Memorie di Emma Lyonna, vol. 7/8

By Alexandre Dumas

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Title: Memorie di Emma Lyonna, vol. 7/8

Author: Alexandre Dumas

Release date: May 14, 2025 [eBook #76095]

Language: Italian

Original publication: Milano: Daelli e C, 1864

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This book was produced from scanned images of public domain material from the Google Books project.)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE DI EMMA LYONNA, VOL. 7/8 ***


                                MEMORIE
                                   DI
                              EMMA LYONNA


                                   DI
                            ALESSANDRO DUMAS


                 UNICA EDIZIONE AUTORIZZATA IN ITALIA.
                               Vol. VII.



                                 Milano
                         G. DAELLI e C. EDITORI
                               MDCCCLXIV.




             Proprietà letteraria — G. DAELLI e C. Editori.

                       STEREOTIPIA G. DASSI E C.

                           TIP. GUGLIELMINI.




MEMORIE

DI

EMMA LYONNA




I.


Presa questa decisione, la regina scrisse subito a lord Nelson, che
corse a palazzo colla sua solita premura.

La regina gli annunziò ufficialmente la sua partenza, ma non si era
ancor fissato il giorno.

Ma invece del giorno avrei dovuto dire la notte, perchè si era
stabilito che la famiglia reale lasciasse Napoli, senza far conoscere a
nessuno la sua fuga.

La regina si rivolgeva a Nelson e non a Caracciolo per molti motivi.
Il primo era forse l’antipatia che le ispirava il principe napolitano,
quantunque fosse obbligata a render giustizia alla nobiltà del suo
carattere. Ma il secondo, e probabilmente il principale, era che la
regina non voleva far conoscere ai napolitani le ricchezze che portava
seco, temendo che se ne spargesse la voce per la città.

Il trasporto degli oggetti più preziosi dovea farsi nella stessa sera,
e Nelson mandò nello stesso momento quell’ordine al capitano Hope
comandante l’_Alcmena_.

      «_Secretissimo_

  «Tre barche, e il piccolo cutter dell’_Alcmena_ armate con armi
  bianche soltanto, per trovarsi alla Vittoria alle sette e mezzo
  precise. — Una sola barca accosterà la banchina, le altre si
  rimarranno ad una certa distanza — i remi drizzati — la piccola
  barca del _Vanguard_ resterà alla banchina — tutte le barche sieno
  riunite a bordo dell’_Alcmena_, pria delle sette, sotto gli ordini
  del comandante Hope — _I grappini nelle scialuppe_.

  «Tutte le altre scialuppe del _Vanguard_ e dell’_Alcmena_ armate
  di coltellacci e i canotti con caronate riunite a bordo del
  _Vanguard_, al comando del capitano Hardy che se ne allontanerà
  alle otto e mezzo _precise per prender il mare a mezzo cammino
  verso Molosiglio. — Ogni scialuppa deve portare da 4 a 6 soldati_.

  «_Se nel caso avrete bisogno di assistenza, fate dei segnali per
  mezzo di fuochi._

                                                        «O. NELSON.

  «_L’Alcmena pronta a partire la notte se è necessario._»

Il ritrovo era stato fissato alla Vittoria, perchè la banchina
della Vittoria era precisamente in faccia al palazzo dell’ambasciata
d’Inghilterra, e che senz’essere osservati, vi si potea portare o far
portare le gioie più preziose della regina, che essa mi dovea mandare
nella giornata, racchiuse in due o tre cassette.

Ma siccome si contava di trasportare tutti gli oggetti più preziosi, le
statue, i quadri che si potrebbero riunire, bisognava trovare un’altra
via.

Un’antica tradizione diceva che esisteva sotto al palazzo un
sotterraneo che comunicava col mare.

Bisognava trovarlo; questa stessa tradizione diceva che il sotterraneo,
dal tempo della dominazione spagnuola, non era stato mai aperto.

La regina fece venire il più vecchio dei servi del palazzo; era un uomo
sui ottantaquattro anni, e per conseguenza era nato nel 1714, ed aveva
ventun anno quando il re Carlo III era stato nominato re di Napoli.

Egli era un fabbro del palazzo, e godeva il suo ritiro; ma suo figlio,
che aveva cinquantott’anni, lo aveva rimpiazzato nel suo posto al
palazzo.

Il vecchio si richiamò tutti i suoi ricordi, e promise di trovare
il passaggio coll’aiuto di suo figlio, di cui rispondeva come di se
stesso. Per quanto se lo poteva ricordare, questo passaggio era largo
una tesa ed alto otto o nove piedi.

Le statue ed i quadri potevano passare per di là.

Il vecchio ricevette l’ordine di mettersi alla ricerca del sotterraneo
e di prevenire la regina non appena l’avesse trovato.

Mezz’ora dopo il vecchio ritornò. La porta era stata riconosciuta;
suo figlio aspettava l’ordine della regina per aprirla, giacchè
naturalmente non si sapeva ciò che fosse divenuto della chiave.

La regina non voleva confidare l’esplorazione del sotterraneo a
nessuno, ma la sua presenza avrebbe dato una importanza troppo grande
all’operazione. Perciò me ne incaricai io; si presero delle torcie, e
discesi col vecchio.

Il sotterraneo comunicava colle cantine del palazzo, e la porta era
nascosta da una serie di barili vuoti, che caddero in polvere appena
che furono toccati, dopo circa tre quarti di secolo che erano là.

Ordinai al fabbro di aprire il cancello, il che si fece non senza una
certa difficoltà, poichè la ruggine aveva invaso la serratura ed i
cardini.

Infine cedette.

Per un istante, al momento d’inoltrarmi in questo passaggio oscuro
o mefitico, il coraggio mi mancava; mi sembrava che su quella terra
viscosa avrei trovato ogni sorta di rettili.

Inoltrai col più giovane dei due uomini, il vecchio rimase di guardia
alla porta.

Il sotterraneo faceva dei giri che ne raddoppiavano la lunghezza;
l’aria era umida, e alcune goccie gelate cadevano dalla volta.

M’accorsi che mi avvicinava all’estremità opposta dal volo di
tre o quattro pipistrelli che svegliai nel loro covo, i quali ne
risvegliarono delle centinaia. Di giorno si rifugiavano in quell’oscuro
passaggio, e di sera uscivano fra le sbarre del cancello che metteva al
porto militare.

Malgrado l’orrore che mi ispirava questo lugubre volo, continuai la mia
via, e vidi subito la luce.

Come si era detto, l’apertura opposta dava sul mare e sulla banchina
larga da dodici a quindici piedi al più, presentava tutta la facilità
possibile di trasportare tutto ciò che si voleva a bordo delle
scialuppe che potevano accostare lo scaricatoio.

Nella stessa sera si potrebbe incominciare il trasporto, facendo
portare le casse in cantina.

Salii per annunziare questa buona notizia alla regina, che dichiarò che
sarebbe morta di paura, avendo il più profondo orrore pei pipistrelli.

Difatti fu quest’orrore della regina per simili animali che impedì alla
famiglia reale di approfittare per la sua fuga del nuovo cammino, di
cui io era, se non il Cristoforo Colombo, almeno il Vasco de Gama.

Tutta la giornata fu impiegata a far le casse, in cui si racchiuse
tutto ciò che si potè procurare in oro al banco, al monte di pietà, e
in tutti gli stabilimenti pubblici e privati, ove si potè trovarne.

Del resto, fin dal 19, i maestri velieri erano stati incaricati di
preparare le cabine pel re, per la regina e per la famiglia reale
a bordo del _Vanguard_. I pittori erano stati posti al carré degli
uffiziali sotto la poppa quadrata, destinata a diventare il salone
della famiglia reale, e nella notte dal giovedì al venerdì le prime
casse furono portate a bordo.

Fu il conte di Thurn che si occupò di questo trasporto, pel quale, l’ho
già detto, non volle impiegare nessun napolitano.

La giornata di Venerdì 21 fu impiegata nello stesso lavoro che
si dissimulava più che mai all’esterno, perchè gli assembramenti
continuavano quasi ogni momento sulla piazza del palazzo, e si riempiva
di lazzaroni che gridavano: Viva il re! morte ai giacobini! morte ai
francesi!

La partenza fu fissata per la notte del 21 al 22. Il re non voleva
imbarcarsi; ma la regina, temendo che mutasse di risoluzione,
insistette, lo rampognò della sua vergognosa superstizione, e ottenne
che si imbarcasse nella stessa sera.

Qualche giorno prima Lord Nelson aveva scritto ufficialmente a sir
William la lettera seguente perchè venisse pubblicata.

                                          «Napoli 14 dicembre 1798.

      «Signore,

  «Avendo appreso che il regno è stato invaso da una formidabile
  armata francese, credo mio dovere informare Vostra Eccellenza,
  che riceverò a bordo, in altro dei miei bastimenti, i negozianti
  inglesi, o qualunque suddito di S. M. Britannica, che si trovassero
  a Napoli, e che i trasporti che si trovano sotto i miei ordini
  nella rada, riceveranno i loro effetti, come la squadra le loro
  persone.

  «Ho l’onore ecc.

                                                        «O. NELSON.

  «Ben inteso che questi effetti saranno oggetti preziosi, e non
  mercanzie o mobili.»

Fin dal 15 ciascuno aveva fatto portare a bordo dei trasporti ciò che
aveva di più prezioso, e verso il 20 le persone si erano recate a bordo
dei bastimenti di linea.

Al 20 l’ammiraglio Caracciolo aveva ricevuto l’ordine di tenersi pronto
a seguire il _Vanguard_, e gli si era fatto credere che la regina, la
famiglia reale, sir William ed io ci saremmo imbarcati a bordo del
_Vanguard_, ma che il re faceva il tragitto a bordo della Minerva,
ciò che avrebbe conciliato tutto, e non avrebbe fatto dell’ammiraglio
napolitano un nemico.

Al 21, verso mezzogiorno, Nelson ricevette l’avviso che la partenza era
fissata per la sera; ed egli da parte sua diede di conseguenza i suoi
ordini al conte di Thurn.

Inviò inoltre queste due lettere, una al marchese di Niza e l’altra al
capitano Hope. Esso aveva per iscopo di far incendiare i bastimenti
della marina napolitana che potevano diventare navi nemiche cadendo
nelle mani dei francesi, o navi ribelli cadendo nelle mani dei
patriotti.

                    «A. S. E. il conte Ammiraglio marchese di Niza.

                                         «Napoli, 21 dicembre 1798.

  «Colla presente siete invitato ad ordinare al Comodoro Stoue,
  a Campbell e al capitano del Prince Royal di apparecchiarsi per
  incendiare il _Guiscardo_, il _S. Gioachino_ e il _Tancredi_. Il
  capitano Hope ha già ricevuto l’ordine di preparare a questo scopo
  le fregate e le corvette. Voi veglierete all’esecuzione di questo
  ordine, e senz’alcun pretesto non partirete ad opera incompiuta;
  prenderete sotto la vostra protezione le navi che vorranno
  accompagnarvi a Palermo, ove le condurrete al più presto possibile.
  Colà riceverete altri miei ordini.

                                                        «O. NELSON.

                     «Al capitano Hope comandante il brick di S. M.
                                                       l’_Alcmena_.

  «Preparate le fregate e le corvette che devono essere incendiate
  sotto gli ordini del marchese di Niza, avendo cura di non metter
  vela prima che l’ordine sia compito. Vi raccomando una particolare
  attenzione pei trasporti inglesi, che condurrete con voi a Palermo.
  Colà riceverete altri miei ordini.

                                                       «O. NELSON.»

Si comprende quale disordine regnasse in palazzo durante questa
disgraziata giornata di venerdì: la regina, che avea voluto affrettare
la partenza, piangeva di rabbia, ed era pronta a dare un contr’ordine.

Si fece venire il principe Pignatelli, che fu nominato Vicario generale
del regno.

Erasi ricevuta una lettera di Mack, che diceva di recarsi a Napoli
per metterla in istato di difesa, e si lasciò per lui un brevetto di
luogotenente generale del regno.

Il principe Pignatelli chiese fino a quanto si estendevano i suoi
poteri.

Fino ad incendiar Napoli, rispose la regina: voi avete diritto di vita
e di morte sul mezzo ceto e sulla nobiltà. Qui non v’ha di buono che il
popolo.

La partenza fu fissata per le dieci della sera, e per conseguenza alle
dieci di sera tutta la famiglia reale si riunì negli appartamenti della
regina; inoltre v’era io, sir William, l’ambasciatore d’Austria colla
sua famiglia; il re aveva voluto condur seco il cardinale Ruffo; ma
la regina che lo detestava si era opposta; per cui il cardinale si era
imbarcato sulla _Minerva_.

Non fu che da Sua Eminenza che l’ammiraglio Caracciolo aveva saputo che
sarebbe privo dell’onore di condurre il re a Palermo. Il suo orgoglio
di principe ed il suo patriottismo di napolitano avevano ricevuto a
quella notizia una duplice ferita. Voleva mandare sul momento la sua
dimissione al re, ma Ruffo l’aveva determinato a compiere il suo dovere
fino all’ultimo, e risolse di non dare la sua dimissione che a Palermo.

La voce della partenza del re, quantunque tenuta segreta, si era sparsa
per la città; bisogna conoscere Napoli per farsi un’idea del tumulto
che si fece in tutta quella giornata. Nelle circostanze del palazzo, a
Napoli le grida d’amore rassomigliano così bene alle grida di odio, che
si sarebbe potuto credere che tutto questo popolo che temeva di perder
il suo re, erasi riunito nello scopo di scannarlo.

A dieci ore, come erasi convenuto, ci riunimmo negli appartamenti
delle loro Maestà, alle dieci e mezza il conte di Thurn apparecchiò
le scialuppe vicino alla scalea conosciuta sotto la denominazione
di scalea _del Ceracò_, e aperse la porta della scala superiore
che metteva agli appartamenti; ma volendo aprire la porta degli
appartamenti, il conte Thurn ruppe la chiave nella serratura, di
modo che fu obbligato di rompere la porta: allora il re si pose in
capo alla comitiva con una candela accesa in mano, ma giunto a metà
della scala, il re intese del rumore dalla parte della discesa del
Gigante, e temendo di essere veduto e conosciuto, spense il lume. Ci
trovammo allora in una oscurità spaventosa, in mezzo alla quale eravamo
obbligati di andar tastoni, e in tal modo arrivammo al Molosiglio; ma
il mare era così agitato che non si avventurò di uscire, ci ravvolgemmo
nei nostri mantelli e nei nostri scialli; e siccome erasi obbliato di
dar la cena alle giovani principesse, le quali morendo di fame chiesero
da mangiare, un marinaio diede loro delle acciughe, che mangiarono
col pane e bevendo dell’acqua infetta; infine, essendosi calmato il
mare, ci dirigemmo verso il _Vanguard_, ove abbordammo poco prima di
mezzanotte.

Il giorno seguente verso l’alba Nelson scrisse al comodoro Duckworth.

                                 «Baia di Napoli, 22 dicembre 1798.

      «Mio caro signore,

  «Debbo dirvi soltanto che le loro Maestà Siciliane colla loro
  augusta famiglia sono arrivate sane e salve a bordo del _Vanguard_
  nella notte scorsa, divisamento molto necessario in tale
  circostanza; fate sapere, vi prego, a tutti i bastimenti quanto ho
  l’onore di parteciparvi, raccomandando a loro di non avvicinarsi
  a Napoli, che colla maggiore precauzione: se avete occasione,
  scrivete, vi prego, a lord Saint Vincent quanto vi scrissi,
  perchè in quanto a me, non ho un sol bastimento inglese a mia
  disposizione.

                                        «_Sono il vostro devotiss_.

                                                       «O. NELSON.»




II.


Malgrado le disposizioni prese da Nelson, il re e la famiglia reale
si trovavano molto stretti. Dieci persone avevano invaso la cabina
dell’ammiraglio ed il carrè degli uffiziali senza contare sir William e
me, e senza contare l’ambasciatore d’Austria colla sua famiglia.

Queste dieci persone erano il re, la regina, il principe ereditario,
sua moglie, la giovane principessa che aveva dato alla luce da poco
tempo, il giovane principe Leopoldo, il principe Alberto, Maria
Cristina, Maria Amalia e Maria Antonia.

Vedendosi così angustiato il re ebbe per un istante l’idea di mantenere
la promessa che si era fatta all’ammiraglio Caracciolo di andare a
bordo della _Minerva_; ma la regina si oppose formalmente che il re si
separasse dalla sua famiglia.

All’alba, con una fresca brezza, che sgraziatamente ci era contrarla,
si udivano a bordo del _Vanguard_ i rumori della città, come gli urli
di un orso gigantesco.

Di fatti il popolo seppe che il suo re, malgrado le sue promesse, lo
aveva abbandonato, e proclami affissi a tutti gli angoli delle vie,
sulle piazze e nei crocivii, annunziavano che il principe Francesco
Pignatelli era stato fatto vicario generale con poteri illimitati,
e Mack capitano generale dell’esercito distrutto, e che il ministro
Simonetti lasciava le finanze per far posto al banchiere Zurlo.

Tutte queste nomine erano state fatte con decreti interamente scritti
di pugno del re.

Si ripeteva la risposta della regina al principe Pignatelli, allorchè
le chiedeva quanto si estendesse il suo potere:

— Fino ad abbruciar Napoli.

Le banchine erano ingombre, ma il mare era troppo cattivo, perchè
nessuna barca osasse di avventurarsi; si vedevano dei gruppi che
certamente erano deputazioni, ma questi gruppi dopo essere stati
qualche momento in riva al mare, sparivano gli uni dopo gli altri,
per rifiuti che i barcajuoli faceano loro di condurli al bastimento
ammiraglio, al cui albero sventolava la bandiera reale.

Nella notte il vento diminuì, ma rimase però contrario; all’alba
rivedemmo la folla sulle banchine che salutò la flotta inglese con
grandi grida, sperando senza dubbio che il re mutasse risoluzione; e
difatti, siccome il mare era ritornato più calmo, vedemmo non soltanto
riapparire, ma anche imbarcarsi e avanzarsi verso il _Vanguard_ le
deputazioni che avevamo distinto il giorno innanzi che si agitavano
inutilmente sulle banchine.

Queste deputazioni erano tre.

Ve n’era una del clero, condotta dal cardinale arcivescovo Capece
Zurlo, un’altra di baroni del regno, una terza di magistrati e
dell’eletto del popolo: essi venivano a supplicare il re di ritornare,
e impegnavano il loro onore a difenderlo fino all’ultimo.

Ma il re non volle ricevere nessuno, fuorchè l’arcivescovo cardinale di
Napoli; lasciò che le barche girassero intorno al _Vanguard_, e quelli
che vi si trovavano levassero inutilmente le mani al cielo.

L’arcivescovo cardinale, monsignor Capece Zurlo, insistette assai per
trattenerlo; ma il re fu inflessibile. — Monsignore, gli disse, la
terra mi ha tradito; vado a vedere se il mare mi sarà più fedele.

Monsignore lasciò il _Vanguard_ col cuore rotto, dichiarando che non
poteva predire ciò che farebbe Napoli abbandonato a sè stesso.

— Oh! mormorò la regina, se non sapete ciò che farà Napoli, so ben io
cosa gli farei, se torno a metterci i piedi.

Le deputazioni, nella speranza di essere ricevute, restarono fino a tre
ore dopo mezzodì.

Verso le quattro, venne anche il generale Mack: non avendo trovato il
re a Napoli, e sapendo che da uno degli ultimi decreti di Ferdinando
era stato nominato luogotenente generale, veniva a prendere gli ordini.

Restò mezz’ora solo col re, poi ritornò a terra. Lord Nelson non lo
volle nemmeno vedere.

Alle cinque ore il vento ritornò; si apparecchiò e si levò l’áncora
alle sette, accompagnati dalla fregata la _Minerva_, e da dieci o
dodici bastimenti mercantili e di trasporto.

Ma appena superata l’isola di Capri, fummo presi da una violenta
tempesta; si sarebbe detto che, infedele come la terra, il mare
voleva tradire il re, e s’impiegò tutta la giornata di lunedì per
lottare con esso; la notte fu terribile; i tre pennoni di trinchetto e
l’attrezzatura fuori di bompresso furono spezzati; si sarebbe detto che
il bastimento si disgiungeva, tanto era terribile lo scricchiolare che
faceva.

Difficilmente si può farsi un’idea dello stato in cui si trovava la
famiglia reale; il re morto dalla paura si raccomandava a tutti i
santi, e specialmente a S. Francesco di Paola, per cui pareva avesse
in questa circostanza una devozione particolare, promettendogli, se lo
salvasse, una chiesa bella quanto quella di S. Pietro in Roma; della
sua famiglia non ne parlò punto, senza dubbio sarà stata sottintesa.
Le giovani principesse eran morenti di stanchezze e del mal di mare;
il principe ereditario sembrava abbattuto quanto suo padre; soltanto
la principessa Clementina, tenendo la sua bambina fra le braccia,
sorrideva malinconicamente al cielo; la regina era triste e come
assorta nei suoi pensieri.

Di tempo in tempo Nelson, che restava sul ponte per vegliare alla
sicurezza dei suoi illustri passeggieri, scendeva per dirci una parola
d’incoraggiamento, a cui rispondeva soltanto io con un segno della
mano o con uno sguardo; e siccome egli veniva specialmente per cercare
quello sguardo e quel segno di mano, risaliva contento.

Alla mattina il tempo si rischiarò: Nelson ci disse, che credeva a
due ore di tregua, e che se volevamo salire per un momento sul ponte,
ci saremmo trovati meglio, e si approfitterebbe di questo momento per
mettere un poco d’ordine nelle cabine.

Il re che aveva passato la maggior parte della notte ginocchioni ed in
preghiere, respirò e ci diede l’esempio, prendendo l’unico braccio di
Nelson e salendo sul ponte; la regina lo seguì e saliva sola la scala,
quando corsi verso di lei e la sostenni. Nelson ritornò col capitano
Hardy per dare il braccio alla principessa reale ed alle giovani
principesse; in quanto al principe ereditario, egli era più spossato
e abbattuto di tutti; il più giovane dei figli della regina rimase nel
suo hamac, incapace di fare un movimento.

Il ponte del _Vanguard_ presentava uno spettacolo di confusione non
meno grande delle nostre cabine; i marinai approfittavano di questo
momento di tregua che dava loro la tempesta per sostituire i pennoni e
riparare i guasti fatti all’alberatura, e si preparavano visibilmente a
lottare contro il cattivo tempo imminente.

