The Project Gutenberg eBook of S. M. la Regina This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: S. M. la Regina Author: Nicola Misasi Release date: March 6, 2024 [eBook #73114] Language: Italian Original publication: Milano: Quintieri, 1911 Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK S. M. LA REGINA *** [Illustrazione: CAROLINA D’AUSTRIA (Da un quadro della Pinacoteca di Capodimonte a Napoli).] NICOLA MISASI S. M. La Regina ROMANZO 1911 DOTT. RICCARDO QUINTIERI — EDITORE MILANO — Corso Vittorio Emanuele, 26 PROPRIETÀ LETTERARIA A garanzia dell’Autore e dell’Editore ogni copia deve qui portare la numerazione progressiva e il «timbro a secco» della _Società degli Autori_ di Milano. SOC. AN. PER LE ARTI GRAFICHE «LA GUTENBERG» — MILANO, Corso Romana, 113 STAB. «LA COMPOSITRICE» — MILANO, Via Carlo Maria Maggi, 6. _L’editore ai lettori_, _Inizio questa serie di romanzi, dal titolo un po’ strano, ma che esprime bene il mio desiderio di dare alla generalità dei lettori affidamento di ore deliziose, con le ultime opere di Nicola Misasi; uno scrittore che non avendo bisogno di presentazione, coprirà in gran parte la responsabilità della mia audace iniziativa._ _Audace per questo: perchè io voglio tentare di diffondere in Italia a migliaia di copie, in bella veste ed a buon mercato, quei romanzi d’ignoti o d’illustri, che pur avendo la qualità precipua di tal genere di composizione, il continuato interessamento per chi legge, non trovano che un pubblico esiguo: esiguo, per i prezzi elevati che gli editori sono costretti a mettere data la tiratura limitata delle copie; esiguo per la diffidenza, in gran parte giustificata, verso i nuovi romanzi che non sempre sono di piacevole lettura; esiguo per la poca pubblicità che si deve fare ad un libro, di cui si siano stampate mille o duemila copie._ _Pubblicando romanzi del Misasi, che ha un gran pubblico di lettori, potrò più facilmente giustificare e far conoscere questa mia iniziativa: non vorrei però che si credesse la mia scelta limitarsi a simil genere narrativo. — Qualunque romanzo che alla buona lingua unisca il diletto continuato, sia sul tipo dei_ Tre Moschettieri _del Dumas o su quello di_ Delitto e Castigo _del Dostojewskj, per citare due capolavori diametralmente opposti, io potrò sceglierlo per la mia collezione dei «Romanzi che si leggono d’un fiato» o più brevemente dei_ =Romanzi d’un fiato=. _Milano, Febbraio 1911._ RICCARDO QUINTIERI. I. Ecco quanto era accaduto. Condotto a termine il trattato di Presburgo, Napoleone aveva fatto radunare un esercito a Bologna per scacciare i Borboni dal Reame di Napoli, e aveva lanciato un proclama ai Napoletani firmato dal generale Saint-Cyr, nel quale diceva: «La vostra Corte dopo aver conchiuso un trattato di neutralità ha aperti i suoi Stati ai Russi ed agli Inglesi: l’Imperatore Napoleone, la giustizia del quale è pari alla possanza, vuol dare un grande esempio, voluto dall’onore della Corona, dall’interesse dei suoi popoli dalla necessità di ristabilire in Europa il rispetto che si deve alla fede pubblica. L’esercito che io comando viene per punire questa perfidia, ma voi non avete di che temere: i soldati francesi saranno vostri fratelli». Il proclama portava la data del 25 di ottobre 1806 ed era giunto a Napoli il 2 gennaio 1806 insieme colla notizia che l’esercito invasore comandato dal Saint-Cyr e diviso in cinque corpi, cui si era aggiunto quello di Massena, in tutto quarantacinquemila uomini, si era mosso da Bologna, e che con lui veniva il fratello dell’Imperatore Giuseppe Buonaparte, principe dell’impero e luogotenente generale. Era stato un colpo di fulmine per la Corte di Napoli, un fulmine di quella tempesta scoppiata addosso ai Russi ed agli Austriaci, che aveva avuto per epici episodi la battaglia di Austerliz e la presa di Vienna e che si era in parte sedata colla pace di Presburgo. Napoli ne rimase atterrita: troppo recenti e sanguinanti ancora erano le piaghe della lunga guerra civile degli ultimi anni del trascorso secolo cui avean tenuto dietro le ferocie delle rappresaglie borboniche: non bene ristabilita, specialmente nelle più lontane provincie, l’autorità regia: le campagne corse dagli avanzi di quelle bande sanfediste che se avevano riconquistato il trono al re legittimo, avevano anche apportato rovina ovunque eran passate come lave devastatrici: le città divise in fazioni l’una trionfante e prepotente, quella dei legittimisti, l’altra dei repubblicani costretta a rodere il freno, ma anelante alla vendetta e in trepida attesa di nuovi rivolgimenti. Ed ecco che una nuova tempesta minacciava di scoppiare quando ancora sordamente rumoreggiava l’altra non del tutto sedata! Al primo annunzio di quella marcia, Inglesi, Russi ed Austriaci, per favorire i quali i Borboni avevano rotto la neutralità promessa all’imperatore Napoleone e che avevano occupato Teano, Venafro, Mignano, ebbero ordine dai loro governi di ritirarsi! Il Lascy, generale russo, fece sapere al generale napoletano che era impossibile di difendere tutta la frontiera del Reame; e poichè gli eserciti del suo Signore erano sbarcati nelle Due Sicilie come ausiliarî dell’Austria, or che questa aveva cessato dalle ostilità, dovevano rimbarcarsi, perciò la Russia tornava ad essere neutrale! Tale era la ricompensa della mala fede, lo scherno aggiunto alla ruina! Re Ferdinando si vide perduto: spedì non pertanto il cardinale Ruffo al Massena per tentare un armistizio ed aver tempo d’indurre a più miti consigli lo Imperatore, ma quando seppe che il Ruffo era stato imprigionato a Ginevra, quando vide incerti i ministri convocati a consiglio, concordi i generali nel ritenere inutile ogni difesa contro l’invasore, elesse a Vicario generale il figlio Francesco e fuggì in Sicilia. Ma il Vicario non potè o non seppe fare altro che ripetere i tentativi già falliti, onde disperò anche lui, e col fratello Leopoldo prese la via delle Calabrie per poi ricoverarsi in Sicilia. Così il nembo che si appressava, rumoreggiante ancor lontano, cacciava innanzi a sè coloro cui incombeva di opporglisi: il Reame che a gran pena si era ricomposto pochi anni innanzi, si sfasciava di nuovo per inettitudine dei suoi reggitori. Pure, mentre gli uomini disperavano, mentre il re fuggiva, mentre i generali spezzavano la loro spada, una donna restava fiera, tenace, impavida, deliberata ad inabissarsi col regno se tale era il decreto dal fato... S. M. la Regina. Era rimasta sola nella Reggia, ma bastava il saperla là vigile, istancabile, risoluta a lottare, bastava perchè il popolo s’illudesse che il pericolo potesse ancora scongiurarsi. Anche i più timidi, che poco innanzi avevano consigliato il Re a fuggire, incominciavano quasi a rincorarsi, a propendere per le risoluzioni ardite, a credere che si potesse resistere, sia pure per salvar l’onore, ai Francesi che sempre più si avanzavano. Per le scale della Reggia era un salire, un discendere di gentiluomini e di popolani, tra i quali alcuni ceffi che pochi anni innanzi si erano segnalati a capo dei lazzaroni; era uno scalpitar di cavalli nell’ampia corte, montati da corrieri che partivano curvi sugli arcioni o ne scendevano gettando le redini agli accorsi palafrenieri. Il popolo commentava la notizia per le vie formando dei capannelli che presto si scioglievano, essendo pur sempre un pericolo l’occuparsi degli affari dello Stato, e ben si ricordavano i giorni di terrore che eran seguiti al ritorno della Corte e gli altri nei quali la città era rimasta in balia delle orde capitanate dal Cardinale. Però se coloro che aspettavano con impazienza l’esercito straniero per poter insorgere, pur non osando far voti palesi, eran tenuti incerti dal saper la Regina tuttora nella reggia; i più timidi, quelli che nei trascorsi rivolgimenti non avevano parteggiato nè per la repubblica nè per la monarchia, ma che avevano subito i danni della sanguinosa lotta tra le due nazioni, eran disposti a credere esagerate le notizie che correvano, e fidavano nella indomita energia dell’Austriaca che era rimasta per tener fronte all’uragano. Essa l’unica forza, essa l’unica volontà, essa infine l’unico uomo, come ebbe a dire Napoleone che col suo esempio rendeva arditi i più timidi e con le parole sue e col lenocinio della bellezza sapeva infondere fede nel trionfo anche ai più esitanti. E l’effetto era questo, che la città si serbava tranquilla in apparenza; e poichè già si era in Carnevale, gli spettacoli non erano stati sospesi, anzi correva voce che la Regina sarebbe intervenuta al veglione del S. Carlo e con essa sarebbero intervenute tutte le più belle dame della Corte, quelle che eran famose non solo per la bellezza, ma anche per gli amori e le avventure che loro si attribuivano. Coloro però che temevano per sè i danni di una invasione avevano ben altro pel capo che di divertirsi; ma le famiglie della grassa borghesia si sarebbero guardate bene dal mancare quella sera per non far credere che fossero ostili o avesser paura. Quarantacinque mila francesi già quasi ai confini del regno non le rassicuravano, tanto era il terrore che incuteva quella donna, l’unica che avesse accettato con saldo animo la sfida dell’onnipotente Napoleone. Chi dunque verso le prime ore della notte di quel giorno di gennaio avesse visto la folla gaia e spensierata in apparenza che faceva ressa innanzi alla porta del S. Carlo; chi alla luce delle torce che i valletti sorreggevano mentre dai cocchi scendevano le dame avvolte negli scialli fra le cui pieghe scintillavano le gemme che ne ornavano il seno, i capelli, avesse visto le brigatelle di maschere rumoreggianti su per le scale, e la folla variopinta salire interminabilmente come se tutta la città fosse accorsa anelante, non avrebbe punto creduto che il nemico si avanzasse apportatore di rovina. Si sapeva che l’Austria aveva quasi imposto che quella sera la città si divertisse, e la città pareva ben lieta di ubbidire, a giudicare dal brio e dalla folla. La vasta sala che non aveva ancora in Europa altra a sè simile, fiammeggiava rumoreggiante di una folla di maschere che però ancora si contenevano compostamente. I palchetti eran tutti gremiti: nella luce degli specchi si centuplicavano gli smaglianti colori delle vesti, e nello scintillìo delle gemme si delineavano le leggiadre figure delle dame, alcune delle quali, anche esse in maschera di seta o di velluto. Solo il palchetto reale era ancora vuoto, e tutti gli occhi vi si fissavano impazienti, mentre l’ampia sala continuava a riempirsi di maschere dai costumi bizzarri, taluni grotteschi, altri di una ricchezza che faceva correre un mormorio di meraviglia. Nel rumore confuso delle porte che sbatacchiavano, del fruscìo delle sete o del velluto, del vocìo di quella gente quasi tutta mascherata sentivansi gli accordi dei violini dell’orchestra in fondo al palcoscenico. All’aprirsi di ogni palchetto, e al comparire in essi delle signore col seno e con le spalle denudate, e delle maschere elegantissime che si sporgevano per guardar nella sala, si mormoravano i nomi più cospicui dell’Olimpo napolitano e della colonia forastiera. Ma il vocio tacque quando si videro due valletti della Corte avanzarsi nel palco reale e sciorinare un tappeto di broccato sul davanzale. Ciò voleva dire che Sua Maestà la Regina si sarebbe degnata di intervenire al veglione in segno di benevolenza pei suoi fedelissimi sudditi: ciò voleva dire anche che il pericolo era ancora lontano se non del tutto scongiurato, e che S. M. dava per la prima l’esempio d’animo sereno e fidente. Ci era dunque dell’esagerazione in quel che si diceva? Del resto poichè la Regina mostrava di non essere punto preoccupata, non sarebbe stato meglio godersela quella notte di piacere? Parve che di questo avviso fosse tutta quella folla rincorata dall’apparizione dei due valletti che si ritrassero dopo aver spiegato il gran tappeto di broccato che portava nel mezzo trapunto in oro lo stemma dei Borboni. In fondo alla sala col gomito appoggiato alle pareti, la testa in alto si teneva immobile un brigante calabrese che aveva di una maschera nera coperto il viso, ma i cui occhi scintillavano attraverso i fori. Il costume di velluto nero coi bottoni di argento giustificava il lungo pugnale la cui elsa arabescata scintillava anche essa sopra la larga fascia rossa che cingeva i fianchi dell’uomo mascherato, il cui cappello a cono infettucciato posava un po’ a sghembo sulla lunga nera capellatura, che, come era nell’uso del tempo, cadeva a riccioli sul largo collare della bianca camicia ripiegata sulle spalle. Molte maschere, la cui muliebre leggiadria era tradita dalle linee del corpo nelle vesti bizzarre, e lo spirito ardente dal lampo dello sguardo attraverso le mascherine, gli si erano fatte intorno guardandolo con ammirativa curiosità che sarebbe stata più indiscreta e più rumorosa se l’attesa dalla Regina non l’avesse tenuta a freno. Ma il giovane, che tale era di sicuro a giudicare dalla gagliardia delle membra e dalla sveltezza della figura, non pareva accorgersi della ammirazione che destava, pur non potendo suporre che si parlasse d’altri che di lui. — Un capobanda del cardinale Ruffo — disse una delle maschere che si era fermata a contemplarlo. — Il povero Ruffo è prigioniero a Ginevra — rispose una voce — almeno così si dice. — Non si parli di politica: l’ordine è di divertirsi. Abbiamo avuto le forche, chi sa se avremo la farina, è certo che stasera abbiamo una festa... — Ma è proprio in maschera cotesto brigante? O che non abbia della maschera solo quella del viso? Ma colui del quale si parlava non prestava ascolto a tali voci: si teneva tuttora immobile non distogliendo gli occhi dal palco reale. Sol quando alcune mascherine a braccetto fingendo non vederlo l’investirono così da farlo rimuover da quello atteggiamento, ebbe come un lampo nello sguardo. — Donnette mie, non è ancor l’ora. Venite più tardi a gittarvi fra le mie braccia che sono abbastanza robuste per portarvi via tutte e quattro. Non aveva punto mutato tono di voce: le mascherine a quelle brutali parole rimasero perplesse, poi soffocando uno scoppio di riso passarono oltre. — Capperi, è un brigante sul serio! — disse una di esse. — Portarci via tutte e quattro? Sì, e poi? — Oh, eccone un altro — esclamò una delle maschere. In fatto avevan dato di petto in un altro brigante calabrese mascherato anche esso, ma nella persona differiva dall’altro. Era tozzo, massiccio, assai negletto nelle vesti che potevano dirsi povere. Alcune ciocche grige gli cadevano sulle guance coperte dalla maschera, e l’incedere un po’ incerto, l’evidente imbarazzo dei suoi atti facevano supporre che ei fosse affatto nuovo a quel bailamme. Invero, urtato dalle quattro mascherine non si fece da parte, ma alla sua volta diede una spinta e con una spallata fece cader due del gruppo che si diedero a gridare come gazze ferite. — Mascalzone, villanaccio! — urlavano non più con le vocine in falsetto le due mascherine che erano andate giù a gambe in aria. Ad una di esse si era sciolta la maschera e coloro che le avevan fatto cerchio intorno riconobbero nella caduta la più vezzosa delle ballerine che aveva un nome molto noto fra i gaudenti, onde molti si affrettarono a porgerle la mano per aiutarla a rimettersi in piedi. — Che è accaduto, che è accaduto? — le si chiedeva premurosamente. — Vi siete fatta male? — No, no, nulla — rispose la ballerina accesa in volto per lo scorno e cercando di ricomporre le vesti del suo costume di fioraia. — Gli è che a certi facchinacci non si dovrebbe dar l’accesso ai luoghi in cui va la gente come noi. — Ha ragione, ha ragione — urlarono alcune voci. — Tutta una invasione di sanfedisti stasera al S. Carlo! Ne ho contato almeno una dozzina. — È una indecenza. — Uno scandalo. — Zitto — disse una voce — son gli amici della Regina. — Son dunque briganti sul serio? — Ma no, ma no, saran magari dei gentiluomini che per far la corte a Sua Maestà... — Quel villanaccio non è certo un gentiluomo! — disse uno dei più ardenti corteggiatori della bella Coralia la ballerina. E si diede a gridare: — Alla porta il brigante, alla porta. — Alla porta — gridarono alcuni altri che si erano fatti intorno alla bella fioraia e col pretesto di ricomporle le vesti ne carezzavano le spalle bianche e grassocce — alla porta. A quelle grida la folla non sapendo l’accaduto si era riversata tutta intorno al gruppo delle quattro mascherine, impedendo così a colui che era stato causa del fermento di rompere il cerchio che si era fatto intorno a lui. Se ne stava immobile sotto la maschera, volgendo qua e là due occhietti grigi quasi incerto se proprio a lui si rivolgessero quelle voci, ma non potè dubitarne quando un pulcinella alto e robusto con un gran naso di cartapesta, con voce chiocciante gli gridò all’orecchio: — Hai inteso, hai inteso? Alla porta, facchinaccio. — Ah, santo diavolo! — urlò l’ometto — dite proprio a me? — A te, sì — risposero alcuni mostrando le pugna. — A me per aver risposto all’urto di quella sguaiatella infarinata come un pesce da friggere? — Te lo do io in faccia il pesce da friggere — urlò il pulcinella che fidava forse un po’ troppo sulla sua forza muscolare. Ed alzò il braccio, ma di un tratto si intese sollevato di peso: l’omiciattolo lo aveva abbrancato per le gambe e incurante dei pugni, che l’altro gli faceva piovere sulla testa, lo sollevò sulle braccia gridando alle maschere: — Largo, largo, altrimenti ve lo scaravento addosso! E senza visibile sforzo si aprì il passo tra la folla, che mutabile come è sempre d’impressione, si diede a ridere e ad urlare dietro al nano, che imperturbato portava sulle braccia quel gigante cui accrescevano comicità le vesti di pulcinella. La musoneria per l’attesa della Regina si era rotta di un tratto. La folla dei palchetti si sporgeva per veder meglio, e le risate, le voci, i battimani si confondevamo in un rumore assordante. Ma la marcia trionfale dell’ometto fu arrestata di botto. Fendendo la folla l’altro mascherato da sanfedista, che fin allora, forse perchè assorto nell’attesa della Regina, non si era accorto di quel che era avvenuto, giunto innanzi all’ometto gli mise una mano sulla spalla dicendogli: — Non fare il fanciullo, via, lascia andare cotesto pulcinella. — Lo voglio mettere alla porta come voleva far di me lui. — Lascialo andare, te lo impongo. L’ometto rispose con una scrollata di spalle, esitò un istante, poi aprì le braccia e il pulcinella cadde tra la folla che si diede di nuovo a ridere e ad urlare. — Ho fatto il piacer tuo — disse l’ometto al nuovo sopraggiunto — ora andiamo via, andiamo via, perchè... tu mi conosci, se mi sale il sangue agli occhi te ne scanno una dozzina. Io non son fatto per... — Va ad aspettarmi fuori, dove sai — rispose l’altro sottovoce. — Verrò presto a raggiungerti. Resti soltanto qui il Ghiro ed il Magaro che san più contenersi... — Contenersi, contenersi! — borbottò l’ometto seguendo l’altro che si era diretto verso la porta sottostante al palco reale. Ivi giunto sostò: volse lo sguardo per la folla e vide qua e là alcuni mascherati nella sua foggia istessa i quali parevano guardassero verso di lui. Egli fece un segno, e poco dopo li vide ad uno ad uno venire alla sua volta. Nel passar loro d’accanto mormorò pur facendo sembiante di non badare ad essi: — Seguite Pietro il Toro... qui siamo in troppi. Fece un segno ai due ultimi che si arrestarono. — Voi restate, ma non mi perdete di vista. Intanto per l’ampia sala era corso un mormorio che si era propagato pei palchi: le teste si levavano in alto, e tutti gli sguardi convergevano nel palco reale la cui porta in fondo si era aperta e lasciava vedere una doppia fila di valletti che sostenevano dei candelabri d’argento i: cui ceri accesi mandavano una vivissima luce. Di un tratto in quella luce apparve la Regina. Quantunque nell’età in cui ogni altra donna mostra in volto l’ingiuria del tempo, Carolina d’Austria era ancor fiorente di bellezza alla quale cresceva fascino la naturale maestà della persona. Si avanzò lasciando cadere il ricco mantello di bianca pelliccia e agli sguardi ammirati tutta si offerse la stupenda persona vestita di broccato trapunto d’oro che lasciava scoperto parte del seno e delle spalle sulla cui lattea bianchezza spandevan vivide scintille le gemme di una collana. Su la folta massa dei capelli incipriati leggermente, sicchè ne traspariva l’aureo colore, fiammeggiava al lume dei ceri la reale corona, ma vieppiù fiammeggiavano gli occhi grandi e azzurri il cui sguardo superbamente sorridente scorreva per la folla. Le labbra umide e accese mettevano come una macchia di sangue nel viso di un ovale perfetto, il cui naso profilato e dritto, il mento accentuato eran segno di volontà e di tenacità inflessibile. La folla rimase per un istante in silenzio, come sopraffatta dal fascino di quella regale bellezza che il tempo non aveva punto alterato. Nè le tante sconcie dicerie che correvano intorno alle sregolatezze di quella figlia di una imperatrice, nè il suo sanguinoso passato, nè i lamenti delle tante vittime che per odio di lei avevano asceso il patibolo, nè le crudeltà, nè i tradimenti che le si attribuivano valevano ad attenuare l’ammirazione che ella destava con la sua prepotente bellezza. Si sapeva che ella era fra le più colte, se non la più colta donna d’Europa: che parlava e scriveva ben quattro lingue; che era raffinata nello spirito cui non era estranea nessuna delle più astruse discipline; che nei consigli della Corona aveva portata la sua volontà adamantina la quale era stata costretta a piegare innanzi alla molle inettitudine dei ministri e del Re; che era stata lei, col suo fascino a decidere e coi suoi consigli a sorreggere il cardinale Ruffo nella conquista del Regno; lei a tener schiavo lord Nelson; lei a depurare della setta liberalesca le provincie; lei a voler soffocata nel sangue la Repubblica Partenopea. E a tante immagini di morte, di eccidii, di rovine fumanti su cui si ergeva tragicamente superba quella donna, degna di lottar coi giganti, ma costretta a vivere fra i pigmei, si univano, si confondevano con uno strano contrasto, con una ben cruda antitesi, i suoi amanti più noti. Gualengo, il duca di Regina, Caramanico, Rameski, Acton, Saint Cler; le sue amiche, fra le quali quella Lady Hamilton, il cui nome era tutto un miraggio di lascivie; e le debolezze, i capricci, le avventure vere o false, le orge di una notte, gli amori di un istante. Di un tal complesso di ombra e di luce, di oro e di fango, di maestà e di abbiettezza, di capriccio e di volontà ferrea, di epiche imprese e di intrighi volgari, di arditi progetti a cui poco mancò non assentisse Napoleone e di dimestichezza, come attestano le sue lettere, coi più feroci capibanda, era fatta quella donna, quella Regina, che al par di sua madre che disse: Io sono il re Maria Teresa, avrebbe potuto dire: Io sono il re Maria Carolina. E tutto un tal complesso soggiogava la folla, stupita altresì di quella bellezza giovanile e sfolgorante in una donna già sul declivio, che quasi a sfida del destino, mentre un esercito marciava per scacciarla dal trono, mentre il marito, i figli, i ministri, i grandi dignitari del regno vinti dal terrore, eran fuggiti in Sicilia, sola, imperturbabile si presentava in una notte di piacere alla folla, nelle vesti regali, con la corona regale, fiera, imperiosa e pur sorridente come assoluta signora e sovrana al cui cenno eran cadute tante teste, al cui corrugar del ciglio aveva tenuta dietro tanta rovina. E come vinta da tanta audacia, come vinta da tanto sfolgorar di bellezza, un grido formidabile si elevò dalla folla che gremiva la sala e i palchetti: — Viva Sua Maestà la Regina! Ella rimase dritta, immobile, senza che una piega del labbro o un lampo dei grandi occhi cerulei tradisse gli interni moti dell’animo. Era la sovrana che accoglie l’omaggio dovutole; era l’arbitra della vita e della morte di tutti quei suoi sudditi che non doveva ad essi neanche un segno di aggradimento. Solo allorchè gli evviva divennero vieppiù insistenti, piegò il capo come infastidita, e sedette, volgendosi a mezzo verso l’interno del palco a discorrere con un personaggio dalla sfarzosa divisa di generale, col petto costellato di decorazioni che si teneva in piedi, mentre alcuni ufficiali del seguito si eran ritratti in fondo al palchetto. La folla a poco a poco cessò dagli evviva, pure si conteneva tenuta in soggezione dalla presenza della Regina quantunque non ne vedesse che le spalle e il profilo della testa. Ma un’altra figura attrasse l’attenzione di coloro che avevan fissi gli occhi nel reale palchetto: era la stella presso al sole, la stella di una luce più mite, più soave, più evanescente, che si affisa non tanto con meraviglia, quanto con affettuosa, rapida compiacenza: un profilo di giovinetta, bionda anche essa e bianca, che nella luce dei ceri onde sfolgorava il palco reale delineavasi come una immagine radiosa. Nessuno sapeva chi fosse: era la prima volta che anche i più assidui ai balli ed ai ricevimenti della Corte vedevano quella gentile creatura che pareva una santa discesa dall’altare. Dal modo come la Regina le rivolgeva la parola chiaro appariva che molto l’amasse: ora Carolina d’Austria non aveva fatto mai un mistero delle sue predilezioni, anche di quelle onde tanto si parlava: chi era dunque la nuova favorita che mentre le altre tutte allo appressarsi della tempesta eran fuggite abbandonando la Corte resa famosa pei loro vizi come per le loro bellezze, appariva di un tratto quale una nuova stella di una luce sì blanda e sì dolce? Agli evviva ed al rumore che si eran destati all’apparir della Regina, il giovane mascherato da bandito aveva lasciato di botto gli altri due compagni ed era entrato nella sala facendosi largo a forza di gomito. Giunto nel mezzo si rivolse, però indarno cercò di vedere in viso la regal donna che continuava a discorrere volta a mezzo nello interno del palco. Ma mentre lo sguardo di lui cercava il viso della Regina si incontrò in quello di colei che le sedeva a fianco, un po’ discosta. — Ah! — esclamò il giovane trasalendo — ho le traveggole al certo, ho le traveggole! Era rimasto immobile, incurante degli spintoni della folla, con gli occhi che dardeggiavano attraverso la maschera e fissi nel palco reale. — Vaneggio forse, vaneggio? — mormorava il giovane. — Alma qui, Alma, nel palco della Regina! Non è possibile, non è possibile! Strana, prodigiosa rassomiglianza però... Ma bisogna che sappia, bisogna che vegga, dovessi anche arrischiare la vita... In questo fu investito da un gruppo di maschere entrate allora allora come un turbine: colto all’improvviso non resse all’urto e ne fu travolto. In quello stesso istante la Regina si era alzata, aveva fredda ed impassibile guardato per poco la folla, quindi si era avvolta nel bianco mantello che uno dei personaggi del seguito teneva spiegato dietro a lei e si era incamminata verso l’uscio del palchetto per andar via. Quando il giovane potè liberarsi dalla folla delle maschere e alzò il capo, la Regina era già uscita: però dietro a lei intravide per un attimo quella che lo aveva fatto trasalire di stupore, ma non ne intravide che il profilo e la figura sottile e l’aureo volume delle chiome senza cipria. Poi il palco rimase vuoto quantunque continuasse a sfavillare di luce. La partenza della Regina fu il segnale del baccano che scoppiò di un tratto. Le prime note di un ballo vibrarono nel chiasso sempre crescente e si mescevano agli urli, alle risa, al calpestio delle maschere delle quali i bizzarri costumi dagli sgargianti colori si fondevano in una iridescenza che turbinava per la vasta sala al cui schiamazzo si univa il vocio assordante che veniva dai palchi, dai corridoi, dalle scale. Forse ben pochi di quella folla si conoscevano, ma accomunati dall’ebbrezza, e dal proposito di darsi al piacere si erano presi per la mano formando così una catena che riddava volgendo nelle sue spire anche coloro che avrebbero avuto intenzione di starsene in disparte. La maschera toglieva ad ognuno che ne aveva coperto il viso la personalità che impone riguardi e gravità di modi, sicchè, mentre le note della danza si spandevano fragorose sferzando al piacere, la folla delirante si contorceva come ossessionata riddando in una catena che si scioglieva, si aggrovigliava in una matta confusione, nella quale le acute grida delle donne si mescevano agli urli degli uomini. Alcuni pochi però si erano garentiti dall’esser travolti tenendosi ben saldi con le spalle alle pareti in fondo alla sala; fra questi i tre dal costume brigantesco, che con le braccia conserte parevano del tutto estranei a quel baccano infernale, e si tenevano impassibili mentre alcune maschere staccatesi dalla folla cercavano di trarli a sè or con moine, ora con ingiurie. Parve intanto che uno dei tre fosse stanco perchè staccatosi dalla parete si avvicinò a colui che poco anzi gli aveva imposto di restare. — Ma insomma — gli disse — capitano Riccardo, che facciamo? Io non ne posso più, mi par d’ammattire. Sapete che la pazienza non è fra le mie virtù... Colui che era stato chiamato capitan Riccardo rispose aspramente: — Se ne ho io della pazienza, puoi averne ancora tu. L’appuntamento è per questa notte al veglione del S. Carlo, ma l’ora non ci fu indicata. Se andiamo via, come raccapezzarci poi, come ritrovarci? — Ma io soffoco con questa maschera al viso, soffoco — borbottò l’altro tornando ad appoggiarsi alla parete. — Se perderò la pazienza, ne farò una delle mie con coteste sfacciate male femmine che mi vengono innanzi per tentare il cane che dorme. La ridda continuava vieppiù sfrenata nel baccano: delle donnette in abito da _pierrots_, da postiglione, da pescivendole pressochè denudate nell’arruffio della folla si lasciavano rincorrere da alcuni pulcinelli che emettevano grida selvagge; nei palchetti non era meno chiassoso il brio quantunque più composto. Era scoccata la mezzanotte e alle note della musica, alle grida della folla, allo scalpiccìo dei ballerini si univa l’acciottolìo dei piatti, il tintinnìo degli argenti chè già nei palchetti incominciavano a servirsi le cene. — Ma dunque, bel brigante — disse una delle pescivendole fermandosi innanzi a colui che aveva risposto al nome di capitan Riccardo — non balli, non urli, non ti muovi con cotesti tuoi compagni! A chi fai la posta dunque? Vuoi che io ti sequestri con altre due amiche e ti imponga il riscatto di una cena? — Non me lo sarei fatto dire due volte — rispose capitan Riccardo — ma, bella mascherina, aspetto qui una persona. — Ah, una donna? — Può anche essere. — E cotesti tuoi compagni? — Aspettano con me. — Nulla da fare dunque? — Nulla. In questo il giovane si intese preso per le due braccia, si rivolse: due donne mascherate di un ricco domino di seta e velluto, scarlatto l’uno, azzurro l’altro, si stringevano a lui: l’azzurro dalla taglia svelta e flessibile tremava senza profferir parola, l’altro dalla persona magnifica di plastica bellezza pareva meno spaventato e gli si rivolse dicendogli: — Se siete giovane, se siete gentiluomo, se avete il coraggio che si conviene all’abito che portate, accompagnateci fino alla porta per garentirci da alcuni ubbriachi che ci perseguitano. Egli intanto sentiva stretto alla sua persona tremante, convulsa l’altro domino il cui mascherino di seta lasciava scoverto il mento di una luminosa bianchezza e una bocca piccola e rosea come un fiore. — Presto, presto — disse il domino scarlatto attirando il giovane verso la porta. Rimase per un istante irrisoluto. Era un tranello che gli si tendeva, un tranello da veglione per scroccargli una cena? Ma la voce che aveva parlato con uno spiccato accento straniero, pur pregando era così imperiosa che il giovane non dubitò più oltre che un pericolo le minacciasse, e che quelle due donne, l’una al certo assai più giovane dell’altra, appartenessero alla nobiltà o per lo meno alla ricca borghesia. — Ve ne prego, ve ne prego, signore! — mormorò il domino azzurro stringendoglisi vieppiù alla persona. Egli allora si rivolse ai due suoi compagni e disse: — Aspettatemi; se intanto viene colui che sapete, aspetti anche esso. — Capperi! — borbottò l’uomo mascherato che aveva risposto al nome di Magaro — il capitano se le porta via a due a due... — O meglio, si lascia portar via... — E noi che ci facciamo qui? — Aspettiamo finchè verrà il messo, poi una di quelle pescivendole mi ha stuzzicato un po’ troppo. Non piacerebbe anche a te di fare un po’ di carnevale? — A me piacerebbe d’essere sui i nostri monti, con un buon fiasco di vino innanzi, e una bella ragazza di Gimigliano sulle ginocchia. Le femmine di Gimigliano, paesello della provincia di Catanzaro godevano anche allora fama di essere le più belle e insieme le più facili delle Calabrie. Capitan Riccardo alla voce del domino azzurro che pregava con accento così sommesso e così tremante, si era scosso come se non per la prima volta sentisse quella voce, quasi l’eco lontano di una voce ben nota. — Eran dunque queste le donne che aspettavi? — gridò la pescivendola facendosi innanzi — Capperi, mamma e figlia! Non hai molti scrupoli tu, da vero brigante! Il domino che pel primo aveva rivolto la parola a capitan Riccardo si fermò ed ebbe negli occhi un lampo di ira terribile che scoccò come un baleno dai fori dalla maschera. — Ah, ah! — urlò ridendo la pescivendola — pare che