Memorie di Emma Lyonna, vol. 8/8

By Alexandre Dumas

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Title: Memorie di Emma Lyonna, vol. 8/8

Author: Alexandre Dumas

Release date: May 14, 2025 [eBook #76096]

Language: Italian

Original publication: Milano: Daelli e C, 1864

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This book was produced from scanned images of public domain material from the Google Books project.)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE DI EMMA LYONNA, VOL. 8/8 ***


                                MEMORIE
                                   DI
                              EMMA LYONNA


                                   DI
                            ALESSANDRO DUMAS


                 UNICA EDIZIONE AUTORIZZATA IN ITALIA.
                               Vol. VIII.



                                 Milano
                         G. DAELLI e C. EDITORI
                               MDCCCLXIV.




             Proprietà letteraria — G. DAELLI e C. Editori.

                       STEREOTIPIA G. DASSI E C.

                           TIP. GUGLIELMINI.




MEMORIE

DI

EMMA LYONNA




I.


Due cose avevano contribuito a separare completamente Ruffo da Nelson,
e specialmente Nelson da Ruffo.

Nelson voleva prendere castel S. Elmo colla forza, e nel caso che lo
attaccasse poteva contare sulla sua cooperazione.

Ma il cardinale gli aveva risposto:

— Dopo ciò che è accaduto non darò nè un uomo, nè un fucile.

Inoltre Nelson aveva mandato al cardinale Ruffo un avviso da far
stampare. Ruffo gli rinviò l’avviso, dicendo che aveva una stamperia di
cui si serviva come vicario generale; ma che non conoscendo ancora il
titolo col quale esso agiva, non poteva mettere quella stamperia a sua
disposizione.

Nelson era dunque stato obbligato a procurarsi un’altra stamperia.

Il giorno 30, Napoli, svegliandosi, potè leggere la seguente:

                             NOTIFICAZIONE

                         «_A bordo il_ Fulminante, 29 _giugno_ 1799

  «Orazio lord Nelson, ammiraglio della flotta britannica nella rada
  di Napoli, dà notizia a tutti coloro che hanno servito da ufficiali
  nel militare e nelle cariche civili l’infame sedicente Repubblica
  Napoletana, che se si trovano nel circuito della città di Napoli,
  debbano in termine di 24 ore presentarsi ai comandanti del castello
  Nuovo e del castel dell’Uovo, fidandosi alla clemenza di S. M.
  Siciliana, e se si trovano nelle vicinanze di detta città fino alla
  distanza di cinque miglia, debbano egualmente presentarsi ai detti
  comandanti, ma in termine di 48 ore; altrimenti saranno considerati
  dal suddetto ammiraglio lord Nelson come ribelli e nemici della
  prefata M. S. Siciliana.»

Non potrei render conto dell’effetto che produssero in città gli atti
di lord Nelson, perchè noi dimorammo nella rada, e nessuno di noi mise
piede a terra dal 24 giugno, in cui arrivammo sino all’8 di agosto in
cui partimmo.

Il re aveva ricevuto al 2 di luglio a Palermo le lettere di Nelson e
Hamilton, scritte al 29 giugno, dopo l’esecuzione di Caracciolo; si
rammenterà il lettore che, nella sua lettera, sir William supplicava
il re di venire al più presto; egli si decise di venire a Napoli o
piuttosto nella baia di Napoli, e partì il 9 di luglio non già sul
_Seahorse_ che gli aveva mandato Nelson, ma sulla fregata napolitana
la _Sirena_: senza dubbio egli temeva di alienarsi completamente
la marina, già oltraggiata per la preferenza che egli aveva dato
a Nelson sopra Caracciolo, e attristata dal processo e dalla morte
dell’ammiraglio.

Quanto fu cattiva la prima traversata fu altrettanto eccellente la
seconda.

Un bastimento leggiero spedito da Nelson era ritornato al 6, e gli
aveva annunziato che il re era in cammino e arriverebbe probabilmente
al 7 od all’8.

Nelson risolse di affrettare l’assedio di castel S. Elmo, perchè il re
Ferdinando vedesse la sua bandiera su tutti i forti.

Il castel S. Elmo non era difficile a prendersi, colle disposizioni che
avea il suo comandante.

Al 3 luglio, vedendo incominciare contro di lui le disposizioni
d’attacco, e credendo che il cardinale fosse sempre l’alleato
degl’Inglesi, o piuttosto il generale che dirigeva l’operazione, gli
aveva mandato un messaggiero per dirgli che la guarnigione francese era
disposta a capitolare, prima che il castello fosse battuto in breccia,
colla condizione che gli desse un milione, e accompagnava questa
proposta colla minaccia di bombardare Napoli, se il milione non fosse
pagato entro quarantott’ore.

Il cardinale fece rispondere al colonnello Mejean che la guerra si
faceva col ferro e non coll’oro, che in tutti i paesi civilizzati
le leggi di guerra vietano di tirare sulle case poste in luoghi, da
cui non venivano nè gli attacchi nè le offese, e che le batterie che
si dirigerebbero contro di lui verrebbero probabilmente dalla parte
opposta della città; e che per conseguenza doveva dirigere anch’egli
il suo fuoco non già verso la città, ma verso la parte opposta; e
aggiungeva che se una sola bomba fosse tirata dal castello su di un
punto dal quale non fosse insultato, il colonnello Mejean risponderebbe
del male che farebbe colla sua testa, e con quella dei Francesi, che
erano sotto i suoi ordini.

Troubridge, molto speditivo in materia di guerra, aveva proposto di
minare il castello, di trasportarvi un centinaio di barili di polvere,
e di far saltare i Francesi e gli ostaggi che erano con essi.

Il cardinale, quantunque ritirato dalla coalizione, avendo avuto
cognizione del progetto proposto da Troubridge, protestò come di cosa
contraria alle leggi di guerra, e fu abbandonato.

Al primo di luglio Troubridge sbarcò con mille e cinquecento Inglesi,
vi unì cinquecento Russi e cominciò immediatamente i lavori di assedio,
assecondato dal capitano Ball; ma al quarto giorno Ball fu mandato a
Malta a sostituire il capitano Hallowell.

Nella notte dall’8 al 9, il re arrivò a Procida, e aveva con sè il
generale Acton ed il principe di Castelcicala.

Rimase tutta la giornata del 9 a Procida, per assicurarsi senza dubbio
che il giudice Speciale vi facesse bene il suo dovere; in fine al 10
arrivò a bordo del _Fulminante_, ove la sua presenza fu salutata da 21
colpi di cannone.

Si era già sparsa per Napoli la notizia che il re era a Procida; le
salve tirate dal _Fulminante_, e la bandiera reale issata all’albero
maestro annunziarono la sua presenza a bordo del vascello ammiraglio.

La popolazione accorse subito a S. Lucia, al Molo, alla Marinella,
ed una quantità immensa di barche adorne di bandiere, al suono di
strumenti musicali, uscì dal porto e si diresse verso la squadra
inglese per felicitare il re del suo ritorno.

Appena il re fu a bordo del _Fulminante_, chiese un cannocchiale, salì
sul cassero e si mise a guardare verso S. Elmo; nello stesso momento
volle il caso che una palla russa spezzasse l’asta della bandiera
francese e la gettasse a terra; il re superstiziosissimo, esclamò:
«Buon presagio, caro Nelson! buon presagio!» Difatti, come se il
colonnello Mejeau si fosse inteso con Troubridge per fare una sorpresa
al re, la bandiera che succedette alla bandiera tricolore fu la
bandiera bianca, detta altrimenti parlamentare.

Questa bandiera, che sembrava di avere aspettato l’arrivo del re per
ispiegarsi, produsse un grande effetto; la folla diede in applausi, e
al cannone del _Fulminante_ risposero i cannoni di tutta la flotta.

Il cardinale aveva del resto ricevuto il giorno antecedente, cioè al 9,
un viglietto del re in data di Procida e concepito in questi termini:

                                          «Procida, 9 luglio 1799.»

  «Eminentissimo mio. Vi mando molti esemplari di una lettera che ho
  fatta per i miei popoli; fatela immediatamente nota a’ medesimi, e
  riscontratemi dell’esecuzione. Dal Simonetti col quale lungamente
  ho parlato questa mattina, avrete inteso le mie determinazioni
  relativamente agli impiegati del Foro.

  «Il Signore vi conservi, come ve lo desidera il vostro
  affezionatissimo

                                                    «FERDINANDO B.»

Quando il cardinale conobbe dalle salve del bastimento che il re era
a bordo del _Fulminante_, s’imbarcò e venne a bordo del bastimento
di Nelson, ove non era più ritornato dal giorno della rottura del
trattato; i prigionieri delle feluche, vedendolo passare, compresero
di avere in lui un difensore, e ripresero qualche speranza, perchè
sapevano ch’egli veniva a piatire la loro causa.

Difatti, appena il cardinale incontrò il re, cominciò la questione
dei trattati e disse altamente al re, che quella rottura sarebbe uno
scandalo pubblico, che risuonerebbe in tutte le corti d’Europa. Il re
rispose che prima di decidersi voleva sentire Nelson e sir William.

Li fece chiamare, e allora si rinnovò la prima discussione. Sir
William sosteneva la teoria diplomatica che il sovrano non deve
transigere con sudditi ribelli, dichiarando che, essendo tali, il
trattato doveva essere annullato; Nelson manifestò un odio implacabile
contro i rivoluzionarii francesi; diceva che bisognava sbarbicare
le radici del male, per impedire nuove e inattese sventure, che
i repubblicani ostinati ed incapaci di pentimento commetterebbero
nell’avvenire eccessi ancor più terribili, e che intanto l’esempio
della loro impunità servirebbe d’incoraggiamento a tutti gli altri
malintenzionati. Il cardinale era stato fermo sul principio che, fatta
una capitolazione, doveva essere osservata, ma le sue istanze non
prevalsero contro gli argomenti di Nelson e di sir William, che si
accordavano coi segreti sentimenti del re.

Furono trattenuti i prigionieri, i quali, vedendo il cardinale che
partiva colla testa bassa e colla fronte corrugata, compresero che
tutto era finito per essi.

Ritornando al suo quartier generale, il cardinale inviò una seconda
volta la sua dimissione.




II.


Rientrando nel porto ancor convulsa per ciò che dovetti vedere, o
piuttosto travedere, seppi che un marinaio, mentre era ubbriaco, aveva
battuto il suo superiore e doveva essere condannato a morte.

Aveva il cuore disposto all’indulgenza; mi sembrava che se salvassi la
vita d’un uomo anche colpevole, alleggerirei il peso che mi opprimeva
il petto, e che al punto dell’eguaglianza innanzi a Dio, rendendo la
vita ad un uomo, riscattava il delitto di non aver impedito di lasciar
morire un altr’uomo.

Chiesi il nome del marinaio condannato, mi si rispose che si chiamava
Tommaso Campbell.

Quel nome mi colpì; certamente si trovava in fondo ai miei ricordi di
gioventù.

Obbligai la mia memoria a riandare le mie più lontane impressioni, e
mi ricordai che ancor giovane e aia di bambini ad Hawarden, un giorno
che conduceva i fanciulli a giuocare in un prato, il collegio di
madama Collman, di cui aveva fatto parte per qualche tempo, mi passò
innanzi, e tutte le mie antiche compagne mi avevano derisa per la
mia nuova condizione; una sola, staccatasi dalla loro fila, venne ad
abbracciarmi, e questa giovinetta si chiamava Fanny Campbell.

Non so perchè udendo quel nome, quantunque molto sparso in Inghilterra,
mi venisse in mente che quell’infelice condannato doveva essere parente
di quella giovine, che mi aveva dato prove di amicizia mentre le altre
mi deridevano.

Chiamai il capitano Hardy che, fra tutti gli uffiziali, era quello con
cui aveva maggiori relazioni, perchè era fra tutti il miglior amico di
Nelson, e gli dissi di darmi qualche particolare sull’infelice Tommaso
Campbell, e di dirmi specialmente di qual paese egli fosse. Hardy non
aveva alcun particolare da darmi sul condannato, ma fece portare il
processo verbale di condanna, e vidi che era della piccola città di
Hawarden; allora non ebbi più alcun dubbio ch’egli fosse il fratello
della povera Fanny Campbell, e pregai Hardy che, senza dire nulla, mi
conducesse dal prigioniero. Hardy si rifiutò per qualche momento, ma
insistetti tanto finchè cedette. Egli mi condusse allora per le scale
dei marinai fino in fondo alla scala, dove il povero infelice era in
ceppi.

Si comprende quale fosse il suo stupore nel vedermi. Tutti i marinai
mi conoscevano, e nessuno di loro ignorava certamente la mia intimità
con Nelson. La mia presenza fu dunque per questo infelice ciò che è, o
piuttosto sarebbe, un raggio di sole, che penetri nell’eterna notte dei
dannati.

Da principio, nel suo stupore, pareva che non comprendesse le mie
domande, ed esitava a rispondere.

Gli chiesi se era effettivamente di Hawarden, e mi rispose di sì; se
avesse una sorella e mi rispose di sì.

Gli dissi che avevo conosciuto sua sorella.

Egli scosse la testa.

— Ti assicuro che l’ho conosciuta, insistetti io.

— Come mai, soggiunse egli, una grande signora, come voi, avrebbe
conosciuto una povera ragazza, la figlia del sergente di marina John
Campbell?

— E l’ho sì bene conosciuta, gli dissi, che so come si chiami Fanny.

Fece un atto di stupore.

— È vero, diss’egli.

Poi raccogliendosi:

— Giacchè avete conosciuto mia sorella, continuò egli, e che la vostra
visita prova che avete qualche interesse per un povero condannato, vi
farò una preghiera.

— Dite pure.

— Mia sorella ha sposato il pastore d’un piccolo villaggio fra Hawarden
e Northop.

— John Law, forse?

— Precisamente, esclamò Tommaso; ma come fate voi a saperlo?

— Poco v’importa, voi vedete che lo so.

— Ebbene, signora, non dimenticatevi, e quando sarò... morto...
scrivete a mia sorella — io non so scrivere — scrivete a mia sorella
che sono morto, senza dirle che sono stato impiccato, e ditele che
preghi per me; siccome è una donna molto pia, non mancherà di farlo.

— Ed è tutto ciò che desiderate, amico mio? gli chiesi.

— Mio Dio, sì, signora, io sono giustamente condannato, ho minacciato
il mio superiore, quantunque non sia interamente mia la colpa.

— E di chi è dunque se non è vostra?

— La colpa è di quel diavolo di vino del Vesuvio. Io l’ho bevuto come
se bevessi della birra, senza pensare che era come soffiare sul fuoco;
la testa mi girava, e non ho riconosciuto il mio superiore, i miei
occhi non ci vedevano più, e ho commesso il delitto; ma io spero che
il buon Dio darà uno sguardo sul libro di bordo; e vedrà che da dieci
anni che servo sui vascelli di Sua Maestà Britannica, non ebbi che tre
punizioni; è vero che la terza sarà buona.

— Mio caro Hardy, ora so tutto ciò che voleva sapere, dissi ritornando
verso il capitano di bandiera. Lasciamo questo povero giovine coi suoi
rimorsi; poi aggiunsi sotto voce: che saranno tutta la sua punizione.

Hardy mi guardò e scosse la testa.

Io salii e andai a trovare Nelson.

— Mio caro Orazio, gli dissi, bisogna che vi racconti una storia:
quando mia madre era fantesca in una masseria, aveva trovato il mezzo,
con un legato che le aveva lasciato un antico suo padrone, di farmi
entrare in una pensione di fanciulle, ove in un anno imparai a leggere,
a scrivere ed un poco di musica e di disegno; ma dopo un anno il denaro
mancò, io dovetti lasciare il collegio ed entrare come aia di bambini
in casa di un bravo signore chiamato M. Hawarden.

Un giorno che conducevo al passeggio i miei piccoli allievi in un
prato, le fanciulle, mie antiche compagne, che spesso io aveva superato
nelle mie composizioni, passarono nel prato, e, siccome erano tutte
signorine, si misero a deridere la mia umile posizione e i miei poveri
abiti, che erano quelli di una cameriera.

— Povera e cara Emma, disse Nelson stringendomi la mano.

— Una sola si staccò dalla fila delle sue compagne e venne da me, e
vedendo che piangeva, mi asciugò le lagrime col suo fazzoletto, e mi
disse abbracciandomi:

— Oh! Emma, io non sono come queste cattivelle, ti amo sempre, io.

— E mischiando le sue lagrime colle mie, e abbracciandomi una seconda
volta, andò a raggiungere le sue compagne, che la ricevettero con
motteggi e derisioni.

— Era una buona figliuola costei, disse Nelson, e vorrei sapere il suo
nome e la sua dimora, per darle una dote se non ne avesse.

— Ma ora ha già trentaquattr’anni, è maritata ed è felice.

— Ah! tanto meglio.

— Ma ha un fratello che è in una posizione molto cattiva; dovrò
abbandonarlo questo fratello, o per riconoscenza verso sua sorella,
toglierlo dalla posizione in cui si trova?

— Mia cara Emma, disse Nelson, abbandonare questo fratello dopo
l’azione di sua sorella sarebbe un’ingratitudine, ed io non vi credo di
questa stoffa.

— Dunque voi mi aiuterete nel mio desiderio di contraccambiare Fanny?

— Sì, se è in mio potere.

— Mi date la vostra parola?

— In fede di Nelson.

— Ebbene, mio caro Orazio, gli dissi mettendogli un braccio al collo
ed appoggiando le mie labbra sulla cicatrice della sua fronte, questa
brava fanciulla, per cui mi predicate la riconoscenza, si chiama
Fanny Campbell, e suo fratello è il Tommaso Campbell che oggi è
stato condannato a morte dal consiglio di marina per insulto verso un
superiore.

— Ah! fece Nelson corrugando il sopracciglio; è più grave di quanto
credeva, cara Emma.

— Allora mi rifiutate....

— Non dico questo; cercherò un mezzo di conciliar tutto.

— Come, conciliar tutto! ciò mi sembra difficile, voi non potete fare
che nello stesso tempo sia e non sia appicato.

— No, ma posso lasciargli credere fino all’ultimo momento che sarà
appiccato, e all’ultimo momento, comparirete voi e lo salverete. Non
altrimenti, come, a quanto ci raccontava sir Wiliam, si facevano i
scioglimenti delle tragedie antiche; appariva un dio od una dea ed il
colpevole era salvato; siamo sulla terra dell’antichità, prendiamone
esempio.

Aveva qualche ripugnanza ad accettare la parte che Nelson mi dava in
questa commedia che prolungava di quindici o diciotto ore le angoscie
d’un infelice; ma Nelson fu inflessibile, bisognava accettare la grazia
come la offriva, o rinunziarvi.

Il giorno seguente, tutto fu eseguito secondo i desiderî di Nelson;
alla mattina i marinari ed i soldati di marina furono riuniti sul
ponte, vi condussero il colpevole, dopo il rullo d’uso dei tamburi, e
si mise al collo del condannato la corda col nodo corsoio che pendeva
dall’antenna; allora, come eravamo intesi, comparvi e chiesi la grazia,
che mi fu accordata.

Il povero diavolo, che aveva avuto tanta forza quando si trattava di
morire, gliene mancò per vivere e svenne.

Lo si richiamò gettandogli un secchio d’acqua di mare sul viso, poi lo
si ricondusse nella cala, lo si mise in ferri per otto giorni, e poi
venne a ringraziarmi e riprese il suo servizio.

— Ebbene, gli chiesi, berrai ancora vino del Vesuvio?

— Oh! nè vino, nè birra, milady, rispose, ho giurato di non bere che
acqua per tutto il tempo della mia vita.

Seppi poi, che fin al 1801, vale a dire fino al bombardamento di
Copenaghen, ove egli fu ucciso, mantenne fedelmente la sua promessa.

Il re aveva fatto a Napoli tutto ciò che doveva fare, aveva istituito
la sua giunta, e l’aveva veduta all’opera.


Il 6 luglio fu impiccato a Porta Capuana Domenico Perla;

Al 7, Antonio Tramaglia;

All’8 Giuseppe Latella;

Al 13 Giuseppe Belloni;

Al 14 Nicola Carlomagno.


Al Mercato vecchio:

Al 20 di luglio, Andrea Vitagliano; costui era parente di quel
Vitagliano di cui ha raccontato lungamente la morte, e che fu eseguita
con Gagliani ed Emanuele de Deo.


Infine nel Castel del Carmine al 3 agosto:

Gaetano Rossi.

Poi il re manifestò a Nelson il suo desiderio di ritornare a Palermo.
Nelson mise vela al 6 di agosto e all’8 eravamo di ritorno nella
capitale della Sicilia.

La nostra traversata fu eccellente e, appena arrivati, il re scrisse
subito al cardinale Ruffo.

Ecco la lettera del re:

                                           «Palermo, 8 agosto 1799.

  «Eminentissimo mio. Non voglio tardare un momento a parteciparvi
  il mio felice arrivo in questa capitale dopo il più felice viaggio
  del mondo, giacchè martedì mattina, alle 11, eravamo sul capo di
  Posillipo, ed oggi alle 2 abbiamo già dato fondo in questo porto
  con un venticello sopr’acqua, e il mare calmo come un lago. Ho
  trovato tutta la mia famiglia in perfetta salute, e sono stato
  ricevuto nel modo che potete figurare. Datemi uguali buone notizie
  delle nostre faccende costì, conservatevi, e credetemi sempre lo
  stesso vostro affezionato.

                                                    «FERDINANDO B.»

Trovai la regina tanto buona ed affezionata per me com’era sempre
stata; fu lei che mi disse che nello spazio di otto giorni aveva
ricevuto due dimissioni del cardinal Ruffo, e che rispose a tutte e
due con un rifiuto positivo, avendone bisogno per qualche tempo, e
aggiungeva, _della popolarità di quell’uomo!_




III.


Qualche tempo dopo il nostro arrivo a Palermo, il re s’intese con
sir William sui regali che voleva fare a quelli, che in quest’ultima
campagna avevano avuto una certa parte; Nelson ne aveva talmente avuti
che non gliene poteva dare di più.

Tutti i capitani, che servirono sotto gli ordini di Nelson, ricevettero
una tabacchiera con una fila di diamanti; quella di Troubridge aveva
nel mezzo il ritratto del re, e inoltre gli aveva dato un bellissimo
anello con un diamante che valeva almeno due mila ducati.

Alcuni ebbero delle scatole colle cifre del re in brillanti.

Il capitano Giorgio Hope, che all’epoca dell’imbarcamento aveva avuto
l’onore di ricevere nella sua barca il principe reale, ricevette un
magnifico anello in diamanti, il capitano Hardy ricevette un anello
eguale ed inoltre una tabacchiera con due fila di diamanti col ritratto
del re; infine il segretario di Nelson ebbe un anello con un brillante
di gran valore.

Intanto passò il mese di settembre, e al 29 di questo mese compì Nelson
il quarantesimo anno della sua età. In quel giorno la regina Carolina
gli scrisse di sua mano la seguente lettera che firmò col pronome
di Carlotta, che era quello che prendeva in tutte le occasioni non
politiche. Carlotta era il nome d’amica. Carolina non era che il suo
nome di regina.

                                        «Palermo 29 settembre 1799.

  «Mio degno ed ammirevole lord Nelson. Ricevete i miei voti sinceri
  pel vostro giorno di nascita in quest’anno, che corre già al
  suo fine. Quanti innumerevoli motivi non abbiamo mai per esservi
  affezionati ed eternamente devoti; noi vi dobbiamo tutto, e credete
  che il ricordo ne è incancellabilmente scolpito nel nostro cuore.
  Io non sono che l’interprete del re e di tutta la mia cara famiglia
  che si unisce con me, per assicurarvi la sua eterna riconoscenza,
  e far voti al cielo per la vostra eterna felicità e lunga
  conservazione. Ricevete dunque lo augurio di una famiglia, di una
  nazione intera, che sente l’obbligo che vi deve, e credetemi per la
  vita colla più profonda stima e riconoscenza,

                                 «Vostra devotiss. e affezionatiss.

                                                        «CARLOTTA.»

In questo mese di settembre, mentre Nelson compiva il suo quarantesimo
anno, un uomo a cui non si pensava, perchè lo si credeva sequestrato
per sempre in Egitto, faceva vela verso la Francia. Palermo vide
accadere degli strani avvenimenti, per vero un po’ difficili a
raccontare; ma da che ho da raccontare ancora tante altre cose
difficili, riescirò anche in questo.

La flotta turca era nel porto di Palermo colla flotta inglese; ma la
differenza era grande, benchè Inglesi e Turchi fossero riuniti per la
stessa causa. La differenza era grande nel modo con cui erano trattati
gli uffiziali e i soldati delle due nazioni.

I soldati e gli uffiziali inglesi erano eretici.

Ma i soldati e gli uffiziali turchi erano ben altra cosa, erano
infedeli.

Gli uffiziali inglesi erano ricevuti nelle case e, bisogna pur dirlo,
non erano trattati troppo male dalle signore siciliane; i soldati
avevano anch’essi delle relazioni nella città, e parevano molto
contenti della maniera con cui erano trattati.

Ma la ripugnanza dei Siciliani o piuttosto delle Siciliane pei seguaci
del profeta, era tale, che una donna coperta di cenci e chiedente
l’elemosina non si sarebbe lasciata avvicinare da un turco, se la
avesse anche coperta d’oro e fatta regina.

Ne risultava, che i Musulmani risolvessero di prendere per forza dei
favori, che non si volevano loro accordare di buon grado; assalivano
le donne che trovavano nei luoghi reconditi ed anche pubblici, tentando
di far loro violenza, se erano sole, o di portarle sui loro vascelli se
erano sul porto, sulla banchina o in vicinanza al mare.

