The Project Gutenberg eBook of Rogo d'amore, by Anna Radius Zuccari This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Rogo d'amore Author: Anna Radius Zuccari Release Date: June 17, 2023 [eBook #70994] Language: Italian Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK ROGO D'AMORE *** ROGO D’AMORE ROMANZO DI NEERA MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1914 — =Secondo Migliaio.= PROPRIETÀ LETTERARIA. I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l’Olanda. Copyright by Fratelli Treves, 1914. Milano. — Tip. Fratelli Treves. ROGO D’AMORE I. Le ultime note del duetto di Tristano e Isotta, sollevate da una esecuzione delicata e intelligente a tutte le vertigini del sogno, si rifrangevano nel loro molle abbandono di petali e di perle sulle pareti della sala patrizia che tante note aveva già raccolte e tanti sogni in sue secolari vicende. Le lampadine elettriche dalla vôlta del soffitto istoriato versavano attraverso calici di fiori una luce discreta sulla bellezza delle donne; e queste nel fascino della musica d’amore palpitavano lievemente, ricordando o sperando. Un sottile rivo di linfa inturgidiva le gole nude tra i merletti; sguardi carichi di languore si abbandonavano alla morbidezza del desiderio, appena velati dalle palpebre, in un cadere pudico e lento di cortina. — I sentimenti elementari sono pur sempre il grande trionfo della musica. Così disse un signore alto, dai capelli grigi ben pettinati, giovanilmente snello ancora nella aggiustatezza dell’abito nero ornato all’occhiello da una gardenia, al suo vicino più giovane e più piccolo la cui testa bruna impomatata e lucida arieggiava una noce di cocco posata su un trespolo. — Principalmente l’amore, — rispose l’altro con voce gutturale accompagnando le parole a un movimento inavvertito delle spalle strette e spioventi che gli faceva risalire la giubba sul collo nella goffaggine di una linea ereditaria che i migliori sarti non riescivano a vincere. — Già! l’amore, e dell’amore le due espressioni fondamentali: ebbrezza e spasimo. È interessante seguirne l’altalena sul volto delle signore. La grossa marchesa col suo mezzo secolo di esperienza è la più commossa. Non vorrei trovarmele vicino questa sera. Ma la graziosa marchesina sua nipote è adorabile. — E poco adorata, almeno dal marito. — Appunto per questo l’amore trascendentale di Tristano e Isotta deve essere per lei una rivelazione pericolosa. Un amore fuori del comune. — Come deve piacere alle donne sentimentali. — Ma se non ve ne sono più! Del resto piace anche alle altre poichè ognuna se lo accomoda a suo talento e molte invece di morire con Tristano ricominciano con.... Arturo. È forse il caso della signora vestita di lilla che sta guardandoci in questo momento. — Me o te? — Entrambi. — Non è la X? — Proprio lei. — Non sai che si conserva meravigliosamente? Quanti anni potrà avere? — Ogni notte di San Silvestro aggiunge un anno ai mortali; certe donne invece hanno il privilegio di scalarne uno ad ogni nuovo amante e allora, capirai, è difficile fare il conto. Risero. Il signore alto di mezza età, che portava una corona chiusa nel suo stemma, di un riso sottile un po’ fesso; l’altro con una specie di chioccolamento grasso non molto dissimile dal rumore di un sacco di scudi rivoltati. — Io in fatto di aritmetica femminile preferisco la più semplice: i vent’anni, per esempio, della marchesina. Non c’è nulla da scalare lì. — E quant’è carina stasera con quell’abito bianco verginale che nulla mostra e tutto rivela! È come le vetrine delle modiste alla moda dove si avverte che i prodotti migliori si trovano all’interno. Risero di nuovo, il vecchio signore aristocratico e il giovane plebeo arricchito, nella comunanza di una vita che alle antiche divisioni nobiliari ha sostituito l’eguaglianza del denaro, spinti dalla necessità di sostenersi a vicenda, l’uno democratizzandosi con grazia forzata, tentando l’altro di salire col balzo di un paio di generazioni audaci a raggiungere le conquiste di nove secoli. — Che musica divina! — esclamò la signora vestita di lilla senza rivolgersi particolarmente a nessuno, per sfogo proprio, socchiudendo gli occhi sopra una visione che ella sola poteva vedere. La grossa marchesa esclamò pure con un sospiro profondissimo: — Ah! quel Wagner come doveva conoscerlo l’amore! Un ufficiale delle Guide che stava in piedi vicino alla signora vestita di lilla cercando