba o tappeto.

Gli fu imposto di fermarsi e si fermò: di non muoversi e non si mosse:
s’accorse d’esser solo e provò la duplice sensazione della notte e del
deserto.

— Chi siete? — tuonò dopo un bisbiglio indistinto di pochi minuti una
voce.

Giorgio disse con voce fermo il suo nome.

— Che volete? — richiese la stessa voce.

— Entrare nella società dei buoni cugini carbonari — rispose Giorgio
facendo pro delle lezioni del dottore.

— A quale scopo?

— Per il trionfo della libertà, lo sterminio dei tiranni e il regno
della giustizia sulla terra.

— Credete la società tanto potente e tanto illuminata per compiere
questa triplice missione?

— Lo credo.

— Non sapete che essa ha le mani grondanti di molto sangue innocente?

— Non lo credo.

— Non sapete che essa, sotto il mantello della carità e della patria,
cova neri progetti d’ambizione e che non altro agogna che satisfare la
propria sete di ricchezza e di onori?

— Non lo credo.

— E siete parato a seguitarla dovunque?

— Sì.

— Ad obbedirla?

— Sì.

— A darle il sangue?

— Sì.

— A darle la vita e la vita dei vostri cari?

Giorgio esitò un impercettibile momento, ma rispose tosto:

— Per un santo fine, sì.

— Dei vostri parenti e dei vostri amici?

— Sì.

— Di non scandagliare, di non discutere, di non travisare i pensieri, i
propositi, i decreti dell’ordine, e di serbarne fedelmente i segreti?

— Lo potrei giurare.

— E vi basta l’animo di compiere per essa qualunque impresa, e, se
fosse necessario per la sua gloria e la sua salute, di consumare anche
un delitto?

Era la stessa domanda che il dottore avevagli fatto la sera precedente,
ed egli diede la stessa risposta.

— Mio padre, Battista Santafiori, che voi forse avrete conosciuto e che
era un santo uomo, non mi avrebbe mandato a voi se vi avesse creduti
capaci d’un delitto.

Lo stesso interrogatore insistè: — ma se la società decretasse ciò che
gli uomini chiamano un delitto, e commettesse a voi il perpetrarlo, che
fareste?

Giorgio non rispose.

— Rispondete.

— Come debbo rispondere? istruitemi — dall’accento capivasi che
l’interrogato cominciava a impazientire.

— Rispondete quel che volete.

— Non ubbidirei.

— Non ubbidiresti?... voi dunque non volete essere nostro «buon cugino»?

Giorgio esitò ancora una volta, poi francamente e con voce risoluta
rispose:

— A questo patto no.

Appena uscite queste parole un gran tramenìo si fece nella sala. Le
porte tornarono a sbattere fragorosamente, e in mezzo alla confusione
delle voci il neofita potè distinguere questa intima: — si escluda, e
si rimandi.

E tosto la stessa persona che aveva sempre parlato, ricominciò con
tuono solenne:

— Se è così, come dite voi, sappiate che non potete entrare nel nostro
ordine. Badate però che se svelerete a persona viva, foss’anche la
minima parte di quello che avete udito e veduto, la Società ha l’occhio
lungo e la mano sicura e ovunque vi celiate saprà colpirvi.

E prima ancora che Giorgio avesse tempo di profferire una ragione
si sentì afferrare da quattro braccia robuste, e senza intimazione
trascinare in mezzo alle tenebre, e dove non sapeva. Provò per un
secondo la voglia di stracciarsi la benda e di rispondere per le rime
a quella violenza, ma il pensiero di suo padre lo contenne. Gli fecero
fare i medesimi ghirigori e lo condussero ancora nel vestibolo. Intanto
nella conventicola la discussione erasi incalorita: quegli che aveva
parlato e che era il Venerabile della Vendita in persona opinava per
l’accettazione, non solamente perchè il rifiuto di piegare a un comando
colpevole testimoniava dell’onestà del candidato, ma perchè lasciarlo
possessore d’una metà del segreto senza legarlo col giuramento
dell’Ordine, era un’imprudenza ed un pericolo.

Un altro invece insisteva per il rifiuto, perchè la base fondamentale
della Società era l’assoluta obbedienza, senza di che essa non avrebbe
più potuto esistere. «Se, diceva egli, noi possiamo imporre come prova
ad un candidato perfino il suicidio, perchè non potremo pretendere da
lui un altro atto qualsiasi?»

Nella testa invece del povero dottore Gastone battagliavano i più
opposti sentimenti. Da un lato l’antica religione del rito carbonaresco
lo eccitava a respingere senza grazia il giovine che aveva così sfidato
le collere onnipotenti dell’Ordine; dall’altro il pensiero che il
suo candidato era il figlio di un amico e di un uomo sì benemerito
della patria e dell’umanità, lo consigliava a impetrare dai colleghi
l’ammissione ed il perdono. Però egli ingarbugliò un discorso tutto
lardellato di citazioni erudite per fare una di quelle dimostrazioni
bifronti e a doppio taglio delle quali i sofisti d’Atene, i farisei
del sinedrio, e i moderati di tutti i paesi furono maestri, provando
che il principio stava per il rifiuto, ma il caso per l’eccezione;
raccomandando il suo proposto in nome dei servigi resi da suo padre,
della sua giovinezza, e delle sue speranze.

Quand’ebbe finito gli grondavano i goccioloni, perocchè nulla eragli
mai costato tanto come il venir meno a quella rigidezza di osservanze
nella quale aveva fatto voto di vivere e morire.

La disputa continuò ancora un poco, ma il partito della eccezione fu
vinto e Giorgio ricondotto al medesimo posto bendato come prima.

La medesima persona con voce anco più solenne ripigliò il discorso così:

— Giorgio Santafiori. Il venerabile consiglio vuole interpretare
benignamente le vostre parole, e non come un atto di disubbidienza ai
suoi precetti, ma come un testimonio d’onestà che per fermo vi onora.
Esso però, prima di ammettervi nel suo seno, affinchè non possiate
nè scagionarvi per ignoranza, nè aspettarvi nessun perdono se gli
trasgredite, deve darvi alcune norme. Norma prima e immutabile: dovete
tenere la ubbidienza cieca e muta ai decreti nostri. Per questo la
Carboneria è potente, per questo essa s’aggira non vista, inaspettata
e temuta dovunque; per questo essa potrà compire la grande missione
che l’autorità dell’universo le ha confidata fra gli uomini. Nessun
atto malvagio può partire da lei, perocchè essa esprima e voglia la
giustizia e punisca di infamia e di morte chi sindaca le azioni sue, e
s’oppone a’ suoi divisamenti. Valgavi un’altra legge, ed è il mistero.
L’ombra è il suo regno, e il silenzio la sua forza. Chi tradisce a
un profano una sola delle sue parole è inesorabilmente condannato
ad essere percosso egli stesso da una mano invisibile ma sicura.
Rammentatevelo; finchè l’ora non sia suonata d’uscir dalle tenebre e di
sfolgorare nella luce, tale è la sua legge. La adempirete?

— L’adempirò — rispose freddamente Giorgio.

— Inginocchiatevi e pronunziate la formula di giuramento.

Giorgio eseguì e pronunziò.

— In virtù dei poteri che ci sono conferiti vi comunichiamo il primo
grado dell’ordine. Voi siete carbonaro.

Fatto ciò gli furono appresi i segni e le parole di riconoscimento,
i saluti e i modi di chieder soccorso, e alla fine fu ordinato agli
stessi uomini che l’avevano guidato di sbendarlo.

Come rivide la luce, Giorgio fu colto da tale attonimento che poteva
quasi rassomigliarsi a stupidità. La fantasia aveva dunque tramato una
sì ricca tela di sogni per preparare ancora più umiliante e cocente il
disinganno della realtà.

Il sotterraneo tenebroso, le pareti cariche d’emblemi, e di simboli
spaventevoli, un tribunale d’uomini pallidi e solenni, la luce
incerta, i suoi arcani che montano dagli abissi della terra e incutono
terrore, il linguaggio mistico e ispirato, il vero, il grande mistero
come lo aveva immaginato, come sapevano prepararlo ed affrontarlo
quei sacerdoti e quei neofiti delle prime religioni d’Oriente, come
l’avevano conservato sotto gli atrii di porfido, o dentro le caverne
dischiuse nelle viscere delle foreste ancor vergini, i grandi maestri
delle Società segrete del Medio Evo; tutto ciò avrebbe forse compensato
la povertà dei sentimenti e del linguaggio, la mancanza di fede e di
vita che in quell’interrogatorio gli si erano improvvisamente rivelati.

Invece un volgare e prosaico stanzone, delle cortine di percallo alle
finestre, un tappeto verde sbiadito sopra una tavolaccia, degli uomini
in cravatta bianca noiati e sonnolenti sopra poltrone di maio spelato
seduti all’intorno, degli emblemi di carta appesi o impiastrati alle
pareti; l’ironia teatrale del terrore; l’aula d’una accademia di
Arcadia nell’ora del chilo.

Giorgio era salito troppo alto nelle nubi e bastò quel fioco lume
di candela per farcelo precipitare; cercò una cortesia per quella
gente e gli fallì; un sentimento di fratellanza e nol trovò; stette
un istante a contemplare quelle figure avvizzite e sbadigliose che
disarmonizzavano tanto dai motti che profferivano e dalla dignità
nella quale si drappeggiavano; e sbagliato due volte il saluto col
quale doveva accomiatarsi, uscì dalla sala e, prima ancora che Gastone
potesse raggiungerlo, dalla casa.

Lungo le scale urtò contro un lungo fantasima d’uomo avviluppato in
un ampio mantello che montava a passi di gigante. Quando costui fu
in faccia al nostro giovane avvallò ancora più il mento nel collare
del ferraiuolo e scavalcò tre scalini in un sol passo. Ma nè l’atto,
nè le tenebre valsero a nasconderlo. Giorgio aveva stampato quel
volto a linee incancellabili in mezzo al pensiero, e non appena lo
travide nell’ombra, lo riconobbe; lo riconobbe e si agguantò alla
ringhieria per lasciarlo passare, più incredulo che atterrito a quella
apparizione.

Era ancora Carlo Alberto di Carignano che saliva la scale dei carbonari.




IX.

GLI «ANIMALI PARLANTI».


Passando nell’aprile del 1820 per via della Zecca, arrivati alle ultime
case bastava alzar gli occhi per vedere al sommo d’una porta larga e
bassa un’enorme insegna di osteria. L’insegna con pennellate da orbi
raffigurava sopra una larga tavola l’apologo del Leone che fa le parti
ai minori compagni di preda, come ce lo ha lasciato descritto Fedro
nelle sue favole, e l’Abate Casti nel suo poema; e sotto portava a
lettere meglio che da speziale questa scritta un po’ singolare:

                        _Agli animali parlanti_
                 _si mangia, si beve, e non si giuoca._

Ora bisogna convenire che se la bizzarria dell’insegna e le due prime
promesse della scritta «si mangia e si beve» erano un bell’amo agli
avventori, l’ultima condizione minatoria «e non si giuoca» pareva
proprio stampata là per far scappare tutta quella parte rispettabile di
publico beone e bettoliere che ama avvicendare il corso ed il boccone
col giro di tresette e di primiera.

Alcuno però dapprincipio aveva preso a giuoco il divieto, ed aveva
cercato deluderlo, ma l’oste era subito intervenuto e con due parole
secche e dure come pugni di ferro aveva subito rimesso l’ordine e fatta
rispettare la sua legge...... E gli avventori bevevano, pagavano e se
ne andavano scontenti, e giurando di non tornare mai più in una bettola
che aveva la disciplina del convento, mangiare, bere, e non far nulla!

L’oste però, ad onta del sensibile abbandono del suo negozio, non
mostrava alcuna disposizione a scancellare quell’articolo di legge e
quando quella bettola era deserta si sedeva in panciolle sulla porta;
accendeva la sua lunga pipa e fumava aspettando.

L’oste però non era solo; c’era anche una ostessa; c’era una mogliera,
quindi un’opposizione, un dissenso, un antagonismo di poteri, e dentro
a certi limiti molto ristretti, un dualismo. La moglie infatti non
aveva mancato opporsi fin dalle prime a quella capricciosa proibizione
con tutte le ragioni del tornaconto nelle quali era dottissima, e
con tutte le forze della sua loquela, le quali erano onnipossenti; ma
il marito che le cedeva _pro bono pacis_ in tutti gli accessorii, da
questo, che a lui pareva principale, non volle indietreggiare nemmeno
d’un passo, e un dì in cui la voce della sua compagna s’era fatta
impertinente e riottosa più del dovere, aveva finito coll’intimarle un
solenne ed imperioso _front-en-arrière — front!_ che era il più valido
mezzo con cui soleva chiudere la discussione, e sciogliere le sedute
quando le vedeva un po’ troppo tirate in lungo.

Perocchè bisogna sapere che il padrone degli _animali parlanti_ era
un vecchio soldato; nientemeno che un avanzo di Saragozza e della
Beresina; un sergente del _Grande Esercito_.

Quando nel 1814 fu atterrato l’idolo che egli aveva adorato con 500
mila camerati, portati in giro per le capitali d’Europa, il sergente
Pietro Carrera era prigioniero dei Russi in Siberia, e quando dopo la
pace del 1815 egli potè rivedere l’Europa, Napoleone era già incatenato
sul suo scoglio Africano e il sole dell’impero era tramontato.

Ma Pietro Carrera aveva fatto come il granatiere dell’Elba: aveva
riposto nel suo zaino l’aquila vinta e aveva giurato d’aspettare.
Egli era uno degli entusiasti del grand’uomo, e credeva sempre vederlo
tornare come un Messia. Per lui era la gloria non solo, ma la libertà,
la giustizia, e in una sola parola, la patria, che lui caduto era
divenuta schiava e soltanto in suo nome poteva essere redenta.

Ed all’adorazione del Semidio rispondeva con odio profondo e mortale
contro la torma di tirannelli che s’erano gettati sulle sue spoglie e
se l’erano divise. Tornato in Piemonte non ebbe che parole di disprezzo
per i soldati del grande Capitano che non avevano esitato porre al
servizio de’ suoi nemici la loro vecchia spada di Osterlitza e di
Majoraloswetz, e non volle avere nulla di comune nè con loro, nè col
governo... Li chiamava soldati di ventura e disertori, e quando li
vedeva passare, il fiero veterano voltava le spalle e sputava nero.

Ma bisognava vivere, e dopo avere per i primi tre anni curvata la
fronte, che aveva tante volte sfidato l’aspetto degli Ulani austriaci
e dei Cosacchi, sotto la soma del facchino in un magazzino, trovò una
donna che s’innamorò della sua cicatrice e lo sposò.

Egli aveva allora cinquant’anni e Caterina 40 e l’accordo dell’età non
poteva essere più promettente.

Caterina gli portò in dote un migliaio di lire e questo fu il capitale
col quale inaugurarono la taverna degli _Animali parlanti_.

Ma il sergente Carrera, oltrechè essere un devoto napoleonico, era
un uomo austero; non avrebbe mai voluto un mestiere che servisse
d’alimento al vizio ed alla poltroneria. Fino al buon vino ed alla
buona tavola ci arrivava, e memore delle allegre libazioni del bivacco
e dei festosi ditirambi della vittoria, poteva perdonare qualche
scappata in onore di Bacco, che era nella sua mitologia, meglio
dell’infida Venere, il solo amico di Marte.

Inoltre egli aveva un pensiero segreto che non aveva ancora interamente
rivelato a nessuno e che pochi soltanto avevano confusamente
indovinato.

