Memorie di Emma Lyonna, vol. 4/8

By Alexandre Dumas

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Title: Memorie di Emma Lyonna, vol. 4/8

Author: Alexandre Dumas

Release date: May 14, 2025 [eBook #76092]

Language: Italian

Original publication: Milano: Daelli e C, 1864

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This book was produced from scanned images of public domain material from the Google Books project.)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE DI EMMA LYONNA, VOL. 4/8 ***


                                MEMORIE
                                   DI
                              EMMA LYONNA


                                   DI
                            ALESSANDRO DUMAS


                 UNICA EDIZIONE AUTORIZZATA IN ITALIA.

                                Vol. IV.



                                 MILANO
                         G. DAELLI e C. EDITORI
                               MDCCCLXIV.




             Proprietà letteraria — G. DAELLI e C. Editori.

                       STEREOTIPIA G. DASSI E C.

                           TIP. GUGLIELMINI.




MEMORIE

DI

EMMA LYONNA




I.


La regina, come ho già detto, mi aveva chiesto il mio abito di raso
bianco per farne uno simile; io glielo inviai in quella stessa sera.

Tre giorni dopo, il suo domestico mi prevenne che la regina era al
palazzo reale, e chiedeva di me, raccomandandomi di prendere meco il
mio sciallo di cascemiro azzurro.

Non erano dieci minuti appena che era arrivata da Caserta, e perchè non
la facessi aspettare, mi mandò a prendere con una carrozza di Corte.

Prevenni sir William della mia uscita, e mi recai immediatamente dalla
regina.

Gli appartamenti della regina erano situati nella parte dal palazzo che
sporge verso il mare, e che mette su di un terrazzo coperto di aranci e
di cedri.

Trovai Sua Maestà coll’abito nuovo, che si era fatto fare sul modello
del mio; aveva una sola piuma bianca nei capelli, ed il suo scialle
azzurro era gettato su di una poltrona.

Volli salutarla colla cerimonia d’uso, ma essa, dopo avermi presa per
mano, mi abbracciò.

— Andiamo, presto, presto, disse, alla toletta.

Da principio non sapeva troppo che significasse quell’invito, ma essa
mi fece vedere il mio vestito posto su di una poltrona, e compresi che
la regina voleva appagare il capriccio di vederci vestite nella stessa
guisa.

Difatti era quella la sua intenzione.

Le chiesi allora se voleva permettermi di entrare in un gabinetto
vicino per mutare di abito.

Ma essa alzò le spalle.

— A che servono, disse, queste cerimonie fra noi.

Poi, siccome io sembrava assai confusa:

— Lasciate fare a me, soggiunse, io sarò la vostra cameriera, e vedrete
che ne so quanto una altra.

Io era talmente confusa che non sapeva che mi facessi; balbettava,
tremava; mi punsi le dita cogli spilli; cercava di distogliermi dalle
mani della regina.

— Ma essa è pazza, diceva, ma volete dunque lasciarmi fare? ve lo
comando.

Poi, per provarmi che l’ordine, benchè pronunziato con una voce
imperativa, era un nuovo favore, mi strinse, nel darmelo, le spalle fra
le sue braccia; un brivido mi corse per tutto il corpo.

Era così lontana dall’aspettarmi una tale familiarità da parte di una
regina, che aveva fama di donna la più altiera e più imperiosa del suo
regno, che io credeva di sognare. Chiesi a me stessa se era veramente
la regina Carolina, e se io era veramente io, vale a dire, essa la
figlia dell’Imperatrice Maria Teresa, ed io la povera figlia di una
fantesca di villaggio.

Aveva come un offuscamento morale.

Buono o mal grado dovetti lasciarmi fare; la regina mi aiutò a levarmi
l’abito che aveva quando era venuta, mi mise il vestito di raso bianco,
mi acconciò sul capo una piuma bianca, e poi avvicinò le nostre due
teste allo specchio e vi guardò un istante.

Poi con un accento quasi di cattivo umore:

— Davvero, disse, che io faccio proprio un bel mestiere, decisamente.
Milady Hamilton, voi siete più bella di me.

Io era affatto confusa, rossa fino agli orecchi, nè sapeva dove celarmi.

— Vostra Maestà, le risposi, mi permetterà di non essere del suo
avviso; io sono avvenente forse; ma voi, oh! voi sì, che siete
veramente bella.

— Lo trovate voi veramente? e me lo dite senza adulazione?

— Oh! ve lo giuro, esclamai, con tutta la sincerità.

— Come! disse, gettando uno sguardo sulle sue magnifiche spalle; se
foste un uomo, vi innamorereste di me?

— Più, ancora, signora, vi adorerei in ginocchio.

Carolina scosse la testa, e sorrise con malinconia.

— Essere amata è già cosa rara, e specialmente poi per una regina; non
chiediamo l’impossibile però....

E si fermò con un sospiro.

Io la osservava con un interesse, in cui essa non poteva ingannarsi.

— E però, ripetei dopo di essa.

La regina mi mise un braccio intorno al collo, e mi fece sedere a lei
vicino sul sofà.

— Quante volte siete stata amata? mi disse.

— Vostra Maestà mi chiede quante volte ho amato, o quante volte sono
stata amata?

— Avete ragione, non è la stessa cosa: io domando quante volte siete
stata amata.

— Una volta da una tenera amicizia, ed una volta da un amore profondo.

— E quale di questi due sentimenti vi ha reso più completamente felice?

— La tenera amicizia, io credo.

— E voi?

— Io?

— Sì, voi; di tutti i vostri adoratori, chi è quello che vi ha amato di
più?

Io sorrisi.

— Debbo rispondere francamente?

— Con me, sempre.

— Un terzo che non mi amava.

La regina fece un movimento di testa, sospirando.

— Eppure la è proprio così, disse ella: ecco come siamo noi altre
donne; anch’io, mia povera Emma, ho sacrificato un amore vero e
profondo ad un amore finto e ambizioso, e ne porto la pena; ho un
marito che non mi ama, e vi confesserò che non lo posso amare, ed un
amante che disprezzo. Vi maravigliate che vi dica tutte queste cose con
tale franchezza; ma che volete, io ho istinto che mi trascina verso di
voi; d’altronde, si dice tutto pubblicamente a Napoli, sicchè il merito
della confidenza non è grande, e con tutta probabilità voi saprete già
da molto tempo ciò che oggi vi ripeto io stessa.

— Quanto mi dice Vostra Maestà non mi è meno interessante.

— La mia Maestà è una triste Maestà in quanto a felicità. Ma mettendo
il piede sul suolo di Napoli, scorgendo l’uomo a cui era destinata,
sentii che era condannata.

— Davvero! esclamai; che differenza, mio Dio! fra il re e voi.

— Tu t’incarichi adesso soltanto della mia scusa, cara Emma, tu, anima
delicata, fine, squisita, figurati del mio disinganno. Era giovane,
aveva quindici anni appena, mi avevano detto che andava a regnare nella
terra ov’era morto Virgilio, ed era nato il Tasso, che doveva sposare
un giovane principe, un nipote di Luigi XIV, un discendente di Enrico
IV. Arrivai per così dire coll’Eneide in una mano, e colla Gerusalemme
liberata nell’altra; il mio fidanzato sarebbe egli Eurialo o Tancredi,
io sarei ciò che avrebbe voluto, Camilla od Erminia; amazzone o
pastorella. Arrivai con tutte le speranze di un cuore vergine, con
tutti i sogni di un animo vissuto fra le ballate della nostra vecchia
Germania; e vidi... lo hai veduto, non ho bisogno di farti il suo
ritratto, una specie di villano illetterato, che non parla altra lingua
che il dialetto napolitano: un vero lazzarone del molo che mangia
maccheroni nel palco reale; un pescatore di Mergellina che vende il
suo pesce nel linguaggio dei marinai di porto, un cacciatore grossolano
senza poesia, che corre dietro alle contadine, un sultano di villaggio
che si è fatto un harem di mandriane. Oh! ti assicuro! l’illusione non
fu lunga. Un giorno credetti che ancora poteva essere felice; vedi, io
aveva incontrato sul mio cammino chi aveva tutte le qualità che a lui
mancavano, giovine, bello, elegante, spiritoso; e oltre a tutto ciò
anche principe, cosa che non gli stava anche male.

— Il principe di Caramanico, pronunziai, senz’accorgermi della
inconvenienza della mia interruzione.

— Conosci il suo nome? disse la regina.

Io arrossii.

— Oh! non arrossire, mi disse; quello là, una regina può confessarlo,
mi amava veramente, povero Giuseppe, non già perchè era una regina, eh
lo so, egli mi ama sempre.

— Ma allora chi impedisce a Vostra Maestà di rivederlo?

— Si ha cura d’allontanarlo da me.

— Fatelo ritornare, richiamatelo. Oh se fossi regina io ed amassi un
uomo, e detestassi un marito, nulla al mondo m’impedirebbe di avere
vicino a me colui che amassi.

— Fuorchè il timore d’ucciderlo richiamandolo, mi disse la regina con
una voce mesta.

Io raccapricciai.

— E chi potrebbe commettere un simile delitto? dimandai io.

— Quegli che ha preso il suo posto, e che potrebbe temere ch’egli lo
riprendesse.

— Vostra Maestà ha una tale convinzione, esclamai, e si tiene
quest’uomo vicino?

— Che vuoi mai! nelle regioni che noi abitiamo ci sono delle insidie
politiche, e quando si è presa e’ bisogna restar presa, gridare è
proibito, tutto un popolo vi ascolta e vi dice ridendovi in faccia:
— ben fatto. — Lamentarsi è pure una grande consolazione, ma per
rammaricarsi bisogna avere un’amica; così, lo vedi senza nemmeno sapere
se ho un’amica, mi sfogo.

— Oh! voi ne avete una, signora, e che vi amerà non già perchè siete
regina, esclamai, quasi sul punto di gettarle le braccia al collo come
ad una mia eguale.

Repressi quel movimento.

— Ma che si allontanerà da me perchè lo sono, disse Carolina con un
triste sorriso. Ahimè! mia povera Emma, le regioni del trono sono come
le sterili cime delle alpi; ad una certa altezza non spunta più nulla,
nè amicizia nè amore.

— Vedete bene che v’ingannate, signora, perchè quest’uomo vi ha amata,
e come voi dite, vi ama ancora, e perchè infine anch’io....

— Ebbene tu?

— Anch’io incoraggiata di ciò che mi dite, vi confesso che pure vi amo.

— Oh! l’ho sognato tante volte d’avere un amica, ma non ho trovato che
delle compiacenti, la San Marco e la San Clemente, che continuamente
mi chiedono favori per loro, e quando non ne chiedono per loro, me li
chiedono pei loro amanti, e quando non me li dimandano pei loro amanti,
me li dimandano pei loro mariti. Sono amiche costoro?

— Io, signora, esclamai, non ho nulla da chiedervi per nessuno, nè
per me, nè per mio marito; e in quanto ad amanti, non ne ho più, ed ho
anche una grande paura di non averne più.

— È precisamente perchè tu hai nulla da chiedermi nè per te nè per gli
altri, disse la regina con un sorriso amaro, che non ti darai la cura
d’essere mia amica.

— Oh! sì, sì, esclamai, non potendo più resistere all’attrazione che mi
spingeva verso di lei, e gettandole questa volta le braccia al collo;
sì, ve lo giuro.

— Alla buon’ora, ecco un buon moto, disse la regina: ebbene voglio
ricompensarti mostrandoti ciò che io non mostrerei a nessuno, questo
ritratto.... poi, fermandosi, più tardi, mi disse, fra dieci anni tu
conoscerai che nella vita d’una donna, fosse regina o lavandaia, vi ha
sempre un amore che lascia una traccia più profonda degli altri: questo
amore è sovente per tutti il primo che passa in realtà, o che ritorna
colle rimembranze innanzi questo specchio che si chiama il cuore. Si
crolla tristamente la testa e si dice: non è lui; poi a poco a poco
lo specchio si appanna, e non riflette più nessuno, e però quando si
guarda oltre la nebbia sparsa sulla sua superfice è sempre lui che
ritorna là.

Chinai la testa, il solo uomo che avrei amato, o creduto d’amare era
sir Harry, e sentiva che nessuno di quelli che aveva conosciuto non
aveva lasciato nel mio cuore quell’orma profonda di cui parlava la
regina.

Era dunque destinata a non amare più, o non aveva ancora provato il mio
vero amore!

La regina andò al suo stipo, capo d’opera di Boule, magnifico regalo
di Luigi XVI, aperse un cassettino segreto, e mi si avvicinò con una
piccola cassetta.

Questa cassetta racchiudeva un medaglione nel suo astuccio, un pacco di
lettere, dei fiori, e delle foglie secche.

Io sorrisi. Pensava a questa regina altiera, potente, assoluta, a
questa donna che si accusava di avere un cuore di bronzo, o piuttosto,
ciò che era ben peggio, di non averne del tutto, e che come una
semplice donna, come una collegiale che piange i suoi ultimi giorni
di vacanza, come una monaca che rimpiange la sua libertà, mi mostrava
fiori, foglie secche, lettere ed un ritratto.

Lo scettro può infrangere la mano; la corona può bruciare la fronte
della regina; ma vi ha un angolo del cuore dove la donna resta sempre
donna.

Io sorrisi a questa nuova prova della nostra forza, o della nostra
debolezza, come volete.

— Tu ridi, mi disse la regina, e trovi che sono pazza: ebbene ridi
ancor più forte se vuoi; una porzione del mio cuore è dove si trova,
l’altra è con queste lettere, con questi fiori secchi, con questo
ritratto. Spesso dopo aver sopportato di volta in volta un marito che
odio ed un amante che disprezzo, mi rinchiudo sola in questa camera,
prendo dallo stipo la mia cara cassetta, l’apro e mi dico: questa
foglia d’alloro l’abbiamo colta una sera presso la tomba di Virgilio.
La luna che sorgeva splendida dietro il monte sant’Angelo gettava
larghe ombre sopra Posilippo; eravamo tutti e due perduti in uno di
quegli angoli di tenebre, e come separati dal mondo dei viventi che
chiassava al disotto di noi. Suonavano le undici ore al convento di
sant’Antonio. Egli era ai miei ginocchi, come un pastore di Teocrito
o di Gessner, e mi supplicava; ci eravamo detto che ci amavamo; ma
io non gli aveva ancor accordato nulla, fuorchè la verginità del mio
cuore; all’ultima squilla dell’undecima ora, io colsi questa foglia;
l’appoggiai alle mie labbra, ed abbassai la mia testa vicino a lui;
egli pose la sua bocca sull’altra pagina della foglia, che separava
soltanto col suo spessore le sue labbra dalle mie. Ad un tratto tirai
vivamente la foglia. Le nostre labbra si toccarono; egli mise un
grido, come se gli fosse entrato nel cuore un ferro rovente; lo vidi
impallidire, chiudere gli occhi e cadere: io lo ritenni fra le mie
braccia e me lo strinsi al cuore.

Era una bella sera di maggio, il sette; il mare splendeva come un lago
d’argento fuso, Giove sorgeva al disopra del Vesuvio, rosso come se
uscisse dal cratere. Ah! povera foglia secca! sono già quattordici
anni da che sei colta, e vedi però che io non ho dimenticato nulla di
quella sera di felicità, nè di quella notte di delirio che la seguì.
Ognuna di queste piante e di questi fiori segna un grado dei nostri
amori, ed ha la sua storia come questa foglia di alloro; con questa io
potrei ricomporre per intero il poema della mia felicità e della mia
gioventù. Questo ramo di erica era sul mio seno in una notte di follia.
Il re aveva un reggimento privilegiato che chiamava suoi Liparioti,
perchè tutti quelli che lo componevano o quasi tutti almeno, erano
delle isole di Lipari. Giuseppe era capitano in questo reggimento. In
quell’epoca, sorvegliata com’era dal vecchio Tannucci, che io detestava
quanto egli mi odiava, noi non potevamo vederci se non in mezzo a
mille pericoli: io feci venire al re l’idea di dare una festa al suo
reggimento. Fu convenuto che ci saremmo vestiti il re da oste ed io
da cantiniera, e che avremmo servito gli ufficiali del reggimento. Si
piantarono due tende immense, l’una a cui presiedeva il re in beretta
bianca col grembiale di cucina annodato alla cintura, ed il coltello al
fianco; ed aveva per garzoni dell’osteria i principali signori della
sua corte. Io vestita come le donne di Procida, il fazzoletto rosso
annodato di dietro, il corsetto ricamato in oro, che mi stringeva alla
vita, la gonnella corta di scarlatto che lasciava vedere parte delle
gambe; aveva per fantesche le dodici principali dame della corte.
Caramanico venne a sedersi ad uno dei miei tavoli, ed io occupandomi
degli altri poteva occuparmi di lui. Oh! con quale felicità io era la
sua fantesca. Quando beveva alla salute della regina, io sapeva che era
a quella di Maria Carolina, e non a quella della regina che beveva. Io
passava vicino a lui, la mia gonnella accarezzava i suoi ginocchi, il
mio braccio le sue spalle, io passava e ripassava continuamente; aveva
sempre da fare in quello stretto passaggio che egli mi rendeva il più
stretto possibile. La musica diede il segnale della danza, e come uno
dei principali uffiziali del reggimento aveva diritto di invitarmi: noi
ballammo insieme tre volte.

Egli aveva veduto il mazzettino di fiori che io aveva alla cintura;
approfittò di un intervallo, in cui non danzava, per comprarne un
altro simile e me lo diede, io gli diedi il mio. Eccolo qui il suo, è
un’erica contornata di garofani. Vuoi vedere la lettera che mi scrisse
al giorno dopo? eccola, prendila.

Presi la lettera dalle mani convulse della regina e lessi:

  «Oh! mia adorata Carolina, eccomi dunque ricaduto dal cielo in
  questo deserto che si chiama la terra, quando tu non vi sei; è un
  sogno od una realtà? Ebe o Venere non so quale, poichè ambedue son
  bionde, giovani e belle, mi hanno presentato l’ambrosia, mi hanno
  versato il nettare: Ah! ho conosciuto la divina bevanda che per
  tutta la nostra ultima notte ho bevuto sulle tue labbra, ben più
  inebbriante di quella che mi versasti ieri: non pensare che ad una
  cosa, mia cara Carolina, solamente pensa col tuo spirito, colla
  tua anima, col tuo cuore, con tutto ciò che Dio ha messo in te di
  amore, pensa a darmi una notte, una di quelle belle notti stellate
  di baci, che restano nella mia memoria mille volte più brillanti
  dei miei giorni.

  «Ahimè! perchè sei tu la regina, e non sei semplicemente e
  realmente una di quelle belle fanciulle dell’isola greca, di
  cui portavi ieri il vestito? allora non vi sarebbe più palazzo
  custodito dalle sentinelle, corridoi custoditi dalle dame d’onore,
  camere custodite da un re, ma ci sarebbe una barca, col mare
  sotto i nostri piedi, il cielo al di sopra del nostro capo, un
  promontorio dal dolce nome che si chiama Miseno, un golfo di
  rimembranze amorose che si chiamerebbe Baia, una foresta d’aranci
  ove noi ci perderemmo per uscirne il più tardi possibile e che
  si chiamerebbe Sorrento: e la vita con te, la libertà con te, la
  sventura con te, la morte con te, ma nulla senza di te, nemmeno la
  gloria, nemmeno la felicità, nemmeno un posto alla destra di Dio.

                                                 «Il tuo GIUSEPPE.»

Lasciai cadere la lettera sospirando.

— Credi tu che mi amasse? dimandò la regina, mentre la raccoglieva e
l’appoggiava sulle sue labbra.

Io non risposi.

— Sì, comprendo, disse, tu chiedi a te stessa, non osando di
dimandarlo a me, come amando un tale uomo abbia potuto acconsentire di
allontanarlo da me; tu ti domandi come avendolo amato, ho potuto amarne
un altro; io non ho amato un altro, io sono stata la favorita d’un
altro, ecco tutto; che vuoi? Cleopatra dopo essere stata l’amante del
divino Cesare, che aveva messo la sua statua d’oro in Campidoglio, è
stata la ganza del beone Antonio. Non parliamone più; è la mia macchia.
Vuoi vedere il suo ritratto?

Aperse con violenza quasi collerica lo astuccio, e mi pose sotto gli
occhi una bella miniatura.

Era il ritratto d’un uomo dell’età di vent’otto ai trent’anni, dalla
fisionomia più tosto severa che tenera, con bei capelli neri, begli
occhi neri, un incarnato pallido.

Portava l’uniforme di capitano dei Liparioti; era stato incominciato il
giorno seguente a quello ricordato col ramoscello d’erica, glorificato
dalla lettera, e dato alla regina in quella notte chiesta con tanta
istanza.

In questo momento si bussò alla porta.

— Chi è? dimandò la regina, componendosi come se avesse temuto che uno
sguardo profano le macchiasse i fiori, le lettere ed il ritratto nella
cassetta.

— Io, signora, rispose una voce d’uomo.

Le sopraciglia della regina si contrassero, e diedero al suo bel volto
una espressione incredibile di durezza.

— Aveva detto che io non c’era per nessuno, rispose la regina.

— Nemmeno per me? chiese la voce.

— Quando dico per nessuno, replicò duramente la regina, non vi è
eccezione per nessuno.

— Aveva delle notizie politiche importanti da comunicare a Vostra
Maestà.

— Comunicatele al re, gli do per oggi i miei pieni poteri.

— Però quando Vostra Maestà saprà...

— Non voglio saper niente per oggi, disse la regina impazientita, e
battendo i piedi.

— Vostra Maestà è con Lady Hamilton?

— Credo che m’interroghiate, disse Carolina.

— No, signora, ma sir William è venuto per prevenire milady, che
avendo, come io, ricevute le stesse notizie, partiva per Caserta.

— Egli sa che Milady è qui?

— Sì, Maestà.

— Ebbene, che vada a Caserta.

— Allora parto con lui, continuò la voce.

— Partite, signore.

S’intese il rumore dei passi che si allontanavano.

— Egli era per disturbarmi la mia giornata, disse la regina.

— Però signora, avventurai, se le notizie che vi porta sono tanto
importanti quanto lo dice...?

— Oggi che tengo con una mano il suo ritratto, e coll’altra stringo
un’amica sul mio cuore, rispose Carolina, darei il mio trono per un
carlino, a più forte ragione quello degli altri.




II.


Si comprende che fra me e la regina si era parlato del principe
Giuseppe Caramanico, allora vice re di Sicilia.

Egli era ministro del re ed amante della regina quando propose, nello
scopo di creare una marina a Napoli, di chiamare dalla Toscana il
capitano di fregata Giovanni Acton.

Perchè quest’uomo quasi ignoto, e che non aveva nessuna attitudine
superiore, fu scelto dal principe Caramanico, che era un’intelligenza
di primo ordine?

Tutto è fortuna e sventura a questo mondo. Nato a Besançon, da una
famiglia irlandese, Giovanni Acton entrò nella marina francese, ove
sopportò delle umiliazioni, che si dissero meritate, e lasciò la
Francia, serbando contro di essa un livore, che poi diventò un odio
accanito.

Egli fece partecipare a questo livore la regina Carolina, prima che
avesse avuto i motivi troppo legittimi della morte di Luigi XVI e di
Maria Antonietta. Si avrà un’idea di quest’odio di Acton contro la
Francia da questo solo fatto: durante una carestia, in cui a Napoli si
moriva letteralmente di fame, egli fece rifiutare, perchè veniva dalla
Francia, un’imbarcazione di grano inviata da Luigi XVI.

Durante una spedizione contro i barbareschi, in cui egli comandava una
fregata, fu il solo che spiegò una certa intelligenza: costeggiando la
spiaggia aveva potuto sostenere le truppe in uno sbarco, aiutarle nel
loro rimbarco; la voce di questo fatto era venuta fino alle orecchie
del principe di Caramanico, il quale, compreso della gloria di un trono
sul quale era assisa la donna che adorava, aveva proposto Acton al re;
un segno di testa della regina l’aveva fatto accettare.

Ma come il Principe così pieno di lealtà, di eleganza e di devozione,
fu rimpiazzato da un semplice uffiziale irlandese, brutale, mediocre,
senza gioventù e senza bellezza, è uno di quei misteri che compie
soltanto l’amore od il capriccio, ma che l’intelligenza non spiega mai.

Il fatto inesplicabile avvenne pertanto. Giovanni Acton succedette al
principe di Caramanico, che fu inviato o piuttosto esiliato a Londra
col titolo di ambasciatore, e che dopo due o tre anni ritornò in
Sicilia con quello di vicerè.

Egli si trovava a Palermo quando la regina mi fece la confidenza di
quanto ho riportato.

Si vede che il signor Giovanni Acton non aveva indovinato il tempo di
venire in quel momento a battere alla porta della regina.

Però, come se questa interruzione avesse bastato a mutare il corso
delle sue idee, chiuse la piccola cassetta, la ripose nel tiratoio, e
alzò la tavoletta dello stipo che lo dissimulava. Si fermò davanti ad
uno specchio, si aggiustò leggermente l’acconciatura, e con un accento
d’indifferenza e di leggerezza affettata:

— Andiamo a passeggiare, disse, tirando con violenza il cordone del
campanello.

Un momento dopo si udì a toccare alla porta.

— Entrate, disse la regina, gettandosi il suo sciallo sulle spalle.

— Vostra Maestà, dimentica che ha chiuso la porta di dentro.

— È vero; aprite Emma.

Io apersi.

La regina si diede uno sguardo sulle spalle.

— Ah! sei tu, San Marco, disse: questa sera ceneremo fra noi donne,
tu, la San Clemente, Emma ed io; s’illuminerà il gabinetto rosa e la
sala piccola; si preveranno i nostri abituati Rocca Romana, il vecchio
Gatti, Moliterno, Pignatello, ma non voglio dei noiosi e sermonatori,
nessun diplomatico. Termoli se viene sarà il ben venuto.

Bisogna invitarlo? chiese la marchesa di San Marco.

— Ah! no, no; lasciamo qualche cosa all’avventura.

Poi volgendosi a me:

— È il figlio di San Nicandro, disse, di quell’idiota che ha fatto
l’educazione del re. Ha tale vergogna pel modo con cui è riescito suo
padre, che ha preso il nome di Termoli, uno del suoi feudi. È da uomo
di spirito. Così ho deciso che la colpa dei padri non ricadrebbe sui
figli, e gli ho perdonato. Ma Lemberg senza alcun pretesto, non voglio
sapienti. In tutti i paesi del mondo i dotti sono noiosi; in Italia
poi sono insopportabili. Hai ben compreso, San Marco? disse volgendosi
a lei, in tutto dieci o dodici persone al più, _dei miei_; poi
conducendomi per lo scalone:

— Vi sono _i miei e quelli del re_, è vero che quelli là non sono molti.

Scendemmo, un calesse a due cavalli ci attendeva in corte, senz’altra
distinzione che un F ed un B con sovrapposta una corona chiusa; il
cocchiere era in piccola livrea.

La regina ed io eravamo esattamente l’una come l’altra; una veste
di raso bianco, una piuma bianca nei capelli ed uno sciallo azzurro,
componevano tutta la nostra toletta; la sola differenza fra noi era che
la regina aveva i capelli biondi, ed io castagni oscuri.

Uscimmo dal palazzo, volgemmo verso la discesa del Gigante e Santa
Lucia, passammo dinanzi al piccolo palazzo del Chiatamore, casina di
delizie del re; poi scendemmo alla riviera di Chiaja e seguimmo la
piaggia di Mergellina, fino alle rovine che il popolo, che fa sempre
una popolarità delle grandi lascivie, o dei grandi delitti, chiama
palazzo della regina Giovanna, e che è in realtà il palazzo di Anna
Caraffa, che il duca di Medina Coeli suo consorte, richiamato in
Ispagna dopo la caduta del gran duca Olivarez, lasciò ancor incompiuto
e che al giorno d’oggi è ancora come l’ha lasciato. Per arrivare
là dovemmo passare davanti ad una casa di mediocre apparenza che in
quell’epoca non aveva numero, — le case di Napoli non furono numerate
che cinque o sei anni dopo per facilitare le perquisizioni domiciliari,
— e passando innanzi a quella casa, la regina stese il braccio,
dicendo:

— Vedi tu quella casa?

— Sì, Maestà, risposi.

— Ebbene, è la casa di pesca del mio augusto consorte, è là su quella
spiaggia ch’egli vende il pesce che ha preso, con un linguaggio che non
la cede in nulla a quello dei lazzaroni suoi amici: non hai mai veduto
questo spettacolo così curioso?

— No, Maestà, nè desidero di vederlo.

— Hai torto, ciò ti darebbe probabilmente della maestà reale un’idea
tutta diversa di quella che hai.

E si gettò in fondo alla carrozza con un movimento d’impazienza e di
sdegno, che aveva particolarmente quando parlava di suo marito.

Era l’ora della passeggiata; vi era un’enorme affluenza di carrozze,
che secondo l’abitudine andavano fino all’estremità di Mergellina,
ritornavano per la riviera di Chiaja, rimontavano per la via di Chiaja
fino alla Chiesa di S. Ferdinando, seguivano la strada Toledo fino
al Mercatello, e poi ritornavano come se fossero state obbligate al
medesimo cammino. Difatti non vi è che una sola passeggiata a Napoli,
che si possa chiamare tale, un pavimento polveroso ed una strada che,
riscaldata a cinquanta gradi durante la giornata, resta a trenta nella
sera.