da qualche tempo sulla punta de’ suoi baffi rispose a caso: — La pratica non gli doveva mancare. — La pratica non basta, — soggiunse la grossa marchesa, — ci vuole il temperamento. L’ufficiale tornò a scandagliare i suoi baffi in silenzio. Fu la signora dall’abito lilla che riprese: — Non credo al temperamento amoroso di Wagner. Pensare che l’amore di una donna gli ispirò questa musica e che egli abbandonò poi l’ispiratrice e la sostituì e la sconfessò quasi nelle memorie della sua vita.... Non ha letto il terzo volume della “Vita„? — No, non l’ho letto, — rispose l’ufficiale direttamente interpellato; — ma come interpretare le parole di Wagner stesso il quale disse che non avendo mai gustata la vera felicità dell’amore volle con Tristano innalzare un monumento a questo bellissimo fra tutti i sogni? — Ritenendolo niente altro che sogno. — Sognare, vivere, essere, non essere... tutte parole che perdono ogni significato quando si ama. — Ma se non si ama! Se non si sa amare! — ribattè con ostinazione la bella signora. — Si potrebbe scrivere d’amore se l’amore non esistesse? — L’amore lo creano i poeti. — I poeti tuttavia sono uomini. — Ma uomini sognatori. — Ogni amante è sognatore. — Forse, a un dato istante, ma poi distrugge da sè il proprio sogno. Non è vero? Neghi se può. — Qualche volta, — insinuò il giovane lentamente, — il primo strappo al velo dell’illusione è invece la donna che lo fa. Dica se non è vero? La bella signora si pose il fazzoletto sulle labbra per nascondere un sorriso che non avrebbe voluto mostrare in quel momento. L’ufficiale allora le si fece più da presso e la conversazione continuò tra loro due, isolando la marchesa che si buttò dietro le spalle senza saper bene dove andava a cadere una frase di sfogo. — Quella lo ha bevuto il filtro.... e lo dà a bere! Un cachinno mordace vellicò le spalle della grossa signora facendola voltare di botto. I suoi occhi accesi incontrarono gli occhietti miopi di un piccolo essere quasi gobbo ma così insolente nella sua sventura che la barba da fauno, compiacentemente accarezzata dalla mano scarna sulla quale brillava un solitario diamante, tremava e sussultava sempre in una specie di ebbrezza convulsa. — Voi che siete poeta spiegatemi un po’ questa faccenda del filtro. Non lo ha mica chi vuole! Il cachinno si alzò di un tono nella barba irrequieta e qualche parola stava per accompagnarlo quando la marchesa impazientita soggiunse: — È poi diventata così magra che non si capisce come possa interessare ancora gli uomini. — Eh! Eh! — fece il gobbetto. — Non è la vostra opinione? — La mia opinione, cara ed eccelsa amica, se pur volete attribuirle un qualsiasi valore, è che agli uomini piacciono tanto le magre quanto le grasse; le grasse per quello che vedono, le magre per quello che sperano. — Ma la bocca, guardate quella bocca tra due parentesi.... Rispose il gnomo con pupille scintillanti di malizia: — Non è tra parentesi che si dicono quasi sempre le parole più significative?... In appoggio all’assioma egli si curvò all’orecchio della marchesa mormorando qualche cosa che dovette porla di buon umore perchè diede subito col suo ventaglio un piccolo colpo secco tra la mano e la barba del fauno audace. I dialoghi si annodavano e si snodavano così nell’ampia sala smuovendo i gruppi, accostando le simpatie, dando esca alla curiosità; mobili, leggeri, superficiali, privi di interesse qual si conviene ad una società bene educata; e scialbi, tranne le brevi osservazioni maligne scambiate rapidamente o le piccole frasi a doppio senso gustate con lentezza dagli uomini che si piacevano a scrutarne l’effetto sul volto delle signore, come già ne erano andati indagando la commozione suscitata dal duetto di Tristano e Isotta. Quella sera più del consueto tale disposizione erotica fermentava nell’ampio salotto accolta dalle signore, non solo, ma quasi incoraggiata con una disinvoltura equivoca, con una sfida al pudore dove erano in proporzioni per lo meno eguali una certa spavalderia di emancipazione ed un oscuro rimescolìo di sensi eccitati. A tratti qualche parola pronunciata qua e là avrebbe potuto dare appigli ad argomenti diversi, ma l’attenzione non si arrestava. Nessuno voleva occuparsi di cose serie notoriamente noiose. Il piacere era nell’aria; era nel volto sornione dei vecchi, era negli occhi pronti dei giovani, era nel palpito che faceva ondeggiare i leggerissimi veli sul