La tratta dei fanciulli : $ racconto sociale

By Giuseppe Guerzoni

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Title: La tratta dei fanciulli : $ racconto sociale

Author: Giuseppe Guerzoni

Release date: May 26, 2025 [eBook #76164]

Language: Italian

Original publication: Milano: Treves, 1869

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA TRATTA DEI FANCIULLI : $ RACCONTO SOCIALE ***


                               LA TRATTA
                                  DEI
                               FANCIULLI


                            RACCONTO SOCIALE

                                   DI
                           GIUSEPPE GUERZONI



                                 MILANO
                           E. Treves, Editore
                                  1869




           Quest’opera, di proprietà dell’editore E. Treves,
               è posta sotto la salvaguardia della Legge
                      per la proprietà letteraria.

                         MILANO. — Tip. Treves.




Alla prima edizione di questo libro io premetteva queste brevi parole:

      AL LETTORE

  «A queste pagine è fallito l’unico pregio che le poteva rendere
  tollerabili: l’opportunità.

  «Ci furono giorni in cui il tema che qui si svolge correva su tutte
  le bocche: la stampa ne rumoreggiava, il Parlamento ne discorreva,
  il paese tutto ne risentiva: e allora anche un libercolo che
  vestisse delle forme più sensibili e popolari dell’arte uno de’
  tanti episodi della infantile e pietosa odissea, non sarebbe
  riescito, crediamo, sgradito e superfluo. _Spiritus fiat ubi vult_:
  l’arte fa miracoli e di questi oscuri problemi sociali, a fronte
  dei quali la filosofia si smarrisce e la politica esita, l’arte
  soltanto sa trovare per la via del cuore la più felice tra le
  soluzioni: quella della pietà. Fate che si pianga e la causa sarà
  vinta. Ma che altro è il pianto, dolore, o gioia, se non la parola
  suprema della poesia?

  «Oggi è tardi, almeno mi si assicura. La coscienza pubblica è
  illuminata, il fatto è notorio, la lite è decisa, e il governo
  stesso che è sempre l’ultimo e convincersi e ad intervenire, sta
  maturando i suoi provvedimenti!

  «Frattanto non resta più che il libro qual è: povero, nudo, solo,
  come il mendico del Vangelo; uno di più nella folla delle moderne
  mediocrità!

  «È vero che la facile contentatura del nostro tempo mi franca dalla
  paura di un giudizio inclemente, e non mi occorre drappeggiarmi
  nel superbo motto: — Ho visto una piaga sociale ed ho scritto un
  libro. —

  «Tuttavia se la critica eccelsa degnasse abbassare gli occhi sopra
  questa quisquilia, non dimentichi, per cortesia, il suggerimento
  che io stesso le profferisco: — Una buona intenzione può schiudere
  il paradiso, ma non scusare un libro cattivo. —

  «Che se una lacrima gentile cadesse sulla mesta leggenda istoriata
  in queste pagine, vada tutta in testimonianza della santità della
  causa, ed a beneficio delle migliaia di compagni di Carluccio
  e Stefanella che, divelti da questa Italia che non sa ancora
  proteggere i suoi figli, stentano e muoiono per tutta la superficie
  della terra proclamata civile.»

Oggi nell’intraprendere, incuorato dal generoso invito dell’Editore
della _Biblioteca Amena_ la terza ristampa[1], sento che in talune
delle cose dette nella prima prefazione mi ero male apposto.

Scrissi che «era tardi e la coscienza pubblica illuminata, e il fatto
notorio e la lite decisa e il governo già occupato a maturare i suoi
provvedimenti; e in una parola che il libro aveva perduta la sua
opportunità» ed ora devo confessare, non di certo ad onta mia, che mi
sono ingannato.

Un _Rapporto_ della _Società italiana di Beneficenza_ a Parigi,
composta dei più chiari e rispettati nomi di Francia e d’Italia,
presieduta dallo stesso nostro Ministro Plenipotenziario inaugura
la lite; la raccoglie il Parlamento mediante l’interpellanza di due
deputati e la promessa di due ministri; la prosegue,-primo, forse
unico frutto di queste promesse, — una Commissione col solito mandato
di studiare e riferire, diretta da Cristoforo Negri; la secondano
molti tra i più gravi giornali scesi nella lizza in mio soccorso con
parole d’incoraggiamento gradito e d’elogio immeritato; io stesso
torno all’assalto in un articolo della _Nuova Antologia_; e Giuseppe
Canestrini, nella medesima Rivista, ripigliando poco dopo la medesima
questione dal lato storico a proposito dei _Servi_ e _Schiavi_ del
Cibrario mi sostiene colla possa del suo nome; insomma il problema
è esaminato, ventilato, agitato con tutti i mezzi di pubblicità e di
propaganda, che la libera discussione insegna e in guisa tale che in
ogni altro paese, dove la stampa abbia un consenso e la tribuna un
eco e l’opinione pubblica un valore, avrebbero a quest’ora raggiunto
il segno. Ma fra noi tutti indarno; dopo il vano strepito di un
giorno tutto resta sepolto sotto «codesta grave mora» alla quale ogni
italiano, più nemico di sè stesso che d’altrui, arreca quotidianamente
la sua pietra d’oblio.

Siamo oggi ai principii di diciotto mesi fa, e ancora con questo
peggioramento che allora la novità del male strappava almeno qualche
urlo di dolore, ed ora ce lo teniamo in corpo cronico e cancheroso
senza darci nemmeno il fastidio di querelarci. E in vero l’Italia ha
avuto troppe nobili cose a operare per umiliar l’occhio fino a queste
miserie, e assorta nella grossa faccenda dei suoi processi, dei suoi
scandali, dei suoi libelli, lascia la cura di queste bambinaggini alle
sue mamme.

E se ne occupassero almeno le mamme! Ma ogni anno una brutale avidità
strappa dal seno di forse trecento madri i lor pargoli innocenti, e
nessuna voce di madre più felice s’è unita alla nostra per protestare.

Era dunque ingiusto verso me stesso e troppo generoso verso gli
altri quando diceva «è tardi» poichè il male persiste e il rimedio
può ancora venire in tempo; era inesatto che la lite fosse decisa,
poichè essa è ancora _sub judice_; e falso che la coscienza pubblica
fosse illuminata, poichè, fattasi la luce, questa ha prodotto su di
lei lo stesso effetto che sugli animali notturni: l’ha abbacinata e
insonnolita; non era infine che ironicamente vera quella mia frase,
dalla quale per altro spuntava, fin da quando la scriveva, lo strale
dell’incredulità: «il governo sta maturando i suoi provvedimenti»
perchè nel fatto il governo, chiocciola stracca ed impotente, li matura
ancora.

Al mio libro non è pur troppo fallita ancora l’opportunità. Questa
triste dote, l’accompagnerà, forse per molti anni ancora, e fino al
giorno in cui vi sarà una contrada d’Italia che faccia mercato de’ suoi
figli, e un governo nazionale, ignaro e indifferente che lo trascuri o
lo tolleri, e governi stranieri tanto più scandalosi quanto più civili,
che lo proteggano e l’usufruttino, e fino a quando sopravviverà codesta
tormentosa quistione sociale col suo lungo corteggio d’analfabeti
maggiore di quello della Spagna, e di poveri doppio di quello della
Francia, e di scolari metà di quelli dell’Irlanda, colle sue trecento
comunità prive di scuole, coi latifondi abbandonati e le maremme
mortifere e i laghi pestilenziali e le valli ove cresce l’ulivo senza
strade e i torrenti che scendono ai due mari senza ponti, e un eccesso
di conventi e un difetto di officine, vecchia e profonda malattia,
della quale il traffico dell’infanzia e la prostituzione della
impubertà non è che l’ultima e più letale esplosione.

Però questa ristampa, se è nel liberale concetto dell’editore un
compenso prodigato a un tentativo letterario non interamente abortito,
nei voti dell’autore è un grido ed una protesta contro l’inerzia e la
noncuranza di tutti coloro che, avendo ieri toccato con mano l’orrida
piaga, e avendo in lor potere i mezzi di arrestarla, la lasciano
dilatare e incancherire.

  4 Agosto 1869.

                                                         G. GUERZONI.




LA TRATTA DEI FANCIULLI




I.


Nel cuore della Calabria citeriore, a tre ore da Cosenza e ad una dal
porto di Paola, la culla del santo taumaturgo, là dove le acque del
Crati furono deviate per scavare nel suo letto al barbaro Alarico un
sarcofago che nessun piede umano potesse calpestare, sorge un misero
villaggio che probabilmente dalle ritorte correnti del fiume piglia
il nome di Ritorto. È un mucchio di squallidi casolari gettati a
caso sul dorso d’una nuda pendice, come un fanciullo orfano gettalo
in mezzo ad un deserto fra i fantasmi della notte. Alle spalle lo
incalzano le ombre delle alte quercie della Sila, classico asilo di
ribelli; di fronte gli si stende, altro infinito misterioso, il mare;
ai lati, sulla testa, all’intorno lo minacciano i giganteschi profili
dell’apennino Bruzio e le bocche aperte di qualche spento cratere. Ivi
tal volta tutti gli orrori del cielo e della terra si dànno convegno
come in un sabato festivo, e mentre la Sila manda i sibili de’ suoi
abeti che la fantasia popolare crede ancora abitati dagli spettri
redivivi di Spartaco e di Rufo, il mar Tirreno inferocito scaraventa
sulla montagna i suoi cavalloni, e la montagna risponde di sotterra
col terremoto, e dalla cima con un’eruzione di briganti, unici re di
quelle solitudini e di quelle notti, l’orrido vivente di quell’orrido
inanimato.

La notte del 24 febbraio 1850 era una di queste. I briganti non erano
comparsi sulla montagna, ma in ricambio vi era caduta la neve; le
viscere della terra tacevano, ma un terribile vento di levante soffiava
dalla foresta, e passando collo scroscio d’una mitraglia attraverso
le case del villaggio andava a gettarsi sul golfo di Policastro, e
vi destava tutte le collere della tempesta. Poteva essere un’ora di
notte, contando all’italiana, e il _coprifuoco_ era appena suonato, ma
il casale era muto come un sepolcreto. Non un fil di luce trapelava,
non una voce zittiva, non un atomo si moveva. Ogni porta era sbarrata,
ogni imposta chiusa, ogni animale accovacciato: i bambini tremavano
sotto le coltri e le madri sveglie pregavano per sè e per essi. Sola la
campanella della chiesa scossa dal vento, mandava di quando in quando
un suono gemebondo, quasi assumesse ella sola di far sonare al cielo il
lamento che gli uomini non osavano.

In quell’ora, in uno degli ultimi e più miserabili abituri, isolato in
quell’isolamento come un figlio reietto, si presentava questa scena.




II.


La capanna consisteva tutta in un androne basso, nero, bislungo,
murato di vimini e di mota, e sostenuto da pilastri di quercia. Il
tetto solo coperto di lastre di lavagna avea qualche saldezza. Nel
mezzo uno spazio circolare ricinto da un muretto di mattoni, entro il
quale smuorivano poche bragie sotto un mucchio di cenere, serviva di
focolare; un pertugio aperto nella parete, unica finestra dell’antro,
lasciava uscire il fumo ed entrare la luce; ma spesso l’aria, soffiando
contrariamente, ricacciava il fumo, e allora la stanza pareva il ventre
d’una caldaia a vapore; intorno al focolare sopra una panca sedevano
rannicchiati un uomo, una donna e due bimbi: in fondo, a destra, due
fasci di cenci e di paglia pretendevano d’essere due letti ed erano due
canili. Sopra uno di essi, il più prossimo al focolare, era distesa
una vecchia avvolta in un avanzo di coltrone; l’altro canile, come
più largo, pareva destinato a ricevere il resto della famiglia. Quando
si coricava, i bambini stavano dai piedi per traverso e li copriva il
mantello tarlato del padre; questi e la madre stavano per lungo, e le
vesti di giorno servivano di copertura la notte.

Dal lato opposto, a sinistra, separati da uno sconnesso steccato
russavano col muso presso un trogolo di legno un maiale e la sua troia.
Contro una delle pareti un vecchio cassettone d’abete, unico, ultimo
guardaroba della casa; al di sopra del cassettone appiccata ad un
chiodo un’immagine color turchino di S. Alfonso, protettore del luogo,
innanzi alla quale fumava il lucignolo consunto d’una lucerna di ferro
che serviva a un tempo a diradare le tenebre del luogo e di devozione
al santo.

Unici oggetti di lusso una lunga carabina calabrese ed una zampogna.




III.


L’uomo, malgrado i visibili guasti del tempo e della miseria, era uno
dei tipi più puri del montanaro calabrese. Poteva avere cinquant’anni,
ma in quella notte ne dimostrava venti di più. Trent’anni prima
nessuno aveva portato sull’orecchio con maggior garbo di lui il
cappello appuntito coronato di nastri di velluto, nessuno maneggiata
con maggior destrezza la lunga carabina, nessuno balzato con maggior
agilità pei dirupi delle sue montagne e snodate le gambe con maggior
grazia in una paesana _ancioca_. Oggi la tinta lucida e olivigna del
suo volto, leggiadria de’ magno-greci antichi e de’ palicari moderni,
s’è corrotta nel color giallo degl’itterici: le sue chiome, un dì
corvine e ricciute, gli scendono da tutti i lati setolose, arruffate
e canute: l’occhio nero, una volta pieno di fòlgori, ora divenuto un
morto cristallo incavernato in due profonde occhiaie: i garretti ossei
e nerboruti d’un tempo gli tremolavano flosci e cascanti: tutte le sue
vesti non erano più che un immondo ciarpame a stento tenuto insieme
dall’industria dell’ago e del filo, e da quell’ontume addensato dal
tempo che, facendo ufficio di colla, ne cementava i brandelli.

Abbiamo detto _montanaro_, ma potevamo dire senz’altro brigante, perchè
tale era stato per tutta la vita il suo mestiere. Nè egli l’avrebbe
lasciato, se nell’ultima levata dei repubblicani rifugiati in Calabria
dopo il colpo di Stato del 15 maggio, la palla d’un gendarme napoletano
non gli avesse fracassato il braccio destro e postolo nella impotenza
di sostenere gli stenti della vita randagia e pugnace alla quale s’era
votato.

Ma il ferito aveva saputo nascondere il fatto tenendosi rimpiattato per
due mesi in uno dei burroni della Sila, sicchè quando ricomparve alla
luce, aiutato anche dalla fida clientela dei manutengoli, potè dar ad
intendere perfino alla polizia borbonica di essersi frantumato quel
suo braccio cadendo da una balza nell’inseguire alla caccia un caprone
selvatico. E della avventura serbava nel braccio appeso costantemente
al collo la visibile ricordanza, e nel soprannome di _Storpiato_,
impostogli da tutta la vallata, la popolare testimonianza.

Lo Storpiato però, chiamiamolo subito noi pure così, era stato brigante
per fame, per tradizione, per amor della vita libera e selvaggia,
ma avea combattuto sempre per i carbonari e la rivoluzione. Perocchè
non bisogna dimenticarselo mai, il brigantaggio non ha altra bandiera
politica, quando ne ha, che la ribellione al governo che impera, e in
Calabria fu repubblicano contro Manhnes, reazionario col cardinal Rufo,
carbonaro contro re Bomba, borbonico e reazionario adesso, salvo a
riprincipiare il suo ciclo appena il potere, contro il quale soltanto
combatte, muti nome ed insegna.

La perdita di quel braccio era stata per lo Storpiato il segnale della
sua rovina. Egli non aveva saputo in vita sua far altro che il bandito,
ed ora si trovava da un anno come il navigatore che abbia un buco nella
chiglia, e che più s’avanza più s’avvicina al naufragio. Quindi, dopo
aver consumati nei primi mesi i pochi risparmi, era arrivato di gradino
in gradino fino all’orlo della miseria.

L’ultima sua risorsa erano quei due animali che convivevano con lui:
ma non erano nemmen essi cosa sua. Gli erano stati dati per carità
nell’epoca della sua disgrazia da un barone carbonaro e manutengolo,
ma l’annata era stata scarsissima di ghiande e la coppia mal nutrita
non aveva fecondato. Ora gli restava l’estremo partito di venderla alla
prima fiera, ma poi?... impotente a lavorare, impotente a pirateggiare,
con madre, moglie e due figlioli da sostenere, il vecchio brigante era
alla disperazione.

La moglie, fida sua compagna da oltre quindici anni, era stata una
bellezza e ne faceva ancora testimonianza un ampio fascio di capelli
biondi, pregio invidiatissimo fra le brune calabresi, e l’avorio ancora
immacolato de’ suoi denti, ultima reliquia di quel decadimento, e in
cambio dei quali ogni più avara matrona napoletana avrebbe date le
più candide perle del suo scrigno. Ma sebbene avesse appena sorpassato
i trent’anni, essa era già una rovina, e chi la osservava provava lo
stesso senso che si prova alla vista d’un avanzo di statua greca. Si
presente, si indovina la classica fattura, ma si sente che intera non
la si rivedrà mai più. Essa pure non aveva che ciarpe dintorno alle
membra, e di tutto quel grazioso costume calabrese, dal busto azzurro
e dalla gonnella cremisina, il più pittoresco di quanti ne abbia il
pittoresco Mezzogiorno, non restava altro che uno squallido cenciume.

Ella si serrava in grembo i suoi due piccini credendo forse,
pietosamente illusa, di riscaldarli; ma non faceva che intirizzirli
del suo freddo. La bambina era ben fatta, e aveva i capegli biondi e
la tinta bruna della madre; il fanciullo era una riproduzione del padre
a dieci anni. La bimba per veste aveva un pezzo di tela turchina cinta
intorno alla vita; il bimbo vestiva ancora più semplice: era nudo come
l’aveva fatto la mamma.

La vecchia rinuncieremo a dipingerla. Bisognerebbe mettere insieme
tutte le laidezze delle Eumenidi, delle streghe del Valpurga e della
foresta di Birmano per formarne la tavolozza. Era una donna dei climi
meridionali a ottant’anni, ecco tutto. Chi sa quanto sia rapida e
profonda la trasformazione del bello nell’orrido sotto quel cielo,
e come sia breve la giovinezza e disastrosa la vecchiaia; chi ha
incontrato qualche volta una vecchia siciliana, greca o spagnuola; chi
ha sognato bambino la morte che si muove, chi può immaginare una mummia
colla vita potrà averne un’idea.

Però la nostra vecchia aveva ancora due prerogative tutte sue: per
respirare rantolava e per parlare fischiava.

Lo Storpiato stava a testa bassa attizzando con un moncone di ferro
le ceneri e parlava. Sua moglie guardava tra le travi del soffitto
cercandovi il cielo, i ragazzi sbadigliavano: la vecchia seduta sul suo
giaciglio, tratteneva il rantolo ed il fischio, ed era tutta orecchi ad
ascoltare.




IV.


— Bisogna rassegnarsi, Marinella, diceva il brigante a sua moglie....
so che sono sangue nostro, ma che fare?... morire di fame noi e
loro?... meglio che vadano.... Non sospirate, Marinella, sarebbe fiato
perduto.... ho già deciso e quando ho deciso, venisse su dalla terra
_Virgilio_[2] in persona, e lo vedessi, come vedo voi, sapete che non
mi smoverei.... via non bestemmierò, parliamo con calma. L’annata è
stata orribile.... dal giorno che quella maledetta palla m’è entrata
in quest’osso io non sono stato più uomo.... Se potessi ancora
maneggiare quell’arnese là (e accennava la carabina) allora lascerei
che il vento fischiasse. Ma ora cosa devo fare io?... Talarico, che mi
vuol più bene di tutti, mi ha fatto dire che a cavallo per staffetta
mi prenderebbe ancora.... Sì eh! dove lo prendo il cavallo?... ci
vogliono almeno venti _pezze_ coll’arnese e tutto.... Poi non posso
mettermi in campagna colla fiaschetta della polvere vuota.... un po’
di munizione l’archibugio la vuole.... e con venti pezze ci sarà da
tirarla coi denti. Fosse almeno stata abbondante la raccolta dei
querciuoli.... ma il mistrale ha rovinata anche la foresta.... e
quanto a spigolatura d’olivi nemmeno per sogno. I ricchi oggi sono
diventati arpie e raccatterebbero le foglie secche se non bastano le
bacche.... E si dovrà pagare anche il macinato, noi... infame re!...
Egli ronfa nella sua Caserta più grasso di quei maiali là.... oh se
la campagna dell’anno scorso fosse andata bene!?... Noi sì che saremmo
andati a far visita alle cantine di Capo di Monte.... ma i liberali non
valgono nulla. Fra Diavolo ci vorrebbe.... quello era un uomo. Dunque,
Marinella, non ci resta che far quello che fanno tutti gli altri....
già sono nostri e possiamo farne quel che vogliamo. D’altronde, stieno
qui ad immiserire coi maiali o vadano lontani a guadagnarsi il tozzo,
è lo stesso.... ma intanto aiutano i loro genitori.... Ora ve la dico
tutta.... Un capitano, di quelli che sono nel _commercio_, arrivato
l’altro ieri a Paola, li prenderebbe e se non bastan venti ne avremo
quaranta delle pezze.... egli sarebbe stato qui stassera, ma il cattivo
tempo l’avrà trattenuto.... però domattina all’alba sono certo di
vederlo capitare (a questo punto la donna trasalisce e la vecchia
comincia a brontolare).... Chetatevi, mamma, e pregate sant’Alfonso
per noi.... ieri sono stato giù alla marina io stesso, perchè non
voglio mezzani, son tutti barattieri.... ho veduto il capitano e gli
ho parlato.... è un galantuomo.... aveva una borsa di pelle piena che
suonava come nè io nè voi abbiamo mai sentito.... Egli ne aveva già
comperati sei.... Tre sono di Castrovillari e tre di Tarsia.... io gli
ho detto che ne avea due.

— Ah, mostro — fischiò la vecchia.

— Mamma, dico — rispose il brigante senza levare la testa.

— Vendere le tue creature!?... corri sulla strada e sgozza il primo
barone che passa. Il sacro cuore di Maria avrà ancora pietà di te. Ma
portare al mercato i figliuoli....

— Mamma, ripeto.... — state buona o il sangue mi viene negli occhi.

— Mamma, per pietà — fece la Marinella spaventata — non raddoppiamo le
disgrazie, preghiamo la madonna che gli mandi un altro consiglio.

La vecchia mandò un rantolo e si tacque.

— Insomma — sclamò lo Storpiato voltandosi — lo fanno tutti....
Salvatore il guardaboschi, che ha pure stipendio e legnata, ha ceduto
l’anno scorso la sua Gabriella, che era gracile come un giunco. La
Valentina della piazza tanti ne ha fatti tanti ne ha venduti.

— Perchè ha più viscere la troia che russa là in fondo, — ululò la
megera.

— Ma intanto il sindaco mette il bollo ai contratti e il curato ci
dà la benedizione.... poi tutti quelli che vanno laggiù in Francia vi
fanno fortuna.

— Ma non tornano più — replicò la nonna.

— Oh questo è vero! — osò soggiungere la misera madre — Sono come morti!

— E chi vi dice che non tornano più? Chi vuole torna e spesso colle
tasche piene di napoleoni. Guardate il figlio del sartore.

— Uno su cento.... degli altri che restano, metà non si sa come finisca
e l’altra metà si sa che è morta in galera o all’ospedale.

— E qui morranno sopra un mucchio di strame marcio, sclamò lo
Storpiato. Basta così, se potessi lavorare ancora per essi.... ma,
poichè non sono più buono a nulla, si ingegnino anche essi.... Sono
sani e robusti, e per Virgilio non sono nè anche brutti. Stefanella
sarà un amore e Carluccio è un torello, e son certo che mi daranno
cinquanta pezze a occhi chiusi. Poi ballano la tarantella come in tutte
tre le Calabrie non ce n’è.... e per girare il manico d’un organetto
non se lo faranno insegnare due volte.... Datevi pace, Marinella,
camperanno e faranno fortuna, e fra dieci o dodici anni, se saremo
vivi, ce li vedremo tornare a casa tondi, come don Pasquale.

— Non li vedremo mai più!... — rispose la madre scoppiando in un
dirotto pianto e serrandosi contro lo squallido seno le teste dei due
fanciulli, svegliati da quella stretta e da quei singhiozzi.

— Oh di pianti ne ho abbastanza! ho deciso e fermi lì. Raccomandiamoli
pure al Signore e a sant’Alfonso che li abbia in custodia, ma se
questo è il destino della povera gente, rassegniamoci, e voi mamma non
brontolate più.... domattina appena venga il nostro uomo, contratto
fatto.... cinquanta pezze, venti per il cavallo e il resto per voi
donne, e non più fame, non più inedia, e chi raggiunge lo Storpiato
sarà bravo.... Siamo intesi, è vero, Marinella?... non se ne parla
più.... andiamo a letto.... son già tre ore di sera, e il vento sembra
un po’ rappaciato.... e domattina il francese non mancherà... o non
vedete che i bimbi cascano di sonno?

— Sia fatta la volontà di Dio!... — mormorò la misera madre baciando in
fronte i suoi due ragazzi e adagiandoli nella loro cuccia....

E dopo un’ora tutto taceva nella capanna. Il silenzio non era
interrotto che da qualche folata di vento che veniva a scrollare la
porta, dal rantolo della nonna e dai lunghi sospiri della madre,
la sola che di tutti quegli esseri non trovasse sonno e dividesse
l’immenso affanno della natura.




V.


Al mattino, appena giorno, si sentì bussare. Lo Storpiato era già in
piedi e corse ad aprire. La Marinella balzò dal letto spaventata come
i condannati a morte che vedono aprirsi la prigione l’ultimo mattino
della loro vita. I bambini corsero col padre a vedere chi fosse.... La
vecchia non si mosse perchè non poteva.

— Ah è lei!... disse lo Storpiato.... non lo aspettava più.

— Uomo onesto non ha che una parola sola.... — rispose l’arrivato, tipo
di mercante di buoi indurito dall’aria marina — sbrighiamoci, perchè
ci ho il vento fresco di terra e mi preme di partire.... Sono questi i
marmocchi?...

— Questi!

— Uhm!... la femmina è troppo gracile e il maschio è troppo forte....
la prima rischia di restare per istrada e l’altro non troverà un cane
che voglia commuoversi per lui.

— Ma quando li vedranno ballare la ancioca — fece il brigante
ammiccando coll’occhio....

— Merce mediocre.... appena sostenibile.... Vediamo questi quattro
salti....

— Piccirilli, fece il padre.... un colpo di _ancioca_, da bravi ch’io
vi darò la misura colla zampogna....

E staccato lo strumento dalla parete si mise a soffiarvi dentro,
cavandone quella monotona e stridula cantilena, che è tutta la musica
dal Tronto allo Stretto.

I bambini alla voce del padre ed al suono della zampogna si posero
lì, ignudi come erano ad agitare le loro magre gambe per diritto e
per traverso, battendo di quando in quando le loro palme in segno di
tripudio e mandando dalla bocca quel grido che assomiglia all’_Evoé_
bacchico degli antichi e che ne è probabilmente l’eco.

La Marinella intanto, accoccolata in un angolo della stanza, recitava
sommessamente il rosario e piangeva in silenzio.

— Basta così... non ne posso più del vostro satanico sgambettìo — gridò
il mercante — ma son troppo grandi.... Quanti anni?...

— Nove la piccina e dieci il maschio — rispose il padre.

— Via, mi rubate quelli della balia....

— Per i chiodi del nostro Redentore vi dico la verità.

— E sia.... son pronti a partire?

— Prontissimi.... vero, Marinella?...

Marinella rispose con un singulto, e la vecchia sibilò due _mostro_ dal
fondo del suo canile.

Allora il mercante si mise a passare in rivista i due bambini,
tastandoli, girandoli e rigirandoli, guardando loro i piedi per
accertarsi, se erano buoni alla marcia, picchiandoli nel petto per
sentire, se avrebbero resistito alla fatica.

A questo giuoco i fanciulli, già commossi dal pianto della madre, si
misero a piangere anch’essi. Ma il padre:

— Ohè, ragazzi.... punto strilli ora... andate con questo signore....
Voi ballerete e canterete sempre.... Vi vestirà bene proprio come da
figli di galantuomini.... vi darà della focaccia finchè ne abbiate
voglia.... vero, signore?

— Certo che sì.... Allegri, marmocchi....

I due ragazzi si diedero a contemplare l’uomo che doveva fare tanti
miracoli e si acchetarono.

— E il prezzo?...

— Quaranta pezze — rispose secco il brigante.

— Che!... baie! _Maitre_ Gaubelet non ne fa di questi contratti,
saranno già troppe venti....

— Allora i bambini resteranno con me.... e voi ve n’anderete....

— Via non riscaldiamoci, pensate che i prezzi sono ribassati, perchè
la merce è abbondante. Quaranta pezze! sono 200 franchi.... mi fate
celia.... se si dicesse trenta ci si arriverebbe!...

La Marinella alzò gli occhi sopra suo marito per aspettare la sua
risposta.

— Mettilo alla porta — urlava la nonna.

— Siete pazzi.... E domani?... No!... vada per le trenta.... i ragazzi
sono vostri.... Su voi altri! Addio, Carluccio, addio, Stefanella...
andate, gli è inutile, adesso siete di questo signore.

— E queste sono le trenta pezze, fece il mercante tirando fuori un
rotolo dalla tasca del giubbone e deponendole sul cassabanco.

Poi, voltosi ai ragazzi,

— Ed ora andiamo, _petits chiens_ — fece allungando la mano per
pigliarli.

— Prima bisogna farli benedire — gridò la madre slanciandosi davanti
alle sue creature e facendo loro schermo della persona con un coraggio
che nessuno avrebbe mai sospettato in lei. — Non è vero, Salvatore?

— Ma io non ho tempo da perdere, rispose il mercante.

— Ha ragione la donna, fece il brigante... In dieci minuti è bello e
sbrigato. Vado e torno.

Lo Storpiato uscì a salti e in meno che non avea detto, tornò
conducendo seco un figuro nero, unto, sinistro, tutto inferraiuolato.
Era il pievano del villaggio.

— Ci sono da benedire questi due bimbi, disse il padre.

— Se ne vanno? chiese freddamente il prete come di cosa consueta e
naturale.

— Se ne vanno.

— Allora è subito fatto.

E cavata di tasca la stola se la gittò sulle spalle e si mise a
brontolare le giaculatorie della benedizione. Quando ebbe finito segnò
egli stesso col segno di croce i due ragazzi, e con un sorriso di
soddisfatta compiacenza esclamò:

— Eccoli serviti!

— Siate benedetto, fece la madre.... Tenetela, cari miei, questa
benedizione, ed anche queste due medaglie di san Francesco di Paola;
non lasciatele mai.

— La mezza pezza — disse il prete allungando la mano — perchè ho
premura anch’io.

— Ne abbiamo una intera per voi, rispose il padre. Coll’altra mezza
direte una messa per la salute di questi due figliuoli e delle anime
nostre.

— Così sia. Salute a tutti; — e intascato il suo prezzo, il prete uscì
dalla capanna.

Di lì a mezz’ora il mercante spingeva innanzi a sè i due calabresi
sulla strada del porto di Paola, e quando s’arrestavano per fiatare
o voltarsi indietro li incalzava con un minaccioso _Ohè_, come fa il
boaro colla mandra che riconduce dalla fiera.

