Memorie di Emma Lyonna, vol. 6/8

By Alexandre Dumas

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Title: Memorie di Emma Lyonna, vol. 6/8

Author: Alexandre Dumas

Release date: May 14, 2025 [eBook #76094]

Language: Italian

Original publication: Milano: Daelli e C, 1864

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This book was produced from scanned images of public domain material from the Google Books project.)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE DI EMMA LYONNA, VOL. 6/8 ***


                                MEMORIE
                                   DI
                              EMMA LYONNA


                                   DI
                            ALESSANDRO DUMAS


                 UNICA EDIZIONE AUTORIZZATA IN ITALIA.
                                Vol. VI.



                                 Milano
                         G. DAELLI e C. EDITORI
                               MDCCCLXIV.




             Proprietà letteraria — G. DAELLI e C. Editori.

                       STEREOTIPIA G. DASSI E C.

                           TIP. GUGLIELMINI.




MEMORIE

DI

EMMA LYONNA




I.


Sventuratamente gli avvenimenti politici esterni resero ben presto a
quell’anima energica, che non poteva rimanere senza passioni, e che
era divorata dal bisogno di amare o di odiare, quella specie di rabbia
calmata, per un istante, dai dolori privati.

La caduta e la morte di Robespierre, che aveva preso una parte così
attiva alle esecuzioni di Luigi XVI e della regina Maria Antonietta,
era stata per Maria Carolina un momentaneo sollievo alla doppia ferita
che quella duplice morte aveva fatto sul suo cuore. Ma questa morte era
stata come un segnale di aumento d’energia per l’esercito repubblicano.
Le mie note portano ancor oggi la data delle vittorie del generali
francesi, secondochè le notizie di queste vittorie ci pervenivano
e ci colpivano di stupore, perchè, circondata com’era da nemici,
consideravamo la Francia come conquistata.

Gli Austriaci che erano penetrati nell’interno della Francia si
lasciarono riprendere, il 16 agosto. Questnoy dal generale Scherer,
il 27, Valenciennes dal generale Pichegru, al 30 Condé era rientrato
in potere delle armi francesi e Landau era stato ripreso fin dal
30 aprile, cosicchè di quattro piazze forti conquistate dalle armi
dell’imperatore, non ne rimaneva più una.

In Ispagna le cose non andavano meglio. Fontarabia e S. Sebastiano
erano in potere del generale Moncey, ed il forte di Bellegarde fu
ripreso dal generale Dugommier.

Il generale Jourdan, che comandava l’armata di Sambre et Meuse, faceva
da parte sua de’ progressi, che ci davano grandi inquietudini; occupava
Aquisgrana, al 2 ottobre aveva guadagnato la battaglia Aldenhoven,
al 3 aveva preso Juliers, poi Audernach, Coblenza, Mastrick, Colonia,
mentre Pichegru prendeva Nimega, occupava Amsterdam, da cui era fuggito
lo Stadolder, e con una carica di usseri francesi s’impadroniva della
flotta olandese presa fra i ghiacci del Texel.

Infine un trattato di pace era intervenuto il 9 febbraio 1793 fra la
Francia e la Toscana, ed aveva introdotto la repubblica francese nel
sistema politico europeo.

La regina si fece fare dal generale Acton un quadro delle forze
militari della Francia al principio del 1795, e ne risultò da questo
specchietto che al 1 marzo aveva otto eserciti: quello del Nord
comandato da Moreau; quello di Sambre e Mause comandato da Jourban;
quello del Reno e Mosella comandato dal generale Pichegru; quello
delle Alpi e dell’Italia comandato dal generale Kellermann; quello dei
Pirenei orientali da Scherer; quello dei Pirenei occidentali comandato
da Moncey; quello delle coste occidentali comandato da Casselaux,
quello delle coste di Brest e Cherbourg comandato da Hoche.

Quest’aspetto formidabile di forze produsse un effetto ancora più
grande sulla corte di Spagna che su quella di Napoli, poichè il re
Carlo IV, fratello del re Ferdinando, si decise a trattare colla
Francia, e la pace fu segnata a Baste il 22 luglio 1795.

Sir William, prevenuto già anticipatamente da un mese dalla regina
intorno a questa defezione del re suo cognato, fu in grado di
prevenirne il suo governo, il quale potè prendere allora delle misure
ostili in previsione di quella futura ostilità.

Ad un tratto la notizia della giornata del 13 Vendemmiaio, — adotto
questa denominazione repubblicana perchè la storia l’ha registrata
sotto questo nome, — giunse anch’essa fino a Napoli portandovi per la
seconda volta il nome di Bonaparte.

Nel breve tempo che corse fra il 19 dicembre 1794 ed il 4 novembre
1795, il capo battaglione era diventato generale.

Bonaparte salvò la Convenzione, fulminando le sezioni sui gradini della
chiesa di S. Rocco.

Questa vittoria sulla guerra civile e la protezione del generale Barras
lo condussero in pochi mesi al comando dell’armata d’Italia.

La corte di Vienna credette pazza la Francia che confidava i suoi
destini ad un giovane di ventisei anni, conosciuto soltanto da due
vittorie riportate contro i Francesi.

La regina ricevette una lettera da suo nipote; tutti i vecchi generali
austriaci ridevano di compassione alla vista di quel fanciullo che si
opponeva a loro, agli strategici per eccellenza.

Di fatti qual era mai allora la reputazione del generale Bonaparte a
fronte di quella di Beaulieu, dei Wurmser, degli Alvinzi e del principe
Carlo?

Attendemmo con impazienza le notizie dell’apertura della campagna.

L’Austria aveva riunito cinque armate! cento e ottantamila uomini
all’incirca.

Bonaparte si avvicinava con trentamila uomini da Savina incontro a
Beaulieu che gli opponeva cinquantamila Austriaci.

Quasi nello stesso tempo ricevemmo le notizie della battaglia di
Montenotte e di quelle di Millesimo e di Diego.

Il nostro stupore fu grande: Beaulieu era stato battuto nei tre
scontri, avendo seimila morti, ottomila prigionieri, e perdendo da
dieci a dodici pezzi di cannone.

Ma fu ben peggio allora quando seppe che l’armata sarda, separata
dall’austriaca, era stata anch’essa battuta a Mondovì, che gli
Austriaci in numero di diecimila con diciotto pezzi d’artiglieria erano
stati forzati e messi in fuga al ponte di Lodi da duemila Francesi
comandati dallo stesso generale Bonaparte; che il generale Massena
era entrato in Milano, e che un trattato di pace era stato conchiuso a
Parigi fra la Repubblica francese ed il re di Sardegna, con cui cedeva
alla Repubblica la Savoja, Nizza e Tenda, accordava alle sue armate un
passaggio nei suoi Stati, cedeva le sue piazze forti, e cominciavasi a
dar mano alla demolizione della Brunetta e di Susa.

La mia intenzione, si comprenderà facilmente, non è di seguire questa
campagna nei suoi particolari; ma soltanto di constatare i fatti, e
di dare un’idea dell’impressione che produssero. Wurmser succeduto a
Beaulieu fu battuto a Castiglione, a Roveredo, a Bassano e obbligato
a chiudersi in Mantova; Alvinzi, inviato in suo soccorso, fu battuto
ad Arcole ed a Rivoli, e finalmente il principe Carlo che succedette a
loro fu battuto dovunque l’aveva incontrato.

Tutto ciò in un anno.

La Toscana e la Sardegna avevano fatto la pace colla Francia. Il duca
di Modena ed il papa trattavano. Venezia che vedeva i Francesi alle
sue porte, ordinò a Monsieur fratello del re, che dopo la morte del
Delfino prese il titolo di Luigi XVIII, di lasciar Verona e gli Stati
della Repubblica; da questo momento gli avvenimenti progredivano
con una rapidità spaventevole. Il generale Bernadotte prese Trieste,
Massena preso Klegenfurth capitale della Carinzia e Bernadotte Lubiana
capitale della Carniola. Infine il generale Augereau entrò in Venezia,
e rovesciò l’antico governo che rimpiazzò con un municipio democratico.

La situazione era molto più grave per noi, — dico noi, tanto mi era
identificata colla regina, — e mentre sir William Hamilton faceva
tutto col re, la situazione era tanto più grave per noi, perchè la
corte di Napoli non aveva cessato di provocare il vincitore, inviando
de’ soccorsi all’Austria; il che sarebbe stato nulla, ma col lanciare
manifesti terribili contro la Francia.

In questi manifesti il re non ci era entrato per nulla, fuorchè per
la firma, e spesso in luogo della firma vi metteva la cifra destinata
a supplirla. Si compilavano insieme dal generale Acton, dal principe
Castelcicala e dalla regina; e poichè la regina aveva una scrittura
assai cattiva, era quasi sempre io che scriveva.

Ho conservato uno o due di questi manifesti, e dalla loro virulenza si
potrà giudicare della situazione pericolosa in cui la corte delle Due
Sicilie si era posta rispetto al governo francese.

«Quei Francesi che uccisero i loro re; che disertarono i tempii
trucidando e disperdendo i sacerdoti; che spensero i migliori e i
maggiori cittadini; che spogliarono dei suoi beni la Chiesa; che tutte
le leggi, tutte le giustizie sovvertirono, quei Francesi, non sazii
di misfatti, abbandonando a torme le loro sedi, apportano gli stessi
flagelli alle nazioni vinte, e alle credule che li ricevono amici. Ma
già popoli e principi armati stanno intesi a distruggerli. Noi imitando
l’esempio de’ giusti e degli animosi, confideremo negli aiuti divini e
nelle armi proprie. Si facciano preci in tutte le chiese; e voi, devoti
popoli napolitani, andate alle orazioni per invocare da Dio la quiete
del regno; udite le voci de’ sacerdoti; seguitene i consigli, predicati
dal pergamo e suggeriti da’ confessionali.

»Ed essendosi aperta in ogni comunità l’ascrizione dei soldati,
voi adatti alle armi, correte a scrivere il nome su quelle tavole;
pensate che difenderemo la patria, il trono, la libertà, la sacrosanta
religione cristiana, e le donne, i figli, i beni, le dolcezze della
vita, i patrii costumi, le leggi. Io vi sarò compagno alle preghiere
ed ai cimenti; che vorrei morire quando per vivere bisognasse non esser
libero e cessare di essere giusto.»

Poi il re, o piuttosto quelli che scrivevano in suo nome, continuarono
rivolgendosi al vescovi, ai parrochi, ai confessori ed ai missionari.

«È nostra volontà che nelle chiese dei due regni si celebrino tridui di
orazioni e di penitenza; e ne sia scopo invocare da Dio la quiete de’
nostri stati. Perciò dagli altari e da’ confessionali voi ricorderete
ai popolani i debiti di cristiani e di sudditi, cioè cuor puro a Dio, e
braccio armato a difesa della religione e del trono.

«Mostrate gli errori della presente Francia, gl’inganni della tirannia
che appellano libertà, le licenze o peggio delle truppe francesi,
l’universale pericolo. Eccitate con processioni ed altre sacre
cerimonie lo zelo del popolo. Avvertite che l’impeto rivoluzionario,
comunque inteso a scuotere tutti gli ordini della società, segna a
morte i due primi, la Chiesa e il trono.»

Questo proclama fu pubblicato a suon di trombe su tutti gli angoli
della città, ed in tutti i crocivii di Napoli, affisso su tutti i muri,
commentato in tutte le chiese.

Le preghiere delle quarant’ore furono annunziate in tutto il regno, e
cominciarono immediatamente nella metropolitana di S. Gennaro.

I preti, bisogna dirlo, fosse convinzione o fanatismo, secondarono
quanto meglio poterono le intenzioni della regina, i sovrani ne diedero
l’esempio, andarono in gran pompa alla cattedrale, ed alle altre
chiese di Napoli ingombre di preti, di cortigiani, dalla magistratura
e da tutti quelli insomma che in un modo e nell’altro dipendevano
dal governo. Il popolo seguiva l’esempio che gli era stato dato, e
le chiese rigurgitavano talmente di gente, che era impossibile di
passare per le strade, non essendovene una a Napoli ove non sia una
chiesa, ed ove queste erano affollate si stava a pregare fuori della
porta. Fu in questi tempi che i Francesi figuravansi ai Napolitani
come ladri, assassini, briganti, eretici scomunicati, coi quali non
si era obbligati di conservare nè fede, nè parola, e che si potevano
impunemente colpire come outlaw,[1] pugnalati alle reni, avvelenati
nelle case, negli ospedali, assassinati nel sonno, uccisi infine come
cani arrabbiati.

Tale fu l’acciecamento delle passioni, che io stessa partecipava
all’odio contro una nazione, alla quale sono andata più tardi a
chiedere un asilo, e che mi fu accordato quando l’Inghilterra, per la
quale aveva fatto tanto, mi cacciava dal suo suolo.

Del resto si vedrà quali sentimenti professava in alcune mie lettere
che citerò, ed alle quali non muterò nemmeno una sillaba.

Ma vi era una classe della società che non ha mai parteggiato a Napoli
contro i Francesi, e perciò non univa le sue alle preghiere, che si
rivolgevano a Dio.

Era questa tutta la classe libera, intelligente, istruita del mezzo
ceto. Erano i giuristi, i medici, i filosofi, gli avvocati, i poeti,
cosicchè la regina dimenticando quella specie di pentimento che aveva
provato dopo la morte delle prime vittime, e specialmente di quella di
Caramanico, fu dessa la prima a riorganizzare la giunta di stato, ed a
spingere in una nuova curia i tre uomini che si chiamavano gli sbirri
della regina, vale a dire, Vanni, Guidobaldi e Castelcicala.

Le prigioni si riempirono, e questa volta i primi nomi di Napoli si
contavano nel numero dei prigionieri.

Ma in mezzo a tutti questi preparativi, non soltanto di guerra
difensiva, ma di guerra offensiva, ci venne a sorprendere l’armistizio
di Brescia, che precedette al trattato di Tolentino con Pio VI; e, come
abbiamo già detto, col trattato di Tolentino il Santo Padre cedeva alla
Francia Bologna, Ferrara e le Romagne, e le province cedute avevano
il diritto di costituirsi in repubblica, ciò che non mancarono di fare
appena fu compita la cessione.

In tal modo il pericolo che la regina aveva creduto di allontanare
si avvicinava sempre più. I Francesi si ritiravano; ma il principio
rivoluzionario faceva un passo innanzi; ma l’_idea_ più forte degli
uomini s’abbarbicava nel suolo che essi avevano lasciato.

Il general Acton e la regina compresero che non vi era tempo da
perdere. Sapevano che il Direttorio eccitato dall’ambasciatore, a
cagione dell’odio della regina pe’ Francesi, — odio che essa in verun
modo aveva saputo celare, — aveva spinto Bonaparte a vendicarsi del
governo delle Due Sicilie, e che costui avesse risposto:

«Oggi non siamo ancora potenti abbastanza per dare a questa vendetta
tutta la pubblicità di cui si ha d’uopo; ma verrà giorno in cui gli
faremo pagare tutti i suoi tradimenti passati, presenti e futuri, ed in
quel giorno il re Ferdinando e la regina Carolina non avranno perduto
nulla coll’aspettare.»

Questa risposta era stata riportata letteralmente alla corte di Napoli,
e benchè protratta la vendetta per qualche tempo ancora, il re ebbe
tanta paura di questa spada di Damocle sospesa sul suo capo, che
inviò il principe di Belmonte a Buonaparte con missione di ottenere a
qualunque prezzo un trattato di pace.

All’undici ottobre 1797, il seguente trattato fu firmato dai mandatari
delle due potenze.

Lo cito per intiero perchè si possa giudicare dello stato di
dipendenza, in cui la paura avea messo la corte di Napoli rispetto al
governo francese.

Del resto, nello stesso modo che più si abbassa il vaso più si riempie
d’acqua, quanto più si abbassava il cuore della regina tanto più si
riempiva d’odio.

I termini poi di questo trattato non erano punto ambigui, — eccoli:

«Napoli sciogliendosi dalle sue alleanze, resterà neutrale; impedirà
l’entrata ne’ suoi porti a’ vascelli oltre il numero di quattro de’
potentati che sono in guerra; darà libertà a’ Francesi carcerati ne’
suoi dominii per sospetto di Stato; intenderà a scoprire e punire
coloro che involarono le carte al ministero di Francia Makau; lascerà
libero ai Francesi il culto delle religioni; concorderà patti di
commercio che diano alla Francia ne’ porti delle Due Sicilie que’
medesimi benefizii che le bandiere più favorite vi godono; riconoscerà
la repubblica Bàtava, e la riguarderà compresa nel presente trattato di
pace».

Inoltre vi era un articolo che doveva restare segreto, e che non
doveva essere conosciuto che dai contraenti, ed era concepito in questi
termini:

«Il re pagherà alla repubblica francese otto milioni di franchi (due
milioni di ducati): i Francesi prima che si accordino col pontefice,
non procederanno oltre la fortezza di Ancona, nè seconderanno i moti
rivoluzionarii delle regioni meridionali d’Italia.»




II.


Le cose erano ben mutate in un anno.

Quel piccolo generale Bonaparte deriso da tutti, ma uscito vittorioso
da una campagna che si poteva annoverare fra gli splendidi fatti
d’armi di Alessandro, d’Annibale e di Cesare, era stato appellato dal
Direttorio l’Uomo della provvidenza, e la Repubblica francese gli aveva
dato una bandiera su cui stava scritto in lettere d’oro:

«Il generale Bonaparte ha distrutto cinque eserciti, vinto diciotto
battaglie campali, ed in sessantasette combattimenti ha fatto
centosessantamila prigionieri; ha inviato in Francia censessanta
bandiere per decorare i nostri edificj militari, mille e centottanta
pezzi d’artiglieria per arricchire i nostri arsenali, duecento milioni
al tesoro, cinquantun bastimenti da guerra nei nostri porti, i capi
d’opera d’arte per abbellire le nostre gallerie ed i nostri musei, e
preziosi manoscritti per le nostre biblioteche pubbliche; ed infine ha
dato la libertà a diciotto popoli.»

Si comprende in quale esasperazione mettevano quegli onori resi ad un
nostro nemico, la corte di Napoli, sir William Hamilton ed io; io come
amica della regina di cui parteggiava tutte le simpatie e gli odi; sir
William Hamilton come ambasciatore d’Inghilterra.

La regina fu presa da un accesso di rabbia, come ne vidi in quel giorno
in cui il governo delle Due Sicilie fu obbligato a riconoscere la
repubblica Cisalpina.

Il trattato di campo Formio firmato dalla Francia e dall’Austria
aveva una grande importanza. La Francia estendeva da un lato i suoi
confini fino alle Alpi e dall’altro fino al Reno. L’Austria perdeva
in estensione, ma aumentava di sudditi; in cambio della repubblica
Cisalpina che sorgeva, cadde la Repubblica di Venezia che diventò
proprietà dell’imperatore.

La pace sembrava assicurata, ma sir William rideva col suo riso
diplomatico, quando gli si parlava della durata di quella pace: finchè
l’Inghilterra sarà in guerra, diceva, il mondo e specialmente la
Francia non saranno in pace.

La regina, che non fingeva meno di sir William di credere seriamente
a quella pace, ne approfittò per celebrare le nozze del principe
ereditario coll’arciduchessa Clementina. Poco ho da dire intorno
a questo principe che non ebbe, in tutto il tempo in cui rimasi
alla corte di Napoli, che una parte secondaria e nulla intorno la
principessa, che non ne ebbe nessuna.

Il principe era allora un bel giovanetto di ventun anno, assai grasso,
roseo in viso, molto istruito, accortissimo ed acuto, e senza parole;
cogli occhi fissi sull’Europa non perdeva nemmen uno dei particolari
del gran dramma storico che si compiva, e fingeva di non veder nulla.
Spaventato dalle violenze di sua madre, si studiava, benchè fosse
già in età e capacissimo di dire il suo parere, di starsene lontano
da qualunque questione che si presentava, fosse anche della più alta
importanza pel trono delle Due Sicilie, e principalmente per lui che
ne era l’erede. Nello stesso modo che il re Ferdinando si mostrava in
mezzo a questo scompiglio molto più vago di una caccia ad Astroni o a
Persano, che della caduta o della nascita di una repubblica, egli si
mostrava più preoccupato delle scoperte di Mesmer, di Mongolfier e di
Lavoisier che dell’armistizio di Brescia o del trattato di Tolentino.
Sua madre poco lo amava, anzi lo sprezzava, e in famiglia lo dichiarava
stupido come suo padre.

Il prediletto del suo cuore era il principe Leopoldo, che allora
aveva diciott’anni; è vero che era un adorabile giovanetto, bello
come sua madre, gentile, garbato e spiritoso; l’altro principe era un
garzoncello di sei a sette anni, di pochissima salute, e chiamavasi
Alberto, che ebbi, come racconterò in seguito, il dolore non soltanto
di vedere, ma di sentir morire nelle mie braccia.

Una squadra napolitana andò a prendere la giovane archiduchessa a
Trieste, e la condusse a Manfredonia, ove l’attendeva il principe
Francesco, benchè i cerimoniali del matrimonio si dovessero celebrare a
Foggia, cioè cinque o sei leghe nell’interno.

Il re e la regina avevano accompagnato il loro figlio, e con essi
s’intende, c’era anch’io; sir William Hamilton era rimasto a Napoli.

Era curioso di vedere la fidanzata, che si diceva del resto assai
insignificante, e ciò sarebbe stata la verità, se un pallore che
mai vidi una volta prendere il menomo incarnato, ed una profonda
malinconia, non avessero dato alla sua fisonomia un grande interesse.
Donde provenivano quella tristezza e quel pallore nessuno lo seppe
mai, forse da qualche amore lasciato, ma non dimenticato alla corte dei
Cesari; fors’anche non era che quel segno fatale impresso sul viso di
quelli che sono destinati a morir giovani.

Il matrimonio fu celebrato nella seconda metà del mese di giugno; si
accordarono molti favori ai sudditi; Acton, primo ministro, fu nominato
capitano generale; quarantaquattro sedi episcopali vacanti furono
occupate da quarantaquattro nuovi vescovi, e fu un grande sacrifizio
per il re, perchè durante la vacanza di quelle sedi ne percepiva le
rendite; si accordarono gradi e decorazioni agli uffiziali che nella
guerra d’Italia si erano dichiarati contro la Francia, e finalmente
molti abitanti di Foggia furono creati marchesi, in vista del loro
titolo di abitanti delle Marche, ed in ricompensa delle enormi spese
che avevano fatto in occasione del matrimonio del principe ereditario.

Mi sono lasciata indurre a scrivere molto su questo matrimonio,
malgrado la poca importanza che ebbe, non soltanto nella vita pubblica
del principe Francesco, ma ancora nella sua vita privata; ciò mi svia
dai gravi avvenimenti che si succedettero alla corte di Roma, e che un
anno dopo dovevano avere una influenza tanto grave su quella di Napoli.

Voglio dire dell’assassinio del generale francese Duphot.

Nel rango in cui mi trovava, nulla mi doveva essere ignoto od oscuro,
intorno ad un tal fatto.

Lo racconterò con qualche particolarità, poichè da esso dipendette
l’occupazione di Roma dai francesi, ed in seguito la proclamazione
della Repubblica romana.

Ora che vivo lungi dagli avvenimenti e specialmente dagli odii
dell’epoca, spero di riescire imparziale nel mio racconto, non dirò
come giudice, ma almeno come storico.

Si comprenderà facilmente, riportandosi specialmente allo spirito di
propaganda di quell’epoca, che dopo essersi autorizzate le Romagne a
costituirsi in repubblica, si era formato un partito repubblicano in
Roma.

Questo partito si componeva particolarmente di artisti francesi
dimoranti in Roma, ed avrebbero creduto di mancare in fatti a tutti
i loro doveri di patriotti, se non avessero tentato coi loro mezzi di
fare proseliti al governo da cui dipendevano.

Il fratello di Bonaparte, Giuseppe Bonaparte, era ambasciatore di
Roma. La famiglia erasi elevata presto, sostenuta dalla mano potente
dell’_Uomo della provvidenza_, come lo chiamava il direttorio.

Giuseppe Bonaparte, in cui eravamo lungi dallo scorgere il futuro
usurpatore del trono di Napoli[2], faceva tutto quanto era possibile
per contenerli, dicendo a loro che non era ancor giunto il momento.

Malgrado tutti gli sforzi, il 26 dicembre 1797, i repubblicani
avvertirono l’ambasciatore che si preparava un movimento; egli li
congedò, supplicandoli come sempre di opporsi, se lo potevano, per
qualche tempo ancora a questo movimento.