seno alle signore e rendeva le loro labbra un poco aride e inquiete, mentre tutta la persona eretta in posa di sfinge si offriva sicura all’indagine. Stava appeso alla parete principale del salotto un grande arazzo rappresentante la sete dei Crociati sotto Gerusalemme. Le due teste avvicinate della signora vestita di lilla e dell’ufficiale delle guide ne mascheravano il gruppo di mezzo dove era un soldato morto di una verità impressionante; e per tutto all’ingiro giacevano corpi straziati dallo spasimo, pupille rivolte al Cielo nella disperazione di un’ultima preghiera; ed elmi, scudi, lancie denudate sotto la luce gialla del sole, in vista delle mura fantastiche smerlate sopra un cielo di cobalto che i punti dell’arazzo picchiettavano minutamente. Ma il piacere dell’istante si moltiplicava intorno alla strage trapassata; similmente passeggiano gli amanti nei viali di un cimitero abbandonato. Luceva il desiderio come ala iridata di farfalla in certe pupille tremule inesperte, mentre cauto se ne stava appiattato in fondo ad altre nell’occulto ansare della febbre che rade la superficie di uno stagno; e vivido balzando da altre ancora correva incontro all’occasione colla sfacciataggine di una girandola accesa improvvisamente. A un certo punto, poichè divisi erano i gruppi ma un filo invisibile li legava sì che tutti sobbalzavano se uno dei capi veniva scosso, la curiosità si rivolse ad una discussione sorta fra la padrona di casa ed uno de’ suoi ospiti a proposito di un libro recentemente processato per accusa pornografica. Quell’argomento fu come una scudisciata sui lombi di poledri liberi. Tutti si slanciarono, chi difendendo, chi accusando. Buona parte delle signore protestò di non avere letto il libro, ma tutte ne erano edotte: la marchesa che sola non ne sapeva nulla se ne informò premurosamente dalla giovane signora vestita di bianco, la quale potè darle schiarimenti precisi per averlo letto, disse, senza accorgersene. Alcuni uomini dalle attigue sale si fecero sulla soglia del gran salotto ascoltando. La padrona di casa che aveva preso l’attitudine della lettrice scandolezzata citava abbondantemente per giustificare la propria indignazione; il suo competitore citava anche di più, citava passi di libri antichi, di libri celebri che non erano stati processati, invocando i diritti della natura, la libertà del pensiero, l’arte.... Negli angolucci remoti, dietro paralumi color di rosa, grosse parole cadevano in piccole orecchie. Una tensione nervosa turbava oramai uomini e donne; più avanti di così non si poteva andare. Eppure sembrava che per una occulta attrazione malsana fermarsi non fosse possibile. L’aria era satura di tutta la leggerezza, di tutta la volgarità che quelle persone educate sapevano una per una nascondere quando fosse necessario, ma che riunite insieme si accalorava, esalando ognuna l’intimo istinto fino a formarne un vapore denso di nausee inafferrabili, ondeggiante fra l’arazzo storico e i bronzi antichi, saliente su per i serici cortinaggi nel tremolio degli specchi a raggiungere i preziosi dipinti della vôlta, pallidi sotto il raggio lunare delle lampadine elettriche. Nascosta nell’ombra del piano dove si era intrattenuta fino allora a sfogliare musica una persona, una donna, soffriva di quell’afa fino ad averne mozzo il respiro. Nata e vissuta in quella società non era la prima volta che la assaliva il sentimento nostalgico di sentirsi straniera, ma il concorso delle circostanze sembrava quella sera aggravarlo di tutti i fondi impuri vanamente celati sotto l’orpello delle belle maniere e più che mai stridente la sua sensibilità gemeva nell’urto fra tanta ricchezza di decorazioni e sì povero, sì meschino, sì basso palpito d’anime. — Se nemmeno il Tribunale ha diritto di far cessare lo scandalo, che cosa dobbiamo fare noi donne oneste? A tale interrogazione profferita con petulanza dalla padrona di casa la persona si alzò nell’ombra del piano, per parlare, per dire una parola che le bruciava le labbra, ma nel medesimo istante, dal lato opposto della sala, una voce d’uomo calma e severa rispose: — La sola cosa da fare è non parlarne affatto. La persona si scostò allora dal piano, uscì dall’ombra, guardò in fondo alla sala meravigliata colui che aveva saputo alzare una protesta collo stesso pensiero, quasi colle stesse parole che ella stava per pronunciare, che appunto ella voleva dire essere in tali casi