Così lasciarono la loro casa quei due fanciulli senza saper dove
andassero, nè qual mano li conducesse: il padre li gettava per trenta
danari nell’ignoto: la madre, impotente a contenderli a quel destino,
li lasciava partire, non serbandosi altro conforto che la prezzolata
preghiera d’un prete, e la poetica speranza di una giustizia futura.

Nel porto una goletta con bandiera francese allestiva per la partenza.
Il mercante vi fece entrare i fanciulli, e dopo averli consegnati al
nostromo con queste parole: «Registrare, numerare, e nella stiva» se ne
andò pei fatti suoi.

Il nostromo aperse un libraccio foderato di catrame ed olio, e vi
scrisse sopra il nome, il cognome e la provenienza dei due ragazzi: poi
cavò da un armadio due pezzi di cartone, li infilò in una funicella, e
fattone una specie di collare li passò nel collo dei bimbi con questa
avvertenza:

— Codesto è il vostro numero: tutte le volte che vorrete mangiare
presenterete il cartone: chi non l’avrà non mangerà.

Carluccio aveva il num. 47 e Stefanella il 48.

— Ora scendete lì — fece il nostromo — e aspettate il rancio. E additò
la scala di corda della stiva.

Carluccio e Stefanella, agili come ogni figlio di montagna, si calarono
pei nodi nel fondo della nave, e vi trovarono una numerosa compagnia.

Erano altri quarantasei fanciulli di ambo i sessi, ma quasi tutti nella
loro età. Dividevano la stiva coi barili d’olio e l’altra paccottiglia,
colla sola differenza che la merce inanimata aveva il migliore posto,
ed essi il peggiore. Vedendoli si pensava subito agli Africani stipati
nel legno del negriero; ma la razza bianca aveva anco in questo il suo
privilegio. I negri, oltrechè stipati, son tenuti impilati, e l’uno
giace addosso all’altro senza potersi più muovere per tutta la durata
del viaggio. I bianchi invece avevano tanto spazio da poter stare
seduti; solamente erano forzati a sedere all’orientale ed a sopprimere
interamente le loro gambe. La condizione dei bianchi era quella
del riccio, e quella dei negri dell’acciuga: in verità lasciamo ai
naturalisti dire quale dei due sia preferibile.

Scorsa un’altra mezz’ora la _Volpe_, era il nome della goletta, salpò
con un vento fresco di mezzogiorno a vele e fiocchi spiegati colla prua
su nord-ovest nella direzione di Marsiglia. Il sindaco, il cancelliere
del comune, due canonici della cattedrale, il pretore, ed un’altra
serqua di persone, che dall’abito nero sembravano signori, o come là
si dice, _galantuomini_, venivano a dare il buon viaggio al capitano
Gaubelet, il quale ritto sul suo cassero comandando la manovra,
rispondeva alle scappellate con dei cenni di mano che Cristoforo
Colombo non avrebbe certo saputo trovare quando partiva dal porto di
Palos in cerca dell’America.




VI.


Che cos’era quel carico di carne umana che salpava in piena luce del
giorno da un porto d’Italia? Che cosa era quel traffico a cui i poteri
ecclesiastici accordavano la benedizione, e i poteri civili apponevano
il bollo? Dove andava quel _bastimento-serraglio_ protetto dalla
bandiera francese?

Il lettore lo avrà in parte compreso, ma è nostro debito spiegarci
meglio. Ognuno avrà sentito parlare, seppure non li ha veduti coi
propri occhi, di quei fanciulli per lo più oriundi della Basilicata e
delle Calabrie, noti in commercio col nome di _petits-italiens_, che
solcano in tutti i sensi i villaggi della Francia e dell’Inghilterra,
ed ora s’incontrano perfino nelle contrade di Nuova York e di
Washington, cantando canzoni incomprensibili e ballando strane danze
al suono di una zampogna o di una chitarra e mendicando di chiasso in
chiasso, di taverna in taverna, di porta in porta il soldo della carità
importunata od impietosita, e facendo in una parola dell’accattonaggio
un mestiere, della musica un pretesto, dell’infanzia un lenocinio,
e del loro dialetto abruzzese o calabrese, ignoto e melodioso, una
seduzione.

Però, ciò che è forse ignorato dalla maggior parte, si è che questi
piccoli avventurieri non esercitano già, come potrebbe parere, la
loro industria per conto proprio, ma sono gli strumenti ciechi di
un’associazione invisibile, la quale vive, traffica ed arricchisce
sull’obolo accattato giorno per giorno da quella miseria infantile
organizzata ai suoi servizi.

Una volta nato il concetto di questo traffico, una volta che la
coscienza umana potè proporlo a programma di un’industria, e la
coscienza sociale tollerarlo, i modi per farla fruttare erano evidenti.
La buona economia, insegnava anzitutto d’andar a cercare la merce
greggia sul luogo stesso della produzione, e trasportarla sul luogo di
lavorazione, quindi primo punto _una tratta_. Poi la stessa scienza,
considerato che la merce era umana, rivelava che, fra i molti metodi
economici e sicuri per custodire molti uomini insieme, la caserma,
il convento, il falansterio, il _Workhouse_, il _caravanserraglio_,
la galera, nessuno rispondeva per sè solo esattamente al caso, ma
che pigliando il meglio da tutti si poteva arrivare a qualche cosa di
perfetto. Ed allora, togliendo alla caserma la disciplina, al convento
il digiuno, al falansterio la promiscuità, alla _Workhouse_ il lavoro,
al _caravanserraglio_ l’economia, alla galera la corruzione, rifiutando
su tutti i punti il necessario come un lusso, e applicando in tutti
i casi la massima che _l’interesse_ dell’industria si riduceva ad un
_dolore accumulato_, riescirono a formare uno stabilimento modello.

Istituito l’ospizio, restava a distribuire e regolare il lavoro
in guisa che potesse dare colla minor spesa e la maggior sicurezza
il massimo prodotto; in altre parole restava a trovare un modo di
sguinzagliare alla preda tutti quei rapaci infantili senza che nessuno
la smarrisse o si smarrisse, o ne trafugasse una parte, o la divorasse
per sè. E qui l’arte venatoria venne in soccorso. Tanti quartieri,
tanti parchi, tante mute: ad ogni muta due o tre bracchieri con segnali
per riconoscere ed essere riconosciuti. Una volta al giorno, alto della
caccia in uno dei bugigattoli più bui del quartiere, o nel mezzo di
qualche piazza deserta, giacchè il vasto nasconde come l’oscuro; ed
ivi resa di conti parziale. Alla notte poi, resa di conti totale nello
stabilimento. Ad ogni negligenza sospettata, pena atroce di scudiscio e
di fame; ad ogni frode denunziata, pena raddoppiata, chè l’istituzione
è morale ed ha in grande orrore l’infingardaggine ed il furto!

Infine, amministrazione minuta, disciplina ferrea, sorveglianza
assidua, gerarchia russa, segretezza giurata e massonica.

La società in Europa ha due grandi centri, Parigi e Londra, in lega
fraterna fra loro; perocchè per simili cause i confini scompaiono e
John Bull può obbliare Crecy, e Jacques Bonhomme, Waterloo.

Alla testa d’ogni centro sta un presidente, un Comitato esecutivo, ed
un Consiglio di amministrazione con facoltà ed uffici ordinatissimi, e
autorità rispettatissime.

Oltre a ciò, in continua e diretta comunicazione colla sede centrale
in quasi tutti i dipartimenti e contee, sedi secondarie o succursali,
le quali, benchè privilegiate di molta autonomia, sono però obbligate
ad esercitare la polizia dei fuggiaschi, ed a pagare una specie di
_ghinea_ alla sede principale. Nelle città marittime l’affigliazione
conta molti capitani armatori di bastimenti, i quali assumono la tratta
per mare a conto della società.

Il più delle volte però i contratti di trasporto sono regolati a un
tanto per testa, salva ai capitani, come affigliati, la parte spettante
di utili sui dividendi dell’associazione. Una serie d’articoli dello
statuto determina minutamente l’entità e le proporzioni dei dividendi:
tutti hanno diritto ad un interesse anche minimo per conseguire che
tutti sieno zelanti del controllo e della sorveglianza, onde nulla si
perda.

Tuttavia la distribuzione non la fa che il Consiglio d’amministrazione
per mezzo del Comitato esecutivo. Il presidente è invisibile come
un Grand’Oriente massonico, e nelle stesse adunanze del Consiglio
d’amministrazione compare di rado. I suoi rapporti esteriori non vanno
oltre il Comitato esecutivo ed anche con esso si circonda di una certa
nube. Egli non dura in carica che un anno ed è piuttosto un dignitario
che un podestà, e per questo lo si vuole scelto tra le persone più
distinte dell’associazione o fra quelle principalmente che si trovano
in contatto, o possono trovarvisi, coll’autorità pubblica.

Il primo presidente fu un secondino destituito del bagno di Tolone;
il secondo il portinaio dell’ambasciata inglese. Con ciò si credeva di
poter far la polizia alla polizia e tenere sempre una mano nei segreti
dello Stato dei quali poteva diventar utile all’intera associazione il
possesso.

Nel 1850, nell’anno di cui narriamo, il presidente era qualcosa di
più alto ancora: un commissario di polizia dimesso dalla rivoluzione
per intrighi legittimisti. Ma dopo le giornate di giugno egli aveva
cambiato nome e s’era dato a’ servigi della polizia segreta del
principe presidente.

Per questa trafila entrato in rapporti coll’associazione dei _Petits
italiens_, avea potuto far valere tutti i suoi meriti presenti e futuri
e, candidato alla presidenza, era riescito a raccogliere sul suo nome
la quasi unanimità dei suffragi.

Un’altra parola ci sembra necessaria. Il contingente di questa
associazione non poteva venire che dai bassi fondi sociali; ma qui
importa intendersi bene ne’ termini.

La sentina pubblica ha confini illimitati. In essa si perde lo straccio
come la decorazione. Tutto ciò che porta maschera le appartiene. Tutti
coloro che agognano apparire più di quello che sono, a consumare senza
produrre, a conquistare con un colpo di Borsa o di Stato una fortuna od
un trono, sono il suo popolo. Catilina, lo zingaro dei repubblicani,
vi è cittadino come Giovanni Senzaterra, lo zingaro dei principi; il
bettoliere Thenardier che aspira a diventar milionario, vi s’incontra
con Cesare che aspira a diventar imperatore. Però gli è dalla notte di
quest’abisso che monta il vero miasma sociale.

Finchè il male è pubblico, visibile, diurno, e la legge lo può
conoscere, correggere, colpire, il rimedio è noto e la guarigione
certa. Ma quando il male è segreto, notturno, invisibile e porta la
larva del bene, o almeno l’insegna del legittimo, allora la società
versa in grave pericolo, e qualche grande crisi l’attende. Quando
non si sa più distinguere se la miseria in cenci sia più dolorosa
della miseria dorata, quando il vizio può uscire dal postribolo come
dall’officina, dalla bisca come dalla sagrestia, andare a braccetto
di una dama foderata di cortigiana, o di una cortigiana vestita da
dama, prendere per insegna, per tornare al nostro esempio, il _Senatus
populusque romanus_ di Cesare o il sergente di Waterloo di Thenardier,
allora il dominio della città oscura può dirsi incominciato e quelle
grandi epoche di consunzione, nelle quali la morale è ridotta a un
galateo, e la legge a una tolleranza, compaiono nella storia.

Però da molti anni le cose erano notevolmente mutate. Il governo
francese s’avvide alla fine del nefando delitto che si commetteva
impunemente all’ombra delle sue leggi, e prese a combatterlo. Se non
che egli seguì la stessa strada degli abolizionisti verso i neri.
Cominciò dall’abolire la tratta e si fermò. Oggi è ancora a quel
punto, e non ha fatto un passo di più. Impedisce lo sbarco dei _petits
italiens_ ne’ porti francesi, ma li lascia spensieratamente strascinare
la loro catena di miseria e di abbiezione per le strade di Parigi. Ciò
non ostante l’abolizione della tratta, rendendo necessario un altro
modo di trasporto, diede un gran crollo all’associazione e finì col
distruggerla.

Invece di un carico di cinquanta o cento fanciulli per mare fatto
con risparmio di tempo e di denaro, fu mestieri far venire la merce a
piccole tappe ed a piccole squadre per la via di terra affidandone la
scorta ai parenti od ai custodi che bisognava pagare e sorvegliare,
e che spesso a mezza via fuggivano come i fanciulli che dovevano
accompagnare.

Giunte alle Alpi, le guide si rifiutavano proseguire, e ci volevano
altri uomini per ricevere i ragazzi e scortarli fino a Parigi.

Però la spesa diveniva doppia, le peripezie della spedizione
incalcolabili: le operazioni complicate e la grande industria fu
colpita a morte; ma rimase la piccola. All’associazione subentrarono
gli speculatori privati: all’unica e grande impresa i piccoli
impresarii e subappaltatori. Ciascuno che volesse prendeva cinque o
sei ragazzi e viveva su quelli. Il guadagno era minore pei padroni,
ma i patimenti per i piccoli schiavi erano sempre gli stessi: anzi
il traffico minuto diminuendo il lavoro aumentava la sordidezza dei
trafficanti, e pesava con maggiore durezza sul capo dei trafficati.

Oggi siamo ancora a tale, e la sorte dei _petits italiens_ non è punto
mutata. Però meritano essere lette sopra questo doloroso soggetto le
parole dell’ultima relazione della società italiana di beneficenza in
Parigi:

«Vedendo questi cenci umani circolare le contrade di Parigi, si è
costretti a domandarsi quali motivi mai facciano tollerare, se non
anche proteggere, questa vergognosa speculazione. In questa città nella
quale anche il più piccolo merciaio ambulante paga la patente, dove
il commissario delle strade deve avere un distintivo, dove nulla si fa
senza permesso, i soli industrianti di fanciulli sembrano essere fuori
delle leggi. Perchè questo favore? Perchè in un paese che è alla testa
della civiltà, in un paese nel quale il lavoro è in così grande onore,
si ammette che questo genere di mendicità formi una vera corporazione?

«Sono forse le leggi che manchino in simile materia? Bisognerebbe
crearne. Ma esse non mancano. Una sola basta.

«Il disposto del prefetto di polizia in data 28 febbraio 1863 dice
all’articolo 10:

«È espressamente proibito ai saltimbanchi, ai suonatori d’organo,
musici e cantori ambulanti di farsi accompagnare da fanciulli di età
minore di 16 anni.

«Questo articolo dice tutto, ci pare, e noi non comprendiamo come si
dia ancora a Parigi un solo fanciullo che chieda l’elemosina. Forsechè
l’amministrazione ignora i fatti di cui ci occupiamo? No. Perchè essa
ha un servizio speciale di polizia che si occupa di questa industria,
e i nomi dei principali trafficanti le sono perfettamente noti. I
motivi della tolleranza dell’amministrazione francese sfuggono dunque
compiutamente alla nostra perspicacia».




VII.


È manifesto che questi fanciulli diventando adulti non servono più
allo scopo per il quale erano stati levati alle loro famiglie e che
anch’essi come i cavalli di corsa, giunti ad una certa età, ed esaurito
lo sforzo della loro giovanile bravura, siano destinati a mutare di
nome, di mestiere e di padrone. Però quando i _petits italiens_ non
sono più piccoli, ecco qual è la sorte che li attende.

I padroni naturalmente non vogliono gettare questo capitale che ha loro
fruttato talvolta il 200 per 100 senza cavarne l’ultimo sangue. Quando
il piccolo accattone è ingrandito e non par più in grado di muovere la
pietà o il sorriso degli avventori è rivenduto ad altri per un altro
mestiere.

Delle fanciulle, in una società in cui la legge stessa consacra la
pubblica immoralità, ognuno ne presentirà facilmente la fine. Esse
non sono ancora deste al mistero della pubertà che già un covo infame,
dove non si esce che per la via del camposanto o dell’ospedale, le ha
inghiottite.

Per il maschio si sta a vedere. Se l’educazione ha fruttato, se
promette bene, se mendicando s’è addestrato nel mestiere fratello
del rubare, c’è sempre un’altra associazione parente di tagliaborse
o di strangolatori pronta a riceverlo. Ma poichè il più delle volte
gl’industrianti dei piccoli italiani sono anche capi banda o borsaioli
essi stessi, così il baratto si fa in famiglia e il fanciullo cambia di
mestiere senza cambiar di padrone.

Gli altri, i restii a questa nuova arte, sono gettati, proprio come
si getta una ciabatta che non serve più, sulla pubblica via, e che
s’ingegnino da sè. Allora i più passano dalla mendicità incolpevole
alla mendicità turpe, dal furto per fame al furto per abitudine, dalla
servitù involontaria alla volontaria, e per una via un po’ più lunga
allo stesso fine: al disonore, al carcere ed alla morte disperata.
I pochi invece, rari veramente, corrotti d’animo e di corpo, pieni
di fiele e di malattie, di odii e di dolori, riguadagnano il loro
villaggio natio, e se non cadono estenuati alle sue porte, afferrano la
carabina del loro padre e si fanno masnadieri.




VIII.


Con questa ignorata ma certa prospettiva davanti i 48 deportati della
_Volpe_ entravano dieci giorni dopo la loro partenza da Paola, nel
porto della Canabière di Marsiglia.

In quale stato appena può immaginarsi. Il mal di mare in quella stipa
senz’aria e senza moto aveva fatto strazio di quei poveri stomacucci
vuoti, e alcuno non aveva potuto resistervi. Una bambina era morta
per viaggio e il mare se l’era inghiottita assieme alle immondizie del
bastimento: due altri erano così disfatti che potevano appena reggersi
in piedi e appena deposti a terra svennero, probabilmente per non
svegliarsi mai più. I restanti 45 erano stati consegnati agli agenti
della succursale di Marsiglia e dopo una notte di riposo e di ristoro
— quale riposo e quale ristoro! a piccoli drappelletti di quattro o
cinque, per le due diverse strade di Dijon e di Tolone erano spediti
alla sede metropolitana di Parigi.

Dopo altri dieci giorni, trascorsi ballando, cantando, limosinando,
camminando sempre, Carluccio e Stefanella arrivavano finalmente in
Parigi ed erano condotti difilati allo stabilimento centrale in piazza
Maubert, che era reputato il migliore dell’associazione, ma che non era
altro che un ammasso di catapecchie comunicanti fra loro per mezzo di
cortili che parevano pozzi e di anditi che parevano sotterranei.

Usciti dall’antro di Ritorto, le caverne di Parigi non avrebbero dovuto
sorprenderli.

Tuttavia, quando videro quella bocca nera, lunga, buia dalla quale
ventava un tanfo di sepoltura e dentro cui formicolava confusamente
uno sciame di piccoli spettri, si arretrarono e fecero per tornare
indietro. Fu quello il loro primo atto di resistenza, e fu l’ultimo.

L’uomo che li accompagnava, pedagogo di quel triste collegio, appena
vide l’atto dei due nuovi arrivati:

— Oh il 301 e 302 _A_ (venendo a Parigi avevano cambiato di numero e
la lettera alfabetica significava la sezione), meno smorfie, o ci sarà
un paio di stivali da provare, e accompagnando col gesto la parola
infilò i due meschini con due terribili pedate e li scaraventò dentro
il sotterraneo. Andarono a cascar addosso ad un fascio di compagni
dormienti, i quali destati dalla caduta di quei due ignoti oggetti
presero a ballonzolarseli tra pugni e graffi finchè, stanchi del
giuoco, li ricacciarono lontani da loro in mezzo alle tenebre.

Così fu festeggiato l’ingresso di Carluccio e Stefanella nell’istituto
dei _Petits italiens_.

In quell’ora, non essendo ancora suonato il segnale del sonno, la
_camerata_, così era chiamata con dantesca ironia, pareva un pandemonio
di nani. Chi urlava, chi piangeva, chi fischiava, chi suonava la
tromba, chi imitava il miagolio dei gatti innamorati, o il ringhio
dei cani arrabbiati, chi cantava un osceno ritornello, e chi faceva la
caricatura d’un predicatore o d’un saltimbanco udito la mattina. Coloro
che non dicevano nulla, o dormivano, o si grattavano, e non giova dirne
il perchè, o ruzzavano in lotta coi vicini, o... rubavano.

Non parrà vero, ma era così. Anche in quel consorzio di piccoli
miserabili c’era il furto organizzato: anche in quel letamaio c’era
qualche cosa di agognato, di appetito, di sottratto; la nudità rubava
al cencio, lo sfinimento alla fame, e tutte le notti una manuccia
nera e scarna si allungava dentro la tasca, nera come la mano, del
vicino addormentato per rubarvi una crosta di pane pietrificata, un
bottone d’osso, un muzicotto di sigaro, un nulla, colla stessa agilità,
colla stessa ansia con cui il provetto borsaiuolo dei teatri e dei
_boulevards_ penetra nella tasca di un inglese per farne sparire la
borsa riboccante di sterline.

I due nuovi arrivati si trovarono come perduti in quel baccanale della
notte e non sapevano dove farsi una nicchia per sdraiarsi e dormire.
E avevano sonno poveretti: oh se avevano sonno! Ad un tratto un lungo
fischio si fece udire all’imboccatura della camerata, e quasi per
incanto, come uno stormo di colibrì al fischiare del crotalo, tutto
quello sciame di colibrì umani, chiusa la bocca, non fiatò più, non
si mosse, e la camerata diventò silenziosa come una stanza mortuaria.
Stefanella e Carluccio restarono stupiti e spaventati del silenzio,
come prima lo erano stati del tumulto, e vinti dalla stanchezza e
dal sonno, trovato verso la porta un angolo, dove nessuno voleva
stare per il freddo che vi soffiava, vi si accovacciarono insieme, e
strette al collo le loro braccia per proteggersi e riscaldarsi, vi si
addormentarono.

Alla mattina al suono di un altro fischio tutta la camerata svegliossi.
Rizzandosi Stefanella si accorse che le era stata rubata la medaglia
del santo di Paola, memoria di sua madre, e Carluccio non trovava più
un troncone di lima che aveva raccattato per istrada da Marsiglia a
Parigi, e che teneva come un tesoro. I due derubati non potevano darsi
pace, e quando comparve sull’uscio il pedagogo della sera antecedente
corsero da lui singhiozzando a denunziare la loro gran disgrazia, e
chiedendo Carluccio di ricuperare la sua lima, e Stefanella la sua
medaglia.

I compagni fattisi intorno ai querelanti si guardavano incerti
se dovessero canzonare la loro dabbenaggine, o stupire della loro
innocenza, mentre il pedagogo scoppiando in una sghignazzata rispose
loro:

— Oh che credete che qua sia una Corte d’Assisie? Se vi hanno rubato
non c’è che impattare. Rubate anche voi altri.

La camerata battè fragorosamente le mani. Stefanella e Carluccio
restarono come di sasso, e quella morale applaudita fu il viatico
offerto a quei due innocenti per entrare nel labirinto della vita.

Appena giorno, i _petits italiens_ dovevano essere al lavoro, giacchè
anche quell’ora mattutina aveva i suoi clienti e spesso i più generosi.

L’operaio che esce al lavoro ancor caldo del bacio dei suoi pargoletti
lasciati a trastullarsi in una tiepida cuccia fra le braccia vigilanti
d’una madre, è misericordioso per l’orfanello quasi nudo e tremante
di freddo che gli si affaccia sulla via e gli chiede in nome della sua
mamma lontana «un soldo per amor di Dio»; la trecca è presto commossa
da due lagrime di bimbo, e il villano non può tenersi nella pelle
vedendo i lazzi «di due scimiotti calabresi» che ballano la tarantella
sopra un’aria un po’ biricchina.

Nel collegio poi ci sono tutte le specialità, tutte le perizie, tutte
le parti come in una compagnia di comici. Chi riesce bene nel suono
e chi nel ballo; l’uno è un pagliaccio a cui nessuno resiste e le sue
boccaccie fanno crocchio, l’altro è un saltatore maraviglioso ed ogni
sua capriola incassa un franco; l’uno non ha eguali nel pianto, l’altro
è una balestra di motti e di proverbi; chi è abilissimo a fingere il
freddo, chi a simulare i dolori di corpo, chi sviene a meraviglia, chi
imita a perfezione l’epilettico e chi è capace di gettarsi a capofitto
nella Senna a pescarvi il soldo gettatovi dalla folla e ritornare a
galla trionfante.

Quindi la cura principale dei maestri, direttori, pedagoghi, ecc., è
di adattare le specialità ai quartieri ed all’indole della gente che li
frequenta, come farebbe un comico adattando le sue rappresentazioni al
pubblico ed al teatro.

Però alle _barriere_, dove fluttuano continuamente le brigate allegre
che vanno e vengono dalle merende o gli ingenui ortolani dei dintorni,
gente che ama trovar tutto gaio sulla sua via e che è disposta a ridere
di nulla ed a meravigliarsi di tutto, la squadra dei saltatori, dei
giullari, degli sbofonchiatori; nelle taverne invece, dove comincia o
finisce un’orgia, il covo dei canterini osceni e dei baccanti sbracati.
In faccia ai caffè di lusso, presso le porte delle chiese i più
gentili e tapini, quelli che sanno cantar con più grazia, piangere o
svenire con verità, come sui ponti della Senna i nuotatori famosi e sui
_boulevards_ gli arrampicatori indemoniati.

Vi sono però quelli che non hanno alcuna arte singolare, ma che in
ricambio si singolarizzano per beltà o per grazia, e per quel non so
che di misterioso e di attraente che esce dalla bocca e dagli occhi
d’un fanciullo che vi parla e vi guarda con familiarità come se foste
sempre vissuto con lui e voi foste parte della sua famiglia. A codesti
più privilegiati era lasciata la crema della società; i davanti del
_Tortoni_ e del caffè Inglese, i dintorni dell’_Opéra_ e gli accessi
del bosco di Boulogne.

Poteva accadere, anzi era accaduto che qualche libertino in isciopero,
o qualche nonno elegante lasciasse cadere lo sguardo su qualche piccina
dagli occhi neri e, provvido Mecenate, la slanciasse, con un solo
atto del suo favore sulla via della fortuna; poteva accadere ancora
che qualche Aspasia arricchita in ritiro adottasse, per riscatto dei
trascorsi di gioventù, il calabresello abbandonato, che la sua pariglia
volando a furia sulla passeggiata, gettò mezzo sanguinoso ed esanime in
mezzo alla polvere dello stradone.




IX.


L’arte rudimentale però, l’arte comune a cui nessuno poteva sottrarsi
era di indovinare a colpo d’occhio l’indole delle persone alle
quali il piccolo italiano doveva dirigersi. Perocchè uno sbaglio in
questa prima parte del mestiere ne cagionava mille e comprometteva
l’associazione. Però grande era la cura dei maestri e custodi perchè
i piccoli industrianti si penetrassero bene delle regole fondamentali
della scienza di Lavater applicata all’accattonaggio. Lezioni speciali
erano date sovente nello stabilimento su questo tema chè i professori
erano per solito i più anziani e provetti della corporazione. Allora
non era raro il caso di vedere qualche sera, dopo la ritirata, uno di
questi piccoli dottori in scienza fisionomica, montare sopra una panca
apparecchiata in mezzo alla camerata, innanzi alla turba attenta dei
neofiti e dei principianti, e schiccherare questo discorso:

«Il genere preferibile è il _provinciale_, e, regola sicura, ogni
persona, uomo o donna, che sia ferma a guardare nelle bacheche delle
botteghe, o a contemplare, la colonna di Luglio o la giraffa del
giardino delle Piante, è un provinciale.

«Intorno ad ogni monumento ne troverete uno sciame e non bisogna
abbandonarli, finchè non abbiano vomitato il loro dazio d’entrata. Con
questi tutti i ferri del mestiere sono buoni meno le canzoni grasse e i
_calembours_ troppo astrusi.

«Vien subito dopo il genere _stranieri_ da distinguersi bene dai
_provinciali_ per il modo di trattamento. Con essi bisogna essere
servizievoli a oltranza, insegnar loro la strada anche quando la
sanno, andare a pigliare la carrozza anche quando non la vogliono,
offrire loro di portare il _paletot_ anche quando piove. Con loro
non c’è che un programma: essere importuni. Bisogna però badare a
non urtare contro la flemma inglese; sarebbe tempo perduto contro uno
scoglio insormontabile. Cogli inglesi però c’è un altro mezzo: cantare
un’aria turca qualsiasi e dire che è italiana. Guardarsi bene invece
dal parigino che ha fretta. Un uomo che corre per le strade è un uomo
d’affari e non guarda ai _petits italiens_ se non quando li getta per
terra. Tenete d’occhio gli studenti e i soldati, i primi al principio
del mese, i secondi al giorno di paga e specialmente quando portano
al braccio le loro metà, le sartine o le cuoche. Allora essi amano
mostrarsi generosi specialmente se voi saprete adattare una buona
musica al proverbio tutto francese. «_L’amour ne loge point sous le
toit de l’avarice_.»

«Non perdete un minuto solo colla gente che esce dalla Borsa o dalla
chiesa: la prima ha dato tutto il suo cuore al diavolo e la seconda
a Dio e non ne avrà per voi. Se trovate per istrada una signora sola
che vada diritta senza voltarsi indietro corretele appresso e non
lasciatela mai. Essa va per qualche contrabbando ed avrà bisogno di
liberarsi di voi. Ma per ultimo consiglio guardatevi dalla gente che
va in mezzo alla strada col capo nelle nubi: si chiamano poeti e sono
un genere traditore. Essi si fermeranno a contemplarvi, vi offriranno
una eloquente compassione, scriveranno per voi qualche ode, ma non vi
daranno un soldo.»

Eruditi a questo modo dalle parole e dall’esempio, i due nostri
calabresi divennero in brevi giorni i più esperti e fortunati della
società.

Carluccio agile, snello come un camoscio non avea rivali nelle
capriole. Stefanella, dotata d’una voce esile e gentile come il
pianto d’un rosignolo, arrestava la folla dei più indifferenti coi
suoi _rispetti_ calabresi pieni di semplicità e di melodia. Inoltre
Carluccio avea un pregio che nessun altro prima di lui avea mai
posseduto: una fierezza d’accento, di posa e di sguardi che quando
chiedeva la carità pareva dicesse: «Datemi un regno.» In quel momento
coi suoi occhi neri scintillanti, col suo sorriso beffardo, colla
mano tesa in atto più di minaccia che di preghiera, il corpo eretto,
la fronte alta, era così bello che tutti, innamorati di quel piccolo
miserabile col cipiglio principesco, si fermavano a guardarlo, e lo
colmavano di doni. Accadde anzi più tardi che uno statuario, trovato
il calabresello per la strada, lo volle nel suo studio e lo ritrasse al
vivo nel suo nativo costume in un bozzetto di creta al quale pose nome:
_Amore brigante_.

Stefanella al contrario era tutta grazia, umiltà, pudore. I suoi
occhi non si alzavano mai sul passeggiero che per la preghiera,
la sua voce era restia alle note gagliarde ed ogni parola dura ed
invereconda moriva sulle sue labbra senza poterne uscire. Per questo,
per quanti sforzi fossero fatti dai maestri e dalle compagne più
arrendevoli, essa non potè mai imparare una canzone oscena quantunque
non ne intendesse il significato. Per fargliela entrare in testa,
per fargliela pronunciare fu minacciata, percossa e, cosa inaudita in
quella corporazione dove ogni tenerezza era morta, blandita, e persino
regalata. Tutto vano; la natura si ribellava; tutte le seduzioni della
zingarella svanivano, quando la si costringeva a fare la baccante!...

