Storia delle scienze ad uso dei licei scientifici

By Corrado Barbagallo

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Title: Storia delle scienze ad uso dei licei scientifici

Author: Corrado Barbagallo

Release date: October 1, 2024 [eBook #74502]

Language: Italian

Original publication: Milano: Dante Alighieri

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK STORIA DELLE SCIENZE AD USO DEI LICEI SCIENTIFICI ***


                           CORRADO BARBAGALLO


                          STORIA DELLE SCIENZE

                      AD USO DEI LICEI SCIENTIFICI


    * * Scienza: obietto e metodo. — La scienza nell’Oriente
    classico. — La scienza nella Grecia classica ed ellenistica. —
    La scienza nel periodo romano. — La scienza araba e cristiana
    medievale. — La scienza nel Rinascimento (secc. XV-XVI). — La
    scienza nell’evo moderno (i secc. XVII-XVIII). — La scienza
    nell’età contemporanea (i secc. XIX-XX) * * * * *



                           MILANO-ROMA-NAPOLI
                    SOCIETÀ EDITRICE DANTE ALIGHIERI
                                   DI
                         ALBRIGHI, SEGATI & C.
                                  1925




                          PROPRIETÀ LETTERARIA
                 DELLA SOCIETÀ EDITRICE DANTE ALIGHIERI

                                   DI

                         ALBRIGHI, SEGATI & C.


           _Le copie non firmate si ritengono contraffatte._

      _Città di Castello, Tipografia della Casa Editrice S. Lapi._




PREFAZIONE


_Un punto del programma di filosofia dei nuovi_ Licei scientifici
_riguarda appunto la storia della scienza. A questa esigenza credo
risponda non indegnamente il presente volumetto._

_Quale per me sia stata la difficoltà della trattazione, tutti gli
insegnanti di materie filosofiche e storiche capiranno, e mi saranno_
(_ne sono sicuro_) _assai grati per i resultati raggiunti. Essa
consisteva nella insufficente conoscenza — per definizione! — del_
contenuto _scientifico della materia, di cui occorreva esporre lo
svolgimento secolare. Questa conoscenza ho dovuto, meglio che mi è
stato possibile, conquistare_ ex novo. _Taluno potrà forse giudicare
troppo estesa la narrazione assegnata alla scienza greca. Se così
egli pensasse, voglia credere che ciò è avvenuto ad intenzione.
Il valore della scienza greca, nella storia del pensiero umano, è
incalcolabile, come sa chi vi si accosta da vicino, e io non potrei
meglio scagionarmi dall’ipotetico appunto se non adoperando le parole
di uno dei massimi storici della filosofia — il Windelband —:_ «Se poi
qui sembri assegnata all’antichità una parte considerevole dell’opera,
ciò è dipeso dal convincimento che, per una comprensione storica della
nostra esistenza intellettuale, l’elaborazione dei concetti, raggiunta
e data dallo spirito greco, nella natura e nella vita umana, _è più,
importante di tutto ciò che d’allora in poi è stato pensato_».

_Compio il mio dovere, ringraziando il professore_ DIONISIO GAMBIOLI,
_uno dei pochi studiosi italiani di storia delle scienze, dell’aiuto
che mi ha pôrto nella revisione di questo lavoro._

                                                                C. B.




SOMMARIO


  PREFAZIONE                                           Pag.   V
  INTRODUZIONE                                          »     1
  La scienza nell’Oriente classico                      »     4
  La scienza nella Grecia classica ed ellenistica       »    14
  La scienza nel periodo romano                         »    51
  La scienza araba e cristiana medievale                »    65
  La scienza nel Rinascimento (secc. XV-XVI)            »    71
  La scienza nell’evo moderno (i secc. XVII-XVIII)      »   111
  La scienza nell’età contemporanea (i secc. XIX-XX)    »   149




INTRODUZIONE


1. =Scienza: obietto e metodo=. — La «scienza», di cui intendiamo
disegnare la storia nelle pagine che seguono, non è da identificare con
la semplice conoscenza, e neanche con ogni forma di sapere. Una storia
della «scienza», in questo secondo significato, sarebbe una storia
universale del pensiero umano in tutti i suoi aspetti: filosofico,
scientifico, artistico, politico, economico ecc. ecc. Neanche la
semplice conoscenza è _scienza_. L’obietto proprio del riassunto che
segue sarà invece _la storia dello svolgimento delle scienze della
natura_, intese nel senso più largo,[1] le quali concernono i fenomeni
che l’antichità e il Medio Evo definirono esattamente _physicà_ (cose
della natura materiale), contrapponendoli a _metafisicà_ (problemi
riguardanti l’_al di là_ della natura sensibile).

Questa conoscenza della natura diviene scienza, allorchè le nostre
cognizioni intorno ad essa si fanno organiche e metodiche, non si
limitano all’accertamento di un fatto, o di più fatti, ma badano a
ritrovare le loro connessioni intime, le condizioni necessarie, per cui
quei fenomeni avvengono, in una parola, la loro _legge_.

Naturalmente, in questa ricerca delle leggi dei fenomeni, di cui,
talvolta, parecchie discendono da una o da più leggi generali, che
anch’esse è possibile stabilire, succede alla scienza di entrare in
contatto con la metafisica e con la religione, due discipline, il cui
compito specifico è perseguire il fine e l’essenza delle cose. Sarà
ciò che osserveremo più volte, ed alla cui considerazione non potremo
sfuggire per le connessioni intime che tale ricerca ebbe, ed ha ognora,
con quella scientifica. Ma bisognerà sempre tener presente che questo
campo superiore non è quello proprio della scienza, la quale intende
solo a riguardare le leggi delle concomitanze e delle successioni
costanti dei fenomeni.

— Elemento importantissimo della scienza è il _metodo_. Parrebbe a
prima vista che ci debbano essere due categorie di scienze: quelle che
_deducono_ le loro leggi da principii più generali ed evidenti, come
le matematiche, scienze (si dice) di puro ragionamento, e quelle della
natura, in cui si osserva la realtà, se ne sperimentano i fenomeni, si
_inducono_ da questi leggi generali, e poi si torna, finchè si può, a
sperimentarle.

Ma è semplice illusione. Le matematiche presentano i loro resultati in
forma deduttiva, ma anch’esse si formarono, ottennero i loro resultati
fondamentali attraverso la osservazione e la successiva _induzione_.
Viceversa, anche la _deduzione_ è usata largamente nelle scienze
della natura, allorquando, da una certa legge, ricavata in seguito
ad osservazioni, si deducono gli effetti possibili, o quando, da una
ipotesi, si deducono conseguenze, che dovranno poi essere sperimentate.
Ogni scienza, può dirsi, ha una fase induttiva in cui l’osservazione
tiene il primo posto, e una fase deduttiva, in cui l’osservazione serve
solo a controllare (non più a suggerire!) la legge. O, per parlare con
maggiore precisione, nel lavoro scientifico, _induzione_ e _deduzione_
(ovverosia _osservazione_, e cioè la considerazione dei fenomeni, che
avvengono fuori di noi allo stato naturale; _ragionamento_, e cioè il
lavoro del pensiero per iscoprirne i varii rapporti; _esperimento_, e
cioè la ripetizione artificiale e consapevole del fenomeno osservato),
sono processi inseparabili e necessari. E, come vedremo, la scienza ha
potuto avanzare solo allorquando fra questi processi s’è avuto perfetto
equilibrio; ha vaneggiato o s’è arrestata, quando la preferenza per uno
solo di essi ha fatto trascurare gli altri.

Le scienze classiche degli antichi furono: astronomia, matematica,
fisico-chimica,[2] medicina, zoologia e botanica. Noi esporremo la
storia della scienza tenendo presente, per maggior chiarezza, anche per
l’età medievale e moderna, questa classificazione. Avvertiremo però
quali mutamenti siano, dall’evo antico ad oggi, avvenuti in codesta
partizione della scienza, e ne accenniamo qui anticipatamente i due
principali: talora, la suddivisione di alcune di queste scienze in
altre, divenute ormai indipendenti; tal’altra volta, l’intreccio, in
uno solo, di più di uno di questi rami, che ha dato luogo a scienze,
che oggi, anch’esse, hanno una personalità indipendente.




LA SCIENZA NELL’ORIENTE CLASSICO[3]


2. =Nell’Egitto antico=. — Le due scienze, particolarmente coltivate
dagli Egizi, furono l’_astronomia_ e la _medicina_. Lo studio dell’una
e dell’altra venne suggerito da ragioni pratiche. Quelle della medicina
sono facili a intendere; quelle dell’astronomia si collegano con la
coltivazione del suolo, tanto curata in Oriente, e che rimane soggetta
all’influenza del cielo e delle stagioni. Lo studio dell’astronomia
venne poi, a quegli antichi, singolarmente agevolato dalla
straordinaria trasparenza dell’atmosfera, che faceva scorgere a occhio
nudo le stelle anche di 4ª e 5ª grandezza, e dal clima mitissimo, che
permetteva di vivere a lungo all’aperto.

_A_). _Astronomia_. — Gli Egizi tengono il primo posto, fra gli antichi
popoli orientali, nello studio dell’astronomia. Essi favoleggiavano che
il Dio _Theut_ avesse loro insegnato tutte le arti e tutte le scienze.

I sacerdoti egizii crearono ovunque nei loro templi scuole di
astronomia e vi stabilirono veri e propri osservatori. I sacerdoti
del Sole studiarono in particolare il sole e giunsero a fissarne la
carta. Poco a poco, grazie a questo studio universale, e a questa vera
e propria collaborazione dei sacerdoti-astronomi dei varii templi,
l’Egitto del _periodo tebano_, verso i secc. XVIII-XVII a. C., potè
vantare la sua _carta del cielo_.

Gli Egizi antichi studiarono anche la luna; misurarono e divisero il
tempo in mesi, calcolati sulle fasi della luna, di 30 giorni l’uno,
e fecero perciò l’anno di 360 giorni (_anno lunare_). Quest’anno
fu distribuito, a sua volta, in tre stagioni (di 4 mesi l’una),
corrispondenti alle tre fasi agricole del Paese: l’inondazione del
Nilo, la raccolta, la seminagione.

Ma notarono bene le differenze tra l’anno regolato sulle fasi della
luna e l’anno regolato sul corso del sole, più lungo di 5 giorni e
1/4.[4] Cercarono di rimediare a tale divario, aggiungendo all’anno
lunare dei giorni _intercalari_, e alla fine adottarono — forse per
primi — l’anno solare.

Probabilmente gli antichi Egizi conobbero altri particolari fenomeni
astronomici: per es., questo, che il circolo, descritto dal giro
annuale del sole sulla sfera celeste — quello che diciamo _eclittica_,
perchè le eclissi hanno luogo quando la luna è in essa o vicina ad essa
— fa un angolo di 23°, 52′ con l’equatore celeste, che si dice appunto
_l’obliquità dell’eclittica_. E dovettero — anch’essi — notare che gli
equinozi e i solstizi cadono gli uni quando l’eclittica solare incontra
l’equatore celeste; gli altri, quando il sole raggiunge la sua massima
distanza dall’equatore.

Pur troppo, come tutti gli Orientali, gli Egizi non isfuggirono al
pericolo di confondere l’astronomia con la magia e con l’astrologia, e
anch’essi credettero che ogni giorno avesse una potenza sua speciale,
che bisognava o fuggire o assoggettare alla potenza umana. _Questa fu,
anzi, per gli Egizi la vera scienza_; l’altra, tutto il complesso delle
loro osservazioni e notazioni positive di astronomia, che tanto oggi
apprezziamo, fu, per essi, come il cascame, il resultato, imprevisto e
trascurato, della «vera» scienza.

_B_). _Medicina._ — Gli Egizi ebbero anche scuole numerose di
_medicina_, in cui si insegnava a diagnosticare e curare le malattie.
Pur troppo, l’eccessivo rispetto, per motivi religiosi, dell’integrità
del corpo umano impedì loro di dedicarsi alla anatomia. In compenso,
la loro medicina fu piena del concetto di _spiriti vitali_, che
presiedessero a tutte le funzioni organiche, e, in pratica, le loro
cure furono grossolanamente empiriche, esclusivamente sintomatiche,
senza che mai i loro medici riuscissero a cogliere e curare la causa
del male. Vigeva però, in questa scienza, una grande specializzazione.

_C_). _Matematiche._ — Per molto tempo si è creduto che gli Egiziani
avessero coltivato l’_aritmetica_ e la _geometria_[5] solo per degli
scopi pratici, come quelli del fare i conti e di misurare i campi,
per cui avrebbero adottato un sistema di misure, analogo al nostro
_decimale_. Ma tale giudizio sull’importanza della matematica, presso
gli Egizi, è assolutamente errato. I vari _Papiri matematici_[6] egizi,
che noi oggi conosciamo, e che ci dànno una chiara idea della coltura
matematica dal 3000 al 500 circa a. C., ci mostrano questa scienza in
pieno sviluppo presso quel popolo.

Essi conoscevano il calcolo delle frazioni, le equazioni di primo
grado a un’incognita, possedevano nozioni di geometria ecc. Gli Egizi,
dunque, pervennero, in questa scienza, in epoca remotissima, a uno
stadio assai elevato. Soltanto, le loro cognizioni matematiche, dopo il
3000 rimasero stazionarie, non progredirono più, probabilmente perchè
le loro scoperte matematiche (come anche quelle delle altre scienze)
venivano registrate nei loro libri sacri, a cui, in conseguenza, non fu
più lecito apportare modificazioni.

_D_). _Chimica._ — Una scienza, o, piuttosto, una tecnica che
nell’antichità preellenica, sembra essere stata particolare degli Egizi
è la _chimica_, il cui nome è forse egiziano. Questo probabilmente si
dovette alla copia di metalli e pietre preziose, che gli antichissimi
Egizi ebbero a disposizione e alla loro intensa attività industriale.
Essi conoscevano, credendoli tutti minerali, l’oro, l’argento,
l’elettro, il lapislazuli, lo smeraldo, lo stagno, il bronzo, il rame,
il ferro, il piombo (non però il mercurio!). Ne conoscevano i diversi
gradi di purezza, le possibili leghe dell’uno con l’altro. Confondevano
però i metalli naturali con le leghe e con certi minerali, colorati
e brillanti, naturali o artificiali. Tuttavia, ripetiamo, la chimica
degli Egizi (come di tutti i popoli antichi), più che scienza, fu arte
pratica industriale. Essi erano abilissimi nel fabbricare e tingere
il cuoio e il vetro, nel tingere il cotone, nel temprare l’acciaio,
nel fabbricare perle e gemme artificiali,[7] smalti, nel lavorare i
differenti metalli. Inoltre avevano notizia di numerose altre sostanze
— amido, acido acetico, canfora, bitume, nafta, carbonato di sodio ecc.
ecc. — e se ne servivano per gli stessi scopi, per cui oggi noi ce ne
serviamo.

Essi, dunque, conoscevano numerose operazioni di chimica. Ma quale
si fosse la maggior parte di queste operazioni noi non sappiamo, al
solito, perchè le loro industrie erano monopolii statali o di collegi
sacerdotali, e i loro metodi venivano, quindi, circondati da un geloso
segreto, assai più che molti procedimenti industriali dei nostri
giorni.

D’altra parte, la mancanza della libertà di comunicarsi a vicenda
i fatti osservati, nel che consiste una delle principali ragioni
dell’accrescimento della scienza moderna, ne impedì il progresso presso
gli Egizi. Onde, se la chimica fu arte di pratici, non fu mai, in
Egitto, vera scienza, nè dette luogo, come in Grecia, a speculazioni
sulla natura, sull’essenza della materia e sulle sue origini.


3. =In Caldea:= _A_). _Astronomia._ — I Caldei, ossia i Babilonesi,
coltivarono non meno intensamente degli Egizi l’astronomia. Essi
osservarono e notarono un cumulo enorme di fatti astronomici: lo stato
del cielo in ogni notte di ciascun anno, l’aspetto delle costellazioni,
il corso degli anni, il corso e le eclissi solari e lunari. Alessandro,
entrando in Babilonia nel 332 a. C., vi trovò annali astronomici che
rimontavano al 2234 a. C. Ma, più che tra gli Egizi, tutta questa
scienza fu, presso i Caldei, contaminata di misticismo. Per i Caldei,
cioè, lo studio dei fenomeni era nulla. L’importante era la ricerca
delle divinità, che vi presiedessero, nonchè dei mezzi per conquistarne
le volontà. E questa è vera e propria magia o astrologia o scienza
(diciamo così) delle profezie.

Ad ogni modo, i fenomeni, notati dai Caldei, erano un elemento positivo
che non poteva andare trascurato, e che li traeva naturalmente a
indurne delle leggi generali. Tale fu, ad es., quella, preziosa, del
riprodursi delle eclissi totali di sole a periodi di 18 anni e 10 od 11
giorni.[8]

Come gli Egizi, i Caldei misurarono dapprima l’anno secondo le fasi
della luna (_anno lunare_), dividendolo in 12 mesi eguali di 30 giorni.
Poi pervennero a calcolare il più lungo _anno solare_, e, per la misura
del tempo, inventarono l’orologio solare e l’orologio ad acqua.

L’astronomo, che divulgò nel mondo greco la scienza» caldea fu
_Beroso_, un caldeo ellenizzato, che, in sullo scorcio del IV secolo a.
C., fondò una scuola astronomica nell’isoletta di Cos. Dall’astronomia
caldaica i Greci trassero numerose e preziose cognizioni, che
mirabilmente sfruttarono e fecondarono.

_B_). _Medicina; Matematica._ — Quanto alla _medicina_, i Caldei
rimasero molto addietro in confronto agli Egizi, chè, assai più che
dedicarsi allo studio positivo delle malattie, essi si compiacquero di
applicare ai malati riti e formule magiche, nella illusione di curarli.

— Anche i progressi dell’_aritmetica_ e della _geometria_ furono,
presso i Caldei, secondo sembra, minori che presso gli Egizi,
giacchè quelle due scienze servivano loro per iscopi esclusivamente
pratici. I sistemi di misure, da essi adoperati, furono quello
decimale e quello sessagesimale, in cui l’unità è divisa in 60 parti
o in multipli e sottomultipli di 60 (come, ad es. la nostra ora, il
circolo). Conoscevano però le così dette _progressioni, aritmetica_
e _geometrica_,[9] le frazioni; possedevano nozioni elementari di
geometria e pare che nella notazione dei numeri facessero, come noi,
uso del valore di posizione, ossia assegnassero ai numeri un diverso
valore a seconda del posto occupato dalle cifre che li compongono.


4. =Le scienze presso gli altri popoli orientali.= — La scienza degli
altri popoli dell’Oriente classico (Assiri, Ebrei, Fenici, Iranici,
Indiani), che per altro noi conosciamo confusamente, non vanta —
sembra — alcuna originalità. Essa fu attinta per intero a Caldei e ad
Egizi, e non ebbe uno sviluppo indipendente. Ciò si dovette dapprima
all’impero politico, che Egizi e Caldei esercitarono lungamente su gran
parte delle restanti popolazioni orientali; poi, alla unificazione che
dell’Oriente classico fece l’Impero persiano, nella seconda metà del
sec. VI a. C.

Solo gli Indi — abitatori della metà superiore della penisola
dell’Indostan — mantennero una civiltà indipendente. Ma i loro
progressi scientifici rimasero ben lontani dall’altezza da essi stessi
raggiunta nel campo della letteratura e della filosofia. Memorabile
è solo, per noi, la loro matematica. Essi usarono le cifre che noi
diciamo _arabiche_ (perchè trasmessici dagli Arabi), che tanto,
al confronto della numerazione, romana, hanno agevolato i calcoli
aritmetici, perchè in esse il valore dei numeri dipende dalla posizione
delle cifre che li compongono, e tra esse v’ha un segno speciale per
indicare l’assenza di ogni unità: lo _zero_.

Ma questa sarebbe ben piccola cosa. Assai più importante è il
fatto che _gli Indi furono i veri perfezionatori dell’aritmetica
e i creatori dell’algebra_,[10] che pure rimase ignota ai Greci
sino al tardo periodo romano.[11] Anche i Greci, vedremo, furono
maestri in matematica; ma il loro genio si rivelò principalmente
nella _geometria_, nello studio, cioè, delle forme, non dei numeri.
In conseguenza la matematica moderna, sebbene, non influenzata
direttamente dalla matematica indiana, è, nel suo spirito, più vicina a
questa che non alla scienza greca.

Ma, come dicevamo, gli Indi rimasero quasi isolati nello sfondo delle
civiltà orientali più antiche, all’incirca tanto quanto quel popolo
orientale, non classico, nè di razza caucasica, che furono i Cinesi, i
quali pervennero a parecchie delle scoperte scientifiche cui il mondo
doveva giungere più tardi, ma senza avere la fortuna di comunicarle
altrui.

Viceversa, una parte importante nello scambio della coltura
scientifica, specie di quella suscettibile di applicazioni pratiche,
la matematica commerciale e la chimica, ebbero i Fenici, la cui breve
civiltà si svolge tra il crepuscolo dell’età micenea e l’aurora della
civiltà greca (XIII-VIII sec. a. C. circa).

Ma l’importanza di tutta la scienza orientale è di avere costituito
il terreno storico, da cui spiccherà il suo volo superbo la scienza
greca. Questa scienza, appunto, si inizierà nelle contrade orientali,
sulle coste dell’Asia Minore, colonizzate dagli Elleni, e tutti
gli scienziati greci dell’età classica attingeranno largamente alla
Caldea, all’Egitto, persino all’India, di cui leggeranno i libri,
interrogheranno i sapienti, studieranno con religione le dottrine.


5. =La scienza etrusca.= — Ma per un’altra via la scienza orientale
influì sull’Occidente: attraverso la coltura etrusca, ossia con la
migrazione, dall’Oriente, nell’Italia antica, della civiltà degli
Etruschi, popolo, intimamente penetrato di coltura orientale. Quivi,
infatti, nell’Italia antica, la scienza etrusca dominò nettamente, dal
X o IX sec. a. C., il mondo, italico e romano, fino a che non vi rimase
soverchiata dalla scienza greca.

_A_). _Astronomia e fisica._ — Come gli Egizi al dio _Theut_, così
gli Etruschi credevano di essere debitori degli elementi di tutte le
scienze a _Tagete_, semidio meraviglioso, incarnazione quasi della
Intelligenza.

Anch’essi studiarono l’astronomia. Fu questo còmpito dei sacerdoti
etruschi (come lo era stato di quelli egizi e caldei). La studiarono,
al solito, e ne notarono scrupolosamente i fenomeni, a fine di
penetrarne il significato, e trarne insegnamenti per l’avvenire. Ma,
dalle continue, sistematiche osservazioni, essi non solo ricavarono la
conoscenza di un mondo di fenomeni celesti, ma finirono con avvertirne
i legami, le leggi che li regolavano. Essi giunsero così a conoscere
il corso degli astri — specie del sole e della luna —, a determinare
l’_anno solare_, a dividere questo in mesi e a ripartirne i mesi in
periodi minori, così come insegnarono ai Romani.

L’osservazione degli Etruschi si stendeva anche a molti fenomeni
dell’atmosfera: piogge, venti, uragani, nubi, e specialmente i fulmini.
Onde essi per tal modo gettarono le fondamenta della _meteorologia_
(studio dei fenomeni atmosferici). Compilarono in proposito calendarii,
con indicazioni meteorologiche, riguardanti l’intera annata; conobbero
taluni degli effetti chimici della elettricità (per es. il cangiamento
dei colori, prodotto dal fulmine), tennero diarii del ripetersi dei
tuoni, notarono come l’Italia, in quanto penisola assai allungata,
fosse più di altri Paesi, adattissima alla generazione dei fulmini ecc.
ecc. E se la scienza astronomica e meteorologica degli Etruschi non
fece ulteriori progressi, ciò si dovette, al solito, all’essere stata
l’attenzione degli studiosi distratta dall’osservazione dei fenomeni e
rivolta alla inutile ricerca dei loro arcani significati.

Ma la fisica fu concepita specialmente dagli Etruschi come scienza
pratica, come scienza di applicazione. Perciò furono maestri in quel
ramo di questa disciplina che si denomina meccanica. Le loro mirabili
costruzioni di vòlte, l’uso delle colmate per prosciugare le paludi, i
molini a braccia, ecc. presuppongono numerose nozioni, specialmente di
meccanica.

_B_). _Chimica_. — Lo stesso è a dire della chimica: tutto il complesso
delle notizie che noi possediamo sulla vita etrusca, sulla direzione
delle loro conquiste, sulla loro attività industriale, c’impone il
convincimento che essi dominassero la chimica non meno profondamente
degli Egizi.

_C_). _Medicina_. — La medicina etrusca (come quella caldaica) fu
traviata da pregiudizi mistico-religiosi. Essa era considerata come
arte sacra concessa all’uomo per rivelazione, e perciò affidata ai
soli sacerdoti. Tuttavia gli Etruschi riuscirono a conoscere, la virtù
curativa di molte piante, e seppero estrarne i farmaci; conobbero
la virtù di molte acque. E la stessa arte degli arùspici, sacerdoti
incaricati di ricercare nelle viscere degli animali i segni, onde
preveder l’avvenire, fu, per gli Etruschi, un ottimo mezzo, con cui
acquistare indirettamente cognizioni anatomiche sul corpo umano. La
stessa arte etrusca rivela nelle sue rappresentazioni questa conoscenza
realistica del corpo degli animali.




LA SCIENZA NELLA GRECIA CLASSICA ED ELLENISTICA


6. =Le origini: gli Ionici (sec. VII-primi del sec. V a. C.).= — Mentre
la civiltà etrusca irrompeva nel mondo romano (secc. VIII-VI a. C.),
nasceva la prima scienza greca.

Nasceva, non già nella Grecia peninsulare, ma nelle contrade del
mondo ellenico più vicine alle influenze orientali, fra i Greci
delle colonie d’Asia Minore, la parte del mondo greco allora più
evoluta, economicamente e culturalmente. Ma la differenza tra la
scienza orientale e la scienza degli scienziati-filosofi greci di
questo tempo consiste in ciò: la prima ha caratteri troppo empirici
e, insieme, troppo superstiziosi; raccoglie osservazioni, abbondanti,
ma slegate, e se ne serve per erigervi sopra un mondo di misticismi
e di superstizioni; la scienza greca, invece, si affretta a ricavare
dai fenomeni osservati, e per via del ragionamento, una concezione
della vita e del mondo, affatto indipendente dalle antiche rivelazioni
religiose. Ciò che manca a questa scienza, e la fa, talora, precipitare
nella vana imaginazione, è l’abito, lo scrupolo di provare e riprovare
le leggi che essa formula, le sue ipotesi. Essa però, molte volte, ha
coscienza che di ipotesi provvisorie veramente si tratta, non di sicure
dottrine scientifiche.

Gli scienziati-filosofi dei secoli VII e VI e dei primi lustri del
sec. V a C. sono _Talete di Mileto, Anassimandro di Mileto, Anassimene
di Mileto, Eraclito di Efeso, Pitagora di Samo, Senofane di Colofone,
Parmenide di Elea_:[12] tutti, come si vede, salvo uno (Parmenide)
originari delle colonie greco-asiatiche.

_A_). _La scuola ionica._ — _Talete_ (secc. VII-VI a. C.) fu matematico
e astronomo. Gli antichi lo celebravano per aver egli predetto
un’eclissi totale di sole (probabilmente quella del 19 maggio 557 a.
C.).[13] Ma tale predizione, noi sappiamo, non era punto una novità
presso gli Orientali (cfr. § 3). Che il mondo degli astri si reggesse
secondo leggi immutabili era un luogo comune della scienza egizia e
caldea, e Talete, educato a questa scuola, non fece che ripeterlo tra
Greci. Riuscì anche (ci raccontano gli antichi) a misurare l’altezza
degli oggetti inaccessibili, paragonandone l’ombra con quella di un
altro oggetto piccolo, accessibile e misurabile, ossia osservando
che la lunghezza dell’ombra dell’uno sta alla lunghezza dell’ombra
dell’altro come l’altezza del primo, all’altezza del secondo.[14]
Conobbe le proprietà elettriche dell’ambra, che, stropicciata, attrae i
corpi leggeri, e quelle magnetiche della calamita. Ma tutte queste sono
osservazioni slegate.

Più importante è la parte che Talete ebbe in un altro ordine di
problemi.

Quale l’origine del mondo? Quale l’origine della vita? Ecco le due
domande che si poneva (e a cui rispondeva) il racconto (il mito)
religioso del tempo. Talete vi risponde, prescindendo completamente da
questo. Risponde che l’elemento originario e fondamentale del mondo e
della vita è l’acqua: l’acqua, che nutrisce le piante e gli animali,
che sviluppa calore, che compone i semi vegetali e animali. Il mondo,
dunque, sarebbe nato dall’acqua, ossia tutti gli elementi della vita
si sarebbero svolti da una fase primitiva in cui tutto era acqua.
Si trattava di una ipotesi fondata sur un’osservazione superficiale
e non suffragata di prove.[15] Ma cotale ipotesi si sforzava di
assegnare all’origine del mondo un processo naturale, differente da
quello inculcato dalla religione del tempo, e, sebbene per caso, essa
coincideva con una delle dottrine scientifiche, oggi più diffuse sulla
origine della vita.

_Anassimandro_ sostituisce all’acqua qualcosa di meno materiale: un
che d’«_indefinito_», di «_indistinto_», da cui sarebbero derivati la
_terra_ (al centro dell’universo), l’_acqua_ e l’_aria_ (quest’ultima
in una cerchia più esterna rispetto all’acqua), e poi il _fuoco_, là
dove brillano le stelle. Sono questi i quattro elementi, che saranno
ritenuti semplici e primordiali sino alle scoperte della chimica
moderna. Siamo, anche questa volta, di fronte a una spiegazione
ipotetica dell’origine del mondo, suscitata da osservazioni frettolose
della realtà, non cimentate ad alcuna prova. Ma anche questa
spiegazione è indipendente da quella degli antichi miti religiosi, e
vuol ritrovare la ragione del mondo nel mondo medesimo, non fuori di
esso.

Anassimandro si propose anche il problema della origine dell’uomo. Egli
immagina che l’uomo sia nato in un periodo in cui il nostro pianeta
non era completamente solidificato, e giaceva ancora in uno stato
semiliquido. La specie umana sarebbe perciò stata in origine una specie
acquatica, i cui germi avrebbero dapprima galleggiato sull’acqua, e poi
si sarebbero dischiusi sulla terra. Più tardi, nelle nuove condizioni,
di vita, essi avrebbero assunto vera forma umana.

V’è in questa concezione taluno degli elementi della moderna teoria
del trasformismo, o evoluzionismo, vegetale e animale (cfr. § 40
_A_): in primo, quello dell’adattamento della specie alle condizioni
dell’ambiente e la sua conseguente trasformazione. Ma non v’è il
concetto fondamentale di quella dottrina: la derivazione delle
forme, vegetali o animali, superiori dalle inferiori. D’altra parte,
Anassimandro si propose solo il problema dell’origine dell’uomo, non
quello, in genere, della origine delle varie specie animali e vegetali.
Ond’è che, se a proposito di Anassimandro, di trasformismo volesse
parlarsi, dovrebbe dirsi più propriamente che non è la sua teorica
sull’origine dell’uomo, ma è la sua teoria cosmica dell’_indistinto_
(donde sarebbero derivati i _distinti_ elementi del mondo) quella che
precorre la teoria dell’_evoluzione_, almeno secondo la formuleranno
il filosofo inglese Erberto Spencer e l’italiano Roberto Ardigò nella
seconda metà del sec. XIX.

Anassimandro ebbe anche delle vedute originali in astronomia. Per lui
la Terra ha forma di disco circolare piatto; ma può reggersi nello
spazio perchè egualmente distante da tutti gli altri punti; onde non
v’è ragione che abbia ad accostarsi ad alcuno di essi. Può leggersi qui
un’anticipazione, sia pur grossolana, della gravitazione universale?

_Anassimene_ (588-524?), più giovane di Talete e di Anassimandro,
torna a Talete, e pensa che principio delle cose sia uno solo degli
elementi della materia. Non però l’acqua, ma l’_aria_, che si stende
all’infinito, e sarebbe, nella sua essenza, qualcosa di identico
all’anima umana. Da essa, per via di condensazione e di rarefazione,
ossia, attraverso modi diversi di aggregazione delle varie particelle,
avrebbero avuto origine tutte le sostanze nei loro varii stati, solido,
liquido, aeriforme. Egli stesso si propose, in modo più preciso, il
problema dell’origine della vita organica, ossia delle piante e degli
animali, e per primo formulò l’idea che tanta fortuna avrà talora, più
tardi, e che anche oggi, sotto certe condizioni, la scienza torna ad
ammettere: l’idea della _generazione spontanea_ (ossia non da germi
preesistenti) delle piante e degli animali, sotto l’influenza che il
calore solare avrebbe esercitata sul primitivo fango terrestre.[16]

Per _Eraclito di Efeso_ (vissuto intorno al 500 a. C.), principio
universale è, non più l’aria o l’acqua, ma il terzo elemento, il
_fuoco_, ossia il calore, che determina lo sviluppo della vita
dell’universo. Ma questa è la parte meno interessante della sua
dottrina. Il concetto più geniale è quest’altro: che tutte le
cose della natura non giacciono in una condizione di stabilità, ma
ondeggiano in un fluttuare perenne. _Nulla sta, ma tutto si muove
e trapassa eternamente in forme diverse._ È questo, il principio
cardinale della citata, moderna dottrina della evoluzione!

I quattro filosofi-scienziati, che abbiamo sopra ricordati, questi
quattro primi «fisici» greci, come li denominò taluno degli antichi,
appartengono tutti a un comune ambiente di coltura. Come accennammo,
essi sono discepoli di quella scienza detta _ionica_, fiorita presso
un gruppo di colonie greche sulle rive dell’Asia Minore, e fondate
specialmente da quegli Elleni che si dissero di stirpe ionica, e che
dal loro nome chiamarono _Ionia_ tutto il Paese occupato.

Presso questi pensatori noi non troviamo una distinta separazione di
studii scientifici; essi sono un po’ di tutto: matematici, astronomi,
chimici, fisici, botanici ecc. Non troviamo, neanche, dietro le loro
speculazioni, un rigoroso procedere scientifico. Pure v’ha, di certo,
nell’opera loro, non solo, come siamo andati rilevando, lo sforzo di
affrancare il concetto del mondo, della sua esistenza, delle sue leggi,
da qualsiasi ingerenza della divinità, ma altresì l’affermazione di
talune intuizioni scientifiche, fondate sull’osservazione — per quanto
scarsa e superficiale —, che rimarranno per secoli al fondo della
scienza umana.

La più tenace fra essi è la dottrina dei quattro elementi semplici
(_acqua, aria, fuoco, terra_), da uno o più dei quali, e dalle
cui combinazioni e trasformazioni sarebbe nato l’universo, si
sarebbe generata la vita. Questa dottrina, attraverso variazioni e
oscillazioni, permane, come radicata, da Talete ad Eraclito. Ed essa
travalicherà la scienza greca, e persisterà sino al fondatore della
chimica moderna: il Lavoisier (cfr. §§ 31 _B_).

_B_). _Pitagora._ — Maggiore importanza dei precedenti ha _Pitagora
di Samo_ (seconda metà del sec. VI), nato anch’egli e vissuto, nei
suoi giovani anni, in patria, ma che più tardi si recò nella Magna
Grecia, e quivi, a Crotone, fondò una scuola, che, tramandata per
molte generazioni, doveva essere una delle più gloriose dell’antichità
e congiungere la coltura greco-orientale con quella dell’Occidente
colonizzato dai Greci. Pitagora imprende a coltivare quella disciplina,
che più scarsamente i filosofi ionici avevano studiata: la matematica,
e che, per avere, meno delle altre, bisogno di esperienze e di
strumenti scientifici, poteva più rapidamente e più sicuramente
progredire. Pitagora è il ritrovatore di molte leggi matematiche,
riguardanti i numeri e le proporzioni; _è, anzi, il creatore della
aritmetica e della geometria greca_. Egli distinse i numeri pari dai
dispari, e ne dedusse parecchi teoremi: 1) _le successive addizioni
di numeri dispari danno, come resultato, i quadrati delle serie pari e
dispari_;[17] 2) _la somma di numeri pari dà, come resultato, cifre che
sono il prodotto di numeri successivi diversi solo di un’unità_.[18] In
geometria, risolse il famoso «_teorema di Pitagora_»: «_in un triangolo
rettangolo il quadrato della ipotenusa_ (il lato opposto all’angolo
retto) _è equivalente alla somma dei quadrati degli altri due lati_
(_cateti_)», e quest’altro: «_Trasformare un poligono nel quadrato
equivalente_».[19]

Pitagora fu astronomo, non meno grande che matematico. Primo insegnò
che la terra è di forma sferica, affermando così una delle fondamentali
dottrine moderne e dominando, come vedremo, tutta l’astronomia antica.
Egli ignora il movimento di rotazione terrestre, ma assegna alla
terra un movimento di rivoluzione, non però intorno al sole, bensì
intorno a un _fuoco_ centrale, collocato nel mezzo dell’universo,
che illuminerebbe anche il sole. Questo movimento di rivoluzione si
compirebbe in 24 ore da ovest a est e, con la Terra, girerebbero, in
una stessa sfera, i pianeti, il sole, la luna.

Pitagora fu anche fisico, e ci tramandò le prime leggi dell’acustica.
In base ad esperienze sopra i suoni, resi da un bicchiere, più o meno
pieno d’acqua, egli determinò quali lunghezze deve avere una corda
perchè sia capace di rendere le differenti note della scala inimicale,
e con quali pesi debba tendersi una corda perchè, a parità di
lunghezza, renda ugualmente i suoni di codeste note.

Egli giungeva così al concetto, scientificamente esatto, che il suono è
prodotto dalle vibrazioni, determinate nella massa dell’aria, dall’urto
dei corpi sonori, e che la varietà dei suoni dipende dalla varietà
delle onde sonore e dalla massa del corpo vibrante.

Studî analoghi egli fece anche sui suoni resi dai tubi, e dimostrò
l’analogia, che esiste, fra questi suoni e quelli emessi da corde
vibranti.

Ci troviamo, dunque, con Pitagora di fronte a una scuola di scienza
sperimentale. Egli stesso affermava che nell’universo esiste un ordine,
un’armonia costante, e che «i numeri sono i principii di tutte le
cose», ossia che _tutto è retto da leggi immutabili e che in ogni
fenomeno esiste una regolarità, una legge, che può esprimersi mediante
numeri o rapporti fissi delle grandezze che vi figurano_.

_C_). _La scuola eleatica._ — Altri studiosi greci, venuti, nel VI
sec. a. C., dalle colonie greco-asiatiche dell’Asia Minore in Italia,
nella Magna Grecia, ma non già nell’ambiente dove fiorivano Pitagora
e i Pitagorici, sibbene assai lungi da loro, in Elea (la _Velia_
romana), sulla costa tirrenica, fondarono una _scuola_, che si disse
_eleatica_, e che ha grande importanza per le origini della scienza.
Di _Senofane di Colofone_ (560-460 a. C.), del quale è nota la critica
acerba alla religione antropomorfica greca, e la credenza in un Dio,
spirituale ed eterno, che farebbe tutt’uno col mondo (_panteismo_), si
ricordano altresì gl’inizi di quella critica della umana conoscenza,
che dovrà affaticare tanta parte della filosofia e della scienza
moderna. Egli sosteneva che le _nostre conoscenze sono limitate,
relative, soggettive_, e che la realtà vera noi non siamo mai in grado
di conoscerla. Ma, come scienziato, Senofane si ricollega a Talete, ad
Anassimandro, ad Anassimene. A Talete, in quanto pensa che gli avanzi
fossili di animali, che primo riconobbe, comprovano che l’acqua, il
mare, è l’elemento da cui uscì la terra e la vita; ad Anassimandro, in
quanto anch’egli ribadisce il concetto che l’uomo derivi dal pesce e
che la sua prima apparizione si collochi nello stadio originario, tra
fluido, e solido, del nostro pianeta; ad Anassimene, in quanto egli
torna ad ammettere la _generazione spontanea_: il sole, riscaldando la
terra, ne avrebbe fatto produrre piante e animali.

Opinioni analoghe seguì e sviluppò il suo discepolo _Parmenide di
Elea_. Ma questi poneva altresì un’altra teoria, base della chimica
moderna: _che cioè la materia è perenne, indistruttibile, e non avrebbe
potuto originarsi se essa non fosse mai esistita, come non può mai
svanire_. La scienza moderna, formulerà la identica legge allorchè
sentenzierà: «_Nulla si perde e nulla si crea!_»


7. =Dalle guerre persiane alla fine del V secolo a. C.= — Nell’età
delle Guerre persiane, ossia nei primi decenni del V sec. a. C., e
nell’età successiva, che suol dirsi di Pericle — dal massimo uomo
politico ateniese che domina la scena della vita greca —, e che si
stende all’incirca fino all’ultimo quarto dello stesso secolo, il
centro della coltura greca si sposta man mano dall’Asia Minore e
dalla Magna Grecia alla Grecia peninsulare e insulare. L’invasione e
la devastazione persiana, in Ionia, hanno provocato la decadenza di
queste città e la fuga della parte più agiata e più eletta dei loro
abitanti. Le persecuzioni delle democrazie greche della Magna Grecia
contro i Pitagorici, che quivi si erano organizzati in partito politico
aristocratico, ne ha provocato l’esilio e la dispersione. Intanto
Atene è divenuta il cervello, politico ed economico, del mondo greco, e
quivi perciò convengono pitagorici, ionici, eleatici a professarvi e a
diffondervi le loro dottrine.

_A_). _Astronomia e matematica._ — Le scuole astronomiche e
matematiche, fondate da Pitagora e da Talete, continuano, nella prima
metà del secolo, a fiorire in Italia (Magna Grecia) e nella Ionia. Un
discepolo di Pitagora — _Filolao_ — vissuto all’incirca un secolo dopo
il Maestro (metà del sec. V a. C.), concepisce per la prima volta,
sebbene in modo assai confuso, _il movimento di rotazione della Terra
intorno al proprio asse_. Non a torto quindi il sommo Copernico (sec.
XVI), nella sua opera classica _Le rivoluzioni delle sfere celesti_,
lo considererà come uno dei suoi precursori. Da Filolao l’idea della
rotazione della Terra passò agli altri pitagorici del sec. VI (_Iceta,
Eraclito, Eefanto_).

Ma sia questo come l’altro fondamentale concetto dell’astronomia
pitagorica della sfericità della Terra, e del suo movimento di
rivoluzione, non travalicano la coltura greca dell’Occidente. Altrove
la Terra è sempre concepita come un disco piatto, tenuto in sospeso
dall’aria. Ma _Anassagora di Clazomene_ (metà del sec. V), che
soggiornerà e professerà lungamente in Atene,[20] insegnerà che il sole
è una massa incandescente più grande del Peloponneso, e che la luna
riceve luce dal sole, e ha anch’essa, come la Terra, e monti e valli...
Un suo contemporaneo, di lui poco più giovane, un dimenticato discepolo
di Talete e sommo matematico — _Enopide di Chio_ (intorno al 460 a. C.)
— calcola l’anno solare in 365 giorni, 8 ore e 57 minuti,[21] e compila
un calendario relativo. Con maggior precisione l’ateniese _Metone_
calcolerà, nel 432 a. C., che 19 anni solari sono eguali a 235 mesi
lunari, commettendo il solo errore di appena mezz’ora (30^m, 9^s).

Questi progressi in astronomia dipendono dai progressi delle
matematiche greche. Matematici sono infatti, _Enopide_ e _Metone_. E
il discepolo di Enopide — _Ippocrate di Chio_ (fiorito intorno al 450
a. C.), che professò l’insegnamento in Atene —, oltre ad occuparsi di
parecchi problemi matematici, tra cui della famosa _quadratura del
circolo_, dettò il primo libro scolastico di geometria: _Elementi
di geometria_. In esso egli introdusse per primo l’uso di indicare
con lettere dell’alfabeto i punti principali delle figure a fine di
agevolare le dimostrazioni, e in ogni sua parte si rivelò uno dei più
grandi geometri dell’antichità.

_B_). _Medicina._ — Fuori di Atene fiorisce rigogliosa la scienza
medica. Essa aveva avuto origine nei templi sacri al dio della Salute,
_Esculapio_. Intorno a questi templi, come intorno a cliniche popolose,
sorsero numerose scuole mediche, con carattere decisamente scientifico.

Le più importanti furono quelle di Crotone (nella Magna Grecia) e di
Cnido (in Asia Minore) e di Cos (una delle Sporadi meridionali), dove
appunto erano due famosi templi sacri ad Esculapio. In queste scuole
si impartivano lezioni scientifiche, e si facevano studii clinici e
pratiche chirurgiche; da esse uscirono medici famosi, i quali, alla
Corte dei re di Persia, presero il posto dei medici caldei ed egiziani;
da esse provenne una notevole letteratura scientifica medica. In
questa letteratura è scomparso il concetto primitivo che le malattie si
debbano a cause soprannaturali, e che, per guarirle, occorra invocare
e placare gli dèi. I nuovi scienziati pensano che «ogni malattia ha una
causa naturale, e senza causa naturale nulla può accadere» (Ippocrate).

Alla metà del sec. V, il medico _Alcmeone di Crotone_, un pitagorico,
insegnava che il cervello è la sede dell’umano pensiero: scoperta,
che doveva superare infinite difficoltà prima di diventare di
dominio comune. Nella scuola di Cnido la medicina era profondamente
specializzata: essa ammetteva innumeri malattie e, per ciascuna, uno
specifico. Ma il principe dei medici e della scienza medica del tempo
è _Ippocrate di Cos_ (460-380 circa a. C.), da non confondere col
matematico suo omonimo, uno, appunto, dei più grandi maestri la cui
scienza dominerà tutto l’evo antico.

Ippocrate si oppone alla scuola di Cnido, in quanto egli è sopra
tutto un’igienista. Per lui la sanità si fonda sulla equilibrata
mescolanza dei quattro umori contenuti nel corpo umano: _bile gialla,
bile nera, sangue, pituita_. La malattia è una perturbazione di questa
combinazione, e la scienza medica può solo aiutare, non creare, il
processo naturale, tendente a ristabilirne l’equilibrio. Onde, assai
più importante del curare i mali, è prevenirli con norme igieniche.

Ad Ippocrate si attribuiscono numerosissime opere: ben 53 volumi; ma
i più di questi appartengono, non al maestro, ma alla sua scuola, e
risalgono alla seconda metà del sec. V a. C.

Pur troppo, i pregiudizi religiosi non permettevano ancora il
sezionamento del cadavere, e, quindi, impedivano i progressi
dell’anatomia, base della scienza medica. Però si facevano notevoli
operazioni chirurgiche, ma non amputazioni, ignorandosi il modo di
legare le arterie e di arrestare le grandi emorragie.

