Memorie di Emma Lyonna, vol. 3/8

By Alexandre Dumas

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Title: Memorie di Emma Lyonna, vol. 3/8

Author: Alexandre Dumas

Release date: May 14, 2025 [eBook #76091]

Language: Italian

Original publication: Milano: Daelli e C, 1864

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This book was produced from scanned images of public domain material from the Google Books project.)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE DI EMMA LYONNA, VOL. 3/8 ***


                                MEMORIE
                                   DI
                              EMMA LYONNA


                                   DI
                            ALESSANDRO DUMAS


                 UNICA EDIZIONE AUTORIZZATA IN ITALIA.

                               Vol. III.



                                 MILANO
                         G. DAELLI e C. EDITORI
                               MDCCCLXIV.




             Proprietà letteraria — G. DAELLI e C. Editori.

                       STEREOTIPIA G. DASSI E C.

                           TIP. GUGLIELMINI.




MEMORIE

DI

EMMA LYONNA




I.


Dopo aver percorso una parte della Francia, il Belgio, la Germania,
ci fermammo a Vienna il tempo appena necessario a sir William per
presentare i suoi omaggi all’imperatore Giuseppe II, avendo avuto
l’onore d’essergli stato presentato quattr’anni prima, quando era
venuto incognito a Napoli, senza seguito, sotto il nome di un semplice
gentiluomo: poscia partimmo per Venezia, Ferrara, Bologna e Roma.

A Roma sir William si decise di cominciare a farmi conoscere la società
italiana. Le ricerche archeologiche l’avevano più volte condotto, non
dirò nella metropoli del mondo cristiano, ma nella capitale dei Cesari,
e v’era in intrinsechezza con le famiglie più distinte.

Vi arrivammo al principio della primavera del 1788.

Pio VI occupava da tredici anni il trono di San Pietro, e ne avea
settantuno. Il bell’Angelo Braschi, che, quando venne nominato Papa,
succedendo a Clemente XIV, avrebbe volentieri preso il nome di Formoso
II, tanto era vago dell’incarnato gentile del suo volto e dei suoi
belli capelli biondi, era sempre l’adoratore della propria bellezza. —
Si raccontano le cose più ridicole sull’ammirazione che egli aveva di
sè stesso.

Le cattive lingue, — e ve ne sono dovunque, anche a Roma, — dicevano
del resto che Sua Santità dovea una certa riconoscenza a quella grande
bellezza, non essendo stata estranea all’alta sua fortuna, alla quale
avea anche contribuito con tutto il suo potere il decano del sacro
Collegio, il cardinale Ruffo, che amava, dicesi, il giovane prelato
di un amore, a trovar l’eguale del quale bisogna ricorrere alla storia
antica, e che può essere paragonato a quello di Socrate per Alcibiade.

Quella bellezza che avea cominciato la sua fortuna la continuò, —
parlo sempre, ben inteso, come le cattive lingue di Roma. — Angelo
Braschi, avendo perduto il suo protettore, tentò di supplirvi con una
protettrice, e si fece l’amante della ganza del cardinale Rezzonico,
nipote del Papa, che lo fece nominare gran tesoriere, carica che il
buon Ganganelli gli tolse nominandolo cardinale.

È vero che Clemente XIV non poteva fare altrimenti; il cappello toccava
di dritto ad ogni gran tesoriere della santa Sede che usciva di carica,
giustamente o ingiustamente. Angelo Braschi non tralasciò per altro di
ringraziare Ganganelli della dignità, alla quale avevalo promosso; ma
il papa vuolsi che così ingenuamente gli rispondesse:

— Vi ho fatto cardinale, perchè volevo dare il posto di tesoriere ad un
uomo, la cui probità non fosse posta in dubbio.

Il ringraziamento era degno del favore. Braschi non stimò opportuno di
rinnovarlo pel motivo che glielo avea fatto accordare.

Quando arrivammo a Roma, mi si presentò una bella occasione per vedere
Sua Santità, il quale, come si sa, _incontra le signore_, ma non le
riceve.

Difatti, quando qualche illustre straniera o qualche nobile dama romana
desidera di vedere il sovrano pontefice, fa domandare un tale favore a
Sua Santità, che generalmente risponde che passeggerà nel tal giorno,
alla tale ora, nel giardino del Quirinale, se d’estate, o in quello del
Vaticano se d’inverno.

La dama si trova nel giorno e nell’ora indicati, sulla via che percorre
Sua Santità, e riceve la benedizione pontificale.

Ma nella mia qualità di protestante io non poteva nemmeno sperare un
tal favore, e però giunsi per un mezzo ancor più semplice, ad ottenere
questo onore.

I direttori del collegio della Propaganda avevano ottenuto che Sua
Santità assistesse ad una delle loro dispute accademiche: niente dunque
di più facile a sir William dell’ottenere due posti per la sua qualità
di ambasciatore.

Essendo que’ posti riservati, non fummo obbligati di attendere nè
metterci in coda, ma arrivammo all’ora precisa.

Appena seduti, un gran romore annunziò l’arrivo di Sua Santità.

Confesso che aspettavo con grande curiosità: sarebbe difficile,
davvero, di vedere un vecchio più bello di Pio VI. I suoi capelli
biondi erano diventati bianchi, ma aveano serbato la loro ondulazione
elegante; il viso era troppo fresco per essere esente da ogni
preparazione, ma i denti erano belli e l’occhio di una vivacità
considerevole.

Forse in quel giorno l’occhio era più vivo ed il viso più colorito del
solito. Circolava a bassa voce la diceria che Sua Santità avea dato
poco prima in uno di quegl’impeti di collera, che erano il terrore di
tutti quelli che lo circondavano, e che la causa più leggera bastava a
fare scoppiare.

Pio VI avea ordinato al suo sarto un abito nuovo per la solennità
cui dovea assistere; ma una malaugurata piega nei calzoni turbava
la regolarità delle forme di cui era tanto altiero. Egli rimproverò
questo difetto di taglio al povero diavolo con una vivacità, che costui
cercava mitigare con una umile scusa; ma la scusa, per quanto umile,
fu respinta con un vigoroso schiaffo. — Lo spavento più che il male
fe’ svenire il colpevole, il quale non rinvenne se non dopo un copioso
salasso.

La seduta incominciò: tutto andò a meraviglia sino ai due terzi di
essa: ma a questo punto, credendo di far piacere al sovrano pontefice,
provandogli quanto la Chiesa fosse estesa, giacchè avea sudditi fin
sotto la zona torrida, i direttori introdussero un giovane negro del
Congo, che cominciò un discorso che mi parve eloquentissimo, ma che fu
interrotto fin dal principio dell’esordio dal santo padre che si alzò
ed uscì, dando segni visibili di malcontento. Dopo qualche secondo,
la causa del suo cattivo umore fu conosciuta: egli non aveva badato
nè alla bellezza del discorso, nè al Congo, nè al grado di latitudine
ov’era situato.

Egli non avea veduto che un negro bruttissimo, la cui antipatica figura
avea ferito la suscettibilità de’ suoi organi visivi, ed era uscito
raccomandando che per l’avvenire non gli mettessero più sotto gli occhi
siffatti mostri.

Ecco quanto aveano guadagnato i direttori del collegio della Propaganda
con la loro delicata cortesia.

È vero che qualche mese prima, il 6 ottobre 1787, — la data era rimasta
come quella di un giorno di festa, nella memoria di tutti quelli che
circondavano Sua Santità, — la Provvidenza avea accordato a Pio VI una
grande consolazione.

La principessa duchessa, la signora Costanza Onesti avea dato alla
luce un maschio. — Chiamasi in Roma principessa duchessa la moglie di
quel nipote del papa che vien fatto da lui principe duca: gli altri
generalmente son tutti cardinali.

La principessa duchessa, vale a dire la moglie del duca principe
Onesti Braschi, era cara per molte ragioni a Sua Santità, per quanto
lo si assicura, prima perchè sua nipote aveva sposato il principe
duca, poi come figlia dell’amante del cardinale Rezzonico di cui egli
stesso, il bel pontefice, era stato amante, vale a dire la bella Giulia
Falconieri. Molti dicevano che la principessa duchessa era molto più
stretta parente del papa di quanto egli stesso fingeva di credere; e di
fatti Pio VI rifiutava quanto poteva quella paternità, trattenuto dai
suoi principii religiosi che non gli vietavano di commettere adulteri,
ma che ripugnavano all’incesto.

Nell’occasione di questo parto, vi furono grandi feste a Roma, e tutti
i cardinali e prelati testimoniarono la loro gioia e la loro divozione
a Sua Santità, colmando di doni la principessa duchessa.

Suo marito, che trovai alle conversazioni della principessa Borghese,
le meno noiose di tutte le riunioni di Roma, — da questa tristezza
generale escludo però quella del vecchio cardinale di Bernis ove si
rinviene tutta la scioltezza della Francia che egli rappresenta, — era
un uomo piuttosto bello della persona, di forme e d’aspetto atletico,
nato per essere principe duca nella piccola città di Cesena. Era d’una
ignoranza patriarcale, ed a Roma, quando si vuol parlare di un uomo
arrivato all’ultimo grado dell’idiotismo, si dice che è bestia come il
principe duca.

La prima volta che venne dalla principessa Borghese, dopo il suo arrivo
da Cesena, gonfio ancora della sua qualità di principe duca, e della
genealogia che un dotto romano avevagli scoperta, ebbe bisogno di un
bicchier di acqua e lo chiese alla padrona di casa.

Il principe duca era appoggiato al caminetto.

— Tirate due volte il cordone che vi sta dietro, disse la principessa,
ed avrete quanto desiderate.

Il principe duca obbedì senza comprendere; ignorava l’uso de’
campanelli, che del resto, inventati da madama di Maintenon, non
datano, come si sa, che da un centinaio di anni. Fu dunque grande la
sua meraviglia quando, appena tirato due volte il cordone, vide entrare
il domestico con un vassoio di rinfreschi. Per soddisfare alla sua
curiosità si dovette spiegargli il meccanismo dei campanelli, che, —
rendiamo questa giustizia, — eccitò in grado tale la sua ammirazione
che ne parlò per tutta la sera.

La sua ammirazione, fu tale, che invece di ritirarsi a casa sua, si
fece condurre al Vaticano, e risvegliò suo zio per farlo consapevole
della scoperta che avea fatta.

Il papa, che era coricato, tirò il campanello che pendeva accanto al
letto, e disse al cameriere che accorse al romore:

— Riconducete il principe duca, e prima di lasciarlo entrare a queste
ore, informatevi se ciò che mi vuol dire val la pena di svegliarmi.

Questa ignoranza si estende a tutto: una seconda volta lo incontrai
dalla marchesa Bocca Paduli Gentili; si parlava di letteratura inglese
e francese, di Shakespeare, di Ben Johnson, di Racine, di Corneille, di
Molière.

Il principe duca rimaneva a bocca aperta; non conosceva nessuno di
questi signori, e li udiva nominare per la prima volta. Sir William, a
proposito della tragedia _Maometto_ dedicata a Ganganelli, pronunziò il
nome di Voltaire.

— Ah! costui, esclamò il principe duca, saltando per la gioia sul suo
seggiolone, lo conosco. È un frate tedesco che ha fatto molti torti
alla Santa Chiesa.

Il buon principe avea confuso Voltaire con Lutero.

Del resto pareva che una fatalità attaccasse questo imbecille ai nostri
passi. Il giorno dopo ci trovammo insieme a pranzo dall’ambasciatore di
Vienna. Si parlava di Vienna e della galleria imperiale dei quadri.

Il principe duca, preso da un bello entusiasmo artistico, esclamò:

— S’io fossi a Vienna, passerei in quella galleria la mia vita, in
contemplazione dinanzi alla _Notte_ del Correggio.

Tutti si guardarono in faccia; tutti sapevamo che la _Notte_ del
Correggio è stata acquistata da Augusto III, elettore di Sassonia, alla
galleria di Modena, e che ora si trova a Dresda.

Lord Hervey, duca di Bristol, vescovo di Derry in Irlanda, non volle
lasciar passare, senza notarlo, un simile tratto d’ignoranza.

— Affè, eccellenza, diss’egli, sono dolente di contraddire un uomo del
vostro sapere, ma non esito punto ad affermarvi che siete in errore,
e che il quadro, che vorreste a Vienna per contemplarlo a vostro
bell’agio, non è a Vienna ma a Dresda.

— Bene, gli rispose il principe duca, volete voi saperlo meglio di mio
zio, che me lo ha detto, e che nella sua qualità di papa è infallibile?

— Eccellenza, rispose lord Hervey, mi date una cattiva ragione; sono
un vescovo protestante, e però non riconosco l’infallibilità di vostro
zio.

Ho accennato all’alterigia che sentiva il principe duca per la
genealogia inventata espressamente per lui, e che lasciava indietro di
molto quella inventata per il duca di Guisa dall’avvocato Nicola David,
che lo faceva discendere da Carlomagno.

Ecco il fatto.

Angelo Bruschi è di famiglia povera ma nobile di Cesena. Sua sorella
sposò un povero diavolo chiamato Onesti, negoziante, che non aveva la
minima pretesa di salire nei cocchi del re di Francia.

Ma quando il nipote del papa fu nominato principe duca, bisognava
trovargli una prosapia degna del rango.

Allora un genealogista lesse queste parole nella vita di S. Romualdo
scritte in latino:

    «_Romualdus ex honestis parentibus natus_.»

Il genealogista afferrò l’occasione pe’ capelli; prese l’epiteto
_honestis_ pel nome di famiglia del santo, e fece stampare l’anno
dopo un’opera, con un gran lusso tipografico, in cui si provava che
S. Romualdo era nato da una famiglia Onesti, di cui il nipote del papa
discendeva in linea retta.

In virtù di questa genealogia incontestata, come si comprende bene, il
primogenito del principe duca, il bambino la cui nascita ha prodotto,
il 6 ottobre ultimo, una gioia così grande alla corte di Roma, ha
ricevuto da suo zio al fonte battesimale il nome di Romualdo.




II.


Ho detto che le conversazioni romane erano molto noiose; avrei dovuto
aggiungere per gli altri, perchè per me sono uno spettacolo talmente
nuovo, che sono dilettevoli, anzi straordinarie.

Le Romane sono belle di certo, ma più belle nel popolo che
nell’aristocrazia: non è raro di trovare nelle trasteverine e nelle
contadine dei dintorni di Roma, dei tipi che ricordano le Madonne di
Raffaello; ma, ripeto, que’ tipi sono quasi tutti popolari.

Delle nobiltà, le bellezze sono più rare, sicchè la mia apparizione ha
fatto grande sensazione nelle sale di Roma.

Fu quasi una rivoluzione fra i prelati ed i cardinali.

Bisogna sapere prima, che cosa sia abitualmente una conversazione
romana, quando un grande avvenimento come quello della mia presenza non
vi porta il disordine e la confusione.

Le conversazioni di Roma partecipano naturalmente dello spirito
del governo e del sacerdozio; si passa il tempo in complimenti di
etichetta, e se qualche volta si è interessato il cuore, lo spirito non
lo è mai.

Dovunque si resta impacciato; dovunque si trova la ritenutezza, la
gaiezza non esiste nemmeno fra i giovani.

La paura è in tutti i cuori, la diffidenza in tutti i volti, e invece
di abbandonarsi a quell’espansione, come in Francia od in Inghilterra,
si guarda, si osserva e si tace, perchè si ha paura. I forestieri
non hanno simili paure, ma l’atmosfera gelata che li circonda li
rende freddi: tutta la società somiglia ad un immenso pendolo, di cui
sieno fermi i congegni e che tratto tratto riprendono a scosse i loro
movimenti per poi fermarsi ancora. Per fortuna si giuoca e forte, ed
io, quantunque buona giuocatrice, preferisco di studiare ciò che mi si
presenta sotto gli occhi: per ritornare alle carte ho sempre tempo.
Se la padrona di casa non gioca, s’impossessa di qualche eminenza o
di un ministro, e discorre con lui finchè dura la serata: gli altri
personaggi insigniti di una dignità qualunque fanno lo stesso, e questi
colloqui a quattr’occhi per quanto siano numerosi, sono così serii e
silenziosi, che in mezzo a cinquanta persone si sentirebbe una mosca
a volare; l’immobilità di tutta quella gente mi ricorda quella dei
senatori dell’antica Roma, seduti sulla loro sedia corule, aspettando
la morte per mano dei Galli.

Quando alla conversazione vi sono tre o quattro cardinali la cosa
diventa molto incomoda per gli spettatori; queste illustrissime
eminenze passeggiano continuamente, bisogna cedere loro il posto,
salutarli profondamente quando vi passano per davanti, e guardarsi bene
dal camminare sull’enorme coda del loro abito; i semplici prelati che
li circondano camminano curvi come parentesi, ed applaudiscono ad ogni
frase che l’eminenza si degna di lasciar cadere dalla sacra sua bocca.

Il mio arrivo a Roma, e la mia presentazione nei loro circoli, ha
rovesciato tutto. Le eminenze invece di passeggiare in lungo ed in
largo, come l’ammalato immaginario di Molière, fanno circolo intorno
a me; e siccome io parlo facilmente l’italiano e pochissimi parlano il
francese e nessuno l’inglese, essi sono maravigliati di potermi fare i
loro complimenti scipiti ed esagerati ad un tempo nella lingua dove il
sì suona, come dice Dante.

Uno dei più assidui a farmi la corte è il nostro lord Herney vescovo di
Derry; e siccome egli mi parla in inglese, e se non ha dello spirito,
ha della originalità nella sua conversazione, ridiamo alternativamente
delle cose che diciamo; le eminenze e i monsignori sono molto
imbarazzati.

Fra tutte queste conversazioni, quella che trovai più aggradevole
finora, è quella della principessa di Santa Croce. È vero che nel suo
circolo intimo, ove grazie alla posizione di sir Hamilton sono stata
ammessa, non si riceve che una società scelta composta quasi tutta dal
corpo diplomatico.

Avevo molto insistito per essere presentata alla principessa di S.
Croce, sapendo che a dieci ore di sera si trovava alle sue piccole
riunioni il cardinale di Bernis, e che desideravo di conoscere questo
caro vecchio, di cui avevo letto le poesie, che egli chiama i suoi
peccati di gioventù.

Il cardinale di Bernis ha settantatrè anni, e non ha perduto nulla
del suo spirito, direi quasi della sua giovinezza; egli porta qui
il titolo di Protettore della Francia, dopo aver avuto parte alla
diplomazia europea; si sa che ebbe assai presto gli ordini e prese il
titolo di Abate; e venuto giovane a Parigi, si fece conoscere pei suoi
versi galanti, piacque a madama di Pompadour, entrò nell’accademia a
29 anni, e dopo la morte del cardinale Fleury fece una rapida fortuna,
fu nominato ambasciatore a Vienna e divenne cardinale. Fu egli che,
come ministro degli affari esteri, firmò il trattato d’alleanza con
l’Austria, e durante la guerra dei sette anni, cadde in disgrazia per
aver consigliato la pace contro l’avviso di madama Pompadour; ma madama
di Pompadour essendo morta nel 1764, il cardinale di Bernis fu nominato
arcivescovo di Alby, e cinque anni dopo ambasciatore a Roma; nei primi
anni della sua residenza ebbe una parte brillantissima, e quantunque la
Spagna avesse riacquistato a Roma la principale influenza, il cardinale
per le sue qualità personali ha mantenuto la Francia in una buona
posizione.

Noi fummo tosto presentati a Sua Eminenza, che ci invitò a pranzo pel
giorno dopo.

Sapevamo già che il pranzo del cardinale di Bernis era eccellente, e
che contra l’abitudine sparsa nel servidorame romano, i suoi domestici
non vengono il giorno dopo a farsi pagare dai convitati il prezzo del
pranzo del giorno prima. Il cardinale vive splendidamente, tiene corte
bandita, basta essergli stato presentato una volta per aver sempre
il suo posto a tavola. Queste spese giornaliere, le feste che dà, lo
sciupo che si fa in casa sua lo conducono, per quanto lo si assicura,
in rovina, tanto più che la famiglia incaricata dell’amministrazione
dei suoi beni in Francia, inventa ogni anno per dispensarsi
d’inviaglierne i frutti, ora la siccità, ora una inondazione; le
riparazioni assorbono poi ciò che il flagello avea risparmiato.

L’amabile vecchio mi raccontava tutto ciò ridendo e vezzeggiando
con me, dicendo; per fortuna che ho 73 anni, e che mi resterà sempre
qualche cosa per andare alla fine.

Ahimè, il degno uomo s’ingannò; rivocato tre anni dopo per la sua
opposizione alla rivoluzione francese, spogliato di tutta la sua
fortuna, passò da una rendita di cento mila scudi romani ad una
strettezza che sarebbe diventata la miseria, senza il soccorso che gli
fece ottenere dalla Spagna il cavaliere d’Azara suo amico.

Noi incontrammo dal cardinale questo degno spagnuolo, sulla cui onestà
e cortesia non v’ha che una voce sola in Roma. Egli e la sua corte,
quella di Carlo III, trovavasi in contegno momentaneamente freddo con
Sua Santità a proposito di un piccolo raggiro che gli aveva teso, e di
che, malgrado le sue istanze, non aveva potuto ottenere giustizia.

Ognuno sa, che la società di Gesù fu cacciata nel 1767 dalla Spagna
e da Napoli, e finalmente soppressa nel 1773 da Clemente XIV, che
sopravvisse soltanto due anni a questa soppressione.

Benchè il re Carlo III fosse adirato contro i buoni padri, per aver
fatto spargere la voce all’epoca della sua nascita, che egli non era
figlio di Filippo V, ma del cardinale Alberoni, la sua vendetta erasi
limitata a cacciarli dai suoi stati e a farli cacciare da quelli di suo
figlio Ferdinando; ma continuava a pagare le loro pensioni in buone
piastre spagnuole, che erano apprezzate in Italia, e specialmente a
Roma, ove la moneta è orribilmente falsificata.

Ora un bastimento carico di piastre inviate dalla corte di Madrid era
arrivato a Civitavecchia. Queste piastre erano destinate al pagamento
delle pensioni degli esuli.

Pio VI le fece depositare alla zecca.

Una volta lì, invece di distribuire ai buoni padri questo denaro, al
primo titolo che era destinato per loro, egli lo fece fondere, vi
mischiò un quarto di lega, e fece battere paoli, papetti, testoni
e carlini, e pagò i padri di Gesù con questa miserabile moneta,
guadagnandovi sopra, come ci assicurò Ienkena il banchiere di sir
William, più del 25 per cento.

I gesuiti ebbero bellamente a reclamare, e così pure il signor Azara;
ma non fu loro resa giustizia tanto che inviarono una supplica al re
Carlo III, pregandolo di farli pagare d’ora innanzi direttamente per
mano dell’ambasciatore.

Ma ciò è nulla in confronto di ciò che si racconta sui mezzi impiegati
da Sua Santità per procurarsi del denaro, o piuttosto per aumentare la
fortuna del principe duca e del cardinale Onesti suoi nipoti: tant’era
Sua Santità roso fino alle ossa dalla cancrena del nipotismo.

Si è al punto che Sua Santità, malgrado il suo potere temporale
e spirituale, è in procinto di perdere un processo, che avrebbe
guadagnato se non fosse che ingiusto.

Per sventura è iniquo.

Ecco il fatto.

Vi era a Roma un facchino dei dintorni di Milano, che col suo lavoro,
un vero lavoro da facchino, avea radunato la somma favolosa di 800,000
scudi romani, 4,400,000 lire di Francia.

Questo facchino si chiamava Lepri.

Aveva tre figli, Amasi, Giuseppe e Giovanni.

Ripartì la sua fortuna fra loro tre, mettendo per condizione che la
eredità di ciascun fratello che morisse senza figli maschi sarebbesi
accumulata a vantaggio degli altri.

Giovanni, il maggiore, morì senza figli poco dopo suo padre; Giuseppe,
il secondo, morì lasciando una figlia per nome Anna Maria; rimaneva il
terzo, Amasi, che erasi fatto prete, e per conseguenza non poteva esser
nel caso d’aver figli maschi.

Giustizia avrebbe voluto che tutta la fortuna ritornasse alla figlia,
anche l’eredità del prete, perchè essa era sua nipote, e che nessuno
dei defunti avea lasciato figli maschi.

Al contrario il prete pretendeva che tutto veniva a lui e s’impossessò
diffatti di tutta la fortuna in detrimento di Anna Maria, di cui egli
non amava la madre.

Anna Maria intentò un processo a suo zio.

Allora il prete, abusando delle sua influenza, subornò i testimoni, ai
quali fece deporre che Anna Maria non era legittima.

Questa frode non ebbe altro risultato che di sollevare contro di lui la
coscienza pubblica.

Il processo giunse alle orecchie di Sua Santità, che fiutò un buon
affare, ed incaricò un certo Nardini di andare ad offrire ad Amasi
il cappello cardinalizio ed una rendita di cui si discuterebbe
l’ammontare; si fece osservare ad Amasi che questa fortuna, essendo
stata guadagnata interamente da suo padre negli stati di Sua Santità,
era giustizia, che meno la porzione che gli sarebbe attribuita,
ritornasse a Sua Santità.

Amasi scorse in questa offerta un mezzo per soddisfare ad un tempo il
suo orgoglio ed il suo odio: fece al papa una donazione di tutti i suoi
beni, riportandosi alla sua generosità per il compenso.

Il papa mise immediatamente il principe duca in possesso di questa
fortuna; ma dimenticò di dare la rendita ed il cappello promesso ad
Amasi.

Amasi reclamò, ma inutilmente.

Allora preso dal rimorso di aver fatto gratuitamente una cattiva
azione, fece un testamento nel quale dichiarò che la donazione che
aveva fatto a Sua Santità, era il risultato della frode e dei cattivi
consigli, aggiungendo che egli aveva ceduto specialmente all’odio che
portava alla cognata, di cui implorava il perdono, confessando il suo
delitto e rivocando la donazione.