Durante questa passeggiata, il calesse reale fu l’oggetto della
curiosità pubblica. Io era ancor poco conosciuta a Napoli, di modo che
gli onori fatti ad una persona straniera, ad una faccia nuova, erano
uno stupore per ciascuno: alcune dame della corte poi, alzandosi, come
mosse da una scossa elettrica, esclamavano le une: — «Lady Hamilton!» —
le altre: — «l’ambasciatrice d’Inghilterra!» — Due o tre pronunziarono
semplicemente — «Emma Lyonna» — cosa che mi provava che sventuratamente
era conosciuta anche sotto questo nome.

Incontrammo il mio vecchio adoratore, il vescovo di Derry. Vedendomi
nella carrozza reale, il suo viso si rischiarò di un raggio di gioia,
ma non mi parve punto maravigliato. Mi avesse veduto alla destra di
Giunone od alla sinistra di Minerva, egli avrebbe trovato che era
appena al mio posto.

E a tutte queste esclamazioni, a tutte queste maraviglie la regina
sorrideva col suo sorriso altiero, che sembrava dire:

— E perchè no, se mi piace così?

Rientrammo a sera.

Presso la sala di pranzo illuminata a giorno, ove la mensa era stata
preparata per la nostra piccola brigata collo stesso lusso come se vi
fosse stata gala, vi era il piccolo gabinetto rosa di cui aveva parlato
la regina. Questo misterioso recesso era illuminato da una sola lampada
di alabastro, che spargeva la sua luce appannata sui mobili e sui
tappeti. Le finestre mettevano sul terrazzo, ed a traverso le fronde
degli aranceti si vedeva scintillare il mare arrubinato dal fuoco del
sole cadente.

La regina, entrando, non fece che attraversare la sala da pranzo, e mi
condusse al gabinetto.

Non so se la regina della voluttà, Venere, Astarte in persona, sia a
Gnido, a Pafo, a Citera, al tempo in cui era amata da Adone, adorata
da Pericle e da Alcibiade, abbia inventato qualche cosa di più soave,
di più profumato di questo grazioso nido di colomba, ove la brezza
del mare vi giunge per mezzo alle fronde fiorite degli aranceti;
evidentemente quel gabinetto che sembrava fatto di madreperla, di
perle e di foglie di rosa, non aveva eco che per le dolci parole, e i
gemiti del cuore. E respirando quelle emanazioni profumate si sentiva
come in preda alla più voluttuosa corrente magnetica della natura.
Appena vi entrai provai una strana emozione, come se un dolce incanto,
addormentato nel mio cuore, mi si risvegliasse ad un tratto. Era un
incanto simile a quello che aveva provato in quella notte, in cui sir
Harry si era avvicinato al mio letto, per prendere il posto del suo
amico sir John; tutti i sentimenti di misterioso languore assopiti
nel mio cuore, dopo il mio matrimonio con sir William, e che io aveva
creduto morto e seppellito, cominciavano a scuotersi ed a palpitare
di nuovo. Le mie labbra inaridirono, come sotto un soffio ardente, i
miei occhi rimasero semiaperti, il mio petto era ansante, e caddi quasi
coricata sui cuscini, mormorando:

— Oh! come non poter amare qui!

— E chi t’impedisce di amare? chiese la regina. Sei tu in età da non
poter più amare?

— No, risposi. — Ma chi amare?

— Ah sì! rispose la regina. _Qui sta il punto_, come dice il tuo poeta:
chi amare? è ciò che dimandava Saffo all’amore prima di vedere Faone;
essa vide Faone, e scontò colla vita lo sguardo che gettò sul giovane
lesba. Povera Emma, soggiunse la regina a mezza voce. Tu hai ragione;
chi amare? perchè l’amore degli uomini è fatale, e le vere amicizie,
credimi, sono le amicizie di donne.

Mi sollevai a stento, e la guardai con stupore.

— Vedi la mia povera sorella Maria Antonietta, mi disse: per sette
anni è stata la sposa di suo marito senza essere sua moglie; ebbene,
questi sette anni sono stati i più felici della sua vita. È vero che
ha avuto la fortuna di avere due amiche come io vorrei trovarne una:
la principessa di Lamballe e madama di Polignac. Ebbene, ti mostrerò le
lettere che mi scrisse in data di quell’epoca; e si scorge che non ebbe
mai una nube in cuore; sono le Dellon, le Coigny, le Ferrer, che hanno
sollevato la tempesta intorno a lei. Lamballe e Polignac! Erano il bel
tempo, il sereno, erano il sole. Vuoi tu essere per me, Emma, disse la
regina cingendomi del suo braccio, ciò che le due tenere amiche sono
state per mia sorella Maria Antonietta?

— Oh! sì, esclamai con tutta l’ingenuità della mia anima; oh! sì, lo
voglio, e con tutto il cuore.

— Grazie, esclamò la regina, appoggiando con un movimento rapido e
veemente le sue labbra sulle mie.

— Oh! io sento che ti amerò, vedi più ancora di quant’altri ho amato.

Misi un debole grido; io non mi aspettava queste carezze quasi virili;
mi parve che le forze mi mancassero, che una nube mi oscurasse
la vista, quasi quasi sveniva; mi sollevai a stento, respingendo
dolcemente la regina.

— Oh! sospirai, che ho io dunque che mi sembra di soffocare?

— Non v’ha nulla da maravigliarsi in ciò, disse la regina alzandosi
alla sua volta, e sostenendomi pel braccio; è questo caldo di luglio,
i nostri abiti di raso, ed i busti di balena. Ma, cara amica, noi
abbiamo ancora qualche minuto prima di cena; spogliamoci di questi
abiti pesanti, e mettiamo dei semplici accappatoi: questa sera noi non
riceviamo che delle amiche, e tu civettina non hai bisogno di toletta
per sembrare più bella.

— È inutile che te lo dica, lo sai, ad un’ora di mattina quando se ne
anderanno, noi troveremo pronto il nostro bagno, e tu ritornerai a casa
fresca, come se fossi venuta uscendo da quelle belle onde azzurre che
vedi a scintillare laggiù.

E dicendo queste parole la regina stessa sciolse i ganci del mio abito,
ed i lacci del mio corsetto; abito e corsetto caddero a terra.

Respirai, e mandai un sospiro di consolazione.

— Davvero, disse la regina, quando si è ben fatta come te, cara Emma, è
un peccato di non vestirsi in una foggia diversa di quella di Aspasia,
— aspettate, e poi vi aggiusteremo la vostra tunica, mia bella greca;
non fate la civetta, almeno, questa sera con Rocca Romana o Moliterno;
io ne sarei gelosa da morirne.

— L’uno di questi due signori, chiesi sorridendo ha forse l’onore di
essere guardato con interesse da Vostra Maestà?

— Non ho detto che sarei gelosa di essi, scioccherella, disse la
regina; ho detto che sarei gelosa di te; guarda la toletta di notte
preparata per me, là sulla poltrona presso il mio letto....

E dicendo queste parole, aperse una porta, che metteva nella camera da
letto.

— Prendila, mi disse, io chiamo perchè me se ne porti un’altra.

— Eguale?

— Senza dubbio, eguale; non ci siamo intese che siamo due sorelle, e
più ancora due amiche?

Essa tirò il campanello.

Entrai nella camera da letto per fare contrasto col gabinetto
illuminato, come ho detto, da una lampada d’alabastro; la camera da
letto era rischiarata da una lampada di vetro rosa di Boemia, ciò che
faceva un grazioso contrasto. Era tutta a tende di taffetà bianco, e la
luce, che passava dal cristallo incarnato, dava alla stoffa un riflesso
rosa; due porte agli angoli mettevano l’una ad un gabinetto di toletta,
l’altra in una sala di bagno, che in tutta la sua estensione non era
che un’immensa vasca di marmo bianco, circondata da gradini coperti
da stuoie così fine che i loro disegni sembravano ricami; in ciascun
angolo vi erano dei cuscini di seta.

Questa sala era tutta dipinta alla maniera di Pompei, colle famose
danzatrici di Capri che volteggiavano sulle pareti.

In tutto ciò vi era qualche cosa del magico palazzo d’Armida cantato
dal Tasso.

Da un’ora io era entrata nel mondo degli incantesimi.

Vi era così grande distanza fra questo gabinetto, questa camera da
letto e questa sala da bagno, e la camera azzurra predetta da Dick,
quanto da questa camera azzurra alla stamberga che abitava in casa di
Mistress Davyson.

La toletta di notte della regina si componeva di una specie di
tunica di battista guarnita di valencienne al collo, allo sparato ed
all’estremità delle maniche; un cordone di seta rosa era destinato
a serrarla alla vita; un paio di pantofole di raso rosa completavano
questo _negligè_.

Appena l’aveva indossata, vidi entrare la regina vestita nello stesso
modo.

Mi guardò un istante, e poi con un sorriso grazioso:

— Ho ben volontà, disse, di fare per te ciò che mia sorella Maria
Antonietta ha fatto per la piccola principessa di Lamballe, vale a dire
di creare alla corte la carica della _Dama di letto_, ciò farà che noi
non ci lasceremo nè giorno nè notte. — È vero che lo avrò una forte
querela con sir William.

Mi misi a ridere.

— Non so se Vostra Maestà avrà querela con lui; ma ciò che so è che
questa carica di Dama di letto che Vostra Maestà intende di creare al
palazzo reale non esiste all’ambasciata d’Inghilterra, o esiste così
poco che non vale la pena di parlarne.

— Eccomi assicurata per una parte; ma io temo per l’altra.

— E di che, mio Dio, domandai io.

— Quando il re ti vedrà così bella, s’innamorerà di te.

— Ah! mio Dio! che mi dice mai Vostra Maestà!

— Mi permetti tu di difenderti contro di lui?

— Ne supplico Vostra Maestà; ma credo che basterò a difendermi da me
sola.

— Vuoi che t’insegni un bel modo? profumati con quell’essenza che
meglio crederai, poco importa quale, ogni volta che tu verrai alla
corte; egli è come suo avo Enrico IV col quale io credo abbia quella
sola somiglianza; detesta i profumi; io invece li adoro. — Ora guardami
— vediamo — davvero tu sei graziosa, dieci volte più bella che in gran
toletta, soltanto lasciami acconciare qualche cosa nei tuoi capelli.

La regina aperse uno scrigno che era situato sulla toletta, ne trasse
un filo di perle, che poteva servire tanto da collana che di ornamento
di testa, di tratto in tratto le perle erano separate da grossi
diamanti; poi, come disse la regina, me l’acconciò nei capelli.

Sembrava che Carolina avesse abdicato ad ogni civetteria personale per
farmi bella anche a sue spese; non si poteva dire una donna che adorna
un’altra, ma si sarebbe detto un amante che adorna la sua bella.

— Oh! disse ella, la San Marco e la San Clemente ne morranno di
gelosia. Ci capita un inglese, invece di essere di quelle inglesi, con
de’ capelli biondi di stoppa, degli occhi azzurri di maiolica e dei
denti lunghi, ci viene invece dal paese delle sentimentali _mistress_
una specie di Cleopatra, coi capelli castagni, cogli occhi di non so
qual colore, e poi con una pelle!... ma di che cosa è fatta la vostra
pelle, mia bella amica? C’è dell’armellino e del cigno. Davvero sono
spiacente di aver detto a tutta questa gente di venire, noi saremmo
state sole, ci saremmo messe nel bagno, ci saremmo fatte servire da
pranzo nel bagno; ho quasi volontà di chiudere la mia porta; ma no.....
le riceverò, tu sarai cara come una gatta, n’è vero? si dice che tu sei
un’attrice meravigliosa ed una danzatrice inebbriante.

Arrossii.

— È sir William che dice ciò.

— Tu declamerai dei versi, canterai, dirai tutto ciò che vorrai per
renderli pazzi, e li rimanderemo a casa storditi, maravigliati; dimani
per tutta Napoli non si parlerà che di te; e quando mi parleranno di
Lady Hamilton, dirò: sì, è la mia amica, è la mia Emma, che è mia e di
nessun altro; e gli uomini saranno tutti gelosi di me, e le donne mi
detesteranno ancora più; ce la voglio fare a tutte queste napolitane
che fanno all’amore come qualsiasi femmina e che bisogna adoperare lo
staffile per farle andare al bagno. Se fossi obbligata di abbracciarne
una, io dimanderei una commutazione di pena o in Castel Sant’Elmo od in
Castel Nuovo, mentre, te, oh! te, ti mangerei tutta viva.

E scoprendomi la spalla cominciò con un morso che finì con un bacio.

In questo momento la porta del gabinetto si aperse ed udimmo queste
parole:

— Maestà, è servita.

— Vieni, disse la regina.

Entrammo nella sala da pranzo.




III.


Le dame della regina, quelle che passavano per le sue due amiche, e
non erano che le sue confidenti, cioè la San Marco e la baronessa di
San Clemente, erano in gran toeletta di corte, il che faceva un gran
contrasto con noi; erano acconciate colla cipria, avevano fiori nei
capelli, il rossetto ed i nei sulle guance, busti stretti in molle
d’acciaio: per la prima volta m’accorsi di questo lato ridicolo degli
abiti di gran gala. Avevano la figura di due maschere.

Eppure erano tutte due belle, la marchesa di San Marco specialmente; ma
era la bellezza senza grazia, senza flessibilità, senza vezzi.

La regina invece, quantunque già un po’ ingrossata dai suoi trentasei
anni, era cara.

Si sarebbe detto che sotto il colpo di una notizia spiacevole, che
ignorava ancora, ma che immancabilmente avrebbe saputo il giorno dopo,
si era affrettata di rapire al tempo ed agli avvenimenti della politica
qualche ora felice.

Essa fu amabile per quelle dame, ma adorabile per me; mi aveva fatta
sedere vicino a lei, e durante la cena mi servì di sua mano.

Solita a bere soltanto dell’acqua, o ad arrossarla appena con qualche
vino di Francia, dovetti, per cedere alle istanze della regina,
assaggiare di volta in volta quei vini verticinosi di Sicilia e di
Ungheria. Mi pareva che quei vini mutassero in fiamme il sangue che
scorreva nelle mie vene.

Prima della fine del pranzo, o piuttosto della cena ci si annunziò che
qualche persona, cui la regina aveva autorizzato di farle visita, era
arrivata ed aspettava nel salone.

La regina fece aprire le porte, si appoggiò al mio braccio, e fece la
sua entrata.

Dissi già come in quella sera la regina fosse più bella del solito;
sembrava felice; la sua fronte era calma, un sorriso benevolo le
scorrea sulle labbra quasi sempre sdegnose.

In vederla si alzò un mormorio d’ammirazione, che finì con degli
applausi.

Essa diede la mano da baciare a Rocca Romana ed a Moliterno.

Rocca Romana, che incominciava allora la sua vita di avventure, che
fecero di lui il Richelieu di Napoli, era ancor giovanissimo, quasi un
fanciullo, nè era al di sotto della sua riputazione, vale a dire, che
era mirabilmente bello, e di una eleganza perfetta.

Si scorgeva in lui l’uomo nato nell’aristocrazia la più pura, e
destinato a vivere alla Corte.

Moliterno era maggiore di età e meno bello di lui. Il suo volto era
più severo e più maschile, e qualche anno dopo, nel 1796, in Tirolo,
un colpo di sciabola ricevuto a traverso la faccia, e che gli tolse un
occhio, dava alla sua fisonomia un aspetto ancora più tetro.

In quanto al dottor Gatti, credo di averne già parlato; era un
cortigiano dalla schiena flessibile, che, in grazia del suo titolo di
medico, andava dovunque non già per esercitarvi l’arte, ma per fare
degli intrighi. La regina aveva per lui una mediocre tenerezza, e però
gli concedeva una certa influenza.

Il principe Pignatelli, che acquistò poscia una grande celebrità come
vicario generale del regno, quando la famiglia reale abbandonò Napoli
e fuggì in Sicilia, era allora un uomo dai 32 ai 34 anni. Senz’avere un
tratto rimarchevole, sia nel carattere, sia nella fisonomia, era uno di
que’ ministri compiacenti e senza resistenza come i cattivi genii del
popolo posti a fianco del re nei giorni delle rivoluzioni per eseguire
troppo esattamente gli ordini che lor danno i re.

Vedendo la regina così serena, tutte le fisonomie si misero all’unisono
colla sua.

La regina mi presentò successivamente i sette od otto intimi del
palazzo reale, che erano venuti dietro il suo invito, e di cui ho
accennato i principali.

In quel tempo la corte delle Due Sicilie era ben lontana dall’aver
preso quella tinta oscura che poscia ebbe sempre. Furono gli atti
sanguinosi della rivoluzione francese che reagirono su questa corte, e
resero Ferdinando crudele, e Carolina vendicatrice.

A contare dal 21 gennaio e dal 16 ottobre 1793, gli spettri decapitati
di Luigi XIV e di Maria Antonietta non abbandonarono più il letto
reale.

Ma allora, cioè nel mese di luglio 1789, la rivoluzione francese era
ancora all’orizzonte come un fantasima inoffensivo, come una nebbia del
mattino: era a cominciare dal giorno seguente che essa doveva gettare
le sue prime ombre sulla fronte di Carolina.

La regina, come tutti i Tedeschi, amava molto la musica, di modo che
vi era nella sala ogni sorta d’istrumenti, di cui i principali erano un
cembalo ed un’arpa. La regina mi dimandò se io suonava l’uno o l’altro
di quegli strumenti; io li suonava ambedue.

Presi l’arpa. Era evidente che quel momento della mia produzione
sarebbe stato il più solenne della mia vita.

Qualche mese prima erasi scoperto ad Ercolano un manoscritto che
conteneva dei versi di Alceo e di Saffo.

Questi canti erano stati tradotti in lingua italiana dal marchese di
Gargallo, e messi in musica da Cimarosa.

Mi sciolsi i capelli, e me li gettai con un movimento di testa sulle
spalle: essi erano spessi, lunghissimi, e non avendo mai messo la
polvere di cipria, erano finissimi e delicati, e cadevano ondeggiando
fin oltre il fianco. Cercai di dare, — si conosce la mia valentia
nella mimica, — cercai di dare al mio volto l’aria dell’ispirazione
della poetessa antica; e dopo un preludio, durante il quale scoppiarono
applausi, cantai questi versi, sopra un semplice accompagnamento.

    Figlia di Giove — Venere immortale,
      Tu reina del mondo che governi,
      Oh! ti commova ai seggi tuoi superni
                    L’angoscia mia fatale.
    Deh! non esser crudel! guarda le amare
      Ferite del mio cuor — guarda, o reina,
      Bella diva d’amor, perla divina
                    Dischiusa in seno al mare.
    Ben altre volte ai cupidi sospiri
      Ratta accorresti ai lai di questo cuore
      Dall’eterea magion, madre d’Amore
                    Conscia de’ suoi raggiri;
    Come ti vidi per l’azzurro campo
      Del ciel movendo al suon de la mia voce
      Sulle penne dei passeri veloce
                    Rapida al par del lampo;
    Così parmi vederti, in mezzo all’etra
      Che trepido susurra all’irruente
      Fuga del carro, e all’armonia fremente
                    Dell’ascoltata cetra.
    E giunto al margo dell’equorea mole
      Al sorriso del labbro tuo vermiglio
      Disparve il pianto che piovea dal ciglio
                    Come rugiada al sole.
    E mi dicesti: E perchè tu mi chiami?
      Qual ignoto disio t’accende il cuore?
      Qual è il mortal che ti rifiuta amore
                    E tu sospiri e brami?
    Sventura a lui, che ti spregiò con vane
      Derision l’amor ch’oggi ricusa
      Dimane il chiederà; ma la tua musa
                    Lo spregerà dimane.

Non ho bisogno di ricordare ai miei lettori a qual grado di perfezione
io fossi giunta in questa specie di rappresentazioni in parte cantate
ed in parte mimiche. Fin dalla prima strofa mi era completamente
identificata col mio personaggio, e per conseguenza impossessata dello
spirito dei miei uditori. Se non mi interruppero ad ogni strofa gli
applausi, fu perchè si temeva di perdere una nota della mia voce e
una vibrazione delle corde; ma quando all’ultimo verso dell’ultima
strofa, cadendo in ginocchio, cogli occhi rivolti al cielo, feci questa
invocazione alla Dea:

    Deh! vieni, o dea pietosa, e mi soccorri
      È l’infelice Saffo, che sospira
      Per lo diserto amor, piange e delira:
                    Oh! vieni, o Dea, accorri!

Non vi fu che una acclamazione in cui si poteva riconoscere uno stupore
pari all’ammirazione.

Era evidente che produssi un effetto nuovo, una emozione sconosciuta,
qualche cosa di completamente nuovo ed interamente inaspettato.

La regina mi sollevò, mi strinse contro il suo cuore e mi abbracciò.

--Oh! bis, bis! esclamò, un’altra volta, Emma, ti prego.

Ma io scossi la testa.

— Maestà, le dissi, io debbo la mia riuscita ad una sorpresa; dal
momento che non vi sarebbe più da produrre una sorpresa, non otterrei
più nessun effetto. Non esigete mai da me che io ripeta. Ma se lo
volete tenterò piuttosto qualche altra cosa.

— Tutto quello che vuoi; ma presto, presto, presto. Abbiamo premura di
applaudirti. Avete mai veduto una cosa simile, Gatti, avete mai veduto
una cosa simile, Rocca Romana?

La risposta, s’intende bene, fu unanime.

Allora tutti si unirono alla regina per chiedermi un’altra cosa.

Era sicura dell’effetto che produrrei nella scena della pazzia di
Ofelia nell’Amleto.

Chiesi alla regina un velo e dei fiori.

— Vieni nella mia camera, disse la regina, e sceglierai fra tutti
i veli quello che meglio t’aggrada; in quanto ai fiori, ne troverai
finchè ne vuoi sul terrazzo.

Entrammo io e la regina nella sua stanza da letto, presi un velo
semplice, poi andammo sul terrazzo, e la regina mettendosi a mia
disposizione, dicevami; — vuoi dei gerani, vuoi questo ramo d’arancio,
questo fiore di alloro rosa?

Non era ciò che mi abbisognava. Questi fiori della civiltà e
dell’aristocrazia facevano un controsenso colla pazzia semplice e
selvaggia di Ofelia; ci volevano dei papaveri, dei fiori campestri,
dell’avena selvatica, per seguire il sesto shakespeariano, del
rosmarino da siepe, che so io: — i fiori che mi si offrivano erano
corone reali, buoni per la figlia di Maria Teresa, e non per la figlia
di Polonio; ma cominciai a non far più la difficile, e a prendere dei
diamanti e delle perle quando non v’era altro.

La regina voleva rimanere per aiutarmi nella mia toletta; ma era
specialmente sopra di lei ch’io voleva fare impressione. Io la mandai
via senza pietà dalla camera.

Voleva produrre lo stesso effetto su di lei come sul rimanente dei miei
spettatori; in quella sera voleva essere più che mai la vera Ofelia
del poeta di Elisabetta. Ma, grazie alla mia abilità in questa sorta
di rapidi mutamenti, non appena la regina era rientrata nella sala,
e si era seduta nella sua poltrona, la porta della camera da letto
si riaperse, ed apparvi nel vano dall’imposta, pallida, cogli occhi
incantati, e le labbra convulse dalla pazzia.

Se i miei spettatori, questi discendenti degli Ateniesi, erano poco
famigliari colla poesia della musa di Lesbo, tanto più erano stranieri
al canti del poeta di Stratford. Del resto nessuno del miei uditori
comprendeva abbastanza l’inglese per gustare Shakespeare; non fu per
essi che una semplice scena mimica.

Ma ciò che m’importava, ciò che voleva, era di raggiungere il sublime
della mimica.

Debbo dire che mai, io credo, anche nelle mie più complete ispirazioni,
non raggiunsi l’altezza cui mi elevai in quella sera. Io era veramente
l’ingenua Valentina d’Amleto, la figlia disperata di Polonio, la
sorella insensata di Laerte. Da molto tempo non aveva più ripassato
a memoria quello squarcio, ma supplii a tutto; la convinzione che
non si sarebbero accorti delle lacune mi sosteneva, anzi m’innalzava
maggiormente; io era insieme e poeta e attrice, improvvisava dove non
sapeva un verso; Shakespeare istesso sarebbe stato contento di me.

Non cercherò di esprimere lo stupore dei miei uditori: era la prima
volta, secondo tutta la probabilità, che la poesia del nord appariva
agli spettatori pallida colle chiome sparse, e lamentando i suoi
dolori; soltanto la regina vi trovava qualche cosa dei poeti della sua
terra nebulosa.

Alla prima parlata, tutti credettero che fosse finito, e vollero
avvicinarsi per felicitarmi; ma io che sapeva che nella seconda scena
mi sarei aspettata il mio più grave trionfo, mi fermai sulla soglia
della porta della camera da letto, stesi il braccio; e come se fosse
Lady Hamlet o Maria Carolina, dissi solamente questa parola:

— Aspettate!

E ognuno ritornò silenzioso ed ansante alla sua sedia.

Cinque minuti dopo mi presentai con un velo nero invece del bianco;
aveva i capelli cosparsi di fiori rossi di geranio, e di qualche
spiga che trovai in un’acconciatura della regina; inoltre aveva
utilizzato quella specie di fiamma sensuale, di cui ardeva. I miei
occhi scintillavano come accesi dall’ardore febbrile, il loro splendore
contrastava colla pallidezza del mio volto.

La regina si alzò, e mi venne incontro per dimandarmi se mi sentiva
male.

Ma io sorridendo, in parte per rassicurarla, in parte perchè era
indicato che doveva sorridere, incominciai la mia scena della pazzia,
facendole un inchino e dicendole:

— Buon dì, principe.

Poi ad un tratto mutando di fisionomia e d’intonazione, con note
angosciose, cominciai il pietoso lamento:

    »Sulla scoperta bara lo recano....
    »Ah! più non è, no, più non è;
    »Sulla sua fossa cade una lagrima...

Allora dopo una pausa d’un istante, in cui il mio volto si compose
dall’espressione più dolorosa fino al sorriso, pronunziai con
allegrezza queste sole parole:

    Oh! mio tortore, addio.

Poi con un accento disperato ricaddi nel più profondo dolore per
mormorare:

    »A me scenda, venga a me.
    »Ahi! ahimè! tre volte ahimè!

È nota nell’arte questa scena impareggiabile, tanto essa sembra
strappata alla natura; questa scena che poi si tentò d’imitare su
tutti i teatri ed in tutte le lingue, ed in cui Ofelia strappandosi
i fiori dai capelli e dal seno, di cui gli uni hanno il loro pregio,
prendendoli pel suo amante, dicevagli:

    »Dolce amico a me pensa: ecco pensieri.
    »To’ il rosmarino il fiore dei ricordi.
    »Riunirci saprà col suo profumo.

Poi volgendosi verso la regina le porge gli altri, accompagnando
ciascun fiore da uno di quei versi che bisognerebbe lasciare nel loro
linguaggio primitivo, per non togliere nulla della loro grazia e della
loro malinconia.

    »Partiam fra noi signora questa ruta
    »Per voi di grazia, erba per me di pianto.
    »Or eccovi finocchio, anco prendete
    »Candide pratelline; violette
    »Pur vorrei darvi, ma tutte appassiro
    »Tristi, tristi, allorchè mio padre è morto,
    »Morto, vanno dicendo santamente.

In questo momento, ricondotta alla crudele sventura che la colpisce,
assorta interamente nel dolore, Ofelia non offre più a nessuno i suoi
fiori; quelli che le rimangono sono per la tomba di suo padre, li
sparge sul suo velo disteso, divenuto per essa un lenzuolo funebre, poi
come se qualche idea non potesse concepirsi intiera nel suo cervello,
è allora che canta questi versi, e quest’aria così ingenua, che si
crederebbe di udire l’eco d’una veglia di villaggio.

    »Il caro e buon Roberto
    »È tutto il mio tesor.

Ma poi, imbizzarendo di nuovo il suo pensiero, ritorna alla causa della
sua pazzia, alla morte di suo padre; e lascia sfuggire dal fondo del
suo cuore questo lamento:

    »Siccome neve candido il crin
    »Nella dolcezza è pari al lin
    »Vidi il nero drappello
    »Oh! Dio protegge il morto e l’orfanello.

Il grande poeta ha sentito che giunti là gli spettatori non potrebbero
resistere più a lungo, e che anche Ofelia più non le rimane che di
morire, parte dicendo:

— Il cielo sia con voi!

Ultimo voto di quell’angelo che, incontrando il fiume sul suo cammino,
si affogherà cogliendo fiori.

Si comprende, volendo ottenere dell’effetto, quale effetto produssi.
Nell’uscire fui accompagnata da un grido che sfuggiva da tutti i petti,
e dal rumore dei singhiozzi mischiati agli applausi che mi seguirono
nella mia camera.

La regina mi corse dietro e mi strinse fra le braccia più colla rabbia
d’una pantera, che coll’amicizia di una donna.

— Oh! com’eri bella! esclamò, divorandomi cogli occhi e colla bocca;
ma abbracciami dunque e dimmi che tu mi ami, e che non amerai altri che
me.

Poi udendo dei passi che si avvicinavano nella camera:

— Chi è là, gridò con un accento incredibile di gelosia, e come se
avesse voluto difendermi da chicchessia si avvicinasse a me.

La persona che si avvicinava, e che era la San Marco o la San Clemente,
ritornò nella sala, o piuttosto non fece un passo di più verso la
camera.

La regina stette un momento pensosa; poi ad un tratto:

— Resta qui, mi disse, e non entrare nella sala.

Io non chiedeva di meglio, era affranta.

Mi lasciai cadere su di una poltrona, quando la regina rientrò.

