Pompei e le sue rovine, Vol. 2 (of 3)

By Pier Ambrogio Curti

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Title: Pompei e le sue rovine, Vol. 2 (of 3)


Author: Pier Ambrogio Curti

Release date: December 5, 2023 [eBook #72322]

Language: Italian

Original publication: Milano: Sanvito, 1872

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK POMPEI E LE SUE ROVINE, VOL. 2 (OF 3) ***

                                 POMPEI
                                  E LE
                               SUE ROVINE


                             PER L’AVVOCATO
                          PIER AMBROGIO CURTI

                  GIÀ DEPUTATO AL PARLAMENTO NAZIONALE
            DIRETTORE DELLA SOCIETÀ ITALIANA DI ARCHEOLOGIA
                      E DI BELLE LETTERE IN MILANO

                             VOLUME SECONDO



                                  1873
                                 MILANO
                          F. SANVITO, EDITORE.
                                 NAPOLI
                           DETKEN E ROCHOLL.




                         Proprietà letteraria.

                Legge 25 giugno 1865. Tip. Guglielmini.




CAPITOLO XII.

I Teatri — Teatro Comico.

  Passione degli antichi pel teatro — Cause — Istrioni — Teatro
  Comico od _Odeum_ di Pompei — Descrizione — _Cavea, præcinctiones,
  scalæ, vomitoria_ — Posti assegnati alle varie classi — Orchestra
  — Podii o tribune — Scena, proscenio, _pulpitum_ — Il sipario
  — Chi tirasse il sipario — _Postscenium_ — Capacità dell’Odeum
  pompejano — _Echea_ o vasi sonori — Tessere d’ingresso al teatro
  — Origine del nome _piccionaja_ al luogo destinato alla plebe — Se
  gli spettacoli fossero sempre gratuiti — Origine de’ teatri, teatri
  di legno, teatri di pietra — Il teatro Comico latino — Origini —
  Sature e Atellane — Arlecchino e Pulcinella — Rintone, Andronico
  ed Ennio — Plauto e Terenzio — Giudizio contemporaneo dei poeti
  comici — Diversi generi di commedia: _togatæ, palliatæ, trabeatæ,
  tunicatæ, tabernariæ_ — Le commedie di Plauto e di Terenzio
  materiali di storia — Se in Pompei si recitassero commedie greche
  — Mimi e Mimiambi — Le maschere, origine e scopo — Introduzione
  in Roma — Pregiudizj contro le persone da teatro — Leggi teatrali
  repressive — Dimostrazioni politiche in teatro — Talia musa della
  Commedia.


Gran parte della vita publica erano nell’orbe romano, massime al tempo
de’ Cesari, i Teatri.

Quando si consideri che solo in questa, elegante sì, ma piccola
città di Pompei vi fossero due teatri, il comico e il tragico ed un
anfiteatro, tutti di tanta capacità, si può avere una prova abbastanza
conveniente di questa asserzione, ed un’altra poi se ne avrà ancora
nel fatto che non si fosse paghi di uno spettacolo solo al giorno, ma
se ne volesse a tutte l’ore di esso, e s’egli è vero quel che taluni
pretesero e che io ho pur riferito, che i Pompejani fossero stati
sopraggiunti dal loro estremo disastro nell’anfiteatro, sappiamo allora
che dovesse essere circa l’ora meridiana.

Non fu detto però a torto che il popolo non vivesse che di pane e di
spettacoli, _panem et circenses_, e ognun s’avvede che qui sotto il
generico nome di giuochi del circo s’abbiano ad intendere ben anco gli
scenici ludi.

Una ragione più alta aveva contribuito a radicare profondamente
nell’animo di tutti la passione e nelle consuetudini generali
la frequenza de’ teatrali spettacoli, — la religione: — perocchè
rimontandosene alle origini si trovi, per testimonianza di Tito Livio,
che nella epidemia, onde fu Roma afflitta nel 390 di sua fondazione,
la collera celeste serbandosi inesorabile alle continue supplicazioni,
si fosse ricorso alle sceniche rappresentazioni, in cui attori
erano commedianti etruschi, detti nella loro lingua _istrioni_, i
quali trattavano artifiziosamente a suon di flauto e gestendo senza
parole[1]. Fra i Romani stessi sorsero subito dopo imitatori; i giuochi
scenici attecchirono e vennero per ciò considerati non come un semplice
passatempo soltanto, chè per tali non si ebbero che gli spettacoli del
circo, ma come una vera istituzione civile e sacerdotale.

Noi medesimi, se avessimo in oggi a restringere il teatro in que’
confini che lo fecero definire la morale in azione, e se la coscienza
degli scrittori non escisse dai limiti assegnati dai veri intenti
dell’arte, per libidine di facili e funesti plausi, non potremmo
ricusarci dall’averlo tuttavia per una vera istituzione civile.

Nel desiderio di abozzare alla meglio anche questa parte della
vita romana, di cui Pompei fornisce a noi ne’ suoi monumenti le più
ineccepibili prove, converrà che prima m’intrattenga del Teatro Comico,
detto altrimenti _Odeum_, nel quale poi c’intratterremo, giusta i
richiami, della sua storia, delle sue produzioni; poscia del Teatro
Tragico e della sua storia; riserbando all’ultimo il discorso intorno
all’Anfiteatro e a’ suoi ludi; quantunque a vero dire si dovrebbe
premettere di questi ultimi, se noi pure, come gli antichi, ritenessimo
che gli spettacoli scenici non siano che appendici meno importanti di
quelli del Circo.

Fin dal 13 maggio 1769 veniva scoperta sulla muraglia del Gran Teatro,
o Teatro Tragico che si voglia dire e del quale sarà l’argomento nel
capitolo venturo, la iscrizione seguente:

                      C . QVINCTVS C . F . VALG .
                          M . PORCIVS M . F .
                         DVO VIR . DEC . DECR .
                            THEATRVM TECTVM
                  FAC . LOCAR ; EIDEMQVE PROBARVNT[2].

Tale scoperta confermava la designazione, che fin dal 23 marzo
precedente era stata fatta, che quivi esister dovesse l’Odeo, o
Teatro Comico, avvalorata altresì da ciò che contiguo vi fosse il
Teatro Tragico, pur in questo avendo i Pompejani seguito la comune
consuetudine in congenere materia, e che noi troviamo consegnata nelle
seguenti parole del capo IX, libro V di Vitruvio: _exeuntibus e theatro
sinistra parte Odeum_[3].

L’Odeo, in greco Ωδεῖον, che in questo passo medesimo ci fa sapere
Vitruvio essere per la prima volta stato eretto in Atene, ornato da
Pericle di colonne, di pietre e coperto di alberi e antenne di navi,
spoglie riportate in guerra contro de’ Persiani, vogliono tutti che
fosse stato un piccolo teatro; ove si facessero le prove e le disfide
musicali, come derivatone l’appellativo dalla voce greca ωδή, che
significa canto.

In Pompei l’_Odeum_ era destinato alla recitazione delle commedie,
ai concorsi poetici, alle rappresentazioni mimiche e satiriche, e se
si vuole argomentare dall’uso generale di tali ritrovi, alle dispute
filosofiche ed anche agli spettacoli d’inverno, e per ciò coperto;
onde, per dirla con Tertulliano, l’impudico divertimento non fosse dal
rigore della stagione turbato[4]. Il severo giudizio di questo padre
della Chiesa cristiana era giustificato dalla licenziosa libertà sempre
esistita nei ludi scenici e circensi, ma fatta ancor più sfrenata negli
ultimi tempi dell’Impero.

Dal 1793 al 1796 venne questo teatro sgombro dalle macerie, messo nelle
condizioni nelle quali trovasi di presente e in guisa da prestarsi alla
sua intera descrizione.

Esso è fabbricato, egualmente che il Teatro Tragico e il Foro, sopra
uno strato di lava vulcanica antichissima, che porge a questi edifizj
il più solido fondamento; ma la sua costruzione è di tufo di Nocera,
all’infuori delle scale che separavano le gradinate che son di
durissima lava. Sopra l’estremità del muro semicircolare, ossia sul
cornicione, ancor si veggono i luoghi ove stavano le colonne su cui
il tetto poggiava, il quale si apriva tra l’una e l’altra colonna uno
spazio vacuo, pel quale s’intromettevano la luce e l’aria. Tali colonne
si rinvennero rovesciate, onde anche per la certa quantità di tegole
numerizzate con carbone e là ordinatamente disposte, si argomentò che
rovinato il teatro dal tremuoto del 63, si ritrovasse poi nel 79 in
istato di restaurazione. Dyer crede rimonti la sua prima costruzione
a poco tempo dopo la Guerra Sociale, così forse ottant’anni avanti
Cristo.

Come di consueto, e come Vitruvio ne fa regola generale de’ teatri,
la forma della cavea è d’un emiciclo, e sotto il nome di _cavea_
designavasi quella porzione dell’interno di un teatro od anfiteatro,
che conteneva i sedili sui quali stavano gli spettatori, e che era
formata da un numero di ordini concentrici di gradini sopra più ordini
di arcate, quando essi non fossero praticati in qualche parte, od
addossati a montuosità di terreno. Secondo la dimensione dell’edificio,
questi giri di sedili erano divisi d’ordinario in uno, due o tre
scompartimenti, distinti, separati l’uno dall’altro da un muricciolo
detto _præcinctio_, abbastanza alto per impedire la comunicazione fra
essi; cosicchè i diversi scompartimenti assumevano i qualificativi di
prima, seconda, terza ed anche più spesso di _ima, media_ e _summa
cavea_, cioè ordine inferiore, di mezzo e superiore. E così era
dell’_Odeum_ pompejano.

Il pavimento per nove passi di diametro tocca l’uno e l’altro corno
dell’emiciclo terminato in due zampe di leone di tufo vulcanico. Quindi
incomincia la prima cavea in quattro ordini di gradini più grandi e
spaziosi degli altri, ove sedevano i magistrati ed ivi erano collocati
i bisellii e le sedie curuli. Indi seguono quattordici gradini in
cui l’ordine equestre aveva il suo posto: vi tengono poi dietro
diciotto altri ordini, ognun dei quali sempre più si va allargando
nei lati per formare il diametro dell’emiciclo e stretto pel contrario
nell’orchestra, della quale dirò fra poco.

Dopo i primi quattro gradini si vede un parapetto di separazione con
un ripiano, o gradino più largo. Si riconosce da ciò subito una delle
precinzioni, che i Greci chiamavano δίαζωματα, con cui, come dissi
testè, precingeva, o separava il primo dal secondo, ordine della cavea,
dove stava la gente più distinta.

V’era poscia una seconda precinzione, che separava la media, o seconda
cavea, dall’ultima, dove sedevano la plebe e le donne. I gradini della
media cavea, sono intersecati da sei piccole scale per linea retta
dall’alto al basso, chiamate _viæ, itinera, scalæ_ e _scalaria_, che
hanno principio da sei _vomitoria_, o porte superiori corrispondenti
al corritojo coperto, donde arrivavasi alla prima precinzione. Da essi
entravano gli spettatori per prendere il rispettivo posto, e da essi, a
spettacolo ultimato, uscivano.

Quelle scalarie, intersecando i gradini circolari, costituivano cinque
cunei o scomparti, ciascun dei quali veniva poi assegnato a determinata
classe di spettatori; onde vi fosse quello de’ magistrati, quello de’
mariti, quello de’ giovani pretestati, quello de’ conjugati, e vie
via degli efebi, oratori, legali, pedagoghi, soldati, che giammai
si confondevano colla plebe, e le altre distinzioni del popolo,
le quali venivano osservate, da che un decreto d’Augusto, secondo
lasciò ricordato Svetonio nella vita di questo Cesare, le avesse
a prescrivere, a ciò indotto dalle ingiurie che un senatore aveva
ricevuto nel teatro di Pozzuoli.

«Egli, Augusto, scrisse quello storico, rimediò alla confusione
ed al disordine estremi che regnavano negli spettacoli, mosso
dall’ingiuria ricevuta da un senatore, che nella occasione di
celeberrimi ludi in Pozzoli, che avevano attirato immenso concorso,
non aveva trovato posto, ordinando con un senato consulto, che in
tutte le rappresentazioni publiche il primo ordine spettasse a’
senatori. Vietò ai deputati delle nazioni libere e alleate di sedere
nell’orchestra, perchè avesse sorpreso che molti fra di essi fossero
del genere de’ liberti. Separò dal popolo il soldato. Assegnò posti
particolari a’ mariti, speciali gradini a coloro che portavano ancor la
pretesta, collocandone i precettori appresso. Agli abbigliati in bruno
(_pullatorum_) interdisse il centro della cavea. Alle femmine, già
confuse cogli uomini, non concesse assistere che dal posto superiore
alle lotte de’ gladiatori. Destinò alle sole Vergini Vestali un
separato posto nel teatro di contro alla tribuna del pretore»[5].

Petronio nel suo _Satyricon_, ci ha lasciato alla sua volta memoria
che l’ordine più alto ne’ teatri fosse quello riserbato agli schiavi,
alle cortigiane ed all’infima plebe, in quel passo in cui Criside,
l’ancella della dissoluta Circe e mezzana de’ suoi amori, accostando
Encolpo e invitandolo da parte della sua padrona, alla maraviglia di
costui che schiavo di Eumolpione s’era infinto e mutato il nome in
quello di Polieno, così risponde: «Quanto al dirti schiavo ed abbietto,
questo è lo stesso che accendere il desiderio di colei che ti aspetta;
perchè hannovi alcune donne che dilettansi di sucidume, o non sentonsi
brulichio se non alla vista di schiavi, o di sergenti ben infiancati:
ad altre un mulattiere coperto di polvere, ad altre un attore che
figura su per le scene. Insigne fra queste è la padrona mia: ella sale
dall’orchestra al quattordicesimo ordine, e in mezzo all’ultima plebe
rintraccia chi più le piace»[6].

Eravi poi l’orchestra, che occupava, rispetto al rimanente
dell’edificio, un posto corrispondente alla platea de’ nostri teatri
e consisteva in uno spazio aperto, in piano, nel centro dell’edificio
sul fondo, circoscritto di dietro dalle più basse file de’ sedili
degli spettatori e dinanzi dal muricciuolo della scena. Il pavimento
di questa parte è di marmi greci disposti in varii quadrati, e nel
mezzo sopra una larga fascia di marmo cipollino, che ne occupa tutto
il diametro, si legge in grandi lettere di bronzo incastonata questa
iscrizione:

                     M . OCVLATIVS M . F . VERVS .
                           VIR PRO LVDIS[7].

Dalla quale iscrizione apprendiamo il nome d’uno de’ due sovrintendenti
dei giuochi o spettacoli in Marco Oculazio Vero.

Ai lati della scena ed al disotto de’ vomitorii o porte che mettevano
all’orchestra, sonvi due _podii_ o tribune, a cui si giunge per quattro
gradini praticati di dietro. Il _podium_ in un anfiteatro o circo o
teatro, era un basamento alto circa sei metri dal suolo dell’arena
destinato ad essere occupato dall’imperatore, da’ magistrati curuli e
dalle Vestali, che sedevano quivi sopra i loro seggi d’avorio. Svetonio
e Giovenale ne fanno menzione[8].

La scena poi, misurata da Bréton di 17.m 50, è assai bene conservata,
è formata di mattoni e di opera reticolata di tufo rivestita di marmo
bianco.

Il _proscenium_, o intero spazio del palco rialzato, chiuso fra il muro
permanente della scena di dietro e l’orchestra di fronte, e che con
moderno vocabolo diremmo palcoscenico, non appare così profondo come
ne’ moderni teatri; nel mezzo di esso, in sito più elevato, sorgeva il
_pulpitum_, o alta e lunga predella su cui gli attori stavano quando
recitavano i loro dialoghi, o discorsi.

Vitruvio, parlando dei pulpito, che i Greci appellano λογεῖον,
avverte essersi esso usato già ristretto in Grecia, meno altrove, e
però colà i tragici e comici recitavan sulla scena, gli altri attori
tutti nell’orchestra; onde hanno in greco diverso nome, gli uni di
scenici, gli altri di timelici[9], forse sonatori codesti ultimi, se
decomponendo la parola, troviamo che essa significhi _sollevar l’animo
annojato_, dove pur non derivi da _Hymele_, con che si designava l’inno
di Bacco.

In questo primo senso avrei avuto ragione anch’io, se imitando
l’esempio greco, ebbi a chiamare orchestra il luogo che è destinato nei
nostri teatri a’ suonatori.

Davanti al _pulpitum_, scorgasi ancora nell’ammattonato, al posto
che ne’ moderni teatri serba la _ribalta_ dei lumi, un incavo correre
tutto lungo la scena, nel quale stava il cilindro a cui s’avvolgeva
l’_Aulæa_ od _Aulæum_, che era la tappezzeria o cortina, che faceva
le veci dell’odierno sipario, ornata di figure ricamate su di essa,
il più spesso rappresentanti storici fatti e paesane vittorie, come
raccogliesi dal seguente passo delle _Metamorfosi_ d’Ovidio:

    _Sic ubi tolluntur festis aulæa theatris,_
      _Surgere signa solent, primumqne ostendere vultus,_
      _Cætera paulatim; placidoque educta tenore_
      _Tota patent, imoque pedes in margine ponunt_[10].

Tal cortina veniva adoperata nei teatri greci e romani per lo stesso
uso che i nostri siparii, a fine di nascondere il palco scenico
prima del principio della rappresentazione e negli intermezzi. Questa
cortina, scrive De Rich[11], non era però sospesa come i siparii e
non scendeva giù dall’alto; ma tutt’al contrario, quando cominciava
la rappresentazione, si lasciava cadere la cortina entro l’incavo
suddescritto, e per conseguenza, finito l’atto, si tirava su dallo
stesso; quindi l’espressione _aulæa premuntur_[12] di Orazio, _cala
il sipario_, significa che la rappresentazione sta per incominciare
ed _aulæa tolluntur_ di Ovidio[13], il _sipario si alza_, che l’atto
o la rappresentazione è finita. Questo incavo entro cui scendeva
l’_aulæum_, per essere sotto il _proscenium_, appellavasi con altro
nome _hyposcenium_.

Del resto v’han di coloro che l’_aulæum_ pretendono fosse proprio del
teatro tragico soltanto, e che la commedia si servisse del _siparium_,
che il succitato De Rich definisce una scena o paravento, adoperato
nei teatri, e consistente in più spicchi, che potevano essere aperti o
ripiegati l’uno sull’altro, come si fa ne’ paraventi che usiamo ora.
Se non che Apulejo ha questo passo: _Aulæo subducto et complicatis
sipariis scena disponetur_[14]; e si vede così usar egli de’ due
vocaboli promiscuamente; quantunque il suo linguaggio implichi che
l’_aulæum_ era fatto calare (_subductum_) sotto la scena, quando lo
spettacolo principiava, e il _siparium_ era invece ripiegato in su
(_complicatum_) nello stesso momento. Pare poi che questo ufficio
di abbassare gli aulei, o siparii, de’ teatri spettasse specialmente
a’ Britanni, cioè agli schiavi fatti nelle guerre della Britannia e
condotti, secondo il costume, a Roma, se questi versi Virgilio pose in
una sua Georgica, che vi fanno non dubbia allusione:

    _Vel scena ut versis discedat frontibus, utque_
      _Purpurea intexti tollant aulæa Britanni_[15].

Finalmente le due lunghe camere dietro la scena, di cui l’una doveva
essere coperta, l’altra scoperta, e servivano alla preparazione degli
attori, si chiamava il _postscenium_, o dietroscena, al quale ha tratto
Lucrezio nel suo Poema al libro IV[16].

Il teatro Comico od _Odeum_ di Pompei era della capacità di forse
millecinquecento spettatori: quindi abbastanza grande per tale città,
pur calcolando che alle rappresentazioni tanto sceniche che circensi
traessero molti dalle città vicine e borgate. Perocchè s’egli è vero
che il Teatro Tragico ne contenesse quasi quattro volte di più e
l’anfiteatro molte migliaja, come a suo luogo dirò, è altresì vero
che la minore importanza degli spettacoli dell’Odeum voglia essere
considerata; vedendo noi pure oggidì anche nelle più vaste e popolose
città esservi diversi teatri, e secondo l’entità degli spettacoli che
vi si offrono, avere anche la capacità.

Compirà la descrizione materiale di questo teatro pompejano, quale
fu rinvenuto cogli scavi, l’accennare come presso all’ingresso siensi
vedute molte iscrizioni graffite, evidentemente da schiavi, liberti e
gladiatori, taluna recante spavalde imprese, tal altra oscenità, di cui
non giova tener conto; ove si eccettui d’una di quest’ultimo genere
publicata dal De Clarac, che portando la data dei 13 delle calende
di dicembre dell’anno del consolato di M. Messala e L. Lentulo, cioè
l’anno 731 di Roma, prova l’esistenza dell’Odeum a tre anni avanti
Cristo, quindi più di ottant’anni prima della catastrofe della città.

Finalmente a tutto dire di quelle particolarità che sono attinenti
al teatro antico, e che possono altresì riuscire a noi di non dubbio
interesse e studio, per quelle applicazioni che nella costruzione
di congeneri edifizj si potrebbero fare, ricorderò che nella parte
superiore di esso dov’erano le carrucole e gli altri congegni del
_velarium_, del quale non ho a dire in questo capitolo, non occorrendo
di esso perchè l’Odeo era coperto, ma me ne riserbo nel venturo,
sospendevansi specie di campane di bronzo o di terra cotta chiamate
_echea_, la cui apertura era rivolta in basso verso la scena, sicchè
la voce ferendone la cavità, ne produceva il suono più chiaro e più
armonioso, come si legge in Vitruvio[17]. Queste campane, o vasi di
bronzo o di terra cotta, erano proporzionatamente una più piccola
dell’altra, acciocchè producesse l’una il suono più acuto dell’altra,
e servivano solo, come chiaramente leggesi nel detto autore, per
aumentare le voci corrispondenti, non per sonarsi con de’ martelli,
come taluno si è avvisato di dire.

Una particolarità che non vuol essere a questo punto negletta, sono le
tessere state ritrovate negli scavi dell’_Odeum_, e le quali servivano,
come ora servono i biglietti, per avere ingresso al teatro. Esse sono
di figura circolare e di un pollice di diametro ed è a presumersi che
fossero in uso anche in tutti gli altri di Roma ed altrove in quel
tempo, per quanto eziandio sto adesso per dire.

La dichiarazione di esse importa venga qui fatta, perchè mi aprirà
l’adito a intrattenermi più avanti del genere delle rappresentazioni.

   [Illustrazione: Teatro Comico od _Odeum_ di Pompei. _Vol. II,
   Cap. XII._]

Di tre tessere si hanno esemplari, rinvenuti negli scavi pompejani,
senza tener tuttavia conto di quelle altre a forma di mandorle o di
piccioni, le quali ultime credesi valessero per i posti destinati alla
plebe; ragione forse codesta per la quale anche oggidì a siffatti posti
si suol dare da noi il nome di _piccionaja_, scambiato per sinonimo di
loggione, o di quel posto che è destinato alla plebe; o, dirò meglio,
ai paganti prezzi minori.

La prima di quelle tre tessere rappresenta da un lato una specie di
edificio e nel rovescio sono malamente incise queste parole:

                                  XII
                               AICX-YAOY
                                   IB

che si vollero interpretare, nella supposizione che nelle città della
Campania si rappresentassero ancora le tragedie del più antico tra
i sommi tragici greci, per XII _d’Eschilo_ e le parole IB come la
ripetizione in greco della cifra XII.

Nella seconda è rappresentato in rilievo come una cinta di mura con
porte rozzamente indicate, e che però si vuol indurre rappresentassero
l’anfiteatro, e nel mezzo più alta una torre o _pegma_, specie appunto
di torre eretta col mezzo di macchine, sulla quale collocavansi nel
circo i gladiatori combattenti. Nel rovescio leggesi:

                                   XI
                               EMIK-KAIA
                                   IA

cioè undecimo Emiciclo: le lettere di sotto, IA, significano in greco
ancora la cifra XI. Pretendesi poi che sia questa la tessera per lo
spettacolo diurno; ma io confesso che non so argomentarne la ragione;
perochè il dir solo che il disegno rappresenti l’anfiteatro, non
significa che dunque si accenni a spettacoli diurni di combattimenti;
mentre il fatto stesso d’esserci rinvenuta la tessera in luogo
destinato a rappresentazioni musicali o comiche spiegherebbe
tutt’altro; e d’altronde chi oserebbe affermare con asseveranza che
un’identica tessera d’ingresso valesse e per spettacoli diurni e
per rappresentazioni notturne, per scenici ludi e per esperimenti
gladiatorj, se pur a’ dì nostri veggiamo che un identico biglietto,
portante al bisogno emblemi musicali, o maschere di commedia, vale
promiscuamente per rappresentazioni d’ogni genere, non escluse serate
magiche od esercizj equestri?

La terza tessera reca un’iscrizione latina più completa delle altre,
recinta da un serpe che stringendo nella bocca l’estremità della coda
forma un circolo, e suona così:

                                CAV . II
                               CVN . III
                              GRAD . VIII
                                 CASINA
                                 PLAVTI

cioè cavea II, cuneo III, gradino VIII, _La Casina_ di Plauto.

Io non mi inframmetterò alla quistione agitatasi da Giusto Lipsio,
dal Casaubono, dal Bolangero, dal Pitisco e da altri antichi, e
rinvergate pur da’ moderni, se, cioè, queste tessere rappresentassero
il prezzo d’ingresso, o il posto di favore, e se in teatro si andasse
gratuitamente o contro pagamento.

Credo che tutti possano avere ragione. — Quando erano duumviri, edili
ed altri supremi magistrati, che all’entrare in carica, o per taluna
speciale solennità largivano spettacoli, questi naturalmente, come
portava il costume, dovevano essere gratuiti a tutti, sostenendone
la spesa chi con essi voleva solennizzare il proprio avvenimento
al potere e ingraziarsi la plebe: quando invece venivano offerti da
uno speculatore, come in Pompei poteva essere stato Livinejo Regolo
allorchè accadde nell’anfiteatro la gravissima contesa tra Pompejani
e Nocerini, allora l’entrata ai medesimi avrà dovuto essere certamente
onerosa.

Si comprende in tal guisa come, quando fossero gratuiti gli spettacoli,
la plebe tumultuasse fin a mezzo della notte davanti al circo od a’
teatri per occuparne i posti, a un di presso come veggiamo accadere
avanti a’ nostri teatri all’evenienza di straordinari spettacoli cui
prendano parte celebrati artisti, e Caligola però in Roma se ne dicesse
assai disturbato, giusta quel passo di Svetonio nella vita di quel
Cesare: _inquietatus fremitu gratuita in Circo loca occupantium_[18];
mentre poi nel _Pœnulus_ di Plauto si legge:

    _Servi ne obsideant, liberis ut sit locus,_
      _Vel as pro capite dent: si id facere non queunt,_
      _Domum abeant;_[19]

lo che vuol dire che quella rappresentazione non fosse gratuitamente
data.

Descritto il Teatro Comico pompejano, che abbiam trovato già al
livello dei più celebrati di quell’epoca, male da esso ci faremmo ad
argomentare del come fossero i primi teatri. Nondimeno mi studierò
di racimolare quelle notizie che si hanno e di restringerle a breve
dettato, a beneficio di chi le brami.

Lasciando in disparte il carro di Tespi, del quale mi riserbo a tener
parola nel capitolo vegnente, e che segna il primo progresso dell’arte
drammatica, che dal suolo ascese in luogo più elevato per isvolgere
la sua qualunque azione, i primi teatri che questo nome assunsero
desumendolo dal vocabolo greco Θέατρον, che significa spettacolo, erano
fabbricati di legno, alla opportunità, posticci e duravano il tempo
assegnato alla festa per cui si celebravano que’ ludi scenici a’ quali
servivano: comunque venissero dipinti, argentati, dorati, decorati di
statue, adorni d’opime spoglie di vinti popoli. Scauro ne alzò uno in
Roma capace persino di ottantamila spettatori, ricco di tremila statue
e trecentosessanta colonne di marmo, di vetro e di legno dorato, 479
anni avanti Gesù Cristo.

Ma già in Grecia erasi da Temistocle assai prima provveduto, nella 75.ª
olimpiade, a sostituire al teatro di legno di Atene, crollato circa
vent’anni prima, uno di pietra; se pure anteriori adesso non furono
quelli di Sicilia, fra cui il teatro di Segeste, le cui rovine appajono
della più vetusta antichità, e quello di Adria, colonia degli Etruschi,
eretti assai e assai più in là de’ teatri in pietra di Roma.

Pompeo, dopo vinto Mitridate, ne fabbricò uno stabile in Roma capace di
quarantamila spettatori con quindici ordini che salivan dall’orchestra
fino alla galleria superiore; uno, e fu quel di Marcello, fatto fare
da Augusto fra il colle Capitolino e il Tevere, fu più vasto ancora;
e Statilio Tauro ne eresse un altro fra la porta Nevia e Celimontana:
Ovidio alluse a questi tre teatri in quel verso del libro III _De
Arte_:

    _Visite conspicuis terna theatra locis_[20].

Cajo Curione volendo sorpassare i predecessori in bizzarria, nei
funerali di suo padre, costruì due teatri semicircolari, tali che
potessero girare sopra un pernio con tutti gli spettatori; sicchè,
compite le rappresentazioni sceniche, venivano riuniti, e gli
spettatori si trovavano trasportati in un anfiteatro; ma di questa
stranezza, feconda di conseguenze maggiori di quelle avvertite dal suo
autore, tornerò a parlare in un capitolo successivo.

L’architettura dei teatri in pietra fu suppergiù eguale a quella che
vedemmo nel teatro di Pompei: qualche variante tuttavia si ha fra i
teatri greci e i romani, massime nell’ordinamento della scena e si vuol
dire che i teatri di Pompei si accostassero più al fare dei primi.
Dentro, erano ordinariamente scoperti, sì che fosse mestieri agli
attori di forzare ancor più la voce, che già dovevasi emettere tutta
intera per la vastità della _cavea_, se, come or vedemmo, i teatri
poterono capire fino ottantamila spettatori.

Or brevemente dirò della storia del teatro comico latino, perchè con
essa si verranno a conoscere le produzioni che avranno pur dovuto
rappresentarsi sulle scene dell’Odeo Pompejano.

E prima di tutto, delle origini, importandone l’argomento, massime a
rivendicarle a favore della Italia nostra.

I Poeti le rinvengono alla campagna, tra i pacifici e allegri
agricoltori, e Lucrezio infatti ne fa così non dubbia menzione:

    _Sæpe itaque inter se prostrati in gramine molli_
      _Propter aquæ rivum sub ramis arboris altæ_
      _Non magnis opibus jucunde corpore habebant,_
      _Tum joca, tum sermo, tum dulces esse cachinni_
      _Consuerunt, agrestis enim tum musa rigebat_[21].

Virgilio alla sua volta nella seconda _Georgica_ volea accennare a
questa allegra costumanza del villaggio; comunque appaja le creda egli
dedotte dall’Attica in Italia, constatando singolarmente essere ciò
avvenuto all’occasione delle vendemmie ed in onore di Bacco:

    _Non aliam ob culpam Baccho caper omnibus aris_
      _Cœditur et veteres ineunt proscenia ludi,_
      _Præmiaque ingentes pagos, et compita circum_
      _Thesidæ posuere, atque inter pocula læti_
      _Mollibus in pratis unctos saliere per utres._
      _Nec non Ausonia Troja gens missa, Coloni_
      _Versibus incomptis ludunt, risuque soluto_
      _Oraque corticibus, sumunt horrenda cavatis,_
      _Et te Bacche vocant per carmina læta, tibique_
      _Oscilla ex alta suspendunt mollia pinu_[22].

Dai quali versi si raccoglie altresì di qual modo traessero origine le
maschere, dalle corteccie d’albero, cioè, non che dal tingersi della
faccia colle vinaccie che facevano nella vendemmia i campagnuoli; primo
cenno tuttociò alle teatrali rappresentazioni, come Servio avverte:
_Primi ludi theatrales ex Liberalibus nati sunt_[24].

Nè dissimile fu l’opinione del Venosino, che di arti vuole affatto
ignaro il Lazio fin dopo l’occupazione della Grecia, se potè dire:

    _Græcia capta, ferum victorem cœpit et artes_
      _Intulit agresti Latio: sic horridus ille_
      _Defluxit numerus Saturnius, et grave virus._
      _Munditiæ pepulere; sed in longum tamen ævum_
      _Manserunt, hodieque manent vestigia ruris_
      _Serus enim Græcis admovit acumina chartis etc._[25]

Con che per altro, in certo modo, smentisce sè stesso, perocchè
pur rammenti in questi versi che un’arte già vi fosse in Italia
sussistente. Infatti era già gran pezza che in Sicilia esisteva: recite
si facevano pur altrove in versi _saturnici_, o _fescennini_ così
chiamati da Fescennia, città dove molto erano invalse le _Sature_,
mescolanza di musica, recita e danza, ed anco i ludi scenici già
esistenti in Etruria e dedotti in Roma, come superiormente riferii, fin
dall’anno 380 di Roma, provano che l’Italia non attese che Grecia le
apprendesse l’arte drammatica.

E prima ancora della importazione dell’arte greca, sono le _Atellane_,
così nomate da Atella, città antica della Campania fra Capua e Napoli,
favole esse, o specie di commedie che furono del pari introdotte in
Roma, e vi ottennero largo favore sotto il nome di _ludi osci_, perchè
scritte in lingua osca e dagli Osci inventate. Taluno vorrebbe perfino
somigliare le atellane alle nostre commedie a soggetto; certo, recitate
da’ giovani bennati, allettavano grandemente il popolo per lo scherzo
continuamente vivace e per la loro originalità.

Il Macco o Sannio, progenitore del nostro Zanni o Arlecchino, era già
allora in voga ed era un buffone, raso il capo, vestito di cenci a
vario colore ed anche negli scavi di Pompei si trovò il Pulcinella,
maschera atellana, pervenuta insino a noi, ed alla quale in Napoli è
specialmente destinato pur a’ dì nostri un teatro, quello detto di San
Carlino, frequentatissimo dal popolo e da chi ama alle facezie di lui
esilararsi.

Aristotele e Solino riconobbero l’arte drammatica anch’essi come nata
in Sicilia e trasportata in Atene da Epicarmo e Formione, ovvero dalla
Magna Grecia, ove molti Pitagorici avevano scritto commedie, e tra essi
il tarantino Rintone, che inventò una commedia che in Roma designavasi
appunto dal suo nome _Rintonica_.

Ma chi è dato generalmente pel più antico de’ scrittori comici romani,
che introdusse la favola teatrale, che compose drammi con unità di
azione, fu Livio Andronico, nativo, credesi, egli pure di Taranto,
schiavo e poi fatto libero. Egli rappresentò il suo primo dramma
nell’anno 240 avanti l’era volgare, sotto il consolato di C. Claudio e
di M. Tuditano, secondo leggesi in Cicerone. Recitando egli medesimo,
perdè la voce, ed introdusse allora a rimedio d’avere davanti a
sè un giovane, il quale cantasse i suoi versi, mentr’egli faceva i
corrispondenti gesti, vieppiù questi espressivi, perchè non distratto
dalla cura della voce; d’onde venne poi l’uso agli istrioni di
accompagnare col gesto ciò che un altro cantava, non parlando essi che
nel dialogo.

Di tre parti si fe’ constare la commedia: dialogo, cantico, coro.
Nella prima comprendevasi l’atteggiare di più persone, nella seconda
parlava una sola, o se ve n’era un’altra, udiva di nascosto e parlava
da sè; nella terza poi era indeterminato il numero dei personaggi.
Distinguevansi le commedie in _palliatæ_ o _togatæ_, secondo che
fossero di soggetto greco o romano; nelle _prætextatæ_ s’introducevano
persone di grande affare, vestite della pretesta; inferiori erano le
_tabernariæ_ e i _mimi_ che agivano in esse. La recitazione veniva poi
sempre accompagnata dal suon della tibia, come più avanti verrò meglio
notando.

Dopo Andronico, de’ cui diciannove drammi non sopravvivono che
frammenti, venne Quinto Ennio di Calabria, di cui son raccolti i
frammenti nel _Teatro dei Latini_ di Levêe, quindi Tito Accio Plauto,
o Maccio, come Martino Herz vuole si legga, il quale nato 227 anni
prima di Cristo, scrisse molte commedie, di cui venti sopravvanzano,
fra le quali l’_Anfitrione_, in cui si burla degli Dei, l’_Aulularia_
incompleta, il _Trinummus_ e i _Captivi_ di savio e morale intreccio,
non che la _Casina_, che sappiamo dalla tessera, di che ho già
intrattenuto il lettore, recitata nel teatro comico di Pompei.

Ma tutti costoro trattarono soltanto soggetti greci, nè di meglio seppe
fare egualmente Publio Terenzio Africano, che tutti i predecessori
superò; comunque a Plauto ed a Terenzio stesso si anteponesse a
quei giorni Cecilio Stazio. Delle centotto commedie che Terenzio
tradusse da Menandro, perdute in un naufragio, non ci vennero che sei
tramandate, le quali per altro ne fanno sentir gravemente la jattura
delle naufragate per la loro purezza ed eleganza di stile. Nondimeno
l’_Eunuco_ sembra originale, sebbene i caratteri di Gnatone e Trasone
sieno desunti dall’_Adulatore_ di Menandro; e tanto piacque che fu
replicato fin due volte al giorno, e guadagnò all’autore la cospicua
somma di ottomila sesterzj.

Plauto, sentenzia Cesare Cantù[26], coll’asprezza e la facezia palesasi
famigliare col vulgo, Terenzio ritrae dalla società signorile: quello
esagera l’allegria, questo la tempora e i caratteri e le descrizioni
esprime al vivo. Orazio, che giudicando solo dall’espressione,
vilipende tutti i comici della prima maniera, chiama grossolano Plauto
e lo taccia d’aver abborracciato per toccare più presto la mercede.
Alle commedie di Terenzio fu asserito mettesser mano i coltissimi fra
i Romani d’allora, Scipione Emiliano e Lelio: l’un e l’altro però son
troppo lontani dalla finezza dei comici greci, vuoi nel senso, vuoi
nell’esposizione.

La bagascia, il lenone, il servo che tiene il sacco al padroncino
scapestrato, il ligio parassito, il padre avaro, il soldato
millantatore, ricorrono in ciascuna commedia di Plauto, fin coi
nomi stessi, come la maschera del vecchio nostro teatro; e si
ricambiano improperj a gola, o fanno eterni soliloquj, o rivolgonsi
agli spettatori, o scapestransi ad oscenità da bordello. Egli stesso
professa in qualche commedia di non seguire l’attica eleganza, ma la
siciliana rusticità, come nel prologo dei _Menechmi_:

    _Atque ideo hoc argumentum græcissat, tamen_
      _Non atticissat, verum at sicilissat_[27].

Grossolano e licenzioso il frizzo, il dialogo da plebe, verso talmente
trascurato che si dubita se verso sia, lo che per altro imputar si può
anche a Terenzio, onde vi fu chi pretese avesse scritto in prosa; tante
sono le licenze a cui bisogna ricorrere per ridurlo a versi giambi
trimetri.

Meno che pei letterati, ha lo scrivere di Plauto importanza pei
filologi che vi riscontrano idiotismi ancor viventi sulle bocche nostre
e ripudiati dagli autori forbiti: altra prova che il parlare del vulgo
si scostasse da quello dei letterati, e forse vie più nell’Umbria.

Meglio si splebejò Terenzio. Neppur egli poteva produrre altre donne
che cortigiane, ma le fa involate da bambine, e consueta soluzione
della commedia è il riconoscimento loro per mezzi miracolosi:
anche all’uomo dabbene trova un luogo fra i suoi: più corretto
nella morale, men procace nel motteggio, eletto e spontaneo nel
dialogo, pittorescamente semplice nei racconti, attraente nelle
situazioni, resta inferiore in vivezza comica e gaje fantasie; quanto
all’invenzione, e’ si scusa col dire che non è possibile più atteggiar
cosa nuova:

    _Quod si personis iisdem uti aliis non licet,_
      _Qui magis licet currentes servos scribere,_
      _Bonas matronas facere, meretrices malas,_
      _Parasitum edacem, gloriosum militem,_
      _Puerum supponi, falli per servum senem,_
      _Amare, odisse, suspicari? Denique_
      _Nullum est jam dictum quod non dictum sit prius_[28].

Nè Plauto, nè Terenzio conobbero l’_ammaestrare ridendo_, proponendosi
unicamente di recare sollazzo al publico.

Del resto qual giudizio si portasse de’ poeti comici, del loro vivente,
ed a chi se ne aggiudicasse la palma, non è sì presto detto e valga a
ciò persuadere quel che ne lasciò scritto Volcazio Sedigito, vissuto
sotto gli imperatori, ne’ seguenti poco poetici versi:

    _Multos incertos certare hanc rem vidimus_
      _Palmam poetæ comico cui deferant._
      _Eum, meo judicio, errorem dissolvam tibi,_
      _Ut, contra si quis sentiat, nihil sentiat._
      _Cæcilio palmam Statio do comico;_
      _Plautus secundus facile exsuperat ceteros:_
      _Dein Nævius qui fervet, pretio, in tertio est:_
      _Si erit quod quarto detur, dabitur Licinio:_
      _Attilium post Licinium facio insequi;_
      _In sexto sequitur hos loco Terentius_
      _Turpilius septimum, Trabea octavum obtinet;_
      _Nono loco esse facile facio Luscium;_
      _Decimum addo causa antiquitatis Ennium_[29].

Pare che questo critico abbia obbliato Afranio, a meno che non
essendosi accontentato di tener conto che degli autori di commedie
_palliatæ_, lo dimenticasse avvertitamente, come quello che illustre
fosse sì, ma solo nelle _togatæ_.

Di qui vede il lettore una prima distinzione della commedia in _togata_
e _palliata_, derivante per avventura dal valore che alle due parole
veniva più comunemente assegnato. «_Palliatus_, dice De Rich a questa
voce, chi porta il _pallium_ greco, sorta di coperta di lana di forma
quadra e bislunga, fissato intorno al collo e sulle spalle con una
fibbia; quindi per induzione _vestito come un greco_; giacchè gli
si contrappone in latino _togatus_, che vuol dire un Romano, di cui
l’abito nazionale era la toga.» Così stando, _palliatæ_ dovrebbonsi
ritenere le commedie, come quelle di Plauto e di Terenzio, i cui
soggetti ed anzi gli originali essendo greci, importar dovevano per
necessità che gli attori fossero abbigliati alla greca, e viceversa
_togatæ_ quelle che avevano argomento e personaggi romani.

E così m’accade altresì di rammentare diversi altri generi della
commedia romana. — Era la condizione dei personaggi che qualificava la
favola; onde distinguevansi eziandio le commedie in _togatæ_, perchè
di personaggi da toga, _trabeatæ_, perchè di attori fregiati della
_trabea_, decorazione dell’ordine equestre, _tunicatæ_, dalla tonaca
propria del basso popolo, e _tabernariæ_, cioè da gente di bottega.

Dopo tutto, è a lamentare che le opere di Plauto e di Terenzio sieno
le sole a noi pervenute del teatro comico de’ Latini. Esse nondimeno
stanno come non irrilevanti monumenti storici, atti a renderci
l’immagine morale della loro nazione. Nè ciò mi si contrasti, per
averci essi medesimi avvertito ne’ prologhi delle loro commedie di non
aver fatto che tradurre i greci.

Imperocchè se Terenzio ritrasse più dilicatamente l’atticismo de’ suoi
modelli e ne fu anche un discepolo più timido e servile; Plauto di
rincontro si rese più padrone della materia che toglieva a prestanza
e la foggiava poscia a propria fantasia. Ei poneva molto del proprio
nelle sue imitazioni. Si scorge alla vena della sua poesia, alle
irregolarità e bizzarrie stesse com’egli si abbandoni alla propria
immaginazione, e come sia spesso originale. Puossi insomma affermare
senza essere tacciati di temerità, che sotto nomi e costumi greci e
particolarmente nel suo dialogo ed in talune parti dell’azione delle
sue commedie, egli presenti spesso uno schizzo fedelissimo del costume
romano.

Infatti, a parte anche delle frequenti volte che già m’avvenne in
quest’opera di citarlo nel dire della romana società e di quello che
mi sarà necessità di fare nel seguito, nulla certo di grave vi ha
nell’itinerario che il _choragus_, o direttore della compagnia comica,
viene a sciorinarvi nell’intermedio dei _Curculio_ all’atto IV Scena
I. — Sono bene i quartieri di Roma che ci fa percorrere, quando lo
stesso _choragus_ nella I scena dell’atto III del _Cartaginese_, ci
consiglia, se vogliamo incontrare de’ falsarj o degli spergiuri, di
andare al comizio, nel luogo delle assemblee legislative, politiche e
giudiziarie, in cui si mercanteggiano i suffragi dei cittadini e le
deposizioni dei testimonj. Così ci mostra i mariti libertini che si
rovinano in folli e scandalose spese presso la Basilica e presso il
tempio di Leocadia-Oppia: nella Via Toscana ci fa fare la conoscenza di
spavaldi oziosi, e nel foro piscatorio de’ crapuloni; come sul confine
del gran foro degli uomini di credito e d’affari, e prima del lago
_Curtius_ de’ ciarloni impertinenti e maldicenti.

Egualmente, sia che v’introduca nelle case de’ privati, sia che
v’accompagni nelle piazze, ne’ mercati, nelle vie, voi avrete sempre
davanti gli occhi i Romani trasvestiti, di forma che quando ei finge
un’azione contraria agli usi di Roma, ve ne avverta nel prologo, o nel
corso della scena.

E poichè nella tessera teatrale rinvenuta negli scavi di Pompei è
ricordata la _Casina_ di Plauto, essa pure può tornare di storico
documento. L’intrigo di questa commedia volge intorno al matrimonio
d’una giovine schiava con un uomo della medesima condizione. Questa
era cosa che allora poteva sembrar inverosimile a spettatori romani
e urtare nelle loro idee: ebbene l’esposizione del soggetto previene
questo cattivo effetto:

    _Sunt hic, quos credo nunc inter se dicere;_
      _Quæso, hercle, quid istuc est? serviles nuptiæ_
      _Servine uxorem ducent, aut poscent sibi?_
      _Novum attulerunt, quod sit nusquam gentium._
      _At ego ajo hoc fieri in Græcia et Carthagini,_
      _Et hic in nostra terra, in Apulia._
      _Majoreque opera ibi serviles nuptiæ,_
      _Quam liberales etiam curari solent_[30].

Plauto è senza dubbio più geloso di conformarsi al gusto ed alla
conoscenza del publico, che di osservare la convenienza della scena:
dimentica spesso, ed io penso lo faccia espressamente, che i suoi
personaggi son greci, perchè frequentemente ci parla degli edili,
dei questori, del pretore, nomina il Campidoglio, la Porta Mezia ed
altri luoghi celebri di Roma. I suoi attori, quantunque vestiti del
_pallium_, affettano un gran disprezzo per la mollezza dei Greci; la
parola _pergræcari_ usa spesso per significare abbandonarsi ad orgie,
mentre adula il suo publico, lodando la romana frugalità.

Non finirei sì presto se tutte volessi in Plauto raccogliere le
costumanze, gli usi e le leggi di Roma: solo piacemi conchiudere
che una ricca sorgente di istruzione troverà sempre colui che nelle
di lui commedie vorrà attingere e che un prezioso supplemento può
somministrare questo poeta alle indagini ed agli scritti degli storici.

Quantunque esso morisse l’anno 570 di Roma, nondimeno dalla
summentovata tessera conosciamo che sulle scene del teatro comico di
Pompei si rappresentassero tuttavia le di lui commedie, cioè negli
anni di Roma 832: or bene, si può egli dire con altrettanta sicurezza,
per le altre due tessere aventi lettere greche, che veramente si
rappresentassero in Pompei drammi e tragedie greche e nel greco idioma?

Può presumersi; perchè famigliare la lingua greca a’ più colti; come
avviene a un di presso tra noi, che abbiamo altresì rappresentazioni in
lingua francese: ma meglio ne dirò nel capitolo venturo, trattando del
teatro tragico di Pompei.

Di un genere affine alla commedia mi corre debito ancora, a compimento
del soggetto che ho tra mano, di mentovare: di quello intendo de’
_Mimi_ o _Mimiambi_ che dir si vogliano, perocchè questi nomi si
scambiassero anche per sinonimi. Ad averne una certa idea, è bene
mettere sull’avviso il lettore, acciò non abbia a confonderli nè
colla pantomima, in cui la danza e i gesti rappresentavano soli una
serie di quadri staccati, nè coi mimi greci, piccole rappresentazioni
in verso, i cui subbietti importavan meglio del gesticolar degli
attori. I mimiambi de’ Romani, da’ quali la danza si venne mano mano
escludendo, consistevano dapprima in burleschi atteggiamenti, in farse
grossolane e il più spesso licenziose, avanzo delle antiche atellane,
alle quali erano venute succedendo, più gradevoli alla moltitudine che
non lo fossero quelle regolarmente imitate dal greco, e più acconcie
d’altronde ad essere rappresentate in teatri aperti ed assai grandi,
ne’ quali s’avevano perfino, siccome ho già avvertito, ottantamila
spettatori.

Scopo de’ Mimiambi era quello anzi tutto di muovere all’allegria ed
al riso, parodiando il più spesso negli abiti, nel portamento, in
determinate e spiccate pose e in consuete e notorie frasi e maniere di
dire, personaggi celebri e popolari, cogliendoli nel loro ridicolo, o
ne’ più saglienti loro atti, o nelle viziose locazioni e solecismi.

Gli attori di essi chiamavansi mimi, come i versi, e mimografi i soli
compositori de’ mimiambi, quando pure non ne fossero costoro a un tempo
stesso gli attori.

Si assegna ad inventore di questo genere di rappresentazioni, che
die’ tanto nel genio del popolo romano, Decimo Giunio Laberio,
cavaliere romano, non come attore ma come scrittore; finchè giunto
a’ suoi sessant’anni, Giulio Cesare, nell’occasione dei ludi d’ogni
maniera dati da lui per cinque giorni in Roma a festeggiare la sua
seconda dittatura, e ne’ quali superò le pompe e le spese di quelli
precedentemente offerti da Pompeo suo rivale, come verrò a ricordare in
altro capitolo, così seppe pregarlo, che parve un comando, egli montò
sulla scena a lottar di bravura con Publio Siro, mimo e mimografo del
cui valore, percorrendola, egli aveva già riempita l’Italia tutta.

Laberio aveva avvicinati a’ suoi Mimiambi morali sentenze ed apoftegmi
che nobilitavano lo scorretto vezzo fin allora seguito di una soverchia
licenza ne’ medesimi; onde Ovidio potesse giustamente così appuntarli
nel suo libro _Dei Tristi_:

    _Quodque libet, mimis scena licere dedit_[31];

Publio Siro, che vide il merito della innovazione, lo superò nell’egual
via e di costui sono però superstiti tuttora presso che un migliaio
di massime da disgradarne il più severo scrittore gnomico. Laonde e
Seneca se ne fe’ bello ne’ suoi filosofici scritti, e gli educatori a
que’ giorni le posero nelle mani de’ giovanetti scolari a studiare, con
miglior senno di quello si adoperi a’ dì nostri con certi catechismi
e libercoli didattici con cui vengono ribadite la superstizione e
l’ignoranza.

È meraviglia allora più grande che, possedendo l’Italia ripetute
traduzioni di tutti i classici dell’aurea latinità, non abbia finora
avuto un volgarizzatore nel suo idioma de’ Mimiambi di Publio Siro,
mentre n’ebbe una ghiribizzosa in greco dallo Scaligero; nè credo però
aver io fatta opera ingrata elaborandola, come l’originale, in versi, e
mandandola alla luce.

Nella lotta fra Laberio e P. Siro succennata, Cesare aggiudicò la palma
al secondo: non si sa tuttavia se mosso da giustizia o da dispetto
per avere Laberio scagliato sanguinosi giambi al di lui indirizzo.
Nondimeno, siccome in un dignitoso prologo che la storia ci ha
conservato, con qualche altro mimiambo appena, e che io do tradotto
coi Mimiambi di P. Siro nell’edizione che ho fatta, s’era fieramente
espresso sull’usatagli violenza di dover vecchio salire la scena, onde
ne fosse venuto, a lui cavaliere romano, sfregio nella sua dignità,
tal che i suoi pari lo avessero poi a disdegnare; generosamente Cesare
il regalava d’un anello d’oro, e di cinquecentomila sesterzi, che si
vorrebbero eguali a lire centomila nostrali.

Nè questi due egregi soltanto andavano celebrati come Mimografi e
Mimi nell’antica Roma: altri si ricordano, di ottima rinomanza, come
Filistione Niceno, Gneo Mattio, Lentulo, Marco Marullo e Virginio
Romano, vissuto ai tempi della catastrofe di Pompei e ricordato con
parole di miglior lode in una lettera di Plinio il Giovane; quantunque
di tutti costoro nulla in vero ci sia rimasto.

Io ricordando questi nomi, a cagione d’onore, comunque non l’abbia
detto espressamente, ho lasciato supporre, molto più ricordando
l’ultimo mimografo, che non breve stagione corresse fra gli uni e
gli altri; e s’anco si volesse prendere a dato di partenza i due
sommi, Laberio e Publio Siro, per giungere insino a Virginio Romano,
percorreremmo uno spazio di oltre un secolo. Or bene, la voga de’
mimiambi non durò sempre in tal tempo. Venne la nausea e fu ripresa
l’Atellana, per merito di Mummio, regnando Tiberio; poi si alternarono
atellane e mimi, che diventarono entrambi la commedia dell’Impero, la
quale ritraeva il colore del suo tempo, che si andava facendo di più in
più licenzioso.

Mimi ed atellane aggiunsero anzi alla primitiva oscenità un eccesso di
licenza empia; onde si tollerarono non solo, ma piacquero scellerati
subbietti, come _Diana flagellata, Il Testamento di Giove, Gli
Amori di Cibele, I Tre Ercoli affamati_, che sollevarono giustamente
l’indegnazione di Tertulliano[32].

Se di tutte le prostituzioni infami della musa comica antica dovessi
qui tener conto non la finirei sì presto: giustizia vuol nondimeno che
non le si neghi il merito d’essere stata più d’una volta coraggiosa,
sollevando, tanto nell’atellana che nel mimiambo, la propria voce
contro la tirannide trionfante.

Poichè così ho finito di trattare de’ varj generi di comiche
composizioni, mi rimane a toccare d’una importante particolarità del
teatro antico: intendo del costume degli attori comici di portar,
recitando, applicata al volto la maschera; onde poi dalle diverse
qualità di essa si argomentasse tuttavia ne’ fregi architettonici
ed emblemi teatrali, la indicazione della tragedia e quella della
commedia.

Se l’origine della maschera, vuolsi, come vedemmo più sopra, derivata
dal tingersi, nelle gazzarre del contado, la faccia di mosto e
dalle corteccie d’albero ritagliate e foggiate che applicavansi i
villani alla faccia, venutasi poscia migliorando e formando d’altre
più convenienti materie; non pare che l’uso di essa venisse subito
introdotto in Roma e nelle altre parti d’Italia; dove, al dir del
Pitisco, prima di Livio Andronico si usasse dagli attori portar
cappello od elmo, non maschera. Roscio Gallo fu il primo a servirsene,
secondo la più generale opinione, e vuolsi ne fosse causa l’aver egli
avuto gli occhi torti.

«Il fine però della maschera, scrive Francesco De Ficoroni, non fu
propriamente il coprire qualche difetto del volto, fu piuttosto un
capriccio, e il diletto degli spettatori, che nasce dall’inganno, preso
dagli occhi; ma ben scoperto dall’intelletto nel vedere un travisato
o più terribile, o più ridicolo del suo essere naturale. Fu anche la
maggior libertà, che si prendevano gli attori così travestiti in dire
e fare ciò che volevano. Le maschere antiche non velavano solamente
la faccia, come le nostrali, ma coprivano una parte almeno del capo,
secondo Gellio al 7, che dice: _Caput et os cooperimento persona
tectum_[33]. Che se alcun vuol che la voce _Persona_, significhi
l’abito tutto mutato a maschera, non ripugno, purchè conceda che
significhi ancora la sola maschera del volto, conforme il detto di
Fedro, lib. 17:

    _Personam tragicam forte vulpes viderat,_
      _O quanta species, inquit, cerebrum non habet_»[34].

Poscia oltre che si formarono, come notai, le maschere di pelli e
d’altre materie, vennero altresì ridotte a caricature di ridicolo o
di terribile, spesso poi foggiandole al naturale ed in sembianza de’
personaggi che si volevano rappresentare.

Generalmente erano schiavi o liberti greci, che per virtù di studio
avevano appreso la pronunzia del latino, quelli che davansi al
recitare, e le parti di donna erano il più delle volte sostenute dagli
uomini. Istrioni e mimi erano nel disprezzo pubblico, poichè si tenesse
infame chi per denaro fingesse affetti e si esponesse spettacolo e mira
ai possibili insulti. I mimi però privavansi delle civili prerogative,
i censori potevano degradarli di tribù, i magistrati farli staffilare
a capriccio; un marchio impresso sul loro capo gli escludeva da ogni
magistratura e fin dal servire nelle legioni.

Questo pregiudizio contro i comici, i mimi, i danzatori, i cantanti
e in genere gli artisti tutti da teatro, quantunque non così spinto
come in addietro, durò fino a dì nostri; ne’ quali peraltro furon
visti dalle _disonoranti_ tavole del palcoscenico passare artiste, per
merito di leggiadria o di loro perizia, a talami blasonati, ed anche
troppo spesso più mediocri cantanti, attori e saltatori onorati perfino
dell’abusato nastro di cavaliere.

Ultimo tema in questo capitolo, sia la vigilanza delle leggi e de’
magistrati sugli spettacoli teatrali.

Fin dalle XII Tavole era statuito:

_Si quis populo occentessit, carmenve condisit, quod infamiam faxit
flagitiumve alteri, fuste ferito_[35], e siccome era invalso il
costume di vituperare la nobiltà dalla scena; così quella terribil
legge richiamavasi in vigore, massime dagli oppressori, come avvenne
al tempio di Silla. Vedemmo già di Nevio che per aver biasimato i
maggiorenti e massime i Metelli, venne tratto ne’ ceppi; e Cicerone,
che pur avea scritto ad Attico che nessuno osando chiarire in iscritto
il proprio parere, nè apertamente riprovare i grandi, unica via non
fosse rimasta che il far ripetere in teatro versi e passi che paressero
alludere ai publici affari; tuttavolta, nel Libro _De Republica_ loda
la severità delle XII Tavole, perchè infatti il viver nostro dev’essere
sottoposto alle sentenze de’ magistrati ed alle dispute legittime, non
al capriccio de’ poeti, nè dobbiamo udir villania, se non a patto che
ci sia lecito il rispondere e difenderci in giudizio.

Ed Orazio del pari se ne lagnava nell’epistola I, del Libro II:

    _Libertasque recurrentes accepta per annos_
      _Lusit amabiliter, donec jam sœvus apertam_
      _In rabiem verti cœpit jocus, et per honestas_
      _Ire domos impune minax. Doluere cruento_
      _Dente lacessiti: fuit intactis quoque crura_
      _Conditione super communi: quin etiam lex_
      _Pœnaque lata, malo quæ nollet carmine quemquam_
      _Describi. Vertere modum, formidine fustis_
      _Ad bene dicendum, delectandumque redacti_[36]

A un di presso come vedemmo accadere e lagnarsi a dì nostri della
stampa per le intemperanze di qualche libercolo, o giornale.

Le repressioni ad ogni modo delle leggi e de’ magistrati resero meno
che in Grecia deplorevole questa licenza teatrale.

Piuttosto si valse del teatro la coscienza pubblica per proprie
manifestazioni, che altrimenti non le sarebbero state concesse
all’indirizzo di grandi oppressori. Ne’ giuochi Apollinari, a cagion
d’esempio avendo Difilo recitato questi versi:

    _Nostra miseria tu es magnus...._
      _Tandem virtutem istam veniet tempus cum graviter gemes...._
      _Si neque lusus, neque mores cogunt_[37],
gli applausi del popolo non ebbero più modo, chè pretese vedere in
essi fatta allusione a Pompeo, e Cicerone attesta che se ne volle pur
migliaja di volte la replica: _millies coactus est dicere_[38].

Nè all’indirizzo di Cesare mancò il succitato mimografo Laberio di
frizzare. Nella gara con P. Siro, egli esclama ad un tratto:

    _Porro, Quirites, libertatem perdimus_[39],

e poco dopo:

    _Necesse est multos timeat quem multi timent_[40].

Cicerone invece richiamato in patria, s’ebbe così da Esopo tragico
il benvenuto, recitando il _Telamone_ di Azzio: _Quid enim? Qui
rempublicam certo animo adjuverit, statuerit cum Argivis..... re dubia
nec dubitari vitam offerre, nec capiti pepercerit.... summum animum
summo in bello.... summo ingenio præditum.... o pater!... hæc omnia
vidi inflammari.... O ingratifici Argivi, inanes Graji, immemores
beneficii!... Exulare sinitis, sinitis pelli, pulsum patimini_[41].

Sotto Nerone, un attore dovendo pronunziare: _Addio, padre mio; mia
madre, addio_, accompagnò il primo coll’atto del bere, il secondo
coll’atto del nuotare, per alludere al genere di morte dei genitori
di Nerone. Poi in un’atellana, proferendo _L’Orco vi tira pei piedi_
(_Orcus vobis ducit pedes_), voltavasi verso i senatori.

Si pensava con Orazio essere lecito dire scherzando la verità: _ridendo
dicere verum quid vetat?_ — Ma nondimeno tutte le verità non si possono
pur troppo dire.

Del resto attribuivasi, fin dalle origini, principale scopo alla
commedia la censura del vizio, e la Musa Talia, che dai Greci e dai
Romani si volle far presiedere ad essa, così di sè medesima si fa in un
epigramma dell’Antologia a parlare:

    Κωμιχὸν ἀμφιέπω Θαλὶη μέλος, ἔργα δε φωτῶν
    Οὺχ σίων θυμελησι φιλοκροτάλοισιν αθύρω[42].

Questa allegra Musa veniva rappresentata con una maschera comica alla
mano e in caricatura, con un bastone pastorale e della corona d’erica
recinta le tempia. Questa corona conviene a Talia, comunque consacrata
d’ordinario a Bacco, divinità tutelare delle rappresentazioni teatrali,
perchè nata la Commedia fra le gioje della vendemmia, e le convenga
perchè ella fosse che in siffatta occasione avesse a istituire questo
genere di spettacolo.

Il ricurvo bastone, — attributo di Talia, che si faceva presiedere
altresì ai lavori campestri, e d’ogni coltura, giusta il valor del suo
nome che significa _Fiorita_, onde Virgilio cantò nell’_Egloga X_:

    _Nostra nec erubuit silvas habitare Thalia_[43],

— era particolarmente adoperato dagli antichi attori, come gli
scrittori intorno alle pitture d’Ercolano hanno provato[44].

Una Musa era sempre l’ispiratrice degli antichi poeti, e le Muse eran
sempre da essi invocate; e se Esiodo potè chiamar Calliope la più
degna delle nove muse _e colei che accompagna i re rispettabili_; non
può negarsi a Talia ch’essa invece sia la più gradita per chi cerchi
conforti e gioje e l’obblio delle angoscie di quaggiù.




CAPITOLO XIII.

I Teatri — Teatro Tragico.

  Origini del teatro tragico — Tespi ed Eraclide Pontico — Etimologia
  di tragedia e ragioni del nome — Caratteri — Epigene, Eschilo
  e Cherillo — Della maschera tragica — L’attor tragico Polo —
  Venticinque specie di maschere — Maschere trovate in Pompei —
  _Palla_ o _Syrma_ — Coturno — Istrioni — Accompagnamento musicale
  — Le tibie e i tibicini — Melpomene, musa della Tragedia — Il
  teatro tragico in Pompei — L’architetto Martorio Primo — Invenzione
  del velario — Biasimata in Roma — Ricchissimi velarii di Cesare
  e di Nerone — _Sparsiones_ o pioggie artificiali in teatro —
  Adacquamento delle vie — Le _lacernæ_, o mantelli da teatro —
  Descrizione del Teatro Tragico — Gli Olconj — _Thimele_ — _Aulæum_
  — La Porta _regia_ e le porte _hospitalia_ della scena — Tragici
  latini: Andronico, Pacuvio, Accio, Nevio, Cassio Severo, Varo,
  Turanno Graccula, Asinio Pollione — Ovidio tragico — Vario, Lucio
  Anneo Seneca, Mecenate — Perchè Roma non abbia avuto tragedie —
  Tragedie greche in Pompei — Tessera teatrale — Attori e Attrici —
  Batillo, Pilade, Esopo e Roscio — Dionisia — Stipendj esorbitanti
  — Un manicaretto di perle — Applausi e fischi — La _claque_, la
  _clique_ e la Consorteria — Il suggeritore — Se l’Odeo di Pompei
  fosse attinenza del Gran Teatro.


Le origini del Teatro Tragico, facile è argomentarlo, sono comuni con
quelle del Teatro Comico: i due generi si vennero solo col progresso
di tempo separando, divisione poi compiutamente operata allorquando
il trovato de’ scenici ludi si sollevò all’onore dell’arte, mercè le
composizioni de’ poeti che si vennero sul teatro rappresentando.

Tuttavia per taluni assegnare si vuole speciale carattere agli
incunaboli della tragedia, e se a’ principj della commedia satirica si
prestarono i cavalletti di Susarione, il primo arringo a quelli della
Tragedia si pretese riconoscerlo nell’Attica, nel carro di Tespi, forse
quello stesso carro, che i medesimi abitatori della campagna valevansi
ne’ giorni della vendemmia a portar uve e vasi vinarj.

La vecchia tradizione è consacrata ne’ seguenti versi del libro, o
epistola _De Arte Poetica_ di Orazio, indirizzata a’ Pisoni:

    _Ignotum tragicæ genus invenisse Camœnæ_
      _Dicitur et plaustris vexisse poemata Thespis;_
      _Quæ canerent agerentque peruncti fœcibus ora_[45].

Tespi era poeta dell’Attica, non dell’Icaria, come altri sostiene;
quando pure egli non sia che un pseudonimo, sotto il quale Eraclide
di Ponto[46], al riferire di Aristofane, fece comparire diversi suoi
componimenti. Tespi visse nella 51.ª Olimpiade, vale a dire 534 anni
prima dell’Era Volgare, ai tempi di Solone; e vuolsi infatti che
fosse il primo degli ultimi suoi drammi — de’ quali però non si ha
pur un frammento superstite, e che andava di villaggio in villaggio
rappresentando — che gittasse le fondamenta del Teatro Tragico.

D’onde il nome, variano, come per tutte le antiche e più celebrate
cose, gli etimologisti. Lo dicono i più venuto dalle due voci greche
τράγος, capro, e ὠδῄ, cauto, perchè colui che nella tragedia avesse
vinto, conseguisse in premio un capro, che poi il vincitore sagrificava
a Bacco, come lo stesso Orazio ricordò nella succitata _Arte Poetica_
in questo esametro:

    _Carmine qui tragico vilem certavit ob hircum_[47].

Altri al contrario, tenendo conto del tingersi che gli attori facevano
del volto col mosto o feccia, la quale in greco è detta τρυζ, e nel
dorico dialetto τραξ, γὸς, fanno originato da tal pristino costume il
nome a questo genere di composizione.

A differenza della commedia, che assai spesso da seri, torbidi a
complicati eventi trae principio e si chiude poi con lieto e tranquillo
esito: la tragedia ha tutto luttuoso il subbietto e tristissima
catastrofe per fine. Laonde Ovidio, personificandola, la fa camminare
violenta, a grandi passi, colla fronte torva per la scomposta chioma e
col cascante peplo:

    _Venti et ingenti violenta Tragœdia passu:_
      _Fronte comæ torva, palla jacebat humi_[48].

Differenzia altresì la Tragedia nella natura e qualità de’ personaggi;
spesso ridicoli, del popolo, o di servil condizione quelli della
commedia: la tragedia li richiede invece gravissimi, re, principi e
tali da versar nelle corti, come il più spesso i subbietti svolgonsi
infatti nelle reggie, o nelle aule dei grandi, trattandovisi calamità,
delitti e luttuosi fatti.

Dopo di Tespi, al quale il Lambino, nel commento d’Orazio, afferma che
sianvi di coloro che credono anteporre Epigene come inventor del teatro
ed anzi esservi chi prima di lui pretenda che fossero sedici altri a
precederlo in simil genere di ludi; Orazio indica essere stato Eschilo
ad avantaggiar la tragedia prestandole la maschera, il peplo, il
coturno, a valersi della scena ed a far uso di più perfetta parola:

    _Post hunc, personæ, pallæque repertor honestæ_
      _Æschilus, et modicis instravit pulpita tignis_
      _Et docuit magnumque loqui, nitique cothurno_[49].

Aristotele non dà ad Eschilo questo vanto, dicendo ignorarsene
l’inventore: _Quis autem_, scrive egli, _personas introduxerit, vel
prologos, vel multitudinem actorum et alia hujusmodi, ignoratur_[50].
Suida ed Ateneo lo concedono, in quanto alla maschera, al poeta
Cherillo, contemporaneo di Tespi.

Vedemmo già delle maschere nel capitolo antecedente e notai la
diversità della maschera della commedia da quella della tragedia: or
mi piace d’aggiungere nell’argomento maggiori particolarità per quella
speciale importanza che nella tragedia la maschera vi aveva.

Il volto, sotto del quale presentavasi sul teatro l’attore, era sempre
corrispondente alla parte ch’ei sosteneva, nè si vedeva giammai un
commediante rappresentare la parte d’un uomo dabbene colla fisonomia
d’un briccone. — I compositori, scrive Quintiliano, allorchè pongono
sul teatro un loro componimento, sanno dalle maschere trarre eziandio
il patetico. Nelle tragedie, Niobe appare con riso melanconico, e Medea
coll’aria atroce della sua fisonomia, ci annuncia il suo carattere.
Sulla maschera d’Ercole sono dipinte e la forza e la fierezza. La
maschera di Ajace mostra il sembiante di un uomo fuor di sè stesso. Per
mezzo della maschera si distingue il vecchio austero dall’indulgente, i
giovani saggi dai dissoluti, una giovinetta da una matrona. Se il padre
i cui interessi formano lo scopo principale della commedia, deve essere
ora contento, ora disgustato, mostra aggrottato l’uno de’ sopraccigli
della sua maschera, oppur l’altro abbassato, ed è attentissimo nel
volgere agli spettatori quel lato della sua maschera che più si addice
alla sua situazione. Si può quindi congetturare, che il commediante
il quale portava quella maschera, si volgesse ora da una parte, ora
dall’altra, onde mostrar sempre il lato del viso che era alla propria
situazione più conveniente, allorchè rappresentavansi le scene in
cui egli doveva cangiar d’affetto, senza poter cambiare di maschera
in iscena. Se quel padre, a cagion d’esempio, compariva lieto sulla
scena, presentava il lato della sua maschera, il cui sopracciglio era
abbassato; e allorquando gli avveniva di cangiar d’affetto, camminava
sul palco e con tanta maestria, che presentava in un istante allo
spettatore il lato della maschera col sopracciglio aggrottato, avendo
cura, tanto nell’una, come nell’altra situazione, di volgersi sempre di
profilo.

Giulio Polluce, parlando delle maschere di carattere, dice che quella
del vegliardo il quale sostiene la prima parte nella commedia deve
essere afflitta da una parte e serena dall’altra e trattando delle
maschere delle tragedie, le quali debbon essere adattate al carattere,
dice altresì che quella di Tamiri, quel rinomato temerario il quale
fu reso cieco dalle Muse per avere osato di sfidarle, doveva avere un
occhio cilestro e l’altro nero.

Le maschere permettevano inoltre agli uomini di rappresentare le parti
di donna, le quali esigendo, per l’ordinaria vastità dei teatri e, per
sopraggiunta, scoperti, non altrimenti che i circhi, robustezza di
voce, mal vi avrebbero veraci donne sopperito. Aulo Gellio racconta
infatti un aneddoto dell’attor tragico Polo, cui nella tragedia
di Sofocle venne affidata la parte di Elettra e ricorda come nella
situazione in cui Elettra doveva comparire tenendo in mano l’urna
ov’ella crede raccolte le ceneri del fratello Oreste, vi venisse
stringendo al petto l’urna in cui erano veramente rinchiuse le ceneri
di un fanciullo che egli aveva da poco tempo perduto; e che nel
volgere, come voleva l’azione, le sue parole all’urna, sommamente si
intenerì, non minore emozione destando nell’uditorio.

La necessità della maschera, per la suavvertita ragione della vastità
dei teatri, è constatata dall’autorità di Prudenzio: «Quelli che
recitano, dice questo scrittore, nelle tragedie, si coprono il capo
d’una maschera di legno e per mezzo dell’apertura fattavi fanno sentir
da lungi la loro declamazione.»

Servivano da ultimo le maschere a rendere più formidabile l’aspetto
dell’attor tragico, ciò che era uno degli studj più accurati
nell’antica tragedia; onde Giovenale nella Satira terza:

                          _Ipsa dierum_
    _Festorum herboso colitur si quando theatro_
    _Majestas tandemque redit ad pulpita notum_
    _Exodium, cum personæ pallentis hiatum_
    _In gremio matris formidat rusticus infans_[51].

Di venticinque specie almeno si contavano le maschere della tragedia:
sei di vecchi, sette di giovani, nove di donne e tre di schiavi,
distinte tutte da una peculiare diversità di lineamenti, di colore, di
capellatura e barba.

Eravi poi la _persona muta_, sorta di maschera portata dall’attore,
che, pur figurando nel dramma, non parlava mai, come le comparse del
teatro moderno. Questa maschera aveva dunque la bocca chiusa e non
aveva espressione al pari delle altre.

Tanto negli scavi di Pompei che in quelli di Ercolano, si rinvennero
nelle pitture esempi di _personæ_, o maschere tanto comiche, che
tragiche, e che di semplici comparse e rispondono perfettamente a quei
cenni che son venuto adesso fornendo.

Ho accennato più sopra che la maschera aggiungeva altresì valore
alla voce: infatti essa la rendeva più sonora, quasi raccogliendola
nell’emissione, come faremmo noi al bisogno di più grande clamore,
che portiamo le mani intorno alla bocca. Un attore tragico domandava
una forte e tonante voce, perchè dice Apulejo, il commediante recita
e l’attor tragico grida a tutta possa. Nè diversamente intese dire
Cicerone, quando nella enumerazione delle doti necessarie all’oratore,
chiede ch’egli abbia la voce d’attor tragico: _In oratore autem acumen
dialecticorum, sententiæ philosophorum, verba prope poetarum, memoria
juriconsultorum, vox tragœdorum, gestus pene summorum actorum est
requirendus_[53]. — Vedrà facilmente il lettore quanta modificazione
avesse in progresso, e massime a’ tempi nostri codesto requisito; il
quale or vuolsi risponda alla vera naturalezza.

Seconda invenzione di Eschilo, al dire di Orazio, fu la _palla_, o con
più proprio vocabolo greco, pur serbato dai Romani, la _sirma_, Συρμα,
ed era la tunica che l’attor tragico portava lunga sino ai talloni,
sostenendo le parti di personaggi eroici o divini. Era essa intesa a
dare grandezza e dignità alla persona, e nascondeva la sconveniente
apparenza dello stivale tragico, _cothurnus_, ad alta suola. Giovenale
vi accenna nella Satira VIII, quando così apostrofa Nerone:

    _Hæc opera atque hæ sunt generosi principis artes,_
      _Gaudentis fœdo peregrina ad pulpita saltu_
      _Prostitui, Graiægue apium meruisse coronæ._
      _Majorum effigies habeant insignia vocis:_
      _Ante pedes Domiti longum tu pone Thiestæ_
      _Syrma vel Antigones, seu personam Menalippes,_
      _Et de marmoreo citharam suspende colosso_[54].

Questo coturno poi era uno stivale portato dagli attori tragici sulle
scene, il quale aveva una suola di sughero alta parecchi pollici,
all’intento di far comparire, egualmente che la sirma, più grande la
loro statura ed aggiungere loro un più imponente aspetto. Da siffatta
consuetudine originò la frase _sumere cothurnum, calzare il coturno_,
per indicare tanto l’attore tragico, che il poeta che componeva
tragedie. Questa promiscuità d’indicazione fu motivata allora, come
fino a’ tempi moderni, da ciò che più spesso il poeta era anche
l’attore. Già, pur allora, ne accennai implicitamente nel parlare
di Livio Andronico; come dei tempi moderni può recarsene ad esempio
Shakespeare.

L’uso del coturno nella recitazione della tragedia vuolsi generalmente
introdotto da quell’altro sommo poeta tragico greco che fu Sofocle;
onde scambiasi, per metonimia, fin nel linguaggio d’oggidì, coturno
sofocleo bene spesso par tragica composizione.

Virgilio l’usò in un’egloga ad esprimere la severità o sublimità dello
stile, parlando de’ versi di Cornelio Gallo, al quale quel componimento
è diretto:

    _Sola Sophocleo tua carmina digna cothurno_[56].

Nè la dignità maggiore dell’attor tragico, poteva tuttavia
differenziarlo, nella designazione, dalla classe dell’attor comico.
Entrambi detti istrioni, _histriones_, parola derivata dagli Etruschi,
che l’adoperavano a significare un attore pantomimico ed un ballerino
sulla scena, come ne fa fede l’autorità di Tito Livio[57]. — I
Romani accolsero la voce, ma ne estesero il significato, con tal nome
designando qualunque attore drammatico, che recitasse il dialogo del
dramma con gesto appropriato, e quindi l’attor tragico come l’attor
comico.

Plinio infatti chiamò M. Ofilio Hilaro istrione di commedie[58], come
Esopo istrione di tragedie[59]. Non fu del resto che più tardi che si
usò del nome stesso ad indicar uomo vanaglorioso e spavaldo ed anche il
vil cerretano.

E fu ciò tanto vero, che Macrobio, a dimostrare come gl’istrioni
fossero anzi stimati, cita l’amicizia intima di Cicerone con
Esopo e con Roscio istrioni: la dilezione avuta da Lucio Silla per
quest’ultimo, così che, dittatore, il regalasse di anello d’oro: il
fatto che ad Appio Claudio, uomo trionfale, fosse attribuito ad onore
fra’ colleghi di saper ottimamente danzare: _pro gloria obtinuerit,
quod inter collegas optime saltitabat_ e chi tra nobilissimi cittadini,
Gabinio uom consolare, M. Celio e Licinio Crasso si recassero a
sommo di onore non solo lo studio, ma la perizia nella danza[60]. Io
piuttosto dirò che i _ludi_ e le _ludiæ_ recitando e danzando sulle
pubbliche vie fossero nel generale disprezzo, come lo sono tra noi i
saltimbanchi e suonatori di strada.