Il re appoggiato ad una sartia del bastimento, osservava con un occhio
invido la fregata dell’ammiraglio Caracciolo che navigava alla nostra
sinistra, e che sembrava un bastimento incantato. Non una corda, non un
attrezzo si era spezzato; sembrava che non ricevesse dalle onde enormi
su cui ci agitavamo, che quel movimento che fa sotto la mano del suo
cavaliere un cavallo spinto al galoppo.

— Guardate, signora, disse il re a Carolina.

E le indicava la _Minerva_.

— Ebbene? gli chiese la regina.

— Ebbene, siete stata voi la causa per cui mi trovo su questo
bastimento invece di essere su quello là.

— È una fortuna, gli rispose la regina, che l’ammiraglio non comprenda
l’italiano.

— E perchè ciò?

— Perchè a mio avviso, disse la regina, è già molto che sappia di
portare un re vile, oltre ad un re ingrato.

Ed egli le volse le spalle.

— Ingrato quanto volete, replicò il re, che non riceveva il primo
epiteto; ma non è però meno vero che vorrei piuttosto essere sulla
fregata di Caracciolo che sul _Vanguard_.

Mi si venne a dire, che il piccolo principe rimasto nel suo hamac,
chiedeva di me.

Era un fanciullo di sei anni che si chiamava il principe Alberto; era
amato mediocremente dalla regina, che non aveva altra vera affezione
che pel principe Leopoldo che avea nove anni. Ne avveniva che il
povero Albertino, che sentiva istintivamente questo abbandono, si era
attaccato a me, e mi chiamava la sua mammina, e ricorreva a me tutte le
volte che desiderava di sfuggire qualche punizione, o di ottenere una
grazia.

Il povero fanciullo si sentiva un po’ meglio, e chiese di me per
ricondurlo sul ponte; malgrado i movimenti del vascello, lo presi fra
le braccia, e lo portai di sopra.

Durante quell’ora che il cielo si era coperto ancora di nubi, il vento
tornava a spirare da sud ovest, per cui il _Vanguard_ era obbligato
di navigare colle vele raccorciate, mentre della _Minerva_ si sarebbe
detto, essendole indifferente qualunque andatura, che il vento stesso
contrario le dava le ali.

Del resto non era difficile di vedere che si avvicinava una nuova
burrasca; le nubi tetre, umide e grigiastre, si abbassavano rapidamente
e sembravano riposare sulle punte degli alberi del _Vanguard_; soffi di
aria tiepida e snervante passavano come un sapore scipito; era il vento
della Libia cotanto antipatico ai marinai del Mediterraneo.

Nelson ci prevenne che la tregua che ci aveva accordato la tempesta
era spirata, e che se volessimo ritornare nelle nostre cabine, avrebbe
durante la nostra assenza affrontato il nemico.

Gettai un ultimo sguardo sulla fregata napolitana, e benchè avessi
qualche prevenzione in favore di Nelson, non fui meno obbligata di
riconoscere la superiorità del suo cammino sul nostro.

Noi camminavamo di fatti colle nostre vele basse, mentre la Minerva
colle vele spiegate sembrava voler sfidare la tempesta; più fina di
proda fendeva meglio le onde, e ondulava per conseguenza meno del
_Vanguard_, e giustificava i desiderii egoistici del re.

Dieci minuti dopo l’avviso di Nelson, tutti eravamo istallati nelle
nostre cabine, e la tempesta si rovesciava di nuovo su di noi.

Passammo in tal modo la giornata di martedì e quella di mercoledì.

Quella di giovedì fu segnata da una spaventevole disgrazia.

Alle quattro dopo mezzodì, il giovane principe mio favorito, fu preso
da convulsioni che andarono sempre crescendo; il medico di bordo
discese, ma tutti i suoi soccorsi furono inutili, io me lo teneva nelle
braccia stretto contro il mio petto, e sentiva tutte le sue membra
torcersi sotto gli accessi del male. Due o tre volte la regina lo
voleva prendere; ma egli stringendosi a me non mi voleva lasciare.

La tempesta muggiva più forte che mai, le onde coprivano il ponte, il
bastimento tremava tutto dagli alberi alla stiva. Confesso che io non
intesi nulla fuorchè i lamenti del povero fanciullo, e non sentiva
nulla fuorchè i brividi di quel corpo agonizzante.

Infine alle sette di sera gettò un grido, e irrigidito fra le mie
braccia fece uno sforzo per abbracciarmi, mandò un sospiro e fu
l’ultimo.

— Signora! signora! esclamai quasi impazzita, il principe è morto.

La regina si avvicinò a noi, lo guardò, lo toccò e si accontentò di
dire:

— Va, povero fanciullo, tu ci precedi di così poco, che non vale la
pena di compiangerti.

Poi stendendo la mano con una espressione che avea più della Medea che
della Niobe:

— Ma, se ritorniamo! sta pur tranquillo, soggiunse, sarai vendicato!




III.


Si sarebbe detto che la tempesta non aspettava che questa vittima
espiatoria per calmarsi; appena il real fanciullo ebbe reso l’ultimo
sospiro, il vento cessò ed il cielo si rischiarò.

Questo miglioramento nell’atmosfera era necessario alla famiglia reale,
perchè si accorgesse della perdita fatta di uno de’ suoi membri. La
principessa Maria Clementina mi parve la più colpita; essa non mandò
grida, nè diede alcun segno di dolore, ma a quel grido che mi sfuggì
dalla bocca: — il principe è morto — ella strinse sua figlia contro il
suo cuore, e grosse lagrime le scendevano sulle gote.

Coricai il piccolo principe nella mia cabina, e passai la notte seduta
vicino al suo letto.

Alle due del mattino intesi un gran rumore di ferri; era l’áncora che
si gettava, eravamo arrivati: un momento dopo ogni movimento cessò nel
bastimento.

Avemmo cinque orribili giorni di traversata, ed eravamo al venerdì 26
dicembre.

Alle cinque tutti erano pronti a discendere, ma io dichiarai che
restava vicino al piccolo principe per il seppellimento.

Il re, la regina, i fratelli e le sorelle del morto, senza molto
insistere, riposavano su di me per questa cura; si promise di mandare
nella giornata a prendere il corpo per esporlo nella cappella reale, e
Nelson s’incaricò di far costruire il feretro dal falegname di bordo.

Il re, la regina, la famiglia reale, Acton, sir William, i ministri
Castelcicala, Belmonte e Fortiguerra discesero nelle scialuppe, e
s’incamminarono verso la marina, ove il loro sbarco fu salutato dagli
urrà dell’equipaggio del _Vanguard_ salito sulle antenne; e non si tirò
il cannone perchè si era entro il molo.

Nelson rimase a bordo.

Fu in certo modo in presenza e sul cadavere del povero fanciullo, di
cui io suppliva la madre, che egli mi giurò un amore, che non si smentì
giammai.

Alle due dopo mezzogiorno il cadavere fu inchiodato nella bara, ed un
messaggero venne ad annunziarci che il carro mortuario lo aspettava
sulla banchina.

I marinai discesero nella lancia dell’ammiraglio; noi prendemmo posto,
Nelson ed io, come avrebbero dovuto fare il padre e la madre di quel
cadavere reale, e lo conducemmo alla banchina.

Il cadavere fu posto in un’urna, una carrozza di corte ci attendeva, e
noi seguimmo lentamente la carrozza di lutto.

Essa attraversò tutta Palermo, diviso in croce da due strade
principali, la via di Toledo e la via Maqueda, e arrivammo all’antico
palazzo di Ruggiero.

Il corpo fu deposto nella cappella bizantina, ove doveva restare tre
giorni, e allora poi chiesi che mi si conducesse all’appartamento della
regina.

Durante questo tempo Nelson si fece condurre agli appartamenti del re.

Lo trovò molto preoccupato, non già della disfatta dell’esercito,
dei progressi della rivoluzione; non già dell’epoca probabile in cui
i Francesi sarebbero a Napoli, ma di due altre cose ben altrimenti
importanti.

Eravi della caccia alla Ficuzza? e quale sarebbe il compagno ammesso
all’onore di fare alla sera la sua partita al reversi?

Erano quasi due mesi che il re non era andato alla caccia; e più di
otto giorni che non aveva fatto la sua partita di reversi.

Aveva bene con sè i suoi giuocatori ordinari, il duca d’Ascoli, il
principe di Castelcicala, il principe di Belmonte; ma piaceva al re di
mutar viso.

Ruffo non giuocava, d’altronde la regina aveva concepito una certa
antipatia per lui, che il re aveva rinunziato a riceverlo nella
intimità della famiglia. Se doveva parlargli di politica o consultarlo
su qualche atto del governo, gli scriveva un viglietto, e lo faceva
venire da lui.

Ora vi era precisamente a Palermo un uomo che era gran giuocatore e
gran cacciatore, e che poteva ad un tratto offrire al re Ferdinando le
due cose che cercava: una magnifica caccia nel suo feudo d’Illice, e un
compagno infaticabile al boston o al reversi.

Era il presidente Cardillo.

Il re detestava la nobiltà di toga; ma nella penuria in cui si trovava
momentaneamente di selvaggine e di giuocatori, superò la sua antipatia;
e per conseguenza si fece presentare il presidente Cardillo, che mise a
sua disposizione i suoi boschi, i suoi fagiani, i suoi caprioli, i suoi
cignali ed i suoi cani.

Il re, maravigliato dell’offerta, accettò una caccia pel giorno
seguente, ed invitò il presidente alla sua partita per la sera stessa.

Ma nella stessa giornata si prevenne il re Ferdinando, che il
presidente era il più irascibile giuocatore della Sicilia.

Il re si mise a ridere; ed io, disse, che mi credeva il più irascibile
giuocatore del mio regno, avrò trovato uno che mi guadagnerà la partita
su tutti i punti.

Si rifletta, che gli avvisi non mancarono al presidente Cardillo; tutti
questi avvisi riassumevano in queste parole: — non dimenticate che
avete l’onore di giuocare con Sua Maestà, frenatevi.

Il presidente fece le più belle promesse del mondo, e nella prima sera
maravigliò per la sua moderazione tutta la galleria, perchè tutti erano
prevenuti dall’irascibilità del presidente.

Una sola parola gli sfuggì che lo mise subito in grazia del re.

Il re, a cui erano state promesse le ire del presidente, vi si era
preparato, e non vedendole scoppiare, trovava che gli avevano mancato
di parola, e stuzzicava il povero presidente in modo che dimenticò il
suo giuoco e fece un grande sbaglio.

— Ah perdio! esclamò il re, sono un grand’asino, poteva metterci l’asso
e non l’ho fatto.

— Ebbene, rispose il presidente, cui la preoccupazione di serbare il
contegno aveva fatto dimenticare il giuoco, ed io sono ancor più asino
di Vostra Maestà, perchè poteva metterci la chinola e così mi è rimasta
in mano.

Il re diede in uno scoppio di risa, la risposta gli aveva ricordato la
franchezza dei suoi cari lazzaroni, e da quel momento il presidente
Cardillo entrò nelle sue buone grazie. Da parte sua il presidente si
familiarizzò col re, ed ogni volta che egli era invitato al giuoco di
Sua Maestà, dava un grazioso spettacolo alla galleria; quando giuocava
con tutt’altra persona, all’infuori del re, si lasciava andare alla
sua irritabilità naturale, fulminava contro i suoi compagni di giuoco,
li apostrofava, faceva volare le marche, le carte, il denaro e fino i
candelieri; ma quando aveva l’onore di far la partita del re, il povero
presidente aveva una briglia ed era obbligato di mordere il suo freno.
In certi momenti era quasi per dare in uno scoppio d’ira; cedendo alle
sue antiche abitudini, diventava quello di prima, e ghermiva, con una
intenzione che non isfuggiva a nessuno, il denaro, le marche, ed anche
il candeliere. Ma allora il re, cogliendo il momento, lo guardava, o
gli faceva qualche dimanda; allora il presidente sorrideva con tutta
la grazia di cui lo aveva dotato la natura, riponeva dolcemente sulla
tavola qualunque cosa che avesse preso, e si accontentava di strapparsi
i bottoni dell’abito, che si trovavano poi il giorno seguente sul
tappeto.

Ma una cosa che fece subito entrare il presidente nelle buone grazie
del re, è che non aveva un pelo sul mento, nè sul viso, nè un capello
in testa; era siccome il re, come già dissi, abbominava i capelli
tagliati alla Tito, ed aveva in orrore i mustacchi e le basette; nulla
dunque gli poteva essere più grato quanto quel mento pelato e quella
testa coperta da una immensa parrucca.

Ma il giorno dopo, in cui il re aveva fatto la conoscenza del
presidente Cardillo, gli fu dato di vederlo senza i suoi ornamenti
magistrali.

Il re non aveva potuto partire alla mattina come avrebbe voluto. Era
la domenica 28 dicembre, e si dovevano celebrar i funerali del giovine
principe; la regina era veramente ammalata di fatica e specialmente
di collera, e stava a letto; era quindi un obbligo del re di assistere
alla messa funebre del giovane principe.

Egli non potè dunque partire se non dopo mezzogiorno; e siccome il
feudo d’Illice era a dodici o quindici leghe da Palermo, non si arrivò
che verso le quattro di sera per mettersi a tavola.

Il presidente aveva avuto il tempo d’inviare un messo, e siccome il
degno magistrato era grande amatore della buona vita, il re trovò uno
splendido pranzo che lo mise di buon umore.

Aggiungasi anche i discorsi delle guardie che promettevano una caccia
magnifica, e comprenderete, per la cognizione che avete del carattere
del re Ferdinando, che egli dimenticò suo figlio, che era ancora
in età di rimpiazzare con un altro, e il suo regno che sperava di
riconquistare un giorno o l’altro. La serata fu allegra; il re alzò
talmente il presidente, che costui finì col prendere, secondo la sua
abitudine, un pugno di marche e di gettarle non già in faccia al re, ma
nel viso di un domestico, che portava dei rinfreschi su di un vassoio.
Costui, che era lontano d’aspettarsi quest’apostrofe, lasciò cadere
il vassoio ed i rinfreschi che vi erano disposti; questa inaccortezza
portò ad un tal grado l’esasperazione del presidente, già riscaldato
ad oltranza dalle eccitazioni del re, che fece un salto dalla sedia e,
istizzendo in mezzo alle tazze, cacciò il malcapitato domestico a gran
colpi di piedi nella parte posteriore, dicendogli che se tal cosa fosse
avvenuta altra volta, non gliela avrebbe fatta a sì buon mercato, e che
poteva contare anticipatamente a venticinque bastonate colla sua canna
dal pomo d’oro.

Quando il presidente dopo questa esecuzione ritornò a sedersi, il re
gli disse che era l’uomo più piacevole che vi fosse al mondo.

Siccome si doveva partire all’alba, si andò a dormire per tempo: il
presidente condusse egli stesso il re nel suo appartamento e gli indicò
la porta della sua camera che era precisamente dirimpetto a quella del
re, poi mostrandogli che non aveva che a tirare un cordone per essere
servito con tutta la diligenza, come nel suo palazzo di Napoli, augurò
la buona notte a Sua Maestà, e secondo la etichetta, si ritirò senza
volgere le spalle e chiuse la porta del re.

Ferdinando aveva tanto udito a vantare la caccia del presidente, che il
piacere che si prometteva gli tolse persino il sonno, cosicchè all’alba
si alzò, accese il lume, poi si diresse verso la camera del suo ospite,
volendo vedere che figura avesse il suo presidente, nel suo letto e
senza parrucca.

La metà dei suoi desideri fu soltanto soddisfatta; il presidente era
senza parrucca, ma non era a letto.

Il presidente, senza parrucca ed in camicia, era seduto in mezzo alla
camera su quella specie di trono su cui Monsignor di Vendome ricevette
per la prima volta Alberoni. Il re, in camicia anch’esso, andò
direttamente a lui, mentre, colto all’improvviso, il povero presidente
stava immobile, senza dir verbo, fissando sul re degli sguardi
scintillanti di stupore e di stupefazione. Il re gli mise il lume quasi
sotto il naso, per meglio vedere che figura faceva, poi cominciò a
fare il giro della statua e del piedestallo con una gravità ammirevole,
mentre la testa sola del presidente, che si teneva ferma sul suo seggio
a forza di mani, e mobile come quella di un puppo chinese, accompagnava
Sua Maestà con un movimento di rotazione circolare simile al movimento
centrale.

Finalmente i due astri che compivano il loro giro, si trovarono in
faccia l’uno dell’altro e siccome il re stava ritto ed in silenzio:

— Sire, gli chiese il presidente col più grande sangue freddo, il caso
non è preveduto dall’etichetta, debbo stare seduto, o levarmi in piedi?

— Restate, gli disse il re, ma non fatemi aspettare; ecco che battono
già le cinque.

Ed egli uscì dalla camera del presidente colla stessa gravità con cui
era entrato.

Ma debbo dire, che nell’assenza del presidente non si credette più
obbligato di mantenere quella gravità che aveva affettato innanzi a
lui, e sbellicandosi dalle risa ci raccontò quell’avventura al suo
ritorno.




IV.


Il re aveva ragione di amare la caccia, perchè era di una bravura
rimarchevole; sir William Hamilton era l’ordinario suo compagno di
caccia, e che era pure un eccellente tiratore, mi diceva che il re
faceva a questo esercizio dei veri prodigi: benchè non tirasse mai
che a palla, era sicuro di ferire l’animale dove voleva, vale a dire
nell’incavo della spalla: ma ciò che è curioso si è che esigeva dagli
altri cacciatori, non già un’abilità eguale alla sua, il che sarebbe
una cosa impossibile, ma una che ci si avvicinasse: una volta che
aveva cacciato tutta la giornata nella foresta della Ficuzza, e che i
cacciatori erano riuniti intorno ad un mucchio di cignali uccisi, il re
ne scoperse uno ferito al ventre.

Il rossore della collera gli salì alla fronte, e gettando uno sguardo
irato sulla comitiva:

— Chi è quel porco, disse, che ha fatto questo colpo?

— Io, sire, rispose il principe di San Cataldo, e per questo bisogna
forse impiccarmi?

— No, disse il re, ma bisogna restare in casa.

L’onore che il re faceva al presidente Cardillo andando a caccia da
lui, eccitò l’ambizione dei suoi cortigiani; le abbadesse dei conventi
siciliani ebbero allora la felice idea di popolare i parchi dei loro
conventi di cervi, di daini e di cignali, invitando il re a dare alle
povere recluse, di cui esse dirigevano le anime, la distrazione di una
caccia. Si comprende bene che Sua Maestà, che non aveva più, come nelle
sue foreste di terra ferma, la casa di riposo di cui abbiamo parlato,
si guardò bene di rifiutare un simile invito. Era un mezzo di ritrovare
a cento leghe da Napoli la sua Colonia di S. Leucio, quella caccia, che
egli rimpiangeva dopo quella dei cignali agli Astroni, e dei fagiani a
Capodimonte.

Mentre il re Ferdinando dimenticava la perdita del suo regno
ripopolando i suoi parchi della Ficuzza, di Castelvetrano, e della
Favorita, e devastando quelli del presidente Cardillo e delle
religiose; vi era però un uomo che chiuso in una cella del convento
della Gancia, pensava a riconquistare il regno.

Quest’uomo era il cardinale Ruffo, detestato dalla regina e quasi
dimenticato dal re, e che voleva vendicarsi del rifiuto che gli
era stato fatto di un posto militare, provando che egli aveva più
iniziativa di tutti i generali che erano fuggiti col re, e che
sollecitavano l’onore di accompagnarlo alla caccia o di fare la sua
partita al reversi.

Del resto, siccome il reversi era un giuoco troppo grave, per la parte
frivola della corte di cui faceva parte, si creò un banco di trenta e
quaranta.

Avevo sempre amato con passione il giuoco, più libera che mai in tutte
le mie fantasie; mi ci abbandonai con furore.

Nelson non giuocava mai, ma stando seduto dietro di me col suo unico
braccio appoggiato alla spalliera della mia sedia, mi parlava sottovoce
del suo amore, il che mi cagionava un doppio piacere pel giuoco.

Ahimè! ed oggi che sto languendo al dileguarsi di una moneta d’oro
necessaria pel nostro nutrimento della settimana, non è senza rimorsi
che mi ricordo quell’epoca, in cui colle mani nell’oro fino ai gomiti
ne gettava manate sulla tavola.

A proposito di colui che teneva il banco, vale a dire a proposito del
duca di S...... debbo aggiungere un particolare a questa confessione
che promisi di rendere completa.

Il duca di S...... era una specie di Casanova, appartenente d’altronde
ad una famiglia di Sicilia; era molto conosciuto in Europa pei suoi
viaggi, pel soggiorno che aveva fatto nelle principali città, e
specialmente pei suoi duelli, che quasi tutti ebbero origine dalla
straordinaria sua fortuna al giuoco.

Ma ora non si tratta di ciò. Non so se come banchiere il duca di
S..... avesse scrupolosamente nel mazzo le cinquantadue carte; ma ciò
che so, si è che ogni giorno aveva una spilla nuova alla camicia ed
un brillante nuovo in dito. Ero donna, il diamante mi tentava; glielo
chiesi per osservarlo, lo metteva in dito o al collo; lo pregava di
cedermelo, egli me l’offriva colla certezza che glielo avrei rifiutato;
ma il mio desiderio sarebbe stato ascoltato o dalla regina o da sir
William o da Nelson; in ogni caso era sicura di trovare il giorno dopo
sulla mia toletta l’oggetto di cui mi era invaghita il giorno prima.

Chi me l’avesse dato, non me ne informai nemmeno; in questa vita di
prodiga spensieratezza agitantesi nell’oro senza sapere donde esso
venisse a dove andasse, che m’importava mai di due o trecento luigi di
più o di meno?

Però l’ho saputo poi. Ognuna di quelle monete d’oro veniva dal popolo,
ed era ancor rorida di sudore quando non lo era di sangue.

In ogni caso, una cosa di cui posso rispondere, si è che il duca di
S... non ha fatto dei cattivi affari privandosi per me ad uno ad uno
dei gioielli del suo scrigno.

Il mese di gennaio passò in questo modo; le notizie che si ricevevano
da Napoli erano disastrose.