Nardini, l’agente di Sua Santità, cui senza dubbio erasi dimenticato
di pagar la sua mediazione, si unì ad Amasi, dichiarando che si
pentiva di aver prestato il suo ufficio a Pio VI per compire un’azione
abbominevole.

Il testamento di Amasi e la confessione di Nardini furono tosto
pubblicati; un mormorio scoppiava da tutte le parti; ma il papa si
accontentò di rispondere, che la munificenza di Amasi era un miracolo
di San Pietro, e che non spettava a lui di opporsi alla benevolenza,
che il Santo conservava pei suoi successori.

All’epoca in cui era avvenuto il fatto, il papa avea sessantun anni.
Anna Maria e sua madre si limitarono di ottenere un consulto dei
migliori avvocati di Roma, salvo ad aspettare la di lui morte, onde
tentare il processo non già al papa ma al principe duca.

Questa risoluzione spaventò Pio VI, lui morto non sarebbe più là a far
preponderare con tutto il suo potere il disco della bilancia, che una
vecchia tradizione mitologica mise nella mano della giustizia.

Egli forzò dunque la pupilla a far valere i suoi dritti ed a
intentargli un processo; ma l’interesse che ispirò la povera fanciulla
che egli voleva spogliare divenne così generale, — tanto era evidente
l’ingiustizia contro cui reclamava, — che i giudici avvisarono Sua
Santità che non potrebbero fare altrimenti che conchiudere contro di
lui, consigliandogli di entrare in trattative.

Il papa, in conseguenza di ciò, fece delle offerte ad Anna Maria. La
cosa rimase là, e si dice che Anna Maria accetterà la metà dei beni di
suo avo, e lascerà l’altra metà al principe duca, che in tal maniera
sopra 4,400,000 lire s’intascherebbe due milioni e ducento mila lire.

Se questo non è forse un togliersi onorevolmente d’impaccio, è però un
togliersi fortunatamente.




III.


S’intende che la mia passione pel teatro m’indusse, appena giunta
a Roma, a pregare sir William di condurmi a qualche spettacolo
drammatico. La mia curiosità era vieppiù eccitata dall’aver udito
narrare che si ha qui la usanza di far rappresentare da’ giovanetti le
parti di donna.

Non so se si possono chiamar giovanetti gli esseri anfibî, cui son
affidate le parti di donna. I Greci, adoratori ardenti della bellezza,
inventarono l’ermafrodito, riunione di tutto ciò che è bellezza de’ due
sessi, e che era ad un tempo Ebe e Ganimede.

I Romani hanno inventato un essere a parte, che non è dell’uno nè
dell’altro sesso, e che non è nè Ebe nè Ganimede.

Per questi strani esseri i prelati romani fanno in ogni età le stesse
pazzie che i nostri giovani _gentlemen_ fanno a Londra ed a Parigi per
le donne da teatro.

Sir William mi condusse al teatro Valle: vi si rappresentava l’_Armida_
di Gluck, e la parte d’Armida era sostenuta da un giovane cantante, che
godeva allora di tutto il favore della prelatura romana.

Quando entrò in iscena, — e confesso che se non fossi stata avvertita
avrei giurato che era una donna, anzi una bella donna, — prima che
avesse emesso una sola nota, tutto il teatro ruppe in applausi. Gravi
prelati, vecchi cardinali, il cui rigido aspetto m’aveva colpita,
mi parvero voler svenire di giubilo nel momento che quel... — non so
veramente come dire, — quell’_oggetto_ uscì dalle quinte.

Il suo trionfo fu completo.

Avevamo nel palco il cardinal Braschi Onesti, fratello minore del
principe duca: riavutosi da un lungo malore, che aveva messo Roma
in lutto, aveva pensato che una passione per quel novello Sporo
non avrebbe nulla di pericoloso per un convalescente. Ci narrò,
pavoneggiandosi, che il morbo, di cui era stato afflitto, era stato
prodotto da un rifinimento completo di forze venutogli dopo un’orgia,
in cui aveva scommesso di tener testa a cinque de’ più grandi beoni ed
alle cinque più belle cortigiane di Venezia.

Era stato in pericolo di morte, ma aveva guadagnato la scommessa.

Il cardinal Braschi Onesti era uno de’ più assidui adoratori della
meraviglia in voga, ed offrì al cavalier Hamilton di condurlo nel palco
della bizzarra

Armida, e di farlo assistere alla toeletta della maga, che mutava
vestito fra il secondo ed il terz’atto.

Gli chiesi se le dame solevano andarvi.

Mi rispose che non era l’usanza, ma che certo, come forestiera,
sarei perfettamente accolta dal signor Veluti, — era il suo nome; —
soprattutto se volessi accondiscendere a fargli qualche complimento,
chè, del resto, il signor Veluti adorava le belle donne.

Il cardinale ci fece aprire la porta del teatro. Traversammo il
palcoscenico e penetrammo nel corridoio che menava al suo camerino.

V’era folla all’uscio; il corridoio era ingombro.

Ma alla vista del cardinal nipote, la calca s’aprì, gli adoratori
secondari si ricantucciarono al muro, e ci lasciarono passare.

Entrammo in un camerino tutto parato di raso cilestrino, che poteva per
l’eleganza gareggiare col gabinetto d’una damina.

L’idolo era innanzi all’ara, cioè innanzi alla toletta: accolse il
cardinal nipote col più seducente sorriso, e gli chiese come osasse
presentarglisi, senza portargli un mazzolino o un cartoccio di
confetti.

Il cardinal Braschi Onesti si cavò dal dito mignolo un anello del
valore d’un migliaio di scudi romani e lo passò all’indice del signor
Veluti, pregandolo d’accettar invece quella gemma. Venuto al teatro con
l’ambasciadore e l’ambasciatrice d’Inghilterra, non era certo di poter
andare a riverirlo; ma, avendo sir William Hamilton e Lady Hamilton
bramato veder il gran cantante che avevano applaudito, egli aveva
colto quell’occasione per andargli a dir l’immenso diletto che aveva
risentito durante il primo atto d’_Armida_, e ci presentò il signor
Veluti, che si degnò far a sir William Hamilton l’onore di dargli la
sua mano a baciare ed a me quello d’invitarmi a sedere.

Sia che l’esser forestieri fosse per noi una raccomandazione, sia che
fosse lusingato dal ricever la visita dell’ambasciadore d’una potenza
straniera di prim’ordine, il signor Veluti fu per noi amabilissimo,
mi fece gli occhietti teneri, e ci disse che, ove lo permettessimo, si
terrebbe fortunato di renderci la visita.

Ci guardammo bene dal rifiutar un tanto onore.

Poscia, occupandosi particolarmente di me, mi pregò di dirgli il nome
della pomata con cui mi ungevo le labbra, e del liquore con cui mi
rinettavo i denti.

Gli risposi, che mai pe’ denti m’ero servita di altro che d’acqua pura,
e che le mie labbra erano naturalmente del colore ch’egli le vedeva.

Il signor Veluti gridò impossibile un tanto miracolo; prese il lume e
mi chiese licenza di guardarmi da vicino le labbra ed i denti, disamina
a cui mi prestai con la maggior possibile cortesia, e dopo la quale il
signor Veluti esclamò che ero la più bella donna che avesse mai veduta.

Poscia, pensando con questo elogio avermi pagato il suo tributo
d’ospitalità, si rimise alla toletta, vezzeggiandosi co’ suoi
adoratori, e tratto tratto dicendo qualche amena facezia, subito
applaudita dagli astanti.

Era curioso di veder l’affaccendarsi di quelle persone, appartenenti
tutte, o quasi tutte almeno all’alta prelatura per ottenere uno
sguardo, un sorriso, una parola dalla falsa Armida. Uno teneva pronta
la corona di rose; l’altro la verga magica; questi il velo, che doveva
non coprire ma lasciar trasparire i suoi vezzi; quegli la mantellina,
che doveva preservar quella voce celeste dalle correnti d’aria che
avrebbero potuto offenderla. Io era presente; guardavo, ascoltavo,
udivo, mi pareva sognare; sorridevo macchinalmente a que’ segni di
rispetto, dati, da uomini creduti dal popolo venerabili, a quell’idolo,
che aggiungeva un nuovo incredibile nume allo stuolo innumerevole di
false divinità, raccolte nel Panteon delle eresie umane.

Venne il momento d’entrar in iscena; il campanello del buttafori si fe’
sentire pel volgo degli artisti; ma pel signore o la signora Veluti,
— come, vorrete, — l’invito fu fatto a viva voce, con tutti i segni
d’ossequio dimostrati ad una vera regina.

La bella Armida non si scusò se non con me sola della sua assenza
forzata; poscia, toccandomi con la verghetta:

— Non posso farvi più bella che non siete, mi disse; ma posso fare per
voi ciò che la sibilla di Cuma, che andate a visitare, aveva obliato di
domandar ad Apollo di fare per essa. Posso con la mia arte magica far
che restiate bella eternamente.

Poi, pronunziando alcune parole, che avevano la pretesa di esser
cabalistiche, la maga mi fece un inchino femminile e s’allontanò,
dondolandosi e solfeggiando note, alla cui nettezza e finezza debbo
dire che nulla potevasi riprendere.

Uscii muta di stupore e tornai nel palco, posto tanto vicino al teatro
da poter io esser riconosciuta dal signor o dalla signora Veluti, che
ebbe la bontà, durante tutto il resto della serata, di darmi segni
della sua attenzione, sia volgendomi i suoi più difficili trilli, sia
ferendomi de’ suoi sguardi più assassini.

Il domani ricevetti la visita del conte di Bristol, al quale narrai gli
avvenimenti favolosi del giorno innanzi. Si mise a ridere, e mi riferì
che a Roma esisteva nell’alta prelatura un ottavo peccato capitale,
detto il _peccato nobile:_ i prelati protestavano contro quest’accusa,
ma con tanta debolezza, tanta indolenza, con fatuità tanto strana, che
mostravano compiacersi più che dispiacersi dell’accusa.

È vero che con lui, inglese e vescovo protestante, si stavano sul
sostenuto, ma ciò non toglieva che monsignor Bristol non avesse
su questo punto dei costumi romani i particolari più curiosi e più
incredibili.

Qualunque fosse la mia curiosità di rivedere da vicino ed in piena
luce il signore o la signora Veluti, non permisi che il moderno
Sporo entrasse in casa mia quando, alle cinque del pomeriggio, si
presentò all’uscio in un elegante abito d’abate: gli feci rispondere
che i preparativi della partenza mi obbligavano a sospendere ogni
ricevimento.

Ma la notte stessa, che precedè quella partenza accadde un fatto
curioso, che darà un concetto della polizia di Roma e della giustizia
di Pio VI.

A cinquanta passi da noi, sulla piazza di Spagna, un furto era stato
tentato alle due dopo la mezzanotte, a danno d’un tal Rovaglio,
orologiaro del Vaticano. L’orologiajo, suo figlio e due servi s’erano
difesi; uno de’ ladri era rimasto sul luogo, e l’altro era stato
trovato spirante al canto di via del Babbuino.

Il domani si seppero i seguenti particolari, e come Rovaglio s’era
fatto giustizia da sè.

Non era la prima volta che i ladri tentavano introdursi nel magazzino
di Rovaglio, che sapevasi riccamente fornito d’orologi e gioielli:
due volte già aveva respinto, strepitando dentro il magazzino, due
tentativi di rottura.

Ogni volta era andato ad avvertire la polizia; ma il prelato Busca,
incaricato del ripartimento della Pubblica Sicurezza, aveva risposto
con belle parole, ma senza far nulla contro i ladri.

Vedendosi così abbandonato dall’amministrazione che avrebbe dovuto
proteggerlo, Rovaglio, andando un giorno a dar corda agli orologi
del Vaticano, incontrò il Santo Padre e gli narrò tutto, chiedendogli
soccorso contro gl’industrianti, che volevano a mano armata prender
parte al suo commercio.

— Mio caro Rovaglio, gli rispose il papa, duolmi profondamente il
fatto vostro; ma non vi posso nulla; giacchè monsignor Busca non vuol
proteggervi, non lo posso obbligare; ma proteggetevi da per voi.

— Come, Santità? chiese Rovaglio.

— Appiattatevi co’ vostri figli e co’ servitori, con fucili, pistole
e tromboni, sia nel magazzino, sia fuori, e quando que’ furfanti
torneranno per derubarvi, fate fuoco: tanti ne ucciderete, tante
assoluzioni vi do anticipatamente.

Rovaglio aveva seguito il consiglio del papa, s’era protetto da sè
stesso, ed aveva ucciso due banditi.

Il papa gli tenne fede, e pubblicamente gli diè l’assoluzione di que’
due delitti.




IV.


Non posso lasciar Roma senza fare qualche osservazione sugli uomini
e sugli avvenimenti; la differenza dei nostri costumi settentrionali
con quelli del mezzogiorno si impresse tanto profondamente nella mia
memoria, che, dopo trent’anni, il ritratto degli uomini ed il racconto
degli avvenimenti si presenta spontaneo sotto la mia penna, e così
somigliante e fedele, come se avessi scritto, passando da Roma nel
1788, le pagine che seguono.

Ciò che mi colpì prima di tutto arrivando a Roma fu la differenza dei
prezzi d’ogni cosa; una cittadina costa a Londra una ghinea al giorno,
a Parigi diciotto lire, a Roma sette od otto.

La stessa proporzione vale anche per gli alberghi; a Londra un
appartamento appena conveniente costa una ghinea al giorno, a Parigi
quindici lire, ed a Roma appena dieci.

Ciò che costa caro a Roma non è nè la vettura, nè l’alloggio, nemmeno
il vitto, è vero però che si mangia assai male; ma è la _buona mano_,
vale a dire le mance; qui non si può fare una visita ad un nobile
cardinale o prelato senza che i domestici in corpo non si presentino da
voi il giorno dopo per chiedere le loro mance; un arcivescovo di Vienna
aveva incaricato sir William di far ricapitare un piego al cardinale
Buoncompagni. Sir William, che non aveva nessun motivo di vedere
questo prelato, quantunque fosse il fratello del principe regnante di
Piombino, fece consegnare dal suo cameriere il piego alla porta del
suo palazzo, mentre passava per la via. Il giorno dopo un mascalzone
vestito della livrea del cardinale venne ad augurare il buon giorno a
sir William da parte del suo padrone e sua chiedendogli la buona mano.

Sir William gli rispose che non avea fatto per nulla una visita
al cardinal Buoncompagni, ma per pura compiacenza gli aveva fatto
consegnare il piego di cui erasi incaricato, e che per conseguenza
spettava invece al cardinale Buoncompagni di dare la buona mano al suo
cameriere, anzichè a sir Hamilton di dare la mancia al domestico del
cardinale.

Ma quegli insistette, sir William gli fece chiudere la porta sul naso.

Il banchiere di sir William Hamilton a Roma è un uomo troppo
straordinario, perchè io non ne dica qualche parola alla sfuggita.

Egli si chiamava Tommaso Ienkens, era di nazione inglese, ed avea
incominciato a studiare la pittura ma accorgendosi che sarebbe rimasto
sempre un artista mediocre, si accontentò, esercitando sempre la
professione di banchiere, di essere un abile conoscitore assai versato
nella teoria di tutto ciò che concerne la pittura ed il disegno; era
pure un distinto archeologo, i cui giudizii erano considerati quasi
come infallibili in materia di cammei e di pietre incise. L’antichità
gli era famigliarissima, e nessuno meglio di lui poteva dare una
spiegazione ragionata di un basso rilievo, di una statua, di un busto,
per quanto fosse mutilato o guasto l’oggetto d’arte pel suo soggiorno
nella terra, o dallo strumento dell’operaio che lo avea disseppellito;
per terminare il suo elogio dirò che egli era soventi volte consultato
dal cardinale Alessandro Albani, che non bisogna confondere col
cardinale Francesco, dal celebre Winkelmann autore della storia
dell’arte presso gli antichi, dall’illustre Raffaele Mengs, uno dei
migliori pittori della scuola moderna morto or son dieci anni.

Questa riunione del commercio di statue, cammei, medaglie con quello di
banchiere, ha reso Ienkens uno dei capitalisti più ricchi di Roma.

Sir William prese da lui, non soltanto il denaro che gli abbisognava
per continuare il viaggio, ma comperò due o tre anelli dei più belli, e
dei cammei dei più preziosi di cui mi fece dono. Allora testimone della
maniera con cui Ienkens vendette quel ricordo, mi si impresse nella
mente la cosa in modo incancellabile.

Se si vuole comperare da lui una medaglia, Ienkens comincia a farvi la
storia di ciò che rappresenta, e con un elogio pomposo espresso colla
più grande passione, vanta la rarità e la singolarità dell’oggetto
che voi desiderate, con che egli si permette di dimandare un prezzo
considerevole. Poi se contro la sua aspettazione voi gli dite il prezzo
richiesto, comincia a sospirare, a versare delle lagrime, e finisce
col singhiozzare; un padre che si vedesse togliere la sua unica figlia
da un marito che parte per gli antipodi, non esprimerebbe un dolore
più vivo. Io era presente quando sir William acquistò i gioielli che
destinava per me, e confesso che egli ne era commosso alle lagrime.

Mylord, diss’egli a sir William, che quantunque cavaliere avea soltanto
diritto al titolo di sir, se vi pentiste una volta dal negozio che
avete fatto adesso, riportatemi quegli anelli e quei cammei e le
medaglie, che mi troverete pronto a rendervi il prezzo integrale;
riportandomi quegli oggetti inestimabili, voi mi ridonate tutta la
felicità e la consolazione dei miei giorni.

Ed è strano che preso talvolta in parola, Ienkens non ha mai mancato
di mantenerla e di restituire integralmente il denaro che aveva preso
esprimendo la gioia più viva di ritornare in possesso dell’oggetto
rimpianto.

Fosse calcolo, oppure vera passione da archeologo, che come Cardillas
non può separarsi dal suo tesoro, la fedeltà di Ienkens nel mantenere
la sua parola assicurava sempre il compratore che non credeva mai
di pagare una cosa dippiù del suo valore, dal momento che sapeva che
riportandola al venditore gli veniva rimborsato il prezzo a vista.

Io ho una certa pretesa di esprimere colla mia fisionomia le differenti
impressioni dell’animo; ma confesso, che se invece di sentire un vero
dolore, separandosi dai suoi cammei e dalle sue medaglie, Ienkens
rappresentava una commedia studiata, mi lasciava molto indietro da lui
nell’arte del ridere e di versare lagrime.

Noi venimmo un’altra volta di passaggio a Roma, ma senza fare più
intima conoscenza con lui. Credo questo il momento di presentare ai
miei lettori un prelato, che più tardi ebbe una parte così importante
alla Corte di Napoli. Voglio parlare del gran tesoriere di Sua Santità
monsignor Fabrizio Ruffo.

Monsignor Fabrizio Ruffo era il nipote del cardinal Ruffo, decano
dal Sacro Collegio, che spinse non senza cattivi fini sulla grande
amicizia che gli professava, il bel Angelo Braschi nella carriera della
prelatura.

Rendiamo questa giustizia a Sua Santità, che conservò sul trono di S.
Pietro una riconoscenza così grande a chi gli avea facilitato la via,
che la prima sua cura, essendo diventato papa, fu di dare al nipote del
cardinale defunto lo stesso posto che egli Braschi aveva in addietro
ricevuto da Rezzonico colla protezione della bella Giulia Falconieri.

Nominò il giovane Fabrizio Ruffo gran tesoriere, carica che dal momento
che ne esce dà diritto al cappello di cardinale.

Monsignor Ruffo passava in Roma per un uomo di grande ingegno, e che
non era straniero nell’arte dei Folard e dei Montecuccoli; egli aveva
pure l’abitudine di dire che, se egli fosse nato al tempo dei Lavalette
e dei Richelieu, avrebbe portato più spesso l’elmo e la corazza che il
berretto e la mantellina di porpora.

Monsignore Ruffo, grande amatore del bel sesso, pel quale non
dissimulava punto le sue tendenze, teneva al contrario in grande
disprezzo i cantori-cantatrici, ossia le cantatrici-cantori.

Quando eravamo allora a Roma, egli facea la corte più assidua ad una
signora Lepri, parente di quell’Anna Maria, di cui abbiamo raccontato
la persecuzione; e poichè egli non nascondea nulla, i suoi amori erano
noti a tutti; ciò gli valse l’onore di essere celebrato nei versi
satirici, il cui autore, il gazzettiere di Firenze, è stato punito con
una lunga sospensione.

Dopo il famoso satirico condannato alle galere da Sisto V non erasi
veduto l’esempio di tanto rigore.

E poichè ho fatto allusione ad un aneddoto molto conosciuto a Roma, ma
molto ignorato altrove, forse gli è bene, come quadro di costumi, che
io giri una parentesi e che lo racconti.

Sotto il pontificato di Sisto V un poeta, nominato Marera, fece una
satira contro alcuni alti funzionari, i quali se ne lagnarono al papa.
Costui severo, ma equo giustiziere, mandò pel poeta, e l’interrogò
sul motivo che aveva di permettersi un simile libello; dopo molte
spiegazioni che non soddisfecero che mediocremente Sua Santità,
quantunque gli avessero attirato parecchie volte il sorriso sulle
labbra, gli chiese come avesse potuto designare sotto il suo nome
e come cortigiana una donna, il cui nome al contrario era quasi un
simbolo di virtù.

— Avete motivo di lagnarvi di lei? gli chiese Sisto V.

— No, Santo Padre, rispose il poeta, per nulla affatto.

— Ma allora, perchè l’avete avvilita colle vostre calunnie?

— Avevo bisogno di una regina, ed il suo nome me la diede.

Sisto V si morse le labbra.

— E voi, signor Poeta? come vi chiamate voi? dimandò egli.

— Marera, per servire Vostra Santità, rispose il poeta.

Ebbene, farò io dei versi; e poichè il vostro nome mi fornisce una
rima, provo a rimare così:

    Vi sta ben signor Marera
    Di far versi alla galera.

La sentenza pronunciata dal papa ebbe il suo effetto, ed a tutte le
sollecitazioni che furono fatte in favore del colpevole, Sua Santità
rispose:

— Per mia fè, rime e ragioni vanno tanto difficilmente d’accordo,
che per una volta che vanno d’accordo, è bene che l’avvenimento sia
constatato e faccia epoca.

Ed il signor Marera andò a rimare nelle galere di Civitavecchia, ove
morì, lasciando due volumi di poesie inedite, che furono perdute per la
posterità, nessun editore avendo avuto l’ardire di pubblicarle.

Il giorno prima della nostra partenza, sortendo dal teatro Valle,
la sera essendo ancor lungi dall’essere terminata, siamo stati a
presentare i nostri complimenti d’addio al caro cardinale di Bernis,
che Voltaire avea battezzato col nome di _Babes la Bouquetière_.

Vi abbiamo trovato il conte di Bristol, vescovo di Derry, che vi veniva
colla stessa intenzione.

— Vostra altezza lascia dunque Roma? domandai io a questo singolare
prelato, la cui originalità mi aveva colpito.

— Eh mio Dio, sicuramente, mia bella compatriota, la grazia mi ha
illuminato.

— Quando parte vostra altezza?

— Dimani.

— Per qual paese? senza indiscrezione.

— Lo saprete dimani.

Il giorno appresso venne da noi dopo la nostra colazione, domandò un
colloquio a sir William.

Sir William entrò con lui nel gabinetto.

Cinque minuti dopo ne uscì ridendo, traendolo per mano.

Cara Emma, diss’egli, ecco milord Hervey che pretende di essere
diventato ad un tratto talmente innamorato di voi, che non saprebbe
separarsi dalla vostra cara persona senza morirne di dolore. — Egli
ci chiede in conseguenza il permesso di accompagnarci a Napoli; ed
io, presumendo che non vogliate la morte di uno dei nostri pari più
illustri e di uno dei più alti dignitari della nostra chiesa, ho
annuito per mio conto alle sue preghiere. E sua altezza non attende
altro che il vostro consenso per essere il più altiero degli uomini ed
il più felice de’ vescovi.

Siccome i 78 anni di monsignore di Bristol non mi facevano una grande
paura, non credetti per una dimanda così innocente di mettermi in
opposizione per la prima volta con sir William Hamilton.

Diedi la mano a monsignor di Bristol che la baciò con dimostrazioni
di gioia la più viva, e fu convenuto che da questo momento egli era
addetto all’ambasciata d’Inghilterra col titolo di cavalier servente.




V.


Partimmo da Roma con due vetture da posta ed un forgone, e prendemmo la
via di terra a rischio d’essere svaligiati: ma debbo dire per verità
che avevamo nei sei domestici del conte di Bristol ed i due nostri,
tutti inglesi forti e coraggiosi, una scorta bastevole a difenderci.

Per me specialmente, che ho sempre avuto il desiderio di accrescere il
circolo delle mie povere conoscenze, era un gran piacere il viaggiare
con sir William Hamilton.

Sir William Hamilton, molto istruito nelle cose di antichità, aveva
passato tutta la sua scienza al vaglio di una sana critica, di maniera
che quando vi raccontava un fatto, vi citava una data, vi descriveva un
monumento, potevate credere ad occhi chiusi a tutto ciò che vi diceva.

Uscimmo da Roma per la via Appia, l’antica porta Capena, lasciando alla
sinistra nostra la valle d’Egeria, il circo di Caracalla, la tomba di
Cecilia Metella, ed alla nostra diritta le catacombe di S. Sebastiano
ed i monumenti della famiglia Aurelia.

Sir William fece fermare le nostre vetture davanti alla tomba della
figlia di Metello il Cretico, ove riposano le ceneri di questa giovane
ed intelligente donna, che aveva vissuto nei bei tempi di Roma, che
aveva conosciuto Cesare, Pompeo, Cicerone, Clodio, Catullo, Ortensio,
Lucullo, Catone, e li avea adunati forse un giorno intorno al suo
focolare, prima che fossero separati dagli odii irreconciliabili della
guerra civile.

Malgrado i settantadue anni del mio cavalier servente, il conte di
Bristol discese, e volle assolutamente salire fino in cima alla tomba
di Cecilia Metella per cogliermi un ramo di melograno selvatico Che
talliva in quelle rovine.

