Memorie d'un disertore, vol. 1/3

By Giuseppe Guerzoni

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Title: Memorie d'un disertore, vol. 1/3

Author: Giuseppe Guerzoni

Release date: July 17, 2025 [eBook #76516]

Language: Italian

Original publication: Milano: Treves, 1871

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE D'UN DISERTORE, VOL. 1/3 ***


                         MEMORIE D’UN DISERTORE

                   STORIA D’UNA FAMIGLIA DI PATRIOTTI


                                NARRATA

                                   DA
                           GIUSEPPE GUERZONI

                                VOLUME I



                                 MILANO
                           F. TREVES, EDITORE
                                 1871.




                         Proprietà letteraria.

                              TIP. TREVES




STORIA DI QUESTO LIBRO


Questo libro, quale che siasi, ha una storia che il fortuito riflesso
d’alcuni nomi e d’alcune date rende non del tutto volgare.

Esso fu scritto a Caprera, nell’inverno del 1863, e potrei dire quasi
interamente pensato sulla cima d’uno scoglio, dove andava tutte le sere
a guardar il sole che tramontava nel mare, o Garibaldi che nettava,
pochi passi lontano, le foglie degli aranci arsi dal libeccio.

Nella primavera di quel medesimo anno accompagnai Garibaldi in
Inghilterra, e non sapendo a chi confidarlo, portai meco il mio
manoscritto. Nel ritorno, tragittando la Francia, una cassa di
libri del Generale, dono ricchissimo della ammirazione britannica,
caduta probabilmente in sospetto alla polizia napoleonica, andò
misteriosamente perduta. In quella cassa v’era anche il mio povero
manoscritto.

Se non che, la prima parte del romanzo, _Il Padre_: era stata giù
pubblicata nelle appendici del _Diritto_, e poteva dirsi salva; ma la
seconda, era irreparabilmente andata, e Dio sa in che mani?

Ora, di tutto questo, al lettore non importerà probabilmente nulla;
ma io padre, non guardo se il mio figliuolo era bello o brutto: l’ho
perduto e lo rimpiango.

Tuttavia, il meglio sarebbe stato rinunciare per sempre a una
risurrezione impossibile; e se non vi fosse stato in quel romanzo
qualcosa di mio, che mi rincresceva veder morire, senza nemmeno un’ora
di luce, mi sarei forse rassegnato. Poi, a poco a poco, anche la vanità
d’autore cominciò a farmi sentire il suo prurito, e finalmente, nel
1867, mi decisi a rifare tutta la parte rimasta in Francia.

Ora, ma ora soltanto, dopo due o tre pubblicazioni, m’avveggo che
fu uno sproposito, perchè anche, a parte tutti gli altri difetti,
conviene proprio confessare, che non si può ripigliare, dopo quattro
anni, un’opera d’arte, — di scienza sarebbe un altro conto, — senza che
l’unità di stile, di colorito, di forma insomma, scompaia interamente,
ed anche quella de’ caratteri e de’ concetti si alteri profondamente.

Da ciò, quell’enorme distacco che corre tra la storia del _padre_
e quella del _figlio_, e che le farebbe credere uscite da due mani
diverse, e forse una peggiore dell’altra.

Ora, io so bene quello che attende un libro nato quasi come il mostro
d’Orazio e non mi sogno nemmeno di implorare un’indulgenza che in
simile caso sarei il primo a negare.

Ma in questo libro non ci sono soltanto le immagini scolorate e informi
del mio pensiero; c’è un uomo di spirito e di carne; un esempio, tratto
tutto dal vero, di virtù e d’eroismo, ma così vivo e potente, che può
sostenere tutti gli sguardi e tutti gli assalti, e basterebbe anche da
solo a impedire alla moralità d’una nazione di corrompersi mai.

Degli otto mesi vissuti a Caprera, forse i più belli, certo i
più sereni della mia vita, due ricordi mi son rimasti nell’animo
incancellabili: Garibaldi che scendeva tutte le mattine, zoppicando sul
suo bastone, a lavorare, come il _bonus cives, bonus Agricola_ di Marco
Catone, un filare di viti, piantato da lui; e Garibaldi che tutte le
sere, durante la cena, davanti a un pane cotto nel forno costrutto da
lui, a una zuppa di pesce pescato da lui, a una brocca d’acqua condotta
da lui, narrava colla semplice poesia d’un bardo, e colla scientifica
precisione del nautico, questo o quell’episodio delle sue venture di
mare; maravigliosa leggenda di battaglie e di tempeste, della quale
forse i poeti futuri dei due mondi comporranno un Poema.

Ora, con quell’odissea nella memoria, con quell’uomo nel cuore, col
mare tutto all’intorno, ho fatto =Battista Santafiori=.

Esso non è Garibaldi, ma è la personificazione del suo spirito
purificato dalle ombre della politica, spoglio dall’aureola
dell’apostolo e del trionfatore. Garibaldi, uomo e marinaio; come si
rivela nella semplicità della vita quotidiana e nella insospettata
intimità dell’amicizia ai pochi che l’avvicinano senza pregiudizio e
senza interesse, e sanno studiarlo anche ne’ suoi difetti, amarlo anche
ne’ suoi errori, rimaner fedeli al suo nome e dirgli

    Scevri di tema o di lusinga, il vero.

Frattanto ho pensato, che in questo contagio di letteratura fradicia
e mefitica, un tipo d’uomo, giusto, sano e vigoroso, comunque
impicciolito dall’artefice, non potrebbe fare che bene.

_Respicere exemplar vitæ, morumque jubebo_; quest’è la mia sola
giustificazione.

  _Firenze, giugno 1871._

                                                         G. GUERZONI.




MEMORIE D’UN DISERTORE




PARTE PRIMA.

IL PADRE

    «La sua faccia era faccia d’uom giusto»
                           DANTE.




I.

ODISSEA D’UN GIUSTO.


Crede forse il lettore che quell’epoca sommovitrice del Mondo, che ha
prodotto Washington e Fox, Beccaria e Condorcet, gli Enciclopedisti e
i Re filosofi, Toussaint e Buonaparte, il _primo dei Negri e il primo
dei Bianchi_, abbia generate le sole virtù, e le sole colpe, le sole
grandezze e le sole miserie che la storia registra, e che degni di
fama sieno stati soltanto gli uomini il cui nome restò scritto sotto le
statue dei Panteon e sulle arche dei Templi?...

Noi non lo crediamo!...

Legioni di genii benefici o malefici, di eroi e di mostri rigurgitano
dal sobbollimento delle rivoluzioni, come da un mare in tempesta, limo,
alghe e conchiglie. Tutti compiono la loro prava o santa missione,
e poi ripiombano oscuri, non visti, dimenticati, nel nulla. Al pari
degli storiografi delle battaglie, i quali si credono sdebitati verso
le migliaia dei forti caduti nella mischia denotandoli alla posterità
coll’unico nome del loro capitano, gli annalisti della Umanità son
paghi di compendiare nei simulacri di pochi le virtù ignorate dei più,
e senza delle quali i privilegiati non sarebbero probabilmente mai
usciti dalla mediocrità della folla.

Gran mercè se taluno sfugge all’intera notte dell’obblio raccolto in
qualche scorretta e bizzarra leggenda popolare, o raccomandato alla
memoria di numerati amici dalla pietosa fantasia d’un Poeta.

Noi pertanto sentiamo una invincibile diffidenza di quella storia
casistica o aneddotica, la quale bruciando facili incensi a’ pochi
idoli della fortuna e sulla fede di testimonianze, di continuo smentite
e contraddette, concentrando sul capo di alcuni prediletti l’aureola
della gloria, pronuncia un’empia sentenza d’obblio contro tutti quelli
le cui gesta, confuse nella gloria comune delle moltitudini, non
giunsero fino a lei.

Questo modo di fabbricare la storia è proprio di quella scuola che
colloca l’universo sopra tre piani; alla cima un Dio sempre querulo
e aggrondato, al secondo i suoi profeti dispensatori in nome suo
di favori e di castighi, al basso la vile moltitudine genuflessa e
plorante, che attende le bricciole di civiltà o le faville di luce che
i potenti vicarj della divinità lasciano piovere dalle loro cornucopie
sotto il nome di _Riforme_.

Questa scuola conduce intellettualmente all’immobilità, socialmente
al pariato, politicamente al despotismo, moralmente al fatalismo, e
sebbene essa — del pari che la filosofia che le serve di base — più non
professi apertamente i suoi principii, pur non tralascia di dedurne
mascheratamente le stesse conseguenze. A Roma essa si noma «dogma»,
a Pietroburgo «Knut», in Francia «saggezza imperiale», in Italia
«maggioranza legale». Dappertutto i popoli sono allevati a questa
scuola: stendere la mano all’elemosina dei Re; dappertutto Minerva
figlia di Giove è tratta a frugare negli avanzi del vaso di Pandora
figlia di Vulcano. Portato Dio fuori dell’umanità era logico portare la
sovranità fuori dei popoli.

Alto là!... Non c’è china più sdrucciolevole di quella del filosofare.

Una volta posatovi un piede bisogna scendere a frana; e buon per noi
che il rispetto dei lettori e nostro è venuto, speriamo, a rattenerci a
tempo.

Del resto tutto questo non avremmo detto se il padre del nostro
protagonista non fosse stato uno di quegli uomini ingiustamente puniti
dall’obblio e al quale soltanto le sventure del figlio valgono queste
pagine di una tarda, insufficente rivendicazione.

Ricorda il lettore

    Il dì ch’entro a Portoria
    Agli Alemanni il petto
    Rompeva il sasso rapido
    Del fiero giovinetto?

Or bene: ei rammenterà pure che l’esempio di Balilla trovò pochi giorni
dopo, nella città stessa, seguaci ed imitatori, un pugno di giovinetti
eroici come lui. — Genova allora era un semenzajo di Davidi de’ quali
la storia non ci ha conservato che un solo nome, il più ardito e
fortunato di tutti: Pittamuli.

Ma alla dimenticanza della storia suppliremo noi rammentando che nel
drappelletto di quei fanciulli i quali facevano a ciottolate volgere le
spalle ai giganteschi granatieri di Cesare nell’osteria di S. Benigno,
il più tenero di tutti era un giovinetto di otto anni, biondo, agile
e vivace, che i compagni chiamavano ora _Baciccia_, vezzeggiativo più
ancora che corruzione di Battista, ora _Murena_ soprannome trionfale
accordatogli dagli emuli per le molte prove al nuoto, nella quale
palestra sembrava potesse essere appena superato dal celebre pesce
ghiottornìa dei triclinii romani, e di cui Orazio aveva tante volle
cantato le delizie.

Però il nome vero del commilitone di Pittamuli era Battista Santafiori.
Da nuotatore a marinaio non c’è che un passo, e Battista a 12 anni,
perduti i genitori pescivendoli che avevano aspirato a fare di lui un
avvocato della serenissima repubblica, vanità comune a tanti babbi,
s’imbarcava a bordo del _Costante_, uno dei brigantini genovesi più
velieri che salpasse per Nuova-York a quei giorni.

Voler narrare tutte le avventure di Murena sarebbe per sè sola materia
di un grosso volume, e a noi non importa qui che sbozzarne i tratti
principali affinchè ciascuno possa conoscere dalla semenza il frutto,
dal padre il figliuolo.

Corse tutt’i mari d’America, prima mozzo e poi marinaio, a bordo dello
stesso _brik_ sul quale s’era imbarcato. Conobbe con esso le brezze
costanti degli alizei e le calme canicolari dell’equatore, guardò senza
impallidire la faccia irata della tempesta, passò piegando la vela
innanzi ai terribili colpi di vento del golfo del Messico e duellò di
destrezza coi tifoni del mare della China; interrogò divinando, non
comprendendo le misteriose correnti che forse sono i fiumi sotterranei
dell’Oceano[1]; risolcò le vie che i due Caboti avevano insegnate e
ripercorse la rosa avventurosa di Colombo. Rasentò la Terra del fuoco
di cui Magellano aveva aperto il sentiero; risalì le corsie delle
Amazzoni e del Mississipì, e dalle gabbie del suo legno misurò gli
sterminati piani di Caracas ora aridi come il deserto della Libia,
ora verdeggianti come una pianura lombarda; udì nei dintorni delle
Amazzoni il bramito del _jaguar_ notturno e non fremette; entrò nelle
temute acque del golfo Tristo; ascoltò il muggito delle, inesplorate
ancora, bocche dell’Orenoco, e sentì quella musica solenne e terribile
rispondere come una misura al battito del suo cuore; aspirò dalle
vergini selve le balsamiche emanazioni del banano e del sicomoro, e
sceso nei giorni di calma alle prossime _estancie_, incrociò la prima
occhiata d’amore colla giovane brasiliana che gli preparava nella
ciotola casalinga il natio _maté_.

Addentratosi nelle pianure per attingere acqua, vide saltellare
intorno a sè torme di cavalli, di gazzelle e di bovi, stupidi, curiosi,
confidenti, allegri come tutti quelli che non conoscono il giogo, nè
l’odio: da Boston a Lima, da Madagascar a Canton, navigando, studiando,
lavorando, confrontando, pugnando senza posa col mare e colla terra,
coi geli polari e coi calori tropicali, e ad ogni ora colla morte;
valutando la vita come un soffio, ma il vivere come un dovere e una
missione; educato al gran libro della natura, fortificato dall’aspetto
quotidiano del pericolo, raggentilito dalla frequente comunanza colla
sventura; nelle vaste solitudini avvezzo a non interrogare altro
giudice che la coscienza, a non avere altra religione che la virtù,
ma pur vedendo nella magnificenza di tante notti, nello splendore di
tante aurore, dovunque portava la vela, un raggio di Dio; Battista
Santafiori, o, come lo chiamavano i suoi marinai, capitano _Baciccia_,
divenne in dieci anni di navigazione non diremo soltanto il più audace
ed esperto marinaio del suo tempo, ma, ciò che è più grande ancora,
uno di quegli uomini singolari dotati della benignità dell’agnello e
della forza del leone, dalle idee limpide e semplici, dalla coscienza
netta e leale; il cui occhio sorride e scuote; la cui voce accarezza
e spaventa; il cui contatto vi mortifica per voi, vi esalta per
l’umanità; che vi riconciliano con tutto ciò che vi è di più generoso,
di ideale nell’anima, che vi susurrano a ogni ora anche quando son
muti: «v’è un dovere», che forzano i più scettici a ripetere il bel
verso d’una tragedia:

    Virtude non è dunque un nome vano?...




II.

IL CAPITANO GORDIGLIA.


E, cosa rara, divenne ricco.... Il capitano del brigantino sul
quale era partito nel 1748 da Genova era invecchiato; le fatiche
soperchiavano già le sue forze, ed egli, con rammarico sì, ma doveva
cedere all’impero degli anni e ritirarsi dal mare. Il vecchio marinaio,
chiamato un giorno Murena che era già secondo a bordo della sua goletta
succeduta al _Costante_, divenuto invalido anche esso, gli parlò così:

— Senti, Murena mio!... Tu vedi che lo scafo è in rovina; che la carena
fa acqua e che non v’è catrame per tapparla. Bisogna tirarsi in secco e
aspettare che venga l’ora d’essere gettati al fuoco.

— Che cosa volete dire, capitano Gordiglia? — questo nome che Murena
gli dava era il suo.

— Eh! voglio dire che io navigare non posso più. Non c’è da scuotere
la testa, caro _Baciccia_, la è così.... E siccome la goletta se ne
ride delle raffiche e tu sei più solido della goletta e di me, così
ho deciso di nicchiarmi in alcuno di questi isolotti e di mandare te
attorno a portar cannella e caffè in luogo mio.

— Vi ringrazio della fiducia, ma pensate che vostro figlio....

— Mio figlio è un ragazzaccio, un buono a nulla; non dico il cuore,
ma la testa... ah la testa è più matta d’un delfino e più vuota d’un
canotto.... e la mano non ti dico.... bucata come un canestro. Egli
sarebbe capace in una settimana di mangiarsi la goletta colle sartie, i
paranchi, e tutto. Quando c’era io a tenerlo in riga, tant’era! filava
al lasco; ma senza di me sarebbe come mettere in mare un bastimento
senza timone.

— Scusatemi, capitano, ma io non la penso così; vostro figlio ha più
bisogno di dolcezza che di rigore. Un amico che lo trattasse con amore
potrebbe trasfigurarlo da cima a fondo. Credete a me: Livio non vale
meno degli altri; ma l’asprezza finirà col mutare in colpe i difetti di
gioventù. Promettetemi una cosa, capitano, e accetto il comando della
_Saetta_ — così chiamavasi la goletta di Gordiglia.

— Parla — fece questi.

— Lasciatemi prendere a bordo come _secondo_ il vostro Livio.

— Fa come vuoi — rispose il vecchio capitano senza poter dissimulare
la contentezza che provava nel sentire che suo figlio non era indegno
della stima del suo amico — ma te ne pentirai!

— Spero di no....

E il patto fu conchiuso.

Una settimana dopo, capitano Gordiglia aveva comperato in una ridente
vallata di Haiti, poco discosta da Porto Principe, una casa, un podere,
de’ boschi e delle mine, e vi si era installato. La _Saetta_, carica di
caffè di Portorico, comandata da Murena e in secondo da Livio, con una
fresca brezza di Sud-Est faceva vela verso lo stretto di Gibilterra.

Erano già da parecchi giorni ancorati a Cadice e alla vigilia di
partirne carichi di lana e di crini per l’Inghilterra. Capitano Murena
attendeva sul ponte alle operazioni d’imbarco delle mercanzie, mentre
il suo secondo stava a terra per sorvegliare il trasporto. I consigli
amichevoli e le cure paterne di _Baciccia_ non avevano ancora ottenuto
gran frutto sull’animo sbrigliato e indomito del suo giovane allievo,
ma egli, senza mai indietreggiare d’un palmo, quando trattavasi di
mantenere rispettata la sua autorità a bordo, non cessava mai dal
credere che l’amore soltanto avrebbe potuto ravviare il giovane
ricalcitrante.

Mentre adunque _Baciccia-Murena_ attendeva alle sue faccende, ode da
terra un tumulto d’alte grida e vede in confuso un gran tramenìo di
gente. Passargli pel capo un presentimento, indossare una giubbaccia,
far ammainare il canotto e gettarsi a voga arrancata sul molo, fu la
cosa di pochi minuti.

Giungendo, egli s’accorse che non s’era ingannato. Era Livio che tutto
scapigliato, lacere le vesti e la persona, imbrattato di polvere e
di sangue, lottava disperatamente contro tre colossali facchini del
porto, due dei quali lo tenevano per le braccia, mentre il terzo gli
maciullava la faccia con dei terribili pugni che rintronavano come
colpi di mazza sul ceppo.

Nel momento in cui Livio s’accasciava sotto l’ultimo dei colpi
sferratogli in piena faccia, compariva il capitano _Baciccia_. Preso
al collo il primo dei facchini che gli cascò sotto, con una stretta e
una giravolta lo mandò ruzzoloni, cogli occhi fuori dell’orbita, cinque
passi lontano. Tirato un pugno nel petto ad un altro gli tolse per più
minuti il fiato, mentre del terzo egli con Livio già rinsensato non
provarono gran fatica a sbarazzarsi.

La folla che batteva le mani alla sconfitta di Livio, fece largo,
ringhiosa ma circospetta, al nuovo gladiatore. _Baciccia_ presosi sotto
braccio l’amico suo, che a stento poteva sostenersi, passò in mezzo
alle genti gettando intorno a sè una di quelle occhiaie che parevano
dire: «Non mi toccate!» e si rimbarcò.

Adagiato, medicato il suo amico nella sua cabina, Baciccia chiese:

— E cosa fu?....

— Oh, capitano.... le solite! — rispose Livio.

— Cioè?....

— Passava per la strada una sgualdrinella; una di quelle che in questi
paesi chiamano _Manolas_; io le ho voluto pinzare il fianco, e i ganzi
o i parenti mi sono rovinati addosso.

— Ma Livio mio!... chi ti dice che quella donna sia una sgualdrinella
e non una fanciulla onorata?.... E quand’anche fosse stata una di
quelle sciagurate, non sai che non si insulta mai nemmeno al disonore,
perchè anche il disonore ha diritto al perdono?... E non sai che
anche la prostituzione ha il suo pudore? E lasciamo là, questa parola
prostituzione. Quanto a me trovo che la società ci ha la sua gran
parte.... Ma poi insultare una donna, Livio! e non ti viene in mente
tua madre e tua sorella?... ed hai dimenticato che gli Spagnuoli sono
la gente più gelosa del mondo?... Ma figlio mio!... È già la terza
volta che io ti levo da simili brighe, e ti ricorderai che nella
taverna di Santa Padilla a Oporto mi sono buscato una coltellata al
braccio per te. Allora m’avevi promesso di non ricadere più in codesti
bordelli, e dopo un mese ci ricapiti. Tuo padre è un uomo che non ha
mai mancato ad una promessa. Imitalo.

Livio lo guardò lungamente in silenzio. Poi mosse le labbra come avesse
l’intenzione di rispondere, ma non seppe mandar fuori altro che un
sospiro.

Battista comprese quel sospiro.

— Accetto — disse — la tua seconda promessa e son certo che la terrai.
Ora lascia che ti ricambi queste compresse. Non ci sono che i bagnuoli
per queste ferite.

Livio ritentò un’altra volta di pronunciare almeno un _grazie_, ma
un’altra volta gli s’ingroppò nella gola la voce. In luogo della parola
gli uscì un gemito, e dietro di esso un’onda di pianto copiosissima che
allagò gli origlieri, la cuccetta e il petto del suo amico, chino su di
lui a medicarlo.

Quel pianto fu come un rivo che scava nella roccia un sentiero e lo
rende accessibile. La strada del pentimento era aperta; il buon angelo
poteva inoltrarsi; il cattivo ne era già fuggito via.

Da quel giorno infatti Livio cambiò temperamento, come una stanza
malsana quando l’inondano l’aria e la luce. Egli prima d’allora non
amava Battista; l’invidiava anzi per la sua perizia, il suo valore, il
suo posto di capitano che, secondo lui, eragli stato usurpato.

Ma ora ogni sentimento malvagio erasi dileguato dall’animo suo; egli
si ricordava quanto aveva fatto per lui quell’uomo così buono e così
onesto, sentiva dentro di sè ch’egli l’avrebbe amato per tutta la vita.

Irrequieto, violento, attaccabrighe, giuocatore, donnaiolo, mediocre
marinaio, mediocrissimo ufficiale, Livio proponevasi di tornare umano,
prudente, lavoratore, non indegno dell’arte che suo padre avevagli
messa fra le mani, non indegno di aver un posto nella famiglia dei
giovani onesti.

Due anni dopo questa scena, in un bel pomeriggio d’estate, capitano
Gordiglia montato sopra uno dei pianori del Cobao fissava a occhio
nudo un punto bianco sull’orizzonte. Aveva veduto e rivedeva ogni
giorno tante vele sopra quei mari che non si poteva capire la causa
di quella straordinaria attenzione. Ma il vecchio capitano aveva un
presentimento; e nessuno poteva togliergli dal capo che quella stella
bianca a fior d’acqua non fosse la _Saetta_ che tornava dal suo viaggio
in Levante.

Egli non s’ingannava. La sera del giorno stesso la _Saetta_, ad onta di
un vento un po’ fresco, entrava a vele spiegate e senza nemmeno piegare
un terzarolo, nel porto di San Domingo dal quale era partita.

Ci sarà volentieri perdonato se non diciamo le feste, gli
abbracciamenti, i racconti, i brindisi che si fecero allo
_stabilimento_ del signor capitano, così chiamavano gl’italiani la casa
sua, ma noi non vogliamo lasciarci smuovere dal proposito di abbreviare
questi episodii che son lontani dal nostro tema e che accenniamo
soltanto per l’intelligeoza delle cose future.

Quando s’ebbe pianto, riso, novellato, bevuto, brindato; quando
Gordiglia ebbe abbracciato tre o quattro volte il suo Livio, rinsavito
e rinnovato, condusse il figlio e l’amico in un altro stanzino che
servivagli di studio e disse loro:

— Lasciate che vi benedica entrambi. Voi Battista per il bene che
avete fatto a mio figlio; tu Livio per esserti reso degno dell’affetto
di tuo padre e di quest’uomo. Quanto a me sono una carcassa di cui
fino i sorci non vogliono più sapere. Uno di questi giorni me n’andrò
anch’io a ingrassare gli aloè e buona notte.... Ora sentitemi. Voi,
Battista, mi riportate due cose che appartengono a voi e non a me. —
Un milione e un altro figlio tutto diverso da quello che io vi aveva
dato. Io però sono un egoista e il figlio me lo voglio tenere io — il
milione lo do a voi e non voglio che facciate cerimonie.... Non è che
io voglia fare un prezzo al vostro benefizio. Tutt’altro!.... so bene
che voi a Livio non avete salvato soltanto la vita, ma l’onore, e ciò è
impagabile. Ma infine, ditemi voi, Battista, che avete studiato più di
me, che cosa si può dare nel mondo per compenso delle buone azioni?....
La gratitudine?... l’avete!.... L’amore?... ne avanza. Prendetevele
pure tutte queste cose; ma fate i conti e vedrete che un milioncino
d’accanto non può starci male.

Battista Murena aveva tentato invano di interrompere questo discorso
buttato fuori come una cannonata; però, quando il vecchio ebbe finito,
egli placidamente rispose:

— Quel che ho fatto per vostro figlio era mio dovere, e il compenso
del dovere adempiuto è la buona coscienza. Del resto il merito
principale è della fortuna, eppoi di queste due braccia, che se
avessero pesato meno, di Livio e di Baciccia non ce ne sarebbe più
l’insegna. La è così, capitano mio. Non credete però che io voglia
fare il santo e ascoltatemi. Come marinaio, se ho avuto fortuna e se
lo merito, datemi pure un compenso: io lo accetterò; ma non maggiore
di quello che mi viene e che ho guadagnato. Dare a me solo il milione
che abbiamo razzolato in tre, la vostra goletta, Livio ed io, sarebbe
un’ingiustizia. Di più ci sono dei marinai nell’equipaggio che hanno
lavorato più di tutti noi insieme, e se il mondo andasse come dovrebbe,
cioè se il più grosso non dovesse sempre vivere alle spese del più
piccolo, sarebbero i soli degni di ricompensa.

— E va bene! Cosa dite debba fare per essi — interruppe il vecchio...

— Per oggi una buona mano qualsiasi, una specie di strenna per il buon
viaggio, in seguito una pensione per la vecchiaia. Io vi dirò i nomi
dei più fedeli, dei più anziani e dei più bravi che sgraziatamente
son pochi. Per me gli è un altro negozio. Quando salpai per l’Europa
fu convenuto, a bocca, perchè la carta fra noi sarebbe stato un
sacrilegio, che il quinto del guadagno netto sarebbe toccato a me, i
salari di capitano per giunta. Io non voglio, non posso pretendere più
del pattuito; ma i miei salari li cedo ai marinai per la mia parte di
regalo.

Capitano Gordiglia e Livio, insistettero, disputarono, pregarono,
finsero di andare in collera; fu inutile, capitan Murena non volle
accettare che 150,000 franchi, avendo preso, per il resto del conto,
la _Saetta_ che malgrado la lunga campagna era uno dei migliori di
bandiera americana. I marinai ebbero ciascuno una manata di scudi, e
il più vecchio di tutti, già impotente, la pensione. Il giorno in cui
toccò la prima mesata, saputo che quel beneficio veniva dal capitano
Baciccia, egli sclamò:

— Quest’uomo è troppo generoso!... gli capiterà male.

Dopo un mese di riparazione e di riposo, Murena abbracciava sul molo
di Porto Principe il vecchio Gordiglia e riprendeva colla _Saetta_,
proprietà sua, la via fortunosa dell’oceano. Livio, sebbene sicuro
del suo mestiere, per non scostarsi dal padre più grave d’anni e
d’acciacchi, faceva con un piccolo brik la navigazione fra le Antille e
le coste del Messico.

I primi viaggi di Baciccia furono fortunati, ma nell’arcipelago indiano
un violento tifone lo sbalestrò contro una delle tante secche che
perfidiano sotto quelle acque e gli fu giocoforza gettar la mercanzia
per cavar fuori la goletta già trafitta a morte anch’essa e ormai
impotente alla navigazione dei grandi mari.

Coi fondi che aveva in deposito presso i suoi corrispondenti si costruì
un altro legno, e ripigliò in capo a pochi mesi la sua corsa e i suoi
traffici, e la fortuna manomessa ristorò prontamente.

Ma in uno dei piccoli porti della Provenza francese, due o tre anni
dopo, uno degli stessi marinai che aveva beneficato, gli rubò il
portafoglio che conteneva lettere di credito per circa mezzo milione; e
allora si trovò col solo bastimento e tranne alcune migliaia di lire e
un po’ di fiducia presso i suoi corrispondenti, costretto a ripigliare
da capo.

E riprincipiò senza scoraggiarsi nell’avversa come senza insuperbire
aveva perseverato nella buona fortuna. Giorgio, il figlio suo, il
nostro protagonista, trovò più tardi nelle _memorie_ di suo padre,
dalle quali desumiamo questi cenni, un foglio che narra per disteso la
storia di quel furto e la fine di quel ladro.

«Una sera — dicono le ultime pagine del racconto — pochi mesi dopo
il nostro installamento sulla riviera di Nizza, mi si affacciò, poco
discosto da casa, una donna sui quarant’anni, smunta come la fame e
macilenta come la febbre, cenciosa e sudicia come lo è quasi sempre
la miseria o la colpa. Essa, gettandosi ginocchioni attraverso i miei
passi, con uno scoppio di singhiozzi si pose ad articolare alcuni
suoni che erano più gemiti che parole. Io la rialzai e la incoraggiai a
parlare.