Da principio era stato conchiuso un armistizio fra il principe
Pignatelli vicario generale ed i francesi; poi questo armistizio
essendo stato violato dai lazzaroni, e non eseguito dal vicario
generale, i francesi avevano marciato su Napoli, e dopo tre giorni di
lotta accanita erano entrati in città.

Il vicario generale allora fuggì anch’egli, ed era giunto a Palermo.

Infine il 22 gennaio la Repubblica era stata proclamata a Napoli. S.
Gennaro aveva fatto il miracolo, e il Vesuvio, avendo fatto una piccola
eruzione, aveva anch’esso, al dire dei soldati francesi, inalberato il
beretto rosso.

Il re Ferdinando si era da qualche tempo disgustato con S. Gennaro, che
dopo avergli rifiutato di fare il miracolo in di lui favore, lo aveva
fatto invece pe’ francesi; è vero che per determinarlo, Championnet,
per quanto si assicura, aveva adoperato dei mezzi irresistibili.

In conseguenza di ciò, Ferdinando destituì San Gennaro del suo grado
di luogotenente generale, che il general Mack aveva esercitato per
quindici giorni in suo nome, e gli tolse lo stipendio annesso alla
carica.

Ma ciò non era tutto.

I giacobini, colle loro immense relazioni nelle provincie, lavoravano
per la democratizzazione degli Abruzzi, della Terra di Lavoro e delle
Calabrie.

Se si arrivava a democratizzare le Calabrie, la rivoluzione non aveva
che a passare lo stretto per metter piede in Sicilia, e la Sicilia
aveva pure buon numero di giacobini, che avevano la speranza che
al primo allontanamento della flotta inglese, Palermo, come Napoli,
farebbe la sua rivoluzione; e allora non si trattava nientemeno per il
re e per la regina che di far loro un processo come quello di Luigi XVI
e di Maria Antonietta, in seguito al quale, la piazza di Luigi XV la
poteva mutare di denominazione e diventare piazza della rivoluzione.

Il giorno stesso in cui la Repubblica era stata proclamata a Napoli,
vale a dire il 22 gennaio 1799, il re aveva riunito un gran consiglio
di stato a Palermo, nello scopo di trovare un mezzo qualunque per
rintuzzare la rivoluzione che si avvicinava a gran passi.

Si discuteva già da due ore, senza venire ad una conclusione, quando
l’usciere entrò e chiese pel cardinale Ruffo il permesso di entrare in
consiglio e prendere parte alla deliberazione.

Egli veniva semplicemente per proporre al re di mettersi alla testa dei
reazionarii calabresi, e di marciare con essi sopra Napoli.




V.


Una tale proposta meritava di essere presa in considerazione,
quantunque al primo momento avesse sollevato il dubbio in tutti gli
animi; ma Ruffo che fin dal suo arrivo in Sicilia, vale a dire dopo
il 26 dicembre, aveva inviato cinque o sei messaggeri in Calabria ed
aveva scritto a tutti i membri della sua famiglia, diede tali prove
che la Calabria non aspettava che lui per sollevarsi, che il re, seduta
stante, diede la sua adesione al progetto del cardinale, e giudicando
che non aveva tempo da perdere per metterlo in esecuzione, promise
al cardinale che fra tre giorni avrebbe il suo brevetto di vicario
generale.

Ruffo chiedeva che, dal momento che il consiglio era riunito, gli
dessero immediatamente le lettere patenti, ma il re dichiarò che voleva
incaricarsi della relazione.

Quando il re parlava in tal modo, si sapeva ciò che voleva significare;
la cosa era riservata al suo consiglio intimo, vale a dire alla regina,
al generale Acton ed a sir William.

Il re entrò altiero e giulivo; il suo amico cardinale tanto sprezzato
dalla regina, quell’uomo di chiesa, che non si era creduto degno di
un posto di capo d’ufficio al ministero della guerra o della marina,
proponeva una cosa che si sarebbe dovuta aspettare dal principe reale,
e di cui egli non ebbe nemmeno l’idea.

Egli riunì la regina, sir William, lord Nelson ed il generale Acton, e
comunicò loro la proposta di Ruffo.

Tutti furono dell’opinione di accettare, fuorchè la regina che non
approvò nè disapprovò, accontentandosi di stare in silenzio.

Sir William fu il primo a dire che la situazione essendo disperata, non
eravi da esitare un momento.

Siccome la regina non aveva altro motivo di rifiuto da dare che la sua
antipatia pel cardinale, la sua ragione non prevalse.

Si convenne che alla mattina del giorno seguente il cardinale sarebbe
chiamato a palazzo, e che, in sua presenza e coi suoi consigli, si
sarebbe discusso e compilato l’atto che gli conferiva la lettera di
vicario generale.

Alla sera stessa del 22, l’ammiraglio Francesco Caracciolo si presentò
a palazzo, e chiese di essere ricevuto dal re.

Il re che si sentiva di aver torto verso Caracciolo, e che per
conseguenza avrebbe difficilmente sopportato la sua presenza, fece
rispondere che, occupato in affari urgentissimi, pregava l’ammiraglio
se aveva qualche cosa da chiedergli, glielo chiedesse in iscritto.

L’ammiraglio lasciò una petizione, in cui chiedeva la sua dimissione
del grado di ammiraglio della marina napoletana e pregava il re di
dargli il permesso di tornare a Napoli.

Il re, suscettibile come chi si trova di aver torto, prese l’occasione
di sbarazzarsi dell’ammiraglio, e scrisse sulla dimanda:_ Si accordi —
ma sappia il cavaliere Caracciolo che Napoli è in potere del nemico_.

Caracciolo non fece attenzione ai termini in cui era stato accordato
il congedo; non vide che il permesso di lasciar Palermo; e col cuore
amareggiato lasciò Palermo il mattino del giorno dopo.

Nel momento che egli lasciava Palermo si compilava questo manifesto.

                                   *
                                  * *

                            «CARDINALE RUFFO

  «La necessità di accorrere prontamente, con ogni efficace e
  possibil mezzo, alla preservazione delle province del Regno di
  Napoli, dalle numerose insidie, che i nemici della religione, della
  corona e dell’ordine promulgano ed adoprano per sovvertirle, mi
  determina ad appoggiare a’ di lei talenti, zelo ed attaccamento la
  cura ed importante commissione d’assumere la difesa di quella parte
  del Regno non ancora invasa dai disordini di ogni genere e dalla
  rovina che la minaccia nell’attual seria crisi.

  «Incarico pertanto Vostra Eminenza di portare sollecitamente nella
  Calabria, come la parte, che premurosamente ho a cuore di porre,
  per la prima, nel massimo grado di praticabile difesa per combinare
  le operazioni o misure con quelle che convengono alla difesa del
  Regno di Sicilia, e camminare in esse di concerto contro il comune
  nemico, tanto per rendere immune l’una e l’altra parte da ostilità,
  come dai mezzi di seduzione che si possono introdurre, negli estesi
  loro littorali, per arte e tentativi dei malintenzionati della
  capitale o del resto dell’Italia.

  «Le Calabrie, la Basilicata, le provincie di Lecce, Bari e di
  Salerno, l’avanzo di quella Terra di Lavoro e di Montefusco, ch’è
  restato dopo la scandalosa cessione fatta, saranno l’oggetto delle
  di lei massime ed energiche premure.

  «Ogni mezzo, che dall’attaccamento alla religione, dal desiderio
  di salvare la proprietà, la vita e l’onore delle famiglie, o dalle
  ricompense per chi si distinguesse, crederà di potere impiegare,
  sarà adoprato senza limiti ugualmente che i castighi più severi.
  Qualunque molla finalmente che giudicherà poter suscitare in
  quell’istante a credere capace di animare quegli abitanti ad una
  giusta difesa, dovrà eccitarla. Il fuoco dell’entusiasmo, in ogni
  regolar senso, sembra nell’attual momento il più atto a superare
  come a contrastare con le novità, che lusingano l’ambizione di
  alcuni, con l’idea di acquistare per rapine, colla vanità e l’amor
  proprio di altri, e colla illusoria speranza che offrono i fautori
  delle moderne opinioni e de’ maneggi rivoluzionari, ma di cui
  gli esempii in tutta l’Italia ed Elvezia presentano il contrario
  aspetto e le più desolanti conseguenze.

  «Per mandare ad effetto ogni qualunque misura, diretta alla
  conservazione delle provincie, al riacquisto benanche di quelle
  invase, come a quello della disordinata capitale, l’autorizzo,
  come commissario generale nelle prime province, ove manifesterà
  la sua commessione, e con la qualità di vicario generale di quel
  Regno, allorchè si troverà in possesso, e munito di attiva forza in
  tutte o nella maggior parte delle medesime, a fare i proclami, che
  stimerà migliori e conducenti al fine ingiuntole.

  «Le accordo coll’_alter ego_ le facoltà di rimuovere nel mio
  nome ogni preside, ogni regio amministratore, ogni ministro di
  tribunale, ed inferiori impiegati in qualunque grado politico,
  come anche di sospendere ogni uffiziale militare, allontanarlo,
  farlo arrestare, occorrendo, se ne troverà motivo, e d’impiegare
  interinalmente chi stimerà per rimpiazzare le vacanze, e finchè le
  abbia io approvate per la proprietà, sulle di Lei richieste, acciò
  tutti i dipendenti del governo riconoscano nell’Eminenza Vostra
  il superiore primario da me destinato a dirigerli, ed agiscano con
  vivacità, senza mora nè difficoltà alcuna a quanto necessita negli
  ardui e critici attuali momenti.

  «Questa caratteristica di commessario o di vicario generale sarà
  assunta a di Lei scelta nel modo e quando crederà conveniente
  all’oggetto, perchè colle facoltà ed _alter ego_ che le concedo,
  nel più esteso modo intendo che faccia valere e rispettare la mia
  sovrana autorità, e con essa preservi il mio regno da ulteriori
  danni.

  «Dovrà perciò adoprare con severità e prontamente ogni più rigoroso
  mezzo di castigo, qualora a ciò la richiami la necessità del
  momento e della giustizia, sia per farla ubbidire, o per ovviare a’
  serî sconcerti onde coll’esempio e col togliere di mezzo la radice
  o seme che troppo rapidamente potesse estendersi e germogliare,
  negl’istanti di disorganizzazione delle autorità da me stabilite, o
  disposizione di alcuni al sovvertimento, venga riparato a maggiori
  eccessi ed inconvenienti.

  «Tutte le casse regie di ogni denominazione dipenderanno dai suoi
  ordini. Veglierà che non ne passi somma alcuna nella capitale,
  mentre si trova questa nello stato d’anarchia in cui, senza
  legittimo governo, soggiace attualmente. Il denaro di dette casse
  sarà da lei adoprato pel comune e necessario bene delle provincie,
  ne’ pagamenti opportuni al governo civile, e ne’ mezzi di difesa,
  da provvedersi istantaneamente, come al pagamento dei loro
  difensori.

  «Mi darà conto regolare di ciò che sullo assunto avrà stabilito o
  penserà di stabilire, e sopra di cui vi fosse tempo da sentire le
  risoluzioni e ricevere i miei ordini.

  «Sceglierà due o tre assessori legali, probi e di sua fiducia,
  per affidar loro la decisione di alcune cause più gravi, che per
  appello doveano mandarsi ai tribunali della capitale: acciò essi
  terminino con finali decisioni quelle pendenze nel modo il più
  breve. Potrà prevalersi dei togati della capitale o de’ ministri
  delle provincie per tale commissione, autorizzandoli a decretare
  benanche le altre cause che ai medesimi stimerà di commettere; come
  anche gli appelli che ne venissero portati, ed assicurerà colla
  dimissione di detti ministri, se occorrerà, la più retta giustizia,
  che amministrerà in mio nome nelle provincie da Lei dipendenti.

  «Dalle annesse carte, che le riunisco, rileverà che nella
  persuasione che non fosse del tutto sbandato il numeroso esercito
  che teneva in quel regno, e da cui sono stato crudelmente servito,
  aveva ordinato che quegli avanzi si fossero portati in Salerno,
  e fino nelle Calabrie per difesa di esse, o per un concerto
  indispensabile colla Sicilia. Nei momenti attuali, qualunque sia il
  comandante che si presenterà in esse provincie con qualche truppa,
  dovrà andar d’accordo in ogni parte di servizio e movimenti con
  Vostra Eminenza, cessando necessariamente le disposizioni enunciate
  negli annessi fogli; ma il Duca della Salandra o altro generale che
  giungesse con detta truppa, seguiterà le prescrizioni nuove che qui
  accenno. Le notificherà al medesimo, e spedirò in appresso quelle
  provvidenze ulteriori, che i lumi e le notizie che mi manderà
  potranno richiedere.

  «Rispetto dunque alla forza militare, dovendo presumere che
  non n’esista della regolare, sarà di Lei cura, ed è l’oggetto
  principale della sua commissione, di eccitare ogni mezzo ed ogni
  maggiore energia perchè si organizzi un corpo militare qualunque,
  sia composto esso di soldati fuggiaschi o disertori, che in patria
  riacquistassaro il coraggio e l’animo che ha distinto i bravi
  corpi dei Calabresi ne’ recenti fatti col nemico; oppure sia di
  quei buoni e ben pensanti abitanti, che le sacre ragioni esposte
  e patenti di valida difesa, come l’onore nazionale, posson indurre
  efficacemente a prendere le armi.

  «Per ottenere ciò io non le prescrivo i mezzi che tutti lascio al
  suo zelo, tanto in modi d’organizzazione che per la distribuzione
  delle ricompense d’ogni genere: se queste saranno in denaro, potrà
  accordarle subito, se saranno in onore ed impieghi che prometterà,
  potrà istallare interinalmente quelli che giudicherà, e me ne
  renderà inteso per la conferma ed approvazione, come pure pei
  distintivi promessi.

  «Giungendo la truppa regolare che aspetto potrò farne passare una
  porzione in Calabria, o in altre parti della terra ferma, come
  egualmente quei generi in munizioni ed artiglieria, che potrò
  dividere fra quelle provincia e la Sicilia.

  «Sceglierà le persone di sua fiducia che nel militare, o in
  impieghi politici crederà di situare alla sua immediazione;
  stabilirà per essi condizioni provvisorie ed appoggerà loro quelle
  incumbenze che stimerà poter meglio convenire.

  «Per le spese di V. Eminenza, adoprerà la somma di ducati
  _millecinquecento_ il mese, che possono esserle indispensabilmente
  necessarii; ma le accordo ogni ulteriore somma maggiore che
  crederà convenire al disimpegno della sua Commissione, nel portarsi
  specialmente da un luogo all’altro, senza peso alcuno a que’ popoli
  ed università.

  «Le concedo parimente l’uso del denaro che troverà nelle casse (e
  che sarà sua cura di farsi entrare dalle stabilite percezioni) per
  adoperarne porzione all’acquisto di notizie indispensabili alla
  sua commissione, sia dalla capitale o dalle provincie, sia anche
  da fuori per le mosse del nemico. Siccome trovasi nel maggior
  disordine la detta capitale pei partiti che la lacerano, e dei
  quali è giuoco il popolo, farà vegliare da abili ed adattati
  soggetti, ad informarsi del tutto bene e giornalmente; e si
  procurerà ivi benanche delle corrispondenze ed intelligenze
  che fomentino tra i buoni e cordiali vassalli i veri sentimenti
  d’attaccamento ad ogni loro più sacro dovere: non risparmierà
  denaro per quest’oggetto quando crederà poterselo proficuamente
  impiegare.

  «Non mi estendo in particolari maggiori per le misure di difesa che
  nel massimo grado da lei aspetto; molto meno per quelle contro le
  mozioni interne, attruppamenti, seduzioni, emissari, e mala volontà
  di alcuni. Lascio al discernimento di Vostra Eminenza il prendere
  più pronte determinazioni, e per la giustizia subitanea contro tali
  delinquenti. I presidi (quello di Lecce specialmente) alcuni ben
  cordati vassalli ed abitanti in quelle parti, i vescovi, i parrochi
  ed onesti ecclesiastici, la informeranno di tutti i bisogni, come
  dei mezzi locali, e questi ultimi saranno certamente adoperati
  con quella straordinaria energia e vivacità, che prescrivono le
  circostanze.

  «Attendo dall’Imperatore soccorsi d’ogni genere; il Turco me
  li promette ugualmente: così la Russia: onde le squadre di
  quest’ultima potenza, prossima al litorale di queste regioni, sono
  pronte a soccorrermi.

  «Ne avviso lei, perchè nelle occasioni possa prevalersene ad
  ammettere benanche porzione di quelle truppe nelle provincie, se il
  caso lo richiedesse; come ricevere pure dalle loro squadre quegli
  ajuti, che la natura delle operazioni facessero considerar utili
  alla sicura loro difesa.

  «Le accenno queste misure dipendenti dall’esterno per ogni buon
  fine, mentre le farò passare indi quelle ulteriori notizie che
  riguarderanno un più sicuro concerto. Lo stesso saprà relativamente
  agli Inglesi, la squadra dei quali veglia assiduamente alla
  salvezza della Sicilia.

  «Ogni modo di ricevere nuove e di spedirmele regolarmente, almeno
  due volte la settimana, sarà da lei stabilito ed assicurato
  con precisione, perchè le notizie concernenti la importante sua
  Commissione mi giungano spesso e opportunamente come necessarie;
  indispensabili benanche alla difesa di questo Regno.

  «Confido nel suo attaccamento e ne’ suoi lumi — ed attendo che Ella
  corrisponderà, come ne sono sicuro, a quanto vivamente e pienamente
  da Lei spero.

  «Palermo, 25 gennajo 1799.

                                                      «FERDINANDO.»

Questo manifesto gli fu consegnato nello stesso giorno in cui fu
scritto, vale a dire il 25 gennaio 1799.

Il cardinale era stato prevenuto che, malgrado i sessantacinque o
sessantasei milioni che il re aveva portato seco, non poteva dargli
altro denaro che tremila ducati, vale a dire dodici mila franchi,
per sovvenire a tutte le sue spese per la ristorazione. Una volta in
Calabria, egli dovea pensare a provvedere ai mezzi di contribuzione
volontaria o forzosa, od in qual siasi altro modo trovasse più
conveniente.

Ma al momento della partenza si credette di aver trovato una miniera;
il marchese Luzzi prevenne il prelato, da parte del re, che il marchese
don Francesco Taccone, tesoriere generale del regno di Napoli, era
arrivato a Messina, latore di cinquecentomila ducati, vale a dire più
di due milioni, concambiati a Napoli con effetti del banco. Siccome
questo danaro apparteneva alla cassa generale del regno di Napoli, il
re acconsentiva di cederlo al prelato per i bisogni della spedizione.
Affrettiamoci a dire ciò che però maraviglierà punto coloro, che
conoscono quanto facilmente a Napoli il denaro resti aderente alle mani
di coloro che lo maneggiano; nè il cardinal Ruffo, nè il re, nessuno
insomma potè por mano su questi due milioni e cinquecento mila franchi.

Il cardinale non perdette tempo, al 26 gennaio, vale a dire il giorno
seguente a quello in cui ebbe il manifesto, partì per Messina, ove si
recò in parte per via di terra ed in parte per mare.

Dopo aver fatto inutili ricerche a Messina per l’incasso dei
cinquecento mila ducati, il cardinale passò in Calabria, ove arrivò
l’8 febbraio 1799 sulla spiaggia di Catona, ove spiegò dal balcone
del casino di suo fratello il duca di Baccanello, la bandiera reale,
portante da un lato lo stemma reale e dall’altro la croce, colla
iscrizione che era impressa quindici secoli prima sul labaro di
Costantino:

                          IN HOC SIGNO VINCES

Dopo quindici giorni sapemmo che mille uomini si erano uniti a lui, e
che, lasciata la costa di Messina, era partito per Monteleone.




VI.


Queste notizie resero la salute alla regina e stesero un secondo
lenzuolo, sulla tomba del povero principino, quello dell’obblìo.

Ho detto come passavamo le nostre serate, il re a querelare il
presidente Cardillo, il presidente Cardillo a strapparsi i bottoni
dell’abito, il duca S...... a tener il banco ed a far brillare i suoi
anelli e le sue spille, io ad esprimergli il desiderio di averli,
Nelson e sir William a comperarli.

La regina non giuocava, si teneva in disparte colle principessine,
e ricamava una bandiera dedicata ai Calabresi, che voleva inviare al
cardinale non appena fosse terminata.

Le nostre giornate, specialmente quando vennero i primi soffi ed i
primi soli di primavera, non la cedevano in nulla alle nostre serate.
La fine di febbraio ed il principio di marzo sono magnifici a Palermo.
Due o tre volte per settimana si organizzavano delle passeggiate nel
porto, si facevano delle colazioni a bordo di un vascello, si pranzava
a bordo dell’altro. La regina prendeva poca parte a queste feste: dopo
la disfatta dell’armata napoletana, dopo il singolare ritorno di suo
marito, dopo la fuga forzata da Napoli, era divenuta ancor più triste e
più che mai concentrata nel suo odio, da cui non usciva che con eccessi
di furore che spaventavano tutti quelli che la circondavano, e durante
i quali io sola poteva penetrare fin da lei; quando vi era qualcuna di
queste feste, la vera regina era io.

Difatti in queste passeggiate, in cui prendevano parte, cinquanta
o sessanta barche pavesate, e montate dalle dame e dai cavalieri
della corte, Nelson ed io, anche quando il re prendeva parte alla
navigazione, eravamo sempre in testa alla comitiva, in una barca con
dieci o dodici rematori, mentre il re non ne aveva che otto. È vero
però, che appena prendevamo il largo, il re si dirigeva da un qualche
lato, e invece di ascoltare i nostri suonatori ed i nostri cantanti, si
metteva a dar la caccia agli uccelli marini: in quanto a noi, dopo una
prima passeggiata in mare, ci arrestavamo a bordo del _Culloden_, ora
bordo del _Minotauro_; poi terminato l’asciolvere, ritornavamo in mare,
in mezzo al suono degli strumenti e tra i canti; talvolta chiudendo gli
occhi e trasportandomi nell’antichità, mi compiaceva di credere che non
era la prima volta che la mia anima era venuta ad abitare il mondo,
e che una volta io era stata Cleopatra, e Nelson Antonio; e allora
mi ricordava qualcuno dei bei versi del dramma di Shakespeare, e li
gettava a quella brezza che ci arrivava curvando le palme e togliendo
i profumi degli aranceti della Bagheria. Poi quando gli ultimi raggi
del sole coloravano di rosa la cima del monte Pellegrino, si riprendeva
la via verso il _Vanguard_ illuminato a giorno; una lunga tavola
copriva il ponte da un capo all’altro; i cannoni sparivano sotto i
buffetti coperti di argenterie, di fiori e di pasticcerie; ci mettemmo
a tavola, io in faccia al re come se fossi la regina, fra Nelson ed il
capitano Troubridge o il comandante Thomas. Il pranzo durava anche una
parte della notte, e ad ogni brindisi che noi facevamo i cannoni della
batteria inferiore tuonavano, e l’artiglieria dei forti rispondeva alle
nostre salve.