Egli voleva formarsi un pubblico d’avventori tutto suo, col quale
poter star a discorrere, disputare a comodo suo, senza ombra e senza
sospetto, ed al quale, occorrendo, svelare le recondite speranze
del suo cuore, e questo pubblico non poteva essere di scioperati, di
fannulloni e d’imbecilli. Il suo ideale erano i giovani ed i soldati,
i giovani perchè pronti a tutte le idee generose, i soldati perchè, una
volta educati, avevano il braccio armato per sostenerle.

Per questo egli aveva aperto bottega in via della Zecca tra
l’Università e la Caserma, sperando che la vicinanza gli avrebbe
tirati gli avventori d’entrambe le parti, per questo teneva il miglior
_Barbera_ e lo vendeva al più basso prezzo possibile, e consacrava a’
suoi intingoli di pollo tutto lo sforzo della sua arte culinaria.

Quanto a giuocare ci dovevano rinunciare; chè non è al tavoliere colle
carte in mano che si fanno gli uomini ed i soldati: poi erano tutti
ragazzi, figli di famiglia e corti di borsa, e non voleva che venissero
in casa sua a spennacchiarla di que’ quattro soldi che i loro parenti,
sottraendoli più spesso al pane quotidiano, mandavano loro da casa.

Era un oste evangelico e una bettola morale. Cosa miracolosa in vero!

Mamma Caterina era una buona donna e aveva per suo marito un gran
rispetto confortato da una buona dose di paura. Ma quel sistema
economico non c’era versi che le potesse entrare in capo. Essa era
tutta economia, tutto sparagno, diremo addirittura tutta lesineria:
avrebbe fatto intingoli di passeri se avesse potuto venderli per
capponi, misurato col centimetro le porzioni, e annacquato il vino
a suo padre se fosse venuto alla sua bettola; considerava insomma
l’avventore come il suo arcolaio, un coso da far girare finchè c’era
un’agugliata sul suo cilindro, od un quattrino nella sua tasca; e vi
lasciamo immaginare come doveva cruciarsi di quelle pazze prodigalità
di suo marito.

Perciò su questo tema era un continuo litigio — «Sergente — lo chiamava
sempre per il suo titolo giacchè oppositrice sì, ma rispettosa sempre,
— c’è troppo lardo nell’intingolo — Sergente, facciamoci pagare il lume
agli avventori che si fermano dopo bevuto... Sergente, c’è troppo vino
in quel _Barbera_ — Sergente, se non lasciate giuocare nella vostra
osteria ci giuocheranno i topi!...»

Il sergente rare volte si lasciava tirare a discutere giacchè sapeva,
che una volta accordata libertà di parola, egli era vinto; piuttosto
se gli pareva lecito accordava. Ma il più delle volte frenava, come
dicemmo, la discussione con un comando militare, reminiscenza de’
suoi giovani anni, che mutava di rigore a seconda de’ casi e della
circostanza. Così quando le chiacchiere della moglie l’avevan appena
nojato, un _Garde à vous_.... e la donna subito zittiva; se ella però
ripigliava, ed egli cominciava ad infastidirsi, le replicava con un
più sonoro _armes-aux-pieds_. Se infine questi due comandi erano stati
vani e le manovre non erano eseguite, usciva con un finale e rabbioso:
_fron-en arrière-front!_ dopo il quale nemmeno sua moglie osava più
fiatare.

Ciò non ostante per i primi mesi finì coll’avere ragione mamma
Caterina. La taverna era deserta, e il sergente Carrera continuava da
trenta giorni a mangiare egli solo i suoi intingoli. Mamma Caterina
disperava, e Carrera stesso era impensierito e molinava tra sè di
cambiar mestiere.

Finalmente un giorno, una brigata di studenti usciti allora di scuola
coll’appetito che sogliono mettere certe età e certe lezioni, alzarono
il naso come Renzo all’insegna del _Sole_, nell’apologo degli _Animali
Parlanti_, e si fermarono a guardare e a leggere.

— Tò — disse uno di loro — deve essere un oste di spirito quegli che ha
scelto quell’insegna.

— E di coraggio, soggiunse un altro. Quel Leone che fa le parti a modo
suo «_quia nominor leo_» ricorda il famoso apologo nel _Congresso di
Vienna_ e mi pare impossibile che il _Buon Governo_ l’abbia perdonato.

— Bah! Il Buon Governo è troppo buono per capire queste cose.... Ma la
scritta dico io «Qui si mangia si beve e non si giuoca».... che l’oste
sia un quacquero?!...

— Potrebbe essere un filosofo... là.

— Da pranzare ce n’è...

— Sicuro che ce n’è...

— Cosa per esempio?...

— Minestra e intingoli di pollo... formaggio, insalata.

— E null’altro?

— Non è anche troppo? — fece il sergente.

— Eh..... — rispose il primo interlocutore.....

— Quando lo dite voi..... signor oste..... basterà.

— Vengano di sopra e staranno meglio.

— Avete una stanza di sopra?

— Due ne abbiamo — fece Carrera sempre collo stesso piglio....

— Allora andiamo di sopra....

E i quattro studenti si misero a tavola.

Trovarono il vino eccellente, l’intingolo squisito, i prezzi
discretissimi e quand’ebbero finito vollero fare un brindisi agli
_Animali parlanti_ ed al loro proprietario.

— Come vi chiamate, caro oste? — disse quegli che pareva il capo della
brigata e che era il nostro conoscente Ernesto Gastone.

— Pietro Carrera, sergente di Napoleone e decorato della Legion d’onore.

— Sergente?.... Cavaliere voi, e fate l’oste... qui?.... fece Ernesto
guardando le pareti nude e le quattro tavole bianche della sala.

— E perchè no?...

— Ma un sergente di Napoleone potrebbe essere almeno tenente nel nostro
esercito.

— Un sergente di Napoleone può vendere degli intingoli ma non può
vendere la sua coscienza.

— Bravo Carrera! viva il nostro sergente Carrera!.... Toccatela con
noi, sergente!...

E gli studenti sporsero uno de’ loro bicchieri al veterano e vollero
che bevesse con loro...

— Sì, ma viva pure quello là — disse Carrera — e additò sopra il camino
un busto in gesso di Napoleone I.

— Ma l’Italia prima ancora di lui! — replicò il capo della brigata.

— L’Italia.... L’Italia.... biascicò tra i denti il sergente.... ma chi
la libererà l’Italia... lui!... ancora lui!.... disse alzando sul busto
i suoi occhi umidi di lagrime involontarie.

— Sergente, voi siete un nobile cuore — disse uno degli studenti. —
Noi ci intendiamo e ci intenderemo meglio. Intanto gli studenti di
Torino prendono sotto la loro protezione gli _Animali Parlanti_ e da
quest’oggi essi diventano una succursale della Università degli Studi.

— No — disse Carrera — vi ringrazio.... no, troppa gente mi noierebbe e
mi nuocerebbe... — Pochi ma buoni... mi basta.... e ad una condizione.

— Che qui non si giuoca?

— E che non si scherza — soggiunse il sergente.




X.

SOLDATI E STUDENTI.


Una volta scoperti, gli _animali parlanti_ diventarono di moda. Tutta
l’Università vi volle letteralmente passare; il buon mercato attirava
non meno che il nome del Taverniere e la bizzarria dell’insegna.

I quattro studenti poi s’erano ben guardati dal ripetere il brindisi
che avevano fatto assieme al vecchio soldato, e nulla era trapelato
di quella specie di patto. Ma la voga durò due mesi, poi cominciò a
scemare.

Molti erano sazi degli stufati di mamma Caterina, e molti trovavano che
il bettoliere era troppo severo e i racconti delle sue campagne troppo
lunghi, ed avevano finito col riparare altrove. Così la società era
andata vagliandosi e diradando fino a che si ridusse ad una dozzina
di veri avventori. Ma questi erano fedeli a tutte le ore del giorno
e della notte, e si sarebbe detto che avessero fatto degli _animali
parlanti_ il loro quartiere generale. Il fatto è che essi avevano altre
ragioni oltre quelle del piacere per non lasciare quel posto.

Essi in quella casa trovavano una sicurezza che in nessun altro luogo
avrebbero trovata. Giunta una certa ora, guardatisi in faccia, numerati
gli amici, non temevano che alcun orecchio traditore fosse alle porte
ad origliare e intanto che il vecchio sergente andava e veniva montando
le guardie per essi, potevano dirsi tutto quello che volevano, e
senza tema d’essere uditi e scoperti. Quella taverna era un asilo, una
fortezza, talvolta — per le idee che vi si manifestavano — un tempio.

Tutte le rivoluzioni, fu detto, hanno cominciato all’Osteria..... La
rivoluzione del 20 in Piemonte cominciò agli _animali parlanti_!

Quei dodici studenti erano Enrico Gastone, Alberico Grandis, Pietro
Muschetti, Angelo Tubi, Giovanni Majoli, Federico Vigliani, Urbano
Rattazzi, Costanzo Ferrari, Alberto Pareto, Nino Tosti, Giovanni
Durando e Angelo Brofferio; e questi dodici nomi erano i rappresentanti
della Università Torinese, e i più ardenti di quella generazione alla
quale era serbato l’onore di dare il primo sangue in quella nuova
impresa che si preparava per la causa d’Italia.

Erano tutti _Carbonari_ come voleva l’epoca, ma alla Carboneria
credevano poco, molto invece aspettavano dall’esercito, nulla dal
popolo. Nell’esercito vedevano uomini o per ingegno o per vanità, o
per fama di operate prodezze autorevoli nel paese; e i primi tra essi,
alcuni usciti dall’esercito napoleonico e devoti alla libertà, che
credevano aver propagata col loro sangue e ad ogni modo nemici delle
patteggiate umiliazioni del 1815 e desiderosi di vendicare, in un colla
caduta del loro Capitano, i loro stessi diritti. Altri, i più giovani
entrati da poco nell’esercito, ma educati all’abborrimento dell’ozio
imbelle, e della spregevole bandiera per amore delle classiche
tradizioni dovunque risorgenti, per animo generoso o bisogno di audaci
imprese reputati esperti più che non fossero delle cose della guerra,
erano già tenuti ed eletti per i principali fattori dell’aspettato
risorgimento.

Nel popolo invece, ineducato, inesperto, stanco, dissanguato da
quindici anni di guerra, estimato sordo ad ogni idea generosa e
incapace di un’opinione, nessuno invece confidava o soffermava il
pensiero.

Credevano che come gregge avrebbe ubbidito il cenno dei condottieri e
applaudito il vincitore.

Negli studenti stessi, e nella gioventù colta in generale, non era a
sperare gran cosa: i figli della nobiltà, tranne pochissimi e numerati
esempi, impastati di feudali tradizioni e tremanti sotto il cenno
della illimitata autorità paterna, e sedotti, o comprati dalla speranza
d’una carriera che la povertà quasi universale della nobiltà rendeva
necessaria alla corte ed alla milizia, e la più parte per piccolezza
d’animo e di mente inetti a guardare oltre una spanna ed a sentire lo
spirito dei tempi che si maturavano.

Restava la borghesia, ma anche da questa, quanta parte bisognava fare
ai pusilli, al numero immenso che la educazione gesuitica del tempo,
sovrana in Piemonte, evirava e impecoriva!...

Se non che a poco a poco anche gli studenti delle altre città del
Regno, specialmente quei di Genova ed Alessandria, si ammaestravano
alle stesse idee e si stringevano a quei della Capitale in una lega
fraterna, che più tardi prese il nome di federazione Universitaria, e
raffigurando così l’altra più grande federazione dei popoli italiani
che era il sogno più audace, il supremo ideale dei liberali d’allora.

A incoraggiare e cementare queste frazioni, a dar loro unità
d’indirizzo e d’azione, professori e maestri secretamente conferivano
nelle scuole colla esposizione di liberali dottrine, fuori col
consiglio, e più tardi coll’opera e coll’esempio. La storia cita l’avv.
Carlo Massa da Asti, Pietro Baggiolini e l’avvocato Tubi.

Ridotte a così sottil numero le file, facile era tenerle insieme colla
congiura; e la istituzione dei carbonari serviva meravigliosamente
all’uopo. La Carboneria era il vincolo comune. Pei carbonari la
_Federazione Universitaria_ comunicava coll’esercito, e col resto
della cittadinanza che entrava nel partito liberale. Ogni parte però,
l’esercito, gli studenti, i cittadini, aveva capi suoi proprii, e si
moveva, come direbbesi ora, entro un certo limite indipendentemente.

E per la trafila delle _Vendite_ comunicavano poi coi liberali
della restante Italia, ma era più una comunione di idee che una lega
coordinata ad un centro unico, dittatore per un’azione concorde.

In Torino esisteva pure la Federazione Universitaria, e quattro dei
suoi dodici membri, Ernesto Gastone, Alberigo Grandis, Ottavio Tubi e
Pietro Muschietti, formarono una specie di Balìa, di comitato esecutivo
investito di più ampie facoltà, e il solo che avesse l’incarico di
mantenere comunicazioni coi capi dell’esercito e della cittadinanza, e
di entrare a parte di tutti i segreti del movimento.

Quando però il comitato aveva qualcosa di più intimo da trattare
ammiccava l’occhio ai suoi otto amici: essi si ritraevano in un’altra
stanza e il comitato restava solo.

Gli studenti avevano saputo destramente togliere al convegno degli
_animali parlanti_ ogni carattere politico. Venivano nelle ore del
desinare o della cena, spesso colle loro amorose; sturavano molte
bottiglie; parlavano di amori, di teatri, di romanzi, di piaceri,
e tra un sorso e l’altro disputavano anche di filosofia, facevano
chiasso diabolico, ma non proferivano una parola di politica se non
quando erano in consiglio ristretto e ben sicuri. Per parere ancora più
leggieri e spensierati s’erano imposti il nome, _Società degli animali
parlanti_, e avevano preso ciascuno il nome di una bestia stravagante,
e votato con pompa bizzarra, una specie di statuto che doveva regolare
tutti i loro atti e del quale l’oste stesso era il Presidente.

I birri del Lodi che avevano subito messo l’occhio sopra questo ritrovo
e che avevano tentato più volte di penetrarvi per spiarlo, avevano
finito col persuadersi ch’era una brigata di buontemponi che non aveva
altro per il capo che le feste e le belle donne; e l’oste un volpone
che aveva saputo fare l’austero per spennarli più largamente.

A poco a poco però l’osteria degli _animali parlanti_ cominciò ad
essere visitata da un’altra compagnia d’avventori. Diedero l’esempio i
soldati d’alloggio nel quartiere vicino, adescati dalla fama del buon
vino e dal profumo dei pasticci; poi seguirono altri dei quartieri più
lontani di Piazza Carlina, della Consolata e della Cittadella.

Sappiamo già che il sergente vedeva di buon occhio questa compagnia e
che gli studenti la cercavano; dunque erano festeggiati e corteggiati.
Carrera si metteva in mezzo a loro a contare le sue campagne, e gli
studenti si fermavano ad accendere una pipa ed a toccare i bicchieri.

Erano per lo più caporali e sergenti, giacchè la paga della povera
recluta era troppo smilza per arrivare anche solo ai banchetti degli
_animali parlanti_, e a primo aspetto pareva che non s’occupassero
d’altro che di rifocillare i loro stomachi e stare allegri, finchè la
disciplina lo permetteva e batteva la ritirata.

Carrera stava attento a’ loro discorsi e non poteva capir altro che
fiabe di caserma e scongiuri di beoni!