— La nostra inglese, per la maggior gloria del suo posto, e pel
maggiore nostro divertimento ha fatto quanto le era possibile, di
maniera che è nientemeno che mezza morta di fatica, vi domando grazia
per lei. Buona sera, e buona notte signori.

— È almeno permesso di applaudirla? chiese Rocca Romana.

— Finchè volete, disse la regina; e non applaudirete mai abbastanza;
confessate che è una cosa meravigliosa.

Vi fu un coro di applausi e di lodi, poi si intesero le voci e gli
applausi a diminuire; la regina ringraziò le sue dame d’onore, che le
offrivano i loro servigi, e chiuse la porta dietro di sè.

Quando la regina si rivolse verso di me, mi vide che sollevava la tenda
di seta della porta.

— Ma vieni dunque, sirena, vieni Circe, vieni dunque Armida, mi disse,
e gettandomi le braccia al collo mi trascinò verso il canapè.

Noi cademmo abbracciate insieme presso l’arpa, e la regina mi disse:

— Tu hai cantato le strofe di Saffo che cominciano con questo verso:

    «Figlia di Giove — Venere immortale.

Non erano però quelle che bisognava cantarmi, erano queste che
cominciano così:

    «Lo veggo! è lui, che assiso a te d’accanto.

— Io non poteva cantarvele, cara regina, le dissi, non le sapeva.

— Ebbene le so io, replicò essa, le canto io, e mezza coricata sul
tappeto, ai miei piedi, coll’occhio ardente, febbrile, le narici
dilatate, la bocca fremente di voluttà, faceva vibrare le corde
dell’arpa con una specie di delirio, e cantò con una amabile voce di
contralto e con una passione incredibile questi versi:

    Lo veggo è lui! che assiso a te d’accanto
      S’inebbria al suon che dal tuo labbro uscìo;
      Oh rabbia! è lui, che ti sorride intanto
                        Bello siccome un Dio.
    Quando lo veggo! ammutolir l’accento,
      Tremar le labbra, ed al mio cor simile
      Arder le tempie, e nel furor febbrile
                        Bruciar, gelar mi sento.
    E come appena si sorregge il fiore
      Che i delicati petali riarse
      L’etra infocato, e sulle fronde sparse
                        Al sol si strugge e muore;
    Languida anch’io più dell’arso fiore,
      Impallidisco, tremo, ed il respiro
      Fuggendomi dal cor, sento che spiro,
                        Senza morir d’amore.

Nel momento che l’ultimo verso si spegneva sul labbro della regina,
nel momento in cui l’ultimo suono dell’arpa moriva nell’aria, si udì
toccare leggermente alla porta.

— Che si vuole ancora? dimandò la regina con impazienza, e levandosi su
di un ginocchio.

— I domestici e la carrozza di Lady Hamilton, rispose una voce.

— Che ritornino al palazzo dell’ambasciatore, disse la regina, non si
ha bisogno di loro qui. Lady Hamilton resta qui con me.

Poi trascinandomi e portandomi quasi verso la sala del bagno:

— Vieni, disse, vieni. Sir Hamilton è a Caserta, non ritornerà che
dimani.




IV.


Questa novella, che dalla vigilia stava sospesa sulla testa della
regina, era la presa della Bastiglia.

Era certo l’ultima nuova che si poteva aspettarsi.

Valeva presso a poco come se alcuno fosse venuto ad annunciare alla
regina ch’era stato preso il castello di S. Elmo.

Siccome la regina Maria Antonietta prevedeva la necessità nella quale
versava, di conferire colla regina sua sorella di cose secrete, mentre
le comunicava soltanto vaghi timori, le mandava una cifra onde tenere
corrispondenza con lei.

Questa novella, quantunque non si conoscesse altro messaggiero che
quello, il quale l’aveva portata, e quantunque lo si fosse ritenuto e
chiuso nel palazzo, questa novella si era sparsa in Napoli, e ci aveva
prodotto una singolare sensazione.

Allorquando alcuni anni prima la franca-massoneria in Francia, gli
illuminati in Germania, gli swedenborgisti in Svezia cominciarono
a formare società secrete, — la franca-massoneria aveva fatto, a
quest’epoca, qualche progresso in Italia e sopra tutto nell’Italia
meridionale; non essendosi la corte di Napoli ancor guasta colla
Francia, per farsi la satellite dell’Austria.

Questa invasione massonica ebbe luogo in sul principio degli amori
della regina col principe Caramanico, e la regina che cercava tutte le
occasioni di trovarsi col suo amante, l’avea spinto a farsi ricevere
massone, ciò che egli fece senza esitare, e profittando della legge che
permetteva di fondare logge di donne, erasi dichiarato venerabile di
una loggia, nella quale alcune dame napoletane si erano fatte ricevere.
Quanto al re aveva sempre respinta la propria ammissione a cagione
delle prove fisiche e morali, alle quali non voleva sottomettersi, non
essendo sicuro di trionfarne.

In seguito, come la regina s’era fatta, poco a poco, più libera e
come gli amanti avevano potuto vedersi quanto volevano alla morte del
ministro Tannucci, lasciarono riunirsi le logge massoniche, e lavorare
nella loro opera, che era, si ricorderà bene, a quest’epoca una vasta
cospirazione contro la potestà reale.

A quel tempo parecchi uomini rimarchevoli erano comparsi, ed avevano
fatta scuola in Italia e particolarmente nell’Italia meridionale. Erano
gli eredi di Vico, di Genovesi, di Beccaria, di Filangieri, di Pagano,
di Cirillo, di Conforti e di tutti coloro, infine, che professavano gli
stessi principi, cioè il progresso, che camminava a traverso il mondo
al lume della filosofia, che in Francia erasi mutato in incendio.

Tutti coloro che nell’Italia meridionale avevano l’occhio fissato sulla
Francia, consci già che da Parigi verrebbe il movimento, sobbalzarono
di gioia alla novella che la Bastiglia era stata presa.

È manifesto che la corte di Napoli ebbe a provare una sensazione
affatto contraria. Presa la Bastiglia e presa senza assedio, in un
giorno, in tre ore, da un popolo ieri disarmato, oggi in possesso di
trenta mila fucili; la coccarda bianca, questo emblema della monarchia
dei Gigli, cangiata in coccarda tricolore, emblema della rivoluzione;
Luigi XVI che adottava questo simbolo, mettendolo egli stesso sul
suo cappello, e con quello ritornando da Versailles; tutto ciò aveva
dell’inaudito, dell’inaspettato, dell’incredibile, che doveva colpire,
e colpì, di stupore la corte di Napoli.

Le relazioni politiche, a cagione dell’odio del ministro Acton per la
Francia, e dell’influenza che egli aveva presa nel consiglio, erano
divenute fredde e contegnose fra i due regni, ma le relazioni di
famiglia fra Maria Carolina e sua sorella, erano restate più tenere
che mai, e raramente passavano quindici giorni senza uno scambio
di lettere, nelle quali le due arciduchesse senza segreti, una per
l’altra, si raccontavano le loro gioie, i loro dolori, e sopra tutto i
loro inganni coniugali.

Sia che il ministro Acton, nella sua previdenza d’odio, indovinasse gli
avvenimenti che stavano per accadere in Francia, sia che non cedesse
che a questo sentimento di vendetta, ond’era colmo il suo cuore,
più che non calmasse esagerò i terrori del re Ferdinando, e gli fece
prevedere il caso di un intervento armato che avrebbe avuto luogo, nel
quale Napoli avrebbe a sostenere una parte ed a compiere una missione.

Incontrò a questo proposito un potente aiuto in sir William, che
spingeva fino al fanatismo il suo amore per suo fratello di latte
Giorgio, e per l’Inghilterra, sua patria. Quanto a me estranea a
tutte le quistioni politiche e ignorantissima dei diritti dei popoli
e del potere dei re, doveva naturalmente subire influenza e seguire
ciecamente l’impulso che mi si darebbe, sopra tutto se questo impulso
venisse da un uomo come sir William, in cui ciascuno riconosceva una
non comune intelligenza, e da una donna come Maria Carolina, che, dal
momento che la vidi, esercitò sopra di me un grande impero.

A cominciare da questo momento entrai negli odii e nelle simpatie
della gente che mi circondava, senza ragionare su questi odii e su
queste simpatie che divennero in me piuttosto sentimenti istintivi, che
sommessi ad una regola o ad un calcolo qualunque.

Si capirà, del resto, come questi sentimenti non abbiano fatto che
aumentarsi nelle persone, delle quali io era il riflesso dapprima, e di
cui, disgraziatamente, finii col diventare l’agente.

Le nuove di Francia non si arrestarono alla presa della Bastiglia ed
al mutamento di coccarda; si seppero in seguito i disordini accaduti
al banchetto delle guardie del corpo, in cui la coccarda nazionale era
stata calpestata e la coccarda nera innalzata; e le giornate del 5 e
6 ottobre, durante le quali il palazzo di Versailles era stato invaso,
uccise due guardie del corpo, ed il re e la regina ricondotti per forza
a Parigi.

Quest’ultima nuova rese tristissima la regina Maria Carolina: essa mi
aveva mostrata una lettera di sua sorella Maria Antonietta, nella quale
costei la metteva a parte di un progetto, che aveva per iscopo o la
fuga di Francia, o la ripresa di tutto il potere perduto dal re, dopo
il mese di luglio.

Tale progetto doveva mettere in fuoco l’Europa, e per ciò appunto
piaceva assai allo spirito di Maria Carolina, che, scendendo a
battaglia contro la rivoluzione, entrava nel suo vero elemento.

Ecco qual era questo progetto. Dalla sua esposizione in poche linee si
vedrà che era la prima idea della fuga di Varennes.

Si doveva attirare e riunire intorno a Versailles nove mila uomini;
da ciò che si chiamava la casa del re, due terzi di questi nove
mila uomini appartenevano alla nobiltà e per conseguenza erano gente
divota. Quindi era mestieri impadronirsi di Mantargis, città posta
a venti leghe di Parigi, press’a poco, e nella quale comandava il
barone di Viomesnil, comandante di guerra di Lafayette in America,
che, per gelosia contro Lafayette divenuto costituzionale, s’era fatto
reazionario.

Dieciotto reggimenti scelti fra i carabinieri ed i dragoni, vale a dire
fra le due armi più realiste, taglierebbero le strade e arresterebbero
ogni carico di viveri diretto a Parigi.

Il re e la regina si ritirerebbero a Montargis, e di là provvederebbero
a ciò che si doveva fare; probabilmente affamerebbero Parigi, il quale,
una volta affamato, sarebbe costretto a passare per dove si sarebbe
voluto.

Il danaro non mancherebbe; oltre quello che il re potrebbe portar
via da Parigi, si contava sui doni volontari; un solo procuratore dei
Benedettini aveva offerto cento mila scudi.

Maria Carolina aveva esclamato:

— Io darò un milione, dovessi vendere i miei diamanti.

Dopo questo dono reale, io aveva umilmente offerto cinquanta mila lire,
in nome di sir William e mio, che erano stati accettati.

Ma i giorni 5 e 6 ottobre avevano reso impossibile l’esecuzione di
questo progetto.

Pertanto la regina Maria Carolina ne risentì un crudele dolore.

Dapprima queste nuove reagivano sulla regina di Napoli; essa aveva come
un presentimento che un giorno, essa medesima in circostanze simili
a quelle nelle quali si trovava sua sorella, sarebbe obbligata od a
fuggirsi o a curvare, come lei, la sua testa sotto la volontà popolare.

Pensava che questa fosse l’ora di stringere i legami di famiglia con
l’Austria, e per mezzo di questa unione offrire a sua sorella Maria
Antonietta sempre più impopolare in Francia, il solo punto d’appoggio
che potesse invocare contro il suo popolo, la famiglia.

La Regina aveva una tal bontà per me, ed io le era divenuta tanto
inseparabile, che, non solo essa mi metteva a parte di tutti gli
avvenimenti, dei quali, del resto, sarei stata istruita da Sir William;
ma mi consultava anche sopra ogni cosa.

La regina aveva due giovani principesse in età da essere maritate; fu
dunque convenuto fra la Corte di Napoli e quella d’Austria, che esse
sposerebbero i due arciduchi Francesco e Ferdinando, mentre da un’altra
parte il principe ereditario Francesco di Napoli, duca di Calabria, che
allora aveva appena tredici anni, impalmerebbe, quando fosse in età da
prender moglie, la giovane arciduchessa Maria Clementina, che aveva due
anni meno di lui.

Per sua parte Maria Antonietta corrispondeva attivamente con suo
fratello Giuseppe II col mezzo de’ suoi consiglieri, che tutti per
disgrazia, erano austriaci. Questi consiglieri erano l’abate Vermond
ed il conte di Bretéuil; l’ambasciatore d’Austria a Parigi, il signor
conte Mercy d’Argenteau riceveva le lettere da Vienna, e spediva colà
le lettere di Parigi.

Il 20 febbraio 1790, l’imperatore di Germania Giuseppe II morì, e
qualche giorno dopo la regina seppe questa morte, che da lungo tempo
era aspettata. L’imperatore moriva tisico, disperato d’aver regnato
senza gloria, dopo il regno glorioso di Maria Teresa, ed intravedendo
dal suo letto di morte le sciagure che minacciavano la sua famiglia.

Ascese il trono il gran duca di Toscana, Leopoldo. Avea nomea di
profondo filosofo e di grande riformatore; e la regina Carolina temeva
che la filosofia di suo fratello non andasse fino a lasciar compiere
gli avvenimenti che si svolgevano in Francia.

Questa considerazione determinò la regina Carolina ed il re Ferdinando
a fare un viaggio a Vienna; lo scopo apparente era di prendere col
novello imperatore, che amava molto sua sorella Maria Carolina,
le disposizioni per i matrimoni di famiglia; lo scopo reale era
di studiare i mezzi per salvare Maria Antonietta, sia aiutandola a
fuggire, sia operando una reazione in Francia, sia tentando mediante
coalizione, un intervento a mano armata.

La Regina non poteva decidersi ad abbandonarmi; io era la sola persona,
diceva essa, che rimpiangesse a Napoli. Mi fece promettere che le avrei
scritto tre volte per settimana.

Avevo offerto alla regina di accompagnarla, ed essa aveva accettato
con riconoscenza, ma la mia presenza alla Corte dì Vienna, come moglie
dell’ambasciatore d’Inghilterra, nel momento in cui si tramava a
questa medesima Corte una coalizione contro la Francia, parve troppo
significante a Sir William.

Egli espose le sue ragioni alla regina che le trovò giuste e che fu la
prima a dirmi di restare.

Mi lasciò con una vera disperazione, alcuni giorni dopo la morte di suo
fratello. Mi fece giurare di non vedere, durante la sua assenza, altri
che il mio vecchio adoratore il conte di Bristol, al quale mi consegnò,
dicendogli di serbarle il suo tesoro. Fece fare un ritratto di me e
mi diede il suo, e come prova suprema di confidenza e di amicizia, mi
pregò di custodirle la sua cassetta.

In fine partì.

In ogni luogo, in cui per via si fermò, mi scrisse. Appena giunta
a Vienna mi mandò una sua lettera, e durante tutto il tempo che
soggiornò colà, ne ebbi una ogni settimana. Mi raccontava le feste
dell’incoronazione alle quali assisteva, tanto a Vienna che a Pesth,
poichè come re di Ungheria, l’Imperatore doveva non solo ricevere la
corona imperiale a Vienna, ma eziandio la corona reale a Pesth. Quanto
alle faccende politiche, cioè alle misure da prendersi per salvare
Maria Antonietta, o fare una coalizione d’Europa contro la Francia, un
solo verso di post scriptum vi faceva allusione, e non conteneva che
queste tre parole: Tutto va bene.

Di fatto fu in questo viaggio che Carolina, di conserva con suo
fratello, preparò la fuga di Varennes, e fece decidere che un’armata
sarebbe pronta a sostenere il re e la regina di Francia, come avessero
varcato il confine.

Il re Ferdinando, al suo ritorno a Napoli, porrebbe la sua armata in
istato di agire unitamente all’armata austriaca.

Finalmente, verso i primi di aprile, ricevetti una lettera della
regina, che mi annunciava il suo ritorno, solo, obbligata a passare di
Roma a fine di regolare qualche bisogna politica col papa Pio VI, vi
si tratterrebbe una settimana, ma, non appena giunta, mi darebbe sue
notizie.

Infatti appena arrivata a Roma mi scrisse: essere sparita, davanti
il comune pericolo, la freddezza, che aveva per qualche anno separata
la corte di Roma da quella di Napoli, e che aveva avuto per causa il
rifiuto da parte del re Ferdinando o piuttosto del vecchio ministro
Tannucci di pagare il tributo dell’_Hacquenée_.

Si stabilì fra i due sovrani che il tributo dell’_Hacquenée_ sarebbe
abolito, ma che solamente all’epoca della loro incoronazione, i sovrani
di Napoli, in segno della loro devozione agli apostoli S. Pietro e S.
Paolo, offrirebbero una grossa somma di danaro al S. Padre.

Nella lettera che mi annunciava la sua partenza di Roma, la regina
mi diceva il giorno e l’ora del suo arrivo a Caserta, ove m’invitò a
venire prima di lei e ad aspettarla acciò ci rivedessimo più presto e
soprattutto più intimamente. Io sola era avvertita dal suo ritorno,
le sue donne e gli stessi suoi figli non dovevano raggiungerla che
l’indomani.

Il re continuerebbe il suo viaggio fino a Napoli e, mentre la regina
si riposerebbe a Caserta, terrebbe consiglio col cavaliere Acton e sir
William, per il quale la corte di Napoli non aveva secreti.

Per dar prova da parte mia di una impazienza eguale a quella di cui era
l’oggetto, aveva avanzata di molto l’ora dell’arrivo della regina e,
quando si scorse la sua carrozza sulla via di Capua, potei salutarla di
lontano, agitando la mia pezzuola. La regina mi vide, uscì a metà della
carrozza, ed agitò la sua per rispondermi. La carrozza raddoppiò allora
di celerità, e non ebbi che il tempo di discendere la gran gradinata
per ricevere Sua Maestà nelle mie braccia.

Com’era convenuto, il re continuò il suo cammino, e restammo sole, la
regina ed io.

Per le precauzioni prese da Sua Maestà noi potemmo stare insieme
ventiquattr’ore.

Maria Carolina era giuliva; oltre la felicità che diceva di provare nel
rivedermi, arrivava anche coll’assicurazione dell’imperatore Leopoldo,
che si sarebbe formata, contro quella Francia che tanto odiava, una
coalizione, in cui si sperava di attirare anche la Prussia. Durante il
suo soggiorno a Vienna aveva ricevuto le visite degli emigrati, i quali
tutti aveanle rappresentato la Francia come dilaniata da mille fazioni
diverse, e che supplicava ad alta voce l’aiuto straniero. Secondo
essi dalla frontiera a Parigi non sarebbe che una passeggiata, che
non avrebbe nemmeno il merito del pericolo; in quanto a Luigi XVI ed a
Maria Antonietta era già tutto stabilito per la fuga. Al 12 di giugno
essi lascerebbero Parigi, e per la strada di Chalons, di Verdun e di
Montmidi arriverebbero al confine, ove li aspetterebbe il re Gustavo di
Svezia, che si sarebbe immediatamente messo alla testa di un esercito
destinato a marciare su Parigi.

Ciò che allora doveva fare la regina, era di attirare nella coalizione,
tutti i piccoli Principi d’Italia ed il re di Spagna: cosa che si
considerava come molto facile, essendo il re Carlo IV fratello del re
Ferdinando.

Essa non dubitava punto di riuscire in questa duplice operazione
politica, e pregustava già la doppia gioia della vendetta soddisfatta,
e dell’orgoglio vendicato.

Non so se la regina aveva tanto piacere a discendere sino a me,
quant’io era in delirio di salire sino a lei; parmi però che nelle
amicizie regali che vogliono dimenticare la maestà del trono, vi sia
una singolare attrazione per tutto ciò che queste amicizie parlano
non soltanto al cuore, ma anche a tutte le fibre orgogliose, che nella
donna specialmente corrispondono alle ambizioni più segrete dell’anima;
io non ho provato mai per nessun’altra donna questo sentimento profondo
e devoto che io nutriva per la regina, pel solo motivo che era regina,
che si chiamava Maria Carolina, che era figlia di Maria Teresa, mentre
che io, che era mai, io vicino a lei, dimenticando anche di essere Emma
Lyonna per ricordarmi soltanto che era Lady Hamilton? Qual maraviglia
dunque se la gioia del favore regale mi abbia trascinata a sì grandi
colpe, forse dovrei dire a sì grandi delitti? Ahimè! io sono figlia
della superbia.

Mentre eravamo io e la regina a Caserta, il re riuniva il consiglio,
ed il giorno dopo del suo arrivo si sarebbe deciso non soltanto di
prepararsi alla guerra, ma anche di sorvegliare scrupolosamente questo
spirito rivoluzionarlo, che sembrava svilupparsi a Napoli, e che poteva
far nascere gli stessi disordini come in Francia.

Gravissima e pericolosissima decisione era quella di far la guerra
alla Francia, e ciò per due ragioni; nè il re di Napoli nè il popolo
napolitano erano guerrieri.

Le inclinazioni guerriere del re eransi fino allora limitate ad una
passione smodata per la caccia, e se qualche volta, per avventura,
aveva mutato di scopo rivolgendo la bocca del suo fucile dai cervi,
dai daini o dai cignali, suo punto di mira abituale, per prendere di
mira l’uomo, selvaggiume più pericoloso, aveva avuto la precauzione
di diminuire il pericolo che poteva nascere, tirando a qualche
povero sgraziato di contadino, di cui si divertiva, per far prova
di bravura, a forargli il cappello a palla; ma dopo che in uno di
questi divertimenti invece di colpire soltanto il cappello, avevagli
fracassato anche il cranio e ucciso l’infelice che aveva avuto l’onore
e la disgrazia di servirgli di bersaglio, aveva rinunciato a questa
sorta di divertimento.

In quanto al popolo napolitano, toltone qualche sommossa, di cui la
più lunga, quella di Masaniello, aveva durato quattordici giorni, era
sempre stato, quantunque coraggioso nelle lotte individuali, assai
mediocre amatore delle battaglie campali; i sette milioni d’uomini che
lo componevano in quest’epoca, non erano mai stati esercitati alle
armi, e dopo la battaglia di Bitonto e di Velletri, battaglia a cui
non avevano preso parte, perchè fu combattuta fra gli Austriaci e gli
Spagnuoli, Napoli non aveva mai udito il fragore del cannone; l’ultima
battaglia, quella di Velletri, era avvenuta dai quarantasette ai
quarantott’anni addietro. L’eco stesso del cannone aveva avuto tempo di
dileguarsi, e la generazione attuale si componeva dei nipoti di quelli
non già che avevano combattuto, ma che avevano veduto a combattere.

Non era adunque senza ragione che la regina sospettava che i principj
proclamati nel 1789 in Francia avessero avuto eco a Napoli. Tutto
il mezzo ceto, composto particolarmente di avvocati, di medici, di
artisti, di giuristi, era imbevuto di questi principii. La gioventù
poi che aveva divorato avidamente i libri di Voltaire, le opere di
Rousseau, le pubblicazioni dei filosofi, quelle degli enciclopedisti,
e che vedeva questi stessi libri autorizzati per un momento, poi
severamente proibiti e perseguitati con accanimento, la gioventù
s’interrogava con quale diritto quando un popolo vicino camminava nella
la luce, si volesse mantenerla nelle tenebre.

È vero che in opposizione a questa minoranza progressista, liberale,
illuminata, si offriva per ausiliare al partito realista una nobiltà
che non aveva altra gloria ed altra speranza che le cariche di corte
ed i favori del re; un clero ignorante e corrotto, che vedeva nel
trionfo del principi francesi la caduta della loro potenza, e la
perdita della sua fortuna; finalmente un popolo fanatico sinceramente
attaccato a Ferdinando, non già perchè Ferdinando fosse il suo re per
diritto ereditario, ma perchè questo re familiare e liberale nel loro
modo di vedere, aveva per esso, col suo linguaggio volgare, per le
sue occupazioni comuni e pei suoi bassi istinti, una rassomiglianza
che faceva del figlio di Carlo III, non già quello che avrebbe dovuto
essere, vale a dire il primo gentiluomo del regno, ma il capo dei
lazzaroni del Molo.

Bisogna rendere questa giustizia al re Ferdinando, che egli faceva
tutti questi preparativi di guerra ai quali lo spingevano la regina,
il cavaliere Acton e sir William, senza nutrire una grande illusione
sui trionfi ai quali volevasi serbato quest’esercito che organizzava;
nè era bene ritirarsi una volta che Ferdinando si era deciso ad entrare
nella gran lotta che si preparava; in una cosa però egli era ben fermo,
quella cioè di non arrischiare imprudentemente la sua vita.

Intanto il tempo stringeva, e si avvicinava il 12 giugno, epoca fissata
per la fuga del re; la regina mi parlava tutti i giorni di questo
tentativo disperato; sua sorella, suo cognato ed essa medesima non si
dissimulavano che avrebbero giuocato vita per vita sopra questa carta.

La regina, senza dire per qual fine, ordinò pel 12 giugno delle
preghiere in tutte le chiese.

Quella strana natura riuniva i due estremi, era insieme e superstiziosa
e spirito forte, e gl’istinti devoti lottavano in lei coll’educazione
filosofica.

Il 12 giugno arrivò; la regina passò quasi tutta la giornata
in ginocchio nella cappella del palazzo, non permettendomi di
accompagnarla, per la paura che come eretica non le portassi sventura:
mi mandò a cercare alla sera, mi ritenne tutta la notte con lei,
e passando gran parte di quella notte a seguire su di una carta
geografica questa fuga che tanto la preoccupava, diceva: — a quest’ora
lasceranno la Tuilerie, in quest’ora dovranno essere a Bondy, in
quest’ora devono essere a Meaux, a quest’ora a Montmirail.

Non si coricò che a cinque ore e non si addormentò che alle otto.

Alla sera arrivò un corriere di Francia che portava una lettera; questa
lettera era di Maria Antonietta. Io era vicino a lei quando arrivò
quella lettera; essa non permise che la lasciassi, aperse la lettera
con mano tremante, e alla prima riga esclamò con impazienza:

— Sai, Emma, non sono partiti il 12.

E prendendo il suo fazzoletto si asciugò la fronte, poi continuando a
parlare, leggendo:

— Madama di Rochereuil, amante di un aiutante di campo di Lafayette,
era di servizio dal Delfino fino al 13 di sera; si temeva una denuncia.

— È prudenza, mormorò, ma sarebbe stato meglio pensarci prima.

Lesse di nuovo qualche linea:

— La partenza è portata al 18, disse, ancora otto giorni d’angoscia....

E gualcì la lettera fra le mani; ma invece di gettarla via se la mise
in seno gualcita com’era.

— Chi è il corriere che ha portato questa lettera? dimandò essa.

— Quello che Vostra Maestà ha inviato, saranno tre settimane, alla
regina di Francia.

— Ferrari! esclamò essa.

— Sì, Ferrari, Maestà.

Allora fatelo salire; senza dubbio avrà qualche cosa da dirmi a voce.

— Difatti ha raccomandato di non dimenticare il suo nome a Sua Maestà.

Un momento dopo Ferrari entrò.

Era un uomo dai ventotto ai trent’anni, e serviva già da otto o dieci
anni a palazzo; vigorosissimo ed eccellente equitatore, faceva, senza
riposarsi, dei tratti di cento, duecento miglia; era egli che al
ritorno dal viaggio di Vienna precorse alla carrozza reale per far
preparare i cavalli; Maria Carolina l’aveva raccomandato a sua sorella
come uomo di cui poteva interamente fidarsi.

Quantunque la regina di Francia fosse ben sorvegliata da Lafayette
e dal suo Stato Maggiore, era riescita a far entrare Ferrari alla
Tuilerie, e gli si erano dati tutti i particolari sul modo di cui
si contava per ingannare la sorveglianza del generale della guardia
nazionale.

Per avere un’idea della difficoltà che presentava la fuga, bisogna
sapere prima come era sorvegliata la famiglia reale.

Lafayette, rispondendo di essa vita per vita aveva prese tutte le sue
precauzioni.

Seicento guardie nazionali prese dalle differenti sezioni montavano
giorno e notte la guardia alla Tuilerie.

Due guardie a cavallo stavano costantemente innanzi alla porta esterna.

Vi erano sentinelle a tutte le porte del giardino, e la banchina del
fiume era guardata da sentinelle a cento passi l’una dall’altra.

Internamente le precauzioni non erano meno grandi. V’erano sentinelle
fin sulle porte che mettevano al gabinetto del re e della regina, fino
in un piccolo corridoio oscuro, al quale facevano capo le scale interne
destinate ai servizî della famiglia reale.

Il re e la regina non avevano guardie del corpo, non uscivano che sotto
la scorta di due o tre uffiziali della guardia nazionale.

In mezzo a tutte queste difficoltà, ecco ciò che il re e la regina
avevano immaginato.

La prima dama del Delfino, quella di cui si diffidava perchè era
l’amante dell’aiutante di campo del generale Lafayette, terminava il
suo servizio nel giorno 12, come lo diceva nella sua lettera Maria
Antonietta.

La piccola camera che essa occupava alla Tuilerie doveva restare
vacante.

Questa piccola camera metteva in un appartamento vuoto da sei mesi;
quest’appartamento era quello del signor Villequier primo gentiluomo
di camera, ed era vuoto perchè il signor Villequier aveva emigrato:
quest’appartamento situato a pian terreno aveva due uscite, una sulla
corte dei principi, l’altra sulla via regia.