Dopo mezzodì, sulla marina, vale a dir nel bel mezzo della passeggiata,
mentre le carrozze erano al corso, due turchi, come se venissero da
Tunisi o da Algeri e sbarcassero in paese nemico, presero una donna,
e malgrado le sue grida, la portavano verso una barca, ove i suoi
compagni l’aspettavano. Fortunatamente, a quelle grida accorsero molti
marinai, ed uno dei turchi restò sulla spiaggia colpito da un coltello,
l’altro potè raggiungere la barca e scampò.

La cosa era giunta al punto, che non fu già più per le vie od al
passeggio che le donne erano minacciate; ma quando una donna era sola
o mal accompagnata in una bottega aperta, essa avea tutto da temere se
passavano due o tre mussulmani. Ne accadevano delle risse sanguinose
e giornaliere, in cui i Turchi si servivano delle loro pistole e i
Siciliani dei loro pugnali e coltelli.

E così pure se un marinaio, un soldato, un uffiziale della flotta
turca, si avventurava di andare in qualche luogo solitario, si era
sicuro di ritrovarlo morto all’indomani, crivellato di ferite.

Infine l’odio che ispiravano quelle bestie feroci era tale che, se si
parlava di un turco innanzi ad un siciliano, si era sicuro di vedere
il siciliano mutar colore, e partirsene bestemmiando colla mano sul
pugnale.

Un giorno la cosa andò ancora più in là: noi avevamo per cortigiani,
alle nostre serate della Favorita, due giovani da 22 a 24 anni,
elegantissimi ambedue, ambedue bellissimi giovani, e si chiamavano,
l’uno il principe di Sciacca, e l’altro il cavaliere Palmieri di
Micciche. Sia che i Turchi avessero preso il principe di Sciacca per
una donna vestita da uomo, sia che non si fermassero ad una cosa così
poco importante come il sesso, si precipitarono incontro a lui sei
od otto turchi, e tentarono di condurlo seco. Per fortuna Micciche
accorse alle sue grida con una spada che trasse dal bastone; ma tutti
e due sarebbero state vittime, l’uno del suo bel viso, l’altro della
sua affezione, se cinque o sei uomini del popolo non fossero venuti in
loro aiuto armati di bastoni e di coltelli; in quella mischia rimasero
feriti due siciliani e un turco ammazzato.

Si aspettava ad ogni momento l’ora di nuovi Vespri Siciliani, non più
contro gli Angioini, ma contro i Mussulmani.

L’8 di settembre, ad un’ora dopo mezzogiorno, nella strada di Monreale,
due turchi colla scimitarra in mano, entrarono nella bottega di un
calzolaio, e intanto che uno ne trascinava la moglie con un fazzoletto
sulla bocca per impedire che gridasse, l’altro colla sciabola in mano
minacciava gli operai; ma essi non tenendo alcun conto della minaccia,
gli uni gli gettavano delle forme sul capo, gli altri prendevano i
coltelli e si gettavano sui rapitori gridando: Morte ai Mussulmani,
morte ai Turchi, morte agl’infedeli.

A queste grida, che come un turbinio di polvere arrivarono ai sobborghi
e dai sobborghi alla città, tutto Palermo si sollevò, e mandando grida
di sterminio, ciascuno prendendo la prima arma che loro capitava sotto
le mani, corse incontro ai Mussulmani come a bestie feroci.

I Turchi videro che questa volta non era più una rissa individuale, ma
una sollevazione generale. Le porte si chiudevano innanzi ai fuggitivi
che imploravano invano un rifugio; dall’alto dei balconi si gettavano
sulle loro teste tavole, sedie, vasi di fiori.

Vi fu un momento in cui da un capo all’altro della città non si
udivano che colpi di fuoco, imprecazioni, grida di dolore, urli di
disperazione, rantoli di agonia; il sangue scorreva per le vie, le
campane a martello davano il segno della strage.

In due ore la cosa terminò: i tre o quattrocento turchi che in quel
momento si trovavano in città giacevano a terra; appena una cinquantina
si salvò gittandosi in mare o nelle barche, prendendo il largo a forza
di remi.

Fortunatamente per l’ammiraglio turco che trovavasi per caso sul suo
vascello, udendo quanto accadeva rivolse i cannoni verso la città;
ma Nelson che era al corrente della situazione, che da tanto tempo
udiva le lagnanze che si facevano alla corte, ordinò la sua squadra
in battaglia, e fece dire allo ammiraglio turco che al primo colpo
di cannone tirato contro la città, lo avrebbe mandato a picco;
quest’avvertimento bastò all’ammiraglio turco che ritornò al suo
ancoraggio.

Abbiamo parlato di un uomo, che durante questo tempo e senza che
nessuno si sognasse che egli fosse in Egitto, passava tra Malta e il
capo Bon, e navigava per dove la sua presenza doveva mutare la faccia
del mondo. Quest’uomo era Bonaparte.

Un parlamentario mandato da Bonaparte al commodoro inglese per trattare
uno scambio di prigionieri, ritornò con un pacco di giornali, che il
suo cortese nemico gli mandava, perchè vi potesse leggere i disastri
della Francia.

Bonaparte vide che per aver preso troppo presto l’iniziativa, l’armata
francese era stata battuta a Kossack in Germania, a Magnano in Italia;
che la armata in Napoli cercando di riunirsi a quella di Lombardia
era stata battuta alla Trebbia, e che le due armate unite erano state
battute a Novi; che gli Appennini infine erano invasi, e il Varo
minacciato.

L’armata d’Egitto aveva riportato le due vittorie di monte Tabor, e di
Abouckir; per molto tempo la Porta non avrebbe più potuto mandare un
nuovo esercito.

Fece venire l’ammiraglio Gantheaume, gli ordinò di preparare
segretamente il _Merion_ e la _Carrere_, lasciò il comando in capo
dell’armata a Desaix, e si imbarcò il 22 agosto con Berthier, Murat,
Andreossi, Marmont, Berthollet Monge, e giunto l’8 ottobre a Frijus, e
il 16 a Parigi, il 9 novembre fece il colpo di stato conosciuto sotto
il nome del 18 brumajo.

Queste notizie, come si crede, misero in gran scompiglio la corte di
Palermo. Ma nello stesso tempo accaddero altri movimenti personali che
ci sforzano di ricondurre i nostri sguardi dagli affari pubblici sui
nostri.

Gli avvenimenti di Francia e la necessità di stringere il blocco di
Malta avevano forzato lord Nelson di lasciarci e di fare una crociera,
nella quale ora ci scriveva da Livorno, ora da Montecristo, ora
semplicemente dal mare.

Durante questa crociera, ricevette l’avviso che lord Keith era nominato
comandante in capo delle forze del Mediterraneo, comando che di
fatto trovavasi già da due anni nelle sue mani; e nello stesso tempo
ricevemmo l’avviso che M. Arturo Paget era nominato ministro presso il
governo delle Due Sicilie, in rimpiazzo di sir William Hamilton.

Ciò non era soltanto la disapprovazione di tutto ciò che lord Nelson e
sir William avevano fatto negli avvenimenti dell’ultima rivoluzione, ma
una grave disgrazia.

E posso dirlo, perchè in verità il colpo inatteso fu più crudele per la
corte delle Due Sicilie, che non per noi.

Nelson specialmente fu colpito nel modo più crudele, perchè lo era
nello stesso tempo nel suo amor proprio e nel suo amore.

Sir William era semplicemente furioso; si sarebbe detto, che gli
rincresceva più di me, di doversi separare da Nelson.

Ricevemmo le due notizie quasi nello stesso tempo. Al 3 febbraio 1800
Nelson ci scriveva o piuttosto mi scriveva:

      «Cara lady Hamilton,

  «Avendo ora un comandante in capo, non posso raggiungervi prima di
  avergli fatto i miei saluti. I tempi sono mutati; ma vi dichiaro
  che se non viene qui direttamente, io non l’aspetto. Del resto
  mando ad informarmi come state; rispondetemi una parola, il mio
  cuore è pieno d’angoscia per voi; ma non è mia la colpa di essere
  stato tanto tempo assente; io non comando più, e debbo invece
  obbedire.

  «Dio vi benedica, mia cara lady, e state sicura che mai non cesserò
  d’essere il vostro obbligato ed affezionato

                                                   «BRONTE NELSON.»

Presi la penna e mi affrettai di rispondere a Nelson, espandendo il mio
cuore nella mia lettera; sapeva quanto egli soffriva, e come qualche
mia buona parola avrebbe sollevato il povero suo cuore affranto. In
quanto a sir William, ecco la sua lettera.

  «Apprendo che lord Keith è effettivamente al posto di lord S.
  Vincent comandante in capo del Mediterraneo; non dubito punto
  che a quest’ora non ci rimanga che l’ultima soddisfazione di
  ritornarcene a casa col nostro caro amico lord Nelson. Vostra
  Signoria avrà già appreso da Emma, che dopo trentasei anni di
  servizio a questa corte, sono stato rimosso con un colpo di piede
  dal mio posto, e che M. Paget figlio di lord Troubridge è nominato
  inviato plenipotenziario presso il re delle Due Sicilie, e che è in
  viaggio per venire qui a bordo d’una fregata. Io non ho ricevuto
  dall’Inghilterra nessuna notizia ufficiale sul mio rimpiazzo;
  ma lord Greenville aveva una mia lettera scrittagli al principio
  del 1798, che lo autorizzava a disporre del mio posto, come gli
  piacerebbe, colla condizione di assicurarmi per la vita una rendita
  di 2000 lire sterline, non però a titolo di pensione. Resterei
  piuttosto tutta la mia vita a Napoli, anzichè ritirarmi con un
  soldo di meno. La povera Emma è in gran pena. Ma che mi si lasci
  ritornare a casa ad assestare gli affari miei, e poi Emma e la
  regina disporranno della mia vecchia carcassa come vorranno.

                                                     «W. HAMILTON.»

L’ammiraglio Keith venne assai presto a raggiungere Nelson, perchè
non partisse solo. Tutti e due partirono insieme, l’ammiraglio Keith
sulla _Principessa Carlotta_ e Nelson sul _Fulminante_, ed arrivarono a
Palermo l’8 febbraio. Nelson corse a concertarsi con noi, e si stabilì
che se sir William lasciasse la corte di Napoli, Nelson darebbe la sua
dimissione, o almeno chiederebbe un congedo.

Al 9 il re andò a fare una visita a lord Keith a bordo della
_Principessa Carlotta_, ed il giorno seguente fece la stessa visita sul
_Fulminante_.

Quest’ultimo bastimento ricevette a bordo alcune truppe siciliane per
Malta, e dopo aver preso congedo da noi all’11, Nelson partì il 12
per quell’isola, sempre in compagnia della _Principessa Carlotta_ che
portava la bandiera dell’ammiraglio Keith; attraversarono lo stretto di
Messina, ed arrivarono al 15 innanzi a Malta.

Al 18, verso l’aurora, Nelson incontrò una piccola flottiglia francese,
comandata dal contr’ammiraglio Perrie a bordo del Generoso, vascello di
74 cannoni, che veniva da Tolone e trasportava delle truppe a Malta.
Egli attaccò immediatamente la flottiglia e dopo un combattimento
terribile l’ammiraglio Perrie fu ferito mortalmente, e il suo vascello
preso.

L’ammiraglio francese morì il giorno seguente, 19.

Nello stesso giorno il comandante di divisione Poulain scrisse a
lord Nelson per chiedergli di far rendere gli onori funebri al vice
ammiraglio comandante le forze navali della Francia nel Mediterraneo; e
facendo appello a quella fraternità di coraggio che combatte il nemico
quando è vivo, ma che lo onora dopo la morte, aggiungeva nella sua
lettera che portava con lui il rimpianto e la stima di tutti quelli che
avevano servito sotto i suoi ordini.

Ebbi notizia di questo combattimento e della situazione in cui Nelson
si trovava rispetto a lord Keith dallo stesso Nelson, che mi scrisse il
20 febbraio dalla Valletta la lettera seguente:

      «Mia cara lady Hamilton,

  «Voi sapete come lord Keith mi ha ricevuto; non so che cosa avreste
  fatto voi se foste stata al mio posto; ma non lo credo. Poco
  importa; gli scrissi che prima di venire alle mani col _Generoso_
  aveva fatto un voto, quello di rompere la mia bandiera se non lo
  prendeva. Egli non mi ha ancora risposto.

  «Se mi sentirò meglio, scriverò una lettera al principe ereditario,
  mandandogli la bandiera dell’ammiraglio francese. Spero che voi mi
  approverete. È stato preso sulle coste del regno di suo padre, e
  da un suddito che gli è fedele quanto uno de’ suoi dominii. Non ho
  più avuto comunicazioni colla terra; però non ho veduto nè Ball, nè
  Troubridge, nè Graham, nè Lion.

  «La mia testa è orribilmente ammalata, non ho nessuno che mi
  conforti un istante. Mando il pacco al generale Acton, così
  credo che arriverà più presto, e che egli sarà molto lusingato di
  presentare la lettera e la bandiera al principe. Temo che Malta non
  potrà durare molto tempo, a meno che non giungano in suo soccorso
  altre corvette. Vi prego di presentare i miei omaggi a tutti quelli
  che vi circondano, e di credermi per sempre vostro affezionatissimo
  e devotissimo,

                                                   «BRONTE NELSON.»

Di fatti nello stesso tempo che ricevetti questa lettera, sir John
Acton ne riceveva un’altra colla bandiera francese pel principe
ereditario. Al 27 febbraio rispondeva a Nelson, felicitandolo della
presa del _Generoso_, e mentre gl’inviava i complimenti del re e della
regina, aggiungeva:

«Come potrei esprimervi in nome di S. A. R. tutta la sua gratitudine!
Mi recai tosto ai suoi appartamenti colla lettera di V. S., col
bel dono della bandiera dell’ammiraglio francese. Il principe ne fu
maravigliato e lo è ancora; egli risponderà personalmente a V. S. o
con questa occasione o per corriere. Voi avete reso felice tutta la
famiglia reale, e non è questa la prima occasione che le avete data di
esprimervi la sua essenziale riconoscenza per tutto ciò che avete fatto
per essa.»

Al 24 febbraio lord Keith dava a lord Nelson l’ordine di recarsi al
blocco di Malta, _per compiere_ servigi _di pubblica importanza_, o
piuttosto, ciò che era più vero, per allontanarlo da me. Quest’ordine
era accompagnato da un’istruzione speciale sul da farsi nel caso che la
Valletta si rendesse.

Ed aggiungeva: — e qui si vede benissimo l’intenzione che vi era di
separarci, — che Palermo era troppo lontano, Nelson era invitato a
prendere per punto di convegno Siracusa, Messina od Agosta.

Quest’ordine portò al suo colmo l’esagerazione di Nelson. La ricompensa
del suo occhio perduto, del suo braccio mutilato, della sua fronte
spaccata; la ricompensa di Aboukir, di nove vascelli nemici abbruciati
e calati, era una meschina persecuzione che penetrava nel più intimo
della sua vita privata, e lo feriva profondissimamente nel suo cuore.

Così gli rispose nello stesso giorno:

                   «_Fulminante_ innanzi a Malta, 24 febbraio 1800.

      «Milord,

  «Il mio stato di salute è tale che mi è impossibile di restar qui.
  Se resto son morto. Vi prego quindi di accogliere la mia dimanda
  per andare a vedere i miei amici di Palermo, per qualche settimana.
  Lascio il comando al commodoro Troubridge. Soltanto la assoluta
  necessità mi obbliga di scrivervi questa lettera. Col più gran
  rispetto,

                                                   «BRONTE NELSON.»

Nelson non si accontentò di questa lettera destinata ad essere
pubblicata al bisogno; ma gli scrisse anche quest’altra privata:

                                                  «24 febbraio 1800

      «Mio caro lord,

  «Non posso restar qui quattordici giorni che sono per me
  quattordici anni; sono completamente estenuato. Ecco perchè sono
  stato obbligato di scrivervi quella lettera uffiziale. In quanto
  allo stato del _Fulminante_, furono le esigenze del servizio che
  permisero che non fosse raddobbato da molti mesi. Anche oggi ha
  dato un’altra prova che non può tenere il mare anche quando l’alto
  mare non sia cattivo; ma il suo cordaggio, sia che rimanga o che
  parta, deve in ogni caso essere rinnovato; tutto cade. Vi mando sir
  Edward Berry, e mi sottometto alla vostra decisione, tanto riguardo
  al bastimento, quanto a me. Sono sicuro che non mi farete nessuna
  obbiezione. Sento la debolezza della mia salute, ma non me ne
  voglio lagnare.

  «Come uomo di mare, credo che il _Fulminante_ deve esser
  raddobbato.

                                                   «BRONTE NELSON.»

L’8 di marzo Nelson, trattenuto suo malgrado al blocco, scriveva a sir
William:

  «Vi ringrazio affettuosamente delle vostre lettere e dei vostri
  buoni augurii. Ho deciso. La mia salute esige di andare a Palermo
  e di rimanere due settimane con voi. Debbo pregarvi di nuovo
  di far preparare al più presto possibile quattro cannoniere
  pel servizio di Malta, che saranno utilissime per la resa della
  piazza, impedendo ai piccoli bastimenti di uscire e di entrare.
  Credo (visto che il nemico nella notte del quattro ha cercato di
  far uscire una piccola polacca, buona veliera) che Vaubois voglia
  mandare dei dispacci in Francia, per dire che non può tenere più a
  lungo; e se le nostre truppe arrivano da Gibilterra e da Minorca,
  come crede il capitano Blackwood, non crederei che i Francesi
  potessero resistere due settimane. Prego il generale Acton di
  affrettare l’invio delle cannoniere. Troubridge ha l’iterizia e sta
  molto male. Siccome vi vedrò presto, vi dirò di viva voce che sono
  ecc. ecc.

                                                   «BRONTE NELSON.»

Difatti, senza aspettare la resa di Malta, nè il permesso di lord
Keith, arrivò il 16 a Palermo, nel momento che si celebrava, cosa assai
curiosa, il matrimonio del generale Acton, che aveva 67 anni, con sua
nipote, che ne aveva 14: affrettiamoci a dire che il generale ebbe da
questo matrimonio tre figli.

Credo di aver lasciato travedere che da qualche tempo non vi era più
nessuna intimità fra lui e la regina; se dovessi fissare un termine per
questa intimità, la farei risalire alla morte del principe Caracciolo.

La sua gioia fu grande nel rivedermi, e oltre al desiderio di
avvicinarsi a noi, egli era veramente ammalato assai; poi un nuovo
sfregio che mi colpì e che egli considerò come un insulto, portò al più
alto grado il suo risentimento contro alla corte di Inghilterra.

Dopo la presa dell’isola di Malta dai Francesi, l’ordine di Malta
era caduto in dissuetudine. La Repubblica francese aveva abolito gli
ordini.

Paolo I, che voleva avere la riputazione d’imperatore cavalleresco, si
era intitolato gran maestro dell’ordine, e ne distribuiva i brevetti.

L’imperatore, dietro dimanda di lord Nelson, ne mandò uno di gran croce
con una commenda onoraria pel capitano Ball. Nello stesso tempo che sir
Charles Whitworth ne dava avviso a lord Nelson, e gli annunziava che io
era stata nominata dama, con piccola croce dell’ordine.

Sir William inviò alla cancelleria di Londra la lettera di sir Charles
Whitworth e il brevetto, chiedendo per me il permesso di portar questa
croce.

La cancelleria non si degnò nemmeno di rispondere. Lord Nelson scrisse
da parte sua. Eguale silenzio.

Allora la risoluzione di Nelson fu presa. Decise di chiedere, se
non il suo ritiro, almeno un congedo, e sarebbe venuto con noi a
passarlo a Londra. Inoltre, in questo frattempo sir Arturo Paget, che
dovea sostituire sir William, senza volergli rendere conto per nulla
della situazione degli affari, gli abbandonò tutta l’ambasciata,
appartamento, e archivio. Risolvemmo di lasciar momentaneamente
Palermo, di andare a bordo del _Fulminante_, e di recarci a Napoli a
passare due mesi; e dopo questi due mesi di ritornare a Palermo per
prendere la regina, ed accompagnarla a Vienna, ove contava di andare; e
quando ritorneremo a Palermo o piuttosto a Napoli, noi continueremo la
nostra via per Londra.

Per conseguenza io e sir William facemmo i nostri momentanei addii alla
famiglia reale, salimmo sul _Fulminante_ e partimmo per Siracusa, ove
restammo fino al 3 maggio; poi ci mettemmo di nuovo in mare, e nella
notte del 4 al 5 gettammo l’áncora nel porto di S. Paolo a Malta.

Vi rimanemmo fino al 20, epoca in cui ripartimmo per Palermo, ove una
nuova distinzione attendeva lord Nelson.

Sua Maestà Ferdinando, non avendo potuto dare a Nelson, a Troubridge
e a Ball il cordone di S. Gennaro, ordine cattolico, perchè erano
protestanti, istituì espressamente per decorarli l’ordine del
merito di Ferdinando. Le tre prime gran croci furono lord Nelson, il
feldmaresciallo Suwarow e l’imperatore Paolo.

Dissi che il ritorno di Bonaparte in Francia doveva mutare l’aspetto
dell’Europa, e in fatti aveva già mutato quello della Francia. Il
direttorio abolito, Bonaparte, nominato primo console, volse gli occhi
sull’Italia riconquistata da Suwarow e da Melas.

Melas solo era rimasto In Italia: Suwarow battuto da Massena a Zurigo
ed a Mauttathal, era andato a render conto della sua disfatta a Paolo
I.

Verso la fine di maggio si seppe che Bonaparte aveva passato le Alpi
con un’armata di 4000 uomini.

La regina pensò che era venuto il momento di andare a fare una visita a
suo nipote. La fortuna di Bonaparte poteva seguirlo dalle rive del Nilo
a quelle del Po, e in questo caso ognuno poteva indovinare il rovescio
che una vittoria riportata dai Francesi poteva cagionare in Italia.

Nelson doveva mettersi col _Fulminante_ in servizio della regina,
la cui partenza fu fissata per gli 8 di giugno; ma la partenza fu
ritardata di due giorni.

Infine il 10 giugno, la regina, le tre principesse, il principe
Leopoldo, sir William ed io, c’imbarcammo a bordo del _Fulminante_,
che partì per Livorno in compagnia della _Principessa Carlotta_,
dell’_Alessandro_ e di un pacchetto napolitano: il passaggio fu
eccellente, e con una buona brezza arrivammo il 14 a Livorno, vale
a dire lo stesso giorno in cui Bonaparte guadagnava la battaglia di
Marengo.

Si restò fino al 16 senza poter discendere a terra; il vento si era
rinvigorito, il mare era diventato burrascoso.

Al 16, verso le ore 9 del mattino, potemmo scendere nella lancia
di lord Nelson e sbarcare alle scale nei Finocchieti, ove trovammo
un’immensa affluenza di popolo che sapeva l’arrivo della regina, la
quale, al momento in cui mise piede a terra, fu complimentata dal
generale barone di Fenzel, dal generale Lavillette governatore di
Livorno, infine dal duca Strozzi scelto dal granduca per accompagnare
la regina dovunque volesse andare, mentre il cavaliere Segardi,
amministratore generale dei beni della corona, doveva provvedere alle
spese della sua corte durante la sua dimora in Toscana.

Salimmo nelle carrozze che ci aspettavano, andammo alla cattedrale, ove
si celebrava un _Te Deum_, in rendimento di grazie pel buon viaggio
della regina, ed entrando in palazzo trovammo la duchessa d’Atri che
era espressamente venuta da Firenze per ricevere la regina. Alla sera
andammo in teatro dove fummo accolti da applausi frenetici.

Non si sapeva ancora che era stata data una battaglia sotto le mura di
Alessandria.




IV.


Prima cura della regina nello scendere a terra fu di chiedere notizie
dell’armata d’Italia, e ciò per una doppia ragione: dapprima a causa
dell’influsso che Bonaparte vincitore o vinto poteva avere sul regno
delle Due Sicilie; poi per la sicurezza del suo viaggio a Vienna.
Sventuratamente tutti quelli a cui si indirizzava, non ne sapevano
più di lei; per cui spedì uno dei signori che erano venuti a farle la
loro corte, il barone di Rosenheim, ai generali Melas, Hohenzollern
e Ott, ordinandogli di andare per la riviera di levante, facendolo
accompagnare da due corrieri a misura che apprendevano notizie
dell’armata.

Al 17 di sera, il signor Sommariva venne da Firenze, e seppe da lui che
Bonaparte in persona comandava l’armata, e non si era ancor ben sicuri;
che i Francesi erano in forza se avevano della cavalleria, e che gli
eserciti erano fra Alessandria e Tortona e sul punto di venire alle
mani; in tutti i casi il signor Sommariva assicurava la regina, che non
aveva nessun pericolo da temere a Livorno.

Si vedeva però facilmente, che chi si adoperava a rassicurarsi era
assai poco sicuro di sè stesso.

Egli di nuovo partiva nella notte per Firenze.

Il giorno seguente si sparse la voce che i Francesi erano in piena
rotta: si crede facilmente a quanto si desidera; la regina annunziò
dunque a tutti questa buona notizia.

Ma nella notte del 18 al 19 Nelson ricevette un uffiziale inglese,
inviato da lord Keith con una lettera, in cui gli diceva che dovea
essere firmata una sospensione d’armi fra i Francesi e gli Austriaci,
e che in questa sospensione era stipulato; che gli Austriaci dovessero
evacuare tutte le piazze forti del territorio di Genova e consegnarle
ai Francesi. Queste prime notizie non s’accordavano di certo con quelle
che ci erano giunte il giorno prima sulla ritirata dei Francesi;
ma quelle che seguivano erano ancor più inquietanti, e ci davano da
pensare assai.

Lord Keith continuava ad ordinare a Nelson di riunire tutti i
bastimenti che avesse sotto i suoi ordini, e di portarsi con essi al
golfo della Spezia per impadronirsi di tutti quei forti, e specialmente
di quello di Santa Maria, di tutta l’artiglieria, o almeno di metterla
in condizione di non essere più utile ai Francesi. Finalmente Keith
diceva a Nelson che se poteva, per quella spedizione alla Spezia,
staccare dalla sua flotta qualche bastimento e inviarglielo a Genova,
gli farebbe piacere.