_C_). _Fisico-chimica; scienze naturali._ — Frattanto proseguiva in
Grecia l’attivo speculare di filosofi e di scienziati sui problemi, che
primi gli ionici avevano posti, a fine di giungere a una spiegazione
dell’origine, della formazione, delle trasformazioni, dell’universo.

_Empedocle di Agrigento_ — un greco di Sicilia — (484-?? a. C.), da
un lato approfondisce le dottrine di Parmenide sulla indistruttibilità
della materia; dall’altro, ripiglia quelle di Anassimandro sui quattro
elementi primordiali: acqua, aria, terra, fuoco. Ma per lui (ecco la
novità che lo distingue dai Ionici!) i quattro elementi sarebbero
originari e intrasformabili, irreducibili dall’uno all’altro, e
mossi, non già da una forza loro interiore, ma da agenti esterni: un
fluido positivo e uno negativo, l’_amore_ e l’_odio_. Attraendosi o
respingendosi, determinerebbero la formazione della materia. Questa, la
sua teoria della natura.

Empedocle stesso tornò a proporsi il problema della vita organica.
Anch’egli, come Anassimene, è un credente nella generazione
spontanea. Ma egli non imagina che le forme superiori siano nate
contemporaneamente alle inferiori; le piante, insieme con gli animali.
Secondo Empedocle, nacquero prima le piante; poi, dal terreno, alcune
parti degli animali, le quali, attratte dall’_Amore_, che domina il
mondo, si organarono fra loro. _Di tali organismi sopravvissero quelli
adatti alla vita; scomparvero quelli inadatti._ Eccoci dunque, in
presenza della teorica della «sopravvivenza dei più adulti», ch’è uno
dei concetti fondamentali dell’evoluzionismo nella forma, che assumerà
nelle opere di Carlo Darwin, nel sec. XIX (cfr. § 40 _A_).

Empedocle stesso fu autore di una teorica fisica — di una _dottrina
della visione_ —, che persisterà attraverso la scienza greca fino
all’età moderna: che, cioè, noi vediamo perchè il nostro occhio lancia
dei raggi visivi a percepire l’imagine degli oggetti.

_D_). _Democrito di Abdera_ (460-370). — Ma eccoci venuti faccia a
faccia col più grande scienziato greco, con cui si chiude il V sec. a.
C.: _Democrito di Abdera_ (in Tracia) (460-370 circa). Democrito si
occupò di tutte le scienze: matematica, astronomia, medicina, fisica
ecc., e fu, con Aristotele (cfr. § 8 _C_), il massimo, forse, fra gli
scienziati dell’antichità greca, ossia di tutta l’antichità.

La parte più notevole delle sue dottrine è quella che oggi diremmo
fisico-chimica. Per Democrito, non esistono gli elementi semplici,
primordiali, di genere diverso, o (secondo affermava Empedocle)
irreducibili fra loro, che esistevano pei primi pensatori greci; per
lui, non v’ha che un’unica materia e lo spazio vuoto. Questa materia —
_la materia_ — è formata di _atomi_, particelle estremamente piccole,
qualitativamente identiche, ma diverse per forma, misura, peso. Gli
atomi precipitano nello spazio vuoto, ma con rapidità diversa, come
diverso è il loro peso, e si raggruppano dando luogo ai vari corpi.
Il peso e la durezza dei corpi sono determinati dalla varia grandezza
e dal vario addensamento degli atomi; il colore e il gusto sono dati
dalla diversa impressione che, gli atomi, a seconda la grandezza e la
forma, esercitano sui nostri sensi. Anche l’anima umana è formata di
atomi, il cui movimento genera il pensiero.

V’ha, quindi, secondo Democrito, una continuità perfetta tra il
mondo fisico e il mondo spirituale. Un atomo, urtato da un altro,
aquista una certa oscillazione che comunica a tutti gli atomi vicini.
Così, ad esempio, un oggetto sonoro comunica il suo moto all’aria,
e dall’aria giunge all’orecchio, ove produce una vibrazione atomica.
Questa vibrazione, comunicandosi agli atomi dell’anima, determina le
sensazioni, che persistono anche quando il primo stimolo è venuto meno.

Così _i moti e i fenomeni della vita materiale e spirituale avvengono
tutti per attività propria ed esclusiva della materia_. Democrito è,
quindi, il fondatore del materialismo filosofico, che non contrappone
spirito a materia, ma li considera come un’entità unica, e concepisce
la materia non già inerte, ma come animata da una energia interiore,
e l’energia (lo spirito), come formata dagli stessi elementi della
materia.

Com’è evidente, la _teoria atomica_ di Democrito è piena di una grande
originalità. Ma, se ben si guarda, anch’essa procede per insensibile
gradazione dall’altra dei quattro corpi semplici. Uno degli scienziati
ionici, sostentori di quest’ultima, Anassimene, vedemmo (cfr. § 6 _A_),
avea insegnato che i corpi sarebbero prodotti dal diverso condensarsi
di un’unica materia semplice — l’aria —, ossia attraverso modi diversi
di aggregazione delle sue particelle. Da questa concezione alla
teoria atomica il passo è breve, e le due scuole, che si contenderanno
accanitamente il dominio della fisica e della chimica — quella degli
elementi semplici, irreduttibili fra loro, e quella atomica che
concepisce la materia come tutta formata di infinitesimi elementi fra
loro omogenei — sarebbero (come tante volte è avvenuto nella storia
della scienza) l’una una filiazione dell’altra.

Come che sia di ciò, la dottrina atomica di Democrito rimase solitaria
nel mondo antico. Dalla oscurità e dal silenzio la trarranno, a
larghissimi intervalli di tempo, Epicuro, in Grecia, Lucrezio, in Roma.
Ma la scienza chimica moderna, dal Rinascimento a oggi, non sarà che
una lotta per il trionfo della dottrina democritèa, e questa è oggi
finalmente riuscita a provare la sua sostanziale verità.

Fu Democrito, oltre che un filosofo della fisico-chimica, uno «studioso
della natura», «che ne investigò tutti i dominii», uno scienziato,
che ci lasciò scritti di vera e propria chimica, nonchè di zoologia e
di botanica, secondo precisamente ci diranno gli antichi alchimisti?
È possibilissimo; ma nulla, pur troppo, ci è rimasto dell’opera sua.
Fu però, certamente, geometra insigne, nonchè astronomo, e pur senza
telescopio o spettroscopio, intravide che nello spazio esistono
innumeri sistemi solari, alcuni in formazione, altri in dissoluzione;
alcuni, abitati da esseri viventi, altri, privi di vita. E in ottica
egli fu il fondatore di una _teorica della visione_, che nell’antichità
si contrappose all’altra, assolutamente errata, di Empedocle (§ 7 _C_)
e poi ripresa dal Platonici. Per Democrito, noi vedremmo gli oggetti,
non perchè l’occhio emani raggi visivi, ma perchè delle particelle
degli oggetti sono proiettate sulla nostra pupilla.


8. =La scienza nel IV secolo a C.:= _A_). _Platone_ (429-348).
— La biografia del sommo _Platone_, uno dei pensatori, che più
vasta influenza eserciteranno sul pensiero antico e moderno, sta a
cavaliere fra il V e il IV secolo a. C., in un’età nella quale, se, in
conseguenza della catastrofe della _Guerra del Peloponneso_ (431-404
a. C.), la potenza politica ed economica di Atene declina, la città
conserva sempre l’antica superiorità intellettuale e culturale. Ma
l’insegnamento di Platone appartiene alla prima metà del IV sec. a.
C., ossia al periodo successivo alla morte del maestro di lui, Socrate
(399), e al ritorno di Platone dai suoi numerosi viaggi, forse in
Egitto, certo nella Magna Grecia, dove fiorivano ancora i Pitagorici.
La sua scuola ebbe sede in Atene, nei giardini di Academo, e da ciò
essa prese il nome antonomastico di _Academia_.

Il contributo di Platone alle scienze vere e proprie è (con un’unica
eccezione, la matematica) quasi nullo. A ciò lo conduceva fatalmente
la sua filosofia. Per essa, la verità, la realtà non risiedono nel
mondo sensibile, ma in un mondo ultrasensibile, il mondo delle forme
astrattive — delle _idee_, come Platone le denomina —, ossia delle
forme perfette, degli schemi ideali, di cui ogni oggetto terreno non è
che una cattiva copia. Il mondo dei fenomeni sensibili non era quindi
degno della sua attenzione, e Platone non si piegò ad occuparsene che
negli ultimi anni, sotto l’influenza dei Pitagorici. La sua concezione
del mondo è infatti esposta nel suo tardo dialogo — il _Timeo_ —;
ma anche quivi, sebbene egli mescoli le teorie dei primi ionici a
quelle dei Pitagorici, è ben difficile ritrovare qualcosa di più di
un’imaginazione poetica.

Invece la matematica, specie la geometria, è la scienza delle forme
perfette, e perciò Platone la ritenne indispensabile a chiunque voglia
studiare filosofia — la disciplina a lui principalmente cara —, anzi
indispensabile alla educazione e alla formazione della mente umana.

Principale suo merito fu di aver trasformata la logica dei primi
geometri, fondata sulla intuizione, in un metodo rigoroso, e perciò
di avere curato l’esattezza delle definizioni dei termini geometrici
(_punto, linea, superficie_ ecc.), quali noi più tardi ritroveremo in
Euclide (§ 9 _D_). Altro suo merito fu di avere introdotto in geometria
— o, piuttosto, di avere severamente e completamente perfezionato — il
_metodo analitico_ delle dimostrazioni geometriche.[22]

Platone si occupò anche della risoluzione di qualcuno dei più
interessanti problemi geometrici, sui quali indagavano i suoi
contemporanei, e diede vigoroso impulso allo studio dei corpi solidi,
fino allora negletto.

L’astronomo vale in Platone assai meno del matematico; anzi, per lui,
l’astronomia aveva valore scientifico solo in quanto si legava alla
geometria.

Egli crede ancora che la Terra stia al centro del sistema solare, e
che i corpi celesti ruotino intorno ad essa. Distingue però i moti dei
pianeti Venere e Mercurio da quelli, più lenti, degli altri pianeti;
e riconosce che la luna splende di luce solare riflessa. Solo, in età
tarda, grazie alle relazioni intellettuali coi Pitagorici, egli finì
(secondo sembra) con l’ammettere la rotazione della Terra e, forse,
altresì, a concepire il dubbio che non questa, ma un qualche altro
corpo celeste più eletto sia collocato al centro dell’universo.

Il contributo di Platone alle scienze fisiche e chimiche è, dicevamo,
nullo. La sua teoria sulla visione è quella di Empedocle (§ 7 _C_).
Come si vede, dunque, il sommo Platone, la cui filosofia dominerà
e travalicherà i secoli, fu, nei riguardi delle scienze, salvo in
matematica, assai inferiore a molti suoi contemporanei, sovra tutto
al grande Democrito, assai meno noto di lui, e inferiore, certamente,
al grande filosofo che immediatamente gli segue: Aristotele. La
sua filosofia, anzi, è carica di uno spirito antiscientifico.
Tuttavia, come vedremo, allorchè, in sulla fine del Medio Evo, le
scienze si saranno impantanate, senza più riuscire a districarsene,
nell’aristotelismo, la filosofia platonica avrà gran parte nelle
fortune della loro rinascita (cfr. § 18).

_B_). _Astronomia; medicina._ — Nell’età successiva a Platone, i
discepoli di Pitagora e di Democrito giungevano ai resultati più
interessanti in astronomia e in fisica.

I Pitagorici continuavano a sviluppare la teoria della sfericità
della terra e a organizzare intorno ad essa tutta la geografia
astronomica. Se tra la scienza astronomica dei Pitagorici il concetto
della rotazione della terra era ormai invalso largamente, _Eraclide
di Eraclea_, discepolo di Platone, passava ad ammettere che i pianeti
Mercurio e Venere si muovano intorno al sole. Egli faceva, così, un
nuovo passo verso quella concezione moderna del sistema solare; che noi
diciamo _eliocentrica_[23] o _copernicana_. Ma i più rimanevano fermi
al sistema, che le apparenze sembravano inculcare: che, cioè, la Terra
sia immota e che i corpi celesti ruotino intorno ad essa, su sfere
concentriche (ben 27!), pur avendo, ciascuno, un movimento suo proprio,
oltre a una rotazione giornaliera intorno alla Terra. L’ideatore di
questo sistema, che precorre quello tolomaico, e nel quale la scienza
astronomica finirà con adagiarsi sino al sec. XVI, fu uno dei più
grandi matematici del tempo _Eudosso di Cnido_ (408-355).

Nel campo delle scienze naturali, continua a fiorire la medicina,
rigogliosa nelle due scuole, di Cos e di Cnido. Pur troppo, la scuola
di Cos rimase dommaticamente attaccata alla dottrina del maestro
Ippocrate, e l’una e l’altra continuarono ad astenersi dal sezionamento
del cadavere umano, ossia ad inibirsi le più elementari conoscenze
anatomiche.

Ma come il sec. V aveva avuto una mente enciclopedica — Democrito —,
così l’uomo che, nella seconda metà del IV secolo, riassume tutto il
pensiero scientifico dell’età sua è _Aristotele_.

_C_). _Aristotele_ (384-322). — _Aristotele di Stagira_ (in Calcidica)
era figlio di uno dei medici della Corte del re di Macedonia, Filippo
II, e fu medico egli stesso. Più tardi ascoltò in Atene le lezioni di
Platone e, più tardi ancora, dopo il 335 a. C., insegnò colà, come
il Maestro suo, nella scuola che egli stesso aperse in città, nel
_Ginnasio_[24] del _Liceo_.

Aristotele fu, al pari di Platone, filosofo, letterato, scienziato in
ogni genere di scienze; ma, laddove Platone si dimostrò filosofo più
che grande che scienziato, Aristotele fu tanto grande scienziato quanto
grande filosofo.

Aristotele può dirsi il primo filosofo realista nella storia del
pensiero umano. Per lui, tutto il sapere deriva dalla esperienza.
Questa, dunque, bisogna interrogare, per via dell’osservazione, innanzi
di formulare delle teorie. Solo più tardi dai principî generali così
stabiliti sarà possibile dedurre nuove verità.

Egli non soggiungeva se occorresse provare sperimentalmente anche
questa seconda serie di verità. Ma i generali criterii scientifici di
Aristotele sono di tal natura, da autorizzarci a questo completamento
del suo pensiero e da permettere che lo si ritenga (nella teoria,
se non nella pratica) veramente precursore dei metodi della scienza
moderna.

Aristotele lasciò scritti d’ogni genere — di zoologia, anatomia,
fisiologia, fisica, astronomia ecc. —, ma certo egli non fu in tutto
egualmente grande. La sua matematica (specie la geometria) contiene
talune delle definizioni più difficili; in un’opera perduta di
meccanica, osò per il primo applicare la geometria alla fisica. Ma la
sua astronomia[25] è priva di originalità, e segna un regresso rispetto
alla astronomia dei Pitagorici. Egli ammette la sfericità della luna,
desumendone la dimostrazione dagli aspetti della luna nelle sue fasi,
che sono precisamente gli aspetti che assumerebbe un corpo sferico
di cui una sola metà sia illuminata. Ma questo concetto e questa
dimostrazione non erano nuovi. Dalla sfericità della luna Aristotele
deduce quella degli altri pianeti, giungendo a una conclusione
esatta attraverso un ragionamento audacissimo, anzi errato. La sua
dimostrazione della sfericità della Terra, che egli ammette, è fondata
su taluni degli stessi argomenti che noi oggi adottiamo. Per contro,
egli non crede alla possibilità del movimento di rivoluzione della
Terra, e al sistema eliocentrico preferisce la teoria delle sfere di
Eudosso, che, d’altra parte, egli complica con pregiudizi ed errori.
Peggio ancora, le stelle sono per lui corpi animati: concetto che
ricavava dalla religione greca.

Superiore è la fisica aristotelica.[26] Essa però non condivide la
teoria atomica di Democrito. Per Aristotele, l’unità qualitativa
della materia è inamissibile: talune materie sono pesanti; altre, come
l’aria e il fuoco, leggere. Aristotele repugna altresì dal concetto
del «vuoto» (in cui, secondo Democrito, si muoverebbero gli atomi), del
quale l’esperienza non gli porgeva alcun segno. Per lui, il vuoto non
esiste, ed egli inaugura così quella dottrina che «_la natura ha orrore
del vuoto_», destinata a un’esistenza più volte secolare. E se ammette
che ciò che noi diciamo _nascere_ e _morire_ siano null’altro che
mutamenti di cose esistenti, determinati dal moto, questo moto non ha,
come per Democrito, pura natura meccanica. Per Aristotele, la materia è
inerte, e il moto, che noi vi sorprendiamo, dipende, invece, in ultima
istanza, dallo Spirito, dalla Volontà suprema che regge il mondo, e
ch’è la vera causa di ogni fenomeno fisico, mentre le cause meccaniche
non sono che _cause parziali_ o _pseudo-cause_.

Questa sua netta separazione fra materia ed energia, fra mondo della
materia e mondo dello spirito, collocano Aristotele fra i filosofi e
gli scienziati che saranno detti _dualisti_ di fronte ai _monisti_,
quale Democrito era stato.

Tuttavia, nel ritornare alla teoria dei quattro elementi, Aristotele
introduce alcuni concetti originali. Anzitutto, un nuovo elemento —
l’_etere_ —, di cui sarebbe formato il mondo celeste. In secondo, nella
zona terrestre, i quattro tradizionali elementi sarebbero collocati in
una gerarchia di nobiltà, come per altro anche Anassimandro sembrava
imaginarli: al centro, la Terra; alla superficie di questa, l’acqua;
più su, l’aria, e più su ancora, al contatto dell’etere, il fuoco. Per
questo contatto, si trasmetterebbero alla Terra gl’influssi celesti: in
primo, la luce e il calore solare.

Non basta: per Aristotele, se i quattro elementi sono il sostrato
comune di ogni sostanza, essi possono trasformarsi l’uno nell’altro,
in forza dell’azione di quattro _qualità_: _caldo_ e _freddo,
secco_ e _umido. Variando una qualità, è possibile il passaggio,
la trasformazione da uno a un altro elemento_. Le diverse sostanze
resulterebbero di quantità proporzionali dei quattro elementi,
combinate variamente sotto l’influsso delle citate qualità. Tali sono
i metalli, la carne, il sangue, le ossa, il legno. Dalla combinazione
di queste sostanze derivano gli esseri organizzati: le piante e gli
animali.

Queste furono le famose teorie aristoteliche sugli elementi, e sulle
loro combinazioni, che domineranno la filosofia e la scienza umana per
oltre un millennio.

Ma sin qui non si tratta che di filosofia fisica, nella quale permane
il carattere generale della fisica greca, nel periodo classico, per
cui le ardite teorie generali discendono da una fugace osservazione di
fenomeni naturali, piuttostochè da una serrata e insistente analisi dei
medesimi.

Pur troppo, Aristotele, non ostante il suo realismo filosofico, segue
questo stesso metodo pericoloso, anche quando vuole spiegare singoli
fenomeni fisici, ossia ricercarne le loro _cause parziali_, ch’è
poi l’oggetto che noi oggi assegniamo in primo luogo alla scienza.
Egli toccò tutti i dominii della fisica che noi oggi consideriamo.
In meccanica cercò di dimostrare la teoria della leva, ed enunciò
parecchie leggi sulla caduta dei gravi, pur troppo, erronee per mancata
esperienza, come questa che «_i corpi cadono con velocità proporzionale
al loro peso_». Si occupò di acustica (i fenomeni del suono); di
termica (i fenomeni del calore): Aristotele pare conoscesse la
differente conducibilità dei corpi nei riguardi del calore; di ottica:
contro Empedocle e Platone, e d’accordo con Democrito, sostenne che noi
vediamo perchè particelle dei corpi stimolano il nostro occhio. E anche
su parecchi fenomeni meteorologici — ad es., sulla formazione della
rugiada — egli fece osservazioni acute e veraci.

I suoi difetti di sperimentatore non hanno più presa sulle scienze
naturali (zoologia e botanica), nelle quali l’osservazione diretta
e l’induzione sono quasi tutto. Ed ecco perchè Aristotele è sommo
zoologo.

I suoi scritti di zoologia (_Storia naturale degli animali, Delle parti
degli animali; Della generazione degli animali_), contengono nozioni
di anatomia comparata, di fisiologia, di psicologia animale. In tal
modo egli affrontò tutti i problemi, intorno a cui oggi si affaticano i
zoologi moderni.

Aristotele menzionò circa 500 specie di mammiferi, uccelli e
pesci; studiò, senza disdegnarle, le specie animali inferiori;
osservò, analizzò, dissecò, gli organi degli animali e ne investigò
le rispettive funzioni, giungendo a rilievi esatti, anche se la
spiegazione, che ne dette, risulta, talora errata.

Egli fu inoltre il primo zoologo classificatore, e, delle specie
animali, ci lasciò una classificazione ben fondata, ossia fondata,
come ogni classificazione dev’essere, su caratteri essenziali, e che
può stare a paro con quella classica del sec. XVIII, che si intitola
a Linneo (33 _B_), o, anzi, la supera, in quanto tiene conto delle
specie animali inferiori. Meglio ancora: Aristotele non ammette una
separazione recisa fra le varie specie, ma una continuità progressiva,
concetto che solo tardi entrerà nella scienza moderna, e precisamente
nel sec. XIX.

Le opere aristoteliche di botanica sono andate perdute, ma, per
quanto ne sappiamo, come Aristotele è il primo e solo grande zoologo
dell’antichità, così può dirsi il fondatore della botanica scientifica.

Egli ebbe, anche su questo terreno, vedute esatte e geniali: colse
l’analogia esistente tra il mondo vegetale e animale; distinse in molte
piante le loro varietà sessuali, e, sopra tutto, organizzò lo studio,
metodico e positivo, della botanica.

Appunto questa è l’opera sua più feconda come scienziato: di avere,
ad ogni occasione, ribadito, e personalmente praticato, che le scienze
della natura possono essere fondate solo sulla conoscenza dei fatti, e
che i fatti vanno rilevati e accertati accuratamente.

Egli seppe così inspirare nei discepoli il metodo dell’osservazione
positiva; e inoltre inculcare la necessità della divisione del
lavoro, la sua organizzazione scientifica, che tanto fruttificheranno
nell’avvenire.


9. =La scienza greca nel periodo ellenistico= (seconda metà del sec.
IV-sec. I a. Cr.): _A). Caratteri generali._ — Il quarto secolo a.
C. si chiude con la conquista dell’Oriente, da parte di Alessandro
Magno, cui segue, subito dopo, la formazione degli Stati così detti
_ellenistici_, fra cui per civiltà primeggiarono quello dei Tolomei
(in Egitto) e quello — più tardo, ma non meno illustre —, di Pergamo
(nell’Asia minore nord-occidentale).

La conoscenza di nuovi Paesi e di nuovi fenomeni naturali; il più
intimo contatto con la scienza degli Orientali; i nuovi bisogni
materiali delle società ellenistiche; infine, i grandi mezzi, che
le Corti dei nuovi monarchi posero a disposizione della scienza e
degli scienziati — valga per tutti il _Museo_ di Alessandria, che
conteneva sale anatomiche, magnifici gabinetti, biblioteche, un
osservatorio astronomico, un giardino zoologico ecc. — tutto ciò non
potè non guidare a nuovi progressi, che altrimenti sarebbero stati
irragiungibili. Ma la scienza di questo tempo non differisce da quella
precedente per un semplice carattere quantitativo. Altro suo tratto
differenziale è questo: ch’essa, ora, rimane indifferente ai grandi
problemi filosofici, in cui fin adesso si era talvolta sperduta, e
preferisce dedicarsi alla indagine dei fatti e allo studio concreto dei
varii ordini di fenomeni naturali. Questo atteggiamento più modesto,
ma più pratico, paragonabile a quello che assumerà la scienza nell’età
moderna, fu ultima e non piccola causa dei suoi progressi nel periodo
ellenistico.

Tuttavia tanto progresso e tanto splendore non illuminano tutto il
periodo alessandrino. Gli ultimi due secoli — il II e il I a. C. —
segnano, in quasi tutti i campi della scienza, un periodo di decadenza
e di stazionarietà. Ciò si deve sia al cessare di quegli impulsi che
la conquista greca dell’Oriente aveva dati; sia alla decadenza e ai
torbidi interni dell’Egitto tolomaico; sia, infine, al fatto che le
opere dei grandi scienziati del IV-III sec. avevano, nell’opinione
degli uomini, rizzato come dei limiti insuperabili al pensiero
scientifico; onde si cominciò a ripetere quello che gli altri avevano
affermato, piuttostochè sforzarsi di superarlo e di progredire.

_B_). _Geografia astronomica._ — Si apre ora un’età di grandi scoperte
geografiche, appunto incoraggiate, e, talora, ordinate da Alessandro
Magno e dai successori. Si hanno perciò, per la prima volta, notizie
precise dell’Asia, occidentale e centrale, dell’Africa, dell’Europa
occidentale. Ma questa più esatta conoscenza materiale della Terra, dà
un’importanza nuova alla geografia astronomica o matematica.

Si cerca anzi tutto di fissare le dimensioni del nostro pianeta.
Il sommo geografo dell’epoca, _Dicearco_, scolaro di Aristotele,
fondandosi sulla opinione della sfericità della Terra, cercò misurarne
la circonferenza. Pervenne, è vero, a resultati superiori alla realtà:
km. 50 000 circa.[27] Ma il suo lavoro fu ripreso da _Eratostene
di Cirene_ (276-195?) il quale errò di soli km. 4633 in più del vero,
raggiungendo la cifra di km. 44 700.

Il grande matematico _Euclide_ (vissuto intorno al 300), contemporaneo
di Dicearco, introdusse nella geografia astronomica molti dei concetti
che noi ora adottiamo: _circoli massimi, meridiani, poli_ ecc. Euclide,
per altro, non faceva che raccogliere in un corpo unico dottrine
di tutta una scuola di astronomi — gli _Sferici_ —, che studiavano
appunto questo ramo della geografia astronomica, movendo dalle teorie
matematiche intorno alla sfera.

L’opinione, sempre più radicata, della forma sferica della Terra e
l’ampliata esplorazione della vita sulla superfice terrestre condussero
anche a una trattazione scientifica della varietà fra le stagioni
sulle diverse contrade della Terra e a una corrispondente divisione del
nostro pianeta in zone.

_C_). _Astronomia._ — Ma la conquista dell’Asia esercitò una grande e
diretta influenza sull’astronomia, in quanto pose la scienza greca in
immediato rapporto con quelle egizia e caldaica.

Da queste nuove conoscenze la teoria, fin allora dominante, che la
Terra fosse il centro immobile del mobile mondo celeste, ricevette un
colpo, dal quale stentò assai a rilevarsi, anche presso i più caldi
fautori del sistema _geocentrico_.[28]

Furono anzi tutto determinate, in modo più esatto, la grandezza degli
astri e la loro distanza dalla Terra, e _Aristarco di Samo_, astronomo
della scuola alessandrina della prima metà del sec. III a. C., pervenne
al resultato, fin allora inaudito, che il Sole è assai più grande
della Terra, e che, precisamente, i rispettivi diametri starebbero
come 1 a 6-1/3-7-1/8, e i volumi, come 1 a 254-368.[29] Egli stesso
fu il Copernico dell’antichità, l’inobliabile sistematore della teoria
_eliocentrica_ che, molti secoli più tardi, sarà detta _copernicana_:
che, cioè, la Terra gira sul suo asse e intorno al sole, il quale
rimane immobile nel mezzo del Cielo. Le stelle fisse poi sarebbero
così infinitamente lontane da noi, che tutto il giro di rivoluzione
della Terra starebbe al cielo stellato come il punto del centro alla
periferia di un circolo.

Anche allora, come si farà parecchi secoli più tardi, si gridò
all’empietà contro l’audace innovatore, che detronizzava dal suo
seggio la Terra. Pur troppo, la conoscenza del moto dei pianeti
era poco avanzata per ricavarne delle prove in sostegno del sistema
eliocentrico. Onde Aristarco ebbe contro di sè la maggioranza degli
scienziati, e perfino il più grande matematico e fisico del suo tempo:
Archimede di Siracusa.

Ma, dopo Aristarco, il sistema di Eudosso non era più sostenibile.
Fu necessario correggerlo. Lo corresse allora, verso la fine del III
sec., il grande matematico _Apollonio di Perga_ (in Panfilia) con la
sua _teoria degli epicicli_. Secondo questa complicata teoria, non i
pianeti ruoterebbero intorno alla Terra, ma si muoverebbe su questa
linea soltanto il punto centrale di un circolo minore (_emiciclo_),
mentre il pianeta si muoverebbe sulla periferia di questo stesso
circolo.

Tale ipotesi fu ingegnosamente perfezionata, nella metà del II sec. a.
C., dal più grande astronomo del periodo alessandrino, forse dal più
grande astronomo greco — _Ipparco di Nicea_ (in Bitinia) — che però non
visse ad Alessandria, ma a Rodi, ove fondò un osservatorio e dettò la
maggior parte delle sue opere.

I principali servizi che egli rese alla astronomia dipesero in massima
parte dall’avere egli applicato a questi studii un ramo speciale
delle matematiche — la _trigonometria_ —,[30] riescendo in tal modo
a rappresentare assai esattamente il movimento del sole, della luna,
dei pianeti, o, più propriamente, a costruire tutto quell’ingegnoso
«_sistema tolomaico_», che rimarrà in vigore fino al sec. XVI, e che
l’astronomo alessandrino Claudio Tolomeo, vissuto tre secoli dopo,
non farà che ripetere fedelmente dal suo predecessore di cinque secoli
innanzi.

Con lo stesso metodo trigonometrico Ipparco riuscì a determinare, più
o meno esattamente, le distanze del sole e della luna dalla Terra,
fondandosi sul fenomeno delle eclissi.

Osservatore attentissimo, e sopratutto sistematico confrontatore delle
sue personali osservazioni con quelle più antiche, a fine di rilevare
i cambiamenti astronomici, egli non solo fece scoperte individuali,
ma rettificò e completò moltissime cognizioni già note. Così redasse
un nuovo _Catalogo di stelle_ (ben 1080 stelle!), di ciascuna delle
quali dette la longitudine e latitudine, e le distribuì, secondo il
loro splendore, in 6 grandezze. Questo _Catalogo_, che ha subìto poche
variazioni, salvo l’aggiunta di alcune costellazioni invisibili nei
paesi civili del mondo antico, rimase come un modello di scienza per
circa 16 secoli.

Questo attento studio del cielo e i confronti con le osservazioni dei
suoi predecessori condussero altresì Ipparco a parecchie scoperte:
per es., alla scoperta della così detta _precessione degli equinozi_,
che cioè il Sole, nel suo movimento annuo (eclittica) nella sfera
celeste, dopo la sua partenza dal punto equinoziale, ritorna alla nuova
posizione equinoziale un po’ prima di tornare nella sua posizione
iniziale rispetto alle stelle.[31] Onde l’_anno solare_ o _tropico_
(o periodo necessario al sole per tornare alla sua stessa posizione
rispetto ai punti equinoziali celesti) e l’_anno sidereo_ (periodo
necessario al sole per tornare alla stessa posizione rispetto alle
stelle) non coincidono: il primo è più breve del secondo; quello
(l’_anno solare_ o _tropicale_) sarebbe di 365 giorni, 5 ore, 55
minuti; questo (l’_anno sidereo_) supererebbe il primo di 20^m e 12^s.
Tale resultato di Ipparco è assai vicino ai valori moderni.[32]

Egualmente Ipparco perfezionò molto la teoria delle eclissi solari
e lunari, che dopo di lui poterono essere predette con grandissima
sicurezza ed esattezza.

Ipparco, come la massima parte degli scienziati greci, subì, pur
troppo, la grande sciagura di non poter essere conosciuto direttamente
dai posteri, chè tutte le sue opere, salvo una insignificante,
andarono perdute. Tuttavia ciò che ne conosciamo indirettamente,
specie attraverso gli scritti di Tolomeo, basta a farci rimpiangere
in lui uno dei più straordinari scienziati dell’antichità, e certo il
massimo fra gli astronomi, come quello che non solo seppe osservare
con sicuro senso critico, ma seppe felicemente disposare le matematiche
all’astronomia. Dopo di lui, per oltre tre secoli, fino a Tolomeo, la
scienza astronomica greca non procederà di un sol passo.

_D_). _Matematica e fisica._ — Questi grandi progressi della
geografia astronomica e dell’astronomia furono possibili, l’abbiamo
implicitamente accennato, grazie ai contemporanei progressi della
matematica. La fine del sec. IV e tutto il sec. III è infatti l’età
d’oro delle matematiche. Alessandria d’Egitto, Pergamo (in Asia
Minore), e non più Atene, sono ora i centri maggiori di questi studii.
La matematica, anzi, domina ora e investe le altre scienze: prime,
l’astronomia e la fisica.

Ad Alessandria, intorno al 300 a. C., insegnò _Euclide_, e ivi scrisse
i suoi _Elementi_, che per la parte geometrica, sono rimasti fino ai
giorni nostri il testo scolastico più diffuso e forse più perfetto.
Essi ci appaiono mirabili, per là chiarezza, l’ordine, il metodo. Ma
gli _Elementi_ euclidei comprendevano anche trigonometria[33] e la così
detta _teoria dei numeri_, che ha per oggetto lo studio astratto delle
proprietà dei numeri.

Euclide non fu soltanto matematico; fu anche autore di una o due
operette (oggi sperdute) sui fenomeni e sulle leggi ottiche, in
primo sulla _riflessione_, e pare abbia anche scritto di meccanica,
occupandosi delle leggi della caduta dei corpi. Suoi concetti —
erronei — furono, ad esempio, questi: 1) che la velocità di caduta di
un corpo sia tanto più rapida quanto più rado (meno denso) è il mezzo
in cui il corpo si muove, e che, quindi, nel vuoto, la sua velocità
dovrebbe essere infinita; 2) (e questo è la ripetizione di un concetto
aristotelico) che le velocità di caduta di corpi della medesima
natura siano proporzionali al loro peso. Ma Euclide fu sopra tutto
maestro. Pel contenuto scientifico dell’opera sua, egli deve molto
ai predecessori, specie ai Pitagorici; ma tutta sua è la meravigliosa
sistemazione della materia; sua la scelta dei teoremi, che la copiosa
matematica greca gli offriva; sua la loro logica connessione.

Matematico e fisico, insieme, fu _Archimede_ di Siracusa († 212 a. C.).

Archimede è il nobile e maraviglioso difensore della sua patria contro
gli assalti romani durante la _Seconda Guerra punica_, e perì ucciso
da un ignaro soldato romano, allorchè la città fu presa dopo un assalto
furioso. Cotale difesa egli aveva compiuto mediante ingegnose macchine
di guerra, a noi sconosciute. Ma egli fu altresì autore di scoperte
fondamentali, che fanno di lui il più grande matematico dell’evo
antico.

— Citiamone alcune delle più facili e popolari: 1) _un cerchio
è equivalente a un triangolo rettangolo, i cui cateti sono l’uno
eguale al raggio e l’altro alla circonferenza del cerchio;_ 2) _il
rapporto del cerchio al quadrato del diametro è approssimativamente
eguale a 11/14;_ 3) _la circonferenza di un cerchio eccede 3 volte
il suo diametro di una parte minore di 1/7 e maggiore di 10/71 del
diametro stesso;_ 4) _il volume e la superficie di una sfera sono,
rispettivamente, eguali ai 2/3 del volume e della superficie di un
cilindro circoscritto alla sfera_ (che abbia eguale base ed eguale
altezza): teorema, questo, che Archimede volle raffigurato sulla sua
tomba.

In fisica, Archimede fu il primo scienziato greco che toccasse il campo
della _idrostatica_. Egli determinò quel principio, ch’è la base della
idrostatica e ch’è detto, appunto, _legge di Archimede_, secondo cui
«_un corpo immerso in un liquido perde_ (_apparentemente_) _tanto del
suo peso quanto è il peso del volume del liquido spostato_». Per tale
legge fu possibile ritrovare il _peso specifico_ dei corpi, che appunto
Archimede cominciò a saper determinare.

Si dice, anche, abbia inventato l’_idrometro_, a fine di misurare
la densità dei varii liquidi, e specie delle acque sorgive, di cui
si ritenevano dannose quelle ricche di sali. Ma egli fu sopra tutto
il fondatore della meccanica come scienza. Egli scoperse la teoria
del centro di gravità dei corpi, della leva e praticamente inventò
la puleggia, la vite, il paranco;[34] fabbricò macchine da guerra,
e si occupò, come altri suoi contemporanei di ottica, sì da essergli
attribuita l’invenzione di specchi concavi, coi quali avrebbe bruciato
i navigli romani che assediavano Siracusa.

Ultimi fra i matematici di questo meraviglioso periodo furono i citati
astronomi _Apollonio di Perga_ (seconda metà del sec. III) e _Ipparco_
(II sec. a. C.). Apollonio visse a Pergamo, che allora rivaleggiava
con Alessandria quale centro della coltura mondiale. Anch’egli fu
studioso e maestro di geometria e, sebbene molto attingesse a Euclide
e ad Archimede, l’opera sua segna un deciso progresso sui suoi due
sommi predecessori, specie per quanto riguarda lo studio delle _sezioni
coniche_ (_ellisse, iperbole, parabole_). E a lui, forse, spetta il
merito di avere gettato le basi della trigonometria in Grecia. Della
nuova disciplina, ossia della _trigonometria piana_ e _sferica_, come
accennammo, si giovò Ipparco per i suoi calcoli astronomici. Dopo di
lui, le matematiche, al pari dell’astronomia, decadono sino al II sec.
di C., ossia fino a Tolomeo.


Se i due grandi fisici dei sec. IV-III. — Euclide e Archimede —
congiunsero strettamente lo studio della matematica a quello della
fisica, non così avviene dei successori; o, almeno, non ci consta
che così avvenisse. Gli ultimi fisici del periodo alessandrino furono
piuttosto dei pratici che degli scienziati.

Due tra questi meritano di essere ricordati: _Ctesibio_, vissuto nella
seconda metà del II sec. a. C., ed il suo discepolo _Erone_, vissuto
tra il II e il I secolo (morì nel 50 a. C.). Ctesibio fu inventore dei
_sifoni_, trombe prementi a due corpi di tromba, che i Romani usarono
per gli incendii, ma che il Medio Evo obliò come tante altre cose. Fu
anche inventore dell’organo idraulico e trovò il mezzo di comprimere
l’aria, e quindi di fabbricare armi (fucili?) ad aria compressa.

Assai più famoso fu Erone. Le sue _Meccaniche_ sono un copioso manuale
dell’ingegnere e dell’arte del costruire. Vi si studiano la leva, il
verricello, il cuneo, la vite (concepita come un cuneo attorcigliato
sopra un cilindro), e talune altre macchine.

Erone si occupò anche di ottica, e cercò di determinare le leggi della
riflessione della luce. Ma più famoso è il suo giocattolo _eolipila_,
nel quale egli _mostrò la prima applicazione del vapore come forza
motrice_. Dopo di che, come seguì all’astronomia e alla matematica,
anche la fisica rimase stazionaria fino a Tolomeo.

_E_). _Chimica._ — La chimica teorica, ossia la filosofia chimica,
ch’era stata il pascolo più gradito degli intelletti greci nei secc. IV
e V, è, in questo periodo ellenistico, rappresentata in modo eminente
da _Epicuro di Samo_ (342 a. C.-270 a. C. circa), che visse a lungo
e tenne scuola ad Atene. Epicuro è un continuatore di Democrito,
sebbene, in certi punti, la sua dottrina atomica se ne distacchi
nettamente. L’atomo, è, per lui, principio indivisibile, eterno,
indistruttibile della materia, nella quale nulla viene dal nulla e
niente perisce. L’atomo possiede, oltre alla estensione, alla forma,
al peso, un suo proprio movimento. Con questa correzione a Democrito,
il quale aveva opinato che il moto degli atomi dipendesse dal loro
peso, Epicuro salvava il sistema da un’obiezione di Aristotele che nel
vuoto i corpi dovrebbero cadere tutti con eguale velocità. Affaticati,
dunque, da un moto perenne, che è una loro proprietà, gli atomi,
roteando nello spazio vuoto e combinandosi insieme, formano i corpi e
i mondi, ciascuno dei quali ha un principio, e tutti sono destinati a
perire. Gli esseri viventi, in ognuno di questi mondi, sono anch’essi
combinazioni di atomi. Non dunque l’intelligenza divina o una causa
finale li crea o guida, nè il mondo è fatto per l’uomo, nè ha alcuna
finalità, ma esso è conseguenza meccanica di un processo meccanico.

Anche l’anima, come aveva detto Democrito, è composta di atomi, che il
corpo costringe insieme. La morte, che scioglie questo legame, permette
anche la separazione degli atomi dell’anima, la cui immortalità
sarebbe, dunque, secondo Epicuro, una superstizione.

Ma in questo periodo alessandrino, certo per il più intimo contatto
con la scienza egiziana, la chimica greca passa da teoria filosofica a
scienza sperimentale, da scienza ad arte operativa. Si sviluppa, cioè,
la chimica sperimentale e industriale, nella forma precisa in cui noi,
oggi, l’intendiamo.

I _Papiri_ greci così detti _di Leyda_ e _di Stocolma_[35] scoperti
in tombe tebane, se forse appartengono al periodo romano, ripetono
cognizioni, tradizionali nella scienza egizio-ellenistica, e,
insieme con notizie di magia e di astrologia (con le quali la chimica
degli antichi andò sempre malamente mescolata), contengono vere e
proprie nozioni di chimica. Trattano delle leghe metalliche, dei
procedimenti di tintura della porpora, della virtù delle piante. I
chimici ellenistici conoscono parecchi processi farmaceutici e chimici
(distillazione, cristallizzazione, sublimazione) e, non ostante
ignorino gli acidi minerali, hanno esperienza di numerose reazioni
chimiche. I metalli noti a questi scienziati sono sette: piombo,
stagno, rame, argento, oro, mercurio e asemo (argento impuro, o, forse
elettro, lega d’oro e d’argento).

Ma lo sforzo principale di sì faticose ricerche si rivolge in due
direzioni: _a_) la trasformazione di tutti i metalli inferiori in oro
(al quale scopo quei chimici prescrivono numerose ricette); _b_) la
preparazione di medicinali che giovino a preservare l’uomo da ogni
male, perfino, a liberarlo dalla morte.

È stato appunto questo tratto della scienza chimica — l’_alchimia_[36]
medievale — a ingenerare l’erroneo concetto, che essa fosse tutta una
scienza di ciurmadori. Noi oggi possiamo giudicare più equamente: nè
tutta la chimica greca fu ricerca della trasformazione dei metalli
inferiori in oro, nè questa trasformazione contrastava alle dottrine
fisico-chimiche del tempo. Le dottrine, infatti, dei Ionici, quelle
fisiche di Aristotele e la stessa dottrina atomica incoraggiavano
questa fiducia, in quanto le prime o facevano derivare tutti i corpi da
un unico elemento, o concepivano l’un elemento trasmutabile nell’altro;
e la seconda sosteneva la perfetta omogeneità della materia.

Può dirsi di più: quali che ne siano la difficoltà pratica, l’idea
della trasformazione dei metalli non contradice ai più sani concetti
chimici che noi oggi possediamo. La moderna teoria della radioattività
(cfr. § 38 _B_) ad es., avverte che la trasformazione della materia
avviene normalmente, anche allo stato naturale.

Quello che invece deve ancor oggi condannarsi, in questo secolare
tentativo dell’antica chimica, è la sovrapposizione, alla ricerca
scientifica, di elementi, mistici e magici, con i quali invano si cercò
di rimediare al continuo insuccesso di un esperimento scientifico. Ma
questa fu responsabilità di tempi più tardi.

I papiri greci sopra citati menzionano alchimisti greci, i quali
vengono citati precisamente con pseudonimi tratti dai nomi dei più
grandi scienziati e filosofi greci: Platone, Aristotele, Democrito,
Teofrasto. Non si tratta, naturalmente, dei grandi scienziati che
ebbero questo nome, ma di persone, assai più oscure, che scrissero
sotto nomi altrui. Il più famoso di costoro (si dice) sarebbe stato
appunto Democrito, del quale viene ricordata una _Fisica e Mistica_.
Certamente, le teorie in essa enunciate si ricollegano al grande
scienziato del sec. V, precursore dei chimici moderni. Ma pur troppo,
l’opera citata è un centone di brani diversi di scritti non democritèi.

_F_). _Zoologia e Botanica._ — I grandi viaggi e le esplorazioni
dell’epoca ellenistica dovevano imprimere un possente sviluppo ai
progressi della zoologia e della botanica. Ora soltanto infatti si
schiudeva ai Greci la visione della fauna e della flora delle regioni
tropicali e subtropicali. Aristotele aveva descritto l’elefante solo
per udito dire; esso divenne dopo Alessandro, per gli usi di guerra, un
animale popolarissimo. Ma si devono sopra tutto ai Tolomei la raccolta
e l’allevamento di specie rare animali nel meraviglioso giardino
zoologico, collocato nella reggia di Alessandria.

Lo stesso è a dire delle piante. Teofrasto, discepolo di Aristotele,
scrisse due eccellenti trattati di botanica. E di botanica e di
zoologia si occuparono sistematicamente i dotti di quell’accademia che
fu il Museo di Alessandria, fondato dai Tolomei.

_G_). _Medicina._ — Anche la medicina progredisce, perchè progrediscono
i due ordini di ricerche, che vi stanno a base: quelle sull’anatomia e
quelle sulla fisiologia del corpo umano. Finalmente, si osa procedere
al sezionamento del cadavere umano, e persino, anche, alla vivisezione
dei criminali condannati a morte. Alessandria è, come di tante altre
discipline, il focolare della scienza medica del tempo; e tale rimase
fino alla catastrofe dei Tolomei (30 a. C.) ed oltre. Qui visse il più
grande anatomista e fisiologo dell’antichità _Erofilo di Calcedonia_
(primi del III secolo), il quale scoperse finalmente l’anatomia
del sistema nervoso, la sua funzione nel corpo umano, e determinò
sperimentalmente l’importanza del cervello come sede centrale dei sensi
e del pensiero: nozioni, queste, ignorate dal sommo Aristotele. Egli
stesso scoperse che la pulsazione delle arterie dipende dal cuore, e
che queste non contengono (come si credeva) aria, ma sangue. Seppe
finalmente distinguere le arterie dalle vene: scoperse, in altri
termini, la _legge della circolazione del sangue_.

I progressi dell’anatomia ebbero ripercussioni immediate nel campo
della chirurgia. Si compivano ora con relativa facilità operazioni
difficilissime. Continuavano ancora a fiorire in piena vitalità le
due antichissime scuole mediche di Cos e di Cnido: della prima, anzi,
il maggior rappresentante è adesso _Erofilo_, come, della seconda è
Erasistrato. Ma sorge ora, nel III sec., in Alessandria e, fiorisce
vigorosa, una terza scuola — quella degli _empirici_, alla cui
testa è un discepolo di Erofilo, _Filino di Cos_. Per gli empirici,
la ricerca delle cause delle malattie è superflua, e si può fare a
meno dell’anatomia. Infatti essi curavano solo i sintomi, e, quindi,
abbondavano in rimedi farmaceutici. In conseguenza, se non la medicina,
la farmacologia fece, per mezzo loro, grandi progressi.


