The Project Gutenberg eBook of Memorie di Emma Lyonna, vol. 7/8 This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Memorie di Emma Lyonna, vol. 7/8 Author: Alexandre Dumas Release date: May 14, 2025 [eBook #76095] Language: Italian Original publication: Milano: Daelli e C, 1864 Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This book was produced from scanned images of public domain material from the Google Books project.) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE DI EMMA LYONNA, VOL. 7/8 *** MEMORIE DI EMMA LYONNA DI ALESSANDRO DUMAS UNICA EDIZIONE AUTORIZZATA IN ITALIA. Vol. VII. Milano G. DAELLI e C. EDITORI MDCCCLXIV. Proprietà letteraria — G. DAELLI e C. Editori. STEREOTIPIA G. DASSI E C. TIP. GUGLIELMINI. MEMORIE DI EMMA LYONNA I. Presa questa decisione, la regina scrisse subito a lord Nelson, che corse a palazzo colla sua solita premura. La regina gli annunziò ufficialmente la sua partenza, ma non si era ancor fissato il giorno. Ma invece del giorno avrei dovuto dire la notte, perchè si era stabilito che la famiglia reale lasciasse Napoli, senza far conoscere a nessuno la sua fuga. La regina si rivolgeva a Nelson e non a Caracciolo per molti motivi. Il primo era forse l’antipatia che le ispirava il principe napolitano, quantunque fosse obbligata a render giustizia alla nobiltà del suo carattere. Ma il secondo, e probabilmente il principale, era che la regina non voleva far conoscere ai napolitani le ricchezze che portava seco, temendo che se ne spargesse la voce per la città. Il trasporto degli oggetti più preziosi dovea farsi nella stessa sera, e Nelson mandò nello stesso momento quell’ordine al capitano Hope comandante l’_Alcmena_. «_Secretissimo_ «Tre barche, e il piccolo cutter dell’_Alcmena_ armate con armi bianche soltanto, per trovarsi alla Vittoria alle sette e mezzo precise. — Una sola barca accosterà la banchina, le altre si rimarranno ad una certa distanza — i remi drizzati — la piccola barca del _Vanguard_ resterà alla banchina — tutte le barche sieno riunite a bordo dell’_Alcmena_, pria delle sette, sotto gli ordini del comandante Hope — _I grappini nelle scialuppe_. «Tutte le altre scialuppe del _Vanguard_ e dell’_Alcmena_ armate di coltellacci e i canotti con caronate riunite a bordo del _Vanguard_, al comando del capitano Hardy che se ne allontanerà alle otto e mezzo _precise per prender il mare a mezzo cammino verso Molosiglio. — Ogni scialuppa deve portare da 4 a 6 soldati_. «_Se nel caso avrete bisogno di assistenza, fate dei segnali per mezzo di fuochi._ «O. NELSON. «_L’Alcmena pronta a partire la notte se è necessario._» Il ritrovo era stato fissato alla Vittoria, perchè la banchina della Vittoria era precisamente in faccia al palazzo dell’ambasciata d’Inghilterra, e che senz’essere osservati, vi si potea portare o far portare le gioie più preziose della regina, che essa mi dovea mandare nella giornata, racchiuse in due o tre cassette. Ma siccome si contava di trasportare tutti gli oggetti più preziosi, le statue, i quadri che si potrebbero riunire, bisognava trovare un’altra via. Un’antica tradizione diceva che esisteva sotto al palazzo un sotterraneo che comunicava col mare. Bisognava trovarlo; questa stessa tradizione diceva che il sotterraneo, dal tempo della dominazione spagnuola, non era stato mai aperto. La regina fece venire il più vecchio dei servi del palazzo; era un uomo sui ottantaquattro anni, e per conseguenza era nato nel 1714, ed aveva ventun anno quando il re Carlo III era stato nominato re di Napoli. Egli era un fabbro del palazzo, e godeva il suo ritiro; ma suo figlio, che aveva cinquantott’anni, lo aveva rimpiazzato nel suo posto al palazzo. Il vecchio si richiamò tutti i suoi ricordi, e promise di trovare il passaggio coll’aiuto di suo figlio, di cui rispondeva come di se stesso. Per quanto se lo poteva ricordare, questo passaggio era largo una tesa ed alto otto o nove piedi. Le statue ed i quadri potevano passare per di là. Il vecchio ricevette l’ordine di mettersi alla ricerca del sotterraneo e di prevenire la regina non appena l’avesse trovato. Mezz’ora dopo il vecchio ritornò. La porta era stata riconosciuta; suo figlio aspettava l’ordine della regina per aprirla, giacchè naturalmente non si sapeva ciò che fosse divenuto della chiave. La regina non voleva confidare l’esplorazione del sotterraneo a nessuno, ma la sua presenza avrebbe dato una importanza troppo grande all’operazione. Perciò me ne incaricai io; si presero delle torcie, e discesi col vecchio. Il sotterraneo comunicava colle cantine del palazzo, e la porta era nascosta da una serie di barili vuoti, che caddero in polvere appena che furono toccati, dopo circa tre quarti di secolo che erano là. Ordinai al fabbro di aprire il cancello, il che si fece non senza una certa difficoltà, poichè la ruggine aveva invaso la serratura ed i cardini. Infine cedette. Per un istante, al momento d’inoltrarmi in questo passaggio oscuro o mefitico, il coraggio mi mancava; mi sembrava che su quella terra viscosa avrei trovato ogni sorta di rettili. Inoltrai col più giovane dei due uomini, il vecchio rimase di guardia alla porta. Il sotterraneo faceva dei giri che ne raddoppiavano la lunghezza; l’aria era umida, e alcune goccie gelate cadevano dalla volta. M’accorsi che mi avvicinava all’estremità opposta dal volo di tre o quattro pipistrelli che svegliai nel loro covo, i quali ne risvegliarono delle centinaia. Di giorno si rifugiavano in quell’oscuro passaggio, e di sera uscivano fra le sbarre del cancello che metteva al porto militare. Malgrado l’orrore che mi ispirava questo lugubre volo, continuai la mia via, e vidi subito la luce. Come si era detto, l’apertura opposta dava sul mare e sulla banchina larga da dodici a quindici piedi al più, presentava tutta la facilità possibile di trasportare tutto ciò che si voleva a bordo delle scialuppe che potevano accostare lo scaricatoio. Nella stessa sera si potrebbe incominciare il trasporto, facendo portare le casse in cantina. Salii per annunziare questa buona notizia alla regina, che dichiarò che sarebbe morta di paura, avendo il più profondo orrore pei pipistrelli. Difatti fu quest’orrore della regina per simili animali che impedì alla famiglia reale di approfittare per la sua fuga del nuovo cammino, di cui io era, se non il Cristoforo Colombo, almeno il Vasco de Gama. Tutta la giornata fu impiegata a far le casse, in cui si racchiuse tutto ciò che si potè procurare in oro al banco, al monte di pietà, e in tutti gli stabilimenti pubblici e privati, ove si potè trovarne. Del resto, fin dal 19, i maestri velieri erano stati incaricati di preparare le cabine pel re, per la regina e per la famiglia reale a bordo del _Vanguard_. I pittori erano stati posti al carré degli uffiziali sotto la poppa quadrata, destinata a diventare il salone della famiglia reale, e nella notte dal giovedì al venerdì le prime casse furono portate a bordo. Fu il conte di Thurn che si occupò di questo trasporto, pel quale, l’ho già detto, non volle impiegare nessun napolitano. La giornata di Venerdì 21 fu impiegata nello stesso lavoro che si dissimulava più che mai all’esterno, perchè gli assembramenti continuavano quasi ogni momento sulla piazza del palazzo, e si riempiva di lazzaroni che gridavano: Viva il re! morte ai giacobini! morte ai francesi! La partenza fu fissata per la notte del 21 al 22. Il re non voleva imbarcarsi; ma la regina, temendo che mutasse di risoluzione, insistette, lo rampognò della sua vergognosa superstizione, e ottenne che si imbarcasse nella stessa sera. Qualche giorno prima Lord Nelson aveva scritto ufficialmente a sir William la lettera seguente perchè venisse pubblicata. «Napoli 14 dicembre 1798. «Signore, «Avendo appreso che il regno è stato invaso da una formidabile armata francese, credo mio dovere informare Vostra Eccellenza, che riceverò a bordo, in altro dei miei bastimenti, i negozianti inglesi, o qualunque suddito di S. M. Britannica, che si trovassero a Napoli, e che i trasporti che si trovano sotto i miei ordini nella rada, riceveranno i loro effetti, come la squadra le loro persone. «Ho l’onore ecc. «O. NELSON. «Ben inteso che questi effetti saranno oggetti preziosi, e non mercanzie o mobili.» Fin dal 15 ciascuno aveva fatto portare a bordo dei trasporti ciò che aveva di più prezioso, e verso il 20 le persone si erano recate a bordo dei bastimenti di linea. Al 20 l’ammiraglio Caracciolo aveva ricevuto l’ordine di tenersi pronto a seguire il _Vanguard_, e gli si era fatto credere che la regina, la famiglia reale, sir William ed io ci saremmo imbarcati a bordo del _Vanguard_, ma che il re faceva il tragitto a bordo della Minerva, ciò che avrebbe conciliato tutto, e non avrebbe fatto dell’ammiraglio napolitano un nemico. Al 21, verso mezzogiorno, Nelson ricevette l’avviso che la partenza era fissata per la sera; ed egli da parte sua diede di conseguenza i suoi ordini al conte di Thurn. Inviò inoltre queste due lettere, una al marchese di Niza e l’altra al capitano Hope. Esso aveva per iscopo di far incendiare i bastimenti della marina napolitana che potevano diventare navi nemiche cadendo nelle mani dei francesi, o navi ribelli cadendo nelle mani dei patriotti. «A. S. E. il conte Ammiraglio marchese di Niza. «Napoli, 21 dicembre 1798. «Colla presente siete invitato ad ordinare al Comodoro Stoue, a Campbell e al capitano del Prince Royal di apparecchiarsi per incendiare il _Guiscardo_, il _S. Gioachino_ e il _Tancredi_. Il capitano Hope ha già ricevuto l’ordine di preparare a questo scopo le fregate e le corvette. Voi veglierete all’esecuzione di questo ordine, e senz’alcun pretesto non partirete ad opera incompiuta; prenderete sotto la vostra protezione le navi che vorranno accompagnarvi a Palermo, ove le condurrete al più presto possibile. Colà riceverete altri miei ordini. «O. NELSON. «Al capitano Hope comandante il brick di S. M. l’_Alcmena_. «Preparate le fregate e le corvette che devono essere incendiate sotto gli ordini del marchese di Niza, avendo cura di non metter vela prima che l’ordine sia compito. Vi raccomando una particolare attenzione pei trasporti inglesi, che condurrete con voi a Palermo. Colà riceverete altri miei ordini. «O. NELSON.» Si comprende quale disordine regnasse in palazzo durante questa disgraziata giornata di venerdì: la regina, che avea voluto affrettare la partenza, piangeva di rabbia, ed era pronta a dare un contr’ordine. Si fece venire il principe Pignatelli, che fu nominato Vicario generale del regno. Erasi ricevuta una lettera di Mack, che diceva di recarsi a Napoli per metterla in istato di difesa, e si lasciò per lui un brevetto di luogotenente generale del regno. Il principe Pignatelli chiese fino a quanto si estendevano i suoi poteri. Fino ad incendiar Napoli, rispose la regina: voi avete diritto di vita e di morte sul mezzo ceto e sulla nobiltà. Qui non v’ha di buono che il popolo. La partenza fu fissata per le dieci della sera, e per conseguenza alle dieci di sera tutta la famiglia reale si riunì negli appartamenti della regina; inoltre v’era io, sir William, l’ambasciatore d’Austria colla sua famiglia; il re aveva voluto condur seco il cardinale Ruffo; ma la regina che lo detestava si era opposta; per cui il cardinale si era imbarcato sulla _Minerva_. Non fu che da Sua Eminenza che l’ammiraglio Caracciolo aveva saputo che sarebbe privo dell’onore di condurre il re a Palermo. Il suo orgoglio di principe ed il suo patriottismo di napolitano avevano ricevuto a quella notizia una duplice ferita. Voleva mandare sul momento la sua dimissione al re, ma Ruffo l’aveva determinato a compiere il suo dovere fino all’ultimo, e risolse di non dare la sua dimissione che a Palermo. La voce della partenza del re, quantunque tenuta segreta, si era sparsa per la città; bisogna conoscere Napoli per farsi un’idea del tumulto che si fece in tutta quella giornata. Nelle circostanze del palazzo, a Napoli le grida d’amore rassomigliano così bene alle grida di odio, che si sarebbe potuto credere che tutto questo popolo che temeva di perder il suo re, erasi riunito nello scopo di scannarlo. A dieci ore, come erasi convenuto, ci riunimmo negli appartamenti delle loro Maestà, alle dieci e mezza il conte di Thurn apparecchiò le scialuppe vicino alla scalea conosciuta sotto la denominazione di scalea _del Ceracò_, e aperse la porta della scala superiore che metteva agli appartamenti; ma volendo aprire la porta degli appartamenti, il conte Thurn ruppe la chiave nella serratura, di modo che fu obbligato di rompere la porta: allora il re si pose in capo alla comitiva con una candela accesa in mano, ma giunto a metà della scala, il re intese del rumore dalla parte della discesa del Gigante, e temendo di essere veduto e conosciuto, spense il lume. Ci trovammo allora in una oscurità spaventosa, in mezzo alla quale eravamo obbligati di andar tastoni, e in tal modo arrivammo al Molosiglio; ma il mare era così agitato che non si avventurò di uscire, ci ravvolgemmo nei nostri mantelli e nei nostri scialli; e siccome erasi obbliato di dar la cena alle giovani principesse, le quali morendo di fame chiesero da mangiare, un marinaio diede loro delle acciughe, che mangiarono col pane e bevendo dell’acqua infetta; infine, essendosi calmato il mare, ci dirigemmo verso il _Vanguard_, ove abbordammo poco prima di mezzanotte. Il giorno seguente verso l’alba Nelson scrisse al comodoro Duckworth. «Baia di Napoli, 22 dicembre 1798. «Mio caro signore, «Debbo dirvi soltanto che le loro Maestà Siciliane colla loro augusta famiglia sono arrivate sane e salve a bordo del _Vanguard_ nella notte scorsa, divisamento molto necessario in tale circostanza; fate sapere, vi prego, a tutti i bastimenti quanto ho l’onore di parteciparvi, raccomandando a loro di non avvicinarsi a Napoli, che colla maggiore precauzione: se avete occasione, scrivete, vi prego, a lord Saint Vincent quanto vi scrissi, perchè in quanto a me, non ho un sol bastimento inglese a mia disposizione. «_Sono il vostro devotiss_. «O. NELSON.» II. Malgrado le disposizioni prese da Nelson, il re e la famiglia reale si trovavano molto stretti. Dieci persone avevano invaso la cabina dell’ammiraglio ed il carrè degli uffiziali senza contare sir William e me, e senza contare l’ambasciatore d’Austria colla sua famiglia. Queste dieci persone erano il re, la regina, il principe ereditario, sua moglie, la giovane principessa che aveva dato alla luce da poco tempo, il giovane principe Leopoldo, il principe Alberto, Maria Cristina, Maria Amalia e Maria Antonia. Vedendosi così angustiato il re ebbe per un istante l’idea di mantenere la promessa che si era fatta all’ammiraglio Caracciolo di andare a bordo della _Minerva_; ma la regina si oppose formalmente che il re si separasse dalla sua famiglia. All’alba, con una fresca brezza, che sgraziatamente ci era contrarla, si udivano a bordo del _Vanguard_ i rumori della città, come gli urli di un orso gigantesco. Di fatti il popolo seppe che il suo re, malgrado le sue promesse, lo aveva abbandonato, e proclami affissi a tutti gli angoli delle vie, sulle piazze e nei crocivii, annunziavano che il principe Francesco Pignatelli era stato fatto vicario generale con poteri illimitati, e Mack capitano generale dell’esercito distrutto, e che il ministro Simonetti lasciava le finanze per far posto al banchiere Zurlo. Tutte queste nomine erano state fatte con decreti interamente scritti di pugno del re. Si ripeteva la risposta della regina al principe Pignatelli, allorchè le chiedeva quanto si estendesse il suo potere: — Fino ad abbruciar Napoli. Le banchine erano ingombre, ma il mare era troppo cattivo, perchè nessuna barca osasse di avventurarsi; si vedevano dei gruppi che certamente erano deputazioni, ma questi gruppi dopo essere stati qualche momento in riva al mare, sparivano gli uni dopo gli altri, per rifiuti che i barcajuoli faceano loro di condurli al bastimento ammiraglio, al cui albero sventolava la bandiera reale. Nella notte il vento diminuì, ma rimase però contrario; all’alba rivedemmo la folla sulle banchine che salutò la flotta inglese con grandi grida, sperando senza dubbio che il re mutasse risoluzione; e difatti, siccome il mare era ritornato più calmo, vedemmo non soltanto riapparire, ma anche imbarcarsi e avanzarsi verso il _Vanguard_ le deputazioni che avevamo distinto il giorno innanzi che si agitavano inutilmente sulle banchine. Queste deputazioni erano tre. Ve n’era una del clero, condotta dal cardinale arcivescovo Capece Zurlo, un’altra di baroni del regno, una terza di magistrati e dell’eletto del popolo: essi venivano a supplicare il re di ritornare, e impegnavano il loro onore a difenderlo fino all’ultimo. Ma il re non volle ricevere nessuno, fuorchè l’arcivescovo cardinale di Napoli; lasciò che le barche girassero intorno al _Vanguard_, e quelli che vi si trovavano levassero inutilmente le mani al cielo. L’arcivescovo cardinale, monsignor Capece Zurlo, insistette assai per trattenerlo; ma il re fu inflessibile. — Monsignore, gli disse, la terra mi ha tradito; vado a vedere se il mare mi sarà più fedele. Monsignore lasciò il _Vanguard_ col cuore rotto, dichiarando che non poteva predire ciò che farebbe Napoli abbandonato a sè stesso. — Oh! mormorò la regina, se non sapete ciò che farà Napoli, so ben io cosa gli farei, se torno a metterci i piedi. Le deputazioni, nella speranza di essere ricevute, restarono fino a tre ore dopo mezzodì. Verso le quattro, venne anche il generale Mack: non avendo trovato il re a Napoli, e sapendo che da uno degli ultimi decreti di Ferdinando era stato nominato luogotenente generale, veniva a prendere gli ordini. Restò mezz’ora solo col re, poi ritornò a terra. Lord Nelson non lo volle nemmeno vedere. Alle cinque ore il vento ritornò; si apparecchiò e si levò l’áncora alle sette, accompagnati dalla fregata la _Minerva_, e da dieci o dodici bastimenti mercantili e di trasporto. Ma appena superata l’isola di Capri, fummo presi da una violenta tempesta; si sarebbe detto che, infedele come la terra, il mare voleva tradire il re, e s’impiegò tutta la giornata di lunedì per lottare con esso; la notte fu terribile; i tre pennoni di trinchetto e l’attrezzatura fuori di bompresso furono spezzati; si sarebbe detto che il bastimento si disgiungeva, tanto era terribile lo scricchiolare che faceva. Difficilmente si può farsi un’idea dello stato in cui si trovava la famiglia reale; il re morto dalla paura si raccomandava a tutti i santi, e specialmente a S. Francesco di Paola, per cui pareva avesse in questa circostanza una devozione particolare, promettendogli, se lo salvasse, una chiesa bella quanto quella di S. Pietro in Roma; della sua famiglia non ne parlò punto, senza dubbio sarà stata sottintesa. Le giovani principesse eran morenti di stanchezze e del mal di mare; il principe ereditario sembrava abbattuto quanto suo padre; soltanto la principessa Clementina, tenendo la sua bambina fra le braccia, sorrideva malinconicamente al cielo; la regina era triste e come assorta nei suoi pensieri. Di tempo in tempo Nelson, che restava sul ponte per vegliare alla sicurezza dei suoi illustri passeggieri, scendeva per dirci una parola d’incoraggiamento, a cui rispondeva soltanto io con un segno della mano o con uno sguardo; e siccome egli veniva specialmente per cercare quello sguardo e quel segno di mano, risaliva contento. Alla mattina il tempo si rischiarò: Nelson ci disse, che credeva a due ore di tregua, e che se volevamo salire per un momento sul ponte, ci saremmo trovati meglio, e si approfitterebbe di questo momento per mettere un poco d’ordine nelle cabine. Il re che aveva passato la maggior parte della notte ginocchioni ed in preghiere, respirò e ci diede l’esempio, prendendo l’unico braccio di Nelson e salendo sul ponte; la regina lo seguì e saliva sola la scala, quando corsi verso di lei e la sostenni. Nelson ritornò col capitano Hardy per dare il braccio alla principessa reale ed alle giovani principesse; in quanto al principe ereditario, egli era più spossato e abbattuto di tutti; il più giovane dei figli della regina rimase nel suo hamac, incapace di fare un movimento. Il ponte del _Vanguard_ presentava uno spettacolo di confusione non meno grande delle nostre cabine; i marinai approfittavano di questo momento di tregua che dava loro la tempesta per sostituire i pennoni e