Memorie di Emma Lyonna, vol. 5/8

By Alexandre Dumas

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Title: Memorie di Emma Lyonna, vol. 5/8

Author: Alexandre Dumas

Release date: May 14, 2025 [eBook #76093]

Language: Italian

Original publication: Milano: Daelli e C, 1864

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This book was produced from scanned images of public domain material from the Google Books project.)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE DI EMMA LYONNA, VOL. 5/8 ***


                                MEMORIE
                                   DI
                              EMMA LYONNA


                                   DI
                            ALESSANDRO DUMAS


                 UNICA EDIZIONE AUTORIZZATA IN ITALIA.
                                Vol. V.



                                 Milano
                         G. DAELLI e C. EDITORI
                               MDCCCLXIV.




             Proprietà letteraria — G. DAELLI e C. Editori.

                       STEREOTIPIA G. DASSI E C.

                           TIP. GUGLIELMINI.




MEMORIE

DI

EMMA LYONNA




I.


Conoscete la risposta che fece Desdemona a questa dimanda del Senato di
Venezia:

— Come mai voi, giovane, bella e nobile, avete amato quest’uomo che non
è nè nobile, nè giovane, nè bello?

E Desdemona risponde:

— Egli mi raccontava i suoi viaggi, i suoi pericoli, i suoi
combattimenti, ed io me ne stava per ore intiere come estatica vicino a
lui.

Così fu presso a poco, non dirò del primo sentimento d’amore, ma nel
primo sentimento di simpatia che m’ispirò Nelson.

Era un marinaio dalla parola dura, una specie di John Bull, tipo
simbolico del popolo inglese, che aveva immensi desiderj di ambizione,
e che, nato lungi dal trono, fu abbagliato dai raggi che emanavano da
esso mano mano che vi si avvicinava.

Ecco la sua storia, tale quale la raccontò una sera a me ed alla regina.

Era nato il 29 settembre 1758 in un piccolo villaggio della contea di
Norfolk, e avea trentacinque anni all’epoca che lo conobbi.

Non aveva ancora fatto l’assedio di Teneriffa e la campagna di Corsica,
di modo che non aveva ancora perduto nè il braccio destro, nè l’occhio
sinistro.

Era figlio di un semplice pastore. Il villaggio in cui nacque si
chiamava Barnham Thospes.

Sua madre morì ancor giovane, lasciando undici figli a carico del
povero ministro del villaggio.

Il padre li allevò con economia e con quella dolce affezione che
lega fra loro i membri di una famiglia numerosa e povera; egli fece
l’educazione tanto dei maschi che delle fanciulle, vi perdette la
salute, e fu obbligato per ristabilirsi di recarsi alle acque di Bath.

Il primogenito della famiglia, Guglielmo Nelson, in assenza del padre
prese la direzione della piccola Colonia.

La povera famiglia aveva un parente, un fratello della madre che si
trovava a Walpole, parentela un po’ lontana ma riconosciuta; questo zio
era capitano di vascello e si chiamava Maurizio Suckling.

Un giorno, volle il caso, — a che si collegano mai gli avvenimenti
degli uomini ed anche dei regni? — volle il caso che, durante le feste
di Pasqua, il giovane Orazio Nelson leggesse in un giornale che il suo
zio aveva ottenuto il comando del _Reasonable_ vascello di 64 cannoni.

— Fratello, gridò egli in atto di stupore a Guglielmo, scrivete,
vi prego, senza perdere un momento, a nostro padre, e pregatelo di
dimandare a mio zio Maurizio di lasciarmi imbarcare con lui.

Il giorno stesso partì la lettera.

Ed il padre, leggendola, esclamò:

— Bisogna che questa sia la sua vocazione; davvero sarei sorpreso,
s’egli non s’arrampicasse _sull’albero più alto._

Effettivamente Nelson toccò la cima.

La proposizione fu accettata da Maurizio Suckling, ed il piccolo Orazio
Nelson, debole come un ramo di salice, fu imbarcato sul _Reasonable_.

Orazio Nelson fece due campagne su questo bastimento ed una terza
sul _Triumph_, e questo legno essendo disarmato, s’imbarcò su di un
bastimento mercantile.

Al suo ritorno trovò suo zio sul Tamigi direttore di una scuola pratica
di aspiranti, fondata sullo stesso Triumph sul quale aveva navigato. Si
fece ricevere a questa scuola, ma questa specie di noviziato d’acqua
dolce riuscendogli insopportabile, si arruolò volontariamente per far
parte di una spedizione alle scoperte del polo nord.

Allora salì a bordo del _Race Horse_[1]. Arrivato all’estremo limite
dell’Oceano, il bastimento rimase in mezzo ai ghiacci, in una delle
sue spedizioni sul mare divenuto completamente solido. Egli incontrò
un orso e l’attaccò pel primo, benchè non fosse armato che di un solo
coltello. Preso fra le zampe del suo terribile avversario, era quasi
per soffocare quando uno de’ suoi compagni scaricò a bruciapelo il suo
fucile nell’orecchio dell’orso e l’uccise.

Aveva sedici anni, ed era ancora così debole che appena ne mostrava
dodici.

— Come mai voi che non siete tanto robusto come credete, chiesegli il
capitano, avete attaccato un tale avversario?

— Voleva riportarne la pelle a mio padre ed alle mie sorelle, rispose
il giovinetto.

Le dure prove alle quali il mare sottopone i suoi amatori svilupparono
più tardi le forze, e ristabilirono la salute di Nelson.

Liberata dai ghiacci la spedizione si trovò in mare aperto, Nelson
passò allora sul _Sea Horse_[2] bastimento leggiero di venti cannoni e
navigò pel mare dell’India: dopo due anni di stazione sulle coste, la
cui atmosfera è avvelenata, il giovane marinaio ritornò in Inghilterra
in uno stato di deperimento che si era detto mortale.

Bastarono sei mesi per ritornarlo in salute. Approfittò di questa
convalescenza per mettersi in istato di dare gli esami, dai quali sortì
cogli onori del trionfo e col grado di sottotenente di marina. Fece
allora le guerra contro l’indipendenza d’America, difese la Giamaica
contro l’ammiraglio D’Estang, passò nell’America del Sud, e vi rinnovò
le gesta dei suoi fratelli della costa, la di cui storia è arrivata
sino a noi con tutto il prestigio d’un romanzo.

Un giorno, durante le sue spedizioni nelle foreste del Perù, si
addormentò a piedi di un albero, ravvolto nel suo mantello.

Un serpente vi s’introdusse.

Un movimento che fece dormendo disturbò il rettile che lo morse; era un
serpente nero della specie più pericolosa; il contraveleno applicato a
tempo internamente ed esternamente dagli indigeni lo salvò. Ma per la
seconda volta ritornò morente in Inghilterra.

Pure guarì; ma non completamente, e per tutta la vita si risentì di
questo avvelenamento. Tre mesi dopo il suo ritorno, per raccomandazione
di Lord Cornwallis, ottenne il comando di un brick di ventisei cannoni,
col quale fece una crociera nel mare del Nord, e studiò le coste della
Danimarca.

Nella primavera Nelson fu inviato nell’America del Nord. Inseguito e
circondato da quattro fregate francesi, scampò spingendo il suo brick
in un passo fin allora creduto impraticabile.

Arrivò al Canadà.

Fu là che Nelson doveva amare per la prima volta, e la violenza di
questa prima passione potè dare la misura dell’influenza che l’amore
avrebbe sulla sua vita. Per non separarsi da quella che amava, Nelson
voleva dare la sua dimissione, rinunziare al suo impiego, e rinviare
il suo bastimento in Inghilterra. I suoi uffiziali che l’adoravano, lo
credettero pazzo, e risolsero di guarirlo dalla sua pazzia. Finsero di
obbedire ai suoi ordini, e si allontanarono, e ritornando alla notte,
penetrarono nella sua camera. Lo legarono, e impossessatisi di lui, lo
portarono a bordo, levarono l’ancora, e non gli resero la libertà se
non quando fu in alto mare.

Questa passione non si estinse che per far luogo ad un’altra: al suo
ritorno in Inghilterra s’innamorò di Mistress Nisbett giovane vedova di
diciannove anni, e la sposò.

Si prese la sua giovane donna ed un grazioso fanciullino, per nome
Josuach, che aveva avuto dal suo primo matrimonio nella casa di suo
padre morente, ed una seconda volta lo si credette perduto per la
marina.

Difatti ci volle niente meno che la dichiarazione di guerra della
Francia con l’Inghilterra, per toglierlo da quella dolce e tenera
oscurità nella quale si era rifugiato. L’ammiragliato andò a cercarlo
sotto il tetto coniugale e gli diede il comando dell’Agamennone, sul
quale raggiunse l’ammiraglio Hood nel mediterraneo. Arrivò a tempo per
prender parte alla presa di Tolone, dopo la quale, come si vedrà, fu
inviato a Napoli per cercare rinforzi.

Io dissi come era stato ricevuto dal re e dalla regina.

Una volta deciso alla guerra, il re non poteva desiderare una notizia
migliore che quella recata da Nelson.

Colla querela del cittadino Mackau si erano completamente ed
apertamente inimicati colla Francia. Il ladro era stato arrestato,
sottoposto a giudizio, ed assolto benchè le prove della sua
colpabilità fossero patenti. L’ambasciatore, come la regina aveva
potuto assicurarsene colla lettura delle sue carte, aveva riconosciuto
tutta la mala fede della Corte di Napoli. Egli aveva potuto vedere
la flotta a partire, aveva potuto vedere ad arrivare Nelson; l’eco
dei complimenti che gli erano stati fatti dal re e dalla regina aveva
risuonato sino all’ambasciata francese; finalmente l’ambasciatore aveva
ricevuto l’ordine dal suo governo di lasciar Napoli, egli era partito
indignato contro il governo napolitano ed il governo pontificio,
conducendo seco la figlia e la vedova di Basseville assassinato a Roma,
l’una che piangeva un padre e l’altra un marito.

Dal terrazzo del palazzo lo vedemmo imbarcarsi su di una nave;
ed anch’egli alla sua volta, scorgendo un gruppo di donne negli
appartamenti reali, suppose che vi si trovasse la regina fra di esse, e
stese il braccio verso di noi in segno di minaccia.

Io non vidi che una sola cosa nel gruppo che accompagnava
l’ambasciatore. Erano quelle due donne vestite di nero, il cui
lutto gridava vendetta più altamente che il gesto di minaccia
dell’ambasciatore.

Nelson era inebbriato dell’accoglimento che gli era stato fatto dal
re, dalla regina e da sir William. Figlio del popolo, nato lungi dalla
Corte, sentiva, come me, più profondamente delle persone nate in una
condizione superiore, il fascino che trae seco un sorriso reale. Ecco
la lettera che scriveva a sua moglie Il 14 Settembre 1793:

      «A Mistress Nelson.

  «Le notizie che ho portato sono state accolte con una grandissima
  soddisfazione. Dopo essere venuto a farmi visita pel primo a bordo
  dell’_Agamennone_, il re ha mandato due volte a prendere notizie
  della mia salute. Egli chiama gl’Inglesi i salvatori d’Italia e
  particolarmente i salvatori del suo reame; del resto ho lavorato
  per lord Hood con uno zelo che nessuno ha spinto più oltre, ed io
  gli porto la lettera più splendida che mai sia stata scritta dalle
  mani di un Re.

  «L’ho ottenuta grazie a sir William Hamilton ed al primo ministro
  che è inglese. Lady Hamilton è stata adorabilmente amabile per
  Josnah.

  «In quanto a lei è una giovane signora di modi eccellenti, e che
  fa onore al rango al quale è stata elevata. Condurrò di qua 6000
  uomini di rinforzo per lord Hood. Ricordatemi alla memoria del
  mio caro padre, a quella di lord e di Lady Walpole, e credetemi il
  vostro affezionatissimo.

                                                    ORAZIO NELSON.»

Durante il tempo che Nelson fu a Napoli, dimorò all’ambasciata. Dissi
già la specie di impressione che egli fece su di me: più tardi mi
confessò più volte che dal momento in cui mi aveva veduto egli mi
aveva amato, ma durante questo primo viaggio, se la cosa è vera, i suoi
sguardi soltanto parlavano per lui, ed ancora con sì poca risoluzione,
che partì lasciandomi in dubbio se aveva per me dell’amore, oppure
semplicemente una profonda affezione fraterna.

Da parte mia il sentimento che provai, se talvolta usciva dal limiti
dell’amicizia, si concentrava interamente sul suo bel giovinetto figlio
di Mistress Nisbett che portava a tredici o quattordici anni l’uniforme
del primo grado della marina. E quando ascoltava, seduta sul divano,
col braccio intorno al collo di Josuach, il racconto dei pericoli e dei
combattimenti del suo patrigno, sir William Hamilton, sempre immerso
nella antichità, si divertiva di paragonarmi alla regina di Cartagine
che accarezzava Ascanio, ascoltando i racconti di Enea.




II.


Una volta distolta dalle terribili preoccupazioni che le cagionò
l’accusa di sua sorella, colla presenza di Nelson a Napoli, lo spirito
ed il cuore della regina ritornarono, appena partito il capitano
inglese, verso la Conciergerie, come l’ago calamitato che per un
istante oscilla accidentalmente, ritorna invincibilmente al polo.

Il processo durante questo tempo avea preso una via rapida e fatale.
Rinviata al tribunale rivoluzionario e trasportata alla Conciergerie
il 1. agosto, Maria Antonietta aveva sostenuto un interrogatorio al 12
ottobre, ed al 16 era stata condannata a morte e giustiziata.

Benchè la regina di Napoli supponesse bene che la Convenzione non
avrebbe perdonato a Maria Antonietta, oggetto principale del suo
odio, il colpo che provò quando apprese la sua esecuzione non fu meno
terribile.

Udendo la morte di Luigi XVI, il dolore di Maria Carolina fu quello
di una donna; ma alla notizia di quella di sua sorella, non fu più un
abbattimento, fu collera, e collera di tigre.

Cadde in convulsioni accompagnate da grida e da minacce, in mezzo
alle quali i suoi lineamenti si alterarono in modo da dubitare che ne
avrebbe per sempre perduta la bellezza.

Come per la morte di Luigi XVI, si ordinò un lutto pubblico, e
pubbliche preci in tutte le chiese, e processioni funebri per le vie.
Infine la regina si chiuse nel suo appartamento, e rifiutò di ricevere
chiunque, eccettuata me sola.

Negli otto giorni che seguirono la notizia fatale non l’abbandonai
un’ora, dormiva nella sua camera, mangiava con lei, o piuttosto, —
diciamolo, — per otto giorni nè dormì nè prese cibo; finalmente le
riuscì di piangere, e si sentì un poco sollevata dalle lagrime. Ma in
questi otto giorni aveva fatto, e mi aveva fatto fare mille giuramenti
di vendetta.

Come si vendicherebbe, essa non lo sapeva ancora; come l’aiuterei
a vendicarla essa l’ignorava; ma, come faceva Amilcare al giovane
Annibale, mi metteva la mano sull’altare gridando: Vendetta, vendetta.

In quanto al re, egli parve molto commosso, e specialmente molto
spaventato nel primo e nel secondo giorno. Ma al terzo, sotto pretesto
di distrarsi, partì per la caccia e non apparve per una settimana.

Fu in questo momento che l’odio avvicinò la regina al ministro Acton:
tre volte al giorno lo mandava a chiamare, gli chiedeva le notizie
della guerra, e nel lasciarlo esclamava:

— Ma voi che siete un uomo trovatemi un mezzo per vendicarmi!

Acton la consolava allora per quanto poteva essere consolata, dicendole
in quali sanguinose convulsioni si agitava la Francia, raccontandole
quali ecatombe la ghigliottina ammucchiava sulla piazza pubblica:
i ventuno convenzionali decapitati al 31 ottobre; il duca d’Orléans
che li seguì al 6 novembre; la convenzione che decreta al 10 che al
culto cattolico è sostituito il culto della Ragione, al quale era
stata dedicata la chiesa di Nostra Donna a Parigi; Bailly che alla sua
volta saliva il patibolo l’11; finalmente le prigioni di Parigi che
rigurgitavano di prigionieri.

Ma un giorno lo vidi entrare pallido, coi denti serrati o frementi
di rabbia; la regina nel vederlo comprese che portava qualche notizia
fatale.

Essa si alzò in piedi, e stringendomi violentemente la mano che mi
teneva quando il generale era entrato:

— Che vi è ancora? dimandò.

— Vi è, signora, rispose Acton, che i repubblicani hanno ripreso Tolone.

— Tolone! esclamò la regina impallidendo. Hanno ripreso Tolone!
E se non sono otto giorni che voi mi dicevate d’aver ricevuto
dall’ammiraglio Hood una lettera in cui vi diceva: — «Se i Giacobini
riprendono Tolone, mi faccio Giacobino anch’io!»

— Ebbene, non gli rimane che di cacciarsi fino alle orecchie il
berretto rosso.

— Ma come ciò è possibile! — Secondo voi le genti che assediavano
Tolone erano degli imbecilli. — Cartaux, il generale Cartaux, dicevate,
era incapace di fare l’assedio di una città di terz’ordine.

— Ve lo ripeto ancora, signora, ma per disgrazia Cartaux è stato
richiamato, e Dugommier andò a sostituirlo. Ma non sono i generali che
hanno ripreso Tolone; a quanto pare, sarebbe stato un giovane uffiziale
interamente ignoto che fa la sua prima campagna.

— E che si chiama?

— Buonaparte.

— E chi è questo Buonaparte, un italiano?

— Sì e no.

— Come sì e no?

— È un Córso.

La regina pestò i piedi.

— Ripreso Tolone! esclamò, e stette per un momento silenziosa,
corrugando le sopracciglia e colle braccia convulse.

— E non avete altre notizie su questo Buonaparte?

— Ho detto tutto quello che ne so, signora. La notizia è stata portata
da un brik di commercio bloccato nel porto e che uscì colla flotta
inglese e la nostra; eccellente camminatore, la precedette, e preso
da un colpo di vento in vicinanza dell’isola d’Elba, è venuto in tre
giorni dalla Pianosa a Napoli.

— Chi avete interrogato?

— Il capitano.

— Non potrei vedere quest’uomo?

— Nulla di più facile, ma mi disse tutto ciò che sapeva.

— Quando credete di avere altre notizie?

— Questa sera o dimani mattina al più tardi.

In questo momento il generale rivolse macchinalmente gli occhi verso il
mare.

— Guardate, signora, diss’egli, ecco un bastimento che viene verso
di noi a gonfie vele; mi sembra di vedere sull’orizzonte degli altri
bastimenti che lo seguono.

— Prendi il cannocchiale, Emma, disse la regina.

Difatti la regina aveva chiesto un buon cannocchiale al capitano
Nelson, che le mandò il migliore dell’_Agamennone_.

Il generale Acton lo prese, ed avendolo messo al suo punto, lo fissò
sul bastimento che appariva sull’orizzonte.

Poi ricacciando col palmo della mano i tubi l’un dentro l’altro:

— Od io m’inganno di molto, disse, o prima di due ore avremo notizie
esatte, e da un uomo che avrà nulla perduto di ciò che è avvenuto.

— Voi avete riconosciuto il bastimento? domandò la regina.

— Credo che sia la Minerva. — Capitano Francesco Caracciolo.

— Ah! disse la regina, se è lui, prevenitelo che desidero di parlargli
e di parlargli per la prima; voi lo accompagnerete, generale, se lo
volete, ma che venga subito qui.

Il generale fece un inchino ed uscì.

Noi restammo sole; la regina riprese il cannocchiale e seguiva cogli
occhi la corvetta fino a quando entrò nel porto; ma prima che fosse
entrata aveva scambiato dei segnali col castel dell’Uovo, di modo che
il capitano non attese nemmeno che l’áncora toccasse il fondo, per
scendere nella lancia e remigare verso la darsena.

Da lontano si vedevano cinque o sei bastimenti che sembravano più o
meno avariati, e che venivano, secondo le avarie sofferte, più o meno
lentamente.

Dopo aver perduto di vista la scialuppa in cui era il comandante
della corvetta, gli occhi della regina si erano rivolti sulla porta
d’entrata.

Dopo dieci minuti udimmo dei passi che si avvicinavano rapidamente.

La porta si aperse, ed il generale Acton annunziò egli stesso:

— Il capitano Francesco Caracciolo.

Il capitano entrò, fece un profondo saluto di cui ebbi tutta la libertà
di prendere la mia parte se mi conveniva, e attese l’interrogatorio
della regina.

— Eh! buon Dio! signore, disse, che mi si dice? quest’infami di
Giacobini ci hanno ripreso Tolone, non è vero?

— Bisogna bene che sia vero, signora, rispose il principe Caracciolo
con un tristo sorriso, perchè io son qua.

— E si è reso così Tolone, senza combattere?

— Si è combattuto, signora, perchè noi abbiamo avuto due cento morti e
quattro cento prigionieri.

— Allora spiegatemi questa disfatta, signore, perchè è una disfatta,
non è vero?

— In tutto il significato della parola, ed in tutta la realtà della
cosa.

— Ma chi ha potuto mutare l’aspetto degli affari in sì pochi giorni?

— Un uomo di genio, signora.

— Quel Buonaparte?

— Sì, quel Buonaparte.

— Che ha dunque fatto?

— Ha conosciuto il solo punto in cui Tolone era attaccabile, l’ha preso
alla baionetta e di là ha diretto il suo fuoco sopra Tolone.

— E poi, e poi.... continuate; vedete bene che vi ascolto, signore.

— Ebbene, signora, dopo quando si videro gli obici incendiare la
città, quando si videro i due forti di Leguilette e di Balagnier a
congiungersi col piccolo Gibraltar per fulminare Tolone, la discordia
si è messa fra gli Inglesi, gli Spagnuoli ed i Napolitani. Gl’Inglesi,
pronti ad abbandonare la città senza farne parte nè agli Spagnuoli
nè a noi, misero fuoco all’arsenale, ai magazzini della marina, ed
ai bastimenti francesi che non poterono condurre, e cominciarono ad
imbarcarsi sotto il fuoco delle batterie francesi, abbandonando quelli
che avevano tradito la Francia per essi, e che li tradivano alla lor
volta. Allora, signora fu una confusione, una fuga, uno sbaraglio;
gl’Inglesi fecero tirare sui realisti che si arrampicavano sui fianchi
dei loro vascelli per fuggire alla vendetta dei patrioti. Io non ho
creduto di dover fare come essi, ho menato a bordo una ventina di
realisti e fra questi il governatore della città, il Conte Maudit. Io
condussi questi infelici, e che muoiano almeno di fame qui, se il re
non ha pietà di loro, piuttosto che morire là fucilati e decapitati.