Arrivando ad acqua Ferentina sir William ci fece vedere il luogo dove
Clodio era stato ferito mortalmente dai gladiatori di Milone.

Arrivati a Genzano, lasciammo per un istante le nostre vetture, ed
accompagnati da quattro delle nostre guardie del corpo colla carabina
in ispalla, salimmo fino al lago di Nemi, uno dei laghi più simpatici
della campagna romana, che il monte Gentili separa dalle rovine
invisibili di Alba Lunga.

Il conte di Bristol, cui il suo amore per me sembrava aver reso le sue
gambe di vent’anni, non ci lasciava nemmeno un minuto, camminandoci a
fianco quando non ci precedeva.

L’escursione durò un’ora circa: riprendemmo posto nelle vetture, e per
una china assai rapida ci dirigemmo verso le paludi Pontine, che Pio
VI si occupava di prosciugare, non già pel bene pubblico, nè per la
salubrità di Roma; ma per aumentare i dominj territoriali di suo nipote
il principe duca.

A metà di questa discesa noi incontrammo un cocchio, che da lontano
avevamo riconosciuto come appartenente a qualche sommità della Chiesa.
— Nel passargli vicino riconoscemmo monsignor Ruffo.

Egli ci fece fermare per chiederci se potessimo dare un bicchier
d’acqua fresca ad un infelice colpito dalle terribili febbri delle
paludi Pontine, che egli conduceva a Roma nella sua carrozza: egli
l’aveva trovato coricato a piedi di un albero, l’aveva preso sulle sue
spalle, e postolo nella carrozza, lo conduceva a Roma per farlo curare.

Nella sua qualità di gran tesoriere, il cardinale Ruffo andava sovente
a visitare i lavori che Pio VI faceva eseguire, e a pagare gli operai.

Era in una di queste corse che ebbe l’occasione di fare la buona azione
di cui fummo testimoni.

Gli odii ciechi delle guerre civili resero per un certo tempo Hamilton,
Nelson e me nemici personali del cardinale Ruffo. — Ma oggi che gli
odii si sono calmati, che scrivo colla destra sulla carta e colla
sinistra sulla coscienza, debbo dire che il cardinale, capace di azioni
del genere che noi abbiamo raccontato, prese spesso, contro la cieca
vendetta, cui pel riposo dell’animo mio ebbi sventuratamente una parte
troppo attiva, il partito dell’umanità.

Del resto, venuto il giorno di raccontare avvenimenti terribili, gli
renderò tutta la giustizia.

Noi gli demmo l’acqua che desiderava pel suo febbricitante che ad
ogni istante chiedeva da bere. Avevamo nel nostro forgone un’intiera
cantina.

Il gran tesoriere ci lasciò dicendoci che probabilmente ci saremmo
riveduti a Napoli.

Diffatti il cardinale è napolitano, nato da una grande famiglia a S.
Lucido in Calabria; la sua nobiltà era proverbiale.

Si dice in Italia, quando si vuole parlare di nobiltà antica ed
incontestata, gli Evangelisti a Venezia, i Borboni in Francia, i
Colonna a Roma, i Sanseverino a Napoli, i Ruffo in Calabria.

Continuammo la nostra via verso Terracina, ed egli la sua per Roma.

Nulla di più pittoresco di questa via delle paludi Pontine, ai due
lati della quale gli operai di Sua Santità scavavano un canale. Non si
vedevano che figure scarne e malaticcie; tutti quei disgraziati erano
più o meno colpiti dalla malaria; ogni quindici giorni si era obbligati
sostituire con operai freschi, mentre quelli andavano sulle alture a
riacquistare la salute che venivano a perdere nelle paludi.

Fu specialmente quando venne la notte che il paesaggio prese un
carattere completamente fantastico: la luna scorrea in mezzo a grossi
nuvoloni neri, e rischiarava certe parti delle paludi per lasciarne
altre nell’oscurità più profonda. Al rumore che faceano galoppando i
nostri cavalli, e la frusta dei nostri postiglioni, dei grandi uccelli
della specie delle ardee e dei milvi s’innalzavano silenziosamente
dagli alti erbaggi e dalle pozze d’acqua, in mezzo alle quali
respiravano con rumore sollevando le schifose loro teste e le loro
narici, dei grandi bufali che la notte rendeva ancor più giganteschi.
Era la prima volta che vedeva questi mostri di notte ed in libertà;
io scorsi in loro un aspetto selvaggio e primitivo che mi metteva i
brividi, mio malgrado.

Ma era specialmente allo scambio de’ cavalli che tutto ciò, che ci
attorniava, prendeva un tale aspetto che non mi dimenticherò mai.

Nelle paludi Pontine non vi sono villaggi, ma soltanto due o tre
rilievi postali accanto a qualche capanna di legno, ove dormono
gl’infelici postiglioni e le loro famiglie.

I cavalli piccoli, magri, pelosi, non sono chiusi nelle stalle, ma
pascolano sciolti.

Al rumore della frusta dei nostri condottieri, vedemmo uscire come
ombre cinque o sei uomini armati di lunghe pertiche; saltavano a dorso
nudo sul primo cavallo che incontravano, e formando un cerchio intorno
a quelli che pascolavano in libertà, li riconducevano al galoppo
con grandi gridi verso la capanna. — Colà altri uomini appostati li
afferravano pel naso e per la criniera, e dopo una lotta ostinata
finivano col metter loro una bardatura che andava a pezzi, colla quale
si attaccavano alle nostre vetture fra i nitriti, gli scalpiti e gli
sbuffi che erano altrettante proteste contro le violenze che loro si
facevano.

Poi quando le tre vetture erano attaccate, in mezzo alle grida ed alle
vociferazioni degli uomini e degli animali, i cavalli tenuti pel freno
e per le narici erano abbandonati a loro stessi, e partivano di un
galoppo furioso, accompagnati a dritta ed a manca da due cavalieri,
che unitamente ai postiglioni mantenevano, colle loro eccitazioni
ed i loro colpi, le vetture in mezzo alla strada. Non erano più tre
veicoli o forgoni di posta; erano valanghe, turbini, uragani, che non
traversavano lo spazio, ma divoravano la via.

Arrivammo a Terracina verso le tre ore del mattino. Ci riposammo un
paio d’ore sopra delle sedie; la dubbia nettezza dei lini ci aveva
fatto rifiutare il letto.

Verso le sei di mattina ci mettemmo di nuovo in cammino per fermarci a
Mola di Gaeta: mentre i domestici di monsignor di Bristol toglievano
la colazione dal forgone e la disponevano sulla tavola, ci facemmo
condurre alle rovine della Villa di Cicerone; col Plutarco in mano sir
William ci fece assistere alla morte del grande oratore, dal momento
che mise il piede in terra in mezzo ai corvi che l’accompagnavano
ostinatamente, presagio di morte vicina, fino a quello che, fuggendo
dalla villa per la via che conduce al mare, fu ucciso. Udiva dietro
lui il passo degli assassini che lo perseguitavano, fece fermare la sua
lettiga, e dopo aver vissuto tutta la sua vita fra gli spaventi della
morte, morì colla calma di un martire e la tranquillità di un eroe.

Questa paura, che faceva fare ai Romani tutte le bassezze, e che al
momento in cui finalmente trovavansi in faccia alla morte, che tutto
avevano tentato per evitare, li abbandonava per far luogo alla più
strana intrepidezza. Era una delle particolarità dell’antichità. —
Veggasi la morte di Petronio, Lucano e Seneca, questi tre adulatori di
Nerone.

In meno d’un’ora arrivammo a Mola di Gaeta. Facemmo colazione, poi
riprendemmo la nostra corsa per Napoli, ove arrivammo verso le nove di
sera per la via di Capua.

Una sensazione non meno indelebile, ma di un genere tutto opposto a
quella delle paludi Pontine, mi colpì al mio arrivo a Napoli, quando
mi trovai in una notte limpida in faccia al Vesuvio fumante; sopra
al cratere sorgeva la luna nella sua pienezza e nel suo splendore,
che pareva una palla infocata lanciata dalla bocca d’un mortaio sur
un’atmosfera vaporosa.

Noi passammo per Porta Capuana, Castel Vecchio, la marina, il Piliero;
lasciammo a manca Castel Nuovo, e la piazza Medina a destra, indi
passammo innanzi al portico di S. Carlo illuminato per una festa
straordinaria; attraversammo il largo S. Ferdinando, prendemmo la
via di Chiaia, e finalmente ci fermammo all’angolo della riviera di
Chiaia, al palazzo Calabritto Cappella-vecchia, ov’era l’ambasciata
d’Inghilterra.

In questa prima notte milord Bristol dormì all’ambasciata, ma per
fortuna essendovi un’appartamento vacante superiormente a quello di
sir William che occupava i due primi piani, monsignor Derry se ne
accontentò, e vi si stabilì pel giorno seguente.

Finalmente ero a Napoli, e mi ci trovava in una posizione che non avrei
mai osato di ravvisare nei miei sogni più insensati di ambizione.
— Emma Lyonna era scomparsa, miss Hearte non era più; tutto questo
immondo passato era rimasto nel fango di Londra; — vi era Lady Hamilton
ambasciatrice d’Inghilterra.

Stava a me il non dimenticarlo.




VI.


Dovendo ora fare una pittura della società tutta particolare che vedevo
a Napoli, prima di entrare nel racconto degli avvenimenti politici,
in mezzo ai quali mi trovai trascinata, credo di dover cominciare col
dare un’idea più completa di ciò che era questo strano personaggio già
intraveduto dal lettore, nominato lord Hervey conte di Bristol, vescovo
di Derry.

Egli era il più giovine di venti figli, ed essendo il solo superstite,
aveva ereditati i beni, i titoli e le dignità di tutta la famiglia.

Lord Bristol non stava mai alla sua residenza.

Erano a un bel circa venti anni che non aveva, all’epoca in cui lo
incontrammo, messo il piede nella sua diocesi. Nulla indicava in lui
ch’egli appartenesse in qualsiasi modo alla chiesa, nè il suo vestire,
nè la sua conversazione. Portava abitualmente un cappello bianco, un
abito di seta di un colore qualunque, talvolta chiarissimo, talvolta
molto spiccante, e raramente nero: fin qui pel suo modo di vestire.
Quanto ai costumi, essi erano come i suoi discorsi, non si può dire
più rotti. La prima cosa che fece arrivando a Napoli fu di prendere
un palco a S. Carlo ed a san Carlino. Non aveva nessuna credenza
religiosa, nemmeno per i dogmi più assoluti della chiesa, che egli
metteva in ridicolo; parlava dell’immortalità dell’anima con una
indifferenza che si avvicinava al dubbio, e non si compiaceva che di
discorsi mondani, e di raccontare od ascoltare aneddoti leggieri ed
anche scandalosi.

Nel suo primo viaggio in Francia, visitò la valle del Rodano, Grenoble,
il Delfinato, e trovandosi vicino alla grande Certosa, salì sino al
convento dei discepoli di S. Brunone.

Quando si presentò al convento, trovò che i frati erano a tavola; bussò
alla porta, che era chiusa a motivo dell’opera a cui si dedicavano i
buoni padri ed il portinaio gli annunziò che era proibito di entrare
quando i religiosi erano in refettorio; ma egli tirando dalla tasca
il suo biglietto di visita, su cui erano le sue armi, e sopra di esse
«a lord Bristol vescovo di Derry,» lo fece consegnare all’Abate, il
quale non vedendo che le parole «vescovo di Derry» e credendo di dover
trattare con un vescovo cattolico, lo ricevette ginocchione, con tutti
i monaci in ginocchio al pari di lui, chiedendogli la sua benedizione,
che lord Hervey non ebbe alcuna difficoltà d’impartire a lui ed ai suoi
certosini.

Questo era uno de’ ricordi che avevano il privilegio di eccitare in
sommo grado l’ilarità di monsignor di Derry, pensando che dei monaci
cattolici avevano ricevuto con una perfetta compunzione la benedizione
di un vescovo protestante.

In seguito ad una rappresentazione del _matrimonio segreto_ di
Cimarosa, egli fu talmente invaghito dello spartito, che il giorno dopo
mandò allo spettacolo i suoi dieci domestici inglesi, raccomandando
loro di ascoltare la musica di Cimarosa colla più grande attenzione.

Al loro ritorno, li chiamò nella sua camera, chiedendo se avevano
eseguito esattamente i suoi ordini.

Rispondendo essi affermativamente, ordinò di non parlargli più per
l’avvenire se non in recitativo, ed in recitativi tolti sempre dal
_matrimonio segreto_, sia per prendere i suoi ordini, sia per dirgli
ch’era servito, sia per annunciargli i nomi delle visite.

I suoi domestici si guardarono in faccia, credendo senza dubbio che
monsignore fosse diventato pazzo; poi, dietro i suoi ordini reiterati,
dimandarono di prendere consiglio e di dargli risposta pel giorno
seguente.

Alla dimane mandarono due di loro in deputazione, ed annunziarono al
conte mylord, che consideravano come indegno delle dignità di domestici
inglesi di parlare in musica come fanno gl’istrioni di teatro.

Lord Bristol dichiarò loro che se essi annuivano ai suoi desiderii,
avrebbe raddoppiato il loro salario, e dava a loro inoltre 24 ore di
più per prendere la loro risoluzione.

Il giorno seguente gli stessi deputati dichiararono che, qualunque
fossero i vantaggi offerti dal signor conte vescovo, non potevano
accettare.

Milord Hervey pagò loro sei mesi di salario, e li mandò tutti in
Inghilterra.

Poi, quando furono partiti i servi inglesi, fece venire dei napolitani,
e fece loro le proposizioni seguenti:

Di non parlare a M. di Bristol che sui motivi dei recitativi tolti
dal _matrimonio segreto_; stava a loro poi di adattare le parole alla
musica.

Per tale servizio particolare, che necessitava una intelligenza
superiore a quella di un domestico ordinario, avrebbero 45 ducati al
mese, dieci lire sterline di Inghilterra, vale a dire che erano pagati
quattro volte tanto quanto lo sono i domestici meglio pagati di Napoli.

Solamente la condizione _sine qua non_, essendo alimentati e vestiti
da M. di Derry, i sei virtuosi d’anticamera non prenderebbero nulla
durante i primi sei mesi, ma sarebbero pagati per tutti i sei mesi,
dopo scorso il semestre.

Se uno dei domestici lasciasse il servigio di monsignore prima dei sei
mesi non ancora compiuti, non aveva diritto a nessuna indennità.

I domestici napolitani accettarono, fecero venire un notajo per
redigere il contratto, ed in capo a sei mesi M. di Bristol era servito
colla cadenza cromatica la più soddisfacente.

Una sera che M. di Bristol pranzava da sir William, uno dei suoi sei
domestici napolitani gli portò, in misura di recitativo, una lettera
con un gran suggello nero. — Lord Hervey dissuggellò la lettera, la
lesse, la pose sotto il suo piatto, e per tutto il rimanente della
serata rise, chiacchierò e vezzeggiò come il solito.

Alle undici ore si ritirò; era un’ora più presto del solito.

Il giorno seguente sir William dovendosi informare se la sua partenza
non fosse stata cagionata da qualche indisposizione, fece chiedere a
lord Bristol se era visibile.

Sua signoria fece rispondere che gli era arrivata una grande sventura e
non poteva ricevere nessuno.

Sir William inquieto forzò la consegna, e trovò il povero vecchio in
lagrime e fra i singhiozzi.

— Mio Dio! che avete dunque? gli chiese sir William.

— Avete osservato che jeri a pranzo mi venne consegnata una lettera
sigillata in nero? rispose il conte di Bristol.

— Sì.

— Ebbene, essa mi annunziava che mio figlio è morto a Livorno: io non
ho voluto spargere la mia tristezza nel vostro pranzo, mi sono frenato,
ma una volta in casa, il mio dolore è stato tanto più violento quanto
fu compresso; ecco perchè, per piangere liberamente oggi non volli
ricevere nessuno, nemmeno voi.

La società ufficiale di sir William era naturalmente il Corpo
diplomatico; la sua società intima si componeva di dotti e di letterati
distinti.

Il ministro estero più anziano a Napoli era il conte di Sa,
ambasciatore di Portogallo, che da trent’anni era stato nominato a
quel posto; egli non era ritornato che una sol volta a Lisbona e ne era
ritornato più presto che aveva potuto. Qualche anno fa il suo terrore
fu grande. Si trattava di sopprimere l’ambasciata di Portogallo a
Napoli, come una spesa inutile, e d’incaricare per gli affari delle
due corti il ministro di Portogallo a Roma; ma poi essendo morto
il re Giuseppe I, la regina che gli succedette decise di mantenere
l’ambasciata, ed il conte di Sa respirò.

Vi erano pochi diplomatici che avessero una sinecura così completa
come questo ministro, che non aveva altro da fare che di dare alla sua
Corte le notizie del giorno che faceva redigere dal suo segretario;
il passeggio era la sola fatica che imponeva a sè stesso; si parlava
molto dell’harem del conte di Sa, composto dalle ballerine di S. Carlo.
Quanto a lui non parlava di nulla, avendo dimenticato il portoghese
e non avendo potuto imparare a parlar correttamente nè il francese nè
l’italiano.

Egli era alto, aveva le spalle larghe ed una incollatura da bufalo, di
cui teneva anche la fisionomia.

In quanto ai suoi talenti od ai suoi meriti, in sette od otto anni
io non lo vidi che tre volte per settimana, e non ho mai potuto
scoprirgliene un solo.

Il ministro più importante, perchè è ambasciatore di famiglia, è
il conte di Lemberg. Costui è sotto tutti i rapporti una persona
considerevole quanto il conte di Sa lo è poco. La cronaca gli
rimprovera di esser superbo, ma sia che il rimprovero fosse ingiusto,
sia che agli occhi del ministro d’Inghilterra un tale difetto fosse un
nonnulla, non avemmo mai occasione di scorgerlo; ciò che ha dato al
conte di Lemberg questa riputazione fra i Napolitani, è che egli non
può soffrire i cortigiani e gli striscianti, di cui è ricca la Corte di
Napoli. Nella prima sera che lo vidi osservai una cosa, cioè che egli
dava il suo giudizio sulle persone più ragguardevoli della Corte senza
maggior riguardo, come se avesse parlato dell’ultimo lazzarone. La
conversazione cadde sul cavaliere Acton, ed il ministro di Toscana si
azzardò di farne gli elogi.

Ma il conte di Lemberg alzò le labbra con una espressione di supremo
sdegno.

— Quest’uomo, disse, sarebbe stato un buon corsaro, ed ecco tutto; ha
i talenti e la figura d’un pirata, ed è probabilmente a ciò che deve la
sua grandezza.

Si assicura che in una discussione che ebbe colla regina, le disse
parlando con lei a proposito del cavaliere Acton:

— Io non ho alcuna prevenzione pro o contra le qualità occulte di
questo ministro, le ignoro e non desidero punto conoscerle; ma ciò
che io so è che quelle che manifesta al ministero non convengono punto
all’ufficio di cui V. Maestà l’ha onorato.

La posizione che il conte di Lemberg aveva alla corte di Napoli era
poco invidiabile; come ambasciatore di famiglia si trovava mischiato
in tutti gl’intrighi; e, bisogna confessarlo, alcuni di questi intrighi
non erano all’altezza della maestà del suo ministero.

V’erano querele frequenti fra il re e la regina. Io ne racconterò
qualcuna, perchè avvennero in mia presenza. Ebbene, l’ambasciatore era
obbligato d’intervenire in tutte queste querele, di ravvicinare gli
sposi, di parlare in nome dell’imperatore, e di fare almeno una volta
al mese l’ufficio di giudice di pace.

Il povero Lemberg non era mai sicuro, se era al passeggio che non si
corresse appresso a lui; se era a tavola, che non lo si facesse levare
per ristabilire la calma fra gli augusti sposi. Qualche giorno dopo il
nostro arrivo egli dava un gran pranzo; uno dei convitati ci raccontò,
che durante il pranzo, arrivato un corriere della regina da parte di
S. Maestà, il conte di Lemberg dovette alzarsi all’istante, lasciando i
suoi ospiti a terminare il pranzo senza di lui.

Nacque una discussione a Caserta a proposito della marchesa di San
Marco, dama di confidenza della regina.

— Maledette donnicciuole, esclamò il conte, gettando la salvietta, esse
mi faran divenir pazzo.

Terminerò la mia rivista degli uomini di stato, dicendo una parola di
un atomo diplomatico chiamato Bonnecchi, console imperiale ed agente
della Toscana.

Piccolissimo e vecchio, che parla senza posa, spiando continuamente,
sempre in cerca di novità, coll’occhio fisso, il collo e le orecchie
tese, il signor Bonnecchi è il corrispondente dell’imperatore
Leopoldo, al quale ogni settimana invia un rapporto di aneddoti e
fatti scandalosi, che avvengono alla corte od in città; e quando gli
aneddoti mancano, li fa. In principio, come ogni agente consolare,
aveva un trattamento fisso, ma insufficientemente stimolato, le notizie
mancavano. L’imperatore stimò opportuno allora di non pagarlo più
all’anno, ma ogni settimana. Dopo un anno il signor Bonnecchi prendeva
due luigi di Francia per ogni aneddoto, giudicato _interessante_
dall’imperatore.

In questa maniera il signor Bonnecchi si faceva una ventina di luigi al
mese.

Questa esca ha dato a quel piccolo uomo un talento singolare
d’introdursi nelle case, di farsi invitare a tutti i pranzi, a tutte
le feste. Si sa ciò che egli vi va a fare. Ma siccome egli ci andava in
nome dell’imperatore e, secondo certuni, in nome della regina Carolina,
di cui lo si vorrebbe la spia privata, come era la spia pubblica di suo
fratello, nessuno rifiutava di riceverlo, nè gli si faceva mal viso.
Una volta poi tornato a casa, egli ricompone tutto ciò che ha inteso,
ne tira le conseguenze, ne stabilisce i risultati, aggiunge, ritocca,
guasta, e così ogni settimana invia al suo sovrano una cronaca in cui
ci entrano tutti i più alti personaggi.

Ora passiamo ai medici, ai dotti ed ai letterati, che componevano la
società particolare di sir William, e così termineremo di conoscere le
persone che mi seguirono nella nuova mia vita, in cui mi trascinarono
gli avvenimenti che ho raccontati, e quegli ancora più incredibili e
specialmente più drammatici che or mi rimane di far conoscere ai miei
lettori.




VII.


Sir William, qualche tempo prima della sua partenza per Londra, aveva
perduto due dei suoi commensali più assidui.

L’uno era morto all’età di 38 anni, ed era l’illustre Gaetano
Filangieri, verso la moglie del quale ho bene da rimproverarmi dei
torti.

L’altro, vecchio di 80 anni, era il famoso abate Galiani, che passava
per l’uomo più spiritoso di Napoli. Forse questa riputazione gli veniva
dall’aver passato una parte della sua vita in Francia.

Ora che son morti non ho più ad occuparmi di loro.

Fra le nostre visite più assidue eranvi il celebre medico Cotugno ed il
suo collega il cavaliere Gatti, due personaggi i più curiosi di Napoli.

Oltre la sua scienza medica, il dottor Cotogno era per quanto
assicurava sir William, uno degli uomini più versati nei classici
greci, latini ed italiani; non ho mai compreso come colla sua immensa
clientela, il suo servizio agli spedali e le sue consultazioni in
casa, gli restasse ancora il tempo di fare le letture necessarie
per alimentare la sua immensa erudizione. Non riceveva mai nulla da
chi veniva a consultarlo in casa, ma faceva pagare tre piastre le
sue visite, mai di più, e guadagnava con ciò tre mila lire sterline
all’anno.

Qualche tempo prima del nostro arrivo a Napoli, egli aveva curato il
visconte d’Herrera, ambasciatore di Spagna, da un attacco di paralisia
che gli aveva tolto l’uso del braccio destro.

In capo ad un mese e mezzo ed a cinquanta visite, Cotugno l’aveva
completamente guarito.

L’ambasciatore di Spagna gli mandò mille ducati.

Cotugno gli rispose:

  «Vostra Eccellenza si è ingannata quando mi ha inviato mille ducati
  per cinquanta visite.

  «Ho per principio, fosse anche il re, di non far pagare le mie
  visite più di tre piastre.

  «Cinquanta visite a tre piastre fanno centocinquanta piastre.

  «Ho l’onore di ritornare la differenza a Vostra Eccellenza.

                                                         «COTUGNO.»

Non era così del dottor Gatti, il quale era tanto avaro quanto
era disinteressato il Cotugno: uno dei più grandi propagatori
dell’inoculazione, ha guadagnato somme favolose a Parigi esercitando
questa arte.

Due cose facevano di sir William l’amico per eccellenza del dottor
Gatti: la nostra mensa che era buona, e le nostre carrozze che erano
a sua disposizione. Tutt’all’opposto di Cotugno che si occupava
molto delle classi povere, il dottor Gatti dichiarava altamente
che non si abbassava punto a trattare colla gente di second’ordine,
sempre all’opposto di Cotugno di cui pare che abbia giurato d’essere
l’antipode. Egli non apriva mai un libro di scienza, non leggeva che
delle pasquinate e delle gazzette; invece di conservare come il suo
illustre collega la sua indipendenza presso i grandi, il dottor Gatti
era il cortigiano più assiduo del favoritismo. Egli pretendeva che
i popoli più felici del mondo fossero i Napolitani e gli Spagnuoli,
perchè il re Ferdinando ed il re Carlo III erano tanto amanti della
caccia, che non avevano il tempo di occuparsi dei loro popoli, e che
ogni popolo, il cui sovrano non si occupa punto di lui, è sulla via
della perfetta felicità.

Sotto questo rapporto io credo che sir William fosse un poco
dell’opinione del dottor Gatti; egli doveva tutto il suo favore presso
Ferdinando alla sua passione per la caccia, ed alla sua abilità a
questo esercizio.