Queste notizie ci costernavano. Evidentemente una tale convenzione non
avrebbe potuto aver luogo, se non in seguito ad una battaglia, e in una
battaglia in cui gli Austriaci fossero stati indubbiamente battuti.

Dato quest’ordine a Nelson di lasciar tutto e di recarsi alla Spezia,
ci desolava, e particolarmente la regina, che a ragione vedeva in
Nelson il suo unico appoggio, e senza Nelson si considerava come
perduta.

Ma Nelson non ci lasciò molto tempo in quest’angoscia; dichiarò che
senza alcun pretesto egli non lascierebbe la regina, nella condizione
in cui si trovava; e per conseguenza, onde eseguire gli ordini di
lord Keith, inviò alla Spezia l’_Alessandro_ e la _Dorotea_ e rimase a
Livorno col _Fulminante_, e col _Vasco di Gama_ naviglio portoghese,
e le fregate e le corvette napolitane che si trovano nel porto di
Livorno.

Questa risoluzione calmò le nostre inquietudini sul punto della
sicurezza della regina.

Ma assicurata sulla sua situazione, la regina non lo era punto su
quella dell’armata austriaca. Si rivolse al barone di Fenzel che non ne
sapeva nulla: spedì un corriere al generale Sommariva, comunicandogli
gli ordini che l’ammiraglio Keith aveva dato a lord Nelson; ma il
generale Sommariva si accontentò di dire, che non sapeva nulla di
positivo, e che credeva essere prudente per lei di rimanersi a Livorno,
e di aspettarvi gli avvenimenti ulteriori e gli schiarimenti di quelli
che erano passati.

Nello stesso tempo, in cui venne la risposta del generale Sommariva,
arrivò il brigadiere Rosenheim che la regina aveva mandato a prender
notizie. Egli raccontò di aver parlato a Genova col generale austriaco
Hohenzollern, che gli aveva fatto leggere una convenzione fra il
generale Melas ed il generale Berthier, in cui era stabilita una
sospensione d’armi fra le due armate, che non potessero riprendere le
ostilità prima di dieci giorni; e che intanto gli Austriaci dovessero
consegnare ai Francesi tutte le piazze forti che possedevano, vale
a dire Genova, Savona, Cuneo, Alessandria, Tortona, Mondovì, la
cittadella di Milano, quella di Torino e il forte d’Urbino, non
conservando nelle loro mani che Mantova, Ferrara, Peschiera, Verona ed
Ancona.

La causa che si dava a questa desolante sospensione d’armi, sarebbe
stata una battaglia accaduta il 14 a Marengo fra la Bormida e la
Scrivia, in cui Melas, dopo aver cominciato colla vittoria, terminò
colla disfatta.

Si comprende quale fosse la disperazione di tutta la famiglia reale ad
una simile notizia. La regina specialmente fu assalita da un accesso
nervoso che le cagionò una completa prostrazione di forze, da cui non
usciva se non per accessi febbrili che andavano fino al delirio; ma fu
peggio quando Nelson, disperato al pari di noi, portò a sir William,
— perchè non osò consegnarlo nè a me nè alla regina, — il viglietto
seguente che aveva ricevuto da lord Keith.

                                           «Genova, 21 giugno 1800.

      «Confidenziale.

  «Ho veduto ora un uomo che lascia Bonaparte. Questo Bonaparte dice
  pubblicamente, che prima di far la pace, vuol ridurre una potenza
  in Italia. Lasciate partire quanto prima la regina per Vienna e
  al più presto che potrà. Se la loro flotta arriva un giorno prima
  della nostra in Sicilia, la Sicilia è perduta, perchè non è capace
  di resistere un giorno.»

                                                           «KEITH.»

La lettera era così pressante, e conteneva una notizia tanto grave,
che, malgrado lo stato di salute in cui si trovava, si risolse di
comunicargliela; si riunì a questo scopo una specie di congresso nella
sua camera, perchè ciascuno desse il suo avviso sulla risoluzione
che credesse migliore in tale momento. La regina, ritornata in
forza per l’eccesso del terrore, sarebbe stata d’avviso di partire
immediatamente come glielo consigliava lord Keith; ma l’avviso di sir
William e di Nelson fu che dovesse stare a Livorno, ove aveva sempre a
sua disposizione i vascelli di guerra di Nelson, e di non partire se
non quando avesse ricevuto un corriere da Vienna, che le direbbe in
quale stato fossero le cose alla corte di suo nipote: il principe di
Castelcicala si era unito a quell’avviso, che prevalse, e si risolse di
rimanere.

L’emozione fu così viva, che non si ammalò soltanto la regina, ma anche
il principe Leopoldo. La malattia della regina fu però grave, e non fu
vinta che in seguito a ripetuti salassi, mentre il principe Leopoldo se
ne liberò con un leggero purgante.

Verso la fine del mese di giugno, la regina ristabilita dalla sua
indisposizione, si decise a partire. Per tutto il tempo che era rimasta
a Livorno, quantunque il re Ferdinando ed il ministro Acton fossero a
Palermo, il vero governo era rimasto presso la regina.

Lord Nelson aveva significato a lord Keith la sua decisione di
ritornare in Inghilterra, e lord Keith gli aveva offerto di disporre
di un bastimento della flotta; ma siccome io voleva passare per Vienna
onde non lasciare la regina, Nelson decise di fare la stessa strada per
non lasciarmi.

La regina scrisse al comandante d’Ancona per chiedergli se non vi fosse
nel porto qualche bastimento per condurla a Fiume od a Venezia.

Presa la risoluzione di partire, bisognava decidere poi se si doveva
partire per terra o per mare.

Intanto si ricevette da Vienna la notizia che l’imperatore d’Austria
restituiva Perugia ed il suo territorio al papa.

Il 3 luglio, la regina ricevette da Vienna quella lettera che tanto
aspettava e che fu portata dal corriere Giannini, che aveva mandato.
Essa era dell’imperatrice sua nipote; la imperatrice supplicava Maria
Carolina, di non lasciarsi distogliere per qualunque ragione buona o
cattiva dal suo viaggio di Vienna; le diceva che credeva quel viaggio
non soltanto utile, ma necessario ai suoi interessi, e la invitava a
mandare un corriere a Melas in Milano, perchè il generale gl’indicasse
la via da percorrere. Veniva una lunga serie di dolori, sopra ciò
che era avvenuto in Italia; ma l’imperatrice confessava che dopo la
catastrofe di Marengo, Melas non aveva potuto rifiutarsi dal firmar
l’armistizio. Del resto l’imperatrice ispirava poca speranza della
ripresa delle ostilità, ed inclinava da parte sua ad una buona o solida
pace.

Siccome non eravamo ancora decisi sul modo con cui doveva farsi quel
viaggio, lord Keith mise a disposizione di S. M. l’_Alessandro_:
e il _Fulminante_ fu rimandato in riparazione nelle isole Baleari.
Nelson vide con tristezza il _Fulminante_ che partiva; ma egli rimase
a disposizione della regina, e pronto a prendere il comando di quel
bastimento sul quale s’imbarcherebbe.




V.


Confesso che dopo aver veduto la regina dare tante prove di fermezza e
di rapida decisione, rimasi stupita alle sue timide esitazioni, in una
circostanza in cui ogni ora perduta poteva essere irreparabile.

All’8 di luglio si apprese che un piccolo distaccamento di Francesi
composto di 326 uomini con artiglieria e cavalleria era entrato a
Lucca; questa notizia determinò la regina a partire, e annunziò che
partiva per mare.

Quando si seppe in Livorno la notizia di questa partenza che aveva
tutta l’apparenza d’una fuga, si manifestò subito una sommossa; il
popolo voleva ritenere la regina, le principesse ed il principe
Leopoldo. La cosa parve assai grave alla regina che lasciò
immediatamente la città, ed andò a bordo dell’_Alessandro_, sul quale
Nelson aveva inalberato la sua bandiera. Ma dopo ventiquattr’ore la
regina mutò risoluzione, e decise di andare ad Ancona per la via di
terra.

Siccome aveva con sè, come già dissi, le tre principessine ed il
principe, vale a dire che non poteva ammettere nessun’aura persona
nella carrozza senza separarsi da qualcuno de’ suoi figli, si convenne
che essa partirebbe per la prima, e che noi l’avremmo seguita. Aveva
tanta premura di allontanarsi da quei Francesi che detestava così
cordialmente, che partiva il giorno seguente per Firenze, senza
aspettare le altre carrozze, al solo annunzio che la via era libera.

Lord Nelson, sir William, miss Knight ed io partimmo il giorno
seguente, vale a dire l’11 di luglio.

Questo viaggio, oltre al pericolo, presentava la probabilità di grandi
disturbi: cattiva strada, cattive vetture, invece di un mare quasi
sempre tranquillo nel mese di luglio, e di una buona cabina con tutti i
comodi della vita; poi, dopo cento leghe fatte in questa guisa, qualche
polacca austriaca o qualche balcan da pesca dalmato per trasportarci a
Trieste. Anche lord Nelson aveva disapprovato fino all’ultimo momento
questa maniera di viaggiare, e trovava veramente molto più comodo di
superare la punta di Calabria e di entrare nell’Adriatico a bordo
dell’_Alessandro_, vale a dire da re: in quanto a me confesso che
preferiva il viaggio per terra per quanto fosse faticoso. Sir William
poi era talmente ammalato, che dichiarò di esser quasi certo di non
arrivare vivo ad Ancona; ma che fedele alla regina arrischiava anche la
vita per seguirla.

E partimmo.

Impiegammo ventisei ore per andare da Livorno a Firenze in causa delle
marcie e contromarcie che i Francesi ci costrinsero a fare. A Castel
S. Giovanni la carrozza si rovesciò: Sir William ebbe una leggiera
contusione al ginocchio, io ebbi una spalla lussata; un medico di
villaggio me la rimise a posto facendomi soffrire orribili dolori,
mentre un fabbro raccomodava la ruota spezzata; ma la ruota aggiustata
troppo di fretta, si spezzò nuovamente ad Arezzo.

Siccome i Francesi si avvicinavano e ci volevano due giorni per
raccomodare la carrozza, risolvemmo di prenderne un’altra, la prima che
ci capitò, e partimmo in quella soltanto io, lord Nelson e sir William;
miss Knight e la mia cameriera che potevano essere prese impunemente
per francesi, essendo persone di minor importanza, le lasciammo
indietro, per raggiungerci poi colla carrozza aggiustata.

Continuammo la via per strade orribili, ed in mezzo a popolazioni in
preda a tale miseria che è impossibile a descrivere.

Giunti ad Ancona, la regina trovò una fregata austriaca preparata per
riceverla; era tutta adorna di sete e di velluti, e oltre alla camera
reale, vi erano otto letti per le persone del suo seguito. Desiderosa
di lasciare al più presto possibile la terra, la regina si recò subito
a bordo del bastimento; ma appena vi si era stabilita, esitò di nuovo,
per sapere se era bene rimanervi; e quando arrivammo noi, tre giorni
dopo, la trovammo incerta se doveva domandare ospitalità alla squadra
russa, composta di tre fregate e di un brik. Nelson, che aveva poca
confidenza nella marina austriaca, la incoraggiò in questo proposito;
inoltre la fregata austriaca per disporsi a ricevere la famiglia reale
era stata obbligata a ridurre a 24 il numero del suoi cannoni, e i
Francesi che erano padroni delle coste della Dalmazia, avrebbero potuto
con una flottiglia di barche prendere la _Bellona_ all’abbordaggio.

La squadra russa era comandata da un Dalmato, chiamato conte
Wainorvich, che in un combattimento sostenuto l’anno precedente, ebbe
rovesciata la sua bandiera dagli Austriaci, ed aveva fatto voto di non
metter piede sul suolo austriaco, nè sopra alcuno de’ suoi territori
dipendenti, e mantenne il suo voto tanto fedelmente, che non restituì
nemmeno la sua visita alla regina, che era andata a vederlo, sotto
pretesto che la fregata _Bellona_ era terra austriaca.

Ma siccome la fregata russa non era preparata all’onore che la regina
le faceva, il capitano non potè che cedere la sua camera per lei e per
la sua famiglia, e noi c’imbarcammo su di un’altra.

Sir William era tanto ammalato, che tutti i medici l’avevano
condannato, e il più indulgente di essi pretendeva che sarebbe forse
arrivato a Trieste, ma non a Vienna.

Contro ogni aspettazione, sir William si trovò un poco meglio arrivando
a Trieste dopo una buona traversata.

La regina partì da Trieste il 7 agosto, noi la seguimmo due giorni
dopo; questi due giorni erano stati presi per dare un poco di riposo a
sir William

Prima di separarci a Livorno, la regina, non sapendo se ci saremmo
riveduti ancora, in vista dei pericoli del viaggio, aveva fatto a
ciascuno un regalo d’addio: Nelson ebbe un ritratto del re contornato
di diamanti, e di smeraldi; William una tabacchiera col ritratto
della regina, contornato di diamanti, ed io finalmente una splendida
collana di diamanti, colla cifra in diamanti di tutti i principi e le
principesse.

Si è veduto che contro ogni aspettazione il viaggio si compì senz’altro
accidente che quello che è toccato a noi, o piuttosto alla nostra
carrozza.

In questo viaggio ci raggiungemmo tre volte, per separarci ancora
un’altra volta e per sempre, dopo Ancona, Trieste e Vienna.

A Vienna, grazie alla grande amicizia che la regina aveva per me, fui
ammirevolmente ricevuta dall’imperatrice, da sua figlia e da tutta la
famiglia imperiale.

La convalescenza di sir William, che durò sei settimane, ci trattenne a
Vienna più di quanto vi saremmo rimasti senza di ciò, il che non nocque
pure ai piaceri che ebbi nelle feste che mi si diedero. Sir William
voleva che andassi in società con lord Nelson, precisamente come se si
trovasse in perfetta salute e ci avesse accompagnati.

Era ormai tempo che la regina venisse a Vienna a difendere i suoi
interessi, di cui nessuno aveva preso cura durante la sua assenza.

Ciò la determinò a prendere una grande risoluzione.

Vedendo che l’imperatore Francesco non aveva stipulato nulla per lei,
e vedendo che gl’Inglesi difendevano la Sicilia, i cui porti potevano
esser utili e abbandonavano Napoli, che non poteva giovar loro per
nulla, decise di partire per Pietroburgo onde chiedere un appoggio
all’imperatore Paolo.

Ma siccome era indispensabile che nessuno sapesse questo viaggio, finse
una indisposizione.

E infatti lord Keith aveva qualche ragione di dire che Bonaparte
annunziava, senza misteri, che prima di far la pace aveva un’altra
potenza da distruggere in Italia. Bonaparte dopo la battaglia di
Marengo pensò un istante di far marciare una divisione sopra Napoli.
La stagione già avanzata, probabilmente gli avvenimenti che seguirono
l’armistizio, salvarono momentaneamente Napoli, obbligando Bonaparte
a concentrare le sue truppe in Italia; ma terminata la guerra, e
Bonaparte completando con una o due altre vittorie quella di Marengo,
era probabile che il regno delle Due Sicilie ne pagasse le spese.

Per conseguenza la regina partì per Pietroburgo.

L’intrigo ebbe la riuscita sperata dalla regina. Paolo I, per una
vicenda di variazioni che subiva il suo carattere, era in quel momento
in amichevoli rapporti col primo console Bonaparte; era evidente che
costui, geloso di conservarsi un amico così potente, avrebbe fatto
tutto ciò che l’imperatore gli chiedeva.

Paolo I scrisse una lettera calorosissima al primo console; ma volle da
Carolina il giuramento che se riuscisse a firmare un trattato di pace
tra la Francia e Napoli, il trattato sarebbe rigorosamente osservato.

Il generale Levacheff, gran cacciatore dell’imperatore Paolo, fu
espressamente inviato al primo console, latore della lettera di Paolo,
e garante della promessa della regina, di modo che al 6 febbraio
1801, un armistizio, seguito da un trattato definitivo, fu conchiuso a
Foligno fra il cavaliere Micheroux e il generale Murat.

Uno degli articoli del trattato recava che, «i sudditi del re che
erano stati esiliati, imprigionati e costretti a fuggire per causa di
opinioni politiche, poteano ritornare in patria e riavere la libertà ed
il godimento dei loro beni.»

Sventuratamente per molti era troppo tardi: i tribunali avevano
operato, e tutto l’anno 1799 ed il principio del 1800, avevano veduto
terribili esecuzioni, fra le quali quella dell’infelice Domenico
Cirillo, che aveva, lo si ricorda, rifiutato di venire a curare la
regina dopo la visita che avevamo fatto insieme alla Vicaria, e che noi
non potemmo salvare dalla collera del re, quantunque la regina, spinta
da me, gli avesse chiesto la sua grazia in ginocchio.




VI.


Il nostro soggiorno a Vienna fu una festa continua. Il principe e
la principessa Esterhazy, in un loro viaggio a Napoli, erano stati
ricevuti ammirabilmente al palazzo dell’ambasciata; vollero renderci
quell’ospitalltà.

Fummo quindi invitati a passare una settimana al palazzo del principe
ad Eisenstadt, ove vedemmo una cosa curiosa e che era probabilmente
per farci onore in tutto il tempo che passavamo al castello. Vi era una
guardia di cento granatieri, di cui il più piccolo era alto sei piedi;
mano mano che si succedevano nel servizio, quelli che scendevano dalla
guardia si sedevano ad una tavola ampiamente e squisitamente servita
finchè il veniva a rimpiazzare un’altra serie di venticinque uomini.

Ci fu dato un gran concerto nella cappella del palazzo, sotto la
direzione del venerabile Haydn, che allora aveva sessantanove anni. La
sua famosa cantata della creazione fu eseguita in nostro onore.

Al suo ritorno da Pietroburgo, la regina di Napoli mi pregava
continuamente, come si prega un’amica la cui presenza è indispensabile,
di andare con lei in Italia: tutto era calmato, il re era ritornato
a Napoli, la pace era fatta e ci prometteva il ritorno delle belle
giornate che avevano seguito il mio arrivo nella deliziosa aurora della
nostra amicizia.

Bisognava lasciar Nelson, e sarebbe stata una crudele ingratitudine,
quando aveva tutto perduto per me, di dimenticare così presto una
carriera come la sua, sacrificata al mio amore.

Fui inflessibile.

La regina allora, vedendo che ero decisa di partire, mi supplicò di
accettare, in memoria della sua reale amicizia, una rendita o pensione
vitalizia di mille lire sterline. Alla prima parola che ne dissi a sir
William:

— Noi siamo abbastanza ricchi, mi rispose, e d’altronde una tale
liberalità ecciterebbe i sospetti del governo inglese.

L’ora della partenza arrivò. La separazione fu crudele e piena di
lagrime, di cui la regina versò la sua buona parte, poi, l’una dopo
l’altra, le tre principesse mi abbracciarono; passammo l’ultima notte
insieme, ricordandoci i buoni e i tristi giorni, promettendoci di non
dimenticarli mai.

Finalmente ci lasciammo; la regina mi fece promettere di rivederla. Sir
William era soffrente e agitato per gli ultimi avvenimenti. La regina
mi fece comprendere, che una volta vedova e Nelson in crociera, io
rimarrei ben sola ed abbandonata: essa contava su quell’eventualità per
farmi mantenere la mia promessa.

Ciò che mi richiamava imperiosamente in Inghilterra, era specialmente
lo stato in cui mi trovava.

Era incinta.

Sir William non ignorava di certo la mia intimità con Nelson; ma
siccome le nostre relazioni coniugali erano state quasi sempre quelle
di un fratello e di una sorella, non aveva mostrato gelosia. Stava però
alla mia delicatezza di togliere agli occhi di tutti il mio stato,
di partorire nel silenzio e nella solitudine. Era riconoscente a sir
William Hamilton che chiudeva gli occhi; ma non doveva mai permettere
che la malevolenza glieli aprisse.

Partimmo per Praga, ove l’arciduca Carlo ci aveva invitato ad andarlo a
vedere, e dopo uno splendido ricevimento, sempre spinta dallo stato in
cui mi trovava, continuammo la nostra via per Dresda e per Amburgo.

Eravamo appena discesi all’albergo, quando mi si annunziò che un uomo
di sessant’anni, e la cui apparenza era poco più che volgare, insisteva
per parlarmi.

Gli feci chiedere cosa desiderasse; rispose che non voleva dirlo che a
me.

Vinta da questa ostinazione, ordinai di farlo entrare.

Infatti vidi un piccolo vecchio di sessantasei anni, che imbarazzato
balbettava un cattivo inglese, e tenendo il cappello in mano, mi
raccontava che nella suo cantina aveva del vino del Reno del 1625, il
che era ben altro che il vino di cui parla Orazio che non datava che
dal consolato di Opimio, poichè il vino del mio vecchietto aveva cento
settantacinque anni, e da un mezzo secolo era in possesso della sua
famiglia.

Questo vino, diceva egli, era riservato per un’occasione straordinaria,
e questa occasione gli si presentava al di là della sua aspettazione;
quell’uomo che per cinquant’anni era stato così avaro del suo vino,
chiedeva di me, perchè interponessi i miei buoni uffici presso Nelson,
per ottenere da lui che si risolvesse di accettare sei dozzine di
bottiglie di quel vino, che avrebbe così avuto l’onore, mescolandosi
_al suo sangue generoso, di far battere il cuore dell’eroe_.

Lord Nelson entrò in quel momento, e comprendendo lo scopo della visita
del vecchio, cominciò col rifiutare un dono che non aveva prezzo, ma
vinto poi dalle istanze di chi glielo offriva, finì coll’accettare sei
bottiglie, ma alla condizione che il donatore pranzerebbe con lui il
giorno seguente.

L’invito fu accettato, e fu inviata una dozzina di bottiglie; su di che
Nelson osservò che bevendo sei di quelle dodici bottiglie ne sarebbero
rimaste altre sei, che si sarebbero poste in serbo per beverne ad
ognuna delle vittorie future che egli avrebbe riportato, e che, lo
sperava bene, sarebbero state una mezza dozzina.

Difatti, al suo ritorno da Copenaghen bevve, in un gran pranzo
che egli diede, una delle sei bottiglie, facendo un brindisi a chi
gliela regalò, ma dopo Trafalgar, ahimè, quantunque la vittoria fosse
splendida, le cinque bottiglie rimasero intatte; il vincitore era
caduto nel mezzo della sua vittoria.

La seconda cosa rimarchevole, che ci accadde ad Amburgo, fu la visita
che Nelson ricevette da Dumoriez.

Egli mi presentò, come pure a sir William, l’illustre vincitore di
Valmy e di Jemmapes, che, secondo ogni probabilità, salvò la Francia da
un’invasione, e che non fidandosi della riconoscenza della Convenzione
che lo invitava a presentarsi, si presentò, trovando la cosa più
sicura, agli Austriaci col giovine duca d’Orleans, che più tardi dovea
sposare una delle giovani principesse, da cui aveva preso congedo a
Vienna.

Era curiosissima di vedere da vicino una celebrità di cui aveva inteso
tante volte parlare.

Era allora un uomo dai sessantasei ai sessantotto anni, di statura
media, svelto ancora e nervoso, che sembrava che ne avesse cinquanta
o cinquantacinque; la sua testa era viva e spiritosa, il suo sguardo
pieno di fuoco, il suo viso aveva le tinte calde che le differenti
atmosfere imprimono sul viso d’un soldato; un colpo di sciabola aveva
lasciato la sua traccia sulla sua fronte; e seppi che in un solo
combattimento, in cui si era fatto sciabolare piuttosto che arrendersi,
ne aveva ricevute venticinque o ventisei. Era stato ministro della
guerra di Luigi XVI, ed era sotto il suo ministero che la Convenzione
si era dichiarata ostile all’Austria.

Egli era esiliato, e considerava filosoficamente quanto succedeva
in Francia. Debbo dire che il suo colpo d’occhio aveva, se non
qualche cosa dell’aquila, almeno qualche cosa del falcone; leggeva
distintamente nell’avvenire e parlò del generale Bonaparte come di uno
dei più grandi uomini di guerra, che fosse mai esistito, e ci predisse
una fortuna ascendente di cui non vedeva il termine.

Noi gli demmo da parte nostra tutti i particolari sulla corte di
Napoli, su quella di Palermo e di Vienna, e gli dovemmo una delle
giornate più aggradevoli del nostro viaggio.

Restammo tre giorni ad Amburgo, vale a dire il tempo di dare un po’
di riposo a sir William; poi c’imbarcammo il 6 novembre e arrivammo a
Varmouth.

Era la prima volta che Nelson toccava il suolo d’Inghilterra dopo la
battaglia del Nilo. Fu ricevuto con ammirazione ed entusiasmo. Nel
momento dello sbarco, la voce del suo arrivo si sparse per la città, la
popolazione accorse, gridando: Viva Nelson; si tolsero i cavalli dalla
carrozza e lo trascinarono allo albergo di Wrester in mezzo ad applausi
frenetici. La fanteria della città venne a difilare sotto le sue
finestre; la musica del reggimento gli diede una serenata. Il mayor ed
il corpo municipale vennero a prenderlo, e lo condussero accompagnato
da sir William e da me, che affaticata com’era non potei sfuggire dal
recarmi alla chiesa, ove si resero azioni di grazie al cielo. Quando
lasciammo la città, un distaccamento di cavalleria ci accompagnò non
soltanto fino alle porte della città, ma ci scortò anche per buona
parte della strada. Tutti i vascelli della baia erano pavesati come la
festa del re, della regina o del principe ereditario.