— Voi avete fatto bene, signore, esclamò la regina, ed i vostri
realisti non morranno di fame, ve lo dico io, perchè se il re ricuserà
di dar loro del pane, venderò i miei diamanti per dargliene io.

Caracciolo fece un inchino.

— Io non so, signore, continuò la regina, se la mia influenza andrà
sino al punto di farvi nominare ammiraglio. Ma in ogni caso dimanderò
al re ed al signor Acton che questo favore... mi sbaglio... che questa
ricompensa vi sia accordata.

La regina fece un movimento colla mano. Il principe fece un inchino ed
uscì.

— Che ne dite voi di ciò, signore? chiese la regina ad Acton.

— Dico, signora, che il principe Caracciolo non ama gl’inglesi, da
ciò viene la cattiva parte che fa rappresentare ai miei compatrioti in
questa faccenda.

— Il che vuol dire che non sarete del mio avviso quando si discuterà in
consiglio se il grado che dimanderò pel capitano Caracciolo gli verrà
accordato.

— Vostra Maestà, disse Acton facendo un inchino, sa che sono sempre
del suo avviso; intanto Vostra Maestà non troverà male che dia senza
ritardo degli ordini perchè i vascelli e gli uomini che entreranno
in porto, siano fatti oggetto della cura e della sollecitudine del
governo.

— Fate, signore, fate; fate curare i feriti e gli ammalati, e dare
le ricompense a quelli che si sono bene condotti: noi non siamo una
potenza abbastanza grande per avere il diritto di essere ingrati verso
i nostri difensori.

Acton si ritirò.

Alla sera il re ritornò dalla caccia; verso le undici ore di sera la
regina si informò di ciò che aveva fatto e detto.

Aveva cenato molto tranquillamente; si era fatto contare a cena gli
avvenimenti di che si era avuto notizia: non disse nulla, e se ne andò
a letto.

A mezza notte la regina mi disse di accompagnarla. La vidi con istupore
a prendere un pugnale ed una matita nera, e quando le chiesi cosa
andava a fare:

— Vieni con me, mi disse, e lo vedrai.

La seguii pel corridoio sempre solitario pel quale il re veniva da lei,
ed essa andava dal re; arrivammo in un piccolo salotto che precedeva la
sua camera da letto.

Si fermò, e si pose ad ascoltare se non udiva rumore. Profondissimo
era il silenzio, e nella camera ove il re dormiva profondamente, ed
in quella del gentiluomo di servizio. La regina si avvicinò alla porta
della camera da letto di suo marito, vi conficcò il pugnale e dandomi
in mano la matita:

— Tu, di cui non conosce la scrittura, mi disse, scrivi intorno a
questo pugnale ciò che ti dirò.

Posai la punta della matita sul legno della porta.

— Scrivi: Tutte le mode vengono di Francia.

Io lo scrissi.

— Ora vieni, mi disse, vedremo se farà dimani colezione così bene come
ha cenato questa sera.




III.


La regina non si era ingannata. Il giorno seguente alle 8 del mattino,
il re, pallido per lo spavento, corse da lei in veste di camera,
le presentò con mano tremante il pugnale, e con voce interrotta dal
brivido convulsivo dei denti, le ripeteva le parole scritte da me sulla
porta.

La regina non parve maravigliata.

— Ciò prova, gli disse, che abbiamo dei Giacobini fino nel palazzo.

— Ma che fare! esclamò il re.

— L’opposto di quanto hanno fatto Carlo I e Luigi XVI, rispose la
regina; arrivare per i primi ed uccidere per non essere uccisi,

Non dimando meglio che di uccidere, disse il re, ma chi uccidere?

— I Giacobini.

— Ma, intendiamoci, disse il re, che nel suo buon senso grossolano non
poteva rendersi conto di ciò che voleva dire la regina colla parola
di Giacobini; in Francia i Giacobini sono straccioni acconciati con
un berretto rosso, che scrivono dei giornali schifosi e pieni di
bestemmie; qui invece i Giacobini sono uomini distinti, istruiti,
dotti, e invece di scrivere delle oscenità, come Duchesne, essi
scrivono buoni libri, od almeno i loro libri sono considerati come
tali. In Francia si chiamano Santerre, Collot d’Herbois, Hebert, e sono
mercanti di birra, commedianti fischiati, venditori di contromarche;
qui si chiamano Ettore Caraffa, Cirillo, Conforti, vale a dire che
appartengono alla prima nobiltà, alla medicina, all’avvocatura; vi sono
Giacobini da Giacobini, come vi sono persone da persone.

— Come, rispose la regina, vi sono giacobini da giacobini! più i
nostri sono istruiti, nobili e ricchi più sono da temere; in Francia
è il popolo che è cattivo, e la classe elevata è buona; qui è tutto al
contrario, il popolo è buono, ma è la classe elevata che è cattiva.

— Ah! bene, ecco che oggi è il popolo che è buono. E allora perchè
lo sprezzavate voi, questo popolo, quando mi applaudiva vedendomi a
mangiare i maccheroni, e quando saliva sullo scalino della mia carrozza
per tirarmi il naso e pizzicarmi le orecchie?

— Perchè non lo conosceva, oggi lo conosco e gli rendo giustizia.

— Ed anch’io gli rendo giustizia. Io almeno ho su di voi il vantaggio
di avergliela resa sempre. Sì, è vero, c’è del buono; ma per San
Gennaro c’è anche del cattivo.

— Infine non è poi un uomo del popolo, che ha conficcato il pugnale
nella vostra porta, e che vi ha dato questo avviso: — _tutte le mode
vengono di Francia!_ — questo non è dialetto, ma lingua italiana bella
e buona.

— Sono obbligato a convenirne. È tanto vero che era sul punto di far
arrestare il povero Riario Sforza che era di servizio questa notte; ma
vedendo il pugnale credo che sia diventato più pallido e più tremante
di me.

La regina andò alla finestra e l’aperse.

— Guardate, disse al re, mostrandogli i vascelli dispersi che si
erano veduti lontano il giorno prima, e che rientravano mutilati nel
porto l’uno dopo l’altro, come uccelli di mare a’ quali il piombo del
cacciatore avesse ferito le ali; — ecco uno spettacolo deplorabile
per l’umanità: non è vergognoso pel governo? — flotta disalberata,
è una calamità pubblica, e vedete tutto Napoli sulla banchina che
assiste a questo doloroso spettacolo. Ebbene, travestitevi se potete,
mischiatevi con tutta questa folla senz’essere riconosciuto, e vedrete
che tutti quelli vestiti di panno, chiunque vi sarà di ricco, di dotto,
di patrizio, li vedrete consolarsi dei nostri disastri; mentre al
contrario il seminudo, l’ignorante, il povero, lo vedrete a piangere,
lamentarsi e maledire i Francesi: lasciate che vengano i Francesi,
e tutti i vostri nobili, i vostri dotti, i vostri medici, i vostri
giuristi si uniranno a loro; — chi li combatterà sarà il popolo che si
farà uccidere per voi, i lazzeroni.

Hum! fece il re; quei furbaccioni là hanno tanto spirito per farsi
ammazzare per qualcuno o per qualche cosa! Diamine! — È così bello
starsi sdraiato colla testa all’ombra e co’ piedi al sole, e di non
svegliarsi che per ascoltare Pulcinella, giuocare alla morra, o vederlo
mangiare i maccheroni.

— Vengano i Francesi e vedrete.

— Bene, disse il re con una smorfia che non apparteneva che a lui.

I Francesi sono ancor lontani; bisogna che vengano per terra, perchè il
mare è degli Inglesi, che lor hanno incendiato a Tolone venti legni da
guerra, e condottine via quindici; poi sono occupatissimi a tagliarsi
il collo l’uno coll’altro. I cordiglieri hanno fatto tagliare la
testa ai girondini, i giacobini si occupano ora di tagliare le teste
dei cordiglieri; finalmente un partito qualunque che non conosciamo
ancora, farà tagliare alla sua volta le teste dei giacobini. Se Tolone
è ripreso, Magonza e Valenciennes non lo sono. Quelli della Vandea,
daranno loro matassa da dispanare, hanno guadagnato la battaglia di
Waltignier, ma dov’è Waltignier in Francia, credo dalla parte di Lilla,
è la via delle Fiandre e non di Napoli; d’altronde ho inteso dire che i
nostri alleati gl’Inglesi, hanno preso loro S. Domingo.

— E se vi dico ancora che non sono punto i giacobini di Francia che
temo, signore, sono quelli di Napoli.

— Ebbene, ma quelli di Napoli, cara maestra; voi avete Medici
per fargli arrestare, avete Vanni, Guidobaldi e Castelcicala per
giudicarli; avete mastro Donato per prenderli; io ve li abbandono,
fatene quello che volete: avrei molto caro di conservarmi Cotugno, che
è un buon medico e che conosce il mio temperamento, ma tutto il resto,
i vostri dotti, i vostri uomini di legge, i vostri nobili, i vostri
Conforti, i vostri Pagano, i vostri Caraffa, non darei per loro una
presa di questo buon tabacco di Spagna che mi manda Carlo IV. — Ah! a
proposito, sapete voi una notizia? Ho confrontato il mio giornale di
caccia col suo, ed ho ucciso da gennaio di quest’anno ad oggi, vale a
dire in un anno meno qualche giorno, un terzo più di lui.

— Ve ne faccio i miei complimenti più sinceri, disse la regina alzando
le spalle, è una occupazione piena d’interesse, nel momento che si
taglia la testa al re Luigi XVI ed alla regina Maria Antonietta, quella
di andare a caccia da mattina a sera.

— Signora, se non fossi mai andato a caccia, credete voi che ciò
avrebbe impedito ai rivoluzionari di tagliar loro la testa, e quando
non andassi più a caccia, credete che ciò possa rimetter loro la testa
sulle spalle?

— Davvero, disse la regina con disprezzo: non so se siete più filosofo
che logico o più logico che filosofo; vi consiglio di dedicarvi
all’una od all’altra di queste scienze, od anche a tutte e due se lo
volete; intanto io approfitterò del permesso che mi date di utilizzare
il talento di Medici, di Venoni, di Guidobaldi, di Castelcicala, di
Mastro Donato: andate signore, non dimenticate il vostro pugnale,
e guardatevene a vista; meditate la leggenda che vi stava scritta
intorno, e vi farà venire dei pensieri salutari. Andate a caccia
quest’oggi?

— No, signora, pesco.

— Difatti il momento è bene scelto; andate a pescare, signore, andate a
pescare, e ritornando, mi darete notizie dei vostri vascelli.

Il re che si era già alzato ed aveva già fatto un passo verso la porta
si fermò.

— Avete ragione, disse, vado a dare un contrordine per la pesca. Mi
accontenterò oggi di uccidere qualche fagian a Capodimonte.

Ed uscì.

La regina fece chiamare il generale Acton, e si stabilì che nello
stesso giorno si decreterebbe a profitto del tesoro l’alienazione di un
gran numero di beni ecclesiastici.

Che Napoli sarebbe colpita da una contribuzione straordinaria di
103.000 ducati al mese:

La nobiltà di 120,000 ducati;

Che le chiese, i Monasteri, le cappelle darebbero i loro vasi d’oro e
d’argento che non sarebbero di necessità assoluta;

Che i cittadini vendessero i loro gioielli e gli oggetti preziosi,
versandone il prezzo al tesoro, ed in cambio ricevessero dei buoni del
banco pagabili ad una certa epoca:

Finalmente, senza inquietarsi dei clamori che la cosa potrebbe
suscitare, il governo si impossesserebbe dei banchi publici.

Duecento e cinquanta milioni furono il risultato di questo colpo di
rete.

Inoltre la Giunta di Stato ricevette dalla regina l’ordine di
cominciare le sue funzioni, e dessa cominciò coll’arrestare un
centinaio di persone, sull’indicazione di Maria Carolina.




IV.


Diciamo una parola sul primo colpevole o piuttosto sul primo innocente
che aperse a tante vittime la via sanguinosa del patibolo.

La regina trovandosi a Napoli per la solennità di Pasqua, cosa che essa
non mancava mai di fare, udimmo raccontare che la chiesa del Carmine,
una delle più venerate di Napoli, era stata profanata da una tremenda
empietà.

Bisogna che dica dapprima che cosa sia la chiesa del Carmine.

La chiesa del Carmine fu fondata dalla principessa Elisabetta madre del
giovane Corradino.

Ella venne con una nave carica d’oro per riscattare suo figlio delle
mani del duca d’Anjou, o piuttosto del re di Napoli; ma arrivò troppo
tardi; e l’oro che doveva riscattare l’infelice giovane fa destinato a
costruire una cappella, nella quale fu sepolto il suo corpo con quello
del duca d’Austria, suo amico, che potendo vivere senza di lui, volle
morire con lui.

Nel 1438, mentre Renato d’Anjou faceva l’assedio di Napoli, una palla
lanciata da lui minacciò la testa di un grande Crocifisso di legno
collocato sull’altare, sotto al quale era seppellito Corradino. Il
Crocifisso chinò la testa sulla spalla destra in modo che la palla
passò senza toccarlo e andò a conficcarsi nel muro.

Questo Crocifisso aveva già una grande riputazione di santità; per un
miracolo particolare del cielo, i capelli crescevano sulla sua testa
come su di un cranio vivente, e tutti gli anni, nei giorni santi della
Pasqua, il sindaco di Napoli taglia questi capelli con forbici d’oro,
e dopo aver fatto la parte del re, della regina e del principe reale,
distribuisce il resto ai fedeli.

È nel chiostro di questa stessa chiesa, che nel 1647 fu assassinato
Masaniello dopo sette giorni di regno.

In causa di tutte queste tradizioni in parte storiche ed in parte
religiose, la chiesa del Carmine situata presso il vecchio mercato,
vale a dire nel quartiere più popoloso di Napoli, è in venerazione non
solamente fra i lazzaroni, ma ancora fra tutte le classi della società.
Ora precisamente la domenica di Pasqua del 1794, nel momento in cui il
sacerdote mostrava l’ostia, si udirono bestemmie abbominevoli, ed un
uomo pallido, coi capelli irti, colla fronte bagnata di sudore, e colla
schiuma alla bocca, si fa strada in mezzo alla folla percuotendo a
destra e sinistra, corre all’altare, percuote in viso il sacerdote, gli
strappa l’ostia di mano, e la pesta sotto i piedi.

Nel medio evo si sarebbe detto che quello uomo era un ossesso, e lo si
avrebbe esorcizzato.

Nel secolo XVIII lo si considerava come un bestemmiatore, un empio
propagatore de’ principii sacrileghi della Francia, e fu sottoposto a
processo che non fu lungo. Il colpevole non solamente non negò, nè si
scusò di nulla; ma in faccia ai giudici negò Dio, negò Gesù, negò la
Vergine.

Egli si chiamava Tommaso Amato, era di Messina, aveva trentasette anni,
tre fratelli, una sorella, era orfano di padre e madre, e non aveva
dimora fissa.

Tale fu almeno la sua dichiarazione. Il clero trasse un gran partito da
questo avvenimento, disse che quell’uomo rappresentava l’empietà dei
tempi, ed era un simbolo vivente della corruzione in cui i principii
rivoluzionari avevano spinto la società.

In quanto ai giudici essi credettero di non poter abbastanza esprimere
l’orrore che cagionava un tale delitto, e non soltanto condannarono il
colpevole ed essere appeso, ma di andare al supplizio con una sbarra
alla bocca, perchè le bestemmie che avrebbe pronunziato il paziente
alla sua ultima ora non scandalizzassero la coscienza dei buoni
cristiani.

Inoltre, durante i tre giorni che precedettero l’esecuzione, si fecero
pubbliche preci in tutte le chiese per l’espiazione di questo delitto.

Soltanto due giudici, il presidente Cito ed il consigliere Potenza, si
pronunciarono contro la pena di morte, e dimandarono che Tommaso Amato
fosse chiuso in un manicomio.

Il sabato, 17 maggio, fu il giorno fissato per l’esecuzione.

Si fecero percorrere al condannato tutte le vie di Napoli, eccettuate
quelle attigue al palazzo reale, perchè in alcune di queste avrebbe
potuto incontrare il re, e questo incontro avrebbe potuto salvarlo. Il
clero voleva far vedere a tutta Napoli cosa fosse un bestemmiatore.

Finalmente si condusse il paziente alla piazza del Mercato, ove doveva
aver luogo l’esecuzione. Egli era accompagnato non solamente dai
Bianchi, vale a dire dai membri di quella confraternita che gode del
tristo privilegio di confortare moralmente e fisicamente i condannati
nella loro ultima ora, ma dalle dieci o dodici confraternite di tutti i
colori che esistono nella città di Napoli.

Malgrado questa lunga e faticosa passeggiata, una specie di esaltazione
furiosa sosteneva il condannato, che salì la scala con un passo
abbastanza risoluto, come se avesse ignorato che ognuno di quei gradini
lo conduceva alla morte. Poi, terminata l’esecuzione, il corpo fu
gettato su di un rogo e le ceneri di questo rogo in cui erano mescolate
le sue furono sparse al vento.

Poi, nella stessa sera, in cui questa esecuzione terribile aveva
riempito Napoli di spavento, giunse una lettera del generale Danero,
governatore di Messina, che reclamava, come fuggito dall’ospedale di
Messina, un povero pazzo chiamato Tommaso Amato.

Quantunque questa lettera si fosse tenuta segreta, pure ne trasparve il
contenuto. Napoli lo seppe; ed i giacobini si affrettarono di spargere
per la città che i giudici avevano preso l’esaltazione di un pazzo per
l’empietà di un ateo.

Questo errore che avrebbe dovuto calmare l’entusiasmo dei giudici,
sembrò invece che l’avesse raddoppiato. Decisero che le sedute del
tribunale durassero senza posa, eccettuate le ore delle refezioni e del
sonno.

Fu circa in questo tempo, che, per vendicarsi della sua disfatta a
Tolone, l’Inghilterra decise la sua spedizione contro la Corsica.
Il gabinetto di S. Giacomo aveva da qualche tempo delle trattative
con Paoli, ed era sicuro di contare su questo patriota, che i suoi
concittadini, — prima di sapere ciò che sarebbe diventato il giovane
Buonaparte che appena allora cominciava a distinguersi a Tolone, —
consideravano come il più grand’uomo che fosse nato nell’isola.

La regina fu prevenuta di questo progetto da sir William Hamilton, o
piuttosto da me; si trattava di ottenere da lei, — e la cosa non era
difficile, — che essa riunisse, a’ termini del trattato firmato fra la
Gran Brettagna ed il regno delle Due Sicilie, le sue truppe a quelle
dell’Inghilterra. Allora il re fece correre la voce d’aver dato per
questa spedizione dieci milioni della sua cassetta particolare, e la
regina si mostrò alle passeggiate ed allo spettacolo con ornamenti in
brillanti falsi, dicendo che aveva sagrificato i veri ai bisogni dello
Stato.

Nelson fu incaricato di fare l’assedio di Calvi; una palla caduta sul
suolo a pochi passi da lui innalzò una grandine di sassi in frantumi,
di cui uno lo colpì nell’occhio sinistro e glielo portò via.

Se si vuol conoscere di qual tempra fosse il cuore di questo indurito
marinaio, — che il cannone della Francia smembrò a poco a poco fino
al giorno in cui questa potenza in cambio di due flotte distrutte
lo fulminò a Trafalgar, — bisogna leggere la lettera che scriveva
all’ammiraglio Hood il giorno stesso in cui ricevette questa terribile
offesa.

      «Mio Lord

  «I rapporti che vi sono giunti intorno alla battaglia non vi hanno
  probabilmente fatto parola di una cosa, che per sè stessa è di
  poca importanza. Si tratta di una leggiera ferita che ho ricevuto
  questa mattina, — leggiera, lo vedete, perchè non mi impedisce di
  scrivervi questa sera.

  «Credetemi colla stima più sincera.

      «Vostro fedelissimo,

                                                 «_Orazio Nelson_.»

Sapemmo poi sir William ed io questa notizia dal punto di vista della
_ferita leggiera_, senza mai pensarci che questa ferita leggiera fosse
la perdita di un occhio.

La regina che era lungi dall’aspettarsi i servigi che Nelson le avrebbe
reso qualche anno dopo, prese però un certo interesse all’avvenimento;
in quanto a Ferdinando poi, udendo che Nelson aveva perduto un occhio:

— Quale? chiese egli.

— Il sinistro, sire, gli si rispose.

— Oh! allora, ciò non gl’impedirà di andare a caccia.

In tutto il tempo che fin allora passai a Napoli, aveva desiderio di
vedere un’eruzione del Vesuvio; e ridendo, aveva pregato sir William,
visto la sua intimità col vulcano, di comandargli qualche piccola
scossa per me.

Fui servita co’ fiocchi.

Il 12 giugno, verso sera, sir William si ritirò alle 11, e siccome io
era ancora dalla regina, venne a prendermi.

— Signora, mi disse dopo aver salutato le Loro Maestà, vengo
dall’osservatorio; avete desiderato un’eruzione ed un terremoto; se il
pendolo accenna al vero, ne avrete una delle più belle.

— Bene, disse il re, non ci mancherebbe che questo.

— Signore, disse la regina, vi sono dei momenti in cui la natura sembra
prendere la sua parte agli avvenimenti umani, ed entrare nelle ire
private; — vi ricordate i presagi che precedettero la morte di Cesare?

— Oh! no di certo, signora; — ho inteso parlare un giorno da sir
William di qualche cosa come di una cometa; ma le comete mi sono
assai indifferenti, mentre il terremoto mi fa sempre paura, prima di
tutto a me personalmente, come tutti i pericoli di cui non comprendo
perfettamente la causa, e poi mi rovina. Sapete voi quanto mi è costato
quello del 1783?

— Spero che in tal caso, soggiunse la regina, non farete le stesse
pazzie d’allora; noi dobbiamo in questo momento fare un miglior impiego
del nostro denaro, che di ricostruire le capanne dei vostri Calabresi.