Tutt’al più qualcuno mandava un melanconico sospiro al suo villaggio
lontano, a sua madre inferma, alla sua vita de’ campi perduta.... e
tornava a bere.

Per questo Carrera aveva avuto cura di tenerli sempre nella sala a pian
terreno, mentre noi sappiamo che gli studenti stavano al primo piano.

Ma Ernesto Gastone, la nostra conoscenza, un giorno volle tentar una
prova con un sergentino dei Dragoni, e quando fu per congedarsi e per
stringergli la mano gli fece il segno del Carbonaro.

Il sergentino rispose. — È dunque dei nostri, pensò il giovane Gastone,
e ce ne saranno forse altri.

Il sergente fu invitato a salire dagli studenti, fu riconosciuto per
_tinto_, per amico, abbracciato e festeggiato e ammesso nella società.

Dietro a lui vennero altri dei suoi camerati e poi altri ancora; furono
ricambiate le parole d’ordine, e in fine la lega tra studenti e soldati
fu conchiusa.

Un consiglio di prudenza però voleva che l’amalgama non fosse troppo
palese nè troppo inteso, e fu convenuto che i soldati avrebbero
continuato a tenere abitualmente la prima sala e che gli studenti non
sarebbero discesi, o i soldati saliti che per reciproco invito.

C’era però un altro pericolo: i soldati erano per muoversi, e ci poteva
essere il traditore, e bisognava scegliersi e contarsi, e non parlar
mai di cosa alcuna compromettente, se non quando la compagnia era
ridotta a quei cinque o sei più fidati.

Al tocco della ritirata i più rientravano in quartiere e non restavano
che quelli che ne avevano ottenuta licenza.

Ma quando un soffio favorevole li spinge, gli uomini fanno una valanga
come le palle di neve.

La burlesca insegna del sergente Carrera aveva attirati gli studenti,
gli studenti i soldati, i soldati i bass’ufficiali, ed ora tutte queste
forze associate insieme attiravano gli ufficiali. Una voce venuta non
si sa donde, ripetuta da tutti e da nessuno, sottile e insensibile,
serpeggiava, quasi un gran segreto, nelle file de’ liberali: che
agli animali parlanti era l’unico luogo dove si potesse star sicuri.
Si aggiungeva a bassa voce che l’oste era bonapartista e tutti gli
avventori Carbonari. Ce n’era anche di troppo per incoraggiar coloro
che avessero avuto bisogno di trovarsi in simile compagnia.

Infatti a poco a poco cominciò a capitare a desinare e cena qualche
sottotenente, poi due o tre luogotenenti, infine, cosa molto
sorprendente, un Capitano! È vero che quest’ultimo ci compariva di rado
e ci si fermava poco. Beveva un sorso, cambiava quattro ciarle cogli
altri ufficiali e cogli studenti, eppoi se n’andava... ma insomma ci
bazzicava.

Il sergente Carrera vedeva oramai realizzato il suo sogno, e quando
arrivò il Capitano incoronò d’alloro il busto di gesso del suo
Napoleone e canticchiò tutta la sera a bassa voce la _Marsigliese_.
Donna Caterina che vedeva rigurgitare la cassetta di quattrini, si
sentiva scoppiare di gioia e aveva cessata ogni opposizione contro suo
marito che cominciava a credere uomo di genio.

Carrera però non decampava dal suo sistema «Giuoco no» ci s’intende! —
nè alcuno per vero dire pensava a violar la consegna.

Sul capitolo — donne — aveva cercato metterle alla porta; ma su questo
punto aveva trovato duro. Egli non voleva persuadersi che uno studente
senza donna è un essere imperfetto, monco, eunuco. Quasi tutti quegli
studenti poi avevano de’ serj impegni e non potevano esonerarsi
dall’obbligo di condurre a cena almeno la domenica le loro crestaie.
Carrera sulle prime non voleva capirli, aveva mostrato il broncio ed
era arrivato a dire che le avrebbe messe alla porta.

— Tu non lo farai — aveva detto Ernesto, — sarebbe come mettere alla
porta noi tutti. Senza dire che si schiaccerebbe qui la rivoluzione
che vuoi fare in piazza, e con cui non ci sarebbe nè grande esercito
nè grande capitano che tenga. Non vuoi capire che studenti e crestaie
sono una cosa, che esse sono il fiore delle nostre feste, l’ornamento
del nostro braccio, la gioia dei nostri studi, la nostra poesia in
una parola? Uno studente senza amorosa è un preparato anatomico senza
anima. Se tu vorrai trovarne uno, dovrai andare fra gli sgobboni
ciuchi e birboni che hanno già venduta l’anima rachitica al buon
governo, oppure tra qualche scheletrito filosofuccolo, confitto sopra
un palinsesto di carta pecora a cercare la dimostrazione matematica
del moto in mezzo alla gente che si muove. Ma costoro non vengono agli
_Animali parlanti_ o gli denunzierebbero al primo birro che passa. Se
vuoi dei rivoluzionari che abbiano nel fegato un po’ di santa bile e
nel cuore un po’ di santo amore, capaci a giuocar tutto per una bella
parola che si chiama libertà, bisogna che tu li cerchi tra coloro
che sono anche pronti a giuocar tutto per quella bella cosa che si
chiama la donna. Togli l’uomo alla donna e addio eroismo. Togli allo
studente il piacere di ribellarsi tutte le sere alla leggi sociali, al
Regolamento e ai comandamenti di Santa Madre Chiesa, e tutto il suo
spirito rivoluzionario se n’andrebbe evaporato. Credi a me, Carrera:
picchia su tutti i temi ma non su questo. Anzi ti consiglio a far buona
cera alle signorine ed a levarti la pipa di bocca quando entrano... Se
no.... addio _animali parlanti_.... Tu non ci vedi mai più.

Carrera finì col fare di necessità virtù e col piegare la testa.

Ma piuttostochè perdere quella buona gioventù e tutto il fascio di
speranze che vi era congiunto, era prudenza compatire qualche sua
debolezza.

Anzi a poco a poco si famigliarizzò anche colla popolazione femminina,
ed a persuadersi che v’erano al mondo delle cose legittime, tollerate
e autenticate, assai più brutte di quegli amori illegittimi e
primaverili.

E come accade che ogni accesso è corretto dal suo eccesso contrario,
finì a prendere sotto la sua protezione quelle povere creature anche
contro i frequenti capricci dei loro amici, ad aggiustare le loro
liti, a soccorrerle nelle loro angustie, a largheggiare di cortesie,
di complimenti e di motti anche più di quello che avrebbe dovuto, e che
mamma Caterina avrebbe potuto sopportare.

Quanto al resto era sempre lui, e non s’era mutato d’un capello.
Abituato alla disciplina ed all’ubbidienza militare non poteva capire
che ci potessero essere quattro uomini raccolti in un luogo, senza che
lui ne dovesse prendere il comando. Egli d’oste non aveva che il nome,
ma in fatto era sempre un sergente che comanda alla sua squadra.

Non avrebbe cambiato per tutti gli scettri della terra la calotta del
bettoliere pel suo berretto da granatiere; così non avrebbe rinunciato
a quelli che chiamava i diritti della sua carica in quell’osteria, ci
fosse entrato un maresciallo di Francia! Era un’osteria, era un luogo
pubblico: comandava lui, e a cui non piaceva gli rincarasse il fitto.

Però tutta quella scolaresca la guidava come una compagnia di
coscritti, ed essa gioconda e spensierata ci si prestava. — Piaceva
a quei giovinotti il rabuffo di quel vecchio che rappresentava
ai loro occhi una storia vivente di onore e di virtù; piaceva a
quei soldati che si sentivano involontariamente subordinati a quel
veterano consacrato dal fuoco di cento battaglie. Ognuno lo amava e
lo rispettava anche nei suoi difetti che non erano che i vezzi del suo
carattere originale.

A chi non avesse conosciuto quell’uomo, quegli avventori, e il segreto
che li riuniva, sarebbe parso strano sentir l’oste dire:

— Sedete lì, voi mangiate questo pasticcio... o andate a farvi
friggere... meno chiasso voi altri là in fondo..... Oggi non voglio
denari.... a domani.... Non vi do altro da bere... siete briachi...
signorine, andate in piccionaia se volete fare il nido — e via di
questa lena, e con questo tuono in mezzo alle risate e ai battimani
de’ suoi avventori, i quali però erano ben lungi da impermalire o dal
prendere sul serio il suo brontolìo, e lasciatolo passare, finivano
col fare a modo loro, e col mettergli sossopra tutta la casa ch’egli
avrebbe voluto ordinata e disciplinata come un accampamento militare.




XI.

CONFIDENZE.


Giorgio, tinto carbonaro, era tornato da Ernesto con una faccia molto
scontenta.

— Ebbene, gli aveva chiesto Ernesto, è compito il mistero?

— Compito — rispose Giorgio sospirando.

— Non mi sembri molto contento... La faccia augusta del Gran Maestro
non ti ha commosso?

— Mi avrebbe fatto ridere se avessi potuto dimenticar che quella
gente... deve liberar l’Italia...

— Parla piano che nessuno ti senta. Rischieresti d’avere alle spalle
un decreto di _soppressione_ e di lasciare la vita alla cantonata di
casa tua senza nemmeno vedere da che parte sia venuto il complimento —
fece Ernesto sforzandosi di vincere il sorriso di incredulità che gli
spuntava sulle labbra.

— Baje! Io credo che quella gente abbia il cuore di cartone come i
pugnali... e la testa da morto come i simboli... È meglio che torni
al mio paese e che compia il mio progetto. Io non ho nulla a che fare
nella commedia che si recita qui.

— Tu hai dei progetti? Hai sempre delle speranze.

— No. — Al contrario gli è il difetto di ogni speranza che mi fa covare
un progetto.... insensato forse, ma necessario...

— La nostra amicizia è troppo recente perchè io mi creda in diritto
di chiederti una confidenza... ma se l’aprire il tuo cuore ti
potesse confortare... se io potessi aiutarti, fece Ernesto mettendo
affettuosamente la mano sulle spalle di Giorgio.

Questi restò qualche minuto immobile cogli occhi a terra come se di
là gli avesse potuto venire una ispirazione; si vedeva che esitava a
privarsi d’un segreto e che una sorda lotta si compiva nell’animo suo.

Alla fine proruppe....

— Sì, Ernesto!... io voglio aver fiducia in te. Sei il primo amico
che incontrai sulla terra, e forse sarai l’ultimo. Io sono soldato,
Ernesto.... ho estratto or fa un mese il numero uno. Soldato, per me,
non vuol dire soltanto indossare l’assisa dei tiranni del mio paese
ed una lunga schiavitù; vuol dire la miseria, la rovina di tutta la
famiglia, della quale io solo sono il braccio ed il protettore. Mio
padre ha tutto sacrificato per gli altri e noi siamo poveri.... mia
madre vecchia e malata, mia sorella e mio fratello non hanno che me....
Io non posso abbandonarli. Se la legge umana me lo impone, la divina
me lo proibisce. Inoltre... — e qui Giorgio esitava ancora — inoltre
io amo.... una santa fanciulla che il destino ha fatto nascere nella
famiglia de’ nemici di mio padre... ma l’amo come può amare uno che
non conobbe mai le ipocrisie del cuore. Ora quand’io sarò partito che
sarebbe di lei? Che sarebbe del nostro amore? Il meno che le è serbato,
è di essere venduta dall’avarizia di suo padre a nozze aborrite... il
meno per lei forse... chè per me preferirei vederla morta. Vedi che io
non potrei subire la sorte che mi colpisce, senza tradire i doveri e
gli affetti più sacri che uomo conosca. Dicono il Re.... chi è questo
Re per me? chi ce l’ha dato? le armi straniere! Cosa fa? abbrutisce
e corrompe un popolo intero! La legge? chi l’ha fatta? questo Re! La
patria? dov’è la patria? I servi non hanno patria che dove hanno la
libertà.... Io andrò ad amarle entrambe....

— E cosa vorresti fare?

— Cosa voglio fare? fuggire...

— Disertare? Disertare... lasciando i tuoi?

— Oh mai! con loro! Ho già il mio progetto.... mio padre ha lasciato
numerosi e devoti amici purchè possa arrivare a Genova: quindi
m’aiuteranno ad emigrare in America.

— Con tutta la tua famiglia... e la fanciulla per giunta?

— Perchè no?

— Perchè sì, dico io? Non arriveresti a Voghera, che i carabinieri
v’avrebbero tutti arrestati....

— Questo lo vedremo... Purchè abbia una notte per me, del resto
rispondo io.

— Sogni, ti dico...... Eppoi disertare perchè?

— Mi par chiaro!

— E a me niente affatto.... fece Ernesto.... oh lasciami un po’ parlare
sul serio; _semel in anno_.... deve essere permesso anche a me. Tu
vuoi disertare perchè non vuoi abbandonar la tua famiglia e la tua
amante. La idea potrà essere generosa, ma senza calcolar il pericolo
quasi certo d’essere preso e andare a finire in una fortezza invece
che passare otto anni in una guarnigione. Credi tu che nell’esiglio
potresti provvedere alla felicità della gente che ti è cara? Tuo padre
deve averti detto come vivono gli esuli.... Persuaditi.... tu non
avresti da offrire a tua madre ed a tua moglie che un pane amaro e una
squallida miseria... Questo per la famiglia. Quanto poi alla patria,
odimi bene. Tu odii il Re, tu ami la libertà; tu daresti la vita tua e
dei tuoi, credo, per conquistarla. Ebbene, oggi il mezzo più sicuro,
più efficace per cooperare a questo fine glorioso è entrare appunto
nelle file di quell’esercito che tu abborri. La rivoluzione che si
prepara, e della quale pochi ancora posseggono il segreto presagio,
sarà tutta militare: te lo dico io: noi studenti apriremo il fuoco: un
gruppo di cittadini generosi.... o ambiziosi... farà la retroguardia;
ma il grosso verrà dato dall’esercito. Ora tutte le cure devono
essere nel rinforzare questo esercito, nell’introdurvi amici nostri
quanti più è possibile e nel tirare a noi tutti i buoni che esitano
ancora. Molte fila sono diffuse, molti accordi sono presi. Molti capi
e tra i più illustri sono con noi. Io non ti dirò i nomi, ma a suo
tempo li saprai..... Vedi tu se sia l’ora di disertare.... d’andare
in esilio.... d’andare in America.... se c’è posto di combattimento
onorevole.... se c’è un mezzo d’adempiere il voto di tuo padre e il tuo
sotto quell’assisa che tu abborri, ma che ci permetterà d’entrare non
visti nelle file dei nostri amici.

Ernesto parlava molto concitato.

Giorgio l’ascoltò fino alla fine con molta attenzione.

Poi, dopo un istante di pausa, riprese....

— Quello che dici è forse vero.... Io credo... ed io sento che molti
dubbi si sono dissipati. Io dovrei abbandonare una madre, un’amante
alla balia d’un uomo che non perdonerà.... ma per il mio paese,
per quel paese che mio padre mi raccomandò morendo io sarei pronto;
direi ai miei cari: soffrite, ed essi soffrirebbero. Ma vi è un’altra
difficoltà suprema, e credo invincibile, Ernesto.

— Quale?

— La mia coscienza. Per quanto creda santa la causa della libertà, io
non potrei mai tradire un giuramento. Morrei piuttosto di darlo quando
sentissi di non poterlo mantenere; ma dato, accetterei la morte prima
di violarlo.

— E tu hai di questi scrupoli?...