«Mio marito è da tre mesi malato... e non dico moribondo, perchè spero
nella Madonna benedetta... In questi tre mesi ci siamo mangiato tutto,
fino i chiodi delle muraglie... figuratevi, signore, se possiamo pagare
l’affitto di casa... Ma non la vogliono intendere... siamo in sei,
noi due e quattro bambini, e il più alto ha dieci anni..... Eravamo
ricchi; molto ricchi! ma oggi siamo più miserabili di San Rocco; colle
mie vesti copro i miei figli, e la mia gonna serve di coltre al letto
di mio marito... Come si fa a pagare?.... Eh!.... sì!... Gli uscieri
non capiscono nulla... e vengono a gettarci fuori di quel po’ di casa
che ancora ci ripara... Casa! dovrei dire «canile...» ma almeno ci
si sta al riparo dal freddo e dalle tramontane, non è vero?... Oh mio
signore... aiutatemi.... dicono tutti che siete un santo.... perchè i
vostri nemici sono i ricchi.... non i poveretti... Pensate... signor
mio benedetto, che se ci cacciano fuori; mio marito muore... ed io e i
miei figliuoli siamo sulla strada.

«La lasciai sfogare e poi le dissi: Non affliggetevi buona donna, ci si
rimedierà, e accompagnatemi verso la vostra casa.

«La seguitai e dopo un quarto d’ora di cammino mi trovai in una delle
tante caverne sordide affumicate e pestilenti, dove due terzi del
genere umano marciscono e muoiono.

«Sul buco dell’antro — che pareva una porta — stavano due uomini
occupati a scrivere sopra una cassa tarlata che serviva da tavolino,
credo un processo verbale.

«Quando mi videro s’alzarono con rispetto. Io dissi loro: « Quanto vi
deve questa gente?...»

— Duecento franchi!...

«Li aveva con me e li sborsai; i due uscieri ripiegarono i loro
fogliacci e se n’andarono.

«Allora m’accostai al giaciglio dell’ammalato per vederlo... Quale
sensazione!.... Egli aveva gli occhi sbarrati, la bocca spalancata
e bavosa, i capelli irti, mentre un rantolo uscivagli fischiando dal
petto. Voleva dirgli qualche parola per acquietarlo, quando un guizzo
di luce, una larva altra volta veduta passò davanti a’ miei occhi e mi
arrestò.

«Io scopriva in quel miserabile morente il ladro del mio portafogli.

«Egli pure m’aveva riconosciuto, e snodata alla fine la sua lingua,
ululava tremando e balzando dal suo letto:

«Grazia!... Grazia!?..

«Io domai un primo impeto d’avversione, gli stesi la mano e —
abbassando la voce perchè i suoi figli non mi udissero — gli dissi:

« — Vi perdono!... Voi avete espiato;... contate su di me... Se
guarirete e diverrete migliore avrete un amico... Addio!...

«Lasciai alla sua donna un po’ di moneta che m’era rimasta in saccoccia
e partii. L’indomani egli era morto, e la moglie trambasciata venne da
me a raccontarmi che l’ultima sua parola era stato il mio nome.

«Io feci ogni sforzo per togliere quella famiglia alla miseria, perchè
la legge che punisce nei figli la colpa dei padri; perpetua l’odio e
la vendetta sia essa insegnata a nome di Dio o degli uomini, è iniqua e
feroce».




III.

PRESAGI DI RIVOLUZIONE.


Battista Santafiori, ripetiamolo, aveva l’animo temprato come le molle
d’acciaio, più sono compresse e più scattano. Egli s’era fatto del
suo legno un amico, dei venti una famiglia, dei pericoli una festa,
del mare una patria, e come si suole delle cose caramente dilette,
accettava volentieri da esse i torti e le traversie in cambio dei molti
gaudi che gli avevano arrecato. Ma per dire tutto, Battista non era
avido di guadagno; ne’ traffici adoperavasi con perspicacia, ma con la
più scrupolosa illibatezza e persino con disinteresse; non rifiutava
dal cogliere il frutto de’ suoi sudori, ma il denaro non lo ingolosiva
e non aveva mai pensato in sua vita di far fortuna. Quando fu derubato
cercò egli stesso il ladro, ma non lo perseguitò, non lo denunziò, non
volle sapere di polizia nè di tribunali, e la sera in cui fu spogliato
cenò del miglior appetito dicendo «che aveva un nemico di meno a cui
fare la guardia».

Tornò dunque a navigare e a trafficare e in altri dieci anni rifece
il perduto. Nelle sue memorie di questo periodo troviamo, che avendo
incontrato sulle coste del Senegal un mercante negriero il quale
avevagli proposto un trasporto di negri per 10,000 dollari, egli lo
sfidò al coltello, lo uccise e lo gettò in mare.

Nel 1793 — aveva allora 36 anni — egli approdava di nuovo a Porto
Principe, e i primi passi furono verso la casa del suo amico; ma il
bravo Gordiglia non c’era più e in luogo suo gli vennero incontro Livio
figlio, una bella signora e una bambina.

— Ti presento mia moglie e mia figlia; Rosalia, questo è il mio
migliore amico.

Dopo le cose affettuose e le notizie, venuta la sera, Battista prese
un’aria di gravità che sposata alla sua bonomia pareva ancora più
solenne, e incominciò:

— Livio! Ho deciso di fissarmi anch’io in America.

— E di prender moglie? — fece Livio sorridendo.

— Perchè no! Ma quando avrò trovata la donna, allora se ne parlerà;
per ora non è di questo che si tratta. Non voglio che mettere in terra
quei soldi che ho razzolato in mare e cercarmi un campo qualunque dove
piantar la tenda.

— Avete smessa anche voi l’idea di tornare in Italia?...

— In Italia?... A far che?... Dove?... A Genova?... Alla prima
occasione mi vendono come hanno venduto or son pochi anni la Corsica
alla Francia[2]? a Milano?..... ci sono troppi cicisbei e le carezze
di Maria Teresa mi fanno tanto paura quanto la inquisizione e i
Gesuiti di Roma. A Torino, vi regnano i cortigiani, e i tamburini. A
Napoli i Borboni, sinonimo di birboni. Fossi sì gonzo!... Ma ci fosse
almeno una Italia!... Certo non me ne starei di qua dell’Atlantico — e
preferirei il tozzo di pane nero nel mio paese, a tutto l’oro del Perù.
Almeno un angolo dove ripararsi al sicuro dai preti, dai birri, dagli
imbecilli, e dagli avventurieri. Io a nove anni ho cominciato a menar
le mani pel mio paese; ed esso sebbene si chiami ancora la serenissima
repubblica di Genova, è più schiavo di prima. Per ora in Italia no!
Se verrà ch’essa si svegli, dovessi vendere l’ultimo bozzello del mio
brick, correrei anche io al mio posto, perchè la patria non si può mai
abbandonare.... Ma per ora alla larga... Ah!.... — E qui si passava una
mano sulla fronte come per afferrarvi un’idea surtavi all’improvviso. —
C’è inoltre un’altra ragione — continuava — ma te la comunicherò quando
saremo soli.

All’indomani i due amici passeggiavano lungo un viale di palme.
Battista parlava concitato e quasi ispirato; Livio ascoltava senza
fiatare, ma animato da una interna commozione facilmente riconoscibile.

— Non bisogna rifiutarsi a questa missione: il vecchio mondo si
trasforma, ed io son sicuro, non a profitto dell’errore. Io che ho
viaggiato ne ho veduto in tutti i paesi i segni precursori; società
segrete solcano la terra; e leghe filantropiche si stringono da un capo
all’altro del mondo....

A Londra Wilberforce e Fox parlano pubblicamente della emancipazione
dei negri; in Francia v’è un pugno d’uomini ancora oscuri, ma che un
giorno saranno i re del pensiero moderno — savi, stolti, diversi, ma
tutti terribili, che rinnovano la favola dei giganti e sovrappongono
montagne a montagne d’idee. I filosofi si danno la mano e i principi
tremano. Un copiatore di musica, Rousseau, ha ricevuto nella sua
casipola le visite della corte di Luigi XV; un epigramma di Voltaire
mette sossopra tutta la corte di Roma; un dramma di Beaumarchais getta
lo spavento nei nobili e nei re... Infine, non importa che io ti dica
tutti i loro nomi perchè essi si chiameranno in tutti i secoli futuri
con un nome solo: l’enciclopedia. Anche la nostra Italia dice il suo
verbo in codesta buona novella. Un marchese di Milano, Beccaria, butta
fuori un libercolo contro la pena di morte che onora la nostra patria
assai più della bussola e del telescopio, e che un giorno o l’altro
sconvolgerà il mondo. Non basta. I re stessi, quelli che non sono
affatto corrotti e imbecilliti, perdono la testa e vogliono essere, o
fingono, riformatori e filosofi. Intanto ti so dire che alla corte di
Luigi XIV si leggono le sentenze repubblicane di Bruto e si applaudono.
Prova a viaggiare, prova ad osservare, prova ad ascoltare: anche senza
volerlo ti cascano nell’orecchio delle parole che avevi perdute, o che
avevi obbliate; Libertà — popolo — ragione — diritto — e talvolta sono
marchesi e conti che le pronunciano, come un certo Bolinbroke e un
certo Montesquieu.

Potrei continuare, ma non ti dirò più che una cosa sola: Volgiti alle
colonie del Nord... non ti pare di sentire in lontananza il muggito
d’un temporale... forse chissà!... chissà che non tocchi alla giovane
America il suonare la sveglia. Certo noi siamo prossimi a un gran
cataclisma. Noi siamo alle porte di un’era nuova, all’era dei popoli,
alla nostra o Livio. Tutto ciò che è tarlato, vecchio, putrido,
mefitico, è destinato a scomparire nella voragine, e noi dobbiamo
esser pronti colla marra in mano per gettarvi sopra l’ultimo strato di
terra. Non ti pare, o Livio, che noi siamo i primi soldati di questa
battaglia; che ci va del nostro interesse, che la bandiera è quella
delle nostre credenze? Orsù, Livio, non te lo nascondo più. Io mi sono
buttato dentro in quest’opera durante i miei viaggi; ho impegnato la
mia parola e non posso più retrocedere anche volendo. Conosco tutte
le fila, sono amico di tutti i Capi, ho la parola d’ordine di tutte
le congiure e porto le notizie di tutte le società segrete degli
innominati di Svezia e d’Inghilterra, dei _filaleti_ di Francia, dei
framassoni di tutto il mondo, i quali, profittando dei miei viaggi, mi
hanno eletto il corriere della nuova propaganda.

E qui Battista mise a parte Livio Gordiglia de’ suoi progetti. Lo
consigliò ad entrare nella frammassoneria, non tanto perchè egli
prestasse fede ai riti e alle formole strane della società, quanto
perchè considerava il titolo di massone un segno d’unione e un utile
pretesto. Disse che lo scopo finale era l’emancipazione dei bianchi
in Europa, dei negri in America, del popolo dovunque. Manifestò
l’intenzione di comperarsi un terreno in qualunque degli Stati delle
colonie inglesi, giacchè non amava nè gli Spagnuoli crudeli, nè i
Francesi prepotenti, affine di potere più agevolmente propagare le
loro idee, estendere la massoneria e formare un centro da cui potesse
partire il grido della riscossa.

Frattanto egli darebbe la libertà a tutti i neri che potrebbe
comperare, ma li farebbe lavorare nelle proprie terre per dimostrare
coll’esempio quanto maggiormente produttore sia il lavoro del libero
che quello dello schiavo. Altrettanto dovrà fare Livio per S. Domingo:
si terrebbero in corrispondenza e conti d’ogni novella.

Così fu convenuto e Battista partì.

In sul principiare del 1794, noi lo troviamo installato in una vasta
fattoria della Virginia poco lontano da Monte Vernon e i di cui terreni
confinavano con quelli del piantatore Giorgio Washington; capitano
Murena aveva pagato 20,000 dollari quella tenuta che ora ne costerebbe
il doppio.

Aveva trenta negri ed altrettanti bianchi impiegati nella lavorazione
dello zucchero e del cotone. I bianchi erano di tutti i paesi, di
tutte le razze, di tutte le religioni. Irlandesi e Tedeschi, migratori
_ab antico_ per bisogno, Italiani e Francesi venturieri per istinto,
cattolici, protestanti, quacqueri, puritani, un pandemonio. Egli voleva
che lavorassero, mangiassero, abitassero, vivessero sempre in comune
fra di loro e coi negri, e non parrà vero, il più difficile non era ad
amalgamare i colori, ma la religione. Tutta quella gente che adorava o
bestemmiava un Dio diverso, offriva l’immagine di un serraglio di fiere
sprigionate. Non ci volle che la fermezza di Battista per gettare un
po’ d’amore in quelle anime ebbre di odio e d’intolleranza religiosa.

Ai negri poi, mano mano che gli venivano, faceva un discorsetto così:
— Siete liberi... siete eguali a questi — e additava i bianchi — ed a
me. Essi vi rispetteranno, voi dovete amarli. Io voglio che formiate
tutti una sola famiglia.... e vi avverto che qui non ci saranno nè
privilegi, nè differenze, le capanne sono vaste e sane, il pane sarà
buono e sufficiente; medicine e conforti, se ammalate, non mancheranno;
il salario in proporzione del lavoro. Se lavorerete poco, guadagnerete
poco, se molto, molto. Ora io vi consiglio ad essere economi se volete
trovare nella vecchiaia gli sparagni degli anni virili. Per i vostri
bisogni, pei vostri interessi, pei vostri lagni nominate fra voi o gli
Europei degli arbitri e sarà questo il primo atto della vostra libertà.
Io non ho che una proibizione a farvi: acquavite poca: mezzo bicchiere
alla mattina e basta. Chi non è contento se ne vada pure. Io scaccerò
il primo ubbriaco. Fra pochi giorni festa e banchetto di fratellanza.
Siamo intesi!...

I negri o commossi dalla promessa di libertà o uzzoliti dalla
prospettiva del banchetto, o per una ragione o per l’altra, gridarono
unanimemente: «_Viva il nostro Massa_[3]» e lo nominarono presidente
degli arbitri. Certo i battimani dei negri somigliavano assai
all’applauso che si fa ai discorsi della corona; ma fosse stato pur
vero, quando videro che quella corona manteneva insolitamente la
sua parola, si affezionarono sinceramente e illuminati da quella
insospettata luce di libertà risalirono dal tetro abisso di miseria,
di depravazione, di ignoranza in cui la schiavitù e l’odio li avevano
scaraventati. L’impresa di Battista riescì... Bianchi, neri, colorati,
cattolici, protestanti si diedero la mano e si dissero fratelli; una
vera società di mutuo soccorso s’istituì fra di loro coi loro risparmi;
la piantagione prosperò; il nome di Murena divenne l’esempio e la
meraviglia di tutti gli Americani. Fra di essi taluni lo fuggivano come
un ateo; altri lo canzonavano come un matto; i più lo denunziavano come
un uomo pericoloso e turbatore degli ordini costituiti.

Un uomo solo in quei dintorni pensava: e quell’uomo era Giorgio
Washington. Quando i due vicini s’incontravano sul confine dei loro
poderi, il discorso cadeva sempre su quell’unico tema, e il futuro
liberatore d’America sentiva qualcosa d’insolito muoversi dentro di lui
quando Battista gli raccontava i prodigi della sua piantagione.

— Ad ogni modo — quest’era la conclusione di Washington — ad ogni modo
oggi è troppo presto.

— Non è mai troppo presto signor Giorgio per compiere una giustizia —
rispondeva il nostro marinaio; e l’uno convinto e l’altro dubitante,
entrambi si separavano.

Il dubbio di Washington fu il cancro della sua patria; oggi l’America
deve amputarsi o morire.




IV.

IL TERRORE NERO.


Era trascorso un anno e palesavansi già i primi segni della riscossa
delle colonie inglesi. La tassa sul _thè_ e il bollo sulla carta
erano stati posti; la resistenza legale incominciata, la Società dei
_Figli del lavoro_ istituita e propagata dovunque; il primo albero
della libertà rizzato a Boston; riunito a Filadelfia il congresso per
decretare la famosa _dichiarazione dei diritti_, novello codice delle
nazioni; in ogni città manifestazioni popolaresche dappertutto segni di
guerra; a Concordia ed a Lexington già apertamente scoppiata.

Battista aveva deliberato il da farsi. Egli corse da Washington e gli
disse:

— La giustizia è con voi, ed io debbo seguirvi. Se la mia fortuna, il
mio braccio, la mia vita valgono qualcosa, adoperateli. Se nella guerra
avrete bisogno di marinai e di bastimenti, io e il mio _brick_ ci
poniamo ai servigi della rivoluzione.

Così fu; e da quel giorno Battista prese parte a tutti i combattimenti
navali della guerra americana. Ebbe patente di corsa contro gl’Inglesi,
armò in guerra il suo _brick_, e li perseguitò ora sui mari ora sui
fiumi, ora vincitore ora vinto, terribile sempre.

Come le Colonie avevano deciso di non servirsi più delle manifatture
della madre patria, così egli intraprese con altri legni due viaggi
in Olanda, e da corsaro divenne contrabbandiere, assai più volentieri
perchè una certa segreta ripugnanza contro il sangue parlava già nel
suo cuore e ammolliva l’energica sua fibra.

Continuò così nella sua missione eccettuate poche visite alla sua
piantagione ed a’ suoi negri fino verso la fine del novanta.

In quell’anno i negri davano i primi segni di vita e contemporaneamente
le nuove della rivoluzione francese capitavano in America. Lafayette
coi francesi preparavasi a tornare in patria; un grande vespaio di
popoli ronzava intorno ai troni dei re.

Frattanto giunsero avvisi a Battista da S. Domingo che la levata dei
negri era pronta. Chiese licenza a Washington e partì. Al suo sbarcare
a Porto Principe una immensa colonna di fiamme e di fumo annebbiava
l’aere: urli selvaggi ferivano il suo orecchio: donne e fanciulli
fuggivano per la campagna: erano i negri che si vendicavano della
secolare ferocia dei padroni con ferocia ancora più inumana. Nessun
bianco, nessuna casa di bianco era risparmiata; dove il ferro, dove il
fuoco, dove la corda, dove la lama; la strage era cieca e sorda e non
conosceva più nessuno, nè amici, nè avversari.

Battista pensò alla casa del suo Livio; essa era appunto nella
direzione dell’incendio. Montò un cavallo e via ventre a terra sulla
strada che guidava alla tenuta del suo amico. Era tardi, il fuoco
avealo già avviluppato, e un coro di negri briachi di rhum cantava una
feroce nenia di sangue, mentre altri ammonticchiavano i fasci d’una
pira.

Battista giungeva nel punto in cui l’ultimo fascio era collocato.

I negri urlavano — «La donna!... la donna!...»

— Fermi — gridò Battista — quale donna?...

— Ah! un bianco, un altro bianco... alla corda, al fuoco...

Battista non si mosse, ma con voce tuonante intimò:

— Indietro forsennati!... Dov’è Toussaint, dov’è Cristophe?...

A questi nomi i negri si ristettero.

— Chiamatemi Toussaint — replicò Battista.

Un negro alto, robusto, grigio, dall’occhio vivo e dalle labbra meno
grosse di quelle della sua razza, uscì da un crocchio appartato ed
esclamò:

— Chi chiede di me?...

— Io!...

— Murena! — fece il negro levandosi il suo largo cappello di palma. —
Gloria a lui, fratelli, egli è nostro maestro!...

I negri s’inginocchiarono con superstizioso rispetto.

— Dov’è la donna che si minaccia del rogo?... Parlate Toussaint!

— Dov’è la donna che si minaccia del rogo?... chiese questi alla sua
volta.

Due negri partirono per cercarla.

— È un’empia rivoluzione quella che si inaugura col sangue. Dal sangue
non rampolla fiore di libertà, bensì la gramigna ancor più velenosa
d’una nuova tirannia. Rammentatelo Toussaint.

— Lo so!... fece sospirando il re dei negri — ma chi potrebbe dire a
questo fiume di odii e di vendette ingorgato da secoli: «Arrestati!»
Chi interpreta le intenzioni di Dio?... Non ha egli inviato il suo
angiolo a sterminare in una sola notte i nemici del suo popolo?...

— Un Dio che si vendica, è un Dio bugiardo — rispose Battista che era
mondo dalla lebbra biblica del suo amico.

I due negri ritornavano sostenendo una donna che recava nelle sue
braccia un bambino. Era pallida come una morta, gli occhi le si erano
sprofondati entro due cerchi lividi; i denti dibatteva come per febbre:
camminava a guisa di sonnambula, e malgrado ciò era impossibile non
ammirare le tracce incancellate d’una nativa bellezza. Un dolore
sincero, come tutto ciò che è nobile e santo, non deforma mai.

Tosto che la vide, Murena la riconobbe — Rosalia!... — sclamò egli.

Era veramente la moglie di Livio; ma la donna alzò gli occhi, guatò
fissa, e rispose all’amico di suo marito con una di quelle laide
contorsioni delle labbra che paiono sorriso, e non sono altro che i
segni precursori della pazzia.

— Rosalia!... Sono Battista Santafiori... Sono Murena... Vengo in cerca
di Livio...

A questo nome la donna si strinse disperata al seno il suo bambino e
proruppe in un pianto gemebondo simile all’ululato di una fiera. Essa
aveva perduto nella strage il marito e la figlia maggiore, e nel giorno
istesso i negri la condannavano coll’altro figliuolo, ancora lattante,
alle fiamme del rogo...

Il dolore le dava al cuore, il terrore al cervello; l’uno la faceva
piangere, l’altro sghignazzare: connubio terribile da cui nasce la
demenza.

Murena comprese tutto. Si fe’ recare dei cavalli e la trasportò seco
a Porto Principe; conosciuto da tutti, potè circondare la salvata di
tutte le cure. Egli stesso fu medico, infermiere, amico, protettore.
Dopo pochi giorni potò trasportarla presso una sua zia vicino al Capo,
sulle coste opposte, dove il _terrore negro_ non poteva arrivare.

Quest’esordio sanguinoso della emancipazione d’una gente, per la
quale egli aveva tanto operato, l’aveva amareggiato e disgustato. Le
voci della rivoluzione francese arrivavano ogni giorno abbellite da’
novellieri, ingrossate dalla distanza e dalle passioni. Lettere private
pervenivano a Battista annunziando: «l’Italia già invasa dalle nuove
idee di libertà, pronta a levarsi in armi, a dar la mano ai fratelli
repubblicani trasalpini, a ricostruire la patria».

— È là il mio posto — pensava Battista — ma questa donna? questo
fanciullo?

Rosalia s’era ricuperata; la piaga stavale sempre viva e rodente nel
cuore, ma lo spirito erasi interamente liberato. Essa riconosceva
il suo liberatore, lo ringraziava e lo amava della più riconoscente
amicizia. D’altronde ella era madre e sentiva il dovere di vivere per
suo figlio, il quale, dopo la perdita del padre e degli averi, era
ridotto alla più nuda miseria.

Ora la demente avea già la forza di dire: — Signor Battista!... il
mio Michele — e additava il suo bambino — vi rimunererà un giorno di
questo beneficio. Non è vero Michelino che tu pagherai il tuo debito di
gratitudine anche per tua madre?...

Il fanciullino rispondeva strillando e la madre lo baciucchiava per
acquietarlo. Vestita a bruno, illuminata da uno splendido pallore, ne’
momenti delle sue espansioni materne, quella donna sembrava più bella
di prima.

Erano appena scorsi tre mesi, e Battista sentiva di non poter più
guardarla colla stessa franchezza di prima.

Ma egli frattanto aveva fatto il suo progetto. Tornò alla sua fattoria
nella Virginia; ne vendette parte a Washington, già ritiratosi per la
prima volta dalla scena politica nelle terre, e il rimanente ad altri
coltivatori; congedò i suoi negri già liberati e li accompagnò con
regali e pensioni. Cedette due dei suoi bastimenti; e non ne ritenne
che uno, cui ribattezzò col nome di _Livio_, in memoria del perduto
amico. Intascò con tutto questo un milione a cui poteva aggiungerne
un’altra metà in denaro, cambiali e buoni sulla banca di Filadelfia.

In tutte queste operazioni era trascorso un anno. La signora Rosalia
col figliuolino era sempre rimasta al Capo presso la vecchia zia e
sotto la protezione speciale di Toussaint Louverture. Quando Ballista
tornò, ritrovolla assai più calma; essa aveva ripresi tutti gli usati
uffici di donna; qualche volta sorrideva melanconicamente, tal altra
arrossiva come una fanciulla davanti alle occhiate di Battista, e senza
sapere il perchè abbassava le pupille.

Egli un giorno la colse sola nella sua stanza, deliberato di rompere
il ghiaccio e di aprirle l’animo suo. Le parlò del progetto che aveva
fatto di tornare in Europa, dei suoi doveri di cittadino, delle sue
idee di rivoluzionario, della sua fede impegnata. Le confidò d’aver
tutto venduto, meno il _brick_ che doveva riportare nella patria
che aveva lasciata bambina. Le fece considerare che essa era sola,
povera, denudata d’ogni cosa, col peso troppo caro della sua creatura,
circondata da una popolazione feroce in momenti procellosi.

— Per questo — e a questo punto la voce di Battista cominciò a tremare
— io vi consiglio Rosalia a... — e la voce gli si appannò del tutto.

— A che cosa? — fece Rosalia impallidendo alla sua volta e sprofondando
i suoi grandi occhi celesti nella faccia di Battista.

Questi esitò ancora; ma poi si decise e pronunciò chiaro e secco:

— A rimaritarvi.

— Rimaritarmi!... E Livio? — disse Rosalia alzando gli occhi al cielo
— e Michele?... — additando il suo pargolo. — Epperò... rimaritarmi...
con chi?

— Alle corte, Rosalia... con me!...

L’anima di Rosalia tremò tutta, ma invisibilmente. Se vi fosse una
chimica che valesse a decomporre le sensazioni avrebbe trovato in quel
tremito molti atomi di gioia. Essa accettò, ma chiese di rispettare
la memoria di suo marito ancora per qualche mese, e fu pattuito che il
matrimonio seguirebbe in Europa.

Battista con Rosalia, Michelino, due vecchi servitori, che eran
piuttosto suoi amici d’America, riprese la via d’Oriente e in capo a
due mesi di navigazione rivide da lontano le cime dell’Alpi marittime,
la chioma del Mon Boron, l’anfiteatro ridente di Nizza, e più basso,
avvolte d’azzurro, le ondulazioni dell’Appennino ligure da cui
giovinetto aveva lanciato la lenza e il palamite, o s’era spiccato,
audace nuotatore, a snidare da’ loro profondi recessi i gronghi e le
murene. Là egli sentì echeggiare nel suo cuore il grido dei compagni di
Enea: _Italiam! Italiam!_ e cacciatosi a cavalcioni del suo bompresso
ristette lungamente a contemplare, inondato di lagrime, le sacre
immagini redivive della patria sua.

Nelle vicinanze di Nizza, in una valle tutta dorata d’aranci e fronzuta
di vigne e d’oliveti, s’accasò. Era una delle più vaste e ricche
possessioni dei dintorni; vi buttò dentro senza contare, due terzi del
denaro raccolto in America dicendo: — che anche quel cielo e quel mare
bisognava pagarli.

Nell’inverno del 1793 condusse Rosalia all’altare; egli aveva allora
cinquantacinque anni, e sua moglie ventiquattro. Ma l’una ne dimostrava
più di trenta, l’altro appena quaranta: il dolore aveva invecchiata
la donna; la vita attiva, battagliera e nell’istesso tempo rigida e
monacale avevano prolungato sulla fronte dell’uomo le vestigia della
giovinezza. Per questo la disparità degli anni adeguavasi, ed essi si
amavano.




V.

RITORNO IN PATRIA.


Battista non aveva interrotto nè le sue relazioni politiche nè i suoi
viaggi. Egli arrivava in Europa nel colmo della rivoluzione francese,
in quel momento infernale e sublime che sarà, per tutti i secoli, lo
spettro dei re e il rimorso della libertà: il _novantatrè_. La testa
di Luigi rotolava sul palco: Collot e Saint-Juste decretavano il
delitto, Carnot la vittoria: di qui Valmy, Jemappes, di là gli annegati
di Nantes e gli agghiacciati di Avignone; dovunque la vertigine del
sangue, del martirio, della grandezza. La Francia era un’ossessa che
fra mostruose convulsioni rivelava il futuro. Innanzi ad essa l’Europa
abbrividiva e sperava. I re movevano i loro battaglioni ma facevano
le loro preghiere: i popoli aspettavano come gli antichi millenari
il giudizio universale. Però la nostra coscienza è ancora incerta su
quell’epoca ciclopica e vediamo che non meno dubbiosa è la storia.
Chateaubriand condanna, Michelet compiange, Thiers esalta, Blanc
giustifica, Capfigue maledice: tutti ammirano.

Fino ad ora il giudizio più profondo e più esatto è quello di
Victor Hugo: «Una rivoluzione è una nube che i secoli hanno carica
d’elettrico. Viene il momento in cui la nube tuona, la folgore
scroscia. Allora chi fa il processo alla folgore, erra; deve farlo ai
secoli che hanno fecondato d’elettrico la nube».

Ma se dubitiamo noi che siamo lontani e che, ad ogni modo, cogliamo il
frutto senza insanguinarci la mano, quale sarebbe stato l’animo nostro
se, come Battista, fossimo vissuti in mezzo alla tragica epopea?...

A lui pareva d’assistere a un sogno di spiriti soprannaturali quali
devono essere apparsi alla fantasia di Milton nel sognare la battaglia
degli Arcangeli e de’ Demonii.

Egli sentiva di essere chiamato a decidere fra la fede sublime
e sacrosanta della libertà, e la legge ancora più alta e divina
dell’umanità e dell’amore. Alcune volte considerava il _Comitato
di salute pubblica_ come un tribunale di Dio mandato in terra a
giudicare le colpe di venti generazioni di re; tal’altra vedeva la
folla inzuppare i fazzoletti del sangue dei Girondini e pensava a
Cristo che aveva fondato una legge d’amore col proprio martirio, e
preconizzava alla Francia la fine di Nemrod e di Encelado. Conosceva
taluni convenzionali a Parigi e specialmente Grégoire; egli andò,
parlò, perorò, ma comprese che era stoltezza tentare di arrestare
quell’uragano nel suo cammino. Egli ripartì abbagliato e atterrito.
Allora corse per l’Italia, a Milano, a Firenze, a Napoli, a Roma,
ascoltò giudizi diversi, ma nessuno conforme al suo ideale. Liberali
che invocavano la repubblica dalle armi straniere; plebi che si
preparavano a combattere contro la libertà a favore di regoli che
le imbecillivano e le eviravano; chi sognava un’Italia francese, chi
un’Italia borbonica, chi un’austriaca, nessuno un’Italia italiana; ed
egli fuggì ancora. Le illusioni gli erano cadute a lembi a lembi come
dal capo d’una sposa tradita il serto di nozze.