— Forse varrebbe meglio impiegarlo a ciò, che spenderlo per fare la
guerra alla Francia; è un tristo vulcano codesto, signora, che non
rovescia soltanto le capanne, ma i palazzi.

— Non avete dunque paura che i Giacobini di Parigi vengano a prendervi
Portici e Caserta.

— Eh! Eh!

La regina alzò le spalle.

— Dite quel che volete, signora, continuò il re. Ho più paura dei
giacobini di Parigi che di quelli di Napoli. Io conosco Napoli, io. Che
diavolo! ci sono nato, e con tre F faccio ciò che voglio.

— E quali sono queste tre F, chiesi io ridendo al re.

— Come? mia cara, non conoscete l’assioma favorito di S. M.?

— No, signora.

— Con tre F si governa Napoli: _Forca, Festa, Farina._

— È la vostra opinione, signora? chiesi ridendo.

— A mio avviso credo che ve ne siano due di troppo, basterebbe soltanto
la _forca._

— Intanto, disse il re, avremo un terremoto. Credete voi, sir William,
che l’avremo?

— Temo pel sì.

Il re tirò il campanello, un usciere apparve alla porta.

— Fate attaccare i cavalli alla vettura, disse.

— E dove andate dunque? chiese Carolina.

— A Caserta, disse il re, — e voi?

— Io resto qui.

— E voi signora? mi disse il re.

— Se la regina rimane, rimarrò anch’io, risposi.

— E voi, sir William?

— Sire, non mi duole punto di studiare da vicino il fenomeno.

— Studiate, mio caro amico, studiate; per fortuna voi non siete punto
grasso ed asmatico, come quel dotto romano che è stato soffocato a
Stabia, — come lo chiamate voi?

— Plinio, Sire.

— Plinio, è lui, eh! dite poi che io non so la storia antica, signora.

— Oh! signore, chi vi può mai far rimprovero di simil cosa? quando si
sia avuto per professore il duca di S. Nicandro, si sa tutto.

— Eh! signora, disse il re, è già saper molto il sapere di non saper
nulla; è bene perciò che avendo l’istinto in difetto dell’intelligenza,
io mi salvo.

— Con tanto piacere, mie signore, con tanto piacere, sir William.

E siccome l’usciere era ritornato per annunziare che la carrozza era
pronta:

— Eccomi, eccomi, disse il re uscendo di fretta.

Un momento dopo s’intese il rumore della carrozza che conduceva Sua
Maestà lontano da Napoli.




V.


La regina era naturalmente animosa ed avventata, e le piaceva,
specialmente quando il re dava qualche prova di viltà, di far prova di
coraggio. Quantunque l’atmosfera fosse pesante, e lo scirocco, vento,
che i Napolitani considerano come loro nemico personale, soffiasse con
violenza, essa propose a me ed a sir William di salire in carrozza, e
di andare per così dire incontro al pericolo, spingendosi dalla parte
della marina fino al ponte della Maddalena.

Sir William aveva il freddo coraggio di un vero gentleman inglese, e
quando si trattava di scienza spingeva il coraggio fino alla temerità;
egli accettò con gioia.

Senza partecipare in nulla dell’entusiasmo di mio marito, senza avere
questo capriccioso desiderio di avventure che agitava il cuore della
regina, non poteva, quando tutti e due andavano a cercare un pericolo,
foss’anche immaginario, rifiutarmi di partecipare all’eventualità di
questo pericolo. — Mi sarebbe meglio piaciuto, senza dubbio, di restare
e di attendere l’avvenimento; ma spinta dalla vergogna, m’offersi alla
mia volta d’incontrarlo.

Era la mezzanotte quando salimmo nella carrozza sotto i portici di
palazzo.

— Al ponte della Maddalena, disse la regina.

Il cocchiere obbedì, traversò il Largo Castello, e prima che le dodici
ore avessero cessato di suonare, noi eravamo al molo.

Il vento d’Africa era interamente cessato.

Quel poco d’aria che si respirava era impregnata di solfo, e malgrado
il tremolio della carrozza, si sentiva quel rumore sotterraneo che
precede le grandi catastrofi vulcaniche, e che ispira a tutta la natura
un vago sentimento di pericolo, prima che il pericolo ancora esista.

Il mare s’agitava, non già in larghe strisce di spuma, nè le onde si
accavallavano l’una all’altra, come di solito nei giorni di tempesta,
ma con quel bollore che farebbe una caldaia collocata sul fuoco, e
l’ebollizione sale dal fondo alla superfice. Questo ribollimento faceva
di tutto il golfo scintillante di fosforo una vasta tovaglia di fuoco.

La luna navigava in un vapore livido; ad undici ore si era levata
dietro il vulcano, ed appena al secondo o terzo giorno della sua
decrescenza, sembrava, sorgendo dal cratere, una bomba immensa lanciata
nello spazio da un mostruoso mortaio.

Tutta quella miserabile popolazione di basso porto era rientrata in
quei bugigattoli che parevano scavati vicino alla case, turbando soli
la solitudine dei vicoli stretti e melanconici che metton capo alla
banchina; alcuni cani erranti ed inquieti stavano intirizziti sulle
loro quattro zampe come se avessero sentito a tremare la terra sotto di
essi, e latravano lamentosamente alla luna.

Presi la mano delle regina.

— Che avete? mi disse, la vostra mano è gelata.

— Ho paura, le risposi.

— Rassicurate vostra moglie, cavaliere, disse la regina, perchè
altrimenti si sentirà male.

In questo momento un uomo ravvolto nel suo mantello, malgrado quel
calore soffocante, si fermò, e guardò con maraviglia la carrozza
che passava. Difatti, benchè sir Hamilton fosse con noi, non era
questa l’ora in cui le donne hanno l’abitudine di passeggiare e
particolarmente in quel quartiere.

Nel momento in cui passammo innanzi a lui mandò un grido di stupore.

— Regina Carolina, disse, voi tentate Iddio.

E si cacciò in una stradicciuola che si chiama — Via dei sospiri
dell’abisso — così chiamata, perchè i condannati che vanno al supplizio
per quella via vedevano di là il patibolo.

— Oh! mio Dio! signora, esclamai, che è mai ciò?

— Qualche giacobino dimenticato da Vanni, mormorò la regina, e che mi
minaccia non potendo far di meglio.

Arrivammo al ponte della Maddalena; ma all’altezza della statua di S.
Gennaro i cavalli rifiutarono assolutamente di continuare.

Il cocchiere li percosse inutilmente, ma essi scalpitavano,
s’impennavano, e si accostarono al parapetto del ponte.

— Signora, signora, diss’io prendendo la mano della regina, quest’uomo
non era un nemico, ma un amico. — Non andate più oltre; — non tentate
Dio.

— Ma che hanno i cavalli, Gaetano? chiese la regina.

— Non saprei dire, disse il cocchiere, ma non vogliono assolutamente
oltrepassare la statua di S. Gennaro.

— Vi è qualcuno o qualche cosa sulla via che li spaventa?

— Non veggo nulla, signora, ma gli animali veggono talvolta delle cose
che gli uomini non vedono.

— Comprendete voi ciò che dice quell’imbecille? dimandò la regina al
cavaliere Hamilton.

— Signora, rispose egli, il vostro cocchiere constata senza spiegarlo
uno dei problemi della natura. È riconosciuto fino all’evidenza che
negli ecclissi, nei terremoti e finalmente in tutt’i cataclismi della
natura, gli animali sono avvertiti dai loro istinti prima che l’uomo
sia avvertito dalla sua ragione. Dietro ogni probabilità la montagna
non tarderà di darci sue notizie.

Difatti, come se il Vesuvio non avesse aspettato che questo momento per
entrare in furore, un muggito terribile si fece sentire come se uscisse
dalle viscere della terra, ed una scossa violenta spinse la carrozza
indietro.

I cavalli nitrirono, e senza fare alcun movimento si coprirono di
sudore, come il mare si copre di schiuma.

— Signora, signora, gridò il cocchiere, diceva bene io che i miei
cavalli vedevano qualche cosa che io non vedeva; guardate.... guardate.

E indicò col dito la cima del Vesuvio.

Un fumo denso e nero cominciava ad uscire dal cratere elevandosi
verticalmente come un’immensa torre: quel fumo era screziato di lampi
seguiti da detonazioni eguali a quelle delle batterie di cento cannoni.

La regina mi prese la mano, e la strinse alla sua volta: quel cuore di
bronzo cominciava a sentire la paura; in quanto a me era sul punto di
svenire; il cavaliere Hamilton era nell’entusiasmo.

— Se Sua Maestà vuole assolutamente rimaner qui, disse Gaetano con voce
tremante, la prego di scendere subito; io non rispondo più dei miei
cavalli.

In questo momento una detonazione terribile si fece udire: noi sentimmo
una forte scossa e mi sembrò di veder tutto oscillare innanzi a me.

— Signora, in nome del cielo, gridai, ritorniamo, ritorniamo!

Ma la regina non ebbe nemmeno la pena di dare l’ordine; i cavalli, con
un movimento che forzò la mano del cocchiere, girarono indietro, e poi,
senza che si potesse tenerli, con un movimento sfrenato, discesero per
la china del ponte e si slanciarono lungo la marina.

— Signora, signora, gridò il cocchiere facendo forza invano, non sono
più padrone dei miei cavalli.

— Ebbene, come Dio vuole, disse la regina.

Una detonazione ancor più terribile di quelle che l’avevano preceduta,
si fece udire: mi sentii correre un gelo per le vene e svenni di
terrore.

Quando riapersi gli occhi, la carrozza era ferma; Gaetano alla testa
de’ suoi cavalli li teneva pel morso, — e noi ci trovammo in faccia di
quella stradicciuola della Via dei Sospiri dell’abisso.

Nel momento in cui la carrozza stava per sfracellarsi all’angolo della
banchina, lo stesso uomo che aveva gridato alla regina di non tentare
Iddio, si era lanciato alla briglia dei cavalli, ed a rischio di
restare calpestato da essi, li aveva con una forza sovrumana arrestati
d’un colpo.

La scossa era stata così forte, che Gaetano era stato precipitato dal
suo sedile, ma si era alzato tosto, e prese i cavalli pel freno.

Lo sconosciuto, vedendolo padrone dei suoi animali, si era allontanato
e disparve.

Io non aveva veduto nulla; mi svegliai come da un sogno; la regina mi
faceva odorare un vasetto di sali.

— Ah! grazie a Dio, esclamai, rinvenendo, non è avvenuta qualche
disgrazia a Vostra Maestà.

E mi gettai nelle sue braccia, coprendola insieme di baci e di lagrime.

Era una cosa strana; ma la regina aveva su di me il potere che il
magnetizzatore ha, si dice, sul magnetizzato. Quando era vicino a lei,
pareva che la mia anima aspirasse costantemente di uscire dal mio corpo
per unirsi alla sua.

Gaetano rimontò sul sedile. I cavalli parvero calmarsi come per
incanto, e ci ricondussero senza accidenti al palazzo.

Io era stanca: la regina volle che mi ritirassi nella mia camera che
era attigua alla sua, e mi mettessi a letto.

Sir William chiese il permesso di salir sul terrazzo del palazzo per
meglio osservare i fenomeni del Vulcano.

Credo che per risolvere un problema geologico si sarebbe lanciato
come Empedocle nel cratere, lasciando i suol calzari sulla cima della
montagna.

Non vidi più nulla, ma ecco ciò che mi venne raccontato.

Le scosse si succedettero con rapidità, ma si stendevano
particolarmente da nord a mezzogiorno, vale a dire da Portici a Torre
Annunziata.

Napoli, come sempre, fu risparmiata.

Verso le tre ore del mattino la strada che percorre le falde del
Vesuvio si coperse di fuggitivi, che dai punti più lontani della
spiaggia si dirigevano verso Napoli, lasciando le loro abitazioni, e
come dietro un bastione, venivano a cercare una difesa dietro il ponte
della Maddalena, o piuttosto dietro la statua di S. Gennaro, che dal
punto culminante di questo ponte protegge la città.

Il sole era sorto splendido ed in un cielo sereno, ma la colonna di
fumo e di cenere che usciva dal Vesuvio si era tosto diffusa nel
firmamento; le acque che non sono che lo specchio del cielo erano
coperte di una tinta grigia, e la luce era scomparsa a poco a poco come
in un’eclissi.

Quando mi alzai, benchè fossero già le dieci ore del mattino, si
sarebbe giurato che erano le otto di sera.

Da quel momento, vale a dire dal 13 al 15 giugno, il sole non si mostrò
più: i muggiti della montagna raddoppiarono e l’oscurità divenne sempre
più spessa.

Il giorno dopo, al 14, se gli orologi non avessero segnato il corso del
tempo, sarebbe stato impossibile di dire se era mattino, sera, o notte;
le tenebre erano così profonde, che a Chiaia ed a Toledo, vale a dire
nelle due strade più grandi di Napoli, si sarebbe creduto di essere in
una camera oscura.

Il cardinale arcivescovo, accompagnato dal clero di tutta la città
venne a prendere alla cattedrale il busto di argento dorato di S.
Gennaro, e seguito da tutta la nobiltà che recitava preghiere, e dal
popolo che cantava inni, andò al ponte della Maddalena, invocando la
protezione del santo protettore della città.

La regina andò a sentire la messa che precedeva quella cerimonia: —
ma io come protestante non potei accompagnarla: il popolo vedendo
un’eretica in una chiesa, sarebbe stato capace di attribuirmi la
catastrofe e di massacrarmi.

L’arcivescovo, la nobiltà, il popolo restarono in preghiere sul ponte,
dalle due ore dopo mezzodì fino a notte: — quando dico fino a notte,
dico male, non v’era più nè giorno nè notte; le campane soltanto,
suonando l’Ava Maria, segnalavano il ritorno delle tenebre.

Nella notte dal 15 al 16, un rumore simile allo scoppio di una
polveriera attirò gli sguardi di tutti, perchè tutta la popolazione di
Napoli era in istrada: i più spaventati stavano coricati colla faccia
contro la terra, i meno spaventati in ginocchio, e tutti più o meno
inclinati sotto il peso dell’avvenimento.

Un immenso fascio di fuoco si slanciò dal cratere della montagna, salì
al cielo e ripiombò in frantumi infocati sulle falde della montagna;
allora uscì dalla cima un doppio fiume di fuoco, che si dirigeva l’uno
a Resina e l’altro verso Torre del Greco.

Trenta mila persone, uomini, donne e fanciulli, colpiti da stupore,
seguivano cogli occhi questo doppio torrente di lava.

A Resina, la pianura che si stende dal Vulcano alla città, le case di
campagna che erano costruite su questa pianura furono coperte di lava;
ma la terribile inondazione, come per comando sovrumano, si fermò alle
porte della città.

Sventuratamente non fu così di Torre del Greco; un’antica inondazione
aveva coperto metà della città; poi, fermandosi ad un tratto, aveva
formato un tetro scoglio, che dominava da circa cento metri la parte
della città risparmiata dal flagello.

Sopra questo scoglio, come su di un’altra rocca Tarpea, si era
costruita una nuova città, e si era stabilita fra la nuova e l’antica
una comunicazione per mezzo di scale tagliate nella lava.

Questa volta città vecchia e città nuova tutto fu portato ad un
livello. L’inondazione vulcanica tagliò la città nuova alla sua base, e
la trascinò in ruina con sè dall’alto dello scoglio; cateratta di fuoco
sulla città vecchia, che la lava inghiottì e colmò fino al livello
delle case più alte, e del campanile della chiesa; poi il torrente
travolgendo seco le macerie delle due città, si gettò verso il mare
ed andò a formare un molo, dietro il quale le navi poterono trovare un
rifugio.

Tutto ciò arrivò durante la notte del 15 al 16, come se il terrore
della catastrofe, per arrivare al colmo, avesse d’uopo del terrore che
ispirano le tenebre.

Alla mattina del 16, il sole che non si era mai veduto da tre
giorni, riapparve in un cielo sereno; una parte del Vesuvio era stata
inghiottita dal Vesuvio stesso; la parte più elevata della montagna
era sfranata nel cratere precipitandovi da un’altezza più di mille
metri; l’aveva riempito, e nel riempirlo, aveva fatto scaturire con
un terribile rimbombo quella splendida fontana di fiamme che aveva
illuminato il mare a dieci leghe all’intorno, ed aveva fatto straripare
i suoi due fiumi di lava che avevano inondato la campagna, lasciando
con questa caduta il regno dell’aere al cono fin allora meno elevato.

Durante queste ore di lutto e di spavento tutto fu sospeso a Napoli,
eccettuati i lugubri lavori della Giunta di Stato, ed alcuni fra gli
atti emanati da essa portano la data di tre giorni dopo l’eruzione.

Tutto, durante questa catastrofe, avea, per così dire, cessato di
vivere, eccettuata la collera di Dio e quella dei Re.

Il giorno dopo di quella notte, in cui i cavalli, fuggendo sbrigliati,
avevano posto in pericolo la vita della regina e la nostra, e dove
eravamo state salvate per l’intervento miracoloso di uno sconosciuto
misterioso, la regina aveva fatto venire il capo della sua polizia,
gli aveva dato tutti gli indizi che le suggerivano la sua memoria,
e gl’ingiunse di fare le ricerche più minuziose per scoprire il suo
salvatore; ma tutto fu inutile, e benchè il capo della polizia avesse
messo in campagna tutti i suoi agenti più sagaci, nessuna mano fu
capace di sollevare il velo che avvolge questo strano avvenimento.

Il re scrisse al 16 che il tempo si era rasserenato. Sarebbe andato a
caccia la giornata del 17, e non tornerebbe per conseguenza a Napoli
che al 18.

Da ciò che aveva potuto succedere a Napoli e nei dintorni non ne
diceva una parola. Nulla era accaduto a lui, ed era tutto ciò che
gl’importava.




VI.


In poche parole ho già raccontato la condanna e la morte di Tommaso
Amato, una delle prime vittime della Giunta, il cui processo in causa
dell’urgenza — i delitti di lesa divinità dovendo aver la precedenza
sui delitti di lesa maestà — fu compito con una rapidità mostruosa.

Gli arresti avevano cominciato poco dopo la partenza dell’ammiraglio
Latouche Treville. Erano già quasi quattro anni che alcuni degli
accusati erano in prigione.

Questi accusati erano circa una cinquantina. Il procuratore fiscale
Basilio Palmieri aveva detto al principio della procedura, che aveva
delle prove contro ventimila persone.

Intanto aveva conchiuso per la pena di morte contro trenta prevenuti,
con applicazione preventiva della tortura.

Ma il Tribunale si accontentò di condannarne tre alla pena capitale.

Tre alla galera.

Tredici a pene minori.

Gli altri furono messi in libertà.

Il capo della congiura era un certo Pietro di Falco. Egli fece delle
confessioni, rivelò il piano dei congiurati; ma, debbo dirlo, queste
confessioni non furono mai rese pubbliche, ed egli fu inviato all’isola
di Tremiti senza essere stato confrontato coi suoi complici.

Il voto dei giudici in favore della pena di morte era strano; si
sarebbe detto che avessero voluto fare un olocausto che fosse accetto
alla pallida Dea.

I tre condannati erano tre giovani, quasi tre fanciulli, appartenenti
alla classe aristocratica, studenti, per età inesperti del mondo,
nel quale non avevano ancora avuto il tempo di entrare, e conosciuti
solamente dai loro compagni pei loro trionfi di collegio.

L’età di tutti e tre non formava ancora quella di un vecchio.

Il maggiore si chiamava Vincenzo Vitagliano, che aveva 22 anni.

Il secondo si chiamava Emmanuele de Deo che ne aveva 20.

Il terzo Vincenzo Galiani che ne aveva 19.

Fu un grido di compassione per tutta la città quando si conobbe la
scelta fatale fatta dalla Giunta, e che questa scelta era caduta sopra
tre giovani, il cui solo delitto, disse uno storico contemporaneo, ere
di aver _parlato di cose che sarebbe stato meglio tacere, e di avere
applaudito ciò che aveva d’uopo di essere esaminato_.

Il loro grande delitto era di essersi fatti tagliare i capelli, e
di avere pei primi adottato la moda introdotta dall’attore Talma,
quando rappresentò per la prima volta la Tragedia Tito, come ho già
raccontato.

Confesso che quando mi si annunziò quella notizia, e mi si disse l’età
dei condannati, mi si fece conoscere chi erano, e mi si spiegò che era
impossibile che avessero seriamente cospirato, fui compresa di grande
compassione per questi tre arboscelli che dovevano essere falciati alla
radice senza che avessero avuto il tempo di portare i loro frutti.

Corsi dalla regina; essa mi ricevette col viso severo e colle
sopracciglia corrugate.

— Vieni anche tu a parlarmi per essi? mi chiese.

— E se venissi a parlarvi per essi, signora, ricusereste di ascoltarmi?

— Sì, perchè ho deciso di lasciare che la giustizia faccia il suo
corso, e la preghiera non sarebbe che una importunità inutile.

— Oh! signora, le dissi giungendo le mani, così giovani e tanto poco
pericolosi.

— Non sono forse di quelli che Tarquinio indicò al messaggero di suo
figlio, troncando colla verga i papaveri più alti del suo giardino?

— Oh! signora, lo confessate voi stessa.

— Vi sono dei momenti in cui chieggo a me stessa se questi miserabili
giudici hanno scelto questi tre fanciulli per scempiaggine o per
tradimento; ma io te lo confesso, propendo a credere che l’abbiano
fatto per tradimento.

Guardai la regina con stupore.

— Tu dunque non comprendi. Se faccio grazia a costoro, sarò poi dopo
obbligata a far grazia a tutti, perchè si crederanno o piuttosto si
diranno innocenti al pari di questi. Se li lascio condannare a morte
si griderà alla crudeltà, al cannibalismo; tutti i padri m’avranno in
odio, non vi sarà più una madre che abbia un figlio ventenne, che non
se lo stringa fra le braccia dicendo: — Dio ti scampi dalla regina
straniera, dall’austriaca, come chiamavano mia sorella.

— Oh! signora, voi lo vedete che esitate ancora, esclamai, e se voi
esitate è che i giudici hanno torto.

— La giustizia non può mai aver torto, Emma.

— La giustizia dunque ha indurito il suo cuore.

Io soffocai un sospiro e chinai la testa sul petto pronunziando alcune
parole a voce bassa.

— Che vai mormorando fra te stessa? mi chiese Carolina.