Essi si ritirarono promettendo di adoperarsi secondo l’intenzione
dell’ambasciatore.

Il giorno seguente il cavaliere Azara, di cui mi ricordo di aver fatto
l’elogio all’epoca del mio passaggio da Roma, diede lo stesso avviso a
Giuseppe Bonaparte.

Difatti il 28 dicembre la dimostrazione annunziata si manifestava;
caricata dai dragoni, presa a fucilate da una compagnia di fanteria,
i repubblicani si rifugiarono sotto i portici del palazzo Corsini, ove
dimorava l’ambasciatore.

Siccome l’avvenimento che segue fu raccontato in modi diversi, mi
accontenterò di trascrivere il rapporto ufficiale del signor Giuseppe
Bonaparte. Essendocene stata inviata una copia, è da questa che
ritraggo quanto ora si leggerà, e come questo documento è ignoto o
quasi, avrà, lo spero, un certo interesse.

Riprendo il racconto dell’ambasciatore in cui lo lascio parlare
liberamente.

  «Un artista francese, venendo all’ambasciata, ci prevenne che
  l’attruppamento diventava numeroso, e che aveva scorto nella folla
  alcune spie del governo, che gridavano più forte degli altri: —
  Viva il popolo Romano, Viva la Repubblica, — che si gettavano degli
  scudi a piene mani e che la strada era ingombra. Io lo incaricai
  di discendere subito e di far conoscere la mia volontà agli
  ammutinati; i militari francesi che mi circondarono mi chiesero
  l’ordine di dissipare colla forza, cosa che attestava il loro
  attaccamento; vestii le insegne della mia carica, e li pregai di
  seguirmi. Preferii di parlar io stesso nel loro linguaggio, ed
  uscendo dal mio gabinetto udimmo una scarica prolungata di armi;
  era un picchetto di cavalleria che entrava nella mia giurisdizione
  senza prevenirmene; l’aveva attraversato al galoppo ed aveva fatto
  fuoco dai tre vasti portici del Palazzo.[3]

  «La folla si era allora precipitata nei cortili e sulle scale;
  incontrai sul mio passaggio dei paurosi che fuggivano, dei
  frenetici audaci, persone pagate per eccitare e denunziare il
  movimento; una compagnia di fucilieri aveva seguito da vicino la
  cavalleria, e la trovai che in parte si avanzava sul vestibolo; a
  mio apparire si arrestò.

  «Dimandai chi ne fosse il comandante; egli si era nascosto in mezzo
  alle file, ed io non poteva distinguerlo. Dimandai a quella truppa
  con qual ordine fosse entrata nella giurisdizione della Francia.
  Le ingiunsi di ritirarsi, e allora si ritirò di pochi passi.
  Credetti di essere riuscito da questo lato, e mi rivolsi verso gli
  ammutinati che si erano ritirati nei cortili interni; alcuni si
  avanzavano già contro la truppa che partiva; allora dissi loro in
  modo decisivo che il primo che avrebbe osato di oltrepassare la
  metà del cortile l’avrebbe a fare con me. Nel medesimo tempo il
  generale Duphot, Scherloek, due altri ufficiali ed io snudammo le
  spade per trattenere quella truppa disarmata, di cui alcuni pochi
  avevano delle pistole e dei pugnali; ma intanto che noi eravamo
  occupati da questo lato, i fucilieri che non si erano ritirati che
  per mettersi fuori della portata delle pistole, fecero una scarica
  generale. Alcune palle morte andarono a colpire uccidendo alcuni di
  quelli che si trovavano indietro. Noi che eravamo in mezzo fummo
  rispettati; poscia la compagnia si ritirò ancora per caricare le
  armi; approfitto di questo istante, e raccomando al colonnello
  Beauharnais, aiutante di campo del generale Buonaparte, che per
  caso si trovava vicino a me, dopo il ritorno della sua missione in
  Levante, ed all’aggiunto degli aiutanti generali signor Arrighi,
  di contenere colla sciabola in mano quella truppa che era animata
  da sentimenti diversi, ed io mi avvicinai col generale Duphot, e
  coll’aiutante generale Scherlock per persuaderla di ritirarsi e
  di cessare il fuoco. Ordinai che si ritirasse dalla giurisdizione
  della Francia e che l’ambasciatore s’incaricava di far punire gli
  ammutinati. Che essi non avrebbero che a distaccare uno dei loro
  uffiziali o sottuffiziali al Vaticano presso il loro generale
  il governatore di Roma, il senatore o qualsiasi altra persona
  pubblica, e così si sarebbe terminato tutto.

  «Il troppo bravo Duphot, abituato a vincere, si slanciò, e in
  un salto si trova fra le bajonette del soldati, ed impedisce ad
  uno di loro di caricare, e ferma il colpo ad un altro che aveva
  già caricato. Noi lo seguivamo, il generale Scherloek ed io,
  per istinto nazionale. Egli era l’amico dei due partiti, era
  il pacificatore e fu considerato come nemico, ed ingannato dal
  suo coraggio fu loro prigioniero, e venne trascinato fino alla
  porta della città detta _Settimiana_. Io veggo un soldato che
  gli scarica il suo moschetto in mezzo al petto, egli cade e si
  rialza appoggiandosi alla sua sciabola. Io lo chiamo, ei vuole
  venire verso di me, un secondo colpo lo stende al suolo, e più di
  cinquanta colpi sono diretti sull’esanime suo corpo.

  «Scherloek resta illeso, vede cadere il suo bravo compagno d’armi,
  tutti i colpi sono diretti su noi, e m’indica una stradicciuola
  nascosta che ci conduce fino ai giardini del palazzo, e ci sottrae
  ai colpi degli assassini di Duphot, ed a quelli di un’altra
  compagnia che faceva fuoco dall’altra parte della strada; i due
  uffiziali spinti da quest’altra compagnia si riuniscono a noi, e
  ci fanno scorgere un altro pericolo. La nuova compagnia potrebbe
  entrare liberamente nel palazzo, ove la mia consorte e mia sorella,
  che il giorno seguente doveva essere sposa al bravo Duphot, erano
  state condotte via dai miei segretari e da due giovani artisti.
  Giungemmo nel palazzo dalla parte del giardino, i cortili erano
  ingombri da quei vili e scellerati bricconi che prelusero a questa
  orribile scena.

  «Una ventina di essi ed alcuni pacifici cittadini sono rimasti
  morti. Entro in palazzo, le scale sono grondanti sangue, i
  moribondi si trascinavano, i feriti gridavano; si giunge a chiudere
  i tre portoni della facciata. I lamenti della morte di Duphot, di
  quel giovane eroe che costantemente alla vanguardia delle armate
  dei Pirenei e d’Italia era sempre stato vittorioso, ed ora scannato
  senza difesa da vili briganti; l’assenza di sua madre e di suo
  fratello che la curiosità avea allontanato dal palazzo per vedere
  i monumenti di Roma, le fucilate che continuavano per la via e
  contro le porte del palazzo, le prime sale del palazzo Corsini, ove
  io abitava, ingombre di gente di cui s’ignoravano le intenzioni;
  queste circostanze e tante altre, resero questa scena più crudele
  di quanto mai abbia potuto immaginare.

  «Feci chiamare i miei domestici, tre erano assenti, uno era
  stato ferito. Feci collocare lo stemma, che avevamo in viaggio,
  nell’angolo del palazzo che abitava; un sentimento d’orgoglio
  nazionale che non potrei frenare, suggerì ai giovani uffiziali
  il progetto di andare a prendere il cadavere del loro infelice
  generale, e vi riuscirono coll’aiuto di alcuni domestici fedeli,
  passando per una via nascosta, malgrado il fuoco che la vile e
  sfrenata soldatesca di Roma continuava sul campo del massacro.
  Trovarono il corpo di questo bravo generale, che dianzi era animato
  da un eroismo cotanto sublime, spogliato, crivellato dalle palle,
  inzuppato di sangue, e coperto da un mucchio di pietre. Erano le
  sei di sera, due ore dopo il massacro di Duphot, e nessuno inviato
  del governo apparve. Decisi di lasciar Roma, lo sdegno mi aveva
  suggerito questo progetto. Nessuna considerazione, nessuna potenza
  terrena me l’avrebbe fatto mutare. Però presi la risoluzione
  di scrivere al cardinale Doria, segretario di Stato, una prima
  lettera; un domestico fedele attraversò la soldatesca attruppata,
  si seguì il suo cammino dai colpi di fucile che lo segnavano
  nell’oscurità ai suoi compagni, che non senza inquietudine
  l’osservavano dalle finestre del palazzo.

  «Finalmente si sente battere al portone, ove si era fermata una
  carrozza, sarà forse il generale, il governatore, il senatore
  o qualche ufficiale romano: erano le sette di sera; no, è un
  amico; l’inviato di un principe alleato della Repubblica, il
  cavaliere Angiolini ministro di Toscana; egli aveva attraversato
  le pattuglie, le truppe di linea, la guardia urbana; si arresta
  la sua carrozza; gli si dimanda, se ha udito i colpi di fucile,
  e non conosceva il pericolo in cui poteva trovarsi, egli risponde
  con coraggio che in Roma non poteva esservene nella giurisdizione
  dell’ambasciata francese. Questo rimprovero generoso, era, in
  questo momento, una critica amara e vera dei Direttori di Roma
  contro l’uffiziale di una nazione, a cui dovevano ancora il resto
  dalla loro esistenza politica.

  «Il cavaliere Azara ministro di Spagna non tardò a venire;
  quest’uomo giustamente onorato dalla sua corte aveva anch’egli
  sprezzato tutti i pericoli, e si trattenne molto tempo con me.
  Erano le dieci. — Ambedue non potevamo a meno di sorprenderci
  altamente vedendo che non veniva nessun uffiziale pubblico. Scrissi
  al cardinale una seconda lettera; n’ebbi dopo pochi istanti la
  risposta. Finalmente un uffiziale e quarant’uomini, che mi si
  assicuravano per bene intenzionati, furono inviati dal segretario
  di Stato per proteggere le mie comunicazioni con lui; ma nè lui nè
  alcun altro uomo capace di prendere con me delle misure decisive,
  per liberarmi dai revoltosi che occupavano ancora una parte della
  mia giurisdizione, e dalla truppa che ne occupava un’altra, non
  si presentò in nome del governo, malgrado la reitirata dimanda che
  aveva fatto.

  «Mi decisi dunque di partire. Il sentimento di sdegno aveva
  fatto luogo alla ragione, e fattomi più calmo, essa mi dettava la
  medesima condotta. Scrissi al segretario una nota chiedendogli un
  passaporto, che m’inviò alle due dopo mezzanotte, accompagnato da
  una risposta.

  «Alle sei di mattina, quattordici ore dopo l’assassinio del
  generale Duphot, l’investimento del mio palazzo, il massacro della
  gente che lo circondava, nessun Romano si presentò a me incaricato
  del governo per informarsi dello stato delle cose. Io partii dopo
  avere assicurato lo stato di alcuni pochi Francesi rimasti a Roma.
  Il cavaliere Angiolini si era incaricato di dar loro dei passaporti
  per la Toscana, dove mi troveranno, e dopo la mia partenza il
  cittadino Cacault, presso di cui mi trovo in questo momento, coi
  Francesi che non mi hanno lasciato dopo il momento che si manifestò
  qualche pericolo.

  «Dopo questo racconto crederei di fare ingiuria a dei repubblicani,
  eccitandoli alla vendetta, che il governo francese deve esigere
  da quest’empio governo, assassino di Basseville, uno dei primi
  ambasciatori Francesi che si è degnato d’inviargli, e di un
  generale distinto come un prodigio di valore in un’armata ove ogni
  soldato è stato un eroe. Cittadino ministro! Non tarderò di recarmi
  a Parigi, appena avrò regolato alcuni affari che ancor mi rimangono
  da trattare; vi darò nuovi particolari sul governo di Roma, e vi
  dirò quale sia la punizione che bisogna infliggergli.

  «Questo governo non si mentisce, astuto e temerario per commetter
  delitti, vile e strisciante quando li ha commessi; oggi è a
  ginocchi del ministro Azara, perchè si rechi a Firenze da me, per
  ricondurmi a Roma; ciò è quanto mi scrive questo generoso amico
  dei Francesi degno di abitare una terra, dove si sappia meglio
  apprezzare le sue virtù e la sua nobile lealtà.

      «Firenze, 30 dicembre 1797.

                                                     «G. BONAPARTE»




III.


Confesso di essere sempre maravigliata, quando depongo la penna dopo
avere scritto pagine come queste ultime. Io, la donna frivola per
eccellenza, non direi nata, ma predestinata a vivere dei miei gusti,
col mio carattere e col mio temperamento lungi da tutti gli intrighi
politici, come una farfalla o come un uccello in un mondo di gioia,
di piaceri, di canti e di armonie, trascrissi questo pesante rapporto
lordo di sangue che grida guerra e vendetta ai popoli. Non vi sembro
forse una Venere Afrodite colla maschera di Nemesi, col suo viso
atteggiato ai dolci sorrisi, cogli occhi alle dolci promesse, e colla
bocca che s’apre a teneri giuramenti?

Ma ho incominciato il racconto degli avvenimenti ai quali presi parte,
e non mi posso ritirare dal compito che mi sono imposto; la voce della
coscienza e fors’anche quella del pentimento mi grida: — avanti, — e
obbligata ad obbedire a questa voce che mi giunge dall’alto, continuo.

Questo rapporto di Giuseppe Bonaparte produsse a Parigi una sensazione
profonda. Bonaparte era il Dio del momento; offendere uno dei suoi
fratelli era più che un delitto di lesa maestà, era un delitto di lesa
divinità.

Osservate pure la lettera con cui il cittadino Talleyrand, il
termometro dello spirito pubblico rispondeva al suo rapporto:

      «11 Gennaio 1793

  «Ho ricevuto, cittadino, la lettera straziante che mi avete scritto
  sugli orrendi avvenimenti che succedettero a Roma l’8 nevoso.
  Malgrado la cura che avete posto nel nascondermi tutto ciò che vi
  ha di personale per voi in questa terribile giornata, non avete
  potuto lasciarmi ignorare che avete manifestato al più alto grado
  l’intrepidezza, il sangue freddo, e quell’intelligenza a cui nulla
  sfugge, e che avete sostenuto con magnanimità l’onore del nome
  francese. Il Direttorio m’incarica di esprimervi nel modo più ampio
  e sensibile la sua viva soddisfazione intorno alla vostra condotta.
  Comprenderete facilmente, lo spero, quanto sia felice di essere
  l’organo di questo sentimento.»

Il Direttorio cominciò col chiedere la punizione degli assassini;
ma fosse negligenza o complicità, nessuno fu arrestato e nemmeno
punito; si seppe che il capo degli assassini, nominato Amadeo, si era
impossessato della spada e della cintura del morto, che il curato della
parrocchia vicina si era ritenuto l’orologio, e che gli altri infine si
erano divisi fra loro il denaro e gli abiti.

Il Direttorio ordinò al generale Berthier, che nell’assenza di
Bonaparte comandava in Italia, di marciare su Roma.

Berthier ricevette l’ordine a Milano, e si mise in marcia il giorno
seguente. Al 29 gennaio la sua avanguardia era a Macerata, al 10
febbraio tutte le truppe erano riunite sotto le mura di Roma, e con un
distaccamento prendeva possesso di Castello S. Angelo, che i soldati
pontificj non tentarono nemmeno di difendere.

Ma il generale Berthier impedì che si andasse più lungi; prevenne
soltanto i capi degli agitatori, che potevano contare sul di lui
appoggio.

Il 16 febbraio, il venti-treesimo anniversario della esaltazione di
Pio VI al trono pontificio, un attruppamento di sediziosi si riunì nel
Foro Romano, e di là s’incamminarono al Vaticano sotto le finestre del
Sovrano Pontefice, e fecero intendere le grida di Viva la Repubblica.

Per rispetto — dicevano essi — non pel papa ma pel vecchio, non
invasero il Vaticano; ma occuparono tutta la città, e scrissero un
manifesto che constatava la ristorazione della sovranità del popolo,
il quale ripudiava ogni complicità nelle uccisioni di Basseville e di
Duphot, aboliva l’autorità pontificia, e riguardo alle cose politiche,
economiche e civili, costituiva un governo repubblicano libero ed
indipendente.

I fondatori della nuova Repubblica si diedero premura d’inviare al
generale Berthier, per consegnargli quell’atto, una deputazione di otto
cittadini.

Egli fece tosto la sua entrata dalla porta del Popolo, e nello stesso
giorno salì al Campidoglio, ove, parodiando gli antichi trionfatori
romani, salutò in nome del Direttorio la nuova Repubblica, riconosciuta
libera ed indipendente dalla Francia, e che si componeva di tutto il
territorio lasciato al papa col trattato di Tolentino.

Il giorno dopo quattordici cardinali, che avevano avuto la viltà
di firmare l’atto di affrancazione e la rinuncia di tutti i diritti
politici, cantarono il _Te Deum_ nella basilica di S. Pietro.

Il generale Cervoni, incaricato di significare a Pio VI la sua
decadenza, penetrò negli appartamenti di quel santo vecchio, e lo trovò
inginocchiato che pregava.

Pio VI ricevette con una perfetta serenità l’annunzio della caduta dei
suoi diritti temporali, ed eccitato a riconoscere il nuovo governo,
rispose:

— La mia sovranità viene da Dio, io non posso rinunziarvi; ho
ottant’anni, e perciò la vita è poca cosa per me: in quanto agli
oltraggi ed ai patimenti non li temo.

Ma siccome la presenza del Santo Padre era incompatibile in Roma col
nuovo governo, ricevette l’invito di lasciare la capitale del mondo
cristiano, ed infatti il 20 febbraio partì per la Toscana.

Tutte queste notizie ci arrivarono quasi nello stesso tempo, e
cagionarono, si comprende bene, un grande scompiglio nella nostra
corte. La Repubblica spinta passo passo dai francesi, faceva ogni
giorno un nuovo progresso in Italia, e non distava che trenta leghe
da noi. Il governo delle Due Sicilie pensò alle precauzioni che doveva
prendere contro un avversario cotanto minaccioso.

Senza occuparsi del trattato che aveva firmato colla Francia nel 1797,
vale a dire quattordici mesi prima, Ferdinando firmò coll’imperatore
suo nipote, al 19 maggio 1798, un trattato che infirmava completamente
il primo.

Con questo trattato l’imperatore doveva tenere sessanta mila uomini nel
Tirolo; e Ferdinando inviarne trenta mila alle frontiere napolitane.

Per un caso singolare il 15 maggio 1798 fu il giorno in cui la flotta
francese salpò da Tolone per la spedizione di Egitto.

Si conoscevano già i preparativi che faceva la Francia, ma s’ignorava
qual paese minacciasse quella flotta formidabile.

Il comandante della flotta inglese sir Jean Jervis, dopo lord conte di
S. Vicent, si ostinò di vedere nei preparativi di Tolone un progetto
di spedizione nell’Oceano, e si accontentò di chiudere lo stretto di
Gibilterra e di bloccare la flotta spagnuola nel porto di Cadice.

Sempre in questa convinzione, spedì Nelson, che serviva sotto i suoi
ordini, con tre vascelli di linea, quattro fregate ed una corvetta per
sorvegliare il porto di Tolone, promettendogli di mandar soccorsi alla
sua prima richiesta.

Al 9 maggio Nelson lasciò la baia di Cadice, ma era già troppo tardi;
arrivato nel golfo di Lione, una tempesta disperse i suoi vascelli, e
disalberò quello su cui si trovava.

Entrò per riparare le sue avarie nel porto di S. Pietro, rimorchiato da
un vascello che aveva sofferto meno del suo.

Durante il suo soggiorno al porto di S. Pietro, apprese la partenza
della flotta francese da Tolone e spedì un bastimento a Lord S. Vincent
per chiedergli il soccorso promesso: ma all’8 giugno, vale a dire tre
settimane dopo che la flotta francese aveva fatto vela, potè riunire
le forze inviategli, nel momento in cui essa era già fra la Sicilia e
Malta.

Questi aiuti si componevano di dieci vascelli da 74 ed uno da 50
cannoni.

Alla testa di questa potenza Nelson si mise alla ricerca della flotta
francese; sulle coste meridionali della Corsica apprese che era stata
veduta fra Capo Corso e l’Italia.

Balenò a Nelson l’idea, e quell’idea aveva una certa probabilità, che
la flotta francese fosse diretta a Napoli.

Egli fece vela per Napoli.

Al 15 giugno, egli era all’isola di Ponza, e c’inviò un suo uffiziale
di confidenza, meglio ancora un suo amico, il capitano Troubridge,
colla corvetta la _Mutine_ per abboccarsi col capitano generale e sir
William Hamilton.

Troubridge era latore di una lettera di Nelson per me.

L’effetto che io aveva prodotto su questo grande uomo non mi era punto
sfuggito, e trovai strano come potendo egli stesso venire a Napoli
avendo così un occasione di vedermi, la lasciasse sfuggire.

La sua lettera mi spiegò tutto.

Eccola:

      «Milady,

  «Se venissi a Napoli, se discendessi a terra, e se vi rivedessi,
  arrischierei di mancare a tutti i miei doveri, che sono d’inseguire
  la flotta francese senza perdere un momento.

  «Troubridge vi porgerà questa lettera, che invece di essere una
  prova d’indifferenza, diventa, per la spiegazione che vi dà, una
  prova della violenza del sentimento che provo per voi.

  «Appena Troubridge sarà ritornato colle indicazioni che riceverò
  dal capitano generale e da sir William, continuerò il mio cammino.

  «Fossero all’altro capo del mondo, raggiungerò i francesi; e mi
  rivedrete vincitore e degno di voi, milady, o non mi rivedrete più.

  «Mille volte il vostro

                                                   «ORAZIO NELSON.»

Eccoci a quanto ci trovavamo al 16 giugno 1798 circa al nostro amore
con Nelson; si vede che non eravamo inoltrati di molto.

Questa lettera senza dir molto al mio cuore solleticava il mio
orgoglio. Nelson nei cinque anni che erano passati si era battuto come
un eroe, o piuttosto, come lo diceva egli stesso, come un uomo che si
vuol fare ammazzare. Ho già raccontato come avesse perduto un occhio a
Calvi; non era tutto, a Teneriffa gli venne portato via un braccio.

Questa volta prometteva di ritornare degno di me, o di farsi ammazzare.

Era sicura che egli manterrebbe la sua parola; Nelson non era di quegli
uomini che promettevano invano.

Dal terrazzo del palazzo vidi il maestoso spettacolo della flotta che
difilava innanzi a Napoli; col mezzo d’un cannocchiale, sir William
mi fece distinguere il vascello che portava la bandiera ammiraglia; a
quella distanza non poteva distinguere quanto avveniva a bordo; ma son
certa che Nelson aveva gli occhi fissi sul palazzo, come io aveva fissi
i miei sul suo vascello.

La flotta si aperse lentamente innanzi allo scoglio di Capri; una parte
passò alla sua destra, l’altra alla sinistra; stette tre giorni in
vista, poichè vi era bonaccia.

Questa bonaccia fu causa che al 25 giugno soltanto si trovò al forte di
Messina.

Di là seppe che Bonaparte aveva preso Malta, e passando vi aveva
lasciato una guarnigione di quattromila uomini, ed aveva continuato il
suo cammino verso l’Oriente.

Dal Faro in data del 25 egli scrisse a sir Hamilton per annunziargli
quella notizia, ed a me per rinnovarmi l’assicurazione dei sentimenti
che aveva per me.

Sir William ed io ricevemmo le lettere al trenta dello stesso mese, e
risposi subito:

      «Caro signore.

  «Approfitto dell’offerta del capitano Hope per scrivervi qualche
  riga, e per ringraziarvi della graziosa lettera che mi avete fatto
  pervenire col mezzo del capitano Bowen.

  «La regina ebbe grandissimo piacere quando le tradussi ciò che
  dicevate di gentile per lei, e m’incarica di ringraziarvi, e di
  assicurarvi che prega pel vostro onore e per la vostra salvezza: in
  quanto alla vittoria essa è già sicura che l’avrete.

  «Abbiamo ancora qui il regicida ministro Garat, il più insolente,
  il più impudente animale diplomatico, che mai si possa vedere,
  e veggo chiaramente che la corte di Napoli dovrà dichiarare la
  guerra, se vuole salvare il paese, perchè l’ambasciatore francese
  fa tutti i giorni le osservazioni più minacciose.