I due fratelli erano stati destinati dapprima ai quartieri della
barriera Saint-Denis, ma i padroni non tardarono ad avvedersi che non
erano personaggi per quella scena troppo volgare e che il pubblico era
inadeguato alla rappresentazione e il guadagno al capitale. Quei due
aristocratici del vagabondaggio erano fatti per l’aristocrazia, però
decisero cambiar loro quartieri e clienti, e furono arruolati nella
squadra che doveva agire ai _Champs Elisées_ e sul _boulevard des
Italiens_.

In pochi giorni i due calabresi diventarono famosi anche in questa
nuova scena e non c’era frequentatore di quel mondo, zerbino o
magistrato, gran dama o crestaia, che non volesse aver udito cantare
almeno una volta Stefanella e veduto saltar Carluccio come si fosse
trattato dei trilli della Pasta o dei salti del signor Léotard. Nei
caffè signorili dei _boulevards_, gli artisti ambulanti non possono
entrare, o vi sono messi bruscamente alla porta. Ora, per intercessione
d’una società d’allegri avventori, Stefanella e Carluccio avevano
ottenuto privilegio d’ingresso al caffè _Tortoni_ e in breve tempo per
imitazione in tutti gli altri caffè dei dintorni.

Era là specialmente che Carluccio era fatto chiaccherare e Stefanella
passata in più minuta rassegna.

Talvolta, mentre un pittore, uno scultore, un poeta qualsiasi prendeva
da un tavolino remoto delle note e faceva de’ segni sul suo taccuino,
la brigata dei giovinastri eleganti si serrava addosso alla zingarella
incalzandola con domande, con motti, con occhiate, spesso con gesti
tutti d’un tema facile ad indovinare che la facevano diventar rossa
e bianca ad un tempo senza che nemmeno potesse dirne il perchè,
intantochè il fratelluccio costretto a giuocare in un altro angolo
della sala, vedendo la pena della sorella si mordeva le labbra e
squadrava le fiche agli osceni motteggiatori. Ma, se talvolta la mano
di qualche più audace si allungava per un’impudica carezza, allora
si sarebbe veduto il giovinetto saltare, col lancio d’un tigrotto
irritato, tavoli e panche, e piantarsi davanti alla sorella contro
all’insultatore sfidandolo collo stesso piglio con cui un cavaliere
della Tavola Rotonda sarebbe corso all’elsa in difesa della dama di cui
portava i colori. Ed all’atto fiero del piccolo Baiardo era per tutto
il caffè un fracasso di risate e di battimani, e spesso una pioggia
copiosissima di soldi, di dolci, di franchi persino, che certamente nè
la fame, nè la pietà avrebbe strappati a quegli sfaccendati in cerca
d’emozioni nuove e di curiosità eteroclite.

La colletta de’ due fratelli, giunti a sera, stava ordinariamente fra i
sei franchi al giorno; ma spesso saliva fino a 10 e qualche volta aveva
toccata la somma inaudita e favolosa per tutta la corporazione di 20
franchi. Ma è noto che di tutto questo danaro ai fanciulli non restava
un centesimo e che tutto andava versato nelle casse della società.

Però, quando la questua era abbondante, i questuanti non ne risentivano
alcun vantaggio; quando invece era scarsa, una parte del danno andava
a cascare sulle loro povere spalle sotto forma di frustate. Quindi
indirettamente ognuno era interessato a far buona presa, non tanto per
il lucro cessante, quanto per il danno emergente.

Ai fanciulli dell’associazione, l’abbiamo già detto, non restava per
_mangiare_ che quello che era loro regalato in natura dai clienti;
in altre parole la crosta di pane stantìo, l’osso, la ciottola
d’acqua e di minestra, il dolce, il bicchier di vino, ristoro
rarissimo che la carità aggiungeva o sostituiva al soldo, erano
lasciati dall’amministrazione ai questuanti in cambio della mercede
o del pasto quotidiano che avrebbero loro dovuto somministrare.
Così l’amministrazione aveva ridotto i suoi operai alla maggior
semplificazione di regime immaginabile: allo stato d’una macchina che
non mangia e non beve e produce tanto per giri e per ora.

Frattanto, finchè i nomi di Carluccio e di Stefanella furono una
novità, il favor pubblico fu generoso tanto per la loro borsa che
pei loro stomachi e la messe dei pani emulò quella dei soldi. Ma in
Parigi, centro della mutabilità umana, nulla resiste all’aridezza
di questa sentenza: «È giù di moda.» Un regno ha vissuto 18 anni? È
vecchio, se ne vada: una rivoluzione si prolunga oltre un carnevale?
È vecchia, chiuda bottega. Un predicatore è alla seconda predica del
suo quaresimale; un cantante alla sua seconda stagione; un poeta al
suo secondo dramma; Nadar alla sua seconda ascesa; gli ambasciatori
del Taicun alla loro seconda comparsa?... ebbene, sono vecchi, vecchi
come il cappellino, come la foggia, come l’acqua d’odore che si usa
da una settimana. Non c’è merito, non c’è virtù, non c’è scoperta, non
c’è idea, non c’è bizzarria, non c’è utopia, non c’è nemmeno delitto,
quando esso sia scolpito dal suggello della novità, al quale il
vento della moda non gonfi almeno per un giorno la vela ed a cui quel
gigantesco Arcangelo della civiltà rifiuti di prestare le sette trombe
della sua fama; ma non c’è moda, non c’è fama, che in quello smisurato
oceano resista al soffio d’un’altra moda che sorge, d’un’altra fama
che incalza, e gli aquiloni della sera che portano le tempeste sono
salutati colla stessa gioia con cui lo furono le brezze del mattino
che aveano fatta parer bella la calma. Babilonia, Atene, Roma, Parigi,
Londra, forse, chi sa? domani New-York o Pietroburgo sono le grandi
fornaci del progresso: esse tutto ingoiano, tutto divorano e tutto
trasformano, e non lasciano al frammento che vi cade altra gloria che
quella di avere contribuito a formare la immensa statua della civiltà.




X.


Torniamo ai bimbi... Anche per essi dopo un anno, e avevano durato
anche troppo, era cominciata la vice fatale del tempo. Quei due bimbi
erano trovati già vecchi; il sorriso infantile di Stefanella cominciava
a parere stereotipo, la posa di quel grano d’eroe a sentire il rancido.
Il pubblico si diede a sbadigliare, a non guardare più, a infastidirsi,
ad allontanarsi, a dar meno, a dare pochissimo.

A ciò si aggiunga che ci fu un’epoca torbida per la Francia. Eravamo
poco lontani dall’elezione del presidente e dal colpo di Stato: la
Francia era preoccupata ed inquieta e gli stranieri non erano sedotti
a visitarla. Quindi molti pensieri nelle teste dei Parigini e pochi
forestieri per le strade di Parigi, e dappertutto e in tutti quella
trepida aspettazione d’una crisi, che tronca i nervi al lavoro, gela
le ispirazioni all’arte, consiglia il capitale ad espatriare, il lusso
a nascondersi e la società intera a sopprimere il superfluo, a ridurre
il suo bilancio al puro necessario, a rinchiudersi insomma nella vita
vegetale del giorno ed a non far più alcun conto dell’incerto avvenire.

Di questo torbo ed inquietante orizzonte, se ne dovevano risentire
l’_Opéra_ come i cantastorie da trivio, e l’associazione de’ _Petits
italiens_ doveva soffrirne quanto e più d’una società di strade di
ferro o di miniere.

Infatti verso i principii di novembre il Consiglio esecutivo della
piazza Maubert notò una grande diminuzione di introiti e ordinò esso
pure un’inchiesta. E l’inchiesta disse che le partite di Stefanella
e di Carluccio erano quelle che avevano ribassato più rapidamente.
I sei franchi giornalieri erano scesi a tre: nientemeno che il 50%
di perdita. Il fatto era grave sopra tutto e meritava uno studio
singolare. Non si tralasciò di ordinare una più rigorosa vigilanza dei
due fratelli; molto meno si dimenticò di chiamarli al _redde rationem_
e di rammentar loro i doveri sociali con la consueta perorazione
dello scudiscio e delle pedate. Carluccio col suo solito piglio
rispondeva che «non aveva colpa se in Parigi non ci erano più nè soldi
nè minestre». Stefanella invece non rispondeva nulla e piangeva in
silenzio dietro di lui....

— Ci sono pochi soldi perchè ci sono troppe minestre — strillò dal
crocchio degli ascoltatori una voce di femmina.

— Cosa vuoi dire tu _Tredici?_... — chiese il direttore dello
stabilimento che avremmo voglia di chiamare il capo aguzzino,
volgendosi con un sorriso di iena innamorata alla interlocutrice.

— Gracchia più chiaro, Pica scordata — replicò Carluccio apostrofandola
col soprannome che tutto il collegio le aveva imposto per la grande
rassomiglianza di voce e di muso che aveva con quell’animale.

— Parlerò a tempo e luogo.... e con chi si deve — ribattè la Pica.

— Parlerai con me, non è vero? — e voi altri zitti... o guai! — disse
il capo aguzzino facendo chioccare la frusta dalla parte di Carluccio.

Ora è mestieri dire che la fortuna rapida e insolita dei due calabresi
aveva destato nella maggioranza del collegio di piazza Maubert tutti i
vermi dell’invidia fanciullesca, la quale, sebbene piccina e innocente
di forme, è qualche volta non meno temibile dell’invidia degli adulti.
Ora, fra coloro che avevan preso più forte a odiare i due fratelli, la
più arrabbiata e maligna era la Pica scordata.

Costei, ributtante impasto di giallo e di cenere, brutta proprio come
l’invidia, avendo già oltrepassati i quattordici anni, contava fra le
più anziane dell’istituto, ed ormai la si poteva dire tramontata per
quell’industria che consisteva tutta «nel mettere in mostra l’infanzia
che soffre». Tuttavia ella avea una abilità tutta sua; imitava a
perfezione il mal caduco, e con quest’arte, resa più interessante dalla
sua laidezza, ella era sempre riuscita a razzolare più quattrini che
non le sue compagne colle loro grazie di canti, di suoni o di bellezza
che ella, certa di non le poter mai uguagliare, ferocemente abborriva.

Ma la Pica, non contenta di avere la sua parte di guadagni e di favori,
agognò entrare nelle grazie dell’amministrazione. Impregnata d’odio,
gelosa di tutti i meriti altrui e specialmente di quelli delle sue
compagne, fatta per assorbire e respirare a pieni polmoni i miasmi
pestilenti dell’ambiente in cui viveva, essa aveva sentito il bisogno
di fare il male per il male, e dopo averne per molto tempo cercato il
modo più sicuro e lucroso, si pose ai servigi della polizia segreta
dell’associazione. Perocchè, giova dirlo subito, anche quella società
di piccoli miserabili sentiva il bisogno d’una sbirraglia e di uno
spionaggio. Ed ecco una fanciulla a 14 anni spia dell’innocenza e
della miseria. In verità il genio del male non aveva mai trionfato più
completamente in un’anima umana.

Naturalmente ella aveva veduto con ira la gloria dei due calabresi
e giurò vendicarsene. Aveva notato che nei primi mesi Carluccio e
Stefanella, oltre che di soldi, erano colmati di doni e che qualche
generoso, oltre al pane ed alla minestra, era persino arrivato al
desinare ed ai confetti. Quei due fanciulli adunque, invece di patire
come era loro dovere, minacciavano ingrassare, e l’associazione era
frodata. Quale capo d’accusa per l’invidia in agguato!

Però, quando il direttore chiamò in segreto la Pica a dargli
spiegazione delle sue parole del giorno prima, ecco quel che essa
rispose:

— Stefanella e Carluccio, invece di chieder soldi per la società,
chiedono pane per sè. E siccome molti dànno più volentieri un pane
che un soldo, ecco perchè da un mese essi non portano nella cassa più
nulla. Sono egoisti che pensano soltanto a sè; essi impinguano e la
società patisce.

La delazione bugiarda della Pica era materia più che sufficiente per un
processo. Il direttore credette o finse credere, e ordinò il processo
il quale non potea essere che sommario come là si costumava. Laonde,
aspettati a casa i due accusati, e annunziata la sua presenza con una
fischiata di scudiscio, il direttore incominciò così:

— Quant’è l’introito d’oggi?...

— Quattro franchi, fece Carluccio; pioveva a secchi e per le strade
c’era nessuno.

— D’ora innanzi pioveranno di queste — urlò l’aguzzino facendo
strisciare il frustino sulle guancie di Carluccio che ne illividì.

— So perchè l’introito scema; perchè, invece di cercare denaro, cercate
da pranzo... Silenzio... ghiottoni... io lo so e basta. D’ora innanzi
decreto: tutte le volte che vi offriranno da mangiare.... ricuserete.
Tutte le volte che porterete a casa meno di sei franchi doppia razione
di frusta e digiuno assoluto.... Quando porterete sei franchi,
vi lascerò tre soldi per desinare... e ce ne sarà d’avanzo. Avete
capito?... a letto, scoiattoli.

Il lettore comprende che per eseguire alla lettera quest’ordine
Carluccio e Stefanella rischiavano restare senza pranzo tutte le
volte che la busca era minore di sei franchi; e che anche quando li
raggiungeva o li superava dovevano aspettare fino a sera a pranzare...
con tre soldi! In verità la legislazione della fame non era mai stata
più sapiente.




XI.


Il primo pensiero che dovea naturalmente venire era quello di deludere
la legge, giacchè il proverbio italiano: _Fatta la legge fatto
l’inganno_, è universale a tutti i luoghi e a tutte le età. Però
Carluccio tutte le volte che gli si parava il destro, non esitava ad
accettare il pane che gli veniva regalato; ma non così Stefanella;
essa era troppo timida per osarlo e forse troppo buona per pensare
un inganno anche legittimo. Che se qualche volta le veniva offerto
un pane, essa con voce tremante diceva: «Signore, non lo posso
prendere, datemi un soldo» e siccome il signore si credeva in diritto
di sospettare subito in quella domanda un’avidità di denaro, così se
n’andava spesso borbottando senza dar nulla, e la povera Stefanella se
ne restava a borsa vuota ed a bocca asciutta. Era naturale che essa
come più debole dovesse soffrir di più di quella umana ingiustizia e
che la fame rodesse in quel suo misero stomaco con dente più acuto.
Molte volte, specialmente nelle giornale fredde dell’inverno, era
accaduto che la colletta non raggiungesse la cifra decretata e che i
due orfani fossero condannati a coricarsi interamente digiuni.

Una sera la Stefanella tornando a casa non potè più resistere allo
strazio della fame e cascò esausta di forze e quasi di respiro sul
lastricato della via. Quando la raccolsero la trovarono bruciante di
febbre e la portarono allo spedale. E lo spedale, sgomento di tutti
quelli che hanno una casa, un letto, una pentola al loro fuoco, un
sorriso di parente al loro capezzale, era per quella bimba, foglia
morta strappata dal suo ramo e gettata in quell’oceano, senz’altro
nome che un numero, senz’altro asilo che l’angolo d’un sotterraneo,
senz’altri conoscenti che l’aguzzino, senz’altra legge che la fame,
senz’altra vita che il dolore; lo spedale colla sua carità misurata,
la sua medicina ufficiale, il suo servidorame indifferente, il suo
comunismo indecente, era ancora per lei una reggia, una benedizione, un
pezzo di cielo. Essa da quel giorno non ebbe che un rammarico: «esser
divisa da Carluccio» e non ebbe che una paura, il presentimento di
dover tornare o tosto o tardi alla sua orrenda Gemonia.

E vi tornò diffatti. Un agente dell’amministrazione presentatosi
come il padrone dell’operaia andò a reclamarla. Lo spedale trovò che
le carte erano in regola e che esso avea finito il suo cómpito e la
restituì. La carità pubblica ha di queste lacune: il brefotrofio non
riconosce l’asilo infantile, l’asilo non ha a che fare colla scuola
primaria, l’orfanotrofio non c’entra collo spedale, e il carcere,
che dovrebbe essere un luogo di correzione e di miglioramento, si
sente indipendente da tutti. E finchè le anella delle istituzioni
filantropiche non saranno tenute insieme da un’unità di concetto e di
scopo; finchè il miserabile non troverà in tutte le età e in tutte
le condizioni una provvidenza continua ed organizzata su queste tre
parole: Luce, Lavoro, Pane; finchè la _Ruota_ non metterà capo al
_Collegio_, e la _Prigione_ non si confonderà colla _Chiesa_, una parte
del problema sociale resterà sempre insoluta.




XII.


Quattro anni trascorsero così senza mutazione o vicenda alcuna per i
nostri due orfanelli: sempre la stessa pena, sempre la stessa fatica,
sempre la stessa servitù. Non c’è come la miseria per essere monotona.
Chi ha incontrato qualche volta un mendicante cieco seduto da vent’anni
su quel sasso a quel medesimo luogo, a quella medesima ora, colla
stessa preghiera sulla bocca, col cappello sempre teso a quel modo, ha
veduto il simbolo della miseria; essa è una tenebra immutabile. La sola
differenza che potremo notare fu nel decreto che condannava alla fame
quei due infelici. La colletta era tornata abbondante, la Pica s’era
maritata all’aguzzino e il loro odio s’era calmato nella luna di miele,
ed a Carluccio e Stefanella era stato restituito il diritto di mangiare
il pane che ricevevano in carità.

Però noi saltiamo a piè pari fino al 1854, anno in cui Stefanella
compiva i 14 anni, Carluccio 15. Entrambi erano passati dall’infanzia
alla puerizia, entrambi cominciarono a divenir disadatti alla servitù
a cui erano stati condannati, e un’altra vita era preparata per essi.
Stefanella avea già sentito agitarsi nel suo seno i misteriosi annunzi
della pubertà e, fanciulla ancora, colla precoce rapidità di sviluppo
che caratterizza le meridionali, era già donna. Poichè fame, busse,
insulti, miserie d’ogni sorta non l’avevano uccisa, essa fioriva. Tutti
quei germi di bellezza, di grazia, di poesia, che avea portati dal
suo cielo, poichè non erano avvizziti in quella notte, sbucciavano con
tutto il rigoglio d’un albero in fiore, in quell’aprile della sua vita.

Belle come Stefanella a quindici anni se ne potevano forse trovare, ma
nessuna figlia d’Eva, se la bellezza scultoria è regolarità di linee,
era mai stata più seducente di quella montanina calabrese ornata di
soli cenci e di primavera.

Bambina, Parigi l’aveva vezzeggiata; vergine, tutta Parigi l’ammirava,
e pur troppo l’agognava.

Uno dei primi e più ardui problemi presentatisi all’amministrazione
fu quello di sapere che cosa avrebbe fatto di quei due fratelli
ingranditi.

Il comune trattamento di questi sciagurati, una volta che l’età gli
aveva resi incapaci all’arte primitiva in cui erano stati educati,
era, o l’abbandono assoluto in mezzo alla via, quando erano giudicati
più buoni a nulla, od una rivendita o sub-affitto a qualche altra
industria, sovente più infame, quando davano speranza di poterla
esercitare con frutto.

Però i due calabreselli cadevano, a parere dell’amministrazione,
in questa seconda privilegiata categoria, ed essi avevano in sè un
capitale che, usufruito poteva essere fonte ricchissima di guadagno. Ma
non era facile trovarne l’impiego conveniente. Carluccio era cresciuto
in robustezza quanto la sorella in grazia e leggiadria; il buon sangue
nativo e quella continua ginnastica di salti e di capriole avea dato
al suo corpo ancora in fiore tutto lo sviluppo della maturanza,
e più volte, acrobati e saltatori di Circhi, sorpresi dal nerbo e
dall’elasticità di quei suoi muscoli, avevano regalato il giovane
atleta d’un mondo di lieti presagi sui suoi trionfi avvenire.

La carriera di Carluccio era dunque fissata, e l’amministrazione
si diede da quel giorno a cercare a destra ed a sinistra in tutti
i dipartimenti della Francia un Ciniselli qualsiasi che assumesse
presso di sè il calabrese. Alla fine credette aver trovato, e un bel
mattino Carluccio fu chiamato a dar prova della sua destrezza davanti
ad un elefantesco incognito che era nè più nè meno che un saltimbanco
ambulante dei circhi di provincia. E perchè il ragazzo fu trovato pieno
di belle speranze, così il giorno stesso il contratto fu conchiuso e
Carluccio venduto per 500 franchi come clown in erba dell’Ippodromo
di Nantes. Notiamo, di passata, che Carluccio era stato comperato
dall’amministrazione per 300 franchi, e che egli ne aveva resi in
cinque anni circa 8 mila netti da ogni spesa.

Confessiamo che pochi commerci hanno di questi dividendi.

Sorse per altro una difficoltà, alla quale l’amministrazione non
avrebbe mai pensato e che per la prima volta incontrava in vita sua.
Carluccio al momento della partenza dichiarò che non si sarebbe mai
diviso da sua sorella.

La sorella invece non dichiarava nulla, ma colle sue lagrime silenziose
confermava i proponimenti del fratello.

La prima misura dell’amministrazione fu naturalmente minacciare e
picchiare, ma Carluccio era tale da farsi mettere a pezzi prima di
cedere. Il saltimbanco compratore cominciava ad impazientirsi e aveva
già protestato, che se entro tre giorni egli non aveva il suo _clown_
rompeva il contratto e se n’andava.

Il caso era grave, e il bisogno d’un provvedimento urgente. Ad esso
non bastava più nemmeno il Comitato esecutivo e fu deciso interrogare
l’alta saggezza del presidente in persona.

E il presidente, dopo aver raccolte le sue idee, col tuono freddo e
solenne d’un oracolo diede questo responso:

— Poichè i tormenti inflitti al fratello non riescono, non c’è che un
mezzo: torturare la sorella in faccia sua finchè ceda.

Il Comitato esecutivo partì sbalordito di tanta sapienza: l’ispirazione
parve degna del genio di Torquemada e d’Arbuez, e fu deliberato di
darvi esecuzione senza ritardo.

Bisognava trovare un modo di tortura che fosse a un tempo tormentoso
e ignominioso e dopo molte ricerche fu trovato. Stefanella doveva
essere frustata nuda. Essa doveva correre intorno al cortile, e tutto
il collegio, allievi ed aguzzini mano mano che passava doveva darle
la frustata sulle ignude carni! Guai quindi se ella si arrestava: la
grandine diveniva ancora più fitta. Carluccio poi legato in un angolo
del cortile doveva contemplarla finchè la sua pietà ed il suo terrore
fossero sazi.

Appena la vergine comparve, mezza morta di spavento e di vergogna
sulla soglia del cortile, Carluccio chiuse gli occhi e non volle veder
di più. Quella profanazione dell’innocenza e del pudore gli aveva
già tenuto luogo di tutti i tormenti e con un urlo angosciato gridò:
«Basta». Gli fu chiesto allora se acconsentiva a partire e rispose:
«Acconsento».

Stefanella fu ricondotta, Carluccio liberato.... e la sera chiuso in
un furgone assieme alle scimmie, ai cani, ed agli altri attori della
compagnia, trottava già verso Nantes dove doveva esordire nella sua
nuova carriera.

Nel congedarsi furtivamente dalla sorella, non potendo darle nulla,
perchè nulla possedeva, le lasciò come un ricordo ed una promessa
queste parole: «Ora non mi resta che tornare per vendicarti... e
tornerò».




XIII.


La sorte di Stefanella preoccupava ancora più. Ella era troppo
privilegiata di doni per essere sciupata nella volgare prostituzione
delle sue compagne. «Sarebbe come condannare un cavallo arabo a tirare
un _omnibus_» diceva uno dei nobili membri del Consiglio esecutivo
con una comparazione degna di lui! Stefanella poteva aspirare, sempre
secondo i concetti del Comitato esecutivo, alle più grandi fortune;
un principe russo o indiano, pareva ancora poco: forse era da tentare
addirittura le alcove della reggia! Ma anche qui bisognava aspettare
l’occasione, crearla anzi con destrezza, ma non precipitar nulla.

— E la prima cosa a farsi, diceva il presidente interpellato anche
su di questo, è di custodirla. Se la lasciamo vagare per Parigi
la perderemo. Oggi tutti la portano via cogli occhi, domani ce la
porteranno via davvero colle mani... Ma custodire, soggiungeva il
Solone di quell’orrida repubblica, non vuol dire nascondere; tutto al
contrario: bisogna ottenere i vantaggi della mostra, senza correre i
rischi della perdita; bisogna custodire come gli orafi i gioielli che
vogliono vendere: trovare una vetrina sicura e trasparente in cui tutti
la possano guardare e nessuno toccare.

In una metropoli come Parigi c’è tutto per tutti. Essa è, secondo
i casi, una cornucopia ed una panacea: ogni dolore vi trova il suo
Golgota e il suo Tabor; ogni virtù la sua apoteosi e la sua gogna; ogni
ferita il suo veleno ed il suo farmaco; ogni grandezza il suo inciampo,
ogni miseria il suo aiuto. Ivi il bene ed il male combattono in un
quotidiano duello senza mai atterrarsi. Il bene è Ercole, ma il male è
Idra; la legge è Argo, ma il delitto è Briareo.

Ora, non era possibile che, cercando bene, la vetrina suggerita dal
presidente, per custodire e mettere in mostra viventi gioielli, e
in modo che la società potesse almeno _tollerarla_ e la legge non
avesse nulla a ridire, non s’avesse a trovare. Le forme del lenocinio
sono infinite e sfuggono ad ogni classificazione filosofica e ad
ogni sanzione penale. Esso può annidarsi tanto dietro le grate
del confessionale che nelle anticamere de’ cortigiani e parlare
indifferentemente il linguaggio di Loiola e di Falstaff; avere per
insegna i piattellini di Figaro e la maschera di Tersicore, congiurare
nel mazzo della fioraia sotto forma di biglietto; nel triclinio di
Anfitrione coi vapori del Falerno, o nelle letture di Torquato fra le
ottave del poema.

Ed esso a Parigi aveva anche la forma di collegio. In uno degli
angoli più remoti dei dintorni del Panteon, in una di quelle viuzze
più silenziose e tranquille che parevano fatte apposta per meditare
e studiare, epperò sparse a ogni passo d’insegne di educandati e di
pensioni, si leggeva al sommo d’un portoncino questa scritta:

                           =Madame Mouchard=

                     PENSION ET EDUCATION DE JEUNES
                        DEMOISELLES ÉTRANGÈRES.

Poi sotto, in un carattere più piccolo ma evidentissimo, un _autorisée
par le gouvernement_, innanzi al quale gli scrupoli d’ogni più
diffidente padre di famiglia sarebbero svaniti.

Per la legge infatti lo stabilimento di madama Mouchard aveva tutti
i requisiti richiesti. La direttrice era vedova d’un luogotenente
del _Treno_, ucciso alle barricate di giugno per l’ordine e la legge,
quindi particolarmente raccomandata al governo; le maestre d’inglese,
di tedesco, di pianoforte, di disegno avevano tutte le loro patenti
in regola; il locale era decente; il cibo sano, la regola austera
e ineccepibile; tutte le tasse erano pagate, tutti i regolamenti
osservati, dunque il governo non aveva a cercare di più.

E guai per madama Mouchard se essa non avesse osservato a puntino le
prescrizioni della legge: essa avrebbe subito risvegliato l’attenzione
dell’autorità la quale non avrebbe tardalo a scoprire il vero. In poco
tempo si sarebbe accorta che le sedicenti maestre portavano patenti
con altri nomi, che c’era il programma e l’orario delle lezioni, ma le
lezioni non si davano mai, che nessuna delle educande veniva di giorno
al collegio, nessuna restava per l’intero anno scolastico, e che dopo
un mese o due, una carrozza chiusa e misteriosa veniva di notte alla
porta, si apriva per ricevere una delle pensionanti e partiva al trotto
serrato per una destinazione ignota. Insomma si sarebbe accorta che il
collegio era un’agenzia succursale d’un traffico infame.

Stefanella fu affidata a madama Mouchard con questi patti. Trecento
franchi per il _corredo_, giacchè Stefanella era in brandelli e
bisognava rivestirla; duecento franchi al mese per la pensione di tre
mesi e il 20 per cento sul contratto. Madama Mouchard non aveva mai
ottenute più laute condizioni, e raccoglieva tutte le sue forze per
riuscire. Nei sogni delle sue notti essa non faceva che vedere bascià
innamorati, banchieri olandesi ingrulliti, e yankees vergini impazziti
e monti di napoleoni d’oro a’ piedi di Stefanella. Allora essa aveva
tre altre _educande_, ma decise lasciarne l’incarico ad un suo aiutante
per consacrarsi interamente all’ultima venuta.

Il programma era, mettere in mostra la giovanetta dappertutto, ma
non scoprire mai, fino allo stringere finale dei conti, chi era e
dove stava di casa. Questo programma obbligava la Mouchard a condurre
Stefanella tutti i giorni alla passeggiata e tutte le sere allo
spettacolo, e poichè era quaresima, fra gli spettacoli conveniva
mettere le prediche del padre Ventura e le messe cantate a san Sulpicio
o alla Maddalena cogli _Oratorj_ di Haydn. Ora, se questo poteva essere
divertente per la giovinetta, era grave alla borsa ed anche alla età
della direttrice. È vero che essa si rifaceva sulla colazione e sul
pranzo, e che la giovinetta scontava coi patimenti in casa il lusso del
di fuori; ma la differenza tra la vita del sotterraneo e quella della
pensione era ancora tanto grande, quanto potrebbe essere, immaginate,
quella d’un uscito dall’inferno per entrare nel limbo. E quel luogo
muto e misterioso era per lei un limbo davvero: essa non capiva e
non sentiva nulla. Le avevano detto che la mettevano là dentro per
insegnarle a leggere e farne poi un’attrice.... od una cantante....
ed essa tutti i giorni da un mese chiedeva invariabilmente a madama
Mouchard:

— E quando comincio la mia lezione?

— Fra poco, rispondeva l’Argo dell’antro, e la lezione non cominciava
mai.

Ma al trentesimo giorno preciso accadde per Stefanella uno
straordinario avvenimento che le tolse non solo la voglia di uscire
a spasso ed a teatro, ma anche quella di studiare. Essa non avrebbe
fatto più nulla, fuorchè andare e venire dalla finestra e guardare di
fuga e di soppiatto attraverso le gelosie.... Fin dai primi giorni
della sua nuova comparsa in pubblico al fianco di madama Mouchard
la giovinetta aveva avuto occasione di notare più volte, e da ultimo
in tutti i luoghi, dove ella si trovasse un giovinotto ben vestito e
di bell’aspetto, che, illusione o realtà, pareva la guardasse molto
fissamente e persino talvolta la salutasse.

Ma dove non mancava mai era al teatro ed alla chiesa. Ella cambiava
luogo ed ora, ma il giovane c’era sempre; se in teatro, appiedi
della sua loggia, se al tempio dietro al suo banco, ritto, immobile
a contemplarla. Però Stefanella, nutrita nella superstizione del
suo paese, ebbe persino la tentazione di credere ad una stregoneria;
solamente provava, cosa insolita, che quello stregone non le faceva
paura.

La vicenda degli incontri durò così senza varietà e senza risultati
per circa un mese, quando alla domenica delle Palme fece un gran passo
decisivo. La signora Mouchard aveva condotto la Stefanella alla messa
solenne nella chiesa di san Filippo nella quale per la straordinaria
festività era certa che tutto il mondo elegante si sarebbe dato
convegno. E non si sbagliò. San Filippo è poco lontano dai campi Elisi
e dalla strada del bosco di Boulogne, e tutte le bellezze e tutti i
peccati aristocratici di Parigi erano venuti a portare una carta di
visita a Domineddio, intanto che veniva l’ora della passeggiata.