L’invasione del Piemonte, Bonaparte, Massena; Genova, Marengo, i
Giacobini, i Barbetti, la Marsigliese, la Carmagnola, passarono sopra
di lui come una pioggia sopra un terreno granitico.

Conobbe Birago, Pino, i pochissimi altri che aspiravano a una libertà
umana e a una Italia non francese e s’iscrisse per mezzo loro alla
_società dei raggi_, cui aiutò largamente del suo denaro. Ma incredulo
degli eventi e degli uomini, non fu più l’audace e attivo cospiratore
che in sul finire dell’altro secolo aveva aiutata la rivolta degli
Inglesi e dei Negri di S. Domingo. Egli adorava e aspettava sempre una
libertà, ma sentiva che la sua ora non era per anco suonata.

Per questo si ritrasse nella sua villa di Nizza, in seno alla sua
famiglia che l’aspettava, proponendosi come voto alla sopravvegnente
vecchiaia la beneficenza indistinta e illimitata. La sua casa mutò
in ospizio. Molte persone inutili, ch’egli non conosceva nemmeno,
passavano per servitori, ma in realtà non erano che beneficati oziosi e
nulla più. Nessun operaio veniva a chiedergli lavoro senza che Battista
dicesse:

— Lavoro non ce n’è per ora; ma restate lo stesso.

Non forastiero, non vagabondo, non faccia bieca o sospettosa picchiava
alla sua porta che non la trovasse subito spalancata. In cucina
c’era imbandita una gran mensa e tutti vi trovavano posto. In quel
rivolgimento anche le fortune se n’erano risentite; molte s’erano
inabissate, molte erano salite alla cima. La voce delle prodigali
beneficenze di Battista si sparse; benchè molti le berteggiassero o
le compatissero, parecchi trovarono spediente di metterle a profitto.
Quindi grandi domande di denaro, numerosi prestiti, pochissime
garanzie. Ma i debitori diventano per solito inimici, e Battista più
s’avanzava nella via stretta e così poco battuta della beneficenza,
più sentiva incalzarlo la frusta della maldicenza e il sibilo della
calunnia.

L’impero non passò soltanto inosservato, ma ridestò per un istante
l’energica fibra di Battista, ed egli invocò ancora un lampo di
vita italiana. Invano. L’ode di Ugo Foscolo a Buonaparte liberatore
e la sublime orazione che l’accompagna, gli fecero credere d’aver
trovato un fratello di speranza; la resistenza della Spagna l’esaltò
e inviò a Palafox 20,000 franchi del suo per aiutar la riscossa, ma
in breve vide disperdersi nel nulla la catilinaria del Foscolo; i
frati usufruttare il sangue di Osterliza e Saragozza, e Napoleone
esser chiamato dal più versatile dei poeti viventi italiani: _rivale
di Giove_[4]. In quest’epoca di onnipotenza soldatesca, egli ed i
suoi ebbero a pazientare più volte le soperchierie, i soprusi, le
devastazioni, le insolenze degli eserciti conquistatori, e non trovò
gl’Italiani da meno dei Francesi nel disprezzo di quegli uomini in
giubba che veniva loro insegnato dall’imperiale maestro. Un sentimento
di ripugnanza insuperabile cominciò a farsi strada nel suo cuore
per quella aristocrazia gallonata della sciabola che subentra sotto
nuove forme all’abbattuto feudalismo. Sebbene egli non avesse mai
tralasciato di offerire il suo letto a un ferito e la sua casa a un
fuggiasco; sebbene egli pure si sentisse qualche volta stranamente
commosso all’epico poema di quei giganteschi figli della strage e
della vittoria, i quali andavano a morire sui ghiacci della Moscowa o
nelle gole della Catalogna, pur beati d’ottenere un cenno o un sorriso
del Cesare imperturbabile; pure quando pensava che tutta quella gente
allineata, piumata, dorata, coronata dall’aureola di cento battaglie,
non era che la sbirraglia d’un torvo dispotismo; che sulle due fronti
di quel Giano così splendido che nomavasi _il grande esercito_ stava il
suggello della gloria in compagnia del marchio della schiavitù; quando
paragonava i loro cannoni, i loro moschetti, i loro cavalli, i loro
treni risuonanti e pomposi, coi ciottoli di Balilla e di Pittamuli,
coi modesti soldati di Washington, coi laceri volontari di Mina, colla
credente legione di Körner; quando richiamava tutto questo dinanzi
al tribunale della sua coscienza, oh allora egli disprezzava quella
pompa, malediceva quella gloria! e se per caso i suoi figli balzavano
alla finestra per veder sfilare coll’avidità dei fanciulli i luminosi
corazzieri di Bessières, o i rapidi volteggiatori di Junot, egli
interrompeva la loro ammirazione e il loro entusiasmo con la solita
frase beffarda: «Quella che passa è la gloria in livrea».

In sul finire del 1805 la famiglia di Battista Santafiori, oltrechè di
Rosalia e di Michele figliuolo di Livio, si componeva di Giorgio nato
nel 1800, e così nominato in omaggio a Washington, e di Livia, caro e
pio ricordo alla madre del primo marito, al padre dell’amico arso dai
negri. Otto anni appresso vi si aggiunse Balilla, altro nome che si
collegava alle rimembranze storiche del compagno di Pittamuli.

Verso l’epoca suaccennata i negozi del Santafiori cominciavano a
deperire davvero. Scarsi i ricolti, gravissime le gabelle, incessanti e
laute le limosine, troppo facile il credito; tuttociò aveva costretto
Battista a riparare alle molte obbligazioni assunte sottraendo dalla
sua possessione i terreni più feraci e vendendoli. Egli avrebbe potuto
intascare i denari prestati, ma parte perchè non si fondavano su
documenti legali in regola, parte perchè a lui ripugnava correre su
pei tribunali e perseguitare gente che veniva colle lagrime agli occhi
a dirgli: «non possiamo pagare», egli non si curò mai di questo per
ripristinare la menomata fortuna.

Pensò invece di tornare al mare di nuovo, a cui lo spingeva d’altronde
l’amore dell’arte e il disgusto degli avvenimenti.

La moglie tentò dissuaderlo: ma egli la acquetò colla ragione del
benessere de’ figliuoli; e fatto costruire un brigantino, di suo genio,
di 200 tonnellate, s’apprestò a partire.




VI.

ABORTO MORALE.


Michele, il figlio di Livio, aveva allora circa tredici anni. Battista,
che era incapace di parzialità, non tollerava alcuna differenza fra
lui e i suoi figliuoli e lo aveva caro del pari, sebbene in cuor
suo sentisse crescere col tempo non voluta e indomabile una certa
freddezza. E questa freddezza non derivava già dall’essere Michele
suo figliastro, perocchè la memoria del suo povero amico e l’affetto
profondo per Rosalia glielo rendevano sacro, ma da certe inclinazioni
o istinti, che aveva veduto svilupparsi nel fanciullo, cui indarno
sforzavasi combattere, e che pure si piantavano in mezzo fra figliuolo
e padrino come una muraglia che vietava loro di ricongiungersi
del tutto, o come un corpo refrattario frapposto a due elettricità
contrarie che le paralizzava.

Michele era un bel ragazzo; brunetto sì, ma regolare, e foggiate
con grazia le linee del volto; i capelli neri, fini e ricciuti, le
labbra sottili, il naso piccolo e ben disegnato: gli occhi soltanto
erano un po’ rotondi e affossati, di quel color dubbio e cangiante
che volgarmente si chiama castano, ma che non si può riscontrare
che nell’occhio di certi animali sinistri, e di cui non la penna, ma
la tavolozza soltanto può riprodurre l’immagine. Giovinotto ancora
spiegava ben proporzionate, svelte ed ampie le forme del corpo, che in
ragione dell’età potevano essere dette, senza iperbole, gigantesche.

Battista, osservandolo talvolta, esclamava dentro di sè: «che magnifico
marinaio!... se non gli mancasse questo....» e si picchiava il petto
dalla parte del cuore.

Non c’era allora che il padrino che la pensasse così. I famigliari, i
conoscenti, la madre stessa, tutti quelli che lo ammiravano atletico,
ritto, cinghiato, col cappellino alla brava, col passo cadenzato e
sonoro, fra il ballerino e il militare, erano disposti a profetare in
lui un altro Murat o un altro Ney, che erano i nomi e i tipi del tempo.

Tanto più ringagliardivasi questa credenza quando pensavasi che esso
aveva nel padre una scuola vivente di generosità e di prodezza,
e quando lo si vedeva, pargoletto, consumare le mezze giornate a
fabbricar cappelli e pennacchi da generale, a trascinare sciaboloni
di legno, a cavalcare tutte le scope della casa, a comandare assalti e
parate a uno squadroncino di docili monelli, di cui egli voleva essere
inesorabilmente il capitano o nulla.

Battista qualche volta gli ammainava una lenza, o gli regalava una
barchetta di sughero alberata e velata, o lo invitava a venire a
pescare con lui. Inutile: o il ragazzo non andava o andava di mala
voglia. Tentò di addestrarlo al nuoto; peggio. Michele si impennava,
stralunava gli occhi, e se il padre persisteva, l’atleta sveniva di
paura.

La verità era che Michele idoleggiava il fracasso; che aveva genio
per tutto ciò che era tuonante e sfarzoso, cominciando dalla propria
persona, che malgrado i consigli e i rifiuti del padre, trovava sempre
modo colla condiscendenza materna di abbellire di vesti eleganti, e
potremo dire, per il luogo, sfoggiate.

Ma appena i suoi gusti spettacolosi dovessero costargli qualche
cosa, un lavoro serio, un pericolo reale, oh allora il suo cuore si
sgonfiava, le suo pose eroiche perdevano l’usato appiombo, e la sua
cervice, come un’ostrica tocca sulla testa, si raggricchiava nel
guscio.

È chiaro, è conseguenza di questo, che Michele non lottasse che
quando la vittoria era sicura, non amasse altri emuli che i minori e
fosse prepotente coi più deboli. È chiaro che egli fosse rodomonte e
squarciagiramo, e nell’istesso tempo inetto e poltrone; è chiaro che
egli non amasse il mare, forse per un’avversione naturale all’acqua,
ma ancora per le fatiche e i pericoli che portava seco coll’onta per
giunta — onta inescusabile per lui — d’essere sorpreso colla camicia
lacera, coi piedi nudi, colla faccia tinta, colle mani sudicie o
callose, quando il suo ideale era di sfoggiare la più bella giubba
ricamata, fosse pure stata una livrea, o di pavoneggiarsi dentro un
dorato corsettino da ussero, lo avesse pur dovuto pagare colla servitù
di tutta la vita. Egli era infatti della razza prolifica e non bene
mascherata di coloro che amano portare un collare dorato per farne
portare ad altri uno di ferro; razza ibrida che sta fra i padroni e gli
schiavi, senza la potenza degli uni e la speranza degli altri; razza
che annidò nel Medio Evo fra il castello del signorotto e il casolare
del servo col nome di vassalli; che passeggia nelle anticamere delle
corti fra i re e le plebi col nome di cortigiani; che nella società
moderna nidifica nei corridoi e nelle casematte del potere e si nomina
insieme burocrazia e militarismo.

Più Michele procedeva negli anni e più l’istinto del _parere_
sviluppavasi d’accordo e gemello all’istinto del _dolce far nulla_. In
lui si accoppiavano già le forme d’un tamburo maggiore al cuoricino
d’un capo d’ufficio, o se più piace un paragone classico, le membra
d’Aiace Telamonio all’anima di Tersite. Questo carattere parve ancora
più spiccato quando Battista risoltosi a vedere cosa avesse imparato
dalle lezioni quotidiane del maestro di casa — una specie d’_Ajo
nell’imbarazzo_ che Battista aveva ricoverato — s’accorse che la testa
del suo figlioccio poteva benissimo servire alle funzioni della _tabula
rasa_ di Locke.

— Ah!... vivaddio!... anche ignorante.... è troppo — borbottava
Battista — che quella povera donna di sua madre non lo sappia! se ne
angoscerebbe a morirne. Bisogna risolversi a portarlo lontano da casa
e trovargli una buona scuola e un maestro energico.... se no abortisce
del tutto.

Il padrino aveva ragione. Michele, nato da quell’angelica donna di
Rosalia e da quell’onesto uomo di Livio, poteva dirsi: un aborto
morale.

Ma quanto a scuola, o collegi imperiali o gesuitici, Battista non
voleva saperne degli uni e molto meno degli altri. Credette meglio
collocarlo a Genova nella scuola privata d’un antico suo beneficato,
ex-luogotenente di corvetta, che aveva perduto una gamba nel
combattimento che la fregata sarda _Alceste_ sostenne nel novantatre
contro la francese _Boudeuse_ nelle acque di Sardegna. Ma il re
proscritto non avevagli potuto pagare la pensione della sua gamba, e il
conquistatore non la volle concedere perchè egli non la richiese.

D’onde alcuni anni d’onesta povertà che Battista estimò e sollevò,
ricompensato dalla più sincera gratitudine. Era il luogotenente, per
verità, uomo di lettere mediocre, ma dotto assai nelle matematiche,
di carattere fermo e severo, e reputato abilissimo a disciplinare
una scolaresca, lui che aveva tenuto a bacchetta le ciurme del suo
bastimento.

Battista gli condusse il figlioccio e glielo raccomandò così:

— Gl’insegnerete l’italiano, il francese e l’inglese: un po’ di storia,
ma scelta, e le matematiche tutte. Confortategli la mente di idee
virili e il cuore di sentimenti generosi. Ricordategli spesso, come un
capitolo del catechismo del suo secondo padre, queste tre massime: «la
vita è un campo che bisogna inaffiare col proprio sudore; non bassezza
perchè nessuno è servo, non alterigia perchè nessuno è padrone;
l’umanità è la famiglia comune, e se non la è dobbiamo fare che la
sia». Se riuscirete a fare di lui un onesto e abile negoziante ve ne
sarò grato per tutta la vita. Io intanto aggiungo alla pensione comune
un regalo di cinquecento franchi, e se vedrò progressi in capo a un
anno ne avrete altri mille. Combattete tutte le vanità, dileguate tutti
i fumi e confondete tutte le servili smancerie. Ridatemi un uomo — voi
mi capite. — Addio.

Un po’ rassicurato sul conto del maestro e del figlioccio, abbracciata
la famiglia, Battista s’imbarcò sul suo nuovo _brick_ e drizzò la prua
verso levante.

A quell’epoca Genova, al pari di tutte le città italiane, subiva
l’abbaglio della meteora napoleonica, e nella festa instancabile e
storditrice che i conquistatori imponevano ai conquistati essa offeriva
volentieri per tappeto il suo manto di dogaressa e ballava nella ridda
comune. Napoleone gongolava se poteva scimiottare i cerimoniali del _re
sole_; i marescialli gongolavano se potevano scimiottare Napoleone, e i
popoli i marescialli.

Quando Michele capitò nella metropoli della Liguria provò come le
vertigini d’una fantasmagoria.

Una danza, una musica continua passava sotto i suoi occhi; egli che
pure tante grandezze aveva sognate, non avrebbe mai osato credere vi
potesse essere al mondo tanto oro, tante gemme, dell’armi sì splendide,
delle vesti sì ricche, dei cavalli così superbi, dei cocchi così
lussureggianti, degli uomini così applauditi, delle donne così belle,
così seducenti, così corteggiate.

Il barbaro, che uscito dalla nebbia delle sue foreste, affacciossi
per la prima volta alla vetta dell’alpi vietate e vide mollemente
adagiata fra le sue marine, illuminata dallo eterno sorriso del suo
cielo, coronata di olivi e di cedri, cosparsa di pampini e di viole, la
terra impromessa delle nazioni, non deve aver provato nè desiderio, nè
ansia, nè rapimento maggiore di quello che Michele provò innanzi alle
larve lusinghiere e tentatrici che sfilavano a lui davanti nella scena
splendida e variopinta di _Genova la bella_.

L’avido giovinetto avrebbe dato come Faust l’anima a Mefistofele per
un’ora sola di quel lauto banchetto.




VII.

MERCATO.


Il maestro studiò, comprese, invigilò, contenne col rigore e la
disciplina l’alunno quattordicenne; ma non poteva più imbrigliare
il giovinotto di diciott’anni. Egli aveva già scritto più lettere a
Battista, sempre in mare, avvertendolo degli scarsi profitti della
mente e degli scarsissimi del cuore; e pregandolo a ripigliarsi il
figlioccio. Ma Battista, sebbene angustiato da tristi presentimenti,
temette peggio l’indulgenza dalla madre e lo pregò di tenerlo in
custodia ancora per alquanti mesi, chè egli non avrebbe tardato a
ritornare. Ma era già tardi.

Il momento critico e supremo della vita di un giovane è quello
dell’amore. La donna che egli incontrerà per la prima deciderà di tutta
la sua vita e sarà, come dice Francesca, _un punto solo_.

Spirito del cielo o dell’abisso, Fata o strega, Eva dominerà. Reciderà
a Sansone la chioma e addormenterà Rinaldo nelle molli braccia
d’Armida. Condannerà Orlando alla furibonda odissea, spingerà Werther
al suicidio, desterà Dante alle divine visioni, spingerà Macbeth sul
trono insanguinato, consiglierà a Gesù la santa menzogna del miracolo
di Lazzaro. I patriarchi la chiameranno «_dardo acuto del demonio e
sentinella avanzata dell’inferno_» e i santi sacrificheranno ad esso
nelle agapi fraterne e gli angeli scenderanno a cercarla sulla terra.
Maometto la collocherà alle porte del paradiso; Cherubino, porterà
un raggio di cielo nei cuori dannati; Satana, avvolgerà di caligine
le anime più candide. Non vi è corruzione incurabile come non vi è
inespugnabile virtù innanzi ad essa; tutto piega, tutto muta innanzi
all’amore di cui la donna fu posta sacerdotessa. L’amore — dice un
profondo proverbio — è più forte della morte; «amore alma è del mondo,
amore e mente» cantò Petrarca, e meglio ancora Dante rivelò le avverse
potenze dell’amore alto e divino, basso e sensuale, e lo fece semente
d’ogni virtude come complice d’ogni male.

Per questo il giovine diciottenne, che in Genova lanciava la prima
occhiata di desiderio sopra una donna, non sapeva in quale terribile
mistero ei fosse iniziato; non sapeva di giuocare con quella
donna tutto il suo destino. Giulietta poteva santificarlo, Aspasia
depravarlo. Egli non ebbe fortuna e trovò Aspasia.

Fu allora un delirio; e non appena il cinto della Venere terrestre
gli cadde sotto gli occhi con tutti i suoi procaci fulgori, si pose
disperatamente a testa bassa a correre la giostra.

Michele era innamorato — e desideriamo che il lettore distingua. — Si
ama col cuore e s’innamora coi sensi.

Un avanzo delle centomila sirene che nell’epoche corrotte moltiplicano
e sovraneggiano, vide, non vista, le salde spalle e le erculee
forme di Michele e lo agognò e lo scelse come Caterina II sceglieva
Potemkin o Pasifae il toro. Bellissima, da giovine erasi impalmata,
per emanciparsi, con un vecchio colonnello francese che aveva lasciato
un braccio ad Austerlitz, e che ora, fatto quartier mastro generale,
dirigeva in Genova l’amministrazione, o come suol dirsi oggi, le
intendenze militari.

Finchè fu in fiore gittò il suo pomo agli adoratori e, come Atalanta,
ne sfiatò di molti; ora che tramontava verso la quarantina scambiava
le parti e correva essa stessa il palio degli ultimi amori. Essa,
scaltrita, seppe farsi vedere, cercare, trovare, corteggiare; adoperò
tutte le arti, le finezze, i sospiri, i deliqui, per essere creduta
casta, fedele, sedotta, innamorata. Michele allungava la mano, incerto
e peritante, come sopra il frutto vietato, e quando credette d’aver
trionfato, accettò la vittoria a occhi chiusi, senza voler indagare
se quella virtù fosse artefatta, o quella beltà ritinta, felice di
trovarsi accanto a una donna seducente ancora, vestita come una regina,
profumata come un’odalisca, sopra divani di damasco, in un gabinetto
azzurro e silenzioso, dove i passi e le parole smorivano sopra tappeti
di Persia e dietro portiere di velluto, dove l’arte degli specchi
moltiplicava la luce e l’arte dei cortinaggi la scemava a grado dei due
numi abitatori del misterioso recesso.

Una sera la Semiramide squadrava pensierosa il suo giovane amico — a
cui risparmiamo per pudore un titolo più meritato — e tutto a un tratto
interruppe il silenzio così:

— E perchè non ti fai soldato?.... Che bel dragone saresti.... come ti
starebbero bene l’elmo e la criniera!....

— È il mio sogno, Aurora — era questo il nome di quel _tramonto_ di
donna — ma la mia famiglia non vuole.

— E perchè?...

— Perchè mio padre odia i militari e mia madre non ha altra volontà che
la sua.

— Imbecilli!...

Michele era la prima volta che sentiva a parlare così de’ suoi parenti
e arrossì.

— E sono ricchi i tuoi parenti per chiuderti la più ricca e splendida
carriera che si presenti oggi ai giovani come te?...

— Ricchi lo siamo stati.... ma ora.... — e Michele abbassò la testa,
vergognoso di dover confessare la sua inferiorità.

— E allora?...

— Allora mercantuzzo, mia cara.... Ecco l’ideale del mio padrino. È
già molto se ho potuto liberarmi dalle sue preghiere; che altrimenti
a quest’ora sarei a bordo di un bastimento a tirare scotte e a pompare
acqua.

— Ah! ah! — fece Aurora ridendo. — Come saresti stato bene vestito da
mozzo!... e il mal di mare?... Ah!... povero Michele.

— Però spiegatemi una cosa, Aurora.

— Cosa debbo spiegare?

— Io amo la vita militare e sento che son nato per quella.... ma non
pensate che se io seguissi la mia inclinazione dovrei andar lontano da
voi?... molto lontano.... giacchè ora si sa d’onde si parte, ma non
si sa dove si arriverà!.... Io credevo che mi amaste, Aurora, e che
avreste preferito a tutta la gloria dei nostri guerrieri un’ora d’amore
trascorsa con me.

Michele parlava allora sinceramente; egli era nelle prime febbri della
passione, e non vedeva altro.

Aurora sentì a quel complimento ringiovanire i suoi quaranta inverni e
assicurò il suo amico con un sorriso, una stretta di mano e un sospiro.

— Ma capisco.... così non vi piaccio più — continuò Michele. — Vi
sembro troppo vulgare.... troppo prosaico.... e per questo mi mandate
via. Non rispondete, Aurora?...

— Penso.

— A che cosa?

— A te, e a me!... a un progetto che mi mulina nella testa, magnifico e
possibile.

— Per avermi vicino?...

— Per averti vicino ancora più d’adesso.... sempre, sempre!

— Come?

— E per vederti vestito sempre....

— Da dragone?

— O da granatiere; infine da eroe....

— Oh, parlate, Aurora; parlate subito.

— Mio marito è quartier mastro generale, egli abbisogna, o faremo in
modo che abbisogni d’un segretario.... d’un aiutante.... che so io,
infine dovresti capirmi.

— E proporreste me?... esclamò subito con gioia Michele.

— E chi dunque?!... mio marito è invalido. Come quartier mastro non
abbandonerà la città. Il suo ufficio lo porta a restare nei presidii.
Tu come suo segretario o aiutante lo seguiti dappertutto, pranzi alla
sua tavola e forse chissà.... dormi nella sua casa e gli stai sempre
vicino.

— Cioè ti sto sempre vicino.

— Si sottintende.... Ma il buono viene ora.... Un aiutante del quartier
mastro appartiene a tutti i corpi e a nessuno: e tu puoi scegliere
quella uniforme che credi.

— O quella che piace più alla mia dama.

— La tua dama avrà buon gusto, stanne sicuro. Essa così renderà tre
segnalati servigi: uno a suo marito procurandogli il più bell’aiutante
dell’esercito, uno al proprio amico che guadagna in pochi mesi le
spalline d’ufficiale, uno a sè stessa che guadagna... te lo dirò in un
orecchio.

Il lettore avrà indovinato; noi gli faremo grazia di non leggere più
innanzi in questo libro galeotto.

Fu dunque convenuto. Aurora all’indomani doveva parlarne al marito
generale; il vecchio che non sapeva resistere ai sorrisi della sirena,
annuì, e la cosa ebbe capo. La sola variazione introdotta fu la divisa
di corazziere in luogo di quella di dragone; la corazza attagliavasi
meglio al largo petto di Michele, e nei saloni illuminati, dov’era
destinato a comparire, splendeva come un sole della luce emanata da
tutti i doppieri. Michele fu presentato sotto le mutate spoglie nelle
sale del quartier mastro generale, e dopo un mese ottenne, mercè la
intercessione della sua protettrice, un quartierino in casa sua, il
quale, per ragioni d’ufficio, doveva avere facili comunicazioni cogli
appartamenti del generale.

Il padrino era assente; il maestro non seppe la cosa che quando fu
consumata. Michele poi con poche righe avvertiva la madre della sua
metamorfosi.

Quelle righe erano fattura di Aurora e concepite così:

      «Carissima madre,

  «Aiutato dalla possente protezione d’un generale, entro nella
  milizia. Era la mia sola vocazione ed io spero un giorno di
  ritornare fra le vostre braccia decorato della stella dei prodi.
  Oggi sono già sergente dei corazzieri e segretario del generale
  mio protettore; fra breve sarò sottotenente. Non ve l’ho annunciato
  prima per risparmiarvi una grata sorpresa, ma io spero e attendo la
  vostra benedizione e quella di mio padrino, e vi abbraccio intanto
  con tutto l’affetto più figliale e rispettoso.

  «Genova, 16 gennaio 1811.

                                              «Vostro ubb.mo figlio
                                                        _Michele_.»

  «_PS._ Ebbi, per le prime spese, a fare qualche debituccio.
  Vorreste essere tanto buona da mandarmi un po’ di denaro? — Date un
  bacio di cuore a Giorgio e a Livia».

  _NB._ I debiti erano una bugia giacchè la generalessa aveva pagate
  tutte le spese dell’installamento.... sulla cassa del generale.

Rosalia non aveva le idee nè la ripugnanza del marito; però a leggere
il foglio di Michele fu, è vero, sorpresa e conturbata e dal timore di
non vederlo mai più e dal sospetto che Battista disapprovasse la scelta
del figliuol suo; non pensò pure un istante a condannarlo, e molto meno
sospettò il turpe secreto di quell’avvenimento.

Però all’indomani, accompagnata da Giorgio, fanciulletto di undici
anni, corse a Genova, cercò Michele, lo rimproverò, con quel tuono
carezzevole che le madri sanno dare perfino alle rampogne, d’aver
mancato di confidenza verso lei e suo padre; ma finì coll’abbracciarlo,
col baciarlo, coll’inondarlo di lagrime, col lasciargli denari, vesti
e doni, e — perchè lo nasconderemo? — coll’inorgoglire persino di aver
trovato nel suo figliuolo un corazziere così magnifico.

Michele, dal canto suo, imbeccato sempre da Aurora, mentì come un
diplomatico, e Rosalia ripartì senza aver veduto nè il generale, nè sua
moglie, e sempre ignara delle prodezze che avevano valso al figliuolo
l’onore di entrare nel grande esercito col grado e la divisa che
migliaia di prodi conquistarono col proprio sangue sopra tutti i campi
di battaglia di Europa.




VIII.

CON E SENZA CORAZZA.


Intanto che Michele illustrava i suoi galloni nei gabinetti della
sua Messalina, i giornali annunziavano sotto la data di Oriente
che «il brigantino _Italico_ di 200 tonnellate, capitano Battista
Santafiori, era naufragato sulle coste del Mar Nero presso Trebisonda;
che il bastimento e il carico erano perduti, e che solo sette uomini
dell’equipaggio e due passeggeri si poterono salvare mercè l’audacia e
fermezza straordinaria del capitano Santafiori».

Questa notizia, conosciuta colla celerità della sventura, fu per
Rosalia un crepacuore, per tutta la famiglia una desolazione. Dopo
alquanti giorni giunsero lettere da Trebisonda; esse confermavano che
Battista era salvo, ma che tutta la sua fortuna era inghiottita. Una
settimana dopo arrivava Battista in persona.

Le sue prime parole, dopo gli abbracci, furono: «E il corazziere?» La
moglie avevagli scritto naturalmente il nuovo stato del figlioccio.

Il dì appresso egli corse a Genova a cercarlo; ne era partito da pochi
giorni col suo quartier mastro traslocato a Milano: rifece adunque la
strada e andò a Milano.

Lo trovò in un bigliardo in compagnia di tutti quegli eroi delle bische
che non conoscono altra pugna che il cozzo delle biglie, altr’arme che
la stecca, altra trepidazione che le fortune dei tavolieri verdi, e
che pure sono infaticabili raccontatori di battaglie (a cui non hanno
assistito), abilissimi a intromettersi nella società dei veri prodi ed
a raccogliere il polverìo brillante della gloria altrui; velocipedi
alle promozioni, centimani alle decorazioni, allumacatura schifosa
delle retroguardie, mascherata impudente dell’eroismo e della forza.

— È qui che doveva trovarlo!... — pensò con amarezza Battista; e
avanzatosi colla sua faccia serena, col suo occhio calmo, colla sua
persona ritta e maestosa, chiamò:

— Michele!...

Michele, che in quel momento faceva una carambolata, si volse a
quella voce, come punto da una vespa, lo riconobbe, mutò colore, ma
impercettibilmente, si riebbe e senza muoversi balbettò:

— Mio padrino!....

— Sì.... tuo padrino-... anzi tuo padre o Michele; perchè io non
voglio ancora spogliarmi di questo titolo, nè tu, per quanto farai, lo
potrai.... Ora avrei a dirti alcune parole, Michele. Vuoi venire con me
per pochi minuti?....

Michele esitò e guardò i suoi compagni.