riparare i guasti fatti all’alberatura, e si preparavano visibilmente a lottare contro il cattivo tempo imminente. Il re appoggiato ad una sartia del bastimento, osservava con un occhio invido la fregata dell’ammiraglio Caracciolo che navigava alla nostra sinistra, e che sembrava un bastimento incantato. Non una corda, non un attrezzo si era spezzato; sembrava che non ricevesse dalle onde enormi su cui ci agitavamo, che quel movimento che fa sotto la mano del suo cavaliere un cavallo spinto al galoppo. — Guardate, signora, disse il re a Carolina. E le indicava la _Minerva_. — Ebbene? gli chiese la regina. — Ebbene, siete stata voi la causa per cui mi trovo su questo bastimento invece di essere su quello là. — È una fortuna, gli rispose la regina, che l’ammiraglio non comprenda l’italiano. — E perchè ciò? — Perchè a mio avviso, disse la regina, è già molto che sappia di portare un re vile, oltre ad un re ingrato. Ed egli le volse le spalle. — Ingrato quanto volete, replicò il re, che non riceveva il primo epiteto; ma non è però meno vero che vorrei piuttosto essere sulla fregata di Caracciolo che sul _Vanguard_. Mi si venne a dire, che il piccolo principe rimasto nel suo hamac, chiedeva di me. Era un fanciullo di sei anni che si chiamava il principe Alberto; era amato mediocremente dalla regina, che non aveva altra vera affezione che pel principe Leopoldo che avea nove anni. Ne avveniva che il povero Albertino, che sentiva istintivamente questo abbandono, si era attaccato a me, e mi chiamava la sua mammina, e ricorreva a me tutte le volte che desiderava di sfuggire qualche punizione, o di ottenere una grazia. Il povero fanciullo si sentiva un po’ meglio, e chiese di me per ricondurlo sul ponte; malgrado i movimenti del vascello, lo presi fra le braccia, e lo portai di sopra. Durante quell’ora che il cielo si era coperto ancora di nubi, il vento tornava a spirare da sud ovest, per cui il _Vanguard_ era obbligato di navigare colle vele raccorciate, mentre della _Minerva_ si sarebbe detto, essendole indifferente qualunque andatura, che il vento stesso contrario le dava le ali. Del resto non era difficile di vedere che si avvicinava una nuova burrasca; le nubi tetre, umide e grigiastre, si abbassavano rapidamente e sembravano riposare sulle punte degli alberi del _Vanguard_; soffi di aria tiepida e snervante passavano come un sapore scipito; era il vento della Libia cotanto antipatico ai marinai del Mediterraneo. Nelson ci prevenne che la tregua che ci aveva accordato la tempesta era spirata, e che se volessimo ritornare nelle nostre cabine, avrebbe durante la nostra assenza affrontato il nemico. Gettai un ultimo sguardo sulla fregata napolitana, e benchè avessi qualche prevenzione in favore di Nelson, non fui meno obbligata di riconoscere la superiorità del suo cammino sul nostro. Noi camminavamo di fatti colle nostre vele basse, mentre la Minerva colle vele spiegate sembrava voler sfidare la tempesta; più fina di proda fendeva meglio le onde, e ondulava per conseguenza meno del _Vanguard_, e giustificava i desiderii egoistici del re. Dieci minuti dopo l’avviso di Nelson, tutti eravamo istallati nelle nostre cabine, e la tempesta si rovesciava di nuovo su di noi. Passammo in tal modo la giornata di martedì e quella di mercoledì. Quella di giovedì fu segnata da una spaventevole disgrazia. Alle quattro dopo mezzodì, il giovane principe mio favorito, fu preso da convulsioni che andarono sempre crescendo; il medico di bordo discese, ma tutti i suoi soccorsi furono inutili, io me lo teneva nelle braccia stretto contro il mio petto, e sentiva tutte le sue membra torcersi sotto gli accessi del male. Due o tre volte la regina lo voleva prendere; ma egli stringendosi a me non mi voleva lasciare. La tempesta muggiva più forte che mai, le onde coprivano il ponte, il bastimento tremava tutto dagli alberi alla stiva. Confesso che io non intesi nulla fuorchè i lamenti del povero fanciullo, e non sentiva nulla fuorchè i brividi di quel corpo agonizzante. Infine alle sette di sera gettò un grido, e irrigidito fra le mie braccia fece uno sforzo per abbracciarmi, mandò un sospiro e fu l’ultimo. — Signora! signora! esclamai quasi impazzita, il principe è morto. La regina si avvicinò a noi, lo guardò, lo toccò e si accontentò di dire: — Va, povero fanciullo, tu ci precedi di così poco, che non vale la pena di compiangerti. Poi stendendo la mano con una espressione che avea più della Medea che della Niobe: — Ma, se ritorniamo! sta pur tranquillo, soggiunse, sarai vendicato! III. Si sarebbe detto che la tempesta non aspettava che questa vittima espiatoria per calmarsi; appena il real fanciullo ebbe reso l’ultimo sospiro, il vento cessò ed il cielo si rischiarò. Questo miglioramento nell’atmosfera era necessario alla famiglia reale, perchè si accorgesse della perdita fatta di uno de’ suoi membri. La principessa Maria Clementina mi parve la più colpita; essa non mandò grida, nè diede alcun segno di dolore, ma a quel grido che mi sfuggì dalla bocca: — il principe è morto — ella strinse sua figlia contro il suo cuore, e grosse lagrime le scendevano sulle gote. Coricai il piccolo principe nella mia cabina, e passai la notte seduta vicino al suo letto. Alle due del mattino intesi un gran rumore di ferri; era l’áncora che si gettava, eravamo arrivati: un momento dopo ogni movimento cessò nel bastimento. Avemmo cinque orribili giorni di traversata, ed eravamo al venerdì 26 dicembre. Alle cinque tutti erano pronti a discendere, ma io dichiarai che restava vicino al piccolo principe per il seppellimento. Il re, la regina, i fratelli e le sorelle del morto, senza molto insistere, riposavano su di me per questa cura; si promise di mandare nella giornata a prendere il corpo per esporlo nella cappella reale, e Nelson s’incaricò di far costruire il feretro dal falegname di bordo. Il re, la regina, la famiglia reale, Acton, sir William, i ministri Castelcicala, Belmonte e Fortiguerra discesero nelle scialuppe, e s’incamminarono verso la marina, ove il loro sbarco fu salutato dagli urrà dell’equipaggio del _Vanguard_ salito sulle antenne; e non si tirò il cannone perchè si era entro il molo. Nelson rimase a bordo. Fu in certo modo in presenza e sul cadavere del povero fanciullo, di cui io suppliva la madre, che egli mi giurò un amore, che non si smentì giammai. Alle due dopo mezzogiorno il cadavere fu inchiodato nella bara, ed un messaggero venne ad annunziarci che il carro mortuario lo aspettava sulla banchina. I marinai discesero nella lancia dell’ammiraglio; noi prendemmo posto, Nelson ed io, come avrebbero dovuto fare il padre e la madre di quel cadavere reale, e lo conducemmo alla banchina. Il cadavere fu posto in un’urna, una carrozza di corte ci attendeva, e noi seguimmo lentamente la carrozza di lutto. Essa attraversò tutta Palermo, diviso in croce da due strade principali, la via di Toledo e la via Maqueda, e arrivammo all’antico palazzo di Ruggiero. Il corpo fu deposto nella cappella bizantina, ove doveva restare tre giorni, e allora poi chiesi che mi si conducesse all’appartamento della regina. Durante questo tempo Nelson si fece condurre agli appartamenti del re. Lo trovò molto preoccupato, non già della disfatta dell’esercito, dei progressi della rivoluzione; non già dell’epoca probabile in cui i Francesi sarebbero a Napoli, ma di due altre cose ben altrimenti importanti. Eravi della caccia alla Ficuzza? e quale sarebbe il compagno ammesso all’onore di fare alla sera la sua partita al reversi? Erano quasi due mesi che il re non era andato alla caccia; e più di otto giorni che non aveva fatto la sua partita di reversi. Aveva bene con sè i suoi giuocatori ordinari, il duca d’Ascoli, il principe di Castelcicala, il principe di Belmonte; ma piaceva al re di mutar viso. Ruffo non giuocava, d’altronde la regina aveva concepito una certa antipatia per lui, che il re aveva rinunziato a riceverlo nella intimità della famiglia. Se doveva parlargli di politica o consultarlo su qualche atto del governo, gli scriveva un viglietto, e lo faceva venire da lui. Ora vi era precisamente a Palermo un uomo che era gran giuocatore e gran cacciatore, e che poteva ad un tratto offrire al re Ferdinando le due cose che cercava: una magnifica caccia nel suo feudo d’Illice, e un compagno infaticabile al boston o al reversi. Era il presidente Cardillo. Il re detestava la nobiltà di toga; ma nella penuria in cui si trovava momentaneamente di selvaggine e di giuocatori, superò la sua antipatia; e per conseguenza si fece presentare il presidente Cardillo, che mise a sua disposizione i suoi boschi, i suoi fagiani, i suoi caprioli, i suoi cignali ed i suoi cani. Il re, maravigliato dell’offerta, accettò una caccia pel giorno seguente, ed invitò il presidente alla sua partita per la sera stessa. Ma nella stessa giornata si prevenne il re Ferdinando, che il presidente era il più irascibile giuocatore della Sicilia. Il re si mise a ridere; ed io, disse, che mi credeva il più irascibile giuocatore del mio regno, avrò trovato uno che mi guadagnerà la partita su tutti i punti. Si rifletta, che gli avvisi non mancarono al presidente Cardillo; tutti questi avvisi riassumevano in queste parole: — non dimenticate che avete l’onore di giuocare con Sua Maestà, frenatevi. Il presidente fece le più belle promesse del mondo, e nella prima sera maravigliò per la sua moderazione tutta la galleria, perchè tutti erano prevenuti dall’irascibilità del presidente. Una sola parola gli sfuggì che lo mise subito in grazia del re. Il re, a cui erano state promesse le ire del presidente, vi si era preparato, e non vedendole scoppiare, trovava che gli avevano mancato di parola, e stuzzicava il povero presidente in modo che dimenticò il suo giuoco e fece un grande sbaglio. — Ah perdio! esclamò il re, sono un grand’asino, poteva metterci l’asso e non l’ho fatto. — Ebbene, rispose il presidente, cui la preoccupazione di serbare il contegno aveva fatto dimenticare il giuoco, ed io sono ancor più asino di Vostra Maestà, perchè poteva metterci la chinola e così mi è rimasta in mano. Il re diede in uno scoppio di risa, la risposta gli aveva ricordato la franchezza dei suoi cari lazzaroni, e da quel momento il presidente Cardillo entrò nelle sue buone grazie. Da parte sua il presidente si familiarizzò col re, ed ogni volta che egli era invitato al giuoco di Sua Maestà, dava un grazioso spettacolo alla galleria; quando giuocava con tutt’altra persona, all’infuori del re, si lasciava andare alla sua irritabilità naturale, fulminava contro i suoi compagni di giuoco, li apostrofava, faceva volare le marche, le carte, il denaro e fino i candelieri; ma quando aveva l’onore di far la partita del re, il povero presidente aveva una briglia ed era obbligato di mordere il suo freno. In certi momenti era quasi per dare in uno scoppio d’ira; cedendo alle sue antiche abitudini, diventava quello di prima, e ghermiva, con una intenzione che non isfuggiva a nessuno, il denaro, le marche, ed anche il candeliere. Ma allora il re, cogliendo il momento, lo guardava, o gli faceva qualche dimanda; allora il presidente sorrideva con tutta la grazia di cui lo aveva dotato la natura, riponeva dolcemente sulla tavola qualunque cosa che avesse preso, e si accontentava di strapparsi i bottoni dell’abito, che si trovavano poi il giorno seguente sul tappeto. Ma una cosa che fece subito entrare il presidente nelle buone grazie del re, è che non aveva un pelo sul mento, nè sul viso, nè un capello in testa; era siccome il re, come già dissi, abbominava i capelli tagliati alla Tito, ed aveva in orrore i mustacchi e le basette; nulla dunque gli poteva essere più grato quanto quel mento pelato e quella testa coperta da una immensa parrucca. Ma il giorno dopo, in cui il re aveva fatto la conoscenza del presidente Cardillo, gli fu dato di vederlo senza i suoi ornamenti magistrali. Il re non aveva potuto partire alla mattina come avrebbe voluto. Era la domenica 28 dicembre, e si dovevano celebrar i funerali del giovine principe; la regina era veramente ammalata di fatica e specialmente di collera, e stava a letto; era quindi un obbligo del re di assistere alla messa funebre del giovane principe. Egli non potè dunque partire se non dopo mezzogiorno; e siccome il feudo d’Illice era a dodici o quindici leghe da Palermo, non si arrivò che verso le quattro di sera per mettersi a tavola. Il presidente aveva avuto il tempo d’inviare un messo, e siccome il degno magistrato era grande amatore della buona vita, il re trovò uno splendido pranzo che lo mise di buon umore. Aggiungasi anche i discorsi delle guardie che promettevano una caccia magnifica, e comprenderete, per la cognizione che avete del carattere del re Ferdinando, che egli dimenticò suo figlio, che era ancora in età di rimpiazzare con un altro, e il suo regno che sperava di riconquistare un giorno o l’altro. La serata fu allegra; il re alzò talmente il presidente, che costui finì col prendere, secondo la sua abitudine, un pugno di marche e di gettarle non già in faccia al re, ma nel viso di un domestico, che portava dei rinfreschi su di un vassoio. Costui, che era lontano d’aspettarsi quest’apostrofe, lasciò cadere il vassoio ed i rinfreschi che vi erano disposti; questa inaccortezza portò ad un tal grado l’esasperazione del presidente, già riscaldato ad oltranza dalle eccitazioni del re, che fece un salto dalla sedia e, istizzendo in mezzo alle tazze, cacciò il malcapitato domestico a gran colpi di piedi nella parte posteriore, dicendogli che se tal cosa fosse avvenuta altra volta, non gliela avrebbe fatta a sì buon mercato, e che poteva contare anticipatamente a venticinque bastonate colla sua canna dal pomo d’oro. Quando il presidente dopo questa esecuzione ritornò a sedersi, il re gli disse che era l’uomo più piacevole che vi fosse al mondo. Siccome si doveva partire all’alba, si andò a dormire per tempo: il presidente condusse egli stesso il re nel suo appartamento e gli indicò la porta della sua camera che era precisamente dirimpetto a quella del re, poi mostrandogli che non aveva che a tirare un cordone per essere servito con tutta la diligenza, come nel suo palazzo di Napoli, augurò la buona notte a Sua Maestà, e secondo la etichetta, si ritirò senza volgere le spalle e chiuse la porta del re. Ferdinando aveva tanto udito a vantare la caccia del presidente, che il piacere che si prometteva gli tolse persino il sonno, cosicchè all’alba si alzò, accese il lume, poi si diresse verso la camera del suo ospite, volendo vedere che figura avesse il suo presidente, nel suo letto e senza parrucca. La metà dei suoi desideri fu soltanto soddisfatta; il presidente era senza parrucca, ma non era a letto. Il presidente, senza parrucca ed in camicia, era seduto in mezzo alla camera su quella specie di trono su cui Monsignor di Vendome ricevette per la prima volta Alberoni. Il re, in camicia anch’esso, andò direttamente a lui, mentre, colto all’improvviso, il povero presidente stava immobile, senza dir verbo, fissando sul re degli sguardi scintillanti di stupore e di stupefazione. Il re gli mise il lume quasi sotto il naso, per meglio vedere che figura faceva, poi cominciò a fare il giro della statua e del piedestallo con una gravità ammirevole, mentre la testa sola del presidente, che si teneva ferma sul suo seggio a forza di mani, e mobile come quella di un puppo chinese, accompagnava Sua Maestà con un movimento di rotazione circolare simile al movimento centrale. Finalmente i due astri che compivano il loro giro, si trovarono in faccia l’uno dell’altro e siccome il re stava ritto ed in silenzio: — Sire, gli chiese il presidente col più grande sangue freddo, il caso non è preveduto dall’etichetta, debbo stare seduto, o levarmi in piedi? — Restate, gli disse il re, ma non fatemi aspettare; ecco che battono già le cinque. Ed egli uscì dalla camera del presidente colla stessa gravità con cui era entrato. Ma debbo dire, che nell’assenza del presidente non si credette più obbligato di mantenere quella gravità che aveva affettato innanzi a lui, e sbellicandosi dalle risa ci raccontò quell’avventura al suo ritorno. IV. Il re aveva ragione di amare la caccia, perchè era di una bravura rimarchevole; sir William Hamilton era l’ordinario suo compagno di caccia, e che era pure un eccellente tiratore, mi diceva che il re faceva a questo esercizio dei veri prodigi: benchè non tirasse mai che a palla, era sicuro di ferire l’animale dove voleva, vale a dire nell’incavo della spalla: ma ciò che è curioso si è che esigeva dagli altri cacciatori, non già un’abilità eguale alla sua, il che sarebbe una cosa impossibile, ma una che ci si avvicinasse: una volta che aveva cacciato tutta la giornata nella foresta della Ficuzza, e che i cacciatori erano riuniti intorno ad un mucchio di cignali uccisi, il re ne scoperse uno ferito al ventre. Il rossore della collera gli salì alla fronte, e gettando uno sguardo irato sulla comitiva: — Chi è quel porco, disse, che ha fatto questo colpo? — Io, sire, rispose il principe di San Cataldo, e per questo bisogna forse impiccarmi? — No, disse il re, ma bisogna restare in casa. L’onore che il re faceva al presidente Cardillo andando a caccia da lui, eccitò l’ambizione dei suoi cortigiani; le abbadesse dei conventi siciliani ebbero allora la felice idea di popolare i parchi dei loro conventi di cervi, di daini e di cignali, invitando il re a dare alle povere recluse, di cui esse dirigevano le anime, la distrazione di una caccia. Si comprende bene che Sua Maestà, che non aveva più, come nelle sue foreste di terra ferma, la casa di riposo di cui abbiamo parlato, si guardò bene di rifiutare un simile invito. Era un mezzo di ritrovare a cento leghe da Napoli la sua Colonia di S. Leucio, quella caccia, che egli rimpiangeva dopo quella dei cignali agli Astroni, e dei fagiani a Capodimonte. Mentre il re Ferdinando dimenticava la perdita del suo regno ripopolando i suoi parchi della Ficuzza, di Castelvetrano, e della Favorita, e devastando quelli del presidente Cardillo e delle religiose; vi era però un uomo che chiuso in una cella del convento della Gancia, pensava a riconquistare il regno. Quest’uomo era il cardinale Ruffo, detestato dalla regina e quasi dimenticato dal re, e che voleva vendicarsi del rifiuto che gli era stato fatto di un posto militare, provando che egli aveva più iniziativa di tutti i generali che erano fuggiti col re, e che sollecitavano l’onore di accompagnarlo alla caccia o di fare la sua partita al reversi. Del resto, siccome il reversi era un giuoco troppo grave, per la parte frivola della corte di cui faceva parte, si creò un banco di trenta e quaranta. Avevo sempre amato con passione il giuoco, più libera che mai in tutte le mie fantasie; mi ci abbandonai con furore. Nelson non giuocava mai, ma stando seduto dietro di me col suo unico braccio appoggiato alla spalliera della mia sedia, mi parlava sottovoce del suo amore, il che mi cagionava un doppio piacere pel giuoco. Ahimè! ed oggi che sto languendo al dileguarsi di una moneta d’oro necessaria pel nostro nutrimento della settimana, non è senza rimorsi che mi ricordo quell’epoca, in cui colle mani nell’oro fino ai gomiti ne gettava manate sulla tavola. A proposito di colui che teneva il banco, vale a dire a proposito del duca di S...... debbo aggiungere un particolare a questa confessione che promisi di rendere completa. Il duca di S...... era una specie di Casanova, appartenente d’altronde ad una famiglia di Sicilia; era molto conosciuto in Europa pei suoi viaggi, pel soggiorno che aveva fatto nelle principali città, e specialmente pei suoi duelli, che quasi tutti ebbero origine dalla straordinaria sua fortuna al giuoco. Ma ora non si tratta di ciò. Non so se come banchiere il duca di S..... avesse scrupolosamente nel mazzo le cinquantadue carte; ma ciò che so, si è che ogni giorno aveva una spilla nuova alla camicia ed un brillante nuovo in dito. Ero donna, il diamante mi tentava; glielo chiesi per osservarlo, lo metteva in dito o al collo; lo pregava di cedermelo, egli me l’offriva colla certezza che glielo avrei rifiutato; ma il mio desiderio sarebbe stato ascoltato o dalla regina o da sir William o da Nelson; in ogni caso era sicura di trovare il giorno dopo sulla mia toletta l’oggetto di cui mi era invaghita il giorno prima. Chi me l’avesse dato, non me ne informai