  «S. M. vede e sente tutto ciò che voi dite nella vostra lettera a
  sir William datata dal Faro di Messina, e sotto la vera luce che
  rischiara i fatti, così fa anche il generale Acton.

  «Ma per sventura il loro primo ministro Gallo, uomo leggero,
  superficiale ed ignorante, impetrito e stecchito come una cresta
  di gallo, non pensa ad altro che al modo con cui gli vanno i
  suoi abiti ricamati, ed all’effetto che produce il suo anello
  di brillanti; una metà di Napoli lo crede francese, io credo che
  l’altra metà s’inganna credendolo napoletano.

  «La regina ed Acton non possono soffrirlo; per me poco importa
  essendo sostenuto soltanto dal re egli non saprebbe avere un gran
  potere; ma un primo ministro, e un puro ministro di forma, è pur
  sempre qualche cosa per fare un brutto giuoco.

  «A proposito saprete che i tre o quattrocento giacobini, che si
  tenevano in carcere, sono stati tutti, dopo tre o quattro anni di
  detenzione, dichiarati innocenti. Se credo a tutto ciò che si dice
  da loro di me, la metà almeno meriterebbe di essere appiccata. È
  Garat che colla sua influenza e Gallo colla sua debolezza, e forse
  colla sua simpatia, hanno fatto il bel colpo di rendere questi cari
  signori alla società.

  «Insomma io ne sono molto spaventata, e considero come tutto
  perduto per Napoli. Sono afflitta fino alle lagrime per la nostra
  cara e graziosa regina, che merita veramente una miglior sorte.

  «Comprenderete, mio caro signore, che vi scrissi tutto ciò in
  confidenza e di fretta.

  «Spero che non lascerete il Mediterraneo senza prenderci; abbiamo
  il nostro congedo, e pronta ogni cosa per partire appena ne avremo
  l’avviso; ma intanto spero in Dio che distruggerete questi mostri
  di francesi; e prima di partire di qua, il regno di questi empii
  non sarà di lunga durata.

  «Se avrete qualche occasione, scriveteci; non potete credere qual
  balsamo sono le vostre lettere per noi.

  «Che Dio vi benedica, mio caro, carissimo signore: credetemi sempre
  la vostra sincerissima, obbligatissima ed affezionatissima amica,

                                                    EMMA HAMILTON.»

Questa lettera lo raggiunse in mare mentre cercava, senza poterla
trovare, la flotta francese.




IV.


Nelson aveva completamente perduto la traccia di Buonaparte e dei
trecento cinquanta legni che lo seguivano: trattenuto dallo scirocco
per alcuni giorni nello stretto di Messina, approfittò di un colpo di
vento per superare Reggio, e spingersi in alto mare.

Convinto che Buonaparte moveva verso l’Egitto, volse direttamente il
suo cammino ad Alessandria; ma vi arrivò prima della flotta francese;
l’ammiraglio Brueys aveva appoggiato verso l’isola di Candia per
ingannare senza dubbio quelli che lo inseguivano.

Mal ricevuto dal governo d’Alessandria che minacciava di far fuoco
su di lui se tentasse di forzare il passo, e non sapendo la via
percorsa dalla flotta francese, suppose, dacchè non si trovava ad
Alessandria, che avesse fatto vela per Costantinopoli. Nelson costeggiò
all’avventura la Caramanis e la Morea, andando in cerca di notizie,
e dopo aver percorso invano l’Arcipelago, difettando di acqua e di
viveri, fu obbligato di ritornare in Sicilia.

Più di una volta mi disse, che dal 20 giugno, epoca in cui uscì dallo
stretto di Messina, fino al 21 luglio, in cui entrò nel porto di
Siracusa, egli credeva di diventar pazzo.

La situazione era grave, ed una tempesta si addensava contro di lui
in Inghilterra. Quando si seppe che aveva lasciato uscire da Tolone,
e che per un mese intiero aveva cercato nel Mediterraneo, vale a dire,
in un gran lago, una flotta di circa quattro cento vele, si chiedeva da
ogni parte, se egli non fosse un traditore, che si doveva sottoporre ad
un consiglio; e l’ammiraglio S. Vincent, uomo leggero era incorso nel
biasimo dell’ammiragliato per avergli proposto come contrammiraglio un
uffiziale indegno di quel grado.

La sua unica speranza era riposta in noi, o piuttosto in me.

Io doveva ottenere dalla regina, che, malgrado il trattato colla
Francia, egli potesse ricevere dai comandanti dei porti siciliani tutti
i soccorsi di cui aveva bisogno; perchè, se la corte di Sicilia si
mantenesse nei limiti del suo trattato colla Francia, Nelson sarebbe
obbligato di andare a rifornirsi di viveri a Gibilterra, ed allora era
perduto.

Soltanto una splendida vittoria poteva salvarlo.

Questa lettera che egli scriveva al 22 luglio a lord S. Vincent, darà
un’idea della situazione del suo animo.

                                           «Siracusa 22 luglio 1798

      «Mio caro Lord

  «Ho una quantità di lettere e di carte da mandarvi, ma non ho
  disponibile una fregata per portarvele, e non posso in questo
  momento separarmi dall’Orion: giudicate del mio imbarazzo, — io
  ignoro completamente il luogo dove possa essere la flotta francese,
  come in quel giorno che ho superato il Capo Passaro. Ciò che so
  di certo, si è che al 18 giugno la flotta cominciava ad uscire dal
  porto di Malta; nella notte del martedì tutte le navi erano fuori,
  ed al mercoledì mattina fu veduta che continuava il suo cammino a
  piene vele sotto un gran vento di ovest nord ovest. Ciò mi è stato
  assicurato da quattordici persone, il resto non è che congettura;
  se la flotta è diretta verso l’occidente, sono sicuro che tutti
  i porti, ed anche tutti i punti della Sicilia, ove sarebbe stata
  veduta, si sarebbero affrettati di avvisarmene. Non ardisco dirvi
  di più, ma sono persuaso che noi siamo traditi, ed è più che
  probabile che questa lettera che sono obbligato di mandare a Napoli
  non giungerà nemmeno colà, od almeno sono sicuro che il ministro
  francese ne avrà una copia, se non la copia egli stesso. In quanto
  a me vi dico, che se non vi ha difficoltà intorno ad un punto od
  un altro, raggiungerò la flotta francese. La nostra non ha un solo
  uomo ammalato. Vi ho dato tutti quei particolari che ho potuto, e
  vi ho detto fino il mio più intimo pensiero, — Dio vi benedica.

                                    «Per sempre il vostro fedeliss.

                                                   «ORAZIO NELSON.»

  «PS. Il modo con cui siamo accolti in Sicilia è vergognoso;
  il comandante ci dichiara che se avesse avuto i mezzi, sarebbe
  stato obbligato, giusto gli ordini ricevuti, d’impedire la nostra
  entrata. Acton aveva promesso di dare degli ordini, _ma non ne è
  stato mandato alcuno_; che ne pensate voi?»

Nello stesso giorno Nelson, disperato e quasi furioso, scriveva a sir
William Hamilton:

                                            «A bordo del _Vanguard_

                                         «Siracusa, 22 luglio 1798.

      «Mio caro signore,

  «Sono oltre modo maravigliato che il re di Napoli abbia dato
  l’ordine di non lasciar entrare nei suoi porti che tre o quattro
  bastimenti inglesi. Io però sapeva che si erano date delle
  istruzioni segrete per la nostra libera ammissione; se si continua
  dunque a rifiutarmi ancora tutti gli oggetti di cui ho bisogno,
  fatemelo sapere al più presto possibile, col primo bastimento,
  onde possa aver il tempo di rifornirmi di viveri a Gibilterra. Il
  modo con cui siamo trattati è scandaloso per una grande nazione;
  la bandiera di Sua Maestà Britannica è stata in realtà insultata in
  tutti i porti amici.

  «Sono col maggior rispetto ecc.

                                                   «ORAZIO NELSON.»

Ma, grazie a me, queste istruzioni segrete erano state date; solamente
arrivavano un poco tardi. Nello stesso giorno, in cui Nelson scrisse
quella lettera, il comandante del porto di Siracusa, e quelli degli
altri porti avevano ricevuto l’avviso di dargli viveri, acqua, legna,
tutto ciò che gli occorreva, e specialmente di non contar più il numero
dei vascelli che entravano nel porto. Cosicchè Nelson fece ammenda
onorevole nello stesso giorno con questa lettera.

                                         «Siracusa, 22 luglio 1798.

      «Miei buoni amici,

  «Grazie di tutte le vostre premure. Abbiamo viveri ed acqua;
  l’attingere l’acqua dalla fontana Aretusa è certamente un presagio
  di vittoria. Metteremo vela alla prima brezza, e siate certi che
  ritornerò coronato d’alloro o coperto di cipresso.

                                                            «O. N.»

Il giorno dopo, Nelson scrisse di nuovo a sir William:

                                         «Siracusa, 23 luglio 1798.

      «Mio caro signore,

  «La flotta è pronta, ed appena spirerà il vento di terra uscirò
  da questa deliziosa rada, ove fummo copiosamente soddisfatti di
  quanto abbisognavamo, e dove ci furono prodigate tante cure. Ma
  sono stato assai in pena finchè non fu data alcuna istruzione
  secreta al comandante per la nostra ammissione. Ho la sola speranza
  d’incontrare la flotta francese, e di metterci sopra la mano.
  L’evento sarò allora nelle mani della provvidenza, nella cui bontà
  io non dubito punto.

  «I miei omaggi a lady Hamilton, e credetemi sempre il vostro
  fedelissimo.

                                                       «O. NELSON.»

Il vento che Nelson aspettava venne nella notte dal 23 al 24 di luglio,
e la flotta, essendo già pronta a far vela, si diede l’ordine di
salpare.

Nelson si diresse verso la Grecia.

Al 28 luglio il _Culloden_, che passava innanzi alla Morea, entrò nel
golfo di Coron, interrogò il governo Turco, e seppe che i Francesi
erano ad Alessandria. Il Culloden raggiunse subito l’ammiraglio,
e si diede l’ordine, mediante i segnali, di dirigersi difilato ad
Alessandria.

Si giunse innanzi a questo porto il primo agosto verso mezzogiorno, ma
i Francesi l’avevano già lasciato, e si erano diretti verso oriente;
si continuò ad inseguirli, ed alle due e tre quarti, lo _Zélé_ che
stava alla testa fece il segnale di vedere sedici vascelli di linea
all’áncora.

A tre ore Nelson diede il segnale di prepararsi al combattimento.

Non spetta a noi di raccontare questa terribile battaglia del Nilo
che durò due giorni. Mai vittoria fu più completa di questa, nè simile
disastro non spaventò il mare. Un vascello francese l’_Orient_ scoppiò,
un altro vascello ed una fregata andarono a picco, e nove bastimenti
furono presi; ma tre di questi ultimi erano talmente mutilati che il
vincitore fu costretto ad incendiarli; il giorno seguente e l’altro
ancora fu obbligato a bruciarne altri due.

Ma Nelson aveva ricevuto una grave ferita; un pennone spezzato da una
palla francese gli cadde sulla fronte nel momento che alzava la testa
al rumore che la palla faceva nel romperlo. Quel frammento di pennone
gli aveva tagliata e rovesciata la pelle della fronte fino sulla
bocca. Nelson si credette ferito mortalmente, tanta era la violenza del
colpo. Fece subito chiamare il cappellano per confidargli la sua ultima
volontà; ma col cappellano venne anche il chirurgo, il quale esaminò
il cranio, e non scorgendovi nessuna frattura, ciò che era facile a
vedersi, perchè l’osso era scoperto, rialzò la pelle della fronte,
la rimise al suo posto e ve la fissò con una benda. Nelson rivedendo
la luce alla quale credeva di aver dato un eterno addio, riprese con
uno sforzo sovrumano il comando del Vanguard, e ritrovando tutta la
sua forza e la sua presenza di spirito, tutto il suo sangue freddo,
restò sul suo banco di quarto, e continuò a comandare il fuoco fino
all’intiera distruzione della flotta francese.

Poi tutto ferito e quasi cieco prese la penna e scrisse a sir William
ed a me:

                                                 «2 agosto di sera.

      «Miei buoni amici,

  «Vittoria completa, la flotta francese è distrutta. Il capitano
  Capel che parte colla Mutine, vi porterà questa lettera, e vi darà
  tutti i particolari che non posso darvi io stesso.

  «Sono stato leggermente ferito; ma non datevi pena per ciò.

      «Sempre vostro fedele

                                                   «ORAZIO NELSON.»

  «Trasmettete, ve ne prego, coi miei rispettosi omaggi, queste
  notizie alla nostra amabile regina.»

Il capitano Capel partì difatti colla _Mutine_, e giunse il 4 settembre
a Napoli, annunziandoci a voce che Nelson arriverebbe qualche giorno
dopo di lui, ed aveva indicato il porto di Napoli come punto di
riunione di tutta la flotta, le cui navi più o meno mutilate non
potevano camminare che colle forze che lor rimanevano.

Dopo aver terminato la sua commissione, il capitano Capel scriveva a
Nelson:

      «Signor ammiraglio.

  «È impossibile che vi esprima la gioia che brillava su tutti
  i volti, il fragore degli applausi e delle acclamazioni che ci
  accolsero al nostro arrivo. La regina e Lady Hamilton svennero
  tutt’e due per la consolazione; insomma, signore, tutti vi
  acclamano il liberatore d’Europa. Un corriere partirà domani
  mattina per Vienna: io l’accompagnerò per non perdere un solo
  istante; ho avuto tutte le istruzioni ed i suggerimenti possibili
  da sir William Hamilton e dagli altri ministri stranieri, che
  si sono tutti affrettati di mandare alle loro corti la gloriosa
  notizia.

  «Ho l’onore di essere con rispetto

                                                           «CAPEL.»

In quanto a me nel primo momento scrissi una lettera a Nelson, una
lettera piena di espansione che non potrei citare qui, non avendone
tenuta la copia, ma che Nelson riprodusse in parte nella lettera
seguente che scriveva a sua moglie.

                                     «In mare il 16 settembre 1798.

  «Il regno delle Due Sicilie è pazzo per la gioia. — Dal trono ai
  contadini tutti sono così; da quanto mi dice Lady Hamilton con la
  sua lettera, la situazione della regina faceva veramente pietà. —
  Spero solamente, di non esser più mai testimonio della rinnovazione
  d’una simile cosa. Vi ripeto le parole di Lady Hamilton:

  «Come posso trascrivervi i trasporti della regina? Ciò mi è
  impossibile: essa pianse, abbracciò suo marito, i suoi figli, corse
  come una forsennata per la camera, sempre piangendo, dando baci
  alle persone ch’eranle intorno e stringendole nelle sue braccia,
  esclamando: Oh! bravo Nelson, Dio possa benedire e proteggere il
  nostro bravo liberatore, oh! Nelson, Nelson quanto vi devo! oh!
  conquistatore, salvatore dell’Italia, perchè il mio cuore commosso
  non può dirvi da vicino quanto io vi devo?

  «Voi potete, cara Fanny, giudicare del resto, ma la mia testa non
  vuol permettermi di dirvene la metà. Tutte le mie fatiche andavano
  quasi frustrate, ma Dio mi ha protetto.

  «Vostro, — ORAZIO NELSON.»

La lettera seguente, che la regina scriveva al suo ambasciatore a
Londra, il marchese di Circello, darà un’idea della sua soddisfazione.

Sua Maestà mi ha fatto l’onore di darmene una copia scritta di suo
pugno:

  «Vi scrivo nella gioia. Il bravo e coraggioso ammiraglio Nelson ha
  riportato una vittoria completa sulla flotta francese. Vorrei dare
  delle ali al messaggiero che vi porterà questa grande notizia, e
  nello stesso tempo l’espressione della nostra sincera gratitudine
  all’eroe del Nilo. L’Italia è salva dalla parte di mare, e ciò è
  dovuto ai valorosi Inglesi. Questo fatto che può intitolarsi a
  buon dritto la totale disfatta della flotta regicida, è dovuto
  al genio ed al valore di questo bravo ammiraglio, secondato da
  una marina che è il terrore dei suoi nemici: la vittoria è così
  completa, che appena posso prestarvi fede, e se non fosse che la
  nazione inglese è abituata a fare prodigi sul mare, io non saprei
  persuadermene. Questa notizia ha prodotto un entusiasmo generale,
  e voi sareste commosso nel vedere i miei figli a me dintorno che
  mi abbracciavano e piangevano di gioia a queste consolanti notizie
  doppiamente consolanti pel momento critico in cui sono giunte.
  — La paura, l’avarizia, gl’intrighi dei repubblicani hanno fatto
  sparire tutto il denaro, e non vi è nessuno che abbia il coraggio
  di proporre un piano che l’obblighi a rientrare in circolazione;
  questo bisogno di denaro ci ha messi in condizioni spiacevoli,
  oppressi dai repubblicani che sono la causa di tutti i mali che
  opprimono questo bel paese. Molti che hanno creduto che il momento
  fosse venuto, hanno levato la maschera; ma queste buone notizie,
  ma la perdita della flotta di Bonaparte che perirà, lo spero, con
  tutto il suo esercito in Egitto, li rendono più timidi, e ci fa il
  maggior bene. Se l’imperatore mette un poco di attività nei suoi
  movimenti, l’Italia può essere salva. Noi, da parte nostra, siamo
  pronti ed impazienti di renderci degni di essere gli amici e gli
  alleati dei bravi difensori del mare. Presentate i miei rispetti
  al re ed alla regina d’Inghilterra, fate i miei complimenti a
  Lord Greenville, a Pitt, e a Lord Spencer, il quale ha l’onore
  d’esser il capo di tutta questa eroica marina; offrite i miei
  ringraziamenti a tutti questi signori, per aver inviato la flotta,
  e dite loro quanto io sia festosa per l’avvenimento, tanto per
  nostro vantaggio, che è grande, quanto pel loro onore e per la
  loro gloria; assicurateli della mia gratitudine eterna. Spero che
  dagli ordini che avete ricevuto coll’ultimo corriere la nostra
  tranquillità sarà assicurata; e che con un buon accordo arriveremo
  a salvare l’Italia, ed a dare al nostri difensori dei vantaggi che
  ci collegheranno per sempre.

  Il coraggioso Nelson è ferito, ed è così modesto che parla appena
  della sua ferita, e raccomanda gli eroi al suo signore e re. E gli
  Italiani tutti entusiasti della nazione inglese; grandi speranze
  sono fondate sulla sua bravura, ma nessuno poteva gloriarsi di una
  simile distruzione.

  «Noi siamo tutti pazzi di gioia.

                                                        «CAROLINA.»

Tutte le lettere che cito sono forse conosciute in Inghilterra, ma,
ne son certa, sono completamente ignote in Francia e per conseguenza
devono avere un interesse di curiosità pel lettore francese.




V.


Bisogna vedere gli onori che furono resi a Nelson, e le ricompense,
sotto le quali egli fu letteralmente schiacciato, conferitegli da
tutti i sovrani d’Europa, per farsi un’idea del grado di terrore che la
Francia ispirava in quell’epoca all’Europa intera.

Ne abbiamo fatto una volta la lista con Nelson, e questa lista eccola;
essa comincia dall’ottobre 1798 e va sino all’ottobre 1799.

Prima di tutto dal re e dalla regina d’Inghilterra.

La dignità di Pari della Gran Brettagna, ed una medaglia d’oro.

Della Camera dei Comuni, dietro un messaggio del re del 22 novembre
1798 per lui e pe’ suoi due più prossimi eredi, il titolo di barone
del Nilo, e di Bernham Thorpes, con una rendita di 2,000 lire sterline,
cominciando a decorrere dal 1 agosto 1798, giorno della battaglia del
Nilo.

Dal Parlamento inglese per lui ed i suoi due più prossimi eredi una
rendita di 2,000 lire sterline.

Dal Parlamento d’Irlanda una pensione di 1,000 lire sterline.

Dalla Compagnia delle Indie Orientali 10,000 lire sterline per una
volta.

Dalla compagnia turca un servizio di vassellame liscio.

Dalla città di Londra una spada coll’impugnatura ornata di diamanti.

Dal Gran Signore una fibbia di diamanti col celmyk, ossia una penna di
trionfo valutata 2,000 lire sterline, ed una ricca pelliccia valutata
1,000 lire sterline. Dalla madre del Sultano, la Sultana Validè, una
scatola ornata di diamanti valutata 1,000 lire sterline.

Dall’Imperatore di Russia una scatola ornata di diamanti del valore di
2,000 lire sterline e la seguente lettera di felicitazione.

      «Signor vice-ammiraglio Nelson.

  «Considerando la causa dei miei alleati come la mia propria, non
  posso esprimervi il piacere che mi hanno fatto i vostri successi;
  la vittoria completa che avete riportato sul nemico comune, la
  distruzione della flotta francese sono sicuramente titoli troppo
  possenti, per non assicurarvi i suffragi della parte sana di
  Europa. Per darvi un attestato palese della giustizia ch’io rendo
  a’ vostri talenti militari, unisco alla presente una scatola
  col mio ritratto ornata di diamanti, e desidero che vi sia
  garante della mia grande benevolenza. Con che prego Dio, signor
  vice-ammiraglio Nelson, che vi abbia nella sua santa e degna
  custodia.

  «Pietroburgo, 8 ottobre 1798.

                                                           «PAOLO.»

Dal re delle Due Sicilie una spada riccamente ornata di diamanti del
valore di 5,000 lire sterline.

Dal re di Sardegna una scatola in diamanti valutata 1,100 lire sterline
e la seguente lettera di felicitazione.

      «Mio caro ammiraglio,

  «Voi non sapreste credere, mio caro ammiraglio, con quale
  soddisfazione ho io letto la vostra lettera del 4 corrente,
  che ho ricevuto ieri alle cinque ore dopo mezzodì, e che resi
  immediatamente ostensiva a tutta la famiglia reale ed ai miei
  primi ufficiali, i quali ne sono stati compiaciutissimi. Senza
  entrare in particolari, io profitto dell’occasione che il cavalier
  Balli, mio primo scudiere, si propone di fare un giro in Germania
  ed in Russia per incaricarlo di passar da Palermo ed istruirvi
  delle mie intenzioni e delle mie viste nelle circostanze attuali,
  le quali mi lasciano sperare, che il buon Dio vuol finalmente
  che il brigantaggio finisca e che la buona causa trionfi. Ecco i
  voti che noi facciamo incessantemente pel bene dell’umanità e pel
  sostegno della religione. Voi potreste dunque credere a quanto il
  cavalier Balli vi dirà da parte mia. Egli è un gentiluomo che coi
  suoi talenti ed i suoi servigi, sia nell’armata sia nella corte,
  ha acquistato dritto alla mia confidenza, onde io mi auguro che
  voi vorrete accordargli la vostra. Io l’ho incaricato di assicurar
  quanto vi sia riconoscente della vostra attenzione e quanto conti
  sopra una persona tanto degna e tanto virtuosa quanto voi siete,
  mio caro ammiraglio. Vi ringrazio delle lettere della corte di
  Napoli che mi avete dirette, e vi prego di farle giungere le
  risposte qui unite. Intanto prego Dio di avervi nella sua degna e
  santa guardia.

  «Cagliari, 8 maggio 1799

                                                      «Vostro amico

                                                 «CARLO EMMANUELE».

L’isola di Zante gli diede una spada con l’elsa d’oro, ed un bastone
col pomo d’oro, con una dichiarazione che senza la battaglia del Nilo,
quell’isola non sarebbe stata mai liberata dalla crudeltà dei Francesi.

La città di Palermo gli regalò una scatola ed una catena d’oro
presentata sopra un piatto d’argento.

Ma il dono più originale, e se mi è permesso di dire, il più inglese, e
che fece tanto piacere a Nelson fu quello che gli fece il suo amico, il
capitano Beniamino Hallowell, comandante dello _Sweffsure_.