Il 20 settembre, lord Nelson aveva scritto da Vienna al suo amico
Davison la lettera seguente:

      «Mio caro Davison,

  «Avvicinandosi il giorno del mio ritorno in Inghilterra, vi prego
  di farmi il piacere, voi e mio fratello, di cercarmi una casa, o
  anche solamente un buon alloggio ammobigliato per me. Non molto
  lusso, purchè sia conveniente alla mia situazione e a termine di
  mese in mese, non sapendo fino a quando resterò a Londra. Ponete
  mente poi che non sono tanto ricco quanto credete; due annate della
  rendita del mio ducato di Bronte mi furono già pagate in Sicilia;
  procurate quindi di non far nulla di superfluo.

  «La nostra partenza è fissata per domani, probabilmente arriveremo
  a Londra verso la metà di ottobre. La mia salute è eccellente, ma
  aspettatevi di vedere un vecchio. Scusatemi i disturbi che vi do e
  credetemi

                                                        «ecc. ecc.»

Arrivando a Londra, fu un’altra festa per noi. Nelson riscosse i
trionfi di Aboukir, di Napoli e di Malta: alla voce del suo arrivo
tutti i bastimenti del Tamigi si pavesarono, tutte le corporazioni
gli votarono delle armi d’onore e degli indirizzi; il popolo inglese,
nemico capitale della Francia, andò pieno d’entusiasmo incontro al
distruttore della flotta francese. La gloria di Nelson, grazie ai
racconti degli uomini di mare, era divenuta una specie di leggenda e
di gloria nazionale; la sua popolarità sorgeva dal patriottismo; ogni
Inglese, oltre alla parte di orgoglio che si attribuiva coll’essere
compatriotto di uno fra più grandi capitani di mare che sia esistito,
credeva di dovergli la tranquillità della sua casa, l’onore di sua
moglie, la proprietà dei suoi campi, la pace della sua patria.

Nelson entrò in Londra l’8 novembre, e scese all’albergo di Nerol a S.
James Street.

Mi ricordo che era sabato.

Colà mi attendeva un colpo terribile.

Da molto tempo andava chiedendo a me stessa, come mai si conterrebbe
Nelson, arrivando a Londra, quando si troverebbe fra me e lady Nelson,
di cui ognuno si accorda a vantare la condotta irreprensibile. Non
aveva mai fatto questa quistione a lord Nelson. Non mi accostava che
fremendo e coll’ingiustizia naturale di una falsa posizione, sentiva di
detestare lady Nelson e che all’occasione sarei stata implacabile con
lei.

Ahimè, e lo fui! Confesso che la mia crudeltà per quell’eccellente
creatura, la persistenza che impiegai ad allontanar da lei suo marito
e ad impedirle di vederlo, è ancor oggi uno dei miei più profondi
rimorsi.

Si giudichi, che quando entrai nell’appartamento destinato per Nelson,
vidi pel primo il venerabile padre di Nelson che aveva ottant’anni,
accompagnato da una donna, che senza mai averla veduta, riconobbi
all’oppressione del cuore che sentiva nel vederla, non poter essere che
lady Nelson.

Nelson si volse verso di me, mi vide pallida e tremante, coi denti
convulsi; egli fu crudele al pari di me.

Andò direttamente incontro a suo padre, lo abbracciò con effusione, ma
salutò freddamente sua moglie, come se avesse fatto per una straniera.

Essa si fece pallidissima in viso; gettò su di me uno sguardo che
m’inasprì, perchè credetti di riconoscervi più compassione che collera,
ed andò ad appoggiarsi al braccio del padre di Nelson, come per
nascondere il suo dolore sotto i capelli bianchi del vecchio.

Lasciai il salotto, ed entrai nell’appartamento che era stato
momentaneamente destinato per noi.

Nelson venne a raggiungermi subito, si gettò al miei piedi, e mi giurò
che mai lady Nelson non sarebbe per lui che una sorella. Vide che
questa promessa non bastava ancora per rassicurarmi, e allora, — che
Iddio perdoni, a lui che fece il giuramento ed a me che glielo lasciai
fare, — e allora fece il giuramento di non più rivederla, o di non
riceverla che in mia presenza.

Il giorno seguente era domenica, e il lord Mayor, che voleva dare una
festa a lord Nelson, fu obbligato a rimetterla a lunedì; la solennità
della domenica inglese non permette di darsi ad alcuna occupazione
mondana.

Al lunedì Nelson andò alla City, ma a Lundgate-hill il popolo staccò
i cavalli dalla carrozza e lo trascinò per tutto il Guide-hall con
frenetici urrà. Passando innanzi a Cheapside, fu salutato dalle
acclamazioni delle donne, che stipavano le finestre e facevano
sventolare i loro fazzoletti: dopo i toasts di uso, Nelson fu pregato
di andare a ricevere la spada che gli era stata decretata. Nelson si
avanzò sotto un arco di trionfo che era stato innalzato per riceverlo,
e dove l’aspettava il tesoriere della città che gl’indirizzò un
discorso a cui Nelson rispose:

      «Sir,

  «È grande orgoglio e profonda soddisfazione per me quella di
  ricevere dall’onorevole corte questa testimonianza della sua
  approvazione per la mia condotta; e con questa spada — e la
  sollevò — spero di giungere ad annientare il nostro inveterato
  ed implacabile nemico, senza di che il nostro paese non potrà mal
  godere una pace solida ed onorevole.»

Lo si vede, Nelson aveva già promesso con queste parole di uscire dallo
stato di riposo che si era ripromesso in Inghilterra.




VII.


Nel giorno del suo arrivo, vale a dire il 6 novembre, Nelson si recò
all’ammiragliato per fare una visita a lord Spincer suo amico, e gli
aveva partecipato il suo desiderio di lasciare il servizio, accennando
il motivo che suolsi addurre in questi casi, quello di una cattiva
salute.

Lord Spincer si era accontentato di sorridere all’espressione di
questo desiderio, e gli aveva augurato una seconda salute ed un secondo
Aboukir.

Al 1 gennaio vi furono promozioni, e lord Nelson apprese che era
stato nominato vice-ammiraglio della squadra azzurra, il che era una
ricompensa e un avanzamento ad un tempo; e quel giorno, riconciliatosi
col mare e con quella vita di pericoli che era la sua, trasportò la sua
bandiera sul _San Giuseppe_, che era a Plymouth.

Intanto io sentiva avvicinarsi il giorno del parto. Probabilmente non
sarebbe passato febbraio, senza mettere al mondo il bambino che io
teneva celato agli sguardi d’ognuno con tante sofferenze. Obbligata
alla corte di Vienna, dal principe Carlo ad Amburgo di essere sempre in
gran toletta, stretta in un corsetto chiuso a forza, nel corso della
mia gravidanza aveva degli spasimi e dei vomiti che inquietavano sir
William, benchè non sospettasse di nulla, poichè Nelson mi mostrò un
giorno una sua lettera in cui gli diceva:

«Emma ha dei dolori di stomaco, convulsioni e vomiti; credo che abbia
bisogno di prendere dell’emetico.»

Giunta a Londra, non doveva meno osservare le stesse cure che a Vienna,
a Dresda, ad Amburgo, perchè vi era tutta la famiglia di Nelson, suo
padre, suo fratello, sua moglie; ottenni da sir William di lasciar
l’albergo di Nerol, e andammo ad abitare in casa di suo nipote lord
Greenville all’estremità di Piccadilly, e che dominava Green Park.

Malgrado il desiderio che aveva di restare vicina a me in un momento
in cui il mio stato m’inspirava le più gravi inquietudini, Nelson
fu obbligato di partire il 13 gennaio per Plymouth. Colà un rimorso
sul modo che aveva serbato verso sua moglie, dopo il suo ritorno, lo
determinò a scriverle la lettera seguente, di cui io, nella mia pazza
gelosia per quella infelice creatura, gli serbai rancore per molto
tempo.

                                     «Southampton, 13 gennaio 1801.

      «Mia cara Fanny,

  «Siamo arrivati qua orrendamente affaticati. Le mie migliori
  tenerezze a mio padre e a tutta la famiglia. Vostro affez.

                                                           «NELSON»

Nelson giunse a Plymouth il 17, si stabilì a bordo del _S. Giuseppe_,
e vi rimase fino al 21; al 21 giunse ad Exeter con lord S. Vincent
che aveva incontrato sulla strada di Tor Abbey. Nelson fu ricevuto in
quella città con ogni sorta d’onori, e gli fu offerta la cittadinanza,
che gli era stata votata alcuni giorni prima.

In risposta ad un indirizzo che gli venne letto dal cancelliere in
quell’occasione, lord Nelson rispose:

«Qualunque onore mi possa essere accordato per la battaglia del Nilo,
io non ho che quello di aver eseguito gli ordini che ho ricevuto.
Questi ordini — aggiunse egli indicando lord S. Vincent — mi sono
pervenuti dal mio comandante in capo, che pur egli stesso li aveva
ricevuti dal lord dell’ammiragliato; questi ordini erano brevi e
precisi; dicevano d’incendiare, calare a picco e distruggere la flotta
francese dovunque si trovasse. Io sono stato soltanto lo strumento, di
cui la Provvidenza si è servita per giungere allo scopo, e per quanto
triste fosse stata la guerra, io le debbo oggi il vostro elogio, e
noi tutti le dobbiamo il godimento della libertà, delle nostre leggi,
della nostra religione; e poichè gli avvenimenti potranno far sì che
noi saremo in pace colla Francia, lo spero, saremo sempre in guerra coi
suoi principii.»

Seppi tutti questi particolari scritti separatamente nella lettera
seguente, che egli mi mandò da Plymouth il 18 gennaio 1801:

  «Che pazzo sono stato io mai di dirvi, cara Lady Hamilton, di
  scrivermi per Brixam. Sono stato veramente infelice sino ad oggi,
  per non aver vostre lettere, ed ho paura di non poterle ricevere
  che dimani. Ho fatto mal a credere che vi fosse qualcuno più attivo
  di me; oggi ho ricevuto l’ordine di pormi sotto il comando di Lord
  S. Vincent; ma siccome non è venuto quello di apparecchiare, sarà
  probabilmente venerdì di notte o sabato mattina che faremo vela
  per Forbais. Continuate a mandare le vostre lettere a Brixam. Il
  mio occhio è veramente ammalato, l’ho fatto vedere al medico della
  flotta che mi ha proibito di scrivere; eppure oggi sono stato
  obbligato a scrivere a lord Spincer, a Saint-Vincent, e a Davison,
  poi pel mio processo a Troubridge e a Locker; ma state tranquilla,
  voi siete la sola donna a cui scrivo. Il medico mi ha ordinato di
  non prendere che cibi blandi, di non bevere nè vino, nè porter;
  e poi debbo stare in una camera oscura e tenere una visiera verde
  sull’occhio; vorreste, mia cara amica, farmene una o due? io non
  ne voglio da nessuno fuorchè da voi. Debbo inoltre bagnare i miei
  occhi con acqua fredda.

  «Credo che sia la continua occupazione di scrivere, che mi
  ha prodotto questa malattia. L’occhio è iniettato di sangue e
  talmente pieno d’umori che ci vedo soltanto per un angolo quanto la
  lunghezza del naso.

  «Ecco tante voci per le mie sofferenze, ma essendo lontano da voi,
  mia cara amica, ho sventuratamente tutto il tempo per rendermele
  più tormentose. Credetemi sempre, mia cara Lady, il vostro
  fedelissimo e devotissimo

                                                        «O. NELSON»

Tre settimane dopo, ricevetti altre notizie di Nelson: mi scriveva l’8
febbraio a bordo del _S. Giuseppe_:

      «Mia cara lady,

  «M. Davyson reclama il privilegio di portarvi la risposta
  della vostra amabile lettera, e sono sicuro che sarà esatto
  nel consegnarvela. Sto poco bene di animo, e se il paese non
  reclama tutti i miei servigi e tutta la mia intelligenza, nulla
  m’impedirebbe di essere io stesso il latore della mia lettera.
  Ma, mia cara amica, so che siete una vera e leale inglese, e che
  avreste in odio quelli che non difendono il re, la religione,
  le leggi e tutto ciò che ci è caro. È il vostro sesso che fa di
  noi tanti eroi, che sembra non concedere che ai soli valenti la
  bellezza, e se noi cadiamo sul campo dell’onore, continueremo
  a vivere nel cuore delle donne che ci sono care; è il vostro
  sesso che ricompensa il nostro, e che infine conserva fedelmente
  le nostre memorie: e voi, mia cara ed onorata amica, siete,
  credetemelo, la prima e la migliore del vostro sesso. Ho fatto il
  giro del mondo, ed in nessun angolo del mondo non ho potuto trovare
  una vostra eguale, nè alcuna che vi possa essere posta a paragone;
  voi sapete come si ricompensa il coraggio, l’onore, la virtù, e non
  chiedete mai se sono poste in un principe, in un duca, in un lord,
  od in un contadino. Spero di vedervi tranquilla un giorno prima di
  partire per Bronte, come ho risolto di fare.

                                                        «O. NELSON»

Simili lettere scritte da un uomo, di cui tutta Inghilterra si
occupava, e che i re chiamavano loro sostegno, ed a cui, dovunque si
presentava, rendevansi onori reali, mi rendevano pazza d’orgoglio.
Si è creduto che io avessi un potere sopra Nelson, e invece era
lui che aveva un potere su di me: se mi avesse ordinato la cosa più
impossibile, io l’avrei tentata; la più criminosa, e l’avrei commessa.
Sarei stata meno altiera di essere amata da un re, di quello che fosse
per essere amata da Nelson. Essere l’amante di Nelson mi sembrava
il più alto periodo di gloria cui potessi giungere, e per me l’esser
moglie di sir William, vale a dire ambasciatrice d’Inghilterra, non era
che il penultimo gradino della scala sociale che salii; essere l’amante
di Nelson era l’ultimo.

E così pure mi consolava fin dei dolori che la mia gravidanza mi faceva
provare, e questi dolori non mi provenivano per causa sua? il bambino
che portava nelle viscere non era forse suo?

Bene spesso ne parlavamo insieme. Egli non ebbe figli da sua moglie, e
prometteva di adorarlo, e avremmo fatto di più. Nelson voleva lasciare
il servizio; faceva i progetti più fantastici su di lui e sulla sua
educazione, sia che fosse un maschio od una femmina.

Sperava che Nelson potesse ritornare a Londra, quando fu decisa la
coalizione del nord. Il governo allora decise di mandare una flotta
potente nel Baltico, sotto gli ordini dell’ammiraglio Parker, con
lord Nelson comandante in secondo; per cui, il 17 febbraio 1801,
l’ammiraglio mandò quest’ordine a lord Nelson:

«Lord Nelson si metterà sotto il comando di sir Hyde Parker ammiraglio
dell’azzurra, e comandante in capo della squadra dei bastimenti e
vascelli di S. M. Sarà impiegato in servizj particolari.»

In forza di quest’ordine, al 18 dello stesso mese passò sul _S.
Giorgio_, e partì per Spethead, ove doveva attendere altri ordini.

In questo tempo la mia ora era giunta. Al 15 febbraio fui presa da
dolori, nel momento in cui sir William Hamilton era andato a vedere,
lontano otto ore da Londra, nella contea di Surrey, una bella casa
di campagna con fondi annessi, chiamata Merton Place, che mi piaceva
assai. Mi trovai dunque sola nel momento in cui aveva più bisogno di
esserlo.

Vi era per fortuna in casa una donna che, avendo avuto molti figli, era
molto esperta in materia di parto, e alcune volte, in caso di urgenza,
aveva fatto da levatrice e da chirurgo. La feci chiamare, e dopo tre o
quattro ore di dolori, misi al mondo una bambina, tanto meschina, che
si credette dapprima che non fosse venuta al mondo che per morire; e
ciò dipendeva dalle precauzioni che io era stata obbligata di prendere,
coi corsetti che non aveva mai cessato di portare.

La donna portò la bambina nell’angolo più remoto della casa, ove per
tre o quattro giorni fu nutrita, non essendo abbastanza forte per esser
trasportata dalla nutrice, già presa anticipatamente, e che aveva il
suo appartamento a Little Tischfield Street.

Nello stesso giorno scrissi a Nelson; ma siccome temeva che si
spaventasse dello stato di debolezza della bambina, gli dissi
di ritardare di sei ad otto giorni il suo viaggio, da quello che
riceverebbe la mia lettera, non volendo che vedesse la nostra cara
Orazia senza di me.

Il giorno seguente, sir William ritornò dalla contea di Surry. Non si
maravigliò di trovarmi a letto. Gli si disse che aveva avuto una crisi,
in cui aveva reso molta bile. Egli lo credette e scrisse a Nelson;
«Emma è stata molto ammalata; ora però sta meglio e credo che malgrado
la bile che ha reso, abbia ancora bisogno di purgativi.»

In capo a quattro giorni, grazie alla mia ammirevole costituzione,
potei alzarmi; ed all’ottavo mi sentii abbastanza forte per uscire.

Andai dalla donna che si prendeva cura di Orazia: la bambina era un
poco più vivace, ma sempre così meschina, e si può giudicare di quel
che era, quando dirò che per trafugarla di casa senza essere veduta, la
nascosi nel mio manicotto, ove stava comodamente.

La nutrice era una donna della classe inferiore cittadina, chiamata
mad. Thompson: era bella, fresca e di un’eccellente salute. Nelson,
senza dire per chi fosse destinata, l’aveva fatta scegliere dal suo
medico.

Gli dissi che le retribuzione che riceverebbe, sarebbe in proporzione
del suo silenzio e della sua fedeltà, e intanto le lasciai pel primo
mese di allattamento cinque ghinee.

Il giorno dopo, Nelson arrivò inatteso. Per affari della più alta
importanza aveva chiesto un congedo di tre giorni. Accordato questo
congedo, era partito il 23, vale a dire il giorno stesso, in cui io
aveva condotto la bambina dalla nutrice.

Non vi fu mezzo di dar la colazione a Nelson; arrivò digiuno, tanto
avea premura di vedere la bambina: pretestò una visita di beneficenza,
in cui aveva bisogno della mia presenza, salimmo in vettura e andammo a
Little Tischfield Street.

La fu per me una vera consolazione, in vedere la gioia di quell’uomo
che era divenuto la mia vita: rideva, piangeva, prendeva la bambina
nel suo unico braccio, la faceva saltare, ballare; volle assolutamente
farla ridere, e mi sosteneva che aveva riso. La chiamava sua figlia,
sua cara ed unica figlia, e ordinò di portarla il giorno seguente in
casa di sir William; e volendola familiarizzare alla sua vista, fece la
sua lezione alla nutrice su quanto doveva dire.

Difatti il giorno seguente costei venne in palazzo colla sua bambina in
braccio. La prima persona che vide fu sir William, che, fermandola, le
chiese chi fosse: essa rispose che si chiamava M. Thompson, che aveva
un fratello che serviva sui bastimenti di lord Nelson, il quale aveva
acconsentito di essere il padrino della piccola figlia che aveva in
braccio e che gli portava per fargliela vedere.

Sir William non dubitò un istante della verità di quella storia: prese
la bambina sulle braccia, le augurò ogni sorta di prosperità, e la
restituì alla sua nutrice.




VIII.


Nelson rimase un giorno e mezzo con noi, poi ci dovette lasciar di
nuovo: questo secondo strazio di cuore ci fu ancor più doloroso del
primo; forse non ci saremmo riveduti più; questa bambina, che il
cielo ci aveva dato, non aveva esaurito per noi il tesoro delle bontà
celesti?

Convenimmo di scriverci in modo che, ove le lettere cadessero in altre
mani, nessuno potesse comprender nulla del loro contenuto, mentre per
noi dicevamo quanto ci occorreva. Così per esempio, alcuni giorni dopo
la partenza di Nelson, ricevetti da lui la lettera seguente, che darà
un’idea della nostra corrispondenza intima.

Si ponga mente che egli era M. Thomson, e che io era madama Thomson.

Egli mi scriveva da Deal:

«Non potete immaginare la vivezza dei miei sentimenti per voi: ora più
che mai sono grandi e sinceri, e non verranno mai meno. Tutti i doveri
del mio cuore saranno di crearci per l’avvenire de’ nuovi legami, e di
darci nuove prove di tenerezza e di affezione. Ho veduto l’amico di M.
Thomson e ho parlato molto con lui. Quel giovine sembra divorare le
parole mano mano che escono dalla mia bocca. Mi disse che non potrà
mai dimenticare le vostre gentilezze e la dolce vostra affezione per
lei e per la sua cara bambina. Vorrei che mi diceste che voi avete
avuto la bontà di vederla, e come stia, perchè mai bambino più caro e
più bello non nacque da due amanti; è veramente un figlio dell’amore.
Sono determinato di tenere suo padre a bordo, perchè se lo lasciassi
conversare colla madre, ne nascerebbe immediatamente un altro; ma dopo
due mesi gli darò il congedo, e spero che non si separeranno più, e
allora avverrà ciò che a Dio piace.»

Ecco le lettere secrete che mi scriveva, e che non nuocevano per nulla
alle lettere, per così dire, ufficiali, che riceveva da lui.

Così, p. e., al 2 marzo lasciava Portsmouth sul _S. Giorgio_, e al 3 mi
scriveva:

      «Mia cara Emma,

  «Il mio capo mi ha fatto l’onore di mettermi sulla fronte di
  battaglia e sarò il primo al combattimento. Vi direi di più se
  non temessi d’inquietarvi, conoscendo la grande tenerezza che
  avete per me. Il _S. Giorgio_ darà un nuovo raggio di gloria alla
  fama d’Inghilterra, se Nelson sopravvive, e se l’onnipotente
  provvidenza, che continuamente mi protegge nei pericoli, e che
  ha difeso la mia vita nei giorni di battaglia, mi assiste e mi
  protegge ancora. Conservatemi sempre nella vostra memoria ed in
  quella di sir William: il mio ultimo pensiero sarà per voi due
  che mi amate. Giudico il vostro cuore dal mio. Voglia il gran Dio
  dell’universo proteggervi e benedirvi insieme a sir William. È la
  fervida preghiera dell’inalterabile amico fino alla morte di voi e
  di sir William.

                                                   «NELSON BRONTE.»

Mi si permetta di dare ancora un saggio della nostra corrispondenza
privata, e si vedrà con quale ardore quell’uomo mi amava; quanto più
grande è quell’amore, più grande è la mia scusa.

Mi scriveva da Dusse innanzi a Boulogne:

«Non temete di nessuna donna, cara Emma, poichè ogni altra donna m’è
odiosa. Non ne conosco alcuna che vi possa rassomigliare, mia Emma.
Sono certo che non farete nulla che possa raffreddare l’amore che ho
per voi: quanto a me, morrei piuttosto che cagionarvi la minima pena.
Date dieci mila baci alla mia cara Orazia. Ieri il soggetto della
conversazione è caduto sul vaccino: un gentiluomo pretendeva che suo
figlio, che era stato vaccinato, aveva avuto contatto con un altro
fanciullo colpito dal vaiuolo, senza esser preso dalla malattia. Se
ciò è vero, è il trionfo del vaccino. Il fanciullo ha avuto un poco di
febbre per due giorni e soltanto una piccola infiammazione al braccio,
in luogo di essere coperto da pustule come era il fanciullo colpito dal
vaiuolo.

«Del resto fate quel che volete.»

Parlai di questa lettera al dottor Rowlay e del miracolo medico che
proclamava. Sventuratamente m’imbattei in un avversario accanito di
Jenner, il quale si oppose assolutamente a che Orazia fosse vaccinata,
e siccome aveva egli in quel momento un soggetto conveniente,
inoculò il pus alla povera bambina. Del resto la operazione riuscì
maravigliosamente; in tre settimane Orazia era completamente guarita.
In questa occasione presi a pigione per M. Thomson una casa a Slone
Street e ogni cosa andava bene.

Ora debbo fare una confessione e, per quanto mi costi, la farò.

Quanto più cresceva il mio amore per Nelson, tanto più aumentava il
mio odio ingiustificabile per sua moglie. Completamente separata di
corpo da lady Nelson, Orazio volle che questa separazione si estendesse
a tutti gli oggetti materiali e inservibili: mi scrisse di rinviare
a lady Nelson tutti gli oggetti di toletta ed altro che le potesse
appartenere, e che si trovavano coi suoi. Avrei dovuto ricusare, avrei
dovuto di questa crudele cura incaricare una donna della famiglia di
Nelson, qualche cognata; ma invece trovai in ciò l’acre piacere della
gelosia che si vendica; e lady Nelson ricevette tutti gli oggetti
che le appartenevano, con una carta su cui aveva scritto queste sole
parole: — Da parte e per ordine di lord Nelson.

Spero che Iddio misericordioso mi perdonerà, pel mio pentimento, il
dolore che ho dovuto cagionare a quella infelice donna.

Sir William nel suo viaggio alla contea di Surry non si era inteso per
Merton-place, e, invecchiando, era diventato sempre più avaro, e si
ritirò da questa compera per due o trecento sterline. Nel suo viaggio
a Londra, aveva parlato di questa compera a Nelson, e gli aveva molto
vantato la situazione della casa. Nelson si ricordò del mio desiderio,
e quando seppe che sir William non aveva comperato Merton-place,
gli scrisse incaricandolo di comperare Merton-place al prezzo che
gli venisse chiesto, dicendo che era sempre stato il suo più grande
desiderio di vivere in campagna cogli amici, che egli comperava Merton
per farne un ritiro per noi tre, ove avremmo potuto passare i nostri
giorni tranquillamente lungi da’ rumori della città e dagl’intrighi del
ministero.

Sir William andò dal notaio del proprietario di Merton-place, che
acquistò in nome di lord Nelson, al prezzo che aveva ricusato di
prenderlo egli stesso.

Siccome era sicura che Nelson non comperava Merton-place che per
farmene un dono, gli esposi nella mia lettera certi scrupoli, intorno
alla località che, se piaceva moltissimo a me, poteva dispiacere a lui.

Egli si affrettò di rispondermi:

«Non inquetatevi su questo punto; sono certo che Merton mi piacerà,
ed ho buona opinione del vostro gusto e del vostro giudizio, per non
credere che possa mancare.»