nemmeno; in questa vita di prodiga spensieratezza agitantesi nell’oro senza sapere donde esso venisse a dove andasse, che m’importava mai di due o trecento luigi di più o di meno? Però l’ho saputo poi. Ognuna di quelle monete d’oro veniva dal popolo, ed era ancor rorida di sudore quando non lo era di sangue. In ogni caso, una cosa di cui posso rispondere, si è che il duca di S... non ha fatto dei cattivi affari privandosi per me ad uno ad uno dei gioielli del suo scrigno. Il mese di gennaio passò in questo modo; le notizie che si ricevevano da Napoli erano disastrose. Da principio era stato conchiuso un armistizio fra il principe Pignatelli vicario generale ed i francesi; poi questo armistizio essendo stato violato dai lazzaroni, e non eseguito dal vicario generale, i francesi avevano marciato su Napoli, e dopo tre giorni di lotta accanita erano entrati in città. Il vicario generale allora fuggì anch’egli, ed era giunto a Palermo. Infine il 22 gennaio la Repubblica era stata proclamata a Napoli. S. Gennaro aveva fatto il miracolo, e il Vesuvio, avendo fatto una piccola eruzione, aveva anch’esso, al dire dei soldati francesi, inalberato il beretto rosso. Il re Ferdinando si era da qualche tempo disgustato con S. Gennaro, che dopo avergli rifiutato di fare il miracolo in di lui favore, lo aveva fatto invece pe’ francesi; è vero che per determinarlo, Championnet, per quanto si assicura, aveva adoperato dei mezzi irresistibili. In conseguenza di ciò, Ferdinando destituì San Gennaro del suo grado di luogotenente generale, che il general Mack aveva esercitato per quindici giorni in suo nome, e gli tolse lo stipendio annesso alla carica. Ma ciò non era tutto. I giacobini, colle loro immense relazioni nelle provincie, lavoravano per la democratizzazione degli Abruzzi, della Terra di Lavoro e delle Calabrie. Se si arrivava a democratizzare le Calabrie, la rivoluzione non aveva che a passare lo stretto per metter piede in Sicilia, e la Sicilia aveva pure buon numero di giacobini, che avevano la speranza che al primo allontanamento della flotta inglese, Palermo, come Napoli, farebbe la sua rivoluzione; e allora non si trattava nientemeno per il re e per la regina che di far loro un processo come quello di Luigi XVI e di Maria Antonietta, in seguito al quale, la piazza di Luigi XV la poteva mutare di denominazione e diventare piazza della rivoluzione. Il giorno stesso in cui la Repubblica era stata proclamata a Napoli, vale a dire il 22 gennaio 1799, il re aveva riunito un gran consiglio di stato a Palermo, nello scopo di trovare un mezzo qualunque per rintuzzare la rivoluzione che si avvicinava a gran passi. Si discuteva già da due ore, senza venire ad una conclusione, quando l’usciere entrò e chiese pel cardinale Ruffo il permesso di entrare in consiglio e prendere parte alla deliberazione. Egli veniva semplicemente per proporre al re di mettersi alla testa dei reazionarii calabresi, e di marciare con essi sopra Napoli. V. Una tale proposta meritava di essere presa in considerazione, quantunque al primo momento avesse sollevato il dubbio in tutti gli animi; ma Ruffo che fin dal suo arrivo in Sicilia, vale a dire dopo il 26 dicembre, aveva inviato cinque o sei messaggeri in Calabria ed aveva scritto a tutti i membri della sua famiglia, diede tali prove che la Calabria non aspettava che lui per sollevarsi, che il re, seduta stante, diede la sua adesione al progetto del cardinale, e giudicando che non aveva tempo da perdere per metterlo in esecuzione, promise al cardinale che fra tre giorni avrebbe il suo brevetto di vicario generale. Ruffo chiedeva che, dal momento che il consiglio era riunito, gli dessero immediatamente le lettere patenti, ma il re dichiarò che voleva incaricarsi della relazione. Quando il re parlava in tal modo, si sapeva ciò che voleva significare; la cosa era riservata al suo consiglio intimo, vale a dire alla regina, al generale Acton ed a sir William. Il re entrò altiero e giulivo; il suo amico cardinale tanto sprezzato dalla regina, quell’uomo di chiesa, che non si era creduto degno di un posto di capo d’ufficio al ministero della guerra o della marina, proponeva una cosa che si sarebbe dovuta aspettare dal principe reale, e di cui egli non ebbe nemmeno l’idea. Egli riunì la regina, sir William, lord Nelson ed il generale Acton, e comunicò loro la proposta di Ruffo. Tutti furono dell’opinione di accettare, fuorchè la regina che non approvò nè disapprovò, accontentandosi di stare in silenzio. Sir William fu il primo a dire che la situazione essendo disperata, non eravi da esitare un momento. Siccome la regina non aveva altro motivo di rifiuto da dare che la sua antipatia pel cardinale, la sua ragione non prevalse. Si convenne che alla mattina del giorno seguente il cardinale sarebbe chiamato a palazzo, e che, in sua presenza e coi suoi consigli, si sarebbe discusso e compilato l’atto che gli conferiva la lettera di vicario generale. Alla sera stessa del 22, l’ammiraglio Francesco Caracciolo si presentò a palazzo, e chiese di essere ricevuto dal re. Il re che si sentiva di aver torto verso Caracciolo, e che per conseguenza avrebbe difficilmente sopportato la sua presenza, fece rispondere che, occupato in affari urgentissimi, pregava l’ammiraglio se aveva qualche cosa da chiedergli, glielo chiedesse in iscritto. L’ammiraglio lasciò una petizione, in cui chiedeva la sua dimissione del grado di ammiraglio della marina napoletana e pregava il re di dargli il permesso di tornare a Napoli. Il re, suscettibile come chi si trova di aver torto, prese l’occasione di sbarazzarsi dell’ammiraglio, e scrisse sulla dimanda:_ Si accordi — ma sappia il cavaliere Caracciolo che Napoli è in potere del nemico_. Caracciolo non fece attenzione ai termini in cui era stato accordato il congedo; non vide che il permesso di lasciar Palermo; e col cuore amareggiato lasciò Palermo il mattino del giorno dopo. Nel momento che egli lasciava Palermo si compilava questo manifesto. * * * «CARDINALE RUFFO «La necessità di accorrere prontamente, con ogni efficace e possibil mezzo, alla preservazione delle province del Regno di Napoli, dalle numerose insidie, che i nemici della religione, della corona e dell’ordine promulgano ed adoprano per sovvertirle, mi determina ad appoggiare a’ di lei talenti, zelo ed attaccamento la cura ed importante commissione d’assumere la difesa di quella parte del Regno non ancora invasa dai disordini di ogni genere e dalla rovina che la minaccia nell’attual seria crisi. «Incarico pertanto Vostra Eminenza di portare sollecitamente nella Calabria, come la parte, che premurosamente ho a cuore di porre, per la prima, nel massimo grado di praticabile difesa per combinare le operazioni o misure con quelle che convengono alla difesa del Regno di Sicilia, e camminare in esse di concerto contro il comune nemico, tanto per rendere immune l’una e l’altra parte da ostilità, come dai mezzi di seduzione che si possono introdurre, negli estesi loro littorali, per arte e tentativi dei malintenzionati della capitale o del resto dell’Italia. «Le Calabrie, la Basilicata, le provincie di Lecce, Bari e di Salerno, l’avanzo di quella Terra di Lavoro e di Montefusco, ch’è restato dopo la scandalosa cessione fatta, saranno l’oggetto delle di lei massime ed energiche premure. «Ogni mezzo, che dall’attaccamento alla religione, dal desiderio di salvare la proprietà, la vita e l’onore delle famiglie, o dalle ricompense per chi si distinguesse, crederà di potere impiegare, sarà adoprato senza limiti ugualmente che i castighi più severi. Qualunque molla finalmente che giudicherà poter suscitare in quell’istante a credere capace di animare quegli abitanti ad una giusta difesa, dovrà eccitarla. Il fuoco dell’entusiasmo, in ogni regolar senso, sembra nell’attual momento il più atto a superare come a contrastare con le novità, che lusingano l’ambizione di alcuni, con l’idea di acquistare per rapine, colla vanità e l’amor proprio di altri, e colla illusoria speranza che offrono i fautori delle moderne opinioni e de’ maneggi rivoluzionari, ma di cui gli esempii in tutta l’Italia ed Elvezia presentano il contrario aspetto e le più desolanti conseguenze. «Per mandare ad effetto ogni qualunque misura, diretta alla conservazione delle provincie, al riacquisto benanche di quelle invase, come a quello della disordinata capitale, l’autorizzo, come commissario generale nelle prime province, ove manifesterà la sua commessione, e con la qualità di vicario generale di quel Regno, allorchè si troverà in possesso, e munito di attiva forza in tutte o nella maggior parte delle medesime, a fare i proclami, che stimerà migliori e conducenti al fine ingiuntole. «Le accordo coll’_alter ego_ le facoltà di rimuovere nel mio nome ogni preside, ogni regio amministratore, ogni ministro di tribunale, ed inferiori impiegati in qualunque grado politico, come anche di sospendere ogni uffiziale militare, allontanarlo, farlo arrestare, occorrendo, se ne troverà motivo, e d’impiegare interinalmente chi stimerà per rimpiazzare le vacanze, e finchè le abbia io approvate per la proprietà, sulle di Lei richieste, acciò tutti i dipendenti del governo riconoscano nell’Eminenza Vostra il superiore primario da me destinato a dirigerli, ed agiscano con vivacità, senza mora nè difficoltà alcuna a quanto necessita negli ardui e critici attuali momenti. «Questa caratteristica di commessario o di vicario generale sarà assunta a di Lei scelta nel modo e quando crederà conveniente all’oggetto, perchè colle facoltà ed _alter ego_ che le concedo, nel più esteso modo intendo che faccia valere e rispettare la mia sovrana autorità, e con essa preservi il mio regno da ulteriori danni. «Dovrà perciò adoprare con severità e prontamente ogni più rigoroso mezzo di castigo, qualora a ciò la richiami la necessità del momento e della giustizia, sia per farla ubbidire, o per ovviare a’ serî sconcerti onde coll’esempio e col togliere di mezzo la radice o seme che troppo rapidamente potesse estendersi e germogliare, negl’istanti di disorganizzazione delle autorità da me stabilite, o disposizione di alcuni al sovvertimento, venga riparato a maggiori eccessi ed inconvenienti. «Tutte le casse regie di ogni denominazione dipenderanno dai suoi ordini. Veglierà che non ne passi somma alcuna nella capitale, mentre si trova questa nello stato d’anarchia in cui, senza legittimo governo, soggiace attualmente. Il denaro di dette casse sarà da lei adoprato pel comune e necessario bene delle provincie, ne’ pagamenti opportuni al governo civile, e ne’ mezzi di difesa, da provvedersi istantaneamente, come al pagamento dei loro difensori. «Mi darà conto regolare di ciò che sullo assunto avrà stabilito o penserà di stabilire, e sopra di cui vi fosse tempo da sentire le risoluzioni e ricevere i miei ordini. «Sceglierà due o tre assessori legali, probi e di sua fiducia, per affidar loro la decisione di alcune cause più gravi, che per appello doveano mandarsi ai tribunali della capitale: acciò essi terminino con finali decisioni quelle pendenze nel modo il più breve. Potrà prevalersi dei togati della capitale o de’ ministri delle provincie per tale commissione, autorizzandoli a decretare benanche le altre cause che ai medesimi stimerà di commettere; come anche gli appelli che ne venissero portati, ed assicurerà colla dimissione di detti ministri, se occorrerà, la più retta giustizia, che amministrerà in mio nome nelle provincie da Lei dipendenti. «Dalle annesse carte, che le riunisco, rileverà che nella persuasione che non fosse del tutto sbandato il numeroso esercito che teneva in quel regno, e da cui sono stato crudelmente servito, aveva ordinato che quegli avanzi si fossero portati in Salerno, e fino nelle Calabrie per difesa di esse, o per un concerto indispensabile colla Sicilia. Nei momenti attuali, qualunque sia il comandante che si presenterà in esse provincie con qualche truppa, dovrà andar d’accordo in ogni parte di servizio e movimenti con Vostra Eminenza, cessando necessariamente le disposizioni enunciate negli annessi fogli; ma il Duca della Salandra o altro generale che giungesse con detta truppa, seguiterà le prescrizioni nuove che qui accenno. Le notificherà al medesimo, e spedirò in appresso quelle provvidenze ulteriori, che i lumi e le notizie che mi manderà potranno richiedere. «Rispetto dunque alla forza militare, dovendo presumere che non n’esista della regolare, sarà di Lei cura, ed è l’oggetto principale della sua commissione, di eccitare ogni mezzo ed ogni maggiore energia perchè si organizzi un corpo militare qualunque, sia composto esso di soldati fuggiaschi o disertori, che in patria riacquistassaro il coraggio e l’animo che ha distinto i bravi corpi dei Calabresi ne’ recenti fatti col nemico; oppure sia di quei buoni e ben pensanti abitanti, che le sacre ragioni esposte e patenti di valida difesa, come l’onore nazionale, posson indurre efficacemente a prendere le armi. «Per ottenere ciò io non le prescrivo i mezzi che tutti lascio al suo zelo, tanto in modi d’organizzazione che per la distribuzione delle ricompense d’ogni genere: se queste saranno in denaro, potrà accordarle subito, se saranno in onore ed impieghi che prometterà, potrà istallare interinalmente quelli che giudicherà, e me ne renderà inteso per la conferma ed approvazione, come pure pei distintivi promessi. «Giungendo la truppa regolare che aspetto potrò farne passare una porzione in Calabria, o in altre parti della terra ferma, come egualmente quei generi in munizioni ed artiglieria, che potrò dividere fra quelle provincia e la Sicilia. «Sceglierà le persone di sua fiducia che nel militare, o in impieghi politici crederà di situare alla sua immediazione; stabilirà per essi condizioni provvisorie ed appoggerà loro quelle incumbenze che stimerà poter meglio convenire. «Per le spese di V. Eminenza, adoprerà la somma di ducati _millecinquecento_ il mese, che possono esserle indispensabilmente necessarii; ma le accordo ogni ulteriore somma maggiore che crederà convenire al disimpegno della sua Commissione, nel portarsi specialmente da un luogo all’altro, senza peso alcuno a que’ popoli ed università. «Le concedo parimente l’uso del denaro che troverà nelle casse (e che sarà sua cura di farsi entrare dalle stabilite percezioni) per adoperarne porzione all’acquisto di notizie indispensabili alla sua commissione, sia dalla capitale o dalle provincie, sia anche da fuori per le mosse del nemico. Siccome trovasi nel maggior disordine la detta capitale pei partiti che la lacerano, e dei quali è giuoco il popolo, farà vegliare da abili ed adattati soggetti, ad informarsi del tutto bene e giornalmente; e si procurerà ivi benanche delle corrispondenze ed intelligenze che fomentino tra i buoni e cordiali vassalli i veri sentimenti d’attaccamento ad ogni loro più sacro dovere: non risparmierà denaro per quest’oggetto quando crederà poterselo proficuamente impiegare. «Non mi estendo in particolari maggiori per le misure di difesa che nel massimo grado da lei aspetto; molto meno per quelle contro le mozioni interne, attruppamenti, seduzioni, emissari, e mala volontà di alcuni. Lascio al discernimento di Vostra Eminenza il prendere più pronte determinazioni, e per la giustizia subitanea contro tali delinquenti. I presidi (quello di Lecce specialmente) alcuni ben cordati vassalli ed abitanti in quelle parti, i vescovi, i parrochi ed onesti ecclesiastici, la informeranno di tutti i bisogni, come dei mezzi locali, e questi ultimi saranno certamente adoperati con quella straordinaria energia e vivacità, che prescrivono le circostanze. «Attendo dall’Imperatore soccorsi d’ogni genere; il Turco me li promette ugualmente: così la Russia: onde le squadre di quest’ultima potenza, prossima al litorale di queste regioni, sono pronte a soccorrermi. «Ne avviso lei, perchè nelle occasioni possa prevalersene ad ammettere benanche porzione di quelle truppe nelle provincie, se il caso lo richiedesse; come ricevere pure dalle loro squadre quegli ajuti, che la natura delle operazioni facessero considerar utili alla sicura loro difesa. «Le accenno queste misure dipendenti dall’esterno per ogni buon fine, mentre le farò passare indi quelle ulteriori notizie che riguarderanno un più sicuro concerto. Lo stesso saprà relativamente agli Inglesi, la squadra dei quali veglia assiduamente alla salvezza della Sicilia. «Ogni modo di ricevere nuove e di spedirmele regolarmente, almeno due volte la settimana, sarà da lei stabilito ed assicurato con precisione, perchè le notizie concernenti la importante sua Commissione mi giungano spesso e opportunamente come necessarie; indispensabili benanche alla difesa di questo Regno. «Confido nel suo attaccamento e ne’ suoi lumi — ed attendo che Ella corrisponderà, come ne sono sicuro, a quanto vivamente e pienamente da Lei spero. «Palermo, 25 gennajo 1799. «FERDINANDO.» Questo manifesto gli fu consegnato nello stesso giorno in cui fu scritto, vale a dire il 25 gennaio 1799. Il cardinale era stato prevenuto che, malgrado i sessantacinque o sessantasei milioni che il re aveva portato seco, non poteva dargli altro denaro che tremila ducati, vale a dire dodici mila franchi, per sovvenire a tutte le sue spese per la ristorazione. Una volta in Calabria, egli dovea pensare a provvedere ai mezzi di contribuzione volontaria o forzosa, od in qual siasi altro modo trovasse più conveniente. Ma al momento della partenza si credette di aver trovato una miniera; il marchese Luzzi prevenne il prelato, da parte del re, che il marchese don Francesco Taccone, tesoriere generale del regno di Napoli, era arrivato a Messina, latore di cinquecentomila ducati, vale a dire più di due milioni, concambiati a Napoli con effetti del banco. Siccome questo danaro apparteneva alla cassa generale del regno di Napoli, il re acconsentiva di cederlo al prelato per i bisogni della spedizione. Affrettiamoci a dire ciò che però maraviglierà punto coloro, che conoscono quanto facilmente a Napoli il denaro resti aderente alle mani di coloro che lo maneggiano; nè il cardinal Ruffo, nè il re, nessuno insomma potè por mano su questi due milioni e cinquecento mila franchi. Il cardinale non perdette tempo, al 26 gennaio, vale a dire il giorno seguente a quello in cui ebbe il manifesto, partì per Messina, ove si recò in parte per via di terra ed in parte per mare. Dopo aver fatto inutili ricerche a Messina per l’incasso dei cinquecento mila ducati, il cardinale passò in Calabria, ove arrivò l’8 febbraio 1799 sulla spiaggia di Catona, ove spiegò dal balcone del casino di suo fratello il duca di Baccanello, la bandiera reale, portante da un lato lo stemma reale e dall’altro la croce, colla iscrizione che era impressa quindici secoli prima sul labaro di Costantino: IN HOC SIGNO VINCES Dopo quindici giorni sapemmo che mille uomini si erano uniti a lui, e che, lasciata la costa di Messina, era partito per Monteleone. VI. Queste notizie resero la salute alla regina e stesero un secondo lenzuolo, sulla tomba del povero principino, quello dell’obblìo. Ho detto come passavamo le nostre serate, il re a querelare il presidente Cardillo, il presidente Cardillo a strapparsi i bottoni dell’abito, il duca S...... a tener il banco ed a far brillare i suoi anelli e le sue spille, io ad esprimergli il desiderio di averli, Nelson e sir William a comperarli. La regina non giuocava, si teneva in disparte colle principessine, e ricamava una bandiera dedicata ai Calabresi, che voleva inviare al cardinale non appena fosse terminata. Le nostre giornate, specialmente quando vennero i primi soffi ed i primi soli di primavera, non la cedevano in nulla alle nostre serate. La fine di febbraio ed il principio di marzo sono magnifici a Palermo. Due o tre volte per settimana si organizzavano delle passeggiate nel porto, si facevano delle colazioni a bordo di un vascello, si pranzava a bordo dell’altro. La regina prendeva poca parte a queste feste: dopo la disfatta dell’armata napoletana, dopo il singolare ritorno di suo marito, dopo la fuga forzata da Napoli, era divenuta ancor più triste e più che mai concentrata nel suo odio, da cui non usciva che con eccessi di furore che spaventavano tutti quelli che la circondavano, e durante i quali io sola poteva penetrare fin da lei; quando vi era qualcuna di queste feste, la vera regina era io. Difatti in queste passeggiate, in cui