Ovidio è di questa sorta di ludi che parla nel Lib. I. _Artis amatoriæ_:

    _Dum quæ, rudem prœbente modum tibicine Thusco,_
      _Ludius æquatam ter pede pulsat humum_[61]

Fin da’ loro primordii, tanto la commedia che la tragedia ebbero,
nella loro recitazione, accompagnamento di musica, volendosi con
questa sostenere la voce degli attori e massime del coro, che figurava
impreteribilmente nelle tragiche composizioni, secondo ne ammonisce in
questi versi Orazio:

    _Tibia non, ut nunc, orichalco vincta, tubæque_
      _Æmula, sed tenuis simplexque foramine pauco_
      _Aspirare et adesse choris erat utilis, atque_
      _Nondum spissa nimis complere sedilia flatu_[62].

Gli istrumenti erano le tibie, le quali apprendiamo dalle notizie che
si leggono in molte edizioni in fronte alle commedie di Terenzio, che
fossero di più specie.

Erano esse fatte di canna, di bosso, di corno, di metallo, o stinco di
alcuni uccelli e animali, d’onde il nome ebbe origine. Alcune erano
simili al moderno zufolo, altre al flauto, altre eran curve, altre
s’accoppiavano ed eran pari, altre impari, ambe suonate ad un tempo
da un medesimo suonatore, altre dicevansi destre ed altre sinistre,
a seconda dovevansi tenere da una mano o dall’altra, e le prime
producevano le note gravi e basse, le seconde ottenevano le acute.

L’_Ecira_ di Terenzio, a mo’ d’esempio, fu accompagnata da due tibie
_pari: modos fecit Flaccus Claudi tibiis paribus_[63]: il _Formione_
dello stesso dalle tibie _impari_ o disuguali: _modos fecit Flaccus
Gaudi tibiis imparibus_; l’_Andria_ con doppio pajo di tibie; gli
_Adelfi_ dalle tibie dette _Sarranæ_, che erano dell’egual lunghezza e
diametro interno, come le pari, in guisa che tutte e due si trovassero
alla medesima altezza di suono. Così dicasi delle altre commedie di
lui, in molte edizioni delle quali leggesi, come dissi, in fronte
alle stesse la nota: _Acta tibiis dextris, vel sinistris, paribus vel
imparibus_.

I musici che suonavano le tibie nel teatro e che venivano altresì
adoperati nelle feste e solennità religiose e ne’ funerali, chiamavansi
_Tibicines_, e in Roma costituivano, come ne fa fede Valerio Massimo,
una speciale corporazione. — Una pittura pompejana ci rappresenta un
_tibicen_, seduto sul _thymele_ nell’orchestra in atto di battere il
tempo col suo piede sinistro e coperto dalla lunga veste.

Nè ufficio di tibicini era solo accompagnare del loro suono gli attori
ed il coro durante la rappresentazione, ma ben anco di suonar negli
intermezzi e fra gli atti, come usasi modernamente e come Plauto,
chiudendo il primo atto del _Pseudolus_, informa con queste parole:
_Tibicen vos interea hic delectaverit_[64]: ma già fin d’allora
avvertivasi da molti alla inconvenienza di turbare con suoni le scene
più interessanti e poetiche della tragedia, se Cicerone colla finezza
della sua ironia avesse a scrivere: _Non intelligo quid metuat cum tam
bonos septenarios fundat ad tibiam_[65].

E in Grecia e in Italia, preponendosi, per gentile e religiosa
costumanza, alle scienze e alle arti quelle amabili divinità che
sono le Muse; se Talia, come abbiamo veduto, era musa assegnata alla
Commedia, Melpomene fu la musa della Tragedia.

Indarno lo scoliaste d’Apollonio e quello dell’Antologia[66] pretesero
a questa Musa attribuir l’ode, forse a ciò indotti dal valore del suo
nome, che significa _cantante_, senza riflettere che questo nome meglio
convenga alla musica, che, come testè ho esposto, usavasi dagli antichi
durante l’azione tragica teatrale; perocchè la maggior parte degli
scrittori e poeti, greci e latini, s’accordino nel dire Melpomene la
Musa della Tragedia e tra gli altri Petronio Afranio nell’_Elogio delle
Muse_ lo affermi chiaramente:

    _Melpomene reboans tragicis fervescit iambis_[67];

e _Le Pitture d’Ercolano_ portano scritto ΜΕΛΠΟΜΕΝΗ ΤΡΑΓΩΔΙΑΝ,
_Melpomene tragœdiam_.

Il vestimento, che si assegna ordinariamente a questa Musa severa,
è una tunica lunga, appellata _talaris_, le cui maniche giungono a’
polsi, al di sopra di essa un _peplum_ o tunica più corta, e da ultimo
la _syrma_ teatrale, col pugnale e la maschera tragica alla mano,
calzata del coturno, austera nella figura ed ombreggiata da’ capelli
la fronte, _fronte comæ torva_, come ebbe a cantare Ovidio, che ho già
citato.

Venendo ora alla materialità o forma e disposizione delle parti
architettoniche di un teatro tragico, non potrei che riferirmi a quanto
mi accadde di dire nel capitolo precedente, perocchè teatro comico
e teatro tragico si somigliassero quasi in tutto. Le differenze ho
già del pari notate, e son minime; l’_Odeum_ più spesso, il qual era
d’origine greca, soleva esser coperto. Laonde vengo difilato al Teatro
Tragico pompejano.

Anche quella descrizione che particolarmente ho fatta del teatro
Comico, mi abbrevia il còmpito della descrizione del gran Teatro, o
Teatro Tragico di Pompei; perocchè suppergiù si avrebbero a dire le
medesime cose, da che e la distribuzione delle parti e l’ordinamento e
i locali si rassomiglino, come anche molto simili gli scopi.

Non noterò adunque che quelle specialità che lo differenziano, a
scanso d’inutili ripetizioni, non lasciando anzi tutto di prender atto
del nome del suo architetto, quale ci fu tramandato da un’iscrizione
ch’era in una muraglia attinente al teatro ed oggi trasferita al Museo
Nazionale e che suona così:

               MARTORIUS M . L . PRIMUS ARCHITECTUS[68].

Il teatro Tragico era situato sul declivio di una collina, sulla
sommità della quale si trova il lungo e vasto portico accommodato a
ricevere gli spettatori in caso di pioggia, potendo all’uopo anche
servire di passeggio, e di lizza per gli esercizi ginnastici. A
differenza del Comico, era esso scoperto al pari dell’anfiteatro e
della più parte dei teatri d’allora, massime di Roma; onde notai come
particolarità quella dell’_Odeum_ pompejano d’essere stato coperto,
riferendo anzi a prova l’iscrizione che l’attesta, ma che d’altronde
non può dirsi che fosse l’unico nella Campania, avvertendoci Stazio
che pur in Napoli, dei due teatri, l’uno fosse coperto e l’altro no, in
quel verso:

    _Et geminam molem nudi, tectique theatri_[69].

Non è però che il Teatro Tragico esponesse così gli spettatori
all’incommodo, non lieve in quella parte d’Italia, in cui l’estate è
precoce, de’ vivi raggi del sole; avvegnachè si fosse presto ricorso
alla invenzione di un mezzo per ovviare al grave inconveniente, nel
_velarium_, che vi veniva disteso al disopra; lo che praticar solevasi
anche ne’ giuochi dell’anfiteatro, come a suo luogo vedremo, riportando
anzi, come farò, il tenore di alcuni affissi che annunziando al popolo
gli spettacoli, lo avvisavano, a maggior eccitamento di concorso, che
sarebbe tirato sull’anfiteatro il velario.

Nei teatri della Campania, prima che altrove e per conseguenza pur in
questo di Pompei consacrato alla tragedia, secondo la testimonianza
di Plinio, venne introdotto l’uso del _velarium_ a coprir il teatro e
difendere per tal modo gli spettatori dagli ardori del sole; e come che
esso richiedesse servizio di cordami e si componesse di tele quali si
usavano per le vele de’ navigli, e che anzi se ne conservasse perciò
loro il nome, così a distenderlo servivansi d’ordinario di marinaj.

Questa commodità, che avrebbe dovuto essere come salutare
universalmente accolta, venne invece biasimata in Roma, chiamandola
effeminatezza campana, quando Quinto Catulo ve l’importò, siccome
leggiamo in Valerio Massimo: _Quintus Catulus imitatus lasciviam
primus spectantium concessum velorum umbraculis texit_[70], e
quello stupido mostro di Caligola, al dir di Svetonio, recavasi a
diletto di far ritirare improvvisamente il velario e costringere gli
spettatori a rimanere a capo scoperto esposti alla più cocente sferza
canicolare[71].

Ma se nella Campania s’era ritrovato questo eccellente, quantunque
calunniato, espediente contro la sferza canicolare, sappiam però da
Marziale, che assai spesso esso tornasse inutile affatto in Roma al
teatro di Pompeo, per l’imperversare del vento. Ma se così in Roma,
che sarà stato allora in Pompei? Sedendo la città in riva al mare,
era più che mai esposta alla furia di esso. Il Poeta che protestava,
nell’epigramma dal titolo _Causia_, cioè il cappellino usato nel teatro
di Pompeo, ch’ei conserverebbe il suo cappello in testa:

    _In Pompejano tectus spectabo theatro_
      _Nam populo ventus vela negare solet_[72],

senza volerlo, ci lasciò ricordato che a’ quei giorni anche in teatri
scoperti fosse della buona creanza lo starsene a capo nudo.

Giulio Cesare spinse la propria prodigalità fino al punto di volere
in una festa magnifica data al popolo romano, che disteso fosse il
velario di seta sull’anfiteatro e si sa che la seta si vendesse allora
a peso d’oro. Anche Nerone ordinò un velario di porpora, i cui ricami
d’oro rappresentavano il carro del Sole, circondato dalla Luna e dalle
Stelle.

Pare del resto che un certo lusso fosse entrato poi sempre ne’ teatrali
velarj, nè più si componessero, come nelle origini, di semplici e
grezze tele di navi, se Lucrezio, nel suo poema _De Rerum Natura_,
ingegnosamente descrive a lungo il giuoco dell’ombra colorata prodotta
dai variopinti velarj, così che non mi so trattenere dal qui riferirne
il brano ch’io dispicco al IV libro:

      _Nam certe iaci, atque emergere multa videmus_
    _Non solum ex alto, penitusque, ut diximus ante;_
    _Verum de summis ipsum quoque sæpe colorem:_
    _Et vulgo faciunt id lutea, russaque vela,_
    _Et ferrugina, cum magnis intenta Theatris,_
    _Per malos volgata, trabeisque, trementia flutant._
    _Namque ibi consessum caveæ subter, et omnem_
    _Scenæ speciem, Patrum, Matrumque, Deorumque_
    _Inficiunt; coguntque suo fluitare colore:_
    _Et quanto circum mage sunt inclusa Theatri_
    _Mœnia tam magis hæc intus perfusa lepore_
    _Omnia conrident, conrepta luce diei_[73].

Nè, a temprare l’ardore della stagione, usavasi nel teatro tragico di
Pompei del velario soltanto: ma ben anco d’altro curioso trovato, che
scaltrirà il lettore del quanto fossero innanzi i nostri maggiori negli
artifizj dilicati.

Nella parte superiore del teatro, oltre l’emiciclo, evvi una specie di
torre che figura tonda nel teatro e quadra al di fuori, in cui stava
un serbatojo d’acqua derivata dal Sarno, che serviva ad inaffiare e
rinfrescare teatro e spettatori, facendola scendere in minutissima
pioggerella, o spruzzaglia, a mo’ di rugiada.

Stando a Valerio Massimo che lasciò scritto: _Cnejus Pompejus ante
omnes aquæ per semitas decursu æstivum minuit fervorem_[74], sarebbe
stato questo valoroso capitano il primo che avesse ad introdurre
l’anaffiamento delle vie a diminuzion di caldura e di polverio
ed additasse così il bene dell’evaporazione: facile ne era allora
l’applicazione a’ luoghi di trattenimento, massime ne’ teatri, ne’
quali, per esservi rappresentazioni mattutine e nel pomeriggio, vi si
rimaneva tanta parte del giorno.

La ricercatezza venne spinta dipoi a mescere a quell’acqua, onde
rinfrescavansi i teatri, anche odorose essenze, e massime di zafferano
allora in voga ed a mezzo di tubi, disposti dentro de’ muri. Esse
venivano quindi sprizzate fuori, giusta quanto si legge nella
nonagesima epistola di Seneca: _Hodie utrum tandem sapientiorem putas
qui invenit quemadmodum in immensam multitudinem crocum latentibus
fistulis exprimat_[75]. Queste pioggie d’essenze, che Antonio Musa, il
celebre liberto e medico di Augusto e amico di Virgilio, presso Seneca,
appella _odoratos imbres_, pioggie odorose, e Marziale _nimbos_,
nimbi; più comunemente chiamavansi _sparsiones_, nome anche comune alle
liberalità che facevano i principi al popolo; ma come già erano stati
di molti che austeramente avevano rimproverato di mollezza campana
l’invenzion del velario, pur furono a più ragione di quelli che a
ricordo di virtù e sobrietà antica, rinfacciassero alla loro età queste
effeminate invenzioni.

E Properzio fra gli altri, nella sua _Elegia_, in cui accenna a un
grandioso tentativo poetico sui fasti di Roma antica sventato dai
consigli di un indovino forestiero, che lo ricondusse ai suoi canti
d’amore, ha questo distico:

    _Nec sinuosa cavo pendebant vela theatro,_
      _Pulpita solemni non oluere croco_[76].

Egual concetto modulava Ovidio nell’_Ars amandi_ in questo distico:

    _Tunc neque marmoreo pondebant vela theatro,_
      _Nec fuerant liquida pulpita rubra croco_[77].

Ma poichè sono a dire delle varie costumanze del teatro, non ommetterò
quella che ci rivela Marziale, nel deridere in un suo epigramma un
cotale che ei noma Orazio, solito a comparire vestito indecentemente il
giorno degli spettacoli.

Ecco l’epigramma:

    _Spectabat modo solus inter omnes_
      _Nigris munus Horatius lacernis,_
      _Cum plebs, et minor ordo, maximusque_
      _Sancto cum duce candidus sederet,_
      _Toto nix cecidit repente coelo,_
      _Albis spectat Horatius lacernis_[78].

Quando adunque l’inverno, o l’inclemenza della stagione lo consigliava,
essendo i teatri scoperti, non si lasciava tuttavia di andarvi, ma
s’avea cura di avvolgersi in bianchi mantelli di grossa lana denominati
_lacernæ_, e quest’Orazio il Poeta mette in canzone perchè fosse andato
al teatro con una lacerna nera; ma la neve inopinatamente fioccata in
copia aveala resa bianca siccome le altre.

Ora i bianchi mantelli di finissimo cascemiro ricoprono soltanto le
nivee spalle delle nostre eleganti signore allorchè traggono a’ teatri
principali, od anche a serate di gala.

Se non che può credersi un abuso questo di portar mantello in teatro,
se un senso lato vuolsi dare al seguente passo di Svetonio nella
_Vita d’Augusto_: _Ac visa quondam pro concione pullatorum turba,
indignabundus et clamitans: En, ait_,

    _Romanos, rerum dominos, gentemque togatam?_

_Negotium ædilibus dedit, ne quem posthac paterentur in foro circove
nisi positis lacernis, togatum consistere_[79]; ma credo che il divieto
d’Augusto non riguardasse che i soli mantelli neri.

Io ho detto emiciclo, parlando del corpo dell’edificio ov’erano gli
spettatori, ossia della _cavea_, oltre la quale eravi la torre del
serbatojo d’acqua; ma più propriamente la cavea del teatro tragico non
aveva la figura d’emiciclo, ma piuttosto di ferro da cavallo ed era del
diametro di 68 metri e si calcola aver potuto contenere da cinquemila
spettatori.

Gli scaglioni della cavea, _gradus_, e che noi diremmo _gradinata_,
erano in numero di ventinove, tutti di marmo bianco divisi in tre
piani, _moeniana_, da due precinzioni o intervalli, detti anche
_baltei_ o cingoli, dal loro scopo, e questi pure divisi in cinque
scale, _scalæ, itinera_, di cui ciascuno scaglione formava due gradini,
ripartiti in cinque cunei; oltre due altre parti, le quali non sono
ordinarie ne’ teatri, ma varietà speciale di questo e che sono di forma
rettangolare, una per fianco e terminanti in due tribune riservate,
nell’una delle quali si trovarono anche gli avanzi di una sedia curule.

Queste tribune, o spartimenti, hanno ciascuna un ingresso particolare,
che mette sul portico di dietro, per una scala separata.

Il primo ordine della cavea aveva cinque scaglioni, venti ne aveva
il secondo e quattro il terzo. Sul primo scaglione del secondo ordine
eranvi incastonate lettere di bronzo formanti questa iscrizione:

                      M . HOLCONIO . M . F . RVFO
                     II . VIR . I . D . QVINQVIENS
                   ITER . QVINQ . TRIB . M . A . P .
                FLAMINI . AVG . PATR . COL . D . D .[80]

Al medesimo personaggio, cioè a Marco Olconio Rufo figlio di Marco,
ed a Celere Olconio esiste altra iscrizione sulla scena, da cui è
manifesta come a loro spesa fossero stati eretti a decoro della colonia
una cripta, che è la summentovata torre quadrata onde conservare
l’acqua pel teatro, un tribunale, che è quello sulla via del tempio
di Iside in seguito a’ propilei del Foro Triangolare, di cui ho già
parlato a suo luogo, e questo teatro:

                      MM . HOLCONI RVFVS ET CELER
                       CRYPTAM TRIBVNAL THEATRVM
                                S . P .
                         AD DECVS COLONIÆ[81].

Benemerita la famiglia degli Olconj di Pompei e della colonia per
tante publiche opere, terrò conto pur di questa iscrizione ritrovata
in questo teatro, allo stesso M. Olconio Celere dedicata e scolpita in
marmo:

                          M . HOLCONIO CELERI
                   D . V . S . D . QVINQ . DESIGNATO
                         AVGVSTI SACERDOTI[82].

Sotto la seconda cavea dovevano trovarsi tre statue, delle quali due
esser dovevano indubbiamente degli Olconii, Celere e Rufo, alla cui
spesa erasi eretto il teatro.

Una particolarità poi offre l’orchestra del teatro tragico in un
piedistallo, o piuttosto altare, su cui, a norma della costumanza
greca, — e della Grecia molti usi osservavansi, più che altrove
dell’orbe romano, in Pompei, — sacrificavasi a Bacco prima di dar
principio allo spettacolo. Chiamavasi con greco vocabolo _thymele_
o _thimela_, θυμελη, e serviva altresì ad altri usi, come anche
di monumento funebre, o di qualunque altro oggetto richiesto nella
rappresentazione drammatica, nascondeva il suggeritore che stava di
dietro, mentre il suonatore di flauto (_tibicen_) e qualche volta il
capo del coro prendevan posto su quello. In un teatro strettamente
romano non v’era _thymele_, perchè ivi l’orchestra fosse interamente
destinata ad accogliere gli spettatori, al pari della nostra
platea[83].

Al sommo di ciascuna sala eranvi le porte, _vomitoria_, cui si giungeva
per mezzo di corridoi e scale praticate internamente.

Il proscenio presenta sette nicchie semicircolari per i tibicini
e nella parte anteriore corre tutto per il lungo quella cavità
dell’_hyposcenium_, da cui sorgeva l’_aulæum_, o sipario della
tragedia.

Altre particolarità non si notano che il Gran Teatro distinguano
dall’_Odeum_, ove non s’eccettui la prospettiva della scena ch’era
costituita da tre ordini di colonne, l’uno sull’altro, con eleganti
basi e capitelli di marmo e sei statue saviamente collocate. Sembra
che anche questo publico edificio fosse stato ben danneggiato dal
tremuoto del 63 e che si trovasse nel momento della catastrofe del 79
in istato di riparazione, perocchè la scena che evidentemente doveva
essere rivestita di marmi ed altre decorazioni, se ne presenti ora
affatto spoglia. Delle tre porte ordinarie che la scena si aveva, e
che qui sono maestose, aperta quella di mezzo, secondo l’uso, nel fondo
di un emiciclo, chiamavasi _regia_, perchè di là uscivano i principali
personaggi della tragedia: le due laterali appellavansi _hospitalia_.
Fiancheggiano la porta di mezzo due nicchie che contenevano le statue
di Nerone e di Agrippina.

Piacemi finalmente tener conto di ciò che afferma il Rosmini nella sua
_Dissertatio Isagogica_, altre volte da me citata, che cioè questo
teatro fosse stato aperto al publico, od almeno dedicato ad Augusto
nell’anno vigesimosecondo del tribunato di questo imperatore[84].

Frammenti di statue di marmo, lapidi con iscrizioni, tegole ed embrici,
e pezzi di legno carbonizzati si rinvennero dalla parte del Foro
Triangolare, e il complessivo giudizio che dalle interessanti reliquie
è dato di formulare, può sicuramente mettere in sodo che a questo
loro teatro avessero i Pompejani ad aggiungere grande importanza, se
gli Olconj vi credettero portare enormi dispendj; tanta vi pare la
magnificenza e la perfezione dell’arte.

Quali fossero le tragiche composizioni che a questo teatro venissero
rappresentate cerchiamo ora coll’usata rapidità d’indagare.

Se ci fosse lecito di mettere il teatro pompejano a fascio cogli altri
teatri d’Italia, mi trarrei presto e facilmente d’impegno, dicendo che
a siffatto teatro si rappresentassero, nè più nè meno che ai teatri
di Roma, le tragedie de’ latini scrittori, e mi avverrebbe allora
di ricordare i nomi de’ più celebrati poeti; ma gli scavi ed oggetti
teatrali rinvenuti mi impongono obblighi maggiori.

Sappiamo che Andronico lasciò diciannove tragedie, comunque appena
qualche frammento sia rimasto superstite e giunto fino a noi, e di
questo autore ho già parlato altrove abbastanza: egual numero ne lasciò
Marco Pacuvio, e Quintiliano le loda per profondità di sentenze, nerbo
di stile, varietà di caratteri, sebbene la critica moderna più severa,
nel poco che ci è pervenuto, giudichi non esser concesso ravvisare che
liberissime imitazioni in istile oscuro e senza armonia. Lucio Accio
alla sua volta ne compose e raffazzonò di molte, fra cui il _Bruto_
e il _Decio_, soggetti patrizi che recitavansi ancora ai tempi di
Cicerone e più volontieri venivano lette, e dell’_Atreo_, che Gellio
scrisse aver Accio, giovanetto ancora, letto in Taranto a Pacuvio,
pur lodandolo di grandiose e solenni cose scritte, non gli tacque di
altre sembrargli dure alquanto ed acerbe; al che avesse a rispondergli:
non dolere ciò a lui, e trarne anzi auspicio di buon avvenire, per
accader degli ingegni quello che delle mele, che, se nate agre e dure,
divengono poscia tenere e succose; ma se spuntino tenere e succose, col
tempo, non mature ma vizze si rendano e corrotte[85].

Di Gneo Nevio campano già dissi nel precedente capitolo del pari; ora
ricorderò Quinto Ennio Calabrese, che scrisse tragedie e commedie non
poche, che predicava di sè aver ereditato l’anima di Omero, Cassio
Severo, Varo da Cremona e C. Turrano Graecula rammentati, a cagion
d’onore, da Ovidio, come autori di buone tragedie[86]; ma più vorrei
intrattenermi di Asinio Pollione, che fu riconosciuto siccome il più
celebre tragico latino: ma che dirne, se nulla di lui, come degli altri
sunnominati, sopravisse? Istessamente della _Medea_, che si sa avere
scritto Ovidio stesso, della quale egli nel libro secondo _Dei Tristi_,
dopo avere ricordato i libri dei _Fasti_, i sei ultimi dei quali o non
iscrisse, come crede il Masson, o andarono perduti, soggiunge:

    _Et dedimus tragicis scriptum regale cothurnis:_
      _Quæque gravis debet verba cothurnus habet_[87].

Di questa tragedia non sussistono infatti che il seguente verso
riferito da Quintiliano:

    _Servare potui, perdere num possim rogas?_[88].

e l’emistichio seguente ricordato da Seneca il Vecchio, nella terza
_Suasoria_:

    _Feror huc illuc, ut plena Deo_[89].

Se non che, oltre la _Medea_, più altri lavori sembra che Ovidio abbia
scritto pel romano teatro; fra i quali certo la _Guerra de’ Giganti_,
com’ei ce ne avverte nell’elegia I degli _Amori_:

    _Ausus eram, memini, cœlestia dicere bella_
      _Centimanumque Gygen; et satis oris erat_[90].

Si gloria egli stesso che molte volte fossero rappresentate anche alla
presenza d’Augusto[91], e continuassero a rappresentarsi con grande
concorso anche dopo il suo bando[92].

Nè di più posso dire del _Tieste_ di Vario, che a giudizio di
Quintiliano _cuilibet Græcorum comparari potest_[93], e che Orazio
nell’_Arte Poetica_ mette con Virgilio a paro.

Alcune tragedie, gonfie di declamazioni e mancanti di quel che appunto
costituisce il dramma, che è l’azione, raccolte in volume, vengono
tuttavia spacciate sotto il nome di Lucio Anneo Seneca da Cordova.
Esagerazioni, passion falsa, caratteri atroci, furori, situazioni
improbabili sono difetti comuni a queste composizioni, alle quali non
ponno tuttavia negarsi ben coloriti racconti, spesso maschii concetti
e qualche buona sentenza, laconiche e concettose parole. Nella _Medea_,
a cagion d’esempio, quando la nutrice la compiange perchè più nulla le
sia rimasto:

    _Abiere Colchi; conjugis nulla est fides;_
    _Nihilque superest opibus e tantis tibi,_

Medea fieramente risponde:

    _Medea superest_[94].

Nell’_Ippolito_, Teseo chiede a Fedra qual delitto creda dover ella
colla morte espiare:

    _Quod sit luendum morte delictum, indica._

Fedra risponde:

    _Quod vivo_[95].

Curioso è poi nel Coro de’ Corintj della _Medea_ trovar vaticinata
la scoperta di un nuovo mondo, quattordici secoli, cioè, prima che
Cristoforo Colombo facesse quella dell’America:

                        _Venient annis_
    _Sæcuta seris, quibus Oceanus_
    _Vincula rerum laxet, et ingens_
    _Pateat tellus, Tethysque novos_
    _Delegat orbes; nec sit terris ultima Thule_[96].

Nè qui tutti furono i tragici romani, tra i quali si vuol perfino
annoverare Mecenate, l’amico e protettore di Virgilio e d’Orazio, ed
abbenchè si persista dai dotti a ritenere che Roma non abbia avuto
tragedie; pure io reputo che tale sentenza unicamente debba intendersi
nel senso che la romana storia non abbia prestato forse i subbietti
eroici come la greca, alla quale pur tolsero per la più parte i proprj
coloro che scrissero tragedie nella lingua del Lazio, e che però non
sia riuscita a lasciare, come la greca, traccie luminose. Ma io non
torrò, a tale riguardo, la mano al Nisard, che le cause ne indagò ne’
suoi _Études sur les moeurs et les poètes de la decadence_, trattando
appunto di Seneca. — I subbietti di questo poeta, noterò ad ogni modo,
ed a rincalzo di questa osservazione, che all’infuori dell’_Octavia_,
sono tutti eroici greci, che tali sono appunto la _Medea_ e
l’_Hippolitus_ succitati, l’_Hercules furens, Thiestes, Thebais,
Œdipus, Troas, Agamemnon_ ed _Hercules Œtæus_.

Ecco come il sullodato Nisard riassume le cause per le quali Roma non
ebbe tragedie:

«Nè il dramma per altro motivo è l’opera letteraria più indigena e più
originale d’esso paese, se non perchè non può essere fatto senza il
popolo, e perchè il popolo deve discuterlo in pieno teatro. Roma non
ebbe dunque drammi, perchè non ebbe vero popolo. Senza il popolò può
esser creata una bella letteratura d’imitazione, ma non il dramma, e
questo lo provò appunto la Roma aristocratica. Seminando il suo vero
popolo su tutti i campi di battaglia, essa perdette una delle più belle
glorie dello spirito umano, quella del dramma, ma ebbe in compenso la
gloria di vincere il mondo, e qui ebbe assai di che compensarsene. —
In conclusione, un dramma nazionale era impossibile a Roma; e quanto
alla bella e patetica tragedia di Atene, che sarebbe venuta a fare in
mezzo ad un popolo di usuraj e di soldati, con tutte quelle delicatezze
d’arte che inebbriavano la colta popolazione di Atene? Che interesse
potevano prendere quelle turbe ardenti, e senza gusto, per uomini
della leggenda omerica, per la caduta delle antiche monarchie, per
quegli incesti, per quegli assassinj, che eccedettero le forze umane,
delitti comuni agli Dei ed agli uomini, che le giurisdizioni della
terra non possono punire? Che pietà potevano esse sentire per que’
figli maledetti, per que’ sovrani ciechi ed erranti, per quelle vergini
sospese alle braccia de’ vecchi, o chinate come statue sull’urne
funerarie, o di loro mano componenti nel sepolcro il corpo d’un
fratello, e sempre conservando in mezzo delle più dolorose prove la
grazia e la bellezza, senza aver mai quelle lagrime moderne che solcano
le guancie ed insanguinano gli occhi, nè quelle smorfie di dolori la
cui invenzione risale a Seneca? E se la tragedia trapiantata così dalla
Grecia sul teatro di Roma, avesse saputo, come l’epopea, imitata da
Virgilio, e come l’ode imitata da Orazio, riprodurre nella bella lingua
latina tutte le armonie e le grazie della lingua d’Atene, che noja non
avrebbe dato questa musica dell’anima a’ sensi avvezzi al pugilato ed
ai combattimenti di bestie, abbrutiti dalla vista del sangue grondante
sotto i colpi del cesto o dei corpi lividi per le ammaccature, e
che prestava l’orecchio assai più volontieri agli urli degli orsi
che al ritmo delle strofe alate che rapivano il popolo di Atene e
l’aristocrazia di Roma?»

Lance, nelle sue _Vindiciæ romanæ tragediæ_[97], raccolse, ciò
malgrado, frammenti di ben quaranta tragici. Otto Ribbeck[98] publicò
del pari _Tragicorum romanorum reliquiæ_: ma nondimeno la tragedia
latina, come dissi testè, restò di molto addietro dalla greca, i cui
capolavori, che noi italiani abbiamo egregiamente tradotti da Felice
Bellotti, rimarranno sempre, infin che vivrà ombra di letterario gusto,
meritamente ammirati.

Queste tragedie tutte del teatro latino, è più che naturale che al
Teatro di Pompei venissero rappresentate; ma pare altresì che a’ greci
autori chiedessero colà le opere e si rappresentassero sulle scene
pompejane e nel loro originale le tragedie più cospicue de’ greci
poeti.

Già una delle tre tessere teatrali d’avorio che furono rinvenute
negli scavi, quella, cioè, che offre da un lato l’immagine in rilievo
di un anfiteatro con il pegma nel centro, vedemmo come nel rovescio
portasse l’indicazione del posto, a cui apriva l’ingresso, in caratteri
greci, e forse una tale particolarità potrebbe essere un indizio che
quella tessera, diversa dall’altra che porta caratteri latini e che
annunzia la commedia di Plauto, fosse in caratteri greci perchè greco
lo spettacolo; non altrimenti che si usa da noi, lorchè si rappresenta
la commedia francese, che affissi, programmi e biglietti sono nella
stessa lingua composti e distribuiti. Ma più che questa, valse di prova
ad altri la tessera portante pure nel rovescio parole greche, che
si pretesero leggere per Αῖςκυλο, cioè di Eschilo; con che si volle
inferire che nelle città della Campania si rappresentassero ancora
le tragedie del più antico tra i sommi tragici greci nel loro nativo
idioma.

Ora, poichè sono a dire di quella tessera, credo fornire la diversa
interpretazione di chi, esaminate altrimenti le parole del rovescio
greche ed indagato il disegno del gettone, volle conchiudere significar
esso invece la tessera dell’infimo posto. Negli oggetti confusi che
vi son rappresentati si può distinguere una porticella alla quale
si giunge per una scaletta ed alquante barriere a croce, ciò che
parve a Barré, continuatore di Mazois[99], indicare la galleria di
legno, od altrimenti l’impalcato che erigevasi sulla sommità delle
mura degli anfiteatri o teatri, pari al loggione dei teatri moderni.
Ciò ritenuto e considerando che le parole greche del rovescio sono
scritte testualmente così: ΑΙCΧ . ΥΛΟΥ, vale a dire con un punto nel
mezzo, mal si potrebbe allora sostenere che si debba ravvisarvi il
nome di Eschilo. Forse ΑΙCΧ potrebbe essere l’abbreviatura di αίςκροῦ,
_posto cattivo_, ΥΛΟΥ potrebbe essere la forma scorretta di ὔλης, _di
legno_, ed indicare allora l’ultimo banco destinato agli schiavi, alle
cortigiane ed alla plebe.

Ma per tornare all’argomento delle rappresentazioni greche, è assai
verisimile che esse potessero aver luogo massime ne’ teatri della
Campania, dove la lingua greca invece rimase, più che in Roma,
conosciuta e più popolare; nè è rado che pur oggidì nelle città e paesi
dell’antica Magna Grecia si oda tuttavia l’antico linguaggio materno. E
notisi che nelle agiate famiglie romane la lingua greca costituiva la
base della educazione, come il latino e il greco furono della nostra.
I giovani si esercitavano a composizioni nel greco idioma ed erano
incamminamento a maggiori. Han tratto a quest’uso i seguenti versi di
Persio:

    _Ecce modo heroas sensus afferre videmus_
    _Nugari solitos græce_[100].

La forma da ultimo de’ teatri pompejani che ho descritto s’accosta
meglio al modello greco che al romano: prova questa eziandio che le
antiche tradizioni vi si mantennero e si rivelarono in tutto.

Questi cenni, comunque specialmente riguardino il teatro tragico di
Pompei, riassumono a un di presso le condizioni pure generali del
teatro romano.

Mancherebbe di dire ora qualcosa intorno agli attori e vi soddisfarò
con brevi parole.

Ho già detto, parlando del Teatro Comico, a qual classe essi per
lo più appartenessero e in che sprezzo dalle leggi e dalla società
fossero tenuti: ma non fu sempre così. L’arte drammatica progredì;
spesso autore ed attore non furono che una persona sola, e l’ingegno
seppe anche vincere spesso i pregiudizj. Batillo e Pilade, Esopo e
Roscio conseguirono, come attori, celebrità; dal nome di quest’ultimo
è anzi ancora designata l’arte dell’agire sulle scene: _arte di
Roscio_, egli avendo pel primo abbandonata la maschera; onde l’effetto
e l’espressione divennero di lunga mano maggiori. Fu a riguardo di
questi nomi e dell’eccellenza loro, che a distinguerli dagli altri,
non vennero più detti istrioni, e fu per avventura mercè codesta, che
direi riabilitazione, che, scostandosi dal greco costume, il quale
inibiva alle donne il prodursi sulle scene, Roma ebbe anche attrici, e
celebrata fra tutte andò meritamente Dionisia.

Fu agli insegnamenti di Roscio che l’Oratore Romano apprese il gesto a
secondare più efficacemente l’arringa, e, divenuti poi entrambi amici,
gareggiarono tra loro a chi meglio sapesse esprimere un pensiero,
questi colla parola, quegli col gesto. Anche Esopo, il quale volle
essere attore unicamente tragico, fu nell’intimità di Cicerone, e già
rammentai come egli salutasse dalla scena il richiamo in patria di
questo gran cittadino ed insuperato oratore. Ed Esopo e Roscio alla
lor volta non mancavano poi d’intervenire al loro ogni qualvolta si
fosse agitata alcuna causa interessante per istudiarvi i movimenti
dell’oratore, del reo e degli astanti.

Non fu per questo che Giulio Cesare credesse di compiere atto di
tirannide inqualificabile, come noi giudichiamo adesso, quando
costringeva Siro e Laberio di patrizio casato a montar sulle scene.
Laberio, è vero, si lagnò della violenza in un suo prologo che Macrobio
ci ha conservato; ma tenutosi conto delle condizioni della società
d’allora, forse fu incentivo al despota la particolare attitudine alle
scene di questi uomini, che infatti si resero famosi nell’arte imposta
loro.

Anche di Siro, come già notai nell’antecedente capitolo, ci vennero
conservate alquante sentenze morali, che teneva in serbo per
intromettere all’occasione in quelle composizioni, nelle quali,
se comiche, assai spesso sapevano improvvisare felicemente il
dialogo[101].

Così alle sceniche rappresentazioni il publico appassionandosi, si
poterono vedere attori e attrici venire retribuiti largamente e montare
in ricchezza e possanza. Sappiam di Roscio che ricevesse all’anno
cinquecento sesterzi grossi, che vorrebbero dire centomila lire de’
nostri tempi; di Esopo che lasciò, morendo, a suo figlio, il pingue
gruzzolo di quattro milioni di lire, in onta ch’egli avesse menata
splendidissima vita, e permettergli il bizzarro capriccio di ammanire
a sè ed agli amici suoi un manicaretto di perle. Perocchè rammenti
Plinio, che questo Clodio, figlio di Esopo, prima di Cleopatra, avesse
voluto un giorno esperimentare qual gusto avessero le perle, e in un
festino ne mangiò parecchie di eccessivo prezzo. Il gusto gli andò
maravigliosamente a genio e per non essere solo ad assaporarne le
delizie, ne fece stemprare altre a’ suoi convitati, fra le quali la
grossa perla strappata all’orecchia di Metella, l’amante sua[102].

Anche la summentovata Dionisia, per una sola stagione, ottenne mila
sesterzj grossi, o dugentomila lire. Non facciamo noi dunque le
meraviglie de’ lucri ingenti della Rachel e della Ristori, le somme
attrici del nostro tempo, nè delle favolose somme concesse alle agili
gole delle nostre prime donne di canto.

I lauti emolumenti, che si pagavano a’ migliori artisti, son già prova
di per sè che dovessero essere determinati dal favore che si godevano
nel pubblico; ma questo aveva altri modi ad estrinsecarlo, quelli
stessi, cioè, che abbiam pur di presente. Eran essi gli applausi ed i
viva, il gitto di fiori e di corone, e i doni; come i sibili, i gesti
di scorno, gli urli ed altre violenze notavano la disapprovazione.

Quest’argomento ch’io non tocco, per l’economia della mia opera,
che di volo, suggerì materia a Francesco Bernardino Ferrario ad un
volume in quarto di oltre quattrocento pagine, che tolto il titolo
_De Acclamationibus et plausu_ vide la luce in Milano il 1627.
Nicola Alianelli, buon letterato napoletano, ne spigolò quanto a lui
parve per adornarne alcuni articoli interessanti ch’ei diede in luce
nella Rivista Teatrale _L’Arte_ (riputato giornale napoletano), nel
passato anno 1870 sotto il titolo _Dell’Antico Teatro Romano_ e che,
sciente forse del come io incombessi a quest’opera su Pompei, volle
cortesemente regalarmi, di che son lieto di rendergliene pubblicamente
i dovuti ringraziamenti. Ed io di taluna di queste notizie, più che del
volume del Ferrario, mi varrò alla mia volta per quel poco che ne devo
qui dire.

Fra Plauto e Terenzio, sappiamo che il popolo accordasse le sue
predilezioni al primo, spesso anzi al secondo riserbando le sue
disapprovazioni, od almeno non concedendo quella larghezza di plausi
che pur avrebbe dovuto meritarsi. N’è una causa certissima che Plauto
si avvantaggiasse meglio dell’idioma popolare e però ne fosse meglio
dal suo uditorio capito: Terenzio, di latinità più castigata, s’aveva
l’approvazione dell’aristocrazia, e il popolo, che poco intendeva, gli
era anche poco propizio e gli volgeva sovente le spalle.

Ad ogni modo vediamo, sia ne’ prologhi, che nei congedi delle loro
commedie, da entrambi fatto appello all’attenzione indulgente ed agli
applausi. Plauto, a cagion d’esempio, nella _Cistellaria_, prega gli
spettatori di applaudire secondo le costumanze degli antichi, _more
majorum_. Nella _Casina_, si raccomanda agli stessi di dargli colle
mani la debita mercede, _manibus meritis debitam mercedem_. Terenzio
pure chiude l’_Andria_, l’_Eunuco_, l’_Ecira_, e tutte insomma le sue
commedie col solito _plaudite_.

In quanto a’ Tragici, Cicerone nel libro _De Amicitia_ ci ha lasciato
memoria delle voci di plauso _clamores_, con cui fu accolta la nobile
gara di Oreste e Pilade nella tragedia di Marco Pacuvio.

Il gridar _euge_ equivaleva al _bravo_ de’ nostri giorni: quella parola
troviamo usata in diverse commedie di Plauto; i maggiori entusiasmi,
più facili per altro nel circo e nell’anfiteatro, nelle corse, e nei
ludi gladiatorj, si esprimevano, come dissi più sopra, co’ fiori e coi
doni, e coll’agitar delle vesti e delle pezzuole, od anche alzando i
pugni con particolare atteggiamento dei pollici, come raccogliesi nel
seguente passo di Orazio:

    _Fautor utroque tuum laudabit pollice ludum_[103].

Nè sempre di buona lega erano gli applausi e le altre dimostrazioni
d’aggradimento, nè creda però la Francia, esser’ella l’inventrice della
_claque_ teatrale. Pur troppo l’origine di essa è nostra, e rimonta ai
tempi de’ quali parlo. Chi vuol credere, a mo’ d’esempio, che fossero
giusti e ben meritati i plausi dati a Nerone citaredo e cantante? Per
lui eran la paura, l’adulazione e la speranza dell’imperatorio favore
che li suscitavano: come anche quelli dati agli altri istrioni, al par
di lui mediocri o cattivi, avevano la lor ragione nel prezzo ch’era
stato da essi sborsato. Udiamo Marziale:

    _Vendere nec vocem Siculis plausumque theatris_[104].

Questo giambo del Poeta era per Cinnamo fatto cavaliere per intrighi
dell’amante, da barbiere ch’egli era, e che non potendo comparir nel
foro, era passato in Sicilia, dove gli dice: non potendo più vendere il
suo plauso nel teatro, sarà costretto ritornare barbiere.

Cicerone poi racconta al suo _Attico_ d’aver udito in Roma un Antifonte
attore, di cui nessuno più meschino e sfiatato, _nihil tam pusillum,
nihil tam sine voce_[105], che tuttavia _palmam tulit_, fece furore;
come molto piacque, _valde placuit_, certa Arbuscula, attrice d’un
merito non superiore. Costoro di certo avevano mercanteggiato quel
plauso, che lo stesso Oratore Romano, nell’arringa _Pro Publio Sextio_,
afferma si comperasse nei teatri e nei comizj.

Plauto poi nella _Cistellaria_ ci fa sapere che il _choragus_, finita
la commedia, dava a bere agli attori che avevano fatto il loro dovere,
e saranno stati vino e bevande calde.

Vediamo ora il rovescio della medaglia.

Lo stesso Cicerone summentovato, parlando di Oreste, attore, dice che
fu cacciato dal teatro _non modo sibilis, sed etiam convicio_, non coi
sibili soltanto, ma benanco colle ingiurie, e che se un attore avesse
fatto un movimento in aria non in corrispondenza della musica, od
avesse peccato di una sola sillaba, lo si fischiava e copriva di urli,
_exibilatur, esploditur, theatra reclament_[106].

Così non mancava ciò che or diremmo, col vocabolo consacrato, la
_clique_, e Terenzio esperimentò l’opera d’un partito contrario
_comitum conventus_, l’odierna _consorteria_, massime nell’_Ecira_,
stata a lui fischiata per ben due volte; ciò che per altro non impedì
che piacesse alla terza volta.

Ai cattivi attori poi si gettavano, a segno di sfregio maggiore, e
pomi e noci e talvolta anche pietre, la quale ultima dimostrazione
fu poi dagli edili con ispeciale editto interdetta. Siccome poi gli
attori erano per lo più schiavi, così come si apprende dalla suddetta
_Cistellaria_ e dall’_Asinaria_ di Plauto, quando cattivi o svogliati,
venivano a spettacolo finito battuti.

«Ma non bisogna dimenticare, scrive il sullodato Alianelli, un
personaggio umile, modesto, stretto in una buca, che niuno plaudisce,
di cui niuna rivista teatrale parla mai, e che non pertanto è
necessario, che deve sempre stare presente a sè stesso, sempre attento.
Il lettore ha già capito che parlo del suggeritore. Nei teatri romani
gli attori imparavano le parti, nè più nè meno che si fa ai tempi
nostri, e perciò vi era il suggeritore e si chiamava _Monitor_.» Pompeo
Festo ricorda il _monitor_ come quegli che avverte, _monet_, l’istrione
sulla scena, ed in questo senso è ricordato anche da un’iscrizione
antica riportata dal Morcelli nella sua _Dissertazione sulle tessere
con annotazioni del dottor Giovanni Labus_[107].

Dopo tutto, nel chiudere questo capitolo e quanto interessa il
teatro tragico e l’argomento delle sceniche rappresentazioni, a non
perdere di vista il principal subbietto del mio libro, accennerò
appena della questione largamente agitatasi fra i dotti che un solo
veramente fosse il teatro in Pompei, e questo fosse quello che ho
finito di descrivere, sotto la denominazione di teatro tragico, e che
l’altro teatro non fosse già destinato alla commedia e all’egloga e a
musicali rappresentazioni, ma unicamente l’_Odeum_ nella più stretta
sua significazione, o quanto dire una semplice pertinenza del Gran
Teatro, ove si sperimentavano non solo i componimenti, ma gli attori,
i suonatori, tibicini e fidicini, o suonatori di tibia, di lira e
di cetra, i danzatori, i coristi e quante persone insomma dovevano
prendere parte in tali spettacoli, prima di esporsi nel gran teatro.
Trovo ricordato che siffatto argomento sia stato molto illustrato
dal signor Mario Musamesi, erudito architetto di Catania, nella sua
_Esposizione dell’Odeo Greco_ tuttora esistente nella di lui città,
e che un estratto di quest’opera con savie osservazioni ed aggiunte
sia comparso nel _Giornale de’ Letterati Pisani_ dell’anno 1823; ma nè
l’opera del Musamesi, nè questo giornale non essendomi stato possibile
di procacciarmi, nè d’altronde presumendo io, come ho già più d’una
volta in quest’opera protestato, di entrare in polemiche archeologiche,
che lascio volontieri ai dotti, ben diverso essendo l’intento del
mio libro, mi parve di non dovermi discostare dalla opinione più
generalmente accettata che il minor teatro designa come esistente a sè
e col nome di Teatro Comico.

   [Illustrazione: Anfiteatro di Pompei. _Vol. II, Cap. XIV._]

D’altronde, sempre rispettando le ragioni, che potranno essere
eccellenti e che sono sostenitrici di diversa sentenza, sembrami
che se il minor teatro non avesse dovuto servire che ai soli bisogni
ed alle prove del Gran Teatro, non vi sarebbe stato mestieri, nella
costruzione, di praticarvi tutte le parti, sia per gli spettatori,
che per gli attori; perocchè, come più d’una volta ho in queste
pagine osservato, non escluse le altre minori particolarità attinenti
l’assistenza de’ magistrati e de’ maggiorenti, i due teatri non
differiscono che leggermente tra loro nella forma, e sensibilmente
solo nella capacità e nella magnificenza. La scena allora e l’orchestra
avrebbero bastato: della cavea, delle tribune e degli altri accessorj,
evidentemente, destinati al concorso del pubblico, se ne sarebbe fatto
senza.

Del resto io pure non ricusai al minor teatro pompejano il nome
di _Odeum_, congiuntamente a quello di Teatro Comico, perchè non
ignorassi, ed avessi anzi a dire, che se dapprima per _Odeum_ si
intendesse quel piccolo teatro con un tetto convesso costruito da
Pericle in Atene per gli spettacoli di musica, stando a quanto ne
scrissero Plutarco[108] e Vitruvio[109]. Ed ebbi a notare altresì
come in progresso di tempo questo nome si avesse ad estendere anche
in Italia, per designare ogni piccolo teatro coperto di un tetto
(_tectum_), come in questo senso l’usò Svetonio, quando nella vita di
Domiziano assicurò aver questo Cesare restaurato un _Odeum_[110]: _Item
Flaviæ templum gentis, et stadium et odeum, et naumachiam, e cujus
postea lapida maximus circus, deustis utrimque lateribus, extructus
est_[111]. D’altra parte io ebbi ad ammettere pure che l’_Odeum_
pompejano potesse servire non alla commedia soltanto, ma alle musicali
rappresentazioni benanco, ai concorsi poetici, alle filosofiche disfide
ed agli spettacoli d’inverno.




CAPITOLO XIV.

I Teatri. — L’Anfiteatro.

  Introduzione in Italia dei giochi circensi — Giochi trojani —
  _Panem et circenses_ — Un circo romano — Origine romana degli
  Anfiteatri — Cajo Curione fabbrica il primo in legno — Altro
  di Giulio Cesare — Statilio Tauro erige il primo di pietra — Il
  Colosseo — Data dell’Anfiteatro pompejano — Architettura sua — I
  Pansa — Criptoportico — Arena — Eco — Le iscrizioni del Podio —
  Prima Cavea — I _locarii_ — Seconda Cavea — Somma Cavea — Cattedre
  femminili — I Velarii — Porta Libitinense — Lo Spoliario — I
  cataboli — Il triclinio e il banchetto _libero_ — Corse di cocchi
  e di cavalli — Giuochi olimpici in Grecia — Quando introdotti in
  Roma — Le fazioni degli Auriganti — Giuochi Gladiatorj — Ludo
  Gladiatorio in Pompei — Ludi gladiatorj in Roma — Origine dei
  Gladiatori — Impiegati nei funerali — Estesi a divertimento —
  I Gladiatori al Lago Fùcino — Gladiatori forzati — Gladiatori
  volontarj — Giuramento de’ gladiatori _auctorati_ — _Lorarii_ —
  Classi gladiatorie: _secutores, retiarii, myrmillones, thraces,
  samnites, hoplomachi, essedarii, andabati, dimachari, laquearii,
  supposititii, pegmares, meridiani_ — Gladiatori Cavalieri e
  Senatori, nani e pigmei, donne e matrone — _Il Gladiatore di
  Ravenna_ di Halm — Il polpo e il diritto di grazia — _Deludia_
  — Il Gladiatore morente di Ctesilao e Byron — Lo Spoliario e la
  Porta Libitinense — Premj ai Gladiatori — Le ambubaje — Le Ludie
  — I giuochi Floreali e Catone — Naumachie — Le _Venationes_ o
  caccie — Di quante sorta fossero — Caccia data da Pompeo — Caccie
  di leoni ed elefanti — Proteste degli elefanti contro la mancata
  fede — Caccia data da Giulio Cesare — Un elefante funambolo —
  L’Aquila e il fanciullo — I _Bestiarii_ e le donne bestiariæ —
  La legge Petronia — Il supplizio di Laureolo — Prostituzione
  negli anfiteatri — Meretrici appaltatrici di spettacoli — Il
  Cristianesimo abolisce i ludi gladiatorj — Telemaco monaco —
  _Missilia_ e _Sparsiones_.


Io credo avesse ragione davvero il grande Oratore Romano, quando,
scrivendo ad Attico, gli dicesse che delle ventiquattro ville che
possedeva quelle di Tusculo e di Pompei, gli andassero meglio a genio:
_Tusculanum et Pompejanum valde me delectant_; e l’avesse Fedro, lo
scrittor di favole, di rifugiarsi in Pompei dalle ire e persecuzioni di
Tiberio e di Sejano; e Seneca di rammentare a Lucilio, come una delle
più care e sorridenti reminiscenze della sua vita il soggiorno fatto
nella sua giovinezza, in questa bella ed allegra città campana.

Che avreste voluto infatti di più? qui alla salubrità ed alla purezza
dell’aere, alla mitezza e mollezza del clima, alla feracità della
terra, alla verzura dei monti, al bell’azzurro del cielo e del mare,
si aggiungevano ricreazioni e diletti d’ogni maniera, sì che nulla si
avesse a invidiare per ciò alle delizie dell’Urbe, senza per avventura
contare gli inconvenienti di essa. Noi vi abbiam trovato un _Odeum_ o
teatro per la commedia e per i musicali concerti; vi abbiam visitato
il teatro maggiore per la tragedia: meco invito ora il lettore ad
ammirarvi l’anfiteatro destinato a que’ giorni ai ludi gladiatorii ed
alle cacce delle belve feroci.

Gli è uno de’ più bei monumenti antichi del genere e se per vastità
non da mettersi in concorrenza coll’anfiteatro Flavio o Colosseo di
Roma, nè con quelli di Verona e di Pola nell’Istria che ci rimangono;
poteva tuttavia ben esser capace di ventimila spettatori, considerevole
ampiezza certamente, se non si perda di vista ch’esso servisse ad
una città che sappiam di terz’ordine e la cui popolazione non poteva
eccedere il numero de’ trentamila abitanti.

Prima d’entrarvi meco, investighiamo, amico lettore, insieme le origini
di siffatti pubblici e grandiosi ritrovi e dei ludi a cui giovavano
essi: è così buona la storia alla tua lodevole curiosità e all’indole
degli studj nostri!

Io già avvertii, sulla fede dello storico padovano, del come seguisse
l’introduzione in Roma dei ludi scenici: i circensi erano già allora
in uso; eranvi anzi venuti co’ fondatori della città stessa, portati
da Enea e da’ suoi compagni, o se si vuol questa una favola, da que’
guerrieri che, superstiti dall’eccidio di Troja, navigarono ai lidi
tirreni.

Romolo infatti eresse pei medesimi un circo presso al foro; Tarquinio
Prisco murò il Circo Massimo sul Palatino, lungo tre stadj e mezzo,
largo quattro jugeri e capace di cencinquantamila persone.

Ne è altro documento e prova il fatto che pur a’ tempi di Augusto e
di Claudio si celebrassero giuochi in Roma che venivan detti trojani.
Virgilio così li ricorda, dopo aver descritto ad imitazione d’Omero per
la morte di Patroclo[112], quelli celebrati in onore di Palinuro, il
timoniero della nave d’Enea caduto dormendo in mare:

    _Hunc morem cursus, atque hæc certamina primus_
    _Ascanius, longam muris cum cingeret Albam,_
    _Retulit, et priscos docuit celebrare Latinos._
    _Quo puer ipse modo, secum quo Troja pubes,_
    _Albani docuere suos; hinc maxima porro_
    _Accepit Roma, et patrium servavit honorem;_
    _Trojaque nunc, pueri, Trojanum dicitur agmen_[113].

E Tacito, ne’ tempi appunto di Claudio, fa egli pure menzione, negli
_Annali_, del _Giuoco di Troja_, equestre giostra che _rappresentavano
nobili donzelli a cavallo_[114], come traduce il Davanzati.

Questi giuochi del circo, essendo altresì parte di cerimonie religiose,
attecchir dovevano nelle popolari abitudini di Roma e la vita guerresca
de’ suoi cittadini e l’animo temprato a spettacoli efferati, avevano
agevolmente que’ giuochi posti in cima d’ogni altro divertimento; sì
che si suolesse, come ho rammentato nel duodecimo capitolo, dir che
la plebe romana si pascesse di pane e di ludi circensi: _panem et
circenses_.

Per circo, secondo l’uso romano, intendevasi quello spazio di terreno
destinato alla corsa. Ne’ primissimi tempi consisteva esso in una
spianata aperta, intorno alla quale si erigevano de’ palchi provvisori
in legno per commodo degli spettatori, a un di presso come possono
essere que’ tratti di pianura ne’ parchi, nei giardini, in altre vaste
campagne che in Inghilterra, in Francia e pure in Italia, su cui si
fanno oggidì le corse de’ cavalli. Non si tardò guari a costruire
un edificio permanente su d’una pianta acconcia, che però assunse la
forma oblunga, da una parte chiusa da un semicircolo e dall’altra da
una costruzione detto _oppidum_, o castelletto, sotto cui erano le
_carceri_, pel servizio de’ cavalli e de’ cocchi, nome serbato tuttavia
nelle congeneri costruzioni odierne degli anfiteatri, che si aprirono
eziandio a quegli ippici divertimenti.

Rich così descrive quello tuttavia superstite vicino a Roma, assai ben
conservato, sulla via Appia e comunemente conosciuto sotto il nome di
Circo di Caracalla.

«Un lungo muro basso (_spina_) era costruito in senso longitudinale per
mezzo al campo della corsa, così da dividerlo come una barriera, in due
parti separate, ed a ciascheduna delle due estremità era posta una meta
(_meta_), intorno a cui i carri giravano; quella più vicina alla stalla
pigliando nome di _meta prima_, la più lontana di _meta secunda_. I
due lati del circo non sono affatto paralleli l’uno all’altro e la
_spina_ non è esattamente equidistante da’ due lati. Forse questo è
un caso eccezionale: ed una tale norma di costruzione era seguita solo
quando s’aveva un terreno, come questo, limitato ad oggetto di fornire
il maggiore spazio ai carri a principio della corsa, quando pigliavano
le mosse tutti in riga; ma quando la meta in fondo era stata girata,
si dovevano trovare schierati piuttosto in colonna che in riga; e
quindi una minore larghezza bastava lungo questo lato del terreno di
corsa. Per una simile ragione l’ala destra del circo è più lunga della
sinistra, e le stalle sono disposte su un segmento di circolo, di cui
il centro cade esattamente al punto intermedio fra la _prima meta_ e
il lato dell’edificio da cui la corsa principiava. L’oggetto di ciò era
che tutti i carri, secondo uscivano dalle loro stalle, potessero avere
la stessa distanza da percorrere prima di raggiungere il posto di dove
aveva luogo la mossa, ch’era all’entrata del terreno della corsa, dove
una corda imbiancata (_alba linea_) era tesa a traverso raccomandata
a due piccoli pilastri di marmo (_hermulae_), e poi lasciata libera
da un lato, appena i cavalli vi si erano tutti egualmente accostati,
ed il segnale della partenza era stato spiegato. Eravi il palco
dell’imperatore (_pulvinar_) e quello dal lato opposto si suppone
che fosse stato destinato al magistrato (_editor spectaculorum_),
a cui spesa i giuochi si davano. Nel centro dell’estremità occupata
dalle stalle vi era una grande porta, chiamata _porta pompæ_, per la
quale la processione circense entrava nel circo prima che le corse
principiassero, un’altra era costruita all’estremità circolare chiamata
_porta triumphalis_, per la quale i vincitori escivano dal circo in
una specie di trionfo; una terza è situata sul lato destro chiamata
_porta libitinensis_, e per essa i cadaveri degli _auriga_ uccisi o
feriti erano portati via e due altre erano lasciate proprio vicino ai
_carceres_, che davano l’ingresso nel circo ai carri.»

Tutti i circhi erano modellati su questo e fu per l’appunto la ragione
per la quale ne riportai la descrizione particolareggiata, perchè se ne
potesse avere l’idea precisa.

Quanto all’elevazione interna ed esterna dell’edificio, un circo
nell’esterno era costruito sopra un disegno simile a un di presso a
quello de’ teatri, a gradinate di sedili, divisi in file separate da
scale e da pianerottoli.

Quando si immaginarono gli Anfiteatri, de’ quali or vado a dire, i
circhi si compenetrarono per lo più in essi: corse, cacce e giuochi
gladiatorj vi si trasportarono, trovandosi più proprio ed opportuno
arringo, come più sopra dissi, tal che si scambiassero quasi sinonimi
i rispettivi nomi. Ecco perchè io pure li verrò quind’innanzi
promiscuamente adoperando.

Entrati i ludi circensi, siccome ebbi del pari a notare diggià, nelle
abitudini e nei gusti della vita romana, è meraviglia perfino come
pel migliore servizio dei medesimi non avessero gli Anfiteatri a
sorgere che negli ultimi tempi della Repubblica e fossero anche questi
dapprincipio temporanei e costruiti di legno come erano stati prima
i circhi, venendo cioè eretti solo all’evenienza di straordinarie
solennità per vittorie riportate, o trionfi di capitani, le quali
festeggiate, si disfacevano incontanente.

L’origine ad ogni modo, ad onta del greco nome che esprime l’idea di
due teatri riuniti aventi quindi gradinate e sedili disposti tutti
all’intorno[115], vuol essere attribuita a Roma, e Plinio, comunque
additi il fatto a ragione di biasimo, così lo narra:

«Io passo, scrive egli, a trattare del lusso degli edifici di legno,
lo che porge esempio della più completa demenza. Cajo Curione, che
morì nella guerra civile, seguendo la fazione di Cesare, in occasione
dei funerali del padre, volle dare al popolo uno spettacolo così
straordinario, da lasciarsi addietro Scauro e di far ciò che questi
fatto non avesse. Ma come avrebbe egli potuto per opulenza misurarsi
col genero di Silla e col figlio d’una Metella, il qual s’era fatto
aggiudicare a vil prezzo i beni de’ proscritti, e aveva avuto a padre
quel Marco Scauro, tante volte a capo della città e che pel sodalizio
suo con Mario aveva potuto rapinar le provincie? Scauro stesso s’era
già sorpassato, traendo partito dall’incendio della sua casa, per
riunire in un sol luogo le più peregrine cose dell’universo, sì che
nessuno potesse in demenza sopravvanzarlo. Fu dunque a Curione mestieri
di dar le spese al proprio ingegno; ed è prezzo dell’opera esporre
quanto ebbe a immaginare, onde felicitarci de’ costumi presenti e
chiamarci, come usiamo di fronte agli andati, noi piuttosto che essi di
tempra antica.

«Fece egli costruire in legno due eguali e grandissimi teatri, girevoli
entrambi su pernii, così che nelle ore antimeridiane si trovassero a
dosso rivolti in modo che l’uno non nuocesse alla schiena dell’altro,
poi d’un tratto i teatri girando sovra sè stessi, si volgevan di
fronte, congiungendosene le estremità e fornivano un anfiteatro per gli
spettacoli de’ gladiatori, movendo con esso il popolo romano che vi si
trovava.

«Ma che è più a maravigliarsi in tutto ciò? dell’inventore, o del
trovato, dell’artefice o dell’autore, di chi questo escogitò, o di chi
l’accolse, di chi comandò, o di chi obbedì? ecc.»[116]

In Dione poi leggesi altro anfiteatro essere stato fabbricato di legno;
ma essendosi sfasciato e rovinato, aver tratto con sè molta uccisione
di gente. Giulio Cesare stesso, già dittatore, ne eresse alla sua
volta uno in campo di Marte; onde chiaro si vede che molti e frequenti
fossero tali costruzioni in legno, come frequenti erano gli spettacoli
gladiatorii o di fiere, che per feste religiose, per gloriosi politici
avvenimenti, ed anco per elezioni di magistrati o di capitani si
venivano offerendo.

Ma sotto Augusto la smania dei ludi circensi e massime delle
caccie, _venationes_, venne fuor misura aumentando, ed importanza
pur s’accrebbe alla loro degnità. Fosse eccesso di ricchezza, o
inclinazione di principe, a istigazione d’Augusto, nell’anno 725 di
Roma, Statilio Tauro, amico di lui, costruì a propria spesa il primo
anfiteatro di pietra, i cui ruderi, nella sua distruzione, hanno poscia
formata quella piccola eminenza, su cui poggia di presente la piazza di
Monte Citorio, ove fu eretta adesso la Camera dei Deputati.

In molta fama ed in uso durò tale anfiteatro, finchè sotto Nerone
divampò in fiamme e sebbene si fosse procacciato di ristaurarlo; così
non lo fu che non venisse a Vespasiano in pensiero d’altro erigerne più
degno. E vi pose mano infatti nell’ottavo suo consolato; nondimeno solo
compiuto da Tito figliuol suo e da lui dedicato. Venne la ingente mole
denominata Flavia, perchè della famiglia Flavia questi due imperatori:
ma più comunemente è noto sotto il nome di Colosseo o di Coliseo, a
cagione d’una statua colossale, che la volgar diceria esagerò di certo
dicendola dell’altezza di cento venti piedi, la quale fu ritrovata
nelle vicinanze e per alcun tempo stata nella casa aurea di Nerone. E
dura esso tuttavia ne’ pur suoi maestosi avanzi, avendo resistito alle
ingiurie del tempo e degli uomini; abbenchè, rispettato da’ Barbari
che invasero l’Italia e devastarono più volte l’immortale città,
patisse gli oltraggi d’un cardinal Barberini, che, a sfruttarne il
molto bronzo che ne teneva unita la gigante costruzione, contribuì alla
demolizione di tanta parte, sì che avesse a meritare che del vandalismo
suo si dicesse: _Quod non fecerunt Barbari, fecerunt Barbarini_[117].
— Ma corre antico il vaticinio, riferito da Vida, che finchè duri il
Colosseo, abbia a durare anche Roma.

Dell’altezza di questo gigantesco monumento, scrisse Ammiano
Marcellino, essere stata tanta che l’occhio umano vi giungesse a
mala pena alla sommità; e circa la vastità, Publio Vittore afferma
contenesse commodamente seduti ottantasette mila spettatori, e
nell’àmbito superiore, e sotto i portici altri dieci o dodici mila
ancora.

Ma prima assai dell’Anfiteatro Flavio di Roma, esisteva quello di
Pozzuoli, dove già riferii aver Augusto trovata occasione di far
leggi per distinzioni delle classi nei teatri, per irriverenza usata
a un Senatore, e dove Nerone festeggiò Tiridate, re dell’Armenia,
con giuochi gladiatorj, ed apparato grandissimo[118]; ed esisteva pur
quello di Pompei, edificato in pietra.

Il lettore che mi ha seguito ne’ capitoli della storia deve rammentare
come io abbia coll’autorità di Tacito narrato della festa degli
accoltellanti datasi da Livinejo Regolo a quest’ultimo anfiteatro,
e nella quale Pompejani e Nocerini vennero fieramente alle mani,
nè avrà dimenticato allora che ciò avvenisse a’ tempi di Nerone, il
quale a punir quel sanguinoso fatto ebbe ad inibir per dieci anni gli
spettacoli dell’anfiteatro in quella città. Ciò accadde nell’anno 812
di Roma e 59 dell’era cristiana; ma le due lapidi rinvenute, l’una
presso la principal porta meridionale dell’anfiteatro, e l’altra presso
l’uno de’ vomitori respicienti la città dal lato occidentale e recanti
una medesima iscrizione, forniscono i dati per farne rimontare la
fabbrica ad assai tempo anteriore.

Ecco l’iscrizione:

                     C . QVINCTIVS . C . F. VALGVS
                      M. PORCIVS . M. F. DVO VIR .
                        QUINQ . COLONIÆ HONORIS
                        CASSA SPECTACVLA DE SVA
                      PEQ. AG. COER . ET COLONEIS
                     LOCVM IN PERPETVVM DEDER[119].

Questa iscrizione attribuisce la fondazione dell’anfiteatro a Cajo
Quinzio Valgo e Marco Porcio; gli stessi che avevano fatto edificar
e collaudato l’Odeum e i quali necessariamente non potevano aver
concesso il luogo alla stessa che dopo l’invio della colonia per parte
di Silla; ma dove poi si ponga mente alle altre iscrizioni rinvenute
nell’anfiteatro stesso e che più innanzi riferirò, e per le quali si
veggono costruiti de’ nuovi cunei o scomparti di gradinate da altri
magistrati e da maestri, _magistri_, del sobborgo, _pagus_, Augusto
Felice e una contribuzione per parte di costoro alle spese, è allora
concesso d’inferirne che la completa costruzione dell’anfiteatro
pompeiano seguisse intorno al tempo in cui venne mandata da Augusto
una compagnia di Veterani, che vi costruì appunto il _Pagus Augustus
Felix_, cioè verso l’anno 747 di Roma, e il P. Garrucci infatti nelle
sue _Questioni Pompejane_ stabilì con irrecusabili argomenti che essa
fu di poco posteriore ad un tal tempo.

L’anfiteatro fu costruito nella parte meridionale della città presso le
mura che guardavano a Stabia, ed anche oggidì, appare meglio conservato
che tutti gli anfiteatri che ho superiormente ricordati, quelli
di Roma, cioè, di Verona, e di Pola; tanto esso venne solidamente
fabbricato, che neppure il tremuoto e gli altri cataclismi, onde
fu desolata Pompei, non poterono nuocerne le fondamenta, poco la
muraglia che lo recingono, poco la gradinata della cavea, e solo vedesi
danneggiato nella parte superiore; conservate per altro la prima e la
seconda precinzione, benchè spogliate de’ marmi ond’erano rivestite.

L’architettura esteriore, semplice e senza alcun ornamento, non
presentando che più ordini d’arcate l’una all’altra sovrapposte, come
si vede praticato negli altri congeneri edificj, e non senza un certo
effetto nel suo complesso, è di pietra vesuviana.

Pur esternamente si osservano cinque grandi scalinate, per le quali
si ascendeva ad un _deambulacrum_, o gran terrazza scoperta, che
corrisponde al giro esterno della seconda _cavea_, donde si saliva alle
logge superiori di archi laterizii, destinate per le donne e per la
plebe. Da questo _deambulacrum_, non è superfluo al visitatore delle
rovine di Pompei il sapere come si goda del più delizioso orizzonte,
poichè rimpetto si abbia il Vesuvio, a settentrione i monti Irpini,
ad oriente i monti Lattarj, sulla china dei quali posa Sorrento,
e a mezzodì Napoli e le sue isole avvolte come da una rosea nebbia
trasparente.

Forse a diminuzione di spesa, e forse anche a renderlo proprio agli
spettacoli di naumachia, se si avessero voluti offrire, ma che però
il fatto d’essere città marittima esclude che vi si avessero a dare,
perchè certo sarebbero riusciti inferiori ad ogni aspettazione ed a
quelli che offerir si potevano sul mare stesso, l’edificio era stato
costruito in una specie di bacino, scavato in parte artificialmente,
per modo che l’arena si trovasse tanto al di sotto del livello del
suolo per quanto le mura si elevavano al disopra.

Vien misurato il più gran diametro dell’anfiteatro di 130 metri,
il più piccolo di 102. La direzione dell’ovale è da N. a S.: alle
sue estremità si trovano i due principali ingressi, i quali mettono
all’arena di forma elittica.

Appunto per la suindicata ragione, che l’arena era incavata nella
terra, l’ingresso settentrionale che riesce a quella e che forma un
breve porticato a vôlta, ha il pavimento lastricato di pietra vulcanica
in declivio, ed ha nei lati l’incanalatura per ricevere le acque.

Due grandi nicchie sono a destra ed a sinistra di tale ingresso, le
quali dovevano contenere le statue di due benemeriti cittadini, e di
chi fossero ce lo rivelano le opportune iscrizioni che sotto di esse si
leggono.

Quella a destra è così concepita:

                    C . CVSPIVS C . F . PANSA PONTIF
                         D . VIR . I . D .[120]

Quella a sinistra, così:

            C. CVSPIVS . C . F . PANSA PATER D . V . I . D .
         IIII QVINQ . PRAEF ID . EX D . D . LEGE PETRON .[121]

Più avanti fornirò gli schiarimenti intorno a questa legge Petronia,
della quale si fa nella iscrizione cenno, riservandoli essi
all’argomento degli spettacoli gladiatorii.

Il marchese Arditi, nel trattare della legge Petronia, saviamente opina
che l’iscrizione e la statua del prefetto Cuspio Pansa siano state
collocate nell’anfiteatro prima del tremuoto dell’anno 63, ed anche
prima della sospensione degli spettacoli ordinata da Nerone nel 59.

Avanti d’entrare nell’arena, o sia nella gran piazza de’ combattimenti
e delle caccie, detta appunto arena, dalla sabbia che vi era sempre
sparsa, onde il sangue che si versava dagli uomini e dalle fiere, a
scanso di ribrezzo, avesse presto a iscomparire, trovasi a destra
e a manca l’entrata in un criptoportico, o corridojo circolare
sotterraneo rischiarato da numerosi spiragli, da cui per diversi
vomitorj si ascendeva a’ gradini della prima e seconda cavea, dove
sedevano i magistrati e i più cospicui cittadini e i collegi. Questo
sotterraneo, che girava tutt’all’intorno dell’anfiteatro, è degno di
considerazione per la sua forma intatta e per non riscontrarsi in alcun
altro anfiteatro. Le pareti di questo portico hanno tuttavia iscrizioni
scritte in rosso ed in nero, che accennano a nomi de’ magistrati, forse
benemeriti dei ludi al circo, e leggonsene altre contenenti officiosità
pel loro indirizzo e tal altra eziandio che suona ingiuria, o lode
a talun combattente. Ho già notato come fosse insito nel costume de’
Pompejani di dare sfogo ai sentimenti proprj, esprimendoli sui muri
delle case o di qualunque altro edificio.

Ma eccoci nell’elissi dell’anfiteatro. Appena entrato, io sperimentai,
alzando la voce, l’eco che vi regna, e che già rammentai al lettore
quando dipingendogli l’estrema catastrofe, affermai, come essa avesse
contribuito a rendere maggiore l’orrore della situazione. L’arena,
tutta recinta d’un parapetto, o podio dell’altezza di circa due metri,
sul quale alzavasi eziandio un graticcio di ferro, per tutelare gli
spettatori dal furore delle fiere che, istigate dal combattimento,
avrebbero potuto gittarsi su di essi. Siffatto parapetto era tutto
dipinto a soggetti convenienti al luogo; ma l’azione dell’aria ve li
ha fatti tutti sparire. Si rammenta da chi si trovò all’epoca della
scoperta di questo monumento, che fu il 16 novembre 1748[122], che fra
tali dipinture una vi fosse che raffigurava un lanista o maestro de’
gladiatori, che in mezzo a questi, armato di bacchetta (_rudis_) era in
atto di giudicare cui spettasse colla vittoria nella lotta il premio
del vincitore, sul quale svolazzavano due genii alati recanti corone
nelle mani.

Ma non si smarrirono le iscrizioni, che nel parapetto stesso si
lessero, dedicate a memorare i nomi di que’ magistrati che meglio
avevano contribuito alla restaurazione dell’anfiteatro, rifacendo
i cunei e riparando le altre rovine, che erano stati altresì i
sovrintendenti, o prefetti degli spettacoli.

Eccole, quali sono riferite dalle Guide e dagli illustratori di Pompei.

           MAG . PAG . AVG . F . S . PRO . LVD . EX . D . D .
     T . ATVLLIVS . C . F . CELER . II . VIR . PRO . LVD . LV . CVN
                         C . F . C . EX . D . D
   L . SAGINIVS . II . VIR . I . D . PRO . LV . LV . EX . D . D . CVN
       N . ISTACIDIVS . N . F . CILIX . II . VIR . PRO . LVD. LVM
          A . AVDIVS A . F . . RVFVS . II . VIR . PRO . LVD .
     P . CAESETIVS . SEX . F . CAPITO . II . VIR . PRO . LVD . LVM
    M. CANTRIVS. M F. MARCELLVS. II. VIR. LVD LVM CVNEOS. III F. C.
                             EX. D D.[123]

Importa che io qui traduca una nota che Bréton appone a queste
interessanti iscrizioni.

«Queste iscrizioni, scrive egli, presentano un enigma assai difficile
a sciogliere. Che vogliono esse dire queste parole PRO LVD, _pro
ludis_? Si è creduto dover tradurre per i giuochi, e scorgere quindi
nell’iscrizione la menzione dei giuochi che venivan celebrati
nell’anfiteatro[124] da certi magistrati. Questa interpretazione
sarebbe stata accettabile, se nella terza iscrizione non si trovassero
le parole PRO LVD . LVM . che il P. Garrucci legge _pro ludorum
luminatione_, per l’illuminazione dei giuochi, e Mommsen _pro ludorum
luminibus_; per i lumi dei giuochi. Questa spiegazione non essendoci
sembrata in tutto soddisfacente noi abbiamo consultato uno de’ nostri
dotti colleghi, il signor Léon Rénier, noto per gli studj speciali
che ha fatti dell’epigrafia antica. I nostri lettori saran lieti di
trovar qui le sue risposte, delle quali abbiamo creduto adottare le
conclusioni così ben motivate.

«L’interpretazione del P. Garrucci, e quella di Mommsen, dice Léon
Rénier, proverebbero, se si fosse costretti d’attenervisi, che si davan
dei giuochi con illuminazione nell’anfiteatro di Pompei, ciò che non mi
pare da ammettere. Ecco come io interpreto il passo dell’iscrizione:
M_arcus_ CANTRIVS, M_arci_ F_ilius_ MARCELLVS _duum_ VIR PRO
LVD_is_ LVM_inatione_, CVNEOS III F_aciendos_ C_uravit_ EX D_ecreto_
D_ecurionum_. PRO LUD_is_, LVM_inatione_, cioè _in luogo dei giuochi
e dell’illuminazione_, ch’ei doveva dare nell’occasione della sua
elezione alle funzioni di Duumviro. L’elissi della congiunzione _et_
non ha nulla che debba sorprenderci: era essa di regola nello stile
epigrafico. (Ved. Morcelli, _De Stylo inscr._ p. 4486 ed. Rom.) Gli
onori municipali si pagavano ordinariamente con giuochi, spettacoli,
distribuzioni di sparsioni, ecc.: spese improduttive che si scontravano
talvolta come qui, con altre spese equivalenti il cui effetto era
più durevole. In una iscrizione di Djemilah (l’antica _Colonia
Cuiculitanorum_), che io ho pubblicato in una memoria che fa parte
dell’ultimo volume della Società degli Antiquari di Francia, si vede
un magistrato di questa città erigere una basilica, _in luogo_ d’uno
spettacolo di gladiatori ch’ei doveva dare. Si potrebbero citare molti
esempi analoghi.

«Le interpretazioni del P. Garrucci e di Mommsen sono affatto
congetturali; la mia si appoggia sopra esempj che mi sembrano
concludenti. Il primo ne è fornito da un’iscrizione di Roma edita
dal Fabretti _Inscript. Domestic._ p. 243 n. 556, e da Orelli p.
3324, la quale termina così: POPVLO VISCERATI_onem_ GLADIATORES DEDIT
LVMINA_tionem_ LVDOS _Junoni_ S_ospitæ_ M_agnæ_ R_eginæ_ SOLIS FECIT.