il silenzio la migliore difesa del pudore. Guardò, vide un volto ignoto, meglio del volto sentì l’anima nella voce, e fra tanta gente nota ed amica, là dove si era svolta fino allora la sua esistenza, tra gli oggetti famigliari che costituivano il suo mondo, quell’ignoto, quello solo, le parve che da altri mondi, da altre vite venisse a recarle un verbo inutilmente sognato poichè in lui solo si era ripercosso il grido di rivolta della sua sensibilità offesa, in lui solo. Di nuovo i gruppi si suddivisero, riprese il parlottare a voce bassa; le signore più giovani incominciarono a girare offrendo tazze di thè e sorrisi; molti uomini si dispersero nelle altre sale; qualcuno consultò l’orologio furtivamente; la signora vestita di lilla trasse pure furtivamente dalla borsetta a maglie d’oro che le pendeva al braccio un minuscolo oggetto che si fece passare sulle guancie e sul collo. Nel vano di una finestra la signora dall’abito bianco rispondeva alle insistenze di un giovinotto che la stringeva da presso: — No, domani non posso. — Dopo domani? — Nemmeno. — Allora, quando? Passò un vassoio di gelati. La padrona di casa ne offerse ad una vecchia signora della quale nessuno si occupava. — A Parigi, a Parigi, bisogna andare a Parigi. Cosa volete mai trovare qui da noi! — strillava di mezzo a un crocchio il milionario plebeo dalla testa a noce di cocco. — L’Italia è l’ultima delle nazioni. — Quando torneranno di moda gli abiti a _volants!_ — Grazie, non prendo thè, non potrei dormire. — La terza in prima fila, vestita da libellula. — Il quindici per cento, scherzi? — Non porto busti al di sotto delle cinquanta lire. A un tratto sull’incrocio delle frasi che volavano di gruppo in gruppo si alzò da una delle sale adiacenti un suono di voci alte e concitate come di rissa. Tacquero le ciarle per incanto e si affollarono gli usci. Sulle prime non si comprese bene di che cosa si trattasse. Una voce angosciosa gridò: — Ritiri quella parola, la prego. Una voce secca rispose: — Non ritiro nulla. Allora la voce di prima pronunciò una frase che andò perduta nel tumulto di sedie rovesciate e di esortazioni: basta! basta! Qualcuna fra le signore si spaventò. Il signore alto dai capelli grigi che rispondeva al titolo di principe, facendo loro baluardo del proprio braccio, riuscì ad allontanarle respingendole verso il salotto principale. — Calma, calma, non sarà cosa seria. Ma si voleva sapere. Un tumulto simile in quell’appartamento signorile era troppo fuori delle abitudini. La padrona di casa si mostrava indignatissima: — Ma che credono, di essere in piazza? — E chi grida infine? Odo la voce del tenente.... — No, piuttosto del barone.... — Forse una querela di giuoco.... Il milionario plebeo irruppe improvvisamente nel gruppo femminile che il principe aveva allontanato dal campo di battaglia. — E così? E così? — Pare impossibile, — chiocciò il giovane sollevando le spalle strette e allargando le braccia con tutti i segni della sorpresa. — Che avviene dunque? — Una sfida, nientemeno. — Una sfida? — esclamò il principe enfiando le narici. — E per una sciocchezza, questo è l’assurdo. — Chi? Chi? — chiesero ansiose le signore stringendosi intorno al narratore. — Chi deve battersi? Perchè? — Una sciocchezza, una sciocchezza, — continuava a ripetere il giovine scuotendo da destra a sinistra la testa impomatata. — Si parlava di cappelli tirolesi, figuratevi! Qualcuno nominò il Trentino. “Che Trentino! disse il barone. Il Trentino politicamente e normalmente non esiste; è un paese bastardo„. Allora quel signore nuovo, quello che fu presentato questa sera, credo, quel Moena, gli fu addosso con un balzo gridando: “Ritiri subito la parola _bastardo_ che è un insulto ad una delle più nobili terre italiane„. Naturalmente il barone non volle ritirar nulla. L’altro, ostinandosi, pretendeva che ritirasse. A un secondo diniego del barone l’insensato grida: “È bastardo chi rinnega il proprio paese„. “Faccia il nome se osa!