la mamma non voglia che si scherzi sul vero. Te la raccomando, bel brigante, serbale le bricciole, poveretta! Intanto erano giunti presso la porta. Il domino scarlatto che pareva più avanzato negli anni dell’altro si fermò, sicchè capitan Riccardo ebbe l’agio di osservarlo. Dai lembi del cappuccio sbucavano fuori alcune ciocche bionde che serbavano tracce di polvere di Cipro: il mento e metà delle guance non coperte dalla maschera erano di una scultoria purezza, quantunque il mento fosse fortemente pronunziato. Se non era giovane molto, doveva essere assai bella quella donna di cui sentiva le forme magnifiche aderenti talvolta alla persona, di cui vedeva gli occhi limpidi e azzurri che avevano però una certa superba espressione di durezza. — Il pericolo è là, nel peristilio, ove essi ci attendono, dopo aver perduto le nostre tracce. — Essi? Chi? — disse lui che incominciava ad esser punto non solo dalla curiosità, ma da un certo interessamento. — Eravamo in un palco, per goder dello spettacolo che la mia compagna non ha mai visto, quando alcuni signori, al certo ubbriachi, han forzato l’uscio. Fra essi ci era anche un marinaio, in divisa da ufficiale. — In divisa? — chiese lui. — In divisa: si son precipitati su noi perchè quel marinaio aveva scommesso d’aver riconosciuto in me... non so quale signora di sua conoscenza. — E come siete sfuggite? — Quei signori erano male in gambe: ne rovesciai due con una spinta, e trascinando la mia compagna fui sull’uscio. Presero ad inseguirci pei corridoi, finchè tra la folla ci perdettero di vista e noi potemmo rifugiarci nelle sale ove non hanno osato di seguirci, ma ci aspettano al certo nel peristilio. — Ma può anche darsi che siano andati via... — No, no: quel marinaio, quantunque ubbriaco, aveva scommesso e quando un marinaio scommette... Eppoi aveva un altra motivo forse... — Ma perchè proprio a me avete chiesto aiuto? — Voi vestite un abito che indica un valoroso... Eran vestiti così coloro che riconquistarono il regno al re legittimo — rispose l’incognita alzando gli occhi per scrutare quelli del giovane. — Ma se mi sono ingannata, se avete paura... — Paura io? — esclamò il giovane scoppiando in una risata come se avesse inteso la cosa più strana del mondo. — Sappiate, signora che quesito per me non è un abito di maschera, è l’abito che vesto ordinariamente, e che io fui con coloro che, come voi dite, riconquistarono il regno al re legittimo. — Siete calabrese dunque? — Ho questo vanto... — E come vi chiamate? — Mi chiamo capitan Riccardo. — E niente altro? — E niente altro — rispose il giovane, il cui accento fino allora tranquillo ebbe una inflessione di amarezza. L’altro domino che in quel mentre si era tenuto in silenzio pur guardandosi intorno come se temesse di veder da un istante all’altro sopraggiungere coloro dai quali era sfuggito, fece un atto di maraviglia e si distaccò dal giovane a cui fin allora si era tenuto stretto. — Pare dunque che aspettavate delle donne! — rispose il domino che fin allora aveva parlato. — La vostra amante al certo... — No — disse il giovane — non aspettavo un donna. Son giunto ieri con alcuni compagni... Insomma, signora, ditemi fin dove dovrò accompagnarvi chè io non posso di molto allontanarmi da questa sala. — Ah! — fece il domino con un grido — capisco ora, capisco. Voi aspettate un messo, un messo che vi dirà in qual luogo e in quale ora vi si aspetta coi vostri antichi compagni. — Che ne sapete voi, che ne sapete voi? — esclamò il giovane trabalzando. E si chinò per guardar negli occhi l’incognita che chinò il capo soffocando uno scoppio di riso. — Andiamo, andiamo, mi son ben diretta, non ho nulla a temere con voi. Non foste voi a dar pel primo la scalata al forte di Vigliena difeso da centocinquanta dei vostri compaesani, bravi al par di voi, ma che avevano la testa sconvolta dalle infamie rivoluzionarie? Eravate sergente allora di una delle bande più valorose del... del Cardinale, e foste fatto ufficiale. — Si, sì, è vero, ma mi conoscete dunque, mi conoscete? — gridò il giovane sbalordito. — Guadagnaste il grado di sergente all’assalto di Cotrone, ove foste ferito nel petto — continuò l’incognita. — Ma ditemi chi siete, ditemi che siete! — gridò il giovane. Il grido fu inteso da alcune maschere che si rivolsero: — Oh, lo sciocco, oh lo scioccone! — esclamarono con uno scroscio di riso — È una femmina che ti vuole scroccare una cena per sè e per la compagna... Ah, ah, il cafone! E prendendosi per la mano si diedero a riddare intorno al calabrese e ai due domino. — Usciamo, usciamo! — mormorò il domino che fin allora si era tenuto in silenzio stringendosi al calabrese da cui si era un po' scostato. — Bel pezzo di femmina, il domino scarlatto, come piacciono a me! — disse un postiglione che facendosi largo, arrotondò il braccio e chinandosi verso il domino scarlatto. — Venite meco, mascherina: prendete il mio braccio e giuro sulla bellezza delle vostre spalle che ce la godremo... — A me piacciono le cosettine gentili — disse un turco — gli occhi di stella nuotanti nel languore del tramonto, come scrisse un poeta. E aveva già infilato il braccio in quello del domino azzurro che più dell’altro pareva spaventato e convulso. In questo il Calabrese che fin allora si era contenuto cercando di trarre fuori le due sconosciute, si liberò da esse e slargando con forza le braccia fece andare ruzzoloni il turco ed il pulcinella. Poi strappandosi e gittando via la maschera si fece innanzi alla folla e gridò: — Ed ora che mi vedete qual sono in viso, se non ci lasciate libero il passo vi spezzo il cuore come è vero Dio! Era un bello e fiero viso dall’ampia fronte, dagli occhi neri e lucenti, dai baffi neri e folti, un bello e fiero viso di soldato con un’impronta di audacia che fece dare un passo indietro alla folla, la quale comprese che il giovane diceva sul serio. — Andiamo, signore, andiamo, chè questa canaglia non oserà più di infastidirvi. E prendendo col braccio le due donne si diresse verso la porta che varcò senza che nessuno gli contrastasse il passo. Ma la folla appena egli disparve coi due uomini si diede ad urlare, mentre il turco ed il pulcinella erano trattenuti dagli amici. — Ed ora permettere che rientri — disse il giovane appena furono in istrada. Questa volta fu il domino azzurro che si era tenuto silenzioso quantunque apparisse più dell’altro preoccupato e tremante che gli si strinse al braccio dicendo con voce soffocata: — Eccoli, eccoli, li riconosco, son quelli che entrarono nel palco... riconosco il marinaio! Invero in fondo al portico, al riverbero della luce di una delle porte un gruppo di uomini discorreva sotto voce. A tali parole capitan Riccardo trasalì: quella voce non gli era nuova, suscitava in lui certi antichi ricordi della prima giovinezza, che non aveva punto obbliati ad onta della avventurosa sua vita. — Oh! — disse arrestandosi a contemplare l’incognita che chinò il viso stringendo con una manina piccioletta nel guanto che la copriva i lembi del cappuccio. — Non ci lasciate ora, non ci lasciate! — mormorò l’altro domino — essi ci han visto... Si avanzano verso di noi... — Rientriamo, rientriamo — fece la compagna. — No, no, sarebbe peggio... Poi voltasi al giovane: — Se vi sta a cuore il vostro avvenire, continuate a difenderci... Afferrate pel ciuffo la fortuna... occorre assai meno di coraggio di quel che non mostraste all’assalto del forte di Vigliata. — Sì, sì, ma, ve l’ho detto, aspetto un messo: appunto perchè ho bisogno che la fortuna finalmente mi sorrida è necessario che il messo mi trovi ove ha detto che sarebbe venuto. — Quanti anni avete? — chiese di un tratto l’incognita. — Ventisette, ventotto anni, non so bene. Ma... che importa a voi? — Siete dunque nel fiore della giovinezza, siete soldato, un bel soldato, avete un cuore da leone e... e non vi commovete alle preghiere di due donne in pericolo che forse sono anche giovani e belle? Non ebbe tempo di rispondere, il gruppo si era mosso, ma pareva ancora incerto: il giovane si sentì trascinato dal domino il quale gli aveva volto quel rimprovero e che aveva preso la via della piazza rasentando il muro, quindi aveva voltato verso l’angolo del palazzo reale. — Usate prudenza — mormorò il domino — fra pochi istanti saremo al sicuro e potrete tornare nelle sale. — Oh, sentite — disse il giovane — poichè mi ci avete messo in questo ballo, ci resto. Se per mettervi al sicuro vi fa bisogno di poche istanti, andate andate, ed io vi giuro che dovessi anche farmi uccidere saprei impedire a chicchesia di seguirvi. — Ne ero certa, ecco che vi rivelate qual siete, ed io... Ma non potè proseguire: il gruppo che si era avanzato finallora silenzioso, di un tratto si avventò su loro gridando: — Non ci sfuggirai, adesso, non ci sfuggirai. Ti abbiamo riconosciuta, vile, fedifraga, adultera! È il sangue delle tue vittime che ha dato il colore al tuo domino? Con un rapido atto, capitan Riccardo spinse dietro a sè le due donne in modo da ricoprirle tutte col corpo e traendo il largo e lungo pugnale che portava alla cintola per completare il costume, si rivolse al gruppo mentre indietreggiava per giungere in un angolo ove aveva visto una porticina che poteva garentirgli le spalle. — Piano, piano — disse rivolgendosi al gruppo che era sostato vedendo balenare l’arma nel pugno del giovane. — Che diavolo contate? Queste qui son due ragazze che ho incontrate questa notte al veglione. — Seguitemi, seguitemi — mormorava intanto dietro a lui il domino scarlatto — giunte alla porticina siamo salve. — Se è così — fece il marinaio che pareva il più risoluto degli altri quattro — ignorate chi siano coteste due femmine! Vogliamo vederle, e perciò vi consigliamo di andar via, di lasciar che noi facciamo i nostri conti con una di esse. — Questo poi no, cari signori — rispose il giovane che si manteneva calmo e freddo — questo poi no. Del resto vi perdono perchè se, come dite, conoscete una di queste mie amiche, non conoscete me. Io sono il capitan Riccardo, ai vostri servigi. — Un capitano! — disse una voce. — Ma è indegno di un soldato d’onore difendere cotesta baldracca. — Prudenza, prudenza! — mormorava l’incognita dietro al giovane che nello indietreggiare rasente il muro era guidato dalla mano di lei — altri dieci passi e siamo giunte. — Ecco qui — disse il giovane nel cui accento già incominciava a fremere l’ira — la mia amica mi raccomanda la prudenza e vedete bene, cari signori, che son prudente ed anche gentile. Io poi non sono un capitano dell’esercito: mi rimase un tal titolo da che feci parte delle bande del Cardinale. — Un sanfedista! — urlarono quei cinque — dovevamo comprenderlo. Uno di quei briganti, di quei ladri, di quegli assassini... Non avevano finito di dire che il giovane dando un balzo si slanciò sul gruppo: — Ah, per Gesù Cristo, ora poi mi avete seccato, bisogna che ve la dia una buona lezione. La zuffa si accese muta e feroce: già due del gruppo che il giovane aveva colpito al capo con l’elsa del pugnale erano caduti; gli altri tre avevan tratti gli stocchi e si stringevano intorno al giovane che si teneva dritto parando i colpi e cercando di avvicinarsi sempre più al muro per garentirsi le spalle, ma pur parando colpiva, benchè si sentisse ferito in più parti. — Tenete fermo, tenete fermo! — mormorava l’incognita che era salita sul gradino di una porta cercando di aprirla. — Poco altro ancora... Il giovane lottava con calma senza dir parola mentre i suoi avversari imprecavano cercando di colpirlo al petto, stupiti della difesa che il pugnale opponeva ai loro lunghi stocchi. Più acceso di tutti era il marinaio che aveva già toccato una ferita alla gola. — A questo ballo sì che so ballare! — diceva intanto capitan Riccardo il cui accento si manteneva calmo ed ironico. — Ma non vi sta bene lo stocco nelle mani... La porta intanto si era aperta le due donne vi erano entrate e si tenevano sull’uscio. — Venite, venite — diceva il domino dall’accento straniero — avete fatto abbastanza... Dio ve ne rimuneri! — Salvatevi, ve ne scongiuro! — disse l’altro che si era tolta la maschera. Il giovane si rivolse e diede un grido. Nella penombra gli era parso di riconoscere un volto, il volto bianco e soavissimo di una fanciulla, a cui era caduto il cappuccio e le disciolte chiome bionde le facevano come un aurea criniera. Ma era stato un lampo: quella figura si era ritratta nel buio della porta ed egli più non vide che un’ombra. — Alma — mormorò sussultando. — Alma! È il buon Dio che mi manda tale celeste visione. E conte se avesse attinto maggior forza, se non maggior coraggio, poichè oramai le due donne erano al sicuro, si scagliò e trovando innanzi a sè il marinaio vibrogli un colpo. — Ve lo avevo detto che non vi sta bene in mano lo stocco? — disse vedendolo cadere. — Vediamo allora se mi sta bene un’altra arma — urlò uno dei due rimasto in piedi e che si era tenuto discosto dalla mischia. Rimbombò un colpo di pistola: il giovane si sentì ferito al petto, pure con uno sforzo sovrumano si resse in piedi. — Ah, vile, vile! — gridò. Ed era già per dare un balzo quando si sentì venire meno e sdrucciolando cadde dando col capo sul gradino della porta che le due donne avevano testè aperto. — Fuggiamo, fuggiamo! — disse uno dei due rimasti incolumi. — Accorrerà della gente e non è prudenza farsi cogliere... — Io vorrei assicurarmi se quel diavolo incarnato sia morto... — Morto, arcimorto, te l’assicuro. — E intanto lei ci è sfuggita? — Ma... eri proprio sicuro che fosse lei? — Il povero Ercole l’aveva vista in viso in un momento in cui le si era rimossa la maschera... — Povero Ercole, aveva giurato sulla sacra memoria del suo ammiraglio Caracciolo di uccidere quell’infame e questa notte pareva proprio destinata a tale giusta vendetta. Assicuriamoci almeno se Ercole e se gli altri abbiano bisogno di soccorso. — Fuggiamo, fuggiamo: quantunque il rumore che abbiamo fatto non sia stato avvertito nel chiasso del veglione, temo che il colpo di pistola richiami qui della gente. Certo... son corsi ad avvertire le guardie nel teatro... È meglio battersela... E i due presero il largo, lasciando distesi sul lastrico i loro amici e il Calabrese in un lago di sangue col capo al gradino della porta. Lo spiazzo rimase deserto; si udiva il chiasso della folla e le note vivaci dell’orchestra, pure nessun dubbio che il colpo di pistola fosse stato inteso, con le voci e il rumore della mischia, quantunque di breve durata; ma chi avrebbe osato di avventurarsi al buio in un’epoca in cui si era avvezzi alle scene di sangue e la notte si assassinava e si derubava impunemente anche nelle principali vie della città? Già i caduti, riavutisi alquanto, gemevano pel dolore delle ferite, ma lo spiazzo continuava ad esser deserto, mentre vibravano per l’aria tenebrosa le note musicali che si elevavano sul confuso vocio della folla data al piacere. Capitan Riccardo nel rinvenire tentò di alzarsi, ma comprese che mal si sarebbe tenuto in gambe. Perdeva sangue da più ferite, però solo quella del petto gli pareva gravissima e per la quale era necessario un pronto soccorso. Pure sol per un istante il pensiero fermossi a considerane il suo stato e l’imbroglio in cui lo aveva messo quell’avventura, che ai suoi occhi, velati dallo sfinimento, si presentava l’immagine intravista nella penombra fra la porta socchiusa innanzi alla quale era caduto. Era lei, proprio lei, Alma? Quella voce che l’aveva fatto trasalire era la sua? La personcina che vagamente si delineava nelle larghe pieghe del domino di seta era proprio quella di colei da tanti anni nei suoi sogni che a lui pareva di contemplar da lontano, così lontano come una di quelle nuvole bianche che nei rosati tramonti van pel cielo e si dissolvono appena scende la notte? Ma era possibile, era possibile? Lei, la gemma più pura e più fulgida di una superba casa ducale custodita con cura gelosa come se anche il raggio del sole potesse affuscarne il limpido splendore; lei in un veglione tra la folla sfrenata, in una notte di piacere, nell’arruffio di un ballo in cui la follìa di un’ora faceva lecito ogni rilasciatezza; lei che aveva sol visto intorno a sè i vassalli in ginocchio i quali non osavano neanche baciarle il lembo della veste? Lei, così lontana, nel suo castello sui monti, in mezzo a un bosco; lei il cui nome di fanciulla egli mormorava sottovoce, tanto a lui pareva irreverente il non farlo precedere dal pomposo titolo che gli avi di quella nivea creatura avevano portato dalla Spagna? No, no, non era possibile: era stata una allucinazione la sua, dovuta forse al supremo pericolo a cui si era esposto: il suo cuore l’aveva invocata come aveva fatto tante volte nella mischia, e ai suoi occhi era parso di vederla come tante altre volte l’avevano vista nell’affrontare la morte. Questa volta però la visione era stata più sensibile, più evidente da confondersi con la realtà. Ma la realtà vera era lui ferito, lui che aveva bisogno di un pronto soccorso, lui senza amici, senza conoscenti in quell’immensa città, che non sapeva neanche come dar notizia di sè ai compagni che l’avevan seguito dal fondo della Calabria e che stanchi di aspettarlo nel teatro e nel luogo che aveva loro indicato sarebbero andati via! Ed il messo al quale doveva affidarsi, il messo dal quale sperava un po’ di fortuna? Certo aveva trovato i due compagni; ma come, come fargli sapere che lui era là ferito, a pochi passi dal teatro, che lui aveva bisogno di soccorso? — Chi pensa a venir qui? — mormorò guardandosi intorno. — Senti che chiasso, senti che musica! Ma perchè mi lasciai indurre da quelle due donne? Ben mi sta adesso, ben mi sta! Pare che i miei avversari non stiano meglio di me: gemono come tortore ferite. Via, non facciamo imprudenze, che questa volta ne ha fatto già tante. Se mi veggono vivo, chi sa non mi vengano addosso tutte e tre per finirmi! Ho perduto anche il pugnale... dove diavolo è caduto? L’avventura è curiosa, come piacciono a me, pur rimettendoci l’unica mia speranza! Ma chi era quella donna contro la quale scagliavano tante ingiurie! In cinque contro una donna, vigliacchi! Ma l’altra, l’altra?... Stette un istante pensoso: — Si vede che invecchio: ne ho sparso tanto del sangue altravolta, eppure non ho avuto mai le traveggole! Come credere che lei, a quest’ora dormente nel suo palazzo custodito da cinquanta armigeri, si fosse esposta mascherata in un ballo pubblico?... Che vuol dir questo?... — gridò sorpreso. Aveva visto aprirsi la porticina ed uscirne due uomini vestiti di nero, uno dei quali dopo essersi guardato intorno si avvicinò a lui, chinossi e sommessamente gli chiese: — Siete voi il capitano Riccardo? — Sì sono io — rispose il giovane. — Se siete venuti per soccorrermi, davvero fate cosa opportuna perchè mi sento venir meno... Credo non mi sia rimasta neanche una goccia di sangue nelle vene. La voce gli si affiochiva sempreppiù, tentò di alzarsi, ma ricadde pesantemente. — Meglio così — disse uno dei due uomini. — È svenuto, ma a giudicare del sangue sparso deve aver l’anima bene avviticchiata al corpo. — Silenzio — fece l’altro. Si chinarono entrambi, presero fra le braccia il giovane e sollevandolo entrarono nella porticina che rinchiusero. Gli altri feriti gemevano sommessi. Il veglione continuava a rumoreggiare sordamente e le note allegre e vivaci dell’orchestra vibravano per l’aria tenebrosa. II. In quell’istessa notte, in una sala ampia e bassa, rischiarata dalle torce infisse nei candelieri di argento i quali si ergevano innanzi ad alcune specchiere fra i broccati che tappezzavano le pareti, erano entrati silenziosi e guardinghi degli uomini intabarrati, introdotti da un vecchietto vestito di una zimarra che gli dava l’aria di un ecclesiastico. Pareva che i convenuti fossero sorpresi e insieme intimiditi dalla severità e dalla ricchezza della sala, perchè, seduti sulle ampie poltrone disposte in triplice fila nel centro di essa, guardavano intorno, guardavano in alto come per darsi conto del luogo ove fossero, e si sbirciavano per riconoscersi, ben comprendendo di essere ivi convenuti per un proposito comune. Chiaro però appariva che si sentivano a disagio fra quei broccati, quei ceri, quegli argenti sicchè si tenevano silenziosi tossendo di tanto in tanto per darsi un contegno, e voltandosi curiosi allo scalpiccio di un nuovo introdotto, cui l’uomo dalla zimarra additava senza far motto una delle poltrone e poscia tornava sull’uscio della sala ad attendere gli altri. Ma faceva caldo colà dentro onde i tabarri si aprivano scovrendo giacche di grosso panno coi grandi bottoni di argento e le verdi risvolte, i larghi colletti bianchi ripiegati sulle giacche, i panciotti rossi o verdi con le tasche alla cacciatora, e le else dei pugnali e delle pistole che uscivan fuori dalla larga cinta di cuoio. Ma già alcuni dei convenuti avevan finito col riconoscerci. — To, sei tu, Parafante? — Sei tu, Benincasa? — E come diavolo ti trovi qui, Francatrippa? — Ci sei tu pure, Panedigrano? — Ma insomma, sai tu perchè siamo qui? Di che si tratta? — E tu come ci sei? — Me ne stavo tranquillo sì, ma un po’ seccato nel mio paesello, vivacchiando alla meglio, già credendomi dimenticato, perchè, sai bene, quando il diavolo vuol l’anima ti accarezza, quando poi gliel’hai data finge di non averti mai conosciuto. — Ma hai tu un’anima da dare al diavolo? — Così non fosse, mio caro, non avrei certe volte delle paure, sì, proprio delle paure, caso mai davvero ci sia l’Inferno, perchè ne facemmo delle grosse sotto quel diavolo di Cardinale. Ti ricordi a Cotrone? Ti ricordi ad Andria? Ti ricordi il giorno in cui entrammo qui? Era il 13 Giugno, il giorno di Sant’Antonio. Allorchè chiudo gli occhi, nella notte specialmente, al buio, veggo le donne, veggo i fanciulli sgozzati, sento il crepitio delle fiamme nelle quali avevamo gittati ancor vivi tanti poveri disgraziati, e poi sangue, sangue, sangue in cui nuotavano i cadaveri di coloro che avevano difeso le loro case, le loro donne, e veggo il Cardinale con le vesti rosse che parevan tinte di quel sangue, alzar la croce e benedirci mentre noi continuavamo nella carneficina... — E dunque? se il Cardinale ci benediva vuol dire che ci aveva assolto. Io non ne ho di coteste minchionerie per la testa. Non hai altro da pensare? Di’ piuttosto che poi fummo dimenticati da coloro a cui riconquistammo il regno... — Zitto, non dir queste cose... Chi sa non ci abbiano teso un tranello!... — A quale scopo? — Ma... per toglierci di mezzo. Sappiamo troppe cose noi... — E perchè sei venuto? — Incominciavo ad annoiarmi... Cercai di mettermi ad un lavoro, tanto per distrarmi, ma... io non son buono che a menar le mani... Eppoi vedevo di giorno in giorno ammancare quel gruzzoletto, poca cosa, che avevo serbato per la vecchiaia, e... ero sul punto di mettere insieme un po’ di gente, vecchi amici, che avesse voluto fare in piccolo quel che avevano fatto in grande, allorchè... — Allorchè un signore che aveva l’aria di un pezzo grosso, venne a dirti che ti si voleva in Napoli! — Proprio così... — Ti diede cinquanta ducati per le spese del viaggio e l’incarico di raccogliere gli antichi sotto capi della tua banda disposti a seguirti... — To! e come lo sai? — Perchè quel signore, quel pezzo grosso venne anche da me, che mi annoiavo come tu ti annoiavi, che al par di te vedevo venir meno il gruzzoletto e al par di te avevo in animo di rimettermi negli affari per conto mio... — Contro il re e la regina che avevamo rimesso sul trono? — Anche contro il santissimo diavolo. Mentre avveniva questo dialogo sottovoce tra i due vecchi amici che il caso aveva fatto sedere l’un vicino all’altro, la sala si era andata a poco a poco riempendo di gente che si era fermata esitante, e in sulle prime non aveva osato di sedere sulle ampie e soffici poltrone, e che si guardava intorno non meno maravigliata di coloro i quali l’avevano preceduta nel trovarsi in quella sala sfarzosa. — Saran d’argento quei candelieri? — chiedeva un individuo barbuto dalla truce fisonomia che vestiva all’uso dei ricchi contadini di Terra di Lavoro. — Di che vuoi che siano? — rispose il vicino, un vecchietto ancor rubizzo la cui faccia rugosa era attraversata dalla larga margina di una ferita. — Capperi! in tal caso valgono quanto quelli della chiesa di Altamura; io potei averne un solo che ridussi in pezzi e vendei per trenta ducati, ma mi costò due cariche di polvere e due palle di piombo. — Non molto però... — Già; capirai, eravamo in venti; quando non ci furono più repubblicani da scannare, ci scannavamo fra di noi... eravamo in venti a dare il sacco a quella chiesa. — Io veramente le chiese le ho sempre rispettate... — Ma quella lì era scomunicata perchè i repubblicani vi si erano chiusi dentro, perciò... Eppoi era con noi il cappellano che ebbe anche lui la sua parte. Ah, quello lì con la pistola in una mano e il crocifisso nell’altra ne valeva quattro di noi. Bisognava vederlo! Bei tempi, non è vero? — Torneranno! — disse l’altro con voce sicura, da uomo che la sa lunga. — Come? Torneranno? Ne sei sicuro? — gridò il barbuto che ebbe come un lampo di gioia negli occhi. — Zitto!... Sai tu dove siamo? — Non lo so, ma vorrei saperlo. Quei candelieri valgono per lo meno cento ducati ciascuno. — Siamo in una sala del palazzo reale! — disse il vecchietto con voce sommessa e chinandosi all’orecchio del vicino. — Tu che madonna dici? — Mi hanno fatto entrare per una porticina dell’Arsenale, mi hanno fatto scendere e salire, ma io non mi son punto lasciato fuorviare. Ti dico che siamo in una sala del palazzo reale, di quelle a pianterreno, che danno sul mare. Senti come romba! — È vero. Ma... che vogliono da noi? — Sta zitto: lo saprai presto. Però stanchi di aspettare, tutti quegli uomini ivi convenuti da prima avevano bisbigliato coi vicini, poi man mano il vocio era andato divenendo più forte. Vinta la suggezione del luogo, familiarizzati con l’ambiente, alcuni si erano alzati e avendo riconosciuti dei vecchi amici qua e là per la sala, discorrevano a voce alta evocando ricordi come gente che da gran tempo si fosse perduta di vista. — E di capitan Riccardo, che ne è di capitan Riccardo? — chiese colui che aveva risposto al nome di Parafante volgendosi ad un uomo già maturo negli anni seduto in fondo alla sala. — Non so — rispose l’interrogato — da gran tempo non ne ho più nuove! — È qui a Napoli e avrebbe dovuto esser con noi — rispose una voce. I due si rivolsero a quella voce. — To, Pietro il Toro! — esclamarono. — Ci sei anche tu? — Come vedete: ci sono io, ci è il Magaro, ci è il Ghiro, ve li ricordate? Io vi ho riconosciuto subito. In verità credevo che non ci saremmo incontrati mai più. Son sei anni che non ci vediamo. — Ma dunque perchè capitan Riccardo non è con noi? — Che volete vi dica? Eravamo nel teatro con lui... anzi io ne feci una delle mie... sapete, quando mi va la mosca al naso!... Poi andai via perchè il capitano così volle e... lo dico senza vergognarmene... quel ragazzo lì fa di me ciò che vuole. Stanco d’aspettarlo fuori tornai in teatro... anzi non volevano farmi entrare, ma io entrai lo stesso... e seppi dal Magaro e dal Ghiro che era uscito con due donne. Poi venne un tale e ci condusse qui ove speravo di trovarlo... Ma... tira più un capello di donna che una corda di barca... Strano contrasto tra quella gente in abito contadinesco, i cui volti fieri, alcuni truci, mostruosi in parecchi per larghe cicatrici, e quella sala tappezzata di broccato con le ampie terse specchiere che riflettevano la luce dei candelabri di argento! Ma vieppiù acuiva la curiosità dei convenuti il vedere dinanzi alle poltrone nelle quali essi sedevano, però discoste per circa un terzo dalla sala, tre poltrone dorate, una delle quali, quella di mezzo sovrastante alle altre, era sormontata dalla corona reale. Sentivano che in quella notte qualcosa di strano sarebbe accaduto; vagamente intuivano che si aveva bisogno di loro, che erano stati convocati per uno scopo supremo; quantunque non fosse giunta fino ad essi la notizia che un esercito francese si avanzava per deporre dal trono la monarchia borbonica, pure sentivano esserci per l’aria qualcosa di assai grave; ma non osavano aprir l’anima alla speranza che tornassero i lieti tempi in cui impunemente, anzi ricevendone lodi e compensi, avevano potuto abbandonarsi a tutte le loro perverse passioni. È vero però che alcuni di essi eran nati per la lotta; caratteri irrequieti, indoli proclivi alla violenza vaghe di imprese guerresche, generosi e pietosi dopo le stragi, ma nelle stragi feroci ed implacabili. Di cotesti uomini si era servito il Cardinale per schiacciare la Repubblica Partenopea, di cotesti uomini che sarebbero stati dei gloriosi capitani se in alte imprese avessero rivolto il loro coraggio e se avessero combattuto per un ideale nobile e puro. Pochi di essi avevano avuto un adeguato compenso ai loro servigi: i Borboni, ingrati come tutti i re o meglio come tutti i beneficati, avevan posto in obblio quel che dovevano a quegli uomini, i quali per altro si tenevan paghi di tale obblio che involveva anche i loro delitti comuni e le nefandezze commesse per vendetta, per cupidigia o per malvagità di animo. Tornarono essi nei loro paeselli a godersi quella parte del bottino che era loro toccata; ma usati alla vita avventurosa ed alle emozioni violente, mal sopportavano lo starsene in ozio nella quiete sonnolenta di un solitario villaggio, e con occhi accesi di desiderio guatavan la vecchia carabina appesa al muro e l’arrugginito coltellaccio che forse serbava ancora le macchie del sangue rappreso. E quindi accolsero con esultanza l’invito di recarsi a Napoli, pur non sapendo che si volesse da loro, ma ciascuno aveva ricevuto del danaro per le spese del viaggio, ben lungo e disagevole; e la raccomandazione di recarvisi armati aveva fatto concepire la lieta speranza di un ritorno alla vita di un tempo. Il mistero dello invito, del luogo in cui dovevano raccogliersi, del nome di colui che a sè li aveva chiamati, il quale esser doveva ben ricco e potente se aveva potuto disporre di tanto danaro per pagare ad essi il viaggio teneva in fermento quelle accensibili fantasie, onde l’impazienza era al colmo, perchè già da parecchie ore aspettavano e la notte al certo era trascorsa di più di due terzi. Il vocio cresceva sempreppiù; già alcuni avevano espresso il proposito di andarsene, ma nessuno rispondeva alla loro protesta come se coloro che li avevano introdotti colà dentro li avessero del tutto dimenticati; neanche quell’uomo in veste ecclesiastica, il quale aveva a ciascuno indicato il posto da occupare, era ricomparso. — Almeno ci avessero dato da mangiare e da bere! — disse il Ghiro voltosi a Pietro il Toro. — Io vorrei sapere — rispose questo che durante tutta la notte aveva rivolto impaziente gli occhi alla porta — dove sia capitan Riccardo. — Starà al certo meglio di noi — rispose il Magaro. — Quelle due donnette a giudicare da ciò che appariva, dovevano essere bellocce, per tutti i gusti, l’una con una paio di spalle... — Via via, non è uomo da dimenticare i suoi amici che si trovano qui solo per lui, da dimenticarli in grazia delle leziosaggini di due smorfiose. Non son tranquillo, no, non sono tranquillo! Se sapessi le vie, me ne andrei per rintracciarlo; ma chi ci si raccapezza? Se non ne avrò notizia neanche dimani, metterò sossopra la città, dovessi presentarmi al re ed alla regina. — Va là, va là, che a quest’ora se la gode, mentre noi siamo qui come tanti imbecilli. — Io me ne vado, non ne posso più... — Ti impediranno d’uscire. — A chi? A me? Vorrei veder questo! Da gran tempo sento il bisogno di sgranchirmi un po’ le braccia. — Io ti seguo se vai via. Ci tratta con troppa disinvoltura cotesto signore che ci ha invitato. — Dev’essere un burlone... Glie la darò io la burla... — Ma che burla! Per una burla avrebbe speso tanti danari? — Amici — disse una voce che pareva usa al comando. — Voglio comunicarvi un mio sospetto: ascoltatemi perchè forse si tratta della vita di tutti. Ognuno tacque e si rivolse a colui che aveva parlato, il quale si era drizzato in piedi; e poi per sovrastare a tutta quella folla era salito sulla poltrona. — Sì, sì, parli Parafante, parli Parafante!... — si gridò a coro. Il famoso capobanda aveva nello aspetto ciò che occorre per dominar una folla come quella alla quale non ne erano ignote le gesta. I suoi occhi profondi nell’orbita e coperti da folte ciglia scintillavano come carbonchi: la barba incolta e le folte fedine gli coprivano metà del volto: in tutta la membruta persona ci era qualcosa di rude, che imponeva a quella gente la quale non stimava e non ammirava che la forza fisica ed il coraggio irriflessivo. — Ecco qui, amici miei, io mi vo persuadendo che ci abbiano teso un tranello. — Chi, chi ci ha teso un tranello? — urlarono alcune voci. — Chi? La polizia. Un fremito corse per gli astanti che si guardarono in volto impallidendo. — Perchè nasconderlo, amici miei? — continuò Parafante. — Ognuno di noi ha sulla coscienza diversi peccatuzzi: inezie, non dico di no, qualche schioppettata ad un nemico, una donnetta schifiltosa portata via al marito, qualche catapecchia a cui in una notte d’inverno si pose fuoco per scaldarci le mani; un po’ di roba, qualche miserabile pugno di monete preso qua e là pei nostri bisogni più urgenti... Inezie, ripeto, ciocchè non tolse che si ricorresse a noi