— Ma il nostro camerata Gordiglia è impegnato in una partita seria
con noi e non può lasciarci — saltò su un sergente dei corazzieri,
il quale, istruito già da Michele delle avventure e delle idee
repubblicane del padrino, coglieva un’occasione per rompere una lancia
a favore dell’impero.

— Non ho alcuna difficoltà ad aspettarla — rispose dolcemente Battista
— continua la partita, Michele.

— Ma sarà un affare molto lungo! — rispose il sergente.

— Molto?!... E quanto?... — replicò Battista volgendosi a Michele,
perchè non voleva impegnare discorsi con quella gente.

— Tre o quattro ore.... e forse più.... — fece ridendo uno dei
giuocatori.

— Voi scherzate, signori.

— Non scherziamo perdio!... E il nostro camerata Michele ci farà il
piacere di dirvi, che se vi piace d’aspettare potete andare altrove,
giacchè questa sala è riservata agli _ufficiali dell’imperatore_!....

Un vecchio granatiere della Guardia coperto di ferite non avrebbe
calcato più forte queste parole.

— Ma io, signori, sono il padre, e....

Uno scoppio di risa fu gettato in faccia a Michele. E il sergente
che aveva già parlato, sghignazzando più forte di tutti: _Connu!...
connu!..._ sappiamo la sua storia e vi passiamo la bugia di chiamarvi
suo padre.... Del resto scusate se non abbiamo portata la mano
all’elmo, signor _sanculotto_ d’America!... Diamine!... Quando si è
_filantropi_ e non si riconosce Napoleone, si ha ben diritto di farsi
presentare le armi.... Ah! ah!... Nullameno, se volete un consiglio da
corazziere d’onore, pigliatevi questo: del berretto frigio fatene una
cuffia da notte. Sarà tanto di sparagnato.

Battista durò a questa spruzzata di villanie senza far motto: poi
voltosi al figlioccio freddamente gli disse:

— Senti, Michele?... Insultano tuo padre.... e tocca a te a
difenderlo.... Hai desiderato un’arma al fianco, è venuta l’occasione
di adoperarla.

Michele era pallido come la cera; girava gli occhi dai suoi compagni
al suo padrino, tastava macchinalmente l’elsa della sciabola e restava
taciturno e goffo come la statua della stupidità.

Allora uno di quei farabutti da caserma, avanzatosi verso il vecchio,
sempre fermo al suo posto:

— Pare che vogliate sfidarci, signor Barbetta.

— Non lo voglio — rispose Battista colla sua calma; — se lo volessi
rammenterei che a otto anni ho fatto voltare le spalle ai granatieri
tedeschi che erano di un palmo più alti di voi. Ma non spetta a me
sfidarvi, spetta a questo — e additava Michele. — La manata di fango
che mi gettate passa sopra i miei capelli bianchi e s’imprime tutta
sopra la fronte di costui come un suggello d’infamia. Io gli dico però:
chi lascia vilipendere un vecchio, è un vile: chi lascia vilipendere
suo padre, è un miserabile.

— Senti, Michele, egli c’insulta.

— Alla porta — gridò uno.

— Dalla finestra — urlò un altro.

— A te Michele; se no a noi — fece un terzo, accennando una mossa verso
Battista.

— In verità mi fate la figura di un consiglio di lepri che spingano un
coniglio ad attaccare un leone. Perchè, chi mai non sarebbe un leone in
faccia a voi altri?... Oh, vi conosco!... e so che le vostre corazze
non vi servono ad altro che a nascondere i tremiti del cuore.... Voi
prendete degli atteggiamenti da eroi, ma i vostri campi di battaglia
non varcano le sponde di questi bigliardi.... Voi siete le comparse
della tragedia e il vostro posto è nell’ombra. Lo vedo bene che gli
applausi degli eroi che muoiono in mezzo alla scena vi solleticano; ma
tutti ormai s’accorgono che la vostra barba è finta e la vostra spada
è di legno... Io non amo le glorie cruente dei vostri compagni, che
fabbricano colla corona del loro imperatore la catena dei popoli, ma
le ammiro. Si son fatti d’un uomo un Dio e muoiono per esso; la morte
sublime nobilita la loro vita.... ma voi.... siate certi.... morrete
di male vergognoso in un ospedale. Io sono vecchio di settant’anni,
ma avrei vergogna di trascinare codesta scimitarra su per le scale
delle vostre drude, mentre altri vestiti delle vostre assise le fanno
scintillare sul campo del nemico. Basta per voi.... ora a costui...;
egli è degno del vostro consorzio, e se non ne sapete la storia io
ve la dirò. Egli porta l’aquilotto sulla testa, ma guardatelo bene,
e sotto le penne troverete il gufo.... Sappiatelo: egli è nato da una
santa donna e da un padre virtuoso, ed io volli che dividesse co’ miei
figli la mia eredità; e per questo sono tornato a sfidar le tempeste,
a patire, già vecchio, tutte le fatiche dei giovani per ingrossare
il suo retaggio. Ma a lui che importava tutto questo?... Egli voleva
avere un elmo dorato, una coda da cavallo, due quintali d’acciaio sullo
stomaco e degli sproni da Don Chisciotte agli stivali.... Io questo non
poteva dargli; ed egli s’è venduto.... a chi?.... Lo saprete ora. A una
cortigiana! Egli è guardia portone d’una Dubarry qualunque. Ha messo
all’incanto le sue spalle e le sue spalline.... e s’è fatto guardiano
d’odalische.... Questi è il gladiatore a cui voi dite di cacciarmi
dalla finestra. Ma guardatelo come è bianco.... si direbbe che non ha
più corazza. Però io giuoco che se muovo un passo verso di lui, egli
rincula; che se io ve lo getto sul vostro campo di battaglia, voi mi
lasciate fare.

Sì dicendo il vecchio afferrò alla cintura Michele e, levatolo con ambe
le mani, lo scaraventò con terribile lancio sul bigliardo, dove restò
stupido ed inerte come cosa morta.

Fatto ciò il vecchio aprì lentamente la porta, diede un’occhiata di
supremo disprezzo su quei giovinastri immobili, storditi, increduli, e
abbandonò la bisca.

Giunto a casa, Battista tacque l’avventura a Rosalia, involse in un
plico duemila franchi e li diresse a Michele con queste parole:

«Finchè io e i miei figli potremo lavorare, vi manderemo ogni anno una
consimile somma».

Intanto però, due carichi di cotone lavorato, sequestrato nei porti
inglesi a cagione del blocco continentale, e più tardi il naufragio
del suo _brick_ avevano divorato a Battista più di 400,000 franchi.
La rovina di Santafiori era inevitabile; conveniva vendere tutto, fin
l’ultimo palmo di vigneto nella villa di Nizza, far onore alla propria
firma, e pensare altrimenti a guadagnare la vita.

Così fu fatto. Della vendita, tutto pagato, restarono ancora circa
30,000 franchi coi quali pensò a trovarsi un’affittanza in qualche zona
ferace ed a buon mercato.




IX.

SPETTACOLO AL VILLAGGIO.


Siamo nel piccolo villaggio di X... Una sfilata di dugento case sulla
riva destra del Po nei felicissimi Stati di S. M. Vittorio Emanuele I.º
re di Sardegna.

Il fiume il quale, a dir del Tasso, pare

    Che guerra apporti e non tributo al mare,

è la fortuna e la rovina insieme dei suoi ripuari. E nessuno infatti
che venisse da lontano ignaro delle sorti della contrada, avrebbe
potuto immaginare che il verde sempre vivo di quelle praterie che
stancano l’occhio, l’incantevole infrondatura di quei vigneti, l’onda
d’oro di quei campi di spighe, e la maestosa e odorante distesa di
quei boschi di quercie e di pioppi che avvolgono diremmo quasi in un
amichevole amplesso il villaggio; tanta ubertosità e tanta ricchezza
avessero per nemiche le stesse acque del fiume paterno che le aveva
procreate.

Eppure più d’una volta il villaggio d’X... nel bel mezzo d’un’annata
promettitrice era stato schiantato e portato via, case e colti, alberi
ed armenti, dal furore improvviso del Po, rimasta appena ai superstiti
abitatori, riparati sulle alture, la speranza d’una nuova messe
riparatrice della perduta.

In sullo scorcio del 1815 a mezzo del novembre, quando i raggi del sole
autunnale contrastano a mala pena il passo ai primi soffii gelati che
brezzeggiano dalle Alpi, e le mattinate sorgono brinate, frizzanti, ma
lucide e calme, tutta la popolazione disponibile (in questa categoria
comprendiamo, tutti i fannulloni e gl’impotenti, il sindaco, il
parroco, il carabiniere, il segretario della comunità, lo speziale, il
pizzicagnolo, il droghiere, gli storpi, i gobbi, i cronici, la maestra,
la comare, tutta la filatessa delle zitellone, delle beghine e delle
trecche, infine la universa monelleria fanciullesca, e se alcuno ne
manca suppliscavi il lettore), tutta la popolazione _disponibile_,
dicevamo, nel villaggio di X... era per la strada principale, che
è come la spina dorsale del paese, ai balconi e sulle porte; i più
distinti o favoriti sulla bottega dello speziale il signor Romeo,
del pizzicagnolo il signor Giosafatte, o del barbiere Gigi Squarcia,
o sotto l’atrio della chiesa, o sul terrazzino del palazzo comunale,
infine dappertutto dove si potesse vedere ed essere visti a contemplare
con più comodo e decoro uno spettacolo qualsiasi.

A quel che pare gli spettatori avevano anticipato d’assai sugli attori,
poichè da una buona oretta ciascuno s’era appostato e aveva avuto tempo
di accaparrare una pietra, una nicchia, una sedia, di raschiare, di
soffiarsi, di stirarsi, di dire sessanta volte al minuto: — Che bella
giornata!... ma un po’ freschetta — senza però che il sipario desse
segno di muoversi, e che un personaggio qualunque comparisse sulla
scena. Ora siccome in quel teatro mattutino, continuiamo la metafora,
la musica faceva diffalta, così noi cercheremo di riempire il vuoto,
dando, a guisa di sinfonia, il prologo degli spettatori, avendo l’onore
di assicurare il lettore che non ne sarà mai tanto lacerato quanto lo
saria stato dai miagolati dell’unico violino e dal grugnito dell’unico
contrabasso che componevano la orchestra del villaggio di X...

Nella spezieria, specie di posti scelti, c’era come a dire la crema
degli omoni e dei maggiorenti. Oltre allo speziale Romeo, il sindaco
Salomone Arena, don Fulgenzio parroco, don Spiridione curato, il
maresciallo dei carabinieri Malagana, il cancelliere Frustadenti
e la sua consorte Atalanta nata Magrograssi. Sulla terrazzina che
poteva passare per una loggia, la solita frega delle mamme colla
solita mostra delle figliuole da marito, la più fraschetta delle
quali, sorrideva alle galanterie tutt’altro che matrimoniali che le
veniva sfringuellando il figlio del sindaco, Adolfo Arena, ganimede
del villaggio, chierico schiericato. La botteguccia del barbiere, la
piazza, le strade, che ponno pigliarsi per la platea, erano occupate
dal popolino al quale non resta che accomodarsi della parte di coro.

— E non si vede ancora nulla sullo stradone — saltò su interrompendo
un momento di silenzio generale il cancelliere Frustadenti, un omicino
piccino come il noto _Tom Pouce_, ma più alto di gambe che di torso,
onde ricordava lo struzzo, nera la barba che si radeva una volta alla
settimana e che pareva una spalmata di nero d’avorio, neri i capelli
corti e ritti come le penne d’un riccio, neri i sopraccigli e gli
occhiali in grazia d’una malattia d’occhi che lo costringeva come le
nottole a schivare la luce, e perciò vedendo nera ogni cosa scambiando
sovente nell’esercizio delle sue funzioni il colore della carta con
quello dell’inchiostro, onde riscriveva spesso sulla medesima linea
e cancellava non di rado quello che aveva scritto con quello che
scriveva. Malgrado la sua picciolezza tenebrosa, e fors’appunto perciò,
egli era pieno di sè, vano, ostentatore, trinciatore, ridendo solo
soletto dei propri epigrammi, raccontando inesorabilmente a tutti due o
tre prodezze della sua gioventù, citando in ogni discorso tre o quattro
sentenze di autori che non aveva mai letto, sapendo dire il _nosce
te ipsum_ ma non appropriandoselo mai, storpiando a memoria due o tre
terzine di Dante e avendo inventato una biografia sua particolare del
Metastasio che faceva nascere a Mondovì, guardandosi in giro quando
aveva pronunciato un parere, rialzando la sua statura, con un cappello
a cilindro (nero s’intende) alto quasi come lui e una cravattona nera
proporzionata al cilindro, camminando sempre ritto ed impettito come
un caporale tedesco, e per corona a tutto questo scrivendo _Itaglia_
col _g_ e _P’ho_ in questo modo. Ma oltre a questi meriti letterarii
che l’avevano fatto scegliere per cancelliere del Comune, egli aveva i
morali che il sindaco cavaliere sapeva conoscere e ricompensare.

Nessuno infatti avrebbe potuto ordire un intrigo, mascherare una
trappola, dare di fiato nella tromba della popolarità, straziare la
riputazione di un avversario meglio del piccolo Frustadenti; laonde
egli era per Salomone Arena un confidente, un aiutante e un portavoce
sicuro e prezioso.

— Eppure, salvo gli errori del popolo, non dovrebbero tardare molto
a comparire — rispose al cancelliere, il Romeo speziale, un buon
diavolaccio in fondo, ma curioso, leggero, pettegolo, acchiappa-nuvole,
credenzone, brutto, arruffato, sporco sempre, bisunto dei suoi oli e
inzaccherato dei suoi decotti, tirato e sparagnatore per sè, ma non
esoso verso gli altri, pratico della sua cucina farmaceutica e a dir
vero tutt’altro che ignorante, ma appunto a cagione della sua curiosità
e della sua credulità, che son le madri della mutevolezza, un titubare
sospettoso sul conto degli uomini e delle cose, un’incertezza guardinga
nei giudizi e nelle parole che lo avevano condotto ad adottare per
intercalare dubitativo di tutti i suoi discorsi: «_salvo gli errori del
popolo_».

— E quanti saranno i carrettoni del fittaiolo? — fece il salumaio
Giosafatte, un coso tozzo, grasso della propria e della grascia della
bottega, che non aveva mai potuto uscire quanto a fortuna della più
grama mediocrità, meno assai per colpa propria, chè citrullo non era,
o delle aringhe che smerciava, che per colpa della mogliera che me lo
aveva regalato di dodici figli i quali colle loro ventiquattro mascelle
rodevano i frutti del paterno commercio. Nulla ostante, se non era
stimato per ricco, era stimato amico dei ricchi, della proprietà e
dell’ordine, quindi favorito di un certo credito presso Dio e presso
Cesare, quindi consigliere comunale, fabbriciere e priore della
dottrina comunale.

— Da otto o dieci — rispose Romeo.

— Cosa vi salta in mente... da otto o dieci!... non tanta abbondanza
amico caro, interruppe il cancelliere.

— L’han detto anche a me... salvo però sempre gli errori del popolo —
replicò subito lo speziale malcontento di non aver premesso a tempo il
suo intercalare.

— Ma per condurre l’affittanza del Calandrina ci vuoi roba e capitali;
se no gli è come possedere il basto e non il ciuccio. Non è vero;
signor arciprete? — disse Giosafatte.

— Pare anche a me; la è una tenuta che non si coltiva mica colle
intenzioni come la vigna del Signore — rispose l’arciprete don
Fulgenzio.

— Specialmente quando le intenzioni sono cattive — sparò fuori con
una gran risata il piccolo cancelliere, gonfio come una rana di questa
sua annacquata spiritosità. Gli altri pure accompagnarono con una di
quelle risate false e stentate che non trova paragone se non col riso
artefatto dei comici sulla scena e che vuol quasi sempre significare:
«Ridiamo, ma non sappiamo il perchè».

Solo il sindaco aveva ben compreso e per questo fu il solo che finse il
contrario. Egli perciò domandò il cancelliere «dove volesse parare con
quel suo motto!»

— Eh... a nulla, signor cavaliere.

— Dite, dite — fece lo speziale pungolalo da tutti gli aculei della
curiosità.

— Vuol farsi pregare come una damina — esclamò il maresciallo
sogguardando maliziosamente la signora Atalanta di cui mirava a fare la
conquista. E la signora Atalanta — una specie di botte ambulante, come
se ne veggono tante nelle caricature di Gavarni e di Cham — colta a
volo l’allusione, avvallò modestamente gli occhi ed esalò dall’otre del
suo petto tale sospiro che tre o quattro ricette distese sul banco di
Romeo volarono via.

— Ma lei signor maresciallo deve saperne più di me — rispose il
Frustadenti.

— Il primo dovere della mia carica — rispose solennemente il
carabiniere — è sapere e tacere.

— Eh... via... dite su — fece il salumaio — se un forestiere capita
nel paese sta bene conoscere chi è e chi non è. Se è un galantuomo o un
mariolo.

— E religioso sopratutto — aggiunse il curato Spiridione.

— Buono!... buono!... le son giustamente queste qualità che Battista
Santafiori possiede — disse il maledico cancelliere con un tuono
d’ironia, che nemmeno quei citrulli poteano ingannarsi.

Romeo era lì per scoppiare: un sottilissimo sorriso sfiorava le labbra
taglienti di Salomone Arena.

— Eh!... parlate una volta — saltò su la signora Atalanta — se nol
volete dire voi, lo dirò io che avete ricevuto una lettera di Genova,
che racconta per filo e per segno vita e miracoli di questo «lupo di
mare che minaccia di piombare in mezzo all’ovile e disperderlo come la
neve del deserto al soffio dell’aquilone».

La signora Atalanta che poteva passare per un’agreste azzurra,
leggiucchiava romanzi, e questo mazzetto di scelte comparazioni era un
saggio delle sue letture.

— Una lettera da Genova — sclamarono tutti quanti — mostratela: fuori
la lettera... viva la lettera.

— Ma se il signor cavaliere permette... — interrogò il Frustadenti.

— Io? me ne lavo le mani — rispose il sindaco piantandosi sulla porta
colle spalle voltate al cancelliere come per testimoniare «ch’egli non
ascoltava». — Non vorrei — continuò — si pensasse che io serbo rancore
al nuovo fittaiolo perchè m’ha portato via il boccone dal piatto.

In fatto egli ascoltava e godeva.

— Invece di leggere, vi dirò il sugo. La lettera è scorretta; dei
_gargarismi_, dei _sillogismi_.... cose da nulla, ma che guastano
l’effetto.

Gli uditori presero quelle due parole per _barbarismi_ e _solecismi_, e
Frustadenti tirò dritto.




X.

L’ARRIVO.


— Battista Santafiori non si sa bene di che paese sia: egli porta due
o tre nomi, laonde il mio amico argomenta benissimo che debba essere
bastardo. Questo è il meno male. V’è però chi si ricorda d’averlo
veduto ragazzetto partire da Genova lacero come S. Quintino, e tornare
dopo trent’anni ricco sfondolato, con moglie e figliuoli e una squadra
di servitori. Da quello che s’è potuto attingere da fonte certa, in
America deve aver fatto il traffico dei negri, venduta carne umana.
Altri soggiungono, anche il contrabbandiere e il pirata; ma noi per non
fallare possiamo ben dire che un mestiere non avrà escluso l’altro.
E qui notate che egli non contentavasi solo di pirateggiare la roba
altrui, ma anche le persone, e prova ne sia che sua moglie... non è sua
moglie, ma una donna che ha rapito, credesi alle _Tonsille_.

— Vorrete dire alle _Antille_, salvo gli errori del popolo — interruppe
Romeo, il più istruito della brigata.

— È lo stesso: tutto il mondo è paese — esclamò il pubblico malcontento
dell’interruzione.

— Ma quel che è certo è, che egli ha sempre trattato la donna come una
schiava.

— Quale orrore!... fece Atalanta con una girata d’occhi al maresciallo.

— Il bello viene adesso. Tornato dall’altro mondo, comperò tenimenti
e case nei dintorni di Nizza. E lì, sfoggi e sciali, elemosine da
principe, salari grassi ai lavoranti, corte bandita agli ospiti, e
tutto, bene inteso, per accattare le scappellate e i battimani dei
gonzi che lo stavano a guardare. Ma che credereste!... Alla fin fine la
corda troppo tesa si ruppe, e si venne a scoprire che il _quod superest
date pauperibus_ era denaro del diavolo.

— Come del diavolo?... — chiese Giosafatte che era un po’ superstizioso.

— Eh sì, certamente. Non è forse denaro del diavolo quello che si
truffa a prestito, senza sapere come e quando si potrà pagare? Allora
non occorse altro. Fu una leva in massa di creditori; l’amico fu
denunziato e confidato alle cure degli uscieri.

— E pagò?!... — disse il maresciallo per ingannare il marito, mentre
stringeva di soppiatto la enorme mano di Atalanta.

— Ah questo, maresciallo mio, è un mistero. In prigione non ci fu
cacciato; forse avrà battuto moneta falsa e pagato con quella. Fatto
sta ed è, che allora dovette battere in ritirata e ripigliare il suo
solito mestieraccio sul mare; e su questo bisogna levargli tanto di
cappello, chè il mio amico di Genova me lo dà per un vero orso bianco.
Ma sia che il mare l’abbia castigato di tutte le bricconerie consumate
su di lui, sia che l’industria della moneta falsa siagli ita a male,
sia che i creditori me l’abbiano spennacchiato davvero, il caso è
che egli tornò a restar nudo come il palmo della mano. Fu allora che
Santafiori tirato dal lecco della _Calandrina_ venne a cascare fra noi.

— Per fare altri debiti — fece il salumaio.

— Dovrà essere così, perchè il lupo perde il pelo e non il vizio. Eppoi
senza capitali, e di grossi, la _Calandrina_ è una mignatta, un tarlo
che roderebbe gli scudi nello scrigno, non è vero, signor sindaco? —
chiese il cancelliere.

— La doveva pigliare io per dodici mila lire all’anno, ma il forestiere
di cui credo che abbiate parlato, glie ne volle dare quindici. Ora io
credo sulla coscienza mia che quindici mila lire non si possano cavare
da quelle terre. Quel pover’uomo si rovinerà se pure ha dei fondi....
che questo non si sa.... e a me ne duole, ne duole davvero, tanto più
che è padre di una famiglia, sento dire, numerosa.

Il cavaliere sapeva l’arte di accompagnare le parole col tuono, colla
faccia, cogli occhi, coi sospiri, tanto che ben pochi avrebbero potuto
intendere che non parlasse col cuore in mano.

— Lei è buono, signor cavaliere, ma stia un po’ ad ascoltare — continuò
il cancelliere. — Il mio corrispondente di Genova in un poscritto mi
aggiunge d’aver saputo dal suo padre professore, un reverendo della
compagnia di Gesù, che il Santafiori sia, in politica e in religione,
una vera peste. Pare che in altri tempi sia stato un seguace di _Murat_
e della Dea Ragione, e il gesuita sospetta a ragione ch’egli sia
«per lo meno» ateo, per non dire luterano e calvinista. Certo è che i
figliuoli non conoscono acqua di battesimo nè ginocchiatoi di chiesa,
e se volete la cornice di questo bel personaggio, sappiate ch’egli
bazzica Framassoni e Giacobini, dei quali il nostro maresciallo potrà
dirvi le gesta.

— Ah sicuramente, e che gesta! — rispose in fretta il carabiniere
interrotto bruscamente in una delle sue strette più eloquenti colla
romantica Atalanta.

— Un luterano?... Non ho abbastanza rotture di capo, dovrò anche aprire
un giubileo contro gli eretici! — esclamò il parroco don Fulgenzio,
che era lui un ritratto di don Abbondio, tipo eterno dei nostri preti
campagnoli, amante della quiete, odiatore delle novità, timoroso
d’ogni ombra, e che tutto il ministero sacerdotale compendiava nel
breviario, nella messa e nell’assoluzione di quei quattro peccatucci
che la popolazione di X.... veniva regolarmente a raccontare, come
alla scadenza delle decime deponeva le uova. Ora l’avere in parrocchia
un tale che, al dire del cancelliere, era peggio che _ateo_, gli
pareva il principio d’una serie di disturbi, di dispiaceri, malanni,
d’indigestioni, di notti insonni, che il povero prete non si sentiva in
grado, non che d’affrontare, nemmeno di pensare.

— Quanto al framassone ci penso io — disse il maresciallo — e basta che
il signor sindaco e il signor arciprete mi dieno man forte.

— Io le credo spiritose invenzioni; ma la mia fedeltà al re vi è nota —
fece il sindaco Arena.

— Io farò quel che posso; ma che man forte vuole che le dia?... — disse
don Fulgenzio tutto conturbato.

— Zitto!... attenti — grida a un tratto Romeo — ecco gente che
si muove; c’è della polvere sullo stradone; arriva ora.... è in
carrozza.... è in calesse....

E i piccini si rizzavano sui piedi; i forti ponzavano di gomiti,
i ragazzi s’arrampicavano sugli alberi, tutti gli sguardi degli
spettatori, dalla spezieria, dalla barberia, dall’atrio della chiesa e
dal palazzo del comune erano rivolti verso un punto solo: lo stradone
che Romeo aveva additato.

Chi arriva?... Una carovana di principi?... Un serraglio di mostri
marini?... Il convoglio di Dulcamara o il corteo d’un condannato a
morte?... Nessuna di queste ghiottornie delle folle.

Una rôzza, vecchia e secca, ma ancora robusta che strascinava al passo
un calessino a quattro ruote tutto logoro e scassinato nel quale stava
pigiata una nidiata di sette persone che col loro peso facevano sudare
quella veterana di tutte le cavalle e quel decano di tutti i cocchi,
e dietro loro, a trecento passi, le cime ondulanti di tre carrettoni
carichi di masserizie, di stromenti rustici e di provvigioni; ecco
quello che arrivava.

S’indovinava facilmente che era il convoglio d’una famiglia che
tramutava di casa e che veniva a fissarsi nei dintorni; ma se fosse
capitombolato sul villaggio il pallone di Nadar non sarebbesi svegliato
tanto battibuglio.

Mentre sfilava non avresti udito uno zitto nel mucchio degli
spettatori; parea quasi che passasse una processione di reliquie. La
curiosità è una religione per un villaggio dove ogni più lieta novità è
un avvenimento che rimescola e conturba le acque stagnanti e immutabili
della sua inavvertita esistenza. I commenti, le esclamazioni, i
pettegolezzi, rattenuti a stento durante la marcia, scoppiarono poi
tutti insieme come il cinguettio d’una uccelliera passato lo sparviero.
E l’eco se ne prolungò per mesi ed anni.

Giunto il calesse sulla piazza, un vecchione, che era rannicchiato sul
sedile d’innanzi con un bambino fra le gambe, levò il suo cappello a
larghe tese e salutò rispettosamente la popolazione. Il resto della
famiglia lo imitò, non escluse le due donne che piegarono più volte la
testa.

Qualche villano rispose sberettandosi al saluto del vecchio; qualche
donnetta agitò la mano in segno d’addio alle donne: gli spiriti forti
della spezieria accolsero con una risata l’atto urbano del forestiero,
il quale l’udì, ma finse di non accorgersene.

— Che villanzone!... disse Adolfo dal terrazzino.

— Che faccia da Fra Diavolo — disse il parroco il quale non sapeva di
bestemmiare uno dei valenti difensori della santa madre chiesa.

— Dicono che sia uomo di molta carità — sussurravano alcuni poverelli
appollaiati intorno alla chiesa.

— La fanciulla è belloccia! — pensava Adolfo; mentre per far la corte
alla sua vicina, la paragonava «ad un’albicocca caschereccia».

E così via...

Carrozza e carrettoni, traversato il paese, andarono a far capo
all’ultima casa, dove entrarono facendo rimbombare fragorosamente
l’acciottolato del cortile. Allora le porte furono chiuse e i curiosi
lasciati di fuori; noi soli abbiamo il diritto di condurvi, se crede
seguirci, il lettore.




XI.

QUOD SUPEREST PAUPERIBUS.


Tutto quel giorno fu impiegato a rassettare la casa, a ripulire
le mobilie e a distribuirle nelle varie stanze. Le due donne,
le stesse che erano nella carrozza, dirigevano questa operazione
diligente che è una delle prerogative del loro sesso e che le destina
provvidenzialmente al regno della casa. In sulla sera coll’aiuto di
venti o trenta braccia fra servi e contadini tutto era a posto, e
ciascuno, come suol dirsi in tali occasioni, «poteva andare a dormire
nel proprio letto».

Il salotto da pranzo che era anche la sala di ricevimento, era simile
al salotto di papà _Grandet_, senza essere però nudo e grottesco
come quello. Le pareti non avevano tappezzerie, ma non avevano
nemmeno dipinture: una tinta in foglia morta e nulla più. All’interno
pendevano dalle pareti quattro quadri: due grandi incisioni di
Washington e di Balilla, e due quadri ad olio, che appena gettato
l’occhio sulle persone di casa si vedevano somigliantissimi al
padre ed alla madre della famiglia. In giro alle due figure di
Balilla e Washington una corona di medaglioncini di bronzo che
rappresentavano personaggi celebri del tempo, come Fox, Canning, la
Stael, Vergniaud, l’Empecinado, Mina, l’abate dell’Epée, Caracciolo,
Parini, Chateaubriand, infine più di cinquanta. Sotto a Balilla una
rastrelliera d’armi d’ogni tempo, di ogni forma e d’ogni uso, e tutte
tersissime: appiedi ai due ritratti di casa due credenze affatto simili
di legno di noce, lucentissime e sopra le quali stavano disposti in
bell’ordine un barometro aneroide, una bussola, un medaglione, quattro
o cinque pezzi di geologia, due vasi del Giappone, e infilato in una
lampada d’ottone un berretto rosso da marinaio. Tutto era assettato;
nessun cencio sulle seggiole, nessun ragnatelo sugli angoli; intorno
al camino due seggioloni sui quali non sedevano mai altri che il padre
e la madre; candide, semplici e tagliate con gusto le cortine delle
due finestre, lucido il pavimento, limpidi i vetri, infine un’aria
di eleganza casalinga dappertutto che piaceva assai più d’un lusso
sfarzoso. Là dentro Teniers vinceva Paolo Veronese.