=10. Valore della scienza greca.= — Noi ci siamo dilungati sulla
scienza greca perchè essa occupa nella storia del pensiero umano,
non soltanto un posto di prim’ordine, ma quella identica posizione,
che noi, giudicando dal nostro punto di vista attuale, assegniamo
alla scienza moderna, rispetto alla scienza di ogni tempo. Tutti i
grandi problemi che noi ci poniamo, la scienza greca si pose, e i
principali tra essi risolse nella stessa direzione, secondo cui oggi
li risolviamo. Nel campo scientifico, i presupposti e il metodo del
pensiero greco sono quegli stessi che noi usiamo: la più completa
indipendenza da ogni pregiudizio estraneo, l’osservazione, l’induzione,
l’esperimento, il ragionamento, logico e matematico, la riprova. E se
gli scienziati non applicarono rigorosamente questi concetti, ciò non
dipese da una inesatta visione di quanto occorreva praticare, ma di una
infedeltà dei singoli individui alla generale metodica della scienza
greca.

Come resultati positivi, la scienza greca ci lascierà, in fatto di
matematica, solidamente piantate, delle parti di questa disciplina, che
noi oggi coltiviamo: l’aritmetica, la trigonometria e, specialmente, la
geometria, _non però l’algebra_.

In fatto di astronomia, ci lascerà per lo meno il concetto della
sfericità della terra, che i moderni hanno di poco corretto, e la
spiegazione dei movimenti di tutto il sistema solare, che, a parte
l’ipotesi che l’ispira, è veramente preziosa. In fisica e chimica, ci
lascierà la _teoria atomica_ e tutta un’abbondante serie di esperienze
chimiche; in medicina, le profonde verità della scuola ippocratica
travalicheranno i secoli; infine, quanto a zoologia e a botanica,
l’una e l’altra scienza furono dai Greci — da essi soli — fondate, e
la perfezione, a cui le portarono di un sol balzo (specie Aristotele
e Teofrasto), non troverà degno termine di paragone se non soltanto
nell’evo moderno.

Così, per secoli, la scienza greca dominerà il mondo: tutta la scienza
romana, medievale (cristiana ed araba) si aggirerà intorno ad essa,
come intorno al suo polo, talora corrompendola, talora falsandola,
sempre ripetendola, non mai sorpassandola. Se, anzi, quel pensiero,
più tardi, non sarà capace di grandi sviluppi, ciò avverrà perchè i
continuatori si sforzeranno di parafrasarne la lettera, ma non più di
intenderne le ispirazioni. E allorquando, con l’età del Rinascimento
(secc. XV-XVI), la scienza umana ripiglierà il corso interrotto del suo
progresso, ciò si dovrà, in gran parte, al fatto che gli uomini saranno
tornati ad ascoltare direttamente la grande voce del pensiero greco.




LA SCIENZA NEL PERIODO ROMANO


11. =La scienza nel mondo romano.= — La scienza romana, come la coltura
in genere del popolo romano, ebbe due periodi distinti: _a_) uno che
corrisponde all’incirca ai primi cinque secoli di storia romana (dalle
origini alla conquista dell’Italia meridionale, 754-270 a. C.), nei
quali lo sviluppo del pensiero romano, sebbene contemporaneo a quello
greco, ne rimase quasi del tutto indipendente, e in cui la scienza
romana fu soggetta alle influenze locali, specie a quelle etrusche;
_b_) un secondo periodo, che comincia dalla metà del III secolo a. C. e
va sino al Medio Evo, nel quale la civiltà e le scienze romane furono
profondamente influenzate dalla scienza greca del periodo classico e
del periodo ellenistico.

In questa età, anzi, in cui l’Italia romana dominò tutto il mondo
civile, non si può più parlare di scienza romana, ma della universa
scienza, resa e diffusa in lingua latina o greca. Tuttavia, se è
possibile stabilire in termini generici la distinzione che abbiamo
enunciata, non è possibile trattare con rigore che soddisfi —
separatamente — della scienza romana, nel primo e nel secondo periodo,
perchè tutti i documenti che ce ne rimangono provengono esclusivamente
da quest’ultimo, e perciò vi si trovano confusi insieme elementi
italici ed elementi greci.

Praticamente, è più raccomandabile distinguere le opere di scienza
del periodo romano scritte in latino da quelle scritte in greco — la
lingua, per eccellenza universale, della coltura antica —: come in
realtà faremo nelle pagine seguenti.

_A_). _La coltura scientifica romana._ — Essa fu di valore grandemente
inferiore a quella greca; il che deve probabilmente attribuirsi meno
alle congenite qualità intellettuali del popolo romano, quanto a due
fatti: 1) le difficili vicende che esso dovette affrontare e che non
gli permisero per gran tempo di dedicarsi alla pura contemplazione
scientifica; 2) il fascino dominatore, che su di esso, quando volle
accostarsi alla coltura, esercitarono la scienza etrusca e poi quella
greca.

_B_). _Matematica e Astronomia._ — Le cognizioni matematiche dei Romani
furono scarsissime. La loro numerazione, che noi ben conosciamo,[37]
era probabilmente di origine etrusca. Pei calcoli essi adoperavano
l’_ábaco_: tavoletta suddivisa in colonne, nelle quali, per indicare le
diverse unità del numero da rappresentare, si ponevano tante pietruzze
(_calculi_),[38] quante occorrevano, oppure dei bottoni mobili, cui si
assegnava un diverso valore a seconda il posto che occupavano nella
scannellatura. Con tale sistema la moltiplicazione e la divisione si
facevano per successive addizioni e sottrazioni attraverso un processo
difficile e complicato.

L’aritmetica dei Romani conosceva anche le frazioni e le note regole
dell’_interesse_. La loro geometria era la scienza pratica degli
agrimensori. E anche entro questi limiti, essa si riduce ai problemi
più semplici; manca di definizioni, di concetti fondamentali; molto
spesso, di precisione. Ad es., per calcolare l’area di un fondo o di
una città, i geometri si stavano paghi a misurare la lunghezza del
circuito.

Nessuna traccia di matematica pura. Gli scrittori latini di matematiche
sono tutti posteriori al II secolo a. C., allorchè l’influenza greca
era sensibile. Citiamo, fra essi, taluno illustre in altre discipline,
o che rechi un valore speciale: il poligrafo[39] _M. Terenzio Varrone_
(116-27 a. C.); _Sesto Giulio Frontino_ (46-103 d. C.), ispettore degli
acquedotti al tempo Vespasiano, forse il maggiore tra i matematici
latini; il letterato _C. Apuleio_, un numida del II secolo di C.;
_Marziano Capella_, un cartaginese del V secolo.

Quello che si è detto delle matematiche deve a maggior ragione
ripetersi dell’astronomia. In questo campo il contributo del pensiero
romano è assolutamente nullo. Se si parla di una storica riforma
del calendario fatta da C. Giulio Cesare nel 46 a. C., per cui il
calendario romano, in arretrato di 3 mesi, venne corretto, e per
l’avvenire l’anno solare fu considerato di 365 e 1/4 (esso è in realtà
di 3/400 più breve), ciò si dovette, non già a Cesare, ma all’astronomo
greco Sosigene di Alessandria.[40] E se, nel tardo periodo della storia
romana, si ebbero scrittori di astronomia (il citato _Varrone_, lo
stesso _C. Giulio Cesare, G. Firmino Materno_, il citato _Marziano
Capella_ ecc.), essi furono o dei compilatori di scritti greci, o,
peggio ancora, dei fraintenditori del pensiero greco, di cui non
colgono mai la portata scientifica.

Il fatto stesso che il governo romano ebbe per sua norma di
perseguitare gli «astronomi», certo mettendoli insieme con astrologhi,
maghi e impostori, significa il poco conto in cui tale scienza era
tenuta, e che essa si meritava.

_C_). _Fisica e chimica._ — Meno incolti furono i Romani in fisica e
chimica, discepoli in ciò degli Etruschi. Ma la somma delle nozioni,
di cui li troviamo in possesso, non prova nulla, per il loro valore
scientifico in questi campi. _La loro scienza fisica e chimica,
fu, come in genere tutta la scienza romana, pura erudizione._ Essi
preferivano rielaborare dottrine e cognizioni altrui, specie greche, di
quello che scoprire nuovi fatti e nuove leggi scientifiche.

Le _teorie atomiche_ di Democrito e di Epicuro vennero divulgate
nel mondo romano dal grande poeta _Tito Lucrezio Caro_ (95-52 a.
C.) in un poema famoso, _La Natura_. Ma, oltre all’organico sistema
scientifico che qui si illustra ed espone, è possibile cogliere,
attraverso le opere letterarie e di compilazione scientifica dei Romani
(_L’Architettura_ di _Vitruvio_, vissuto nell’età di Augusto e Tiberio;
le _Questioni naturali_ del filosofo _L. Anneo Seneca_ (2-66 d. C.)),
le quali, se piccolissimo ne è il valore scientifico, furono adoperate
nel Medio Evo come testo di fisica; la universale enciclopedia, ch’è la
_Storia naturale_ di _Plinio il Vecchio_ († 79 d. C.), ecc.), numerose
nozioni di fisica e di chimica che i Romani possedevano. Le meno comuni
di tali cognizioni riguardano: _a_) le proprietà magnetiche (comprese
quelle repulsive) della calamita; _b_) il fenomeno dei fulmini; _c_) il
rapporto della temperatura con l’altezza e con l’evaporazione; _d_) la
riflessione e la rifrazione della luce; _e_) la diversa velocità della
luce e del suono; _f_) il fenomeno dell’arcobaleno e la natura dei
colori; _g_) la diversa conducibilità dei corpi rispetto al calore ecc.
ecc.

In modo analogo, i Romani, venuti in contatto con l’Oriente classico
e con la civiltà ellenistica, nella quale l’industria teneva un posto
eminente, entrarono in possesso di molte nozioni di chimica, di cui
principalmente ci informa la _Storia naturale_ di Plinio. Questi
sapeva che si può fabbricar l’oro, o, piuttosto, del _similoro_,
estraendolo da certi zolfi metallici. Sapeva che si può fabbricare
l’ottone, riscaldando insieme rame, calamina e carbone di legna.
Sapeva in che modo si fabbrica il bronzo, come si tratta il piombo,
e persino distingueva il mercurio, nella qualità naturale estratta in
Spagna, dalla sua qualità artificiale di _idrargirio_, prodotto dalla
distillazione del cinabro.

I Romani conoscevano anche molti composti metallici, che usavano o come
sostanze coloranti o come medicinali. La loro chimica farmaceutica era,
anzi, copiosissima. Ma la massima parte di questa dottrina l’avevano
ricevuta dall’Oriente, ed essa, in ogni modo, non costituisce della
scienza vera e propria, ma semplice empirismo meccanico.

_D_). _Medicina._ — Nel mondo romano, per circa sei secoli, la medicina
non è che scienza pratica, attinta in genere agli Etruschi. Il maggior
teorico ne fu _Catone il Vecchio_ (II sec. di C.), tutto pieno di
profondo aborrimento per la scienza greca in genere, per la scienza
medica dei Greci, in specie.

La medicina scientifica fu portata nel mondo romano da un greco, un tal
_Arcagato_, alla vigilia della _Seconda Guerra punica_ (219 a. C.); e
da questo momento essa passa, e rimane quasi esclusivamente, in potere
dei Greci, e sostituisce del tutto la originaria scienza medica romana,
anche se tra i suoi autori vi sarà qualche romano, come _A. Cornelio
Celso_ (età di Augusto).[41]

Ad ogni modo l’unica disciplina scientifica, che svegliò le intense
preoccupazioni romane, fu certamente la medicina. Se la scienza è
greca; se i medici sono greci, gl’incoraggiamenti, che dall’età di
Cesare alla fine dell’Impero romano d’Occidente, lo Stato vi prodigò,
furono romani.

Non solo i medici sono onorati indirettamente, con privilegi e con
esenzioni da carichi pubblici, per loro e per le loro famiglie, ma la
medicina è l’unica scienza che lo Stato tenga in onore e per cui esso
fondi cattedre speciali accanto a quelle letterarie fondamentali delle
scuole romane. Tale politica scolastica, che la Repubblica e l’Impero
fedelmente seguiranno, portò alla formazione di scuole di medicina,
private e ufficiali, a Roma e in qualche altra città provinciale non
greca dell’Impero, nonchè del soggiorno e dell’operosità scientifica,
in Roma stessa, di taluno dei più insigni medici dell’antichità: _M.
Antonio Asclepiade_ e _Antonio Musa_, medici di Augusto, _Senofonte di
Cos_, medico di Caligola e Claudio, _Galeno_, medico di M. Aurelio e
Commodo ecc. ecc.

_E_). _Zoologia e Botanica._ — Egualmente, i Romani dapprima studiarono
gli animali e le piante per utilità pratica, e soltanto per questo.
Di tal natura ci appaiono le preoccupazioni, relative alle scienze
naturali, negli scrittori di agricoltura: _Catone il vecchio, Varrone,
Columella. Lucrezio_ nel suo poema ha intendimenti scientifici; ma
egli non fa che ripetere Democrito ed Epicuro, ossia gli atomisti.
Egli è perciò un fautore della generazione spontanea delle piante e
degli animali. Non di più valgono i libri della _Storia naturale_ di
Plinio, dedicati alla zoologia e alla botanica: pura compilazione,
senza discernimento critico, di gran lunga inferiore alle opere di
scienza greca. E lo stesso è a ripetere della _Storia degli animali_
di _Eliano_ (II sec. di C.),[42] e di qualche operetta erudita di età
posteriore. In tutti questi autori, nessuno sforzo di osservazione
diretta, di penetrazione, di organizzazione sistematica di resultati e
di concetti personali.

Per trovare qualcosa di più eletto e di più originale in fatto di
Scienze naturali occorre, nella letteratura latina, discendere fino
agli scrittori cristiani, ai padri della Chiesa. _S. Agostino_
(359-430), infatti, si propose di nuovo l’altissimo problema
dell’origine della vita organica, e lo risolse contrariamente alla
parola della Bibbia, ma, grazie a una ingegnosa interpretazione della
medesima, conformemente ai più sani concetti della scienza antica.
Iddio non avrebbe creato immediatamente o direttamente le piante e gli
animali; ma avrebbe impartito alla materia le leggi della generazione:
avrebbe creato la vita, _potenzialmente_, non _attualmente_. Tale
il concetto della sua polemica coi Manichèi: _De Genesi contra
Manichaeos_.

La interpretazione di S. Agostino sarà più tardi quella di S. Tomaso di
Aquino.


12. =La scienza greca nel periodo romano= (I-V sec. d. C.). — Ma
contemporaneamente allo stabilirsi, nel mondo, del dominio romano, in
seguito alla distruzione che la potenza romana compiè delle antiche
dinastie ellenistiche dei Tolomei (in Egitto), dei Seleucidi (nel
Regno di Siria), degli Attálidi (nel Regno di Pergamo), si ha l’ultima
fioritura della scienza greca, pur troppo, assai pallida al confronto
dei due periodi precedenti.

_A_). _Matematica ed Astronomia._ — Il più grande scienziato di
quest’età è il dotto che ancor oggi ricordiamo: il celebre astronomo
e matematico _Claudio Tolomeo_, che fiorì ad Alessandria intorno al
125-151 d. C. La sua opera principale è la _Meghíste Syntáxis_[43]
(_Sommo Compendio_), che i suoi discepoli e successori denomineranno
semplicemente la _Meghíste_, e gli Arabi, preponendovi l’articolo,
ne faranno un _Almidschisti_, ossia _Almagesto_, sotto la quale
denominazione ha signoreggiato tutta la scienza astronomica sino a
Copernico.

In quest’opera sono parecchie dimostrazioni matematiche, alcune
originali, altre no. Ma la parte più notevole è quella astronomica.

Tolomeo non fu un innovatore. La sua astronomia e la sua geografia
astronomica sono tutte contenute negli studi e nelle osservazioni
degli scienziati che lo avevano preceduto, specie del sommo Ipparco.
Probabilmente, egli non fu un osservatore; ma gli sviluppi e i
perfezionamenti, che arrecò all’opera dei predecessori e, sopra tutto,
la perfetta sistemazione del sistema astronomico che da lui prese
il nome di _Tolomaico_, lo fecero per secoli maestro della scienza
astronomica.

I punti fondamentali della teoria tolomaica sono contenuti nei
primi due e negli ultimi cinque libri dell’_Almagesto_, sebbene egli
scrivesse in proposito opere minori:

_a_) _la terra è sferica_; di che Tolomeo porge parecchi di quegli
argomenti probativi, che anche oggi noi rechiamo, tralasciando però
quello classico, tratto dall’eclisse,[44] e aggiungendo l’altro
dell’aumento della superficie della Terra visibile, quando un
osservatore si eleva a una certa altezza;

_b_) _però la terra è immobile_, e l’argomento che egli porta
contro le prove, che inducevano i Pitagorici a sospettare di un
movimento rotatorio della Terra, è notevole anche perchè è stato
inconsapevolmente ripreso in questi ultimi tempi: _le apparenze potersi
spiegare egualmente tanto con un moto degli astri intorno alla Terra
quanto con un moto della Terra intorno agli astri_. Perchè, dunque,
(egli chiedeva) propendere per la seconda soluzione, che contrasta alla
diretta esperienza del senso?

_c_) _la teoria del movimento dei pianeti_. In questa parte Tolomeo
conduce alla perfezione l’ipotesi di Apollonio di Perga e di Ipparco
cfr. § 9 _C_.

Accanto a questi postulati fondamentali, Tolomeo portò all’astronomia
parecchi contributi minori:

_a_) una trattazione più precisa dei movimenti della luna;

_b_) la descrizione e il metodo di costruzione del suo principale
strumento astronomico: l’_astrolabio_;

_c_) numerose nozioni di geografia astronomica: una nuova misurazione
della circonferenza della terra; tavole di longitudine e latitudine per
le località conosciute ecc. ecc.

Con Tolomeo, la teoria eliocentrica è decisamente battuta, e la teoria
geocentrica trionfa completamente. Ma tanta vittoria si accompagna con
un fenomeno sgradevolissimo: con lui, con Tolomeo, il progresso della
scienza astronomica, nell’antichità, nel Medio Evo, nonchè nella prima
parte dell’età moderna, si arresta decisamente. Dopo di lui, non avremo
più astronomi, e la scienza astronomica greca sembrerà di aver esaurito
tutto il suo compito.

Fu questa vera gloria, ossia fu veramente meritato il riconoscimento di
tanta autorità senza confini, che riuscì in modo unico a mettere fuori
combattimento ogni altra autorità?

Oggi, al di sopra del grandioso duello, che nel secolo di Galilei e di
Copernico si combattè, e non sempre in nome della scienza, pro e contro
il sistema tolemaico o copernicano, può rispondersi affermativamente.

L’opera di Tolomeo, nella quale, con tutti i suoi errori, si compendia
la parte più caratteristica della astronomia antica, è davvero superba.
In essa, sul fondamento della sterminata copia di osservazioni, che
gli Orientali, e poi i Greci, avevano fatte, si giungeva, coll’aiuto
specialmente delle matematiche, alla enunciazione di alcune leggi
generali, nel che consiste la vera scienza. Inoltre, la raffigurazione
e, talora, la spiegazione dei varii movimenti del sistema solare, che
Tolomeo condusse alla perfezione, fu, ed è, per la scienza astronomica
un acquisto di valore incalcolabile. L’errore stesso che la macolava,
la ipotesi geocentrica, che informa la dottrina tolomaica (come quella
dei suoi immediati predecessori), non era da Tolomeo ammessa come
una verità indiscutibile, ma come l’_ipotesi provvisoria_, che meno
difficilmente d’ogni altra (a suo avviso) spiegava i fatti, di cui
si ricercavano le leggi, e con cui essa sembrava meglio accordarsi. I
seguaci di Tolomeo che di quell’ipotesi faranno un dogma inviolabile,
tradiranno il maestro; non lo continueranno.

Certamente, Tolomeo fu meno originale di quello che il volgo non pensi.
L’astronomo alessandrino dovette moltissimo a Ipparco, cosa per altro,
ch’egli stesso riconobbe. Ma a lui, d’altra parte, si deve il merito
di aver saputo apprezzare l’opera di Ipparco, di avercela conservata e
tramandata, non senza renderla più completa e perfetta, specie grazie
alla propria competenza matematica.


Dopo Tolomeo noi non abbiamo a nominare che due soli matematici:
_Pappo_ e _Diofanto_. Pappo appartenne alla scuola alessandrina,
fiorì intorno al 300 d. C., commentò l’_Almagesto_ di Tolomeo e
gli _Elementi_ di Euclide, e ci lasciò una _Synagoghè_, ossia una
collezione di scritti sulla geometria, importantissima nei riguardi
della storia della geometria greca. Egli è così l’ultimo geometra
dell’antichità classica.

_Diofanto_ di Alessandria è di poco più giovane di lui. La sua
importanza sta in questo: che egli ci lasciò una _Aritmetica_, o,
piuttosto, 7 libri di questa sua opera, _che è il più antico trattato
di algebra greca da noi posseduto_. E poichè noi non sappiamo per
nessuna via, se, prima di Diofanto, i Greci avessero coltivato
l’algebra, la sua importanza, per questo rispetto, è veramente
unica.[45]

_B_). _Fisica e Chimica._ — Il talento universale di Tolomeo (se non
propriamente il suo genio) domina anche il campo della fisica. Egli
scrisse un libro di _Ottica_, dal quale apprendiamo: _a_) ch’egli
studiò con cura i due fenomeni della riflessione e della rifrazione
della luce, e per primo _misurò l’angolo di incidenza e quello di
rifrazione_ nel passaggio della luce dall’aria nell’acqua, dall’aria
nel vetro, dal vetro nell’acqua; _b_) che svolse una teorica degli
specchi piani e concavi.

Pur troppo, la teoria, con la quale egli spiegava il fatto della
visione, è una delle più arretrate: ancora quella empedoclea (cfr. §
7 _C_). Anch’egli immaginava che la visione avvenisse per dei «raggi
visivi», che l’occhio lancia sull’oggetto a percepirne l’imagine.
Democrito e gli Aristotelici avevano imaginato qualche cosa di
meglio (cfr. §§ 7 _D_; 8 _C_). Tolomeo, invece, regredisce, fino ad
Empedocle, accettando, della dottrina aristotelica, solo questo: che
i raggi visivi, partiti dall’occhio, raggiunto l’oggetto, rimbalzano
sull’occhio stesso, e vi determinano la sensazione del vedere.

Oltrechè di ottica, Tolomeo si occupò di acustica, e nelle sue
_Armoniche_ ci dette un’opera sulla musica, nella quale si contiene
la _gamma diatonica_ con le note musicali e gli accordi che ancor oggi
adoperiamo.

_C_). _Chimica._ — Noi sappiamo pochissimo, o nulla, quasi, dello stato
della chimica nell’Impero romano al di fuori del campo della civiltà
romana. Tuttavia, dai replicati editti di persecuzione degli imperatori
contro gli alchimisti e contro gli scritti egiziani di alchimia si può
argomentare che di chimica dovesse continuarsi a scrivere e a studiare
in Egitto, ma che questa disciplina fosse ridotta a materia troppo
spregevole per unire contro di sè l’aborrimento di imperatori italici
ed extraitalici, pagani e cristiani.

Gli scritti di chimica, che se ne poterono salvare, si rifugiarono
nelle biblioteche private delle regioni più orientali dell’Impero, e
ivi furono tradotti dal greco in siriaco. Di là la scienza araba verrà
più tardi a disseppellirli.

_D_). _Medicina._ — Grazie al favore accordato dal governo romano alla
medicina; grazie alla persistenza della scuola medica di Alessandria,
che, per tutto l’Impero, rimase come un istituto universale di
perfezionamento, il periodo romano, a cominciare dal I, anzi, dal II
sec. a. C., vanta, non solo grandi scienziati greci nel campo della
medicina, ma, altresì, nuove correnti di pensiero medico.

Un nuovo indirizzo comincia con _Asclepiade di Bitinia_, vissuto
lungamente a Roma nei secc. II-I a. C. e amico di Cicerone, Lucrezio,
M. Crasso ed altri: la scuola che, di fronte all’ippocratismo greco e
al vecchio empirismo romano, si disse _metodista_.

La medicina di Asclepiade si fondava sull’osservazione dello stato dei
tessuti, e non più degli umori, del corpo umano. Secondo Asclepiade e
i suoi continuatori, soltanto la permeabilità dei pori e la regolarità
delle secrezioni e delle evacuazioni dànno la esatta idea dello stato
di salute degli individui.

I _metodisti_ curavano perciò i malati con maggior abbondanza di
medicine che non gli ippocratici. Ciò non ostante, il loro metodo
curativo — la loro _terapeutica_ —, sia perchè si affidava molto
alle risorse del malato, sia perchè si fondava in gran parte sur un
trattamento igienico, li raccostava molto agli ippocratici.

_Metodista_ fu Celso, cui abbiamo accennato (§§ 11 _D_) e, più ancora,
_Sorano di Efeso_ (II sec. d. C.), che studiò in Alessandria e insegnò
a Roma, e fu autore di un eccellente manuale sulle _Malattie delle
donne_. Un secolo dopo, Sorano trovò un fedelissimo ripetitore e
divulgatore in _Celio Aureliano_ (III-IV sec. d. C), autore di un
volume sulle _Malattie acute e croniche._

Di contro al _metodismo_, sorsero l’_eclettismo_, deliberato ad
accogliere da ogni scuola tutte le verità di cui esse erano capaci, e
il _pneumatismo_, un ramo (o una corruzione) del vecchio ippocratismo,
i cui seguaci credevano nell’esistenza di uno _pneuma_, agente
universale degli esseri organici, ispiratore universale dei processi
fisiologici.

Ma il massimo medico greco dell’età romana è _Galeno di Pergamo_
(131-201 o 210 d. C.), che visse lungamente a Roma, che combattè i
metodisti e a cui gli antichi attribuivano circa 500 opere d’ogni
genere; ma di cui in realtà ci rimangono solo un’ottantina di trattati
medici autentici.

Studiò ad Alessandria e perciò fu grande anatomista; ma dell’uomo
conobbe solo lo scheletro, e della restante anatomia ebbe notizia per
l’analogia con gli animali, che dissecò e vivisezionò in gran copia.
Fu anche fisiologo, cioè conoscitore delle funzioni dei vari organi,
specie di quelli del sistema nervoso. Però le sue interpretazioni,
le sue dottrine fisiologiche valgono assai meno della sue conoscenze
positive.

Egli fu, in sostanza, un ippocratico. Ma l’antica dottrina di Ippocrate
dei quattro umori egli volle artificiosamente far coincidere con quella
dei quattro corpi semplici dei filosofi ionici e con le quattro qualità
aristoteliche, della materia (caldo, freddo; secco, umido).

La sua _patologia_ (studio delle malattie) è buona come descrizione,
e buona, anche, la sua classificazione delle malattie attinta
ai metodisti. La sua _terapeutica_ (cura delle malattie) è assai
somigliante a quella ippocratica: fondata, cioè, sull’igiene, fiduciosa
nelle risorse naturali dell’organismo e, sopra tutto, come suol
dirsi, temporeggiatrice. Ma, a differenza degli Ippocratici, la sua
farmaceutica è abbondante.

Capitato a Roma tra molte sètte mediche rivali, egli le dominò tutte,
scegliendo da ciascuna il meglio. Fu, in fondo, un eclettico, ma non
volle dirsi tale. Però dove potè portare i contributi della anatomia
e della fisiologia sperimentale egli riuscì veramente originale e
fecondo.

_E_). _Zoologia e botanica._ — La zoologia e la botanica non fecero,
durante l’età imperiale romana, alcun progresso. Rimasero immobili
ad Aristotele e a Teofrasto. Un solo nome emerge: quello del greco
_Dioscoride_, il quale, pur ripetendo ed enumerando fatti botanici,
noti ai suoi predecessori, descrisse 600 piante e ne tentò una
classificazione in quattro gruppi: _aromatiche, alimentari, medicinali,
vinifere_. Pur troppo, di buono, in questa classificazione, v’è solo
il tentativo: i criterii che la ispirarono furono, come si vede,
superficialissimi.


13. =Valore della coltura scientifica dell’età romana=. — Al paragone
della scienza greca del periodo greco classico e di quello ellenistico,
deve convenirsi che la scienza, nei secoli che scorrono dal I secolo
dell’êra volgare alla fine dell’Impero romano, discese a un livello
assai basso. La coltura latina, in Italia e nelle provincie conquistate
da Roma, vi arrecò un contributo minimo, e la nuova fase della scienza
greca è assai pallida cosa al confronto delle età precedenti: dove
non si ha ripetizione od elaborazione di dottrine già note si ha,
letteralmente, un regresso; i nuovi cultori della scienza sono dei
letterati, degli eruditi più che degli scienziati.

Tale il quadro generale, che non muta aspetto per le eccezioni, che
sono rappresentate, in astronomia, da Tolomeo, in matematica, da
Diofanto, in medicina, da Celso e Galeno.

Quali le ragioni del fatto? La prima è lo scarso interessamento della
coltura latina, verso le scienze, che portò di conseguenza la scarsezza
di scuole scientifiche, private e pubbliche, l’indifferenza dello Stato
per ogni incoraggiamento a questo ramo di studî. Poi la decadenza,
politica, economica, sociale, della nazione greca, che portò la sua
decadenza intellettuale. Finalmente, la distruzione delle grandi
monarchie ellenistiche (dei Tolomei, dei Seleucidi, degli Attalidi),
che sì numerose istituzioni avevano creato a vantaggio della scienza, e
a cui poco o nulla fu sostituito.

Nei due ultimi secoli dell’Impero, a queste cause si deve aggiungerne
una nuova, che eserciterà la sua influenza su tutto il Medio Evo:
lo spirito deliberatamente antiscientifico della nuova religione
cristiana.




LA SCIENZA ARABA E CRISTIANA MEDIOEVALE


14. =Carattere generale della cultura scientifica del Medio Evo.= — La
coltura scientifica nel Medio Evo — in quest’età piena di disordini,
d’invasioni esterne, di torbidi interni —; la coltura scientifica,
diciamo, come ogni forma di coltura, decade profondamente. I suoi
caratteri più visibili sono i seguenti:

_a_) Fin adesso le singole scienze si erano andate specializzando, e
avevano via via assunto una fisionomia propria; ora, invece, ciascuna
perde la sua fisionomia e tutte tornano ad uno stadio indistinto,
per cui l’una si confonde ed infonde nell’altra. Non si avrà più
una scienza matematica, fisica, medica ecc., ma si avrà una scienza
universale che abbraccia tutto il sapere, fortemente ridotto e
indifferenziato, dell’epoca. _La scienza cede il posto all’enciclopedia
universale_. Insigne monumento letterario fra tutti gli altri, ma che
reca anch’esso, in modo solenne, l’impronta di questo preciso carattere
della scienza medievale, è la _Divina Commedia_ di Dante Alighieri.

_b_) Nell’antichissimo Oriente le scienze erano state impacciate
e ingombre di prevenzioni religiose. Nel periodo classico greco, i
progressi della scienza erano stati impacciati dall’eccessivo speculare
filosofico in luogo del paziente osservare e sperimentare. Il periodo
greco-ellenistico aveva decisamente rotto con questo andazzo. La
scienza aveva tralasciato di proporsi il problema ultimo dell’essere e
aveva preferito ricercare le leggi di gruppi singoli di fenomeni.

Ora, invece, si torna all’antichissimo indirizzo. Ora, come
nell’Oriente classico, la scienza è asservita alle dottrine e agli
insegnamenti religiosi. In tempi, come furono i secoli del Medio Evo,
di ardente fede cristiana e dominati dall’autorità grandissima della
Chiesa, non poteva accadere altrimenti. Il primo compito del pensatore
medievale è credere; il secondo è intendere. Ma bisognerà intendere
solo per meglio credere! Tuttavia, se la formula della fede è quella
fissata dalla rivelazione dell’Evangelo, legittimamente interpretata
dalla Chiesa, non si mancherà di cercare di dimostrarla anche con
gli aiuti del pensiero laico. E giacchè tra i pochi libri superstiti
dell’antica, sempre onorata, coltura classica il primo posto è tenuto
dalle opere di filosofia di Aristotele, i concetti fondamentali
dell’aristotelismo sono ora adoperati a cementare l’edifizio del
pensiero della filosofia cristiana.

Tale il carattere del grosso della filosofia medievale, o, per lo meno,
della così detta _scolastica_:[46] la corrente più ampia, di filosofia
medievale, che mette capo all’opera del suo massimo filosofo, S. Tomaso
d’Aquino (1227-1275), e i cui criterii regoleranno quasi tutta la
scienza medievale.

_c_) Ma non solo è ora falsato il contenuto della scienza, bensì anche
il metodo per arrivarci. Assolutamente, non si studiano più, non più
si osservano ed esperimentano i fatti, come Aristotele aveva inculcato
e la scienza ellenistica praticato; non se ne elaborano i resultati
con l’aiuto della libera ragione. Ma si cerca di creare la scienza,
deducendone concetti e leggi da nozioni generali di filosofia o da
postulati religiosi. Anche da Aristotele, ossia dalle regole che egli
aveva assegnate all’umano ragionare, sono tratte ora le norme, con
cui allacciare, attraverso i suoi anelli la nuova catena di deduzioni
scientifiche. Così, privata di due dei suoi necessari elementi —
l’osservazione e l’esperimento — la scienza medievale costruirà
dottrine puramente formalistiche, e tanto vuote quanto presuntuose,
come quelle che si ritenevano fondate su teoriche superiori e
infallibili.

Questo complesso di presupposti filosofici e di nozioni
pseudo-scientifiche sarà intitolato ad Aristotele: sarà detto
l’_aristotelismo_ medievale, tanto diverso dallo spirito del vero
Aristotele, e contro cui la scienza dovrà lungamente combattere quando
vorrà risorgere.

Una netta distinzione va però fatta, nel Medio Evo, fra la coltura
scientifica del mondo arabo e la coltura scientifica del mondo
cristiano occidentale. La decadenza, di cui parliamo, si riferisce
specialmente a quest’ultimo, ove pure, specie grazie al pensiero greco,
la scienza era dapprima nata è salita a grande altezza. Il mondo
arabo invece, ossia quella parte dell’Asia Occidentale, dell’Africa
settentrionale, e, più tardi, la Spagna, conquistate nei secc. VII-VIII
dal nuovo popolo semitico degli Arabi, non perde i contatti con la
scienza greca, ne diviene, anzi, l’erede, si sforza di conoscerla,
diffonderla, approfondirla.

Qui, più che di decadenza, deve parlarsi di arresto, di stasi. E la
prima rinascita scientifica dell’Occidente sarà dovuta alle influenze
arabe.


15. =La coltura scientifica nell’alto Medio Evo= (secoli VI-XII): _A_).
_Nel mondo cristiano_. — Dopo la fine dell’Impero romano d’Occidente,
in Europa, il culto delle matematiche si spegne completamente per
circa un secolo. Il matematico non è che un astrologo, un indovino, un
ciarlatano, la cui scienza è interdetta ufficialmente dai nuovi governi
barbarici. Un solo personaggio è da menzionare tra la fine del sec. V
e i primi del sec. VII: _Severino Boezio_ (480-524), una delle vittime
della reazione degli ultimi anni del re ostrogoto in Italia, Teodorico.
Egli fu autore di un operetta famosa, scritta in carcere, _La filosofia
consolatrice_ (_De consolatione philosophiae_), ma scrisse anche due
libri di aritmetica e di geometria, riassunto di matematici greci,
specie di Euclide. Or bene, _nella sua geometria, egli ci fa cenno
della conoscenza, presso gli antichi_ (egli dice i Pitagorici), _di
cifre, somigliantissime a quelle usate dagli Arabi d’Occidente_ (i così
detti numerali _Gubar_), che sono le progenitrici delle nostre cifre.
Noi non riusciamo, neanche oggi, a spiegare in che modo la notizia di
tali cifre fosse penetrata nella coltura matematica dei Romani del
Medio Evo. Tuttavia, a parte questo particolare, che c’impressiona,
la _Geometria_ di Boezio, l’ultima opera matematica romana, dell’evo
antico e la prima dell’evo medio, è di scarsissimo valore. Contiene
gli enunciati del primo libro di Euclide, di poche proposizioni del
terzo e quarto libro senza dimostrazione. Alquanto migliore è la sua
_Aritmetica_. Tuttavia, l’una e l’altra rimasero in Occidente, per
circa sette secoli, come l’unica fonte di questo genere di coltura
scientifica.

Le discipline matematiche, come la coltura dell’epoca risorgono, nel
sec. IX, al costituirsi dell’Impero carolingio, che rinnova nella
storia medievale la stessa funzione, che avea avuta l’antico Impero
romano: quella cioè di costituire, in mezzo a un mondo barbarico,
un’oasi di pace e di civiltà. Or bene, nella riforma della istruzione
dell’Impero, fatta da Carlo Magno, e di cui il merito principale è
da attribuire al monaco anglosassone _Alcuino_ (735-804), che fu
come il suo ministro della istruzione pubblica, noi troviamo che
le nuove scuole, nel corso superiore (il _quadrivio_), hanno anche
l’insegnamento dell’aritmetica, della geometria, dell’astronomia.
Egli, Alcuino, compose, a questo proposito, una raccolta di problemi
dal titolo — _Quesiti per aguzzare l’ingegno dei giovani_ —, ed egli
stesso, con altri, fu incaricato di tenere a Corte delle lezioni di
matematica e di astronomia.

La riforma dell’istruzione, compiuta da Carlo Magno e da Alcuino, ha
carattere principalmente ecclesiastico. Certo, il grande imperatore
volle che anche il popolo potesse istruirsi, e richiese che in ogni
cittadina o villaggio, il prete tenesse scuola gratuita ai fanciulli.
Ma le sue grandi riforme riguardarono le scuole annesse ai vescovati
e ai monasteri, dove monaci e laici, ma specie i primi, avrebbero
coltivato i rami superiori della coltura.

La sua riforma non potè mancare di dare qualche frutto, se non per
la scienza (nella quale non troviamo l’ombra di un progresso, anzi si
rimane lontanissimi dall’altezza raggiunta nel periodo alessandrino),
per la diffusione della coltura. Naturalmente, le tempestose vicende
che l’Impero carolingio dovette affrontare dalla morte di Carlo Magno
alla sua finale catastrofe, nell’887, non erano fatte per incoraggiare
gli studii scientifici. Di peggio avvenne col dissolversi dell’Impero,
e con le lotte che tosto si accesero in ognuna delle tre grandi
sezioni politiche, che ne emersero (Italia, Francia, Germania), fra i
pretendenti alla Corona regia e imperiale.

Soltanto, in sullo scorcio del sec. X, al primo consolidarsi della
monarchia in Francia per opera della Casa dei Capetingi, e, in
Germania, per opera degli Ottoni, si ha una ripresa nel campo della
coltura scientifica.

Anche ora, come nei cinque secoli precedenti, benchè non manchino
scuole laiche, private o sovvenute dai municipii, la coltura vive
specialmente all’ombra dei conventi, e nelle scuole ecclesiastiche
(vescovili e monastiche). Non a caso, perciò, il più grande dotto del
sec. X è un monaco — _Gerberto_ (940-1003, che sarà poi papa _Silvestro
II_) — matematico, astronomo, fisico ecc. La sua celebre scuola ebbe
sede a Rheims; vi si insegnavano tutte le discipline scientifiche del
tempo; vi si davano esperimenti di fisica, e a lui si attribuisce la
costruzione di organi idraulici. Egli stesso scrisse di matematica
(non andò tuttavia oltre il segno a cui era giunto Boezio), e ricercò
dovunque libri antichi di scienza, divenuti ormai rarissimi.

Proprio, a motivo della sua scienza e delle sue pratiche scientifiche,
la vita di Gerberto fu agitatissima. Il volgo lo riteneva uno stregone;
le autorità ecclesiastiche lo colpirono più volte. Ma è innegabile la
sua influenza sui suoi contemporanei e sui dotti dei due secoli a lui
successivi: i secc. XI e XII. In questo lungo periodo la scuola di
Rheims fu la mèta del pellegrinaggio degli amatori della scienza di
ogni Paese; i quali, tornati in patria, vi diffondevano il sapere che
colà avevano attinto.

Una speciale importanza ebbe il fatto che, nella sua scuola di Rheims,
Gerberto aveva insegnato anche le dottrine filosofiche di Aristotele,
che però egli non conosceva direttamente, ma attraverso quanto ne
tramandavano gli scrittori latini, specie Boezio. L’amore, che egli
seppe istillare per Aristotele, fu così grande, che i suoi discepoli
furono invogliati a ricercarne direttamente le opere, e le chiesero,
più che alla letteratura greca, di cui si era scordata la lingua, alle
traduzioni arabe. Dal che dovevano venire profondi rivolgimenti.


La ignoranza scientifica, che fin ora abbiamo notata presso gli
Occidentali nell’alto Medio Evo, nei riguardi delle scienze più nobili
dell’antichità — la matematica, e l’astronomia — è forse ancor più
profonda nei riguardi della fisica, della chimica, della zoologia,
della botanica.

Non soltanto la parola _fisica_, ma il contenuto stesso di questa
disciplina, viene ora giudicato come qualcosa di abietto — quale cura
volgare delle cose materiali —, anzi di contrario alla religione e
alla scienza divina. Quindi la «fisica» fu fieramente avversata dalla
Chiesa, nè il clero, nelle cui mani era tutta la coltura del tempo,
volle occuparsene. Gli eretici medievali sono denominati _epicurèi_,
ed eretica è considerata la più grande teoria fisica dell’antichità —
quella atomica —, insegnata da Democrito e da Epicuro.

Tuttavia l’atomismo non è spento, e noi troviamo un fisico, un monaco,
_Guglielmo de Conches_ († 1150), il quale, pur senza pronunziare il
nome aborrito, è un ripetitore della teoria atomica.

Ma la condanna morale della religione e della Chiesa contro gli studii
di fisica non risultava sufficiente. Gli oscuri contravventori dovevano
essere numerosi. Perciò, con l’organizzarsi della _Inquisizione_, in
sui primi del sec. XIII, fu inferto un colpo mortale allo studio della
fisica: nel 1245 i Domenicani lo proibirono assolutamente in seno al
loro ordine. In tema di fisica non si può nè ricercare nè speculare;
si deve star paghi alla teoria enunciata da _S. Tommaso d’Aquino_
(1227-75), il massimo filosofo medievale, la quale, in fondo, è una
teoria aristotelica. Che, cioè, la materia è inerte, priva di energia
interna, e la vita, il moto delle cose, non dipendono da essa, ma dallo
Spirito, dalla Volontà suprema che regge il mondo, e ch’è la vera causa
di ogni così detto fenomeno fisico.

Unico, nuovo strumento fisico, introdotto nell’Europa medievale, è
la _bussola_; il che fu dovuto alle superiori esigenze delle città
marinare italiane. La sua prima menzione risale al sec. XII, ma essa ne
è certamente anteriore. Gli Amalfitani pare ne fossero gli introduttori
in Occidente, avendola conosciuta presso gli Arabi, che a loro volta,
forse, l’avevano appresa dai Cinesi. Essa era, allora, grossolanamente
formata da un ago calamitato, collocato sur un assicella di legno o
in una cannuccia galleggiante sull’acqua. L’Amalfitano _Flavio Gioia_
(secc. XIII-XIV) non fu dunque l’inventore, ma solo il perfezionatore
della bussola.


Col decadere o col disparire dell’attività industriale in Occidente,
manca l’incentivo a qualunque speculazione ed esperienza di chimica.
Solo verso i secc. XI-XII, sotto l’influenza dell’alchimia araba,
che, attraverso la Spagna e l’Italia meridionale, passa nell’Occidente
cristiano, comincia a svilupparsi un’alchimia cristiana.

Analogamente, l’unico scritto, che possa avere attinenza con le scienze
così dette naturali (zoologia e botanica) è un libro de _Le Origini_
del vescovo di Siviglia, _Isidoro_ (a mezzo il sec. VII), in cui quelle
discipline dimostrarono di essere precipitate in uno stadio ancor più
caotico che non negli ultimi secoli del periodo romano.

Unica scienza, che sornuota all’universale naufragio, è la medicina,
grazie alla sua importanza pratica.

Le scuole mediche non furono, come le altre, in cui s’impartiva la
restante cultura scientifica, vietate dalle autorità ecclesiastiche,
o perseguitate dai Barbari, o trascurate dai principati barbarici
medievali. In tutto l’Occidente, nel corso dei secc. X-XII, si hanno
scuole di medicina nei chiostri, tal quale come, un tempo, in Grecia,
prima di Ippocrate, e fuori di essi. A Milano, nell’VIII secolo,
si insegnano le dottrine di Ippocrate e di Galeno; nelle abbazie
di San Gallo (in Francia) e di Monte Cassino, in Italia, si copiano
manoscritti medici antichi. Ma la _Scuola medica_ più gloriosa è quella
che si istituisce, non sappiamo precisamente quando, certo prima del
mille, in Salerno, capoluogo dell’omonimo principato longobardico, dove
gli insegnamenti medici si ispirano a Galeno; dove si narra ci fossero
anche donne diplomate in medicina; dove si impartiscono precetti
medici, che fanno testo, e richiamano l’attenzione di principi indigeni
e stranieri, quali il re d’Inghilterra; una scuola, insomma, che più
tardi attirerà su di sè il favore e la protezione dei sovrani normanni,
prima, dei monarchi svevi, poi.

Gli è appunto in questo tempo, ossia nell’età di Federico II di
Svevia (primo cinquantennio del sec. XIII), che la cultura dell’Europa
cristiana occidentale entra in diretto rapporto con la cultura araba.

_B_). _Gli Arabi e la coltura (secc. VII-XII)._ — Mentre le tenebre
dell’ignoranza calavano sull’Europa occidentale, si fondava in Oriente
l’Impero arabo, il quale, nei sec. VII-VIII, si stendeva già sulla
Persia, sulla Mesopotamia, la Siria, l’Egitto, su tutta l’Africa
settentrionale e, in Occidente, anche in Spagna.

Alla dinastia dei Califfi Abassidi toccò la massima parte — tutta la
sezione orientale — di questo vasto impero, ed essi posero la loro
capitale in Bagdàd sull’Eufrate, non lungi dall’antica Babilonia,
e perciò in sede adatta ad accogliere le correnti della civiltà
ellenistica, ossia della civiltà greco-orientale, che da Alessandro
Magno si era sparsa per tutto l’Oriente, e della civiltà indiana,
rimasta fin allora come isolata dal mondo.