Quando Stefanella entrò nella semplice ma elegante sua veste azzurra,
tutto quel pubblico che era là per passare ed essere passato in rivista
fissò gli occhi sulla bruna calabrese incoronata di treccie d’oro e
non l’abbandonò più. Stefanella sentì tutte le fiamme di quegli sguardi
sul suo volto, ma avvezza ormai ad essere guardata e non guardare, non
arrossì; sol quando incontrò due occhi a lei ben noti, allora diventò
di bragia.

Andò ad inginocchiarsi modesta e pudica come la Margherita del Faust
sulla sua sedia e per molto tempo non levò più gli occhi. Madama
Mouchard, Mefistofele in gonnella, le sussurrava:

— Ma guardate là quel bruno, alto.... è il conte _tale_.... e quel
piccino gentile è il marchese _tal’altro_.... e quella rossa in abito
viola.... è la figlia d’una lavandaia ed ora ha carrozza e livrea.

Stefanella rispondeva: «Ho veduto» e non si moveva....

Ma a un certo punto levò la testa come tôcca da una elettrica scintilla
e cercò essa pure nella folla. I due sguardi puri e raggianti del
giovane l’avevano raggiunta e fissati su di lei l’attraevano come il
pianeta la sua stella, dentro la sua orbita.

La chiesa era affollata, e finita la messa tutta la gente rigurgitando
nell’istesso tempo alle porte finì col far gorgo e col restare parecchi
minuti senza poter nè retrocedere, nè avanzare.

Ora il caso volle che nella calca Stefanella si trovasse così vicina
a quel giovane ignoto che i loro cuori si toccavano e i loro aliti si
confondevano. Lo sfollamento potè durare pochi minuti, ma furono per
quei due augelletti in cerca d’un nido una eternità. Essi si guardarono
l’un l’altra fin dentro il bianco degli occhi; poi il giovane, non
visto, anzi coperto dalla folla, prese la mano della fanciulla; la
fanciulla gliela lasciò; le loro dita s’intrecciarono, i loro cuori si
sposarono, le loro anime tacitamente pronunciarono un giuramento così
sincero, così profondo che Dio stesso avrebbe creduto eterno.




XIV.


Da quel momento il giovine, oltre che andare dovunque Stefanella
andasse, s’era messo a passare e ripassare tutti i giorni ed alla
stessa ora sotto alle finestre dell’istituto ed ecco perchè Stefanella
andava così spesso a spiare dalle gelosie. Quella ronda per il giovane,
quel riconoscimento per la fanciulla, tenevano luogo di dialogo. Quante
cose non si dicevano: egli coi suoi passi, ella colle sue occhiate!
Qualche volta il giovane, vedendosi solo nella contrada, si indugiava
un attimo di più davanti alla finestra e la giovinetta apriva un
pochino di più la gelosia. Allora il discorso diveniva eloquente;
pareva che un inno cantasse per l’aria e che i loro orecchi udissero
tutte le parole senza che le loro labbra le pronunciassero.

Ma chi era, d’onde veniva, come si chiamava quel giovine? Stefanella
non lo sapeva, ma, strano a dirsi, non lo cercava. Per lei si
chiamava.... l’Ideale.

E Stefanella chi era per lui?... Egli lo ignorava; desiderava saperlo,
giacchè la natura vuole che il maschio desideri conoscere più della
femmina, ma non aveva fretta.... Intanto, avendo pur egli il bisogno di
dare un nome a quel sogno, lo chiedeva ai poemi, agli inni, ai fiori,
al cielo.... e non lo trovava.... Finì col chiamarla Psiche.... _Anima
mia_.

Questi convegni muti, quest’amore tra cielo e terra durava da circa
un mese quando madama Mouchard li sorprese. Non portava il suo nome
per nulla. Essa colse Stefanella proprio nel punto in cui apriva la
gelosia ed il giovane proprio nel momento in cui soffermava il passo.
Ella non fece che afferrare di dietro la giovinetta per le braccia e
sbatacchiarla contro le pareti.

Quanto al giovane lo fulminò dalla finestra con una occhiata e chiuse
le gelosie col fiero piglio di un veterano che serri le saracinesche
d’una fortezza nella quale sia deciso a vincere o morire.

Però ella non tralasciò precauzione di sorta: proibì alla giovinetta
addirittura tutte le stanze che davano sulla strada e le finestre
di tutta la casa; non uscì più che in legno chiuso e avvertì
l’amministrazione del pericolo e della necessità di tôr di mezzo quel
giovane.

L’amministrazione s’incaricò di questa parte, ma un venti giorni dopo
con sua grande sorpresa la Mouchard si sentì rispondere che «non si
poteva toccare quel signore».

La istitutrice ruminò tutta la notte quella risposta ed ebbe quasi
la tentazione di credere che quell’incognito fosse qualche principe
straniero travestito.... Non si può toccare quel giovane, e perchè?...
Ma cos’è?... Chi è?... andava ripetendosi la Mouchard.... e se il
lettore avrà pazienza come lei, verrà a saperlo.

La custode però decise di affrettare quanto più le fosse possibile,
quello che essa chiamava il _collocamento di Stefanella_. Perocchè,
ricordiamolo bene, il mezzo per riuscire in una società, tutta forma e
apparenza, è di tradurre in oneste parole ogni disonesta cosa.




XV.


Madama Mouchard aveva relazione con tutti i _clubs_, i circoli, i
saloni della società equivoca, di quel _demimonde_ che ormai è divenuto
forse due terzi del mondo parigino, ma fino allora non vi aveva mai
condotta Stefanella per l’unica ragione che non voleva fosse sussurrato
all’orecchio della giovine il pericoloso consiglio di «_fare da sè_».

Ma vedendo che l’aspettata avventura del principe indiano o del
bascià turco tardava a venire, e che il giovane _che non si poteva
toccare_ continuava a passeggiare, decise giuocare l’ultima posta,
e ricevuto l’invito al ballo della baronessa Flaviani, una Susanna
d’Ange qualunque di quella società, lo accettò senz’altro e vi condusse
Stefanella.

Il ballo era in costume e l’occasione non poteva essere più propizia
per mettere in mostra tutte le grazie native della giovinetta
nel suo ricco costume calabrese. La spesa, è vero, era grande, ma
l’amministrazione l’incoraggiò; d’altronde dovea essere l’ultima.

Il salone era pieno; tutto v’era falso, le tinte come le treccie, i
nomi come le gemme, i blasoni come i valletti; ma tutto luccicava.
Però si sa che in mezzo a quelle esposizioni di cristalli di rocca c’è
sempre frammisto un grano di diamante puro che è lo scopo e la morale
della rappresentazione. E in mezzo a quei conti senza contea, a quei
banchieri senza credito, a quelle dame senza nome, a quelle vedove
che non hanno mai avuto marito, e a quelle fanciulle che l’hanno già
avuto, c’era un personaggio vero, autentico, con un passaporto suo,
un titolo suo, danari suoi: v’era un Norvegiano legittimo figlio d’un
pescatore di balene e di merluzzi, borgomastro di Bergen, sei o sette
volte milionario e mandato a fare dal padre il così detto viaggio di
istruzione, il quale di solito col pretesto che non resta nulla da
apprendere più oltre, nè di bello, nè di brutto, comincia e finisce a
Parigi.

Il pescivendolo Norvegiano che doveva necessariamente chiamarsi Oscar
era dunque il diamante incastonato nel similoro; egli il così detto
merlo da spennacchiare, e ognuno era venuto coll’idea di strapparne
almeno una penna: il falso banchiere e il falso gentiluomo coll’idea
di vincerne i danari al giuoco; le false dame coll’idea di farne
un amante, un marito od un protettore. Però ognuno veniva a posare
davanti a lui come al re della festa; egli era il bersaglio di tutti i
discorsi, il centro di tutte le occhiate, la molla segreta di tutto il
meccanismo.

Il Norvegiano a mezzanotte era già cotto. Tutti quei complimenti
così fini, quelle gentilezze così squisite, quei motti così arguti,
quelle facezie così amene, quegli epigrammi così salati, tutte insomma
le batterie dell’inesauribile spirito francese scaricate per lui,
l’avevano ubbriacato.

Egli non sapeva più cosa rispondere a quei discendenti de’ Duguesclin
e dei Montmorency, che parlavano di Crecy e di Fontenoy dove non erano
mai stati; a quelle dame che parlavano dei loro castelli aviti, che non
erano che castelli in Ispagna, e a quelle fanciulle che sciorinavano
la lunga schiera dei _loro partiti_, che non s’erano mai presentati;
e in faccia a tutta quella fantasmagoria scintillante di ciarle, di
dorature, di grazie e di nobiltà, falsa o vera che fosse, si sentiva
abbagliato, stordito, vinto.

Era a questo punto quando al fianco di madama Mouchard, vestita di
un velluto nero, un po’ spelato di giorno, ma lucentissimo di sera,
accollato fino al mento, come voleva la sua parte di «educatrice
delle donzelle uscite dalle più illustri famiglie d’Europa», comparve
Stefanella nei suoi graziosi colori calabresi.

Quantunque quella non fosse che la prima festa a cui assisteva, vi era
andata triste e svogliata per una ragione facile a intendersi: dove
_egli_ non era, era il deserto, e quella folla non faceva che popolare
di fantasimi una solitudine.

Perciò ella avanzava come avvolta da una molle atmosfera di melanconia
che la rendeva ancora più seducente. La legge dei contrasti è possente
quando è armonica. Essa abbraccia ed esprime tutta l’arte; ora, nessuno
di quanti erano là convenuti, dotti certo d’ogni umana attrattiva,
aveva mai veduto contrasto più meravigliosamente artistico di quello
che Stefanella rappresentava in quel momento da sè.

Il bruno pallido delle sue gote che la bianca luce dei doppieri
rendeva ancora più tenue e gentile, era corretto e ritemprato,
staremmo per dire, dalla rosea ombreggiatura di due labbra coralline
che lasciavano intravvedere traverso i sorrisi e le parole una bianca
schiera di piccolissimi denti; mentre la molle delicatezza delle linee
e dell’espressione s’intonava e s’invigoriva nell’arco squisitamente
disegnato di due ciglia lucide e nere come la piuma del corvo, sotto
il quale due grandi occhioni, neri come le ciglia, or si alzavano, ora
smorivano come la fiamma di due fari sopra un mare tranquillo.

Per compimento di tutta questa varietà di tinte, di idee, di toni, un
covone di capelli dorati, ma di quella doratura cupa, a fuoco, che ne
è, quasi direi, l’incarnato, e par scelto apposta per insegnare alla
pittura l’intonazione della grazia e della vigoria armonizzata in un
solo colore.

Le vesti erano una tavolozza di Paolo Veronese. Nessun pittore,
senza lunghe ricerche, avrebbe potuto trovare un impasto di tinte
più felice di quello che nella semplice e incolta fantasia trovò la
donna calabrese quando ideò il pittoresco costume che doveva portare
all’altare il dì delle sue nozze. La camicia bianca orlata di pizzi e
di trine esce dal busto e avvolge in un fitto velo le grazie del seno e
giù per le spalle scende fino alla metà delle braccia, che si muovono
libere e ignude senza parere impudiche. Il busto che nel dizionario
natio le calabresi chiamano la _petticchia_, è appena un cinto e
stringe poca parte, ma è tutto azzurro e forma melodiosa transizione
tra il candore della camicia e il rosso arancio della gonna. Ma la
gonna poco oltre il ginocchio s’arresta e si ripiega per lasciare di
nuovo apparire il lembo di un’altra gonnella azzurra, una calza candida
ricamata di fiori e intrecciata dai nastri neri del sandalo. Vedete una
calabrese bella giovane, pulita, vestita di nuovo in questi panni e non
avrete ancora veduta Stefanella; essa aveva tutto quel che la natura
poteva dare; e di più tutto quello che l’arte aveva aggiunto. La sua
camicia era di battista fina come il velo di seta, la sua veste paesana
era stata tagliata a Parigi e i suoi sandali non avevano calpestato che
fiori e tappeti. Però a tutta questa beltà aveva ancora una rivale: la
melanconia. Esse si contendevano il campo, e lo spettatore non sapeva
a chi gettare il suo guanto. I suoi occhi incantavano, ma la sua voce
commoveva; le rose delle sue labbra attraevano i baci, ma ogni sorriso
che ne usciva era un raggio d’anima: i colori delle sue vesti erano
un mazzo di fiori, ma il pallore di quel suo volto era la nube che
contrasta col sole.

— Chi era? d’onde veniva?... Nessuno di quei presenti l’aveva veduta
tranne una sola.... la padrona di casa.

— È la _petite italienne?_ chiese questa a madama Mouchard.

— Zitta.... secondatemi.... ci sarà una provvigione.... rispose la
Mouchard.

— Accettato — replicò la baronessa di princisbecco.

Allora le due donne insieme congiunte risposero in coro alle domande:

— Si chiama Cherubina; è la figlia d’un barone calabrese, famoso
carbonaro, morto nelle carceri del re Bomba; suo padre non le lasciò
nulla: ma da sua madre ereditò un piccolo patrimonio sufficiente appena
per compiere la sua educazione e vivere decentemente. Essa per altro
ha grandi parentele, a Napoli, in Ispagna, all’Avana, nella milizia,
nel foro, nella diplomazia. L’ambasciatore al Perù don Jose y Pendaloza
è suo zio.... essa è affidata alla direzione di madama Mouchard fin
che abbia compiuta la sua educazione. Per altro i parenti di Napoli
in segno della grande fiducia riposta nella sua istitutrice le hanno
confidato facoltà illimitate che possono arrivare in certi casi fino al
matrimonio.

Chi credette, chi dubitò, chi scrollò le spalle: solo il Norvegiano
accordò tutta la sua fede e non ristette un istante dal contemplare
Stefanella. Vedendo aperta la breccia, la baronessa Flaviani presentò
il nordico Nababbo alla signora Mouchard ed alla giovinetta, e così
s’intavolò il discorso. Il Norvegiano cercò metter fuori tutta la
suppellettile del suo spirito polare e tutti i milioni delle paterne
piscine, ma quanto a Stefanella ascoltò e rispose appena; quanto alla
Mouchard ella lanciò l’âmo addirittura con queste parole:

— Il signore è nubile?...

— Nubile.

— Bella condizione! esclamò la Mouchard; bella.... a Parigi sopratutto,
e per un giovane ricco come lei.

— Perchè mo?... fece il Norvegiano che non capiva troppo!

— Perchè un nubile vi può trovare tutti i piaceri e far tutte le follie
che gli passino per il capo senza doverne rispondere ad alcuno.

— Vero.... vero... replicò il Norvegiano che non capiva niente.

— A trent’anni, continuò l’istitutrice, con dei milioni in tasca e
colle fedi di stato libero, si può sposare oggi una principessa di casa
regnante, se si vuole, o possedere.... anche una madre badessa, se ne
viene il capriccio....

— Sposare?... oh sposare no, rispose secco il Norvegiano.

— No?... fece la Mouchard così sorpresa, che diede un colpo indietro
contro la spalliera della seggiola.... Ma poi ripigliandosi.... — È
forse un voto che ha fatto, signor Oscar?

— Presso a poco! Partendo da Bergen, mio padre ha voluto che gli
promettessi che dovunque fossi arrivato nei miei viaggi, per quante
seduzioni avessi incontrate, non avrei mai preso moglie, e mi sarei
serbato libero per sposare una donna del mio paese, Norvegiana puro
sangue.... ed una Norvegiana della stessa famiglia nella quale si sono
sempre maritati gli Oscar... da mio bisnonno fino a mio padre.

— Ed ella non oserebbe mai rompere il divieto del padre.... chiese con
un sorriso surrettizio la Mouchard....

— Oh mai!... sarei certo d’essere diseredato, rispose con un sospiro il
signor Oscar....

— Pure, questo sospiro mi dice che ella sopporta mal volentieri questo
patto!... insistè la Mouchard.

Il Norvegiano esitò un poco, guardò di traverso Stefanella, poi
gittandosi, come suol dirsi, a mare, esclamò:

— Questo sospiro le dice quello che penso di quella creatura lì.

— Signore! fece la Mouchard, assumendo il cipiglio d’una Cornelia,
— spero bene che ella non avrà guardato la fanciulla che io ho in
custodia, se non col rispetto dovuto al suo nome ed al suo grado.

— Tolga Iddio che ne dubiti.... prova ne sia che la credo l’unica
creatura per la quale si potrebbe rinunciare perfino a una eredità di
otto milioni...

— Allora non varrebbe più la pena di andare in Norvegia, pensarono
insieme quelle anime sorelle della finta istitutrice e della finta
baronessa....

Il ballo era per finire; Stefanella e la signora Mouchard partirono
per le prime, e tutti gli altri si apparecchiavano a seguitarle. Allora
il Norvegiano, essendo andato dalla padrona di casa per congedarsi, la
signora si abbassò al suo orecchio e gli disse:

— Quella fanciulla non è nè Cherubina nè baronessa, nè.... sposabile.

— Impossibile! gridò il giovinetto, dando uno scatto con tutta la
persona.

— Glielo confermo.... venga domani da me alle tre: ci sarà anche la
signora Mouchard e ne riparleremo.




XVI.


Le trattative col Norvegiano duravano da alcuni giorni, ma egli era
più duro di quello che le due diplomatiche avevano pensato. La sua
morale in fatto di piaceri era larghissima, ma non arrivava fino alla
brutalità. Egli era pronto a comperare, ma non a violentare. Avrebbe
versato il prodotto della pesca d’un anno per un bacio di Stefanella,
ma non le avrebbe tôrto un capello.

Insomma egli voleva conquistare anche a prezzo d’oro se questo era
il mezzo, ma una volta vincitore voleva tutte le apparenze della resa
volontaria e tutte le illusioni dell’amore spontaneo.

La cosa non era facile. Madama Mouchard conosceva Stefanella, ed
era certa che la giovanetta sarebbe stata capace delle più disperate
resistenze.

— Non hanno saputo farla.... diceva ella alla sua nuova socia, e si
travagliava con essa in un pelago di progetti uno più strano e nefando
dell’altro.

Dopo molti studi e conferenze convennero alla fine in questo piano.

Bisognava anzitutto parlar fuori dei denti alla calabrese; mostrarle
tutti gli aspetti della fortuna che le andava incontro, ma nell’istesso
tempo spaventarla, minacciarla e metterle a nudo sotto gli occhi tutti
gli orrori della vita che l’aspettava se avesse ricusato. Allora,
quando si fosse creduta la giovinetta sufficientemente preparata, si
sarebbero cercati tutti i mezzi per introdurla nella compagnia del
Norvegiano e addomesticarla con lui.

Per la prima parte del piano la sola parola di madama Mouchard parve
poca. Essa aveva già aperto il fuoco descrivendo tutti i meriti e i
milioni del baleniere, ricordando alla fanciulla che essa era senza
nome, senza parenti, senza protezione, schiava d’una potente società,
la quale poteva far di lei quello che il libito le avesse dettato;
che doveva pensare al suo avvenire, ed afferrare il ciuffo della
fortuna poichè le passava così dappresso; che se ne sarebbe pentita poi
ricusando; che il Norvegiano l’avrebbe anche potuta sposare.... ma che
il matrimonio non era in fin dei conti _necessario_... quand’egli la
avesse posta in una posizione _indipendente_...; che a quel modo viveva
mezza Parigi, e probabilmente mezzo il mondo...; che era bella come una
fata.... che tutte le sovrane d’Europa l’avrebbero invidiata, ma....
— e qui aveva anche il coraggio di moralizzare — «ma la bellezza,
figliuola, è un fiore caduco....» e lo sapeva lei, la Mouchard, che
aveva sprecato, giovinetta, un tesoro di grazie ed ora se ne mordeva
indarno le labbra. Però ella sarebbe stata ancor felice nei suoi
vecchi anni se avesse potuto fare il bene d’una giovanetta.... «cara,
simpatica come Stefanella.»

A queste parole Stefanella rispondeva facessero di lei quel che
volevano e che era pronta a tutto, perchè la vergine era così innocente
e ignorante del male, che non comprendeva nemmeno il valore del patto
infame che le si proponeva.... Alla sua risposta invece la Mouchard si
sarebbe messa a ballare di gioia; ma poi, quando metteva la Stefanella
a contatto col Norvegiano o in casa della Flaviani, o nelle partite
di piacere che le due donne combinavano, e la vedeva così fredda,
così riservata, così pudica, sicchè il Norvegiano stesso cominciava
a infastidirsene, allora madama Mouchard disperava affatto di poter
riuscire nei suoi sforzi ed aveva perfino la tentazione di rinunziare
all’impresa.

A questo punto si pensò a far catechizzare Stefanella da un altro
oratore e fu chiamato il direttore dello stabilimento Maubert. Quando
la giovinetta si rivide in faccia quell’uomo terribile, il manigoldo
dei suoi giovani anni, si diede a tremare e a raggricchiarsi come
una capinera all’apparire del falco e una voce subitanea dentro al
core la avvertì senza dirle nè il come, nè il perchè che era perduta.
L’aguzzino non usò reticenze, non si perdè in fiori rettorici, non ebbe
compassione nè dell’età, nè del pudore, nè dell’onore; andò diritto
allo scopo e chiamò tutte le cose col loro nome, tanto che ad un certo
punto anche madama Mouchard, persino madama Mouchard, abbassò gli
occhi. Stefanella invece gli spalancava in faccia all’oratore limpidi
e sereni perchè non capiva ancora. Ma dalla conclusione capì invece che
le si chiedeva qualcosa di terribile, qualcosa che non aveva mai fatto
e che dovea costarle la vita.

— Se non farai quello che madama Mouchard ti dice; se non farai quello
che vuole il signore Norvegiano hai visto il sotterraneo dove sei
stata fino a ieri? Ebbene, ce ne sarà uno ancora più nero. Ti ricordi
le frustate del mio scudiscio? Ce ne saranno di ancora più saporite.
Ti rammenti quando comparisti ignuda in mezzo a tutto il collegio?...
ci sarà una vergogna ancora più grande e il tuo pubblico potrà essere
tutta Parigi.... A rivederci, carina.

E con questa minaccia partì....




XVII.


Due giorni dopo questo discorso madama Mouchard, Stefanella, la falsa
baronessa, un falso conte, una falsa Creola e il vero Norvegiano si
trovarono insieme in uno dei gabinetti riservati d’una trattoria dei
dintorni di Parigi attorno a una lauta tavola della quale il Norvegiano
stesso era l’Anfitrione.

Era un banchetto dato in onore di Stefanella ed aveva voluto che fosse
splendido perchè, diceva quello Scandinavo Don Giovanni, doveva essere
l’ultimo. Ormai egli credeva d’aver sospirato abbastanza e non voleva
perdere altro tempo attorno ad una rocca che non dava alcun segno di
arrendersi.

Ma le due negoziatrici avevano tutto disposto perchè la vittoria
non sfuggisse. Prima loro cura fu di porre il Norvegiano fra due
fuochi, tra Stefanella che gli versava coll’innocente sua grazia il
magico filtro dell’amore, e la baronessa che gli mesceva con pensata
prodigalità tutte le fiamme artificiali dei vini e dei liquori più
squisiti. Il resto della compagnia intanto che faceva onore al pranzo
col classico appetito di tali conviva, aggiungeva i sovraeccitanti
delle risate, delle scede e degli epigrammi e finiva coll’ubbriaccare
tre volte l’Anfitrione.

Tuttavia il signor Oscar era davvero un bevitore settentrionale e non
si lasciava domare così presto. Anche quando le sue gambe vacillavano,
la sua testa ragionava e il bastimento, sebbene male zavorrato, non
aveva perduto la bussola. Quindi egli cercò, si sforzò, quanto potè,
d’essere galante, seducente, spiritoso: lanciò anche dei motti a doppio
senso, urtò persino sotto la tavola il piedino della sua vicina, ma
non osò mai alzare una mano, nè sorpassare nemmeno colla parola, quella
barriera, molto comoda del resto, che il rispetto umano pareva avesse
eretta anche in quel luogo, ma che il pudore convenzionale di quella
brigata gli avrebbe lasciato senza alcuna protesta atterrare. Brillo
com’era, padrone di tutto, despota dell’ora e del luogo, pure qualche
cosa lo conteneva ancora: lo conteneva quella forza, che per tutt’altri
sarebbe stato un incoraggiamento, l’ignoranza di Stefanella.

Questa coll’eco sempre viva in cuore delle ultime parole dell’aguzzino
si forzava, fin dove la sua casta intelligenza poteva arrivare, di
adempierne i comandi, quindi ad ogni parola anche incomprensibile del
Norvegiano rispondeva con un sorriso e quando si sentiva toccare il
piede, in luogo di offendersene, lo ritirava dicendo al suo vicino:

— Scusi, le ho fatto male?

Ma più in là di questo e di qualche ingenua risata non sapeva arrivare.
Però il banchetto era finito e il Norvegiano ancora allo stesso punto
di prima.

Il gabinetto dava sul giardino; il cielo era calmo e stellato e fu
proposto di fare un giro al fresco della notte. La proposta veniva
dalle donne che speravano trovarsi sole durante la passeggiata e
consultarsi sul da fare.

Uscirono tutti in giardino. Il Norvegiano a braccio di Stefanella
davanti; poi a una buona distanza da non poter dare incomodo, la
Baronessa e la Istitutrice, ultimi in serrafila il Conte e la Creola.

Il Norvegiano avea slanciato l’ultima sua dichiarazione e mostrava a
Stefanella il palazzo incantato di delizie che egli le avrebbe aperto,
se per dir la sua frase, «voleva essere buona con lui».

— E non lo sono buona, sig. Oscar? — rispondeva la giovinetta con
un accento d’innocenza che sconcertava sempre più il mal destro
corteggiatore.

Si sarebbe detto che qualcuno nell’ombra intendeva quel linguaggio più
di lui, giacchè quando ella ebbe pronunciate le ultime parole, la siepe
di dalie che fiancheggiava il viale s’era mossa come se una persona
viva l’avesse a un tratto animata.

Intanto la coppia che seguiva era sprofondata in un discorso del quale,
giunta che fu al punto della siepe che prima s’era mossa, uno che
avesse teso l’orecchio avrebbe potuto udir chiaramente queste parole:

— Non c’è altro rimedio che farla dormire con una buona dose
d’_hatschick_ — diceva la finta baronessa.

— E voi credete alla virtù dell’_hatschick?_

— Lo credo perchè l’ho provato. Anch’io ho cominciato i miei amori a
quel modo.

All’ultima frase la siepe stormì come se un soffio di vento le
fosse passato in mezzo, e nell’istesso tempo una statua di _Diana
cacciatrice_ che sormontava la siepe, sembrò animarsi nelle tenebre e
trasformarsi nello spettro d’un uomo.

Di tutta la comitiva però i soli che avevano notato quel rapido mistero
erano stati il sig. Oscar e Stefanella. Ma Stefanella lasciò passare
un fremito più di gioia che di paura e non disse niente. Il Norvegiano
invece gridò:

— O che c’è un uomo in giardino?!

— Baje! ubbie! — gli fu risposto da tutte le parti; e siccome ognuno lo
credeva brillo, non si badò altro, e finito il giro, rientraron tutti
insieme nella trattoria.

Erano in casa da circa mezz’ora; il falso conte sparito ma «per
tornare», aveva detto; il Norvegiano combatteva invano un duello a
morte contro Bacco e Morfeo, invincibili avversari quando sono alleati,
e sonnecchiava, quasi vinto, sopra una poltrona; le due vecchie
aspettavano in silenzio sedute l’una accanto all’altra, e Stefanella
sola non poteva star ferma e andava e veniva dalle finestre cercando
giù nel giardino qualcuno o qualcosa senza sapere nemmeno essa chi e
perchè.

A un tratto la porta del salotto si spalanca e un uomo compare sulla
soglia. Le due femmine danno uno scatto, il Norvegiano spalanca
anch’egli gli occhi che già avevano perduta l’ultima prova, e
Stefanella sola guarda, sorride e irraggia.

L’uomo è un giovine forse non ancora ventenne. Ha il cappello in testa
ma si vede che è biondo; la mesta luce della lampada non permette di
cogliere subito il colore dei suoi occhi, ma il dolce sfavillio che
ne emana avverte che debbono essere azzurri: egli non ha per barba
che due sfumatissime fila d’oro sopra le labbra, ma un sorriso fiero e
sdegnoso imprime a quel volto quasi infantile un carattere d’energia e
virilità che il primo aspetto smentirebbe. È tutto vestito di nero, e
giudicando a prima vista, poveramente; ma un brillante che gli sfavilla
in dito desta il dubbio che quella povertà esteriore sia più un pensato
artificio od una negligenza volontaria anzichè una vera impotenza.

Egli aspettò a parlare forse un minuto, poi si rivolse a Stefanella e
cominciò:

— Vi tradiscono.... non avete ricevuto la mia lettera.... non l’avete
letta? No?.... Oh me disgraziato! Ma io non vi ho abbandonata
lo stesso.... e sono qui per salvarvi.... Stanotte vi avrebbero
perduta.... vi volevano avvelenare, ma di un veleno che fa peggio che
uccidere il corpo, che uccide l’anima e la seppellisce in una fossa
di disonore.... Voi non avete altro scampo che fuggire con me... Io vi
proteggerò.... venite Stefanella.

Ma intanto che egli allungava la mano per pigliare la fanciulla che
già volava a lui con tutta l’anima sua, le due donne balzarono dallo
scanno come due chiocciole inviperite, e il Norvegiano stesso, desto
finalmente da quella scossa, si rizzò di fronte al giovane urlandogli
un «Indietro» così stentoreo che tutto il giardino sottoposto ne
echeggiò.

— Non posso dare addietro — rispose con voce calma e sottile il
giovane. Si tratta di un dovere, e voi potreste farmi a pezzi, ma io
non potrei rinunciarvi.

— Questa fanciulla è nostra, strillò madama Mouchard. — Che c’entrate
voi?

— È nostra, replicò la baronessa.

— Questa fanciulla non è vostra nè sua, rispose freddamente il giovane,
indicando il Norvegiano. Se fosse vostra non la vendereste con un
delitto; se fosse sua non la vorrebbe comperare a questo prezzo. Io
non so bene chi sia costei, ma essa non è qui di nessuno fuorchè mia,
perchè io solo qui l’amo. Se non l’amassi, essa mi apparterrebbe come
ogni vittima appartiene al suo salvatore. Ed ora non mi resta altro a
chiedervi, o signore, se non che vogliate agire da gentiluomo.

— Non ti capisco, rispose il Norvegiano, e spero che oramai sbarazzerai
la porta se non preferisci andartene per la finestra.

— Io non me n’andrò che con essa, ma mi spiego. Se voi volete questa
fanciulla per amore, essa vi ha già risposto; se la volete per forza,
ecco come l’avrete. Queste due donne in questa notte stessa, fra poco
forse, propineranno in un confetto, in un bicchier d’acqua, in qualche
cosa d’innocente insomma, uno di quei narcotici che inebbriano i sensi,
prostrano la volontà, e trasformano ogni cosa reale in un sogno morboso
e bugiardo. Il narcotico si chiama credo _hatschick_ ed è molto usato a
Parigi. Questa fanciulla, quando l’avrà ingollato, quando non sarà più
lei, potrà essere vostra: la volete così?

Il Norvegiano aveva ascoltato attentamente, e mano mano che capiva,
sbarrava gli occhi, gli rotava dalle donne al giovane, dal giovane
a Stefanella, non potendo nè credere, nè inorridire, nè adirarsi, nè
quasi più fiatare.