È nota quella terribile campagna dell’Inghilterra contro la
Danimarca, a cui Nelson era chiamato a prendere parte. Incaricato del
bombardamento di Copenaghen, Nelson si avanzò ad un punto tale, che
l’ammiraglio Parker, temendo che le navi inglesi naufragassero e non
potessero più manovrare, diede dal vascello ammiraglio il segnale della
ritirata.

Nelson prevenuto dal capitano Hardy del segnale che gli faceva il suo
superiore, portò il cannocchiale al suo occhio cieco.

— Non veggo nulla, disse, e continuò il combattimento.

Il cattivo stato della salute di Nelson e specialmente il suo desiderio
di rivedere me e la sua cara Orazia, di cui sarei stata gelosa, se una
madre può essere gelosa di sua figlia, gli faceva chiedere, quando la
campagna era quasi finita, il favore di ritornare a Londra. Siccome
egli chiedeva questo favore sotto forma di un congedo, l’ammiragliato
glielo accordò, sapendo bene d’altronde ove ritrovarlo, al primo colpo
di cannone che si tirerebbe.

Si sperava che il cannone tacerebbe per qualche tempo. Il ministero
Pitt, vale a dire il ministero della guerra, era caduto, e il ministero
Addington, vale a dire quello della pace, gli era succeduto.

Nelson lasciò quindi il suo comando nel Baltico, e al 18 giugno salì
sul brick la _Kite_ comandato dal capitano Degby, e arrivò ad Yarmouth
al 1 di luglio.

Ci capitò nel momento in cui meno si attendeva il suo bastimento, non
avendo impiegato che 10 giorni a venire da Kioge bay a Yarmouth.

La mia gioia fu grande. Fortunatamente, sotto il velo di una tenera
amicizia, potevamo, in presenza di sir William, dirci una parte delle
cose che sgorgavano dal nostro cuore. D’altronde un quarto d’ora dopo
l’arrivo di Nelson il principe di Castelcicala, ambasciatore, se lo si
ricorda, del re delle Due Sicilie, venne a comunicare un dispaccio a
sir William: sir William andò in un’altra sala e ci lasciò soli.

La prima parola di Nelson fu per Orazia; le dimande si succedevano con
tale rapidità che non poteva rispondervi.

Entrai nella sala, e dissi sotto voce a sir William, che lord Nelson
voleva vedere la sua figlioccia, e mi pregava di accompagnarlo dalla
nutrice.

Non aveva voluto uscire senza prima avvisare sir William.

Sir William mi strinse la mano e scosse la testa.

— Ecco un padrino molto tenero e premuroso, disse; andate pure, figlia
mia.

Lasciai i due diplomatici a discutere gli affari di stato, di cui,
grazie a Dio, non mi mischiava più, e salimmo in carrozza per andare a
Slone Street.

Cammin facendo, chiesi a lord Nelson notizie dell’uccello.

— Di quale uccello?

— L’uccello d’Aboukir, quello che venne a riposarsi sulla vostra spalla
il giorno che vi feci una visita sul _Vanguard_.

— Ah! disse egli con gioia, l’ho riveduto alla mattina del
bombardamento di Copenaghen; davvero, che comincio a credere che
quell’uccello sia il mio buon genio.

Nelson rivedendo la piccola Orazia fu ancor più felice della prima
volta. La bambina in quei quattro mesi che scorsero, era cresciuta, ed
aveva vinta la sua debolezza, era la più bella creatura che si potesse
vedere.

Nelson ritornò a Piccadilly pazzo di gioia; non fece che parlare della
sua figlioccia tutto il tempo del pranzo.

Come dissi, le negoziazioni erano aperte per la pace dal nuovo
ministero, ma l’Inghilterra non acconsentiva che alla condizione di
conservar Malta, e che le si cedesse la Trinità. Bonaparte si oppose
vigorosamente contro queste due pretensioni, e annunziò nel _Moniteur_
che riunirebbe la flotta a Boulogne per tentare un’invasione in
Inghilterra.

Difatti alcune divisioni di scialuppe e di cannoniere uscirono dai
porti di Calvados della Seyne, e si recarono a Boulogne.

L’Inghilterra non volle restare indietro, e riunì forze considerevoli
per opporsi a quel progetto.

Nelson ricevette il comando della squadra destinata a sorvegliare i
preparativi della Francia.

Bisognava separarsi di nuovo, ma questa volta vi era la speranza,
che la separazione sarebbe corta; era più una dimostrazione, che una
ripresa di ostilità.

La commissione di Nelson gli arrivò il 25 luglio 1801, e al 27 scrisse
a sir Evan Nepean Esq:

      «Signore,

  «Vi prego di avere la bontà d’informare i lord commissarii
  dall’ammiragliato del mio arrivo a Londra, e che immediatamente
  trasporto la mia bandiera a bordo dal vascello l’_Unità_ nel bacino
  di Sherness.

                                                   «NELSON BRONTE.»




IX.


La storia di Nelson m’è più cara della mia vita, e perciò lo seguo nel
Mediterraneo, dopodichè ritornerò a quell’Inghilterra tanto triste per
me dacchè la ho lasciata.

Negli ultimi giorni di luglio mi scrisse:

      «Mia Cara Emma,

  «Quantunque vi abbia scritto da vari luoghi, soltanto per dirvi,
  sono qua, sono là, mi è stato impossibile di dirvi altra cosa, che
  sono qui e sto bene, perchè non dubito _che saranno tutte lette_.
  Non ho altro mezzo per mandarvi notizie che il mare, e gl’invii che
  dovranno farsi col mezzo di piccoli bastimenti che l’ammiraglio mi
  ha dato, non potranno essere frequenti.

  «Il nostro passaggio è stato enormemente lungo: da Gibilterra a
  Malta abbiamo impiegato undici giorni; arrivai verso la sera del
  15, e ripresi il mare nella notte del 16 al 17 a tre ore, e non
  giungemmo che al 26 innanzi a Capri, ove ho dato ordine perchè la
  fregata che portava M. Elliot a Napoli venisse a raggiungermi.

  «Vi mando le copie delle lettere del re e della regina. Sono
  orribilmente afflitto che essa non dica nemmeno una parola di voi.
  La sua sola scusa che dice, è che questa è una lettera politica.

  «Quando risposi alla regina, le scrissi:

  «Ho lasciato lady Hamilton il 18 maggio, e sempre così affezionata
  verso V. M. che sono sicuro che darebbe la vita per salvare la
  vostra. V. M. non ha mai avuto un’amica più sincera e leale della
  vostra cara Emma. Vi spiacerà di conoscere, ne sono sicuro, che sir
  William non l’ha lasciata in una condizione pecuniaria così lauta
  come lo permetteva la sua fortuna. Egli ha diviso i suoi beni fra i
  suoi parenti; ma essa farà onore alla sua memoria, quantunque tutti
  i suoi amici gli diano il torto d’essere stato avaro verso di lei.»

  «Spero, mia cara Emma, che la regina vi abbia scritto direttamente:
  se è capace di dimenticare la mia Emma, spero che Dio la
  dimenticherà a suo tempo; ma voi credete che essa non sia capace
  di dimenticarvi. Questo è il momento di darvi una prova della sua
  affezione. Mostrate soltanto le copie delle lettere del re e della
  regina ai nostri amici più intimi.

  «Il re è tristo e sta sempre a Belvedere.

  «Elliot non vide nè lui nè la regina, dal 17, giorno del suo
  arrivo, fino al 21; al 22 egli dev’esser presente.

  «Sono convinto che il piano di questo _miserabile Corso_ sarebbe
  di conquistare il regno di Napoli: ha fatto entrare 13000 soldati
  nella parte dell’Adriatico, e prenderà possesso di Gaeta e di
  Napoli senz’alcun’ombra di diritto, e se il povero re fa qualche
  osservazione, o ci permette di soccorrere la Sicilia, dichiarerà la
  guerra, e dichiarerà Napoli di buona presa.

  «Aveva consigliato al generale Acton di non lasciare la famiglia
  reale a Napoli; poichè Napoli o tosto o tardi sarà conquistato,
  come meglio converrà a Bonaparte.

  «La Morea e l’Egitto sono pure nelle sue viste. Un’armata di 70000
  uomini si è radunata in Italia.

  «Come potete crederlo, ho grande premura di andare innanzi a Tolone
  a raggiungere la flotta.

  «Noi passiamo innanzi a Montecristo, a Bastia, al capo Corso; jeri
  ci avvicinammo lentamente a Tolone. Quale sia la loro forza, non
  lo saprei; alcuni dicono che hanno nove vascelli di linea, altri
  sette, altri cinque. Se ve ne sono nove, ci verranno ad incontrare,
  giacchè noi abbiamo soltanto un egual numero di vele.

  «Spero però che usciranno, e così potremo finir tutto, perchè, come
  sapete, nulla detesto di più dell’indecisione.

                                                      «Luglio 1803.

  «Mi avanzo verso Tolone per schiacciare i Francesi. Abbiamo tutto
  in pronto: sette vascelli di linea, cinque fregate e sei corvette;
  in una settimana ne avremo uno o due di più; abbiamo oggi otto
  vascelli di linea, dimani sette, compresivi due vascelli da
  sessantaquattro.

  «Potete immaginarvi, cara Emma, quanto sarei felice di avere una
  delle vostre care e lunghe lettere, per farmi sapere quanto è
  accaduto dopo la mia assenza.

  «Ringrazio Iddio che non possiate mai trovarvi in bisogno; ma state
  sicura, finchè avrò sei soldi, ve ne saranno cinque per voi; ma
  voi avete acquistato questa esperienza che in materia di denaro
  non bisogna contare sugli amici. Spero che il vostro buon senso ne
  approfitterà.

  «Credo bene che il ministro farà qualche cosa per voi; ma non
  ha fatto ancora nulla. Noi possiamo vivere con pane e cacio.
  L’indipendenza è una benedizione; e benchè non abbia trovato mezzo
  finora di fare una buona presa, e ciò che è stato preso si è già
  mangiato, pure sarei sfortunato se in questa campagna non avessi di
  che pagare tutti i miei debiti; e pagati i debiti non è per me poca
  consolazione.

  «Non ho ancora parlato ad Acton del mio affare di Bronte; ma se
  Napoli rimane per lungo tempo nelle mani del re Ferdinando, ne
  terrò parola, ma non spero nulla da loro. Credo che da parte sua
  non rincrescerà ad Acton di essere lontano sano e salvo.

  «Da quanto sento dire, credo che il re di Napoli sia così
  disperato, che metterebbe volentieri le redini di Napoli nelle mani
  di suo figlio, e si ritirerebbe in Sicilia. Voi sapete bene che sir
  William ha sempre pensato che il re Ferdinando finirà così. La sua
  situazione basta in fatti per istraziare il cuore.

                                                      «Luglio 1803.

  «Questa mattina abbiamo raggiunto la flotta. Gli uomini dei
  bastimenti sono buoni; ma i vascelli sono avariati e sono lontani
  dall’avere il loro equipaggio completo. Non ci sarebbe nulla di
  meglio, che di affrontarci subito col nemico.

  «Abbiate la bontà di mandare la lettera qui acchiusa al suo
  indirizzo, e state sicura che fino all’ultimo momento della mia
  vita sarò il vostro affezionato e fedele

                                                    «NELSON BRONTE»

Cito la lettera di Nelson invece di ritornare a me e seguire il mio
racconto, perchè credo che sia molto più curioso di veder l’uomo,
che ha avuto una così grande influenza sugli avvenimenti d’Italia,
ritornare nei luoghi ove questi avvenimenti si sono compiti, che di
vedermi sostenere i primi passi di Orazia, che giuoca sull’erba di
Merton-place.

Consacrerò questo capitolo alle lettere di Nelson, che non sono lettere
d’amore, ma dispacci politici.

Dunque continuo, o piuttosto continua Nelson:

                          «_Victory_ innanzi Tolone, 1 agosto 1803.

  «Non sono sicuro che riceverete questa lettera:

      «Mia carissima Emma

  «La vostra lettera del 31 maggio, che mi è giunta da Napoli,
  nel pacco di M. Noble contenente la corrispondenza di Davyson
  con Plymouth, mi è stata consegnata dalla _Phoebè_ due giorni or
  sono, ed è la sola linea, che la flotta abbia ricevuto dopo la sua
  partenza dall’Inghilterra.

  «Non vi sarà difficile, mia cara Emma, di farvi comprendere
  l’emozione, che la vista e la lettura della vostra lettera mi ha
  prodotto. Sono cose che non possono essere comprese che da persone
  legate da un’affezione come la nostra, e quantunque abbiate scritto
  poche parole, ho compreso che volevano dir molto. Approvo il vostro
  piano e la scelta della vostra società. Per l’altro inverno o per
  la primavera prossima spero di essere abbastanza ricco per fare
  tutti gli abbellimenti necessari al nostro caro Merton; ciò servirà
  a divertirvi; sono sicuro che sarò un grande ammiratore di tutto
  ciò che farete fino alle vostre piantagioni di uva spina.»

La crociera durò circa tre mesi. Dopo aver trasportato la sua bandiera
dall’_Uncle_ sulla _Medusa_ e dalla _Medusa_ sull’_Amazzone_, Nelson
seppe che la pace era stata firmata il 1 ottobre; ed era tempo, egli
era veramente ammalato.

Al 17 Nelson mi scrisse dall’_Amazzone_:

      «Mia cara amica,

  «Benchè la mia indisposizione non presenti alcun pericolo, pure
  resiste alla medicina che il dottore Baired ha prescritto; e debbo
  confessare che mi ha molto prostrato e mi pare d’inghiottire del
  rhum, che non possa digerire, e resti nei visceri. Vorrei che
  questi signori dell’ammiragliato soffrissero dello stesso mio male;
  ma siccome essi non hanno visceri, almeno per me, è inutile che lor
  faccia questo augurio. Ho passato una notte molto cattiva, ma le
  vostre care lettere e quelle di sir William, mi fanno un gran bene.

  «La positiva mia risoluzione è di non esser tormentato al mio
  arrivo a Londra, e di non chieder nulla, fuorchè di ritirarmi in
  campagna con voi, miei buoni amici.

  «In questi due giorni, qui ha fatto molto freddo, ma il tempo non
  è cattivo. Ho acceso il fuoco nella cabina, e spero che la malattia
  se ne andrà.

                                                   «NELSON BRONTE.»

Quantunque questa lettera si debba porre nella categoria delle lettere
officiali, m’inquietava; le sue frasi interrotte, e direi quasi
convulse, mi parevano indicare che chi le aveva scritte tremava per la
febbre nel vergarle.

Al 23 ottobre Nelson arrivò a Merton-place. Aveva chiesto a sir
William di alloggiare la nutrice e la sua piccola Orazia in una delle
sue piccole dipendenze. Sir William, che conosceva l’amore di Nelson
per quella bambina, acconsentì immediatamente: inoltre la casa era di
Nelson, e non sua. Io aveva indovinato, perchè Nelson appena ci ebbe
abbracciati chiese della sua figlioccia, e si dovette condurlo subito
dalla pretesa madre di Orazia; ma la vera madre era là, e non perdette
nè una parola, nè un gesto, nè un segno. Questa gioia di Nelson era il
mio trionfo.

Al 29 dello stesso mese Nelson fu istallato alla camera dei lord: aveva
ritardato quella cerimonia, che riteneva per molto noiosa, e l’aveva
ritardata quanto più potè. Siccome egli era visconte, fu presentato dal
visconte di Sydney.

L’inverno passò in mezzo ai balli ed alle feste nei villaggi
circostanti di Merton-place, di cui Nelson era fanatico in causa della
sua solitudine, e della libertà che vi godevamo, e dei balli e delle
serate e delle feste come Piccadilly. Sir William riceveva molto, e
siccome Nelson abitava con noi, avevamo sempre per ospite qualcuno
della sua famiglia, e debbo dire, che questi ospiti, che dopo la morte
di Nelson non mi parlarono più, erano invece, quando egli era vivo,
pieni di attenzioni e di riguardi per me.

Nell’estate del 1802, lord Nelson, suo padre, suo fratello, sir William
ed io, andammo a fare un viaggio nel sud della contea di Galles; ma
a Bleenheim il mio amor proprio ebbe a soffrire una forte scossa,
visto lo sprezzo che mi manifestava la nobile famiglia che abitava
il castello. Nelson fu profondamente offeso di questa mancanza di
convenienza a mio riguardo, rifiutò di accettare i rinfreschi che ci
offersero, ed io dissi allora in modo d’essere intesa:

— Dopo la battaglia di Abouckir, se fossi stata regina, avrei dato
a Nelson un principato; ma avrei procurato che fosse tanto bello che
Bleenheim non fosse che un orto in suo confronto.

Del resto in tutte le feste che si diedero al mio eroe, dai municipj,
dalle città, o dalle assemblee pubbliche, combinai costantemente, col
mio talento declamatorio, e colla mia voce veramente rimarchevole, di
aumentare l’allegria dei conviti e i piaceri delle serate: non soltanto
la voce pubblica, ma anche i giornali della provincia fecero conoscere
gli immensi successi che ottenni.

Al principio di settembre ritornammo a Merton, e vi restammo tutto
l’inverno.

Da molto tempo sir William non istava molto bene, ma verso la fine
dell’inverno la sua indisposizione si fece assai grave, e nel mese di
marzo cadde ammalato seriamente. Lo conducemmo subito a Londra, ove gli
furono prodigate tutte le cure, ma la scienza nulla poteva contro ai
suoi settantadue anni, e andò sempre più indebolendosi, di modo che al
6 aprile ci trovammo tutti e due in ginocchio al suo letto per ricevere
l’ultimo suo sospiro.

Sir William morì come un uomo che non ha nulla da rimproverarsi, e
pochi minuti prima di morire, con voce debole, ma piena di serenità,
disse a Nelson prendendogli la mano: — Bravo e grande Nelson, la nostra
amicizia quantunque lunga è stata senza nubi, e morendo sono altiero
dell’amico che Dio mi ha dato. Spero che vedrete e farete rendere
giustizia dai ministri ad Emma. Voi sapete meglio di chiunque i grandi
servigi che ha reso, e vi ricorderete tutto ciò che ha fatto pel
nostro paese. Proteggete la mia cara moglie, e possa il grande Iddio
benedirvi, darvi sempre la vittoria, e proteggervi nelle battaglie.

Poi volgendosi a me, disse:

— Mia incomparabile Emma, voi non mi avete mai offeso, nè in pensieri,
nè in parole, nè in azioni: lasciate che vi ringrazii profondamente per
la vostra affezione, per la vostra bontà, nei dieci anni della nostra
felice unione.

Poi, facendo un ultimo sforzo, unì le nostre due mani, mandò un sospiro
e spirò.

Piansi sir William, e lo piansi sinceramente; gli doveva l’alta
situazione che aveva occupato alla corte, e la parte brillante che vi
ebbi. Forse sarebbe stato meglio per la mia eterna salute che fossi
rimasta umile e povera nell’oscurità; ma questa riflessione che faccio
oggi, non si presentava allora al mio pensiero.

Lord William non dubitava che dopo la sua morte non ottenessi coll’alta
influenza di Nelson la successione nella sua pensione che era di 1500
sterline. Egli sapeva che Nelson aveva comperato per me Merton-place
che valeva cinquecento sterline; credette perciò di lasciarmi
ricca legandomi 750 sterline. Difatti queste tre rendite riunite mi
costituivano circa un’entrata complessiva di settantamila franchi.

Ma bisognò rinunziare completamente alla speranza della pensione
ministeriale: per quante pratiche siansi fatte da me e da lord Nelson,
non ottenemmo nemmeno l’onore di una risposta. Ma Nelson non era uomo
di lasciarmi sopportare un lungo affronto. Mi fece una falsa vendita
di Merton, e mi assicurò una rendita di mille e dugento lire sterline,
il che mi dava, con Merton ed i legati di sir William, sessantamila
franchi di rendita.

Da un codicillo del suo testamento, fatto una settimana prima della
sua morte, sir William dava a Nelson un mio bel ritratto in miniatura,
dipinto sullo smalto; io gli diedi una catena d’oro, ed egli portò
costantemente la catena al collo ed il ritratto sul cuore.

Ma una cosa che mi stupì e mi rattristò ad un tempo assai
profondamente, fu la condotta di lord Greenville suo nipote. Quest’uomo
che mi aveva tanto amato, che credeva d’impazzire perdendomi, si
dichiarò uno dei più accaniti persecutori. Un mese dopo la morte di suo
zio, mi obbligò ad uscire dalla casa che gli apparteneva.

Nelson, vedendo che non aveva più domicilio a Londra, prese un piccolo
appartamento separato dal mio, ed era un gran sacrificio che faceva per
la mia riputazione e al rispetto del mondo; ma non ebbe il coraggio di
continuare questa separazione alla nostra casa di campagna.

Presi a pigione una casa a Clarge Street.

Ma qualche settimana dopo questa nuova istallazione, perdetti
l’appoggio e la presenza del mio nobile amico, chiamato al comando
della flotta del Mediterraneo.

Era insieme un grande onore e un grande dolore per me. In questi
diciotto mesi, in cui ci eravamo abituati a quella vita d’intimità che
bisognava rompere, e per una guerra più accanita che mai, si sarebbe
detto che la lunga speranza della pace, che andava a scemare, aveva
esacerbato, l’una contro l’altra, le due nazioni.

Il dolore di Nelson era tanto più grave, perchè era incinta per la
seconda volta, e per la seconda volta era obbligato a lasciarmi in
quella condizione, che, secondo lui, doveva stringere di più i nostri
legami.

Prima di lasciarci giurammo che nulla ci avrebbe potuto separar mai
più; e mi diede un anello d’oro, col quale aveva rimpiazzato quello che
mi aveva dato sir Hamilton.

Appena imbarcato mi scrisse:

                                 «22 maggio 1803, otto ore mattina.

      «Mia carissima Emma,

  «Siamo in vista di Ushant, e potremo vedere l’ammiraglio Cornwallis
  in un’ora.

  «Sono molto inquieto dell’idea che mi potrà prendere il _Victory_ e
  mandarci nell’_Amphion_, che è molto incommodo; ma che posso farci?

  «Vi assicuro, cara Emma, che ho la più grande convinzione che
  avremo tosto onori, ricchezze e salute, e resteremo insieme fino ad
  età avanzata.

  «Conservo il tuo ritratto e quello della mia figlioccia, ma non
  voglio ancora appenderlo alla parete, finchè non sono sicuro
  di restar qui. Assicuratevi che la mia affezione per voi è
  inalterabile, nulla al mondo la può diminuire. Ve ne prego, dite
  ciò alla _cara_ M. T. quando la vedrete; ditele che il mio amore
  per lei e per la sua cara e dolce figlia è infinito, e se ve ne
  sono altri, il mio amore si estenderà su tutti. Finalmente, mia
  cara Emma, ditele tutto ciò che il vostro caro e affettuoso cuore
  potrà pensare.

  «Noi siamo ben collocati su questo bastimento. M. Elliot sta bene;
  ditelo a lord Minto. Murry, Sulton, insomma tutti i nostri compagni
  di bordo hanno l’apparenza di essere felici, e se c’incontreremo
  colla flotta francese, faremo quello che siamo soliti a farle.

  «Hardy è stato fino a Plymouth, per vedere se il nostro _Duchman_ è
  salvo; sarà una presa eccellente.

  «Gaetano invia i suoi umili doveri a milady; è un buon uomo e sono
  sicuro che ritornerà, perchè credo che la guerra non sarà lunga;
  sebbene lunga abbastanza per farmi una fortuna indipendente.

  «Se il vento continua, lunedì saremo sulle coste di Portogallo, e
  prima di domenica nel Mediterraneo.

  «Dite a mistress Cadogan le migliori cose che potrete, ed anche
  alla sua governante mistress Nelson e a suo marito il dottore ec.
  ec. ec.

  «Non vi scriverò più fino a che non sarò a bordo dell’ammiraglia.
  Dite a mistress Thomson, che le scriverò alla prima occasione,
  non essendo sicuro se questa lettera le perverrà. Dopo il primo di
  luglio manderò una lunga lettera a Nelson.

                                                        «23 maggio.

  «Ieri siamo stati vicinissimi a Brest, e seppi da una fregata che
  l’ammiraglio Cornwallis ha un convegno in mare. L’abbiamo cercato,
  ma a quest’ora non l’abbiamo trovato.

  «Il vento è forte. Se non trovo l’ammiraglio fra sei ore, saremo
  tutti obbligati di andare sull’_Amphion_ con mio grande dispiacere,
  e di lasciare il _Victory_. E tutto ciò avviene per l’alta sapienza
  dei miei superiori.

  «Lascio la mia lettera aperta fino all’ultimo momento, avendo
  ancora qualche speranza. Intanto cerco inutilmente una buona
  ragione di non lasciarmi trasportare sull’_Amphion_.

  «Faccio i preparativi per imbarcarmi sull’_Amphion_ non avendo
  trovato l’ammiraglio Cornwallis.

  «Che Iddio vi benedica, ecco la preghiera del vostro più sincero.

                                                    «NELSON BRONTE»

  «Vorrei avere le pubblicazioni di Stephen.

  «Debbo aver lasciato costà il mio sigillo d’argento; che non mi fu
  più possibile di trovarlo.»

  «Sulton mi ha raggiunto jeri, e grazie a Dio ci fu reso il
  _Victory_; siamo andati tutti al suo bordo, e in pochi giorni ci
  metteremo in ordine.

  «Hardy è tutto occupato ad appendere nella mia cabina il vostro
  ritratto e quello di Orazia; spero di vedere arrivare i due
  altri dall’esposizione; non ho bisogno di altri ornamenti nella
  mia cabina. Potrò contemplarli tutti i giorni, e trovarvi nuove
  bellezze ogni giorno. Non mi occorre altro.

  «Non aspettate grandi notizie da noi: non vediamo nulla. Ho gran
  paura che Napoli cada nelle mani dei Francesi, e se Acton non sta
  in guardia, anche la Sicilia: però ho dato i miei consigli, in modo
  così chiaro e preciso, che se ciò accade non si potrà darmene la
  colpa.