Nelson era sovente inquieto e preoccupato; sentiva bene che la sua
coscienza lo rimproverava della sua inazione, e gli gridava che dovea
essere altrove; allora si levava da tavola col pretesto di dare qualche
ordine, e se ne andava solo sul cassero a fantasticare; un giorno lo
seguii e me gli avvicinai senza che mi vedesse; lo intesi mormorare:« —
miserabile pazzo che son io; davvero il mio bastimento ha più l’assetto
di una bottega da pasticciere, che d’un vascello della squadra
azzurra.» — Allora gli misi il mio braccio intorno al collo, e lo
ricondussi al suo posto, vergognoso e disperato di essere stato inteso.

Il carnevale si avvicinava; le notizie del cardinal Ruffo diventavano
sempre più soddisfacenti; si diede qualche ballo in maschera alla
corte. Ciò fece nascere a Nelson, che cercava visibilmente di
divagarsi, l’idea di andare travestito con me per le strade: noi
facemmo per due o tre volte queste follie; ma un accidente, che poteva
aver delle conseguenze gravi, ci guarì subito.

Una notte che andavamo così travestiti per le vie di Palermo, Nelson
che aveva bevuto molto, dopo il pranzo, secondo l’abitudine degli
Inglesi, mi condusse in una casa sospetta, molto frequentata dagli
uffiziali della squadra; essi però non ci riconobbero, ma un nostromo
ed un marinaio che bevevano in un angolo, ebbero dei sospetti, e quando
Nelson ed io uscimmo, ci seguirono, e ci videro entrare nel palazzo
dell’ambasciata. In quel momento ne usciva il re, e vedendo quei
due giovanotti, che sembravano di buon umore, chiese loro che cosa
facessero là; il nostromo balbettava un poco d’italiano, e divertì
assai il re, raccontandogli tutta l’avventura: il re gli promise di
ricordarsi di lui, e gli chiese in che cosa gli potesse far piacere; il
nostromo gli rispose, sempre ridendo, che la sua ambizione dopo la sua
nascita era di esser fatto cavaliere.

— Ebbene, gli disse il re, sta tranquillo e lo sarai; e gli chiese il
suo nome ed a qual bastimento apparteneva.

Il nostromo rispose che si chiamava John Baring e apparteneva
all’equipaggio del _Vanguard_, e ricordò al re qualche piccolo servizio
che aveva avuto la fortuna di rendergli, durante il suo passaggio da
Napoli a Palermo.

— Difatti, disse il re, me ne ricordo.

— Bene, rispose il nostromo, credeva che Vostra Maestà l’avesse
dimenticato.

— E perchè? chiese Ferdinando.

— Perchè nè io nè l’equipaggio, rispose il nostromo incoraggiato dalla
bonomia del re, non abbiamo mai avuto il piacere di bevere alla salute
di Vostra Maestà, con monete di effigie diversa da quella del nostro
grazioso sovrano Giorgio III.

Il re si morse le labbra.

Difatti una volta a terra, colla sua ingratitudine abituale, egli aveva
dimenticato il pericolo, dal quale sfuggiva, ed i servigi ricevuti.

— Ebbene, gli disse il re, dimani beverai alla mia salute con denaro
che porta la mia effigie; ed i tuoi camerata bevendo alla tua, ti
chiameranno cavaliere.

Siccome il re era molto ciarliero, raccontò nella stessa sera tutta la
storia alla regina, come fossi uscita travestita con Nelson da una casa
che egli nominò con un titolo più espressivo di _sospetta_, come ci
avesse seguiti un nostromo inglese, che lo aveva talmente divertito che
gli promise di farlo pel giorno seguente cavaliere dell’ordine di San
Giorgio Costantiniano.

Poi nella stessa sera, scrisse un ordine, che alla mattina del giorno
seguente dovea essere consegnato al Principe Luzzi, ministro delle
finanze, per far portare mille e trecento once di oro, all’equipaggio
del _Vanguard_ a titolo di gratificazione.

Il principe Luzzi doveva dare avviso di questa decisione all’ammiraglio
Nelson, e di prevenirlo, che pei servigi ricevuti durante la
traversata, nominava il nostromo John Baring cavaliere di S. Giorgio
Costantiniano.

Nelson divise queste mille e trecento once nel modo seguente:

Cento ai marinai che vennero a prendere la famiglia reale nei due
canotti, e l’aiutarono ad imbarcarsi.

Cento ai domestici dell’ammiraglio.

Cento ai marinai della barca dell’_Alcmena_.

Cento ai Wardroom.

Cento otto ai ventisette gentiluomini di poppa, e ai bassi uffiziali,
vale a dire quattro per ciascuno.

Settecento settantadue ai soldati di marina, ai marinai in numero di
579.

Tredici ai mozzi, in numero di ventisei.

Le sette rimanenti per la zuppa.

Nelson annunziò inoltre al nostromo il favore che gli accordava il re.

Sventuratamente per il povero diavolo, il re, come già dissi, aveva
raccontato tutto alla regina, e la regina aveva raccontato tutto a
me, dicendomi di stare più attenta per l’avvenire, poichè era stata
veduta e riconosciuta. Essa non mi potè dire il nome dell’uomo che ci
aveva seguiti, ma non fu difficile trovarlo; il re aveva detto di aver
decorato quella bella storia.

Appena vidi Nelson, gli raccontai tutto quanto mi disse la regina;
il decorato, come dissi, era John Baring. L’ammiraglio, in un primo
momento di collera, giurava di farlo impiccare. Non so se ne aveva il
diritto; ma al suo bordo Nelson si credeva re assoluto, e certamente
avrebbe fatto quanto diceva.

Lo pregai tanto, che si accontentò di cacciarlo, e invano riuscii a
volergli far grazia completa.

Intanto venivano dalle Calabrie le migliori notizie: si era avuta la
notizia dell’entrata del cardinale in Monteleone, e successivamente a
Catanzaro e a Cotrone che fu messo a sacco e incendiato dalle truppe
Sanfediste.

Il cardinale aveva annunziato questo saccheggio e questo incendio, come
una notizia che doveva oscurare la gioia del trionfo; ma il re invece
aveva trovato che era la giusta punizione della ribellione di quella
città, e aveva scritto una lettera o piuttosto due, di cui ecco il
testo letterale.

L’imparzialità, a cui vi riconduce la fredda mano del tempo, mi spinge
a produrre al giorno d’oggi quelle lettere per provare che questi
massacri ed incendii, di cui si rammaricava il cardinale, consolavano
il re.

                                            «Palermo, 9 marzo 1799.

      «Eminentissimo mio.

  «Non so esprimervi la gioia che provammo ieri sera nel ricevere le
  vostre lettere dal 27 dello scorso al 2 del corrente, per le ottime
  nuove che in essa mi date della continuazione del felicissimo
  esito che ha la vostra Commissione, e che sicuramente diverrà
  sempre più protetta, e benedetta dal Signore per vostra gloria
  ed onore e felicità di tutta l’Italia, come vado lusingandomene.
  Non posso che approvare la savissima condotta che tenete nella
  vostra marcia, e gli editti che avete stimato di pubblicare; ma ai
  cari emissarii, che vi riesce di aver nelle mani, vi prego di non
  perdonarla affatto, e punirli senza pietà per esempio degli altri,
  quando sia avverato il fatto; perchè la troppo indulgenza usata
  in questa materia, è causa che noi ci troviamo in questo stato;
  e quando voi dite del sistema tenuto dagli infami rivoluzionari
  di far beneficare e metter in carica a forza di maneggi quei
  soggetti guasti, e loro aderenti, rovinando quelli che erano
  fedeli ed attaccati a forza di calunnie, non è che un Evangelo,
  è il sistema da essi adottato per tutto rovesciare e distruggere
  ogni cosa; per cui se Iddio si compiacerà di farci veder terminar
  felicemente questa maledetta faccenda, bisognerà far da capo.
  Quanto mi accennate della provincia di Salerno mi ha fatto
  grandissimo piacere, ed essendosi vociferato, subito sono corsi da
  me diversi padroni, che qui giunti erano pochi giorni fa, fuggendo
  da Vietri, e si sono esibiti di ripartire immediatamente per darvi
  la mano, locchè farò loro eseguire immediatamente. Desidererei
  ben di cuore che presto possiate aprirvi la comunicazione della
  Puglia o Lecce per sentir cosa abbiano fatto con que’ banditi,
  mentre altra notizia non abbiamo, che da un bastimento Svedese il
  quale, proveniente da Gallipoli, dice che quella città si è già
  controrivoluzionata, fugando e massacrando i Giacobini, e che tutta
  questa provincia era nella massima mestizia, mal soffrendo l’attual
  governo repubblicano. Già colla posta avrete saputo la nuova,
  che, nel momento della spedizione, ricevemmo con una corvetta
  inglese venuta in 17 giorni da Costantinopoli, della prossima
  venuta della truppa Russa ed Albanese: Dio faccia che giungano
  con effetto presto. Tutte queste nuove sollevano i buoni, e non
  fanno aver tanta boria ai malvagi; è molto tempo che soffriamo, e
  soffriamo davvero; speriamo che il Signore siasi finalmente mosso
  a compassione di noi, e voglia esaudirci e proteggere chi lo serve
  fedelmente. Godo sentire che, eseguendosi i miei ordini, da Messina
  finalmente si sia mandato quanto avete richiesto, e siate sicuro,
  che per quanto dipenderà dalla mia attività nell’ordinare, non
  vi mancherà niente. Avrete a quest’ora ricevuto i miei saluti da
  vostro fratello. Conservatevi, continuate a mandarmi buone nuove, e
  credetemi sempre lo stesso vostro affezionato.

                                                    «FERDINANDO B.»

Ecco la seconda lettera:

                                          «Palermo, 11 aprile 1799.

      «Eminentissimo mio

  «L’altro ieri ricevei di sera la vostra lettera del 29 scorso mese,
  scrittami da Cotrone, dove mi fa pena di sentire il saccheggio
  dato in quel modo, benchè, a dir il vero, lo avessero ben meritato
  quegli abitanti, colla resistenza fatta, mentre, vi replico, non
  ci vuol misericordia con chi dichiaratamente si è mostrato ribelle
  a Dio ed a me. Per i Francesi che ci avete trovato, spedisco
  immediatamente l’ordine perchè si mandino a casa loro, che anche io
  trovo che sia il migliore che si possa fare, dovendosi riguardare,
  dovunque si tengano, come un genere assolutamente impestato. Quanto
  mi dite esservi stato narrato della morte del preside di Lecce, mi
  ha fatto inorridire; ma ancora voglio credere che non sia vero, per
  l’onor della famiglia: e che il pover’uomo sia morto di malattia,
  essendo già da gran tempo molto malandato. Per l’affare del
  principe biondo, che si era creduto prima mio figlio, e a voi si
  era fatto supporre esser il cavalier di Sassonia, già a quest’ora
  saprete chi sia e tutta la sua storia, ed ora si trova qui in
  Palermo ritornato da Tunisi. Due spedizioni già ci sono state fatte
  dal Comodoro Troubridge da Procida, la prima giunta qui domenica,
  e l’altra ieri l’altro. Subito ho fatto tradurre le lettere da
  lui scritte a Nelson, che copiate mi affretto di spedirvi, acciò
  siate inteso del felicissimo esito che finora ha trovato quella
  spedizione, e le notizie che ho potuto raccogliere fino al giorno
  dell’ultima data, che son certo non vi faranno dispiacere: tutto
  quanto hanno richiesto si è spedito immediatamente, specialmente
  il giudice, non facendo essi cerimonie, per cui quando riceverete
  questa, molti casicavalli avranno fatti. Vi raccomando perciò
  su quest’assunto di agire in conformità di quanto vi scrivemmo
  lo scorso ordinario, tanto io che Acton, ed egli vi replica in
  questa e colla massima attività: Mazzi e panelle fanno le figlie
  belle. Stiamo ora colla massima premura aspettando notizie de’
  cari Russicelli; se quelli vengono presto, spero tra breve faremo
  la festa, e col divino aiuto finiremo questa maledetta istoria. Mi
  rincresce infinitamente che il tempo continui così piovoso, perchè
  questo sarà sempre di un grand’intoppo per le vostre operazioni. Mi
  dite che, andando avanti verso Matera, vi tratterrete nelle terre
  del principe nostro, a Potenza; quando mai egli ci stasse, spero
  vi ricorderete essere stato un di quei due famosi eroi, e credo il
  principale, che trattarono e conchiusero quel superbo armistizio,
  e che per conseguenza non sarebbe stato mai più accorto. La nostra
  salute è, grazie a Dio, perfetta, non di picciolo ristoro essendo
  le sempre migliori nuove che ogni giorno ci pervengono. Il Signore
  conservi voi e benedica sempre più le vostre operazioni come,
  se pure indegnamente però ne lo prega e ve lo desidera il vostro
  affezionato

                                                    «FERDINANDO B.»

Difatti si erano ricevute molte lettere di Troubridge inviate
dall’ammiraglio per riprendere le isole d’Ischia e di Procida, e
Troubridge coi suoi sentimenti di eguaglianza che non muoiono mai nel
cuore di un Inglese, e che la passione di Nelson per me potè soltanto
soffocare, aveva raccontato di essersi impadronito delle isole di
Ponza, e aggiungeva che pregava il re di mandare a Procida un giudice
_onesto_ per fare il processo a tutti i suoi prigionieri.

Una terza lettera di Troubridge, diretta a Nelson, era accompagnata da
una cassetta, che conteneva un dono singolare e un viglietto ancor più
singolare.

Il dono era una testa tagliata.

In quanto al viglietto era concepito in questi termini:

                                          «Salerno, 26 aprile 1799.

      «_Al Comandante della Stazione Inglese_

      «Signore!

  «Come suddito fedele al mio re Ferdinando IV (D. G.) ho la gloria
  di presentare a Vostra Eccellenza la testa di D. Carlo Granozio di
  Giffoni, che era impiegato nell’amministrazione diretta dall’infame
  commissario Ferdinando Ruggi. Il detto Granozio è stato da me
  ucciso in un luogo chiamato li Pugig, nel distretto di Ponte
  Cagnaro, mentre si dava alla fuga.

  «Prego Vostra Eccellenza d’accettare questa testa, e di considerare
  tale azione come una prova del mio attaccamento alla Real Corona.

  «Sono col rispetto che vi è dovuto, il fedele suddito del re

                                       «GIUSEPPE MANUISIO VITELLA.»

Nelson fece parte a S. M. del dono che dovea consegnargli, e sopra
rifiuto del re di riceverlo, fece riempire la cassa di segatura, la
fece rinchiodare dal falegname e la gettò in mare.

Troubridge aveva scritto di suo pugno sulla cassa _a jolly fellow_.

Un allegro compagno!




VII.


Le notizie che ci arrivavano da Napoli non erano meno favorevoli
di quelle che ci arrivavano dalla Calabria; Championnet caduto in
disgrazia per l’opposizione che aveva tentato di fare alle esazioni del
Direttorio, in suo luogo e stato Macdonald era stato nominato generale
in capo.

Occupava appena quel posto, che si appresero a Napoli le notizie dei
disastri dell’armata francese nell’alta Italia. Suwaroff e i suol
cinquantamila Russi erano arrivati, e l’imperatore si era finalmente
deciso di mettersi in campagna; ma i Francesi, privi dei loro migliori
soldati chiusi in Egitto e del loro miglior generale prigioniero
con essi, erano stati battuti a Magnano, e avevano perduto la linea
del Mincio, mentre Suwaroff, nominato generale in capo dell’esercito
austro-russo, era entrato in Verona e si era impadronito di Brescia.

Macdonald ricevette l’ordine di lasciar Napoli e di riunire le sue
forze a quelle dell’armata francese che era in piena ritirata.

Al sette maggio egli era quindi partito da Caserta, lasciando una
guarnigione di 500 Francesi nel castel S. Elmo, sotto gli ordini del
capo legione Meyan, e dopo quattro giorni aveva lasciato Napoli.

Questa notizia dell’evacuazione di Napoli giunse a Palermo ai primi
di maggio; al 9 di maggio Nelson scriveva all’ammiraglio lord conte S.
Vincent per annunziargli quella notizia.

Ma al momento in cui ci abbandonavamo alla gioja per questa
evacuazione, venne un’altra notizia che fece di contrappeso a quella
che avevamo ricevuta dianzi.

Al 12 maggio il brick la _Speranza_ giunse a Palermo coll’avviso che
la flotta francese di Brest, ingannando il nostro blocco, era uscita
dal porto, era stata veduta a Oporto, e dirigevasi verso lo stretto
di Gibilterra, nell’intenzione probabile di congiungersi alla flotta
spagnuola, e di fare un tentativo contro Minorca o contro la Sicilia.
Era quindi necessario di rinforzare la flotta inglese, e Nelson diede
immediatamente degli ordini per richiamare i bastimenti inglesi che si
trovavano nella baia di Napoli.

Ma Nelson sperava ancora di non lasciar Palermo, era veramente ammalato
d’inquietudine; e alla sola idea di lasciarmi, non fosse che per
qualche giorno, piangeva come un fanciullo.

Le lettere seguenti daranno un’idea dello stato in cui si trovava il
suo animo, o piuttosto il suo cuore.

La prima è diretta al vice-ammiraglio Duckworth.

Eccola.

                                          «Palermo, 12 maggio 1799.

      «Mio caro ammiraglio

  «V’invio otto, nove o dieci vascelli di linea con tutta la premura.
  Essi possono o riunirsi col nostro grande ed egregio comandante
  in capo, od agire separatamente. Se mi è permesso di avventurare
  un’opinione, direi che è meglio che la flotta bordeggi davanti a
  port Mahon, di quello che non sia entrare nell’Havre. Coi miei voti
  pel vostro miglior successo, che sventuratamente non posso dividere
  con voi, mi dico ecc.

                                                        «O. NELSON.

Nello stesso giorno scrisse al capitano Troubridge:

                                                   «12 maggio 1799.

      «Mio caro Troubridge.

  «Quando avrete ricevuto questa lettera, la flotta francese avrà
  già fatto la sua riunione colla spagnuola. Il tempo soltanto cl
  farà conoscere quale sia stato il risultato delle evoluzioni. Il
  conte verrà, ci raggiungerà, e voi mi manderete il _Minotauro_,
  lo _Swiftsure_, il _S. Sebastiano_, il _Culloden_, e il _Sealaw_;
  voi od Hood rimarrete col _Seahorse_, la _Minerva_ etc. etc.,
  inviate un piccolo battello a Livorno ed ordinate al _Lion_ di
  congiungersi immediatamente coi vascelli a Procida; date ordine
  ai vascelli di passare per di qua, ma che non gettino l’ancora.
  Riceveranno da me altri ordini. Il brick va direttamente a Mahon o
  a Gibilterra. Intendiamo di dire che un vascello di linea fu veduto
  frequentemente ad Ustica. Non ci credo — che Dio vi benedica.

                                                       «O. NELSON.»

  «Il _Seahorse_ deve osservare Salerno, mandate subito i vascelli
  appena vi arriveranno.»

Il giorno dopo questa terza lettera seguiva le due precedenti al lord
conte di S. Vincent:

                                          «Palermo, 13 maggio 1799.

  «Se avanzate senza battaglia, spero che in questo caso mi darete
  occasione di raggiungervi; perchè sarei disperato di essere vicino
  al mio comandante in capo, e di non assisterlo in tale momento.

  «Non avete l’idea dello stato in cui mi trovo. Se me ne vado,
  arrischio, e la parola arrischiare è troppo debole, metto in
  pericolo la Sicilia, e più ancora ciò che si è salvato sul
  continente; poichè sappiamo per esperienza che si giudica più
  sulle opinioni, che sui fatti stessi; rimanendo, il mio cuore si
  strugge, e per colmo di sciagura, sono seriamente ammalato. Che Dio
  vi benedica; state sicuro che agirò col maggiore zelo, e siccome
  so che il mio buon amico agirebbe come me, credetemi dunque con
  affezione sincera, il vostro fedel amico.

                                                       «O. NELSON.»

Infine, avendo avuto nello stesso giorno un altro avviso, scrisse al
capitano Troubridge:

                               «_Vanguard_, Palermo 13 maggio 1799.

  «La flotta francese ha passato lo stretto di Gibilterra, ed è stata
  veduta vicino a Minorca. Appena ricevuta la presente verrete a
  raggiungermi qui coi vascelli di linea che avete sotto i vostri
  ordini; se potete darmi una fregata sarà meglio; disponete i
  vostri piccoli bastimenti nel modo che credete più vantaggioso, e
  lasciatene il comando a chi vorrete.

                                                       «O. NELSON.»

Nelson rimase dal 13 al 19 in esitazione di quanto doveva fare;
sentendo che il suo posto era in alto mare e non nel porto di
Palermo; tutti i vascelli richiamati da lui vennero successivamente a
raggiungerlo coi loro capitani; finalmente il 19, facendo uno sforzo
supremo, mi lasciò con maggior dolore di Antonio, cui mi divertiva
di paragonarlo. Egli non lasciava però Cleopatra per andare a sposare
Ottavia; credo che se Nelson ebbe, una sol volta nella sua vita paura
della morte, fu allora, dacchè lo amai, tanto la sua vita gli era
divenuta preziosa.

Infine fu d’uopo lasciarci; non si aveva nessuna notizia positiva della
flotta; lord S. Vincent poteva incontrarla e combatter senza di lui, o
sarebbe stato un colpo mortale al suo onore.

Un pretesto lo sosteneva ancora, il vento taceva, ma nella notte del 18
al 19 si sollevò una brezza, e decise della partenza di Nelson.