Essi, a differenza dei principi dell’Europa occidentale loro
contemporanei, furono grandi mecenati, sommi protettori delle scienze
e delle arti.[47] Alla loro Corte si raccolsero scienziati greci,
persiani, indiani; essi fecero ricercare, studiare e tradurre le
principali opere della scienza greca antica, e, se non sempre gli Arabi
ne continuarono con nuovi progressi i resultati, ne furono — essi i
barbari di ieri — i più fedeli custodi.

L’efficacia dell’opera loro non cessa coi secc. XII-XIII, allorquando
il mondo arabo orientale subì delle gravissime traversie, attaccato
dai Cristiani con le Crociate, in Spagna e nell’Asia occidentale, e dai
barbari, Turchi e Mongoli, nell’Asia orientale. Sotto i colpi di questi
ultimi, barbari ferocissimi, finisce, anzi, il califfato di Bagdàd
(1258). Ma gli Arabi, da un lato, consegneranno all’Occidente cristiano
la fiaccola del sapere, che soli per sette secoli avevano custodita,
dall’altro, lascieranno in eredità ai Mongoli conquistatori la stessa
passione della coltura, da cui essi erano stati presi. E le Corti del
famoso _Gengiskan_, nel sec. XIII, e poi, un secolo più tardi, quella
del terribile _Tamerlano_ (in Samarcanda) rivaleggeranno per splendore
di mecenatismo con quelle arabe, che le avevano precedute.

Bagdàd non fu l’unico centro della coltura araba. In Egitto essa
ebbe sede in _Cairo_, la nuova città araba, che detronizza la greca
Alessandria, e dove, specie per opera dei Califfi Fatimidi, viene
fondata una biblioteca più grandiosa di quella di Alessandria. Nella
Spagna, dove non dominarono gli Abassidi, ma i Califfi Omiadi,
fiorirono scuole luminose: a Siviglia, Cordova, Granata, Toledo,
altrove.

_C_). _La coltura scientifica degli Arabi: a) Matematica e Astronomia._
— Le due scienze, nelle quali gli Arabi si segnalarono specialmente,
furono le matematiche e l’astronomia. Essi ebbero il vantaggio di poter
fondere insieme i progressi compiuti in matematica e in astronomia,
dai Greci, alle cui opere attinsero direttamente, con quelli, compiuti
dagli Indiani. Al principio del sec. X tutti gli scritti principali dei
matematici greci — in primo, gli _Elementi_ di Euclide, l’_Almagesto_
di Tolomeo, e poi le opere di Apollonio, Archimede, Erone, Diofanto —
erano tradotte in arabo, e gli Arabi si erano appropriati di tutte le
conquiste matematiche del genio greco. D’altro canto essi leggevano le
opere matematiche degli Indiani,[48] e da loro ritraevano il sistema di
numerazione e le progredite cognizioni algebriche (cfr. § 4).

Singolare è la storia delle _cifre_ così dette _arabiche_ (le quali
poi sono indiane), che gli Arabi adottarono, e che da loro sono passate
a noi. Gli Indiani non usarono un sistema di numerazione identico per
tutti i luoghi e per tutti i tempi. Fin dal secondo secolo di C., essi
possedevano nove segni per indicare i primi nove numeri, ma non lo
_zero_, elemento fondamentale della futura numerazione indiano-araba,
e della nostra attuale, come quello che, pur non avendo valore, serve
a dare un differente valore alle cifre cui si raccosta. Queste cifre
pare siano state conosciute in Occidente (cfr. § 15 _A_), e certo
furono adottate dagli Arabi di Spagna col nome di _numerali gubar_.
Più tardi, verso l’ottavo secolo di C., non solo la forma delle antiche
cifre indiane è cambiata, ma ad esse si è aggiunto lo _zero_ nella nota
forma di cerchietto: tali sono i numerali, che furono adottati dagli
Arabi d’Oriente. Modificazioni ulteriori trasformarono le cifre indiane
nei moderni segni detti _devanagari_, che anche gli Arabi accolsero e
trasmisero a noi, porgendoci così il mezzo di eseguire rapidamente le
operazioni aritmetiche con l’usare una serie brevissima di dieci segni
numerici, ma fondata sul principio che una cifra, scritta a sinistra di
un’altra, acquista un valore dieci volte maggiore.[49]

Più tardi, però, ossia fin dal sec. IX, gli Arabi vantano, oltre alle
traduzioni greche, opere originali.

Quale il valore e il contributo, recato direttamente dagli Arabi
alle matematiche e all’astronomia? Il loro merito è, diremo così, di
carattere più estensivo che intensivo. Essi acquistarono una conoscenza
completa di tutto quanto i Greci avevano scoperto nelle matematiche;
ma, eccezion fatta della trigonometria, che perfezionarono, che
trattarono per i primi indipendentemente dall’astronomia, e a cui
dettero la forma attuale, essi lasciarono immutate, quali le avevano
ricevute dai Greci, le altre parti della geometria. Per contro, avendo
appreso l’algebra dagli Indiani, l’applicarono alla geometria, e si
spinsero fino alla soluzione delle equazioni di 3º grado mediante
costruzioni geometriche. Come si vede anche da quest’unico esempio, gli
Arabi non trattarono separatamente geometria ed algebra, ma l’una col
mezzo dell’altra, precorrendo e fissando in tal modo uno dei caratteri
della matematica moderna ed anche molti dei progressi della geometria,
dopo il sec. XVI.[50]

Dell’astronomia gli Arabi ebbero bisogno, forse più che delle
matematiche, perchè certe norme religiose richiedevano la conoscenza
della direzione in cui si trova la Mecca; perchè i digiuni e le
festività maomettane dovevano farsi in corrispondenza delle fasi
lunari; perchè la mirabile trasparenza del cielo orientale invita
naturalmente alle osservazioni astronomiche; infine perchè, specie
le civiltà orientali, con cui gli Arabi entrarono in intimo contatto,
credevano fermamente che i moti degli astri, le eclissi ecc. avessero
influenza sul destino degli uomini e che si potesse predire il futuro
delle vicende umane (cfr. §§ 2 _A_; 3 _A_).

Per ciò gli studii astronomici furono, presso gli Arabi, in gran voga,
e, oltre a voler tradotte le opere degli astronomi greci, i principi
arabi fondarono osservatorii astronomici (a Damasco, Bagdàd, Cordova)
e fecero istituire serie, continuate e metodiche, di osservazioni. Si
ebbe perciò campo di correggere e perfezionare le tavole astronomiche
greche e gli istrumenti fin allora conosciuti e adoperati; si applicò,
infine, largamente, la matematica all’astronomia.

Come abbiamo accennato, anche quando, in Oriente, il dominio dei
Califfi cedette il posto a quello dei Mongoli, l’eredità della loro
scienza — specie in astronomia — rimase intatta, e gli astronomi
di Gengiskan usavano strumenti, per grandezza e per costruzione,
superiori, forse, a quelli usati dagli Europei nell’età di Copernico
(sec. XVI).

Tuttavia deve dirsi che nessuna grande scoperta può essere attribuita
all’astronomia araba. Gli Arabi assimilarono le idee altrui, le
perfezionarono, le corressero, in quanto erano osservatori pazienti
e calcolatori abilissimi. Ma nulla più: il massimo dei servizi, reso
dagli Arabi all’astronomia, può dirsi questo: ch’essi conservarono e
tramandarono all’età moderna la scienza greca, la quale senza di loro
sarebbe forse andata dispersa.[51]

Ecco qualche nome di matematici-astronomi arabi: _Maometto ben Musa al
Hovarezmi_ (sec. IX), _Al Battani_ e _Abul Wafa_ (sec. X), _Gebar, Omar
Al Hayami_ (secc. XI-XII), _Nassir Eddin_ (sec. XIII), astronomo di
Gengiskan; _Zerkakali_, in Spagna (sec. XI), ecc.

_D_). _Fisica e Chimica._ — Come in astronomia e matematica, così
anche in fisica, gli Arabi furono fedeli discepoli dei Greci, le cui
dottrine essi continuarono, e, in qualche punto, perfezionarono. Ma in
verità essi trattarono a fondo un solo ramo della fisica: l’ottica.
Notevolissimi, ad esempio, furono gli studii di ottica di _Al Hazen_
(secc. X-XI), che scrisse appunto un’_Ottica_. Egli sostenne, e, per la
prima volta, in modo preciso, che il fenomeno della visione non dipende
da raggi luminosi, che partano dall’occhio, ma al contrario, da fasci
di raggi luminosi, in forma di piramide, che si partono dall’oggetto,
e penetrano nell’occhio, aventi come vertice il punto dell’oggetto
da cui muovono e come base la pupilla dell’occhio. Egli è il primo
fisico che ci abbia dato una descrizione particolareggiata dell’occhio
umano. Non basta: nella sua _Ottica_, pigliando le mosse da Tolomeo,
egli ristudiò a fondo le leggi della propagazione, della riflessione e
della rifrazione della luce. Famoso è il problema di ottica che porta
il suo nome (_il problema di Al Hazen_): _data la posizione di un
punto luminoso e dell’occhio, trovare il punto nello specchio (sferico,
cilindrico, conico), in cui avviene la riflessione_.

Altri dopo di lui tornò a studiare i fenomeni dell’ottica, del calore,
della meccanica (specie la questione del peso specifico). Tuttavia,
gli Arabi non aggiunsero nulla alle teorie fisiche greche in questi
altri campi. Non si può dire neanche che circa ai concetti di materia
e di forza, e ai loro rapporti, si discostassero dai Greci. Aristotele
rimase il loro esclusivo maestro, ed anch’essi, come Aristotele,
opinarono per il dualismo di questi due elementi (cfr. § 8 _A_).

Per contro, una disciplina, nella quale gli Arabi vennero considerati
maestri, fu la _chimica_ od _alchimia_, parola, quest’ultima che
infatti, avvertimmo, significa semplicemente _la chimica_.

Con gli Arabi, ossia sotto il dominio dei Califfi, la chimica, quale
scienza sperimentale, si stacca nettamente dalla chimica industriale
e diviene una scienza a sè, coltivata non più da mestieranti o da
artigiani, ma da colti scienziati operatori.

Il più grande chimico o alchimista arabo è _Gebar_,[52] le cui opere
sono numerose e, per la chimica araba del Medio Evo, fondamentali.
Sua teoria, chiave di ogni altra era questa: che tutti i metalli sono
composti di zolfo, di mercurio (solo più tardi l’alchimia vi aggiungerà
il sale e l’arsenico, che però spesso verrà confuso con lo zolfo), e
le loro differenze dipendono dalle proporzioni relative e dal grado di
purezza di questi due loro componenti. Ma lo _zolfo_, il _mercurio_, di
cui Gebar parla, _non sono le sostanze, che noi conosciamo e che così
denominiamo; sono invece le quintessenze delle medesime_. Il mercurio
rappresenterebbe il _principio_ della fusibilità, della lucentezza,
della malleabilità; lo zolfo, il _principio_ della combustibilità e del
colore. _Chi perverrà a isolare queste quintessenze, questi principii
potrà fabbricare tutti i metalli._

Questo è uno dei concetti capitali della chimica nel Medio Evo. Sulla
traccia segnata dal Gebar, lavorarono gli Arabi di Oriente e di Spagna
dei secc. IX-XI — _Rhazes, Avicenna, Albiruni_ —, sì che deve dirsi
che, se egli fu uno dei primi e il più grande, non è punto l’unico
chimico arabo.

Quei dotti conoscevano e praticavano comunemente gran numero dei
nostri processi chimici (distillazione con l’alambicco, sublimazione,
calcinazione, filtrazione); preparavano molte sostanze saline
(carbonato di soda, potassa, sale ammoniaco, nitrato di argento,
allume, sublimato corrosivo, ossia _bicloruro di mercurio_);
conoscevano il modo di preparare taluni acidi (aceto, acqua ragia,
vetriolo).

Ma tutte queste conoscenze dovevano, secondo i chimici arabi, non
restare fine a se stesse. Dovevano, da un lato, servire alla medicina
(i chimici furono in buona parte medici); dall’altro, e principalmente,
servire a raggiungere lo scopo supremo della conquista del sovrano
reagente, con cui trasmutare tutti i metalli vili in oro o almeno in
argento.

Questo reagente molti alchimisti dicevano di averlo trovato. Esso
sarebbe stato la _pietra filosofale_. Ma, se su di essa si davano
formule misteriose, nessuno all’infuori degli interessati ebbe la
fortuna di vederla e toccarla.[53] È chiaro come, avviata su questa
strada, la chimica dovesse cadere in mano di falsari, di ciurmadori,
o anche, semplicemente, di visionari. Ne seguì che, non ostante il
gigantesco lavorio chimico che gli Arabi iniziarono, o a cui dettero
un grande impulso, e che durerà fino al sec. XVIII, le imposture e le
illusioni vi si mescolavano in tale e tanta copia, da nascondere quasi
completamente i resultati utili.

_E_). _Medicina e scienze naturali._ — Al pari di quella chimica,
la letteratura medica degli Arabi medievali d’Oriente e d’Occidente
è immensa, e di non spregiabile valore. Tuttavia deve dirsi che
essa si fonda, al solito, sulla scienza medica dei libri greci del
periodo ellenistico e romano, e assai spesso ne ripete alla lettera
gl’insegnamenti. Fra i Greci del periodo romano, il grande dominatore
della scienza medica è Galeno, e Galeniani sono _Rhazes_ (IX-X sec.),
_Avicenna_ (930-1037), uno dei maggiori intelletti dei secc. X-XI,
matematico, chimico, filosofo, ma sopra tutto medico e autore di un
_Canone della medicina_, attinto sostanzialmente a Galeno, e, con
Avicenna, _Averroè_ (_Maometto ibn Rochd_) (sec. XII), spagnolo e
discepolo ideale di Avicenna, autore, anche lui, di un corso completo
di medicina.

Lo stesso non è a dire della zoologia e della botanica araba. Gli
Arabi arrecarono assai piccolo contributo all’una e all’altra scienza.
Descrissero un certo numero di animali dei paesi, da essi conosciuti
e conquistati, e di piante, cui attribuivano un valore, medicinale o
economico; ma nulla di scientifico in tutto ciò.

_F_). _Valore della scienza araba medievale._ — Il giudizio, che deve
farsi della scienza araba, è identico a quello che può portarsi su
tutta la cultura in genere di questo popolo. La scienza araba, salvo
un po’ nelle matematiche, non ebbe gran che di originale, e diffuse
e seguì fedelissimamente quella greca. Ma questo appunto fu il suo
merito indimenticabile: in un’età, nella quale tanto preziosa eredità
veniva dimenticata e sperduta, essa ne raccolse, e serbò inviolata,
la memoria, e, quando la vitalità storica del popolo arabo si spense,
trasmise intatto all’avvenire il prezioso tesoro.


16. =La scienza bizantina.= — Si deve anche agli Arabi, o piuttosto
alla loro invasione, il fatto che una parte dei dotti greci, sparsi
nelle capitali dell’Oriente, ellenistico e romano, fuggissero atterriti
dinanzi ai conquistatori e si rifugiassero a Costantinopoli, cuore e
cervello del mondo bizantino.

Per tale circostanza si ebbe qui appunto, tra il sec. VII e il
1453 (l’anno della conquista turca di Costantinopoli), il fiorire
dell’ultima scienza greca.

Pur troppo, si tratta di fioritura di scarsissimo valore: la decadenza,
che era cominciata presso i Greci in seno al mondo romano, si aggrava
paurosamente presso i Bizantini. Non ostante la diretta cognizione
della lingua greca, in cui tante opere di scienze erano state dettate;
non ostante i meravigliosi manoscritti antichi, che solo le biblioteche
costantinopolitane possedevano, il contributo dell’età bizantina alla
scienza ellenica è quasi nullo. La vita agitata che per secoli visse
l’Impero bizantino, l’intolleranza religiosa, anzi, peggio ancora, la
volontaria soggezione degli spiriti a numerose limitazioni dogmatiche,
contennero in assai angusti confini lo sviluppo della scienza
bizantina, che si fermò a uno scalino di poco più elevato di quello
della scienza cristiana occidentale e, per valore, rimase lontanissima
dalla scienza ellenistica e da quella araba.

Tuttavia, indirettamente, l’età bizantina giovò molto alla scienza. Da
questo sovrano centro di coltura si diffusero molti dei libri, che gli
Arabi conobbero e tradussero; e di qui, dopo il 1453, si diffonderanno
per il mondo, non solo i libri, ma, altresì, i dotti greci, che in
ambiente più favorevole coopereranno non poco al risorgere della
coltura scientifica dell’evo moderno.


17. =Cultura arabo-cristiana nei secc. XII-XIV:= _A_). _Considerazioni
generali._ — I secoli XII-XIII registrano un intimo contatto culturale
del mondo cristiano occidentale col mondo arabo, specie con i vicini
Arabi di Spagna. In questi due secoli si traducono parecchie opere
scientifiche arabe in latino. Questo produsse due conseguenze: da un
lato, la coltura medievale cristiana dell’Occidente, la cui lingua
colta era il latino, si mise, attraverso il mondo arabo, in contatto
con la coltura scientifica greca; dall’altro, ricominciò a formarsi
un vero spirito e un acconcio atteggiamento intellettuale, scientifico
presso gli Occidentali.

Si notano perciò alcuni segni di declino nell’impero assoluto, fin
ora esercitato, dalla filosofia scolastica. Accanto alla dottrina
cristiana del mondo e dei suoi fenomeni, fondata sulla rivelazione
dell’_Evangelo_ e illustrata dalla filosofia; in una parola, accanto
alla _teologia_, vengono a collocarsi le dottrine greco-arabiche,
_che procedono secondo i metodi di ragione_ — quella che si disse
la _filosofia in senso ristretto_ — e a cui mettono capo le scienze.
Sorge così, in questo tempo, la strana dottrina delle «due verità»,
per cui ad alcuni problemi, filosofici e scientifici, si dànno ora due
soluzioni: una _vera_, di fronte alla teologia, e una, _vera_ di fronte
alla filosofia, _cioè, posti i principii e i criterii del pensiero
greco-arabico_. In tal modo, mentre fin adesso la rivelazione religiosa
aveva dominato la scienza, questa ora se ne rende indipendente,
ponendovisi a fianco, se non di contro. Inoltre, dalla scolastica
si diramano correnti di pensiero che potrebbero dirsi, e talora sono
dette, eretiche: correnti mistiche e razionalistiche, ma egualmente
rivoluzionarie, ed esse sono appunto quelle preferite dai maggiori
scienziati di questo tempo, come Ruggero Bacone e Raimondo Lullo.

Fra i più grandi traduttori di opere classiche di questa età, si
noverano _Adelardo_ (Athelard di Barth), monaco inglese (sec. XII),
che avrebbe voltato gli _Elementi_ di Euclide dall’arabo, dando così
all’Occidente la prima traduzione di quest’operetta classica; poi
_Platone di Tivoli_ (sec. XII) e sovra tutti _Gherardo di Cremona_
(sec. XII), che tradusse dall’arabo circa 70 opere di matematica e
di astronomia, tra cui l’_Almagesto_ di Tolomeo. Anche in quest’età,
furono tradotte, dall’arabo in latino, quelle opere di Aristotele,
che ancora l’Occidente ignorava, che meno di quelle già note erano
assimilabili dalla teologia cristiana, e che dettero grande impulso
alla coltura scientifica.

Contemporaneamente, venivano fondate in Europa, sin dal principio del
sec. XIII, parecchie università. Prima tra esse sembra sia stata quella
di Parigi (1200). Poi vi seguirono quella di Oxford (1214) e quella di
Napoli, nel 1224, per opera di quel grande principe che fu Federico II.
Ed egli stesso, che ben conosceva la coltura araba, incaricò parecchi
dotti del suo Regno di apprestare traduzioni dall’arabo di opere
scientifiche classiche. Altre Università, fondate nel sec. XIII, furono
Cambridge (1231), Orléans, Padova, Praga, ecc.[54]

_B_). _Matematica ed Astronomia._ — Di tutto ciò si ha una sensibile
conseguenza nel campo delle matematiche. Mentre fin adesso i matematici
erano stati continuatori della scienza greco-romana, e perciò erano
detti _abacisti_ (dall’_abaco_ romano, cfr. § 11 _B_), si hanno, d’ora
innanzi, dei prosecutori delle matematiche indo-arabiche, e saran detti
_algoritmici_.[55]

Tuttavia il più grande matematico del sec. XIII, l’italiano _Leonardo
da Pisa_ (_Leonardo Fibonacci = figlio di Bonaccio_), può dirsi un
autodidatta. Figlio di mercanti, viaggiò in Egitto, Siria, Grecia,
Sicilia, e nel suo _Liber abaci_, primo portò, nell’Occidente
cristiano, le cifre indiane e l’aritmetica indo-arabica. In quest’opera
classica, donde per secoli i matematici attingeranno i materiali dei
loro libri, si trovano illustrati e spiegati: 1) i metodi più perfetti,
allora noti, per il calcolo dei numeri interi e delle frazioni; 2) le
estrazioni delle radici quadrata e cubica; 3) la teoria delle grandezze
incommensurabili; 4) la teoria delle equazioni di 1º e 2º grado.

Il _Liber abaci_ è soltanto un libro di aritmetica e algebra. Leonardo
vi fece seguire un’altra operetta di geometria (_Practica Geometriae_),
in cui raccolse, con metodo perfetto e con eleganza di dimostrazione:
1) quanto al suo tempo si sapeva sul calcolo delle aree delle figure
piane rettilinee e dei poliedri; 2) quanto si sapeva sulla misurazione
del cerchio, della sfera e del cilindro; 3) gli elementi fondamentali
della trigonometria.

Contemporaneo all’italiano Leonardo da Pisa è il monaco francescano
inglese _Ruggero Bacone_ (1211-1294)[56] uno dei più potenti genii del
Medio Evo, che fu professore di matematica e di astronomia ad Oxford, e
cultore, anche, di fisica, astronomia, chimica. Ma la grande importanza
di Bacone non istà nei contributi particolari, da lui arrecati a
questa o a quella disciplina, ma nell’avere, primo nel Medio Evo,
combattuto l’indirizzo della scienza del tempo, che non osava scostarsi
dall’autorità di Aristotele, e nell’aver sostenuto l’importanza
dell’esperimento e del ragionamento matematico nelle ricerche
scientifiche. Sua è la definizione che l’esperienza deve essere
«signora della scienza della speculazione», ossia della filosofia, e
sua fu la massima che «_nulla è possibile conoscere senza esperienza_».
Questo solo bastò a farlo condannare, nel 1280, come eretico al carcere
a vita, donde venne rilasciato circa un anno prima della sua morte, e
basta a fare di lui un glorioso precursore della scienza moderna.

Intorno a questi due uomini sommi sta una folla di figure minori, ma la
cui presenza e la cui operosità mostrano come adesso, in tutta Europa
— Italia, Inghilterra, Germania — le scienze matematiche, grazie a
una più intima conoscenza delle opere greche ed arabe, progrediscono
lentamente. Non più, in questi ultimi secoli del Medio Evo, le scarse e
superficiali conoscenze di Beozio e di Isidoro di Siviglia, ma notizie,
ampie e precise, attinte dagli Arabi, o anche scritti originali, come
quelli di Leonardo. Sopra tutto, notevole e feconda è la intima unione
della geometria con l’algebra, che gli Arabi avevano iniziata e che
Leonardo consacra.

I Fiorentini dei secc. XIII e XIV, grandi mercanti e viaggiatori
cosmopoliti, aggiunsero un altro elemento di progresso, con la
semplificazione delle operazioni e con le prime nozioni di aritmetica
commerciale. _Essi per primi introdussero nei libri di aritmetica le
regole del tre semplice e composta, del guadagno e della perdita, di
società, di sconto_, ecc.

— L’influenza della coltura araba sulla astronomia non fu meno
grande che sulle matematiche. La graduale conquista cristiana della
Spagna araba ebbe per contracolpo l’assoggettamento dei vincitori
alla scienza dei vinti Arabi. A Toledo, fin dal sec. XI, era stato
pubblicato un prezioso volume di tavole astronomiche compilate
sotto la direzione dell’astronomo arabo _Arzachel_, ch’è l’opera
più notevole dell’astronomia araba. Or bene, nel sec. XIII, re
Alfonso X di Castiglia, appena ebbe riconquistato alla cristianità
Toledo, si affrettò a riunirvi un corpo di dotti, ebrei e cristiani,
che calcolarono sotto la sua direzione una nuova serie di tavole
astronomiche (_Tavole Alfonsine_, 1252), le quali miglioravano
e correggevano quelle precedenti, ed ebbero grande diffusione in
Europa. Egli stesso fece pubblicare una grande enciclopedia della
scienza astronomica del tempo (_Libros de Saber_), che non è soltanto
una traduzione di testi arabi, ma opera in gran parte originale. Vi
si ritrova un disegno rappresentante l’orbita del pianeta Mercurio
intorno alla Terra, _in forma non già di circolo, ma di ellisse_. Ed è
questo il primo tentativo, che solo Keplero applicherà largamente, di
rappresentare i moti celesti mediante curve, diverse dal circolo.

Nel sec. XIV, nel mondo cristiano occidentale, l’astronomia comincia
a essere coltivata anche fuori della Spagna. Anche il sommo _Ruggero
Bacone_ (1214-1294) in Inghilterra, si occupava di astronomia, e colà
ebbe grande popolarità, senza dubbio superiore al merito, _Giovanni
Halifax_ (latin. _Sacrobosco_), per qualche tempo professore anche
a Parigi. Dal gennaio 1337 al gennaio 1344 sono tutta una serie,
sistematica e interessante, di osservazioni metereologiche di un ignoto
studioso di Oxford. Ma un nuovo, glorioso centro di studii astronomici
sarà la Università di Vienna, fondata nel 1365, da cui usciranno taluni
dei più grandi astronomi della Rinascenza (secc. XV-XVI).

_C_). _Fisica e Chimica._ — Il più grande fisico del sec. XIII è
_Ruggero Bacone_ dianzi citato: _fisico_ nel pieno senso, che il Medio
Evo assegnava questa parola, ossia studioso di tutti i fenomeni che
cadono sotto i sensi e che riguardano la materia. Quale continuatore
e discepolo della scienza araba, egli fu un cultore appassionato di
ottica (le opere di Al Hazen furono al tempo suo tradotte in latino).
Perciò a lui si attribuì — a torto — l’invenzione degli occhiali e,
magari, del telescopio. Vero è, tuttavia, che egli (come farà poco più
tardi Leonardo da Vinci) ci lasciò la descrizione di un gran numero di
meccanismi, dei quali riteneva possibile la costruzione.

Mentre in Inghilterra il pensiero scientifico era così degnamente
rappresentato da Bacone, nell’Italia del sec. XIII, i diritti
dell’esperienza e della scienza sperimentale trovavano un difensore
in un medico, un contemporaneo di Dante, _Pietro d’Abano_ (1250-1315),
professore di medicina a Padova e autore di un _Conciliatore_, specie
di enciclopedia della scienza del suo tempo. A quest’opera, seguendo
Bacone, egli premette una introduzione teorica sulla natura e sul
metodo delle scienze, e questa parte è notevolissima perchè egli, in
Italia, rappresenta in modo eminente il pensiero degli scienziati
laici. Or bene, questa nuova scienza, cui il mondo greco-arabo ha
rivelato i suoi tesori, osa affermare che essa _possiede un proprio
metodo e principii razionali diversi da quelli della teologia, e
che nella ricerca delle cause dei fenomeni naturali non si devono
introdurre concetti teologici e forze soprannaturali_.

Dopo di ciò, Pietro d’Abano espone molte delle verità fisiche del suo
tempo, fra cui, leggiamo queste, ignote agli antichi: che l’aria è un
corpo pesante; che al di là di una certa altezza, l’aria non è turbata
da movimenti; che i corpi celesti sono luminosi perchè forniti di
calore, ecc. ecc.

Egli stesso fu chiamato a insegnare a Costantinopoli, e di là portò in
Italia, aggiungendovi un commento, l’originale greco delle _Questioni
meccaniche_ di Aristotele.

Per tutto ciò, al pari di Bacone, questo grande italiano del sec.
XIII venne (per fortuna, dopo morto) condannato quale eretico, onde
il suo cadavere fu disseppellito, e le sue ceneri vennero sparse al
vento. Contemporaneo di Dante e di Pietro d’Abano, è un altro «fisico»,
un personaggio, la cui memoria rimane, nella storia della nostra
letteratura, popolare per la sua qualità di detrattore della Divina
Commedia e di Dante stesso: _Francesco Stabili_ (1269-1327), detto
_Cecco d’Ascoli_, che anch’egli perì bruciato vivo, in Firenze, come
eretico. Nella sua opera — al solito enciclopedica — _L’Acerba_ noi
troviamo talune cognizioni fisiche, frutto di sue proprie esperienze:
un’esatta idea dell’eco (riflessione di onde sonore) e dell’arcobaleno
(riflessione dei raggi solari o lunari); il concetto esatto che il
tremolìo estivo delle ombre è prodotto dal riscaldamento dell’aria, che
il tuono e il lampo sono due aspetti di un unico fenomeno, ecc. ecc. Ma
da queste enciclopedie — come da altri elementi della scienza fisica
del tempo — può trarsi un’importante conclusione generale: che nel
Medio Evo (come nell’antichità) solo due sono i dominii della fisica
largamente coltivati: la meccanica e l’ottica.

A proposito di ottica, il sec. XIII e l’Italia hanno il merito
incomparabile di una scoperta, che beneficii infiniti doveva recare al
genere umano: gli occhiali di vetro o di cristallo di rocca. Di essi
Venezia divenne tosto il massimo centro di fabbricazione. E a proposito
di meccanica, si conoscono ora — sono, anzi, diffusi — gli orologi
a ruote e a pesi, con soneria, che già gli Arabi conoscevano, e con
meccanismi atti a indicare altri fenomeni (il corso annuo del sole, le
fasi della luna, ecc.), mirabili a vedere e resistentissimi.[57] Anche
di questi oggetti la prima fabbricazione se ne ebbe in Italia.

La bussola viene ora notevolmente perfezionata, essendosi, in sui primi
del sec. XIV, introdotta, nella fabbricazione di questo apparecchio, la
_sospensione_ del magnete in cerchi concentrici mobili (la così detta
sospensione _cardanica_),[58] che fece la bussola veramente utile per
la navigazione in alto mare.

È naturale pensare che il risveglio, economico e industriale, che si
manifesta decisamente in Italia nell’età dei Comuni, e che accenna qua
e là in tutta Europa dopo il sec. XII, abbia ridato vita alla chimica
anche presso gli Occidentali.

Noi conosciamo grandi nomi, di alchimisti cristiani dei sec. XIII-XIV,
che posseggono esattamente i processi fondamentali della chimica:
_Alberto Magno_ (1193-1280), monaco tedesco e maestro del più grande
filosofo medievale S. Tomaso d’Aquino, anch’egli non ignaro di
alchimia, l’universale _Ruggero Bacone_, il suo discepolo lo spagnolo
_Raimondo Lullo_ (1235-1315), un _Pseudo-Gebar_ (sec. XIII), e altri
minori.

In modo particolare le cognizioni e gli esperimenti, di cui ci fanno
testimonianza gli scritti latini, che vanno sotto il nome di questo
falso Gebar, e quelli attribuiti al Lullo, non possono, se autentici,
non sorprendere i chimici moderni, che solo più tardi e con grande
fatica vi sono pervenuti. Pare che il Lullo fosse fra i primi a saper
ottenere l’alcool mediante distillazione; che sapesse disidratarlo
mediante carbonato di potassio, che a sua volta otteneva, calcinando il
cremor di tartaro. Pare che sapesse preparare parecchi estratti e olii
essenziali, buon numero di composti metallici (ad es. il _precipitato
rosso_ e quello _bianco_) e che conoscesse l’azione dell’acido nitrico
(acqua forte) e dell’acqua regia sui metalli.

Quanto poi al pseudo-Gebar, anch’egli conobbe gli acidi minerali: acido
solforico, acido nitrico (acqua forte) e acqua regia.

Gli Italiani occupano un posto a parte nella scienza chimica di questo
tempo. Di loro non si fanno grandi nomi; ma essi ebbero il merito
grandissimo d’essere chimici valenti, anzichè pseudo-scienziati
dell’alchimia. In quest’età di infatuazione superstiziosa alcuni
di loro irridono alla fede degli alchimisti, che si illudevano di
poter trasmutare tutti i metalli in oro, e Pietro d’Abano sentenzia
esplicitamente che «non si può produrre per arte il metallo, nè
trasformarlo». In compenso essi perfezionano i sistemi delle tessiture
e tinture delle stoffe, eccellono nell’arte del vetro, delle false
pietre preziose, dell’oreficeria, nella fabbricazione dei medicinali,
e perfino della polvere pirica _applicata al lanciamento dei
proiettili_.[59] In Firenze, nel sec. XIV, esistono _fabbricanti di
cannoni e di proiettili di ferro_; altrove si fabbricano bombarde; e
di fabbricazione italiana sono le prime armi da fuoco usate in sullo
scorcio del Medio Evo. Gli Italiani stessi sono i primi a conoscere
l’acquavite, l’_acqua forte_ e l’arte di incidere, per mezzo di questa
e dell’_acqua regia_, sui metalli.

In tutte queste cognizioni pratiche e positive di chimica, gli Italiani
del tempo lasciarono anche dei trattati teorici e pratici.

_D_). _Medicina e scienze naturali._ — Le scuole mediche si fanno,
nei secc. XIII-XIV, fitte e numerose. I Normanni e gli Svevi, che
hanno fondato un vasto regno nell’Italia meridionale, sino a poco
prima divisa in molti staterelli e soggetta a parecchi dominatori,
riconoscono e incoraggiano lo _Studio medico_ salernitano, che nel 1252
assume il titolo di Università. Non lungi v’è la Università di Napoli;
più a nord, vi sono le scuole mediche di Roma, Pisa, Siena, Bologna,
Padova, e, fuori d’Italia, Montpellier, Parigi e molte altre.

Queste scuole dànno impulso agli studî di medicina e, tra i grandi
teorici del tempo, ritroviamo i citati _Alberto Magno, Pietro d’Abano_,
e il fiorentino _Taddeo Alderotti_ anch’egli ricordato dall’Alighieri.

Anche la zoologia e la botanica guadagnano in questo estremo scorcio
del Medio Evo; specie grazie ai viaggi di esplorazione del sec. XIII,
nei quali il primo posto è tenuto dai fratelli _Polo_, di cui rese
conto _Marco Polo_ nel suo _Milione_. _Alberto Magno_ è anche un
naturalista, e dalle sue opere di zoologia e di botanica si rileva
ch’egli non si limitava a copiare gli antichi, ma sapeva essere un
osservatore attento e originale.




LA SCIENZA NEL RINASCIMENTO

(Secc. XV-XVI)


18. =Il Rinascimento e le scienze.= — Condizioni favorevoli al
progresso delle scienze esistevano già, dunque, all’aprirsi dell’età,
che si denomina del Rinascimento: i secc. XV-XVI: un più intimo
contatto con la scienza greca, in piccolissima parte, direttamente, in
massima parte, attraverso la letteratura araba; nuovi centri di studio;
sopra tutto, un intenso ardore di conoscere, quello stesso ardore, che
aveva promosso le traduzioni di libri arabi.

Nuove condizioni ancor più favorevoli sopraggiungono nel corso del sec.
XV, che segnò una fase importantissima della storia universale.

_a_) la formazione di Stati, vasti e ordinati, in Europa, di vaste
signorie, in Italia, alla cui testa sono principi mecenati e amanti
della coltura, o che almeno, per bisogno di popolarità, ostentano di
amarla;

_b_) un vivo interessamento alla coltura classica, che sospinge i
letterati del tempo a ricercare e a scoprire numerosi libri latini, ad
apprendere il greco e a mettersi in diretto rapporto con la più grande
coltura che gli uomini avessero fin allora avuta, quella greca;

_c_) un diretto contatto con la coltura greca. Due furono i momenti,
in cui questo contatto potè principalmente avvenire: il Concilio
religioso di Firenze del 1438, cui parteciparono rappresentanti della
Chiesa greca, e nel quale si sperò che tutta la cristianità avesse
a unificarsi sotto la Chiesa di Roma; il periodo immediatamente
successivo all’occupazione turca di Costantinopoli (1453). In occasione
del Concilio di Firenze, dotti greci vennero in Occidente, recando
la cognizione della lingua e della letteratura greca. Tra essi il
più famoso fu _Giorgio Gemistio Pletone_, ardente cultore dell’antica
filosofia platonica. Ma, più ancora, dopo la presa di Costantinopoli,
seguì la fuga in Italia di molti altri dotti costantinopolitani,
recanti, insieme con la coltura greca, numerosi manoscritti greci di
scienza, oltre che di letteratura;

_d_) l’arte della stampa che diffonde prodigiosamente e rapidamente
ovunque la coltura;

_e_) i grandi viaggi di scoperta, che mettono gli Europei in rapporto
con due mondi: l’Asia e l’America.

Tutte queste circostanze creano e diffondono ciò che sopra tutto
importava: lo spirito scientifico. I letterati classicisti del tempo —
i così detti _umanisti_ — sono apostoli del ragionamento scientifico,
perchè combattono astrologi, filosofi, alchimisti, interpreti di
sogni, mistici, superstiziosi. Essi concepiscono i fenomeni naturali,
all’infuori di ogni influenza estranea e superiore, e lottano contro
il falso aristotelismo medievale, la sua pedanteria, i suoi sofismi, le
sue vane controversie.

La stessa conoscenza della filosofia di Platone — certo meno positiva
di quella di Aristotele — giova anch’essa, come a tutta prima non
parrebbe, al risorgere del pensiero scientifico. Poichè allora,
infatti, il pericolo era negli ostacoli che alla scienza opponeva il
pensiero medievale, tutto poggiante sull’aristotelismo, il platonismo,
che attacca questo da un altro fianco, e che è riconosciuto come una
nuova concezione del mondo, degnissima di rispetto, concorre allo
scredito dell’aristotelismo e, quindi, all’affrancarsi dell’umana
ragione.


19. =Il Rinascimento e il naturalismo: Telesio; Bruno; Campanella.=
— Il nuovo mutamento degli spiriti delle persone colte si rispecchia,
oltre che nella scienza, nella filosofia, ossia nella nuova concezione
del mondo e dei suoi rapporti col pensiero umano. La filosofia
del Rinascimento è, come suol dirsi, naturalistica; mira, cioè, a
rivendicare l’importanza e l’onnipotenza della Natura, là dove il
Medio Evo non aveva collocato che la volontà e l’onnipotenza di Dio;
ad assegnare alla Natura quell’energia, quella virtù intima, che, ad
es., il vecchio Democrito vi aveva riconosciuta; a non più considerare
la Natura come manovrata da una potenza dominatrice — lo Spirito —, da
essa indipendente e ad essa esteriore.

I filosofi della Rinascenza, che inaugurano questo indirizzo, che poi,
nei secc. XVIII-XIX, traboccherà — talora — in vero materialismo, sono
_Bernardino Telesio_ (1509-1588) e _Giordano Bruno_ (1548-1600). Ad
essi si può aggiungere _Tomaso Campanella_, il corso della cui vita si
spinse molto più innanzi, fino alla metà del sec. XVII, ma le cui opere
fondamentali vennero concepite e scritte in sullo scorcio del sec. XVI.

_Bernardino Telesio_ è, prima di tutto, un naturalista, anzi, un
passionato, un amatore, un poeta della natura, innanzi che filosofo.
Egli ne investigò tutti i dominî: dalle scienze naturali alla
matematica; dalla medicina alla fisica. Questa universale conoscenza
trae però il Telesio, non già a fare nuove scoperte scientifiche, ma a
voler penetrare le leggi prime che governano l’universo, a costruire un
sistema della natura, nel quale tutti i fenomeni, dai più elementari
ai massimi, si svolgessero, naturalmente e gradualmente, secondo
leggi naturali, l’uno dall’altro, in conformità di un principio unico,
che tutti, e il loro processo con essi, riuscisse a interpretare e a
spiegare.

Perciò, come il poeta romano Lucrezio, egli scrive _La Natura_, ch’è
l’opera sua fondamentale. Quest’opera, infatti, è un nuovo poema
filosofico dedicato alla Natura, la quale viene concepita come vivente
da sè, per potenza propria, affidata alle sue leggi, anche se l’autore
frequenti volte si appelli alla sapienza di un Supremo Reggitore e
Creatore.

D’altra parte, e questo non importa meno, la conoscenza della Natura il
Telesio vuol coglierla nel contatto immediato con essa, sulla fede dei
sensi, lungi dal fascino, o dall’incubo, di ogni autorità, cioè secondo
quest’accenno allora significava, lungi dall’autorità di Aristotele.

Sostanzialmente identici sono il concetto e il sentimento di _Giordano
Bruno_. Anche per lui esisterebbe un Dio che trascende la Natura e
l’ha creata. Ma questo Dio di tutti i credenti, nella concezione che il
Bruno ha del mondo, si confonde con un Dio, immanente nell’Universo, il
quale ultimo avrebbe per ciò, per se stesso, una potenza ed un’anima.
Per Aristotele — e il Bruno è anche lui un odiatore di Aristotele —,
materia e forma, materia ed energia, lo vedemmo, erano distinte; la
materia restava, informe; era vivificata, «formata», dal di fuori. Per
Bruno, essa contiene nel proprio seno, tutte le forme che più tardi
rivelerà, ed essa può generarle tutte quante, l’una dopo l’altra,
perchè è vivificata in sè dal di dentro, da una potenza divina.

Questo concetto di una Natura, di un universo pervasi da un’anima loro
interiore, da un Dio ch’è in essi, e non fuori di essi, è altresì il
concetto fondamentale della religione naturale di _Tomaso Campanella_
(1568-1639), che, secondo le sue speranze, dovea diventare il lievito
di un rinnovamento sociale, di una nuova Repubblica degli uomini.


20. =Matematica.= — Fra i grandi studiosi e scrittori di matematica
della prima metà del sec. XV sono da ricordare un noto pittore e
letterato italiano, _Leon Battista Alberti_ (1404-72), il francese
cardinal _Nicola da Cusa_ (1401-1464), i tedeschi _Giorgio di
Peuerbach_ (1423-1461), e _Giovanni Müller_, più noto sotto lo
pseudonimo di _Regiomontano_[60] (1436-71). Questi due ultimi sono
tra i primissimi che leggessero e traducessero direttamente i sommi
matematici greci, ricevendone, non solo preziosi insegnamenti, ma
ispirazioni a conclusioni originali. Il Peuerbach e il Regiomontano
concepiscono per i primi la trigonometria — piana e sferica — come
scienza indipendente dall’astronomia, e vi dànno il massimo impulso
e la forma moderna. Il nome di _trigonometria_ compare proprio sullo
scorcio di questo secolo come titolo di un’opera del matematico
_Pitisco_: «_Trigonometria, ossia risoluzione dei problemi relativi
ai triangoli_» (1495). Grandissima è l’altezza a cui la matematica
perviene nella seconda metà del sec. XV.

In questa età nasce, e si impone definitivamente, l’algebra simbolica,
quale noi oggi la usiamo, con i segni che adoperiamo, e si sviluppa la
teorica delle equazioni. A questa età appartiene uno dei massimi genii
universali che il pensiero umano vanti: il toscano _Leonardo da Vinci_
(1452-1519). Leonardo fu fisico, meccanico, musico, cultore di tutte
le arti del disegno e fu anche sommo matematico, in quanto egli diceva
che non v’ha punto certezza nelle scienze se non si può applicarvi la
matematica.

Di matematica, infatti, si occupano i suoi superstiti manoscritti,
specie di quelle teorie geometriche, che trovano applicazione nell’arte
del disegno. Alcuni problemi geometrici, da lui studiati, riguardano
tuttavia soggetti di natura differente: ad es., il metodo (noto alla
scienza greca) di misurare l’altezza di un oggetto dalla sua ombra;
il metodo di misurare la larghezza di un fiume; la quadratura di
un settore circolare, trasformandolo in un triangolo, la cui base
sia eguale alla lunghezza dell’arco del settore; la _quadratura del
circolo_, problema che noi oggi sappiamo irresolubile.[61]

Ma più grande di lui, come matematico, è un altro italiano, un
monaco toscano dell’Ordine dei Minori, _Fra Luca_ (_Luca Paciuolo_)
(1445-1514), che insegnò matematica a Firenze, Perugia, Roma, Milano e
altrove.

La sua opera principale è un _Compendio di aritmetica, geometria,
proporzioni e proporzionalità_. Esso contiene un trattato di aritmetica
speculativa sulle proprietà dei numeri, una aritmetica pratica, e
degli elementi di geometria. La caratteristica di quest’opera è quella
che già gli Arabi avevano impressa alle matematiche, e taluno dei
matematici cristiani dei secoli precedenti (ad es. _Leonardo da Pisa_)
aveva ribadita: l’intima connessione dell’algebra indiana con la
geometria greca.

Le opere matematiche di Fra Luca furon le prime a essere divulgate
per le stampe. Può quindi imaginarsi l’enorme influenza ch’esse
esercitarono sulle matematiche del secolo successivo.

Anche il polacco _Nicola Copernico_ (1473-1543), di cui dovremo
occuparci a momenti come astronomo, fu uno dei più rinomati matematici
del sec. XVI e autore di parecchie, importanti e originalissime,
scoperte in trigonometria piana e sferica. E matematico insigne, fu
taluno dei suoi scolari, quale _Rhaeticus_.[62]

Nel sec. XVI la idea di fecondare la geometria con l’algebra,
e viceversa, diviene un’opinione comune fra i matematici. Vi
giungono, insieme, il francese — _Francesco Vieta_ (1540-1603),
uno dei massimi intelletti matematici di ogni tempo, gli italiani
_Girolamo Cardano_ (1501-76), _Nicolò Fontana_, da un suo difetto
di pronunzia sopranominato il _Tartaglia_ (1505-57), _G. Battista
Benedetti_ (1530-90). Ma questo non vuol dire che in ciascuna delle
due discipline, isolatamente considerate, non si facciano nuove
conquiste. In algebra si giunge per la prima volta alla risoluzione
delle equazioni di 3º grado. Vi perviene (nel sec. XV o XVI?) un oscuro
matematico italiano, _Scipione del Ferro_, di cui non sappiamo altro
se non che egli fu professore a Bologna fra il 1496 e il 1526; poi,
più sicuramente, _Gerolamo Cardano_ stesso e il _Tartaglia_ (_Nicolò
Fontana_), che si disputarono acremente la priorità della scoperta. Il
Cardano stesso iniziò la risoluzione delle equazioni di 4º grado, ma
questa fu raggiunta in modo inequivocabile soltanto dal discepolo suo,
_Luigi Ferrari_ (1522-1565).