— Tu li puoi chiamare scrupoli.... la mia coscienza li chiama
doveri.... Io non intendo, non ho mai inteso certi patti, e certe
reticenze. Io non sono stato educato come tutti gli altri. Mio padre
era il diritto, la giustizia, la schiettezza vivente. Il sì ed il no
sulla sua bocca non avevano due significati e due misure. Egli non
prometteva che il bene; ma una volta promesso, lo manteneva. Per me chi
non vuol servire il Re, non giuri, chi ha giurato, lo serva.

— E sei tu che parla? — disse Ernesto saltando dalla sua seggiola come
se avesse bruciato di sotto.... — Tu?... Poi prese il suo cappello ed
il suo bastone, e afferrato il suo amico per un braccio, disse:

— Vieni con me in un luogo che ti farò passare queste ubbie.....

— E dove?

— Agli _animali parlanti_.




XII.

LA CONVERSIONE.


Quando i due amici entrarono nella taverna il baccano era al colmo.
Le voci si confondevano; chi cantava, chi urlava, chi picchiava sulle
tavole, chi cozzava co’ bicchieri, chi disputava in un angolo sul
romanticismo, chi bisticciava colla _Bombazon_ la bella di Grandis
che aveva divorato da sola anche la cena del suo amico, chi chiamava
Carrera, chi canzonava mamma Caterina, e chi infine ballava a tondo in
un angolo della sala col suono del proprio fischio.

Mutati i giorni di dolore e gli accenti d’ira in suoni di piacere e in
accenti di allegrezza, il tumulto della seconda bolgia Dantesca poteva
servire di paragone.

Il pian terreno poteva tener bordone al primo piano, e le voci
dell’alto si confondevano con quelle del basso e non parevano che
l’eco d’un’immensa moltitudine. Erano, a dir molto, cinquanta persone
e parevano cinquantamila. La gazzarra degli studenti si mescolava
a quella de’ soldati, e la barriera che per solito li divideva era
sparita. Carrera di quando in quando si provava a mandar per la sala
un stentoreo _silence dans les rangs_, ma era indarno: l’uragano aveva
ormai preso il sopravvento; e il Generale più non riusciva a domare la
sedizione del suo esercito.

Tutti gli odori uscivano dalla bolgia, e il fumo delle pipe, i vapori
del vino, le esalazioni de’ fornelli mescolati insieme empivano
l’atmosfera d’una caligine acre e densa, e toglieva a chi vi entrava il
respiro e la vista.

Ernesto dopo avere starnutato nell’ingresso si rivolse a Giorgio che
esitava ad entrare e gli disse a bassa voce:

— Fatti coraggio...... questa è la fucina della rivoluzione......

— Me ne accorgo dal fumo!... — rispose Giorgio sorridendo.

I due amici salirono al primo piano, v’erano i soliti studenti
colle loro belle; qualche bass’ufficiale e due ufficiali. Ma la
confusione era tale in quel momento, che Ernesto non giudicò opportuno
d’inoltrarsi e disse a Giorgio:

— Sediamoci in quest’angolo e lasciamo spegnere la fiamma. Fra poco
suonerà la ritirata e vedrai che molta gente svignerà.

Giorgio ed Ernesto sedettero. Carrera li vide e si avvicinò a loro
chiedendo ad Ernesto con un girar di occhi chi era l’amico.

— È un _animale parlante_ rispose Ernesto: gli metteremo nome
«Leopardo».

— Bene! ah siete il Leopardo? fece Carrera. Volete un bicchier di vino?

— Grazie, rispose Giorgio, bevo acqua.

— Uhm! l’animale acquatico.

— Animale anfibio... brontolò il sergente, e voltò loro le spalle.

Infatti a poco a poco la folla era andata, quasi inavvertitamente,
diradandosi. I tamburi di Piazza Castello avevano suonata da circa
un quarto d’ora la ritirata, i soldati se n’andavano, alcune coppie
di studenti, costretti ad accompagnare le loro donne al teatro
_D’Angennes_ prendevano congedo, e verso nove ore non c’era più che una
decina di studenti, qualche ufficiale, silenziosi e raccolti nella sala
del primo piano.

— È l’ora di presentarti, disse Ernesto a Giorgio, vieni avanti con me.

Giorgio lo seguì verso il tavolo dove erano seduti gli ultimi rimasti.

— Amici, vi presento Giorgio Santafiori, amico mio e nostro...

— Salute! fecero quegli studenti, e uno per uno s’alzava a toccargli la
mano ed a fargli il segno del _carbonaro_.

— Sempre! e tutti _carbonari_!... pensava Giorgio per nulla edificato
di quella prima accoglienza.

— Studente? — chiese Alberigo Grandis.

— No!... — rispose Giorgio...

— Soldato — rispose Ernesto.

— Non ancora — replicò Giorgio.

— Coscritto o volontario? — chiese uno dei luogotenenti.

— Volontario io?... — fece con un sorriso di amara ironia interrogato.

— Perchè no, giovine amico, replicò il luogotenente, se poteste sotto
questa divisa servir meglio la causa del nostro paese?

— Non potrei servirla, replicò Giorgio, perchè avrei giurato di
servirne un’altra.

— Come! fece l’ufficiale guardando atterrito il giovane che gli aveva
fatta quella strana risposta.... voi la pensate proprio così?...
Ma allora.... continuò rivolgendo cogli occhi un’interrogazione ad
Ernesto.

— Egli ha questo scrupolo; io ho già combattuto per levarglielo.... ma
è una coscienza di diamante, limpida e dura.

— Lo convertirò io! — disse una voce sonante dal fondo della sala....
tutti si voltarono ed esclamarono alzandosi con rispetto....

— Il capitano!

— Salendo le scale ho udito i vostri discorsi.... badate un’altra volta
di abbassare un po’ più la voce.

— Non importa — fece Carrera — a questa ora qui tutto è sicuro.

— Tu, Carrera, non conosci le orecchie della Polizia.... Dunque....
questo giovinotto diceva....

Giorgio alzò i suoi occhi brillanti sull’interrogatore, ma con tale
sguardo che pareva volesse dirgli: «Perchè mi interrogate voi, e con
quale diritto?»

Il capitano lo comprese e disse:

— Non temete giovinotto, io non sono qui per esercitare
un’inquisizione, questi amici possono assicurarvene....

— Non ne dubito, signor Capitano, ma io sono rozzo, esco dal deserto
adesso.... dovete scusare....

— Stringi questa mano.... dunque sei soldato.

— Ma.... — fece Giorgio esitando ancora.

— E non lo vorresti essere? — replicò il Capitano.

— Non lo vorrei essere, e non lo sarò — ribattè secco Giorgio.

— E abbandonerai in un’ora di pericolo la causa del tuo paese e
disonorerai il tuo nome? ripicchiò con voce più forte e autorevole il
Capitano: qual è il tuo nome?

— Giorgio Santafiori.

— Santafiori — esclamò il Capitano balzando in piedi — il figlio di
Battista.

— Di lui! l’avreste conosciuto forse? — chiese premuroso il giovine.

— Se l’ho conosciuto! Bisognerebbe non aver amato sin da bimbi il
proprio paese per non averlo conosciuto...... Dimmi non t’ha egli mai
parlato d’aver incontrato nei suoi viaggi in Ispagna un sergente di
Massena che si chiamava il sergente Ferrero?

— Che? sareste forse voi quegli che lo salvò dal furore dei vostri
camerati che l’avevano preso per una spia di Mina?

— Io!.... — fece il vecchio soldato — dunque egli se lo rammenta il
suo Ferrero.... ora il sergente è divenuto capitano, ma il cuore non ha
mutato!

— E dov’è egli?

Giorgio tacque e abbassò la testa.

— Morto! Egli pure ha pagato il suo tributo... Povero Battista... Egli
non ha veduto libero il suo paese... ma noi lo vedremo. Beviamo alla
sua memoria.... era un santo!... non dico altro.

Gli amici alzarono i loro bicchieri, e li accostarono religiosamente a
quello del capitano. Giorgio aveva due grosse lagrime sulla guancia che
vi parevano impietrate...

— Ma dimmi, continuò il capitano Ferrero... c’è un altro Santafiori nel
nostro esercito; nei dragoni della Regina, se non sbaglio. Sarebbe egli
tuo fratello?

Giorgio volle dire di no, ma suo padre aveva sempre riguardato Michele
per suo figlio, gli aveva dato il suo nome e non poteva contraddire a
quella volontà.

— Sì, rispose arrossendo il giovane.

— Me ne duole.... egli è indegno di portare quel nome,... e spero che
il fratello vendicherà l’oltraggio ch’egli fa ogni giorno alla memoria
di suo padre.

— Io lo vorrei, signore! ma dite.... credete voi che, vestendo quella
divisa che lo ha corrotto, io potrei compiere quella vendetta.

— La divisa non corrompe, esclamò Ferrero, purchè la si indossi
coll’animo ben compreso dei diritti.... e degli obblighi che impone.
Se tu credi che il soldato non sia che un mercenario, peggio ancora,
un vassallo armato pel beneplacito del Re, è finita. Tu non avrai
più bussola nella tua coscienza. Tu dovrai servire chi ti paga,
imprigionar, se occorre, tuo fratello, e scannar tuo padre, e non aver
altra legge che la volontà del tuo padrone. Ma i giorni dei soldati e
capitani di ventura sono passati e vorrei che fosse vivo tuo padre per
dirti se dopo la dichiarazione dei diritti dell’uomo vi possono essere
in una nazione distinzioni tra cittadini e cittadini, soldati sì ma
cittadini. Tutti abbiamo giurato, anche quelli che non hanno messo la
mano sul Vangelo. Tutti quanti siamo, abbiamo giurato, ma di servire
la patria e di obbedire alle sue leggi. Esse sono il sovrano... il re,
o il presidente della repubblica, non può essere di sopra delle leggi
nè della volontà della nazione. Il mio re, il re del capitano Ferrero,
è il bene della nazione: esso è il suo Dio! Se il re mi comanda domani
di fare qualcosa per il bene della patria, ecco tutto il mio sangue:
se il re crede che fucili il maresciallo Ney, o i quattro sergenti
della Rocella, io mi rifiuto — io mi sento sciolto dal mio giuramento,
com’egli si credette sciolto dal suo. E se la nazione richiede il mio
braccio perchè la protegga degli arbitrii del dispotismo io glielo
offro perchè desso è suo. Diranno i sofisti, perchè io gli ho uditi,
e nelle nostre file abbondano, ma chi è il giudice del bene o del
male, e chi interpreta la volontà della nazione? Chi? La coscienza
che non falla! Ogni uomo l’ha apposta la sua coscienza per giudicare
delle azioni che deve compiere o lasciare, perchè non l’ha ad avere un
soldato? Se domani un generale ubbriaco viene a ordinarmi di mettere
a ferro e a fuoco Torino! io l’ho bene la coscienza per giudicare
che egli è ubbriaco e che mi ordina il male. Così può essere d’un re
stolto, o d’un generale infame che volesse valersi della mia spada
per compiere scellerate azioni contro la mia patria e le sue leggi.
Io ho giurato a lui, come egli ha giurato a me; è un patto reciproco
sull’altare della patria: chi lo scioglie per primo, quegli è un
traditore.... Ascoltate me, giovinotto.... posso dire di parlare con la
voce stessa di vostro padre.

Giorgio, durante questo discorso, pronunciato con eloquente
concitazione, non aveva mai fiatato: quand’ebbe finito egli si alzò in
faccia al vecchio capitano e con la voce solenne d’un neofita che si
consacra ad una religione disse:

— Capitano, io abbandono per seguire il vostro consiglio tutto quanto
ho di più caro sulla terra. Fra quindici giorni io sarò soldato. Mi
potete voi promettere che è la salute della patria che lo impone?....

— È Dio che lo vuole.... fece il capitano alzandosi col tuono consueto
d’un sacerdote....

Tutti s’erano alzati con lui, e pochi minuti dopo, ciascuno raggiungeva
per opposte vie casa sua.




XIII.

LA PARTENZA DEL COSCRITTO.


Giorgio non aveva un giorno da perdere. Fra una settimana c’era la
chiamata de’ coscritti, egli aveva bisogno di tornare a casa, di
rivedere i suoi, d’aggiustare le sue faccende, di provvedere come che
sia all’avvenire della sua famiglia; e la mattina dopo, abbracciato
Ernesto, ripigliò la via del suo villaggio.

Percorrendola pensava alla rapida evoluzione che in pochi giorni
s’era compita nell’anima sua, e alla nuova esistenza che l’attendeva,
e non gli pareva quasi più d’essere lui. Egli che non avrebbe mai
creduto potersi staccare da casa sua, che aveva sognata un’esistenza
di domestica quiete tra sua madre ed una sposa; egli era balzato
nell’ignoto mistero d’una congiura politica; egli s’era a un tratto
gravato per volere d’un uomo, la cui parola era sacra, di un grande,
terribile dovere che non poteva ormai nè discutere, nè ricusare, e che
lo sforzava a passare a capo chino traverso alla dorata tela de’ suoi
sogni e per adempiere il quale gli era d’uopo raccogliere tutte le
forze della sua virtù; e sacrificar ogni cosa diletta più caramente, ad
un principio, ad una bandiera, ad una potenza invisibile che si chiama
la Patria, giurarle obbedienza, consacrarle la vita, e quella de’ suoi
cari, votarsi per essa al martirio.

E non avea egli nella casa altri doveri, sacri almeno come quelli della
patria? l’adempirli non era una milizia e una battaglia, meno gloriosa
è vero, ma appunto per questo, più disinteressata?

Fra l’uomo che lotta nell’adempimento d’un’oscura missione e muore a
tutti ignoto fuorchè all’affetto di pochi cuori, e l’eroe che ha per
scena il mondo, per funerali la storia, qual’è il più grande e il più
meritevole?

Aveva ragione suo padre d’imporgli quel dovere, aveva avuto ragione
anch’egli di sacrificare tutto per gli altri, e risparmiare nulla per
sè ed i suoi.....

— Giorgio, tu bestemmi — gridava dentro di sè giunto a questa parte
del suo doloroso monologo.... Tuo padre era un sant’uomo; e tu devi
inginocchiarti davanti alla sua volontà come a quella di Dio.... Ora
la risoluzione è presa.... Del resto non è egli che mi ha imposti
questi dilemmi.... è il destino. O esule.... perseguitato.... forse,
miserabile sempre... O soldato combattente d’una giusta causa, o
martire.... probabilmente.... La scelta non è dubbia.

Ernesto aveva ragione; Ferrero era la voce stessa di suo padre redivivo.

In questi pensieri giungeva al suo villaggio.

All’ingresso del paese il primo conoscente che incontrò fu _Leon_: esso
gli era balzato incontro, ma in luogo d’accoglierlo col suo giocondo
saluto, mugolava e gemeva, come se avesse avuto a dirgli una parola
di compianto. Giunto in piazza, la bottega dello Speziale era ingombra
della solita brigata, e gli parve di accorgersi che tutti lo guardavano
e che alcuno dicesse: povero giovane!

Fatti ancora pochi passi, la campana della Chiesa cominciò a dare
funebri rintocchi, che gli echeggiavano nell’anima come l’addio di un
caro morente, alla fine giunse di faccia alla porta di casa sua....
Traversò il grande cortile, arrivò sotto il portico; due contadine
luride e sinistre sedute vicino ad un fiasco bevevano e canticchiavano
mezzo assonnate dal vino una monotona nenia. Giorgio che non aveva mai
veduto quelle facce in casa sua si fermò e disse: — Chi siete?