Andò a bordo del _Vanguard_. Sir William ed io lo conducemmo fino al
porto; giunti là saltò nella sua lancia che lo aspettava da oltre due
ore, diede ordine di vogare verso il _Vanguard_, lasciò cadere la sua
testa nell’unica sua mano, e non volse più lo sguardo verso la terra.

Noi poi non lasciammo la marina, se non quando lo perdemmo di vista in
mezzo ai bastimenti che ingombravano il porto.

Ma appena il _Vanguard_ ebbe fatto un miglio, tacque il vento. Nelson
ne approfittò per scrivermi questa lettera, che m’inviò per mezzo del
luogotenente Swiney.

                              «_Vanguard_, 19 maggio, 8 ore, calma.

      «Mia cara Lady Hamilton

  «Il luogotenente Swiney venendo a bordo, posso dare dei passaporti
  in bianco pei bastimenti che vanno a Procida carichi di farina ec.
  ec. come pure pel battello-posta.

  «Dirvi come sembra melanconico e triste il _Vanguard_, è dirvi che
  dopo essere stato in compagnia delle persone più simpatiche, sono
  rinchiuso in una tetra cella; e lasciare i suoi più cari amici, per
  restar solo e senza amici. A quest’ora sono perfettamente _l’uomo
  grande_, non avendo a me vicino una creatura, e con tutto il cuore
  desidero diventare _un uomo piccolo_. Voi e il buon sir William
  avete tolto per me l’incanto da tutti quei luoghi, ove non ci siete
  voi. Il mio amore per voi si estende a tutto ciò che voi toccate, e
  voi non potete concepire ciò che io provo, quando vi riunisco tutti
  nella mia memoria, anco fino a...... Non dimenticate il vostro
  fedele

                                                          «NELSON.»

Il giorno seguente mi scrisse ancora:

                                                    «20 maggio 1799

      «Cara Lady Hamilton

  «Vi ringrazio tanto insieme a sir William per le vostre care
  lettere; credete bene che ho dormito assai poco con tutte le
  lettere che avea da leggere. Le lettere che ricevo da lord S.
  Vincent sono del 6 maggio; mi dice che abbiamo veduto la squadra di
  Brest che passava ieri facendo buon cammino; ho fatto tutti i miei
  sforzi per avere qualche notizia di lord Keith, a cui ho ordinato
  di venir qui per completare le provigioni e fornirsi d’acqua.
  Suppongo che la squadra francese è diretta a Malta o ad Alessandria
  e la flotta spagnuola par l’attacco di Minorca. Lascio giudicare
  a voi se il conte verrà con noi; credo di sì, ma fra noi; M.
  Duckworth ha l’intenzione di abbandonarmi al mio destino; vi mando
  all’avventura questa lettera. Non importa, ho soltanto undici vele
  riunite, e non ho paura di nessuno.

  «Dio benedica voi e sir William e tutti gli amici di casa.
  Credetemi per sempre vostro affezionato amico

                                                          «NELSON.»

La partenza di Nelson lasciò la corte di Palermo in una grande ansietà.
La regina specialmente che conosceva il poco calcolo che si poteva
fare di suo marito e che non si fidava del genio di Acton, era alla
disperazione; non si risolse però meno di mettersi, quanto si poteva,
in istato di difesa; e il giorno seguente, il re, la regina, sir
William Hamilton ed Acton, essendosi riuniti, compilarono il seguente
proclama:

                     «Miei fedeli ed amati sudditi.

  «I nostri nemici, i nemici della religione e di qualunque governo
  regolare, in una parola, i Francesi, battuti da per tutto, tentano
  ancora un ultimo sforzo.

  «Diciannove vascelli ed alcune fregate (unico avanzo della
  spirante lor potenza marittima) sono usciti dal Porto di Brest,
  e profittando di un colpo di vento favorevole, son entrati nel
  mediterraneo.

  «Essi forse tentarono di liberare Malta dal blocco, e si lusingano
  probabilmente di poter correre in levante verso l’Egitto, prima
  che le formidabili e sempre vincitrici squadre inglesi possano
  raggiungerli. Ma trenta e più vascelli britannici terranno loro
  dietro, oltre le squadre turca e russa che sono nell’Adriatico.
  Tutto promette che i devastatori francesi pagheranno ancora questa
  volta la pena di un tal disperato non meno che temerario ed estremo
  tentativo.

  «Potrebbe però accadere che nel nostro passaggio su queste nostre
  coste di Sicilia, essi vi tentassero qualche momentaneo insulto, e
  che costretti dagl’Inglesi o dal vento, tentar volessero l’entrata
  in qualche porto, o rada di quest’Isola. Prevedendo dunque la
  possibilità di questo caso, io mi rivolgo a voi tutti, fedeli ed
  amati miei sudditi, bravi e religiosi Siciliani. Ecco un’occasione
  da mostrarvi qual siete. Siate vigilantissimi su tutti i punti
  della costa, ed all’apparire di qualunque legno nemico, armatevi,
  accorrete al punto minacciato, ed impedite qualunque insulto,
  qualunque sbarco tentar volesse un tal crudele, sovvertitore ed
  insaziabile nemico, come accorrevate un tempo contro le incursioni
  de’ Barbari. Peggiori di questi, più avidi di preda, e più inumani
  sono i Francesi. I capi militari, la mia truppa di linea, e le
  milizie co’ loro capi accorreranno con voi alla difesa. E, se
  oseranno sbarcare, provino essi per la seconda volta il coraggio
  della brava nazione siciliana. Sì, mostratevi degni de’ vostri
  antenati. Trovino i Francesi in quest’Isola la loro tomba.

  «Se i vostri maggiori combatterono in favore soltanto di un re
  lontano, con quanto maggior coraggio ed ardore nol farete voi
  per difendere il vostro re e padre ch’è qui fra Voi alla testa
  del bravo suo popolo; la vostra tenera madre e sovrana, la sua
  famiglia tutta affidata alla vostra fedeltà; la nostra santa
  religione, i nostri altari, le vostre proprietà, i vostri padri,
  le vostre mogli, i vostri figli? Gettate uno sguardo sul vicino
  regno infelice. Vedete quali eccessi vi commettono i Francesi,
  ed infiammatevi di un santo zelo, giacchè la religione istessa vi
  comanda d’impugnar le armi contro tal sorta di rapaci ed ingordi
  nemici, i quali, non contenti di devastare una grande parte
  dell’Europa, hann’osato di mettere le sacrileghe loro mani sulla
  sacra persona del vicario istesso di Gesù Cristo e trascinarlo
  prigioniero in Francia. Non li temete. Iddio animerà il nostro
  braccio, e vi darà la vittoria. Egli già si dichiara per noi.

  «I Francesi sono stati battuti dagli Austriaci e dai Russi in
  Italia, nella Svizzera, sul Reno, e finalmente pur anche da’ fedeli
  paesani realisti in Abruzzo, in Puglia ed in Terra di Lavoro.

  «Chi non li teme, li vince, e le loro vittorie non sono state
  per l’addietro, che l’effetto della viltà e del tradimento.
  Coraggio dunque, o bravi Siciliani. Io son qui alla vostra testa.
  Voi combatterete sotto gli occhi miei, io premierò chiunque si
  distinguerà pel suo valore. E così potremo anche noi partecipare
  della gloria di avere sconfitto gl’inimici di Dio, del Trono e
  della Società.

      «Palermo, li 15 maggio 1799.

                                                    «FERDINANDO B.»




VIII.


Malgrado questo proclama del re, e la promessa fatta al popolo
siciliano di marciare alla testa del suo esercito, la regina era poco
rassicurata, perchè sapeva in che modo il re si metteva alla testa
delle sue truppe, avendolo veduto arrivare pel primo a Caserta nella
fuga da Roma. Essa si aspettava ad ogni momento di ricevere la notizia
di qualche sbarco dei Francesi su qualche punto dell’isola.

Intanto la bandiera che essa ricamava insieme alle principessine era
terminata, ed era stata mandata da lei al cardinal Ruffo; un certo
Scipione La Marra, che acquistò una mezza celebrità in questa guerra, e
che fu incaricato da Nelson dell’arresto di Caracciolo, era mandato ad
offrirgliela in nome della regina, con questa lettera ai Calabresi.

      «Bravi e valorosi Calabresi,

  «La bravura, il valore e la fedeltà da voi dimostrata per la difesa
  della Santa Cattolica Religione e del vostro buon re e padre, da
  Dio stabilito per reggervi e governarvi felici, hanno eccitato
  nell’animo nostro sentimenti così vivi di soddisfazione e di
  gratitudine, che cl siamo determinati a formare ed ornare colle
  nostre proprie mani la bandiera, che ora vi mandiamo.

  «Questo sarà sempre un luminoso contrassegno del nostro sincero
  affetto per voi, e della nostra gratitudine alla fedeltà ed al
  vostro attaccamento per i vostri Sovrani; ma, nel tempo medesimo,
  dovrà essere un vivissimo sprone per farvi continuare ad agire
  collo stesso valore e collo stesso zelo sino a tanto che resteranno
  intieramente debellati, sconfitti e schiacciati i nemici della
  nostra sacrosanta Religione e dello Stato, cosicchè possiate
  e voi e le vostre dilette famiglie, la vostra patria, godere
  tranquillamente i frutti de’ vostri sudori e della vostra bravura,
  sotto la protezione del vostro buon re e padre FERDINANDO, e di
  tutti Noi, che non tralasceremo di ritrovare delle occasioni per
  dimostrarvi che serberassi indelebile ne’ nostri cuori la memoria
  della vostra fedeltà e delle vostre gloriose gesta.

  «Continuate dunque, bravi Calabresi, a combattere col solito valore
  sotto di questa bandiera, ove colle nostre proprie mani ci abbiamo
  impressa la Croce, ch’è il segno glorioso della nostra redenzione.
  Rammentatevi, prodi guerrieri, che, sotto la protezione di un
  tal segno, sarete vittoriosi; abbiatelo voi per guida, correte
  intrepidamente alla pugna, e siate pur sicuri, che i vostri nemici
  saranno sconfitti.

  «Noi intanto coi sentimenti della più viva gratitudine preghiamo
  l’Altissimo, che è il donatore di tutt’i beni, affinchè si
  compiaccia di assistervi nelle vostre intraprese, che riguardano
  principalmente il suo onore e la sua gloria, e la vostra e la
  nostra tranquillità; e piene di affetto e riconoscenza per voi
  siamo costantemente,

      «Palermo, 31 marzo 1799.

                                        «Vostra grata e buona madre

                                                  «MARIA CAROLINA.»

In seguito gli altri membri della famiglia reale eransi firmati: —
Maria Clementina — Leopoldo Borbone — Maria Cristina — Maria Amalia —
Maria Antonia.

La bandiera era splendidamente e riccamente adorna di ricami, come
dissi, eseguiti dalle mani delle principesse; essa rappresentava da un
lato le armi de’ Borboni della casa di Napoli, con questa leggenda:

                        AI MIEI BRAVI CALABRESI.

Dall’altro la Croce colle quattro parole:

                          IN HOC SIGNO VINCES

Il re poi scrisse al 10 di maggio la lettera seguente al cardinale.
Questa lettera storica, o che merita di diventarla, spiega le
esecuzioni di Napoli, alle quali Ruffo volle opporsi formalmente, e
che, sventuratamente pel suo onore e pel mio, Nelson volle eseguire,
convinto che il dritto fosse dalla parte del sovrano decaduto, e che le
sue vendette fossero giustizia.

Se difatti una tale lettera non era scritta nella piena convinzione che
i monarchi di diritto divino hanno diritto di vita e di morte sui loro
sudditi, sarebbe ancor più di un’amara irrisione del dispotismo, un
insulto del più forte al più debole, e più ancora, una sfida a Dio.

Ecco la lettera, interamente scritta di pugno del re, che quasi mai non
voleva scrivere.

      «Palermo, 1 maggio 1799.

  «Eminentissimo mio. Dopo di aver letta e riletta e con la massima
  attenzione considerata quella parte della vostra lettera del 1
  aprile, che riguarda il piano da formarsi sul destino dei molti
  rei caduti e che possono cadere nelle nostre forze, sia nella
  provincia, sia quando col divino aiuto ritornerà sotto il mio
  dominio la capitale; debbo prima di tutto dirvi che ho trovato
  quanto mi scrivete sull’assunto pieno di saviezza e di quei lumi,
  intelligenze, ed attaccamento, delle quali cose mi avete dato, e
  state dando indefessamente le più certe e non equivoche riprove.
  Vengo quindi a palesarvi quali siano le mie determinazioni
  sull’assunto.

  «Convengo pienamente con voi che non bisogna inquirire molto,
  tanto più che, come molto bene voi dite, si sono svelati in modo i
  cattivi soggetti, che è facile in breve tempo essere al giorno de’
  più perversi.

  «La mia intenzione e volontà dunque si è che siano arrestate
  e cautamente custodite le seguenti classi di principali rei,
  cioè: «Tutti quelli del governo provvisorio, e della commissione
  esecutiva e legislativa di Napoli, tutti i membri della commissione
  militare e di polizia formata da’ repubblicani, quelli che sono
  delle diverse municipalità, e che hanno ricevuta una commissione
  in generale dalla Repubblica o dai Francesi, e principalmente
  quelli, che hanno formata una commissione per inquirire sulle
  pretese depredazioni da me e dal mio governo fatte; tutti quelli
  uffiziali che erano al mio servizio, e che sono passati a quello
  della sedicente Repubblica o de’ Francesi; ben inteso però, che
  è mia volontà, che quando i detti uffiziali venissero presi con
  le armi alla mano, contro le mie forze o quelle de’ miei alleati,
  sieno dentro il temine di 24 ore fucilati, senza formalità di
  processo e militarmente; come egualmente quei baroni, che coll’armi
  alla mano si opponessero alle mie forze od a quelle de’ miei
  alleati; tutti coloro, che hanno formato o stampato Gazzette
  repubblicane, proclami ed altre scritture, come opere per eccitare
  i miei popoli alla rivolta, e disseminare le massime del nuovo
  governo. Arrestati egualmente debbono essere gli eletti della
  città e i deputati della piazza che tolsero il governo al passato
  mio vicario generale Pignatelli, e lo traversarono in tutte le
  operazioni con rappresentanze e misure contrarie alla fedeltà
  che mi dovevano. «Voglio che siano ugualmente arrestati una certa
  Luisa Molines Sanfelice, ed un tal Vincenzo Cuoco, che scoprirono
  la contro-rivoluzione de’ realisti, alla testa della quale erano i
  Backer, padre e figli.

  «Fatto questo, è mia intenzione di nominare una commissione
  straordinaria di pochi ma scelti ministri sicuri, i quali
  giudicheranno militarmente i principali rei fra gli arrestati, con
  tutto il rigor delle leggi; e quelli che verranno creduti meno rei
  saranno economicamente deportati fuori dei miei dominj. E su questo
  proposito debbo dirvi, che ho trovato molto sensato quanto mi avete
  rappresentato rispetto alla deportazione, ma bilanciati tutti
  gl’inconvenienti, trovo, _che val meglio di disfarsi di quelle
  vipere, che di guardarle in casa propria_, giacchè se io avessi
  una isola di mia pertinenza, molto lontana dai miei dominj del
  continente adotterei volentieri il sistema di rilegarveli; ma la
  somma vicinanza delle mie isole ai due regni renderebbe possibile
  qualunque trama che costoro potessero ordire co’ scellerati e
  malcontenti che non si sarà riuscito a stirpare dai miei stati;
  d’altronde, i rovesci considerabili, che i Francesi, grazie a Dio,
  hanno sofferti, e che speriamo abbiano maggiormente a soffrire,
  metteranno i deportati nell’impossibilità di nuocerci. Converrà
  però ben pensare al luogo della deportazione, ed al modo col quale
  effettuarla, con sicurezza; e a questo mi sto ora occupando.

  «Riguardo alla commissione, che dovrà giudicare quelli che sono
  maggiormente rei, subito che avremo in mano Napoli, non mancherò
  di pensarci, contando per quella capitale farli andare da qui.
  Rispetto poi alle province per i luoghi dove voi siete, può
  continuare de Fiore, quando voi ne siate contento, e così crediate.
  Inoltre, quelli tra gli avvocati provinciali e regi governatori,
  che non han preso partito con i repubblicani, che sono attaccati
  alla corona e che sieno persone d’intelligenza, possono venir
  destinati con tutte le facoltà straordinarie inappellabili e
  delegate; non volendo che i ministri tanto provinciali che della
  capitale, i quali hanno servito sotto la Repubblica (anche come
  voglio sperare spinti da un’irresistibile necessità) giudichino
  i felloni col quali la mia clemenza soltanto non li situa. Anche
  per quelli, che non sono compresi nelle classi che in questa vi
  ho specificate, vi lascio la libertà di far procedere con tutto il
  rigor delle leggi, quando li giudicherete veri e principali rei, e
  che crederete necessario il loro pronto ed esemplare castigo.

  «I ministri togati dei tribunali della capitale, quando non
  abbiano accettato commissioni particolari da’ Francesi e dalla
  ribelle Repubblica, e non abbiano fatto che continuare le loro
  funzioni, di render giustizia ne’ tribunali ne’ quali sedevano, non
  verranno molestati. Queste sono per ora le mie determinazioni, che
  v’incarico di fare eseguire nel modo che giudicherete possibile, e
  ne’ luoghi nei quali ne avrete la possibilità.

  «Mi riserbo, subito che riacquisterò Napoli, di fare qualche
  aggiunta che gli avvenimenti e le cognizioni, che si acquisteranno,
  potranno determinare. Dopo di che, è mia intenzione, seguendo
  i doveri di buon cristiano, e di padre amoroso de’ popoli, di
  dimenticare interamente il passato, ed accordare a tutti un intero
  e general perdono, che possa rassicurare tutti da ogni traviamento
  passato, che proibirò ben anche d’indagarsi, lusingandomi che
  quanto hanno fatto sia pervenuto, non da perversità di animo, ma
  da timore e pusillanimità. Bisogna però che le cariche pubbliche
  nelle province siano soltanto affidate a persone che si siano
  sempre ben condotte colla corona, e che in conseguenza non abbiano
  mai vacillato, perchè così solo potremo esser sicuri di conservare
  quello, che si è riacquistato. Prego il Signore che vi conservi pel
  bene del mio servizio, e per potervi dimostrare in tutti i tempi le
  mia vera e sincera gratitudine. Credetemi intanto sempre lo stesso
  vostro affezionato,

                                                    «FERDINANDO B.»

Si vede bene, non soltanto il re designava le categorie che intendeva
di dover perseguitare, ma designava anche nominativamente alcuni
colpevoli. Ma ancora diffidando dei giudici in Napoli, annunziava
di volere inviare dei giudici in Sicilia, per fare servire alla sua
vendetta l’odio naturale dei Siciliani pei Napolitani.

Del resto egli aveva già mandato nella persona del famoso Speciale,
un modello di giustizia; e questo giudice inaugurò le sue funzioni con
una tale asprezza, da spaventarne lo stesso Troubridge, che non era poi
tanto facile a spaventarsi.

Questo giudice arrivò. Troubridge dopo aver parlato con lui scriveva a
Nelson:

                                   «A bordo del _Culloden_ in vista
                                        di Procida, 13 aprile 1799.

  «È giunto il giudice che m’ha fatto l’impressione della più
  velenosa creatura che mi sia stato dato di vedere. Bisogna aver
  perduto compiutamente la ragione: dice _che sessanta famiglie gli
  sono indicate_, e che gli occorre assolutamente un vescovo che
  sconsacri i sacerdoti perchè possano costoro essere giustiziati.
  Gli ho detto d’impiccarli prima; chè, se non crede la forca
  degradante abbastanza, ben io la credo tale.

                                                      «TROUBRIDGE.»

Cinque giorni dopo Nelson ricevette da Troubridge questa seconda
lettera sullo stesso argomento.

      «18 aprile,

  «Due giorni or sono, il giudice venne da me ad _offrirmi_ di
  profferir sentenza. Solo mi diede ad intendere, che tal suo
  procedere non _sarebbe del tutto regolare_. Dalla sua conversazione
  potei comprendere che le sue istruzioni erano di procedere fino
  al termine in un _modo sommario_ e SOTTO DI ME. Gli dissi che per
  quest’ultimo punto s’ingannava a partito; poichè non si trattava
  di sudditi inglesi. È curioso il suo modo di fare i processi:
  al solito, i colpevoli sono assenti, di maniera che, capite
  bene, la faccenda è presto terminata. Quello che chiaro risulta
  da tutto ciò, si è che veggo volersi addossare a noi la parte
  odiosa dell’affare; ma non è questo il parer mio, e camminerà
  diversamente, ve ne do parola, o sarà malmenato da me, occorrendo.

                                                      «TROUBRIDGE.»

Infine il 7 di maggio, qualche giorno prima di ricevere l’avviso di
lord S. Vincent che annunziava il passaggio della flotta francese nello
stretto, mise in agitazione la Sicilia.

Nelson ricevette intorno allo stesso Speciale questa terza lettera:

      «7 maggio 1799.

  «Milord, ho avuto or ora un lungo colloquio col giudice: m’ha
  detto che avrebbe terminato tutte le sue operazioni nella prossima
  ventura settimana, e che era usanza dei suoi colleghi, e quindi la
  sua, di non ritirarsi se non dopo aver condannato: le sue condanne
  terminate, ha soggiunto, dovrebbe immediatamente imbarcarsi sopra
  un _legno da guerra_ nostro. M’ha detto ancora che, mancando il
  vescovo per sconsacrare i preti, si mandassero costoro in Sicilia
  ond’esservi sconsacrati per ordine del re, e quindi ricondurli qui,
  per impiccarli. _Un vascello inglese per questa bisogna_. Oibò!
  E dimandarmi un impiccatore; ah! in quanto a questo ho rifiutato
  ricisamente. Se non si può trovare un boia qui, se ne mandi uno da
  Palermo. Veggo lo scopo. Uccideranno essi, ed il sangue ricadrà su
  di noi. Non si ha idea della procedura di questi uomini, nè come si
  fanno le deposizioni dei testimoni — quasi sempre, i colpevoli non
  compariscono innanzi al giudice che per sentirsi condannare. Ma il
  nostro giudice vi trova il suo conto, perchè la maggior parte dei
  condannati è molto ricca.

  «Del resto ho la coscienza tranquilla adesso, rispetto a
  Caracciolo. Egli è senz’altro un _giacobino_. Vi mando una sua
  lettera che non lascia alcun dubbio a questo riguardo.