La famiglia era attorno ad una tavola imbandita colla stessa semplicità
e candidezza per la cena. Il modesto pasto era finito e i commensali
guardavano in silenzio e quasi assorti il capo della casa seduto colla
sua donna ad una delle estremità della mensa.

Era desso un vecchio il quale non dimostrava più di sessant’anni, ma
che ne aveva realmente ottanta. La sua persona era alta, le spalle
quadre e il portamento diritto, le mani corte, sottili ma callose; la
testa era magnifica e avrebbe fatto pensare a Catone come lo descrive
Dante, con qualcosa del tipo di Socrate come lo ha scolpito Magni.

Una lunga e bianca chioma, la quale ai raggi del sole s’indorava
ancora del biondo colore degli anni giovanili, cadevagli ben ripartita
sull’omero. Nella fronte ampia e prominente, il lume scintillante di
due occhi neri, i quali, ora placidi e soavi, ora profondi e severi,
rivelavano, nella loro originale schiettezza, le passioni dell’anima
sua e le riflettevano diremo quasi come cristallo prismatico lo spettro
solare. La barba tessuta di sottilissimi fili d’oro e d’argento,
folta, lisciata e prolissa, gli scendeva fino al petto in doppia lista
e aggiungeva la maestà d’un pontefice a quella testa d’atleta; il
naso piccolo un po’ arricciato, indizio di certa finezza; le labbra
piuttosto grosse, indizio di certa bonomia, i denti nitidi, il collo
taurino compivano quest’immagine che pareva un eroe di Plutarco o un
modello di Michelangelo. Il vestire non ricordava più nessuna moda,
ma era tutt’altro che eccentrico; semplice, grave, e come oggi suol
dirsi: _a sè_. Raramente camicia bianca, quasi sempre colorita, e il
di cui collo, largo e sbottonato, andava a spiegarsi sul collaretto
del suo giubbone di velluto che, contro le mode del tempo, portava
basso e sottile. Per capire bisogna ricordarsi i ritratti di Byron e
di Foscolo; ma tutto men chiassoso e meno ricco. Mai panciotto; il
giubbone poi a taglio di soprabito coi bottoni d’acciaio indossava
men che poteva, per freddo o per forzata cerimonia, ma indossato
abbottonavalo fino al mento. Le brache pur di velluto e larghissime:
intorno al fianco una fascia rossa amplissima; o un cappello molle
a tese d’ombrello, o una berretta chiozzotta sul capo; ghette o
stivaloni ai piedi. In due parole, senza giubbone si vedeva un marinaio
ricco, col giubbone un quacchero un poco mondano: in ogni abito la
dignità e la forza. La voce aveva carezzevole e melodiosa, all’uopo
tuonante e terribile. Raro il sorriso, ma quando brillava sulle sue
labbra era franco ed aperto e vi durava a lungo. Come colui che nulla
aveva a celare, non sapeva che fosse il sogghigno che si increspa e
dispare, e che è la parola della ipocrisia. Così rideva ancora più
di raro; ma ridendo lasciava sfogo libero alla sua giocondità che
scoppiava istantanea, sonora e fragorosa. Non conosceva lagrime fuorchè
pochissime di gioia, ma in cambio conosceva assai il dolore che s’era
condensato dentro di lui appunto perchè privo di sbocco.

Quest’uomo, non abbiamo mai presunto celarlo, era il nostro Battista
Santafiori; la donna ch’eragli al fianco Rosalia; la famiglia assisa
intorno a loro, Giorgio, Livia, e il piccolo Balilla.

Quanto a Michele, al ritirarsi dell’armi napoleoniche, era passato,
senza difficoltà e senza sforzo veruno di coscienza, nell’esercito
piemontese, e arruolato col grado di sottotenente nei _Dragoni della
Regina_. Stanziava a Mortara dove menava la vita monotona, viziosa e
snervatrice di tutti i presidii. Della famiglia raro risovvenivasi, e
solo per chiedere denari o per dire che li aveva ricevuti.

Battista era pure pensieroso e contemplò per lungo tratto la sua
famiglia senza parlare. Alla fine ruppe il silenzio così:

— Oggi, miei cari, comincia un’altra vita. È una nuova stazione a
cui siam giunti e speriamo che sarà l’ultima. Le disgrazie che ci
hanno percosso, ci hanno costretto, per essere fedeli all’onore, di
vendere quel po’ che si possedeva, e dalla ruina non abbiam potuto
salvare che venticinquemila lire o poco più. Con questo io spero
ancora di assicurarvi il pane. La fattoria che abbiamo presa ad
affitto qui, coltivata con economia e con amore, darà largamente il
frutto del capitale. Si poteva forse pagarla meno, ma era proprietà
dell’amministrazione dei poveri, e non si poteva esercitare usura su
di essa. Del resto, accada quel che vuole, io so nella mia vita di
aver compiuto il mio dovere, e se dovessi riprincipiare da capo non
cambierei certamente di strada. Gli uomini non mi hanno compensato;
la Provvidenza fu troppo spesso severa, ma in cambio la coscienza
fu sempre serena e vincitrice. Io non ho che un rimorso, e questo è
sincero. Quello d’avermi voluto fare una famiglia, che colle mie idee e
nella battaglia continua in cui era avvolto, io non poteva nè custodire
nè proteggere. So che voi non me ne fate rimprovero, ma la coscienza
me lo fa e basta. Però dacchè il destino ci ha voluti congiungere nella
sventura, è nostro dovere portar tutti il fardello che ci è dato sulle
spalle; le mie son vecchie, ma lo sosterranno. Vostra madre è una santa
e noi tutti possiamo trovare sul suo seno rifugio nelle traversie e un
conforto nella sventura. Intanto inauguriamo questo nuovo periodo della
vita con una buona azione: sarà il miglior brindisi che possiamo fare.
Voi sapete che io ho promesso a Michele duemila franchi all’anno finchè
avrei avuto braccio per guadagnarli: il braccio è buono ancora, bisogna
dunque mantenere la promessa. Egli ha scritto a sua madre, chiedendo la
sua pensione qualche mese prima. Io l’avrei subitamente esaudito, ma
vi devo confessare, cari figliuoli, che non ho più un soldo. Le spese
d’impianto dell’affittanza mi hanno spelato. Ora io ho pensato a un
rimedio straordinario, ma non so se vorrete votarlo...

— Lo votiamo, lo votiamo... — fecero in coro i ragazzi.

— Ebbene, il rimedio è nell’associazione, parola che quando sarete più
innanzi comprenderete. — Si tratta d’una colletta fra di noi. Ciascuno
offrirà per la pensione di Michele quello che crederà. Io, per esempio,
dono il mio orologio, già mi è inutile perchè mi regolo meglio col
sole... Mettiamo quattro o cinquecento franchi... ma badate che bisogna
averne duemila... A voi Rosalia — fece Battista stendendo un piatto per
raccogliere le offerte.

Rosalia alzò su Battista uno sguardo pieno d’ineffabile gratitudine.

— Quest’anello — rispose essa, levandosi dal dito un anello d’oro a
brillante che poteva costare i due mila franchi solo esso.

— Eh, eh!... siamo già ricchi! E tu Livia?

— I miei pendenti, babbo — e la fanciulla si staccava i pendenti e li
deponeva sopra il piatto.

— Vediamo ora Giorgio.

Giorgio non contava allora più di quindici anni, ma aveva la serietà
d’un uomo.

— Non ho altro che il mio archibugio, ma...

— Ti duole privartene?!

— Un poco.

— Ragione di più per donarlo.

— Ebbene, ve lo dono.

— Ora a Balilla — disse Battista. — Che cosa offri tu di regalo a
Michele?

Tutti si posero a ridere.

Il fanciullo s’era risparmiato la mela della sua cena. Egli la guardò
in atto di ultimo addio e la gettò sul piatto gridando:

— La mia mela!

Tutti risero di nuovo, ma colle lagrime agli occhi.

— Ora veniamo ai conti. Coll’anello della mamma e il mio orologio, io
penso che la somma sia trovata, ci avanzeranno dunque gli orecchini di
Livia e lo schioppo di Giorgio.




XII.

CHI ERA SALOMONE ARENA?...


Era il sindaco del villaggio, cavaliere di S. Maurizio e Lazzaro, che
ai suoi tempi non erano ancora divenuti i _soliti Santi_.

Il Cavaliere, siccome per sineddoche lo chiamavano nel paese, prendendo
la parte per il tutto, era rampollo d’una famiglia di vinai, possessori
di fiorentissimi vigneti nei dintorni della Lomellina e del Lungo Po,
i quali avevano razzolato una portentosa fortuna, ora maritando alle
bionde acque del fiume natìo il vino che vendevano all’ombra delle
leggi e per cui pagavano gabella, ed ora esercitando un tolleratissimo
contrabbando dall’una all’altra sponda dell’Eridano, fra Piemonte e
Lombardia, di tutto l’altro vino che non annacquavano.

L’uno di essi, padre del cavaliere, in virtù di parecchie serque di
bottiglie vergini regalate a S. E. il governatore della provincia, e
più ancora per il ricco censo e per una fama di probità — assai dubbia
per noi — era stato eletto sindaco del suo comune ed aveva esercitato
le funzioni della sua carica fino al 1798, anno della sua morte e della
presa del Piemonte fatta dai francesi.

Il figliuolo perciò trovossi in sui trentacinqu’anni possessore d’un
bel milione rotondo in terreni, senza contare il denaro e i capitali
che nessuno sapeva precisare, ma che potevano girare intorno ai
cinquantamila scudi.

Ma, quanto il babbo era tagliato alla buona, altrettanto sentiva il
figlio la prurigine aristocratica dell’opulenta borghesia; epperò,
appena fu padrone di sè, non volle più saperne di accompagnare
ai mercati la carretta delle tinozze e dei barili, e dedicossi
esclusivamente a far coltivare i suoi campi e ad erigere case, non
tralasciando mai però di applicare anche in queste industrie i probi
ammaestramenti paterni e ingrossando a ogni giorno o per fas o per
nefas l’avita eredità.

All’epoca in cui noi lo incontriamo, nel 1820, il nostro nababbo
lomellinese era un ometto in sulla sessantina, grigio, secco, gobbetto,
giallognolo, con due occhietti da faina sopra un mostaccio da volpe,
goffo nel portamento, volgare negli atti, nei giorni ordinari vestito
alla carlona degli avanzi disusati della domenica, nelle solennità
lucido, inamidato, malgrado suo grottesco, e non scordandosi mai
d’avere in tasca una buona scorta di foglie di porro, caso mai quella
che verdeggiava perennemente agli occhielli di tutte le sue giubbe si
perdesse o si gualcisse.

Economico di parole, perchè calcolatore, cauto, astuto, versipelle,
ostinato più d’un mulo, amico di nessuno ma cortigiano di tutti quelli
che potevano essergli utili per splendore o per denaro; nell’esercizio
del suo sindacato cercatore assiduo dell’aura popolare, purchè
l’acquistarla nulla dovesse costare alla sua borsa o alla sua autorità,
spregiatore segreto dei bisognosi, tanto più se onesti, ma spettacoloso
nelle beneficenze come tutti i principi... d’una volta; largo coi
preti e coll’altare, sapendo che il suono dei soldoni gettati a _messa
grande_ nel bossolo del questuante è più argentino di quello degli
scudi deposti oscuramente nelle mani del povero; istruito tanto che
basta per non ingannarsi sulla moneta che corre, e sapere a memoria
i titoli di tutti gli alti dignitari dell’almanacco del 1798 e le
feste del calendario ufficiale; baciapile e devoto non per amore del
paradiso ma per paura dell’inferno, e nulla meno rinfrancato quanto ad
esso dalle rivelazioni dei padri gesuiti, dei quali, alla loro venuta
in Piemonte, erasi fatto patrono, soccorritore e confidente, e da cui
in concambio aveva ricevuto la comodissima dottrina «delle intenzioni
oneste, delle restrizioni mentali, del male perdonabile se non
scandaloso» con tutte le altre teorie dei _secreta monita societatis
Jesus_, de’ quali eragli stata comunicata una copia.

Quanto a patria non ne parliamo. Vi sono de’ ghiri, crediamo, che
amano la tana dove possano ronfare in pace i loro sonni; ci sono
degli orangotani che sentono riconoscenza per il ramo di sicomoro che
li sfama e li ricovera, ma ci sono degli uomini più duri dei ghiri,
più insensibili degli orangotani, che considerano la patria come il
poderetto di cui parla Giusti:

    Da sfruttare e nient’altro.

Inoltre la patria era abolita dal messale e dal codice, e sarebbe
stata cosa non solo inutile, ma pericolosa per un sindaco cavaliere
l’occuparsi d’una cosa che dalla Chiesa e dalla Corte era sbandita.
Non si induca da ciò ch’egli fosse politico a guisa di Don Girella:
tutt’altro. Quando Don Girella ci conta

    Che nelle scosse
    Delle sommosse
    Tenne per áncora
    D’ogni burrasca
    Da dieci a dodici
    Coccarde in tasca

ci si mostra di tale ingenuità che il cavaliere, se l’avesse
conosciuto, l’avrebbe compianto.

Barcamenandosi fra tanti scogli, cantando a un tempo

    Le Giunte i Club i Principi e le Chiese

stare sempre a galla senza naufragare

    Mangiando i frutti
    Del mal di tutti

può essere l’ideale della scienza, ma in pratica è cosa oltre il
possibile. Il cavaliere la avrebbe chiamata un’utopia.

— In fin dei conti — soleva spesso rimuginare il cavaliere — in fin
dei conti, a qualche santo bisogna accendere il lume. Chi tasta i
rami e non ne abbranca nessuno casca in fondo. Colpo d’occhio ci vuole
sicuramente... ma poi scegliere. Gli è un conto anche questo e bisogna
badare di non fallarlo. Quando mio padre vendeva il suo _Groppello_
forse che pensava soltanto a migliori prezzi? Baie!... Pensava anche
alla sicurezza dei pagamenti... Non dico nè della ragione, nè del
diritto; queste pappolate non pesano un grano: qualche volta possono
servir bene come insegna; ma l’oste sa che l’insegna non fa il buon
vino... Ora, tutto sommato, io credo più sicuro il Re che i giacobini;
e Napoleone a lungo andare si tirerà addosso tutto il mondo, non
esclusi i suoi Francesi che non sanno mai quel che si vogliono. No,
no... tutto questo tramenìo mi assorda ma non mi toglie il cervello...
Eh!... Salomone sa dove va... Per ora fin che passa il temporale,
mogi, e pensieri a casa; ma sempre agguantati al più saldo... e più
saldi del papa e dell’imperatore che ci ha da essere?... Pinco?... Or
dunque concludiamo, Arena mio; acqua queta, ma sempre verso Vienna e
verso Roma... e alla prima sfinestrata di sole ben chiaro, fuori del
guscio ed «evviva...» evviva chi mo? To!... Evviva chi governa... ma
già governare non può che re Carlo Emanuele IV e Papa Pio VI. E se
non andasse così?!... Bah! a questi sonagli — e picchiava gli scudi
che aveva nelle tasche delle brache — non c’è orecchio che faccia il
sordo.... ma Bonaparte trionferà?... c’è sempre tempo e vedremo.

Il lettore capisce che don Girella, se fosse proprio esistito, poteva
essere suo scolaro.

Salomone perciò, da buon generale, non perdè mai di vista il punto
obbiettivo della sua tattica; non gridò mai «viva i Giacobini» perchè
li guardava come sparvieri di passaggio e nulla più, non fece mai
professione di fede a Carlo Emanuele IV perchè gli pareva che anche
lui ciurlasse sempre nel manico, e inoltre le manifestazioni pubbliche
stimavale imprudenze da bambocci.

Per le sue terre passarono via Tedeschi, Francesi, Russi, d’ogni
maniera lanzichenecchi direbbe il Guerrazzi; ma lui pronto a
ricever tutti col medesimo sorriso, col medesimo bicchiere di vino
_annacquato_, col medesimo fascio di legna un po’ umido, col medesimo
letto imparzialmente marmoreo.

La sua casa, come la più comoda e ricca del paese, era sempre designata
per ospitare i generali; e poichè egli, come dicemmo, non sapeva far
distinzione di nazione e di bandiera ne’ suoi trattamenti, così i
generali partivano tutti contenti ad un modo non senza averlo regalato
di qualche loro personale ricordo.

Salomone aveva una pipa di Melas, un paio di stivali di Suwaroff e un
frustino di Lannes...

— Potrebbero venir buoni — pensava; ma nell’istesso tempo non osava
lasciarli in vista e li rinchiudeva, proibito a tutti di casa il farne
parola.

Quando, dopo Marengo, il Piemonte cadde in potere del Bonaparte,
re Carlo Emanuele abdicò e ritirossi in Sardegna, egli analizzò la
_situazione_ e calcolò in lire, soldi e denari se o no gli convenisse
con un atto qualsiasi, anco cauto, anco segreto, manifestare alla
monarchia proscritta la sua divozione, e conchiuse che no.

— Vedremo il successore... Re che abdica puzza sempre di fallito e non
fa per me.

Nè l’irrompere del torrente Napoleonico lo deviò dalla sua strada o gli
fece mutare di tattica.

Solamente, quando vide che la voracità e la distruzione erano
universali, capì che sarebbe stata stoltezza non prendere un posto
a quel vasto banchetto dove i più contumaci e puritani allegramente
sedevano, certi che il tintinnio dell’armi e il bagliore delle
conquiste confonderebbe il sonito delle loro mascelle, e il ludibrio
della loro defezione.

In altre parole, comprese che egli pure al pari di tanti altri, che
possedevano quattrini e destrezza, poteva ingrossare d’una locusta di
più lo sciame già innumerevole degli impresarii o fornitori d’esercito,
e immergere, senza nemmeno parere, la sua grinfa nei tesori e nel
sangue dei popoli.

E così fece.

Dubitando però che la nuova industria potesse passare abbastanza
inosservata, e guastarsi i semi del futuro, mandò di soppiatto a Pio
VI a Savona il dovizioso presente di una scatola d’oro tempestata
di gemme, implorando l’apostolica benedizione assieme ad una riga di
commendatizia per la bigotta regina Maria Teresa d’Austria, profuga col
marito in Sardegna.

— Un colpo al cerchio e l’altro alla botte — diceva a sè stesso,
ricordandosi il proverbio del padre vinocultore.

Alla fine il colosso rovinò, e in compagnia dei re d’Europa, tirò un
gran respirone anche Salomone.

Quando re Vittorio Emanuele I, succeduto al fratello Carlo Emanuele,
reduce dallo esiglio, sbarcava a Genova coronato dall’aureola del
martire e preceduto dalla fama di benefattore, Salomone Arena non potè
accorrere a festeggiarlo, perchè la moglie incinta avevalo presentato
in quei dì di un frutto delle sue viscere e del così detto suo amore;
ma in compenso Salomone bandì gran festa per tutto il villaggio, offrì
un desinare sontuoso a tutte le autorità, e battezzò il neonato col
nome del principe restaurato «Vittorio Emanuele».

Ognuno sa, o non sa, che allorquando questo re risalì sul trono dei
suoi padri si trovò stranamente imbarazzato per mantenere la reale
parola data «a’ suoi popoli» di rimunerare i fedeli servizi, di
castigare le perfide ribellioni, di rendere a tutti quanti la dovuta
giustizia.

Ora è noto che una valanga simile alla rivoluzione francese e
all’impero napoleonico aveva tutto travolto e scombussolato:
leggi, diritti, abusi, proprietà, chiese, tribunali, costumi, arti,
letteratura, idee.

È chiaro ancora, che il cataclisma in mezzo a tante cose pessime ne
aveva pur recate di buone, e che queste non potevano essere strappate
dal seno della società nella quale s’erano radicate, senza lacerarla.

Ma così non la pensava il formicolaio di cortigiani che brulicava
nelle anticamere della reggia. Nobili che avevano strisciato con
imperturbabile servilità dalla corte del re legittimo a quella
dell’usurpatore, rivolevano oggi gli aviti privilegi feudali; soldati
che avevano combattuto nelle file del grande esercito, i loro gradi
e le pensioni; preti che avevano cantato il _Te Deum_ coll’istessa
confidenza nei favori del cielo tanto _pro rege nostro_ che _pro
nostro imperatore_, le abbazie e le prebende; magistrati che avevano
perorato in nome del codice della rivoluzione, le torture, i tribunali
eccezionali; infine tutti, fedeli e infedeli, avevano un diritto, un
monopolio, una carica, un privilegio da ricuperare, tutti avevano
patito, tutti erano stati spogliati, tutti erano martiri della
legittima causa del trono e dell’altare.

Le sono allumaccature di tutte le restaurazioni; e l’Italia lo sa.

Il povero Re perdeva la testa e non sapeva a che santo votarsi.
Crediamo che si sarebbe deciso a riscappare a Cagliari piuttosto che
dipanar tanto arruffata matassa.

Per fortuna sua, un inaspettato Paracleto venne in suo aiuto sotto le
sembianze del conte Cerruti di Feletto.

Questo vecchio gentiluomo, non appena vide rovesciarglisi addosso il
torrente della rivoluzione e tutto andare inabissato nei suoi vortici,
re, trono, religione, nobiltà, sentendosi incapace a lottare e volendo
pur trovare una protesta ancora più eloquente di quella di Trasea
Peto, si ritrasse nella sua terra di Feletto, chiuse gli occhi, turò
gli orecchi, barrò le porte, proibì libri e giornali, e non volle
più vedere o intendere cosa o persona alcuna che ricordasse anco
indirettamente gli avvenimenti che succedevano intorno a lui.

Il suo castello, come l’arca di Noè, era il solo angolo dove non
arrivasse il gran diluvio europeo. E però quando un giorno, un amico
s’introdusse col ramo d’ulivo nel suo romitorio annunziandogli «che gli
alleati erano entrati a Parigi e che l’imperatore aveva abdicato»:

— Che imperatore? chiese meravigliato il conte — Carlomagno o Francesco
V di Lorena?...

E non disse di più, riabbassò il ponte del paterno castello e ripigliò
la lettura delle origini di Casa Savoia di Ludovico della Chiesa, solo
libro che gli paresse ragionevole.

Egli non conosceva ancora le storie del conte Cibrario. Peccato!

Alla fine quando udì ripetere da tutti i vassalli che Vittorio Emanuele
I era sbarcato a Genova, si risolse, come don Abbondio dopo la peste,
ad aprire un finestrino e lasciar penetrare un po’ dell’aria pura dei
vecchi tempi che ritornavano; e finalmente quando seppe, ma proprio
dalla _Gazzetta Ufficiale_, che il Re era giunto a Torino, peritossi a
montare nella carrozza dei suoi padri e a ritornare nella reggia.

— Se egli è veramente il figlio di Carlo Emanuele, dovrà ascoltare il
mio consiglio — rimuginava strada facendo il conte. — Se no, lo crederò
anche lui preso dalla lebbra di...; dell’_altro_ — non voleva nemmeno
dire a sè stesso, di _Napoleone_ — e reo d’alto tradimento.

Il re invece andava cercando un consiglio, come Diogene l’uomo.

— Sire — gli disse il baccalare della dinastia dopo essersi inchinato
tre volte — non c’è che un mezzo per far paga la giustizia e restaurare
l’ordine.

— Additatecela, o conte, noi la seguiremo — disse il re al quale non
pareva vero di sgravarsi il petto di quella pietra delle querimonie
cortigianesche.

— La M. V. si degni prima di permettermi una domanda — riprese il conte
con altre tre riverenze.

Il re cominciò ad abbuiarsi appena sentì quella parola «domanda» che
gli fece presagire una delle centinaia di querele di cui era vittima
ogni giorno. Tuttavia fece segno al conte di continuare.

— Vuole la M. V. restituire il suo regno alla felicissima condizione
in cui trovavasi prima che... di... — e non volendo dire prima che
Napoleone lo cacciasse via, perchè, lo ripetiamo, per lui Napoleone non
aveva esistito.

— E certamente che lo vorrei — fece Vittorio Emanuele in tuono
incredulo — ma come si fa?

— Con un metodo semplicissimo. — Il Re derogò fino ad alzarsi in piedi
per ascoltare meglio. — V. M., continuò franco il Cerruti, non ha che
a richiamare in vigore il Regio Almanacco del 1798 con tutte le leggi,
biglietti e disposizioni che vi si contengono.

— L’almanacco del 1798! — esclamò il re, — e dove si trova?

— Eccolo qui — soggiunse il consigliere, traendo dalle tasche della sua
lunga giubba gallonata, ancora alla moda dell’almanacco summentovato,
un vecchio volume legato in cartapecora.

— Qui c’è tutto per tutti — fece il Cerruti.

— Per i nobili?... — chiese S. M.

— Per i nobili!...

— Per il clero?...

— Per il clero!...

— Per i magistrati?...

— Per i magistrati!...

Il re guardò l’almanacco o per dir meglio il cartone, e dopo un po’ di
pausa:

— Pubblichiamo dunque anche l’almanacco... ma ad un patto che voi vi
incaricherete di applicarlo. Ricordatevi che al primo malcontento me la
piglio con voi.

Il conte Cerruti s’inchinò glorioso e trionfante rispondendo sulla sua
parola da gentiluomo dell’esito del suo ritrovato.

E così fu. Un editto regio del 1814 ritornò in vigore l’almanacco, la
di cui unica copia dormiva nella guarnacca del Cerruti, e obbligò per
giunta a osservare l’editto, non dal giorno della sua pubblicazione, ma
della sua data.

Fu una rivoluzione in un altro senso.

Tralasciamo naturalmente le obbiezioni legali; tralasciamo la parte
seria; basti il dire che il medio evo risuscitato veniva ad impancarsi
in mezzo al secolo XIX ancora caldo dello spirito di Voltaire e della
parola di Mirabeau; basti il dire che la storia di quindici anni — e
quale storia! — era cancellata come un poeta pentito cancella da una
strofa un verso sbagliato.

Notiamo soltanto la parte comica: generali che erano basiti di freddo
in Russia, magistrati che avevano la gotta, proprietari che non
possedevano più un piede di terreno, ufficiali d’ogni specie e d’ogni
nome, di corte e di gabelle, che erano morti od impotenti, rivivevano
per taumaturga virtù dell’almanacco e lasciavano i cimiteri o le
cliniche per rioccupare i posti sui quali quindici anni prima avevano
seduto.

Lo strillare fu universale e doppio, ma anche in questa nuova
confusione alcuni guadagnarono e fra questi non fu ultimo il nostro
Salomone Arena.

L’almanacco del 1798 rinominava a sindaco suo padre morto all’anno
stesso; ma quando Salomone si presentò al conte Cerruti allora ministro
per dirgli:

— V. E. deve sapere che il favore regale arriva troppo tardi: — il
conte che non poteva credere alla fallibilità del suo trovato, e non
l’avrebbe inoltre confessata rispose:

— Ebbene, succedete voi. L’almanacco non riconferma forse il diritto
ereditario?

Salomone naturalmente non rifiutò e nel 1815 si trovò sindaco del
villaggio di X... in virtù dell’almanacco del conte Cerruti.

Passata la burrasca dei cento giorni e ben sicura che lo sconvolgitore
era incatenato, la regina Maria Teresa poteva oramai tornare fra le
braccia del regale consorte.

Essa venne, e col marito gli mosse incontro un nembo di cortigiani,
di nobili, di frati, di beghine, di questuanti, di epitalamii, di
discorsi, di _Tedeum_, di adulazioni e di bugie. Le luminarie, i
banchetti, le limosine della _cassetta particolare_, le mostre, tutta
la coreografia sacra e profana non fallirono all’usato ufficio; ma
il popolo per il quale i re che vengono, o i re che fuggono, sono
la suprema delle feste, aveva in quell’anno più fame di pane che di
circensi, e lasciò entrare le _carrozze della reduce regina_ sotto le
volte di palazzo Madama, mutolo e impassibile, come se in quel corteo
avesse veduto il ritratto della scarna carestia che sedeva al suo
desco.

Ed era pure il fedele popolo piemontese, quello stesso popolo del quale
un ministro d’allora non aveva esitato a dire: «Qui non c’è che un re
che comanda, una nobiltà che circonda e un popolo che ubbidisce».

Fra lo stuolo dei questuanti accorse anche il nostro sindaco. Egli
aveva due scopi, mettersi in grazia della Corte, e a questo gli
servirono la pipa di Melas e gli stivali di Suwaroff, e far fruttare
meglio che potesse la commendatizia che teneva da Pio VI per la regina
Maria Teresa.

L’austriaca principessa baciò rispettosamente il santo autografo del
pontefice e fece buon viso al presentatore.

Maria Teresa santocchia ed avara s’accorse che Arena era ricco e
devoto, per fede o per arte a lei non importava, e pensò, sebbene
ripugnasse assai alla sua regale superbia, mettere nelle sue confidenze
il sindaco villanzone — pensò di trarre tutto il partito dalla sua
borsa e dalla sua bacchettoneria. Assunta perciò a forza quell’aria di
_maestosa umiltà_, che la madre del santo re Luigi IX ha insegnato,
dice il Nisard, «a tutte le regine,» prese a parlare a Salomone in
questi accenti:

— Sapete, o buon uomo, che è nostra intenzione e santo proposito
riedificare nei nostri Stati la chiesa di Cristo che la perversità
degli uomini ha invano tentato di rovesciare, e di restituirle lo
splendore e la grandezza in che i monarchi cristiani l’hanno sempre
mantenuta. Però non abbiamo creduto poter meglio inaugurare questa
santa impresa se non ripopolando lo Stato dei banditori più fedeli
della divina parola, rialzando i chiostri, incoraggiando gli ordini
monastici stranieri a rifugiarsi all’ombra del nostro trono, e infine
chiamando fra di noi que’ possenti ausiliari della fede, quegli
avventurati interpreti del cielo, che sono i padri della Compagnia di
Gesù. Ma per quest’opera benedetta ci occorre l’aiuto di tutti i veri
credenti e confidiamo che non indarno il vostro cuore religioso avrà
ascoltato la voce della sua regina.

— Io non m’aspettava un tanto onore. Vorrà la M. S. offrire ai
reverendi padri per il suo umile servo la somma di duemila scudi che
sono in questo portafoglio.