Il giorno seguente al suo arrivo il re gli scrisse di suo pugno:

  «Venite subito, mio caro Hamilton, a fare una caccia con me
  a Caserta: dopo la vostra partenza non ho avuto mai una buona
  giornata: vi siete portato con voi la mia fortuna, spero che me la
  abbiate riportata.

  «Vostro affezionato,

                                                    «FERDINANDO B.»

Il terzo famigliare fuori del corpo diplomatico era il marchese del
Vasto, il quale discende in linea diretta da quello a cui Francesco I
consegnò la sua spada, non volendola dare al conestabile di Borbone.
Il marchese del Vasto appartiene alla casa d’Avalos, una delle più
ragguardevoli d’Italia; ha centomila ducati di rendita, cinquecento
mila lire d’argento di Francia. Queste fortune assai comuni in
Inghilterra sono molto rare in Italia. La spada di Francesco I si
conserva, per quanto si assicura, nel tesoro di Casa d’Avalos.

Sir William riceveva anche spesso il duca di Termoli, che discende
da una famiglia genovese stabilita da lungo tempo a Napoli. Egli
era grande scudiere del Re e figlio del duca di san Nicandro, ma
quest’ultimo titolo era lungi dall’essere invocato da lui; difatti
il duca di san Nicandro nominato governatore del re, gli uni dicono
a forza d’intrighi, gli altri a forza di denaro, ha allevato sì male
il re, che, più di una volta, nei suoi momenti di collera contro sè
stesso, riconoscendosi tanto ignorante, vuolsi che gli avesse detto:

— Tuo padre è causa della mia infelicità e di quella dei miei sudditi,
ma io sono troppo giusto per volerne male a te, perchè tuo padre ha
fatto di me un asino.

È vero che più di una volta ho inteso il Re deplorare l’educazione che
aveva ricevuto, e riversare sul duca di san Nicandro quella ignoranza,
che per istruzione non lo mise guari al di sopra de’ lazzaroni del
molo.

Del resto la regina, che deplorava questa ignoranza di suo marito,
ma che con tutto ciò ne approfittava per allontanarlo dagli affari e
concentrare tutto nelle sue mani, mi disse sovente che non era punto il
duca di san Nicandro che bisognava rendere risponsabile di questo male;
ma bensì il Tannucci che aveva deliberatamente scelto il duca di san
Nicandro a motivo della sua nota incapacità, e che aveva raccomandato
che si tenesse il Re in questa ignoranza, perchè, incapace di vigilare
su nessuna partita dell’amministrazione del Regno, gliela lasciasse
tutta intiera nelle sue mani.

Vi era in ciò molta parte di vero, ma non bisognava credere
assolutamente alla regina quando parlava del vecchio ministro toscano,
che essa non poteva soffrire, perchè, ligio a Carlo III cui doveva la
sua fortuna, rappresentava l’influenza spagnuola mentre essa, figlia e
sorella d’imperatori, rappresentava l’influenza austriaca.

Allora vedendo l’odio della regina per tutto ciò che era spagnuolo
e francese, — odio in cui erano compresi suo marito ed i suoi figli
maschi, — e la sua simpatia per tutto ciò che era austriaco, si
andò fino a dire, che essa aveva formato un complotto anticoniugale,
antifigliale ed antinazionale per riunire il Regno delle Due Sicilie
all’Austria, alla quale aveva appartenuto in forza del trattato di
Utrecht; dalle cui mani era stato tolto colla conquista di Carlo III
uno degli episodi della gran guerra della Francia contro l’Austria nel
1634, ed io debbo oggi confessare che l’amicizia ed il favore reale non
m’accecano più di quanto la regina dava su questo punto pretesto alla
calunnia.

Difatti io non aveva mai potuto comprendere donde veniva nella regina
di Napoli quest’antipatia per i propri figli maschi, e questa debolezza
per le sue figlie. Questa antipatia, sotto pretesto della correzione
necessaria alla irregolarità del loro carattere ed alla regolarità
della loro educazione, si manifestava in punizioni crudeli, che
ispirarono in loro una paura per la loro madre che non aveva nulla di
esagerato. In sua presenza non ho mai veduto i suoi piccoli principi a
sorridere, tremavano al minimo rumore, e quando intendevano la sua voce
si rifugiavano istantaneamente nelle braccia del Re.

Il maggiore dei figli di Maria Carolina morì all’età di sette od otto
anni verso l’anno 1778, in seguito ad un deperimento continuato che
i nemici di Maria Carolina attribuivano ai cattivi trattamenti di cui
era stato vittima. Quando cadde realmente ammalato, la regina si mise
a discutere coi medici le cause e la natura della sua malattia, mentre
suo marito, non osando nemmeno di sollevarsi dalla sua ignoranza che
confessava ingenuamente, si accontentava di piangere. Ma quando infine
il giovane principe morì, le lagrime del Re raddoppiarono, mentre Maria
Carolina, — così si assicura, — si contentò di ripetere le parole della
madre spartana:

«Quando gli ho messi al mondo, sapeva che un giorno dovevano morire».

Io ho veduto morire uno dei giovani principi, il principe don Alberto.
Egli morì fra le mie braccia e sui miei ginocchi, perchè esso era
quello dei giovani principi che io preferiva. Racconterò questa morte a
suo tempo; ma ciò che debbo dire qui, è che questa morte mi parve che
raddoppiasse l’odio della regina contro i Francesi ed i Repubblicani,
anzichè scuotere nel fondo del suo cuore quelle fibre d’amore che fanno
versare alle madri lagrime di sangue sulla tomba de’ loro figli.

Il solo che la regina amasse davvero era il principe di Salerno, nato,
io credo, nel 1790, e che la regina teneva stretto al suo cuore mentre
moriva nelle mie braccia il principe Alberto. — A costui essa avrebbe
sagrificato tutti gli altri, e si dice anche, ma io era in quell’epoca
lontana da lei, e non crederò mai ad una tale atrocità, e si dice anche
che verso il 1812, quando parve in Palermo volersi adottare il partito
e le idee inglesi, essa attentò alla sua vita, tentando di avvelenarlo
con una tazza di cioccolata. Secondo le dicerie popolari, sarebbe stato
salvato da quel pericolo dal suo cameriere Carlomagno Viglia. Da qui
sorge la fonte inesplicabile di favore di questo uomo più potente del
suo padrone, di qualunque membro della sua famiglia, e di qualunque
favorito o ministro.

La voce pubblica voleva dunque che Carolina preferisse suo fratello
Giuseppe II ai suoi figli, o mettesse gl’interessi della monarchia
austriaca al di sopra di quelli del regno delle Due Sicilie.

Del resto, racconterò tutto ciò che ho veduto colla stessa sincerità
con cui racconto ciò che è accaduto a me stessa. Il lettore ne tirerà
quelle conseguenze che gli converranno.




VIII.


Quando noi arrivammo a Napoli, la casa di sir William Hamilton non era
punto preparata per ricevere una donna; era un museo di uno scienziato
ed antiquario interamente dedicato alla geologia, alla numismatica, ed
alla statuaria.

Bisognava fare in mezzo al passato ed alla natura morta un posto pel
presente e per la natura viva.

Debbo rendere questa giustizia a sir William, che non avendo voluto
dare ai suoi tesori una preferenza su di me, io scelsi nell’immenso
primo piano dell’ambasciata tre camere per farne il mio appartamento
particolare, senza che egli permettesse alle lave del Vesuvio, alle
medaglie dei Cesari, ed ai frammenti di Apollo e di Venere di reclamare
contro di me.

Del resto, debbo dirlo, la mia civetterie istintiva era tale, che volli
fare la mia corte e tutte queste antichità insieme ai nostri vecchi
scienziati. In capo ed un mese avrei potuto fare il nome senza catalogo
alle 24 o 25 specie di lave del Vesuvio, riconoscere a prima vista
l’effigie di un Cesare contemporaneo dello stesso Cesare, oppure di uno
battuto sotto Adriano: infine ricostruire da un semplice frammento una
statua intera.

Sir William era estatico di vedermi ad adottare così facilmente i suoi
gusti, ed a prender parte della sua vita di archeologo ed antiquario.

Abituata a fare gli onori di casa da lord Greenville, uno degli uomini
più eleganti di Inghilterra, non ebbi nulla da imparare per mettere
le sale di sir William all’altezza degli appartamenti più eleganti
di Napoli; Napoli essendo sotto questo rapporto inferiore di molto a
Londra.

Fu allora che, per raddoppiare l’entusiasmo dei miei adoratori ho
stimato bene di far conoscere i miei talenti mimici, e siccome la
maggior parte delle nostre conoscenze erano italiani, non ho creduto
conveniente di dar loro delle rappresentazioni di alcune scene di
Shakespeare: i loro stomachi deboli non avrebbero potuto sopportare
quel cibo copioso, e mi limitai alle pose plastiche; ed in una stessa
sera, mutando il manto ebreo col peplo greco, il turbante turco col
diadema asiatico, feci passare sotto i loro occhi Giuditta, Aspasia,
Rosellana, Elena, e cominciai i primi passi di questa danza dello
sciallo, che ebbe più tardi una riuscita così prodigiosa non solamente
a Napoli, ma a Parigi, a Londra, a Vienna, a Pietroburgo.

Poco dopo non si parlava d’altro nella capitale del Regno delle
Due Sicilie che della meraviglia condotta da Londra da sir William
Hamilton: tutti gli uomini distinti di Napoli, ed anche qualche
signora, ambivano l’onore di essere ricevuti all’ambasciata
d’Inghilterra; ma, a mia grande umiliazione, ed a grande stupore di sir
William, non vedevamo venire nessun invito collettivo dalla Corte.

Sir William era sempre il compagno di caccia e di pesca del Re; quasi
mai l’accompagnava all’uno od all’altro di questi esercizj senza
parlargli di me e senza fargli il mio elogio: il Re lo felicitava per
la sua fortuna di avere una moglie tanto bella, distinta ed istruita.
Ma la cortesia reale non andava più innanzi.

Molte volte, lo so, si era parlato di me alla regina Maria Carolina, ma
essa aveva sempre lasciato cadere il discorso, e qualche volta l’aveva
troncato con affettazione.

Mi fu dato il consiglio di trovarmi come per caso sul cammino che
la regina percorreva: la cosa era facile; passeggiava spesso coi
giovani principi e le sue figlie nel giardino di Caserta. L’entrata
senza essere pubblica era aperta alle persone distinte, e qualche
volta, colla protezione dei subalterni, alla gente del popolo che
aveva qualche grazia da domandare. Pregai lord Hamilton che alla
prima occasione che aveva di andare a Caserta, mi conducesse insieme,
mostrandogli un gran desiderio di vedere i giardini, che si dicevano
molto belli.

Probabilmente sir William si accorse della causa principale della
mia dimanda, e poichè gli spiaceva forse più di me questa specie di
disprezzo che lui si dimostrava non gli rincresceva che qualche fatto
piacevole o no desse motivo ad una spiegazione.

Un giorno che sir William aveva dei dispacci del gabinetto di san
Giacomo da comunicare al Re, partimmo per Caserta. Sir William vi
aveva un appartamento ove poteva restare quanto gli conveniva, ed
ove era servito dai domestici di Sua Maestà. Prima del suo viaggio in
Inghilterra aveva usato sovente di questo favore; ma dopo il mio arrivo
a Napoli, benchè avesse fatto dei frequenti viaggi a Caserta, non vi
aveva mai passato la notte.

Comunicati i dispacci, sir William ricevette l’invito pel Re di restare
fino al giorno seguente per accompagnarlo ad una grande partita di
caccia. Sir William accennò la mia presenza in Caserta; ma il Re
rispose:

— E non avete il vostro appartamento a palazzo? se Lady Hamilton ha
bisogno di qualche cosa, che comandi; i miei domestici le obbediranno
come se fossero i suoi.

E il discorso finì là.

Però accordandosi il soggiorno a Caserta coi miei progetti, sir William
accettò in suo nome e al mio; chiese soltanto al Re se non trovava
inconveniente che io passeggiassi nel giardino.

Il re alzò le spalle, ciò che voleva dire che la dimanda era inutile.

Sir William, ritornò e mi raccontò ciò che era avvenuto.

Al pranzo, servendoci certi vini, il cameriere aveva cura di dirci: —
_della cantina del Re_.

All’arrosto, porgendoci un fagiano guarnito di beccafichi, affettò di
ripeterci: — _della caccia del Re_.

Era evidente che sir William era l’oggetto di attenzioni particolari di
Sua Maestà, ma visibilmente queste attenzioni non si estendevano sino a
me.

Alla sera sir William fu invitato a giuocare dal Re; ma poichè
nell’invito non si trattava punto di me, prese un pretesto, il meno
adatto che poteva, per non andarvi, — si finse di trovarlo buono.

Il giorno dopo all’alba vennero a battere alla porta di sir William da
parte del Re. Sua Maestà partiva sempre di buon mattino, e come il suo
avo Luigi XIV non gli piaceva di aspettare.

Sir William era profondamente punto da questa maniera di considerare
il suo matrimonio come non avvenuto. Mi disse che se sul mio progetto
d’incontrare la regina avessi di che rammaricarmi, nulla lo teneva
a Napoli, nè le sue abitudini di vent’anni, nè il suo amore per
l’antichità, nè il clima che era eccellente per la sua salute. Egli
domanderebbe al Re, suo fratello di latte e suo amico, o il suo
richiamo a Londra, o la sua destinazione presso la tale o tal altra
corte che io stesso avrei designata.

Il mio vestire era semplicissimo, nè cercai di far valere in alcun modo
i miei pregi: l’essere troppo bella è un cattivo mezzo di fare la sua
corte ad una regina gelosa della sua bellezza; il mio orgoglio mi aveva
già sobillato più di una volta che alla regina, che non era più nel
fiore della sua gioventù, poco garbasse la mia vicinanza.

Le finestre dell’appartamento di sir Hamilton davano sul giardino;
da queste finestre si poteva vedere ad entrare la regina: si sapeva
che dopo la colazione, dalle 10 alle 11 essa vi faceva la sua
passeggiata colle giovani principesse. A dieci ore ed un quarto io la
vidi comparire accompagnata da tre dalle sue figlie, la principessa
Maria Teresa, che contava 17 anni, che in quell’anno dovea diventare
arciduchessa, e due anni dopo imperatrice d’Austria. La principessa
Maria Luisa, di 16 anni, che l’anno dopo doveva diventare gran duchessa
di Toscana, e la principessa Amalia che non aveva ancora sei anni.

Oltre a queste tre principesse restavano la principessa Maria Cristina
dell’età di nove anni, che fu regina di Sardegna; la principessa Maria
Antonietta dell’età di quattro anni e mezzo, che fu principessa delle
Asturie; la principessa Maria Clotilde dell’età di due anni che doveva
morire nel 1792, e Maria Enrichetta ancora in fasce, che doveva morire
nello stesso anno come sua sorella.

Era venuto il momento di mettere in esecuzione il mio progetto: vedendo
la regina e le principesse, inoltrate nei giardini, le due più grandi
passeggiando a lato della madre, la più giovane Maria Amalia correndo
avanti cogliendo fiori e tentando di prendere delle farfalle, io presi
un libro e discesi; facevo sembiante di leggere, ciò che mi permetteva
di vedere senza far vedere che guardava.

Feci un giro per non incontrare la famiglia reale che all’altra
estremità del giardino. Io voleva che la regina credesse che il caso
soltanto mi avesse condotta sulla sua via; poi desiderando e temendo
insieme questo incontro, io non dimandava meglio che di avere qualche
momento per prepararmi a ciò.

M’inoltrai nel viale che doveva infallibilmente condurmi dalla regina;
aveva gli occhi sul mio libro, ma mi sarebbe impossibile di dire il
titolo di questo libro; vedeva i caratteri senza che porgessero alcuna
idea alla mia mente: la mia mente era altrove.

Il mio cuore batteva con una violenza strana. Tutto ad un tratto
sulla curva d’un sentiero mi trovai a venticinque o trenta passi dalla
regina.

La piccola principessa, sempre correndo davanti a sua madre, non
distava che dieci passi da me.

Feci sembiante di non veder nulla, intenta nella mia lettura; ero
sempre a tempo di levare gli occhi e fingere una rispettosa sorpresa.
È nota la mia scienza di esprimere non solamente tutti i sentimenti, ma
eziandio le più delicate gradazioni; ma un incidente mi fece levare gli
occhi dal mio libro prima che lo volessi.

La piccola principessa Amalia venne correndo verso di me, e togliendo
un fiore dal suo mazzo, me lo presentò.

Era di buon augurio.

Alzai la testa, mi parve allora di vedere solamente la reale fanciulla,
le sue sorelle e la regina, e facendo un profondo inchino, mi accingeva
ad accettare il fiore che mi offriva; ma in questo momento, colla sua
voce più vibrante, e come sorpresa della mia presenza, la regina chiamò
due volte «Amelia, Amelia,» e la fanciulla, riconoscendo nella voce di
sua madre un accento imperativo, che essa sapeva esprimere tanto bene,
si rivolse sbigottita, e corse dalla regina col suo mazzo intatto e
prima ch’io fossi rinvenuta dalla mia sorpresa. Maria Carolina aveva
preso la sua piccola figlia per mano, l’aveva spinta su di un sentiero
di traversa, e si era incamminata essa pure da quella parte colle due
grandi principessine, allontanandosi con affettazione per lasciarmi la
strada libera.

Il colpo fu atroce, mi vennero le lagrime agli occhi, presi correndo
la via verso il mio appartamento, ordinai di attaccare i cavalli alla
carrozza, e partii per Napoli lasciando queste parole a sir William:

  «Non vi turbate punto della mia salute, essa non c’entra colla
  prima partenza; ho creduto di dovere lasciare Caserta; quando
  vi racconterò ciò che mi è accaduto, voi approverete la mia
  risoluzione, lo spero.»

                                                     «Vostra Emma.»

Due ore dopo era di ritorno all’ambasciata, e dopo aver fatto cambiare
i cavalli, rimandai la carrozza a sir William.

Sir William arrivò alle sette ore di sera.

Ritornando della caccia, trovò che io era partita, e benchè il re
in persona l’avesse invitato a pranzo, egli aveva lasciato Caserta,
facendo dire a sua maestà che una circostanza impreveduta l’obbligava a
ritornare a Napoli.




IX.


Sir William dubitava ciò che era accaduto; io non ebbi bisogno che di
raccontargli i particolari.

Debbo rendere questa giustizia a sir William, che egli fu più offeso
di me di questo affronto; mi offerse di partire quella sera stessa da
Napoli senza nemmeno prendere congedo; ma ciò significava ritirarsi,
cedere il campo di battaglia, era un confessare la disfatta; ciò non
era quanto io voleva, io voleva vincere.

Insomma voleva essere presentata, volevo essere ricevuta a corte,
come lo esigeva il mio diritto di ambasciatrice d’Inghilterra. Volevo
ottenere l’esito che ho ottenuto dovunque volli ottenerlo, volevo
infine vendicarmi di quella insolente regina, facendo dire ai suoi
cortigiani stessi che io era più bella, e altrettanto intelligente e
spiritosa di lei.

Io insisteva adunque perchè sir William dimandasse al re stesso una
spiegazione sul contegno sdegnoso della regina.

Quando io penso oggi in quale accecamento orgoglioso mi aveva gettata
la mia fortuna inopinata, mi maraviglio con me stessa della mia
audacia.

Sir William non esitò punto di cedere alla mia volontà. Egli aveva per
me una adorazione così insensata, che sembrava maravigliato al pari di
me del contegno che Sua maestà aveva a mio riguardo.

Egli partì per Caserta, andò a trovare il re, e francamente entrò in
questione, non lasciandogli punto ignorare che il suo futuro soggiorno
a Napoli sarebbe una conseguenza del modo con cui si sarebbe condotto
verso di me.

Il re amava assai William, non già per sir William, ma per lui stesso.
Questo principe essenzialmente egoista era così fatto; sir William era
buon camminatore, buon cacciatore, buon cavalcatore, e un compagno
spiritoso e gaio; da parecchi anni il re si era fatto una necessità
della sua compagnia, e avrebbe sentito la di lui mancanza.

Poi l’orizzonte politico cominciava ad oscurarsi dalla parte di
occidente: il re di Napoli per quanto poco fosse versato negli affari,
comprendeva che sir William, fratello di latte del re d’Inghilterra,
compagno d’infanzia di Giorgio III, poteva, al caso di una rottura
probabile colla Francia, essergli di un potente aiuto presso il
gabinetto di San Giacomo; accolse dunque le sue parole con una perfetta
dolcezza, e con quella bonomia, che in lui talvolta era naturale e
talvolta finta; ma in questa circostanza, tanto bene rappresentata, era
impossibile accorgersi che fosse stata una commedia.

— Mio caro sir William, gli disse, sapete voi la voce che corre?

— No, ma spero che vostra maestà mi farà la grazia di dirmela.

— Ebbene, corre voce che voi non siate ammogliato.

Sir William aveva preveduto il colpo; tirò dalla sua tasca il
certificato del pastore protestante e lo presentò al re.

— Ecco, sire, diss’egli, questa è la mia risposta.

Il re lesse il certificato, lo volse e lo rivolse con un certo
imbarazzo.

— Io non vi dico nulla di nuovo, dicendovi che vi sono molti cattivi
a Napoli, non è vero? ebbene, quand’anche voi faceste affiggere il
vostro certificato su tutti gli angoli delle strade, e che io con un
editto ordinassi di credervi, sarebbero ancora capaci dì dubitarne.
Finchè voi non avrete fatto riconoscere il vostro matrimonio alla corte
d’Inghilterra, e che non avete presentato lady Hamilton al re Giorgio
III, cosa che voi avreste potuto fare facilissimamente nei rapporti con
cui siete con lui, non vi sarà più motivo per dire di no. E come mai
voi non avete punto pensato a ciò?

Sir William guardò in faccia al re con uno sguardo il più scrutatore,
ma fu impossibile di leggere più in là della maschera; Ferdinando aveva
a sua disposizione un certo giuoco di fisionomia bonaria, che avrebbe
fatto scambiare lui, il re astuto per eccellenza, per l’uomo più
ingenuo del mondo.

— Va bene, sire, rispose sir William, voi mi date un congedo d’un mese,
non è vero?

— Con mio grande rincrescimento, perchè non vorrei lasciare nemmeno per
un giorno solo un compagno così buono come siete voi; ma se voi me lo
comandate, e specialmente per un affare così importante, come quello di
far riconoscere il vostro matrimonio, comprenderete bene che io non ve
lo saprei rifiutare.

— Non ho dunque che a scrivere a Londra, perchè il mio arrivo non
arrechi una brusca sorpresa.

— Aspettate, posso risparmiarvi questo ritardo.

— Ne sarò molto obbligato a vostra maestà.

— Or bene, le lettere che io ricevo da mio cognato l’imperatore
d’Austria e da mio cognato il re di Francia, possono essere giudicate
abbastanza importanti per essere comunicate senza ritardo a monsignor
Pitt; dico monsignor Pitt, perchè da voi, è presso a poco come qui, il
re non è nulla, ed il ministro è tutto; senza di che vi avrei detto al
re Giorgio III. Vi confiderò gli originali stessi di queste lettere,
con una mia autografa per mio fratello il re della gran Brettagna,
e compiendo in tal modo la missione di cui v’incarico, voi farete il
vostro affare come crederete.

Sir William non poteva desiderare di meglio; egli ricevette seduta
stante, le lettere che doveva comunicare al re d’Inghilterra ed al suo
ministro, e la sera stessa su di un piccolo bastimento della marina
reale, che il re mise a nostra disposizione, partimmo per Livorno.

Sir William dovea consegnare, passando per Firenze, una lettera al gran
duca Leopoldo, poi da Firenze dovevamo continuare il nostro viaggio in
posta; la feluca reale attendeva il nostro ritorno a Livorno.

Si sarebbe detto che il tempo era d’accordo colle nostre impazienze,
avemmo costantemente il vento favorevole, e facemmo la traversata in
tre giorni.

Sir William, compì la sua missione presso il gran duca Leopoldo che
trovò molto inquieto sul modo con cui andavano le cose di Francia.

Tutto accennava ad una prossima rivoluzione, ed i primi avvenimenti
dell’anno 1789, in cui eravamo giunti, indicavano che questa
rivoluzione sarebbe stata seria, e si sarebbe fatta sentire per tutto
il mondo.

Egli non poteva adunque che approvare il viaggio di sir William a
Londra, e lo scopo apparente pel quale aveva fatto questo viaggio;
non era pure meno inquieto sul conto di suo fratello Giuseppe II,
imperatore di Germania, la cui salute andava affievolendosi.

— Vedremo, disse egli, come da tutto ciò uscirà nostro cognato
Ferdinando IV, che pretende di avere la felicità di non mantenere un
filosofo nei suoi stati.

In tutti i casi egli avvisava che l’Austria, il re di Napoli, il santo
Padre e tutti i principi d’Italia, dovessero fare una lega offensiva
e difensiva, e stabilire una specie di cordone sanitario per impedire
alle idee rivoluzionarie di passare le Alpi.

Noi partimmo da Firenze per la posta, attraversammo il S. Gottardo
e la Svizzera, e arrivammo ai Paesi Bassi, ove ci imbarcammo per
l’Inghilterra.

Arrivammo a Londra in punto a dieci mesi dopo che l’avevamo lasciata, e
scendemmo al palazzo di sir William Hamilton.

Nello stesso giorno fu ricevuto dal re.

Io aspettava con una certa ansietà; ritornando a Londra, io era
ritornata, per così dire, nella mia vita passata, e m’era trovata in
faccia alla miseria ed alla vergogna dei miei primi anni; poteva venir
qualche scrupolo al re, e se la mia presentazione fosse stata rifiutata
a sir William, sebbene io fossi Lady Hamilton, ricadevo però più bassa
di quanto era partita.

Sir William ritornò tutto in gioia; la mia presentazione doveva aver
luogo il lunedì seguente; il re non aveva fatto alcuna difficoltà, e
si era mostrato più che mai gentile, affettuoso e pieno di amicizia per
lui.