21. =Astronomia: Copernico= (1473-1545). — Taluni dei matematici
sopra ricordati furono anche astronomi: tali il _Peuerbach_, il
_Regiomontano_, _Leonardo da Vinci_. Il Regiomontano fondò a Norimberga
una scuola astronomica, che passò fra le più famose e benemerite del
tempo. Colà egli fece importanti osservazioni sulla cometa del 1472:
la prima, che venisse considerata, non più quale soggetto di vano
terrore superstizioso, ma come oggetto di studio scientifico. E ivi
stesso, a Norimberga, si cominciarono a pubblicare delle _Effemeridi_
astronomiche, contenenti dati astronomici per trovare la longitudine
sul mare, al quale scopo il Regiomontano aveva escogitato un nuovo
metodo. Le tavole astronomiche, contenute in queste _Effemeridi_, erano
infatti molto più precise di tutte quelle precedenti, e servirono per i
grandi viaggi di scoperta dell’epoca.

Forse, specie per noi Italiani, non sarà superfluo ricordare una delle
scoperte astronomiche di Leonardo da Vinci: l’ipotesi, con cui egli
spiegò ottimamente l’illuminazione color cinereo, che si osserva nella
parte oscura del disco lunare, quando la parte risplendente è minore
del mezzo disco. Egli spiegò ch’essa dipende dal riflesso della luce
terreste sulla luna, chè, allorchè la luna è quasi _nuova_, la metà
della Terra, illuminata dal sole, è rivolta verso di essa.

Ma l’astronomo più famoso del sec. XVI di poco più giovane (di appena
una generazione) del Regiomontano e del Vinci, è _Nicolò Copernico_
(1473-1543) di Thorn, colui che rivolgerà da capo a fondo le concezioni
astronomiche del mondo colto, e che perciò può essere definito il
Tolomeo dell’astronomia moderna.

Copernico studiò dapprima nella Università di Cracovia, e poi in
Italia, a Bologna, a Padova, a Ferrara, dove si laureò. Quindi si
dedicò alla carriera ecclesiastica e fu nominato canonico a Frauemberg
(1497), dove passò la maggior parte della sua vita e del suo tranquillo
lavoro. Morì settantenne nel 1543.

Contro quello che si potrebbe pensare, Copernico, al pari del più
famoso astronomo dell’antichità (Tolomeo), fu mediocre osservatore.
Gli strumenti, di cui egli si serviva, erano rozzi, nè egli curò,
come poteva, di procurarsene di migliori. Le sue osservazioni, che
Copernico stesso indica nelle sue opere, sono scarse e inesatte, nè
egli teneva alla loro assoluta esattezza, bastandogli, diceva, un
grossolano accordo fra la teoria e l’osservazione. Le sue dimostrazioni
molte volte, sono debolissime, qualche volta errate.[63] Egli, inoltre,
scrisse pochissimo, restando, anche in questo, addietro a molti
dotti del suo tempo. Le sue opinioni astronomiche furono, anzi, note
per mezzo d’altri, specie per mezzo del giovane astronomo Giorgio
Joachim (_Rhaeticus_), e il manoscritto dell’unica sua grande opera
_sulle rivoluzioni delle sfere celesti_ (_De revolutionibus orbium
coelestium_), che egli vergò in sui primi del sec. XVI, rimase inedito
quasi fino alla sua morte: l’autore ne ricevette la prima copia il 24
maggio 1543, il giorno stesso della sua morte.

Ciò non pertanto, l’opera, massima e quasi unica, a cui è legato il
nome del Copernico, è, come l’_Almagesto_ tolomaico, un monumento
insigne della scienza umana, e basta solo accennarne il contenuto per
avere il senso della mole di pensiero e di studio che v’è dentro.

Il _De revolutionibus_ consta di sei libri, di cui il più notevole
è il primo. Di esso i capitoli 1º-3º trattano della sfericità della
terra; i successivi, dal quarto all’ottavo, del movimento di rotazione
di questo pianeta. Il Copernico avverte che, mancando l’occhio nostro
di mezzi per giudicare senza riferimenti della direzione del moto di
un oggetto, l’apparente rotazione diurna della sfera celeste, potrebbe
dirsi con egual ragione prodotta da una sua reale rotazione quanto
da una rotazione della Terra, con la stessa velocità, ma in direzione
opposta. Or bene, egli soggiunge, come non sentire che è più semplice
far girare la sola Terra che far descrivere orbite immense a corpi
celesti collocati a differenti distanze? Come non avvertire che con
la prima concezione si eliminano alcune delle difficoltà più gravi
dell’antico sistema tolomaico, e si dà una spiegazione, più semplice e
più soddisfacente, dell’intero sistema solare?

Anche per Copernico, dunque, la sua dottrina eliocentrica, come per
Tolomeo la sua dottrina geocentrica, non era che una più comoda e più
verisimile ipotesi.

Il cap. 9º dell’opera espone alcune altre ipotesi che possono definirsi
come il germe della teorica della _gravitazione universale_. Il cap.
10º — il più importante — sviluppa il sistema del mondo, ossia degli
astri e dei loro movimenti, quale Copernico lo concepiva. Il resto
del libro, dopo il cap. 11º, ha interesse soltanto matematico, e
il _Rhaeticus_, per incarico del Copernico, l’aveva pubblicato in
anticipazione quale testo di trigonometria.

Il II libro dell’opera contiene nozioni di geometria sferica e di
trigonometria, tavole astronomiche e il catalogo delle stelle, che è il
vecchio catalogo di Tolomeo, lievemente ritoccato. Il III libro tratta
del moto di rivoluzione della Terra.[64] Il libro IV tratta della luna
e dei suoi movimenti; il V e il VI degli altri cinque pianeti (oltre la
Terra) allora conosciuti: Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno.

Come si vede, il _De Revolutionibus_ non è un’opera organica,
ma, come l’_Almagesto_, abbraccia tutti i dominî dell’astronomia
del tempo, e li guarda da un nuovo punto di vista. I fondamentali
concetti copernicani — la sfericità della Terra, i moti di rotazione
e di rivoluzione del nostro e degli altri pianeti — vantavano una
antichissima e autorevolissima storia; tuttavia non solo non erano
riusciti a prevalere nell’antichità greca, ma erano stati dimenticati
dall’astronomia medievale, che (secondo si era espresso il più grande
e autorevole filosofo di quest’età, S. Tomaso d’Aquino) voleva essere
decisamente geocentrica.

Copernico ritorna a Pitagora, all’astronomia dei Pitagorici, ne
sviluppa le ipotesi, ne rinsalda e completa le dimostrazioni, e,
se egli non riesce a dimostrare perfettamente nè la verità del
suo sistema, nè l’errore del sistema tolomaico; se parecchie delle
osservazioni, su cui le nuove argomentazioni si fondano, abbisogneranno
di ulteriori correzioni e rafforzamenti, pure le salde basi di un nuovo
mondo del pensiero astronomico, che finirà col rovesciare l’antico,
erano gettate. Ma ciò che oggi impressiona si è notare che pochissimi
si accorsero della rivoluzione, che Copernico iniziava. La forma,
rimessa e pacata, della sua esposizione, le astruse dimostrazioni
matematiche, e la stessa prefazione dell’editore, che presentava il
libro come un insieme di semplici ipotesi, adatte semplicemente a
calcolare i moti celesti, fecero in modo che l’opera, a tutta prima,
non sollevasse serie discussioni, proteste, esaltazioni. Queste
proteste e condanne dovevano venire più tardi, nel sec. XVII, nell’età
della Controriforma, e da parte della Chiesa cattolica. Per adesso,
invece, chi attaccò Copernico furono i capi del movimento protestante:
primi Lutero e Melanchton.


22. =Fisica.= — Nella fisica, o, meglio, nella «scienza della materia»,
è, durante i secoli XV-XVI, più sensibile che altrove la lotta del
pensiero del Rinascimento col pensiero medievale, duramente legato
alla tradizione dell’aristotelismo. Su questo terreno, specialmente,
Aristotele è attaccato dai seguaci di Platone, che torna a essere
conosciuto, e dagli scienziati sperimentalisti, i quali sostengono
(talora con un’irriverenza giustificata solo dal fanatismo avversario)
che, anzichè leggere Aristotele, e credere ciecamente in lui, è più
sicuro e più dilettevole sperimentare e provare ciò che si afferma e
in cui si dice di credere. I fisici, più degni di memoria, del secolo
XV sono il cardin. _Nicola di Cusa, Leon Battista Alberti_, persino
_Cristoforo Colombo_, grazie alle note dei suoi viaggi, e sopra tutti
il sommo _Leonardo da Vinci_. L’Alberti fu inventore di un apparecchio
per determinare la profondità di un bacino, calcolando il tempo che un
corpo più leggiero dell’acqua impiega a risalire a galla dal fondo. Il
Colombo fece interessanti osservazioni, specie meteorologiche: indicò
la direzione dei venti tropicali; dimostrò l’efficacia dei boschi nella
condensazione del vapore acqueo; osservò la deviazione _occidentale_
dell’ago della bussola, scoprendo così la _declinazione magnetica_[65]
e le sue variazioni nei vari punti del globo.

Ma assai più grandioso è il contributo che il sommo _Leonardo da Vinci_
recò alla fisica. Anzi tutto, egli è il massimo precursore di quel
_metodo sperimentale_, su cui poggia la scienza moderna, e che a lungo
si è discusso se fosse scoperto dall’italiano Galilei o dal francese
Cartesio o dall’inglese Francesco Bacone (cfr. § 26). Leonardo, anzi,
potrebbe a buon diritto dirsene il fondatore. Per lui, ogni conoscenza,
che non poggi sull’esperienza, è vana e non partorisce che illusioni.
«La sapienza» (questa, la sua massima) «è figliola dell’esperienza». Ma
l’esperienza, nel significato che Leonardo vi attribuisce, non è solo
la nemica della fede nell’autorità convenzionale o del vano speculare.
È altresì tutto quel complesso di osservazioni che noi distinguiamo in
ogni procedimento scientifico: osservazione dei fatti; induzione, ossia
generalizzazione delle leggi in essi riscontrate; esperimento che le
comprovi; applicazione delle matematiche a rappresentare con precisione
la legge ritrovata; deduzione di un principio da un altro.

Questi procedimenti non solo Leonardo voleva, in teoria, che la
scienza e gli scienziati seguissero, ma praticò egli stesso. Fu perciò
osservatore, sperimentatore prodigioso, matematico, coordinatore unico
dei resultati, pratici e teorici, delle sue operazioni ed esperienze.
Epperciò possiamo veramente dire di trovarci con lui nella pienezza del
metodo sperimentale.

Pur troppo, è difficilissimo, stante il saccheggio che i suoi discepoli
e i successori fecero dei manoscritti leonardeschi, ai quali soltanto
(e non al pubblico insegnamento) egli affidò la propria, sconfinata
dottrina, restituire esattamente la somma preziosa delle scoperte e
delle divinazioni, il cui merito a lui, personalmente, compete.

I suoi sparsi precetti di idraulica sono bastati a far comporne un
trattato (_Del moto e della misura dell’acqua_), che fu pubblicato
nel 1828, e, solo un secolo più tardi di lui, i cultori di questo ramo
della fisica giunsero al segno a cui egli era già pervenuto.

Inoltre Leonardo notò i _fenomeni_ così detti di _capillarità_,[66] le
figure formate dalla sabbia sparsa sulle lamine vibranti, la formazione
di onde liquide stazionarie. Immaginò numerosi strumenti e meccanismi:
il laminatoio, il dinamometro, il pernio a piano inclinato, su cui
una porta, girando, si chiude da sè; le sedie pieghevoli a tre piedi;
il tornio a ovale. In ottica, riconobbe che l’occhio deve essere
considerato come una _camera oscura_ fotografica, e che le imagini
sulla retina appaiono capovolte, la loro persistenza, la differenza fra
le immagini, che si formano nell’occhio destro da quelle che si formano
nell’occhio sinistro ecc. ecc.

Ma la parte della fisica, in cui Leonardo riuscì veramente maestro, fu
la meccanica, alla quale applicò rigorosamente le matematiche. Egli
seppe determinare il centro di gravità della piramide, dividendola
in piani, paralleli alla base. Seppe trovare quale parte di una
forza agisca per muovere un corpo in una data direzione, ossia seppe
determinare, come si dice, _la componente efficace della forza in quel
verso, decomponendo la forza stessa secondo la direzione del moto e
secondo la perpendicolare alla traiettoria del mobile_. Seppe valutare
la forza motrice, moltiplicando il peso sollevato per l’altezza: p. es.
(scrisse), se qualcuno scende una scala di gradino in gradino, la somma
di tutte le forze motrici, che potrebbero essere utilizzate, durante
ogni caduta parziale, è eguale alla forza motrice che si otterrebbe
cadendo dall’alto al basso della scala.

Le sue ricerche di meccanica, applicate al volo degli uccelli, lo fanno
un precursore dell’aviazione moderna: studiò, infatti, minutamente
il volo degli uccelli, e riconobbe che l’uccello prende il suo punto
d’appoggio nell’aria, e, per quanto più pesante di questa, abbisogna di
una piccolissima forza per sostenersi, grazie alla velocità e al fatto
che l’animale, colla sua pressione, rende più densa l’aria, in cui si
muove.

Ma Leonardo non fu soltanto un teorico; egli fu grande ingegnere
e costruttore: compiè opere idrauliche mirabili nel Milanese e in
Francia, _e imaginò un apparecchio di aviazione_, anzi, taluno parlò
dei suoi tentativi pratici di aviatore.

I fisici maggiori del sec. XVI furono in genere dei pedissequi
continuatori del Vinci, o anzi, secondo a ragione si è sospettato,
dei divulgatori, come di cose proprie, di quanto essi trovarono nei
manoscritti del Maestro.[67]

Tali furono _Nicola Tartaglia, G. B. Benedetti_, i quali si occuparono
di meccanica e di balistica,[68] giungendo a conclusioni interessanti:
1) sul moto dei proiettili, che il Benedetti riconobbe essere, per
_tutta la traiettoria_, curvilineo, e non già in parte rettilineo e in
parte curvilineo; 2) sulla bilancia, per la quale, contro Aristotele,
il Tartaglia sostenne essere più sensibili le piccole bilance a braccia
corte; 3) sulla caduta dei gravi, per cui il Benedetti negava (contro
Aristotele) che la velocità di due gravi identici, cadenti in mezzi
diversi, siano inversamente proporzionali alla densità dei mezzi, e
dimostrò _che il rapporto di quelle velocità è costante e che la legge
di Aristotele si verifica solo se la densità dei corpi è eguale alla
somma delle densità dei due mezzi attraverso cui i gravi cadono_.[69]

Tuttavia sarebbe esagerato affermare (e pensare) che la meccanica di
questo tempo sia tutta dominata da Leonardo. Su di essa influiscono, in
pari misura, la dottrina del sommo italiano e la rinnovata conoscenza
dei libri del greco Archimede, che solo ora vengono tradotti in latino;
onde duplice (non unica!) è la scaturigine dei nuovi progressi.

Anche il matematico _Gerolamo Cardano_ (1501-76) si occupò di meccanica
e di idraulica. Ma altri scienziati del secolo XVI studiano altri rami
della fisica. In questo campo eccelle _Francesco Maurolico_ di Messina
(1494-1575). Egli si occupò di ottica: 1) dimostrò che il _cristallino_
dell’occhio funziona come una vera lente; 2) scoperse le cause della
presbitìa (nella debole potenza di rifrazione del cristallino, per cui
occorre l’aiuto di una lente convergente) e della miopìa; 3) spiegò
perchè l’imagine, data dai raggi solari, sopra un piano, dopo avere
attraversato un foro di forma qualunque, sia sempre circolare (in
quanto essa, ha per base il disco del sole).

Ma degni di menzione a parte sono gli studii di questo secolo — i
primi studii in proposito — relativi a una forza che oggi domina il
mondo: l’elettricità. Fu l’inglese _Guglielmo Gilbert_ (1540-1603) di
Colchester ad occuparsene, in un’opera famosa, _Il Magnete; i corpi
magnetici e la Terra considerata come un grande magnete_ (1600), che il
Galilei disse degna di riscotere l’invidia della scienza di ogni Paese,
e che racchiude e illustra studii di lunghi anni.

Come parecchi degli scienziati del Rinascimento, il Gilbert è un aspro
censore dei metodi scolastici, in fatto di ricerche scientifiche, ed
inculca invece lo studio diretto delle cose, dei fatti, l’osservazione,
l’esperimento. Egli quindi, con Ruggero Bacone, con Pietro d’Abano,
con Leonardo da Vinci, è uno dei più illuminati precursori del metodo
sperimentale.

Il Gilbert cominciò con lo studiare il magnetismo: nella calamita,
nel ferro, nel nostro pianeta. Notò che esso diminuisce in proporzione
del calore, e commise perciò l’errore di vederne nel freddo la causa
fisica. Emise per primo l’ipotesi che la Terra sia da considerare come
un grande magnete, ossia fornita delle proprietà fondamentali della
calamita — polarità, rivoluzione, attrazione —; la qual cosa potè
sperimentare, adoperando pei suoi esperimenti una piccola calamita a
forma di globo, che denominò _Terrella_, rispetto alla quale gli aghi
di ferro si comportavano come si comportano di fronte alla Terra,
e persino che la loro declinazione magnetica aumentava procedendo
dall’equatore (della sferetta) ai poli. Studiò anche — ciò che doveva
essere utilizzato molto più tardi — l’_induzione magnetica_ (cfr. § 37
_A_) e rilevò primo il fatto che di una calamita rotta in più parti si
ottengono altrettante calamite.

Dagli studî sul magnetismo il grande fisico inglese passò a quelli
sull’elettricità, che distinse dal magnetismo. Ventidue secoli dopo
Talete, il Gilbert, ripigliando l’antica osservazione che l’ambra si
eletrizza con lo strofinio, rilevò che tale proprietà è posseduta da
parecchi corpi. Studiò quindi le condizioni proprie della elettricità,
determinò i corpi capaci di eletrizzarsi (_idioelettrici_), inventò
la prima rozza macchina elettrica (l’_elettroscopio_); in una parola,
_gettò le fondamenta della scienza dell’elettricità_. E dette a questa
forza misteriosa il nome che noi abbiamo adottato: _elettricità_.[70]


23. =Chimica.= — La chimica dei secc. XIV-XV, sebbene praticamente
possa vantare di aver accresciuto il numero dei suoi ritrovati, rimane
in fondo allo stadio precedente di alchimia ricercatrice del processo
unico per la trasmutazione dei metalli. Infatti, un utile insegnamento
non poteva derivare, alla chimica del tempo, dalla scienza antica.
Questa, allorchè aveva voluto specializzarsi, non era stata, anch’essa,
che alchimia!

Uno degli alchimisti più famosi e anche più misteriosi (non sappiamo
con sicurezza se dei sec. XV o XVI) è quello le cui opere recano, come
autore, il nome di _Frate Basilio Valentino_, della cui vita nulla ci è
noto. Queste opere contengono un numero impressionante di fatti chimici
ignoti ai più degli studiosi. Egli conobbe l’_antimonio_ e i suoi
preparati, l’arsenico, lo zinco, il bismuto, il manganese, gran numero
di preparati mercuriali e sali di piombo, il _vetriolo verde_ (solfato
di ferro), il _vetriolo azzurro_ (solfato di rame), il cloruro doppio
di ferro e ammonio, il sale ammoniaco, l’etere, il cloruro e il nitrato
di etile, dimostrando così un progresso scientifico, che impressiona,
rispetto a tutti i suoi contemporanei.

Se la personalità del Valentino ci è ignota, tale non è però quella
di _Leonardo da Vinci_, che anche alla chimica consacrò una parte
della sua attività molteplice e prodigiosa. Egli ebbe profonde
cognizioni di chimica tecnologica (la chimica applicata alle arti
e all’industria), studiò la solubilità di certi pigmenti vegetali
nell’alcool e, sopra tutto, la _chimica dei colori_, che applicò ai
suoi quadri meravigliosi, e nella quale fu maestro. Egli, inoltre, è
uno degli studiosi di chimica del nostro Rinascimento che cominciano a
reagire contro gli errori, le illusioni, le speculazioni dell’alchimia
medievale.

Ma un fenomeno interessante che si accenna in fine del secolo è questo:
il sorgere o, piuttosto, il diffondersi di una scuola di alchimisti,
i quali applicano i ritrovati della chimica alla preparazione di
specifici farmaceutici. La nuova scuola di questi chimici-medici si
disse degli _iatrochimici_, e il più famoso, e famigerato, fra costoro,
nel sec. XVI, è uno degli uomini più geniali e disordinati di tutti i
tempi: _Paracelso_ (_Filippo Aurelio Teofrasto Paracelso_), medico,
chimico, filosofo, ed anche, pur troppo, astrologo e ciarlatano
(1493-1541).

Il passaggio dalla alchimia alla farmaceutica e alla medicina non
era casuale: la _pietra filosofale_ non doveva servire solo per
fabbricar l’oro, ma (come vedemmo) anche per ritrovare l’_elisir di
lunga vita_, ossia per scoprire il segreto della medicina universale.
Per fortuna, come dal fallimento dell’alchimia applicata ai metalli,
uscirà la chimica vera e propria, così il fallimento del segreto della
medicina universale lascerà dietro di sè il residuo utile di una grande
quantità di cognizioni di chimica medica e la piena consapevolezza
dell’importanza della chimica per la medicina. Il filosofo inglese
e contemporaneo di Galilei, Francesco Bacone, definirà, con una
vecchia parabola, in modo efficacissimo, quest’importanza, storica e
scientifica, dell’alchimia. «L’alchimia» (egli scrisse) «può essere
paragonata a quel tale che, morendo, avvertì i figlioli di aver
lasciato loro un tesoro sepolto in qualche parte della sua vigna. Essi
scavarono e non trovarono nulla. Ma, avendo per tal modo rivoltato
il terreno intorno alle radici delle viti, ebbero una vendemmia
abbondante. Così le ricerche e gli sforzi, diretti a fabbricare l’oro,
condussero a molte utili invenzioni...».

Ma forse il carattere più saliente dell’alchimia nei secc. XV-XVI è la
sua decadenza nel concetto degli scienziati medesimi, o, piuttosto la
distinzione, che ora essi cominciano a fare, tra le sue parti sane e
quelle caduche. Benedetto Varchi, un letterato del Rinascimento, in un
trattato apposito (_Sulla verità o falsità dell’Alchimia_), distingue
tre specie di alchimia: quella «vera», che insegna a fabbricare i
metalli; la «sofistica», che fabbrica metalli artificiali somiglianti
ai veri solo nei particolari esteriori; la _falsa_, che imagina
di poter cavare dalle varie sostanze i loro _principii_ e ricreare
la vita, e donare l’immortalità, e ridonare la giovinezza. Questa,
infatti, è l’arte a cui noi moderni sogliamo dare il nome spregiativo
di alchimia. Le altre due (la _vera_ e la _sofistica_) entrano nei
quadri della nostra scienza, e, pur dispogliate di alcuni pregiudizi
che le ingombravano, hanno dato luogo alla chimica moderna.


24. =Medicina; zoologia; botanica.= — Nei secoli del Rinascimento
la medicina fiorisce nelle Università, italiane e straniere, che
continuano a moltiplicare di numero e a crescere di importanza: a
Padova, a Cambridge, a Salamanca (ormai cristiana), a Roma, Avignone,
Pisa, Praga, Firenze, Pavia, Vienna, Colonia, Palermo, ecc. Intanto
l’irrompere della coltura classica — e più dello spirito della coltura
classica —, oltre a far conoscere direttamente molte opere greche, dà
impulso, anche in medicina, alla osservazione diretta.

Così le malattie sono meglio conosciute e descritte, la loro diagnosi e
la terapeutica, più sicure. Vengono scoperte e definite nuove malattie
(tifo, scorbuto ecc.).

Anche i progressi considerevoli delle belle arti (specie della pittura
e scoltura), e il realismo che ora le domina, contribuiscono allo
sviluppo della scienza medica. _Michelangelo Buonarroti_ e _Leonardo
da Vinci_, specie il secondo, sono dei profondi studiosi dell’anatomia
umana.

Il rinnovato amore della natura e le grandi scoperte del Nuovo Mondo,
i grandi viaggi del sec. XVI in Arabia, Egitto, Siria, dànno, dopo
venti secoli — dall’età delle conquiste e scoperte dell’età ellenistica
—, alla zoologia e alla botanica, un impulso insolito. Il ricordato
filosofo Bernardino Telesio è un dotto naturalista. Viaggiatori,
colonizzatori e i primi missionari iniziano la coltura europea alla
conoscenza delle ricchezze naturali del Nuovo Mondo. Queste ricchezze,
però, sono più abbondanti nei riguardi della flora, che non in quelli
della fauna. Le rivoluzioni geologiche avevano ridotto d’assai la fauna
delle due Americhe, sì che queste non dettero che poche specie animali
ignorate: tra quelli domestici, ad es., solo il maiale d’India e il
tacchino.

Maggiori, quindi, più notevoli, sono ora i progressi della botanica
al confronto della zoologia. E, sia per brama di curiosità, sia
per rinnovato amore di bellezza e di ricchezza, si aprono, specie
nel sec. XVI, grandi _giardini botanici_: a Padova (1525), a Pisa
(1544), a Leyda (in Olanda) (1577), e poi in Francia, a Montpellier,
a Parigi (1598). Gli scienziati europei hanno ora agio di scrivere
libri contenenti ampie e precise descrizioni, anzi (come non si era
mai usato) raffigurazioni grafiche delle varie piante: il che sarà
di utile immenso alla scienza. Abbiamo così il tedesco _Brunfels_
(1470-1534), che studia scientificamente la flora europea, e _Girolamo
Bock_ (1498-1554) e _Leone Fuchs_ (1501-68), che sono tra i maggiori
osservatori e studiosi di botanica. Il primo, anzi, ritenta, dopo
tanti secoli, una classificazione delle piante, dando così inizio a
tutte la serie dei tentativi di questo genere, che riempiranno i secoli
seguenti. Ultimo, in ordine di tempo, fra i botanici del secolo XVI,
_Andrea Cisalpino_ (1519-63), distribuisce le 840 specie di piante,
ch’egli enumera, in 15 classi, suddivise a loro volta, per i loro
caratteri, in 47 sezioni. _Criterio distintivo della classificazione
non sono più le apparenze esterne, ma il seme, le sue parti e
l’embrione._

Ecco, dunque, un nuovo carattere della botanica del secolo: _lo studio
delle singole parti della pianta_: fiore, frutto, organi sessuali.




LA SCIENZA NELL’EVO MODERNO

(I secc. XVII-XVIII)


=25. Caratteri della scienza moderna.= — I caratteri della scienza
moderna, che si affermano in modo deciso nei secoli XVII-XVIII, sono
i seguenti: _a_) una crescente specializzazione, per cui le vecchie
discipline scientifiche si dirompono in parecchie altre, di cui
ciascuna abbraccia un dominio ampio quanto quello d’una delle antiche,
classiche discipline scientifiche; _b_) una influenza feconda dell’una
scienza sull’altra, che determina conquiste altrimenti impossibili.
Così i ritrovati e le scoperte della fisica influiscono potentemente
sui progressi della chimica; gli uni e gli altri, sui progressi
dell’astronomia, della medicina, delle così dette scienze naturali, e
viceversa; _c_) infine, una precisione d’indagini, di accertamento di
fatti, una volontà deliberata di strappare alla natura il suo segreto,
che erano ignote alla massima parte della scienza antica e medievale,
una libertà e un rigore di ragionamento, che certamente era ignota a
quest’ultima.

Tuttavia queste ragioni non bastano a spiegare i progressi, quasi
miracolosi, della scienza nei secoli XVII-XX. Hanno bisogno di essere
a loro volta spiegate. La grande causa prima è di natura sociale,
non intellettuale; è il fatto sovrano, che domina i tre quarti della
scienza e della storia moderna e contemporanea: lo sviluppo della
industria, il nascere della grande industria moderna, e che impose
agli uomini — come condizione necessaria di vita — gravissimi problemi
di tecnica, che sarebbero stati irresolubili senza l’aiuto della
scienza. Per tal modo questa venne sollecitata a tentativi, a sforzi
inauditi, che per l’addietro non erano punto necessari, e bisognò che
s’ingegnasse a soddisfarli.


26. =Il metodo sperimentale.= — La rinnovazione nei sistemi di ricerca
scientifica, che avviene nel sec. XVII, va sotto il nome di conquista
del _metodo sperimentale_. I fondatori e i formulatori del _metodo
sperimentale_, in sulla soglia dell’età moderna, sono principalmente
tre: _Galileo Galilei_ (1564-1642), _Francesco Bacone_ (1561-1626),
_Cartesio_ (_Renato Descartes_) (1596-1650). Ma, come abbiamo
avvertito, l’opera loro è preceduta da una preparazione — filosofica e
scientifica — di almeno tre secoli.

Il Galilei è un nemico feroce dell’autoritarismo, impersonato
nella filosofia aristotelica medievale, a cui la scienza si era
per circa un millennio inchinata, e anche della tendenza a voler
ricercare l’_essenza_ delle cose naturali: «impresa», a suo avviso,
«impossibile», «fatica» perfettamente «vana». Non ha neanche
un’assoluta fiducia nei nostri sensi, nella ragione umana, che spesso
tradiscono, anzichè tradurre, la realtà. Perciò egli raccomanda
la massima cautela nell’osservare e nell’indurre e replicati e
instancabili tentativi di osservazioni e di esperienze.

Il compito dello scienziato, spiega il Galilei, è leggere — voler
leggere — nel «gran libro della Natura», che questa «continuamente
tiene aperto innanzi a quelli che hanno occhi nella fronte e nel
cervello». Perciò, innanzi tutto occorre decifrare esattamente i
caratteri della Natura, ossia stabilire esattamente le condizioni in
cui avvengono i fenomeni. A questo giovano sopra tutto l’osservazione
e l’esperimento. Queste due operazioni ci avvertono di quello che è
_causa_ e di quello che è _effetto_, in quanto, posta la prima, deve
seguire il secondo, e, rimossa la prima, viene rimosso il secondo. La
risposta, che la natura offre a tali interrogazioni, non concerne la
_qualità_ delle cose, che dipende da noi, soggetto senziente, ma la
figura, la grandezza, il movimento delle cose, i loro rapporti, ossia
la _quantità_. Solo per questo è possibile riassumere in formule di
matematica (la scienza per eccellenza delle quantità) i resultati
della osservazione e dell’esperimento. Ed è con la matematica, che
l’intelletto umano conquista una conoscenza assoluta; si raccosta
all’intendere di Dio. Onde non a torto il Galilei si dice replicate
volte un _pitagorico_, giacchè i Pitagorici ebbero in grande stima
la scienza dei numeri, e tributa sommo onore a Platone, che diceva
divino l’umano intelletto solo in quanto riesce a cogliere la natura e
il valore dei numeri. Di questi pochi concetti sparsi qua e là nelle
opere galileiane (specie nelle _Macchie solari_, nel dialogo dei due
_Massimi sistemi_, ne _Le nuove scienze_, nel _Saggiatore_), senza mai
l’intenzione di erigere un sistema di metodica scientifica, il Galilei
fu il più felice e fortunato applicatore, e ciò lo pone al primo posto
nella storia del metodo sperimentale.

Il suo contemporaneo, invece, il filosofo inglese _Francesco Bacone_
(1561-1626), pessimo sperimentatore e pessimo scienziato, sì da
ignorare le scoperte del Galilei e da combattere Copernico, volle
nel contrapporsi alla scolastica gettare le basi di un nuovo metodo
scientifico. A tale intento mirano, le sue due opere _De dignitate
et augmentis scientiarum_ (_Dignità e progressi delle scienze_) e il
_Novum organum_ (_Il Nuovo organo_), parti di un’opera (_Instauratio
magna_), ch’egli non riuscì mai a completare.

Anche Bacone attacca il principio di autorità e la scolastica. Attacca
anche la scienza greca, che egli misconosce, e che, a suo avviso,
rappresenterebbe l’infanzia del pensiero umano. Bisogna invece,
esclama, ripetendo lo stesso concetto del Galilei, leggere direttamente
nel gran libro della Natura. E, per ben leggere, occorre osservare,
indurre dalla osservazione, qualche legge generale, e poi sperimentare
la legge, che così s’è indotta. Questo, la differenza, che deve correre
fra la scienza antica e la moderna!

Sperimentando — avverte — bisogna confermare le esperienze positive
con esperienze negative. Non basta, ad es., osservare, e provare con
l’esperimento, che le cause _A, B, C, D_ producono gli effetti _a, b,
c, d_. Bisogna mostrare che, rimosse le prime, vengono meno anche i
secondi.

Anche questo diceva il Galilei; e, al pari dello scienziato italiano,
il filosofo inglese inculca che bisogna dubitare a lungo delle nostre
osservazioni ed esperienze, ossia degli inganni che ci tendono i sensi
e la ragione. Noi siamo (esclama Bacone nel suo linguaggio imaginoso)
illusi spesso dalla natura umana (_idola tribus_ = gli idoli della
razza), dalla nostra natura individuale (_idola specus_ = gli idoli
della spelonca del nostro io interiore), dalle nostre prevenzioni
metafisiche (_idola theatri_ = gli idoli dell’istrionismo dei
metafisici), e fa d’uopo che stiamo in guardia contro noi stessi.

Non bisogna neanche — avverte egli stesso, come il Galilei, — ricercare
le cause prime, l’essenza della natura. La scienza ha scopi più
modesti: la ricerca della legge che unisce tra loro i diversi momenti
dei fenomeni, le loro leggi (le _cause parziali_ aristoteliche). Però,
a differenza del Galilei, Bacone è un avversario dell’applicazione
della matematica alla fisica, che avrebbe dominii assolutamente
separati dalla prima.

Questo, il nocciolo del pensiero baconiano, che non solo è avvolto in
un linguaggio astruso, ma è anche sparso di contradizioni e di errori.
Come, ad esempio, conciliare la sua lotta contro la ricerca delle
cause prime con la sua fede di alchimista nel raggiungimento della
forma più «semplice» della natura, conquistata la quale, sarà possibile
trasformare tutti i corpi in oro?

Comunque, attraverso le vedute confuse e il ragionare scolastico,
drizzato contro la scolastica, il carattere dell’opera baconiana è
quello di una intenzionata formulazione di un nuovo metodo scientifico.

Il francese _Renato Cartesio_ (1596-1650), che è più giovane di
Bacone e del Galilei, è ancor meno dell’uno e dell’altro l’inventore
_ex integro_ del metodo sperimentale. Ma nel suo classico _Discorso
del metodo_ (1637) egli ebbe il merito di riunire e coordinare in un
sistema chiaro elementi sparsi, presso scienziati e filosofi, a lui
cronologicamente anteriori.

Anche Cartesio, come il Galilei, raccomanda molto di fissar bene
i particolari dei fenomeni e di non lasciarsi illudere dal senso e
dalla ragione. Bisogna — inculca — accettar per vero solo quello che
risulta ad evidenza tale. Ma l’originalità della sua dottrina, che però
corrispondeva esattamente alla pratica del Galilei e della sua scuola,
sta nel secondo precetto cartesiano, nel precetto di scomporre ciascuna
delle difficoltà, che si affrontano, in difficoltà minori, in parti,
via via più piccole e più semplici. Solo, compiuto questo lavoro, si
può procedere di nuovo dalla conoscenza di questi minori elementi alla
conoscenza di tutto l’insieme, avendo però ben cura di non omettere
alcun termine.

Il metodo cartesiano, dunque, è un processo di analisi e di sintesi,
di decomposizione e di ricomposizione, di intuizione (==osservazione) e
di ragionamento. Ma siccome il ragionamento dipende dalla intuizione, a
questa, ossia alla visione immediata della verità, che coglie in piena
evidenza ogni singola nozione, si riducono in ultima istanza tutte le
fonti della scienza.

Le opere scientifiche di Cartesio — la sua _Diottrica_ e la sua
_Geometria_ (cfr. § 27) sono saggi pratici di questo metodo.


27. =Matematica.= — Il Seicento e il Settecento sono i _secoli aurei_
delle matematiche moderne e come tali possono venir paragonati all’età
di Euclide, Archimede, Apollonio nello sviluppo del pensiero greco.

Alla fine del sec. XVI, i principii fondamentali e i contorni
dell’aritmetica, dell’algebra, della teoria delle equazioni erano
stabiliti e disegnati. Tuttavia, per mancanza di buoni libri di testo,
relativi a queste discipline, la loro cognizione era limitata ai dotti
e, persino, la moderna notazione algebrica e trigonometrica non era
familiare ai più, nè universalmente adottata.

Ma nei secc. XVII-XVIII si erige l’intera costruzione della matematica
contemporanea: la trigonometria e la geometria vengono fecondate
profondamente dall’algebra; l’algebra, dalla geometria, donde nasce
la _geometria analitica_.[71] In contrapposto a quest’ultima, viene
sistematizzata la _geometria_ così detta _descrittiva_, che ha per
iscopo di fissare i metodi per rappresentare i corpi a 3 dimensioni
su un piano a 2 dimensioni. In questa età ha origine l’_analisi
infinitesimale_ moderna, di cui è dubbio se alcuna traccia sia
possibile ritrovare presso i Greci del periodo alessandrino. L’algebra
fissa definitivamente quei segni e quei simboli, che noi oggi usiamo,
rompendo per sempre con l’uso della indicazione, sia pur abbreviata,
di quei concetti, ch’essa voleva esprimere, e acquistando così una
incredibile rapidità di movimenti. Ora si tenta giungere al di là
delle equazioni di 4º grado, affrontando così dei problemi, cui giammai
l’algebra, indiana o araba, erano giunte. Finalmente, con la redazione
delle _tavole logaritmiche_, si acquista una brevità infinitamente
maggiore nei calcoli.

Consideriamo partitamente ciascuno di questi dominii della nuova
matematica. Il valore — immenso — dei suoi risultati è dovuto a tutta
una pleiade di matematici sommi. L’opera del Vieta nel campo della
trigonometria, piana e sferica, è ora continuata dai tedeschi _Gauss_
ed _Euler_[72] (1707-83), dal russo _Lexell_, dai francesi _Lhuillier_
e _Delambre_.

I progressi della _stereometria_, ossia di quel ramo della geometria,
che studia le figure nello spazio, sono, nel sec. XVII, accresciuti
e intensificati dall’astronomo _Keplero_ (1571-1630) e dall’italiano
_Bonaventura Cavalieri_ (1591-1647), grazie all’applicazione del
calcolo infinitesimale, e proseguiti, con lo stesso mezzo, in sullo
scorcio di questo secolo e nel successivo, dal grande astronomo
e matematico inglese _Newton_ (1643-1727) e dal sommo filosofo e
matematico tedesco, _Leibniz_ (1646-1716).

Ma l’età moderna assiste, come dicevamo, al trionfo della _geometria
analitica_, il più squisito strumento della matematica moderna.
La legittimità della applicazione dell’algebra alla geometria e,
reciprocamente, della geometria all’algebra, che ne costituisce
l’essenza, è così spiegata dal filosofo e matematico francese
_Cartesio_. Le figure geometriche risultano di _grandezze_ e di
_forme_. Le prime si risolvono in numeri; ma questo è possibile
anche delle seconde. La forma di ogni figura, infatti, risulta dalla
posizione dei punti di cui si compone, e questa può essere determinata
con delle grandezze. La posizione, infatti, di un punto nello spazio
a tre dimensioni dipende da tre quantità, p. es., dalle distanze di
questo punto da tre piani fissi formanti un angolo triedro: queste
tre quantità sono le tre _coordinate_ del punto. Ecco, dunque, la
_forma_, attraverso la posizione, ricondotta alla grandezza; ed
eccoci autorizzati a portare l’algebra, ossia il calcolo in tutti i
campi della geometria. Ma l’algebra (continuava Descartes) tratta
dei rapporti e delle proporzioni in generale. Or bene, è d’uopo
rendere evidenti i suoi processi più complicati, far apparire le sue
conclusioni in forma concreta. E il mezzo migliore, per raggiungere
tale scopo, è usare quei segni, che più vivamente colpiscono la nostra
immaginazione, ossia le figure geometriche. Perciò appunto è lecito e
utile giungere persino alla _risoluzione grafica delle equazioni_.

Se il Descartes è, sopratutto, il filosofo della _geometria analitica_,
il massimo studioso ne fu il suo contemporaneo, _Pietro Fermat_
(1602-65). Ma il primo manuale di geometria algebrica spetta ad un
italiano; fu scritto da _Marino Ghetaldi_ nel 1630.

Con la geometria analitica, la geometria acquistava una elasticità
nuova. La geometria classica abbisognava di un procedimento speciale
per ogni singolo problema. La geometria analitica, invece, si fonda su
poche regole, e con esse può dimostrare se una proposizione sia vera o
falsa.

Come dicevamo, in contrapposto alla geometria, che, entrando
nell’analitica, abbandonava l’antico suo campo di scienza delle
forme dello spazio, la pratica della descrizione degli oggetti si
sistematizza, diviene ora scienza soggetta a leggi sue speciali.

I fondatori della _geometria descrittiva_ o _proiettiva_ furono il
_Desargues_ (1593-1662), il _Pascal_ (1623-62), uno dei più grandi
genii matematici, il _Monge_ (1746-1818). La sua prima cattedra venne
istituita dalla Rivoluzione francese alla _École normale_, nel 1794, e
tenuta dal Monge stesso. Più tardi, sotto l’Impero napoleonico, questi
insegnò geometria descrittiva alla _Scuola Politecnica_ di Parigi, e
le sue lezioni andarono a formare il classico testo, che ha per titolo
_Géométrie descriptive_ (1800).

Passando dalla geometria all’algebra pura, la risoluzione delle
equazioni di 4º grado è, nei secc. XVII-XVIII, raggiunta con metodi,
diversi da quelli del secolo precedente (cfr. § 20), da parecchi
matematici a un tempo: da _Descartes_ e _Tschirnhausen_ (sec. XVIII),
dall’_Euler_ e dal _Lagrange_ (sec. XVIII).

Furono appunto questi tre ultimi a tentare disperatamente, con i mezzi
algebrici, la soluzione di equazioni di grado superiore al quarto;
ma senza riuscirvi. Il _Leibniz_ (1646-1716) e il _Gauss_ per primi
giudicheranno impossibile condurre a termine questa impresa per le
vie dell’algebra, e l’_Abel_, in sui primi del sec. XIX, darà, di tale
assunto, una dimostrazione apodittica.

Il sec. XVII segna altresì, avvertimmo, gli albori o, (come altri
vuole) la rinascita dell’_analisi infinitesimale_. È l’_analisi
infinitesimale_ il capitolo più delicato e più squisito della
scienza dei numeri. Si serve di parecchi processi (_calcolo
integrale, differenziale, calcolo delle variazioni_ ecc.), e si dice
_infinitesimale_, perchè, penetrando a fondo nell’essenza stessa della
grandezza, la decompone per meglio studiarla in parti infinitamente
piccole.

Fu il francese _Bachet de Méziriac_ (1587-1638) a darne per primo
una trattazione moderna, e tosto i grandi matematici dei sec. XVII e
XVIII, più volte nominati (_Newton, Leibniz, Fermat, Euler, Lagrange_)
e, oltre a questi, il francese _Rolle_ si posero sulle sue orme, o ne
ripeterono con altri metodi i felici tentativi.

Finalmente, le prime _tavole logaritmiche_ risalgono ai primi del sec.
XVII, per merito del _Neper_, del _Bürgi_, del _Jost_, del _Briggs_.

Tale il quadro superbo delle matematiche, nei secoli XVII-XVIII.
Il secolo XIX ne continuerà l’opera, approfondirà i resultati,
perfezionerà i metodi, troverà, per i vari problemi, nuove soluzioni,
sopra tutto assoggetterà parecchie scienze, in primo la fisica,
com’era avvenuto in Grecia, nell’età di Euclide e di Archimede, alle
matematiche; separerà la professione del cultore della scienza pura
da quella dell’ingegnere, che avrà ad applicarla, ma esso non darà più
vita ad alcun nuovo ramo delle matematiche.


28. =Astronomia: Keplero; Galilei; Newton; Laplace; Herschel.= —
La dottrina copernicana fu ben lungi dal conquistare di colpo il
consenso degli scienziati e, tanto meno, dall’opinione pubblica. Se
il citato _Raethicus_ e qualche altro l’accettarono con entusiasmo, e
si dedicarono a dimostrarne più esattamente alcuni punti particolari,
lo stesso non può dirsi della maggior parte dei dotti. Taluno dei
maggiori si studiò di disegnare un sistema intermedio. Fu questo il
tentativo del danese _Ticone Brahe_ (1546-1601), uno dei più grandi
e più esatti osservatori e calcolatori fra gl’immediati successori di
Copernico. Egli suppose che i cinque pianeti (Mercurio, Venere, Marte,
Giove, Saturno) girassero intorno al sole, mentre il sole girerebbe
annualmente intorno alla Terra, e l’intera sfera celeste compirebbe
anch’essa una rotazione diurna intorno al nostro pianeta.

_A_). _Keplero._ — Ma negli ultimi suoi anni si incontrò con lui
_Giovanni Keplero_ (1571-1630); questi, anzi, fu, suo assistente,
al castello di Benateck (in Boemia), ove il Brahe aveva installato
un osservatorio, e i resultati delle osservazioni, che furono quivi
condotte, giovarono molto a fare del Keplero uno dei più validi
sostenitori del copernicanesimo.

Keplero cominciò dallo studiare il pianeta Marte. Cotale studio gli
ispirò le due prime così dette leggi di Keplero: 1. _Marte descrive
un’ellisse_ (e non già una circonferenza)[73] _e il sole ne occupa uno
dei fuochi_; 2. _La linea retta che unisce Marte al sole descrive aree
eguali in tempi eguali_.

Questi due leggi, che il Keplero aveva riscontrate per Marte, le
concepiva (ed a ragione) comuni a tutti i pianeti, convinto, com’era,
della piena uniformità delle leggi della natura. Tale concetto egli
svolse nella sua _Armonia del mondo_ (1619). Tuttavia, questa, ch’è
considerata la sua opera massima, è troppo ingombra, conformemente alla
mentalità del suo autore, di speculazioni, or mistiche or fantasiose.
Una, però, delle affermazioni notevoli, in essa contenute, è la così
detta «_terza legge di Keplero_», relativa al rapporto fra le grandezze
delle orbite dei pianeti e i loro tempi di rivoluzione: «_Il quadrato
del tempo di rivoluzione di ciascun pianeta è proporzionale al cubo
della sua distanza media dal sole_».

Ma il libro, nel quale il Keplero si rivela interamente copernicano, è
un testo scolastico di astronomia, pubblicato tra il 1618 e il 1621 e
intitolato appunto _Epitome dell’Astronomia di Copernico_.

Un’altra sua opera meno popolare, ma più sostanziosa, sono le sue
_Tavole Ridolfine_ (1627) (dal nome dell’imperatore, di cui era
matematico ufficiale): una nuova serie di tavole astronomiche, assai
più perfette di tutte quelle precedenti (§ 17 _B_), e capaci di
permettere di determinare la posizione di un corpo celeste qualsiasi,
in qualunque tempo, così come la predizione di svariati fenomeni
astronomici.