— Siamo quelle che la devono vestire....

— Vestire? non m’avete l’aria di sarte alla moda, — disse Giorgio
sorridendo, e non sapendo ancora su quale tema profferiva quel suo
scherzo innocente.

Le due megere gli sghignazzarono dietro dicendo:

— Si lavora col figurino della morte, signor Giorgio.

Giorgio non aveva udito, ma in un angolo della sala aveva trovato
stretti in un gruppo scultoriamente bello, il piccolo Balilla e Livia
abbracciati, che piangevano in silenzio, insensibili a quanto li
circondava.

— Livia! Balilla.... perchè piangete?

Livia alzò gli occhi, guardò Giorgio e non ebbe il coraggio e la forza
di profferire una sola parola.

— Un’altra disgrazia.... nostra madre forse?

Livia scoppiò in un singhiozzo; Giorgio sapeva già la verità; scavalcò
la scala per accertarsene, entrò in una stanza illuminata da un funebre
cero.... — Vi giaceva sua madre morta.

Egli si gettò a’ piedi del letto e vi restò per più ore sprofondato
in quel dolore senza lacrime e senza parole che assomiglia soltanto
all’ambascia di chi affoga in una voragine senza rive. Pure doveva
farsi coraggio, era il solo che se lo potesse fare e lo dovesse
insegnare in quella casa.

Venne a scuoterlo una mano leggiera che si era posata sulla spalla.
Alzò la fronte con piglio irato quasi per dire «lasciatemi» e incontrò
lo sguardo calmo e carezzevole della sua Giusta.

Egli restò un istante immobile, attonito, stupito; la guardava e
non poteva credere che fosse lei. Mormorò un tu! di meraviglia e
d’incredulità, e poi vinto da un sentimento ancora più forte si
precipitò a’ suoi piedi e il pianto lungamente soffocato dall’angoscia
sgorgò a pieni rivi sulle sue guancie.

Giusta credeva cadere sotto l’emozione, ma tutta piena della sua
missione consolatrice, si fece coraggio e parlò.

— Giorgio, io non poteva lasciarti solo in faccia a questo nuovo
dolore. Io ho voluto provarti che vi è qualche cosa d’ancora più
forte delle leggi del mondo, della volontà di mio padre, e della mia
prigione: il tuo affetto. Stasera tornerò nella mia triste muda, ma tu
saprai che v’è al mondo una povera fanciulla pronta a tutto per te e
che s’è fatta delle tue sventure una religione, e di questa religione
un amore. Giorgio, separiamoci... è necessario... io ti lascio per me
questa promessa: felice, t’avrei amato, infelice, t’adorerò. Addio.

Giorgio volle trattenerla, ella aveva già osato troppo, e seguita da
_Leon_ riguadagnò, traverso i sentieri de’ campi, casa sua.

Sua madre era appena scesa nella fossa, fattale scavare dal figlio
vicino a quella di suo padre, quando al suono della campana del comune
era pubblicato il bando della partenza dei coscritti.

Giorgio corse all’inferriata di Giusta e le annunciò il mutato
proposito.

— Parto: seguo il tuo consiglio e quello d’altri amici. Ma vado
incontro a un terribile avvenire ed io non ho il coraggio d’incatenare
la tua giovine e quieta esistenza, al mio torbido destino. Giusta, per
quanto mi costi, io, se lo vuoi, ti restituisco la tua parola.

— Giorgio, io vi perdono l’amara offesa che mi fate. Eccovi questi
capelli..... dentro il medaglione ho ricamato io stessa queste parole
«_Vostra o di Dio_» sento che nessuna violenza umana potrà farmi
tradire questo giuramento.

Promisero scriversi, promisero rivedersi tutte le volte che fosse stato
possibile, e colla fortezza di due anime eroiche votate al martirio si
separarono.

Giorgio impiegò i pochi giorni che gli restavano a pagare i debiti,
a liquidare l’ormai esausto suo patrimonio, ed a provvedere alla
meglio al pane de’ suoi fratelli, Balilla, e Livia, che le raddoppiate
sventure avevano sempre più confermati ne’ sentimenti e nelle pratiche
della religione e staccati dalle speranze di questo mondo.

Livia aveva deciso finire i suoi giorni in un convento e null’altro
aspettava per dar esecuzione a questo suo voto fuorchè il piccolo
Balilla fosse cresciuto tanto da avere un’arte in mano, e un asilo
sicuro per i suoi giovani anni.

Venne alla fine la mattina del gran giorno; i coscritti erano
fino dall’alba radunati nella piazza del Comune, e aspettavano il
maresciallo de’ carabinieri che li venisse a scortare fino alla città
vicina, dove con un’altra scorta sarebbero proceduti fino a Torino.

Erano tristi, scontenti, abbattuti; alcuni bisbigliavano nei canti
dolci promesse alle loro belle; altri reggevano sul petto una madre che
singhiozzava tacitamente; altri si tenevan discosti seduti sopra una
pietra col capo tra le mani a pensare.

Scorsa mezz’ora comparve il Maresciallo con quattro carabinieri, e
dietro a loro quasi subito anche Giorgio Santafiori.

Il Maresciallo prese un ruolo, chiamò uno per uno, li numerò, li fece
schierare, ordinò il silenzio, un per _fianco destro_ e _marsch!_
Giorgio era alla testa.

Tutto il paese era fuori a vedere la partenza del mesto convoglio....

Era un salutarsi, un agitar di cappelli, un mandar d’augurii, e un
lacrimare sommesso che toccava il cuore. Era il fiore del villaggio che
se n’andava, ed anche coloro che non avevano in quella schiera tesoro
particolare d’affetti, partecipavano mestamente alla perdita della
famiglia comune.

Il più commiserato di tutti, bisogna dirlo, era Giorgio. La coscienza
popolare aveva finito col rendere giustizia alle virtù di casa sua
ed a rispettare le sue sventure. Nel vederlo andare si ricordavano
i beneficii di suo padre, la pietà di sua madre, i due fratelli che
restavano a casa poveri e soli, e più di una voce s’udì profferire:

— Povero Giorgio... povero Giorgio!

Il sindaco Arena colse quel nuovo spiro dell’aura popolare, e fedele al
suo costume volle con un atto generoso secondarla.

La colonna aveva appena mossi i primi passi ed Arena s’era avvicinato
a Giorgio, e con voce abbastanza forte da essere udito da tutti gli
altri:

— Signor Santafiori, se volete raccomandare a me la vostra famiglia, io
sarò ben felice di proteggerla.

Giorgio s’arrestò, fece un moto verso di lui come avesse voluto
assalirlo; poi mutando pensiero gli slanciò contro un gesto di sovrano
disprezzo e disse, abbastanza forte da essere udito: — Coccodrillo! — e
continuò la sua marcia fatale.




XIV.

IL SENATORE TACCHINI.


Il giorno stesso in cui Giorgio partiva per Torino, veniva a passare
parte dell’autunno nei dintorni del villaggio nella sua magnifica
casetta di Bobbianello il Conte Della Torre con gran treno di cocchi e
di cavalli, e gran seguito di parenti, d’amici, di procoli e di cinedi.

Il conte Della Torre era un gran personaggio in Piemonte; uno dei primi
gentiluomini di Corte; capo dell’esercito, e amico personale del Re.
Però i sindaci e le autorità dei dintorni correvano ad ossequiarlo
come un Principe, e il castello nei primi giorni era una via vai di
contadiname senza fine, e una corte bandita a tutte le scarpe grosse
dei dintorni.

Il conte Della Torre s’annoiava di tutti questi omaggi campestri.

Primo ad accorrere fu il sindaco Salomone Arena. La sua croce di
Cavaliere, i favori speciali dei quali altre volte avevalo colmato
la Regina, lo rendevano degno di particolare riguardo, e appena fu
annunziato il suo nome, fu subito introdotto passando davanti ad una
dozzina d’altri Sindaci che aspettavano in anticamera.

Quando l’Arena uscì era entusiasmato della bontà del Conte; e promise
in cuor suo di tornare spesso al castello per entrare sempre più nelle
grazie del magnanimo feudatario.

Fra la gente che accompagnava il Conte in campagna, e che gli serviva
di codazzo, c’era un personaggio che abbiamo frequentemente incontrato
in questo recinto, il tenente Michele Santafiori, uno dei suoi aiutanti
di campo, ed un certo cavaliere Tacchini, senatore e giudice di
Cassazione al Senato di Torino, che seguiva quasi sempre il Della Torre
nei suoi viaggi e nelle sue escursioni in campagna, e del quale avremo
a dir lungamente.

Il Della Torre non era uomo di lunga veduta, e aveva bisogno d’un
occhio che vedesse e d’una mente che pensasse per lui. Infatti Tacchini
era divenuto il suo consigliere, il suo ministro, il suo _alter ego_, e
meglio ancora la sua anima dannata o il suo Mefistofele.

Il conte era nutrito dalla superba ignoranza de’ suoi avi, e in buona
fede si credeva d’una pasta più fina degli altri uomini, ma era in
fondo di animo retto, e per insuperbire aveva bisogno che un demone
gli sobillasse continuamente che egli era uno degli ultimi custodi del
diritto della nobiltà e dei propugnatori più saldi del trono.

Quel demone ei l’avea trovato in Tacchini. Costui come Gingillino aveva
saputo tenersi aggrappato al proverbio che mai non falla, che l’essere
sta nel parere; e lodando, strisciando i potenti, calpestando senza
misericordia i deboli, vendendo la sua lingua, le sue orecchie e la
sua penna, facendo il calunniatore, il delatore e il libellista, era
riescito a tirarsi su su fino al grado di commissario di Polizia; due
o tre segnalati servigi l’avevano fatto salire alla Direzione delle
carceri, e dalla Direzioni delle carceri, di gradino in gradino, era
arrivato al penultimo grado di Consigliere di Cassazione, o, come
allora dicevasi, di Senatore.

Ma Tacchini non poteva essere contento della sua sorte; egli, comunque
fosse in alto, doveva sempre lavorare, e servire, e il lavoro era
insopportabile alla sua dignità, al suo orgoglio. Si sentiva nato
per comandare e far il signore; ma aveva, sin da bimbo, veduto che
per riescire a questo non c’era che un mezzo, aggrapparsi alle spalle
di qualche potente, diventargli necessario, fargli l’infermiere, il
lustrascarpe, il ruffiano, il giullare, quello che voleva — e salire
con lui.

Per questo s’era attaccato al conte Della Torre, che divideva allora
coi Thaon de Revel, coi San Marzano, il predominio della nobiltà. Aveva
saputo entrargli nelle grazie collo scrivere per lui i brindisi che
doveva fare ai pranzi di corte; poi col prestargli lepidezze tutte
sue, flosce come vesciche vuote, ma che avevano l’arte di vellicare
l’orgoglio del vecchio Generale e di farlo stare allegro dopo il
desinare.

Il Della Torre se lo conduceva dappertutto, specialmente in campagna
all’autunno, e quivi gli confidava la cura delle corrispondenze, degli
affari di ricevimento ed anche un po’ dell’amministrazione della
giustizia, giacchè in Piemonte una certa giurisdizione feudale, ad
onta dell’89, c’era sempre. Il Tacchini si disimpegnava a dovere sinchè
tutti s’erano abituati a non vedere, a non sentire che lui; sapendo che
quel che faceva lui era ben fatto.

C’è un diritto di caccia da chiarire? Tacchini!

C’è da rispondere a una petizione di vassalli? Tacchini!

C’è un pranzo da ordinare? Rivolgiamoci a Tacchini!

Tacchini però, ad onta del suo potere discrezionale sopra il Della
Torre, e quantunque sentisse che tosto o tardi, mercè il braccio di
quel vecchio, la fortuna gli avrebbe dato una grande spinta, tuttavia
non era soddisfatto. La fortuna, secondo lui, lo trattava da matrigna.

Sentiva un bisogno, un istinto, più ferino che umano, d’avere una
donna. Egli non era mai stato amato. Giallo, piccolo, osseo, con una
bocca da orangotano e una dentiera proporzionata, orrido e sordido,
quale femmina avrebbe voluto scendere fino a’ suoi abbracciamenti? Pure
quant’era stata lunga e atroce la privazione, altrettanto era rabbioso
il desiderio. Ma non lo mostrava, e al conte Della Torre, e a qualche
raro suo confidente, degno di lui, soleva dire: «Sento che invecchio,
ed ho bisogno di farmi una famiglia».

Ma il desiderio non era così forte in lui da fargli dimenticare la
condizione principale del matrimonio e i principii indeclinabili della
sua filosofia.

— Deve essere bella e giovine, diceva; ma prima di tutto deve essere
ricca. Io ho lavorato abbastanza per me, senza cominciare a 45 anni a
lavorare anche per una donna.

E intanto la cercava e non disperava trovarla.... Sapeva che il mercato
non poteva essere che frutto d’un disegno infernale, e intanto si
addestrava a meditarlo.

Un giorno Salomone Arena, per restituire certo pranzo che aveva avuto
l’onore di mangiare alla tavola del conte Della Torre nel Castello di
Bobbianello, dava un gran pranzo a casa sua. Aveva invitato anche il
conte, ma il conte se ne dispensò rispondendo: «manderò Tacchini a
rappresentarmi». Il Sindaco capì che il conte non voleva scendere a
contaminare i nobili suoi quarti al contatto d’una mensa borghese, e
accettò anche Tacchini.

Il banchetto dell’Arena fu disordinato ma copioso; i cuochi erano
venuti fino da Milano; i vini erano i più scelti della sua cantina,
tutto mascherava il villano arricchito. I servitori avevano delle
cravatte sudicie e dei guanti due volte più lunghi delle dita;
versavano le brode sulle spalle dei convitati e si dimenticavano
qualche volta di cambiare i piatti. Il solo ornamento inapprezzabile
del pranzo erano le due ragazze: Giusta e Verginia, la mestizia e la
gaiezza; il melanconico giglio e il garofano lussureggiante.

Tacchini lo notò subito; e senza tralasciar di mangiare s’occupò per
tutto il desinare a studiare le due fanciulle.

Scoperse subito che Virginia adocchiava volentieri Michele e che era
la beniamina del padre. Queste due circostanze, invisibili a qualsiasi
meno acuto scrutatore, lo persuasero che quella fanciulla che amava
le larghe spalle del Dragone, non avrebbe mai sposato un uomo brutto
come lui; e che il padre che la guastava non gliel’avrebbe mai
imposto. D’altronde Virginia aveva l’aria troppo ardita e virile e non
prometteva trionfi molto sicuri all’uomo che le fosse stato marito.

Giusta, colla sua timidezza e la sua taciturnità, non men bella ma più
pudibonda, trascurata da tutti, guardata biecamente dal padre, era la
donna fatta per essere sacrificata; e Tacchini aveva bisogno di questa.
Lo comprese subito; lo comprese, se ne invaghì e concepì una speranza,
e sbozzò nella torva mente un progetto che il tempo poteva maturare.

Tacchini sapeva che la chiave della posizione era il padre, e si diede
a studiarla.

Nelle frequenti gite che Salomone Arena faceva al Castello s’accorse
che il Sindaco era ambizioso e avaro, e che cercava strappar qualche
cosa al conte Della Torre. Infatti non tardò a sapere che Salomone
Arena tentava segretamente di far passare suo figlio nella diplomazia.

Però egli raddoppiò di vigilanza e stette ad aspettare quatto e
silenzioso che il nemico si scoprisse.