Lo stesso giorno sir William mi espresse il desiderio di portare a
Napoli un mio ritratto fatto da Romney, che allora era il gran
pittore alla moda. Era impossibile che sir William non conoscesse punto
le mie antiche relazioni con Romney; ma egli era così poco mio marito,
che compresi benissimo che egli non lasciò a divedere di nutrire
gelosia per questo grande artista.

Fu convenuto che alla mattina appresso saremmo andati a sorprenderlo
nel suo studio in Cavendish Square.

Era troppo sicura della cortesia di Romney per avere bisogno di
prevenirlo con una lettera di non vedere in me che Lady Hamilton; e più
ancora sicura dell’impero che io aveva sopra sir William, mi faceva una
festa della sorpresa, che avrebbe prodotto in Romney la mia presenza
inaspettata.

Siccome sir William desiderava di avere il mio ritratto rappresentante
un’Odalisca, vestii un magnifico abito turco, e salimmo in una carrozza
chiusa che ci condusse a Cavendish Square, poco lungi dal palazzo di
sir William.

Io conosceva quella casa; essa avea conservato, bisogna dirlo, alcuni
dei miei buoni ricordi, e senza essere mai stata innamorata di Romney,
nel senso che si accorda alla parola, io l’aveva amato teneramente,
e la sua memoria non s’affaccia mai alla mia mente senza essere
accompagnata da un sorriso del mio labbro.

Era sempre lo stesso domestico che lo serviva. Egli mi riconobbe, gli
feci un segno indicandogli coll’occhio mio marito che mi seguiva; ed
egli mi provò di aver compreso, domandandomi se doveva annunziare sir
William e Lady Hamilton; gli risposi di no, volendo fare al suo padrone
una visita d’amicizia e non di cerimonia, e che ci saremmo annunciati
da noi.

Si ritirò e mi lasciò passare.

Entrammo nello studio di Romney; le quattro parti del mondo erano state
messe a contribuzione per adornare questo splendido tempio dell’arte:
trofei che riunivano le più belle armi dei popoli selvaggi e dei
civilizzati, le frecce dell’Indiano della Florida, i cangiar dell’Asia
e le spade di Damasco, le pelli di tigre del Bengala, le pelli di leone
dell’Atlante, d’orsi della Siberia e di pantere della Persia, sparsi
sotto i mobili, si stendevano sotto i nostri piedi, e tappezzavano
la base delle pareti coperte da meravigliosi schizzi dell’autore che
visitavamo. Non vi era un angolo in questa vasta camera ove l’occhio
potesse riposare senza cadere su di un oggetto prezioso, e per valore
materiale e per valore artistico.

Romney era occupato a dare l’ultimo tratto di pennello ad un’Erigone
che si rotolava con una tigre su di un tappeto di fiori. L’Erigone
aveva una lontana somiglianza con una certa Emma Lyonna, e provava che
questa Emma Lyonna non era affatto scomparsa dalla memoria del pittore.

Al rumore della porta non si mosse: senza dubbio aveva semplicemente
creduto che il suo domestico fosse venuto per mettere l’ordine o il
disordine in qualche cosa.

Gli toccai la spalla colla mano, si volse, mi riconobbe, mise un grido,
e scorgendo mio marito si levò facendomi un inchino.

— Ancora più bella di prima, mi disse, non l’avrei creduta possibile
una tal cosa; poi volgendosi a sir William:

— Accogliete tutti i miei complimenti, milord, gli disse, e ditemi
tosto se posso avere la fortuna d’esservi utile in qualche cosa.

Poi colla sua maravigliosa cortesia, Romney, come se mi vedesse per la
prima volta, ci fece gli onori del suo studio.

Sir William gli disse che desiderava un mio ritratto alla foggia in cui
mi trovava.

Romney tutto contento, prese all’istante una gran tela e schizzò tutta
la composizione.

Si convenne che vi andassi tutti i giorni per la posa, e Romney promise
che in capo ad otto giorni il ritratto sarebbe finito.

Il giorno dopo sir William mi condusse a Cavendish Square, ma siccome
doveva andare in varii luoghi, si contentò di lasciarmi nel suo studio,
e ritornò alla carrozza, promettendomi di venirmi a prendere fra due
ore.

In queste due ore Romney ebbe la garbatezza di non dirmi una parola, di
non fare la minima allusione che potesse ricordare la nostra intimità
passata; mi parlò di Roma e di Napoli, discorremmo un po’ di tutto, e
promise di venirci a fare una visita.

Era, lo confesso, un poco punta da una tale delicatezza: io la
comprendeva, ma mi stringeva il cuore.

La donna anche quando oblia, non vuol essere dimenticata.

Sir William ritornò più tardi di quanto aveva detto, di modo che il
ritratto andava avanti. Aveva veduto monsignor Pitt, gli aveva mostrato
le lettere di Maria Antonietta e dell’imperatore Giuseppe II, e aveva
parlato a lungo degli affari di Francia.

Le cose andavano alla peggio, il freddo e la fame sembravano essersi
data la parola per far dei Francesi altrettanti diavoli arrabbiati.

Si parlava della riunione degli Stati Generali pel 4 aprile. Monsignor
Pitt fissava a quell’epoca il principio della rivoluzione.

Sir William aveva ricevuto pieni poteri di trattare a Napoli gli affari
d’Inghilterra come egli intendeva, salvo sempre, ben inteso, l’onore e
gl’interessi della Gran Bretagna.

Non disse nulla di tutto ciò, s’intende, dinanzi a Romney; ma a me sola
riconducendomi a casa.




X.


Il lunedì seguente, 20 marzo 1789, giorno della mia presentazione, non
vi fu seduta da Romney, ben si intende: tutta la giornata fu consacrata
ai preparativi di questa grande cerimonia e particolarmente alle cure
della mia toletta.

Dopo la mia presentazione vi fu gran ballo a Corte.

Il re, vedendomi a comparire, mi venne incontro con una galanteria
graziosa, mi offerse la mano e mi condusse al mio posto, non cessando
di parlarmi, se non per trattenersi con sir William.

Il re mi aveva appena lasciata, che il principe di Galles venne alla
sua volta; allora, mio malgrado la mia testa era occupata da un solo
pensiero; cioè quando mi trovava semplicemente vestita da dama di
compagnia sul terrazzo di miss Arabella, la sera in cui essa aveva
ricevuto il principe di Galles: mi pareva di vederli tutti e due alla
finestra, poi ritornare nella sala, e quantunque esposti a mezza luce,
mi parvero brillanti di gioventù e di desiderio.

Non so ciò che il principe mi disse, nè mi ricordo ciò che gli risposi:
tutte le fibre della memoria mi distoglievano la mente dal presente, e
la facevano viaggiare a ritroso nel passato: dovetti sembrare stupida
al principe.

Questa sera fu per me una serata di orgoglio e di dolore. D’orgoglio,
perchè aveva raggiunto il mio scopo; ricevuta ufficialmente alla Corte
d’Inghilterra, come sposa di sir William Hamilton, nessuna altra corte
poteva rifiutarsi di ricevermi, e come ambasciatrice di una grande
potenza, veniva per rango immediatamente appresso alle principesse del
sangue; di dolore, perchè ogni sorriso, ogni sguardo obliquo, ogni
parola detta all’orecchio, mi sembrava un insulto, che strisciando
sotto l’erba, era pronto a levare la testa tostochè io fossi uscita.

Sir William era maravigliosamente tranquillo e soddisfatto: se per
diventare sua moglie io fossi uscita dal chiostro più austero, dal
convento il più chiuso, non sarebbe parso più altero di me.

Però quella sera mi parve lunga, e benchè mi fossi ritirata ad un’ora
di giorno, pure mi sentiva affranta.

Il giorno dopo mi guardai bene dal mancare alla seduta; aveva bisogno
di vedere un viso amico; sentiva che quella sera non aveva veduto che
delle maschere.

Romney era uscito per affari indispensabili, mi fece dire che mi
pregava di perdonargli, ma che lo aspettassi.

Sir William, che ancora in quel giorno doveva andare in varii luoghi,
prese la carrozza e mi lasciò da Romney.

Io l’aspettava con una suprema impazienza, era io che dovea dargli le
notizie; e mi sembrava che egli dovesse darmene.

Così, quando intesi il suo passo, quando riconobbi la sua voce nella
camera vicina, quando vidi aprirsi la porta, mi slanciai verso di lui
per interrogarlo.

— Ebbene? gli dimandai.

Qualche cosa di consimile balenò pure alla sua mente, perchè quantunque
fosse vaga la mia interrogazione, egli rispose direttamente alla mia
idea.

— Ebbene, ieri voi avete avuto un esito strano; questa mattina sono
corso per la città per avere vostre notizie, e non ho veduto che delle
donne furiose; sembra che ieri foste miracolosamente bella; si parla di
tre duchesse morte di gelosia; altre vedendo il re condurvi alla vostra
sedia, ed il principe di Galles a parlare con voi, si sono morse le
dita per la collera, e minacciano di diventare idrofobe. Finisco ora
d’aver schizzato il ritratto di Lady Craven, che è una buona inglese
puro sangue, e che ora, dopo 14 anni d’unione, ha ottenuto il suo
divorzio da Lord Craven. Essa era là e rise di tutto cuore vedendo
i visi che vi facevano; le dissi che vi avrei veduta da me, essa mi
rispose semplicemente: — «fatele i miei complimenti, e ditele che è la
più bella creatura che abbia mai veduta.»

Io presi la mano di Romney, e gliela strinsi di tutta forza; avrei
desiderato di abbracciarlo; egli m’ispirava nelle vene il sentimento
divino della vendetta soddisfatta.

Il giorno dopo tutti i giornali rendevano conto del ballo di corte:
alcuni non mi risparmiarono; ma non importa, la mia causa rispetto alla
regina di Napoli era vinta.

Al settimo giorno il mio ritratto era finito; ma a motivo degli
accessorii orientali, di cui mi aveva circondato Romney, era diventato
un quadro più che non un semplice ritratto. Sir William del resto
maravigliato del talento con cui era eseguito, chiese a Romney di
spingere la compiacenza fino a voler ricominciare il lavoro, e farne un
altro tanto semplice quanto l’altro era lavorato.

Romney non chiese di meglio. Egli pretendeva di avere tanto piacere di
lavorare vicino a me, che non avrebbe voluto mai altro modello.

Nel giorno stesso, in cui finì il primo, incominciò il secondo; esso
era di una semplicità veramente greca.

Aveva la testa spoglia che, veduta di faccia, era un po’ inclinata
sulla spalla destra; i miei lunghi capelli sciolti cadevano ondeggianti
sul mio petto velato appena da una tonaca di mussolina; un mantello
di cascemiro rosso mi copriva le spalle: il mio solo gioiello era una
cintura d’oro cesellata alla foggia araba, che incastonava un cammeo
rappresentante Sir William Hamilton. Questo che a mio parere era ancor
superiore al primo fu finito in cinque giorni. Fu quello che fu dato
da Sir William a Lord Nelson, e che questi aveva nella cabina del
_Fulminante_, e che mi fu restituito dopo la sua morte, e che nella
meschina capanna in cui scrivo queste memorie, ancora oggi è appeso
a lato al suo. Nei miei momenti di miseria mi furono offerte fino a
12,000 lire dei due ritratti; non ho voluto mai separarmi da loro; essi
saranno la dote della mia Orazia.

Durante il nostro soggiorno a Londra, Sir William diede qualche serata,
ove fu invitata tutta la _gentry_ della capitale; qualche donna che
aveva creduto opportuno di farsi ritrosa passando al di là della
quarantina, non giudicò conveniente di onorarle della sua presenza;
ma le giovani e belle donne dell’aristocrazia non vi mancarono. Sir
William volle che in due di queste serate rappresentassi alcune scene
di carattere; in una recitai il soliloquio di Giulietta, nell’altra
cantai la scena mimica della Nina.

Quella sera produssi un vero entusiasmo; Romney principalmente era come
un pazzo.

Il giorno dopo scrisse ad uno de’ suoi amici.

«Nella mia ultima lettera credo di avervi informato che era a pranzo
da Sir William e sua moglie; alla sera molte persone della nostra prima
società eransi riunite per udirla a cantare: nel serio come nel comico,
per la sua grazia come per il suo ingegno, essa eccitò l’ammirazione
di tutti; ma la sua Nina sorpassò ciò che si può vedere, ed io credo
che nessuno non saprebbe eguagliarla, per l’anima che vi mette: tutta
la società era a bocca aperta, tanto la sua scena è semplice, grande,
terribile e patetica.»

I miei due ritratti furono imballati colla più gran cura, e Sir William
non volendosi separare da ciò che chiamava _il suo tesoro_, combinò in
modo di prenderseli in viaggio con noi.

Lasciammo Londra il 20 aprile; per curiosità Sir William volle
ritornare per Parigi. L’Inghilterra che doveva fare una guerra così
accanita alla Francia, era ancora in pace con essa. Nulla impediva
dunque a Sir William di seguire a questo riguardo la sua fantasia.

Arrivammo il 26 in buon punto per essere spettatori di una sommossa;
grazie dell’avviso! quella sommossa fu quella che prese il nome dal
sobborgo S. Antonio.

Sir William aveva fatto ogni premura per vedere l’apertura degli Stati
generali che doveva aver luogo il 27.

Arrivando, intese che era rimessa al 4 di maggio.

Invece dell’apertura degli Stati generali, avemmo l’incendio ed il
saccheggio del magazzino Reveillon.

Si sapeva fin dal giorno prima che qualche cosa doveva succedere;
perchè alla sera Sir William entrò con un permesso per vedere la
Bastiglia.

Noi ne approfittammo pel giorno seguente.

Mano mano, che noi ci avvicinavamo alla Bastiglia, la folla si faceva
più numerosa; credevamo di non poter mai arrivare colla nostra carrozza
alla porta d’entrata.

Finalmente ci entrammo, ma in mezzo ai fischi ed alle ingiurie; il
popolo francese mi parve ben mutato dall’epoca in cui l’aveva veduto la
prima volta.

Il signor Delaunay, prevenuto che l’ambasciatore d’Inghilterra e sua
moglie visiterebbero la Bastiglia, ci attendeva per farci egli stesso
gli onori del castello reale.

Ci chiese prima se volevamo vedere i suoi prigionieri, almeno quelli
che gli era permesso di mostrarci.

Mi informai se mi era permesso di liberarne qualcuno.

Il signor Delaunay mi rispose che la sua cortesia non poteva andare fin
là.

— Allora, gli dissi, non potendo far nulla per essi, desidero piuttosto
di non vederli.

— Che volete vedere allora? Parigi dall’alto della torri?

La cosa era molto facile; il signor Delaunay, ci precedeva col cappello
in mano, e per quante istanze gli feci non volle mai metterlo in testa.

Io diceva a me stessa, come mai un gentiluomo tanto cortese e di sì
belle maniere, poteva essere così spietato, o piuttosto così cupido
verso i suoi prigionieri.

Si raccontavano di lui dei tratti di avarizia incredibili. Tutti
gl’impieghi della Bastiglia, fino a quello di guattero, si vendevano
e dipendevano da lui. Con sessanta mila lire di stipendio, dicesi, che
trovava modo di formarsene centoventi, egli guadagnava su tutto: sulla
legna, sul vino. Il terrazzo di un bastione era stato convertito in
giardino per il passeggio dei prigionieri; egli trovò modo di ricavarne
cento franchi l’anno affittandolo ad un giardiniere.

Quando fummo in cima alle torri, da un lato spingevamo lo sguardo fino
in fondo al baluardo del Tempio, dall’altro fino al giardino del re,
verso oriente fino alla barriera del trono, e ad occidente fino agli
Invalidi.

Di là solamente potemmo apprezzare quanto fosse numerosa la folla a
traverso la quale eravamo passati, e che ora dominavamo.

Tutta questa folla si recava verso il sobborgo San Antonio, e sembrava
irritata, ed alcuni in passando facevamo i pugni alla Bastiglia.

Il signor Delaunay se ne rideva.

Gli chiesi donde veniva tutto questo rumore e tutti questi clamori del
popolo.

Mi rispose che il popolo di Parigi, preso da vertigine e pieno di
malvolere, pretendeva morire di fame; ora il cartaio Reveillon, uno di
quegli aristocratici del commercio, — i peggiori fra gli aristocratici,
— sosteneva che l’operaio guadagnava ancor troppo, e che abbisognava
ridurre la sua mercede giornaliera a quindici soldi; si aggiungeva che
doveva essere decorato del cordon nero di S. Michele dalla corte che si
assicurava in lui un elettore realista.

Tutta questa comitiva era diretta verso la sua casa; le grida che
metteva eran grida di morte contro il cartaio.

Per fortuna egli era nascosto, e non lo si trovò in casa: allora in
un momento, con un fascio di paglia, si fabbricò un fantoccio, un
rigattiere recò un abito vecchio, e tostochè il fantoccio fu vestito,
gli si aggiustò un cordone nero al collo, e lo si appese in cima ad una
pertica, e la si faceva passeggiare per le vie di Parigi.

Il corteggio ripassò innanzi alla Bastiglia per andare ad abbrucciare
il fantoccio al palazzo municipale, ma allontanandosi minacciò di
venire il giorno dopo ad appiccare il fuoco alla casa.

— Se voi volete vedere ciò, ci chiese galantemente il signor Delaunay,
ritornate dimani alla stessa ora; sarà una cosa curiosa, io credo.

— Ma, gli diss’io, dal momento che questa gente manifesta apertamente
la sua intenzione, dimani la polizia prenderà le sue misure e si
opporrà.

— Oh Milady, disse ridendo il signor Delaunay, voi vi credete ancora
in Inghilterra ove un conestabile col suo piccolo bastone disperde,
toccando il capo della sommossa, un assembramento di cento mila
persone. Disingannatevi, Milady; noi siamo in Francia, ed in Francia
quando il popolo comincia a farne delle sue, non si ferma là così.
Fatemi l’onore di accettare dimane un asciolvere; metterò un uomo in
sentinella sulle torri per avvertirci quando lo spettacolo comincerà, e
vi prometto alle frutta un saccheggio che sarà forse un incendio.

Guardai in faccia a sir William; egli lesse nei miei occhi il desiderio
che aveva di assistere allo spettacolo promesso; e siccome egli non
aveva altra volontà che la mia:

— Signore, disse, eccettuato l’asciolvere, io e Milady accettiamo
l’offerta che ci fate.

Il signor Delaunay fece un inchino.

— C’è un male, però, signore, diss’egli; le due offerte vanno insieme e
non possono essere disgiunte; mi si offre un’occasione di ricevere alla
mia tavola uno dei primi dotti del mondo forse, e senza dubbio la più
bella donna di Inghilterra, e quest’occasione non la lascerò sfuggire.

Io era maravigliata e nel medesimo tempo accarezzata da questa
galanteria francese, che sorgeva come un fiore naturale fin dalle
fessure delle pietre di una prigione.

— Ebbene, signore, gli dissi, io accetto anche in nome di mio marito:
ma ad una condizione.

— Una condizione posta da voi, Milady, si accetta ad occhi chiusi,
foss’anche quella di consegnarvi le chiavi della Bastiglia; dite questa
condizione.

— Che voi ci darete l’ordinario dei prigionieri, onde mi ricordi di
aver pranzato in una prigione.

— Su questo punto vi posso soddisfare, Milady; vi prometto l’ordinario
dei prigionieri.

— In parola d’onore?

— Da gentiluomo.

— Io gli porsi la mano.

— So bene, gli dissi, che quando un Francese ha detto ciò, si farebbe
piuttosto ammazzare che mancare di parola. A dimani, signore.

E in ciò, ci accomiatammo dal galante governatore della Bastiglia.




XI.


In attesa dello spettacolo promesso pel giorno seguente, sir William
mi chiese dove desiderassi di passare la sera; senza esitare risposi:
alla Commedia francese. Il teatro era e fu sempre la mia passione, e
quando penso che se al momento della mia miseria Drury Lane non fosse
stato incendiato, probabilmente vi avrei fatto le mie prime prove e
sarei diventata la rivale di Maria Siddons, in vece di essere diventata
quella di Aspasia.

Ciò sarebbe stato probabilmente meglio per la salvezza dell’anima mia e
per la tranquillità della mia coscienza.

Si rappresentava la _Berenice_ di Racine.

Sir William mandò a prendere un palco; gli si rispose che non ve
n’erano più.

Nessun palco disponibile! in mezzo alle sommosse ed alla carestia; non
è nemmeno credibile.

Chiedemmo la causa di quell’affluenza; ci si rispose che un giovane
tragico, che da due anni appena calcava la scena, e che otteneva gli
applausi più grandi e più meritati, rappresentava per la prima volta in
quella sera la parte di Tito.

Chiesi che nome aveva; — si chiamava Francesco Talma.

Sir William mi vide talmente contrariata per questo contrattempo,
che scrisse in quel momento al suo collega ambasciatore d’Inghilterra
presso la Corte di Francia per chiedergli se per avventura non avesse
un palco da dargli per la commedia francese.

Sua signoria che probabilmente non era ammogliato, o aveva una moglie
che non amava la commedia, rispose che con suo grande rincrescimento
non poteva soddisfare al desiderio di sir William; Sua signoria non
teneva palco.

Era talmente disperata, che pregai sir William di far salire
l’albergatore e d’interrogarlo per sapere se conoscesse qualche mezzo
per procurarsene uno, ovvero alcuni posti qualunque fossero.

— Non conosco che un solo mezzo, ci disse: scrivere al signor Talma in
persona.

Sir William fece un movimento di rifiuto.

— È un giovane educatissimo, diss’egli a sir William, che conosce la
migliore società di Parigi; è un eccellente patriota, e certamente
se Vostra Signoria si degna di onorarlo, farà tutto ciò che potrà per
procurarle il piacere di vederlo.

Sir William si volse dalla mia parte per interrogarmi su di ciò che
doveva fare; egli mi trovò colle mani giunte e col viso supplichevole.

— Ebbene, diss’egli, giacchè lo vuoi.

Prese la penna e scrisse:

  «Sir William Hamilton ambasciatore di S. Maestà Britannica, e Lady
  Hamilton sua moglie hanno l’onore di presentare i loro complimenti
  al signor Talma e di esprimergli il desiderio di vederlo a
  rappresentare questa sera la parte di Tito; tutte le loro premure
  per procurarsi un palco sono state vane; essi si trovano obbligati,
  anche a rischio di rendersi importuni, di ricorrere a lui e di
  chiedergli due posti nella sala, qualunque fossero, purchè una Lady
  vi possa andare».

                                                   «27 aprile 1789»

— V’incaricate voi di far ricapitare questa lettera al signor Talma?
dimandò sir William all’albergatore.

— Certamente, è la cosa più facile del mondo.

— E di farci avere la risposta?

— Più ancora, mylord, disse il nostro albergatore; per essere sicuro
che la commissione sia ben eseguita, vado a farla io stesso.

E senza aspettare i nostri ringraziamenti, partì portando seco la
lettera.

— Davvero, mormorò sir William, a malincuore bisogna convenire che
questo popolo francese è pure assai garbato; peccato che sia tanto
leggiero.

Sir William era lungi dal dubitare che i francesi si correggessero
presto della qualità per cui li lodava, e del difetto di cui li
rimproverava.

In capo ad un quarto d’ora il nostro albergatore ritornò tutto giulivo;
aveva un viglietto in mano.

— Voi avete un palco? esclamai scorgendolo.

— Sì, l’ho, diss’egli, sollevando in aria il viglietto, eccolo.

Gli presi di mano il viglietto; esso racchiudeva una piccola cartolina
con queste cinque parole:

  — _Buono pel mio palco_. —

                                                            TALMA.»

e più sotto.

  — _Entrata degli artisti_. —

Io m’impossessai tutta contenta del palco.

— Aspettate, mi disse sir William; Tito ci fa l’onore di risponderci.

— Ah vediamo, e lessi:

  «Il cittadino Talma è dolentissimo di non poter offrire
  all’illustre sir William Hamilton ed a Milady Hamilton che il
  suo palco posto sulla scena. Ma, come si trova, glielo offre
  coll’espressione della sua riconoscenza la più tenera, per avere
  voluto pensare a lui.

                                                  «27 aprile 1789.»

Era impossibile di contenersi meglio nei limiti della convenienza più
assoluta.

Alle sette ore e mezza precise noi eravamo in teatro. Il portiere che
ci attendeva al portone ci fece attraversare la scena, e ci condusse al
palco.

Era facile di vedere che colui che ce lo prestava ci aveva messo tutta
la galanteria di cui è capace un artista.

Un grande specchio decorava una parete; i mobili erano coperti da
stoffe turche ricamate in oro; questo palco mi ricordava in miniatura
lo studio di Romney.

Io era incantata di essere sulla scena, e aveva un piacere dieci volte
maggiore che se fossi stata nella sala, fosse stata pur messa a mia
disposizione la loggia reale.

Aspettava con impazienza che si levasse il sipario. Ma per questa
attesa ebbi anche uno spettacolo più curioso di quello della tragedia,
quello del dietro scena.

Tutti gli artisti si trattenevano dal loro collega Talma, e si facevano
dimande sulle nuove eccentricità della foggia di vestire che egli si
sarebbe permesso. Essi chiamavano eccentricità quel lavoro pieno di
scienza a cui si dedicava Talma per ricondurre il teatro alla verità
storica. In fine la campana si fece sentire, si diedero i tre colpi, il
direttore dispose gli artisti, e si levò il sipario.

Confesso che quando Talma entrò alla prima scena del secondo atto,
misi un grido di ammirazione. Mi sembrava di veder camminare una statua
romana.

La testa particolarmente era superba, i capelli tagliati corti ed
arricciati alla foggia antica, la corona d’alloro d’oro posava sui suoi
capelli; il mantello di porpora, non già attaccato ma gettato senza
cura sulle spalle, permetteva a chi lo portava di avvolgerselo in mille
guise; tutto ciò dava una singolare verità all’artista che riconduceva
gli spettatori a 1700 anni addietro.