allorquando la nostra santa religione e il nostro venerato monarca vollero abbattere i loro nemici. Ora però, non si ha più bisogno di noi, e perchè non si dica che si chiude un occhio su i nostri peccati, ci han raccolti qui o per fucilarci o per mandarci in galera. — Ah, per Gesù Cristo! — gridarono alcune voci. — Sì, sì, deve esser proprio così! — Se è così... beh, se è così — esclamò il barbuto contadino di Terra di Lavoro — stacchiamo quei candelieri e diamo fuoco alla casa. — Sì, sì, diamo fuoco alla casa. — Silenzio, silenzio! — urlò una voce — ora parlo io, tocca a me. Ascoltatemi e vi dimostrerò che tutti quanti siete, non escluso cotesto famoso Parafante, non siete che dei conigli... Ed il vecchietto, la cui faccia rugosa era attraversata dalla cicatrice di una larga ferita, salito anche esso su una sedia, volse attorno gli occhietti lucenti come per confermare con lo sguardo quel che aveva detto con la parola. — A me coniglio, a me? — urlò Parafante. Poi dando in uno scoppio di risa: — Sai tu il sapore della carne umana, vecchietto mio, lo sai? Il vecchietto era per rispondere, quando di un tratto la porta in fondo si spalancò e apparvero alcuni servi in livrea che sostenevano, tenendosi ritti in piedi ed immobili in doppia fila, dei candelabri accesi. Poi una voce gridò: — Sua Maestà la Regina! Lo stupore fu così grande che ognuno rimase come fulminato nell’atteggiamento in cui era stato sorpreso da un tal grido. Per incanto si era fatto un silenzio profondo prodotto non soltanto dalla stupefazione, ma anche dalla paura. La Regina, di cui avevano inteso discorrere, ma che non avevano mai veduto, nè credevano che potesse esser visibile ai loro occhi, era un essere sovrumano per quelle menti rudi ed ingenue per le quali la regalità era sinonimo di divinità, una divinità più immediata e quindi più temibile, padrona ed arbitra assoluta della vita di tutti. Istintivamente le teste e i dorsi si curvarono appena lo stupore diè luogo alla riflessione; coloro che erano seduti si alzarono. Nei volti si leggeva la meraviglia e la trepidanza, negli occhi la curiosità intensa. Finalmente la Regina apparve incedendo con regale maestà nella luce dei doppieri che ne facevano scintillare le gemme della corona posata sulle dorate chiome, anche esse un’aureola al viso di scultoria bellezza, e della collana che cingendole il collo eburneo cadeva sul seno a metà discoperto. Vestiva un abito di nero velluto che lasciava nude le braccia e si appuntava agli omeri per mezzo di due borchie gemmate. Dietro a lei, che si era fermata presso la poltrona di mezzo sovrastante alle altre si teneva immobile una giovinetta vestita di candidi veli, con le bionde chiome ricciolute fluenti per le spalle e un viso delicato e bianco di una mistica soavità; a qualche passo di là dalla giovinetta tra la doppia fila degli immobili valletti che sostenevano gli accesi candelabri, apparivano i personaggi del seguito regale dalle magnifiche divise e ricami d’oro, col petto costellato di croci e di stelle fiammeggianti. — Gesù, Giuseppe e Maria! — mormorò Pietro il Toro quando ebbe riacquistato la parola — ma questo è il paradiso, il paradiso! — In ginocchio tutti, in ginocchio tutti! — esclamò sommessa una voce che nel profondo silenzio fu intesa come un ordine. E quei fieri capibanda del truce aspetto, ladri ed assassini la maggior parte, ognuno dei quali aveva commesso i più orrendi delitti, sentirono che le ginocchia si piegavano e caddero prostrati a capo chino innanzi alla maestà regale. Carolina d’Austria ebbe un lampo di gioia e di trionfo insieme negli occhi cerulei che sapevano esser feroci nell’odio e carezzevoli ardentemente nell’amore. Stette immobile ed in silenzio un buon tratto scorrendo con lo sguardo per quegli uomini prostrati che ella dominava dall’alto dello zoccolo dorato e di tutta la magnifica persona: poi sedette e con voce che era insieme di comando e di compiacenza disse: — Alzatevi. Ma poichè non ubbidivano sia per non avere inteso, sia perchè non osavano, ella ripetè imperiosamente: — Vi comando di alzarvi! Le teste si sollevarono, i dorsi si raddrizzarono, tutta quella gente come un solo uomo si alzò in piedi. Il silenzio continuava profondo; pareva che quegli uomini trattenessero il respiro. — Amici miei — disse la Regina — il messo che vi ha invitato a venir qui fu mandato da me, ma era necessario, pel vostro meglio, che si ignorasse chi lo mandava. Voi avete dei nemici, anche fra coloro che sono nella mia Corte, i quali vi invidiano i servigi che avete prestati alla Monarchia. Se io non avessi vegliato su tutti voi, se io distratta dalle cure dello Stato avessi anche per poco trascurato di occuparmi di voi, non sareste qui a me dinanzi, ma o nel fondo di una galera o già da gran tempo nel carnaio in cui si gittano i corpi dei giustiziati. Un fremito corse per gli astanti; alcuni, i più audaci si guardarono furtivamente tentennando il capo come per assentire. — Voi, Francatrippa — continuò la Regina volgendo lo sguardo verso il luogo in cui si teneva immobile il nominato — avreste dovuto render conto di non so che assassinii e che incendii che i vostri nemici vi attribuivano: voi, Parafante, voi Panedigrano, voi Benincasa, voi Fra Diavolo, voi Spaccaforno siete stati denunciati alla giustizia come autori di delitti raccapriccianti. Lo so, sono calunnie, ma che vi avrebbero portato dritti alla forca. La vostra Regina che vegliava su voi le ha sventate. — Grazie, Maestà, grazie, Maestà! — proruppero i nominati. — Sì, è vero, sono calunnie, noi siamo innocenti. — Lo so, ma, ed ecco perchè vi ho invitato a venir qui, io son costretta per poco a lasciar questa Napoli e a seguire Sua Maestà il Re in Sicilia. Questo povero regno resterà di nuovo in balìa degli eretici scatenati dall’inferno contro la nostra corona che ci fu data da Dio e contro la santa religione, e i nostri nemici non potendo colpir noi, colpiranno i nostri fedeli, rievocheranno le calunnie sparse contro di voi e vi appresteranno quella galera e quella forca dalle quali io finora vi ho salvati! Si interruppe per giudicare l’effetto delle sue parole. Un sordo mormorio era corso per gli astanti; alcuni visi erano impalliditi e altri apparivano accesi d’ira; coloro che erano in fondo alla sala subendo meno la suggezione della Regina, avevan fatto sentire alcune esclamazioni di minaccia. — La mia carabina è ancora in buono stato! — Il taglio del mio coltellaccio può servire ancora. — Che vengano gli eretici, che vengano! — Silenzio, amici miei, silenzio — ripigliò la Regina lieta in cuor suo di aver raggiunto l’intento. — La vostra causa è la mia ed io non vi abbandonerò: per questo vi ho voluto tutti intorno a me. Se voi fidate in me, io fido in voi. I Francesi, miei e vostri nemici, hanno inviato un esercito per invadere di nuovo il mio regno, ma i re miei alleati, che li hanno scacciati dai loro possedimenti, ne invieranno un altro assai più forte in nostro soccorso; così quei maledetti che vengono qui per devastare le nostre terre, rapire le vostre donne, oltraggiare i nostri santi e le nostre madonne, saranno presi fra due fuochi: le vostre infallibili carabine, e i fucili dei soldati dei re e degli imperatori miei congiunti. Volete voi prender parte a questa santa impresa? Volete voi mostrare di nuovo a cotesti vili stranieri, a cotesta gente uscita dallo inferno, che già avete visto fuggire a voi dinanzi, che basta un solo di voi a schiacciar dieci di essi? — Sì, sì, sì! — gridò quella folla affascinata dalle parole e dalla regale bellezza di quella donna. — Volete voi — continuò la Regina che aveva serbato per l’ultimo ciò che doveva accendere fino al delirio l’entusiasmo dei convenuti — farvi i giustizieri in mio nome e nel sacro nome del Re di tutti quei nostri sudditi che o per malvagità di animo o per losche ambizioni o perchè sedotti dagli spiriti infernali, parteggeranno con gli stranieri e prenderan le armi contro di voi sostenitori della Monarchia e della Fede? Io fin d’adesso vi abbandono le loro persone, le loro case, i loro beni, le loro donne: estirpate col ferro e col fuoco le male piante; uccidete, sterminate donne, vecchi fanciulli anche se avran cercato rifugio a piè degli altari. Sua Santità il Papa vi assolve di ogni peccato che potrete commettere pel trionfo della Fede, sia pure del sacrilegio più orrendo se compiuto per lo sterminio dei nostri nemici. Tutti i mezzi son buoni, tutti i mezzi son santi per scacciare lo straniero dal nostro regno e per punire i nostri sudditi fedifraghi; e voi, appena la grande impresa sarà compiuta, ne avrete da noi in premio condegno, che considereremo come legittimo acquisto, tutto ciò che avrete tolto ai nostri nemici, e il perdono da Dio che vedrà in voi i difensori della sua Fede e del suo altare. Dite, volete voi? — Sì, sì, vogliamo. Viva la nostra Regina! Fu un grido formidabile che proruppe da quei petti invasati dal delirio. Sarebbero tornati dunque i bei tempi? Tutto un miraggio di orge, di tripudî, di carneficine, di assalti, di rapine, di lauti banchetti, di libertà sconfinata si dispiegava innanzi agli occhi di quella gente a cui ogni legge era insopportabile, ogni civile disciplina nemica! Vi avrebbero lasciata la vita, ma che importava se per un anno o per un mese avrebbero vissuto appagando tutte le loro passioni? Meglio un anno toro che cento anni bue, era il detto dei loro padri: eppoi sarebbero morti con le armi in pugno nella pienezza della vita e forse del godimento, non sul misero giaciglio affranti dalla vecchiaia, dopo tutta una vita di stenti, di schiavitù, di lavoro mal retribuito, dopo una lunga agonia nella quale avrebbero inteso rodersi le carni, e avrebbero assistito al proprio disfacimento! L’entusiasmo aveva vinto il ritegno: le esclamazioni esultanti si incrociavano: i vicini si davano dei vigorosi pugni per esprimere la loro gioia, i lontani gesticolavano per farsi intendere meglio dagli amici. Di tanto in tanto il grido di «Viva la Regina» tornava ad echeggiare per l’ampia sala che non aveva mai accolta gente così delirantemente gioiosa. La Regina aveva un sorriso di benevola compiacenza e con occhio lieto guardava l’agitarsi di quella folla; ma la giovinetta che se ne stava immobile dietro a lei era divenuta vieppiù bianca in viso e aveva nello sguardo una espressione di ineffabile tristezza. I cortigiani rimasti in fondo della sala pur senza muoversi e senza che l’aspetto ne tradisse il pensiero, si scambiavano delle parole sommesse. — Alma — disse la Regina volgendo il capo verso la giovinetta — appressati. Ella si appressò, ma incerta guardando come sgomenta la folla rumoreggiante. — Dio mio, come sei pallida! — le disse Carolina sottovoce — hai paura forse? — Sì, ho paura... Che Vostra Maestà mi perdoni! — rispose la giovinetta. — Scioccherella — continuò la Regina con un sorriso tra lo scherno e la pietà — di chi hai paura? Di cotesta gente? Ma essa ora ad un mio cenno darebbe fuoco a tutta questa Napoli e ne farebbe un bel falò. In essa è riposta la nostra salvezza, capisci? Che uomini, che uomini! Così li intendo io, deliberati a tutto, nel male e nel bene dritti come una spada! Del resto non son poi tutti così rudi, così barbari! Ce n’è uno, un bel giovane... non è vero che è un bel giovane? Ne faremo un bello e valoroso colonnello di cavalleria! Si è battuto contro cinque e ne ha ucciso o ferito tre... e infine per due sconosciute! Ciò per altro vuol dire che è sensibile un po’ troppo forse, alle preghiere delle donne. A proposito che ha detto don Leonardo, il mio medico? Per questo ti ho chiamato. — Ha detto che la ferita è grave, ma non mortale — balbettò la giovinetta. — Ah, respiro... Ne faremo, ripeto, un magnifico colonnello... Un bel giovane, non è vero, un bel giovane! E la guardò in viso con un profondo sguardo di donna che sa penetrare addentro nei cuori. La giovinetta chinò gli occhi e non rispose. — Va, va — disse la Regina dopo averla contemplata per un istante in silenzio — Bisogna che me la sbrighi con cotesta gente. Quando si rivolse per far cessare lo strepito che era andato sempreppiù crescendo e mentre la giovinetta si ritraeva al posto che le imponeva il cerimoniale, il viso della Regina era tornato austero e grave. La folla sotto lo sguardo acuto e freddo di lei cessò dallo schiamazzo, onde ella riprese: — Il mio tesoriere vi darà il danaro pel ritorno. Raccogliete intanto intorno a voi gli antichi compagni e tutti i volenterosi: chi di voi ebbe il comando di una banda si consideri come capo di un reggimento e sia sollecito a raccogliere uomini ed armi. Un mio messo vi raggiungerà per provvedervi di quanto occorre all’entrata in campagna. Nessuno indugio: appena il nemico avrà invaso il regno, insorgerete sterminando per primi tutti coloro che potrebbero parteggiar per lui. Ma già, vi farò tenere al più presto le mie istruzioni. Che ognuno di voi destinato ad un comando giuri su questo crocefisso di esser fedele al Re e di morire se occorre per la difesa della Religione. In così dire si rivolse e fece un cenno: un personaggio del seguito si avanzò e dopo essersi inchinato porse alla Regina un crocefisso d’argento. La Regina stese il braccio e mostrando alla folla il crocefisso disse con voce solenne alzandosi in piedi sicchè tutta la magnifica persona si stagliava dal fondo luminoso della sala: — Giurate voi di dar la vita per la difesa del trono e dell’altare? — Lo giuriamo! — risposero gli astanti ad una voce. — Giurate voi di non dar quartiere a chiunque paesano o forastiere sia nostro nemico? — Lo giuriamo! — ripetè la folla. E tutte le mani si stesero verso il crocefisso a conferma del giuramento. — Ed ora — disse Carolina d’Austria trasfigurata e tutta raggiante di regale maestà che accresceva il fascino della stupenda bellezza — che l’Onnipotente vi benedica come io in nome del Re che sol da Dio ebbe il regno, vi benedico e in segno del mio regale favore vi do a baciare la mia mano. — Viva la Regina! — gridarono tutti ad una voce precipitandosi per esser fra i primi a baciare quella mano bianca ed affusolata che ella aveva stesa verso la folla. Nessuno però aveva gridato «Viva il Re». Gli è che per quegli uomini rozzi, pressochè primitivi, la monarchia si impersonava in quella donna che era rimasta mentre gli altri erano fuggiti, che incitava alla resistenza mentre gli altri avevan ceduto senza combattere. Essa aveva il fascino della bellezza e della forza; sentivano che l’anima di quella donna era fatta di tutte le passioni che più prepotentemente vibravano nei loro cuori: l’odio, la vendetta, l’istinto della lotta; che era audace ed impulsiva e al par di essi di ferrea tenacità nei propositi. D’ora innanzi poteva ben contare sulla cieca devozione di quegli esaltati dall’inaudito onore di essere stati ammessi alla di lei presenza, di averne ascoltate le parole, di averne baciata la mano. Il Cardinale aveva trascinato dietro a sè tutta quella gente col fastigio del nome e della superstizione, con la promessa di un pingue bottino; ed aveva combattuto per sè ed anche per l’odio che alla gente primitiva ispirano gli stranieri: ora invece avrebbe combattuto, si sarebbe fatta uccidere per quella Regina che era scesa dalla sua immane altitudine per parlare ad essa e che ad essa si era mostrata in tutto il fasto, in tutto lo splendore della regalità. Ben lo comprese Carolina d’Austria, che seguita dalla sua giovane amica, dopo avere accomiatato con un cenno i cortigiani, era entrata nel suo appartamento ove l’aspettavano alcune cameriste. — Andate via — disse loro entrando — ha da lavorare; vi chiamerò quando avrò voglia di andare a letto. Intanto si era fermata innanzi ad uno scrittoio ingombro di lettere che apriva distratta come se il suo pensiero fosse altrove. Di certo discorreva seco stessa perchè il viso si contraeva secondo i moti dell’animo; ma le labbra avevano un sorriso che si sarebbe detto feroce, e lo sguardo le balenava sinistramente. Parve di un tratto che si sovvenisse di alcuna cosa, gettò sul tavolo le lettere che aveva preso e di cui aveva letto sol poche linee e si rivolse dirigendosi verso l’uscio. Si fermò di botto con un gesto di dispetto, dispetto che le si dipinse nel volto: aveva visto nel fondo della stanza la giovinetta, che con le braccia conserte se ne stava immobile. — Che fate voi qui? — le chiese aspramente fissandola con uno sguardo scrutatore — avevo detto di volere restar sola. — Credevo che un tale ordine non riguardasse me — rispose Alma con una lieve inflessione di alterezza nella voce dolcissima. La fisonomia della Regina si rischiarò e tornando benevola: — Sì, sì, hai ragione, figlia mia — disse con un accento di affettuosa bonomia — ma son tanti, tanti i pensieri che mi van pel capo! Hai visto che bella accoglienza ho preparato ai signori Francesi, e che bella festa a tutti quei cialtroni che aspettano la loro venuta per ribellarsi apertamente a chi Dio volle padrone e signore di questo regno? Ma sei stanca, povera figliuola! Avrebbe dovuto essere una notte di svago questa per te, ci saremmo tanto divertite se avessimo potuto confonderci tra quella folla, e a te che sei così bellina non sarebbero mancate le avventure, di quelle che lusingano l’amor proprio di noi donne. Io intendo la vita in tutti i suoi doveri e in tutte le sue gioie. Certo che a te, povera colombella nata e vissuta nei boschi, dovè parerti ben temerario e, diciamolo pure, sconveniente per una Regina l’andare ad un veglione pubblico mascherata, e chi sa forse che avrai detto in cuor tuo! — Io ho ubbidito agli ordini di Vostra Maestà — rispose la giovinetta impassibile. — Di una Maestà che talvolta ha dei gusti di una capricciosa piccola borghese; ma ciò non toglie che se questa mano che ancor dicono bella, potesse stringere una spada, saprebbe ben difenderlo questo regno che gli uomini han lasciato in balia dei loro nemici! E se ti son parsa dimentica del mio decoro tra la folla che senza saper chi fossimo ci si stringeva attorno, ti sarò parsa ben diversa innanzi a quegli uomini che dovran difendere il trono dei miei figli. — Io non mi arrogo il diritto di giudicare le azioni di Vostra Maestà — disse la giovinetta sostenendo serenamente lo sguardo scrutatore della Regina. — Insomma — riprese la Regina — questa volta fu una serata sbagliata, mentre in tante altre mi divertii un mondo. Avevo delle amiche allora — continuò con un sospiro e con un accento di profonda amarezza — delle buone e leali amiche che sapevano darmi dei savi consigli tanto negli affari dello Stato, quanto in quelli del... piacere. Ah, senza quei marrani ci saremmo confuse tra la folla, e quanti bei giovanotti avresti avuto d’intorno non perchè tu sei la figlia del Duca di Fagnano, primo scudiero di Sua Maestà la Regina, ma perchè la tua bocca è un fiore, i tuoi capelli son raggi di sole, il tuo seno è il nido dell’amore, la tua personcina dello alabastro scolpito da Fidia... Ah, quante di coteste belle cose che fan così dolce piacere a sentirle, non mi intesi io ripetere quando in un veglione... o in altri siti, io non ero per la gente... che una donnetta allegra propensa a divertirsi! Certo delle liete reminiscenze evocava in quell’istante l’animo della Regina che era rimasta immobile, con gli occhi fissi a sè dinanzi come se rivedesse dei fantasmi che le sorridessero ricordando le gioie di altri tempi. — Vostra Maestà — disse Alma — vuole che mi ritiri anche io? La voce della giovinetta trasse la Regina dal suo sogno: si passò la mano sulla fronte, trasse un sospiro, poi con viso che serbava ancora l’impronta di una vaga malinconia: — Sei stanca, povera figliuola, va, va a dormire. La giovinetta si inchinò profondamente e quindi si ritrasse. — Ero così anche io alla sua età, ma guai guai se il cuore di quella ragazza sarà un giorno morso dalla passione!... Per quale strana associazione di idee tali parole evocarono l’immagine del ferito che da due dei suoi più fidi familiari aveva fatto portare in una delle stanze più riposte del palazzo? — Bello, fiero, valoroso come un paladino! — mormorò. — Le note biografiche che avevo letto nella lista dei capibanda non mentono. Del resto egli può considerarsi come ufficiale dell’esercito. Non era sergente del _Real Calabria_ prima che il Cardinale gli affidasse il comando di una banda? Tali uomini mi occorrono, e saprò bene io farli schiavi di un mio cenno! Stette incerta un istante come se lottasse con un pensiero sovraggiuntole; infine parve decisa: — Non gli debbo la vita, e forse più della vita? — mormorò. — E la riconoscenza non dovrebbe essere la prima virtù dei Sovrani? Nel dir ciò sorrideva, forse perchè la coscienza dava un altro nome al suo interessamento. Non aveva deposta nè la corona regale, nè la magnifica collana che ne cingeva il collo bellissimo cadendole sul seno, il quale stretto dal nero velluto aveva fulgori di neve. Prese da un tavolinetto una lanternina di argento, l’accese a uno dei candelabri ed uscì dalla camera, dirigendosi verso un’ala del palazzo che era immersa nel buio. III. Quando capitan Riccardo venuto meno per la perdita del sangue, riacquistò i sensi, si trovò disteso su un soffice lettuccio con la coperta di seta e sormontato da un baldacchino di seta anche esso. Una lampada d’argento scendeva dal mezzo del soffitto e spandeva una blanda luce per la cameretta che agli occhi del giovane velati dallo sfinimento parve come un nido tutto morbido di stoffe con suppellettili quali non aveva visto che poche volte e di una foggia bizzarra come non aveva visto mai. Di alcuni mobili non comprendeva l’uso, degli altri sparsi qua e là non pareva a lui che dovessero usarsi nei quotidiani bisogni tanto eran belli e lucenti quasi fossero usciti allora allora dalle mani dell’artefice. Divanetti, poltroncine, tappeti e colonnine con fregi di bronzo e di argento, e tavolini con coppe e con vassoi da cui la rosea luce della lampada traeva scintille, lo stupivano, e non gli pareva vero di trovarsi fra tante ricchezze. — Ma dove sono, dove sono? — mormorava nel guardare d’intorno. Ricordava in confuso l’accaduto: le idee e le immagini si confondevano nella sua mente; solo le figure delle due donne mascherate che l’avevano indotto ad accompagnarle gli eran rimaste ben delineate nella memoria; pel resto era tutto un confuso succedersi di ricordi senza alcuna concatenazione. Era stato assalito, si era difeso, aveva ferito, era stato ferito, ma quelle due donne, che ne era avvenuto di quelle due donne? Ad una di esse gli assalitori avevano rivolte delle ingiurie, degli oltraggi, poi lui era caduto, infine aveva visti come due fantasmi dai quali era stato preso in braccio e quindi più nulla; senonchè aveva come una confusa reminiscenza di un uomo curvo su lui giacente col petto denudato in quel lettuccio; di un gran dolore che aveva inteso mentre quel fantasima armeggiava con alcuni ferri... poi più nulla, più nulla! Da poco si era destato, ma era ancora in preda ad uno intontimento, nè aveva forza di affissarsi in una idea e di seguirla. Però di tanto in tanto, quasi quel pensiero surnuotasse su gli altri, balbettava: — Il messo non mi avrà trovato... che avrà detto? Come dargli nuove di me? E i miei compagni di cui ero la guida? Ma a poco a poco tornò ad addormirsi, non cessando nel sonno di dir parole sconnesse. Era già l’alba; alcune voci, alcuni rumori indicavano che la città incominciava a destarsi, ma nella camera in cui il giovane giaceva regnava il silenzio, la blanda luce della lampada continuava a spandersi come se ancora fosse notte profonda. In questo una porticina nascosta dall’ampia tappezzeria si aperse e la Regina comparve. Stette un istante immobile, così immobile che pareva una dipinta immagine staccatasi dalla cornice. In quell’istante il giovane aperse gli occhi. — Ah, il bel quadro — mormorò cercando, ma invano, di sollevar la testa dall’origliere — l’immagine di una regina... Poi chiuse gli occhi di nuovo, in quel dormiveglia delle febbri di esaurimento in cui la realtà sfuma nel sogno. La regina si avvicinò al lettuccio e si diede a contemplare il ferito che giaceva supino con mezzo il busto fuori dalla coltre di seta e la testa maschia e fiera affondata nei guanciali di piume. Il petto ampio e robusto era sollevato lenemente dal respiro; dal collo bruno e muscoloso che appariva tra il colletto slacciato pendeva una catenella d’oro con un medaglioncino, il quale posava sulla striscia di tela che copriva la ferita e che aveva nel mezzo una macchia di sangue. — È il mio buon genio che me lo manda — mormorò la Regina. — Nella lotta che ho impresa avevo bisogno di un uomo devoto fino alla morte, incurante dei pericoli, prode e gagliardo come un cavaliere crociato, e ambizioso anche. È il mio buon genio che me lo manda!... Per giunta, un bel giovane, troppo bello e troppo giovane forse — aggiunse con un sospiro. Ma un sorriso di superba fiducia in sè stessa le sfiorò il labbro. — A novanta anni Ninon de Lenclos, dicono le cronache di Francia, faceva ancora delle conquiste; a sessantacinque destò delle fiere passioni nei cavalieri più belli e più prediletti dalle dame della Corte... Io ho di poco varcati i cinquanta, e se i cortigiani me ne dan trenta, i miei nemici mi dicono una formidabile seduttrice... Eppoi, son qualcosa di più che non era Ninon de Lenclos: son Regina di Napoli, e figlia e sorella di imperatori. In questo le labbra del ferito si agitarono come se bisbigliassero delle parole. Ella si chinò trattenendo il respiro per intender meglio. — Alma — mormorò il giovane. — Alma? — chiese a sè stessa la Regina — Ha detto Alma? Un nome di donna o la metà di una parola di cui non ho inteso il principio? Si chinò vieppiù raccogliendo tutte le sue facoltà nell’udito, ma le labbra del giovane rimasero mute. Ella si alzò colpita da un ricordo. — Alma? Ma si chiama così la mia giovane lettrice, la figliuola del duca di Fagnano! Si conoscono dunque? Ma lui che non l’ha vista in viso non poteva sapere che ella fosse una delle due incognite che lo richiesero di aiuto. Lei però potè vederlo allorchè si tolse la maschera... Stette un istante pensosa, cupa in viso, punta da un’angoscia della quale non avrebbe saputo dire la causa. Poi a poco a poco si rasserenò. — Ho certo inteso male. So che quella ragazza non ha mai messo il piede fuori dal castello di suo padre ove era gelosamente custodita, e questo giovane, come dicono le note, dopo il nostro ritorno dalla Sicilia ha vissuto una vita raminga. Non ha parenti, non ha amici, non ha stabile dimora; solo di tanto in tanto va a passar qualche giorno in casa di un vecchio nella quale trascorse l’adolescenza. Eppoi le note stesse lo dipingono per un giovane allegro, spensierato, proclive un po’ troppo alle avventure rischiose per impetuosità di carattere e per esuberanza di virile energia. Via, via, lasciamo all’abate Chiari far dei romanzi sentimentali. Del resto, quando sarà in grado di rispondere alle mie domande, saprò bene io strappargli dal cuore il suo segreto, se ne ha uno. Tenterò prima con lei. Quella lì è più furba di quanto la sua arietta lasci supporre... Un lieve picchio alla porta la fece trasalire. — Il sole deve essere già apparso; quegli imbecilli di generali e di ministri che si son lasciati sorprendere impreparati mi aspettano — disse avendo compreso il significato di quel picchio discreto. — Andiamo, andiamo a dir loro che come io ho saputo riacquistare il regno, così anche questa volta saprò difenderlo. E si mosse per andar via volgendo un ultimo sguardo al ferito. Poi, come vinta da un bisogno irresistibile, si chinò e lo baciò in fronte. — Certo, più bello, più prode, più degno di tutti coloro che ebbi il torto di elevare insino a me, dei quali il mio amore non riuscì a far grande l’animo meschino! E dopo aver detto ciò disparve dietro la tappezzeria che nascondeva la porticina. Il ferito a quel bacio aveva aperto gli occhi e gli era parso di vedere un fantasima che dileguasse. Quel po’ di sonno aveva dovuto ristorarne le forze perchè potè sollevarsi sul gomito e guardare intorno per la camera come chi voglia coordinare le idee. Vide sul comodino presso al letto un vassoio con un bicchiere ed una bottiglietta colma di un certo liquore: comprese esser quello un cordiale, e reputando inutile servirsi del bicchiere, prese la bottiglia e bevve. — Ah! — disse con un sospiro di soddisfazione — doveva esser così il nettare degli dei: mi par che le forze mi tornino e che un’onda di benessere si spanda per tutto l’esser mio. Ma orizzontiamoci... Si guardò di nuovo intorno. — Curioso — disse poi — il quadro è sparito! Strani giochi della fantasia! Mi era parso di vedere là in fondo il ritratto di una Regina che non ci era prima e che non veggo più al suo posto. Nell’aprir gli occhi, mi era parso che l’immagine di quel quadro si fosse staccata, fosse venuta qui, mi avesse baciato in fronte e poi dileguasse. Ma che diavolo è accaduto? Ah, sì, sì, ora comprendo, ora ricordo. Fui ferito con un colpo di pistola da uno di coloro che volevano far violenza a quelle due donne mascherate... Ma posso stare in pace con la mia coscienza perchè dei buchi nella carne ne ho fatti anche io. Ma quelle due donne? Il palazzo reale è vicino al teatro; il tafferuglio avvenne in uno spiazzo presso il teatro. Avevo le spalle ad un muro... anzi no, ad una porticina in cui quelle due donne entrarono... anzi... ecco, ricordo bene, mi era parso di riconoscere in una di esse... Via, via, avevo di già perduto molto sangue forse e perciò avevo le traveggole. Poi caddi... Altri tre corpi giacevano a me vicino... Poi vidi due ombre che si chinarono, mi presero in braccio e mi portarono qui... Stette un istante pensoso, poi: — Qui? Ma questa stanza dovrebbe far parte del palazzo reale e... Si interruppe dando in uno scroscio di risa. — Me lo diceva zio Carmine che la lettura dei Reali di Francia mi avrebbe guastato il capo. Nel palazzo reale io? E quelle due donne dovrebbero esser per lo meno due dame della Corte! Veramente — continuò tornando a guardarsi intorno — se sono in casa di una di esse o di tutte e due, debbono essere assai ricche. Solo nel castello del duca di Fagnano vidi dei mobili come questi. Il volto lieto fin allora si velò di malinconia. — Folle, folle, che non so scacciar da me quell’immagine, e mi par di udir sempre quella voce! Ci ha colpa zio Carmine e quella fattucchiera di Geltrude, zio Carmine che pure non voleva avessi letto i Reali di Francia! Ricordo quando gli parlai la prima volta di... ah, che io sento di farle oltraggio chiamandola col suo nome... di Alma, dopo averle riportato la bella collana che aveva perduta... Quanti anni son passati? Otto anni forse... e zio Carmine mi ascoltava con un certo sorriso e con certi occhi, e giunse financo a dirmi serio e grave: Sarebbe una bella moglie per te; e Geltrude mi disse un giorno; Va alla guerra, torna generale ed il duca te la darà in isposa; e zio Carmine non mi sgridava punto allorchè tornavo tardi la notte per aver gironzato intorno al castello di lei, e zio Carmine sapeva che io andavo pei boschi in cerca di fiori silvestri per gettarli la notte sul balcone della duchessina e parve compiacersene anzi, e quasi quasi avrebbe preteso che ella, la quale al certo di nulla si era accorta, avesse incoraggiata quella mia follia! Ma io ebbi più senno di zio Carmine e... e partii soldato... per tornar generale! Bevve ancora del contenuto della bottiglietta, e poi riprese: — Del resto è la sola follìa della mia vita che ho portata meco attraverso l’avventurosa esistenza di questi otto anni, e per tale follìa di tanto in tanto, come stanotte, mi par di vedere l’immagine di lei e di sentirne la voce. Una illusione come quella che mi fece credere per poco vi fosse là in fondo un gran quadro col ritratto di una regina bella come una dea e con una corona sul capo come una Madonna. E mi parve financo che si staccasse dal quadro, si avvicinasse a me e mi baciasse in fronte!... Ma insomma — disse mutando di un tratto pensieri — deve esser ben tardi, sento le grida dei venditori, il rumore della folla per le vie, e le voci dei marinai lungo il lido. La finestra di questa stanza deve aprirsi sul mare. Ma qualcuno dovrà pure venire per veder se son morto o vivo. Ah, ecco un laccio, un laccio di seta, che deve pur servire a qualche cosa. In così dire trasse a sè il laccio e immediatamente intese squillar lontano un campanello. Stette trepidante in attesa, certo che qualcuno sarebbe venuto. Non attese invano. Poco dopo le ampie cortine della parete a destra del lettuccio si sollevarono, e un cameriere senza livrea apparve sul limitare dell’uscio. — Appressatevi — disse capitan Riccardo. Il cameriere si avanzò, fece un inchino e si tenne immobile. — Mio caro — disse il giovane — voi sapete come io sia stato portato qui, sapete dunque in casa di chi mi trovi. Il cameriere rimase impassibile. — Al certo non siete muto — continuò il giovane un po’ stizzito — perchè non siete stato sordo al suono del campanello. Parlate dunque... Non ne ottenne nessuna risposta: quell’uomo continuava a tenersi immobile senza battere palpebra. — Sentite, amico — esclamò capitan Riccardo sollevandosi con visibile sforzo in mezzo al letto — io sono usato ad andar per le spicce, e vi prevengo che aborro dai misteri. Se non rispondete, scendo dal letto e saprò trovare bene io la via della porta di strada. — Io non posso