— Ringrazio Iddio di non essere regina, signora, le risposi.

Vi fu un momento di silenzio, che la regina interruppe per la prima.

— D’altronde, disse, la sentenza è stata portata questa mattina;
abbiamo dunque tre giorni di tempo per prendere una risoluzione. Tu
resterai qui questa sera; la notte è la madre dei consigli.

In questo momento il re entrò, mi salutò secondo la sua abitudine con
molta cortesia, facendomi segno di tornarmi a sedere, e sedendosi egli
stesso vicino a sua moglie.

— Mia cara maestra, le disse, vi prevengo che sarò assente per tre o
quattro giorni.

— E dove andate?

— Vado alla caccia a Persano.

— Siete forse stato avvisato di qualche altro terremoto?

— No, perchè in questo caso non andrei dalla parte di Salerno, ma
dalla parte di Capua; comprenderete bene che il Vesuvio e l’Etna non
hanno mai fatto sul serio la separazione dello stretto di Messina,
come mi avete raccontato voi, dicendomi che ciò è avvenuto in causa di
un terremoto; essi corrispondono fra loro per mezzo di ramificazioni
sotterranee, e quando se la discorrono fra loro di qualche cosa, non è
bene trovarsi sulla loro strada; non è di un terremoto che ho paura in
questo momento.

— E di che avete paura?

— Oh! voi lo sapete benissimo.

— Non sareste più convinto, come dicevate, della verità del nostro
assioma? dubitereste forse dell’efficacia di una delle nostre tre F.

— Non già dell’efficacia, ma dell’opportunità.

— E nel dubbio?

— Io me ne vado. Il saggio non dà un avviso quasi eguale?

— Vale a dire che non volete essere, od almeno apparire per nulla in
quanto sta per succedere.

— Nè essere nè parere, signora. Sono io che ho restituito la Giunta?
sono io che ho fatto ritornare Castelcicala da Londra? sono io che ho
organizzato questa famosa camera oscura, di cui si parla tanto? e di
cui per fortuna posso negare l’esistenza non essendovi mai entrato, e
ignorando fino il luogo dov’è situata? Certo che no, tutto ciò è affar
vostro. — Per me, io vado a caccia, pesco, mi riposo a S. Leucio.
Io sono ciò che si chiama storicamente un re fa-niente; voi, voi
siete la regina, voi portate lo scettro, voi siete Caterina II, e vi
chiameranno un giorno la Semiramide del mezzodì, come v’hanno chiamata
la Semiramide del nord, e sarà glorioso per voi e per me: ma avendo i
vantaggi dello Stato, è giusto che ne abbiate anche i pesi.

— Vale a dire che volete, al cospetto di Napoli e dell’Europa,
lasciarmi la responsabilità della morte di questi tre giovani.

— Di quali tre giovani parlate voi?

— Di quelli che sono stati condannati dalla Giunta questa mattina.

— Ah! la Giunta ha condannato tre giovani questa mattina?

— L’ignorate forse?

— Eh! sì davvero. Io sono di una influenza così mediocre nel governo,
che non si danno nemmeno la pena di parlarmi degli affari di stato.

— Voi scherzate su quest’argomento, signore! la cosa è grave;
parliamone dunque seriamente o non parliamone.

— Non parliamone, non chieggo di meglio: voi sapete che ho l’abitudine
di non mischiarmi mai delle cose che non mi riguardano. Sono venuto
per dirvi che partirò per Persano, che contava di passarvi qualche
giorno, e che non sapendo se sareste stata in pena di me, non ho voluto
per nulla distrarre il vostro spirito dalle alte speculazioni della
politica, per fermarlo sulla povera mia persona. Mi dite voi che sono
stati condannati a morte tre giovani. Poveri giovani! ciò mi fa male,
ma che volete? se sono colpevoli, se hanno cospirato contro di voi?

Io presi la parola.

— Ecco precisamente, Sire, ciò che preoccupa l’eccellente cuore di Sua
Maestà, cioè che non è dessa ben sicura che questi tre giovani siano
colpevoli, e che dubita che possano essere innocenti.

— Diavolo! in questo caso, mia cara ambasciatrice, bisognerebbe che la
regina non lasciasse eseguire la sentenza. La morte di quel pazzo che
fu appiccato l’altro giorno ha fatto cattivo senso; la morte di tre
innocenti sarà ben peggio! pensateci, signora, pensateci.

— Ma signore, riprese la regina visibilmente impazientita di essere
stata vinta in una discussione con suo marito, quand’anche volessi far
loro grazia non ne avrei il diritto, — non sono il re io.

— Come voi non siete il re?

— No, io sono soltanto la regina.

— Bene, e dite a me di queste cose! per Dio! non siete voi il re? e chi
è il re? colui che presiede il consiglio; chi è il re? quegli che dà
gli ordini al ministro; chi è il re? quegli che dichiara la guerra o
la pace? Oh! diavolo! mi avete voi veduto ad occuparmi di queste cose?
siete voi che ve ne occupate, signora, e siete voi che in realtà fate
da re.

— Il re, signore, è quegli che firma.

— E voi sapete bene, signora, che sono tanto pigro, che per non aver
nemmeno la pena di firmare ho fatto incidere una cifra.

— Che è chiuse in una cassetta, di cui voi, signore, ne tenete la
chiave.

— È precisamente di ciò che mi sono accorto al momento di partire per
Persano, signora, e capisco che ciò è una cosa assurda, giacchè quando
avete già tutto in mano, signora, tenetevi anche questa chiave, e
prendetela.

— Datemela, datemela, signore, esclamai, e strappai quasi la chiave di
mano dal re.

— Signora, disse Ferdinando alla regina, che lo guardava con un viso
tetro, vi faccio osservare che la firma reale trovasi in questo momento
nelle mani di Lady Hamilton, e che sarebbe pericoloso di lasciargliela,
ed essa non avrebbe che di vendere alla nostra alleata l’Inghilterra,
o Malta o la Sicilia, che aspira di possedere; sarebbe un gran
pregiudizio per la nostra corona.

E salutandoci con quell’aria finta tutta sua, uscì facendo un gesto,
come di chi si lava le mani.

— Sì, sì, comprendo, disse la regina, tu ti lavi le mani; ha fatto così
anche Pilato, e la maledizione della storia non l’ha meno colpito da
diciotto secoli. Dammi quella chiave, Emma, vedremo ciò che dovremo
farne!

Io gliela presentai inginocchiandomi.

In questo momento si annunziò alla regina che il procuratore fiscale,
Basilio Palmieri, quel desso che aveva delle prove contro ventimila
persone, che aveva conchiuso per la pena di morte contro trenta
accusati, coll’applicazione preventiva della tortura, chiedeva l’onore
di presentarle i suoi omaggi.

— Benissimo, disse la regina, se non fosse venuto, l’avrei mandato a
cercare.

Poi volgendosi verso di me:

— Vuoi vedere la faccia d’un vero collo torto, Emma? mi dimandò.

— Sono pronta a rimanere od uscire, secondo che mi ordinerà Vostra
Maestà.

— No, no, sta a te, comprendi, secondo che ti senti il cuore più o meno
capace di commuoversi.

— Ebbene, signora, poichè Vostra Maestà vuol lasciarmi il mio libero
arbitrio, prendo tanto interesse per ciò che riguarda questi tre
giovani sventurati, che preferisco di rimanere.

— Rimani, allora.

E rivolgendosi all’usciere che aveva annunziato la visita del
magistrato:

— Fate entrare il signor procuratore fiscale, Basilio Palmieri, disse
la regina.




VII.


Se mai viso d’uomo ha caratterizzato qualcuno per un collo torto, come
aveva detto la regina, certamente lo dimostrava la fisonomia di don
Basilio Palmieri.

Entrò curvato fino a terra: se avesse potuto andar carpone dalla porta
ai piedi della regina, l’avrebbe fatto.

La regina lo ricevette in piedi.

Il signor procuratore fiscale cercò di scusarsi per avere ottenuto così
poco dal tribunale; aveva chiesto trenta teste, e non era sua colpa se
ne aveva ottenuto soltanto tre; aveva chiesta la tortura, e non era sua
colpa, se gli era stata ricusata.

— Va bene, signore, rispose freddamente la regina, sarete più fortunato
un’altra volta.

— Vengo a presentare i miei umili doveri a Vostra Maestà, e dimandarle
se posso essere utile a qualche cosa.

— Potete rendermi due servigi, signore, rispose la regina.

— Io! sclamò maravigliato il procuratore fiscale, io rendere dei
servigi a Vostra Maestà? ricevere degli ordini, vorrete dire.

— Sapete dirmi, continuò la regina, chi sia quello dei vostri
condannati che abita più vicino al palazzo reale?

— È il giovane Emmanuele de Deo, signora, rispose il Procuratore
fiscale maravigliato da una tale dimanda.

— Ha padre e madre? chiese la regina.

Ha soltanto il padre.

— Sapete il suo indirizzo.

— Sì.

— Datemelo.

— Giuseppe de Deo, via Santa Brigida, vicino al grande negozio di
grani, verso la metà della strada.

— Grazie, signore. Prendi questo indirizzo, Emma. Io presi di tasca il
mio piccolo portafogli d’avorio, e vi scrissi con premura l’indirizzo
datomi dal procuratore.

La regina stessa osservò dalla mia parte finchè l’indirizzo fu
completamente scritto, come se volesse tener lo sguardo sull’uomo che
aveva dinanzi il minor tempo possibile.

Infine si volse a lui.

— Ora, disse la regina, in qual carcere sono i vostri condannati?

— Alla Vicaria, signora.

— Ecco carta, penna e calamaio; scrivete, signore.

La regina indicò al procuratore fiscale una tavola ove in fatti erano
riuniti tutti gli oggetti indicati da essa.

Il procuratore fiscale, non osando sedersi dinanzi a Sua Maestà, mise
un ginocchio a terra, e colla penna in mano stava pronto per scrivere.

— Siete pronto, signore? chiese la regina.

— Sì, signora.

La regina dettò:

«Il custode in capo della Vicaria obbedirà ciecamente agli ordini che
verranno dati dalla persona che presenterà questo viglietto.»

— Ho scritto, signora.

— Ebbene, allora metteteci la data, firmatelo e prevenite il
capo-custode, che avete dato un ordine per lui.

— E debbo dirgli quale, augusta persona...

— Voi non dovete dirgli nulla, signore, perchè non conoscete punto le
mie intenzioni, e desidero che voi non cerchiate di conoscerle.

— Sua Maestà ha altri ordini da darmi?

— Nessuno, signore.

— Allora, signora, avrò l’onore di prendere congedo da lei, e di
mettere a’ suoi piedi i miei più devoti rispetti.

La regina chinò leggermente la testa, ed il procuratore fiscale si
ritirò indietreggiando.

La porta si chiuse dietro di lui.

— Che debbo fare di questo indirizzo, signora? dimandai alla regina.

— Conservalo, quando sarà il momento di farne uso, te lo dirò.

In quanto all’ordine che si era fatto dare pel capo-custode della
Vicaria, lo rilesse per vedere se era scritto come lo aveva dettato;
poi accertatasi che non vi era nè una sillaba di più nè di meno, lo
piegò con cura, e lo mise in un piccolo portafogli di velluto che era
solita di tener seco.

Io l’aveva seguita cogli occhi in tutti i movimenti, in cui cercava di
leggere il suo pensiero.

— Veggo con piacere, signora, le dissi, che il re non avrà
probabilmente preso una precauzione inutile lasciandovi la chiave del
suggello reale.

— Non ho ancora deciso nulla, tutto dipenderà dai condannati, rispose
la regina; in ogni caso ti riservo la tua parte nell’intreccio;
qualunque sia, preparati a rappresentarla.

— E quali preparativi mi abbisognano per ciò?

— Esser qui per le otto di sera con veste e mantiglia nera.

— Oh! signora, il nero è di cattivo presagio.

— Sta tranquilla, è solamente per non essere vedute di notte.

— Sortiamo dunque insieme questa notte, signora?

— Forse sortiremo insieme, e forse sortirai tu sola.

— Che volete dunque fare di me?

— Ciò che Dio ha fatto senza che mi consulti un’ambasciatrice.

Volli interrogarla, ma essa mi mise la mano sulla bocca.

— Si farà tutto a suo tempo, mia bella amica; non avrò misteri per voi;
abbiate dunque la pazienza di aspettare fino a sera.

— Allora vi lascio, signora, perchè non avrò il coraggio di restare
vicino a voi senza interrogarvi.

— È difatti ciò che tu puoi fare di meglio, perchè m’interrogheresti
invano.

— Davvero voi siete crudele oggi.

— Che t’importa se la mia crudeltà pesa su di te; se grazie a questo
parafulmine, la folgore non colpisce i tuoi protetti?

— Oh! a questa condizione, signora, io mi abbandono, ecco il mio
braccio, mordetelo fino a sangue.

Essa lo prese come se volesse morsicarlo, ma lo sfiorò appena colle
labbra.

— Oh! no, no, disse mutando il morso progettato in una carezza; sarebbe
peccato, poi non si sa se questa è carne o marmo, avrei paura di
rompermi i denti; andate, e non mancate di essere qui questa sera alle
otto precise.

— State tranquilla, signora, non mi farò aspettare.

Difatti alle otto precise entrai nella camera della regina, vestita
tutta di nero.

Essa mi aspettava vestita egualmente.

— Oh! mi disse scorgendomi, è la prima volta che ti vedo in nero; sai
tu che il nero ti sta benissimo, e che tu sei bella come un angelo?

— E voi pure, signora; ma non importa, vorrei piuttosto vedervi vestita
diversamente; sembriamo due vedove.

— Vorresti forse dirmi che questa sarebbe la più grande sventura che ci
potesse accadere?

— In quanto a me, ve lo giuro, amo tanto sir William....

— Al punto di fargli costruire una tomba, come la regina Artemisia,
rispose ridendo la regina, ma non di bruciarsi sul suo rogo.

— Vi giuro che se fossi nata nel Malabar...

— Sì, ma tu sei nata nel Ducato di Galles, mi pare, di modo che sono
interamente sicura... Ma vediamo, non si tratta di questo. Ti aveva
detto che tu avevi una parte da ambasciatrice da rappresentare questa
sera, sei pronta?

— Aspetto gli ordini di Vostra Maestà.

— Hai l’indirizzo che ti ha dato don Basilio?

— Se non l’avessi, me lo ricordo: via Santa Brigida vicino al
negoziante di grano, a metà della via.

— E il nome del padre del condannato?

— Giuseppe de Deo.

— Ebbene, va in una carrozza senz’armi e senza cifra che ho fatto
attaccare, a prendere Giuseppe de Deo, e lo condurrai qui.

— Come! signora, esclamai tutta contenta, volete vedere il padre di
quell’infelice giovane?

— Sì, è una fantasia che mi viene.

— Ma allora egli è salvo?

— Non ancora.

— M’incaricate dunque di andarlo a cercare?

— A meno che non ricusi.

— Io rifiutare di essere l’angelo salvatore di un infelice condannato,
il messaggiero celeste inviato ad una povera famiglia! avete mai udito
dire che l’angelo Gabriele abbia rifiutato di annunziare alla Vergine
Maria, che era eletta madre del Salvatore?

— Ebbene, poichè tu credi il tuo messaggio un benefizio, non perder
tempo a compierlo.

— Oh, io corro, signora. La mia mantiglia, la mia mantiglia, l’aveva
gettata nell’entrare nella camera su di una poltrona.

La regina la prese, e me la pose sulle spalle.

— Ora, disse essa, va, colomba dell’arca, e che tu possa riportare il
ramoscello d’ulivo.

Mi lanciai per le scale leggiera come l’uccello di cui la regina mi
aveva dato il nome; feci chiamare la carrozza, e vi entrai precipitosa
gridando al cocchiere:

— Via Santa Brigida!




VIII.


Non vi è che un passo dal palazzo reale alla strada di S. Brigida; vi
arrivai in un istante; scesi al luogo indicato, e siccome erano appena
le otto ore, la bottega del mercante di grani era ancor aperta, ed io
potei far dimandare ove abitava don Giuseppe de Deo.

Il negoziante di grano, che era il fornitore delle scuderie di palazzo,
riconobbe il cocchiere che gli faceva una tale dimanda, e vedendo una
dama alla portiera della carrozza, corse, supponendo qualche cosa di
vero, e indovinando che qualcuno veniva da parte del re o della regina.
Mi avevano veduta spesso percorrere le vie di Napoli nella carrozza di
Sua Maestà seduta vicino a lei, e il mercante di granaglie mi riconobbe
alla sua volta.

— Oh! milady, mi disse costui, quegli che domandate è molto afflitto
in questo momento: suo figlio è stato condannato a morte questa mattina
dalla Giunta.

— Lo so, rispos’io, ed è precisamente per ciò che desidero di vederlo,
e poichè voi siete suo vicino, vorrei sapere da voi in qual casa abita
ed a qual piano.

— Egli abita in questa casa, signora, mi disse, al terzo piano.

E nel medesimo tempo m’indicò la casa vicina alla sua.

— Aprite, dissi al cocchiere.

— Ma, continuò il mercante, non saprei se lo troverete in casa, signora.

— Dove potrebbe essere?

— L’ho veduto uscire.

— A quest’ora?

— Sì.

— Senza dubbio sarà andato a sollecitare qualche giudice.

— Oh! signora, a quest’ora i giudici non possono più far nulla, nè per
il povero padre, nè per il povero figlio.

— Ma allora dov’è andato?

Il negoziante mi guardò.

— Volete vederlo assolutamente? mi domandò.

— Non soltanto debbo vederlo, ma bisogna assolutamente che lo vegga.

— È per suo bene? — Perdonate se vi interrogo, signora, ma il povero
padre ha un tal peso di dolore sulle sue vecchie spalle, che se voi
dovreste accrescerne la gravezza d’un sol grano di frumento, sarebbe
una carità a non dirvi dove sta.

— Non posso promettervi nulla; — ma vengo con una intenzione di
misericordia.

— Allora, scendete, signora, ed io, — che Dio mi perdoni se mi
ingannate, ed io vi condurrò dov’è.

Discesi.

— Dobbiamo andare lontano? gli dimandai.

— Per una diecina di passi.

Egli camminava dinanzi a me, io lo seguii; si fermò dopo una diecina di
passi alla piccola porta della chiesa di S. Brigida.

— Ah! mormorai, ora capisco perchè non è in casa.

Il mercante bussò alla piccola porta che si aperse subito: una specie
di sagristano ci introdusse in chiesa, tetra, oscura, ad eccezione di
una cappella della Vergine, che era illuminata.

Entrammo. — Il negoziante di grani mi indicò un vecchio non già
inginocchiato, ma prostrato sui gradini dell’altare, e che batteva il
marmo colla fronte.

— Ecco, mi disse, ecco colui che cercate.

Lo ringraziai. — Egli si ritirò e mi lasciò sola, ma alla porta la
curiosità lo ritenne, e stette collo scaccino ad osservare ciò che
avveniva.

Mi avvicinai al vecchio senza rumore; egli pregava e siccome non mi
udiva, continuava le sue preci.

— Vergine divina, Madre Santa, io non mi rivolgerò a Dio, ma a Voi. Dio
non mi comprenderebbe, egli, che di sua propria volontà ha offerto suo
figlio in olocausto per salvare il genere umano, e che, potendo con un
cenno conservargli la vita, lo lascia inchiodare sulla croce, e morire
non soltanto di morte dolorosa ma infame. No, io non mi rivolgerò a
Lui, ma a Voi, Madre Addolorata, che avete sentito entrare nella fronte
del vostro figlio la corona di spine, ed i chiodi nelle mani e nei
piedi, e nel suo costato la lancia.

— Mi rivolgo a Voi, che non avete voluto abbandonare il vostro Figlio
dilettissimo, ma che non potendo reggere alla vista della sua agonia,
sveniste ai piedi della Croce, colle mani rivolte al cielo, supplicando
Iddio e ripetendo le parole del divino agonizzante: Signore, Signore,
allontanate da me questo calice. E malgrado il fervore delle vostre
preghiere, divina Madre, voi non avete ottenuto nulla da questo Dio,
che vi guardava con un occhio pieno di lagrime, perchè la morte di
Gesù era necessaria per la redenzione dell’umanità. Ma la morte di mio
figlio non è stata decretata dall’eterna sapienza; sono gli uomini che
l’hanno condannato, e condannato ad onta della sua innocenza; ora il
mondo redento col sangue del vostro divino figlio non ha bisogno della
morte d’un innocente. Diteglielo a Dio buono, a Dio misericordioso,
a Dio onnipotente, santa Madre, e che mandi uno dei suoi angioli per
salvare mio figlio, come ha mandato un’altra volta per salvare il
figliuolo di Abramo.

Questo dolore era così profondo che non potei più a lungo sopportare
l’espressione. M’inclinai vicino a lui e gli toccai la spalla colla
punta delle dita.

Si alzò su di un ginocchio, con una mano appoggiata ai gradi
dell’altare.

— Chi siete voi, e che volete da me? mi dimandò il vecchio; siete voi
l’angelo che io invocava?

— No, io non sono l’angelo che voi invocavate, gli dissi; ma se non
sono un angelo, forse non vengo meno in nome di Dio.

— Che volete dire, signora? Sapete voi chi sono e per chi prego?

— Voi siete don Giuseppe de Deo, e pregate per vostro figlio Emmanuele
de Deo.

— Sì, sì, sì.

— Allora seguitemi.

— Dove? Ditemelo, che io sappia tutto ciò che debbo sperare od
aspettarmi.

— Dalla regina.

La sua faccia si oscurò.

— Dalla regina! disse egli esitando fra la gioia ed il timore; che
potrebbe mai dirmi la regina? Sapete voi che corre la voce che sia
ella che voglia mandarli a morte? Se ciò è, che Dio la protegga; ma
quantunque regina amo meglio essere nei miei panni che nei suoi.

— Venite, ripetei; spero che quando avrete veduto Sua Maestà, parlerete
meglio di lei.

— Infin dei conti le cose non possono esser peggio di quelle che sono;
vi seguo, signora.

E baciando il lastrico, si alzò.

Io andava innanzi, ed arrivando alla porta della chiesa, egli mi
passò innanzi, e immergendo le dita nella pila, mi presentò l’acqua
benedetta.

Vedendo che la sua mano non attirava la mia, mi guardò con stupore.