La regina direbbe che trovandosi troppo stretta teneva per sua figlia
madama Reale la camera di madama di Rochereuil, che restava vuota per
la fine del servizio di costei.

In quanto all’appartamento del signor Villequier, il re, fabbro
egregio, avrebbe fabbricato una chiave per entrarvi. Per quanto le
sentinelle fossero numerose, erasi dimenticato di metterne una alla
porta di quell’appartamento; d’altronde verso le ore undici della
sera, le sentinelle della corte erano abituate, perchè a quell’ora
terminavano i servizî a palazzo, a vedere uscire molte persone insieme.

Si poteva quindi tentare un’uscita in mezzo a tutta quella gente senza
essere riconosciuti.

Una volta fuori della Tuilerie, uno Svedese devoto alla regina, il
signor de Fersen, s’incaricava del resto. Egli aspetterebbe vestito
da cocchiere da _fiacre_ sull’angolo della strada de l’Echelle, e
condurrebbe i fuggitivi alla barriera di Clichy, ove una berlina da
viaggio comandata da lui aspettava, pronta per partire, in casa di un
suo amico il signor Crawfort.

Il re uscirebbe vestito da intendente, vale a dire con un abito grigio,
farsetto di raso, calzoni grigi, calze grige, e scarpe colle fibbie ed
un piccolo cappello a tre punte.

Un cameriere del re, per nome Huc, della stessa corporatura del re,
e di cui il re ne studiava l’andatura, usciva da due o tre giorni
e continuava ad uscire fino alla sera dell’evasione, perchè si
abituassero a veder passare quell’uomo vestito di grigio.

Il Delfino era vestito da ragazzina.

La regina, madama Elisabetta, e madama Reale, sortirebbero insieme
alle altre donne di servizio, e si sperava almeno di passare nel numero
senza essere scorte.

Bisognava avere passaporti per tutti: il signor de Fersen erasi
incaricato dell’affare; una sua amica, madama de Korff, doveva lasciar
Parigi, aveva un passaporto per sè, i suoi due figli, un domestico
e due cameriere, essa diede il passaporto al signor de Fersen che lo
diede alla regina.

Tutto questo per uscir da Parigi.

Il signor de Bouillé, uomo di mente e di energia, sul quale il re
poteva contare, aveva sotto il comando tutte le truppe della Lorena,
dell’Alsazia, della Franca Contea e della Sciampagna. Egli era
incaricato di far esplorare la strada da Chalons a Montmirail e che
passava per Varenne.

La truppa scaglionata su questa strada e comandata da uffiziali devoti,
aspettava l’arrivo del re e gli servirebbe di scorta.

Un milione di assegnati era stato mandato al signor di Bouillé per far
fronte a tutte le spese.

Ecco come erano le cose, quando alla sera del 13 giugno Ferrari ritornò
a Napoli; aveva impiegato nove giorni a percorrere la via, e per
conseguenza era partito il quattro.

La regina Maria Carolina diede duecento ducati a Ferrari, gli ordinò
di andare a riposarsi, e di tenersi pronto a tutti gli eventi. Ferrari
rispose a Sua Maestà che ventiquattr’ore gli sarebbero sufficienti, e
che anche prima essa potrebbe disporre di lui.




V.


Durante tutti questi giorni d’inquietudine, che seguirono l’arrivo
del corriere la regina volle che restassi con lei; con tutti gli altri
era impaziente, brutale, violenta, e per me soltanto era cara e buona,
perchè a me sola confidava i suoi timori e le sue speranze.

Il corriere dell’ambasciata arrivava tutte le settimane, il 16 era
il giorno del suo arrivo. Alla sera mentre passeggiavamo la regina ed
io nel vecchio parco dei duchi di Caserta, un segretario del ministro
degli affari esteri ci fu condotto da un usciere di palazzo; la regina
vide da lontano che teneva una lettera in mano, si alzò dal sedile ove
eravamo e gli andò incontro rapidamente.

Il giovane fece un inchino e le porse la lettera.

La regina l’aperse di fretta, la lesse, fece un segno d’impazienza e la
passò a me.

— Vostra Maestà ha degli ordini da dare? chiese quel giovine.

— No, signore, disse la regina, anzi debbo farvi dei ringraziamenti.

Il giovane fece un inchino, e ritirandosi chiese che l’usciere fosse
autorizzato, a dargli una ricevuta della lettera, ed a certificare che
era stata data personalmente alla regina.

L’usciere ricevette l’ordine di fare quanto gli venne richiesto, e si
ritirarono ambidue.

La regina mettendomi il suo braccio al collo, e leggendo dietro le mie
spalle:

— Comprendi? mi disse.

— Sì, risposi, perfettamente.

Ed io lessi a voce alta.

«La caccia si farà il giorno 21, si partirà a mezzanotte per arrivare
al convegno per l’alba. Questo ritardo è stato cagionato da una lettera
di credito pagabile il giorno 20».

La lettera non era firmata; ma la regina riconobbe la scrittura di sua
sorella Maria Antonietta.

— Come! Vostra Maestà non comprende? dimandai io.

— Sicuro, disse la regina, non si partirà che alla mezzanotte del
20 invece di partire il 18, perchè è alla mattina del 20 che il re
riscuote il suo trimestre di lista civile.

— Ed a quanto ammonta questo trimestre? dimandai.

— A sei milioni.

— Capperi, ne vale ben la pena, dissi io sorridendo.

— Sì, rispose la regina; ma un ritardo di due giorni ancora; chi sa
cosa può nascere in questi due giorni.

Poi scuotendo la testa.

— Ah! non so che ne avverrà, mia povera Emma, mi disse, ma ho dei
tristi presentimenti.

Bisogna notare che la regina teneva segreti i suoi dispiaceri, e non li
confidava che a me; e mai una parola nè al re nè al ministro.

I giorni passavano, la regina non andava a Napoli, e non lasciava
Caserta ed io pure non la lasciava. Sir William, pel quale non avevamo
segreti, e che conosceva le sue inquietudini, m’invitava egli stesso
pel primo a tenerle una fedele compagnia.

Durante la giornata del 20, essa non potè stare nè seduta, nè in piedi;
si sarebbe detto che a forza di fatiche fisiche cercava di scacciare
le preoccupazioni dell’animo, e dopo la mezzanotte la sua agitazione
aumentò ancora.

Ebbe un istante l’idea di rimandare Ferrari a Parigi, ma comprese che,
per quanto solerte fosse stato, sarebbe ritornato il giorno dopo o
l’altro ancora dopo la partenza della famiglia reale, e ritenne Ferrari
per un’occasione di urgenza.

Essa sperava che al momento della partenza, il re o la regina le
avrebbero mandato un corriere per comunicarle la loro partenza; in tal
caso questo corriere era aspettato pel 29.

Tutta la giornata del 29, quella del 30 e la mattina del 1 agosto,
scorsero senza notizie; ma al 1 agosto verso le undici sir William
arrivò in persona e mi fece chiamare.

La regina, cui ogni cosa era un soggetto di inquietudine, mi fece segno
di scendere.

Sir William mi aspettava in una piccola sala a pian terreno, e ad
un tratto conobbi dalla sua fisonomia che egli portava una cattiva
notizia.

— Che c’è? gli chiesi io in inglese.

— Il re e la regina sono stati arrestati in una città che si chiama
Varenne, mi rispose sir William, e a quest’ora debbono essere stati
ricondotti a Parigi.

— Che dite mai, sir William?

Mi rivolsi, la regina impaziente, e sospettando qualche disgrazia, era
in piedi presso la porta; essa mi aveva seguito, e aveva inteso senza
ben comprendere la frase di sir William; ma dal tuono di voce, con cui
la pronunziava, aveva indovinato che non ci annunziava nulla di buono.

Essa ce ne fece dimanda in francese.

— Signora, rispose sir William, io annunciava una grande sventura a
Milady.

— Mia sorella è stata assassinata! esclamò la regina.

— No, signora, Dio non ha permesso un simile delitto; vostra sorella
vive; ma è stata arrestata nella sua fuga e ricondotta prigioniera a
Parigi.

— Prigioniera! mia sorella! e si è osato portare la mano su di una
persona reale!

— La vostra prima idea, signora, era bene stata quella che fosse
assassinata.

— Comprendo che si possa assassinare una regina, per questo non ci
vuole che un fanatico od un pazzo; ma per arrestarla si richiede una
ribellione aperta, una sollevazione popolare, una rivoluzione insomma.

— E come chiamerà altrimenti Vostra Maestà gli avvenimenti che
succedono in Francia, se non una rivoluzione?

— Spero almeno che se la regina è prigioniera, lo sarà nel suo palazzo.

— Non ne sappiamo ancor nulla, signora, se non che a quaranta o
cinquanta leghe da Parigi, in una piccola città che si chiama Varenne,
le Loro Maestà il re e la regina di Francia sono state arrestate; m’è
stato inviato un corriere dall’ambasciatore d’Inghilterra, latore di un
dispaccio, che non ne dice di più; dalla partenza del corriere il re e
la regina erano già stati condotti a Chalons, e tre rappresentanti del
popolo partivano da Parigi per andare loro incontro e proteggerli.

— Proteggerli! esclamò Maria Carolina, tre avvocati probabilmente, che
proteggono il re e la regina di Francia! è curioso! Posso vedere il
corriere?

— L’ho condotto con me, pensando che Vostra Maestà deciderebbe forse
d’interrogarlo.

— Grazie, fatelo venire; Emma tu mi vorrai ben servire da interprete
non è vero?

— Credo che parli francese, rispose sir William.

— Tanto meglio, disse la regina.

Cinque minuti dopo il corriere era alla sua presenza.

Ma il corriere non sapeva soltanto che quello che aveva inteso a dire
per le strade: gli avevano raccontato che quando si erano accorti della
fuga del re, si voleva ammazzare Lafayette, che si accusava di aver
favorito questa fuga; ciò che poi aveva veduto personalmente era che i
parigini ne erano su tutte le furie; ciò che poteva affermare era che
il re aveva tutto a temere al suo ritorno a Parigi, se le più grandi
precauzioni non si fossero prese per la sua sicurezza.

Tutto ad un tratto, mentre si davano tutti questi dettagli alla regina,
egli si ricordò che udendo a gridare per le vie: _Arresto del re, Luigi
XVI_; avea comprato il giornale ov’era raccontato quest’arresto.

La regina tese avidamente la mano, il corriere frugò nelle tasche, e
finì col tirare da una di esse un foglio delle rivoluzioni di Francia e
di Bramante di Cammillo Desmoulins.

La regina percorse rapidamente il giornale, poi spiegazzandolo
nelle sue mani convulse, con una espressione di rabbia impossibile a
descrivere:

— Miserabili! esclamò, meglio sarebbe che l’uccidessero, dieci, cento,
mille volte, anzichè insultarla così!

Le tolsi il giornale di mano, che voleva restituire al messaggiero.

— Oh! leggilo, disse: voglio che anche tu vegga come questi infami di
francesi trattano il loro re.

I miei occhi caddero su questo periodo:

«Da che muovono i grandi avvenimenti? A S. Menehould,[1] questo nome
ricorda al nostro Sancho Pança, «coronato i famosi piedi di porco!»
Non sarà mai detto che egli sia passato da San Menehould, senza
aver mangiato sul luogo i piedi del majale. E’ non si ricorda più il
proverbio _plures occidet gula quam gladius_. Il tempo per preparare
questa refezione gli riuscì fatale.»

— Simili ingiurie non meritano che il disprezzo, dissi.

Ma essa senza ascoltarmi:

— Vedendo trattare così un loro fratello, esclamò, tutti i re non si
alzano e non fanno voto di volgere su Parigi, e non lasciar pietra
sopra pietra in quella città maledetta! Oh! re, famiglia di vili, non
vedete voi dunque che la vostra causa si discute là? Sir William!

— Signora, disse sir William facendo un inchino.

— Ritornate subito a Napoli?

— Se Vostra Maestà lo desidera.

— Sì, lo desidero: e potete darmi un posto nella vostra carrozza?

— Sarà un grande onore per me, signora.

— No, no, anzi meglio... partite e noi vi seguiremo in un quarto d’ora,
andate a palazzo e dite, vi prego, in mio nome al re di radunare il
consiglio. Voglio parlare a tutti quegli uomini; non veggo tutti questi
preparativi di guerra, e però siamo entrati in trattative con nostro
fratello Leopoldo, sarebbe una vergogna che egli fosse pronto e noi
no; andate sir William, andate, e cercate di sapere se possiamo contare
sull’Inghilterra.

In generale quando la regina parlava così aveva un tale potere di voce,
e una tale dignità nel suo gesto, una tale maestà nelle sue parole, che
quelli che l’ascoltavano non potevano più che obbedirla.

Sir William si limitò a salutarla, salì in carrozza, e gridò al
cocchiere: al palazzo reale, e di carriera.

Circa un quarto d’ora dopo, come aveva detto la regina, ci mettemmo noi
pure in carrozza e lo seguimmo.




VI.


Quantunque la regina avesse fatta al suo cocchiere la stessa
raccomandazione che sir William al suo, questi nullameno arrivò venti
minuti prima di noi, possedendo i migliori cavalli di Napoli, senza
eccettuarne quelli del re.

Ne risultò che, entrando nel palazzo, la regina trovò il consiglio
riunito, il ministro Acton aveva da parte sua ricevuta la notizia
dell’arresto del re di Francia, ed aveva pensato che la cosa valesse la
pena di un Consiglio.

Siccome io non seguii la regina, e la carrozza dopo averla deposta al
palazzo mi condusse all’Ambasciata, non seppi che da lei, quanto era
passato.

Il re aveva preso posto di assai malo umore, dichiarando alla bella
prima che aveva affari ben altrimenti importanti che quelli, i quali
occupavano il Consiglio, e prevenendo i ministri ch’egli non resterebbe
fino alla fine; ma quando scorse la regina fu ben peggio, pensò tosto
di scaricare sopra lei la presidenza del Consiglio, ed avvicinandolesi,
chiamandola cara maestra, le fece ogni maniera di gentilezze, ciò che
non accadeva tranne nei momenti di supremo buon umore. Di tratto, nel
punto in cui la discussione era più animata, si udì picchiare alla
porta senza alcun riguardo.

La regina dimandò con impazienza, chi mai avesse l’audacia di battere
con tale familiarità alla porta del Consiglio, ma il re fece un segno.

— Cara maestra, diss’egli, non turbarti; è per me, so di che cosa si
tratta. E uscì.

La regina allungò la testa, e per la fessura della porta vide un
bracchiere che attendeva il re.

Quasi subito la porta si riaperse.

— Io non posso rimanere, ho da fare. Sostituiscimi, cara Carolina, come
sempre; quanto farai sarà ben fatto.

E salutando la regina ed i ministri con un gesto della mano, rinchiuse
le porte e si udirono i passi, che rapidamente si allontanavano.

La regina era avvezza a questo modo d’agire del re, e per solito poco
se ne inquietava; ma questa volta le circostanze le parevano abbastanza
gravi, perchè il re, malgrado la sua astensione dagli affari, dovesse
restare al Consiglio fino alla fine, dappoichè fosse un po’ la sua
causa che si discuteva.

A mezzo il Consiglio, venne portata alla regina una lettera appena
allora giunta da Vienna. Era di suo fratello Leopoldo, e le annunciava
novelle della più alta importanza.

L’imperatore le scriveva che nel mese seguente, verso il 20 di agosto,
avrebbe un ritrovo a Pilnitz col re di Prussia Federico Guglielmo,
secondo ogni probabilità, risulterebbe da questa conferenza una
dichiarazione di guerra alla Francia.

Pregava suo cognato Ferdinando di tenersi pronto per questo caso, e
fornire il contingente che egli stesso s’era imposto nel suo viaggio a
Vienna. L’imperatore ignorava ancora l’arresto di Varennes, o piuttosto
doveva conoscerlo a quell’ora, essendo più rapide le comunicazioni fra
Parigi e Vienna, che fra Parigi e Napoli: ma la sua lettera, datata il
23 di luglio, era stata scritta tre o quattro giorni prima che avesse
potuto sapere la trista nuova.

Fu una fortuna per la regina, che suo marito le avesse addossata la
presidenza, poichè il re, entrato al Consiglio ad un’ora e mezza, non
avrebbe mai consentito di rimanervi fino alle sei.

La regina ebbe la soddisfazione di sapere, dai dati raccolti dal
generale Acton, che se le ostilità non erano ancora cominciate colla
Francia, almeno tutto si preparava per l’invasione del territorio
francese. Trentacinque mila tedeschi si avanzavano verso le Fiandre,
quindici mila altri verso l’Alsazia; quindici mila svizzeri si
apparecchiavano a muovere sopra Lione, un’armata piemontese minacciava
il delfinato, e venti mila spagnuoli si tenevano pronti a passare la
frontiera.

Il generale Acton, come ministro della marina e della guerra, fu
incaricato di completare il materiale da guerra, di bastimenti, di
cannoni, di casse. Egli promise alla regina di organizzare manifatture
d’armi e fabbriche di polvere, in fine scrisse ai principi di Hesse
Philipstadt, di Wurtemberg, e di Sassonia, offerendo a tutti e tre
comandi.

Questo riguardava l’esterno, ma la regina era risoluta di sottomettere
l’interno ad una sorveglianza che prevenisse ogni avvenimento che, nel
principio o nello scopo, avesse rapporto con quelli che si compivano
in Francia. Si decise di numerizzare le case della città, che non
lo erano, si stabilirono in ogni sestiere commissari incaricati
esclusivamente della polizia politica; finalmente un giovane, che
il generale Acton credette potere raccomandar alla regina, come
intraprendente, abile ed ambizioso, ricevette il titolo da lungo tempo
abolito di _Reggente del Vicariato._

Questo giovane era il cavaliere Luigi de’ Medici, che una volta salito
al potere, non doveva più abbandonarlo.

La regina non aveva di che lagnarsi; in questo solo consiglio erano
state combinate faccende, che per solito non si ultimavano in dieci
riunioni di questa sorte.

Uscendo dal Consiglio la regina s’informò quale fosse stato l’affare
tanto pressante che aveva allontanato il re dal Consiglio, e che cosa
volesse da lui il bracchiere che s’era permesso di bussare alla porta.

Questo bracchiere veniva ad informarlo, che una magnifica passata di
beccafichi s’era appena fermata a Capodimonte, e come essa era attesa,
perchè quella fosse l’epoca del passaggio di simili uccelli, il re
aveva ordinato al suo capo caccia di prevenirlo non appena ci fosse un
bel colpo di archibugio da tirare.

Il capo caccia non aveva mancato, e tale era la faccenda importante che
aveva impedito al re Ferdinando di prender parte alle misure, le quali
dovevano, così almeno si sperava, contribuire a salvare suo cognato
Luigi XVI e sua cognata Maria Antonietta.

La regina m’avea detto di trovarmi alle sei precise al palazzo; io
l’aspettava da una mezz’ora quando uscì dal Consiglio. Mi raccontò
alzando le spalle la storia del re, ma, in fin dei conti, la noncuranza
di suo marito la rendeva re e regina allo stesso tempo, ed il suo
dispotismo vi si accomodava assai bene.

Rimontammo in carrozza e partimmo per Caserta.

Verso la metà del viaggio incontrammo una specie di calesse di
posta coperto di polvere e che pareva aver fatto un lungo viaggio.
Riconoscendo la livrea reale, una donna uscì con mezza la persona e
gridò al suo postiglione di fermarsi.

Era evidente che questa donna, da qualunque parte venisse, veniva per
la regina.

La regina fece arrestare la nostra carrozza e aspettò.

La viaggiatrice si precipitò dal calesse ed in un momento fu presso a
noi.

— Da parte della regina Maria Antonietta, disse colei.

— Voi venite da parte di mia sorella?

— Sì, signora.

— Avete una sua lettera.

— Nel mio portafoglio — di lei stessa. — Vostra Maestà conosce la cifra
della regina?

— Perfettamente. Dite al vostro cocchiere che ci segua e montate con
noi. — Il vostro nome?

— Il mio nome vi è ignoto, signora, ma credo che dicendovi esser io
l’Inglesina...

— Ah! sì, sì. Voi siete addetta alla principessa di Lamballe. Salite
con noi, salite.

La giovane rivolse qualche parola al postiglione in eccellente
italiano, montò con noi, si allogò sul davanti, ed il suo calesse ci
tenne dietro.

— Presto, presto! diteci come stanno le cose. In qual giorno avete
lasciato Parigi?

— Il ventisei giugno, signora, il domani del ritorno della regina.

— E mia sorella stava bene?

— Sì, signora, lasciando da parte le emozioni e la fatica di questo
viaggio terribile.

— Qual è la sua situazione alla Tuileries?

— Prigioniera, signora, e non bisogna dissimularselo, essa sarà
prigioniera fino al momento che il re avrà giurato la costituzione.

— La giuri dunque, e guadagni terreno, fino che noi possiamo giungere
in suo soccorso.

— Ah, signora! È questo soccorso ch’io vengo ad affrettare in nome di
Sua Maestà.

— Noi ce ne occupiamo, siate tranquilla.

Durante questo tempo, la regina dissuggellò la lettera di sua sorella,
ma ella tentava indarno di comprenderne il senso.

— Non posso leggere senza la cifra sotto gli occhi, disse la regina con
impazienza.

— È la parola Lodovico, ripetuta tre volte e seguita da un D.

— Sì, ma la leggerò a Caserta a testa riposata. Ditemi chi vi manda,
datemi i particolari del vostro viaggio, ripetetemi ciò che si diceva a
Parigi al momento della vostra partenza.

— A rischio d’essere schiacciata, volli assicurarmi che Sua Maestà era
rientrata nel palazzo senza accidenti, e siccome l’itinerario degli
augusti sovrani era tracciato, poichè si sapeva che entrerebbero per
la barriera dell’Etoile, io mi allogai fin dal mattino nel giardino
delle Tuileries. Appena rientrata la regina doveva andare a renderne
istrutta la signora principessa di Lamballe, che era con suo padre il
duca di Penthièvre; devo confessare a Vostra Maestà che l’aspetto della
popolazione era pieno di minaccia.

— Contro di chi?

— Contro il re e la regina, signora.

— Oh! francesi maledetti.

— Avevano bendati gli occhi alla statua del re Luigi XV per
simboleggiare l’acciecamento della monarchia; in fine di piazza in
piazza grandi avvisi dominavano la folla, portando questa iscrizione:

    «Chiunque applaudirà il re
            Sarà bastonato.
    Chiunque l’insulterà
            Sarà appeso.»

Io mi sentii agghiadare, la regina divenne pallidissima.

Io le presi le mani.

— Oh! giammai, giammai, le dissi: siate dunque tranquilla.

— Se tu sapessi come mi odiano; più forse ancora di mia sorella. Ma
essa, essa, vediamo, come raggiunse il Palazzo.

— Essa venne in qualche modo portata dai suoi due più grandi
nemici, il signor di Noailles ed il signor di Aiguillon. Di maniera
che, quand’ella si vide nelle loro mani, si credette perduta, ma
s’ingannava, perchè essi erano venuti colà non per perderla, ma per
salvarla.

— Ed il re?

— Il re scese per ultimo, signora. Egli mi parve assai calmo: camminava
col suo passo ordinario fra il signore Barnare e Péthion.

— E voi allora?

— Io tornai al palazzo Penthièvre a dare questa buona nuova alla
principessa di Lamballe, che la regina era ritornata al palazzo senza
alcun sinistro. Nella sera, la signora Campan venne portando questa
lettera da parte della regina, che ebbi l’onore di consegnarvi or
ora. Essa pregava, a nome della regina Maria Antonietta, Vostra Maestà
di mandarne copia all’imperatore Leopoldo, al quale essa non ebbe il
tempo di scrivere. Fu a Meaux, dove passò la notte del 23 al 24 nel
vescovado, che essa trovò modo di scrivere a Vostra Maestà.

— Ah! mia povera Maria, mia povera Maria, gridò la regina; oh! perchè
non è lei invece di questa lettera che stringo sul mio cuore? Si salvi,
fugga, venga a trovarmi! Essa sarà cento volte più felice a Caserta ed
a Napoli che a Versailles ed a Parigi.

— S’ella potesse, signora, non mancherebbe certo e si reputerebbe
felicissima.

Si pervenne al palazzo di Caserta.

— Incaricati della nostra cara Inglesina, disse la regina volgendosi
a me, veglia acciò ch’ella non manchi di nulla. Io vado a leggere la
lettera della mia povera Maria ed a seguire le istruzioni che mi dà.

Un’ora dopo, un corriere partiva per Napoli, invitando il generale
Acton a venire l’indomani mattina a Caserta, e ordinando al corriere
dell’Imperatore Leopoldo di non partire senza venir a prendere i
dispacci della regina.

— Continuate, diss’ella.

— Vidi venir di lontano la carrozza reale, essa era protetta dai
granatieri, dei quali gli alti berretti di pelo nascondevano le
portiere. Due granatieri stavano sullo sgabello della parte anteriore
della carrozza, ed erano incaricati di proteggere le tre guardie del
corpo, che, rimaste fedeli al re, l’avevano accompagnato nella sua fuga
rifiutando di scappare a Meaux, come aveva loro proposto Barnave, fermi
di seguire fino all’ultimo la fortuna del re.

— Sapete voi il nome di questa brava gente? chiese la regina.

— I signori di Maustier, di Malden e Valery.

La regina notò i tre nomi sul suo portafogli.

— Avanti, avanti, continuò scrivendo.

— Il signor di Lafayette con tutto il suo stato maggiore aspettava la
carrozza alla inferriata delle Tuileries. Quando la regina lo scorse
gridò a lui: «Signor di Lafayette, salvate le tre guardie, esse non
fecero che obbedire al re;» ma per questa semplice obbedienza correvano
maggior pericolo che tutti gli altri.

Una siepe di guardie nazionali si stendeva dalla inferriata del ponte
all’ingiro fino ai gradini che conducevano al palazzo. A questi gradini
bisognava discendere, e là stava il pericolo.

L’assemblea aveva mandato venti deputati ed essi aspettavano a questi
gradini.

Il signore di Lafayette scese di cavallo, fece fare dal terrazzo alla
porta del giardino una vera via di ferro coi fucili e le baionette
della guardia nazionale.

I due figli, madama Reale e il Delfino uscirono i primi e guadagnarono
il palazzo senza ostacoli.

Dopo venne la volta delle guardie del corpo. Si era giurato di non
lasciarle rientrar vive nel palazzo; era stata sparsa la voce che
fossero stati loro a calpestare la coccarda tricolore il 2 ottobre.
Al momento dunque in cui discesero della carrozza, vi fu un istante
di lotta terribile; le sciabole, le daghe degli assassini si facevano
strada fra le guardie nazionali. I signori di Valery e di Malden furono
feriti.

La regina asciugò colla sua pezzuola la fronte coperta di sudore.

— Oh, diss’ella, quando penso che noi siamo forse destinate a vedere
simili orrori. Oh! no, no, continuò serrando i denti; io prima li
sterminerò tutti.




VII.


La storia della nostra _Inglesina_ che continuerò a chiamare con
questo nome, essendoci stata fatta da lei la raccomandazione di non
pronunziare il suo vero nome, è semplicissima.

Il duca di Norfolk e lady Mary Duncan avevano conosciuto la sua
famiglia e l’avevano collocata nel convento irlandese della via di
_Bac_, ove prendeva delle lezioni da Sacchini maestro di musica della
regina. Maravigliato dei progressi della sua alunna, ed avendola
altresì intesa a parlare con grande purezza italiano e tedesco,
l’autore dell’Edipo a Colono fece tanti elogi di questa giovinetta a
Maria Antonietta, che desiderò di vederla. La principessa di Lamballe
offerse allora alla regina di trovarsi incognita al momento in cui
Sacchini dava la sua lezione, vi andò di fatti: e recatasi alla
Tuilerie assicurò a Maria Antonietta che gli elogi dell’illustre
maestro non erano punto esagerati. Due giorni dopo l’Inglesina
fu accolta dalla regina, che calcolando i servizj che in gravi
circostanze in cui si trovava poteva renderle una donna che parlava ad
un tempo italiano, inglese e tedesco, si affezionò la giovinetta più
colla dolcezza dei modi che per la speranza di ricompense, poichè a
quell’epoca la regina non avrebbe nemmeno osato di promettere per tema
di non poter mantenere.

L’Inglesina ci raccontò come aveva ricevuto dalla regina di Francia
la missione che ora compiva presso la regina di Napoli. Era partita
dalla Francia con due lettere; una per Maria Carolina e che le aveva
già consegnata, l’altra per la duchessa di Parma: trovandosi questa
città sulla via di Napoli, la lettera per la duchessa doveva essere
consegnata per la prima.

L’Inglesina arrivando a Parma, aveva saputo che la duchessa era a
Colorno, in villa.

Essa partì per Colorno, e arrivò nel momento in cui la duchessa stava
per uscire a cavallo; fece un segno al domestico che si avvicinò alla
sua carrozza, e lo pregò di avvertire la duchessa del suo arrivo;
il domestico andò dalla duchessa e le annunziò che una giovine donna
arrivata da Parigi chiedeva di parlarle, per darle una lettera che non
poteva consegnare che personalmente alla duchessa.

L’Inglesina seguendo collo sguardo il domestico che era diventato suo
intermediario, aveva veduto che a quelle parole «una giovane arrivata
da Parigi» la duchessa aveva fatto un moto involontario di sorpresa,
e si era turbata; ma non appena si accorse della sua presenza, la
duchessa ripetè in lingua tedesca, per non essere intesa nè dai
Francesi nè dagli Italiani che erano con lei, ciò che le aveva fatto
dire dal domestico, vale a dire che era incaricata dalla regina Maria
Antonietta di portare una lettera, che non poteva consegnare che a lei
sola.