«Il secondo si trova in un’iscrizione della raccolta di Muratori pl.
652. n. 6, nella quale si legge:

                   ..... VS . SPORTVLAS ITEM FIERI ET
            ..... PVERIS NVCES SPARGI DIE _Suprascripto_ ET
                              LVMINATIONE

«Quest’ultima iscrizione è un’iscrizione funeraria, nella quale non
v’ha questione nè di giuochi nè di spettacoli, ciò che mi fa pensare
che in quella dell’anfiteatro di Pompei non vi sia connessità fra le
parole LVD e LUM; queste parole designano due spettacoli differenti,
che i nuovi magistrati dovevano dare al popolo e da cui un decreto dei
decurioni gli aveva dispensati, loro imponendo l’obbligo di applicare
alla costruzione dell’anfiteatro una somma almeno equivalente a quella
ch’essi avevano così economizzata»[125].

Per quanto ragionate codeste conclusioni, non mi so risolvere ad
accettarle; perocchè fin quando io trovi, come in questa iscrizione di
Marco Cantrio, che _cuneos tres faciendos curavit_, che, cioè, veggo
menzionata un’opera, allora ben posso spiegarmi il _pro ludis_ del
modo che interpretò Rénier, vale a dire in sostituzione dei giuochi; ma
quando trovo il _pro ludis_ come nell’iscrizione

              M . OCULATIUS M . F . VERVS II VIR PRO LUDIS

che ho riferita nel Capitolo precedente del Teatro Comico e che stava
sulla soglia del medesimo in lettere di bronzo, senz’altra indicazione
che m’additi cosa siasi dato o fatto _in luogo dei giuochi_, allora mi
è permesso di dubitare che l’interpretazione di Rénier abbia sciolto
l’enigma e di credere piuttosto che possa intendersi il _pro ludis_,
come magistrato sopra i giuochi, cioè sovrintendente degli spettacoli.

E tanto più mi confermo in ciò, in quanto io non abbia rinvenuto
autorità che mi convinca che gli spettacoli dati dai nuovi magistrati,
fossero un verace obbligo inerente alla loro nomina; anzi che una
liberalità, quantunque forzata, e che però potesse intervenire decreto
di decurioni a sostituire ad una spesa obbligatoria un’altra spesa.

Ritornando ora alla difesa del podio, vuolsi osservare come anche un
canal d’acqua vi corresse lungh’esso; onde così non fosse permesso alle
fiere di accostarvisi di troppo.

La cavea era regolata e distribuita del modo stesso che accennai,
parlando de’ teatri, nei capitoli antecedenti, partita cioè in tre zone
col mezzo di due gallerie. La più bassa riserbata, come pur testè ho
detto, ai principali magistrati, ai capi della colonia, a’ sacerdoti e
sacerdotesse ed il posto che ognun d’essi occupava sopra i gradini era
circoscritto in due linee col corrispondente numero distinto in rosso;
e quel numero doveva corrispondere alla tessera che si presentava
entrando all’impiegato denominato _Locarius_, o pigionante di sedili.
Il quale occupava prima i posti negli spettacoli, o li accaparrava per
cederli poi a chi giungesse tardi, contro determinato prezzo.

L’affaccendarsi di costui era singolarmente per le dame, imitate pur
dalle moderne, che ultime sempre giungevano allo spettacolo, trattenute
dalle lunghe e studiate toelette; onde il nostro Savioli, facendo
allusione nella sua Ode _Il Teatro_ a siffatta consuetudine, cantava:

    Tardi ai roman’ spettacoli
      L’altera Giulia venne,
      Ma i primi onor del Lazio
      Su l’altre belle ottenne.

Marziale, ne’ suoi epigrammi, parla di questi locarii nel verso:

    _Hermes divitiæ locariorum_[126];

ed io, tenendo conto di tali inservienti de’ pubblici trattenimenti,
addito origini di pratiche pur oggidì sussistenti, e riconfermo il
concetto del Savio, che disse nulla essere nuovo sotto il sole.

Questa prima cavea dell’anfiteatro era divisa da una precinzione
di pietre di tufo dall’altra cavea superiore e conteneva diversi
muri traversali che ripartivano il podio stesso. Così aveva quattro
ripartimenti, due verso le porte di cinque gradini, e due altri nel
mezzo del giro di quattro gradini assai più larghi e spaziosi, aventi
poi ognuno le proprie porte separate.

La media, o seconda cavea era assegnata ai cittadini distinti, e più
agiati, ai diversi collegi e ai militari ed aveva trenta gradini.

Termina finalmente colla _summa cavea_ costituita di diciotto fila di
gradini ed era riserbata al popolo e dietro di esso si collocava la
plebe, dopo la quale, in bell’ordine di archi sorgevano le logge per
le donne, che si formavano degli archi stessi sorretti da colonne,
alle quali logge, per essere coperte, Calpurnio chiamò col nome di
cattedre ne’ versi in cui rammenta di aver dovuto ascendere fin su su
nell’ultima fila dell’Anfiteatro, per essere la infima e media cavea
occupate da magistrati e cavalieri:

    _Venimus ad sedes, ubi pulla sordida veste_
      _Inter femineas spectabat turba cathedras,_
      _Nam quæcumque patent sub aperta libera cœlo,_
      _Aut eques aut nivei loca densavere tribuni_[127].

Tutta la cavea ha quaranta scaglioni con altrettanti vomitorj per i
quali gli spettatori entravano ed uscivano ordinatamente; solo le
donne avevano una separata gradinata onde accedere ai loro posti;
lo che dinota ancora un riguardo che a’ dì nostri non si serba al
gentil sesso ne’ teatri, e ciò malgrado che allora fosse dal diritto
romano considerata la donna poco più di cosa, e adesso si pretenda
che i costumi illeggiadriti ne abbiano senza confronti migliorate le
condizioni.

Abbiamo già veduto nel precedente capitolo, come a temprare agli
spettatori del Teatro Tragico gli ardori canicolari, fosse stato
in Pompei e nelle altre città della Campania, prima che altrove,
immaginato il velario, cagione di tanto scandalo a’ puritani scrittori
di allora: or bene l’Anfiteatro pompeiano usava esso pure il più
sovente di questa salutare costumanza. Dirò di più: la distesa del
velario era tanto desiderata e voluta, che il _Theatropola_, od
impresario di teatro, o chi dava le feste, si affrettava, nel pubblico
annunzio che scrivevasi sui muri delle principali vie o de’ luoghi
più affluiti di gente ad indicare che le vele e le tende non sarebbero
mancate. Ho già recato nel capitolo nel quale parlai delle vie e degli
affissi, quello in cui Valente Flamine perpetuo di Nerone, avvertendo
che ai 28 marzo (V. _Kal. aprilis_) si darebbe una caccia, si dà
premura di soggiungere che vi sarebbero i velarii, _et vela erunt_:
ora, a meglio constatare la buona usanza, ne recherò due altri.

Un _Ottavio_, od un _Onesimo_, procuratore, poichè gli scrittori non
sanno leggere che questi due nomi sotto la lettera _O_ della seguente
iscrizione, così annunzia una caccia, _venatio_, che darebbe a’ 29
di ottobre la famiglia gladiatoria di Numerio Popidio Rufo, che a’
20 Aprile si alzerebbero le antenne, _mala_, ed i velarii, _vela_,
nell’anfiteatro.

                               N . POPIDI
               RVFI . FAM . GLAD . IV . K . NOV . POMPEIS
                      VENATIONE ET . XII . K . MAI
                        MALA . ET . VELA . ERVNT
                   Q . PROCVRATOR . FELICITAS .[128]

Si argomenta da tale avviso che i velarii si rizzassero nell’anfiteatro
appena che il caldo incominciasse vivamente a farsi sentire e a dar
fastidio la sferza del sole e che, se si credeva avvertire una caccia
gladiatoria, ancorchè lontana, perchè più spettacolosa, non toglieva
che prima si facessero altri minori divertimenti nell’anfiteatro; senza
di che non avrebbe senso il dirsi che si rizzerebbero antenne a vele
nell’aprile, per una caccia che dovesse seguire sei mesi nell’ottobre.

L’altro manifesto che si lesse su d’un muro della Basilica si esprime
così:

                           N . FESTI AMPLIATI
                 FAMILIA . GLADIATORIA . PVGNA . ITERVM
                 PUGNA . XVI . X IVN VENAT . VELA.[129]

Or bene, nel cornicione dell’anfiteatro sì avvisano ancora alcune
pietre aventi dei fori, ne’ quali si infliggevano le aste od antenne
(_mali_, o _mala_ come è scritto nella surriferita iscrizione) a cui
venivano raccomandati i capi del velario e le funi che lo sostenevano.

Abbiam veduto superiormente come alle due estremità della elissi
dell’anfiteatro vi fossero due porte: noterò ora che un’altra più
piccola ve ne fosse, la quale era detta _Libitinense_, il cui scopo
avverrà di conoscere più avanti, parlando de’ gladiatori.

Per questa porticina entravano poi le bestie feroci, le quali, per
l’angustia di essa, non avrebbero potuto ritornare indietro o volgersi
dai lati. Una cameretta vi è presso, forse lo _spoliario_, luogo nel
quale i gladiatori uccisi venivano spogliati delle loro armi e delle
loro vestimenta, come troviam ricordato in Seneca ed in Lampridio[130]:
in essa si trovarono le ossa d’un leone. Questa circostanza e l’altra
che già ricordai di eguali avanzi di leoni rinvenuti nelle vicinanze
avvalorano l’affermazione di chi scrisse che il cataclisma sorprendesse
i Pompejani intenti ai giuochi dell’anfiteatro. Per lo meno ci provano
che recenti ne dovessero essere stati i divertimenti.

In quanto a me, non sono alieno del dividere l’opinione di coloro che
osservarono che il novissimo giorno fosse pure un dì a’ ludi circensi
destinato, confermandone altresì il fatto d’essersi trovati verso
l’ingresso e ne’ corridoi dell’anfiteatro sei scheletri, a fianco di
essi due braccialetti, due anelli, una moneta ed altri frammenti d’oro,
quattro belle monete di bronzo, un involto di drappi ed una lampada.
Perchè avrebbero dovuto rinvenirsi questi scheletri e questi oggetti
in luogo ordinariamente chiuso, oltre che all’estremità della città, se
non per essere stato in quel giorno aperto a pubblico divertimento? Non
si potranno ad ogni modo per questi dati abbastanza significanti, avere
per sognatori coloro che la detta opinione sostennero.

Altre piccole camere vi sono ai lati delle due porte principali ed
erano i _cataboli_, o stalle in cui le belve attendevano d’essere
lanciate nell’anfiteatro.

Finalmente chiuderò la descrizione dell’anfiteatro pompejano col far
cenno del _triclinio_, che di contro al principale ingresso di esso si
vede. Era uso presso gli antichi che il giorno innanzi l’esecuzione
dei condannati a morte si imbandisse loro un publico banchetto,
chiamato _libero_. In cotale occasione si largheggiava ad essi di ogni
ricercata vivanda. Chateaubriand, che di tal costume favella ne’ suoi
_Martyrs_, non può trattenersi dallo scagliarsi contro di esso, come
di raffinamento della legge e come brutale clemenza del paganesimo;
l’una, perchè voleva rendere la vita cara a quelli che dovevano
perderla; l’altra, che non considerando l’uomo che fatto per i piaceri,
ne lo voleva colmare nel mentre che spirava. Anche i gladiatori,
devoti a morte, poichè non avvenisse mai che talun d’essi non restasse
sull’arena, avevan diritto, prima del giorno dello spettacolo, a questo
publico pasto. Era poi nella piazza cinta di muro, in prossimità al
triclinio, che i gladiatori attendevano l’ora di entrare alla lotta
nell’anfiteatro.

Ora poichè conosciamo il luogo che in Pompei serviva d’arringo a’
giuochi circensi, e coll’anfiteatro di questa città, possiam dire
di conoscere quelli pure delle altre e anche quello più famoso di
Roma; passiamo a trattare de’ ludi, che più frequentemente solevano
celebrarsi in essi, e delle persone che vi pigliavano parte.

I più consueti e desiderati spettacoli dell’Anfiteatro erano le corse,
che prima si facevano, come già vedemmo, nel Circo; i ludi gladiatorj
e le cacce, che son le _venationes_ che abbiamo in più affissi veduto
annunziate in Pompei. Le danze, le pantomime, i canti e i suoni dei
tibicini e dei fidicini erano divertimenti minori a’ quali prestavasi
bensì l’anfiteatro, ma piuttosto a riempire gli intermezzi e ad
illudere l’impazienza del publico che stava attendendo i principali
spettacoli annunziati, anzi che a costituire di per sè un vero
trattenimento.

Le Corse, o fazioni degli Auriga, il lettore s’è accorto essere state
introdotte fin dai primordj di Roma, per aver io al principio ricordato
il giuoco de’ Trojani: il qual non fosse infatti che un armeggiamento
a cavallo. Molto più in onore in Grecia erano tenute le Corse, dove
i vincitori ne’ giuochi olimpici vennero consegnati alla immortalità
dagli inni di Pindaro. Colà, per responso della Pizia, a’ siffatti
giuochi annettevasi la salute della Grecia. Furono perfino misurate le
epoche dalle olimpiadi, ogni olimpiade essendo lo spazio de’ quattro
anni che scorrevano fra due celebrazioni de’ giuochi olimpici. Dall’una
all’altra olimpiade si contavano cinque anni, benchè non fossero se
non se quattro compiuti. Presso gli storici la prima olimpiade comincia
nel 776 prima di G. C. e 24 avanti la fondazione di Roma. Dopo la 340.ª
olimpiade, che finì coll’anno 440 dell’Era Volgare, più non si trovano
gli anni calcolati per mezzo delle olimpiadi.

Or si fu nella vigesima quinta olimpiade che presso quella nazione
ebbe luogo la corsa del carro a due cavalli; nella ventottesima quella
dei cavalli da sella; nella novantottesima corse con due cavalli da
maneggio nello stadio, e nella susseguente si attaccarono ad un carro
due giovani puledri condotti a mano ed un’altra corsa di un puledro
montato a guisa d’un cavallo da sella.

In Roma e nelle città italiane, dove massime negli ultimi tempi della
republica ed in quelli dell’impero si grecizzava, era più che ovvio che
que’ giuochi si importassero con quelle discipline e seguissero nel
circo dapprima e poi nell’anfiteatro e s’introducessero le corse dei
cocchi o de’ carri, _currus_, detti anche bighe se tirate da una coppia
di cavalli, quadrighe se da quattro. Dione nel lib. XXIX, cap. 28,
parla delle corse dei cavalli che fecero parte dei giuochi famosi che
diede Pompeo e de’ quali dirò ancora più avanti.

Le fazioni degli auriganti che si vennero presto istituendo e le
quali aspiravano alla palma nei ludi circensi, erano quattro in Roma,
distinte dal vario colore delle vestimenta loro, cioè verde, ceruleo,
rosso o bianco, onde appellavansi _Prasinæ, Venetæ, Russatæ, Albatæ_.
Svetonio ne fa sapere essersene di poi aggiunte altre due, l’una di
stoffa aurata, e l’altra di panno porporino. I principi perfino si
onoravano d’esserne i capi; così Caligola della Prasina, Vitellio della
Veneta. I guidatori (_agitatores_) montarono in prezzo e i poeti li
celebrarono, come ne fanno fede, oltre que’ di Marziale, anche i vecchi
epigrammi di M. Aurelio Dione, di Diocle, di Pompeo Eusceno e di Fuseo.
Così rimasero ricordati i nomi di Incitato caro a Caligola, di Prasino
caro a Nerone, di Passerino e Tigri diletti a Domiziano e di Scorpo a
Nerva; del quale Scorpo dettò Marziale il seguente pomposo epitaffio:

    _Ille ego sum Scorpus, clamosi gloria Circi_
      _Plausus, Roma tui deliciæque breves:_
    _Invida quam Lachesis raptum trieteride nona,_
      _Dum numerat palmas, credidit esse senem_[131].

L’interessamento generale, la division delle opinioni, il parteggiar
di tutti per questa o quella fazione d’auriganti, e le scommesse furon
tali e tante, che parve fino un delirio. Giovenale così della fazion
Prasina attesta la propria simpatia e predilezione:

    _Totam hodie Romam circus capit et fragor aurem_
    _Percutit, eventum viridis quo colligo, panni_[132];
e più tardi a’ tempi di Giustiniano, per la contenzione delle fazioni
Prasina e Veneta, tanta nacque sedizione in Bisanzio che il monaco
Zonara, nel suo libro _Degli Imperatori Greci_, scrisse essersene
occasionata la strage di quasi quarantamila uomini; d’onde poi si
avesse ad abolire la designazione delle fazioni.

I vincitori nelle corse de’ giuochi circensi, proclamati per tali dal
Pretore, come ne ammonisce Giovenale in que’ versi:

    . . . . _similisque triumpho_
    _Præda caballorum Prætor sedet_[133],

uscendo dalla porta trionfale del circo fra le ovazioni frenetiche del
popolo, colle palme raccolte e della corona di lentischio recinta la
fronte, spesso assisero conviva alla mensa imperiale.

Passo rapido ora da questo subbietto, perocchè fosse, a mio sentimento,
mal propria l’arena dell’anfiteatro pompeiano a siffatto genere di
ludi, e vengo invece più distesamente a dire de’ gladiatorj, che tutto
attesta essere stati assai frequenti in Pompei.

Ed è a questo punto ch’io pongo dapprima la descrizione del Ludo
Gladiatorio che esisteva e che venne discoperta dagli scavi in Pompei.

Ma non pensi il lettore ch’io m’intenda parlare di quella _taberna_,
che da parecchie Guide vien detta la Scola dei Gladiatori, la
quale fu scoperta il 12 aprile 1847 ed a cui valse un tale titolo
unicamente perchè nell’esterno di essa si trovò un’insegna dipinta
che rappresentava un combattimento di gladiatori. L’angustia di questa
esclude assolutamente ch’essa potesse servire allo scopo al quale si
vorrebbe destinata, poichè la scuola de’ gladiatori suppone che abbia
un locale atto all’esercizio della scherma e capace di contenere, oltre
i duellanti, anche il _lanista_, o loro maestro. Ora una tale taberna
non era atta a tanto. Più probabile è invece ch’essa appartenesse a
qualche _theatropola_, o impresario di pubblici spettacoli, il quale
vi tenesse ricapito per la vendita delle tessere teatrali, o per
l’allestimento dei ludi o per l’ingaggio dei gladiatori. Tale insegna,
comunque difesa da un piccolo tetto, è pressochè tutta omai cancellata:
sotto di essa vi si lesse in addietro la seguente iscrizione:

     ABIAT (HABEAT) VENERE (VENEREM) POMPEIIANA (M) IRADAM (IRATA)
                         QVI HOC LAESERIT[134].

Queste scorrezioni di dizione ci rivelano però il linguaggio volgare e
l’approssimazione fin d’allora all’italiano.

Ma del resto farò osservare che il soggetto dell’insegna non può
in alcun modo forzarci a ritenere a qualunque costo che la taberna
dovesse aver un’attinenza coll’arte gladiatoria e con ispettacoli,
da che sembri che il combattimento di due gladiatori fosse tema assai
frequente delle insegne, se Orazio, nella satira settima del Lib. 11,
potè lasciare scritto:

    . . . . . _atque ego, cum Fulvi, Rutubæque,_
    _Aut Placideiani contento poplite miror_
    _Prœlia, rubrica picta aut carbone: velut si_
    _Re vera pugnent, ferient, vitentque moventes_
    _Arma viri_[135].

Il _Ludo Gladiatorio_ piuttosto e veramente, a quante le ricerche
diligenti fatte hanno condotto a ritenere, è quell’edificio al
fianco orientale del Foro triangolare, del quale parlando, ho
già mentovato, che per tanto tempo si continuasse a designare per
quartiere di soldati. Tale designazione non era stata, siccome avvenne
di tanti altri edifici di Pompei, determinata dal capriccio, ma sì
dall’esservisi trovate alcune armature e ceppi entro i quali costrette
ancora le ossa dei piedi di varii scheletri, che s’era supposto essere
stati di soldati in punizione, i quali erano stati sorpresi dalla
estrema eruzione del Vesuvio e dalla finale catastrofe senza potersi
svincolare da essi. Questi ceppi si conservano al Museo Nazionale di
Napoli e costituisconsi di una lunga e duplice barra di ferro, avente
ad eguali intervalli venti perni rialzati che sulla cima finiscono
in anelli. Tra l’uno e l’altro di questi perni il colpevole doveva
collocare i piedi, che vi venivano serrati da un ferro traversale, che
passava per quegli anelli, ed a fianco stava la serratura a chiave che
assicurava un tal ferro.

In tutto questo edificio, scoperto nel 1766 e completamente sbarazzato
nel 1794, si contarono al momento delle prime indagini, non meno di
sessantatrè scheletri e si è questo considerevole numero di scheletri
che farebbe persistere taluno scrittore, — cui pare improbabile che
una città di non molta importanza per popolazione come Pompei potesse
contare un numero sì forte di gladiatori, — a voler ravvisare in questo
edificio una caserma di soldati; tanto più che una piazza forte come
questa dovesse invece avere una guarnigione e per conseguenza una
appropriata caserma.

Ma il P. Garrucci stabilì in una sua memoria, inserita nel tredicesimo
numero del _Bollettino Archeologico Napoletano_ del gennaio 1823,
che quest’edificio non potesse essere che un Ludo de’ gladiatori. Nè
del resto può sembrare improbabile in Pompei il numero suddetto di
gladiatori, da che si avverta, e noi l’apprendemmo dalle iscrizioni
che riprodussi, come l’epoca dell’ultima eruzione che seppellì Pompei
coincidesse colla stagione ordinaria degli spettacoli più strepitosi
dell’anfiteatro, e che doveva pur esser quella in cui i più doviziosi
romani, che possedevan ville nel delizioso golfo napolitano, solevano
ritrovarsi nelle loro villeggiature. D’altronde se la questione
numerica della popolazione dovesse essere non solo un irrecusabile
argomento, ma ben anco un semplice argomento od una seria congettura,
non si saprebbe, per egual titolo, trovar la ragione d’essere del
vasto anfiteatro. Ma ho già notato invece che agli spettacoli di Pompei
intervenissero pure dalle vicine terre e castella e, i fatti storici
alla mano, ciò si è incontrovertibilmente da me stabilito.

Questo Ludo adunque è un vasto parallelogramma, nel quale i gladiatori
venivano istruiti a combattere da un _lanista_ o maestro di scherma.
Era questi o il proprietario d’una compagnia di tali uomini, che li
locava a chi volesse offrire uno spettacolo gladiatorio; od anche solo
l’istruttore de’ gladiatori appartenenti allo stato, e perciò detti
_cæsarei_. Tale parallelogramma era tutto circondato di portici e
d’architettura dorica a due piani, sostenuti da sessantaquattro colonne
di tufo rivestite di stucco e scannellate nella parte inferiore.

Nel giro del portico terreno vi sono molte camere, ed in quelle verso
il lato occidentale si trovarono i suddetti istrumenti di punizione.
Nell’interno del portico, sulle colonne e nelle camere erano graffite
parecchie iscrizioni, fra le quali è riportata da tutti e non per anco
decifrata con soddisfazione, e per me affatto di colore oscuro, la
seguente:

                            VHI . K . FEBR .
                            TABVLAS POSITAS
                              IN MVSCARIO
                    CCC . VIIII . SS . CCCC . XXX .

Dal pianterreno si ascendeva per mezzo d’una scala in angolo presso le
camere ad uso di prigione al piano superiore. Non fa ora all’argomento
mio di tener conto degli oggetti, fra’ quali molti muliebri, qui
rinvenuti negli scavi: perocchè debba affrettarmi ad entrare più
spiccio nel tema di questi gladiatori.

Roma aveva parecchi di questi ludi, e furon noti il _Ludus Gallicus_,
il _Dacicus_, il _Magnus_, il _Mamertinus_, l’_Æmilius_. A questi
non eran preposti soltanto i lanista ma de’ _procuratores_, tratti
dalle classi cittadine più distinte, ed avevano inoltre proprj medici
e chirurghi per curarne l’esistenza e la prestanza, come farebbesi
di polli che si vengano nutricando per le delizie de’ banchetti.
Tacito però non a torto chiamò il ludo _sagina gladiatoria_[136],
_ingrassamento gladiatorio_. Nè meno celebri furono i ludi di Capua
e di Ravenna; dal primo eruppe Spartaco e sappiam com’egli fosse il
capo della rivoluzion servile: al secondo, di proprietà dello stato,
appartiene il _Gladiatore_ che è il protagonista della bella tragedia
dell’Halm, tradotta dall’egregio prof. dott. Giuseppe Rota, d’alcun
brano della quale, a chiarimento del mio soggetto, infiorerò tra poco
queste pagine.

Quale si avessero origine i Gladiatori, esporrò sotto brevità.

I funerali e la religione li produssero. Gli Etruschi gli usarono
ne’ funerali, essendo loro credenza che l’anime de’ morti coll’uman
sangue si propiziassero. Epperò i captivi di guerra, gli schiavi
tristi e colpevoli, comperati, si immolavano nelle funebri pompe. Dagli
Etruschi venne il costume a’ Romani, prima però che a questi, passò con
determinate modificazioni ne’ riti, a’ popoli della Campania.

Fu nell’anno 490 della fondazione di Roma, che Marco e Decimo
Bruto offersero pubblicamente in Roma nel Foro Boario spettacolo di
gladiatori, in occasione della morte di Giunio, loro padre: i tre figli
di Emilio Lepido, augure, ne fecero lottare undici coppie nel foro
per tre giorni, poi venticinque i figliuoli di Valerio Levino; indi
crebbero vieppiù. Già vedemmo di Lucio Silla, come i ludi gladiatorii
ordinasse per testamento nelle sue esequie. Cesare, in memoria della
figlia, ne presentò seicentoquaranta; Tito, delizia del genere umano,
continuò tali conflitti per cento giorni; il buon Trajano, l’amico di
Plinio, per centoventitrè, offerendo duemila combattenti.

Nè fu più ragione il funerale o la religione soltanto a siffatti
spettacoli; ma i gladiatori si diedero ben anco a semplice titolo
di divertimento, e i magistrati primarj entrando in carica, a
ingrazianarsi il popolo, glieli offrivano a spettacolo; onde perfino
tale divertimento stesso gladiatorio si appellasse _munus_, sia che
intender si volesse dato gratuitamente, sia perchè dato per l’officio.

È fatto menzione da Svetonio, nella vita di Claudio, come questo
Cesare, prima di disseccare il lago Fùcino, vi volesse dare uno
spettacolo di naumachia, e che i gladiatori che vi dovevano combattere,
passando prima d’innanzi all’imperatore gridando: _Ave, Imperator,
morituri te salutant:_ — _Salve, o Imperatore, que’ che vanno a morire
ti salutano_, — Claudio lor rispondesse: _Avete vos_, — state sani;
ond’essi, il saluto interpretando come un perdono e una dispensa
dal battersi, più non volessero infatti pugnare; tal che Claudio,
indegnato, rimanesse in forse se farli tutti perire di ferro e di
fuoco; ma poi lanciandosi dal suo seggio e girando intorno il lago d’un
passo tremante e ridicolo, un po’ con minacce, un po’ con promesse, li
obbligasse a combattere.

Era dunque una vera frenesia per codesti giuochi e così fu spinta, che
tali combattimenti diventarono presto un mestiere, e il popolo sovrano
a pagarli e fin le dame a carezzarne i campioni.

Or chi erano questi sciagurati che mettevano a prezzo il loro sangue,
la loro vita?

Due specie vi avevano di gladiatori: la prima di coloro che venivano
astretti ad assumere siffatto mestiere; l’altra di coloro che
volontariamente lo esercitavano. Venivano essi, cioè, della prima
specie, trascelti fra diverse classi della società, o erano schiavi che
a tal uopo vendevansi o prigionieri di guerra, che dopo aver servito a
decorare i trionfi de’ comandanti vittoriosi, riservavansi ai pubblici
giuochi; o finalmente colpevoli di crimini o condannati per causa di
ribellione.

Tuttavia accadde, — ed ecco come avvenisse che vi fossero atleti della
seconda specie, — che si vedessero scendere ne’ circhi a combattere
co’ gladiatori anche liberi cittadini, sia che fossero spinti a così
degradarsi dall’ingordigia del danaro, ed appellavansi _auctorati_, sia
che fossero mossi da una stolta ambizione.

La degradazione era necessaria conseguenza della professione da
chiunque venisse essa abbracciata; perocchè, comunque liberi, questi
_auctorati_ erano tenuti ad un solenne giuramento, che ben valeva una
verace schiavitù. La formula di tal giuramento si può leggere nei
frammenti di Petronio Arbitro: _In verba juravimus, uri, vinciri,
verberari, ferroque necari, et quidquid aliud Eumolpus jussisset:
tanquam legitimi gladiatores, domino corpora animosque religiosissime
addicimus_[137]. Essere uccisi dal ferro, cioè, quando cadevano
vinti che dovevano allora sommettersi all’ultimo e mortale colpo del
vincitore; abbruciati o flagellati, quando avessero timidamente pugnato
o si fossero vilmente sottratti al ferro. A questo fine nell’arena e
sulla scena erano sempre i _Lorarii_, o _Mastigofori_ altramente detti,
schiavi destinati ad infliggere loro le summentovate pene.

Erano inoltre diverse le classi de’ gladiatori. V’erano i _secutores_,
inseguitori addestrati a combattere coi _retiarii_, prendendo il nome
dal modo onde inseguivano l’avversario, che avendo tentato di gittar
su di essi la sua rete, senza esservi riuscito, era costretto fuggire,
finchè gli fosse dato di ricuperar la rete, di cui si valeva. Così
sappiamo de’ _retiarii_, altri gladiatori che, oltre la rete colla
quale cercavano avvolgere i _secutores_, erano pure armati d’un forcone
a tre rebbi, _tridentes_. — _Myrmillones_ chiamavansi que’ gladiatori
che ponevansi a pugnare contro i _retiarii_ o contro i _Traci_,
_thraces_, gladiatori pur questi armati di coltello con arma ricurva,
come Spartaco che vuolsi appunto nativo di Tracia, che combattevano
alla foggia del loro paese. I _Myrmillones_ portavano l’elmetto gallico
con l’immagine d’un pesce per cresta. In una tomba presso la porta
Ercolano in Pompei si trovò scolpita una figura di essi. Giovenale
così delle prime tre sorta di gladiatori fa cenno, staffilando i nobili
degenerati del suo tempo, che spudoratamente a questo infame mestiere
si erano dati.

      ... _hæc ultra quid erit nisi ludus? Et illud_
    _Dedecus Urbis habes: nec mirmillonis in armis_
    _Nec clypeo Gracchum pugnantem, aut falce supina_
    _(Damnat enim tales habitus; sed damnat et odit):_
    _Nec galea frontem abscondit: movet ecce tridentem,_
    _Postquam librata pendentia retia dextra_
    _Nequidquam effudit, nudum ad spectacula vultum_
    _Erigit et tota fugit agnoscendus arena._
    _Credamus tunicæ, de faucibus aurea quum se_
    _Porrigat, et longo jactetur spira Galero._
    _Ergo ignominiam graviorem pertulit omni_
    _Vulnere, cum Graccho jussus pugnare secutor_[138].

Gli scavi di Pompei offersero del pari, in un basso rilievo in istucco
su d’una tomba, la figura d’un’altra specie di gladiatori, detti
_Samnites_, la cui origine ci è svelata da Tito Livio in quel passo
cui già accennai nel capitolo della Storia: _Campani odio Samnitium
gladiatores eo ornatu armarunt, samniticumque nomina appellarunt_[139].

Questi Sanniti credesi anche si chiamassero col nome di _hoplomachi_,
se pure non fossero designati con questo nome altri differenti atleti:
ed erano essi gladiatori codesti che pugnavano armati da capo a’ piedi.

_Essedarii_ dicevansi coloro che combattevano dall’essedo, veicolo
da me già spiegato nel capitolo _Le Vie_; _Andabati_ quelli che
battevansi sui cavalli; _Dimachœri_ che usavano di due gladii, o
spade; _Laquearii_ che cercavano abbattere il proprio competitore col
laccio; _Supposititii_ o _surrogati_, che subentravano al gladiator
vinto, misurandosi col vincitore per contendergli la definitiva
vittoria; _Pegmares_ quelli che servivano nell’anfiteatro a subitanee
trasformazioni, da _pegma_ ch’erano appunto macchinismi scenici;
_Postulatitii_ coloro ch’erano dati nello spettacolo in soprappiù
del numero regolare indicato nell’annuncio, a fine di soddisfare
la richiesta (_postulata_) del publico; e _Meridiani_, finalmente,
certi gladiatori armati alla leggiera, che combattevano per modo
d’interludio, a mezzo giorno, dopo terminati i combattimenti colle
fiere.

Nè certo ho con questi menzionati i nomi tutti delle tante specie
di gladiatori, che nella frenesia di que’ spettacoli si vennero
studiosamente immaginando.

Più tardi adunque, come già ci avvertirono i succitati versi di
Giovenale, superando ogni ritegno e pregiudizio, scesero nell’arena
cavalieri perfino e senatori. Come s’è veduto avvenire che uomini
dell’ordine equestre montassero la scena sotto di Giulio Cesare; fu pur
sotto di esso che in Roma primi obliassero il decoro del loro ordine
Furio Leptino e Aulo Caleno, senatori; ma rotto il freno e precipitando
ognor più la pubblica moralità in basso, si vedevano offerirsi a
indecente e brutto spettacolo di nudità e di degradazione nel circo
nani e pigmei, donne e fra queste anche matrone.

Il perchè Giovenale così flagella l’inverecondo costume:

      _Endromidas Tyrias et femineum ceroma_
    _Quis nescit? vel quis non vidit vulnera pali?_
    _Quem cavat assiduis sudibus scutoque lacessit,_
    _Atque omnes implet numeros, dignissima prorsus_
    _Florali matrona tuba; nisi si quid in illo_
    _Pectore plus agitat, veræque paratur arenæ._
    _Quem præstare potest mulier galeata pudorem_
    _Quæ fugit a sexu? Vires amat_[140].

Pare, ed a ragione, così di troppo conculcata la dignità umana; ma
che si dirà dinanzi il fatto di Nerone che fe’ pugnare in un giorno
nell’Anfiteatro 40 senatori e 60 cavalieri? Dopo l’umiliazion della
donna, succedeva quella dell’autorità. Che rimaneva omai di venerando e
sacro?

Quelli nondimeno che fra tutti costoro destavano maggior pietà, erano
indubbiamente i prigionieri di guerra, ai quali Tertulliano concede
l’epiteto d’innocenti, per distinguerli da’ gladiatori di mestiere.

Nessuna guerra, dice Giusto Lipsio, non fu giammai più distruttiva
pel genere umano quanto i giuochi del circo. Infatti si sa da Plinio
il Giovane che fin da’ suoi tempi e da lui e da altri prestantissimi
uomini se ne gridasse all’abolizione.

L’universale delirio per questi giuochi giadiatorj, l’affluenza del
pubblico, l’intervento del principe e de’ magistrati, la descrizione
di queste pugne e l’interessamento dovunque ad esse per parte d’ogni
classe di persone, non escluso il sesso che suolsi appellare gentile,
io dirò meglio colla viva dipintura che ne fa l’illustre poeta
tedesco Federico Halm, ossia, per togliergli il velo della pseudonimia
lacerato non ha guari da morte, il barone Münch Bellinghausen, nella
sua tragedia _Il Gladiatore di Ravenna_, la quale abbiamo la fortuna
d’avere egregiamente recata in italiani versi da quel chiarissimo
letterato che è il prof. dottor Giuseppe Rota:

      Allor che Roma pompeggiando lieta
    Come a festivo dì tutta s’adorna,
    E Cesare e il Senato e i cavalieri
    In solenne corteo traggono al circo,
    Onde gli spazii smisurati occupa
    Di figure e di voci all’ondeggiante
    Pelago fragoroso; allor che al cenno
    Aspettato di Cesare le sbarre
    S’aprono ai combattenti e un tal silenzio
    Sorge improvviso che nessun più vedi
    Trar fiato, bocca aprire, o batter occhio;
    Ed ecco il segno squilla, i colpi cadono,
    L’uno innanzi si fa, l’altro retrogrado
    Gitta all’elmetto del rival con rapido
    Moto la rete, cotestui districasi,
    Poi di nuovo s’intrica, i colpi accumula,
    Poi percosso egli pur vacilla e sanguina,
    Presenta il petto, anche cadendo, all’emulo,
    Riceve il colpo e muore; e allor che i soniti
    D’immensi plausi a quella vista scoppiano
    Simile a folgor che scoscende nuvola,
    E par la terra vacillar dai cardini,
    Sull’ebbro capo al vincitore piovono
    Rose e lauri a gran nembo, accenna Cesare
    Del viva il segno e mille bocche il suonano
    Al vincitor sì che vi echeggia l’aere....[141]

Quando un gladiatore aveva ferito il suo avversario, gridava: _habet_,
cioè l’ha tocco. Il ferito, gettando l’arme allora, si portava presso
gli spettatori, alzando il dito per supplicare la grazia. Dov’egli
avesse ben combattuto, il popolo l’accordava premendo il pollice e lo
salvava: in caso diverso, od anche dove gli spettatori non si sentisser
disposti a di lui favore, essi abbassavano il pollice e il gladiatore
vittorioso imponeva senz’altro al vinto: _recipe ferrum, ricevi il
pugnale_, e questi veniva immolato. A tale barbarico uso del popolo
di abbassar il pollice perchè valesse d’ordine al gladiatore vincitore
di dar il colpo di grazia, segando la gola al vinto, han tratto questi
versi dello stesso Giovenale nella satira terza:

      _Quondam hi cornicines et municipalis arenæ_
    _Perpetui comites, notæque per oppida buccæ,_
    _Munera nunc edunt, et verso pollice vulgi_
    _Quem libet occidunt populariter_[142]

Questo crudel decreto di morte osava, — tanta era l’efferatezza dei
tempi — la vergine vestale stessa bene spesso pronunciarlo, come
Prudenzio, _De Vestalibus_, ce lo attesta:

    . . . . . . . _pectusque jacentis_
    _Virgo modesta jubet, converso pollice, rumpi_[143]

Stava tuttavia ne’ precetti dell’arte gladiatoria il saper cader bene
ed atteggiarsi pittorescamente nel presentare la gola o il petto
ond’essere trafitto dal vincitore; e cosiffatto artificio poteva
conciliar talvolta al gladiatore il perdono della vita. Nella succitata
tragedia di Halm, ecco come Glabrione, rettore della scuola gladiatoria
in Ravenna, ciò rammenti a Tumelico, il protagonista del componimento,
insieme ad altri consigli.

                   GLABRIONE.

                      Non io di sferza
    Nè di buone parole a te mi parco:
    Tu dunque bada a farmi onor: m’intendi?
    Impassibile mostrati e sicuro:
    La coscïenza di vittoria è mezza
    Già la vittoria: tieni gli occhi agli occhi
    Del tuo rivale e dove intenda avverti
    Pria ch’ei muova la man.

                    TUMELICO.

                           Lo so, il so bene,

                    GLABRIONE.

    Un altro avviso ancora.

                   TUMELICO.

                        E qual?

                   GLABRIONE.

                                Nel caso....
    Intendi ben.... ciò non sarà, ma pure
    Esser potria.... nel caso che abbattuto,
    Gravemente ferito.... egli è un supposto...
    Tu ti sentissi, allor fa di cadere
    Sovra il manco ginocchio e fuor protesa
    La destra gamba e del sinistro braccio
    Fatto puntello, declinato indietro,
    Grazïoso a vedersi e pittoresco,
    Statti aspettando il colpo estremo[144].

Talvolta il popolo era tanto feroce che dava tumultuosi segni
d’impazienza quando il combattimento durava un po’ più dell’usato,
senza che alcuno dei due campioni fosse rimasto ucciso o ferito.

V’eran tuttavia degli intervalli di riposo in queste lotte di
gladiatori e si chiamavano _deludia_: Orazio usò nell’Epistola XIX la
frase _deludia posco_, per dire chieggo un armistizio, togliendola a
prestanza dallo stile gladiatorio e dall’anfiteatro.

La presenza dell’imperatore faceva d’ordinario accordare la vita
al vinto, e fu ricordato come un esempio di crudeltà il fatto di
Caracalla, che a Nicomedia, in uno spettacolo gladiatorio, avesse
licenziato coloro che eran venuti ad implorarne la vita, sotto
pretesto d’interrogarne il popolo; lo che si ritenne quanto l’ordine di
trucidarli.

Byron, l’immortale poeta del _Corsaro_, di _Lara_ e di _Don Juan_,
nel _Pellegrinaggio di Childe-Harold_, dinnanzi al capo d’opera di
Ctesilao, il _Gladiatore morente_, da lui veduto in Roma, e del quale
Plinio il Vecchio aveva detto che l’artefice _vulneratum deficientem
fecit in quo possit intelligi quantum restat animæ_[145], così lo
descrisse e gli prestò tal sentimento da sembrare che le barbare orde
settentrionali e le sventure tutte piombate poi sull’Italia e Roma, non
altro fossero che la giusta espiazione del sangue sparso da’ poveri
e innocenti prigionieri di guerra condannati in sollazzo pubblico a’
cruenti spettacoli dell’Anfiteatro.

Così alla meglio tento di rendere in italiano i bellissimi versi
inglesi:

    Ecco il vegg’io prostrato in sul terreno,
      Colla man regge il capo il gladiatore:
      Col guardo esprime, di fierezza pieno,
      Ch’ei frena l’ineffabile dolore;
      La testa piega e il lacerato seno
      Geme l’ultime stille del suo core,
      Che ad una ad una cadon lentamente
      Come le prime di uragan fremente.
    Romba l’arena intorno a lui..... ma spira
      Prima che il plauso al vincitor suo cessi:
      Egli lo intende e non per ciò sospira;
      L’occhio ed il cor lungi di qui son essi;
      La vittoria o la vita non l’attira,
      Ma come avanti a lui li abbiano messi,
      Vede il Danubio, la capanna e i suoi
      Presso la madre folleggiar figliuoi.
    Ed ei frattanto, a rallegrar le feste
      Della superba Roma, è presso a morte....
      Questo pensier si mesce a le funeste
      Strette dell’agonia orrendo e forte....
       — Ma non avran vendetta mai codeste
      Supreme angosce?.... Or su, genti del Norte,
      Su levatevi tutte e qui correte
      Del furor vostro a soddisfar la sete.[146]

Nè la morte dell’infelice gladiatore bastava a calmare bene
spesso l’immane ferità del pubblico, perocchè fosse accaduto
che esso ingiungesse senza pietà la ripetizione de’ colpi sui
vinti e l’inferocir contro i cadaveri, per tema di essere frodato
dall’artificio di simulata morte, come ce lo attesta Seneca: _injuriam
putat quod non libenter pereunt_[147]; nè mancò talvolta chi osasse
mettere la mano dentro la ferita e perfino ne bevesse il sangue ancora
caldo e fumante, tratto da superstizioso pensiero che fosse a certi
mali, come l’epilessia, farmaco salutare e certo.

Il cadavere del gladiatore veniva tratto di poi, come ricorda Lampridio
nella Vita di Commodo, col mezzo d’un gancio nella camera, che pur si
vede nell’anfiteatro di Pompei, la quale veniva detta lo spoliario:
_gladiatoris cadaver unco trahatur et in spoliario ponatur_[148].

Ogni anfiteatro poi aveva la porta Libitinense, dalla dea Libitina,
nel cui tempio custodivansi gli apparati funebri, e da cui, collocati
dentro la _sandapila_, o bara, escivano, a spettacolo compiuto, i morti
corpi per trasportarsi al carnajo.

I gladiatori invece ch’erano riusciti vittoriosi nell’arena ottenevano
duplice premio: la palma e il denaro: altri ne avevano pur dai privati,
massime per le vinte scommesse, e a tale crebbero che dovette il
principe intervenire a moderare le donazioni.

Ai veterani concedevasi la bacchetta, _rudis_, quasi in segno di
magistero: anche a’ nuovi era essa accordata per alcun fatto cospicuo
e per acclamazione di popolo, impetrata spesso dal gladiatore medesimo.
Effetto della stessa era d’essere liberati nello avvenire dall’obbligo
della arena, e gli _auctorati_ d’essere restituiti alla prima libertà.
Questi privilegiati della bacchetta denominavansi _Rudiarii_; ed
assolti da’ combattimenti ulteriori, sospendevano le loro armi nel
tempio di Ercole, che si reputava essere il nume che presiedeva ai
gladiatori.

Un’altra razza di gente che offerivasi in ispettacolo nel circo
erano le _Ambubaje_. Oriunde queste della Siria, o come qualche altro
scrittore pretende, derivate da Baja nel golfo di Napoli, onde avessero
dedotto il nome, perchè le donne di quel luogo, — celebre per le sue
terme, a cui nella state affluivano le eleganti e lussuriose femmine
dell’Urbe e gli uomini più rotti alla scostumatezza, — solevano pur
concorrere in Roma ad esercitarvi la lascivia e sonando e cantando[149]
campavano la errabonda vita, suonando cioè le tibie, e cantando
ballate. La bellezza e procacità loro, cui lo spettacolo aggiungeva
rilievo e prestigio maggiori, del modo stesso che ballerine e mime pur
oggidì sono meglio appetite da’ nostri ricchi fanulloni, le rendeva
ambite dalla libidine de’ facoltosi, cui e nel circo e in posti di
pubblico ritrovo si concedevano, ed a questa passione per esse allude
il seguente passo della Satira III di Giovenale, che già ne occorse di
conoscere come il pittore più accentuato dei costumi romani del proprio
tempo:

    _Quæ nunc divitibus gens acceptissima nostris,_
    _Et quos præcipue fugiam, properabo fateri;_
    _Nec pudor ostabit. Non possum ferre qui vites,_
    _Græcam urbem: quamvis quota portio faecis Achei?_
    _Iam pridem Syrus in Tiberim defluxit Orontes,_
    _Et linguam et mores et eum tibicine cordas_
    _Obliquas, nec non gentilia tympana secum_
    _Vexit et ad Circum jussas prostare puellas._
    _Ite, quibus grata est picta lupa barbara mitra._[150]

Orazio, prima ancora di Giovenale, aveva le ambubaje ravvolte tra la
spregevole canaglia, nella Satira II del Lib. 1.

    _Ambubajarum collegia, pharmacopolæ,_
    _Mendici, mimi, balatrones; hoc genus omne_
    _Mœstum ac sollicitum est cantoris morte Tigelli._
    _Quippe benignus erat_[151].

Le quali Ambubaje vogliono essere distinte dalle _Ludie_, che erano
bensì donne che ballavano e recitavano in pubblico, ma non nei circhi
e anfiteatri, sibbene nei teatri, come l’uomo _ludius_, che vedemmo
nell’antecedente capitolo. Ricordo per altro qui ancora le _ludie_ in
altro senso, perchè più tardi infatti esse significassero le mogli de’
gladiatori, essendo che la scuola di costoro si appellasse, come ho già
più d’una volta notato, _ludus_. Giovenale ancora in questo senso parla
della _ludia_, nella Satira VI.

    _Dicite vos neptes Lepidi, coecive Metelli,_
    _Gurgitis aut Fabii, quæ ludia sumserit umquam_
    _Hos habitus?_[153]

Un breve cenno or debbo fare dei giuochi Florali, i quali si
celebravano in Roma nelle Calende di marzo di ciascun anno. Se può
esser vero che non egualmente si festeggiassero in Pompei, nondimeno,
siccome ho detto che lo studio di questa città ci trae a conoscere la
vita romana, parmi così non dover passare sotto silenzio questi giuochi
speciali, che nel quadro dei giuochi circensi reclamano indubbiamente
un posto, per il forte rilievo che danno al degenere costume di quel
popolo.

I Sabini, da cui tanto dedussero di costumanze e di riti i primi
Romani, ebbero in onore il culto di Flora, questa ninfa che, sposa a
Zeffiro, ebbe da lui in dote l’impero de’ fiori. Essi lo trasmisero
ai Romani a’ tempi di Tazio loro re, e se la gentilezza e purità
del regno di questa Dea avrebbe dovuto informare i suoi adoratori a
leggiadri riti, vuol esser detto perchè invece fossero essi in Roma
non meno impudici ed osceni de’ Lupercali, che per le sue vie in altro
tempo venivano celebrati in onore della _Lupa_, ossia della cortigiana
Acca Larenzia, con quel nome designata per cagione de’ suoi sfrenati
costumi, la qual raccolse ed allattò Romolo e Remo.

Una cortigiana venuta di poi, denominata Flora, che volle appropriarsi
il nome d’Acca Larenzia, in memoria della prima, chiamava erede de’
molti suoi beni, frutto di sua vita sciupata, il popolo romano,
il quale riconoscente la collocò nel novero delle sue divinità,
e le eresse un tempio rimpetto al Campidoglio; onde avvenne che,
istituendosi a suo onore de’ pubblici giuochi quali si dissero florali,
venissero facilmente confusi con quelli innocenti della prima Flora.

Invocata nelle intemperie delle stagioni, o quando lo imponevano i
libri sibillini, se ne celebravano i giuochi, i quali poi nel 580
di Roma, in occasione di calamitosa sterilità durata per molti anni,
diventarono annuali, per decreto del Senato.

Come i Lupercali, che ho testè ricordati, celebravansi pure i Florali
dapprima a notte al chiaror delle faci, nella strada Patrizia, ove
trovavasi un circo di sufficiente grandezza. Quivi erano cantate le
più oscene canzoni; quivi cori di ignude cortigiane, che con procaci
movimenti compivano svergognate le più ributtanti lascivie e si
prostituivano, plaudente il popolo, a uomini brutali che, parimenti
ignudi, si erano a suon di trombe precipitati nell’arena.

Narrano le storie come un giorno Catone, l’austero, fosse comparso
nel circo in occasione appunto che stavano i giuochi florali per
incominciare, perocchè gli edili avessero già fatto dare il segno.
La presenza del gran cittadino impedì che l’orgia scoppiasse: le
meretrici, per reverenza si strinsero nelle vesti loro, tacquero
le trombe, il popolo ammutì. Chiedea Catone onde sì improvvisa
sospensione, e avutone in risposta esserne causa la sua presenza,
egli alzatosi prontamente allora e recatosi alla fronte il lembo della
toga, uscì dal circo. Il popolo applaudì, caddero subito le vesti alle
sciupate, squillarono le trombe e lo spettacolo ebbe il suo corso.

Fu per avventura ad una di queste feste, che, regnando Nerone, venne
offerto l’infame spettacolo nel circo, che Svetonio ricorda e che
Marziale fe’ subbietto al sesto Epigramma del Lib. I. che basterà di
per sè a stigmatizzare il costume di quel tempo.

    _Iunctam Pasiphaën Dictaeo credite tauro,_
      _Vidimus: accepit fabula prisca fidem._
    _Nec se miratur, Cæsar, longaeva vetustas:_
      _Quidquid fama canit, donat arena tibi_[154].

Per l’eguale ragione che mi parve dover intrattenere il lettore
de’ Giuochi Florali, credo qualche parola consacrare eziandio agli
spettacoli di Naumachia.

La circostanza d’essere Pompei città in riva al mare, siffatti
spettacoli davanti all’imponente maestà della pianura equorea sarebbero
apparsi così meschini, da non eccitare interesse di sorta; e però
non posso ritenere che naumachie si tentassero mai nell’anfiteatro
pompeiano. La misura della sua elissi non credo fosse tampoco propria
a congeneri ludi. Se tal sorta quindi di divertimento da magistrati
o doviziosi si fosse voluto dare, siccome d’altronde per lo più gli
spettacoli dati da costoro erano, come vedemmo, gratuiti, avrebbero a
teatro eletto il mare stesso e con sicurezza di miglior effetto.

Non era così altrove e massime in Roma. Che le naumachie fossero
nei gusti de’ maggiorenti e del popolo non può recarsi in dubbio;
superiormente trattando de’ Gladiatori, menzionai quella offerta
da Claudio sul lago Fùcino. Svetonio, nel dire di essa, ricorda la
particolarità che si vedessero l’una contro l’altra urtarsi una flotta
di Sicilia ed un’altra di Rodi, composta ciascuna di dodici triremi,
fra lo strepito della tromba d’un tritone d’argento che un congegno
praticato nel mezzo del lago faceva a un tratto scattar fuori[155].

Naumachia, derivanda dalle due voci greche ναῦς, nave, e μαχη,
pugna, esprime già di per sè il proprio significato. A questi navali
combattimenti si trovò modo di dar luogo, facendo entrare ne’ teatri, a
mezzo di celati condotti, le acque, e così vi si poterono far figurare
mostri marini, flotte e simulate battaglie di navi.

Lo Storico de’ Cesari summentovato fa cenno della naumachia data da
Nerone in Roma, dove pare si fosse all’uopo eretto apposito luogo, ed
anzi, se si vuole stare a Frontino, nell’opera sua sugli Acquedotti,
sin cinque o sei naumachie si sarebbero contate nel circondario di
Roma. In quella adunque offerta da Nerone si videro appunto nuotare
nell’acqua marina de’ mostri: _exhibuit naumachiam, marina aqua
innantibus belluis_[156]. Un’altra battaglia navale ne rammenta, data
nella vecchia naumachia da Tito, con intervento di Gladiatori[157] ed
una ancora offerta da Domiziano[158]. Era forse di quest’ultima che
Marziale intese parlare nel 31 Epigramma del lib. degli spettacoli, e
la quale egli chiamò superiore a tutte le antecedenti:

    _Quidquid et in Circo spectatur et Amphiteatro_
      _Dives Caesarea præstitit unda tibi._
    _Fucinus et pigri taceantur signa Neronis:_
       — _Hanc norint unam sæcula Naumachiam_[159].

Il suddetto storico Svetonio attribuir vorrebbe ad Ottaviano Augusto il
vanto d’essere stato il primo a dare ai Romani spettacolo di un finto
combattimento navale in un bacino scavato appresso al Tevere[160]; ma
Servio, scoliaste di Virgilio, ne ammonisce avere i Romani, al tempo
della prima guerra Punica, istituita la naumachia, dappoichè si fossero
accorti che le nazioni straniere avessero nelle pugne navali non
leggiero valore[161].

Ma forse prima d’Augusto queste naumachie potevano limitarsi ad
esercitazioni de’ _classiarii_, o militi appartenenti alle flotte,
nell’intento appunto di addestrarli a’ navali combattimenti, e solo
averli poi questo Cesare ordinati a pubblico divertimento.

Ma basti intorno ad esse.

Or mi resta a parlare delle cacce di animali, _venationes_, che si
davano così spesso negli anfiteatri romani e che sì frequenti pure ci
dicono i surriferiti affissi seguissero in quello di Pompei.

Desiderosi coloro che davano gli spettacoli di solleticare con
isvariate illecebre gli appetiti del publico, immaginarono, a rendere
più interessanti queste cacce, di convertire l’Arena in selva,
presentando, cioè, la più illudente immagine delle cacce germaniche,
che si volevano arieggiare. Facevasi dunque a tale intento sollevare
ne’ boschi da’ soldati delle grosse piante fino dalle radici e
trasferire nell’Anfiteatro, dove confitte nel suolo e assicurate con
travi e sovrapposta la terra si mutava l’arena in una foresta. Nè
l’arena così conformavasi soltanto, ma anche i _cataboli_, stanze
di custodia, da cui, come da antri e spelonche, sbucavano, quasi da’
naturali lor covi, le fiere. La natura era pertanto fedelmente imitata.

E quel che in Roma facevasi ed era in voga, afferma Giusto Lipsio
essersi nelle provincie subitamente emulato, e le caccie dovevano però
tosto adottarsi e suscitare il più vivo interesse.

In due maniere si compivano queste cacce: o facendo combattere fra
loro le fiere, o facendole combattere con gladiatori o con condannati.
Eranvi però delle volte in cui per la rarità dell’animale, che non
si voleva uccidere, limitavansi ad ammaestrarlo facendolo passare
avanti gli spettatori, o stretto in catene, ovveramente chiuso in una
gabbia. Le cacce più consuete, perchè meno dispendiose, erano di orsi
e cinghiali. Erano straordinarie e di lusso quelle di leoni, elefanti,
pantere ed altre belve rare.

I combattimenti degli animali vorrebbe Seneca che avessero luogo per
la prima volta in Roma, nel settimo secolo di sua fondazione, al tempo
di Pompeo. Questi medesimo, nella inaugurazione del suo teatro, fece
combattere nel circo gli elefanti, che Plinio dice essere stati in
numero di venti, e i quali diedero tal prova d’intelligenza da destare
perfino la compassione: strana cosa in vero, da che non la sapessero
eccitare gli uomini in quel tempo! Così Cicerone infatti parla di
quelle feste scrivendone a Marco Mario, alleato di sua famiglia:

«Per cinque giorni v’ebbero stupende cacce, e chi lo nega? Ma un uomo
serio qual piacere può avere dal vedere o un uomo debole sbranato da
una fortissima belva, o una superba fiera trapassata da un cacciatore?
L’ultimo giorno comparvero gli elefanti, di cui il volgo e la turba
fecero le maraviglie: ma voluttà non vi fu, anzi destò una tal qual
compassione e si pensò che quell’animale avesse una cotale affinità
colla stirpe umana»[162].

Ma Seneca nella summentovata sua sentenza è smentito da altri non meno
autorevoli scrittori. Tito Livio, a cagion d’esempio, ne fa sapere che,
fin dall’anno 568 della fondazione di Roma, Marco Fulvio celebrasse
giuochi che passarono famosi nella storia, per compiere un voto fatto
nella guerra d’Italia, e ne’ quali si fecero combattere pantere e
leoni: _et venatio data leonum et pantherarum_[163].

Diciasett’anni dopo, cioè nel 585, gli edili curuli P. Cornelio
Scipione Nasica e P. Lentulo, per la guerra contro Perseo, facevano
combattere nei giuochi del Circo sessantatrè tigri, e quaranta orsi ed
elefanti. Quinto Scevola, nel 689, fe’ combattere leoni; e Lucio Silla,
per la prima volta, due anni dopo, offrì combattimento di cento leoni,
della varietà che si chiamava giubbata, o colla chioma non ricciuta.

Lucio e Marco Lucullo, essendo essi pure edili curuli, nel 678, fecero
combattere elefanti contro tori, per aizzare i quali ultimi conveniva
far uso del fuoco, come Marziale ci avverte:

    _Qui modo per totam flammis stimulatus, arenam,_
      _Sustulerat raptas taurus in astra pilas,_
    _Occubuit tandem cornuto ardore petitus,_
      _Dum facile tolli sic elephanta putat_[164].

Passata questa caccia di tori, combattuta però dagli uomini, come nelle
altre provincie dell’orbe romano, così eziandio nella Spagna, anche
quando la civiltà tolse affatto di mezzo questi barbari divertimenti,
essa non se ne volle disfare non solo, ma tanto la smania delle caccie
del toro si è innestata al suo costume, che pure a’ nostri giorni
si continui tra la frenesia di pubblici entusiasmi, i plausi e le
dimostrazioni di leggiadre dame; e _toreros_ e _matadores_, _picadores_
e _banderilleros_ e tutto il gregge gladiatorio insomma che partecipano
a queste se la campano egregiamente e son ben anco tenuti in conto.
Si potrebbero in oggi citare più nomi di celebri toreri, come a Roma
in antico si ripeteva da ognuno il nome de’ più famosi gladiatori,
conservati poi alla memoria de’ posteri dagli storici e da’ poeti.

Ma rivengo a dire delle caccie romane.

Cento orsi della Nubia e cento cacciatori venuti dall’Etiopia
combatterono l’anno 693 per cura di Domizio Enobarbo edile; e tre
anni dopo, Marco Emilio Scauro, tra’ vari altri giuochi circensi,
quello spettacolo offerì pure dello scheletro di enorme cetaceo, lungo
quaranta metri, più alto di un elefante indiano, che si spacciò dai
ciurmadori essere stato quello medesimo al quale era stata esposta
Andromeda: un ippopotamo, che Plinio afferma essere stato il primo
veduto in Roma, di cinque coccodrilli e di centocinquanta tigri di ogni
specie.

Ritornando sulla caccia data agli elefanti sotto Pompeo, che Plutarco
dice essere riuscito uno spettacolo di spavento, Dione Cassio reca le
seguenti particolarità, che piacemi riferire. «Si fecero combattere
con uomini armati 18 elefanti; gli uni perivano nel combattimento,
altri più dopo; perchè il popolo anche in onta a Pompeo, ebbe pietà
di alcuni, quando li vide fuggire colpiti di ferite, percorrenti
l’arena, colle trombe dirette verso il cielo e mandando lamentevoli
grida: il che fece credere che essi non agivano così per avventura,
ma che attestavano coi loro barriti la violazione della promessa fatta
loro con giuramento nel trasportarli dall’Africa, e che imploravano la
vendetta celeste. Si narra veramente che essi non avessero consentito
a salire sulle navi, se non dopo che i conduttori ebbero loro promesso
con giuramento di preservarli da qualunque duro trattamento. Il fatto è
certo, o non l’è? È quanto ignoro.»

Del resto si sa, soggiunge Mongez, che tal passo riporta pure in
una sua memoria, di cui mi son valso, che gli antichi credevano che
gli elefanti avessero un’anima intelligente, e tale opinione si è
conservata fra i popoli dell’India.

In questi giuochi da Pompeo dati per cinque giorni, a solennizzare
la dedica del suo teatro, fra le molte fiere cacciate nel circo,
oltre i suddetti elefanti, Plinio ricorda seicento leoni, dei quali
trecentoquindici giubbati, e quattrocentodieci tigri d’ogni specie.

Giulio Cesare nel 708 volle superare nella magnificenza de’ suoi
giuochi quelli dati dal suo emulo e mostrò per la prima volta in Roma
le giraffe e i combattimenti dei tori e fe’ comparire nel circo due
eserciti composti di fanti, di cavalieri e di elefanti. «Si diedero
cacce per cinque giorni, scrive Svetonio, e per terminare lo spettacolo
si divisero i combattenti su due schiere composte ciascuna di
cinquecento fanti, di venti elefanti e di trecento cavalieri, si fecero
combattere gli uni contro gli altri»[165].

Succedutogli Augusto, a lui si volle dar vanto d’aver fatto uccidere, a
divertimento del popolo, tremila e cinquecento animali.

Sarebbe lungo soverchio parlare degli animali nostrali e addomesticati;
ma si può argomentarlo dalla passione che si aveva per tali
divertimenti. Non lascerò tuttavia di narrare come il più volte citato
Plinio abbia scritto che nei giuochi dati da Germanico si vedessero
alcuni elefanti moversi in cadenza a guisa di danzanti[166]; Svetonio
in quelli dati da Galba comparissero elefanti funamboli[167], in
quelli di Nerone, Sifilino dice di un elefante che salì sulla cima
della scena, camminando sopra una corda e portando sopra di sè un
cavaliere[168]; e Marziale parla dell’aquila addestrata a portar in
sull’aria un fanciullo, nel seguente distico di un suo epigramma:

    _Æthereas aquila puerum portante per auras_
    _Illæsum timidis unguibus hæsit onus_[169]

e altrove sullo stesso fatto:

    _Dic mihi quem portes, volucrum regina? Tonantem_[170]

perchè il fanciullo era vestito da Giove.

Le cacce e gli spettacoli gladiatorii si facevano nel circo nelle ore
mattutine; ma, nell’814, Domiziano volle invertire l’ordine consueto e
celebrò tali giuochi a notte, collo splendore delle faci; e Svetonio
che ciò racconta nella vita di questo Cesare, aggiunge che in questi
combattimenti di bestie e di gladiatori prendevano parte non uomini
soltanto, ma femmine benanco[171].

Le caccie più ordinarie erano, giusta quanto già dissi, d’orsi e
di cignali, come quelle più favorite e di cui anche in Pompei si
ha argomento di prova per pitture e bassorilievi rinvenuti: e i
cacciatori, _venatores_, vi figuravano a piedi ed a cavallo. Usavano
costoro di apposita lancia, _venebalum_, dell’arco, _arcus_, dei cani,
_canes venatici_.

Le lotte degli uomini colle fiere venivano eseguite da appositi
gladiatori, designati piuttosto col nome di _bestiarii_ e considerati
meno de’ gladiatori proprii e spesso anche da infelici schiavi a ciò
costretti da snaturati padroni. Dapprima si accordò a tale effetto ad
essi elmo, scudo, spada o coltello e schiniere o schermi alle gambe;
poscia, sotto il regno di Claudio, non si videro combattere che difesi
da fasciature attorno alle gambe ed alle braccia armati di spiedo o di
spada soltanto, con un brandello di stoffa colorata, il più spesso in
rosso, nella manca mano.

Di queste caccie e lotte diverse coi diversi animali ci lasciò memoria
ed intrattenne lungamente Marziale nel suo _Libellus De Spectaculis_:
io non vi spicco ora che il seguente epigramma, il quale volge intorno
alla pugna delle donne colle fiere, perchè si vegga come ne’ ludi
gladiatorj il così detto sesso gentile, non pago pure di misurarsi
cogli uomini in quegli esercizj efferati, non volesse anche nel resto
rimaner addietro degli uomini in alcun modo:

    _Belliger invictis quod Mars tibi sævit in armis;_
      _Non satis est Cæsar: sævit et ipsa Venus._
    _Prostratum Nemes et vasta in valle leonem,_
      _Nobile et Herculeum fama canebat opus._
    _Prisca fides taceat: nam post tua munera, Cæsar,_
      _Hæc jam feminea vidimus acta manu_[172].

Così si ebbero anche le _bestiariæ_.

Eppure il lettore non ha certo obliato come sotto la porta principale
dell’anfiteatro di Pompei nella iscrizione a sinistra dedicata a Cajo
Cuspio Pansa padre, si faccia cenno d’una legge Petronia, della quale
l’illustre magistrato pompejano sarebbe stato rigido osservatore.

Questa legge, così chiamata da Petronio Turpiliano suo autore, che
era console in Roma, nell’anno 813 (61 dell’E. V.), unitamente a
Cajo Giunio Cesonio Peto, soccorse alla misera condizione de’ servi,
provvedendo che dove accadesse una eguale disparità di voti in un
giudizio intorno la manumissione di un servo, decretar si dovesse in
favore della sua libertà (L. 24. ff. _de manumiss._), e proibendo agli
inumani padroni di condannare a loro arbitrio i servi al combattimento
colle bestie feroci, se prima non fossero stati giudicati meritevoli
di questa pena con un formale giudizio. Ma intorno a questa legge,
perchè memorata nella pure da me riferita lapide pompejana, lungamente
dissertò il marchese Arditi, che fu ne’ primi anni del secolo
sovrintendente agli scavi di Pompei, ed alla quale rinvio chi desideri
saperne di più.

È implicitamente così detto che al combattimento colle fiere venissero
condannati unicamente servi ed altri colpevoli. Ma, oltre ciò, altri,
rei di parridicio o d’empietà, venivano condannati alla esposizione
delle fiere nell’anfiteatro; ragione per cui la storia dei primitivi
tempi del Cristianesimo segna a migliaja cosiffatte condanne dei
neofiti cristiani, che gli imperatori si ostinavano a considerare
come nemici dello Stato, malgrado pur sapessero che nelle loro agapi
e catacombe e in ogni istituzione avessero in obbligo la preghiera
per essi, l’obbedienza alle leggi e il perdono a’ nemici. Codeste
persecuzioni durarono a questi miti ed entusiasti credenti, che da
noi sono chiamati martiri della fede e però designati alla venerazione
nostra.

Uno de’ precetti della filosofia stoica era: non ammirate gli
spettacoli; i Cristiani, nello ispirarne l’aborrimento, avevano così
una ragione maggiore.

Ecco un esempio di codesti ludi pantomimici, nei quali la catastrofe
aveva veramente umani sagrificj, combinando così l’applicazione d’una
vera pena col pubblico divertimento.

Ancora il più volte citato Marziale, nel suddetto _Libellus_,
descrive di tal guisa lo spettacolo pantomimico, nel quale, Laureolo,
schiavo, che per aver ucciso il padrone, era stato, come colpevole
di parricidio, condannato alla croce ed alle fiere, era lo sventurato
protagonista:

    _Qualiter in scythica relegatus rupe Prometheus_
      _Assiduam vivo viscere pascit avem:_
    _Nuda Caledonio sic pectora præbuit urso,_
      _Non falsa pendens in cruce Laureolus._
    _Vivebant laceri membris stillantibus artus,_
      _Inque omni nusquam corpore corpus erat_
    _Denique supplicium dederat necis ille paternæ;_
      _Vel domini jugulum foderat ense nocens,_
    _Templa vel arcano demens spoliaverat auro,_
      _Subdiderat sævas vel tibi, Roma, faces._
    _Vicerat antiquæ sceleratus crimina famæ,_
      _In quo, quæ fuerat fabula, pœna fuit_[173].

Il Colosseo di Roma fu singolarmente teatro a questi barbari
spettacoli, dove un popolo sitibondo di sangue forzava la mano al
principe sovente, massime quando erano incominciate le persecuzioni
cristiane, gridando contro i nuovi credenti: alle fiere! alle fiere!
perocchè al nuovo culto e ai nuovi credenti, dagli astuti sacerdoti
pagani si attribuissero le publiche calamità per lo sdegno degli offesi
Numi.

Nè da meno inoltre attendere si doveva in un’epoca di piena
degradazione morale. Non paga la prostituzione d’esercitarsi ne’
lupanari, nelle case de’ privati, nella reggia e pubblicamente, perfino
nei cómpiti e quadrivii, essa versavasi ne’ teatri e nei circhi,
dove più copiosa trovava la messe. Legga il lettore Marziale, legga
Giovenale, poeti che son pur troppo forzato a citar di soverchio, e
raccapriccierà dall’orrore di tanta spudoratezza e bassezza di popolo.
I lupanari divennero quasi parte integrante di questi clamorosi
ritrovi, vi si fabbricavano all’uopo apposite celle, e vi si eressero
temporaneamente alla evenienza di grandi spettacoli, e le sciupate
traevano però all’anfiteatro, più certamente in cerca di lussuria che
di altro spettacolo.

Ma si oda su di ciò il Dufour.

«Non v’era eccezione nelle ore assegnate alla libera pratica dei
pubblici luoghi e piaceri, che nei giorni di festa solenne, quando
il popolo era invitato agli spettacoli del circo. In tali giorni la
prostituzione veniva trasportata dov’era il popolo, e mentre i lupanari
chiusi restavano deserti nella città, quelli del circo si aprivano
nel tempo stesso dei ludi; e sotto ai gradini ove affollavansi gli
spettatori, i lenoni organizzavano cellette e tende, ed ivi era una
continua processione di cortigiane e di libertini attirati da queste
al loro seguito. Mentre le tigri, i leoni e le bestie feroci mordevano
le barriere delle loro gabbie di ferro; mentre pugnavano e morivano i
gladiatori; mentre l’uditorio scuoteva l’immenso edifizio con grida
ed applausi, le _meretrices_, adagiate sopra sedie particolari,
distinte per l’alta pettinatura e per le vesti corte, leggiere ed
aperte, facevano appello continuo alle brame del pubblico, e non
aspettavano per soddisfarle che gli spettacoli fossero terminati. Tali
cortigiane lasciavano non interrottamente il posto loro, succedendosi
a vicenda durante tutto il tempo de’ giuochi. I portici esterni del
circo non più bastando a quest’incredibile mercato di prostituzione,
tutte le taverne, tutte le osterie delle vicinanze rigurgitavan di
gente. Bene inteso che la prostituzione in quei giorni era libera
assolutamente e che gli apparitori dell’edile non osavano inquisire
sulle qualità delle femmine che esercitavano colà l’infame mestiere.
Ecco perchè Salviano dicesse di queste orgie popolari: _si offre un
culto a Minerva nei ginnasi; a Venere nei teatri, ed altrove quanto
v’ha di osceno, si pratica nei teatri; quanto v’ha di disordinato,
nelle palestre_... Gli edili quindi non si dovevano occupare della
prostituzione dei teatri, come se tale prostituzione completasse i
ludi dati al popolo. Generalmente d’altronde (può almeno supporsi da’
varii luoghi della _Istoria Augusta_), i teatri erano messi in opera
da una specie di femmine, che alloggiavano sotto i portici e nelle
gallerie arcate di questi edifizj: avevano per mezzani, o per mariti,
i banditori del teatro, i quali vedevansi circolare incessantemente
di gradino in gradino durante la rappresentazione. Questi banditori
non si contentavano di vendere al popolo, o distribuire gratuitamente
alle spese del personaggio che dava i giuochi, acqua e ceci: servivano
principalmente di messaggieri e d’interpreti per agevolare la
dissolutezza. Con ragione dunque il cristiano Tertulliano chiamava il
circo e il teatro _concistoria libidinum_»[174].

Come allora maravigliarsi dei sanguinarj giuochi dell’anfiteatro; come
sorprendersi della generale ferocia degli spettatori?

Parini, il poeta mio concittadino, filosoficamente e a tutta ragione
ebbe a cantare:

    Così, poi che dagli animi,
      Ogni pudor disciolse,
      Vigor dalla libidine
      La crudeltà raccolse[175].

Ma la gloria di far iscomparire dalla terra queste vere vergogne
dell’umanità, che furono i giuochi gladiatorj, in cui la vita dell’uomo
era offerta al ludibrio ed al capriccio della plebe, spettar doveva
alla nuova dottrina del Cristo, che si andava per l’orbe diffondendo.
Sarei nel dire di questo importantissimo argomento fuori veramente
dell’epoca cui deve restringersi l’opera mia; ma, come dissimularlo?
come, dopo avere turbato l’animo del lettore col ricordo di tanti
strazii, non segnalargli poi il tempo in cui ebbero fine, e più ancora
come non segnalare il principio, al quale andò debitrice di tanto
beneficio la povera e depressa umanità?

Il Cristo era venuto a spezzar la catena dello schiavo, a proclamare
il suo codice di libertà, d’eguaglianza, d’amore, e santificando
col proprio supplizio la croce, segno dapprima d’infamia, l’aveva
reso un oggetto di gloria. Sparso il buon seme della nuova dottrina,
fruttificata dal sangue di tante migliaja di martiri, che spesso in
onta alle debolezze dell’età o del senso, incontravano fra i più
barbari tormenti la morte senza pur dar un gemito, ma salmodiando
a Dio e benedicendo a’ loro persecutori, mentre i più efferati
ladroni mandavano sempre fra gli spasimi bestemmie ed urli, doveva
necessariamente riformarsi il costume e dovevano tornare in obbrobrio i
cruenti spettacoli del circo e dell’anfiteatro.

Fu Costantino imperatore, nell’anno 1067 di Roma, che in omaggio
a’ cristiani principj, ch’egli aveva abbracciato, bandì la legge
santissima che i gladiatorj ludi in tutto il romano impero aboliva.
Pur nondimeno, diradicare d’un tratto e per sempre sì inveterate e
glorificate abitudini non fu possibile, e un cotal poco fecero ancora
esse capolino sotto Costante, e poscia sotto Teodosio e Valentiniano
imperatori, ed anche sotto Onorio si aprì ai gladiatori in Roma il
Coliseo. — Fu in siffatta occasione che avvenne scena in cui tutto si
pare il coraggio e l’entusiasmo cristiano.

Era l’anno 404 dell’Era Cristiana, quando questi ludi si offerivano
nell’Anfiteatro Flavio in Roma. Quivi, venuto dall’Asia, era un monaco
di nome Telemaco, e avuto notizia che il sanguinoso spettacolo seguiva
in un determinato giorno, vi si recava animato dal più santo zelo,
e quando essi appunto fervevano, immemore d’ogni umano riguardo,
precipitatosi nell’arena e gittatosi fra le coppie de’ combattenti,
in nome del suo Divino Maestro e della cristiana carità, tentava
disgiungere i gladiatori e farli cessare dal sangue. Sollevavansi a
quell’atto furibondi gli spettatori, che si vedevano sturbato il loro
migliore divertimento, e dato di piglio alle pietre, lapidarono colà il
monaco generoso. — Di ciò si valse appunto l’imperatore Onorio, perchè,
proclamato Telemaco martire della fede, si avesse a richiamare alla più
severa osservanza l’editto di Costantino.

I gladiatori adunque scomparvero di tal modo, quantunque le
caccie degli animali feroci durassero sino alla caduta dell’impero
d’occidente[176], e cessarono pure le persecuzioni contro i credenti
del Cristo. «Voi che vi lagnate — sclama Cesare Cantù — perchè i
simboli della passione del Cristo oggi sfigurino il Coliseo, ricordate
quanto sangue v’abbiano quelli risparmiato»[177].

A compir le notizie che riguardano i ludi del Circo e dell’Anfiteatro,
mi resta a dire delle _sparsiones_ e _missilia_, che accompagnavano
quasi sempre gli spettacoli che offerivansi in essi, quando chi ne
sosteneva le spese erano il principe, o i maggiorenti della repubblica
o dell’impero.

Queste _missilia_ e _sparsiones_ erano doni che si facevano al
popolo da chi dava i giuochi. Distribuivansi a mezzo di tessere di
legno, sulle quali stavano scritte le cose cui davano diritto, lo che
recherebbe l’idea d’una gratuita lotteria, quando però non fossero
gli oggetti stessi, i quali allora si venivano con gran tafferuglio
disputando. I valori e la spesa per siffatti regali quali fossero,
possiam raccogliere da Svetonio, là dove tratta delle _missilia_ e
delle _sparsiones_, distribuite da Nerone. «Nei giuochi, scriv’egli,
per l’eternità dell’impero che Nerone appellò massimi, persone dei
due ordini e dei due sessi sostennero parti divertenti. Un notissimo
cavalier romano sedendo su d’un elefante trascorse su d’una corda
distesa (_cathadromum_) in direzione obliqua. Si recitò una commedia
d’Afranio intitolata _L’incendio_ e si abbandonò agli attori il
saccheggio d’una casa divorata dalle fiamme. Ogni giorno si facevano
al popolo tutte sorta di larghezze (_sparsa et populo missilia_), si
largheggiavano a lui buoni pagabili in grani, vestimenta, oro, argento,
pietre preziose, perle, quadri, schiavi, bestie da soma, animali
addomesticati, e finalmente si giunse per pazza liberalità a regalare
vascelli, e perfino isole e terre[178].»

E così fece dopo anche Tito, ammanendo ludi e feste per cento giorni,
nella dedica dell’Anfiteatro Flavio da lui compito; come prima di
essi, un semplice privato, Annio Milone, quello stesso che fu difeso da
Cicerone, sprecò tre patrimonj per gli stessi dispendj. Probo, figlio
di Alipio, pretore; Simmaco pretore del pari, per non dir di tutti,
profusero, al medesimo scopo di Claudio di blandire il popolo, infiniti
tesori.