Tuttavia il Keplero fu un divinatore della scienza più che uno
scienziato nel senso preciso della parola. I suoi volumi sono per
la massima parte ingombri di inutili speculazioni, di pregiudizi
astrologici, di profezie vane, e recano un carattere perfettamente
opposto a quelli del suo grande contemporaneo: _Galileo Galilei_.

_B_). _Galilei._ — La biografia del Galilei è popolarissima. Egli
nacque a Pisa nel 1564, e, sebbene i suoi genitori desiderassero
farne un commerciante, egli preferì dedicarsi a qualche carriera più
elevata e studiò medicina nella università di Pisa. Pur troppo, non
le discipline mediche lo attiravano, ma le matematiche e le scienze
sperimentali. Per le ristrettezze economiche della sua famiglia, non
potè compiere i suoi studii a Pisa, e dovette studiare privatamente.
Nel 1589 ottenne a Pisa la cattedra di matematica e astronomia. Qui
cominciò i suoi primi esperimenti di meccanica. Ma la poca ortodossia,
lo scarso rispetto alle opinioni convenzionali che egli manifestò
nel trattato, in cui ne rese conto, contribuirono a fargli lasciare
la cattedra e a indurlo a trasferirsi con lo stesso ufficio a Padova
(1592). Il nuovo soggiorno fu per lui più propizio; e gli anni del suo
insegnamento colà furono quelli della conquista della notorietà e della
gloria.

Il Galilei lasciò Padova solo dopo diciotto anni, desiderando
scaricarsi del peso dell’insegnamento e tutto dedicarsi alle sue
ricerche, e tornò in Toscana, primo matematico e filosofo del Granduca.

Per sua disgrazia, la sua intensa operosità scientifica cadeva in un
periodo della vita italiana — il periodo della Controriforma — nel
quale tutto il mondo cattolico, per meglio difendersi dagli assalti
della rivoluzione protestante, si sforzava di ricondurre la società
verso il pensiero e la disciplina medievale. Bastò perciò che, nel
bel mezzo di una discussione, che lo riguardava incidentalmente, egli
si dichiarasse consenziente col pensiero copernicano, perchè venisse
denunciato alla Inquisizione come professante opinioni contrarie alle
sacre scritture. Così, ora soltanto, nel 1615, il copernicanesimo
veniva ufficialmente condannato, e il Galilei era «ammonito», oltrechè
_invitato_ ad «abbandonare» quelle _eretiche_ opinioni.

Il Galilei, com’era giocoforza, parve sottomettersi. Ma egli riaccese
la spinosa questione, diciassette anni più tardi, col suo dialogo
classico (dal punto di vista scientifico e da quello letterario) _Sui
due massimi sistemi del mondo, Tolomaico e Copernicano_ (1632). In
questo scritto, non ostante la finissima ironia della conversazione,
era manifesto come l’autore intendesse assegnare la palma della
vittoria polemica al sostenitore della teoria copernicana.

Questa volta egli fu invitato a dichiarare umilmente di essersi
ingannato, di «abiurare, maledire e detestare» i suoi «errori», e
venne condannato al confine presso Roma, e poi ad Arcetri. Nel 1638
era colpito da cecità, e quattro anni dopo, nel 1642, il Veggente,
scopritore di nuovi mondi moriva nel più gelido buio.

La gloria del Galilei, come astronomo, è in gran parte una diretta
conseguenza del suo grande valore di fisico, anzi, in generale di
scienziato. La costruzione, di cui egli fu capace, di un sistema di
lenti, convesse e concave — il _telescopio_ — con cui osservare i corpi
celesti, riducendone la distanza di ben 30 volte, e quindi aumentandone
di altrettante la grandezza, gli permise di dominare il cielo assai più
e meglio dei predecessori.

Ma anche altri, quasi nello stesso tempo, adoperavano il telescopio,
e rimasero assai addietro di lui. Un’altra fonte del suo successo fu
perciò il rigore delle sue osservazioni, dei suoi ragionamenti, dei
suoi esperimenti, ossia delle riprove a cui egli assoggettava ogni
sua induzione e deduzione, e che gli giovò infinitamente nel campo
della fisica, là dove in modo speciale l’esperimento è possibile. Per
questo appunto, come avvertiamo, assai più che in virtù di speculazioni
teoriche, il Galilei è ritenuto fondatore del metodo sperimentale.

Le sue prime scoperte astronomiche, consegnate nel _Messaggero celeste_
(_Sidereus nuntius_ del 1610), riguardano principalmente due argomenti:
il nostro satellite, e i satelliti di Giove.

Il Galilei smentì per primo la comune opinione astronomica che la luna,
come gli altri corpi celesti, fosse liscia e rigorosamente sferica,
e vi scoperse le montagne, di talune delle quali calcolò esattamente
l’altezza; vi notò la mancanza di nubi e (ciò che più importava nei
riguardi del sistema copernicano) la sostanziale analogia tra la luna
e la Terra; _il che voleva dire fra i fenomeni terrestri e quelli
celesti_.

In modo analogo, il Galilei scoperse per primo i satelliti di Giove,
rilevando, contro i Tolomaici, come non solo la Terra, ma anche altri
corpi celesti siano _centro di movimenti_, e come, anche visibilmente,
taluni corpi celesti girino intorno ad altri corpi, che apparentemente
si muovono. Questo, appunto, gli astronomi copernicani sostenevano
avvenire della Terra rispetto al Sole, mentre gli astronomi tolomaici
ne escludevano la possibilità. Ora il fatto, visibile a chiunque,
che la cosa accadeva per Giove e per i suoi satelliti, in condizioni
identiche a quelle della Terra rispetto al Sole, era un gravissimo
argomento contro la loro dottrina.

Più tardi, insegnante a Padova, il Galilei scoperse la singolare
struttura di _Saturno_, pianeta composto di tre parti. A Firenze
osservò che _Venere_ ha delle fasi somiglianti a quelle lunari.
Finalmente osservò le _macchie solari_, e le dimostrò come inerenti a
quest’astro, mentre chi prima le aveva notate le aveva ritenute effetto
del passaggio di altri pianeti, dinanzi al sole. Questa scoperta veniva
a concludere con la dimostrazione di un movimento rotatorio del Sole
intorno a un suo asse della durata di circa un mese.

Le ultime scoperte astronomiche del Galilei, condotte a termine prima
che il suo autore piombasse nella completa cecità, sono un ritorno ai
suoi primi studî, e riguardano la luna. Egli osservò come l’opinione
comune, che la luna ci volga sempre una stessa faccia, non sia
esattissima, e che noi possiamo vedere di tanto in tanto, a seconda
del luogo da cui guardiamo, differenti porzioni della luna. A mutare
la nostra posizione di osservatori lunari ci conduce poi, ogni giorno,
senza nostra volontà, il movimento giornaliero della Terra. Così il
Galilei scopriva quelle che oggi si dicono le _librazioni della luna_.

_C_). _Newton._ — _Isacco Newton_ (1642-1727) nacque nello stesso anno
in cui moriva il Galilei, e la sua grande opera è una prosecuzione
geniale di quella di Keplero e del Galilei stesso. Ma per tal via
egli giungerà alla concezione più profonda e più vasta della scienza
astronomica moderna: la _gravitazione universale_.

Il Newton pose a se stesso il problema: — _Per quale causa avviene che
i corpi celesti si muovano nello spazio?_ — Era la domanda legittima,
che s’imponeva agli scienziati dopo il tramonto del sistema tolomaico.
Il matematico e filosofo francese, Cartesio, vi aveva risposto con una
sua _teoria dei vortici_. Tutto lo spazio sarebbe pieno di un fluido —
l’etere — le cui parti agiscono sull’altra, e producono moti circolari.
Così l’etere è percorso e agitato da un gran numero di vortici, e un
vortice immenso ha per centro il sole e trascina nel suo giro la Terra
e i pianeti.

Era una teoria che il suo autore nè dimostrò, nè mise d’accordo con
le leggi di Keplero, nè sperimentò, e che nemmeno portò alla scoperta
di nuove verità. Il Newton, invece, muove dalle leggi di Galilei
sulla caduta dei gravi. Il Galilei aveva insegnato, in fisica (cfr.
§ 29), che un corpo, abbandonato a se stesso, e non influenzato da
altro corpo, si muove sempre con la stessa velocità e nella stessa
direzione. Avea insegnato che il moto circolare cambia continuamente
direzione sotto l’influsso di una causa esterna. Quale causa, dunque,
influiva sui pianeti perchè essi, anzichè procedere sempre nella
stessa direzione, sono tratti a muoversi in senso circolare intorno
a un centro, ch’è all’incirca il sole? Newton suppose appunto che
tale influenza (_accelerazione_) fosse dovuta al sole. Ma secondo
quali proporzioni questa influenza è diversa a differenti distanze?
Facendo uso della _terza legge di Keplero_ (cfr. § 28 _A_), egli
potè formulare l’altra legge, secondo cui l’attrazione fra il sole e
i componenti il sistema solare varierebbe inversamente al quadrato
della distanza, ossia, come si espresse, che _l’accelerazione (che
il sole esercita sopra i pianeti) è proporzionale ai quadrati inversi
della loro distanza dal sole stesso_. Il che vuol dire che, a distanza
doppia, tale accelerazione si riduce a 1/4; a distanza tripla, è
1/9, a distanza decupla, è 1/100, ecc. ecc. Questa legge, osservò
Newton, regola anche i rapporti tra la Terra e qualunque corpo cadente
sopra di essa, ossia che l’_accelerazione prodotta dalla Terra sopra
un corpo qualunque è inversamente proporzionale al quadrato della
distanza del corpo dal centro della Terra_. E siccome, in ogni corpo,
è da considerare altresì la quantità di materia — la _massa_ — che lo
compone, egli formulò nella sua opera somma — i _Principii matematici
di filosofia naturale_ (1687) — la sua legge così: — _La Terra attrae
un corpo qualunque con una forza inversamente proporzionale al quadrato
della distanza dal centro della Terra, e direttamente proporzionale
alla massa del corpo medesimo._

A questo concetto egli ne aggiunse più tardi un altro: la sua «_terza
legge sul moto_»; _ad ogni azione si contrappone sempre una eguale
reazione_. Esemplificando, se un sasso posa sopra la nostra mano, la
forza con cui esso preme sopra la mano è uguale a quella esercitata
dalla mano per sostenerlo. E, analogamente, se la Terra attira in giù
una pietra con una certa forza, la pietra attrae con forza eguale la
Terra. Se in questo secondo caso l’influenza (_accelerazione_) che
subisce la Terra risulta infinitamente minore di quella subita dal
sasso, ciò non vuol dire che quell’influenza non esista, ma che la
massa della Terra è infinitamente maggiore, sì da rendere l’influenza
del sasso pressochè nulla. In termini generali, dunque, la legge della
_gravitazione_ poteva così formularsi: _Ogni particella della materia
attira ogni altra particella con una forza proporzionale alla massa
di ognuna di esse, e inversamente proporzionale al quadrato della loro
distanza_.

Or bene, questa legge che regola la caduta dei corpi sulla Terra, e
insieme l’attrazione solare sulla medesima, deve potersi applicare ai
rapporti fra tutti i corpi celesti. Ognuno dei pianeti deve esercitare
la sua potenza di attrazione sul sole e su tutti gli altri pianeti, e
secondo le leggi sopra esposte. Ma, siccome i pianeti sono, come massa,
infinitamente minori del sole (tal quale il sassolino rispetto alla
Terra), così ne segue che il moto di ciascuno è pochissimo influenzato
dagli altri, e quasi completamente dominato e diretto dal sole.
Tuttavia l’influenza degli altri pianeti non è affatto insensibile,
e produce a lunghi intervalli di tempo perturbazioni constatabili;
così come perturbazioni sensibili esercita l’attrazione solare sul
moto della luna intorno alla Terra e sui moti dei satelliti di Giove
e di Saturno, intorno ai loro pianeti, che Newton ebbe a constatare
per primo. In tal modo, il grande astronomo inglese, _partendo da
un’ipotesi ammessa provvisoriamente, constatava una serie di fatti,
spiegabili solo, e nel modo più felice, con la sua stessa ipotesi_.

Ma la più singolare conseguenza della sua teorica era questa: che, se
i pianeti attraggono il sole, anche il sole deve avere un certo moto,
in forza dell’attrazione che su di essi esercita la massa dei suoi
pianeti, sia pure che, data la relativa piccolezza dei corpi che lo
attraggono, il suo movimento debba di necessità svolgersi in piccolo
spazio. Tale conseguenza, che fu dapprima supposta solo in linea
teorica, corrisponde a un fatto reale. _Il sole, invero, si muove,
con tutto il suo sistema planetario intorno a un centro di gravità;
ma questo punto è così poco distante dal centro del sole, che tale
distanza non può essere mai molto maggiore del diametro solare._

Sorprendente conseguenza, quest’ultima, che, uscita dalla dottrina
del massimo tra gli astronomi copernicani, vendicava d’un colpo il
tolomaismo dagli attacchi degli avversari! Se la Terra, infatti, non
era più il centro del mondo, non lo era neanche il sole, e l’uno, come
l’altra, non potevano aspirare alla regale corona della immobilità!

La gravitazione del Newton dava ragione (e il suo primo autore ne
ebbe consapevolezza) anche di altri fenomeni astronomici: _a_) la
forma non perfettamente sferica della Terra, conseguenza della mutua
gravitazione delle diverse particelle terrestri sotto l’azione del
moto di rotazione; _b_) la _precessione degli equinozi_, che gli
antichi avevano osservata, e che veniva spiegata quale effetto di un
lentissimo mutamento di direzione dell’asse terrestre. Or bene, questo
fenomeno era a sua volta conseguenza della non perfetta sfericità
della Terra, che fa in modo che la Terra non ruoti esattamente intorno
al suo centro, come avverrebbe se fosse una sfera perfetta, e perciò
subisca una progressiva deviazione del suo asse; _c_) le maree,
dovute all’attrazione, lunare e solare; _d_) i moti delle comete, la
cui orbita (dimostrò il Newton) è in molti casi o una parabola o una
ellisse allungata, soggetta all’azione e all’influenza solare.

Tali, la grandiosa concezione newtoniana e le sue principali
applicazioni. Egli aveva trovato la legge più generale a cui soggiaccia
il moto dell’universo. Più in là non si è potuti andare; e la domanda
residuale delle sue conclusioni — _perchè_ i corpi si attraggano nel
modo che Newton indica — rimane ancor oggi senza risposta, anche se
il sec. XIX, il secolo dell’elettricità, abbia tentato subordinarla
alle superiori leggi che regolano le correnti elettriche. Le leggi
newtoniane segnano così ancora il confine ultimo — _l’ultima Thule_ —
della nostra scienza astronomica.

_D_). _Laplace._ — Da Newton a Laplace, per circa un mezzo secolo,
l’astronomia non vanta alcun grande pensatore. Avviene anzi il fenomeno
singolare che gli astronomi si distribuiscano in due schiere: gli
osservatori e i matematici, quali più precisamente Newton era stato.

Tra i primi, i due più famosi sono _Edmondo Halley_ (1658-1742), il
cui nome è legato ai suoi studii sulle comete, alle quali applicò,
sviluppandoli, i principii del Newton, e _Giacomo Bradley_ (1692-1762),
uno dei più grandi e precisi osservatori del cielo, famoso per le due
scoperte dell’_aberrazione della luce_ e della _nutazione dell’asse
terrestre_.[74]

Gli astronomi matematici newtoniani (o, come anche si dissero,
_gravitazionali_), fioriscono a preferenza in Francia. Fra essi,
com’è naturale, troviamo nomi di sommi matematici _Euler, Lagrange_
e il filosofo francese _D’Alembert_, uno dei direttori della famosa
_Enciclopedia_ del secolo XVIII, che tanto impulso doveva esercitare
sulle idee della Rivoluzione. Ma il più grande di loro è _Pietro Simone
Laplace_ (1749-1827).

Il Laplace fu autore di parecchie scoperte astronomiche, che espose
nella sua opera maggiore: la _Meccanica celeste_, ma delle quali,
benchè importantissime, poichè hanno un valore particolare, non
è qui il luogo di discorrere. Il suo nome, invece, è legato alla
popolarissima _ipotesi nebulare_, destinata a spiegare l’origine e la
formazione del sistema solare, ch’egli sviluppò nel suo _Sistema del
mondo_, e a cui giunse contemporaneamente — ma indipendentemente — il
sommo filosofo tedesco _Emanuele Kant_.

Il Laplace, notando che i pianeti e i satelliti si muovono intorno al
sole nella stessa direzione, ch’è poi identica a quella dei rispettivi
movimenti di rotazione; notando, inoltre, la perfetta uniformità di
altri particolari di codesti movimenti, trasse la conclusione che i
varii corpi del sistema solare devono avere avuta una identica origine.
Ed avanzò la seguente ipotesi: _che i corpi del sistema solare si siano
formati per la graduale condensazione di una vasta, originaria nebulosa
agitata da movimento rotatorio, la quale andò man mano scindendosi in
una serie di anelli, che furono i pianeti e i satelliti_.

_E_). _Herschel._ — Un posto a parte nella storia dell’astronomia
del sec. XVIII va assegnato al tedesco _Federico Guglielmo Herschel_
(1738-1822). La sua inclinazione all’astronomia fu veramente unica,
ma la fortuna, ch’egli ebbe in questo campo, la dovette sopra tutto
all’aver saputo costruire telescopi, per grandezza e perfezione, assai
superiori a quelli fin allora in uso.

Comunque, l’importanza dell’opera sua sta in questo: nell’avere per un
momento interrotto gli studî sul sistema solare, nei quali da Copernico
l’astronomia si indugiava, e nell’aver rivolto deliberatamente la
sua attenzione a tutto il restante infinito mondo delle stelle fisse
e delle nebulose. Herschel è stato il più grande scandagliatore del
cielo nell’età moderna, e in esso seppe leggere come niuno mai aveva
saputo. Ma, così ricercando, egli fece del pari inaudite scoperte nel
campo stesso del sistema solare: scoperse il pianeta Urano, due suoi
satelliti e due nuovi satelliti di Saturno; studiò a fondo il sole, sul
quale espose però una singolare strana teoria: che l’interno ne fosse
freddo, scuro e solido; che questo interno solare fosse circondato
da due strati gassosi, e che soltanto da quello superiore (la
_fotosfera_), caldo e luminoso, derivassero il calore e la luce.

Con Herschel, il corso della cui vita si stende fino ai primi del
sec. XIX, si chiude la trionfale storia dell’astronomia nei secc..
XVII-XVIII, con la quale l’età successiva non ha fin ora potuto
certamente competere.


29. =Fisica: Il sec. XVII.= — Non ostante Leonardo da Vinci, fino al
sec. XVII, una fisica scientifica, vera e propria, non esisteva. Si
aveva una somma di scoperte e alcune grandiose concezioni, di cui la
Rinascenza era debitrice all’antichità. La fisica moderna comincia
invece col Galilei e col Newton: col Galilei, in quanto egli è
fondatore del _metodo_ così detto _sperimentale_, e in quanto con lui
soltanto la fisica si organizza nelle sue grandi sezioni: _meccanica,
termica_ (calore), _ottica_ (luce), _acustica_ (suono), _elettricità,
magnetismo_; col Newton e col Galilei, in quanto, per loro iniziativa,
la fisica riceve l’innesto fecondo delle matematiche.

Le scoperte fisiche del sec. XVII sono più abbondanti, in una volta
sola, di quelle di tutti i diciassette secoli dell’êra cristiana.
Si scoprono ora le leggi della caduta dei gravi e si fonda così
la meccanica; si scopre la legge della compressibilità dei gas; si
inventa la macchina pneumatica; si distinguono i principali fenomeni
ottici e se ne costruiscono gli strumenti relativi; si fonda una quasi
esatta teoria della luce. Infine, questo secolo, nel quale la storia
della fisica vanta i nomi di _Galilei, Torricelli, Cartesio, Otto di
Guericke, Boyle, Hoocke, Halley, Huyguens, Newton_, affronta da vicino
la potenza demonica della elettricità.

Il Galilei ebbe la fortuna di poter dominare da maestro parecchi dei
campi della fisica. Egli scoperse le leggi della _caduta dei gravi_,
ossia del _moto dei corpi_, la cui trattazione occupa i suoi _Discorsi
e dimostrazioni matematiche_ del 1578, e la parte più interessante del
successivo suo famoso _Dialogo sui massimi sistemi_. Queste leggi,
ciascuna regolarmente e criticamente sperimentata, correggevano, o
rovesciavano, quelle aristoteliche, in cui l’antichità, il Medio Evo e
l’età moderna si erano adagiate.

Esse, anzi tutto, smentivano il fondamentale principio aristotelico, in
cui s’era creduto per duemila anni, che i corpi cadano con una velocità
proporzionale al loro peso (§§ 8 _A_; 9 _D_), e sostituivano a questo
il nuovo principio che _tutti i corpi cadono con la stessa velocità
qualunque sia il loro peso_.[75] Quindi insegnavano: 1) che _i corpi
tendono a conservare il moto ricevuto, e non possono modificarlo, nè in
grandezza nè in direzione, senza l’azione di una causa esterna_; 2) che
_il moto circolare cambia continuamente direzione, ed è quindi dovuto
all’azione continua di cause esterne_; 3) che, _se un corpo cadesse
nel vuoto, si muoverebbe di moto naturalmente accelerato_; 4) che _la
velocità di caduta è uguale per tutti i corpi, qualunque sia il loro
peso_; 5) che _la velocità di caduta è direttamente proporzionale al
tempo impegnato nel cadere_. Queste leggi ebbero, come abbiamo veduto
(§ 28 _C_), una grande influenza sulla astronomia da Newton in poi.

Il Galilei scoperse le leggi del _pendolo_, che sono poi un caso
speciale del moto dei gravi. La principale è quella dell’_isocronismo_
(_le oscillazioni di un pendolo avvengono tutte nel medesimo tempo,
quali che siano la natura e il peso dell’oggetto che oscilla_).
Un’altra è questa: la durata di un’oscillazione del pendolo diviene
due o tre volte maggiore, quando la lunghezza del pendolo diventa,
rispettivamente, quattro e nove volte maggiore, ossia: _la durata
dell’oscillazione del pendolo cresce con la radice quadrata della sua
lunghezza_. Con queste leggi il Galilei gettava le fondamenta della
_dinamica_, come il greco Archimede aveva fondato la _statica_.

Passando dalla meccanica alla termica (il capitolo della fisica che si
occupa del calore), il Galilei fu probabilmente l’inventore, fin dal
1603, del _termometro ad aria_. Le sue scoperte nel campo dell’ottica
sono notissime. Egli inventò e costruì quel _telescopio_, che tanti
servizi doveva rendergli nei cieli. Ma meno noto è il fatto ch’egli
inventò e fabbricò un «telescopio per vedere gli oggetti molto vicini»,
_ossia che fu l’inventore del microscopio_ (1614), e ch’egli, ben
presentendo che la luce non si comunica istantaneamente dagli oggetti
luminosi all’occhio umano, tentò — per il primo, sia pure invano —
determinarne la velocità. I resultati degli studi del Galilei sui
gas e sui liquidi sono ancor oggi vitali in fisica. Egli _dimostrò,
sperimentalmente, col mezzo della bilancia_, che _l’aria è pesante_,
mentre il sommo Tolomeo aveva, contro Aristotele, sostenuto l’opposto.
Dimostrò egualmente, in via sperimentale, il diverso peso dei liquidi,
e inventò la _bilancetta_, per determinare il _peso specifico_ dei
corpi.

In acustica, tentò la misurazione della velocità di _propagazione del
suono_.

Finalmente, il Galilei si occupò anche del magnetismo della _calamita_,
e ne costrusse di sì potenti, da sostenere pesi 26 volte maggiori del
proprio.

Tutta la fisica del sec. XVII può dirsi dipenda dal Galilei e non
faccia che continuarne l’opera. Per altro, egli lasciava dietro di
sè numerosi discepoli, una scuola di fisica sperimentale, e l’amore
vivo, in Italia e fuori, per quest’ordine di ricerche. Così da noi,
in Toscana, a Firenze, si fonderà, con intendimenti scientifici,
l’_Accademia del Cimento_ (1657); in Inghilterra, la _Royal Society_
(1663); in Francia, per iniziativa del grande ministro di Luigi XIV,
il Colbert, l’_Académie des Sciences_ (1666). Nelle pagine che seguono
riassumiamo i principali resultati della scienza del tempo nei varii
dominii della fisica:

1. _Termica._ — I dotti dell’_Accademia del Cimento_ perfezionarono il
termometro, sì da sostituire, al _termometro ad aria, il termometro
ad alcool_. I termometri fiorentini si diffusero per il mondo, e nel
1659 venne in Francia costruito il primo _termometro a mercurio_. Ciò
che mancava era solo l’accordo sulla temperatura di partenza, da cui
sarebbe occorso cominciare la graduazione. Inoltre gli Accademici del
_Cimento_ stabilirono che la dilatazione, prodotta dal calore, nei
solidi, è minore di quella prodotta nei liquidi; notarono il così
detto _salto d’immersione_, che, cioè, immergendo un termometro in
acqua calda (o fredda), il livello del liquido a tutta prima si abbassa
(o innalza) per la dilatazione (o il restringimento) del vaso che lo
contiene; notarono che l’acqua, congelandosi, aumenta di volume nel
rapporto di 8 a 9 (esattamente, sappiamo oggi, di 8,3 a 9); fissarono
la diversa capacità termica dei corpi, ecc. ecc.

2. _Meccanica._ — _Evangelista Torricelli_ (1608-47), il discepolo
preferito del Galilei, partendo dal principio che anche i gas sono
pesanti, inventava il _barometro_, ossia il noto strumento, capace
di registrare la pressione atmosferica. Al termometro e al barometro
presto si aggiunsero l’_igrometro_ (misuratore dell’umidità dell’aria)
e il _pluviometro_; onde si poterono istituire regolari e precise
osservazioni metereologiche.

La _camera barometrica_ dette mezzo di fare numerose esperienze sul
_vuoto_. Interessanti furono gli studî sui _fenomeni di capillarità_,
fin allora a torto creduti effetti di pressione atmosferica, e fu così
ritrovata la legge che l’_elevazione dei liquidi nei tubi capillari è
in ragione inversa al diametro di detti tubi_ (_legge del Jurin_).

Ma dal barometro era facile passare alla costruzione della _macchina
pneumatica_. Chi vi pervenne fu uno dei più felici scienziati
sperimentatori, _Ottone di Guericke_ di Magdeburgo (1602-86), l’autore
della esperienza notissima del _crepavescica_ e dell’altra più famosa
degli «_emisferi di Magdeburgo_», aventi per iscopo di provare la forza
della pressione atmosferica.[76] Poco dopo (o contemporaneamente?)
vi perveniva l’inglese _Roberto Boyle_ (1627-71). Fu allora
sperimentalmente dimostrato l’errore della secolare teoria aristotelica
che «la natura ha orrore del vuoto», che, cioè, il vuoto, in natura, è
impossibile. Ma (ciò che fu più importante) queste esperienze sul vuoto
accrebbero di parecchio le cognizioni del secolo sugli altri fenomeni
fisici. Fu trovato che il suono non si propaga nel vuoto; che, per
contro, le attrazioni, magnetiche ed elettriche, vi si trasmettono;
che, il barometro discende man mano che si rarefà l’aria, nella quale
esso è immerso; che l’acqua bolle tanto più rapidamente quanto più
rarefatta è l’aria, in cui è immerso il recipiente che la contiene,
ecc. ecc.

Queste ricerche sul vuoto condussero altresì alla scoperta sulla
elasticità o compressibilità dell’aria che porta il nome di _legge
Boyle_ o _legge Mariotte_ (come la denominano i Francesi dal fisico
_Edmondo Mariotte_, 1620-84). Secondo questa legge, _i gas si
contraggono in ragione diretta del peso da cui sono caricati_; ossia
che _esiste una proporzionalità inversa fra il volume dei gas e la
pressione a cui vengono sottoposti_.

_3. Suono e luce._ — Finalmente si potè determinare quasi esattamente
la velocità del suono,[77] e si affrontò di nuovo, senza dapprima
riuscirvi, il calcolo della velocità della luce. Sarà primo un danese
(_Olaf Römer_) nel 1655, a poterla fissare in 311 000 km. al
secondo, errando di poco per eccesso piuttosto che per difetto.[78]
Ma l’operosità del Galilei nel campo dell’ottica aveva diffuso, in
Italia e fuori, una vera passione per questo ramo di studii. Perciò fu
possibile che si formasse in Italia una scuola eccellente di tecnici
e di costruttori di lenti e di cannocchiali, e che fuori d’Italia il
problema della luce venisse affrontato alle sue radici. Sono due le
opinioni che, in questo secolo, si scontrano e si combattono intorno
alla natura della luce. L’una espose il _Newton_ nella sua classica
_Ottica_, e, sorretta dall’enorme autorità del suo formulatore, dominò
quasi tutta la scienza del tempo. Secondo questa teorica, la luce
si deve a _emissioni_, che fanno i corpi luminosi, di correnti di
corpuscoli in tutte le direzioni: corpuscoli moventisi in linea retta,
intersecandosi e rimbalzando in ogni senso, senza peso, insensibili
a ogni influenza (_teoria delle emissioni_). L’altra dottrina espose
_Cristiano Huyghens_ (1629-95), un olandese, in un suo _Trattato
della luce_, nel quale erano profondamente studiati tutti i fenomeni
ottici, propagazione, riflessione, rifrazione, e che è il più completo
trattato su questa materia. Secondo l’opinione dell’Huyghens, la
luce si deve a _vibrazioni longitudinali_ delle molecole dei corpi
luminosi, vibrazioni interamente paragonabili a quelle determinate
dal suono nell’aria o, da un grave che cade, nell’acqua (_teoria delle
ondulazioni_).

Formulata precisamente in questo modo, la dottrina dell’Huyghens non
era esattissima nei suoi particolari (le vibrazioni della luce non sono
longitudinali, cfr. § 37 _E_); ma essa sola, che pure raccolse pochi
consensi, era nel vero; l’altra del Newton risulterà, fra non molto,
radicalmente sbagliata.

Il Newton studiò anche egregiamente il fenomeno della rifrazione della
luce; scompose, mediante un prisma di cristallo di rocca, un raggio
di luce nei suoi colori elementari, e cercò di dare una _teoria dei
colori_, imaginando che la loro diversità dipenda dalla grandezza
delle molecole luminose; spiegazione che, anch’essa, oggi riconosciamo
inesatta (cfr. § 37 _E_).

_4. Magnetismo ed elettricità._ — Del magnetismo terrestre si occupò
il grande astronomo _Edmondo Halley_ (1658-1742), e fin dal 1683, in
seguito a uno studio sulla _declinazione magnetica_, tornò all’idea,
che era stata del Gilbert (§ 22): che la Terra sia un grande magnete,
e vi assegnò quattro poli magnetici. Questa ipotesi dei quattro poli
è oggi abbandonata. Ma un viaggio dell’Halley negli Oceani Atlantico
e Pacifico, allo scopo di verificare la sua dottrina, gli permise di
costruire la prima grande carta terrestre di _declinazione_, nella
quale sono riuniti con linee continue i punti di eguali _declinazioni_.
Più tardi egli stesso collegò acutamente al magnetismo terrestre il
fenomeno delle aurore boreali.

In questo stesso secolo si studiano più a fondo anche i fenomeni
elettrici: sono _Ottone di Guericke_, il _Boyle_ e poi _Francesco
Hawksbee_ ad occuparsene. Il Boyle, in un importantissimo esperimento,
mostrò che l’azione elettrica si esercita, come la luce, attraverso
il vuoto. L’Hawksbee ebbe per il primo l’intuizione di una dottrina,
che sarà propria del sec. XIX: la luce essere di natura identica alla
elettricità (cfr. § 37 _E_). Anche il _Newton_ discorre di elettricità
e di forze elettriche, che egli definisce «forse» come «il resultato di
un principio etereo (?) messo in moto dalla vibrazione delle particelle
dei corpi elettrizzati». Ma, non ostante i grandi nomi di tali
scienziati, la gloria dell’elettricità sfuggì al sec. XVII.

Singolare e degno di nota è il fatto che questa età, così carica di
scienze, torna a porsi, come gli antichissimi greci, il problema più
alto e più arduo: quello della costituzione della materia. E vi giunge,
non, come farà il sec. XIX (cfr. § 38 _A_ e _B_), attraverso la fisica
e la chimica, ma esclusivamente attraverso quello della fisica. Fu
_Roberto Hooke_ (1635-1703) a discorrerne in una _Lettera_ del 1662 al
Boyle, ed egli dichiarò di opinare (con Democrito ed Epicuro) che le
particelle dei corpi siano in continuo movimento e costrette a mutar
direzione per l’urto con altre particelle o con altri corpi...

Era in fondo un resuscitare la teoria atomica, dopo secoli di oblio.


30. =Fisica: Il sec. XVIII.= — Il secolo XVIII non ha, per tre quarti
del suo corso, nomi di fisici, che si possano paragonare ai grandi
dell’età che immediatamente lo aveva preceduto. Ma fu tutto un secolo
di somma operosità, di raccoglimento, di progressi modesti e costanti,
che tanto giovarono a consolidare le audaci conquiste del sec. XVII e a
preparare la gloria del sec. XIX.

Si penetra a fondo la costituzione dell’aria, anzi, si riesce a
dominare tutti i gas e i loro fenomeni. I fatti dipendenti dal calore
(fusione, volatilizzazione, liquefazione) sono studiati minutamente
e determinati quantitativamente. Si misura la compressibilità dei
liquidi, che l’_Accademia del Cimento_ aveva negata. Progrediscono
le ricerche di acustica e di meccanica; e, se la grande autorità
del Newton incombe tuttavia sui progressi dell’ottica, in compenso,
grazie ai newtoniani, piglia largo campo la fisico-matematica, ossia
l’applicazione della matematica alla fisica.

Come facemmo per l’età precedente, illustriamo anche questa volta i
principali resultati del sec. XVIII in fisica.

_A_). _Scoperte varie._ — Fra gli studiosi maggiori dei fenomeni
relativi al calore, ci furono, in questo secolo, _Daniele
Fahrenheit_[79] (1690-1740), inventore del termometro, che porta il
suo nome. Nel suo primo strumento, ch’era ad alcool, il punto 96°
corrispondeva _alla temperatura_ del corpo umano sotto l’ascella, e
lo _zero_, alla temperatura di un miscuglio di ghiaccio, acqua e sale
ammoniaco. Più tardi, allorchè egli cominciò a sostituire il mercurio
all’alcool, fissò al 32° la temperatura del ghiaccio in fusione (lo
0° del _termometro centigrado_) e, al 212°, quella dell’acqua in
ebollizione (il 100° del _centigrado_).

Il _termometro centigrado_, che noi oggi usiamo più di consueto,
fu introdotto dagli scienziati svedesi _Andrea Celsius_ (1701-44) e
_Märten Strömer_. _Giuseppe Black_ (1728-99) e, sopra tutti, i grandi
francesi _Antonio Lorenzo Lavoisier_ e l’astronomo _Laplace_ studiarono
la dilatabilità dei metalli; studiarono e determinarono la quantità di
calore sviluppata nella combustione del carbonio e dell’idrogeno, e,
quindi, il fenomeno della respirazione animale.

Indagarono nei fenomeni luminosi l’astronomo _G. Bradley_ (cfr. § 28
_D_) (scopritore dell’_aberrazione della luce_), e i due _Giovanni
Bernouilli_ (padre e figlio), che cercarono di spiegare i modi di
propagazione della luce dal sole e dalle stelle, fino a noi, adoperando
l’ipotesi dell’etere, che prevarrà nel sec. XIX (cfr. § 37 _F_). Il
grande matematico _Leonardo Euler_ (1707-83) rivendicò, solo contro la
folla dei newtoniani, la _teoria ondulatoria_ della luce dell’Huyguens,
e per primo, esattamente, spiegò le diversità dei colori con la diversa
durata delle vibrazioni.

Studiarono la compressibilità dei gas _Daniele Bernouilli_
(1700-1782), uno dei maggiori fisici dell’epoca. E finalmente, fatto
caratteristico, un frate, professore di astronomia a Bologna, l’ab. _G.
B. Guglielmini_, verificò per primo, lasciando cadere un corpo dalla
torre degli Asinelli a Bologna, la deviazione verso oriente dei corpi
cadenti, quale conseguenza del moto della Terra, comprovando così, in
modo ineccepibile, la scomunicata teoria copernicana!

Ma su due punti della fisica del sec. XVIII è necessario indugiare in
modo speciale: 1) la macchina a vapore che suscitò la grande industria
e rese possibile il grande commercio moderno; 2) le nuove scoperte
sul terreno della elettricità, le quali saranno capaci di non minori e
incalcolabili resultati.

_B_). _La macchina a vapore._ — La macchina a vapore, come quasi tutte
le scoperte dell’età moderna, era anch’essa nota alla scienza greca.
Il fisico alessandrino Erone ne aveva costruita una, ch’egli aveva
denominata _eolipila_ (§ 9 _F_). Ma non vi erano seguite applicazioni
pratiche. _Eolipile_ furono costruite anche nella Rinascenza, anzi pare
che i minatori di Boemia si servissero di una macchina a vapore per
estrarre dal sottosuolo il minerale greggio. Neanche _Dionigi Papin_
(1647-1713), al cui nome la macchina a vapore suole collegarsi, riuscì,
attraverso i suoi numerosi tentativi, a costruirne una soddisfacente.
Egli — infelicissimo — rimase sempre qualche pollice al di qua
della gloriosa scoperta, di cui pure aveva intravisto gli elementi
fondamentali.

La macchina a vapore moderna è il portato diretto delle esigenze dello
sviluppo industriale, nella Inghilterra nel sec. XVIII, e si connette
a questo grande fenomeno di storia economica, più che ad alcuna
astratta speculazione scientifica. Fu primo _Tomaso Savery_, capitano
di marina e meccanico abilissimo, a trarre ispirazione dai tentativi
di Papin per costruire una macchina a vapore, capace di trar fuori
dalle miniere inglesi l’acqua, che vi rendeva pressochè impossibile
l’estrazione del carbon fossile (1699). Cotale macchina fu perfezionata
da due artigiani dei dintorni di Darmouth, _Tomaso Newcomen_ e _Giov.
Cawley_; poi, da un fanciullo, addetto appunto a una macchina-vapore
di una miniera — _Enrico Potter_ (1713) —, il quale riescì a rendere
automatico il movimento dei suoi rubinetti. Si perviene così al periodo
glorioso dello splendore e della diffusione della macchina a vapore,
a cui dette il suo nome _Giacomo Watt_[80] (1736-1819). Il Watt vi
aggiunse dapprima un condensatore del vapore, separato dal cilindro
(_condensatore isolato_); poi trasformò radicalmente i principii, su
cui la macchina fin allora poggiava; da ultimo costruì la _macchina
a doppio effetto_ e trasformò il movimento rettilineo in movimento
circolare, capace di far girare una ruota, che a sua volta trasmettesse
il movimento a organi speciali.

Solo allora la macchina a vapore entrò in ogni genere di lavori
industriali, in Inghilterra e nel continente, moltiplicando la
produzione e alleviando la fatica umana.[81]

Mentre Watt, in Inghilterra, rendeva praticamente utile la macchina
a vapore, in America, negli Stati Uniti, dove del pari nasceva
l’industria moderna, _Oliviero Evans_ costruiva (1780) la macchina a
vapore _ad alta pressione_, nella quale, cioè, il vapore era riscaldato
ad oltre 100 gradi, per cui la sua forza di espansione si moltiplicava
in proporzione geometrica. Nello stesso periodo di tempo la macchina a
vapore veniva adoperata per la navigazione fluviale. I primi tentativi
furon fatti, in Francia, sul Doubs e sulla Senna. Furono anche fatte
le prime prove di locomozione terrestre a vapore con rozze automobili e
con piccole locomotive su binarii, e, meglio ancora, con vere e proprie
_funicolari_, la cui motrice a vapore era fissa, e sul suo albero si
arrotolava il cavo che trascinava i vagoncini.

Così nasceva la macchina a vapore, che dominerà, e informerà del suo
spirito, tutto il secolo XIX.

_C_). _Elettricità._ — Le prime macchine elettriche con disco di vetro,
quali le adoperiamo oggi, furono fabbricate nella seconda metà del
sec. XVIII. Nello stesso tempo fu scoperta la _bottiglia di Leyda_, che
venne dapprima usata a scopo medico, e costò la vita a taluno di coloro
che primi l’adoperarono.[82] Poco dopo, nel 1737, _Beniamino Franklin_
(1706-90), nativo di Boston, ossia di quelle colonie inglesi d’America,
ove la coltura e l’industria cominciavano a svilupparsi, avanzava
l’ipotesi che il fulmine non fosse uno scoppio di gas esplodenti
(come si credeva), ma vero fluido elettrico, e che quindi dovesse
essere attratto dai corpi acuminati, come il fluido elettrico nelle
bottiglie di Leyda. Movendo da questa ipotesi, che egli non sapeva
essere già stata avanzata da altri fisici europei, il Franklin pervenne
alla scoperta del _parafulmine_ (1753). La invenzione fu introdotta
dapprima in America, poi in Europa e, in Italia, in Piemonte, da _G. B.
Beccaria_, professore di fisica a Torino, tra il 1748 e il 1772.

Tuttavia, a parte questa scoperta, le teorie elettriche del Franklin
debbono giudicarsi assai grossolane: fra l’altro, egli imaginava
(del resto come tutti i suoi contemporanei) che l’elettricità fosse
_materia_ esistente in tutti i corpi. Se questi ne contenessero più
della misura normale, l’elettricità era _positiva_; se no, _negativa_.

Il citato Beccaria si occupò anch’egli, pressochè esclusivamente, di
elettricità, e studiò le azioni chimiche, prodotte dall’elettricità,
scaricata dalla bottiglia di Leyda, l’elettricità atmosferica, e
dall’osservazione di fenomeni luminosi, accompagnanti il passaggio
delle correnti elettriche nel vuoto, ribadì il concetto di Halley che
l’aurora boreale fosse effetto di scariche elettriche nelle regioni più
elevate dell’atmosfera.

Ma fu un francese _Carlo Agostino Coulomb_ (1736-1806) a scovrire
la legge, che porta il suo nome, la quale ricollega l’elettricità
alla gravitazione universale e sembrerebbe dimostrare che la ipotesi
newtoniana è (quale appunto il sommo astronomo inglese l’aveva
concepita) una legge universale della natura. La _legge Coulomb_ dice
infatti: «_l’attrazione (o la repulsione) fra due cariche elettriche
possedute da due sfere conduttrici, è direttamente proporzionale al
prodotto delle cariche e inversamente proporzionale al quadrato della
distanza fra i centri delle due sfere_».

Verso il 1780, l’italiano _Luigi Galvani_ (1737-98) scopriva
l’elettricità animale, come è noto, in una rana scorticata. Verso lo
stesso tempo iniziava le sue ricerche sull’elettricità uno dei più
grandi fisici italiani, _Alessandro Volta_.


31. =La chimica:= _A_). _Fino al Lavoisier._ — Le società scientifiche,
sorte in Italia e fuori (_Accademia del Cimento, Società reale
londinese, Accademia della Scienza_ di Parigi), tra il fermento della
rinascita scientifica che seguì all’età del Galilei, si occuparono
in modo speciale di fisica. Ma era impossibile che l’innovazione
dei criteri e dei metodi di lavoro, compiuta nell’una disciplina,
non si ripercotesse anche sull’altra. Il Galilei della chimica del
sec. XVII è _Roberto Boyle_ (1626-91), che noi abbiamo già ricordato
anche tra i grandi fisici del tempo, come uno degli scopritori della
legge di compressione dei gas. Egli combatte il concetto di pochi
corpi, principii chimici (_elementi_) di tutte le cose, su cui la
fisico-chimica antica e l’alchimia medievale si erano fondate.

Non ci sarebbero solo l’aria, l’acqua, la terra, il fuoco degli
aristotelici, o lo «zolfo», il «mercurio», il «sale» degli alchimisti,
da cui tutti gli altri corpi resulterebbero. Ci sarebbero, invece,
assai più numerosi _elementi_, risultanti ciascuno, a sua volta, di
particelle semplicissime.

Lo stesso Boyle distinse per il primo, come noi facciamo, i _miscugli_
dalle _combinazioni chimiche_, e incoraggiò le consuetudini delle
analisi chimiche allo scopo di accertarsi della natura di questi
composti.

Dopo il Boyle, l’analisi diviene strumento principale delle ricerche
chimiche. Per essa, applicando sistematicamente certe reazioni e certi
reagenti, e sempre con maggior precisione, si scopersero elementi
fin ora sconosciuti. Dall’analisi _qualitativa_ si passò all’analisi
_quantitativa_. Si accrebbe il numero degli strumenti destinati a tale
scopo e si moltiplicarono i processi industriali per la fabbricazione
dei varii prodotti.

Di queste scoperte due sono fondamentali: quella dell’inglese
_Priestley_ (1774) sull’ossigeno dell’aria, quella del _Cavendish_
(anch’egli inglese) sui due componenti dell’acqua: l’idrogeno e
l’ossigeno. In tal modo, due corpi, per secoli ritenuti «semplici» —
l’aria e l’acqua —, venivano decisamente scomposti!

Al passivo di questo bilancio sta una delle teorie più tenaci nella
chimica di questo periodo: quella del _flogisto_. È questa una errata,
ma famosa, teoria della combustione,[83] la quale veniva attribuita a
una particolare sostanza, diffusa, più o meno, nei corpi combustibili,
il _flogisto_.[84] In essa credette anche taluno dei migliori, il
Cavendish, ad es., il quale ultimo, anzi, identificò il flogisto con
l’idrogeno.

Tale era lo stato della chimica, in Europa, allorchè apparve il
Lavoisier.

_B_). _Lavoisier (1743-94) e la sua scuola._ — L’importanza enorme
dell’opera chimica di _Antonio Lorenzo Lavoisier_, di quest’uomo,
che, vissuto nel cuore della Rivoluzione francese, a soli 51 anni fu
dal fanatismo giacobino costretto a lasciare la testa sul patibolo,
consiste nell’avere scoperto esattamente, non dei nuovi corpi, ma
alcuni fondamentali processi dei corpi.

Il Lavoisier, movendo dalle scoperte del Priestley e del Cavendish,
in alcune sue memorie del 1777 e specie nel suo classico _Trattato
elementare di chimica_ (1789), dimostrò, in modo assoluto e definitivo,
che _tutti i processi di combustione non sono che altrettanti fenomeni
di combinazione dell’ossigeno dell’aria con la materia combustibile_.
In tal modo egli colpiva mortalmente la dottrina più radicata, in seno
alla chimica dei sec. XVII-XVIII: quella già citata del _flogisto_.

Grazie alla sua scoperta, egli spiegava la natura degli acidi,
quali combinazioni di ossigeno con fosforo, zolfo, carbone ecc., e
rinforzava la dottrina del Boyle circa la esistenza di numerosi corpi
semplici, che (a suo avviso) sarebbero stati i metalli e i vari corpi
combustibili (carbone, zolfo ecc.): gli uni e gli altri immutabili
di peso e (contro le vedute alchimistiche) _inconvertibili dall’uno
all’altro_.