rispondere perchè nulla so — disse infine il cameriere. — Ho però l’ordine dal medico di avvisarlo appena Vostra Signoria si fosse svegliata. — Ma chi ti ha dato un tale ordine? — Il medico. — Ma io non son certo in casa di un medico. Come si chiama dunque il vostro padrone o... la vostra padrona? — Non so altro, glielo dirà il medico che aspetta nell’anticamera. E senza più dire fece un inchino ed uscì dalla camera. Il giovane non si era ancora rimesso dal suo stupore, quando vide entrare un ometto coi calzoni corti, le calze di seta nera e un giubbone di velluto. Aveva sotto il braccio il cappello a tricorno e la parrucca incipriata finiva in un lungo codino alla cui punta era annodato un nastro di seta. — Siete voi il dottore? — chiese il giovane con accento aspro e breve. — Proprio io; ma voi, mio caro signore, siete bene imprudente; eppure ho riscontrato sul vostro corpo diverse cicatrici, ciò vuol dire che non siete nuovo alle carezze dei colpi taglienti e perforanti. Come vi viene in mente di alzarvi a mezzo sul letto, col rischio di spostare il bendaggio? In ciò dire avvicinatosi al giovine lo costrinse a rimettersi supino. Poi vedendo pressocchè vuoto la bottiglietta: — Bravo, l’avete bevuto quasi tutto il cordiale. Vi faccio i miei complimenti, caro signore; vi trovo con una cera sorprendente, e sì che stamane sul luogo in cui cadeste c’era un lago di sangue. Immaginate i commenti! Anche gli altri feriti pare se la siano sgattaiolata e la polizia è in gran fermento. È stato dunque un duello come ne avvenivano sotto Enrico III? Vi siete battuti padrini e testimoni... — Non fu un duello fu un’aggressione: io accompagnavo due signore mascherate a cui cinque mascalzoni volevano fare ingiuria... — Ah, un’aggressione di cinque contro uno! — esclamò il dottore. — E voi solo contro quei cinque dei quali almeno tre a giudicare dalle tracce che han lasciato, feriste gravemente! Ma bravo, ma bravo, siete un eroe! E la polizia che si ostina a credere essere avvenuta in quel luogo una rissa fra alcuni calabresi che erano stati visti a teatro! — Via, via, dottore — disse il giovane, punto persuaso che il dottore, come voleva far parere, fosse ignaro dei particolari di quella ancor per lui misteriosa avventura — voi sapete le cose più di me e meglio di me. — Io? — esclamò il dottore stupito. — Ditemi dunque dove sono e come si chiama colei che mi ha fatto portar qui. — Come? non lo sapete? — Se lo domando a voi... — Non lo sapete? Ma ciò è strano, strano assai — esclamò il dottore il cui viso esprimeva una grande meraviglia. — Appena ferito mi sentii a poco a poco venir meno; ricordo solo in confuso che fui sollevato dal suolo, fui messo in un letto, ove vidi come un fantasima curvo su me, certo voi che operavate sulla ferita per estrarre la palla... — E la estrassi trionfalmente con due colpi di bistori. Aveva urtato nella clavicola e aveva strisciato lungo i muscoli del braccio. La scappaste bella! Ora ne avrete per una diecina di giorni, a patto che vi manterrete quieto ed ubbidirete agli ordini del dottore. — Ma io voglio sapere dove sono, voglio, intendete? — E lo volete sapere da me? — Sì, perchè voi non l’ignorate. — Mio caro giovanotto, da me non saprete niente per una ragione semplicissima. — Ed è? — Che non lo so neanche io. Il dottore pareva così sincero che il giovane rimase intontito. — Possibile? — mormorò. — Possibilissimo. Stanotte ero a letto e dormivo della grossa quando fui svegliato perchè un ferito aveva bisogno della mia cura. Sappiate che io non mi rifiuto mai, mai ad invito simile, onde mi vestii in fretta e seguii l’uomo, che era venuto a chiamarmi e che mi parve un cameriere di buona famiglia. — Ebbene, io non le so le strade di questa immensa Napoli, perchè ci venni sei anni or sono col cardinale Ruffo e non vi dimorai che due giorni... — Il gran Cardinale! — fece il dottore pel cui viso fin allora sorridente passò un’ombra di malinconia. — Ah, capisco adesso voi foste uno di quei valorosi che... — Sì, sì — interruppe il giovane con un amaro sorriso — che dopo aver riacquistato il regno ai Borboni fummo da questi del tutto dimenticati. Il dottore diede un balzo e si guardò attorno spaventato. — Non dite così, non dite così — proruppe quasi volesse impedire al giovane di continuare. — I Borboni nostri amati sovrani non sono ingrati. Verrà la ricompensa, verrà quando meno l’aspettate. Il giovane scrollò le spalle, ciò che gli fè dare un grido di dolore, poi: — Son pronto a tornar da capo anche senza alcuna ricompensa... Ma non è di questo che si tratta adesso... Dunque io non so le strade, ma voi sì che dovete conoscerle, e perciò saprete per lo meno in qual via siamo. Il dottore parve per poco imbarazzato, ma giunse a dominarsi e rispose con franchezza: — Non so il nome della via, so soltanto che dà sul mare. — Sapete almeno il nome di colui o di colei in casa del quale sono? — Neanche, neanche, giovanotto mio; fui introdotto in questa casa, vi osservai, vi operai e nell’andar via mi fu dato dall’uomo che era venuto a chiamarmi il compenso di alcune monete... Ma io non so perchè dobbiate logorarvi il cervello per apprender cose di secondaria importanza. Siete alloggiato principescamente, con un servo alla porta pronto ad accorrere ad ogni vostro cenno; siete curato da un chirurgo che è annoverato fra i primari; avrete fra poco una delicata colazione, stasera un buon desinare: che cosa volete di più? Se chi ha tanta cura di voi vuol serbar l’incognito, vi è costretto al certo da gravi ragioni, forse dal vostro stesso interesse. L’insistere a voler saperne il nome potrebbe anche parere ingratitudine. Rassegnatevi dunque ad esser curato come un principe e ad esser trattato come un gran signore. — Sì, sì, è vero — mormorò il giovane — ma gli è che io aspettavo un messo che ora ha perduto le mie tracce. Tutto il mio avvenire dipendeva da quello che mi avrebbe detto. Ecco, voi avete un viso che ispira fiducia ed io vo’ dirvi, caro dottore, quel che sarà di me dopo guarito; mi manderan via da questa casa ove fui curato come un principe e trattato da gran signore e mi troverò senza un soldo in tasca come un mendicante. — Eh, chi sa! — rispose il dottore con un risolino che gli errava tra labbro e labbro. — Lo so io, lo so io, se non trovo quel messo! — rispose il giovane. — Orsù — fece il medico che non pareva punto commosso — pensiamo al presente: lasciatemi osservare la ferita; per ora è questo l’importante. E si diede a slacciare la fascia che aveva sovrapposto al piumaccio. — Benissimo, benissimo, fra dieci giorni il braccio tornerà gagliardo come era iersera quando deste di quei colpi ai vostri avversarî. Vi occorre però del riposo, della tranquillità di spirito e della fede nella vostra stella. — Ahimè, caro dottore, la mia stella è appena appena un lumicino che può esser spento da ogni alito di vento. — Invece io la credo prossima a sfavillare di luce intensissima se... se saprete tenerne acceso il fuoco... E il dottore scoppiò in una risata la quale al certo rispondeva come la sua frase, ad un segreto pensiero. Ma il giovane non vi badò: appariva incerto, imbarazzato, come chi voglia dir cosa per la quale non trovi le parole. Infine facendo uno sforzo: — Mio caro dottore, io vi son riconoscente delle vostre cure, ma la mia lealtà mi obbliga a dirvi che non ho di che pagarvi, il messo che aspettavo avrebbe dovuto darmi un po’ di danaro, ma a chi rivolgermi ora? Capite bene, se son forzato ad accettare la ospitalità di un ignoto, non voglio che per di più paghi il medico e quindi... — Sì, sì, voi siete degno di far fortuna — esclamò il dottore che fissava il giovane con occhio scrutatore — perchè siete anche nobile e fiero, ammenochè, appunto per questo, non sappiate trar profitto... — Che dite, dottore? — Nulla, nulla... Vado via per tornare stasera. Attenetevi dunque alla mia prescrizione: riposo, tranquillità di spirito e fede nel vostro avvenire. Ciò detto fece un cenno di saluto e si diresse verso l’uscio, giunto al quale si rivolse per salutare di nuovo il giovane e poi andò via. — Parola d’onore, non mi ci raccappezzo — mormorò il giovane — pure son certo che il dottore, una brava persona a quel che pare, la sappia più lunga di quando mi voglia far credere. Che mistero è questo? Io son di sicuro in casa di quella incognita che fu la prima a prendere il mio braccio, che io già avevo giudicato per una signora, forse anche una gran signora. Ella mi mostra così la sua riconoscenza, pure avendo potuto lasciarmi giacente sulla via. Sì, ma se mi fece raccogliere onde io non ne indovinassi il nome e per evitare uno scandalo? In tal caso la riconoscenza si chiamerebbe prudenza! Insomma, io debbo sapere, voglio sapere, anche perchè il mio ospite, uomo o donna, sappia che io non son uomo da seguire il consiglio molto pratico, ma punto delicato, del dottore. E con una rapida risoluzione, fece di nuovo squillare il campanello ed attese con l’aria di chi abbia formato un disegno. L’istesso cameriere apparve sull’uscio. — Datemi i miei panni — gli disse con l’accento di chi è sicuro d’essere ubbidito — il dottore mi ha trovato in grado di alzarmi e di uscire. — Lei non può uscire — rispose l’impassibile cameriere — se prima non avremo ricevuto l’ordine. — Noi? chi noi? — Noi dell’anticamera, i valletti della sala di entrata, il portinaio... — Ma dunque son prigioniero? Il cameriere fece un gesto come per dire che non ne sapeva nulla. — Via, via, non mi fate andare in collera chè io son buono a gittar dalla finestra voi dell’anticamera, i valletti della sala di entrata e il portinaio. Dite il mio desiderio al vostro padrone, chè non voglio mostrarmi scortese usando la forza. — Il nostro padrone è assente. — Anche questo? E quando tornerà cotesto vostro padrone? — Fra cinque o sei giorni, anzi, prevedendo che lei avrebbe voluto andar via, ci ha detto di pregarlo ad aver pazienza. — Dunque lo vedrò finalmente cotesto mio ospite? Il cameriere rispose con lo stesso gesto evasivo, poi riprese: — Se vorrà vestirsi, troverà in quell’armadio degli abiti: i suoi furon portati via perchè macchiati di sangue... Ha da comandarmi altro? Il giovane rispose con un cenno della testa che fu dal cameriere inteso come di commiato. Rimasto solo, Riccardo si diede a riflettere ai casi suoi davvero assai strani. Se il suo ospite gli aveva fatto dire di attenderlo, aveva dunque in animo di rivelarglisi e quindi era suo obbligo di attenderlo. Sempreppiù si andava persuadendo che l’ospite fosse una donna, e proprio quella donna per la quale era stato ferito. Un ricordo inoltre sopravvenutogli di un tratto, lo aveva fatto decidere a rimanere: la donna mascherata nel sentire il suo nome non si era mostrata consapevole di molti episodi della vita di lui, ciò che l’aveva vivissimamente sorpreso? Come dunque li conosceva? chi glieli aveva detti? dove mai l’aveva conosciuto? Lui era un povero avventuriere che se si era fatto notare per la sua intrepidezza, anzi per la sua temerarietà, in quel sanguinoso periodo della storia napoletana, non si lusingava punto che la sua fama si fosse sparsa così che al solo sentirne il nome la gente lo associasse all’assalto di Cotrone e alla scalata del forte di Vigliena. Chi era dunque quella donna così addentro nelle imprese da lui compiute? E ricordava inoltre che i cinque contro i quali aveva difeso quella donna le avevano rivolto delle atroci ingiurie, l’avevan detta vile, fedifraga, adultera, e pur senza conoscerlo gli avevano rimproverato di prenderne la difesa, quasi quella creatura fosse indegna della protezione di qualsiasi onesto uomo. Come rinunciare dunque a scovrir un tal mistero? Rimanendo, non solo si sarebbe mostrato riconoscente alle cure che essa aveva avuto per lui, ma avrebbe al certo appagata la curiosità che andava divenendo in lui sempre più acuta. Però non sapeva spiegarsi, non bastando a dargliene una ragione ciò che egli diceva la sua follìa, come in tutto quello inestricabile viluppo si associasse l’idea e l’immagine di Alma! Non gli era parso di vederla nel fondo del palco reale mentre la Regina era per andar via dal teatro? non gli era parso di averne intesa la voce nelle parole del domino azzurro che era in compagnia di colei che gli aveva chiesto aiuto? Non gli era parso di vederne la figura ritta sotto l’arco di una porta mentre egli si accingeva a respingere gli aggressori delle due donne mascherate? Ma a che logorarsi più oltre il cervello? Non gli restava dunque che di rassegnarsi ad attendere. In capo a sette giorni la ferita poteva dirsi rimarginata, il giovane aveva ripreso le forze mercè anche i cibi succolenti e delicati insieme che gli erano serviti in vassoi di argento e i vini generosi. Alzatosi, si era vestito di un ricco abito tra il borghese ed il militare trovato nell’armadio con un mantello foderato di una ricca pelliccia. Nè mancavano le armi chè in una panoplia presso all’armadio aveva visto delle spade, delle pistole, dei pugnali di tempra finissima, come non mancavano libri in uno scaffale di ebano intarsiato, libri di amena lettura come i romanzi dell’abate Chiari, i melodrammi e le canzonette del Metastasio e i poemetti del Monti. Si era anche avvicinato alla finestra per aprirla, ma le massiccie imposte eran chiuse da catenaccio, onde non potè vedere attraverso i vetri che l’azzurra distesa del mare corsa da vele e da barche di pescatori. Il dottore era venuto ogni giorno, ma nulla aveva potuto apprendere da lui: chiacchierava volentieri; ma appena il giovane accennava al suo ospite si chiudeva in un riserbo che avrebbe esasperato il recluso se essendo ormai trascorsi alquanti giorni non fosse stato certo che il mistero fra poco gli sarebbe stato svelato. Perchè perdere il merito della paziente attesa con una ribellione tardiva? Certo delle gravi ragioni avevano imposto al suo ospite di esser cauto; d’altra parte di che poteva lagnarsi lui? bene è vero che l’ozio incominciava a pesargli; uomo di azione, vissuto fin allora nella libertà dei grandi boschi e nelle vicissitudini di una vita avventurosa sempre incerta del domani; costretto ora a raggirarsi tutto il giorno per quell’angusta cameretta incominciava a sentire acuto il bisogno di uscirne. Nè la lettura bastava a distrarlo, e la vista del mare faceva più vivo in lui il desiderio dei grandi orizzonti e della libera vita sotto il sole, all’aperto. Erano scorsi già sette giorni di tale vita solitaria e monotona alla quale però nulla mancava pel benessere del corpo, chè anzi i cibi succolenti, i vini generosi ne avevano ringagliardito le fibre ed acceso il sangue da fargli sentire vieppiù penosa la strana prigionia. La ferita era del tutto rimarginata, il dottore non era più venuto: il giovane dunque si trovava solo, solo col mistero sul quale convergeva ogni suo pensiero, preoccupato anche dalla incertezza del domani, quantunque tanto la donna mascherata, quanto il dottore gli avessero raccomandato di aver fede. In lotta seco stesso, chè incominciava a sentir vergogna di quella sua inazione, e di quella ospitalità sontuosa la quale lo umigliava, aggiravasi per l’angusta cameretta ora risoluto di andar via a qualunque costo, or cedendo al vivo desiderio di conoscere il mistero dal quale si sentiva avvolto e nel quale spesso si approfondiva senza venirne a capo. — Domani, domani andrò via, andrò via! Tornerò da zio Carmine a cui certo quel tale che mi invitò a venir qui si sarà rivolto per aver mie nuove. Questo aveva detto a se stesso quasi ogni sera nell’andare a letto, e questo ripeteva a se stesso la sera di quel giorno, dopo che il cameriere avendo acceso la lampada lo lasciò solo. — Chiunque sia il mio ospite avrebbe bene il diritto di giudicare male di me se mi credesse così vile da essermi acconciato a questa esistenza da parassita. Si coricò dopo disposto il paralume in modo che l’alcova in cui era il lettuccio fosse nella penombra; e aspettando che il sonno scendesse sulle pupille si diede a riflettere ai casi della sua vita e ad evocarne i ricordi. Sapeva pur troppo di esser solo al mondo: il vecchio zio Carmine quando il giovinetto, dotato di una precoce intelligenza che accoppiava ad un ardire e ad una forza di animo di molto superiore alla sua età, fu da lui reputato in grado di conoscere il vero, non gli nascose che l’aveva raccolto nel bosco ove colei che l’aveva partorito l’aveva esposto forse per occultare la colpa commessa nel generarlo. Egli era dunque un povero trovatello che sarebbe morto di fame e di freddo senza la pietà di quell’uomo che egli amava come un padre e che continuò ad amare con filiale devozione anche quando venne a sapere che non era stretto a lui da alcun vincolo, se non dalla gratitudine. Ed invero zio Carmine aveva avuto per lui le cure più affettuose, e se perchè povero, vivendo del provento di un poderuccio, non gli aveva potuto dare uno stato, ne aveva curato l’educazione per quanto era nelle sue forze, tenendolo a scuola fin presso ai diciotto anni, sicchè fra i giovanotti di quella montana contrada Riccardo di zio Carmine, come veniva chiamato, poteva dirsi uno dei più istruiti, notevole anche per una innata gentilezza di animo, e ciò faceva dire a parecchi che certo scorreva sangue di signori per le vene di quel trovatello. Il giovanetto invero si sentiva diverso dagli altri suoi compagni, dando ragione a quel che la gente diceva di lui non solo a proposito dei modi, ma anche della figura la quale, pure essendo maschio e robusta, aveva qualche cosa di delicato e di signorile che persuadeva a farlo credere non di sangue contadinesco. Zio Carmine d’altra parte si faceva scuro in viso quando qualcuno accennava all’origine di Riccardo, ed il giovane era convinto che il mistero della sua nascita non doveva essere ignoto al suo benefattore. E ci era un altro che esser ne doveva consapevole, un amico di zio Carmine, ben noto a tutti i montanari della Sila per la sua rozza e grottesca figura e per la sua forza muscolare, per la quale aveva meritato di esser detto il Toro. Si chiamava Pietro, ed apparteneva a quella classe tra il borghese e il contadino che vive del proprio lavoro accudendo alla coltura di un poderetto o ad altri negozi. Se la vita di zio Carmine era scorsa tranquilla e monotona nel suo villaggio presso al castello dei duchi di Fagnano, non così quella del suo amico Pietro che aveva avuta una giovinezza assai burrascosa. Innamoratosi di una bella giovinetta, l’aveva sposata, non calcolando che la sua bruttezza lo avrebbe esposto a gravi pericoli e che la bellissima Rosaria più che lui aveva sposato la casuccia e il poderetto che Pietro il Toro aveva ereditati; se ne accorse un triste giorno in cui messo in sull’avviso dai vicini aveva trovato Rosaria in intimo colloquio con un guardaboschi. Pietro il Toro aveva di una sola stretta delle sue dita di ferro strozzato i due amanti, poi aveva preso il bosco per sottrarsi alla giustizia e si era unito con una banda non prendendo però parte a nessuna delle atrocità che essa commetteva, limitandosi soltanto a chiedere di che sostentarsi ai signori che avevano boschi e mandrie sulle montagne. Scendeva spesso nel suo paesello per riveder gli amici ed era da tutti stimato come un buon galantuomo, e per la bizzarria del suo carattere era bene accolto anche dai signori, che gli davano da vivere a patto che egli non ne danneggiasse i beni. Pietro il Toro era stato dei primi ad accorrere sotto la bandiera del Cardinale Ruffo ed aveva fatto prodigi di valore negli assalti della città e nelle mischie coi repubblicani. Poi era tornato glorioso e trionfante nel paesello e si era rimesso a coltivare il poderetto sicuro che non lo avrebbero molestato nè nel doppio omicidio, nè per i dieci anni di vita brigantesca, che aveva, a parer suo, largamente scontato col combattere pel trionfo del trono e dell’altare. Ed invero se prima lo si stimava, dopo il ritorno dalla crociata lo si ammirava; e poichè aveva ben dimostrato che il coraggio in lui era pari alla forza muscolare, era divenuto un pezzo grosso per tutti i montanari silani che giungevano financo a non trovarlo poi tanto brutto. Il giovane Riccardo aveva in lui più che un amico: spesso quando Pietro il Toro viveva da bandito andava a raggiungerlo sulla montagna ed era accolto con affettuosa compiacenza; e lo strano era questo, e che riusciva inesplicabile pel giovanotto: Pietro il Toro di modi burberi e scontrosi con tutti, era come lui quasi umile e gli parlava con una certa sommissione. Il giorno in cui seppe che il giovanotto era gravemente ammalato, passò più notti al capezzale di lui col rischio di farsi sorprendere dai gendarmi che avevano avuto l’ordine di arrestarlo. Al par dello stesso Carmine aveva a cuore l’avvenire del giovane che già aveva varcato i venti anni e mal volentieri si piegava ai lavori dei campi quantunque ben lo comprendesse, l’aiutare il vecchio Carmine che aveva preso a coltivare anche il poderetto di Pietro il Toro, fosse un obbligo per lui. — L’inclinazione di questo nostro giovanotto è per le armi. Io ne farei un soldato — disse un giorno Pietro il Toro discorrendo col suo amico. — Il duca di Fagnano ha bisogno di un armigero. Lo prenderebbe volentieri al suo servizio... — Mai, no, mai! — esclamò Pietro il Toro guardando fisso il suo amico. — Hai ragione, sì, hai ragione — mormorò questi — sono uno sciocco! Fu allora che il cardinale Ruffo sbarcò in Calabria e chiamò intorno a sè tutti coloro i quali volessero combattere pel Re legittimo e per la Religione: e fu Pietro il Toro che indusse il giovane Riccardo a seguirlo. Il giovane se da una parte vedeva aprirsi un vasto orizzonte ad una certa confusa ambizione che covava nell’animo, dall’altra un sentimento che ancora non aveva nome per lui, un sentimento vago, senza propositi gli rendeva sordamente increscioso il doversi allontanare da quel luogo. A diciotto anni aveva trovato un giorno in un viale del castello del duca una collana d’oro con una bella crocetta tutta petruzze scintillanti: certo apparteneva alla figliuola del duca che allora allora era passata a cavallo con un seguito di armigeri: il giovanotto l’aveva raccolta, era andato al castello e per favore singolare era stato ammesso alla presenza della duchessina che piangeva pel gioiello disperso essendo esso una memoria di sua madre. Era stata tale la gioia che la giovinetta gli si era slanciata incontro e lo aveva ringraziato con una effusione pressochè sconveniente per una donna del suo grado. Poi rivoltasi alla governante, una vecchia signora dall’aria burbera ed altezzosa, le aveva detto mentre rimetteva al collo la collana di dare una buona mancia a quel contadinello. Il contadinello aveva arrossito e senza attendere che la vecchia signora eseguisse l’ordine della duchessina era andato via. Ma da quel giorno non sapeva bene qual sentimento nuovo, strano, imprecisabile ed ineffabile gli era nato nell’anima: dapprima celato a tutti, poi intravisto da pochi che avevan dimestichezza col giovanotto, e specialmente da una vecchia amica di zio Carmine, certa Geltrude, che viveva dei provventi di un mulino giù nella vallata e che accoglieva volentieri il giovanotto allorchè si recava da lei. E fu appunto essa che un giorno, vedendolo seguire con uno sguardo pensoso la duchessina che passava fra la consueta scorta degli armigeri, aveva detto ridendo al giovane: — Ti piace, eh, ti piace? Non sei di cattivo gusto! Capperi, la figlia di una dei più grandi signori del Regno e per giunta bella e luminosa come un raggio di sole! Va fatti soldato, torna generale e tela daranno in isposa. Il vecchio Carmine fece un gesto di stupore quando la sua amica Geltrude gli parlò di quello che le era parso di leggere nell’animo del giovane, ma non se ne mostrò sdegnato quasi che non gli fosse parso punto oltraggioso il qualsiasi sentimento del suo figliuolo adottivo verso quella superba figlia di uno dei più nobili signori del regno, come sarebbe parso agli altri di quel paesello, anzi un giorno in cui sorprese il giovanotto col naso in aria e gli occhi fissi sul lontano castello aveva detto: sarebbe una bella moglie per te! con un accento che aveva della ironia, ma aveva anche una certa tristezza. E perciò Riccardo, il figlio adottivo di colui che era chiamato zio Carmine, pure anelando di uscir da quella solitudine in cui la sua gagliarda giovinezza si disfaceva, nel dividersi da zio Carmine e da Geltrude, che erano stati i soli suoi amici, nel cingere al fianco il coltellaccio e nel mettersi in ispalla la carabina che zio Carmine gli aveva regalato; sentì come se una acuta spinta gli pungesse il cuore. Ed era partito seguendo Pietro il Toro con una speranza nell’animo ingenuo e gonfio di illusioni, di tornar generale. La bellezza della persona, l’ardire che gli si leggeva nello sguardo eran piaciuti al Cardinale che volendo metter su un reggimento di milizia regolare col nome _Real Calabria_ andava scegliendo fra i più prestanti di coloro che erano accorsi a lui, per farne un corpo disciplinato che fosse di nucleo agli altri. E il giovane Riccardo vi fu ammesso come soldato; ma nelle diverse fazioni era stato tale il suo valore, che salendo man mano di grado, era stato per la temerità dimostrata nell’assalto del forte di Vigliena promosso a capitano. Bisogna però dire che egli non aveva commesso nessuna di quelle nefandezze che disonorarono quell’eroica impresa: che era stato pietoso coi vinti, umano coi nemici e che più volte anzi aveva impedito che si commettessero quelle sceleraggini che il Cardinale pur volendo, pur deplorandole, non aveva saputo evitare. Onde dopo la sanguinosa campagna i due amici, Pietro il Toro e capitan Riccardo si trovarono insieme, non sapendo a qual partito appigliarsi. Il Cardinale si era dimesso; il Re era tornato dalla Sicilia e pareva del tutto dimentico di coloro che avevano sparso tanto sangue per rimetterlo sul trono: le bande si erano disciolte; i gradi conseguiti non eran riconosciuti: il vecchio bandito ed il giovane capitano si trovarono soli e come perduti nella immensa Napoli che avevano ritolta ai repubblicani per ridarla al re legittimo. — Tu partisti per divenir generale, ritorni ora capitano — disse ridendo Pietro il Toro — più fortunato di me che torno quel che ero, ma con qualche piastra in tasca che tu non hai. E i due amici fecero la via servendosi un po’ per uno del cavallo di capitan Riccardo, che il giovane aveva guadagnato in uno scontro coi repubblicani. Pure, mentre Pietro il Toro tornava alla coltura del suo poderello, il giovane che sdegnava di vivere in ozio, oramai però esperto del mondo, si era dato a negoziare di bestiame che trasportava in Sicilia per rivenderlo. Aveva ricacciato in fondo al cuore il qualsiasi sentimento che gli faceva vagheggiar l’immagine della figliuola del Duca, la quale aveva rivista non sapendo trattenere un sussulto dell’anima sua, e ne era stato per la prima volta guardato con una certa curiosità benevola, poichè si era sparso nel paesello la fama delle prodezze da lui compiute. Ma aveva vissuto pur troppo in quei sei mesi a contatto del mondo perchè potesse accarezzar nell’anima sua le ingenue illusioni della prima giovinezza e si era dato ai suoi commerci coi quali sperava di farsi uno stato modesto e tranquillo. Quando un bel giorno un messo giunto da Napoli aveva chiesto di lui al vecchio Carmine; quel messo che non aveva voluto dire chi lo mandasse, lo invitava a recarsi a Napoli ove in un luogo che poi gli sarebbe indicato avrebbe visto raccolti tutti gli antichi capibanda delle milizie sanfediste: quel messo gli conferiva la facoltà di condurre a tal convegno coloro che si erano segnalati nell’impresa del Cardinale, e nel dir ciò porgeva al giovane una borsa con duecento piastre per la spesa del viaggio di lui e degli altri che avrebbe condotto seco. Ah, finalmente! era quella, quella la fortuna che da tanto aspettava, chè mai si era piegato a quella vita monotona e triste del mercante di bestiame. A ben altro si sentiva nato: sentiva di aver in sè un tesoro di energie: anelava alla lotta, ad una esistenza di perigli e di grandi imprese; quando si parlava delle guerre che altrove si combattevano, quando sentiva discorrere di coloro che nati poveri ed oscuri avevano conquistato sui campi di battaglia un nome famoso, un grado cospicuo, un titolo, ed alcuni erano giunti fino a cingere una corona; quando in qualche giornale capitato chi sa come in quel suo paesello leggeva il racconto delle fiere battaglie coi nomi di coloro che avevano in esse trionfato od anche che in esse erano gloriosamente od eroicamente morti, sentiva come una invidia ed insieme un dolore profondo che a lui fosse negato tanto di raggiungere la meta che la sua confusa ambizione gli additava, quanto di morire eroicamente e gloriosamente nello assalto di un ridotto o nella difesa di una trincea. I cinque mesi della sanguinosa reazione che aveva fatto crollare la Repubblica partenopea erano stati i più belli della sua giovane vita: la prova che aveva dato di sè e che aveva attirato l’attenzione dello stesso Cardinale, lo avevano persuaso di esser nato per la guerra, non per quella combattuta sì ferocemente accanto a coloro che la consideravano un mezzo per appagare le più turpi passioni e per far bottino; non accomunato ai ladri ed agli assassini che avevano sparso intorno a sè il terrore e che avevano commesso tante inaudite nefandezze: non contro i suoi stessi concittadini devastando, incendiando, depredando, ma per quella combattuta lealmente contro gli eserciti stranieri sui campi di battaglia. Dopo quei cinque mesi, aveva dovuto soffocare le speranze e le ambizioni; aveva dovuto considerar come inutilmente sparso il suo sangue col quale aveva pure conquistato un grado: aveva dovuto tornare nella volgarità della vita paesana a vendere e rivendere pecore e buoi, rinunciando al proposito col quale si era votato di riparare all’oltraggio del destino col farsi un nome glorioso. Ma ecco che di nuovo la fortuna picchiava alla sua porta con la mano di quello ignoto messaggero, perchè era evidente che gravi avvenimenti maturavano e che si aveva bisogno ancora del braccio di coloro che, a parte l’indole malvagia e delittuosa di alcuni, avevan dato prova di tanto valore guerresco, e questa volta forse si sarebbe combattuto non contro i propri concittadini, ma contro lo straniero. — Sta sicura — aveva detto sorridendo a Geltrude — che questa volta tornerò generale! E aveva rivolto uno sguardo verso il castello con una espressione di tristezza e insieme di amara ironia, ma aveva visto cosa che assai lo fece meravigliare: il castello, di ordinario, così silenzioso, amando il Duca vivere nella quiete allorchè lasciando la Corte in cui teneva l’ufficio di primo scudiere della Regina, veniva per pochi giorni a visitare la sua unica figliuola Alma, era in una insolita animazione; e nello spiazzale gli armigeri a cavallo pareva aspettassero che le due lettighe, ferme presso la porta, si mettessero in via. Geltrude seguendo la direzione dello sguardo di Riccardo, aveva detto: — È il Duca che riparte. Non sapevi forse che era tornato da parecchi giorni? Ah! la sua follìa, che di tanto in tanto lo sopraffaceva, non era del tutto dileguata, quantunque egli ben misurasse l’insormontabile distanza che lo divideva da quella giovanetta, tanto lontana da lui quanto una stella da una lucciola! Non aveva mancato di partecipar l’invito a Pietro il Toro, il quale quantunque avesse di qualche anno varcato i cinquanta, pure anelava anche lui ad una vita avventurosa; al Ghiro, al Magaro che avevano fatto tanto buona prova sotto il Cardinale e a parecchi altri degli antichi commilitoni che non chiedevano nulla di meglio, quantunque ignorassero di che si trattasse; ma la vista delle duecento piastre li assicurava e li incoraggiava a seguire il giovane. Così era partito con quei suoi compagni; così era giunto a Napoli, ove sul Ponte della Maddalena un uomo, fattoglisi incontro gli aveva dato un biglietto nel quale era scritto che coi suoi compagni avesse aspettato il messo nella sala del veglione al S. Carlo. Così gli era accaduto quella strana avventura, per la quale era stato ferito e si trovava ora quasi prigioniero sulla parola in una casa a lui ignota, ospite forse di quello sconosciuto che aveva protetto. . . . . . . . Tali ricordi lo avevano per un pezzo tenuto sveglio, col pensiero lontano da quel luogo, ma che a quel luogo era tornato e alle conseguenze di quell’avventura, conseguenze che rendevano inutile il suo viaggio a Napoli e quello dei suoi compagni. Che avrebbe detto ad essi? Come avrebbe giustificato il suo abbandono? avendolo visto uscire dal teatro con due donne, non avrebbero creduto che chi sa in quali bagordi avesse del tutto dimenticato i suoi amici? E pure che li avesse ritrovati come avrebbe provveduto ai loro bisogni poichè delle duecento piastre ben poche gli erano rimaste in tasca? Poi, a poco a poco le pupille gli si velarono: i gravi e tristi pensieri avevano a lungo lottato col sonno che gli gravava le ciglie, poi si erano confusi, poi il sonno lo aveva vinto. La notte era già alta: la lampada spandeva un fioco chiarore per la stanzetta, ma il paralume che il giovane aveva spiegato innanzi ad esso lasciava nella penombra l’alcova in cui era il tettuccio. Il silenzio era profondo. Ma il silenzio profondo fu rotto da un lieve cigolìo: le cortine del fondo si aprirono, una