  «Il capitano dice che Elliot non può soffrir Napoli; lo credo
  anch’io. Ahimè, non è più come quando ci eravate voi.

  «La regina, a quanto credo dal suggello, ha mandato una lettera a
  Castelcicala. La lettera che mi dirige è piena di ringraziamenti
  per me, per la cura che prendo del suo regno: se il dottore Scott
  ha tempo, ve ne manderò una copia.

  «Il re vive ritirato; ha rifiutato di ricevere il generale francese
  Saint Cyr, che è venuto a Napoli per regolare le contribuzioni pel
  pagamento dell’armata francese.

  «La regina ha ricevuto l’ordine di offrire un pranzo tanto a lui
  quanto al ministro francese; ma nel dare quest’ordine il re è
  rimasto a Belvedere. Credo che si disponga a lasciar Napoli, e a
  ritirarsi in Sicilia, se però i Francesi glielo permetteranno.

  «Acton non ha avuto il coraggio di dare un pranzo ad Elliot o ad
  un inglese. La flotta è pronta ad uscire, e non uscirà per paura di
  battersi con me.

  «Calcolo che ho perduto due vascelli francesi da 74 per non essere
  restato nel _Victory_; ma spero che ritorneranno cogl’interessi.

  «Questa lettera andrà a Gibilterra, con Sulton sull’_Amphion_.

  «Fra due o tre giorni scriverò al dottore: veggo dai giornali
  francesi che è stato ammesso al baciamano.

  «Col più dolce ricordo alla vostra buona madre e a tutti quelli di
  Merton, sono sempre il vostro fedelissimo e affezionatissimo.

                                                    «NELSON BRONTE»


                              «_Victory_, 10 agosto innanzi Tolone.

      «Mia cara Emma,

  «Colgo l’occasione che mi offre M. Accourt che attraversa la Spagna
  coi dispacci per l’Inghilterra, per inviarvi questa lettera, perchè
  non vorrei per nulla al mondo perdere un’occasione di scrivervi.

  «Al quattro vi ho scritto da Gibilterra. Ma nessuno dei nostri
  mezzi di comunicazione coll’Inghilterra non è certo. Credo che
  l’ammiragliato ci ha completamente dimenticati, poichè nessun
  vascello ci ha raggiunti dopo la nostra partenza da Spithead. Non
  ho quindi nessuna notizia da darvi se non che un mio scooner ha
  messo il suo naso nella rada di Tolone e che subito quattro fregate
  l’hanno preso per un trasporto d’acqua per la flotta; ma spero di
  aver presto occasione di pagare questo debito cogl’interessi.

  «M. Accourt dice che a Napoli si ha la speranza di essere salvati
  colla mediazione dei Russi; credo però che se i Russi fanno la
  guerra ai Francesi, non siano però tutti pel reame, e quei nostri
  amici appoggiandosi su di una canna spezzata, perderanno anche la
  Sicilia.

  «Prendere qualche cosa pel mio ducato di Bronte, non lo spero:
  le finanze di Napoli non sono state mai peggiori: pazienza, ma
  vorrei....

  «Vedo che son morti molti vescovi: vorrei sapere se mio fratello si
  annoia a Cantorbery: mi occuperei per fargli avere un vescovado: se
  lo vedete e gli scrivete, ditegli che non ho dieci minuti di tempo
  per inviargli una parola; M. Accourt non può trattenersi di più.»


                                                        «26 Agosto.

      «Cara Emma,

  «Dire che penso a voi giorno e notte, e dire tutto il giorno e
  tutta la notte, non basta per esprimere la mia affezione ed il
  mio amore per voi: credetemi che sono incapace di offendervi in
  pensieri, in parole ed in azioni. Tutte le ricchezze del Perù non
  basterebbero a riscattarvi per un sol momento; io sono tutto a voi.

  «L’appello della nostra patria è un dovere, al quale debbo
  arrendermi, e se non rispondessi a quest’appello, voi stessa,
  nei vostri momenti di fredda riflessione, mi rimproverereste e
  mi credereste così miserabile e avreste avuto vergogna di me;
  non mi direste più: Ecco l’uomo che ha salvato la patria, ecco
  chi è sempre il primo a correre alla battaglia, e l’ultimo a
  tornare, e poi tutti questi onori si riflettono su di voi. Il
  mondo dirà, vedendomi: quanti sacrifizj non ha fatto quell’uomo
  per assicurare le nostre proprietà fino a lasciare la donna più
  vezzosa e più gentile del mondo. Amandomi come voi mi amate, come
  voi dovete comprendermi.... Il mio cuore è con voi, mia cara amica.
  Procurerò di lasciare un nome senza macchia. Io non l’ho fatto nè
  per ambizione, nè per desiderio di ricchezza; nè il desiderio di
  ricchezze nè l’ambizione avrebbero potuto tenermi lontano da tutto
  ciò che ama il mio cuore. Non ho salvato il mio paese e la donna
  che amo perchè era nella volontà del Signore.

  «Sempre, sempre vostro in questo mondo e nell’eternità.

                                                    «NELSON BRONTE»

  «Per sempre, per sempre il vostro

                                                           «NELSON»

Ora riprendiamo il corso del nostro racconto.




X.


Grazie alla famiglia di Nelson, che per compiacere al nobile ammiraglio
fu assai garbata per me, io non fui così isolata come quando partì. Sua
nipote, la figlia del dottore, fu accolta nella mia casa, e divenne mia
scolara. Essa studiò con me il francese, l’italiano, il disegno, la
musica, e posso dirvi che in sei mesi, da una specie di contadinuzza
che era, l’aveva trasformata in una piccola damigella; era una prova
di condiscendenza da parte mia, e dalla parte di Nelson, una prova di
stima.

Il dottor Nelson, fratello dell’ammiraglio e padre della giovinetta
di cui aveva intrapreso l’educazione, avendo ottenuto di essere
nominato canonico della Cattedrale di Cantorbery, era molto assiduo
a presentarmi i suoi doveri, quando io andava a passare una parte
dell’estate in quella città.

Aveva con me mistress Bellington, antica artista drammatica, che era
stata molto bella, ed avea un gran talento.

Gli abitanti di Cantorbery erano, debbo dirlo, molto maravigliati
di vedere le due ospiti del venerabile canonico, e furon quasi
scandalizzati quando un giorno di festa offrimmo, mistress Bellington
ed io, di cantare un duetto sacro nella Cattedrale. La nostra offerta
fu accolta con un rifiuto molto netto e secco. E più ancora, i
rispettabili cittadini dell’antica capitale del regno di Kent non
mancarono mai di mettere sui loro viglietti di visita: pel dottor
Nelson _ma non per lady Hamilton_.

Poco tempo dopo la partenza di Nelson, partorii una seconda figlia, che
nacque a Merton, ed a cui diedi il nome di Emma: la povera bambina non
fece che apparire in questo mondo, e morì l’anno seguente in un accesso
di convulsioni.

In quest’epoca, l’ho detto e lo ripeto, tutta la famiglia Nelson
era piena di riguardi per me, e naturalissimamente era in non buone
relazioni colla povera moglie. E Nelson aveva detto chiaramente a tutti
i suoi parenti, che quelli che sarebbero in buone relazioni con me lo
sarebbero anche con lui. Difatti dopo la morte di sir William, Nelson
dimenticò l’esistenza di mistress Nisbett, e mi considerava e trattava
come sua vera moglie. Si è veduto dalle sue lettere a qual grado giunga
il suo amore per me. Ma quando fui stanca della sua assenza, e colma
di disprezzo da questa ridicola cittadinanza, gli scrissi che era mio
desiderio di raggiungerlo e di stare sul suo bastimento, correndo con
lui tutti i pericoli ai quali si esponeva. Mi rispose con una fermezza
che non mi sarei mai aspettata:

«Sapete, mia cara Emma, che soffrite quasi sempre in mare: immaginatevi
cosa sarebbe quando sareste in crociera innanzi a Tolone, ove anche in
estate abbiamo venti, almeno una volta alla settimana, e due giorni di
mare grosso.

«Non voglio che vi ammaliate, per vedervi io ammalata. Com’è mai
possibile di avere Orazia a bordo di un vascello?

«E poi ho pel primo vietato che nessuna donna venisse a bordo del
_Victory_; e sarei io il primo a disubbidire all’ordine che ho dato?
che Dio me ne guardi!»

In mezzo a tutto ciò debbo confessare una cosa; è che la mia abitudine
di spendere era tale, che la rendita di Merton, il legato di sir
William, e la pensione vitalizia che Nelson mi faceva corrispondere, e
che formavano circa sessantamila lire di rendita erano insufficienti.

Parlava dunque sempre a Nelson di sollecitare per me da M. Addington la
trasmissione della pensione di sir William, ed egli che non comprendeva
nulla delle mie esigenze, e che non poteva dubitare come con tale
fortuna mi trovassi in bisogno, mi rispondeva: «Se M. Addington vi dà
una pensione, sarà bene; ma voi non datevi pena per ciò. Non avete
Merton per voi senza ipoteche? e non dovete nulla a nessuno. La mia
cara Orazia è già provveduta, e spero che qualche giorno voi sarete la
mia duchessa di Bronte; e allora non darei un fico per tutto il mondo.»

Attorniata da gente senza mezzi e da numerosa parentela, la mia casa
a Londra e la mia villa di Merton erano in continue feste, in cui i
miei mezzi, quantunque lauti, non permettevano di far onore. Nelson
mi faceva di quando in quando qualche rimostranza sulla necessità
dell’economia; si scorgeva in lui l’uomo che aveva sofferto la povertà,
e temeva di trovarsi senza denaro. Insisteva specialmente su ciò, che
abitassi a Merton, ove probabilmente doveva fare più economia che a
Londra.

Se Nelson fosse stato vicino a me, non avrei nemmeno sognato di
scostarmi dai suoi consigli, ma, lui assente, la noia di una vita tanto
disoccupata, dopo averne vissuto una così attiva, mi angustiava, e non
poteva fermarmi quieta in un luogo. Lasciai Merton per Londra, ove le
mie spese non avevano limite.

Aveva l’abitudine di passare una parte dell’estate ai bagni di mare, ed
era specialmente là ove la spesa diveniva enorme. Queste spese davano
delle inquietudini a Nelson; ma io gli diceva che questi bagni mi erano
raccomandati dai medici, e non seppe dirmi che una cosa:

«Andate a’ bagni, quando io non vi era, e restateci, quando già vi era.

Ma come frase incidente od in una poscritta gettata a’ piedi di una
lettera molto tenera, mi diceva:

«È necessario, mia cara Emma, di far maggiore economia; se no gli
abbellimenti del vostro caro Merton non si potranno più fare, e il
nostro caro Merton avanti di tutto.»

E aggiungeva, e debbo dirlo, ahimè, inutilmente:

«Il vostro cuore buono ed angelico, mia cara Emma, mi darà certamente
ragione, perchè comprenderete che tutto è a caro prezzo, a motivo della
guerra, che abbiamo degli amici che hanno bisogno di noi, e che bisogna
aiutarli, e voi troverete, ne sono sicuro, maggior piacere a compire
questo dovere, che a mantenere una colluvie di parassiti, che non hanno
nessuna amicizia per noi».

Ma tutti questi consigli erano inutili: ad ogni lettera che riceveva da
Nelson facevo mille giuramenti per correggermi, e poi mi abbandonava
a nuove spese ancora più pazze, e più inutili delle prime. Era una
sorgente d’inquietudini per Nelson, e però appassionato per me, come
egli era, mi lasciava continuare. Alla fine comprese che le mie
imprudenze potevano compromettere l’avvenire di Orazia, e che era
necessario di assicurarle una fortuna indipendente, perchè più tardi
non avesse a soffrire per le mie pazzie: mi scrisse inquest’occasione
nel marzo 1804:

«Al mio ritorno disporrò quattro mila sterline per Orazia, perchè non
intendo che si trovi sprovvista quando la lasceremo sola e senza amici
al mondo.»

Io aveva sopra Nelson un potere per farlo accondiscendere a tutte
le mie volontà: era di fargli credere che qualche nobile gentleman
chiedeva la mia mano; fra gli altri il vecchio duca di Queensburg, che
mi seguiva e mi faceva la sua corte, colla stessa assiduità come se
avesse venticinque anni.

Si è già veduto che Nelson, ricevendo una lettera della regina di
Napoli, era stato scandalizzato che non dicesse una parola per me. Ma
verso la fine della sua crociera, vedendo che quel silenzio continuava,
finì per iscoprire una cosa di cui sospettava già da lungo tempo, cioè
che la regina, malgrado le proteste della sua eterna riconoscenza,
non aveva conservato che una mediocre memoria della mia affezione per
lei, e dei servigi che le aveva reso: allora risolse di venire ad una
spiegazione con lei, e di farle conoscere il mio stato di fortuna, i
bisogni che mi creava, la mia abitudine di spendere, e la necessità in
cui mi trovava di aver bisogno de’ suoi soccorsi. Ma la regina rispose
sempre freddamente, con frasi ambigue, e protestando l’imbarazzo delle
sue finanze.

Nelson indignato mi trasmise le sue osservazioni sulla condotta e sul
carattere della regina, ed io pure non mi curava di alcun riguardo
verso quell’amica infedele, e mi vendicai di essa col raccontare
la storia abbastanza scandalosa dei suoi amori, senza pensare che,
paragonandola a Saffo ed a Messalina, gettava su me stessa una parte
della vergogna di cui voleva coprirla.

In quell’epoca ebbi una penosa e rincrescevole questione con M.
Greenville supra il testamento di sir William. Greenville sperava di
farmi indietreggiare innanzi allo scandalo; ma quando mi vide disposta
a sostenere il processo, propose una transazione che Nelson mi obbligò
ad accettare, quantunque a mio svantaggio.

Perdetti in questo affare tre o quattro mila franchi di rendita, e finì
là.

Nelson aveva un tale amore per sua figlia, che sebbene avesse tre anni,
le scriveva come se avesse potuto comprenderlo.

                                          _Victory_, 13 aprile 1801

      «Mia cara Orazia,

  «Vi mando dodici volumi di stampe di costumi spagnuoli, che il
  vostro angelo custode, lady Hamilton, vi conserverà quando sarete
  stanca di guardarli. Sono contento di sapere che siete ristabilita
  in salute, e che siete una buonissima figlia. Prego Iddio, mia cara
  Orazia, perchè continuiate ad esser buona e brava, il che sarà una
  grande consolazione per il vostro affettuoso

                                                    «NELSON BRONTE»

Quando Nelson scrisse questa lettera non era più in crociera innanzi
a Tolone; ma in traccia della flotta francese, che gli era sfuggita di
mano.

Al sabato, 30 marzo, per ordine di Napoleone, la flotta francese, che
formava uno dei particolari del gran piano che egli aveva concepito,
era uscita dal porto di Tolone sotto gli ordini dell’ammiraglio
Villeneuve.

Ecco qual era quel piano, che non fu conosciuto da Nelson se non
quando non era più a tempo di opporvisi, e che non fu sventato che da
circostanze indipendenti dalla volontà degli uomini.

Napoleone, — poichè Bonaparte era diventato Napoleone, e il primo
console, imperatore, — Napoleone non aveva perduto di vista il suo
sbarco in Inghilterra; aveva risolto di dar ordine a tutta la flotta
francese che uscisse ad un tempo da tutti i porti ove gl’Inglesi
stavano osservandola, e di portarsi verso le Indie occidentali; di
attirare gl’Inglesi dalla parte delle Antille, e di ritornare poi di
botto nei mari d’Europa, con una riunione di forze superiore a tutte le
squadre inglesi che potrebbe incontrare.

Il punto di convegno generale dei Francesi era la Martinica.

All’11 gennaio l’ammiraglio Missiessy era uscito da Rochefort con
una tempesta orribile, e passando da Perthuis aveva preso il largo
senz’esser veduto dagl’Inglesi: aveva con lui cinque vascelli e quattro
fregate.

L’ammiraglio Villeneuve doveva partire col primo vento favorevole,
tentare d’ingannare Nelson, e se non lo ingannava, di sfuggirgli almeno
di mano, passare lo stretto, toccar Cadice, e raggiungere l’ammiraglio
spagnuolo Gravina, far vela per la Martinica, unirsi a Missiessy,
e aspettare Gantheaume, che anche egli al primo colpo di vento di
equinozio che svierebbe gl’Inglesi, doveva uscire dal porto di Brest,
con ventun vascelli che egli aveva sotto i suoi ordini: e passando
da Ferrol prenderebbe un’altra flotta francese e spagnuola, sotto gli
ordini dell’ammiraglio Gaurdon, e si dirigerebbe verso la Martinica,
ove, come abbiam detto, dovevano aspettarlo Missiessy, Villeneuve e
Gravina. Questa riunione di cinque ammiragli e di sei flotte doveva
dare da 51 a 60 vascelli, forza enorme, di cui non si era mai veduto
in altri tempi, e su nessun mare una simile concentrazione. Una volta
riuniti, questi sessanta vascelli dovevano far vela per la Manica
mal osservata, perchè le varie squadre inglesi dovevano essere sparse
nel Mediterraneo, nell’Atlantico, nei mari delle Indie, e forse dove
si poteva supporre che fosse andata la flotta francese; battere ogni
squadra isolata che incontrerebbe sul suo cammino, e far poi contro
l’Inghilterra, unendosi alle flottiglie di Boulogne, il colpo di cui
era da tanto tempo minacciata.

Ora l’ammiraglio Villeneuve nella notte dal 30 al 31 marzo,
approfittando del maestrale, come l’ammiraglio Missiessy aveva
approfittato della tempesta, era uscito dal porto di Tolone, come
dissi, nel momento in cui Nelson meno se l’aspettava.

Al cinque aprile, Nelson scriveva questa lettera che dipinge la sua
agitazione.

  «A William Marden Esqu. Ammiragliato.

                                    «_Victory_, mare 9 aprile 1805.

      «Signore,

  «La flotta francese ha preso il mare nella notte di sabato 30
  marzo, e alla domenica mattina, 31, alle otto ore, è stata veduta
  dall’_Active_ e dalla _Phoebè_ che percorreva verso SS. O., con una
  leggiera brezza di N. E. Con tutte le vele spiegate e la sua forza,
  dal computo delle sue fregate, si suppone composta di 11 vascelli,
  sette fregate e due brick. Ad otto ore di sera il capitano Moubray
  staccò la _Phoebè_ per raggiungermi all’altezza di Toro. Ieri
  mattina, 4 aprile, l’_Active_ mi raggiunse poi alle 2 dopo mezzodì.
  Il capitano Moubray nella notte del 31 scorso, navigando sottovento
  con una brezza di N. O. ha perduto di vista il nemico, e si crede
  che abbia fatto vela verso Oriente. Siccome al 1 aprile i venti
  sono stati molto variabili, soltanto dal sud all’est fino alla
  notte del 3, in cui il vento si mise a soffiare fortemente da N. O.
  ho posto delle fregate sulla costa di Barberia ed all’altezza di
  Toro. Io mi trovo a mezza via fra la Galite e la Sardegna, perchè
  sono sicuro che se il nemico è stato obbligato a prendere quella
  via, non ha potuto passare prima d’oggi. Si dice che il ministro
  della Marina la comandi in persona, e spero d’incontrarlo. La
  flotta che ho l’onore di comandare è quanto posso desiderare di
  meglio riguardo alla salute ed alla disciplina, e le LL. Signorie
  possono star sicure che nulla tralascerò per prendere il nemico.»

  «Ho l’onore, ecc., ecc.»

Al 6 aprile Nelson non avea ancora notizie della flotta; egli era alla
disperazione, e scriveva al capitano Ball:

  «Davvero sono mezzo morto, ma quanto uomo può fare, sarà fatto
  per trovarli. Ho l’_Embuscade_ in vista, ma anch’essa non ha
  trovato nulla perchè non mi fa nessun segnale. L’_Amazone_ partirà
  per Napoli, nel momento in cui l’_Active_ ci raggiungerà, il
  che avverrà oggi o dimani mattina. Vado a prendere posizione
  all’altezza di Ustica, per esser pronto a ricevere la comunicazione
  del vascello che mi raggiungerà. Sto male davvero e pieno di
  collera. Dio vi benedica, mio caro Ball.»

Nello stesso tempo scriveva a Davyson:

  «Ho incaricato il capitano Cann di farvi visita. Vi dirò in quali
  agitazioni mi trovi; non posso nè mangiare, nè bere, nè dormire;
  ciò non può durar molto, soffro troppo; ma sono sempre, mio caro
  Davyson, il vostro fedele.

                                                   «NELSON BRONTE.»

  «Direte al capitano, uomo onorevolissimo, che, se lady Hamilton è a
  Londra od a Merton, gli deve consegnare una mia lettera.»

Ora diciamo in due parole che cosa ne avvenne di questa flotta
francese, che Nelson cercava invano.




XI.


L’ammiraglio Villeneuve era infatti partito da Tolone con undici
vascelli e sei fregate: informato da un bastimento raguseo della
posizione di Nelson, si era diretto a Cartagena, ed al 9 aprile entrava
nello stretto.

Nella stessa sera era in vista di Cadice, e si riuniva coll’ammiraglio
Gravina.

Verso le due del mattino le due squadre riunite continuarono il loro
viaggio, e all’11 erano già nell’Oceano, sfuggendo alla sorveglianza di
Nelson.

Nelson non aveva conosciuto questi particolari che al 16 aprile: era
stato trattenuto dal vento dell’Ovest fino al 30: al 10 di maggio si
trattenne nella baia di Lagos ed all’11 di maggio, vale a dire un mese
dopo Villeneuve, entrò nell’Oceano per seguirlo.

Al 10 giugno Villeneuve si era messo in cammino verso l’Europa.

Qualche giorno prima, Nelson era arrivato alla Barbada, il 7 era alla
Trinità, il 10 a Granada, finalmente al 14 agosto, dopo aver lasciato
a Cornwallis quei bastimenti che potevano ancora tenere il mare, era
andato cogli altri a Portmouth, ove gettò l’áncora al 18 di quel mese.

Allora io era a Southend con mistress Bellington e Orazia. Ricevetti
l’avviso del suo ritorno, e mi affrettai di ritornare a Merton, ove si
era riunita tutta la sua famiglia per riceverlo.

Vi arrivò al mattino del 20.

Nello stesso giorno ritornò a Londra, ebbe una conferenza col
segretario di stato pel dipartimento della guerra, col primo lord
dell’ammiragliato, e con qualche altro ministro.

Si comprende di quali feste fosse causa un simile ritorno: tutti gli
amici di Nelson e miei corsero a Merton; la tavola non era mai minore
di 20 a 25 coperte, ed io presiedeva a questi pranzi come se fossi la
moglie di Nelson, nè egli ned io pensavamo più a gettare un velo sulla
nostra intimità; anzi ciascuno di noi se ne faceva un vanto, e Nelson
mi presentava i visitatori come se fossi veramente lady Nelson.

Appena seppi dell’arrivo di Nelson, feci venir subito Orazia, che fino
allora aveva passato la maggior parte del tempo colla donna che l’aveva
allevata. Nelson, secondo le intenzioni che mi aveva manifestato,
aggiunse al suo testamento questo codicillo in di lei favore:

«Lego a miss Orazia Nelson Thomson, battezzata il 13 maggio ultimo
nella parocchia di S. Mary-le-Bone, nella contea di Middlesex, da
Beniamino Lawrence curato e John Willock chierico assistente, che
riconosco come mia figlia adottiva, la somma di quattro mila sterline
in moneta inglese, pagabile sei mesi dopo la mia morte, e costituisco
la mia cara amica Emma Lyonna sola custode della suddetta Orazia Nelson
Thomson, fino a che avrà 18 anni; e gl’interessi delle quattromila
sterline saranno pagate a lady Hamilton per la sua educazione e
mantenimento. Desidero che lady Hamilton sia sempre la nutrice di
Orazia, essendo certo che la educherà nei principii della virtù e della
educazione, che le darà tutte le doti che essa stessa possiede in sì
alto grado, perchè la renda una donna degna del mio caro nipote Orazio
Nelson, al quale la destino per isposa, se sarà degno di lei, e se, a
giudizio di lady Hamilton, egli merita un tesoro tanto caro.»

Questa volta Nelson contava bene di non più mettersi in mare:
stanco di trionfi e sazio di gloria, carico di onori, mutilato nel
corpo, egli aspirava alla solitudine ed alla tranquillità. In questa
speranza Nelson era occupato a far trasportare a Merton tutte le cose
preziose che aveva a Londra, e quando si credeva più che mai sicuro
dell’avvenire, un colpo di fulmine venne a svegliarlo in mezzo ai suoi
sogni dorati.

Al 2 dicembre, vale a dire dodici soli giorni dopo l’arrivo di Nelson a
Merton, si venne a bussare alla porta a cinque ore del mattino.

Nelson credendo che fosse qualche notizia dell’ammiragliato, balzò dal
letto e andò incontro al visitatore mattiniero.

Era il capitano Enrico Blackwood che arrivava dall’ammiragliato colla
notizia che le flotte riunite di Francia e di Spagna, dietro le quali
tanto corse Nelson inutilmente, erano entrate nel porto di Cadice.

Riconoscendo Blackwood, Nelson esclamò:

— Ci scommetto, Blackwood, che mi recate notizia delle flotte unite, e
che io sono incaricato di distruggerle.

Era precisamente quanto veniva ad annunziargli Blackwood. Era quella
distruzione che si aspettava da lui.

Tutti i bei progetti di Nelson erano andati in fumo.

Egli non vedeva più che il piccolo angolo di terra, o piuttosto di
mare, ove si trovavano le flotte riunite; e tutto giulivo ripeteva
molte volte a Blackwood con quella compiacenza, che gli cagionavano i
suoi antichi amici:

— Blackwood, state certo che darò a Villeneuve una lezione di cui si
ricorderà.

La sua intenzione era di partire per Londra, e di preparare quanto era
necessario per quella campagna, senza dirmi nulla della missione di cui
era incaricato; soltanto nell’ultimo momento mi disse tutto.