È dello stesso Lavoisier, sebbene non mai formulato esplicitamente,
il principio della _conservazione della materia, che non si crea nè si
distrugge_, che solo alcuni fra i Greci antichissimi avevano divinato,
e a cui egli si ispirò in tutto il suo lavoro. Strumento prezioso
di tale dimostrazione fu la bilancia. Ma la innovazione pratica
più importante, che risale a lui, è la nuova nomenclatura chimica
per cui ogni sostanza viene denominata per mezzo degli elementi che
la compongono. Questa nomenclatura, non ostante nuove correzioni e
scoperte, è quella che ancor oggi noi usiamo.

Dopo il Lavoisier, l’attenzione della chimica, almeno dei seguaci
della sua scuola, si accentra intorno alla funzione dell’ossigeno e
dell’idrogeno. Ma è singolare notare come dall’opera di uno dei suoi
ideali discepoli risorga, ancor una volta, quella teoria atomica,
che il Lavoisier con la sua teorica, dei corpi semplici sembrava aver
seppellita. È _Gius. Luigi Proust_ (1761-1826) a scoprire la «_legge
delle proporzioni definite_», ossia che le proporzioni degli elementi
di ciascun corpo sono invariabili, perchè vi si combinerebbero atomi
definiti e di peso costante. Egli stesso supponeva che tutti i corpi
potessero ridursi al più leggero tra essi — l’idrogeno —, ossia
ch’essi fossero degli stati diversi di condensazione degli atomi di
idrogeno.[85]


32. =Medicina.= — Nei secoli XVII-XVIII la scienza medica è dominata e
impacciata da alcuni preconcetti di carattere filosofico. Il più famoso
è quello dell’esistenza di una _forza vitale_, di un _zoogeno_, come
altri la definiva, che determinerebbe tutti i fenomeni della vita. In
corrispondenza le malattie dipenderebbero da un qualche cosa — da un
_quid_ — perturbatore di questa forza vitale.

La sede di questo ente perturbatore è ora, da taluni scienziati,
collocata nel sangue, focolare di tutte le malattie (così la _scuola
umorale_); da altri, nei nervi (così la _scuola solidale_). Altri,
invece, pensa che le malattie dipendano da un difetto di energia
vitale, ed altri ancora, che presto divennero moltissimi, da un eccesso
di questa forza onde il noto uso ed abuso dei salassi.

Ma, accanto a questa metafisica medica, non mai cimentata alla prova,
si ha una vera e propria scienza, tanto più progredita, in quanto su di
essa influiscono potentemente le scoperte di tutte le altre scienze.

Appunto perciò i secoli XVII e XVIII sono pieni di scoperte mediche di
prim’ordine. Il fisiologo _Hancey_ (1578-1658) scopre il meccanismo
della circolazione del sangue. In Francia, il grande _Cartesio_,
fisiologo, oltre che filosofo, matematico, fisico, diffonde la
importantissima dottrina delle cellule, componenti elementari degli
organismi animali e delle loro funzioni. Si comincia a fondare
l’_anatomia microscopica_, ossia lo studio microscopico del corpo
umano. _Lazzaro Spallanzani_ (1728-99) scopre i corpuscoli bianchi
del sangue, il funzionamento della digestione e della respirazione.
Il _Galvani_ (1737-98) (vedemmo) scopre e comincia a studiare
l’elettricità animale, fondando così la _elettrofisiologia_ e la
_elettroterapia_. L’anatomia del sistema nervoso è ora approfondita,
e lo _Scarpa_ (1752-1832) ritrova i nervi del cuore, dell’udito,
dell’olfatto; il _Cotugno_, il nervo nasale-palatino. Gli organi della
vista e dell’udito sono investigati a fondo con il microscopio e con
altri mezzi.

I procedimenti della chirurgia acquistano imponenza ed importanza.
I medici delle grandi monarchie europee, specie di quella francese,
compiono operazioni impressionanti. E le accademie scientifiche europee
ne diffondono la cognizione.

La filosofia materialistica del sec. XVIII, fatta popolare dagli
_Enciclopedisti_ francesi, inculca il concetto che l’uomo sia niente
altro che una macchina organica, dominata da mere leggi fisiche. Vera o
falsa codesta concezione, essa contribuisce potentemente al progresso
della medicina. L’affermazione più eretica, e che contradiceva a
credenza di secoli, fu quella, formulata anche dal nostro _Chiarugi_
(1758-1820): la pazzia essere una malattia a base somatica (corporea),
come tutte le altre.


33. =Zoologia e botanica:= _A_). _Secolo XVII._ — I libri di scienze
naturali del sec. XVII sono ricchi di relazioni sulla fauna e sulla
flora del Nuovo Continente. Anche il vecchio mondo, data la grande
quantità di viaggiatori, esploratori, missionari, è meglio conosciuto.
L’olandese _Marcgrave_ scrive perciò la _Storia naturale_ del Brasile
(1648); l’olandese _Bontius_ (_Giacomo de Bondt_) informa sulla fauna
di Giava (1631). Queste, come altre opere del tempo, possono essere
ancor oggi consultate con utilità. Tuttavia, presso gli zoologi del
sec. XVII, lo spirito di osservazione non supera gran fatto l’abito
delle compilazioni vecchio stile. Presso i botanici si nota uno sforzo
crescente verso tentativi di classificazioni più scientifiche. Si fissa
chiaramente il concetto di specie, determinato dalla costanza della
forma e dalla infecondità, in seguito all’incrocio con altre specie.
E degna di ricordo è una classificazione di _G. Pitton de Tournefort_
(1656-1708), che durò fino a Linneo.

Nuovo impulso alle scienze naturali viene dalla invenzione del
microscopio, il che accade verso la fine del secolo. Allora il
_Leeuwenhoek_ (1632-1723) scopre gli _infusori_, inaugurando così la
scienza dell’innumere regno dei microrganismi, e, con lo stesso mezzo,
verso lo stesso tempo, si comincia a tentar di spiegare il modo di
fecondazione e riproduzione delle piante, a distinguerne i sessi, a
penetrare nel mistero della circolazione della linfa, della nutrizione,
della respirazione delle piante. Si scopre la composizione cellulare
dei vegetali. Nasce, cioè, quella che ora si dice la _fisiologia_ delle
piante.

_B_). _Secolo XVIII: Linneo; Buffon; Erasmo Darwin._ — Lo scienziato
che, in fatto di scienze naturali, domina nettamente tutto il secolo
XVIII, e col quale appunto si apre quest’età, è lo svedese _Linneo_
(1707-1778).

Linneo è il primo grande classificatore della scienza moderna. Sotto
tale riguardo, egli si ricollega ad Aristotele. Il suo _Sistema della
natura_ (1738) abbraccia tutte le specie, animali, e vegetali, allora
conosciute, e le distribuisce nelle grandi categorie, ancor oggi,
almeno nel linguaggio corrente, superstiti. Egli distingue gli animali
in _mammiferi, uccelli, pesci, insetti, vermi_. Aristotele, forse,
aveva classificato meglio, distinguendo gli animali in _vertebrati_
(a sangue rosso) e _invertebrati_ (a sangue bianco) e avendo preso in
considerazione anche molluschi e crostacei.

Linneo distingue i vegetali in piante _a fiori visibili_ e piante _a
fiori invisibili_ (_crittogame_), e suddivide la prima di queste due
grandi categorie a seconda i caratteri sessuali del fiore, che sono
elementi essenziali e facili a riconoscere. Così egli distingueva le
piante _a fiori visibili_ in piante del tutto o in parte ermafrodite,
e ciascuno di questi due gruppi, in gruppi minori, a seconda del numero
degli stami e dei pistilli.

Ma un tratto caratteristico, sebbene errato, della scienza della natura
di Linneo è il concetto della fissità delle specie, ossia il concetto
che le specie sono _qualitativamente_ distinte le une dalle altre e
immutabili sin dalla origine loro.

Un grande contemporaneo di Linneo è _Buffon_ (_Giorgio Luigi Leclerc
Buffon_, 1707-1788). Non è un classificatore, e non vuol esserlo; egli
dubita molto della fissità delle specie, come Linneo la concepiva,
e come egli stesso da prima l’aveva ammessa. In molti passi dei suoi
scritti si dichiara convinto del variare delle specie sotto l’influenza
dell’ambiente e attraverso caratteri acquisiti. È così un precursore
dell’imminente evoluzionismo. Ma il tratto caratteristico della sua
opera di zoologo è quello di avere fondato la geografia zoologica e di
avere, ben ordinando le specie, rimosso confusioni ed errori.

Proprio in sullo scorcio del secolo XVIII ha principio quella _teoria
dell’evoluzione_, la cui disputa, appassionata e appassionante, non
meno di quella tra tolomaismo e copernicanesimo, empirà del suo rumore
il sec. XIX. Vive in questo tempo il nonno di Carlo Darwin: _Erasmo
Darwin_ (1731-1800), studioso e poeta delle scienze naturali, e autore,
fra l’altro, di due opere in versi, il _Giardino botanico_ e gli _Amori
delle piante_. Ma la sua grande opera della maturità è la _Zoonomia_, e
in essa egli vuole, fra l’altro, spiegare l’origine e le trasformazioni
delle specie, le quali, come più tardi gli evoluzionisti insegneranno,
si trasformano in altre diverse o superiori, mediante la _persistenza
dei caratteri acquisiti_.

Particolare degno di nota, in quegli stessi anni, l’identico problema
era meditato dal più grande poeta, e anche grande scienziato,
tedesco, _Volfango Goethe_, l’autore immortale del _Faust_, nelle sue
_Metamorfosi delle piante_. Ed egli lo risolveva in modo identico!




LA SCIENZA NELL’ETÀ CONTEMPORANEA

(I secc. XIX-XX)


34. =Caratteri della scienza nei secc. XIX-XX.= — Le cause del
progresso grandioso della scienza nei secc. XIX-XX si debbono al
perfezionamento e all’applicazione rigorosa del metodo, che i due
secoli precedenti avevano additato alle ricerche scientifiche. Ma
v’ha un altro fatto storico di prim’ordine, un fatto, cui accennammo
in uno dei paragrafi precedenti, allorchè intraprendemmo a discorrere
della scienza nell’età moderna (§ 25), che sollecita d’urgenza questo
progresso: lo sviluppo della grande industria. Questo sviluppo non
è stato mai così imponente, a tratti così mostruoso, come in questi
ultimi due secoli. Or bene, esso ha imposto alla scienza problemi
nuovi, gravissimi, e l’ha sforzata verso la loro soluzione. La grande
industria ha portato altresì l’enorme incremento della popolazione,
nell’uno e nell’altro continente, e questo fatto, a sua volta,
ha imposto agli uomini altri ordini di problemi: come trovare il
necessario alla vita di nuove decine e decine di milioni di persone;
come costruire le nuove gigantesche città; come proteggerle dalle
epidemie. Or bene, a tutto questo, senza l’aiuto di mezzi straordinarii
di conquista della natura, o di difesa dai suoi flagelli, non era
possibile provvedere.

Tuttavia, in genere, non può dirsi che i secc. XIX-XX abbiano fatto
scoperte paragonabili a quelle dei secc. XVI-XVII. Nè c’è stato più
un Galilei o un Newton, nè si sono ritrovate _ex novo_ le leggi della
dinamica o della gravitazione universale. Unica eccezione può fare,
in fisica, il ramo della elettricità. Tutto il resto non è stato
che progresso quantitativo, straordinario però sino al punto, che i
resultati ne sono apparsi originali e nuovi come qualità.

Il carattere più saliente della scienza, in questi ultimi
centoventicinque anni, è quello stesso che si disegnava nei secc.
XVII-XVIII, ma, ora, in proporzioni assai maggiori: la compenetrazione
di ogni disciplina scientifica nell’altra, al che si devono i massimi
progressi di ciascuna. Così lo _spettroscopio_, un puro strumento
fisico, è stato autore di profonde rivelazioni in astronomia; la
fisica, con la macchina elettrica, con la termodinamica, ha rinnovato
la chimica; i metodi e le scoperte dell’una e dell’altra hanno
rivoluzionato i campi della medicina, della zoologia, della botanica;
la matematica domina ovunque.

Frattanto, com’era cominciato ad avvenire sin dal sec. XVIII, i vecchi
confini fra le varie discipline scientifiche sono rotti, e dalle
unioni di parti dell’una con l’altra o di parti diverse di ciascuna,
fra loro, sono nate scienze, aventi ognuna una individualità propria:
_elettro-chimica, elettro-magnetica, zooiatria, anatomia microscopica,
termo-dinamica, fisico-matematica_ ecc. ecc. Certi rami di una sola
scienza hanno assunto tale ampiezza, da costituire da soli delle
vaste scienze: l’analitica, l’aritmetica superiore, in matematica; la
meccanica, la elettrotecnica, l’ottica, in fisica; la chimica organica,
l’elettrolitica in chimica; la fisiologia, la patologia, l’anatomia, la
clinica, in medicina, e così via. In tal modo il fronte della scienza
moderna presenta un’ampiezza senza paragone più imponente che in tutti
i secoli passati.


35. =Matematiche.= — I secoli XIX-XX hanno continuato e approfondito
gli indirizzi matematici dei due secoli precedenti. La _geometria
analitica_ e la _geometria proiettiva_ sono state coltivate da
una folla di scienziati. Questo secondo, anzi, ha mutato nome: la
_geometria proiettiva_ di _Monge_ è divenuta la _geometria sintetica_
o _superiore_, specie per i mutamenti in essa introdotti da _Giacobbe
Steiner_ (1796-1863) e da _C. Giorgio Cristiano Staudt_ (1798-1867),
il quale formulò un sistema di geometria, concepita al di fuori di ogni
idea di numero e di grandezza. Presso i Francesi, il più grande maestro
di geometria superiore del sec. XIX è stato il _Poncelet_ (1788-1867);
fra gli Italiani, _Luigi Cremona_ (1830-1903).

La geometria moderna ha anche affrontato la discussione delle ipotesi
comunemente ammesse dalla nostra geometria elementare — l’antica
geometria euclidea —, e n’è nata così la _geometria non euclidea_.

Il _calcolo infinitesimale_ o, semplicemente, l’_analisi_, è stato
anch’esso approfondito da una pleiade di scienziati, illustri, tra cui
citeremo soltanto l’_Halphen_, la signora _Sofia Kowalwski_, il grande
francese _Enrico Poincaré_ e gli italiani _Fr. Brioschi_ (1824-1897),
il fondatore dell’Istituto tecnico superiore di Milano, e _Ulisse
Dini_, morto da poco. Ma sono sorti anche nuovi importanti rami della
matematica pura: la così detta _teoria dei numeri_ o _aritmetica
superiore_, la _teoria delle forme_ e la _teoria dei gruppi_, le
_funzioni ellittiche_, ecc., che dànno un colorito nuovo alla scienza
matematica dei secc. XIX-XX. Inoltre, come più volte abbiamo accennato,
l’impero della matematica sulla fisica è diventato assai più possente e
intimo che per l’innanzi. Ne sono così nate la meccanica analitica, la
fisico-matematica ecc.

36. =Astronomia.= — L’astronomia dei secc. XIX-XX non ha un solo
grande nome da contrapporre agli astronomi dei due secoli precedenti
e nessuna grande scoperta, che possa competere col copernicanesimo
o col newtonianesimo. Ma vanta una folla di studiosi provetti
(_Delaunay, Adams, Leverrier, Maxwell, Helmholtz_ ecc. ecc., e, fra
gli Italiani, _Secchi, Schiaparelli_, ecc.), i quali, lavorando
nel campo dell’astronomia così detta gravitazionale (matematica)
e dell’astronomia descrittiva o _astrofisica_, hanno stabilito
e dimostrato molti punti, ch’erano rimasti oscuri, e precisato e
completato molte ricerche del passato.

I progressi del primo di questi due rami dell’astronomia si debbono
sopra tutto alla collaborazione della matematica; del secondo, al
perfezionarsi degli strumenti di osservazione, alla fotografia,
e principalmente alla così detta _analisi spettrale_ (_V.^i più
innanzi_), coadiuvata dalle accresciute cognizioni chimiche.

Cerchiamo di elencare alcuni dei principali resultati, dell’una e
dell’altra astronomia, cominciando dall’astronomia gravitazionale:

1º Il sec. XIX iniziò, per deliberazione del _Congresso internazionale
di astronomia_, tenutosi a Parigi nel 1887, la carta stellare del
cielo, il cui studio è stato distribuito tra diciotto Osservatorî, i
quali avrebbero proceduto con metodi e stromenti identici. La carta
dovrà contenere le stelle fino alla 14ª grandezza, e in tutto circa
20 milioni di stelle. In Italia ne sono stati incaricati la _Specola
Vaticana_ e l’_Osservatorio di Catania_.

2º È stato stabilito esattamente l’aumento secolare di velocità
(5"-6") della luna, che anche Halley e Laplace avevano notato e tentato
calcolare. Quale la causa? L’astronomo _Delaunay_ (1865) suppose che
si trattasse di un’apparente accrescimento di velocità della luna, ma
che in realtà fosse la Terra a rallentare il suo cammino per l’_attrito
delle maree_, ossia per le influenze, che le maree dell’Oceano
eserciterebbero sulla rotazione terrestre, per cui il giorno si
allungherebbe di 1/10 di secondo ogni 10 000 anni. Ma non è che
una ipotesi.

3º La stessa azione delle maree allungherebbe la distanza fra il sole
e la Terra, tra la Terra e la luna. Questi due corpi, anzi, si suppone,
sarebbero un tempo stati vicinissimi, e la luna avrebbe ruotato intorno
alla Terra nell’identica durata di tempo in cui la Terra ruotava
intorno al suo asse: i due corpi, anzi, si sarebbero mossi, come se
fossero stati congiunti l’uno all’altro.

4º Nel 1843-46 venivano scoperti, _e non già per osservazione, ma per
calcoli condotti a termine dagli astronomi gravitazionali — Adams e
Leverrier_ — il pianeta Nettuno, la sua posizione e la sua orbita,
che disturbavano i movimenti di Urano. Solo più tardi il pianeta fu
segnalato dall’astronomia descrittiva, e precisamente dall’Osservatorio
di Berlino.

Ed ecco ora le principali conquiste dell’_astronomia descrittiva_:

1º Sono state scoperte parecchie centinaia di piccoli pianeti
(_asteroidi_), specie tra Marte e Giove, alcuni con orbite grandemente
inclinate sull’_eclittica_ ed assai eccentriche, somiglianti, perciò,
più a quelle di comete che di pianeti o stelle fisse.

2º Insieme con gli asteroidi, sono stati scoperti numerosi satelliti
dei varii pianeti, tra cui altri cinque di Giove, oltre i primi quattro
scoperti dal Galilei. Taluni di essi hanno particolarità singolari.
Un satellite di Marte ha una rivoluzione più veloce della rotazione
di quella del suo pianeta, sicchè gli ipotetici abitanti di Marte
dovrebbero vederlo levarsi a occidente e tramontare a oriente. Ma più
strano è il caso del satellite di Nettuno, _che (come quelli di Urano)
ruota intorno al suo pianeta da est a ovest_.

3º Sono stati studiati minutamente, fino ai limiti del possibile,
le superficie dei pianeti e dei satelliti. Noi conosciamo i monti, i
crateri della luna, la loro altitudine, e sappiamo che la luna non ha
acqua e, forse, neanche atmosfera.

È stato studiato Giove, il gigante dei pianeti del nostro sistema
solare, e si è potuto determinare che esso ha una densità pari ad
appena 1/4 di quella della Terra, poco maggiore dell’acqua, e che
perciò si trova in uno stadio che potrebbe dirsi pastoso.

Grazie alle osservazioni dell’astronomo italiano _Giov. Virginio
Schiaparelli_, noi adesso conosciamo bene la superficie di Marte, il
più vicino (a noi) dei grandi pianeti, con le sue macchie, che sono
state talora interpretate per acqua e terra, con le sue grandi linee,
scure e parallele, denominate canali, e inesplicabili. Sappiamo che
gli _anelli_ di Saturno non sono corpi (solidi o liquidi) continui, ma
corpuscoli solidi rotanti intorno al pianeta.

4º Lo studio del sole, della sua composizione è progredito enormemente,
grazie, dicevamo, alla _analisi spettrale_, ossia all’analisi della
sua luce mediante lo _spettroscopio_, con il quale gli astronomi
analizzano lo _spettro_[86] prodotto dai raggi di una sorgente
luminosa. Noi conosciamo con questo mezzo le caratteristiche della
luce emanata da un solido o un liquido o un gas (a piccola o ad alta
pressione), o che attraversa un gas. E abbiamo perciò potuto concludere
che lo _spettro solare_ dimostra che la luce del sole proviene da un
corpo a temperatura, elevatissima incandescente (solido o liquido, o
da un gas ad alta pressione), e che ha attraversati gas più freddi,
esistenti nell’atmosfera solare. Nel sole ci sarebbero ben 30 o 40
metalli: sodio, ferro, idrogeno, carbonio ecc. allo stato di vapore.
La luce irradia specialmente dalle parti esterne, le più fredde, e la
temperatura crescerebbe andando dall’esterno verso l’interno. Anche la
densità del sole sarebbe pari ad appena 1/4 di quella terrestre.

5º Lo studio delle comete, delle altre stelle, delle nebulose — grazie
sempre alla spettroscopia e alla fotografia — è di molto progredito.

                                   *
                                  * *

Una domanda, che si sono posti gli astronomi dei secc. XIX-XX, è
questa, se la ipotesi del Laplace sulla formazione del sistema solare
ne sia riescita confermata o no. Quella teoria ha dovuto affrontare
alcune difficoltà: i satelliti di Urano e Nettuno hanno (dicevamo) un
movimento retrogrado, e gli asteroidi hanno orbite eccentriche e assai
inclinate: il che rompe l’uniformità e la simmetria dei movimenti del
sistema solare, su cui Laplace, aveva fondato la sua ipotesi. Ma tali
eccezioni sono forse spiegabili. D’altra parte, tutte le restanti
osservazioni hanno accresciuto il numero dei corpi, i cui movimenti
recano le caratteristiche segnate dal Laplace; l’esame spettrale ha
mostrato l’uniformità della materia dei corpi componenti il sistema
solare; infine, noi possiamo anche sorprendere nebulose in un processo
di condensazione analogo a quello supposto dal Laplace per la nebulosa,
donde sarebbe uscito l’intero sistema solare. In conclusione può
dirsi che la vecchia ipotesi dell’astronomo francese esca dalle nuove
scoperte più rafforzata che indebolita.


37. =Fisica.= — A differenza dell’astronomia, la fisica dei secc.
XIX-XX vanta scoperte ed applicazioni grandiose. Uno dei più possenti
impulsi ai suoi progressi è stato l’uso costante del calcolo matematico
nei problemi di fisica, che ne ha cambiato in gran parte le basi e
l’indirizzo.

Innanzi a tutte stanno le applicazioni della elettricità, di cui diremo
fra poco. Ma contemporaneamente si è, in questi due secoli, iniziata
l’analisi spettrale; si sono conquistate le regioni dell’aria; si è
concepito il calore come dovuto al moto molecolare, e si è fondata la
termodinamica. Le vecchie teoriche sulla natura della luce sono state
abbandonate e sostituite, come aveva voluto l’Huyguens, con la teoria
ondulatoria della luce, medesima, ossia con la esistenza di vibrazioni
luminose dell’etere. A queste vibrazioni si tende a riferire anche
i fenomeni elettrici e magnetici, sì che la natura degli uni è (si
afferma) identica a quella degli altri. Il sec. XVIII ammetteva ancora
una mezza dozzina di _imponderabili_ (luce, flogisto, calore, suono,
elettricità ecc.); oggi non se ne ammette che uno solo: l’_etere_.

In altra direzione, le scoperte di Enrico Hertz hanno dischiuso la
strada alla telegrafia, alla telefonia senza fili, e l’elettricità,
applicata alla chimica, ha ispirato una nuova concezione della materia,
che sembra finalmente rispondere all’eterna domanda che da venti secoli
— dall’età di Talete e di Democrito —, il pensiero umano, pur lottando
contro se stesso, torna invincibilmente a proporsi: — _Quale l’essenza
della materia?_[87] —

_A_). _Gli studî sull’elettricità._ — L’iniziatore degli studî moderni
sulla elettricità è _Alessandro Volta_ (1745-1827), la cui prima
giovinezza cade in sullo scorcio del sec. XVIII. Allora egli aveva
scoperto l’_elettroforo_ e l’_elettroscopio_. Nel primo anno del nuovo
secolo, egli scoprirà e fabbricherà la _pila_ elettrica, che reca il
suo nome (_pila di Volta_), formata di coppie di dischi di zinco e
rame, ciascuna separata dall’altra da un corpo _conduttore_ bagnato.
Questa pila era capace di emettere scariche elettriche continuatamente,
e non già interrottamente e bruscamente, come faceva la _bottiglia di
Leyda_.

Le immediate scoperte, a cui la pila dette luogo, furono numerose, e
accesero molte, talora utopistiche, speranze. Ma la più notevole per
le sue conseguenze (sebbene casuale) seguì poche settimane dopo che
il Volta ebbe annunziato a un amico d’Inghilterra, e descritto a lui
privatamente, la sua pila, e cioè prima ancora che egli l’avesse fatta
di ragion pubblica. Codesta scoperta consistette nella proprietà della
_pila_ di scomporre l’acqua in ossigeno e idrogeno. Per essa venivano
gettate le basi della elettrochimica, ossia di un nuovo, straordinario
metodo per la ricognizione dei fenomeni chimici, il quale rivoluzionerà
la scienza, che li riguarda.

Nel 1821 il fisico _Davy_, avendo fatto comunicare i due poli della
pila con due bacchette orizzontali di carbone, distanti fra loro
pochi centimetri, scopriva la luce elettrica. Ma un anno prima (1820)
il fisico _Arago_ aveva annunziato, e ripetuto all’_Accademia delle
scienze_ di Parigi, una esperienza del chimico danese _Gian Cristiano
Oersted_[88] (1777-1859), la quale dimostrava, sperimentalmente, ciò
di cui in passato si era talora sospettato: l’esistenza di un rapporto
costante fra il fenomeno elettrico e quello magnetico.[89] Nello stesso
anno _Francesco Arago_ (1786-53) scopriva che il filo di ferro, il
quale trasmette la corrente elettrica, attira la limatura di ferro,
ossia che la corrente elettrica crea intorno a sè un _campo magnetico_.
Sarebbe, dunque, il magnetismo una conseguenza dei fenomeni elettrici?

Il fisico _Andrea Maria Ampère_ (1775-1836) dimostrò questo fatto
con una serie di esperimenti classici. Anzi egli formulò in proposito
un’ipotesi suggestiva, ma intorno alla quale la scienza ancora discute.
Secondo questa ipotesi, le molecole della calamita, come dei vari
corpi magnetizzabili (ad es. il ferro), sarebbero percorse da piccole
correnti circolari _perpendicolari_ all’asse del corpo stesso. Ma
poichè esse correnti si rivolgono in tutte le direzioni, non esercitano
nessuna azione esterna. Invece, sotto l’azione della elettricità quelle
correnti pigliano una direzione comune, cioè il corpo si _magnetizza_.

Questa teoria e tutte le dottrine minori, che vi si connettono,
l’Ampère svolse in una sua _Memoria_ del 1823, nella quale gettava le
fondamenta della elettrodinamica.

In qual modo codesta teorica si applicherebbe a spiegare il magnetismo
terrestre? Come, nel sec. XVI, il Gilbert aveva considerato la Terra
come un grande magnete, così, ora che il magnetismo veniva identificato
con l’elettricità, l’Ampère considerava la Terra come una grande sfera
percorsa da correnti elettriche in direzione da est a ovest. Tale
idea fu cimentata alla prova dell’esperimento su una sfera di legno,
dall’italiano _Leopoldo Nobili_ (1794-1835), e su di essa, egli potè
riprodurre tutte le particolarità dell’azione della Terra sull’ago
magnetico.[90]

Nel 1825 _Guglielmo Sturgeon_ fabbricava il primo elettro-magnete,
avvolgendo un grosso filo di rame sopra una bacchetta di ferro
verniciato a forma di ferro cavallo, il quale, appena la corrente
lo attraversava, diveniva una potente calamita, capace di sostenere
154 libbre. Era così creato il pezzo fondamentale di tutti i futuri
apparecchi, trasmettitori a distanza di segnali (_telegrafi_ e
_telefoni elettro-magnetici_), o che da una data energia elettrica
ne ricavano un’altra, diversa dalla prima (_trasformatori_), o che
trasformano il movimento in energia elettrica (_dinamo_),[91] o
questa in quella (_motori elettrici_)[92] ecc. ecc. Infatti il primo
telegrafo _Morse_ (di _Samuele Morse_, 1791-1872) sarà del 1837;[93]
il primo cavo telegrafico sottomarino (fra Douvres e Calais), lungo 45
km., è del 1851, e nel 1858 venne terminato il primo cavo sottomarino
europeo-americano, intorno a cui, però, occorse, per renderlo sicuro,
lavorare un altro decennio circa.

Anche le prime macchine elettro-magnetiche vennero tentate a
mezzo il sec. XIX, appena fu nota l’enorme forza attrattiva
dell’elettro-calamita. Il primo motore di tal genere fa costruito
nel 1831, e il primo battello, mosso da motori elettro-magnetici,
fa provato nel 1837 a Pietroburgo sulla Neva. Ma si trattava di
un mezzo troppo costoso, e tale l’elettromagnete rimase finchè non
furono noti i fenomeni così detti d’_induzione_. Tali fenomeni vennero
scoperti, in modo definitivo, da _Michele Faraday_ (1791-1867) intorno
al 1831. Secondo i suoi resultati, una corrente elettrica avrebbe
potuto generare, attraverso un magnete, altre correnti con potere
magnetizzante. Ed egli, infatti, riuscì a produrre le _correnti
d’induzione elettro-magnetica_, le cui conseguenze industriali sono
infinite, e hanno rivoluzionato l’industria e reso possibili le
automobili, nonchè gli apparecchi della moderna aviazione.

Alle _correnti d’induzione_ elettro-magnetiche si collega anche il
telefono. Lo inventò per primo un italiano — _Antonio Meucci_ — nel
1849; ma esso fu solo rivelato al mondo dall’Esposizione universale
di _Filadelfia_ del 1876. A questa Esposizione però non figurava
la scoperta del Meucci, ma quella di _Alessandro Bell_, di cui
ancora usiamo l’_apparecchio ricevitore_. Poi il telefono si diffuse
superbamente in America e in Europa.

Nella seconda metà del sec. XIX, si sono studiati intensamente, e con
resultati preziosi, gli effetti della scarica elettrica attraverso il
vuoto. Le prime esperienze, veramente impressionanti, furono quelle di
_Guglielmo Crockes_[94] del 1873. Per esse il grande fisico credette di
ritrovare un _quarto stato_ della materia (oltre il solido, il liquido,
il gasoso), tanto diverso dal gasoso quanto questo lo è da quello
liquido. Venti anni dopo, seguirono gli esperimenti di _Guglielmo
Corrado Röntgen_,[95] che, nel 1895, scopriva i _raggi X_ o _Röntgen_
(dal nome del ritrovatore), pei quali i corpi, che alla luce ordinaria
risultano opachi, divengono trasparenti, onde fu possibile fotografare
(_radiografare_) lo scheletro umano.

Tale la gamma meravigliosa delle scoperte dal sec. XIX nei dominî della
elettricità.

_B_). _Il telegrafo senza fili._ — Il telegrafo elettrico senza fili
ha anch’esso una ben faticosa preistoria; fu tentato più volte nel
corso del sec. XIX: e in Francia e in Inghilterra e altrove. Ma la sua
fortunata istoria comincia dal giorno in cui il fisico _Hertz_ e gli
altri che si posero sulle sue orme (_Lodge_, in Inghilterra, _Righi_
e _Calzecchi-Onesti_, in Italia, inventore, l’uno, dell’_eccitatore_,
l’altro, del _ricevitore, Tesla_ in America, _Enrico Poincaré_ in
Francia) ricercarono i mezzi più opportuni per produrre, raccogliete
e guidare le onde elettriche. Il 2 giugno 1896 un giovane italiano,
appena ventiduenne, discepolo del Righi — _Guglielmo Marconi_ — fece
brevettare un suo sistema di telegrafia senza fili che doveva poi
diventare universale. Questo non conteneva alcun elemento nuovo. Ma
il suo autore aveva saputo felicemente combinare insieme elementi,
che, uno ad uno, gli altri avevano trovati, e farli convergere verso
un successo pratico. Anche prima di Colombo, dirà con fine ironia,
giustamente, un fisico moderno, si conoscevano le uova; solo però il
grande Genovese insegnò il modo di tenerle ritte in piedi...

_C_). _La locomotiva; la conquista dell’aria._ — Non ostante
l’applicazione della macchina a vapore a carrozze automobili fin dal
1829, la locomotiva era più un’aspirazione che una realtà. Nell’ottobre
di quest’anno, _Giorgio Stephenson_ costruiva quel tipo di locomotiva,
che poco dopo doveva figurare nel primo tronco ferroviario inglese
Liverpool-Manchester. Solo allora le ferrovie diventarono uno dei
meccanismi indispensabili della civiltà contemporanea.

Gli aerostati erano stati scoperti in sullo scorcio del sec. XVIII.
Il pallone aerostatico dei _fratelli Mongolfier_ fu provato nel 1783.
Dieci anni più tardi, essi venivano impiegati a scopi militari sul
fronte belga nelle Guerre della Rivoluzione. Questi aerostati sono
stati gli strumenti che fino a ieri maggiormente hanno giovato alla
scienza: un’ascensione del fisico _Gay Lussac_ del settembre 1804 provò
che l’aria a m. 6366 di altezza non contiene idrogeno; che, quindi, il
lampo e il tuono non si possono attribuire alla combinazione di questo
gas coll’ossigeno dell’aria; e provò altresì che la forza magnetica
scema con l’allontanarsi dalla Terra, ecc. Ma questo non significava
ancora la conquista dell’aria.

L’automobile, l’autoscafo, il dirigibile e l’areoplano poterono
trionfare solo quando vennero scoperti i _motori a scoppio_, nei quali
una miscela gasosa (ottenuta mescolando l’aria col vapore di un liquido
combustibile, ad es. la benzina), viene incendiata dalla scintilla di
una piccola macchina a induzione, e con la sua esplosione mette in moto
l’apparecchio.

Questi motori sono i più leggeri possibili, dacchè il loro peso per
_cavallo-motore_ può scendere sino a 4 kg. Fu _Santos Dumont_, nel
1898, a Parigi, a farne l’applicazione al primo dirigibile, che girò
intorno alla torre di Eiffel.

Le prime esperienze con gli areoplani rimontano al 1891, ma il merito
di aver dato sicurezza a questo genere di locomozione aerea spetta agli
americani fratelli _Wright_[96] (1903). Tuttavia il principio, a cui
gli aeroplani obbediscono, è diversissimo da quello dei dirigibili.
Gli aeroplani sono più pesanti dell’aria, tal quale l’aquilone, con
cui si baloccano i fanciulli. Solo in essi la funzione della corda
dell’aquilone è sostituita dall’impulso del motore. Esattamente, un
aquilone potrebbe paragonarsi a un aeroplano tenuto all’àncora, e un
aeroplano, a un uccello immobile su le ali.

_D_). _Termodinamica._ — Tutte le numerose applicazioni della moderna
_termodinamica_ poggiano sul principio che il calore può trasformarsi
in movimento (lavoro), e viceversa; o, più precisamente che fra le
due quantità di calore e di lavoro (reciprocamente create) esiste una
equivalenza perfetta, indipendente dalla natura dei corpi nei quali la
trasformazione avviene (_legge della conservazione della energia_).
Gli studii concreti sulla migliore applicazione di questo principio
si debbono all’inglese _Rumford_, ai tedeschi _Mach, Mayer, Helmholtz,
Clausius_, agl’italiani _Morosi_ e _Paoli_, al francese _Sadi-Carnot_
(1796-1832)[97] e a molti altri. Esso fece possibili le potenti e
mirabili macchine termiche moderne e rese servigi grandi allo studio di
numerosi fenomeni, elettrici e chimici, allo studio dei corpi gasosi,
e, in modo speciale, alle ricerche sul cangiamento di stato fisico dei
corpi.

_E_). _Teorie ottiche._ — Nel sec. XIX, tra il 1815 e il 1825, si
perveniva, finalmente, per merito di _Agostino Fresnel_, a una teorica
esatta circa il problema, difficilissimo, della natura della luce.
Si ripigliava, ma con una sostanziale correzione, la teoria delle
vibrazioni dell’Huyghens del sec. XVII. I raggi luminosi sarebbero,
come l’Huyghens li aveva concepiti, la direzione in cui si propagano le
vibrazioni dei corpi luminosi. Però queste vibrazioni non devono più
imaginarsi longitudinali, ondulatorie, come quelle di uno stagno, in
cui si scagli un sasso, _ma perpendicolari alla direzione nella quale
si propaga l’onda, ossia al raggio luminoso_. Per rendere concretamente
l’idea per via di una grossolana imagine sensibile, il raggio luminoso
e le vibrazioni possono, secondo la teorica del Fresnel, paragonarsi
alle spazzole che servivano un tempo a pulire i tubi di vetro dei
lumi a petrolio, in cui un filo di ferro reggeva delle rigide setole
di crino, irradianti in tutte le direzioni e perpendicolari al filo
che le sorreggeva. L’argomento principe che vale a consolidare questa
_teoria delle vibrazioni_, contro la _teoria_ newtoniana _delle
emissioni_, fu raggiunto solo nel 1850 dal _Foucault_ e dal _Fizeau_.
Secondo la teoria delle emissioni, giusta le leggi che presiedono
alla rifrazione, la velocità della luce dovrebbe crescere passando
da un corpo meno denso a uno più denso (dall’aria nell’acqua); il
rovescio dovrebbe accadere secondo la teoria delle vibrazioni. Or bene,
successive, accurate misurazioni fecero rilevare che la velocità della
luce (298 000 km. circa al secondo nell’aria) si riduce a 3/4
di codesta cifra nell’acqua, mentre deve essere superiore nel vuoto
assoluto.

Così la teoria newtoniana era condannata, e la contemporanea,
dispregiata divinazione dell’Huyghens, vendicata!

Ma dove avviene la vibrazione luminosa, ossia la vibrazione che si fa
luce? Il Fresnel e i fisici, che lo seguirono, notando che la luce,
a differenza del suono, si trasmette anche nel vuoto (come avviene
negli spazi interplenatarii e sotto la campana pneumatica), adottarono
l’opinione che la vibrazione luminosa abbia luogo in un mezzo
imponderabile, sparso nello spazio e in tutti i corpi, che, rievocando
un’antica parola greca, denominarono _etere_; che, anzi, _la luce è
vibrazione dell’etere_.

Il Fresnel stesso credette poter determinare il perchè delle varietà
dei colori nella luce, e riprese la teoria dell’Euler (§ 30 _A_): i
colori non dipendono (come il Newton aveva pensato) dalla grandezza
delle molecole luminose, ma dalla durata delle vibrazioni, ossia dalla
lunghezza dell’onda. Questa lunghezza crescerebbe dal violetto al
rosso.

L’eco delle discussioni, che la teorica del Fresnel aveva suscitate,
non era ancor spenta, quando un altro grande fisico del secolo — _James
Clerk Maxwell_ (1831-79) — formulò una ipotesi assai suggestiva, che
per altro era balenata anche al Faraday. Le onde elettromagnetiche
(egli osservò) sono, come le onde luminose, costituite da vibrazioni
trasversali alla direzione della loro propagazione. Inoltre la velocità
di queste onde è quella stessa della luce. Inoltre, nel 1845, il
Faraday era riuscito a magnetizzare un fascio di luce, ossia a fare
in modo, sotto l’azione di un grande magnete, che le sue vibrazioni
avvenissero secondo un piano differente da quello originario. Sarebbero
dunque le onde luminose niente altro che onde elettromagnetiche?
Sarebbe la luce ment’altro che elettro-magnetismo? Nacque così la
_teoria elettromagnetica della luce_, che è adottata da gran parte
degli scienziati contemporanei.

Ma come col Maxwell, e poi con l’Hertz, la dottrina sulla natura della
luce sembrò identificarsi con quella della natura dell’elettricità
e del magnetismo, così, poco dopo, essa fu estesa all’altro agente
imponderabile, che noi riscontriamo nel mondo dei fenomeni fisici: il
calore. Tutti sono stati ritenuti, egualmente, effetto di vibrazioni
dell’etere, anzi le vibrazioni stesse di questo agente misterioso e
meraviglioso della natura.

_F_). _L’etere._ — Che cosa, dunque, sarebbe l’_etere_? Poichè esso
esiste nel vuoto, dovrebbe essere considerato come imponderabile.
Inoltre esso non dovrebbe avere consistenza, dovrebbe essere
immateriale, perchè non oppone alcuna resistenza sensibile ai
corpi celesti che vi si muovano dentro (non si dà neanche il senso
percettibile di alcun _vento d’etere_). Ma è di una elasticità enorme,
come nessun gas conosciuto, perchè le sue vibrazioni (luminose,
elettromagnetiche ecc.) sono rapidissime; ed è anche condensabile
perchè nei corpi la velocità di propagazione delle sue vibrazioni è
minore che nel vuoto, e in proporzione della loro densità.

Ma non è tutto. Poichè le vibrazioni (luminose, elettromagnetiche ecc.)
dell’etere hanno una direzione perpendicolare all’asse della loro
propagazione, ciò significa che l’etere presenta uno dei caratteri
specifici dei corpi solidi... Nei gas le differenti particelle si
possono spostare, ossia vibrano, senza che si manifesti alcuna reazione
delle une sulle altre; qualche traccia di reazione — _e quindi di
rigidità_ — comincia ad apparire nei liquidi, ma soltanto i solidi
posseggono la rigidità occorrente perchè delle vibrazioni trasversali
possano produrvisi e mantenervisi. Ora le vibrazioni esclusivamente
trasversali, _anzi perpendicolari_, dell’etere fanno supporre in questo
«corpo» una rigidità maggiore che nei solidi, per es., nell’acciaio...
La «materia» per eccellenza imponderabile, sarebbe dunque, al tempo
stesso, per eccellenza solida?... Ma come mai un solido può essere
attraversato da altri solidi, secondo avviene dell’etere, percorso
da pianeti e stelle fisse?... Le sue proprietà, dunque, sarebbero
diversissime da quelle da noi conosciute presso i corpi che sogliamo
raggiungere coi nostri sensi, e pressochè paradossali...

Che più? Nell’etere stesso alcuni fisici credono di poter additare la
ragione della gravitazione universale, rispondendo così a una domanda
dinanzi alla quale lo stesso Newton aveva dovuto arrestarsi: — _Quale
la causa della gravitazione universale?_ —

_G_). _Che cosa è la materia?_ — Anche a questa domanda ha creduto
di poter rispondere, ancora una volta, la scienza del sec. XX, e ha
costruito la _teorica elettrica della materia_, cui ha portato il
contributo, veramente geniale, dei suoi studii, il nostro _Augusto
Righi_. Ma a questa teoria ha contribuito, in misura maggiore, la
scienza chimica, e perciò ce ne occupiamo più innanzi (§ 38 _B_), a
tale proposito.


38. =Chimica:= _A_). _La nuova teoria atomica._ — Il sec. XIX si apre,
in chimica, come dicevamo, con la rinascita della _teoria atomica_. Si
era già avviato su questa strada, sin dal 1815, _Guglielmo Prout_;[98]
ma il suo massimo sistematizzatore è _Giorgio Dalton_ (1768-1844).
Studiando le sostanze gasose, il Dalton pervenne al concetto che ogni
gas è composto di _particelle respingentesi fra loro con una forza che
diminuisce con la distanza dei loro rispettivi centri_. Più tardi,
studiando le proporzioni delle combinazioni chimiche tra le varie
sostanze, notò che queste proporzioni si possono esprimere con numeri
interi o con multipli di essi. Così, ad es., nei due idrocarburi
_metano_ ed _etilene_ uno stesso peso di idrogeno è combinato con
una quantità di carbonio doppia nell’etilene di quella contenuta nel
metano. Lo stesso avviene nei cinque ossidi dell’azoto. Egli notò in
conclusione tre fatti: _a_) che ogni corpo (come aveva stabilito _G.
Luigi Prout_) è invariabilmente composto degli stessi elementi uniti
nelle identiche proporzioni (_legge delle proporzioni definite_);
_b_) che, quando un elemento si unisce con un altro, per dare origine
a nuovi composti, in ciascuno di questi composti, in rapporto a una
quantità costante di uno di essi, le quantità dell’altro variano in
proporzioni multiple (_legge delle proporzioni multiple_);[99] _c_)
che, quando due corpi _A_ e _B_ si combinano separatamente con un terzo
corpo _C_, le quantità, con cui _A_ e _B_ si uniscono con _C_, sono
eguali a quelle in cui si uniscono fra loro _A_ e _B_ o multipli di
esse (_legge delle proporzioni reciproche_). Onde il Dalton concluse
che _la materia deve essere composta di atomi, aventi dimensioni e peso
diversi, per le diverse sostanze, ma identici per ciascuna sostanza e
che la combinazione chimica altro non è che un raccostamento di atomi_.

Tali vedute furono confermate, contemporaneamente e successivamente, da
ricerche collaterali di altri: _Gay Lussac, Ampère, Davy, Berzelius_
ecc. Tuttavia la nuova ipotesi andava incontro a talune difficoltà
pratiche; alcune esperienze nuove sembrarono contradirla. E bisognò
rettificarla. Il tentativo più razionale, diretto a tale scopo, venne
fatto, nel 1813, dall’italiano _Amedeo Avogadro_ (1776-1856). Secondo
la sua teoria (che però si limitava ancora ai gas), volami eguali
di qualsiasi gas — semplice o composto — nelle stesse condizioni di
temperatura e pressione, contengono il medesimo numero di _molecole_
ch’egli chiamava _particelle integrali_, onde i pesi relativi di tali
volumi rappresentano i pesi relativi di dette molecole. Però, nel caso
dei gas semplici, le _particelle integrali_ sarebbero composte di un
certo numero di _atomi della stessa specie_, mentre, nel caso di gas
composti, risulterebbero di _atomi di specie differenti_. Tale ipotesi
introduceva, oltre l’_atomo_, il concetto di _molecola_, e assegnava,
all’uno e all’altro, una funzione diversa nella costituzione della
materia. La _molecola_ sarebbe una associazione di atomi, l’ultima
particella _fisica_ della materia; l’_atomo_ sarebbe quella particella
di materia, che, nelle reazioni _chimiche_, non soggiace, praticamente,
a ulteriore divisione, anche se noi, teoricamente, possiamo concepirla
divisibile.