donna apparve, che si inoltrò pian pianino, varcando il semicerchio di luce che spandeva la lampada. I magnifici capelli biondi disciolti per le bianche spalle che una nera vestaglia lasciava denudata, gli occhi accesi come per febbre, le labbra rosse e tremanti nel pallido viso, il seno magnifico che ansava facevano di quella regale bellezza una prepotente fascinatrice. Ella con gli occhi lampeggianti fisi sul giovane si accostò al tavolinetto accanto al tettuccio sul quale era un vassoio con un bicchiere ed una bottiglietta piena di un roseo liquore: l’aperse e vi lasciò cadere una polvere contenuta in una scatoletta d’oro. Poi... Il giovane dormiva supino con la testa fiera e maschia affossata nei morbidi guanciali. Era sogno o era realtà? Sentiva sulla bocca una bocca ardente e due braccia che lo stringevano su un seno morbido e caldo. Aperse gli occhi e diede un grido. — Siete venuta, siete venuta? — disse lui discostando un poco quella donna da sè per contemplarne meglio le fattezze. — Come siete bella, come siete divinamente bella! — Parlate sommesso — disse lei con un soffio di voce. Capitan Riccardo non avrebbe saputo dire se fosse sveglio o se quello fosse un sogno, un sogno divino. — Era il vostro ritratto dunque quello che vidi una notte e che fu poi tolto? — No, no — affrettossi a rispondere lei. — Come vi somiglia, come vi somiglia! Ma siete voi, dite, siete voi l’incognita che chiese il mio aiuto? — Sì, sì, taci, taci! — mormorò lei. — Ah, sì, ricordo che mi diceste di esser bella, ed io bella vi ho sognato... Ma la realtà supera il sogno... Oh, che vi guardi, che vi contempli... E il giovane con le mani nel morbido viluppo della bionda capellatura di lei ne discostò vieppiù il volto dal suo e si diede a scorrere con lo sguardo fiammeggiante per tutte le bellezze di quella donna di cui respirava il profumo acre, ma pur soave. — Voi siete la Regina... — Io? — esclamò lei sollevandosi con un atto di sgomento. — Sì, sì, la regina della bellezza, e se fossi morto per voi, purchè vi avessi per un istante vista in viso, mi sarei inteso compensato abbastanza. Ma perchè mi avete fatto aspettare tanto? — Eravate ferito — mormorò lei chinandosi di nuovo sul giovane che l’aveva rassicurata con le sue parole. — Temetti che la mia presenza, una qualsiasi emozione potessero ritardare la guarigione... — Ah, sì comprendo ora — fece il giovane che non si saziava di contemplar quelle bellezze alle quali la penombra conferiva una vaghezza di fantasima. — Ah, come dovete essere vieppiù divinamente bella al sole, e nello sfolgorar di cento ceri! E la vostra compagna, dite, la vostra compagna? Perchè eravate in due quella sera... — Era la mia cameriera — rispose lei con accento brusco e reciso. Il giovane fece un atto di meraviglia, ma poi sotto il fascino di quella donna, del mistero che la circondava, col cervello inebriato dei profumi, con gli occhi abbagliati, sentendo sempre per le vene una fiamma e ancor incerto se quello fosse un sogno, cinse con le braccia la vita della incognita attirandola a sè. — Dimmi, dimmi chi tu sei, dimmi con qual nome debbo invocarti... — Ti piaccio? — domandò lei con un sorriso che mise un bagliore di neve nella bocca rossa ed ardente. — Sì, sì, assai! — esclamò lui fissandola estasiato nelle pupille. — Ebbene, chiamami come vuoi tu, il piacere, la voluttà, l’amore, ed ecco quel che sono ora per te. — Sì, sì, il piacere, la voluttà — mormorò lui. — Perchè non dici anche l’amore? Ami forse un’altra donna tu? E nel fargli questa domanda, il labbro inferiore, un po’ più pronunziato dell’altro, le tremava, gli occhi azzurrini che erano così dolci nei baci, ebbero un lampo ferino, e la voce ne era aspra e stridente. — L’amore! — rispose lui allentando la stretta e ripiegando il capo come sorpreso da un pensiero o da un ricordo. — No, no, nessuna donna mi ha mai amato! Sperò così di aver deluso la domanda per una certa diffidenza che pur nell’ebbrezza lo teneva guardingo, ed anche perchè in quel subito divampare del suo sangue, aveva ritegno di frammettere il nome e l’immagine di una fanciulla come temesse di farle oltraggio. Poi proseguì: — Certo nella mia vita avventurosa a molte donne io piacqui, molte mi piacquero, ma nessuna nessuna lasciò di sè memoria nell’anima mia. Poi sopraffatto dall’ebbrezza, trasse a sè di nuovo quella donna che si piegò e fissandolo con uno sguardo acuto da penetrargli nel fondo del cuore, gli disse: — Sì, sì, ma mi amerai sempre, per la vita e per la morte? — Sì, sempre! — rispose lui anelante — per la vita e per la morte! — Bada — continuò a dir lei dominandosi come se volesse anzi tutto svelargli l’animo suo — bada: il mio amore è di quelli che uccidono o è di quelli che esaltano fin dove l’ambizione di un uomo può giungere. Esso è come il sole, o brucia o feconda: esso è come il torrente, o devasta, o... — Sia morte, sia vita, sia inferno, sia paradiso, che importa? — esclamò lui. — Così ti voglio, così ti ho sognato, così — rispose lei fremente! Quante ore trascorsero? Non essi l’avrebbero potuto dire. Le ore che conta l’ebbrezza sono istanti, quelle che conta il dolore son secoli! Nel silenzio profondo si sentiva il delirio di quella giovinezza e di quella beltà. — Ho sete! — disse lui nel destarsi da quel delirio. Egli si era sollevato sul gomito e la contemplava. Era una magnifica statua calda e palpitante d’amore, con gli occhi languenti di dolcezza e le labbra roride di voluttà. — Hai sete? Non ho che lo squisito liquore di questa bottiglietta. Vino da imperatori.... che tu hai bevuto ogni giorno. — Se mi veniva da te, nettare degli Dei! — disse lui per continuare nello scherzo. Ella rispose seria e grave: — No, sul serio, vino da imperatori... del Tokai. Mescine nel bicchiere. Egli si rivolse, sturò la bottiglia e riempì il bicchiere che le porse. — Bevi tu — disse lei. — No, no, mia dolce signora... — Bevi, così voglio! — esclamò con voce imperiosa. — Non andare in collera, via. Vai presto in collera tu! — rispose Riccardo un po’ sorpreso. — Ma bada, veh, che anche io vo in collera talvolta, e in tal caso, so essere uomo, comprendi? — Ah, sai esser uomo! — esclamò lei col viso sfavillante di gioia. — Sì, sì, lo credo. Hai avuto un gesto superbo di orgoglio e un accento reciso di dominatore. Perdona sai. Gli è che finora io ho vissuta fra femminucce in calzoni. Sei un uomo tu! È vero, è vero: me ne accorgo dal lampo che hai nello sguardo. Se avessi ubbidito alla mia voce, ti avrei stimato meno. Sei bello, sei prode, e sai volere! Ah, se il re che è fuggito fosse stato prode, e avesse avuto negli occhi quel tuo sguardo di fiera volontà... — Che importa del re a noi, in questa ora? — disse lui scrollando le spalle. — È vero che importa a noi del re che è fuggito vigliaccamente?... — Via, non facciamo della politica: lasciamo in pace quel povero re, pel quale ho pure sparso il mio sangue. — E della Regina... non parli tu della Regina? — Ne ho inteso dir tanto male, ma.. non importa, io sento che è una grande anima, fiera, risoluta, imperterrita nell’odio come nell’amore, tremenda nella lotta e superba anche nella disfatta. — Proprio così, proprio così proruppe lei — e a cui finora mancò un uomo! — Ma insomma bevi se hai sete — disse il giovane porgendole il bicchiere. — No — fece lei raccogliendosi tutta in lui che la teneva stretta con un braccio. — No... vedi, ora prego... bevi tu, bevi, mio bel cavaliere. Sii docile al capriccio della tua donna... — Così, berrei la morte — rispose lui galantemente. Vuotò di un fiato il bicchiere, poi riempiendolo lo porse a lei. Ella lo prese, vi bagnò le labbra, e cogliendo un istante in cui il giovane si era ripiegato verso la sponda opposta, lasciò cadere il bicchiere che si ruppe. — La sgarbata che sono — disse lei. Non gli diè tempo di rispondere e lo strinse fremente fra le braccia. IV. Un tepido sole di gennaio sfavillava su quel mare che si stendeva immobile con una lieve frangia di argento lungo la curva del lido e delineando le città e i villaggi che si specchiano nel golfo incantevole. In un punto della deserta spiaggia di là dai Granili presso ad una barca con la chiglia affondata nella rena alcuni uomini in costume calabrese discorrevano mentre un giovane vestito di un elegante e ricco costume tra il borghese e il militare dormiva all’ombra della barca al cui anello di prua eran legati per le briglie due stupendi cavalli l’uno sauro, l’altro morello. — Ma — diceva il Magaro a Pietro il Toro — dimmi tu che pensi di un tal mistero, perchè al certo ci è un mistero in tutto questo. Pietro il Toro, tozzo e barbuto, con gli occhietti un po’ loschi e una bocca tagliata a sghembo ciò che conferiva una certa aria di comicità alla sua fisonomia che però nell’ira assumeva una tremenda espressione di ferocia, Pietro il Toro si strinse alle spalle. — Chi ne capisce nulla? — rispose. — Io so quel che sapete voi, che per sette giorni siamo stati alloggiati e pasciuti a spese di non so chi; che per sette giorni abbiamo goduto di un letto ben soffice in una casa che da noi farebbe invidia al più ricco galantuomo: abbiamo avuto tavola imbandita due volte al giorno con vini, con liquori e con ogni altro ben di Dio: che ogni mattina trovavamo allo svegliarci una bella piastra sul tavolino presso il letto, e tutto questo a nome di capitan Riccardo che poi ci avrebbe fatto sapere ove dovevamo attenderlo per tornarcene insieme, a fare quello che abbiamo deciso di fare. So quello che sapete voi, nè più nè meno, cioè che stamattina camminando lungo il lido avremmo trovato capitan Riccardo. Ci siamo alzati all’alba, abbiamo camminato lungo il lido ed ecco qui capitan Riccardo che dorme coricato in sull’arena a rischio di sciupare il bel vestito che ha avuto il torto di sostituire a quello col quale era venuto. Quei due cavalli al certo son suoi; quella valigetta sulla quale poggia il capo e che sembra ben gonfia sarà anche sua; quella sciabola che pare d’oro e di argento, quella magnifica carabina, quelle due paia di pistole, quel pugnale simile ai pugnali che portavano nella cintola i Turchi nostri compagni nei bei tempi del Cardinale, sono al certo anche suoi. E questo so ed è tutto quello che voi sapete. — Sì, ma... — Volete che vi dica altro? Che io non capo nei panni pel piacere, io che amo capitan Riccardo come un figliuolo, perchè credo che questa volta l’abbia afferrato pel ciuffo la fortuna. — Ma come si spiega che egli era con noi quella notte, quando Sua Maestà ci fece giurare... — Zitto — disse Pietro il Toro — tu non ricordi che promettemmo di non parlare di quel che si disse e si fece quella notte se prima non è tutto ben ordinato? — È vero; ma qui siamo tra noi... — E che vuoi che ti dica? Che ne so io dove era? In un luogo certo ove andò senza un carlino in tasca e donde è ritornato con un magnifico abito da cavaliere, una gonfia valigia, due magnifici cavalli e delle armi degne di un generale. — Vuoi sapere — disse il Ghiro con una certa aria di sufficienza — dove sia il mistero? In quelle due donne con le quali uscì dal teatro. — Eh, via due donnette di quella folla scostumata e briaca che se lo portarono via forse per scroccargli qualche piastra! Ma ti pare? Quali donne che avesser potuto fare dei regali come questi che abbiamo sottocchi, si sarebbero avventurate in quella folla che pareva in preda del demonio che maledetto sia? Se mai, fu colpa di quelle donnette se mancò al convegno di quella sera. — Ma insomma? — Ma insomma, anche se ci logorassimo il cervello fino a domani non verremmo a capo di nulla. Bisogna aspettare che si svegli. — Ma perchè non lo svegli, Pietro? — disse il Magaro. — È già tardi: veggo nel sole che è l’ora della merenda: se dobbiamo metterci in via... — Grazie tante — rispose Pietro. — So bene che quando uno è svegliato a mezzo il sonno è capace di dare anche una coltellata al suo migliore amico. Io, per esempio, divento una bestia. Eppoi dorme così profondamente che sarebbe proprio un peccato. Chi sa come avrà trascorso la notte!... — Nessuno mi caccia dalla testa che quelle due donne mascherate ci entrano per qualche cosa. — Lo vedi che sei una rapa, un asino, un barbagianni, a tua scelta? Guardalo in faccia: ti appare graffiato? — No, perchè una tale domanda? — Perchè se fosse stato finora insieme con le due donne, una di esse per invidia, per gelosia, per dispetto gli avrebbe strappato gli occhi. Ci scherzi? Chi può star sicuro in mezzo a due donne? Io ai tempi del Cardinale avevo una certa simpatia per due di quelle che ci seguivano, due di quelle che... mi capite. Una sera me le portai tutte e due a cena. Sapete come finì? Che se non le avessi mandate via gettandole fuori della porta mi avrebbero strappato tutti i peli della barba. — Eran gelose di te, — disse il Magaro con bonomia troppo affettata per esser sincera. — Sì, sì, erano entrambe gelose di me. Che vuoi dire? — Nulla. Eh, già, le femmine sono così strane nei loro gusti!... La grottesca fisionomia di Pietro il Toro si rabbuiò: i loschi occhietti ebbero un lampo d’ira. Il Ghiro toccò col gomito il Magaro e gli disse sottovoce rapidamente. — Mutiamo discorso: evitiamo qualche guaio... — Dice bene il Ghiro — fece Pietro che aveva inteso — mutiamo discorso. Nonpertanto stettero tutti e tre in silenzio. Poi, dopo un pezzo, il Ghiro disse: — Ma, a dirla come è, non mi par naturale il sonno di capitan Riccardo. Dormire così profondamente e all’aria aperta di Gennaio e col sole negli occhi... Infatti l’ombra si era a poco a poco ritratta e il sole illuminava a pieno il viso del giovane che continuava nel suo profondo assopimento. — Sarà stanco e avrà passato la notte non certo a dire il rosario! — Pure non sono tranquillo; che diavolo, un sonno così profondo all’aria aperta!... E Pietro il Toro si inginocchiò sull’arena e curvossi sul giacente. — Non c’è che dire — fece poi risollevandosi — il respiro è tranquillo... non ha mai dormito così bene anche nel letto più soffice. — Intanto io ho fame — disse il Ghiro. — E io no? — Se hai mangiato come un lupo ieri sera... — Ahimè, temo che di scorpacciate simili non se ne faranno mai più... — Eh via, se la cosa prenderà fuoco torneranno al certo i bei tempi. — Ma sarà un osso duro da rodere. I Francesi hanno del fegato. Dicono che sono protetti dal diavolo... — Lo vedremo, Pietro, lo vedremo. Dietro un pino o dietro un rovero non avrei paura di tutto un battaglione. — Zitto, zitto — esclamò Pietro il Toro — il capitano ha per poco aperto gli occhi. — Ho visto anch’io... ma li ha tornati a rinchiudere. E tutti e tre si misero intorno all’addormentato che invero si era mosso, aveva aperto gli occhi ma ancora doveva avere sulle pupille la nebbia del sonno perchè i tratti del viso erano rimasti immobili. — Scuotiamolo — disse il Ghiro — scuotiamolo dolcemente. Lasciate fare a me, lo sveglierò senza che se ne accorga. Lo prese per le spalle, lo sollevò lentamente, poi nel rimetterlo a giacere lo rivolse un pò sul fianco. Invero il giovine aperse di nuovo gli occhi, stirò le membra e mentre i tre compagni si rialzavano discostandosi, si guardò intorno con l’aria di chi voglia rendersi conto di una cosa strana. Infine vide i tre riuniti in gruppo che lo guardavano. — E come vi trovate qui voi? disse; e poi di nuovo guardandosi intorno: — E come mi ci trovo io in riva al mare all’aria aperta?... — Siamo qui da due ore — disse Pietro. — Abbiamo obbedito ai vostri ordini comunicatici iersera. — I miei ordini? — mormorò il giovine distratto sollevandosi a sedere e continuando a guardare intorno a sè e poi alle sue vesti e poi ai cavalli e riportando gli occhi di nuovo sui suoi compagni. — E per aspettare che vi svegliaste abbiamo anche resistito al bisogno di rifocillarci — disse il Ghiro, — Guardate il sole: segna di un’ora trascorsa quella della merenda, e là in fondo ho visto una taverna... Il giovane si teneva in silenzio, pensoso, ma l’espressione della fisonomia era indizio che i ricordi in lui si ridestavano e che man mano divenivano più precisi e più coordinati. Ad ogni nuovo oggetto, la valigia, le armi, i cavalli, che gli si offriva alla vista faceva un atto di sorpresa come aveva fatto nel vedersi vestito di un abito che non aveva mai portato. Però si conteneva comprendendo che se avesse manifestato il suo stupore avrebbe dovuto dar delle spiegazioni ai suoi compagni, onde alle parole del Ghiro alzò la testa, chè gli avevano offerto il modo di uscir di imbarazzo. — Sì, sì — disse — avete ragione. Se ci è dunque qui vicino una taverna andate a far merenda. Ma per i danari... — O che credete che la spendevamo tutta la piastra che ogni mattina trovavamo sul tavolino presso il letto? — Ah, già — disse lui dissimulando lo stupore — già, dimenticavo che siete alquanto provvisti. Andate dunque che vi aspetto qui. — E non avete fame voi? — Io no. Andate: vi dirò poi quel che dovremo fare. I tre si allontanarono, ma nel loro viso si leggeva come un vago scontento. — Che ne dite? — fece il Magaro fermandosi quando furono un cinquanta passi di là dal luogo in cui avevano lasciato il giovane. — A me pare che capitan Riccardo sia ben più sorpreso di noi di quello che gli è accaduto e di trovarsi lì. Ci guardava come se aspettasse da noi una spiegazione. Non è vero, Pietro? — Ebbene, sì. Anzi io credo che ci abbia voluto allontanare per riflettere, che so io, per sbrogliare la matassa. Se fossi stato solo con lui, lo avrei indotto a parlare... con me non avrebbe fatto misteri... — Ma insomma — fece il Ghiro alzando le spalle — che può importare a noi di quel che ci nasconde? Dagli effetti dobbiamo credere che non debba e non dobbiamo essere poi scontenti del come vanno le cose. Per sette giorni abbiamo mangiato, bevuto e dormito come signori: danaro in tasca per il resto non ce ne è mancato ed io ho ancora qualche piastra... Lui, il capitano, non ha più, è vero il suo bell’abito di calabrese, ma in compenso, è vestito come un barone, ha con sè delle armi magnifiche, due magnifici cavalli e una valigia piena di chi sa che ben di Dio. Andiamo a far merenda, sentite a me, che le cose non potevano andar meglio del come sono andate. Capitan Riccardo era rimasto immobile, pensoso, con gli occhi fissi a sè dinanzi, ma volti a contemplar le visioni dell’animo suo. A lui pareva che quella donna, di cui non sapeva il nome, di cui non sapeva la casa nella quale era pure vissuto per sette giorni, si fosse allora allora distaccata da lui, ne sentiva ancora il sapore dei baci, ne sentiva ancora il profumo acre nella sua inebriante dolcezza, ne sentiva ancora fra le braccia il corpo morbido e caldo. E come si trovava là, in quel lido deserto, presso quel mare, sotto quel sole, lui che testè si era addormentato col capo sul seno di quella donna, dalla quale si era inteso amato con sì ardente passione come se da molti anni le avesse acceso il sangue ed infiammato il cuore e di cui aveva inteso tutto l’ineffabile fascino nel sangue e nella carne? E chi era, chi era quella donna che in sì breve tempo era entrata tanto violentemente nella vita di lui, della quale forse per tutto il viver suo avrebbe dovuto subire l’influenza? Chi era quella donna che andava mascherata in un veglione tra la folla ebbra dal piacere; che riconosciuta era stata atrocemente ingiuriata; che lo aveva fatto raccogliere ferito, che lo aveva fatto curare, che lo aveva tenuto per sette giorni prigioniero e che in quella notte gli si era data con tanto fremente abbandono? Chi era quella donna che aveva servi così devoti, medici così discreti; che aveva fatto ricercare i compagni di lui e aveva provveduto largamente al bisognevole e che poi li aveva fatti avvertire che lui in quel mattino, in quell’ora, si sarebbe trovato in quel lido? Chi era, chi era la donatrice dei due bellissimi cavalli, delle armi degne di un principe, e che lo aveva fatto portare in quel lido mentre era addormentato? E come, come il suo sonno era stato sì duro, sì tenace da resistere mentre al certo avevan dovuto vestirlo di quegli abiti, prenderlo in braccio adagiarlo in una barca e deporlo poi su quella spiaggia? — Ah! — esclamò lui ricordandosi della voglia che ella aveva avuto di bere e dell’aver voluto che lui bevesse pel primo. — Ah! la bottiglietta, la bottiglietta! Certo vi aveva messo un potente narcotico. Ma chi era, chi era quella donna? Un lampo gli attraversò il cervello; lesse un nome in quel lampo. Sua Maestà la Regina! Fu un lampo, fu un nome che lo fece rabbrividire. Per lui la Regina, come ogni cosa che avesse il fastigio della regalità, e come per tutti che vivevano lontani dalla città in cui la Corte risiedeva stabilmente o per poco, la Regina assai più del Re era un essere così in alto, così lontano dal reale, dal sensibile, da tutto ciò che avesse attinenza con la vita degli altri uomini, da esser considerata più come una idea che come una persona. Le _romanze_ che i vecchi contadini raccontavano la sera accanto al fuoco la dipingevano come fatta di sole, con una corona di gemme sulla fronte, seduta su un trono d’oro custodito da tigri e da leoni: si nutriva di pane d’oro servito in piatti d’oro, e le parole fatali che le uscivano dalla bocca di corallo erano ascoltate in ginocchio, e con gli occhi chini, e guai, guai a sollevarli perchè il fulgore delle reali pupille era tale che gli imprudenti ne sarebbero rimasti accecati. Ora lui che per quella Regina, per quel Re aveva versato il suo sangue, era stato troppo a contatto con la gente che aveva visto da vicino nel suo palazzo, le regali persone per aver la stessa ingenua credenza dei contadini delle sue montagne; non pertanto gliene era rimasto un sacro rispetto, un profondo convincimento che fossero immuni dalle debolezze e dalle passioni umane e che Dio ad esse avesse conferito il diritto di vita e di morte sui loro sudditi. Come dunque credere che dal soglio quella donna fosse discesa fino a lui; che egli avesse baciato quella bocca la cui parola poteva essere una grazia od una condanna; avesse baciato quella fronte su cui posava la regale corona: che egli, infine, povero trovatello, povero ed oscuro soldato di ventura, fosse rivale di un Re e avesse avuto fra le braccia fremente di amore la figlia di una Imperatrice? È vero però che ne aveva inteso dire un gran male, da alcuni che la dicevano feroce ed implacabile nelle sue vendette, da altri che aveva avuto di molti amanti: ma aveva anche inteso dire che eran quelle delle vili calunnie spacciate dai rivoluzionari i quali pur di abbattere il trono e l’altare non si facevano scrupolo di vilipendere con orrende menzogne il Re e la Regina, la Regina specialmente da essi più temuta. Inoltre gli amanti che le si attribuivano erano principi o ministri, onde se anche quelle voci non mentissero, come credere che Ella, la quale a piè del trono aveva tanti superbi e magnifici signori su cui posare lo sguardo, si fosse avvilita a far di lui l’amante di una notte, di lui povero e rozzo montanaro? Egli dunque respingeva come insano il dubbio che per un istante gli era balenato nella mente. Ma se non era, e non poteva essere la Regina, certo la donna che egli aveva difeso e che lo aveva compensato con una notte d’amore, esser doveva fra quelle che possono far piegare alla loro le altrui volontà; che sicure del silenzio dei loro fidi possono contare sulla loro devozione e sulla loro complicità nello appagamento dei capricci. Una Regina così fiera ed insieme così odiata avrebbe sdegnato il contatto della folla che quella sera gremiva il teatro, di quella stessa folla alla quale poco innanzi si era mostrata sul palco reale in tutta la superba maestà di donna e di sovrana. Chi era dunque, chi era quella donna? E rivedendola, perchè a costo anche di sparger tutto il suo sangue, ne sarebbe andato in traccia, l’avrebbe riconosciuta? Era bellissima sì, stupendamente bella, ma il viso nella semioscurità dell’alcova era come velato dall’ombra, sicchè in lui ne era rimasta come una immagine confusa. Ah, perchè, perchè smarrito, sconvolto dalla apparizione che credeva un miraggio della fantasia, non si era imposto di dominarsi per veder bene in viso ed in piena luce la donna che l’aveva sopraffatto; e nel delirio, in quel subito divampar del sangue non aveva serbato tanto di ragione da costringerla a svelargli il nome e lo stato? Ed il giovane che si era seduto sulla murata della barca, ricercava nella memoria il viso di quella donna, ma con dolore riconosceva che esso sfumava nell’ombra. Ed avrebbe vissuto sempre in una tale incertezza? E se quella donna, appagato il suo capriccio, non gli desse più nuove di sè, avrebbe dovuto portare non solo nella sua anima, ma nel suo sangue il ricordo di quella notte divenuto una smania angosciosa? Ed anche se un giorno si fosse incontrato in lei, nessuna prova, nessuna poteva addurre per costringerla a confessare di esser lei la sconosciuta che in premio del sangue da lui versato per lei gli aveva avvelenato il sangue coi baci di quella notte! In questo intese un colpo di cannone: si scosse e guardò lontano donde il rombo era venuto: poi altri colpi ed altri si susseguirono ad intervalli, e nello stesso tempo vide tre navi uscir dal porto e in una di esse spiegato al vento il bianco pavese reale. Un pescatore proprio allora era disceso dalla sua barca e tirava le reti alla riva. — Dimmi, amico, — chiese il giovane — perchè quei colpi di cannone? Il pescatore si tolse il berretto e poi rispose: — È la Regina che va a raggiungere il Re in Sicilia. Ah, povera donna, non lei certo avrebbe abbandonato così noi e la città nostra ai Francesi che vorranno vendicarsi della batoste che ebbero cinque anni or sono. Povera donna, ha fatto quel che ha potuto, ma.. gliela farà pagar cara, vedrete. — Grazie, buon’uomo — disse il giovane nel cui animo eran sorti nuovi dubbi che lo tenevano perplesso. Il pescatore tornò alle sue reti. Capitan Riccardo fu tratto dai suoi pensieri dalla vista della valigetta su cui dormendo aveva poggiato il capo. Fin allora nè i due cavalli, che sbuffavano talvolta scalpitando, nè le armi deposte presso il luogo in cui lui aveva giaciuto, nè la valigetta avevano attratto la sua attenzione. — Ah — disse con un grido — chi sa, chi sa non vi troverò svelato il mistero? Ed io che mi ci affannavo! Ma avrei dovuto incominciare con aprirla, ed ogni cosa si sarebbe chiarita. Così dicendo apriva con mano convulsa la valigetta che era chiusa e stretta soltanto dalle cinghie. — Delle camice — disse lui allorchè l’ebbe aperta — il pensiero è gentile, ma... Ah, una borsa... delle monete d’oro... una somma, una somma cospicua!... Mi ha voluto pagare dunque il sangue che ho sparso per lei... No, no, per mille diavoli, il mio sangue non lo vendo... Getterò al mare questa borsa se non potrò restituirgliela. E nulla, null’altro? Vediamo, vediamo ancora... Non è possibile, no. Del danaro a me, a me! Ah, se avessi osato offrirmelo stanotte, sarebbe bastato per farmi riacquistar la ragione. L’ira per ciò che reputava una ingiuria gli aveva acceso il volto; pur continuava a frugare. — Cosa è questa, cosa è questa? — gridò poi. — Un portafoglio, delle carte... Ah, finalmente, finalmente! Nel dispiegar le carte le mani gli tremavano, l’ansia non gli faceva discerner bene i caratteri. Si alzò per rimettersi in calma. — Orsù — disse poi. — Ho come un presentimento che leggerò il decreto de! mio destino, e che da questo punto incomincia per me una novella vita. Orsù: bisogna leggere attentamente e con animo sereno. La carta era scritta con caligrafia sottile, ma ben marcata. Il giovane lesse: «Colei per la quale voi rischiaste la vita, non può per adesso svelarvi il suo nome: però da vicino o da lontano veglierà su voi sicura che vi manterrete sempre degno della sua fiducia e del suo interessamento. Ogni indagine per sapere chi essa sia vi è proibita; perdereste il suo favore, che vi farà toccare una altissima meta, se propalaste ciò che in questi giorni vi è parso un mistero e che vi sarà svelato a suo tempo; e poichè la persona che vi scrive è abbastanza potente sareste anche punito delle vostre indiscrezioni. Ubbidite ciecamente, senza indagarne mai le ragioni, agli ordini che ella vi farà giungere: siano la vostra mente e il vostro braccio sempre ed ovunque consacrati a lei e un giorno benedirete l’incontro di quella notte ed il sangue sparso per una sconosciuta. Avendo garantito per voi e pel credito che chi scrive gode presso i nostri Sovrani, ha potuto ottenere per voi la nomina ad emissario segreto di S. M. la Regina e qui acclusa troverete una carta che vi darà autorità di fidato intermediario sui i capi del movimento che si inizierà fra poco a sostegno dei diritti del nostro legittimo Re. Che la vostra fierezza non si adombri pel contenuto della valigia: è il vostro stipendio di un anno che vi si manda in nome e per conto di Sua Maestà; le armi i cavalli sono il dono della dama al bello e prode cavaliere. E pensate che la vostra vita oramai appartiene all’amore di lei e alla vostra fortuna». Dopo aver letto il giovane rimase con gli occhi fissi su i caratteri come per chiedere ad essi il segreto che nascondevano, e la spiegazione del mistero che diveniva sempre più fitto. Ma compiegato al foglio ce ne era un altro la cui lettura lo fece trasalire. In esso era scritto: «Ordino a tutti i capi della banda che combattono pel Re legittimo dato da Dio a questo regno, di riconoscere come mio emissario segreto il colonnello Riccardo e di ubbidire ai suoi ordini come se fossero i miei». _Carolina d’Austria Regina di Napoli._ Presso la firma era impresso un gran siggillo rosso con lo stemma reale. — Emissario segreto della Regina! — mormorò il giovane ancora trasognato. — Io, io? Con autorità suprema su tutti i capi delle bande! Colonnello, io? Si passò la mano sulla fronte, tornò di nuovo a leggere il biglietto... Era un’allucinazione era perfido giuoco della fantasia? Pure quell’oro, quelle armi, quei cavalli erano lì sotto e innanzi ai suoi occhi. E quella donna, restava pur sempre un ignoto per lui! E oltre la Regina cui doveva quel grado, quello ufficio, quella missione, ci era un’altra donna che d’ora in poi era padrona e signora della sua vita? O forse quel che doveva alla Regina doveva anche all’ignota! Eran due le padrone o era una della sua vita, una regina ed amante, che fondeva insieme l’amore e la politica, che lo armava per una guerra terribile e sanguinosa e gli riprometteva la dolcezza inebriante dei suoi baci? Alzò il capo, si guardò intorno, poi lo sguardo rimase fisso sulle tre navi reali che si allontanavano sempre più con le vele spiegate, e col bianco pavese dell’albero di maestro spiegato ai venti. Sentiva, come se un filo misterioso lo unisse a qualcuno che era in quella nave; sentiva nel suo pensiero, nell’anima sua la vibrazione di un’altra anima, di un altro pensiero. Gli pareva che fosse in un altro mondo, che vivesse lì un’altra vita, che lui fosse un altro. Che cosa era rimasto in lui di un passato pure così recente? Come gli appariva lontano e confusa nella nebbia la casetta di zio Carmine, il molino di Geltrude, il castello... Ah, no, no, una immagine si designava nettamente in quella nebbia lontana, una immagine che obbliata per poco sorgeva dal fondo dell’anima sua: l’immagine di Alma. Ma, cosa strana, a lui pareva che ormai non avesse più il diritto di affissare in essa lo sguardo; a lui pareva di farle oltraggio col rievocarla e che anche quella limpida e bianca idealità che per tanti anni era stato il più puro, il più dolce sentimento dell’anima sua dovesse morire col passato che in quel punto era morto. Ma quale, quale sarebbe stata la sua nuova vita, quale il suo avvenire? La guerra, una guerra atroce, terribile, in cui forse sarebbe morto; ma non era questo che gli importava; ma vinto o vincitore, se il ferro e il piombo nemico l’avessero lasciato incolume, quale catastrofe o quale apoteosi l’attendeva? Dove l’avrebbe tratta la mano morbida di quella donna che la notte innanzi aveva inteso carezzevole fra i ricci dei suoi capelli e che adesso sentiva poderoso come se per gli stessi capelli l’avesse afferrato e lo tirasse dietro a sè. Dove? Nell’abisso in cui precipitano i delusi che non seppero padroneggiar la fortuna, o sulla vetta in cui giungono i forti e gli audaci? — Ebbene sì — disse lui con una subita risoluzione: — O nello abisso o sulla vetta. E gli occhi gli sfavillarono di ardimento, e il viso maschio e fiero si illuminò come se in quell’istante il giovane avesse ritrovato il nuovo sè stesso sorto dall’anima sua. Chiuse la valigia che poi allacciò sulla sella del sauro il quale nitrì di piacere alle carezze del giovane: cinse la spada, infilò alla cintura la pistola, mentre impaziente guardava verso il luogo in cui i compagni erano a rifocillarsi. Poco dopo li vide venire. Si accorse che lo guardavano con meraviglia tanto ad essi parve diverso da quello che era nello svegliarsi. — Presto — disse — presto, che è tardi. Monterete a vicenda sull’altro cavallo. Del resto so che avete buone gambe. Fra quattro giorni dobbiamo essere in Calabria. In ciò dire balzò in sella e prendendo la carabina che Pietro il Toro gli porgeva con aria un po’ ammusonita perchè aveva sperato che il giovane gli confidasse i suoi segreti: — Via, su — disse con voce di comando. — Monti per primo Pietro, poi voi altri, man mano. Si avviarono. In quel mentre il giovane che fissava l’occhio verso il mare