Il vascello francese l’_Orient_ scoppiò, come già disse, e le sue
spoglie cadendo in frantumi coprirono il mare: fra questi frantumi,
il capitano Hallowell scorse che l’albero maestro era rimasto intatto.
Fece mettere tutte le scialuppe in mare, e poco curandosi dei nuotatori
che si agitavano in mezzo a quelle ruine, ordinò di salvare soltanto
l’albero maestro dell’_Orient_: tutte le scialuppe dello _Sweffsure_
si misero all’opera e lo trassero a bordo; subito dopo Ben Hallowell
fece chiamare un fabbro ed un falegname, e nella parte più grossa
dell’albero fece scolpir fuori un feretro, incastonato colle barre
di ferro a saldato coi chiodi tolti dallo stesso albero. Terminato il
sarcofago vi pose questo certificato d’origine:

  «Certifico qui che questo feretro è intieramente costruito col
  legno e col ferro del vascello l’Orient, di cui il vascello di S.
  M. sotto i miei ordini salvò gran parte nella baia di Aboukir.

  «Il 23 maggio 1799.

                                                   «BEN HALLOWELL.»

Poscia inviò il sarcofago a Nelson colla lettera seguente:

                  «_Al leale ed onorevole lord Nelson
                         Cavaliere Baronetto._

      «Mio signore,

  «Vi mando insieme a questa una bara costruita col legno dell’albero
  maestro del vascello l’_Orient_, affinchè quando lascerete questa
  vita, possiate ancora riposare nei vostri propri trofei. La
  speranza che questo giorno è ancor lontano è il desiderio sincero
  del vostro obbediente ed affezionatissimo servo.

      «Sweffsure, 23 Maggio 1799.

                                                   «BEN HALLOWELL.»

Nelson, come dissi, accolse il dono con una soddisfazione visibile,
e lo conservò per qualche tempo appoggiato, col suo coperchio,
precisamente dietro la sedia dove si sedeva per pranzare; un vecchio
domestico, rattristato da questo mobile postumo, ottenne da Nelson di
trasportarlo sul falso ponte.

Quando Nelson lasciò il _Vanguard_ orribilmente mutilato, il feretro
passò con lui a bordo del _Fulminante_, ove rimase per molto tempo sul
cassero del bastimento.

Un giorno alcuni giovani ufficiali del _Fulminante_, ammiravano il dono
del capitano Ben Hallowell; Nelson gridò loro dalla sua camera:

— Ammiratelo finchè volete, signori, ma nessuno di voi l’avrà.

Ahimè è inutile il dire che il povero Nelson riposa nel feretro che Ben
Hallowell gli aveva preparato.

Confesso che mi trema la mano, e che mi sono venute le lagrime agli
occhi ricordando questi funebri particolari.

Ma essi fanno parte della gloria e della grandezza del mio eroe; e non
mi sono creduta in dovere di tacerli.

Oltre al titolo di lord, di barone del Nilo, e di Burnham-Thorpes,
oltre alla medaglia navale che Nelson ricevette come tutti i capitani
comandanti un vascello di linea alla battaglia del Nilo, Nelson
ricevette una _honourable augmentation_ al suo stemma: al dire di sir
William, grande interprete di geroglifici araldici, questa _honourable
augmentation_ non era il dono più prezioso che Nelson ricevette. La
semplicità è il pregio principale del Blasone, ma qui la quantità delle
imprese, di cui era sovraccaricata quella di Nelson, lo rendevano quasi
ridicolo, e sarebbe stato ancora accresciuto se si avesse dato ascolto
all’ammiraglio Goodal che voleva dare al suo stemma due coccodrilli per
sostegno.

Ecco il decreto del re intorno a questo stemma.

«Avendo Sua Maestà il re la graziosa intenzione di dare all’onorevole
Orazio barone Nelson del Nilo e di Burnham-Thorpes, nella contea
di Norfolk, contr’ammiraglio della squadra azzurra della flotta di
S. M., cavaliere e baronetto, una ricompensa pei suoi servigi, pel
grande coraggio e perseveranza da lui manifestata in molte occasioni,
e particolarmente per l’abile e valorosa condotta da esso spiegata
nel glorioso combattimento e decisiva vittoria da esso ottenuta sulla
flotta francese alle bocche del Nilo, il giorno primo del mese di
Agosto prossimo passato gli conferisce, per esso e i suoi discendenti,
mediante questo reale decreto, l’autorizzazione di aggiungere
quest’onorevole aumento di imprese al suo stemma.

Un capo — ondulato d’argento, che sostiene le onde del mare, con una
palma che sorge fra un vascello disalberato ed una batteria smontata,
il vascello a destra e la batteria a sinistra — il tutto di color
naturale — inoltre sul cimiero dell’elmo una corona navale da cui esce
il Cermyk o piuma di trionfo conferitagli dal Sultano, col motto —
_Palmam quam meruit ferat_, — e per sostegno un marinaio a destra ed un
leone a sinistra, coi seguenti aumenti onorevoli: il marinaio porterà
nella sua mano, e il leone fra le sue zampe una palma, coll’aggiunto di
una bandiera tricolore nella bocca del leone».

Fu Sua Maestà che si diede egli stesso la pena di comporre questo
stemma così complicato. Lady Nelson che comprendeva nulla di quel
brevetto, chiese che volesse significare; ma le venne poi data una
spiegazione, coll’aggiunta del Blasone interpretata dall’araldo
d’Inghilterra sir Isac Heard.

Il 19 ricevemmo l’avviso che Nelson era al 16 all’altezza di Stromboli:
si stimò che non poteva tardare ad arrivare a Napoli, ed a rischio
di ciò che avrebbe potuto pensare, dire o fare l’ambasciatore della
Repubblica francese Garat, si prepararono a Nelson splendide feste;
— tre giorni prima erano arrivati l’_Alessandro_ ed il _Culloden_ che
erano meno maltrattati del _Vanguard_, lo avevano preceduto da cinque
giorni.

Si misero delle sentinelle al Capo della Campanella e sui punti più
elevati dello scoglio di Capri; queste sentinelle dovevano annunziare
col mezzo di segnali la flotta di Nelson, e far giungere immediatamente
a Napoli la notizia del suo arrivo.

Poi si ornò con magnificenza una gran barca, con una tenda di porpora
portante gli stemmi d’Inghilterra e delle Due Sicilie, e coperta da
trofei colle bandiere delle due nazioni riunite; si prepararono dodici
o quindici barche per far corteggio alla barca capitana, e si aspettava
in seguito ad un ordine dato a tutta la corte che ognuno si tenesse
pronto per andare incontro a Nelson al primo segnale.

Durante questo tempo la regina aveva raddoppiato di tenerezza per me e
mi aveva confidato fino i suoi pensieri più segreti.

La regina non si dissimulava che le feste che preparava pel vincitore
del Nilo erano la guerra colla Francia, e quantunque indebolito per
la perdita di Bonaparte e di trenta mila uomini chiusi con lui in
Egitto, la Francia non era però meno un nemico da temersi quanto da
accarezzare.

Essa dunque avea d’uopo a qualunque prezzo di Nelson e dietro di
Nelson, dell’Inghilterra; e perciò essa contava su di me per avere
Nelson.

La fiera Maria Carolina pregava l’ambasciatrice d’Inghilterra, come la
povera Amy Strug aveva pregato l’umile Emma, e non farei io meno per
una regina, di quanto ho fatto per una semplice contadina.

La mia vita aveva incominciato colla seduzione dell’ammiraglio John
Payne; e doveva terminare colla seduzione dell’ammiraglio Orazio
Nelson.

Io ammirava Nelson, ma non l’amava ancora; il mio amore per lui mi è
venuto pel suo grande amore per me. I sentimenti portati all’estremo
hanno anch’essi il loro contagio.

Promisi alla regina di fare quanto avrei potuto, ma le obiettava sir
William.

La regina si mise a ridere.

— Bene, disse, sir William è troppo buon inglese per non dare anch’egli
la sua ricompensa al vincitore del Nilo; inoltre non ha bisogno
di essere consultato. Se foss’io che amassi Nelson, non mi darei
certamente la pena di consultare il re intorno a ciò che mi piacerebbe
di fare.

— Maestà, le risposi, il re Ferdinando era principe reale e voi
arciduchessa d’Austria; voi gli avete portato tanto quanto, e forse di
più di quanto egli vi ha portato.

Ma non è così fra sir William Hamilton e me; che era io quando mi ha
sposato? l’amante di suo nipote; e che era io prima di essere l’amante
di suo nipote?.... egli l’ha dimenticato, signora. Temo di fargli
ricordare....

La regina mi mise la mano sulla bocca.

— Aggiusteremo noi tutte queste cose, e per bene, quegli che vorrà
altra cosa, all’infuori della tua felicità, sarà il mio più grande
nemico; — pensa adunque se vorrei renderti infelice.

Restai pensosa, perchè sentiva che si avvicinava uno di quei momenti
che prendono un’influenza su tutta la vita.




VI.


Alla mattina del 22 settembre, verso le sei ore, fummo avvertiti che
due o tre vascelli di alto bordo erano segnalati dalle sentinelle, e
che uno di essi portava la bandiera di vice ammiraglio.

In questi cinque o sei giorni in attesa dell’avvenimento, il re si
era privato del piacere della caccia, cosa che gli faceva mandare dei
grandi sospiri, a cui la regina non prestava la minima attenzione.

Subito dopo furono dati gli ordini perchè tutti si trovassero pronti; i
parrochi furono avvertiti di tener pronte le loro campane; i comandanti
dei forti di caricare i loro cannoni: il ricevimento che si voleva fare
a Nelson era quello che si sarebbe fatto per un re.

L’ammiraglio Caracciolo era incaricato della direzione della piccola
flottiglia che andava incontro a Nelson, e comandava naturalmente
la galera capitana, su cui doveano salire il re e la regina, e per
essere pronto ad ogni ora del giorno e della notte dopo l’arrivo del
_Culloden_ e dell’_Alessandro_ stette costantemente a bordo.

La regina aveva lasciato a sir William Hamilton, nella sua qualità di
ambasciatore d’Inghilterra, e forse anche per qualche altra ragione
che taceva, l’onore di essere l’ospite di Nelson, e particolarmente il
giorno del suo arrivo egli dovea appartenerci interamente.

Sir William aveva fatto dei grandi preparativi, e con mio grande
piacere, e direi quasi con grande orgoglio, aveva posto le mie cure
a tutte le parti di questi preparativi, che avevano bisogno di essere
diretti dall’occhio, e regolati dal gusto di una donna. Del resto per
questa parte del mio racconto ricorrerò alle lettere stesse di Nelson.

Trattenuta sempre tutte le notti a palazzo, la regina mi lasciava
ritornare assai di rado all’ambasciata d’Inghilterra. Sir William che
avrebbe avuto il diritto di querelarsi, non se ne lamentava mai. Egli
aveva allora circa sessantesette anni.

La regina che voleva che fossi bella più che mai faceva i più grandi
progetti sulla mia toletta, ma la mia risoluzione era presa; io non
voleva altra foggia di vestire diversa da quella che Romney aveva
dipinto quando sir William ed io eravamo ritornati a Londra per far
riconoscere il mio matrimonio, e si componeva di una lunga veste di
casimiro bianco fatta a guisa di tunica greca, stretta in vita da
una cintura di marocchino rosso ricamato in oro, e allacciato da un
fermaglio, che rappresentava in un magnifico cammeo il ritratto di sir
William; i miei capelli, pei quali ho sempre detestato ogni ornamento
straniero, cadevano senza polvere ed in anella sulle mie spalle, e mi
avvolgeva in uno sciallo rosso dell’India a grandi fiori d’oro, che
mi era spesso servito per ballare dalla regina e nelle nostre serate
intime la danza dello sciallo, inventata da me, e che poi fu adottata
da tutti i ballerini.

La regina invece fece una toletta reale, e si coperse di diamanti. Il
re anch’esso era in grande uniforme coperto dei suoi ordini di famiglia
di Spagna, Francia ed Austria.

Alle otto tutti erano pronti. Scendemmo al porto militare per la china
dell’Arsenale; la galera capitana ci attendeva. — Francesco Caracciolo
in grande uniforme d’ammiraglio napolitano stava sul suo banco di
quarto.

Appena il re e la regina salirono a bordo, che tutte le coste
rimbombavano di salve dei cannoni dei forti, e le campane delle
trecento chiese di Napoli suonavano alla distesa.

Era veramente qualche cosa di maestoso il vedere tutte quelle torri
coronate di fumo e illuminate da lampi.

La capitana si mise in cammino; essa era fatta sul modello delle
antiche galere romane; sir William Hamilton ne aveva dato il disegno,
e pretendeva che era precisamente quello della galera, in cui Cleopatra
era andata a trovare Antonio.

La regina pretendeva che era un’allusione che faceva l’ambasciatore
d’Inghilterra, e che non si sarebbe opposto che la nuova Cleopatra
amasse un altro Antonio, e spingeva di molto la rassomiglianza colla
regina d’Egitto.

Tutta la flottiglia si mise in cammino; la galera capitana era alla
testa coi suoi quaranta rematori.

Era veramente ammirevole il vedere in questo golfo, ove l’azzurro del
mare disputa in intensità e limpidezza l’azzurro del cielo, e in un
mattino di settembre tutto splendido di luce, queste dodici o quindici
barche più ricche e più eleganti le une delle altre, colle loro tende
di porpora, colle loro bandiere sventolanti, coi loro fiori, che
lasciavano dietro come un solco di profumi, e che si avanzavano tutte
insieme, al suono delle campane ed al fragore del cannone, in mezzo
alle acclamazioni di quell’innumerabile popolazione di Napoli affollata
sul molo e sulle banchine, che agitava i suoi fazzoletti, e gettava in
aria i berretti, gridando freneticamente: — Viva il Re, viva Nelson,
abbasso i Francesi!

La regina si mordeva le labbra con un sorriso di odio, perchè in mezzo
a tutti questi gridi non s’intese un sol grido di — Viva la regina.

Fummo ben presto assai lontani dalla città, e tosto cessarono tutti i
rumori umani; il solo che ancora arrivava fino a noi era quello delle
campane e delle artiglierie.

Dopo la nostra uscita dal porto avevamo distinto all’orizzonte il
vascello, incontro al quale noi andavamo, e veniva col vento in poppa,
cosa che impediva a noi di andare avanti, se privi di remi fossimo
obbligati di andar colle vele.

Da questo doppio movimento ne accadeva che la nostra piccola flottiglia
si avvicinava rapidamente al bastimento, che portava, come avevano
detto le sentinelle, la bandiera di contro ammiraglio; e inoltre
l’ammiraglio Caracciolo col suo occhio infallibile da marinaio
riconobbe il _Vanguard_.

Senza dubbio Nelson da parte sua aveva scoperto e riconosciuto,
malgrado la distanza, la piccola flottiglia; ed indovinando che veniva
incontro a lui e per lui, tirò un colpo di cannone di cui vedemmo il
fumo molto tempo prima di udirne il colpo, e come una fiamma inalberò
la bandiera rossa d’Inghilterra.

Noi non potevamo rispondere colpo per colpo, mancando a bordo di
pezzi di artiglieria; ma all’istante tutta la nostra musica diretta
da Domenico Cimarosa, proruppe in giulive fanfare, e confesso ciò
che mi piaceva di più, quantunque meno rumoroso, questo modo di
contraccambiare gentilezze a Nelson, che di salutarlo colla voce
brutale del cannone.

Confesso che non era senza una grande emozione, mi sentiva trascinata
mio malgrado innanzi all’eroe, che io sapeva innamorato pazzamente di
me: nessun sentimento m’aveva lasciato in cuore un’impressione tanto
decisa per poter dire a me stessa quale sensazione avrei provato
soltanto in vederlo, e già ai fremiti che mi scorreano per tutto il
corpo, al pallore, ed al rossore che successivamente mi salivano al
viso, comprendeva che questa sensazione sarebbe stata violenta.

Il _Vanguard_ aveva superato il capo della Campanella, e noi avevamo
oltrapassato Torre del Greco, eravamo lontano appena tre miglia
l’uno dall’altro; un quarto d’ora o venti minuti ancora, e la galera
capitana sarebbesi trovata accanto al _Vanguard_. La regina vide il mio
turbamento, e siccome io era come al solito seduta ai suoi piedi, essa
si chinò all’orecchio: — Su via, pazzerella, coraggio, ricordati di
Fanny Strung, dell’ammiraglio John Payne, e del marinaio Riccardo; ma
quello che ora ti prega non è più Fanny Strung, è colui a cui andiamo
incontro, non è l’ammiraglio John Payne, ma l’ammiraglio Nelson e in
fine chi si tratta ora di salvare, non è un povero marinaio, ma un
regno.

— Ah! signora, le dissi, è precisamente ciò che mi spaventa; se lo
scopo non fosse così elevato, il mio spavento sarebbe minore, ma è
stato così lontano dal mio pensiero che un giorno, mi si dicesse: La
salvezza d’un regno dipende da te, e che al momento in cui mi è stata
data questa splendida missione, io esitassi e non mi sentissi la forza
di compirla.

La regina mi prese la mano, e me la strinse in modo, che mi comunicò la
sua forza, per una specie di trasmissione magnetica; e infatti finchè
essa mi teneva la mano, mi sentiva forte e quasi esaltata.

Continuammo ad avanzare finchè ci trovammo accosto al _Vanguard_.
Io non ci vedeva nè ci sentiva più, mi trovava in uno stato simile a
quello in cui mi metteva il dottor Graham nelle mie prime sedute di
esposizione sul letto d’Apollo. Compresi che la regina mi diceva di
alzarmi, sentii che mi spingeva verso la scala; macchinalmente e senza
accorgermene salii per la prima, cosa che era contraria a tutte le
regole dell’etichetta; presi il cordone e salii; in cima alla scala
Nelson attendeva col capo scoperto, e là appena ricominciai a vedere,
là mi trovai in faccia a lui che non aveva veduto dopo il suo viaggio
da Tolone a Napoli. Dopo questo tempo, aveva perduto un occhio ed
un braccio, e nascondeva sotto di una fascia nera la ferita che gli
copriva la fronte: vidi tutto questo complesso di mutilazioni, mi prese
tale un immenso sentimento di compassione, che io non dava ascolto che
ad una ricompensa degna dell’eroe che aveva innanzi agli occhi, apersi
le braccia e mi lasciai cadere sul suo cuore, gridando:

— Oh! mio Dio, è possibile? caro e grande Nelson.

Era sul punto di svenire, quando le lagrime uscirono a torrenti dai
miei occhi, i singhiozzi sollevarono il mio cuore, senza di che sarei
stata soffocata.

Da quel momento appartenni completamente a Nelson, come se mi avesse
già posseduta.

Era più ancora di una rassegnazione, più ancora di un affetto, più
ancora di un amore.

Era una fatalità!




VII.


Il re e la regina salirono dopo di me, e mi trovarono nello stato
che ho detto, quasi svenuta sul petto di Nelson, appoggiata sul suo
cuore dal suo unico braccio; il suo cappello era caduto sul ponte, e
nell’estasi della felicità, teneva la sua testa rovesciata in dietro
guardando il cielo.

Rimase un istante senza veder nulla di ciò che avveniva intorno a lui.

Finalmente gli urrà dei marinai saliti sui pennoni lo richiamarono in
sè, abbassò lo sguardo sulla terra e vide ciò che avveniva.

Aveva intorno il re, la regina, i ministri, i cortigiani; tutti
rendevano omaggio all’eroe d’Aboukir come se fossero venuti a rendere
omaggio al Dio stesso della Vittoria.

Il re aveva in mano una magnifica spada ornata di diamanti, il cui
valore materiale era di cinquemila lire sterline, ma aveva inoltre
un valore storico incalcolabile. Era la spada che Luigi XIV diede a
Filippo V quando partì per la Spagna, e fu data poi da Filippo V a suo
figlio Don Carlos quando partì per Napoli.

Il re Filippo V aveva detto mentre gliela porgeva: — «Questa spada
appartiene al conquistatore di Napoli» — e Don Carlos lasciandola a
suo figlio aveva detto: — «Questa spada appartiene al difensore ed al
salvatore del Regno che ho conquistato.»

Ferdinando considerava Nelson come il salvatore del regno, e gli dava
quel magnifico retaggio di Luigi XIV, pervenutogli da suo avo e da suo
padre.

Da parte sua la regina gli presentò il brevetto di duca di Bronte
— magnifica allusione, poichè Bronte era uno dei tre ciclopi che
fabbricavano il fulmine, e lo chiamava veramente duca del folgore; — a
questo Ducato era unita una rendita di tre mila lire sterline.

Inoltre il re gli annunziò che egli aveva l’intenzione di creare un
ordine militare del merito di San Ferdinando, e gli promise il primo
gran cordone di quell’ordine che si sarebbe distribuito dopo i brevetti
di famiglia.

Per facilitare a’ suoi nobili visitatori la salita a bordo del
_Vanguard_, lo aveva messo in panna. Credetti che l’adulazione più
aggradevole a Nelson fosse quella di pregarlo di farci vedere le
cicatrici del suo bastimento, non meno mutilato del suo capitano.
Questa ispezione lo forzava a raccontarci la battaglia, e per
conseguenza a parlare di lui.

Cominciammo dalla cabina di Nelson: appena entrati dalla porta, un
piccolo uccello, del genere del beccafichi, entrò per la finestra, e
venne a posarsi sulla sua spalla; maravigliata dalla famigliarità di
questo nuovo ospite, stava per interrogare Nelson, quando egli mise un
grido di gioia.

— Oh! diss’egli, che tu sii il benvenuto e oggi più che mai, mio caro
compagno.

E prese il piccolo uccello dalla sua spalla, lo baciò e lo fece baciare
pure a me. Poi se lo ripose sulla spalla, ove se ne stava tranquillo
senza parere nemmeno preoccupato della nostra presenza.

Ciò che Nelson faceva e mi diceva, mi dava una curiosità sempre
crescente, e per conseguenza un desiderio ancor più grande di avere
una spiegazione intorno a quel gentile animaletto, il quale sembrava
che anche egli volesse fare i suoi complimenti a Nelson; io vedeva la
stessa curiosità negli occhi della regina, in quelli del re e degli
altri spettatori.

— Ascoltate quanto vi dirò, disse Nelson, e non credetelo poi un
racconto delle mille ed una notte; — questo piccolo uccello è il mio
buon genio.

— Come, milord? dimandai.

— Gli antichi non combattevano mai senza consultare gli auguri, ed io
pure non dovrei mai combattere senza consultare il mio piccolo uccello;
egli è il mio augurio.

— Oh! raccontatecelo, milord, disse la regina.

— Davvero non so se una tale puerilità valga la pena di essere
raccontata innanzi a Vostra Maestà, disse Nelson.

— Oh! sì, sì, — dicemmo simultaneamente noi pure, io e la regina.

— Ebbene Maestà, ebbene Milady, in qualunque paese del mondo mi trovi,
quando mi deve toccare qualche fortuna o che debbo riportare qualche
vittoria, un uccello di questa specie, non oserei dire che sia quello
stesso, viene a riposarsi sulle mie spalle, e all’opposto quando mi
tocca qualche sventura dispare. Così la prima volta che lo vidi fu
nell’America del Nord: al Canadà inseguito da quattro fregate francesi,
non aveva altra uscita che un passo che era giudicato impraticabile;
egli venne a posarsi sulle mie spalle, io spinsi il mio brick a
traverso gli scogli ed uscii dal passo; — superato che fu il passo,
egli volò via. La vigilia del giorno in cui vi vidi per la prima volta,
quando venni da Tolone a Napoli, attraversava il canale di Ischia, io
era sul ponte, ed egli volò sulle mie spalle. Il giorno seguente S. M.
il re di Napoli degnavasi di ricevermi come un amico, sir William come
un figlio, la regina mi dava la sua mano da baciare, e voi mi dicevate,
«questa casa è vostra,» offrendomi un appartamento nel palazzo
dell’ambasciata. Allo assedio di Calvi, ove ho perduto un occhio,
all’assedio di Taneriffa ove ho perduto un braccio io non l’ho veduto.
Alla mattina di Aboukir è venuto a riposarsi sulla mia spalla; ed ecco
che ora entra nello stesso tempo in cui entrate nella mia cabina; —
ho dunque ragione di dire che questo uccello è il mio buon genio. Il
giorno o alla vigilia di una battaglia, in cui non lo vedrò, farò il
mio testamento, perchè con tutta probabilità sarà il mio ultimo giorno.
Vi chieggo perdono di avervi intrattenuti in simili follie; — voi lo
sapete, signora, i marinai hanno lo loro superstizioni; il mio caro
uccellino ne è una, ed ora vi credo più che mai.

— E, chiesi a Nelson, non si è mai appoggiato su altra spalla
all’infuori della vostra?

— Mai.

— Mai si lascia prendere da altra mano se non dalla vostra?

— Mai — se però volete provare....