La duchessa aveva tosto invitata l’Inglesina a scendere di carrozza,
la fece entrare a palazzo, la seguì e lesse la lettera, mentre la
messaggiera prendeva qualche rinfresco.

Appena ebbe letta la prima riga, esclamò in lingua italiana:

— Mio Dio! tutto è perduto, è troppo tardi!

E continuando a leggere lasciava sfuggire queste esclamazioni:

— È inutile! assolutamente inutile! sono perduti!

Poi rivolgendosi verso l’Inglesina, soggiunse:

— Mi duole che non possiate trattenervi e prendere un po’ di riposo; se
tornerete a Parma, sarò felice di vedervi.

Poi prese un fazzoletto ed asciugata una lagrima, disse:

— Le circostanze sono tali al giorno d’oggi che rispondere a questa
lettera sarebbe un esporre me, mia sorella, e voi stessa.

Dopo di che rimontò a cavallo, augurò il buon viaggio all’Inglesina, e
partì al galoppo.

L’Inglesina aveva continuato il suo viaggio trovando la duchessa di
Parma un po’ fredda rispetto ai pericoli in cui trovava sua sorella;
ma avendo premura d’arrivare a Napoli, si era posta di nuovo in viaggio
senza riposarsi.

Dopo le delusioni venne la catastrofe. L’Inglesina viaggiava, come ho
detto, in vettura di posta con un domestico sulla cassettina; questo
domestico aveva sotto i piedi una cassetta ove la viaggiatrice aveva
rinchiuso gli oggetti più preziosi e il denaro: volendo arrivare a Roma
di giorno, essa l’aveva mandato per corriere a comandare i cavalli,
e non trovandosi nessuno a custodire la cassetta, le fu involata fra
Aqua-pendente e Monte Roso, di modo che la povera fanciulla, arrivando
a Roma, si accorse che rimaneva abbastanza denaro per pagare la posta,
ma non un soldo per continuare il suo viaggio a Napoli. Fortunatamente
aveva una lettera di raccomandazione per la duchessa De-Paoli che
abitava a Fontana di Trevi. Il giorno dopo del suo arrivo andò dalla
duchessa e le consegnò la lettera raccontandole le sue sventure.

La duchessa le prestò un centinaio di ducati per continuare il viaggio;
una volta a Napoli sapeva bene che non aveva bisogno di nulla.

La duchessa inoltre le aveva dato una lettera di raccomandazione,
propriamente per.... per Sir William, e non conoscendo chi fossi,
l’Inglesina mi chiese se conosceva l’ambasciatore d’Inghilterra, se era
un uomo cortese, e se io poteva raccomandarla a lui. Per tutta risposta
e con grande stupore dell’Inglesina, apersi la lettera diretta a sir
William. La duchessa De-Paoli pregava sir William, di ordinare tutte
le ricerche necessarie perchè la povera Inglesina ritrovasse la sua
cassetta. Non sapendo se avrei veduto sir William prima della partenza
del corriere dell’Imperatore che passava per Roma, e che doveva
porsi in viaggio per la mattina seguente, presi la penna e scrissi al
console inglese a Roma, per raccomandargli d’insistere presso tutte
le autorità perchè fossero attivate tutte le indagini, non già come si
fa d’ordinario, ma sul serio: gl’indicai i due postiglioni come quelli
che bisognava arrestare pei primi: l’Inglesina mi aveva detto che quei
due le erano stati indicati come ladri di professione. Terminata la
lettera la diedi a leggere all’Inglesina, che comprese tutto il mistero
della mia indiscrezione, vedendo la mia lettera firmata, Lady Hamilton.
Nello stesso tempo mi tolsi dal dito un bel brillante, pregandola
di accettarlo in ricordo del modo originale con cui avevamo fatto
conoscenza.

Eravamo ancor insieme quando la regina entrò ed ebbe la bontà
d’informarsi dall’Inglesina se mi fossi presa cura di lei; l’Inglesina
rispose prendendomi vivamente la mano e baciandola prima che avessi
avuto il tempo di oppormi.

La regina l’interrogò ancora, ed in modo che provava di mostrare un
interesse ben diverso da quello della duchessa di Parma, riguardo agli
avvenimenti di Francia ed ai pericoli in cui si trovava sua sorella;
poi vedendo che la povera Inglesina, malgrado tutto il rispetto che
le ispirava la presenza di Sua Maestà, dormiva in piedi, la mandò a
riposarsi; ma alla porta si urtò quasi col generale Acton, il quale
chiamato soltanto pel giorno seguente, sapendo che si trattava di un
messaggiero o piuttosto di una messaggiera che giungeva dalla Francia,
accorse per far prova di zelo e per mettersi a disposizione della
regina.

— Perdono, signora, disse il generale, mi voleva far annunziare quando
la signorina aperse la porta e mi trovai in faccia a Vostra Maestà.

— Venite, generale, disse la regina, non c’è bisogno di etichetta in
momenti come questi: sapete che cosa è accaduto? sapete che mia sorella
e suo marito sono prigionieri alla Tuilerie? Luigi XVI si trova nella
stessa precisa condizione di Carlo II d’Inghilterra, e lo decapiteranno
come lui, e la mia povera sorella l’assassineranno.

— Oh! signora, disse il generale, credete che si esagera.

— Venite, Inglesina, venite, esclamò la regina, e ditegli come
vanno le cose; mi fanno venir la rabbia con quel loro sangue freddo:
aspetteranno che il re Luigi XVI abbia tagliata la testa per decidersi
a snudare la spada per lui.

— Quand’è che avete lasciato Parigi? chiese il generale.

— Eh! mio Dio! Signore, disse la regina, quando tutto era perduto.

— Di grazia lasciate parlare la signorina, disse il generale, e vedrete
che non è perduto tutto; abbiate un po’ di pazienza.

— Pazienza! disse la regina; dopo la presa di Bastiglia, vale a dire da
due anni, non sento dire altra cosa.

Poi lasciandosi cadere su di una poltrona, e rivolgendosi all’Inglesina
che si era rianimata dietro questa emozione della regina:

— Raccontategli tutto, disse, e quando saprà ciò che so io, vedremo se
oserà ancora dire: — pazienza.

Mano mano che l’Inglesina parlava, la regina faceva dei movimenti di
testa, ripetendo: ebbene? ebbene? ebbene? — e quando ebbe finito:

— Ho ricevuto una lettera da mio fratello l’Imperatore, disse: egli mi
avvisa che al 27 d’agosto deve avere una conferenza a Pilnitz col re
Federico Guglielmo. Scrivetegli in nome del re Ferdinando, che noi da
questo momento aderiamo a quanto sarà per fare, e che può contare su
venticinque mila uomini e venticinque milioni.

Il generale sorrise.

— Per gli uomini forse, disse egli, ma pel denaro è tutt’altra cosa, le
casse sono a secco, e voi lo sapete, Signora.

— Si riempiranno, dovessi vendere perciò i diamanti della corona;
d’altronde se voi non gli scrivete ciò in nome di Ferdinando, gli
scriverò io nel mio, anzi gli debbo già avere scritto, ecco qui la
lettera.

— Vostra Maestà sa, disse facendo in un inchino il generale Acton,
che io non sono mai d’altro avviso che del vostro; ma farò osservare
a Vostra Maestà che la signorina, — accennando all’Inglesina, — ha
l’aspetto di essere ammalata, tanto è spossata.

— Oh! lo sono meno pel viaggio che pel dispiacere, rispose l’Inglesina,
pensando alle sventure che minacciano gl’illustri personaggi che ho
lasciato da sì poco tempo.

— Non importa, disse la regina, andate nella vostra camera, mettetevi a
letto e dormite ventiquattr’ore se potete.

Difatti la povera Inglesina era più ammalata di quello che non credeva
ella stessa, o di quello che non voleva confessare: nella notte fu
presa da una febbre violenta, e fu obbligata di stare a letto per otto
giorni.

Durante quella settimana la regina non mancò un sol giorno di farle
visita nella sua camera, e di chiedere le sue notizie.

È inutile dire che malgrado tutte le ricerche che noi facemmo fare,
sir William ed io, la cassetta dell’Inglesina non si ritrovò. Ci fu
detto solamente che uno dei due postiglioni era un figlioccio di un
cardinale, cosa che gli permetteva di accoppiare il mestiere di ladro
con quello di postiglione.

Dopo otto giorni di riposo, e perfettamente guarita, l’Inglesina
ripartì per la Francia, con una lettera in cifre della regina di Napoli
per la regina Maria Antonietta.

Il giorno 27 di agosto, l’imperatore Leopoldo ebbe a Pilnitz col re
Federico Guglielmo la conferenza promessa. I due testimonii che vi
assistevano bastavano solo per indicarne lo scopo; uno era il signor de
Bouillé, che aveva dianzi dato al re una prova così grande di devozione
a Varenne, cercando fino all’ultimo momento di toglierlo dalle mani del
popolo; l’altro era il signor Calonne, quel bel ministro della guerra
inventato da madame di Staël che ebbe per un istante la speranza di far
passare il suo genio in quella testa sventata: mistero che i discorsi
della corte avevano reso molto trasparente, avviluppando la nascita
di questo bel gentiluomo, che era nientemeno, dicevasi, che il frutto
d’incesto fra Luigi XV e madama Adelaide, che allora era a Roma, e che
due anni dopo ei doveva vedere colle due sorelle a Palermo.

Intanto le notizie di Francia si fecero migliori: l’assemblea nazionale
aveva terminato l’atto costituzionale, che fu poi conosciuto più tardi,
sotto il nome di costituzione del 91: il giorno 14 settembre il re
si era recato alla costituente, ed aveva prestato il giuramento alla
costituzione, promettendo di mantenerla con tutti i poteri che gli
erano delegati.

Subito dopo, come se l’assemblea non avesse atteso che quest’atto
solenne per riconciliare la nazione col re, si restituì a Luigi XVI
la facoltà di dare tutti gli ordini che credesse convenienti per la
sicurezza e la dignità della sua persona, si levarono i suggelli dagli
appartamenti, e tanto il giardino quanto il palazzo della Tuilerie
furono aperti al pubblico.

Ma i preparativi di guerra non proseguivano meno in attività da parte
del re di Prussia, dell’imperatore Leopoldo e del re Ferdinando,
quando ad un tratto tre notizie delle più inaspettate si succedettero
alla Corte di Napoli, cioè che l’imperatore Leopoldo era morto al 1
di marzo, che Gustavo III di Svezia era stato assassinato il 16 dello
stesso mese, e finalmente che la Francia aveva dichiarato la guerra a
Francesco I re di Ungheria e di Boemia il 20 aprile.

Non saprei dire se nello stato d’animo della regina, la morte di suo
fratello Leopoldo le fosse stata molto spiacente; malgrado il trattato
di Pilnitz, malgrado i preparativi esterni di guerra, si diceva in
segreto che vi era accordo fra il ministro francese Delessare ed
il gabinetto di Vienna per mantenere la pace: nella sua qualità di
filosofo, Leopoldo non amava la guerra, e d’altra parte non era pronto
a farla.

L’imperatore Francesco I, nipote della regina che succedeva a suo
padre, caratterizzava invece perfettamente la controrivoluzione, ed era
l’uomo fatto per Maria Carolina.

Era un tedesco nato a Firenze, e per conseguenza falso italiano e falso
tedesco, ma partecipe delle due nature: la regina di Napoli credeva
di poter prendere una facile influenza su quella mente limitata e su
quel carattere debole e violento. Quando lo vidi dieci anni dopo, era
un uomo ancor giovane, e supponendo tuttavia che fosse un uomo non una
statua, camminava stecchito come sulle molle, simile allo spettro di
Banco. Aveva un viso o piuttosto la maschera fresca e rosa, e di una
fissità spaventosa. Sir William diceva di lui:

Ecco un uomo che non avrà mai dei rimorsi; costui commette dei delitti
con coscienza.

La controrivoluzione aveva dunque guadagnato tutto colla morte di
Leopoldo, poichè ad un imperatore filosofo, succedeva un imperatore
bacchettone ed ipocrita, e la prova non tardò guari a mostrarsi
con grande soddisfazione di Maria Carolina. Subito dopo la morte
dell’imperatore Leopoldo, l’ambasciatore di Francia a Vienna, signor di
Noaille, fu quasi prigioniero nel suo palazzo. In quanto alla Prussia
se ne stava sicura; era sotto la sua protezione che gli emigrati si
davano faccende, ed in una udienza pubblica il re Federico Guglielmo
avea voltato le spalle al signor di Segur ambasciatore di Luigi XVI
o piuttosto dell’assemblea nazionale, ed avea chiesto ad alta voce
all’inviato di Coblenza, vale a dire dei principi, come stava il conte
d’Artois.

In quanto all’assassinio di Gustavo, era certamente un gran delitto,
ma non era una grande sventura per la causa del re; però, benchè a
torto si fosse creduto da principio che egli fosse stato assassinato
dai rivoluzionari, cosa falsissima, lo si metteva a carico dei
nostri nemici. È vero che lo si designava come il futuro generale in
capo della rivoluzione; ma questo generale in capo era forse assai
terribile? d’altronde lo si notava come uno che odiava la Francia, come
un amante che odia l’amante infedele, e la sua grande preoccupazione,
morendo, era di sapere cosa direbbe la Francia della sua morte.

— Che ne diranno, Brissot? mormorò spirando.

In quanto alla dichiarazione di guerra della Francia all’Austria,
siccome era evidente che non era il re che dichiarava questa guerra, ma
il ministro girondino, e che d’altronde non era dichiarata che dietro
un ultimatum dell’imperatore Francesco, impossibile ad accettarsi dalla
Francia, e siccome questa guerra soddisfaceva ai desiderj della regina,
questa notizia fu ricevuta più come buona, anzichè come cattiva.

Il doppio lutto che si portò a Napoli per la morte dell’imperatore e
per l’assassinio del re di Svezia, fu dunque a mio avviso, più un lutto
di corte che di cuore.




VIII.


Quando passai per la Germania ritornando con sir William e lord Nelson,
vale a dire nel 1801, vidi in esilio chi nel 1792 aveva fatto prendere
a Luigi XVI la risoluzione di fare la guerra all’Austria; costui era
Carlo Francesco Dumoriez, che per nostra sventura salvò la Francia
a Valmy ed a Jemapes. Ne aveva tanto udito a parlare alla corte di
Napoli, che lo osservai colla più grande attenzione, e non perdetti
nemmeno una parola della conversazione che ebbe con mylord[2]: quando
toccherò di quell’epoca della mia vita, dirò l’effetto che egli mi
produsse.

Abbiamo detto che dopo il giuramento della costituzione si era formata
una specie di pace fra l’assemblea, rappresentante la nazione ed il
re, rappresentante il diritto divino, ma trascinato suo malgrado, e
malgrado la regina, a farsi il campione dei principii rivoluzionari
dell’89; avremmo dovuto dire una tregua: alla prima occasione questa
tregua si ruppe. Quest’occasione fu il rinvio de’ ministri che gli
avevano fatto dichiarare la guerra.

Sapemmo poi verso la fine di giugno da una lettera stessa della regina
Maria Antonietta l’invasione della Tuilerie dai sobborghi S. Antonio
e S. Marcello diretti dal famoso Santerre, che aveva cominciato come
Cromwell coll’essere birraio; ma privo dell’ingegno del protettore, si
fermò ad un terzo del cammino che percorse il deputato dell’università
di Cambridge; questa lettera era il penultimo grido della sua
disperazione. Noi non ne udimmo l’ultimo che mandò il 10 agosto. Fino
dal 1 luglio 1792 la regina non ebbe più che indirettamente notizie
di sua sorella, e non si vedea altrimenti cosa succedeva in Francia,
che come quando si vede ad intervalli al bagliore dei lampi di una
tempesta.

La lettera della regina Antonietta era lunga, e spiegava a sua sorella
come suo marito avesse acconsentito alla guerra coll’Austria, ed era
venuto a proporla pel primo all’assemblea nazionale.

Maria Carolina s’immaginava bene che suo cognato avesse fatto quel
passo suo malgrado, ma ignorava la situazione precisa in cui egli si
trovava; la lettera di sua sorella gliela poneva con tutta chiarezza.

Il re accusato dai Giacobini e specialmente da Robespierre di volere la
guerra, non la desiderava meno di Robespierre, che temeva di vedersi
perdere la sua cattiva ed odiosa personalità in mezzo ai frastuoni
delle battaglie.

Difatti il re aveva tutto da perdere con una guerra, e la regina lo
spiegava benissimo; una vittoria di Lafayette o di qualunque altro
generale non ristorava il trono che per metterlo sotto tutela: d’altra
parte una disfatta avrebbe inasprito Parigi; vi sarebbe sommossa per
le vie, e dalle vie sarebbe giunta fino alla Tuilerie, ove non era
ancora penetrata, perchè il re sarebbe accusato di aver preparato
questa disfatta, o almeno di esserne contento. Finalmente se, contro
ogni probabilità, il re non sparisse in mezzo alla tempesta, se il
diritto divino dei re trionfasse, a vantaggio di chi trionferebbe?
— a vantaggio di Monsieur fratello del re e dell’emigrazione, perchè
Monsieur non nascondeva i suoi progetti; Monsieur voleva l’abdicazione
di Luigi XVI e la reggenza fino alla maggiorità del Delfino.

Particolarmente la regina avea tutto a temere; e benchè il suo
carattere energico, che aveva molti lati somiglianti a quello di Maria
Carolina, la portasse ad affrontare il pericolo, non si dissimulava di
non avere amici nè a Parigi nè all’estero; a Parigi era stata chiamata
madama _Poi_ o madama _Veto_, e aveva nemico il popolo intiero; a
Coblenza era stata oltraggiata, ed aveva per nemico mortale Monsieur
e l’antico ministro Calonne, che, dopo essere stato suo servitore, la
prese in odio e dirigeva il conte d’Artois, altre volte benevolo verso
di lei, e che poi passò nel campo dei suoi avversari.

Anche la Francia vittoriosa era probabilmente per Maria Antonietta una
decadenza: i principi vincitori, peggio, era il ripudio od un convento.
La guerra era stata dichiarata all’Austria dal re di Francia il 20
aprile: al 28 avvennero a Quievram i primi scontri; i rivoluzionari
erano stati battuti ed avevano massacrato in un granaio il generale
Teobaldo Dillon fratello del bello Arturo Dillon, che aveva fama di
essere stato il primo amante di Maria Antonietta; e l’odio contro la
povera regina di Francia era così grande, che i soldati, confondendo
Teobaldo con Arturo, l’uccisero per odio di suo fratello accusandolo di
tradimento.

L’altro fu più infelice ancora, morì nel 94 sul patibolo.

Sventuratamente i Prussiani non seppero approfittare di questa prima
vittoria; avevano una grande confidenza in ciò che diceva il duca di
Brunswik, il quale ad una lettera della regina che gli raccomandava suo
cognato e sua sorella, rispondeva:

— Vostra Maestà si assicuri, che non è una guerra quella che andiamo a
fare, è una passeggiata militare. Le nostre fermate sono già stabilite
prima, e pel 15 settembre saremo a Parigi. E di fatti il 23 agosto il
generale Clairfight prendeva Longoy dopo un bombardamento di 24 ore; al
2 settembre il re di Prussia in persona prendeva Verdun, e si metteva
in marcia su Parigi.

Ma prima di queste notizie un poco rassicuranti ci erano giunte delle
notizie disastrose.

Al 10 agosto la Tuilerie era stata presa di assalto, e al 13 il re e
la regina erano stati condotti al Tempio. Poi arrivò la notizia del
massacro dei prigionieri: al primo momento si annunziò alla regina
che tutti i prigionieri erano stati massacrati, che non vi era stata
eccezione per nessuno, e che il re e la regina erano periti insieme
agli altri; la regina Maria Carolina credette di diventar pazza di
rabbia e di dolore.

Ma si ricevette subito una lettera del signor di Bretéuil agente di
Luigi XVI, ed un’altra del signor Mercy d’Argenteau, che rassicuravano
su questo punto la regina di Napoli, che il re e la regina di Francia
vivevano; ma si trattava di fare il processo al re.

Il signor Mercy d’Argenteau annunziava inoltre in una proscritta che la
Vandea si era sollevata, cosicchè i repubblicani avevano in faccia la
spada degli stranieri, e alle reni il pugnale dei realisti.

Nello stesso tempo apprendemmo la vittoria di Valmy, la proclamazione
della repubblica, l’accusa del re, e la pace probabile colla Prussia.
La passeggiata militare di S. M. il re Federico Guglielmo non era
ancora giunta alla foresta dell’Argonne, e si era fermata al campo
della Luna.

Fu allora che la regina risolse di far entrare in linea il governo
napolitano.

Il primo segno d’ostilità che diede il re Ferdinando alla nuova
repubblica, fu di rifiutare di riconoscerla nella persona del suo
ambasciatore il cittadino Mackau, e di far fare lo stesso rifiuto a
Costantinopoli al cittadino Semonville.

Poi la regina fece redigere dal generale Acton una lettera che comunicò
ai governi di Venezia e di Sardegna.

Quella nota portava l’invito di formare una lega italiana, ed era
redatta in questi termini:

«Qualunque sia la fortuna delle armi tedesche sul Reno, all’Italia
importa di avere sulle Alpi delle forze che servano di baluardo, e di
impedimento ai Francesi, o vinti in altra parte, fare una diversione
disperata, o vincitori, di vendicarsi continuando le loro conquiste,
ed inquietando i governi italiani. Se il regno di Napoli, la Sardegna
e Venezia si collegassero in questo scopo, il Sovrano Pontefice si
unirebbe alla santa causa, i piccoli stati intermediarii seguirebbero
buono o malgrado il movimento generale, e ne risulterebbe una massa
di forza capace di difendere l’Italia e darle peso ed influenza
nelle guerre e nei consigli d’Europa. L’oggetto di questa nota
era di proporre una confederazione, in cui il re delle Due Sicilie
prenderebbe la più grande responsabilità, quantunque fosse l’ultimo
cui potessero colpire le armi francesi, ma crede di dover ricordare ai
principi italiani che la speranza di sfuggire isolatamente al pericolo
d’un’invasione, è sempre stata la ruina d’Italia.»

Si era ricevuta la risposta della Sardegna che accettava, e si
stava per ricevere quella di Venezia, quando il 16 dicembre, mentre
i ministri erano in consiglio con sir William, ed io aveva fatto
colezione con la regina, che stava in piedi alla finestra, battendo
con distrazione le dita sui vetri, essa mi chiamò ad un tratto, ed
indicandomi il mare coperto di navi nell’intervallo fra la punta di
Posilippo e Capri:

— Che cos’è? mi dimandò essa.

Ed io che non ne sapeva nulla al par di lei, me ne stava guardando.

Ma quando la squadra fu in vista di Napoli, inalberò le sue bandiere,
ed ai loro tre colori, così odiati a Napoli, si riconobbe una flotta
francese.

In quel momento udimmo del passi precipitosi nella camera precedente,
la porta si aperse con violenza, ed il re apparve pallido ed assai
agitato, e lasciandosi cadere su di una poltrona, indicando col dito le
navi che si avanzavano a gonfie vele:

— Ecco, signora, disse volgendosi alla regina, è affare vostro.

La regina anch’essa diventò pallida, ma di collera; il suo labbro
inferiore, il labbro austriaco, s’allungava sdegnosamente, e colle
sopracciglia aggrottate guardava in faccia suo marito.

— Vogliate farmi la grazia di spiegarvi, disse, perchè non vi comprendo.

— Per Dio, disse il re, però è ben facile a comprendersi. Voi mi
avete fatto rifiutare di ricevere il signor Magoh, — il re nel suo
dialetto napoletano storpiava volontariamente od involontariamente
il nome dell’ambasciatore della repubblica francese; — voi mi avete
fatto scrivere al mio buon amico il Gran Turco, che non ho mai veduto,
ed i cui Bey di Tunisi, di Marocco e di Tripoli, rapiscono i miei
sudditi per farli remare sulle loro galere; mi avete fatto scrivere
al mio amico, il Gran Turco, perchè facesse egualmente col signor di
Semonville, ed egli ha avuto la delicatezza di dire di no; mi avete
messo alla testa di una confederazione di principi italiani, di cui la
metà mi lasceranno in mezzo ai pericoli, per fare una coalizione contro
la Francia, ed ecco là la Francia che se ne adonta, e che manda una
flotta per fare, Dio lo sa.... per bombardare Napoli, forse.

— Ebbene, e poi? chiese la regina.

— Come poi? dopo che Napoli sarà bombardata!

— Napoli sarà bombardata se non si difende.

— Al contrario, signora, sarà bombardata se si difende.

— E allora voi lascerete entrare i Francesi in porto senza tirare un
colpo di cannone?

— Credo bene: prima di tutto la polvere che si fabbrica a Napoli val
niente, perchè contiene dieci volte più carbone che nitro; se andassi
a caccia colla polvere di Napoli, non prenderei che la terza parte dei
miei colpi, per cui faccio venire la mia polvere dall’Inghilterra.

— Cosicchè voi avete ordinato?

— Che si vada incontro alla nave ammiraglia, per ricordare al
comandante della flotta, che un antico trattato non permette l’entrata
nel porto che a soli sei legni di guerra francesi.

— Eh! là! esclamò la regina.

— Aspettate dunque; ma per dirgli, continuò il re, che una volta non
fa usanza, ma che lo prego solamente, prima che nessun uffiziale della
flotta scenda a terra, di farmi dire quale sia la felice circostanza
che mi procura l’onore della sua visita.

— L’intendi, Emma, disse la regina con impazienza, e battendo i piedi.

— Il re fece sembiante di non vedere e di non intendere.

— Guardate, disse il re, ecco il capitano Francesco Caracciolo, che va
nella lancia reale a compire la mia commissione.

— Vi ammiro, disse la regina scherzando, voi mandate un principe a dei
repubblicani.

— Signora, siccome presumo che la repubblica francese m’invia ciò che
ha di meglio, così anch’io le invio ciò che ho di meglio.

— Ecco, li vedete, quei birbanti di Francesi non hanno paura di niente,
questi diavoli di Giacobini; ecco il vascello ammiraglio che getta
l’áncora a mezza portata di cannone dal Castel dell’Uovo; — bisogna
che sappiano che noi abbiamo la polvere cattiva, senza di che non si
esporrebbero a farsi calare a picco.

— Ahimè, mormorò la regina, non sanno questo, ma probabilmente sapranno
oltre cose.

— Che io sono incapace di approfittare della loro imprudenza, disse
il re, con un certo tuono finto che aveva talvolta, e da cui non si
poteva indovinare se scherzava o se parlava sul serio, se lanciava un
frizzo spiritoso, o se diceva una bestialità. — Hanno ragione questi
cari _sans culotte_, già, già. Ecco tutta la flotta che si spiega in
linea di battaglia, — manovrano a maraviglia. E quando si pensa che
da otto o dieci anni il mio ministro della marina, il signor generale
Acton, mi mangia otto o dieci milioni all’anno, promettendomi una
flotta che non veggo mai a comparire; con cento milioni dovrei avere
una flotta tripla di questa; andate dunque al consiglio, signora, e
fate questa osservazione al signor Giovanni Acton; venendo da voi gli
farà probabilmente più effetto che da me. Perchè infine capirete bene,
se avessi una flotta tripla di quella là, per quanto sia di cattiva
qualità la nostra polvere, potremmo difenderci, mentre che avendo ora
della polvere cattiva, e cinque o sei poveri bastimenti che vanno l’uno
dietro l’altro, la cosa è impossibile.

La regina che comprendeva l’intenzione del re, si mordeva le labbra fin
quasi a sangue per la rabbia; il re le diceva nello stesso tempo: hai
un marito che è un vile, ed un amante che è un ladro.

— Avete ragione, signore, disse la regina; anderò in consiglio e
parlerò nel termini che voi dite.

— Oh! ne avete tutto il tempo, guardate là Caracciolo che sale ora a
bordo; vedete dunque come ciò lo interessa: — questo buon popolo....
tutta Napoli è sulla banchina: — che bella beccheria se si battessero,
è vero che fuggirebbero tutti.

— Cinico spietato, mormorò la regina. — L’intendi tu! — Credo che se
non vi fosse nessuno da burlare, burlerebbe sè stesso.

— Diavolo! esclamò il re, la visita non è stata lunga. Ecco Caracciolo
che discende nella sua lancia; prima di dieci minuti sarà qui. — Fateci
l’onore di assistere al consiglio, signora; voi sapete di averne il
diritto dopo aver dato un erede alla corona, ed avete anche fatto
uscire il Tannucci usando di questo diritto. Egli era per la politica
francese, e voi per la politica austriaca. Oh! se ci fosse egli, ci
darebbe un buon consiglio.

Ed il re uscì scuotendo la testa, dicendo:

— Povero Tannucci.




IX.


Confesso che era rimasta come di sasso. Sapeva bene che il re di Napoli
era poco curante della sua propria dignità, ma non credevo poi che
spingesse sino a quel punto l’obblio di sè stesso; e stava guardando la
regina.

— Andrete voi, signora? dimandai io.

— Eh! sicuramente che ci vado, rispose, e ci verrai anche tu con me?

— Ma signora, con qual titolo?

— Tu ci verrai, disse la regina con impazienza: voglio che tu possa
raccontare a sir William come sono andate le cose, e dirgli qual è
l’uomo del re, o della regina.