lontano, vide le tre navi che eran giunte presso l’estrema curva dell’orizzonte e che apparivano come ali di alcioni nell’azzurro del mare e del cielo. — Andiamo — mormorò Riccardo — verso l’amore, verso la fortuna, oppure — che importa? — verso la morte! PARTE SECONDA. I. Nella casetta di Carmine, innanzi ad un buon fuoco, mentre fuori scrosciava la pioggia e rombava il tuono, sedeva la vecchia Geltrude insieme col suo vecchio amico che, a credere a quanto si diceva dai maligni era stato il suo amante. Gli è che Geltrude quel giorno era salita dalla vallata in cui era il molino per alcune faccenduole che doveva sbrigare nel paesello, poi entrata nella casetta di Carmine per salutare l’amico si era indugiata innanzi al focolare chè la temperatura di quel giorno di gennaio era assai rigida: intanto era venuta giù la pioggia e in fondo alla vallata si sentiva minacciosamente rombare il torrente, sicchè Carmine aveva detto: — Via, resta qui stasera; non odi che vento e che pioggia? La vecchia aveva scrollato il capo con un certo lampo di malizia negli occhietti. — Bravo — disse poi con un far lezioso — perchè si dica poi che.... — Che cosa? — chiese Carmine ingenuamente. — Si rimettano in campo certe vecchie storie... certe calunnie... E con le mani al fuoco, curva sulle ginocchia lo guardava sott’occhi mentre stringeva le labbra per non scoppiare a ridere. Carmine, che non se l’aspettava, la guardò alla sua volta come stupito che tali idee le potessero venire in testa. — Non far la sciocca, andiamo — le rispose. — Ti assicuro che adesso, dopo quaranta anni tu ne avevi venticinque ed io trenta, ricordati, non desteremmo scandalo neanche se ti trovassero seduta su i miei ginocchi... Era stata al certo una bella donna quella vecchietta rugosa e bianca che l’età aveva stremata, e che pareva ancor memore dei bei tempi della giovinezza. Stettero per poco in silenzio. L’uragano continuava. — Ti farò un lettuccio presso a questo buon fuoco — disse Carmine che fumava raccolto in angolo della cassapanca. — Se dimani schiarirà, te ne andrai di buon mattino. — Credo anche io — rispose Geltrude — che sarebbe imprudenza tornare al molino. Ma ti avverto che non ho sonno e che tu devi mantenermi la promessa che mi facesti tante volte. — Quale promessa? — Di narrarmi tutta la storia dei due fratelli, dei due duchi di Fagnano... A proposito, hai avuto nuove di Riccardo? Carmine trasalì e levandosi la pipa di bocca guardò la mugnaia. — A proposito? A proposito di che? — chiese con evidente mal’umore. — Via, via, siamo soli, non è vero? Nessun timore che si possa origliare all’uscio di strada: ognuno a quest’ora e con questo tempaccio se ne sta rintanato innanzi al focolare. Eppoi non hai compreso da certe mie parole che qualche cosa la so anche io? Quando ci accorgemmo che Riccardo aveva una certa idea che a nessuno nato come lui sarebbe venuta in testa: che egli da questa povera casuccia ove fu raccolto per carità, aveva osato alzar gli occhi tanto in alto, in alto sia pure per contemplar la stella che vi splendeva, nè tu nè io ce ne mostrammo sorpresi, come se ce l’aspettassimo, come se fosse una cosa naturale, ed invece in un altro come lui sarebbe stato una cosa da non potere esser pensata neanche dalla mente di un pazzo. — Fanciullaggini! — disse Carmine tra una boccata e l’altra di fumo. — È vero sì, fanciullaggini, alle quali non penserà più ora che per aver vissuto fra tanta gente, in paesi ove si diviene più pratici della vita, avrà compreso che in certi casi è da folle financo l’alzar gli occhi al cielo; ma perchè non ci sorpresero allora? Tu avresti dovuto accorgerti che io, per non esserne stupita dovevo sapere qualche cosa. — Sai che ti dico, Geltrude, sai che ti dico? — rispose Carmine scrollando il capo. — Che volgono tristi tempi per noi, e assai più pel duca. — Come? come? Perchè? — Perchè ho inteso dire che i Francesi... te li ricordi? quegli stessi che sebbene in pochi furono qui da noi sei anni or sono dopo aver scacciato dal trono, orribile a dirsi, il Re e la Regina e che furono poi alla loro volta scacciati dal Cardinale sotto i cui ordini il nostro Riccardo fece prodigi di valore tanto da esser nominato capitano. Ora invece son molti, molti; si dice che la Corte sia di nuovo fuggita in Sicilia, e che si preparino brutti tempi perchè coloro che nell’ultimo anno dello scorso secolo presero le armi per riconquistare il trono, hanno avuto molti danari per assoldar gente a far la guerra ai Francesi e a tutti coloro che prenderan le loro parti. — Gesù, Gesù, che mi conti! E Riccardo per questo è partito col Ghiro, col Magaro e con quel vecchiaccio impenitente di Pietro il Toro? — Lo temo pur troppo, anzi ne son quasi sicuro. E vedremo ancora questi nostri monti disseminati di morti e bagnati di sangue, anche di sangue innocente! — Sì, ma come c’entra il duca di Fagnano che, beato lui, ha tanti danari e già si è posto al sicuro con la figliuola? — Ci entra perchè i Francesi l’hanno a morte con lui, e al certo ne sequestreranno i beni, ne saccheggeranno il castello, e forse chi sa, verranno a chiaro certe cose... Il duca ha nemici assai fra i suoi stessi parenti che l’odiano perchè essi son tutti frammassoni e quindi amici dei Francesi, mentre lui è, come dicono, borbonico e sanfedista. — Frammassone! — disse la vecchia Geltrude in aria pensosa. — Intesi dire questa parola quando il fratello del duca fu messo in carcere più di venticinque anni or sono, donde pare che fosse fatto fuggire. E allora si disse che era stato il duca attuale a denunciarlo come eretico, come, che so io, repubblicano... Ci credi tu a queste voci? E credi tu che il vero duca, il primogenito, colui al quale spettava il maggiorasco con tutti gli immensi beni ereditati dallo zio, il marchese di Cerzeto, sia veramente morto? — Ma — rispose Carmine — so quel che si disse, che era fuggito in Francia, donde il duca fece venire l’atto di morte. — E parmi che era stato condannato. — Sicuro, dalle leggi ecclesiastiche e dalle civili, dall’una come eretico e come stregone perchè quando lo arrestarono trovarono in camera sua teschi, stinchi, animali impagliati, fiale, libri stampati con caratteri strani, e moltissime lettere dei suoi amici di Francia che provavano come egli non credesse a Dio, sempre sia lodato, e congiurasse per fare quel che poi i Francesi fecero: uccidere i re, i signori, i preti, i frati e proclamare la Repubblica. Perciò fu condannato in contumaccia alla pena di morte. — Ma era davvero un uomo così sanguinario, così invasato dal diavolo? — Chi? lui? — esclamò Carmine con impeto. — Era il più buono, il più dolce, il più caritatevole signore che sia mai nato su questi monti. Era sempre proclive a consigliarci, ad aiutarci e non sdegnava lui, il potente duca di Fagnano, marchese di Cerzeto e grande di Spagna di prima classe che aveva il diritto di stare col cappello in testa innanzi al re, capisci? innanzi al re col cappello in testa, non isdegnava, poichè si intendeva di medicina, di entrar nelle umili casucce dei contadini se sapeva che alcuno fosse malato, per curarlo, provvedendolo insieme di medicine, di cibi e di vini generosi. — Il fratello è tutt’altro uomo — disse Geltrude — superbo, avaro, non l’ho visto mai rispondere al nostro saluto. I pochi giorni dell’anno che dimora qui con la figliuola se ne sta sempre nel castello. Ma via, Carmine, so che tu ci entri per qualche cosa nella storia del fratello che fu condannato a morte come eretico e come cospiratore. Son cose oramai passate, che hai da temere infine? Ti confesso che muoio dalla voglia di sapere la verità. Ti giuro sulla Madonna del Carmine che non una parola mi uscirà di bocca. E poi, il duca ora è ben lontano; ha portato con sè la figliuola e si dice che non tornerà più... Che ci vuoi fare? È da tanto, da tanto che mi struggo dal desiderio di sapere come andò la faccenda. — Quale faccenda? — Del matrimonio. Perchè non credere che la cosa sia rimasta occulta. Il duca di Fagnano, il morto, sposò in piena regola la povera Rachele, la figlia del barone di Pietrasanta la quale poi morì di una morte sì strana. Ma dove, ma come, ma quando? Nessuno ne sa niente. Il barone di Pietrasanta, quando seppe che la figliuola era l’amante di un discendente di quei duchi di Fagnano coi quali i suoi per tanti secoli, si può dire, erano stati in lotta e che era finita dopo tanto sangue sparso da una parte e dall’altra con la rovina totale dei Pietrasanta, oppresso dalla miseria, dall’onta, dal dolore, morì quando la figliuola non potè più occultargli le conseguenze del suo fallo. Insomma, caro Carmine, vedi che è inutile il continuare a far con me l’inconsapevole. Andiamo, via; non sono stata un tempo la tua amica del cuore? non ti ho sempre voluto bene anche dopo che la vecchiaia ci ha raffreddato il sangue? Eppoi, chi sa, certe cose è sempre buono a saperle in due. Il vecchio Carmine aveva ascoltato con un viso che rifletteva i vari sentimenti dell’anima. Infine parve convinto. — Ebbene — disse levandosi la pipa di bocca — se mi prometti di esser prudente e ne comprenderai da te stessa la ragione; se, cosa ben difficile per voi donne, mi giurerai di tener per te i particolari della triste storia che ti narrerò, i quali se si sapessero potrebbero forse costare la vita a me e quel che più importa a persona anche a te molto cara: se dunque... — Via, via, non la far più lunga — esclamò la vecchia — ho capito, ho capito: questa persona molto cara a me, è Riccardo, non è vero? Riccardo? — Prometti dunque — disse Carmine — prometti di non dir mai a nessuno quel che ti narrerò. — Se l’ho giurato sulla Madonna del Carmine! — Ascolta dunque e saprai quel che può l’avarizia, l’ambizione nell’anima di un uomo. L’uragano era cessato: il paesello taceva nelle tenebre. Ed ecco la storia che il vecchio Carmine si mise a narrare. — Il vecchio duca, il padre dei due fratelli Tommaso e Silvestro, prediligeva il primo che esser doveva l’erede dei suoi titoli e dei suoi beni, ed anche perchè più buono d’indole dell’altro che fin dalla prima giovinezza si era addimostrato superbo, arrogante, ipocrita e propenso solo ai bagordi, tanto che non aveva voluto darsi nè alla carriera delle armi, nè a quella del sacerdozio che era la carriera percorsa da tutti i cadetti della grande famiglia; e quantunque il duca avesse preso ai suoi servigi un dottissimo abate per l’educazione dei suoi figliuoli, mentre Tommaso studiava con passione, Silvestro a venti anni sapeva appena appena leggere. Tra i due fratelli non ci era punto buono accordo, e non certo per colpa del primogenito che dal minore si sentiva odiato ed invidiato pel grande affetto che meritatamente a lui portava il padre, al quale non aveva dato mai un dolore, mentre l’altro non ci era giorno che non gliene facesse una. Ora una madre, a cui Silvestro aveva sedotta la figliuola faceva risuonare di pianti e di grida il castello: ora un padre, cui Silvestro ubbriaco aveva ferito il figlio, chiedeva un risarcimento; ora un contadino ricorreva per un abuso, o un sopruso, o un danno prodottogli dalla malvagità del giovanotto; insomma il vecchio duca ne era disperato. Nè si può dire che fosse del tutto contento dell’altro, sebbene quieto, tranquillo, studioso, troppo anzi studioso per un giovane che per la sua nascita, era chiamato a ben altro che a viver la vita dello scenziato, onde l’avrebbe voluto meno timido, meno semplice di costumi, più incline al fasto. Insomma sarebbe stato ben lieto se l’uno con le sue virtù avesse avuto un po’ dei vizi dell’altro, e l’altro coi suoi vizi avesse avuto un po’ delle virtù dell’uno. Ora mentre Silvestro, il minore aveva fama di essere un gran scavezzacollo, l’altro incominciava ad acquistar nome di un grande scenziato, quantunque ancora giovanissimo, e si teneva in continua corrispondenza con gli altri scenziati, di Francia specialmente, i quali finirono col guastargli la testa. Quando il vecchio duca venne a morire, i due fratelli, l’uno dei quali aveva ereditato col titolo tutti i beni, una fortuna colossale, mia cara, cui si aggiunse poi quella del marchese di Cerzeto, non ebbero più freno alle loro inclinazioni. Silvestro quantunque povero si diede a sfoggiarla facendo dei debiti, e quando non trovò più chi gli desse dei danari, ne chiese al fratello che in sulle prime non glieli negò, ma poi fu costretto a stringere i lacci della borsa onde l’odio si accrebbe del cadetto che non poteva più soddisfare le sue costose passioni. Da qui malumori, liti, scene violente, che avevan diviso il paesello in due parti, dell’una parte la gente seria, dall’altra tutti gli amiconi, i compagni d’orgia del cavaliere Silvestro. Però anche la gente seria non poteva trattenersi dal rimproverare al nuovo duca l’abbandono dei suoi vasti poderi, abbandono che danneggiava anche i poveri contadini ai quali mancava il lavoro e col lavoro la pur miseria mercede. Così stavano le cose quando incominciò a parlarsi vagamente di un amoretto del duca, il quale fin allora non aveva voluto prender moglie, non solo, ma non aveva voluto mai aver che fare con donne, neanche a svago giovanile. Indovina mo’ chi aveva fatto il miracolo di innamorarlo? La figlia di un acerrimo nemico di casa Fagnano, una giovanetta bella come un sole, pura e buona come una santa, la quale aveva un padre di testa sì dura, di cuore così impregnato d’odio per quella famiglia la quale aveva rovinato la sua che avrebbe dato più volentieri la figliuola al diavolo o al più pezzente dei taglialegna della Sila anzicchè ad un discendente di quei duchi di Fagnano, uno dei quali gli aveva ucciso il nonno, un altro aveva ferito il padre e rimontando a ritroso dei secoli ad ogni generazione si sarebbe trovato un barone di Pietrasanta ucciso da uno dei duchi di Fagnano, e uno dei duchi di Fagnano ucciso da uno dei baroni di Pietrasanta. Un secolare litigio per una certa eredità, già in possesso di quest’ultimo, era stato vinto dai primi, onde al barone di Pietrasanta non era rimasto che il titolo nobiliare e la miseria per compagni: la miseria dei signori è più tetra, più triste, più angosciosa della miseria di coloro che in essa son nati! Ora, dirai, tu se il duca si era innamorato della figliuola del barone, il matrimonio, non avrebbe posto fine alla secolare inimicizia e i danni apportati dall’una all’altra famiglia non sarebbero stati riparati? E questo avrei detto anche io; ma chi, chi avrebbe potuto persuadere il barone, superbo più del diavolo, iroso, cocciuto, accecato dall’odio? Neanche la figliuola, quantunque fosse l’unico essere da lui amato, neanche la figliuola, che dopo la morte di lui sarebbe rimasta povera e sola, lo avrebbe indotto ad accettare per genero il nuovo capo della aborrita famiglia. I giovani dunque si erano incontrati non so dove e si erano intesi non so come, ma sai bene che l’amore, quando vuole rendere infelici due cuori sa bene come fare, e non ci son mura abbastanza massicce, nè porte abbastanza ferrate ed inchiavardate, nè condizioni sociali, nè lontananza ad impedire che si compia quel che ha decretato; so soltanto che si amarono con tutto l’impeto e la giovanile spensieratezza, di cui poi la poveretta dovè subire le tristi conseguenze. La casuccia nella quale il barone di Pietrasanta, dopo la totale rovina della sua famiglia, si era ridotto a vivere era posta in fondo al villaggio: il giovane duca fu anche da me incontrato parecchie notti quando vi ronzava intorno, anzi una volta io mi appiattai per accertarmi se fosse vero quel che si buccinava che quando il barone se ne andava a letto, ella aprisse la porta all’amante e dovetti convincermi che si era detto il vero e che il duca entrava per uscirne all’alba. Egli però tutto il giorno se ne stava chiuso nella sua biblioteca; ma intanto altre e ben gravi voci correvano sul suo conto, propalate dagli amici del fratello; che il duca attendesse ad opera di stregoneria; che manipolasse non so quali filtri col sangue dei fanciulli rubati da alcuni suoi fidi alle madri: che facesse rubare i morti dalle loro fosse per farne non so qual diabolico uso; e si diceva inoltre che egli era in segreta corrispondenza coi rivoluzionari della Francia che congiuravano per uccidere i re, e per mettere sugli altari, invece di Dio, il Diavolo: che nel castello andavano spesso di notte alcuni sconosciuti detti frammassoni, appartenenti ad una setta nemica del re e della religione! E che davvero una o due volte al mese degli uomini che giungevano a cavallo da molto lontano, andassero al castello me ne accertai anche io; ma se davvero sgozzassero dei fanciulli, se un prete celebrasse la messa sul grembo nudo di una donna e bevesse del sangue umano, invece del vino consacrato, questo poi non so, ma anche questo si diceva. Nè il fratello del duca smentiva tali voci, anzi col suo contegno incerto, con la sua aria imbarazzata quando qualcuno gliene parlava riusciva a confermarle. Un bel giorno, che è, che non è, si veggono arrivare molti soldati con gli uscieri e un giudice, i quali circondarono il castello. Immagina i commenti, immagina quante se ne contavano: si faceva a chi la dicesse più grossa. Il giovane duca quantunque buono, caritatevole, generoso, non aveva nè amici nè nemici, all’incontro del fratello il quale era spalleggiato da tutti i suoi compagni di crapula. La sera con grande stupore si vide il duca salire in una carrozza col giudice il quale aveva un aspetto assai arcigno e severo. In breve corse la voce che il duca era stato arrestato, confermato dal cavalier Silvestro, il cui volto era atteggiato a dolore mentre rispondeva: Gliel’avevo detto io, glielo avevo detto io! a chi gliene domandava. Ed il cavalier Silvestro rimase padrone e signore del castello. Qui Carmine si interruppe: riaccese la pipa e si diede a fumare in silenzio. — E il cavalier Silvestro è l’attuale duca di Fagnano! — disse Geltrude che aveva ascoltato attenta e raccolta. — Nè più nè meno — rispose Carmine — il cavalier Silvestro è l’attuale duca di Fagnano! — Che, se ho ben compreso, denunciò suo fratello... — Non ho detto questo — rispose Carmine con aria sorniona. — Non l’hai detto, ma tu ne sei convinto. — Oramai ne son convinti tutti! — mormorò Carmine. — Prosegui dunque, prosegui, chè al certo ora verrà la parte più interessante. — Passarono due o tre mesi — continuò Carmine — in cui noi altri nulla sapevamo della sorte toccata al duca, sapevamo soltanto, che al castello ci era tavola imbandita ogni sera e suoni e canti e... tu intendi il resto. Il cavalier Silvestro si era circondato di ben cinquecento armigeri, scelti fra i più temuti malfattori sfuggiti alla giustizia e se la godeva senza scrupoli in un libertinaggio sfacciato. Una sera io era tornato allora allora dalla montagna e, stanco come era, mi accingevo ad andare a letto, quando intesi picchiare alla porta di strada. Chi poteva picchiare a quell’ora? Apersi e vidi un uomo che non riconobbi non solo perchè era buio fitto, ma anche perchè nascondeva il viso nella falda del mantello. — Chi siete e che volete? — dimandai. — Lo sconosciuto entrò, si tolse il mantello e alla luce della lanterna chi vidi? Il duca di Fagnano, quello che avevano arrestato, proprio lui. — So che siete uno dei pochi galantuomini di questo paese, mi disse, e perciò son venuto a chiedervi un gran servigio. — Io ero sbalordito: lo sapevo in carcere; era dunque libero? era dunque fuggito? Il duca lesse lo stupore nel mio viso e si affrettò a dirmi: — Sono evaso stanotte. Mi occorrono due testimoni nel mio matrimonio con la baronessa di Pietrasanta. Il parroco è stato avvertito e ci aspetta in chiesa. Volete essere uno dei miei testimoni? — Potevo rifiutare? Ero così stupito che non seppi dire nè si nè no. Uscimmo. Fuori vidi un uomo in attesa: era l’altro testimone, nel quale riconobbi Pietro il Toro. — Ah! — esclamò Geltrude — ora comprendo perchè... Carmine non la lasciò proseguire e continuò: — Tutti e tre in silenzio scendemmo per la stradicciuola che conduce fuori il paese. Giunti presso la casa del barone di Pietrasanta il duca ci accennò di sostare poi fece sentire un sibilo leggiero, dopo il quale la porta della casa si aperse e io vidi una figura di donna avvolta in un mantello, la quale prese il braccio del duca. Tremava a verghe come se avesse la febbre, mentre il duca con dolci parole la veniva rincorando. Infine fummo nella chiesa che era deserta e buia: solo in fondo due ceri ardevano innanzi all’altar maggiore ove il parroco in cotta e stola aspettava in compagnia di un chierico. — Signor Parroco — disse il duca — come vedete io non sono un eretico; io credo alla nostra sacrosanta religione; se biasimo ciò che gli uomini han voluto farne, ho sempre riconosciuto le sublimi verità contenute nel Vangelo, Perseguitato dalle calunnie degli uomini, io nato duca e signore di questa contrada, son costretto a venir come un fuggiasco ed un colpevole innanzi a voi perchè col vostro ministero santifichiate l’amore che lega l’anima mia a quella di questa povera creatura. In così dire tolse il mantello che tutto avvolgeva la figliuola del barone di Pietrasanta ed io vidi quella poveretta, bella come una Madonna, una Madonna addolorata, che a stenti frenava i singhiozzi mentre si stringeva al braccio del duca che era pallido e tremante anche esso per la commozione. E fu allora che mi accorsi con uno stringimento ineffabile di cuore che quella poveretta era incinta. — E pensare — esclamò Geltrude scrollando il capo — che l’uomo era il duca di Fagnano e l’altra la baronessa di Pietrasanta, due signori così ricchi e potenti!! — Eh, cara mia, che ci vuoi fare? È questo il conforto di noi poveretti bistrattati dalla fortuna, il vedere che essa talvolta sceglie le sue vittime anche fra coloro che ci destano invidia. E commosso al par di me era Pietro il Toro. Te lo immagini tu Pietro il Toro commosso? Quello lì ha molti peccati sulla coscienza: ha vissuto dieci anni nei boschi in compagnia di gente della peggiore specie, e pure quello lì ha un buon cuore; in quella sua figura grottesca ci è un’anima capace d’ogni nobile sentimento. — Ma va innanzi, va innanzi, chè adesso mi spiego tante, tante cose che mi parevano strane. — Dunque il parroco celebrò il matrimonio, mentre il duca sempre pallido e grave a stento frenava il dolore, e la poveretta si struggeva in lagrime. Ho sempre nell’orecchio il suono di quella voce soffocata dai singhiozzi con la quale rispose al parroco quando questi le chiese se accettava per legittimo sposo il duca di Fagnano. E quando il parroco li benedì ed ella si gettò fra le braccia del duca, non solo io ma anche Pietro aveva i lucciconi negli occhi. Ah, sono scene che non si dimenticano se si campasse cento anni! Poi il parroco ci fece firmare in un suo certo libro, in cui tanto il duca che quella poveretta avevano apposto la loro firma. Pietro il Toro però fece un segno di croce... — Ma dunque il figlio che poi nacque è il legittimo erede... — Aspetta, aspetta che udrai cose da inorridire. Quando uscimmo dalla chiesa, il duca si rivolse a noi e ci disse: Grazie del servigio che ci avete reso. Io non posso per ora condur meco questo angelo di creatura che è adesso mia legittima moglie innanzi a Dio e innanzi agli uomini; ma presto farò in modo che possa raggiungermi. Voi, quantunque di umile condizione, siete due galantuomini, quindi a voi la raccomando, e se Dio un giorno mi farà trionfare dei miei nemici, oltre che da Lui, avrete da me il compenso adeguato alla vostra buona azione. Pietro ed io non sapevamo che rispondere. Il duca di Fagnano raccomandava a noi la sua nobile sposa, a noi poveri diavoli? Quando ci rimettemmo dallo stupore e dalla emozione, i due sposi erano già andati via. E fu allora che Pietro, il quale ha le scarpe grosse, ma il cervello sottile mi disse: — Senti, compare Carmine, la testimonianza che abbiamo fatto stanotte ci attirerà dei guai addosso. Io del resto per pietà di quella povera creatura son disposto a prendere per il collo chiunque le volesse far male e il duca può star sicuro che non avrà parlato indarno a Pietro il Toro. E posso assicurarti, cara Geltrude, come ti dirò in prosieguo, che senza la mia prudenza Pietro ne avrebbe fatta qualcuna delle sue, che sarebbe riuscita assai dannosa a persona cui noi tutti vogliamo un gran bene. — Ora sì che capisco perchè Pietro... — Scorse un mese e nessuna nuova giunse a noi del duca: nel castello però continuavano i banchetti e la vita allegra per mostrare, faceva dire il cav. Silvestro, che egli rinnegava il fratello reo di tanto orrende infamie contro la religione e contro il Re di cui egli era uno dei primi sudditi. Si era saputo però che era giunto a fuggire dal carcere con l’aiuto dei frammassoni e che in contumacia era stato condannato alla pena di morte come reo convinto di sacrilegio, di stregoneria e di non so quali altri delitti; nello stesso tempo si seppe che il Re aveva investito del ducato di Fagnano il fratello del condannato e dato a lui tutti i beni confiscati a quest’ultimo. Allora nel paesello si incominciò a credere che chi aveva architettato le accuse, chi aveva denunciato il duca era stato il fratello sperando di succedergli come avvenne. Pietro ed io soli sapevamo che il duca aveva lasciato un erede il quale fra poco sarebbe venuto al mondo, ma benchè Pietro volesse fare del chiasso, pure io giunsi ad impedirlo. Poi, come sai, dovette rifugiarsi su i monti, dopo il guaio che gli capitò... — Per aver sposato Rosaria, la più bella ragazza che avesse mai portato una tovagliuola bianca, lui così brutto! Ricordo che noi altre l’avevamo predetto, ma si credeva che parlassimo per invidia... — Io dunque rimasi solo a custodire il segreto che mi era di un gran peso, perchè se fosse venuto a sua conoscenza il nuovo duca mi avrebbe fatto far la pelle, come è vero Dio. — E di quella poveretta che era di buon diritto duchessa di Fagnano? — Nulla; non andava in chiesa, non si faceva vedere dalla finestra, nulla! Si diceva che il barone fosse infermo; io intanto facevo i conti ed ero sicuro che la duchessa, perchè a chi se non a lei spettava un tal titolo? esser doveva lì lì per mettere al mondo il frutto dei suoi poveri amori. Quando una notte, oh, non la dimenticherò mai quell’orribile notte! fui svegliato da ripetuti picchi alla porta di strada. Mi alzo e spaventato chiesi chi picchiasse. — Aprite! — rispose una voce aspra e minacciosa che mi fece agghiacciare il sangue nelle vene, tanto più che mi era parso di riconoscere la voce del barone di Pietrasanta. Apersi la porta con mano tremante, ed era proprio lui, il vecchio che pareva si reggesse in piedi solo per uno sforzo della volontà. Al lume della lucerna vidi che era livido e gli occhi gli sfolgoravano. Venite con me — mi disse con voce imperiosa; e sicuro che avrei ubbidito si diresse verso la casa del parroco, attigua alla chiesa ove era stato celebrato il matrimonio del duca con la figlia del barone. Giunti, il vecchio che pareva convulso picchiò a gran colpi come aveva fatto alla mia porta, finchè la serva del parroco non scese ad aprirci, immagina con quale spavento nel viso. Il barone salì di corsa le scale seguito da me e dalla serva atterriti, penetrò nella camera del parroco che era a letto e gridò con voce rotta dal furore. — Dove avete, dove avete il registro dei matrimoni? Il parroco sorpreso, sbigottito, non osò neanche di protestare e stese la mano additando un grosso librone su un tavolino presso al letto. Il barone vi si precipitò e si diede a sfogliarlo mentre la mano gli tremava e gli occhi pareva volessero schizzargli fuori dell’orbita. Infine urlò con una voce che ci fece sobbalzar tutti: Nulla, nulla, nulla! Ah, l’avevo detto io, l’avevo detto... non solo la rovina, ma anche il disonore... Poi avventandosi a me ed afferrandomi pel collo. — Avete fatto voi il testimone, voi a quella sciagurata e al suo ganzo? — Sì, risposi io più con un cenno della testa che con la voce, tanto ero sconvolto. — Ora dove è, dove è? — gridò il barone voltosi al parroco che per quanto era durata quella scena non aveva detto parola ed era pallido come un morto — dove è l’atto matrimoniale? — Ma che so io? — balbettò infine il parroco — non ricordo... non so di quale matrimonio intendete... — Diteglielo voi — urlò il barone rivolgendosi a me, diteglielo voi. — Io, sdegnato dalla esitanza del parroco riacquistai un po’ di coraggio e me gli rivolsi dicendogli: — Il barone intende parlare del matrimonio celebrato in una notte, or fan cinque o sei mesi, tra il duca di Fagnano, fuggito dalle carceri, e la baronessina di Pietrasanta, a cui Pietro il Toro ed io facemmo da testimoni. — Io non so nulla, io non so nulla! — gemette il parroco più morto che vivo. — A questo intesi un’onda di sdegno nel cuore: se Pietro il Toro fosse stato colà, certo il parroco non avrebbe detto più messa. — Dunque mia figlia è una vile baldracca — muggì il barone — o tu sei un mentitore. — In così dire era per avventarglisi contro, ma sopraffatto dal dolore stramazzò come colpito al capo. Io cercai di dargli aiuto, ma una voce parea mi dicesse: Va, corri da quella poveretta che forse ha più bisogno di te. Mi ricordai di quel che avevo promesso al duca: compresi che una ben terribile scena aveva dovuto avvenire in casa del barone, al quale forse la sventurata non aveva potuto più oltre nascondere il suo stato: e mentre il parroco e la serva cercavano di soccorrere l’infelice che giaceva come fulminato sul pavimento io fuggii da quella casa per accorrere in casa del barone. — Ben fatto, ben fatto! — esclamò Geltrude — davvero che non ti avrei creduto capace di una simile risoluzione, perchè so bene quanto sei incerto nelle tue cose tu... Carmine non rilevò la malignità contenuta nelle parole della sua amica, e commosso dai ricordi continuò nel suo racconto. — Mi diedi a correre a correre, certo che qualcosa di grave era avvenuto. Sapevo l’odio che il barone covava contro i duchi di Fagnano; sapevo che sopportava con fierezza le sue avversità, ma non si sarebbe acconciato al disonore che gli veniva poi dal suo peggiore nemico; certo la figliuola non potendo più occultare il suo stato aveva dovuto svelargli il matrimonio; certo qualche cosa di terribile era avvenuto. Mi ricordai della raccomandazione che ci aveva rivolta il duca: la poveretta aveva bisogno di aiuto, di soccorso, di un amico, mentre il padre l’aveva abbandonata, nè era in caso di giovarle in nulla. Con questi pensieri giunsi trafelato alla casa del barone; non ebbi bisogno di picchiare perchè la porta era aperta. Entro, e uno spettacolo miserando mi si offerse. La povera signora giaceva supina sul lettuccio così bianca che pareva non avesse più sangue nelle vene. A lei vicina era Giovanna, una vecchia contadina, unico avanzo della numerosa servitù di un tempo, la quale vinta dal dolore era impotente a prestarle aiuto. Al rumore che feci nell’entrare la giacente aprì gli occhi e mormorò con filo di voce. — Grazie d’esser venuto; è il buon Dio che vi manda. Quando ecco intesi un vagito che mi fece trasalire. — È mio figlio, disse la disgraziata; portatelo via.. mio padre l’ucciderebbe... Ve l’affido chè io mi sento morire. — Così dicendo fece uno sforzo, si sollevò a mezzo il letto e mi porse un bimbo nato allora. Io stendevo le braccia, quando la poveretta che soffocava dai singhiozzi, si diede a baciarlo e a ribaciarlo gemendo. — Quale sarà la tua sorte, quale sarà la tua sorte, o figlio, o figlio mio?! — Io non so come mi tenevo in piedi; sentivo sconvolto il cervello e il cuore gonfio di angoscia. — Lo farete battezzare, disse infine la misera: lo chiamerete Riccardo come il fratellino che mi morì. Se mai il duca ritornerà gli darete questa lettera che gli farà riconoscere il figlio suo e ne avrà la prova sicura. — Io avevo preso tra le braccia il fanciullo che ravvolsi nel mantello e non potei rispondere che con cenni di assentimento così ero convulso; conservai la lettera suggellata e tornai a casa. A, tu piangi adesso, Geltrude, ora immagina qual cuore era il mio innanzi a quella madre che si separava dal nato delle sue viscere, sicura che non l’avrebbe mai più riveduto! Invero la vecchia Geltrude ascoltava con gli occhi gonfi di lagrime. — Come tornai a casa, non te lo so dire. La mia vita fin allora era scorsa tranquilla e serena: quel fanciullo che una morente mi aveva affidato, poichè io sentivo che la poveretta ne sarebbe morta, la sconvolgeva e forse mi sarebbe stato causa di dolori e di rovina. In quell’orgasmo mi si era fatto la luce sull’accaduto: il nuovo duca aveva imposto al parroco di lacerare l’atto matrimoniale per garentirsi d’ogni possibile pericolo, d’ogni rivendica dei titoli e dei beni usurpati. Le sue spie avevano dovuto avvisarlo delle nozze celebrate in quella notte, e se non ricorse allo espediente di sopprimere anche i testimoni gli è che di me non aveva paura perchè mi sapeva timido e amante del quieto vivere; di Pietro, risoluto e attaccabrighe, nemmeno perchè aveva dovuto prendere il bosco: e forse contava anche sul furore del barone quando avrebbe saputo il fallo della figliuola. Insomma io mi trovai in casa con un fanciulletto e passai tutta la notte a cullarlo finchè all’alba comprai un po’ di latte per sfamarlo, risoluto a tenerlo nascosto per un pezzo onde non attirar su me l’attenzione del duca. — E del barone e di quella povera signora? — Il barone colpito d’apoplessia fu