                                                      «TROUBRIDGE.»

Consacro l’intiero capitolo a citare le lettere del re e di Troubridge,
per separare in questo grande massacro, in cui sono accusata di
aver messo mano, la parte di ciascuno. Mi confesso colpevole, e ben
colpevole oggi che dopo dodici o quattordici anni di tempo veggo
passarmi dinanzi alla mente gli uomini e gli avvenimenti, ma io non mi
confesso colpevole che della mia parte di colpa.

Queste colpe sono delitti? la bilancia è nelle mani di Dio, egli
giudicherà.

Intanto riprendiamo gli avvenimenti dove li abbiamo lasciati, vale a
dire nel momento in cui Nelson, disperato di avermi lasciato, incrocia
innanzi a Maretimo, ove la corte di Palermo trema di vedere sbarcare i
Francesi in Sicilia, e dove Ruffo seguitando il suo cammino trionfale,
non è che a poche giornate da Napoli.




IX.


I giorni 25, 26, 27, e 28 di maggio trascorsero in continue agitazioni.

Al 29 fummo allarmati; si vide apparire dalla parte di Marsala una
flotta che si credette da principio che fosse la flotta riunita
franco-spagnuola. Ma appena in vista del porto fu inalberata la
bandiera rossa, e si riconobbe che era Nelson che tornava colla sua
squadra.

Si fecero tosto attaccare i cavalli, e la regina, sir William ed io
salimmo in carrozza e andammo verso la marina.

Nelson da parte sua non perdette un momento, e appena ebbe gettato
l’ancora, discese nella sua lancia e venne a terra.

Al modo che la regina si volse verso di lui e gli strinse la mano
ho potuto conoscere che il timore è un sentimento tanto forte quanto
l’amore.

Nelson salì in carrozza e lo conducemmo a palazzo.

In quegli otto o dieci giorni di crociera Nelson non aveva veduto
nemmeno una vela della flotta francese. Era sua opinione che dessa si
fosse diretta senza dubbio a Tolone per prendere rinforzi.

Richiamò specialmente la nostra attenzione sul suo ritorno che aveva,
diceva egli, per iscopo di rassicurare la regina. Ma la sua unica mano
stringendo la mia, mi dava a divedere che egli era ritornato soltanto
per me.

S’informò se avevamo ricevuto qualche notizia da Napoli. Noi non
sapevamo che delle notizie vaghe, ma erano per altro buone. I
Napolitani condotti da Caracciolo, che riunì una flottiglia di piccole
barche, avevano tentato di approfittare dell’assenza di Nelson e
del grosso della sua flotta per riprendere le isole; ma dopo un
combattimento accanito contro il _Seahorse_ comandato dal capitano
Footh, e la _Minerva_ l’antica fregata di Caracciolo comandata dal
conte di Turn, Caracciolo e la sua flottiglia erano stati respinti.

Nello stesso giorno Nelson ricevette una lettera dal capitano Footh che
portava in fine questa poscritta.

«Trenta giacobini sono stati impiccati ieri verso il dopo pranzo. E il
bastimento che vi reca questa notizia ha a bordo tre preti condannati,
che invio a Palermo per essere sconsacrati, e che saranno impiccati al
loro ritorno.»

Al 6 giugno, la squadra di lord Nelson fu rinforzata dall’arrivo a
Palermo del _Fulminante_, vascello di 80 cannoni destinato a diventare,
in luogo del _Vanguard_, il vascello ammiraglio; era seguito dal
_Leviathan_ che portava la bandiera del Vice-ammiraglio Duckworth, dal
_Maestà_, e dal _Nortumberland_ levati dalla flotta di lord S. Vincent.

L’8 giugno fu un giorno di festa: lord Nelson trasportò la sua bandiera
dal _Vanguard_ sul _Fulminante_; fece passare con lui su questo
vascello il capitano Hardy, cinque luogotenenti, il chirurgo, il
cappellano e molti marinai.

Si decise che in quel giorno Nelson riprenderebbe il comando della
flotta e tenterebbe una spedizione contro Napoli. Il principe
ereditario, vergognoso di non aver fatto ancor nulla per riconquistare
il suo retaggio, si decise finalmente di partire con Nelson, che
annunziò che, se il re volesse dargli delle istruzioni, egli metterebbe
vela al primo vento favorevole.

Il re, e la regina e sir William passarono la notte a redigere per
lord Nelson le seguenti istruzioni. Esse davano carta bianca a Nelson,
ma nello stesso tempo il re e la regina gli raccomandarono a voce
di non trattare coi ribelli, e la regina gli mostrò la copia di una
lettera che scriveva al cardinale Ruffo, incaricandolo di dare a Nelson
l’estratto seguente.

Tradussi letteralmente il passo in inglese, perchè Nelson fosse
perfettamente istruito dalle intenzioni della regina, che come sempre,
erano quelle del re.

«Desidero ardentemente di conoscere la presa di Napoli, e quali
negoziazioni siansi prese con S. Elmo e col suo comandante francese;
ma, ve ne prego, nessun patto colle navi ribelli, alle quali il re
perdonerà nella sua clemenza, diminuendo loro la pena per un effetto
della sua bontà. Non bisogna mai e sotto nessun pretesto capitolare
nè trattare coi sudditi ribelli, che sono all’agonia, e che volendo
far male non lo potrebbero, essendo presi a quest’ora come sorci
nella trappola. Voglio ben perdonare a loro se sarà necessario per il
bene dello Stato; ma venire a patti, scendendo tanto basso con quei
miserabili, mai.»

Si vede che con tali istruzioni, Nelson non aveva che una sola cosa
da fare, eseguirle, o non incaricarsi della spedizione: ma essendo
questa fatta al contrario nel doppio scopo di riconquistare Napoli e
di vendicare la dinastia, il re dava cognizione a Nelson di ciò che
scriveva a Ruffo ed in cui gli diceva:

«Mi si assicura che voi avreste detto a qualcuno, che se i castelli
di Napoli si arrendono, voi permettereste a tutti i ribelli di
uscire incolumi, anche Caracciolo, Manthonnet ecc. ecc. Questa cosa,
Eminentissimo mio, non la crederò giammai, perchè Dio ci vieta di
lasciare in vita queste vipere velenose, specialmente Caracciolo che
conosce tutti i piccoli buchi dei nostri porti e potrebbe farci il più
gran male!

Del resto circa a Caracciolo la regina non era soltanto d’accordo col
re, ma fu dessa che aveva avuto quell’ispirazione di odio mortale.

In una lettera scritta il giorno prima, in cui il re scriveva la sua e
si esprimeva presso a poco in questi termini:

«Fra i colpevoli scellerati, il solo che voglio che a qualunque prezzo
non vada in Francia è l’indegno Caracciolo, questi, tre volte ingrato,
che conosce tutti gli angoli del nostro litorale di Napoli e di
Sicilia, che potrebbe, se sfuggisse alla nostra giustizia, suscitarci
molti nemici, ed anche compromettere la sicurezza del re.»

Lo si vede, l’ordine è positivo, e Nelson non aveva che una cosa da
fare: obbedire ad ordini positivi, o rinunziare alla spedizione.

Al giovedì, 12 giugno, lord Nelson non era ancora deciso, e la regina
allora impiegando su di lui il suo mezzo ordinario di pressione, mi
dettò questa lettera per lui:

      «Giovedì 12 giugno sera.

  «Ho passato la sera colla regina che è veramente disperata, e
  dice che quantunque il popolo di Napoli sia in generale pei suoi
  legittimi sovrani, le cose non potrebbero essere ridotte allo
  stato di tranquillità e di subordinazione se non quando Nelson e
  la sua flotta si presenteranno innanzi a Napoli. È perciò che essa
  vi prega, v’impegna, vi scongiura, mio caro lord, di far tutto
  il possibile per andare a Napoli. Per l’amor di Dio, pensateci,
  riflettete ed agite. Noi verremo anche con voi se lo volete. Sir
  William è ammalato, io pure sono ammalata; ciò mi rimetterà in
  salute.

  «Sempre, sempre la vostra sincerissima

                                                   «EMMA HAMILTON.»

Due giorni prima, inviandogli le istruzioni che leggeremo in seguito,
il re scriveva a lord Nelson, che egli era già pronto a mettere alla
testa dei suoi generali il principe ereditario, e che lo confidava a
lui, Nelson, contando interamente e completamente sul di lui zelo, sul
di lui servizio e sul di lui attaccamento alla sua persona e famiglia:
attaccamento di cui egli avea date prove così numerose: malgrado tutto
ciò, Nelson aveva resistito; ma egli non sapeva rifiutarmi nulla, la
mia lettera lo decise, e nella notte mi fece rispondere che al giorno
seguente il principe ereditario poteva recarsi a bordo.

Difatti al 13 il principe ereditario venne a bordo del Fulminante;
noi tutti lo accompagnammo, il re, la regina, molti personaggi della
famiglia reale, ed io.

Lo stendardo reale fu subito inalberato, e nel momento in cui lo si
inalberava si tirarono i 21 colpi di cannone; a mezzodì scendemmo dal
Fulminante lasciando a bordo il principe ed il suo seguito.

Nelson mise alla vela subito dopo la nostra partenza.

Il giorno seguente, venerdì 14, alle quattro del mattino, fu
raggiunto dai vascelli di Sua Maestà Britannica, il _Powerfull_ e il
_Bellerofonte_, che venivano ad annunziargli da parte di lord Keith
che la flotta francese, forte di ventidue legni, era stata segnalata
sulle coste d’Italia. Nelson che ne avea con lui soltanto sedici, e di
second’ordine, con pochi uomini non credette opportuno di esporre il
principe ereditario alla sorte di un combattimento, che raddoppiava la
sua responsabilità. Riprese immediatamente la via di Palermo, e sbarcò
nello stesso giorno il principe con tutti i suoi bagagli, le munizioni
e le truppe; riprese poscia il mare e si diresse a Maretimo, sperando
di essere raggiunto dall’_Alessandro_ e dal _Goliath_, i cui capitani
doveano recarsi al blocco di Malta, giusta gli ordini che avevano
ricevuto otto giorni prima.

Al 18 giugno era innanzi a Maretimo in mare, e credeva di dover
combattere colla flotta francese, perchè rispose al capitano Footh,
che gli annunziava l’avvicinarsi dei Russi e del cardinal Ruffo, e
la presa probabile di Napoli, di venire, se Napoli fosse preso, a
raggiungerlo innanzi a Maretimo col _Seahorse_, la _Mutine_ ed il
_Perseo_, lasciando soltanto per la guardia delle isole e della baia
di Napoli le navi napoletane col _Buldog_ e il _S. Leone_: del resto,
aggiungeva, che se il capitano Footh credesse pericoloso di lasciar
Napoli, gli lasciava la libertà intiera di agire a suo talento. Nello
stesso giorno, vale a dire il 18 giugno, l’_Alessandro_ ed il _Goliath_
lo raggiunsero, in fine due giorni dopo un dispaccio di lord Keith
invitava lord Nelson a ritornare a Palermo a prendervi gli ordini del
re e di condurre la squadra nella baia di Napoli, ove supponeva che si
dirigerebbe la flotta francese.

Durante quest’assenza, erasi convenuto fra la regina e me che, per non
lasciar raffreddare lo zelo di Nelson, non si sarebbe già imbarcato il
principe ereditario, ma io e sir William.

Alle nove del mattino si segnalò l’arrivo della flotta; a mezzodì entrò
nella baia di Palermo, ma non gettò l’áncora. Nelson scese a terra nel
momento in cui noi arrivavamo alla marina. La regina, sir William, ed
io, lo prendemmo nella nostra carrozza e lo conducemmo dal re, ove ebbe
con lui una conferenza di tre ore.

Uscendo, lord Nelson ci trovò pronti a partire, sir William ed io; mise
un ginocchio a terra davanti alla regina, e le giurò che i suoi voleri
sarebbero letteralmente eseguiti. La gioia di averci compagni, che
non poteva esprimere innanzi a mio marito, si trasformò in entusiasmo
per la causa della regina; un suo sguardo mi fece comprendere che egli
s’inginocchiava innanzi a me, e che la mano che baciava era la mia.

Prendemmo congedo dalla regina; mi tenne molto tempo stretta al suo
cuore; la sua ultima parola fu quella di Carlo I:

— Remember.

Il re consegnò a Nelson le sue istruzioni in data del 10; e siccome
formano un complesso con quelle date a Ruffo, che sono poco conosciute,
e spiegano, se non la scusano, la condotta di Nelson, le riporteremo
qui.

              «_Istruzioni date dal re Ferdinando Borbone
                      a Sua Signoria lord Nelson_

      «Valorosissimo lord Nelson,

  «Le differenti notizie che mi giungono di Napoli richiedono una
  pronta risoluzione, e le presenti circostanze di questo regno
  e della mia famiglia m’impediscono, stogliendomi, di lasciarla,
  dovendo prender cura della loro salute e della loro difesa; ripongo
  tutta la mia speranza nel voto di riconquistare quella capitale,
  mediante il possente aiuto delle forze inglesi poste sotto i vostri
  ordini. Quanto vi ha di buono e di leale fra gli abitanti desidera
  di spezzare il giogo che gli è stato imposto per tradimento.
  Una gran parte del popolo qui non può tranquillamente vedere
  avvicinarsi le truppe del cardinale Ruffo, e osservare i successi
  nelle provincie dei diversi capi che si sollevano in favore della
  religione e della Corona, senza ardere dal desiderio di unire i
  loro sforzi, nello stesso scopo delle province.

  «Gli sforzi dei miei uffiziali non bastano più (forse) a trattenere
  l’ardore che li spinge; perchè i Napolitani debbono aspettare
  l’arrivo delle truppe di linea che organizzo ed i soccorsi, che
  come sapete, attendo dai miei buoni alleati, per poter agire
  insieme con grande sicurezza e colla maggior energia a liberare
  l’oppressione del regno di Napoli.

  «Bisogna evitare che una insurrezione scoppii intempestivamente
  nella capitale, per isfuggire alla sventura di perdere tanti fedeli
  sudditi che diverrebbero vittima del furore del ribelli. Ho pensato
  quindi di riunire una soldatesca di linea sufficiente, perchè,
  senza indebolire di più il regno, possa aiutare i differenti
  corpi, che esistono già nelle isole del Cratere, e secondo le
  disposizioni del popolo, aspettando le forze straniere, che
  coopereranno con esse al ristabilimento completo dell’ordine. Però
  questa misura senza la vostra importante assistenza e direzione
  non può produrre il risultato necessario; ho dunque ricorso a
  voi, mylord, per ottenere l’uno e l’altro, acciocchè (se Dio
  benedice i vostri sforzi ed i nostri) il regno essendo prontamente
  liberato dal flagello che lo ha afflitto, io possa essere in
  grado di corrispondere agl’impegni assunti, come mi prescrivono
  il mio dovere e la mia ragione. Epperciò vi trasmetto copia delle
  istruzioni, che do ai generali in capo, e che manderò a quelli
  del continente, alla cui testa ho posto mio figlio, e per la quale
  io conto sulla vostra amichevole assistenza, di modo che, i suoi
  primi passi nella critica carriera in cui è entrato, possano essere
  guidati dai vostri saggi avvisi, chiedendovi non solamente di
  aiutarlo coi vostri possenti soccorsi, ma di agire principalmente
  in modo che le vostre forze siano i veri mezzi, i veri sostegni sui
  quali possa far riposare le mie speranze, come devono anche essere
  la mia salvezza.

  «L’intenzione, come voi me lo fate osservare, di rispettare
  l’ordine e la tranquillità a Napoli col possesso della capitale,
  servendosi di uomini devoti alla buona causa, non potrebbe aver
  effetto che con questa speranza da me vagheggiata in questo
  momento; quando non fossi inoltre obbligato d’incoraggiare e
  approfittare del buon volere del popolo, con prudenti mezzi, visto
  che queste buone intenzioni potrebbero raffreddarsi ed il popolo
  diventar vittima della sua devozione. La flotta potente e distinta
  colla quale voi sosterrete la spedizione, mi permette di sperare
  questo felice risultato, che da essa esclusivamente dipende, e di
  aver confidenza, che, senza nuocere alle più grandi operazioni
  che voi avete costantemente in vista pel bene di tutti, voi mi
  salverete, e con me tutta la Sicilia: e come chiedo, aggiungendo
  a questo servizio essenziale un altro importantissimo, che voi mi
  avete reso con tanto zelo e di cui vi sarò riconoscente per tutta
  la vita.

  «Mi lusingo che senza fare del male alla capitale, i ribelli
  cederanno, come pure il nemico che occupa ancora S. Elmo, a misura
  che saranno presi. In conseguenza, quando (dopo aver pesato ogni
  considerazione, che possa aver riguardo alla vostra squadra, e la
  destinazione per la quale è forse richiesta pel bene generale,
  come per le particolari mie circostanze) stimerete opportuno
  di dover impiegare le attuali e potenti vostre forze, per fare
  effettivamente ritornare al dovere gli oppressori ostinati del
  mio popolo, (napolitano) e per estirpare, come urge, quest’orda
  di malfattori, voi potete usare tutti i mezzi proprii ad ottenere
  questo scopo tanto necessario.

  «Io conto, mylord (e lo ripeto con piacere e con particolare
  soddisfazione), interamente e completamente sul grande zelo pel
  mio servizio, all’attaccamento per la mia persona e per la mia
  famiglia, che voi mi avete dimostrato tanto lealmente con fatti,
  pei quali vi sarò infinitamente riconoscente ed obbligato. Nello
  stesso tempo prego l’Onnipotente di avervi e di conservarvi,
  mylord, nella sua santa custodia.

      «Palermo, 10 giugno 1799.

                                                    «FERDINANDO B.»

Andammo dapprima a bordo del _Fulminante_, ove lo attendea vicino il
cutter di lord S. Vincent; colà Nelson seppe da una lettera di sir
Allan Gardner, che navigava nel Mediterraneo con 16 legni, che la
flotta francese seguita da lord Keith, era stata veduta nel golfo della
Spezia.

Nelson ordinò di far acqua, poi andammo tutti e tre a pranzare a bordo
del Serapide comandato dal capitano Duncan.

Alla sera c’imbarcammo, e il giorno dopo, essendosi fatte le
provvigioni d’acqua, prendemmo il largo.




X.


Tutta la giornata appresso, era domenica, scorse senza vedere una sola
vela; il tempo era bello, e il vento favorevole; passammo le isole,
e al lunedì, 24, all’alba, incontrammo uno schifo napolitano che ci
supplicò di dargli dell’acqua; un’ora dopo, vedemmo venir verso di noi
un brick che l’ammiraglio Nelson riconobbe per la _Mutine_.

Gli fece il segnale di accostare, il canotto fu messo in mare e si
diresse verso di noi; il capitano Hoste salì sul _Fulminante_.

Il capitano Hoste era latore di un trattato convenuto fra il cardinal
Ruffo, il generale delle truppe russe e il comandante delle truppe
turche, il capitano Footh del _Seahorse_ e i Francesi di castel S.
Elmo, e i ribelli di castel Nuovo e di castel dell’Uovo.

Apprendendo da quella notizia che si era fatto un trattato coi ribelli,
cosa che era contraria agli ordini delle Loro Maestà Siciliane, Nelson
diventò livido per la collera, inviò con un piccolo bastimento-posta
il trattato, chiuso sotto quattro suggelli, a Palermo, scrivendo al
re ch’egli non s’inquietava per questi trattati che non sarebbero
mantenuti; e dopo aver udito dal capitano Hoste quanto aveva saputo
di questi trattati, gli ordinò di salire a bordo della _Mutine_, e di
ritornare con lui a Napoli.

Ci rimettemmo in viaggio. Nelson giurava innanzi a Dio e agli uomini
che un trattato, che considerava come infamante per la dinastia, non si
sarebbe eseguito.

Il vento era favorevole, e passammo ben presto Capri, e ci avanzavamo a
gonfie vele verso Napoli.

Nelson era disceso nella sua cabina, e colla più grande agitazione
scrisse al cardinale la nota seguente:

  «Ecco la mia opinione prima di aver letto il trattato di
  armistizio, e sul semplice rapporto che mi è stato fatto.

  «L’armistizio, a quanto suppongo, porta, che se i Francesi ed i
  ribelli non sono soccorsi entro ventun giorni, a partire da quello
  in cui è stato segnato l’armistizio, essi avranno diritto di
  evacuare Napoli, il che sarebbe un’onta per S. M. Siciliana e un
  trionfo per essi.

  «Ogni armistizio riserva a ciascuna parte il diritto di
  ricominciare le ostilità, dando, ad un’epoca fissata dalle parti
  contraenti, la facoltà di denunziare la fine dell’armistizio.
  Suppongo che il cardinale creda che colle truppe che dispone non
  avrà in 21 giorni il potere di cacciare i Francesi dal forte di
  S. Elmo, ed i ribelli da castel Nuovo e dell’Uovo; i Francesi
  ed i ribelli da parte loro pensano, che se non sono soccorsi in
  21 giorni, saranno trasportati su qualche punto, ove potranno
  ricominciare le loro trame diaboliche contro Sua Maestà di Sicilia,
  la pace del regno e la tranquillità dei suoi fedeli sudditi, e
  questi nemici e questi ribelli saranno protetti dalla flotta stessa
  di S. M. Siciliana, e da quella del suo fedele alleato il re della
  Gran Brettagna?

  «Per Dio, ciò sarebbe troppo! Evidentemente questo contratto
  implica, che ciascun partito abbia per sè delle speranze di
  ricevere soccorsi, e intanto rimane lo _status quo_; ma dal
  momento che l’una o l’altra delle due parti riceve dei soccorsi, il
  contratto diventa nullo e senza effetto. È evidente che se invece
  della flotta inglese, fosse venuta la flotta francese nella baia
  di Napoli, i Francesi ed i ribelli non osserverebbero un momento
  l’armistizio, e l’ammiraglio francese direbbe semplicemente: —
  No. — Io non sono venuto qui per osservare, ma per agire; così
  dice l’ammiraglio inglese, e dichiara sul suo onore che l’arrivo
  d’una flotta, sia britannica o francese, rompe il trattato: quella
  flotta, qualunque fosse, non può resistere inattiva.

  «Però l’ammiraglio inglese propone al cardinale di fare sapere, in
  nome di loro due, ai ribelli ed ai Francesi, che l’arrivo della
  flotta britannica ha completamente distrutto il trattato, come
  avrebbe fatto la flotta francese se avesse potuto, e, grazie al
  cielo, non è nulla venire a Napoli.