prendevano parte, cinquanta o sessanta barche pavesate, e montate dalle dame e dai cavalieri della corte, Nelson ed io, anche quando il re prendeva parte alla navigazione, eravamo sempre in testa alla comitiva, in una barca con dieci o dodici rematori, mentre il re non ne aveva che otto. È vero però, che appena prendevamo il largo, il re si dirigeva da un qualche lato, e invece di ascoltare i nostri suonatori ed i nostri cantanti, si metteva a dar la caccia agli uccelli marini: in quanto a noi, dopo una prima passeggiata in mare, ci arrestavamo a bordo del _Culloden_, ora bordo del _Minotauro_; poi terminato l’asciolvere, ritornavamo in mare, in mezzo al suono degli strumenti e tra i canti; talvolta chiudendo gli occhi e trasportandomi nell’antichità, mi compiaceva di credere che non era la prima volta che la mia anima era venuta ad abitare il mondo, e che una volta io era stata Cleopatra, e Nelson Antonio; e allora mi ricordava qualcuno dei bei versi del dramma di Shakespeare, e li gettava a quella brezza che ci arrivava curvando le palme e togliendo i profumi degli aranceti della Bagheria. Poi quando gli ultimi raggi del sole coloravano di rosa la cima del monte Pellegrino, si riprendeva la via verso il _Vanguard_ illuminato a giorno; una lunga tavola copriva il ponte da un capo all’altro; i cannoni sparivano sotto i buffetti coperti di argenterie, di fiori e di pasticcerie; ci mettemmo a tavola, io in faccia al re come se fossi la regina, fra Nelson ed il capitano Troubridge o il comandante Thomas. Il pranzo durava anche una parte della notte, e ad ogni brindisi che noi facevamo i cannoni della batteria inferiore tuonavano, e l’artiglieria dei forti rispondeva alle nostre salve. Nelson era sovente inquieto e preoccupato; sentiva bene che la sua coscienza lo rimproverava della sua inazione, e gli gridava che dovea essere altrove; allora si levava da tavola col pretesto di dare qualche ordine, e se ne andava solo sul cassero a fantasticare; un giorno lo seguii e me gli avvicinai senza che mi vedesse; lo intesi mormorare:« — miserabile pazzo che son io; davvero il mio bastimento ha più l’assetto di una bottega da pasticciere, che d’un vascello della squadra azzurra.» — Allora gli misi il mio braccio intorno al collo, e lo ricondussi al suo posto, vergognoso e disperato di essere stato inteso. Il carnevale si avvicinava; le notizie del cardinal Ruffo diventavano sempre più soddisfacenti; si diede qualche ballo in maschera alla corte. Ciò fece nascere a Nelson, che cercava visibilmente di divagarsi, l’idea di andare travestito con me per le strade: noi facemmo per due o tre volte queste follie; ma un accidente, che poteva aver delle conseguenze gravi, ci guarì subito. Una notte che andavamo così travestiti per le vie di Palermo, Nelson che aveva bevuto molto, dopo il pranzo, secondo l’abitudine degli Inglesi, mi condusse in una casa sospetta, molto frequentata dagli uffiziali della squadra; essi però non ci riconobbero, ma un nostromo ed un marinaio che bevevano in un angolo, ebbero dei sospetti, e quando Nelson ed io uscimmo, ci seguirono, e ci videro entrare nel palazzo dell’ambasciata. In quel momento ne usciva il re, e vedendo quei due giovanotti, che sembravano di buon umore, chiese loro che cosa facessero là; il nostromo balbettava un poco d’italiano, e divertì assai il re, raccontandogli tutta l’avventura: il re gli promise di ricordarsi di lui, e gli chiese in che cosa gli potesse far piacere; il nostromo gli rispose, sempre ridendo, che la sua ambizione dopo la sua nascita era di esser fatto cavaliere. — Ebbene, gli disse il re, sta tranquillo e lo sarai; e gli chiese il suo nome ed a qual bastimento apparteneva. Il nostromo rispose che si chiamava John Baring e apparteneva all’equipaggio del _Vanguard_, e ricordò al re qualche piccolo servizio che aveva avuto la fortuna di rendergli, durante il suo passaggio da Napoli a Palermo. — Difatti, disse il re, me ne ricordo. — Bene, rispose il nostromo, credeva che Vostra Maestà l’avesse dimenticato. — E perchè? chiese Ferdinando. — Perchè nè io nè l’equipaggio, rispose il nostromo incoraggiato dalla bonomia del re, non abbiamo mai avuto il piacere di bevere alla salute di Vostra Maestà, con monete di effigie diversa da quella del nostro grazioso sovrano Giorgio III. Il re si morse le labbra. Difatti una volta a terra, colla sua ingratitudine abituale, egli aveva dimenticato il pericolo, dal quale sfuggiva, ed i servigi ricevuti. — Ebbene, gli disse il re, dimani beverai alla mia salute con denaro che porta la mia effigie; ed i tuoi camerata bevendo alla tua, ti chiameranno cavaliere. Siccome il re era molto ciarliero, raccontò nella stessa sera tutta la storia alla regina, come fossi uscita travestita con Nelson da una casa che egli nominò con un titolo più espressivo di _sospetta_, come ci avesse seguiti un nostromo inglese, che lo aveva talmente divertito che gli promise di farlo pel giorno seguente cavaliere dell’ordine di San Giorgio Costantiniano. Poi nella stessa sera, scrisse un ordine, che alla mattina del giorno seguente dovea essere consegnato al Principe Luzzi, ministro delle finanze, per far portare mille e trecento once di oro, all’equipaggio del _Vanguard_ a titolo di gratificazione. Il principe Luzzi doveva dare avviso di questa decisione all’ammiraglio Nelson, e di prevenirlo, che pei servigi ricevuti durante la traversata, nominava il nostromo John Baring cavaliere di S. Giorgio Costantiniano. Nelson divise queste mille e trecento once nel modo seguente: Cento ai marinai che vennero a prendere la famiglia reale nei due canotti, e l’aiutarono ad imbarcarsi. Cento ai domestici dell’ammiraglio. Cento ai marinai della barca dell’_Alcmena_. Cento ai Wardroom. Cento otto ai ventisette gentiluomini di poppa, e ai bassi uffiziali, vale a dire quattro per ciascuno. Settecento settantadue ai soldati di marina, ai marinai in numero di 579. Tredici ai mozzi, in numero di ventisei. Le sette rimanenti per la zuppa. Nelson annunziò inoltre al nostromo il favore che gli accordava il re. Sventuratamente per il povero diavolo, il re, come già dissi, aveva raccontato tutto alla regina, e la regina aveva raccontato tutto a me, dicendomi di stare più attenta per l’avvenire, poichè era stata veduta e riconosciuta. Essa non mi potè dire il nome dell’uomo che ci aveva seguiti, ma non fu difficile trovarlo; il re aveva detto di aver decorato quella bella storia. Appena vidi Nelson, gli raccontai tutto quanto mi disse la regina; il decorato, come dissi, era John Baring. L’ammiraglio, in un primo momento di collera, giurava di farlo impiccare. Non so se ne aveva il diritto; ma al suo bordo Nelson si credeva re assoluto, e certamente avrebbe fatto quanto diceva. Lo pregai tanto, che si accontentò di cacciarlo, e invano riuscii a volergli far grazia completa. Intanto venivano dalle Calabrie le migliori notizie: si era avuta la notizia dell’entrata del cardinale in Monteleone, e successivamente a Catanzaro e a Cotrone che fu messo a sacco e incendiato dalle truppe Sanfediste. Il cardinale aveva annunziato questo saccheggio e questo incendio, come una notizia che doveva oscurare la gioia del trionfo; ma il re invece aveva trovato che era la giusta punizione della ribellione di quella città, e aveva scritto una lettera o piuttosto due, di cui ecco il testo letterale. L’imparzialità, a cui vi riconduce la fredda mano del tempo, mi spinge a produrre al giorno d’oggi quelle lettere per provare che questi massacri ed incendii, di cui si rammaricava il cardinale, consolavano il re. «Palermo, 9 marzo 1799. «Eminentissimo mio. «Non so esprimervi la gioia che provammo ieri sera nel ricevere le vostre lettere dal 27 dello scorso al 2 del corrente, per le ottime nuove che in essa mi date della continuazione del felicissimo esito che ha la vostra Commissione, e che sicuramente diverrà sempre più protetta, e benedetta dal Signore per vostra gloria ed onore e felicità di tutta l’Italia, come vado lusingandomene. Non posso che approvare la savissima condotta che tenete nella vostra marcia, e gli editti che avete stimato di pubblicare; ma ai cari emissarii, che vi riesce di aver nelle mani, vi prego di non perdonarla affatto, e punirli senza pietà per esempio degli altri, quando sia avverato il fatto; perchè la troppo indulgenza usata in questa materia, è causa che noi ci troviamo in questo stato; e quando voi dite del sistema tenuto dagli infami rivoluzionari di far beneficare e metter in carica a forza di maneggi quei soggetti guasti, e loro aderenti, rovinando quelli che erano fedeli ed attaccati a forza di calunnie, non è che un Evangelo, è il sistema da essi adottato per tutto rovesciare e distruggere ogni cosa; per cui se Iddio si compiacerà di farci veder terminar felicemente questa maledetta faccenda, bisognerà far da capo. Quanto mi accennate della provincia di Salerno mi ha fatto grandissimo piacere, ed essendosi vociferato, subito sono corsi da me diversi padroni, che qui giunti erano pochi giorni fa, fuggendo da Vietri, e si sono esibiti di ripartire immediatamente per darvi la mano, locchè farò loro eseguire immediatamente. Desidererei ben di cuore che presto possiate aprirvi la comunicazione della Puglia o Lecce per sentir cosa abbiano fatto con que’ banditi, mentre altra notizia non abbiamo, che da un bastimento Svedese il quale, proveniente da Gallipoli, dice che quella città si è già controrivoluzionata, fugando e massacrando i Giacobini, e che tutta questa provincia era nella massima mestizia, mal soffrendo l’attual governo repubblicano. Già colla posta avrete saputo la nuova, che, nel momento della spedizione, ricevemmo con una corvetta inglese venuta in 17 giorni da Costantinopoli, della prossima venuta della truppa Russa ed Albanese: Dio faccia che giungano con effetto presto. Tutte queste nuove sollevano i buoni, e non fanno aver tanta boria ai malvagi; è molto tempo che soffriamo, e soffriamo davvero; speriamo che il Signore siasi finalmente mosso a compassione di noi, e voglia esaudirci e proteggere chi lo serve fedelmente. Godo sentire che, eseguendosi i miei ordini, da Messina finalmente si sia mandato quanto avete richiesto, e siate sicuro, che per quanto dipenderà dalla mia attività nell’ordinare, non vi mancherà niente. Avrete a quest’ora ricevuto i miei saluti da vostro fratello. Conservatevi, continuate a mandarmi buone nuove, e credetemi sempre lo stesso vostro affezionato. «FERDINANDO B.» Ecco la seconda lettera: «Palermo, 11 aprile 1799. «Eminentissimo mio «L’altro ieri ricevei di sera la vostra lettera del 29 scorso mese, scrittami da Cotrone, dove mi fa pena di sentire il saccheggio dato in quel modo, benchè, a dir il vero, lo avessero ben meritato quegli abitanti, colla resistenza fatta, mentre, vi replico, non ci vuol misericordia con chi dichiaratamente si è mostrato ribelle a Dio ed a me. Per i Francesi che ci avete trovato, spedisco immediatamente l’ordine perchè si mandino a casa loro, che anche io trovo che sia il migliore che si possa fare, dovendosi riguardare, dovunque si tengano, come un genere assolutamente impestato. Quanto mi dite esservi stato narrato della morte del preside di Lecce, mi ha fatto inorridire; ma ancora voglio credere che non sia vero, per l’onor della famiglia: e che il pover’uomo sia morto di malattia, essendo già da gran tempo molto malandato. Per l’affare del principe biondo, che si era creduto prima mio figlio, e a voi si era fatto supporre esser il cavalier di Sassonia, già a quest’ora saprete chi sia e tutta la sua storia, ed ora si trova qui in Palermo ritornato da Tunisi. Due spedizioni già ci sono state fatte dal Comodoro Troubridge da Procida, la prima giunta qui domenica, e l’altra ieri l’altro. Subito ho fatto tradurre le lettere da lui scritte a Nelson, che copiate mi affretto di spedirvi, acciò siate inteso del felicissimo esito che finora ha trovato quella spedizione, e le notizie che ho potuto raccogliere fino al giorno dell’ultima data, che son certo non vi faranno dispiacere: tutto quanto hanno richiesto si è spedito immediatamente, specialmente il giudice, non facendo essi cerimonie, per cui quando riceverete questa, molti casicavalli avranno fatti. Vi raccomando perciò su quest’assunto di agire in conformità di quanto vi scrivemmo lo scorso ordinario, tanto io che Acton, ed egli vi replica in questa e colla massima attività: Mazzi e panelle fanno le figlie belle. Stiamo ora colla massima premura aspettando notizie de’ cari Russicelli; se quelli vengono presto, spero tra breve faremo la festa, e col divino aiuto finiremo questa maledetta istoria. Mi rincresce infinitamente che il tempo continui così piovoso, perchè questo sarà sempre di un grand’intoppo per le vostre operazioni. Mi dite che, andando avanti verso Matera, vi tratterrete nelle terre del principe nostro, a Potenza; quando mai egli ci stasse, spero vi ricorderete essere stato un di quei due famosi eroi, e credo il principale, che trattarono e conchiusero quel superbo armistizio, e che per conseguenza non sarebbe stato mai più accorto. La nostra salute è, grazie a Dio, perfetta, non di picciolo ristoro essendo le sempre migliori nuove che ogni giorno ci pervengono. Il Signore conservi voi e benedica sempre più le vostre operazioni come, se pure indegnamente però ne lo prega e ve lo desidera il vostro affezionato «FERDINANDO B.» Difatti si erano ricevute molte lettere di Troubridge inviate dall’ammiraglio per riprendere le isole d’Ischia e di Procida, e Troubridge coi suoi sentimenti di eguaglianza che non muoiono mai nel cuore di un Inglese, e che la passione di Nelson per me potè soltanto soffocare, aveva raccontato di essersi impadronito delle isole di Ponza, e aggiungeva che pregava il re di mandare a Procida un giudice _onesto_ per fare il processo a tutti i suoi prigionieri. Una terza lettera di Troubridge, diretta a Nelson, era accompagnata da una cassetta, che conteneva un dono singolare e un viglietto ancor più singolare. Il dono era una testa tagliata. In quanto al viglietto era concepito in questi termini: «Salerno, 26 aprile 1799. «_Al Comandante della Stazione Inglese_ «Signore! «Come suddito fedele al mio re Ferdinando IV (D. G.) ho la gloria di presentare a Vostra Eccellenza la testa di D. Carlo Granozio di Giffoni, che era impiegato nell’amministrazione diretta dall’infame commissario Ferdinando Ruggi. Il detto Granozio è stato da me ucciso in un luogo chiamato li Pugig, nel distretto di Ponte Cagnaro, mentre si dava alla fuga. «Prego Vostra Eccellenza d’accettare questa testa, e di considerare tale azione come una prova del mio attaccamento alla Real Corona. «Sono col rispetto che vi è dovuto, il fedele suddito del re «GIUSEPPE MANUISIO VITELLA.» Nelson fece parte a S. M. del dono che dovea consegnargli, e sopra rifiuto del re di riceverlo, fece riempire la cassa di segatura, la fece rinchiodare dal falegname e la gettò in mare. Troubridge aveva scritto di suo pugno sulla cassa _a jolly fellow_. Un allegro compagno! VII. Le notizie che ci arrivavano da Napoli non erano meno favorevoli di quelle che ci arrivavano dalla Calabria; Championnet caduto in disgrazia per l’opposizione che aveva tentato di fare alle esazioni del Direttorio, in suo luogo e stato Macdonald era stato nominato generale in capo. Occupava appena quel posto, che si appresero a Napoli le notizie dei disastri dell’armata francese nell’alta Italia. Suwaroff e i suol cinquantamila Russi erano arrivati, e l’imperatore si era finalmente deciso di mettersi in campagna; ma i Francesi, privi dei loro migliori soldati chiusi in Egitto e del loro miglior generale prigioniero con essi, erano stati battuti a Magnano, e avevano perduto la linea del Mincio, mentre Suwaroff, nominato generale in capo dell’esercito austro-russo, era entrato in Verona e si era impadronito di Brescia. Macdonald ricevette l’ordine di lasciar Napoli e di riunire le sue forze a quelle dell’armata francese che era in piena ritirata. Al sette maggio egli era quindi partito da Caserta, lasciando una guarnigione di 500 Francesi nel castel S. Elmo, sotto gli ordini del capo legione Meyan, e dopo quattro giorni aveva lasciato Napoli. Questa notizia dell’evacuazione di Napoli giunse a Palermo ai primi di maggio; al 9 di maggio Nelson scriveva all’ammiraglio lord conte S. Vincent per annunziargli quella notizia. Ma al momento in cui ci abbandonavamo alla gioja per questa evacuazione, venne un’altra notizia che fece di contrappeso a quella che avevamo ricevuta dianzi. Al 12 maggio il brick la _Speranza_ giunse a Palermo coll’avviso che la flotta francese di Brest, ingannando il nostro blocco, era uscita dal porto, era stata veduta a Oporto, e dirigevasi verso lo stretto di Gibilterra, nell’intenzione probabile di congiungersi alla flotta spagnuola, e di fare un tentativo contro Minorca o contro la Sicilia. Era quindi necessario di rinforzare la flotta inglese, e Nelson diede immediatamente degli ordini per richiamare i bastimenti inglesi che si trovavano nella baia di Napoli. Ma Nelson sperava ancora di non lasciar Palermo, era veramente ammalato d’inquietudine; e alla sola idea di lasciarmi, non fosse che per qualche giorno, piangeva come un fanciullo. Le lettere seguenti daranno un’idea dello stato in cui si trovava il suo animo, o piuttosto il suo cuore. La prima è diretta al vice-ammiraglio Duckworth. Eccola. «Palermo, 12 maggio 1799. «Mio caro ammiraglio «V’invio otto, nove o dieci vascelli di linea con tutta la premura. Essi possono o riunirsi col nostro grande ed egregio comandante in capo, od agire separatamente. Se mi è permesso di avventurare un’opinione, direi che è meglio che la flotta bordeggi davanti a port Mahon, di quello che non sia entrare nell’Havre. Coi miei voti pel vostro miglior successo, che sventuratamente non posso dividere con voi, mi dico ecc. «O. NELSON. Nello stesso giorno scrisse al capitano Troubridge: «12 maggio 1799. «Mio caro Troubridge. «Quando avrete ricevuto questa lettera, la flotta francese avrà già fatto la sua riunione colla spagnuola. Il tempo soltanto cl farà conoscere quale sia stato il risultato delle evoluzioni. Il conte verrà, ci raggiungerà, e voi mi manderete il _Minotauro_, lo _Swiftsure_, il _S. Sebastiano_, il _Culloden_, e il _Sealaw_; voi od Hood rimarrete col _Seahorse_, la _Minerva_ etc. etc., inviate un piccolo battello a Livorno ed ordinate al _Lion_ di congiungersi immediatamente coi vascelli a Procida; date ordine ai vascelli di passare per di qua, ma che non gettino l’ancora. Riceveranno da me altri ordini. Il brick va direttamente a Mahon o a Gibilterra. Intendiamo di dire che un vascello di linea fu veduto frequentemente ad Ustica. Non ci credo — che Dio vi benedica. «O. NELSON.» «Il _Seahorse_ deve osservare Salerno, mandate subito i vascelli appena vi arriveranno.» Il giorno dopo questa terza lettera seguiva le due precedenti al lord conte di S. Vincent: «Palermo, 13 maggio 1799. «Se avanzate senza battaglia, spero che in questo caso mi darete occasione di raggiungervi; perchè sarei disperato di essere vicino al mio comandante in capo, e di non assisterlo in tale momento. «Non avete l’idea dello stato in cui mi trovo. Se me ne vado, arrischio, e la parola arrischiare è troppo debole, metto in pericolo la Sicilia, e più ancora ciò che si è salvato sul continente; poichè sappiamo per esperienza che si giudica più sulle opinioni, che sui fatti stessi; rimanendo, il mio cuore si strugge, e per colmo di sciagura, sono seriamente ammalato. Che Dio vi benedica; state sicuro che agirò col maggiore zelo, e siccome so che il mio buon amico agirebbe come me, credetemi dunque con affezione sincera, il vostro fedel amico. «O. NELSON.» Infine, avendo avuto nello stesso giorno un altro avviso, scrisse al capitano Troubridge: «_Vanguard_, Palermo 13 maggio 1799. «La flotta francese ha passato lo stretto di Gibilterra, ed è stata veduta vicino a Minorca. Appena ricevuta la presente verrete a raggiungermi qui coi vascelli di linea che avete sotto i vostri ordini; se potete darmi una fregata sarà meglio; disponete i vostri piccoli bastimenti nel modo che credete più vantaggioso, e lasciatene il comando a chi vorrete. «O. NELSON.» Nelson rimase dal 13 al 19 in esitazione di quanto doveva fare; sentendo che il suo posto era in alto mare e non nel porto di Palermo; tutti i vascelli richiamati da lui vennero successivamente