— È pazzo! gridò la Mouchard.

— È un mascalzone! replicò la baronessa.

— Zitto voi altre, urlò il Norvegiano. — Io voglio una prova, e guai a
lui se non me la darà, ma guai a voi se me l’avrà data.

— Una prova? — rispose colla solita calma, il giovane. Udite il rumore
di questa carrozza che arriva? Essa ve la porta.

Infatti la carrozza che aveva portato il conte a Parigi, rientrava in
quel momento nel cortile della locanda.

— Voi non avete, continuò il difensore di Stefanella, che a proibire a
queste due donne di uscire o di parlare coll’uomo che sta per entrare
qui dentro, e quando sia entrato chiedergli che vi consegni quello che
ha portato da Parigi.

— Va bene — rispose il Norvegiano dopo un momento di pausa. — Voi altre
sedete lì, e non movete un sopraciglio; e voi, signore, non temete:
anche in Norvegia vi sono dei gentiluomini.

In quel momento il falso conte s’affacciava alla porta della sala.

— Avanti, caro conte, lo apostrofò il Norvegiano appena lo vide.
Potete gettare quello che avete portato, con voi, giacchè non occorre
più. L’amore ha vinto, e l’_hatschick_ non occorre più, non è vero,
Stefanella?

— Rispondi che è vero, le sussurrò di sfuggita il giovane che le stava
dappresso.

Stefanella non aveva mai mentito, ma tant’era immedesimata in
quell’uomo che ormai egli le teneva luogo di coscienza, e le pareva
che persino la menzogna suggerita dalle di lui labbra si trasformasse
in verità. L’amore è una identificazione d’anime, e ciò che è bello,
buono, orrido, malvagio per una, lo è per l’altra.

Due amanti vivono come due pianeti in un elisse: i fuochi sono doppi,
ma la luce è una sola. Però Stefanella, quasi l’anima stessa dell’altro
parlasse per lei, rispose:

— È vero.

Il conte che non era d’altra parte informato di tutto l’intrigo,
credette a quest’affermazione dell’innocenza, e cavò di tasca una
scatoletta dorata che conteneva sotto forma di seducentissime giuggiole
il magico filtro.

Il Norvegiano gliela strappò di mano, l’aperse, guardò, s’accertò, e
voltandosi umiliato al giovine sconosciuto, disse:

— Avevate ragione, o signore. Vedete però che io non sono guasto del
tutto. Cercava i piaceri, e poichè v’erano coloro che li vendevano, io
non esitava a comperarli. Più in là la mia coscienza settentrionale
non può arrivare. In mezzo ai nostri ghiacci veggo che tutto non
putridisce. Vi saluto. Questa giovinetta è degna di voi, ma portatela
lontano da Parigi. Qui gli agguati sono troppi. Addio, Stefanella.
Io fui brutale con voi, ma se aveste potuto amarmi, son certo che
m’avreste fatto un angelo. Quanto a voi, femmine, non ho che un
avvertimento. Vado a denunziarvi alla polizia, e a meno che la polizia
non appartenga alla vostra associazione, spero che domani vi troverà un
posto in galera. E detto ciò, il Norvegiano uscì dalla sala, e si fece
ricondurre a gran trotto a Parigi, e nell’orizzonte di questa storia
non ricomparve mai più.

Era un uomo, come ce ne sono migliaia: molto largo di morale, molto
scettico di fede, ma incapace di una viltà. Giovinetto, sua madre gli
aveva deposto ogni giorno nel cuore una parola di virtù; e dovunque
andasse anche in mezzo ai delirii dell’orgia, egli ne sentì per tutta
la vita l’acre ricordanza. Egli portava seco un sale che gl’impediva di
corrompersi, sebbene non avesse in sè stesso tanta forza per redimersi.




XVIII.


I due giovani uscirono subito dopo dietro a lui e presero anch’essi,
ma a piedi, la strada di Parigi. Gli altri tre restarono nella sala
muti, immobili, impietriti quasi nel posto dove il Norvegiano li avea
lasciati; e ci volle molto tempo prima che potessero ricapitolare le
idee e proferire una parola. Noi li lascieremo e vedremo più tardi quel
che di nuovo avea partorito quella triade nefanda.

Appena nella strada, il giovine disse alla sua compagna:

— Vi chiamate dunque Stefanella, è vero?

— Sì, rispose la fanciulla. Ma voi come vi chiamate?

— Gabriele, rispose questi.

— Gabriele! Gabriele? fece la fanciulla, accentuando bene, tanto
l’interrogazione che l’esclamazione, quasi che quel nome contenesse il
responso del suo avvenire.

Non dimentichiamo che entrambi aveano scambiato da quattro mesi le
anime loro senza nemmeno conoscersi per nome. Essa per lui era Psiche,
un nome della sua fantasia; egli per lei era l’_ideale_, un raggio del
suo paradiso. Però la scoperta dei loro nomi diveniva qualcosa di più
della rivelazione di un ignoto. Era un avvenimento decisivo, un fatto
solenne, una crisi, un patto, uno sposalizio, un amplesso dato colla
stessa tenerezza con cui gli sposi romani proferivano l’_ego gaius et
ego gaia_ sulla soglia della dimora coniugale.

E fortificati da questa nuova promessa, infilarono lo stradone di
Parigi colle mani allacciate, gli occhi nelle stelle, il cuore sopito
in una placida estasi, e l’anima tutta piena di inni d’amore.

Giunti alla barriera, Gabriele s’arrestò ad un tratto, come côlto da un
pensiero inaspettato, e voltosi alla compagna, le disse:

— Sai, Stefanella, che io non saprei dove condurti stanotte?

— Ebbene, restiamo qui, rispose tranquillamente la fanciulla.

— No, cara; è meglio che arriviamo fin dentro Parigi.

— Andiamo, soggiunse colla stessa docilità Stefanella.

— Forse troveremo, riprese Gabriele, incamminandosi, uno dei miei
amici, uno studente di matematica, un bravo giovine che ha un
quartierino di due stanze, e ce ne faremo prestare una per stanotte, ma
bisogna che camminiamo, perchè se non lo troviamo al suo caffè, non ci
sarà più modo d’averlo.

— Corriamo, fece Stefanella; e i due amanti si cacciarono a passi
affrettati nel dedalo delle strade di Parigi, e giunsero in poco
meno d’un’ora nel centro del _Quartiere latino_ dove avevano contato
incontrare il loro ospite.

Ma tutta quella corsa fu vana. Lo studente di matematica non si era
fatto vedere nel caffè, e nessuno sapeva dove fosse.

I due fuggiaschi, la legge li avrebbe domani chiamati così, erano soli
nella notte in mezzo a Parigi, in mezzo al deserto.

— Che fare, Stefanella? diceva Gabriele, torcendosi le dita per dolore.

— Sediamoci là, rispose la fanciulla, indicando i gradini della chiesa
di S. Sulpizio. Ci ho passato tante notti su quei gradini col mio
Carluccio; vi passerò anche questa. Non vi sarà Carluccio, ma ci sarai
te.

E come ella suggerì, fecero; e i primi chiarori dell’alba cominciavano
a biancheggiare attraverso i tetti di Parigi, che quei due proscritti
dell’amore erano ancora là seduti sopra la pietra che avevano scelto
per letto della loro prima notte nuziale.

Come l’aveano passata quella notte? Cosa si erano detti in quelle
lunghe ore?

S’erano raccontati la loro storia, Stefanella la sua, che noi già
conosciamo; la sua anche Gabriele che abbiamo appena intraveduta, e
della quale è ben tempo che alziamo i veli.




XIX.


Gabriele credeva di esser figlio di un antico magistrato deposto
ingiustamente dalla Repubblica di febbraio per le sue idee
bonapartiste, e dopo il due dicembre salito in fortuna dietro il carro
dell’imperiale vincitore. Però egli confessava di non conoscere bene la
storia della sua famiglia essendo vissuto sino al 1851 in un collegio
di provincia da dove non uscì che a 17 anni per venire a compiere il
suo corso di matematiche alla facoltà di Parigi.

Non avea più madre: avea una matrigna che non l’amava, nè l’odiava
nemmeno del classico odio delle noverche, perchè di passioni, d’amore
come d’odio, era incapace. Venuta dal trivio e assunta per merito di
una facile bellezza ad un matrimonio fortunato non pensava che ai
piaceri e agli sfoggi della vita elegante, e non avea cuore nè per
il marito, nè per il figliastro, nè per la casa, nè per lo stesso
figliuolo suo che avea confidato ad una balia lontana, e rivedeva
appena una volta all’anno, tanto per fare una trottata in carrozza al
rifiorire della campagna.

Pertanto tutta la giovinezza di Gabriele trascorse in uno squallido
inverno, non riscaldata mai da alcun calore di affetti, condannata a
intravedere soltanto attraverso i libri e i sogni della fantasia senza
mai conoscerla quella vita feconda del cuore che nella natura inanimata
si chiama «sole» e nella animata «amore», senza della quale il fiore
come l’uomo non sbuccia, od è l’erba parassita di una sepoltura che
la produce e la riattende. A 19 anni però il bisogno di questa vita
sospettata, desiderata e non mai posseduta, era fatto prepotente in lui
come in un’aquila prigioniera l’istinto di volare verso il sole, e non
vi fu segreto di amori umani ch’egli non tentasse e non penetrasse per
un istante.

Interrogò con febbrile vicenda i libri, la scienza, l’arte, la
religione, Dio, tutto quanto di più bello e di più alto parla
allo spirito dell’uomo in cielo ed in terra, ma in tutti trovò una
seduzione, un conforto, una promessa, un’illusione; in nessuno quella
risurrezione dell’anima, quella seconda giovinezza per la quale Fausto,
meno grande, ma più vero, si struggeva. Ma nell’ora più disperata
della sua ricerca, e quando stava per abbandonarsi vinto al genio dello
scetticismo che l’aspettava nell’ombra, incontrò Stefanella.

L’incontrò a caso per la via sotto una semplice veste azzurrina,
accompagnata da una donna ignota e sinistra, come talvolta un fiore di
campo s’accompagna ad una pallida ginestra e non potè più staccarsi da
lei. Era la prima volta in vita sua che provava il bisogno di seguitare
una fanciulla, e ne ebbe dapprincipio vergogna; ma qualche cosa di
più forte lo traeva malgrado suo, e gli sussurrava nella coscienza che
l’amore ha una morale tutta sua, divina di certo, come le altre, ma che
si chiama la «fatalità».

Così scoprì dove stava di casa, così capì o credette capire che doveva
essere una pensionante della signora Mouchard, e non seppe per molto
tempo di più. Ignorava il nome e la condizione, la storia, per molto
tempo insino la voce, ma suppliva colla fantasia.

Per il nome abbiamo già veduto che gliel’avea trovato; per la
condizione dovea essere per forza l’orfana di un colonnello o di un
generale morto in battaglia; la storia poi non dovea essere gioconda,
ma ragione di più per tesservi sopra un poema. E quanto alla voce, dopo
averla chiamata Psiche, le era facile farla parlare sull’arpa degli
angeli. Ma poi a che pro tutti questi particolari: essa era il raggio
da lui cercato, nè del pianeta da cui veniva, nè della strada che avea
percorsa per arrivare a lui, gli doveva importare. L’anima sua, dopo la
tenebra di venti anni, ne era tutta irradiata e perpetuamente, ed egli
dovea adorare, senza cercare di più, il divino mistero al quale era per
la prima volta iniziato.

Solamente egli non poteva più allontanarsi da quella contrada, nè
staccarsi da quella casa. Quando qualche cosa di più forte della
volontà lo trascinava lontano, il suo spirito era là di stazione
davanti alle persiane verdi, e ci vedeva attraverso meglio ancora
dell’occhio. Inoltre egli avea un’altra cura.

Stefanella, abbiamo detto, era costretta dalla industria di Madama
Mouchard ad uscir molto; e Gabriele si sarebbe ammalato se avesse
perduta una sola delle passeggiate della sua incognita. Essere dev’era
lei: ecco il problema. Egli non andava quasi mai al teatro, e non
andava più in chiesa, molto più sfuggiva il turbinio polveroso de’
pubblici passeggi. Ma dacchè Cherubina frequentava quei luoghi, il
trovarvisi era per lui un dovere assai più grande, assai più imperioso
di quello di un soldato per il suo posto di combattimento.

O dalla finestra, o traverso le persiane, o dall’angolo oscuro d’una
navata, o dietro le colonne d’una platea co’ soli occhi i due ignoti si
dicevano quanto bastava per intendersi. Se il giovine era fedele nella
strada, l’altra era infallibile al balcone; se Gabriele non mancava mai
al suo posto dietro i pilastri della chiesa, Stefanella non tralasciava
mai di cercarvelo, e quando i loro sguardi s’erano incontrati tutto
era detto. Si sarebbe potuto scrivere un canzoniere su quelle occhiate,
ma non sarebbe bastato. Il vero, l’alto amore è silenzioso. Egli cova
le sue espressioni per anni ed anni, e quando finalmente è costretto
a parlare, si cruccia sentendo che una parte del suo ideale è svanito
traverso le imperfezioni del linguaggio umano.

Così dopo due mesi di questa vita avvenne l’incontro sulla porta della
chiesa di San Filippo che abbiamo narrato.

Fu l’ora solenne della loro vita, e sebbene anche in quel ritrovo non
avessero parlato che gli occhi, tuttavia non ci fu cosa pensata da
un’anima che l’altra anima non sentisse.

Poche sere dopo Stefanella fece la sua prima comparsa al ballo della
baronessa. Gabriele aveva veduto fermarsi una carrozza di piazza
davanti alla porta del collegio e di più udito il cocchiere dire al
portinaio:

— Avvertite la signora Mouchard che il _fiacre_ è alla porta.

Questo bastò per renderlo certo che anche Stefanella sarebbe partita
tra poco con quella carrozza e volle mettersi in grado di seguitarla.
Corse alla piazza vicina che era in capo alla contrada e vi fissò
un’altra carrozza, dicendo al cocchiere:

— Seguirai il legno che vedi fermo alla sinistra della via; doppia
mancia se non lo perderai.

A Parigi queste cose accadono ogni momento e non fanno meraviglia; però
il vetturale di Gabriele si contentò di rispondere un «sarà fatto» e
brandì la sua frusta pronto a lanciare al galoppo il suo ronzinante al
primo segnale.

E infatti di lì a poco il legno di madama Mouchard si mosse e Gabriele
dietro col suo. Ma ivi gli fu forza arrestarsi. Egli non era invitato
e non poteva salire.... Poteva per altro restare in istrada finchè
Stefanella ne fosse ridiscesa. Si trattava di aspettare al freddo
quattro o cinque ore, ma chi ha amato sa che queste prove d’eroismo
sono una delle voluttà dell’amore. Per fortuna c’era poco lontano un
botteghino, di quelli che i Parigini chiamano _cabarets_ ed almeno
la prima metà della notte avrebbe potuto passarla al coperto. Quanto
all’altra metà non aveva che a solcare la via da un capo all’altro, ma
non se ne spaventava. Ne avea fatte tante di quelle ronde, che ormai
gli pareva non ci fosse altro modo di far all’amore! Finalmente verso
le tre dopo mezzanotte la signora Mouchard e Stefanella discesero,
ma Gabriele non aveva più carrozza per seguirle e gli fu mestieri
lasciarle andar sole.

Tutta la notte restante e il mattino vegnente egli non fu in preda
che ad un tormento: sapere di chi era quella casa e vedere se gli era
possibile di esservi introdotto.

La prima notizia l’ebbe dal caffè stesso dove s’era ricoverato, il
secondo passo lo fece dal portinaio, il terzo dagli amici studenti,
il quarto dalle amiche degli amici e così via, d’orma in orma, arrivò
a scoprire la verità. Quando gli fu detto, e ne fu ben certo, che
quella baronessa era un’avventuriera, la quale non ricettava che gente
bastarda per tenebrose imprese, credette cascar morto. D’un tratto
aveva misurato tutto l’abisso in cui Stefanella aveva inoltrato il
piede e il suo atterrimento fu pari al suo amore. D’altronde, nello
scoprire chi era la baronessa, aveva scoperta la storia di madama
Mouchard e dapprincipio non gli pareva possibile lottare contro quella
lega infernale.

In mezzo però al suo spavento l’idea che, ad altri men puro e meno
amante di lui sarebbe venuta, che Stefanella potesse essere complice
volontaria di quella rea congrega, non gli passò per la mente
nemmeno in ombra; egli avrebbe giurato per l’innocenza di Stefanella,
quand’anche l’avesse veduta legata ad un palo d’infamia. Egli tremava
per una vittima, non per un tradimento. Pure, superata la prima scossa,
egli non ebbe altro pensiero che quello di avvertire Stefanella del
pericolo in cui si trovava esposta e di salvarla ad ogni costo. Ma
come fare?... Parlarle non poteva, penetrare a forza nella casa era un
partito disperato, buono tutt’al più quando ogni altra via di salvezza
fosse chiusa.... E allora?... Scriverle? ma anche questo era più facile
a pensarsi che ad eseguirsi, perocchè egli allora non sapeva nemmeno il
nome della fanciulla ed era inoltre più che certo che tutte le lettere,
a lei comunque dirette, sarebbero state intercettate.... Come fare
adunque?..

Nelle fugacissime apparizioni che Stefanella, sfuggendo al divieto
della sua carceriera, faceva alle persiane, Gabriele si provò a
gettarle sul balcone delle pallottoline di carta nelle quali poche e
minutissime linee la avvertivano del pericolo e la pregavano a mettersi
in salvo con lui. — E Stefanella pigliava bensì al volo le pallottoline
e si andava a nascondere nell’angolo più remoto della casa per
svolgerle; ma quando le avea svolte e vedeva quella misteriosa cosa che
le avevano detto chiamarsi «scrittura,» la poverina si lasciava andare
sopra una seggiola e non aveva altra risposta che un dirottissimo
pianto.

Gabriele ignorava ancora che Stefanella non sapesse leggere. Ma
così era. Per lei come per tutte le miserabili sue pari l’ignoranza
era condizione necessaria del servaggio a cui erano condannate,
e il carcere del corpo si chiudeva nella più fitta notte dello
spirito. Nessuno degli orrendi legislatori della società a cui
Stefanella apparteneva ignorava che al primo raggio che fosse piovuto
ad illuminare la via di abbiezione sulla quale la innocente era
incamminata, essa a costo di restarne sfracellata sarebbe retroceduta.

I bigliettini erano dunque inutili, il parlarsi impossibile: e
Stefanella era abbandonata, sola, inconsapevole, al suo destino, e
Gabriele era disperato. Tuttavia egli non poteva finchè aveva fiato
tralasciar di combattere, e poichè ogni altro mezzo di protezione gli
era intercetto, si propose di montare una guardia ancora più assidua
sotto le sue finestre e d’aspettare gli eventi, deciso al primo allarme
ad uscir dallo ignoto ed a dare per la salvezza del suo amore tutto il
suo sangue.

Così andò per circa una settimana, senza che Gabriele perdesse mai
d’occhio la sua protetta. La vigilia del giorno in cui Stefanella
doveva andare col Norvegiano a pranzare in campagna, Gabriele notò
un gran viavai nella casa di madama Mouchard. La baronessa, il falso
conte, lacchè e vetture non finivano mai di andare e venire da quella
porta e il giovane s’accorse che qualcosa di nuovo s’apprestava.
Laonde raddoppiò di vigilanza, e impostata la solita carrozza, si tenne
pronto. Infatti, verso le tre del giorno dopo, vide arrivar in faccia
alla casa le vetture degli amici che venivano a prendere Stefanella
per condurla alla festa, e appena il corteo si mosse, egli vi si cacciò
dietro e non lo perdette più. Arrivato alla locanda poco dopo di loro
si fece dare il gabinetto vicino a quello occupato dai commensali del
Norvegiano, e udì di là tutto il baccano del banchetto.

Ma non potè capir nulla di chiaro che riguardasse Stefanella, laonde
quando intese che la comitiva si apprestava a scendere in giardino, la
prevenne e corse a nascondersi nel cantuccio più selvoso colla speranza
che finalmente qualche parola, che sarebbe ad alcuno sfuggita, lo
mettesse sulla traccia di tutta la trama. E così fu; così egli udì al
coperto d’un cespo di dalie il dialogo della Mouchard colla baronessa,
e di là Stefanella lo riconobbe e lo vide fuggire attraverso l’ombra
degli alberi e sparire nella casa.

Il resto è noto e basterà soggiungere che egli entrando aveva messo a
parte dei suoi sospetti il padrone della locanda il quale, assicurato
che tutto sarebbe stato appuntino pagato, promise non solo chiudere un
occhio, ma dare, occorrendo, una mano alla giustizia.




XX.


A noi per altro resta a chiarire un punto oscuro del racconto di
Gabriele sul quale egli stesso, per mancanza di esatte cognizioni, fu
costretto a scivolare.

Gabriele aveva idee molto confuse sui primordi della vita e le origini
della fortuna di suo padre, perchè nè questi, nè altri di sua famiglia,
per le ragioni che or ora vedremo, o non gliene aveva mai parlato o
l’aveva fatto imbrogliatamente, onde il giovane anzichè capirne qualche
cosa, s’era sempre più smarrito nelle ipotesi e ridotto a riguardare la
storia di casa sua come una specie di problema mitologico perduto nelle
nebbie di un’epoca preistorica.

Inoltre Gabriele era stato avvezzo fin da fanciullo a temere suo
padre, e questo timore, rinterzato anche da quel tanto di rispetto e di
stima che senza essere straordinari, egli sentiva per esso, finiva col
togliergli la voglia e il bisogno di frugare più addentro nelle polveri
della cronaca domestica, pago che quel che appariva e si vedeva avesse
le sembianze di decoroso e d’onesto.

Ma se galantuomo era il frontespizio, galeotto era il libro e noi ne
leggeremo in fretta alcune pagine.

Il padre di Gabriele, il signor Mauvue non era altri che quel
commissario di polizia di Luigi Filippo destituito per legittimista
dalla rivoluzione del quarantotto, agente segreto del principe
pretendente nel 1851 ed a cui l’associazione dei _Petits italiens_
avea fatto l’onore di sceglierlo per suo presidente. Era uno dei
cittadini della Parigi sotterranea. Nel 1830 il popolo vincitore
lo avea sorpreso nell’atto che nascondeva sotto la sua giubba tutta
infiorata di coccarde a tricolori, uno scrigno rubato alla Tuileries,
e l’aveva cacciato in prigione. Ma si sa che nelle prigioni delle
rivoluzioni non ci si sta a lungo: o se ne esce per il patibolo,
o se ne esce per la libertà: non c’è via di mezzo. Il popolo nelle
sue passioni è cieco come il destino. Se monta in ira, uccide senza
contare; se l’infiamma la generosità, libera senza guardare. Nel
93 Mauvue sarebbe stato ghigliottinato: nel 1830 fu dopo 15 giorni
liberato. Quei 15 giorni anzi gli fruttarono. Il carcere è un istituto
di perfezionamento per chi ha preso la carriera del delitto. E si
fu nel carcere che, ascoltando senza parlare, i discorsi dei suoi
camerati, rifiuto delle barricate come lui, aveva potuto scoprire il
bandolo d’una associazione segreta di repubblicani puri dei quali si
fisse nella memoria i nomi, certo che ben presto qualche partito o
pro o contro avrebbe potuto cavarne. Infatti Filippo _Egalité_ era
appena proclamato re dei francesi che Mauvue era già dal prefetto di
polizia a consegnargli il suo primo rapporto sui repubblicani. Il
prefetto lo ringraziò e prese il delatore al suo servizio segreto,
promettendogli, dopo qualche anno di servizio, un posto nella polizia
pubblica. E difatti, la prova essendo stata soddisfacente, due anni
dopo Mauvue era sottocommissario e, in capo ad altri sei, commissario
di prima classe, addetto al gabinetto del signor Gisquet. Ma ambizioso,
intollerante della mediocrità, avido di subita fortuna, il posto da
lui «guadagnato con tanto sudore,» siccome diceva, gli pareva poco e
aspirava più in alto: voleva addirittura un ispettorato. Ma il signor
Gisquet da qualche tempo s’era messo in diffidenza; quell’uomo non
gli piaceva; il suo zelo era falso; la sua devozione studiata; egli
presentiva in lui un infedele, e invece di promuoverlo lo allontanò
persino dal suo gabinetto. Allora i pensieri di vendetta di Mauvue
non ebbero più tregua e confine, e si diede addirittura a vendere
i segreti del governo di Luigi Filippo ai partigiani di Enrico V.
Scoperta la congiura della duchessa di Berry, egli ebbe un giorno di
mortale angoscia, giacchè molte carte, che essa aveva, lo potevano
compromettere e gettare senz’altro in una galera per tutta la vita.
Fortuna volle che allora non si scoperse nulla; Maria di Berry, se non
per cautela almeno per fierezza, distruggeva tutti i rapporti dello
spione orleanista, perocchè essa non avrebbe mai voluto profanare,
colla sordida miscela delle sue lettere, un epistolario al quale le
penne più aristocratiche di Francia e di Europa avevano cooperato.

L’arresto della Berry però fece nella borsa e nell’ambizione del
commissario una larga ferita, e da allora, per una lunga serie di
anni, fu costretto a trascinarsi oscuro e miserabile, spiando indarno
l’occasione d’una rivincita, rodendosi e bestemmiando e non avendo
più altra speranza che in uno sconvolgimento d’acque che lo gettasse
a galla assieme al resto della feccia sociale giacente nel fondo.
Venne infatti il 1848, ma per lui, come per il governo che serviva,
la rivoluzione fu una sorpresa ed entrambi pagarono il fio della loro
cieca incredulità.

Quando Mauvue si destò, quand’ebbe fatta la sua scelta e compiuto il
suo piano, la rivoluzione aveva già trionfato senza che egli avesse
potuto distinguersi nè a favore dei vinti, nè dei vincitori, nè di sè
stesso. Era una occasione fallita.

— Avrei almeno potuto aiutar la fuga, diceva a sè stesso, o....
se non altro l’arresto di Luigi Filippo, o invadere alla testa del
popolo il Lussemburgo.... ma no!... nemmeno accompagnare quel buon
uomo di Lamartine al palazzo di città.... Tutto m’ha tradito.... a
rimettersi!... forse ci sarà una restaurazione da aiutare.

La repubblica non gliene lasciò il tempo. Negli archivi del signor
Gisquet fu trovato un fascio di rapporti contro il signor Mauvue;
l’affare della duchessa di Berry spuntò ancora assieme ad alcune nuove
rivelazioni aggravanti; la condotta del commissario fu sorvegliata e
parve sospetta e la repubblica pensò sbarazzarsene e lo depose.

Mauvue protestò, strepitò, fece del fracasso sui giornali, attaccò i
soddisfatti della repubblica aristocratica, coi principii dell’89 e coi
terrori del 93, inventò per conto suo tutte le più strane applicazioni
del diritto al lavoro e chiese perfino il patrocinio delle teorie di
Cabet e di Leroux, ma nessuno s’infiammò o s’impietosì per lui e gli
fu forza darsi per vinto. Si fu allora che egli discese gli ultimi
gradini sociali e che si trovò in contatto colle ultime prolificazioni
del canagliaio parigino, dai falsi monetari fino alla associazione dei
_Petits italiens._

Se però il febbraio 1848 lo côlse sprovvisto, non così le giornale
di giugno 1849. Egli odorò da lontano il vento della tempesta e si
tenne pronto a manovrare. Assumere per conto del partito bonapartista,
il quale sperava scivolare per il sangue di una sommossa sulla via
del potere, la parte d’agente provocatore; mescolarsi al fiotto dei
rivoltosi a discreta distanza, s’intende, dalle fucilate, e ingraziarsi
il socialismo, tener nota dei caporioni della sommossa per denunciarli
la mattina dopo alla polizia, e passare fra i salvatori dell’ordine e
della repubblica, ecco le tre parti in una che Mauvue aveva studiato
nelle tre giornate di giugno e nelle quali riuscì completamente. I
socialisti lo proclamarono benemerito, la polizia si risolse a scrivere
a Cavaignac per la sua riammissione e i bonapartisti lo arruolarono
addirittura nelle loro fila.

Il principe Napoleone aveva troppo bisogno d’una polizia segreta e
personale perchè uomini come Mauvue non lo potessero servire. Tuttavia,
o perchè troppo volgare, o perchè troppo nuovo, l’ex commissario non
potè avere altri rapporti colla politica dell’Eliseo fuorchè coi
suoi agenti secondari e tutta la sua ingerenza si fermò nei primi
anni alle anticamere. Fu in quest’epoca che, allettato dal sicuro e
lento guadagno e pensando farsene stromento di più vaste operazioni,
egli accettò la carica di presidente della associazione dei _Petits
italiens_. L’associazione contava nel 1850 nella sola Parigi circa
1000 fanciulli i quali in media davano un introito di 4000 franchi
al giorno cioè un milione, quattrocentottanta mila franchi all’anno,
dai quali, detratto il frutto del capitale impiegato, le spese di
manutenzione e d’amministrazione e la quota spettante agli altri membri
dell’associazione, restava al presidente un netto di centomila franchi
all’anno. Era un’egregia pecunia e Mauvue sapeva che vent’anni di
spionaggio non gli avrebbero dato altrettanto. A ciò si aggiunga il
salario che gli veniva pagato sul bilancio segreto dell’Eliseo e si
vedrà che Mauvue verso la fine del 1851 era un signore.




XXI.


L’ora del colpo di Stato si affrettava a gran passi, e se tutta Parigi
la sentiva nell’aria, Mauvue ne era certo.

Infatti pochi giorni prima il suo capo d’ufficio, chiamatolo in gran
segretezza, gli aveva tenuto questo discorso:

— Si vanno spargendo per Parigi voci assurde di violazioni della
Costituzione, di colpi di Stato ed altre ree congiure. Codeste sono
menzogne dei nemici della repubblica e del principe presidente. Ella
da oggi in poi non ha altro incarico che smentire in pubblico ed in
privato siffatte voci calunniose. Entri nei luoghi più frequentati,
si mescoli a tutti i crocchi, e quando ode parlare di colpi di
Stato, sbugiardi e ricordi la lealtà del presidente, la forza
della repubblica, l’onore dell’esercito, l’immancabile vendetta del
popolo.... Dica tutto quello che sa e che vuole.... purchè dica che
non è vero... come non lo è. Soltanto le raccomando a notar bene
le risposte e i commenti che il pubblico fa al suo discorso ed a
riferirmeli senza ritardo.

Ognuno capirà che ce n’era anche di troppo per far capire a Mauvue,
avvezzo da lungo tempo alle doppiezze del frasario poliziesco, che il
colpo di Stato era non solo certo, ma imminente.

— Se io devo dire di no, io che non ho altra parte che mentire, pensava
almanaccando sul discorso udito, è segno che è di sì; e l’argomento per
quella coscienza era achilleo.

Noi non diremo tutti i servigi che ei rese nelle giornate del 2,
3 e 4 dicembre; basti che egli, incaricato di spargere i manifesti
del presidente che annunziavano il progetto di Costituzione, si era
disimpegnato a meraviglia della sua missione, mercè l’aiuto dei _petits
italiens_ che egli aveva fatto disseminare per tutta Parigi, coi fasci
del proclama cesareo e coll’ordine di gridare ai quattro venti il
grande avvenimento.