  «Però, acconsente di dare due ore ai Francesi per rendere castel
  S. Elmo ai fedeli sudditi di Sua Maestà di Sicilia e alle truppe
  dei suoi alleati, alla condizione che i Francesi si ritirerebbero
  in Francia senza essere prigionieri di guerra: che in quanto poi ai
  traditori ed ai ribelli, nessun diritto esiste fra essi ed il loro
  grazioso Sovrano; essi debbono in conseguenza confidare senz’altro
  nella sua clemenza, non potendosi accordar loro diverse condizioni,
  non avendo i Francesi il diritto di comprenderli nella loro
  capitolazione: tutto dovrà compiersi nel tempo sovrindicato, vale a
  dire due ore pei Francesi, e all’istante pei ribelli.

  «Che si affrettino di accettare, o altrimenti non sarà più loro
  offerta una capitolazione così favorevole.

                                                        «O. NELSON.

  «_Fulminante_, Napoli, 24 giugno 1799.

Da parte sua sir William scriveva in francese, lingua che il cardinale
parlava benissimo, la lettera seguente, nel caso in cui il cardinale
non comprendesse l’inglese, o non avesse nessuno per spiegarglielo.

  «A bordo del _Fulminante_, 24 giugno 1799, 3 ore dopo mezzodì, nel
  golfo di Napoli.

      «EMINENZA,

  «Milord Nelson mi prega d’informare l’Eminenza Vostra che ha
  ricevuto dal capitano Footh, comandante la fregata _Seahorse_, una
  copia della capitolazione che Vostra Eminenza ha giudicato dover
  fare coi comandanti di S. Elmo, del castel Nuovo e del Castel
  dell’Uovo; — che egli disapprova intieramente tali capitolazioni,
  e ch’è risoluto a non rimaner neutro colla forza imponente che
  ha l’onore di dirigere, — che ha spedito a V. Eminenza i capitani
  Troubridge e Ball, comandanti i vascelli di S. M. Britannica, il
  _Culloden_ e l’_Alexander_. I capitani son benissimo informati de’
  sentimenti di Milord Nelson, ed avran l’onore di farli conoscere
  all’Eminenza V. Milord spera che il signor cardinale Ruffo sarà
  della stessa sua opinione, e che domani, allo spuntar del giorno,
  potrà agire d’accordo con Sua Eminenza.

  «Il loro scopo non può essere che lo stesso, cioè ridurre il comun
  nemico, e sottomettere alla clemenza di S. M. Siciliana i sudditi
  ribelli.

      «Ho l’onore di rassegnarmi,

      «Di Vostra Eminenza,

                                            _Umil. ed obbed. servo_

                                                      «W. HAMILTON.

      «_Inviato straordinario e plenipotenziario
      di S. M. Britannica presso S. M. Siciliana_.»

Mentre lord Nelson scriveva la sua nota, e sir William questa lettera,
il bastimento camminava in modo che non eravamo più che a due o tre
miglia dalla baia; e ne avvenne che quando lord Nelson risalì sul
ponte vide ciò che non aveva potuto vedere a motivo della distanza,
vale a dire le bandiere parlamentari che sventolavano sui castelli dei
Francesi, dei ribelli, e sul vascello inglese il _Seahorse_.

Quella vista portò la sua collera al colmo. Fece un segnale per
richiamare a lui il _Culloden_ e l’_Alessandro_ fece salire al suo
bordo i capitani Troubridge e Ball, che li comandavano, consegnò
loro la sua nota e la lettera di sir William, ed ordinò, prima che il
_Fulminante_ gettasse l’áncora, che scendessero in una lancia e a forza
di remi si portassero al ponte della Maddalena, per consegnare le due
carte al cardinale Ruffo.

Spinti da dodici vigorosi rematori, i due capitani approdarono al ponte
della Maddalena, e trovarono il cardinale Ruffo che li aspettava; con
un cannocchiale egli aveva seguito tutte le manovre del _Fulminante_,
aveva veduto la barca distaccarsi dal bastimento, e vogare verso terra.

Gli uffiziali gli consegnarono i due plichi, ma esso comprese poco
o nulla la nota di Nelson, e avendo letta la lettera di sir William,
credette che Nelson disapprovasse la capitolazione per la sola ragione
che Napoli fosse stata attaccata senza che si aspettasse l’arrivo
della squadra inglese, come era stato convenuto, quando il principe
ereditario doveva presiedere a quell’attacco.

Allora pensò che una visita personale a bordo del _Fulminante_, visita
nella quale spiegherebbe all’ammiraglio i motivi di urgenza che gli
avevano fatto attaccare Napoli, concilierebbe tutto; scese nella barca
dei capitani Troubridge e Ball e abbordò al _Fulminante_, sul quale il
suo arrivo fu salutato da 13 colpi di cannone.

Nelson l’aspettava dall’alto della casa con sir William, il quale,
parlando egualmente bene il francese e l’italiano, ricevette Ruffo,
gli fece gli onori del vascello, e lo condusse nella cabina ove io era
rimasta.

Il cardinale, scorgendomi, fece un movimento; egli sapeva che la regina
non l’amava, e che io divideva con essa tutti i suoi sentimenti di
simpatia e di antipatia.

Lo salutai freddamente, si scambiarono i complimenti di uso, ed il
cardinale cominciò in eccellente francese a raccontare gli avvenimenti
del 13 e del 14 giugno che lo avevano condotto alla capitolazione.

Lord Nelson insistette a non voler vedere nel trattato che un’amnistia;
ma Ruffo espose gli uni dopo gli altri tutti gli articoli, e dimostrò
che non era un armistizio, nè una sospensione di armi; ma un vero
trattato, che non potrebbero rompere nè l’arrivo della flotta francese,
nè l’arrivo della flotta inglese; e la cosa era tanto vera che alla
prima vista i patriotti (si sa qual era il nome che il cardinale dava
ai ribelli), presero la flotta inglese per la flotta franco-spagnuola;
alcuni chiedevano che l’arrivo di questi soccorsi muterebbe qualche
cosa alla capitolazione; e che la maggioranza aveva deciso quasi
unanimemente, che la firma era valevole e che il trattato doveva essere
mantenuto.

Sir William traduceva a Nelson le parole di Ruffo mano mano che gli
uscivano di bocca, e quegli, ascoltandolo con impazienza, e udendolo
dire che una capitolazione conchiusa doveva essere lealmente eseguita,
diede in uno scoppio di rabbia, e gridò:

— Eh signore! I sovrani non trattano coi loro sudditi.

— È vero, milord, rispose il cardinale, non capitolare è meglio; ma
dopo aver capitolato sono obbligati ad uniformarsi ai trattati.

Poi volgendosi verso sir William.

— Non è questo anche il vostro avviso, signore?

E siccome sir William rispondeva invece che era dell’avviso di Nelson,
il cardinale vide che la cosa era più seria di quanto l’aveva creduta.
Allora si alzò e disse che i Russi ed i Turchi essendo intervenuti nel
trattato, non poteva rispondere solo alle obbiezioni di lord Nelson.

E prendendo commiato, si fece condurre a terra.

Di ritorno al suo quartier generale, il cardinale fece venire, a quando
ci fu detto poi, il ministro Micheroux, il comandante Baillie ed il
capitano Achmet; mandò a cercare il capitano Footh, ma Nelson ebbe cura
di allontanarlo inviandolo a Procida.

Nelson poi scrisse immediatamente al contr’ammiraglio Duckworth:

      «25 giugno 1799.

      «Mio caro ammiraglio,

  «Vi dirò che il cardinale ed io incominciamo ad essere di un avviso
  completamente opposto. Egli vuole mandare i ribelli a Tolone, ed
  io non voglio che vadano; egli pensa che val meglio salvare le
  case di Napoli che l’onore dei suoi sovrani. Troubridge e Ball
  sono andati a portargli la mia dichiarazione riguardo ai ribelli
  che persiste a chiamare patriotti, — quale prostituzione di
  questa parola! — Manderò Footh a Procida a prendere le cannoniere.
  Vorrei che tutti i vascelli della flotta non fossero più di due
  nodi l’uno dall’altro; vi manderò uno schizzo dell’ancoraggio a
  quaranta braccia d’acqua; il _Fulminante_ deve essere il vascello
  ammiraglio; se la flotta francese mi fa il favore di una visita,
  prenderò la mia posizione del centro.»

Intanto il cardinale aveva tenuto consiglio, ed era stato non soltanto
deciso che si mantenesse la capitolazione, ma ancora che se Nelson
si ostinasse a romperla, si tenterebbe con tutti i mezzi di salvare i
ribelli.

Tutta la sera, la notte e la mattina del giorno seguente, era un
continuo andare e venire dal quartier generale al _Fulminante_, e dal
_Fulminante_ al quartier generale, senza che la questione facesse un
passo di più; ciascuno stette fermo nella sua volontà.


Alla mattina del 25 Nelson compilò questa dichiarazione, diretta al
Giacobini di castel dell’Uovo.

      «Baia di Napoli, 25 giugno 1799.

      «_A bordo del Fulminante, vascello di S. M. B._

  «Il contr’ammiraglio lord Nelson, cavaliere baronetto, comandante
  in flotta di S. M. Britannica, previene i ribelli sudditi di S.
  M. Siciliana chiusi in castel dell’Uovo e castel Nuovo, che non
  permette loro nè di lasciar quella piazza, nè d’imbarcarsi. Essi
  debbono soltanto arrendersi alla discrezione di S. M. Siciliana.»

Nelson fece proclamare la sua decisione; una barca approdò al castel
dell’Uovo, e l’araldo la lesse ad alta voce; ma il comandante del
castello salì sulle mura e gli gridò:

— Al largo, presto, presto, presto, o faccio tirare su di voi; vi è un
trattato e lo faremo osservare.

Nelson, sempre furioso, scrisse sopra la nota che egli aveva mandato al
cardinale e che costui gli aveva retrocesso:

«Letta, spiegata al cardinale, e ricusata da lui.»

All’annunzio della pubblicazione o piuttosto dell’intimazione che
Nelson aveva fatto ai repubblicani, il cardinale Ruffo credette di
dover rispondere, prendendo anch’egli un’attitudine risoluta.

Scrisse quindi questo viglietto all’ammiraglio:

  «Se lord Nelson non vuole riconoscere il trattato della
  capitolazione dei castelli di Napoli, al quale, fra gli altri
  contraenti, intervenne solennemente un uffiziale inglese a nome del
  re della Gran Brettagna, resta a lui solo tutta la responsabilità;
  se va impedita la esecuzione di tal trattato, il cardinale F.
  Ruffo rimetterà il nemico nello stato in cui si trovava prima
  del trattato medesimo; finalmente ritirerà le sue truppe dalle
  posizioni posteriormente occupate e si trincererà con tutta la sua
  armata, lasciando che gl’Inglesi, colle proprie forze, vincano il
  nemico.»

Ricevendo questo viglietto che esponeva così nettamente la questione,
Nelson si ritirò nella cabina con Sir William, e uscì tenendo in
mano il viglietto seguente; il messaggiero del cardinale ricevette
nello stesso tempo l’originale inglese, colla traduzione fatta da sir
William.

      «_Fulminante_, 26 giugno 1779.

  «Il contr’ammiragllo lord Nelson, arrivato il 24 giugno nella baia
  di Napoli, avendo trovato un trattato firmato dai ribelli, espresse
  la sua opinione, che questo trattato non possa essere messo in
  esecuzione, senza la approvazione di S. M. Siciliana.»

Il cardinale rispose che se al dimani i patrioti ribelli, come
piacerebbe a lord Nelson di chiamarli, non ricevessero da lui
l’autorizzazione d’imbarcarsi, egli compirebbe la minaccia fattagli, e
si sarebbe ritirato colla sua truppa.

La minaccia era seria; Ruffo punto dal rifiuto di Nelson era uomo
capace di eseguirla. Nelson, mancando di truppe di sbarco, era
obbligato a bombardare Napoli.

Per cui sir William rispose:

      «Eminenza,

  «Milord Nelson mi prega di assicurare Vostra Eminenza, che è
  risoluto di non far nulla che possa rompere l’armistizio che Vostra
  Eminenza ha accordato ai castelli di Napoli.

      «Ho l’onore di essere,

      «Di Vostra Eminenza,

                                                        «Umil. ecc.

                                                     «W. HAMILTON.»

Questa lettera fu portata dai capitani Troubridge e Ball, che avevano
portato la prima protesta dell’ammiraglio. Siccome la lettera di sir
William Hamilton conteneva nulla di positivo, il cardinale interrogò
i due capitani, che spiegarono la lettera dicendo che l’ammiraglio
non si opponeva all’imbarco dei repubblicani. Il cardinale chiese se
erano autorizzati a metter in iscritto quanto dicevano, cioè che Nelson
prometteva di non opporsi all’imbarco dei repubblicani.

I due uffiziali si consultarono, e dopo un istante risposero che non ci
vedevano alcun inconveniente.

Troubridge prese allora un pezzo di carta, e scrisse di suo pugno:

«I capitani Troubridge e Ball hanno autorità per la parte di lord
Nelson di dichiarare a Sua Eminenza, che milord non si opporrà
all’imbarco dei ribelli, e della gente che compone la guarnigione dei
castelli Nuovo e dell’Uovo.»

Poi diedero questa dichiarazione al cardinale.

— Però, signori, disse il cardinale, siate anche compiacenti di
firmarla.

— Perdono, Eminenza, rispose Troubridge, noi abbiamo potere per gli
affari militari; ma non per gli affari diplomatici. Siccome però la
nota, quantunque non firmata, è di nostra mano, noi v’invitiamo a
credervi.

Il cardinale non insistette più, sia che fosse maravigliato di
questo modo di cavarsi d’impaccio, sia che temesse di offendere i due
uffiziali.

Troubridge e Ball ritornarono a bordo, e ciò che avevano fatto fu
approvato da Nelson, e da sir William.




XI.


Siccome lord Nelson aveva ricevuto, circa all’ammiraglio Caracciolo,
degli ordini positivi dal re e dalla regina, e si era impegnato di
prenderlo morto o vivo, aveva fatto cercare delle informazioni in
città, ove già si rispose, che nella notte del 23 al 24, Caracciolo era
fuggito, e che a quell’ora doveva già aver passato la frontiera.

Questa notizia mise Nelson fuori di sè.

Colle sue idee di disciplina, un ammiraglio che tirava il cannone
contro la bandiera del sovrano portata da un bastimento che era il suo,
meritava non già una, ma dieci volte la morte.

Lord Nelson, più tranquillo, riguardo agli altri ribelli, e
coll’inganno che avea messo in atto, e che gli aveva suggerito, — debbo
fare questa occasione — sir William Hamilton, non potevano sfuggirgli.
Lord Nelson cercava ogni mezzo per procurarsi delle notizie di
Caracciolo, quando, verso le undici ore e mezzo della sera, intese il
grido che fa la sentinella quando vede, dopo la ritirata, avvicinarsi
una barca al bastimento su cui veglia.

Nelson, come se avesse indovinato l’importanza della notizia che questa
barca gli recava, pose sulla tavola la tazza di thè che portava alle
labbra, e si mosse verso la porta della cabina.

V’incontrò l’uffiziale di quarto.

— Un contadino chiede di parlare particolarmente con lord Nelson.

— Un contadino che vuole?

Credetti di comprendere nel suo dialetto, milord, che si tratta di
Caracciolo.

— Di Caracciolo, diavolo! vediamo cos’è; fate venire il vostro
contadino, signore.

Difatti questo contadino non era altro che un colono di Francesco
Caracciolo, presso il quale si era rifugiato l’infelice ammiraglio.

Egli veniva a vendere il suo padrone; ma voleva esser pagato bene.

Gli misero quattromila ducati e gliene diedero mille in conto.

Volle che si mantenesse il più gran segreto e specialmente verso il
cardinale, che pretendeva di aver aiutato la fuga di Caracciolo.

Fu convenuto che il cardinale ignorerebbe completamente ciò che sarebbe
accaduto.

Il contadino chiese quattro uomini per aiutarlo nella sua spedizione.

Qui cominciava il difficile.

Nelson gli avrebbe ben dato quattro marinai inglesi, ma per quanto
fossero travestiti, avrebbero ispirato dei sospetti, non parlando che
la loro lingua.

Nelson gli chiese se non avesse egli invece quattro uomini fidati;
rispose di sì, e che con denaro avrebbe tutto ciò che vorrebbe, ma che
al momento bisognava dare cinquanta ducati per uomo.

Erano duecento ducati di più che si arrischiavano. Nelson glieli diede.

In cambio il traditore diede il suo nome ed il suo indirizzo; egli
chiamavasi Luigi Martino, e dimorava nel villaggio di Calvizzano.

Fu convenuto, che a dimani sera una barca inglese aspetterebbe al
Granatello, e che l’ammiraglio, una volta preso, sarebbe imbarcato al
Granatello, e condotto direttamente a bordo del _Fulminante_.

Era una grande notizia, e non bisognava lusingarsi troppo che fosse
vera; di ciò sir William non ne fece poi che un paragrafo accessorio
della lettera che scrisse al mattino del 27 al generale Acton.

Eccola, e vi darà un’idea più esatta di ciò che potrei dire sullo stato
in cui era Napoli.

      «Mio caro Signore,

  «Vostra Eccellenza avrà veduto dall’ultima mia lettera che le
  opinioni tra il cardinale e lord Nelson non vanno mica d’accordo.
  Però dopo buone riflessioni, lord Nelson mi autorizzò a scrivere a
  Sua Eminenza, ieri mattina, per accertargli che non farebbe nulla
  per rompere l’armistizio che Sua Eminenza avea creduto conveniente
  conchiudere coi ribelli racchiusi ne’ castelli Nuovo e dell’Uovo,
  — e che la Signoria Sua era pronta a dargli ogni assistenza, di
  cui la flotta posta sotto il suo comando fosse capace, e che Sua
  Eminenza credesse necessaria per il buon servizio di Sua Maestà
  Siciliana. Ciò produsse il migliore effetto possibile. Napoli era
  stata sottosopra nel timore che lord Nelson rompesse l’armistizio;
  ora tutto è calmo. Il cardinale ha concertato coi capitani
  Troubridge e Ball che i ribelli de’ castelli Nuovo e dell’Uovo
  vengano imbarcati questa sera, mentre 500 marinai saranno fatti
  scendere a terra per andare ad occupare i due castelli, sopra i
  quali, la Dio mercè, sventola ora la bandiera di S. M. Siciliana,
  mentre le bandiere della repubblica, _corta vissuta_, stanno nello
  stanzino del _Fulminante_, dove, lo spero, la bandiera francese che
  sventola ancora sopra Sant’Elmo andrà a raggiungerle. Eravamo nella
  lancia di lord Nelson allorchè i marinai sono sbarcati all’uffizio
  della _Sanità_. La gioia del popolo era eccessiva. I colori
  napoletani ed inglesi erano inalberati alle finestre, ed allorchè
  prendemmo possesso de’ castelli, fu in tutto Napoli un immenso
  _fuoco di allegrezza_, e quando sopravvenne la notte, un’immensa
  illuminazione, come la prima notte. Finalmente, ho grande speranza
  che la venuta qui di lord Nelson tornerà di molto utile alle LL.
  MM. Siciliane. È stato necessario che io m’interponessi tra il
  cardinale e lord Nelson, altrimenti tutto sarebbe andato perduto
  sin dal primo giorno; ed il cardinale mi scrisse per ringraziarmi
  unitamente a lord Nelson. L’albero dell’abominio, di rimpetto
  il palazzo reale, è stato gettato a terra, ed il berretto rosso
  strappato dalla testa del gigante. Il capitano Troubridge è andato
  a terminar questa faccenda, ed i ribelli che sono a bordo delle
  polacche non possono muoversi senza un passaporto di lord Nelson.
  Caracciolo e dodici altri di quegl’infami ribelli saranno fra
  breve dati in mano a lord Nelson. Se non m’inganno, saranno spediti
  cautamente in Procida onde essere colà giudicati, ed a misura che
  saranno condannati, essi ritorneranno qui, per l’esecuzione della
  loro sentenza. Caracciolo sarà probabilmente impiccato all’albero
  di trinchetto della _Minerva_, dove rimarrà esposto dall’alba fino
  al tramontar del sole, dappoichè un tale esempio è necessario per
  il servizio futuro della marina di Sua Maestà Siciliana, in seno
  alla quale il giacobinismo ha già fatto sì grandi progressi.

                                                     «W. HAMILTON.»

Si vede il consiglio dato da sir William a lord Nelson, e attribuisco a
questo consiglio, che fu tanto facile di presentare come un tradimento,
la perdita del posto di sir William ed il suo richiamo a Londra.

Al 27 di sera tutti i ribelli, credendo che imbarcandosi nelle feluche
fossero imbarcati per Tolone, vi presero posto con tutta la confidenza;
ma non appena vi erano entrati, le feluche furono portate sotto il
fuoco dei vascelli inglesi che in pochi secondi potevano calarle a
fondo.

Nella sera del 28, giusta quanto dicemmo della parte che il cardinale
aveva preso per la fuga di Caracciolo, si tenne consiglio a bordo
del _Fulminante_ per decidere, se sotto un pretesto qualunque non
si dovesse attirare il cardinale a bordo ed arrestarlo. Nella stessa
sera suo fratello Francesco Ruffo ispettore della guerra, era venuto
a bordo del _Fulminante_. Sir William col pretesto di fargli onore
lo mandò a Palermo latore di un dispaccio, mettendo a quest’oggetto a
sua disposizione un bastimento della flotta, esponendo alla regina le
querele ed i sospetti che aveva concepito contro il cardinale dicendole
nello stesso tempo nella lettera:

«Invio a V. M. un messaggiere ed anche un ostaggio.»

Al 29 fui risvegliata all’alba da un grande rumore che si faceva sul
bastimento; misi una veste da camera e salii sul ponte.

Tutti gli occhi erano fissi su di una barca ancor lontana un miglio,
nella quale si poteva riconoscere vicino ad un uomo ammanettato il
contadino che era venuto a trovarci due sere prima e che offerse di
vendere Caracciolo.

Non vi era dubbio, aveva mantenuto la sua promessa; egli conduceva il
suo padrone e veniva a prendere il suo danaro.