Tutti gli altri commedianti mi sembravano maschere.

La parte di Berenice era sostenuta, per quanto mi posso ricordare, da
una giovine e bella artista chiamata madamigella Vestris; essa aveva un
abito all’antica, i capelli incipriati e il guardinfante.

Quando entrò alla quarta scena del second’atto, e si trovò in presenza
di Tito, fece dapprima un movimento di sorpresa, poi represse un
violento scoppio di riso; Tito aveva le braccia e le gambe ignude,
mentre gli altri avevano delle maglie di cotone, e dei calzoni di seta.

Pure declamò con tutta l’anima che potè mettere nella sua lunga
parlata, che cominciò con questo verso:

    «Non ti lagnar, signor, se un indiscreto
    zelo mi spinse.... ecc.

e finisce:

    «Signor! presente almeno ero al pensiero?»

Ma finito questo verso, invece di ascoltare la risposta di Tito, lo
guardò da capo a piedi, mentre che Tito le diceva alla sua volta:

    «Donna, non dubitar! n’attesto il Cielo,
    Berenice a’ miei occhi è ognor presente,
    Tempo od assenza ti rinnovo il giuro,
    Non possono rapirti al cor che t’ama.

— Mi perdoni Iddio, Talma, mormorò la donna, ma voi non avete la
parrucca, ma voi non avete la maglia; ma voi non avete i calzoni.

Poi mentre Talma avea finito quanto doveva dire, le rispose:

— Cara amica, i Romani non ne portavano.

Ed essa ripigliava con una nuova tenerezza:

                              «E vuoi giurarmi
    Un affetto immortal, se tu mel giuri
    Freddamente così?

Confesso che mi gettai indietro sullo sfondo del palco per poter ridere
in tutta libertà, mentre Sir William, nella sua qualità di antiquario,
si sfiatava a dire:

— Ma ha ragione, ha perfettamente ragione. Bravo quel giovane, bravo;
voi sembrate una statua trovata ad Ercolano od a Pompei. _Perge sic
itur ad astra._

Il tragico fece un leggiero inchino verso di noi in segno di
ringraziamento.

— Chi sono quelli che hai nel tuo palco? chiese con un fare sgarbato
madamigella Vestris seguitando a recitare.

— Sono artisti inglesi, rispose Talma con un leggiero sorriso, che
faceva valere anche per conto dell’amore che Tito aveva per Berenice.

— Sì, sì, artisti, signor Talma, esclamai io applaudendo, avete
ragione, veri artisti.

I miei applausi raddoppiarono alla parlata di Tito; questa parlata,
che aveva insieme del disordine, dell’amore e della dignità, fu
ammirabilmente declamata dal giovine tragico.

Quando calò il sipario verso la fine del secondo atto, si udirono
grandi applausi nella sala, si gettavano quasi fuori dei palchi e
gridavano _bravo_. Ove noi eravamo non potevamo vedere; ma gli artisti
si avvicinavano al sipario e guardavano dal foro che vi era praticato.

— Che c’è, che c’è dunque? chiedevano gli altri commedianti, a quello
che aveva la fortuna di stare a quel foro.

— Bene, rispose, non ci mancava che questa.

— Ma che cosa?

— Ecco che quel pazzo di Talma ha trovato degli imitatori.

— Come? soggiunse uno del commedianti; vi sarebbe qualcuno in platea,
che per avventura sia senza calzoni?

— No, ma vi è un giovane presso l’orchestra, che dopo l’atto è andato
probabilmente a farsi tagliare i capelli: è acconciato _alla Tito_, ed
è lui che si applaudisce.

Fra il secondo ed il terzo atto l’esempio fu imitato da tre o quattro
giovani. All’ultimo atto Talma aveva una ventina di imitatori nella
sala.

È inutile dire che da quella sera venne la moda di portare i capelli
alla Tito.

Quando calò il sipario al quinto atto. — Dio mi perdoni questa empietà
sul mediocre intreccio della Berenice, — sir William, prevenendo
i miei desideri, fece dimandare dal portiere _il cittadino_ Talma:
— ricordiamoci che questo era il titolo che aveva preso quando ci
scrisse, — se potevamo ringraziarlo nel suo camerino.

Ci fece subito rispondere che era un grande onore per lui, che non
avrebbe ardito di aspettarsi; ma poichè noi eravamo disposti di
farglielo, lo accettava con riconoscenza.

C’incamminammo verso il suo camerino: il corridojo era ingombro; però
vedendo una signora che sembrava essere dell’alta società, ciascuno si
ritrasse verso il muro, di modo che riuscimmo ad entrare.

Tito ci aspettava alla porta per farci gli onori del suo camerino;
la nostra meraviglia fu grande quando rivolgendosi a noi in perfetto
inglese, ci chiese, o piuttosto chiese a sir William se voleva o no
conservare l’incognito.

Sir William rispose che non aveva alcun motivo di nascondere _l’onore
che egli faceva a sè stesso_ venendo a ringraziare un grande artista,
facendogli i suoi complimenti, e che anzi desiderava di essere
presentato alla società che si trovava nel suo camerino, e che
dall’apparenza doveva appartenere alla classe più intelligente della
società.

Sir William non s’ingannava: Talma ci presentò successivamente il
poeta Mario Giuseppe Chenier, di cui dovea rispondere il _Carlo IX_;
Ducis di cui facea fede il Macbet, il giovine Arnault di cui studiava
il _Mario a Minturno_; La Harpe che lo tormentava per rappresentare
il suo _Wasa_; il pittore David che gli dava i modelli del vestiario;
il cavalier Bertin che cinque o sei mesi prima avea pubblicato il suo
libro degli amori, e che al giorno seguente o l’altro doveva partire
per S. Domingo, ove dovea morire l’anno dopo; Parny, che si chiamava
il Tibullo francese, e che era in procinto di cantare la sua Eleonora,
mentre suo fratello, con minor poesia forse ma con altrettanto spirito
cantava madamigella Comtas. Infine cinque o sei altri giovani, che
avevano tutti un nome, od erano per farselo.

Sir William ebbe la sua corte, ed io la mia. Egli entrò in una
discussione sul modo di vestire degli antichi con David e Talma: mentre
io faceva sui loro versi i complimenti al cavalier Bertin e Parny e
essi me ne facevano sulla mia bellezza.

Sir William sempre preoccupato dei miei trionfi me ne procurava uno.

Egli invitò Talma, pregandolo d’invitare tutti gli amici che si
trovavano nel suo camerino, di venire a passare la serata di domani
all’hôtel des Princes.

Se Talma consentiva a declamare dei versi di Corneille, di Racine e di
Voltaire, Lady Hamilton declamerebbe da parte sua il Shakespeare.

Talma era pregato di prevenire i suoi amici che la serata sarebbe
terminata con una cena.

L’invito fu accettato all’unanimità; e ci ritirammo.

Noi avevamo, se vi ricordate, da ricondurvi per le due ore del giorno
alla Bastiglia per asciolvere col governatore.




XII.


Ritornando, ringraziai Sir William Hamilton della piacevole serata che
mi aveva fatto passare; l’arte in fin dei conti, mi sembrava sempre il
mezzo al quale era destinata, e se seguitando la mia vera vocazione,
avessi potuto entrare in un teatro, avrei certamente lasciato una
riputazione eguale a quella di M. Champmesle e di mistress Siddons.

Il giorno seguente alla mattina feci venire due sarte, e feci loro il
disegno di due vestiarj, che desiderava di avere per la sera; quello di
Ofelia e di Giulietta. Dissi loro di prendersi in aiuto quante operaie
volessero, purchè i due abiti fossero finiti per le otto ore della
sera.

Le due sarte m’impegnarono la loro parola, e tanto sicura su questa
parola, come lo era stata il giorno innanzi sulla _fede di gentiluomo_
del signor Delaunay, salimmo in carrozza alle nove ore e mezza per
condurci alla Bastiglia; ma arrivando al baluardo del Tempio, la
folla era così grande, che ci fu impossibile di andare innanzi. Allora
prendemmo la via del Tempio, e giungemmo sulla banchina della Senna
dalla parte del baluardo Bourdon. Da questa parte lo spazio era libero,
la sommossa non passava per la Bastiglia, ma volgeva a sinistra verso
il sobborgo S. Antonio.

Il signor Delaunay ci attendeva e la tavola era messa con un gran
lusso: c’invitò ad asciolvere senza ritardo, atteso che la sommossa
sarebbe verosimilmente nel suo splendore verso mezzogiorno.

Alla prima portata, la profusione delle vivande e la finezza del vini
ci accusavano che il signor Delaunay non aveva mantenuto la sua parola
di darci l’ordinario dei prigionieri.

Ma egli al contrario:

— Milord, disse, voi mi avete imposto delle condizioni, ma in esse
mi avete lasciato tutta la latitudine. Noi abbiamo alla Bastiglia
prigionieri e prigionieri; prigionieri che sono principi del sangue,
fino ai motteggiatori; ora per il vitto di un principe del sangue
sono fissate cinquanta lire al giorno, per quello di un maresciallo di
Francia trentasei, per quello dei generali e brigadieri ventiquattro
lire, per quello di un consigliere quindici lire, per quello di un
giudice ordinario dieci lire, per quello di un ecclesiastico sei lire,
e per un motteggiatore uno scudo.

— Ebbene? gli domandai, non indovinando molto a che serviva questa
lunga enumerazione.

— Ebbene, soggiunse, io vi tratto da principi reali, ecco tutto.

— Noi abbiamo allora la colezione del signor de Beaufort? gli domandai.

— V’ingannate, cara amica, disse sir William; il signor de Beaufort non
è stato alla Bastiglia, ma a Vincenne; è il signor de Condè che è stato
alla Bastiglia.

— Come? è qui che egli coltivava i suoi garofani! se ve rimane ancora,
me ne dareste uno, signor governatore?

— V’ingannate ancora, disse sir William, quello che faceva il
giardiniere era Luigi II, il gran Condè. Anch’egli è stato a Vincenne,
a meno che non consideriate per essere stato alla Bastiglia l’esservi
nato; allora è Enrico II suo padre, un sovrano assai triste che è stato
alla Bastiglia.

— Alla buon’ora, disse il signor Delaunay; ecco un dotto inglese che
può istruirmi sulla storia della mia fortezza. Alla salute della Torre
di Londra, e che sgombri sempre i re d’Inghilterra dai suoi nemici,
come la Bastiglia liberi i re di Francia dai suoi. Posso affermare a
Vostra Signoria che il duca di Clarence non è stato annegato in un vino
migliore di quello ch’ella beve in questo momento.

Avevamo appena vuotato i nostri bicchieri per dare ragione al signor
Delaunay, quando venne uno ad annunciarci che se noi volevamo vedere la
sommossa in tutta la sua bellezza, non avevamo un momento da perdere.

Il signor Delaunay ci voleva trattenere a tavola; ci affermava che
avevamo tutto il tempo; ma la curiosità vinse: insistemmo e salimmo
sulla torre più vicina al sobborgo S. Antonio.

Difatti, appena giunti a quel punto elevato, da cui non ci poteva
sfuggire alcun particolare, noi vedemmo quella scena terribile in tutta
la sua sconcezza.

— Ah! perdio! ci disse il signor Delaunay, volgendosi pian piano
verso sir William: io posso non solamente mostrarvi il saccheggio di
Reveillon, ma lo stesso Reveillon in persona.

— In che modo?

— Dimenticava di dirvi che ieri mattina, egli, sapendo che era
minacciato nientemeno che di essere appiccato, è venuto a dimandarmi un
asilo che io, ben inteso, gli accordai. Vedete quell’uomo piccino coi
capelli crespi, col viso contratto, che sembra prendere tanto interesse
a ciò che succede, e che si china fuori dal parapetto in modo da far
credere ch’egli voglia gettarsi dalle mura?

— È lui?

— Egli stesso.

E perchè non ne dubitassimo:

— Eh! signor Reveillon, disse egli, che pensate voi di ciò che succede
laggiù?

Reveillon raccapricciò.

— Io penso, signor governatore, disse egli, che se la Corte non avesse
bisogno di una sommossa per guadagnar tempo per gli Stati Generali,
si sarebbero spicciati presto con questa massa di saccheggiatori:
guardate! non è mica una derisione?

Vi sono circa a due mila che saccheggiano la mia casa, e che
probabilmente vanno a metterla in fiamme. — Ebbene, il signor di
Besenval vi manda — quanti? — contiamoli: — dieci — quindici — venti
— venticinque — trenta. — Il signor di Besenval invia trent’uomini
per contenerne due mila, senza contare centomila spettatori che vi si
divertono, e per conseguenza li spingono a continuare.

— Signor Reveillon, signor Reveillon, disse il signor Delaunay, mi
sembra che voi parlate assai leggermente del governo di Sua Maestà, e
mentre vi trovate alla Bastiglia vi potrete anche restare.

— Oh! disse il poverello, che la vista dei suoi mobili che gettavano
dalla finestra metteva alla disperazione; io sono ben tranquillo; non
è per i pari miei che la Bastiglia è fatta, ma per i gran signori; per
voi, per esempio, se lo voleste.

E si fermò esitando.

— Ebbene? chiese ridendo il governatore.

— Voi non avreste che a dire una parola, e mi salvereste; perchè dimani
sarò ridotto alla miseria.

— E quale parola avrei a dire?

— Voi non avreste che a dire: «fuoco,» ed uno dei vostri cannoni non
avrebbe che ad obbedire, e la piazza sarebbe tosto sgombra.

— Ma, disse sir William al governatore, mi sembra che quest’infelice
non abbia tutti i torti.

— Anzi, rispose il signor Delaunay, egli ha invece tutte le ragioni;
ma io sono comandante di un castello reale, io non posso movere un
cannone, nè abbrucciare un’esca senz’ordine del re.

Intanto il saccheggio andava crescendo. Dopo il saccheggio venne
l’incendio; le fiamme cominciavano ad uscire dalle finestre. Allora
vennero alcune compagnie di guardie francesi e fecero fuoco; due o
tre di quel miserabili caddero, ma gli altri respinsero i soldati a
colpi di pietra. — Io cercai cogli occhi di vedere Reveillon; non vi
era più: senza dubbio la vista del saccheggio della sua casa l’aveva
così profondamente rattristato, che non aveva potuto sopportarla più a
lungo, ed erasi forse ritirato in qualche camera della Bastiglia.

Finalmente dopo due o tre ore, durante le quali si lasciò sbizzarrire
a lor talento i saccheggiatori, vennero gli Svizzeri. I rivoltosi
volevano fare a questi ciò che fecero alle guardie francesi; ma gli
Svizzeri non erano di sì buona pasta, fecero fuoco davvero non già a
polvere ma a palla, uccisero una ventina di persone e dispersero non
solamente i saccheggiatori ma anche i curiosi.

Poi entrarono nella casa, trascinando fuori per la via degli uomini
che sembravano morti e invece erano soltanto ubbriachi; quelli là li
avevano trovati in cantina; ma alcuni, credendo di bevere il vino
di Reveillon, avevano bevuto i colori della fabbrica, e morirono
avvelenati.

In complesso vidi che una sommossa non era una cosa gaia come credeva;
quella aveva cominciato coll’appiccare un fantoccio, e terminò col
saccheggio e coll’incendio di una casa, oltre la morte di cinque o sei
soldati e di una ventina d’uomini, che per essere dei miserabili non
erano nemmeno uomini.

Noi ringraziammo il signor Delaunay della sua sommossa e del suo
asciolvere; ma gli confessammo che la vista dell’una c’impediva di
finir l’altro.

Lasciammo quindi a metà il suo ordinario dei principi reali, che, —
debbo confessarlo, — era eccellente, e più facilmente che non eravamo
venuti ritornammo a casa.

Quando quattro mesi dopo udimmo a Napoli la presa della Bastiglia e la
morte del signor Delaunay, le due notizie ci fecero una impressione più
profonda, avendo conosciuto il castello ed il suo comandante.

Solamente, si dimanda, quando si è veduto l’altezza delle torri, lo
spessore delle mura, e la forza delle porte; come mai un popolo male
armato, mal comandato, senza cannoni, senza macchine di guerra, prende
una fortezza come la Bastiglia?

La questione si agita da venticinque anni, e la risposta non è ancor
fatta.

Una volta ritornata a casa, mi occupai più dei preparativi della nostra
serata. Vi metteva un certo vezzo particolare a conquistare i suffragi
di una tale riunione di uomini intelligenti. Temeva solamente che gli
avvenimenti della giornata non facessero torto ai nostri progetti della
sera.

Ma io non conosceva ancora i Francesi, questo popolo proteiforme che
trova tempo per tutto, che maneggia nello stesso tempo con eguale
indifferenza, direi quasi colla stessa abilità, il fucile, la matita e
la penna; che alla mattina fa una sommossa, alla sera coltiva le arti,
e tutto ciò con una ferocia ed una delicatezza che non appartiene che a
lui.

Alle otto ore le due sarte mi avevano mantenuto la parola, ed io
aveva i miei due abiti; l’esattezza colla quale i nostri invitati si
presentarono dalle nove alle nove e mezza ci provarono il piacere che
avevano di trovarsi al convegno.

Si parlò dapprincipio della novella del giorno, della sommossa; vidi
con stupore che tutti questi artisti, tutti questi poeti, tutti questi
pubblicisti erano dello stesso parere, e se non ne incolpavano la corte
erano almeno dell’avviso del povero Reveillon che vedeva abbrucciare
il suo magazzino, cioè che la corte non si era opposta quanto avrebbe
potuto.

Il poeta Chenier ed il pittore David andavano più oltre, e pretendevano
che non solamente la Corte non si era opposta alla sommossa, ma che
l’impulso veniva da essa. Essa sperava, dicevano costoro, che tutta
questa turba affamata, tutti questi uomini senza pane, cinquantamila
operai senza lavoro si unirebbero ai turbolenti e si metterebbero a
saccheggiare le case dei ricchi; allora tutto muterebbe d’aspetto, la
Corte avrebbe un eccellente motivo per concentrare una armata sopra
Parigi e Versaille, e un pretesto eccellente per aggiornare gli Stati;
ma, contro l’aspettazione della Corte, la moltitudine era rimasta
onesta e si era astenuta.

Queste cose le dicevano con una tale convinzione, ed i loro uditori
erano disposti a convenire nel loro avviso, che la mia coscienza ne era
molto scossa. Quanto a sir William, la sua riserva diplomatica non gli
permetteva di essere apertamente di questa opinione, ed io osservava
che la lasciava manifestare senza altrimenti combatterla con dei
_forse_ e dei _credete voi_.

Ma siccome la riunione non aveva uno scopo politico, a poco a poco
si cessò di parlare di affari, per ritornare alla poesia ed alla
letteratura.

Il signor Talma, come ci era stato detto, era un uomo di un giudizio
affatto superiore. Disponendosi a declamare l’_Amleto_ di Ducis, si
rammaricava con lui di dover molto sagrificare il gusto francese.

Mi parve che allora era il momento di far propendere la bilancia
dalla parte di Shakespeare, e senza dir nulla entrai nella camera
vicina; cinque minuti mi bastarono per addossare l’abito di Ofelia;
e la discussione animata da sir William, che aveva compreso la mia
intenzione, continuava ancora. Quando ad un tratto si aperse la porta,
e nella oscurità opportunamente procurata nella stanza vicina, apparvi
pallida e coll’occhio fisso come lo spettro di Ofelia, non vi fu che
un grido nella sala, e ciascuno si ritrasse istintivamente innanzi a me
per farmi posto.

La pazzia d’Ofelia, e le scene di Giulietta al balcone erano il mio
trionfo. Io era riescita ad assicurarmelo tre o quatto volte a Londra,
ove aveva declamato le due scene. La cosa era completamente nuova e per
conseguenza doveva produrre un effetto maggiore; ma anche poche persone
comprendevano l’inglese, e bisognava indovinare dalla mia fisionomia
l’intenzione del poeta.

Per fortuna questa splendida scena della pazzia d’Ofelia non aveva
bisogno di spiegazione, tanto la mimica che l’accompagna può diventare
parlante; quasi ad ogni verso io era interrotta dagli applausi, che
invece di aumentarne l’effetto non potevano che diminuirlo.

Anche Talma prevenendo il mio desiderio, supplicò che mi lasciassero
almeno finire senza essere interrotta nei differenti periodi che la
scena presenta.

Lo ringraziai con un segno di testa, e senza interrompermi nè essere
interrotta, continuai sino alla fine della prima scena:

«Addio Milady, — la carrozza.»

Ma allora fu un vero scoppio d’applausi. Talma, chiedendomi perdono
della famigliarità, si slanciò verso di me, e dichiarò che io era per
niente affatto l’ambasciatrice d’Inghilterra, ma mistress Siddons che
viaggiava incognita.

In conseguenza di ciò mi baciò la mano.

Confesserò di sfuggita che mai un gran signore, principe o re che mi
avesse baciato la mano, non mi fece il piacere, anzi direi l’onore che
mi fece Talma in questo momento.

E sir William lo comprese bene, egli così artista, poichè da parte sua
prese la mano di Talma con un’affezione in cui entrava una parte di
riconoscenza.

Corsi via dalla sala in mezzo alle grida che mi richiamavano. Si
credeva la scena finita, ma Talma dichiarò che la scena era stata
solamente declamata per metà e che rimaneva l’altra, vale a dire la più
pittoresca e la più drammatica.

Io non voleva lasciar spegnere l’entusiasmo dei miei ammiratori; e
ricomparvi quasi subito coi miei capelli sciolti, colla mia corona di
papaveri e di avena selvatica, i miei fiori campestri e il mio velo.

Ho già detto una volta l’effetto che produssi in questa scena; si
perdoni al mio orgoglio di ripeterlo; sono i soli trionfi che non mi
hanno lasciato dei rimorsi, era la scintilla che aveva in me e che si
manifestava: era la fiamma artistica che mi coronava della sua aureola.

Perchè Dio non ha permesso che io venissi nel mondo della intelligenza,
invece di venire nel mondo della grandezza?

È inutile dire che il mio trionfo fu ancora più grande la seconda volta
che la prima, e finì con una vera rampogna che Talma fece al povero
Ducis per avere _sfigurato_ l’Amleto di Shakespeare, al punto di non
avere osato di introdurvi le due scene che io aveva rappresentato.
Ducis sembrava interamente convertito all’idea di Talma; ma mi parve
che volesse meglio lasciare il suo Amleto tale e quale era, che di
rifarlo. Come l’abate Vertot il suo giudizio era fatto.

— Ve l’aveva ben detto, ve l’aveva ben detto, ripeteva Talma; colla
vostra smania di tutto accomodare, è come il mio monologo, come il
famoso _Be or not to be_ che voi mi avete guastato. Guardate, mio
caro Ducis, volete vedere come era in inglese? Guardate ed ascoltate.
All’istante tutti gli fecero posto; mise per un momento la sua mano
sul viso per dar tempo alla sua fisionomia di scomporsi: poi lasciando
cadere lentamente la mano, colla fronte alta, l’occhio fisso, la
testa bassa, cominciò in inglese, con un perfetto accento, il famoso
interrogatorio, in cui la vita costringe la morte a confessarle i suoi
segreti.

Talma fu sublime. Oh! se io fossi stata libera, se mi fosse stato
permesso di rompere la mia catena dorata, oh come gli avrei detto:
prendetemi, elevatemi con voi all’altezza ove voi poggiate, e non mi
lasciate ricadere sulla terra se non attaccata al vostro cuore.

Ahimè! io aveva altri destini. Perdonatemi mio Dio, di non aver saputo
scegliere, o piuttosto di non aver saputo aspettare.

A che serve dire il rimanente di questa serata d’ebbrezza! Dopo
ventidue anni essa risplende ancora nella notte del passato, più
splendida dei miei giorni più ridenti.

Restammo riuniti fino a giorno, senza che a nessuno dalle nove di
sera fino alle sei del mattino fosse venuto in mente una sola volta di
osservare l’orologio.




XIII.


Due giorni dopo, il 30 aprile, ricevemmo dall’ambasciatore
d’Inghilterra dei viglietti per assistere all’apertura o piuttosto alla
processione degli Stati generali a Versaille.

La nostra partenza era fissata pel 5 aprile.

Se gli Stati venivano ritardati ancora un’altra volta, noi
continueremmo il nostro viaggio. Sir William non intendeva di
prolungare il suo soggiorno a Parigi.

Alle tre ore di sera andammo a dormire a Versaille. L’ambasciatore
d’Inghilterra aveva preso a pigione una casa per la metà dell’anno,
presumendo che era là particolarmente che si sentiva battere il polso
della nazione; ci aveva dato due camere al primo piano di questa casa,
situate lungo la via che doveva percorrere il corteggio.

Noi andammo prima in una tribuna per ascoltare la messa dello Spirito
Santo. Non so se molti pensarono a queste parole della Scrittura:

«Tu griderai ai popoli e la faccia della terra sarà mutata».

Un po’ prima, verso la fine del _Veni Creator_, uscimmo per andare a
prendere posto sul cammino della processione.

Le larghe vie di Versaille, tutte parate con tappezzerie della corona,
fiancheggiate da guardie francesi e svizzere non potevano contenere la
folla.

Tutta Parigi era a Versaille; le porte, le finestre, i tetti, gli
alberi stessi erano carichi di spettatori; i balconi coperti di stoffe
magnifiche, e scialli preziosi: i davanzali e le ringhiere piene di
signore cariche di piume e di fiori. Si sarebbe detto che al momento
di lanciarsi nell’arena della guerra civile, le donne, che poco dopo
doveano essere colpite dalle leggi sommarie dell’eguaglianza, avevano
preso quest’occasione per mostrarsi ancor una volta in tutta la loro
gloria e la loro eleganza.

Era evidente che un gran fatto cominciava: quale ne sarebbe stato il
risultato, tutto il mondo l’ignorava ancora.

Noi vedemmo da principio apparire in fondo alla via come un’onda nera:
era il terzo Stato. Cinquecentocinquanta deputati, fra i quali trecento
legali, avvocati, magistrati; tutti nomi ignoti o poco meno, eccettuato
uno che pei suoi scandali, — bisogna che io sia franca come sempre, —
era quello che io era principalmente venuta per vedere.