Come visitando il Coliseo e gli anfiteatri di Verona e di Nola; così
pure vedendo quello di Pompei, il quale ne è il meglio conservato,
e che tutto ciò che ho in questa pagina brevemente passato in
rassegna rammenta, dinanzi a cosiffatte superbe costruzioni, non puoi
disgiungere dal sentimento d’ammirazione, quello della compassione per
le miriadi di vittime umane che dentro di essi vennero sagrificate,
e per la sciagurata condizione che è fatta dalla fortuna agli uomini
d’essere gli uni di ludibrio e spettacolo agli altri, questi destinati
a servire d’incudine, quelli a valer da martello.




CAPITOLO XV.

Le Terme.

  Etimologia — _Thermæ, Balineæ, Balineum, Lavatrina_ — Uso antico
  de’ Bagni — Ragioni — Abuso — Bagni pensili — _Balineæ_ più famose
  — Ricchezze profuse ne’ bagni publici. Estensione delle terme —
  Edificj contenuti in esse — Terme estive e jemali — Aperte anche di
  notte — Terme principali — Opere d’arte rinvenute in esse — Terme
  di Caracalla. Seguon le terme di Caracalla — Ninfei — Serbatoi
  e Acquedotti — Agrippa edile — Inservienti alle acque — Publici
  e privati — Terme in Pompei — Terme di M. Crasso Frugio — Terme
  publiche e private — Bagni rustici — Terme Stabiane — Palestra e
  Ginnasio. Ginnasio in Pompei — Bagno degli uomini — _Destrietarium_
  — L’Imperatore Adriano nel bagno de’ poveri — Bagni delle donne
  — _Balineum_ di M. Arrio Diomede — Fontane pubbliche e private —
  Provenienza delle acque — Il Sarno e altre acque — Distribuzione
  per la città — Acquedotti.


Tra gli edifizi antichi che meglio attestino della grandezza e
sontuosità romana e del costume, non nella sola capitale dell’orbe,
ma dovunque le aquile latine ebbero a stendere il volo delle proprie
conquiste, sono, a non dubitarne, le Terme.

Terme ebbe pure, e come no? Pompei; e gli avanzi che più innanzi
esamineremo, ci varranno di conferma di quello che storicamente sto per
dire intorno a tale argomento.

La parola dedussero i Latini dal greco vocabolo θέρμας, che
letteralmente significherebbe sorgenti calde; quindi bagni d’acqua
calda; fosse pur essa così prodotta dalla speciale qualità e natura del
luogo, o fosse l’effetto di semplice calore artificiale. Terme vollero
dire ben presto l’edifizio intero destinato appunto al servizio di
bagni d’ogni genere, caldi o freddi, a vapore o ad acqua.

Sotto questo aspetto generico, il vocabolo, come facilmente si vede,
ha un significato equivalente alle parole _Balineæ_ e _Balneæ_;
ma queste, per istabilirne il divario dalle _Thermæ_, riferisconsi
piuttosto all’antica maniera di costruire e disporre uno stabilimento
balneario; mentre dopo l’età d’Augusto, come osserva il Rich[179],
quando i Romani ebbero volto il pensiero alle arti di pace, ed erogato
ad abbellire la città capitale una parte di quelle ricchezze che
provenivano dai tributi de’ loro estesi dominj, il nome _Thermæ_ venne
più particolarmente appropriato a quei magnifici stabilimenti modellati
sulla pianta d’un ginnasio greco, ma costruiti anche in più splendide
proporzioni e più vasti. Così avverrà di rinvenire negli scrittori
usati i vocaboli _Balineum_ e _Balneum_ e questi per esprimere un bagno
privato od una serie di stanze per bagni appartenenti a casa privata.

Nelle _Balineæ_ eravi d’ordinario doppio appartamento per uomini e
donne, vedendosi le eguali parti architettoniche di un lato egualmente
riprodotte dall’altro: non così nel _Balineum_, del quale toccherò
più d’una volta avanti, ricordando principalmente quello che fu
riconosciuto in Pompei nella villa suburbana di Arrio Diomede. Solo
avvertirò qui che più anticamente, a designare un bagno privato,
venisse usata la parola _lavatrina_, da cui, nota Varrone, si fe’ per
sincope la voce _latrina_, e poi si usò promiscuamente latrina per
lavatrina, accordato poi nome di latrina tassativamente a quel luogo
della casa ove confluiscono le immondizie di essa[180].

Nell’antichità più rimota ritrovasi adottato l’uso de’ bagni sì di
acqua fredda, che di calda. Di questi ultimi quasi sempre parla Omero
ne’ suoi poemi; dei primi fa pur cenno. Quando nell’_Iliade_ fa che
Diomede ed Ulisse sull’alba e di primavera si lavino nel mare per
refrigerio di quella loro notturna impresa; e nell’_Odissea_ quando
rappresenta le donzelle, che accompagnavano la real fanciulla Nausica a
lavarsi per diletto nel fiume. Ettore, ancor nell’_Iliade_, tramortito
dal masso lanciatogli al petto da Ajace venne fatto rinvenire colle
acque dello Xanto.

L’esercizio e il diletto de’ bagni entrarono perfino ne’ riti delle
pagane religioni: perocchè queste di sovente consacrarono col loro
sacro e venerato suggello quelle pratiche che la politica e l’igiene
consigliavano a’ popoli, onde e in Egitto e in Grecia, e in Roma e
presso le più barbare nazioni si introdussero nelle religiose cerimonie
lustrazioni e purificazioni frequenti e si narri da Teofrasto che un
cotale dominato da superstizione, mai non sapesse passeggiare la città
che transitando avanti le publiche fontane non vi avesse a tuffare e
lavare la testa.

Euripide, che i bagni di mare avevan guarito da pericolosa infermità
volle forse alludere ad essi quando disse:

    Lava il mar tutti quanti i mali umani.

L’uso dei bagni in Italia fu frequentissimo in allora, assai e assai
più che di presente. Servio, lo scoliaste di Virgilio, commentandone
un passo coll’autorità di Catone e di Varrone ci fa sapere che gli
Stati primitivi portavano i loro pargoli a’ fiumi e col ghiaccio e
coll’acqua rendevano i loro corpi più duri e più sofferenti, ciò che
narrasi avere pur fatto gli Spartani, i Germani ed i Celti. Ma del non
essere rimasta dopo l’impero di Roma, la consuetudine dei bagni, così
frequente ed eccessiva in Italia, non se ne vuole, come fa il francese
Bréton, ligio in questo al mal vezzo del suo paese, di buttarsi
in ogni occasione a detrarci, inferire contro noi, che scostandoci
dalle consuetudini de’ nostri padri, siam portati a bagnarci ben più
raramente che non gli abitanti delle contrade del Nord. Io non reputo
vera l’accusa. Non saprei indicare qui esattamente tutte le stazioni
termali della Penisola, sia per cure idropatiche, che di puro convegno
estivo. Forse tra noi non hanno esse tanta nominanza quanto le terme
di Baden, di Spa, di Omburgo, di Aix, di Plombières e va dicendo, per
ciò solo che meno immorali, noi non vantiamo ai bagni nostri di Acqui,
d’Abano, di Montecatini, di Genova, di Livorno, di Venezia, di Rimini,
di Salsomaggiore, di Recoaro e dei cento altri luoghi in ogni parte
d’Italia, che salutari guarigioni e non rovine di sostanze giuocate sui
scellerati _tapis verts_.

In quanto ai tempi di Roma antica, trovandosi essa sotto clima
meridionale, dove la traspirazione è abbondante nella estiva
stagione, e siccome non si avesse ancora l’uso delle biancherie,
ossia de’ pannilini, nelle vestimenta, — la cui introduzione avvenuta
forse intorno al secolo sesto, secondo il Manni[181] e il Ferrari
e il Mercuriale da lui citati, credono essere stata cagione della
diminuzione della pratica quotidiana dei bagni, ridotta quasi al solo
uso della medicina[182] — è certo che dovendo vestire immediatamente
presso la pelle la lana e aver soli sandali ai piedi, il sudore e la
polvere dovessero esigere giornaliere abluzioni e persuadere così il
generale e ripetuto uso de’ bagni.

Era questo una misura igienica. Ne’ primi tempi anzi la salute solo
e la decenza lo consigliavano e reclamavano: l’idea del lusso o della
mollezza non c’entrava ancor punto. L’uso era di bagnarsi tutti i nove
giorni, all’epoca cioè del mercato, che seguiva appunto con questi
intervalli, come già ne tenni parola, trattando del Foro Nundinario.

Dapprima i bagni pubblici non furono che edifizj massicci, rischiarati
piuttosto da fessure che da finestre, divisi in tre comparti, o camere,
la _caldaria_, la _tepidaria_ e la _frigida_; nomi che indicano da sè
stessi la loro speciale destinazione. Consistevano del resto allora
semplicemente in ampie vasche in cui poteva ognuno entrare per lavarsi
e nuotare, usanza tolta a prestito agli Spartani; ma, ai tempi di
Pompeo, si eressero luoghi più adatti; quantunque, come già dissi,
la ricercatezza e splendidezza, perfino eccessive, delle Terme, non
si noti che più tardi, cioè sotto di Augusto e de’ suoi voluttuosi
successori.

Per consueto si faceva uso dei bagni prima della cena ed anche dopo i
passeggi, le esercitazioni ginnastiche e il lavoro; il più spesso per
ragion di bisogno, non rado tuttavia per ragione di semplice diletto.
Si giunse a un tempo perfino di eccesso nell’uso di essi; perocchè si
legga che Commodo otto volte il dì si lavasse; Gordiano il giovane e
Remnio grammatico sette volte, e i fannulloni passassero nelle terme la
più gran parte del giorno e della notte; nè ciò si verificasse soltanto
de’ più potenti e ricchi, ma de’ privati ben anco, ivi allettati
viemmeglio dal concorso delle cortigiane; e Plinio perfino rammentò di
schiavi, che vi profondevano ricchezze, quale era il gitto di preziosi
unguenti, di cui pavimenti e pareti rimanevano imbevute.

Seneca — e ciò valga a dimostrare la sontuosità di codesti publici
convegni — in bagni plebei trovò fistole, o condotti di acque, lavorate
in argento, e in quelli di gente libertina vide con giustissima
indegnazione profuse perfin le gemme.

Valerio Massimo e Macrobio attestano che un Sergio Orata avesse
immaginato, a maggiore studio di voluttà, dei bagni pensili.

Così dagli scrittori citansi in Roma le _Balineæ Palatinæ_, poste cioè
sul clivo Palatino; quelle di Mecenate, quelle di Nerone, di Agrippina
nel colle Viminale; di Stefano, ricordate da Marziale nel lib. XI de’
suoi epigrammi, in quello indiritto a Giulio Cereale:

    _Octavum poteris servare, lavabimur una;_
    _Scis quum sint Stephani balnea juncta mihi_[183];

di Novato pur sul Viminale; di Olimpiade; di Paolo; di Policleto e
di Claudio Etrusco, di cui parla Stazio nel lib. I delle _Selve_,
facendone l’entusiastica descrizione, e Marziale suddetto nel sesto
degli _Epigrammi_.

Il qual ultimo poeta fa menzione dei bagni pure di Tucca, di Fausto,
di Fortunato, di Grillo, di Lupo, di Pontico, di Severo, di Peto e di
Tigellino. Del resto è impossibile tener conto di tutti i pubblici
bagni di Roma, se già dal tempo d’Augusto se ne noverassero sin
ottocentocinquantasei, e sotto Antonino, nelle terme da lui costrutte,
vi fossero milaseicento sedili di marmo o di porfido e vi si potessero
riunire fin tremila bagnanti, e tremila e duecento in quelle di
Diocleziano. Il solo Agrippa aprì centosettanta bagni pubblici e volle
fossero gratuiti; oltre che ogni benestante, appena l’avesse potuto,
accostumò aver nella propria casa il proprio bagno particolare.

Con quanta profusione di ricchezza si ornassero questi luoghi ho già
detto e la fantasia appena può immaginarlo. Plinio lasciò ricordato
che nei bagni degli imperatori sul monte Palatino vi fossero vasche
e mobili d’argento nelle sale destinate alle dame. Pitture, statue,
bronzi, mosaici vi abbondavano, nè facea difetto in questi sontuosi
edifizj di tutto quanto potesse solleticare i sensi e ricreare gli
spiriti.

Per farsi ragione di quanto lusso essi fossero, non sia discaro recar
alcuni versi del succitato Stazio, ne’ quali parla dei bagni, che ho
pur più sopra mentovati, di Claudio Etrusco.

    _Non huc admissæ Thasos, aut undosa Charistos,_
    _Mœret onyx longe quæriturque exclusus Ophites:_
    _Sola nitet flavis Nomadum decisa metallis_
    _Purpura, sola cavo Phrygia quam Synnados antro,_
    _Ipse cruentavit maculis lucentibus Atys,_
    _Quasque Tyros niveas secat, et Sydonia rupes._
    _Vix locus Eurotæ viridis, cum regula longo_
    _Synnada distincta variat non lumina cessant,_
    _Effulgent cameræ, vario fastigia vitro_
    _In species animosque nitent. Stupet ipse beatas_
    _Circumplexus opes, et parcius imperat ignis._
    _Multus ubique dies radiis ubi culmina totis_
    _Perforat, atque alio sol improbus uritur æstu._
    _Nil ibi plebeium, nusquam Temesea notabis_
    _Æra, sed argento felix propellitur unda_
    _Argentoque cadit, labrisque nitentibus instat,_
    _Delicias mirata suas et abire recusat_[184].

Ma perchè non si creda che il Poeta vi abbia aggiunto del proprio,
ascoltiamo Seneca, nel passo al quale ho superiormente fatto cenno,
che sembra essersi incaricato di trasmetterci le notizie di tutti i
raffinamenti del lusso spiegati nei bagni, istituendo un paragone
fra il presente e il passato con viva ed energica pittura e non
dissimulando l’aspirazion sua verso l’antica semplicità.

È la vista della villa di Scipione a Literno che gli detta le seguenti
considerazioni. «Io vidi, scrive egli, il bagno piccolo, oscuro e
tenebroso, secondo il costume de’ nostri maggiori: credevano essi
necessario per aver caldo, che non ci si vedesse molto. Fu gran piacere
per me di mettere a raffaccio i costumi di Scipione coi nostri. È in
questo tetro asilo che quell’eroe, il terror di Cartagine, lavava
il proprio corpo, stanco dalle fatiche della campagna. Oggi chi
consentirebbe a bagnarsi così? Si crederebbe versare nell’indigenza,
se le pietre preziose, regolate da abile scalpello, non risplendessero
da tutte parti sui muri; se i marmi d’Alessandria non fossero
interamente incrostati di marmi numidi, se la volta non fosse di
vetro, se le piscine non recinte da marmo di Taso, meraviglia codesta
riservata un tempo appena a qualche tempio privilegiato, se l’acqua
non iscendesse da canne d’argento. E io non parlo finora che di bagni
plebei; ma che sarà se passiamo in quelli de’ liberti? quante statue,
quante colonne che sostenevano nulla, ma vi son collocate solo per
ornamento dell’edifizio! Tale è oggidì la nostra delicatezza, che
noi non permettiamo a’ nostri piedi che di calpestar pietre preziose.
Nei bagni di Scipione non trovansi che piccole fessure per finestre:
oggi invece si dice d’un bagno: è un antro, se non è disposto in
guisa di accogliere a mezzo di immense finestre il sole durante
tutta la giornata, se dalla vasca non si scorgono le campagne ed il
mare. In addietro si contava picciol numero di bagni, ed essi erano
assai poco ornati: perchè, infatti, spiegare della magnificenza in
edificj in cui s’entrava col pagamento d’un quadrante e che erano
destinati all’utilità piuttosto che al piacere? L’acqua non vi cadeva
già a cascate e non si rinovellava senza interruzione: quanto non
si troverebbe grossolano di non aver introdotto la luce nel suo
_caldarium_ a mezzo di larghe pietre speculari e di non essersi
proposto di digerire nel bagno! Oh lo Sciagurato! ei non sapeva
vivere! Non si bagnava già in un’acqua limpida e calma, ma torbida il
più spesso e limacciosa! ma poco a lui ciò caleva; perocchè egli colà
traesse a lavare i suoi sudori, non i proprj profumi. Che direste voi
dunque se sapeste com’ei non si bagnasse già tutti i giorni, non più
de’ suoi contemporanei? Oh gli uomini sucidi, direste voi! — ma lo si
è diventati di più da che i bagni si sono moltiplicati. Che mai dice
Orazio per dipingere un uomo screditato dagli eccessi del suo lusso?
_Ch’ei pute di profumi_. Scipione putiva di guerra, di fatica, di eroe.
Scegliete fra Rufillo e Scipione.»

Ma se così erano i bagni pubblici e privati, faccia ragione il lettore
che dovessero essere le terme, se a’ bagni fu sempre assegnato un
significato più semplice e più modesto, e alle terme si applicò
per contrario quello d’una magnificenza maggiore e d’una più grande
estensione.

Le rovine che tuttavia sussistono gigantesche fanno fede di ciò e
giustificano la sentenza d’Ammiano: _Lavacra in modum provinciarum
exstructa_, quasi le terme emulassero in vastità, non che le città,
le intere regioni. Infatti si vuole che le terme di Settimio Severo
occupassero uno spazio di centomila piedi quadrati.

Ma come, dirà naturalmente il lettore, poteva il solo corpo delle terme
occupar tanto spazio? Nelle terme, oltre le piscine, o gran vasche per
nuotare allo scoperto e i battisterii pei bagni freddi a immersione,
eranvi celle pei bagni particolari, portici e xisti, specie di giardini
alberati, per le passeggiate, sferisterii o sale per giuocare alla
palla, conisterii o stanze co’ pavimenti di sabbia onde stropicciare i
corpi unti dei pugili, teatri per rappresentazioni drammatiche, circhi
per ludi gladiatorj, esedre per conferenze filosofiche e letture di
poemi, palazzi e templi, biblioteche ed efebei, o luoghi destinati
alla educazione della gioventù, e tali e tanti altri edificj che agli
imperiti venne poscia autorità di chiamar col nome di terme i più
cospicui monumenti che rimangono dell’antico.

Si fecero terme estive e terme jemali, che Gordiano insegnava erigere
nella medesima località; ma prevenuto da morte, non potè recare ad
effetto. Aureliano le fabbricò poi in Trastevere ed aperte prima tutte
soltanto di giorno, poscia si resero accessibili anche di notte.

Ecco ora, secondo l’ordine di loro anzianità, le più celebrate terme di
Roma:

Prima quelle di Agrippa, che Plinio, alla cui _Storia Naturale_ son
costretto sempre a ricorrere, chiamò fra i precipui ornamenti della
città: ebbero archi e pavimenti di vetro e le migliori commodità.

Seguon quelle di Nerone, delle quali Marziale, nell’epigramma 34 del
lib. VII, disse il maggior elogio, come del loro signore rese la più
trista testimonianza:

                   _Quid Nerone pejus?_
    _Quid thermis melius Neronianis?_[185]
quelle di Tito, alle quali accenna il medesimo Marziale nell’epigramma
20 del lib. III:

    _Titi ne thermis an lavatur Agrippæ?_
      _An impudici balneo Tigellini?_[186]

quelle di Domiziano, quelle di Trajano, quelle di Severo e quelle di
Antonino, di tanta mole codeste ultime ed artificio che, se vuolsi
aggiustar fede a Sparziano, eziandio dotti architetti negassero prima
potersi di tal modo costrurre.

Vengono altresì le terme dette Siriache; le terme di Alessandro; quelle
di Gordiano sontuosissime; di Filippo, di Decio, di Aureliano e di
Diocleziano. Queste occuparono buona parte del Viminale, e dalle loro
imponenti rovine si argomentarono e i fornici altissimi e le ammirabili
colonne e tutta la imponenza degli altri edificj.

Finalmente si rammentano le terme di Costantino nel Quirinale,
un fornice delle quali ascendendo Giorgio Fabricio, vi giunse ad
annoverare quasi cento gradini[187].

Come poi fossero, per così dire, divenute obbligatorie le splendidezze
ed il lusso maggiori in cosiffatti stabilimenti, ce lo ha già appreso
quel passo di Seneca, che ho superiormente riferito.

Or si comprende adunque come tanta parte degli antichi capolavori
dell’arte greca pervenuti infino a noi e che formano i principali
ornamenti e vanti dei nostri musei e gallerie, si avessero a ritrovare
nelle terme. Il gruppo del Laocoonte si rinvenne in quelle di Tito;
l’Ercole e il Toro Farnese, il Torso di Belvedere, la Flora Farnese,
i due Gladiatori e il gruppo di Dirce legata da Zeto e Anfione ad un
toro selvaggio, si scoprirono nelle Antoniniane, dette altrimenti di
Caracalla, opere tutte che si conservano nel Museo Nazionale di Napoli.
Si comprende eziandio come avesse potuto Michelangelo una sola stanza
delle Terme Diocleziane, tramutar nella Chiesa di Santa Maria degli
Angeli la più grande in Roma, dopo quella di S. Pietro.

Delle terme Antoniniane o di Caracalla, l’architetto Pardini sui ruderi
esistenti ne ricostruì il disegno primitivo, onde è dato di ricordarne
le parti alla maggiore intelligenza di tali stabilimenti, ed io lo
farò, ajutandomi con quanto ne ha pur fatto il De Rich: perocchè
suppergiù sieno le altre terme egualmente conformate[188].

Una colonnata corre lungo tutta la facciata e fronteggia la strada:
sarebbe stata annessa alla fabbrica primitiva sotto Eliogabalo in
parte e compiuta sotto Alessandro Severo. Dietro tale colonnata evvi
una fila di celle con un apoditerio o spogliatojo annesso a ciascuna
per uso delle persone che non amavano di bagnarsi in pubblico. Nel
mezzo della fronte s’apre l’ingresso. Tre corridoi semplici intorno al
corpo centrale dell’edifizio, con un doppio corridoio dal lato ovest,
ristaurati dal detto Pardini secondo il modello del ginnasio d’Efeso
benchè non ne rimanga ora veruno; pur senza di essi vi sarebbe stato
manifestamente un vuoto che conveniva riempire. Da ambo i lati della
generale costruzione stanno le _exedræ_, ove sedevano e conversavano
insieme filosofi e letterati, costruite con un abside semicircolare
che dal lato sinistro tuttavia si conserva e intorno alla quale erano
disposti i sedili. Nel mezzo di tale abside vi sono i corridoi conformi
alli xisti greci, con terreni per esercizj sul davanti e che avevano
alle due estremità una stanza separata, che serviva probabilmente a
qualcuno degli esercizj o giuochi di provenienza greca. Fra questi
xisti, dall’uno all’altro vi erano praticati passeggi scoperti
(_hypetræ ambulationes_) piantati d’alberi e arbusti e con ispazj
vuoti nel mezzo per gli esercizj del corpo. Nella parte postica dello
stabilimento è delineato lo stadio, con sedili all’intorno, dove gli
spettatori prendevano diletto alla corsa e agli altri esercizj, che
vi si facevano; quindi anche il nome di _theatridion_. Le costruzioni
dietro lo stadio contengono serbatoi di acqua e fornelli al di sotto,
che riscaldavano l’acqua pei bagni fino ad una certa temperatura, prima
che fosse travasata da tubi nelle caldaje immediatamente contigue alle
stanze dei bagni. Quanto alle altre stanze situate in questa estremità
dell’edifizio non saprebbesi determinarne in modo autentico l’uso
speciale, dove non servissero all’uso della ginnastica, essendo appunto
prossime ai posti o terreni destinati alla medesima.

Il corpo centrale del fabbricato conteneva le stanze del bagno, alcune
delle quali serbano tuttavia qualche traccia della loro destinazione
così da potersene con fiducia assegnar l’uso ed il nome; quindi la
_natatio_, ossia una gran vasca da potervi nuotare, fiancheggiata
da ogni parte da una serie di stanze che servivano da apoditerj e
da camere per gli schiavi, _capsarii_, che prendevano cura delle
vestimenta deposte da coloro che si bagnavano; il _caldarium_ con
quattro bagni di acqua calda, _alvei_, ad ogni angolo, e un _labrum_,
o gran vaso a fondo piatto per l’acqua, onde spruzzarsi il volto
nell’altezza della temperatura, da ciascuno de’ due grandi lati. Le
stanze che seguivano appresso contenevano il _laconicum_, o bagno
a vapore, a cui probabilmente serviva la camera circolare, posta
propriamente nel centro dell’edificio. Avanti di essa, ai lati pure,
stavano cisterne d’acqua alimentate dai serbatoi posti all’estremità
opposta. Due grandi spazj vicini ai corridoi laterali valevano di
stanze coperte per passeggiarvi nel tempo cattivo e di sferisterii,
o sale pel giuoco della palla, a cui si davano con molto ardore i
Romani; quelle che si trovano più oltre, sotto un doppio portico
erano due bagni freddi a immersione, _baptisteria_, con una stanza per
ugnersi, _elæothesium_, e una camera fresca, _frigidarium_, egualmente
da ciascun lato. Nel suo complesso la fabbrica occupa un’area d’un
miglio di circonferenza, o 1851 metri. Il corpo centrale aveva inoltre
un piano superiore, dove probabilmente dovevano essere biblioteche e
gallerie di quadri.

Per ciò che spettano all’argomento delle Terme, non dimenticherò di
dire ora una parola de’ Ninfei. Che si fossero veramente, è controverso
ancora: due principali sono i significati che vi si assegnano. Il
Monaco Zonara, che scrisse intorno agli Imperatori Greci, vorrebbe i
Ninfei essere stati pubblici palazzi, nei quali si celebrassero nozze
e che venissero aggiunti ai massimi palagi a seconda del bisogno:
altri opinano invece che fossero luoghi pubblici di piacere, nei quali
venissero bensì derivate le acque, ma non per terme e bagni, ma solo
per ragione di amenità, traendo il nome dalle statue delle ninfe, di
cui più sovente solevansi adornare. Ma non consta di meglio circa il
loro uso, nè circa la loro forma, variando assai gli scrittori di cose
antiche nel dir di tutto che spetta a cotali edificj; pare nondimeno
non avessero a mancare d’una certa importanza, se gli stessi imperatori
gli ebbero a edificare; onde Ammiano faccia menzione del Ninfeo di
Marco come d’opera ambiziosa, Publio Vittore di quello di Alessandro,
e Capitolino di quello di Gordiano, per non dire d’altri. Degli
antichi ninfei non è superstite vestigio di sorta: solo il già citato
Giorgio Fabrici, nella sua Roma, descrive liberamente un ninfeo nella
villa Leucopetrea fra Napoli e il Vesuvio, ma non recano maggior luce
nell’argomento.

L’opinione più generale è per la seconda ipotesi, che de’ ninfei fa
un fresco ed aggradevole recesso, e come i sunnominati scrittori ne
collocarono il tema nel dir delle terme; ho voluto pur io seguitarne
l’esempio; avvalorato a questo dall’aver trovato nel Codice Teodosiano
il titolo _Quid in publicis thermis, quid in nympheis pro abundantia
civium conveniat deputari_, e nello stesso luogo aver letto: _Malumus
aquæductum nostri palatii publicarum thermarum ac nympheorum
commoditatibus inservire_[189], i quali testi, terme e ninfei
confondono in un solo interesse. Vi pone suggello l’antica iscrizione
scolpita sul margine di un fonte:

                              NYMPHÆ LOCI
                             BIBE LAVA TACE

Ora naturale discende dal fatto della esistenza, molteplicità e
suntuosità di tutte queste istituzioni l’indagine del come e terme e
bagni pubblici e privati e ninfei venissero provveduti convenientemente
di acqua, molto più in quelle città, nelle quali si doveva, per la loro
situazione, difettare.

Era tutta una scienza, che procaccerò di spogliare di sua rigidezza,
per non dirne che storicamente di sua applicazione.

Roma per lungo tempo non ebbe altra acqua che quella del suo Tevere
e di qualche sorgente nativa; ma accresciuta la città, e distanti di
soverchio i suoi colli dal fiume, nell’anno 441 di sua fondazione, per
opera di Appio Claudio Censore, quello stesso che istituì il sistema
di eseguir le strade, _viæ stratæ_, avvisò al modo di condurvi l’acqua
per tubi, canali e fornici laterizii. L’acqua Appia vi venne pel corso
di circa undici miglia condotta. I bisogni pel bevere, per i bagni,
per le fulloniche, per le naumachie e pei circhi, consigliarono nuovi
acquedotti; onde se ne contarono ben quattordici, e Publio Vittore ne
numerò venti; così che quasi ogni casa potè derivarne a’ proprii usi
con fistole e canali, e Plinio avesse a notare: _Si quis diligentius
æstimaverit aquarum abundantium in publico, balneis, piscinis, domibus,
euripis, suburbanis villis, spatioque advenentium extructus arcus,
montes perfossos, convalles æquatas, fatebitur, nihil magis mirandum
fuisse in toto Orbe terrarum_[190].

E destano infatti tuttavia la maraviglia nostra quegli avanzi degli
arditi acquedotti romani costituiti da più ordini d’archi l’uno
all’altro sovrapposti, contribuendo nella loro magnificenza a mantener
l’antonomasia d’opera romana allorchè si voglia significare un’opera
gigante, maravigliosa, per non dir quasi impossibile. Questi superbi
acquedotti trasportavano perfino tre separati corpi di acque in tre
canali uno sovra dell’altro.

Nè Roma soltanto intese alla costruzione degli acquedotti, ma nella
più parte delle colonie e nelle maggiori castella eziandio; tanto
la commodità si era venuta ingenerando come una vera necessità. Chi
volesse poi conoscerne di più e saperne tutte le minute particolarità,
consulti l’opera di Sesto Giulio Frontino _De aquæductibus urbis Romæ
Commentarius_; e per informarsi delle opere nelle colonie, vegga la
dotta memoria del conte Giovanni Gozzadini _Intorno all’acquedotto ed
alle terme di Bologna_. Più innanzi dirò del come le Terme e le fontane
publiche e le case si provvedessero d’acqua in Pompei.

Non va per altro taciuto, onde assolvere possibilmente questo
subbietto, degli immensi e dispendiosi serbatoi e laghi che per gli
acquedotti si vennero facendo. Plinio summentovato ne fa stupire allor
che memora: _Agrippæ in ædilitate sua, adjecta Virgine aqua, cæteris
corvisatis atque emendatis lacus 700 fecit, præterea salientes 105,
castella 130; complura etiam cultu magnifica. Operibus in signa 300
ænea aut marmorea imposuit, columnas ex marmore 400: eaque omnia annuo
spatio_[191].

Occorre poi a conoscere l’importanza che all’acqua ed acquedotti
aggiungevasi da’ Romani, riferire da Frontino suddetto quanto venisse
provveduto alla loro custodia.

Due classi o famiglie d’inservienti vi erano preposte: l’una del
pubblico, l’altra di Cesare. Più antica la prima, che fu da Agrippa
legata ad Augusto e da questi attribuita al pubblico e pagata
dall’erario, componevasi di circa 240 persone: il novero della famiglia
di Cesare era di 460 e questa stabilita fin da’ primordj in cui si
guidò l’acqua in Roma da Appio Claudio. L’una e l’altra famiglia
impiegavasi in varia specie d’amministrazione: v’erano i villici,
(_villici_), i ministri de’ castelli (_castellarii_), i riportatori
(_circuitores_), i selciatori (_silicarii_), gli incrostatori
(_tectores_) ed altri artefici (_opifices_). Su tutti costoro era il
soprintendente (_Curator_); e lo stesso Frontino fu alla sua volta,
sotto di Nerva, Curatore alle acque, onde ne potè scrivere con maggiore
cognizione di causa. E questi, dice egli, _ideoque non solum scientia
peritorum sed et proprio usu curator instructus esse debet, nec suæ
tantum stationis architectis uti, sed plurium advocare non minus
fidem, quam subtilitatem, ut æstimet, quæ repræsentanda, quæ differenda
sint; et rursus quæ per redemptores effici debeant, quæ per domesticos
artifices_[192].

E ne fa sapere lo stesso Frontino che a codesti curatori delle acque
furono dati anche ajutatori (_adjutores_), concedute insegne d’onore
come a’ magistrati ed anzi intorno alla loro magistratura reso un
decreto dal Senato, consoli essendo Quinto Elio Tuberone e Paolo Fabio
Massimo, per il quale allorquando essi fossero, per cagione del loro
ufficio, fuori di Roma, potessero aver seco due littori, tre servi del
publico, un architetto, scrivani (_scribæ_) e copisti (_librarii_),
sargenti (_accensi_) e banditori (_præcones_), tanti, quanti ne hanno
per l’ordinario due deputati alla dispensa del grano alla plebe, e
dentro Roma, quando per cagione del medesimo affare operassero qualche
cosa, potessero valersi di tutti gli stessi ministri, eccetto che de’
littori.

Toccato fin qui d’ogni tema attinente le Terme, vediamone
l’applicazione allo speciale soggetto nostro di Pompei.

Quivi Terme, quivi bagni pubblici e privati, quivi ninfei e fontane
publiche ed aquedotti e comunque le proporzioni sieno di gran lunga
inferiori a quelle degli eguali stabilimenti che ho ricordato di
Roma, in ragione cioè della minore importanza, vastità e quantità di
popolazione; pur nondimeno ogni parte serbando di esse e soddisfacendo
ad ogni bisogno creato dalle costumanze termali, ponno essere di grande
utilità nei loro interessanti avanzi, per la spiegazione di tutto che
si riferisce all’argomento e quasi alla completa storia del medesimo.

Sulla scoperta delle Terme si contava indubbiamente fin dal primo
momento che si pose la mano agli scavi. Era impossibile che altrimenti
fosse. Una città dove era stata dedotta una colonia romana, dove
necessariamente erano stati importati costumi e abitudini greche dai
primi abitatori e da’ suoi abituali frequentatori, e costumanze romane
dai nuovi arrivati, terme e bagni dovevano essere d’obbligo: dipendeva
quindi unicamente di vedere in qual tempo si sarebbero trovate.

Fin dal primo marzo 1749, lo che è dire intorno al principio degli
scavi pompejani, come ne fa sapere l’illustre Fiorelli, nella sua
_Pompejanarum Antiquitatem Historia_[193], lungo la via dei Sepolcri,
nella casa che si dice di Cicerone, della quale ho già nei capitoli
della storia favellato, si rinvenne nella nicchia d’un’ara una lapide,
su cui fu letta la seguente iscrizione:

                                THERMAE
                            M. CRASSI FRVGI
                          AQVA MARINA ET BALN.
                      AQVA DVLCI IANVARIVS L.[194]

Fu questo il primo cenno delle Terme, ma queste terme nondimeno di
Marco Frugio sono ancora un desiderio, che sperasi appagheranno i
futuri scavi.

Invece nel luglio 1824, nella vicinanza del Foro civile si fece la
preziosa scoperta delle Terme publiche, nelle quali, se non si ammira
la magnificenza delle arti e la profusione della ricchezza e del lusso,
trovasi in ricambio una semplicità ed una squisita eleganza. Secondo
l’idea che ne fornii più sopra, direbbonsi queste piuttosto _Balineæ_
che _Thermæ_, molto più se si pon mente alla poca ampiezza dello
stabilimento, motivata dall’essere nel punto centrale e più frequentato
della città, e dove per conseguenza il terreno indubbiamente doveva
essere più limitato e costare più caro.

Ad ogni modo merita che ne somministri ogni particolarità.

L’edifizio aveva sei ingressi dalla strada, di cui i due principali
davano uno sulla via del Foro e l’altro nella Piazza detta delle Terme.
Tre servivano per i bagnanti, due per gli schiavi e pel servizio dello
stabilimento e l’ultimo per le donne. È notevole che nessuno di questi
ingressi fosse in linea diretta: ciò toglieva che le correnti d’aria
penetrassero troppo vivamente nel luogo de’ bagnanti e forse impediva
eziandio l’indiscrezione de’ passanti per la via summentovata dove
s’aprivano anche le porte minori.

Presso ciascuno dei due ingressi principali eravi una latrina. Subito
dopo il primo v’era un cortile circondato da un colonnato su tre lati,
che formava una specie di _Atrium_. Lungo un lato di esso stavano
sedili di sasso, _scholæ_, per chi stava aspettando quelli che uscivano
dal bagno.

Sulla parete meridionale si lesse dipinto l’annunzio di una gran festa
data nell’Anfiteatro, nell’occasione che venivano inaugurate le terme,
a spesa di Gneo Allejo Nigidio Majo.

                                  MAIO
                     DEDICATIONE PRINCIPI COLONIAE
                               FELICITER
                 THERMARVM MVNERIS CN. ALLEI NIGIDI MAI
              VENATIO ATHLETAE SPARSIONES VELA ERVNT[195]

Dietro di essi era una camera appartata, in cui forse stava, se pur
non era in quelle due camere laterali dei principali ingressi, nelle
quali altri supposero esistere latrine, il _balneator_, o direttore
del bagno, che riceveva il pagamento d’un quadrante o quarto di asse,
se eguale devesi ritenere la misura in Pompei a quella che si pagava
in Roma per accedere a’ bagni, giusta quel che ne disse Orazio nella
satira terza del libro primo:

    . . . . _dum tu quadrante lavatum_
    _Rex ibis_[196].

Presso la seconda porta principale eravi un corridoio che riusciva
all’_apodyterium_, che sappiamo essere la camera da spogliarsi,
come suona la parola d’origine greca ἀποδυτήριον, dal verbo
ἀποδύομαι, _spogliarsi_, detta anche più latinamente _spoliatorium_ e
_spoliarium_. Questo _apodyterium_ pompejano ha opportunamente molte
porte, quante cioè son le camere destinate ai bagni caldi e freddi alle
quali appunto esso introduceva. Eranvi pure disposti sedili in muratura
per comodo de’ bagnanti. In fondo stava la guardaroba, o stanza di
custodia del vestiario che si deponeva durante il bagno, e vegliavasi
dai _capsarii_. Anche in Roma ognuno che traeva alle terme doveva
spogliarsi nell’_apodyterium_ ed entrar nudo nelle altre località;
savia precauzione tendente ad ovviare alle sottrazioni delle ricchezze
in fregi, pietre preziose, oggetti di toeletta e dalle cento altre
bazzicature occorrenti a tutte le operazioni attinenti i bagni.

Di contro stava il _frigidarium_ o bagno d’acqua fredda: gabinetto
ovale assai grazioso, con vasca circolare rivestita di marmo, sul
cui bordo è un gradino per entrarvi: dallato il _tepidarium_, o come
esprime la parola, la camera ad ambiente tiepido, così mantenuto da un
braciere, _foculare_, che vi si rinvenne di bronzo e valeva a graduare
la temperatura dal caldo al freddo, quando si passava dal _caldarium_,
o camera termale che fiancheggiava appunto il _tepidarium_, all’aria
aperta.

Talvolta però il balneante dal _caldarium_ non s’arrestava
nel _tepidarium_, ma transitandolo rapidamente, lanciavasi nel
_baptisterium_ del _frigidarium_, perocchè si avesse fede che ciò
valesse a rendere florida ed a fortificare la pelle, come lo attestano
i versi di Sidonio Apollinare:

    _Intrate algentes post balnea torrida fluctus,_
    _Ut solidet calidam frigida lympha cutem_[198]:

è l’odierno sistema idropatico, principalmente nei bagni russi.

Nel _tepidarium_ pompejano si trovarono pure tre sedili di bronzo su
cui sedevano indubbiamente gli avventori quando usciti dalla camera
del bagno caldo si sottoponevano alla operazione dei _tractatores_,
che erano schiavi adetti ai bagni, il cui ufficio era di stropicciare
il bagnante finchè non fosse ben asciutto, di ben raschiarne la
traspirazione della pelle fatta più abbondante dal vapore e i corpi
eterogenei, a mezzo dello _strigile_, arnese ricurvo di ferro o di
bronzo, il cui filo rendevasi talvolta più dolce linendolo d’olio, e
le buone fortune dei quali sono rammentate da Giovenale, nella satira
VI. alla quale rimando il curioso lettore; perocchè la parola italiana
è alquanto più della latina pudica, e mal si presterebbe alla lestezza
dell’acre e spregiudicato poeta satirico. Eranvi poi gli _aliptes_
che dopo ungevano con unguenti odorosi e profumavano; e le pareti del
_tepidarium_ hanno piccole cavità tutto all’intorno che dovevano essere
altrettanti ripostigli e di quelli stromenti e di quelli unguenti ed
aromi.

Su quei sedili si lesse la seguente iscrizione:

             M. NIGIDIVS VACCVLA. P. S. (pecunia sua)[199].

Nella camera termale o _caldarium_ era da una parte il bagno
d’acqua calda detto _alveus_ e dall’altra il _laconicum_, o alcova
semicircolare, riscaldata da una fornace e da tubi, _hypocausis_, sotto
il pavimento e attraverso le pareti praticate espressamente vuote.
Fu detto _laconicum_, perchè l’uso ne fu dapprima introdotto fra i
Lacedemoni, e nel pompejano di cui parlo stava in mezzo il _labrum_,
di cui spiegai lo scopo più sopra; ch’era cioè là vasca a fondo piano
che conteneva l’acqua della qual s’aspergeva il balneante mentre gli
si raschiava il sudore prodotto dalla temperatura elevata a cui eran
mantenute le stanze, e immediatamente su di essi v’era un’apertura,
_lumen_, che poteva esser chiusa od aperta con un disco di metallo
detto _clipeus_, sospeso mediante catene, secondo si fosse voluto
abbassare od elevare il grado di calore, come è indicato da Vitruvio.
Tre finestre quadrate si veggono nella vôlta del _laconicum_ ed eran
chiuse con vetri, _lapis specularis_, e vietavano l’entrata dell’aria.
La seguente iscrizione venne decifrata sui bordi del bacino, scrittavi
in lettere di bronzo:

                GN. MELISSARO GN. F. APRO. M. STAIO. M.
              F. RVFO II. VIR. ITER. I. D. LABRVM EX D. D.
               EX P. P. F. C. CONSTAT H. S. DCC. L.[200]

Tutte le altre località minori valevano al servizio dei bagni.

La rimanente porzione dell’edificio è occupata da un altro appartamento
distribuito sull’identico principio che ho esposto, avente un solo
ingresso, e serviva, secondo l’opinione di molti, per i bagni separati
delle donne. Esso era più piccolo di quello destinato agli uomini, ma
non appariva in ricambio nè più elegante nè più grazioso: dal primo
tempo di loro scoperta furono detti _bagni rustici_ e si credettero
destinati invece alla povera gente.

Ricordo qui come per gli scavi venissero in questi bagni trovati un
materozzolo di quattro strigili, un vaso di profumi ed uno specchio, il
tutto in bronzo, e si conservano tuttavia nel Museo.

In quanto a ornati e cose d’arte, nel _frigidarium_ si notò un fregio
in istucco rappresentante carri ed amori pieni di espressione; e nel
_tepidarium_ una sequela di piccoli atleti, detti telamoni, in terra
cotta che simulano sforzo per sostegno della cornice che posa sulla
loro testa. La vôlta poi è lavorata a cassettoni dipinti in rosso e in
azzurro; in ciascuno, de’ bassi rilievi leggiadri esprimenti Cupido che
s’appoggia sul suo arco, Amorini a cavalcione di mostri marini, altri
guidanti delfini o ippogrifi, o suonanti de’ timpani, un centauro,
un Pegaso, un Ercole fanciullo seduto sul leone, e dappertutto poi si
vedono festoni con ghirlande di fiori.

_Frigidarium, tepidarium_ e _caldarium_ hanno egualmente bei pavimenti
di musaico.

Il lettore non ci vorrà pertanto negar ragione di aver detto di questi
bagni o terme come si vogliano chiamare, che se non avevano tutta
l’esorbitanza della magnificenza e del lusso delle più celebri terme di
Roma, spiccavano nondimeno per i pregi della migliore semplicità e per
l’eleganza.

La descrizione delle singole parti dei Bagni Publici che ho appena
terminata, mi renderà più spiccio nel dire delle Terme Stabiane, così
appellate dal ritrovarsi esse sulla via detta di Stabia.

Questo grande stabilimento è isolato da tre lati e v’ha chi con assai
buona ragione sostiene che fossero bagni più antichi de’ precedenti che
abbiamo visitato. Qualche argomento in proposito avverrà di trovare più
avanti.

Intanto ci arresta a prima giunta una particolarità che non han gli
altri bagni, una palestra, cioè, o più propriamente un ginnasio;
perocchè la _palæstra_ fosse il luogo dove gli atleti che dovevano
esporsi ne’ ludi publici si esercitassero nel pugilato e nella lotta,
mentre il _gymnasium_ fosse un luogo imitato da quell’istituto di
Grecia, nel quale la gioventù si procurava ricreazione ne’ giuochi ed
esercizi corporali. Pressochè ogni città greca aveva il suo ginnasio: i
resti di quello di Efeso stanno a ricordanza di quella istituzione, che
presto divenne in Roma e nelle altre città che si reggevano a forma di
Roma una parte interessante, direi quasi indispensabile di ben ordinate
terme.

Quante maniere di comodi avesse un ginnasio lo si apprenda da Vitruvio.

«Nella palestra dunque si fanno i porticati quadrati, o bislonghi che
sieno in modo che il giro attorno sia un tratto di due stadii, che i
Greci chiamano δίαυλον: tre di questi portici si fanno semplici, e il
quarto che riguarda l’aspetto di mezzogiorno, doppio, acciocchè nelle
pioggie a vento non possa lo spruzzo giungere nella parte interiore.
Ne’ porticati semplici vi si situano scuole (_exedræ_) magnifiche con
de’ sedili, nei quali stando a sedere possano fare le loro dispute i
filosofi, i retori e tutti gli altri studiosi.

«Nel porticato doppio poi si situano questi membri. Nel mezzo
l’Efebeo[202]: questa è una scuola grandissima con sedili e deve
essere lunga un terzo più della larghezza: a destra il Coriceo[203]:
immediatamente appresso il Conisterio[204]: appresso a questo, appunto
nell’angolo del portico, il bagno freddo da’ Greci detto λοὒτρον: a
sinistra poi dell’Efebeo l’Eleotesio[205]: accanto all’Eleotesio il
Frigidario: da questo, e giusto nell’altro angolo del portico, il
passaggio del Propnigeo[206]: accanto, ma d’altra parte intorno e
dirimpetto al Frigidario, viene situata una stufa a vôlta (_concamerata
sudatio_) lunga il doppio della larghezza: questa tiene ne’ cantoni
da una parte il Laconico e dirimpetto al laconico il bagno caldo. I
porticati dentro la palestra debbono essere distribuiti con quella
perfetta regola che abbiamo detta altrove.

«Al di fuori poi si fanno tre porticati, uno all’uscio della palestra,
i due altri stadiati[207] a destra e a sinistra: di questi quello che
guarda il settentrione, si faccia doppio e spazioso, l’altro semplice,
ma in modo che tanto dalla parte del muro, quanto dalle colonne vi
resti un tratto come una viottola, non meno larga di dieci piedi,
il mezzo sia sfondato per un piede e mezzo dalla viottola al fondo;
al quale si scende per due scalini: il piano del fondo non sia meno
largo di dodici piedi. In questo modo coloro che vestiti passeggeranno
intorno per la viottola non saranno incomodati da lottatori unti che si
esercitano. Questo portico si chiama da’ Greci ξὐστὸς[208] perchè vi si
esercitano i lottatori in stadii coperti ne’ tempi di inverno.

«I sisti poi si fanno in questo modo: hanno fra due portici a piantarsi
boschetti o platani, e in essi viali spalleggiati da alberi con de’
riposi fatti di smalto. Accanto al sisto ed al porticato doppio si
lascino i passaggi scoperti, che i Greci chiamano παρκὸρομίδας, e noi
chiamiamo sisti, ne’ quali anche d’inverno, ma a ciel sereno, escono
dal sisto coperto ad esercitarsi i lottatori. Dietro a questo sisto vi
vuole uno stadio fatto in modo che vi possa stare molta gente con agio
a vedere i lottatori[209].»

Il Ginnasio in Pompei, chiamavasi _palæstra_, come di questa voce
si serve pure Vitruvio nella citazione che ho finito di fare. Tanto
si raccoglie da un’antica iscrizione, incisa su d’una tavoletta di
travertino, trovata in una sala di questi bagni il 15 maggio 1857,
secondo si rileva dalla succitata opera del commendatore Fiorelli e che
suona così:

             C. VVLIVS C. F. P. ANINIVS C. F. II. V. I. D.
                       LACONICVM ET DESTRICTARIVM
                   FACIVND . ET PORTICVS ET PALAESTR.
                    REFICIVNDA LOCARVNT EX D. D. EX
                      EA PEQVNIA QUOD EOS E LEGE.
                       IN LVDOS AVT IN MONVMENTO
                       CONSVMERE OPORTVIT FACIVN.
                    COERARVNT EIDEMQVE PROBARV[210].

Questa iscrizione ci apprende doversi ai duumviri Cajo Vulio e Publio
Aninio la ricostruzione di questa palestra; ma non è sufficiente a
dirci se tale rifacimento fosse a seguito delle rovine cagionate dal
tremuoto del 63; perocchè si voglia anzi dalla natura dei caratteri
impiegati, inferirne anzi una data d’un secolo e mezzo prima.

Ma se questo fosse, come conciliare tal fatto con quanto afferma
Vitruvio prima del brano che ho testè riferito; _nunc mihi videtur,
tametsi non sint italicæ consuetudines, palæstrarum ædificationes
tradere explicata et quemadmodum apud Græcos constituantur
monstrare_[211], e con cui si vorrebbe escludere che al tempo di questo
illustre architetto e scrittore non fossero in Italia conosciute le
palestre? Or ritenendosi comunemente non potervi esser dubbio ch’egli
abbia vissuto e fiorito sotto il regno d’Augusto, al quale egli dice
nella Prefazione dell’Opera sua d’essere stato raccomandato dalla
sorella di lui, non è possibile accogliere l’illazione dedotta dagli
archeologi che l’iscrizione possa rimontare a tanto tempo addietro.
Del resto l’impiego di più vetusti caratteri non può addursi a prova
irrecusabile; perocchè potrebbe essere stato un vezzo di chi li usò,
come usiamo far pur di presente.

La palestra pompejana era decorata di portici, doveva avere la sua sala
di giuoco alla palla, sferisterio, se vi si trovarono ancora de’ globi
di pietra, che avevano servito appunto al giuoco della sfera, al quale
la gioventù si esercitava per acquistare forza ed elasticità di membra.

L’ingresso principale è dal lato di mezzogiorno, e presso di esso
nel vestibolo, si ammira una bella scultura romana rappresentante
un Termine sotto le forme d’una figura di donna molto elegantemente
palliata.

Dal manco lato evvi un’ampia piscina pei balneanti; intorno ad essa
son disposte diverse camerette per l’uso di essi. Una fra l’altre
si distingue per eleganza di pittura e per una nicchia rettangolare
destinata certo a contenere l’immagine di qualche divinità protettrice
del luogo. Questa nicchia è fiancheggiata da due cariatidi che
sostengono un bacino ed all’ingiro è dipinta una zona a scomparti,
interrotta da paesaggi con pigmei e delfini.

Si pretende che siffatte pitture alludano al culto egizio e si trae
la congettura da ciò che i Greci d’Alessandria stabiliti a Pompei e
probabilmente in prossimità delle terme abbiano dovuto contribuire
d’assai alla costruzione d’uno stabilimento che ricordava i loro usi
nazionali.

I muri del portico sono dipinti a specchi rossi incorniciati d’una
fascia gialla: le colonne di stucco rosse verso la base, sono bianche
nella parte superiore e sormontate da capitelli pure in istucco che
sostengono una cornice di squisito lavoro, se si argomenta da un
frammento che si ritrovò e si ricollocò al suo posto.

Dal lato di mezzogiorno poi, nell’ottobre 1854, fu scoperto un
bel quadrante solare, formato d’un semicerchio praticato in un
rettangolo, sostenuto da zampe di leone, con eleganti fregi ai lati.
Il gnomone collocato orizzontalmente nel centro dei raggi convergenti
è perfettamente conservato. L’iscrizione osca che vi era, fu letta
dall’illustre archeologo cav. Giulio Minervini di questo modo: _Marius
Atinius, Marii filius, quæstor, ex multatitia pecunia conventus decreto
fieri mandavit_[212]. Questo monumento è certo interessante: ci attesta
per lo meno che, anche dopo essersi stabilita la colonia romana, in
Pompei si usasse della lingua osca, e mi conforta nell’idea che mi sono
formato ch’essa anzi durasse viva continuamente sulla bocca del popolo.

Dalla palestra poi si facea passaggio al bagno degli uomini: per le
donne dovevano esser quelli ai quali si accedeva dalla Via di Stabia.

La prima sala del bagno degli uomini era il frigidario: tutte le
pareti all’interno dipinte in azzurro hanno nicchie rettangolari come
a ripostigli di vasi di unguenti e di profumi odorosi. Doveanvi essere
pitture sulla volta e sulle muraglie, ma la prima crollò, e sulla
seconda a sinistra non rimase che un pezzo di nudo di donna accosciata.

A destra di questa sala s’apre il tepidario, le cui muraglie hanno un
doppio fondo, per la circolazione del vapore che per siffatta guisa
moderava il calore dell’atmosfera; all’estremità sta il _baptisterium_
che doveva essere rivestito di marmi, arguendovisi ciò dalla impronta
lasciatavi dalle tavole di marmo che vi stavano, vi lasciarono impresse
le lettere d’un’iscrizione che così si arrivò a decifrare dal sullodato
Minervini:

                              IMP. CAESARI
                               DIVI FILI
                           AVGVSTO IMPERATORI
                        XIII TRIB. POTESTATE XV
                      PATRI PATRIAE COS. XI[213].

La sala che segue era destinata al _caldarium_, o _sudatorium_
altramente detta. Come il _tepidarium_, aveva il pavimento detto
_suspensura_, costruito cioè alto da terra, sorretto da specie di
tegole di terra cotta, quadrate e con peducci, e valeva a permettere
che il calore potesse liberamente circolare sotto di esso. Doppie
pure son le pareti tinte in rosso, con pilastri in giallo a capitelli
bianchi. Un bacino circolare stava da un lato della sala e nel mezzo
di esso zampillava un getto di acqua bollente che contribuiva a rendere
più caldo l’ambiente.

   [Illustrazione: Tepidarium delle antiche Terme in Pompei.
   _Vol. II. Cap. XV._]

Il _destrictarium_, di cui si è fatto cenno nella surriferita
iscrizione, che in un col _laconicum_ venne provveduto dai duumviri
Cajo Vullo e Publio Aninio, stava rimpetto all’ingresso della palestra
ed era quella località in cui i balneanti praticavano l’operazione
dello strigile all’uscir del bagno. È forse la prima volta che si trovi
questa sala così designata, non rinvenendosi la voce _destrictarium_ in
alcun dizionario, essendovi derivata forse da _destringere, raschiare_.

Si sa che tale operazione di polirsi la pelle collo strigile era così
usata e congiunta al bagno stesso, che i ricchi usavano portare gli
strigili seco al bagno, ivi mandandoli a mezzo de’ loro servi, come si
raccoglie da Persio:

    _I, puer, et strigiles Crispini ad balnea defer,_[215]

che ogni stabilimento termale di qualsiasi città ne fosse largamente
provveduto, e che nel bagno de’ poveri, dove questi arnesi non erano,
nè eranvi le altre delicature, i bagnanti, a vece degli strigili, si
fregassero contro le muraglie.

Contasi a tale proposito un aneddoto. Un giorno l’imperatore Adriano,
visitando la terme di Roma, gli venne dato di scorgere un povero
veterano che si stregghiava in questo modo contro il muro e che gli
avesse a dare denari e schiavi onde potersi per l’avvenire farsi
_strigilare_ dopo il bagno; e che ritornato Adriano dopo qualche dì
nello stesso luogo, uno sciame di poveri affettasse, appena accorti di
sua presenza, di far altrettanto di quello aveva praticato il veterano,
sfregandosi a tutta possa la schiena contro il muro; ma che allora
l’imperatore argutamente avesse a consigliarli a fregarsi piuttosto gli
uni gli altri.

A sinistra del _destrictarium_, in un lungo corridojo che dava su d’un
viottolo, trovansi quattro camerette, _solia_, certo riserbate a bagni
isolati, poichè vi si trovassero le rispettive vasche in muratura.

Le sale pei bagni delle donne, a cui entravasi per la via di Stabia,
erano pur degne di attenzione. Una, a gran volta con eleganti opere
in istucco e pavimento in marmi, serve a ricevimento ed ha proprie
nicchie, in numero di ventinove, per gli olj, le essenze e le lampade
per quando vi si veniva o se ne usciva di notte. Tutt’all’ingiro corre
un sedile di materia laterizia, e doveva valere anche per _apodyterium_
o spogliatoio.

Un’altra sala, circolare e pure elegante e con quattro nicchie per
deporvi le vestimenta, ed una quinta per dar passaggio a un getto
d’acqua, serviva pel bagno freddo; un’altra pel tepidario ed un’ultima
pel _sudatorium_, ambe queste a _suspensura_ per la circolazione del
vapore. Dovevano avere stucchi e pitture, ma il loro deperimento non
permette che riscontrarne qualche reliquia appena.

Sul muro del vestibolo che separa il bagno degli uomini da quello
delle donne evvi una pittura in giallo, rosso e verde, che raffigura
un’ara ed un serpe che le si avvicina, e tali sacri emblemi, secondo
Dyer, sarebbero valsi come di divieto agli uomini di non avanzare
nell’appartamento riservato alle donne.

Eguale sistema nella distribuzione dei locali, come nel loro uso che
abbiam veduto adottato per le terme e pei bagni publici, seguivasi pure
ne’ _balinei_, o bagni de’ privati.

Vediamo, a mo’ d’esempio, adesso il _balineum_ appartenente alla villa
suburbana di Pompei di Marco Arrio Diomede, e del quale m’ero riserbato
di parlare nell’esordire di questo capitolo.

I bagni e loro pertinenze occupano un angolo ad una estremità
dell’intero edifizio e vi si entrava dall’_atrium_ mediante una porta.
Immediatamente a destra è una cameretta, forse usata come sala di
aspetto, o destinata fors’anco agli schiavi addetti a questa bisogna
dell’azienda domestica. Più in là l’_apodypterium_ era situato fra i
bagni caldi e freddi, ed aveva un’entrata separata ad amendue.

Presso vi è un cortiletto triangolare coperto in parte da un colonnato,
su due de’ suoi lati e nel centro vi era la piscina, o _natatio_
pel bagno freddo. In prossimità dell’_apodyterium_ era il tepidario,
quindi la camera termale o _calidarium_, col _laconicum_ all’estremità
circolare, e all’altra estremità l’_alveus_, o bagno d’acqua calda.

V’è inoltre il serbatojo generale per l’alimentazione dei bagni, la
cisterna dell’acqua fredda, il sito per la caldaja dell’acqua calda;
non che quello per la fornace e la stanza ad uso degli schiavi che la
servivano.

Ora l’ordine mi imporrebbe indagare se in questa città vi fossero
ninfei; ma senza ritornare sulla questione del loro significato, poichè
non se n’è finora precisato alcuno, noterò invece che diverse erano le
fontane sparse per ogni parte della città. Già nel corso dell’opera
m’avvenne di rammentarne qualcuna; ora completerò alla meglio il
discorso intorno alle stesse.

Quasi tutte le vie scoperte di Pompei mostrano aver avuto fontane, il
più spesso collocate sull’angolo di crocicchi: anzi, come vedremo nel
capitolo delle Case, la maggior parte degli edificj avevano fontane,
impluvii e puteali: come poi ricevessero le acque, oltre il già detto,
toccherò più avanti.

   [Illustrazione: Fontane, Crocicchii di Fortunata in Pompei.
   _Vol. II. Cap. XV._]

Le fontane publiche sono pressochè tutte eguali e di una rara
semplicità; perocchè si compongano d’una vasca formata da cinque pietre
vesuviane riunite con legacci di ferro e sulla pietra posteriore
un’altra se ne alza più alta, nella quale è scolpita in rilievo una
testa di lione o d’altro animale o un mascherone, dalla bocca de’ quali
esce l’acqua per versarsi nel sottoposto bacino.

Alcune fontane ottennero negli scavi nomi particolari: tali sono
quelle dette _dell’Abbondanza_, all’ingresso del vicolo della Maschera,
perchè reca sovra il bacino una figura scolpita con cornucopia; _del
Bue_ che dà il nome alla via, perchè l’acqua vi è emessa da una testa
di quest’animale; _di Mercurio_, perchè il suo cippo ha una testa
di questa divinità che dà pure il suo nome alla via nella quale si
trova, e su d’un muro dicontro la fontana fu dipinto questo dio in
atto di fuggire stringendo una borsa; _di Venere_ sulla via di Stabia
raddossata alla così detta _Casa del forno_, o come la chiama Dyer, la
casa di Modesto per esservisi veduto appunto scritto su di essa il nome
MODESTVM, perchè sormontata da una testa grossolanamente sculta e con
una sola colomba; _di Rotonda_ sull’angolo di Vico Storto, per la sua
forma che differenzia dalle altre; della _Viottola del Teatro_, i cui
bordi o margini s’alzano di poco dal marciapiede, e però è difesa d’una
inferriata, ecc.

Se ogni via finora dissepolta ebbe la sua fontana; se fontane troveremo
in tante case, se terme publiche e bagni privati esistevano, è
necessaria l’illazione che dunque copiosissima dovesse essere l’acqua
in Pompei.

Vi bastava a ciò l’acqua del fiume Sarno? Vi sarebbe bastata se il suo
livello fosse stato alto; ma sapendo già noi come questo fiume fosse a
livello del mare, per formare il bacino di comunicazione e per essere
perfino navigabile per un tratto di strada, come abbiam già veduto, e
il Sannazzaro dicendolo eziandio impiegato alla irrigazione de’ campi

                    . . . . _pinguia culta vadosus_
    _Irrigat, et placido cursu petit aequora Sarnus_[216];

non era assolutamente possibile che bastasse a tanto bisogno, molto
più che sappiamo che la città dal mare si veniva su su adagiando
pel declivio montuoso. Acquedotti saviamente praticati vi dovevano
indubbiamente, secondo il sistema in que’ tempi generalizzato,
derivar l’acqua da lungo, e così provvedere pe’ suoi mille condotti di
ramificazione anche a tutte le fontane e serbatoj dalla parte più alta
della città.

Infatti, in ogni parte di essa vennero trovati canali e condotti
in muratura, in terra cotta ed in piombo; le case poi hanno latenti
nelle muraglie siffatti tubi di piombo e in più luoghi, ad attestarlo,
mettono fuori tra le macerie e le rovine i loro capi e provano quanta
fosse la cura e l’importanza che si aggiungeva ad aver copia di acqua
ovunque.

Il canonico Andrea De Jorio, nella sua _Guida di Pompei_, dedicò
un’appendice a bella posta per le indagini sulle sorgenti che
conducevano le acque alle terme, e giova ricorrervi per avere una certa
luce nell’argomento, che pur fu soggetto a tante controversie. Pose
prima per base il livello attuale del Sarno, il suo canale attuale
che passando per Pompei trasporta le acque alla Torre dell’Annunziata;
l’impossibilità che vi era che il suo livello potesse alimentare tutte
le fontane di Pompei e infine tenne conto degli avanzi di antichi
acquedotti, che sono nell’antico territorio di Sarno egualmente che
nella città di Pompei. Esaminò poi la natura de’ condotti trovati
dall’architetto Domenico Fontana, quegli che fu incaricato di condur
l’acqua a Torre dell’Annunziata, e li dichiarò ramificazioni del
principale antico, che doveva derivare dal luogo detto la Foce, o
sorgente del Sarno; giudicò che la sorgente, che apprestava l’acqua
all’antica Pompei fosse più alta di quella che oggi alimenta il canale
detto _del Conte_.

Derivata per tal modo l’acqua dai monti e dalle sorgenti del Sarno,
distribuivasi per tutta la città a mezzo di canali costruiti sotto le
vie, per la cui manutenzione di tratto in tratto erano spiragli difesi
da graticci di ferro, e mercè delle conserve e delle pressioni che
esercitavano si faceva montare al livello dei getti più o meno alti
delle publiche fontane, e servire ai bagni delle Terme ed agli altri
dei quali ci siam venuti intrattenendo.

Il tremuoto dapprima del 63 e il cataclisma ultimo di Pompei
sconvolsero ed ostruirono acquedotti e canali, e le acque deviarono
e per modo, che ciò che allora poteva formar testimonio de’ savi
provvedimenti edilizi per la somministrazione delle acque alla
bella città, ora è divenuto astruso tema di congetture e di studj,
frammezzo a’ quali se il solito dubbio, che, cioè, non vi fosse tutta
quella copia di acque che si dice, non s’è cacciato, si fu perchè ad
impedirlo, rimangono eloquenti i ruderi di aquedotti e di fontane,
di bagni e di stabilimenti termali, che ponno essere tuttavia presi a
modello e con buon frutto imitati al presente.




CAPITOLO XVI.

Le Scuole.

  Etimologia — Scuola di Verna in Pompei — Scuola di Valentino —
  Orbilio e la ferula — Storia de’ primordj della coltura in Italia
  — Numa e Pitagora — Etruria, Magna Grecia e Grecia — Ennio e
  Andronico — Gioventù romana in Grecia — Orazio e Bruto — Secolo
  d’oro — Letteratura — Giurisprudenza — Matematiche — Storia
  naturale — Economia rurale — Geografia — Filosofia romana — Non
  è vero che fosse ucciditrice di libertà — Biblioteche — Cesare
  incarica Varrone di una biblioteca publica — Modo di scrivere,
  volumi, profumazione delle carte — Medicina empirica — Medici
  e chirurghi — La _Casa del Chirurgo_ in Pompei — Stromenti di
  chirurgia rinvenuti in essa — Prodotti chimici — _Pharmacopolæ,
  Seplasarii, Sagæ_ — Fabbrica di prodotti chimici in Pompei —
  Bottega di _Seplasarius_ — Scuole private.


Se fu dato potersi formulare a proverbio: di’ con chi tratti e ti
dirò chi sei; parrebbe potersi eziandio dire, di’ come si istruisca
un popolo e ti dirò quanto sia civile. Questo per adesso: forse non si
poteva altrettanto affermare ai tempi di Roma, dei quali m’intrattengo
col discreto e umano lettore.

Egli vedrà s’io mal non m’apponga nelle poche pagine che ho riserbato
alle _Scuole_, traendone argomento dalle due di cui gli avanzi di
Pompei ci han tramandato memoria.

La parola, come tanta parte delle nostre e delle latine, deduce
l’origine sua dal greco. _Schola_ scrissero i latini e σχολή i greci, e
vollero significare riposo da fatica corporea, il quale dà opportunità
di ricreazione o di studio: così ci accadde già di ricordare la
_schola_ o sedile in Pompei, ov’era l’orologio solare: così _schola_
chiamavansi quegli altri sedili in muratura ch’erano nelle terme, e
via discorrendo. Presto poi venne adoperato il vocabolo ad esprimere
il luogo in cui i maestri e i loro scolari si raccolgono per fine
d’istruzione; nel qual unico senso fu quindi ricevuto nell’idioma
nostro.

Io, come dissi, dalle due scuole summentovate, di cui ci è attestata
da due iscrizioni l’esistenza in Pompei, nonchè dal ritrovamento di
ferri chirurgici, de’ quali verrò a intrattenere chi legge, partirò
per indagare l’indole dell’istruzione e della coltura intellettuale
d’allora. Senza di questo capitolo, crederei incompleto il quadro
che mi sono proposto di condurre delle condizioni di Roma e delle sue
colonie, del quale mi danno causa e pretesto le rovine di Pompei.

Sotto il portico orientale del Foro civile di questa esumata città, e
che già a suo luogo ho descritto, si è scoperta una vasta sala: nel
fondo di essa è nel mezzo una specie di nicchia; altre minori sono
distribuite tutte all’intorno, con porte agli angoli. Gau, scrittore,
la cui autorità ho più volte in addietro invocata, riconobbe in
tutte queste disposizioni, le disposizioni stesse delle antiche
scuole d’Oriente. La nicchia del fondo avrebbe, secondo lui e con
tutta ragione di probabilità, servito di cattedra al maestro; quelle
all’ingiro spettavano invece agli scolari, per deporvi abiti e libri.
Siffatta supposizione fu universalmente accolta e trovò il suo suggello
di verità nella iscrizione seguente, che stava scritta in caratteri
rossi, oggi affatto scomparsi, vicino alla porta, sull’angolo della
casa:

        C. CAPELLAM D. V. I. D. O. V. F. VERNA CVM DISCENT[217].

Questa iscrizione valse di per sè ad imporre a quella sala la
denominazione di _Scuola di Verna_, e i commentatori e scrittori
di _Guide_ a farne fuori un maestro di scuola di ragazzetti d’ambo
i sessi, una specie di moderno asilo d’infanzia. Io mi permetto di
dubitare che potesse trattarsi di scolari di così tenera età e molto
meno di fanciulli d’ambo i sessi; perocchè, se ciò fosse stato, qual
valore si avrebbe voluto aggiungere allora ad una raccomandazione in
una elezione amministrativa fatta da piccoli fanciulli e da ragazzine?
Doveva adunque essere, a mio avviso, una scuola almeno di giovinetti.

Anche un’altra iscrizione, fra le tante che vi dovevano essere state
scritte sulla muraglia dell’edificio d’Eumachia, venne trovata il 26
gennaio 1815[218], e ci fa essa conoscere un tal Valentino, pur senza
alcun altro prenome, per un altro maestro: essa è così concepita:

                     SABINVM ET RVFVM AED. R. P. D.
                               VALENTINVS
                         CVM DISCENTES (_sic_)
                             SVOS ROG[219].

È notevole e sorprende sulla bocca d’un maestro un sì grosso
strafalcione di grammatica come questo _cum discentes suos_, in luogo
di _cum discentibus suis_, e dà la misura sì della scienza del maestro,
che di quella de’ magistrati che lo tolleravano. «_Il avait_, dice a
tal proposito Bréton, parlando di questa cima di maestro e delle sue
sgrammaticature, _il avait certes besoin d’invoquer la protection des
Ediles_.»

Ma ad altre considerazioni, più che di fredda grammatica, queste
zelanti raccomandazioni de’ maestri di Pompei mi han fornito il
soggetto e m’han condotto ad una savia conclusione.

I tempi sono pur sempre i medesimi, mi son detto: le più utili e
virtuose istituzioni vengono sempre falsate e guaste: le passioni degli
uomini se le assoggettano e sfruttano a loro profitto. Le sventure e
i danni d’ogni natura, che ad essi toccano, non sono bastevoli lezioni
ai popoli; oggi, come a’ tempi di Verna e Valentino, il greggie degli
stipendiati governativi e delle anime subalterne è pur sempre l’eguale.

Non lamentiamoci poi adesso del pari di vedere a’ dì nostri, ne’ giorni
delle elezioni politiche od amministrative, sguinzagliarsi impiegati
e poliziotti a portare il loro voto in suffragio del candidato messo
innanzi dal partito che siede al governo della cosa publica, o dalla
così detta consorteria. Quest’ultima ho già fatto altrove rilevare
essere esistita anche allora; Terenzio l’ha rammentata sotto il
nome di _comitum conventus_; onde hassi da noi a conchiudere tali
disordini dell’oggi essere nuove edizioni di vecchia storia, più o meno
accresciute ed illustrate, a beneficio dei meglio accorti.

Questo Verna e questo Valentino di Pompei io suppongo essere stati
precettori in quella città della adolescenza, della risma, o suppergiù,
di quell’Orbilio, che fu maestro in Roma di belle lettere e reso
immortale dal suo discepolo Orazio Flacco, il quale per vendicarsi dei
colpi ricevuti per avventura dalla ferula di lui sulle mani e sulle
spalle, lo ha marchiato, in una delle sue Epistole, qualificandolo
_plagosus_[220], quasi _produttor di piaghe_, per aver fatto uso co’
suoi scolari di sferze e di flagelli.

Nè doveva essere, a quanto pare, codesto sciagurato vezzo esclusivo
di Orbilio, ma generale ne’ pedagoghi, s’anco Giovenale vi fece aperta
illusione in quel verso della Satira I, sui _Costumi_:

    _Et nos manum ferulæ subduximus_.....[221]

e del barbarico costume, come avvien d’ogni cosa brutta, è arrivata la
tradizione infino a noi; perocchè io non sappia davvero se dappertutto,
malgrado i divieti severi delle leggi e delle autorità, e più ancora
i postulati della civiltà, sia stato ovunque per Italia diradicato, di
gravi e sanguinose punizioni inflitte da’ maestri a fanciulletti avendo
a’ giorni di mia infanzia udito più d’una volta lamentare.

Non chiamato a fare una completa monografia degli studj in Roma e nelle
Colonie a lei soggette, non ne dirò ora che a larghi tratti, siccome è
richiesto dalla economia dell’opera.

Presso questo popolo gagliardo e primitivo, dedito prima alle cure
dei campi, poi a quelle dell’armi, gli studj, o furono quasi e per
lungo tempo sconosciuti, o ne furono tardo pensiero. Il linguaggio
medesimo era ben lungi dall’avere quella sonorità, armonia e maestà
che assunse di poi nelle opere ammirabili de’ suoi scrittori: aspro
e duro, era più proprio a comandar a’ soldati nelle battaglie; e se,
al dir di M. Catone, fu costume delle genti italiche di cantare ne’
loro antichi dialetti inni e canzoni guerriere o nenie pei caduti in
guerra, sposandole al suono delle tibie, ciò non attesta a favore di
una avanzata civiltà. Imperocchè consuetudine siffatta si riscontri
in tutte le genti rozze e bellicose. Ossian e i bardi caledonici non
cantarono che le imprese di eroi d’una patria guerriera sì, ma non
colta e civile. Ho già toccato altrove, parlando delle origini del
teatro, come prima di Livio Andronico, Roma non avesse teatro proprio,
paga delle Sature degli istrioni d’Etruria, e Andronico non fiorì
che al principiar del sesto secolo. Meglio dimostrerà la condizione
intellettuale e la nessuna coltura il singolarissimo rito usato ancora
nel quinto secolo per la numerazione degli anni. Consisteva esso nel
piantare nel muro del tempio di Giove, che era il più venerato di Roma,
un grosso chiodo. Ciò facevasi alle idi di settembre solennemente per
mano de’ pontefici, e dove alcun altro straordinario avvenimento si
fosse voluto raccomandare alla memoria de’ posteri, eleggevasi all’uopo
un dittatore che figgesse altro chiodo. E questi chiodi, in mancanza di
lettere, segnarono per lungo tempo l’epoche più famose di Roma. Ecco le
testuali parole di Tito Livio: _Eum clavum, quia raræ per ea tempora
erant litteræ, notam numeri annorum fuisse ferunt_[222]. L’aritmetica
e la geometria non si conoscevano se non tanto, quanto era necessario
per misurare un campo, o per far le faccende giornaliere. Le loro
cifre numeriche, osserva giustamente Francesco Mengotti, rappresentano
espressamente le dita delle mani, che sono la prima aritmetica de’
fanciulli, dei villici e della natura[223].

La medicina stessa, reclamata dalla sollecitudine del corpo, distinta
in sacerdotale e magica, rimase involuta lungo tempo nelle ubbie
superstiziose. Solo poi, 263 anni prima di Cristo, Valerio Messala recò
di Sicilia un quadrante solare, come già dissi a suo luogo, e appena
159 anni vennero da Scipione Nasica Corculo introdotti gli orologi ad
acqua o clessidre. Prima i Romani erano rimasti per molti secoli senza
neppure conoscere la divisione in ore del giorno e della notte e senza
stromento alcuno per la misura del tempo. Plinio il Vecchio scrisse
che le Dodici Tavole, compilate al principio del quarto secolo, non
distinguevano che il nascere e il tramontar del sole[224]: dopo vi fu
aggiunto il meriggio, che annunciavasi dal banditor del console, quando
il sole si trovava fra la tribuna e la grecostasi. Allorchè dalla
Colonna Menia il sole inclinava alle carceri, era sera.

Pel corso di parecchi secoli i Romani non posero alcun pensiero
alla filosofia. Essi la conoscevano a mala pena di nome. Occupati da
principio in difendersi, poi in rassodare la loro potenza sui vicini
popoli che avevan soggiogati, interamente pratica era la sapienza
che dalla esperienza avevano attinta. Un mirabile buon senso derivò
loro dalle difficoltà dell’esterna lor posizione e dal godimento di
una libertà sempre perturbata, ma che per le stesse sue commozioni,
rinvigoriva gli animi e gli ingrandiva. Si è voluto attribuire alla
filosofia pitagorica qualche influenza sulle instituzioni di Numa, e
si è potuto con tanto maggiore facilità unire insieme a quest’uopo
qualche tratto di rassomiglianza, in quanto che è probabile aver
Pitagora inserito nella sua filosofia alcuni frammenti delle dottrine
sacerdotali alle quali Numa non era straniero. Ma ecco dove fermar
si deve ogni comunanza fra il greco filosofo e il re secondo di
Roma[225]. Forse invece di queste dottrine sacerdotali di Numa e di
altri legislatori a lui succeduti, la ragione e l’origine dev’essere
ricercata altrove, in Etruria come verrò a notare.

Bisogno di studi elementari e di intellettuale coltura si sentì, più
per ispirito d’imitazione che per altro, dopo che i Romani conobbero
i Greci. Già sa ognuno di là dedotte le leggi delle Dodici Tavole:
là unicamente reputavasi infatti la sede della scienza, della poesia,
dell’arti.

Erasi, è vero, per l’addietro usato mandar in Etruria i giovani, per
apprendervi i riti augurali, senza di che non avrebbero acquistato
valore i pubblici atti, ed era molto se di là recavasi qualche tintura
o conoscenza di lettere. E sì che colà la coltura e la sapienza erano
più antiche che in Grecia, a cui per avventura e da essi e dagli
Atalanti, i progenitori nostri, era ogni lume di civiltà e di sapere
derivato. Fu altrimenti adunque, quando ebbe luogo mercè le conquiste
fatte dalle armi romane, il contatto con la Grecia: il dirozzamento
cominciò ad operarsi tra’ Romani, e n’ebber merito in principalità gli
Scipioni, che tolsero a proteggere i letterati venuti di Magna Grecia
in Roma. Ogni partito volle avere schiavi greci e, come sarebbesi
scelto fra quelli sventurati il celliere ed il cuoco; così venne
cercato il pedagogo, onde a’ figliuoli apprendere la lingua di Omero.
E la lingua greca divenne di moda, nè uomo aspirar poteva al vanto di
educato, se a lui famigliare non fosse stato quel magnifico idioma.
Quinto Catulo comperò Dassi Lutazio per duecento mila sesterzj; Livio
Salinatore procacciò maestro a’ suoi figli quel Livio Andronico, del
quale tenni parola dicendo de’ Teatri; Paolo Emilio riempì la casa di
filosofi, di retori, di grammatici, di pedagoghi e d’artisti d’ogni
maniera; Scipione l’Africano protesse Plauto e Terenzio, ed ebbe
amico e compagno di sue militari spedizioni Quinto Ennio di Rudia in
Calabria, che era stato richiamato da Catone l’antico da Sardegna in
Roma, e che, in buona fede o no, affermava in lui trasmigrata l’anima
d’Omero.