a raggiungerlo coi loro capitani; finalmente il 19, facendo uno sforzo supremo, mi lasciò con maggior dolore di Antonio, cui mi divertiva di paragonarlo. Egli non lasciava però Cleopatra per andare a sposare Ottavia; credo che se Nelson ebbe, una sol volta nella sua vita paura della morte, fu allora, dacchè lo amai, tanto la sua vita gli era divenuta preziosa. Infine fu d’uopo lasciarci; non si aveva nessuna notizia positiva della flotta; lord S. Vincent poteva incontrarla e combatter senza di lui, o sarebbe stato un colpo mortale al suo onore. Un pretesto lo sosteneva ancora, il vento taceva, ma nella notte del 18 al 19 si sollevò una brezza, e decise della partenza di Nelson. Andò a bordo del _Vanguard_. Sir William ed io lo conducemmo fino al porto; giunti là saltò nella sua lancia che lo aspettava da oltre due ore, diede ordine di vogare verso il _Vanguard_, lasciò cadere la sua testa nell’unica sua mano, e non volse più lo sguardo verso la terra. Noi poi non lasciammo la marina, se non quando lo perdemmo di vista in mezzo ai bastimenti che ingombravano il porto. Ma appena il _Vanguard_ ebbe fatto un miglio, tacque il vento. Nelson ne approfittò per scrivermi questa lettera, che m’inviò per mezzo del luogotenente Swiney. «_Vanguard_, 19 maggio, 8 ore, calma. «Mia cara Lady Hamilton «Il luogotenente Swiney venendo a bordo, posso dare dei passaporti in bianco pei bastimenti che vanno a Procida carichi di farina ec. ec. come pure pel battello-posta. «Dirvi come sembra melanconico e triste il _Vanguard_, è dirvi che dopo essere stato in compagnia delle persone più simpatiche, sono rinchiuso in una tetra cella; e lasciare i suoi più cari amici, per restar solo e senza amici. A quest’ora sono perfettamente _l’uomo grande_, non avendo a me vicino una creatura, e con tutto il cuore desidero diventare _un uomo piccolo_. Voi e il buon sir William avete tolto per me l’incanto da tutti quei luoghi, ove non ci siete voi. Il mio amore per voi si estende a tutto ciò che voi toccate, e voi non potete concepire ciò che io provo, quando vi riunisco tutti nella mia memoria, anco fino a...... Non dimenticate il vostro fedele «NELSON.» Il giorno seguente mi scrisse ancora: «20 maggio 1799 «Cara Lady Hamilton «Vi ringrazio tanto insieme a sir William per le vostre care lettere; credete bene che ho dormito assai poco con tutte le lettere che avea da leggere. Le lettere che ricevo da lord S. Vincent sono del 6 maggio; mi dice che abbiamo veduto la squadra di Brest che passava ieri facendo buon cammino; ho fatto tutti i miei sforzi per avere qualche notizia di lord Keith, a cui ho ordinato di venir qui per completare le provigioni e fornirsi d’acqua. Suppongo che la squadra francese è diretta a Malta o ad Alessandria e la flotta spagnuola par l’attacco di Minorca. Lascio giudicare a voi se il conte verrà con noi; credo di sì, ma fra noi; M. Duckworth ha l’intenzione di abbandonarmi al mio destino; vi mando all’avventura questa lettera. Non importa, ho soltanto undici vele riunite, e non ho paura di nessuno. «Dio benedica voi e sir William e tutti gli amici di casa. Credetemi per sempre vostro affezionato amico «NELSON.» La partenza di Nelson lasciò la corte di Palermo in una grande ansietà. La regina specialmente che conosceva il poco calcolo che si poteva fare di suo marito e che non si fidava del genio di Acton, era alla disperazione; non si risolse però meno di mettersi, quanto si poteva, in istato di difesa; e il giorno seguente, il re, la regina, sir William Hamilton ed Acton, essendosi riuniti, compilarono il seguente proclama: «Miei fedeli ed amati sudditi. «I nostri nemici, i nemici della religione e di qualunque governo regolare, in una parola, i Francesi, battuti da per tutto, tentano ancora un ultimo sforzo. «Diciannove vascelli ed alcune fregate (unico avanzo della spirante lor potenza marittima) sono usciti dal Porto di Brest, e profittando di un colpo di vento favorevole, son entrati nel mediterraneo. «Essi forse tentarono di liberare Malta dal blocco, e si lusingano probabilmente di poter correre in levante verso l’Egitto, prima che le formidabili e sempre vincitrici squadre inglesi possano raggiungerli. Ma trenta e più vascelli britannici terranno loro dietro, oltre le squadre turca e russa che sono nell’Adriatico. Tutto promette che i devastatori francesi pagheranno ancora questa volta la pena di un tal disperato non meno che temerario ed estremo tentativo. «Potrebbe però accadere che nel nostro passaggio su queste nostre coste di Sicilia, essi vi tentassero qualche momentaneo insulto, e che costretti dagl’Inglesi o dal vento, tentar volessero l’entrata in qualche porto, o rada di quest’Isola. Prevedendo dunque la possibilità di questo caso, io mi rivolgo a voi tutti, fedeli ed amati miei sudditi, bravi e religiosi Siciliani. Ecco un’occasione da mostrarvi qual siete. Siate vigilantissimi su tutti i punti della costa, ed all’apparire di qualunque legno nemico, armatevi, accorrete al punto minacciato, ed impedite qualunque insulto, qualunque sbarco tentar volesse un tal crudele, sovvertitore ed insaziabile nemico, come accorrevate un tempo contro le incursioni de’ Barbari. Peggiori di questi, più avidi di preda, e più inumani sono i Francesi. I capi militari, la mia truppa di linea, e le milizie co’ loro capi accorreranno con voi alla difesa. E, se oseranno sbarcare, provino essi per la seconda volta il coraggio della brava nazione siciliana. Sì, mostratevi degni de’ vostri antenati. Trovino i Francesi in quest’Isola la loro tomba. «Se i vostri maggiori combatterono in favore soltanto di un re lontano, con quanto maggior coraggio ed ardore nol farete voi per difendere il vostro re e padre ch’è qui fra Voi alla testa del bravo suo popolo; la vostra tenera madre e sovrana, la sua famiglia tutta affidata alla vostra fedeltà; la nostra santa religione, i nostri altari, le vostre proprietà, i vostri padri, le vostre mogli, i vostri figli? Gettate uno sguardo sul vicino regno infelice. Vedete quali eccessi vi commettono i Francesi, ed infiammatevi di un santo zelo, giacchè la religione istessa vi comanda d’impugnar le armi contro tal sorta di rapaci ed ingordi nemici, i quali, non contenti di devastare una grande parte dell’Europa, hann’osato di mettere le sacrileghe loro mani sulla sacra persona del vicario istesso di Gesù Cristo e trascinarlo prigioniero in Francia. Non li temete. Iddio animerà il nostro braccio, e vi darà la vittoria. Egli già si dichiara per noi. «I Francesi sono stati battuti dagli Austriaci e dai Russi in Italia, nella Svizzera, sul Reno, e finalmente pur anche da’ fedeli paesani realisti in Abruzzo, in Puglia ed in Terra di Lavoro. «Chi non li teme, li vince, e le loro vittorie non sono state per l’addietro, che l’effetto della viltà e del tradimento. Coraggio dunque, o bravi Siciliani. Io son qui alla vostra testa. Voi combatterete sotto gli occhi miei, io premierò chiunque si distinguerà pel suo valore. E così potremo anche noi partecipare della gloria di avere sconfitto gl’inimici di Dio, del Trono e della Società. «Palermo, li 15 maggio 1799. «FERDINANDO B.» VIII. Malgrado questo proclama del re, e la promessa fatta al popolo siciliano di marciare alla testa del suo esercito, la regina era poco rassicurata, perchè sapeva in che modo il re si metteva alla testa delle sue truppe, avendolo veduto arrivare pel primo a Caserta nella fuga da Roma. Essa si aspettava ad ogni momento di ricevere la notizia di qualche sbarco dei Francesi su qualche punto dell’isola. Intanto la bandiera che essa ricamava insieme alle principessine era terminata, ed era stata mandata da lei al cardinal Ruffo; un certo Scipione La Marra, che acquistò una mezza celebrità in questa guerra, e che fu incaricato da Nelson dell’arresto di Caracciolo, era mandato ad offrirgliela in nome della regina, con questa lettera ai Calabresi. «Bravi e valorosi Calabresi, «La bravura, il valore e la fedeltà da voi dimostrata per la difesa della Santa Cattolica Religione e del vostro buon re e padre, da Dio stabilito per reggervi e governarvi felici, hanno eccitato nell’animo nostro sentimenti così vivi di soddisfazione e di gratitudine, che cl siamo determinati a formare ed ornare colle nostre proprie mani la bandiera, che ora vi mandiamo. «Questo sarà sempre un luminoso contrassegno del nostro sincero affetto per voi, e della nostra gratitudine alla fedeltà ed al vostro attaccamento per i vostri Sovrani; ma, nel tempo medesimo, dovrà essere un vivissimo sprone per farvi continuare ad agire collo stesso valore e collo stesso zelo sino a tanto che resteranno intieramente debellati, sconfitti e schiacciati i nemici della nostra sacrosanta Religione e dello Stato, cosicchè possiate e voi e le vostre dilette famiglie, la vostra patria, godere tranquillamente i frutti de’ vostri sudori e della vostra bravura, sotto la protezione del vostro buon re e padre FERDINANDO, e di tutti Noi, che non tralasceremo di ritrovare delle occasioni per dimostrarvi che serberassi indelebile ne’ nostri cuori la memoria della vostra fedeltà e delle vostre gloriose gesta. «Continuate dunque, bravi Calabresi, a combattere col solito valore sotto di questa bandiera, ove colle nostre proprie mani ci abbiamo impressa la Croce, ch’è il segno glorioso della nostra redenzione. Rammentatevi, prodi guerrieri, che, sotto la protezione di un tal segno, sarete vittoriosi; abbiatelo voi per guida, correte intrepidamente alla pugna, e siate pur sicuri, che i vostri nemici saranno sconfitti. «Noi intanto coi sentimenti della più viva gratitudine preghiamo l’Altissimo, che è il donatore di tutt’i beni, affinchè si compiaccia di assistervi nelle vostre intraprese, che riguardano principalmente il suo onore e la sua gloria, e la vostra e la nostra tranquillità; e piene di affetto e riconoscenza per voi siamo costantemente, «Palermo, 31 marzo 1799. «Vostra grata e buona madre «MARIA CAROLINA.» In seguito gli altri membri della famiglia reale eransi firmati: — Maria Clementina — Leopoldo Borbone — Maria Cristina — Maria Amalia — Maria Antonia. La bandiera era splendidamente e riccamente adorna di ricami, come dissi, eseguiti dalle mani delle principesse; essa rappresentava da un lato le armi de’ Borboni della casa di Napoli, con questa leggenda: AI MIEI BRAVI CALABRESI. Dall’altro la Croce colle quattro parole: IN HOC SIGNO VINCES Il re poi scrisse al 10 di maggio la lettera seguente al cardinale. Questa lettera storica, o che merita di diventarla, spiega le esecuzioni di Napoli, alle quali Ruffo volle opporsi formalmente, e che, sventuratamente pel suo onore e pel mio, Nelson volle eseguire, convinto che il dritto fosse dalla parte del sovrano decaduto, e che le sue vendette fossero giustizia. Se difatti una tale lettera non era scritta nella piena convinzione che i monarchi di diritto divino hanno diritto di vita e di morte sui loro sudditi, sarebbe ancor più di un’amara irrisione del dispotismo, un insulto del più forte al più debole, e più ancora, una sfida a Dio. Ecco la lettera, interamente scritta di pugno del re, che quasi mai non voleva scrivere. «Palermo, 1 maggio 1799. «Eminentissimo mio. Dopo di aver letta e riletta e con la massima attenzione considerata quella parte della vostra lettera del 1 aprile, che riguarda il piano da formarsi sul destino dei molti rei caduti e che possono cadere nelle nostre forze, sia nella provincia, sia quando col divino aiuto ritornerà sotto il mio dominio la capitale; debbo prima di tutto dirvi che ho trovato quanto mi scrivete sull’assunto pieno di saviezza e di quei lumi, intelligenze, ed attaccamento, delle quali cose mi avete dato, e state dando indefessamente le più certe e non equivoche riprove. Vengo quindi a palesarvi quali siano le mie determinazioni sull’assunto. «Convengo pienamente con voi che non bisogna inquirire molto, tanto più che, come molto bene voi dite, si sono svelati in modo i cattivi soggetti, che è facile in breve tempo essere al giorno de’ più perversi. «La mia intenzione e volontà dunque si è che siano arrestate e cautamente custodite le seguenti classi di principali rei, cioè: «Tutti quelli del governo provvisorio, e della commissione esecutiva e legislativa di Napoli, tutti i membri della commissione militare e di polizia formata da’ repubblicani, quelli che sono delle diverse municipalità, e che hanno ricevuta una commissione in generale dalla Repubblica o dai Francesi, e principalmente quelli, che hanno formata una commissione per inquirire sulle pretese depredazioni da me e dal mio governo fatte; tutti quelli uffiziali che erano al mio servizio, e che sono passati a quello della sedicente Repubblica o de’ Francesi; ben inteso però, che è mia volontà, che quando i detti uffiziali venissero presi con le armi alla mano, contro le mie forze o quelle de’ miei alleati, sieno dentro il temine di 24 ore fucilati, senza formalità di processo e militarmente; come egualmente quei baroni, che coll’armi alla mano si opponessero alle mie forze od a quelle de’ miei alleati; tutti coloro, che hanno formato o stampato Gazzette repubblicane, proclami ed altre scritture, come opere per eccitare i miei popoli alla rivolta, e disseminare le massime del nuovo governo. Arrestati egualmente debbono essere gli eletti della città e i deputati della piazza che tolsero il governo al passato mio vicario generale Pignatelli, e lo traversarono in tutte le operazioni con rappresentanze e misure contrarie alla fedeltà che mi dovevano. «Voglio che siano ugualmente arrestati una certa Luisa Molines Sanfelice, ed un tal Vincenzo Cuoco, che scoprirono la contro-rivoluzione de’ realisti, alla testa della quale erano i Backer, padre e figli. «Fatto questo, è mia intenzione di nominare una commissione straordinaria di pochi ma scelti ministri sicuri, i quali giudicheranno militarmente i principali rei fra gli arrestati, con tutto il rigor delle leggi; e quelli che verranno creduti meno rei saranno economicamente deportati fuori dei miei dominj. E su questo proposito debbo dirvi, che ho trovato molto sensato quanto mi avete rappresentato rispetto alla deportazione, ma bilanciati tutti gl’inconvenienti, trovo, _che val meglio di disfarsi di quelle vipere, che di guardarle in casa propria_, giacchè se io avessi una isola di mia pertinenza, molto lontana dai miei dominj del continente adotterei volentieri il sistema di rilegarveli; ma la somma vicinanza delle mie isole ai due regni renderebbe possibile qualunque trama che costoro potessero ordire co’ scellerati e malcontenti che non si sarà riuscito a stirpare dai miei stati; d’altronde, i rovesci considerabili, che i Francesi, grazie a Dio, hanno sofferti, e che speriamo abbiano maggiormente a soffrire, metteranno i deportati nell’impossibilità di nuocerci. Converrà però ben pensare al luogo della deportazione, ed al modo col quale effettuarla, con sicurezza; e a questo mi sto ora occupando. «Riguardo alla commissione, che dovrà giudicare quelli che sono maggiormente rei, subito che avremo in mano Napoli, non mancherò di pensarci, contando per quella capitale farli andare da qui. Rispetto poi alle province per i luoghi dove voi siete, può continuare de Fiore, quando voi ne siate contento, e così crediate. Inoltre, quelli tra gli avvocati provinciali e regi governatori, che non han preso partito con i repubblicani, che sono attaccati alla corona e che sieno persone d’intelligenza, possono venir destinati con tutte le facoltà straordinarie inappellabili e delegate; non volendo che i ministri tanto provinciali che della capitale, i quali hanno servito sotto la Repubblica (anche come voglio sperare spinti da un’irresistibile necessità) giudichino i felloni col quali la mia clemenza soltanto non li situa. Anche per quelli, che non sono compresi nelle classi che in questa vi ho specificate, vi lascio la libertà di far procedere con tutto il rigor delle leggi, quando li giudicherete veri e principali rei, e che crederete necessario il loro pronto ed esemplare castigo. «I ministri togati dei tribunali della capitale, quando non abbiano accettato commissioni particolari da’ Francesi e dalla ribelle Repubblica, e non abbiano fatto che continuare le loro funzioni, di render giustizia ne’ tribunali ne’ quali sedevano, non verranno molestati. Queste sono per ora le mie determinazioni, che v’incarico di fare eseguire nel modo che giudicherete possibile, e ne’ luoghi nei quali ne avrete la possibilità. «Mi riserbo, subito che riacquisterò Napoli, di fare qualche aggiunta che gli avvenimenti e le cognizioni, che si acquisteranno, potranno determinare. Dopo di che, è mia intenzione, seguendo i doveri di buon cristiano, e di padre amoroso de’ popoli, di dimenticare interamente il passato, ed accordare a tutti un intero e general perdono, che possa rassicurare tutti da ogni traviamento passato, che proibirò ben anche d’indagarsi, lusingandomi che quanto hanno fatto sia pervenuto, non da perversità di animo, ma da timore e pusillanimità. Bisogna però che le cariche pubbliche nelle province siano soltanto affidate a persone che si siano sempre ben condotte colla corona, e che in conseguenza non abbiano mai vacillato, perchè così solo potremo esser sicuri di conservare quello, che si è riacquistato. Prego il Signore che vi conservi pel bene del mio servizio, e per potervi dimostrare in tutti i tempi le mia vera e sincera gratitudine. Credetemi intanto sempre lo stesso vostro affezionato, «FERDINANDO B.» Si vede bene, non soltanto il re designava le categorie che intendeva di dover perseguitare, ma designava anche nominativamente alcuni colpevoli. Ma ancora diffidando dei giudici in Napoli, annunziava di volere inviare dei giudici in Sicilia, per fare servire alla sua vendetta l’odio naturale dei Siciliani pei Napolitani. Del resto egli aveva già mandato nella persona del famoso Speciale, un modello di giustizia; e questo giudice inaugurò le sue funzioni con una tale asprezza, da spaventarne lo stesso Troubridge, che non era poi tanto facile a spaventarsi. Questo giudice arrivò. Troubridge dopo aver parlato con lui scriveva a Nelson: «A bordo del _Culloden_ in vista di Procida, 13 aprile 1799. «È giunto il giudice che m’ha fatto l’impressione della più velenosa creatura che mi sia stato dato di vedere. Bisogna aver perduto compiutamente la ragione: dice _che sessanta famiglie gli sono indicate_, e che gli occorre assolutamente un vescovo che sconsacri i sacerdoti perchè possano costoro essere giustiziati. Gli ho detto d’impiccarli prima; chè, se non crede la forca degradante abbastanza, ben io la credo tale. «TROUBRIDGE.» Cinque giorni dopo Nelson ricevette da Troubridge questa seconda lettera sullo stesso argomento. «18 aprile, «Due giorni or sono, il giudice venne da me ad _offrirmi_ di profferir sentenza. Solo mi diede ad intendere, che tal suo procedere non _sarebbe del tutto regolare_. Dalla sua conversazione potei comprendere che le sue istruzioni erano di procedere fino al termine in un _modo sommario_ e SOTTO DI ME. Gli dissi che per quest’ultimo punto s’ingannava a partito; poichè non si trattava di sudditi inglesi. È curioso il suo modo di fare i processi: al solito, i colpevoli sono assenti, di maniera che, capite bene, la faccenda è presto terminata. Quello che chiaro risulta da tutto ciò, si è che veggo volersi addossare a noi la parte odiosa dell’affare; ma non è questo il parer mio, e camminerà diversamente, ve ne do parola, o sarà malmenato da me, occorrendo. «TROUBRIDGE.» Infine il 7 di maggio, qualche giorno prima di ricevere l’avviso di lord S. Vincent che annunziava il passaggio della flotta francese nello stretto, mise in agitazione la Sicilia. Nelson ricevette intorno allo stesso Speciale questa terza lettera: «7 maggio 1799. «Milord, ho avuto or ora un lungo colloquio col giudice: m’ha detto che avrebbe terminato tutte le sue operazioni nella prossima ventura settimana, e che era usanza dei suoi colleghi, e quindi la sua, di non ritirarsi se non dopo aver condannato: le sue condanne terminate, ha soggiunto, dovrebbe immediatamente imbarcarsi sopra un _legno da guerra_ nostro. M’ha detto ancora che, mancando il vescovo per sconsacrare i preti, si mandassero costoro in Sicilia ond’esservi sconsacrati per ordine del re, e quindi ricondurli qui, per impiccarli. _Un vascello inglese per questa bisogna_. Oibò! E dimandarmi un impiccatore; ah! in quanto a