Onorato Riquetti de Mirabeau.

Il suo nome ed i suoi amori eransi resi celebri in Francia e fuori; i
suoi ratti, i suoi adulteri, le sue prigioni formavano un romanzo più
commovente, più spettacoloso, più terribile dei romanzi ideati nelle
immaginazioni dei poeti.

Non aveva che una sola dimanda:

— Dov’è Mirabeau? dov’è Mirabeau?

Me lo indicarono.

Lo vidi da lontano; stese indietro quella testa dominatrice, distinta
per la sua potente bruttezza, che scuoteva a guisa di un leone una
foresta di capelli. Era la società dell’epoca tutta intiera riassunta
in un uomo solo, lo ripeto in un uomo solo, perchè gli altri a lui
vicino non sembravano che ombre.

Lo seguii cogli occhi quanto lo potei lontano.

Il suo passaggio, o piuttosto quello del terzo Stato scatenò una
tempesta di applausi e di bravo, che cessò quando apparve la nobiltà.

All’opposto del terzo Stato rimarchevole per la semplicità ed
uniformità del suo vestire, la nobiltà vestita di seta e di velluto
presentava un assortimento di tutti i colori più vivi, ornati di
ricami sfarzosi. Dimandai il nome di una ventina di queste illustri
oscurità: nessun uomo mi era noto. Mi mostrarono Lafayette, l’eroe
dell’America; mi aspettava di vedere una di quelle vigorose nature
chiamate dalla provvidenza per sostenere colla parola, colla penna e
colla spada i grandi principii. Vidi invece un giovane smilzo, pallido
o piuttosto biondo e rosa, che non dava alcun indizio della parte che
avea rappresentato nel passato, e specialmente di quella che avrebbe
rappresentata nell’avvenire.

La nobiltà passò. Il duca d’Orleans solo fu applaudito freneticamente;
si sapeva di far disgusto alla regina, e s’inferocivano nella vendetta.

Da molto tempo vi era una guerra dichiarata fra Filippo d’Orleans e
Maria Antonietta; si davano a quest’antipatia i motivi più strani; essa
durava da otto o nove anni, e non doveva estinguersi che sul patibolo,
su cui salirono a ventidue giorni di distanza l’uno dall’altra.

Dopo la nobiltà veniva il clero; il silenzio era lo stesso. Nel clero
solamente sembravano riuniti i due ordini che noi avevamo poco prima
veduti a passare separati.

Nobiltà e terzo Stato.

Difatti precedeva una trentina di prelati in rocchetto e veste
pavonazza.

Poi un coro di musicanti.

Poi infine, dopo i musici, duecento curati circa colla loro veste nera
da prete.

A questi ultimi il popolo senza applaudirli si avvicinava
istintivamente. Erano il popolo della Chiesa che nei primi secoli non
ha soltanto rappresentato il popolo, ma anche tutelata la libertà del
popolo.

Forse si era un poco allontanato da questa missione, ma non si chiedeva
meglio che di perdonargli, tanto erasi ricondotto sulla buona via.

Il Re alla sua volta ottenne qualche applauso: ma era lontano da quelli
prodigati a Mirabeau ed al duca d’Orleans.

Poi venne la regina. Fra il mio primo e il mio secondo viaggio a
Parigi, si era fatto in lei un cambiamento terribile; Invece di quella
graziosa dolcezza del suo viso, aveva nella sua fisonomia qualche cosa
di secco, di smunto, d’ingrato.

Le si gridò alle orecchie: «_Viva il duca d’Orleans_,» ed in mezzo alle
grida si fece udire un fischio. Essa impallidì e pensò a svenire; fu
sostenuta.

Essa passò.

La storia di ciò che aveva sofferto era scritta sul suo volto, già
fatto di marmo, e non era ancora, povera donna, che al principio di ciò
che doveva soffrire.

Del resto quasi tosto, richiamando il suo coraggio, rialzò la
testa, mandò intorno ad essa uno sguardo di sfida più di odio che di
corruccio, poi riprese il suo fare abituale, sdegnoso ed indurito.

Passata la regina, lasciai la finestra ed andai a sedermi; io provava
lo stesso effetto come se mi avessero messo un pezzo di ghiaccio sul
cuore, e se mi avessero detto; questa spranga di ferro non volendosi
piegare, sarà spezzata, io non mi sarei punto maravigliata.

Ci riposammo un istante; poi avendo veduto ciò che volevamo vedere,
ripartimmo per Parigi.

Durante la via, sir William mi spiegò la situazione: era una vera lotta
che si agitava fra il basso clero, il terzo Stato ed i prelati e la
nobiltà sostenuti dal Re.

Tutte queste questioni erano troppo gravi per potervi fermare
lungamente il mio pensiero. La mia cattiva sorte volle che mi fossi
mischiata colla politica di un altro paese; ma io vi fui trascinata da
un doppio motivo: dalla mia profonda amicizia per la regina, e dal mio
amore irresistibile per Nelson. Lo so che un giorno nè l’uno nè l’altro
mi serviranno di scusa, ma voglio piuttosto, dovendo rendere un conto
così terribile, renderlo in nome del mio amore e della mia devozione,
anzichè in nome del mio interesse personale.

Lasciammo Parigi il giorno dopo, il 5 maggio 1789; prendemmo la via del
Belgio e della Svizzera; attraversammo il S. Gottardo, scendemmo pel
lago Maggiore, arrivammo a Livorno in posta, e vi trovammo la nostra
feluca, ed il 20 di maggio mettemmo piede all’Immacolatella.

Ritornando all’ambasciata, sir William trovò un viglietto del Re
concepito in questi termini:

  «Il giorno dopo del vostro arrivo, mio caro sir William, vi aspetto
  a pranzo con noi al palazzo di Caserta; ma la regina, che desidera
  di fare una conoscenza colla vostra graziosa sposa, una conoscenza
  più intima, che non si può fare in una presentazione ufficiale,
  l’aspetterà fra le undici ore e mezzodì.»

  «Restate dunque ai vostri affari fino a quattr’ore, ma inviateci
  Lady Hamilton come la colomba dell’arca per annunziarci che voi
  avete messo piede a terra.»

                                                 VOSTRO AFFEZIONATO
                                                      FERDINANDO B.

Sir William rispose:

      «Sire,

  «La colomba sarà da voi all’ora indicata, ma non aspettatevi che
  vi porti il ramoscello d’ulivo. Credo che de qualche tempo non si
  coltiva più quell’albero in Francia.

  «Alla mia volta, nell’ora che mi è assegnata, verrò a ringraziare
  Vostra Maestà di tutta la bontà che ha avuto per me.

  «Ho l’onore di essere con rispetto,

  «Di V. Maestà,

                                              _Umil. ed obb. servo_
                                                       W. HAMILTON.

Come vedete, il mio trionfo era completo.




XIV.


Aveva portato dalla Francia una quantità di abiti. Esitai qualche tempo
nello scegliere la specie di toeletta con cui mi doveva presentare alla
regina. Mi decisi per la più semplice.

Un abito di raso bianco, una piuma bianca nei capelli, uno sciallo
di cascemiro azzurro chiaro sulle spalle, furono tutto il lusso che
sfoggiai.

Alle dieci partii per Caserta: alle undici discesi ai gradini del
grande scalone.

Al primo piano mi si aperse una porta che metteva in un corridoio. La
regina mi aspettava nel suo piccolo appartamento.

Non ho bisogno di dire in che modo mi battesse il cuore; mi sentiva
pallida, tutto il sangue mi affluiva al petto.

Infine dopo tre o quattro porte aperte e chiuse, se ne aperse
un’ultima; e in mezzo ad un’abbagliamento udii il cameriere, che mi
precedeva, pronunziare queste parole:

— Lady Hamilton.

Entrai senza vedere nulla; una densa nebbia si era stesa sui miei
occhi, mi sentiva vacillare, volli fare una riverenza, fui costretta a
tenermi ad una poltrona.

Sentii allora che mi si sosteneva alla vita.

— Che avete Milady? mi disse una voce benevola.

— Perdono, signora, balbettai, l’emozione mi fa l’onore tanto
desiderato e tanto aspettato di trovarmi innanzi a Vostra Maestà.

— Ah! mio Dio, ma io sono dunque assai imponente?

— Voi siete regina, signora.

— Ecco quanto v’inganna; io sono una donna, e una donna che cerca
un’amica; questa amica se voi me la recate, m’avrete dato più di quanto
mai potrei darvi; ciò posto, sedetevi, e lasciatemi contemplarvi a mio
bell’agio.

Feci un movimento per nascondere la mia testa fra le mani.

— Ma volete lasciarmi vedere questo bel viso, che io non ho veduto
finora, che imperfettamente e alla sfuggita?

Allora misi due o tre grida soffocate, e poi diedi in uno scoppio di
singhiozzi; mi era impossibile di contenermi, io soffocava.

— Ah! per esempio, esclamò la regina, non vi credeva pazza a questo
punto: vediamo, vi debbo fare io delle scuse.

— Oh, signora, mormorai appena.

— Civetta, diss’ella, tutt’al contrarlo delle donne che si fanno brutte
nel pianto, essa sa che le lagrime la fanno più bella ancora: vediamo,
non vi è qui che una donna, è dunque inutile di fare la civetta,
lasciatemi asciugare i vostri occhi, e discorriamo.

La regina mi voleva asciugare gli occhi, io mi gettai ai suoi piedi e
le baciai la mano.

— Ecco che va già meglio, soggiunse, e quando vi avrò abbracciata
saremo pari.

Ed essa mi abbracciò.

— Ah bene! disse la regina, ora che sono finiti i capriccietti,
sedetevi qui vicino a me, e siamo buone amiche, meno che voi non lo
vogliate, e allora non sarà colpa mia.

Non trovando di che risponderle, le sorrisi nel modo il più
riconoscente.

— Suvvia, mi disse giuocando coi miei capelli; non mi piacciono le
giornate che cominciano colla pioggia.

— Oh! signora, balbettai, chi mi avrebbe mai detto che una grande
regina, che l’augusta figlia di Maria Teresa....

— Zitto, zitto, o piuttosto, a proposito di regina, so che avete veduto
mia sorella a Versaille; nella sua ultima lettera mi scrive che le cose
vanno alla peggio in Francia, che soffre assai, e deperisce a vista
d’occhio; che vi ha di vero in tutto ciò?

— Ahimè, maestà, io non aveva veduto la regina di Francia da otto anni,
e debbo confessare che in questi otto anni sembra aver dato un addio a
tutto il lato bello e felice della vita.

— Ed io che non la veggo da diciannove anni, che sarebbe mai se la
rivedessi. Povera Antonietta.

— Essa non ha che trentatre anni, replicai, ed a trentatre anni si è
giovane.

— Ma non quando si è regina, rispose Carolina, inarcando le
sopraciglia, e se poi gli affari continuano a farsi serii, toccherà a
noi di....; ma lasciatemi ora osservare la vostra toletta.

— Non so se siete voi che andate bene al vostro abito, o se sia il
vostro abito che vi sta dipinto; ma ciò che vedo si è che siete d’un
gusto squisito; voglio farmene fare uno perfettamente eguale; noi
sembreremo due sorelle.

— Oh! signora.

— Voi sarete la minore, s’intende; quanti anni avete, ventitre?

— Un poco più? ventisei, maestà.

— Il vostro volto ha un difetto impareggiabile, mia cara, quello di
mentire in vostro vantaggio; tutt’all’opposto di me, io sono sempre
sembrata più vecchia di quel che sono; voi non me ne fate perciò i
complimenti, non è vero? Il vostro abito siamo intesi, io ne farò fare
subito uno simile. E chi viene ora a disturbarci? ah sì, è il Re, lo
riconosco al suo passo.

— Il Re, signora, esclamai alzandomi, io non sono così esperta, come
avrete potuto scorgere, in fatto di etichetta; che debbo fare?

— Ma che! voi dovete rimanere; Sua Maestà poi non mi fa mai delle
lunghe visite, i nostri atomi attraenti, come diceva il defunto signor
Descartes, sono ancora da attrarsi.

In questo momento la porta si aperse, ed il Re entrò frettolosamente.

Del resto quando dico il Re; per fortuna che la regina mi aveva
prevenuto col dirmi _che riconosceva il passo del Re_, perch’io
certamente non lo avrei riconosciuto in quella specie di villanzone,
che faceva invasione nell’appartamento di Maria Carolina.

Figuratevi un uomo ancor giovane, di statura alta, assai ben fatto,
quantunque avesse i piedi troppo grandi e le mani troppo grosse;
portava una calzatura da caccia con grandi uose di cuoio, un farsetto
di pelle di daino, una giacchetta e pantaloni di velluto di un colore
abbronzato, con una fronte ed un mento che sfuggivano innanzi ad
un naso enorme, che gli dava l’aspetto non già di un’aquila ma di
un pappagallo: pettinato colle _oreilles de chien_ ed una coda _en
salsifis_, e aveva in mano per le zampe tre tacchini che si dibattevano
e chiocciavano quanto potevano: aggiungete a tutto ciò dei gesti
comuni, ed un accento volgare, e avrete o quasi un’idea di ciò che era
il re Ferdinando IV.

— Buon Dio, disse la regina, che vi è accaduto, signore; io sono solita
a vedervi quando ritornate dalla caccia, ma oggi mi sembra che facciate
meglio, mi pare che abbiate dei polli.

— Ah! mia cara maestra, disse Ferdinando, — egli chiamava con questo
nome sua moglie nei suoi momenti di buon umore; visto che essa gli
aveva o quasi imparato a leggere ed a scrivere; — voi che mi dite
sempre che se non fossi Re, non avrei saputo guadagnarmi il pane,
ecco per provarvi un poco il contrario, osservate un poco questi tre
tacchini.

— Li vedo.

— Fatemi il piacere di palparli.

— E così, signore?

— A voi, a voi, Milady, e me li porse; io non sapeva che fare, esitava.

— Palpate, palpateli, disse egli, e poichè ne dovete mangiare, non ci è
male che vi assicuriate che sono grassi. Spero che avremo a pranzo sir
William.

— Egli avrà l’onore di obbedire all’invito di Vostra Maestà.

— Farà bene, mangerà i tacchini guadagnati da me.

— Ma alla fine, signore, disse la regina con impazienza, terminateci
dunque la storia di queste povere bestie.

— Ah! potete ben dire la mia, essa è abbastanza intimamente collegata
colla loro, perchè potessimo separare l’una dall’altra. Immaginatevi
che passeggiava ieri in giardino, quando incontrai una povera donna
che mi ferma e mi dice: signore, mi hanno detto di mettermi qui per
trovarmi sul passaggio del Re; credete voi che il Re passerà presto?

— Nulla di più probabile, buona donna.

— Come sarà vestito, onde lo possa riconoscere?

Voleva quasi darle i contrassegni di san Marco e di D’Ascoli; ma
preferii di spingere l’avventura sino alla fine.

— Ascoltate, le dissi. Siccome il Re non passeggia tutti i giorni e voi
potreste aspettarlo tutta la notte senza che passi, facciamo di meglio;
se voi avete qualche istanza da presentargli, me ne incarico io.

— Ve ne sarò molto obbligata, disse la buona donna; sono una povera
vedova e non posseggo che tre tacchini; ma se voi mi tenete parola, ve
li regalerò.

— Sono grassi? le dimandai; capirete che non voglio comperare ad occhi
chiusi.

— Come oche, mio caro signore, rispose la donna.

— Allora mercato fatto, venite domani coi tre tacchini, e voi avrete il
vostro ricorso.

— Sì?

— Datelo a me. Dimani ve lo porterò postillato dal Re, io vi restituirò
il vostro ricorso, e voi mi darete i tre tacchini, e ci saremo
sbrigati.

— Prendere e dare?

— Prendere e dare, certamente.

Vedete che non ho mancato al convegno. Aveva messo un uomo in
sentinella e quando venne a dirmi: «C’è abbasso una donna con tre
tacchini» allora discesi, le consegnai il suo ricorso postillato da me;
ed essa mi ha dato i tre polli: povera donna, ho paura che abbia fatto
male i suoi conti.

— E perchè?

— Perchè i giudici non ci baderanno alla mia raccomandazione; ma questa
volta sono a fare, se bisogna, un colpo di stato, perchè si renda
giustizia a questa povera vedova. Se però i tacchini sono teneri.

Ed il Re uscì schiamazzando dalle risa, e tenendo in mano i tacchini
che egli stesso andò a portare in cucina.

La regina lo seguì con uno sguardo che aveva un’impressione
indefinibile di sdegno, e rivolgendosi a me:

— L’avete veduto? mi disse; non ho altro a dirvi di più.

I miei occhi si fissarono su di essa e la osservai minutamente colla
più grande attenzione.

Aveva trentasette anni, come aveva detto, di modo che anche in lei
la bellezza della matrona succedeva alla bellezza da sposa. Aveva
la carnagione bianca delle donne nordiche, i capelli di un biondo
ammirabile, occhi azzurri capaci di rendere tutte le espressioni,
dall’amore il più tenero fino all’odio più violento; in questo caso la
sua fisonomia era di una durezza, a cui non avrei creduto che potesse
giungere, il naso era diritto, ben fatto, la bocca quantunque bella
era guasta da quella prominenza del labbro inferiore particolare ai
principi di case d’Austria, le spalle, le braccia e le mani erano
magnifiche. Ma, bisogna dirlo, l’abitudine della maestà reale dava a
tutto ciò una rigidezza che toglieva alla regina molto della grazia
della donna.

Gl’italiani hanno inventato una parola, per questo genere di grazia
che manca specialmente in Italia, e l’hanno chiamato _morbidezza_. Ne
potreste avere un’idea completa in quelle attrattive neglette delle
creole.

Mentre la osservava, essa mi guardava pure alla sua volta, e sembrava
esaminarmi nello stesso modo ch’io faceva con essa. La medesima idea
ci venne nello stesso tempo, essa mi cinse nel suo braccio e traendomi
a lei mi abbracciò con quella specie di violenza d’azione che sarebbe
meglio convenuta ad un amante, anzichè ad un’amica.

Raccapricciai. Ciò mi ricordava l’amicizia di Miss Arabella.

A pranzo mangiammo i tacchini, arrostiti allo spiedo; erano grassi, ma
duri; ciò derivava dal non avere il Re voluto aspettare qualche giorno
per assicurarsi della loro qualità.

Terminiamo subito con questa storia dei tacchini.

Come aveva pensato Ferdinando, la sua firma non aveva avuto la
minima influenza. Il giudice aveva letto la sua raccomandazione, e
considerandola come una di quelle raccomandazioni, che l’importunità o
l’inavvertenza carpiscono ai sovrani, aveva alzato le spalle e messo da
parte il ricorso.

Ne derivò che in capo a quindici giorni il Re ritrovò la vedova sul
suo cammino. Gli fece una scena, l’accusò di avere abusato della sua
bonarietà facendogli credere che conosceva il Re.

— Ascoltate, le disse il Re, ritornate dopo quindici giorni, e se non
avrete vinto il vostro processo, m’impegno di darvi cento ducati per
ciascuno dei vostri tacchini.

La buona donna tentennò il capo: evidentemente non credeva più al
rimborso dei tacchini che alla vincita della causa, e brontolava fra i
denti, accusando gl’intriganti, che promettendo molto, com’egli aveva
fatto, si facevano pagare anticipatamente, e poi non mantenevano la
loro promessa.

Il Re prese il nome del relatore e scrisse al tesoriere della giustizia
di non pagargli il suo stipendio del mese che scadeva appunto il
giorno dopo; e se chiedeva una spiegazione di dirgli che quando avrebbe
sbrigato il processo raccomandato dal Re, sarebbe pagato, ma non prima.

Quindici giorni dopo, il Re diede alla buona donna la sentenza che
conteneva il suindicato in suo favore e facendosi conoscere, vi
aggiunse i trecento ducati dei tre tacchini.




XV.


Or che la mia vita si passa per dieci anni alla corte di Napoli, debbo,
per l’intelligenza dei fatti che seguiranno, mettere in grado i miei
lettori di conoscere più completamente i due personaggi, presso i quali
li introduco, vale a dire il re Ferdinando e la regina Carolina.

Non ho bisogno di dire come Carlo III, capostipite de’ Borboni dì
Napoli, secondo figlio di Filippo V e primogenito di Elisabetta
Farnese, s’impossessò del trono delle Due Sicilie nel 1734, e fu
riconosciuto re nel 1735.

Quando suo fratello maggiore morì senza figli, egli fu chiamato al
trono di Spagna e dovette scegliersi un successore.

Abbiamo detto scegliersi, perchè in questa occasione il diritto di
primogenitura doveva essere invertito; l’infante Don Filippo, in causa
di cattivi trattamenti che aveva dovuto sopportare da sua madre, era
diventato idiota.

Non era punto il caso di pensare a lui.

Il re Carlo III lo lasciò a Napoli, per morire della sua malattia
giudicata incurabile; condusse con lui suo figlio Carlo, principe delle
Asturie, che, dopo la sua morte, avvenuta, credo, nel 1788, diventò
re sotto il nome di Carlo IV, e designò per erede del regno delle Due
Sicilie il suo terzo figlio che aveva sette anni.

Prima di partire per la Spagna volle destinargli un governatore, ma a
motivo della tenerissima sua età questa cura spettava più alla madre
che al padre. Sventuratamente fu la madre che fece questa scelta. Essa
mise la carica all’incanto, ed il principe di San Nicandro, uno degli
uomini meno degni di un tale impiego, fu scelto per coprirlo.

Una delle raccomandazioni del re Carlo III fu questa:

— Fate particolarmente di mio figlio un buon cacciatore; la caccia è il
solo piacere che sia veramente degno d’un re.

Il re Carlo III considerava in fatti le caccia come una cosa superiore
anche alla felicità dei suoi sudditi.

Non citerò che un aneddoto su questo soggetto.

Avendo destinato l’isola di Procida per la caccia de’ fagiani, fece un
editto che vietava assolutamente di tenere qualsiasi specie di gatti.
Possedere uno di questi animali era, a contare da quel momento, un
delitto, che poteva anche essere espiato con una pena afflittiva ed
infamante.

Un uomo contravvenne all’editto; conservò il suo gatto, fu denunziato,
arrestato, giudicato e condannato ad essere bastonato dal carnefice, e
mostrato per tutta l’isola con al collo la prova del suo delitto, cioè
il suo gatto, ed infine mandato in galera.

Si converrà che era duro.

E che ne avvenne?

Ne avvenne che le talpe, i ratti, i sorci liberati dai gatti, loro
nemici naturali, crebbero e moltiplicarono liberamente ed in tale
quantità, che dei bambini furono divorati nella culla da quegli
animali.

Allora i Procidani disperati presero le armi, e riuniti in corpo,
risolsero di emigrare nei paesi barbareschi, anzichè di vivere sotto un
governo tanto iniquo.

Ne risultò adunque che Carlo III fu obbligato a rivocare l’editto.

Ecco un altro aneddoto che indica il fanatismo dello stesso re Carlo
III per i suoi cani, e che farà opposizione al suo odio pei gatti.

Un uffiziale del reggimento delle guardie italiane era di guardia a
Caserta, e per conseguenza vestiva il suo uniforme di gala, e in vista
della mediocrità della paga, stentatamente era riuscito a comperarsi
quell’uniforme. Il re Carlo III passò di ritorno dalla caccia seguito
dalla sua muta di cani; uno di quegli animali inzaccherato di fango
saltò contro l’uffiziale nella benevola intenzione di fargli festa, e
insucidò il suo uniforme. Senza considerare l’intenzione, vedendo il
guasto fatto al suo vestito, l’uffiziale scacciò da sè il cane con un
colpo di piede. Il cane mise un guaito che richiamò l’attenzione del
re; Carlo III si rivolse, fissò in faccia l’uffiziale, e movendogli
incontro:

— Non sai tu, razza di cimice, gli disse, che l’animale che tu hai
l’indegnità di percuotere mi è più caro che cinquanta dei tuoi pari?

L’uffiziale atterrito di vedersi trattato così, per aver dato un colpo
di piede ad un cane, mutò colore, fu colto dalla febbre, si ammalò, e
morì il giorno dopo.

Ritorniamo al giovane Ferdinando ed al suo precettore, il principe di
San Nicandro.

Non ho mai conosciuto il principe di San Nicandro, che morì quando
arrivai a Napoli; ma non vi era che una voce sola sul di lui conto,
e l’educazione del re confermava quella voce, cioè che era indegno
dell’onore che gli fu dato dalla regina.

Il principe di San Nicandro era di un’ignoranza crassa.

Nella sua vita non aveva letto che l’offizio della Vergine; buon libro,
ma insufficiente per un uomo incaricato dell’educazione di un re; ora,
non sapendo nulla, non poteva insegnare nulla al suo allievo, il quale
quando prese moglie sapeva appena leggere e scrivere, e non parlava
altra lingua che il dialetto napolitano; d’altronde non aveva ricevuto
dal re Carlo III che una raccomandazione, cioè quella di fare del
giovane principe un buon cacciatore, e perciò credeva di non doversi
occupare d’altro. Da parte sua poi il vecchio ministro toscano di Carlo
III Tannucci, che per ventiquattro anni aveva regnato sotto il nome del
suo padrone, e che era stato nominato capo della reggenza del giovane
principe, non chiedeva di meglio che di ricever alla sua maggior età un
re imbecille, sotto il nome del quale continuerebbe a regnare come per
lo passato.

Egli non diede adunque nessun consiglio sull’educazione del giovane
re, se non quello di aggiungere il piacere della pesca a quello
della caccia, di maniera che riposando da un piacere faticoso con un
passatempo tranquillo, il giovane re non avrebbe il tempo di attendere
agli affari di Stato.

La sola cosa che inquietava il principe di San Nicandro, e di cui si
rammaricava con una commovente malinconia, era la troppo grande bontà
del re.

Si occupò dunque di correggere questo dono del cielo, tanto raro nei
re, tentando di variare i suoi piaceri.