Ma il capo-lavoro della sua carriera fu la propaganda per la
proclamazione dell’impero. Egli era stato mandato nei dipartimenti e
vi si coperse di gloria. Il suffragio universale s’inchinava davanti a
questo Dulcamara dell’impero che percorreva la Francia col treno d’un
principe e spacciava per tutti i desiderii una promessa, per tutte le
avidità una soddisfazione, per tutte le malattie uno specifico, per
tutti gli scrupoli un cataplasma: oro e ciondoli, cariche e riforme,
chiese e teatri, strade ed ospizi, e poneva tutti i miracoli di
Cagliostro al servizio di _un’idea_.

Però quando i 7,800,000 voti furono incassati e la vittoria fu certa,
la gratitudine dei vincitori non ebbe più condizioni nè riserve per
un così portentoso agente e fu detto a Mauvue che era padrone di
domandare.

— Volete impieghi o volete oro? gli fu chiesto....

— Voglio mezzo milione e il diritto di cambiar nome, — rispose secco
Mauvue.

Quanto al nome non si fiatò nemmeno: tutti lo cambiarono in
quell’epoca; il colpo di Stato non fu che un ribattezzamento generale
dal quale era naturale che il plebeo volesse risorgere nobile e il
nobile duca, come il principe era risorto imperatore. Però Mauvue
s’accontentò rinascere De.... e, interciso l’_u_ dell’ultima sillaba,
si fece chiamare De-Mauve.

Chi avrebbe mai riconosciuto nella sua nuova carta di visita sormontata
da tanto di corona baronale l’antico poliziotto Mauvue?!

Quanto al mezzo milione si tirò di prezzo: i servizi del signor
De-Mauve erano grandi; ma molti avevano gareggiato con lui e chiedevano
meno. Se si avesse dovuto pagare tutti in proporzione, che cosa si
sarebbe dato ai caporioni? Le polpe della Francia intera non sarebbero
bastate. De-Mauve dovette accontentarsi di trecento mila franchi in oro
che egli corse subito a convertire in consolidati inglesi, tanta era la
fede che aveva nell’impero da lui creato!

Allora De-Mauve, quasi ricco, giacchè bisogna contargli anche il danaro
«che s’era messo da parte», diceva lui, rubato, diremo noi, durante
la sua propaganda, avrebbe voluto liberarsi dell’associazione dei
_Petits italiens_, turpe catena che lo teneva confitto, egli nobile
e oramai riabilitato, alle Gemonie del mondezzaio sociale e non gli
permetteva mai di camminare a testa alta nella società di galantuomini
e gentiluomini alla quale aveva, con tutte le forze ond’era capace,
agognato. Ma distruggere il passato è l’atto più difficile della vita.
Il passato non perdona, il passato è implacabile e, quando credete
averlo addormentato, egli risorge più minaccioso che mai, ed è capace
di chiedervi per un’ora d’oblìo e di riposo tutto quanto avrete
guadagnato con una vita intera di sudori e di lotte.

Ora De-Mauve non era uomo da mettere a repentaglio tante cose,
per una vanità, uno scrupolo, un pericolo lontano, e poichè in
Francia tornava in onore il vecchio proverbio: «_Il y’a toujours
des accomodements avec le ciel_» egli cercava applicarlo al caso suo
e studiava silenziosamente il modo di cavarsela amichevolmente dai
_Petits italiens_ senza guastarsi, e poichè non avea potuto strozzare
il suo passato, renderselo amico. Ma l’associazione era tenace e non
voleva lasciare la sua preda. Essa aveva subito veduto quale preziosa
salvaguardia fosse per lei il patronato di un uomo che apparteneva
ormai alla nobiltà dell’impero, e stretto da tanti rapporti coi
rappresentanti del potere, e saggiamente ispirata dai suoi interessi,
lo riconfermò per quattro anni successivi nella sua carica di
presidente.

De-Mauve si schermì, mandò persino le sue dimissioni, ma una serie di
lettere anonime avendolo minacciato di uno scandalo, si sentì sforzato
a ripigliare l’ufficio ed a rassegnarsi. La quale rassegnazione per
altro, confortata da 50 mila franchi all’anno, non era difficile
esercitare.

Tuttavia egli pensò che una mezza ecclissi gli avrebbe giovato e si
ritirò in campagna. Ivi comperò un podere, si consacrò all’agricoltura,
al miglioramento del bestiame, alle scuole infantili ed alla fabbrica
della chiesa; divenne in una parola un gentiluomo campagnolo,
laborioso, filantropo, morigerato, popolare; l’idolo della comunità.

Fu allora che prese la seconda moglie della quale abbiamo parlato, e fu
pure verso quest’epoca che Gabriele uscì dal suo collegio di provincia
e rientrò dopo dieci anni d’assenza nella casa paterna. Ne era partito
lasciandola triste, oscura, quasi povera, e la ritrovava ricca,
splendida, gioconda. Ma se egli ne sentiva la differenza, non sapeva
spiegarsela, e quando ne chiedeva qualcosa, nessuno gliela spiegava.
«Suo padre aveva fatto una grande eredità» ecco quello che gli si
diceva in casa. «Suo padre era un fior di galantuomo» ecco quello che
si soggiungeva in piazza, e poichè quest’ultima voce pareva autenticare
la prima, Gabriele se ne appagava e tirava via assorto nei suoi studi e
nel suo amore.

Suo padre l’amava alla sua maniera come si ama un campo che frutta, un
fuoco che riscalda, un liquore che ristora, un’avvenire che sorride.
Dapprima nei giorni nefasti della miseria l’amava perchè doveva essere
il _bastone della sua vecchiaia_, poi nei giorni della fortuna perchè
doveva essere il _vanto del suo nome_ e l’erede della sua prosapia; era
insomma amore interessato, l’amore mercantile, l’amore degno dell’anima
di De-Mauve. Però in tutti i tempi non aveva mai tralasciato di
coltivare questo suo fondo di riserva incontrando tutti i sacrifici che
gli erano stati richiesti per la sua educazione e togliendosi spesso
letteralmente di bocca metà del vile suo pane per pagare la pensione
del modesto collegio nel quale Gabriele era rinchiuso.

Un siffatto amore paterno aveva una disciplina ed una morale sua
propria. De-Mauve non avrebbe mai permesso che suo figlio si scostasse
d’un pollice dalla linea di condotta che egli, padre, gli aveva
prefissa, ma quella linea finiva in una meta sulla quale era scritto:
«far quel che giova».

E siccome De-Mauve credeva che le apparenze governassero principalmente
la società ed il tempo, nei quali Gabriele era destinato a vivere,
così egli era disposto a lasciare a suo figlio, anche studente, una
certa larghezza di spendere, ed una comoda se non sconfinata libertà di
seguire i capricci della moda e le abitudini del bel vivere. Gabriele
invece usava con molta parsimonia del danaro paterno e man mano che
procedeva negli anni diveniva sempre più parco ed austero. Tutto il
lusso che si permetteva era la libreria. Il padre scrollava la testa
dicendo tra sè:

— Col solo studio non si fa fortuna, ma poichè dell’ingegno e della
dottrina di Gabriele risuonava ormai tutto il quartiere Latino e
perfino i giornali avean cominciato a parlare, così De-Mauve, pensando
che questo era buon principio d’apparenza, se ne accontentava e
s’abbandonava ai più lieti pronostici sulla carriera del figliuolo.

Tutto a un tratto Gabriele scrisse a suo padre chiedendogli una forte
somma di denaro.

La cosa era troppo insolita e straordinaria perchè De-Mauve non vi
dovesse cercare una straordinaria cagione.

— Qui v’ha da essere di mezzo una donna, un viaggio od una buona
azione, pensava De-Mauve commentando però quel _buona azione_ con un
sogghigno che voleva dire «follia». — Prima di dare il denaro sarà
meglio che vada a Parigi a vedere.

E mentre si preparava a partire, trovò un telegramma in cifra del
Comitato esecutivo dell’associazione che lo chiamava in tutta furia
alla capitale.




XXII.


Qui trovò l’associazione tutta sottosopra. Il Comitato esecutivo in
permanenza, il Consiglio d’amministrazione tempestoso e rumoreggiante
intorno alla sala del Comitato, che al pari di tutte le assemblee
entrate in diffidenza degli atti del potere esecutivo, chiedeva
d’essere convocato; madama Mouchard che andava dall’uno all’altro
membro influente dell’associazione raccontando a tutti il suo triste
caso e inzuppando delle sue lagrime dozzine di pezzuole, e infine
la casa stessa di De-Mauve assediata dagli agenti del Comitato che
stavano ad attenderlo coll’apparenza di scortarlo fino alla casa delle
deliberazioni, ma in fatto col proposito di sorvegliarlo e di non
lasciarlo fuggire.

De-Mauve capì che qualcosa di grosso era accaduto e che la sua
dittatura stessa era in ballo. Indovinarne proprio la ragione non
poteva, giacchè da molto tempo non esercitava più il suo potere nè in
bene nè in male, ma insomma presentiva che la procella bolliva in alto
e che minacciava la sua stessa persona.

— Meglio però, esclamò dentro di sè il presidente, intanto che andava
dal Comitato esecutivo, e come conclusione d’un rapido esame di
coscienza che aveva fatto, meglio, così mi sarò liberato più presto da
questi mascalzoni.

Il Comitato teneva le sue sedute in una casa a doppio ingresso nella
via dei Matturins in una sala di scherma. Ivi pure la scuola serviva
d’insegna e di pretesto e la polizia o era autorizzata a non vedere o
poteva essere delusa. Nella sala, intorno a una tavola, sedevano cinque
persone, cinque ceffi da settembristi, meno la febbre repubblicana:
non vi mancava nè il beccaio Santerre, nè il comico Collot d’Herbois, e
nemmeno il femmineo e colto Saint-Just. Una poltrona vuota aspettava in
mezzo il presidente e quando questi entrò per andare a prendere il suo
posto, il Comitato che di solito s’alzava in piedi e lo inchinava, si
mosse appena dalla sedia e stette colle mani in tasca e la testa bassa
ad aspettare che la seduta fosse aperta.

Il presidente la dichiarò aperta e diede la parola al relatore.

Il relatore, diciamolo subito, era il suo più mortale nemico. Da
molti anni aveva aspirato alla presidenza e non v’era mai riuscito.
Da qui l’odio della rivalità sconfitta. Apparentemente faceva il
rigattiere allo sbocco del ponte di Senna; di fatto era lo strozzino
degli ufficiali giuocatori, degli impiegati discoli e delle loro
donne vanitose, ed era con questa riserva di cambiali usuraie che
egli copriva la società illegittima colla legittima. Ma l’associazione
l’aveva sempre respinto perchè troppo sordido, troppo crudele e quindi
troppo pericoloso. Era riguardato come il Marat del Comitato. Tutti lo
temevano, e perciò lo fuggivano. Alla fine parve che l’occasione si
offrisse di fargli rappresentare una parte idonea al suo carattere e
gli fu affidata la relazione dell’affare di Stefanella.

Il relatore adunque, misurato con una occhiata il presidente, come la
iena la preda che vuol divorare, incominciò quest’orazione:

— Poche parole: lasciamo la rettorica ai _quaranta_ dell’accademia.
La cantante Stefanella, iscritta al Maubert col numero 32 _a_, giunta
all’età voluta, era stata affidata alla signora Mouchard per essere
_riformata_. Siccome la _riformanda_ era di prima categoria, furono
fatte alla mediatrice insolite condizioni. L’amministrazione poi era
certa di veder fruttare al 50 per 100 il sacrificio temporaneo che essa
faceva. La cosa procedeva bene e il concorso intorno alla riformanda si
faceva maggiore quando madama Mouchard venne a chiedere l’appoggio del
Comitato perchè fosse allontanato dalla strada dove essa aveva il suo
stabilimento, un giovane di sinistra apparenza che girava in su in giù
sotto le finestre della ragazza colla evidente intenzione di darle la
caccia.

Si noti che la ragazza pareva secondarlo; ma ad essa provvide
ultimamente la signora Mouchard. Il Comitato esecutivo doveva
provvedere al giovane, e mandati i suoi agenti, venne a scoprire... è
inutile farsi dei complimenti, venne a scoprire che era il figlio del
presidente in persona.

A queste parole De-Mauve diede un lancio in faccia al relatore, e con
un accento che sentiva la sfida e l’incredulità, esclamò:

— Non è possibile!

— Calma, signor presidente, rispose il relatore, e mantenetemi la
parola alla quale ho diritto.

De-Mauve si sedette pallido e contraffatto. Il relatore continuò:

— Allora il Comitato esecutivo, giudicando contro il parere d’una
minoranza alla quale io apparteneva, d’accordare al figlio del
presidente quello che a nessun altro si sarebbe accordato, decise
lasciar correre e stare a vedere i procedimenti del giovane e del
padre. Si sperava anzi che il giovane avrebbe preso a riformare
la giovane egli stesso e che il padre avrebbe pagate le spese.
Illusione!... Scorso un altro mese, la signora Mouchard aveva
iniziate serie pratiche con un ricco Norvegiano e tutto le dava
diritto a credere che il contratto sarebbe stato conchiuso. Pare
che il Norvegiano non mettesse prezzo al possesso della cantante e
che l’amministrazione dovesse fare la più brillante operazione dei
suoi annali. Per sollecitare e facilitare la conclusione del negozio
e addomesticare la fanciulla che faceva la riluttante, la signora
Mouchard aveva concertato col Norvegiano un pranzo d’amici e tutto
andava a meraviglia.... quando a un tratto lo stesso giovane della
strada, lo stesso figlio del presidente si presenta nella sala, adduce
certi suoi diritti sulla giovane, s’intenerisce il cuor di coniglio
di quel grullo del Norvegiano, svela tutti i più gelosi segreti
dell’associazione e finisce col rapire la giovane.

— Rapita!... — gridò con un secondo urlo De-Mauve.

— Rapita?!... rubata, signor presidente!... — replicò freddo il
relatore. — Rubato uno dei più preziosi capitali dell’associazione,
recato un danno di forse 50 mila franchi e messa in grave pericolo
per lo scandalo avvenuto la stessa nostra esistenza. Ora il Consiglio
esecutivo per mezzo mio chiede rigorosa giustizia: la giovane
immediatamente _soppressa_; il rapitore... per lo meno... esiliato...
Attendo il parere del signor presidente.

— Il parere del presidente è, che giustizia dev’essere fatta, e
severa, e che la proposta del relatore è ancora mite. Come presidente,
io rettifico la sentenza, come padre riserbo tutti i miei diritti e
l’associazione non sarà malcontenta di me.

Il presidente, come disse, appose la sua firma ad un foglio di carta
che conteneva la sentenza di Stefanella e Gabriele e fu salutato da
tutta la sala con un mormorio di soddisfazione. Solo il relatore stava
a capo chino e si mordeva le labbra viscide di spuma.

De-Mauve se n’avvide e nel deporre la penna colla quale avea firmato
continuò:

— Sono risoluto a far cessare questo scandalo con tutte le mie
forze. Tutto il potere del quale dispongo è d’ora in poi ai servigi
dell’associazione... e qui impegno tutta la mia vita e la mia fortuna,
tanto più... — e qui fece una brevissima pausa per lanciare un ghigno
d’ironia al suo rivale — tanto più che sarà questo l’ultimo mio atto
come vostro presidente e che sono assolutamente deciso a rinunciare a
questo onorevole ufficio; ma di ciò altra volta... quel che più importa
è di scoprire il nascondiglio dei rei.

— È già scoperto... fece il relatore. Ecco qui il rapporto. I due
amanti erano andati a rifugiarsi in una casetta dei dintorni di
Romainville che avevano presa a pigione, dove credevano essere ignorati
da tutto il mondo, e d’onde non uscivano che verso sera per andar
a respirare l’aria dei boschi... Ma la Pica scodata che conosceva
Gabriele, essendo stata incaricata altra volta di sorvegliarlo, aveva
potuto mettersi sulle sue peste e scoprirne il ritiro. E fu la Pica che
lo denunziò alla società.

— Sta bene, sclamò dopo una pausa il presidente, il mio piano è già
fatto. M’incarico io di tutto, ma bisogna evitare ad ogni costo il
clamore: fate soltanto che domani sera un uomo fidato dei nostri,
e vestito in modo che non possa dare sospetti, sia pronto ai miei
ordini in faccia a casa mia con una carrozza... poi che il luogo di
soppressione sia preparato e non ci sia perditempo... Avete inteso?...
Addio, signori... tregua ai complimenti...

E, dette queste parole colla stessa solennità con cui Bruto I deve
avere parlato al popolo romano nel dichiararsi risoluto a punire i
figliuoli traditori della repubblica, uscì dalla sala.

Giunto a casa si diede a solcare in su e in giù la sua stanza,
raccogliere le idee e pensare al da farsi. Poi, quasi avesse côlta
un’idea che da lungo tempo gli ronzasse davanti,

— Non c’è che questo mezzo, disse, non c’è che l’astuzia; la violenza
guasterebbe tutto.

E sedutosi allo scrittoio, scrisse sopra il primo foglio di carta
capitatogli queste poche parole:

  — «Caro Gabriele. So tutto: ripareremo; vieni. Troverai sempre fra
  le mie braccia il cuore d’un padre.

                                                         DE-MAUVE.»




XXIII.


I due fuggiaschi occupavano il loro nuovo nido da soli dieci giorni.
Dopo quella notte passata sui gradini della chiesa di San Sulpizio,
Gabriele aveva condotto provvisoriamente la fanciulla nel suo piccolo
appartamento del _Quartier latin_, ma col disegno di cercarne un altro
in un luogo più nascosto e meno sorvegliato. D’altronde, ed è una
circostanza che ci preme far notare, Gabriele nelle sue stanzuccie al
quarto piano si sentiva troppo vicino a Stefanella e non già per il
timore dei pericoli d’un tale contatto, pericoli tenuti insuperabili da
tutta quella gioventù ardente e sbrigliata che lo circondava; ma perchè
s’era accorto che fin dalle prime ore la maldicenza aveva cominciato
a pettegolare e mormorare, aveva creduto unico rimedio contro di essa
fuggire in campagna.

Infatti nella sera del giorno stesso aveva trovata presso Romainville
la casetta che già in parte conosciamo. Ivi Gabriele aveva la sua
camera e Stefanella la sua. La mattina si incontravano sull’uscio della
sala comune e la sera si separavano: vivevano tutto il giorno come due
fidanzati, e la notte come fratello e sorella. Non era insomma la vita
comune dello studente e della crestaia: era il convegno perpetuo di due
sposi e l’onore dell’uno e l’innocenza dell’altra, l’amore d’entrambi
teneva luogo di barriera.

Ma per questo appunto Gabriele voleva sollecitare con tutte le sue
forze la consacrazione del suo affetto. Vivere senza Stefanella non gli
pareva possibile; ma far di Stefanella una concubina ancora meno. Egli
l’aveva liberata, ed ora voleva compiere l’opera della sua redenzione,
ponendo la fanciulla redenta sotto l’egida di Dio, della legge e
del suo nome. Voleva insomma sposarla e per questo, come un primo
scandaglio gettato nell’anima del padre, gli aveva scritto che aveva
bisogno di denaro.

— Se mio padre mi chiederà cosa voglia farne, diceva a sè stesso,
allora gli confesserò tutto.

S’immagini ognuno lo stupore, l’allegrezza, la follia che lo
invasero, quando il servo del signor De-Mauve gli portò la lettera che
conosciamo... Egli non sapeva trovarsi più, non poteva spiegarsi come
suo padre avesse così presto scoperto il suo ritiro, e dicesse per
giunta di saper tutto; molto meno poi concepiva come un uomo rigido
e severo quale il signor De-Mauve potesse scrivere quel «ripareremo»
pieno di tanta bontà e di tante promesse. Comunque, Gabriele vedeva
la cosa bene incamminata e suo padre mezzo preparato, il consenso
certo, l’avvenire felice, e dava per la sala balzi di gioia. Correva
da Stefanella a leggerle e rileggerle la lettera, la commentava con
lei e fabbricavano insieme tutti i castelli in aria della primavera e
dell’amore.

Gabriele non volle indugiare un minuto ad ubbidire all’invito paterno,
e baciata sulla cima dei capelli la sua Stefanella, si mosse per
Parigi.

— Ma tornerai presto — gli disse trattenendolo per mano la fanciulla,
subitamente assalita da un inesplicabile timore.

— Stassera stessa! a qualunque costo... A rivederci... È uno
scherzo della nostra felicità che nell’atto di venire si trastulla a
disturbarci. Ma ti lascio qui l’anima mia.

E con queste parole balzò in carrozza e si fe’ condurre alla casa di
suo padre.

Questi lo attendeva nel suo studio. Quando lo vide entrare gli andò
incontro per stringergli la mano, e modellando le labbra ad un sorriso
affabile, insolito su quella bocca, gli disse:

— So tutto, ma compatisco e perdono... Stefanella sarà tua... un
giorno... Ora non potresti sposarla... Prima devi farti un nome ed una
carriera...

— Padre mio! — balbettò Gabriele metà sorpreso di quella bontà, metà
spaventato da quella sentenza.

— Sì, Gabriele... Io proteggerò la fanciulla, la terrò per mia
figlia... finchè tu ritorni.

— Ritornare?... dovrei dunque partire?

Il padre fe’ cenno col capo di sì...

— Oh mai, proruppe il giovane.

— Allora la perderai... Io non darò mai il mio consenso al matrimonio
di un ragazzo con una bambina. Fàtti uomo, matura nel lavoro il tuo
proponimento, acquista un grado ed un titolo sociale e allora io
benedirò la vostra unione, senza guardarmi addietro, senza cercare se
la fanciulla sia una zingara o una contessa, senza chiedere nemmeno
dove sia nata...

— Ma... quanto dovrebbe durare questo esiglio di prova?..., si peritò
a dire Gabriele che già cominciava a guardare la proposta di suo padre
sotto un nuovo aspetto...

— Oh!... un paio d’anni al più... Ma forse anche meno. Ciò dipenderà da
te....

— E Stefanella? Chi penserà ad essa?

— Io, ti dico. Non ti fidi della parola di tuo padre? Io, finchè sarò
vivo... il mio testamento, se morissi.

— E... dove dovrei andare?...

— Parte stanotte istessa lo stato maggiore generale della spedizione
di Crimea... Io ho già potuto ottenere che tu come baccelliere
in matematica ed istruito nelle lingue orientali, avresti potuto
seguitarlo come aggregato volontario. È il principio d’una strada
che ti può condurre lontano. In Francia l’impero è militare ed è la
sciabola che comanda. Tu sarai alla guerra e non la farai; gli stati
maggiori non vanno alla mitraglia. È uno splendido e sicuro avvenire
che ti preparo e... e Stefanella come corona dell’edificio.

Gabriele stava ad ascoltare rattenendo i battiti del cuore, a
testa bassa, cogli occhi fissi sul pavimento, quasi cercandovi
un’ispirazione... Alla fine dopo una pausa proruppe:

— E dovrei partire stanotte?

— Stassera fra due ore....

— Senza rivedere Stefanella.... Oh questo è impossibile....

— Dovrai forse fare anche questo sacrificio. Tu non puoi tornare a
Romainville; non hai che il tempo per fare i preparativi del viaggio
e recarti a visitare il colonnello X.... che sarà il capo della tua
sezione.

— È impossibile come un delitto, replicò Gabriele....

— Ma è anche impossibile far due cose insieme.... facciamo una prova,
se lo vuoi. Mandiamola a prendere.... Essa potrà ancora venire in tempo
almeno per salutarti.

— Verrà in tempo?... chiese Gabriele, e voi me lo assicurate?

— Te lo assicuro. Manderemo i migliori nostri cavalli... in un’ora e
mezza non vuoi che siano di ritorno?

— Me lo promettete, padre mio?

— Te lo prometto.... Ora scrivimi un biglietto per la fanciulla.

— Non sa leggere, fece Gabriele abbassando gli occhi; basterà gli
diciate di venire in nome mio a casa vostra. Ella sa che io sono venuto
qui.

— Sta bene, faremo così.... e chiamato lo stesso servo che aveva
portato al mattino il biglietto a Gabriele, gli diede tutti gli ordini
necessari per questa seconda spedizione....

— E, ventre a terra, soggiunse De-Mauve quand’ebbe finito.

Gabriele non poteva ancora rendersi conto di quello che gli accadeva
o stava per fare, e in mezzo al vortice di dubbi, di ragionamenti e di
terrori nel quale nuotava, un dilemma chiaro, inesorabile, minaccioso
sormontava e diceva: «O restare e perdere Stefanella, o partire e
conquistarla».

E intanto che nella agitata mente cercava indarno un’uscita, una fuga
a codeste tenaglie nelle quali si sentiva da poche ore serrato, faceva
macchinalmente quelli che suo padre chiamava i preparativi del viaggio
e andava a far visita al suo futuro colonnello.

Questi lo accolse oltre ogni dire cortesemente e, dietro un cenno
impercettibile che il signor De-Mauve gli fece, disse:

— Sono ben felice d’avervi con me, signor Gabriele. Vi prendo subito
per mio segretario e passerò io stesso colla mia carrozza a prendervi
per condurvi alla stazione.

In tutte queste bisogne, l’ora era già passata; non c’erano più che
pochi minuti e Stefanella non era ancora arrivata. Gabriele era sopra
brage ardenti: protestava che non sarebbe partito senza vederla, che
sarebbe stato un tradimento, che avrebbe messo sossopra il mondo.

— Fanciullaggini, rispondeva il padre; non mancano che venticinque
minuti e ce ne vogliono già quindici per arrivare alla stazione. Fra
poco il colonnello sarà qui colla sua carrozza.... lascieremo ordine
che Stefanella sia condotta alla stazione. Verrà a salutarti là.

— Salutarla!... salutarla non basta.... voglio chiederle quel che pensa
di me.... come sopporterà questa partenza improvvisa.... questa lunga
lontananza, se mi amerà anche lontano.

— È qui il colonnello interruppe il padre, sentendo il fragore d’una
carrozza in cortile.

— O Stefanella, replicò Gabriele correndo alla finestra.

— Il signor colonnello X, annunziò un servo.

Il colonnello entrò frettoloso senza attendere, dicendo:

— Partiamo!... partiamo, signori, non abbiamo un minuto da perdere....
_Milizia_ vuol dire _puntualità_, e chi arriva ultimo in guerra perde
sempre.

E così dicendo si voltava per uscire di nuovo.

— Siamo a’ suoi ordini, signor colonnello.... Vero, Gabriele? rispose
De-Mauve pigliando pel braccio il figliolo e traendolo verso la porta.

Gabriele non ci vedeva più: non aveva forza nè di resistere, nè di
parlare, nè di risolversi; andava come un automa giù per le scale,
come un automa fu messo in carrozza e portato di carriera alla stazione
della strada ferrata del Mezzogiorno.

Durante la strada però aveva ripresi i sensi e la volontà e smontando
davanti alla porta della stazione si piantò col piglio il più risoluto
in faccia a suo padre e al colonnello e disse:

— Signor colonnello.... io non posso partire, se non ho veduto almeno
un istante una fanciulla che amo. Mio padre me l’aveva promesso, e se
egli non può adempire questa promessa io pure ritiro la mia parola....
e resto!... Non ci sarà forza umana che mi faccia smuovere da questo
proposito.

La dichiarazione era categorica, e il volto, la voce, il gesto di chi
la faceva non parevano ammettere replica. Da ogni accento si sentiva
parlare il proposito della disperazione.

— Ecco Stefanella!... fece il padre voltandosi ad accennare una
carrozza che arrivava in quel punto in mezzo a molte altre alla
stazione.

— Ed ecco il segnale della partenza, fece il colonnello; signori io
vado.... resti chi vuole.... il dovere anzi tutto.

Stefanella in quel momento scendeva da carrozza. Gabriele s’era
slanciato incontro a lei e lì, in mezzo a quella folla di soldati, di
cocchi e di cavalli, l’abbracciava stretta e le diceva:

— Devo partire.... ma per tornare.... per esser tuo per sempre....
Stefanella non capiva nulla, ma si sentiva svenire di dolore e aveva
appena la forza di articolare una parola:

— Partire.... partire....

— Sì... ma tornerò.... addio.... mi vorrai sempre bene?

Stefanella non parlava più; le labbra illividite le tremicchiavano
convulsamente, ma non poteva cavarne un solo accento. Rispondeva col
capo automaticamente di sì.... ed era bianca come una morta.

L’ultimo squillo della partenza suonò. De-Mauve lo fece intendere
a Gabriele, il quale alzati gli occhi in faccia a suo padre e
coll’accento della più profonda ambascia gli disse,

— Voi la proteggerete, padre mio.

— Lo giuro, disse De-Mauve, col tuono solenne d’un santo.

Allora Gabriele, sferratosi dalle braccia della sua vergine, montò sul
convoglio e partì. Stefanella lo intravide allontanarsi, diè un gemito
leggiero come quello d’una colomba percossa nel mezzo del cuore e cascò
priva di sensi.

De-Mauve la fece raccogliere e portare nel legno col quale era venuta:
sussurrò una parola al suo cocchiere e, montato in un’altra carrozza,
disparve.

Stefanella risensò soltanto quando la carrozza si fermò e le fu detto
di dover discendere per montare in un altro legno. Essa era come ebete
e macchinalmente ubbidì. Solamente quando fu nella seconda carrozza
chiese al cocchiere che chiudeva lo sportello:

— Dove mi conducete?

— A casa vostra, disse sogghignando il sinistro auriga, e partì
anch’egli al galoppo.




XXIV.


Era notte. Le case passavano via nelle tenebre innanzi alla rapida
carrozza e non permettevano alla fanciulla di orientarsi. Vedeva però
abbastanza per capire che faceva una strada diversa da quella ond’era
venuta, e in cuor suo dubitava.

A un tratto, giunta in un luogo ampio e deserto che pareva una piazza,
la carrozza si fermò e Stefanella fu fatta smontare. Ella smontò
replicando ancora al cocchiere:

— Dove mi conducete?

— A casa vostra, ripeto, fece il cocchiere collo stesso sogghigno e
additando le negre e luride muraglie dello stabilimento Maubert che si
rizzava di fronte....

La fanciulla aprì gli occhi; osservò, riconobbe il luogo, formulò colla
rapidità del terrore disperato un ragionamento, congiunse mentalmente
le cause agli effetti, la partenza di Gabriele al suo ritorno in
quell’orrido chiostro, e tramortì di nuovo....

La poveretta non si era sbagliata: svegliandosi, anzi svegliata dalla
ruvida scossa dell’aguzzino, si trovò in uno dei covili della spelonca
Maubert.

— Su, contessina... svègliati che sei aspettata a far nottata
altrove.... T’abbiamo fatta venir qui solo per regolarità della
ricevuta... ma il tuo collegio d’ora in poi è un altro... e ci si sta
allegri.... vedrai! È un bagordo di giorno e di notte.... ma un pochino
più di notte.... Prima però devi mettere giù questi fronzoli.... Sono
dell’amministrazione e non deve essere frodata.... e così dicendo
accennava i pendenti, la gonnella e gli altri ornamenti del vestito di
Stefanella.

Essa ascoltava ancora, ascoltava sempre senza rendersi ragione di
quello che le accadeva. D’altronde le emozioni che l’avevano percossa
da un’ora in poi erano state così forti, che la facoltà di intendere e
di sentire era in lei spenta.