questo ho rifiutato ricisamente. Se non si può trovare un boia qui, se ne mandi uno da Palermo. Veggo lo scopo. Uccideranno essi, ed il sangue ricadrà su di noi. Non si ha idea della procedura di questi uomini, nè come si fanno le deposizioni dei testimoni — quasi sempre, i colpevoli non compariscono innanzi al giudice che per sentirsi condannare. Ma il nostro giudice vi trova il suo conto, perchè la maggior parte dei condannati è molto ricca. «Del resto ho la coscienza tranquilla adesso, rispetto a Caracciolo. Egli è senz’altro un _giacobino_. Vi mando una sua lettera che non lascia alcun dubbio a questo riguardo. «TROUBRIDGE.» Consacro l’intiero capitolo a citare le lettere del re e di Troubridge, per separare in questo grande massacro, in cui sono accusata di aver messo mano, la parte di ciascuno. Mi confesso colpevole, e ben colpevole oggi che dopo dodici o quattordici anni di tempo veggo passarmi dinanzi alla mente gli uomini e gli avvenimenti, ma io non mi confesso colpevole che della mia parte di colpa. Queste colpe sono delitti? la bilancia è nelle mani di Dio, egli giudicherà. Intanto riprendiamo gli avvenimenti dove li abbiamo lasciati, vale a dire nel momento in cui Nelson, disperato di avermi lasciato, incrocia innanzi a Maretimo, ove la corte di Palermo trema di vedere sbarcare i Francesi in Sicilia, e dove Ruffo seguitando il suo cammino trionfale, non è che a poche giornate da Napoli. IX. I giorni 25, 26, 27, e 28 di maggio trascorsero in continue agitazioni. Al 29 fummo allarmati; si vide apparire dalla parte di Marsala una flotta che si credette da principio che fosse la flotta riunita franco-spagnuola. Ma appena in vista del porto fu inalberata la bandiera rossa, e si riconobbe che era Nelson che tornava colla sua squadra. Si fecero tosto attaccare i cavalli, e la regina, sir William ed io salimmo in carrozza e andammo verso la marina. Nelson da parte sua non perdette un momento, e appena ebbe gettato l’ancora, discese nella sua lancia e venne a terra. Al modo che la regina si volse verso di lui e gli strinse la mano ho potuto conoscere che il timore è un sentimento tanto forte quanto l’amore. Nelson salì in carrozza e lo conducemmo a palazzo. In quegli otto o dieci giorni di crociera Nelson non aveva veduto nemmeno una vela della flotta francese. Era sua opinione che dessa si fosse diretta senza dubbio a Tolone per prendere rinforzi. Richiamò specialmente la nostra attenzione sul suo ritorno che aveva, diceva egli, per iscopo di rassicurare la regina. Ma la sua unica mano stringendo la mia, mi dava a divedere che egli era ritornato soltanto per me. S’informò se avevamo ricevuto qualche notizia da Napoli. Noi non sapevamo che delle notizie vaghe, ma erano per altro buone. I Napolitani condotti da Caracciolo, che riunì una flottiglia di piccole barche, avevano tentato di approfittare dell’assenza di Nelson e del grosso della sua flotta per riprendere le isole; ma dopo un combattimento accanito contro il _Seahorse_ comandato dal capitano Footh, e la _Minerva_ l’antica fregata di Caracciolo comandata dal conte di Turn, Caracciolo e la sua flottiglia erano stati respinti. Nello stesso giorno Nelson ricevette una lettera dal capitano Footh che portava in fine questa poscritta. «Trenta giacobini sono stati impiccati ieri verso il dopo pranzo. E il bastimento che vi reca questa notizia ha a bordo tre preti condannati, che invio a Palermo per essere sconsacrati, e che saranno impiccati al loro ritorno.» Al 6 giugno, la squadra di lord Nelson fu rinforzata dall’arrivo a Palermo del _Fulminante_, vascello di 80 cannoni destinato a diventare, in luogo del _Vanguard_, il vascello ammiraglio; era seguito dal _Leviathan_ che portava la bandiera del Vice-ammiraglio Duckworth, dal _Maestà_, e dal _Nortumberland_ levati dalla flotta di lord S. Vincent. L’8 giugno fu un giorno di festa: lord Nelson trasportò la sua bandiera dal _Vanguard_ sul _Fulminante_; fece passare con lui su questo vascello il capitano Hardy, cinque luogotenenti, il chirurgo, il cappellano e molti marinai. Si decise che in quel giorno Nelson riprenderebbe il comando della flotta e tenterebbe una spedizione contro Napoli. Il principe ereditario, vergognoso di non aver fatto ancor nulla per riconquistare il suo retaggio, si decise finalmente di partire con Nelson, che annunziò che, se il re volesse dargli delle istruzioni, egli metterebbe vela al primo vento favorevole. Il re, e la regina e sir William passarono la notte a redigere per lord Nelson le seguenti istruzioni. Esse davano carta bianca a Nelson, ma nello stesso tempo il re e la regina gli raccomandarono a voce di non trattare coi ribelli, e la regina gli mostrò la copia di una lettera che scriveva al cardinale Ruffo, incaricandolo di dare a Nelson l’estratto seguente. Tradussi letteralmente il passo in inglese, perchè Nelson fosse perfettamente istruito dalle intenzioni della regina, che come sempre, erano quelle del re. «Desidero ardentemente di conoscere la presa di Napoli, e quali negoziazioni siansi prese con S. Elmo e col suo comandante francese; ma, ve ne prego, nessun patto colle navi ribelli, alle quali il re perdonerà nella sua clemenza, diminuendo loro la pena per un effetto della sua bontà. Non bisogna mai e sotto nessun pretesto capitolare nè trattare coi sudditi ribelli, che sono all’agonia, e che volendo far male non lo potrebbero, essendo presi a quest’ora come sorci nella trappola. Voglio ben perdonare a loro se sarà necessario per il bene dello Stato; ma venire a patti, scendendo tanto basso con quei miserabili, mai.» Si vede che con tali istruzioni, Nelson non aveva che una sola cosa da fare, eseguirle, o non incaricarsi della spedizione: ma essendo questa fatta al contrario nel doppio scopo di riconquistare Napoli e di vendicare la dinastia, il re dava cognizione a Nelson di ciò che scriveva a Ruffo ed in cui gli diceva: «Mi si assicura che voi avreste detto a qualcuno, che se i castelli di Napoli si arrendono, voi permettereste a tutti i ribelli di uscire incolumi, anche Caracciolo, Manthonnet ecc. ecc. Questa cosa, Eminentissimo mio, non la crederò giammai, perchè Dio ci vieta di lasciare in vita queste vipere velenose, specialmente Caracciolo che conosce tutti i piccoli buchi dei nostri porti e potrebbe farci il più gran male! Del resto circa a Caracciolo la regina non era soltanto d’accordo col re, ma fu dessa che aveva avuto quell’ispirazione di odio mortale. In una lettera scritta il giorno prima, in cui il re scriveva la sua e si esprimeva presso a poco in questi termini: «Fra i colpevoli scellerati, il solo che voglio che a qualunque prezzo non vada in Francia è l’indegno Caracciolo, questi, tre volte ingrato, che conosce tutti gli angoli del nostro litorale di Napoli e di Sicilia, che potrebbe, se sfuggisse alla nostra giustizia, suscitarci molti nemici, ed anche compromettere la sicurezza del re.» Lo si vede, l’ordine è positivo, e Nelson non aveva che una cosa da fare: obbedire ad ordini positivi, o rinunziare alla spedizione. Al giovedì, 12 giugno, lord Nelson non era ancora deciso, e la regina allora impiegando su di lui il suo mezzo ordinario di pressione, mi dettò questa lettera per lui: «Giovedì 12 giugno sera. «Ho passato la sera colla regina che è veramente disperata, e dice che quantunque il popolo di Napoli sia in generale pei suoi legittimi sovrani, le cose non potrebbero essere ridotte allo stato di tranquillità e di subordinazione se non quando Nelson e la sua flotta si presenteranno innanzi a Napoli. È perciò che essa vi prega, v’impegna, vi scongiura, mio caro lord, di far tutto il possibile per andare a Napoli. Per l’amor di Dio, pensateci, riflettete ed agite. Noi verremo anche con voi se lo volete. Sir William è ammalato, io pure sono ammalata; ciò mi rimetterà in salute. «Sempre, sempre la vostra sincerissima «EMMA HAMILTON.» Due giorni prima, inviandogli le istruzioni che leggeremo in seguito, il re scriveva a lord Nelson, che egli era già pronto a mettere alla testa dei suoi generali il principe ereditario, e che lo confidava a lui, Nelson, contando interamente e completamente sul di lui zelo, sul di lui servizio e sul di lui attaccamento alla sua persona e famiglia: attaccamento di cui egli avea date prove così numerose: malgrado tutto ciò, Nelson aveva resistito; ma egli non sapeva rifiutarmi nulla, la mia lettera lo decise, e nella notte mi fece rispondere che al giorno seguente il principe ereditario poteva recarsi a bordo. Difatti al 13 il principe ereditario venne a bordo del Fulminante; noi tutti lo accompagnammo, il re, la regina, molti personaggi della famiglia reale, ed io. Lo stendardo reale fu subito inalberato, e nel momento in cui lo si inalberava si tirarono i 21 colpi di cannone; a mezzodì scendemmo dal Fulminante lasciando a bordo il principe ed il suo seguito. Nelson mise alla vela subito dopo la nostra partenza. Il giorno seguente, venerdì 14, alle quattro del mattino, fu raggiunto dai vascelli di Sua Maestà Britannica, il _Powerfull_ e il _Bellerofonte_, che venivano ad annunziargli da parte di lord Keith che la flotta francese, forte di ventidue legni, era stata segnalata sulle coste d’Italia. Nelson che ne avea con lui soltanto sedici, e di second’ordine, con pochi uomini non credette opportuno di esporre il principe ereditario alla sorte di un combattimento, che raddoppiava la sua responsabilità. Riprese immediatamente la via di Palermo, e sbarcò nello stesso giorno il principe con tutti i suoi bagagli, le munizioni e le truppe; riprese poscia il mare e si diresse a Maretimo, sperando di essere raggiunto dall’_Alessandro_ e dal _Goliath_, i cui capitani doveano recarsi al blocco di Malta, giusta gli ordini che avevano ricevuto otto giorni prima. Al 18 giugno era innanzi a Maretimo in mare, e credeva di dover combattere colla flotta francese, perchè rispose al capitano Footh, che gli annunziava l’avvicinarsi dei Russi e del cardinal Ruffo, e la presa probabile di Napoli, di venire, se Napoli fosse preso, a raggiungerlo innanzi a Maretimo col _Seahorse_, la _Mutine_ ed il _Perseo_, lasciando soltanto per la guardia delle isole e della baia di Napoli le navi napoletane col _Buldog_ e il _S. Leone_: del resto, aggiungeva, che se il capitano Footh credesse pericoloso di lasciar Napoli, gli lasciava la libertà intiera di agire a suo talento. Nello stesso giorno, vale a dire il 18 giugno, l’_Alessandro_ ed il _Goliath_ lo raggiunsero, in fine due giorni dopo un dispaccio di lord Keith invitava lord Nelson a ritornare a Palermo a prendervi gli ordini del re e di condurre la squadra nella baia di Napoli, ove supponeva che si dirigerebbe la flotta francese. Durante quest’assenza, erasi convenuto fra la regina e me che, per non lasciar raffreddare lo zelo di Nelson, non si sarebbe già imbarcato il principe ereditario, ma io e sir William. Alle nove del mattino si segnalò l’arrivo della flotta; a mezzodì entrò nella baia di Palermo, ma non gettò l’áncora. Nelson scese a terra nel momento in cui noi arrivavamo alla marina. La regina, sir William, ed io, lo prendemmo nella nostra carrozza e lo conducemmo dal re, ove ebbe con lui una conferenza di tre ore. Uscendo, lord Nelson ci trovò pronti a partire, sir William ed io; mise un ginocchio a terra davanti alla regina, e le giurò che i suoi voleri sarebbero letteralmente eseguiti. La gioia di averci compagni, che non poteva esprimere innanzi a mio marito, si trasformò in entusiasmo per la causa della regina; un suo sguardo mi fece comprendere che egli s’inginocchiava innanzi a me, e che la mano che baciava era la mia. Prendemmo congedo dalla regina; mi tenne molto tempo stretta al suo cuore; la sua ultima parola fu quella di Carlo I: — Remember. Il re consegnò a Nelson le sue istruzioni in data del 10; e siccome formano un complesso con quelle date a Ruffo, che sono poco conosciute, e spiegano, se non la scusano, la condotta di Nelson, le riporteremo qui. «_Istruzioni date dal re Ferdinando Borbone a Sua Signoria lord Nelson_ «Valorosissimo lord Nelson, «Le differenti notizie che mi giungono di Napoli richiedono una pronta risoluzione, e le presenti circostanze di questo regno e della mia famiglia m’impediscono, stogliendomi, di lasciarla, dovendo prender cura della loro salute e della loro difesa; ripongo tutta la mia speranza nel voto di riconquistare quella capitale, mediante il possente aiuto delle forze inglesi poste sotto i vostri ordini. Quanto vi ha di buono e di leale fra gli abitanti desidera di spezzare il giogo che gli è stato imposto per tradimento. Una gran parte del popolo qui non può tranquillamente vedere avvicinarsi le truppe del cardinale Ruffo, e osservare i successi nelle provincie dei diversi capi che si sollevano in favore della religione e della Corona, senza ardere dal desiderio di unire i loro sforzi, nello stesso scopo delle province. «Gli sforzi dei miei uffiziali non bastano più (forse) a trattenere l’ardore che li spinge; perchè i Napolitani debbono aspettare l’arrivo delle truppe di linea che organizzo ed i soccorsi, che come sapete, attendo dai miei buoni alleati, per poter agire insieme con grande sicurezza e colla maggior energia a liberare l’oppressione del regno di Napoli. «Bisogna evitare che una insurrezione scoppii intempestivamente nella capitale, per isfuggire alla sventura di perdere tanti fedeli sudditi che diverrebbero vittima del furore del ribelli. Ho pensato quindi di riunire una soldatesca di linea sufficiente, perchè, senza indebolire di più il regno, possa aiutare i differenti corpi, che esistono già nelle isole del Cratere, e secondo le disposizioni del popolo, aspettando le forze straniere, che coopereranno con esse al ristabilimento completo dell’ordine. Però questa misura senza la vostra importante assistenza e direzione non può produrre il risultato necessario; ho dunque ricorso a voi, mylord, per ottenere l’uno e l’altro, acciocchè (se Dio benedice i vostri sforzi ed i nostri) il regno essendo prontamente liberato dal flagello che lo ha afflitto, io possa essere in grado di corrispondere agl’impegni assunti, come mi prescrivono il mio dovere e la mia ragione. Epperciò vi trasmetto copia delle istruzioni, che do ai generali in capo, e che manderò a quelli del continente, alla cui testa ho posto mio figlio, e per la quale io conto sulla vostra amichevole assistenza, di modo che, i suoi primi passi nella critica carriera in cui è entrato, possano essere guidati dai vostri saggi avvisi, chiedendovi non solamente di aiutarlo coi vostri possenti soccorsi, ma di agire principalmente in modo che le vostre forze siano i veri mezzi, i veri sostegni sui quali possa far riposare le mie speranze, come devono anche essere la mia salvezza. «L’intenzione, come voi me lo fate osservare, di rispettare l’ordine e la tranquillità a Napoli col possesso della capitale, servendosi di uomini devoti alla buona causa, non potrebbe aver effetto che con questa speranza da me vagheggiata in questo momento; quando non fossi inoltre obbligato d’incoraggiare e approfittare del buon volere del popolo, con prudenti mezzi, visto che queste buone intenzioni potrebbero raffreddarsi ed il popolo diventar vittima della sua devozione. La flotta potente e distinta colla quale voi sosterrete la spedizione, mi permette di sperare questo felice risultato, che da essa esclusivamente dipende, e di aver confidenza, che, senza nuocere alle più grandi operazioni che voi avete costantemente in vista pel bene di tutti, voi mi salverete, e con me tutta la Sicilia: e come chiedo, aggiungendo a questo servizio essenziale un altro importantissimo, che voi mi avete reso con tanto zelo e di cui vi sarò riconoscente per tutta la vita. «Mi lusingo che senza fare del male alla capitale, i ribelli cederanno, come pure il nemico che occupa ancora S. Elmo, a misura che saranno presi. In conseguenza, quando (dopo aver pesato ogni considerazione, che possa aver riguardo alla vostra squadra, e la destinazione per la quale è forse richiesta pel bene generale, come per le particolari mie circostanze) stimerete opportuno di dover impiegare le attuali e potenti vostre forze, per fare effettivamente ritornare al dovere gli oppressori ostinati del mio popolo, (napolitano) e per estirpare, come urge, quest’orda di malfattori, voi potete usare tutti i mezzi proprii ad ottenere questo scopo tanto necessario. «Io conto, mylord (e lo ripeto con piacere e con particolare soddisfazione), interamente e completamente sul grande zelo pel mio servizio, all’attaccamento per la mia persona e per la mia famiglia, che voi mi avete dimostrato tanto lealmente con fatti, pei quali vi sarò infinitamente riconoscente ed obbligato. Nello stesso tempo prego l’Onnipotente di avervi e di conservarvi, mylord, nella sua santa custodia. «Palermo, 10 giugno 1799. «FERDINANDO B.» Andammo dapprima a bordo del _Fulminante_, ove lo attendea vicino il cutter di lord S. Vincent; colà Nelson seppe da una lettera di sir Allan Gardner, che navigava nel Mediterraneo con 16 legni, che la flotta francese seguita da lord Keith, era stata veduta nel golfo della Spezia. Nelson ordinò di far acqua, poi andammo tutti e tre a pranzare a bordo del Serapide comandato dal capitano Duncan. Alla sera c’imbarcammo, e il giorno dopo, essendosi fatte le provvigioni d’acqua, prendemmo il largo. X. Tutta la giornata appresso, era domenica, scorse senza vedere una sola vela; il tempo era bello, e il vento favorevole; passammo le isole, e al lunedì, 24, all’alba, incontrammo uno schifo napolitano che ci supplicò di dargli dell’acqua; un’ora dopo, vedemmo venir verso di noi un brick che l’ammiraglio Nelson riconobbe per la _Mutine_. Gli fece il segnale di accostare, il canotto fu messo in mare e si diresse verso di noi; il capitano Hoste salì sul _Fulminante_. Il capitano Hoste era latore di un trattato convenuto fra il cardinal Ruffo, il generale delle truppe russe e il comandante delle truppe turche, il capitano Footh del _Seahorse_ e i Francesi di castel S. Elmo, e i ribelli di castel Nuovo e di castel dell’Uovo. Apprendendo da quella notizia che si era fatto un trattato coi ribelli, cosa che era contraria agli ordini delle Loro Maestà Siciliane, Nelson diventò livido per la collera, inviò con un piccolo bastimento-posta il trattato, chiuso sotto quattro suggelli, a Palermo, scrivendo al re ch’egli non s’inquietava per questi trattati che non sarebbero mantenuti; e dopo aver udito dal capitano Hoste quanto aveva saputo di questi trattati, gli ordinò di salire a bordo della _Mutine_, e di ritornare con lui a Napoli. Ci rimettemmo in viaggio. Nelson giurava innanzi a Dio e agli uomini che un trattato, che considerava come infamante per la dinastia, non si sarebbe eseguito. Il vento era favorevole, e passammo ben presto Capri, e ci avanzavamo a gonfie vele verso Napoli. Nelson era disceso nella sua cabina, e colla più grande agitazione scrisse al cardinale la nota seguente: «Ecco la mia opinione prima di aver letto il trattato di armistizio, e sul semplice rapporto che mi è stato fatto. «L’armistizio, a quanto suppongo, porta, che se i Francesi ed i ribelli non sono soccorsi entro ventun giorni, a partire da quello in cui è stato segnato l’armistizio, essi avranno diritto di evacuare Napoli, il che sarebbe un’onta per S. M. Siciliana e un trionfo per essi. «Ogni armistizio riserva a ciascuna parte il diritto di ricominciare le ostilità, dando, ad un’epoca fissata dalle parti contraenti, la facoltà di denunziare la fine dell’armistizio. Suppongo che il cardinale creda che colle truppe che dispone non avrà in 21 giorni il potere di cacciare i Francesi dal forte di S. Elmo, ed i ribelli da castel Nuovo e dell’Uovo; i Francesi ed i ribelli da parte loro pensano, che se non sono soccorsi in 21 giorni, saranno trasportati su qualche punto, ove potranno ricominciare le loro trame diaboliche contro Sua Maestà di Sicilia, la pace del regno e la tranquillità dei suoi fedeli sudditi, e questi nemici e questi ribelli saranno protetti dalla flotta stessa di S. M. Siciliana, e da quella del suo fedele alleato il re della Gran Brettagna? «Per Dio, ciò sarebbe troppo! Evidentemente questo contratto implica, che ciascun partito abbia per sè delle speranze di ricevere soccorsi, e intanto rimane lo _status quo_; ma dal momento che l’una o l’altra delle due parti riceve dei soccorsi, il contratto diventa nullo e senza