portato a casa. Si disse che era andato dal parroco per confessarsi. Non riacquistò più i sensi e morì dopo tre giorni. La figliuola dopo pochi giorni lo seguì nel sepolcro, ed a me rimase il fanciullo che poi feci credere d’aver trovato nel bosco in un frattume. — E che disse Pietro il Toro quando seppe l’accaduto? Gli parlasti della lettera suggellata? — Ah, tu vuoi saper troppo adesso. Io ho potuto dirti quel che riguardava me, ma quel che riguarda Pietro il Toro non posso e non debbo. Ti basti il dire che fece.. quel che dovevo aspettarmi per la sua indole e quel che un giorno forse potrebbe riuscire assai utile a qualcuno. Intanto il duca era partito per Napoli, chè col titolo e con le ricchezze era cresciuta l’ambizione sua. In Napoli, ebbe un ufficio a Corte, sposò la figliuola di un gran signore, dalla quale ebbe un’unica figlia, che portò qui quando rimase vedovo e la giovinetta uscì dal convento ove si era educata. E si dice che non l’avesse voluta con sè a Napoli, perchè gli era d’imbarazzo continuando egli a vivere nei vizi e nella crapula. Però si assicura che quell’uomo il quale sacrificò il fratello alla sua ambizione, ami assai la figliuola, pure standone lontano; anzi lui dice che la tiene qui per sottrarla alla corruzione della Corte. Sarà poi vero che la tiene qui per questo? — Ma ora l’ha ripresa con sè... — Vuol dire che si preparano dei tristi tempi... Anche sei anni or sono la portò seco. — Ma — disse Geltrude che non credeva di aver saputo abbastanza — nulla, nulla proprio faceste nè tu nè Pietro per rivendicare il nome, le ricchezze al figlio legittimo del duca di Fagnano? Io avrei dissuggellato quella lettera, tanto per sapere... — Sei curiosa tu! E chi avrebbe dato retta a due poveri contadini come siamo noi? Sarebbe stato lo stesso che cozzar contro un muro, e chi cozza coi muri si rompe la testa. Prendersela col duca di Fagnano, che parla col re e con la regina nè più nè meno come io parlo con te; accusarlo di aver denunciato il fratello, e questo sarebbe niente, di aver lacerato o bruciato un atto matrimoniale, di aver rubato, i titoli, le ricchezze?... Eh, mia cara, per osar tanto Pietro ed io avremmo dovuto essere ben altro che due poveri contadini! Quindi decidemmo di non parlare neanche della lettera di sua madre a... — A Riccardo — esclamò la vecchia — via, dillo... o che temi adesso dopo avermi narrato tutta la storia? — È vero; ma, sai, mi par sempre di commettere un’imprudenza! Dunque decidemmo di non parlarne a Riccardo che quando e se sarà in grado di far valere i suoi dritti... Ma, via, non ti par che l’abbiamo fatta assai tardi? Ricordati però quel che mi hai promesso; neanche una parola ti esca di bocca di quel che ti ho narrato. — Ma se te lo giurai sulla Madonna del Carmine — rispose la vecchia che intanto si era data attorno per acconciarsi un lettuccio sulla cassapanca. — Però devi dirmi sinceramente se credi che il duca, il vero, il legittimo, sia morto in Francia. — Così ha detto il fratello, così han detto tutti coloro che frequentano il palazzo, così ho inteso dire dagli armigeri. Ma poi... chissà! È una storia assai vecchia, son ben ventotto anni ormai! Via, via, dormiamo che è tardi. In breve il silenzio regnò nella casa. L’uragano continuava coi sibili del vento e i rombi del tuono. Era scorsa appena una mezza ora quando la porta di strada risuonò di un picchio poderoso seguito da una voce che gridava impaziente: — Vecchio Carmine, poltronaccio, dormiglione, alzati e vieni ad aprire. Ci vuoi far morire affogati? — To’ — disse Carmine svegliandosi di soprassalto — sembra la voce di Pietro. Geltrude, Geltrude, hai tu inteso? — Sì, ho inteso — disse Geltrude. — Mi ero appena appena addormentata. — Ma insomma — continuava a dir la voce — vieni ad aprir sì o no? — Vengo, vengo — gridò Carmine balzando dal letto e accendendo una lucernina. — Tanto ci voleva? — esclamò Pietro il Toro, il primo ad affacciarsi sull’uscio. — Su presto, un buon fuoco, un gran fuoco, un paio di caraffe di vino, del pane e del salame... — O del formaggio che val lo stesso — disse il Ghiro comparendo. — E Riccardo, Riccardo? — chiese Carmine che ancora non si era rimesso dalla sorpresa. — Attende col Magaro a mettere nella stalla i nostri cavalli... già, i nostri cavalli, due bestie che ti faranno sbarrar gli occhi dalla meraviglia. Ah, ma tu sei in buona compagnia! — disse poi Pietro il Toro vedendo Geltrude che seduta a mezzo il lettuccio badava a ricomporsi. — Ah, vecchio, impenitente! — Sta zitto tu, mascherone di fontana, spaventa passeri — gridò Geltrude offesa. — Andiamo, andiamo, non dirò nulla di tanto scandalo se vi affrettate a mettere una o due fascine al fuoco. Se aveste tanta acqua addosso quanta ne ho avuta io, vi sarebbe passata la voglia di far gli sposini! Carmine però non si moveva dalla porta e guardava nel buio per veder giungere Riccardo: dall’allegria dei due compari aveva compreso che ci era qualcosa di buono in aria. — Capperi! — esclamò quando vide entrar Riccardo. — Buonanotte, zio Carmine, buonanotte. Ti abbiamo svegliato a mezzo il sonno — disse questi entrando e deponendo una valigetta sul lettuccio. Il giovane aveva aperto il ricco mantello, e la esclamazione di Carmine era giustificata dal vederlo vestito come uno dei signori che eran venuti parecchie volte a far visita al duca. Stentava quasi a riconoscere in lui il giovane che aveva visto venir su come uno dei tanti diseredati dalla fortuna costretti a logorar la vita negli stenti. Non mentiva il sangue, non mentiva! Come gli si attagliavano bene quelle vesti che conferivano alla singolare bellezza di lui un’aria signorile, e che egli portava con la disinvoltura di chi vi è usato! — Basterebbe vederlo — disse tra sè e sè Carmine — per convincersi che è lui il vero duca di Fagnano. Anche Geltrude era rimasta ammirata; e subendo il fascino che la ricchezza delle vesti esercita su i contadini, non aveva osato volger la parola a quel giovane che pure aveva vissuto con lei in tanta dimestichezza. La guardava come se lo vedesse per la prima volta; non era più per lei il misero trovatello, del quale incerta fin allora le era l’origine: sapeva bene adesso che era lui il signore legittimo, il padrone vero di quelle ricchezze che facevano dei duchi di Fagnano i più cospicui signori del regno, e sentiva come una confusa soggezione di trovarsi insieme in quella casuccia. Intanto ardeva sul focolare una gran fiammata innanzi alla quale i tre compagni di Riccardo si eran seduti e con le gambe aperte, le mani al fuoco si ristoravano dalla stanchezza, mentre Carmine aiutato da Geltrude attendeva a preparare un po’ di cena. Riccardo si era seduto anche esso e pareva pensoso con un’ombra di tristezza nel viso che discordava con l’allegria dei suoi tre compagni. — Lui non mi par molto soddisfatto — disse Geltrude sottovoce a Carmine mentre mesceva del vino nelle bottiglie — invece gli altri sembra che abbiano toccato il cielo con le dita. — Me ne sono accorto anche io — rispose Carmine. — Pure non hai visto che armi, che vesti proprio degne di chi è nato duca?! E quella valigia con borchie ed ornamenti che sembrano d’argento? — E saran forse d’argento! — fece Geltrude che indugiava nell’andare attorno per poter con l’aiuto di Carmine penetrare nel mistero. Riccardo intanto si era scosso dai suoi pensieri e fattosi presso ai compagni che s’erano chinati verso lui per intender meglio: — Il luogo dunque sarà la radura del Gariglione. Tu, Pietro andrai in Basilicata da Taccone e da Quagliarello... — Li vidi in quella notte — borbottò Toro — gente di fegato, ma anche ladri e sanguinari. — Lo so — rispose Riccardo abbuiandosi vieppiù — lo so; ma su essi bisogna contare, visto che i galantuomini sono in lega con coloro che vengono per far da padroni nelle nostre case. Tu, Magaro, avviserai Povonese, Marotti ed il Vizzarro che troverai nei boschi di S. Eufemia e dell’Aspromonte: tu Ghiro, andrai in cerca di Parafante, del Giurale, del Boia e di Benincasa. Bisogna intenderci per organizzare la difesa, per disciplinarla... — Disciplinarla? — esclamò Pietro con tale una smorfia della sua grottesca fisonomia che gli altri scoppiarono a ridere. — E sarà possibile? A stenti e in qualche modo soltanto ci riuscì il Cardinale che pure dovè chiudere un occhio, e talvolta tutti e due... — Non far lo scrupoloso Pietro — disse il Magaro scrollando le spalle — che anche tu all’occorrenza... — Che cosa anche io all’occorrenza? Ho forse sgozzato dei vecchi, dei fanciulli, delle donne nelle chiese ove si erano rifugiati? Ho forse appiccato il fuoco alle case dopo averle saccheggiate e avervi rinchiuso gli abitanti, sol perchè qualche loro nemico li aveva qualificati per rivoluzionari? Ho forse commesso nefandezze su i gradini degli altari, di quegli altari che insorgemmo per difendere? — Non dico questo, ma... — Ma si capisce, quando si rischia ogni giorno di aver la pelle bucata da una palla o da una punta di baionetta, si capisce che la sera ci vuole un po’ di svago come un buon fiasco di vino e delle femmine allegre sulle ginocchia; e che se si trova un gruzzoletto di piastre, un oggettuzzo d’oro o di argento non si mena il bando per sapere chi l’ha perduto e non si lascia a chi ha meno scrupoli; e quando il sangue è montato alla testa e si danno colpi e se ne ricevono nel furore di una lotta a corpo a corpo, non si bada a nulla. Ma la ferocia a sangue freddo, la crudeltà... — Smetti via, smetti Pietro — disse Riccardo che pur pareva dell’avviso del suo vecchio compagno. — Dunque, rifocillatevi ora, riposate questa notte e tutto domani per poi mettervi in cammino. Io tenterò di dare un certo organismo a quel che si vuol fare perchè solo convergendo tutte le forze a un intento comune si può riuscire... — Ma — disse Pietro, testardo sempre nelle sue idee — un tale organismo, come voi dite, avrebbe dovuto darlo quella notte colei che ci fece giurare di difenderla: Sua Maestà la Regina. — Ed a nome di lei che vi parlo e in nome di lei andrete dove io vi ho detto — rispose Riccardo assumendo tale autorità nell’aspetto che gli altri ammutolendo lo guardarono con un’aria di stupore come se uno sprazzo di luce fosse di un tratto balenato nella loro mente. Invero per tutto il viaggio durato otto giorni, il giovane aveva evitato di alludere al come aveva trascorso il tempo della sua dimora in Napoli, e aveva stornato il discorso quando alcuno dei tre, Pietro specialmente, aveva accennato al ricco equipaggio del giovane e al contenuto della valigetta che la notte nei fondachi e nelle locande in cui prendevano alloggio serviva di guanciale al suo possessore, finchè delusi nelle loro speranze non avevan più tentato di appurare il mistero. Il contegno del giovane non era punto mutato e continuava con essi nella dimestichezza; però talvolta si abbandonava ai suoi pensieri, e pareva a giudicar dalla fisonomia che qualche cosa di ben grave lo turbasse, ciò che era molto strano perchè d’ordinario l’umore del giovane era spensierato e lieto. Ecco dunque che di un tratto il mistero si diradava in parte pur restando ancora insoluto. Ma erano bastate quelle parole perchè agli occhi dei tre avventurieri il giovane assumesse un aspetto insolito, cui conferiva maggior prestigio quella subita luce che si era riverberata su lui al nome della Regina. Si guardarono muti, mentre il giovane ricadeva nelle sue riflessioni. — Orsù, a cena — disse in fine Carmine — e scusate se sorpreso così a mezzo della notte non posso offrirvi che ben poco. Si alzaron tutti e sedettero intorno alla mensa rischiarata da un candeliere che Carmine accendeva solo nelle grandi occasioni. Riccardo non si era mosso. — Non ho fame — disse — ma sbrigatevi perchè ho sonno invece e Carmine avrà un cantuccio in cui poter sdraiarmi. — Il tuo letticciuolo, Riccardo, è sempre là, l’ho rifatto ogni sera, perchè ogni sera ti aspettavo. Il giovane scorse un dolce rimprovero nelle parole di Carmine e si affrettò a rispondere: — Sì, sì, hai ragione, buon Carmine, scusami sai... Gli altri cenavano discorrendo sommesso, mentre Geltrude seduta a loro vicino aguzzava le orecchie per pescare qualche parola dalla quale potesse intendere il resto. Ma, poichè non giungeva a rannodare il filo del discorso, si alzò di un tratto come se un’idea improvvisa le fosse balenata in mente. — Ho da dirti qualcosa, Carmine — disse sottovoce avvicinandosi al suo vecchio amico. — Parla — rispose questo che era intento a rimettere del vino in una bottiglia... — Andiamo in disparte... ho una idea... vorrei parlarne anche a Pietro. — Parlane a me per ora. Di che si tratta? E seguì la vecchia che traendolo per un braccio l’aveva condotto in fondo alla stanza. — Io credo che sia proprio questa l’ora di dir tutto — disse la vecchia con aria pensosa. — Tutto che cosa? — Riccardo è tornato assai diverso da quello che è partito. Non vedi che magnificenza di abiti, di armi, e che gonfia valigia? Io credo dunque che sia giunta l’ora di svelargli la sua origine. Non conveniste con Pietro che gliene avreste parlato quando sarebbe stato in grado di poter sostenere le sue ragioni? Che aspettate dunque? Capisco, ai tempi che corrono le vesti, le armi, i cavalli, la valigia avrà potuto anche... La vecchia esitava, ma Carmine l’interruppe dandole un pugno. — Ah, vecchia strega, avrà potuto rubarli, vuoi dire, lui che quando tornò capitano non aveva che due o tre piastre in tasca ed un misero cavalluccio, e sì che molti se ne tornarono ricchi! — No, non volevo dir questo; ma non eran con lui Pietro, e se Pietro non è capace, il Magaro e il Ghiro che ruberebbero l’ostia consacrata? Dunque, sta a sentire, se non dalle vesti vede dal viso che è tornato diverso da quello che partì. Guarda che aria grave, che aspetto severo, e non ti pare che parli seco stesso? Ora si potrebbe farle valere le sue ragioni! Se nella lettera di sua madre che tu conservi, vi son le prove della di lui legittimità... — Va, va, non occuparti di cose che non ti riguardano. Già fui io uno sciocco nel metterti a parte di un segreto sì delicato. Appunto perchè adesso è così pensoso, così turbato come se gli incombesse chi sa che gran peso, non bisogna distrarlo con una rivelazione tanto penosa e che lo metterebbe forse in maggior orgasmo. Eppoi, Pietro che la sa lunga, quantunque di apparenza così ruvida, Pietro che forse sa ben più di me, gliene avrebbe parlato, e Pietro sostiene che la lettera è un sacro deposito che dovrà consegnar solo al duca se torna. — E perchè tu vuoi che il merito sia tutto di Pietro? Infine tu lo raccogliesti, tu lo nutristi, a te la madre lo affidò, a te diede la lettera, tu l’hai conservata finora... — Va via vecchia, va via! — gridò Carmine seccato. — Che vuole la vecchia? — disse il Ghiro che incominciava a infastidirsi della musoneria in cui si era caduti. — Nulla, nulla — rispose Carmine posando sulla mensa la bottiglia. Poco dopo i tre eran tornati al focolare, e sdraiatisi sullo zoccolo con i piedi al riverbero delle braci ardenti si erano addormentati. Su tutti era sceso profondo il sonno, meno su Riccardo che si era messo a giacere sul suo antico letticciuolo. Ah, Pietro il Toro non aveva torto: come, come disciplinare quella gente senza un uomo che avesse saputo tenerla a freno e dirigerla ad uno scopo comune? Poteva esser lui un tale uomo, lui che aveva soltanto il prestigio del coraggio, della temerità fors’anco? Ma al par di lui valorosi, al par di lui temerari eran tutti i capi di quelle bande di cui però conosceva le funeste passioni ed i perversi istinti! Avrebbero combattuto è vero col nome di Dio e del Re sulle labbra, ma con l’intento di devastare, di uccidere, di rapinare travolgendo nella loro ferocia coi nemici de! Re e della Religione anche gli innocenti, e gli abitanti tutti dei villaggi e delle città abbandonati alla loro libidine di sangue e di distruzione. Chi sarebbe stato il capo di quella guerra, il condottiero supremo di quelle bande? Se non era valso il Cardinale, col doppio prestigio che gli veniva dal nome illustre e dalla porpora, ad impedire tante orribili nefandezze, sarebbe valso lui, povero avventuriere senza nome e senza fortuna se mai avesse vagheggiato di ambire qualche cosa di più di ciò che aveva ottenuto per caso e pel capriccio di una donna? Non poteva dubitare dell’autenticità della firma e del suggello reale in quella carta di riconoscimento in cui gli si dava il titolo di colonnello; ma colonnello di qual reggimento? Di quello stesso reggimento in cui il Cardinale l’aveva nominato capitano! Spensierato in apparenza e facile ad avventurarsi nelle imprese arrischiate, il giovane aveva per dir così l’istinto della realtà, vedeva le cose nel loro vero aspetto e perciò aveva potuto domare il folle sentimento che gli era sorto nel cuore per la figliuola del duca di Fagnano, domarlo e sentirne quasi vergogna, chè ben misurava l’insormontabile distanza che le condizioni sociali frapponevano fra lui e lei. Nato contadino, vissuto fra contadini, se ne sentiva diverso assai per indole e per aspirazioni sicchè talvolta, sapendosi un trovatello, gli era venuto il dubbio che sangue di signori scorresse nelle sue vene; ma poichè era quello il suo destino aveva cercato di acconciarsi a vivere come gli altri del suo stato frenando le ribellioni che di tanto in tanto gli fremevano nell’animo. Poteva egli dunque vagheggiare l’ambizione di divenir capo di tutta quella gente che già si apprestava ad insorgere non solo contro gli stranieri, ma anche contro i pacifici abitanti della città e dei villaggi? Non era questa, non era questa la guerra che avrebbe dovuto farsi! Aveva saputo il delirio destato dalle parole della Regina incitatrice alla strage, incitatrice allo sterminio, della Regina che lo aveva nominato suo emissario segreto col titolo di colonnello, ed era questo che lo spaventava, questo poichè chi sa quali ordini sarebbe stato costretto a trasmettere ai capi delle bande, ordini a cui forse la sua coscienza avrebbe dovuto ribellarsi. Ah, perchè non era presente in quella notte! Non si sarebbe fatto imporre dal fasto e dal prestigio regale e avrebbe parlato non solo per evitare tanta rovina al reame che ancora risentiva degli orrori commessi dalle bande del Cardinale e di cui era stato testimone, ma anche nell’interesse della dinastia. La guerra, guerra ad oltranza, contro lo straniero invasore era santa e giusta, chè non la fratellanza, non la libertà muoveva i soldati di Francia contro il reame di Napoli, poichè si era ben visto quale caso le schiere dello Championnet avevan fatto della libertà e della fratellanza; ma brama di conquista, ma ambizione di dominio; pure a combattere i prepotenti invasori, e cacciarli dal regno non sarebbero valse le bande per quanto valorose se si sperperassero in sterili conati, di rovina alle popolazioni e di nessuna utilità all’intento supremo, mentre i Francesi uniti e compatti, che potevano far credere di combattere a difesa dei cittadini, avrebbero trovato in questi degli ausiliari potenti contro le bande devastatrici, che facevano della ferocia l’unica scienza della guerra. Questo avrebbe detto quella notte, e lui per il primo avrebbe riconosciuto come capo supremo il designato dalla regale volontà, lui per il primo avrebbe giurato di ubbidirgli e di non discuterne gli ordini. Non che ei ne facesse un torto a quella donna, mentre i figli, il marito, i ministri si eran posti al sicuro in Sicilia, rimasta impavida contro l’uragano che si avanzava. Pur troppo aveva compreso dalle parole dei suoi compagni, i quali lungo il viaggio glielo avevan narrato, i particolari di quella notte del giuramento, che la Regina per non compromettere la sua dignità regia esposta alle grossolane intemperanze dei convenuti, aveva dovuto ritrarsi paga soltanto di averne acceso l’entusiasmo e comprendendo che non le sarebbe stato altrettanto facile di dirigerlo ad uno scopo che non fosse la vendetta, una atroce vendetta non solo sugli stranieri, ma anche sugli abitanti del misero reame. Lui lo sentiva, lui lo comprendeva, ma che doveva che poteva far lui che esser doveva emissario degli ordini regali? Da questi pensieri, era solo sopraffatto appena calmatasi l’emozione per l’insperata fortuna, appena lo stupore aveva ceduto il luogo alla riflessione. Tali pensieri gli erano stati compagni per tutto il viaggio in cui aveva incominciato a veder chiaro nella missione sanguinosa che gli era affidata. Certo se quella donna non era la Regina, e che ella fosse gli pareva impossibile, molto poteva sull’anima di lei, forse la sua influenza avrebbe pesato assai sugli avvenimenti che si preparavano: non avrebbe potuto lui influire alla sua volta perchè quella guerra pur mirando al suo alto scopo, riuscisse meno dannosa alle popolazioni? Non avrebbe potuto mercè l’amore di quella donna, che era pur sempre una ignota per lui, frammettersi fra l’ira dell’offesa maestà regia e i popoli infelici che ne avrebbero inteso aspramente gli effetti sanguinosi? E l’anima sua che fin allora aveva esultato sol perchè un vasto orizzonte non mai sognato, aprivasi a sè dinanzi, incominciò a vedere in quella misteriosa avventura qualcosa di più che una sua personale fortuna. Forse egli era predestinato a far di quella guerra provocata dall’odio e dalla vendetta di una donna, un’alta impresa di giustizia in nome di un diritto e di un sentimento di nobile patriottismo: forse, raccogliendo intorno a sè tutte le sparse forze, ottenendone la disciplina, l’obbedienza, il rispetto per le leggi umane e divine, avrebbe riabilitato le bande sanfediste che tanti errori avevan commesso. E perciò non aspettando altro avviso, aveva divisato di avvalersi della carta di riconoscimento firmata dalla Regina per intendersi coi più famigerati capibanda che Pietro il Ghiro e il Magaro avrebbero convocati in nome della Regina. Ma che avrebbe detto l’ignota sua protettrice? Non avrebbe creduto che troppo presto, e senza alcuna autorizzazione, aveva abusato della fiducia in lui riposta? Non si voleva da lui che ciecamente ubbidisse e senza mai indagarne le ragioni agli ordini che gli sarebbero giunti? Aveva egli dunque il diritto di far cosa che forse contrastava con gli intendimenti di colei che aveva scritto la lettera trovata nella valigetta? Accettando i doni, le vesti, le armi, i cavalli, il danaro non aveva fatto intera dedizione di sè all’ignota protettrice, non aveva accettato i patti che ella gli imponeva? Era questo, questo il pensiero angoscioso che lungo il viaggio lo aveva tenuto incerto e turbato, era questo il pensiero che aveva messo del ghiaccio nel bollore del suo entusiasmo. Dunque lui non avrebbe dovuto aver volontà alcuna? doveva come uno schiavo ubbidire, come uno schiavo seguir la catena secondo il capriccio della mano che lo traeva? E perchè quella donna, chiunque fosse, si reputava in diritto di far di lui un cieco strumento d’odio e di vendetta ai servigi della Regina? Perchè ella lo amava, perchè in una notte di folle abbandono gli si era data come vinta da un desiderio lungo tempo covato! E dunque anche lui in nome dello stesso amore, che se ancora non avvinceva le anime, avvinceva ormai il corpo, poteva pretendere che ella ne subisse la volontà, una volontà volta al bene, intesa a risparmiare più che fosse possibile, il danno, la rovina, la morte alle popolazioni fra le quali la terribile guerra imminente sarebbe stata combattuta. Ella dunque avrebbe compreso quanta nobiltà e insieme quanta fierezza fosse in lui non accettando del tutto il patto impostogli. Ma come ed in qual modo far noto tale suo divisamento a quella donna, di cui solo in confuso ricordava la figura pur sentendone inestinguibile sulle labbra il fuoco dei baci, pur sentendone ancora fra le braccia la calda e morbida persona, pur sentendone ancora nelle orecchie la voce ineffabilmente carezzosa talvolta, aspra, rude, imperiosa tal’altra? Dove era in quell’istante quella donna di cui non sapeva il nome, e che gli appariva come circondata di nebbia? Ed erano questi i pensieri che durante il giorno, mentre si lasciava portare dal cavallo cui abbandonava le redini, lo tenevano assorto tanto che non prestava attenzione ai discorsi dei suoi compagni; e la notte quando essi riposavano dai disagi della lunga via, lo tenevan desto fino all’alba, mentre l’immagine di quella donna, che aveva giaciuto a lui vicino riversa sul lettuccio, bianca, col volto bellissimo sfumante nella penombra nel serico volume della bionda capellatura, gli era sempre dinanzi allorchè andava per via, gli giaceva accanto nelle notti smaniose. II. La neve copriva gli alti pini del Gariglione come una immensa tettoia bianca su un fosco edifizio di nere colonne l’una alle altre allacciata dai folti roveti. Nel mezzo del bosco si stendeva una radura, che per capriccio del caso formava un’ampia rotonda alla quale mettevan capo gli innumeri viottoli del bosco sol dai pochi conosciuti che avevano avuto l’ardire di avventurarsi in esso ove l’estate non penetrava raggio di sole e d’inverno fiocco di neve, così intricati e densi erano i rami dei pini secolari. Era quello un tempo la sacra foresta, nella immensa foresta abitata da esseri misteriosi e terribili che ne vietavano l’accesso ai mortali. I taglialegne e coloro che intendevano ad estrar la pece e la resina si arrestavano presso al sacro ed impenetrabile luogo, poichè i temerari che avevano osato mettervi il piede non erano più tornati ai loro tuguri. All’epoca in cui si svolge questa storia se non si credeva più che vi abitassero gli Dei degli antichi Bruzi, si teneva per fermo che vi tenessero le loro tregende i demoni dell’inferno che non meno gelosamente ne custodivano l’accesso, e non meno ferocemente punivano i temerari che vi si avventurassero. Gli spregiudicati però che non temevano i demoni se ne tenevano lontano sapendolo ricettacolo di lupi feroci ed anche perchè ben difficile sarebbe stato il ritrovar la via del ritorno nel viluppo inestricabili dei roveti. All’epoca degli Spagnuoli, Marco Berardi, gentiluomo venuto in odio al Governatore perchè si era fieramente opposto al Tribunale della Sacra Inquisizione che ei voleva istituire nelle nostre provincie, e che si era già istituito col condannare al rogo due povere femminelle accusate di stregoneria, raccolti intorno a sè ben cinquecento montanari, accovatosi in quel bosco impenetrabile aveva tenuto in iscacco gli agguerriti reggimenti spagnuoli che non poterono mai domarlo e dovettero limitarsi a bloccarlo, onde egli preferì morire di fame con l’amante in una caverna di quel bosco anzichè arrendersi all’odiato straniero. Ora l’insipienza dei moderni reggitori ha permesso che la scure diradasse il sacro bosco, che le altre dominazioni reputate barbare avevano rispettato, e fra i tanti danni della presente dominazione bisogna annoverare anche un tal sacrilego disboscamento causa delle alluvioni incessanti. In un angolo della radura si elevava un baraccato di vecchie tavole sconnesse che da secoli molti avevano resistito alle furie del vento ed all’imperversar delle lunghe nevicate. Fin dal mattino sbucando dal bosco, a brigatelle, a gruppi, alcuni a cavallo, ma tutti armati, più che un centinaio di montanari che l’abito diverso diceva appartenere a questa o a quella delle provincie del Regno si affollavano intorno al baraccato, e il bosco che da gran tempo al certo non aveva inteso parola umana, risuonava di voci, nelle quali si riconosceva il molle dialetto pugliese, l’aspro basilisco ed il reggino che aveva un marcato accento siciliano. L’aria era limpida; l’uragano degli scorsi giorni aveva spazzato le nubi e il sole sulle nevi del bosco ne traeva scintille che facevan lieto alla vista il paesaggio d’ordinario così cupo. Era una di quelle giornate in cui lo spirito si ricrea nella pace ammirando anche nelle cose la vita universale che ripullula dalla morte: i pini giganti che eran venuti su lentamente attraverso i secoli avevano la maestà della vecchiezza che ha visto l’avvicendarsi delle serenità e delle tempeste nella immutabilità del destino universale, mentre ai loro piedi la umana verminaia brulica punta dalle passioni che or su or giù la menano. Ad ogni brigatella che usciva dal bosco se la folla riconosceva da lontano qualcuno in essa, eran grida ed urli e batter di mani, tanto più fragorosi quanto più i nuovi venuti avessero acquistato fama o nell’impresa del Cardinale o in qualche propria impresa. E che fisonomie truci ed ardite, che aria spavalda, che aspetti di uomini a cui finalmente sorrideva la fortuna! Ogni brigatella avea portato seco di che banchettare; nel fondo del baraccato alcuni volenterosi avevano improvvisata la cucina che consisteva in un largo fosso nel quale avevano ammucchiato della legna a cui avevan dato fuoco sicchè le fiamme si elevavano fumose mentre alcuni montanari attendevano a infarcir d’erbe alcune pecore e capre allora allora sgozzate che dovevano arrostir tutte intere in quel fosso dopo che se ne fosse stato estratta la brace, la quale poi si sarebbe accumulata sopra il terriccio che doveva chiudere il fosso. Ogni nuovo venuto metteva le sue provviste nel mucchio dei pani, dei formaggi, dei fiaschi col vino. — Mi par d’essere tornato fanciulletto, allorchè andavo a scuola dal parroco. Facevamo così la scialatella — disse un barbuto omaccione che non aveva deposto le armi e se ne stava a contemplare coloro che attendevano alla cucina. — A quale scuola sei mai tu andato, a quella degli arraffatutto? — gli rispose un bel giovanotto, che il frigio berretto posto di sghembo indicava per abitante della marina. Però i capi delle diverse brigatelle, che eran venuti quasi tutti a cavallo, smontati e lasciando all’aperto i seguaci erano entrati nella baracca dal punto opposto in cui ardeva il fuoco, visibilmente soddisfatti dell’accoglienza che tutta quella gente aveva lor fatto; e raccolti in crocchio si eran messi a confabulare, interrotti di tanto in tanto dalle grida e dai battimani che annunziavano un nuovo venuto. — Ci siam tutti? — disse infine Parafante voltosi agli altri che già quella notte erano convenuti nella riunione indetta dalla Regina. — Dei nostri parmi non manchi nessuno, ma veggo anche delle fisonomie nuove — rispose Benincasa. — Son quelli che lavorano per loro conto: ho visto Taccone di Basilicata, il Boia, il Caporale, che mentre noi facevamo alle schioppettate insieme coi Turchi e coi Russi, facevano i loro affari comodamente. — Pare dunque che si sia fatto d’ogni erba fascio? — Pare anche a me. — Io non ne voglio di codesta gente al mio comando — disse Francatrippa. Poi soggiunse, come se la cosa non potesse essere discussa. — Credo che mi tocchi il grado di generale! — Diavolo, lo credo anch’io — rispose Spaccaforno che si era unito al capannello. — Io, del resto, me lo son preso da me. — E per conferire i gradi ci han qui raccolti? Certo non per altro. I Francesi son già entrati a Napoli e già due reggimenti si son messi in marcia per le Calabrie. — Bisogna dunque non perder tempo. — Io ho già la mia gente raccolta: con me ho portato soltanto i sottocapi. — Bisognerebbe dunque nominare il generale supremo — disse Parafante con aria sbadata — che assuma la direzione della guerra. — È quello che ho detto anche io: un generale in capo che abbia autorità su tutti gli altri generali. E Francatrippa in ciò dire guardò negli occhi i compagni, ciascuno dei quali pareva covasse un suo segreto pensiero. — E regolasse specialmente la divisione del... come si dice?... del bottino di guerra — aggiunse Spaccaforno. — E perciò bisogna che il generale supremo sia non solo un valoroso che abbia fatto le sue prove, ma anche uno che sia noto per galantuomo. — Galantuomini siam tutti! — osservò gravemente Benincasa. — Sì, ma — ripigliò l’altro — occorre anche che sappia leggere, scrivere e far dei conti. Diceva il mio maestro a me che se avessi seguitato negli studi sarei adesso per lo meno un avvocato... dicevo dunque che chi non sa leggere e scrivere non è buono a nulla. — Io non so nè leggere nè scrivere — fece Parafante con un’aria altezzosa — ma a trecento passi uccido un fringuello con una palla della mia carabina. Ed è questo l’importante. — L’importante è che il generale supremo, nol dico per me, deve essere.. chi dev’essere. — Dev’essere chi non ha mai ubbidito, ma ha sempre comandato! — sentenziò Francatrippa. — Meno all’epoca del Cardinale... — Il Cardinale non era il capo supremo, era il Vicario del Vicario di Gesù Cristo. Pure io feci sempre il piacer mio. Egli diceva: Non saccheggiate quella città, ed io la saccheggiavo. Perciò la mia gente si sarebbe fatta fare a pezzi per me... — A parer tuo, dunque, noi dovremmo ubbidire ai tuoi ordini? — E se fosse, che ci vedresti di male? — Ah, così la intendi? — Così... — Via, via — disse Benincasa vedendo che l’ira già sopraffaceva i suoi compagni e le mani macchinalmente brancicavano l’elsa dei pugnali. — Non è il caso di scaldarci il fegato per ora. Piuttosto ditemi voi come sia venuto in testa ad un giovinastro senza seguito alcuno quale è capitan Riccardo... — Capitano? Colonnello addirittura! — Questo non importa, anzi è da lodarsi perchè si è attribuito un grado meno del nostro... come dunque gli sia venuto in mente di convocarci in nome della Regina! Io avrei voluto rispondere con un paio di calci a quel Pietro il Toro che venne in suo nome. — E non l’hai fatto! — disse Parafante con