— Spògliati dunque, fece l’aguzzino. Sì, spògliati!... O che questi
gingilli sono suoi?... presto!... su!... presto, dico!... e già le
poneva le mani sul corpo per levarle di dosso le vesti che madama
Mouchard le aveva fatto fare per la pubblica rappresentazione.
Stefanella corse colla mano a far riparo al suo seno, ma fu indarno;
l’aguzzino, aiutato dalla Pica, sempre pronta ai martirii altrui,
ridusse brutalmente ignuda la povera vergine e gettandole ai piedi un
cencio di vecchia gonnella che avea coperta una morta del mattino, le
disse:

— Mettiti questo ora, e partiamo. Se in collegio ne guadagnerai, ti
vestirai di nuovo.

Stefanella si coperse di quel funebre drappo che le avevano dato e al
secondo comando dell’aguzzino si mosse per partire. Di fuori aspettava
la stessa carrozza che l’aveva condotta; ella vi fu fatta montare;
vi si posero ai fianchi l’aguzzino e la Pica e partirono insieme per
un’altra meta ignota.




XXV.


Nella notte stessa in cui accadevano questi avvenimenti, Carluccio
entrava per la porta di Montreuil a Parigi. Aveva promesso tornare a
vendicare Stefanella e scioglieva la sua promessa. Per tre mesi aveva
covato e maturato il suo disegno, tacendo, dissimulando, mentendo,
divertendo la folla, mostrandosi contento, adulando i suoi padroni,
entrando nelle loro grazie, conquistando la loro fiducia, divenendo il
beniamino della compagnia, colla stessa astuzia, la stessa segretezza
e la stessa pertinacia con cui il negro condannato alle piantagioni
d’America e col quale aveva, meno il colore, tanta comunanza di dolori
e di servitù, medita la fuga e la consuma.

Ma fuggire per Carluccio non era difficile; difficilissimo invece era
fuggire senza essere raggiunto ed arrestato. Però tutto il problema per
il Calabrese consisteva nel mettere fra sè ed i suoi padroni almeno
24 ore di strada. Invece la fortuna gli arrise tanto che egli potè
mettervi tutto l’oceano.

Infatti la sua compagnia vedendo dimagrare ormai gli affari in Francia,
aveva deciso andare a tentare la fortuna in quel paese dove vanno
tutti i disperati, in America. Ed eccola tutta raccolta sul ponte di
un battello a vapore che dovea partire la notte stessa dall’Havre per
Nuova York. Carluccio capiva che non aveva più un minuto da perdere e
guai per lui, se il bastimento fosse salpato: egli non avrebbe forse
più riveduto la Francia. Però il tentativo, che aveva fino allora
protratto di giorno in giorno per renderlo più sicuro, decise compierlo
quella notte, a qualunque costo.

La partenza era fissata per le 11, ma fin dalle 10 tutta la comitiva
del saltimbanco era già a bordo, sdraiata qua e là sul ponte e quasi
tutta addormentata. Quello che pareva dormire più profondamente era
Carluccio; egli s’era cacciato fra le gomene e le àncore di prua e non
lo si vedeva nemmeno. I marinai erano attenti ai preparativi della
partenza, i saltimbanchi russavano e nessuno badava a quel ragazzo,
rannicchiato in mezzo agli ingombri del bastimento. Ma Carluccio
non dormiva e dagli occhi socchiusi sorvegliava tutti i moti della
gente che aveva d’intorno. E allora, quando si vide ben solo, côlto
il destro, si calò per la corda dell’àncora giù in mare, e nuotando
sott’acqua fin che fu in mezzo ai bastimenti del porto, andò a riuscire
poco lontano da esso, alla riva. Mentre toccava terra, il bastimento si
metteva in moto e usciva a tutto vapore dal porto. La mattina vegnente,
svegliandosi in alto mare il saltimbanco cercò di Carluccio nella sua
nicchia e non lo trovò più.

Carluccio intanto aveva fatto quasi venti miglia sulla strada di
Parigi. Avendo meditato lungamente la fuga, aveva anche potuto mettere
assieme tanto di denaro che gli potesse bastare per le spese del
viaggio. Così, senza incidenti notevoli, giunse, come dicemmo, la notte
del sesto giorno alle porte della capitale.

Prima, unica sua cura, era naturalmente cercare di sua sorella, e per
abbreviare le ricerche, decise muovere di filato verso lo stabilimento
Maubert, dove pensava o l’avrebbe trovata ancora o avrebbe raccolti
gl’indizii della sua nuova dimora. Però, entrare nello stabilimento
non gli pareva prudente, potendo avvenire che, invece di liberar la
sorella, cadesse egli stesso in un agguato e tornasse prigioniero.
Risolse quindi aspettare sull’angolo della piazza che qualche persona a
lui nota gli passasse vicino.

Poteva essere alla posta da circa mezz’ora quando vide arrivare una
carrozza, arrestarsi poco lontano dalla casa Maubert e scenderne due
persone, un uomo e una donna. Carluccio dal suo nascondiglio tese gli
occhi e gli orecchi per scoprire chi erano, e non tardò a riconoscere
il capo aguzzino e la Pica. Egli si sentì rimescolare il sangue, ma
poichè i due parlavano, egli raccolse tutto il suo fiato e stette ad
udire.

— Anche la Calabrese è andata, disse la donna.

— E tutto per merito tuo, rispose l’uomo con un sorriso che pareva
tolto a prestito dal demonio.

— Merito del mio odio, replicò la Pica, intanto che faceva un passo per
entrare nello stabilimento.

Carluccio aveva udito abbastanza e con uno slancio si trovò in faccia
ai due interlocutori prima ancora che essi avessero potuto capire donde
era sbucato.

— Voi parlavate di Stefanella — urlò il giovine — dov’è Stefanella?

— Carluccio!... — sclamarono insieme i due sorpresi.

— Sì!... Carluccio che viene a chieder conto di sua sorella e vi
strozzerà qui entrambi, se non gliela rendete. E compiendo coll’atto la
parola afferrava i due per la gola, uno per mano e li atterrava sotto
il suo ginocchio. L’aguzzino e la Pica rantolavano dentro il pugno di
Carluccio come due volpi prese alla tagliola, ma il furente atleta non
lasciava loro alcun attimo di respiro e li investiva con quest’unico
grido: — Mia sorella?... dov’è mia sorella?...

L’uomo resisteva ancora e non fiatava, ma la Pica più debole e ormai
esausta di forze, accennava colle labbra palpitanti di voler parlare.
Carluccio, essendosene accorto, allentò la mano e le lasciò tanto
respiro quanto le bastasse per poter pronunciare la parola. E per
udirla meglio, abbassò l’orecchio sulla bocca della sua prigioniera e
stette ad aspettare. Di lì a poco colla voce affiochita d’una morente
la fanciulla balbettò un nome mostruoso che strappò a Carluccio un
urlo di orrore e gli fece ribollire nel sangue le fiamme, fino allora
signoreggiate, del furore. Egli rivide ad un tratto le persecuzioni
della Pica, il suo spionaggio, le verghe inflitte a sua sorella ignuda,
tutti i patimenti e le vergogne di cinque anni, e lasciando per un
istante il collo dell’aguzzino che teneva colla sinistra, afferrò con
ambe le mani la gola della donna e con una stretta finale e disperata
le fece schizzar fuori gli occhi e la vita. Poi, senza nemmeno più
pensare all’altro suo prigioniero, si alzò e si diede a correre
forsennato nella direzione che la parola della Pica gli aveva indicato.

Egli non ignorava, per fama, quell’orrendo luogo e dopo una breve corsa
vi si trovò di faccia.




XXVI.


Può il liberatore salire la scala della gogna per strapparne la
vittima, può la giustizia avventurarsi nelle rôcche del delitto per
atterrarlo? Deve la filosofia umana gettare lo scandaglio in tutti
i misteri e la patologia sociale mettere il cauterio su tutte le
cancrene?... È egli vero che la virtù stia nel _conoscere_, e che
soltanto dal cozzo del male e del bene emani quella scintilla che
nella morale è verità, e nell’arte è poesia? Se tutto ciò si può, se
devesi, se è vero, se Omero dipingendo Troilo fa amare Achille, se
Edipo rappresentando Fedra fa comparire Ippolito, se Dante descrivendo
l’inferno fa desiderare il paradiso, se Lady Macbeth fa pensare a
Giulietta, se il peccato di Fantina rende più sublime l’innocenza di
Cosetta, se Cristo che si circonda di lebbrosi e di peccatori sale
tant’alto da parere divino, allora l’arte è governata dalle stesse
leggi della morale ed essa ha il diritto di spaziare dappertutto,
dove lo può il bene per combattere il male, la luce per diradare le
tenebre, l’ideale per circoscrivere il reale, lo spirito per conquidere
la materia. Dappertutto, ma ad una sola condizione: che essa non perda
mai il pudore delle ciglia e della parola, che la sua veste quanto più
s’inoltra nel fango tanto più sia casta e severa, che essa illumini
tutte le miserie di questo mondo, ma dal posto delle stelle.

A queste condizioni, con questo intento, la nostra musa seguirà a occhi
bassi e inorridendo i passi di Carluccio affinchè possa dire scendendo
le orride scalèe: «ho liberato dall’ignominia uno spirito immortale».

La porta s’era spalancata davanti a Carluccio come davanti al primo che
passa. _Poichè il primo che passa è il cliente._

Appena dentro udì un gran tumulto per le scale e uno scambio di urli,
di bestemmie e di singhiozzi e indi a poco una fanciulla atterrita e
scarmigliata corrergli incontro a precipizio, inseguita da un uomo e da
una schiera di femmine.

Carluccio alzò gli occhi sulla fuggente, la riconobbe, la chiamò per
nome, la sollevò nelle sue braccia vigorose, e in men che non si dica,
con uno di quegli sforzi ginnastici che tante volte avean strappati gli
applausi alla folla, la portò in istrada.

Stefanella fuor di sè non l’aveva in sulle prime riconosciuto, ma il
cuore le aveva detto che l’uomo che la portava via era un protettore e
si lasciò andare fra le sue braccia, come l’annegato fra quelle che lo
traggono alla riva.

La turba degl’inseguenti però non voleva lasciar la sua preda, e mentre
Carluccio arrivava in istrada col caro peso, l’uomo gli era sopra e già
allungava la mano per afferrarlo pel collare. Ma Carluccio parando il
colpo gli sferrò tale un pugno sulle narici che lo mandò a ruzzolare
insanguinato contro la muraglia.

L’uomo si diede a gridare al soccorso e molte altre genti maschili
e femminili sbucavano già da ogni parte di quel turpe semenzaio e
investivano tutt’all’intorno Carluccio, il quale, brandito il suo
coltello, si era preparato alle estreme difese; quando a cessare ogni
lite comparve la polizia.

Nè si creda che questa comparsa fosse fortuita. L’aguzzino, appena
liberato dalla mano di Carluccio e vista la fine della Pica, era corso
al commissariato più vicino denunziando l’assassino e dando tutte le
indicazioni per seguitarne la traccia. Una pattuglia di gendarmi e
poliziotti comandata da un commissario e guidata dall’aguzzino stesso,
fu subito messa in moto e non tardò a raggiungere il perseguito.

La pattuglia, fattasi largo in mezzo alla turba, si diresse difilata
su colui che teneva un’arma in pugno. Carluccio tentò difendersi,
resistere, dir le sue ragioni, ma quattro gendarmi lo avevano già
afferrato e stavano ammanettandolo, quando Stefanella fattasi innanzi
al commissario che dava gli ordini,

— Arrestate anche me, gli disse, sono sua sorella e sua complice.

Il commissario esitava e guardava stupito e forse anche commosso,
la bellissima giovinetta. Egli ignorava di certo che ella preferiva
seguitare la sorte del fratello, fosse pure un carcere perpetuo o la
morte, al vivere un’ora di più nel luogo di profanazione nel quale
era stata gettata. Poichè un miracolo ne l’avea fatta uscire pura e
immacolata come prima, pura e immacolata voleva morire accanto al suo
liberatore. E tali sentimenti, rapidamente nati e divenuti giganti
nella sua mente, le avevano ispirato l’insolito coraggio di profferire
quelle parole che erano parse il sublime della fierezza innocente
persino ad un commissario.

— Sì, arrestate anche lei.... la congiura è sua.... è lei che ha spinto
il fratello.... a Bicètre... a Tolone.... alla Grève.... ladroni
italiani.... assassini, si mise a gridare quella lurida ciurmaglia
sopra la quale primeggiava la voce dell’aguzzino.

— Venite voi pure, disse il commissario a Stefanella, renderete conto
alla giustizia.

E fra le fischiate, le urla e i cachinni osceni di quella nefanda
contrada i due Calabresi furono tratti in prigione.




XXVII.


Accusato d’assassinio e ratto violento a mano armata; caricato da cento
circostanze aggravanti o vere o immaginarie; attaccato da una turba di
testimoni scellerati, spergiuri, deliberatamente nemici e non difeso
da alcuno; senza passaporto, senza professione, senza parenti; solo,
vagabondo, forestiero quale tribunale non avrebbe condannato Carluccio?
D’altronde in pochi giorni non tardarono a venire da Nuova-York i
reclami del saltimbanco che accusavano il pagliaccio fuggitivo di
furto e di mancata fede e ne aggravavano la situazione. Certo, se si
fosse fatto un processo in una solenne assisa e se i Calabresi avessero
trovato per avvocato un uomo di cuore e d’ingegno, la verità sarebbe
comparsa e gli accusati sarebbero ben presto cambiati in accusatori, e
il sangue stesso che Carluccio aveva versato, sarebbe parso agli occhi
di ogni tribunale e della pubblica coscienza, legittima difesa della
vittima, giusto castigo dei carnefici.

Ma Carluccio era ancora agli occhi della legge un fanciullo; egli non
poteva essere condannato ad alcuna pena infamante; poteva bensì essere
rinchiuso in un ospizio di vagabondaggio o tutt’al più condannato ad
un carcere correzionale; inoltre era straniero e la miglior misura a
prendersi era quella di liberarsene. Perciò, compiuto sommariamente
un processo e dichiarato reo convinto di assassinio e di invasione
violenta a mano armata, colla sola circostanza attenuante dell’età, fu
decretata la estradizione e la consegna ai tribunali del suo paese.

Stefanella poi, persistendo a dichiararsi sua complice e secondata in
questo da Carluccio che ne aveva indovinato fin dalla prima il secreto
pensiero, fu ritenuta tale e fu deciso che avrebbe seguita la sorte del
fratello e la polizia borbonica avrebbe provveduto.

Dopo molti mesi di interrogatorio, giacchè per questa sorta di processi
i tribunali non hanno fretta, i due Calabresi, udita la loro sentenza
colla quale Carluccio era condannato a sei anni di carcere correzionale
e Stefanella ad un anno, furono caricati sopra uno dei carrozzoni
della polizia francese, e così di tappa in tappa, cioè di prigione
in prigione, arrivarono fino alle Alpi. Alle Alpi li raccolsero i
carrozzoni della polizia sarda, e sempre di veicolo in veicolo e colla
stessa compagnia e collo stesso alloggiamento, assaggiando i gendarmi,
i ladri, le prigioni delle altre cinque o sei polizie che dovevano
attraversare per arrivare a Napoli, cascarono finalmente nelle braccia
della borbonica.

È noto che cosa fosse la giustizia del Borbone. Ella non era che
la salvaguardia di chi la pagava. Ora chi si sarebbe curato di due
fanciulli mandati via per estradizione da un governo potente e accusati
e convinti di tanti delitti? Carluccio fu rinchiuso nelle carceri
di Castel Capuano e Stefanella in quelle di Santa Maria Apparente, e
nessuno, tranne i secondini che li custodivano, pensò più a loro.

La schiavitù trae seco la fatalità del male: essa finisce
necessariamente al delitto ed all’infamia: quando si rassegna diventa
prostituzione, quando resiste ha nome ribellione, e nell’uno e
nell’altro caso la società fa pagare a lei sola il proprio misfatto.
E talvolta i più puri ed innocenti son quelli che scontano per tutti,
come era accaduto a Stefanella e Carluccio. Ma Carluccio entrando nella
sua nuova prigione lanciò al cielo un giuramento di vendetta che fece
impallidire persino il carceriere.

Stefanella appena rinchiusa, s’inginocchiò contro la grata della sua
triste muda e cominciò a pregare per colui che ella credeva accanto a
Dio, e cercava incessantemente in ogni angolo di cielo perchè là era
salito e di là doveva tornare.

Erano passati due anni; Stefanella pensava a Gabriele e Carluccio alla
vendetta, quando un mattino il carcere della fanciulla fu aperto e le
fu detto: «Andate, siete libera».

— Libera!... essa sorrise ed uscì. Appena fu in istrada tutti si
diedero a guardarla, ed alcuno ad inseguirla: verso sera ebbe fame e si
azzardò rivolgersi ad un signore vecchio per chiedergli del pane.

— Va a lavorare che sei giovane, rispose colui, e tirò diritto senza
darle nulla.

Si rivolse allora ad un uomo giovane, ed egli si inchinò e le sussurrò
all’orecchio una parola che la fece fuggire svergognata. Si indirizzò
ad una signora elegante che s’era fermata in carrozza davanti ad un
caffè, ed ella, gettandole un soldo, le disse;

— Stupida! perchè non fai come me?!...

Continuò a stendere la mano giacchè un soldo non le bastava, ma una
guardia di polizia le disse che l’accattonaggio era proibito....
Insomma la libertà era più terribile della prigionia.... Il carcere
aveva il digiuno ma non la fame, aveva la scuola empia delle compagne
ma non la seduzione lussureggiante del mondo, aveva una catena di ferro
ma non una catena di leggi, di pregiudizii, di errori sociali tutti
congiurati contro la miseria!...

Pure ella non aveva che un pensiero: tornar a rivedere il villaggio
dove era nata e dove forse alcuno dei suoi vecchi parenti viveva
ancora. Lì essa voleva passare il resto dei suoi anni attendendo le
sole persone che amasse ancora e l’avessero amata al mondo: Gabriele
che dovea tornare dall’esiglio incontrato per lei e Carluccio dalla
prigione sofferta per essa. S’avviò a piedi verso la sua Calabria,
ora accattando, ora lavorando a giornata per vivere; qua spigolando
le olive, là raccattando i frantumi di corallo lungo le spiaggie del
mare; ora ospitata da qualche pietoso convento di monache, ora raccolta
nella barca di qualche caritatevole pescatore d’Amalfi, ora sul carro
di qualche solitario pastore lucano, e così traversò le rovine di
Pompei; le industri vallate della Cava e di Vietri; la conca ridente di
Salerno; i colli pianeggianti di Eboli; le acque sotterranee del Negro;
la classica Lauria ancora echeggiante dalla energica sfida di Giovanni
da Procida; le nevose vette della Rotonda, porta della Calabria
Citeriore; il murato Castrovillari; Tarsia dai due fiumi, famosa per il
martirio dei Riformati italiani; finchè una sera vide sull’orizzonte,
traversò i crepuscoli del sole morente, il povero campanile del
suo Ritorto. Allora, come il Crociato all’apparire delle torri di
Gerusalemme, come il Mussulmano al luccicare dei minareti della sacra
Mecca, si prostese a terra, baciò la prima zolla dei suoi campi natii,
e ringraziò il Signore.




XXVIII.


Levatasi, mosse diritta all’estremità del villaggio, tremando ad ogni
istante di veder comparire la negra muraglia del povero abituro dove
era vissuta bambina. Ma ella avanzava e l’abituro non c’era più. Al suo
posto c’era un campo d’orzo e vi brucavano poche capre guardate da un
giovane mandriano.

— Oh buon capraio, sapreste dirmi che avvenne di questa casa?...

— Eh ehee!... vecchia storia, l’ha portata via il terremoto, — rispose
il capraio.

— E quelli che l’abitavano?...

— Storia breve!... Lo Storpiato l’hanno ucciso i gendarmi e la
Marinella, dopo aver mendicato un anno di porta in porta fu trovata una
mattina stecchita sul ponte di Crati.

— Morti tutti!... sclamò la fanciulla dando in uno scoppio di pianto.

— Erano forse vostri parenti? disse il capraio, accostandosi intenerito
alla piangente. Mi duole allora d’avervi fatto pena col mio brutale
racconto, perdonatemi.

— Erano mio padre e mia madre, replicò Stefanella con un nuovo singulto.

— Poveretta!... e voi d’onde venite?...

— Vengo.... qui la fanciulla s’arrestò e diventò rossa; doveva dire
«vengo di prigione» ma non n’ebbe il coraggio.

— Da Napoli forse?...

— Anche da più lontano; dalla Francia!...

— Dalla Francia?... Chi sa dov’è la Francia!?... ed ora cosa farete a
Ritorto?...

— Cercherò di lavorare se ne troverò.... e se no.... qui la fanciulla
ebbe un altro assalto di pianto.

— Ne troverete!... ne troverete.... Sentite, bella paesana.... Mio
padre è vecchio e non può più attendere ai mercati ed alle grosse
mandrie.... Io farò per lui e voi guarderete queste mie capre per
me....

— Oh sarebbe troppa fortuna.... ma vostro padre....

— Mio padre dirà di sì.... e mia madre anche.... sono buoni i miei
parenti.... non credo che in tutta Calabria ce ne sieno di compagni....
qui tutti vendono i figliuoli, ma dite un po’ che abbiano voluto vender
me?... E ci furono annate di fame!... Ma niente.... o tutti insieme o
nessuno.... Venite.... farete la capraia e aiuterete mia madre a far le
focaccie.... Come vi chiamate?...

— Stefanella!...

— Ed io Marco.... non è un bel nome?... ma non è il nome che fa....
venite con me.... è già sera, le capre sono gonfie come otri....
venite!... venite a casa mia.... la casa è quella su verso il monte...
pare un guscio, ma è allegra come un nido di primavera....

Stefanella non potè dire di no; non poteva respingere la provvidenza e
seguì la sua guida.

I due vecchi pastori accolsero le raccomandazioni del figliuolo per
l’orfana paesana da quella buona gente che erano, e le dissero:

— Siate la benvenuta; lassù nel granaio ci sarà un lettuccio per voi e
qui a questo desco un posto sicuro. Pregate il Signore che ci renda il
bene che vi facciamo.

Stefanella trasformata in capraia trovò così alcuni mesi di pace
apparente. Apparente perchè c’era un vuoto dentro il suo cuore
che nessuna felicità mondana poteva colmare: il vuoto lasciatovi
dall’esiglio del suo amante e dal carcere di suo fratello. Però la
mattina all’alba, prima di andare al lavoro e la sera al suo ritorno,
ella montava sul suo granaio, e seduta all’abbaino vi passava le lunghe
ore a guardare sulla strada se un’ombra nota, l’ombra di Gabriele o di
Carluccio, vi spuntava.

Quale dei due aspettava, desiderava di più?... Chi è stata sorella ed
amante lo dica! La sola filosofia non basta a spiegare questi sottili
enigmi del cuore umano.

Un giorno, era già trascorso un anno, Marco sbucò improvvisamente sul
campo dove Stefanella faceva pascolare le sue capre, e andando diritto
verso la fanciulla la interrogò così:

— Ho una cosa da domandarti, Stefanella.

— Parla, rispose la fanciulla.

— Mi vuoi bene?

— Come a mio fratello.

— E non di più?...

— E non basta?...

— E se ti domandassi di volermi bene come ad uno sposo.

Stefanella esitò.

— Sii sincera, Stefanella....

— Allora ti direi che non posso.

— Ah!... lo prevedeva.... tu ne ami un altro!?...

— Un altro che deve tornare e che aspetto.

— Un vile che non tornerà e che ti avrà già dimenticata.

— Marco, se vuoi uccidermi... parlami ancora così....

— Non te ne parlerò più, ma saremo infelici entrambi.

Da quella volta in poi Marco non le parlò più del suo amore, e in capo
a un anno, diciamolo, non ci pensò neanche più. Stefanella era divenuta
per quella famiglia qualcosa di sacro, e ogni sentimento mondano avea
finito col tacere innanzi a lei. Ella s’era risolta a raccontare la
storia della sua vita e tutti la riguardavano come un miracolo vivente
del cielo. La voce delle sue avventure, dei suoi patimenti, della
sua virtù, del suo prodigioso salvamento s’era sparsa a poco a poco
nel paese e una specie di superstiziosa tradizione avea cominciato a
formarsi intorno al suo nome. Da molte parti si veniva a consultarla
come una fata od a pregarla come una santa, ed era credenza universale
che la casa del mandriano, finchè fosse abitata da quella vergine
miracolosa, non avrebbe patito disgrazie.

Protetta da questa specie di aureola che le cresceva d’intorno quanto
più la ricusava, Stefanella trascorse tranquilla e rispettata altri tre
anni.




XXIX.


Era una notte d’aprile tutta tempestata di stelle e tinta di
quell’azzurro bianco e quasi trasparente che forma il colore speciale
alle notti serene delle zone ardenti dell’Oriente e del Mezzogiorno.
Stefanella era già salita da più ore sul suo granaio. Finchè un fil di
luce diurna era rimasto sulla terra aveva continuato a guardare come
al solito dal suo abbaino, ma fattosi notte, s’era ritirata sospirando
e dicendo a sè stessa la parola che ormai da quattro anni ripeteva: —
Anche per questa notte nessuno.

Ma provatasi a sdraiarsi sul suo lettuccio, un pensiero fisso, un
desiderio, una speranza, un non so che d’inesplicabile la pungeva
come una lisca incomoda e non le lasciava trovar sonno. Alla fine,
stanca di voltarsi e rivoltarsi, risolse d’alzarsi e tornar a prender
aria dal suo abbaino. Poteva essere là da circa mezz’ora odorando
gli effluvii degli aranci in fiore e mirando lo scintillare d’una
grossa stella che avea sul capo quando, abbassati gli occhi, vide
da lontano sulla strada, ritta, immobile, un’ombra. Ella arrestò lo
sguardo su quell’oggetto, lo fissò, lo esaminò, sentì gonfiarsi il
petto, palpitare il cuore... era un uomo... L’uomo si mosse, fece tre
o quattro passi, poi si arrestò ancora come chi cerca riconoscere il
terreno. Stefanella non lo perdeva di vista. L’uomo si avvicinò di
nuovo... Stefanella vide un movimento a lei noto, un profilo lungo
tempo meditato, una figura che da quattro anni riempiva assieme ad un
altra tutto il tesoro della sue memorie, e dato un grido, che risuonò
di speco in speco per tutta la muta vallata, si precipitò per le scale
sulla strada e in pochi passi fu di fronte all’arrivato.

— Carluccio!? ella gridò.

— Stefanella!? rispose l’uomo coll’accento della sorpresa.
Stefanella!... replicò coll’accento della gioia stringendosi al seno la
carissima compagna della sua infanzia.

— T’aspettava, sai?... disse Stefanella appena domata la prima
emozione; t’aspettava, e questa notte più di tutte.

— Eccomi qui... ma ho patito... ho sofferto... ho... se non fosse stato
perchè avea giurato di vendicarti, mi sarei ucciso.

— Zitto!... non parlare di vendetta... perdoniamo e viviamo insieme...

— Non mi parlar di perdono... Un Calabrese non perdona mai... guerra
agli uomini... sterminio ai francesi.

— Carluccio, le tue parole mi fanno morire.

— E le tue mi farebbero diventar vile.... ma dimmi, Stefanella... e la
nostra casa?...

Stefanella taceva.

— Distrutta, non è vero?... Lo immaginava. E i nostri parenti?...

Stefanella abbassava il capo.

— Morti!... Dovea essere così... la maledizione di Dio dovea
colpirli... possano essere perdonati nell’altra vita... in questa io
non lo potrei.

Stefanella allungò la mano sulla bocca di Carluccio, come per
impedirgli di profferire quelle bestemmie.

Carluccio gliel’afferrò, e con un cupo e convulso crescendo le disse:

— Non bestemmio, no... bestemmiare sarebbe inutile; la parola è l’arma
degli imbelli... ma ogni ora del mio silenzio non fa che fecondare un
anno di vendetta. Ho deciso, Stefanella; dente per dente, cuore per
cuore, onore per onore... T’hanno frustata ed io li squarterò, t’hanno
prostituita ed io inventerò per loro l’ignominia degli eunuchi; ci
hanno affamati ed io li asseterò... l’ho giurato, e da quasi dieci anni
questo giuramento mi tien luogo di preghiera la mattina e la sera...
non sarei più calabrese se vi mancassi... Senti, Stefanella; io sono
nascosto in Calabria da parecchi giorni.

— Se non sono venuto prima a te, gli è perchè non voleva farmi vedere
a nessuno se prima non era tutto preparato... Le armi, gli amici, i
ritrovi... Ora siamo pronti: siamo sei... anche troppi per farla a
questa razza vile di mercanti e di cortigiane... Io sarò loro capo...
La Sila sarà la nostra fortezza... ma ci stenderemo dovunque potremo
arrivare... L’odio, la miseria, l’avarizia delle due Calabrie ci
serviranno di manutengoli... È la nostra vita, Stefanella... Brigante
l’avo, brigante il padre, brigante il figlio... è il fine che doveva
fare. Anch’io un giorno al tuo fianco ho sognato che l’uomo fosse nato
per l’amore; ma pasciuto d’odio, vomito odio; dimmi, Stefanella, vuoi
tu essere l’angelo santificatore della nostra masnada?....

Stefanella alzò i suoi limpidi occhi in faccia al fratello; lo fissò un
istante.

— Sai bene che questo è impossibile, rispose, e s’anco lo volessi,
la mia natura si opporrebbe.... io farei guerra a me stessa... non ci
pensare nemmeno... mai più... lasciami pur qui... e tu va... dico va,
perchè sento che pensare a dissuadere te è tanto impossibile quanto
persuadere me... Io sono il perdono, tu sei la vendetta... deciderà Dio
quale delle due leggi sia più giusta.

— Tu non vuoi dunque essere meco, Stefanella; vuoi lasciarmi morire
solo... giacchè sai che in questa vita si muore presto.

— Tutte le volte che ti occorre un soccorso, vieni da me... troverai
sempre il mio cuore... del resto, Carluccio, uccidimi ma ascolta... io
ti amerò più morto che vivo così.

— Tu sei una santa, disse il brigante inginocchiandosi; benedicimi e fa
che le tue preghiere mi accompagnino.

La Stefanella posò la sua mano sulla fronte del fratello e voltasi
al cielo pregò alcuni minuti con tutto il fervore dell’anima sua.
Carluccio si alzò, asciugò una lagrima, forse la prima, l’ultima di
certo che spuntasse su quel ciglio. Serrò convulsamente la mano della
sorella, e dato un fischio sonorissimo, sparì nella foresta, suo nuovo
regno.




XXX.


Da un mese le due Calabrie vivevano nel terrore. Una banda di briganti
che la spaventata fantasia ingrossava, e della quale una più feroce non
era mai comparsa a memoria d’uomini in quella contrada, occupava tutti
gli sbocchi della Sila e minacciava con le più audaci scorrerie fino
l’interno delle città.

Erano dieci... venti... cento persino, diceva la voce pubblica;
avevano ramificazioni su tutti i gioghi, manutengoli in tutti i
villaggi, minacciavano tutte le strade, ponevano ricatti a tutte le
famiglie, il fuoco a tutte le fattorie, assalivano, qualche volta,
persino i posti dei gendarmi e della truppa destinata a contenerli.
Nessuna vita, nessuna sostanza erano più sicure. Miravano però alle
alte cime e specialmente agli ufficiali del governo. Un generale
avea dovuto riscattarsi con ventimila _onze_; un intendente era stato
messo a brani, arrostito e spedito così cucinato alla città che aveva
presieduto; sopratutto, se capitava loro nelle mani una donna, la loro
rabbia non aveva più umano confine. Erano obbrobriosamente pollute,
uccise e appese ignude sulla pubblica via. Inseguiti, traccheggiati,
cercati a morte da numerose colonne volanti, aveano saputo fino
allora resistere a tutti gli assalti e sparivano fuggendo nelle
loro spelonche, dove nessun occhio poteva penetrare nè piede umano
avventurarsi. Qualche volta battuti pareva trovassero nelle viscere
stesse della terra inesauribili riserve e quando giungeva la notizie
che erano decimati in un luogo, ecco ricomparivano moltiplicati in un
altro. Era la favola dei denti di Cadmo.