— Sono protestante, gli dissi.

Allora il resto di speranza che brillava sulla sua fronte sembrava
sparirgli; fece macchinalmente il segno della croce, mise un sospiro,
chinò la testa sul petto e mi seguì.

Salimmo in carrozza.

— Al palazzo reale, dissi al cocchiere.

Cinque minuti dopo la carrozza si fermò sulla soglia dello scalone che
conduce agli appartamenti della regina.

Salimmo le scale, e il vecchio, invece di essere lieto come avrebbe
dovuto esserlo, era triste come la disperazione, pallido come la morte.

Prima di entrare nella camera, ove ci doveva aspettare la regina, egli
mi prese la mano e si appoggiò allo stipite della porta.

Si sentiva già male.

— Un momento per carità, disse.

In quanto a me ogni gioia era morta nel fondo del cuore. Ecco dunque
l’idea che si farà della regina; era dessa che pronunziava la sentenza
per bocca dei giudici, e che uccideva per mano del carnefice.

Finalmente parve che riacquistasse un poco le sue forze; feci un segno
all’usciere e la porta s’aperse.

La regina aveva udito il rumore dei nostri passi, e non sapendo che
facevamo nel salotto vicino, si era alzata e ci veniva incontro. Luigi
XIV aveva corso pericolo di aspettare, la regina aveva aspettato.

— La sua faccia era oscura, quasi irritata, perchè indovinava ciò che
era accaduto.

Spinsi don Giuseppe de Deo ai piedi della regina, dicendogli:

— Ecco da chi dipende la grazia di vostro figlio; chiedetegliela come
la chiedevate alla Vergine e l’otterrete.

Il povero vecchio cadde ginocchioni colle mani giunte, dicendo per
tutta preghiera:

— È vero, signora?

— Che? chiese la regina colla sua voce breve ed imperiosa.

— .... Che se io vi domando la grazia di mio figlio, me l’accorderete?

— Nessuno ha fatto promessa in mio nome, spero, disse la regina
guardandomi con quella durezza che aveva talvolta ne’ suoi occhi.

— No, signora, rispos’io, ma ho detto ad un padre che chiedeva la vita
di suo figlio all’altare della Vergine: — venite e vi condurrò da una
regina bella e misericordiosa come una Madonna.

— Signora, signora, disse don Giuseppe, che riprendeva un poco di
coraggio sentendosi sostenuto da me; voi siete tutto, voi siete la
regina, voi siete il re: grazia, signora, grazia per mio figlio; ha
compiuto i vent’anni non sono tre giorni; è il mio unico figlio,
signora; contava su di lui per aiutarmi a morire, ma non mi venne
mai l’idea che gli sopravviverò, signora! Pei vostri cari figli, pel
principe Francesco, pel principe Leopoldo, pel vostro piccolo figlio
ancora nella culla, pel principe Alberto, vi prego, signora, vi
supplico, regina, vi scongiuro, Maestà, abbiate pietà di mio figlio.

— Signora, signora! diss’io alla regina, aggiungendo le mie preghiere a
quelle di don Giuseppe, e baciandole la mano.

— Oh! se io faccio qualche cosa per vostro figlio signore, disse la
regina, si rifiuterà egli di fare qualche cosa per me?

— Per voi, signora! per voi ricca, giovane, bella, potente, che cosa
volete mai ch’egli faccia, mio Dio? — Dite, dite, e tutta l’influenza
di un padre sarà impiegata, onde vi onori, vi veneri, vi serva in
ginocchio dal giorno in cui voi me lo avrete reso fino al momento della
sua morte.

— Vostro figlio è un Giacobino, signore.

Don Giuseppe l’interruppe.

— Un giacobino! egli un giacobino, signora! se egli veramente sia
un giacobino, sapete voi che son già tre anni che è in prigione, il
povero infelice? aveva diciassette anni, signora; e può un fanciullo
di diciassette anni avere un’opinione? — Si ha fatto tagliare la coda,
signora, ecco tutto il suo delitto; ma durante questi tre anni di
prigionia i suoi capelli hanno avuto il tempo di crescere!

— Non importa, egli sa qualche cosa di una congiura che ci circonda e
ci minaccia; faccia delle rivelazioni ed io gli farò grazia insieme ai
suoi due compagni.

— Delle rivelazioni! esclamò il povero padre; non ne ha da fare: sa
egli qualche cosa? e se anche ne volesse fare, lo potrebbe se ignora
questa congiura, di cui ora mi parlate, o signora, e che non esiste,
che nella mente de’ giudici? Come volete che riveli ciò che non
conosce? E chi gli proporrà le vostre condizioni? Chi avrà una voce
abbastanza imponente per vincere i suoi scrupoli, se ne avesse? Chi lo
persuaderà in nome di suo padre a vivere a questo prezzo? Oh! nessuno,
forse non vi sono che io solo e ancora!

— E conto anche su di voi, signore: andate a vedere vostro figlio.

— Vado a vedere mio figlio Emmanuele! esclamò il padre, tenendosi la
fronte colle mani, come se diventasse pazzo: che mi dite voi?

— Ecco una parola per don Basilio Palmieri, il procuratore fiscale, gli
disse; con questa parola otterrete il permesso di vedere vostro figlio
e di trattenervi un’ora con lui senza testimoni.

— Quando? signora, quando? Pensate che son tre anni che non lo vedo.

— Questa sera dalle dieci alle undici.

— E se non trovo don Basilio in casa?

— Vedrete vostro figlio domani, invece di vederlo questa sera.

— Sono già le nove, signora, e non ho un momento da perdere.

— Anch’io non vi trattengo.

— Mi pare di diventar pazzo dalla gioia.

— Che cercate voi?

— La vostra mano, la vostra mano per baciarla.

La regina gli diede la sua mano; era veramente tocca da emozione
profonda, e se il povero padre avesse potuto leggere come me nel suo
cuore, avrebbe insistito, ed essa gli avrebbe dato la vita di suo
figlio senza condizioni.

Sventuratamente, non continuò. Egli uscì precipitosamente dalla camera,
ripetendo:

— Mio figlio! mio figlio! mio Emmanuele!

E il rumore de’ suoi passi si allontanò nello stesso tempo della sua
voce.




IX.


Restammo sole, io e la regina.

Essa era commossa, ma si scorgeva che il suo cuore, rivestito di
triplice acciaio, aveva d’uopo di ben altre emozioni per intenerirsi.

— Ora a noi due, disse.

Io non mi era levata la mantiglia; essa mise la sua, si tirò
l’acconciatura sugli occhi, mi prese pel braccio e mi trascinò verso lo
scalone.

Abbasso ritrovammo la carrozza di cui mi era servita per andare nella
via S. Brigida; la regina vi entrò, ed io dopo di essa.

Il domestico chiuse la portiera.

— Dove? chiese egli.

— Alla Vicaria, rispose la regina, e la carrozza prese al gran trotto
la strada Toledo, che lasciò all’angolo del palazzo Maddaloni, per
inoltrarsi in quel dedalo di stradicciuole che conducono al vecchio
palazzo Capuano.

Altre volte passai vicino a quell’edifizio, ed aveva osservato con
terrore i prigionieri arrampicantisi alle grate delle prigioni, e le
teste tagliate ed esposte agli angoli del bastione nelle loro gabbie
di ferro. Ma questa volta doveva entrare in questo terribile recinto,
in cui i condannati sudavano nella cappella ardente la loro tremenda
agonia di tre giorni.

Era evidente che andava ad assistere non solo a qualche cosa di nuovo,
ma di lugubre, di terribile, d’inaudito per me.

Mi appoggiai tutta tremante alla regina, e la sentii dura e fredda
come un marmo; bisognava che avesse orribilmente sofferto, per essere
divenuta impassibile fino a quel punto.

Senza dubbio eravamo aspettate, perchè, al solo rumore della nostra
carrozza, la porta si aperse, e ci trovammo nella corte.

Un uomo con una lanterna in mano aspettava a piè dello scalone.

Il servo aperse la portiera, la regina discese ed andò verso quell’uomo
che teneva la lanterna.

Io la seguii inciampando.

— Siete voi il capo-custode? disse la regina con una voce di comando
che non apparteneva che a lei.

— Sì, signora.

— M’aspettavate?

— Aspetto una persona che deve consegnarmi un ordine del signor
procuratore fiscale.

— Eccolo.

— Mi permetterete che lo legga?

— È vostro dovere.

Il carceriere lesse l’ordine del procuratore fiscale, lo piegò e lo
mise in tasca.

— Ora, signora, spetta e voi il comandarmi ed a me l’obbedire; che
volete?

— Il padre del condannato Emmanuele de Deo ha ottenuto dal signor
procuratore fiscale il permesso di passare un’ora con suo figlio;
vorrei assistere al loro colloquio, senza che si sappia ch’io sia là ad
ascoltare ciò che diranno, se è possibile.

— Nulla di più facile, signora; i tre prigionieri sono nella camera
dei morti, — così chiamasi la camera ove i condannati passano i tre
ultimi giorni della loro vita; — questa camera comunica da un lato
colla cappella, e dall’altro collo spogliatoio, ove la confraternita
dei Bianchi, che accompagna i pazienti al patibolo, vi deposita le
sue lunghe vesti bianche. In questo gabinetto si arriva per una scala
segreta, senza bisogno di passare per la cappella e per la camera dei
morti. Alcune volte invisibili ascoltatori sono mandati dai giudici per
ascoltare le conversazioni dei condannati, ed anche per sorprendere i
gesti che si fanno a vicenda. Voi entrerete in quel gabinetto, e di là
vedrete e udrete tutto ciò che succeda nella camera dei morti.

— Ebbene, andiamo.

Il carceriere aperse il cancello contro cui stava appoggiato. La regina
passò pel vano aperto e salì leggermente all’oscuro le scale che aveva
innanzi.

— Oh! signora, aspettatemi, gridai. Il cancello si chiuse dietro di
noi, stridendo sui cardini, poi si udì la chiave girare nella toppa.

La regina arrivò al primo pianerottolo; io la cercai a tastone, poichè,
in causa dei nostri abiti neri, eravamo completamente invisibili
nell’oscurità, e mi avvinghiai a lei.

Il carceriere passò vicino a noi, e la sua lanterna gettò una pallida
luce su quelle tetre pareti.

Al primo piano un altro cancello chiudeva la scala in tutta la sua
larghezza.

Il carceriere l’aperse come la precedente collo stesso stridore dei
cardini e della chiave, e, passatolo, lo richiuse dietro di noi.
Mi sentii doppiamente oppressa: mi sembrava che qualunque persona,
quantunque innocente, che entri in un carcere le paia che queste porte
terribili, quantunque fatte pei delitti, non debbano più riaprirsi.

Entrammo in un corridoio stretto ed umido, su cui erano delle specie
di finestre colle grate, dalle quali avevano aria e luce le carceri. Al
passaggio della lanterna innanzi alle loro finestre in un’ora insolita,
si vedevano qua e là i prigionieri alzarsi sul loro letto, e si udiva
lo strisciare della loro paglia. Aveva una paura immensa, simile a
quella che si prova nei luoghi sconosciuti e terribili. Di quando in
quando bisognava fermarsi, aprire un nuovo cancello innanzi a noi e
chiuderlo dietro; ad ognuno di essi, mi sembrava, come a Dante, di
scendere in una nuova bolgia d’inferno: se fossi stata sola affatto
coll’uomo che ci conduceva, sarei svenuta, se fossi stata sola, sarei
morta di spavento.

Arrivammo all’estremità del corridoio. Quell’estremità mettea capo ad
una scala tanto stretta e chiusa da un cancello con sbarre incrociate
come quelle due finestre, che la mia mano, che è tanto piccola non
avrebbe potuto passare nel vano delle sbarre.

Il carceriere si rivolse, e a voce bassa disse:

— Non abbiamo più che questo cancello da aprire, e questa scala da
salire, e poi ci siamo.

— Aprite allora, disse la regina con una voce da cui era impossibile
distinguere la minima emozione.

Il carceriere obbedì, ma con precauzioni che provavano che infatti
noi arrivavamo alla meta del nostro viaggio, e che desiderava di non
essere inteso da quelli che n’erano l’oggetto; del resto la serratura
ed i cardini di quest’ultimo cancello erano mantenuti in modo che
potevano girare senza il minimo rumore: difatti non bisognava che
l’occhio e l’orecchio si avvicinasse in silenzio a quelli che spiavano
e tradivano?

Salimmo con tale precauzione, che in mezzo al silenzio non intesi
neppure il rumore dei nostri passi, ma solamente il battito del mio
cuore.

Arrivammo in una specie di gabinetto, su cui la regina entrò
risolutamente, ed io mi fermai sulla soglia.

Contro le pareti, simili ad ombre, stavano in piedi ed immobili
le lunghe vesti sospese dei Bianchi, coi buchi nel cappuccio che
corrispondono agli occhi, perchè, come abbiamo detto, era in questo
gabinetto attiguo alla camera dei morti che i penitenti indossavano il
lugubre vestito, col quale accompagnavano i pazienti al patibolo.

La regina vide il mio terrore, e ne indovinò la causa: senza dirmi
nulla mise la mano su una di quelle vesti e la scosse in modo da
provarmi che non si nascondevano fantasmi nelle loro pieghe.

Poi mi fece segno d’entrare.

Allora il carceriere mostrò alcuni fori praticati nelle commessure
delle tavole di legno in modo da non essere veduti dalla camera dei
morti. D’altronde una volta che i prigionieri si trovavano in questa
camera, non avendo più la libertà dei loro movimenti, non potevano più
scrutare nè il tavolato nè le pareti. Inoltre una specie di tubo di
latta, costruito a guisa di portavoce, riusciva all’orecchio quando
la persona nascosta nel gabinetto guardava attraverso alla fessura,
cosichè si poteva ad un tempo vedere ciò che si faceva, e udire ciò che
si diceva nella camera dei morti.

Vi erano due di queste fessure e due tubi.

Il carceriere ce li indicò.

— Aspettateci al piede di questa prima scala al di qua del cancello,
disse la regina.

Il carceriere ubbedì; egli lasciava la sua lanterna in terra, ma la
regina la raccolse e gliela pose in mano.

Restammo all’oscuro; però dalla camera dei morti, che per meritare il
suo nome di cappella ardente era illuminata a giorno, apparivano due
punti luminosi attraverso al tavolato, ed indicavano il luogo preciso
ove mettersi per osservare.

Ci avvicinammo alla parete tenendo il fiato, vi appoggiammo le mani
con precauzione per non far scricchiolare le tavole di legno, poi
avvicinammo l’occhio alla fessura, ed ecco ciò che vedemmo.

In una sala quadrata di mediocre grandezza, che non aveva altro accesso
che una porta che metteva in una cappella, erano posti in terra tre
materassi, sui quali stavano coricati i tre condannati Emmanuele de
Deo, Galiani e Vitagliano. I loro piedi e le loro mani erano legati
ad anelli impiombati sul pavimento. Solamente i ceppi che serravano
uno dei piedi erano aderenti all’ammattonato, mentre quelli delle
mani uniti ad una catena lunga circa tre piedi, permettevano loro di
adagiarsi sul letto ed anche di portare le mani ad una certa altezza.

Questi tre materassi erano appoggiati alle pareti, uno in fondo
alla camera rimpetto a noi, gli altri due uno a destra e l’altro a
sinistra; però quello a destra, che era occupato dal giovane Emmanuele
de Deo, era collocato vicino ad un affresco dipinto sulla parete,
rappresentante Gesù crocifisso colla Vergine ai suoi piedi.

Vicino a quest’affresco ardevano una ventina di ceri, che formavano
intorno ai prigionieri una parete di fuoco.

Era coricato sul suo letto, come il quadro, o piuttosto come
l’incisione, — non avendo mai veduto il quadro, — come l’incisione del
quadro di David rappresentante Socrate nel momento che beve la cicuta;
però invece del vecchio dalla fronte prominente, dal naso schiacciato,
che diceva agli Ateniesi: — «non valeva la pena di togliermi la vita,
non avevate che lasciarmi morire» — vi era invece un bel giovane, dal
profilo greco, pallido, cogli occhi pieni di foco, i capelli lunghi e
neri che cadevano in anella sulle sue spalle; e come aveva detto anche
suo padre, in tre anni di carcere i suoi capelli avevano avuto il tempo
di crescere.

Non so qual sentimento di pietà o di ammirazione questo giovane ispirò
alla regina; ma so che quanto a me, dopo aver dato uno sguardo ai suoi
compagni, i miei occhi si fissarono su di lui a non lo lasciarono più.

Un artista avrebbe fatto un magnifico quadro di questo giovane
splendidamente illuminato da ceri che lo circondavano, incatenato su
di un materasso ai piedi di questo affresco, vestito solamente con
pantaloni neri, moda adottata nello stesso tempo dei capelli alla Tito,
col collare rivolto sulle spalle e che parlava ai suoi compagni della
morte e della immortalità, come avrebbe fatto un profeta!

Era veramente sublime così; lo si sarebbe detto Giovanni il discepolo
prediletto di Cristo, se avesse avuto i capelli neri, invece delle
bionda capigliatura data all’apostolo da Leonardo da Vinci, l’immortale
autore dalla cena.




X.


Nel momento in cui entrammo, udimmo come una dolce melodia, e riconobbi
alla misura dei versi, alla loro forma energica, che il giovine
napolitano recitava senza dubbio versi di Dante.

Siccome il nostro arrivo si fece silenziosamente, ed i prigionieri non
potevano supporre che erano veduti ed ascoltati, egli continuava.

Ho detto l’impressione che mi fece quando i miei sguardi si fermarono
su di lui per non più lasciarlo; ho detto, che, seduto com’era
appoggiato su di una mano, e coll’altra levata al cielo quanto glielo
permetteva la lunghezza della catena, aveva la posa di Socrate e
l’ispirazione di un profeta.

Senza dubbio aveva pensato che i suoi due amici avevano bisogno di
essere confortati ed incoraggiati, perchè recitava loro il canto XIV
del Paradiso, ove Dante condotto da Beatrice, sale fino al cielo di
Marte, ove trova le anime di quelli che hanno combattuto per la vera
fede, che sotto la forma di lingue di fuoco circondano la croce,
glorificano il Crocifisso.

La vera fede, agli occhi di questo giovane entusiasta, era la
libertà per la quale egli moriva, e la sua speranza, che cercava di
far partecipare ai suoi compagni, era di essere un giorno una delle
melodiose lingue di fuoco.

Ora, dopo aver detto ciò che vedemmo, diremo quanto sentimmo.

Quando la voce giunse distinta al mio orecchio, aveva recitato già
quasi tre quarti del canto, e con voce sonora, e coll’occhio fisso come
a qualche cosa d’ignoto, era a questo verso:

«Qui vince la memoria mia lo ingegno».

I suoi amici l’ascoltavano colla bocca aperta e sorridente; si sarebbe
creduto che dicessero: — Canta il tuo ultimo canto, bel cigno della
libertà.

Egli continuava; forse non pensava più ad essi, e, come Dante, era
rapito in estasi, davanti allo spettacolo che si offriva alla sua
vista.

    Chè in quella croce lampeggiava Cristo;
      Sì, ch’io non so trovare esempio degno.
    Ma chi prende sua croce, e segue Cristo,
      Ancor mi scuserà di quel ch’io lasso,
      Vedendo in quell’albòr balenar Cristo.
    Di corno in corno, e tra la cima e il basso,
      Si movean lumi scintillando forte
      Nel congiungersi insieme e nel trapasso:
    Così si veggion qui diritte e torte,
      Veloci e tarde, rinnovando vista,
      Le minuzie de’ corpi lunghe e corte
    Muoversi per lo raggio onde si lista
      Tal volta l’ombra, che, per sua difesa,
      La gente con ingegno ed arte acquista.
    E come giga ed arpa, in tempra tesa
      Di molte corde, fan dolce tintinno
      A tal, da cui la nota non è intesa;
    Così da’ lumi, che lì m’apparinno,
      S’accogliea per la Croce una melode,
      Che mi rapiva senza intender l’inno.
    Ben m’accors’io, ch’ell’era d’alta lode,
      Perocchè a me venia: risurgi e vinci,
      Com’a colui che non intende e ode.
    Ed io m’innamorava tanto quinci,
      Che ’n fino a lì non fu alcuna cosa
      Che mi legasse con sì dolci vinci.
    Forse la mia parola par tropp’osa,
      Posponendo ’l piacer de gli occhi belli
      Ne’ quai mirando mio desio ha posa.

Dicendo questi ultimi versi, il condannato era così bello, così
pieno d’entusiasmo, che sembrava convinto che i suoi due compagni
applaudissero, come avrebbero fatto per un attore da teatro,
confondendo il rumore delle loro catene ai loro applausi.

Ad un tratto, in mezzo ai bravi ed al confricamento dei ferri, si udì,
dalla camera vicina, vale a dire dalla cappella, questo grido:

— Figlio mio! dov’è? dov’è mio figlio?

Emmanuele riconobbe quella voce.

— Mio padre! mio padre! esclamò, eccomi.

Dimenticando che era incatenato, fece un movimento così violento
per lanciarsi incontro a suo padre, che una delle catene, quella del
braccio destro, si ruppe.

Ma arrestato in mezzo al suo slancio dagli anelli della gamba e dalla
catena del braccio sinistro, il giovane ricadde con un gemito sul suo
materasso.

In questo momento il vecchio Giuseppe de Deo comparve alla porta,
e si gettò nelle braccia di suo figlio gridando: — Emmanuele, caro
Emmanuele!

Padre e figlio si tennero un istante abbracciati, ed i capelli neri del
giovine si confusero coi capelli bianchi del vecchio.

Vi furono dei momenti di silenzio, durante i quali non s’intesero
che i singhiozzi di Emmanuele e di Giuseppe de Deo, il cui cuore si
inteneriva nell’abbraccio del figlio.

Giuseppe de Deo ruppe pel primo quel silenzio.

— Voi sapete, disse ai due carcerieri che lo avevano accompagnato, che
ho il diritto di restar solo con lui.

Senza dubbio i carcerieri erano prevenuti di questo favore accordato al
povero padre, chè già distaccavano le catene dei due altri giovani che
furono condotti nella cappella.

Il padre ed il figlio restarono soli.

— Oh! signora, bisbigliai all’orecchio della regina, perchè non tolgono
anche a lui le catene, onde in quest’istante di felicità, che vi deve,
dimentichi di essere prigioniero?