effetto. È evidente che se invece della flotta inglese, fosse venuta la flotta francese nella baia di Napoli, i Francesi ed i ribelli non osserverebbero un momento l’armistizio, e l’ammiraglio francese direbbe semplicemente: — No. — Io non sono venuto qui per osservare, ma per agire; così dice l’ammiraglio inglese, e dichiara sul suo onore che l’arrivo d’una flotta, sia britannica o francese, rompe il trattato: quella flotta, qualunque fosse, non può resistere inattiva. «Però l’ammiraglio inglese propone al cardinale di fare sapere, in nome di loro due, ai ribelli ed ai Francesi, che l’arrivo della flotta britannica ha completamente distrutto il trattato, come avrebbe fatto la flotta francese se avesse potuto, e, grazie al cielo, non è nulla venire a Napoli. «Però, acconsente di dare due ore ai Francesi per rendere castel S. Elmo ai fedeli sudditi di Sua Maestà di Sicilia e alle truppe dei suoi alleati, alla condizione che i Francesi si ritirerebbero in Francia senza essere prigionieri di guerra: che in quanto poi ai traditori ed ai ribelli, nessun diritto esiste fra essi ed il loro grazioso Sovrano; essi debbono in conseguenza confidare senz’altro nella sua clemenza, non potendosi accordar loro diverse condizioni, non avendo i Francesi il diritto di comprenderli nella loro capitolazione: tutto dovrà compiersi nel tempo sovrindicato, vale a dire due ore pei Francesi, e all’istante pei ribelli. «Che si affrettino di accettare, o altrimenti non sarà più loro offerta una capitolazione così favorevole. «O. NELSON. «_Fulminante_, Napoli, 24 giugno 1799. Da parte sua sir William scriveva in francese, lingua che il cardinale parlava benissimo, la lettera seguente, nel caso in cui il cardinale non comprendesse l’inglese, o non avesse nessuno per spiegarglielo. «A bordo del _Fulminante_, 24 giugno 1799, 3 ore dopo mezzodì, nel golfo di Napoli. «EMINENZA, «Milord Nelson mi prega d’informare l’Eminenza Vostra che ha ricevuto dal capitano Footh, comandante la fregata _Seahorse_, una copia della capitolazione che Vostra Eminenza ha giudicato dover fare coi comandanti di S. Elmo, del castel Nuovo e del Castel dell’Uovo; — che egli disapprova intieramente tali capitolazioni, e ch’è risoluto a non rimaner neutro colla forza imponente che ha l’onore di dirigere, — che ha spedito a V. Eminenza i capitani Troubridge e Ball, comandanti i vascelli di S. M. Britannica, il _Culloden_ e l’_Alexander_. I capitani son benissimo informati de’ sentimenti di Milord Nelson, ed avran l’onore di farli conoscere all’Eminenza V. Milord spera che il signor cardinale Ruffo sarà della stessa sua opinione, e che domani, allo spuntar del giorno, potrà agire d’accordo con Sua Eminenza. «Il loro scopo non può essere che lo stesso, cioè ridurre il comun nemico, e sottomettere alla clemenza di S. M. Siciliana i sudditi ribelli. «Ho l’onore di rassegnarmi, «Di Vostra Eminenza, _Umil. ed obbed. servo_ «W. HAMILTON. «_Inviato straordinario e plenipotenziario di S. M. Britannica presso S. M. Siciliana_.» Mentre lord Nelson scriveva la sua nota, e sir William questa lettera, il bastimento camminava in modo che non eravamo più che a due o tre miglia dalla baia; e ne avvenne che quando lord Nelson risalì sul ponte vide ciò che non aveva potuto vedere a motivo della distanza, vale a dire le bandiere parlamentari che sventolavano sui castelli dei Francesi, dei ribelli, e sul vascello inglese il _Seahorse_. Quella vista portò la sua collera al colmo. Fece un segnale per richiamare a lui il _Culloden_ e l’_Alessandro_ fece salire al suo bordo i capitani Troubridge e Ball, che li comandavano, consegnò loro la sua nota e la lettera di sir William, ed ordinò, prima che il _Fulminante_ gettasse l’áncora, che scendessero in una lancia e a forza di remi si portassero al ponte della Maddalena, per consegnare le due carte al cardinale Ruffo. Spinti da dodici vigorosi rematori, i due capitani approdarono al ponte della Maddalena, e trovarono il cardinale Ruffo che li aspettava; con un cannocchiale egli aveva seguito tutte le manovre del _Fulminante_, aveva veduto la barca distaccarsi dal bastimento, e vogare verso terra. Gli uffiziali gli consegnarono i due plichi, ma esso comprese poco o nulla la nota di Nelson, e avendo letta la lettera di sir William, credette che Nelson disapprovasse la capitolazione per la sola ragione che Napoli fosse stata attaccata senza che si aspettasse l’arrivo della squadra inglese, come era stato convenuto, quando il principe ereditario doveva presiedere a quell’attacco. Allora pensò che una visita personale a bordo del _Fulminante_, visita nella quale spiegherebbe all’ammiraglio i motivi di urgenza che gli avevano fatto attaccare Napoli, concilierebbe tutto; scese nella barca dei capitani Troubridge e Ball e abbordò al _Fulminante_, sul quale il suo arrivo fu salutato da 13 colpi di cannone. Nelson l’aspettava dall’alto della casa con sir William, il quale, parlando egualmente bene il francese e l’italiano, ricevette Ruffo, gli fece gli onori del vascello, e lo condusse nella cabina ove io era rimasta. Il cardinale, scorgendomi, fece un movimento; egli sapeva che la regina non l’amava, e che io divideva con essa tutti i suoi sentimenti di simpatia e di antipatia. Lo salutai freddamente, si scambiarono i complimenti di uso, ed il cardinale cominciò in eccellente francese a raccontare gli avvenimenti del 13 e del 14 giugno che lo avevano condotto alla capitolazione. Lord Nelson insistette a non voler vedere nel trattato che un’amnistia; ma Ruffo espose gli uni dopo gli altri tutti gli articoli, e dimostrò che non era un armistizio, nè una sospensione di armi; ma un vero trattato, che non potrebbero rompere nè l’arrivo della flotta francese, nè l’arrivo della flotta inglese; e la cosa era tanto vera che alla prima vista i patriotti (si sa qual era il nome che il cardinale dava ai ribelli), presero la flotta inglese per la flotta franco-spagnuola; alcuni chiedevano che l’arrivo di questi soccorsi muterebbe qualche cosa alla capitolazione; e che la maggioranza aveva deciso quasi unanimemente, che la firma era valevole e che il trattato doveva essere mantenuto. Sir William traduceva a Nelson le parole di Ruffo mano mano che gli uscivano di bocca, e quegli, ascoltandolo con impazienza, e udendolo dire che una capitolazione conchiusa doveva essere lealmente eseguita, diede in uno scoppio di rabbia, e gridò: — Eh signore! I sovrani non trattano coi loro sudditi. — È vero, milord, rispose il cardinale, non capitolare è meglio; ma dopo aver capitolato sono obbligati ad uniformarsi ai trattati. Poi volgendosi verso sir William. — Non è questo anche il vostro avviso, signore? E siccome sir William rispondeva invece che era dell’avviso di Nelson, il cardinale vide che la cosa era più seria di quanto l’aveva creduta. Allora si alzò e disse che i Russi ed i Turchi essendo intervenuti nel trattato, non poteva rispondere solo alle obbiezioni di lord Nelson. E prendendo commiato, si fece condurre a terra. Di ritorno al suo quartier generale, il cardinale fece venire, a quando ci fu detto poi, il ministro Micheroux, il comandante Baillie ed il capitano Achmet; mandò a cercare il capitano Footh, ma Nelson ebbe cura di allontanarlo inviandolo a Procida. Nelson poi scrisse immediatamente al contr’ammiraglio Duckworth: «25 giugno 1799. «Mio caro ammiraglio, «Vi dirò che il cardinale ed io incominciamo ad essere di un avviso completamente opposto. Egli vuole mandare i ribelli a Tolone, ed io non voglio che vadano; egli pensa che val meglio salvare le case di Napoli che l’onore dei suoi sovrani. Troubridge e Ball sono andati a portargli la mia dichiarazione riguardo ai ribelli che persiste a chiamare patriotti, — quale prostituzione di questa parola! — Manderò Footh a Procida a prendere le cannoniere. Vorrei che tutti i vascelli della flotta non fossero più di due nodi l’uno dall’altro; vi manderò uno schizzo dell’ancoraggio a quaranta braccia d’acqua; il _Fulminante_ deve essere il vascello ammiraglio; se la flotta francese mi fa il favore di una visita, prenderò la mia posizione del centro.» Intanto il cardinale aveva tenuto consiglio, ed era stato non soltanto deciso che si mantenesse la capitolazione, ma ancora che se Nelson si ostinasse a romperla, si tenterebbe con tutti i mezzi di salvare i ribelli. Tutta la sera, la notte e la mattina del giorno seguente, era un continuo andare e venire dal quartier generale al _Fulminante_, e dal _Fulminante_ al quartier generale, senza che la questione facesse un passo di più; ciascuno stette fermo nella sua volontà. Alla mattina del 25 Nelson compilò questa dichiarazione, diretta al Giacobini di castel dell’Uovo. «Baia di Napoli, 25 giugno 1799. «_A bordo del Fulminante, vascello di S. M. B._ «Il contr’ammiraglio lord Nelson, cavaliere baronetto, comandante in flotta di S. M. Britannica, previene i ribelli sudditi di S. M. Siciliana chiusi in castel dell’Uovo e castel Nuovo, che non permette loro nè di lasciar quella piazza, nè d’imbarcarsi. Essi debbono soltanto arrendersi alla discrezione di S. M. Siciliana.» Nelson fece proclamare la sua decisione; una barca approdò al castel dell’Uovo, e l’araldo la lesse ad alta voce; ma il comandante del castello salì sulle mura e gli gridò: — Al largo, presto, presto, presto, o faccio tirare su di voi; vi è un trattato e lo faremo osservare. Nelson, sempre furioso, scrisse sopra la nota che egli aveva mandato al cardinale e che costui gli aveva retrocesso: «Letta, spiegata al cardinale, e ricusata da lui.» All’annunzio della pubblicazione o piuttosto dell’intimazione che Nelson aveva fatto ai repubblicani, il cardinale Ruffo credette di dover rispondere, prendendo anch’egli un’attitudine risoluta. Scrisse quindi questo viglietto all’ammiraglio: «Se lord Nelson non vuole riconoscere il trattato della capitolazione dei castelli di Napoli, al quale, fra gli altri contraenti, intervenne solennemente un uffiziale inglese a nome del re della Gran Brettagna, resta a lui solo tutta la responsabilità; se va impedita la esecuzione di tal trattato, il cardinale F. Ruffo rimetterà il nemico nello stato in cui si trovava prima del trattato medesimo; finalmente ritirerà le sue truppe dalle posizioni posteriormente occupate e si trincererà con tutta la sua armata, lasciando che gl’Inglesi, colle proprie forze, vincano il nemico.» Ricevendo questo viglietto che esponeva così nettamente la questione, Nelson si ritirò nella cabina con Sir William, e uscì tenendo in mano il viglietto seguente; il messaggiero del cardinale ricevette nello stesso tempo l’originale inglese, colla traduzione fatta da sir William. «_Fulminante_, 26 giugno 1779. «Il contr’ammiragllo lord Nelson, arrivato il 24 giugno nella baia di Napoli, avendo trovato un trattato firmato dai ribelli, espresse la sua opinione, che questo trattato non possa essere messo in esecuzione, senza la approvazione di S. M. Siciliana.» Il cardinale rispose che se al dimani i patrioti ribelli, come piacerebbe a lord Nelson di chiamarli, non ricevessero da lui l’autorizzazione d’imbarcarsi, egli compirebbe la minaccia fattagli, e si sarebbe ritirato colla sua truppa. La minaccia era seria; Ruffo punto dal rifiuto di Nelson era uomo capace di eseguirla. Nelson, mancando di truppe di sbarco, era obbligato a bombardare Napoli. Per cui sir William rispose: «Eminenza, «Milord Nelson mi prega di assicurare Vostra Eminenza, che è risoluto di non far nulla che possa rompere l’armistizio che Vostra Eminenza ha accordato ai castelli di Napoli. «Ho l’onore di essere, «Di Vostra Eminenza, «Umil. ecc. «W. HAMILTON.» Questa lettera fu portata dai capitani Troubridge e Ball, che avevano portato la prima protesta dell’ammiraglio. Siccome la lettera di sir William Hamilton conteneva nulla di positivo, il cardinale interrogò i due capitani, che spiegarono la lettera dicendo che l’ammiraglio non si opponeva all’imbarco dei repubblicani. Il cardinale chiese se erano autorizzati a metter in iscritto quanto dicevano, cioè che Nelson prometteva di non opporsi all’imbarco dei repubblicani. I due uffiziali si consultarono, e dopo un istante risposero che non ci vedevano alcun inconveniente. Troubridge prese allora un pezzo di carta, e scrisse di suo pugno: «I capitani Troubridge e Ball hanno autorità per la parte di lord Nelson di dichiarare a Sua Eminenza, che milord non si opporrà all’imbarco dei ribelli, e della gente che compone la guarnigione dei castelli Nuovo e dell’Uovo.» Poi diedero questa dichiarazione al cardinale. — Però, signori, disse il cardinale, siate anche compiacenti di firmarla. — Perdono, Eminenza, rispose Troubridge, noi abbiamo potere per gli affari militari; ma non per gli affari diplomatici. Siccome però la nota, quantunque non firmata, è di nostra mano, noi v’invitiamo a credervi. Il cardinale non insistette più, sia che fosse maravigliato di questo modo di cavarsi d’impaccio, sia che temesse di offendere i due uffiziali. Troubridge e Ball ritornarono a bordo, e ciò che avevano fatto fu approvato da Nelson, e da sir William. XI. Siccome lord Nelson aveva ricevuto, circa all’ammiraglio Caracciolo, degli ordini positivi dal re e dalla regina, e si era impegnato di prenderlo morto o vivo, aveva fatto cercare delle informazioni in città, ove già si rispose, che nella notte del 23 al 24, Caracciolo era fuggito, e che a quell’ora doveva già aver passato la frontiera. Questa notizia mise Nelson fuori di sè. Colle sue idee di disciplina, un ammiraglio che tirava il cannone contro la bandiera del sovrano portata da un bastimento che era il suo, meritava non già una, ma dieci volte la morte. Lord Nelson, più tranquillo, riguardo agli altri ribelli, e coll’inganno che avea messo in atto, e che gli aveva suggerito, — debbo fare questa occasione — sir William Hamilton, non potevano sfuggirgli. Lord Nelson cercava ogni mezzo per procurarsi delle notizie di Caracciolo, quando, verso le undici ore e mezzo della sera, intese il grido che fa la sentinella quando vede, dopo la ritirata, avvicinarsi una barca al bastimento su cui veglia. Nelson, come se avesse indovinato l’importanza della notizia che questa barca gli recava, pose sulla tavola la tazza di thè che portava alle labbra, e si mosse verso la porta della cabina. V’incontrò l’uffiziale di quarto. — Un contadino chiede di parlare particolarmente con lord Nelson. — Un contadino che vuole? Credetti di comprendere nel suo dialetto, milord, che si tratta di Caracciolo. — Di Caracciolo, diavolo! vediamo cos’è; fate venire il vostro contadino, signore. Difatti questo contadino non era altro che un colono di Francesco Caracciolo, presso il quale si era rifugiato l’infelice ammiraglio. Egli veniva a vendere il suo padrone; ma voleva esser pagato bene. Gli misero quattromila ducati e gliene diedero mille in conto. Volle che si mantenesse il più gran segreto e specialmente verso il cardinale, che pretendeva di aver aiutato la fuga di Caracciolo. Fu convenuto che il cardinale ignorerebbe completamente ciò che sarebbe accaduto. Il contadino chiese quattro uomini per aiutarlo nella sua spedizione. Qui cominciava il difficile. Nelson gli avrebbe ben dato quattro marinai inglesi, ma per quanto fossero travestiti, avrebbero ispirato dei sospetti, non parlando che la loro lingua. Nelson gli chiese se non avesse egli invece quattro uomini fidati; rispose di sì, e che con denaro avrebbe tutto ciò che vorrebbe, ma che al momento bisognava dare cinquanta ducati per uomo. Erano duecento ducati di più che si arrischiavano. Nelson glieli diede. In cambio il traditore diede il suo nome ed il suo indirizzo; egli chiamavasi Luigi Martino, e dimorava nel villaggio di Calvizzano. Fu convenuto, che a dimani sera una barca inglese aspetterebbe al Granatello, e che l’ammiraglio, una volta preso, sarebbe imbarcato al Granatello, e condotto direttamente a bordo del _Fulminante_. Era una grande notizia, e non bisognava lusingarsi troppo che fosse vera; di ciò sir William non ne fece poi che un paragrafo accessorio della lettera che scrisse al mattino del 27 al generale Acton. Eccola, e vi darà un’idea più esatta di ciò che potrei dire sullo stato in cui era Napoli. «Mio caro Signore, «Vostra Eccellenza avrà veduto dall’ultima mia lettera che le opinioni tra il cardinale e lord Nelson non vanno mica d’accordo. Però dopo buone riflessioni, lord Nelson mi autorizzò a scrivere a Sua Eminenza, ieri mattina, per accertargli che non farebbe nulla per rompere l’armistizio che Sua Eminenza avea creduto conveniente conchiudere coi ribelli racchiusi ne’ castelli Nuovo e dell’Uovo, — e che la Signoria Sua era pronta a dargli ogni assistenza, di cui la flotta posta sotto il suo comando fosse capace, e che Sua Eminenza credesse necessaria per il buon servizio di Sua Maestà Siciliana. Ciò produsse il migliore effetto possibile. Napoli era stata sottosopra nel timore che lord Nelson rompesse l’armistizio; ora tutto è calmo. Il cardinale ha concertato coi capitani Troubridge e Ball che i ribelli de’ castelli Nuovo e dell’Uovo vengano imbarcati questa sera, mentre 500 marinai saranno fatti scendere a terra per andare ad occupare i due castelli, sopra i quali, la Dio mercè, sventola ora la bandiera di S. M. Siciliana, mentre le bandiere della repubblica, _corta vissuta_, stanno nello stanzino del _Fulminante_, dove, lo spero, la bandiera francese che sventola ancora sopra Sant’Elmo andrà a raggiungerle. Eravamo nella lancia di lord Nelson allorchè i marinai sono sbarcati all’uffizio della _Sanità_. La gioia del popolo era eccessiva. I colori napoletani ed inglesi erano inalberati alle finestre, ed allorchè prendemmo possesso de’ castelli, fu in tutto Napoli un immenso _fuoco di allegrezza_, e quando sopravvenne la notte, un’immensa illuminazione, come la prima notte. Finalmente, ho grande speranza che la venuta qui di lord Nelson tornerà di molto utile alle LL. MM. Siciliane. È stato necessario che io m’interponessi tra il cardinale e lord Nelson, altrimenti tutto sarebbe andato perduto sin dal primo giorno; ed il cardinale mi scrisse per ringraziarmi unitamente a lord Nelson. L’albero dell’abominio, di rimpetto il palazzo reale, è stato gettato a terra, ed il berretto rosso strappato dalla testa del gigante. Il capitano Troubridge è andato a terminar questa faccenda, ed i ribelli che sono a bordo delle polacche non possono muoversi senza un passaporto di lord Nelson. Caracciolo e dodici altri di quegl’infami ribelli saranno fra breve dati in mano a lord Nelson. Se non m’inganno, saranno spediti cautamente in Procida onde essere colà giudicati, ed a misura che saranno condannati, essi ritorneranno qui, per l’esecuzione della loro sentenza. Caracciolo sarà probabilmente impiccato all’albero di trinchetto della _Minerva_, dove rimarrà esposto dall’alba fino al tramontar del sole, dappoichè un tale esempio è necessario per il servizio futuro della marina di Sua Maestà Siciliana, in seno alla quale il giacobinismo ha già fatto sì grandi progressi. «W. HAMILTON.» Si vede il consiglio dato da sir William a lord Nelson, e attribuisco a questo consiglio, che fu tanto facile di presentare come un tradimento, la perdita del posto di sir William ed il suo richiamo a Londra. Al 27 di sera tutti i ribelli, credendo che imbarcandosi nelle feluche fossero imbarcati per Tolone, vi presero posto con tutta la confidenza; ma non appena vi erano entrati, le feluche furono portate sotto il fuoco dei vascelli inglesi che in pochi secondi potevano calarle a fondo. Nella sera del 28, giusta quanto dicemmo della parte che il cardinale aveva preso per la fuga di Caracciolo, si tenne consiglio a bordo del _Fulminante_ per decidere, se sotto un pretesto qualunque non si dovesse attirare il cardinale a bordo ed arrestarlo. Nella stessa sera suo fratello Francesco Ruffo ispettore della guerra, era venuto a bordo del _Fulminante_. Sir William col pretesto di fargli onore lo mandò a Palermo latore di un dispaccio, mettendo a quest’oggetto a sua disposizione un bastimento della flotta, esponendo alla regina le querele ed i sospetti che aveva concepito contro il cardinale dicendole nello stesso tempo nella lettera: «Invio a V. M. un messaggiere ed anche un ostaggio.» Al 29 fui risvegliata all’alba da un grande rumore che si faceva sul bastimento; misi una veste da camera e salii sul ponte. Tutti gli occhi erano fissi su di una barca ancor lontana un