„, urlò il barone. E il suo nome gli fu gettato sul volto come un guanto. — Ooh! — fecero le signore. Il vecchio principe, un po’ pallido, chiese: — Non si è tentato di intervenire? — Certamente; ma quel Moena sembrava un pazzo. Non fu possibile fargli intendere la ragione. Pensare che l’origine di tutto ciò è un cappello.... — Cioè, cioè, — interruppe il principe. — Sì, capisco, ma via, non era il caso di fare una simile quarantottata proprio la prima volta che si è presentati in una casa. Tutti approvarono. Una signora che portava al collo ventimila lire di perle e altrettante le baluccicavano in brillanti soggiunse: — Per un paese poi che nessuno conosce. Intanto nel piccolo salotto dove era avvenuta la sfida, rimasto vuoto, due signori si disponevano ad accompagnar fuori Moena che alterato in volto e pallidissimo sembrava non vedere nulla intorno a sè. Il biasimo della elegante società che si era allontanata da lui, offesa ne’ suoi sentimenti superficiali dall’impeto di uno sdegno giudicato di cattivo gusto, lo cingeva di una zona ostile; si sentiva rinnegato, bandito per sempre, e la furia che pochi istanti prima gli aveva fatto ribollire il sangue nelle vene si congelava in una sensazione di amarezza infinita. Lieve un fruscìo di gonna ed un sommesso accento lo arrestarono sulla soglia mentre usciva. — Mi permetta, signore, di ringraziarla per la sua nobile difesa di una terra che amo. Qualunque sia l’impressione che ella riporterà di questa serata sappia che un cuore italiano l’ha compresa. Uno sguardo ricambiato colla rapidità inconsapevole di due fanali che si urtano nella notte; una stretta di mano senza sentire la mano; un volo d’anime. Non altro. II. — Signora contessa, non c’è più posto, — disse l’inserviente inchinandosi con rispetto dinanzi alla signora che entrava allora nell’atrio del Circolo affollato di uomini. — La sala è colma. Molti di quegli uomini si scostarono aprendo un passaggio fino all’uscio dove la signora fu arrestata da una muraglia di persone già tutte in possesso di una sedia, di un cantuccio, di uno stipite, nella attesa impaziente del grande conferenziere. Un rapido giro delle pupille la fece persuasa che sarebbe stato impossibile penetrare là dentro e già stava per retrocedere quando un giovane alzandosi le offerse la propria sedia. — Moena? — fece la signora con una sorpresa piacevole e calda, che si tradusse nell’espansione della voce, nel baleno dello sguardo. Dalla sera della sfida non si erano più riveduti. Si riconobbero quasi per istinto, per un impulso magnetico che li attraeva l’uno verso l’altro da reconditi misteri del loro essere. Era in loro la sensazione confusa di un vincolo anteriore al caso che li aveva posti di fronte, una specie di voce del sangue che li segnava col suggello di una razza. — Devo ringraziarla, — disse Moena senza calore nell’accento, ma con una persuasione intima che dava alla sua bella voce una nota di gravità. — Ella è stata molto buona a interessarsi di me per tutto il tempo che la ferita mi tenne infermo. — È ora almeno guarito perfettamente? — Sì. Sono già scorsi due mesi da quella sera sciagurata. Un impeto di sdegno retrospettivo colorì di una vampa improvvisa il volto del giovane. Egli soggiunse: — La costanza di lei nel mandare a prendere notizie mi provava che la causa da me difesa era giusta e questo è pure un grande conforto per uno che combatte da solo sopra un campo abbandonato dai compagni. Dalle ultime parole di Moena trapelava uno scoramento, una tristezza profonda. — Lei si è forse meravigliata che una sconosciuta osasse ciò? — disse la signora con un poco d’ansia nell’accento. Moena ristette, dubbioso, mentre la signora continuava: — Io mi interessai sinceramente a quel suo nobile entusiasmo così raro a trovarsi nella gioventù dei nostri salotti. Lei è trentino nevvero? Conosco il Trentino e posso ben dire di amarlo per tutte le sensazioni nuove dolci e melanconiche che m’ha suscitate; lo amo nella sua bellezza, lo amo nel suo dolore; sopratutto nel suo dolore. L’entrata del conferenziere interruppe il colloquio. La signora si raccolse quietamente sulla sedia offerta da Moena; il giovane stette ritto al suo fianco, un po’ indietro, per modo che ella ne scorgeva appena la linea della persona in attitudine di grande attenzione. Lei invece si accorse più tardi di aver perduto il principio della conferenza per essersi soffermata a rifare colla mente il loro singolarissimo incontro primo, poi le notizie del duello propalate dai giornali e commentate in diverso modo, poi l’interessamento e la pietà che l’avevano spinta a inviare tutti i giorni un messo quando si era parlato di imminente pericolo per il ferito. Un biglietto di visita: “Ariele Moena„ l’aveva ringraziata allora sobriamente e correttamente e tutto sembrava finito. Ma quel ritrovarsi improvviso concretava la visione in