Stesi la mano, l’uccello si lasciò prendere; non so perchè io era tutta
giuliva di aver qualche cosa di comune con questo eroe.

Lo lasciai andare e si fermò sulla spalla di Nelson.

— Ah, signora, dissi alla regina, provate anche voi.

La regina stese la mano, ma il beccafico mise un piccolo grido di
spavento, volò verso la finestra e disparve.

Nelson tenevami la mano nella sua, me la strinse: io non potei
trattenermi dal rispondergli stringendogli la sua.

Questo incidente, al quale ci pensai dopo, tanto sovente, ci distolse
per qualche istante dalla visita che avevamo incominciato. La
riprendemmo in tutti i particolari contando i buchi delle palle che
avevano crivellato la carena del _Vanguard_; tutti chiedevano come il
bastimento non si fosse sommerso, come tutto l’equipaggio dal primo
uomo fino all’ultimo non fosse morto.

Era un’ora, ci volevano almeno due ore e mezzo per ritornare a Napoli.
Poi dovevamo assistere al _Te Deum_, e sir William che aveva comandato
un pranzo degno di un principe, temeva pel suo pranzo; ed avvertì il re
che restando ancora a bordo del _Vanguard_, si arrischiava di mangiar
tutto freddo o tutto abbrucciato.

Il re Ferdinando era sensibile a questa specie di osservazioni, disse
due parole alla regina, che invitò Nelson a discendere a bordo della
galera capitana.

Spettava ora all’ammiraglio Caracciolo di fare gli onori della galera:
ritto in piedi al basso della scala del _Vanguard_, ricevette prima
il re, la regina ed io; poi il principe e la principessa reale, sulla
quale, sia con intenzione o senza, mi si concedeva sempre il passo, poi
i ministri, gli ambasciatori, i grandi uffiziali, e quelli che erano
stati inviati sulla capitana oltre a Nelson.

Lo scambio di cortesie fra i due ammiragli fu breve e freddo.
Caracciolo non parlava inglese, e Nelson non comprendeva una parola
d’italiano; Caracciolo gli fece un complimento sul combattimento delle
bocche del Nilo, Nelson non potendo rispondere sorrise e salutò.

Si volse la prora verso Napoli. Caracciolo salì sul suo banco di
quarto. La regina fece sedere Nelson fra lei e me.

Appena si scorse dai forti che la flottiglia si separava dal _Vanguard_
e cominciava a vogare verso Napoli, i cannoni cominciarono a tuonare, e
le campane facevano udire i loro suoni a festa.

Dal momento in cui Nelson aveva messo il piede a bordo della galera,
la musica ad un segno di Domenico Cimarosa aveva cominciato il _God
save the king_, magnifico canto, comandato, come è noto, da Luigi XIV a
Lulli per far onore a Giacomo II esiliato a Saint Germain.

Nelson semplice figlio di un pastore di Burnham Thorpes, che non aveva
mai messo piede a corte, che, dietro ogni probabilità, non aveva mai
parlato ad un re, ad una regina, e nemmeno ad un principe reale, era
ebbro quasi alla pazzia: i miei occhi, che non cercavano certamente di
nascondergli tutto l’interesse che m’ispirava, terminavano di fargli
perdere la testa.

Questo ritorno a Napoli sembrava una risurrezione di quei giorni
storici quando rientrava vincitore ad Atene Milziade o Temistocle.

Ma fu ancor più quando ci avvicinavamo a terra, quando Nelson potè
vedere il molo, le banchine, le piatteforme delle torri, i terrazzi
delle case coperte di spettatori che davano in iscoppi di acclamazioni,
di evviva, di urrà, quando l’artiglieria raddoppiò le sue salve, quando
le campane raddoppiarono i loro squilli, quando infine tutta Napoli,
quella città così rumorosa in ogni tempo, triplicò, quadruplicò,
quintuplicò ogni specie di rumori, che nelle occasioni straordinarie
sono l’espressione della gioia o della collera dei suoi cinquecento
mila abitanti.

Debole ancora per la sua recente ferita, lo vidi impallidire due o tre
volte, e quasi sul punto di sentirsi male.

Prima di lasciare la galera capitana, dietro preghiera della regina,
invitai l’ammiraglio Caracciolo a prendere la sua parte alla festa che
noi davamo al suo collega inglese; ma fosse che il principe napolitano
ci considerasse di una compagnia troppo meschina per lui, o che la
scusa fosse veramente reale, mi rispose con molta cortesia che la notte
minacciava di essere cattiva, ed il porto di Napoli essendo di mediocre
sicurezza, doveva vegliare personalmente all’ancoraggio dei legni di
sua Maestà Britannica che, già assai malconci dal combattimento, non
sarebbero forse stati in caso di lottare contro la tempesta.

Buona o cattiva accettai la scusa; ma siccome sua sorella e sua nipote
Cecilia erano invitate al ballo che seguiva il pranzo, gli dissi che
sperava almeno di avere il piacere della loro compagnia; ed egli,
sempre colla stessa cortesia, ma anche colla stessa freddezza, mi
rispose, che da tre giorni sua sorella era talmente indisposta che
le era impossibile di uscir dalla camera, cosa, che con suo grande
rincrescimento, gl’impediva di accettare il mio invito.

Io aveva accolto la prima scusa con sangue freddo e col sorriso
sulle labbra; ma al secondo rifiuto non potei trattenermi dal fare un
movimento d’impazienza.

La regina lo osservò e si avvicinò a noi.

— Il principe Caracciolo — disse — è troppo gentiluomo per avervi dato
una risposta scortese, cara Emma, e pure sembrerebbe, guardandovi in
viso, che avreste qualche rimprovero da fargli.

Invece di affrettarsi a rispondere ed a scusarsi, l’ammiraglio mi
lasciò il tempo di prendere la parola.

— No, signora, ripresi, non mi lagno dell’ammiraglio, ma della fatalità.

— Voi sapete, cara Emma, che non mi piacciono gli enigmi, così
spiegatevi, vi prego — con quel tuono di voce che indicava in lei il
principio di una tempesta.

— Certamente, signora, la sola fatalità può fare, mi sembra, che siamo
privi così del piacere di ricevere Sua Eccellenza, perchè il tempo che
è magnifico in quest’ora, minaccia dl essere cattivo questa sera, e non
è meno una fatalità, che fa sì che la sorella del signor ammiraglio
trovasi colpita da una indisposizione tanto grave per obbligarla a
stare nella sua camera, e che costringe la gentile Cecilia, da quella
buona fanciulla che è, a curare sua zia, per cui le nostre feste ad un
ammiraglio vincitore de’ Francesi, si daranno senza che vi sia una sola
persona della famiglia dell’illustre ammiraglio Caracciolo, per fare in
nome della marina napolitana un brindisi alla marina inglese.

La regina divenne molto pallida, e il suo sopracciglio si corrugò.

— Guardatevene bene, signor ammiraglio, disse, le persone che
avranno trovato delle scuse buone o cattive per non andare alle feste
dell’ambasciatrice d’Inghilterra, non saranno invitate a quella che
darà la regina di Napoli.

— Signora, rispose l’ammiraglio senza commuoversi, l’indisposizione
della mia povera sorella si è mostrata con tale intensità, che se
queste feste durassero anche un mese, non credo che nemmeno per tutto
questo tempo non potrebbe rimettersi in modo da parteciparvi.

La regina s’impazientava. Ignorando qual fosse l’oggetto di questa
lunga conversazione col suo ammiraglio, Nelson vedendomi rossa per la
vergogna, e scorgendo la regina livida per la collera, si avvicinò a
noi con inquietudine.

La regina, volendo evitare a Nelson ogni cosa che potesse offenderlo,
ed a me tutta la umiliazione che avesse potuto farmi perdere di
considerazione ai suoi occhi, mi distolse vivamente, dicendomi:

— Vieni, Emma, vieni la salute della sorella del principe c’interessa
tanto che tutti i giorni manderemo a prendere sue notizie, finchè
sapremo che stia meglio.

— È un’attenzione che le sarà tanto più preziosa, signora, rispose
il principe, perchè non sapendo come essa abbia potuto meritarla, vi
scorgerà un favore tutto particolare di Vostra Maestà.

L’ammiraglio pronunziava queste ultime parole con una garbatezza tanto
rispettosa, che la regina che non accettava tanto facilmente l’ultima
replica da parte d’un avversario qualunque egli fosse, non trovò di che
rispondergli, e si allontanò conducendomi seco.

Confesso che la seguii colle lagrime agli occhi e col cuore infranto,
come quei trionfatori romani, che udivano in mezzo al trionfo la voce
dello schiavo che loro ricordava che erano mortali; in mezzo al mio
trionfo una voce mi gridava: favorita della regina, ambasciatrice
d’Inghilterra, Milady Hamilton, ricordati del letto d’Apollo e delle
strade di Haymarket.

Non si aspettava che la regina per sbarcare. Quantunque avessi il mio
braccio appoggiato sul suo, e non il suo sul mio, ciò che era il segno
del più alto favore, attraversai colla testa bassa le file di quei
cortigiani che m’invidiavano. Aveva il sorriso sulle labbra e la morte
in cuore.

Non aveva mai odiato, non aveva mai desiderato di vendicarmi di
nessuno; ma da quel momento, sentii il doppio morso del serpe, l’odio
ed il desiderio della vendetta filtrarono nel mio cuore.

Finalmente sbarcammo. Le carrozze di corte e quella dell’ambasciata
aspettavano nell’arsenale. L’ammiraglio Nelson salì nella prima col re,
colla regina e me; il principe e la principessa reale fecero gli onori
della seconda a sir William. Ognuno si sedette poi a volontà, nelle
altre, non senza però qualche discussione d’etichetta.

Si diede ordine ai cocchieri di portarsi alla chiesa di S. Chiara, ove
si doveva cantare il _Te Deum_ dal cardinale arcivescovo di Napoli,
monsignor Capece Zurlo, assistito dal cardinale Fabrizio Ruffo, di cui
ho già avuto occasione di parlare, e che senza che egli ci pensasse, e
senza che nessuno pur vi pensasse, si avvicinava l’epoca in cui doveva
rappresentare una gran parte.

Ma quest’ordine di andare alla Chiesa di Santa Chiara era un ordine
più facile a darsi dai padroni, che ad eseguirsi dai domestici;
le vie erano talmente ingombre di gente, le carrozze circondate da
una moltitudine così numerosa, che sembravano scialuppe investite
dalle onde del mare e scosse dai cavalloni. Quanto poco la regina
era popolare, lo era invece al contrario di molto il re. Mai quando
usciva, nè truppe, nè gendarmi nè guardie si frapponevano fra lui e la
popolazione; l’ultimo lazzarone poteva giungere fino a lui e toccarlo,
per parlargli, chiedergli sue notizie, informarsi quando venderebbe il
suo pesce a Mergellina, o mangerebbe i suoi maccheroni a S. Carlo, e
come si comprende bene, questa razza così famigliare approfittava del
permesso in tutta la sua estensione, ed era raro che nelle solennità
del genere di quella che andava a compirsi, il re non avesse tre o
quattro lazzaroni sul sedile davanti della carrozza col cocchiere,
altrettanti sul sedile di dietro insieme ai domestici, e altrettanti
ancora sugli scalini a guisa di paggi.

Nelson abituato alla maestosa dignità dei sovrani della Gran
Brettagna, alla calma ed al freddo entusiasmo del popolo di Londra
era maravigliato; queste rumorose esplosioni meridionali gli davano le
vertigini: del resto, in quel momento, il re e la regina non avevano
pel suo cuore che un interesse secondario; seduto in faccia alla
regina come io era seduta in faccia al re, la sua mano sinistra si era
impossessata della mia destra, e me la stringeva con fremiti febbrili,
che indicavano la commozione del suo animo, e mi dicevano quali
emozioni violente facevano risalire il sangue al cuore.

Ci volle più di un’ora, io credo, per andare alla banchina a Santa
Chiara. Il _Te Deum_ durò anch’esso una mezz’ora, ed il ritorno circa
tre quarti d’ora. Finalmente giungemmo al palazzo dell’ambasciata
d’Inghilterra ed era tempo; io era morta di fatica, di emozione e di
collera.




VIII.


L’immenso portico del palazzo Calabritto era trasformato in un arco
di trionfo, ai cui lati erano collocate delle antenne con bandiere,
portanti il nome di Nelson: fino al primo piano lo scalone offriva
veramente una volta di lauri e di fiori.

Una tavola di novanta coperte era posta nella sala dei quadri. Alle
frutta i centoventi professori di musica di S. Carlo suonarono l’aria
del _God save the king_, interrotto da una voce meravigliosa che
cantava le strofe.

Una nuova strofa era stata aggiunta in onore di Nelson.

Eccola:

    Join we in Great Nelson’s Name
    First on the Rolls of Fame
    Him let us sing
    Spread we his fame around
    Honour of British ground
    Who made Nile’s shores resound
                God save the King.

Si comprende l’entusiasmo con cui fu accolta questa strofa: il re, la
regina, il principe reale e tutti i convitati l’ascoltarono in piedi.
E le acclamazioni — Viva Nelson, viva il vincitore del Nilo, viva il
Salvatore d’Italia — proruppero dapprima dalle labbra reali, e poscia
dai commensali.

Perchè non mi son io inebbriata in mezzo a tutti questi onori, a tutte
queste gioie, a tutti questi canti, lo dirò altamente, spinta, come lo
era dalla regina, autorizzata quasi dal silenzio di sir William che non
fece nulla per sostenermi, nessun’altra donna avrebbe avuto la forza di
resistere.

Ciò che però si disse, che fin dal primo giorno quasi al primo
incontro, io mi sia abbandonata a lui senza alcuna resistenza, è una
calunnia, come se ne dissero tante sul conto mio; sventuratamente il
passato autorizzava i maligni a credervi e ad accusarmi. Fu soltanto
dopo sei mesi, che lasciai indovinare a Nelson, lontano da me, che
avrei potuto corrispondere al suo amore.

In prova di ciò che dico presento queste due lettere di Nelson.

La prima è del 24 ottobre 1798, un mese dopo l’entrata di Nelson a
Napoli — Eccola, e proverà che assolutamente non esisteva ancor nulla
fra noi.

                                            «_Dal Vanguard_ — MALTA

      «Cara Signora.

  «Eccoci arrivati dopo una lunga traversata, e trovai le cose come
  già le supponeva; i ministri di Napoli non conoscono assolutamente
  nulla della posizione in cui si trova quell’isola; non vi è nè una
  casa, nè un bastione di Malta che sia in possesso degl’Italiani, ed
  il marchese di Nizza mi ha detto che erano nel più gran bisogno di
  munizioni, di armi, di viveri, e di soccorsi infine. Non sa nemmeno
  se vi sieno uffiziali napoletani nell’isola, e siccome io ho un
  elenco dei loro nomi, essi non sono ancora arrivati. Ciò che vi ha
  di certo si è che il marchese di Nizza afferma, che non gli è stato
  inviato nessun soccorso dai governatori di Messina e di Siracusa.

  «Però voglio saper tutto. Appena sarà partito il marchese dimani
  mattina me ne informerò. Egli mi dice che desidera ardentemente di
  servire sotto il mio comando; lo credo anch’io, dal momento che si
  accontenta di cambiar bastimento; lo vedremo poi come si piegherà
  alla nostra disciplina.

  «Ball, dopo la mia partenza, avrà il comando del blocco; dico dopo
  la mia partenza, atteso che, sembra alla corte delle Due Sicilie
  che la mia presenza sia necessaria a Napoli al principiare del
  novembre.

  «Spero che ciò avvenga. Però sento che il mio dovere mi chiama in
  Oriente, benchè sappia che la flotta francese sia stata distrutta
  in Egitto. Non sono sicuro che l’armata possa ancora ritornare in
  Europa.

  «Prima di tutto il mio scopo è di servire e di salvare il Regno
  delle Due Sicilie, e di fare ciò che le Loro Maestà Siciliane
  _desidereranno ch’io faccia, foss’anche contro la mia opinione_.
  Quando verrò in Napoli e che il paese sarà in guerra, desidero di
  avere su questo punto una conferenza positiva col generale Acton.

  «Sono certo che mi renderete giustizia presso la regina, atteso
  che, ne chiamo Dio in testimonio, il mio solo desiderio è di
  meritare la sua approvazione.

  «Che Dio protegga voi e sir William e credetemi per sempre, col più
  affettuoso rispetto, vostro obbligatissimo e fedelissimo amico,

                                                       «O. NELSON.»

Nessuno, lo spero, riconoscerà in questa lettera una sola parola, che
non sia di un amico, di un amico tenero, affettuosissimo, ma che non è
ancora che un amico.

Certamente io non m’ingannava, e neppur la regina, intorno a questo
grande affetto di Nelson per lei e per suo marito. Se Nelson ritornava
a Napoli, era per vedermi. Se non andava in Oriente ove il suo dovere
lo chiamava, e le sue previsioni sull’Oriente erano così vere, che se
non fosse rimasto a Napoli, quando il generale Buonaparte s’imbarcò al
22 Agosto 1799, per ritornare in Francia, egli forse avrebbe impedito
quel ritorno che mutò l’aspetto dell’Europa; ma al 22 Agosto 1799
egli era a me vicino a Palermo, e credo che non mi avrebbe lasciata un
giorno da sola, anche colla certezza di prendere Bonaparte.

Ecco nella seconda lettera di cui ho parlato, Nelson conosce già che io
l’amo, ma egli non ha altra prova del mio amore, che quanto gli aveva
detto o scritto.

                                                   «12 Maggio 1799.

      «Cara Lady Hamilton,

  «Ricevete i miei sinceri ringraziamenti per la vostra egregia
  lettera: nessuno scrive come voi, non ditemi dunque più che non
  scrivete bene. E poichè lo pretendete, vi ripeterò anch’io ciò che
  talvolta voi mi avete detto colla vostra bocca «I l..... y...»[4]
  No. Io so leggere e comprendo perfettamente ogni parola che
  scrivete.

  «Abbiamo fatto un brindisi alla vostra salute ed a quella di sir
  William — Troubridge Hallowell ed il nuovo capitano portoghese
  pranzarono da me. Io sarò presto a Palermo, poichè l’affare che mi
  tiene lontano non tarderò ad essere accomodato.

  «Credete che nessuno è più di me sensibile alla vostra bontà.

  «Vostro obbligatissimo e riconoscente

                                                       «O. NELSON.»

  «Sono contento della piccola Maria, abbracciatela da parte mia,
  vi ringrazio tutti per la vostra affezione per me, e che Dio vi
  benedica tutti.

  «Dimani, se il tempo è bello, mando a terra, poichè le feluche
  partono, ed io ho il mal di mare.

  «Ho il pezzo di legno per far una scatola da thè, ve lo manderò
  subito.

  «Vi prego di presentare i miei umilissimi ossequi e l’espressione
  della mia più profonda riconoscenza a Sua Maestà, per tutte quelle
  prove di favore che mi dà; siate sicura che la semente non cade
  sopra suolo ingrato.»

Lo vedete che non è ancora il linguaggio di un amante; del resto non
avrei bisogno di dir nulla ai miei lettori: essi ne apprezzeranno la
differenza di stile.

E non si dirà che era freddezza da parte di Nelson, perchè in tutte
le sue lettere, sia all’ammiraglio Saint Vincent, sia a sua moglie,
egli parla di me. I termini con cui egli ne parla davano anche dei
sospetti a Lady Nelson, ed io fui obbligata di scriverle per calmare
questi sospetti; siccome le lettere di Nelson sono le mie scuse, mi si
permetterà di citare tre sue lettere, una che racconta il suo arrivo
a Napoli, l’altra una festa che io diedi per l’anniversario della sua
nascita, e l’altra le sue impressioni ad un pranzo dal generale Acton.

Ecco come Nelson racconta da parte sua il mio arrivo sul _Vanguard_,
arrivo che ho già raccontato dalla mia.

                                «Nella notte del 25 settembre 1798.

      «_A Lady Nelson_

  «Il povero e miserabile _Vanguard_ è giunto qui il 22 settembre.

  «Io tenterò di farvi conoscere qualche cosa di quello ch’è
  successo; ma se quanto è accaduto ha tanto commosso coloro che mi
  erano solo affezionati pei legami dell’amicizia, cosa sarà per la
  mia carissima moglie, per la mia amica, per tutto ciò che v’ha di
  più caro per me in questo mondo?

  «Quando sir William e lady Hamilton furono in mare, erano talmente
  stivati, che furono seriamente ammalati, prima d’ansietà, quindi
  di gioia. La cosa era stata raccontata imprudentemente a lady
  Hamilton, e l’effetto era stato quello di un fulmine. Per un
  momento, la si potette credere morta, ed essa non è ancora
  ristabilita da quest’accidente. Quando i miei degni amici salirono
  a bordo, la scena sul vascello fu terribilmente commovente. Sua
  Signoria esclamò: «Dio mio, è egli possibile,» e cadde nelle mie
  braccia più morta che viva; ma tosto le lagrime cominciarono a
  scorrere. Quando il re venne sul vascello, la scena diventò delle
  più interessanti. Mi prese per la mano chiamandomi suo liberatore
  e suo protettore, aggiungendo amabili espressioni; in una parola
  tutto Napoli mi chiama, _il nostro liberatore_, ed i contrassegni
  di affezione che mi danno tutte le classi sono veramente tali da
  fare intenerire.

  «Io spero avere un giorno il piacere d’introdurre presso voi Lady
  Hamilton. È dessa una delle migliori donne del mondo; l’onore
  del suo sesso, la sua amabilità e quella di sir William per me
  vanno al di là d’ogni credere. Io abito in casa loro, e posso ora
  confessarvi che è mestieri di tutta la tenerezza dei miei amici,
  per collocarmi tanto in alto, come fanno. Lady Hamilton deve
  scrivervi.

  «Che Dio onnipossente vi benedica, e ci dia a suo tempo una felice
  riunione.

                                                       «O. NELSON.»

La seconda lettera è del 28 settembre.

                                                «28 settembre 1798.

      «_A Lady Nelson_

  «I preparativi di Lady Hamilton per celebrar domani il giorno
  della mia nascita mi riempiono di vanità: tutti i nastri, tutti i
  bottoni, tutte le bandiere portano il nome di Nelson; il servizio
  ha le cifre O. N. Glorioso 1. agosto!

  «Le canzoni ed i sonetti piovono in maggiore abbondanza di quel
  ch’io credeva meritare. Io vi domando una strofa aggiunta al _God
  save the king_ che voi canterete con piacere. Quando io esco a
  piedi o in carrozza, la folla m’impedisce di fare un passo. Ieri
  la regina, che è sempre inferma, mandò il suo figlio prediletto[5]
  per visitarmi, e per rimettermi da parte di lei una lettera nella
  quale ella mi esprimeva la sua riconoscenza, e mi faceva i suoi
  complimenti.

  «Tutta la gloria sia rivolta a Dio; più io penso, più io sento
  dire, maggiormente la mia meraviglia aumenta sull’importanza, e sui
  risultati di questa vittoria.

                                            «_Vostro_ — O. NELSON.»

Darò soltanto un frammento della lettera di Nelson a lord S. Vincent.

  «... Noi pranziamo tutti oggi in compagnia del re, a bordo
  d’un vascello. Sono stato a veder la regina, la quale è
  preoccupatissima.

  «Ella è veramente la degna figlia di Maria Teresa. A me di
  rincontro è seduta Lady Hamilton, onde non siate sorpreso dalla
  gloriosa confusione che regna in questa lettera. Se la vostra
  signoria fosse al mio posto, dubito ch’ella potesse scrivere con
  tanta calma, come io fo. Il nostro cuore e la nostra mano son
  sempre in moto. Decisamente Napoli è pericoloso, ed è ben ch’io me
  ne allontani al più presto.

                                        «Sono ec. ec. — O. NELSON.»

Che mi si perdoni almeno un poco per aver saputo resistere più di sei
mesi a un tale amore.




IX.


È inutile il dire che una simile dimostrazione era la guerra colla
Francia.

Col pretesto di essere stato nominato al consiglio dei cinquecento,
il cittadino Garat lasciò Napoli; ma con grande stupore di ognuno,
la Francia invece di cogliere questa occasione per fare la guerra a
Napoli, nascose l’affronto, ed in rimpiazzo del cittadino Garat inviò
il cittadino La Comble Saint-Michel.

Questa indifferenza affettata per un simile insulto provava che la
Francia non era in condizioni da far la guerra, e l’ardimento della
regina aumentò.