aria convinta. — Meglio per te. — Meglio per me? Che vuoi dire? — Che ebbi Pietro il Toro a caporale nella mia banda, e l’ho visto in una rissa prendere due dei miei più robusti armigeri e scaraventarli venti passi lontano. — Io ho sempre due palle incatenate per questi tali. Ma, ripeto, non scaldiamoci il fegato per adesso. Dunque come gli è venuto in mente di mandarci ordini in nome di Sua Maestà? Ma se lui non ci era in quella riunione! E Sua Maestà ci avrebbe fatto il torto di servirsi di uno sbarbatello simile per comunicare i suoi ordini a uomini come noi? — Io non ci credo, ma, se fosse, sarebbe un capriccio di Regina... — E noi dovremmo subirlo? — Ma mi pare, generale Benincasa, scusa sai, che tu non abbia compreso bene di che si tratti. Il generale Benincasa, lusingato dal titolo, sorrise. Era noto il coraggio di quell’uomo e lo stoicismo nell’affrontare la morte che poi dimostrò sul patibolo, ma era nota anche la sua puerile vanità. — Non ho compreso bene? — No. Il trasmettere un ordine è un ufficio ben umile, quanto quello di un cameriere. — Lo conosco io, lo conosco — disse Spaccaforno scuotendo il capo. — Quel giovane non l’avrebbe accettato perchè ha tanto di superbia quanto di audacia. Quello lì andrà lontano, ve lo dico io. È un bel giovane, ed è già qualche cosa in una guerra in cui comandano le femmine; inoltre sa leggere e scrivere, ciò che, come vi dicevo, è indispensabile per poter essere qualche cosa. Gli altri erano per rispondere quando s’intesero degli evviva ed un gridar festoso. — Che è stato? — chiese Francatrippa volgendosi verso la porta. — Chi è giunto? — Il Vizzarro, il famoso Vizzarro. Capperi, come è equipaggiato! Colui che è rimasto celebre nella storia di quel burrascoso periodo e che fu tolto a soggetto financo di un poema e che si ricorda ancora in tutte le canzoni che si cantano nei boschi della Mongiana e di Serra S. Bruno, era giunto a cavallo di un bel polledro tutto fettucce, nastri, trine d’oro e di argento nella bardatura e seguito da una banda di dieci montanari. Era giovane di circa trent’anni, e sarebbe stato anche bello se nel viso e nello sguardo non avesse portato l’impronta della ferocia. Da una larga fascia rossa che gli cingeva i fianchi usciva fuori il calcio delle pistole e l’elsa di un coltellaccio. Balzò dal polledro, e con una mossa della spalla rimandando in dietro la carabina che portava ad armacollo entrò nella baracca, volgendo attorno lo sguardo per riconoscere qualcuno tra i convenuti. — Ma infine costui non è che un brigante; non ha combattuto per il Re e per la Regina, come noi! — disse Benincasa, facendo una smorfia di disprezzo. — Ha però le setole nel cuore — rispose Francatrippa. — O che noi ci abbiamo delle piume? Se sarò io il generale supremo vedrai come lo metterò a posto. Fuori intanto, fra i sottocapi delle milizie che dovevano contendere, come per cinque anni contesero, la conquista del Reame agl’invasori, si commentava i! probabile risultato di quella riunione. — Se si son riuniti per scegliere il generale supremo, è meglio tornarsene a casa fin d’adesso. — Sai come andrà a finire? Che essi si scanneranno tra loro e noi tra noi. — O che credi? Non sarebbe questa la migliore delle soluzioni? Tutti i pretendenti al comando supremo dovrebbero sostenere le loro ragioni con le armi in pugno. Guarda: questo luogo par fatto apposta per giocare alle pugnalate e alle pistolettate e noi faremmo da testimoni e da giudici. — Zitto!... — fece il compaesano del Vizzarro. — Che è stato? — Non dire delle sciocchezze: faresti meglio a raccontarci la storia del Vizzarro: tu devi saperla, tu che sei de’ suoi paesi. — Vedete un po’ chi viene... — Un giovanotto, un bel giovanotto anche, a cavallo. Che ne faremo di costui? — Costui non la cederebbe a dieci di noi. È una donna, nata di famiglia nobile e ricca, e per la quale il Vizzarro ha fatto scorrere fiumi di sangue. Le ha ucciso due fratelli, ha tagliato la testa al fidanzato, ha ferito il padre dopo averne incendiato il palazzo, ed ella lo segue come l’ombra del suo corpo. Il giovanotto che aveva attirato l’attenzione del gruppo in cui era il compaesano del Vizzarro era balzato agilmente dal bianco cavallino che un contadino dal sinistro aspetto armato di scure e di carabina, teneva pel morso. Gettandogli le redini il giovanotto era passato vicino al gruppo che l’aveva seguito con lo sguardo. Le opulente forme muliebri nulla toglievano al vigore ed alla flessuosità del bel corpo che l’abito virile delineava nettamente. Dal cappello a cono di morbido velluto con ricchi nastri di seta usciva in riccioli la nera capellatura, nera come gli occhi che se nell’amore avevano sguardi di fiamma, non ne avevano mai avuto di dolcezza e di pietà. Era essa la degna compagna del giovane feroce che già da un anno imperava su i boschi ed i monti che si affacciano al Jonio lido. Ella passò fiera e superba tra la folla ed entrò nel baraccato in cui i capi si eran raccolti. — Perdio, che bella femmina! Ed è per giunta figlia di signori nobili e ricchi! Ma dunque può nascere una lupacchiotta in una mandra di pecore? — La vedrete alla prova cotesta lupacchiotta! Non sapete che anche il Vizzarro, è tutto dire, cede quando quei magnifici occhi s’iniettano di sangue? — Ma orsù, contaci la sua storia che è giunta a noi in confuso. — Ve la dico in breve perchè non vorrei che ella venendo qui capisse che parlo di lei. Non vi avete visto lo sguardo che mi ha rivolto avendomi riconosciuto alle vesti che sono del suo paese? Dunque il padre di quella donna era assai ricco e teneva molti fittaiuoli al suo servizio. Uno di essi aveva raccolto un bimbo che era stato esposto su i gradini di una chiesa: il bimbo crebbe bello, forte e così irrequieto che poteva dirsi un diavolo incarnato. Il padrone lo volle al suo servizio e a poco a poco gli si affezionò tanto da trattarlo come uno di famiglia, a paro dei due figliuoli che esso aveva, oltre una ragazzetta che esser doveva quella donna da voi testè vista. Pare che il fanciullo non fosse stato neanche battezzato, perchè non aveva altro nome che quello di _Vizzarro_ per la stranezza del suo carattere e della sua indole. Nè meno strana era l’indole di Vittoria, la figliuola del padrone che si era abituata a considerare il Vizzarro come suo eguale, pure imponendogli tutti i suoi capricci. Ne nacque ciò che ne doveva nascere... — Un figlio? — dissero alcuni degli ascoltanti. — No, ma certo non per un loro peccato di omissione. Ne nacque che il padre e i fratelli di lei si accorsero della cosa, e una notte li colsero... — Che dicevano le orazioni? — Già di quelle che popolano il mondo. Allora lui non fu più il compagno dei giuochi e delle diavolerie dei figliuoli del padrone che lo avevano trattato come un loro eguale; diventò di un tratto il figlio di una malafemmina, una immondizia raccolta sulla via. Gli furon sopra, lo legarono fino a farlo sanguinare e lo rinchiusero nel porcile ove or l’uno or l’altro scendeva per seviziarlo. Gli davano da mangiare la broda dei majali tanto perchè non morisse di fame, e bastonate il giorno, bastonate la notte, bastonate mentre dormiva, e poi sulle piaghe spargevano sale e polvere di fucile: insomma lo ridussero che pareva un cane scorticato. Lui però non piangeva, non pregava; stringeva i denti e diceva ai carnefici: Battete, battete, ma pensate ad uccidermi, chè se potrò fuggire ne farò della salsiccia delle vostre carni. — E a lei nulla fecero? — Anche a lei battiture fino a romperle le ossa e torture di ogni genere. Infine un giorno, che è stato, che non è stato? Il Vizzarro aveva roso coi denti i cordami che da due mesi lo tenevano avvinto ed era fuggito. — Bravo! — esclamarono gli ascoltanti il cui numero era andato man mano crescendo. — Per due mesi non se ne seppe nulla — continuò il narratore. — Chi gli diede ricovero? Chi ne curò le piaghe? Chi provvide ai suoi bisogni? Chi poi lo fornì di abiti e di armi? Nessuno il seppe con certezza: corse però una voce, alla quale io non credo... che a farlo fuggire, a curarlo, a provvederlo di tutto fosse stata la madre della ragazza, la quale voleva provare anch’essa il frutto proibito che era tanto piaciuto alla figlia... — Ma di’ un po’, Serrese — disse uno degli astanti — ci racconti tu _una romanza_? — No, no, mio caro: racconto una storia. Dopo due mesi, dunque che è che non è? Il Vizzarro era divenuto il capo di una banda che scorazzava allora sui monti di Soriano, e ben presto fu tale e tanto il terrore che sparse a sè d’intorno che bastava si presentasse in un paesello perchè tutti gli abitanti gli cadessero innanzi in ginocchio. — E dell’innamorata che era avvenuto? — Il padre, i fratelli, la madre stessa, riversarono su lei, dal giorno in cui il Vizzarro era fuggito, quella parte di battiture e di tormenti che sarebbero toccati al suo amante, sicchè ne ebbe il doppio. Ma anche lei non pregava, anche lei minacciava, e dopo la fuga dell’amante era con la madre che vieppiù la ragazza infieriva. — Da questo dunque la voce che la madre... — Forse da questo; che so poi, io? Sentite ora. Una notte la casa della ragazza fu assalita dalla banda del Vizzarro. La mattina allo svegliarsi gli abitanti del villaggio videro penzolare dai ferri del balcone i cadaveri dei due fratelli e del padre con una scritta che diceva: «Pena di morte: nessuno osi toccar queste carogne». E nessuno le toccò: stettero appese finchè le carni non si spappolarono... — E la madre? — Ah, la madre? Una serva che era riescita a fuggire confidò ad una comare, poi a tutto il vicinato, che la figlia, appena l’amante la disciolse dai lacci, gli strappò il pugnale, corse nella stanza ove era la madre, si diede ad ingiuriarla coi più turpi nomi come se avesse compreso di avere in essa una rivale, e poi l’uccise con un colpo al cuore, e all’amante che sopraggiungeva disse, mostrando il cadavere della madre: «Bada, io verrò teco, ma se tu oserai alzar gli occhi in viso a un’altra femmina, fosse anche... e qui disse un nome che non oso ripetere... ti scannerò come ho fatto di mia madre!» — Perdio! che femmina! — mormoravano gli astanti, impallidendo, quantunque nessun di essi fosse nuovo al sangue e alla strage. Nel baraccato intanto continuavano i capi a discutere, cercando ognuno di accaparrarsi amici, caso mai si dovesse eleggere un generale supremo. Il Vizzarro se ne stava muto e sdegnoso fra i suoi, mentre Vittoria, l’amante, le cui vesti maschili non ne occultavano il sesso, era fatta segno alle cupide occhiate dei più arditi, come Parafante, Benincasa, Francatrippa, che sapevano d’essere i più famosi in quell’accolta di feroci, per essersi battuti in campo aperto a capo di numerose bande, e per quanto la fama del Vizzarro e degli altri fosse giunta fino a loro, pure non li reputavano degni di molta considerazione. — Ma insomma che si aspetta? — chiese Benincasa. — Cotesto capitan Riccardo che ci ha fatto invitare. — No, si aspetta un pezzo grosso: un principe... un duca... — Io ho inteso dire che sarebbe venuta Sua Maestà la Regina in persona... In questo si notò una certa agitazione in coloro che erano assembrati innanzi la porta del baraccato: una voce corse fra i capi che avevan fatto qua e là dei capannelli. — Eccolo, eccolo il capitan Riccardo. Capperi! è vestito come un signore! Il giovane comparve nel vano della porta e mosse intorno lo sguardo sicuro e tranquillo. Vestiva un giubbone di velluto azzurro e un panciotto della stessa stoffa e brache nere che si stringevano al ginocchio. Dei lunghi stivaloni fino alle ginocchia ed era armato delle armi che gli aveva regalato l’incognita. Seguito da Pietro il Toro, dal Ghiro e dal Magaro si fece largo tra la folla silenziosa e giunse presso un impalcato che si elevava dal suolo. Ivi salì, e rivolgendosi alla folla disse: — Ho tardato a venire perchè ho una brutta nuova da darvi. Alcuni reggimenti francesi son giunti tra noi: han fatto di Monteleone il lor quartier generale, e già han diramato delle truppe per convergere su questi monti. Bisogna affrettarsi, ma prima fa d’uopo intenderci per un’azione comune. Un mormorio accolse le parole del giovane: un mormorio di spavento in alcuni, di rabbia in altri. — Siam dunque colti in trappola — gridaron parecchi. — Bel servigio che ci avete reso! — No — disse il giovane a cui eran giunte quelle voci — perchè nessuno vi conosce ancora, e potete tornare indisturbati ai vostri paesi. Vi ho detto dell’arrivo dei Francesi perchè comprendiate che non havvi tempo da perdere. Bisogna insorgere prima che il nemico si fortifichi nei suoi quartieri, studi le sue posizioni e sappia le nostre, e prima ancora che si procuri delle guide. — Guide non ne troverà! — disse Parafante. — Vorrei vedere chi dei nostri compaesani avesse una tale audacia. Voi, giovanotto mio, calunniate la nostra gente! — È vero, è vero! — gridarono parecchi, invidi già del bello aspetto del giovane, e più delle vesti e delle armi ricchissime. — Io non calunnio nessuno. Solo ricordo a chi ha parlato che sei anni or sono non furono solo i Francesi che si opposero alla nostra marcia, ma molti degli stessi nostri compaesani, dagli spiriti infernali aizzati contro il nostro Re e la nostra Religione. — E noi li sterminammo! — gridarono alcune voci. — Non tutti, non tutti — continuò il giovane. — Rimasero i figli, i nipoti, gli stessi avanzi di quei Repubblicani che si battettero contro di noi, quelli che ebbero incendiate le case, disonorate le mogli e le figlie, depredati gli averi, devastati i campi e che ora, forti dell’esercito straniero, invocano vendetta contro di noi. Sapete che ci dissero briganti, allora, ladri, sanguinari, demoni usciti dall’Inferno? ed ora si avvalgono di quelle nostre colpe per dichiararci fuori d’ogni legge e mettere a prezzo il nostro capo! — Non ce ne importa nulla — gridarono i capi delle antiche bande sanfediste. — Siam disposti a tornar da capo. Ne abbiamo abbastanza di questa vita da femminucce che viviamo da sei anni. — No, amici, no — continuò il giovane — non prestiamo ascolto alle nostre ire, alle nostre bizze: confessiamo che di peccati sulla coscienza ne abbiamo parecchi e che se riuscimmo formidabili agli stranieri, vieppiù nefasti fummo pei nostri fratelli, perchè innanzi allo straniero dobbiamo dimenticare i nostri odi e le nostre passioni... — Io non dimentico nulla — gridò Benincasa — e di cotesti consigli non so che farne... Il giovane si mantenne imperturbabile e proseguì: — La nostra dev’esser guerra allo straniero in nome di ciò che abbiamo di più caro: la patria, il Re, la famiglia. Se i fratelli, a qualunque partito appartengano, vedran che noi scendiamo in campo con quest’unico intento nel cuore, e che il nostro braccio pugnerà unicamente per la difesa del nostro dritto, tutti saran con noi, tutti intorno a noi, e lo straniero, per quanto valoroso dovrà tornarsene disfatto, avvilito, decimato dalle nostre armi, e riconoscere che noi indipendenti siamo nati e indipendenti vogliamo morire! — Ma che ci fa la predica costui? — chiesero alcune voci. — Che ci conta di fratelli, che ci conta d’indipendenza? Noi faremo la guerra a tutti, forastieri e paesani che saran nostri nemici — dicevano tra loro i capibanda. Nel mormorio generale d’insoddisfazione si udivano qua e là delle grida, delle bestemmie, delle ingiurie. Il linguaggio del giovane pareva a tutti, più che nuovo, strano: egli però si teneva diritto ed immobile, punto sorpreso dell’agitazione che aveva provocato. Dei tre che erano entrati con lui solo Pietro il Toro pareva che approvasse ciò che il giovane aveva detto, mentre il Ghiro ed il Magaro, quantunque si tenessero in un certo riserbo, scambiavano occhiate coi vicini, e si stringevano nelle spalle come se rinnegassero ogni solidarietà con colui che aveva parlato alla folla. — Io voglio dirvi questo, o amici — continuò il giovane — su noi pesa un’infame calunnia che ora è tempo di smentire, il nostro valore è detto ferocia; il nostro patriottismo, pel quale siam pronti a riprendere le armi, è detto ipocrisia per legittimare la violenza, il furto, la rapina; la nostra religione ci si rimprovera come un avanzo di barbarie, la nostra fede al legittimo Re che Dio ci ha dato è detta cecità di spiriti nati al servaggio. Smentiamo queste calunnie; mostriamo che la ribellione allo straniero invasore è dignità di uomini che non vogliono piegarsi sotto il giogo di coloro che coi mentiti nomi di fratellanza e di libertà vengon da noi per sedurre le nostre donne, per vilipendere la nostra religione, per balzar dal trono il nostro Re. Bisogna per vincere combatter compatti, rispettando gli averi, la vita, l’onore degl’innocenti: combattere da soldati, non da predoni; da guerrieri, non da briganti! — Ma insomma — chiesero alcune voci — chi dà a costui il diritto di parlarci in tal modo? — Facciamolo zittire, facciamolo zittire — dissero ad una voce Francatrippa, Parafante e Taccone che si sentivano presi di mira dalle parole del giovane. — Aspettate — disse il Vizzarro che fin allora aveva taciuto — andrò io a turargli la bocca. Si fece largo tra la folla e avvicinatosi all’impalcato su cui era il giovane, disse a questo con voce breve e accompagnando le parole col gesto: — Scendi, orsù, che ne abbiamo abbastanza. Il giovane lo guardò sorpreso. — Io mi chiamo il Vizzarro, hai capito? E quando il Vizzarro dà un ordine, nessuno l’ha finora trasgredito. — Ed io mi chiamo il colonnello Riccardo — rispose il giovane con voce calma e guardando negli occhi il suo interlocutore — emissario di S. M. la Regina. Ma mi chiamassi anche Riccardo semplicemente, non ubbidirei certo a un mascalzone tuo pari. — A me mascalzone! — urlò il Vizzarro. E di un salto si slanciò sul giovane; ma, e al certo con sua gran meraviglia, questi lo prese pel petto, lo squassò, lo trasse a sè e poi lo scaraventò nel mezzo del baraccato, tornando senza scomporsi a rivolgersi alla folla ammutolita per la sorpresa. Ma gli amici del Vizzarro tratti i coltelli si erano precipitati per accorrere in difesa del loro capo, quando si trovarono dinanzi un omicciattolo che sbarrò loro la via. — Miei cari — disse Pietro il Toro con voce tranquilla — finora lasciai fare perchè si trattava di uno contro uno; del resto, se fossero stati anche dieci, so che il capitano... o il colonnello Riccardo basterebbe a sbrigarsela; ma voi dovete far i conti con me, voi altri. E con un viso che l’ira aveva incominciato a sconvolgere tanto da mutarne in orridezza il grottesco, si fece innanzi con la mano all’elsa della pistola. — Basta, basta: vogliamo finirla in una carneficina? — gridarono alcune voci, mentre i più autorevoli dei capibanda circondavano il Vizzarro, i cui occhi iniettati di sangue mandavano baleni. Riccardo fece un segno, e la folla tacque, soggiogata suo malgrado. — Sono io per il primo — disse con voce tranquilla — a deplorare l’accaduto. Non fui io l’aggressore; io mi limitai a difendermi. Ma non è questo il luogo per le nostre bizze private. Qui ci siamo raccolti per intenderci sul piano da adottare. E anzitutto volete che si elegga un capo supremo, al quale tutti, io pel primo, dobbiam giurare cieca obbedienza? Chi assente, alzi la mano. — No, no, ognuno per sè, ognuno per sè — urlò la folla. — Ed io, invece, io dico che ha ragione, che ci è bisogno d’un capo supremo, e che nessuno è più degno di comandare a noi tutti di questo uomo, innanzi al quale siete ora divenuti tante pecore. In ciò dire il bel giovanotto, nel quale era stata riconosciuta l’amante del Vizzaro, salì sull’impalcato, volgendo uno sguardo di sfida alla folla sorpresa di tanta audacia. — Sì — continuò la giovane donna. — Io sono del suo avviso. Lo so, voi siete tutti stupiti che io, io proprio, l’amante del Vizzarro, la quale per essere libera rinunciò al nobile ed onorato nome dei padri suoi, e come una vil femmina si diede alla campagna, trovi giusto che se si ha da far guerra allo straniero, bisogna scegliere un capo supremo che valga più di noi tutti. Ebbene, io vi propongo per capo colui che ha osato sfidarci, dicendoci in faccia esser noi dei briganti assetati di sangue e di rapina. Quale prova maggiore di audacia? Ed ha provato altresì che come ha franca la lingua ha impavido il cuore respingendo il suo assalitore. Sia lui dunque il capo, e io per la prima giuro di ubbidire ciecamente ai suoi ordini. Gli astanti si guardarono muti e incerti. Ma il più stupido di tutti era il Vizzarro che non credeva ai suoi occhi. Lei, lei si dichiarava pronta a ubbidire a chi egli considerava ormai come il suo mortale nemico? Lei, che aveva sempre fatto suoi gli odî, i rancori, le inimicizie di lui? Lei si sarebbe sottoposta ad un capo, lei che non riconosceva neanche l’autorità dell’uomo pel quale aveva posto in oblio patria, onore, famiglia; lei che aveva rinunciato a quanto una donna ha di più caro per seguirlo nei boschi, gli si ribellava ora, si schierava contro di lui e in favore di uno sconosciuto che innanzi a tanta gente non solo aveva mostrato di non temerlo, ma anche ne aveva respinto vittoriosamente l’aggressione?... Trattenuto da alcuni dei capibanda, si contorceva ruggendo di rabbia. — Calmati, calmati — gli dicevano i capibanda — avrai tempo per fare le tue vendette. Ma è una matta quella tua amica. Come le è venuto in testa? Già, quel caporale o quel colonnello è un bel giovanotto, bisogna convenirne, e ne ha del coraggio. Ma le femmine son tutte ad un modo... E poi non vedete come è ben vestito? — Io me ne berrò il sangue, dell’uno e dell’altra — disse il Vizzarro che si mordeva le dita, mentre cercava di svincolarsi da coloro che lo trattenevano. Intanto il resto della folla pareva quasi convinto che fosse necessario si eleggesse un capo. Già si udivano voci di approvazione e il mormorio cresceva, soffocando le proteste dei pochi. La maschia e fiera bellezza del giovane, la ricchezza delle vesti, l’essersi annunziato per emissario della Regina, la prova di coraggio e di forza che aveva dato respingendo l’aggressione del terribile e temuto Vizzarro, l’intervento di quella donna così bella in viso ma così torva nello sguardo avevano soggiogato i due terzi dei convenuti. Il giovane, con le braccia conserte e immobile aspettava che si venisse ad una decisione. Senza mostrarsene lusingato, però compiaciuto dell’intervento di quel garzoncello, nel quale aveva riconosciuto una donna, l’aveva salutata con un cenno della testa e poi era tornato nel primo atteggiamento, fiero ma non spavaldo. — Ebbene sì, — gridarono finalmente alcune voci — nominiamo un capo supremo, che stabilisca un disegno e... — Il capo supremo è Sua Maestà il Re, nostro legittimo sovrano: — gridò una voce dall’uscio. Tutti si volsero meravigliati. Fermo sull’uscio era un signore in su i sessant’anni, di aspetto altero, vestito di un soprabito grigio che aveva sbottonato perchè apparissero le gemmate decorazioni onde aveva cosparso il petto. Dietro a lui alcuni scudieri vestiti alla militare reggevano per freno i cavalli, mentre altri, armati di carabina, si tenevano in fondo. — Il duca di Fagnano! — gridò Pietro il Toro. E i suoi occhietti si volgevano ora al nuovo venuto, ora a Riccardo che si era fatto pallido in viso, perocchè le parole del padre di Alma erano una smentita alle sue parole. — Chi è costui? — chiese Vittoria, l’amante del Vizzarro, che si era tenuta fin allora vicino al giovane. — Che viene a far qui costui? Intanto il duca si era avanzato tra la folla, e giunto presso all’impalcato vi salì. — Noi — disse — sapevamo che in questo giorno i fedeli del nostro Re, coloro che han giurato di spargere il loro sangue pel sostegno del trono, si sarebbero qui raccolti dietro invito non so di chi, ma certo voglio sperare, voglio credere, di un suddito che non da ambizione personale fu mosso a convocarvi per scegliere un capo, ma da un nobile e leale interessamento. Io non so in nome di chi ha parlato; io, invece, io duca di Fagnano e primo scudiere di S. M. la Regina, parlo in nome del Re nostro signore. La guerra che imprendiamo non ha bisogno di capi supremi: un capo supremo potrebbe anzi riescir pericoloso, perchè noi sappiamo che i nostri perfidi nemici sanno avvalersi di qualunque mezzo, e se non possono vincere con le armi, cercan di vincere col tradimento, con le insidie e con la corruzione. Nessun capo dunque, ma ognuno sia capo nell’ambito del territorio che è chiamato a difendere. — Bene, bravo, evviva il Re!... Sì, sì, nessun capo — gridò la folla e, più di tutti, coloro che temevano di dover riconoscere un’autorità suprema. — Io ho già — continuò il duca spiegando una carta — ben determinati gli ordini da comunicarvi con la designazione dei luoghi nei quali ciascun di voi dovrà agire per non dar pace al nemico e per costringerlo a sgombrare da queste terre di cui il Re Ferdinando ha ricevuto da Dio l’assoluto dominio. A voi, Taccone e Quagliarella, i monti della Basilicata; a voi Marsico e Carmine Antonio le montagne del Pollino, i piani di Castrovillari e di Campotenese; a voi Parafante, Benincasa, il Boia, questi altipiani fino al bosco di S. Eufemia; a voi Vizzaro, Paranese, Mariotti le macchie e le montagne che declinano verso Squillace e verso Stilo; a voi Francatrippa l’Aspromonte e le foreste di Rosarno. Ciascuno di voi avrà mille piastre per equipaggiare i suoi uomini. Fuori vi sarà contato il denaro. Ed ora do a voi la buona novella che il nostro Santo Padre ha mandato la benedizione alle vostre armi, e dieci anni d’indulgenza per tutti i vostri peccati. Fu un delirio. Le grida, gli urli, avevano qualche cosa di selvaggio. Le mille piastre giungevano opportune, sicchè tutti si affollarono alla porta per accertarsi coi propri occhi che il denaro fosse lì. Riccardo intanto si era tenuto in disparte; con le braccia conserte, il capo ripiegato sul petto, guardava pensoso quella folla di urlanti, quasi pazzi per la gioia. Il duca pareva non badasse a lui: uno del seguito aveva attraversato la folla e gli si era avvicinato per parlargli. Egli si ritrasse in un angolo col suo familiare e si diede a parlare sottovoce. — E tu che farai? — chiese Vittoria al giovane. Questi non rispose: rispose Pietro il Toro in sua vece: — Che farà? Sarà a capo della più gagliarda banda che avrà fatto mai alle schioppettate. Io ho già sulle dita cinquanta uomini ognuno dei quali giuoca con le palle di fucile come se fossero confetti. — Mi vuoi nella tua banda, dì, mi vuoi? — disse Vittoria sollevando gli occhi in viso al giovane. Egli la guardò, poi scosse la testa. — No — disse — no. Non dispiacerti. So che vali dieci uomini ma sarebbe un tradire il tuo amico. — Tu sei più bello, tu sei più forte! — rispose la donna con un lampo di selvaggia passione negli occhi. — No. Dividiamoci così come ci siamo incontrati. Vedi, ci è là il tuo amante che mi aspetta non per vendicarsi dell’averlo io mandato ruzzoloni, ma delle parole che tu hai detto e dello sguardo che mi hai rivolto. — Egli non è più il mio amante, perchè io l’ho tradito. — L’hai tradito, tu? — Sì, dicendo a te che sei bello, dicendo a te che sei forte ed offrendomi a te. Io glielo dirò, e poichè tu non mi vuoi nella tua banda resterò nella sua, ma non sarò più la sua amante. Resterò nella sua banda, ma a patto che egli non ti affronti. Lo so, lo uccideresti perchè tu ci hai del sangue nel tuo sguardo dolce; ma fu lui il primo che mi fece sentire di esser donna e non voglio che muoia ucciso da te. — E a noi non toccherà nulla di quel denaro? — diceva intanto il Ghiro a Pietro il Toro. — Sta zitto, sta zitto — rispose questi facendo una smorfia. — Ho di che consolar te ed il Magaro che se ne sta lì mortificato. Ma non dite niente a Riccardo perchè non voglio s’immischi in certe faccende. Mentre andavo in giro per raccogliere questi signori ho saputo che fra quattro giorni passerà pel _Piano del Lago_ il procaccia che porta i denari delle truppe francesi. Sarà scortato da venti soldati... Dieci dei nostri basteranno... Hai capito? — Ah Pietro, Pietro, che sii benedetto: tu mi letifichi l’anima! Riccardo ascoltava pensoso la donna: quell’amore che gli si rivelava ad un tratto, violento e lampeggiante come un fulmine, gli evocava più angoscioso il ricordo di quella notte, di quella ignota, sulla quale aveva troppo fidato e che lo aveva esposto a una sì umiliante smentita! Da chi poi? dal padre di quella creatura che era stata per tanti anni nei suoi sogni e della quale ora doveva respingere l’immagine, sentendosi indegno di evocarla! — Ebbene — disse Vittoria — sì, hai ragione, dividiamoci. Tu ami un’altra... Non respingeresti una donna come me se il tuo cuore non fosse gonfio di passione. Promettimi soltanto che se un giorno avrai bisogno di chi sappia impugnare una carabina e maneggiare un pugnale, di chi non ha contato mai i nemici nè evitato i pericoli, fossero pure stati immani, tu mi chiamerai a te vicino onde io combatta per te! Me lo prometti? — Te lo prometto — rispose lui. Ella si raddrizzò, fece uno sforzo e si diresse verso la porta ingombra da coloro che aspettavano d’esser chiamati per ricevere il denaro. Ivi giunta si rivolse e gridò al giovane: — Ricordati! — Sì, mi ricorderò — rispose lui. In questa gli si avvicinò Pietro il Toro. — Dunque siamo liberi? Meglio così. Non voglio sapere perchè noi che un’ora fa ci credevamo destinati a dominar su tutta quella gente, ora siamo stati posti in disparte. Dite un po’: ci entrasse per caso lo zampino di una femmina? Scusate, ma Pietro il Toro può permettersela questa domanda. Voglio avvertirvi che quando ci entra lo zampino di una femmina è peggio che se ci entrasse quello del diavolo. In quanto al duca... oggi o domani dovrà fare i conti con voi e con me: anche con me! San Francesco di Paola mi ha messo la mano sulla bocca, altrimenti gliel’avrei detto... quel che presto o tardi gli dovrò dire... Dunque che facciamo? Riccardo parve riscuotersi dai suoi pensieri e si raddrizzò fieramente: strinse alla vita la cinta che sosteneva le pistole e la spada; poi voltosi a Pietro il Toro: — Non hai tu detto che cinquanta gagliardi delle vecchie bande che tu hai visto al fuoco sono disposti a far la guerra sotto i miei ordini? Ebbene, raccoglili tutti e fra otto giorni voglio vederli armati ed equipaggiati. Occorre annunziarci con un colpo di mano da sbalordire tutta questa canaglia che ci sta intorno. Hai inteso? — Ho inteso — disse Pietro il Toro con gli occhi sfavillanti di gioja. — Ho trecento piastre per i primi bisogni. Il resto verrà poi. Intanto andiamo via. Ciò detto si avvolse nel mantello ed uscì seguito dai suoi amici. — Ah — diceva Pietro il Toro fregandosi le mani — ecco che il lupacchiotto si accinge a mostrare i denti. Andiamo, andiamo, che con quattro parole ho scongiurato la jettatura! E così scoppiò quella guerra che per cinque anni durò feroce, quella guerra d’insidie, d’imboscate, di scontri senza tregua e senza quartiere che costò alla Francia tante giovani e valorose vite, tanta rovina a noi; che seminò tanti odî, che distrusse tante famiglie, che sparse il terrore nelle più amene e ricche provincie del Regno, ammiserendo l’agricoltura, arrestando i traffici, impedendo i commerci, e che tanto male produsse al nostro nome, divenuto sinonimo, per gli storici rivoluzionari, di gente barbara ed efferata, e che continua a produrci, perocchè pur essendo trascorso un secolo, risentiamo anche oggi gli effetti delle calunnie che si spacciarono sul nostro conto, poi continuate dalle diverse sette politiche, le quali con tali calunnie più che vilipendere noi intendevamo vilipendere i Borboni, ai quali facevano rimontare i nostri vizi e le nostre colpe! Ma non è nostro compito scrivere diffusamente di quel tragico periodo che pure non ha ancora avuto uno storico imparziale ed esatto il quale non si sia fermato soltanto sugli effetti ma abbia anche indagato le cause che li produssero. Solo vogliam dire che non fu il Manhes a ridar la pace alle nostre contrade; l’opera di un solo uomo non sarebbe bastata a tanta impresa, nè la violenza, la ferocia delle repressioni, l’iniquità han mai fruttato effetti benefici. La sanguinosa guerra cessò quando s’incominciò a comprendere che il governo di Gioacchino Murat intendeva davvero al bene delle misere popolazioni; quando si costruirono strade, quando si promulgarono provvide leggi, quando si cercò di diffondere l’istruzione, quando finalmente il Re si mise in contatto diretto coi cittadini che ne compresero il cuore generoso, ne apprezzarono le virtù guerriere, lo trovarono affabile e buono; e finì allorchè la vera conduttrice di quella guerra, Carolina d’Austria, ebbe a combattere con nemici assai più insidiosi e più nefasti a lei, gl’Inglesi. Ma ripeto, il nostro compito è ben altro. Ritorniamo quindi al personaggio principale di questa storia che ebbe tanta parte in quelli avvenimenti, a Capitan Riccardo. FINE. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK S. M. LA REGINA *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. If you do not charge anything for copies of this eBook, complying with the trademark license is very easy. 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It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life. Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg™ and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org. Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. 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