Non aveva nulla da rispondere, non era un invito che riceveva, ma
un ordine: seguii la regina, e cinque minuti dopo noi entrammo in
consiglio. Questo consiglio si componeva del generale Acton, di Carlo
De Marco, di Ferdinando Corradini, di Saverio Simonetti, e del nuovo
reggente della Vicaria Luigi Medici. Il re presiedeva come di solito
questo consiglio, ma si sa bene in che modo, venendo e andando. Un solo
fatto ci darà una idea dell’amore del re per questa occupazione: egli
aveva proibito che sul tavolo, in giro al quale si erano disposti,
vi fossero penne e calamai, temendo che la _smania di scrivere_ non
trascinasse qualche membro del consiglio a prolungare la seduta.

Il re aveva ben calcolato il tempo che il capitano Caracciolo doveva
impiegare per ritornare dalla nave ammiraglia francese; non appena la
regina aveva preso il suo posto in faccia al re, ed io mi era seduta in
un angolo, la porta si aperse e si annunciò il messaggiero.

Era la prima volta che vedeva l’uomo, alla cui morte doveva prender
parte sett’anni dopo; era un uomo di quarant’anni, cogli occhi neri e
di tratti molto marcati, aveva qualche cosa di aspro e di dominatore,
che dimostrava in lui il patrizio d’origine; difatti egli era principe
o piuttosto _dei_ principi Caracciolo, che prese gran parte nelle
guerre civili di Napoli, di cui uno, Sergiani, amante della regina
Giovanna II, fu assassinato in Castel Capuano, per vendetta dello
schiaffo che aveva osato di dare, in un momento d’ira, alla sua reale
amante.

Egli entrò, si guardò intorno, e parve sorpreso nel vedere due donne,
di cui una straniera, assistere al consiglio; salutò profondamente, e
stette ritto.

— Ebbene? dimandò Ferdinando con impazienza

— Il re mi ordina di parlare? chiese Caracciolo.

— Hai forse bisogno di un ordine, per dare una risposta al re?

— Il re era solo quando mi ha mandato....

— Sì, disse la regina, e il re non è più solo, ma voi dovete conoscere,
mi pare, le persone innanzi alle quali siete stato ammesso.

— Ho l’onore di conoscere le Loro Maestà e le Loro Eccellenze, rispose
Caracciolo con una voce ferma; ma non ho l’onore di conoscere la
signora.

— La signora è mia amica intima, disse la regina.

— Ciò è un titolo al nostro rispetto, signora, rispose il principe
facendo un inchino; ma trattandosi ora di affari di Stato....

— Generale, volete ordinare al capitano Caracciolo di parlare? disse la
regina al ministro Acton; il vostro ordine avrà forse su di lui maggior
potere dell’invito del re e del mio.

— Vediamo, parla, disse il re.

— Sire, disse Caracciolo, l’uffiziale che comanda la flotta francese è
l’ammiraglio Latouche Treville.

— E che vuol dire con questo ammiraglio Latouche Treville? dimandò il
re.

— Un dei migliori marinai della marina francese, Sire; è quegli che
nel 1781 sostenne insieme al capitano Lapeyrouse comandante l’Astrea,
ed egli comandante dell’Ermione, un combattimento di cinque ore contro
quattro fregate e due corvette inglesi, e malgrado la superiorità del
numero ebbe gli onori della giornata.

— E che viene a fare qui?

— Ha rifiutato di dirmelo, Sire, ma ha detto che fra un’ora manderà il
suo secondo, per darvi tutte le spiegazioni a questo riguardo.

— Ebbene, signori, disse il re, aspettiamo le spiegazioni del
signor.... scusatemi, m’inganno, del cittadino Latouche-Treville.

— Temo, Maestà, disse il generale Acton, che noi siamo minacciati
da una scena simile a quella che venne a fare innanzi al porto di
Napoli l’ammiraglio Martin al principio del regno dell’augusto padre
di Sua Maestà, quando venne in nome dell’Inghilterra e dell’Austria a
significare al governo che dovesse serbare la neutralità nella guerra
d’Italia.

— Sì, sì, disse Ferdinando: l’uffiziale incaricato di parlare in
nome del Commodoro fu anche molto insolente, trasse dalla sua tasca
l’oriuolo e lo regolò colla pendola, ed è lo stesso anche oggi; e
diede due ore al re per segnare un trattato di neutralità, e di spedire
l’ordine a Montemar di ritornare nel regno colle sue truppe.

— E che fece il re vostro padre? dimandò la regina.

— Per Dio, rispose Ferdinando, fece ciò che esigeva l’Inghilterra.

— Ma perchè a quell’epoca, esclamò Caracciolo senza accorgersi che non
era stato interrogato, perchè a quell’epoca, Sire, la città era senza
difesa, senza guarnigione, senza provvigioni, senza difensori, perchè
la corte non era militare, perchè i ministri erano uomini timidi,
mentre al giorno d’oggi...

— Taci, disse il re, non si chiede ora il tuo avviso.

— Parlate invece, disse la regina, noi vogliamo essere informati....

Poi volgendosi verso il re.

— Voi permettete, non è vero, Sire.

— Voi vedete bene che io permetto tutto, rispose Ferdinando, ciò che
non impedisce che si faccia la mia volontà.

E si alzò ed uscì.

— Dicevate, signore, riprese la regina, volgendosi a Caracciolo.

— Mentre al giorno d’oggi....

— Mentre al giorno d’oggi, riprese il capitano Caracciolo, la città è
abbondevolmente fornita di cannoni, di uomini, di armi e di munizioni;
con un fuoco ben diretto dal castel dell’Uovo, e dal castel Nuovo si
terrà la flotta francese fuori della portata della bomba.

— Il re pretende che la polvere non valga nulla, disse la regina.

— Ebbene signora, disse Caracciolo, si anderà all’abbordaggio; mi si
lasci prendere trecento barche nel porto, ed io anderò alla lor testa
ad attaccare la nave ammiraglia.

Il re rientrò, ed udendo le ultime parole di Caracciolo, alzò le spalle.

— Chieggo perdono a Vostra Maestà, disse Caracciolo, ma i corsari
barbereschi ed i corsari maltesi non fanno altrimenti?

— Signore, disse la regina, in nome del cielo date ascolto a ciò che
dice il capitano, si tratta qui dell’onore della vostra corona.

— Più ancora, signora, disse Caracciolo, rivolgendosi alla regina, che
egli vedeva venire dalla sua parte, noi siamo in una stagione in cui il
porto di Napoli non si può tenere: dalle cognizioni che ho del nostro
clima, continuò il principe interrogando il cielo cogli occhi, mi farei
mallevadore, che non scorreranno ventiquattr’ore, senza che qualche
colpo di vento non obblighi la flotta francese a prendere il largo. S.
E. il signor ministro della guerra, che è della marina, può affermare
che dico la verità.

— Rispondete, generale, disse la regina.

— Difatti, disse il ministro, vi ha molto del vero in ciò che dice il
signor Caracciolo; ma ora siamo presi alle strette.

— No, generale, rispose il capitano, perchè alla vista della prima
vela, ho già tutto disposto sulla mia corvetta, come se fossi sicuro
che quella vela fosse nemica, e sono sicuro che i miei colleghi di
stazione nel porto hanno fatto altrettanto.

— Ebbene, Sire, chiese la regina a Ferdinando, che tenendosi un
ginocchio sull’altro agitava la gamba, che ne dite voi?

— Lo vedete, signora, replicò il re, non dico nulla.

— E che fate allora?

— Aspetto.

Nel momento in cui il re pronunziava questa parola, s’intese un primo
colpo di cannone, poi un altro.

— Ah! esclamò la regina alzandosi e correndo alla finestra, mi sembra
che il castel dell’Uovo abbia fatto fuoco.

— Sì, o signora, disse Caracciolo, ma a polvere; il forte dell’Uovo
saluta l’inviato del signor Latouche Treville; ecco là che gli risponde
il castel Nuovo.

Difatti i colpi si succedevano con una regolarità, e si poterono
contare i ventun colpi, che sono il saluto usuale fra le potenze
amiche.

— Non ho più nulla da far qui, signora, disse Caracciolo, volgendosi
alla regina. Vostra Maestà vuol permettere che mi ritiri? Fate pure,
disse la regina: ed anch’io mi ritiro nello stesso tempo di voi: vieni,
Emma.

La regina mi fece un segno, ed io obbedii: Caracciolo si ritirò per
lasciarci passare, salutò profondamente e rispettosamente la regina,
ma stette ritto al mio passaggio, con uno sguardo così sdegnoso, che il
rossore della vergogna mi salì fino alla fronte.

Era il secondo insulto che mi faceva in quel giorno.

La regina camminava lestamente e senza rivolgersi nemmeno per vedere se
io la seguiva; arrivata alla porta della sua camera, vi entrò di furia,
si lasciò cadere su di un canapè, e mettendosi le mani nei capelli:

— Ebbene, disse, l’hai tu veduto? mio cognato Luigi XVI è un leone
in paragone di quest’uomo: oh! quante vergogne ci restano ancora da
sopportare, mia povera Emma, se il tuo governo non viene punto in
nostro soccorso.

— Signora, risposi, io non sono che una povera donna, assai straniera
alla politica, ma mi sembra che in ciò vi sia tanta colpa nei ministri
come nel re.

— Che vuoi tu? tutti questi uomini non sono dei ministri, sono
servitori; ah! mio povero Giuseppe, se tu eri là, non avresti lasciato
insultare la tua regina. Senti, senti, le salve che ricominciano. La
repubblica prende possesso della terra di Napoli: davvero che quel
Caracciolo è un’anima vigorosa.

— Che Vostra Maestà mi permetta di avere per lui tutta l’ammirazione,
ma non me ne chiegga per la simpatia; egli non si è mostrato per nulla
gentile verso di me.

— Che vuoi tu, questi napolitani sono così bassi come i lazzaroni,
ed orgogliosi come i baroni dell’impero: questi Caracciolo pretendono
di risalire fino agli imperatori greci, sono altieri, ma almeno sono
valorosi; l’hai tu veduto là: se gli si fosse detto di andare ad
attaccare colla sua Minerva la nave ammiraglia, egli vi sarebbe andato
come ad una festa: mi piacciono più gli uomini di quella tempra, che
quelle canne che si piegano ad ogni soffio.

La regina si avvicinò alla finestra.

— Non avresti tu avuto il piacere, disse, a vedere un bel
combattimento? Guarda con quale insolenza fanno sventolare la loro
bandiera rivoluzionaria. Prendete questi colori, Sire, ha detto
Lafayette nel dare la sua coccarda al re, essi faranno il giro del
mondo. Spero bene che l’Inghilterra non permetterà che si compia questa
predizione orgogliosa. Ma quando penso che vi è nell’altra parte di
questo palazzo un francese, che viene a dettarci la legge in nome di
un governo che tiene mia sorella in prigione, e che forse taglierà la
testa a mio cognato, davvero io ne divento pazza per la rabbia.

In questo momento si sentì toccare alla porta.

Un usciere annunziò sir William Hamilton.

— Entri, entri, disse la regina.

Poi porgendogli la mano:

— Oh! arrivate in punto, gli disse, sapete ciò che succede?

— So ciò che si dice, ecco tutto; ma Vostra Maestà mi permetta
d’informarmi prima dello stato della sua salute.

— Non si tratta già della mia salute, ma è della salute del regno che
si è in pena; siamo molto ammalati, mio caro Hamilton, e se M. Pitt non
viene ad aiutarci, temo che come hanno fatto il 20 giugno a mio cognato
Luigi XVI, ci si metterà il berretto rosso fino alle orecchie.

— M. Pitt, signora, disse sir William, verrà in aiuto a Vostra Maestà,
non ne dubitate; ma ha un sistema che non saprei approvare, perchè è
contrario ai desiderj di Vostra Maestà. M. Pitt è un Whig divenuto
tory, non dimenticatelo. Egli vuole che la Francia si metta da sè
stessa al bando delle nazioni.

— Sì, vale a dire, che invece di salvare Luigi XVI, ciò che avrebbe
fatto riunendosi alla coalizione, egli lo vendicherà quando i francesi
gli avranno tagliato la testa; del resto io sono bene esigente di
volere che un ministro di una nazione che ha decapitato Carlo I, se la
prenda a male perchè una nazione vicina vuole imitare il suo esempio.
Oh! se odiasse i francesi come me!

— Dirò a Vostra Maestà una cosa che le sembrerà impossibile, e che però
è vera. M. Pitt odia i francesi più di V. M.

— Più di me?

— Sì, signora.

— Ci scommetterei.

— Oh! la scommessa è accettata da molto tempo, credetemi. Io conosco il
padre di lord Chatane. Ho conosciuto il figlio, l’ho veduto fanciullo;
egli è nato furioso, ammalato di una violenza innata; è una creatura
trista, amara, aspra, accanita, contro tutto; al giorno d’oggi l’ha
colla ruina della rivoluzione; ma sta aspettando il momento opportuno,
Fox e Sheridan ai quali ho scritto, hanno fatto quant’era possibile per
far sì che il governo intervenisse presso la convenzione; egli non l’ha
voluto. È triste di doverlo dire, a Vostra Maestà specialmente, ma egli
specula sull’orrore che l’avvenimento produrrà in Europa. M. Pitt ha
riso due volte nella sua vita, signora, e due volte è disceso sino al
punto di scherzare. La prima volta che ha riso, è stato quando ha udito
la rivolta di S. Domingo, che i negri bruciavano tutto e scannavano
tutti. Egli ha riso, ed ha detto: «I francesi potranno ora prendere
il loro caffè alla caramella». La seconda volta che ha riso, è stato
quando, or son quindici giorni, Fox e Sheridan spinti da me, gli hanno
fatto osservare che se non interveniva, i francesi potrebbero spingere
la follia sino ad uccidere il loro re; egli rise e disse. «In questo
caso vi sarà un vuoto nella carta d’Europa».

— Ma è un mostro questo vostro Pitt, esclamò la regina.

— Io non ho nessuna opinione intorno a Pitt, di cui, o signora, ho
l’onore di essere l’ambasciatore, disse ridendo sir William; ma so che
ha avuto il talento di farsi adorare dalle tre Inghilterre.

— Come chiamate voi queste tre Inghilterre, sir William, l’Inghilterra,
l’Irlanda e la Svezia?

— Oh! no, dalla vecchia Inghilterra, dall’Inghilterra feudale che
dopo l’89 moriva di paura, credendo ad ogni bastimento che veniva
dalla Francia di vedere sbarcare i diritti dell’uomo; dall’Inghilterra
mercante, seduta sul mare come suo feudo, ed alla quale egli ha
promesso la distruzione della marina francese; infine dall’Inghilterra
oziosa, speculatrice e aggiotatrice. La Francia suddivide le proprietà
fondiarie, gl’Inglesi suddividono le loro rendite. Ogni inglese ha il
suo coupon, ed ogni mattina calcola quanto ha guadagnato nella notte,
mentre la Francia s’invia al fallimento coll’emissione di due miliardi
di assegnati. Quando il nostro 5 per cento, che era a 92 salì a 120,
Pitt fu un grand’uomo; quando il 4 che era a 75 andò a 105, Pitt fu
un eroe; ora finalmente che il 3 il quale era a 57 è a 97, Pitt è un
Dio....

— Tristo Dio.

— Ahimè! voi lo sapete, signora, gli uomini diventano Dei secondo i
loro amori ed i loro odii; gl’Indiani adorano una vacca, i Mongoli
un lama, i Siamesi un elefante bianco; lasciateci dunque adorare il
vitello d’oro, e la nostra religione è ancora la più sparsa.

In questo momento si udì a tuonare il cannone di nuovo, annunziando
che il messaggiero del signor Latouche Treville ritornava nella lancia
ammiraglia, e si venne a prevenire sir William che il re lo pregava di
andare da lui.




X.


Dopo le disposizioni del re e quelle del consiglio, si potè prevedere
che l’inviato del signor Latouche Treville non avrebbe trovato molta
difficoltà nel successo delle trattative: difatti il re era disposto
ad accordare alla Francia quanto gli avrebbe chiesto, pronto però
a mancare di parola, od a tradirla, quando l’Inghilterra si sarebbe
decisa a parteggiare con esso.

Il re aveva dunque dichiarato in seduta, a voce come in iscritto, che
egli era pronto a ricevere il cittadino Mackau, ed a trattarlo come un
ambasciatore di una potenza amica; aveva promesso di serbare la più
stretta neutralità nelle guerre di Francia coll’Europa; finalmente
aveva promesso di richiamare da Costantinopoli il suo ambasciatore
che era stato causa per cui Semonville non era stato subito ricevuto;
vale a dire che aveva ceduto su tutti i punti, ed aveva date tutte le
soddisfazioni alla Francia.

Cosicchè nella stessa sera vedemmo far vela la flotta francese,
allontanarsi e perdersi nel crepuscolo, ed al giorno dopo non si vide
più nemmeno una vela.

Ma prima di partire l’ammiraglio Latouche Treville aveva sbarcato
l’ambasciatore di Francia, che era accompagnato dall’ambasciatore di
Roma, il cittadino Basseville.

Come aveva osservato il re, la folla attonita allo spettacolo di una
flotta francese, che manovrava a piene vele nel golfo, era immensa su
tutti i punti del vasto anfiteatro; ma si era stipata più densa e più
tumultuosa là dove era sbarcato l’inviato dell’ammiraglio francese.

La bandiera tricolore che ornava la poppa del vascello ammiraglio,
sventolando così vicina alla terra napolitana, aveva svegliato delle
emozioni assai differenti. I lazzaroni la guardavano con una specie
d’idiotismo odioso; ma tutti quelli che appartenevano alla gioventù
istruita di Napoli, e le persone che professavano arti liberali,
qualunque fosse la loro età, sentivansi battere il cuore a questo segno
visibile di una rivoluzione, colla quale il partito avanzato sperava
un giorno di associarsi. Si riportarono tutti questi particolari alla
regina, assicurandola in pari tempo che un gruppo di giovani, fra i
quali si trovava un certo Emanuele De Deo, non avevano saputo contenere
il loro entusiasmo, ed al momento in cui l’inviato dell’ammiraglio
era passato in mezzo a loro col suo abito alla repubblicana, avevano
gridato:

— Viva la Francia.

Alla sera ritornando all’ambasciata inglese, posta sull’angolo
della riviera e sulla strada di Chiaja, vidi dei gruppi nella via di
Chiatamone; questi gruppi eransi riuniti alla vista della bandiera
tricolore francese che sventolava da un balcone della casa, ove abitava
il cittadino Mackau.

Il giorno seguente, verso mezzogiorno scorso, avvenne ciò che aveva
predetto il capitano Caracciolo: i venti spiravano da sud-ovest, e
scoppiò una terribile tempesta. Se Napoli avesse resistito solamente
ventiquattr’ore, la flotta francese sarebbe stata obbligata, o di
prendere il largo e per conseguenza di fuggire, oppure era perduta, dal
primo fino all’ultimo legno.

A quella vista, che le dava completamente ragione, la regina non
potè più contenersi, e rimproverò al re la sua viltà, rimprovero a
cui Ferdinando era poco sensibile; invece di felicitarsi di questa
tempesta, che poteva, senza bisogno che vi partecipasse il cannone
napolitano, cagionare una terribile avaria alla flotta dell’ammiraglio
francese, egli deplorava una partita di caccia che fu protratta al
giorno seguente, nella foresta di Persano, ed alla quale era obbligato
di rinunziare. Per altro egli aveva un poco rassicurata la regina,
facendole una teoria sul modo di considerare la fede dei trattati, e
si era positivamente combinato con sir William di voltar faccia alla
Francia tosto che gl’inglesi si sarebbero uniti alla coalizione. M.
Pitt non avrebbe che a fargli un segno, e uomini e navi sarebbero a
disposizione dell’Inghilterra.

Al 20 dicembre, vale a dire quattro giorni dopo la partenza della
flotta, fui svegliata da un gran rumore: una folla di gente scendeva
con rumore dal ponte di Chiaja, e si spargeva nei giardini della villa.

Tirai il campanello, e chiesi quale avvenimento dava motivo a questo
rumore; mi si rispose, che era la flotta francese che ritornava nel
porto.

Mi alzai e mi vestii di fretta, pensando che la regina mi avrebbe
mandato a chiamare: difatti non aveva quasi terminato di acconciarmi,
che ricevetti un suo viglietto che mi invitava di andare a palazzo;
quasi nello stesso momento entrò sir William, che aveva ricevuto lo
stesso invito dal re, e si offriva ad accompagnarmi.

Salimmo in vettura, ed ordinammo al cocchiere di andare dalla parte di
santa Lucia.

Appena arrivati sulla banchina, vedemmo tutta la flotta che rientrava
nel porto, ma non già nell’ordine ammirevole con cui si era presentata
la prima volta, ma come uno stormo di uccelli marini spaventati, che
battevano l’ali alla meglio, per trovare un rifugio.

Arrivammo a palazzo, ove si era radunato di fretta il consiglio, e nel
salire lo scalone incontrammo lo stesso capitano Caracciolo, che si era
stimato opportuno di chiamarlo, quantunque la prima volta fosse stato
di opinione diversa da quella del re.

Sir William mi lasciò alla porta della regina, e si recò alla sala del
consiglio.

Entrando nella camera della regina le raccontai l’incontro che aveva
fatto sullo scalone, ed essa tirò subito il campanello.

— Si preghi il capitano Caracciolo di venire da me, prima ch’ei vada al
consiglio, debbo parlargli.

Poi tirandomi a lei:

— Comprendi tu qualche cosa di ciò che succede? Noi ci credevamo
liberati da questa flotta francese! — Che vuole dunque da noi questo
ammiraglio Latouche Treville colle sue bandiere e colle sue coccarde
tricolori? Viene forse qui a fare la propaganda repubblicana per
mettere anche noi in rivoluzione? Oh! Se ne guardi bene, noi siamo
prevenuti: non ci avranno così a buon mercato come Luigi XVI e Maria
Antonietta! In quanto a me, lo dichiaro, sarò senza pietà.

Non aveva ancora avuto il tempo di rispondere che la porta si aperse, e
si annunziò il capitano Francesco Caracciolo.

— Venite, venite, signore, disse la regina; voi siete stato il solo che
l’altro giorno fosse del mio avviso.

Caracciolo fece un inchino.

— È un grande onore per me, disse egli, perchè l’altro giorno Vostra
Maestà parlava in nome dell’onore napolitano.

— Ebbene, vediamo, diteci francamente che cosa è che succede adesso.

— Ciò che aveva predetto, signora; la flotta francese è stata
battuta e dispersa dalla tempesta; se avessimo tenuto fermo soltanto
ventiquattr’ore, noi saremmo padroni della situazione.

— Non possiamo ora diventarlo?

— Come! signora?

— A vostro avviso la flotta francese entra in Napoli perchè è in
pericolo.

— Per quanto possa giudicare, disse Caracciolo, osservando verso il
mare, non vi è un legno che non abbia sofferto avaria.

— Ebbene, se si approfittasse della situazione, se si tentasse oggi ciò
che non si è osato far l’altro giorno, sareste voi pronto ad attaccare
la nave ammiraglia colla vostra corvetta?

— Impossibile, signora.

— Come! impossibile!

— L’altro giorno proponeva di attaccare il nemico.

— Poi....

— Oggi questo nemico è diventato nostro alleato.

— Nostro alleato!

— Senza dubbio, si sono scambiate delle promesse, signora, e si è
firmato un trattato. L’ammiraglio Latouche Treville veniva ad imporre
delle condizioni ad una nazione nemica, oggi viene a chiedere soccorso
ad un degno alleato; l’altro giorno era un dovere combatterlo,
attaccarlo oggi sarebbe un tradimento.

— Ma però se voi ne riceveste l’ordine dal re....

— D’attaccare?

— Sì.

— Spero, signora, che il re non mi darà un ordine simile.

— Ma infine se ve lo desse?

— Avrei il dispiacere di presentare la mia dimissione.

— L’intendi tu, Emma? disse la regina volgendosi dalla mia parte:
giudicate da lui gli altri, ecco come ci sono divoti.

Poi a Caracciolo:

— Va bene, signore, ho saputo da voi ciò che voleva sapere; io non vi
trattengo più.

Caracciolo fece un inchino ed uscì.

— Ora tutto viene in chiaro, continuò la regina, la flotta ritorna dopo
aver fatto avaria, e viene a rifugiarsi a Napoli, perchè no? Napoli,
come l’ha detto il _cittadino_ Caracciolo, facendo spiccare la parola
_cittadino_, Napoli non è alleato di questa repubblica francese che
viene a dichiarare la guerra ai re, e che va a tagliare la testa a mio
cognato?

Io mi stetti silenziosa.

— Ebbene, dimandò la regina, tu non mi rispondi? non hai nulla a dirmi?

— Crederei di offendere la regina, dicendole francamente la mia
opinione.

— Offendermi? sei ben buona; in che mi potresti offendere tu?

— Ma mettendomi dell’opinione di quell’uomo....

— Di quale?

— Del principe Caracciolo, e Dio sa che non ho punto simpatia per lui.

— Allora tu trovi che i francesi hanno ragione di metterci i piedi
sulla testa.

— Trovo che si ha avuto torto di trattar con loro.

— Ed ora che abbiamo trattato con loro, dobbiamo subire le conseguenze
della parola data. Tu hai forse ragione; noi consulteremo in questo Sir
William.

Intanto la flotta francese era entrata in porto, come si entra in un
porto amico, ed aveva gettato l’áncora.

Un’ora dopo sapemmo che era avvenuto tutto ciò che il capitano
Caracciolo aveva predetto: appena era stata al largo, la flotta
francese era stata battuta da una tempesta orribile, sette navi
sopra undici, avevano sofferto grandi avarie. L’ammiraglio Latouche
Treville col suo trattato in mano, che gli accordava i vantaggi
concessi alle nazioni più favorite, venne a chiedere di riparare i suoi
legni avariati, a rinnovare le sue provvigioni di acqua dolce, ed a
comunicare col porto per comperare viveri, cordami e tele.

Tutte queste dimande furono accordate.

Vi fu di più: nella premura che aveva il governo napolitano di
allontanare quegli ospiti pericolosi, si affrettò di fornire
all’ammiraglio e operai, e materiali, e viveri; e da un condotto
provvisorio si fecero arrivare fino alla punta del molo le acque del
Carmignano, le più limpide e più salubri di Napoli.

In quanto alla regina per non avere continuamente sotto gli occhi
quelle uniformi odiate e quelle bandiere detestate, si ritirò a
Caserta, benchè si fosse nel maggior rigore dell’inverno, vale a dire
nel mese di gennaio, e mi condusse seco.




XI.


Mentre noi eravamo a Caserta, tutte le predizioni della regina si
realizzavano a Napoli. Sia che Latouche Treville avesse avuto bisogno
veramente di riparare le sue navi, sia che questa riparazione fosse
una finta e che seguisse le istruzioni secrete della repubblica,
che erano di spingere tutti i popoli, coi quali essa si mettesse in
contatto, nella via della rivoluzione, l’ammiraglio approfittò della
sua presenza nella capitale del regno delle Due Sicilie per impegnare
i patrioti napoletani a organizzarsi in società secrete ed a preparare
per l’Italia meridionale il trionfo dei principii che regnavano allora
sulla Francia. Ogni giorno i suoi officiali, e si sa che gli officiali
dalla marina francese sono in generale uomini distinti ed istruiti,
ogni giorno i suoi officiali scendevano a terra, si spandevano nella
popolazione, vi facevano proseliti, e gittavano in tutte quelle giovani
teste la semenza della rivoluzione, che, qualche anno dopo, doveva far
scorrere tanto sangue. La vigilia del giorno, in cui la flotta doveva
levar l’ancora, vi fu un gran pranzo dato dai giovani agli officiali.
Vi si cantarono canzoni rivoluzionarie, ed, in mezzo a queste, la
Marsigliese, appena composta da Rouget de l’Isle, e che, scoppiando il
10 agosto, aveva fatto una immortalità così terribile al suo autore.
Venne innalzato il berretto rosso, e si giurò di avere anche a Napoli
una coccarda tricolore, che si sostituirebbe alla coccarda bianca
dei Borboni. Per di più, tutti coloro che avevano assistito al pranzo
adottarono la moda francese inaugurata da Talma nella tragedia di Tito.
Fecero tagliare i loro capegli, rinnegarono la polvere, e battezzarono
col nome di _Codini_, cioè di porta coda, coloro che persistevano nella
fedeltà all’antica moda.

Durante tutto questo tempo, la regina, senza farmi alcuna confidenza,
mi parve preoccupata da qualche opera scura. Sovente, mentre eravamo
insieme, alcuno veniva a parlarle a bassa voce ed a dirle che era
domandata. Essa si levava tosto senza interrogare, e come conoscesse
già la causa di questo incommodo. Poi un quarto d’ora, mezz’ora, un’ora
dopo, essa ritornava e mi stringeva la mano dicendomi: _Tutto va bene_.

Un giorno che la regina era in una di queste conferenze secrete,
io discesi in giardino e ci vidi un uomo vestito di nero che m’era
sconosciuto.

Senza sapere che quest’uomo acquisterebbe più tardi una così terribile
rinomanza, non potei astenermi dall’osservarlo.

Era piuttosto grande che piccolo, portava la testa chinata sul petto,
quantunque il suo sguardo scuro e concentrato si fissasse davanti da
lui all’altezza d’un uomo; ma questo sguardo, era facile accorgersene,
doveva spesso guardare senza vedere. Il viso era color cenere,
l’andatura irregolare, come quella degli animali feroci od inquieti;
talora lenta e talora rapida. Passò vicino a me e tuttavia non parve
mi vedesse. Parlava tra sè, ed io intesi queste parole che scappavano
dalla sua bocca come rotte fra i denti.