— Dimandi questa grazia, disse la regina, e gli sarà accordata.

Come se i carcerieri stessi fossero stati compresi della sua
attuazione, rientrarono, sciolsero gli anelli dei piedi di Emmanuele de
Deo e liberarono l’ultimo ostacolo che incatenava la sua mano sinistra.

Si alzò, scosse la testa come un giovine leone, che riconquista la sua
libertà, e mise un sospiro di soddisfazione.

— Ah! mio caro padre! esclamò con gioja, come se fosse passato ogni
pericolo; che consolazione che è il rivederci, ed a qual miracolo debbo
la fortuna della vostra presenza e di questo istante di libertà?

— È un miracolo davvero, mio caro Emanuele, e mi pare ancora
incredibile, rispose il vecchio; era nella chiesa di S. Brigida,
ove pregava Iddio di venire in nostro aiuto, quando una dama venne a
cercarmi da parte della regina.

— Da parte della regina! esclamò Emmanuele, guardando suo padre col
più profondo stupore, mentre la sua fronte si oscurava visibilmente; da
parte della regina? — impossibile.

— Anch’io ho detto così dapprima, ma ho dovuto credervi. Io seguii la
dama, salimmo in carrozza, e mi condusse a palazzo.

— E questa dama la conoscete? chiese vivamente il giovine.

— No, rispose esitando il vecchio.

— Voi la conoscete, riprese il giovine; è la marchesa di S. Marco, la
baronessa di S. Clemente?

Il vecchio scosse la testa.

— Vediamo, ditemi chi è dunque, padre mio.

— Credo, rispose don Giuseppe, con un timore visibile che la sua
dichiarazione fosse mal accolta, credo che sia l’ambasciatrice
d’Inghilterra.

— L’ambasciatrice d’Inghilterra! Lady Hamilton! Emma Lyonna! — E chi ha
dato il diritto a quella donna perduta di mischiarsi dei nostri affari?

— Figlio mio, soggiunse il vecchio, non parlare così di lei, io
giurerei che è lei che ha chiesta la grazia per te.

— La mia grazia... alla regina! — ma che dite mai, padre mio! è la
regina che ci fa condannare, essa non può volere la nostra grazia.

— Te la porto però, figlio mio.

— Voi me la portate?

— Sì, ma ad una condizione.

— Ah! disse Emmanuele con un movimento sdegnoso della bocca, vediamo
questa condizione, padre mio.

Ed Emmanuele si lasciò cadere su di uno sgabello; suo padre gli posò la
mano sulla spalla.

— Bisogna che tu consideri prima di tutto, figlio mio, gli disse,
quanto è grande il mio amore per te, ed in quale profonda tristezza, in
quale supremo isolamento mi lascerebbe la tua morte.

— Padre mio, ditemi subito quale sia questa condizione, altrimenti
crederei, come ne dubito già, che sia impossibile che io l’accetti.

— Noi partiremo, figlio mio, lasceremo l’Italia, l’Europa, se fa
bisogno, purchè tu viva, purchè io sia vicino a te; — che m’importa
qual angolo del mondo abiteremo?

— Confessate, padre mio, disse il giovine con un sorriso amaro,
confessate che vogliono da me qualche viltà che spaventa fin voi
stesso.

— Pensa al disonore che una esecuzione pubblica getterà sulla nostra
casa, pensa che sei condannato ad una morte infame.

— Meglio vale una morte infame che una vita infamata, padre mio. — Ma
questa condizione, alla quale si consente che io viva, qual è dunque?

— Pensa, figlio mio, che tu salvi non soltanto la tua vita, facendo ciò
che la regina desidera, ma anche quella dei tuoi due compagni.

— Ma infine, padre mio, esclamò Emmanuele de Deo, battendo col piede la
terra con impazienza, che vuole la regina?

— Ciò che ti ha fatto condannare, mio caro Emmanuele, disse il vecchio,
la tua ostinatezza di non fare delle rivelazioni innanzi ai giudici.

— Sì? e si spera che ne farò innanzi al patibolo, e si è scelto mio
padre per venirmi a fare una tale proposta; hanno fatto di mio padre un
messaggero di vergogna.

Il vecchio cadde in ginocchio innanzi a suo figlio, e nascose la testa
nel suo petto.

— Figlio mio, mio caro figlio! esclamò don Giuseppe.

E diede in singhiozzi, in mezzo ai quali non si sentivano che queste
parole:

— Ti amo tanto, — ti amo tanto, tu non sai, tu, che sia l’amore d’un
padre.

— Oh! non lo sapevo, ma lo so ora, perchè voi non avete rifiutato
di venire a farmi una tale proposizione. Ah! sì, voi mi amate
terribilmente, poichè accettate la mia vergogna, la vostra e quella di
tutta la vostra famiglia per la mia vita.

— Figlio mio, esclamò il vecchio stringendolo contro il cuore senza
guardarlo, abbi pietà dello stato in cui mi vedi.

— Alzatevi, padre mio, disse il giovine baciandogli le mani, e
ascoltate in piedi ciò che ora vi dico.

Il vecchio obbedì, perchè era egli che pregava, e suo figlio che
comandava.

— Mi pare, continuò Emmanuele de Deo, che la tirannia, in nome di
cui venite voi, non è sazia del sangue del patrioti, ma vuole anche
il loro onore, ed in cambio della vita vergognosa che mi offre,
chiede... quante altre... voi non ne sapete padre mio — si avrebbe
dovuto fissarvene un numero. Io sapeva bene che nulla di buono potea
venirmi da quella donna, e quando voi me ne avete pronunziato il nome,
insieme a quella sua degna amica, ho sentito svanirmi ogni speranza;
no, no, lasciatemi morire, padre mio; lo so, la libertà costa caro
a Napoli, e per climatizzarla bisognerà versare dei fiumi di sangue;
ma non dimenticatelo, il primo sangue che sarà versato, sarà sempre
il più illustre; pensate all’esistenza odiosa che voi mi proponete.
— Fuggire? ed in qual terra incognita, in qual angolo sconosciuto
del mondo nasconderemo la nostra vergogna? — No, — calmate il vostro
dolore, consolatevi con questa convinzione che muoio innocente, e che
la mia morte è un omaggio alla lealtà; sopportiamo con coraggio ambedue
il nostro martirio di un momento, e verrà il giorno in cui il mio
nome reclamerà una parte gloriosa nella storia, in cui voi direte con
orgoglio: Chi ho messo al mondo io, fu il primo a morire pel suo paese.

— Ebbene, capisco che tu ricusi di vivere ad una tale condizione, ma
lasciami rivedere la regina, le dimanderò la grazia senza che tu abbi
da arrossire nell’accettarla; sono sicuro che, vedendomi ai suoi piedi
e udendo le mie preghiere, te l’accorderà.

— Non farlo, padre mio! oh! in nome del cielo non vogliate farlo!
Non vedete che questa donna cammina nella via della perdizione, e che
una buona azione la salverebbe? Ora il giorno dei tiranni è venuto.
Come sua sorella Maria Antonietta, è una traditrice del suo paese,
un’adultera cui non saziano più gli amori impudichi, ma ricorre ad
amori infami, contro natura; al principe Caramanico, questo bravo
e leale cavaliere, è succeduto un intrigante irlandese, di dubbia
nascita, scacciato dalla marina francese, non so per quale azione
vergognosa, che non pensa che ad ingrassarsi coll’oro dei napolitani, e
che, vile ministro d’una ganza incoronata, non ha per colpirci nemmeno
la scusa dell’odio suo; finalmente a questo intrigante irlandese,
succedette una cortigiana plebea, una figlia raccolta da un ciarlatano
sulle strade di Haymarket, una prostituta, che la regina crede di
elevare fino al trono ov’è seduta, e che al contrario ha abbassato la
regina fino al lupanare donde ella esce. No, no, padre mio, non chieder
nulla a quella trinità senz’anima; noi siamo vissuti puri fino ad ora,
e moriamo puri come abbiamo vissuto.

— Ah! sì, bisbigliò la regina, sì, tu morrai miserabile, e nulla al
mondo ti potrà salvare; scendesse Dio stesso dal cielo per dimandarmi
la tua grazia, gliela rifiuterei. Vieni, Emma, vieni, abbiamo ascoltato
abbastanza; dico abbiamo, perchè ne hai avuto anche tu la tua parte.

E prendendomi la mano, con una specie di ruggito da lungo tempo
soffocato, e che si aumentava a misura che scendevamo per le scale,
essa mi trascinò più morta che viva da quel gabinetto.

Era la prima volta che mi sentiva a maledire.




XI.


Nel ritorno la regina non disse sillaba, e per tutto quel tempo mi
tenne la mano stretta alla sua, ed io sentiva dai suoi movimenti
convulsivi a qual parossismo di collera era giunta.

Arrivando a palazzo, si gettò su di un seggiolone, sempre taciturna ed
agitata.

Poi ad un tratto:

— Come mi odiano questi odiosi napoletani! esclamò; l’hai tu inteso?
ebbene, egli è l’interprete di tutta la generazione. Oh! come sono
contenta d’aver veduto coi miei occhi, e inteso colle mie orecchie ciò
che ho veduto ed inteso — Aveva dei rimorsi, — voleva far grazia, —
grazia! vengano ora a chiedermi grazia; saprò bene cosa rispondere io:
_Avete vissuto puri, morrete puri_. Oh! sì, essi morranno, e con essi
tutti quelli che non piegheranno la testa ed il ginocchio.

Poi dopo un istante di silenzio:

Questa Giunta è assurda — ne nominerò un’altra; le dimandano trenta
teste e ne accorda tre, e vanno propriamente a scegliere i più giovani,
quelli che cadendo produrranno maggior emozione nel pubblico — Ma anzi
tutti non cadranno, no, non avranno l’onore di essere decapitati;
saranno appiccati come assassini di strada. Ah! ho miei uomini
anch’io, e darò a questi miserabili giacobini un tribunale, che non
li risparmierà di certo. Vanni, Castelcicala, Guidobaldi; ecco gli
uomini su di cui posso maggiormente contare. — Castelcicala è principe
e giovane, e non posso far più nulla per lui; ma farò Vanni marchese,
farò Guidobaldi conte, li sazierò di oro, purchè mi rendano satolla di
sangue.

E si alzò come Nemesi, e gridando di rabbia andò a gettarsi sul letto.

Io la seguii, e gittandomi a’ suoi ginocchi.

— Signora, le dissi, per carità, risparmiate voi stessa.

— E non poter nulla contro di loro: ucciderli, ecco tutto. E non hai
veduto che affrontano la morte, che la chieggono ad alta voce, che
vogliono il martirio? — Ma non sarebbe meglio, lo credi anche tu, di
seppellirli nelle fosse di Favignana e di Maretimo?

— Sì, signora, esclamai; è una ispirazione del cielo, avranno il tempo
di pentirsi.

— Pentirsi, coloro, ah! mai; mi odieranno di più. E poi non ci sono
prigioni tanto chiuse dalle quali non possano evadere. Mi hanno
raccontato che un prigioniero francese, chiamato Latude, evase tre
volte dalla Bastiglia. No, non vi ha che la tomba da cui non si esce
più vivi; nulla sarà mutato per loro fuorchè il genere di morte.

— Non temete qualche sommossa, signora?

— Oh! ne vorrei una; vorrei un’occasione di abbruciare Napoli, e di
sterminare un terzo dei suoi abitanti; non v’ha di buono che il popolo,
non v’ha di fedele che i lazzaroni; chiunque veste un abito di panno
è una cangrena, i loro Vico, i loro Genovesi, i loro Beccaria, i loro
Filangieri, i loro Pagano, i loro Conforti. Buono che ha risparmiato il
povero Caramanico, se quel giovane avesse detto di lui ciò che ha detto
di Acton, gli avrei fatto strappare le carni con tenaglie roventi.

Colsi l’occasione che mi offriva ella stessa di dare un altro corso
alle sue idee.

— È molto tempo che non avete ricevuto sue notizie? le chiesi.

— Notizie di chi?

— Del principe Caramanico.

— Oh! da tanto tempo egli non mi scrive più; quando gli scrivo, credo
di avertelo già detto, lo faccio coll’intermediario di sua moglie:
essa gli fa passare le mie lettere credendo che si tratti di affari di
stato; ma egli, sono io la prima a dirgli che non mi dia sue notizie.
Qui non mi fido di nessuno fuorchè di te. Se si credesse che egli pensa
ancora a me, si crederebbe che egli pensi di ritornare primo ministro,
e Dio sa allora cosa succederebbe. Hai fatto bene di parlarmi di lui,
Emma. Sento che ciò mi calma. È per me ch’egli non richiama sua moglie
a Palermo. Io ne era gelosa altra volta; ah! se fosse qui.

E intanto stringeva singhiozzando l’origliere fra le braccia.

— La regina mi vuol permettere che l’aiuti a mettersi a letto, e che le
ponga vicino la cassetta delle lettere e dei mazzolini di fiori?

— Oh! disse, tu sei la mia consolazione, tu conosci la sola cosa che
può rimettermi la calma in cuore. Essi t’insultano pure.

— Non pensate a me, signora. Per me sventuratamente essi hanno ragione,
poichè mi rimproverano nulla che non sia vero; e li ringrazio di essere
rimasti più indietro del vero; non pensate dunque a me, non pensate che
a lui; forse in quest’ora egli pensa a voi.

— Oh, sei pazza; vi sono là delle belle siciliane; io sono vecchia, ho
i miei trentasette anni, ed egli è ancor giovine con quarant’anni; dopo
i trent’anni, gli anni contano per due; lo saprai anche tu un qualche
giorno.

— Silenzio, signora, dissi ridendo, lo so bene, benchè non conosca
precisamente la data della mia nascita, che non è portata come quella
di Vostra Maestà nell’Almanacco di Gotha, — io debbo avere i miei
trentadue anni, o tutto almeno trent’un anno ben maturati.

— Tu, disse la regina, baciandomi gli occhi, tu hai vent’anni, e Dio mi
perdoni, credo che li avrai sempre.

— Vostra Maestà vuol darmi la chiave dello stipo?

— No, no, è inutile, ora vado a letto, sono stanca, tu ti sederai
vicino a me, parleremo di lui; è strano come questo solo pensiero
mi calmi; ah! non so perchè mi rammarico essere stata felice due o
tre anni; e quale è la donna, e specialmente una regina, che può far
calcolo su tre anni di felicità?

Essa era passata dapprima dalla collera all’agitazione, ed ora passava
dall’agitazione alla malinconia; l’aiutai a svestirsi, si mise a letto,
avvicinai una poltrona, e le presi la mano.

— Ed ora, le dissi, parlatemi di lui.

Allora quel cuore si gonfiò, si aperse e si espandeva: per un’ora
intera ripassò uno dopo l’altro nella sua memoria tutti i più
piccoli avvenimenti di questi tre anni di felicità; non le sfuggì
un particolare, e in quell’ora dimenticò tutto, fin quell’insulto
sanguinoso che aveva ricevuto, tanto i ricordi di un primo amore hanno
potere sul cuore di una donna.

Poi a poco a poco la sua voce si faceva sempre più languida, la sua
mano si schiuse, e i suoi occhi si chiusero, ed una respirazione quieta
come quella di un fanciullo usciva dalle sue labbra che appena due ore
prima mandavano ruggiti.

Dormiva.

Supposi che, dopo le emozioni provate, il sonno sarebbe stato lungo e
profondo. Diedi ordine all’anticamera perchè all’indomani mattina nulla
turbasse questo sonno, poi mi ritirai anch’io nella mia camera attigua
alla sua, lasciando aperta la porta di comunicazione.

Alla mattina, o piuttosto nello stesso giorno, 3 ottobre 1794, si
svegliò a dieci ore, e svegliandosi mi chiamò.

Io era alzata da circa venti minuti, e corsi al suo letto.

— Davvero, disse, tu sei la più potente incantatrice che sia esistita;
tu imperi sui cuori e sulle passioni; tu non mi lascerai mai più, non è
vero? tu sei il mio buon genio, — e mi tese le braccia.

Mi chinai verso di essa e le baciai la fronte.

— Dimanda se non è venuto nessuno per me, disse.

Compresi il suo pensiero; ella sperava che malgrado ciò che suo figlio
aveva potuto dirgli, questo padre disperato avrebbe fatto un nuovo
tentativo presso la regina.

Andai io stessa nelle anticamere, ed interrogai non solamente le dame
d’onore, ma gli uscieri — Era venuto nessuno.

Entrai, e le annunziai quest’assenza di visitatori; il suo sopracciglio
si corrugò.

— L’avranno voluto, bisbigliò, così non avrò nulla a rimproverarmi.

Poi volgendosi a me:

— Oggi ti lascio in libertà tutta la giornata, mi disse: ho molte
lettere da scrivere, debbo ricevere molte persone, molti ordini da dare
per dimani; sii qui per le sei, e partiremo questa sera per Caserta.

— E... se il padre venisse... le dissi in atto di preghiera.

— Se il padre venisse, lo vedremo, rispose — ma sta tranquilla — non
verrà.

Uscita di palazzo, m’incamminava dalla parte di S. Ferdinando per
prendere la via di Chiaia. Vidi molta gente affollarsi dalla parte
del castello. Ordinai al domestico d’informarsi d’onde veniva
quell’affluenza; — egli discese, si avvicinò ad un gruppo di gente che
interrogò, indi ritornò subito.

Mi pareva che quegli uomini che componevano quel gruppo mi guardassero
con un fare di minaccia.

— Che è dunque? chiesi al domestico.

— Milady, rispose, pare che dimani vi sia una esecuzione in largo
castello — si pianta la forca.

— A casa, a casa, esclamai, nascondendo la mia faccia nelle mani.

Andai da sir William.

— Sapete che succede? signore, gli chiesi.

— Sì, mi rispose; mi pare che il tribunale abbia condannato a morte tre
giacobini, che saranno appiccati dimani.

— La regina teme che dimani vi sia una sommossa per questa esecuzione,
essa c’invita a passare la giornata a Caserta.

— Andate con lei, — io non posso lasciare Napoli, debbo dare dimani dei
particolari al governo intorno a ciò che potrà accadere: e se fossi a
Caserta non sarei sicuro dell’esattezza dei miei dispacci.

— Ma voi non assisterete all’esecuzione di quei tre infelici, spero.

— Non so, il banchiere inglese Leigh mi ha offerto un posto alle sue
finestre, e siccome egli abita in Largo Castello, forse accetterò.
In ogni caso dimani a sera, o dopodimani al più tardi, vi risponderò
dandovi i particolari di ciò che sarà accaduto.

Abbrividii all’idea di quei particolari che ci prometteva tanto
tranquillamente sir William: egli da parte sua ignorava completamente
quanto era accaduto nella notte precedente, e non comprese nulla della
mia agitazione, ma non avendo egli l’abitudine d’interrogarmi, mi fece
nessuna questione.

All’ora indicata io era dalla regina. Solamente aveva ordinato al
cocchiere di andare dal Chiatamone e Santa Lucia, per evitare la
vicinanza di Largo Castello.

Però nell’andare a Caserta, bisognava passare per Toledo, ma eravamo in
carrozza chiusa, e abbassai le tendine sul vetro passando innanzi a S.
Carlo.

E poichè avevamo una carrozza senza stemma e livrea, passammo in mezzo
alla folla che ingombra sempre Toledo, senza eccitare la curiosità;
però non mi sentii tranquilla se non quando fui fuori di città; potei
abbassare il vetro e respirare l’aria dei campi.

Non ebbi bisogno d’interrogare la regina per sapere se nessuno era
venuto, o se essa avesse voluto accordare o ricusare cosa alcuna.

Arrivammo a Caserta verso le sette e mezza di sera; entrando in quel
pesante e grave edifizio mi sembrava di entrare in una tomba.

Si comprende quanto fu triste per noi quella sera; evidentemente
io e la regina eravamo preoccupate della stessa idea; non potevamo
pensare ad altre cose, e però nè lei nè io volevamo parlare di ciò cui
pensavamo tanto ostinatamente.

In quanto a me aveva continuamente innanzi agli occhi quel tre giovani,
e principalmente quello che avea rappresentato la parte principale in
quella tragedia; — quella testa bruna, quegli occhi eloquenti, la voce
sonora, e il gesto solenne, tutto ciò mi tornava alla memoria con una
verità tale, che se fossi stata sola non avrei resistito al desiderio
di prendere una matita e disegnare tutta quella scena sulla carta.

La regina aveva preso un libro e faceva sembiante di leggere;
dimenticandosi di volgere i fogli, era facile comprendere che non
leggeva.

Alle 10 ore ci si portò una refezione su di un vassoio, ma non
prendemmo che un poco di thè.

Due e tre volte or l’una or l’altra cercammo di avventurare qualche
parola indifferente, a cui in assenza delle grandi preoccupazioni
si appoggiano le conversazioni ordinarie; ma ognuna di queste parole
sembrava una pietra caduta in un abisso, ove andava a morire senz’eco.

Il pendolo che era sul caminetto era di porcellana di Sassonia, e
rappresentava il tempo armato di falce. Mai allegoria fu più di questa
tetra ed eloquente. Il pendolo suonò successivamente le dieci, poi le
undici, e la mezzanotte; coll’ultima vibrazione del metallo, entravamo
nel giorno 4 ottobre, il giorno dell’esecuzione.

La regina si alzò, si avvicinò al caminetto, sollevò il globo della
pendola e ne arrestò il movimento.

Prendeva le sue misure, per impedire che la pendola suonasse le quattro
ore. Essa doveva non già numerare il tempo, ma segnare l’eternità.

Il supplizio dei tre giovani doveva aver luogo alle quattro. Io non
lo sapeva, e noi eravamo tanto preoccupate dello stesso pensiero, che
quando la regina fermò il pendolo, mi sentii i brividi per tutto il
corpo comprendendo la sua intenzione.




XII.


Non so come la regina abbia dormito: io feci dei sogni orribili; ma
verso l’albeggiare le visioni che agitavano la mia mente svanirono e
potei godere un po’ di riposo.

La prima cosa che vidi, maravigliandomi, fu la regina in piedi vicino
alla mia finestra, che soffiava su d’un vetro, e sul vapore che vi
lasciava col suo fiato aveva disegnato colla punta del dito una specie
di Calvario con tre croci.

Udendo alzarmi sul letto, prese di fretta il suo fazzoletto dalla tasca
e cancellò tutto.