A forza di sacrifizi d’ogni maniera, il regno di Napoli era giunto ad
avere un esercito di 65000 uomini, mentre tutti i rapporti confermavano
che i francesi non avevano a Roma più di diecimila uomini, mancanti
di viveri, di vestimenta, di calzature, non pagati da tre mesi, e che
avevano per tutta artiglieria soltanto nove pezzi di cannone senza
munizione, e centottantamila cartucce piccole.

Il re e la regina erano d’accordo nel loro odio contro i francesi, però
il re voleva aspettare per attaccarli che l’imperatore li attaccasse, e
l’imperatore non voleva incominciare la guerra se non coi quaranta mila
russi che l’imperatore Paolo gli aveva promesso.

La regina invece voleva attaccare i francesi senza perdere un istante:
coi suoi sessantacinquemila uomini era sicura di riconquistare
gli Stati Romani, ed una volta a Roma tutti i popoli d’Italia, che
secondo lei, sopportavano con impazienza il giogo dei francesi, si
solleverebbero e li caccerebbero dalla penisola.

In queste circostanze fui incaricata dalla regina di rivolgermi a
Nelson. Siccome la regina era per una guerra immediata, si trattava di
ottenere che Nelson scrivesse a sir William ed a me una pretesa lettera
confidenziale, che sir William comunicherebbe al re.

Nelson, bravo soldato, era un politico mediocre, e scrittore ancora
più mediocre; le quaranta o cinquanta lettere che mi scrisse nella sua
vita sono più apprezzabili per la franchezza che per lo stile. Nelson
acconsentiva di scrivere la lettera, ma a condizione che gli si desse
un esemplare, e che egli non avrebbe che a trascriverlo.

Era ciò che avrebbe chiesto la regina se lo avesse osato.

La lettera fu composta fra il capitano generale Acton, sir William
Hamilton e la regina.

Io la mandai a Nelson, ed il giorno seguente ricevetti la lettera
seguente, che non era che la trascrizione della lettera redatta, come
dissi dal triumfeminavirato che governava Napoli.

                                           «Napoli, 3 ottobre 1798.

      «Mia cara signora,

  «L’interesse che voi e sir William Hamilton avete sempre
  addimostrato per le felicità delle LL. MM. Siciliane mi è
  confirmato da cinque anni, ed io posso veramente dire che in tutte
  le occasioni che si sono presentate, ed esse sono state numerose,
  io non ho mai mancato dal canto mio di manifestare il mio interesse
  pel bene di questi regni. A causa di questo attaccamento, io non
  posso restare spettatore indifferente di ciò che è successo e
  di quanto accade nelle Due Sicilie, nè della miseria, che, senza
  essere uomo politico, io vedo vicina a piombare su questo regno
  tanto leale, e ciò per la peggior politica che esista, quella del
  temporeggiamento. Dal mio arrivo in questi mari io mi sono accorto
  che i Siciliani erano un popolo leale e fedele al proprio sovrano,
  avendo il più grande orrore dei Francesi e dei loro principii. Dal
  mio arrivo a Napoli ho trovato dal primo all’ultimo tutti pronti
  alla guerra contro i Francesi, i quali, come si sa, generalmente
  preparano un’armata di ladri per mettere a sacco queste contrade
  e per distruggere la monarchia. Io ho visto il ministro di
  questi insolenti francesi tacere la violazione del V articolo pel
  trattato, tra Sua Maestà Siciliana e la Repubblica francese. Questa
  strana politica non merita d’esser segnalata: la politica francese
  non è stata forse sempre quella di addormentare i governi, in una
  falsa sicurezza, per rovesciarli in seguito? Dopo ciò che io ho
  detto, non sanno tutti forse che a Napoli è lo scopo permanente
  di tutti i desiderii devastatori? Conoscendo ciò e sapendo che
  Sua Maestà di Sicilia ha un’armata pronta ad entrare in azione,
  a quanto mi è stato detto, in un paese desideroso di riceverla,
  col vantaggio di trasportare in lontani luoghi il focolaio della
  guerra, invece di attendere che essa scoppii in casa, mi meraviglio
  che quest’armata non sia da un mese già in cammino.

  «Io credo che l’arrivo del generale Mack deciderà il governo a non
  perdere uno dei momenti più favorevoli, che la provvidenza abbia
  messo a sua disposizione, perchè se vuolsi attendere d’essere
  aggrediti nel paese invece di trasportar fuori la guerra, non è
  mestieri esser profeta per dire che questo regno è ruinato e che la
  monarchia è distrutta. Ma se disgraziatamente si vuol persistere
  in questo rovinoso sistema di temporeggiamento, io vi raccomando
  di star pronta ad imbarcarvi alla prima cattiva nuova con tutto ciò
  che vi appartiene. Sarà allora mio dovere pensare e provvedere alla
  vostra salvezza, insieme a quella — mi dispiace credere che ciò
  abbia ad essere necessario — dell’amabile regina, del suo regno e
  della sua famiglia.

  «Ho letto con ammirazione la vostra degna ed incomparabile lettera
  del settembre 1796; possano i consigli di questo regno esser
  guidati dal medesimo sentimento d’onore, di dignità e di giustizia,
  e possano le parole del gran Guglielmo Pitt conte di Graham essere
  ben comprese dal ministro di questo paese.

  «Le _misure coraggiose_ son quelle che salvano.

  «È questo il voto di colui che si dice,

                                              «_Di vostra signoria_

                                                       «O. NELSON.»

  «P. S. Prego Vostra Signoria di ricevere questa, come una lettera
  preparatoria per sir William Hamilton, al quale scrivo, con
  tutto il rispetto che gli è dovuto, la ferma e materiale opinione
  d’un ammiraglio che desidera provare egli stesso che è un fedele
  servitore del suo sovrano, facendo quanto è in suo potere per la
  felicità e per la sicurezza delle LL. MM. Siciliane e del loro
  regno.»

Una frase della lettera di lord Nelson riusciva inintelligibile per
colpa mia. Aveva dimenticato di dire che la regina aveva chiesto a suo
nipote l’imperatore d’Austria il generale Mack per comandante in capo
del suo esercito, e che l’imperatore glielo aveva accordato.

Questa lettera produsse su Ferdinando l’effetto che si aspettava, ma
però, contro la sua abitudine, egli tenne fermo su di un punto, quello
di mettersi in campagna nello stesso tempo dell’imperatore.

In conseguenza fu convenuto che il re scriverebbe a suo nipote una
lettera nella quale lo eccitava a decidersi: la lettera tutta di
suo pugno fu spedita dal suo corriere Ferrari, coll’ingiunzione di
consegnarla personalmente all’imperatore, e di riportare la risposta
direttamente al re Ferdinando.

Ma prima della sua partenza Ferrari aveva ricevuto mille ducati dalla
regina coll’ordine invece di ripassare per Caserta, ed al suo ritorno
di consegnare la lettera dell’imperatore a lei, invece di consegnarla
al re.

Egli riceverebbe due mila ducati consegnando la lettera alla regina che
l’avrebbe soltanto letta, e poi riposta nella sopracarta.

Era pagar bene questo piccolo tradimento, e Ferrari non esitava
nemmeno, sapendo che in fatti era la regina che regnava sotto il nome
di suo marito, e ciò lo tranquillava molto sui pericoli cui andava
incontro nel caso che si fosse scoperto questo tradimento.

Ferrari partì, si calcolò il tempo necessario; se l’imperatore
d’Austria non frapponesse ritardo alla sua risposta egli poteva
ripassare per Caserta fra undici o dodici giorni.

Il generale Mack arrivò il Martedì, 8 ottobre, a Caserta; al giovedì fu
invitato a pranzo dal re e dalla regina: sir William ed io ricevemmo un
invito ufficiale per quel giorno. Il re e la regina lo ricevettero con
grandi manifestazioni di stima, e la regina presentandolo a Nelson gli
disse: — Il generale Mack è in terra ciò che il mio eroe Nelson è in
mare.

Il complimento non era lusinghiero, e il paragone mancava di giustizia.
A Tolone, a Calvi, a Teneriffa Nelson si era diportato gloriosamente;
ad Aboukir egli si era condotto non soltanto da eroe, ma da uomo di
genio. Mack al contrario era stato battuto dovunque aveva incontrato i
francesi, e ciò malgrado aveva acquistato in Europa, non si sa perchè,
una riputazione di uno dei più grandi strategici dell’epoca.

Per quanto fossero buone le idee che gli altri avevano di Mack, non
potevano però mai raggiungere quella che Mack aveva di sè medesimo;
io non ho mai veduta fatuità più formidabile di quella; egli non
ammetteva nulla affatto, non dirò la supposizione che egli potesse
essere battuto; ma nemmeno quella che i francesi gli potessero fare
resistenza.

Confesso che questa burbanza mi riescì antipatica fin dalla prima
parola che ebbi l’onore di scambiare coll’illustre generale.

Il tempo scorrea, e Ferrari galloppava. Dieci giorni dopo la sua
partenza, sir William, gran cacciatore, suggerì al re una partita
di caccia a Persano, e la regina, il generale Acton ed io andammo a
stabilirci a Caserta.

Il giorno seguente a quello del nostro arrivo, verso le sette ore
di sera Ferrari arrivò, ed era latore di una lettera dell’imperatore
Francesco II.

Acton sopra un suggello di lettera dell’imperatore, ne aveva fatto
scolpire uno eguale; non vi era dunque motivo d’inquietarsi anche da
questo lato; si rammollirebbe la cera, si dissuggellerebbe la lettera,
e se dessa era tale quale la si desiderava, la si rimetterebbe intatta
nella sopraccarta che si tornerebbe a suggellare. Se invece la lettera
non assecondava i desideri della regina, si prenderebbe consiglio.

L’imperatore annunziava positivamente a suo zio che non si sarebbe
messo in marcia se non quando Souwarow ed i suoi quarantamila russi
sarebbero arrivati, e che egli supponeva che non sarebbero giunti prima
dell’aprile 1799.

Lo invitava quindi a calmare la sua impazienza, ed a fare come lui,
attendendo fino a quell’epoca, e attaccarli ad un tempo con 150,000
Austriaci, 40,000 Russi e 65,000 Napoletani: era evidente che i
Francesi sarebbero costretti a sgombrare l’Italia, e chi potrebbe dire,
con Bonaparte e coi suoi trenta mila uomini confinati in Egitto, dove
si arresterebbe la marcia trionfale dell’armata austro-russa?

Secondo ogni probabilità non dinanzi a Parigi.

Ma la regina era una giuocatrice troppo spinta, per fermarsi al momento
che aveva in mano un giuoco così bello, ed il progetto stabilito fra
lei ed il capitano Acton fu messo in esecuzione.

Figlio di un medico irlandese, Acton, l’abbiamo detto era un abile
chimico: con una miscela già preparata levò l’inchiostro dalla lettera
non lasciandovi che la firma, poi invece del rifiuto di marciare,
espresso tanto chiaramente dall’imperatore, scrisse una promessa
positiva di entrare in campagna appena che suo nipote Ferdinando avesse
passato il confine romano.

Poi la lettera fu suggellata di nuovo col suggello imperiale e
consegnata a Ferrari che la portò direttamente a Persano, e la presentò
al re affermandogli che era esso il primo a prenderla dopo di averla
ricevuta dalle auguste mani dell’imperatore.

Il re che era a tavola con sir William dissuggellò la lettera, la lesse
con soddisfazione visibile, e la passò a sir William.

Sir William, che era anch’egli del complotto, non fu meno maravigliato
di questa risposta favorevole. Però ne felicitò il re Ferdinando,
dicendogli:

— Lo vedete, Sire, Sua Maestà Augusta è esattamente dello stesso parere
di Sua Gran Signoria Nelson; non avete un momento da perdere.

Difatti fu deciso che il generale Mack occuperebbe gli stati romani,
senz’altro ritardo che quello necessario pei preparativi della
campagna.

Eravamo giunti ai primi di novembre.




X.


Ottenuta la guerra da Ferdinando, mi restava da trattare un affare
ancora più grave. Era di ottenere ch’egli si mettesse alla testa della
sua armata e facesse questa guerra il re in persona.

Il re, come ho già detto, era lungi dall’essere valoroso, e se io fui
acciecata sul conto della regina, non lo fui però mai su quello del re,
che la regina procurò sempre di farmi vedere sotto la sua vera luce.

Le trattative furono lunghe, ma la regina e sir William fecero valere
presso il re che si trattava non soltanto di combattere i Francesi e di
sostenere la legittimità, due cose molto lodevoli, ma anche, una volta
occupato lo Stato romano, di vedere nella sua qualità di liberatore
quale sarebbe la sua parte nella divisione del Patrimonio di S. Pietro.

Alla fine il re acconsentì.

Siccome non si attendeva che il consenso del re, l’esercito fu diviso
in tre corpi: 22,000 uomini furono inviati a S. Germano, 16,000 negli
Abruzzi, 8,000 nella pianura di Sessa e 6,000 si chiusero nelle mura di
Gaeta, ed alcune navi onerarie si tennero pronte per trasportare 10,000
uomini in Toscana, accompagnate dalla squadra di Nelson.

Questi 10,000 uomini erano destinati a tagliare la ritirata dei
Francesi quando il generale Mack li avesse battuti.

Questi tre corpi d’armata, cosa curiosa, furon messi sotto il comando
di tre stranieri: Mack generale in capo, Micheroux e Damas generali di
divisione; il primo era austriaco, e gli altri due erano francesi.

Cinquantadue mila uomini erano pronti ad entrare negli Stati Romani.

Del resto, come lo aveva giudicato l’ammiraglio Nelson, il momento era
ben scelto per attaccare i Francesi.

Il Direttorio prevenuto dal cittadino Garat delle intenzioni ostili
della Corte di Napoli, aveva cercato, per quanto gli riuscì possibile,
tutti i mezzi per far fronte a questa aggressione; aveva distaccato
quanti uomini potè dall’esercito della Repubblica Cisalpina, li aveva
inviati a Roma e ne aveva dato il comando a Championnet.

Championnet non aveva fin allora sostenuto che comandi secondarii;
e per conseguenza poco conosciuto, il suo comando di Roma, la sua
conquista di Napoli lo resero celebre.

Vuolsi che al momento che lasciava la Francia, ove, in ricompensa
dei suoi antichi servigi, riceveva questo nuovo comando, il direttore
Barras gli avesse posto la mano sulla spada e gli avesse detto:

— Parti per l’Italia, generale, e ti do parola che sarai incaricato di
detronizzare il primo re che incorrerà nella collera della Repubblica.

Championnet partì da Parigi ed arrivò a Roma con questa speranza.

Ma a Roma trovò l’armata francese nello stato che dissi. Senza pane,
senza calzature, senza abiti, senza soldo, con cinque cannoni e 180,000
cartucce, col rinforzo avuto dalla Cisalpina, si compose di quattordici
a quindici mila uomini.

Al 22 novembre, il re pubblicò il famoso manifesto firmato dal principe
Pignatelli Belmonte, diretto al cavaliere Priora, ministro del re di
Piemonte Carlo Emanuele II.

Come tutti gli atti che emanavano dal re, anche questo era stato
redatto dalla regina, dal capitano generale e da sir William.

È dopo dieci anni d’intervallo, quando il velo è caduto, quando
sparvero le ire, che un tale documento vi apparirà sotto la sua vera
luce; vale a dire come un appello all’assassinio.

Eppure a Caserta il 20 novembre 1798, nel momento in cui questo
manifesto passò per le mie mani, io applaudii come gli altri.

Ecco questo manifesto, che fece un gran rumore quando apparve, e che
poi fu quasi dimenticato:

«Noi sappiamo, — diceva questo curioso documento, — che nel consiglio
del re vostro signore, molti ministri prudenti per non dire timidi
fremono alle parole di spergiuro e di assassinio; come se il nuovo
trattato d’alleanza fra la Francia e la Sardegna fosse un atto politico
degno di essere rispettato.

«Ma non dimenticatelo; quest’atto fu dettato dalla forza delle armi,
dalla violenza del vincitore; è stato accettato dalla necessità, e deve
durare fin quando lo esigerà la necessità. Trattati simili a quelli
che avete sottoscritto sono ingiurie del potente al debole, il quale
violandoli cede alla prima occasione che gli presenta la fortuna. E
infatti in presenza del vostro re, prigioniero nella sua capitale,
circondato da baionette nemiche, chiamerete voi spergiuro non mantenere
una promessa strappata colla forza e disapprovata dalla coscienza?

«Chiamereste voi assassinio, l’assassinare i vostri tiranni, e se tale
è la sorte, la debolezza degli oppressi non potrà mai sperare nessun
soccorso contro la forza che l’opprime?

«I battaglioni francesi tranquilli e dispersi dalla pace, sono sparsi
pieni di confidenza nel Piemonte. Eccitate il patriottismo dei popoli
fino all’entusiasmo ed al furore, che tutti i Piemontesi aspirino a
calpestare sotto i piedi un nemico della loro patria. Gli assassini
parziali saranno più proficui al Piemonte, che una vittoria in campo,
e mai la giusta posterità condannerà colla infame parola di tradimento
questi atti energici di tutto un popolo che va alla conquista della sua
libertà sui cadaveri dei suoi oppressori.

«I nostri generali napoletani sotto gli ordini del valoroso generale
Mack, suoneranno pei primi il segno di morte contro i nemici dei troni
e dei popoli. E forse saranno già all’opera quando avrete ricevuto
questo manifesto.»

Pubblicato questo manifesto non aveva più che a mettersi in campagna.

La regina aveva fatto fare per suo marito un magnifico uniforme di
generale, e visitammo successivamente i campi di Sessa e di S. Germano
per mostrare il re ai suoi soldati.

Queste passeggiate militari, le acclamazioni che sollevarono le grida
di — Viva il re, morte a’ Francesi — finirono di far girare la testa al
re Ferdinando, che ci lasciò facendo alla regina ogni sorta di promessa
guerriera.

Debbo però dire che, malgrado queste promesse, la regina ne fu poco
persuasa, e malgrado la cattiva opinione che aveva di suo marito, era
però lontana di aspettarsi la sorpresa che l’avvenire le serbava.

Ritornammo a Caserta, ed il re alla testa della sua armata mosse
verso il confine Romano al 24: quest’armata sboccò da tre punti sul
territorio pontificio.

L’ala destra che costeggiava l’Adriatico passò il Tronto, e cacciò
da Ascoli una debole vanguardia francese che vi si trovava e prese la
direzione di Ponte di Fermo.

Il centro scese dagli Appennini da Aquila e si avanzò sopra Rieti.

In fine l’ala sinistra, ove trovavansi Mack e il re, passò il
Garigliano su tre colonne, a Isola, a Ceprano, a sant’Agata, e marciò
direttamente su Roma per le paludi Pontine, Valmontone e Frascati.

Passando il confine, il generale Mack scrisse al generale francese
questa lettera che ci darà la misura della confidenza che aveva in sè
stesso.

      «Signor Generale,

  «Vi dichiaro che l’armata di S. M. siciliana, che ho l’onore di
  comandare sotto gli ordini diretti del re, ha passato jeri il
  confine degli stati romani, rivoluzionati ed usurpati dopo la
  pace di Campo-Formio, rivoluzione ed occupazione non riconosciute
  ed approvate nè da parte di S. M. Siciliana, nè dal suo Augusto
  alleato Sua Maestà l’imperatore e re. Dimando adunque che, senza il
  minimo ritardo, ordiniate alle truppe che si trovano nello stato
  romano, di ritornare nella Repubblica Cisalpina e che facciate
  evacuare tutte le piazze che occupano. I generali comandanti le
  diverse colonne delle truppe di S. M. Siciliana, hanno l’ordine di
  non incominciare le ostilità sui punti in cui le truppe francesi
  si ritireranno al mio invito, ma d’impiegare la forza nel caso
  che resistessero. Vi dichiaro inoltre, cittadino generale, che
  se voi mettete il piede sul territorio del gran duca di Toscana,
  considererò tale cosa come un atto di ostilità.

  «Aspetto la vostra risposta senza il minimo ritardo, e vi prego di
  rinviarmi il maggiore Reischach che vi spedisco, e ciò al più tardi
  quattro ore dopo aver ricevuto la mia lettera. La vostra risposta
  dovrà essere positiva e categorica, circa all’evacuazione degli
  stati romani, ed al non metter piedi negli stati del gran duca di
  Toscana; una risposta negativa da parte vostra sarà considerata
  come una dichiarazione di guerra, e S. M. Siciliana saprà sostenere
  colla spada in mano le giuste dimande che vi dirigo in suo nome.

                                                «_barone_ C. MACK.»

Il generale Championnet rinviò il maggiore Reischach dopo avergli
offerto dei rinfreschi come ad un ospite; ma poichè costui gli chiedeva
quale risposta riporterebbe al generale:

— Ditegli ciò che avete veduto, gli disse Championnet, ed alzando le
spalle gli volse il tergo.

Lo stesso giorno il generale francese ricevette un ordine dal
Direttorio che gli toglieva tre mila uomini per rinforzare la
guarnigione di Corfù.

Forse, vista l’urgenza, poteva rifiutare di obbedire a quell’ordine.

Egli diede i tre mila uomini e restò con quasi dodici mila.

Ma nello stesso tempo fece tirare il cannone d’allarme in Castel S.
Angelo, fece battere la generale per tutta la città, e prese tutte le
misure suggerite dalle circostanze, per far fronte al pericolo che si
avvicinava su di lui colla rapidità di una valanga.

Ricevevamo tutti i giorni dei corrieri del re; questi corrieri ci
tenevano al corrente del suo cammino trionfale.

Al 30 novembre, di notte, ricevemmo la notizia che il re aveva
fatta fin dal giorno innanzi la sua entrata in mezzo ad acclamazioni
frenetiche; il popolo staccò i cavalli dalla sua carrozza, e la portò
fino al palazzo Farnese, che aveva ereditato dalla sua ava Elisabetta.

La lettera del re ci annunziava che il generale francese aveva lasciato
Roma, lasciando cinque cento uomini in Castel Sant’Angelo, ordinando
al comandante di non arrendersi senza alcun pretesto, e gli aveva dato,
dicevasi, parola di ritornare a Roma prima di venti giorni.

È inutile il dire che questa promessa faceva andare in giubilo il re e
specialmente il generale Mack.

Il re annunciava in una sua poscritta che il popolo scannava i
patriotti e saccheggiava le loro case; egli stesso aveva fatto fucilare
due napoletani, i fratelli Corona, di cui uno era stato ministro della
Repubblica Romana.

Al dire del re tutto andava coi fiocchi.

Di fatti il giorno seguente ricevemmo una copia di questa lettera che
il re scriveva al papa Pio VI.

«Vostra Santità conoscerà colla più viva soddisfazione che, grazie
all’aiuto del nostro Divin Salvatore, e per l’augusta protezione del
beato S. Gennaro, siamo entrati colla nostra armata, senza resistenza e
da trionfatori nella capitale del mondo cristiano; i Francesi fuggirono
spaventati alla vista della croce e delle mie armi; Vostra Santità può
dunque riprendere il supremo e paterno suo potere, che io difenderò
colla mia armata; Vostra Santità abbandoni dunque la sua dimora troppo
modesta della Certosa, e sulle ali dei Cherubini, come altra volta
la Nostra Santa Vergine di Loreto venga e discenda al Vaticano per
purificarlo colla sua presenza: tutto è pronto per riceverla; Vostra
Santità potrà celebrare i divini ufficj per la solennità di Natale.»

La regina ordinò che si cantasse un _Te Deum_ in tutte le chiese di
Napoli, che il cannone tuonasse in segno di trionfo e che la città
fosse illuminata.

Questi ordini, bisogna dirlo in lode dei Napoletani, furono ricevuti ed
eseguiti con entusiasmo.




XI.


Credo di aver detto che un distaccamento da otto a diecimila uomini
comandato dal generale Naselli, doveva partire per Livorno sopra
bastimenti di trasporto.

Partirono infatti, e al 22 novembre uscirono dal porto di Napoli.

Erano accompagnati da _Vanguard_, ove trovavasi l’ammiraglio Nelson,
dal _Culloden_, dal _Minotauro_, dall’_Alleanza_, dalla _Buona
Cittadina_, dal cutter _Flora_ e dalla squadra portoghese.

Vascelli di guerra e navi di trasporto giunsero a Livorno circa dopo il
mezzodì del 28 novembre: i ministri inglese e napoletano vennero a fare
la loro visita all’ammiraglio. Il generale Naselli intimò alla città di
arrendersi, il che avvenne verso le 8 di sera.