un fatto di vita; Ariele Moena non era più un’astrazione, un sentimento, un soffio di idealismo sopra l’onda volgare della comune esistenza. Egli era lì, dietro a lei, silenzioso ma vero. Non visto, lo sentiva nella sua stessa immobilità e appunto perchè non lo vedeva, lo pensava. Le parole dell’oratore cadevano su entrambi, udivano insieme lo stesso suono, penetravano nello stesso pensiero, seguivano con ansia eguale (ella non ne aveva nessun dubbio) l’ascensione di uno spirito elevato nei puri dominî dell’idea. Quando, a conferenza finita, la signora si alzò e voltandosi immerse lo sguardo nello sguardo del giovane, rivisse l’identico istante della prima volta che lo aveva scorto, colla stessa impressione di trovarsi davanti alla rivelazione di un’anima. Uno scroscio d’applausi faceva rimbombare la sala fra l’urtarsi affannoso della gente che tentava di raggiungere il conferenziere, per mettersi in vista, per complimentarlo, per raccogliere le briciole del suo trionfo. La signora si ritrasse in un cantuccio a aspettare che sfollasse e Moena le rimase al fianco, tacito. Ella comprese la protezione delicata senza mostrare di rilevarla; osservò anche che il giovane prendendo una sedia vicina la scostò innanzi di sedervisi. Ogni suo gesto aveva questa signorile impronta di distacco, quasi di immaterialità, che costituiva la di lui espressione più caratteristica. — È suo concittadino il conferenziere? Un’ombra discese sulla fronte di Moena. Rispose: — Abbiamo entrambi l’orgoglio e il dolore di chiamarci trentini, ma non siamo dello stesso paese. Egli è della valle di Non. Fu un appiglio per riparlare del Trentino. — Conosco la valle di Non, — disse con calore la signora. — Quanto è bella! — Ma quanti italiani la conoscono? — soggiunse Moena con infinita tristezza. — È vero, il Trentino è poco noto agli italiani. Fu per me quasi una scoperta. Eppure l’impressione di bellezza che esso dà è nulla in confronto alla sua fisionomia sentimentale, se così posso esprimermi. Mi ricordo di aver visto nella fuga del treno una casetta bianca nel mezzo di un prato intensamente verde e sul tetto della casetta sventolava una bandiera rossa. Rapida apparizione subito scomparsa, ma commovente e poetica tanto che ancora quando vi penso rivedo il verde all’asta e il rosso al vento di quella singolare bandiera, quasi un augurio ed un presagio per la terra sventurata. Il giovane aveva ascoltato attentamente senza che si mutasse una linea del suo volto severo ed astratto, come se una parte sola di lui fosse presente e rimanesse l’altra celata nelle nubi di un mondo invisibile. Usciva tuttavia da quella forma muta un fluido di simpatia spirituale che trascinò la signora a proseguire le sue confidenze. — E a Trento, passando in carrozza il ponte sull’Adige, quando il cocchiere mi disse che il ponte è minato, che altre mine sono intorno, che dai forti sulla città stanno rivolte le bocche dei cannoni, ebbene, non l’ho mai detto a nessuno, lo dico a lei, un gruppo di pianto mi salì alla gola.... Si interruppe, meravigliata essa stessa di avere concesso tanto dell’anima sua ad uno straniero di cui appena conosceva il nome. — È questo che gli italiani non sanno, — disse Moena colla sua voce profonda e un po’ velata, come erano profondi e un po’ velati i suoi occhi perduti nel vuoto, lontani. L’inserviente che aveva inchinata la signora al suo apparire le stava ora dinanzi in attitudine di attesa. Ella si accorse della sala e dell’atrio deserti e sorse prontamente in piedi avviandosi alla carrozza che l’aspettava nel cortile. Mentre saliva il predellino Moena disse ancora: — Il conferenziere che abbiamo udito oggi terrà una lettura prossimamente alla società nostra sulle valli e le acque del Trentino. Le interesserebbe di assistervi? — Come no? Lo desidero vivamente. — Se mi permette le manderò un invito. — La ringrazio, ma non vorrei crearle un imbarazzo: gli inviti saranno ricercati. — Oh! il tema non interessa molti! — rispose il giovane, intanto che l’accenno ad un malinconico sorriso interrompeva per un attimo la linea chiusa della sua bocca. Ripromettendosi di non mancare, la signora partì trasportata a un trotto rapido. Le rimaneva tuttavia in fondo alla pupilla la visione di Moena con una vaga curiosità e un materno interessamento per quel giovane che le suscitava rimembranze romantiche di eroi d’altri tempi. Questa era la sua impressione esatta: un