Ma Salomone Arena era furbo quanto lui, e più di lui se fosse stato
possibile, e capiva che le visite frequenti di Tacchini a casa sua
non erano senza secondo fine, e che gatta ci covava! E sia detto,
l’alleanza col Tacchini non solleticava nè il suo amor proprio, nè
la sua avarizia. E quindi decise anche lui di manovrare evitando la
mediazione del Tacchini, e nascondendogli quanto aveva in animo di
rivelare al Conte.

Ma il conte confessava tutto al Tacchini, fino i sogni, e quando
Salomone Arena gli andò a chiedere una commendatizia per il Re onde
far avere a suo figlio Adolfo che quell’anno finiva legge a Torino un
posto in diplomazia, il conte non aveva saputo rispondere meglio che:
«Parlerò a Tacchini» e glie ne aveva infatti subito parlato.

Il Tacchini mostrò in un sorriso tutta la sordida caverna della sua
bocca e credette giunto il momento di scoprire la batteria.

— Vede signor conte come talune volte il caso conduce a certi discorsi
che non si sarebbero mai fatti? Ella mi parla d’Arena ed io voleva
appunto parlargliene. Ella mi parla di suo figlio ed io devo parlargli
di sua figlia. Io devo aiutare Arena, e Arena può aiutar me....

— Non ti capisco, Tacchini. — Il conte, quand’erano soli, dava _del tu_
al Senatore...

— Gli è che era deciso a pregare V. E. di una grazia per me; è la sola,
e la prima che forse le chiedo, non calcolando quello di cui mi ha
spontaneamente favorito la sua bontà.

— Una grazia? sentiamo! purchè non si tratti di lasciarti.

— Si tratta di lasciarmi prender moglie....

— Ah ah! anche tu vuoi passare nel numero de’ _quondam_ — povero
Tacchini... ci lascerai le penne, con tutta la tua furberia.... Ma come
c’entra qui l’Arena?...

— Gli è che l’Arena è il padre della figlia.....

— Bravo Tacchini! _Gianduja_ parla come te!... non ho voglia di ridere
oggi.... spiegati meglio.

— È il padre della figlia che io amo.

Il conte scoppiò in una grande risata che fece scappar tutte le rondini
annidate sotto il letto. Ma Tacchini se l’aspettava e tirò dritto.

— La fanciulla che vorrei sposare e vorrei....

— Ebbene?

— Che V. E. chiedesse il consenso del padre per me..... _A tanto
intercessor_....

— _Nulla si piega_... — fece il conte, ridendo di questa traduzione del
noto adagio che gli aveva insegnato il Tacchini, e che poteva essere un
saggio delle sue consuete spiritosità.

— Stavolta è proprio il caso di dir giusto, _nulla si niega_. Perchè,
vede, se noi consideriamo che il padre Arena vuole un favore da lei,
ella non avrà nemmeno a pronunciare una parola di preghiera per me, non
dovrà scendere d’un passo, non dovrà fare un sforzo; basterà che dica
con Ulpiano: _do ut des, facio ut facias_.

— Ho capito.... non sono mica sordo... che per il brevetto di
diplomatico al figliuolo ponga la condizione del tuo matrimonio colla
figliuola.... Come si chiama?

— Con un nome da paradiso: Giusta!

Il conte passeggiò su e giù della sala, poi fermandosi a un tratto
disse:

— Ma dimmi un po’, e la figlia cosa ne penserà?... perchè non vorrei
sacrificare....

— Soddisfattissima....

— Soddisfattissima?! Eh! quando lo dici tu sarà....

— Glie lo assicuro, signor conte, parola di Senatore onesto.

— Basta così.... quando verrà Arena per la risposta farò il discorso....

Arena venne infatti e udì le parole del nobile conte dal principio fino
alla fine; ma ad onta della autorità del mediatore, e dell’amore che
portava a suo figlio, e per quanto apprezzasse i meriti del Senatore,
non si sentì la forza di accettare questo connubio.

— Come! rifiutate? — fece il conte con severo cipiglio — al conte
Ottavio Della Torre cugino del Re, rifiutate!...

— Eccellenza... è mia figlia che rifiuta, vorrebbe ella che
sacrificassi il mio sangue?

— Ah! vostra figlia rifiuterebbe..... non parliamone più. Voi siete
padre anzitutto, e a Tacchini.... non mancheranno pollai dove cercarsi
le chiocciole.

Quando il conte riferì la risposta dell’Arena al suo Consigliere,
questi si morse le labbra, ma disse:

— Non è ancora finita!




XV.

LA SITUAZIONE.


Giorgio era stato arruolato in un reggimento d’artiglieria. Egli
avrebbe voluto entrare nella Legion Reale dove il Ferrero era Capitano
ma la forte struttura di Giorgio ne faceva un modello d’artigliere.

Il Capitano d’artiglieria che presiedeva la Commissione di Leva non
aveva voluto rinunciarvi. E non conveniva insistere per non destar
sospetti. Inoltre Ferrero aveva giustamente pensato che l’artiglieria
presidiava di solito la Cittadella, e che un amico di più in quel
corpo, che aveva tanta importanza, poteva in un evento decidere le
sorti d’una giornata. Giorgio ubbidì.

— Ti farò conoscere il capitano Gambini e il luogotenente Enrico che
sono dei nostri e andrai d’accordo con loro come con me stesso — gli
aveva detto in un orecchio il Ferrero per finir di persuaderlo.

— Fate quel che credete, rispose Giorgio. Dal giorno ch’io mi sono
consacrato a questa causa, io non ho che un desiderio: servirla con
tutte le mie forze.

Il giorno dopo Giorgio portava l’assisa d’artigliere, e passava alla
Venaria Reale a far i suoi primi esercizi.

In Torino frattanto e in Piemonte l’agitazione era giunta al colmo, ed
era a stento dominata dai capi.

Alle rivoluzioni di Spagna e di Portogallo era tenuta dietro quella
di Napoli, iniziata essa pure da ufficiali dell’esercito, e confidata
quasi tutta all’elemento militare. Il trionfo dei liberali napoletani
aveva resi più saldi i propositi, e più certe le speranze dei
Piemontesi, i quali affrettavano a gran passi l’ora della catastrofe.
Ma quando venne l’annunzio che lo spergiuro Ferdinando era fuggito
a Lubiana per soffocare le nascenti libertà ch’egli aveva giurate
sui vangeli, coll’armi odiate dello straniero, non ci fu liberale
piemontese che non credesse venuta l’ora di rompere gl’indugi.

Se si fossero ascoltati i nostri amici degli _animali parlanti_ si
sarebbe dato di piglio il giorno stesso; e a stento Santarosa, Lisio,
Collegno, i capitani insomma del moto, li rattenevano per maturare i
consigli e le opere.

Un’altra cagione d’indugio era agli occhi di quei liberali la mancanza
d’un capo. Nessun di loro si sentiva così forte da capitaneggiare il
movimento, nè così autorevole da bilanciar le avverse influenze della
nobiltà che consigliava e prepoteva nella Reggia, nell’esercito e
in tutte le cariche pubbliche. Ci voleva un uomo per grado, per fama
a tutti superiore, giacchè nessuno pareva da tanto da prevalere per
il suo valore, il suo patriottismo ed il suo ingegno. Si voleva lo
splendore d’un nome e bisognava trovarlo. Era errore fatale di certo,
ma errore così profondamente radicato in quelle coscienze che avrebbe
in ogni caso prodotte per opposte vie le stesse conseguenze. Esse,
confidando le sorti d’una rivoluzione ad un’iniziativa militare, e al
nome d’un Principe, non potevano vincere; ma senza quella iniziativa e
quel Principe non avrebbero osato forse nemmeno cominciare, e la storia
d’un magnanimo tentativo sarebbe stata sepolta.

Finalmente un giorno credettero averlo trovato, e balzarono di gioia,
come se avessero tratto fuori dalla tenda l’Achille della vittoria.

Quest’uomo era Carlo-Alberto di Savoia principe di Carignano. Volevano
che avesse ingegno pronto, carattere generoso, abitudini popolari e
democratiche, che il Grimaldi suo maestro l’avesse educato a liberali
studii e a sublimi intenti, che amasse il suo paese, che odiasse
profondamente gli stranieri, e in Francia, dove aveva passato i primi
anni, si fosse nutrito di idee d’onore e di gloria militare, che il suo
matrimonio con un’italiana, Maria Teresa di Toscana, fosse un presagio,
che in cento occasioni gli fossero sfuggite proteste di patriottismo,
e che insomma, veduti i Carbonari, fosse segretamente affigliato alle
loro imprese.

Ma se questo non bastava, quella malinconia taciturna, quel pallore
mortale che velava il suo volto, quell’aria di mistero onde si
circondava, accusatrice di profondi pensieri, lo dipingevano facilmente
alla desiosa immaginazione per l’uomo chiamato a un grande destino.

Pochi lo avevano avvicinato, nessuno lo aveva scrutato a fondo,
ma tutti erano certi che quel Principe non era della stoffa degli
altri, che qualcosa di insolito e di diverso che non assomigliava nè
alla vanità imbelle nè all’orgoglio feroce degli altri Re s’agitava
nel mistero di quell’anima. Si arrestarono alle insidiose promesse
della superficie e nessuno badò a studiare nel Principe l’uomo.
Strano a dirsi, nessuno in Piemonte sospettò quel misto di scettica
irresolutezza e di impeti chisciotteschi, di macchiavelliche doppiezze
e di abbandono puerile, di coraggio militare e di viltà civile, che
pochi anni dopo doveva votare il suo nome ad un palo d’infamia, dal
quale nè zelo di storiografi venduti nè pietà di amici riconoscenti
l’ha potuto staccare. Perfino Santorre Santarosa, coscienza retta e
anima austera, e che tra i capi della rivoluzione piemontese d’allora
fu il solo forse che dicesse altamente la verità al Principe, non lo
giudicò giustamente che tardi e quando non era più in tempo. Se egli si
fosse accorto di quel suo _volere_ e _non volere_ che applicava a Carlo
Alberto, e pochi anni dopo doveva essere tradotto nel _Re Tentenna_,
forse la rivoluzione Piemontese avrebbe avute altre sorti ed altra
catastrofe.

Frattanto fin dal marzo 1820 cominciò a vociferarsi pubblicamente che
Carlo Alberto era _tinto_ di Carboneria. La voce pubblica era ancora
ingannata dal desiderio. Carlo Alberto aveva avuto qualche ritrovo coi
caporioni dell’ordine, ma aveva molto scoperto, nulla promesso. Fu in
una di quelle occulte visite che Giorgio Santafiori lo incontrò per
le scale del dottor Gastone. Gli fu proposto il gran Magistero della
Società e ricusò; gli fu fatta balenare la corona d’Italia e le sorrise
un istante, ma ne distolse lo sguardo e andava a rifuggirsi al castello
della Veneria a fare esperimenti d’artiglieria, suo studio prediletto,
e suo vanto.

La irresolutezza del capo supposto e vaticinato si comunicava quasi
inconsapevolmente a’ suoi luogotenenti, e intanto che gli eserciti
Austriaci si mettevano in moto per andare a schiacciare la rivoluzione
Napoletana, il Piemonte non dava ancora alcun segno di vita vera.
Uomini come Lisio, Ansaldi, Collegno, Santarosa erano tutti presi dal
male comune del futuro _Re Tentenna_.

Di questa esitazione si dolevano in silenzio i più ardenti capi del
partito militare, ma più forte di tutti si lagnavano gli studenti.
L’impazienza è la virtù dei giovani; chè se essi imitassero i vecchi,
chi sospingerebbe il carro che tante mani respingono?

Queste impazienze andavano a scoppiare irate e tumultuanti nella
taverna del sergente Carrera. Ivi Muschietti, Gastone, Grandis, Tubi,
sfogavano i loro dubbi e le loro inquietudini giovanili.

— Ma perchè si tarda, dicevano? Perchè Lisio è ammalato, o il piano non
è ancora studiato, o il Reggimento d’Aosta non è ancora preparato, o
i Carabinieri sono avversi. Cosa vogliono? Che Vittorio Emanuele apra
le porte della Cittadella colle sue auguste mani... Tentennamenti da
vecchi! Ora si dice che anche il Principe di Carignano sia de’ nostri,
meglio! — ma perchè esita allora? O vuol forse aspettar che la partita
sia finita per raccogliere i frutti e lasciare a noi gli stecchi. Si
finisca. — Noi siamo forti quanto basta per cominciare e cosa fatta
capo ha. Vedrete che tutte le dubbiezze spariranno quando vi sia un
po’ di sangue. Bisogna comprometterli tutti quanti. Conti, generali,
colonnelli dubitanti, bisogna sforzarli a saltare il fosso: o con noi,
o contro di noi....

Questi discorsi si facevano agli _animali parlanti_, ora presenti il
capitano Ferrero, il capitano Gambini, Enrico e Laneri, ora soli i
quattro caporioni della federazione Universitaria, e nessuno, a dir
vero, era là per contraddirli.

La sera del 12 gennaio 1821, potevano essere suonate le sette,
Gastone, Grandis, Muschietti, Tubi, arrivarono agli _animali parlanti_,
entrarono nella gran sala, fecero un gesto come per intimar silenzio, e
a voce alta dissero:

— Stasera tutti al teatro _d’Angennes_ e baccano d’inferno. Questa è la
parola d’ordine!




XVI.

IL D’ANGENNES.


Si recitava al _D’Angennes_ l’_Antigone_ di Alfieri, e rappresentava
la parte di protagonista Carlotta Marchionni, la prima fra le attrici
italiane d’allora, e maestra non mai superata dalle future. Torino
tutto vi accorreva, meno forse per ammirazione dello spettacolo o
vaghezza di piacere, che per cercare nelle patriottiche invettive del
tragico Astigiano, uno sfogo ai compressi sentimenti ed un grido di
protesta.

Sarebbe un libro degno di nota, dire l’influenza che ebbe il teatro
sui moti popolari. Si potrebbe risalire fino a Sofocle che spingeva
colla sua _Elettra_ gli Ateniesi alla battaglia, e scendere giù giù
fino a Gustavo Modena che armava coi versi della Francesca da Rimini
il braccio dei Bolognesi. Così la prima favilla di quell’incendio
piemontese, che se non fu grande fu certamente eroico, venne dal
Teatro.

Le cose però al _D’Angennes_ avevano preso da qualche sera proporzioni
formidabili. Gli studenti lo invadevano in massa e lo convertivano
in vero _pandemonio_. Cominciavano quando non era ancora illuminato,
col grido: _Fuori i lumi!_ e quando i lumi erano comparsi volevano
l’orchestra, e quando l’orchestra suonava, interrompevano e volevano
l’aria che loro accomodava, e intuonata l’aria, l’accompagnavano di
fischi, di urli, e di colpi, facendo stromento d’ogni cosa, di rulli
di gran cassa, di strazianti note di corno e di giganteschi muggiti di
contrabasso e di quanti suoni può imitare coi piedi, colle mani, colla
bocca un concerto di pazzi.

Tossivano, starnutavano, si facevan le boccacce. Si chiamavan per nome,
si gittavan delle pallottole; se compariva sulla scena un personaggio,
una comparsa che non fosse nelle loro grazie, eran capaci di pigliarla
a mele e a torsi. — Se infine l’attore pronunciava uno di quei famosi
versi che hanno tante volte commosso il nostro giovinile patriottismo,
era uno scoppio d’applausi da far crollare la sala ed impallidire
nelle loro logge i birri della polizia. Indarno tentavano carabinieri
e poliziotti, or colle dolci or colle brusche, contenerli e ridarli al
dovere, spesso rischiavano essi medesimi d’esser presi a bersaglio, e
non sempre riportavano sane le spalle ai loro quartieri.