Il giovan principe delle Asturie, cui non poteansi rimproverare le
stesse disposizioni alla mansuetudine, prendeva un vivo piacere a
scorticare conigli vivi. Il principe di San Nicandro vantò molto questa
distrazione al suo allievo; ma scorgendo che gli ripugnava molto, mise
alla tortura la sua immaginazione e trovò una variante.

Era cioè di collocare il giovane principe, a cui non si fidava ancora
di dare in mano un fucile per timore che si ferisse, dietro la porta
forata di una gattajola, e di colpire a quel posto i conigli quando
uscivano. Ferdinando armato di bastone stava in guardia sul loro
passaggio e li ammazzava. Era già qualche cosa; a questo divertimento
il principe di San Nicandro ne aggiunse presto un altro; quello
cioè d’insegnare al suo allievo di far balzare su di una coperta dei
conigli, dei cani, dei gatti e dei ragazzi di contadini e di operai. Il
re Carlo III che veniva informato di queste ricreazioni di suo figlio,
le trovò buone, e scrisse che bisognava solamente fare una riserva
per i cani, animali nobili che servivano per la caccia, ed il giovane
principe continuava a far balzare i conigli, i gatti, i ragazzi, i
contadini e gli operai, che non essendo animali nobili, non avevano
quindi dritto all’eccezione.

Fu in questo modo che un giorno, avendo veduto fra gli spettatori un
giovane chierico toscano, di figura meschina e pallido in faccia, gli
venne in mente di farlo balzare; diede sottovoce degli ordini a’ suoi
domestici, i quali si impossessarono di quel disgraziato, lo misero su
di una coperta e lo balzarono finchè svenne.

Il giovinetto rinvenuto che fu, pieno di vergogna si rifugiò a
Roma, ove cadde ammalato e morì in capo a due mesi; egli si chiamava
Marrighi.

Fu in mezzo a questi divertimenti che il re crebbe, diventando gran
cacciatore, gran cavalcatore, pescatore incomparabile, percuotitore
di prima forza, prima col comandare gli esercizii ai suoi camerata con
dei bastoni con cui accarezzava loro le spalle quando facevano qualche
falsa manovra: ed infine ad un reggimento che organizzò e che chiamava
i suoi Liparioti, perchè i giovani che lo componevano erano in gran
parte dell’arcipelago di Lipari.

In questo modo arrivò, senza affatto occuparsi degli affari del regno,
fino ai suoi diciassette o diciotto anni, e giunse all’età di prender
moglie.

Il suo matrimonio era da tempo stabilito colla giovane Arciduchessa
d’Austria Maria Giuseppa, figlia dell’Imperatore Francesco I; ma non
appena si furono scambiati i ritratti ed i doni nuziali, e preparate
le feste sul cammino che doveva percorrere la giovane principessa,
e fissato il giorno della partenza, la giovinetta imperiale ammalò e
morì.

Allora in luogo di quella che era morta dianzi così miseramente,
fu destinata sua sorella minore Maria Carolina, anch’essa figlia di
Francesco I e di Maria Teresa.

Essa partì da Vienna nel mese di aprile 1768.

Il fiore imperiale entrava nel suo regno nel mese della primavera.
Era nata nel 1752, non aveva che sedici anni appena, portando seco
i segreti della corte austriaca, ed incaricata di dirigere la Corte
di Napoli nel senso che le indicherebbe Maria Teresa. Sua madre, di
cui era la preferita, poteva confidarsi con essa; la regina aveva uno
spirito superiore alla sua età, era letterata più che dotta, e più che
intelligente filosofante; bella in tutta la estensione della parola,
graziosa quanto lo voleva.

Da ciò che ho detto di lei a trentasette anni, si può comprendere ciò
che era stata a sedici.

Parlava e scriveva quattro lingue, la tedesca, la francese, la
spagnuola e l’italiana; solamente quando si animava nel discorso,
aveva una certa difficoltà di lingua, che produceva un borboglio; ma i
suoi occhi vivaci e mobili, la lucidità delle sue idee facevano presto
dimenticare quella piccola imperfezione.

Essa portava seco verso l’ardente mezzodì i sogni della nebbiosa poesia
del nord; andava a vedere il paese favoloso delle sirene; ove nacque
il Tasso e morì Virgilio; andava a cogliere di sua mano l’alloro che
cresceva sulla tomba del cantore d’Augusto, e su quella del poeta di
Goffredo; suo marito aveva diciott’anni; sarebb’egli un Eurialo od un
Tancredi — Niso o Rinaldo?

Perchè non era essa venuta a dirittura come Venere od Armida?

Essa trovò il re, che ho tentato di descrivervi, con i piedi grandi,
le ginocchia grandi, le mani grandi ed un naso grande, e che parlava il
dialetto napolitano con dei gesti lazzaroneschi.

Un articolo del contratto di matrimonio della regina, che Tannucci
aveva lasciato passare senza farvi attenzione, doveva mutare
interamente la faccia alla politica del regno della Due Sicilie.

Esso diceva:

— Quando la regina avrà dato a Napoli un erede della corona avrà il
diritto di far parte del consiglio.

È vero che essa non diede questo erede che dopo cinque o sei anni; ma a
ventidue anni Carolina era più che atta a seguire i voti di sua madre.

Da principio la regina credette di poter rifare completamente
l’educazione di suo marito, e ciò le sembrava tanto più facile
dopo averlo udito a parlare con Tannucci, e le pochissime persone
istruite della Corte. Egli era rimasto attonito di stupore, incapace
di distinguere la vera scienza dalla ciarlataneria, esclamava con
ammirazione: Davvero, la regina è la scienza universale!

Ma riflettendo poi, quest’ammirazione si calmò, e più di una volta lo
intesi dire: Come mai la regina, essendo così sapiente, commette degli
sbagli più di me che sono un asino!

Ciò nulla meno nei primi tempi del suo matrimonio, egli si sottomise
alle lezioni che essa gli voleva dare, e gli insegnò a leggere ed a
scrivere quasi correttamente. Ed è a queste lezioni date da lei, che
egli faceva allusione quando nei suoi momenti di buon umore la chiamava
mia cara maestra.

Ma ciò che non potè mai insegnargli furono i modi eleganti delle corti
del nord e dell’occidente, furono quelle cure della persona così rare
nei paesi caldi, ove sono però più necessarie che altrove, fu quel
dolce e grazioso celiare della galanteria che fa dell’amore una lingua,
tolta in parte dal profumo dei fiori, ed in parte al canto degli
uccelli.

La superiorità di Carolina umiliava Ferdinando, e la rozzezza di
Ferdinando umiliava Carolina.

Vedremo che ne risultò da questa disparità di carattere, e da questa
opposizione di animi.




XVI.


Ecco dunque i nostri due personaggi uno d’avanti l’altro, da un lato
la regina, bella, altiera, graziosa, distinta, delicata, sensuale, un
po’ pedante, facile ad irritarsi, difficile a pacificarsi, sprezzante
di suo marito per la rozzezza della sue parole e per la imbecillità
del suo spirito; dall’altro il re, brutto, ingenuo fino all’ignoranza,
libero fino alla rozzezza, senza alcuna cura della persona, senza
delicatezza ne’ suoi modi, che somigliava non già ad un sovrano nè ad
un principe, e nemmeno ad un semplice gentiluomo, ma ad un lazzarone.

Una delle cose che metteva alla disperazione la regina Carolina, e che
la condusse a privarsi quasi intieramente dello spettacolo, era il
modo con cui il re vi si conteneva, facendosi fra un atto e l’altro
l’attore del popolaccio. Fra l’opera ed il ballo gli si portava la
cena nel palco; uno degli elementi di questa cena era sempre un piatto
di maccheroni. Il re prendeva il piatto, ed avanzandosi al parapetto
del palco, in mezzo ai grandi applausi della platea, facendo smorfie
e gesti da Pulcinella, il gran mangiatore di maccheroni napolitani,
inghiottiva tutto il piatto servendosi delle dita invece di forchetta,
e rispondeva con saluti alle acclamazioni degli spettatori.

La regina credette da principio di aver preso su di lui un impero più
grande di quello che aveva in realtà e che prese in seguito.

Un giorno che era adirata contro il duca d’Altavilla favorito di
Ferdinando, colmò d’ingiurie quel gentiluomo, e l’accusò di non
mantenere il suo credito presso il re, che impiegando mezzi indegni di
un gentiluomo. Il duca, offeso nella sua dignità, si dolse presso il
re delle ingiurie della regina, e gli chiese il permesso di ritirarsi
nelle sue terre; il re irritato del contegno di sua moglie, andò da
lei e la rimproverò vivamente. Ma essa invece di calmarlo, l’irritò
talmente colle sue risposte, che la discussione terminò con un vigoroso
schiaffo, di cui la regina portò il lividore alla guancia per tre o
quattro giorni.

Allora, come Achille, essa si ritirò nella sua tenda, ma il re tenne
duro, e la regina dovette umiliarsi, al punto di essere costretta ad
implorare il favore del duca d’Altavilla per ritornare in grazia. Fu
l’Imperatore Giuseppe che allora viaggiava in Italia e che arrivando a
Napoli riuscì a riconciliare i due sposi.

Per qualche tempo il re si rammaricava dello sdegno della regina, ma
presto risolse di consolarsi facendo senza di lei, cosa che fu per
essa un dispiacere; per non sapere come ed in qual momento potesse
riprendere la sua influenza sul marito.

Ferdinando, gran cacciatore, lasciava di rado passare un giorno senza
andare alla caccia. Aveva fatto costruire in ogni angolo dei suoi
boschi delle grandi capanne internamente addobbate con semplicità e
comodo. Quando vi entrava col pretesto di prendere riposo, vi trovava
sempre qualche giovane villanella elegantemente vestita alla foggia
della contadine dei dintorni di Napoli, che andava là pel buon piacere
di Sua Maestà; soltanto aveva gran cura di raccomandare ai compiacenti
servitori incaricati di questo servizio, di fare le cose con tale
discrezione che la regina non venisse istruita di questo particolare
amoroso.

— Ma, — gli disse una volta un cameriere al quale aveva permesso di
parlare liberamente, — a che servono tanti misteri, quando la regina fa
altrettanto, e chi sa forse anche più di voi?

— Taci, taci, lasciamola fare, disse il re, così s’incrociano le razze.

Ed oggi che ho permesso di non celare nulla della verità, bisogna dire
che il vecchio cameriere non mentiva; la regina, il cui primo amante
fu il principe di Caramanico, ebbe in seguito Acton, e nello stesso
tempo, senza che Acton se ne preoccupasse, più di quanto si preoccupava
Potiemkine degli amanti di Caterina II, aveva il duca della regina,
il cui nome sembra averlo predestinato, e Pio d’Ameni che se non ha
inventato ha però perfezionato i Batilli in Italia, come la grande
Caterina voleva ricompensare i suoi amanti; ma meno ricca di lei si
rovinava, e per questa ragione si trovava sempre senza un ducato.

Torniamo al re.

Oltre le sue fermate di caccia, che erano affari d’istinto sensuale, il
re aveva di volta in volta dei gusti passaggieri per le dame di Corte,
o di altra condizione; la regina non era punto gelosa di suo marito,
che non solamente non amava, ma anzi disprezzava; però temeva che
qualche donna più abile delle altre, s’impossessasse di una influenza
sul re che a nessun prezzo non voleva lasciarsi sfuggire; in certi
momenti allora aveva un’accortezza ed una insistenza tutta femminile,
gli carpiva i segreti dei suoi intrighi amorosi, e poi si vendicava
delle sue rivali; in tal modo dopo qualche mese d’intimità colla
duchessa di Lusciano, il re confessò questa intimità a Maria Carolina.
Essa allora fece esiliare la Duchessa nelle sue terre; sdegnata la
Duchessa si vestì da uomo, e mettendosi sul passaggio del re, lo
coprì di rimproveri; il re, debole al suo cospetto, come era debole
al cospetto della regina, confessò i suoi torti; ma la Duchessa non
fu meno obbligata di ritirarsi nelle sue terre, ove ancora si trovava
all’epoca del mio arrivo a Napoli.

Lo stesso accadde per la duchessa Cassano Serra, benchè vi fossero dei
motivi totalmente opposti. Il re si occupava di lei; e malgrado tutte
le sue cure e tutte le sue promesse, essa rifiutò costantemente di
arrendersi ai suoi desiderii. Il re si dolse con sua moglie di questo
rigore. E la regina trovò mezzo di farla esiliare per essere stata
troppo virtuosa, come aveva trovato mezzo di far esiliare la duchessa
di Lusciano per non esserlo stata abbastanza.

Ahimè! la povera duchessa pagò due volte più cara la sua virtù, che
un’altra non avrebbe pagato le sue colpe, e sventuratamente per lei,
ritornò nel ’99 dal suo esilio.

Abbiamo detto che il principe di San Nicandro si era preoccupato di
fare del suo allievo il primo cacciatore ed il primo pescatore del
regno, e ciò nello scopo egoista ispirato da Tannucci, per impedire
al giovane principe di prendere parte agli affari di Stato; difatti
quando assisteva al consiglio, vi portava la preoccupazione della pesca
e della caccia al punto di non permettere che si mettesse il calamaio
sul tappeto delle deliberazioni, per timore che venisse l’occasione
di redigere qualche decreto che il re dovesse firmare; per questi
casi aveva fatto incidere la sua firma che egli applicava, o faceva
applicare sotto la deliberazione presa o no in sua presenza.

Anzi, per esempio, qualche giorno dopo il mio arrivo a Napoli, vi
trovai fresco fresco questo aneddoto.

Il re teneva consiglio di Stato a Caserta. Vi assistevano la regina,
il ministro Acton, Caracciolo e qualche altro. Si trattava di un
affare della più alta importanza che però ignoro; nel momento della
discussione si udì bussare alla porta; l’interruzione sorprese tutti;
chi era mai l’uomo ardito di venire a disturbare un consiglio di Stato
in funzione? ma il re che aveva riconosciuto la maniera di bussare,
corse alla porta, l’aperse ed uscì, e ricomparse poco dopo dando segni
della gioia più viva.

Signori, disse, vi prego di terminare al più presto la discussione,
perchè io ho un affare di un’importanza ben maggiore di quella per cui
v’intrattenete.

La seduta fu levata, il re si ritirò presto, e si coricò per levarsi il
giorno seguente prima dell’alba.

Questo grande affare era un convegno di caccia, i colpi dati alla porta
del Consiglio di Stato era il segnale convenuto fra il re ed il suo
bracchiere che veniva ad avvertirlo che una torma di cignali era stata
veduta nel bosco verso lo spuntare del giorno, e che si erano fatti
stornare, e per trovarli il giorno dopo bisognava trovarsi pronto prima
dell’aurora.

Qualche giorno dopo, nelle medesime circostanze, tre fischi si fecero
udire in corte; era ancora un segnale tra il re ed il suo bracchiere;
il re interruppe il consiglio, aperse la finestra e diede udienza al
messaggiere, che gli annunziava un volo di uccelli, ed il luogo ove si
erano appostati: allora il re volgendosi a Carolina.

— Mia cara maestra, le disse, presiedi tu in mia vece e finisci
l’affare come credi, ti do carta bianca.

E correndo fuori della camera, andò a perseguire il suo volo d’uccelli.

Esiste fra il re di Napoli ed il margravio di Anspach una
corrispondenza interna, continuata, settimanale, su tutto ciò che
è relativo alla caccia. Ciascuno dei due principi tiene un registro
esatto in cui sono indicati, giorno per giorno, ora per ora, gli alti
fatti che li illustrano.

Uno stesso registro ed una corrispondenza simile sono tenute o
piuttosto erano tenute fra il re di Napoli ed il re di Spagna suo
padre; ora avvenne sovente che alcune differenze politiche disgustarono
i due monarchi, ma per quanto fossero disgustati, politicamente
parlando, il registro cinegetico non subiva mai nessuna interruzione.

La lista dei selvatici sagrificati al piacere dei monarchi fu sempre
tenuta regolarmente; la caccia minuta vi era numerata come gli
animali grassi, dal fagiano fino al beccafico; in una colonna per
le osservazioni vi erano esposte le difficoltà che si erano dovute
superare, gli accidenti che erano incorsi, le persone che avevano
accompagnato il re, e le menzioni onorevoli delle persone che
l’accompagnavano e che dopo di lui si erano distinte.

Quello dei due registri che era destinato al margravio di Anspach era
il registro preferito, per la ragione semplicissima che Ferdinando,
quantunque abilissimo, era men buon tiratore di Carlo III, mentre al
contrario era miglior tiratore del margravio di Anspach.

Il più dolce complimento che potesse accarezzare le orecchie del re,
era di dirgli che tirava meglio del margravio di Anspach, ciò che era
constatato dal numero degli animali uccisi da lui, e se il numero degli
uccisi da Carlo III, superava di molto il suo, ciò dipendeva non già
dalla sua bravura, ma dall’estensione della fecondità della selvaggina
nelle foreste spagnuole.

Riferirò ancora due aneddoti, che completeranno il ritratto che
intendiamo di fare del re, poi passerò immediatamente al racconto
degli avvenimenti che scossero il regno di Napoli, ed ai quali ho preso
parte, più per amicizia verso il re e la regina, che per un sentimento
di antipatia ragionata contro il popolo francese e contro i patrioti
italiani.

Il re, cacciando in uno de’ suoi boschi, incontrò una povera donna:
essa non lo conosceva e sembrava molto afflitta. — Senza avere nè il
cuore, nè lo spirito di Enrico IV, il re aveva una specie d’istinto
per le avventure popolari; si avvicinò ad essa e la interrogò; la buona
donna gli rispose che era vedova, che aveva sette figli da mantenere,
e che non possedeva che un piccolo campo che era stato poco prima
devastato dalla muta del re. — Ora converrete, signore, soggiunse la
vedova piangendo, che è ben duro di avere per sovrano un cacciatore, i
cui piaceri sono irrorati dalle lagrime dei suoi sudditi.

Ferdinando le rispose che le sue querele erano giuste, e che essendo
egli al servizio di Sua Maestà non avrebbe mancato di informarnelo.

— Glielo dite o non glielo dite, rispose la donna, io non spero nè
punto nè poco; non può essere che un uomo senza cuore chi distrugge per
suo piacere il bene del poveri, perchè sa che la povera gente non può
far nulla contro di lui.

Questa dichiarazione della vedova non tolse al re di accompagnarla fino
alla sua capanna, e di vedere coi suoi occhi il guasto che aveva fatto.

Giunto là chiamò due contadini, vicini della donna, e chiese loro
di stabilire una stima del danno; essi fecero i loro calcoli, e lo
stimarono a venti ducati.

Il re tirò di tasca sessanta ducati e ne diede quaranta alla vedova,
dicendo che era giusto che il re pagasse il doppio dei privati.

Gli altri venti ducati furono ripartiti fra i due arbitri.

Il re dava udienza un giorno per settimana a Capodimonte, palazzo
costruito da Carlo III espressamente per la caccia dei beccafichi; in
quel giorno ognuno poteva giungere fino al re senza dimanda d’avviso e
senza lettera d’udienza; non v’era che di aspettare il suo turno, tanto
le anticamere erano ingombre di gente.

Un vecchio prete dei dintorni di Capodimonte, avendo da chiedere una
grazia al re, risolse di approfittare di quel giorno di udienza e di
chiederla personalmente a Sua Maestà.

Ma dovendo fare anticamera per un tempo maggiore o minore, ebbe cura
di prendere le sue precauzioni contro la fame, e si pose in tasca
un pezzo di pane e di formaggio; non già che avesse l’intenzione di
mangiare quel pezzo di pane nell’anticamera, per tutto l’oro dal mondo
non avrebbe commesso una simile irriverenza, — ma avendo tre leghe da
fare a piedi per ritornare al suo villaggio, aveva stabilito che dopo
l’udienza si sarebbe fermato alla prima fontana, e mangiarsi il pane
ed il cacio seguito da qualche sorso d’acqua, e così ristorate le sue
forze, rimettersi in viaggio per il suo presbitero.

Dopo tre o quattro ore di attesa, venne il suo turno, ed entrò.

Il re era seduto in poltrona, ed ai suoi piedi stava coricato un grosso
bracco che era il suo prediletto per la finezza del suo olfatto.

Appena il prete ebbe spinta la porta il cane aperse le narici, sollevò
la testa, fece gli occhi teneri e dimenò la coda.

Tutte queste dimostrazioni di amicizia erano dirette al prete,
o piuttosto al pezzo di formaggio che aveva in tasca; è noto
l’irresistibile desiderio che i cani da caccia hanno per questo
commestibile.

Mano mano che il prete si avvicinava o faceva degli inchini, il cane si
alzava, e con tutta l’espressione amichevole andava incontro al prete.

Costui non credeva forse le dimostrazioni del cane così amichevoli come
lo erano realmente; lo vedeva con inquietudine, si cambiò in terrore
quando vide il cane passargli dietro.

Ma fu bene ancor peggio quando, in mezzo all’esposizione della sua
dimanda, sentiva il muso del cane introdursi insidiosamente nella sua
tasca.

L’amore del re per i suoi cani era noto. Non si trattava di liberarsi
con un colpo di piede del bracco favorito del re; eppure questi
cominciava a spingere l’indiscrezione fino all’importunità.

In quanto al re era nella sua più grande gioia insensibile ad uno
scherzo grazioso, si compiaceva oltre modo delle buffonate.

Interruppe il prete in mezzo alla sua arringa già sufficientemente
tormentata.

— Perdonatemi, padre mio disse egli, che avete in tasca, giacchè il mio
cane insiste tanto ad osservarla?

— Ahimè, Sire, rispose il prete con esitazione, un semplice pezzo di
formaggio, atteso che sono già le quattro dopo mezzogiorno, come potete
vedere, ed ho ancora tre leghe da fare per giungere alla mia casa; non
sono abbastanza ricco per pranzare in città.

Difatti voi dite il vero, disse il re, perchè ecco che Giove, — tale
era il nome del cane, — è riuscito a prendervi il formaggio: continuate
dunque nella vostra domanda, perchè è probabile che intanto vi lascerà
tranquillo.

Il prete, mentre Giove mangiava il suo formaggio, continuava ciò che
doveva dire al re, che l’ascoltava con maggior attenzione.

— Va bene, disse il re, quando il prete ebbe finito.

— Noi siamo d’avviso che....

Ma contro la previsione di Sua Maestà, Giove dopo di aver mangiato il
formaggio, sembrava di non voler lasciare in pace il curato pel pane.

— Andiamo, andiamo, disse il re interrompendosi, non fate il sacrifizio
a metà, vuotate completamente le vostre tasche.

— Tutto ciò è bello e buono, Sire! disse il prete, ma mio Dio! ed io?

— Ma non inquietatevi per così poco, il buon Dio provvederà.

Il prete diede il suo pane al cane ed uscì.

Mentre Giove mangiava il suo pane, il re suonò il campanello.

— Trattenete, disse, quel prete che è uscito adesso, e dategli un buon
pranzo sicchè resti un’ora a tavola.

L’ordine di Ferdinando fu eseguito; in quell’ora il re ritornò a
Napoli, sbrigò l’affare del prete in modo che ritornando alla sua cura
già confortato da un buon pasto, trovò anche già accordato il favore
che egli aveva chiesto.

Mi sono estesa molto sulla caccia, ciò che mi fa trascurare la pesca.
Diciamo una parola sopra questo secondo divertimento, di cui il re è
quasi più fanatico del primo.

Dire il re pesca, non è nulla, ma dire che il vero piacere del re non
è la pesca, ma di vendere egli stesso il pesce, ecco quanto riconosceva
io stessa come inconcepibile per coloro che non hanno conosciuto questo
principe: ed io stessa ho veduto questo singolare spettacolo, non
soltanto una volta, ma più di dieci. Ecco come va la cosa.

Il re pesca ordinariamente in una parte riservata del mare, in faccia
ad una piccola casa che gli appartiene, del quartiere di Posilippo.
Quando ha fatto un’ampia cattura di pesce, ritorna a terra, fa portare
il suo pesce alla marina, chiama i compratori che di certo non mancano
mai di accorrere all’appello reale. Là si mette il pesce in vendita
come sulle panche del mercato; ciascuno può aggiungere un grano
all’asta; quando il re trova che il prezzo è troppo basso, lo spinge
egli stesso, e se il pesce resta per suo conto, lo conserva e lo si
mangia a palazzo; tutti in questa circostanza, come sempre altrove, si
avvicinano al re per parlargli, ed anche per questionare, cosa che non
mancano mai di fare nel loro dialetto i suoi amici lazzaroni, che non
si danno nemmeno la cura di chiamarlo Maestà, ma soltanto Nasone, pel
suo naso grosso tre volte quanto un naso ordinario.

Questa vendita è generalmente assai comica; il re vende caro quanto
più può, vanta il suo pesce, lo prende per le pinne per mostrarlo, e
schiaffeggiando quelli che gli offrono un prezzo troppo basso se si
trovano a portata; da parte loro poi i lazzaroni gli rispondono con
delle ingiurie, come se avessero a trattare con un vero pescivendolo;
queste invettive lo fanno ridere sgangheratamente. Finita la
vendita, inzuppato di acqua di mare, e col puzzo di pesce, ritorna
a palazzo, e prima di lavarsi e di mutar vestito, va a raccontar
tutto, sbellicandosi dalle risa, alla regina, la quale secondo
l’umore in cui si trova, lo ascolta pazientemente, o lo mette alla
porta, rimproverandogli quei piaceri grossolani, a’ quali però le
rincrescerebbe che rinunciasse, perchè grazie a questi piaceri plebei,
che interessano il re più degli affari, essa governa a suo talento il
regno.


  FINE DEL VOLUME TERZO.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE DI EMMA LYONNA, VOL. 3/8 ***


    

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or any Project Gutenberg™ work, (b) alteration, modification, or
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Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s
goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg™ and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state
visit www.gutenberg.org/donate.

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
donate, please visit: www.gutenberg.org/donate.

Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of
volunteer support.

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the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not
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