L’intimazione era stata fatta congiuntamente dal generale Naselli e dal
vice-ammiraglio Nelson.

Naselli prese possesso della città; ma Nelson restò sul suo vascello.

E poi, Nelson era così innamorato che non voleva restar molto tempo
lontano da me; e però lasciò Livorno al 30 novembre, alle 7 di mattina,
ed al 5 dicembre era a Napoli.

Alle sei del mattino giunse al capitano generale Acton una lettera in
cui trovavasi il periodo seguente che il ministro si affrettò di farci
leggere.

Nelson non vedeva le cose sotto un aspetto così ridente come il re di
Napoli.

«Ecco in poche parole lo stato del paese e la situazione delle cose
— diceva. — L’esercito del re è a Roma, Civitavecchia è presa; ma
rimasero 500 Francesi in Castel Sant’Angelo. I Francesi hanno 13,000
uomini ed aspettano i napoletani in una forte posizione a Civita
Castellana. Il generale Mack va contro di loro con 20,000 uomini.
L’avvenimento a mio avviso è dubbio, e può decidere immediatamente
della sorte di Napoli. Se Mack è disfatto, in venti giorni il paese
è perduto; l’imperatore non ha fatto muovere nemmeno un uomo della
sua armata, e senza il soccorso dell’imperatore questo paese non può
resistere ai Francesi. Certamente non è sua scelta ma la necessità
che ha obbligato il re di Napoli ad uscire dal suo regno, e di non
aspettare che i Francesi, radunate le loro forze, lo cacciassero in una
settimana da Napoli.»

Noi ricevemmo quasi le stesse notizie da Roma.

Però il re ci annunziava la marcia di Mack sopra Civita Castellana
non già con ventimila uomini ma con quarantamila. Era impossibile di
credere che con tale superiorità numerica, la vittoria fosse dubbia.

Inoltre il re era talmente sicuro del successo che la sua tranquillità
cl rassicurava. Le sue lettere erano piene di descrizioni delle feste
che gli avevano dato. Non usciva nelle vie di Roma che camminando sopra
tappeti e sotto una pioggia di fiori; nella stessa sera vi fu gran gala
al teatro Apollo.

La lettera che ci dava questi particolari era del 6 dicembre; la
mostrammo a lord Nelson, facendogli osservare che non era con ventimila
uomini che Mack andava incontro al nemico, ma con quarantamila.

Tutto ciò però non lo rassicurava, egli aveva preso già fin dal primo
incontro una cattiva opinione di Mack.

Ci lasciò verso le cinque di sera, e restammo la regina, io e alcune
dame di sua intimità che componevano la nostra società ordinaria.

Verso le sette di sera, quando prendevamo il thè, udimmo il rumore
d’una carrozza che passava sotto le volte del palazzo, poi un rumore di
servitori che si precipitavano dalle scale.

La regina impallidì.

Io la guardava interrogandola cogli occhi.

— Ah! mi disse, ho un presentimento.

— Quale, signora? le chiesi.

— Che il re sia arrivato.

— Il re! impossibile, signora; abbiamo ricevuto una sua lettera questa
mattina.

La porta si aperse, un usciere annunziò:

— Sua Eccellenza il duca d’Ascoli.

Il duca d’Ascoli entrò, la regina ed io mandammo un grido di stupore:
egli era vestito coll’uniforme del re, e siccome egli era della stessa
statura ed età e la camera era semi-oscura, la regina ed io lo credemmo
a prima vista il re.

La regina fu la prima ad accorgersi dello sbaglio, e il suo istinto
coniugale le fece indovinare che sotto questo travestimento si celava
qualche vergogna.

Si alzò e severamente:

— Che significa questa mascherata? dimandò essa.

— Ahimè! signora, nulla di allegro, rispose il duca, ma almeno è una
prova della mia devozione pel re.

— Pel re? e dov’è il re?

— Qui, signora.

— E dove dunque qui? chiese di nuovo.

— Nel suo appartamento.

— Ah! ah! egli non osa nemmeno di comparirmi davanti, a ciò che pare.

Poi dopo un momento silenzio:

— I Napoletani sono stati battuti, non è vero?

E siccome il duca esitava a rispondere:

— Vediamo, disse la regina, se il re è una donna, io sono un uomo, io;
ditemi tutto.

— Battuti completamente, signora.

— Bravo Nelson! disse, volgendosi dalla mia parte, lo vedi, il suo
istinto non lo ingannava; ma è dunque veramente un idiota, come già ce
ne accorgiamo, il generale Mack.

— Non posso dir nulla a Vostra Maestà se non che le truppe napoletane
sono state completamente battute.

— Siete sicuro della notizia?

— La sappiamo ambedue, io ed il re, dalla bocca stessa del generale
Mack.

— Dal generale Mack!

La regina mi prese la mano e me la serrò convulsivamente.

— È scritto che io dovrò trangugiare tutta la vergogna? mormorò essa.

— Ma infine, signore, dimandai al duca, mentre la regina sì lacerava i
manichini coi denti, non potete dare alcun particolare a Sua Maestà?

— Non posso dire a Sua Maestà che quello che so io stesso.

— Ditelo, dunque, esclamò la regina, e spicciatevi perchè ho premura,
ve lo confesso, di sapere per qual motivo avete indossato l’abito ed
avete al collo l’ordine del re.

— Vostra Maestà si degni di ascoltarmi con pazienza, disse il duca
d’Ascoli; altrimenti sarò obbligato di ritornare dal re, e dirgli che
non avete voluto ascoltarmi.

— Voi fate appello alla mia pazienza, ebbene, vi prometto d’averne,
parlate.

— Ebbene, signora, ieri eravamo nel palco di S. M. al teatro Apollo,
quando verso le nove ore della sera, la porta si aperse bruscamente e
vedemmo apparire il generale Marck coperto di fango come chi arriva
dopo una lunga corsa. Sire, diss’egli, voi vedete un uomo nella
disperazione che vi annunzia una tale notizia, siamo battuti su tutti
i punti, separati gli uni dagli altri, in piena ritirata, o piuttosto
in fuga. La nostra unica speranza di salvezza per Vostra Maestà è che
parta immediatamente per Napoli; — libero dalla cura che m’ispira il
vostro prezioso capo, cercherò di radunare l’armata e di prendere una
rivincita.

— Miserabile orgoglioso, mormorò la regina.

— Comprenderete facilmente, signora, continuò il duca, lo stupore del
re ad una simile notizia, nel momento in cui si credeva vittorioso;
stette guardando Mack senza rispondere e col viso alterato.

Poi ad un tratto Sua Maestà si alzò, ed uscì dal palco.

Per fortuna nessuno si era accorto e si credette che il re fosse andato
nella camera vicina alla loggia. Non bisognava far vedere di fuggire, i
giacobini romani che volevano vendicarsi delle esecuzioni comandate dal
re lo tenevano di vista, e dicevano che se Mack fosse battuto avevano
l’intenzione d’impossessarsi di lui: prima che si fossero accorti della
sua assenza, e che la notizia si fosse sparsa, eravamo già al palazzo
Farnese: colà il re montò a cavallo con una dozzina di uffiziali,
ed alcuni dei suoi più fedeli servitori, fra i quali si è degnato di
scegliere me; uscimmo dalla porta del Popolo, e girammo intorno alle
mura fino alla porta S. Giovanni. Giunti colà il re prese il galoppo,
con sette ad otto uomini di scorta e verso le undici di sera giungemmo
ad Albano.

Ad Albano il re s’informò dal mastro di posta se aveva una vettura.

Non aveva che una carrozzella.

Mentre attaccavano i cavalli, il re mi trasse in disparte, e pregò di
mutare di abito con lui, cosa che eseguii al momento.

— E perchè mutar di abito con lui? chiese la regina.

— L’ignoro, signora, rispose il duca; ma siccome una preghiera di Sua
Maestà è un ordine, obbedii.

— Un ordine, un ordine, ripetè la regina; ma infine quest’ordine aveva
uno scopo.

Il duca fece un inchino senza rispondere.

— Vorrei ben sapere, disse la regina, battendo con impazienza i piedi,
che cosa sperava il re con questa mascherata.

— Desiderate di sapere ciò che sperava io, disse il re entrando e
gettandosi su di una poltrona, come se arrivasse dalla caccia; sperava,
se fossimo stati presi dai giacobini, che avrebbero impiccato d’Ascoli
invece di me.

— Eh! fece la regina.

— Ebbene, intanto che lo appiccavano io mi sarei salvato in qualche
modo.

La regina alzò le mani al cielo e poi le portò al suo viso.

— Oh! oh! mormorava essa.

— Ma, disse il re che non comprendeva niente affatto delle esclamazioni
della regina, ma essi lo avrebbero fatto come lo hanno ben detto questi
f... di p... di giacobini.

— E voi avreste lasciato appiccare il vostro amico invece di voi!
esclamò la regina.

— Ma, lo credo bene, io, meglio due volte lui, che me.

— E voi, duca, vi sareste lasciato appiccare invece del re! esclamò la
regina, alzandosi ed andando incontro al duca.

— Il dovere di un suddito non è di sacrificare la vita pel suo padrone?
rispose semplicemente il duca.

— Ah! signore, esclamò la regina volgendosi a suo marito; siete
fortunato di avere un simile amico. Conservatevelo preziosamente; è
probabile che se voi lo perdete, non ne troverete un altro.

Poi volgendosi verso di me:

— Del resto, disse, anch’io non ho di che lagnarmi, perchè sono sicura,
Emma, che al bisogno faresti per me ciò che il duca era pronto a fare
pel re.

E mi gettò le braccia al collo.

— Vieni, Emma, vieni, mi disse. Gli è bello d’avere un tal cortigiano;
ma gli è triste di avere un tal re.




XII.


La regina entrò nei suoi appartamenti e ordinò di attaccare i cavalli
alla carrozza.

E siccome la guardava quasi per cercar di leggere nel suo pensiero:

— Comprendi bene, mi disse, che non voglio lasciare a questo egoista,
che lascerebbe appiccare il suo migliore amico, la cura di vegliare
alla nostra sicurezza; egli sarebbe capace di fuggire in Sicilia col
suo fucile da caccia e coi suoi cani, senza altrimenti occuparsi di
noi.

— Come! fuggire in Sicilia Vostra Maestà, senza che il re pensi a
lasciar Napoli?

— E che vuoi tu che faccia egli mai? Fra quindici giorni i Francesi
saranno qui; non ci hanno detto che il direttore Barras aveva detto al
generale Championnet nel mandarlo a Roma:

— Generale, voi avete l’onore di detronizzare il primo re che sarà
incorso nella collera della Repubblica?

— Ora, grazie a Dio, noi abbiamo fatto la parte nostra per incorrere
nella collera di questa rispettabile repubblica. Per fortuna ci rimane
Nelson, — e in quali rapporti sei tu con lui? spero che non lo avrai
messo alla disperazione.

— Nelson farà tutto quello che vorremo, risposi sorridendo.

— Bene. Sarà troppo tardi per fargli dire questa sera che venga a
terra, ma dimani mattina noi dobbiamo conferire con lui.

— Perchè troppo tardi questa sera? due parole scritte da me basteranno
per farlo venire in qualunque siasi ora della notte. Sono le otto; alle
nove e mezzo possiamo essere a Napoli; alle dieci potrà avere un mio
viglietto; una mezz’ora dopo sarà a palazzo.

— Bene, allora lo riceverai tu e gli dirai tutto; intanto io parlerò
con Acton; comprendi bene, che bisogna ch’egli si dedichi a noi in
corpo ed anima. Ci va nientemeno che della vita.

— Oh, Maestà!

— In tal modo i giacobini se la sono presa con mia sorella Maria
Antonietta: credi forse che quei di Napoli se la prenderanno meno
con noi? Poi tu comprendi bene che può benissimo venir un ordine da
lord S. Vincent che lo allontani da noi. — Ebbene, bisogna che egli
disobbedisca anche ad un ordine di Lord S. Vincent, anche ad un ordine
dell’ammiragliato se gli venisse dato.

— Venendo il caso, risposi, ridendo, alla regina, Vostra Maestà mi
dirà cosa dovrò fare perchè egli disobbedisca; io lo farò, ed egli
disobbedirà.

Si venne ad annunziare che i cavalli erano pronti.

— Vieni, disse la regina.

— Vostra Maestà non previene il re?

— Per che farne?

— E se egli fa chiamare Sua Eccellenza il capitano generale?

— Acton non verrà, se non dopo avermi veduta; scendiamo.

Scendemmo lestamente senza prevenire alcuno. La regina si ravvolse
nel suo sciallo di casimiro perchè pioveva a torrenti e faceva freddo;
entrammo nella carrozza, chiudemmo la portiera sollevando il vetro, ed
il cocchiere partì al galoppo.

La Regina s’era adagiata tutta in pensieri sul fondo della carrozza; si
avrebbe potuto credere che dormisse, se di tempo in tempo non l’avesse
agitata qualche sussulto nervoso, e in queste convulsioni bisbigliava,
o la parola di imbecille che si applicava a suo marito: poi di tempo in
tempo esclamava: O Nelson, bravo Nelson, non vi ha speranza che in lui.

Io le stringeva la mano dicendole:

— State tranquilla, signora, vi rispondo di lui come di me.

Un’ora e mezza dopo la nostra partenza da Caserta arrivammo al palazzo
reale.

Prima di scendere dalla carrozza, la regina chiese se il capitano
generale Acton era a palazzo.

Per fortuna vi era.

— Ditegli che l’aspetto sul momento da me, disse la regina.

E salimmo le scale.

A tutti quelli che si presentarono per offrirle i loro servigi, tanto
uomini che donne, la regina evitandoli rispondeva: grazie.

Entrammo sole nel suo appartamento.

L’usciere di servizio pose un candelabro su di un tavolo e chiese gli
ordini della regina.

— Non lasciate entrare che il signor Acton, milord Nelson e sir William
Hamilton, rispose con quella nettezza d’accento e brevità di parole che
indicavano in lei una forte emozione.

Poi ella stessa pose su di una tavola delle penne, della carta ed un
calamaio.

— Scrivigli, mi disse.

Presi la penna.

  «Venite, gli scrissi; noi vi aspettiamo a palazzo, la regina ed io,
  per affari d’importanza.»

                                                             «EMMA»

— Cosa gli scrivi dunque? chiese la regina.

— Gli scrivo di venire, ecco tutto.

— Come, ecco tutto?

— Non c’è bisogno di più.

— Emma, Emma, disse la regina, tu lo lascerai sfuggire.

— Non sono io il vostro piloto, sì o no?

— Certamente... ma.

— Allora non vi mischiate punto alla manovra, lasciate fare a me.

— Fate pure.

Ma nel dare il suo consenso la regina fece un movimento di spalle che
indicava che al mio posto avrebbe agito assai diversamente di me.

Non m’inquietai punto.

— Ora, le dissi, da chi V. M. farà portare questa lettera?

— Ciò riguarda Acton. Dal porto militare ci vorranno meno di 10 minuti
per andare a bordo del _Vanguard_.

In quel momento Acton entrò.

— Quale sventura, non è vero, signora? diss’egli avanzandosi verso la
regina con un viso che indicava la sua inquietudine.

— Sì, disse la regina, è immensa; il generale Mack è stato battuto,
il re è arrivato or son due ore a Caserta dopo aver fatto prodigi di
valore.

E diede in uno scoppio di risa stridente e nervoso che le era
famigliare nei momenti di suprema irritazione.

E poichè Acton la osservava con uno stupore sempre crescente:

— Saprete tutto in un istante; ma prima di tutto, gli dissi, fate
portare questo viglietto a Lord Nelson. È necessario che egli possa
attraversare il porto militare senza ostacolo.

— Scenderò io in darsena, rispose il generale, e spedirò io stesso la
barca che lo anderà a cercare e darò le mie istruzioni all’uffiziale.

E il generale s’allontanò.

— Ha questo di buono almeno che è obbediente, disse la regina
seguendolo cogli occhi.

— Perchè non gli fate l’onore di chiamarlo affezionato, signora?

— Perchè questa parola non esiste nel dizionario dei cortigiani.

— Bene, ma il duca d’Ascoli?

— Colui non è il cortigiano del re, è suo amico; quando il re è di buon
umore, è d’Ascoli che gli dice le verità più dure; e non è come te,
adulatrice, che non me ne dici mai.

— È forse colpa mia se le più dure verità che si possono dire a V. M.
sono delle lodi?

La regina mi abbracciò, e cominciò a passeggiare in lungo ed in largo;
si fermava di tempo in tempo innanzi al terrazzo, e gettava sguardi
a traverso alle tenebre alla flotta inglese, di cui si riconosceva
ciascun vascello dai suoi fanali di posizione e ad ogni volta
esclamava:

— O Nelson, la nostra sola speranza è in te.

E poi ritornando verso di me:

— Comprendi, mi disse, cinquanta due mila uomini, provveduti di tutto,
ben nutriti, ben vestiti, ben pagati, e che si fanno battere da dieci o
dodici mila Francesi, seminudi, senza soldo, senza pane, senza scarpe,
senza munizioni; eccoli ora forniti di tutto fuorchè di scarpe, menochè
i nostri soldati non si sieno levati le scarpe per fuggire più presto.
Oh se fossi uomo mi sarei posta in mezzo a tutti questi vili, come
avrei strappato le spalline a tutti questi uffiziali che son solamente
buoni di fare scintillare alle parate i loro ricami di argento, ed
a far sventolare al vento le loro piume di tutti i colori. Vi sono
dei momenti, vedi, che, in parola d’onore, avrei volontà di montare
a cavallo come mia madre Maria Teresa, e far vergogna a questo re fa
niente, che non sa che andare a caccia, alla pesca, a far l’amore colle
contadine. Sgraziatamente non ho a che fare cogli Ungheresi, ma con
Napoletani.

Intanto Acton entrò.

— Eccomi, signora, disse; la lettera è spedita, e se lord Nelson mette
a servire vostra Maestà la metà della premura che ci metterei io, in un
quarto d’ora egli sarà qui. Intanto V. M. vorrà dirmi di che si tratta.

La regina lo condusse nella camera vicina perchè voleva lasciarmi sola
con Nelson; e poi forse aveva degli ordini, di quegli ordini segreti e
terribili, che spesso io non conosceva se non quando erano eseguiti.

Difatti seppi poi dopo che vi era stata questione fra la regina e il
capitano generale, circa il corriere Ferrari, nelle cui mani si era
sostituita la lettera redatta da sir William e dal generale Acton alla
vera lettera scritta dall’Imperatore d’Austria; si temeva che Ferrari
svelasse la frode, e che Ferdinando venisse in cognizione del vero,
vale a dire, che invece di invitarlo a mettersi in campagna, suo nipote
Francesco gli scriveva di non muoversi, non contando di dichiarare
la guerra alla Francia, se non quando fossero arrivati i suoi alleati
russi, vale a dire verso il mese di aprile e di maggio.

Sarebbe stato adunque in questo istante, in cui restai sola ad
aspettare Nelson, che sarebbe stata risolta la perdita di questo
infelice.

Racconterò a tempo e luogo la sua morte, e le circostanze terribili che
l’accompagnarono.

Era sola da un quarto d’ora, quando l’usciere entrò ed annunziò Sua
grazia lord Nelson; immediatamente vidi sua signoria nel vano della
porta.

Era tutto ansante per la rapidità con cui aveva salito le scale, e la
sua fisonomia alterata testimoniava la sua inquietudine.

Prima che avesse aperto bocca gli aveva gettato le braccia al collo
dicendogli:

— Caro Nelson, la sola nostra speranza è riposta in voi.

Mi strinse al suo cuore, di cui sentiva la palpitazione a traverso
al suo uniforme, appoggiò le sue labbra convulse sui miei occhi,
e come se avesse temuto di sorprendere una carezza, non già un
sentimento d’amore; ma quell’emozione mi allontanò dolcemente da lui, e
guardandomi con indefinibile espressione di passione, mi chiese:

— Vediamo — che c’è, parlate ad un uomo, che darebbe la sua vita per la
regina; ed esitò.... il suo onore per voi.

— Oh, caro Nelson, esclamai, gli presi la mano e gliela volli baciare.

Nel momento che fece per ritirarla, egli abbassò il capo, io rialzai il
mio e le nostre labbra s’incontrarono.

— Oh! esclamò Nelson alzandosi, e ritirandosi di qualche passo, voi mi
rendete pazzo.

Gli tesi la mano.

— Che importa, gli dissi, se vi guarisco.

Egli guardò intorno per vedere se fossimo soli.

Compresi il suo sguardo e con un sorriso:

— La regina e il capitano generale son là, gli dissi.

E gl’indicai la camera vicina.

Egli mandò un sospiro, si avvicinò, mi strinse la vita col suo unico
braccio, e invitandomi a sedere vicino a lui:

— Mi avete fatto chiamare per chiedermi un servizio, mi disse, sono
un egoista, per non esser venuto prima; in che vi potrei essere utile?
Riparerò la mia colpa, parleremo più tardi della mia pazzia.

— Quando vorrete, gli dissi con uno sguardo pieno di promessa, e se voi
tardate troppo, sono io che vi parlerò per la prima.

— State in guardia, mi disse; voi siete Partenope ed io non sono Ulisse.

Poi facendo uno sforzo su di sè stesso:

— Vediamo, vediamo, disse — Mack è battuto, non è vero? L’armata è in
sfacelo; avete ricevuto un corriere del re?

— Meglio ancora: il re è arrivato saranno tre ore a Caserta; tutto è
perduto, in quindici giorni i Francesi saranno qui; la regina pensa a
fuggire in Sicilia, e conto su di voi per condurla.

— Vi andate voi? chiese Nelson.

— Io non lascio la regina.

— Ed io non vi lascio.

— Qualunque ordine vi arrivi?

— Dovessi stracciar le lettere senza aprirle.

— Nelson! esclamai.

E gli stesi le braccia.

Egli si gettò sul mio cuore.

— Ancora, mi disse egli, ancora, abbiate dunque pietà di me.

— Nelson, non è per compassione che vi dico che io vi amo, è per
riconoscenza... è.... per amore.

Mise un grido, si lasciò sdrucciolare alle mie ginocchia, e baciandomi
le mani, con deboli gridi che sembravano quasi gridi di dolore più che
gridi di gioja.

In questo momento la regina aperse un poco la porta e vedendo Nelson ai
miei ginocchi, fece un movimento per ritirarsi.

— Oh! entrate, entrate, signora, ho nulla da nascondere nè a voi nè al
mondo. Nelson viene a dirmi che è per noi, ed io gli dico che io era
per lui. Vostra Maestà sia abbastanza buona per dare la sua mano da
baciare al nostro salvatore.




XIII.


Il giorno seguente si tenne consiglio di Stato. Il re espose la
situazione, non tacque nulla del disastro. L’avrebbe reso anche più
grande se fosse stato possibile.

L’ammiraglio Caracciolo, come comandante le forze di mare, fu chiamato
al consiglio. Siccome non aveva nulla a temere dalla parte di mare,
poichè gl’Inglesi sorvegliavano il porto, propose di riunire i soldati
di marina in un corpo di mille a mille e ducento uomini, di mettersi
alla loro testa, e di muovere incontro ai Francesi. Impossessandosi
delle strette degli Abruzzi prima che vi fosse giunto il grosso
dell’armata napoletana, poteva mettere un ostacolo alla disfatta, e
radunare colla forza i fuggitivi. Qualunque fosse il numero dei soldati
perduti nei varii combattimenti contro i francesi, l’armata napoletana
doveva essere ancor più forte almeno di quattro volte di quella da cui
fuggiva.

Il re respinse quest’offerta. Egli dubitava della devozione di
Caracciolo, e lo supponeva di voler organizzare quella truppa per
riunirsi con essa ai patriotti.

Caracciolo offeso da quel sospetto, che non meritava, ritirandosi prima
della fine del consiglio, dichiarò che si recava sul suo bastimento,
ove aspettava gli ordini del re.

Ma prima di andarvi si fece annunziare dalla regina.

Anche dalla regina si teneva consiglio, ma questo consiglio si
componeva soltanto della regina, di Nelson, di sir William e di me.

Fin dal giorno antecedente la regina aveva stabilito col capitano
generale la sua fuga e quella della sua famiglia.

Essa esitava di ricevere l’ammiraglio Caracciolo, ma sir William
Hamilton la decise a riceverlo.