Contuttociò, riguardavano i Romani gli studj, più che altro, oggetto
di adornamento e di ricreazione, e Sallustio lasciò scritto: che i più
assennati attendevano agli affari, nessuno esercitava l’ingegno senza
il corpo; ogni uomo grande volea men tosto dire che fare, e lasciava
che altri narrasse le imprese di lui anzichè narrar esso le altrui.

E poichè ho nominato ancora Andronico ed Ennio, dirò che anche dopo
l’epoca in cui i Romani strinsero i legami coi Greci d’Italia e di
Sicilia, essi non iscorgevano tuttora che leggerezza, mollizie e
corruzione appo questi popoli, i quali dal lato loro li riguardavano
quai barbari[226]. Verso il fine della prima Guerra Cartaginese, i
Romani principiarono a conoscere la drammatica letteratura de’ Greci.
Alcune tragedie greche tradotte da Andronico, il quale voltò pure in
versi latini l’_Odissea_, presero il luogo de’ versi fescennini, de’
giuochi scenici degli Etruschi, e delle rozze farse Atellane degli
Osci, come già sa il lettore per quel che ne ho discorso, trattando de’
Teatri.

In quanto ad Ennio, non pago egli della buona riuscita che ottenevano
simili imitazioni, volle riportare un nuovo trionfo, mercè una
traduzione dell’istoria sacra di Evemero, di quell’Evemero che fu
il primo a pretendere che i numi della Grecia non fossero che uomini
divinizzati, nati come noi e come ogni ordinario mortale anche defunti.
Appresso qualunque altro popolo, un gran passo sarebbe stato codesto
nel filosofico agone, e forse tale era l’intendimento del latino
autore; ma sembra che i Romani non abbian veduto di primo slancio
delle ipotesi di Evemero che un frivolo argomento di curiosità. Meno
sospettosi degli Ateniesi eran dessi, perchè nessuna esperienza ancora
gli avvertiva delle conseguenze della filosofia sopra la falsa lor
religione. Lo stesso avvenne rispetto alla esposizione del sistema di
Epicuro fatta da Lucrezio. Queste due opere erano germi gettati sopra
un terreno non ancor disposto a riceverli.

De’ libri avevasi quindi sospetto, quasi intaccassero le istituzioni e
la religione patria; epperò essendosi, durante il consolato di Cetego e
Bebbio, dissotterrati alcuni libri di filosofia, Plinio scrisse essersi
poi ordinato dal console Petilio di abbruciarli: _combustos, quia
philosophiæ scripta essent_[227].

È nondimeno nel senso che la coltura si venisse più generalizzando e
perfezionando per i Greci ed importando nuove forme nella drammatica,
che si dovrebbero intendere i versi di Orazio, che altre volte appuntai
in addietro:

    _Græcia copia, victorem cœpit et artes_
    _Intulit agresti Latio_[228];

non già per dire che veramente l’importazione prima della letteratura
venisse proprio di là. Notai come anzi gli incunaboli della poesia
drammatica avessero avuto nelle _sature_ e nelle _atellane_ origine
assai prima tra noi, e le Muse _sicelides_ e i vari poeti e vati della
Magna Grecia fossero stati nostri.

A questi Greci, schiavi o liberti, che popolavan Roma, dispensandovi la
scienza, dai patriotti guardavansi in cagnesco, e si giungeva perfino
a trattarli da ladri e peggio, e si poneva in canzone il loro grave
sussiego assai volentieri, e ridevasi di cuore alle tirate contro essi
in teatro, e il popolo tutto applaudiva. Così fu all’entrar in iscena
di _Curculione_ in Plauto al declamar di que’ versi:

    _Tum isti Græci palliati, capite operto qui ambulant,_
    _Qui incedunt suffarcinati cum libris, cum sportulis,_
    _Constant, conferunt sermones inter se drapetæ:_
    _Obstant, obsistunt, incedunt cum suis sententiis_
    _Quos semper videas bibentes esse in thermopolio:_
    _Ubi quid surripuere, operto capituto, calidum bibunt_
    _Tristes atque ebrioli incedunt_....[229]

Marco Tullio, nel libro II _de Oratore_, c. LXVI, rammenta del
proprio avo, Marco Cicerone, come avesse a dire: _nostros homines
similes esse Syrorum venalium; ut quisque optimi græce sciret, ita
esse nequissimum_[231]: lo che dimostra come non fosse disapprovata
questa grecomania dal volgo soltanto, ma ben anco da uomini austeri
e di autorità; perocchè quel vecchio uomo dovesse nel suo municipio
aver avuto considerazione e voce, se aveva potuto con frutto farsi
oppositore a M. Gratidio, che proponeva la legge tabellaria.

Ma quantunque si affettasse questo publico sprezzo per cotesti schiavi
o liberti greci, nè si volesse far credere che alle lettere nazionali
si anteponesse la stima e lo studio di quelle di Grecia; quantunque
si armasse perfino l’autorità del governo con editti e leggi contro
l’irruenza della straniera dottrina; pur nondimeno accadde che gli
uomini illuminati di un’età più matura, astretti ad eleggere tra
l’abbandono di ogni filosofica speculazione, e la disobbedienza
al governo, furono condotti ad attenersi a quest’ultimo partito
dall’amore delle lettere, il quale allorchè ha posto radice, cresce
ogni giorno, perchè ha in sè stesso la sua fruizione. Nè ciò fu tutto;
avvegnacchè tutti i patrizi non solo e i più facoltosi, ma eziandio
tutti quelli che appena l’avessero potuto, dopo i primi studj in patria
compiti, mandassero per ciò i loro figli a perfezionarsi in Grecia.
Era una vera colonia di distinta gioventù romana, che si trovava per
conseguenza in Apollonia, in Rodi, in Mitilene ed in Atene, eclettica
e nella sua filosofia, come ne’ suoi costumi; e sotto le ombre severe
dell’Accademia e nei giardini d’Epicuro si informava essa a giganti
progetti di guerra, egualmente che alle severe discipline della vera
eloquenza e della poesia.

Orazio medesimo, sebben figlio di liberto, si trovò alla sua volta
condiscepolo di Marco Bruto alla scuola di Teonesto e di Cratippo;
e fu colà per avventura, che stringendosi in amicizia con quel fiero
repubblicano, potè per di lui mezzo ottenere dipoi il comando d’una
di quelle legioni, che soccombettero nei campi di Filippi, e dove ei,
gittando lo scudo, certo non fe’ prova di molto valore.

Buon per lui nondimeno che nella Grecia aveva potuto il suo genio
spaziare più libero, aggraziarsi, profumarsi e così preparare lo
spirito a quelle innovazioni nella poesia, da poter esser detto
il primo de’ lirici latini, anzi quello che creò la lirica latina.
Inceppata per lui, come per gli altri, era stata la educazione della
mente in Roma: essa erasi voluto costringere a limitarsi alla sola
conoscenza e studio delle cose antiche e già troppo viete; ma con Livio
Andronico, con Ennio, con Nevio, Pacuvio, Accio ed Afranio soltanto non
s’andava innanzi. Va bene, dice Orazio, che sian codesti altrettanti
modelli; va bene che Roma tragga a’ teatri ad applaudirli: il popolo
talvolta vede giusto, ma talvolta anche s’inganna. S’egli ammira
gli antichi autori, s’ei gli esalta al punto di nulla trovare che li
sorpassi, niente che loro regga a petto, s’inganna a partito; ma s’egli
ammette che ad ogni tratto si incespichi con essi in termini che han
fatto il loro tempo, e in uno stile bislacco, è nel vero, e la pensa
come noi. Io non l’ho contro a Livio, nè penso che sieno da annientare
i suoi versi che mi dettava fanciullo Orbilio di piagosa memoria; ma è
egli poi giusto che per qualche concetto, qui e qua brillante, per un
paio di versi un po’ meglio scorrevoli de’ restanti, abbiasi ad andare
in visibilio?...

    _Jam Saliare Numæ carmen qui laudat, et illud,_
    _Quod mecum ignorat, solus vult scire videri:_
    _Ingeniis non ille favet plauditque sepultis;_
    _Nostra, sed impugnat, nos, nostraque lividus odit._
    _Quod si tam Graiis novitas invisa fuisset,_
    _Quam nobis; quid nunc esset vetus? aut quid haberet_
    _Quod legeret, tereretque viritim publicus usus?_[232]

Del resto, come già notai, Plauto e Terenzio, che pur formavano la
delizia de’ romani teatri, avevano dedotto le loro commedie dal greco;
più liberamente Plauto, che le ama almeno adattate a foggia nazionale;
meno invece Terenzio, ch’ei medesimo proclama d’aver fedelmente
tradotto Menandro e se ne reca a vanto.

Ritemprata così la letteratura latina nella greca, si preparò quello
che si disse il secolo d’oro della latinità. Tito Livio, Crispo
Sallustio, Giulio Cesare, Tacito e Cornelio Nipote nella storia;
Cicerone, Ortensio, Crasso, Cornelio Rufo, Licinio Calvo ed altri molti
nell’eloquenza, la quale però coll’avvenir dell’impero perdette di sua
libertà e di molta parte di suo splendore; Catullo, Tibullo, Virgilio,
Orazio, Properzio, Ovidio, Cornelio Gallo nella poesia, chiamano ancora
la nostra ammirazione e formano tuttavia l’oggetto de’ nostri studi:
essi poi capitanavano una schiera di molti altri ingegni minori.

Coll’eloquenza, di cui ho ricordato i campioni, pur la giurisprudenza
offrì le egregie sue prove e i suoi valorosi cultori. Sesto Elio Peto
(184 anni av. G. C.) publicò l’_Jus Civile Elianum_ e furono celebri
giureconsulti M. Porcio Catone, P. Mucio e Quinto Mucio Scevola,
che indagarono primi i veri principj del diritto ed applicarono alla
giurisprudenza la dottrina morale degli stoici. Quando poi il potere
supremo si accolse nelle mani di un solo, i rescritti, i decreti,
gli editti e le costituzioni degli imperatori dischiusero nuova fonte
alla scienza del diritto, che si vide collegata alla filosofia. I più
rinomati giureconsulti del tempo di Cicerone furono L. Elio, Servio
Sulpizio Rufo e A. Ofilio; sotto Augusto C. Trebazio Testa, P. Alfeno
Varo, autore de’ _Digestorum_, Libri XL, che si conservarono nel
Digesto. M. Antistio Labeone e C. Ateio Capitone originarono due sette,
che discordavano tra loro ne’ principj da seguire nelle consulte: il
primo inclinando al rigoroso diritto; il secondo all’equità. I loro
discepoli Masurio Sabino (20 anni dopo C.) e Sempronio Proculo (69 anni
dopo C.) diedero a tali sette estensione maggiore, i primi attenendosi
alle sentenze degli antichi giureconsulti; i secondi ai principj
generali del diritto.

Più sopra accennai come nei primi cinque secoli Roma si trovasse
sprovveduta affatto d’ogni nozione di matematica: essa quindi le
attinse, come per gli altri rami dello scibile, a fonti greche,
piuttosto occupati della pratica applicazione nello scompartimento
dei terreni, nella disposizione degli accampamenti e nella costruzione
dei grandi e sontuosi edifizi. Tra gli scrittori che si distinsero in
siffatta materia, primeggia Marco Vitruvio Pollione, coll’opera sua
_De Architectura_ in dieci libri, a lui commessa da Augusto ed alla
quale ho tante volte in questa mia ricorso, perocchè sia utilissima
per la storia e la letteratura dell’arte presso gli antichi e contenga
viste elevate e filosofiche, comunque talvolta pecchi di oscurità, e di
disordine.

Lo studio della natura vantò a suo principale cultore Cajo Plinio
Secondo Maggiore o il Vecchio (23-79 anni dopo G. C.) del quale ho già
a lungo parlato nel dire del cataclisma pompejano; l’Economia rurale
mette innanzi L. Giunio Moderato Columella, che scrisse dodici libri
_De Re Rustica_; e la Geografia Pomponio Mela che ne dettò, circa al
tempo di Nerone, un compendio in tre libri: _De situ Orbis_, tratto
in gran parte dalle opere greche, ma con molta accuratezza, giudizio e
critica.

E così fiorirono parimenti le scienze. Ho già notato le cause per
le quali il nascimento e lo sviluppo d’una filosofia nazionale in
Roma, fosse pressochè impossibile, giacchè il genio speculativo
dovesse necessariamente essere alieno dallo spirito pratico politico
e guerriero dei Romani. Essi infatti non entrarono mai nella sfera
dei problemi filosofici per esercitarvi la loro attività individuale.
Si accontentarono di scegliere e di adattare fra i sistemi della
greca filosofia quelli che lor parvero più acconci alla vita politica
ed alle abitudini private e solo a quando a quando si risvegliò
tra essi qualche interessamento e di gusto per la filosofia quando
fu creduta mezzo di sviluppamento intellettuale o di progresso. La
filosofia stoica era la più consentanea all’indole romana e in tempi
di corruzione e di despotismo essa fu il rifugio delle anime temprate a
robusto sentire, ch’ebbero forza di levarsi al disopra del depravamento
del proprio secolo. Negli ultimi anni della Republica la filosofia
platonica vi fu favorevolmente accolta, perocchè offerisse all’oratore
negli ajuti della sua dialettica e dottrina di verisimiglianza
alcuni reali vantaggi; ma poi quando i costumi degenerarono, i Romani
divennero seguaci per lo più della filosofia di Epicuro, come quella
che porgesse ad essi ciò che ad essi abbisognava, un codice, cioè, di
prudenza e le norme del piacere; finchè più tardi, sotto l’imperio di
Marco Aurelio per breve momento sfolgoreggiò una più vera filosofia.
Quella di Aristotele, che in Grecia aveva trovato sì gran numero
di proseliti, in Roma parve oscura, nè ebbe attrattive per menti
straniere alle astratte speculazioni e più curiose che meditabonde;
e non fu quindi che più secoli dopo che invadesse le scuole in Italia
e che, puossi dire, essere stata regolatrice delle medesime infine al
chiudersi del medio evo; onde fosse nel vero l’Allighieri, quando di
questo sommo ebbe a dire:

    Vidi il Maestro di color che sanno
      Seder tra filosofica famiglia:
      Tutti l’ammiran, tutti onor gli fanno[233].

Si è voluto rinfacciare alla filosofia d’Epicuro, anzi alla filosofia
in genere, la cagione della caduta della libertà, e si è accusata
leggieramente di secolo in secolo con una maravigliosa facilità,
come quella che avesse condotto la rovina di Roma: ma tale accusa fu
ingiusta. Tutti gli uomini che difesero la republica furon filosofi.
Varrone meritò di essere proscritto dai Triumviri, e scampandone appena
dalle persecuzioni, perdè la biblioteca e i suoi scritti: Bruto amava
siffattamente le greche dottrine, che non eravi al suo tempo, come ci
narra Plutarco[234], setta alcuna che da lui conosciuta non fosse.
Catone morì leggendo Platone. Cicerone, durante il corso della sua
operosa e gloriosa carriera di tanto vantaggio al libero reggimento
di Roma sì che la salvasse dalla cospirazione di Catilina, mai non
cessò di consacrare alla filosofia tutti i momenti che potè ritogliere
a’ suoi doveri di oratore, di soldato e di cittadino. Fin dalla
sua infanzia intimo amico di Diodoto, poi discepolo di Possidonio e
protettor di Cratippo, egli aveva caro di ripetere che andava tenuto
della sua dottrina e della sua eloquenza molto più alla filosofia,
che non alla retorica propriamente detta, e mostrò saperla mettere
in pratica, quando seppe ricevere il mortal colpo senza dar segno di
debolezza, castigandosi per tal modo d’avere sperato in Ottaviano.

La storia pel contrario non ci trasmise che i distruttori della romana
libertà nutrissero per la meditazione un pari amore.

Non ci vien narrato che Catilina fosse filosofo; Cesare, al principio
di sua funesta carriera, professò in senato principj di triviale
irreligione e grossolani assiomi, cui probabilmente questo giovane
cospiratore aveva raccolti ne’ suoi intervalli delle sue dissolutezze
e delle sue trame. Il voluttuoso Marc’Antonio, l’imbecille e codardo
Lepido e tutti quelli avviliti senatori e que’ centurioni feroci, di
cui gli uni tradirono, gli altri dilaniarono Roma spirante, non si
erano, a quanto si sappia, formati a nessuna scuola di filosofia.

Tutto questo movimento letterario e scientifico in Roma per altro non
era che un possente riflesso della greca letteratura e dottrina, e
della quale fu anzi tanta l’influenza che, se il latino idioma doveva
necessariamente essere il linguaggio della magistratura, il greco
divenne quello della coltura e dell’eleganza. Questo si parlò nella
conversazione, nella famiglia e perfin nell’amore, dove trovasi più
soave appellar l’amica, come notò con derisione Marziale, dicendola
ζωή, ψυχὴ, cioè _vita_ e _anima_; e Orazio raccomandò nell’_Arte
Poetica_, a’ Pisoni il continuo studio dei greci esemplari:

            _vos exemplaria græca_
    _Nocturna versate manu, versate diurna_[235].

Già qualche cosa, parlando della lingua usata in Pompei, trattai della
coltura in questa città: ora con quanto ho testè detto di Roma, rimane
completato per riguardo a Pompei; perocchè ripeto le provincie e più
ancora le colonie seguissero in tutto l’andamento della capitale.

Gli schiavi poi applicati a copiar manoscritti provvidero i privati di
buone biblioteche. Già Paolo Emilio aveva dato l’esempio di cosiffatta
raccolta, trasportando a Roma quella di Perseo re di Macedonia da lui
vinto: Silla aveva fatto altrettanto trasportando da Atene quella di
Apellicone Tejo; e più ricca l’ebbe il fastosissimo Lucullo: Cicerone
aveva di libri fatto egli pure incetta; ma tutte finallora erano state
proprietà private. Chi pensava a dotarne di una il publico, quale
era stata a Pergamo ed Alessandria, incaricandone Varrone, reputato
il più dotto de’ suoi tempi, fu Cesare, ajutato poi in questo suo
egregio pensiero da Asinio Pollione, dopo che Cesare era stato da morte
impedito di condurlo ad effetto. P. Vittore conta ventinove biblioteche
in Roma, ultima fra le quali quella di Marziale, che ne’ suoi epigrammi
non può resistere all’amor proprio di ricordarla.

Pompei non aveva biblioteche pubbliche, nè forse l’ebbe pur Ercolano:
almeno traccia di esse non presentarono finora gli scavi; ma e di una
città e dell’altra ho già a suo luogo nondimeno osservato quanti papiri
siansi raccolti mezzo arsi e con sommo artificio svolti e interpretati;
quantunque finora non si possa dire d’essersi vindicato dall’azione
distruggitrice del tempo un’opera qualunque che fosse di una grande
importanza.

Volendo or qui toccare alcun che del modo tenuto nello scrivere,
poichè altrove ho già detto delle tavolette cerate, e pur altrove ed
anche adesso de’ papiri e delle pergamene, accennerò come su queste
ultime scrivessero in fogli non ritagliati e quadrati, nè da ambe
le facciate, come usiamo noi; ma per il lungo, e da una sola parte,
ed acciò la grandezza non cagionasse impedimento nello scrivere,
per fissarla, usavano d’una bacchettina di cedro o d’ebano, con capi
d’oro o di gemma, indi piegassero la carta arrotolandola, e per questo
rivolgimento avesse a nascere il vocabolo di volume, _volumen_.

La gente d’umile condizione scriveva pel contrario d’ambe le facciate;
lo che venne mano mano in uso anche degli scienziati; onde Cicerone
scrivendo ad un suo famigliare, avesse a dire d’aver sentito gran
dispiacere nel leggere la prima facciata della lettera di lui e
grande contentezza nel voltar l’altra[236]; Giovenale parlasse
di una certa tragedia scritta in questa foggia[237]; Marziale ad
accennare del proprio libro stesso così scritto[238]; e Plinio il
Giovane, finalmente, scrivendo a Marco, dandogli conto d’alcune opere
eredate dallo zio, l’illustre naturalista, in ispecie gli narrasse di
censessanta commentarii scritti da una facciata e dall’altra[239].

Le iscrizioni e titoli delle opere, secondo ne fa fede Vitruvio[240],
venivano ornate con minio, e le carte stropicciate sottilmente con
olio di cedro, proveniente dal Libano, non tanto per conservarle
dal tarlo, quanto per renderle odorose; onde Orazio, nell’_Arte
Poetica_, a significare opera meritevole d’immortalità, in quel modo
che si credevano durar le cose unte coll’olio di cedro, usò di questo
concetto:

    . . . . . _cedro digna locutus;_

e Ovidio non meno vi fece allusione nel primo libro _Dei tristi_, in
quel verso:

    _Nec titulus minio, nec cedro charta notetur._

Detto di queste particolarità, progredendo nel mio tema, eran pure
per la più parte fra gli schiavi, od erano stranieri coloro che si
applicavano alle discipline mediche e chirurgiche: la prima però
affidata più all’empirismo che alla vera scienza.

Valga il seguente aneddoto:

Il figlio di Marc’Antonio, dando una cena a’ suoi amici, vi convitava
altresì Filota medico d’Amfrisso. Tra le argomentazioni ch’era in
uso a que’ tempi di proporsi a tavola, Filota uscì in questa: V’è una
certa febbre che si vince coll’acqua fredda; chiunque ha la febbre, ha
una certa febbre; dunque l’acqua fredda è buona per chiunque abbia la
febbre.

L’insulso paralogismo, degno d’un puerile scolasticismo, si meritò
dallo spensierato Anfitrione i più ricchi donativi.

E valga pure il notare il passaggio, che fu anche satireggiato da
Marziale, di un medico alla vile condizione del gladiatore:

    _Oplomacus nunc es, fueras ophthalmicus ante:_
    _Fecisti medicus, quod facis oplomacus_[241].

La medicina fu, tra le scienze, quella che a Roma ottenne poco favore
e vi fece minori progressi. Non è già che ivi si mancasse delle
cognizioni ausiliarie su cui poggia la teoria della medicina; ma fino
ai tempi di Plinio il Vecchio venne abbandonata quale occupazione
illiberale, come già dissi, agli schiavi, a’ liberti od a’ forestieri.
In questa, come nelle altre, i Greci la fecero da maestri, e fu
Arcagato (535 di Roma), a quanto ne attesta lo stesso Plinio[242], il
primo medico greco che gli iniziasse alla medicina. Lucullo, Pompeo ed
altri illustri Romani invitarono in Roma parecchi greci di condizione
libera per esercitarvi quest’arte. Sotto Cesare, montarono in grande
stima, che vieppiù s’accrebbe regnante Augusto. Quest’ultimo accordò
loro rilevanti privilegi, i quali allettarono più romani a dedicarsi,
quantunque liberi, allo studio e alla pratica di questa scienza.

V’ebbero così medici pubblici e privati. Questi ultimi erano per lo
più schiavi o liberti che abitavano col padrone e lui e la famiglia sua
unicamente assistevano, o gli aderenti di casa.

I medici publici, ben lontani dal sentire la dignità degli odierni,
esercitavano il loro mestiere in una bottega, alla quale ricorrevano
coloro che avessero avuto d’uopo di salassi, di operazioni chirurgiche
o di avere strappati i denti; suppergiù come anche adesso in certi
rioni di Napoli vedasi sulla bottega di barbiere annunciato che si
fanno anche salassi.

E si andava a tastone. Una determinata cura non era riuscita a guarire
una malattia, ebbene per essa si ricorreva a farmachi affatto contrarj.
Narrasi di Antonio Musa, liberto di Augusto e amicissimo di Virgilio,
medico di corte e celebratissimo, tal che gli furono eretti, a cagion
di lode, statue e monumenti, che avendo veduto che i bagni caldi non
avevano punto giovato al padrone aggravatissimo, gli consigliasse i
bagni freddi e questi adottati, l’avessero a guarire. E del chirurgo
Arcagato, del quale ho parlato più sopra, come primo introduttore della
medicina in Roma, si racconta essere stato cotanto sanguinario, che il
datogli soprannome di vulnerario gli venisse presto mutato in quello di
carnefice.

Come maravigliare allora di quel che menzionò Plinio il Vecchio
dell’antico Catone avere scritto al figlio: _jurarunt inter se Barbaros
necare omnes medicina. Et hoc ipsum mercede faciunt, ut fides iis sit,
et facile disperdant. Nos quoque dictitant Barbaros, et spurcius nos
quam alios Opicos appellatione fœdant. Interdixi de medicis_[243].

Quindi è che ottenne fama e voga Asclepiade di Prusia in Bitinia,
che recatosi a esercitar medicina in Roma un secolo prima di Cristo,
deducendo le differenti malattie da viziosa dilatazione o stringimento
de’ pori, e riducendo la medicina a rimedi che producessero l’effetto
contrario, voleva una cura limitata a dieta, ginnastica, fregagioni,
vino, uso di semplici e divieto d’ogni farmaco violento ed interno.
A lui si attribuisce l’invenzione delle doccie, che si designarono
col nome di _balneæ pensiles_. Furonvi altri medici che conseguirono
celebrità, come il dottissimo Aulo Cornelio Celso, vissuto a’ tempi
d’Augusto, che nulla per altro innovò, solo spiegando buon criterio
nell’adottare le dottrine de’ suoi predecessori, dettando que’ libri,
_De Artibus_, de’ quali otto sono ancora superstiti[244]; e come
Scribonio Largo Designaziano, siculo o rodio del tempo di Claudio, che
nel trattato _De Compositione Medicamentorum_, che sussiste tuttavia,
ed è tenuto in poco conto, cercò combinare le dottrine metodiche
coll’empirismo, insegnando a non levare il dente leso, ma levarne solo
la parte guasta, e suggerendo l’applicazione della elettricità pel mal
di capo, mediante una torpedine viva; ed Erodico da Leonzio, che trovò
la medicina ginnastica, curando con violenti esercizj susseguiti da
bagno, a un di presso come farebbesi oggi a Grafenberg.

Claudio Galeno di Pergamo, di vastissimo ingegno, studiosissimo della
natura e dell’anatomia, non venne in Roma che più tardi, al tempo,
cioè, di Marco Aurelio imperatore.

Piacemi qui ad ogni modo segnalare come la città di Crotone, la
formidabile rivale di Sibari, nel golfo di Taranto, fosse celebrata fin
dall’antico per l’eccellenza de’ suoi medici e chirurghi.

La professione del medico era lucrosissima. Manlio Cornuto prometteva
duecentomila sesterzj a chi l’avesse guarito dal lichene, malattia alla
faccia; altrettanto si fece pagare Carmide un viaggio in provincia,
egli che tuffava tutta Roma e fino i consoli e i senatori decrepiti
nell’acqua gelata; Alcmeone raggranellò una fortuna di dieci milioni
di sesterzj; Quinto Stertinio riceveva cinquecentomila sesterzj
dagli imperatori, e dalla clientela in Roma seicentomila all’anno, e
congiuntamente a suo fratello, lasciò un patrimonio di trenta milioni
di sesterzj, oltre all’aver dotata Napoli di opere superbe. Dieci
milioni ne lasciò Crinate, dopo di averne consacrati altri dieci a
rialzare le mura di Marsiglia sua patria: e Valente ed Eudemo, medici e
drudi di Messalina e di Livia, disponevano a capriccio del talamo e del
tesoro imperiale.

Tranne questi medici principali e forastieri, per lo più greci, vessati
del resto anch’essi e costretti anzi a partire da Roma, dove non
ritornarono che più tardi, gli altri medici erano per lo più schiavi
o liberti, e quindi i primi esposti in caso di mala riuscita, alla
battitura e alla catena, e i secondi alla condanna da parte della
giustizia ad ammende considerevoli.

Le cortigiane poi che non erano sotto la vigilanza dell’edile,
affidavansi a certe vecchie medichesse, _medicæ_ che non solo erano
levatrici, ma addette eziandio alla magia ed alla medicina empirica.
Trovasi infatti in Grutero, un’iscrizione che ricorda una Seconda
medichessa:

                      _Secunda L. Livinæ Medica._

Aniano, nelle sue annotazioni al codice teodosiano, ricorda le _medicæ
juratæ_, le medichesse giurate, che non erano che levatrici autorizzate
a studiare medicina.

A Pompei la medicina doveva trovarsi presumibilmente non impari ne’
progressi a quella di Roma. Lo si può dedurre almeno dalla moltiplicità
ed esame degli stromenti chirurgici ritrovati negli scavi, che appunto
per essi fu assegnata ad una casa, scoperta nel 1771, la denominazione
di _Casa del Chirurgo_ nella via Domiziana, a fianco della casa detta
delle Vestali.

Questa casa abbastanza grande ha tredici camere, talune adorne di
pitture e con pavimenti in mosaico. Nel fondo, a destra dello xisto,
vi è una camera sulle cui pareti è dipinta la Toeletta di Venere, egual
soggetto trattato così stupendamente dal morbido e grazioso pennello di
Guido Reni. Pur dalle pareti di queste sale furon tolti altri dipinti
rappresentanti un pittore che dipinge un busto, una testa, una Baccante
ed una quaglia, che si depositarono, come tutte le altre cose pregevoli
di Pompei e d’Ercolano, al Museo Nazionale.

Ma all’argomento mio importa tener conto adesso e parola dei suddetti
arnesi chirurgici, che vi si ritrovarono.

Nella più vasta sala dell’abitazione, che verosimilmente doveva essere
la sala anatomica e la scuola di medicina, ben quaranta stromenti di
chirurgia si rinvennero, e quantunque si riconoscano di piuttosto
grossolana fattura, se si paragonano agli odierni, lavorati con
tutta la finitezza e talvolta con eleganza, riescono tuttavia assai
interessanti, riscontrandosene pure taluni che rassomigliano molto ai
moderni, ed altri di diverso disegno e per usi che non si sanno forse
indovinare.

Con siffatta scoperta si è conosciuto che cosa mai fossero le
_cucurbitæ_ o _cucurbitulæ_, usate in medicina, rammentate pur da
Giovenale in questo verso:

    _Jam pridem caput hoc ventosa cucurbita quærat_[245]

e si comprese che se dovevano essere coppette fatte della scorza di
questi frutti, o piccole zucche, potevano essere anche di bronzo,
siccome queste trovate in Pompei. Fu inteso egualmente meglio, anche
il passo di Celso, che allude a ventose di bronzo e di corno[246]. —
Queste ventose pompejane sono a foggia di mezze ampolle con quattro
buchi, che solevansi otturare con creta, che poi si levava onde
distaccarla dalla pelle che il vuoto aveva attratto. Si riconobbe
eziandio lo strumento per saldare le vene, gli _scalpelli escissorii_ a
guisa di picciole punte di lancetta da una parte e dall’altra aventi il
_malleo_ per la frattura delle ossa; le spatule di diverse forme; gli
specilli concavi da un lato e dall’altro a forma d’oliva; un _catetero_
bucato colla sua guaina mobile; un _unco_ per estrarre il feto già
morto; ami, aghi, forbici dentate a guisa di tenaglia, _circini
escissorii, bolselle a denti, sonde urinarie_, lancette, bisturi,
siringhe auricolari, seghe, coltelli ecc. tutti del rame più puro, con
manichi di bronzo e riposti in astuccio pur di rame e di bosso. I soli
bottoni per l’applicazione de’ cauterj erano in ferro.

A chi ne voglia sapere di più consiglio ricorrere alla dotta
dissertazione di Louis Choulant: _De locis Pompejanis ad rem medicam
facientibus_, Leipzig 1823, ed alla descrizione illustrata da
disegni del cav. Leonardo Santoro di Napoli, inserta nelle Memorie
dell’Accademia di Napoli: non che al trattato edito nel 1821 a Parigi
dal dottor Savensko di Pietroburgo, e da cui risulta che già si
conoscessero a’ tempi di Pompei strumenti chirurgici che si credono
invenzione de’ nostri giorni, e che pur allora si possedessero mezzi
dall’arte chirurgica che non son oggi neppur sospettati.

Cesare Cantù poi ricorda[247] che all’accademia di Parigi fossero
dal signor Scouteten presentati i seguenti strumenti, dissotterrati a
Pompei ed Ercolano: una sonda curva, una dritta, pei due sessi e per
bambino; la lima per togliere le asprezze ossee; lo specillo dell’ano e
dell’utero a tre branche; tre modelli di aghi da passar corde o setoni;
la lancetta ed il cucchiajo, di cui i medici si servivano costantemente
per esaminare la natura del sangue dopo il salasso; uncini ricurvi di
varia lunghezza, destinati a sollevar le vene nella recisione delle
varici; una cucchiaja (_curette_) terminata al lato opposto da un
rigonfiamento a oliva, all’uopo di cauterizzare; tre ventose di forma e
grandezza diversa; la sonda terminata da una lamina metallica piatta e
fessa, per sollevare la lingua nel taglio del frenulo; molti modelli di
spatule; scalpelli a doccia piccolissimi per legare le ossa; coltelli
dritti e convessi; il cauterio nummolare; il trequarti; la fiamma
dei veterinarj per salassare i cavalli; l’elevatore pel trapanamento;
una scatola da chirurgo per contenere trocisci e diversi medicamenti;
pinzette depilatorie, pinzette mordenti a denti di sorcio, una a becco
di grua, una che forma cucchiajo colla riunione delle branche; molti
modelli di martelli taglienti da un lato; tubi conduttori per dirigere
gli stromenti cauterizzanti.

Se la medicina per sì lungo tempo rimase un vero empirismo, nè si
sollevò che più tardi colla coordinazione dei fatti e risultamenti
all’onore di scienza: puossi argomentare facilmente come in ricambio
si dovesse ricorrere a prodotti chimici, ad empiastri, ad erbe, a
beveroni, a dettame di que’ cerretani nelle cui mani trovavasi l’arte
salutare. E v’erano donne altresì che la pretendevano a sapienza
nelle scelte e distillamento delle erbe e componevano filtri, che la
superstizione e i pregiudizi d’ogni maniera facevano credere atti a
dare o togliere l’amore, a portare o distruggere la fortuna e vie via
a secondare ogni sorta di passioni, ma principalmente quella degli
appetiti sfrenati e lussuriosi onde dicevansi afrodisiaci. Ma essi,
grida Ovidio, non recano vantaggio alle fanciulle, ma nuocono alla
ragione contenendo i germi della pazzia furiosa.

Questi empirici, antidotari e farmacisti erano però venuti
nell’universale disprezzo, quantunque i più vi ricorressero: a un
dipresso come vediamo adesso derisi magnetizzatori e sonnambule,
tiratrici di carte e indovini, ma, ciò malgrado, contar numerosa
clientela e raggrannellar ricchezza. Orazio li mise a fascio colle
sgualdrine ambubaje in quel verso che nel capitolo dell’Anfiteatro ho
già citato:

    _Ambubajarum collegia, farmacopolæ._

Fra questi empirici si distinsero nondimeno molti dotti botanici e
manipolatori ingegnosi. Sotto Tiberio, Menecrate inventor del diachilo,
componeva empiastri, spesso efficaci contro le erpeti, i tumori e le
scrofole; Servilio Democrate fabbricava eccellenti emollienti.

_Pharmacopolæ_ appellavansi i venditori di farmachi, ma non per questo
si possono dire pari agli odierni farmacisti, perocchè questi or
vendano i semplici e manipolino i medicamenti giusta le prescrizioni
dei medici; mentre quelli fabbricavan rimedj di proprio capo e li
spacciavano, come fanno gli odierni cerretani; onde Catone, presso
Gellio, fosse nella ragione allorchè disse: _Itaque auditis, non
auscultatis, tanquam pharmacopolam. Nam ejus verba audiuntur, verum ei
se nemo committit, si æger est_[248].

Erano i _Seplasarii_ che vendevano i semplici, e spacciavano pure
profumi, droghe, unguenti ed aromi.

Sotto il nome di _sagæ_ venivano le specie diverse di venditrici
d’unguenti e di filtri, che fabbricavano spesso con magici riti
inventati nella Tessaglia. Ignoranti assai sovente della efficacia
delle erbe che trattavano, non è a dirsi se causassero anche di
funeste conseguenze. Così perirono anzi tempo Licinio Lucullo amico di
Cicerone, il poeta Lucrezio e tanti altri.

Orazio, che era stato amante d’una Gratidia, ch’era una tra le più
celebri _sagæ_ di Roma, stando a quanto ne scrissero i suoi scoliasti,
rimproverò a costei, che raccomandò co’ suoi versi immortali alla
esecrazione dei posteri sotto il nome di Canidia, il funesto potere
delle sue pozioni amorose, che gli tolsero gioventù, forza, illusioni e
salute[249].

In Pompei, sull’angolo d’un viottolo, si credè ravvisare una
fabbrica di prodotti chimici. Sulla sua facciata si lessero diverse
iscrizioni, tra cui l’una che accenna a Gneo Elvio Sabino; un’altra
a Cajo Calvenzio Sellio. La fabbrica consta di due botteghe: a
destra dell’atrio vi è un triplice fornello destinato a tre grandi
caldaje disposte a differenti altezze. Nella casa si conteneva
gran quantità di droghe carbonizzate. Nel 1818, in faccia alla via
Domiziana, sull’angolo d’un’isola triangolare, si sterrò una taberna di
_seplasarius_ o farmacista. Per mostra aveva dipinto un grosso serpente
che morde un pomo di pino. Il serpe era l’attributo di Igea, la dea
della salute, e di Esculapio: esso è ancora l’emblema delle odierne
farmacie. In Pompei, come abbiamo altrove notato, valeva ad altri scopi
eziandio, nè quindi avrebbe certo bastato a fissare la designazione a
questa taberna di officina farmaceutica, dove non si fossero trovati
nell’interno diversi altri medicamenti, preparazioni chimiche, vasi
con farmachi disseccati e pillole, e spatole e una cassetta in bronzo
a comparti contenente droghe, e una lama di porfido per distendere e
stemprare gli empiastri. Questa cassetta conservasi al Museo in un con
un bel candelabro di bronzo.

Dyer poi[250] scrive essersi colà trovato eziandio un gran vaso di
vetro capace di contenere due galloni (9l, 086), nel quale vi era
un gallone e mezzo (6l, 814) d’un liquido rossastro che si pretende
fosse un balsamo. Essendo stato aperto il vaso, il liquido cominciò
a svaporare rapidissimamente, onde si affrettò a chiuderlo di nuovo
ermeticamente.

Questo è quanto pare a me compendj brevissimamente la condizione dello
scibile d’allora e il suo insegnamento.

Finora non si raccolsero dati essere esistite altre scuole in Pompei
fuori di quelle che ricordai nel presente capitolo, nè forse gli Scavi
altre ne metteranno alla luce. Si sa del resto, per gli usi generali
in Roma, e quindi anche nelle colonie, che vi fossero scuole private,
in ciò che per la puerizia delle classi agiate ogni famiglia avesse
il suo schiavo, destinato a dare i primi rudimenti letterarj; poi
erano i grammatici che subentravano ad ammaestrare nello scrivere
e nello studio degli scrittori e nel greco, e dopo avea luogo il
perfezionamento in Grecia nelle discipline della filosofia. Reduci
in patria, o era nell’esercito che eleggevano la carriera e traevano
alle guerre, di cui Roma non aveva penuria mai, o entravano nella
magistratura, o praticavano dagli oratori più rinomati ad apprendere
l’eloquenza del foro; assai sovente poi tutte queste professioni volta
a volta esercitando, cioè passando dal foro alle cariche civili, e da
queste a’ gradi militari, ora magistrati e ora soldati.

Non vi volevano che i vizj e le scelleraggini dell’impero per chiamare
su Roma e l’Italia il torrente barbarico e far iscomparire istituzioni
e civiltà, e quando questa potè far di nuovo capolino e ricomparire
sulle rovine indagate del passato, si è procacciato di ricostruire,
senza che finora si possa dire che da noi siasi fatto meglio de’ nostri
gloriosi maggiori.

Ad ogni modo, anche la sapienza odierna spesso piacesi confortare sè
stessa dell’autorità della sapienza romana, che invoca come oracolo
sacro e senza appello.




CAPITOLO XVII.

Tabernæ.

  Istinti dei Romani — Soldati per forza — Agricoltori — Poca
  importanza del commercio coll’estero — Commercio marittimo di
  Pompei — Commercio marittimo di Roma — Ignoranza della nautica
  — Commercio d’Importazione — Modo di bilancio — Ragioni di
  decadimento della grandezza romana — Industria — Da chi esercitata
  — _Mensarii_ ed _Argentarii_ — Usura — Artigiani distinti in
  categorie — Commercio al minuto — Commercio delle botteghe —
  Commercio della strada — Fori _nundinari_ o venali — Il _Portorium_
  o tassa delle derrate portate al mercato — Le _tabernæ_ e
  loro costruzione — _Institores_ — Mostre o insegne — _Popinæ,
  thermopolia, cauponæ, œnopolia_ — Mercanti ambulanti — Cerretani —
  Grande e piccolo Commercio in Pompei — Foro nundinario di Pompei
  — _Tabernæ_ — Le insegne delle botteghe — Alberghi di Albino, di
  Giulio Polibio e Agato Vajo, dell’_Elefante_ o di Sittio e della
  Via delle Tombe — _Thermopolia_ — _Pistrini, Pistores, Siliginari_
  — Plauto, Terenzio, Cleante e Pittaco Re, mugnai — Le mole di
  Pompei — Pistrini diversi — Paquio Proculo, fornajo duumviro di
  giustizia — Ritratto di lui e di sua moglie — Venditorio d’olio —
  _Ganeum_ — Lattivendolo — Fruttajuolo — Macellai — _Myropolium_,
  profumi e profumieri — _Tonstrina_, o barbieria — Sarti — Magazzeno
  di tele e di stoffe — Lavanderie — La Ninfa Eco — Il Conciapelli
  — Calzoleria e Selleria — Tintori — Arte Fullonica — Fulloniche
  di Pompei — Fabbriche di Sapone — Orefici — Fabbri e falegnami
  — _Profectus fabrorum_ — Vasaj e vetrai — Vasi vinarj — =Salve
  Lucru=.


Sotto questo nome di _tabernæ_, chè così i latini chiamavano le
botteghe, il capitolo presente è chiamato a far assistere il lettore al
movimento dell’industria pompejana e del suo commercio. La storia del
commercio romano non corre sempre parallela, come nelle altre cose che
abbiam osservato finora, colla storia del commercio della piccola città
di Pompei: tuttavia essa si comprende nella storia generale di quello
della gran Roma, come la parte nel tutto, che però dovrò riassumere
brevemente, e di tal guisa saran raggiunti i miei intenti, e il
lettore si avrà così anche questa parte importante della vita di quella
repubblica famosa, che compendia tutta l’Italia antica.

Quando si pensa che i Romani fondarono la più vasta e formidabile
monarchia del mondo, parrebbe che si dovesse argomentare che essi
avrebbero dovuto avere una corrispondente ricchezza e floridezza di
commercio; ma non fu veramente così. Come abbiam veduto delle scienze,
che non presero a mostrarsi in Roma che cinque secoli dopo la sua
fondazione; così fu anche del commercio e dell’industria. Insino alla
prima Guerra Punica, i Romani non erano per anco usciti d’Italia, nè
pur potevano avere stabiliti commerci coll’estero. Poveri e soldati,
non ebbero tampoco nozione alcuna di commercio, e neppure ne sentirono
il bisogno. Erasi infatti ai primi giorni dell’infanzia di un popolo,
divenuto poi conquistatore, che era ai prodromi di quelle convulsioni
che l’avrebbero di poi così violentemente agitato. Fin dalle origini,
più che impaziente di gittarsi alle conquiste, come da non pochi
scrittori si volle far credere, ciò desumendo piuttosto dai moltissimi
fatti onde si ordì la sua storia, che dal più diligente studio del suo
primitivo costume e delle sue abitudini; forzato ad essere soldato per
difendersi dagli incessanti attacchi dei Sabini, degli Etruschi e dei
Sanniti; tanto il carattere suo che le sue leggi naturalmente assumer
dovevano una tinta militare; e però l’educazione doveva piegare alla
più severa disciplina, alla più passiva obbedienza. Sì certo; il popolo
romano era per istinto pastore e lo si può credere a Catone, che così
ce lo attesta nella prefazione all’opera sua, _De Re Rustica_: _Majores
nostri virum bonum ita laudabant: bonum agricolam, bonumque colonum.
Amplissime laudari existimabatur qui ita laudabatur_[251]. Conquistando
adunque l’universo, non fece che difendere o proteggere la propria
indipendenza, nè combattè che per assicurarsi le dolcezze della pace,
alla quale continuamente aspirava. Properzio mostra che pur a’ suoi
tempi la si pensava così della patria romana, quantunque l’epoca sua
ribollisse per la febbre delle conquiste, in quel verso:

    _Armis apta magis tellus quam commoda noxæ_[252];
ciò che del resto affermava pure Sallustio, quando, narrando della
Guerra Catilinaria, qualificava la romana razza _genus hominum agreste,
sine legibus, sine imperio, liberum atque solutum_[253]; e più innanzi
così enunciava gli scopi de’ loro fatti militari: _hostibus obviam ire,
libertatem, patriam, parentesque armis tegere_[254]. Ciò non tolse che
il dovere star sempre all’erta e dover respingere tanti e innumerevoli
nemici, avesse a modificare le primitive inclinazioni. Epperò
l’occupazione generale doveva essere di ginnastiche esercitazioni,
di ludi bellici, di studio, di violente imprese, e si hanno così
le ragioni di que’ fatti d’armi gloriosi che si succedevano senza
posa l’un l’altro e di quelle virtù eziandio primitive che si videro
scemare man mano che crebbe la potenza romana e con essa le passioni
individuali.

I Romani inoltre situati fra tanti popoli e nazioni prodi e bellicosi,
che dovevano diventare? Altrettanti soldati, risponde il Mengotti
nell’opera sua, _Il Commercio dei Romani_[255]. Bisognava o distruggere
o essere distrutti. Stettero dunque coll’armi alla mano per quattro
secoli, rodendo pertinacemente i confini ora di questo, ora di quello
stato, finchè superati tutti gli ostacoli, dominati i Sanniti e vinto
Pirro, o piuttosto non vinti da lui, si resero signori d’Italia. In
appresso l’orgoglio, che ispira la felicità delle prime imprese e la
smoderata cupidità di bottino, gli stimolarono a divenir conquistatori
della terra. Questo fu il genio che si venne necessariamente formando e
il carattere de’ Romani. La guerra, dopo che divenne indispensabile, fu
la loro educazione, il loro mestiere e la loro passion dominante. Essi
furono quindi soldati per massima di stato, per forza di istituzione,
per necessità di difesa, per influenza di religione, per esempio
de’ ricchi e dopo altresì che divennero ricchi e potenti in Italia,
conservarono la stessa ferocia e la stessa tendenza a crescere di stato
per il lungo uso di vincere e per impulso delle prime impressioni.

Un popolo poi fiero e conquistatore riguarda allora la negoziazione
come un mestiere ignobile, mercenario ed indegno della propria
grandezza. Le idee vaste, i piani magnifici, i progetti brillanti,
i pensieri ambiziosi di gloria e di rinomanza, lo splendore e la
celebrità delle vittorie, la boria de’ titoli, la pompa ed il fasto de’
trionfi non si confacevano con le piccole idee e coi minuti particolari
della mercatura. Lo stesso Cicerone preponeva ad ogni altra virtù la
virtù militare: _Rei militaris virtus præstat cæteris omnibus; hæc
populo romano, hæc huic urbi æternam gloriam peperit_[256].

All’agricoltura, la passione e virtù d’origine, si sarebbero piuttosto
nei giorni di calma e in ricambio rivolti, tornando più confacente
a que’ caratteri indomiti; e così que’ grandi capitani che furono
Camillo, Cincinnato, Fabrizio e Curio alternavano le cure della guerra
con quelle del campo, infra i solchi del quale era duopo che i militari
tribuni andassero a cercarli quando avveniva rottura di ostilità coi
popoli limitrofi.

Quindi nulle le arti, povere le manifatture, rustico il costume.
Grossolane le vesti, venivano confezionate dalle spose pei mariti;
onde si diceva della donna a sommo di lode, _domum mansit, lanam
fecit_[257], e i capi stessi non permettevansi lusso maggiore; sì che
si legga nelle storie di Roma della toga di Servio Tullio, lavoro di
sua moglie Tanaquilla, che stesse gran tempo, siccome sacra memoria,
appesa nel tempio della Fortuna.

Colle spoglie de’ vinti nemici si fabbricarono e ornarono persino i
templi: nulla insomma si faceva in casa propria.

Quali arti dunque, chiede ancora il Mengotti, seguite pur dal Boccardo,
qual industria, quali manifatture, qual commercio potevano avere i
Romani senza coltura, senza lettere, senza scienze? Le arti tutte e le
scienze si prestano un vicendevole soccorso e riflettono, per dir così,
la loro luce, le une sulle altre. Tutte le cognizioni hanno un legame
ed un’affinità fra di loro. La poca scienza della navigazione presso i
Romani contribuì finalmente ad impedire che il traffico progredisse.

Tuttavia noi abbiam veduto diggià, nel ritessere la storia di Pompei,
come questa città fosse emporio di commercio marittimo e così erano
pure città commercianti tutte quelle littorane. Ma esse erano quasi
divise allora dalla vita e partecipazione romana. La Sicilia contava
floridi regni, che hanno una propria ed onorifica istoria, e la
Campania, ed altre terre che costituiron di poi lo stato di Napoli,
popolate da gente di greca stirpe, giunse a tale di prosperità, da
essere appellata dai Greci stessi _Magna Grecia_. Navigarono questi
commercianti della Campania lungo le coste d’Italia e delle isole
vicine, visitarono la Sicilia, la Sardegna, la Corsica, e fino in
Africa pervennero a vendervi e scambiarvi i ricchi prodotti del suolo.
Del commercio di Pompei con Alessandria ho già trattato, allor che
dissi dell’importazione fatta dagli Alessandrini in Pompei; fra l’altre
cose, pur del culto dell’egizia Iside.

Istessamente abbiam qualche dato che attesta il commercio marittimo di
Roma con l’Africa. Nell’anno che seguì l’espulsione dei re da Roma,
venne, al dir di Polibio[258], conchiuso fra questa repubblica e
Cartagine il primo trattato di commercio, che fu di poi rinnovato due
volte. Vuolsi dire per altro che nelle loro relazioni con Cartagine i
Romani comprassero più che non vendessero, importando di là tessuti
rinomati per la loro leggerezza, oreficerie, avorio, ambra, pietre
preziose e stagno; e però può aver ragione il succitato Mengotti nel
credere che fossero stati piuttosto i Cartaginesi, sovrani allora
del mare, i quali fossero andati ai Romani, anzi che questi a quelli;
giacchè dove avessero avuto vascelli o navi proprie e conosciuta la
nautica, se ne sarebbero valsi a respingere Pirro dal lido italico, nè
le tempeste e gli scogli avrebbero distrutte sempre le loro flotte;
tal che la strage causata dai naufragi fosse sì grande, che da un
censo all’altro si avesse a trovare una diminuzione in Roma di quasi
novantamila cittadini[259].

Porran suggello a questo vero dell’imperizia de’ Romani nella nautica,
le frequenti disfatte toccate da essi nei mari, la guerra de’ Pirati,
che li andavano ad insultare sugli occhi proprj, e le parole di
Cicerone che l’abbandono vergognoso della loro marina chiama _labem et
ignominiam reipublicæ_[260], macchia e ignominia della Repubblica.

Ma le cose migliorarono, convien dirlo, dopo Augusto, se Plinio ci fa
sapere che i Romani portassero ad Alessandria ogni anno per cinque
milioni di mercanzie, e vi guadagnassero il centuplo, e se tanto
interesse vi avessero a trovare, da spingere la gelosia loro a vietare
ad ogni straniero l’entrata nel mar Rosso.

Roma per cinquanta miglia di circonferenza, con quattro milioni di
abitanti[261], con ricchezze innumerevoli versate in essa da conquiste
e depredamenti di tante nazioni, con infinite esigenze di lusso e
di mollezza da parte de’ suoi facoltosi, opulenti come i re, doveva
avere indubbiamente attirato un vasto commercio, certo per altro più
di importazione che di esportazione. Il succitato Plinio ci informa
come si profondessero interi patrimonii nelle gemme che si derivavan
dall’Oriente, negli aromi dell’Arabia e della Persia; che dall’Egitto
poi si cavasse il papiro, il grano ed il vetro, che si cambiavan con
olio, vino, e Marziale ci avverte anche con rose in quel verso:

    _Mitte tuas messes; accipe, Nile, rosas_[262]

e dell’Etiopia, profumi, avorio, fiere e cotone, che Virgilio chiama
col nome di molle lana:

    _Nemora Æthiopum molli canentia lana_[263].

La Spagna forniva argento, miele, allume, cera, zafferano, pece,
biade, vini e lino; le Gallie rame, cavalli, e lana, oro de’ Pirenei,
vini, liquori, panni, tele e prosciutti di Bajona; la Britannia stagno
e piombo; la Grecia il miele d’Imetto, il bronzo di Corinto assai
pregiato, vino, zolfo e trementina, le lane d’Attica, la porpora di
Laconia, l’elleboro di Anticira, l’olio di Sicione, il grano di Beozia,
nardo, stoffe, pietre preziose e schiavi. L’Asia Minore mandava ferro
dell’Eusino, legno della Frigia, gomma del monte Idea, lana di Mileto,
zafferani e vini del monte Tmolo, stoviglie di Lidia, profumi e cedri e
schiavi della Siria, porpora di Tiro e formaggi.

Ma tutto questo commercio colle nazioni straniere, osserva il
Mengotti, come fosse sempre passivo per i Romani; ma se ne ricattavano,
osservo io, e colmavano il disavanzo del bilancio colle conquiste,
riprendendosi ben presto con la forza ciò che le nazioni commercianti
avevano loro spremuto con l’industria, così che non potessero mai
esaurire la loro ricchezza per quanto si studiassero di abusarne,
siccome è detto in Sallustio: _Omnibus modis pecuniam trahunt, vexant;
tamen summa libidine divitias suas vincere nequeunt_[264]. Il quale
Sallustio che così scriveva, attingeva pure a questa limacciosa fonte
per abbellire i suoi famosi orti, e l’infame sistema veniva sanzionato
dalla religione, essendosi giunto perfino ad erigere un tempio a Giove
Predatore.

Non sono quindi d’accordo coll’illustre scrittore del _Commercio de’
Romani_, che fosse per questo traffico passivo e rovinoso ch’essi
cadessero nella povertà e nella barbarie. Le cagioni della decadenza
e della barbarie voglion essere attribuite prima alla decrescente
prosperità agricola che degenerò presto in rovina e ne fu causa
principale la concentrazione dei piccoli poderi in vaste possessioni;
quindi la sostituzione del lavoro degli schiavi a quello degli uomini
liberi, del quale Plinio espresse gli effetti perniciosi in memorande
parole: _Coli rura ergastulis pessimum est ut quidquid agitur a
desperantibus_[265]. Altre e più efficaci cause di desolazioni
dell’Italia furono le incessanti guerre. I generali vittoriosi solevano
ripartire ai loro soldati le terre conquistate. Codesti barbari d’ogni
nazione, dice lo stesso Mengotti, Galli, Germani, Illirii e Numidi,
senza affetto per l’Italia, che riguardavano non come patria, ma
come una preda e un guiderdone dovuto ai loro servigi, cercavano di
emungerla, non di coltivarla; sicchè lo sconvolgimento e la forza,
le emigrazioni erano continue e cresceva ogni giorno l’abbandono e lo
squallore delle campagne.

Nè fu estranea alla decadenza la diminuzione della popolazione, effetto
delle proscrizioni e delle guerre; onde fin sotto di Cesare si pensasse
a far provvide leggi, _ut exhaustæ urbis frequentia suppeteret_, onde
sopperire, cioè, alla deficienza di popolazione della esausta città.

La corruzion del costume diede il colpo di grazia. Ingolfandosi i
Romani nella mollezza e nel vizio e venendosi essi così eliminando
dal servizio attivo dell’armi, presero il loro posto soldati e capi
stranieri e così si scalzarono ben presto da quella antica grandezza,
per sostituire altri i loro propri interessi. Divenuto l’impero oggetto
di disputa e cupidigia, messo all’incanto perfino dalla prepotenza
e rapacità de’ pretoriani, gli stranieri impararono la via di casa
nostra, vi si stabilirono da padroni e tiranni, e ci fecero a misura di
carbone pagare le passate colpe.

In quanto all’industria, nei primi tempi, pochi uomini liberi cercavano
ne’ lavori manuali una professione lucrativa: l’agricoltura era
la naturale e, se non l’unica, almeno la più onorevole occupazione
dei cittadini romani. Ma quando la popolazione di Roma crebbe e la
piccola proprietà di una famiglia povera non bastò a nutrir tutti i
suoi membri, molti dovettero cercare la loro sussistenza nel lavoro
manuale. Questi operai liberi uscivano quasi sempre dalla classe degli
schiavi che esercitavano specialmente siffatti lavori e continuavano
ad occuparsene, quand’essi avessero ricuperata la loro libertà. Di
tal guisa l’industria migliore era esercitata a Roma massimamente dai
liberti, che rimanevano clienti dei loro antichi padroni. Si comprende
così perchè l’industria, esercitata da cittadini d’ultima classe, da
liberti e da schiavi, dovesse essere negletta e disprezzata. I mestieri
manuali e il commercio di dettaglio erano considerati come professioni
basse, _sordida negotia_. Cicerone, che per l’altezza dell’ingegno
avrebbe dovuto essere superiore ai pregiudizii volgari, pur nondimeno
divideva questo contro gli industriali. Noi, scrive egli, dobbiam
disprezzare i commercianti che ci provocan l’odio contro di essi. È
basso e non è istimabile il mestiere di questi mercenari che locano le
loro braccia e non il loro ingegno. Per essi il guadagno non è che il
salario della loro schiavitù: mettiamo al medesimo livello l’industria
di quelli che comprano per rivendere, perchè per guadagnare, è bisogno
che mentiscano. Che mai v’ha di nobile in una bottega? Quale stima
accorderemo noi a questa gente, il commercio della quale non ha per
oggetto che il piacere, come i pescivendoli, i beccaj, i pizzicagnoli,
i cuochi e i profumieri? Concediamo la nostra stima alla medicina,
all’architettura, se si voglia; ma in quanto al piccolo commercio, esso
è sempre basso: il solo grande non è spregevole tanto.

E così la pensava tutta Roma.

Infatti nel grande commercio non esitavano ad entrare persone
dell’ordine equestre, in vista dei forti lucri, grazie ai quali, sotto
il nome dei loro liberti, esercitavano spesso la banca, chiamati que’
liberti, _mensarii de argentarii_, equivalenti ai moderni banchieri.
Così ne originava quella schifosissima e fatal piaga che fu l’usura,
che divenne anzi prontamente più forte e deplorevole che non la sia de’
nostri giorni.

A conoscerne la misura, citerò quella che si faceva da’ più virtuosi,
senza pur credere di mancare alle leggi dell’onesto. Pompeo Magno
prestava 600 talenti ad Ariobarzane al 70 per cento, e il severo Bruto,
l’ultimo e virtuoso republicano alla esausta città di Salamina mutuava
pur forte somma al 48 per cento.

Vuolsi attribuire a Numa Pompilio la distribuzione degli Artigiani
in differenti categorie. Le corporazioni dei mestieri erano in numero
di otto: i suonatori di tibia, gli orefici, i falegnami, i trattori,
i vasai, i fabbricatori di cinture, quelli di corregge, i calderaj e
fabbri ferraj, e tutti gli altri artigiani non compresi fra costoro
formavano una nona corporazione. Ciascuna corporazione poi aveva i
suoi capi, _magistri_: i fabbri, falegnami o ferraj, che servivano
nell’esercito erano sotto gli ordini di un prefetto, _præfectus
fabrorum_, e quelli che si occupavano di costruzioni formavano una
categoria particolare, spesso impegnati da un intraprenditore, chiamato
_ædificator_, o _magister structor_.

In quanto al commercio minuto, vi aveva a Roma, come da noi, quello
delle botteghe, _tabernæ_, e della strada.

Il commercio di strada si faceva principalmente nei fori, detti
_nundinari_, o venali. La ragion del nome ho già dato, intrattenendo il
lettore nel capitolo _I Fori_. Era stato Servio Tullio che, a regolare
il commercio fra Roma e la sua campagna e sottometterlo a sorveglianza,
aveva stabilito che la popolazion campagnuola venisse tutti i nove
giorni alla città a comperarvi ciò che le fosse di bisogno, ed a
vendere le sue derrate. Ho già ricordato in quell’occasione e il
_forum boarium_ o mercato de’ buoi; il _suarium_ o quello dei porci;
il _piscarium_, o de’ pesci; il _pistorium_, o del pane; _cupedinis_,
o de’ frutti e delle confetture. V’era anche il _forum macellum_
destinato alle carni non solo, ma a designare l’insiem de’ mercati,
che tutti erano vicini, lungo il Tevere, facili così a essere vigilati
dagli Edili, che spezzavano i falsi pesi e le false misure, e gettavano
alle onde di quel fiume i generi di cattiva qualità. Era sulla piazza
stessa del mercato che gli Agenti del tesoro venivano ad esigere dai
venditori il _portorium_, o tassa su tutte le merci che vi apportavano.

Oltre i mercati, vi erano anche botteghe. Erano queste il più spesso
semplici baracche in legno, coperte di tavole ed adossate alle case.
Dovevano essere per conseguenza anguste, male arieggiate e peggio
illuminate, ma di tal prezzo di locazione che Cicerone ci apprende che
molti ricchi proprietarj ne facessero costruire tutt’all’intorno delle
loro magnifiche dimore, ricavandone enormi somme. Non mancavano del
resto di coloro, che allettati dalla cupidigia del denaro, facessero
tenere per loro conto da schiavi, liberti, o mercenari, che si dicevano
_institores_, quelle botteghe, massime a vendita di pane e di carni.

Presso a tutti i luoghi publici, come bagni, teatri, circhi, trovavansi
mercanti di vino, di bevande calde e cibi cotti. Al disopra delle
botteghe mettevansi insegne a pittura. Ho già in altro capitolo recato
all’uopo un passo d’Orazio che attesta questo costume; nè ciò bastando,
si esponevano fuor della porta in bella mostra le mercanzie. Le più
ricche erano quelle dei _Septa Julia_ e attiravano il più gran numero
di avventori.

Era certo che tutte queste baracche che costeggiavano le case dovessero
essere di grande ingombro alle vie, che non erano sempre così larghe,
come si potrebbe credere. L’inconveniente — a togliere in qualche parte
il quale, aveva contribuito l’incendio di Nerone, — durò fin sotto
Domiziano, che finalmente vietò che si costruissero presso le case,
appunto perchè restringessero esse di molto la via publica, e Marziale,
sempre pronto ad incensare quel Cesare, che dopo morte vituperò, così
ne lo loda del savio provvedimento:

    _Abstulerat totam temerarius institor urbem,_
      _Inque suo nullum limine limen erat._
    _Iussisti tenues, Germanice, crescere vicos;_
      _Et, modo quæ fuerat semita, facta via est._
    _Nulla catenatis pila est præcincta lagonis:_
      _Nec prætor medio cogitur ire luto._
    _Stringitur in densa nec cæca novacula turba:_
      _Occupat aut totas nigra popina vias._
    _Tonsor, caupo, coquus, lanius sua limina servant._
      _Nunc Roma est; nuper magna taberna fuit_[266].

Le botteghe avevano differenti nomi, secondo la natura delle merci che
vi si vendevano. Così le taverne in cui si vendevano i cibi cotti si
chiamavano _popina_, ed erano per lo più frequentate da’ ghiottoni che
vi trovavano eziandio delicati manicaretti e gustose bevande, come si
raccoglie da quel verso di Plauto:

    _Bibitur, estur, quasi in popina haud secus_[267],

_Thermopolia_ erano le taverne dove si vendevano bevande calde;
_caupona_ dicevasi l’albergo, o piuttosto la bottega dove si vendeva
a bere ed a mangiare, l’odierno trattore, e _caupo_ denominavasi
il conduttore. La _Caupona_ serviva anche di alloggio e tavola a’
forestieri: nelle grandi città equivaleva solo alle odierne taverne
od osterie, canove, mescite e birrerie ed _œnopolia_ chiamavansi. Lo
stesso poeta che già citai, Plauto, ne trasmise la notizia che agli
_œnopolia_ traesse il vicinato a provvedere il vino necessario all’uso
giornaliero, in quel passo dell’_Asinaria_:

    _Quom a pistore panem petimus, vinum ex œnopolio,_
    _Si œs habent dant mercem_[268].

_Œnophores_ quindi appellavansi gli schiavi destinati a portare
l’_œnophorum_ o cesta a mano per mettervi gli _urcei_, ampolle o
fiaschi di vino che s’andava a comprare ai venditori summentovati.

Venendo fra poco a dire delle _Tabernæ_, o botteghe scoperte in Pompei,
vi troveremo altre denominazioni ed altre industrie.

Nè mancavano a Roma antica i mercanti ambulanti, come li abbiamo
oggidì, che gridavano e vendevano le loro derrate per via; e Marziale
pur ricorda venditori di zolfanelli, che scambiano la loro merce contro
frammenti di vetro rotto; mercanti di minuti cibi, che spacciano alla
folla; cerretani che mostrano vipere e serpenti, vantandone i pregi e
le abilità, nè più nè meno insomma di quel che veggiamo e udiamo far
oggidì per le nostre piazze.

Venendo ora a ricercare se le medesime condizioni commerciali fossero
in Pompei e se l’industria e i mercanti al minuto vi esistessero
eguali, poco mi resta a dire, per provare come pur eguale vi fosse la
baraonda, perocchè già sappia il lettore, per quel che se ne è detto,
che in quanto al grande commercio e al marittimo, vi si notasse una
tale attività, da indurre perfino i molti a ritenere fra le etimologie
del suo nome quella di _emporio_, quasi appunto fosse Pompei un ridotto
di merci e di commercianti. L’essere in riva al mare e in quella costa
meridionale che è più aperta alle negoziazioni degli stranieri, le
relazioni create dalla omogeneità delle razze fra la sua popolazione
e le popolazioni greche, da cui forse derivava, dovevano mantenervi
animato il commercio marittimo. La speciale condizione sua d’avere
inoltre il Sarno, siccome già sappiamo, di non dubbia importanza, che
comunicava col mare, e che allora era così grosso da permettere la
navigazione, se ben dissero gli scrittori, vi creavano eziandio un
forte movimento commerciale interno, comunicando così con città vicine
da cui ricevevano e cui trasmettevano mercanzie. L’importanza delle
cose rinvenute negli scavi, la ricchezza e valore delle pitture, delle
statue, de’ musaici, della quantità degli ori e delle gemme provano
che molto si faceva arrivare dall’estero; come del resto si argomenta
dai canti de’ poeti e dalle pagine degli storici, che da queste sponde
partissero i vini, le granaglie, le frutta, gli olj, di cui è fornitore
larghissimo il territorio.

I suoi abitatori poi, che sappiamo in buona parte agiati e ricchi, come
rilevasi e dalla entità de’ monumenti e da quanto si è trovato nelle
loro case, oltre i tanti facoltosi che da Roma traevano a villeggiarvi,
dovevano necessariamente richiedere assai animato anche il piccolo
commercio, e se già si è in grado di parlare di parecchie _tabernæ_,
perchè si scavarono e se ne riconobbe l’uso, queste essendo nella parte
più distinta della città, perchè verso la marina; è dato argomentare
che nella parte superiore e non ancora esumata ve ne fossero assai
di più, in numero, cioè, da soddisfare ai bisogni tutti della sua
popolazione.

Anche Pompei aveva il suo Foro nundinario o venale, e il lettore se ne
rammenta, chè di esso ho parlato nel Capitolo intorno ai Fori. Colà,
come a Roma, sarà stato il mercato ove recavansi dagli abitanti delle
campagne circostanti le derrate; colà saran venuti a scambiare le loro
derrate colle merci cittadine. Ivi pure avranno i contadini pagato
il _portorium_ e ivi gli edili pompejani avranno esercitata la loro
vigilanza sui pesi e sulle misure, non che sulla bontà delle derrate e,
se cattive, gittate al mare non di molto discosto.

Se non che le botteghe o _tabernæ_, come si dicevano allora, non
saranno state a Pompei, come a Roma, nè povere baracche di sconnesse
tavole, nè indecentemente adossate alle muraglie delle case.
L’angustia, che abbiam già veduto delle vie pompejane, vietava che
tale costumanza si introducesse nella città: perocchè dove ciò fosse
avvenuto, sarebbesi resa assolutamente impossibile la circolazione.
D’altronde i rialzi che costeggiavano le vie si opponevano a ciò. Le
_tabernæ_ adunque erano in Pompei come le botteghe delle moderne città,
facenti parte delle case ai piani terreni, che si aprivano sull’esterno
delle case. Avevano esse pure le loro indicazioni di vendita, e le loro
insegne esteriori, e suppergiù vi si spacciavano quelle merci che già
conosciamo vi si vendessero nelle botteghe di Roma.

Venga ora meco il lettore a visitarle.

Percorrendo le vie lungo le quali erano aperte, e che or si veggono
vuote, conservando appena da un lato dell’ingresso que’ banchi di
pietra o di materia laterizia, che servivano o per esporvi la merce,
o per contarvi i denari che vi si esigevano, veggonsi in più d’una
ai lati le scanalature per entro alle quali scorrevano le porte che
chiudevano le botteghe, e pure a’ fianchi di codeste o superiormente
alle medesime, ravvisasi qualche scultura o pittura, che serviva
d’insegna spesso allusiva alla qualità di merce che nella bottega si
spacciava. Così su di una vedesi una capra in terra cotta, che vi dice
che là vi si vendesse il latte; su di un’altra una pittura rappresenta
due uomini, l’un de’ quali cammina davanti l’altro sorreggendo ciascuno
l’estremità di un bastone nel mezzo del quale pende sospesa un’anfora,
a significare ch’ivi era un _œnopolium_ o vendita di vino; altrove
era dipinto un mulino girato da un asino, che annuncia il magazzeno
del mugnajo; e su d’altre botteghe scorgesi ancora l’avanzo di
qualche emblema, come uno scacchiere, un’àncora, un naviglio. Già ho
ricordato altrove il dipinto, onde era ornata la bottega presso alle
Terme, rappresentante un combattimento di gladiatori, ed ho riferita
l’iscrizione che a tutela della medesima vi si era graffita sotto:
_Abiat Venerem Pompejanam iradam qui hoc læserit_; e così presso la
bottega di panattiere, o _pistrinum_, leggesi quest’altra iscrizione:
_Hic habitat felicitas_[269], la quale, se non accenna alla natura
del commercio che vi si esercitava, vi attesta almeno che la famiglia
che la conduceva, paga di sè stessa, potevasi proclamare felice. Tre
pitture, ora affatto scomparse, in tre distinte botteghe, raffiguravano
un sagrificatore conducente un toro all’altare su d’una; su di un’altra
una gran cassa da cui pendevano diversi vasi, e sulla terza un corpo
lavato, unto e imbalsamato, che indicava forse un unguentario, al quale
pure incumbeva la preparazione de’ cadaveri, giusta l’uso che vedremo
nell’ultimo capitolo di quest’opera.

Altre insegne vedremo al loro posto toccando delle varie botteghe, che
più specialmente chiameranno la nostra attenzione, e delle quali anzi
il Beulé si valse per uno studio complementario, che intitolò appunto
_Le commerce d’après les peintures_ nella sua opera uscita in questi
giorni in Francia, dal titolo _Le Drame du Vésuve_[270].

Ma prima di tutto, nel trattar del commercio bottegajo, intrattener
debbo il lettore degli alberghi e _popinæ_. _Hospitia_ dicevansi con
vocabolo generale quando fornivano al viaggiatore o forastiero comodità
di cibo o d’alloggio, e con esso li troviamo designati in Cicerone
e in Tito Livio[271] e da un esempio in Pompei stessa, che riferirò
più sotto. _Popina_ chiamavasi la taverna, rosticceria od osteria,
in cui erano venduti cibi cucinati: lo stesso Cicerone e Plauto vi
fanno cenno[272]. Il più spesso l’_hospitium_ era simultaneamente una
_popina_: questa invece non implicava l’idea di albergo.

Ho, nel Capitolo quarto di quest’opera, favellato già alcun poco dei
due publici alberghi, l’uno detto di Albino e l’altro di Giulio Polibio
e Agato Vajo di Pompei. Ho creduto argomentare come il primo dovesse
aver servito a stazione di posta, e che il secondo non avesse dovuto
servire che all’uso de’ mulattieri e carrettieri, ciò desumendo dalla
natura de’ locali e degli attrezzi e altri oggetti rinvenuti. Diciamone
ora, poichè meglio ne cada in taglio il discorso, qualche cosa di più.

L’albergo e _popina_ di Albino è la prima casa che si presenti a destra
entrando nel Corso principale dal sobborgo o Via delle Tombe. La porta
è larga undici piedi e mezzo, è atta al passaggio de’ carri, essendone
piana la soglia d’ingresso ed a livello della strada publica. Da essa
si passa in alcune vaste camere, ove per avventura collocavansi le
merci. Sonvi de’ focolari con sottoposti ripostigli per le legna; dei
banchi laterizi per la distribuzion delle vivande: due botteghe per
vendita d’acque calde e liquori, comunicanti fra loro, con fornelli ed
altri accessori per la cucinatura delle vivande e per il riscaldamento
delle pozioni, non che alcune camere per ricettar avventori. In un
secondo cortile si scende in un sotterraneo, il più spazioso e meglio
conservato in tutta Pompei, di centocinque piedi di lunghezza, di dieci
e mezzo di larghezza e di tredici di altezza[273]. Corre parallelo alla
strada e viene illuminato da tre finestre: vi si ritrovarono molte
ossa di diversi animali: forse vi si gettava l’immondezza e forse
poteva essere anche ad uso di stalla. Il nome del proprietario era
dipinto in nero davanti alla porta, e nella sommità del limitare stava
scolpito in un mattone un gran segno itifallico, che ho già altrove
spiegato essersi usato collocare dagli antichi, non a indizio di luogo
di prostituzione, come taluno può correre facilmente a pensare, ma
per cacciar la _jettatura_, come direbbesi ora a Napoli, o contro
il fascino o malocchio, come dicevasi allora. Ne’ marciapiedi, che
circondavano le botteghe laterali dell’albergo, vi sono de’ buchi
obliqui, che avran servito, come è generale opinione degli scrittori,
per attaccar le bestie da soma. Due scheletri di cavallo colle loro
testiere e briglie furono ritrovati negli scavi di questo albergo.

Quantunque l’altro albergo di Giulio Polibio e Agato Vajo fosse
frequentato da’ mulattieri, come lo fa presumere l’iscrizione che
ho già riferita nel summentovato Capitolo Quarto; tuttavia gli scavi
offersero alcun che di interessante in esso. Avanzi d’iscrizioni sopra
l’intonaco de’ muri esterni vi apparivano già cancellate. Annunziavano
esse combattimenti gladiatorj e cacce nell’Anfiteatro ed indicavano
più nomi proprj. I poggi delle botteghe annesse a quest’albergo erano
assai eleganti, rivestiti al di fuori di marmi: avevano più fornelli,
in uno de’ quali si trovò un _cácabo_, o stoviglia di bronzo col suo
coperchio. Nel davanti erano ornati di due medaglioni con cornici di
legno che rappresentavano due teste di donne in rilievo. Nell’angolo
del poggio o banco era attaccata al muro una piccola statua di terra
cotta coperta di una vernice verde, del genere degli amuleti, la quale
ora si conserva nel Museo di Napoli. Ivi si trovò pure altro amuleto di
bronzo, che sosteneva dei campanelli sospesi a catenelle di bronzo.

Un terzo albergo era quello di Sittio, detto anche dell’_Elefante_,
dall’iscrizione che vi si leggeva così espressa:

                   SITTIVS RESTITVIT ELEPHANTVM[274]

e dall’insegna rappresentante un elefante con enorme serpente
all’intorno ed un nano. Che dovesse essere un albergo, lo dice
quest’altra iscrizione più grande che vi fu letta:

                         HOSPITIVM HIC LOCATVR
                      TRICLINIVM CVM TRIBVS LECTIS
                             ET COMM.[275]

L’interno è assai piccolo, povere le decorazioni: meschinissimo ritrovo
a gente di nessuna fama, come non poteva essere altrimenti, avendo di
fronte il lupanare.

Vi si rinvennero una testa di Giove in pietra di Nocera grossolana, tre
stili per iscrivere, utensili di cucina, un _sarracum_ o carro agricolo
sia per veicolo di persone, che per trasporto di derrate al mercato,
bottiglie di vetro, una asta di ferro, un peso di piombo e monete di
bronzo.

Un albergo e scuderia era pure nella via delle Tombe, quasi rimpetto
alla casa che si presume di Cicerone. Consta d’un portico con botteghe,
e nel mezzo v’era una fontana con abbeveratojo. Gli scavi offrirono qui
dei vasi, de’ secchi di bronzo, un mortajo di marmo, delle bottiglie
di vetro, dei vasi in terra cotta, dadi, un candelabro e avanzi
di bilancia. Nella scuderia che vi è attigua, si trovò la carcassa
di un cavallo col morso in bronzo, se pure era un morso l’ordigno
che aveva la figura di un D, e dei pezzi di un carro. A fianco
dell’ingresso v’erano due fornelli con pentole, in cui dovevano esservi
i commestibili che vi si esponevano e vendevano. Al di sopra di queste
botteghe eravi pure un piano superiore, a cui si saliva per iscale di
legno. In una di queste botteghe si ravvisarono scritti sullo stucco
diversi nomi in caratteri rossi, ma di essi non si potè leggere che
appena quello di STAIVS PROCVLVS.