E Salomone parlando così s’inginocchiava e presentava la sua offerta
alla regina non senza accompagnare le diecimila lire con un sospiro
d’addio.

— Il Signore vi rimeriterà — fece la regina; — noi vi facciamo
cavaliere dei SS. Maurizio e Lazzaro. Avete altra grazia da impetrare
da noi?....

— È il momento di riguadagnare i duemila scudi — pensò subito l’Arena.
— E fattosi coraggio e poggiato un altro ginocchio a terra cominciò:

— Maestà!... Nel mio granaio ho raccolto da novecento a mille staia di
grano, frutto di dieci anni di oneste economie. Ora so che il re vostro
consorte (allora non si diceva «lo Stato») sempre generoso e pio, pensa
di riparare alla gran carestia che affligge i suoi ubbidientissimi
sudditi distribuendo ai poveri del suo regno tutto il grano che poteva
comperare. Io offro quello che tengo ne’ miei granai; ma la M. V. si
degnerà di comprendere che io non potrei così sprecare i sudori della
mia famiglia cedendolo a un prezzo minore del corrente. Se la M. V. si
compiacesse...

— Intendo! — interruppe la regina. — Domani avrete un _placet_ regio
che vi autorizzerà a vendere il grano come volete. Ma ricordatevi dei
nostri padri gesuiti.

— Ho già detto a V. M. che vita e sostanza sono nelle sue mani... —
E Salomone Arena partì da Piazza Castello, franco dalla legge sugli
incettatori, e padrone di vendere il suo frumento a prezzo d’usura,
mentre il popolo spigolava indarno negli aridi solchi il pane che
doveva sfamarlo.




XIII.

LA FAMIGLIA DEL SINDACO CAVALIERE.


Tutta la sapienza del defunto babbo del cavaliere era nei _proverbi_
e noi abbiamo forti ragioni per credere ch’egli imponesse al suo
marmocchio il nome di Salomone per il gran rispetto che aveva per il Re
Proverbiatore.

Comunque sia, quando nel verno del 1798 sentì i primi attacchi di
catarro senile, papà Arena incominciò a proverbiare.

— Ah!... io me l’aspettava: «sereno d’inverno, pioggia d’estate e
vecchia prosperitate non durano tre giorni» e dopo uno scoppio di tosse
— «nè mai buon tempo lungamente dura» disse il vecchio senza sapere
di recitare un verso dell’_Orlando innamorato_. «Quando la campana ha
suonato è inutile dir di noi...» Regoliamo i nostri conti, spegnamo il
lume e così sia.

E chiamato al capezzale Salomone gli sciorinò quest’altra litania:

— Senti!... «La morte non sparagna Re di Francia, nè di Spagna»...
Io me la sento sulla groppa e se non ci sono pei capelli, poco
ci manca... «Ma già chi nasce convien che muoia»... Prima però di
fare quest’altro viaggio ti devo dare un consiglio, figliuolo mio.
«Consiglio di vecchio non rompe mai la testa». La casa ingrandisce e
i negozii moltiplicano; ai negozii ci starai tu quando io me n’andrò
ma alla casa chi ci penserà? Ricordati che «chi non cura sua magione
non è un uomo di ragione»... Eppoi non basta avere la casa; è giusto
il dire «innanzi il maritare abbi l’abitare»... ma «la bella gabbia
non nutrisce l’uccello»... Capisci già dove voglio venire... Volta
e rivolta «la casa e la moglie si godono più d’ogni cosa». Pigliala
dunque... così me n’anderò più tranquillo... ma pigliala per bene.
Ricordati «che chi mal si marita non esce mai di fatica»... sopra tutto
non farmi la corbelleria di innamorare... «chi si marita per amore, di
notte ha piacere e di giorno dolore». Bada poi a non lasciarti tentare
dai fronzoli... «Donna specchiante è poco filante,» e non fa per casa
nostra... Cercala del tuo stato e se un po’ allocca, meglio... «Abbi
donna a te minore, se vuoi essere signore»... Quando l’avrai guardi la
casa e nulla più... «Camera adorna e donna savia»... Tu poi tieni gli
occhi aperti, ma non dimenticarti «chi è geloso è...» — e un colpo di
catarro gl’impedì (forse per rispetto al pudico lettore) di continuare.
Ma guarda bene «che restare in casa e mandar fuori la moglie semina
roba e disonor raccoglie». Tienti a una cosa mezzana, nè bella nè
brutta perchè «se è bella è vanitosa e se è brutta è fastidiosa...»
Quanto al governarla lascio fare a te... Pensa però che «senza pastor
non va la pecora». Io non ho mai avuta l’occasione di farne la prova,
ma so che «donne, asini e noci vogliono le mani atroci». — E voleva
dire di più, ma un ultimo e più violento urlo di tosse gli ruppe nella
gola la paternale filastrocca.

Trenta dì dopo il poverello pronunciava l’ultimo suo proverbio; e sei
mesi appresso Salomone chiedeva a un filatore di seta dei dintorni
«riccuccio anzi che no» la signora Lorenzina ***... il cognome non
monta; e scorso l’anno di lutto se la menava all’altare.

Il nome di Lorenzina era il solo diminutivo che portasse con sè la
novella sposa; ma dopo tre giorni di matrimonio le tolse anche questo,
e da allora in poi la chiamò _Lorenza_ per tutta la vita. Da ciò si
poteva facilmente arguire che la luna di miele dei due sposi aveva
fornito rapidamente il suo corso.

La signora Lorenza, lo ripetiamo, non era nè bella, nè brutta, il
suo volto non aveva difetti, ma pareva di legno; i suoi capelli erano
folti e lunghi, ma sembravano di canape, i suoi occhi erano grandi, ma
spenti, la sua taglia era regolare ma.... ahimè sembrava un rettangolo,
infine il tipo proverbiale che il defunto suo suocero aveva sognato,
poteva dirsi trovato.

Ma questo che importava?... se in cambio era buona, casta, casalinga
e sinceramente pia, ottima madre e moglie, rassegnata?... Rassegnata
fin troppo; rassegnata tanto che la si poteva credere stolta. Ma che
volete?... La poverella aveva tale invincibile paura di suo marito che,
appena questi alzasse la voce o aggrondasse un sopracciglio, avesse
ella pure tutte le ragioni del mondo, non osava più fiatare, tanto
era rassegnata, da scordare fino talvolta i suoi doveri di madre e
la sua dignità di donna. Per questo il marito, dopo averla abbrutita,
spregiavala, e i figli stessi che si ricordavano d’aver spesso ricorso
indarno alla sua protezione, e che l’avean trovata sempre impotente a
difenderli, non la rispettavano. Soltanto Giusta, la terza figliuola,
comprendeva le invisibili torture di quell’anima e l’adorava.

Noi non abbiamo che a parlare di tre dei suoi figli. Adolfo, quello
stesso azzimato che vedemmo nella spezieria, Virginia la secondogenita
e Giusta che vedremo tra poco. L’ultimo, battezzato solennemente col
nome di _Vittorio Emanuele_ non fece molto onore al suo regale omonimo
e morì pochi mesi dopo in cuna.

Quando Adolfo ebbe dieci anni, fu il caso di metterlo in collegio.
Allora eravamo nel colmo dell’impero, e le scuole ed i collegi
erano appestati di tale infranciosamento che, senza condividere le
antipatie di Salomone Arena, si poteva benissimo provar ripugnanza ad
abbandonarvi un figliuolo.

Eppoi scuola sì, ma economica. Il padre perciò — giacchè la madre non
era nemmen consultata — per conciliare l’uno e l’altro scopo, cioè
economia e non francesi, pensava al seminario. Non già col proposito di
fare del figliuolo un prete, giacchè la sottana, sebbene la rispettasse
pel potere, eragli sospetta e uggiosa; ma nel disegno di fargli
acquistare una educazione che Salomone chiamava «scelta» e gettarlo
così munito di tutti i beni dell’intelletto nella palestra degli affari
e dei guadagni.

Adolfo adunque entrò nel Seminario Maggiore di Genova e vi stette fino
a 18 anni.

Quando ne uscì non sapeva nè il latino nè l’italiano, nè la storia
sacra nè la profana, e dell’ermeneutica non aveva ritenute altre
lezioni fuor di quelle che interpretavano il Tarocco e il Faraone.
In compenso s’impinzava di quanti romanzi e novelle potesse trafugare
sotto il suo capezzale. Siccome però egli udiva continuamente tuonare
dalla cattedra il maestro barbassoro contro il nascente romanticismo,
ed egli era troppo grossolano per sentire René in Chateaubriand
e _Werther_ in Goethe, così tutto il nutrimento delle sue notti
riducevasi alle sdolcinature dell’abate Chiari ed ai laidumi del
Batacchi e del Casti, i quali gli accendevano nel sangue vampe di
desiderii intollerabili e gli addottrinavano lo spirito, prima ancora
di corrompere il corpo, in tutti quei vizii, dei quali la comunanza
invigilata o violenta dei seminarii era, in tempi più corrotti dei
nostri, facile scuola.

Buttato via il collare, suo primo pensiero fu di gettarsi a corpo
perduto ne’ piaceri, dei quali aveva palpate le larve nei sogni
irrequieti del dormitorio.

Chiese perciò al padre licenza e danaro per viaggiare e l’ottenne.

— Ma ad un patto — disse Salomone — non in Francia.

— No babbo!... l’Italia soltanto.

Il babbo forse non sapeva che anche nell’Italia d’allora ce ne era
abbastanza per guastare un seminarista... fosse stato S. Luigi Gonzaga.
Ma il sindaco cavaliere (allora aveva di già questa doppia qualifica)
pensava che viaggiando il figlio si romperebbe alle scaltrezze della
vita ed ai raggiri dei negozi.

Quale meraviglia invece e quale dispetto, quando Adolfo, in capo a
quattordici mesi, tornava carico di debiti, di vizi, di ignoranza,
di superbia e di magagne!... Costretto allora dalla volontà del padre
a restare in casa per riparare le piaghe sofferte, Adolfo divenne il
zerbino o come suol dirsi oggi il leone del villaggio, e siccome in
certe prodezze, i più stolti sono i più forti, così ebbe fortuna.

Lo vedevate anche nei giorni feriali passeggiare in scarpini verniciati
in mezzo ai zoccoli risuonanti de’ contadini e mettersi tutto unto e
profumato sulla porta delle stalle in compagnia di villane che non si
lavavano mai.

Parlava un _piemontese_ infarcito d’un _italiano_ leccato ne’ suoi
viaggi, ma tuttavia anco con quel gergo più barbaro di quanti barbari
gerghi soldateschi e burocratici siano favellati in Italia, il nostro
Ganimede riesciva a ingarbugliare la testa delle paesane ed a passare
nell’accademia della spezieria del villaggio per un uomo _di lettere_.

La secondogenita, Virginia, era belloccia, tonda, lenta, egoista,
indifferente, dispettosa coi fratelli e colla madre, contrita in faccia
al padre, al quale riportava per giunta tutto quanto vedeva e sentiva.

Maltrattava gli animali e le piante, trapassava a colpi di spillo tutte
le farfalle che poteva cogliere e dilettavasi a spargere nella camera
di sua sorella Giusta — che ci pativa fino a piangerne — le foglie di
abbossino che aveva divelte dalla siepe del giardino.

Ombra d’amore non era ancora passata su quell’anima, ma non crediate
però che essa dormisse sul santo origliere dell’innocenza. Libri non ne
leggeva dacchè il convento ne l’aveva svogliata, ma nessuna avventura,
per quanto scandalosa, di dieci miglia all’intorno erale ignota. Tutte
le sue confidenti avevano doppia età della sua, il che, lo sappiano le
madri, è il pericolo maggiore delle fanciulle. — Giusta era il fiore di
quel deserto, la Venere Diana di quel crepuscolo.




XIV.

GIUSTA.


Ci lasci il lettore tentare un abbozzo di questa figura, e tutto
quello che non potremo dire noi stessi lo ritrovi nella sua fantasia
e nel suo cuore. A sette anni, trascurando i primi dell’infanzia
che furono tristi ed infermicci, Giusta era quella che chiamasi un
diavoletto colle penne d’angelo. Il padre stesso, così poco espansivo
e tanto rigido cogli altri di casa, l’idolatrava; egli non avrebbe
mai creduto di poter avere da sua moglie un così bel cherubino. Direi
quasi che si rabbonisse anche colla signora Lorenza, e certo il broncio
stereotipo di Salomone venne a poco a poco levigandosi dal dì che
Giusta fanciulletta cominciò a farfallare e folleggiare per la casa,
empiendola delle sue grida argentine, delle sue canzoni melodiose, dei
suoi trastulli, e del suo riso, ravvivando quella morta solitudine coi
profumi della primavera e colorando quella tenebria coll’iride delle
sue guance e il raggio luminoso e perenne delle sue nere pupille.

Essa smentiva vittoriosamente il verso di Dante:

    Ch’ogni erba si conosce per lo seme.

Ma venne anche per lei il giorno d’essere affidata alle Carmelite di
Tortona, e quando essa s’involò, l’arcigna strega della monotonia tornò
ad assidersi al focolare della sua casa.

Sua madre, staccandosi da lei, ebbe il coraggio di piangere anche in
faccia al suo marito, e questi di sospirare.

A sedici anni, un anno dopo Virginia, uscì di convento, sapendo un
po’ di tutti quei nonnulla che le monache sanno insegnare con quel
colorito e quella intonazione tutta particolare onde li rendono noiosi
e insopportabili durante gli anni della scuola, insufficienti e sterili
nel resto della vita.

Giusta aveva imparato a far dei fiori, ma in luogo di gigli e di gerani
la obbligavano a pungersi le dita per de’ fioracci senza significato,
senza poesia e senza verità, i quali andavano ad ornare la testa
d’una madonna di legno o la nicchia d’una santa raffagottata. Giusta
sapeva stare al cembalo; ma non le lasciavano studiare che _Sursum
corda e Tantum ergo_; Giusta ricamava; ma l’eterno tipo era un sonetto
acrostico, le cui iniziali erano quasi sempre un cuore trafitto, una
mitra da vescovo o un capello da cardinale; — e si disamorava di tutte
queste cose.

Non vogliamo dire con ciò che Giusta fosse senza religione. La
sua anima amorosa e semplicetta sentiva Dio in tutto ciò che era
bello, giusto, alto, sublime, ideale, e l’adorava. Alle pratiche
della religione in cui l’avevano battezzata non s’atteneva
superstiziosamente; molte però ne amava per la poetica espressione,
tutte le rispettava. La preghiera e la carità erano le forme predilette
e credute del suo culto; non la preghiera pubblicana e spettacolosa,
informata ad una lingua morta e arcana, ma quella solitaria, spontanea,
come le sgorgava dal cuore, come gliela dettava l’affetto e il bisogno
di quell’ora; ma la carità segreta, modesta, incondizionata, illimitata
per tutte le colpe penitenti, per tutte le virtù sventurate, per tutti
i rimorsi sinceri; carità che non dispensa soltanto i soccorsi e i
conforti del corpo, ma la parola, l’esempio, le lagrime consolatrici.

L’età, il sesso, l’educazione, l’ambiente non le permettevano di
professare una religione filosofica, ma il sentimento le impediva
d’avere una filosofia miscredente. In questo era donna e seguitava le
aspirazioni ideali del suo cuore e ascoltava le voci che susurrava
all’anima sua, la grande anima della natura, dai profondi spazj
dell’infinito.

Ciascuno ha in sè l’eco d’un ideale che è il suo proprio Dio; tristo
l’uomo che non l’intende; tristissima, orrida la donna... Reduce dal
convento, Giusta non serbava più, della rosea, paffuta e indemoniata
fanciullina, se non che il lampo fascinante dello sguardo, fattosi
però più profondo e più mesto. I suoi bei capelli d’oro, senza aver
perduto nulla della mollezza e del profumo nativo, s’erano infoscati,
traendo già più al castano che al biondo; le sue forme tornite e piene
si erano assottigliate e quasi diremmo spiritualizzate; l’incarnato
delle sue guance erasi mutato nel pallido splendore della conchiglia;
il suo collo così morbido e ritondo tendeva ad allungarsi fin troppo ed
a chinarsi sull’omero; le sue spalle diritte e slanciate cominciavano
a curvarsi; da tutta la sua persona traspariva quell’aria di abbandono
e di stanchezza che è segno quasi sempre o d’un segreto dolore, o
di grandi prove, d’uno spirito eccessivamente sensitivo e proclive
alla contemplazione ed ai sogni. Soltanto la voce serbava il timbro
argentino e soave dell’età infantile quasi promessa che l’anima sua
custodiva in tutto il candore della prima innocenza.

Le contadine le quali non vedevano più il colore di melograno sulle sua
fossette, dicevano che Giusta ingrandendo aveva perduto in bellezza;
ma le contadine si ingannavano; Giusta non aveva fatto che salire di
_carne_ a _spirito_ come la Beatrice del Poeta, e la sua bellezza meno
pittoresca era divenuta più celestiale.

Ci si chiederà il perchè di questo improvviso mutamento, e noi lo
daremo.

Nessun ricordo resta più scolpito nella mente, dei ricordi
dell’infanzia, e per dire più esatto, o le immagini passano via
fuggenti e svaniscono e nessuno sforzo vale a richiamarle nell’età più
adulta; o si soffermano e s’imprimono, e nessuna potenza nè di tempo
nè di cose può cancellarle mai più. Tutto ciò che la prima età riceve,
assorbe e trasforma in sangue; più tardi in ogni fibra del cuore, in
ogni figura del pensiero trovate un atomo del primo nutrimento.

Giusta, due cose rammentava della sua infanzia; ma quelle due
rimembranze, giunti gli anni della riflessione — che ahimè! son pur
quelli del dolore, — avvilupparono di quel tenue velo di melanconia
l’anima sua, eterizzarono le forme del suo corpo e s’impressero
incancellabili in tutta la sua vita.

Bambina di sei anni, ricordavasi che in una notte gelata d’inverno,
mentre la neve cadeva a fiocchi per la contrada e il vento sibilava
alle imposte, sua madre, discinta, pallida, tremante, era venuta a
rifugiarsi nel lettuccio ov’essa dormiva per fuggire alle percosse di
suo padre che furente ancora minacciava alla porta.

E rammentavasi pure che allora rizzandosi sul letto e coprendo la
madre della sua persona, fatta gigante nell’ombra come l’angelo della
punizione, aveva gridato:

— Cattivo babbo..... il Signore ti farà morire!...

E la madre chiuderle prestamente la bocca dicendole che una buona
figliuola non deve mai invocare la morte del proprio padre.

E pochi anni dopo ricordavasi d’aver veduto in una delle inondazioni
del fiume un vecchio ottuagenario e un giovinetto di quindici anni
lanciarsi perdutamente entro le furenti corsie per salvare la vita e le
masserizie di venti povere famiglie.

E questi due ricordi insieme disposati erano ingranditi coll’età
nella sua mente e s’erano impossessati del suo spirito e, come il loto
mitologico del sacro fiume indiano, erano un giorno sbocciati nel suo
cuore sotto la forma di tre fiori soavi, di tre sentimenti celesti che
gli angioli istessi le avrebbero invidiati. Vogliamo dire:

Adorazione per sua madre,

Venerazione per quel vecchio,

Amore per quel giovinetto.

Ora chi fosse la madre sua lo sappiamo, e quel giovinetto era Giorgio e
quel vecchio il padre di lui.

Reduce fra i suoi, la madre, quasi avvertita da quell’arcano istinto,
che nella donna è più chiaroveggente della ragione, considerò quella
mestizia come un omaggio alla sua, come un lutto segreto che la figlia
portasse pei dolori a cui era condannata, e l’idolatrò ancora più s’era
possibile.

Il padre se n’accorse pure, ma pensò dapprima, e con dispetto, potesse
essere frutto dell’educazione ascetica del convento. Tuttavia com’egli
era uno di quei volgari interpretatori della donna, che la bellezza
giudicano alla stregua della carnale pienezza delle forme e credono
spirito la immodestia e civetteria, così dubitava che quell’esile
e quasi impalpabile creatura non potesse più pretendere ai ricchi
partiti, ai quali parevano chiamarla le gote paffute e il riso
procelloso dei suoi primi anni.

Immaginò pertanto, come tutti i padri della sua specie, che le
distrazioni e i sollazzi fugherebbero quelle nebbie del chiostro e
la fece viaggiare, ballare, divertirsi; le comperò vesti, ornamenti,
trastulli, e fidandosi al patrocinio di Maria Teresa, nutricò persino
in cuore la speranza di presentarla a corte. Ma a Torino gli fu fatto
conoscere che il suo cavalierato era troppo di fresca data; e Salomone,
senza rinunciarvi del tutto, aggiornò i suoi aristocratici progetti.

Giusta seguitò il padre, obbediente ma svogliata. Le nuove città,
le diverse scene della natura la stupivano, l’ammiravano, è vero,
ma nessuno dei piaceri a cui era iniziata potè appannare il candore
dell’anima sua, o macchiare l’alabastro placido e solenne della sua
melanconia.

Nessuno dei fiori che suo padre spandeva sul di lei cammino vinceva
l’acre profumo del suo _fior di memoria_. — Diamine... — masticava
qualche volta il sindaco cavaliere — Che cosa può avere Giusta?... che
sia innamorata? sarebbe un brutto contrattempo pei miei progetti....
— poi riflettendoci — Baje! È impossibile! Chi mai dei tangheri del
villaggio può aspirare fino a.... lei?

Il padre rasentava la verità; Giusta era innamorata, ma nessuno,
nemmeno lei, avrebbe saputo dire di chi.

Spesse volte passando innanzi alla casa dei Santafiori aveva sentito il
suo cuore battere a rintocchi più veloci; ma, sebbene gustasse un certo
gaudio a quella sensazione, non sapeva spiegarla.

Così altra fiata, se andando alla messa le accadeva d’incontrare per
la via il giovine dei suoi ricordi, era facile sorprendere sul suo
volto un lampo di rossore; ma i curiosi, se pur lo notavano, erano però
incapaci di interpretarlo e lo confondevano gli sciocchi con un colpo
di sole, i maligni con un effetto di belletto.

Giusta era pietosa e caritatevole. Sebbene di rado padrona della
più piccola somma di denaro, tuttavia o col suo tenue peculio, o
con qualche avanzo del suo guardaroba, o col borsellino della madre,
trovava sempre modo di vestire qualche bambino ignudo o di portare un
soccorso qualunque a un ammalato.

Sebbene il cavaliere avesse tutto il giorno la voce in aria per
perorare la economia o per gridare: — che le limosine fatte così di
soppiatto, e senza che nessuno potesse ringraziarvi, a certi fannulloni
accidiosi e ingrati, erano uno sciupio inutile coi danni e le beffe
per giunta, — tuttavia chiudeva qualche volta — non sempre — un occhio
sulla modesta liberalità della figliuola, prima perchè pensava che
era dispensato dall’usarla egli stesso, poscia per amore di quella
popolarità che lo vellicava tanto quand’era gratuita. Inoltre, stimando
Giusta troppo alto locata nel villaggio perchè sospettasse alcuno tanto
ardito di metterle un’occhiata addosso, le dava spesso libertà di fare
lunghe passeggiate o nel villaggio o nei cascinali e nelle masserie dei
dintorni.




XV.

L’INCONTRO.


Quando Giusta entrava nei tugurii le vecchie già impotenti si
sforzavano ad alzarsi per offerirle la scranna su cui sedevano;
le madri le davano a baciare i loro bambini come li porgessero al
tocco d’una santa: il paese tutto era pieno de’ racconti delle sue
beneficenze e molta parte della gratitudine per la figlia riverberava
sul padre che modestamente se la pigliava.

Un pomeriggio d’autunno Giusta era uscita per trovare una povera
ammalata che dimorava in una casipola assai lontana dal villaggio,
sola sola con due figliuoletti, giacchè il marito, che fidandosi a una
miopia non menatagli buona erasi ammogliato a vent’anni, aveva toccata
la coscrizione ed era soldato nei _dragoni del Re_.

La fanciulla trovò l’inferma assai aggravata; durante la sua visita,
essa era già caduta due volte in deliquio. Però non aveva cuore di
lasciarla sola fino a che non si fosse riavuta, o il medico, che
s’aspettava, non fosse arrivato. Ma il sole era tramontato, l’_Ave
Maria_ era suonata e il medico non si vedeva ancora. Giusta era in un
affanno fortissimo pensando che i suoi l’aspetterebbero e che avrebbe
dovuto traversare la campagna di notte. Pure decise di aspettare ancora
e prodigò intanto le sue cure all’inferma. Questa sembrava realmente
rinfrancata; per quella notte ogni pericolo poteva dirsi svanito.
D’altronde essa pregava la sua giovane benefattrice «a ritornare a
casa, a non dare quel tormento di non saper dove fosse alla sua buona
madre» e Giusta cedendo a tante ragioni decise di partire. Lasciò
qualche soldo alla donna e un regaluccio per uno ai due bimbi, e
rincorati tutti con quella sua voce che pareva involata alle arpe del
cielo, abbandonò la capanna.

La notte era scesa più fitta e buja dell’usato; le stelle andavano mano
mano sparendo entro padiglioni nerissimi di nubi, e un soffio umido
che ventava dall’argine del fiume annunziava non lontana la pioggia.
Giusta tuttavia, sollevato con una mano il lembo della sua lunga veste
e coll’altra allontanando i tralci delle vigne e i rami degli olmi che
le imprunavano il cammino, prese senza timore la via di casa sua.

Camminava così da circa cinque minuti, quando un lungo filare d’alberi
che non conosceva e che non aveva incontrato nella sua passeggiata di
giorno le si parò improvvisamente d’innanzi.... S’arrestò; riguardò da
ogni lato; fece per tornare addietro e non potè orientarsi; stette un
istante pensando, poi disse a voce alta:

— Sono perduta!...

— Scusate, signora — rispose un uomo che era apparso all’improvviso
dietro di lei — io posso insegnarvi la strada!....

Giusta s’era voltata rattamente, sorpresa ma non spaventata.

— Voi?... e chi siete voi?... — fece la intrepida fanciulla rizzandosi
di tutta la maestà della sua persona.

— Mi chiamo Giorgio Santafiori — rispose rispettosamente l’interrogato.

— Giorgio!... — esclamò un po’ troppo vivacemente la giovinetta,
lasciando al suo interlocutore una lunga occhiata che l’avviluppò come
la luce d’un lampo.

— Sissignora... — balbettò Giorgio — sono l’affittaiolo della
Calandrina.

— Oh vi conosco....

— Mi conoscete?... — fece Giorgio stupito.

— Di nome.... voi e vostro padre.... — soggiunse la fanciulla.

— Allora permettete che v’accompagni sul buon cammino.... — disse
Giorgio incoraggito.

— Accetto!... — rispose la fanciulla dopo avere esitato un
impercettibile momento. — Volete precedermi signor Giorgio?...

Questi si portò alcuni passi davanti alla fanciulla, e senza mai dire
una parola se non per avvertirla di evitare una pozza o per aiutarla a
passare un fossato, la ridusse fino al portone di casa sua.

— Io lo sapeva, signor Giorgio, che voi eravate molto buono; ma ho
avuto il piacere di provarlo io stessa. Lasciate che io ve ne ringrazii
con tutto il mio cuore.... — fece la bella giovinetta porgendo alla sua
guida una mano affilata e candida come quella d’una fata.

— Oh! di che mai?... — rispose Giorgio sfiorandola appena colla punta
delle sue dita tremanti.

E i due giovani si dissero addio e si separarono, portando ciascuno nel
cuore questo sentimento, questo voto, questa speranza: «io l’amo».

S’amavano e non se lo dissero ancora.




XVI.

EPISODI.


I Santafiori erano da parecchi mesi nel villaggio di X, intenti
a coltivare la Calandrina, passando pressochè le intere giornate
ai campi, Giorgio ai cavalli ed alle mandre, Battista alle vigne,
alle semine ed ai mercati, mentre le donne non ristavano un’ora, o
dai lavori, o dal casalingo maneggio, e Balilla non intralasciava
mariuoleria per deludere que’ due uggiosi nemici di tutte le infanzie,
l’abbaco, e l’abbicì.

L’unica distrazione che restasse alla patriarcale famigliuola era,
raccogliersi intorno al domestico focolare ad ascoltare le venturose
peripezie di mare e di terra che Battista aveva traversate, ch’egli
sapeva colorire d’un linguaggio semplice e vivace, e accompagnare
con una morale severa, e con amorosi consigli. Ci siamo sbagliati
e «torniamo indietro un passo» anche noi come accadeva talvolta a
Battista nel narrare la sua storia.

Non era quello il solo sollievo che i Santafiori prelevassero sopra
una vita laboriosa ed austera; essi ne conoscevano un altro e ben
più gradito ed invidiabile: la beneficenza. Era codesto il carattere
e diremo quasi l’arma gentilizia di quella casa sulla quale Michele
soltanto protendeva l’ombra del suo egoismo e della sua poltroneria.

La beneficenza dentro quelle mura o, per dir meglio, dentro quei
cuori era la sola e vera religione. Il lettore sa che il primo atto di
Battista entrando nel villaggio era stato un atto di carità. Ma quello
non era che la continuazione di molti benefizj passati, il principio
di molti avvenire. E v’era chi ne abusava, perchè nessuna cosa è più
facilmente usufruttata dal male che il bene, specialmente se questo
non è nè studiato nè guardingo, e gli onesti sono la prima forza dei
malvagi. A mo’ d’esempio, i contadini suoi, che avevano in pochi giorni
subodorato l’umore o l’amore del padrone, una domenica in cui s’eran
raccolti ad aggiustar conti in cui Battista ci rimetteva quasi sempre
di saccoccia, tirate le somme e chiuso il bilancio, presero a dirgli
«che la novità ch’egli introduceva nella lavorazione de’ campi li
costringeva a una doppia fatica, che la lor paga non era adeguata al
lavoro, che avevano la madre vecchia, i figliuoli teneri, molti debiti,
molte miserie e così via» e tanto fecero, pregarono e piagnucolarono
che Battista conchiuse:

— Ebbene vi crescerò dieci soldi al giorno per ciascheduno; ma ad un
patto...

— Anche cento, padrone — rispose il più parlatore e disinvolto della
deputazione.