— Che noia, disse; mi son alzata presto nella speranza di fare una
passeggiata, ed ecco che cade una pioggia minuta che c’impedisce di
uscire per tutta la giornata.

Era una distrazione che le fuggiva.

— Vostra Maestà aspetta forse da tanto tempo? le dimandai.

— La mia Maestà aspetta da un’ora, perchè la Mia Maestà ha dormito
molto male; andiamo, alzati, vediamo di far qualche cosa.

Mi alzai.

— Oh! disse la regina, osservandomi, avrò dunque una volta la
soddisfazione di vedervi meno insolentemente bella come di solito:
siete pallida, avete le occhiaie questa mattina, e vi prevengo di ciò,
mia cara amica.

— Ahimè! signora, le risposi, temo di essere più pallida, e di avere
gli occhi rossi questa sera.

Essa finse di non intendere.

— Non avete dunque invitato sir William a venire con voi a Caserta?

— Difatti, signora; ma è trattenuto a Napoli per gli affari
dell’ambasciata; verrà a raggiungerci questa sera o domani mattina.

— Tanto meglio, disse la regina facendo forza a sè stessa, ci darà
delle notizie.

È inutile dire che la conversazione finì là.

La regina rientrò nella sua camera, ed io mi vestii.

Verso le due la pioggia cessò. Al primo raggio di sole che trasparisse
in mezzo alle nubi si dovea attaccare i cavalli alla carrozza. Si venne
a prevenirci che i cavalli erano attaccati.

Scendemmo, e facemmo una passeggiata nel parco.

Quanto più l’ora si avanzava, una specie di agitazione febbrile
s’impossessava della regina; essa aveva portato la conversazione
sulla prigionia, sulle sofferenze e sulla morte di sua sorella Maria
Antonietta che era stata decapitata l’anno precedente il 16 del mese
appena incominciato. Siccome non sfuggiva nessuno dei suoi pensieri,
compresi che cercava di alleviare i suoi rimorsi, caricando su di
quanto i Francesi avevano fatto soffrire ad una dama, che pel suo rango
doveva essere inviolabile.

Il tempo si oscurò ed il cocchiere credette suo dovere di ritornare al
palazzo. La regina non fece alcuna osservazione, e la carrozza si fermò
a piedi del grande scalone.

La regina cambiò discorso.

— Questo scalone è veramente bellissimo, disse, e se non vi fosse a
Caserta che questo solo scalone basterebbe a fare la riputazione di
Vanvitelli.

E me ne fece osservare tutte le bellezze.

Arrivammo nella sua camera. La regina era in preda ad un’agitazione
nervosa che terminava abitualmente in una crisi; essa cominciava
con passo svelto, e si sarebbe detto che voleva armonizzare tutte le
agitazioni esterne, che loro malgrado tradivano lo stato del suo animo.

Ad un tratto ed al momento in cui rientrava in camera, stette immobile,
collo sguardo fisso sul pendolo.

Il pendolo segnava le quattro.

Nello stesso momento fece sentire quella specie di rumore rotatorio che
precede il suono della batteria; il tempo agitava la sua falce come in
atto di colpire, ed il timpano vibrò quattro volte sotto il martello
d’acciaio.

La precauzione presa dalla regina per fermare il pendolo era stata
inutile, e, cosa strana, quel pendolo, nello stesso momento in cui la
regina entrò nella camera, suonava quell’ora fatale, che aveva cercato
di sospendere sul suo quadrante.

La causa fu che, dopo essere la regina uscita con me per andare in
carrozza, era entrato un usciere, il quale, vedendo il pendolo fermato,
l’aveva caricato e regolato gl’indici. Ecco il miracolo.

Ma prima che la regina se ne fosse data ragione a sè stessa, l’effetto
era già prodotto; e se io non fossi stata là per sostenerla, credo che
sarebbe caduta sul tappeto.

Volli chiamare; ma mi trattenne.

— Oh! no, disse, bisogna che forse sia debole, ma non voglio che ciò si
sappia; Dio però non si sarà divertito, contro ogni probabilità, a fare
un miracolo per questi tre miserabili giacobini. Voglio sapere questo
mistero del pendolo; aiutami a coricarmi sul letto ed informatene.

Condussi la regina fino al suo letto, si coricò vestita, ed io uscii
per interrogare i domestici.

Fu allora che l’usciere mi raccontò, che vedendo il pendolo fermato, e
credendo che si fosse fermato per qualche accidente, aveva creduto suo
dovere di ricaricarlo e di metterlo all’ora.

Entrai, e diedi questa spiegazione alla regina.

Il suo viso al rasserenò, asciugò il sudore che le irrorava la fronte,
e cercò di ridere; ma i muscoli della faccia sembravano induriti,
e rifiutavano di distendersi per dare alla faccia la sua dolce
espressione.

— In fin dei conti, disse, osservando il pendolo, e vedendo che erano
le quattro e mezzo, ora sarà finito tutto, e sarà dato un grande
esempio a Napoli, che ne ha tanto bisogno.

Non feci parola.

— Non sei del mio avviso? disse.

— Ahimè! signora, le risposi, permettetemi che su questo terribile
argomento della vita e della morte io non abbia nessuna opinione;
sono nata troppo lontana da quelli, cui Dio ha dato il diritto di
disporre della vita degli altri, per essermi mai occupata di questa
grave questione. Io non sono che una donna, io, e per conseguenza una
creatura debole e di buon cuore. Avrei piuttosto voluto, lo confesso,
che quel pendolo avesse segnato l’ora della loro grazia invece di
quella del loro supplizio.

— Ma! esclamò la regina con calore, se quel pendolo ha segnato l’ora
del loro supplizio, è colpa loro. Non hai tu fatto, e non m’hai
fatto fare tutto quanto bisognava per salvarli? Anche ieri, dopo
l’insulto che mi hanno fatto, non ho aspettato qualcuno della loro
famiglia, padre, madre, fratello o sorella, che venisse ad implorarmi
grazia per loro? Dopo la tua partenza, rimasta sola, non ho io dato
l’ordine che chiunque mi chiedesse fosse introdotto da me? Ebbene, ho
aspettato inutilmente dalle undici del mattino fino alle sei di sera,
scuotendomi e sperando ad ogni passo che si avvicinava alla mia porta.
Ma che vuoi? Essi sdegnano il mio perdono, sono felici di morire per
la santa causa della libertà, credono che un giorno Napoli innalzerà
loro delle statue; in questa convinzione saranno morti da martiri.
Delle statue a Napoli! — e diede in uno scroscio di risa stridulo e
forzato, — ci fanno un bel calcolo, i popoli sanno distruggere, ma non
sanno edificare; forse si rovescieranno quelle del re, ma non già per
collocare sui loro piedestalli quelle dei giacobini.

Poi cadde in silenzio.

Mi guardai bene di turbare quel silenzio. Tenendo la testa appoggiata
sulla sua mano, contava macchinalmente le pulsazioni del suo polso
febbrile, quando ad un tratto il rumore di una carrozza rintronò sotto
le volte del palazzo.

A quel rumore la regina si alzò.

— Che è? dimandò.

— È probabilmente, risposi, sir William Hamilton, che, secondo la sua
promessa, viene a raggiungerci.

— Fatelo entrare se è lui, disse la regina; ho premura di sapere quanto
è accaduto colà.

Era egli, e portava delle notizie talmente inaspettate, che non aveva
voluto tardare un istante per farcele sapere; grazie ai suoi eccellenti
cavalli era venuto in cinque quarti d’ora.

Ecco quanto accadde, e quanto vide in persona dalla finestra del
banchiere Leigh.

Come al solito, i Bianchi erano andati a prendere i condannati alle
carceri della Vicaria, ed erano usciti a piedi accompagnati da due
compagnie di fanteria e da un distaccamento di cavalleria.

Avevano fatto una prima sosta alla cattedrale, poi continuarono il loro
cammino salendo fino alla strada Toledo, ove arrivarono dall’angolo del
palazzo Maddaloni.

Nella strada Toledo i soldati avevano dovuto aprire un passaggio
al funebre corteo, tanto era ingombra la via; i giovani collocati
ciascuno fra due confratelli, sulle spalle dei quali avevano rifiutato
di appoggiarsi, e preceduti da un sacerdote che di tempo in tempo si
rivolgeva per far loro baciare un crocifisso, atto che essi compivano
con un devoto fervore, camminavano con un passo fermo, salutando nella
moltitudine affollata d’ambi i lati ed alle finestre delle case piene
di gente, le persone di loro conoscenza. Queste persone alla lor volta
rispondevano agitando i loro fazzoletti e gridando: — Addio! addio!

Alle quattro meno un quarto, il corteo arrivò all’angolo della chiesa
di S. Ferdinando, passando innanzi al teatro S. Carlo, ed entrando
nella piazza del Castello, al centro della quale stava eretto il
patibolo, su cui erano collocate tre forche che avevano la forma di un
H maiuscolo, a cui si fosse alzata sino all’estremità superiore l’asta
che l’attraversava.

Vitagliano, il maggiore d’età, che camminava innanzi pel primo, gridò:

— Amici, ecco lo strumento del martirio.

— Che tu sia benedetto, rispose Emanuele de Deo; il martirio conduce a
Dio.

— E la morte alla libertà, soggiunse Gagliani, il più giovine del tre.

Si raccolsero queste parole, e quelli che le avevano udite le fecero
circolare per la folla.

Quella folla era immensa, ed a gran fatica un’ora prima dell’esecuzione
quattrocento uomini di fanteria avevano fatto irruzione sulla piazza e
formarono un quadrato vuoto intorno al patibolo.

Poi alla vista di tutti, e dietro il comando dei loro uffiziali, questi
quattrocento uomini avevano caricato i fucili.

Da un’altra parte si erano veduti degli artiglieri del castel Nuovo
rivolgere la bocca dei loro pezzi verso la piazza del castello, e
vicino ad essi stavano pronti colla miccia accesa per far fuoco, se si
fosse fatto qualche tentativo per venire in aiuto ai condannati.

A queste truppe si aggiunsero quelle che accompagnavano i tre giovani.

Circa ottocento soldati circondavano il patibolo.

Al momento in cui i pazienti entrarono nel recinto fatale, muraglia
di baionette che si frammetteva fra la vita ed essi, una dozzina di
tamburi fecero sentire un rullo sordo e velato, che indicava che quel
lugubre dramma doveva incominciare.

Gagliani, il più giovane del tre, contava diciannove anni appena, come
dissi; salì sulla piattaforma, mentre i suoi due compagni restarono
abbasso. Egli doveva ai suoi diciannove anni il triste favore di morire
pel primo.

Vedendo quella testa così giovane, già destinata al supplizio,
un’immensa commozione si sentì nella folla, ed alcune voci gridarono: —
grazia!

Grazia! — rispose Gagliani, alzando egli stesso la voce, ci fu offerta
in danno del nostro onore, e l’abbiamo ricusata.

Il carnefice era già cavalcone sulla trave orizzontale, gli aiutanti
spinsero Gagliani verso la scala, ed egli salì lentamente i cinque o
sei scalini, ove gli venne posto al collo il nodo corsoio.

— Viva la libertà! ebbe ancor tempo di gridare.

Ma nello stesso tempo, l’aiutante del carnefice rovesciò con un calcio
la scala, il corpo oscillò nello spazio per l’impulso che ricevette,
intanto che il carnefice si lasciò scivolare sulle spalle del paziente,
e l’aiutante gli si aggavignava ai piedi; un gruppo informe, agitato
dai sussulti dell’agonia, spaventò per un momento gli spettatori. Poi
il carnefice saltò a terra, l’aiutante si trasse in disparte, ed il
cadavere del primo martire della libertà, colle vertebre del collo
infrante, rimase immobile penzolone dalla forca.

Toccava ad Emmanuele de Deo.

Costui salì rapidamente i gradini della piattaforma, e parve che
cercasse qualcuno fra la folla.

Allora in mezzo ad un profondo silenzio, una voce si udì, che con un
accento di profondo dolore gridava:

— Sono io colui che tu cerchi; eccomi figlio mio.

E si vide il vecchio padre di Emmanuele de Deo che si alzava sulla
punta de’ piedi in mezzo alla folla, col viso bagnato di lagrime,
agitando il suo fazzoletto, e compiendo senza dubbio una suprema
promessa: era venuto a dar l’ultimo addio al figlio.

— Addio, padre mio! — Addio, ripetè alla sua volta il giovane: io
muoio pel mio paese; possa il mio paese ricordarsi della mia morte e
vendicarla.

E slanciandosi da sè verso la scala, salì rapidamente gli scalini, tese
il collo al nodo fatale, ed il secondo atto del terribile dramma si
compiva.

Nel momento, in cui il carnefice si lasciava scivolare sulle spalle del
paziente, mentre l’aiutante si avvinghiava alle sue gambe, alle grida
di dolore del vecchio che chiamava suo figlio, torcendo le braccia per
la disperazione, si fece sentire un immenso clamore in parte pietà, e
in parte minaccia, e un movimento di oscillazione percorse la folla.

Il comando — _pronti!_ — si fece udire seguito da un confricamento
di ferro, che annunziava la pronta obbedienza di quelli a cui era
stato dato. Una nube di fumo seguita dalla detonazione di un cannone
caricato a polvere apparve alla sommità della torre: il _si salvi chi
può_, napoletano; _fuggiamo, fuggiamo_, fu pronunziato da cento voci.
I ranghi dei soldati furono aperti, non già da quelli che volevano
attaccarli, ma da quelli che speravano di fuggire. Ed il carnefice,
temendo in mezzo a quel tumulto non gli togliessero l’ultima vittima,
e di perdere i dieci ducati che il municipio gli accordava per
l’esecuzione, si precipitò addosso a Vitagliano col coltello in mano e
lo colpì nel cuore.

Vitagliano cadde mortalmente ferito.

E mentre la folla sparsa fuggiva per tutte le vie che mettono al largo
castello, spaventata dal comando, dal tintinnio delle armi, e dal colpo
di cannone, il carnefice ed i suoi aiutanti trasportarono Vitagliano
morente sulla piattaforma, ove spirò, e non potendo far di meglio,
appesero il cadavere invece di un uomo vivo.

Ecco quanto accadde, quanto ci raccontò colla sua esattezza diplomatica
sir William, testimonio oculare di tutta quella scena.




XIII.


La regina ascoltò questo racconto dal principio sino alla fine senza
dar segno di emozione; ma quando sir William ebbe terminato, chiese un
bicchier d’acqua.

Andai a prenderglielo io stessa sulla sua toletta, e glielo porsi:
prendendolo dalla mia mano, la sua tremava, e sentiva i suoi denti
battere convulsivamente sull’orlo del bicchiere.

— Vi sentite male, signora? le dissi.

— Difatti, rispose, credo di aver un po’ di febbre; — poi stringendomi
la mano con un certo terrore, — tu passerai la notte vicino a me, non è
vero?

— Che Dio mi guardi di lasciarvi un solo istante; ma bisognerà mandare
per un medico.

— Per far che?

— Perchè temo che siate seriamente indisposta, e che qualche calmante
sarebbe forse sufficiente per distogliervi da una malattia grave.

La regina stette un momento pensosa, si alzò sulle braccia, poi ad un
tratto ricadde sull’origliere.

— Davvero, disse, non mi sento bene, ho un ronzìo nelle orecchie, e
veggo rosso; manda un corriere a Napoli, e scrivi a Domenico Cirillo,
che venga a vedermi dimani mattina più presto che potrà.

— Se Vostra Maestà vuol permettermi di toccarle il polso.... sono un
po’ medico anch’io, disse sir William.

— Toccate, disse la regina, allungando il braccio.

Sir William si levò un guanto, trasse dal taschino l’orologio tenendolo
con una mano mentre toccava coll’altra il polso della regina, e contò
ottantadue pulsazioni al minuto.

— Non basta che il medico venga dimani mattina, signora, deve
venire questa notte, e poichè debbo ritornare a Napoli per la mia
corrispondenza di dimani, sarò io il vostro corriere. Se Cirillo non
fosse in Napoli non saprà a chi rivolgersi; in questo caso vi manderò
Cotugno.

— Mandatemi chi vorrete, cavaliere, purchè non sia un medico inglese.
Io detesto i vostri dispensatori di calomelano; non hanno che un solo
rimedio per tutte le malattie; si direbbe che hanno trovato la panacea
universale.

Sir William prese commiato da noi e partì, pregando la regina che, nel
caso che peggiorasse, non si rivolgesse a qualche medico di villaggio,
come lo poteva far supporre il suo spirito scettico, ma di aspettare
quello che le avrebbe inviato nella notte.

Sir William non si era ingannato; la febbre aumentò rapidamente, e due
ore dopo la sua partenza la regina delirava.

In questo delirio assisteva al supplizio dei tre giovani, e raccontava
tutte le notizie particolari che sir William avea esposto innanzi a
lei.

Verso mezzanotte una carrozza rintronava sotto le vôlte del palazzo; si
sapeva che si doveva aspettare un medico da Napoli, e si vegliava per
farlo salire senza ritardo.

Corsi sul vestibolo della scala. Era il dottor Cotugno, accompagnato
dal segretario di sir William, che mi porse una lettera del cavaliere.

Domenico Cirillo aveva ricusato di venire, dicendo che alle cinque di
sera aveva mandato a palazzo la sua dimissione di medico di corte.

Era un’ora dopo l’esecuzione; l’intenzione era dunque chiara e
positiva, e il motivo della dimissione di Domenico Cirillo non aveva
bisogno di commento.

Sir William, che conosceva le opinioni patriottiche di Cirillo, non si
era maravigliato del suo rifiuto e si rivolse a Cotugno.

Cotugno era venuto senza difficoltà.

Quando lo introdussi dalla regina, essa aveva il viso infocato, la
parola breve, l’occhio febbrile; il polso aveva aumentato di rapidità,
e batteva novanta pulsazioni al minuto.

Cotugno con quella rapidità di decisione che lo distingueva, non diede
che un solo sguardo sull’inferma.

— Ecco, disse, un fisico fortemente scosso dal morale; ora bisogna
influenzare il morale col fisico; e prese il suo astuccio.

Poi, volgendosi verso di me.

— Signora, mi disse, mi aiuterete voi a salassare la regina, o volete
chiamare qualche altra donna?

— Nel caso che vi aiutassi, gli chiesi, sarà difficile quanto dovrò
fare?

— Ah! mio Dio, no, basta solamente che non abbiate a sentirvi male; —
me lo assicurate?

— Oh! sì, signore, ho del coraggio.

— Si ha qualche volta coraggio per sè senza averne per gli altri. Del
resto basta soltanto di tenermi la catinella.

— Contate su di me.

— Allora non perdiamo tempo.

Il dottore fasciò il braccio della regina e senz’altro aiuto che me
sola, praticò alla vena dell’articolazione un abbondante salasso.

Era la prima volta che vedeva colare il sangue, e sangue prezioso di
un’amica coronata; l’impressione fu dunque profonda.

Era in ginocchio innanzi al letto della regina, e teneva la catinella,
in cui il sangue si spandeva in una quantità che mi sembrava
spaventosa. Ignorava ciò che m’insegnò poi sir William, che il corpo
umano contiene da sedici a diciassette libbre di sangue; di modochè a
misura che questo sangue colava, mi sentiva ad oscurare la vista, ed
un sudore freddo mi scorreva dalia fronte; non mi tenni però meno ferma
fino al momento in cui il medico mi disse:

— Potete mettere la catinella a terra, signora, tutto è finito.

Come se difatti avessi esaurito la totalità delle mie forze, e
specialmente della mia volontà nell’aiuto che prestava al dottore,
appena, approfittando del suo permesso, posi a terra la catinella, mi
lasciai andare colla testa appoggiata sul letto della regina.

— Ve lo aveva ben detto, disse Cotugno.

— È nulla, dottore, è nulla, gli risposi, ma le avete levato tanto
sangue!

— Cinque o sei once, ecco tutto; bisogna abbattere la febbre cerebrale;
vi è stata commozione, e bisogna ristabilire l’equilibrio. Se la
febbre, il rossore, e specialmente il delirio continuano, Sua Maestà
metterà i piedi in un bagno di acqua calda quanto la potrà sopportare,
e in cui scioglierete tre o quattr’once di farina di senape; e se ciò
non basta, le metterete dei senapismi in forma di stivaletti; bisogna
assolutamente attirare alle estremità tutto il sangue che affluisce
alla testa.

— Lasciatemelo in iscritto, dottore, gli dissi; ma perchè non restate
qui presso Sua Maestà?

— Bene, e i miei ospedali? chi farà il servizio per me? impossibile,
bella signora, impossibile. Alle due dopo mezzogiorno sarò qui; fate
che Sua Maestà abbia pazienza; secondo ogni probabilità, il delirio si
sarà calmato e la nostra augusta inferma si troverà già in istato di
convalescenza: guardate — ecco che già si riconcilia col sonno.

In questo momento il pendolo suonò.

Alla prima vibrazione del timpano, la regina riaperse gli occhi e parve
ascoltare con ansia.

Io ascoltava pure con pari ansietà, perchè conosceva la causa
dell’attenzione che prestava a quel suono.

Il pendolo suonò le tre.

— Bene, disse la regina, ancora un’ora, — e la sua testa ricadde sul
guanciale.

— Bisognerà impedire che questo pendolo suoni le ore, e specialmente
l’ora che segue.

Il dottore pronunziò queste parole con una tale semplicità, ch’era
impossibile di riconoscere se aveva anche un’altra intenzione oltre
quella d’imporre silenzio al pendolo.

Mi vi accostai e fermai il pendolo.

Cotugno toccò il polso alla regina; era diminuito di una decina di
pulsazioni.

— Va bene, disse il medico, se non accade altro, in tre giorni Sua
Maestà sarà guarita.

Poi colla più gran cura asciugò la lancetta, ne osservò la punta al
lume della candela, la ripose nell’astuccio, che mise in tasca, mi
raccomandò di conservare il sangue per studiare la sua decomposizione,
ed uscì raccomandandomi di prendere un poco di riposo.

Ne aveva un gran bisogno, erano tre notti che non chiudeva occhio, o
che li chiudeva appena. Eccettuato qualche sussulto, il sonno della
regina fu tranquillo; tirai una poltrona vicino al suo letto; presi la
sua mano nella mia per risvegliarmi ad ogni suo minimo movimento, e mi
addormentai anch’io.