La regina allora mi prese pel braccio, esigendo la mia presenza al
suo colloquio coll’ammiraglio, senza dubbio per fargli comprendere
la persistenza di un’amicizia che invece di diminuire si aumentava,
per avere degli avvisi diretti od indiretti che gli si potessero dare
contro quest’amicizia.

La pregai inutilmente di non espormi a qualche nuovo insulto da parte
del principe napolitano; ma la regina mi dichiarò che così voleva,
e che alla minima parola equivoca che sarebbe uscita dalla bocca
dell’ammiraglio, egli sarebbe stato arrestato.

Ma fin dal primo momento era facile di scorgere che non vi era nulla di
simile da temere da parte dell’ammiraglio; mai espressione più profonda
di rispetto non fu impressa sopra nobile viso, quanto quella che
potemmo leggere su quello di Caracciolo.

— Signora, disse facendo un inchino, il re ci ha ora dato contezza
dei disastri dell’armata; ma fortunatamente la vostra fedele marina è
intatta. Io non sono chiamato a dar suggerimento a V. M., ma se Vostra
Maestà mi facesse l’onore di consultarmi, le darei quello, dopo aver,
ben inteso, tenuto fermo fino all’ultimo momento e di aver fatto tutto
per riprendere la nostra rivincita. Le darei, dico, il consiglio di
abbandonare i suoi stati di terra ferma e di rifugiarsi in Sicilia.

— Tale è la nostra intenzione, signore, disse la regina.

— Allora, riprese Caracciolo, facendo un altro inchino, allora
supplicherei V. M. di voler onorare la _Minerva_, e di sceglierla per
suo bastimento di trasporto. La _Minerva_ è la miglior veliera di tutta
la squadra napolitana, e nello stato in cui la battaglia d’Aboukir ha
messo la flotta inglese, potrebbe gareggiare per velocità e sicurezza
colle navi dello stesso lord Nelson; noi siamo in giorni di cattiva
navigazione, conosco i nostri mari e direi quasi le nostre burrasche;
nessuno dunque meglio di me potrebbe rispondere della sicurezza di V.
M. e della sua augusta famiglia, ed io ne risponderò. In pochi giorni
la fregata potrà essere accomodata in modo che V. M. vi possa trovarsi
degnamente.

La regina salutò in segno di riconoscenza.

— È inutile di dire, continuò Caracciolo, che se lady Hamilton e sir
William credono, come è probabile, opportuno di seguire V. M., sarà
un grande onore per me di riceverli a bordo; il più grande che potei
ottenere, se non avessi avuto nello stesso tempo quello di ricevere V.
M.

Tutto ciò era stato detto in una maniera tanto nobile e rispettosa, che
la regina non vi potè resistere e stese la mano all’ammiraglio.

— Signore, gli disse, nel giorno del bisogno non dimenticherò la vostra
offerta, intanto vi ringrazio in mio nome e in quello di lady Hamilton
di avermela fatta; avete altra cosa da dirmi, o desiderate qualche
cosa?

— Ho a dire a V. M. che la supplico di credermi il suo più fedele
servitore, e desidero di mettere ai suoi piedi i miei rispettosi
omaggi.

E salutando di nuovo la regina e me, l’ammiraglio s’avvicinava alla
porta, unendo con un tatto squisito la dignità della sua persona alla
venerazione dovuta alla maestà della regina.

La regina lo seguì cogli occhi.

— Questa prova di fedeltà e di rispetto mi commove ancora più per te
che per me, disse la regina; ma avrei però voluto che l’ammiraglio non
me la avesse data questa prova.

Entrammo nella camera, ove avevamo lasciato sir William e lord Nelson.

Nelson sembrava visibilmente contrariato, e siccome la regina non fece
parola del suo colloquio con Caracciolo, egli non osava interrogarla.

— Signora, disse, spero che V. M. non dimenticherà che Ella si è
rivolta a me pel primo e che pel primo mi son posto a sua disposizione:

— State pur tranquillo, mio caro ammiraglio, rispose la regina.

— Dunque, disse Nelson, ho la parola di V. M. che nessun bastimento,
eccettuato quello che io comando, avrà l’onore di trasportare V. M. in
Sicilia.

— Voi l’avete, disse la regina; ma questa parola non impegna che me,
sir William e Lady Hamilton, io non so quali sieno le intenzioni del
re, su di cui non posso portare influenza.

— Vostra Maestà mi permetterà dunque che agisca di conseguenza.

— Fate pure, e siamo sicure che tutto ciò che farete, sarà per nostro
bene.

— Dimanderò alla regina il permesso di scrivere una lettera, di cui
avrà la bontà di prendere cognizione.

Preparai sopra una tavola, a parte, delle penne, dell’inchiostro e
della carta, e feci segno a Nelson che tutto era pronto.

Lord Nelson si sedette innanzi alla tavola, facendomi segno che potevo
leggere, intanto che le parole uscivano dalla sua penna.

                                             «Napoli, dicembre 1798

      «Mio caro Troubridge,

  «Le cose sono qui in uno stato così critico, che desidero che voi
  mi raggiungiate senza alcun ritardo, lasciando la _Tersicore_ a
  Livorno per ricondurre il Granduca: questa misura è indispensabile,
  e probabilmente vi manderò subito il comandante Campbell per fare
  questo servigio.

  «Il re è ritornato, e le cose vanno alla peggio: per l’amor di Dio
  sbrigatevi, avvicinatevi a Napoli colla più grande prudenza. Io
  sarò probabilmente a Messina; ma in ogni caso informatevene quando
  passerete per le isole Lipari, onde sapere se siamo a Palermo.

  «Avvertirete Gage di operare colla maggior secretezza, che scriva
  a Windsham, dandogli le istruzioni necessarie sulla situazione in
  cui ci troviamo, perchè anch’egli agisca colla maggior secretezza
  possibile.

  «Tutti uniscono il loro affetto ed il loro rispetto a quello del
  vostro fedele amico

                                                       «O. NELSON.»

La seconda lettera era diretta al capitano Ball colla stessa
raccomandazione.

                                                     «Molto segreta

                                             «Napoli, dicembre 1798

      «Mio caro Ball,

  «Desidero che m’inviate direttamente il Golia, e che diate ordine a
  Foley d’incrociare fuori del faro di Messina, fino a nuovo avviso.
  È possibilissimo che mi vedrà _con altri_; la situazione di questo
  paese è tristissima, quasi tutti sono traditori o vili.

  «Che Dio vi benedica; tenete segreto tutto ciò, dite solamente a
  Foley di non avvicinarsi a Napoli senza grande precauzione.

  «Non ho ricevuto nulla dall’Inghilterra; io sono qui coll’_Alcmena_
  e coi Portoghesi. Tutta la casa si unisce al vostro fedele amico
  per dirvi mille cose gentili.

                                                       «O. NELSON.»

  «Il cutter la _Flora_ si è perduto, e non ho nulla da mandarvi; se
  poteste spedirmi l’incendiario, ma sopra tutto nessun bastimento
  napolitano. _Quelli della marina sono tutti traditori_; insomma
  tutto è corruzione.»

Si vede dalla linea, o piuttosto nelle linee che sottosegnamo, nascere
quell’odio della marina inglese contro la marina napoletana e apparire
i primi lampi di gelosia di Nelson contro Caracciolo, gelosia che fu
tanto fatale a quest’ultimo.

È inutile di dire che queste lettere sono copiate agli autografi di
Nelson. Nelson mi diè queste due lettere che rimisi a sir William
perchè ne spiegasse alla regina i passi che potessero parerle oscuri:
Nelson scriveva con un laconismo, che nella sua propria lingua facevalo
talvolta incomprensibile ai compatriotti, a più forte ragione agli
stranieri.

Mentre la regina, aiutata da sir William, leggeva le due lettere su
riferite, Nelson era rimasto pensoso, agitando la penna fra le dita, e
pareva esitar a scriverne una terza.

Finalmente si decise.

      «_A lord Spencer_

                                          «Napoli, 10 dicembre 1798

      «Caro Lord

  «Permettete che in due parole v’informi di quanto è accaduto.

  «L’esercito napoletano è stato pienamente disfatto da’ Francesi,
  ed i fuggiaschi non tarderanno ad arrivar in Napoli, inseguiti dai
  vincitori. In questa crudele congiuntura, la regina m’ha fatto
  promettere di non abbandonarla prima che non tornino giorni più
  lieti. Il re è giunto la scorsa notte, messaggiero della propria
  sciagura. Pare sia stato incalzato tanto da vicino che egli fu
  obbligato a scambiar i suoi abiti con un suo ciambellano. Lo
  vedete, per ricorrer ad un partito tanto estremo, bisogna che il
  pericolo sia stato reale.

  «Spero dunque che l’Ammiragliato non farà difficoltà perchè io
  resti presso la regina, alla quale, d’altronde, ho impegnato la
  mia parola. Aiutatemi con l’alta vostra influenza a mantenerla,
  ancorchè io sia stato imprudente. Appena ci verranno notizie più
  complete, ve le farò tenere.

  «Con tutti i sentimenti d’un profondo rispetto, mi dico.

                                           «Vostro fedele servitore

                                                       «O. NELSON.»

Queste tre lettere provvedevano a tutti gli avvenimenti. La regina
ne ringraziò Nelson, e presa questa prima disposizione, si attese con
maggior tranquillità.

Il consiglio del re non aveva preso alcuna determinazione, ciò gli
sarebbe riuscito difficile, perchè non si sapeva in fine dei conti,
ciò che il re stesso sapeva; ciòè che l’armata era stata battuta e
scompigliata. Si compilò pertanto un manifesto così bizzarro, che io mi
dimando ancora a me stessa a quale scopo sia stato fatto.

Eccolo.

Era anche datato da quattro giorni, e doveasi ritenere come se fosse
scritto e pubblicato a Roma.

«Mentre era nella capitale del mondo cristiano occupato a proteggere
la Santa Chiesa, i Francesi, coi quali ho fatto tutto per vivere in
pace, hanno minacciato di penetrare negli Abruzzi; io moverò incontro
ad essi con una armata numerosa per sterminarli; ma attendendo che i
miei popoli corrano alle armi, e che volando in aiuto della religione
difendano il re, il loro padre, che è pronto a sagrificare la vita per
conservare ai loro sudditi i loro altari, i loro beni, la loro libertà,
l’onore delle loro donne, chiunque abbandonerà le sue bandiere sarà
punito come ribelle e nemico della Chiesa e dello Stato.»

Questo manifesto fu affisso sopra tutti i muri, nel momento in cui
soltanto alcuni sordi rumori sull’avvenimento erano giunti a Napoli.

La notizia del disastro scoppiò poi come una bomba.

Ciò che aveva detto il generale Mack era vero.

L’armata napolitana non vi era più; non già che fossero state grandi le
perdite che avea fatte sul campo di battaglia; aveva perduto soltanto
mille uomini; ma composta di elementi completamente eterogenei, si era
rotta al primo colpo, e disciolta come un fumo: nulla impediva adunque
ad un nemico che si diceva empio, crudele, profanatore della religione,
persecutore dei suoi ministri, d’invadere il regno e di penetrare fino
a Napoli.

Il re lo sapeva tanto bene che, rinunziando di difendersi colle armi
terrestri, rimise la sua causa nelle mani di Dio, ordinò preghiere
per le chiese, onde calmare la collera celeste, ed invitò i preti
ed i frati più noti per la loro eloquenza, di salire sul pergamo, e
di predicare nelle chiese e per istrada, eccitando con tutti i mezzi
possibili il popolo a difendere la capitale.




XIV.


Si comprende l’effetto che fece sulla popolazione di campagna e della
città la pubblicazione del manifesto reale e la predica dei preti e dei
frati nelle chiese e per le piazze.

Si è veduto qual fosse lo spirito del ceto medio e illuminato di
Napoli, da ciò che abbiamo raccontato in proposito dell’arresto dei
giacobini e delle esecuzioni di Emmanuele de Deo, di Gagliani e di
Vitagliano; ma tutta la classe del lazzaroni, vale a dire la più
numerosa, centomil’anime all’incirca, erano per il re, e consideravano
i francesi come empii, eretici e scomunicati.

Il manifesto del re non era che un appello al brigantaggio; ora il
brigantaggio è cosa nazionale negli Abruzzi, nel Masico e nella Terra
di Lavoro. Ognuno prese il fucile, la scure ed il coltello e si mise in
campagna, senza altro scopo che la distruzione, senz’altro eccitamento
che il saccheggio, secondando il suo capo senza obbedirgli, seguendo il
suo esempio e non i suoi ordini. Masse di soldati erano fuggiti innanzi
ai francesi; ed ora uomini isolati movevano contro di loro; una armata
si era dispersa, un popolo usciva dalla terra.

Quanto avveniva poi in città; era una confusione spaventevole quella
di vedere tutta una classe intiera della società, il mezzo ceto,
circa un terzo di Napoli, quelli che si dicevano patriotti e gli
altri chiamavano giacobini, stavano rinchiusi temendo di esporsi,
mostrandosi, al furor del popolo, che la sola vista di un pantalone o
di una testa acconciata alla Tito bastava ad aizzarlo al suo più alto
grado.

Si formarono degli assembramenti su tutte le piazze al largo Castello,
al largo della Trinità, al largo delle Pigne, al mercatello, al vecchio
mercato, a largo di Palazzo; infine dovunque vi era spazio eravi un
palco, e su di esso predicava un frate col crocifisso in mano.

Gli assembramenti ingrossavano enormemente; un lazzarone s’improvvisava
capo, si metteva alla loro testa, e percorreva le vie di Toledo, di
Chiaia, di S. Lucia, gridando: Viva il re! morte ai giacobini! morte
ai francesi! Innanzi a questi attruppamenti, tutte le botteghe, tutte
le finestre si chiudevano; e giunta la sera, si era in dicembre con un
tempo piovoso e freddo, si accesero grandi fuochi, e intorno ad essi si
passava la notte, bevendo, cantando ed urlando.

La regina, guardando spesso dalle finestre, si spaventava anch’essa di
questa tempesta, che contribuiva a sollevare, senza sapere, se sotto
quegli impeti burrascosi non si sarebbe rovesciato anche il trono.

Però alla vista di quella sollevazione generale, alle notizie che
arrivavano dalle provincie, il re riprendeva un po’ di coraggio.
Lasciava intravedere la possibilità di organizzare tutti i mezzi di
resistenza che il fanatismo metteva a sua disposizione, e di aspettare
i francesi.

I contadini continuavano a far miracoli di fanatismo, e gli ufficiali
dei prodigi di viltà.

Tschudy, vecchio colonnello svizzero che comandava a Gaeta, ne aveva
aperte le porte, malgrado la sua riputazione di imprendibile.

Civitella del Tronto, fortezza situata in cima ad un monte
inaccessibile, era difesa da uno spagnuolo, di cui non mi ricordo più
il nome: dopo dieci ore di assedio, si arrese prigioniero di guerra con
tutta la guarnigione.

Il comandante Pricard, governatore del forte di Pescara, non aspettò
nemmeno che l’assedio fosse incominciato: si arrese alle prime
dimostrazioni ostili.

Ma in cambio, i contadini abbruciavano, scannavano, massacravano tutto
quanto cadeva loro nelle mani; si erano impadroniti della città di
Teramo, che avevano ripreso ai francesi; il ponte fortificato di Teramo
era caduto nelle loro mani; avevano spezzato la catena dei battelli che
lo componevano, ed i battelli dispersi erano andati per la corrente.
Una massa di volontari era uscita da Terra di Lavoro; percorreva la
linea del Garigliano abbrucciando i ponti, imboscandosi intorno alle
strade, assassinando i messaggieri, gli uomini isolati, e fin anche
piccoli distaccamenti di soldati.

D’altra parte; se Gaeta, Civitella del Tronto e Pescara si erano rese,
Capua teneva fermo, e Macdonald aveva sofferto un rovescio sotto le
sue mura; Duhesme era giunto innanzi a Capua con due ferite ancor
sanguinose, il generale Maurizio Mathieu ebbe spezzato il braccio da un
colpo di fuoco; il colonnello d’Arnaud era stato fatto prigioniero, il
generale Boisregard era stato ucciso e Championnet usciva tutto ansante
dalla Terra di Lavoro, pronunziando i nomi ancora ignoti di fra Diavolo
e di Mammone, che più tardi dovevano diventar tanto celebri.

Il prestigio si dileguava. Se i francesi erano sempre invincibili, per
lo meno, non erano invulnerabili.

Dicevasi, che l’armata francese raccoglievasi intorno a Capua, non già
coll’intenzione di prenderla; ma per prepararsi una ritirata onorevole
in mezzo a popolazioni sollevate.

Tutte queste notizie davano coraggio a Napoli, il re era talmente
amato, che non soltanto compensava l’impopolarità di Acton e della
regina, ma la faceva anche dimenticare. Quella fuga del re che gli
aveva fatto un torto immenso presso tutte le persone intelligenti, lo
aveva reso ancor più caro a’ lazzaroni, i quali andavano ripetendosi
a vicenda che il re, tradito dalla sua armata, era venuto a rifugiarsi
in mezzo ai suoi cari lazzaroni. D’altra parte le persone intelligenti
del partito del re, ve ne era ancora un certo numero a Napoli, dicevano
che vi erano ancora quarantamila uomini almeno nelle mani di Mack e di
Damas, che Naselli poteva ricondurne otto o dieci mila dalla Toscana,
che le bande armate si erano sollevate all’appello del re, e correvano
la campagna, e poteva ammontare a quindici mila uomini almeno. Tutta
questa forza riunita a sessantacinque mila uomini almeno, appoggiata
ad una città di cinquecento mila abitanti, ed alla triplice flotta
inglese, portoghese e napolitana.

Era evidente che in questo oceano di uomini, dieci o dodici mila
francesi sarebbero tosto dispersi ed inghiottiti.

Ma ciò non rassicurava ancora la regina, sentiva che oltre all’odio che
aveva per i napolitani, i napolitani anch’essi l’odiavano, Acton aveva
con essa il sentimento di quest’odio, inoltre fin dai primi momenti
la paura si era impossessata degl’inquisitori di Stato, Castelcicala,
Vanni, Guidobaldi, si sentivano circondati da vendette segrete, ognuno
tremava per l’avvenire e creava un progetto di fuga.

Nelson che rispondeva di tutto in Sicilia, non rispondeva di nulla a
Napoli.

Ma se il re fosse rimasto a Napoli nessuno avrebbe osato di lasciarlo.

Bisognava dunque decidere il re con qualche spettacolo terribile che lo
spaventasse, e lo cacciasse per così dire da Napoli.

Non posso affermar nulla di quanto sono per raccontare, se vi fu
delitto, fu deliberato ed eseguito fra la regina ed Acton; io non ne so
nulla, e quasi direi che non ci credo nemmeno.

Ho già detto una parola dell’imbarazzo che cagionava Ferrari per aver
consegnato al re un dispaccio falso.

Se in simili circostanze il re venisse a sapere che in un modo o
nell’altro era stato ingannato, la sua collera poteva diventare
terribile.

Ho già raccontato che alla sera del 19 era giunto un dispaccio da
Vienna. La regina che stava in guardia su tutto ciò che veniva da
quella parte, lo sorprese.

Se questo dispaccio fosse giunto nelle mani del re, gli avrebbe
rivelato tutto. L’imperatore scrivevagli che agendo prematuramente
aveva tradito la causa dell’Europa, e meritava di essere abbandonato al
suo destino.

Da quel momento Ferrari, che non era che giudicato, fu condannato, e la
sua morte fu destinata a spaventare il re.

Lo ripeto, in tutto questo affare, non parlo che per quanto ho udito
a dire. Io pensava in silenzio su questo fatto, non potendo dire con
certezza la verità, come in altre cose in cui presi parte.

Credo di aver parlato di un certo Pasquale De Simone, che la regina
teneva al suo servizio, e per questa ragione era chiamato lo sbirro
della regina.

Egli ricevette, si dice, cinque mila ducati, con ordine di spargerne
una parte fra il popolo, e particolarmente fra gli uomini del porto ed
i marinai.

Si trattava di disfarsi d’un uomo che Pasquale de Simone indicava alla
collera del popolo, trattandolo da giacobino.

Al venti, verso le dieci di mattino, Ferrari usciva di palazzo, latore
di un viglietto del capitano generale per lord Nelson.

Pasquale de Simone lo aspettava alla via del Piliero, vale a dire
sull’angolo della banchina in faccia al molo.

Con un segno, fece conoscere ai marinai, indicando Ferrari, che era
l’uomo in questione.

I marinai risposero con un altro segno che avevano compreso.

Ferrari senza alcun sospetto, saltò dalla banchina in una barca, ordinò
ai due marinai di condurlo a bordo del bastimento di Nelson.

Costoro vollero essere pagati anticipatamente.

Ferrari diede loro quattro carlini: era pagarli ad esuberanza.

I marinai pretendevano una piastra.

— Badate a quel che fate, disse Ferrari, io sono corriere di S. M.

— Tu? rispose un marinaio incoraggiato da un segno di Pasquale De
Simone: ti conosciamo, sei un giacobino.

Appena fu pronunziata questa parola, che era il segnale
dell’assassinio, che venti coltelli brillarono, e l’infelice Ferrari
cadde tutto crivellato dai colpi.

Il giorno prima vi era stata una grande dimostrazione, che aveva poco
confermato il re nella sua risoluzione di rimanere a Napoli.

Una folla immensa di popolo si era riunita sulla piazza del palazzo
gridando, Viva il re! morte ai giacobini! chiedendone i nomi per
massacrarli dal primo fino all’ultimo, facendo comprendere che una
volta sterminati i nemici interni, era facile distruggere i nemici
esterni.

A queste grida furiose di amore e di odio mandate dalla moltitudine,
il re si era mostrato al balcone ringraziando il popolo col gesto e
colla voce ed aveva mandato il Principe Pignatelli in mezzo a quella
moltitudine colla missione di parlare ai suoi capi, e dir loro che
la partenza del re, di cui si era parlato prematuramente era lungi
dall’essere una cosa decisa, e che secondo ogni probabilità, se il re
era sicuro di essere sostenuto dal popolo, egli resterebbe.

E il popolo aveva gridato:

— Per Dio e pel re siamo pronti a farci ammazzare dal primo all’ultimo!

Questa dimostrazione aveva molto spaventato la regina e tutto il
partito della fuga.

Il giorno dopo, alla stessa ora, il re intese questo stesso sordo
rumore, accompagnato da quegli urli e clamori, in cui dà la moltitudine
di ogni paese e particolarmente quella di Napoli. Egli credette ad una
dimostrazione inoffensiva, ed almeno offensiva soltanto in parole, e si
pose come di solito al balcone.

La folla veniva questa volta dalla parte del teatro S. Carlo, e
trascinava qualche cosa di informe che il re cercava invano di
distinguere.

Si udivano queste grida:

— Il giacobino! a morte il giacobino!

Il re cominciò a comprendere che questo oggetto informe, seminudo e
insanguinato, trascinato nel fango, poteva essere un uomo.

Ma il corpo di quest’uomo, se in fatti era un corpo, non poteva essere
che quello di un nemico. E il re Ferdinando era un poco dell’avviso del
re Carlo IX, che diceva visitando il cadavere dell’ammiraglio: — «Il
cadavere di un nemico non puzza mai.»

Accolse dunque la folla col suo sorriso abituale ma per rispondere
convenientemente a questo sorriso, la folla solleva il cadavere
in piedi: il re dopo un momento di esitazione riconobbe Ferrari, e
mandò un grido lasciandosi cadere, colle mani sugli occhi, su di un
seggiolone.

La regina aspettava questo momento, entrò, prese il re per un braccio,
e lo condusse quasi a forza alla finestra.

— Vedete, gli disse, si comincia dai nostri servitori, e si finirà con
noi; ecco la sorte che è serbata a voi, a me e ai nostri figli.

— Date gli ordini, e partiamo, gridò Ferdinando chiudendo la finestra e
rifugiandosi nel suo appartamento.

La partita era guadagnata.


  FINE DEL SESTO VOLUME.




NOTE:


[1] Posti fuor dalla legge.

[2] Non si deve dimenticare che è la moglie dell’ambasciatore
d’Inghilterra che parla, l’amica frenetica della regina Carolina.

[3] Giuseppe Buonaparte abitava nel Palazzo Corsini.

[4] I love you. — Vi amo.

[5] Il principe Leopoldo.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE DI EMMA LYONNA, VOL. 6/8 ***


    

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Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s
goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg™ and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state
visit www.gutenberg.org/donate.

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
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Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of
volunteer support.

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the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not
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