eroe d’altri tempi. Quale donna passerà mai nel sogno di quegli occhi?... — pensò. Ma non era ancor giunta a casa che le solite preoccupazioni e i pensieri inerenti alla sua vita l’avevano ripresa. Qualche settimana dopo, in un mattino freddo della fine di marzo, sul punto di recarsi alla stazione chiamata al letto di una parente moribonda, la signora ricevette l’invito promesso e tornandole subito a memoria l’ultimo incontro con Moena si rammaricò sinceramente del contrattempo che le toglieva la possibilità di approfittarne. Durante il viaggio solitario la figura del giovane le passò una o due volte attraverso la mente, più che in forma materiale in quella sua particolare espressione di sentimenti rari e di misteriosa anima ardente che lo faceva diverso dagli altri: — Peccato! — mormorò fra sè. Fuggivano intanto dinanzi ai suoi sguardi gli alberi raggricciati e tristi nella repressione delle prime gemme che un ritorno inaspettato dell’inverno sembrava congelare sui rami. Sotto sì malinconici auspici la dolente visione a cui andava incontro si impossessò interamente del suo spirito. Colei che moveva a visitare era l’ultima della sua famiglia, l’ultima di quei parenti che l’avevano veduta bambina, poi giovinetta, poi sposa, sempre giovane per loro — quantunque in realtà non più giovane — ed amata del sicuro e placido affetto dei vecchi. Giunse tardi; l’inferma era spirata la sera prima. Una povera serva piangeva silenziosamente accanto al letto del quale aveva rimboccato il lenzuolo sul volto della morta. — Oh! signora contessa, — disse subito, — arriva a proposito. Non c’è nessuno per ordinare il funerale. La signora dette un’occhiata in giro. Da molti anni non veniva più in quella casa; le parve misera più che non fosse mai stata; una fredda casa di zitellona provinciale dove ogni suppellettile era muta e stantia, pervasa da un odore di muffa e di mandorle amare, con una poltrona sotto la finestra incavata come una tinozza. — Ecco, — pensò — ha vissuto qui.... dalla poltrona alla finestra, per anni ed anni!... Un fischio la fece sobbalzare lievemente. Alzò gli occhi e vide un merlo sospeso in una gabbia. — Dov’è il dottore? — chiese la signora. — È venuto a verificare la morte e poi è partito. — E il sacerdote? — Anche lui è venuto; son venute le vicine, è venuto un uomo a proporsi per la guardia, son venuti tutti, ma ora non c’è più nessuno. Le ultime parole della domestica risuonarono col tonfo cupo di una pietra gettata in un pozzo. Il merlo fece eco. Quella riprese: — Non ha lasciato testamento. Continuando la signora a tacere, l’altra svolse una lunga litania di miserie, di denari perduti, di roba sciupata, di conti da pagare; e ancora il medico, e ancora la chiesa, ancora il funerale; quante torcie? quanti preti?... E di lei, poveretta, che avverrebbe? Non aveva da parte neppure un soldo.... Un senso di puntura nella nuca avvertì la signora che c’era un vetro rotto alla finestra; la cortina stessa, strappata dalla verga di ferro, penzolava con una non lontana somiglianza di impiccagione, gonfia nel ventre dei pappagalli che vi erano disseminati, opaca per la molta polvere raccolta e grigia sotto antiche traccie di amido che vi facevano delle placche qua e là. Dovunque l’occhio si posasse non incontrava che abbandono e desolazione. Quella casa che pure era stata graziosa una volta aveva seguito fedelmente la decadenza della sua proprietaria; non più illusioni, non più fiori, non più giovinezza, non più canti. Non più passione di vita, non più attaccamento agli oggetti, non più bisogno della bellezza, non più cure attente e previdenze amorose. Un cuore era morto, la casa era morta anch’essa. L’amore forse vi aveva battuto un giorno la sua ala vittoriosa. Che ne era rimasto? Nulla. Un brivido che non appariva solamente di freddo spinse la signora a muoversi. Occorreva abboccarsi col curato e col medico: ella uscì. Ognuno le parlò della defunta, lodandola, s’intende, con una mal celata curiosità di conoscere le intenzioni dell’erede. Essendosi stabilito il funerale per l’indomani, il medico le propose di passare la notte in casa sua, ma la signora dichiarò che non si sarebbe coricata. Accettò appena l’uomo che si era offerto per fare la guardia al cadavere permettendo alla serva di prendere qualche ora di riposo mentre ella stessa si sarebbe coricata senza spogliarsi sul divano del salotto. Quando rientrò un fitto nevischio