Nelson e sir William sembravano al colmo della gioia, ed io non
vedeva che cogli occhi della mia amica e del mio amante. Confesso che
considerava l’ammiraglio, dopo tutto quello che aveva udito di lui,
come un traditore, un colpevole, e mi consolai con essi della sua
cattura.

Però il mio cuore si strinse alla vista di quell’uomo, che, ogni
volta che l’aveva udito parlare alla regina, aveva sempre tenuto il
linguaggio d’un bravo marinaio e d’un uomo d’onore: lasciai Nelson
e sir William gioire del loro trionfo, e non credendo conveniente ad
una donna il dividerlo, discesi nel mio appartamento di cui chiusi la
porta. Conosceva le disposizioni di Nelson riguardo al suo collega;
aveva letto la lettera che mio marito aveva scritto al generale Acton;
non dubitava più della sorte serbata al prigioniero.

Una lettera dl sir William al generale Acton dice in quale stato fosse
Caracciolo quando fu trasportato dalla barca sul _Fulminante_. Darò
l’estratto di questa lettera che si rapporta all’ammiraglio napoletano.

                         «A bordo del _Foudroyant_, 29 giugno 1799.

  «..... Abbiamo testè avuto lo spettacolo di Caracciolo, pallido,
  con una lunga barba, mezzo morto e con gli occhi bassi, condotto
  ammanettato a bordo di questo vascello, ove si trova in questo
  momento insieme col figlio di Cassano D. Giulio, il prete Pacifico
  ed altri traditori infami. Io suppongo che si farà subito giustizia
  de’ più colpevoli. In verità è una cosa da fare orrore; ma io, che
  conosco la loro ingratitudine ed i loro delitti, ne ho risentito
  minor pena delle altre numerose persone che hanno assistito a
  questo spettacolo. Io credo che sia una cosa buona che noi abbiamo
  a bordo de’ nostri legni i principali colpevoli, nel momento in cui
  si va ad attaccare S. Elmo, poichè potremo così tagliare una testa
  per ogni palla di cannone che i Francesi tireranno sulla città di
  Napoli.

                                                     «W. HAMILTON.»

Per due ragioni metto questo frammento sotto gli occhi del lettore;
la prima pei particolari del tradimento dell’infelice ammiraglio a
bordo del bastimento inglese, la seconda per dimostrare a qual grado
d’inasprimento erano portati gli animi i più dolci e più benevolenti,
infiammati dall’acre fuoco della guerra civile. Certamente sir William,
uomo di gabinetto, di mente colta, benevolente, dotto, dedito al culto
dell’antichità, amante del bello come uno scultore greco, doveva essere
sotto il peso di una perturbazione strana d’idee per scrivere una
simile lettera; la sventura di quelli che rappresentano una parte su
quelle calde giornate di rivoluzione, sotto gli ardenti soffii dello
spirito di partito, è che sono giudicati da uomini che vivono in tempi
ordinarii; in epoche temperate questa fatale giornata del 29 giugno
1799 ha lasciato una macchia di sangue su tre nomi.

Una proscritta era aggiunta alla lettera di sir William e la
completava. Posta questa proscritta sotto gli occhi del lettore,
chieggo il permesso di riposarmi un istante; per continuare ho bisogno
di attinger forza al riposo e alla preghiera.

«P. S. Venite se è possibile, per raccomodare ogni cosa, ed io spero
che aggiusteremo prima del loro arrivo parecchi affari che potrebbero
cagionar della pena alle Loro Maestà. Il processo di Caracciolo è
continuato dagli uffiziali di S. M. Siciliana, e, se è condannato, come
credo, sarà subito eseguita la sentenza. Egli sembra già mezzo morto
per la stanchezza. Desiderava esser giudicato da uffiziali inglesi. Il
bastimento parte per Palermo. Non vi dico nulla di più per ora.»

Se sono tanto colpevole quanto lo dice il mondo, oh! mio Dio! Dio di
misericordia! perdonatemi.




XII.


Prima che fosse partita la lettera di sir William, il processo
era già incominciato, o piuttosto era già stato dato l’ordine per
incominciarlo.

Nelson mise in tutto questo terribile affare di Caracciolo un’attività
febbrile e collerica, che non si spiega nemmeno col disprezzo, che
hanno per la vita degli altri quelli che ogni giorno, ad ogni ora, ad
ogni momento espongono la loro vita.

Si parlò di gelosia; Nelson avrebbe veduto in Caracciolo un rivale di
gloria.

L’accusa è assurda; anche nella marina francese Nelson non aveva un
eguale a quell’epoca; la battaglia d’Aboukir l’avea messo in cima a
tutti i marinai del secolo XVIII. Nessuno, dopo l’invenzione della
polvere, non aveva riportato una vittoria eguale a quella d’Aboukir.

Ora che era mai Caracciolo vicino all’uomo di Tolone, di Calvi, di
Teneriffa, d’Aboukir? — ben poca cosa come marinaio. Era forse geloso
della superiorità di nascita che Caracciolo come principe aveva su di
lui? — non è probabile. Nelson, come tutti gli uomini d’ingegno giunti
da una nascita mediocre ad una alta posizione, aveva l’orgoglio del
punto di partenza.

Inoltre, invece di essere illustre pei suoi avi e per suo padre, era
egli che li aveva illustrati.

No, io arriverò, credo, ad una appreziazione più giusta di Nelson
giudicandolo da me.

Nelson, come me, era nato in una condizione bassa; si elevò col suo
coraggio, come io colla mia bellezza, e ad un tratto, dopo la sua
battaglia di Aboukir, al pari di me dopo il mio matrimonio con sir
William, ci trovammo in contatto coi grandi della terra; l’effetto
fu lo stesso sulla donna e sull’eroe, quantunque per mezzi diversi.
Maravigliato nel suo trionfo, acciecato dalla sua nuova fortuna, ebbro
di elogi e di doni che riceveva da tutti i re, delle gentilezze e delle
adulazioni di cui lo colmavano particolarmente Ferdinando e la regina
Carolina, non vide altro diritto che quello dei sovrani, e adottò con
entusiasmo la causa del re contro i popoli: chiunque osava discutere
questi diritti era un ribelle, chiunque osava combatterli, meritava
la morte. Nelson credette di aver ricevuto, come l’arcangelo Michele,
la spada fiammeggiante dalla mano di Dio, e poichè l’arcangelo Michele
colpì senza pietà con questa spada Satana e gli angioli ribelli, Nelson
colpì i patriotti, questi angioli ribelli della terra. Nella terribile
esecuzione di Caracciolo, in quella non meno terribile dei repubblicani
di Napoli, non esita un momento, e fatta l’esecuzione, non soltanto non
ha un rimorso, ma non comprende nemmeno quelli che dicono che ne debba
avere.

Il re e la regina gli avevano raccomandato di prendere Caracciolo vivo
o morto, e se lo prendeva vivo di non fargli grazia di sorta. Ciò gli
bastava, per questa raccomandazione egli era investito dei poteri di
giudice, ed al bisogno di quelli di carnefice.

Difatti voi lo vedete al processo.

  «_Al capitano conte di Thurn, comandante la fregata di Sua Maestà
  Siciliana la_ Minerva.

      «_Per ordine di Orazio Nelson, ecc._

  «Poichè Francesco Caracciolo, commodoro di Sua Maestà Siciliana,
  è stato prigioniero, ed è accusato di ribellione contro il suo
  legittimo Sovrano, e d’aver fatto fuoco contro la bandiera reale,
  fissata sulla fregata la _Minerva_, che si trovava sotto i vostri
  ordini;

  «Voi siete richiesto, ed, in virtù della presente, vi si comanda
  di riunire cinque de’ più antichi uffiziali che si trovino sotto
  il vostro comando, ritenendone voi la presidenza, ed informarvi per
  conoscere se il delitto, di cui il detto Caracciolo è accusato, può
  esser provato; e, se ne risulta colpevole, _dovete indirizzarvi a
  me per sapere qual pena deve subire._»

  «_A bordo del_ Foudroyant, _Golfo di Napoli_.

      29 _giugno_ 1799.

                                                          «NELSON.»

Intanto, siccome ognuno lo comprenderà, nessuno mi consultò nemmeno in
questo affare.

Nelson potenza militare, sir William potenza diplomatica, dirigevano
tutto, più per convinzione, lo ripeto, che per odio; in quanto a me
ho raccontato quanto era avvenuto; vedendo avvicinarsi la barca, che
conduceva Caracciolo, era discesa nella mia cabina, per non incontrarmi
con questo infelice.

Una volta chiusa nella mia cabina, Nelson e sir William mi lasciarono
sola, chè se io lo avessi veduto o lo avessi udito, il cuore della
donna si sarebbe commosso, ed avrebbero dovuto combattere la mia
compassione, come essi l’ebbero quando chiesi alla regina la grazia
di Cirillo, e che la regina la chiese inutilmente in ginocchi a suo
marito.

Io non uscii dunque della mia cabina, ed ecco quanto intesi poi a
raccontare.

Giunto a bordo, Caracciolo venne tosto slegato e posto in una cabina
con due sentinelle alla porta.

Verso mezzogiorno, il consiglio era stato convocato, composto di cinque
uffiziali della marina napolitana, di cui non ho mai saputo il nome, e
presieduto dal conte di Thurn.

L’interrogatorio durò un’ora. Caracciolo rispose nobilmente e
degnamente, ma senza avvocati e senza aver avuto il tempo di preparare
la sua difesa, del resto difficile perchè notoriamente aveva combattuto
contro il re.

La sua colpabilità fu unanimemente riconosciuta, e il processo verbale
portato a Nelson, che colla stessa impassibilità del mattino scrisse:

      «_Al commodoro conte di Thurn_, ecc.»

      «_Per ordine d’Orazio lord Nelson_, ecc.

  «Poichè il Consiglio di guerra, composto d’ufficiali al servizio
  di Sua Maestà Siciliana, è stato riunito per giudicare Francesco
  Caracciolo sul delitto di ribellione verso il suo Sovrano, e poichè
  il detto delitto ha col fatto renduto contro il detto Caracciolo un
  giudizio che ha per conseguenza la pena di morte;

  «Voi siete, con la presente, richiesto e vi si ordina di far
  eseguire la detta sentenza di morte contro il detto Caracciolo per
  mezzo della impiccagione, all’antenna dell’albero di trinchetto
  della fregata la _Minerva_, appartenente a Sua Maestà Siciliana,
  la qual fregata si trova sotto i vostri ordini. La detta sentenza
  dev’eseguirsi oggi alle cinque dopo mezzogiorno; e dopo essere
  rimasto sospeso fino al tramontar del sole, farete tagliare la
  corda e gettare il cadavere in mare.

  «_A bordo del_ Foudroyant _Napoli_, 29 _giugno_ 1799.

                                                          «NELSON.»

Lo ripeto, non ho mai veduto Caracciolo dal momento che salì a bordo;
soltanto io so quello che ho udito intorno a me senza interrogare
nessuno, perchè avrei piuttosto fuggito anzichè cercare di sapere i
particolari su questo terribile avvenimento. Or ecco quel che intesi a
dire:

Caracciolo s’aspettava certamente di essere condannato a morte; ma
nella sua qualità di principe credeva di essere decapitato o fucilato.

Quando intese la lettura della sentenza che lo condannava ad essere
appeso, provò una spaventevole commozione; tornato in sè pregò un
uffiziale di chiedere a lord Nelson un altro giudizio, o almeno di
essere fucilato e non appeso.

Nelson rinviò duramente l’uffiziale dicendogli che Caracciolo era
stato giudicato da un consiglio di guerra composto di uffiziali del suo
paese, e che non poteva intervenire per nulla nel giudizio.

Caracciolo insistette. L’uffiziale ritornò una seconda volta, ed io
intesi Nelson che gli gridava duramente:

— Mischiatevi degli affari vostri, signore, e non di quelli che non vi
riguardano.

L’uffiziale ritornò sul ponte.

Mi si disse che allora Caracciolo aveva invocato il mio nome, e aveva
pregato l’uffiziale di venire da me; e di ottenere di essere decapitato
o fucilato invece di essere appeso.

Ma senza dubbio l’uffiziale, dopo quel rabbuffo che aveva ricevuto da
Nelson, non osò più di venire fino da me. Egli rispose che mi aveva
cercato ma inutilmente. In quanto a me, so che posso affermare innanzi
a Dio, che nessuno mi parlò in favore di Caracciolo, nè per ottenere
grazia della vita, nè per ottenere un altro modo di esecuzione.

Alle tre ore, senza che ne sapessi nulla, Caracciolo condannato
lasciò il _Fulminante_ per andare sulla _Minerva_ ove doveva essere
giustiziato.

Un istante dopo, mentre mi annunziavano quella condanna, sir William
venne a dirmi che Caracciolo non era più a bordo: approfittai di questa
circostanza per salire sul ponte, non avendo preso dell’aria dalle
sette ore del mattino.

Il tempo era nuvoloso e triste, quantunque fosse il 29 di giugno; poi
lo spettacolo che si aveva sotto gli occhi andava d’accordo col tempo:
tutte quelle feluche cariche di prigionieri, il _Fulminante_ stesso che
serviva da prigione per una parte di essi, attristava profondamente
la vista. Sembrava che vi fosse in mezzo a tutti quegli infelici
una grande agitazione, e fu soltanto allora che seppi dal cavaliere
Micheroux, che venne a bordo, che dopo aver loro dato il permesso
d’imbarcarsi, e di aver messo la guarnigione nei castelli, ed aver
approfittato in fine dei vantaggi della capitolazione, lord Nelson li
teneva prigionieri.

Dico che seppi la cosa dal cavaliere Micheroux, ed ecco come.

Il cavaliere Micheroux, il cardinale Ruffo, e il comandante Baillie,
comandante le truppe russe, avevano ricevuto il reclamo seguente da
parte dei prigionieri.

Citerò quello del cavaliere Micheroux che fu lasciato da lui nelle mani
di lord Nelson.

  «Al cavaliere Micheroux ministro plenipotenziario del re delle Due
  Sicilie presso l’armata coalizzata.

  «Tutta quella parte delle guarnigioni che sta, in vigore della
  capitolazione, imbarcata a far vela per Tolone, trovasi nella più
  grande costernazione. Ella in buona fede aspettava l’effetto di
  detta capitolazione, quantunque per precipitazione nell’uscire dal
  castello non furono gli articoli puntualmente osservati. Ora che
  il tempo è propizio alla vela, son oggimai due giorni, e non si
  sono ancora fatti gli approvvigionamenti per l’intero viaggio. E
  con estremo dolore ieri, in sulle ore sette, si videro ricercare
  dai bordi delle tartane i generali Manthonnet, Massa e Bassetti, il
  presidente della Commissione esecutiva. Ercole e d’Agnese, quello
  della Commissione legislativa, Domenico Cirillo ed altri individui,
  come Emmanuele Borga, Piatti e molti altri. Costoro furono condotti
  sul vascello del comandante inglese, ove sono stati ritenuti
  tutta la notte, nè finora, che sono le sei del mattino, si veggono
  ritornare. Dalla vostra lealtà la guarnigione intera attende il
  rischiaramento di questo fatto e l’adempimento della capitolazione.

                             «Dalla rada di Napoli, 29 giugno 1799.

                                                         «ALBANESE»

Nelson prese la nota, la lesse tranquillamente, e indicando al cav.
Micheroux un corpo che s’innalzava col mezzo di una carrucola, e che
rimaneva sospeso, e si dibatteva al capo di una corda all’antenna del
Miseno della _Minerva_:

— Ecco la mia risposta ai ribelli, gli disse; voi potete portarla anche
al cardinale Ruffo.

Micheroux guardava con stupore quello spettacolo.

— Ma, disse, chi è quell’uomo, e che gli si fa?

— Quell’uomo, rispose Nelson, è il traditore Caracciolo, e ciò che gli
si fa, è che lo si appicca per mio ordine, e così si farà per tutti i
ribelli che hanno portato le armi contro Sua Maestà.

Io misi un grido, anch’io aveva veduto tutto, senza accorgermi di ciò
che vedeva.

Il cavaliere Micheroux, costernato della risposta dell’ammiraglio,
discese nella barca che l’aveva condotto, e tenendosi la testa nelle
mani, ritornò a terra.

Nella stessa sera, il cardinal Ruffo ricevette il seguente rapporto
inviatogli dal conte di Thurn.

      «EMINENZA,

  «Devo far presente all’Eminenza vostra aver ricevuto questa mattina
  l’ordine dell’ammiraglio lord Nelson di portarmi immediatamente
  a bordo del suo vascello, unitamente a cinque uffiziali i più
  anziani. Ho eseguito subito il detto ordine, e portatomi colà,
  ho ricevuto l’ordine per iscritto di formare subito sul vascello
  istesso un consiglio di guerra contro del cavaliere D. Francesco
  Caracciolo, accusato ribelle della Maestà del nostro Augusto
  padrone, e di sentenziare sulla pena competente al suo delitto. Si
  è subitamente eseguito un tal ordine, e formato il Consiglio di
  guerra in una camera del detto vascello, ho fatto nella medesima
  condurre il reo. L’ho fatto primieramente riconoscere da tutti gli
  astanti e dai giudici; in seguito gli ho manifestato di parlare se
  avesse delle ragioni da addurre in sua discolpa. Egli ha risposto
  averne varie, e datogli campo a produrle, esse si sono raggirate
  a contestare di aver servito l’infame sedicente repubblica, ma
  perchè obbligato dal Governo che gli minacciava farlo fucilare.
  Gli ho fatto in seguito delle domande, in risposta delle quali ha
  confessato di essere sortito colle armi della sedicente repubblica
  contro quelle di Sua Maestà, ma sempre perchè obbligato dalla
  forza. Ha confessato di essersi trovato colla divisione delle
  cannoniere, che uscirono ad impedire, per la parte del mare,
  l’entrata delle truppe di S. M., ma su tal assunto ha addotto che
  credeva fossero degl’insorgenti: ha confessato aver dato degli
  ordini per iscritto tendenti a contrariare le armi di S. M. Infine,
  domandato perchè non aveva cercato di condursi in Procida, e colà
  tenendosi alle armi S. M., sottrarsi alla vessazione del Governo,
  ha risposto non averlo eseguito sulla tema di esser male ricevuto.

  «Formato su di dette delucidazioni il detto Consiglio di guerra,
  questo alla pluralità di voti l’ha condannato, come reo di alta
  fellonia, alla pena di morte ignominiosa.

  «Presentata detta sentenza all’ammiraglio Nelson, egli ha
  comprovato la condanna, ordinando, che alle cinque di questo
  stesso giorno l’avessi fatta eseguire, impiccandolo al pennone di
  trinchetto e lasciandolo appeso sino al calar del sole, nella qual
  ora, facendogli tagliar la corda, si fosse lasciato cadere in mare.

  «All’una di questa mattina ho ricevuto il detto ordine: all’una e
  mezza p. m. è stato il reo Francesco Caracciolo trasportato al mio
  bordo e posto in cappella, ed alle cinque, a tenore dell’ordine, si
  è eseguita la sentenza.

  «Tanto mi conviene farle presente in adempimento del mio dovere,
  nell’atto che con profondo ossequio me le professo.

      «Di vostra Eminenza,

                           «_Bordo della_ Minerva 27 _giugno_ 1799.

                                           «_Devotissimo servitore_

                                                  «CONTE DI THURN.»

Nello stesso tempo il conte di Thurn diede in poche parole lo stesso
avviso all’ammiraglio Nelson.

                                    «A bordo della fregata di S. M.
                                   la _Minerva_, il 29 giugno 1799.

  «Si partecipa a S. E. lord Nelson, che la sentenza pronunciata
  contro Francesco Caracciolo è stata eseguita nella maniera che è
  stato ordinato.

                                                «Il conte di THURN»

Terminata l’esecuzione, si spedì a Palermo un bastimento leggero per
portare la notizia al re; dessa era inchiusa in queste due lettere,
una di Nelson e l’altra di sir William, dirette tutte e due al generale
Acton.

      «Signore,

  «Non avendo il tempo di mandare a Vostra Eccellenza il processo
  fatto a quel disgraziato di Caracciolo, io posso dirvi soltanto che
  è stato giudicato questa mattina, e che s’è sottoposto alla giusta
  sentenza pronunziata di lui. Mando a Vostra Eccellenza la mia
  approvazione tal quale l’ho scritta:

  «Approvo la sentenza di morte pronunziata contro Francesco
  Caracciolo, ed essa sarà eseguita a bordo della fregata di Sua
  Maestà Siciliana, la _Minerva_, oggi alle cinque.

      «Ho l’onore ecc.

                                                       «O. NELSON.»

Ora ecco la lettera di sir William.

      «Mio caro Signore.

  «Ho appena il tempo d’aggiungere alla lettera di lord Nelson,
  che Caracciolo è stato condannato dalla maggioranza della Corte
  marziale, e lord Nelson ha ordinato che l’esecuzione della sentenza
  avesse luogo oggi alle cinque dopo mezzo giorno all’antenna
  dell’albero di trinchetto della _Minerva_, e che il suo corpo fosse
  poi abbandonato al mare. Thurn ha fatto osservare che si soleva
  accordare ai condannati 24 ore per provvedere alla loro anima; ma
  gli ordini di lord Nelson sono stati mantenuti, sebbene io avessi
  appoggiato l’opinione di Thurn. Gli altri colpevoli sono rimasti a
  disposizione di S. M. Siciliana a bordo delle _polacche_ circondate
  dalla nostra flotta. Tutto quel che pensa e fa lord Nelson gli è
  dettato dalla sua coscienza e dal suo onore, ed io credo che alla
  fine le sue determinazioni saranno riconosciute come le migliori
  che potessero prendersi. _Per l’amore di Dio procurate che il re
  venga almeno a bordo del_ Foudroyant _e che innalzi, se può, il suo
  stendardo reale._

  «Domani attaccheremo S. Elmo. Iddio favorisca la buona causa!
  il dado è gettato. Noi dobbiamo ora tener fermo per quanto è
  possibile.

      «Per sempre vostro, ecc.,

                                                     «W. HAMILTON.»

Nello stesso giorno il cardinale Ruffo, vedendo di non aver potuto
salvare Caracciolo, nè ottenere l’esecuzione del trattato, mandò la sua
dimissione a Palermo.


  FINE DEL SETTIMO VOLUME.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE DI EMMA LYONNA, VOL. 7/8 ***


    

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