Quanto tempo sia durato il mio sonno non lo saprei dire; ma quando
apersi gli occhi, risvegliata dal rumore che si faceva nella camera
vicina, era giorno fatto.

Quel rumore era causato da una persona che diceva con calore:

— Bisogna che vegga la regina, vi dico che bisogna che la vegga.

Mi alzai d’un salto dalla poltrona, e corsi nella camera vicina.

Trovai una signora, dai trenta ai trentacinque anni col viso stravolto
pel dolore.

— Oh! signora! esclamò nel vedermi, fate che possa vedere la regina, ve
ne supplico.

E mi prese per le mani, chinandosi come se fosse per cadere in ginocchi.

— Impossibile, signora, le risposi; la regina è gravemente ammalata;
le hanno fatto un salasso questa notte ed il medico mi ha proibito di
lasciar entrare chiunque da lei.

— Ma io, io, gridava la dama, io non sono chiunque.... io sono.... io
sono.... un’amica della regina.

— Scusatemi, signora, ma io non vi ho mai veduta alla corte.

— E perchè venirci? aveva nulla da fare. Ma guardate, conoscete voi la
scrittura di Sua Maestà? — e tirò dalla sua tasca diverse lettere.

— Osservate, signora, osservate qui: — «Cara principessa» — è bene la
sua scrittura, non è vero?

— Sì, ma voi, voi, dimandai io maravigliata, chi siete dunque?

— Sono.... ed esitava..., sono la principessa Caramanico.

— La moglie di colui! e.... e mi fermai là.

— Sì, riprese la principessa, la moglie di colui che ha tanto amato.
Ebbene, vengo a dirle che colui che ha tanto amato, essa non può
lasciarlo morire.

— Lasciarlo morire! chi dunque? chiese una voce dietro di noi.

Ci volgemmo indietro, la principessa ed io, e mandammo ambedue un
grido; la regina che pure fu svegliata dal rumore, intese una voce di
donna che rispondeva alla mia, si alzò da letto, e coi piedi ignudi,
in camicia, co’ suoi bei capelli sciolti sulle spalle, e macchiata di
sangue stava in piedi sulla soglia della sua camera.

Essa riconobbe la principessa Caramanico, mise anch’essa un grido,
corse da lei, la prese per un braccio, e la trascinò nella sua camera
dicendo:

— Vieni, Emma, vieni.

Seguii la regina e la principessa, e chiusi la porta.




XIV.


La regina ci guardava tutte e due come chi va cercando qualche cosa;
poi recandosi la mano alla fronte, come per fissarvi la sua memoria e
fissando infine il suo sguardo sulla principessa:

— Ho mal compreso, non è vero? disse; voi non avete detto; la regina
non può lasciarlo morire?

— No, signora, no, esclamò la principessa, voi non lo avete inteso
male; l’ho detto e lo ripeto; no, no, no, la regina non può lasciarlo
morire.

— Ma chi la regina non può lasciar morire? chiese la regina.

— Colui che essa ha tanto amato.

— Il principe di Caramanico?

— Sì.

— È in pericolo di vita?

— Leggete, signora, leggete.

E cadendo in ginocchio, la principessa porse una lettera alla regina.

La regina lesse con una voce interrotta, ed i suoi denti battevano
convulsi ad ogni parola:

  «Cara amica.»

E diede alla principessa uno sguardo che mandava lampi.

La regina continuò:

  — «Non so che cosa mi abbia da quindici giorni; i miei capelli
  sono diventati bianchi a vista d’occhio, i miei denti si distaccano
  dalle gengive e cadono.

  «Mi sento poi un languore mortale, e credo di avere pochi giorni da
  vivere.

  «Non posso dirti ciò che io credo; ma tu puoi indovinarlo.

  «Non dirle nulla, e soffri tu sola. Fortunatamente non c’è male
  senza rimedio.

  «Il padre era medico, ed il figlio è stato chimico.

                                                        «GIUSEPPE».

La regina mandò un grido, i suoi occhi volevano quasi uscire
dall’orbita.

— È quanto dire, esclamò, che egli sarà avvelenato.

— Ma perchè avvelenarlo, dacchè non lo amava più, o almeno giacchè non
si sapeva che l’amassi ancora?

— Voi sapete bene com’era popolare, signora, disse la principessa; si
parlava del suo ritorno a Napoli, si diceva che — la principessa fece
uno sforzo per pronunziare quel nome, — si diceva che il signor Acton
non godeva più dello stesso favore presso di voi; si diceva infine che
all’avvicinarsi di tempi cattivi, — ed i tempi cattivi s’avvicinano, se
non sono già venuti, — si diceva che era vostra intenzione di nominare
un vero napolitano. Gli stranieri per quanto siano abili sono sempre
cattivi strumenti nei giorni delle rivoluzioni. Queste sono le voci che
correvano, signora, queste voci saranno state ascoltate, e queste voci
l’hanno ucciso.

— Oh! se lo credessi! mormorò la regina mostrando i denti.

— Credetelo signora, credetelo, perchè è la verità, verità fatale,
terribile, implacabile. — Oh! Giuseppe, il nostro Giuseppe muore
avvelenato.

— Quando avete ricevuto questa lettera?

— Questa mattina.

— Da quanti giorni è stata scritta?

— Da quattro giorni. 1º ottobre: egli scrisse nello stesso giorno in
cui è stata data la loro condanna!

— Oh! esclamò contorcendo le braccia, è una punizione del cielo.

La violenza del movimento spostò le fasciature del salasso, e la
puntura non ancora rimarginata si riaperse, e vidi un zampillo di
sangue che usciva dal suo braccio e si spargeva per la camicia.

— Oh! esclamai, vedete, vedete, signora, voi l’uccidete.

E veramente, indebolita dall’emozione e dalla perdita del sangue, la
regina impallidì, mise un debole sospiro e vacillava.

Corsi a tempo per riceverla nelle braccia; era svenuta.

La portammo, la principessa ed io, sul suo letto, compressi la
vena come aveva veduto fare dal medico, misi un poco di filacce
sull’apertura della piaga: poi alla meglio le fasciai il braccio, e
giunsi a fermare il sangue prima che avesse ripreso i sensi; allora
giungendo le mani:

— Vedete, dissi alla principessa, lo stato in cui si trova la regina;
sventuratamente essa non può far nulla per il principe; voi sola,
signora, potete far qualche cosa.

— E che posso io, Dio buono?

— Potete, senza perdere un momento, signora, partire per Palermo col
miglior medico di Napoli, e chiedere alla scienza qual sia il delitto
che ci pone tutte nel lutto.

— Io sperava nella regina, diceva la povera principessa, gettando uno
sguardo su di lei. Mio Dio, mio Dio!

— La regina! e che può farvi la regina, signora, forse a punire il
colpevole, lo sapete anche voi; e poi i colpevoli sono così alto
locati, che il castigo non salirà mai fino a loro; ma ora si tratta
della vita del principe, e non della punizione dei suol assassini;
pensate alla vita del principe, e state tranquilla, se la regina può
punire, punirà!

— Punirà, non è vero? lo credete voi che punirà?

— Sì, ma per punire ha bisogno di tutta la sua ragione, di tutte le sue
forze, di tutta la sua potenza; lasciate calmare il delirio; lasciate
estinguere la febbre: andate ove vi chiamano non soltanto la vostra
tenerezza, ma il vostro dovere; salvate la vita del principe se sarete
in tempo; ricevete il suo ultimo sospiro se è troppo tardi di salvarlo;
siate dolce e misericordiosa nella sua agonia; ditegli, poichè non ha
altra consolazione che voi, bisogna bene che siate voi che gli diciate,
che la regina lo ha sempre amato, ed in realtà non ha mai avuto altro
amico che lui; — voi dovete questa pietà a due cuori che hanno tanto
sofferto, e che non hanno avuto, lo so, che voi sola per intermediaria,
per confidente e per amica.

— Va bene, disse la principessa, farò quanto mi consigliate, signora,
e se può essere salvato dalla scienza di un uomo, e dalle cure di
una donna, lo sarà, — grazie; — ma se muore, dite alla regina, che le
lascio la cura della nostra vendetta.

S’inginocchiò innanzi al letto, baciò le mani della regina, mi mandò un
ultimo addio colle mani e colla bocca, e corse fuori dell’appartamento.

Lo svenimento della regina era un dono della provvidenza; senza quello
svenimento, nella disposizione di animo in cui si trovava, sarebbe
senza dubbio diventata pazza, se fosse stata colpita da qualche
congestione cerebrale.

Uscii dopo la principessa per raccomandare al domestici, nel caso che
fossero interrogati dalla regina, di non far parola della visita della
principessa Caramanico; poi rientrai, non temendo più che la regina
ripigliasse i sensi dopo la partenza della principessa; le bagnai le
tempie con acqua fresca, e le feci odorare dei sali.

Dopo qualche momento riaperse gli occhi, ma la loro espressione era
talmente alterata, che il delirio invece di diminuire era aumentato; ma
nel momento era tutto quanto le poteva accadere di meglio. È vero che
nel suo delirio pronunziò due volte il nome di Giuseppe, ed una quello
del principe Caramanico, ma seguite da parole sconnesse che mi faceva
sperare che, ritornando alla ragione, non avrebbe avuto di quanto era
accaduto se non la memoria di un sogno svanito.

Tirai il campanello delle cameriere; entrarono due donne, e
ricordandomi della prescrizione del medico, cominciammo a far mettere
alla regina i piedi nell’acqua e senape; poi continuando il rossore
della faccia, la febbre ed il delirio, le mettemmo dei senapismi ai
piedi. La cosa fu tanto più facile, perchè in mezzo al suo delirio la
regina mi riconosceva sempre; e affabilissima con me mi lasciava fare
tutto ciò che voleva.

Verso un’ora cadde in uno stato di prostrazione, che faceva uno strano
contrasto collo stato di esaltazione in cui si era trovata.

Alle due precise udii il rumore di una carrozza. Il dottore manteneva
la sua promessa.

Lasciai la regina colle cameriere e gli corsi incontro. Arrivai a tempo
di riceverlo sul vestibolo. Gli dissi in due parole, non già quanto
era accaduto, — io non aveva diritto alcuno sui segreti della regina, —
ma soltanto che l’inferma aveva avuto una viva commozione nella quale
le si era riaperto il salasso, dopo di che era caduta in deliquio;
aggiunsi che avevamo seguito a puntino le sue prescrizioni, e gli
indicai lo stato in cui si trovava la regina.

Cominciò coll’esaminare il sangue, vi riconobbe alcuni segni di forte
infiammazione, ed entrò nella camera.

La regina era immobile, e stava cogli occhi chiusi.

Il dottore le toccò il polso, ascoltò la sua respirazione e le domandò
come si sentiva; ma l’inferma non aperse gli occhi e stette silenziosa.

— Datemi la catinella, chiese il dottore ad una delle cameriere. Sua
Maestà non ha perduto sangue abbastanza, bisogna che gliene levi ancora
due o tre once.

La regina tirò il suo braccio sul petto, — prova che aveva udito quanto
diceva il dottore.

Ma egli finse di non accorgersi del movimento e le prese il braccio.

— Oh! disse l’ammalata, sono già tanto debole, e volete rendermi ancora
più debole. Non saprei collegare due idee insieme.

— Precisamente, disse Cotugno, nello stato in cui si trova Vostra
Maestà, non è necessario che colleghi due idee insieme, ma non deve
nemmeno averne una.

La regina mandò un sospiro; essa non aveva la forza di resistere.

Egli riaperse il salasso, e la regina perdette due altre once di sangue.

Era più di quanto poteva sopportare e svenne.

Cotugno fermò immediatamente il sangue.

— Là, disse il medico, queste donne anderanno, o manderanno dal
farmacista, e faranno preparare le pozioni che ora vi scriverò. Intanto
discorreremo un poco insieme.

Egli scrisse la ricetta, la diede alle cameriere, e le affrettò ad
uscire.

Poi ritornando verso la regina svenuta, le prese la mano.

— Vediamo, disse, coi medici bisogna parlar chiaro, senza di che
s’arrischia, anche senza volerlo, d’ingannarli, ed ingannandoli si
ammazza l’ammalato.

— Dio mio! esclamai, c’è pericolo di morte?

— Vi è sempre pericolo, quando da un lato del letto vi è la malattia,
e d’altra il medico; ma qui o m’inganno di molto, o lo spirito è più
infermo del corpo.

— Lo credo anch’io, dottore, e ammiro la vostra penetrazione.

Cotugno alzò le spalle.

— Non c’è penetrazione qua, la cosa è chiara come il sole. Vi dirò
quanto è accaduto, e se m’inganno mi fermerete, e se indovino mi
lascerete continuare.

— Ma se la regina vi ascolta?

— Non c’è pericolo, ho la mano sul suo polso, e quando ritornerà in sè,
lo saprò un minuto prima. È l’esecuzione d’ieri che ha disturbato la
regina.

— Come fate ad indovinarlo?

— Che bella malizia! prima di tutto ne ha sconcertati molti altri,
tanto più lei che poteva impedirla, e che non ha creduto di farlo.

— Dottore, essa ha loro offerto la grazia, ed hanno ricusato.

— Sì, ho udito a raccontare qualche cosa di simile, ma questo non è
affar mio, io sono medico e null’altro. L’esecuzione ha avuto luogo
ieri alle quattro, ed è ieri alle quattro che la regina si sentì male.

— Chi ve l’ha detto?

— Sir William Hamilton: vedete che non voglio passare per uno stregone;
e quand’anche non me lo avesse detto, questa notte la regina si è
scossa nell’udire a suonare le tre alla pendola, ed ha detto:

«Bene, abbiamo ancora un’ora.»

— Ma non è tutto: questa mattina mi avete detto che ha avuto una
commozione violenta.

— Sì, violentissima.

Egli mi guardò.

— E avrà saputo che il principe Caramanico moriva di veleno.

— Tacete, esclamai, tacete.

— Se vi dico che non mi può intendere.

— Ma come potete saperlo?

— È semplicissimo. La principessa venne da me due ore fa, per chiedermi
se poteva andare con lei a Palermo. Le risposi che mi era impossibile
non potendo abbandonare la regina nello stato in cui si trovava. La
mandai da Cirillo. Ed era giusto perchè ieri egli ha mandato vostro
marito da me. A quest’ora saranno già partiti, e se vi è mezzo di
salvar il principe Cirillo lo salverà. Egli è un bravo uomo. Mentre
io parlava colla principessa il suo domestico faceva conversazione
col mio, e poichè non aveva motivo di farne un mistero, gli disse
che la sua padrona era venuta da Caserta: l’emozione che ne ebbe
la regina, è quella che la pose nello stato in cui ora si trova.
Avrei potuto lasciarvi credere di aver indovinato tutto, ma sarebbe
stato una vera ciarlataneria, e, grazie a Dio.... Gatti.... sì....
ma Cotugno no, non è ciarlatano. Volete che vi dica ora il mio piano
di battaglia contro la malattia della regina? È molto semplice. La
notizia dell’avvelenamento del principe di Caramanico si trova in
lei allo stato di sogno. Ella non sa se ha sognato di aver veduto
la principessa, o se l’ha veramente veduta; ecco le due idee che non
può collegare, e che non deve collegare; ed ecco donde si doleva di
trovarsi troppo debole perchè la indebolissi di più. Sono abbastanza
forte per lottare contro l’esecuzione d’ieri, e contro lo avvelenamento
di oggi, purchè questi fatti siano isolati; ma se le due emozioni si
uniscono, Cotugno è preso fra due fuochi come un generale mal pratico.
Cotugno deve fare come Orazio ferito, deve assalire i Curiazî ad
uno la volta: mi capite, il primo Curiazio è l’esecuzione d’ieri, il
secondo l’avvelenamento d’oggi, ed il terzo poi, il meno pericoloso e
terribile, è la malattia.

— Davvero, signore, gli dissi osservandolo con stupore, siete un uomo
meraviglioso.

— E perchè non più maraviglioso di qualunque altro, ho della pratica
e dell’osservazione, ecco tutto. Intanto ascoltate: il mio piano si
limita ad impedire alla regina di ricordarsi. Se vi riesco, in tre
giorni non avrà più nulla a temere: le darò semplicemente un calmante
che bisogna amministrarle colla più grande precauzione e colla più
scrupolosa regolarità, perchè allora la calmerebbe troppo.

— Dio mio! che cosa le date dunque?

— Non è che della belladonna.

— Ma credeva che la belladonna fosse un veleno.

— È un veleno difatti, ma presa come la prenderà la regina, è un
narcotico, anzi neanche un narcotico, un calmante; le somministrerete
quanto un cucchiaio da caffè ogni ora. Ah! ecco Sua Maestà che ritorna
in sè, non dimenticate che l’esecuzione di quei giovani è stata fatta
già da quindici giorni, e che lo avvelenamento del principe.... di....
è una favola.... silenzio.

La regina spalancò gli occhi e si guardò intorno.

— Là, disse Cotugno alzandosi, ora va bene. Vostra Maestà va
a meraviglia. Non dimenticate di far prendere a Sua Maestà una
cucchiaiata da caffè della pozione che ho testè indicata; quanto più
presto, sarà meglio. Ah! ecco in punto le damigelle, che entrano colla
pozione; datemi un piccolo cucchiaio, Sua Maestà mi farà l’onore di
accettare la prima cucchiaiata dalla mia mano.

E senza dare tempo alla regina di prepararsi, le mise il cucchiaio in
bocca e le fece ingoiare la pozione.

— Dimani, alla stessa ora, ritornerò.

Dieci minuti dopo la sua partenza, la regina dormiva profondamente.

Tutto ciò che aveva predetto il medico avvenne; la regina rimase
assopita per tre giorni in uno stato di sonnolenza che non era nè la
veglia nè il sonno; poi dopo i tre giorni il dottore permise che la
luce penetrasse a poco a poco nel suo animo, e al pallido chiarore di
quella luce rivide quanto era accaduto, ma sotto l’aspetto pallido e
scolorito dei fatti già compiti da molto tempo. Io che non la lasciai
mai un momento sola, fui la confidente di quel suo ritorno alla vita ed
al dolore.

Essa stette tre o quattro giorni senza parlarmi del principe, quando
una mattina dopo una specie di sforzo:

— Ma! chiese la regina, durante il mio delirio, non è venuta la
principessa Caramanico a farmi visita?

— È vero, signora, le dissi, essa aveva saputo che suo marito stava
male, e partendo per Palermo veniva a dimandare a Vostra Maestà se non
avesse qualche comunicazione da fare al vice-re.

La regina che mi teneva per mano, me la strinse con forza, guardandomi
in faccia.

— Emma, mi dimandò, la principessa non è ancora ritornata?

— No, signora.

— E non ha scritto ancora?

— No, signora.

— Date degli ordini perchè al suo ritorno sia introdotta da me subito
quando chiederà di parlarmi.

— E se le sue notizie fossero cattive, Vostra Maestà si crede
abbastanza forte per udirla impunemente?

— Sì, sta tranquilla, colla calma mi è ritornata la forza; però fammi
un piacere.

— Ordini, Vostra Maestà.

— Qui vi è la chiave del mio stipo, ne conosci il segreto?

— Sì, signora.

— Ebbene, va a cercarmi quella mia cara cassettina; ho bisogno di
averla vicina.

— Parto subito.

— Sì, parti e ritorna presto. Se per caso vedi il re e se avesse
la curiosità di sapere mie notizie, digli che sto bene; ma che ho
bisogno di qualche giorno di riposo e di solitudine; mi sarebbe troppo
spiacevole di rivederlo in questo momento.

— Va bene, signora, — osservai il mio orologio, — ora sono le nove, a
mezzo giorno sarò di ritorno.

— Grazie. Non so che sarebbe di me se non ti avessi avuta vicino.

Le presi le mani e gliele baciai.

— Non dimenticarti nell’andare di far prevenire la principessa.

— No, signora, state tranquilla.

— E aggiungi che possono ricaricare il pendolo; ho i nervi abbastanza
sodati per ascoltarlo a suonare, — anche le quattro!

Lasciai la regina, e trasmisi i due ordini che mi aveva incaricato di
dare.

Poi salii in carrozza dando ordine al cocchiere di andare più presto
che potesse, e partii.

A Maddaloni incontrai una carrozza nera col cocchiere e due domestici
in lutto. Ne fui scossa, un presentimento mi diceva che vi era una
vedova in quella carrozza.

Arrivai a Napoli: mi fermai all’ambasciata per dire qualche parola
a sir William, poi andai al palazzo reale per la commissione della
regina, ove, per un caso fortunato, non m’incontrai col re, e per
ritornare di volo a Caserta, aveva dato gli ordini, scendendo di
carrozza, di cambiare i cavalli.

A mezzogiorno meno qualche minuto era di ritorno a Caserta; sotto
il peristilio trovai la carrozza ed i domestici in lutto che aveva
incontrati lungo la strada.

Mettendo il piede sul primo grado della scala, vidi aprirsi la porta
degli appartamenti della regina, e ne usciva una donna avvolta in un
lungo velo crespo; teneva il fazzoletto agli occhi e singhiozzava,
camminando per così dire tastone: mi trassi in disparte, ed essa passò
senza vedermi, benchè la sua veste si fosse ingombrata colla mia.

Ritornò in carrozza e partì.

Entrai dalla regina quando il pendolo suonava mezzogiorno.

— Sei esatta, Emma, mi disse, — vieni qua. Mi avvicinai maravigliata
di non riconoscere alcuna alterazione nella sua voce. Mi aspettava di
trovarla in lagrime e desolata. Mi ingannava, era fredda e risoluta.

Le presentai la cassetta; l’aperse colla chiave che aveva già
preparata, e traendosi dal seno una ciocca di capelli:

— Ecco — disse — tutto quanto rimane di lui, — e l’appoggiò con
vivacità sulle labbra, chiuse nella cassetta questo ricordo di morte
insieme ai suoi ricordi d’amore.

Poi, mettendo la cassetta sul guanciale su cui lasciò ricadere il capo,
chiuse gli occhi mormorando questa frase che aveva già udito uscire
dalla sua bocca:

— È una punizione del cielo!


  FINE DEL VOLUME QUINTO.




NOTE:


[1] Cavallo di corsa.

[2] Cavallo marino.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE DI EMMA LYONNA, VOL. 5/8 ***


    

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START: FULL LICENSE

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Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
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Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
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Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
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