miglio, nella quale si poteva riconoscere vicino ad un uomo ammanettato il contadino che era venuto a trovarci due sere prima e che offerse di vendere Caracciolo. Non vi era dubbio, aveva mantenuto la sua promessa; egli conduceva il suo padrone e veniva a prendere il suo danaro. Nelson e sir William sembravano al colmo della gioia, ed io non vedeva che cogli occhi della mia amica e del mio amante. Confesso che considerava l’ammiraglio, dopo tutto quello che aveva udito di lui, come un traditore, un colpevole, e mi consolai con essi della sua cattura. Però il mio cuore si strinse alla vista di quell’uomo, che, ogni volta che l’aveva udito parlare alla regina, aveva sempre tenuto il linguaggio d’un bravo marinaio e d’un uomo d’onore: lasciai Nelson e sir William gioire del loro trionfo, e non credendo conveniente ad una donna il dividerlo, discesi nel mio appartamento di cui chiusi la porta. Conosceva le disposizioni di Nelson riguardo al suo collega; aveva letto la lettera che mio marito aveva scritto al generale Acton; non dubitava più della sorte serbata al prigioniero. Una lettera dl sir William al generale Acton dice in quale stato fosse Caracciolo quando fu trasportato dalla barca sul _Fulminante_. Darò l’estratto di questa lettera che si rapporta all’ammiraglio napoletano. «A bordo del _Foudroyant_, 29 giugno 1799. «..... Abbiamo testè avuto lo spettacolo di Caracciolo, pallido, con una lunga barba, mezzo morto e con gli occhi bassi, condotto ammanettato a bordo di questo vascello, ove si trova in questo momento insieme col figlio di Cassano D. Giulio, il prete Pacifico ed altri traditori infami. Io suppongo che si farà subito giustizia de’ più colpevoli. In verità è una cosa da fare orrore; ma io, che conosco la loro ingratitudine ed i loro delitti, ne ho risentito minor pena delle altre numerose persone che hanno assistito a questo spettacolo. Io credo che sia una cosa buona che noi abbiamo a bordo de’ nostri legni i principali colpevoli, nel momento in cui si va ad attaccare S. Elmo, poichè potremo così tagliare una testa per ogni palla di cannone che i Francesi tireranno sulla città di Napoli. «W. HAMILTON.» Per due ragioni metto questo frammento sotto gli occhi del lettore; la prima pei particolari del tradimento dell’infelice ammiraglio a bordo del bastimento inglese, la seconda per dimostrare a qual grado d’inasprimento erano portati gli animi i più dolci e più benevolenti, infiammati dall’acre fuoco della guerra civile. Certamente sir William, uomo di gabinetto, di mente colta, benevolente, dotto, dedito al culto dell’antichità, amante del bello come uno scultore greco, doveva essere sotto il peso di una perturbazione strana d’idee per scrivere una simile lettera; la sventura di quelli che rappresentano una parte su quelle calde giornate di rivoluzione, sotto gli ardenti soffii dello spirito di partito, è che sono giudicati da uomini che vivono in tempi ordinarii; in epoche temperate questa fatale giornata del 29 giugno 1799 ha lasciato una macchia di sangue su tre nomi. Una proscritta era aggiunta alla lettera di sir William e la completava. Posta questa proscritta sotto gli occhi del lettore, chieggo il permesso di riposarmi un istante; per continuare ho bisogno di attinger forza al riposo e alla preghiera. «P. S. Venite se è possibile, per raccomodare ogni cosa, ed io spero che aggiusteremo prima del loro arrivo parecchi affari che potrebbero cagionar della pena alle Loro Maestà. Il processo di Caracciolo è continuato dagli uffiziali di S. M. Siciliana, e, se è condannato, come credo, sarà subito eseguita la sentenza. Egli sembra già mezzo morto per la stanchezza. Desiderava esser giudicato da uffiziali inglesi. Il bastimento parte per Palermo. Non vi dico nulla di più per ora.» Se sono tanto colpevole quanto lo dice il mondo, oh! mio Dio! Dio di misericordia! perdonatemi. XII. Prima che fosse partita la lettera di sir William, il processo era già incominciato, o piuttosto era già stato dato l’ordine per incominciarlo. Nelson mise in tutto questo terribile affare di Caracciolo un’attività febbrile e collerica, che non si spiega nemmeno col disprezzo, che hanno per la vita degli altri quelli che ogni giorno, ad ogni ora, ad ogni momento espongono la loro vita. Si parlò di gelosia; Nelson avrebbe veduto in Caracciolo un rivale di gloria. L’accusa è assurda; anche nella marina francese Nelson non aveva un eguale a quell’epoca; la battaglia d’Aboukir l’avea messo in cima a tutti i marinai del secolo XVIII. Nessuno, dopo l’invenzione della polvere, non aveva riportato una vittoria eguale a quella d’Aboukir. Ora che era mai Caracciolo vicino all’uomo di Tolone, di Calvi, di Teneriffa, d’Aboukir? — ben poca cosa come marinaio. Era forse geloso della superiorità di nascita che Caracciolo come principe aveva su di lui? — non è probabile. Nelson, come tutti gli uomini d’ingegno giunti da una nascita mediocre ad una alta posizione, aveva l’orgoglio del punto di partenza. Inoltre, invece di essere illustre pei suoi avi e per suo padre, era egli che li aveva illustrati. No, io arriverò, credo, ad una appreziazione più giusta di Nelson giudicandolo da me. Nelson, come me, era nato in una condizione bassa; si elevò col suo coraggio, come io colla mia bellezza, e ad un tratto, dopo la sua battaglia di Aboukir, al pari di me dopo il mio matrimonio con sir William, ci trovammo in contatto coi grandi della terra; l’effetto fu lo stesso sulla donna e sull’eroe, quantunque per mezzi diversi. Maravigliato nel suo trionfo, acciecato dalla sua nuova fortuna, ebbro di elogi e di doni che riceveva da tutti i re, delle gentilezze e delle adulazioni di cui lo colmavano particolarmente Ferdinando e la regina Carolina, non vide altro diritto che quello dei sovrani, e adottò con entusiasmo la causa del re contro i popoli: chiunque osava discutere questi diritti era un ribelle, chiunque osava combatterli, meritava la morte. Nelson credette di aver ricevuto, come l’arcangelo Michele, la spada fiammeggiante dalla mano di Dio, e poichè l’arcangelo Michele colpì senza pietà con questa spada Satana e gli angioli ribelli, Nelson colpì i patriotti, questi angioli ribelli della terra. Nella terribile esecuzione di Caracciolo, in quella non meno terribile dei repubblicani di Napoli, non esita un momento, e fatta l’esecuzione, non soltanto non ha un rimorso, ma non comprende nemmeno quelli che dicono che ne debba avere. Il re e la regina gli avevano raccomandato di prendere Caracciolo vivo o morto, e se lo prendeva vivo di non fargli grazia di sorta. Ciò gli bastava, per questa raccomandazione egli era investito dei poteri di giudice, ed al bisogno di quelli di carnefice. Difatti voi lo vedete al processo. «_Al capitano conte di Thurn, comandante la fregata di Sua Maestà Siciliana la_ Minerva. «_Per ordine di Orazio Nelson, ecc._ «Poichè Francesco Caracciolo, commodoro di Sua Maestà Siciliana, è stato prigioniero, ed è accusato di ribellione contro il suo legittimo Sovrano, e d’aver fatto fuoco contro la bandiera reale, fissata sulla fregata la _Minerva_, che si trovava sotto i vostri ordini; «Voi siete richiesto, ed, in virtù della presente, vi si comanda di riunire cinque de’ più antichi uffiziali che si trovino sotto il vostro comando, ritenendone voi la presidenza, ed informarvi per conoscere se il delitto, di cui il detto Caracciolo è accusato, può esser provato; e, se ne risulta colpevole, _dovete indirizzarvi a me per sapere qual pena deve subire._» «_A bordo del_ Foudroyant, _Golfo di Napoli_. 29 _giugno_ 1799. «NELSON.» Intanto, siccome ognuno lo comprenderà, nessuno mi consultò nemmeno in questo affare. Nelson potenza militare, sir William potenza diplomatica, dirigevano tutto, più per convinzione, lo ripeto, che per odio; in quanto a me ho raccontato quanto era avvenuto; vedendo avvicinarsi la barca, che conduceva Caracciolo, era discesa nella mia cabina, per non incontrarmi con questo infelice. Una volta chiusa nella mia cabina, Nelson e sir William mi lasciarono sola, chè se io lo avessi veduto o lo avessi udito, il cuore della donna si sarebbe commosso, ed avrebbero dovuto combattere la mia compassione, come essi l’ebbero quando chiesi alla regina la grazia di Cirillo, e che la regina la chiese inutilmente in ginocchi a suo marito. Io non uscii dunque della mia cabina, ed ecco quanto intesi poi a raccontare. Giunto a bordo, Caracciolo venne tosto slegato e posto in una cabina con due sentinelle alla porta. Verso mezzogiorno, il consiglio era stato convocato, composto di cinque uffiziali della marina napolitana, di cui non ho mai saputo il nome, e presieduto dal conte di Thurn. L’interrogatorio durò un’ora. Caracciolo rispose nobilmente e degnamente, ma senza avvocati e senza aver avuto il tempo di preparare la sua difesa, del resto difficile perchè notoriamente aveva combattuto contro il re. La sua colpabilità fu unanimemente riconosciuta, e il processo verbale portato a Nelson, che colla stessa impassibilità del mattino scrisse: «_Al commodoro conte di Thurn_, ecc.» «_Per ordine d’Orazio lord Nelson_, ecc. «Poichè il Consiglio di guerra, composto d’ufficiali al servizio di Sua Maestà Siciliana, è stato riunito per giudicare Francesco Caracciolo sul delitto di ribellione verso il suo Sovrano, e poichè il detto delitto ha col fatto renduto contro il detto Caracciolo un giudizio che ha per conseguenza la pena di morte; «Voi siete, con la presente, richiesto e vi si ordina di far eseguire la detta sentenza di morte contro il detto Caracciolo per mezzo della impiccagione, all’antenna dell’albero di trinchetto della fregata la _Minerva_, appartenente a Sua Maestà Siciliana, la qual fregata si trova sotto i vostri ordini. La detta sentenza dev’eseguirsi oggi alle cinque dopo mezzogiorno; e dopo essere rimasto sospeso fino al tramontar del sole, farete tagliare la corda e gettare il cadavere in mare. «_A bordo del_ Foudroyant _Napoli_, 29 _giugno_ 1799. «NELSON.» Lo ripeto, non ho mai veduto Caracciolo dal momento che salì a bordo; soltanto io so quello che ho udito intorno a me senza interrogare nessuno, perchè avrei piuttosto fuggito anzichè cercare di sapere i particolari su questo terribile avvenimento. Or ecco quel che intesi a dire: Caracciolo s’aspettava certamente di essere condannato a morte; ma nella sua qualità di principe credeva di essere decapitato o fucilato. Quando intese la lettura della sentenza che lo condannava ad essere appeso, provò una spaventevole commozione; tornato in sè pregò un uffiziale di chiedere a lord Nelson un altro giudizio, o almeno di essere fucilato e non appeso. Nelson rinviò duramente l’uffiziale dicendogli che Caracciolo era stato giudicato da un consiglio di guerra composto di uffiziali del suo paese, e che non poteva intervenire per nulla nel giudizio. Caracciolo insistette. L’uffiziale ritornò una seconda volta, ed io intesi Nelson che gli gridava duramente: — Mischiatevi degli affari vostri, signore, e non di quelli che non vi riguardano. L’uffiziale ritornò sul ponte. Mi si disse che allora Caracciolo aveva invocato il mio nome, e aveva pregato l’uffiziale di venire da me; e di ottenere di essere decapitato o fucilato invece di essere appeso. Ma senza dubbio l’uffiziale, dopo quel rabbuffo che aveva ricevuto da Nelson, non osò più di venire fino da me. Egli rispose che mi aveva cercato ma inutilmente. In quanto a me, so che posso affermare innanzi a Dio, che nessuno mi parlò in favore di Caracciolo, nè per ottenere grazia della vita, nè per ottenere un altro modo di esecuzione. Alle tre ore, senza che ne sapessi nulla, Caracciolo condannato lasciò il _Fulminante_ per andare sulla _Minerva_ ove doveva essere giustiziato. Un istante dopo, mentre mi annunziavano quella condanna, sir William venne a dirmi che Caracciolo non era più a bordo: approfittai di questa circostanza per salire sul ponte, non avendo preso dell’aria dalle sette ore del mattino. Il tempo era nuvoloso e triste, quantunque fosse il 29 di giugno; poi lo spettacolo che si aveva sotto gli occhi andava d’accordo col tempo: tutte quelle feluche cariche di prigionieri, il _Fulminante_ stesso che serviva da prigione per una parte di essi, attristava profondamente la vista. Sembrava che vi fosse in mezzo a tutti quegli infelici una grande agitazione, e fu soltanto allora che seppi dal cavaliere Micheroux, che venne a bordo, che dopo aver loro dato il permesso d’imbarcarsi, e di aver messo la guarnigione nei castelli, ed aver approfittato in fine dei vantaggi della capitolazione, lord Nelson li teneva prigionieri. Dico che seppi la cosa dal cavaliere Micheroux, ed ecco come. Il cavaliere Micheroux, il cardinale Ruffo, e il comandante Baillie, comandante le truppe russe, avevano ricevuto il reclamo seguente da parte dei prigionieri. Citerò quello del cavaliere Micheroux che fu lasciato da lui nelle mani di lord Nelson. «Al cavaliere Micheroux ministro plenipotenziario del re delle Due Sicilie presso l’armata coalizzata. «Tutta quella parte delle guarnigioni che sta, in vigore della capitolazione, imbarcata a far vela per Tolone, trovasi nella più grande costernazione. Ella in buona fede aspettava l’effetto di detta capitolazione, quantunque per precipitazione nell’uscire dal castello non furono gli articoli puntualmente osservati. Ora che il tempo è propizio alla vela, son oggimai due giorni, e non si sono ancora fatti gli approvvigionamenti per l’intero viaggio. E con estremo dolore ieri, in sulle ore sette, si videro ricercare dai bordi delle tartane i generali Manthonnet, Massa e Bassetti, il presidente della Commissione esecutiva. Ercole e d’Agnese, quello della Commissione legislativa, Domenico Cirillo ed altri individui, come Emmanuele Borga, Piatti e molti altri. Costoro furono condotti sul vascello del comandante inglese, ove sono stati ritenuti tutta la notte, nè finora, che sono le sei del mattino, si veggono ritornare. Dalla vostra lealtà la guarnigione intera attende il rischiaramento di questo fatto e l’adempimento della capitolazione. «Dalla rada di Napoli, 29 giugno 1799. «ALBANESE» Nelson prese la nota, la lesse tranquillamente, e indicando al cav. Micheroux un corpo che s’innalzava col mezzo di una carrucola, e che rimaneva sospeso, e si dibatteva al capo di una corda all’antenna del Miseno della _Minerva_: — Ecco la mia risposta ai ribelli, gli disse; voi potete portarla anche al cardinale Ruffo. Micheroux guardava con stupore quello spettacolo. — Ma, disse, chi è quell’uomo, e che gli si fa? — Quell’uomo, rispose Nelson, è il traditore Caracciolo, e ciò che gli si fa, è che lo si appicca per mio ordine, e così si farà per tutti i ribelli che hanno portato le armi contro Sua Maestà. Io misi un grido, anch’io aveva veduto tutto, senza accorgermi di ciò che vedeva. Il cavaliere Micheroux, costernato della risposta dell’ammiraglio, discese nella barca che l’aveva condotto, e tenendosi la testa nelle mani, ritornò a terra. Nella stessa sera, il cardinal Ruffo ricevette il seguente rapporto inviatogli dal conte di Thurn. «EMINENZA, «Devo far presente all’Eminenza vostra aver ricevuto questa mattina l’ordine dell’ammiraglio lord Nelson di portarmi immediatamente a bordo del suo vascello, unitamente a cinque uffiziali i più anziani. Ho eseguito subito il detto ordine, e portatomi colà, ho ricevuto l’ordine per iscritto di formare subito sul vascello istesso un consiglio di guerra contro del cavaliere D. Francesco Caracciolo, accusato ribelle della Maestà del nostro Augusto padrone, e di sentenziare sulla pena competente al suo delitto. Si è subitamente eseguito un tal ordine, e formato il Consiglio di guerra in una camera del detto vascello, ho fatto nella medesima condurre il reo. L’ho fatto primieramente riconoscere da tutti gli astanti e dai giudici; in seguito gli ho manifestato di parlare se avesse delle ragioni da addurre in sua discolpa. Egli ha risposto averne varie, e datogli campo a produrle, esse si sono raggirate a contestare di aver servito l’infame sedicente repubblica, ma perchè obbligato dal Governo che gli minacciava farlo fucilare. Gli ho fatto in seguito delle domande, in risposta delle quali ha confessato di essere sortito colle armi della sedicente repubblica contro quelle di Sua Maestà, ma sempre perchè obbligato dalla forza. Ha confessato di essersi trovato colla divisione delle cannoniere, che uscirono ad impedire, per la parte del mare, l’entrata delle truppe di S. M., ma su tal assunto ha addotto che credeva fossero degl’insorgenti: ha confessato aver dato degli ordini per iscritto tendenti a contrariare le armi di S. M. Infine, domandato perchè non aveva cercato di condursi in Procida, e colà tenendosi alle armi S. M., sottrarsi alla vessazione del Governo, ha risposto non averlo eseguito sulla tema di esser male ricevuto. «Formato su di dette delucidazioni il detto Consiglio di guerra, questo alla pluralità di voti l’ha condannato, come reo di alta fellonia, alla pena di morte ignominiosa. «Presentata detta sentenza all’ammiraglio Nelson, egli ha comprovato la condanna, ordinando, che alle cinque di questo stesso giorno l’avessi fatta eseguire, impiccandolo al pennone di trinchetto e lasciandolo appeso sino al calar del sole, nella qual ora, facendogli tagliar la corda, si fosse lasciato cadere in mare. «All’una di questa mattina ho ricevuto il detto ordine: all’una e mezza p. m. è stato il reo Francesco Caracciolo trasportato al mio bordo e posto in cappella, ed alle cinque, a tenore dell’ordine, si è eseguita la sentenza. «Tanto mi conviene farle presente in adempimento del mio dovere, nell’atto che con profondo ossequio me le professo. «Di vostra Eminenza, «_Bordo della_ Minerva 27 _giugno_ 1799. «_Devotissimo servitore_ «CONTE DI THURN.» Nello stesso tempo il conte di Thurn diede in poche parole lo stesso avviso all’ammiraglio Nelson. «A bordo della fregata di S. M. la _Minerva_, il 29 giugno 1799. «Si partecipa a S. E. lord Nelson, che la sentenza pronunciata contro Francesco Caracciolo è stata eseguita nella maniera che è stato ordinato. «Il conte di THURN» Terminata l’esecuzione, si spedì a Palermo un bastimento leggero per portare la notizia al re; dessa era inchiusa in queste due lettere, una di Nelson e l’altra di sir William, dirette tutte e due al generale Acton. «Signore, «Non avendo il tempo di mandare a Vostra Eccellenza il processo fatto a quel disgraziato di Caracciolo, io posso dirvi soltanto che è stato giudicato questa mattina, e che s’è sottoposto alla giusta sentenza pronunziata di lui. Mando a Vostra Eccellenza la mia approvazione tal quale l’ho scritta: «Approvo la sentenza di morte pronunziata contro Francesco Caracciolo, ed essa sarà eseguita a bordo della fregata di Sua Maestà Siciliana, la _Minerva_, oggi alle cinque. «Ho l’onore ecc. «O. NELSON.» Ora ecco la lettera di sir William. «Mio caro Signore. «Ho appena il tempo d’aggiungere alla lettera di lord Nelson, che Caracciolo è stato condannato dalla maggioranza della Corte marziale, e lord Nelson ha ordinato che l’esecuzione della sentenza avesse luogo oggi alle cinque dopo mezzo giorno all’antenna dell’albero di trinchetto della _Minerva_, e che il suo corpo fosse poi abbandonato al mare. Thurn ha fatto osservare che si soleva accordare ai condannati 24 ore per provvedere alla loro anima; ma gli ordini di lord Nelson sono stati mantenuti, sebbene io avessi appoggiato l’opinione di Thurn. Gli altri colpevoli sono rimasti a disposizione di S. M. Siciliana a bordo delle _polacche_ circondate dalla nostra flotta. Tutto quel che pensa e fa lord Nelson gli è dettato dalla sua coscienza e dal suo onore, ed io credo che alla fine le sue determinazioni saranno riconosciute come le migliori che potessero prendersi. _Per l’amore di Dio procurate che il re venga almeno a bordo del_ Foudroyant _e che innalzi, se può, il suo stendardo reale._ «Domani attaccheremo S. Elmo. Iddio favorisca la buona causa! il dado è gettato. Noi dobbiamo ora tener fermo per quanto è possibile. «Per sempre vostro, ecc., «W. HAMILTON.» Nello stesso giorno il cardinale Ruffo, vedendo di non aver potuto salvare Caracciolo, nè ottenere l’esecuzione del trattato, mandò la sua dimissione a Palermo. FINE DEL SETTIMO VOLUME. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE DI EMMA LYONNA, VOL. 7/8 *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. 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