Era insomma lo stesso pubblico che Plauto dipinge ne’ _Bacchidi_, che
aveva Eschilo alle _Orestiadi_ e Vittor Hugo all’_Ernani_.

Quella sera la sala era ancora tutta fremebonda per quei versi
terribilmente famosi che Emone slancia a Creonte:

    «Ecco il don de’ tiranni, il non tor nulla!
    «Seggio di sangue e d’empietade il trono,

quando entraron d’improvviso quattro studenti col rosso berretto frigio
sul capo. Fu un tuono d’applausi: la tempesta si mutò in uragano. Tutti
gli studenti levaronsi in piedi proprio come un sol uomo: gli uomini
agitavano i loro cappelli, le donne sventolavano i fazzoletti, gli
attori non erano più intesi, e la rappresentazione fu sospesa. Era il
fantasma della repubblica venuto di sotterra che scuoteva sulla faccia
di un’intera città i suoi colori di fuoco.

La polizia non poteva tollerarlo; era evidentemente una sfida al
governo; era la prima parola della sedizione e a qualunque costo le
toccava di comprimerla.

Infatti una mano di gendarmi e i poliziotti s’eran già fatto strada
fino ai quattro audaci e già li trascinavano pel collare fuori della
sala. Allora il tumulto cambiossi in sommossa ed in vera battaglia.

— Uno per tutti, e tutti per ciascuno! urlò una voce stentorea dal
mezzo della sala, e nell’istesso tempo un’ondata di gente si precipitò
contro la porta in soccorso degli arrestati. Ma altri carabinieri
erano accorsi, e pareva che la polizia non volesse lasciare così presto
la sua preda. S’impegnò allora una lotta corpo a corpo tra un branco
di giovani e un drappello armato. Gli studenti fecero arma di tutto,
delle sedie, delle panche, dei tavolini, delle sciabole strappate ai
loro avversarii, ma era sempre una lotta ineguale e la vittoria restò
per quel momento alla legge. I quattro studenti furono ciò nonostante
trascinati in carcere, e i suoi compagni furono lasciati per quella
notte a medicare le avute ferite, e a meditare per il domani più eroici
e più strani propositi di vendetta.

L’avvenimento della sera precedente aveva messo la città in agitazione
e data la febbre all’Università. E quando diciamo _Università_
intendiamo, tutti gli studenti, tutti gli scolari dal laureando al
bimbo di prima classe, dal professore all’ultimo bidello. Perocchè
agli occhi degli uni quei quattro studenti temerarii col loro berretto
rosso sul capo rappresentavano la rivolta, la santa rivolta contro
una legge aborrita, la libertà, la bandiera dell’avvenire. Per gli
altri, quattro studenti arrestati dalla polizia, gettati in un carcere,
sottoposti a un tribunale incompetente erano un’accusa vivente contro
i violatori della legge, una deroga flagrante alle consuetudini e ai
privilegi della Università Torinese, che riconosceva nel magistrato
degli studii il solo tribunale competente, a giudicare degli studenti
e dei Professori. Era dunque in nome della legalità che essi, i rettori
degli studi, i loro avvocati, e i loro amici chiedevano la liberazione
di quei quattro rivoluzionarii.

Ma lo scandalo era stato troppo grande e l’urto troppo violento perchè
un governo arbitrario che si reggeva soltanto sulla forza potesse
mettere a cimento la propria salute per il rispetto di antiquate
consuetudini di legge.

Quindi il Magistrato degli studi ricusò netto la restituzione de’
quattro studenti, e li fece tradurre a Cuneo e a Fenestrelle, dopo
averli fatti traversare, in atto di superba disfida, l’addolorata e
fremente città.

Affrettiamoci a dire che fra quei quattro studenti vi era uno dei
nostri conoscenti, il giovane Adolfo Arena.

Il progetto della comparsa al teatro era uscito di getto dalla testa
del nostro Ernesto Gastone: i suoi amici del comitato l’avevano
accettato, ma scaltri e prudenti avevano preveduto che l’impresa si
sarebbe disciolta in un tafferuglio del quale probabilmente i quattro
attori visibili sarebbero stati le vittime. — Non era quindi una prova
da arrischiarvi i migliori, molto meno i capi, i quali avevano la
responsabilità di ben più serii cimenti. Era una scaramuccia nella
quale si potevano mandare avanti i novizii e dilettanti, salvo a
sostenerla col grosso delle forze quando la mischia fosse impegnata.

Però Ernesto e i suoi compagni erano stati costretti a scegliere gli
attori di quella bizzarria tra una classe di studenti che non era la
più famosa per prudenza e per serietà; degli originali che per chiasso
si buttano a fare il prologo buffo d’un dramma serio se ne trovano
sempre, specialmente nella spensierata età della scuola e dei piaceri.

E tra gli spensierati brillava il nostro Adolfo Arena. Egli era già
famoso a Torino per mascherate e baccanali, e si sapeva che quando
aveva alzato il gomito non avrebbe indietreggiato a comparire in pieno
mezzogiorno vestito da Adamo in mezzo Piazza Castello. Era la sola
bravura e il solo orgoglio dei quali fosse capace. Però Ernesto che lo
conosceva bene, mise subito la mano su di lui, e su tre altri che lo
assomigliavano per il colpo del _D’Angennes_.

Lo colse proprio mezzo cotto e non ebbe a pregar molto per convertirlo.
Parlare a quel ragazzaccio di Patria, di esempio, di dovere, sarebbe
stato arabo. Adolfo non aveva nè il cuore per sentire nè il cervello
per capire questo linguaggio. Era facile invece, specialmente _inter
pocula_, fargli entrare in capo l’idea d’una bravata, o d’una farsa,
che avrebbe fatto rumore per la città e reso celebre per ventiquattro
ore il suo eroe.

Inoltre Adolfo aveva, senza saperne il perchè, un gran rispetto per
Ernesto e non osava contraddirgli.

Non lo amava, ma sentiva che era il re degli studenti e ne subiva
l’autorità.

— D’altronde, soggiungeva Ernesto, ci siamo tutti e non ci può accadere
alcun male. Ai cagnotti del Lodi pensiamo noi. E dopo il colpo, gran
cena e gran baldoria tutti insieme agli _animali parlanti_.

— Non dir altro, Ernesto.... è un torto che mi fai... metti che sia
affare fatto.

Il negozio fu così conchiuso, e Arena dopo aver invocato il coraggio
di tutti i vini del Piemonte, come un poeta tutte le muse, si gettò
nell’impresa di cui abbiamo viste le peripezie e la fine.

Adolfo Arena il giorno dopo viaggiava per Fenestrelle sotto un’accusa
di tentata sommossa e colla reputazione ormai fatta d’uno dei più
neri carbonari e dei più rabbiosi rivoluzionari. E non è la prima
riputazione scroccata a quel modo.

Frattanto i caporioni dell’Università davano la posta ai loro amici
dell’esercito per concertare il da farsi. Il convegno era ai soliti
_animali parlanti_ per le dieci della sera.

I capi ci vennero tutti, Gastone, Muschietti, Tubi, Grandis, fra gli
studenti, tra gli ufficiali Ferrero, Gambini, Errico, Laneri, fra i
soldati il nostro Giorgio....

Fu posto come suol dirsi sul tappeto, se si doveva prendere occasione
dell’arresto dei quattro studenti per dar dentro immediatamente nella
rivoluzione o aspettare che l’agitazione fosse cresciuta, e che la
congiura dell’esercito fosse meglio apparecchiata.

Tutti gli ufficiali dell’esercito furono per l’attendere: tutti gli
studenti furono per cominciare nel vegnente mattino.

Ferrero adduceva che i reggimenti di stanza a Torino, specialmente
i granatieri della guardia e i carabinieri, erano fedeli al re: che
nella stessa reggia nella quale egli era capitano, non c’erano che due
compagnie sulle quali poter contare; che in ogni modo una rivoluzione a
Torino non si poteva tentare senza aver la certezza che la Cittadella
sarebbe stata in mano de’ liberali, e quanto alla Cittadella chiedeva
a Gambini ed a Errico che vi stanziavano se c’era almeno una fondata
speranza di riescita.

Gambini rispose che fino a quando non fossero cambiate le compagnie del
reggimento d’Aosta che vi erano di guardia l’esito era assai incerto, e
che egli non ne assumeva la responsabilità.

— Vedete, amici, soggiungeva Ferrero, nulla è preparato. E volendo
precipitare l’impresa la rovineremo. Aggiungete che i capi che ho
veduto poco fa, lunge dell’incoraggiare un tentativo per domani,
deplorano il fatto del _D’Angennes_ di ieri sera e dicono che non avrà
servito che a dar la sveglia alla polizia senza alcun frutto.

Ernesto, impaziente di quel discorso, rispondeva: — Io credo che il
pericolo non sia questo che la Cittadella non si possa avere; non
c’era bisogno che il nostro Ferrero ci assicurasse che i capi erano
per indugiare. Indugeranno sempre questi Fabj in caricatura. Ma gli
è appunto perchè siamo convinti che essi sono per l’indugio, che noi
siamo per il precipizio. A ciascuno la parte sua. Del resto io dico
che noi studenti non abbiamo libertà di scelta: ormai siamo tanto
compromessi che l’Università verrà chiusa e noi studenti dispersi nei
quattro angoli del Piemonte e sorvegliati. E allora sarà una forza
perduta. Poi gli studenti sono ragazzi, oggi hanno la testa accesa e si
butterebbero nella voragine di Curzio, domani a mente fredda penseranno
ai babbi, alle mamme, alla carriera, al ventre e sarà finita. Se la
città e la truppa vorrà e potrà aiutarci, avremo vinto; se no, il
sangue traccerà una barriera tra il governo e il popolo e renderà
implacabile l’odio. Qui la quistione è di cominciar a fare, e la
inerzia è il peggiore dei nemici.

— E cominciar a morire..... — disse il gigantesco Alberigo Grandis —
dalla morte sola nascono le grandi cose.

La discussione fu continuata più viva ed acerba, ma ogni parola fu
vana, gli studenti restarono incrollabili.

— Io cercherò aiutarvi, disse Ferrero.... purchè mi lascino uscir di
caserma.

— Io farò ogni sforzo perchè non s’adoperi l’artiglieria, rispondeva
Gambini.

— Ed io, replicava Giorgio, chiedo al signor Capitano di cambiare per
domani la divisa nella giacchetta dello studente per poter combattere
al fianco dei miei amici.

Gambini esitava: era una concessione grave; alla fine disse:

— No, Giorgio, io potrei aver bisogno d’un amico fidato nella
Cittadella o ai pezzi;.... resta con me,

— E se Ernesto muore — fece Giorgio.

— Mi vendicherai, — fece Ernesto, stendendo la mano al suo amico.... —
ci sarà posto per tutti.

E con questo proposito si separarono.

Il giorno dopo, fin dal mattino, via di Po era in un insolito moto.
Drappelli di studenti che venivano da tutte le parti quali armati di
randelli, quali visibilmente inermi: parte entravano nell’Università,
parte prendevano posto alle vie laterali ed agli approcci. Alcuni
disselciavano la via e ammucchiavano pietre; altri sbarravano le
porte e muravano le finestre; ad ogni mezz’ora arrivava o partiva un
messaggero; e ad ogni istante cresceva l’ansia, la folla, e quel sordo
tumulto che preconizza una sommossa.

Fra i primi, percorrendo le file, mandando istruzioni, incoraggiando,
eccitando, erano i nostri amici degli _Animali Parlanti_....

Dall’altra parte il Governo prendeva le sue misure; faceva occupare da
fitti drappelli di Carabinieri a cavallo ed a piedi e dalle compagnie
pur fidate de’ Granatieri e Guardie, Piazza di Po, Piazza Castello e
dintorni dell’Università; e senza fare un passo in avanti nè indietro
ambe le parti si guardavano minacciose e aspettavano.

Cosa aspettavano? Gli studenti avevano mandati al conte Prospero Balbo
ministro dell’interno due loro delegati coll’_ultimatum_ bellicoso
di chiedere la restituzione dei colleghi arrestati e aspettavano la
risposta.

Il conte Balbo si portò egli stesso all’Università; e il suo arrivo
fu accolto da frenetici applausi. Ma disse quel che sogliono dire in
simili circostanze tutti i governi che credono aver tanta autorità da
resistere e non possono rinunziarvi: «Gli studenti si ritirassero prima
dall’Università, e non dubitava che, restituito l’ordine, la clemenza
del Re avrebbe restituiti alle loro case i prigionieri».

Ma gli studenti volevano, e con ragione, un impegno formale: e il conte
Balbo non poteva darlo.

— Vada a chiederlo, gridò il Grandis: noi accordiamo ancora a S. M. sei
ore di tempo.

La scolaresca salutò la franca spacconata con uno scoppio di risa. Il
conte Balbo promise tornare dal Re, a patto che gli studenti stessero
intanto tranquilli ad attendere gli ordini sovrani.

Fu accettata la condizione, e mentre il conte Balbo si sforzava indarno
di piegare l’animo ligneo e caparbio di Vittorio Emanuele, gli studenti
si occupavano a raddoppiare le difese, a distribuire le scolte ed a
prepararsi alla lotta probabile.

Gastone andava e veniva dall’una all’altra finestra dell’Università
spiando fin dove poteva arrivare coll’occhio e coll’orecchio, se
vedeva spuntare un’insegna, un manipolo di amici; se udiva un grido
di soccorso; ma tutto era buio e silenzio. Solo tra mezzo alle
tenebre vedeva lo scintillare delle sciabole dei Carabinieri e udiva
il calpestio d’una gente o paurosa o indifferente che si ritirava
frettolosamente a casa. Ferrero aveva avuto ragione: tutti i reggimenti
erano stati consegnati in quartiere; la città non era pronta, e i pochi
amici, o impotenti o timidi, non potevano recare agli animosi federati
dell’Università alcun soccorso.

Erano di poco suonate le 8 all’oriuolo dell’Università, quando Gastone
udì nella strada il tonfo misurato e cupo che non ha altro paragone
che nel martellare cadenzato d’un portone e nel passo regolare di
una truppa che marcia. Tese la vista e non s’ingannava: era un intero
battaglione che s’avanzava serrato a baionetta incrociata per via di
Po. Non ebbe che il tempo di dare l’allarme che già il battaglione
s’era gettato al passo di corsa sulla porta dell’Università e l’aveva
sfondata.

Indarno gli studenti accolsero l’assalto con una pioggia di pietre;
la più parte dei colpi passavano via in mezzo alle file senza nemmeno
scalfire e non facevano che irritare gli assalitori senza batterli.

In pochi momenti l’Università fu invasa e la breve lotta si converse in
caccia accanita.

Solo pochissimi armati di spranghe di ferro, di qualche pistola e di
qualche sciabola, opponevano ancora una disperata resistenza.

Primeggiavano fra tutti l’intrepido Gastone, il calmo Muschietti, il
toroso de Grandis. Il povero Tubi, gentile e schietto giovinetto, aveva
già lasciato la vita sul limitare.

Quei tre, asserragliata la scala della galleria, balestravano dall’alto
di sassi e di colpi di pistole i granatieri che erano costretti ad
avanzare lentamente di gradino in gradino e lasciando di quando in
quando un camerata pesto e insanguinato.

Alla fine i Granatieri arrivarono al sommo della scala presso la
barricata e a colpi di calcio la atterrarono. Allora la zuffa fu breve
e mortale.