Il loro capo sopratutto era il fantasma di tutti i terrori, e il
protagonista di tutti i racconti, l’eroe di tutte le imprese.

Gli affibbiavano una forza favolosa, una giustezza di colpo portentosa,
una carabina infallibile, una gamba inarrivabile, una ferocia
insaziabile, un coraggio indomabile, una specie di potenza miracolosa.
Chi lo faceva vecchio e chi giovane; chi alto e chi basso, chi erculeo
e chi sottile, chi gli prestava una lunga barba e chi lo voleva imberbe
come un giovinetto. Tutti lo dipingevano a capriccio, tutti sognavano
di averlo veduto vestito in mille foggie, da gendarme, da prete,
da mercante, da donna, da frate, da gran signore, da accattone, ma
nessuno infatti l’avea veduto, perchè chi l’aveva veduto non era più
tornato a raccontarlo. Chi diceva che era francese, chi napoletano, chi
calabrese; volevasi che parlasse tutte le lingue, che sapesse tutti
i giuochi, che ballasse tutti i balli, che suonasse a meraviglia la
zampogna e cantasse come un cigno.

Era la leggenda di Fra Diavolo ingigantita dal tempo, moltiplicata
dagli aneddoti di un secolo di brigantaggio, esagerata da tutti i
colori della fantasia meridionale.

Quanto a’ nomi glieli davano tutti, ma egli non ne portava alcuno. Non
firmava mai nessuna carta, chi per lusso di precauzione diceva, chi
perchè non sapeva scrivere; ma in luogo di firma adoperava un sigillo
che portava una testa d’Erinni. Laonde il solo nome che gli sia rimasto
presso i presenti e i futuri fu _la Furia_... Bastava che un qualsiasi
uomo o donna per celia o per minaccia pronunciasse quella parola «la
Furia» perchè tutti gli astanti fuggissero tremando, come se la Furia
stessa fosse loro stata alle spalle.

Un suo decreto mandato anche da lontano per mezzo della posta e
segnato del suo terribile suggello valeva come un decreto del re: tutti
l’ubbidivano e non osavano parlare, sapendo che la Furia non perdonava
le delazioni e le scopriva tutte. In molte chiese si erano cominciati
tridui, novene e pubbliche preci per allontanare il grande flagello, ma
la Furia comparve un giorno, solo, in mezzo alla chiesa in piena messa
cantata e bastò a mettere in fuga in un baleno, preti e preganti ed a
vuotare la chiesa. Egli prima di partire bollò del suo sigillo la porta
e ordinò che per tre mesi non fosse più riaperta, e non lo fu.

Perciò la tradizione ripete ancora che «la Furia mise in prigione
Domineddio e nessuno ebbe il coraggio di liberarlo».

L’uomo che menava tanto rumore e tanto spavento di sè, il lettore
l’avrà già indovinato, non era altri che Carluccio. Nessuno sapeva
ch’ei fosse il fratello della Stefanella e nemmeno che fosse di
Ritorto. La polizia stessa ignorava il suo nome e la sua patria, e
quest’aria di mistero aumentava la sua forza. La credulità popolare
aveva di certo ingrossata la cronaca delle sue imprese, ma anche
facendo molte concessioni alla favola ed al terrore, restava pur sempre
una gran parte di vero!

Carluccio non comandava infatti che una banda di 24 briganti, ma erano
tutti eccellentemente armati e muniti; aveva complici e manutengoli
in tutte le provincie del regno e in tutti gli ordini della società;
disponevano di somme favolose di denaro, e quel che è più, conoscevano
i più nascosti recessi della contrada, dalla foce del Crati al golfo
di Squillace, come i gendarmi che indarno li inseguivano, conoscevano
gli angoli della loro caserma. Le truppe regie spedite ad attaccarli
caddero due o tre volte nelle loro imboscate e furono costrette a
fuggire decimate e sconfitte. Attaccati, si battevano furiosamente
ma non si lasciavano mai circondare, e prima che il nemico li avesse
avvolti, erano già spariti nei burroni inaccessibili della montagna.
Carluccio primeggiava naturalmente per ordine, destrezza e ferocia,
e due o tre imprese compite da solo avevano finito coll’assicurargli
sopra i compagni una incontestabile autorità.

Oltre la famosa comparsa nella chiesa che abbiamo narrato, fece anche
questa:

Sapeva che un ricco barone della contrada maritava la figlia e che il
corteo della sposa dovea partire una notte da Cosenza per avviarsi a
Rogliano dove l’aspettava lo sposo.

Il convoglio di cocchi e di cavalli doveva essere scortato per pompa
e per difesa, sebbene allora la Furia fosse creduta lontana, da una
squadra di 24 servi a cavallo armati di tutto punto, coll’ordine di
marciare all’avanguardia e alla retroguardia con tutte le precauzioni
militari. Ma erano fuori poche miglia da Cosenza che uno dei servi a
cavallo avvicinatosi al barone, che l’avea richiesto per non so quale
servizio, lo afferrò improvvisamente per la gola e puntandogli una
pistola alla testa, gli disse a bassa voce:

— Io sono la Furia, non ti muovere o sei morto.

Il barone, a quel nome, a quell’atto, al freddo di quella canna che gli
toccava la fronte era già morto prima di essere ucciso e appena ebbe
coraggio di dire:

— Salvatemi, cosa volete?...

— Ordinerai ai tuoi servi che raccolgano qui ai miei piedi tutto
l’oro che hai nella tua carrozza e le gemme che porti a tua figlia
e tutte le armi delle quali sono armati.... poi che tornino tutti
indietro, cocchi, cavalli e uomini alla gran carriera e senza voltarsi
indietro... Tu resterai con me, finchè l’ordine non sarà eseguito...
Obbedirai?...

— Obbedirò...

E il Barone ordinò, come aveva suggerito la Furia. I servi ad uno ad
uno venivano pallidi e frementi a deporre chi uno scrigno tempestato
di pietre preziose, chi un’arma rabescata d’argento, e se alcuno si
peritava a brontolare a mezza voce,

— Voi volete ammazzare il signor Barone, diceva la Furia, giuocando col
grilletto della pistola.

In pochi minuti la volontà della Furia era adempita, e quando l’ultimo
dei servi sparì nella risvolta della strada, allora la Furia lasciò il
Barone dicendogli:

— Va, e non t’avventurare più di notte dove regna la Furia.

Il Barone non se lo fece ripetere, e con quanta forza aveva nelle gambe
il suo cavallo, fuggì anch’egli alla volta di Cosenza.

Carluccio, rimasto solo, diè un fischio; quattro o cinque de’ suoi
compagni uscirono dalla macchia e raccolto lo splendido bottino, lo
portarono nei nascondigli della selva, tutti compresi di stupore e di
rispetto per l’audacia e la fortuna prodigiosa del loro capo.

Alla fama di tali imprese una persona sola pativa in segreto senza
averne paura, nè provarne meraviglia: era Stefanella. In sulle prime
tutte le volte che Carluccio mandava a lei o per chiederle o per darle
notizie, od anche per domandarle l’asilo d’una notte, Stefanella, come
aveva promesso, non s’era mai ricusata, e più d’una volta il granaio
della vergine aveva ospitato il terribile la Furia. Una cosa sola
Stefanella non aveva mai voluto acconsentire, cioè, ricevere i doni di
denaro e di gioielli che il fratello le faceva.

— I tuoi regali mi fanno orrore... tu non sei più il Carluccio che ho
amato — gli diceva, e correva a nascondersi in un angolo del granaio e
piangeva a dirotto.

Un giorno essa prese una risoluzione. Carluccio era venuto a vederla
proprio a quel risvolto della strada di Ritorto ove l’avea riveduto
la prima volta: Stefanella gli si mosse incontro fredda e risoluta. E
prima che l’altro le avesse potuto toccar la mano, gli disse:

— Carluccio!... volete lasciare la vita che conducete?... ve lo chieggo
in nome della vostra e mia eterna salute!... Ma, per l’ultima volta, lo
volete voi?...

Carluccio, senza esitare un istante:

— No, rispose. No!... non mi sono ancora vendicato... Quando avrò
bevuto il sangue del cuore di un francese, allora chiederò a Dio
perdono dei miei peccati, e finirò da me stesso.

— Basta!... fratello... noi non ci vedremo mai più, io sono morta per
voi... voi lo sarete per me.

— Sia fatta la vostra volontà... Ciascuno per la sua via... La Furia
ha il suo destino... e non è quello degli angioli... addio... per
sempre... ma se un giorno tu udissi che sulle montagne è accaduta una
ecatombe di francesi... allora dirai che quell’ora fu l’ultima della
mia vita... Addio.

E l’uno cacciandosi nel fitto del suo bosco, l’altra rifacendo
lentamente la sua via, si separarono.




XXXI.


Pochi giorni potevano essere trascorsi da questo ritrovo, quando una
sera Stefanella, occupata a far pascolare le sue capre lungo una siepe
che fiancheggiava la postale, vide arrivare una carrozza da posta
che montava al passo l’erta della via. La fanciulla, così diversa
in tutto dalle altre non provava nemmeno la naturale curiosità del
paesano per tutto ciò che è nuovo e forastiero, e intanto che la
carrozza s’avvicinava continuò a starsene seduta sul margine della
strada colle spalle rivoltate ai vegnenti. Frattanto la carrozza le era
giunta dappresso, ed essa udì una voce gridarle in accento gentile, ma
straniero:

— Oh bella calabrese!... Quante miglia da qui a Cosenza...

Stefanella si volse come... dire come l’avesse toccata un ferro rovente
od una scintilla di fulmine sarebbe ancora poco... come se tutta la sua
anima se ne fosse andata in quella voce che le aveva parlato ed ella
fosse stata portata via intera in quella carrozza.

Ella si volse, volle fare un passo, chiamare un nome, mandare un grido,
ma la carrozza, superata l’erta, si era slanciata al trotto e, avvolta
nella nube di polvere dello stradone, sparì in pochi istanti dalla sua
vista.

Stefanella cadde boccone sulla via e vi restò molti minuti senza sensi
e senza respiro, vivente soltanto in un convulso agitar delle labbra
che tentavano profferire il nome della persona la cui voce aveva udita
dopo sei anni di silenzio e di attesa: il nome e la voce di Gabriele.

A poco a poco trovando quasi diremmo la forza nello stesso nome che
andava mentalmente pronunziando, e scossa da un’altra angosciosa idea
che l’avea assalita simultaneamente alla gioia di quell’incontro,
risensò e alzossi.

Allora stette qualche istante come smarrita in mezzo alla strada, si
guardò intorno, a destra e a sinistra, raccolse le sue idee, rivide
con mente più calma quella carrozza, s’accertò delle persone che dovea
portare, pensò donde veniva, dove andava; conchiuse che erano francesi
che andavano a Cosenza, ma che intorno a Cosenza c’era la banda di
suo fratello, e che fra quei francesi c’era la vita del suo amante, e
compiendo rapidamente questo ragionamento,

— Salvarlo!... — esclamò — salvarlo o morire; e senza nemmeno volgere
un’occhiata alle sue capre, senza nemmeno curarsi di quel che lasciava
e di quello che rischiava, si pose a correre per la strada nella
direzione che aveva preso la carrozza.

Stefanella conosceva tutti i sentieri e le scorciatoie della valle e
del monte, e immaginava inoltre dove poteva essere Carluccio. Fatta
quindi una mezz’ora di cammino sullo stradone infilò a sinistra
una viottola e poco dopo un sentiero ripido appena segnato da una
leggierissima orma di piede umano. L’impazienza, l’ansia, la paura,
l’amore le aveano posto le ali ai piedi: arrivare un’ora, un quarto, un
minuto prima o dopo, poteva essere la salvezza o la morte.

Questo pensiero le centuplicava la vita: i suoi muscoli delicati
non sentivano la stanchezza, e l’eccitamento nervoso nel quale si
trovava le teneva luogo di forza e non le lasciava modo di calcolar
la fatica. Balzava di rupe in rupe coll’agilità d’una cerva fuggente,
ma più agitata d’una cerva fuggente non si fermava mai a rifiatare o a
dissetarsi.

Camminava così da circa due ore, e giudicando dal folto della selva
e dalla profondità dell’avvallamento, credeva essere poco lontana dai
quartieri della masnada. S’era fatta già notte, ed ella, attraverso le
ombre rese più fitte dall’immenso tetto della selva, e che avvolgevano
tutto intorno la contrada, scorgeva appena il cammino. Mano mano che
s’avvicinava, il cuore le batteva più forte e la forza l’abbandonava.
Temeva non arrivare più in tempo e ogni passo che faceva le pareva
fosse tardo... inutile... perduto, pure camminava, quasi sospinta da
un soffio invisibile, magnetico! Alla fine un fischio le passò via per
l’orecchio ed ella continuò a camminare... Un altro fischio rispose..
ed ella si mise a correre... un terzo fischio e un tumulto di voci
vicine replicò, e fatti ancora pochi passi si trovò circondata da una
torma d’uomini armati e mostruosi che non si sapeva dire se usciti dal
ventre della terra, o calati dalle cime della foresta.

— Ferma!... piglia!... agguanta!... bottino!... bottino!... — urlarono
in coro quei masnadieri.

— Alto!... — gridò la giovane che era già preparata a questa
apparizione — sono Stefanella, la sorella della Furia, dov’è egli?...

— La sorella del capo?... baie!... — rispose taluno.

— Conducetemi da lui se non lo credete... ma io farò appiccare il primo
che avrà detto baie...

— Dev’essere lei — rispose uno più vecchio della banda. — Il capo è
dentro il burrone e ha molto da fare...

— Ha da fare?... coi francesi che son passati or ora... — chiese la
Stefanella dissimulando, con un coraggio sovrumano, tutta l’angosciosa
sollecitudine della domanda che faceva.

— Brava!... oh! come lo sai?

— Glieli ho fatti arrivar io, rispose Stefanella, ma guidatemi a lui...
e subito.

— Sì, guidiamola... largo a Stefanella... Viva Stefanella!... vieni...

— Corriamo... vedi, son là... questi sono i cavalli... questo qui
legato è il postiglione... sono quattro: due uomini e due donne...
denari pochi però... Ma il capo dice che regalerà tutto a noi... per sè
non vuole che i cuori... Galante il nostro capo!...

Un’altra volta Stefanella a questo orrendo scherzo sarebbe cascata in
deliquio. Ma ormai, risoluta a gettar la vita nella catastrofe d’una
tragedia, raccoglieva tutto il suo coraggio e voleva arrivare alla
fine.

Fatti ancora pochi passi nella spaccatura d’una montagna, che, guardata
dall’alto pareva una fessura e nel fondo era una valle, nascosta dai
pini e dagli abeti della foresta, le si parò d’innanzi questa scena che
il chiarore di due fiaccole di resina, infisse nel suolo, rischiarava
in tutto il suo orrore.

Quattro persone stavano legate ginocchioni contro la parete della
caverna tremanti, disfatte, color della morte. Un uomo giovane
ancora, ombreggiato da una leggiera lanugine, senza armi, in maniche
di camicia, brandiva una frusta e passeggiava su e giù davanti
agl’inginocchiati salutandoli di tratto in tratto sul volto con un
colpo del suo lungo scudiscio, e bevendo alla salute della «Vendetta»
in un calice d’oro, preziosa reliqua del convento dei Certosini di
Cadossa, al quale aveva messo una taglia.

La Furia, quando arrivò Stefanella, aveva appena incominciato a parlare:

— Non mi farete il torto di credere che voglia salvarvi la vita....
penserò alle frustate che ho ricevuto, alla fame che ho durata,
alla prigione che ho sofferta e moltiplicherò tutto questo per due
fratelli; vi metterò in conto la prostituzione di una vergine e la
corruzione d’un fanciullo e farò una miscela che spero riescirà degna
degl’ingredienti... Già ti cercavo e capirai che t’ho riconosciuto...
Tu eri il capo di qnell’altro brigantaggio parigino, brigantaggio delle
volpi contro i pulcini, men terribile ma più schifoso del mio... tu
sei l’uomo della tratta dei fanciulli... indarno ti tenevi nascosto,
ma io t’ho veduto... sei stato tu a ordinare le verghe di mia sorella,
la sua prostituzione... tu a far di me un saltimbanco... Io non so il
tuo nome, ma che m’importa?... io t’ho sempre chiamato _la Fiera_,
per questo io mi chiamo oggi _la Furia_... Tu m’hai fatto perdere
tutto... l’innocenza, la bontà, l’onore, la libertà, la giovinezza,
la fede... tutto... persino l’amore di mia sorella... la sola santa
che io preghi... il solo Dio che riconosca... Ebbene... tu e questa
tua iniqua parentela... morrete... non so bene di qual morte... ma
della più lunga... della più atroce... della più spasmodica... Io
raccoglierò una ad una le goccie del tuo sangue in questo calice e ne
farò un brindisi... conterò uno ad uno i tuoi lamenti e ne formerò una
musica... cercherò con uno spillo nel tuo cervello le idee del male
che t’hanno nutrito e... le ucciderò ad una ad una... strapperò dal
tuo cuore le fibre del delitto che ne hanno formato il tessuto e le
darò ai miei cani... L’anima tua sarà stanca di sentire gli strazi del
corpo nel quale io la terrò prigioniera... e.... invocherà come una
grazia.... l’inferno.

E finito il discorso, la Furia tracannò un altro sorso del suo calice e
si sedette come spossato per terra. In quel mentre una mano leggiera si
posò sulle sue spalle: egli si volse e riconobbe Stefanella.

— Tu qui?! ora? — sclamò, e restò stupidito a contemplarla.

— Io... io che ti perdonerò e vivrò sempre con te... se...

— Se?...

— Se tu salvi costoro, — disse risoluta la giovane accennando i
prigionieri.

— Mai!... vattene... non mi tentare... o guai anche per te, Stefanella.

— Allora io voglio morire con loro... e tu non li potrai più toccare
nemmeno con quella frusta, se prima non avrai ucciso anche me...

— Sei pazza, Stefanella?...

— Sarò pazza... se l’amore è una pazzia...

— Tu... ami costoro?

— Quel giovane lì in mezzo... è Gabriele... egli mi ha promesso la sua
anima... io gli ho dato la mia... Son cinque anni che l’aspetto... egli
andò in esiglio per me... Egli mi salvò altra volta l’onore che è più
della vita... io gli devo restituire il suo dono...

— Non capisco... costui?

— Io doveva essere venduta a un ricco libertino... a un Norvegiano,
credo... Una sera mi dovevano dare un filtro che m’avrebbe tolti i
sensi... quand’egli comparve, come ora io compaio qui, mi portò via di
là e mi condusse con lui.

— Tu dunque sei stata sua amante? — fece Carluccio guardandola fisso ed
agitato d’un sospetto.

— Io sono stata sua fidanzata, Carluccio.... egli mi ha rispettata, ed
io sono pura...

— Ma poi? — chiese ancora incredulo il brigante.

— Poi.... suo padre lo mandò lontano perchè diceva che era troppo
giovane per sposarmi.... Gabriele partì promettendo che sarebbe
tornato.... egli è venuto....

— Ebbene, Stefanella.... io lo salverò.... è un debito che pago per
te.... ma lui solo.... lui solo, hai capito?...

— Oh, tutti, Carluccio... tutti.... egli non accetterebbe....

— Lui solo, ripeto, è anche troppo — e così dicendo Carluccio s’alzò,
andò verso i quattro prigionieri e piantandosi di faccia al più giovane
lo apostrofò così:

— Dimmi!... vuoi tu aver salva la vita?...

Gabriele, era lui, guardò il brigante con un’occhiata piena di serenità
e di fermezza. Gabriele era un’uomo di coraggio, soldato, e non temeva
la morte....

— Rispondi, — fece impaziente la Furia.

— Lo vorrei di certo.... — rispose Gabriele — ma non solo....

— Solo! gli altri morranno.

— Solo, rifiuto!... — rispose fieramente il giovane francese.

— Hai del cuore.... non sei della razza.... ebbene, vada per tutti, ma
ad una condizione però....

— Quale?

— Che tu sposi questa fanciulla — disse Carluccio tirando avanti
Stefanella che era rimasta fino allora nel fondo della caverna ad
aspettare colla febbre una risposta.

Quantunque gli anni l’avessero un poco mutata, Gabriele la riconobbe
subito. Egli restò a occhi spalancati e a bocca aperta senza respirare,
immobile, pallido come non lo era mai stato sotto le minaccie di morte
del brigante. Alfine gli uscì dalle labbra un _Tu_ di sorpresa; guardò
suo padre, gli lesse negli occhi la confessione della sua esistenza
obbrobriosa, sentì senza spiegarselo che egli e Stefanella erano state
vittime d’un tradimento, che il brigante diceva la verità, che egli era
infame nel suo sangue e nel suo nome, e la testa gli cascò sul petto
senza forza e senza moto, invocando il compimento del suo destino.

— Gabriele!... mormorò la vergine inginocchiandosi vicino a lui.

— La riconosci, non è vero?... fece il brigante.

— La riconosco.... l’avrei riconosciuta fra cent’anni.... ma ciò che mi
chiedi è impossibile.

Stefanella tremò tutta; la Furia sogghignò e chiese:

— Impossibile!... come mai?..

— Io non potrei ingannarti una seconda volta.... preferisco morire....
Io sono d’un altra.... sono ammogliato....

Stefanella mandò un urlo e cascò supina senza vita....

La Furia impugnò una pistola e muggì:

— Ah!... francesi!... traditori!... morrete dunque tutti.... — e puntò
contro la fronte di una delle donne la canna micidiale. Quei quattro
sciagurati credettero giunto l’ultimo loro momento, quando il brigante
riavendosi continuò:

— No, sarebbe morte troppo breve.... la festeggieremo col sole
domattina, una notte di agonia farà bene a voi ed anche a me.... e
gettata la pistola, si lasciò cadere sopra un letto di pelli e di
foglie apprestato in un angolo della caverna. Le fatiche e le emozioni
l’avevano affranto; le frequenti e insolite libagioni gli avevano dato
alla testa e non si reggeva più di stanchezza e di sonno. Appena fu
steso nel suo giaciglio, si addormentò profondamente.




XXXII.


Qui n’è d’uopo aprire una parentesi, per dare al lettore un
indispensabile schiarimento.

Gabriele s’era mantenuto fedele alla memoria di Stefanella fino al suo
ritorno a Parigi. Il tempo e la compagnia di uomini che erano soliti
a trattare l’amore come un trastullo avevano finito coll’attiepidire
l’ardore primitivo dei suoi vent’anni; ma tuttavia, tornando in
Francia, egli credeva sentire ancora tanto affetto nel cuore da poter
sciogliere senza sforzo la sua promessa. Infatti, scorsi tre anni e
tornato a Parigi, la prima cosa che chiese a suo padre fu della sua
fidanzata, ma suo padre assumendo un contegno di tristezza e facendo
precedere le sue parole da un sospiro, gli rispose:

— Che vuoi, figlio mio!?... io l’ho custodita e protetta per un
anno intero ed era felice di potertela conservare pura ed intatta...
Illusione!... Un giorno ella disparve con un altr’uomo ed io per quanti
sforzi facessi non ne ebbi mai più notizia.

— Menzogna, gridò il giovane.

— Tu dimentichi che parli a tuo padre, replicò severamente De-Mauve, ma
ti perdono; poniti tu stesso alla ricerca e lo vedrai.

Gabriele infatti si diede a cercare di Stefanella per tutta Parigi....
Ne chiese al mondo elegante, al mondo equivoco, al mondo turpe, alla
polizia, agli ospedali, alle carceri, e in capo a molti mesi ebbe la
conferma che una calabrese della quale non si sapeva nemmeno il nome
era uscita da un luogo infame per passare in un carcere.

Restò atterrito e per più mesi istupidito e quasi pazzo. Egli non
poteva credere che Stefanella fosse discesa spontaneamente in tanta
abbiezione e la credeva vittima d’un tradimento; ma intanto ella non
c’era più, ella era perduta, era come morta. E i fedeli alla morte son
pochi; sopravvive forse nei più gentili il fiore della ricordanza, ma
a poche anime elette è dato eternare sopra una tomba il fiore ardente
dell’amore.

Però Gabriele, bella ma non perfetta natura, più generoso che costante
e abbastanza buono per vagheggiare, ma non abbastanza forte per
consacrare la sua vita al culto di un ideale che la scettica saviezza
del suo tempo e del suo paese derideva, piegò agli eventi, agli anni,
al destino; si credette obbligato a vivere come tutti gli altri,
sciolto dalla sua promessa; ricordò qualche volta con una lacrima il
suo mesto idillio di gioventù e vi posò sopra una pietra.

Scorso alcun tempo, il padre, sempre intento ad apprestargli la
fortuna, gli propose un ricco matrimonio. Gabriele mostrò dapprima
qualche riluttanza, ma poi si arrese. La sposa parve gentile, la coppia
bene assortita: il padre insisteva, il mondo applaudiva, Gabriele finì
col credere d’amare la sua promessa e di essere felice con lei. Egli
si sposò e nella settimana stessa col padre, la matrigna e la sposa si
mise in viaggio per l’Italia. Il resto ci è noto: il primo viaggio di
nozze doveva finire nella caverna del brigante.




XXXIII.


Stefanella, scosso il terribile colpo che aveva ricevuto, aprì gli
occhi a stento, e all’incerto crepuscolo che spandeva nella caverna il
fioco lume d’una lanterna cieca, potè vedere che i quattro prigionieri
erano sempre legati e ginocchioni allo stesso posto. Allora si alzò
a stento e stette un istante a pensare: poi coll’atto di chi ha preso
una risoluzione si inginocchiò, fece una rapida preghiera, rialzossi e
corse vicino a Gabriele, dicendogli a bassa voce:

— Io vi salverò... secondatemi... e silenzio.

Detto ciò, corse al fratello e brancolando cercò dove teneva la mano
destra nella quale portava l’anello dell’Erinni che gli serviva di
sigillo. La mano gli pendeva abbandonata per terra. Essa la prese
delicatamente, la sollevò leggierissimamente, ne cavò l’anello e se
lo pose in dito. Stefanella sapeva che Carluccio aveva prescritto che
chiunque gli portasse un ordine a nome suo mostrando quell’anello dovea
essere obbedito. Poi la Stefanella, brandito un coltello che giaceva
sulla tavola, cominciò a tagliare le ritorte che tenevano avvinti i
francesi e quando l’ultimo fu libero.

— Aspettatemi! disse, scendo subito.

E Stefanella salì per il sentiero della caverna fino alla sua
imboccatura. Ivi vegliava un brigante in sentinella; mostrò l’anello e
gli disse:

— Ordine del capo di lasciarmi passare coi francesi.

La sentinella guardò l’anello e rispose:

— Passate.

Stefanella ridiscese a’ suoi liberati e sempre a bassa voce disse loro:

— Seguitemi ora....

Gabriele, la sua sposa, De-Mauve e la matrigna si mossero insieme come
spettri usciti da un sepolcro, per il sentiero sul quale Stefanella li
precedeva. In capo a pochi minuti furono tutti di sopra. La sentinella
disse:

— Quanti sono?...

— Quattro!... rispose Stefanella, e si fermò all’imboccatura per
contarli: l’ultimo a salire era stato Gabriele e quando egli al
chiarore delle stelle rivide il volto della santa fanciulla che era
stata tanta parte de’ suoi sogni giovanili, s’arrestò un attimo per
contemplarla e per dirle forse una parola d’affetto.

— Andate via!... fate presto!... fece la giovine interrompendogli la
parola sulle labbra. — Ma Stefanella non aveva ancora profferito queste
parole che due detonazioni partirono dal basso della caverna, e nello
stesso tempo Gabriele e Stefanella rotolarono insieme di pietra in
pietra fino al fondo dell’antro e vi restarono immobili.... morti!...

Carluccio ad onta della grande cautela impiegata dai fuggitivi, aveva
sentito un lieve rumore e, avvezzo agli _all’erta_ s’era destato. Egli
apriva gli occhi proprio nel momento che Gabriele toccava la soglia
dell’antro e s’avvicinava a Stefanella. A quella vista egli non fece
che balzar dal suo letto, afferrare la sua carabina a due colpi e
puntare le sole due persone che avesse sotto la mira. Egli aveva ferito
al cuore sua sorella e Gabriele al cervello.

Allo scoppio dell’archibugio tutta la masnada fu in all’arme; la voce
di tradimento si sparse da una fila all’altra e gli altri tre francesi
che si trovavano nella notte smarriti per il bosco, furono a colpi di
coltello, di fucile e di scure massacrati. In pochi minuti erano tutti
morti.

Carluccio intanto aveva aperta la sua lanterna cieca e s’era curvato
sul corpo dei feriti per riconoscerli.... Guardò il primo era Gabriele,
guardò l’altro era Stefanella.

Il brigante si precipitò sul bel corpo che egli aveva piagato, ne cercò
i battiti e non li trovò; volle ridestarne il calore, ma solo il gelo
della morte gli rispose; cercò scuoterla, rianimarla, e vide una testa
già livida e inanimata penzolargli tra le braccia.

Allora, ben persuaso che era morta.... diè fiato tre volte al suo
fischio e tutti i briganti in un attimo accorsero colle faci sull’alto
della caverna.

E quando vide tutta la banda raccolta, fe’ un cenno colla mano e parlò:

— La Furia ha finito!... egli s’era fatto brigante per vendicare costei
che le pende morta fra le braccia.... Ma per vendicarla l’ha uccisa....
Dio ha mostrato che la vendetta è fatale a chi l’adopera e colpisce
colla stessa arma il vendicatore. Voi non lo credete?... Guardate
allora.

E afferrato il pugnale che portava infisso alla cintola se lo affondò
nella gola, e spirò senza un gemito, tra i corpi di Gabriele e
Stefanella l’anima fiera.


  FINE.




NOTE:


[1] La prima fu fatta dai Tipi Polizzi della _Riforma_, la seconda
nelle Appendici del _Pungolo_ di Napoli.

[2] È nota la tradizione che nel medio evo trasformò il Virgilio, poeta
pagano, in una specie di mago o di genio taumaturgo protettore del
popolo. Ma più che altrove il culto democratico di Virgilio perseverò
nel Mezzogiorno d’Italia, a Napoli ed in Calabria, forse perchè
quivi il poeta mantovano visse e morì — _Mantua me genuit; Calabri
rapuere, tenet nunc Parthenope_ — Oggi il santo democratico e gentile
è detronizzato dal santo aristocratico e cristiano; oggi san Gennaro ha
scacciato Virgilio. L’arte può però immaginare che dovunque sopravvive
lo spirito della rivolta sociale, il taumaturgo popolare e repubblicano
non sia del tutto dimenticato, e che le anime ribelli godano invocarlo
come uno scongiuro e profferirlo come una sfida contro il santo
avversario. Ecco perchè l’abbiamo posto sulla bocca del brigante.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA TRATTA DEI FANCIULLI : $ RACCONTO SOCIALE ***


    

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