Nella via di Mercurio vedesi pure una _popina_. Su di un panco di
fabbrica rivestito di marmo sono incassati tre vasi: v’è uno scalino
pur di marmo, per collocarvi le coppe e i bicchieri ed un fornello
per cuocervi le vivande, sotto il quale è dipinto un angue in atto
di divorar le offerte disposte su di un’ara. In un salotto vicino vi
stavano dipinti degli amori; Polifemo e Galatea, e Venere che pesca
coll’amo. Sotto vi è rappresentata una caccia; a qualche distanza un
cane ed un orso accomandati ad un palo che ardono assalire un cervo. A
sinistra della _popina_ evvi una altra sala con una porta segreta nel
viottolo di Mercurio. Gli scrittori ricordano come qui vi si trovassero
tre pitture oscene ora distrutte. Un’altra pittura rappresenta un
soldato vestito d’una singolar tonaca, somigliante ad una pianeta,
o _dalmatica_ de’ nostri preti, il qual soldato porge da bere ad un
popolano. Sopra vi è graffita questa iscrizione:

                MARCVS FVRIVS PILA MARCVM TVLLIVM[276].

Anche un’altra _popina_ era sull’angolo della Via delle Terme, e si
denomina di Fortunata, perchè viveva un’iscrizione nella parte esterna
che recava un tal nome, ma che ora è affatto scomparsa. Vi si vendevano
commestibili.

Due osterie erano dirimpetto alle Terme: ivi stavano molti vasi di vino
o _dolia_, come appellavansi allora, e focolari per ammanire vivande.
Vi si scoprì uno scheletro d’uomo, che al momento della catastrofe
s’era per avventura rifugiato sotto di una scala e stringeva ancora
il suo piccolo tesoro, consistente in un braccialetto in cui erano
infilati tre anelli, uno de’ quali con vaga incisione d’una baccante,
due orecchini, il tutto d’oro; settantacinque monete d’argento e
sessantacinque di bronzo, con cui voleva sottrarsi a sì generale
rovina.

A queste _cauponæ_ e _popinæ_ ed _œnopolia_ e _tabernæ vinariæ_ erano
quasi sempre congiunti, come abbiamo veduto, i _thermopolia_, ossia
botteghe per vendita di bevande calde e liquori, come sarebbero a
un dipresso i moderni caffè; poichè si tenesse allora comunemente
più delizioso il bever caldo. Fin il vino si usava imbandir caldo:
lo si cuoceva e lo si dolcificava e medicava con mirra, come pur di
presente usasi in certe circostanze unirvi droghe, e si dava sopratutto
idromele, giusta quanto si apprende in Plauto:

            PSEUDOLUS

    _Quid, si opus sit, ut dulce promat indidem ecquid habet?_

            CHARIN

                                          _Rogas?_
    _Murrhinam, passum, defrutum mellinam, mel cujusmodi._
    _Quin in corde instruere quondam cœpit thermopolium_[277].

Pur tuttavia v’erano molti e speciali termopoli. Sul corso principale
evvi quello di Perennio, o Perennino, Ninferoide, così interpretandosi
la cancellata epigrafe PERENIN NIMPHEROIS. Vi si osserva ancora il
fornello, il davanzale di marmo bianco, in cui riscontransi le impronte
lasciate dalle tazze colme di liquori, e una nicchia, contenente una
testa di fanciullo in marmo, e alcuni gradini su cui disponevansi le
tazze. Quivi pur si trovò un _phallus_ di bronzo con campanelle, vasi
di terra d’ogni forma e una lampa e varj oggetti di vetro colorato.

Vicino al _Ponderarium_, che già conosciamo, per averne trattato
nel Capitolo Quarto, sonvi due altre _tabernæ_, ch’erano egualmente
termopolii, o mescite di bevande calde, e vogliono essere ricordati per
esservisi trovati una cassa col coperchio di rame, uno scheletro umano
e due d’animali.

E così da codesti venditorj di vino e di bevande calde, di liquori e
di commestibili, da quelli soltanto, cioè, che già si sono scoperti,
vuolsi a ragione inferire che ne dovessero in Pompei sussistere in
quantità; perocchè nel restante della città ancor sepolta abitasse,
come sappiamo, la parte più povera della popolazione, e la quale più di
tali vendite e mescite dovesse necessariamente abbisognare, da che la
classe meglio provveduta avesse modo di prepararsi nella propria casa
di cosiffatte bevande.

E poichè sono a dire delle taberne e commestibili, parmi vi possa star
presso il discorso de’ _pistrini_ o delle taberne da panattiere, o
_pistores_ od anche _siliginari_, come venivano chiamati, esprimendo
il primo nome piuttosto l’operazione del macinare, il secondo invece
quella dell’impasto, da _seligo_, latinamente detta farina di frumento.

_Pistrinum_ era dunque dapprima presso i Romani il luogo in cui veniva
il frumento ridotto in farina. Usavasi a ciò un profondo mortajo detto
_pila_, e d’un grande e forte stromento che ve lo pestava e stritolava
dentro chiamato _pilum_, che per la sua grandezza adoperavasi a due
mani, a differenza dei _pistillum_, il nostro pestello, a testa grossa,
con cui si polverizzavano o impastavano nel _mortarium_ altre sostanze,
come droghe e pasticci. Più tardi, quando si pensò a sostituire altro
stromento che stritolasse maggior quantità di grano e si inventò la
macina, _mola manuaria_ o _trusatilis_, o mulino a mano, _pistrinum_
valse ancora a designare il mulino, che veniva messo in movimento
continuo, di giorno e di notte, o da schiavi o da bestie da soma,
cui si bendavan gli occhi, o da acqua[278]: _nec die tantum, verum
perpeti etiam nocte prorsus instabili machinarum vertigine membrabant
pervigilem farinam_[279], come disse Apulejo.

Ne venne così che il _pistrinum_ si usasse comunemente per luogo di
punizione degli schiavi rei d’alcuna colpa, che vi venivano condannati
a subire un periodo di prigionia con lavoro forzato, lo che era una ben
miserevole pena per quegli sventurati pareggiati alle bestie.

Di questi pistrini se ne trovarono parecchi in Pompei, onde è dato
fornirne ora la più esatta descrizione.

Tutti appajono costruiti d’un solo sistema, consistente, cioè, in
due grosse pietre tagliate ora in forma di due vasi o campane, l’una
arrovesciata sull’altra, che posa su d’una base, che è l’altra pietra,
ed ora in forma di colonna che vien mano mano incavandosi o riducendosi
a’ fianchi, pur posata sulla egual base cilindrica di un metro e mezzo
di diametro ed uno in altezza. Da essa sorge uno sporto conico alto
circa sessanta centimetri, che forma la macina inferiore, _meta_, ed ha
un pernio di ferro infisso nel vertice. La pietra esterna, _catillus_,
è fatta in forma di due vasi, come dissi, ed anche di oriuolo a
polvere, _clessydra_, siffattamente, che una metà di esso si adatti
come un berretto sopra la superficie conica della pietra inferiore,
ricevendo il pernio summenzionato in un buco, forato a posta nel
centro della sua parte più stretta tra i due coni vuoti, che serviva al
doppio fine di tenerla fissa al suo posto e di scemare od eguagliare
l’attrito. Il grano era quindi versato nella coppa vuota in cima, che
così serviva di tramoggia e scendeva a mano a mano per quattro buchi
forati nel suo fondo, sul solido cono di sotto; dov’era macinato
in farina tra la superficie interna ed esterna del cono e del suo
berretto, vie via che questo era fatto girare attorno dagli schiavi che
lo movevano coll’ajuto d’una stanga di legno infissa in ciascuno de’
suoi fianchi. La farina cadeva dall’estremo orlo in un canale tagliato
tutto intorno alla base per riceverla.

È a questo sistema ed alla miseria che vi pativano gli schiavi, che si
condannavano a metterlo in movimento marcati in fronte d’una lettera
infame, rasati da una parte i capelli e con un anello al piede[280],
che Plauto allude in questi versi:

            LIBANUS

    _Num me illuc ducis ubi lapis lapidem terit?_

            DEMÆNETUS

    _Quid istuc est? aut ubi est istuc terrarum loci?_

            LIBANUS

    _Ubi fient homines, qui polentam pransitant_[281].

E il povero Plauto se l’intendeva, o piuttosto la fortuna doveva farlo
passare per queste dolorosissime prove, poichè guadagnato colle sue
produzioni al teatro un bel gruzzolo di denaro, avventuratolo poscia in
ispeculazioni, da cui poeti e letterati debbono sempre star lontani,
e quelle fallite, fu ridotto per campare la vita a girar macine da
mugnajo. _Plautus fuit pistor_, scrisse lo Scaligero, _cum trusatiles
molas versando operam locasset. Quia vero pistura illa et labor grana
conterendi omnium gravissimus erat, factum ut Pistrinum locus plenus
fatigationis et negotii operosi viresque conficientis diceretur_[282].
Terenzio e Cleanto vuolsi abbiano fatto altrettanto, quantunque fossero
costoro lontani dai tempi e dai costumi, nei quali, sulla fede di
Plutarco, Talete, essendo nell’isola di Lesbo, avesse udito una schiava
straniera, girando una mola cantare: «Macina, o mulino, macina, poichè
Pittaco, Re della gran Mitilene, si reca pur a piacere di volgere la
mola[283].»

Apprendiamo poi, a questo proposito, da Catone come Pompei fosse
rinomata per le sue mole, per le quali usufruttava del tufo vulcanico
di che abbonda tutto il suo suolo così vicino al Vesuvio, e costituiva
la fabbricazione e vendita di esse un ramo non indifferente del suo
commercio.

Veniamo ora a parlare delle particolarità dei singoli pistrini che si
scopersero.

Nella casa detta di Sallustio in Pompei si scoprì un Pistrino, che si
locava dal proprietario a tale publico uso, e dove la costruzione del
forno per la cottura del pane parve de’ nostri tempi, tanto si accosta
alla odierna maniera. Il lavoro della volta è in guisa che con poco
combustibile si dovesse riscaldare. Aveva nella bocca un coperchio
di ferro, e presso stavano vasi per contener acqua. Vi si trovarono
tre macine, come quelle testè descritte. Annessa era la camera per
impastare il pane, col focolare per l’acqua calda, ed ivi si trovarono
altresì l’anfora colla farina e parecchi acervi di grano.

Nel forno publico della Casa di Modesto, così designata dal nome
MODESTUM, dipinto in rosso sul muro e dove si rinvenne una quantità
di pani della più perfetta conservazione, deposti parte nel Museo di
Napoli e parte in quel di Pompei, il forno si presentò più solido e
più ingegnoso ancora. Vi si vede la camera o stufa in cui manipolavasi
il pane; un’altra ove ponevasi a fermentare su tavole disposte l’una
sull’altra lungo il muro, e quindi una terza ove riponevasi già cotto.
Presso era la stalla degli asini che giravano le mole, secondo il
metodo più usitato. In questo pistrino si trovarono quattro macine
un po’ più basse delle consuete d’altrove, formate da un cono concavo
che si volge su di un altro convesso, anfore di grano e farina, e sul
muro del Pistrino, vedesi un dipinto che esprimeva un sagrificio alla
Dea Fornace e diversi uccelli. È forse la panatteria migliore che si
scoperse finora.

Un altro forno publico è nel lato sinistro della casa di Fortunata
presso quella di Pansa, con tre mulini, sull’un dei quali leggesi
_Sex_. Sulla bocca del forno vi era un _phallus_ colorito in rosso ed
al di sopra scritta la leggenda HIC HABITAT FELICITAS, novella prova
che l’emblema non fosse unicamente a segno di mal costume, ma piuttosto
a felice augurio ed a scongiuro di disgrazia, come già ebbi il destro
di sostenere. Nella bottega attigua di panatteria esisteva una pittura
rappresentante un serpente, simbolo di una divinità custode, e rimpetto
una croce latina in basso rilievo. Sarebbe questo segno un indizio
del sospetto da me già espresso che la religione di Cristo fosse già
penetrata in Pompei? Faccio voti che i futuri scavi abbiano ad offerire
maggiori dati, che il sospetto e l’induzione abbiano a mutare in
certezza assoluta.

Sull’angolo della _via del Panatico_, un’altra panatteria ha un gran
forno con quattro mulini. Su due d’essi leggonsi le parole SEX e SOHAL
in caratteri rossi e sopra il forno vedevasi una figura rappresentante
evidentemente un magistrato che distribuiva pane al popolo.

Nella viottola della Fontana del Bue, si è pure trovato un pistrino con
tre macine, un gran forno a corrente d’aria e delle madie foderate di
piombo.

D’un’ultima panatteria terrò conto, scoperta nel 1868 ed appartenente
a Paquio Proculo, al quale apparteneva pure la casa. Essa è nella
Via Stabiana (Regione VII, Isola II). Il chiarissimo Minervini lesse
dipinta sulla parete sinistra della casa la seguente epigrafe, che oggi
è frammentata per la caduta dell’intonaco:

                           PROCVLE . FRONTONI
                        TVO . OFFICIVM . COMMODA

Questa raccomandazione, scrive il dotto signor G. De Petra, illustrando
nel _Giornale degli Scavi_ la casa e il pistrino di P. Paquio
Proculo[284], così per la sua forma, come pel luogo dov’è scritta, mi
pare indubitato che Frontone la rivolgesse al padrone della casa, il
quale perciò doveva chiamarsi Proculo. Con tal cognome occorrono più
di frequente nei programmi pompejani due persone, P. Paquio Proculo
e Q. Postumio Proculo; ma considerando che in una colonna dell’atrio
è graffito il nome di _Pacuia_, la figlia di Paquio, rimane provato
che col nome di questo debba intitolarsi la casa. Donde si fa ancora
probabile che l’altra raccomandazione elettorale publicata dal ch.
Fiorelli (_Giornale degli Scavi_, 1862, p. 47, n. 4): _Sabinum aed
(ilem) Procule fac, et ille te facient_, fosse indirizzata allo
stesso P. Paquio, che pare sia stato un uomo assai influente e
popolare. Diffatti il ch. Garrucci (_Bull. arch. Nap._, n. 5, tom.
II, p. 52) fece nota questa epigrafe che sinora non trova riscontro
di sorta fra le reminiscenze elettorali: _P. Paquium Proculum ii.
Vir. i. d. d. r. p. universi Pompejani fecerunt_; nondimeno chi
era questo Proculo, che i Pompeiani unanimi sollevarono alla somma
dignità di duumviro giusdicente? Niente altro, come si vedrà, che un
panattiere! Il qual fatto ci autorizza a conchiudere, che in Pompei
le magistrature municipali non eran monopolio dei soli ricchi, e che
questi conoscevano di buona voglia (_universi fecerunt_) la convenienza
di farvi partecipare anche i più autorevoli e migliori cittadini di
condizione plebea. — Lezione buona pei nostri tempi, in cui le elezioni
amministrative e politiche sembrano infeudate all’aristocrazia del
sangue e del denaro: colpa precipua del popolo stesso che si ostina,
a parole, a gridar contro i ricchi e gli uomini di grande autorità, ma
in fatto è poi sempre lo stesso peccatore, che religiosamente serba il
suo stolido feticismo per chi tiene di classe a sè superiore; salvo a
ricominciare di poi le sue maledizioni contro gli eletti proprj, che
ignari de’ suoi bisogni, fanno leggi a sproposito e a detrimento.

Anche all’ingresso della viottola della Fontana del Bue, sulla muraglia
a sinistra, una bella e ben conservata pittura di simboliche serpi è
sormontata, oltre che da un piccolo larario, anche da varie iscrizioni,
parte in oggi cancellate dalla rovina, fra le quali leggesi la
seguente, che ognor più avvalora e l’influenza e la ricchezza di questo
importantissimo panattiere in Pompei:

                          P. PAQVIVM PROCVLVM
                 II VIR . I . D . THALAMVS CLIENS[285].

Io non mi divagherò a descrivere la casa di questo P. Paquio Proculo,
che qui l’argomento ne sarebbe spostato: verrò invece difilato al
pistrino che vi è in essa, e che è nel lato destro. Vi si riconosce la
camera del _panificium_, e ciò si argomenta, scrive il De Petra, dai
cinque podii di fabbrica per sostegno di tre tavoloni di legno su cui
rimaneggiavasi la pasta, da varii recipienti per conservar l’acqua,
quali sono una vaschetta quadra fabbricata, un gran dolio sepolto
a metà nel suolo e un’anfora murata in uno de’ poggiuoli, infine
dalle traccie degli assi di legno che sostenevano le tavole su cui
disponevansi i pani. Una porta priva di soglia dava il passaggio da
questo luogo a quello dov’è il forno; ma tra l’una e l’altra stanza,
per uno scopo limitato, cioè per la sola cottura del pane, v’era una
comunicazione anche più diretta e sollecita. Si notarono tre _molæ_ per
isfarinare il grano, avendo una di esse la base ricoperta da una lamina
di piombo, la _meta_ di una quarta mola senza il _catillus_ e la base
circolare per una quinta; due serbatoj d’acqua fabbricati, un pozzo con
coperchio, un piccolo dolio contenente calce e tre poggiuoli.

Il dipinto larario solito a incontrarsi nei pistrini, non è mancato
in questo, ma sventuratamente tornò a luce poco conservato. Sotto un
verdeggiante festone è la Dea Vesta ammantata con lo scettro nella
sinistra e il dritto braccio proteso sopra un _focus_. Dietro a Vesta
è l’asino, l’animale, come dissi, usato più spesso a girar le macine;
rimpetto alla Dea v’è un giovane in piedi che nella sinistra ha la
cornucopia, e stende la diritta sull’ara.

A sinistra del forno v’è un ampio locale in cui probabilmente si
conservavano _saccula_ di grano o di farina.

Di questo P. Paquio Proculo e di sua moglie, nel _tablinum_ della loro
casa, si rinvenne il ritratto dipinto sulle pareti gialle. Cedo la
penna all’egregio De Petra. «Questo dipinto, offre la volgare fisonomia
di Paquio, che ammantato dalla bianca toga magistrale, stringe nella
destra un volume col rispettivo titolo di colore rosso. Gli è a fianco
la sua donna, cui pendono sulla fronte i ricciolini sfuggiti alla
fascetta che le stringe i capelli; ha pendenti di perle alle orecchie,
e rossa la veste; avvicina alle labbre la punta dello stilo che tiene
nella dritta ed ha i pugillari aperti nella sinistra[286]. Donde si
può inferire, che l’anzidetta positura sia stata convenzionale nei
ritratti, poichè l’atteggiarsi dell’uomo e della donna trovasi ripetuto
esattamente in due scudetti publicati nelle _Pitture d’Ercolano_ (tom.
III, tav. 45) e in quegli altri due che ornano il tablino d’una casa
nella Regione Settima, isola 10, propriamente quella che vien dopo la
casa del _Balcone Pensile_. Oltrecchè l’atteggiamento della donna si
confronta con la scrittrice dipinta nell’atrio della casa di Popidio
Prisco (Reg. VII, Is. 11, n. 20) e con un’altra delle _Pitture d’Erc._
(t. III, tav. 46)[287]. Quale simbolo dell’amor conjugale di P. Paquio
e sua moglie, vedevasi al di sopra dei loro ritratti un grazioso ed
importante quadretto, ora nel Museo, rappresentante Amore e Psiche
teneramente abbracciati. Il bacio e l’amplesso di essi, ovvio in tanti
altri monumenti, è ritratto in questa pittura pompejana in una movenza
nuova, sebbene non molto diversa delle altre conosciute.»

Nella Via degli Augustali, come dipendenza della Casa detta dei
_Capitelli figurati_, aprivasi poi una taberna da pasticciere, _pistor
dulciarius_, il quale, come ne fa sapere Apulejo, _panes et mellita
concinnabat eduleia_. Vi si videro parecchi mulinetti, _pistrillæ_,
che un sol uomo bastava a girare; ma destò la speciale attenzione il
forno, dalla forma del quale direbbesi a riverbero, costituendosi di
due cavità sovrapposte, accendendosi il fuoco nella cavità inferiore da
cui il calore ascendeva per un’apertura, nella cavità superiore, ove si
deponevano a cuocer le pasticcerie. Due pasticcetti si trovarono negli
scavi e si conservano nel Museo di Napoli.

Toccato de’ pistrini, vediamo ora le altre botteghe e spacci pompejani
di merci attinenti i cibi e gli alimenti.

Una taberna o venditorio d’olio si scoprì nel 1852 nella via di Stabia,
quasi all’angolo della viottola della Fontana del Bue. Il podio o
banco della bottega era di marmo cipollino e grigio antico, con in
mezzo dello specchio davanti un medaglione di porfido verde e due bei
rosoni. Su di esso vi erano incastrate otto belle ed ampie scodelle in
terra cotta. Nell’interno si ritrovò un pozzo, un fornello e l’ingresso
del ripostiglio dell’olio. La quantità degli ulivi che si coltivavano
nell’agro campano doveva necessariamente far luogo ad una produzione
assai abbondante di olio. Anche gli scavi hanno offerte conserve
nell’olio di grosse ulive, che dovevano probabilmente aversi dalle
famiglie pompejane fra le consuete ghiottornie.

Presso la casa di Cornelio Rufo e quella di Messinio nella Via
di Stabia evvi una casetta, che l’illustre Fioretti, seguendo le
indicazioni di Pompeo Festo e di Varrone, qualifica per un _Ganeum_,
o _Ganea_, specialmente per avervi vedute pitture ed iscrizioni
licenziose[288]. Era la _Ganea_ o il _Ganeum_, come meglio piaccia al
lettore di appellarlo, secondo essi, un ritrovo nascosto di meretrici,
le camere da letto delle quali erano a pian terreno, come i cenacoli
nella parte superiore delle case, ed io ne toccherò poi nel capitolo
del _Lupanare_; ma Bréton, nella sua _Pompeja_, avendo constatato
nell’area del peristilio sette grandi coppe, o giare, misure di
capacità pei liquidi, e sette dolii coi loro coperchi, senza manichi,
fu indotto a credere che questa casa potesse essere al contrario un
magazzeno d’olio. Si sono poi trovati negli scavi dei particolari
mulini che si sono creduti atti alla macinazione dei grani oleosi:
l’uno fu rinvenuto nelle vicinanze del Foro Triangolare o Nundinario.

Prima di entrare nel Foro Civile, sulla diritta, stava la taberna di un
venditore di latte. L’insegna di essa è in terra cotta e rappresenta
una capra. Sotto di essa vi si lesse questa iscrizione in caratteri
rossi, all’epoca del suo sterramento, ma che ora non si distinguono
più.

                      M. CASELLIVM AED. DIF. FAC.
                               FIDELIS...

Nel podio di materia di fabbrica, come d’uso nelle taberne di liquidi,
v’erano incassati dei vasi.

Nell’isola intorno al Tempio d’Augusto si constatarono diverse
botteghe di commestibili. Una di venditori di pesci salati, forse
ciò argomentandosi dai pesci che si videro dipinti sulle pareti,
della natura di quelli che si vendono nella salamoja, e già sappiamo
che Pompei era nota e famosa pel suo garo che sapeva preparare e del
quale ho già intrattenuto il lettore sulla fine del Capitolo Quinto.
Un’altra di fruttivendolo, nè in questa si errò di certo, poichè vi si
accogliessero fichi secchi in abbondanza, uva passa, susine, frutta
in vasi di vetro, lenti, semi di canape; oltre una ciambella, vari
frammenti di pasta e di pane, molto denaro, una staderina e varie
bilancie. I fruttivendoli in Pompei dovevano essere di molti, così
essendo lecito di pensare dalla iscrizione che fu letta sul pilastro
che separa la _Fullonica_, di cui dirò qui appresso, dalla Casa della
gran Fontana, scritta, come il più spesso, in caratteri rossi e che
sembra riferirsi al magistrato, del quale abbiam veduto come la statua
decorasse il teatro:

                   M. HOLCONIVM PRISCVM II VIR. I. D.
                       POMARI VNIVERSI CVM HELVIO
                          VESTALE ROGANT[289]

I fruttivendoli pompejani si raccomandano ancora in altre due
iscrizioni, che si lessero nella strada ove è l’arco di trionfo. L’una
è così concepita:

                         IVLIVM SABINVM AEDILEM
                             POMARII ROGANT

e l’altra così:

                        MARCVM CERRINIVM AEDILEM
                             POMARII ROGANT

Ciò che vuol essere osservato si è che in queste botteghe, che sono
circostanti al Tempio di Augusto, si sono rinvenuti molti oggetti
preziosi e d’arte, fra quali una statuetta di bronzo rappresentante
una Vittoria con armille d’oro alle braccia; un’altra in marmo; Venere
che si asciuga i capelli, come sorgesse allora dalle spume dell’Ionio
mare, colla parte inferiore velata da un drappo dipinto in rosso; una
bella tazza d’alabastro, anelli d’oro, gemme, sistri isiaci, un vaso di
vaghissimo lavoro, amuleti, strigili e diverse monete.

Sarà negli ulteriori scavi che verrà dato indubbiamente di scoprire
taberne d’altre cose mangerecce, e soprattutto _lanienae_, o botteghe
da beccai e macelli, la principale opera e materia prima dei quali
veniva somministrata dai templi, per le continue vittime che vi si
immolavano, per lo più in buoi, giovenche e pecore; e se agli Dei si
bruciavano ciocche di lana e qualche inutile interiora, tutt’al più
spruzzate da vino e mescolate di fiori, il meglio veniva accortamente
goduto dai sacerdoti pel loro uso, e venduto nuovamente ai gonzi, di
cui si costituisce la maggior parte del pubblico, che a ragion di
divozione avevano fatto prima l’offerta. I macellai dell’antichità
erano adunque principalmente i sacerdoti.

Della bottega del Chirurgo e del _Seplasarius_ o farmacista e di
quella di prodotti chimici, ho già detto nel Capitolo delle _Scuole_;
di quella dello scultore mi occuperò nel venturo delle Belle Arti,
come anche del mercante de’ colori; perocchè meglio vi si trovino
in essi collocati, come materia che a que’ capitoli ha tutto il suo
riferimento.

Nella stradicciuola di Mercurio, gli scavi trovarono nel 1853 un
_Myropolium_, o bottega da profumiere, detta anche, come la vediam
nominata in Varrone e Svetonio, _unguentaria taberna_[290]. Già
superiormente ho toccato dello spreco di profumi, aromi ed unguenti
che si faceva a quei tempi di grande effeminatezza in Roma e in tutto
l’orbe a lei soggetto. Non era soltanto, cioè, del mondo muliebre;
ma pur degli uomini. All’uscire del letto, prima d’entrare nel bagno,
nel bagno e dopo, era costume di ugnersi e di profumarsi; altrettanto
facevasi nelle case prima del pasto e avanti comparire in pubblico
e prima di coricarsi; ogni occasione era buona per ispargersi il
corpo e le vestimenta di odorose essenze, per ungere i capelli e
perfino per profumare camere ed appartamenti. Già abbiam veduto nel
capitolo dell’Anfiteatro come si facesse eziandio all’aperto assai
gitto di croco: si può pertanto argomentare cosa dovesse essere negli
appartamenti chiusi: a suo luogo vedremo, specialmente nel triclinio e
ne’ funerali.

Ma più che tutto, era nell’amore che di profumi si abusava, come
eccitanti e preparatori allo stesso. È noto, scrive Dufour[291], che il
muschio, il zibetto, l’ambra grigia e gli altri odori animali portati
nelle vesti, nei capelli, in tutte le parti del corpo esercitano
un’azione attivissima sul sistema nervoso e sugli organi della
generazione. Nè solo adoperavano esternamente detti profumi, ma non
temevano di far entrare aromi e spezie in quantità nel giornaliero
loro alimento; onde a ciò si voglia ascrivere quell’appetito e prurito
continuo che tormentava la romana società e che la spingeva in tutti
gli eccessi dell’amor fisico.

La lussuria asiatica portò seco tali profumi e d’allora in poi, così
prodigioso fu il consumo delle sostanze aromatiche, che parve non
bastare quanto inviava la Persia, l’Arabia e tutto l’Oriente insieme.
S’era insomma venuto a tal punto, da aver ragione Plauto, quando nella
_Mostellaria_ usciva in questi accenti:

      _Quia ecastor mulier recte olet, ubi nihil olet._
    _Nam istæc veteres, quæ se unguentis unctitant, inter poles,_
    _Vetulæ, edentulæ, quæ vilia corporis fuco occulunt,_
    _Ubi sese sudor cum unguentis consociavit, illico_
    _Itidem olent, quasi cum una multa jura confudit cocus._
    _Quid oleant nescias, nisi id unum, ut male olere intelligas_[292].

Profumi e cosmetici assumevano il nome dal paese onde venivano:
così furono celebrati l’unguento di Cipri, il balsamo di Mende, il
nardo d’Achemenis, il _malobutrum_ di Sidone, distillato in olio pei
capelli, l’olio d’Arabia, quello della Siria, il mirobolano di Arabia;
l’_opobalsamum_ della Giudea, il cinnamomo dell’India, la maggiorana di
Cipri, la mirra dell’Oronte e l’iride di Illiria, che Ovidio raccomanda
nel suo Poemetto _De Faciei medicamine_, e del quale facciamo uso noi
pure rinchiudendolo in seriche borse o sacchetti, che poniamo, per
profumarla, per mezzo la biancheria.

Altri profumi e unguenti pigliavano il nome dal loro inventore; come
la _Niceroziana_ ricordata da Marziale, odore inventato da Nicerote,
e il _Foliatum_, manipolato da Folia, amica di Gratidia, che Orazio
stigmatizzò nelle sue Odi, coprendola delle più infami accuse e
vituperi, col nome di Canidia.

V’era poi l’unguento dipelatorio, detto _dropax unguentum_,
l’_odontatrimna_ per i denti, le pastiglie dette _diapasmata_ contro
l’alito cattivo, e vie via molti altri unguenti che sarebbe troppo
lungo l’enumerare.

Malgrado questo bisogno che si provava dell’arte e dei prodotti del
profumiere e del cosmeta, questi bottegai erano nel comune disprezzo,
forse perchè a questo piccolo commercio s’applicassero cortigiane e
cinedi, lenoni e mezzane, quando l’età toglieva loro ogni attrattiva
e possibilità di continuare nel loro infame mestiere, o mancava la
clientela, e così a donna _ingenua_ ossia nata libera, il nome solo di
profumatrice e cosmeta sarebbe giustamente suonato come la più fiera
ingiuria.

Nelle case de’ ricchi eravi sovente il laboratorio dell’_unguentarius_,
a cui s’applicavano schiavi o liberti, e le cosmete e gli unguentarii
valevano eziandio per le molteplici operazioni, che già conosciamo, de’
privati _balinei_.

La gente onesta e della buona società teneva a disonore il mostrarsi
publicamente nei _myropolii_ o taberne unguentarie, e però quando vi
accedevano o sceglievano le ore prime del mattino o quelle della sera,
e tiravano il lembo della toga sul volto: non così gli sfaccendati
che traevano a questi luoghi, non che alle _tonstrinæ_ o botteghe da
barbiere, od a quelle de’ medici e de’ banchieri, per raccogliervi
novelle e chiacchierare, come Plauto ne fa sapere quando nell’_Epidico_
fa che Apecide dica aver cercato ovunque di Perifane:

      _Dii immortales, utinam conveniam domi_
    _Periphanem! per omnem urbem quem sum defessus quærere:_
    _Per medicinas, per tonstrinas, in gymnasia atque in foro,_
    _Per myropolia, et lanienas, circumque argentarias_
    _Rogitando sum raucus factus_[293].

Spettava a’ profumieri l’imbalsamazion de’ cadaveri e la vendita
degli aromi pei sagrifici, e nel _myropolium_ di Pompei diffatti le
insegne o pitture che vi stavano nell’ingresso ed ora scomparse, e le
quali condussero a constatare od almeno a far credere essere quella
una _taberna unguentaria_, rappresentavano l’una un sagrificatore che
conduceva all’altare un toro; l’altra quattro uomini che portavano
una enorme cassa, intorno alla quale stavano sospesi alcuni vasi.
Superiormente poi vedevansi dipinte alcune persone intente a profumare
un cadavere, prima d’essere portato al rogo.

Dal profumiere, passiamo a vedere la taberna del barbiere nella Via
di Mercurio. È picciolissima: a destra vi è un podio, sopra di esso
due nicchie simili a quelle che altrove servirono a larario, ma che
qui più probabilmente avranno giovato per collocarvi cosmetici, vasi
di profumi, pettini e _novaculæ_ o lame di metallo molto affilate
colle quali radevano i capelli della testa o i peli della barba,
come i nostri rasoi. In mezzo alla bottega v’è un sedile in materia
da fabbrica, dove l’avventore si sarà seduto, e in un dietro bottega
sta il fornello, che avrà servito per riscaldare l’acqua. Non saprei
spiegare come e perchè si trovassero in questa seconda camera gli
avanzi di un mulino.

Circa questo mestiere del barbiere, _tonsor_, poco è a dirsi. Lo
si faceva consistere nel tagliare i capelli, nel radere la barba,
nel pareggiare le ugne e nello svellere i peli parassiti colle
pinzette, _volsellæ_. I ricchi usavano a tutto ciò nella propria
casa di uno schiavo o di liberto; il popolo veniva alla bottega. A
radersi frequentemente la barba, si cominciò tardi in Roma, nell’anno
cioè 454, della sua fondazione, alla venuta dalla Sicilia del primo
barbiere: avanti di costui la si lasciava crescere generalmente. Nelle
_tonstrinæ_, — così chiamate le botteghe di barbieri, e noi diremmo
barbierie, — era assai frequente che vi esercitassero tal mestiere le
donne, dette però _Tonstrices_; e Plauto, fedel pittore di que’ vecchi
costumi, nel _Truculentus_, accenna appunto alla Sura barbiera:

                   . . . _tonstricem Suram_
    _Novisti nostram, quæ modo erga ædes habet_[294].

e Marziale acerbamente morde la moglie d’un barbiere che stava presso
alla Suburra, e la quale co’ suoi artificii carpiva denaro alla gente:

    _Sed ista tonstrix, Ammiane, non tondet;_
    _Non tondet, inquis? ergo quid facit? radit_[295].

Non di meglio del resto aveva trattato lo stesso poeta, Marziale, il
barbiere Eutrapelo nel seguente epigramma:

    _Eutrapelus tonsor dum circuit ora Luperci_
    _Expungitque genas; altera barba subit_[296].

Lo che dimostra che di buoni e grami barbieri ve ne erano allora come
ve ne hanno di presente. L’epigramma adunque avrà sempre la propria
attualità.

Di sarti finora gli scavi non rivelarono botteghe; di calzolajo se ne
sospettò alcuna giusta quel che ne dirò tra breve, e così di tal’altre
industrie e mestieri attinenti il vestire, e quel che si sterrerà
per lo avanti, riguardando la parte più abitata dalla gente operaja,
verrà forse facendo al proposito interessanti rivelazioni. Certo
che nè le vestimenta, nè i calceamenti erano a que’ dì complicati
come di presente, da richiedere specialità di artieri. L’importante
quanto ai primi era la finezza della stofa onde si facevano tonache
e mantelli, pepli e toghe e studio nel portarle onde si acquistasse
grazia ed eleganza. Gli schiavi, le donne bastavano all’uopo e forse
ognuno, anche del popolo, in sua casa poteva dalle proprie donne farsi
preparare tutto quello che appunto riguardasse il vestimento. Circa
alle vestimenta poi della gente rustica, ne abbiamo in Marco Porcio
Catone, _De Re Rustica_, ricordati i nomi: _Tunicæ, saga, centones,
centiculi, manicæ de pellibus_; e _cuculli_ o _cuculliones_, _pilei_
e _galeri_ a berrette o cappelli che si portavano in testa, ed erano
in tutti di pelli lanute. In quanto ai secondi, cioè a’ calzolai, si
può dirne qualche parola, perchè in taluna pittura pompejana si vide
riprodotta la forma di qualche calzare, ma sarà tra breve, come dissi,
quando visiteremo la bottega del cuojajo o conciatore di pelli.

Presso le Prigioni, che abbiamo nell’undecimo Capitolo di quest’opera
trovate nel Foro Civile Pompejano, vedesi un locale che fu designato
siccome un ampio magazzeno in cui si vendevano tele e stofe ad uso
proprio del vestire. Così fu interpretato l’uso di questo locale,
fidandosi alla quantità dei buchi che vi si videro, che dovevano
aver servito a sostenere gli armadj che contenevano quelle merci. Una
pittura scoperta in Pompei, scrive Bonucci, fa per avventura allusione
a questo Foro ed a questo magazzeno. Rappresenta un uomo in piedi, che
tiene nelle mani un pezzo di stofa ch’egli offre ad una donna seduta.
Questa mostra il desiderio di comperarla, ma fa osservare al mercante
un difetto che si trova nel mezzo della merce, e il mercante cerca
dissuaderla con ragioni che accompagna con gesti. Le due giovanette
sedute, la servente che è dietro di esse, il gruppo di due altre donne
che parlano con un uomo, e da ultimo i panneggiamenti che si scoprono
nel fondo del quadro, possono indicare il luogo di che facciamo parola.

Tele e lane servivano alla confezione degli abiti: solo negli ultimi
tempi, cioè a quelli dell’Impero, le matrone, comperandola a carissimo
prezzo, usavano della seta che derivavano dall’Asia; ma questa
consideravasi come merce di smoderatissimo lusso, perocchè costasse
come l’oro. Ho già notato le maraviglie che si fecero quando nel circo
vennero distesi velarii di seta: erano esse in ragione della preziosità
e rarità della stofa.

Nel _Vicolo del Panatico_, al lato destro, vi è un piccolo stabilimento
di lavanderia: per tale venne riconosciuto, abbenchè tutto vi
fosse rovinato e nulla di particolare offra ad essere riferito. Due
altre lavanderie pure non di grande importanza, stanno nel _Vicolo
della Maschera_: più vasta è quella in _Via del Lupanare_ e detta
_di Narciso_, scoperta nel 1862 e così denominata da una superba
statuetta di bronzo che si conserva al Museo, rappresentante infatti
questo personaggio mitologico nell’atto che ascolta la voce lontana
della Ninfa Eco, che vien considerata come una delle migliori rarità
trovate negli scavi, sì che Dognée giungesse a dire: _Les fouilles
n’eussent-elles déterré que ce seul bronze, l’importation des principes
immortelles de l’art grec dans le vieux monde romain eût été démontrée
par une trace glorieuse dont la splendeur indique incontestablement
l’illustre origine_[297]. È una bottega, in cui si veggono vasche
diverse di pietra, in due delle quali era l’acqua condotta da un tubo
di piombo con un robinetto. Sotto di queste due vasche è un fornello;
ma giustamente osserva Bréton, siccome il piombo non può sopportare un
fuoco di troppo ardente, si deve supporre, che in questi due fornelli
non si ponesse che della brace destinata solo a tener caldo il liquido,
nel quale si lavavano le stofe di lana o di lino. Al disopra del
lavatojo, nella muraglia, vi sono dei buchi, ne’ quali erano infissi
dei chiodi per la biancheria. Il suolo della bottega ha un certo pendìo
verso un lato, per ivi condurre le acque che vi scorrevano per uscire
sulla via. A destra della bottega, è una cameretta, in mezzo alla
quale è una tavola di marmo rettangolare d’un solo piede ornato d’un
corno d’abbondanza e d’una pàtera con tracce di pitture. In fondo della
stessa, scendendo quattro gradini, si entra in una vasta corte in cui
si vedono le traccie dei chiodi cui si saran dovute accomandare le
corde onde distendervi le biancherie ad asciugare.

Nella bottega sull’angolo della Via degli Augustali e del Lupanare,
designata per quella del Conciapelli, _coriarius_ o, come potrebbe
essere, d’un calzolajo, giusta l’opinione di Fiorelli e di Overbeck,
appartenente a Nonio Campano soldato della IX Coorte pretoriana, come
era scritto in grandi caratteri rossi sulla bianca parete di essa,
se non abbiamo speciali oggetti a rimarcare, tranne alcuni utensili
propri a questo mestiere, l’argomento però ci obbliga a ricordare l’uso
precipuo de’ suoi prodotti, cioè quello de’ calzari e scarpe.

_Sutor_ chiamavasi l’artefice che cuciva in cuojo, adoperando la
lesina, _subula_, e introducendo la setola, _seta_; onde _sutrina_
la bottega di lui. Dalla diversa qualità del lavoro, dicevasi _sutor
crepidarius_, o _sutor caligarius_, o anche _calcearius_; onde la
parola nostra calzolajo. Facevansi pure da’ calzolai romani i coturni,
ed erano essi stivali di greco modello, di cuoio, usualmente portato
da’ cacciatori e copriva l’intero piede e la gamba sino al polpaccio,
allacciandosi sul davanti ed arrovesciato in cima con una ritoccatura,
ed una suola diritta atta ad uno o all’altro piede, _utroque actus
pedi_, come scrive Servio scoliaste di Virgilio[298]. Uno stivale
dello stesso genere, dice Rich, ma ornato con più cura, è assegnato
talora dagli artisti greci a talune delle loro divinità, in ispecie a
Diana, Bacco e Mercurio e dai Romani nello stesso modo alla Dea Roma
ed ai loro imperatori, come un segno di divinità. Così furono adottati
da Marco Antonio, quando si attribuì il carattere e gli attributi di
Bacco[299]; ma però non eran portati dai Romani come parte del loro
vestiario consueto. Cicerone biasima l’insolenza d’un Tuditano, che si
mostra in pubblico _cum palla et cothurnis_[300]. Il coturno portato
dagli attori tragici sulla scena, abbiam già visto avesse la suola di
sughero. — I cacciatori, oltre il coturno, portavano anche l’_ocrea_,
specie di moderne uose. _Ocrea_ era anche la gambiera che copriva lo
stinco dal malleolo sino a poco sopra il ginocchio: per lo più era di
metallo e se ne scoprirono degli esemplari in Pompei.

_Crepida_, era un calzare che si componeva d’una suola alta, ornata
di una bassa striscia di cuojo che copriva solo il fianco del piede,
ma aveva un certo numero d’occhielli, _ansæ_, sul suo orlo superiore,
attraverso i quali passava una correggia piatta, _amentum_, per
allacciarla sul piede. Propriamente era peculiare del vestiario
nazionale greco ed usato dai due sessi e si considerava come la
calzatura conveniente a portarsi col _pallium_ e colla _chlamys_. Le
_crepidæ carbatinæ_ erano poi le più ordinarie di tutte le calzature
in uso fra gli antichi e particolari ai contadini delle regioni
meridionali. Consistevano in un pezzo quadrato di cuojo per suola,
poi rivoltato all’insù a’ canti e sopra le dita, legato sul collo del
piede attorno la parte più bassa della gamba con coreggiuoli passati
attraverso dei buchi sugli orli.

_Calceus_ era una piccola scarpa o calzaretto, per lo più portato dalle
donne. Ne’ dipinti Pompejani si videro tre distinti modelli di essi:
tutti per altro giungono a’ malleoli, con suola e tacco basso e così
senza, come con laccetti. _Calceus_ invece era uno stivaletto fatto
sopra forma così per il piè destro, come per il sinistro, in maniera da
coprire interamente il piede, a differenza dei sandali e delle pianelle
che non ne coprivano se non solo una porzione. Come poi vediamo pur
oggidì usarsi dalle nostre signore, aggiungere tacco a tacco per render
alta la persona; così per le Romane, ad esempio delle Greche, invece
d’una, usavano di due e tre suole, onde la _solea_ pigliava allora
il nome di _fulmenia_, sincope di _fulcimenia_. Di queste duplici
e triplici suole giovavansi inoltre, come faremmo noi adesso, per
difenderci dalla umidità. V’era il _calceus patricius_ che portavano i
senatori, di qualità diversa da quella degli altri cittadini; di dove
la frase di Cicerone _calceos mutare_[301], per significare che alcuno
diventava senatore, e s’allacciavano con istringhe che s’incrociavano
sul collo del piede e poi s’avvolgevano attorno alla gamba sino al
principio del polpaccio; il _calceus repandus_, scarpa con una larga
punta ricurva in su o indietro. — _Calceamentum_ e _calceamen_ erano
poi termini generici per esprimere ogni maniera di copertura del piede.

Da _obstragulum_, che era quella striscia di cuojo o correggia con
cui la _crepida_ si allacciava attorno al piede e che passava tra
il pollice e il dito vicino e che da persone affettate si portava
talora tempestata di perle, come lasciò Plinio ricordato[302], derivò
_obstrigillum_, ch’era una particolare sorta di scarpa, che aveva i
quartieri, per i laccetti, cuciti alla suola da ciascun lato. Di queste
scarpe se n’ha esempio in una pittura pompejana.

_Sandalum_ era una pantufola squisitamente ornata, che portata dalle
donne greche, venne poi introdotta dalle signore di Roma. Pare che
fosse d’una forma intermedia tra il _calceolus_ e la _solea_, avendo
un suolo ed un tomajo sopra le dita e la parte davanti del piede, ma
lasciando scoverte le calcagna e la parte di dietro, come una pantufola
nostra.

Finalmente v’era la _solea_, della forma più semplice del _sandalum_,
consisteva in una semplice suola sotto la pianta del piede, legata
con un correggiuolo attraverso il collo del piede stesso, come a un
dipresso sono i sandali degli odierni cappuccini e si portava da ambo
i sessi. V’era poi la _solea spartea_, o stivale fatto di ginestra
spagnuola, ma non era ad uso degli uomini, ma delle bestie da soma, a
proteggere i loro piedi quando malati.

La _solea_ tuttavia non si portava fuori di casa: altrimenti sarebbe
stata sconveniente o indizio di affettazione o di moda straniera, come
avvertì Seneca ed anche Cicerone[303].

_Perones, Sculponeæ_ e _Soleæ ligneæ_, erano nomi con cui si
designavano i sandali e scarpe da famigli. I primi due indicavano
calzari fatti di cuojo; le _soleæ ligneæ_ erano, come esprime il loro
aggettivo, di legno.

E qui s’arresta la mia erudizione in fatto di calzoleria romana e
pompejana.

Non però di quanto riguarda l’arte del _coriarius_, o cuojajo, perocchè
ad essa spettassero quelle altre opere che or si direbbero da sellajo.
Mi sbrigherò a dirne, sommariamente, ricordandone le sole denominazioni
de’ relativi arnesi.

_Lorea_ si chiamavano le briglie, o corregge; le redini più
propriamente dicevansi _habenæ_; _capistrum_ la cavezza, ma più
precisamente quella dell’asino; _helcia_, i tiragli, co’ quali cavalli
o asini si attaccavano al timone; erano essi o _lorata_, o _spartea_,
o _cannabina_; _stragula_, la fornitura, _ephippia_, la sella;
_clitellæ_, il basto; _soleæ_, le staffe.

E poichè avviene di ricordare tanti oggetti di selleria, porgo qui le
denominazioni di _juga lignea_, o gioghi per appajare i buoi; _oreæ_,
il morso; _frenum_, il freno; _murices, lupi, lupata_ si chiamavano
altri freni di ferro asprissimi, atti a diverse nature di giumenti.

Or passiamo alla ricerca delle altre taberne che coi loro prodotti
contribuivano al vestimento, o piuttosto alla varietà e mantenimento di
esso.

Presso la casa di Olconio eravi una bottega da tintore, che i latini
chiamavano _taberna offectoris_, perchè, secondo spiega Pompeo Festo,
_colorum infectoris_. Distinguevansi, secondo lo stesso scrittore, gli
_offectores_ dagli _infectores_: questi erano _qui alienum colorem in
lanam conjiciunt: offectores qui proprio colori novum officiunt_[304].
Nulla in questa bottega si rinvenne di particolare: nel fondo di essa
eravi il laboratorio, con un fornello e vasche rivestite di cemento
assai duro, ma pur guasto evidentemente dagli acidi che venivano usati
nel tingere.

Nè io di più mi vi soffermerò, da che egual materia mi chiami a più
largamente trattare della _Fullonica_.

L’arte dei _fulloni_, che Plinio vuole sia stata trovata da Nicia
megarese, consisteva nel purgare, lavare ed anche tingere i panni.
Trattando dell’edificio di Eumachia nel Capitolo XI di quest’opera, ho
già fatto un rapido cenno dell’importanza di quest’arte in Pompei, che
vi aveva anzi una speciale corporazione. Che una congenere vi fosse
anche in Roma lo si raccoglie dalle _Inscriptiones_ publicate dal
Fabbretti, ricordando come quel collegio litigasse assai lungamente
a proposito delle fontane[305]. Infatti non poteva a meno che essere
numerosa la classe de’ folloni, per la necessità che dell’arte loro
sentivasi per la politura delle vestimenta. Riccio ne dà informazioni
dei folloni, da cui rivelasi come di essi si giovasse allora come
adesso noi de’ nostri lavandaj e cavamacchie per rinettare ed
imbiancare gli abiti, dopo averli portati, effetto che ottenevano
col pestare co’ piedi i panni in larghe tinozze di acqua mischiata
con orina e terra di Sardegna. I nostri cavamacchia di presente vi
sostituiscono l’ammoniaca. Allora, onde procacciarsi tanta materia
quanta ne bastasse all’uopo, ponevansi vasi agli angoli delle Vie,
come già notai nel Capitolo appunto che tratta delle _Vie_; onde aveva
ragione Marziale di mordere la puzzolente Taide, dicendola più fetida
del vaso d’un follone:

    _Tam male Thais olet, quam non fullonis avari_
      _Testa vetus, media sed modo fracta via_[306].

Il panno così lavato e netto distendevasi sulla _cavea viminea_, o
graticcio semicircolare, con sottoposta fumigazione di zolfo, come si
deduce da un passo di Apulejo[307]; dopo di che passava al cardatore,
che col _cardo fullonicus_, vi risollevava il pelo, d’onde poi
mettevasi allo strettojo per quella che or direbbesi cilindratura. Fin
dall’anno 354 di Roma, la legge fatta dal Censore Flaminio, riferita da
Plinio, aveva prescritta una maniera in parte diversa dall’or detta,
con cui i folloni dovevano condursi per ben eseguire il loro lavoro.
Così si esprimeva: «Si lavin dapprima le stofe di lana colla terra di
Sardegna disciolta; si faccia quindi una fumigazione di zolfo, poi si
purghi con terra di Cimolo, di buon colore, riconoscendosi la falsa in
ciò che lo zolfo si rode e s’annerisce. La vera terra di Cimolo ravviva
i colori impalliditi dal zolfo. La terra chiamata _saxum_ è la più
conveniente alle stofe bianche quand’esse sono state solforate: esso
è però nocevole alle stofe colorate. In Grecia in luogo della terra di
Cimolo, si serviva del gesso tinfaico di Etolia.»

L’antica _Fullonica_ di Pompei era sulla Via di Mercurio e riusciva
su quella a cui essa medesima diè il nome: la sua pianta chiarisce
l’importanza di questo stabilimento scoperto e sterrato negli anni 1835
e 1836.

È una grand’area, chiusa da tre lati da largo portico fiancheggiato
da pilastri con archi. In fondo della corte si trovano quattro bacini
alti, ma alquanto inclinati per lo scolo delle acque e dinnanzi ad
essi un lungo banco di pietra, all’estremità del quale disposti due
altri piccoli bacini e muricciuoli sono per collocarvi le vaschette.
Era qui che si imbiancavano le stofe. All’ingiro de’ portici eran le
camere dei folloni: il proprietario doveva alloggiare nell’appartamento
più distinto. Vi si rinvenne un forno co’ suoi accessorj. Il piano
superiore doveva avere delle gallerie coperte; le colonne di esse
caddero indubbiamente nell’occasione dei cataclisma.

Una fontana elegantissima di marmo, dei pozzi con condotti esterni
dovevano somministrare ai bacini e vasche dei lavoratori acqua in
abbondanza. Presso alla fontana vi son pitture su d’un pilastro che
or sta al Museo, rappresentante le operazioni diverse de’ folloni.
In colori ancor vivi veggonsi quattro giovani operai che colle
gambe nude pestano in altrettante conche i panni, cui per tal modo
tolgono il sucidiume. Più su si vede uno schiavo che reca un utensile
per disseccare i drappi: un altro è occupato a passare il _cardo
fullonicus_ di ferro su di un drappo sospeso. Sull’altro lato del
pilastro è figurato uno strettojo ornato di ghirlande; poi una bella
dama che sembra dar degli ordini ad una donna e ad uno schiavo e presso
a loro sono distese delle stofe a disseccare. Sul pilastro vicino
è dipinto un altare, fiancheggiato da due serpenti, un Bacco ed un
Apollo.

Si ritrovò nello stabilimento di questa _Fullonica_ molto sapone,
_lutus fullonicus_, parecchi vasi pieni di calce, delle caldaje e
delle mestole per rivolgere il sapone e lavorarlo. In un ripostiglio
si rinvennero cinque vasi di vetro, l’uno contenente un liquore che si
disperse per inavvertenza, un altro contenente un succo vegetale con
olio e un terzo contenente delle olive, galleggianti nell’olio, d’una
conservazione prodigiosa. Taluna di queste olive serbavano ancora il
picciuolo ed apparivan sì recenti, che sembravan raccolte di fresco.

Per Nuova Fullonica si designa un vasto edificio sull’angolo del
_Vicolo della Maschera_ e si trovarono infatti molti fornelli ricoperti
di piombo e vasche rivestite di cemento; ma Bréton si domanda: se non
sia piuttosto una lavanderia più importante di quelle che per tali
vennero denominate, e si dichiara disposto ad accogliere questa seconda
supposizione.

Dopo le Fulloniche, occupiamoci delle due fabbriche di sapone che si
trovarono finora: l’una nel 1788 presso al mercante di pesci salati,
e nella bottega si vide molto sapone per terra ed anche molta calce
di buona qualità, ma impietrita. In un’altra camera attigua vi erano
sette vasche a livello del suolo per la fabbricazione; l’altra nella
_Via degli Augustali_, sull’angolo della viottola, che nulla offrì di
rimarchevole, all’infuori d’un gran forno diroccato.

Una importante corporazione erano in Pompei gli orefici, _aurifices_:
essi abbiamo già veduto nel Capitolo Quarto come in una iscrizione
pregassero ad essi propizio l’edile Cajo Cuspio Pansa, e pur senza di
questa particolarità, le mille preziosità d’oro raccolte negli scavi
e l’eleganza dei lavori, imporrebbero di aggiungere loro la massima
riputazione. Collane, monili baccati o di pallottole vermiglie,
braccialetti, orecchini, sigilli, falere, anelli e cento altre
bazzicature muliebri, sono tutte eseguite col gusto più squisito e
l’arte moderna ha ritratto da quegli oggetti molti esemplari alle
proprie produzioni. Vi si facevano anche dagli orefici oggetti da
toletta, istromenti pei sagrifici, statuette di numi e massime di lari,
pàtere, coppe, utensili ed altre moltissime cose, delle quali il Museo
Nazionale di Napoli ribocca e va fra i Musei del mondo ammiratissimo.

E sì leggiadre cose eseguivansi dalla oreficeria di allora, che
a rigore avrebbesi da me dovuto riserbarne la parola al capitolo
vegnente, che s’intratterrà dell’Arti. E lodatissimi artisti si
ricordarono dalle storie, di origine greca, o non mai usciti di
Grecia, le opere de’ quali erano ricercatissime in Italia. Così ci
giunse la fama di un Pasitele, che non metteva mano a nessun lavoro
d’importanza senza prima averne abozzato il modello in argilla od
in cera, conformemente al metodo raccomandato da Lisippo. Di lui
si vantò assaissimo la perfezione di un piccolo gruppo d’argento
da lui condotto, il quale rappresentava Roscio bambino lattante e
la sua nutrice, che fremeva nello scorgerlo avvolto fra le spire
di un serpente nella sua culla. Zopiro, altro orefice di non minore
celebrità, non uscì mai di Grecia: ma di lui Plinio ci lasciò descritte
due tazze d’argento, nelle quali aveva dimostrata la sua rara valentía:
su l’una veggonsi Oreste uccisore della madre, ed accusato di tale
delitto da Erigone innanzi all’Areopago, su l’altra lo stesso Oreste
assolto da quell’augusto tribunale, per l’intervento di Minerva, che
opponendosi alla fatale sentenza, gli accordava il proprio suffragio.

Ho già detto come, più che altrove, nella Magna Grecia, e quindi anche
in Pompei, attratti fossero gli artisti greci, ed è infatti da tutti
riconosciuto che in ogni arte del disegno gli scavi misero in luce
oggetti di lavoro greco.

Dal lato destro della _Via Domiziana_, dietro la taberna vinaria di
Fortunata, v’era una bottega di fabbro, che nulla offrì di rilievo, se
non che una leva terminata con un piede di cinghiale e molti istromenti
del mestiere; non che un forno publico di forma ingegnosa ed un piccolo
larario. Nelle quattro camere attigue alla fucina si rimarcarono le
vestigia di un bagno e di una cella vinaria, o cantina, in cui stavano
delle anfore.

Di fabbri, tanto ferraj che legnarii e carpentarj, dovevano del resto
abbondare in una città come Pompei, dove opere edilizie d’ogni maniera,
come templi, case, acquedotti esigevano la loro mano; ed oltre ciò,
ponti, navi e opere militari richiedevano tal numero di lavoratori,
da costituire una corporazione, alla quale era preposto un magistrato:
_Præfectus fabrorum_. D’un prefetto dei fabbri, Spurio Turannio Proculo
Gelliano, nominato anzi per la seconda volta a questa carica, ho
già riferito la bella iscrizione che si trovò nel tempio di Giove di
Pompei, nel Capitolo Ottavo di quest’opera.

Un’altra industria pompejana fu constatata nel 1838 nella fabbrica
di vasi di terra cotta fuori di Porta Ercolano nel _sobborgo
Augusto Felice_. Quivi nel forno a riverbero, costruito in pietra,
rimarchevolissimo, la cui volta è forata da piccoli buchi per lasciar
entrar le fiamme, si trovarono trentaquattro marmitte di terra cotta,
delle quali una munita di lungo manico. Nella bottega v’erano molti
altri vasi. La volta del detto forno, dice Bréton[308] che esisteva
ancora in parte nel 1854, ma che oggi è interamente crollata, era
la parte più singolare della costruzione, costituendosi di vasi di
terra cotta gli uni negli altri incassati, come si adoperò nel sesto
secolo per la famosa cupola di S. Vitale di Ravenna. Alcune aperture
praticate nelle pareti del forno e munite di tubi pure di terra cotta
permettevano di moderare il calore a piacimento.

Botteghe però di lavori di terra cotta e di vetri eransi assai tempo
prima scoperte in Pompei nella strada che conduce dal tempio della
Fortuna al Foro. In una di queste botteghe si trovarono moltissimi
oggetti di tale industria e segnatamente un numero grande di bicchieri,
di tazze e coppe, fra cui delle pregevolissime di color celeste, di
piatti e tutti di vetro conservati nella paglia. Di creta si rinvennero
molte lucerne, pignatte con coperchi, salvadanai, in uno dei quali
anche tredici monete di Tito e di Domiziano; oltre poi 153 monete di
bronzo, una statuetta di donna e due di Mercurio. Nell’abitazione
di una di queste botteghe si raccolse un anello d’oro e una moneta
dell’imperatore Ottone, una statuetta di Mercurio e un’altra con
corazza d’argento, clamide e calzari, creduta di Caligola fanciullo,
una statuetta di Ercole; una lucerna capricciosa, formata da una rozza
figura di vecchio che sostiene un priapo, un’altra di creta in forma
di navetta a quattordici lumi, un cucchiajo d’avorio, ed inoltre uno
scheletro d’uomo, che avrà dovuto fuggire per la finestra della sua
casa e non lungi due altri: il primo trasportando seco un involto con
sessanta monete, una casseruola ed un piattino d’argento.

In Pompei si facevano inoltre, poichè sono a dire di opere da vasajo,
i _Dolia_, che erano vasi maggiori, come anfore grandissime e ventrute
per la prima collocazione dei vini, tenendo il luogo delle odierne
botti. Erano essi di certa pietra detta ofite, ed anche di terra cotta,
e ne ho vedute là di capacissime, ed una anzi apparire cucita con filo
di ferro e racconciata del modo che con laveggi e tegghie farebbero i
nostri calderai. Nella cantina di Diomede se ne trovarono pure. Presto
poi si lavorarono anche in legno: Plinio ne fa cenno ed assunsero così
la figura poco a poco delle botti che abbiamo adesso. Quando poi era
avvenuta la svinatura, si versava il vino, se di qualità più peregrina,
in anfore minori e caratelli detti _cadi_, come si evince da Plinio, il
quale aggiunge la particolarità, che giova ricordare per l’origine d’un
uso che venne conservato, che si otturassero con turaccioli di sughero.
Erano anfore e cadi della materia stessa dei dolii, talvolta cioè di
pietra ofite e quindi bianchi, ma il più spesso di color rossi, perchè
di terra cotta; onde Marziale ha il verso:

    _Vina rubens sudit non peregrina cadus_[309].

In questi caratelli o bariletti si riponevano non i vini soltanto, ma
olio pure e conserve di pomi, fichi secchi, fave; e Marziale ci dice
anche miele, nel seguente pentametro:

    _Flavaque de rubro promere mella cado_[310].

In quanto alle anfore, che risponderebbero ai moderni fiaschi, e se
picciolette, alle bottiglie, servendo principalmente alla conservazione
dei vini e degli olj, oltre l’esser fatte di ofite, o fittili, Petronio
ci fa sapere che fossero anche di vetro, in quel passo che narra
recate sulla mensa _amphoras vitreas diligenter gypsatas, quarum in
cervicibus pittacia erant affixa cum titulo: Falernum Opimianum annorum
centum_[311].

Come poi si lavorassero, per quel che è della terra cotta, risponderò:
nè più nè meno che fa oggidì il vasajo; e Orazio ce lo ha tramandato in
quell’immagine _Dell’Arte Poetica_:

                     _amphora cœpit_
    _Institui, currente rota, cur urceus exit?_[312]

Nella storia militare di Roma si dirà poi come dei dolii si valessero
come di stromenti guerreschi e massime negli assedj. Quando seguiva
l’assalto delle città, gli assediati riempivano i dolii di sassi e con
impeto gli scagliavano sugli assalitori. Altrettanto facevasi negli
attacchi nemici, allor che essi seguivano su alcun declivio.

Qui ha fine il mio dire intorno alle _Tabernæ_.

Chi sa che presto, dove si spinga più alacre lo sterramento in Pompei,
non sia dato di poter strappare ai segreti del tempo qualche nozione
di altre industrie, qualche utile congegno antico e non rivendichi
al passato il vanto di certi trovati, che assai più tardi nepoti
vollero avocare a sè stessi? L’esempio che ci ha fornito la _Casa del
Chirurgo_, nella quale molti strumenti si videro che si ritenevano
prima frutto di sapienza moderna, potrebbe ancora una volta, in altre
taberne che si torneranno alla luce, rinnovare.

Discorso per tal guisa il commercio pompejano nella visita ed esame
delle sue _tabernæ_, ed essendoci così fornita la ragione della fama
che si aveva questa città procacciata di speculativa e industriale, di
leggieri allora si può rendersi conto della iscrizione, che pel musaico
della soglia del _protyrum_ o vestibolo di sua casa, quel cittadino
pompeiano volle esprimesse il benvenuto al guadagno: =Salve Lucru=. Era
tutta una sintesi di quell’anima da mercante.




CAPITOLO XVIII.

Belle Arti.

  Opere sulle Arti in Pompei — Contraffazioni: Aneddoto — Primordj
  delle Arti in Italia — Architettura etrusca — Architetti romani
  — Scrittori — Templi — Architettura pompejana — Angustia delle
  case — Monumenti grandiosi in Roma — Archi — Magnificenza nelle
  architetture private — Prezzo delle case di Cicerone e di Clodio —
  Discipline edilizie — Pittura — Pittura architettonica — Taberna
  o venditorio di colori in Pompei — Discredito delle arti in Roma
  — Pittura parietaria — A fresco — All’acquarello — All’encausto
  — Encaustica — Dipinti su tavole, su tela e sul marmo — Pittori
  romani — Arellio — Accio Prisco — Figure isolate — Ritratti —
  Pittura di genere: Origine — Dipinti bottegai — Pittura di fiori
  — Scultura — Prima e seconda maniera di statuaria in Etruria —
  Maniera greca — Prima scultura romana — Esposizione d’oggetti
  d’arte — Colonne — Statue, _tripedaneæ, sigillæ_ — Immagini de’
  maggiori — Artisti greci in Roma — Caio Verre — Sue rapine — La
  Glittica — La scultura al tempo dell’Impero — In Ercolano e Pompei
  — Opere principali — I Busti — Gemme pompejane — Del Musaico —
  Sua origine e progresso — _Pavimentum barbaricum, tesselatum,
  vermiculatum_ — _Opus signinum_ — _Musivum opus_ — _Asarota_ —
  Introduzione del musaico in Roma — Principali musaici pompejani —
  I Musaici della Casa del Fauno — Il Leone — La Battaglia di Isso —
  Ragioni perchè si dichiari così il soggetto — A chi appartenga la
  composizione.


Nel corso omai avanzato di questa mia opera mi avvenne le tante volte
già di parlare di statue, di bronzi, di pitture e di musaici, di stili
architettonici e di colonne, d’edifizi e di templi, che appena il
lettore si compiaccia di raccogliere in una le disseminate notizie,
può farsi diggià una ragionevole e conveniente idea delle condizioni
dell’arte in Pompei, sotto qualsivoglia sua manifestazione la si voglia
considerare. Nè il consacrarvi per me un capitolo apposito significar
vuole ch’io presuma dir di tutto questo argomento così largamente, da
nulla, o poco men di nulla lasciarvi addietro; perocchè a ben altro che
ad un capitolo ascender vorrebbe allora il materiale che mi verrebbe
tra mano, come può informare chi di proposito vi si è messo intorno.

La grand’opera di Mazois, cominciata nel 1812 e terminata nel
1838[313], non ha infatti per oggetto principale che la descrizione e
l’esatta rappresentazione de’ monumenti architettonici. Essa era stata
per altro preceduta fin dal 1858 dalla stampa della magnifica opera
degli Accademici di Ercolano, che, come ognun sa, fu di parecchi volumi
in folio. Nel 1824 poi ebbe incominciamento la pubblicazione del _Museo
Borbonico_[314], destinato a riprodurre tutti gli oggetti d’arte che
formavano dapprima i musei di Portici e di Napoli, e che poscia vennero
concentrati nel solo Museo Nazionale.

Importantissima del pari fu l’opera _Le Case ed i Monumenti di Pompei
disegnati e descritti_, edita in Napoli che, iniziata dal cav. Antonio
Nicolini architetto della Casa Reale e Direttore dell’istituto di
Belle Arti, venne continuata dagli egregi fratelli Fausto e Felice
Nicolini, ed è tuttavia in corso di publicazione. È sventura davvero
che opere, come queste, degnissime e che meriterebbero di andar diffuse
e consultate, non lo possano, perchè dispendiose di troppo. — Più alla
mano e pel sesto e per il prezzo riuscì l’altra _Ercolano e Pompei_,
che mandò fuori in Venezia il tipografo Antonelli nel 1841, e furono
publicati sette volumi, voltandola dal francese di Bories e di Barré
e che si giovò di tutte le anteriori publicazioni, divisa essa in due
parti: Pitture e Scolture e Musaici e suddivisa in più serie.

Nè vogliono essere pretermesse altre opere congeneri e di merito
singolare, come quella di Goldicutt di Londra; di Ternite e Zahn di
Berlino; di Goro di Vienna, e meglio forse di tutte queste, quelle di
William Gell, della quale si fece una versione a Parigi con moltissime
aggiunte.

Intorno all’autenticità dei disegni publicati nelle più antiche opere,
molti dubbj elevar si potrebbero, da che sia noto come prima il Governo
Borbonico avesse opposto formale divieto alla copia delle pitture
antiche, onde in quanto si avesse a diffondere di quelle d’Ercolano e
di Pompei non si potesse riscontrare tutta quella esattezza e fedeltà,
che non concede il copiar di memoria.

Su di che tolgo al Barré l’aneddoto seguente, abbastanza curioso e che
mette conto di riferire.

In onta alle precauzioni alcuna volta esagerate, con cui erano guardati
gli affreschi del Museo che in quel tempo era a Portici, alcune copie
furtive fatte vennero per mezzo di ricordi, e il publico le ricercava
con tanta maggior avidità, quanto ch’ell’erano più rade, e con più
riserbo vendute. Giuseppe Guerra, pittore veneziano, stabilito a Roma,
mentre mancava di lavoro, quantunque non assolutamente sprovveduto
d’ingegno, imprese ad innalzare, con una frode anche più ardita,
l’edificio della sua fortuna. Guerra non si avventurò solo a spacciar
copie di antiche pitture, ma vendette quelle pitture medesime.
Egli dipinse differenti affreschi di antico stile sovra frammenti
di intonaco, e li cesse ad alcuni amatori, confessando loro, sotto
sigillo di alto segreto, averli acquistati egli medesimo da un qualche
sovrintendente agli scavi napolitani. Fecesi rumore per ciò a Napoli,
dove invano cercavasi il colpevole; ma per indizii positivi ricavati
da Roma, i direttori del Museo fecero in sulle prime segretamente
comperar tre degli affreschi che giravano in questa capitale. Quindi
uno dei loro agenti portossi dal Guerra chiedendogli l’Achille e il
Chirone, dipinti pompejani di recente scoperti, allora già incisi e
publicati nel primo volume delle _Antichità di Ercolano_. Guerra, senza
diffidenza alcuna, fece la copia, o meglio, l’imitazione domandata,
mentre egli non poteva lavorare coll’originale sott’occhio. In questa
copia da lui sottosegnata, si conobbe esattamente lo stile dei tre
affreschi acquistati; i medesimi sforzi per raggiungere un modello
veduto alcun poco solamente da lungi; le medesime differenze sfuggite
in onta a questi sforzi e sovratutto la perfetta analogia delle copie
fra loro, quantunque si scorgesse molta diversità ne’ modelli. Il
Governo di Napoli a nulla si valse della sua influenza nello Stato
Pontificio per far redarguire il Guerra. Limitossi a esporre le quattro
imitazioni unite agli originali, con una illustrazione diffusa, onde
por sull’avviso i curiosi contro ogni frode di genere siffatto. Guerra,
più non potendo alienare false antichità, ripigliò, non senza qualche
profitto, l’uso legittimo del suo pennello[315].

Tutto questo premesso, avanti entrare a parlare partitamente delle
preziose cose in fatto d’arte scoperte a Pompei, oltre quel che
già toccai e che il lettor già conosce, non sarà inopportuno che io
l’intrattenga delle condizioni generali delle arti nel mondo romano;
onde questo mio lavoro illustrativo dell’antica vita di Roma col mezzo
delle scoperte pompeiane non sia in questa parte cotanto importante
difettivo.

Dopo che nel Capitolo antecedente ho chiarite le ragioni per le quali
da agricoltori che erano i romani per nascita e per tendenza, passarono
insensibilmente a divenir soldati e conquistatori, ed ho tracciate le
cause che tolsero a Roma d’avere un florido commercio coll’estero,
non credo necessario ritessere i motivi per i quali pur nelle arti
non furono i romani eccellenti, ma anzi piuttosto delle medesime
ignoranti. Sono essi identici a quelli che rattennero lo sviluppo del
commercio; onde il ragionamento intorno all’arti romane vuol essere una
logica deduzione di que’ motivi, che però mi accorciano il dirne qui
particolarmente e più a lungo.


Architettura.

L’arte nondimeno, come ogni altra intellettuale coltura, non aveva
così le medesime sorti nelle altre parti d’Italia. Nell’Etruria
singolarmente era in fiore; la sua architettura, o a dir meglio, il
suo ordine che serbò il nome di etrusco, comunque ne sia meno ornato,
si accosta al dorico. Nè io già reputo che importato fosse, com’altri
opina, da’ Pelasgi; ma dividendo le opinioni del chiarissimo Mazzoldi,
penso che la civiltà etrusca fosse anteriore all’incivilimento di
Grecia. Gli scavi fattisi pure ai nostri giorni in diverse parti
di quella nobile provincia, oltre quanto è nelle storie antiche
consegnato, fornirono monumenti e dati attissimi a comprovare queste
condizioni antiche dell’arte in Etruria. Nè diversamente nella Magna
Grecia e in Sicilia, dove alla coltura nazionale s’aggiunse la greca
importatavi dai più frequenti commerci. E qui giova osservare che sotto
la denominazione di civiltà etrusca, vuolsi abbracciare come in essa
compresa tutta quella parte di territorio che dall’odierna Toscana o
dal piede dell’Alpi si distende fino allo stretto di Sicilia.

Le prime opere infatti de’ Romani si assegnano ad architetti etruschi.
Così fu la Cloaca Massima, immaginata per disseccare i terreni bassi
situati nelle circostanze del Foro, che, intrapresa sotto il reggimento
del vecchio Tarquinio e continuata da Servio Tullio, venne compita
sotto Tarquinio il Superbo[316] e che somministra un dato interessante
alla storia dell’Architettura, venendo essa a provare che l’invenzione
dell’arco appartenga a’ Romani e non ai Greci, poichè vi si vegga esso
grandiosamente sviluppato in un’epoca in cui, se esisteva in Grecia,
non era punto in uso. Sul qual proposito, osserva Hope che l’arco già
fosse introdotto in Etruria in monumenti che sembrano anteriori alla
costruzione della cloaca ed alla fondazione di Roma[317]. Per i primi
cinque secoli, Roma pare non prendesse cognizione affatto dell’arte
architettonica, e i templi e i pubblici e privati edifizj suoi si sa
perfino che non sapesse coprire che di stoppie mescolate all’argilla,
come i viaggiatori trovarono praticarsi pur oggidì in molte terre
selvagge. Nè l’acquedotto della Via Appia, che fu costrutto nell’anno
trecentodieci di Roma, può fornir argomento che smentisca codesta
asserzione, perocchè la sua opera correndo tutta sotterranea, non porga
aspetto alcuno di forme architettoniche.

Tuttavia tracce di una architettura disciplinata addita la storia in
Roma nel sepolcro in peperino di Scipione Barbato, il quale fu console
nell’anno 456 della fondazione della città, sormontato da un triglifo
dorico pur sormontato da dentelli jonici, e tre secoli avanti l’Era
volgare si costrussero intorno al foro portici per le _tabernæ_ degli
_argentarii_ o banchieri.

Per le conquiste fatte nella Grecia, vennero di là in Roma dietro il
carro de’ trionfatori, colle scienze e colle lettere, anche le arti,
che pur vi accorsero dalla Magna Grecia e dalla Sicilia, e delle
spoglie delle vinte città, fra cui oggetti pregevolissimi d’arte, si
fregiarono templi, monumenti e case de’ vincitori. Incominciò anche per
Roma ad essere pure l’architettura, che abbandonò da allora lo stile
etrusco, per adottare il greco, quel che disse il Milizia, depositaria
della gloria, del gusto e del genio dei popoli, ad attestare ai futuri
secoli il grado di potenza o di debolezza degli stati. Così nel 205
avanti Cristo si ornò da Cajo Muzio, su pensiero di Marco Claudio
Marcello, di fregi tolti a Siracusa, il tempio dell’Onore e della
Virtù, e si impiegarono marmi nella costruzione. Metello nel 147 inviò
dalla soggiogata Macedonia pitture, statue e tesori; per cui si eresse
coll’opera di Ermodoro da Salamina il tempio periptero a Giove Statore,
e quindi quello sacro a Giunone, prostilo e cinto da gran cortile con
bel colonnato all’intorno.

Altri templi si erano venuti erigendo nella stessa Roma durante la
seconda guerra cartaginese, al tempo cioè d’Annibale, che fu intorno
al 220 avanti Cristo; ma, ripeto, che le discipline accertate e stabili
dell’arte architettonica non si venissero fondando che colle conquiste
e coll’arricchimento del Popolo Romano e col diffondersi di sua
coltura; perocchè ben dicesse il succitato Milizia, che l’architettura
non incomincia ad essere un’arte presso i differenti popoli, dov’ella
può estendersi, che quando sono pervenuti ad un certo grado di coltura,
d’opulenza e di gusto. Allora, allontanandosi sempreppiù dai lavori
e dalle occupazioni rustiche, gli uomini si rinchiudono nella città,
dove ai perduti piaceri della natura sottentrano i godimenti delle arti
imitatrici. Prima di quel tempo, l’architettura non si deve contare che
tra i mestieri necessarj ai bisogni della vita, ed essendo fin allora
i bisogni limitatissimi, il suo ufficio si riduce a non far che un
ricovero contro le intemperie.

I tre ordini più nobili, il dorico, l’jonico e il corintio del pari che
la scultura, passarono dalla Grecia in Roma belli e perfetti, portati
da quella schiera di artisti, che le nuove vie aperte dalle conquiste e
il desiderio di far fortuna sospinsero alla capitale del mondo.

Cicerone ricorda fra coloro che si diedero ad architettare in quel
tempo i principali monumenti in Roma, nello stile greco, un Cluazio,
un Ciro e Vezio liberto suo. E fu intorno alla medesima epoca che si
scrissero anzi opere su quest’arte e citasi a tal proposito un Rutilio,
che ne dettava una assai stimata allora, sebbene incompleta; restato
essendo il vanto di questo più degnamente fare a Vitruvio, vissuto al
tempo d’Augusto, che però invano Hope, con altri, dà per greco; ma che,
per sentimento dei più, vuolsi nascesse per contrario in Formia, posta
ove è oggi Mola di Gaeta.

Allora sul colle capitolino, settantott’anni avanti l’Era volgare,
sorse il _Tabulario_, di cui esistono tuttavia considerevoli avanzi,
uffizio od archivio nel quale si conservavano i registri e documenti
publici e privati, i cui archi esterni si aprono tra mezze colonne
doriche; poi il tempio della Fortuna Virile e il delubro funerario
di Publicio Bibulo sullo stesso colle; quello rinnovato per cura di
Lucio Cornelio Silla e dedicato a Giove Capitolino, quello all’Onore
eretto da Cajo Mario e quello finalmente sacro a Venere Genitrice fatto
costruir da Pompeo.

Ma quello che lasciò addietro ogni altro edificio, per la sua
magnificenza, fu il tempio alla Fortuna, che il medesimo Silla fabbricò
a Preneste, delle rovine del quale si costruì ne’ secoli posteriori
Palestrina. Vuolsi vi si ascendesse per sette vasti ripiani, nel primo
ed ultimo dei quali correva per tubi latenti e serbatoj copia di acqua
e del quale serviva a pavimento quel prezioso musaico, che Plinio il
naturalista afferma essere stato il primo che fosse lavorato in Italia,
e il quale andò poscia a costituire uno de’ pregi precipui del palazzo
Barberini in Roma.