Ma siccome io mi alzai quasi nello stesso tempo, ed osservai la
sua preoccupazione dopo la sua conversazione con Blackwood, così lo
condussi in una parte del giardino che preferiva a tutte le altre, e
che egli chiamava il suo _Banco di Quarto_.

— Che avete, amico mio, gli chiesi; avete qualche cosa che vi tormenta
e che non volete dirmi.

Nelson si sforzò di sorridere.

— È, mi rispose, che sono l’uomo più felice del mondo: che potrei
desiderare di più? ricco del vostro amore, circondato dalla mia
famiglia, davvero che non darei sei soldi perchè il re fosse il mio
zio.

Ma io gli risposi:

— Vi conosco, Nelson, e voi tentate inutilmente d’ingannarmi; voi avete
notizie delle flotte unite, le considerate come vostra proprietà,
e sareste l’uomo più infelice del mondo se le distruggesse un altro
invece di voi.

Nelson mi guardò per interrogarmi.

— Ebbene, amico mio, gli dissi, distruggetele, terminate un affare che
avete così bene incominciato, questa distruzione sarà la ricompensa di
due anni di fatiche che avete sostenuto.

Nelson mi guardava sempre. E quantunque non dicesse una parola, il suo
aspetto prendeva un’espressione indicibile di riconoscenza.

E continuai:

— Nelson, per quanto grande sia per me il dolore della vostra assenza,
offrite, come sempre l’avete fatto, i vostri servigi alla patria, e
partite immediatamente per Cadice. Questi servigi saranno accettati
con riconoscenza. Il vostro cuore troverà la sua pace; voi otterrete
un’ultima e gloriosa vittoria, e ritornerete felice di trovar qui il
riposo colla dignità.

Nelson mi osservava sempre in silenzio, e dopo qualche minuto, cogli
occhi pieni di lagrime, esclamò:

— Mia brava Emma, mia buona Emma, tu hai letto nel mio cuore, tu hai
penetrato il mio pensiero. Se non vi fosse Emma, non vi sarebbe nemmeno
Nelson al mondo. Sono le Emme che fanno i Nelson. Oggi stesso anderò a
Londra.

Due ore dopo partimmo per Londra colle sue sorelle. Nelson ci
lasciò nella mia casa Clerges Street, e si recò all’ammiragliato. Il
_Victory_, chiamato per telegrafo, era arrivato nella stessa sera nel
Tamigi, ed alla mattina del giorno seguente si preparò tutto per la
partenza.

Restammo però ancora dieci giorni insieme; ma gli ultimi cinque li
passò quasi per intiero all’ammiragliato.

All’11 andammo ancora a fare un’altra visita al nostro caro Merton.
Per quanto grande fosse stato lo sforzo che faceva su di me, quando mi
trovava sola per qualche momento, non potea trattenermi dal piangere.
Passammo soli tutta la giornata del 12 e tutta la notte del 12 al 13.

Ad un’ora circa prima di giorno, Nelson si alzò, ed entrò nella camera
di sua figlia; si chinò sul suo letto, e pregò con grande fervore, e
non senza lagrime.

Nelson era naturalmente religioso.

Poscia passammo insieme ancora un’altra ora, e alle sette del mattino
prese congedo da me.

Lo condussi sino alla carrozza; e allora mi strinse lungamente al suo
cuore; io piangeva abbondantemente; ma cercava di sorridere in mezzo
alle mie lagrime, dicendogli:

— Non battetevi senza prima aver veduto l’uccellino!

Queste furono le ultime parole che gli dissi.

La carrozza partì al galoppo. Mi fece un segno al momento in cui la
carrozza girava volgendo sotto la porta.

E non lo rividi più.

Nelson partiva con presentimenti di profonda tristezza. Prima di
partire da Londra era andato dal suo tappezziere M. Peddisson,
che dimorava a Brows Street: chiese di vedere il feretro che gli
aveva mandato; l’osservò per lungo tempo; rilesse il certificato di
autenticità; poi gli ordinò di guarnirlo e di tenerlo pronto pel suo
ritorno, poichè allora ne avrebbe probabilmente bisogno.

Giunse a Portsmouth il giorno seguente alle sei del mattino.

Sceso a terra, scrisse sul suo giornale particolare:

                                           «Notte del 13 settembre.

  «Ho appena abbandonato ora il mio caro, carissimo Merton, ove ho
  lasciato quanto più amo al mondo, per andare a servire il mio re
  e la mia patria. Il grande Iddio che adoro, faccia che la patria
  mi trovi degno di quanto attende da me: se la sua volontà è che
  io ritorni, i miei pensieri non cesseranno mai di essere deposti
  innanzi al trono della sua misericordia; e se al contrario la
  misericordiosa provvidenza ha destinato che i miei giorni siano
  abbreviati su questa terra, mi sottometto con umiltà ai suoi
  decreti, nella speranza che la mia morte proteggerà quelli che
  lascio sulla terra.»

Sotto a questa preghiera, scrisse sullo stesso giornale la nota
seguente:

                                                «11 Settembre 1805.

  «Giunto a Portsmouth alle sei, mi sono imbarcato con M. Rose
  e Canning; son salito a bordo del _Victory_ a S. Helens; essi
  pranzarono con me preparando tutto per la partenza.»

Prima che M. Rose ritornasse a terra, gli raccomandò colla maggior
premura il suo cappellano il Dottor Scott.

Al 15 settembre prese il mare.

Al 17 settembre, all’altezza di Plymouth, scrisse questa lettera:

      «A lady Hamilton.

                                    «_Victory_, innanzi a Plymouth.

                                  «17 settembre 1805, 9 ore mattino

                                       «Vento O. S. O. detestabile.

  «Vi ho mandato, mia carissima Emma, una lettera nella scorsa
  notte da un battello di Torbay, e ho dato una ghinea all’uomo
  per consegnarla alla posta. Abbiamo avuto una cattiva notte di
  vento, e il tempo è triste. In questo momento sono occupato a
  far dei segnali ai bastimenti che trovansi a Plymouth perchè mi
  raggiungano; ma dubito che possano prendere il mare. Vi supplico,
  mia buona Emma, di star di buon umore: vi prometto che ci vedremo
  ancora per molti e molti anni felici, e invecchieremo fra i figli
  dei nostri figli. Poi quando piacerà all’Onnipotente di togliere
  l’impedimento[1] il mio cuore e la mia anima sono con voi e con
  Orazia. Scrivo di fretta queste righe, nel caso che un battello
  venga presso il mio bordo.»

  «Per sempre, per sempre il vostro affezionatissimo

                                                          «NELSON.»

Il giorno seguente mi scrisse di nuovo:

                           «Venerdì 16 settembre, davanti a Lizard.

  «Non ho avuto nessuna occasione per mandarvi la vostra lettera,
  e non ne vedo la probabilità ancora per oggi. L’_Aiace_ e il
  _Tuonante_ arrivano; ma è quasi bonaccia, con leggiero soffio di
  ovest. Ci volle la nostra perseveranza per condurci fin qui, ma
  spero che ci condurrà sino alla fine. Che Dio vi benedica, mia
  Emma. Do le mie lettere a Blackwood per consegnarle a bordo del
  bastimento che incontrerà andando in Inghilterra od in Irlanda.

  «Ancor una volta, che il cielo vi benedica.

  «Sempre, sempre il vostro

                                                   «NELSON BRONTE.»

Al 28 settembre, alle sei ore dopo mezzodì, correndo a piene vele,
egli raggiunse la flotta di Cadice sotto il comando del vice ammiraglio
Collingwood, della forza di 32 vascelli di linea, e di sei vascelli di
riserva.

Il giorno seguente, 29, Nelson compiva 46 anni di età.

Al 1 ottobre mi dava, colle lettere seguenti, la notizia della sua
riunione coll’ammiraglio Collingwood e di un attacco nervoso che aveva
avuto. Questi accessi, cui andava soggetto, assomigliavano ad attacchi
di apoplessia, tanto erano violenti.

                                        «_Victory_, 1 ottobre 1805.

      «Mia carissima Emma.

  «È un sollievo per me il prendere la penna e scrivervi qualche
  riga. Questa mattina verso le quattro ho avuto uno de’ miei
  dolorosi attacchi spasmodici, che mi ha completamente spossato.
  Ed è tanto più singolare che non mi sono trovato mai tanto bene
  come ieri. Ho dormito benissimo; ma poi mi sono svegliato sotto
  l’accesso. Credo che qualche giorno sarò vittima di uno di questi
  accessi. Ora però è scomparso interamente, e non mi rimane di
  questa indisposizione che una estrema debolezza. Il buon popolo
  inglese non crederà mai che mi sia necessario il riposo del
  corpo e dello spirito. Ma forse lo spasimo non si riprodurrà con
  simil forza se non da qui a sei mesi. Jeri ho scritto per sette
  ore continue, e questa fatica è stata probabilmente la causa
  dell’accidente.

  «Ho raggiunto la flotta a sera inoltrata del 28: ma non ho potuto
  mettermi in comunicazione con essa che alla mattina seguente. Credo
  che il mio arrivo sia stato ben veduto, non soltanto da parte del
  comandante della flotta, ma anche dagl’individui che la compongono;
  e quando spiegai agli uffiziali il mio piano di battaglia, fu come
  una scossa elettrica; alcuni nell’approvarlo versavano fino delle
  lagrime. Era nuovo, singolare e semplice, e se si può applicarlo
  alla flotta francese, la vittoria è sicura: «Voi siete circondato
  da amici che sono pieni di confidenza per voi,» ecco quanto
  mi dicevano tutti. Forse vi saranno dei Giuda fra essi; ma la
  maggioranza è certamente contenta che io li comandi.

  «Ricevo in questo momento delle lettere della regina e del re di
  Napoli in risposta alle mie lettere del 18 e del 21 luglio.

  «Nemmeno una parola per voi. Davvero questo re, e questa regina
  farebbero arrossire la stessa ingratitudine. Vi aggiungo le copie,
  e colla prima occasione di partenza per l’Inghilterra, vi dirò
  quanto io vi ami.

  «L’uccellino non è venuto ancora, ma non si è perduto tempo. Il mio
  corpo mutilato è qui, ma tutto il mio cuore è per voi.

                                                            «O. N.»




XII.


Verso questa stessa data del 28 settembre, in cui Nelson operò la sua
riunione colla flotta del vice ammiraglio Collingrood, l’ammiraglio
Villeneuve ricevette l’ordine positivo dal suo governo di prendere il
largo e di passare lo stretto, e gettando delle truppe sulle coste di
Napoli, di scopare i vascelli inglesi dal Mediterraneo e di entrare in
Tolone.

La flotta alleata composta di trentasette vascelli di linea, diciotto
francesi, e quindici spagnuoli, cominciò a mostrarsi sabato, 19
ottobre, a sette ore del mattino, spinta da una leggera brezza.

A mezzodì scorso della stessa giornata, sembrando certa la battaglia,
scrisse a me ed alla povera bambina, che doveva lasciar orfana, queste
due lettere che furono trovate nel suo scrittoio dopo la sua morte, e
che mi furono portate dal suo amico il capitano Hardy.

  «Mia carissima ed amatissima Emma, tenera amica del mio cuore.
  Mi è stato dato il segnale che la flotta nemica esce dal porto.
  Abbiamo pochissimo vento, di modo che non ho nemmeno la speranza
  di vederla prima di dimani. Possa il Dio delle battaglie coronare
  i miei sforzi con un felice successo, e in ogni caso, o vittorioso
  o morto, sono sicuro che il mio nome diverrà più caro per voi e per
  Orazia, per voi due insomma, che amo più della mia stessa vita.

  «E siccome la mia ultima lettera prima della battaglia sarà per
  voi, spero, se vivo, di terminarla dopo la battaglia.

  «Che il Signore vi benedica e pregate pel vostro

                                                   «NELSON BRONTE.»

Poi scrisse ad Orazia la lettera seguente:

                                       «_Victory_, 19 ottobre 1805.

      «Mio caro angelo,

  «Sono l’uomo più felice del mondo, avendo ricevuto la vostra
  lettera del 19 settembre. Mi fa gran piacere di sapere che siete
  una buona figlia, che amate molto la mia cara lady Hamilton, e che
  ella pure vi adora. Datele un bacio per me. La flotta riunita dei
  nemici esce, a quanto mi si dice, dal porto di Cadice, per cui mi
  affretto di rispondere alla vostra lettera, mia cara Orazia, per
  dirvi che voi siete continuamente l’oggetto de’ miei pensieri. Sono
  sicuro che pregate Dio per la mia salvezza, per la mia gloria,
  e per il mio ritorno a Merton, e presso la mia carissima Lady
  Hamilton. Siate buona figlia, e ricevete, mia carissima Orazia, la
  benedizione di vostro padre.

                                                   «NELSON BRONTE.»

Nel giorno seguente aggiunse questa poscritta alla mia lettera:

                                               «20 ottobre mattina.

  «Siamo giunti alla bocca dello stretto; ma il vento d’ovest essendo
  troppo debole per dare alle flotte unite il tempo di venire da
  Trafalgar, mi si dice, che si veggano da lontano quaranta vele.
  Suppongo che sieno trentasei vascelli di linea, e sei fregate.

  «Questa mattina se ne vede un certo numero dalla parte del faro di
  Cadice; ma il vento essendo freddissimo, credo che rientreranno nel
  porto prima di notte.

  «Che Dio ci faccia trionfare del nemico, e ci dia una buona pace.»

Scorgendo la flotta unita, Nelson scrisse sul suo giornale particolare:

  «Che Iddio, innanzi al quale m’inchino adorandolo, accordi
  all’Inghilterra, nell’interesse generale dell’Europa oppressa,
  una grande e gloriosa vittoria, e permetta che questa vittoria
  non sia oscurata da colpe, da parte di coloro che combatteranno
  e trionferanno, e che l’umanità dopo la battaglia possa essere il
  solo pensiero della flotta britannica. Quanto a me, personalmente,
  rimetto la mia vita nelle mani di chi me l’ha data. Che la
  benedizione di Dio discenda sopra quanto sto per fare in servizio
  della mia patria. Confido ed abbandono in lui solo la causa santa,
  di cui egli s’è degnato di nominarmi in questo giorno il difensore.

  «Amen. Amen. Amen.»

Poi dopo questa preghiera, ove si trova quella mistura di misticismo
e di entusiasmo, che in certi momenti traspariva sotto la rozza scorza
dell’uomo di mare, scriveva il suo testamento.

                                                  «21 ottobre 1805.

  «In vista delle flotte riunite di Francia e di Spagna, a dieci
  miglia circa distante da noi;

  «Considerando che gli eminenti servigi resi al re ed alla Nazione
  da Emma Lyonna, vedova di sir William Hamilton, non hanno mai
  ricevuto ricompensa nè dal re, nè dalla nazione;

  «1. Quantunque abbia ottenuta nel 1796 la comunicazione di una
  lettera del re di Spagna a suo fratello il re di Napoli, in
  cui lo avvertiva della sua intenzione di dichiarare la guerra
  all’Inghilterra, e che il ministero prevenuto da quella lettera,
  abbia potuto mandar l’ordine a sir John Jervis di sorprendere, se
  se ne presentava l’occasione, gli arsenali e la flotta spagnuola;
  che se però nessuna di tali cose siasi fatta, non fu però colpa di
  Lady Hamilton;

  «2. Che la flotta britannica sotto il mio comando non avrebbe
  potuto ritornare una seconda volta in Egitto, se l’influenza di
  lady Hamilton sulla regina di Napoli non fosse stata causa della
  lettera scritta al governatore di Siracusa, perchè permettesse alla
  flotta di approvvigionarsi di tutto quanto le abbisognava nei porti
  di Sicilia; e così ottenni quanto mi occorreva per distruggere la
  flotta francese;

  «Non potendo ricompensare questi servigi, pensai di rivolgermi alla
  nazione. Non ho potuto farlo, lascio quindi al mio re ed alla mia
  patria di soddisfare questi legati, e provvedere largamente alla
  sua esistenza.

  «Confido anche alla benevolenza della nazione, la mia figlia
  adottiva Orazia Nelson Thompson, e desidero che ormai porti
  solennemente il nome di Nelson. Ecco i soli favori che dimando al
  re ed all’Inghilterra, nel momento in cui arrischio la mia vita per
  loro. Dio benedica il mio re ed il mio paese, e tutti quelli che mi
  sono cari. La mia famiglia non ha bisogno di essere raccomandata, e
  sarà, ne sono certo, l’oggetto della più splendida liberalità.»

Un mese e mezzo prima, vale a dire l’11 di settembre, Nelson aveva già
scritto sullo stesso giornale:

  «Dono alla mia carissima amica Lady Hamilton tutto il terreno che
  mi appartiene a Merton e nella parrocchia di Windeblon.

                                                   «NELSON BRONTE.»

— Ora, disse egli, non pensiamo più che al combattimento.

Le due flotte si avanzarono l’una contro l’altra.

In questo momento solenne che precedeva uno dei più terribili
scontri, che mai avvenissero fra due flotte cordialmente nemiche, ogni
comandante in capo diede la sua parola d’ordine.

L’ammiraglio francese disse ai suoi capitani:

«Non devonsi aspettare i segnali dall’ammiraglio, che nella confusione
del combattimento possono essere fraintesi o non veduti; ma ognuno deve
ascoltare la voce dell’onore, e portarsi ove maggiore è il pericolo:
ogni capitano è al suo posto, se è al fuoco.»

Dalla parte degl’Inglesi tutti gli occhi erano fissi sul vascello
ammiraglio per leggervi la parola d’ordine già distribuita a bordo
della squadra riunita, e si vide salire sull’albero maestro del
_Victory_ questa laconica arringa:

England expects every man will do his duty.

L’Inghilterra attende che ciascuno faccia il suo dovere.

Il buon genio di Nelson, il piccolo uccello augurale, non era ancora
comparso.

Ed ora Iddio mi dia la forza di scrivere ciò che mi rimane da
raccontare.

                                   *
                                  * *

Era un’ora ed un quarto dopo mezzogiorno; ad un’ora precisa incominciò
il fuoco.

Nelson aveva un abito azzurro, e portava al petto le decorazioni
del bagno, di S. Ferdinando, e del merito, quella di S. Gioachino e
quella di Malta, e infine la mezzaluna ottomana; questo scintillare
di decorazioni che avea al petto doveva naturalmente renderlo un punto
di mira di tutti i colpi. Il capitano Hardy voleva fargli indossare un
altro abito.

— È troppo tardi, disse egli, m’hanno veduto con questo.

Il combattimento fu orribile. Quattro bastimenti si sfracellarono
a bruciapelo; il _Victory_, il _Formidabile_, il _Bucintoro_ ed il
_Temerario_.

Il primo che cadde a bordo del _Victory_ fu il segretario di Nelson
tagliato in due da una palla di cannone, mentre parlava col capitano
Hardy e siccome Nelson amava molto quel giovane, Hardy lo fece
subito levare di là, perchè la vista del cadavere non rattristasse
l’ammiraglio. Quasi nello stesso tempo due palle incatenate stesero sul
ponte otto uomini tagliati pel mezzo.

Tutte queste precauzioni per raccomandare e per assicurare il mio
avvenire, sono prove che Nelson era dominato da un presentimento
mortale. E per dare maggior autenticità agli atti che affidava al
suo giornale, chiamò il suo capitano di bandiera Hardy, e il capitano
Blackwood dell’_Eurialo_, quell’istesso che era venuto a cercarlo a
Merton, e, come testimoni, fece loro firmare quell’atto testamentario.

I loro due nomi si trovano difatti sul giornale di bordo vicino a
quello di Nelson.

Nelson aveva due miei ritratti. Una miniatura che sir William gli aveva
lasciato in testamento, e che portava, come dissi, appesa al collo con
una catena d’oro; l’altro, che era di grandezza naturale, era appeso
alle pareti della sua cabina con quello di Orazia.

Prima del combattimento, temendo che qualche proiettile non offendesse
le immagini delle due persone che amava, come diceva egli stesso, più
della sua vita, li fece staccare dalle pareti par metterli in sicuro.

Fate attenzione al mio buon angelo, diceva egli, seguendo con ansietà
il mio ritratto, mentre lo trasportavano a schermo delle palle e della
mitraglia.

— Oh! oh! disse Nelson, ecco un fuoco troppo vivo perchè possa durare
molto.

Non aveva appena terminato di dire queste parole, che il vento prodotto
da una palla di cannone che gli era passata davanti alla bocca gli
tolse il respiro, e poco mancò che non fosse asfissiato. Si tenne
stretto alla prima persona che incontrò, e stette quasi un minuto
ansante e tentennante prima di ritornare in sè.

— Non è nulla, diss’egli, non è nulla.

Questo fuoco durava da più di venti minuti, quando Nelson cadde sul
ponte come colpito da un fulmine.

Era un’ora ed un quarto precisa.

Una palla partita dalle sartie di miseno del _Formidabile_, l’aveva
colpito dall’alto in basso, gli entrò nella spalla dopo aver forato la
spallina, e andò a spezzargli la spina dorsale. Egli si trovava nel
luogo stesso ove era stato colpito il suo segretario, e cadde colla
faccia sul suo sangue.

Tentò di alzarsi appoggiandosi sull’unica sua mano.

Hardy, che era a due passi da lui, corse in suo soccorso con due
marinai e col sergente Secker, e lo rialzarono.

— Spero milord, gli disse, che non sarete gravemente ferito.

Ma Nelson rispose:

— Questa volta, Hardy, è finita per me.

— Oh! spero di no, esclamò il capitano.

— Ma, disse Nelson, ho sentito tale uno scrollo di tutta la persona,
come se avessi infranta la colonna vertebrale.

Hardy ordinò di trasportare subito l’ammiraglio al posto dei feriti.

Mentre i marinai lo trasportavano, si accorse che la corda, con cui
si faceva girare il timone era stata rotta dalla mitraglia; la fece
osservare al capitano Hardy, e ordinò ad un nostromo di sostituire
delle corde nuove alle rotte.

Dato quest’ordine, trasse di tasca il fazzoletto e si coperse la
faccia e le decorazioni, perchè i suoi marinai non lo riconoscessero, e
ignorassero che fosse ferito.

Molti uffiziali feriti e una quarantina di marinai erano portati,
nello stesso tempo dell’ammiraglio, nel sottoponte: nel numero degli
uffiziali feriti vi erano il luogotenente William Andrew Ram e M.
Whippel segretario del capitano. Il chirurgo esaminava quei due
uffiziali e riconosceva che erano colpiti mortalmente, quando la sua
attenzione fu attirato da un grido — M. Beatty, Milord Nelson è qui,
Milord Nelson è ferito.

Il chirurgo girò lo sguardo intorno a lui, e siccome in quel momento il
fazzoletto cadde dal viso di Nelson, lo riconobbe. M. Burke, uffiziale
pagatore, e il chirurgo corsero tosto in soccorso dell’ammiraglio, lo
presero dalle braccia dei marinai che lo trasportavano, inciamparono
contro il corpo di un nostromo; ma non caddero.

Nelson dimandò:

— Chi sono quelli che mi portano?

— Sono io e M. Burke, rispose il chirurgo.

— Oh! mio caro Beaty, soggiunse Nelson, qualunque sia la vostra
scienza, non potete far nulla per me; ho la colonna vertebrale
infranta.

— Spero che la ferita non sia così grave come lo crede V. S., disse il
chirurgo.

In questo momento, il reverendo dott. Scott, cappellano del bastimento
che era occupato a far bere della limonea al feriti, si avvicinò a
Nelson che lo riconobbe, e gli disse, con voce interrotta dal dolore,
però con molta forza.

— Mio reverendo, ricordatemi a Lady Hamilton, ricordatemi ad Orazia,
ricordatemi a tutti i miei amici e specialmente a M. Rose; dite loro
che ho fatto testamento e che lego al mio paese Lady Hamilton, e
mia figlia Orazia; ricordatevi di ciò che vi dico a quest’ora, e non
dimenticatelo mai.

Nelson fu portato su di un letto; gli si tolsero con gran pena gli
abiti di dosso, e lo si coperse con un lenzuolo.

Mentre si compiva questa operazione, disse al cappellano:

— Dottore, sono perduto; dottore, sono morto.

Per qualche tempo il sig. Beaty esaminò la ferita, e disse a Nelson
che poteva scandagliarla senza fargli molto dolore; difatti gliela
scandagliò e riconobbe che la palla era penetrata nel petto e non si
era fermata che alla spina dorsale.

La ferita era terribile, e veniva dall’alto in basso, come dissi, e il
colpo era stato tirato alla distanza di quindici metri.

— Sono sicuro, disse Nelson durante l’operazione, che sono passato da
parte a parte.

Il dottore esaminò il dorso; era intatto.

— V’ingannate, milord, gli disse, ma cercate di spiegarmi cosa vi
sentite.

— Sento, rispose il ferito, come se un’onda di sangue mi salga ad
ogni respiro; la parte inferiore del mio corpo è come morta; respiro
a fatica, e benchè mi si dica il contrario, sostengo che ho la spina
dorsale spezzata.

Questi sintomi, e più ancora l’ingorgo di sangue di cui si lamentava il
ferito, e lo stato del polsi indicavano al chirurgo che non bisognava
più conservare nessuna speranza; soltanto la gravezza della ferita
non era stata conosciuta da nessuno a bordo, fuorchè dal chirurgo,
dal capitano Hardy, dal cappellano, da M. Burke e dai due aiutanti
chirurghi.

                                   *
                                  * *

I miei occhi pieni di lagrime m’impediscono di continuare; da nove anni
che accadde questo avvenimento, raccontai molte volte questa morte
gloriosa in tutti i suoi particolari, ma ora è la prima volta che la
scrivo.

Riprenderò il mio racconto quando sentirò di averne la forza.




XIII.


Proviamo questa volta di andare sino alla fine.