— Che i dieci soldi che vi do di più, li metterete in una cassa
comune, che servirà ad aiutarvi mutuamente, a pagarvi le medicine nelle
malattie ed a far fronte alle disgrazie imprevedute. Vi sceglierete un
amministratore di fiducia, per esempio il Marco, il quale distribuirà
dei soccorsi secondo i bisogni.

I contadini che non capivano il beneficio della mutua associazione, e
che erano, come al solito, tigne, avrebbero amato meglio mettersi in
tasca i dieci soldi; ma poichè pareva quasi impossibile ad averli, si
contentarono per allora anche della proposta di Ballista, e...

— Così sia — disse Marco l’arringatore, — che siate benedetto; il
Signore vi aiuterà.

Come noi non scriviamo solo un romanzo, ma una storia, dobbiamo anche
registrare che i contadini da quel giorno si fecero uno scrupoloso
dovere di lavorare meno di prima e di truffare al padrone i dieci soldi
quotidiani ch’egli aveva loro bonariamente accordati.

Già da molti giorni il fiume ingrossava e rodeva. — Il nemico s’avanza
— dicevano i guardia-rive — messer Po ci minaccia una delle sue
passeggiate... Chi ha roba la salvi — e attenti ai bestiami.

Un acquazzone, scatenatosi in una notte di dicembre, fu decisivo.
Il fiume s’ingojò la riva, superò l’argine e dilagò, travolgendo e
schiantando tutto quanto s’opponeva alla sua corsa per la circostante
campagna. Per fortuna che i ripuari erano all’erta e che tutto il più
prezioso, granaglie e mandre, era trasportato lontano e al sicuro.
Le case propinque alla riva erano le più esposte all’invasione
delle acque e i pigri che vi si fossero addormentati sarebbero stati
inevitabilmente perduti se un uomo non avesse vegliato per loro.

Battista aveva coi venti e coll’acqua la famigliarità d’un marinaio.
Egli aveva preveduto la pioggia; e vedutala capi che l’innondazione
sovrastava inevitabile.

— Svegliati, Giorgio — disse a suo figlio — vieni con me al fiume, vi
sarà forse qualche cosa da fare; prenditi delle corde e un’ascia.

E giunti presso agli argini si misero a picchiare alle porte delle
capanne seminate qua e là, per avvertire gli abitatori che lo
straripamento era imminente e che non indugiassero a mettersi in salvo.
Chi s’alzò, chi seguì il consiglio, chi voltò il fianco borbottando
«che non importava e che la Madonna li avrebbe aiutati». Eran di
quella misera gente, cui il morire non caleva più nulla, o ignoranti
abbrutiti, cui la stolta e iniqua dottrina del quietismo cattolico
aveva appreso l’ozio e la infingarda aspettazione del paradiso, sotto
pretesto che i beni della vita futura erano tanto più certi quanto più
deliberato era il distacco da quelli della presente.

Battista non s’era acquetato alla costoro risposta, e s’era già accinto
ad abbattere la porta per trarli di là se fosse d’uopo anche a forza;
ma intanto le acque erano montate e in meno che non si dice avevano
valicato i primi terreni, abbattute le prime case, e persino avvolti
nella correntia, le due sentinelle notturne, padre e figlio Santafiori.
Eran però nuotatori entrambi invincibili, e Battista malgrado i suoi
ottant’anni non aveva ancora perduto il diritto al soprannome di
_Murena_.

Nel punto istesso che l’acqua li soperchiava avevan visto sparire
nei gorghi anche la capanna cui avevano bussato e compresero che non
v’era un minuto da perdere. Si slanciarono a nuoto nella direzione del
pericolo e nel fosco della notte scorsero galleggiare poi disparire
umane forme. Affrettarono il corso; e a forza di petto e di braccia
trasportarono i sommersi verso le parti più alte dove l’acqua non
giungeva al ginocchio. Altri pietosi davano altri soccorsi ai salvati.
E di nuovo Battista e Giorgio tornarono all’opera, e tutto quanto potè
afferrare il loro braccio fu salvo.

Passato il flagello, i nomi di Battista e di Giorgio volarono per tutti
i dintorni e fin sulle gazzette, ma in molti petti non destarono che
un’invida ammirazione o, peggio ancora, un odio implacabile. Pochi
si commossero e sinceramente ammirarono: fra quei pochi la gentile
fantasia di una fanciulla a noi nota. Giusta Arena doveva ordire su
quei nomi e quell’opera il suo primo, il suo unico romanzo d’amore.

Il più inviperito di tutti invece, e lo si indovina, era Salomone
Arena. Egli vedeva nella popolarità che Battista veniva acquistando
una concorrenza fastidiosa alla sua, e non tralasciava più sordamente
che gli era possibile di limitare per di sotto la nuova reputazione che
veniva sorgendo in paese.

L’izza di Salomone contro Battista originò dalla _Calandrina_, una
magnifica tenuta di oltre 1000 iugeri di terreno, che detratta
ogni spesa fruttava al Santafiori (il quale però la coltivava
senza sparagno) le sue quattromila lire nette, somma sulla quale
l’affittaiuolo doveva pagare la pensione a Michele, esercitare la
beneficenza e vivere. L’Arena però aveva contato, pagando d’affitto
solo dodicimila lire, lavorandola a economia e a strascico, mettendoci
dentro metà dei contadini delle altre sue campagne, e strozzando il
salario all’altra metà, di cavarne almeno almeno le sue diecimila
lirette suonanti. Gli capitò fra i piedi Battista Santafiori che aveva
dei grilli d’onestà, e che credette di poter offerire quindici mila
lire, onde gli fu deliberata. _Inde irae._ Il sindaco cavaliere non
perdonò più al filantropo affittuale di avergli rubato il boccone dal
piatto, e se la tenne legata al dito per tutta la vita.

Intanto che Battista faceva il bene, il sinedrio della spezieria
continuava a dire e seminare il male. Il piccolo Frustadenti era il più
viperino; veniva seconda sua moglie, gli altri in coda. Il povero Romeo
si sforzava è vero di introdurre il suo mitigante intercalare «salvo
gli errori del popolo» ma gli era come soffiare aria fresca sopra un
cauterio. Dietro la tela potevasi scorgere l’ombra di Salomone Arena
che maneggiava i fili e suggeriva, non visto, le parole.

Quando si seppe dell’associazione che Battista aveva tentato iniziare
fra i suoi lavoranti, ci fu chi disse «che egli capitalizzava il sudore
dei poveri»; e quando si seppe il regalo che aveva mandato ai poveri
della terra, e lo si vide cogliere i baciamani del popolino a ogni
tratto di strada; — «La farina del diavolo va in crusca — gridava il
Frustadenti. — Fa la carità e non paga i debiti, fa la carità e non va
a messa, fa la carità ed è nemico della religione e dei ministri, fa
la carità e medita trame incendiarie contro il Sovrano, fa la carità
_coram populo_ e in privato nega un soldo alla sua parocchia ed alla
costruzione del suo tempio».

È infatti a sapersi che una volta il curato don Spiridione, che era
il _factotum_ della pieve giacchè l’arciprete Don Fulgenzio schivava i
fastidii, presentatosi in casa Santafiori per chiedere l’elemosina per
la fabbrica della Chiesa, vi fu accolto con queste parole:

— Io rispetto assai la vostra chiesa, ma non ho denari per essa.
Se potessi adoprarmi a un po’ di bene metterei la mia offerta
direttamente in mano ai poveri e senza distinzione di sottana, di
colore o di mestiere. A quel che pare voi siete comodo; però se un
giorno conosceste il bisogno fate capitale su di me. Ma la vostra
chiesa, scusatemi, non ha bisogno di nulla, e trovo che al villaggio
farebbe assai meglio un ospedale od una scuola. Che i fedeli amino
avere un luogo decente in cui raccogliersi a pregare lo comprendo;
che lo vogliano trasmutare in un museo di belle arti, questo non mi
entra, e s’anco fossi credente non avrei tanta devozione per ciò. A
me pare, il luogo dove si va a pensare a Dio debba essere austero.
Voi altri a forza di riempire le chiese d’immagini vi siete messi ad
adorare queste in luogo di Dio e siete caduti in una idolatria forse
peggiore di quella che Cristo ha rovesciata. Queste cose le dico a voi
che siete sacerdote e che dovete avere salda fede, nè potete esserne
scandolezzato, fuori non mi udrete dire un motto su questi argomenti.
Nella mia famiglia ognuno crede a quel Dio che la coscienza rivela.
Mia moglie è protestante e legge la Bibbia, mia figlia è cattolica e
credo sia vostra penitente; Giorgio dubita e pensa, e Balilla sarà quel
che vorrà. Io fui cattolico per l’acqua del battesimo, ma capirete che
nel fare il giro del mondo ho veduto troppe religioni, troppi mercati,
e troppi mercanti, perchè io possa più credere a nessuno. Ciò vi farà
orrore, caro signor curato, ma supponete di aver udito una confessione
generale. Capirete però che a ottant’anni, assolto o no, non sarei più
a tempo nemmeno a pentirmi... Oh vedo che la zuppa fuma; volete sedervi
con me, signor curato?... divideremo da fratelli.

Il curato esitò; era incerto se pronunziare la scomunica maggiore
contro il dannato o accettare la zuppa; dopo riflessione, e odorato il
profumo appetitoso che scappava dalla cucina, opinò per la zuppa e le
fece onore.

Don Spiridione però aveva bevuto nel secchio della Samaritana, ma non
le aveva promesso il regno dei Cieli. Appena uscito dai Santafiori,
corse come un procaccino a propalare per tutto il paese il rifiuto
di Battista e l’eresiaco discorso. Ed è superfluo il dire che il
reverendo, riscaldato un poco dal _nebiolo_ che l’ospite generoso avea
sturacciato per lui, esagerò e ingrossò fino a dire che «in China aveva
messi alla tortura dei padri gesuiti, e che meditava la propaganda d’un
nuovo scisma ancora più idolatra di quello di Fozio e di Melantone».

La terra a tale annunzio si sommosse; le donnolette sgambettavano
alla chiesa per mettersi in grazia di Dio e scongiurare il demonio;
il povero Don Fulgenzio ebbe il rompicapo di esporre il _Santissimo_;
un attruppamento di villani si formò dinanzi alla casa di Battista,
urlando all’eretico, scaraventando ciottoli nei vetri e minacciando
sfondare il portone. L’assemblea di Romeo s’era dichiarata in seduta
permanente, e il sindaco si sentì costretto di uscire dal suo studiato
riserbo e di parlare all’orecchio del maresciallo Malagana.

E pare che il resultato del dialogo fosse stato codesto: «che l’arma
_benemerita_ avrebbe fatto una visita all’abitazione del nominato
Battista Santafiori, sospetto di segreta corrispondenza coi framassoni
e protestanti». Questa misura non aveva in quei tempi bisogno di
giustificazione veruna; il beneplacito dei carabinieri era legge, e il
_buon governo_, cioè la polizia, non aveva conti da rendere a nessun
tribunale, tranne che ai governatori militari. La macchia d’eresia
d’altronde era ragione più che legittima per essere tradotto issofatto
in prigione; figuratevi poi una _semplice_ visita domiciliare.

La _perquisizione_, per dirla col gergo poliziesco, fu consumata a
mezzanotte con la ben nota delicatezza e cortesia che suole esser
messa in siffatte imprese, scombussolando naturalmente tutta la casa,
svegliando brutalmente le donne e non trovando, come d’ordinario,
nulla.

Però Battista fu astretto a seguitare la _benemerita_, condotto il dì
appresso dal governatore della provincia, e dopo quindici giorni di
andirivieni, di minacce e di vessazioni, rimandato a casa, sottoposto
alla speciale sorveglianza del _buon governo_ e col _precetto_ sulle
spalle. Il vecchio le aveva è vero scrollate; la famiglia stessa
n’era rimasta più stordita che spaventata, e la sola Livia, credente e
timida, n’avea tocchi più giorni di patema.

Giorgio invece mandava fiamme e giurava di prendere pel collarino il
prete scellerato. Battista l’udì e lo calmò così:

— Il torto è mio che non avrei dovuto contare certe cose. Però quando
vuoi dividere la metà della tua zuppa con alcuno, non esitare mai,
foss’anco un prete.

Passata codesta burrasca ne capitò un’altra.




XVII.

LA BENEDIZIONE DEL TEMPO.


In sul cadere di una caldissima giornata di luglio, un temporale
accumulavasi sopra la nostra terricciuola. Udivasi da lungi il
brontolar cupo del tuono, due nuvoloni da tramontana, color piombo,
montavano insieme dall’orizzonte finchè incontratisi non formarono che
una sola e nera massa di vapore, l’aria era afosa e pesante, le rondini
radevano il suolo coll’ala, le cavalle stupite tendevano la testa
ad odorar l’acre profumo dei fiori e dei cespugli; e nembi d’insetti
scendevano nelle più basse regioni dell’aria involandosi al freddo che
li incalzava nell’alto.

In meno di un’ora il temporale sarebbe scoppiato nel paese. I
mietitori lasciavano i solchi e correvano a salti verso le case; le
massaie superstiziose spiccavano dalla parete il ramoscello d’olivo
pasquale, e ne bruciavano la fronda miracolosa in faccia al nembo, per
scongiurarlo.

Oltre agli scongiuri particolari, di casa in casa, c’erano quelli
generali che faceva la chiesa e de’ quali era affidata la direzione
e la responsabilità al curato don Spiridione, la cui riputazione di
invincibile esorcizzatore correva per miglia e miglia all’ingiro e gli
fruttava non iscarso frutto di decime, di privilegi e di rispetto.

Appena il turbine s’annunziava, egli aveva dovere di mandar tosto il
campanaro a dar di picchio nella campana maggiore, la quale doveva
continuare il lugubre rintocco fino a che la collera del cielo non
fosse placata. Intanto egli doveva uscire sotto l’atrio della chiesa
colla miracolosa reliquia che conteneva un pezzo della _greppia_
di _Betlemme_ e con essa trinciar crocioni per aria, interpolare le
litanie a mistiche parole ch’egli solo sapea, e costringere i demoni
che ululavano nell’aria a cedere il campo.

Il lettore ne avrà vedute o udite narrare molte di codeste scene; però
il più mirabile si era che don Spiridione non doveva già ricacciare gli
spiriti maligni nelle loro sedi infernali, ma confinarli in qualche
prossima terra; perchè potessero a loro agio satisfare sul campo del
vicino la loro rabbia devastatrice. Caina carità del prossimo!

La campana adunque martellava; don Spiridione in stola e cotta, con
gli occhi sbarrati fuori dell’orbita, colla bocca bavosa, con orribili
contrazioni di labbra e di vene, agitando a manca ed a dritta la
taumaturga reliquia, battagliava già da oltre mezz’ora contro il
temporale, ma questi faceva orecchio di mercante, se n’infischiava
degli esorcismi e si avanzava. In breve la nube scrosciò, s’aperse,
e lasciò cadere proprio a perpendicolo sulla campagna di S... una
grandine così fitta e così grossa che poteva proprio ritenersi
per infernale. Cascò egualmente sui palazzotti e sulle casipole, e
percosse, senza un miccino di rispetto per nostro Signore, fin le
invetriate della sua chiesa. E vi fu anche il complemento del fulmine,
il quale attratto dalla cima maggiore del campanile e trovata una via
conduttrice nelle corde delle campane, colpì il misero sacristano nel
bel mezzo del corpo e lo incenerì.

Al saettar della folgore, Spiridione, perduta ogni fede nella
_greppia_, fuggì a gambe levate in stola com’era, e lasciò sole le sue
pecorelle nel cimento col cielo.

Ma all’apparir dell’arco baleno il miserando caso del campanaro fu
noto; il campanile apparve scimato, i colti falcidiati e «tutto perchè
il curato esorcizzatore avea abbandonato il suo posto». L’ira popolare
era in bollore: un altro temporale ben più fiero del primo sovrastava
al male avventurato Spiridione. Il contadiname raccoltosi in folla
sulla piazza cominciò a sbraitare che se la grandine era caduta era
colpa del prete; che se il sagrestano era ucciso, era perchè il prete
non sapeva più maneggiare la reliquia, che doveva essere in disgrazia
di Dio e forse d’intesa con Satana in persona.

— Bisogna scacciarlo — gridava uno.

— Bisogna dargli fuoco alla casa — esclamava un secondo.

— È lui stesso che la deve pagare — urlava un terzo brandendo un enorme
bastone.

E l’atto fu interpretato, sancito ed eseguito. La folla, più aizzata
dalla sordida rabbia pel danno patito che briaca di un superstizioso
terrore almeno sincero, si scaraventò sulla casa del curato, in un
attimo fè balzare le sbarre, si precipitò dentro, cercò, frugò, di
su, di giù, di qua, di là per tutte le stanze, per tutte le tane della
casa: nulla. Il prete per orti e per vigneti era scampato.

Dove?...

Non ci vuol molto a capirla: nella casa di Battista.

E la capirono subito anche i villani. E allora il fiotto, come
governato da un vento opposto, via furiosamente verso la casa di
Santafiori.

— Ah? — diceva ii caporione della turba — ah! il signor curato si
rifugia in casa dell’eretico.... È il momento di fare un falò di tutti
due.

E s’apprestavano ad abbattere anche quella seconda porta, quando il
portello si aprì e Battista si presentò sulla soglia.

— Morte a don Spiridione — morte all’indemoniato!... Siamo stufi di
stregoni nel paese.

— Il curato non l’avrete se non passando sul mio corpo — fece il
vecchio con voce ferma e secca, fissando il suo occhio calmo e profondo
sopra i suoi assedianti, i quali s’arrestarono compresi forse da
un duplice sentimento di paura e di venerazione. — Il curato si è
ricoverato in casa mia; voi non potete pretendere ch’io tradisca il
dovere d’asilo e che commetta la viltà di consegnarvelo. — Egli è per
me più colpevole che per voi stessi perchè vi ha ingannati sopra una
virtù che non poteva avere. Ma voi siete ancora più colpevoli di lui
che l’avete incoraggiato ad ingannarvi e minacciandolo per giunta se
nol faceva! Fate senno, miei cari. Credete forse che Colui che invia
il sole e la tempesta, che comanda a quei due grandi mondi che nessuno
conoscerà mai per intero, il cielo e l’oceano, credete che indietreggi
perchè un curato nel fondo d’una campagna gli avrà insolentemente
mostrato un pezzo di legno, o fatte le fiche con un cencio creduto
miracoloso? Dite su: se mostraste i vostri _Agnus Dei_ all’esattore
del re, quando viene per portarvi via l’ultima pentola o l’ultimo
scudo, credete forse ch’egli si arresterebbe? E volete che Dio sia
men loico d’un gabellotto?... E che faceva don Spiridione? Comandava
alla gragnuola di cadere nei campi del vicino a devastare i frutti del
prossimo vostro. Professate la legge evangelica «non fate ad altri
quello che non vorreste fatto a voi stesso»; e la osservate così?
Vergogna! Se la grandine è caduta è la sua stagione.... è un danno, lo
so, ed io ne piango per me, e pei poverelli che l’avranno sofferta; ma
se c’è alcuno che se la possa prendere coll’elettricità, coi venti,
o colla pioggia che si congela prima di toccare la terra, si faccia
avanti. Il povero campanaro è morto ed è una grossa disgrazia; ma chi
vi ha ficcato in testa che sbatacchiando una campana, che è fatta credo
per chiamarvi in chiesa, il temporale scappi via?

«C’è chi pensa invece che anche lo scampanellìo ecciti lo scoppio
dell’elettricità, ma non è ben certo.... Ad ogni modo sapete quel che
è successo? È successo che l’elettrico delle nubi ha trovato fra il
suolo e sè stesso la vetta del campanile ed ha esploso là piuttosto
che altrove; così avrebbe fatto sopra un albero se fosse stato vicino
e più alto. Son leggi naturali che nessuno può mutare, miei figliuoli.
Siate ragionevoli. O che il curato, se avesse potuto, non avrebbe
volentieri cacciato il temporale? Non ci aveva egli tutto a guadagnare
e nulla a perdere? Oggi che ha fallito non ha forse compromessa la
riputazione del mestiere? Credete a me; se avete fede nella religione
non adopratela mai contro le leggi della natura, che son le leggi di
Dio».

Fosse la voce, fosse l’aspetto, fossero le buone ragioni del discorso,
o che la prima ira fosse svampata, o che i ricordi delle buone azioni
di Battista ripigliassero il sopravvento, il fatto sta che quella
gente, mezzo convinta e mezzo commossa, bassò la testa, mise la coda
fra le gambe, come il branco di segugi di cui si parla nei _Promessi
Sposi_, e si ritirò di là borbottando più cose, ma concludendo «che
Battista aveva ragione, e che il curato era un furfante lo stesso».

V’è, l’abbiamo osservato più volte, maggior rettitudine e generosità
nelle moltitudini che negli individui. La coscienza collettiva, come
oggi suol dirsi, è migliore che l’individuale, e mentre la storia
dell’umanità illumina la marcia trionfale del progresso e della
civiltà, la storia degli individui si offusca ogni tratto colle
turpezze della materia e colle rabbie cruenti dell’egoismo.




XVIII.

GIORGIO.


Non v’è mai capitato, lettor mio, d’avere un lepido nonno; o il nonno
non vi ha mai contato un epigramma famoso a’ suoi tempi, proibito
dall’indice e dal codice e che non era prudente il ripetere se non in
brigata d’amici e fra quattro mura? Se sì, vi ricorderete pure questi
sei versi, che per essere sbagliati non son meno arguti:

    L’altissimo di lassù
    Ci manda la tempesta;
    L’altissimo di quaggiù
    Ci toglie quel che resta.
    E in mezzo a due altissimi
    Noi siamo poverissimi.

Ora questo epigramma dev’essere stato fatto apposta da qualche
popolesco Giovenale per la fame del 1816; che se no, le si potrà a
tutta ragione appioppare. Infatti non si era mai veduta più stretta
congiura fra il regno del Cielo e quello della terra, per rendere
canino e intollerabile un flagello che forse con una pioggia di più
e un editto regio di meno si sarebbe potuto cansare. Le vittime avean
un bel studiarsi coi Tridui per muovere a compassione l’Altissimo di
lassù, e colle petizioni l’altissimo di quaggiù, fiato sciupato. I due
Altissimi facevano il sordo e la carestia pigliavasene acconto anche
sul 1817.

E, fuor di scherzo, fu una batosta seria. Il villaggio di S....
non andò naturalmente illeso dalla comune sventura, nè mancò
alle processioni ed alle novene, ma per esso la disgrazia fu
proporzionalmente minore, perocchè sebbene sbattuto dalla grandine,
e tempo prima dell’alluvione, col fertile suolo e copiose acque avea
potuto neutralizzare la causa prima del flagello: la siccità. Se
adunque gridavasi a poche migliaia d’intorno: «Pane e farina» i ripuari
del Po potevano per quell’anno essere chiamati i granai dello Stato.

Però il cuore generoso di Battista sentì subitamente quale ufficio
s’aspettasse a un onesto uomo in mezzo alla sventura pubblica, così
come il cuore nero e sozzo di Salomone Arena aveagli rivelato qual
vantaggio potesse tirarne per sè e per la sua fortuna.

E mentre questi otteneva dalla regina Maria Teresa libertà piena di
vendere il suo grano come voleva e impunità assoluta delle leggi,
Battista faceva annunziare sui mercati ch’egli poteva cedere 500
moggia di cereali al prezzo corrente, apriva la sua porta a quanti
vi picchiavano per un tozzo di pane, e limitava ancora più il suo
desinare. E nessuno in casa si lagnava se spariva di giorno in giorno
qualche pietanza e il desco andava assottigliandosi; tutti erano
allevati a quella scuola e non comprendevano che si potesse fare il
contrario.

Tristissima prosaccia della vita! che la virtù debba sempre fare
a’ pugni colla necessità! Che ogni raggio di ideale bellezza debba
frangersi nel prisma obliquo e tenebroso della realtà!

Mentre Battista si faceva a minuzzoli per gli altri, rovinava sè
stesso. La _Calandrina_ faceva miracoli come le braccia che la
coltivavano, ma essa pure avea tocca la grandine, e inoltre non potea
dare più di quello che avea. Alla fine dell’annata Battista s’avvide
che per tirar oltre nell’affittanza bisognava cercare a prestito altra
pecunia e cominciò a darsi attorno seriamente.

Ma dove?... da chi?

Il solo che fosse reputato denaroso in paese era il sindaco cavaliere,
ma a Battista ripugnava assai l’avere a che fare con quell’uomo. Non
aveva mai avuto occasione positiva di lagno; al contrario il sindaco
era manieroso e leccato con lui, ma il marinaio esperto del mondo
leggeva troppo addentro nei bui misteri di quell’occhio volpigno e
non se ne lasciava abbindolare. Però, se non a lui, a chi? Battista
almanaccava, ma non poteva raccapezzarsi.

— Ah capisco che bisognerà passare per forza sotto quella forca! —
diceva tal fiata con sè stesso. Fare nuovi debiti! e se non si potesse
più pagarli? e se mancassi all’onore? e se buttassi nella miseria la
mia famiglia dopo d’averla buttata nella povertà?... ma perchè m’ha a
toccar questo.... a me?... Non ho io sgobbato tutta la vita? Non lavoro
forse a ottant’anni come un negro? Diranno che do via il mio! Baie! A
conti fatti le sono inezie! E se fosse anche qualche migliaio di lire,
non le ho io forse risparmiate in casa?... non son forse quattro anni
che porto questa casacca?... non è vero che in famiglia non si sciupa
un’agugliata di refe? Eh sì! ma intanto la _Calandrina_ fa acqua come
un bastimento che ha dato nelle secche!... Bisogna correre al porto
o andare a picco. Ebbene, coraggio! andrò dal cavaliere.... m’è tanto
antipatico.... ma ci vorrà pazienza!... Tutti gli anni non saranno mica
sempre eguali!... farò più economia anche in quel po’ di elemosina....
ma i poveretti sono aumentati; come si fa? Ci avrei dei debitori
d’andare a svegliare.... ma se li tocchi ti si mettono a piangere ed a
piatire e bisogna che scappi se non voglio lasciar loro la borsa....
E v’è anche la pensione di Michele benchè per adesso non si potrà
mandargli che la metà.... e s’accontenti mò anche lui! Non ci ha il
suo sciabolone.... mangi quello.... Oh guarda che bestemmio adesso!...
Orsù, orsù Battista, tira la carretta e non lamentarti, vecchia rozza
che sei.

Dopo tre o quattro monologhi di questo genere, Battista aveva già
formato il suo piano finanziario discretamente saggio. Egli colla
ragione delle accennate disgrazie, egli avrebbe pagato un terzo
dell’affitto e chiesto alla amministrazione dei poveri, proprietaria
della _Calandrina_, una dilazione di otto mesi per gli altri due
terzi, garantiti mediante cambiali; ci fu consulta di maggiorenti e
fu interpellato il sindaco che consigliò calorosamente d’accettare la
dilazione e le cambiali.

Anche l’Arena avea il suo piano e contava che un dì o l’altro le
cambiali del Santafiori sarebbero da quelle dell’Amministrazione cadute
nelle sue mani senza molto discapito. E quando le serrò nel pugno, e
con esse l’onore del suo rivale, non potè tenersi dallo sclamare tanto
forte che molti l’udirono: — «La _Calandrina_ è mia».

Calunnie, maledizioni, disinganni, percosse, crepacuori, tutto andava
a seppellirsi e s’acquetava per il povero Santafiori nel seno della sua
famiglia.

Specialmente Giorgio cresceva orgoglio e dolcezza del padre e in lui
tutte convergevano le speranze della sua vecchiaia.

A quest’epoca era un giovanetto in sui sedici anni, svelto, agile e
vigoroso, meno alto e men tarchiato di Michele, ma non meno compito e
più gentile. Ne’ lineamenti portava lo stampo del padre; gli occhi e
la fronte sopratutto. Della madre il melanconico sorriso e la voce; i
capelli nerissimi, eccezionali nella casa. Bello non potea dirsi, ma
geniale e attraente.

Sebben giovinetto, le sue parole, i suoi atti, il suo contegno
contenevano tanta maturità di senno, che nessuno dei conoscenti poteva
credere non avesse oltrepassata la ventina. Gli stessi sollazzi erano
maggiori della sua età e più che sollazzi ei li riguardava come varietà
gradite del suo lavoro. La caccia e la pesca egli esercitava quasi
come una professione, e a dir vero la preda del suo archibugio o delle
sue nasse era sovente il solo pane quotidiano della domestica mensa.
Istruzione non eragli mancata, e nei dì della fortuna ebbe maestri in
copia, ma più che da questi egli s’era istruito alla scuola del padre.
Ed esso aveagli insegnato un po’ di tutto ma bene, e principalmente le
lingue e le matematiche, però un’educazione completa non l’ebbe, causa
forse i rovesci, ma senza forse la ripugnanza di Battista, veduta la
mala riuscita di Michele, di abbandonarlo alla corruzione delle grandi
città, e il manifesto proposito di Giorgio di non volersi staccare dal
padre.

— Che mestiere vuoi fare? — chiedevagli talvolta il vecchio Santafiori.

— Voglio lavorare con voi, padre mio.

Colui che siasi trovato colla testa in mano a calcolare su quello
spinoso e scoraggiante problema, nel quale pur tanti falliscono, che
nomasi «scelta d’una carriera», dovrà certamente scandolezzarsi alla
risposta di Giorgio. Egli troverà per avventura che tutto il senno del
nostro eroe non vale una dramma della vita, e non si terrà forse dal
chiamare matti noi stessi che abbiamo l’aria di farne l’apologia.

Noi chiniamo la fronte al giudizio, ma tiriamo dritto. Soggiungiamo
anzi, perchè lo scandalo sia completo, che nella mente dei Santafiori
padre e figlio l’idea d’una «carriera» come oggi s’intende, cioè come
un’arte qualunque più o meno faticosa, più o meno onorata, più o meno
splendida, per la quale un uomo può montare sopra uno qualsiasi dei
gradini che compongono la scala ambita della gloria e della fortuna,
quell’idea non vi era ancora penetrata; eravi anzi interamente
sconosciuta.