Ventisei anni prima di Cristo, Vipsanio Agrippa, genero di Augusto,
dedicò a Giove Ultore il Panteon, che fu una rotonda che riceveva la
luce unicamente dalla apertura della cupola, dell’altezza e diametro di
quarantatre metri, e il frontone della quale, bello per sedici maestose
colonne corintie di marmo di un sol pezzo, dell’altezza di trentasette
piedi e di cinque di circonferenza, e, superstite, viene tuttavia
ammirato e sta in testimonio eloquente delle egregie condizioni
dell’architettura di quel tempo.

Io ho già descritto a suo luogo i templi, il foro civile, la basilica
e vie via altri publici edifizi di Pompei: la loro architettura
ne interessò: essa rimonta per tutti ad epoche anteriori a Cristo
e principalmente vi dominano gli ordini greci; ciò che forse
scaltrisce come prima fors’anco che a Roma, in ragione dei maggiori
commerci, artisti di quella contrada avessero visitato e lavorato
nella Magna Grecia. Ciò che di particolare vuol essere notato in
queste architetture pompejane si è che le colonne, parte principale
e caratteristica delle fabbriche greche, e divenute ornamento nelle
romane, quivi venissero mutate da un ordine all’altro col rivestirle di
stucco, senza curarsi più che tanto dell’alteramento delle proporzioni.

Ho già notato altrove come nelle sostruzioni degli edifici pompejani si
riscontrino traccie di una preesistente e più antica civiltà, e come
pei diversi cataclismi intervenuti a quella città, appajano quelli
edifizj non di molto remoti, nelle date di lor costruzione, da quella
della loro ultima rovina: di qui è dato argomentare che alla storia
dell’arte italiana tornerebbe più vantaggioso il disseppellimento della
città d’Ercolano. Ognun s’accorda nel ritenere che Ercolano possa
essere stata una città più artistica di Pompei, perocchè in questa
meglio si fosse dati alle commerciali speculazioni, e in quella vi
concorressero invece più i facoltosi e fosse luogo meglio acconcio alle
villeggiature de’ più ricchi e voluttuosi romani, non altrimenti che
Baja, Bauli e Pozzuoli.

Infatti le pitture, i marmi, i bronzi che si rinvennero in Ercolano, si
riconobbero generalmente superiori d’assai in merito alla maggior parte
di quelli che uscirono dalle rovine della città sorella, della quale
specialmente è il mio dire.

Se non che io non credo, e l’ho già detto, che, ciò compiere si possa
con quella grande facilità, che per avventura sembrava al Beulé si
potesse fare[318]; perocchè non è vero che si riducano, com’egli
dice, a due sole le difficoltà che si incontrano al diseppellimento:
le costruzioni moderne che abbisogna espropriare e le quantità delle
ceneri che convien d’asportare. E le lave e le ceneri petrificate? Vi
hanno luoghi in cui le prime hanno perfino diciotto metri di spessore
e su di esse si è fabbricato, tal che dove già s’era penetrato, e
s’erano tratte le più interessanti preziosità, si fu costretti a
rimettere il materiale cavato onde ovviare alla rovina. Notisi poi
che le costruzioni finitevi sopra sono di tale natura da riuscire
dispendiosissima la espropriazione, nullamente è in proporzione dei
mezzi che sono messi a disposizione degli scavi. Del resto l’età che
corre è più cotoniera e trafficante che archeologa e poeta, gareggiano
con essa di pillaccheria, in fatto di publica istruzione, i nostri
uomini di governo che parteggiano per la teoria, d’invenzione del
nostro tempo, _delle economie infino all’osso_[319].

Ciò che particolarmente dovrebbe chiamare la nostra attenzione è
l’architettura delle case private di Pompei. Era essa etrusca? era
greca? era romana? Chi lo saprebbe, rispondo io, definire in modo
irrecusabile? I dotti questionarono tra loro e non s’intesero; forse
non va errato chi di tutti questi generi d’architettura afferma
riscontrare un miscuglio, che non lascia tuttavia che vi campeggi, per
la semplicità ed eleganza degli ornati, la caratteristica greca. Chi
credesse peraltro immaginare alcun lontano riscontro nella maniera
odierna d’architettare, si ingannerebbe a partito; l’architettura
delle case pompejane è quanto di più originale presenta lo studio
della dissepolta città. La massima parte di esse si costituisce di due
soli piani: rado avviene che se ne trovi alcuna che lasci presumere
essere stata di tre, e dico che lasci presumere, perchè in nessuna
il terzo piano sussiste e solo è dato argomentarne la esistenza dalle
traccie delle scale del secondo. Anche il secondo piano, che sarebbe
il così detto _solarium_, o meglio _cœnaculum_, era assai basso e
destinato alla abitazione degli schiavi addetti al servizio della
famiglia. Esternamente esse erano allineate tutte l’una dopo l’altra
in ogni via; se interruzione vi era circa l’altezza, veniva prodotta
da talun edificio publico, che sopravanzava. Erano poi intonacate e
colorate, non avevano finestre respicienti sulla via, le camere venendo
rischiarate all’interno, rada era qualche apertura al piano superiore,
e balcone, come avverrà di vedere nella casa del _Balcone pensile_.
Per ciò che riguarda la distribuzione interna, sarà argomento che
procaccierò trattare nel capitolo _Le Case_. Nondimeno fin d’ora non
mi è lecito di passar oltre senza far cenno della picciolezza delle
case pompejane, o piuttosto delle camere ond’esse si componevano, la
qual non lascia di colpire chi per la prima volta visita questa città.
Nè forse potrebbe esserne una ragione quella che i suoi abitatori
suolessero, più che chiudersi dentro delle medesime, vivere in piazza
e per le vie, siccome consentiva la dolcezza del clima; quando pure non
si voglia interamente ammettere, ciò che per altro io credo verissimo,
che per costumanze antichissime greche, importate in Pompei, siasi
appunto seguitata la moda greca, che appunto assai picciole aveva
tutte le parti architettoniche delle abitazioni, procedendo nondimeno
una non dubbia eleganza dalla esatta armonia delle medesime. Tuttavia
voglionsi per alcuni ritrovarvi altre cause, della cui aggiustatezza
lascio volontieri giudice chi legge. Si dice che occorrendo nelle
case per tanti usi svariati una quantità di stanze, queste dovevano
necessariamente risultare nella maggior parte di piccole dimensioni,
che l’occhio però non se ne avvedesse troppo, mercè un artificio
di dipinture prospettiche sui muri e di decorazioni combinate con
accortezza[320]. Ma forse queste ragioni, che potrebbero attagliarsi
a taluna casa costretta fra l’altre, non pajono troppo plausibili
per tutte, non vedendosi perchè, abbisognando di molte camere, non
si potesse procacciarsele, come si pratica di presente, estendendo
l’area de’ fabbricati. Le decorazioni prospettiche, appunto per la
soverchia angustia degli ambienti, potevano esse poi produrre tutti
i loro effetti e simulare uno spazio maggiore? Ne dubito e preferisco
attenermi a quelle altre ragioni che per me si sono recate.

Del resto fu solamente al cominciar dell’epoca imperiale, cioè ai
giorni d’Augusto, che l’architettura divenne più fiorente e si sviluppò
ne’ romani il gusto delle costruzioni colossali. Prima, come in Pompei,
templi, edifizii pubblici e case private non avevano che proporzioni
esigue: in ragione della maggior vastità di concetti politici delle
conquiste e della crescente ricchezza eransi venute ingrandendo ed
assumendo un proprio carattere nazionale. Nelle forme esteriori poi si
restò, è vero, fedeli allo stile greco; ma per guarentirne la solidità
dell’interno vi si introdussero colonne ed archi.

Ma per seguire la cronologia delle opere più celebrate in fatto
d’architettura di quel tempo, uopo è ricordare la basilica di Fano
architettata da Vitruvio e da lui descritta nella sua opera _De
Architectura_; i portici onde si cinse il circo Flaminio sotto l’impero
di Augusto, la piramide di Cajo Cestio, il teatro di Marcello e il
tempio di Giove Tonante. Quindi il mausoleo di Augusto nel campo
Marzio, divenuto ben presto quasi una città marmorea e il Palazzo d’oro
fabbricato da Nerone sulle macerie degli edifizi da lui incendiati, il
quale abbracciava l’area del monte Palatino, del Celio, dell’Esquilino
e la frapposta valle estesa quanto l’antica città, dove correva un
portico a triplici colonne della lunghezza d’un miglio, e dove nel
vestibolo, sorgeva la statua colossale in rame dell’imperatore, opera
del greco Ateneo, alta quaranta metri, secondo alcuni, secondo altri di
Zenodoro d’Alvernia, alta cento metri. Dovunque poi e fani e colonne
ed archi, divenuti questi in breve distintivo singolare della romana
architettura, poichè ignoti ai Greci. Il primo che sorse — giova allora
ricordarlo — fu 139 anni prima di Cristo, e fu ad onore di Fabio
vincitore degli Allobrogi e degli Alvernii. Anche in Pompei ho già
segnalato l’esistenza di quattro archi di trionfo, e rimangono essi
novella prova del modellarsi interamente delle colonie sugli usi della
capitale.

Il paragone della romana colla greca architettura è così a un
dipresso come l’ho già pur io superiormente dimostrato, da Hosking
istituito. «Benchè inferiore, scrive egli, in semplicità ed armonia
all’architettura greca, la romana è evidentemente della stessa
famiglia, distinta per esecuzione più ardita ed elaborata profusione
d’ornamenti. Il gusto delle due nazioni è espresso dal dorico pel
primo, dal corintio per l’altro: uno è modello di semplice grandezza,
perfetto nelle particolari convenienze e inapplicabile ad oggetto
diverso; l’altro è men raffinato, ma molto adorno; sfoggia nell’esterno
la bellezza di cui manca nell’interno; imperfetto in ciascuna
combinazione, ma applicabile ad ogni proposito.»

La storia poi della romana architettura segna le diverse fasi della sua
politica, e come che Roma si pose alla testa del mondo, anche la sua
architettura, più che ogni altra giganteggiò; perocchè sia anche l’arte
più alta a rappresentare la terribile e vastissima grandezza di quel
popolo.

Infatti a’ tempi più liberi e primitivi appartiene il modo
d’architettare derivato dall’Etruria, che si palesa solido e severo: a
que’ dell’impero se ne spiegò la magnificenza: al declinar del medesimo
si mostrò cincischiata di fregi e deviò dal gusto antico; per poi
corrompersi affatto, parallelamente alla corruzion dei costumi.

Nè questi caratteri e questa magnificenza furono distintivi de’
publici edifizj soltanto: essi riscontransi eziandio ne’ privati e
nelle loro abitazioni. Così furono celebri le costruzioni di Lucullo,
di Lepido, di Scauro, d’Aquilio, di Mamurra; così nel Capitolo che
verrà delle _Case_ designerò pure in Pompei abitazioni di cittadini
magnificentissime. Per dare un’idea ancorchè imperfetta di tanta
magnificenza, basterà l’accennare qui il grandissimo loro prezzo.
La casa che Cicerone possedeva sul monte Palatino, gli era stata
venduta da Crasso per tre milioni e cinquecento mila sesterzi, che si
vorrebbero ragguagliare in oggi a lire nostrali 736,125. Quella di P.
Clodio, che Cicerone tanto avversò e che fu poi ucciso da Annio Milone,
era costata quattordici milioni ed ottocento mila sesterzi, vale a dire
3.027,833 lire e centesimi trentuno.

Non credo fuor di proposito, dopo tutto il fin qui detto, di qui
soggiungere ora brevemente alcuni cenni intorno a talune discipline
dell’edilizia romana, al tempo della Republica.

Allorquando accadeva di dover costrurre o riparare un edificio,
praticavasi ad un dipresso quello che già notai si facesse in Pompei
per le riparazioni delle vie. I Censori mettevano l’opera al publico
incanto, quando pure essi medesimi non se ne fossero costituiti
direttori, o non si fossero fatti rappresentare da loro delegati,
_duumviri, triumviri, quinqueviri_. Compiuta la costruzione, i censori
o gli edili venivano da un senato-consulto incaricati di collaudare
e ricevere le opere, il cui prezzo veniva pagato dal publico tesoro.
Spesso occorse che facoltosi uomini, in caccia di popolarità, previo
aver riportato un senato-consulto, costruir facessero e riparare
a propria spesa publici edificj: nel primo caso essi ottenevano
l’autorizzazione di far iscrivere il loro nome sul monumento; nel
secondo essi avevano facoltà di scriverlo a fianco del fondatore.


Pittura.

L’architettura interna delle case, per ispiegare tutto quel lusso
e magnificenza che superiormente dissi, si giovò ben presto anche
dell’arte sorella, la pittura; e se sappiam per le istorie che Ludio
coprisse le pareti delle case di paesaggi, di vendemmie e di scene
campestri; gli scavi di Pompei ci hanno messo in grado di stabilire con
tutta certezza che altrettanto si dovesse fare ovunque a que’ giorni.

Nè furono soltanto dipinti, fregi, festoni, fiori, uccelli, delfini e
animali, tritoni, sfingi, paesaggi, genj od altri leggieri soggetti,
che ne fecero le spese; ma vi si istoriarono fatti mitologici e veri e
perfino soggetti di genere, come avvenne già di più volte mentovare in
queste mie pagine, nelle quali, in difetto di meglio, dovetti ricorrere
a cotali dipinti per chiarire la natura di commerci e de’ mestieri che
si esercitavano nelle diverse _tabernæ_.

Ma dirò per ordine di tutte queste specie di pittura e prima di queste
che direi strettamente architettoniche.

Descriverle partitamente è impossibile all’economia di quest’opera, per
la loro infinita varietà, tal che costituirono per chi lo volle fare
i soggetti di più volumi: basti adunque il constatarne per la massima
parte l’eleganza delle linee e dei fregi, l’interesse delle storie
che vi sono congiunte e la bontà de’ paesaggi, i quali, se non sempre,
tuttavia offrono talvolta la conferma di quanto venne dagli scrittori
d’arte affermato, della profonda cognizione, cioè, che avevano gli
antichi delle discipline della prospettiva sì aerea che lineare. Spesso
giovano alle cornici, uccelli, grifoni, ippocampi, pesci e bestie,
frutta ed arbusti, talvolta patere, genietti, Vittorie alate e Fame,
e vie via mille altre leggiadrie del miglior gusto. L’arte decorativa
de’ nostri giorni vi avrebbe indubbiamente a studiare, desumere e
guadagnare; nè chi s’è fatto nome in essa, ha veramente lasciato di
attingervi a piena mano.

I colori rosso e giallo vi campeggiano nella parte architettonica
e nella decorativa: già l’osservai parlando sovente de’ colonnati
rivestiti di stucco di questi colori e di altre parti di edificj
e templi. È per altro da notarsi come nelle più antiche pitture e
in Pompei ed altrove si facesse uso di un sol colore, dette perciò
monocromatiche, fondendosi quindi l’interesse nel concetto e nel
disegno.

Ma poichè sono a dir de’ colori, la riserva che ne ho fatto nel
Capitolo antecedente mi invita a parlare della _Taberna_ del mercante
di colori, che fu rinvenuta negli scavi pompejani e che doveavi
necessariamente essere in una città nella quale anche nelle più
modeste case si ammiravano buoni dipinti. Essa è in quella località
che vien designata dalle Guide per la casa dell’Arciduca di Toscana,
così chiamata, perchè spazzata dalle ceneri nel 1851 alla presenza del
principe ereditario del granduca Leopoldo II; ed è segnata dai n. 47,
48 e 49 che stanno su tre botteghe, in cui vennero appunto trovati
in grandissima quantità molti colori, coi relativi mulini che li
dovevano macinare, suppergiù eguali a quelli di cui si valevano per la
macinazione de’ grani. La differenza consiste forse unicamente nella
maggior piccolezza loro.

Sottoposti questi colori alla analisi chimica, si conobbe come vi
fosse commista molta resina, che, per quel che verrò a dire tra breve,
serviva nella pittura all’encausto, per far attecchire i colori colla
azione del fuoco e così fu in certo modo strappato al silenzio dei
secoli una parte del processo di che si valeva appunto l’encaustica.
Quantità di resina pura fu rinvenuta nelle stesse botteghe, dove si
raccolsero eziandio quattordici scheletri; forse il personale tutto
impiegato in quella officina.

Uscendo adesso da questa interessante _taberna_, e passando a dir
della restante pittura, seguì ella, come la scoltura e l’altre arti,
le medesime origini, fasi e condizioni. In Roma non si può dire che
avesse avuto favore dapprima: di pochi artisti pertanto romani è fatto
cenno dalle storie: Plinio ricorda appena tra essi Fabio, Arellio,
Amulio, Cornelio Pino e Accio Prisco, pittori, oltre Pacuvio, che
distinto poeta tragico, trattò anche la pittura. La coltura delle
arti consideravasi poco più che opera servile, e se la rapacità de’
proconsoli tolse a Grecia, per arricchirne Roma e le ville ad essi
spettanti, tanti preziosissimi oggetti; essi tuttavia riguardavansi più
come stromenti di lusso, che altro, nè svegliavano quell’intellettuale
interesse che si suscitò di poi; se Virgilio non fu rattenuto dal
sentimento di nazionale orgoglio dal riconoscere che il merito di
foggiare marmi e bronzi da farne volti animati e quello del perorar
meglio le cause spettassero a gente straniera:

    _Excudent alii spirantia mollius æra,_
    _Credo equidem vivos ducent de marmore vultus,_
    _Orabunt causas melius, cœlique meatus_
    _Describent radio, et surgentia sidera dicent:_
    _Tu regere imperio populos, Romane, memento:_
    _Hæ tibi erunt artes; pacisque imponere morem,_
    _Parcere subjectis, et debellare superbos_[321].

Orazio, malgrado proclamasse i Romani giunti al sommo della fortuna,
faceva tanto conto dell’arti del pingere e del cantare, da metterle a
paro di quella del lottare:

    _Venimus ad summum fortunæ. Pingimus atque_
    _Psallimus, et luctamur Achivis doctius unctis_[322].

e ascrisse in vizio a Grecia l’aver pregiato marmi, bronzi e pitture:

    _Ut primum positis nugari Græcia bellis_
    _Cœpit, et in vitium fortuna labier æqua:_
    _Nunc athletarum studiis, nunc arsit æquorum,_
    _Marmoris aut eboris fabros, aut æris amavit:_
    _Suspendit picta vultum, mentemque tabella_[323],
e prima di loro Cicerone vergognasse quasi di ricordar i nomi di
quei divini scultori che furono Prassitele e Policleto e credesse
menomar l’importanza loro confessandosi, egli abbastanza vanaglorioso,
dell’arti belle ignorante.

Eccone i passi, perocchè paja tutto ciò veramente incredibile e strano:

_Erat aput Hejum lararium cum magna dignitate in ædibus, a majoribus
traditum, perantiquum: in quo signa pulcherrima quattuor, summo
artificio, summa nobilitate, quæ non modo istum, hominem ingeniosum,
verum etiam quemvis nostrum, quos iste idiotas appellat, delectare
possent: unum Cupidinis marmoreum, Praxitelis. Nimirum didici etiam,
dum in istum inquiro, artificum nomina.... Erant ænea præterea duo
signa non maxima, verum esimia venustate, virginali habitu, atque
vestitu quæ manibus sublatis sacra quædam, more Atheniensium virginum,
reposita in Capitibus, sustinebant. Canephoræ ipsa vocabantur.
Sed earum artificem quem? quemnam? recte admone: Policletum esse
dicebant_[324]. Più tardi invece sì l’arte del dipingere che quella
dello scolpire parvero crescere in maggiore estimazione, se Nerone
imperatore vi si applicò e distinse.

La più gran parte delle pitture antiche erano parietarie, quelle che
in oggi, dai diversi procedimenti adottati nel pingere, chiameremmo
affreschi. Nondimeno anche allora non è escluso che si potesse da
quegli artisti dipingere sull’intonaco recente. Anzi il dottissimo
cav. Minervini ha constatato non dubbie differenze nei diversi sistemi
onde sono condotti gli intonachi che ricoprono le pareti pompejane.
Ne ha distinti di più fini, per i quali, a suo credere, gli antichi
dipingevano a fresco le composizioni meglio accurate, i paesaggi e le
figure; mentre che le semplici decorazioni erano dipinte a secco da
pittori inferiori.

Il più spesso rilevasi evidentemente come suolessero dipingere a
guazzo od all’acquerello con colori preparati a gomma, ovvero con
altro genere di glutine, e se ne adducon le prove in gran numero di
dipinti pompejani esistenti nel Museo di Napoli, i colori de’ quali si
ponno separare e staccare dall’intonaco, talvolta ben anco vedendosi
ricomparire, nel cadere lo strato superiore, la sottoposta tinta,
ciò che non può accadere di pitture frescate. Quando poi si ponga
mente che fra i colori adoperati allora eranvi quelli che chiamavano
_purpurissum, indicum, cæruleum, melinum, auripigmentum, appianum_ e
_cerussa_, e i quali non resistono alla calce[325], si mette in sodo
che il processo non poteva essere a fresco.

Uno dei metodi più usitati in quel tempo era del pingere all’encausto,
e se ne valeva assai per le pitture sulle pareti. Più sopra nella
_taberna_ del mercante de’ colori, abbiam trovato molti ingredienti
che servivano a tale scopo. Era l’encaustica l’arte di dipingere con
colori mescolati con cera e di poi induriti coll’azione stessa del
fuoco. Di qual modo si praticasse in antico, di presente più non si
sa, essendosene smarrito il procedimento. Vero è che il conte Caylus
pretese averlo rivendicato e ne scrisse al proposito un trattato;
ma per general sentimento non credasi che sia riuscito ad ottenerne
i medesimi risultamenti. Pare, scrive Rych[326], ch’essi seguissero
diversi metodi e conducessero l’operazione in differentissime guise:
o con colori mescolati con cera, distesi con una spazzola asciutta e
poi bruciati con un cauterio (_cauterium_), ovvero marcando i contorni
con un ferro rovente (_cestrum_) si incideva sopra l’avorio; nel qual
processo non pare che la cera entrasse punto, o infine liquefacendo la
cera con cui i colori erano mescolati, cosicchè la spazzola era intinta
nel liquido composto e il colore disteso in istato di fluidità, come
si fa all’acquerello, ma di poi rammorbidito e fuso coll’azion del
calorico.

Contrariamente a quanto afferma Bréton, che l’encausto fosse bensì in
uso allora, ma indubbiamente solo pei quadri e non per le pitture di
semplice decorazione[327], vogliono altri che il metodo dell’encausto
fosse quello adottato in tutte le pitture pompejane, come in quelle
scoperte ad Ercolano. Mengs per altro portava opinione che esse fossero
invece condotte a fresco[328].

Ho poi detto che la più gran parte dei dipinti fossero parietarii, ciò
che significa che non tutti lo fossero; ben sapendosi come alcuna volta
si dipingesse sulle tavole di legno, ch’erano di larice, preparate
prima con uno strato di creta, specie di pietra tenera, friabile e
bianca, sì che _tabula_ equivalesse, senz’altro, a quadro, come a mo’
d’esempio leggasi in Cicerone: _Epicuri imaginem non modo in tabulis,
sed etiam in poculis et in anulis habere_[329]; e altrove: _Tabulas
bene pictas collocare in bono lumine_[330], come istessamente oggidì
ogni artista domanda di collocare sotto buon punto di luce le sue
opere, per conseguirne i migliori effetti. Plinio poi aggiunge che
si pingesse pure sovra pelli o membrane[331] ed anche sulla tela. Su
tela, per la prima volta venne dipinta quella grande demenza che fu la
colossale immagine di Nerone, alta centoventi piedi, che fu consunta
dal fulmine, come disse lo stesso Plinio, nei giardini di Maja: _Nero
princeps jusserat colosseum se pingi CXX pedum in linteo incognitum ad
hoc tempus. Ea pictura cum peracta esset in Majanis hortis, accensa
fulmine cum optima hortorum parte conflagravit_[332]. Nè fu sola
codesta prova del pingere sulla tela allora. Un liberto dello stesso
Nerone, dando al popolo in Azio uno spettacolo di gladiatori, coprì
i publici portici di tappezzerie dipinte su cui rappresentavansi al
naturale i gladiatori e i loro inservienti.

Del resto anche le pitture pompejane offrirono dati, di cui giova tener
conto, in conferma di quest’uso di dipingere a pittura sulla tela,
avendosene una su parete, la quale rappresenta una dama che sta dinanzi
al cavalletto intenta a dipingere un quadro o piuttosto a copiare un
Bacco che le sta davanti; un’altra in cui si raffigura un pigmeo, che
dipinge nella medesima guisa, ed una terza, nella quale è un’altra
donna che pur così dipinge, la quale, scoperta nel 1846, gli Archeologi
opinarono potesse essere la famosa Jaia di Cizica conosciuta da Varrone
e celebrata da Plinio[333].

Recenti scavi fatti a Pompei (1872) rivelarono come si dipingesse anche
sul marmo. Su di una tavola appunto marmorea, rinvenuta non ha guari,
si ammirò una buona pittura a più figure, che l’illustre Fiorelli
interpretò per la scena tragica dell’infelice Niobe; importante
scoperta codesta che viene ad aggiungere una notizia di più alla storia
della pittura.

Le Pitture di Pompei si possono classificare, oltre quelle
architettoniche e decorative, di cui dissi più sopra, in istoriche
— intendendo comprendersi in esse tutti i soggetti mitologici od
eroici — e giovan moltissimo, oltre che a rischiarare quanto noi
sappiamo di mitologia e della storia dei secoli favolosi ed eroici,
a fornire altresì nozioni circa la scienza del costume, l’arte
drammatica e l’antichità propriamente detta; in quelle delle figure
isolate e di genere; di paesaggi e animali e fiori; ommettendo per
ora qui d’intrattenermi particolarmente di quelle delle insegne delle
_tabernæ_, perchè ne ho già detto abbastanza nel Capitolo antecedente,
per quel che ne importava di sapere; molto più che a rigore
implicitamente io ridirò di esse, favellando della pittura di genere a
cui appartenevan le dipinte insegne.

Ho più sopra, sulla fede di Plinio, ricordato alla sfuggita i nomi
di alcuni pittori conosciuti in Roma: or ne dirò il giudizio che
di loro opere fu lasciato ai posteri. Per Fabio, l’arte non doveva
essere che un divertimento, perchè, come patrizio, non aveva d’uopo
d’esercitarla, ne diffatti riuscì grande la riputazion sua come
pittore. D’altronde così ragionava Cicerone: «Crederemmo noi che ove si
fosse fatto titolo di gloria a Fabio l’inclinazione che mostrava per la
pittura, non fossero stati anche fra noi dei Polignoti e dei Parrasii?
L’onore alimenta le arti: ciascuno è spronato dall’amor della gloria
a dedicarsi ai lavori che possono procurargliela: ma languono gli
ingegni ovunque sieno tenuti in non cale.» Pacuvio, poeta e pittore,
quantunque arricchisse de’ proprii dipinti il Tempio di Ercole nel Foro
Boario, sembra nondimeno che queste sue opere d’arte non oscurassero
del loro bagliore la maggior fama acquistata da lui colla tragedia di
Oreste, ancorchè la drammatica si trovasse in quel tempo nella sua
infanzia. Arellio, vissuto qualche tempo appena prima d’Augusto, si
rese celebre, ma fu rimproverato d’aver corrotto l’onore dell’arte sua
con una insigne turpitudine e quando toglieva a pingere una qualche
Iddia, le prestava i tratti e le sembianze di qualche sciupata, della
qual fosse innamorato; suppergiù come fanno tanti dei pittori odierni
col dipinger sante e madonne, onde la pittura sacra cessò di produrre
que’ capilavori, che ispirava ne’ tempi addietro la fede. Amulio invece
fu severo e si narra che la sua Minerva riguardasse lo spettatore
da qualunque parte le si fosse rivolto; Accio Prisco si loda per
accostarsi meglio alla maniera antica, e quest’ultimo viveva ai tempi
di Vespasiano, quindi presso agli ultimi giorni di Pompei.

In questa città, più ancora che in Roma, risentono le pitture del far
greco: certo molti artefici greci quivi furono e lavorarono. Voler
tener conto, oltre quelli che già rammentai lungo il corso dell’opera,
di tutti i dipinti di storia e di mitologia, non mi trarrei sì presto
di briga: d’altra parte ho accennato in capo di questo articolo che
tratta delle Arti belle, le opere che ne discorsero in proposito
partitamente e ne riprodussero i disegni. Tuttavia, come non dire del
quadro di Tindaro e di Leda, meritamente considerato come uno dei più
preziosi avanzi della pittura degli antichi? Vivacità di colorito,
armonia di tinte e leggiadria di composizioni fecero lamentare che i
suoi colori oggi sieno di tanto smarriti. Così la bella Danae scoperta
nella casa di Pansa; l’Adige ferito nelle braccia di Venere, che diede
il nome alla casa in cui fu trovato; il Meleagro, onde fu detta la
casa in cui era, nella quale pur si trovarono Achille e Deidamia; Teti
che riceve da Vulcano le armi d’Achille; Dejanira su d’un carro che
presenta Ilio figliuol suo ad Ercole, mentre il Centauro Nesso offre
di tragittarla sul fiume Eveno, e Meleagro vincitore del cinghiale
Calidonio; ambe rinvenute nella casa detta del Centauro; Castore e
Polluce, il Satiro ed Ermafrodito, Apollo, Saturno, Achille fanciullo
immerso nello Stige, Marte e Venere, Endimione e Diana, Eco e Narciso,
Giove, La Fortuna, Bacco, pitture tutte scoperte nella preziosissima
casa che fu detta di Castore e Polluce od anche del Questore; Venere
che pesca all’amo; Ercole ed Onfale, grande pittura scoperta nella Casa
di Sirico e i diversi subbietti spiccati all’Iliade, che si giudicarono
fra i dipinti più egregi per composizione ed esecuzione finora tratti
in luce, che si videro nella Casa d’Omero, detta altrimenti del Poeta;
fra cui pure fu ammirata la bellissima Venere, che Gell non esitò
punto a paragonare per la forma a quella sì celebrata de’ Medici, e pel
colore a quella non men famosa di Tiziano.

Fu nel peristilio della medesima casa di Sirico che si trovò il
Sacrificio di Ifigenia, copia del rinomato quadro che fu il capolavoro
di Timanto.

Certo che tutte le opere di pittura in Pompei non hanno egual merito,
nè vantar si ponno di molta correzione; ma in ricambio quasi sempre
vi è l’evidenza, l’espressione, la verità, vivacità di colorito
e intonazione ad un tempo e la luce ben diffusa e tale spesso da
rischiarare di sè la piccola camera. «_Et quel mouvement dans toutes
ces figures_, sclama Marc Monnier, che amo citare, perchè autorità
di straniero, _quelle souplesse et quelle vérité!! Rien ne se tord;
mais rien ne pose. Ariane dort réellement, Hercule ivre s’affaisse, la
Danseuse flotte dans l’air comme dans son élément, le centaure galope
sans effort; c’est la réalité simple (tout le contraire du Réalisme),
la nature belle qu’elle est belle, dans la pleine effusion de sa grâce,
marchant en reine parce quelle est reine et qu’elle ne saurait marcher
autrement. Enfin ces peintres subalternes, vils barbouilleurs de
parois, avaient à defaut de science et de correction, le genie perdu,
l’instinct de l’art, la spontaneité, la liberté, la vie_[334].

La quale splendida testimonianza che ho recata colle parole del
francese scrittore, applicar non si vogliono — intendiamoci bene — a
quelle principali composizioni storiche o mitologiche che ho più sopra
annoverate, ma sì a quelle altre sole che superiormente ho distinte
nella classe delle Figure isolate. Sentimento di quel critico, diviso
pure da ben altri e da me, è che alle più importanti opere di pittura,
alle storie onde si decoravano le pareti più ampie delle case si
ponessero artisti i meglio riputati, e che invece a quelle isolate, si
applicassero altri di minor levatura.

Queste figure isolate servivano il più spesso a decorare le pareti
minori, quando pure le grandi non venissero disposte a piccoli
quadri, a decorar lacunari ed agli effetti architettonici: erano
il più spesso Ninfe, Danzatrici, Baccanti, Centauri, Sacerdotesse,
Canefore e Cernofore, Genj alati, Amorini, Fame, Vittorie e Fauni,
Muse e Iddii. Ma non furon sempre opere di poco momento o di merito
secondario; perocchè talune, che si ebbero conservate, fossero
altrettanti capolavori. Le raccolte infatti che si publicarono de’
pompeiani dipinti, fra le tante figure isolate, recarono i disegni di
veri piccoli capolavori. Tale a mo’ d’esempio è la imponente Cerere
rinvenuta nella Casa detta di Castore e Polluce o del Questore, in
cui sembrarono essere di proposito state accumulate le più leggiadre
opere di arte; il Giove che stava nella casa detta _del Naviglio_ di
fronte ad uno dei lati del tempio della Fortuna, e il quale ha tutta la
maestà del padre degli Dei. Ma forse la figura isolata più pregevole,
è per generale avviso la Meditazione seduta su d’una sedia dorata, i
lineamenti della quale sono eseguiti con tanta cura e dotati di tanta
espressione, direbbesi individuale, da essere indotti a credere che
dovesse essere un ritratto. E poichè sono a dire di questo genere di
pittura, che è de’ ritratti, il lettore ricorderà i due ritratti di
Paquio Proculo e di sua moglie, de’ quali m’ebbi ad intrattenere nel
passato capitolo: se non sono essi da collocarsi fra le migliori opere,
attestano nondimeno della costumanza che si aveva fin d’allora di farsi
ritrarre, oggi divenuta omai una mania, atteso il buon mercato della
fotografia.

Non vogliono poi essere passati sotto silenzio l’Apollo Musagete, o
duce delle Muse e le nove Muse, isolatamente dipinti in tanti quadri,
che si rinvennero negli scavi nell’anno 1785 nella vicina Civita,
avente ognuna figura i proprj emblemi, e più che questi, la propria
peculiare espressione.

In quanto alla pittura di genere, non voglio dire si possano vantare
tante meraviglie quante se ne ammirarono in quella istorica, e quel che
ne vado a dire ne fornirà le ragioni. In quella vece vuolsene segnalare
un certo pregio in ciò che a me, come agli scrittori delle cose
pompejane, giovarono alla interpretazione di importanti cose attinenti
l’arti e i mestieri.

Fin da quando le scuole greche piegarono a decadenza, per la smania
del nuovo, molti artisti si buttarono ad una pittura casalinga e di
particolari, che i moderni chiamarono di genere. Là, dove l’arte
si ispirava sempre al grande ed al meraviglioso ed era aliena per
conseguenza dal realismo, l’avvenimento non fece che sollevare il
dispregio e questi artisti si designarono come pittori di cenci, e noi
diremmo da boccali. Tuttavia sulla mente del popolo que’ dipinti che si
esponevano ad insegna di bottega facevano impressione: erano richiami
influenti e que’ dipinti si ricercarono a furia da merciai e venditori.
Così Pireico ottenne fama, sapendo dipingere insegne da barbiere e
da sarto; Antifilo, pingendo uno schiavo soffiante nel fuoco ad una
fabbrica di lana; Filisco un’officina da pittore e Simo il laboratorio
d’un follone[335]. Orazio ci ha poi ricordato ne’ versi, che in altro
Capitolo (Anfiteatro) ho citati, un’insegna gladiatoria e nel capitolo
delle _Tabernæ_ ne ho pur toccato: or ne dirò, poichè mi cade in
taglio, qualche cosuccia ancora.

L’Accademia d’Ercolano publicò ne’ suoi atti una serie di quadri
scoperti fin dal 25 maggio 1755 in cui sono appunto espressi mercanti e
lavoratori in pieno mercato, forse nel Foro di Pompei, dal quale appena
differenziano i capitelli delle colonne, che in quel di Pompei son
dorici, mentre nella architettura de’ quadretti summentovati appajono
corintii; perocchè nel resto tutto vi sia fedelmente riprodotto.

In uno si veggono due mercanti di drappi di lana, che trattan di loro
merce con due avventrici: in altro è un calzolajo che in ginocchio
prova a calzare delle scarpe a un suo cliente e nel fondo appiccate
veggonsi al muro diverse calzature.

Un altro calzolajo è raffigurato in un altro quadro e colla bacchetta
alla mano con cui misura il piede, porge un calzaretto a quattro
pompejane sedute, di cui l’una ha in grembo un fanciullo. Buona la
composizione, pessima ne è la esecuzione. Evvi un’altra pittura, in
cui sono due genietti pure calzolai: l’uno ha nelle mani una forma,
l’altro ha il cuojo che si dovrà adattare su di essa, onde foggiarlo
a calzatura. In un armadietto a due battenti aperti veggonsi scarpe
diverse e presso un vasetto e un bacino contenenti il colore per dare
il lucido alle pelli. Evvi anche il commerciante di forbici, fibule,
spilloni; il vasajo e il panattiere seduto alla turca sul suo banco.

Parlando della _Fullonica_, già dissi del dipinto che vi si trovò
nel 1826 e che reca tutto il progresso di quell’arte de’ gualcherai,
di esecuzione assai migliore delle altre, nè mi vi arresterò di più:
invece nelle pitture di decorazione veggonsi fabbri, genietti alati
con arnesi fabbrili, altri recanti nelle mani quelli del pistrino e del
torchio.

Del pregio de’ paesaggi, che formavano soventissime volte il fondo dei
dipinti storici più importanti, dissi più sopra, e noterò meglio ora,
che pur frequenti volte si trovino nei fregi e sotto altri dipinti di
figura, riprodotti animali, come buoi, lupi, pantere, capre ed uccelli,
talvolta condotti con non dubbia abilità.

Ora una breve parola della pittura de’ fiori. Nulla, scrive Beulé,
nulla è più grazioso che le pitture rappresentanti piccoli genii che
figurano il commercio de’ fiori. La gran tavola coperta di foglie
e di fiori, i panieri che essi portano, che vuotano e riempiono,
le ghirlande sospese, tutto ci richiama Glicera, la bella fioraia
di Sicione che il pittor Pausia amava, e della quale egli copiava
i bei mazzi, tanto sapeva comporli, disponendovi i colori ed ogni
loro gradazione. Le più leggiadre rappresentazioni in questo genere,
trovansi in quattro comparti decorativi d’una camera sepolcrale che
Santo Bartoli ha disegnati. V’hanno fanciulli che colgono de’ fiori,
ne riempiono i cestelli, ne caricano le spalle loro, attaccati in
equilibrio su d’un bastone. Il picciolo mercante che va tutto nudo
recando questa serie di ghirlande, è veramente degno di osservazione.


Scultura.

Veniamo ora alla parte statuaria, seguendo anche in questo argomento
l’egual sistema di trattar delle sue condizioni generali nel mondo
romano, particolareggiando poi intorno alle opere pompejane.

Io intendo trattare in proposito non solo delle statue in marmo, ma
ben anco di quelle in bronzo e de’ bassorilievi; perocchè sieno tutte
opere attinenti la scultura; solo omettendo di quelle ne’ più preziosi
metalli, per averne già toccato alcunchè parlando degli orefici e delle
orificerie in Pompei.

Anche nella statuaria l’Etruria precedette ogni altra parte d’Italia.
Se le sue prime produzioni presentarono un genere presso che eguale
alle produzioni de’ popoli incolti, presto per altro assunsero una
propria maniera: anzi dai molti saggi recati alla luce dagli scavi in
più località praticati, e di cui sono arricchiti i nostri musei, si
può asserire che due fossero le maniere, o stili affatto distinti di
disegno. Del primo, dice Winkelmann, esistono ancora alcune figure
e somigliano le statue egiziane, in quanto che hanno esse pure le
braccia pendule ed aderenti alle anche, ed i piedi posti parallelamente
l’un presso l’altro: il secondo è caratterizzato dalle esagerazioni
dei movimenti e di una ruvidezza di espressione che gli artisti si
sforzarono di imprimere ai loro personaggi.

Da questa seconda maniera si fa passaggio alla maniera de’ Greci, di
cui gli Etruschi, dopo l’incendio di Corinto e il saccheggio d’Atene
datovi da Silla, che spinse gli artisti di Grecia in Italia, divennero
discepoli e collaboratori.

Tuttavia i primi Etruschi potevano a buon dritto vantarsi d’aver con
successo trattato scultura e pittura fino dai tempi in cui i Greci
non avevano che assai scarsa cognizione delle arti che dipendono dal
disegno: argomento pur questo che avvalora la credenza dal Mazzoldi
espressa nelle sue _Origini Italiche_, non abbastanza apprezzate
come si dovrebbe, che la civiltà fosse prima dall’Italia importata
alla Grecia, i Pelasghi appunto e gli Atalanti procedendo dalla terra
nostra.

Plinio ne fa sapere infatti che in Italia venisse eseguita una
statua innanzi che Evandro, mezzo secolo prima della guerra di Troja,
giungendo dalla nativa Arcadia, sostasse sulle sponde del Tevere e
vi fondasse Pallantea, che ho più sopra ricordato; e ne trasmise pur
la notizia che nel suo tempo si vedevano ancora a Ceri, una delle
dodici principali città dell’Etruria, affreschi d’una data anteriore
alla fondazione di Roma. Egualmente le pitture del tempio di Giunone,
condotte da Ludio Elota, prima che Roma esistesse, in Ardea, città del
Lazio, capitale dei Rutuli e soggiorno del re Turno, come raccogliesi
dal Lib. VII dell’_Eneide_, della freschezza delle quali rimaneva
quell’enciclopedico scrittore maravigliato, non meno che dell’Atalanta
e dell’Elena di Lanuvio, la prima ignuda, la seconda invece
decentemente palliata e spirante timidezza e candore.

Fondata Roma, Romolo e Numa ricorsero, come mezzo di civilizzazione, a
imporre il culto a quelle immagini di numi che Evandro ed Enea avevano
recato in Italia ne’ più remoti tempi, quantunque poi per crescere loro
autorità, li avessero a circondar di mistero tenendoli gelosamente
ascosi agli sguardi profani. Le prime opere di scultura presso i
Romani si vuole essere state statue di legno o di argilla, raffiguranti
divinità. D’altri personaggi si citano le statue: di Romolo, cioè, di
Giano Gemino, consacrate da Numa, la prima anzi delle quali coronata
dalla Vittoria, fu poscia collocata sopra una quadriga di bronzo tolta
dalla città di Camerino. Più innanzi il simulacro dell’augure Accio
Nevio e delle due Sibille e le statue equestri di Orazio Coclite e di
Clelia trovasi scritto che venissero fuse in bronzo in epoca assai
prossima a quella in cui siffatti personaggi avevano vissuto. Anche
nel Foro Boario venne collocata in quei primi tempi una statua d’Ercole
trionfatore; come più tardi sulla piazza del Comizio venne posta quella
di un legista di Efeso, appellato Ermodoro. Un Turriano, scultore di
Fregela lavorò in rosso una statua di Giove e fu cinque secoli avanti
l’Era Volgare. Un Apollo di smisurata grandezza fu da Spurio Carvilio,
dopo la sua vittoria contro i Sanniti, fatta fondere in bronzo, usando
all’uopo delle spoglie tolte a’ vinti nemici.

Non è che dugentottanta anni prima di Cristo, dopo la sconfitta di
Pirro, che a Roma venne offerto lo spettacolo di una esposizione di
molti e pregevoli oggetti d’arte, quadri e statue che dall’esercito
Romano erano stati predati in un con ingente quantità d’oro e
d’argento, ed altre preziosità negli accampamenti del Re epirota, che
alla sua volta erano stati da lui derubati nella Sicilia ai Locri, nel
saccheggio dato al tesoro del loro tempio sacro a Proserpina.

I monumenti che la nazione consacrava ad eternare i fasti più gloriosi
consistevano d’ordinario in semplici colonne, rado a’ più valorosi
capitani concedevasi l’onoranza di una statua, limitata l’altezza a
tre piedi soltanto, onde designate venivano codeste statue col nome
di _tripedaneæ_; mentre poi _sigillæ_ dicevansi quelle più piccole
d’oro, d’argento, di bronzo od avorio, le quali erano per solito
d’accuratissimo lavoro.

Pel contrario nelle case private, i patrizj collocavano in apposite
nicchie le immagini dei loro illustri maggiori, e se n’era anzi
costituito un diritto, solo concesso a coloro che avessero sostenuto
alcuna carica curule, come il tribunato e la questura, ed erano la più
parte lavorate in cera; talvolta per altro in legno, in pietra od in
metallo. Chi di tal diritto fruiva, poteva processionalmente siffatte
immagini portare nelle pompe funerali, lo che ognuno si recava a sommo
di onore.

La presa di Siracusa per opera di Marcello e le conquiste della
Macedonia, della Grecia e dell’Asia, per quella di Paolo Emilio, di
Metello e de’ Scipioni, dovevano rendere più acuto il desiderio di
possedere oggetti d’arte, comunque non fosse giunto, come dissi più
sopra, a farsene il virtuale apprezzamento neppur a’ tempi della
maggiore coltura, come furono quelli di Cesare e di Cicerone. Perocchè
i trionfatori tutte le meraviglie dell’arte, di cui i Re macedoni
avevano impreziosito le loro principali città, mandassero a centinaja
di carra a Roma, in un con tante altre ricchezze; per modo che per
centoventitre anni di seguito non s’avesse bisogno di prelevare imposte
sui cittadini.

Come già narrai, si travasarono dalla Grecia in Roma, coi capolavori
dell’arte, anche i loro artefici, e poterono così stabilirvi le loro
scuole e sistemi e farli prevalere, che il Senato con apposito decreto
mandò multarsi gli scultori che si fossero allora allontanati dalle
dottrine di essi, la eccellenza delle quali veniva tanto splendidamente
attestata da sì egregie ed immortali opere.

Le statue, che dapprincipio avevano giovato soltanto ad illustrare
i trionfi, vennero pertanto adoperate ben presto a decorar piazze e
monumenti e quindi a crescere il fasto delle abitazioni private. Silla,
Lucullo, Ortensio e il cliente di lui Cajo Verre, diedero il primo
esempio: dietro di essi vennero tutti i più facoltosi degli ultimi
tempi della Republica, seguiti pure da tutti quelli delle colonie, come
rimangono ad attestarcelo tanti capolavori, de’ quali più avanti dirò,
rinvenuti in Ercolano e Pompei.

Di tal guisa gli artisti greci venuti a Roma vi trovarono molto lavoro
e fortuna. Si citano fra essi un Pasitele, che eseguì una statua nel
tempio di Giove e n’ebbe il diritto di cittadinanza; i suoi allievi
Colote e Stefanio; Arcesilao, che scolpì la Venere genitrice per
Cesare, il qual si vantava da lei discendere; Apollonio e Glicone,
autore dell’Ercole Farnese, condotti a Roma da Pompeo; Alcamene
e Cleomene, Poside e Menelao, Decio e Damasippo, e sotto Augusto
Menofante e Lisia, Nicolao e Critone e l’ateniese Diogene, che condusse
le statue che si collocarono sul frontone del Pantheon di Agrippa.
Augusto stesso fece erigere sotto il portico del suo Foro le statue
degli oratori e de’ trionfatori più illustri, e in Campidoglio si vede
tuttavia una statua di questo imperatore con un rostro di nave a’ suoi
piedi in memoria di sua vittoria sovra Sesto Pompeo.

Ma ho ricordato testè Cajo Verre. Or come si può, anche sommariamente,
come faccio io qui stretto dall’economia dell’opera, ritessere la
storia dell’arti, o piuttosto compendiarla, senza ricordare le gesta
infami di quest’uomo, contro cui si scagliarono le folgori della
eloquenza del sommo Oratore?

Cajo Licinio Verre, senatore, era stato proquestore dapprima in
Cilicia, poscia pretore per tre anni in Sicilia, dove, non pago
dell’ordinaria rapacità de’ suoi colleghi, trattò la Sicilia più che
paese di conquista. Abusando del suo potere, fece man bassa su tutte le
preziosità publiche e private. Quadri e statue de’ più celebri artisti
attiravano specialmente la sua cupidigia, nè ristava davanti alcuna
legge divina ed umana per venirne in possesso. Cicerone, difendendo
contro lui le ragioni de’ Siciliani, aveva potuto senza iperboli
esclamare: «Dove sono le ricchezze strappate a forza a tanti popoli
soggetti e ridotti omai alla miseria? Potete voi chiederlo, o Romani,
quando vedete Atene, Pergamo, Mileto, l’Asia, la Grecia inghiottite
nei palagi di alcuni spogliatori impuniti?» Minacciato per ciò
d’accusa capitale, egli aveva prese le sue cautele, nè restava punto
dal dichiararle svergognatamente a’ suoi amici, dicendo: io feci del
prodotto del triennio che durò la mia pretura tre parti: una per il mio
difensore, una per i miei giudici e la più grossa per me.

Il suo difensore fu Ortensio, che oltre essere rinomatissimo oratore,
era appassionatissimo delle opere di arte, vantandosi fra gli altri
di possedere il dipinto degli Argonauti di Cidia, che aveva costato
centoquarantaquattro mila sesterzi, che sarebbero lire ventottomila
delle nostre. Cicerone dice di Verre: che in lui la cupidigia
d’artistiche cose era un furore, un delirio, una malattia, dacchè
in tutta la Sicilia non esistesse un vaso d’argento o di bronzo,
fosse di Delo o di Corinto, non una pietra incisa, non un lavoro di
oro, d’avorio, di marmo, non un quadro prezioso, non un arazzo, che
quell’avido governatore non volesse vedere co’ proprj occhi, per
trattenere poi quanto gli sembrava opportuno ad arricchire la di lui
raccolta. Basti per tutti il seguente aneddoto. Antioco, figlio del re
di Siria, volendo sollecitare l’amicizia del Senato romano, viaggiava
alla volta della grande città, seco recando un ricchissimo candelabro,
per donarlo al tempio di Giove Capitolino. Transitando per la Sicilia,
ricambiando Verre d’una cena, questi vedute le mille preziosità che
aveva, sotto pretesto di mostrarle a’ suoi orefici, se le faceva col
candelabro portar a casa. Vi consentiva Antioco; ma quando si trattò
della restituzione, il ladro pretore tanto insistè per aver tutto in
dono, che alla perfine, a lasciargli ogni cosa si decise, purchè almeno
gli rendesse il candelabro destinato al popolo romano. Verre ricorse
dapprima a pretesti per ricusargli anche questo; ma poi impose termine
a ogni contesa, intimando recisamente al re che sgombrasse avanti notte
dalla provincia.

Chiederà il lettore se tanto ladro venisse poi condannato. Risponderò
che non fossero questi soltanto i gravami contro lui formulati:
altri furti e depredamenti d’ogni genere da lui commessi in Acaja, in
Cilicia, in Panfilia, in Asia ed in Roma; la venduta giustizia, le
violenze, gli stupri, l’oltraggiata cittadinanza; sì che li potesse
così Cicerone riassumere nella Verrina _De Frumento: Omnia vitia, quæ
possunt in homine perdito nefarioque esse, reprehendo, nullum esse dico
indicium libidinis, sceleris, audaciæ, quod non in unius istius vita
perspicere possitis_[336].

Ebbene, Cicerone appena ne potè assumere l’accusa protetto da Pompeo;
ma il fece con tanto vigore fin dalla prima arringa, che spaventatone
Ortensio, disperando dell’esito del suo patrocinio, ne dimise tosto
il pensiero, e Verre stesso persuaso, andò spontaneamente in esiglio,
dove passò la trista vecchiezza e morì proscritto da’ Triumviri, come
ce lo lasciarono ricordato Seneca e Lattanzio[337], condannato però a
restituire a’ Siciliani quarantacinque milioni di sesterzi, dei cento
che essi avevano addomandato e che forse non rappresentavano tutto il
danno della sua rapina.

Le altre orazioni che contro Verre si hanno di Cicerone, non furono
recitate, attesa la contumacia dell’accusato; ma corsero allora
manoscritte per le mani di tutti e a’ posteri rimasero monumento, come
di eloquenza, così della condotta de’ magistrati romani, che nella
propria Verre compendiava.

Toccai più sopra di Augusto, come l’arti favorisse e gli artisti, e da
Tito Livio infatti egli venne chiamato per antonomasia _riedificatore
dei templi_, ed a buon diritto però potè morendo dire di sè: Trovai
Roma fabbricata di mattoni e la lascio fabbricata di marmo.

Fu sotto di lui che Dioscoride portò la glittica, od incisione in
pietre dure, al più perfetto suo grado e si levano a cielo il suo
Perseo, la Io, il Mercurio Coriforo, ossia portante un capro, e il
ritratto dell’oratore Demostene inciso su d’un’ametista. Nello stesso
genere furono pure lodatissimi Eutichio figliuolo di Dioscoride,
Solone, Aulo e chi sa quanti altri, se i Musei tutti serbano i più
squisiti cammei di quel tempo e se dagli scavi di Pompei se ne tolsero
di preziosissimi, tali da formare la meraviglia di chi li vede adesso
nel Museo Nazionale di Napoli.

E poichè m’avvenne di ricordare la glittica o glittografia, come altri
la chiama, nel difetto di trattati antichi intorno a quest’arte, —
perocchè non se n’abbiano che pochi cenni nelle opere di Plinio, —
parmi potersi ritenere che avessero a un dipresso in antico i metodi
che si han pur di presente in Italia, dove a preferenza fu sempre
coltivata e portata a perfezione. Ad intaccar la pietra, si usava
dagli artefici romani una girella che chiamavano _ferrum obtusum_, e
la cannella da forare appellata da Plinio _terebra_, giovandosi del
_naxium_, specie di grès di Levante, poi dello schisto d’Armenia, a
cui sostituirono da ultimo lo _smirris_, che noi diremmo smeriglio.
Credesi nota agli antichi la punta di diamante come strumento attissimo
all’incisione. Delle pietre dure incise valevansi principalmente
a farne anelli e sigilli; onde, litoglifi dicevansi gli artisti
intagliatori di pietre, e dattilioglifi gli intagliatori di anelli,
usandosi anche nello stesso significato le parole più prettamente
latine _sculptores_ e _cavatores_.

E qui chiudo la parentesi, che parvemi necessaria a dare una qualunque
idea di questa particolare arte del disegno e ritorno al primo
subbietto.

Del tempo di Tiberio, ha poco a registrare la storia dell’arte, se
non è la statua di quel Cesare che fu ritrovata in Carpi e una effigie
colossale ricordata da Flegone, liberto d’Adriano, nel suo _Trattato
delle cose meravigliose_. Nè di meglio del tempo di Caligola e di
Claudio; comunque del primo si sappia ch’ei chiedesse agli artisti
invenzioni straordinarie e prodigiose: di quello di Nerone varrebbe
invece intrattenerci, se di lui stesso ebbe a scrivere Svetonio:
_pingendi fingendique, non mediocre habuit studium_[338]; ciò che
inoltre gioverebbe a provare che la professione dell’Arti Belle, non
fosse più, come per lo addietro, cotanto disprezzata.

A lui è imputato d’aver dato l’incendio a parecchi quartieri della
città; ma lo si pretende escusare, dicendo averne avuto il pensiero
per distruggere tante indecenti catapecchie, onde in luogo di esse
sorgessero palagi, si ampliassero le vie, e potesse meglio allinearne
le mura e imporre alla città il proprio nome, appellandola Neropoli.
E vi fabbricò infatti la Casa di Oro, che dissi più sopra quant’area
occupasse e vi fe’ portare statue e quadri de’ più famosi autori,
arredi d’oro, d’argento, d’avorio e madreperla, e collocarvi quel
colosso, di cui pure più sopra accennai, eseguitovi da Zenodoro, alto
cento piedi, nel cui lavoro impiegò l’artefice ben dieci anni e il cui
valore fu di quaranta milioni di sesterzi, a dir come nove milioni di
lire italiane.

Sotto gli imperatori di casa Flavia, Vespasiano e Tito, dai quali
veduto abbiamo eretto l’Anfiteatro, detto il Colosseo, non si sa
che importanti opere scultorie venissero in Italia condotte, dove si
eccettuino una bella statua rappresentante l’imperatore Tito ed una
bella testa colossale del medesimo imperatore, che Winkelmann ricorda.

È anche a quest’epoca appartenente di certo, secondo l’opinione
d’Ennio Quirino Visconti, l’incomparabile gruppo del Laocoonte, degli
artisti rodii Agesandro, Atenodoro e Polidoro, che Plinio non esitò a
dichiarare _Opus omnibus et picturæ et statuariæ præponendum_[339].

Viste così le principali cose di scultura pertinenti all’epoca
imperiale infino ai giorni del cataclisma vesuviano, mi conviene ora
completarne il discorso colle opere scoperte in Ercolano e in Pompei.

Le più grandi si rinvennero in Ercolano: tali la statua equestre in
marmo di Nonio Balbo e quella del figliuol suo, che ne fiancheggiavano
la basilica e la importanza delle quali opere lasciò indovinare
l’importanza altresì de’ personaggi che rappresentavano; onde ne dolse
che nè la storia, nè gli scavi abbiano finora portato alcun lume su di
essi; tali il magnifico cavallo in bronzo, rinvenuto nel teatro e già
spettante ad una quadriga, che nei primi scavi colà praticati venne
messa sventuratamente a pezzi, e ricomposta poi, forma oggidì una delle
più interessanti e preziose opere del Museo di Napoli in un con alcune
figure del bassorilievo del carro, con un Bacco, otto statue consolari,
quelle di Nerone, Claudio Druso e sua moglie Antonia, un ministro di
sagrifici in bronzo e due teste di cavallo, e una statua di Vespasiano,
e due di bronzo rappresentanti Augusto e Claudio Druso. Nello stesso
Museo di Napoli, sono pure le statue di sei celebri danzatrici, trovate
nella casa detta dei Papiri[340], il magnifico Fauno ebbro, in bronzo,
ch’era a capo della piscina nello xisto di essa casa, i busti di
Claudio Marcello, di Saffo, di Speusippo, Archita, Epicuro, Platone,
Eraclito, Democrito, Scipione l’Africano, Silla, Lepido, Augusto,
Livia, Cajo e Lucio Cesare, Agrippina, Caligola, Seneca, Tolomeo
Filadelfo, Tolomeo Filometore, Tolomeo IX, Tolomeo Apione, e Tolomeo
Sotero I; di due Berenici e di due altri personaggi sconosciuti. Una
statua e cinque busti in bronzo si trovarono nella stessa casa, su l’un
de’ quali si lesse il nome dell’artefice: Apollonio figlio di Archia
ateniese.

Circa alle opere di statuaria rinvenute in Pompei, esse sono in numero
minore che non ad Ercolano; ma non sono meno pregevoli. Io ne ricorderò
taluna e saranno le principali.

Nel tempio d’Iside fu rinvenuta una bella statua in marmo
rappresentante Bacco, che fu detto, forse dal luogo in cui fu trovato,
_Isiaco_. Essa appare coronata di pampini la testa, e colla destra
alzata, cui tien rivolto affettuosamente lo sguardo, ci fa supporre che
stringesse un grappolo. Al piede sta una pantera, e sulla base leggesi
la iscrizione che ho già riferita parlando di questo tempio[341], dove
ho pur ricordata la statua di Venere Anadiomene coll’ombilico dorato.
Nel Pantheon, o piuttosto, come più rettamente fu giudicato, tempio
d’Augusto, nel 1821 si trovarono quelle due statue che già ricordai, le
quali si ritennero rappresentare l’una Livia sacerdotessa d’Augusto,
l’altra Druso: la prima sopratutto è una delle opere di scultura più
rimarchevoli che vi si scoprissero. Ha essa una tale maestà che a chi
la riguarda incute reverenza.

Ma siccome a suo luogo ho già ogni volta ricordate le opere di
plastica; così de’ marmi, altro non ricorderò qui che il bassorilievo
in marmo di Luni, o come direbbesi oggi di Carrara, raffigurante
una biga, su cui sta un africano, e alla quale sono attelati due
corridori preceduti da un araldo, come si usava comparire in publico
da’ magistrati. La purezza dei disegno e della esecuzione rivelano
l’artefice greco.

Dirò meglio de’ bronzi.

Leggiadra è la statuetta trovata in una nicchia innalzata nel mezzo
di una stanza, rappresentante Apollo, e sì ben conservata, che
neppure appajano danneggiate le corde argentee della lira. Taluni,
all’acconciamento alquanto muliebre de’ capelli, alla delicatezza de’
lineamenti del volto, ed all’espansione del bacino, vollero invece
ravvisarvi un Ermafrodito.

Una Diana vendicatrice, sarebbe la più armonica figura, se non vi
disdicessero certe alacce mal attaccate: più lodevole e prezioso lavoro
è il gruppo di Bacco ed Ampelo, dove gli occhi sono intarsiati in
argento.

Ma tre statuette vi sono che vengono considerate come altrettanti
capolavori e i migliori che furono scavati in Pompei: l’una
rappresentante il Fauno danzante; l’altra Narciso; la terza un Sileno.
Il loro merito si costituisce principalmente dalla maravigliosa
e caratteristica espressione, dalla perfetta concordanza di tutte
le parti, dalla irreprensibile finezza d’ogni particolare, da una
esecuzione insomma completa del bello ideale.

Il Fauno ritrovato nella casa, cui per la propria eccellenza fu imposto
il suo nome ed era nel mezzo dell’_impluvium_, ha il capo incoronato
di foglie di pino, le braccia alzate, le spalle alquanto rigettate
all’indietro, ogni muscolo in movimento e il corpo tutto in atto di
chi sta per muovere alla danza. Non può essere ammirato il minuto
lavoro del metallo, se non che vedendolo: l’epidermide è così resa
morbidamente, da vedervi sotto la vita: opera certo codesta della più
perfetta fusione, che non ebbe d’uopo per bave o altre scabrosità, di
lima o di cesello dell’artefice.

Fa riscontro al Fauno, il Narciso, statuetta trovata in una povera
casuccia, ed è d’una grazia tutta particolare e nell’atteggiamento
scorgesi come stia in ascolto della Ninfa Eco. La sua testa piega da
una parte, come appunto farebbe chi sta ascoltando voce che giunga
da lontano, teso ha l’orecchio, e il dito rivolto verso dove la voce
muove. L’espressione non poteva essere più felicemente côlta.

Il Sileno finalmente, più recentemente trovato dal comm. Fioretti,
è ancora più perfetto, se è possibile; quantunque pel soggetto si
mostri rattrappito e curvo. Era pur desso decoro d’una fonte: ciò che
ne fa ragionevolmente supporre che dunque nell’interno delle camere
vi fossero ancora maggiori preziosità di quelle ritrovate, se così
all’aperto si tenevano siffatte maraviglie.

Molte opere peraltro della statuaria pompejana accusano la decadenza
dell’arte, come infatti al tempo della catastrofe della città l’arte
romana se ne andava degenerando nel barocco. E fu in questo tempo che
alle statue prevalsero i busti, l’abbondanza de’ quali segna appunto
il nuovo periodo della decadenza cui si veggono spesso aggiunte le
spalle, parte del torace e talvolta le mani e qualche panneggiamento.
Peccano questi assai sovente d’esagerazione, ma in ricambio conservano
l’individualità. Sempre a’ giorni del decadimento si fecero busti di
più marmi e colori, l’una parte nell’altra innestando, massime gli
occhi e le vesti.

   [Illustrazione: Marco Bruto. _Vol. II. Cap. XVIII. Belle
   Arti._]

Per completare quanto è attinente alla scultura nel suo più esteso
significato, dovrei dire delle gemme. Qualche cenno ne ho fatto non
ha guari più sopra, parlando della glittica, e per non entrare in
maggiori particolari, ai quali assai si presterebbe il Museo Nazionale
di Napoli, per quanti oggetti si raccolsero negli scavi d’Ercolano e
Pompei, mi basti riassumerne in concetto generale il discorso; che cioè
anche in questo ramo dell’arte i Romani furono dapprima imitatori de’
Greci, adottandone i soggetti e desumendoli da fatti patrizii, sempre
però con espressione allegorica. Ho già pur detto che in seguito,
nell’epoca del risorgimento, Italia predominò tutte le altre nazioni
nella perfezione di quest’arte. Impiegavasi questa principalmente nel
lavoro di anelli e sigilli, de’ quali, come dissi in questa mia opera,
usavasi moltissimo e però di pompejani se ne hanno molti: e la glittica
poi conta inoltre fra’ suoi capolavori una maravigliosa coppa nel Museo
napolitano summentovato.

   [Illustrazione: Gneo Pompeo. _Vol. II Cap. XVIII. Belle
   Arti._]

Finchè si provò allora la influenza greca, l’arte romana grandeggiò;
mano mano che scemava, amenenciva contemporaneamente di sua degnità, e,
abbandonata a sè, ricadde nel fare pesante, secco e freddo.

Così ritengonsi di greci artefici i musaici, ai quali ho riserbato
le ultime parole in questo capitolo dell’Arti, e dei quali Pompei ne
largì di superbi, anzi il più superbo che si conti fra quanti si hanno
dell’antichità, nella Battaglia d’Arbela o di Isso, come dovrebbesi
per mio avviso più propriamente dire, ed a cui consacrerò peculiare
discorso.

Ma prima si conceda che rapidi cenni io fornisca intorno a quest’arte.

Ne derivano la denominazione da Musa; quasi il suo lavoro ingegnoso
fosse invenzione ispirata dalle figlie di Mnemosine, o forse perchè
se ne decorasse dapprima un tempio delle Muse. Ciò che più importa
sapere si è com’essa unicamente consista nell’accozzamento di
pietruzze, o pezzetti di marmo, di silice, di materie vetrificate e
colorate, adattate con istucco o mastice sopra stucco e levigandone
la superficie. Si chiamò dapprima _pavimentum barbaricum_, quando del
musaico si valse per coprire aree alle quali si volle togliere umidità.
Poi si disposero a disegni semplici, come a quadrelli di scacchiere,
onde si venne al _tesselatum_, che era formato di pietre riquadrate.
Progredendo l’artificio, ne seguì la specie del _sectile_, formato di
figure regolari combinate insieme, che è quel lavoro che noi chiamiamo
_a commesso_ od _a compartimento_. Poi con frammenti orizzontali di
forme diverse si giunse a piegare l’artificio a tutte le idee, capricci
e disegni, come greche, festoni, ghirigori, ed a tutto quanto insomma
costituisce ciò che chiamavasi _opus vermiculatum_, come si trova
ricordato dal verso di Lucilio:

    _Arte pavimento, atque emblemata vermiculato_

E qui piacemi avvertire come tutto questo processo non abbiasi a
confondere con quello che dicevasi _opus signinum_, nome dato ad
una peculiare sorta di materiale adoperato pure a far pavimenti,
consistente in tegole poste in minuzzoli e mescolate con cemento,
quindi ridotte in una sostanza solida colla mazzeranga. Ebbero questi
lavori il qualificativo di signini, dalla città di Signia, ora Segni,
famosa per la fabbricazione delle tegole e che prima introdusse questo
genere di pavimentazione.

Tutti questi primitivi saggi non erano ancora il _musaicum_
propriamente detto, ma quel che i Greci chiamavano litostrato; per
giungere al _musivum opus_, che rappresenta oggetti d’ogni natura,
_emblemata_, non bastavano per avventura i marmi e ciottoli: convenne
fabbricare de’ piccoli cubi di cristalli artifiziali colorati. Tornò
facile il connettere le _asarota_, ossia musaici rappresentanti
ossa e reliquie di banchetto, o un pavimento scopato, che con tanta
naturalezza fu imitato, da ingannare chiunque.

Così, avanti ogni altro paese, in Grecia si spiegò il lusso de’
pavimenti e, prima di ogni altra città, presso gli effeminati sovrani
di Pergamo. Citansi di poi i musaici del secondo piano della nave
di Gerone II, che in tanti quadretti di meravigliosa esecuzione
rappresentava i fatti principali dell’_Iliade_, tutti condotti a
musaico; quindi i lavori eguali del magnifico palazzo in Atene di
Demetrio Falereo.

È probabile che similmente si lavorasse a Roma coll’introdursi
dell’arte greca; e quanto si rinvenne in Pompei potrebbe essere
irrecusabile prova, se già noi non sapessimo come in questa città usi e
costumanze vi fossero eziandio speciali e dedotti da Grecia, e come di
colà vi si rendessero agevolmente artisti. Tuttavia dal seguente passo
di Plinio, pare che ai giorni di Tito imperatore, ne’ quali Ercolano
e Pompei toccarono l’estrema rovina, questa del musaico fosse nuova
importazione, e che appena facesse capolino in Roma verso il tempo di
Vespasiano.

Plinio adunque, dopo aver detto che i terrazzi grecanici a musaico
vennero da’ Romani adottati al tempo di Silla e citato ad esempio il
tempio della Fortuna a Preneste, dove quel dittatore vi fece fare il
pavimento con piccole pietruzze; così sostiene che l’introduzione
de’ pavimenti di musaico nelle camere con pezzetti di vetro fosse
affatto recente: _Pulsa deinde ex humo pavimenta in cameras transiere,
e vitro: novitium et inventum. Agrippa certe in Thermis, quas Romæ
fecit, figlinum opus encausto pinxit: in reliquis albaria adornavit:
non dubio vitreas facturus cameras, si prius inventum id fuisset, aut a
parietibus scenæ, ut diximus, Scauri pervenisset in cameras_[342].

Checchè ne sia, se recente consideravasi a’ tempi di Plinio il Vecchio
l’introduzione in Italia del musaico, questo si presenta nondimeno
fiorentissimo d’un tratto e grande nelle opere pompejane.

Gli scavi offrirono saggi appartenenti a tutte le epoche di progresso
di quest’arte, e in ognuno si manifesta una prodigiosa fecondità
d’invenzione negli artisti della Magna Grecia, e chi si assunse di
riprodurli con disegni ne ammanì interessantissimi volumi.

Non è possibile dunque occuparmene qui per ricordarli tutti; solo mi
restringerò a dire de’ più importanti.

Un musaico quadrato di circa cinque piedi e tre pollici, fu rinvenuto
nella casa detta di Pane, rappresentante un genio alato che a cavalcion
d’un leone si inebbria. L’espressione del fanciullo è mirabile, come
mirabile è la mossa del leone: la cornice a foglie, a frutti ed a
maschere teatrali compiono la perfetta esecuzione.

Un altro di forma circolare, di sette piedi di diametro, trovato
nella casa appellata del Centauro, rappresenta allegoricamente la
Forza domata dall’Amore, in un leone ricinto da alati amori che gli
intrecciano di fiori la fulva chioma. Nella parte superiore del musaico
vedesi una sacerdotessa che fa una libazione; nella parte inferiore
stanno l’una di fronte all’altra due donne sedute. Se non il disegno,
che lascerebbe desiderj, l’esecuzione e l’effetto de’ colori sono
sorprendenti.

Nella casa detta di Omero, nel _tablinum_ si trovò un musaico istoriato
raffigurante un _choragium_, o luogo in cui si facevano le prove
teatrali, come già sa il lettore, per quel che ne ho detto nei capitoli
intorno ai Teatri. Sono diverse figure in piedi, attori che stanno
intorno al corago, o direttore, che li sta istruendo, il manoscritto
della commedia alla mano. Un tibicine soffia nelle tibie, come
accompagnando la recitazione del corago, perocchè paja veramente che
ogni teatrale rappresentazione fosse dal suon delle tibie secondata. Vi
hanno maschere disposte per gli attori e uno sfondo pure interessante:
il tutto condotto con una rara maestria.

Nella stessa casa detta di Omero, sulla soglia si vide un musaico
rappresentante un cane incatenato colla leggenda CAVE CANEM. Si
raccoglie da tal lavoro artistico come all’usanza comune presso i
Latini di tenere alla porta della casa un vero cane, quasi a custodia
di essa, si fosse sostituito in tempi più civili una pittura del cane,
eseguita in musaico e collocata, varcato appena il limitare, sul suolo
colla suddetta leggenda; o altre parole, composte pure in musaico,
bastassero, come SALVE, giusta quanto si vede nella casa delle Vestali,
o SALVE LVCRV, ecc. consuetudine quest’ultima che vediamo copiata in
molte case signorili de’ nostri giorni.

Ma eccoci alla casa del Fauno. In essa, ove già trovammo sorgere dal
mezzo dell’_impluvium_ la stupenda statuetta in bronzo che forma
altra delle opere più preziose degli scavi, si rinveniva altresì
nel _tablinum_ un musaico quadrato incorniciato da una greca assai
corretta e dipinta a svariati colori, nel cui mezzo è un leone, che
in uno stupendo scorcio, sembra stia per islanciarsi, così da incutere
spavento a chi lo guarda. È a rimpiangere che sia assai danneggiato.

Nella stessa casa v’ha inoltre la maraviglia di quest’arte del musaico,
la giustamente famosa Battaglia d’Arbela, o di Isso, o il passaggio
del Granico che si voglia ritenere, che per grandezza, invenzione ed
esecuzione sorpassa quanti musaici si conoscano finora. Mette conto che
qui ne dica più largamente che non degli altri.

Anzitutto noto che esso misura un’altezza di otto piedi e mezzo, e una
larghezza di sedici piedi e due pollici, senza calcolare il fregio,
che a mo’ di cornice circonda il soggetto; onde hassi a ragione a
proclamarlo per il più grande musaico conosciuto.

Ora eccone la descrizione.

A manca di chi riguarda, che è anche la parte più guasta, vedesi su
d’un corsiero un giovane guerriero, che tosto distinguesi per il posto
concessogli di fronte al capo dell’esercito nemico, come il capo esso
pure dell’una delle armate. Ha la lorica di finissimo lavoro al petto
e la purpurea clamide agli omeri ondeggiante. Ha scoperto il capo,
perocchè il cimiero gli sia nel calor della mischia caduto, e stringe
nella destra la lancia, che sembra aver egli appena ritratta dal fianco
d’un guerriero, cui è caduto sotto il cavallo ferito di strale che
gli rimase confitto. L’agonia di questo infelice guerriero è espressa
con toccante verità. Dietro di lui ve n’ha un altro, che comunque ei
pur vulnerato, combatte tuttavia: ambi formanti intoppo a suntuosa
quadriga, i cui cavalli veggonsi disordinati, ma che indubbiamente
traggono altro importante personaggio, il qual rivolge l’attenzione sui
due feriti e intima a’ suoi di venir loro in aiuto; mentre un soldato
tiengli presso un corsiero in resta, su cui potrà quel personaggio
montare appena ei ne abbia l’opportunità e pigliar diversa parte
all’azione. Lo scorcio di questo cavallo è d’una prodigiosa bellezza.
Tutto il resto dello spazio a destra non è che una scena di desolazione
e scompiglio, comunque una selva di picche accenni che l’impeto de’
combattenti da ambe le parti prosegue.

Quanti studiarono la composizione di questo musaico, ne inferirono che
le assise de’ guerrieri vinti, come la forma della quadriga, esser non
possano che d’un esercito persiano, avendo tutti la tiara, propria di
questo popolo, come si vede in altri antichi monumenti, e più ancora
si distinguano per Persiani ai grifi ricamati sopra le anassiridi, o
calzoni come essi portano, e sopra le selle.

Se dunque il guerriero vittorioso e feritore vestito alla greca, per
la somiglianza al tipo assegnatogli da statue e medaglie è Alessandro
il Grande: il capo de’ Persiani non può essere allora di necessità
che Dario, perchè avente la tiara diritta, che solo aveva diritto
il re di così portare[343]; com’egli solo la candice, o mantello di
porpora, e la tunica listata di bianco[344] ed egli solo l’arco di
sì straordinaria grandezza, ond’ebbero que’ della sua dinastia il
nomignolo di _Cojanidi_, cioè arcieri.

Constatati i due capi principali degli eserciti nel musaico
raffigurati, nelle persone dei due re, Alessandro e Dario, il soggetto
allora deve rappresentare la Battaglia di Isso, non il passaggio
del Granico, nè il combattimento di Arbela. Imperocchè il primo fu
operato in estate; i Persiani in esso si servirono di carri falcati,
che qui non si veggono, nè i due re si trovarono a fronte, e nulla poi
indichi l’esistenza di un fiume, ciò che dall’artista non si sarebbe
negletto di riprodurre a segnalare quel fatto, s’egli avesse inteso
d’esprimere il passaggio del Granico. Egualmente la battaglia di Arbela
fu combattuta ai primi di ottobre; v’ebbero pure carri falcati ed
Alessandro incontro a Dario non si valse della lancia, come vedesi nel
mosaico, ma dell’arco con cui uccise l’auriga del re. Ora l’albero, che
qui si vede tutto privo di foglie, esclude inoltre che non si potesse
essere nè in estate, nè in ottobre, mentre in Assiria tutto un tal mese
gli alberi serbino intatto l’onore delle frondi; ma nel verno, venendo
anche da Plutarco ricordato che la battaglia di Isso fosse combattuta
in dicembre, quando le piante dovevano essere, come nel musaico, prive
di foglie. Diodoro Siculo e Quinto Curzio narrano per di più che a
tal battaglia assistessero i dorifori, o guerrieri armati di lance,
scelti per la guardia del re fra i dieci mila immortali, coi loro abiti
ricamati d’oro e coi loro monili, e qui li vediamo appunto.

Tutte queste particolarità si raccolgono dai _Cenni_ publicati dal
dotto cav. Bernardo Quaranta[345], ravvicinandovi altresì i particolari
storici che spiegano ognor meglio la composizione del musaico.

Dario tentò dapprima di decidere il combattimento d’Isso con l’ajuto
della cavalleria; e già i Macedoni si vedevano accerchiati, allorquando
Alessandro chiamò a sè Parmenione con la cavalleria tessala. Allora la
mischia divenne terribile: Alessandro, scorto da lunge il re di Persia
che incoraggiava i suoi dall’alto del suo carro ed alla testa della sua
cavalleria, combatte egli come semplice soldato, per penetrare fino
a colui che riguardava come suo nemico personale e sperava la gloria
di ucciderlo di sua mano. Ma ecco che offresi una scena sublime di
coraggio e di devozione. Osoatre, fratello del re di Persia, vedendo
il Macedone ostinato a cogliere Dario, spinge il suo cavallo dinnanzi
la reale quadriga e trascina sopra tal punto la cavalleria scelta che
egli comanda: ivi segue una spaventevole carnificina; ivi mordono la
polve Atiziete e Reomitrete e Sabacete, Alessandro stesso vi è ferito
nella coscia. Finalmente Dario prende la fuga, abbandonando la candice
e l’arco reale.

Io plaudo e convengo pertanto col dotto illustratore, credendo sia
qui veramente trattata la Battaglia d’Isso, e non altro combattimento
d’Alessandro il Grande.

Tutto poi, per quanto riguarda esecuzione, è in questo musaico
stupendamente trattato. Il guerriero che spira, cogli intestini
lacerati, è di una verità insuperabile: i cavalli non potrebbero essere
più belli e animati. Correzione di disegno, espressione di teste,
movenza di figure, disposizione di gruppi, sapienza di scorci, colorito
ed ombre, tutto vi è con una incredibile superiorità trattato.