— La tortura, mi bisogna la tortura. Senza la tortura che cosa vogliono
ch’io faccia? Essi non confesseranno mai.

Quest’uomo mi fece paura.

Lo seguii cogli occhi, e vennero a cercarlo da parte della regina.

Mi assisi sopra una banca, le mie gambe tremavano.

Ben presto vidi apparire la regina alla porta del giardino; essa
guardossi intorno; mi cercava, ed io mi levai e le andai incontro.

— Buon Dio, cara regina, le domandai, chi è quell’uomo che ho
incontrato nel giardino e che masticava così triste parole?

— Quale? chiese la regina.

— Colui che vostra Maestà ha mandato a cercare.

— Ah! disse la regina, ridendo, tu l’hai veduto. È il mio segùgio; io,
come il re, fui presa dalla passione per la caccia, voglio, come lui
avere la mia muta, e da qui a poco noi potremo cacciare i giacobini. È
un animale assai pericoloso, ma solo allora che gli si lascia prendere
vantaggio sui cacciatori.

— Ma, infine, signora, quest’uomo?

— Ebbene! quest’uomo....

— Quest’uomo è dunque il carnefice?

— Niente affatto, ma sarà il suo provveditore, così spero bene.

Poi stendendo il braccio dalla parte della Francia:

— Oh! mia sorella, mia povera sorella, gridò, essi tengono te ma io
tengo loro, sii tranquilla. Poichè tutti gli uomini sono fratelli, i
fratelli di Napoli pagherano pei fratelli di Parigi.

Io restai muta. Comprendeva l’odio della regina per la rivoluzione, ma
tanta energia mi spaventava in una donna; è vero che questa donna era
figlia del re Maria Teresa.

Camminava silenziosa, appoggiata al braccio della regina: questo
braccio, ratratto per una contrazione nervosa, mi pareva avere la forza
di un braccio d’uomo.

— Che vuoi, mia povera Emma, dissemi la regina, dopo un momento,
durante il quale, essa aveva camminato con un passo fermo e rapido,
bisogna prendere la tua parte. Tu hai creduto venire in un paese di
delizie, tu avevi inteso dire che l’aria della Baia era sì voluttuosa,
che deflorava le vergini; che l’aria di Posilippo era sì dolce che
i rosai vi fiorivano due volte; che l’aria di Sorrento era così
imbalsamata che si riconosceva una Sorrentina al profumo che fuggiva
dalla sua chioma. Tu credevi che qui la vita scorresse come nell’antica
Sibari in mezzo ai balli ed alle feste, che si dormisse sopra letti
di verzura, che si camminasse sopra tappeti di fiori. Si dimenticarono
di dirti che ci aveva, in mezzo a tutto ciò, una montagna che portava
l’inferno nei suoi visceri, che sembra sorridere come tutto il resto
della creazione, e che, di subito, crollava le case come castelli
di carta, copriva Ercolano e Pompei di cenere, e faceva rinculare la
marina spaventata dalla spiaggia di Resina a Rocca di Capri; obliarono
di dirtele, queste cose, ma io te le dico, io.

La guardai atterrita.

— Noi cominciamo una lotta, nella quale possiamo esser vinti,
quantunque abbiamo ottanta probabilità sopra cento di essere vincitori,
ma bisognerà combattere, e la battaglia sarà aspra. O figlia di fresche
praterie e di verdi ajole, ti senti tu troppo debole per montare sul
mio carro di battaglia? Allora abbandona la tua regina ritorna nel tuo
paese di Galles, e risali al tuo nido, come ruscello trasparente, che,
per paura di meschiarsi ai torbidi flutti del mare, risale verso la
sorgente.

— Oh! no, no, gridai gettandole le mie due braccia al collo, io vi
amo troppo per abbandonarvi nel momento in cui voi stessa mi dite di
correre un pericolo. Io sono debole, ma voi siete forte, forte per
voi e per me; voi mi sosterrete se io affievolisco, mi rialzerete se
cado. Io non sono entrata abbastanza dentro ai secreti della politica
per sapere chi ha ragione in questa grande questione dei popoli contra
ai re; ma se voi avete torto, mia cara regina, io voglio aver torto
con voi, e se il Vesuvio o la rivoluzione scoppia su Napoli, io voglio
essere bruciata dalla stessa lava o soffocata dalla stessa cenere, che
voi.

La regina mi cinse col suo braccio e mi serrò contro il suo cuore.

— Alla buon’ora, disse ella, mi sembrava da qualche tempo averti a metà
perduta, ma ecco che io ti ritrovo. Io mi attristava già di sentirmi
sola; oh, io non avrei segreti per te! Sì io farò un’opera truce come
le Eumenidi, io spingo serpenti nelle tenebre. Con oro e fiaschi di
vino si fa tutto ciò che si vuole qui. Quest’uomo che tu hai veduto,
e che ti ha tanto spaventata, è una delle mie vipere. Egli si chiama
Vanni, gli altri due si chiamano Guidobaldi e Castelcicala; l’ultimo è
principe, era nostro ambasciatore a Londra. Io gli proposi di ritornare
per essere il capo delle mie spie, il presidente della mia Giunta di
Stato; egli ha accettato. Oh! io darò tali ricompense ai denunciatori,
che farò, come nella antica Roma, dello spionaggio uno stato onorevole,
e, se non onorevole, invidiato almeno.

— Allora, io ripresi, mi spiego perchè quest’uomo parlasse di torture,
e dicesse che senza la tortura essi non confesserebbero.

— Già, la tortura è la sua idea fissa, e secondo il suo modo di
vedere, egli ha ragione. Quest’uomo ha ambizione; quando gli altri
si contentano di dire _Nostro Re_, egli dice, _Mio Re_, come se il
re fosse soltanto per lui, e come se egli solo fosse incaricato
di guardarlo. Ora i denunciati non mancheranno, non mancheranno
i prevenuti, ma, forse mancheranno i colpevoli, poichè per certi
spiriti ostinati, non vi sono altri rei conosciuti, che coloro i quali
confessano il loro delitto; e qui nessuno confessa. Ebbene! Vanni
pretende che coll’aiuto di certi arnesi da lui inventati, posto che gli
si permetta di usarne, farà parlare le pietre. Io gli dissi, che per
parte mia, non mi vi opporrei affatto, e che la verità era cosa tanto
preziosa, che tutti i mezzi erano buoni per giungere a lei. Pertanto
vi ha una difficoltà. Pare che ciò non sia per nulla secondo la legge;
ma nemmeno i giacobini non sono nella legge; il _Giacobinismo_ non è
un reato preveduto, non si poteva dunque fare una legge contro di lui,
e poichè egli è fuori della legge, è lecito servirsi, per reprimerlo,
di mezzi fuori della legge. Capirai bene che non sono tanto abile
avvocatessa per sapere tutto ciò; la mia vipera, Vanni mi ha fischiato
questo argomento: egli citò Cicerone, che strangolò Lentulo e Cetego,
malgrado la legge che proibiva di attentare alla vita dei cittadini
romani. Maestro Vanni è un assai dotto uomo, io lo farò marchese e
cavaliere dell’ordine costantiniano.

Io guardava la regina con uno sbalordimento, che, lo confesso, non era
esente da un certo terrore.

S’accorse dell’impressione che faceva sopra di me.

— Sì, diss’ella, capisco, tu trovi che c’è una differenza fra la
Carolina d’oggi e quella dei primi giorni. Quella metteva la sua
fantasia a vestirsi dello stesso abito, ad acconciarsi la stessa piuma
ad avvolgersi nel medesimo sciallo che tu. Quella conosceva il dolore,
ma non ancora l’odio; se essa si chiudeva sola con te, era per cercare
le scintille della sua passata felicità nelle ceneri del suo amore, per
dirti: amai nè amerò più; per dirti: io pure quantunque regina, ebbi un
cuore. La Carolina di oggi non ha più il tempo di pensare al passato,
se bisogna combattere per l’avvenire. Che cosa è un amore esiliato in
Sicilia, verso una sorella imprigionata in Francia, ed un fratello
che ha i piedi sui gradini del patibolo? Si tratta pur di felicità,
si tratta pur di poesia, si tratta pur d’amore; si tratta della vita.
Non ci ha animale, dall’aquila fino alla colomba, che non difenda il
suo nido, che non combatta per i suoi piccini. Uccidere chi ci vuol
uccidere, non è vendetta, è l’istinto della conservazione. Se noi pure
avessimo un Vergnaud, un Péthion, un Robespierre non attenderemmo
che ci facessero un 20 giugno ed un 10 agosto, noi faremmo loro una
notte di S. Bartolomeo. I Valois insegnarono ai Borboni che val meglio
tirare dal Louvre nella via, di quello che lasciar tirare dalla via
nel Louvre. Mi chiamino signora _Veto_, mi chiamino signora _Poi_,
mi chiamino ciò che vorranno, ma non mi chiameranno Giovanna Grey, nè
Maria Stuart.

— Dio ci guardi da una tal disgrazia, disse una voce a due passi da noi.

Ci voltammo di subito, la regina ed io, e ci trovammo in faccia ad un
uomo, che a certe parti del suo vestito più laiche che religiose, era
facile riconoscere per un dignitario della chiesa.

Compresi, agli sguardi della regina, ch’essa non conosceva lo
straniero, che aveva la doppia arditezza di sorprenderci e di unirsi
alla conversazione.

Ma io lo riconobbi e gridai:

— Monsignore Fabrizio Ruffo!

— Poi che lady Hamilton vuol avere la bontà di riconoscermi, vorrà essa
aggiungervi quella di presentarmi alla regina, alla quale vengo, del
resto da parte del re?

Io consultai la regina cogli occhi. Sentendomi nominare il favorito di
papa Pio VI, col quale la corte di Napoli, l’abbiamo già detto, era in
migliori rapporti, la sua figura prese un’espressione di benevolenza
che mi permetteva di soddisfare ai desiderj del nobile prelato.

— Signora, le dissi, permettetemi, seguendo il desiderio che egli ora
esternò, ch’io abbia l’onore di presentare a Vostra Maestà, monsignore
Fabrizio Ruffo, tesoriere di Sua Santità.

— Signora, disse il prelato, inchinandosi, nello stesso tempo
ch’io ringrazio lady Hamilton della sua gentilezza, permettetemi
di rettificare due piccoli errori che essa commise e che doveva
commettere. Io non sono più tesoriere e sono cardinale.

— Ve ne faccio i miei complimenti, signore, disse la regina; ma Vostra
eminenza non mi ha detto che veniva dalla parte del re?

— Lo dissi, signora, e Sua Maestà sarebbe ella stessa venuta a Caserta,
se non l’avesse impedita una caccia di cinghiali nel bosco di lago
Fusaro, caccia che le fu impossibile di protrarre.

— Riconosco in ciò il mio augusto sposo, disse la regina sorridendo; ma
voi non sarete meno il ben venuto, sopra tutto se mi recate una buona
nuova.

— Ve ne porto almeno una grande, signora; una nuova che potrà avere le
più gravi conseguenze. L’ambasciatore della repubblica francese a Roma,
il cittadino Basseville, venne assassinato in una sommossa popolare.

La regina sobbalzò.

— È veramente una grande nuova che voi mi annunciate. E come avvenne la
cosa?

— Vostra Maestà sa che conducendo l’ambasciatore di Napoli, il
cittadino Mackau, l’ammiraglio francese aveva nello stesso tempo
condotto l’ambasciatore di Roma, il cittadino Basseville.

Il cardinale accentuò questa parola _cittadino_, ripetuta due volte, in
modo che non vi ebbe nulla di disaggradevole all’orecchio della regina,
grazie all’accento col quale la pronunciò.

Essa lasciò dunque passare questa prima frase senza altra espressione,
che un sorriso di sprezzo, e facendo segno ch’essa ascoltava.

Il cardinale continuò.

— La nuova aveva fatto gran fracasso e si era sparsa nelle nostre
campagne. Io non ho bisogno di dirvi, signora, con qual colore i
nostri degni preti dipingano la repubblica francese alle loro pecore
della campagna e della città; patteggiare con essa è patteggiare
coll’inferno. A questa nuova annunciata dai pulpiti, il popolaccio di
Roma, i barbari del Transtevere, i selvaggi della Sabinia, i bifolchi
delle paludi Pontine, ciechi e feroci come i loro buffali, s’erano
riuniti sulla via che l’ambasciatore doveva percorrere. Durante tre
giorni si aspettò. Tutte le sere i preti ripetevano nei confessionari
alle donne smarrite, che l’ambasciatore francese veniva nella città
santa ad innalzare il vessillo di Satana. Le donne bruciavano cere,
pregavano e urlavano, gli uomini digrignavano i denti ed affilavano i
loro coltelli.

— Bravo popolo, mormorò la regina.

— In fine l’altro giorno, 13 gennaio, forti grida annunciarono
l’avvicinarsi della carrozza; tutto il popolo si precipitò dalla parte,
donde veniva. L’ambasciatore era in gran vestito repubblicano, abito
azzurro, cintura tricolore annodata sull’abito, cappello a tre corni,
pennacchio tricolore al cappello. Due amici, vestiti presso a poco
alla stessa guisa erano nella stessa carrozza. A tal vista le grida
scoppiarono, essi sembrarono sordi ed indifferenti, e continuarono il
loro cammino. Le vie ed i cavalli della loro carrozza erano scomparsi;
la si sarebbe detta una barca solcante flutti d’uomini. Capitarono
così al palazzo del cardinal Zelada, entrarono e lo strinsero perchè
riconoscesse i loro poteri. Egli, che aveva istruzioni positive
dalla Sua Santità, rifiuta e dichiara che per la corte di Roma, la
repubblica francese non esiste nè esisterà mai. L’ambasciatore saluta
il cardinale, rimonta in carrozza e, sia per sostenere l’onore della
Francia, sia per fare appello ai patriotti italiani, piantò un vessillo
tricolore a fianco del cocchiere. A tal vista, come Vostra Maestà
comprenderà, le grida raddoppiarono e le pietre cominciarono a piovere.
Il cocchiere spaventato, spinge i cavalli al galoppo e dirige la
carrozza nella corte di un banchiere francese. Per disgrazia o fortuna,
secondo il modo di guardare la cosa, il tempo manca di rinchiudere la
porta dietro la carrozza, il popolo si precipita, e nella baruffa, in
fede mia non si sa come ciò sia avvenuto, Sua Eccellenza il cittadino
Basseville ebbe il ventre aperto da un colpo di rasoio.

— E si conosce l’assassino? chiese vivamente la regina.

— Sì e no, rispose il cardinale. Sua Santità lo conosce, ma il governo
di Sua Santità non lo conoscerà. Ora, voi comprenderete bene, il
papa già compromesso per la guerra della Vandea, predicata da’ suoi
emissari, e compromesso ancor più per la morte dell’ambasciatore
francese, avrà il bel fare, come fece Pilato, lavarsi le mani del
sangue di Basseville; ne resterà sempre qualche traccia sulla punta
delle sue dita. La morte di Basseville è la guerra colla Francia. Io
vengo, in nome di Sua Santità, a chiedere al re Ferdinando, se è in
caso di sostenerla, ed in questo caso, sempre da parte di Sua Santità,
mettere a disposizione del campione della chiesa i pochi talenti che, a
questo riguardo, mi fornirono la natura e l’educazione.

La regina sorrise:

— Allora Vostra Eminenza appartiene, se non erro, alla Chiesa militante.

— E credetelo, signora, io sono della razza di Lavalette e di
Richelieu. Nel medio evo avrei portato la corazza e la spada, e fatto
la guerra ai Turchi od agli Ugonotti. Oggi sono pronto a fare la guerra
ai Francesi, i quali sono pagani di una specie ben peggiore.

— Ebbene, signor cardinale, disse la regina, noi ci ingegneremo di
darvi da lavorare: disgraziatamente la cosa non dipende da me sola.

— Lo so, riprese il cardinale, ma... egli mi guardò, ma se la signora
vuol immischiarsene.

— Io, signor cardinale? e che volete voi che io faccia, Dio buono?

— Eh, signora! Pericle ha fatta la guerra di Sanne, di Megara, del
Peloponneso per i consigli e l’influenza di Aspasia. Aspasia non
era più bella di voi, e Pericle non aveva più influenza sugli affari
della Grecia, che sir William Hamilton, per suo fratello di latte il
re Giorgio, non ne ha sugli affari dell’Inghilterra, L’Inghilterra
dichiari la guerra alla Francia e noi siamo salvi.

— Tu l’intendi, disse la regina, il cardinale parla in nome del nostro
Santo Padre il Papa, ed il nostro Santo Padre il Papa è infallibile.

— Ebbene, sia, mia cara regina, risposi, e farò tutto ciò che
potrò meglio. Ecco a proposito Pericle, che viene a porsi a nostra
disposizione.

Di fatti sir William s’avanzava dalla nostra parte; e siccome era l’ora
del pranzo, rientrammo nel castello; Sua Maestà invitò sir William
a pranzo, ritenne il cardinale e, pranzando, facemmo i progetti più
bellicosi del mondo.

Quando penso ora che io fui per qualche cosa, non fosse altro, per
il valore di un grano di sabbia nella coppa che piegò dalla parte di
una guerra che durò vent’anni e che non è forse estinta ancora, io mi
spavento della respondenza che un grano di sabbia può avere davanti a
Dio.




XII.


Il cardinale aveva ragione. L’assassinio di Basseville suscitò
un’immensa emozione in Francia. La convenzione decretò che una solenne
vendetta si sarebbe presa di quest’assassinio, e che la Francia
adottava suo figlio.

Ma questo rumore fu in breve assorbito dal rumore di un assassinio ben
maggiormente importante: al 27 gennaio si seppe a Napoli che Luigi XVI
era stato condannato a morte: al 1 febbraio si seppe che la sentenza
era stata eseguita.

Nel momento in cui la stessa notizia arrivò a Londra, Pitt significò al
ministro di Francia di uscire entro ventiquatt’ore dall’Inghilterra.
Spinto da me, debbo dire che non aveva bisogno di questa spinta, sir
William aveva scritto direttamente tre o quattro lettere al re Giorgio,
e questi gli aveva risposto con un piccolo viglietto di suo pugno,
in cui gli diceva che l’Inghilterra, volendo dare tutti i torti alla
Francia, aspettava che i francesi avessero ucciso il re, ma una volta
che il re fosse ucciso avrebbe immediatamente incominciato le ostilità
colla Francia.

Noi ricevemmo a Napoli due lettere nello stesso tempo che ci
annunziavano l’esecuzione di Luigi XVI avvenuta il 21 gennaio, e il
rinvio da Londra dell’ambasciatore di Francia. Benchè questa morte
fosse preveduta, pure fu un colpo terribile per la regina. La lettera
dell’ambasciatore era sopra carta listata a lutto, e suggellata in
nero. Scorgendo la lettera, la regina comprese tutto, gettò un grido e
svenne dicendo: — _Ah! l’hanno ammazzato._

Furono subito dati gli ordini perchè cessassero le feste del carnevale,
perchè la corte e le autorità vestissero a lutto, e perchè si
recitassero in tutte le chiese le preghiere dei morti.

Poi Castelcicala, Guidobaldi e Vanni sapevano di poter incominciare
l’opera per cui erano stati chiamati.

Si fecero degli arresti, e la regina incominciò solamente a sorridere,
quando seppe che più di trecento giacobini erano stati arrestati.

Poi la regina ritornò padrona del consiglio, non osando nessuno di
opporsi a risentimenti che si consideravano giustissimi. Il governo
napolitano seguitando sempre ad essere l’alleato della Francia preparò
la guerra; l’esercito fu portato a 36,000 uomini, e l’armata navale a
102 legni d’ogni grandezza.

Il cardinale Ruffo aveva voluto in tutte le circostanze prendere
un’importanza militare o politica che la conoscenza del suo merito
gliela faceva desiderare, e alla quale gli davano diritto non solamente
le raccomandazioni del sovrano Pontefice, ma ancora gli studi fatti
nell’artiglieria, studi che non saprei precisare nella mia ignoranza
in tale materia, ma che consistevano, credo, nell’invenzione di un
nuovo metodo per arroventare le bombe; ma sia che il ministro Acton non
avesse punto la stessa confidenza del cardinale nei suoi meriti, sia
invece che temesse per la sua fortuna l’influenza di un uomo superiore,
sia finalmente che la regina, — ed io, sto per questa ultima opinione
— che aveva una certa antipatia per il cardinale, abbia neutralizzato
la buona intenzione del re che lo aveva preso francamente sotto la sua
protezione, scorsero due o tre mesi, senza che il cardinale prendesse
una posizione alla corte.

Un giorno mi meravigliai colla regina perchè un uomo di merito come
il cardinale stesse tanto tempo inoperoso, e non approfittasse della
grande amicizia che il Sovrano Pontefice aveva per lui per riprendere
alla corte di Roma la posizione cui gli dava diritto il suo rango di
primo dignitario della Chiesa; ma la regina mi spiegò allora che il
cardinale Ruffo aveva portato colle sue dilapidazioni un tale disordine
nelle finanze pontificie, che Pio VI l’aveva fatto cardinale perchè
non potesse più essere tesoriere; ora il nuovo porporato, come si dice
in Italia, non potendo più vivere a Roma colle abitudini di lusso che
aveva contratte colla rendita di cardinale che era di trentamila lire,
era stato inviato da Sua Santità al re Ferdinando nella sua qualità di
suddito napolitano, nella speranza che Pio VI aveva, che l’impiego che
il cardinale Ruffo occuperebbe alla corte di Napoli, raddoppierebbe la
sua rendita, e che con sessanta mila lire potrebbe vivere. La regina mi
confessava allora di essersi opposta che il ministro Acton entrasse in
questa piccola combinazione finanziaria di raddoppiare la rendita del
cardinale a spese del Ministero della guerra.

La regina era lungi dal prevedere a quell’epoca i servigi che le
avrebbe reso sei anni dopo come soldato quel cardinale che essa
allontanava oggi dalle cose militari.

Ma il re che invece aveva una grande simpatia per Sua Eminenza, sia
che volesse effettivamente trovare un’occasione per raddoppiargli gli
stipendi, sia che, come egli faceva sovente, vi aggiungesse il sarcasmo
alla gentilezza, il re diede al cardinale il posto che meno conveniva,
diciamolo, ad un uomo di Chiesa.

Egli lo nominò ispettore della sua colonia di S. Leucio.

Ora mi si domanderà senza alcun dubbio che cosa era questa colonia di
S. Leucio.

La cosa è assai difficile a dirsi, ma non importa; ho già detto tante
cose difficili, e me ne restano ancora tante da dire, che l’esitazione
sarebbe ridicola. D’altronde lascerò parlare il re Ferdinando in
persona e sarà libero allora di scegliere fra la bonarietà, l’ipocrisia
ed il cinismo, il sentimento che lo portò a rendere conto della sua
creazione della colonia di S. Leucio, harem campestre, ove egli era
meno sultano del gran Turco nel suo.

Copio l’originale stesso del re, che la regina Carolina mi diede in uno
dei suoi giorni di allegria o di disprezzo. È re Ferdinando che parla:

                          ORIGINE E PROGRESSO
                   _della popolazione di S. Leucio_.

  «Non essendo certamente l’ultimo del miei desideri quello di
  ritrovare un luogo ameno e separato dal rumore della corte, in cui
  avessi potuto impiegare con profitto quelle poche ore di ozio, che
  mi concedono di volta in volta le cure più serie del mio stato;
  le delizie di Caserta e la magnifica abitazione incominciata
  dal mio augusto padre e proseguita da me non traevano seco
  coll’allontanamento dalla città anche il silenzio e la solitudine,
  atta alla meditazione od al riposo dello spirito; ma formavano
  un’altra città in mezzo alla campagna, colle stesse idee del lusso
  e della magnificenza della capitale. Pensai dunque nella villa
  medesima di scegliere un luogo più separato, che fosse quasi un
  romitorio, e trovai il più opportuno essere il sito di S. Leucio.»

Vedremo ora quali erano le idee di re Ferdinando sulla meditazione e
sul riposo dello spirito.

  «Avendo pertanto nell’anno 1773 fatto murare il bosco, nel
  recinto del quale eravi la vigna e l’antico casino dei principi
  di Caserta, chiamato di Belvedere, in un’eminenza feci fabbricare
  un picciolissimo casino per mio comodo nell’andarvi a caccia. Feci
  anche accomodare un’antica e mezza diruta casetta, ed altra nuova
  costruire. Vi posi cinque o sei individui per la custodia del bosco
  e per aver cura del sopraddetto casinetto, delle vigne, plantazioni
  e territori in esso recinto incorporati. Tutti questi tali colle
  loro famiglie furon da me situati nelle sopradette due casette e
  nell’antico casino di Belvedere, che feci indi riattare. Nell’anno
  1776 il salone di detto antico casino fu ridotto a Chiesa, eretta
  in parrocchia per quegli abitanti accresciuti al numero di altre
  famiglie diciassette, per cui mi convenne ampliare le abitazioni,
  come feci anche della mia.»

Il re continua.

  «Ampliato che fu il casino, incominciai ad andarvi ad abitare,
  e passarvi l’inverno; ma avendo avuto la disgrazia di perdere
  il mio primogenito, e per questa cagione più non andandoci
  ad abitare, stimai di quell’abitazione farne altro più utile
  uso. Gli abitanti sopraccitati, con altre quattordici famiglie
  aggregatici, giunti essendo al numero di 134, attesa la favorevole
  prolificazione prodotta dalla bontà dell’aria e dalla tranquillità
  e pace domestica in cui viveano, e temendo, che tanti fanciulli
  e fanciulle, che aumentavasi nella giornata, per mancanza di
  educazione, non divenissero un giorno e formassero una pericolosa
  società di scostumati e malviventi, pensai di stabilire una casa di
  educazione pe’ figliuoli dell’uno e dell’altro sesso, servendomi
  per collocarveli del mio casino; ed incominciai a formarne le
  regole, ed a ricercar dei soggetti abili ed idonei per tutti gli
  impieghi a tal uopo neccessari.

  «Dopo di aver messo quasi tutto all’ordine, riflettei che tutte
  le pene, che mi sarei date, e tutte le spese che mi sarei erogate,
  sarebbero state inutili; poichè tutta questa gioventù, benchè bene
  educata, giunta ad una età tale d’avere terminati tutti quegli
  studi alla di lor condizione adattati, sarebbe rimasta senza far
  nulla; o almeno applicar volendosi a qualche mestiere, avrebbe
  dovuto altrove portarsi, per ricercarsi il sostentamento, non
  essendomi possibile di situarne che pochi al mio servizio nel
  luogo. Ed in quel caso, come sommamente sensibile sarebbe stato
  alle rispettive famiglie il separarsene: così anch’io provato avrei
  una gran pena di vedermi privato di tanta bella gioventù, che come
  miei proprii figli avea riguardato sempre, ed aveva con tanta pena
  cresciuti. Rivolsi dunque altrove le mie mire, e pensai di ridurre
  quella popolazione, che sempre più aumenta, utile allo Stato, utile
  alle famiglie, ed utile finalmente ad ogni individuo di esse in
  particolare; e, rendendo in tal maniera felici e contenti tanti
  poveretti, che, per altro fin dal giorno d’oggi, essendo vissuti
  nel santo timore di Dio ed in ottima armonia e quiete fra di essi,
  non mi hanno dato menomo motivo di lagnarmene, godere io di questa
  soddisfazione in mezzo di essi, e delle loro benedizioni, in quei
  momenti, che le altre mie cure più interessanti mi permettono di
  prendere qualche sollievo.»

Come si vede il re Ferdinando aveva finalmente trovato quel silenzio e
quella solitudine tanto necessaria alla meditazione ed alla calma dello
spirito.

Arrivato a questo punto inaspettato, il re Ferdinando, mosso da
riconoscenza per questa bella gioventù che consolava il suo animo,
determinò di dare a quella colonia così prospera, e che prometteva di
diventarla di più, le leggi che ricordassero quelle che Saturno e Rea
avevano dato ai loro popoli nell’età dell’oro.

In conseguenza di che incominciò ad abolire i diritti tirannici dei
parenti sui loro figli, diritti che spesso impedivano a loro di seguire
le ispirazioni del loro cuore e gli istinti naturali.

I figli ebbero dunque il diritto di scegliersi e sposarsi senza che i
parenti vi avessero parte in questo grave affare del matrimonio, in cui
tante volte non vi prendono parte se non per guastare tutto. Nel giorno
di Pentecoste di ogni anno, uscendo dalla messa solenne, i giovani
facevano conoscere a tutto il villaggio la scelta che avevano fatto. Il
giovane sotto l’atrio della chiesa offriva un mazzo di rose bianche a
quella che amava; se la fanciulla cui era stato offerto il mazzetto lo
contraccambiava porgendogli il suo mazzetto di rose di color naturale,
tutto era finito. I due amanti erano promessi da quel giorno, ed alla
domenica seguente si sposavano.

Nell’intervallo il re li faceva venire da lui, separatamente s’intende,
e faceva loro un discorso sui doveri coniugali, e siccome si era
riservato di dare la dote agli sposi, secondo che la fanciulla aveva
ascoltato il discorso del re con maggiore o minore compunzione, la dote
aumentava o diminuiva, si sa bene secondo l’attenzione che prestava la
fidanzata ad un discorso così importante.

Del resto non giudici, non tribunali; quando nasceva qualche querela
fra gli individui, tre vecchi eletti dalla colonia pronunziavano le
loro sentenze, come S. Luigi, sotto una quercia.