In luogo de’ soliti consigli che i babbi ripetono ai figliuoli quasi
coll’identico linguaggio dei nonni, in luogo di dire: — «fa l’avvocato
che intascherai tesori, e finirai in cassazione o in Parlamento» — «fa
il soldato e troverai il bastone di maresciallo nel tuo zaino» — «fa
il prete che terrai le chiavi del cielo e della terra» — il padre di
Giorgio Santafiori, se gli capitava il destro di fare il suo predicotto
— perchè anche lui era padre — parlava così: — «Per me vale tanto
chi inaffia il campo come chi miete il grano. Che i miei figli siano
guardiani di pecore in mezzo a una vallata, o guardiani di uomini in
un luogo qualsiasi che chiamisi «casa di Dio o tempio di Temide» è lo
stesso. Io penso che la società non sarà mai veramente libera, cioè
veramente felice, se non il giorno in cui tutti gli uomini saranno
eguali dinanzi al lavoro, e che nel mondo tanto sarà estimato colui
che fabbrica la carretta, come colui che vi si fa tirare di dentro.
Ma se è vero che si progredisce, e pare che il progresso sia una
tartaruga, nè io, nè tu vedremo quel tempo. Comunque, Giorgio, bada a
quel che ti dico: il primo dovere della vita è di guadagnarsela e se
vi è consolazione quaggiù è nel compimento di quel dovere che chiamasi
lavoro».

Avete capito? il dovere del lavoro in casa Santafiori è sostituito alla
scelta della buona carriera. Alcuno strillerà, ma che ci abbiamo a fare
noi se i nostri personaggi erano così?

Gl’insegnamenti del padre per Giorgio erano vangelo: egli li ascoltava
con ammirazione e li adempiva con religione. La madre era certamente
tutta nel suo cuore, ma la figura di suo padre era nel suo spirito
e padroneggiava tutto il suo essere. Per questo a ogni passo che
mutava nella vita, presentiva che egli era ineluttabilmente confuso
a quella esistenza sublime, la quale, anche quando la materia fosse
disciolta, l’avrebbe guidato oltre la tomba e dominato il suo destino.
Il giovinetto comprendeva che il dramma che suo padre aveva cominciato
a scrivere con Balilla non era finito peranco; che a lui sarebbe
toccato rappresentare la catastrofe; che la società, se non poteva
raggiungere il padre, avrebbe un dì o l’altro fatto subire al figliuolo
l’espiazione del delitto mai sempre imperdonabile d’aver voluto lottare
contro il proprio destino — d’aver voluto essere Socrate in una società
di Gorgia.

Però Giorgio non impallidì in faccia alla bieca larva, non rifiutò il
sacrificio che il cuore gli pronunziava inevitabile, e si propose come
un cavaliere antico di non lasciar macchiare la divisa del blasone
paterno. Solo provava il bisogno d’un compagno nel cammino e d’una
stella nelle tenebre, e guardatosi d’attorno per la terra e nel cielo,
gli si affacciò Giusta. Fu appunto in uno dei giorni che il giovinetto
andava vagando con questi sogni che egli trovò smarrita nella notte la
poetica fanciulla che gli si mise al fianco e gli brillò sul capo, come
la guida e l’astro che egli invocava.




XIX.

UNO DEI PRELODATI LUPI.


La storia del Piemonte del 1817 ci pare ben riassunta nelle seguenti
parole di Angelo Brofferio, le quali se fossero più solenni o
accademiche mal risponderebbero alla meschinità degli uomini ed alla
volgarità degli avvenimenti.

  «Domata la Francia, — scrive l’arguto autore, — stabilito
  l’equilibrio europeo, repressi i liberali, soffocate le idee,
  partiti a poco a poco dal Piemonte gli Austriaci, dalla Liguria gli
  Inglesi, Vittorio Emanuele si trovò finalmente assoluto dominatore.
  Il suo governo non ebbe più altri nemici che la fame nelle strade,
  le petecchie nelle case, i lupi nei boschi, i cortigiani nei
  pubblici uffici e i ladri da per tutto».

A sentire i racconti dei cronisti, i quali per vero dire ci sanno un
po’ dell’artefatto, un’orda di lupi, cacciata dalle nevi e dalla fame
fuori dei natii ricoveri alpini, avrebbe in massa trasmigrato verso il
piano, vi si sarebbe disseminata come il capriccio o l’istinto famelico
la portava, e senza curarsi d’ostacoli avrebbe varcato mano mano la
Dora, il Tanaro, la Scrivia gettando fino nelle strade dei villaggi,
fino alle porte della città, l’allarme e lo spavento. Nè la lupesca
masnada si sarebbe accontentata di assaltare gli armenti e di penetrare
negli ovili, ma pungolata dalle viscere affamate, avrebbe insanguinato
il dente feroce fin nelle membra di molte dame e di molti bambini
sconsigliatamente avventuratisi sui sentieri solitari.

Quando leggiamo sui gazzettini di guerra certe vittorie e certe stragi
ci regoliamo alla stregua che il generale Bugeaud applicava ad un altro
eroe d’Africa, Saint-Arnaud: «Crediamo una metà e discutiamo l’altra».
Così faremo anche in questa guerra lupigna, perchè in fin dei conti
non è ancora provato che i lupi sieno più crudeli degli uomini. Certo
però che una calata straordinaria ci fu e se non altro ce lo dimostra
la famigerata notificazione dell’intendenza di Torino che la moderna
eloquenza burocratica potrà uguagliare sì, ma vincere mai.

Continuiamo a saccheggiare il Brofferio e riproduciamo il documento.

  «Commossi noi (questo noi dell’intendente che accenni davvero
  ai _lupi commensali_?) da sì doloroso spettacolo non meno che
  dalle clamorose voci delle sbigottite popolazioni e del pericolo
  sovrastante ai viandanti ed all’inerme gioventù e prevedendo
  che ogni ritardo si rende vieppiù pernicioso sia per l’aumento
  della specie che per l’incalzamento della brumale stagione, per
  provvedere opportunamente a maggiori disastri dell’umanità e dei
  bestiami

                             «NOTIFICHIAMO

  «1.º Che tre distinti premi verranno pagati a chi riescirà a far
  preda di uno dei _prelodati lupi_». E dopo essersi caldamente
  raccomandato, dice lo storico, di dar opera allo «sgombramento
  delle provincie da sì implacabili nemici dell’uman genere, per
  l’amore della gloria, per la dolce soddisfazione di rendersi utili
  ai nostri simili e la sicura condegna ricompensa dei ben intesi
  sudori» si ordinava che «il cacciatore o lo armigero dovesse
  presentare la fiera allo ufficio secondo il solito praticato».

Che ne dite? Non è questo un _projcere margaritas_.....? Davvero
bisogna essere lupi per non essere commossi.

Comunque, eravamo già nel verno del 1817 quando uno dei _prelodati
lupi_ staccatosi dagli altri, o sviato o acuito da appetito maggiore
calò fino in Lomellina a poche miglia di lontananza del nostro
villaggio.

I campagnuoli paduani, che avevano letto e riletto con la più grande
emozione il bando torinese (poichè i lettori là ed altrove non eran
più colti degli scrittori) ma che si erano fino allora creduti al
sicuro dagli invasori, furono tutti sottosopra alla nuova terribile,
inaspettata. Cominciarono a tener sbarrate tutte le porte, a non uscir
più di notte, a non venturare più un passo senza portare addosso un
arsenale di tromboni, di coltelli e di pistole, e persino a scoprire la
miracolosa _greppia_ di _Betlemme_ ed a snocciolare il rosario.

Alle precauzioni della paura vennero però compagne le precauzioni del
coraggio. I carabinieri, cui non mancava polso, percorrevano alla sera
lo stradone a molte miglia fuor della terra, intanto che otto o dieci
dei più arditi, armati fino ai denti, decisero di ordinarsi in due o
tre squadriglie sotto la direzione e il comando dei due Santafiori, e
di perlustrare le viottole dei campi e i cascinali dei dintorni.

Le pattuglie continuarono per alcuni giorni senza che la temuta fiera
si facesse vedere in alcun luogo; poi si cominciò a non parlarne più, e
si aggiunse finalmente che avesse cambiato sede e direzione. Per questo
la caccia cessò, l’allarme acquetossi, e tutto nel villaggio riprese il
primo aspetto di pace e di sonnolenza.

Una domenica, la popolazione dopo messa grande era sulla piazza a
ciarlare del più e del meno, quando all’improvviso dal fondo della
strada maggiore, quella che abbiam detto esser la spina dorsale del
paese, s’ode levarsi un gran trambusto, uno sbattere di imposte,
un _fuggi fuggi_, un accalcarsi a catafascio d’uomini e di donne e
di fanciulli, tutti a corsa verso la chiesa e strillanti a una voce
disperatamente: — Il lupo!... il lupo!...

La minaccia fu sì repentina che anche i più intrepidi voltarono le
spalle e seguirono la corrente dei fuggenti: in un attimo piazza e
strade furon vuote: chi era riparato nelle case, chi nella chiesa
stessa, dove, a porte chiuse, con un batticuore che facevagli tremar la
voce, l’arciprete intonava le _Litanie dei Santi_.

Non restarono fuori che tre persone; un fanciullino in capo alla
strada, immobile colla bocca aperta, gli occhi invetrati, il corpo
tutto in un tremito — una donna, una madre che strideva — «il mio
bambino!... salvatemi il mio bambino!...» — senza trovare il coraggio
di muovere un passo in suo soccorso, e Battista che aveva indarno
tentato di arrestare la fuga e inutilmente rinfacciati i codardi, e
che s’apprestava a tener testa solo alla belva che l’occhio linceo
dello spavento aveva scorta da lontano. È qui il caso di credere al
proverbio: «E’ non si grida mai al lupo ch’e’ non sia in paese».

L’animale infatti che spiccava così chiaramente sulla linea retta dello
stradone, trottava a passi misurati, lunghi, veramente lupeschi, col
muso proteso, la coda bassa, il pelo irto, fiutando senza sviarsi, ogni
cespuglio e ogni pietra, mirando dritto al bambino che aveva adocchiato
col digrigno sulle labbra e colle fiamme nello sguardo. Dovea essere
fieramente affamato se perigliavasi così in mezzo all’abitato di pieno
giorno; ma non era tempo quello di chiedere il perchè del moto, come il
filosofo sofista; bisognava muoversi.

Intanto che il lupo correva sulla preda, Battista marciava sul lupo.
Egli avevo invano cercato intorno alla deserta piazza un bastone, una
pietra, una difesa qualunque: affrontava inerme, ma fermo e risoluto
l’ignoto avversario.

Giunsero insieme: e intanto che s’arrestava sulle quattro zampe, per
prendere la rincorsa e spiccare il salto sulla preda, Battista con una
mano agguantava il fanciullo, se lo buttava di dietro in modo di fargli
usbergo del suo corpo e riceveva egli stesso nel petto l’assalto della
belva.

Un pugno, rimbombante come una martellata, un pugno che avrebbe ucciso
di certo un uomo, accolse l’assalitore nel mezzo della fronte, e lo
rovesciò ruzzolando nella polvere. Allora Battista veduto l’avversario
atterrato, credette approfittare del lucido intervallo per chinarsi
ad afferrare un sasso che era a pochi palmi de’ suoi piedi. Fu la sua
perdita. Il lupo stordito, ma non impotente, inasprito della percossa,
ingagliardito dalla rabbia e dalla disperazione, nel momento stesso che
Battista erasi curvato replicò il salto su di lui, e conficcategli le
zanne sitibonde dentro la gola, vi restò furiosamente, mostruosamente
appeso.

L’atleta ottuagenario, vinto ma non domo, azzannò con la sua mano
poderosa la strozza dell’animale, e mentr’egli procombeva sotto la
mortale ferita, il suo avversario schizzava dagli occhi il furore e la
vita.

Intanto alcuni contadini fattisi cuore s’eran gettati alla lor volta
in soccorso del Santafiori: ma era tardi. Quando giunsero il lupo non
respirava più, ma Battista era morente. La notizia della tenzone era
corsa rapidamente a casa sua insieme a quella della catastrofe. Giorgio
sciaguratamente era ne’ campi e quando, richiamato, arrivò, il padre si
dibatteva nei rantoli dell’agonia.

Vi sono momenti che non si descrivono, dolori che superano la parola e
l’immaginazione, pei quali il sublime _nolo consolari quia non sunt_ di
Rachele sarebbe una espressione tuttavia impotente. Ma colui che seppe
di quanto religioso amore fosse quell’uomo in quella casa adorato,
— colui che conobbe di quale devota riconoscenza l’avesse circondato
per oltre trent’anni la donna che gli dovea la sua e la vita di suo
figlio, — colui che ha compreso il cuore di Giorgio tutto trasfuso
e immedesimato nel cuore di suo padre, — colui che può rompere il
terribile velo dell’avvenire preparato a una casa che ha perduto a un
tempo il capo, il cuore, la guida, il conforto, — chi ha contate tutte
le lacrime degli infelici ch’egli ha asciugate, — chi sa a mente tutte
le benedizioni dei poveri ch’egli ha beneficati, — chi sente tutto il
prezzo della virtù che si spegne, tutta la grandezza d’uno spirito che
rivola al suo cielo — chi può superare la terribile e sublime poesia
di quelle parole del martire dei martiri: «_Consumatum est_» — il
sacrifizio è consumato — venga qui, prenda la penna e scriva come si
pianse, si pregò, si patì ai piedi del letto di morte, su cui giaceva
Battista Santafiori.

La jugulare era spezzata; il medico aveva già scrollata la testa:
bisognava morire.

Ci fu a questa sentenza uno scoppio di singhiozzi. Battista si scosse,
chiamò collo sguardo — perocchè l’occhio d’un morente è d’arcano senso
dotato — tutti i suoi cari, e questi uno per uno, Rosalia poi Livia,
poi Giorgio, poi il piccolo Balilla, alcuni vecchi fedeli famigliari
infine; — tutti vennero a lui, accostarono la lor bocca alla sua bocca
e vi assorbirono l’ultimo bacio.

Battista sorrideva, ma quando gli condussero la madre del bambino
ch’egli aveva salvo dal lupo, la sua fronte s’illuminò di una gran
luce, aureola incontrastabile, suprema, divina che la schietta
riconoscenza di quella povera femminetta posava sul capo, tante volte
sputacchiato, del suo benefattore.

Un uomo picchiava alla porta nello stesso momento: era don Fulgenzio
che veniva ad offrire la sua ultima mediazione col cielo.

Battista chinò la testa come per dire: che venga. Don Fulgenzio entrò
pallido come una delle sue candele. Il cuore gli tremava; egli non
sapeva come parlare a quell’uomo che gli avevano dipinto per eretico, e
di cui pure sentiva tanto rispetto.

Però si fece coraggio e chiese agli altri di allontanarsi. Battista
fece cenno di no e tutti restarono.

— Non ho niente da nascondere — disse il morente con voce semispenta
e trascinando le parole. Vorrei solo che chiedeste perdono per me
a quelli che ho offesi.... Grazie della vostra premura.... Se verrà
giorno in cui insegnerete che il paradiso è nella propria coscienza e
che tutta la religione è in una parola: il dovere.... io dirò ai miei
figliuoli di seguitarvi.... Giorgio.... Miche.... Ah! — E l’ultimo suo
pensiero fuggì involato dalla morte nel seno dell’eternità.

La famiglia stette tutto quel giorno a contemplarlo in silenzio come le
donne di Galilea contemplarono un altro giusto ai piedi di un patibolo.
Ed oh quale fantastica e dolorosa visione!

Di quando in quando pareva che le labbra del trapassato stessero
per aprirsi ad un ultimo addio — dei chiarori improvvisi brillavano
attraverso il cristallo appannato delle sue pupille, e si sarebbe
detto che l’anima tornasse a visitare il suo frale per riaccendervi
un’altra fiata la vita. — Ora erano le scene epiche e svariate della
sua odissea che sfilavano sul suo fronte, — ora il cantico delle sue
virtù echeggiava per la mortuaria dimora, — ora le ombre di grandi
uomini a cui egli avea preparata la gloria e l’immortalità, scendevano
a prenderlo per mano e lo guidavano alle loro sfere luminose dove era
fatto partecipe delle loro apoteosi.

Tale fu per tutto quel giorno la fantasmagoria di quella vedova e di
quegli orfani, intraducibile per chiunque non ha provato a meditare
accanto alla bara d’una cara persona nel silenzio della notte, faccia a
faccia colla certezza della morte e col mistero del cielo.

Ma l’ira degli uomini dovea raggiungerlo oltre la tomba e forse, chi
sa, perseguitarlo nella sua progenie.

Don Fulgenzio, più per paura di castighi spirituali che per animo
maligno, corse a raccontare a Don Spiridione il caso della sua visita
in _articulo mortis_. Disse le ultime parole del defunto, e narrò che
era morto senza confessione e ripudiando la santa religione cattolico
romana. Sapevasi inoltre che non si era mai presentato alla chiesa
e tenevasi da tutti per un luterano. Ora che fare? seppellirlo in
luogo sacro non potevasi, e sarebbe stato uno scandalo pei fedeli, ed
un tirarsi addosso tutte le censure ecclesiastiche — non seppellirlo
era confessare di non aver saputo convertire un miscredente, e di più
toccava il dolore di vedersi in parocchia una tomba protestante!

— Ah, che fare! che fare! — sospirava il povero Don Fulgenzio,
prevedendo che ei farebbe almeno una indigestione.

Don Spiridione fu per rifiutare la sepoltura — il sindaco se ne lavò le
mani — ma radunato il consiglio ecumenico della parrocchia, cioè oltre
i due preti, i fabbricieri, i priori della dottrina cristiana, ecc., fu
deciso di interpellare immediatamente l’ordinario e di aspettare la sua
decisione.

E la decisione venne all’indomani ed era: «Si escluda da luogo
consacrato».

Il consiglio ecumenico era di diviso parere, ma nelle tenebre avreste
veduto la livida faccia d’Arena sogghignare come Mefistofele alle
spalle di Margherita.

Ci fu un po’ d’imbarazzo e di esitazione per dare la nuova a Giorgio,
che oramai riguardavasi come il capo della casa, e si pensò alla
scappatoia d’una lettera.

I Santafiori in generale stupirono, ma non si addolorarono a
quest’annunzio; solo la povera Livia ne ebbe le convulsioni e Giorgio
rispose:

      «Signor Arciprete,

  «Mio padre soleva dirmi che è benedetto ogni angolo di terra dove
  si compie una buona azione; credo perciò che tutto il mondo sia
  degna tomba per lui. Se la nostra famiglia poteva desiderare che
  egli fosse seppellito nel campo santo comune, non era già per
  vederlo in morte entrare in grembo a quella Chiesa alla quale in
  vita non aveva creduto, ma perchè ci sembrava che la compagnia
  degli uomini che aveva beneficati lo dovesse consolare anche
  dentro la fossa. Voi scagliate l’anatema, ma esso non raggiunge
  il suo spirito più che non commuova la nostra curiosità. Quanto
  a me, signor arciprete, da un anno era nel dubbio religioso e il
  mio cuore cercava tormentosamente una fede. Le dico però d’aver
  fatto fin da questo momento il voto di non appartenere mai ad una
  religione che non perdona nemmeno agli estinti.

      «15 febbraio 1817.

                                              «GIORGIO SANTAFIORI».

La sera stessa furono fatti i funerali di Battista, senza corteo, senza
ceri, senza canti, di soppiatto, alla muta, come le esequie d’un ladro

    «Che lasciò sul patibolo i delitti».

Giorgio avea scavato nell’angolo di una boscaglia attinente alla
_Calandrina_ una fossa profonda, vi area piantati giovani cipressi
e salici piangenti, e per difenderla dalle ingiurie del passeggiero,
ricinta d’una barriera di mirto e d’albospine. Apprestato il tumulo
egli stesso volle calarvi la bara di suo padre, mentre la madre e i
fratelli la spruzzavano di terra recente, umida delle loro lagrime e
consacrata dal loro dolore. Fatto ciò, mentre la candida vela della
luna viaggiava tranquillamente per lo stellato firmamento, e la terra
obbliosa dormiva nel suo notturno lenzuolo, i pietosi s’assisero come
le iliache donne intorno al sacrato ascoltando le infinite voci del
sepolcro e riannodando a poco a poco le pagine monumentali di quella
vita che era stata tutta un olocausto a cui s’aspettava per sua sola
epigrafe lapidaria «il dovere».




XX.

DUELLO DELLA PASSIONE.


La tomba di Battista era schifata. Nessuno avrebbe osato attraversare
di notte la boscaglia accanto a quei cipressi che forse erano asilo
di spettri infernali, e chi fosse costrette a passarvi col sole,
giunto innanzi al terreno maledetto, accelerava il passo, stornava
gli occhi e borbottava tremando la giaculatoria al suo santo. C’era
naturalmente chi alimentava quei terrori e ne faceva suo pro; laonde
all’Omelia domenicale di Don Spiridione non mancava mai la sua salsetta
di allusioni «all’eretico», le quali poi interpretate e commentate dal
satellizio del sindaco cavaliere, perpetuavano nel villaggio i rancori
dell’intolleranza religiosa. In taluni men guasti o men arrabbiati la
memoria del sagrificio che avea chiusa la generosa vita del Santafiori
era più forte della sua creduta dannazione; ma non per questo nessun
di loro aveva in pubblico il coraggio di dire il suo sentimento,
e se aveva a parlare a Rosalia, si guardava prima d’attorno, e
se incontrava Giorgio, o fingeva non vederlo, o lo salutava con
un’amiccatina d’occhi, e dritto. Metà dei lavoratori della _Calandrina_
si licenziarono, l’altra metà credevano in tutta coscienza d’aver fatta
una transizioncella con _Belzebù_! dalla quale forse nemmen un secolo
d’_indulgenza_ li avrebbe potuti liberare.

Il maggior vuoto lo provarono i poveri, ma ahimè! più nella bisaccia
che nel cuore. Essi perciò largirono senza paura e senza ritegno i
lor _Deprofundis_ al morto nella speranza di commuovere il vivo; ma
sebbene Rosalia e Giorgio continuassero alla meglio la caritatevole
tradizione della casa, a coloro non pareva ancora di tirare tutto
il profitto dell’abbondante suffragio delle loro preghiere. Era una
esigenza ladra certamente, ma se non si scusa si spiega forse col modo
con cui la beneficenza era esercitata prima e dopo la morte del padre.
Battista aveva il vero genio della carità e sapeva non solo provvedere
ma prevedere e alleggerire l’onta — a tutti grave — della limosina
con parole e affetti di cui egli solo possedeva il segreto. Giorgio
era, prima d’ogni cosa, giovanissimo e soggetto alle impazienze e agli
impeti dell’età; poi era uomo, come suol dirsi odiernamente con una
parola tanto adoperata e riverita, _più positivo_.

L’Arena, al fato del Santafiori gioì tutto, ma non seppe, malgrado la
vecchia arte, abbastanza contenersi, e si lasciò ire al satanico gesto
di inviare, con una lettera di cordoglio alla vedova, il vile prezzo
del lupo ucciso che l’editto famoso accordava a suo marito. Rosalia
dovette gettarsi alle ginocchia di suo figlio che voleva strozzare lo
sfrontato donatore.

Ciò che invece il sindaco cavaliere continuò a celare fu di possedere
le cambiali del padre. — Se essi possono pagarle — rimuginava talvolta
fra sè — la _Calandrina_ mi sfugge! — Perciò aspettava dando di quando
in quando un’occhiata a quei due o tre pezzi di carta, come un generale
che medita un assalto ai magazzini delle sue munizioni.

Quanto a Michele, udito il caso del padrino, sia che un improvviso
raggio di emozione fosse penetrato nella sua anima fino allora opaca,
sia che avesse temuto per la sicurezza della sua pensione, o per l’una
e l’altra causa insieme, il fatto sta che egli scrisse come seppe
una lettera amorosa a sua madre, annunziandole che avrebbe chiesto un
congedo temporario per venirla a visitare ed abbracciarla teneramente.
E la credula madre — qual’è quella che nol sia? — pianse sulla lettera
lagrime di gioia e sperò che il cielo la volesse ricompensata della
perdita del marito restituendole il cuore d’un figliuolo.

Risposegli le cose più affettuose, e come la legge imponevale un
_curatore_ pe’ figli di cui essa era tutrice, così partecipogli che
aveva scelto lui stesso nanti il tribunale. Essa però non tardò a
rinunziare alla speranza, come Michele aveva tosto rinunziato alla
tenerezza che fugacemente era venuta a visitarlo nella sua imbecille ed
eunuca esistenza.

Una persona sopra ogni altra aveva inteso e condiviso l’alto dolore
della perdita dei Santafiori; una persona che già pei vincoli
dell’affetto era legata al loro destino ed apparteneva alla lor
famiglia; vogliam dire Giusta.

Abbiam già detto che la fanciulla non aveva scoperto il genio segreto
ed appiattato del suo cuore, se non quando, sorpresa da Giorgio nella
foresta, aveva accettato la sua guida per rintracciare la via. Da
allora essa capì che cosa fosse veramente quel turbamento arcano che
l’assaliva ogni qualvolta udiva suonare al suo orecchio il nome del
giovinetto e s’abbatteva per avventura nei suoi passi. Da allora seppe
che quella attrazione invincibile che la forzava a seguitare da lungi
le peripezie e ad ammirare la fortezza e la virtù era un sentimento
tutto affatto diverso dai comuni, sentimento che non era amicizia o
stima o carità soltanto, ma affetto nuovo, indefinibile, prepotente,
che tutte le ore la invasava, che le popolava di vaghi sogni la notte,
e di profondi pensieri il giorno, sentimento che le pareva fatale,
contro cui, pur volendolo, essa non avrebbe saputo lottare, dal quale
s’aspettava molti tormenti, è vero, ma che appunto per ciò le tornava
più caro; sentimento, infine, che era amore, amore per Giorgio.

Però da quella sera dell’incontro, fino al giorno che la morte picchiò
alla casa dei Santafiori, la giovinetta e vide e parlò qualche volta
al giovane, a cui s’era anteriormente sacrata, senza che mai nè essa
lasciasse tralucere un solo lampo della fiamma che dentro la bruciava,
nè Giorgio cercasse con un solo atto innocente di farla divampare.

L’affetto di Giorgio era sbocciato più tardi e cresciuto più presto.
In lui c’era un po’ della natura dello elettrico, e bastava il più
breve strofinamento per strappargli la scintilla. Egli aveva spesse
volte veduta Giusta, l’aveva anche adocchiata, s’era detto spesse volte
«ch’era una simpatica creatura», ma d’amore vero mai nè un presagio, nè
un proposito.

Fu proprio quando egli si trovò solo, perduto nel deserto con la
giovinetta; quando osservò più davvicino le sue forme e respirò l’alito
del suo seno; quando vide il virile atteggiamento di quella persona,
che pur aveva la pudica compostezza di Beatrice; quando udì, infine, il
nuovo miracolo gentile di quella voce profferire con tanta semplicità
e tanto intenerimento: «Ve ne ringrazio con tutto il mio cuore»; allora
sentì l’interior vulcano dell’anima sua rivoltolarsi e montare; allora
amò come se l’avesse agognata e perseguita da dieci anni d’un amore
profondo e già antico.

Ma quanto fu subitanea la esplosione, altrettanto fu virile la
compressione. Giorgio fece tutto all’opposto di Giusta, e mentre questa
si lasciava portar via dalla corrente del suo affetto, senz’altra
sponda che il suo virgineo candore, il garzone durava la lotta più
ostinata per domare la sua passione e soffocarla.

Qui non ci facciamo ad affermare un’eccezione che parrà strana, ma che
non è men vera, ed è che Giorgio amava meglio dubitare sui sentimenti
di Giusta che sapere la verità. Perciò tutte le volte che aveala
scontrata, o l’avea sfuggita, o si era chiuso in un silenzio cui non
mancava proprio nulla per essere zotico e scortese.

Giusta, per converso, aveva letto nella propria l’anima del giovine,
e tutta la misteriosa battaglia ch’egli tentava celare era a lei
manifesta. Onde se ne tormentava, non già perchè a lei premesse
il volgare trionfo di strappare dal labbro stesso dell’amante la
confessione della sua sconfitta, ma perchè dubitava che il giovine
in quel conflitto soffrisse e aggiungesse volontariamente un altro
tribolo ai tanti che seminavano il tramite doloroso della sua giovine
esistenza.

Giorgio inoltre aveva una ragione possente per tacere alla fanciulla
i sentimenti del suo cuore, e se la ridiceva sovente: «Se essa li
accetta, povero e disgraziato qual sono, avvolgo nel mio lugubre
destino la sua vita inconscia e tranquilla. Se li rifiuta, ne riceverei
tal piaga nel cuore, che il morire sarebbe per me il danno minore».

Durante questo duello secreto della passione Battista soccombette.
La di lui morte, oltre all’influsso diretto che ebbe sulle sorti di
Giorgio e della sua causa, ne ebbe una possente e decisiva sopra il suo
cuore.


  FINE DEL VOLUME PRIMO.




INDICE


  Storia di questo libro.                    Pag. 5

  PARTE PRIMA: IL PADRE

  I. Odissea d’un giusto.                         9
  II. Il capitano Gordiglia.                     15
  III. Presagi di rivoluzione.                   26
  IV. Il terrore nero.                           34
  V. Ritorno in patria.                          42
  VI. Aborto morale.                             48
  VII. Mercato.                                  54
  VIII. Con e senza corazza.                     62
  IX. Spettacolo al villaggio.                   68
  X. L’arrivo.                                   76
  XI. Quod superest pauperibus.                  82
  XII. Chi era Salomone Arena?...                88
  XIII. La famiglia del sindaco cavaliere.      104
  XIV. Giusta.                                  110
  XV. L’incontro.                               117
  XVI. Episodi.                                 120
  XVII. La benedizione del tempo.               130
  XVIII. Giorgio.                               136
  XIX. Uno dei prelodati lupi.                  143
  XX. Duello della passione.                    154




NOTE:


[1] «V’è un fiume nel seno dei mari». Opinione di Maury.

[2] Trattato di Compiègne, 15 maggio 1768.

[3] _Massa_, nome dato ai padroni dai negri delle Antille.

[4] Monti.




Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. Per comodità di lettura è
stato inserito un indice a fine volume.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE D'UN DISERTORE, VOL. 1/3 ***


    

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