«Or bene, conchiude un illustratore di questa insuperata opera, tutte
siffatte bellezze non sono che quelle d’una copia: quei vivi lumi sono
soltanto riflessi, perocchè il musaico fu imitato certamente da un
quadro. Che dobbiamo dunque pensare dell’originale? A chi attribuirlo?
A Nicia, a Protogene, ad Eufranore, che dipinsero Alessandro? o
piuttosto a quel Filosseno di Eretria, discepolo di Nicomaco, la
pittura del quale, superiore a tutte le altre, a detta di Plinio, e
fatta pel re Cassandro, rappresentava il combattimento di Alessandro e
di Dario? Non si andrebbe per avventura più d’accosto al verisimile,
pensando al divo Apelle stesso, che accompagnò Alessandro nella sua
spedizione, e che solo ottenne in seguito il dritto di pingere il
suo ritratto, come Lisippo quello si ebbe di gittarlo in bronzo, e
Pergotele di scolpirlo sopra pietre preziose.»

Dopo ciò, mi trovo in debito di avvertire che il disegno che ho
procurato per questa edizione del rinomatissimo musaico, appare
completato dal lato sinistro, — che, come ho già avvertito, fu non so
dire se dall’ultimo cataclisma toccato a Pompei, o dal precedente, o
fors’anco dall’incuria di chi lo sbarazzò dalle rovine, come or si vede
al Museo Nazionale, guasto, — per opera del ch. pittore napolitano
Maldarelli padre, da un acquarello del quale, fornitomi dal mio
eccellente amico Adolfo Doria, l’ho fatto ricavare perchè il lettore
avesse un’idea esatta della maravigliosa composizione.

Non tenni conto più sopra, onde non interrompere il corso della storia
dell’arti, delle botteghe o studj di scultura, che emersero dagli scavi
di Pompei: trovi qui il cenno di essi il proprio posto.

Nell’uscire dalla nuova Fullonica, e discosto di poco dalla medesima,
designata dal N. 5, fu scoperto uno studio di scultura, riconosciutosi
tale dalla esistenza di più un blocco di marmo, già digrossato e
abozzato, e diversi arnesi atti appunto a lavorare il marmo e condurre
oggetti d’arte.

Ma uno studio di scultura, anzi tutta una dimora, più interessante
all’epoca di sua scoperta, che fu verso la fine del passato secolo
(1795-98), perocchè adesso lo si ravvisi nel più deplorevole stato di
abbandono e di rovina, sorgeva nella casa presso il tempio di Giove e
di Giunone, nella via di Stabia. Ivi pure, nell’atrio della casa, si
raccolsero statue appena abozzate, talune presso ad essere compite,
elegantissime anfore di bronzo, blocchi di marmo, fra i quali uno
appena segato colla sega vicina ed altri utensili artistici. Vi si
trovò pure un orologio solare, un uovo di marmo da collocarsi nel
pollajo, per correggere la chiocciola onde non rompa i suoi, un bacino
e un vaso di bronzo, con basso rilievo.

In una città come Pompei, nella quale, se non al pari di Ercolano,
certo nondimeno in modo non dubbio le Arti erano in onore, così che
ci avvenne trovarne capolavori nelle più umili dimore, doveva essere
impossibile che gli scavi non ci additassero magazzeni e studj di
scultura; nè è presumere troppo il pronosticare che pur ne’ futuri
sterramenti se ne troveranno altri.

La città si risvegliava da quel mortale letargo, in cui l’aveva gittata
il terremuoto del 63, e sgomberando le rovine e rimettendosi a nuovo,
era naturale che artisti giungessero, chiamati d’ogni dove ed aprissero
studj e botteghe per tanto lavoro.


  FINE DEL VOLUME SECONDO.




INDICE


  CAPITOLO XII. — =I Teatri= — =Teatro Comico= — Passione
  degli antichi pel teatro — Cause — Istrioni — Teatro
  Comico od Odeum di Pompei — Descrizione — _Cavea,
  præcinctiones, scalæ, vomitoria_ — Posti
  assegnati alle varie classi — Orchestra — Podii o tribune —
  Scena, proscenio, _pulpitum_ — Il sipario — Chi tirasse
  il sipario — _Postscenium_ — Capacità dell’Odeum
  pompejano — _Echea_ o vasi sonori — Tessere d’ingresso
  al teatro — Origine del nome _piccionaja_ al
  luogo destinato alla plebe — Se gli spettacoli fossero
  sempre gratuiti — Origine de’ teatri, teatri di legno,
  teatri di pietra — Il teatro Comico latino — Origini —
  Sature e Atellane — Arlecchino e Pulcinella — Riatone,
  Andronico ed Ennio — Plauto e Terenzio — Giudizio
  contemporaneo dei poeti comici — Diversi generi
  di commedia: _togatæ, palliatæ, trabeatæ, tunicatæ,
  tabernariæ_ — Le commedie di Plauto e di Terenzio
  materiali di storia — Se in Pompei si recitassero
  commedie greche — Mimi e Mimiambi — Le maschere,
  origine e scopo — Introduzione in Roma — Pregiudizj
  contro le persone da teatro — Leggi teatrali repressive —
  Dimostrazioni politiche in teatro — Talia
  musa della Commedia                                        _Pag._ 5

  CAPITOLO XIII. — =I Teatri= — =Teatro Tragico= — Origini
  del teatro tragico — Tespi ed Eraclide Pontico —
  Etimologia di tragedia e ragioni del nome — Caratteri —
  Epigene, Eschilo e Cherillo — Della maschera
  tragica — L’attor tragico Polo — Venticinque
  specie di maschere — Maschere trovate in Pompei — _Palla_
  o _Syrma_ — Coturno — Istrioni — Accompagnamento
  musicale — Le tibie e i tibicini — Melpomene,
  musa della Tragedia — Il teatro tragico in
  Pompei — L’architetto Martorio Primo — Invenzione
  del velario — Biasimata in Roma — Ricchissimi velarii
  di Cesare e di Nerone — _Sparsiones_ o pioggie
  artificiali in teatro — Adacquamento delle vie — Le
  _lacernæ_, o mantelli da teatro — Descrizione del Teatro
  Tragico — Gli Olconj — _Thimele_ — _Aulæum_ — La
  Porta _regia_ e le porte _hospitalia_ della scena —
  Tragici latini: Andronico, Pacuvio, Accio, Nevio, Cassio
  Severo, Varo, Turanno Graccula, Asinio Pollione — Ovidio
  tragico — Vario, Lucio Anneo Seneca, Mecenate — Perchè
  Roma non abbia avuto tragedie — Tragedie
  greche in Pompei — Tessera teatrale — Attori e Attrici —
  Batillo, Pilade, Esopo e Roscio — Dionisio — Stipendj
  esorbitanti — Un manicaretto di perle — Applausi
  e fischi — La _claque_, la _clique_ e la Consorteria — Il
  suggeritore — Se l’Odeo di Pompei fosse
  attinenza del Gran Teatro                                    »   53

  CAPITOLO XIV. — =I Teatri= — =L’Anfiteatro= — Introduzione
  in Italia dei giuochi circensi — Giuochi
  trojani — _Panem et circenses_ — Un circo romano — Origine
  romana degli Anfiteatri — Cajo Curione fabbrica
  il primo in legno — Altro di Giulio Cesare — Statilio
  Tauro erige il primo di pietra — Il Colosseo — Data
  dell’Anfiteatro pompejano — Architettura sua — I
  Pansa — Criptoportico — Arena — Eco — Le iscrizioni
  del Podio — Prima Cavea — I _locarii_ — Seconda
  Cavea — Somma Cavea — Cattedre femminili — I Velarii — Porta
  Libitinense — Lo Spoliario — I cataboli — Il
  triclinio e il banchetto _libero_ — Corse di cocchi
  e di cavalli — Giuochi olimpici in Grecia — Quando
  introdotti in Roma — Le fazioni degli Auriganti — Giuochi
  Gladiatorj — Ludo Gladiatorio in Pompei — Ludi
  gladiatorj in Roma — Origine dei Gladiatori — Impiegati
  nei funerali — Estesi a divertimento — I
  Gladiatori al lago Fùcino — Gladiatori forzati — Gladiatori
  volontarj — Giuramento de’ gladiatori _auctorati_ — _Lorarii_
  — Classi gladiatorie: _secutores, retiarii,
  myrmillones, thraces, samnites, hoplomachi, essedarii,
  andabati, dimachæri, laquearii, supposititii, pegmares,
  meridiani_ — Gladiatori Cavalieri e Senatori, nani e
  pigmei, donne e matrone — _Il Gladiatore di Ravenna_
  di Halm — Il colpo e il diritto di grazia — _Deludiæ_ — Il
  Gladiatore morente di Ctesilao e Byron — Lo
  Spoliario e la Porta Libitinense — Premj ai Gladiatori — Le
  ambubaje — Le Ludie — I giuochi Floreali e
  Catone — Naumachie — Le _Venationes_ o caccie — Di
  quante sorta fossero — Caccia data da Pompeo — Caccie
  di leoni ed elefanti — Proteste degli elefanti
  contro la mancata fede — Caccia data da Giulio Cesare — Un
  elefante funambolo — L’Aquila e il fanciullo — I
  _Bestiarii_ e le donne _bestiariæ_ — La legge Petronia — Il
  supplizio di Laureolo — Prostituzione negli anfiteatri —
  Meretrici appaltatrici di spettacoli — Il
  Cristianesimo abolisce i ludi gladiatorj — Telemaco
  monaco — _Missilia_ e _Sparsiones_                           »  103

  CAPITOLO XV. — =Le Terme= — Etimologia — _Thermæ,
  Balineæ, Balineum, Lavatrinæ_ — Uso antico de’ Bagni —
  Ragioni — Abuso — Bagni pensili — _Balineæ_ più
  famose — Ricchezze profuse ne’ bagni publici — Estensione
  delle terme — Edificj contenuti in esse — Terme
  estive e jemali — Aperte anche di notte — Terme
  principali — Opere d’arte rinvenute in esse — Terme
  di Caracalla — Ninfei — Serbatoi e Acquedotti — Agrippa
  edile — Inservienti alle acque — Publici
  e privati — Terme in Pompei — Terme di M. Crasso
  Frugio — Terme publiche e private — Bagni rustici — Terme
  Stabiane — Palestra e Ginnasio — Ginnasio
  in Pompei — Bagno degli uomini — _Destrictorium_ —
  L’Imperatore Adriano nel bagno de’ poveri — Bagni delle
  donne — _Balineum_ di M. Arrio Diomede — Fontane
  publiche e private — Provenienza delle acque — Il
  Sarno e altre acque — Distribuzione per la città —
  Acquedotti                                                   »  183

  CAPITOLO XVI. — =Le Scuole= — Etimologia — Scuola di
  Verna in Pompei — Scuola di Valentino — Orbilio e la
  ferula — Storia de’ primordj della coltura in Italia —
  Numa e Pitagora — Etruria, Magna Grecia e Grecia — Ennio
  e Andronico — Gioventù romana in Grecia — Orazio e
  Bruto — Secolo d’oro — Letteratura — Giurisprudenza —
  Matematiche — Storia naturale — Economia rurale —
  Geografia — Filosofia romana — Non è vero che
  fosse ucciditrice di libertà — Biblioteche — Cesare
  incarica Varrone di una biblioteca publica — Modo di
  scrivere, volumi, profumazione delle carte — Medicina
  empirica — Medici e chirurghi — La _Casa del Chirurgo_
  in Pompei — Stromenti di chirurgia rinvenuti
  in essa — Prodotti chimici — _Pharmacopolæ, Seplasarii,
  Sagæ_ — Fabbrica di prodotti chimici in Pompei — Bottega
  di _Seplasarius_ — Scuole private                            »  231

  CAPITOLO XVII. — =Le Tabernæ= — Istinti dei Romani —
  Soldati per forza — Agricoltori — Poca importanza
  del commercio coll’estero — Commercio marittimo di
  Pompei — Commercio marittimo di Roma — Ignoranza
  della nautica — Commercio d’importazione — Modo
  di bilancio — Ragioni di decadimento della grandezza
  romana — Industria — Da chi esercitata — _Mensarii_
  ed _Argentarii_ — Usura — Artigiani distinti
  in categorie — Commercio al minuto — Commercio delle
  botteghe — Commercio della strada — Fori _nundinari_
  o venali — Il _Portorium_ o tassa delle derrate portate
  al mercato — Le _tabernæ_ e loro costruzione —
  _Institores_ — Mostre o insegne — _Popinæ, thermopolia,
  cauponæ, œnopolia_ — Mercanti ambulanti — Cerretani —
  Grande e piccolo commercio in Pompei — Foro
  nundinario di Pompei — _Tabernæ_ — Le insegne delle
  botteghe — Alberghi dì Albino, di Giulio Polibio e
  Agato Vajo, dell’_Elefante_ o di Sittio e della Via delle
  Tombe — _Thermopolia_ — _Pistrini, Pistores, Siliginari_ —
  Plauto, Terenzio, Cleante e Pittaco Re, mugnai — Le
  mole di Pompei — Pistrini diversi — Paquio Proculo,
  fornaio, duumviro di giustizia — Ritratto di lui
  e di sua moglie — Venditorio
  d’olio — _Ganeum_ — Lattivendolo — Fruttajuolo — Macellai
  — _Myropolium_, profumi e profumieri — _Tonstrina_, o
  barbieria — Sarti — Magazzeno di tele e di stofe —
  Lavanderie — La Ninfa Eco — Il Conciapelli — Calzoleria
  e Selleria — Tintori — Arte Fullonica — Fulloniche di
  Pompei — Fabbriche di Sapone — Orefici — Fabbri e falegnami
  — _Præfectus fabrorum_ — Vasaj e vetrai — Vasi vinarj —
  =Salve Lucru=                                                »  271

  CAPITOLO XVIII. — =Belle Arti= — Opere sulle Arti in
  Pompei — Contraffazioni — Aneddoto — Primordj
  delle Arti in Italia — Architettura etrusca — Architetti
  romani — Scrittori — Templi — Architettura
  pompejana — Angustia delle case — Monumenti grandiosi
  in Roma — Archi — Magnificenza nelle architetture
  private — Prezzo delle case di Cicerone e di
  Clodio — Discipline edilizie — Pittura — Pittura
  architettonica — Taberna o venditorio di colori in Pompei
  — Discredito delle arti in Roma — Pittura parietaria — A
  fresco — All’acquarello — All’encausto — Encaustica — Dipinti
  su tavole, su tela e sul marmo — Pittori
  romani — Arellio — Accio Prisco — Figure
  isolate — Ritratti — Pittura di genere: Origine — Dipinti
  bottegai — Pittura di fiori — Scultura — Prima
  e seconda maniera di statuaria in Etruria — Maniera
  greca — Prima scultura romana — Esposizione
  d’oggetti d’arte — Colonne — Statue, _tripodaneæ,
  sigillæ_ — Immagini de’ maggiori — Artisti greci in
  Roma — Cajo Verre — Sue rapine — La Glittica — La
  scultura al tempo dell’Impero — In Ercolano e
  Pompei — Opere principali — I Busti — Gemme pompejane — Del
  Musaico — Sua origine e progresso — _Pavimentum
  barbaricum, tesselatum, vermiculatum_ — _Opus
  signinum_ — _Musivum opus_ — _Asarota_ — Introduzione
  del musaico in Roma — Principali musaici
  pompejani — I Musaici della Casa del Fauno — Il
  Leone — La Battaglia di Isso — Ragioni perchè si
  dichiari così il soggetto — A chi appartenga la
  composizione — Studj di scultura in Pompei                   »  345




NOTE:


[1] Lib. VII c. 2.

[2] Cajo Quinzio Valgo, figlio di Cajo, e Marco Porcio, figlio di
Marco, duumviri, hanno, per decreto dei duumviri, fatto fare il teatro
coperto e i medesimi lo hanno collaudato.

[3] «L’Odeo che s’incontra a sinistra nell’uscire dal teatro.»

[4] _Apologia_ c. VI. _Ne hieme voluptas impudica frigeret._

[5] Cap. XLIV.

[6] Trad. di Vincenzo Lancetti.

[7] Marco Oculazio Vero, figlio di Marco, duumviro sopra i giuochi —
Bréton, pel contrario, constatando essersi qui scritto _Olconius_ e non
_Holconius_, come più spesso altrove, ne fa maraviglia; ma maggiore in
me avrebbe a fare vedendo che, ammonito pure da ciò, non volle leggere,
come altri lessero, invece di _Olconius, Oculatius_.

[8] Svet. _Nero_, c. 12; Juven. _Sat._, II. v. 147.

[9] Lib. V. c. 7.

[10]

      Tal se ’l teatro il ricco arazzo adorna,
    Mentre s’innalza al ciel la seta e l’opra,
    Delle varie figure, ond’ella è adorna,
    Prima lascia apparir la testa sopra;
    Poi, secondo che al panno alzan le corna
    Le corde, fa che il busto si discopra:
    Come poi giugne al segno, ivi si vede
    D’ogni effigie ogni membro insino al piede.

Trad. di Gio. Andrea Dell’Anguillara, Lib. X, ott. 37.

[11] _Diz. delle Antich._ alla voce _Aulæa_.

[12] _Epist._ II. I. 189.

[13] _Metam._ lib. III.

[14] «Calato sotto l’auleo, e ripiegati i siparii, si disporrà la
scena.» Lib. X. Discorre Apulejo di ciò, come se avesse luogo nella
rappresentazione d’un balletto pantomimico, il cui soggetto era il
Giudizio di Paride.

[15] _Georgica_ 3. 24:

    Come volte le fronti a un tratto muti
      Nel teatro la scena ed i Britanni
      Tolgan gli auléi purpurei, in cui ritratti
      Appajon essi.

Lo che significa che sui scenarj fossero tessute le vittorie, tra cui
quelle singolarmente di Giulio Cesare nella Britannia, da cui i diversi
schiavi o mancipi venuti di colà erano stati applicati a’ teatrali
uffici.

[16] C. IV. v. 1186.

[17] Lib. V. c. 3 e 5. _De Theatri vasis_.

[18] «Turbato dallo schiamazzo che nel mezzo della notte facevano
coloro che avevano ad occupare nel Circo i posti gratuiti.»

[19]

      Non assediin gli schiavi i posti ond’essi
    Per i liberi sien, a men che ognuno
    Paghi un asse per testa e, ove non l’abbia,
    Ritorni a casa.

Così nel prologo della commedia.

[20] «Sorgon in luogo eletto i tre teatri.»

[21]

    Sovente assisi sulla molle erbetta,
      Lungo il margin d’un rivo e al rezzo amico
      D’un’arbore frondosa, allegramente
      Senza dispendi avean essi riposo,
      Gli scherzi allora, il conversar, le risa
      Scoppiettavan graditi in mezzo a loro;
      Però che onor l’agreste musa avesse.

[22]

    Non per colpa s’immola a Bacco il capro
      Sovra l’are dovunque e i ludi antichi
      Sulle scene compajono, solenni
      Della Tesea città[23] gli abitatori
      Immaginaron premj intorno ai grandi
      Popolosi villaggi e nelle vie,
      E fra le colme coppe in su gli erbosi
      Prati danzâr fra l’untüose pelli
      Degli immolati capri. Istessamente
      Gli Ausonj pur dalla trojana gente
      Qui derivati con incolto verso
      E irrefrenato riso han passatempo
      E di cave corteccie orrendi visi
      Assumono, e ne’ loro allegri carmi
      Te invocan, Bacco, e sul gigante pino
      Ti sospendon votive immaginette.
                              Mia traduzione.

[23] Gli Ateniesi sono così dal Poeta chiamati _Thesidæ_ da Teseo re,
che primo ridusse dagli sparsi villaggi entro la città che circondò di
mura.

[24] «I primi ludi teatrali nacquero dalle feste di Bacco.»

[25]

    Grecia già doma il vincitor feroce
      Giunse a domar, e nell’agreste Lazio
      L’arti guidò per man; indi quell’irto
      Cadde saturnio ritmo, e fu respinto
      Dal fior d’ogni eleganza il grave lezzo.
      Ma rimasero ancor lungh’anni, e ancora
      Rimangon oggi le salvatich’orme
      Chè tardo acuti su le greche carte
      Sguardi volse il Roman, e alfin deposte
      Le punich’arme, cominciò tranquillo
      Quella ad investigar, ch’Eschilo e Tespi
      E Sofocle apprestava util dottrina.
                                       Trad. Gargallo.

[26] _Storia degli Italiani_, Vol. I, cap. XXXI.

[27]

    Ma però se grecizza il mio subbietto,
      Non atticizza, ma piuttosto in vero
      Sicilizza.

[28]

    Che d’altri personaggi ora non lice
      Valersi, e ch’altro scriver si costuma
      Che di schiavi correnti e di pietose
      Matrone o di malvagie cortigiane,
      Di parassito crapulon, ovvero
      Di spavaldo soldato e di supposto
      Fanciullo; o pur da vecchio servitore
      Venir tradito; amare, odiar, gelosi
      Restar in scena? Oh! nulla cosa insomma
      Scriver si può che non sia stato scritto.
                                        Mia trad.

[29]

    Molti incerti restar abbiam veduto
      Cui conceder di comico poeta
      La palma; a te, col mio giudizio adesso
      Il dubbio solverò, sì che tu possa
      Altra sentenza rigettar contraria.
      Prima a Cecilio Stazio io la concedo,
      Plauto di poi ogn’altro certo avvanza;
      Quindi l’ardito Nevio ha il terzo posto;
      E se il quarto, ad alcun dar lo si deve,
      A Licinio è dovuto, ed a lui presso
      Attilio viene; il sesto loco ottiene
      Publio Terenzio, e il settimo Turpilio;
      Ha Trabëa l’ottavo e il nono a Luscio
      Giustamente si dee; Ennio, in ragione
      Solo di vetustà, decimo venga.
                                      Tr. _id._

[30] Traduco:

    Vi avran di quei che mi diran: che è questo
      Matrimonio di schiavi? E quando mai
      Torran moglie gli schiavi? Ecco una cosa
      Strana così che in nessun luogo è vista.
      Ma io v’accerto che ciò s’usa in Grecia,
      A Cartagin, qui nella terra nostra,
      In Apulia, ove più che i cittadini
      Soglion gli schiavi andar tra loro a nozze.

[31]

                 Tutto ciò che piace
    Potè ai mimi concedere la scena.
                             Lib. 2.

[32] _Apologia_. XV.

[33] «Il capo e la faccia coperti colla maschera.»

[34] _Le Maschere Sceniche e le Figure Comiche d’antichi Romani
descritte brevemente da Francesco De Ficoroni._ — Roma. _Nella
stamperia dei Bernabò e Lazzarini MDCCXLVIII._ I versi di Fedro così
tradurrei:

    Gli occhi in maschera tragica
      Un dì la volpe affisse;
      Oh quanto è bella, disse,
      Ma ahimè! cervel non ha.

[35] Se taluno avrà cantato innanzi al popolo, o avrà fatto carme che
rechi infamia o offesa altrui, venga punito di bastone.

[36]

    Fescennina licenza, a cui ben questo
      Costume aprì la via, con versi alterni
      Rustici prese a dardeggiar motteggi,
      E omai l’ammessa libertà, cogli anni
      Rinnovandosi ognor, piacevolmente
      Folleggiò, sinchè poi l’inferocito
      Scherzo scosso ogni fren, cangiato in rabbia,
      Già minaccioso gli onorati Lari
      Impunemente penetrare ardio.
      Quei che sentiro i sanguinosi morsi,
      Muggir di duolo, e quegli ancor non tocchi
      Su la sorte comun stetter pensosi:
      Ch’anzi legge e castigo allor fu imposto,
      Perchè descritto in petulanti versi
      Alcun non fosse. Ecco littor temuto
      Cangiar fe’ metro, e sol diletto e lode
      Ormai risuona su le aonie corde.
                                 Trad. Gargallo.

[37]

    Magno tu sei per la miseria nostra....
      E di codesta tua virtute alfine
      Giorno verrà che te’ n dorrai tu forte,
      Se legge non l’infrena, oppur costume.

[38] _Ad Atticum_, II, 19.

[39]

    Quiriti, ahimè, la libertà perdemmo.

[40]

    È da fatal necessità voluto
      Che i molti tema chi è da lor temuto.

[41] «E che? colui che soccorse la Republica, la sostenne e rassodò tra
gli Argivi.... dubbia l’impresa, non dubitò però espor la sua vita,
nè curarsi del capo suo.... d’animo sommo in somma guerra e di sommo
ingegno adornato.... o Padre! queste cose vidi io ardere. O ingrati
Argivi, o Greci inconseguenti, immemori del beneficio!... Lo lasciate
esulare, lo lasciate espellere, ed espulso, il sopportate.»

[42]

    Io son Talia, che a’ comici presiede
      Poemi e il vizio sferza
      Per genial via di teatrali scede.

[43]

    Nè la nostra Talia dentro le selve
      Vergognò soggiornar.

[44] Tom. II. pl. 3 nella nota 7. Vedi anche Plutarco _Simp._ IX 14.

[45]

    Di Melpomene aver l’ignoto carme
      Tespi inventato, è fama, e aver su plaustri
      Tratti gli attor, di feccia il volto intrisi,
      Che adattassero al carme il gesto e il canto.
                                        Trad. Gargallo.

[46] Costui è quell’Eraclide, che Diogene Laerzio e Suida dicono
essere stato uomo grave, cantore di opere ottime ed elegantissime, e
liberatore della sua patria oppressa, emulo di Platone, che nel partire
per la Sicilia lo incaricò di presiedere alla sua scuola. Egli ne’
frammenti dell’opera _Delle Republiche_, ci lasciò testimonianza che
Omero sè dicesse, in un componimento andato perduto, di patria toscano:
_Omero attesta dalla Tirrenia esser egli venuto in Cefallenia ed Itaca,
ove per malattia perdè la vista_, onde il nostro Manzoni il chiamasse:

    «Cieco d’occhi, divin raggio di mente.»

[47]

    Chi per vil capro in tragico certame
    Pria gareggiò.
                    Trad. Gargallo.

[48]

    Vien la truce Tragedia a grande passo,
      Torva la fronte d’arruffata chioma
      E il lungo peplo che le casca in basso.
                Ovid., 3. _Amor._ I. II. Mia trad.

[49]

    De la maschera autor, e del decente
      Sirma, appo lui Eschilo il palco stese
      Su poche travi, e ad innalzar lo stile,
      E a poggiar sul coturno ei fu maestro.
                              Trad. Gargallo.

[50] Chi poi abbia introdotto le maschere, i prologhi, la moltitudine
degli attori ed altrettali cose, si ignora. — _Della Poetica_, cap. V.

[51]

    Se dì solenne a festeggiar talvolta,
      D’erbe un teatro si compone e nota
      Una commedia[52] recitar si ascolta,
    In cui l’attor pallida al volto e immota
      Maschera tien dalla beante bocca,
      Il bimbo, di terror pinta la gota,
    Nel sen materno si nasconde.

[52] Ho tradotto la parola _exodium_ per _Commedia_; ma l’_exodium_ era
propriamente una farsa licenziosa che d’ordinario si rappresentava in
seguito ad una tragedia e più spesso ancora in seguito ad un’atellana,
qualche volta pure tra un atto e l’altro di quest’ultima. Il più
delle volte l’esodio non aveva che un solo attore, chiamato per ciò
_exodiarus_.

[53] «Laddove un oratore convien che abbia l’acutezza de’ dialetti e
i sentimenti de’ filosofi e quasi il parlar de’ poeti, e la memoria
de’ giuristi e la voce de’ tragici e poco meno che il gesto de’ più
applauditi attori di teatro.» — Cicerone, _De Oratore_, lib. I, c.
XXVIII, Trad. di Gius. Ant. Cantova.

[54]

    Queste son l’opre e queste l’arti invero
      Del generoso prence: ei s’abbandona
      A oscene danze su palco straniero;
    Beato allor che la nemea corona
      D’appio mertò[55]. Del tuo trillo sonante
      Alle immagin’ degli avi i trofei dona;
    E di Domizio al più la trascinante
      Sirma di Tieste o Antigone e la cetra
      A quel gran marmo tu deponi innante.
                                   Mia trad.

[55] Plinio, _Nat. Hist._ lib. 19. 5. 46, fa sapere che ne’ grandi
spettacoli della Grecia Nemea venisse data al vincitore una corona di
appio, erba palustre, detta anche, _helioselinum_.

[56] _Egloga_ VIII. 10.

    Che sol del sofocleo coturno degni
      Sono i tuoi carmi.

[57] Lib. VII. 2.

[58] _Hist. Nat._ 35. 12. 46.

[59] Id. 57. 2. 6.

[60] _Saturnaliorum._ Lib. III. C. XIV.

[61]

    Mentre il tosco tibicine strimpella
    Muove il ludio il suo piè a grottesca danza.
                                V. 112. Mia trad.

[62]

    Non grave d’oricalco e de la tromba
      Qual oggi è omai, la tibia emulatrice,
      Ma semplice e sottil per pochi fori
      Spirando, al coro utile accordo univa,
      E del suo fiato empiea gli ancor non troppo
      Spesso sedili.
                               Tr. Gargallo.

[63] Flacco di Claudio suonò colle tibie pari.

[64] «Il Tibicine intanto or vi diverta.»

[65] «Non comprendo di che abbia egli a temere, da che sì bei settenari
egli reciti al suono della tibia.»

[66] Lo Scoliaste d’Apollonio, _Argonaut._ III V. I., e lo Scoliaste
dell’Antologia, lib. I. cap. 57.

[67]

    Co’ suoi tragici giambi reboante
      S’accalora Melpomene.

[68] Martorio Primo, liberto di Marco, architetto.

[69]

    E del nudo teatro e del coperto
      Il gemino edificio.

[70] Lib. II. c. 45. 6. «Quinto Catulo, imitando l’effeminatezza della
Campania, primo coprì dell’ombra del velario gli spettatori.»

[71] Cap. XXVI.

[72]

    «Sederò teco al pompejan teatro,
    Quando il vento contende
    Di spiegar sovra al popolo le tende.»
                 Lib. XVI. 29. Trad. di Magenta.

[73]

                     Sovente ancora
    Il medesmo color diffuso intorno
    È dal sommo de’ corpi; e l’aureo velo,
    E le purpuree e le sanguigne spesso
    Ciò fanno, allor che ne’ teatri augusti
    Son tese, o sventolando in su l’antenne
    Ondeggian fra le travi: ivi il consesso
    Degli ascoltanti; ivi la scena e tutte
    Le immagini de’ padri e delle madri
    E degli dei di color vario ornate
    Veggonsi fluttuare, e quanto più
    Han d’ogni intorno le muraglie chiuse,
    Sicchè da’ lati del teatro alcuna
    Luce non passi, tanto più cosperse
    Di grazia e di lepor ridon le cose
    Di dentro, ecc.
                      Trad. Marchetti.

[74] «Avanti tutti, Gneo Pompeo col far iscorrere le acque per le vie,
temperò l’ardore estivo.» Lib. II. c. 496.

[75] «Oggi per avventura credi più sapiente quegli che trovò come
con latenti condotti si porti a immensa altezza e si sprizzi acqua
profumata di zafferano.»

[76]

    Non ondeggiava sulla curva arena
      Pompa di veli, nè odoroso croco
      Spirava intorno ognor la molle scena.
           Lib. IV, el. I Trad. di M. Vismara.

[77]

    Non si stendean sulla marmorea arena
      Le vele allor, nè s’era vista ancora
      D’acqua di croco rosseggiar la scena.
             Lib. I. v. 103-104. Mia versione.

[78]

    Testè, solo fra tutti, Orazio in bruno
      Mantello agli spettacoli assistea,
      Mentre la plebe, il maggior duce, e l’uno
      Ordine e l’altro in bianco vi sedea.
      Spessa neve dal ciel cadde repente:
      In mantel bianco Orazio ecco sedente.
                      Lib. IV. 2. Trad. Magenta.

[79] «Un giorno (Augusto) avendo in un’assemblea di popolo veduto una
gran turba in mantelli neri, pieno di corruccio si diè a gridare: Ecco
son questi

    I togati Romani arbitri in tutto?

e commise agli edili che quind’innanzi più alcun cittadino non
comparisse nel foro o nel circo, se non deposto prima il mantello.» C.
XL.

[80] «A Marco Olconio Rufo, figlio di Marco, duumviro incaricato per
la quinta volta dell’amministrazione della giustizia, quinqueviro
per la seconda volta, tribuno dei soldati eletto dal popolo, flamine
d’Augusto, patrono della colonia, per decreto de’ decurioni.»

[81] «Marco Olconio Rufo e Marco Olconio Celere a propria spesa
eressero una cripta, un tribunale, un teatro a lustro della Colonia.»

[82] «A Marco Olconio Celere duumviro di giustizia, cinque volte
designato sacerdote d’Augusto.»

[83] De Rich, _Diz. d’Antichità_, voce _Thymele_.

[84] Parte I, cap. I, p. 6.

[85] Lib. cap. 13. 2.

[86] _Epist. Ex Ponto._ Epist XVI.

[87]

    Indi fidai con gravi accenti al tragico
      Coturno, qual dovea, regal subbietto.
                  Trad. dell’ab. Paolo Mistrorigo.

[88]

    Io salvarti potei e mi domandi
      Se struggerti non possa?...
                 _Instit. Orat._ VIII. 5.

[89]

    Quasi invasa da un Dio, qua e là son tratta.

[90]

    Le pugne de’ centimani
      Sacrileghi giganti
      Cantar tentai: ho cetera
      Pe’ carmi altisonanti.

[91] _Tristium_, lib. II. 519.

[92] Id. lib. V. 7. 25.

[93] _Inst. Orat._ X. I. «che può essere paragonata a qualunque
tragedia greca.»

[94]

                 LA NUTRICE.
    Partiro i Colchi; nulla fu la fede
    Del tuo consorte e di dovizie tante
    Più nulla resta a te.
                   MEDEA.
                       Resta Medea.
                  _Atto_ II. _Sc._ I.

[95]

                   TESEO.
    Di’, qual delitto colla morte intendi
    D’espiar?
                   FEDRA.
               Quello ch’io vivo.

[96]

    Tempo vegg’io propizio
      In avvenir lontano,
      In cui torrà gli ostacoli
      Fremente l’oceano,
      Ed ingente una terra apparirà;
      Nè Tile fia più l’ultima;
      Ma nuovi mondi Teti scoprirà.
                             Mia trad.

[97] Lipsia, 1822.

[98] Lipsia, 1852.

[99] _Antichità di Pompei._ Vol. IV.

[100]

    Ecco d’eroici sensi menar vampo
    Cianciator grecizzante.
               _Sat._ I. v. 69. Trad. V. Monti.

[101] Le publicai tradotte in un volume: _Publio Siro — I Mimiambi._ —
Pagnoni, 1871.

[102] _Nat. Hist._, IX. 59.

[103]

    Quei cui parrà tuo genio al suo conforme
      Con l’un pollice e l’altro avvien che innalzi
      Fautor suoi plausi a’ marzïal tuoi ludi.
              _Epist._ lib. 1. ep. XIX 66. Trad. Gargallo.

Vedi anche Plinio _Nat. Hist._ XXVIII, II. 3.

[104]

    Nè l’opra tua puoi vendere a cotesta
      Gente nel foro o nel teatro.
                       _Epig._ Lib. VII. 64.

[105] Lib. IV. 15.

[106] _Paradox._ III, 2. _De Orat._ III.

[107] Pag. 46.

[108] _In Pericle_ 13.

[109] Lib. V. 9. 10.

[110] Cap. V.

[111] «Egualmente sono a lui dovuti e il tempio della gente Flavia e
uno stadio e un odeum ed una naumachia, delle cui pietre di poi valsero
alla riparazione del gran circo, i due lati del quale erano stati
incendiati.»

[112] I giuochi di Achille in onor di Patroclo sono narrati nel libro
XXIII dell’_Iliade_.

[113]

    Questi torneamenti, e queste giostre
      Rinnovò poscia Ascanio, allor ch’eresse
      Alba la lunga; appresegli i Latini;
      Gli mantenner gli Albani; e d’Alba a Roma
      Fur trasportati, e vi son oggi; e come
      E l’uso e Roma e i giochi derivati
      Son dai Trojani, hanno or di Troja il nome.
             _Æneid._ Lib. V. 596-601. Trad. Annib. Caro.

[114] _Annales._ Lib. XI. C. XV.

[115] Da αμφι, _da ambe le parti_, e da θεατρον, _teatro_.

[116] _Nat. Hist._ Lib. XXXVI.

[117] «Ciò che non fecero i Barbari fecero i Barbarini.»

[118] Narra a tal proposito Dione che Nerone accolse benignamente
e onorevolmente quel re, facendo, oltre altre solennità, anche ludi
gladiatorj in Pozzuoli. Fu prefetto di essi Patrobio Liberto, e ne
fu tanta la magnificenza, che nessuno nello spazio d’un sol giorno
potesse entrar nell’anfiteatro all’infuori degli uomini, delle donne
e dei fanciulli Etiopi; onde Patrobio ne riportasse onore. Ivi il Re
Tiridate, sedendo in luogo principale, con dardo colpiva le fiere e con
un solo colpo ferì due tori ed uccise. Queste feste compiute, Nerone lo
condusse a Roma e gl’impose la corona.

[119] «Cajo Quinzio Valgo figlio e Marco Porcio figlio di Marco
Duumviri Quinquennali, hanno per onore della Colonia costruito col
proprio denaro l’anfiteatro, concedendone ai Coloni il posto in
perpetuità.»

[120] Cajo Cuspio Pansa figlio di Cajo, pontefice Duumviro incaricato
di rendere giustizia.

[121] Cajo Cuspio Pansa figlio di Cajo, padre, Duumviro per la
giustizia, quattroviro quinquennale, prefetto, per decreto de’
Decurioni, al mantenimento della legge Petronia.

[122] Gli scavi ripresi nel 1813 e durati fino al 1816 lo misero
interamente alla luce, come trovasi di presente.

[123] «Il Patrono del sobborgo Augusto Felice sopra i ludi per decreto
de’ decurioni — T. Atullio Celere figlio di Cajo Duumviro sopra i
ludi, le porte e la costruzione de’ cunei, per decreto de’ Decurioni. —
Lucio Saginio, Duumviro, incaricato dalla giustizia fece, per Decreto
de’ Decurioni, gli aditi. — Nonio Istacidio figlio di Nonio, cilice,
Duumviro sopra i ludi fe’ gli aditi. — Aulo Audio Rufo figlio di
Aulo Duumviro sopra i ludi, e fe’ gli aditi. — Marco Cantrio Marcello
figlio di Marco Duumviro sopra i ludi e fece tre cunei, per decreto de’
Decurioni.»

[124] Io ho creduto di tradurre _sopra i ludi_ e non _pour les jeux_,
come tradusse Bréton, e la parola _lumina_, non come il Garrucci e il
Mommsen e altri per illuminazione, ma per aditi, cioè i vomitorj, porte
e spiragli de’ sotterranei, perchè mi parve più naturale e probabile
che coi cunei si facessero i relativi aditi, androni ecc., e nel
diritto romano si trovi sempre usata la parola _lumina_ per indicare le
finestre. Così anche l’abate Romanelli.

[125] _Pompeja_ p. 227 e 228 seguendo la lezione di Rénier: la ragione
ne è fornita dopo la lettera di Rénier.

[126] Lib. 5, 24:

    Ermete de’ Locarii arricchimento.
                            Trad. Magenta.

[127]

    All’alte file io giunsi, ove la turba,
      Dalla bruna e vil veste, spettatrice
      Tra le femminee cattedre sedea;
      Però che tutto quanto era all’aperto
      Di cavalieri e di tribuni in bianco
      Abbigliamento si vedea stipato.
                                  Mia trad.

[128] La famiglia gladiatoria di Numerio Popidio a 28 ottobre darà
in Pompei una caccia, e a’ 20 di aprile si metteranno le antenne ed i
velarj.

[129] La famiglia gladiatoria di Numerio Festo Ampliato giostrerà
di nuovo a’ sedici maggio e vi sarà la venazione e si metteranno i
velarii.

[130] Senec. _Epist._ 95 e Lamprid. _Commod._ 18 e 19.

[131]

    Scorpo son io, del circo onor solenne,
      Tuo plauso, o Roma, e breve tuo contento.
      Morte al ventisettesmo anno m’ha spento;
      Contò mie palme, e già vecchio mi tenne.
                   Lib. X, ep. 57. Trad. Magenta

[132]

    Oggi.... il solo Circo
      Tutta nel suo giron comprende Roma....
      Sì, dal fragor che intronami l’orecchio,
      Vincitor ne argomento il verde panno.
                _Sat._ XI. v. 195-96. Trad. Gargallo

[133]

    De’ vincenti ronzon proclamatore,
      Siede il Pretor in trionfal corredo.
               _Sat._ XI. 191-93. Trad. Gargallo.

[134] «Abbia contro sè irata Venere pompejana chi a questa insegna
porterà offesa.»

[135]

                        Gli abbattimenti
    Colla sinopia, e col carbon dipinti,
    Quand’io talor di Rutuba, di Flavio,
    O di Placideian, a gamba tesa
    Stommi a guatar, qual se verace fosse,
    Di que’ prodi il pugnare, il mover l’arme,
    Lo schermirsi, il ferir....
                                Trad. Gargallo.

[136] _Hist._ Lib. 11. 88.

[137] «Giurammo fede ad Eumolpione, sotto pena di essere abbruciati,
legati, battuti, ammazzati, e quant’altro fosse esatto da lui,
consecrandogli religiosamente, come i veri gladiatori consacrano a’
loro padroni, i corpi nostri e la vita.» _Satyricon_. Cap. XXVII, trad.
Vinc. Lancetti.

[138]

      Di peggio che si può, tranne l’arena?
    E ancor qui trovi il disonor di Roma.
    Eccoti un Gracco: mirmillonic’arme
    Egli non veste: non impugna scudo,
    O adunca falce: arnesi son cotesti
    Ch’egli condanna; anzi condanna e abborre.
    Nè il volto asconde sotto l’elmo; il mira:
    Squassa il tridente, e poi che mal librata
    La mano scaglia le sospese reti,
    Dassi a fronte scoperta e a gambe alzate
    Spettacolo a l’intorno. — È desso, è Gracco!
    (Gridan tutti); la tunica l’attesta,
    E l’aurea nappa che gli fascia il collo
    E avvolta al pileo sventolando ondeggia.
    Ond’è che il seguitor, vistosi astretto
    Con un Gracco a pugnare, in sè ne freme
    Qual d’un’onta peggior d’ogni ferita.
                       _Sat._ VIII. Trad. Gargallo.

[139] «I Campani, per odio de’ Sanniti, armarono di quelle ricche
spoglie i gladiatori, che appellarono col nome di Sanniti.»

[140]

    Chi non le ha viste impalandrate e d’unto
    Atletico incerate; e chi non vide
    Lor colpi, bagordando a la quintana?
    Con l’asta in pugno e con lo scudo in braccio
    Assal, ferisce, martella, disbarba,
    Tutte osservando del giostrar le leggi....
    O matrona arcidegna de la tromba
    Che di Flora all’agon le prodi invita!
    Se non che, a maggior opra il cor rivolto,
    Già s’apparecchia a la verace arena.
    Qual vuoi trovar pudor in una donna,
    Che il biondo crin in lucid’elmo accolga;
    Che, schiva al sesso, a vigor maschio aneli?
             _Sat._ VI, 218 e segg. Trad. di T. Gargallo.

[141] Atto III.

[142]

    Cogniti a tutti i borghi un di costoro
    Cornette e trombettier, de’ gladiatori
    Girovaghi compagni, indivisibili;
    Questi già un dì spettacolo, son ora
    Que’ che danno spettacoli; e del popolo
    Adulatori, a un suo volger di pollice,
    Uccidon chi si sia popolarmente.
                             Trad. _Gargallo_.

[143]

      ...... il pollice chinato,
    La pudibonda vergine commanda
    Che sia trafitto del giacente il petto.

[144] Atto V.

[145] _Nat. hist._ lib. XXXIV. «Fece un ferito morente, in cui si
potesse comprendere quanto in lui restasse ancora di anima.»

[146] Byron. Pellegrinaggio di Childe Harold c. IV. st. CXL., CXLI.

[147] «Stima (il popolo) ingiuria, perchè non periscano volontieri.»

[148] «Il cadavere del gladiatore venga trascinato coll’uncino e lo si
ponga nello spoliario.»

[149] Bond, scoliaste d’Orazio, le vuol dette Ambubaje dall’essere per
ebrietà balbuzienti.

[150]

    Or qual mai sia la razza prediletta
    A’ nostri maggiorenti, e che mi sprona
    A fuggir come lepre, in brevi detti
    (Nè pudor men ritiene) io ti confesso
    Roma, o Romani, divenuta greca
    (Benchè la feccia achea qual può formarne
    Picciola quota?) digerir non posso.
    Pria di questa nel Tebro il siro Oronte
    Era sboccato; e già sermon, costumi,
    E flauti e cetre da le corde oblique
    Seco tratti vi avea, frigi timballi,
    E merce di fanciulle al Circo esposta.
    Voi, cui fan gola barbare lupatte
    Vario-mitrate, itene pure a loro.
                       Trad. Gargallo.

[151]

    E truppe d’ambubaje e speziali,
    Mimi, accattoni e zanni, afflitta è tutta
    Questa bordaglia dell’estremo fato
    Di Tigellio cantor, poichè per essa
    Generoso fu sempre.
                        Mia trad.[152]

[152] A Gargallo mi sono sostituito, non avendo egli serbato fedeltà al
primo verso d’Orazio, che tradusse:

    Troppo di canterine e vendi-empiastri.

La citazione, mettendo in disparte la parola _ambubaje_, sarebbe stata
perfettamente inutile.

[153]

    Ditelo voi di Lepido nepoti,
    Di Fabio il ghiotto e di Metello il cieco,
    Qual gladiatrice (_ludia_) mai vestì tai vesti.
                                     Trad. Gargallo.

[154] Svetonio, _in Neronem_. Cap. XII.

    Vedemmo Pasifae dal toro coperta
      E la prisca favola or fede ha più certa.
    Gli antichi più, o Cesare, non vantin lor gesta:
      Checchè fama celebra l’arena ci appresta.
                                       Trad. Magenta.

[155] _In Claud._ c. XXI.

[156] _Id. In Neron._ 12.

[157] _Id. In Tit._ c. VII.

[158] _In Domitianum_, c. V.

[159]

    Checchè ti mostrano di più preclaro
      L’Anfiteatro e il Circo i splendidi
      Flutti di Cesare qui ti mostraro.
    Il lago scordinsi Fucin le genti,
      E di Nerone gli stagni: ai posteri
      Questo spettacolo sol si rammenti.
                             Trad. Magenta.

[160] _In August._ c. XLIII.

[161] _Ad V. Æneid._ 114.

[162] _Epist._ VII, ep. 1.

[163] _Hist._ Lib. XXXIX, c. 22.

[164]

    Quel toro, che già poco
      Scorrea, punto dal fuoco,
      Nell’arena i bersagli a rovesciar,
    Cadde alfin, dal suo tratto
      Cieco furor, nell’atto
      Che credea l’elefante in aria alzar.
               _De Spectaculis._ Ep. 21. Tr. Magenta.

[165] _In Cæsar._ c. 39.

[166] _Nat. Hist._ Lib. VIII, c. 2.

[167] _In Galbam_, c. 6.

[168] Lib. LXI. c. 17, anche Svetonio il riporta _In Neronem_, c. XI.

[169] _Epig._ lib. 1. 7.

    L’aquila, onde su l’etere
      Recare il putto illeso,
      Al sen con l’ugne timide
      Si strinse il caro peso.
                    Tr. Magenta.

[170] _Id._ Lib. V. 55.

    Dimmi, o regina degli augei, chi porti?
    Il Tonante.
                         Trad. id.

[171] _In Domit._ c. 4.

[172]

    Che il Dio belligero
      Per te distinguasi
      Nell’armi ognor,
    Non basta, o Cesare,
      Per te distinguesi
      Venere ancor.
    La fama d’Ercole
      Vantava l’inclita
      Nobil tenzon,
    Quando nell’ampia
      Nemea boscaglia
      Spense il lion.
    Taccian le favole,
      Chè fatti simili
      Per tuo favor
    Oprarsi, o Cesare,
      Da man femminea
      Vedemmo or or.
                    _Epigr._ 8. Trad. Magenta.

[173]

    Come al scizio ciglion Prometeo stretto
      Nutre l’augel col rinascente petto,
    Laureol così da vera croce pende,
      E ad orso caledonio il fianco stende.
    Palpitavan sue viscere, grondanti,
      Lacere, e a corpo uman più non sembianti.
    La pena alfin scontò del parricidio,
      Del fero nel padron commesso eccidio,
    Del rapito nei templi oro nascosto,
      O dell’iniquo fuoco a Roma posto.
    Nei delitti costui gli antichi ha vinti;
      Ma fur gli strazj suoi veri e non finti.
                  Lib. _De Spectæ. Epig._ 9. Trad. Magenta.

[174] _Storia della Prostituzione_, Vol. I. Cap. XVIII.

[175] Ode, _La Ghigliottina_.

[176] Schroek: Christliche Kirchengeschichte. Vol. VII, p. 254.

[177] _Storia degli Italiani_, vol. I, pag. 277.

[178] _In Ner._, c. XI.

[179] _Diz. delle Antichità._

[180] _Varr._ 8 L. L. 41.

[181] _Delle antiche Terme di Firenze_, pp. 67 e 68.

[182] La camicia di tela che usiamo noi, imitò l’uso ed il nome dal
_camiss_ persiano, e pare introdotta verso la metà del XII secolo.

[183]

    L’ottava ora tien fissa:
      Di Stefano sai quanto ha i bagni accosto.
      Ci laverem tantosto:
                          Tr. Magenta.

[184]

    Il bel verde, sottil marmo caristo,
    L’agata, il tasio e la gentil corniola,
    Non han qui luogo, e di restarne escluso
    Lagnasi ancora il serpentin più raro:
    Sol qui fan pompa e il porporin granito
    Porfido di Numidia e il marmo frigio
    Cui d’Ati il sangue colorì la vena;
    E i più preziosi di Sidonia e Tiro.
    Per ornamento delle porte, appena
    S’ammette il verde di Laconia unito
    Al sinadico marmo in lunghe strisce,
    Onde si forma un color misto e vago.
    De’ chiari vetri al vario raggio opposte
    Splendon le stanze e gli archi d’or fregiati,
    E di chi parte od entra in essi i volti
    Stupido il foco stesso in tante avvolto
    Lucide spoglie men superbo impera;
    Il sole allor che l’ampia casa investe
    Sè stesso adorna e fa più chiaro il giorno,
    E nel passar fra queste fiamme ardenti
    Acquista forza, e ’l proprio foco accresce.
    Nulla v’è di plebeo, nè qui si vide
    Faticar l’arte in liquefar metalli.
    Son d’argento i canali, ove felice
    Ha l’onda il corso e son d’argento i vasi
    Ov’ella cade, e di sè stessa amante
    Si specchia in essi e di partir ricusa.
                    Trad. dell’ab. Fr. Maria Biacca.

[185]

    Chi di Neron peggiore?
      E quale di sue terme opra migliore?
                        Trad. Magenta.

[186]

    Di Tigellin nei bagni, o in quei si pone
      D’Agrippa o Tito?

[187] _Roma._ Amstelodami apud Io. Wolters 1689, p. 491.

[188] _Diz. delle antich. Greche e Rom._ Vol. 2 p. 342.

[189] «Che mai convenga provvedere nelle pubbliche terme e ne’ ninfei
per l’abbondanza de’ cittadini.» — _Impp. Theodos. et Valent._ Cod.
II. 42. 5 e al n. 6: «Amiam meglio che l’acquedotto del nostro palazzo
abbia a servire alle commodità delle pubbliche terme e de’ ninfei.»

[190] «Se diligentemente alcuno avesse a tener conto delle copiose
acque pubbliche nei bagni, nelle piscine, nelle case, negli sbocchi,
nelle ville suburbane, e la grandezza degli archi costruiti per
condurre, i monti scavati, le convalli appianate, confessar dovrebbe
nulla esservi di più maraviglioso nell’universo.»

[191] «Agrippa, nella sua edilità, annessa l’Acqua Vergine, le altre
regolate ed emendate, fece 700 laghi (grandi serbatoj), oltre 105
salti, 130 castelli e molte altre cose magnifiche di manutenzione. Alle
opere impose 300 statue tra di bronzo e di marmo e 400 colonne marmoree
e tutte queste cose nel solo spazio di un anno.»

[192] «E il soprintendente delle acque debbe pertanto essere non solo
diretto dalla scienza del periti, ma eziandio dalla propria esperienza,
e non deve servirsi dei soliti architetti che s’impiegano in quella
tal parte, ma ancora consultare non meno la fedeltà che l’acutezza
dell’ingegno di altri per conoscere quali cose domandino un pronto
riparo, quali ammettano dilazione; quali opere debbansi compire dagli
appaltatori, quali si abbiano a far eseguire dagli artefici delle
famiglie.»

Frontin. _De Aquæduct._ CXIX. Tr. di Baldassare Orsini.

[193] _Pompejanarum Antiquitatem Historia Curante, J. Fiorelli edita.
Neapoli_ 1860. I. 8.

[194] «Nelle Terme di Marco Frugio, da bagni di acqua marina e di acqua
dolce, Gennaro Liberto.»

[195] «Per la dedicazione delle terme, a spesa di Cneo Allejo Nigidio
Majo, vi saranno caccia, atleti, spargimento di profumi e velario. Viva
Majo principe della Colonia!»

[196]

    Per finirla, tu re, mentre ne andrai
    Al bagno d’un quattrin.[197]
                        Trad. Gargallo.

[197] _Quadrante_ più propriamente, ed era una piccola moneta di rame
pari in valore di un asse.

[198]

    Dopo i torridi bagni vi tuffate
    Nell’onda algente, onde così col gelo
    La calda cute più in vigor rendiate
                          _Carm._ IX.

Petronio afferma la stessa cosa.

[199] «Marco Nigidio Vaccula con denaro proprio.»

[200] «Gneo Melisseo Apro; figlio di Gneo, e Marco Stajo Rufo, figlio
di Marco, Duumviri incaricati di nuovo della giustizia, hanno per
decreto de’ decurioni e con pecunia publica fatto fare questo bacino
che costa settecentocinquanta sesterzi.»[201]

[201] Circa 160 lire Italiane.

[202] Era una stanza ove apprendevano i giovani i primi rudimenti degli
esercizi ginnastici.

[203] Forse luogo dove giuocavasi alla palla. Alcuni lo vorrebbero
destinato agli esercizi ginnastici per le fanciulle.

[204] Ho già spiegato altrove il valore di questa parola: indicava
cioè il luogo ove stava la polvere di cui servivansi i lottatori
onde detergere il sudore e involgere l’avversario per poterlo meglio
abbrancare.

[205] Era la stanza delle unzioni. Vi si conservavano a tal uopo olj ed
unguenti, sia per ungersi prima della lotta e rendere così le membra
sfuggevoli; sia dopo la lotta a ristoro delle membra scalfitte, sia
come cura prima di entrare nel bagno. Il P. Ilario Casarotti, dotto e
purgato scrittore e mio maestro nel milanese Collegio Calchi-Taeggi,
solevami dire essere da questa antica consuetudine originata l’unzione
della cresima cristiana, quasi a simbolo della lotta coll’avversario
eterno.

[206] Forse sinonimo di _hypocausis_, più latinamente _præfurnium_,
luogo della fornace per riscaldare le stanze e i bagni.

[207] Ricordo che lo stadio denota una lunghezza di 125 passi; ma vale
altresì come luogo atto agli esercizi atletici e per gli spettatori dei
medesimi.

[208] Non isfuggirà al lettore che Vitruvio usa della parola sisto per
esprimere l’opposto del suo valore primitivo greco. Infatti i latini
chiamarono sisto un luogo scoperto mentre per i greci significava un
luogo coperto.

[209] _De Architect._ L. V. c. XI. Trad. Galiani.

[210] «Cajo Vulio figlio di Cajo, Publio Aninio figlio di Cajo,
duumviri, incaricati della giustizia, han fatto eseguire un laconico e
un districtario e rifare i portici e la palestra col denaro che, per
decreto dei decurioni, dovevano spendere in giuochi od in monumento,
e i decurioni hanno approvato.» _Pompejan. Antiqu. Hist._ V. 648. È
testuale l’error grammaticale nell’iscrizione _pequnia quod_ invece di
_pecunia quam_; ma non è il primo, nè forse sarà l’ultimo che avrò a
notare.

[211] «Mi pare ora, ancorchè non sieno di moda italiana, dovere
spiegare la forma della palestra, e dimostrare come la costruiscano i
Greci.» _De Arch._ c. XI.

[212] «Mario Atinio figlio di Mario, questore, fece fare per decreto
dell’Assemblea col denaro prodotto dalle multe.»

[213] «All’imperatore Cesare Augusto, figlio del divo Cesare,
comandante per la tredicesima, tribuno per la decimaquinta, padre della
patria, console per l’undicesima volta.»[214]

[214] Il XV tribunato e l’XI consolato d’Augusto corrispondono all’anno
di Roma 755 e 2 dell’Era Volgare.

[215]

    . . . : Va recami, garzone,
    Le stregghie al bagno di Crispin.
           _Sat._ V. v. 126. Trad. di Vinc. Monti.

[216]

    Il Sarno ondoso i pingui colti irriga
    E col placido corso al mar sospira.
         _Jacobi Sannazzarii Poemata. Patavii 1751._
         _Trajano Cabanilio Salices._

[217] «Verna co’ suoi discepoli vi prega di eleggere Cajo Capella
duumviro di giustizia.»

[218] _Pompejan. Antiqu. Hist._ Vol. III, 169.

[219] «Valentino e i suoi scolari invocano Sabino e Rufo edili degni
della Republica.»

[220] _Epist._ Lib. II, I. 70.

[221]

    E ancor noi finalmente abbiam sottratto
    La mano alle spalmate.

[222] Lib. VII. c. 3.

[223] _Del Commercio dei Romani_, Cap. III.

[224] _Hist. Nat._ Lib. VI. c. 60.

[225] Vedi _Cicero, De Oratore_, 37.

[226] Cic. _Pro Flacco_. 15. _Dionis. Alicarnas._ VII. 70.

[227] Plin. _Nat. Hist._ XIII. 13. «Abbruciati, perchè fossero scritti
di filosofia.»

[228] _Epist._ II. 1.

[229]

    Questi Greci, ravvolti in lor mantello,
      Colla testa coperta, intorno vanno:
      Son carichi di libri e ne’ panieri
      Hanno i rilievi della mensa: or questi
      Disertor’ ch’hanno l’aria di trattare
      Fra lor di cose gravi, ora s’arrestano,
      Ora vanno, sputando lor sentenze;
      Ma poi li trovi sempre al termopolio[230]
      Che trincan e così, coperto il capo,
      Bevono caldo quel ch’hanno rubato,
      Poi tristi e brilli incedono.
                   _Curculio._ Atto II. Sc. 3. Mia trad.

[230] Venditorio di bevande calde, come vedremo nel capitolo venturo
delle _Tabernæ_.

[231] «Essere i nostri uomini simili agli schiavi siri, che quanto son
più periti del greco, tanto sono più nequitosi.»

[232]

    Chi loda il carme salïar di Numa
    E dotto ei solo in quel, che meco ignora,
    Vuolsi ostentar, non favorisce, e applaude
    Gli estinti ingegni; ma nostr’opre impugna,
    Le cose nostre, e noi livido adonta.
    Che se stata odïosa a’ Greci fosse
    Novità, quanto a noi, che avrian di antico?
    Degli uomini a ciascuno il public’uso
    Or che darebbe a logorar, leggendo?
                         _Epist._ lib. II. Epist. I.

[233] _Divina Comm._ Inf. c. IV.

[234] _In Bruto._

[235]

    Voi su greci esemplar’ la man stancate
    La notte, voi le man stancate il giorno.
              _De Arte Poetica._ Tr. id.

[236] Lib. 11.

[237] _Satira_ I.

[238] _Epigr._ Lib. 2.

[239] Lib. 3, _epist._ 5.

[240] Lib. 1, cap. 9.

[241]

    Medico fosti, gladiator se’ omai;
    E medico facevi
    Appunto quel che gladiatore or fai.
             _ Epigr._ VIII. Lib. 74. — Tr. Magenta.

[242] _Primum e medicis venisse Romam Peloponneso Archagatum Lysaniæ
filium anno urbis DXXXV... Vulnerarium eum fuisse e re dictum, etc._
_Hist. Nat._ lib. XX. c. 6.

_Tum primum artis medicæ nomen auditum Romæ agnitumque est._ Tit. Liv.
Lib. XXV. 2.

[243] «Giurarono fra loro i Barbari (chiamavano i Romani barbari i
forestieri) di uccider tutti colla medicina. E questo fanno, ripetendo
per sopraggiunta la mercede, onde acquistar maggior credenza e
più agevolmente sperdere. Vanno inoltre dicendo noi barbari e più
sporcamente con siffatta appellazione noi insozzano che non gli altri
Opici. In quanto a me, mi sono interdetto i medici.» _Hist. Nat._ XXIX.
1.

[244] I libri superstiti sono dal VI al XIV e sono una compilazione
per via d’estratti, di cui avanza tuttavia una parte sulla medicina
e la chirurgia; abbracciava molte scienze, come la giurisprudenza,
la filosofia, la rettorica, l’economia, l’arte militare. Sono scritti
con purità di stile e sono di gran pregio segnatamente le istruzioni
dietetiche e la parte che ha riferimento alla chirurgia.

[245]

    E ormai da un pezzo
    Tua vota zucca le ventose invoca.
            _Sat._ XIV. v. 58, trad. Gargallo.

[246] _Celsus_, lib. 11.

[247] _Storia degli Italiani_, I. 1, c. XLI.

[248] «Udite per tanto, ma non ascoltate come fareste d’un farmacista.
Imperocchè le parole di costui si odono, ma nessuno che malato sia gli
si commette in cura.» _Gell. Notti Att._ 1. 15.

[249] Vedi tutta l’ultima Ode degli Epodi di Orazio, che è appunto
rivolta a Canidia.

[250] _Pompei_, pag. 350.

[251] «I nostri maggiori così lodavano l’uomo dabbene, chiamandolo buon
agricoltore, buon colono, e stimavasi essere amplissimamente lodato
colui che così chiamavasi.»

[252] Lib. III. 22:

    Terra più ch’alla offesa, all’armi adatta.

[253] «Razza d’uomini agreste, senza legge e comando, libero e
indipendente.»

[254] «Ire incontro ai nemici, e coprire dagli avversi attacchi la
libertà, la patria, ed i parenti.» _Catilin._ 6.

[255] Epoca Prima. Capitolo I.

[256] «Il valor militare va innanzi a tutte l’altre virtù: esso
procacciò eterna gloria al popolo romano ed a codesta città.» _Or. pro
Murena._

[257] «Rimase chiusa in casa e filò la lana.»

[258] Lib. III. c. 22. 23. 24.

[259] Zonara. Lib. VIII. c. 6.

[260] _Or. Pro Lege Manilia._

[261] Freret le assegna 13,549 piedi geometrici di circonferenza,
che sarebbe maggiore di quella dell’odierna Parigi. Jacob vuole che
avesse solo 1,200,000 abitanti; ma altri eruditi pretesero ampiezza e
popolazione maggiori e com’io scrissi.

[262]

    Mandaci o Nil, le messi tue copiose,
      Da noi ricevi le fragranti rose.

[263]

    Degli Etiopi le selve, ove la lana
      Morbida cresce.

[264] «In tutta guisa estorcono denaro e molestano; ma per quanta
libidine spieghino, non giungono ad esaurire mai la ricchezza loro.»
_De Bello Catilin._

[265] «Pessima cosa è il coltivarsi i campi da gente d’ergastolo,
perchè tutto vi si fa da uomini che non hanno speranza alcuna.» _Hist.
Natur._ Ho già altrove detto che gli schiavi assegnati alla coltura
delle terre si tenessero duramente e incatenati negli ergastoli.

[266]

    Gli arditi rivenduglioli
      Avean già tutte le contrade invase,
      E sin gli usci turavano alle case.
    Tu, di sgombrar, Germanico,
      Quegli spazii ordinasti, e in larga via
      Si cangiarono i vicoli di pria.
    Da incatenate bombole
      Or più nessun pilastro interno è stretto;
      Nè più il pretor nel fango è agir costretto.
    Fra densa moltitudine
      Non più il cieco rasojo alzasi, e tutti
      Da bettole non sono i calli ostrutti.
    Ebbe il barbier suoi limiti,
      L’oste, il cuoco, il beccajo: in Roma or stanzi:
      In una gran taverna eri poc’anzi.
                    _Epig._ Lib. VII 61. Trad. Magenta.

[267] _Pœnulus_. 4. 2. 13:

    E si mangia e si bee come in _popina_.

[268]

    Siccome il pan dal panattier cerchiamo,
    Dall’enopolio il vino, e se il denaro
    Loro si dà, cedon la merce.
                        _Act._ 1. x. 3.

[269] «Qui dimora la felicità.»

[270] Paris, Michel Lévy Frères, 1872.

[271] Cic. _Philip._ XII, 9, _De Senectute_ 23. — T. Liv. 28.

[272] Cic. _Philip._ II, 28; Plaut. _Pœnulus_, att. IV, sc. 2.

[273] _Descrizione delle Rovine di Pompei_, dell’arch. Gaspare Vinci.
Terza edizione, Napoli, pag. 68.

[274] «Sittio riparò l’Elefante.» Nell’iscrizione è scorrettamente
ommessa la lettera H in capo alla parola _elephantum_. Qui poi mal si
comprende se Sittio sia stato il proprietario dell’Albergo o il pittore
che ne ristorasse l’insegna. Par più probabile la prima ipotesi.

[275] «Albergo: qui si dà in affitto un triclinio con tre letti e colle
relative commodità.»

[276] «Marco Furio Pila invita Marco Tullio.» Altri legge TVTILLVM.

[277]

            PSEUDOLO

    V’hanno dolci bevande ad abbondanza?

            CARINO

    E tu il domandi? Havvi del vin mirrato,
    Del vin cotto, idromele e d’ogni miele:
    Anzi, già un dì fin nel suo cuore aveva
    Un termopolio aperto.
                    _Pseudolus_ Act. II Sc. IV.

[278] _Pallad._ 1. 42.

[279] «Nè di giorno soltanto, ma quasi tutta l’intera notte con non
interrotto volger di macchine producevano continua farina.» _Apulej.
Metam._ Lib. IX.

[280] Così ce li descrive Apulejo. _Metam._ Lib. I. X.

[281]

            LIBANO

    Forse mi meni là dove una pietra
    Stritola l’altra pietra?

            DEMENETO

                            Or che è codesto?
    Dove è mai questo luogo in su la terra?

            LIBANO

    Dove piangon quegli uomini infelici,
    Che di polenta cibansi.
                  _Asinaria_ At. I. 4. 1. V. 16-18.

[282] «Plauto fu pistore, avendo locato la propria opera a gran mole a
mano. Perocchè codesto pestamento e fatica di stritolar grani fosse la
più grave di tutte, e si dicesse il pistrino un luogo pieno di fatica e
travaglio e che distruggeva le forze.»

[283] Pur ne’ tempi moderni v’ebbero e v’hanno re, che attesero a
mestieri volgari. Si sa di Luigi XVI abilissimo nell’orologeria e
fabbro espertissimo; e il Principe ereditario dell’attuale imperatore
di Germania si perfezionò ne’ rudi lavori fabbrili, e i giornali di
questi giorni recarono che il di lui fratello minore s’applicò all’arte
di legare i libri.

[284] Nuova serie, n. 3 ottobre 1868, colonna 57.

[285] «Talamo cliente invoca P. Paquio Proculo duumviro incaricato
della Giustizia.»

[286] Anche nelle _Metamorfosi_ d’Ovidio, così vien immaginata dal
Poeta la sua Bibli nell’atto che medita la propria lettera a Cauno:

    _Dextra tenet ferrum, vacuam tenet altera ceram._
                                     Lib. IX v. 520.

[287] _Metam._ Lib. X.

[288] _Giornale degli Scavi_, 1861, p. 106.

[289] «Tutti i fruttivendoli con Elvio Vestale supplicano Marco Olconio
Prisco duumviro di Giustizia.»

[290] Lib. XIII. 55, Svet. _in Augustum_, 4.

[291] _Storia della Prostituzione_, Cap. XXI.

[292]

    Perchè, per fede mia, olezza bene
    La donna allor che di niente olezza.
    Però che quelle vecchie che sè stesse
    Vanno d’unguenti ognor impiastricciando,
    Decrepite, sdentate e di lor corpo,
    Col belletto occultando i rei difetti,
    Quando il sudor sen mischia, incontanente
    Putono al par d’intingolo malvagio
    In cui confuse molte salse il cuoco.
    Di che odoran non sai, se non di questo
    Che di pessimo odor puton, comprendi.
                      _Atto I, Sc. 3_, v. 116 e segg.

[293]

      Numi immortali, almen trovassi in casa
    Perifane, mi son quasi disfatto
    A cercarlo per tutta la città:
    Nelle botteghe mediche ed in quelle
    Del barbier, nel ginnasio, in tutto il foro,
    Da’ profumieri, da beccai, dappresso
    I banchieri e, col chiederne, la voce
    Ho fatta rauca.
                 _Atto_ II. _Sc._ 2, 12 e segg.

[294]

    Tu conoscesti la barbiera nostra,
    Sura, ch’ora soggiorna appresso a quelle
    Case.
                 _Atto_ II, _Sc._ 4, v. 51.

[295]

             . . . . ma non mai
    Tal barbiera, Ammian, rade. — Mi svela
    Che fa ella dunque se non rade? — Pela.
             Mart. _Epigr._ lib. II, ep. 17. Tr. Magenta.

[296]

    Pria che la man d’Eutrapelo sia giunta
    Le guance e il mento di Luperco a radere,
    In volto a questo un’altra barba spunta.
                              _Id., ibid._

[297] _Pompei, étude sur l’art antique._

[298] _Bucolica_ VII, 32.

[299] _Vellej. Paterc._ II, 82.

[300] _Philip._ III, 6.

[301] _Philip._ XIII, 13.

[302] _Nat. Hist._ IX, 56.

[303] Sen. _Fra._ III, 18. Cic. _Decr._ II, 5, 33.

[304] «Quelli che tingono la lana d’altro colore: gli _offectores_
quelli che la ritingono dello stesso colore.» — Insomma i primi lo
mutano, i secondi lo conservano.

[305] P. 278, n. 170 e 171.

[306]

    Sì puzzolente è Taide,
      Che putir non suol tanto
      Di tintor gretto un vecchio
      vaso dïanzi infranto.
                      Trad. di Magenta.

Ora, in talun luogo si usufrutta delle orine per ragione di ingrasso.
Già Vittor Hugo nei _Miserabili_ mostrò di quanta utilità sarebbe
il trar profitto in Parigi degli _égouts_: in Milano si è stabilita
una società con tale intento sotto la denominazione di Vespasiano,
dall’Imperatore di tal nome, che primo impose la tassa sugli orinatoi.
Vedi Svetonio nella vita di questo Cesare.

[307] _Metam._ L. IX, _Plin._ XXXV, 57.

[308] _Pompeja_, Pag. 279.

[309] Magenta tradusse:

    Il nostral rosso ti versar le botti.

Ma come facilmente vedrà il lettore, il traduttore assegnò al vino il
colore che il Poeta assegna al _cadus_; onde più fedelmente sarebbesi
detto:

               non peregrini
    Il rosso caratel diffonde i vini.
                          _Epig._ Lib. IV, 66.

[310]

    E il flavo mele da rubiconda
      Fiala versare.
                       _Epig._ Lib. I, 56, trad. Magenta.

[311] Petron. _Satyricon_, 34.

[312] V. 31.

    Anfora a far s’imprende; ond’è che poi
    Gira la ruota, e n’esce orciuol?
                            Trad. Gargallo.

[313] _Ruines de Pompei_, 4 vol. in folio. Parigi presso Firmin Didot.
Il 4 volume fu compilato da L. Barré.

[314] _Museo Borbonico_, 1 vol. in 4 ogni anno con tavole a bulino.

[315] _Ercolano e Pompei_, Venezia 1841, Tip. Antonelli.

[316] Vi furono dotti che congetturarono che le vôlte della Cloaca
Massima facessero parte di canali coperti di un’antica città, forse
Pallantea, sulle cui ruine si pretese fabbricata Roma; ma se così
fosse Tarquinio non avrebbe fatto altro che restaurare quanto rimaneva
dei vecchi acquedotti. Infatti le rendite del suo piccolo regno
non avrebbero per avventura bastato a tanta opera. I lavori di essa
ingranditi successivamente in diverse epoche, furono poi così spinti
da Agricola, genero di Augusto, che, al dir di Plinio, formò, per così
esprimersi, sotto il recinto di Roma una città navigabile.

[317] _Storia dell’Architettura_ di Tommaso Hope, pag. 25. Milano,
1840. Tip. Lampato.

[318] _Le Drame de Vésuve, chap. Herculanum._

[319] Non voglio defraudare i lettori de’ venturi anni di conoscere
l’autore di questa teorica, che lascia addietro ed eclissa ogni
economista: essa appartiene al piemontese Quintino Sella, ministro più
volte del Regno Subalpino e d’Italia.

[320] _Pompei qual era e qual è._ Per Gustavo Luzzati. — Napoli, 1872.

[321] _Æneid._, Lib. VI, v. 847 — 853.

    Abbinsi gli altri de l’altre arti il vanto;
      Avvivino i colori e i bronzi e i marmi;
      Muovano con la lingua i tribunali;
      Mostrin con l’astrolabio e col quadrante
      Meglio del ciel le stelle e i moti loro;
      Chè ciò meglio saprem forse di voi.
      Ma voi, Romani miei, reggete il mondo
      Con l’imperio e con l’armi, e l’arti vostre
      Sien l’esser giusti in pace, invitti in guerra;
      Perdonare a’ soggetti, accor gli umili,
      Debellare i superbi.
                                Trad. di Annibal Caro.

[322] _Epist._ Lib. II, ep. 1, 32.

    Tutto sorte ci diè; pittor, cantori,
    Lottator siam degli unti Achei più dotti.
                               Trad. Gargallo.

[323] Id. Ibid. 94-98:

    Grecia, scinta dall’arme, ove agli ameni
      Studj si volse, e l’aura di fortuna
      Nel vizio a dar la spinse; or di corsieri
      Infiammossi, or di atleti, i marmi, i bronzi,
      Gli sculti avori amò; talor dipinta
      Tavola gli occhi le rapiva e il core.
                                Trad. Gargallo.

[324] «Era presso di Ejo un larario antichissimo, lasciato dai maggiori
e guardato nella casa con assai dignità, nel quale si trovavano quattro
splendidissime statue, condotte con mirabile artificio e con somma
nobiltà; le quali non solo costui (Verre) ingegnoso e intelligente, ma
anche chiunque di noi ch’egli chiama idioti, vi si potesse deliziare:
una di marmo raffigurante Cupido di Prassitele, perocchè molti nomi di
artefici, appresi in codesta mia investigazione... Eranvi due statue di
bronzo non grandissime, ma in ricambio di una esimia venustà, in abito
e veste verginali, che sostenevano colle mani in aria levate sovra il
capo certi sacri arredi, secondo il costume delle fanciulle ateniesi.
Canefore queste si chiamavano: ma chi era l’artefice di essi? chi
mai? si domanderà giustamente. Dicevano che fossero di Policleto.» _In
Verrem_, Lib. IV, _De Signis_.

[325] Vedi Plin. _Nat. Hist._ XXXV, 7, che enumera questi colori e
li dice _alieno parietibus genere_, cioè stranieri alle muraglie...
_udoque illini recusant_, e rifiutano di appigliarsi agli intonachi
umidi.

[326] _Dizion. delle Antichità._

[327] _Pompeja_, Pag. 425, nota 2.

[328] _Opere_, Ediz. Silvestri di Milano vol. secondo, p. 305.

[329] «Aver l’effigie di Epicuro non nelle tavole (quadri) soltanto, ma
ne’ bicchieri eziandio e negli anelli.» _Fin._ 5. 1. extr.

[330] «Le tavole ben dipinte collocare in buona luce.» _In. Brut._ 75.

[331] _Natur. Hist._ XXXV, 2.

[332] «Nerone principe aveva ordinato lo si pingesse colossalmente
della grandezza di 120 piedi sopra tela, genere fin allora sconosciuto;
ma appena ultimata, una folgore piombata negli orti di Maja, la
incendiò in un colla parte migliore degli orti.» _Id. Ibid._ 7.

[333] _Nat. Hist._ XXXV, 135.

[334] _Pompéi et les Pompéiens._ Paris 1867, p. 207.

[335] Vedi _Beulé_, pag. 301, e _La Peinture de genre_, di M. Gebhart.

[336] «Io in questo sol uomo trovo accogliersi qualunque vizio che
immaginar si possa in uom perduto e scellerato: non v’è alcun tratto,
io ritengo, di libidine, di scelleratezza e di audacia che voi non
possiate vedere nella vita di questo solo.»

[337] Sen. _In Suasoriis_. Lib. 1; in _Lactan._ Lib. 2, c. 4.

[338] «Nerone ebbe non mediocre abilità tanto nel pingere che nello
scolpire.»

[339] «Opere da anteporsi a tutte l’altre sì di pittura che di
scultura.»

[340] Così chiamata perchè il 3 novembre 1753 vi si scoprirono 1756
volumi, o papiri, che, comunque in apparenza ridotti allo stato di
carbone, poterono tuttavia essere svolti e letti, come già dissi a suo
luogo.

[341] Vol. I, pag. 267.

[342] «I pavimenti di pietruzze passarono dal suolo alle camere e
si fecero di vetro: è questa nuova invenzione. Agrippa (del tempo
d’Augusto), certamente nelle Terme da lui fabbricate in Roma, dipinse
all’encausto quant’era di terra cotta, nelle altre opere si valse degli
stucchi: ma egli indubbiamente avrebbe fatto le camere co’ musaici
di vetro, se il musaico allora fosse stato conosciuto, od anche dalle
pareti della scena del teatro di Scauro sarebbero passati alle camere.»
_Histor. Natur._ Lib. XXXVI, 25.

[343] Senofonte, _Ciropedia_ IV, 7.

[344] _Idem_, VII, 3, 7.

[345] Napoli, novembre 1831.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.




        
            *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK POMPEI E LE SUE ROVINE, VOL. 2 (OF 3) ***
        

    

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