Per evitare le follie che il lusso potesse far nascere fra quelle
persone, le fanciulle della colonia avevano tutta la stessa foggia
di vestire semplice ma elegante; il re l’aveva fatto disegnare dal
suo pittore ordinario, ed eccettuate le distinzioni introdotte dal re
stesso per le brave operaje, nessuno poteva fare qualsiasi variazione
nel vestire.

Inoltre la coscrizione era abolita pe’ maschi.

Lo si vede, per giungere a questo risultato, il re avrebbe dovuto
riunire la sapienza di Salomone e la scienza sociale di Idomeneo.

Ebbene, non sapendo che farne del cardinale Ruffo, il reale fondatore
della colonia di S. Leucio, lo pose al governo del suo stabilimento.

Forse quella non era una piazza per un cardinale; ma gli uomini di
spirito non sono mai fuori di posto, ed il cardinale Ruffo era un uomo
di molto spirito.

E la regina, che non ne aveva meno del cardinale, vedeva con sua
grande soddisfazione prosperare, ingrandirsi il paese e popolarsi
lo stabilimento di S. Leucio. Se il re aveva studiato Salomone ed
Idomeneo, essa aveva studiato madama Pompadour, e regnava mentre il re
si divertiva.

È vero che Napoli non era una cosa piacevole a regnare nell’anno di
grazia 1793.

Lo vedremo ora ritornando alle cose politiche.




XIII.


Ho detto che nella stessa giornata in cui l’Inghilterra aveva appreso
la decapitazione di Luigi XVI, il governo inglese aveva invitato
l’ambasciatore di Francia a prendere i suoi passaporti.

Era un insulto che nel suo orgoglio la Francia non poteva sopportare,
quantunque avesse dichiarato per la prima la guerra all’Austria: nove
giorni dopo il rinvio del suo ambasciatore, essa dichiarò la guerra
all’Inghilterra ed all’Olanda.

L’Inghilterra non aspettava che questo passo. Intesi allora sir William
e la regina a numerare le forze delle due potenze e constatare con
gioia la superiorità delle forze materiali della Gran Brettagna in
confronto di quelle della Francia.

La Francia era senza denaro, senz’armi e quasi senz’armata; tutte le
sue forze consistevano in 66 vascelli di linea e 96 fregate o corvette.

L’Inghilterra era in uno stato finanziario così prospero, che M. Pitt
diceva che se avesse tanto danaro per rimborsare il debito, invece di
far ciò, egli getterebbe quel denaro nel Tamigi.

In quanto alle sue forze navali erano di 158 vascelli di linea, di 22
vascelli da cinquanta cannoni, di 125 fregate e 180 cutters; vale a
dire che aveva quattro volte circa il numero delle navi che aveva la
Francia.

Aggiungete a ciò 100 vascelli di guerra che possedeva l’Olanda, e
vedrete che le due potenze potevano opporre 503 legni a 162.

Questo calcolo fatto e rifatto dieci volte innanzi al re Ferdinando,
gli diede il coraggio di unirsi all’Inghilterra; ed al 20 luglio 1793,
senza far significare alla Francia la rottura del suo trattato, il
governo di Napoli firmò _un trattato segreto_ col governo britannico.

Questo trattato portava che il re di Napoli aggiungeva dodici legni, di
cui quattro vascelli di linea ed altrettante fregate alla squadra che
l’Inghilterra inviava nel Mediterraneo, e sei mila uomini alle truppe
che erano a bordo di quella squadra.

Il re aveva a poco a poco abbandonato la presidenza del consiglio; era
la regina che assisteva alle deliberazioni, e che le spingeva colla
rabbia dell’odio. Uomini e navi furono pronte in due mesi, ed una parte
andò a raggiungere la flotta anglo-spagnuola che incrociava innanzi a
Tolone.

Da un agente realista che la regina aveva in questa città, noi
sapevamo tutto ciò che avveniva; Tolone aveva preso parte alla grande
insurrezione che era scoppiata nel mezzogiorno della Francia contro la
Convenzione.

La città era divisa in tre parti: i Giacobini, i Realisti
costituzionali, ed i Realisti puri.

Sapevamo che i realisti costituzionali ed i realisti puri, spaventati
dalle esecuzioni che avevano incominciato a decimarli, si erano riuniti
insieme, e si trattava nientemeno che di dare la città agl’Inglesi.

Al 10 settembre si segnalò un vascello inglese che faceva vela verso il
porto di Napoli, e sembrava venire dalle coste di Francia.

Da alcune settimane, in attesa di notizie importanti, noi non ci
allontanammo più da Napoli.

La regina fu dunque prevenuta dell’avvenimento, e fece prevenire sir
William e me. Dico dell’avvenimento, perchè nelle circostanze, in cui
noi eravamo, l’arrivo di un vascello inglese era un avvenimento.

Ci recammo di fretta a palazzo. Trovai la regina sul terrazzo che
osservava col cannocchiale il bastimento, che ammainava a poco a poco
le vele per diminuire di velocità ed entrava nel porto.

Dai segnali si seppe che questo bastimento era l’_Agamennone_, vascello
di linea di S. M. Britannica, e che veniva da Tolone.

Questo poco che si sapea, voleva dir molto, il re e sir William non
ebbero la pazienza d’aspettare le notizie che portava, ed andarono ad
incontrarlo.

Tutti e due s’imbarcarono su di un canotto della Real Marina, e ad onta
delle leggi sanitarie salirono a bordo.

Appena saliti, i fianchi del vascello rimbombarono con una salva
d’onore, e l’_Agamennone_ disparve in una nube di fumo.

Dopo mezz’ora il re e sir William ritornarono. Sir William si recò
direttamente alla ambasciata e mi fece dire di venire a raggiungerlo,
avendo bisogno di me per aiutarlo a ricevere un ospite inaspettato.

Lasciai che Sua Maestà desse alla regina le notizie di cui era curiosa,
e pensando che sir William ne era consapevole al pari del re, perchè
nella conferenza fra il re ed il capitano dell’_Agamennone_, egli aveva
servito di interprete, presi congedo dalla regina, e salii in carrozza
ordinando al cocchiere di andare a casa.

Sir William mi aspettava.

— Mia cara Emma, mi disse scorgendomi, vi presenterò un uomo piccolo,
che non può vantarsi di esser bello, ma che a mio avviso sarà uno dei
più grandi uomini di guerra che l’Inghilterra abbia avuto.

Mi misi a ridere dell’entusiasmo di sir William.

— Come potete prevederlo? gli chiesi io.

— Dalle poche parole che abbiamo contraccambiato, vi rispondo che
costui maraviglierà il mondo. Voi sapete che non ho mai voluto
ricevere in casa mia nessun uffiziale inglese; ebbene per amor mio, vi
prego di fargli gli onori di casa; date gli ordini di preparargli un
appartamento, e che non manchi di nulla.

— E quando arriva il vostro futuro grand’uomo, sir William? dimandai.

— Da un momento all’altro pranzeremo insieme col Re, e domani andremo
tutti insieme a passare la giornata a Portici.

— Mi direte almeno come si chiama il vostro eroe?

— Orazio Nelson, cara amica: non dimenticate questo nome, che sarà
celebre un giorno.

Non aveva da fare alcuna osservazione, e non ne feci punto.

Il palazzo dell’ambasciata era immenso. Era corsa la voce, qualche
tempo prima, che il Principe di Galles, quello stesso Principe che vidi
una sera raggiante di gioventù e d’amore a traverso le finestre aperte
di miss Arabella, doveva venire a Napoli; a questa notizia sir William
si era dato premura di preparare un appartamento; il Principe non era
venuto, e l’appartamento era rimasto tutto in ordine per ricevere
un Principe. — Credetti che nulla era troppo bello nè troppo buono
pel futuro grand’uomo di sir William, e destinai l’appartamento del
Principe di Galles per il capitano Nelson.

Volle il caso che uno del più be’ ritratti che mi fece Romney si
trovasse in quest’appartamento.

Quando rientrai nella sala, sir William non era più solo: era con
un uffiziale che portava l’uniforme della marina inglese: appena mi
videro, si alzarono e mi vennero incontro. Sir William mi presentò il
capitano Nelson.

Se è permesso di credere ai presentimenti, giurerei qui che, sia
attrazione istintiva o la potenza della preoccupazione per ciò che
mi aveva detto sir William, sentii una certa emozione nel rispondere
alle parole del capitano Nelson. Come lo aveva detto sir William, il
capitano Nelson era però lontano dell’essere un bell’uomo.

Sono scorsi diciotto anni da quel giorno, eppure lo veggo tale e
quale si trovava quando mi fu presentato, e la guerra aveagli ancora
risparmiate le mutilazioni che ha dovuto sopportare.

Era un uomo di trentacinque anni, piccolo di statura, pallido in
faccia, con occhi azzurri, il naso aquilino che distingue il profilo
degli uomini di guerra, ed il mento fortemente pronunciato, indizio di
tenacità spinta fino all’ostinazione; i capelli e la barba erano di un
biondo fulvo, i capelli erano radi e la barba mal disposta.

Mi baciò la mano con molto imbarazzo, ma abbastanza con disinvoltura.
Era facile riconoscere in lui l’uomo di mare in tutto il significato
della parola, e si sarebbe cercato invano in lui il gentleman inglese,
di cui mi avevano lasciato un ricordo le mie prime conoscenze.

Si conosce già la notizia che egli recava, tale notizia era terribile
per la Francia: il suo primo porto militare era stato reso agli
Inglesi.

Ecco in due parole i particolari dell’avvenimento, raccolti dalla bocca
stessa del capitano Nelson.

Ho già detto ciò che noi sapevamo dei tre diversi partiti ch’esistevano
a Tolone: giacobini, realisti costituzionali e realisti puri.

Gli ultimi due, domati dai giacobini, si riunirono e risolsero di fare
una controrivoluzione tostochè l’occasione si presentasse.

Ciò avvenne ben presto. — La costituzione del 1793 era stata stabilita;
i giacobini l’avevan fatta proclamare a suoni di tamburo e di tromba.

Questa Costituzione, tutta di violenza e bagnata ancora del sangue di
Luigi XVI, non era stata fatta certamente per conciliare i partiti.
Un fermento generale destossi nella città in seguito alla sua
proclamazione; i realisti puri ed i costituzionali si riunirono per
opporsi alla sua accettazione.

Prevedendo le autorità giacobine ciò che sarebbe avvenuto, fecero
affiggere un decreto che puniva di morte chiunque osasse proporre
l’apertura delle sezioni.

Quel decreto produsse un effetto contrario a quello che si supponeva.

Tutti si recarono in folla alle sezioni e fu tale la premura, che le
porte non si aprirono ma si sfondarono.

La controrivoluzione fu compita in un istante, le carte del club dei
giacobini furono sequestrate, ed arrestati i principali capi della
società, e condotti nella stessa prigione donde, per lasciar loro il
posto, si fecero uscire i realisti.

Il generale conte Maudit che comandava la piazza, e sul quale i
realisti sapevano con ragione di poter contare, fu una di quelle rare
autorità civili e militari che restarono al loro posto.

Il patibolo, come le prigioni, dopo aver lavorato pei realisti,
lavorava pei giacobini; la ghigliottina invece di essere demolita,
continuò a funzionare, e tagliava la testa dei repubblicani invece di
decapitare i realisti.

Una di queste esecuzioni fece nascere un tumulto, che quasi fece
perdere tutto.[3]

Il nuovo tribunale condannò a morte un tal Alessio Lambert, uomo molto
popolare a Tolone: si formò una congiura per salvarlo; e difatti,
nel momento che lo conducevano al supplizio, una immensa folla di
popolo si precipitò sulla forza armata che lo scortava. Il corteggio
funebre era arrivato in questo momento nella contrada dei Calderai
che divenne il teatro di un combattimento terribile. Uno degli uomini
della scorta, vedendo che il popolo trionfava, scaricò a bruciapelo il
suo fucile sul prigioniero, che cadde ferito gravemente, ma forse non
mortalmente, poichè la palla gli aveva attraversato il corpo; ma tosto
le sezioni ripresero il sopravvento, e gli assalitori furono messi in
fuga. Alessio Lambert seguito alla traccia del sangue come un capriolo
ferito, ricadde nelle mani dei reazionari che si divisero in due
partiti; gli uni volevano fosse protratta l’esecuzione, gli altri che
fosse giustiziato immediatamente. La maggioranza fu per la esecuzione
immediata; difatti nello stesso giorno Alessio Lambert fu giustiziato.

Tolone fu messa fuori della legge dalla Convenzione, vale a dire che
ogni patriota aveva diritto di tirare su di un Tolonese come su di un
cane.

Ma ad onta della sua rivolta, cosa singolare, Tolone aveva conservato
tutte le forme repubblicane, e la bandiera tricolore sventolava
sulla città. Era troppo pei giacobini, ma non era abbastanza pei
realisti. Volgendo gli occhi al mare, questi ultimi videro la crociera
anglo-ispano-napolitana, che bloccava il porto, e risolsero di
consegnare Tolone agli Inglesi, e di sfuggire con questo tradimento
all’anatema della Convenzione nazionale.

Si fecero delle trattative coll’ammiraglio Hood, che non voleva
decidere nulla senza essere sicuro della cooperazione del generale
conte Maudit che comandava la piazza, e dell’ammiraglio Tragoff che
comandava la flotta. Costoro entrarono a parte delle trattative, ma non
poterono far intender tanto facilmente la ragione al contrammiraglio
Saint Julien che era un Giacobino marcio. Non era quasi venuto in
cognizione del progetto, che invece di secondarlo radunò il suo
equipaggio, lo arringò con veemenza, e fece giurare agli uffiziali ed
ai marinai di non giammai sopportare che le flotte nemiche entrassero
nei porto di Tolone. Il contrammiraglio Saint Julien aveva approfittato
per fare questo discorso repubblicano del momento appunto in cui il
suo superiore era a terra, vedendo l’unanimità non soltanto del suo
equipaggio, ma anche di quelli degli altri bastimenti. Il signor di S.
Julien ne prese il comando, e manovrò in modo di chiudere interamente
l’approdo verso la rada.

Questa volta senza un colpo disperato i realisti sarebbero stati
perduti. L’armata del generale Carteau, dopo aver preso Marsiglia, si
dirigeva su Tolone; il contrammiraglio S. Julien chiudendo la rada,
impediva loro qualunque ritirata.

Questo colpo disperato fu tentato e riuscì.

I realisti combinarono cogl’Inglesi un trattato nel quale fu stabilito
che entrando in Tolone, essi avrebbero preso possesso della piazza in
nome e come alleati di S. M. il re Luigi XVII, povero re fanciullo
prigioniero nelle carceri del Tempio colla sua madre, che doveva
ben presto lasciarlo orfano, a cui il calzolaio Simon, al quale era
affidato, faceva ballare la carmagnola a colpi di cinghia.

In seguito a questo trattato, essi dichiararono la flotta ribelle
alla volontà generale degli abitanti, e stabilirono che si sarebbe
impiegato la forza contro di essa; in conseguenza di che si misero
degli ufficiali realisti a tutti i posti ove trovavansi degli ufficiali
repubblicani, e particolarmente alla gran torre, le cui batterie si
ordinava al capo di tener pronte, e di tirare sulla flotta al primo
segnale. Nel tempo stesso l’ammiraglio Hood attaccherebbe e cercherebbe
di forzare l’entrata nella rada.

Queste notizie pervennero al contrammiraglio S. Julien, il quale
rispose che bombarderebbe la città, facendo da tutti i legni il fuoco
delle sue artiglierie.

La guerra civile stava per iscoppiare, e nessuno avrebbe saputo
dire come la cosa sarebbe terminata; allorchè la fregata _la Perle_,
comandata dal luogotenente Van Kempen, si staccò ad un tratto dalla
flotta e venne a cimentarlo dalla parte della città, l’ammiraglio
Tragoff approfittò subito dell’occasione. Si fece trasportare sulla
fregata, ed inalberò la sua bandiera di comando, sapendo quanta era
la venerazione dei marinai per questo segno: infatti a quella vista
una parte dei legni abbandonò il contrammiraglio S. Julien, il quale,
rimasto solamente con sette navi, risolse di passare in mezzo alla
squadra inglese, risoluzione che egli eseguì con vera fortuna. Ma
allora Tolone restò senza difensori, ed i realisti, diventati padroni,
vi introdussero gl’Inglesi.

Ho curato molto i particolari di quest’avvenimento, sebbene non
sembrassero appartenere alle memorie di una donna per due ragioni; la
prima perchè hanno avuto, per la impressione prodotta sull’animo della
regina, una grande influenza sugli avvenimenti sui quali ho preso più
tardi una parte troppo attiva; la seconda, perchè la mia intimità colla
Corte di Napoli mi ha messo in posizione di conoscere dei particolari,
ignorati anche dagli stessi storici che hanno scritto in quella epoca.




XIV.


Poco prima dell’arrivo del capitano Nelson a Napoli, andai dalla regina
forse prima dell’ora consueta: mi rispose, con mio grande stupore,
che la regina si era ritirata ed aveva proibito di lasciar entrare
chicchessia senza suo permesso.

Mi disponeva ad andarmene, sapendo che vi era sempre eccezione per me,
e maravigliata perchè questa eccezione non fosse mantenuta in quel
giorno come negli altri, quando intesi chiamare nella stanza della
regina.

Si accorse al rumore del campanello, e dalla porta si dimandava: — Che
vuole Vostra Maestà?

— Chiamatemi Luigi Custode, rispose la regina.

Volendo sapere subito perchè anch’io era stata consegnata alla porta
del suo appartamento al pari degli altri:

— Sono qui Maestà, diss’io.

— Emma! esclamò la regina, ed aprendo interamente la porta: veggo bene
che sei là, disse ridendo, e perchè vi sei?

— Ma, risposi, perchè Vostra Maestà ha interdetto l’ingresso a
_chicchessia_.

— Ma tu sei forse compresa nel _chicchessia_? tu Emma, vale a dire, la
mia amica, la sola donna per cui non abbia segreti! vuoi dunque venire?
e mi chiamò con un segno di testa e colla voce.

Io la seguii.

Nella camera da letto, su di un vasto canapè situato rimpetto a lei vi
era una quantità di carte, che simili ad una cascata, rotolavano dal
divano sul pavimento.

— Oh! mio Dio! esclamai. Vostra Maestà non sarà condannata, lo spero, a
leggere tutte queste carte.

— No, ma le ho lette senz’essere condannata.

— Ciò non mi maraviglia allora, perchè Vostra Maestà è pallida e
abbattuta questa mattina.

— Lo credo, non ho dormito questa notte.

— Che ha dunque fatto Vostra Maestà?

— Ho letto tutte queste carte che tu vedi dalla prima fino all’ultima.

— E con che scopo, mio Dio?

— Guarda a chi sono dirette queste carte.

E mi mostrò un indirizzo di lettera.

— Al cittadino Mackau — ambasciatore della Repubblica francese — Napoli.

Io guardava la regina.

— Come! le chiesi con istupore, il cittadino Mackau comunica a V. M. le
lettere che riceve dal suo governo!

— Che ingenuità primitiva! disse la regina. In questo momento s’intese
una voce dalla porta che diceva:

— Ecco l’uomo che V. M. ha fatto chiamare.

La regina andò in persona alla porta, girò la chiave con cui aveva
chiusa la porta ed aperse.

Apparve un uomo che poteva appartenere alla classe dei domestici, il
quale, scorgendo la regina, fece un inchino fino a terra.

— Siete ben sicuro, gli disse, che qui vi sono tutte le carte
dell’ambasciata francese?

— Tutte senza eccezione, Maestà; fin quelle che erano nel cassetto
dell’ambasciatore.

— Non menti, eh?

— Vostra Maestà lo vedrà alle grida che farà l’ambasciatore, quando si
accorgerà di essere stato rubato.

— Ti ho fatto promettere due mila ducati per questo furto.

— Sì, Maestà, ne ho già ricevuto mille in conto.

— Benchè le carte non siano tali quali io sperava, ecco gli altri mille.

— Grazie, Maestà; ma non è tutto quello che mi venne promesso.

— Che ti hanno promesso ancora?

— Siccome sono io solo che entro nel gabinetto del cittadino
ambasciatore, i sospetti cadranno su di me pel primo e sarò certamente
arrestato.

— Che t’importa, se i giudici non ti condanneranno?

— Dovrò sempre star qualche mese in prigione.

— Che t’importa se ricevi cento ducati per ogni mese di prigione che
farai?

— Difatti, ciò è sempre un compenso; in questo caso confido nella bontà
della regina.

— Lasciati arrestare, nega sfrontatamente ogni prova che si accumulerà
contro di te, non comprometterci senza alcun pretesto e sta tranquillo.

— Il ladro, — perchè, si è veduto, era bene un ladro, — mise la sua
borsa in tasca.

— Come! disse la regina, non li conti nemmeno?

— Oh! Dopo vostra Maestà...

— Va bene, sarai ricompensato della tua confidenza, vattene.

L’uomo fece di nuovo un inchino fino a terra ed uscì.

— Ebbene? mi dimandò la regina, comprendi ora?

— No, perchè non posso persuadermi che V. M. abbia fatto prendere le
carte dell’ambasciatore francese da quest’uomo.

— È però la più semplice e pura verità.

Confesso che ne rimasi spaventata; mi pareva che un furto stato
eseguito per ordine di una regina fosse sempre un furto.

La regina indovinò il mio pensiero.

— Io credeva di trovare in queste carte delle prove di connivenza fra
i giacobini di Napoli con quelli di Parigi, disse ella, ma mi sono
ingannata; però vi ho trovato altre cose non meno importanti.

— Che cosa ha dunque trovato Vostra Maestà?

— Aspetta, mi disse, mi pare di riconoscere il passo del re; sì, è lui;
che viene a fare da me a quest’ora?

In quel momento si udì a battere assai rozzamente alla porta della
regina.

— Quando ti diceva che era lui, disse, cercando di nascondere le carte
sotto di lei e sotto le pieghe del suo abito.

Il re aveva un’espressione d’inquietudine.

— Ah! mio Dio! disse la regina ridendo, che avete, signore, che cosa
avete con quella faccia spaventata?

— Voi non sapete che cosa è avvenuto questa notte?

— No, ma quando me l’avrete detto lo saprò.

— Lasciatemi prima da cavaliere galante baciare la mano a milady, e
chiederle notizie di sir William.

Porsi la mano al re, che come egli disse baciò galantemente.

— Sir William sta a meraviglia, gli risposi, e sarà felicissimo del
ricordo di Sua Maestà.

— Ora, disse la regina, che avete fatto i vostri doveri, ditemi questa
cosa così terribile che è avvenuta questa notte.

— Ebbene, questa notte hanno involato le carte dell’ambasciata francese.

— Oh!

— Questa mattina il cancelliere è venuto da parte del cittadino Mackau,
per portare querela al generale Acton.

— Veramente!

— E la querela è scritta in modo, che pare che si sospetti che qualcuno
della corte di Napoli abbia fatto il colpo.

— Allora è più intelligente di quanto credeva.

— Chi?

— Il cittadino Mackau.

— Come, signora, voi avete cognizione di questo furto?

— Ne ho inteso a parlare, sì.

— E sapete dove sono le carte?

— Press’a poco.

— Ma dove sono dunque?

— Volete saperlo?

— Senza dubbio, non foss’altro che per rispondere a’ reclami del
cittadino ambasciatore.

— Ebbene, eccole, disse la regina alzandosi; scoprendo le carte, sulle
quali era seduta, e quelle che copriva col suo abito.

— Mio Dio! disse il re facendosi pallido.

— Emma, Emma, disse la regina ridendo, porgete un seggiolone a Sua
Maestà, egli si sente male.

Mi aveva preso come alla regina una tal volontà di ridere, e porsi un
seggiolone al re in cui si lasciò cadere di botto.

— Ma, signora, disse il re, si saprà che siamo noi che abbiamo
sottratto le carte, e la sottrazione di queste carte è la guerra colla
Francia.

— Prima di tutto, disse la regina, non siamo noi che abbiamo sottratto
queste carte, sono io che le ho sottratte, e poi non si saprà mai che
sono stata io, e poi avremo egualmente anche senza di ciò la guerra
colla Francia. La sottrazione delle carte non muta la questione.

— E perchè avremmo avuto la guerra colla Francia?

— Semplicemente perchè il cittadino Mackau ha degli occhi, che ha
veduto i nostri armamenti, che ha numerato gli uomini e le navi che
noi abbiamo inviato a Tolone, che la Francia è prevenuta di tutto ed
a quest’ora essa non ignora che abbiamo a Tolone quattromila uomini e
quattro vascelli.

— Non importa, noi non possiamo rifiutare all’ambasciatore la
soddisfazione che dimanda.

— E quale soddisfazione dimanda?

— La procedura del furto, nel caso che il ladro fosse un napolitano.

— E dategliela questa soddisfazione.

— Ma se il ladro confessa?

— Non confesserà.

— Se è condannato però?

— Egli non sarà condannato, perchè sarà giudicato da un tribunale
napolitano.

— E, signora, disse il re, non fidatevi, il movimento del giorno è
all’indipendenza.

— È ben ciò che voglio reprimere, signore, disse la regina, aggrottando
le ciglia; se fa bisogno è bene dai tribunali che comincerei.

— Allora ciò spetta a voi.

— È affar mio.

— V’incaricate voi di quest’affare?

— Me ne incarico io.

— Andate dunque e fate a modo vostro; che importa a me di ciò che può
succedere, purchè mi restino i miei boschi per andare a caccia ed il
golfo per pescare?

— E San Leucio per riposarvi, soggiunse la regina con un sorriso
sdegnoso.

— È forse Vostra Maestà chi mi farebbe l’onore di inquietarsi per San
Leucio? chiese il re.

— E perchè inquietarmi di San Leucio, dal momento che questa
interessante colonia ha per capo un uomo del merito del cardinale
Ruffo? Se egli fosse tesoriere invece di essere ispettore non avrei
forse la stessa tranquillità.

— Siete in collera con questo povero cardinale; vi assicuro però che è
un uomo che ci è divotissimo.

— Che vi è divotissimo, volete dire.

— Eh! Dio buono! disse ridendo il re, noi non facciamo _uno?_

— Oh! no, signore, e me ne vanto.

— Voi mi trattate molto male questa mattina, signora.

— Vi tratto forse alla sera meglio del mattino?

— Che volete che ne pensi di me Lady Hamilton?

— Le opinioni di Lady Hamilton sono modellate sulle mie.

— Vale a dire, riprese il re ridendo, che Lady Hamilton mi fa come voi
l’onore di detestarmi.

— Oh! disse la regina, Vostra Maestà sa bene che è un altro sentimento
che quello dell’odio che ho per essa.

— Andiamo, vedo bene che questa mattina non avrò quest’ultimo per voi.

— Siete venuto per questo?

— No, signora, io era venuto per vedervi e per dirvi la notizia del
mattino.

— Ebbene, io di ricambio vi dirò quelle del giorno. Abbiamo deciso il
signor Acton ed io, che due vascelli e tre mila uomini di rinforzo
sarebbero inviati alla flotta anglo-ispana, comandati dai generali
De-Gambs e Pignatelli. Vi lascio l’onore dell’iniziativa, se volete
prenderlo oggi al Consiglio. Sollecitate solamente il loro invio; il
capitano Nelson reclama a tutta possa questo rinforzo.

— Mediante quest’attività ritornerò in grazia presso di voi?

— Voi non ne siete mai uscito, signore, disse la regina con un sorriso
mezzo grazioso e mezzo sarcastico.

Il re avvicinò ad essa, le prese la mano e la baciò, mentr’essa lo
guardava con una espressione indescrivibile.

— Allora, signora, voi siete _decisamente decisa_ per la guerra?

— Decisamente decisa, signore, e tanto più decisamente decisa che noi
non possiamo fare altrimenti.

— Andiamo dunque, signora, sia la guerra, e vedrete che quando sarà
venuto il momento di tirare la spada dal fodero, farò il mio dovere
quanto un altro.

— Ciò vi tornerà molto più facile, signore: quando il re Carlo III
vostro padre lasciò Napoli, egli vi lasciò la spada con cui Filippo V
conquistò la Spagna, ed egli il regno di Napoli. Però questa spada non
ha veduto più la luce dopo la battaglia di Velletri, ed in quarantatre
anni avvengono tante cose fra un fodero ed una lama.

— Certamente, mia cara maestra, disse il re scuotendo la testa, voi
avete troppo spirito per me e vi lascio il posto.

E dopo averci salutate tutt’e due se ne andò.

— Ora, disse la regina, aspettando che il nostro caro sposo diventi
un Alessandro od un Cesare, abbruciamo le carte inutili, e conserviamo
quelle che sono utili da conservarsi.

Ci mettemmo all’opera: debbo dire da parte mia senz’alcuna obbiezione
che quel carattere deciso della regina mi trascinava nella sua volontà,
come l’astro trascina il satellite nel suo cammino.

Ciò che ho raccontato ora avvenne otto o dieci giorni prima dell’arrivo
del capitano Nelson, al quale è d’uopo ritornare.


  FINE DEL VOLUME QUARTO.




NOTE:


[1] Piccola città rinomata pei suoi piedi di porco.

[2] Toltane qualche eccezione, lady Hamilton parlando nelle sue memorie
di Nelson, lo chiama semplicemente Mylord.

[3] Non si dimentichi che è Emma Lyonna che parla, e per conseguenza
parla dal punto di vista del partito realista, poichè altrimenti noi
avremmo detto: avrebbe salvato tutto.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE DI EMMA LYONNA, VOL. 4/8 ***


    

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or any Project Gutenberg™ work, (b) alteration, modification, or
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Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s
goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg™ and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state
visit www.gutenberg.org/donate.

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
donate, please visit: www.gutenberg.org/donate.

Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of
volunteer support.

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the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not
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