                                   *
                                  * *

L’equipaggio del _Victory_ dava in urrà di gioia ad ogni bastimento
francese che abbassava la sua bandiera. Ad ognuno di questi urrà Nelson
domandava con ansietà: «Che ci è?» Allora il tenente Pasco, che era
ferito e stava a pochi passi di distanza da lui, si levò sul letto e
gli disse la cagione di quelle grida. Il ferito parve che ne provasse
una grande soddisfazione. Egli soffriva una sete ardente, e spesso
domandava che gli si desse da bere e che gli si facesse vento con un
ventaglio di carta, pronunziando queste parole; _ventaglio, ventaglio_,
e _da bere, da bere_. Continuò a fare la stessa domanda fino al momento
della sua morte. Gli si dava ora del vino, ora della limonea, ora
dell’acqua. Era grande la sua ansietà sulla riuscita della battaglia, e
sulla salute del suo caro capitano Hardy.

Il capitano ed il sig. Burke lo rassicurarono, o piuttosto procurarono
di rassicurarlo sopra amendue queste cose, ed il chirurgo spediva ad
Hardy messo sopra messo per dirgli ciò che l’ammiraglio gli domandava.
Ed egli, non vedendolo venire, esclamava nella sua impazienza:

— Voi non volete condurmi Hardy; sono sicuro che è ferito, morto forse!

Infine, un’ora e dieci minuti dopo che Nelson era stato ferito, il
capitano Hardy scese. L’ammiraglio, nel vederlo, mise un grido di
gioia, gli strinse affettuosamente la mano, e gli disse:

— Ebbene, Hardy, come va la battaglia? Come va la giornata per noi?

— Benissimo, Milord, rispose il capitano; abbiamo già preso 14
bastimenti; soltanto cinque sembra che abbiano l’intenzione di
ritornarci contro per disputarci la vittoria, ed ho richiamato cinque o
sei dei nostri per distruggerli.

— Io spero, continuò il ferito, facendo uno sforzo per sollevarsi, che
nessuno dei nostri vascelli ha abbassato la sua bandiera.

— No, Milord, nessuno replicò Hardy.

Allora Nelson, tranquillo sull’onore inglese, ritornò su sè stesso, e,
mettendo un sospiro:

— Io sono un uomo morto, Hardy, disse; me ne vo a gran passi, e tutto
ben presto sarà finito per me; avvicinatevi, Hardy....

Poi, a voce bassa,

— Vi prego che dopo la mia morte tagliate i miei capelli per la mia
cara Lady Hamilton, e le diate tutte le cose che mi appartengono.

E siccome il sig. Burke, che aveva inteso il principio della
conversazione, s’allontanava per discrezione:

— No, no, gli disse Nelson, restate.

— Ho testè incontrato Beaty gli disse Hardy. Egli mi ha detto che
sperava per voi una lunga vita.

— No, disse Nelson, non vi provate ad ingannarmi, Hardy; è cosa
impossibile: ho il dorso spezzato.

Il dovere richiamava Hardy sul ponte. Egli vi risalì dopo avere stretta
la mano del ferito.

Nelson domandò nuovamente il chirurgo.

Egli era vicino al luogotenente Guglielmo Rivers che aveva perduto una
gamba. Il chirurgo corse dal ferito, dicendogli che i suoi aiutanti
basterebbero per terminare la fasciatura.

— Voleva soltanto chiedere notizie dei miei infelici compagni, disse
Nelson; per me, dottore, non ho più bisogno di voi, andate pure.

Nelson insistette talmente, che il dottore lo affidò al cappellano,
a M. Burke e ai due domestici; ma dopo qualche minuto che l’uomo
della scienza consacrò ai luogotenenti Peake e Rivers, Nelson lo fece
dimandare e gli chiese:

— M. Beaty, vi ho detto che aveva perduto tutta la sensibilità nella
parte inferiore del mio corpo e _sapete bene_, — facendo risaltare
quelle parole, — che nella mia posizione, non si vive molto tempo.

Queste due parole che sottolineo, non lasciarono nessun dubbio al
chirurgo sull’intenzione di lord Nelson: egli alludeva ad un infelice
che qualche mese prima aveva ricevuto a bordo del _Victory_ una
ferita in condizioni simili alla sua. E Nelson aveva seguito su quel
disgraziato, che si chiamava Giacomo Bush, il progresso della morte
colla stessa curiosità, come se avesse potuto indovinare che egli
morrebbe della stessa morte.

Il chirurgo disse allora a Nelson:

— Milord, permettete che vi palpi.

Difatti egli toccò le estremità inferiori che erano già prive di
sensibilità e come morte.

— Ah! soggiunse Nelson, so bene quel che dico; andate pure; Scott e
Burke mi hanno già toccato come fate voi adesso; e non li ho sentiti
più di voi; io muoio, Beaty, io muoio.

— Milord, replicò il chirurgo, sventuratamente per l’Inghilterra, io
non posso far più nulla per voi.

E facendo quella suprema dichiarazione, il chirurgo si volse per
nascondere le sue lagrime.

— Lo sapeva, disse Nelson, sento qualche cosa qui che mi si solleva nel
petto.

E mise la mano sul punto che indicava.

— Grazie a Dio, mormorò compiendo quel gesto, ho fatto il mio dovere.

Il dottore raccomandò al cappellano di dar da bere al ferito, ogni
volta che lo chiedesse, nel mentre che M. Burke non cessava di fargli
vento col ventaglio.

— Soffrite molto? gli chiese Beaty, prima di lasciarlo.

— Molto, dottore, rispose Nelson, purchè sia per me, un gran sollievo
il morire.

E soggiunse:

— Eppure ognuno cerca di vivere quanto più può.

Poi dopo una pausa di qualche minuto:

— Povera Lady Hamilton, se sapesse a che sono ridotto!

Il chirurgo conoscendo che non poteva recare nessun sollievo
all’ammiraglio, andò a prestare le sue cure ad altri feriti; e nello
stesso tempo il capitano Hardy discese, e si pose accanto a lui;
ma prima di lasciare il ponte aveva mandato il luogotenente Hills a
portare la terribile notizia all’ammiraglio Collingstood.

Hardy felicitò Nelson di avere, quantunque già in braccia alla morte,
riportato una tale vittoria, e gli annunziò che, a quanto poteva egli
giudicare, si erano già presi quattordici bastimenti francesi.

— Avrei scommesso per venti, disse Nelson.

Poi ad un tratto, ricordandosi della direzione del vento, e dei sintomi
della tempesta che aveva osservato in mare:

— Gettate l’áncora, Hardy, gettate l’áncora, gli disse.

— Suppongo, rispose costui, che l’ammiraglio Collingwood prenderà il
comando della flotta.

— Non però fino a tanto che sarò vivo, disse l’ammalato, e sollevandosi
sul suo braccio: Hardy, vi dico di gettar l’áncora — fra cinque minuti.

— Vado a dare gli ordini, milord.

— Sulla vostra vita, fatelo, e prima di cinque minuti.

Poi a voce bassa, come se avesse arrossito di quella debolezza:

— Hardy, gli disse, non getterete il mio cadavere in mare, ve ne prego.

— Oh! no di certo, potete star tranquillo su questo punto, milord, gli
rispose Hardy singhiozzando.

— Abbiate cura della povera Lady Hamilton, disse Nelson con voce fioca;
della mia cara Lady Hamilton. Abbracciatemi, Hardy.

Il capitano piangendo l’abbracciò.

— Muoio contento, disse Nelson, ho fatto il mio dovere.

Il capitano Hardy stette un istante presso l’illustre ferito in atto di
muta contemplazione, poi inginocchiandosi vicino al suo letto, lo baciò
in fronte.

— Chi mi abbraccia? chiese Nelson, il cui occhio errava già fra le
tenebre di morte.

Il capitano rispose:

— Son io, Hardy.

— Dio vi benedica, amico mio, disse Nelson.

Hardy risalì sul ponte.

Nelson riconoscendo il cappellano che era al suo fianco, gli disse:

— Ah! non sono mai stato un peccatore così ostinato.

Poi dopo una pausa:

— Dottore, ricordatevi, vi prego, che ho lasciato in eredità alla mia
patria ed al mio re, Lady Hamilton e mia figlia Orazia Nelson; non
dimenticate mai Orazia.

La sua sete andava crescendo, e gridava: _Da bere, da bere, il
ventaglio, fatemi vento, stropiccia stropiccia._

Egli faceva questa ultima raccomandazione al cappellano M. Scott che
gli aveva procurato qualche sollievo stropicciandogli il petto con la
mano.

Pronunziò queste parole con una voce interrotta, e che annunziava
l’aumento delle sue sofferenze, dimodochè dovette richiamare tutte le
sue forze per dire ancora una volta queste parole:

— Grazie a Dio, ho fatto il mio dovere.

Lord Nelson, pochi momenti dopo che Hardy l’ebbe lasciato, cessò di
parlare.

Era debolezza? Era vaneggiamento mortale? Comunque sia, il cappellano
ed il signor Burke che sollevando il cuscino lo mantenevano in una
posizione meno dolorosa, rispettarono quel funebre silenzio e, per non
turbarlo nei suoi ultimi momenti, cessarono anch’essi di parlargli.

Allora ritornò il chirurgo chiamato dal maestro di casa di Nelson, che
era andato a dirgli che l’Ammiraglio stava sul punto di spirare. Gli
prese la mano, era fredda, gli tastò il polso, era insensibile; poi gli
toccò la fronte. Nelson aprì il suo unico occhio; ma quasi subito lo
richiuse.

Il signor Beaty lo lasciò allora per volgere le sue cure ai feriti, cui
potevano essere utili; ma l’aveva appena lasciato quando il maestro di
casa corse a dirgli: Milord è spirato.

Il chirurgo corse al suo letto: egli era veramente morto. Erano le
quattro e venti minuti. Avea sopravvissuto tre ore e trentadue minuti
alla sua ferita.

                                   *
                                  * *

Perdendo Nelson, io aveva perduto tutto.




XIV.


La morte fu così dolce a Nelson che rese l’ultimo sospiro mentre M.
Scott gli stropicciava il petto, e M. Burke lo sollevava sul guanciale
senza che nè l’uno, nè l’altro se ne accorgessero.

Nè vale il dire il lutto che si sparse per tutta la flotta inglese
alla notizia della morte di Nelson, e che fece quasi dimenticare una
vittoria così completa.

La prima cura di Hardy fu di esprimere al chirurgo il desiderio
manifestato da Nelson di non essere gettato in mare, ma di essere
ricondotto in patria.

Il giorno dopo la battaglia, quando le circostanze permisero occuparsi
delle cure da prestare alle spoglie mortali di Nelson, si cercò
per quali mezzi si poteva prevenirne la decomposizione; bisognava
naturalmente servirsi delle risorse che si avevano a bordo del
_Victory_. Il chirurgo esaminò la ferita, la scandagliò, e riconobbe il
cammino percorso dalla palla; ma non potè scoprire dove erasi fermata.
Non si aveva sufficiente quantità di piombo a bordo per farne un
feretro; si prese la più gran botte che si potè trovare a bordo, vi si
collocò il corpo, e lo si riempì di acquavite.

Nella stessa sera del giorno, in cui si compì questo triste
avvenimento, si sollevò, come lo aveva predetto Nelson, una terribile
tempesta che veniva da S. O., e che durò senza posa tutta la notte, e
per tutta la giornata seguente continuò colla stessa violenza. Durante
queste ventiquattro ore, il corpo di Nelson rimase nel sottoponte,
guardato da una sentinella, quando ad un tratto, il coperchio della
botte si sollevò con un rumore simile alla detonazione di un colpo
di fucile, — erano i gas sviluppatisi dal corpo, che avevano causato
quell’accidente; allora si chiuse di nuovo la botte; ma vi si
praticò un pertugio per dar luogo al passaggio dell’aria; arrivando a
Gibilterra si sostituì all’acquavite lo spirito di vino.

Dopo mezzodì del 3 novembre, il _Victory_ levò l’áncora, uscì dalla
baia di Gibilterra, attraversò lo stretto, e ritrovò innanzi a
Cadice la squadra sotto il comando dell’ammiraglio Collingwood, che
incrociava innanzi a Cadice. Nella stessa sera il _Victory_ partì per
l’Inghilterra.

Il _Victory_ arrivò a Spithead dopo una lunga e noiosa traversata
di cinque settimane; ma la notizia della vittoria e della morte di
Nelson arrivò al 7 novembre, vale a dire diciassette giorni dopo il
combattimento. Nessuno si prese la cura di annunziarmela, e la seppi
semplicemente da una lettera del fratello di Nelson, che, senza dubbio,
preoccupato com’era di diventare conte e pari per quella morte, non
trovò il tempo per comunicarmela in persona.

Io era nella mia casa di Londra quando mi giunse quella notizia. Il
dottore Nelson non mi diceva punto da qual fonte l’avesse attinta, per
cui ancora ne dubitava. Presi Orazia nelle mie braccia; feci attaccare
i cavalli alla carrozza, e corsi all’ammiragliato; ma non ebbi nemmen
bisogno di entrare per riconoscere che la notizia era vera. Tutti
avevano già contezza della vittoria e quale prezzo fosse costata.

D’altronde nello stesso giorno il seguente proclama firmato dal Re era
affisso per la città.

  «Giorgio Re ec. ec.

  «Prendendo in seria considerazione l’indispensabile dovere che ci è
  imposto da Iddio Onnipotente per il recente e segnalato intervento
  della Provvidenza, unitamente ai manifesti ed inestimabili
  benenefizj con cui colma ogni giorno questo regno, e di cui ne
  è nuovissima prova l’importante vittoria ottenuta dalla nostra
  flotta, sotto il comando dell’estinto vice ammiraglio Lord Visconte
  Nelson, sulle flotte riunite di Francia e di Spagna; abbiamo,
  dietro parere del nostro consiglio privato, pubblicato il seguente
  proclama.

                                PROCLAMA

  «Abbiamo decretato, e ordiniamo che generali azioni di grazie siano
  rese per tutto il Regno d’Inghilterra e d’Irlanda nel giorno di
  giovedì cinque dicembre prossimo venturo.

  «Dato dal palazzo della regina il giorno 7 di novembre 1805.»

Al 4 dicembre, vigilia del giorno fissato pel rendimento di grazia, il
_Victory_, arrivò a S. Helens e spiegò in segno di lutto la bandiera di
Nelson a mezz’albero: tutti i bastimenti di Spethead abbassarono subito
le loro insegne nello stesso modo.

Nello stesso giorno il bravo capitano Hardy, fedele alle istruzioni
di Nelson, mi spedì un corriere che mi consegnò nella stessa sera una
lettera diretta a me, come pure quella diretta ad Orazia.

Mi diceva in una lettera a parte che aveva molte cose particolari da
dirmi, e molti oggetti preziosi da consegnarmi; ma che egli non poteva
lasciare il suo bastimento; m’invitava quindi a partire senza perdere
un momento per S. Helens, ove potrebbe conferire con me.

Partii all’istante, e giunsi alle cinque del mattino. Questo eccellente
amico discese a terra e passò la giornata con me; poi siccome gli
manifestai il desiderio di vedere il cappellano M. Scott e il chirurgo
M. Beaty, li mandò a cercare, e m’inebbriai nel mio dolore, udendoli
raccontare ne’ loro particolari la morte di Nelson: di più, il dottore
Beaty ne aveva scritto una relazione, e ottenni da lui che me la
lasciasse per una notte, che passai intiera nel copiarla, ed è quella
che, grazie alla sua gentilezza ho potuto inserire nelle mie memorie.

Il giorno seguente il capitano Hardy mi diede un buon consiglio,
quello cioè d’impossessarmi subito di tutti gli oggetti che avevano
appartenuto a Nelson, e che mi aveva legato, temendo che la sua
famiglia se ne impossessasse, e che non ne risultasse qualche processo
scandaloso. Seguii il suo consiglio: presi a pigione un piccolo
appartamento a Spethead, ove feci trasportare tutti gli oggetti che
avevano appartenuto al mio eroe. Tre giorni passai ad ordinare con
pietosa cura quegli oggetti, e fu gran sollievo per me; perchè ad ogni
istante alla vista di qualche nuova prova del suo amore, le lagrime,
che mi avrebbero soffocata, sgorgavano dai miei occhi e mi davano il
solo sollievo che poteva avere.

Al sabato, giorno 15, il corpo di lord Nelson fu levato dalla botte, in
cui era stato trasportato, e collocato nel feretro che gli era stato
dato dal capitano Ben Hallowell, e che, se lo si ricorda, era stato
scolpito da un albero di vascello francese, l’_Orient_, e deposto su di
uno strato di bandiere. M. Taylor, suo antico segretario, M. Nayler,
M. York Herald, e M. Whilby, erano stati delegati all’ammiragliato
a ricevere il corpo di Nelson, che doveva essere trasbordato dal
_Victory_, su di un yacht e trasportato all’ospedale di Greenwich.

I funerali erano fissati per il sei gennaio. Era stato deciso che il
corpo fosse deposto nella cattedrale di S. Paolo — che doveva esser
poi destinata alla sepoltura degli eroi e degli uomini di stato —
inaugurata da Nelson come il Pantheon dell’Inghilterra.

Mi si permetta di non soggiacere più a lungo alla mia sventura.
Dapprima credetti che richiedesse da me un dolore eterno. Feci fare
degli abiti di lutto, e promisi a me stessa di non portarne altri.
Consacrai una delle camere di Merton a quelle sacre reliquie che aveva
avuto per la pietosa obbedienza del capitano Hardy: in tal modo stetti
per un anno intiero lontana dal mondo, vivendo con Orazia.

Io faceva i conti senza pensare alla debolezza umana, e dimenticai la
mobilità femminile.

                                   *
                                  * *

Il resto della mia vita non è più che una sequela di colpe, di
prodigalità, di errori, che mi hanno ridotta alla condizione in cui mi
trovo. Ma dal momento in cui non era più la moglie di sir William, dal
momento che non era più l’amante di Nelson, dal momento che non era più
l’amica della regina Carolina, non era più che Emma Lyonna; vale a dire
una cortigiana arricchita, che avrebbe forse potuto ancora ottenere
quella considerazione che si accoppia alla ricchezza, se avesse saputo
conservare la sua fortuna.

Ciò che da principio diede la misura della mia poca considerazione,
fu il rifiuto che mi fecero l’Inghilterra ed il re di riconoscer il
testamento di Nelson. Egli mi aveva legato al re ed al paese. Se il re
ed il paese avessero avuto qualche riguardo al testamento dell’uomo che
si era fatto uccidere per essi, mi avrebbero rialzata ai miei occhi.

Se, respingendomi soltanto, avessero accolta e riconosciuta la mia
povera Orazia, vedendo onorata quella fanciulla, mi sarebbe stato un
obbligo di rimaner onorevole; perchè infine mi sembra che la sventura
di avermi per madre doveva almeno esser compensata di aver avuto Nelson
per padre, vale a dire non soltanto il primo uomo di mare del secolo;
ma forse di tutti i tempi; ma nulla, ci si colmò di disprezzo, e a
forza di sentirmi spregiata, divenni spregevole.

Ma gettandomi verso la fine della mia vita in questa esistenza
di follie, di errori e di dissipazioni, che ne aveva alterato il
principio, allontanai Orazia da me perchè le mie colpe non ricadessero
su di lei. Collocai in modi sicuri e in suo nome le quattromila
sterline che le aveva legato suo padre, e quella rendita di cinquemila
franchi servì al suo mantenimento ed alla sua educazione.

Intanto il racconto degli avvenimenti che mi condussero dal lusso
alla miseria, dalla ricchezza alla povertà, sarebbe troppo lungo e non
presenterebbe alcun interesse. Ho raccontato le mie serate di Palermo,
la passione che aveva preso pel giuoco; questa passione non fece che
aumentare. Abituata ad una vita di prodigalità, non seppi più limitare
le mie spese colle mie rendite, e due anni dopo la morte di Nelson mi
trovai in tale imbarazzo, che fui obbligata a lasciar Merton che fu
venduta all’asta.

Per fortuna aveva per amico quel vecchio duca di Queensbur, di cui
aveva parlato; mi accolse in una delle sue case ammobigliate di
Richmond, e in luogo dei miei cavalli e delle mie carrozze vendute mi
diede un altro equipaggio: i suoi doni mi fecero vivere largamente fino
all’ora della sua morte, che avvenne alla fine dell’anno 1810.

La sua bontà per me al estese di là della morte: mi lasciò nel suo
testamento una somma di mille sterline una volta tanto ed una annualità
di cinquecento.

Per sventura, Sua Signoria si era creduto più ricco di quel che fosse;
i suoi legati avevano superato di molto la sua fortuna, e ne risultò
che i tribunali annullarono il testamento, ed io perdetti i benefizii e
le buone intenzioni del mio vecchio amico.

Lo svantaggio fu ancora più grande per me, che contava su quella
eredità, e mi era ingolfata in ispese alle quali l’eredità doveva far
fronte. Alcuni amici che ancora mi rimanevano fecero delle pratiche
presso il Lloyd per ottenere dalla sua liberalità ciò che non erasi
potuto ottenere dal ministero, vale a dire la ricompensa del servigi
che aveva reso allo Stato. Ma i loro passi, ma le mie petizioni, non
ebbero alcun successo; ed io caddi in tale una povertà che vidi vendere
i miei mobili, tutte le memorie tanto preziose che conservava di
Nelson, splendido riflesso della mia vita passata, e che mi consolavano
talvolta in mezzo ai dolori della mia vita presente; tutto fu venduto:
fino il prezioso astuccio in cui la città di Oxford aveva inchiuso il
brevetto di cittadino che gli aveva offerto; e siccome tutto il denaro
che se ne ricavò non bastava a soddisfare tutti i miei creditori,
alcuni più crudeli degli altri mi fecero arrestare e condurre a King’s
Bench, ove rimasi colla povera Orazia che trascinai se non nella mia
rovina, perchè fin quando avrebbe raggiunto i suoi diciott’anni nessuno
poteva metter mano alle quattro mila sterline; ma nella mia sventura.

Restammo in quella prigione più d’un anno, sopportando ogni sorta
di privazioni e di vergogna, perchè un uomo, cui ebbi il torto di
accordar la mia confidenza, ed al quale aveva affidato le mie carte,
fece stampare in mio nome tutta la mia corrispondenza con Nelson e
molte altre lettere che si trovavano nelle sue mani: come poteva io mai
protestare dal fondo della mia prigione? e pure il feci; ma la mia voce
non fu ascoltata, o non si credette alla mia protesta.

Finalmente un bravo ed eccellente uomo Alderman della città, ebbe
pietà di me, vedendo com’era stata crudelmente punita dei miei errori;
convenne coi miei creditori, diede loro del denaro, e ottenne per me
un’assoluzione generale.

Allora risolsi di lasciar l’Inghilterra, e di andare sul continente; il
mio protettore mi aiutò in questo progetto dandomi qualche soccorso.
Partimmo per Calais, e trovammo fra quella città e Boulogne, vicino
al piccolo porto di Ambleteuse, una casa isolata, nella cui oscurità
risolsi di passare il resto della mia vita.

Il resto della mia vita d’altronde è ben poca cosa. I dolori, i
tormenti, le angustie che provai da dieci anni mi hanno resa sfinita
innanzi tempo. Il medico che venne a visitarmi per carità, chiamò
Orazia in disparte, e vidi la povera fanciulla ritornare cogli occhi
bassi e lagrimosi.

Fu allora che, sentendomi vicina la morte, gettai uno sguardo sulla
mia vita passata, e le mie azioni apparivano sotto la loro vera luce;
allora tremai e fremetti, passai notti in cui mi apparivano degli
spettri, e giorni pieni di rimorsi: sentiva che se moriva in tal modo,
sarei morta disperata: allora in una notte vi fu per me un raggio di
luce, e come una rivelazione del Signore.

E dissi fra me: vi ha una religione dolce e misericordiosa, verso la
quale ebbi sempre un irresistibile attaccamento, una religione il cui
fondatore ha perdonato alla meretrice, all’adultera, ed al ladrone
sulla croce.

Mandiamo dunque per un prete di quella religione, e mettiamo nelle sue
mani la mia anima carica di iniquità.

Mandai pel prete.

E l’attendo.

Signore, Signore, siate misericordioso per la peccatrice che si pente.

                                   *
                                  * *

Qui finiscono le confessioni di Emma Lyonna. I nostri lettori sanno
ciò che ne avvenne; essi hanno veduto venire il prete al principio di
questo racconto, hanno veduto l’acqua santa del battesimo scorrere
sulla pallida fronte della peccatrice, hanno veduto quella fronte
ricadere sul guanciale col suggello del pentimento e del perdono.

Cinque minuti dopo riposava nella misericordia di Dio.

Ora diciamo in due parole quanto avvenne dopo la sua morte.

L’ambasciatrice d’Inghilterra, l’amante di Nelson, l’amica della
regina di Napoli, chiusa nella bara del povero, doveva essere gettata
nella fossa comune il 16 gennaio 1815, quando un mercante inglese,
che abitava a Calais, pensando alla vergogna dei suoi compatriotti
di abbandonare il cadavere dopo la morte, come avevano abbandonato
la donna durante la vita, comperò per essa un terreno nella parte più
onorevole del cimitero, e seguito da cinquanta inglesi, la depose in
una tomba, sulla quale si scolpirono per tutta iscrizione queste parole
di Cristo.

«Chi di voi è senza peccato, getti la prima pietra.»

Sua figlia Orazia, che contava appena quattordici anni, e che ebbe per
sua madre, durante la sua malattia, le cure più pietose e affettuose,
ritornò dopo la di lei morte in Inghilterra. Stette per due anni colla
famiglia di M. Macthan e poi con quella di M. Bolton cognato di lord
Nelson.

Finalmente nel 1822 si maritò col reverendo Filippo Ward, vicario di
Teuterden, e dalla loro felice unione nacquero otto figli.


  FINE.




NOTE:


[1] Lady Nelson.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE DI EMMA LYONNA, VOL. 8/8 ***


    

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