Cadde per il primo il bravo Gastone ferito alla faccia; lo seguì tosto
l’inseparabile Muschietti piagato al fianco; solo l’atletico Grandis,
pesto in più parti, intriso di sangue, appoggiate le spalle ad un
pilastro, maneggiando a guisa di ariete una panca, resisteva ancora
all’onda crescente de’ nemici. Mugghiava nella mischia come toro
circondato dai matadores, e ad ogni colpo della sua terribile clava un
fila intiera di Granatieri andava rovesciata. I nemici gli tiravano
da lontano ma non osavano appressarsi; tutti lo ferivano ma nessuno
lo uccideva. Finalmente una palla gli trovò una via del cuore ed egli
cadde con terribile tonfo, evocando ancora tanto fiato dal largo petto
per maledire nel rantolo estremo i traditori della patria....

Aveva combattuto come Argante e come quelli d’Argante

    «Immani, formidabili, feroci
    «Gli ultimi accenti fur l’ultime voci.

Gli altri studenti inseguiti colle bajonette alle reni, di sala in
sala, di piano in piano, di nascondiglio in nascondiglio, massacrati,
moschettati a bruciapelo o trafitti contro le pareti, non furono
più che un sanguinoso trastullo al briaco furore de’ vincitori, e in
poche ore non ci fu un angolo della pacifica dimora degli studii che
non fosse rigato di sangue e non echeggiasse del gemito de’ morenti
giovanetti.

La carneficina era compiuta. Il Governo aveva vinto..... l’ordine di
Varsavia regnava per quella notte anche a Torino.




XVII.

L’ACIDO PRUSSICO.


Giorgio, malgrado gli ordini del suo capitano e la severa consegna, non
aveva rinunciato all’idea di raggiungere i suoi amici. Quel pensiero
che Ernesto e i suoi compagni erano a combattere e a morire, che egli
non poteva nè soccorrerli, nè dividerne i pericoli, gli metteva la
febbre. Appena udì lo scoppio della fucilata non seppe più tenersi,
e fattosi aprire da un artigliere carbonaro suo camerata una pusterla
della Cittadella, si gettò nella città e a gran corsa verso il luogo
del combattimento.

Ma giunto in via di Po in faccia all’Università, un freddo silenzio di
sepolcro gli gelò nel cuore l’ultima speranza.

Dall’Università uscivano festose grida di vittoria; e la porta era
guardata da sentinelle che mostravano la sicurezza del possesso. Capì
che tutto era finito, che non gli restava altro che andare in traccia
di qualche caro morente e forse di dar sepoltura al suo cadavere. Si
fece coraggio e si mosse verso la porta.

Ma fatto un passo s’arrestò: era troppo naturale che la sentinella
avesse la consegna di lasciar passare nessuno o che almeno bisognava
avere un pretesto per tentarlo.

Ma quale pretesto? Pensò un momento e risolse. Aveva avuto la
precauzione di portar seco la sua carabina, cavò di tasca una
lettera, vi scrisse sopra con un lapis: «Al Maggiore comandante il 1.º
Battaglione Granatieri guardie, all’Università», infilò il biglietto
tra la bacchetta e la canna, fece _Bracc-arm_ e si presentò alla
sentinella.

— Non si passa! — gridò la guardia.

— Ho un ordine della Cittadella per il comandante del vostro
Battaglione, rispose franco Giorgio.

— Allora avanti, — replicò la sentinella.

Giorgio entrò. Nel cortile un drappello di granatieri si scaldava
intorno ad un gran fuoco trincando a vicenda da un enorme fiasco di
vino e interpolando i lunghi sorsi coi racconti e i vanti della strage
e della facile battaglia.

Giorgio sentì montarsi il sangue alla testa, il ribrezzo al cuore, ma
finse non vedere e tirò via. Sotto il porticato inciampò in un corpo
inerte: era un cadavere. Si sentì gelare ma si curvò, lo guardò, non lo
riconobbe e continuò ad avanzare. Giunto alla scala un’altra sentinella
lo arrestò.

— Cerco del comandante del Battaglione. Ho un ordine per lui, — fece
Giorgio.

— È di sopra, — rispose la sentinella.

Giorgio salì la scala: sull’ultimo gradino un corpo umano dalle membra
gigantesche era steso attraverso e occupava da sè solo l’ingresso;
riconobbe subito Alberigo Grandi; si precipitò a toccargli il cuore;
non batteva più.... era morto.

Vicino a lui c’era un gruppo: parevano i _due abbracciati in una buca_
di cui parla Dante. S’accostò, udì un respiro affannoso ma regolare,
erano viventi. S’inchinò fin sulla faccia del primo, ma era tutto
incatramato di sangue e non lo potè riconoscere; si piegò sull’altro,
gli girò la testa, quegli aperse gli occhi, lo guardò fissamente e si
lasciò ricadere sul suo compagno.

Ma Giorgio lo aveva riconosciuto e la sua anima sfavillò tutta di
nobile gioia.

— Muschietti! gli susurrò all’orecchio.

Muschietti credette udire una voce non nuova e levò il capo. Infatti
gli parve che anche il volto non fosse d’un ignoto: lo guardò meglio e
lo riconobbe a sua volta.

— Giorgio! fece Muschietti, sul cui volto passava un raggio di lieta
speranza.

— Io.... ma Ernesto?

— È questi sotto di me. È ferito alla faccia e non potrà sentirci;....
io al fianco ma leggermente... fingeva il morto nella speranza che mi
avrebbero lasciato qui... e che non m’avrebbero condotto prigioniero...
se siamo prigionieri, il meno che ci tocchi, è di non poter più far
nulla per il nostro paese.

— Io vi salverò.

— Tu?... ma come?

— Non lo so — rispose Giorgio, — lasciatemi pensare.

E stette un istante sopra pensiero, poi seguitando la corrente delle
sue idee, chiese al ferito:

— Qual’è la sala che dà in via della Zecca più vicina agli _animali
parlanti?_

Muschietti dopo aver riflettuto rispose: — è il laboratorio di
Chimica... là in fondo.

— E il laboratorio è aperto!

— Credo che l’abbiano sfondato i granatieri, ma non so se l’occupino
ancora.

— Andrò a vedere. — E Giorgio si diresse verso la sala che Muschietti
aveva accennato.

Era aperta. Un altro cadavere giaceva sulla porta: i vasi, i filtri, le
ampolle, le storte, le vetrine, tutto era spezzato, confuso, disperso,
bollato dal marchio delle palle e cosparso di sangue.

Giorgio aprì piano la finestra e guardò nella strada. Da essa si vedeva
di faccia a otto passi l’insegna degli _animali parlanti...._ e di
sotto lungo il muro una sentinella che passeggiava.

Tutto poteva andar bene se quella sentinella non fosse stata un
ostacolo forse insuperabile.

Giorgio pensò ancora, cercò nelle sue idee, nei ricordi della vita
favolosa di suo padre un espediente, un’astuzia, uno stratagemma, un
miracolo, e girava gli occhi dal cielo alla terra, dalla via alla sala,
come se ogni oggetto gliel’avesse potuto suggerire.

Un laboratorio di Chimica è un arsenale. Vi si trova di tutto, con
esso si potrebbe nutrire una città ed incendiarla. Seghe e lime per
tagliare, funi e spranghe per legare, carbone per ardere, acqua da
spegnere, caldaie da bollire, tavole per impalcare, tele da fasciare,
tutti gli acidi per decomporre, tutti i sali per comporre, tutti
gli elementi della luce, del fuoco, dei vegetali, e dei minerali
dell’oceano e della montagna, della vita e della morte. Tutte le arti
vi possono essere esercitate, tutti i miracoli umani compiuti.... ma
Giorgio si trovava fra infinite cose utili, e non aveva ancora vista la
necessaria.

A un tratto fissò gli occhi sopra una bottiglia nera, l’unica intatta
in mezzo ad una vetrina fracassata e che portava sopra una lista
bianca scritte queste due semplici parole «_Acido prussico_» — si mise
a guardare quella bottiglia, quella vetrina, quella scritta, e mano
mano si sprofondava nella sua visione credeva trovare il segreto che
cercava.... alla fine disse una parola mentalmente e ricorse al luogo
dove aveva lasciato i due feriti.

S’abbassò su Muschietti che fingeva sempre di fare il morto e gli
disse: — ho trovato, venite.

— Bisognerà che tu ci porti... io non potrei fare un passo... molto
meno Ernesto.

Ernesto era sempre fuor de’ sensi....

— S’intende... rispose Giorgio, lasciatemi assicurare che non vi sia
nessuno pe’ corridoi, e per le scale che possa vedersi.... Percorse
in un attimo i corridoi, guardò giù dalle scale, diè un occhiata in un
cortile: tutto era come prima: i soldati al loro bivacco; le sentinelle
immobili al loro posto e nessuna novità.

— Tutto va bene — fece Giorgio tornando da Muschietti — caricherò prima
te: vieni.....

E levatolo nelle robuste braccia lo portò di peso in men che non si
dica nel laboratorio di Chimica.

Poi tornò indietro, caricò ancora Ernesto, il quale sentendosi muovere
rispose con un gemito, e con la medesima agilità e prontezza lo posò
accanto al suo compagno.

Quando fu dentro sprangò il laboratorio, e cominciò a mettersi al
sicuro d’una sorpresa interna, accese un fosforo, col fosforo un lume;
cercò nelle vetrine un po’ d’acqua coobata, ne fece bere un sorso a’
suoi due feriti, poi disse: aspettatemi...

Corse alla finestra: la sentinella era sempre al suo posto... allora
egli si tirò indietro, fe’ delle mani imbuto alla bocca e si mise
a imitare con una perfezione sorprendente il canto notturno della
civetta.

La sentinella appiedi, sorpresa dall’uggiosa nenia, si diede a guardare
su pei tetti e le finestre per veder dove venisse, ma fu indarno.
Stanca alla fine, gettò dietro l’immondo uccello una bestemmia e
riprese la sua ronda.

Ma un altro che non dormiva, e che non avrebbe certo potuto trovar
sonno in quella notte, udiva quel canto, e mano mano che si faceva più
distinto si sentiva a un tempo rimescolare il sangue e rinascere alla
vita.

Era il sergente Carrera degli _animali parlanti._

Alla fine udendo che lo stridulo animale persisteva, si volse a
Caterina e disse — non c’è dubbio. Questa civetta è Ernesto che mi
chiama, bisogna che vada ad aprire.

— Non aprite — Dio mio — disse Caterina, se qualche soldato vi vedesse
saremmo tutti perduti.

— Ma non posso lasciar solo Ernesto — fece il Carrera — avvenga che può.

E avvicinatosi alla finestra l’aperse colla massima precauzione e
stette a guardare.

Non vedeva nessuno fuorchè la sentinella ritta dell’altra parte della
strada... ma il civettìo continuava. Era dunque evidente che Ernesto
era vicino, ma che non si poteva ancora far vedere.

Decise aspettare: e appoggiata la sua fronte alla finestra, si diede
a spiare qualunque moto qualunque segno comparisse dalle case vicine e
dalla contrada.

A poco a poco s’accorse che c’era un lume entro la sala di faccia
all’Università; guardò più fissamente e vide nell’ombra dietro il
lume che un uomo gli faceva de’ segni. Egli non poteva riconoscere
l’uomo nè capire i segni; ma anche in confuso gli parevano i gesti dei
_carbonari_. Finalmente udì un’altra volta lo strido della civetta, e
si persuase che strido, lume e segni partivano tutti dallo stesso luogo
e dalla stessa persona.

Raddoppiò di curiosità e di attenzione.

Quando Giorgio si fu accertato che Carrera l’aveva veduto, si diede ad
un’altra operazione. Inutile il dire che agiva colla massima velocità e
destrezza: era un marinaio alla manovra nell’ora dell’uragano.

Prese Muschietti, lo avvolse entro un tappeto di lana che copriva uno
dei tavoloni del laboratorio; legò tutti i capi del tappeto con una
fune, e posò l’involto vicino alla finestra e disse a Muschietti di
tenersi preparato.

Prese Ernesto già risensato, lo avvolse in una gran tela celeste
tolta alla vetrina dei preparati, vi annodò collo stesso metodo
un’altra fune e lo portò vicino al primo involto facendogli la stessa
raccomandazione.

Fatto ciò, riguardò in istrada. La sentinella in quel momento era
immobile proprio a perpendicolo sotto la finestra, e in posizione tale
che non poteva veder nulla di quello che si faceva sopra il capo.
Allora Giorgio corse alla vetrina fracassata, prese la bottiglia
dell’acido prussico, la sturò con precauzione tenendola ben lontana
dalle narici, e allungò il braccio fuori della finestra, mirò la testa
della sentinella e gli versò tutta la bottiglia sul capo.

La sentinella non potè nemmeno dire «o Dio!» e cadde stecchita, fredda,
sull’istessa pietra dove si trovava.

— Povero diavolo — disse Giorgio... — ma era necessario!... e senza
perdere un attimo afferrò le funi dei due involti, le aggruppò in una
sola, e facendo punto d’appoggio sul davanzale della finestra li calò
dolcemente sulla strada. Quando vide che avevano toccato il suolo, con
un’altra corda che aveva assicurata ai piedi di una gran tavola scivolò
anch’esso nella strada.

Carrera aveva tutto osservato, e quando vide cascar morta la sentinella
restò a bocca aperta, e senza fiato e senza sensi in faccia a
quell’inaspettato spettacolo. Così stette a guardare la calata dei due
misteriosi involti e sol quando vide balzare a terra un artigliere a
lui noto, cominciò a travedere un barlume in quel mistero.

Giorgio s’accostò alla finestra degli _animali parlanti_ dove origliava
Carrera e lo chiamò per nome.

Carrera sporse il capo.

— Vieni subito ad aprire — sono i nostri due più cari amici....

Carrera scese a precipizio le scale; volle dire, chiedere, sapere....

Ma Giorgio gli chiuse la bocca e non volle perdere un minuto. I due
giovani furono introdotti nella casa, accolti fra esclamazioni di
gioia, deposti sopra due buoni letti e circondati da tutte le cure di
cui erano capaci la devozione del vecchio sergente e l’ubbidienza delle
fedele Caterina.

Dieci minuti dopo, Giorgio passava in mezzo ai posti dei granatieri
accampati per le vie; e alle sentinelle che gli davano il _chi va là_
rispondeva:

— Artigliere d’ordinanza, — e rientrava franco da ogni sospetto nel suo
quartiere.


  FINE DEL VOLUME SECONDO.




INDICE


  PARTE PRIMA: IL PADRE (Continuazione)

  XXI. Sopra una tomba.              Pag. 3

  PARTE SECONDA: IL FIGLIO

  I. È il dì dei coscritti.              13
  II. È una madre.                       19
  III. Discussione al buio.              25
  IV. Napoleone.                         35
  V. Il testamento di Battista.          47
  VI. I giovani son presto amici.        57
  VII. Il più tinto dei carbonari.       68
  VIII. Delusione.                       77
  IX. Gli «animali parlanti».            87
  X. Soldati e studenti.                 95
  XI. Confidenze.                       106
  XII. La conversione.                  111
  XIII. La partenza del coscritto.      118
  XIV. Il senatore Tacchini.            125
  XV. La situazione.                    134
  XVI. Il _D’Angennes_.                 139
  XVII. L’acido prussico.               152





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. Per comodità di lettura è
stato inserito un indice a fine volume.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE D'UN DISERTORE, VOL. 2/3 ***


    

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