Ciò non ostante, questa teoria non ebbe l’onore di un riconoscimento
universale se non dopo il Congresso chimico europeo del 1860 a
Carlsruhe. Colà il chimico italiano _Stanislao Cannizzaro_ (1826-1910),
tornando a sviluppare la teoria dell’Avogadro, mostrò quanto facilmente
essa risolvesse molte delle difficoltà in cui si avviluppava la chimica
del tempo, e come la migliore interpretazione della teoria del Dalton
fosse quella appunto offerta dall’Avogadro.

Da allora in poi le formule chimiche, oggi in uso, seguono il metodo
indicato dall’Avogadro: danno, cioè, l’indicazione degli atomi e delle
molecole dei corpi. Così, ad esempio la formula chimica dell’acqua
(H_{2} O) significa che ogni molecola è composta di 2 atomi di idrogeno
e di 1 atomo di ossigeno.

_B_). _Radioattività e sue conseguenze teoriche._ — Negli ultimi anni
del sec. XIX la teoria atomica ha subito un’ulteriore trasformazione,
in seguito alla scoperta del fenomeno della _radioattività_. Non
solo: questa scoperta ha dato un colpo inatteso al concetto della
intrasformabilità dei corpi, affermata solennemente agli albori della
chimica moderna contro l’alchimia medievale, e ha improvvisamente
rivendicato, non la pratica, ma il principio ispiratore di
quest’ultima.

Nel 1896 _Enrico Becquerel_ trovò che i sali d’_uranio_ emettevano
una radiazione invisibile, che però poteva impressionare la lastra
fotografica. Dopo di allora si è trovato che altre sostanze possiedono
tale proprietà ed emettono radiazioni di genere diverso, che si
sogliono indicare con le prime tre lettere dell’alfabeto greco (α, β,
γ: _alfa, beta, gamma_).

Questi elementi radioattivi sarebbero forme di materia, le quali
subiscono trasformazioni, aventi per resultato quello di riprodurre,
a loro volta, nuove forme, dotate di proprietà, chimiche e fisiche,
_diverse da quelle della sostanza madre_. Uno dei corpi, prodotti
dall’uranio è appunto il _radio_, scoperto dalla signora Curie nel
1898: esso, sopra tutti, dotato di potenza radioattiva, e il solo che
si sia ottenuto allo stato di sale puro e di metallo libero.

Il radio, dunque, ci permette di assistere al fenomeno di _un’organica
e naturale trasformazione della materia_. Dal radio, che ha il peso
atomico 226,5, si ottiene, per successive perdite di particelle _alfa_,
il radio _A, B, C, D, E_ e poi il radio _F_, che ha il peso atomico
210,5, e che, emettendo sempre raggi _alfa_, darebbe il corpo avente
il peso atomico 206,5, prossimo cioè a quello del piombo, il cui peso
atomico è 206,9; il che sembra confermato da osservazioni geologiche.
Analogamente, il _torio_ dal peso atomico 232,5 scenderebbe a 208,5 che
è il peso atomico del bismuto.

Siamo, dunque, di fronte a vere trasformazioni della materia, _le quali
si producono in un solo atomo_, o _mediante proiezioni di particelle_
alfa _e con diminuzione del peso atomico, o con emissione di raggi_
beta _senza che il peso atomico varii (almeno sensibilmente) o senza
alcuna emissione, come avviene nei corpi non radioattivi, e che dànno
origine a corpi radioattivi_.

_L’atomo_ (l’_indivisibile_!), _dunque, sarebbe un corpo
divisibile_...., un complesso di corpuscoli minori (quelli che
si dissero gli _elettroni_),[100] un edifizio assai complicato e
delicato, capace di assumere nuove configurazioni e proprietà, capace
di disgregarsi con perdita dei suoi componenti e dare origine a nuovi
corpi di peso atomico inferiore.

Talune osservazioni sui fenomeni della elettricità e della luce nei
corpi hanno altresì indotto a considerare l’atomo come formato da
una parte centrale immobile ed elettrizzata positivamente, intorno
alla quale ruotano dei corpuscoli carichi di elettricità negativa:
gli _elettroni_. La stessa sua porzione centrale sarebbe un nucleo di
_elettroni_, e il tutto potrebbe paragonarsi a un microscopico sole
cinto di pianeti, che ruotano intorno ad esso. La radioattività sarebbe
una proiezione delle particelle interne di questo infinitesimo sistema
solare, quale conseguenza della stabilità imperfetta dell’atomo, che
è costretto a disintegrarsi e a proiettare _elettroni_ fino a che esso
non trovi un sistema stabile, ossia non si trasformi in una sostanza,
che allora non sarà più radioattiva.

Questa, l’ultima forma assunta dalla antichissima teoria atomica
democritèa; questa, l’ultima risposta della scienza alla eterna
domanda: — _Che cosa è la materia?_ —

_C_). _Chimica organica._ — La nuova teoria atomica è forse la scoperta
più impressionante che la chimica contemporanea, potentemente aiutata
dalla fisica, abbia compiuto nell’età più recente. Ma altre più
modeste, sebbene, forse, più solide, possono starvi a fianco. Sin dai
primi decenni del sec. XIX cominciò a diventar popolare la _chimica_
così detta _organica_, ossia la chimica delle sostanze organiche.

La costituzione chimica di molte sostanze organiche era già nota fin
dai secoli precedenti. Ma lo sforzo di tutta la prima metà del sec. XIX
fu di tentar di distinguere quale fosse la differenza qualitativa fra i
prodotti del mondo organico e i prodotti del mondo inorganico.

Dapprima si suppose che gli elementi delle sostanze organiche
differissero, per la natura loro, da quelli delle sostanze inorganiche.
Ma gli esperimenti, compiuti nella prima metà del sec. XIX, smentirono
questa supposizione. Dove dunque la differenza? Un’altra ipotesi
era quella che il sec. XIX ereditava dal sec. XVIII: che, cioè, alla
formazione dei prodotti organici presieda una speciale «forza vitale».
A risolvere il problema aiutò molto la scoperta dell’_isomerismo_
nelle sostanze organiche e inorganiche. Fu scoperto, cioè, che delle
sostanze, formate degli stessi elementi, nelle stesse proporzioni,
hanno proprietà affatto diverse l’una dall’altra. Ad es., la grafite
e il diamante sono chimicamente carbonio, ma hanno proprietà le mille
miglia lontane dal carbonio. Si venne così al concetto che le proprietà
di una sostanza non dipendono dalla loro composizione chimica, _ossia
dalla natura dei loro atomi, ma dalla disposizione di questi atomi
nella molecola_.

Questo concetto fu ribadito dai progressi, cui la chimica man mano
pervenne, nella riproduzione artificiale di molti degli elementi degli
organismi, vegetali e animali. Le più notevoli tra queste sintesi
chimiche riguardano gli _zuccheri_ e le _proteine_, essendo i primi tra
i più caratteristici prodotti della vita delle piante; le seconde, fra
i più importanti prodotti vitali in quanto entrano nella composizione
dei tessuti animali.

Si trovò in conseguenza che i «prodotti organici» sono composti di
elementi chimici inorganici, e, precisamente, di carbonio, idrogeno,
ossigeno, azoto, più fosforo (o zolfo), e che ciò che li rende
«organici» deve essere solo un diverso aggruppamento dei loro atomi. In
questo modo la chimica si poneva in contatto con la vita, e un suo ramo
speciale si dice oggi, appunto, _biochimica_.[101]

Un’altra conclusione è derivata da queste esperienze: che i processi
chimici della vita organica sono sostanzialmente analoghi a quelli
che si praticano nei laboratorii scientifici, anche se talora qui si
ottengono alcuni prodotti organici con metodi diversi (in genere più
energici e più rapidi) di quelli che la natura preferisce seguire.

_D_). _Elettrolisi._ — Con la _elettrolisi_ chimica siamo in presenza
di una delle più mirabili applicazioni della fisica alla chimica. Si
tratta dei fenomeni che avvengono nelle soluzioni di sostanze chimiche
sotto l’azione della corrente elettrica. Intorno ad essa il fisico
_Arrhenius_ formulò la sua teoria della _dissociazione elettrolitica_
o _ionizzazione_ (_ioni_ sarebbero gli atomi carichi di elettricità).
Secondo questa teoria, non sarebbe la corrente elettrica quella che
determinerebbe la scomposizione delle molecole dei corpi nei loro
atomi (gli _ioni_); questi esisterebbero già disciolti, allo stato
libero,[102] innanzi il passaggio della corrente. La quale, invece, si
limiterebbe ad attirarli verso il polo positivo o negativo, ossia, come
si dice, ad orientarli.

_E_). _I nuovi elementi chimici._ — I nuovi procedimenti di analisi
chimica hanno portato alla scoperta di un numero grandissimo di
_sostanze elementari_ (_corpi semplici_, come una volta si diceva),
quali al tempo del Lavoisier non era possibile concepire. Fino al sec.
XIX, noi lo sappiamo, non se ne imaginavano che quattro (_terra, aria,
acqua, fuoco_) o tre (_zolfo, mercurio, sale_). A mezzo il sec. XIX,
erano 62. Essi si contano oggi in numero di circa 80, senza tenere
conto delle sostanze che provengono dalla disintegrazione dell’uranio,
del radio e del torio e delle loro _emanazioni_. La successione di
tali scoperte segna le tappe di una conquista, via via più intima, del
mistero della natura.


39. =Medicina.= — I grandi progressi della medicina, nel sec. XIX,
sono stati determinati dai progressi di tutte le altre discipline
scientifiche, che le hanno fornito i propri strumenti ed i propri
resultati.

La fisica ha fornito alla medicina lo specchio per la esplorazione
della laringe, l’elettricità, per la cura di gran numero di malattie,
specie quelle nervose; la chimica le ha fornito l’anestesia per le
operazioni chirurgiche; la fisica, la chimica e la botanica, insieme, i
mezzi e i resultati delle ricerche sui batterî, le sieroterapie (contro
il vaiolo, il carbonchio, la difterite, l’idrofobia, il tifo) ecc. ecc.

D’altra parte, i progressi della medicina sono stati determinati dalla
introduzione, anche in questa scienza, del metodo sperimentale.

Lo scienziato, a, cui spetta il merito di questa galileiana rivoluzione
è stato _Claudio Bernard_ (1813-78). I suoi criterii in proposito
sono svolti nella sua _Introduzione allo studio della medicina
sperimentale_, ch’è del 1865. Il Bernard vi sostiene i concetti del
_determinismo_, che, cioè, ogni fenomeno è determinato da condizioni
materiali, che ne sono le sue cause prossime, e che, se si riproducono,
fanno riprodurre anche il fenomeno, e vi combatte il vecchio
_vitalismo_, del sec. XVIII, per cui, in luogo di queste condizioni
materiali, sarebbe esistito un certo «principio vitale», che rendeva
superflua ogni altra ricerca.

Per ritrovare queste condizioni, il Bernard raccomanda l’esperimento,
anzi _esperienze comparative_.

Questo non era nuovo; le altre scienze seguivano siffatto metodo
da trecento anni almeno, e i pochi medici, veramente scienziati,
del sec. XVIII non si erano comportati diversamente. Potrebbe
dirsi, anzi, che da tale punto di vista, la nuova scienza del sec.
XIX ne abbia continuato e completato e perfezionato i metodi; ma
questo perfezionamento e completamento hanno dato luogo a resultati
assolutamente imprevisti e grandiosi. La medicina dei secc. XIX-XX ha
mirato a cogliere esattamente il rapporto tra l’_anatomia patologica_ —
le lesioni locali — e i sintomi di queste lesioni: ciò che costituisce
la così detta _clinica_. Ha perciò cercato di stabilire con esattezza
i quadri di ciascuna malattia. E questo è stato un mezzo potente per la
graduale conquista della terapia di ciascuna.

Centro scientifico della medicina, nella prima metà del sec. XIX,
furono la Francia e Parigi. Colà si ebbe _Cruveillier_ per l’anatomia
umana, _Laennec_ per la clinica medica, _Esquirol_ per la psichiatria
(malattie mentali); sopra tutti, il ricordato _Claudio Bernard_, che
non fu solo l’introduttore in medicina del metodo sperimentale, ma
il più grande fisiologo del secolo. Per questa parte, il merito —
grandissimo — del Bernard fu duplice: _a_) collegare strettamente
lo studio dell’organismo umano, allo stato normale (_fisiologia_),
con quello dell’organismo umano, allo stato malato (_patologia_), e
dimostrare quanto il primo ordine di conoscenze giovi al secondo; _b_)
fermare l’attenzione sui fenomeni vitali, ch’egli concepiva analoghi
per i due regni delle piante e degli animali.

Contemporaneamente si sviluppava la scienza tedesca: con sede, prima,
a Vienna; poi dopo il 1870, dopo l’unificazione e l’ascesa, politica ed
economica, della Germania, a Berlino.

A Vienna, tra il 1837 e il 1897, lo _Schleider_ e lo _Schwann_
fondavano la così detta _dottrina cellulare_. Questa dottrina
approfondiva largamente la teoria delle cellule animali, a cui già
era pervenuto il sec. XVIII, dichiarando la cellula punto di partenza
e sede di tutti i fenomeni vitali. Il sommo patologo _Virchow_[103]
estendeva tale dottrina alla patologia, dichiarando le cellule
(e non già il sangue e i nervi), i veri focolari delle malattie.
Probabilmente, questa violenta reazione alla teoria umorale del secolo
scorso oltrepassava la verità: anche l’alterazione del sangue (si
ammette oggi) è causa di malattia, ma essa conteneva la massima parte
di vero.

In conseguenza _Heule_[104] e _Köllicher_ fondavano lo studio dei
tessuti (_istologia_) allo stato, sano e malato, schiudendo così la
fonte di un altro larghissimo contributo alla medicina contemporanea.

L’Italia, nella prima metà del secolo, a motivo delle sue condizioni
politiche, delle agitazioni per l’indipendenza e per l’unità, che
distraevano gli spiriti dalla scienza pura; a motivo dell’oscurantismo
dei governi, che diffidavano della scienza stessa e non vi fornivano,
nelle scuole superiori, alcun aiuto, rimase assai addietro dalle
altre nazioni in tutti i rami della scienza medica. Ma la lotta per la
conquista del sapere, iniziatasi, dopo il 1860, con volontà eroica, di
successo, pur in condizioni materiali difficilissime e con scarsi aiuti
governativi, e l’intimo contatto, in cui la nostra scienza si volle
ora porre con la scienza d’oltr’Alpe, ebbe la virtù di suscitare una
splendida scuola medica italiana.

Ecco taluni degli studii e talune delle scoperte moderne, coi relativi
autori, su questo campo: la scoperta ch’è il midollo rosso delle ossa
a fabbricare il sangue (_Bizzozzero_); gli studii sulle funzioni
del cervelletto, sugli organi a secrezione interna (le così dette
_glandole_); la cura della tubercolosi e del tetano; la scoperta delle
_ptomaine_ (veleni svolti dal cadavere) (_Selmi_); l’interpretazione
della origine e della diffusione della malaria (_Celli, Grassi_); la
scoperta degli agenti infettivi della polmonite e della meningite
cerebro-spinale; il processo del così detto _morbo di Banti_; la
diagnosi del cancro (_Fichera_); la batteriologia, e la sierologia
(_Pasteur_); l’antisepsi; la fasciatura elastica per le emorragie.

Altra caratteristica della medicina, nei secc. XIX-XX, è stata quella
di allargare la sua considerazione dall’individuo alla collettività,
ossia dalla terapeutica della malattia alla cura preventiva
dell’individuo e della collettività. Così sono nate la _medicina_ e la
_igiene sociale_, che hanno di molto ridotto la mortalità ed elevato la
media della vita. Inoltre la medicina è passata a proteggere anche la
vita degli animali.

Da tutto ciò è seguito che oggi la medicina non è più una
scienza, ma è un fascio di scienze: _anatomia, istologia,
fisiologia, patologia, igiene, clinica medica, clinica chirurgica,
psichiatria, neuropatologia, chirurgia, ostetricia, ginecologia,
otorinolaringoiatria, tossicologia, zooiatria, zootecnica, acquicoltura
e pesca_, ecc. ecc.


40. =Zoologia e botanica:= _A_). _La teoria della evoluzione._ — Nel
sec. XIX le vecchie _zoologia e botanica_ puramente _descrittive_,
le quali non facevano che accumulare e collezionare materiale,
cominciarono a declinare nella estimazione scientifica. Si volle
penetrare più a fondo il processo della vita. Già lo sforzo di
classificare, secondo tratti essenziali, le varie specie, animali
e vegetali, e i primi accenni della teoria dell’evoluzione, nel
sec. XVIII, erano appunto mossi da questo impulso. Ma il sec. XIX
adottava completamente il nuovo indirizzo, e ne fu dominato per gran
tempo. Nacquero così la _botanica_ e la _zoologia_, che si dissero
_scientifiche_, e per gran tempo gli scienziati vecchio stile furono
costretti a nascondersi nell’ombra dei loro ricchi gabinetti. Allora
irruppe in piena luce la _teoria della evoluzione_, ossia la dottrina
così detta _trasformistica_ delle specie.

Il _Lamarck_ (_Giovanni Battista Pietro Antonio di Monet, cavaliere di
Lamarck_) (1744-1829), il più illustre e consapevole fondatore della
teoria della evoluzione, intitolò la grande opera, ch’egli dedicava a
questo soggetto, con la denominazione di _Filosofia zoologica_ (1807).
Egli si schiera contro l’opinione corrente, la quale si appoggiava
alla grandissima autorità di Cuvier, circa la fissità e invariabilità
delle specie, e contro la teoria della creazione diretta. Non gli
animali (egli afferma) furono creati per i modi di vita, in cui oggi li
vediamo muoversi, ma i loro modi di vita li han fatti quali li vediamo.
L’ambiente naturale li costringe e certe funzioni, le quali talora
sviluppano organi esistenti, talora ne impongono la nascita _ex-novo_,
tal’altra fanno sparire gli organi che esistevano. La funzione,
dunque, — essa soltanto! — determina l’organo e tutti i caratteri
di ogni animale e di ogni specie. Vero è che le variazioni avvengono
lentissimamente, attraverso molti secoli, ma i caratteri acquisiti si
ereditano, e a lungo andare questa eredità determina l’origine di nuove
specie e la sparizione delle specie intermedie.

Queste teorie il Lamarck ribadì nella _Introduzione_ alla sua più tarda
_Histoire des animaux sans vertèbres_ (1816). Ma caddero, naturalmente,
nella impopolarità universale, furono soffocate dalla condanna
della scienza ufficiale, e il loro autore morì nella povertà e nella
disistima più immeritata.

Tuttavia nei cinquant’anni che scorsero tra la pubblicazione della
_Filosofia_ del Lamarck e l’_Origine delle specie_ di Carlo Darwin,
non sono rari gli accenni di scienziati di ogni ordine verso la
nuova eresia, benchè nessuno voglia essere confuso col grande eretico
francese.

_Carlo Darwin_ (1809-87), nipote di Erasmo (§ 33 _B_), iniziò la
sua gloriosa carriera scientifica, non solo ignorando Lamarck,
ma aborrendone e ammettendo (fino al 1834 almeno) la teoria della
creazione diretta delle specie. Un grande viaggio di esplorazione
scientifica, che egli fece nell’America del Sud, tra il 1831 e il
1836, cominciò a scuotere quella sua opinione convenzionale. Egli fece
colà un mondo di osservazioni, e prese un cumulo enorme di appunti.
Or bene le sue osservazioni e i suoi appunti lo costringevano a
constatare, con l’eloquenza del fatto, le variazioni e la variabilità
delle specie animali e vegetali. Tuttavia, egli non s’affrettò
a lanciare nessuna ipotesi; fece la relazione del suo viaggio, e
continuò a osservare e studiare. Nel 1839 un libro famoso di Malthus
sulla _Popolazione_ gli fece balenare l’idea che le variazioni delle
specie, ossia la scomparsa di alcune e la persistenza di altre,
dipendessero da una lotta per l’esistenza, attraverso cui le specie
meglio adatte alla vita, meglio capaci di adattamento, trionfano e
sopravvivono, mentre le altre scompaiono. Questa legge egli chiamò
della _selezione_ (scelta) naturale, e svolse nel suo libro famoso
su _L’Origine delle specie_ (1859). Ogni individuo, come ogni specie,
ha caratteri suoi differenziali, dipendenti dal caso, ossia da cause
impossibili a determinare. Gli individui e le specie lottano tra
di loro per conquistarsi il cibo, l’aria, l’abitazione. Quelli che
hanno i caratteri più adatti per tal fine (o che sanno acquistarli),
sopravvivono, mantengono quei caratteri, li perfezionano, dànno luogo a
nuove specie. Gli altri sono destinati a sparire.

Il Darwin, in tal modo, escludeva dal novero delle cause delle
variazioni delle specie ogni fattore, che non fosse quello della
selezione per l’esistenza o, anche, della conquista della femmina
(_selezione sessuale_). Ciascuna di queste sue affermazioni era
corredata (ecco il tratto caratteristico e il merito indimenticabile
del Darwin!) da una mole enorme e decisiva di fatti. Però, più tardi,
egli dovette convenire che i nuovi caratteri delle specie derivavano
anche dall’azione dell’ambiente e dall’uso (o dal disuso) degli organi,
il quale ultimo determina, negli animali e nelle piante, conseguenze
ereditarie. In tal modo egli si riaccostava visibilmente a Lamarck.

Questi concetti il Darwin usò nella spiegazione delle origini delle
specie superiori — l’uomo compreso —, e nella sua _Origine dell’uomo_
(1881) escluse l’idea di una creazione, diretta e materiale, dell’uomo,
nel senso letterale, biblico. Ciò non era nuovo. Anche S. Agostino e S.
Tommaso d’Aquino avevano elevato il trono e la dignità di Dio creatore
(§ 11 _E_). Ma il Darwin sostituì al concetto di creazione quello di
derivazione della specie umana da specie inferiori, oggi disparse. Fu
questo l’assunto che gli procurò le lotte più accanite perchè esso
veniva a distruggere l’antropocentrismo della tradizione religiosa,
come, parecchi secoli innanzi, Copernico e Newton ne avevano distrutto
il geocentrismo.

Ciò non pertanto, oggi, sia pure con maggior giustizia verso Lamarck,
la teoria, o l’ipotesi, dell’evoluzionismo domina la botanica e la
zoologia. E alle antichissime, eterne domande, che primi i filosofi
ionici si erano poste — _«Donde nacque la vita?»; «Quale l’origine
dell’uomo?»_ — la scienza moderna crede (o s’illude?) di aver dato una
risposta soddisfacente.

_B_). _Problemi minori_. — Il problema principe della origine delle
specie ha, nei secc. XIX-XX, fatto passare in sott’ordine gli altri
progressi botanici e zoologici.

Non ostante la repugnanza, con cui, verso la metà del secolo, la
botanica e la zoologia descrittive erano considerate, deve dirsi che
la conoscenza materiale del mondo delle piante e degli animali si è,
d’allora ad oggi, accresciuta per varie ragioni: _a_) i viaggi di
esplorazione, con iscopi scientifici, alle regioni polari, in alta
montagna, sotto il livello del mare, in regioni impervie o inospitali
(Africa del centro, Australasia, Oceania); _b_) la creazione di
numerose società scientifiche con _Bollettini_ ed _Atti_, i quali
permettono ai naturalisti di pubblicare subito le vicendevoli ricerche,
e subito prenderne conoscenza; _c_) i numerosissimi Musei di scienze
naturali, ordinati con metodo; _d_) gli allevamenti scientifici, che
permettono, a piante e ad animali esotici, di vivere a lungo e di
riprodursi; _e_) la rappresentazione di piante e animali fatta con
mezzi perfetti (fotografia, incisione, litografia, cromolitografia).

Per questa più approfondita conoscenza, si sono alle antiche aggiunte
nuove classificazioni di animali e di piante. Pur troppo, si tratta
di tentativi che non possono mai dirsi definitivi. Se a classificare i
gruppi superiori noi possiamo far intervenire l’indole delle funzioni
più vitali, che per essi ben conosciamo, non così avviene per i gruppi
inferiori, meno conosciuti e più difficilmente conoscibili. Per questi
bisogna starsi paghi in gran parte dei caratteri esteriori, formali
(_morfologici_); e ogni nuova scoperta sposta continuamente i caratteri
differenziali.

Come per ogni altra scienza, anche per la botanica e la zoologia,
il concorso delle altre discipline scientifiche (fisica, chimica,
geologia) è valso ad approfondirne la conoscenza. La quale è ormai così
sconfinata, da aver dato luogo a numerose e vaste discipline speciali:
_embriogenia_ (che studia lo sviluppo degli organi dell’ovulo);
_embriologia_ (che studia il piccolo animale che l’uovo racchiude);
_fisiologia_ (studio del funzionamento degli organi, animali e
vegetali, allo stato normale); _ontogenia_, la quale trae dalla
embriogenia le conseguenze opportune circa l’origine prima dell’animale
e le trasformazioni che ha potute subire dalle epoche antichissime;
_biologia_, la quale studia i rapporti degli animali, tra loro, con le
piante, e le leggi della loro vita;[105] _paleontologia zoologica_ e
_botanica_, che studia gli animali e le piante esistenti nei periodi
preistorici o antichissimi; _istologia_ (che studia i tessuti) vegetale
e animale ecc. ecc.

In questo modo, e con tutti questi mezzi, la scienza moderna affronta
la conquista del mistero della natura, con cui essa si batte da almeno
tre millennî.




NOTE:


[1] In senso ristretto, per _scienze naturali_ si intendono solo
_zoologia, botanica, mineralogia, zoologia_.

[2] L’antico nome classico (che talora comprese anche le nostre
_scienze naturali_, in senso ristretto) fu, così per la fisica come per
la chimica, quello unico di _physicà_ (le cose della natura sensibile).
Oggi, per _fisica_ (a differenza della _chimica_) intendiamo
propriamente la scienza che tende a constatare e a rappresentare le
modificazioni transitorie, che si manifestano nei corpi senza alterarne
la natura. Tuttavia i confini tra _chimica_ e _fisica_ sono assai
incerti e lo divengono sempre più.

[3] S’intende per _Oriente classico_, principalmente, l’Egitto antico,
la Assiria, la Caldea, la Palestina, la Fenicia, la Media, la Persia,
l’India antica.

[4] Esattamente: giorni 365, 5^h, 48^m, 46^s.

[5] L’obietto de l’aritmetica è di _formare e rappresentare i numeri e
di fare su di essi le operazioni, che hanno per iscopo di determinare
le quantità le une con le altre, seconda le vicendevoli relazioni_. La
_geometria_, invece, ha per iscopo di studiare _la grandezza e la forma
dei corpi, prescindendo dalla materia che li costituisce_.

[6] Gli antichi, specie gli Egiziani, scrivevano su carta di _papiro_,
naturalmente assai resistente. E poichè solevano riporre i loro
volumi, o piuttosto rotoli, nelle tombe dei morti e talora fasciarne il
cadavere imbalsamato, così ci hanno dato il mezzo di conoscere, a tanta
distanza, e dopo tante vicende, la loro letteratura.

[7] Le più antiche perle artificiali egizie risalgono al 3500 a, C.; il
vetro più antico, al 1830 circa a. C.

[8] Tale periodo denominavano _saros_ (= 6585 giorni).

[9] _Progressione aritmetica_ o _per differenza_ è una serie di
termini tali che la differenza fra uno di essi e quello che lo precede
è costante. _Progressione geometrica_ o _per quoziente_ è una serie
di termini tali, che il quoziente di ciascuno di essi per quello
che lo precede è costante. Immaginando una serie di _n_ termini e
indicando con _r_ la _ragione_ della _progressione geometrica_, le due
_progressioni_ si formulano algebricamente così:

  Progr. aritm. _a, a_ + _r, a_ + 2_r... a_ + (_n — 1_) _r_
    »    geometr. _a, aq, aq_^2,... _aq_^[_n-1_].

[10] L’_algebra_ non ha per iscopo, come l’_aritmetica_, di trovare
i valori delle quantità che si cercano, _ma di trovare il sistema di
operazioni che occorrono per dedurne il valore che si cerca, date le
condizioni del problema_.

[11] L’unico autore greco, studioso di algebra è — sembra — Diofante
(IV sec. di C.); cfr. § 12 A.

[12] _Elea_, nella Magna Grecia sulle coste della Lucania.

[13] Non però, come si ripete, l’eclissi del 28 maggio 585, che a
Mileto non fu visibile come eclissi totale, e cominciò in sul tramonto
del sole.

[14] Questo è il problema geometrico, che dimostra come _due triangoli
equiangoli hanno i lati omologhi proporzionali_.

[15] Una dimostrazione sperimentale della teoria di Talete crederà di
poterla dare nell’età moderna, G. Battista von Helmont (1577-1644).
Questi piantò un salice di 5 libbre in 200 libbre di terra, disseccata
in un forno, e inaffiò per 5 anni la pianta con sola acqua. Dopo 5 anni
essa pesava 169 libbre e 3 once, mentre la terra di nuovo disseccata,
aveva perduto solo 7 once di peso. Secondo tutte le apparenze, quindi,
l’acqua soltanto aveva prodotto 164 libbre di sostanza lignea, foglie,
radici. L’errore dell’interpretazione del v. Helmont dipendeva
dal falso concetto del tempo suo sulla natura chimica dell’acqua,
ritenuta ancora _corpo semplice_. Un’altra prova della trasformazione
dell’_acqua_ in _terra_ si credette dare, fino al 1770, facendo bollire
a lungo in vasi di creta acqua distillata, dopo di che rimaneva in
fondo al vaso una specie di _terra_, che si interpretava come acqua
trasformata nell’elemento più pesante. Senonchè si scoperse che questa
_terra_ corrispondeva alla quantità di vetro, che l’acqua, bollendo,
aveva sottratta al vaso che la conteneva...

[16] «L’apparizione della vita rientra, come tutta intera la
fisiologia, nel dominio delle forze fisico-chimiche; essa si sarebbe
prodotta in uno stato di cose, che noi possiamo oggi ricostruire col
pensiero; che sussiste in alcuni sistemi solari, ma che disparve per
sempre nel nostro. La facoltà di dare nascimento alla materia viva
è stata poco a poco riservata agli esseri viventi, man mano che le
radiazioni solari e le radioattività della Terra s’indebolivano, _ma
non è stato sempre loro privilegio esclusivo_». (E. PERRIEV, _La Terre
avant l’histoire: les origines de la vie et de l’homme_, Paris, La
Renaissance du livre, 1923, pp. 81). Come si vede anche da questi
righi, la scienza moderna non afferma la nascita, per generazione
spontanea, di _tutte_ le specie animali e vegetali, ma della più
semplice ed elementare _materia vivente_.

[17] Ad. es., 1 + 3 = 2^2; 1 + 3 + 5 = 3^2; 1 + 3 + 5 + 7 = 4^2, ecc.

[18] Ad. es., 2 + 4 =3 × 2; 2 + 4 + 6 = 4 × 3.

[19] Si è dubitato se il «_teorema di Pitagora_», già noto ai Cinesi,
spetti proprio al Sapiente di Samo. Certo non è di Pitagora la tavola
di moltiplicazione che porta questo nome. Tale assegnazione derivò da
un equivoco della più tarda matematica romana, che qui non è il luogo
di illustrare.

[20] Venne quivi condannato all’esilio per empietà, ossia sotto
l’accusa di professare dottrine religiose contrarie a quelle della sua
città, e si ritirò a Lampsaco, ove morì nel 428 a. C.

[21] Essa è, esattamente, di giorni 365, 5^h, 48^m, 46^s.

[22] Si dice _metodo analitico_ di dimostrazione quello in cui
si ammette il problema come risoluto e si deduce da ciò qualche
conseguenza. Se questa è falsa, il teorema è assurdo; se è vera, e se
le varie parti si possono invertire, si ottiene, rovesciandole, una
_dimostrazione sintetica_.

[23] Che ammette, quale centro del sistema, il sole (in greco, _elios_).

[24] Luogo dedicato agli esercizi sportivi.

[25] È contenuta specialmente nella sua _Metafisica_ e nel suo _Il
Cielo_.

[26] Aristotele scrisse i _Physicà_ e una _Meteorologia_.

[27] La circonferenza dell’_equatore_ è di km. 40 077; quella di
un _meridiano_, di km. 40 009.

[28] _Sistema geocentrico_, ossia che pone la terra (grec. _ghê_) al
centro dei movimenti del sistema solare.

[29] In realtà il diametro del sole è 109 volte maggiore di quello
terrestre e il volume, più grande 1 milione di volte.

[30] Sulla definizione di _trigonometria_, vedi più innanzi a p. 41, n.
2.

[31] Com’è manifesto, qui il fenomeno è spiegato, movendo dalla
considerazione del giro apparente del sole.

[32] _Anno solare_: 365 giorni, 5^h, 48^m, 46^s.

_Anno sidereo_: 365 », 6^h, 9^m, 9^s.

[33] La _trigonometria_ ha per oggetto l’applicazione del calcolo alla
determinazione di una figura poligonale, sia tracciata su superficie
piane che su superficie sferiche. Poichè qualunque poligono si può
«comporre in triangoli (grec.: _trigonoi_), la sua determinazione
completa si riduce a quella di una serie di triangoli; donde il nome di
_trigonometria_.

[34] Unione di una o due pulegge a una o due rotelle.

[35] Dalle città, dove oggi si conservano.

[36] _Alchimia_ vuol dire, semplicemente, _la chimica_. _Al_ è
l’articolo arabo.

[37] È quella dei nostri orologi e delle iscrizioni lapidarie: I(= 1);
V (= 5); X (= 10); L (= 50); D (= 500); M (=1000), ecc.

[38] Onde la parola _calcolare_.

[39] Scrittore di ogni genere di discipline.

[40] La innovazione di Cesare e di Sosigene fu più vasta: essi
cercarono di segnare, nell’anno tropico, per la latitudine di Roma, i
dati della levata e del tramonto delle principali stelle.

[41] Scrisse un _De re medica_ (_La medicina_), un riassunto di storia
medica fin da Ippocrate. Tuttavia quest’operetta non era uno scritto a
sè ma faceva parte di un’_Enciclopedia_: Celso non fu un medico, ma uno
storico della medicina.

[42] Benchè abbia scritto in greco, _Eliano_ era di Preneste; egli è
quindi un Italico, anzi un latino.

[43] Il nome esatto era veramente _Megàle Syntáxis_ (_Grande
Compendio_).

[44] Un’eclisse di luna è prodotta dall’ombra della terra, che
intercetta i raggi solari. La forma circolare dell’orlo dell’ombra,
come si disegna sulla faccia della luna, durante l’eclisse, prova che
la forma della terra deve essere sferica.

[45] Sull’algebra degli Indi, cfr. § 4.

[46] La filosofia ufficiale delle _scuole_ del tempo.

[47] Di questi Califfi va menzionato, almeno, _Harun al Raschid_
(786-809), ch’è uno dei personaggi delle novelle arabe, _Mille e una
notte_.

[48] Sappiamo in modo positivo che, nel sec. VIII, fu tradotta in arabo
una importantissima opera astronomico-matematica indiana del sec. IV o
V: il _Surya-siddhanta_ (_Scienza del Sole_).

[49] Chi vuole persuadersi della prodigiosa semplificazione arrecata
all’aritmetica dalle cifre arabe, può eseguire con numeri romani e con
numeri arabi la semplicissima operazione di moltiplicare per se stesso
un numero, per es. 1898 (MDCCCXCVIII).

[50] Della matematica araba noi conserviamo anche traccia in alcune
denominazioni, di cui ormai abbiamo scordato l’origine. Il nome
dello _zero_ è derivato dall’arabo (_as-sifir = vuoto_); e la stessa
origine ha la parola _cifra_ che in alcuni vecchi trattati matematici
significava (come oggi, in inglese, _cipher_) lo _zero_.

[51] Dell’astronomia araba noi abbiamo ereditato, oltre ai nomi di
talune costellazioni (_Adebaran, Vega_ ecc.), alcuni termini assai
comuni: _zenit, nadir_ (il punto della sfera celeste opposto allo
_zenit_), _almanacco_, ecc.

[52] Del IX o X sec., da non confondersi col _Pseudo-Gebar_ latino del
sec. XIII. Il nome completo di questo dotto è _Abu Abdallah Gebar ben
Hagyân ben Abdallah al-kufi_.

[53] Ecco una ricetta per fabbricare la _pietra filosofale_, a fine di
trasformare i metalli in mercurio: «Di parecchie cose prendi 2, 3 e 3,
1; 1 e 3 fa 4; 3, 2 e 1. Fra 4 e 3 vi è 1; 3 da 4 fa 1; poi 1 e 1, 3
e 4; 1 da 3 fa 2. Fra 2 e 3 vi è 1. 1, 1, 1, e 1, 2, 2 e 1, 1 e 1 a 2.
Allora 1 è 1. Ho detto tutto...».

[54] Si trattò, molte volte di semplici riconoscimenti ufficiali a
scuole di fondazione privata.

[55] La parola _algoritmi_ o _algorismi_ è semplicemente il nome di un
grande matematico arabo (_Maometto al Hovarezmi_); ma per un singolare
equivoco fu più tardi adoperata come derivante da un _algorismus_
(aritmetica), e _liber algorismi_ venne interpretato come _libro di
aritmetica_...

[56] Da non confondersi con _Francesco Bacone_ contemporaneo del
Galilei, di cui diremo al § 26.

[57] Uno di questi orologi a suoneria funzionò a Douvres dal 1348 al
1872!

[58] Il fisico G. Cardano, ch’è del sec. XVI, non ha nulla a vedere con
questa invenzione.

[59] L’inventore della _polvere da cannone_ sarebbe stato, secondo
l’opinione volgare, Ruggero Bacone. Ma in verità, la sua polvere non
era che una varietà del _fuoco greco_, conosciuto da grandissimo tempo,
fors’anco, da Indiani e da Cinesi.

[60] È la traduzione latina del nome della sua città natale: Königsberg.

[61] Il classico problema della quadratura del circolo, su cui per
secoli i matematici si sono affaticati, è il problema di _costrurre con
la riga e il compasso un quadrato equivalente a un circolo o una retta
di lunghezza eguale a una circonferenza_. Il problema è resolubile
solo approssimativamente, come approssimativo è il rapporto di una
circonferenza al suo diametro.

[62] Il suo vero nome fu _Giorgio Joachim_. Il suo appellativo deriva
dal nome latino del distretto in cui era nato: _Rhaetia_.

[63] Un unico esempio. All’antica obiezione che, se la Terra avesse
un suo movimento di rotazione, rischierebbe di saltare in pezzi e gli
oggetti liberi, collocati alla sua superficie rimarrebbero indietro,
egli risponde, fra l’altro, con un sofisma: che bisogna distinguere fra
moti _naturali_ e moti _artificiali_, e che i primi non possono portare
gli sconvolgimenti temuti, propri dei secondi...

[64] In questo libro v’ha una nuova, importante spiegazione sulla
_precessione degli equinozi_. Per il greco Ipparco, che prima l’aveva
studiata (§ 9 _C_), essa dipendeva da un movimento dell’_equatore
celeste_. Per Copernico, la _precessione degli equinozi_ dipende da un
lento spostamento dell’asse terrestre, che però torna nella posizione
primitiva, dopo circa 26,000 anni.

[65] Ciò avvenne per la prima volta il 13 sett. 1492, quando,
trovandosi egli a 200 miglia marine dall’_Isola del Ferro_, determinò
in 5°, 30’ verso occidente l’angolo che l’ago della bussola fa col
meridiano terrestre.

[66] Se un sottile tubo a pareti ricurve viene immerso in un liquido,
che aderisce, in quanto le bagna, alle sue pareti, il liquido racchiuso
nel tubo si eleva rispetto al suo livello generale. Il contrario
avviene nel caso di liquidi che non aderiscono alle pareti del tubo.
Questi sono i _fenomeni di capillarità_.

[67] Questi aveva affidato i suoi manoscritti e strumenti al discepolo
F. Melzi, che li depositò a Vaprio (presso Milano). Colà furono
derubati e sparpagliati fra gli studiosi.

[68] Quella parte della meccanica che insegna a dirigere il movimento
dei corpi pesanti attraverso lo spazio.

[69] In termini matematici, la cosa si esprime così: Se _m_ è la massa
del corpo, _a_ l’accelerazione che esso acquista cadendo in un mezzo di
peso specifico d, la forza motrice è _ma_. Essa è anche eguale al peso
del corpo diminuito dalla spinta sofferta dal mezzo: quindi, dicendo
_v_ il volume e _d_ il peso specifico del corpo, questa forza sarà
ancora _v_ (_d_ - d). Ossia _ma_ è = _v_ (_d_ - d). Se il corpo cade
in un altro mezzo, si avrà _ma_′ = _v_ (_d_ - d′); e quindi, dividendo
membro a membro, _a_ : _a_ = (_d_ - d) : (_d_ - d′), ossia _il rapporto
delle due velocità è costante_. Viceversa, ponendo _d_ = d + d′, la
legge di Aristotele si avvera con esattezza.

[70] «_Ci piace chiamarla forza elettrica (vim electricam)_».

[71] Più esattamente, la _geometria analitica_ consta dell’applicazione
di due principii: quello che i matematici dicono delle _coordinate_ e
il reciproco legame dell’algebra alla geometria. Separatamente, i due
principii erano noti e applicati prima della geometria analitica.

[72] Leggi: _Oiler_.

[73] Che tale fosse la forma delle orbite percorse dai pianeti era
stato intuito dalla astronomia araba, cfr. § 17 _B_.

[74] L’_aberrazione_ consiste in questo, che noi vediamo le stelle non
dove esse realmente si trovano, ma in una diversa posizione apparente,
assegnata loro, dal moto della luce, combinato con la rotazione
terrestre, ossia dalla risultante del rapporto delle due velocità.
La _nutazione_ è un movimento oscillatorio dell’asse terrestre,
determinato dall’attrazione lunare.

[75] Non è fuor di luogo ricordare il classico esperimento compiuto dal
Galilei dalla _Torre degli Asinelli_ di Bologna. Due palle di piombo,
l’una di 100 libbre, l’altra di una sola libbra, lanciate di lassù,
giunsero _contemporaneamente_ al suolo. Era la condanna senza appello
della fisica aristotelica, dietro verdetto della scienza sperimentale
del Rinascimento!

[76] Erano emisferi metallici di 1, 2 piedi di diametro, in cui si
faceva il vuoto. Secondo i calcoli di von Guericke, sarebbe occorsa una
forza di 2686 libbre per vincere la pressione che li teneva uniti. E,
in un’esperienza del 1654, poterono essere distaccati solo applicandovi
16 cavalli: quattro paia per ciascuno.

[77] In 1077 _piedi_ al secondo. Oggi viene ragguagliata tra i 1038 e i
1022 piedi (m. 330 circa) al secondo nell’aria a O°. Nell’acqua è di m.
1435, e tripla all’incirca nei solidi.

[78] La velocità della luce viene oggi calcolata, in cifra tonda, in
300.000 km. al secondo.

[79] Leggi: _Farenait_.

[80] Leggi: _Uott_.

[81] Innanzi l’applicazione della macchina a vapore alla filatura
di cotone, il prodotto annuo delle manifatture di cotone inglesi non
raggiungeva i 50 milioni; nel 1835, toccava il miliardo. E la contea
di Lancaster (leggi: _Láncester_) produceva ora, ogni anno, tanto filo
quanto neanche 20 milioni di abili lavoratrici, intente tutto il giorno
al fuso e alla conocchia.

[82] Il nome di _bottiglia di Leyda_ proviene da uno degli
esperimentatori del tempo: _Pietro von Musschenbroeck_, (1692-1761) di
Leyda, in Olanda.

[83] Fu formulata da G. E. STAHL (1660-1734).

[84] Da _phlox_: fiamma.

[85] Si rammenti la teoria del greco Anassiméne (§ 6).

[86] Si dice, è noto, _spettro_, la fascia dei 7 colori, in cui un
prisma scompone la luce.

[87] Di questo punto ci occupiamo nel paragrafo relativo alla chimica;
cfr. § 38 _B_.

[88] Leggi: _Erstet_.

[89] La sua famosa esperienza fu questa: facendo correre una corrente
elettrica _parallelamente_ all’ago magnetico, questo descrisse una
oscillazione di quasi 90° col meridiano magnetico.

[90] L’apparecchio, che egli usò, viene oggi denominato dal fisico
inglese _Barlow_, che poco di poi lo riprodusse.

[91] Le _dinamo_ sono speciali armature a forma di anello avvolte
da matasse di filo di rame, il cui primo inventore fu, nel 1864,
l’italiano _Antonio Pacinotti_ (1841-1912), insegnante nella Università
di Pisa; onde si dicono _anello di Pacinotti_. Da questo derivarono le
_dinamo_ del _Gramme_ e del _Siemens_, che oggi corrono il mondo.

[92] Anche la _trasmissione elettrica dell’energia_, ossia il mezzo
con cui trasportare l’energia elettrica a distanze di centinaia di
chilometri, si deve a un italiano, a _Galileo Ferraris_ (1847-97),
insegnante al _Politecnico_ di Torino. Egli, che non fece brevettare
l’opera del suo ingegno, e morì povero, ha, inoltre la gloria immensa
di essere il ritrovatore del segreto degli impianti idroelettrici,
nerbo della industria contemporanea, specie di quella italiana.

[93] La prima idea del telegrafo spetta al Volta e a _Luigi Magrini_
(1806-68) della R. Università di Padova, che lo sperimentò nel 1837.

[94] Leggi: _Cruq_.

[95] Leggi: _Rentgen_.

[96] Leggi: _Vráit_.

[97] Ecco il principio classico del Carnot in fatto di termodinamica:
«_La potenza motrice di una cascata d’acqua dipende dall’altezza e
dalla quantità del liquido; la potenza motrice del calore dipende
anch’essa dalla quantità di calorico impiegata e dall’_«altezza della
caduta», _cioè dalla differenza di temperatura dei corpi fra cui si fa
lo scambio del calorico_.»

[98] Secondo il Pr., tutti i corpi sarebbero stati diversi di
condensazione degli atomi di idrogeno: il più leggero fra essi.

[99] Ad es. il ferro e lo zolfo si possono combinare nel rapporto di
56 (_ferro_) a 32 (_zolfo_), dando il _monosolfuro di ferro_, o di 56 a
64, dando il _bisolfuro di ferro_.

[100] Secondo Thomson, ogni _elettrono_ è 1700 volte più piccolo di un
atomo di idrogeno.

[101] da _bios_ (grec. vita).

[102] Cioè in uno stato diverso da quello in cui noi li ritroviamo nei
corpi, e incapaci di reagire sull’acqua perchè carichi di elettricità.

[103] Leggi: _Fircov_.

[104] Leggi, _Oile_.

[105] La paternità del termine _biologia_, in questo senso preciso,
spetta al Lamarck.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.

La notazione ^ indica che il carattere seguente è in apice.

La notazione _ indica che il carattere seguente è in pedice.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK STORIA DELLE SCIENZE AD USO DEI LICEI SCIENTIFICI ***


    

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