punteggiava l’aria di innumerevoli spilli. La signora si strinse il velo intorno alla faccia attraversando rapidamente le strade poco note dove la sua elegante figura attirava l’attenzione dei rari passeggeri. — È l’erede, — mormorava qualcuno che l’aveva vista discendere al mattino alla casa della morta. Sulla soglia si accorse di una vecchierella che la seguiva umilmente. — Se volesse farmi la carità di un po’ di spoglio.... Siamo tanti in famiglia.... qualunque oggetto sarà buono. La signora promise; ma da un cantuccio dove stava appiattata, un’altra misera forma umana mosse verso lei implorando i rimasugli della cucina, un pugno di riso, un fondo di bottiglia, il cartoccio del sale.... Anche a quella promise. Durante la sua assenza la donna di casa aveva acceso nel salotto un fuocherello di sarmenti dei quali appena entrata ella non vide che il fumo. La donna si scusò adducendo che la defunta padrona per non rimanere sola nel salotto andava a scaldarsi in cucina. — Ebbene, sarei venuta anch’io in cucina, — rispose la signora sorridendo. — Mi dispiace che vi siate presa questo disturbo. La donna rimase confusa per tanta semplicità e sempre scusandosi ammannì una piccola cena improvvisata sopra un tavolino rotondo verniciato di nero con nel mezzo una gondola tra flutti cerulei. Il tavolino aveva un solo piede nel centro e traballava appena tocco. — Frutta non ce n’è, — disse ancora la serva zelante, — ma ci deve essere qualche biscotto. Cercò da prima sul piano del caminetto in un vaso che doveva essere stato anticamente un vaso da tabacco; era vuoto; poi aperse un armadio a muro scoprendo un panierino con dentro cinque o sei bozzoli, una matassa di lana scura, una bottiglia di tamarindo. — Lasciate, lasciate, — insisteva la signora. Ma la buona donna aveva finalmente posto la mano sopra un piatto dove alcuni biscotti stremenziti sorgevano da una pagoda chinese. Solamente nel trarli alla luce si accorse che i sorci vi avevano lasciato le loro traccie ed arrossendo li ripose. Bisognò ancora dare gli ordini per la mattina seguente: il funerale, le torcie, i preti, i poveri.... Rimasta sola, la signora vide nello specchio a cornice di legno che sormontava il caminetto un volto femminile intelligente e grave, vide la goccia dei piccoli brillanti appesi all’orecchio e l’iride aperta degli occhi che sembravano guardare meravigliati i suoi. Era infatti una meraviglia ch’ella si trovasse in quell’ora così lontana da casa sua, dalle sue abitudini, dalle sue amiche. Con un gesto impulsivo di donna accurata si ravviò i capelli e girando lo sguardo intorno sullo squallido mobilio rievocò in un baleno di desiderio il suo appartamento così comodo, così tiepido, così pieno della sua vita. — Povera donna! — mormorò pensando alla defunta. Avvicinando poi alle pareti la candela che la domestica aveva lasciato sul tavolino rimase fissa in contemplazione di un dagherrotipo che rappresentava la sua parente a diciotto anni, vestita di bianco, con cinque piccole balze in fondo alla gonna e una ghirlandina di rose sui capelli pettinati a bandò. Per spontaneo contrasto le si affacciò alla mente l’ultima volta che l’aveva veduta, in negre vesti, con una giacca di flanella ovattata e una treccia di color castagno torreggiante su pochi cespugli di capelli grigi. Tutto era triste intorno, di una tristezza vuota e meschina, colla sola grandiosità della morte che si sentiva presente nel silenzio. La signora tentò di adagiarsi sui guanciali già apparecchiati, ma non aveva sonno. Si alzò, fece qualche giro ancora nel breve salottino rattizzando il fuoco, malinconica, coi nervi abbattuti, pensando al dimane che le avrebbe recato una giornata densa di occupazioni e di nuove tristezze, chiusa in un cerchio di piccole avidità e di invidie che non conosceva esattamente ma che presentiva sospese su quella casa in rovina come si intravede da lontano il volo dei corvi attratti dall’odore dei cadaveri. — Ma tutto lascerò a loro! — concluse la signora allargando le braccia con un movimento di rinuncia e di sollievo insieme. Allora, su dal cuore, con un gesto improvviso d’acqua che rompe la durezza del suolo e si afferma in polla cristallina, un pensiero che fino a quell’istante era stato compresso e soffocato dalle imperiose necessità dell’ora le balzò netto dinanzi: Moena doveva averla aspettata alla conferenza. Moena. Un amico? No. Un conoscente? Quasi neppure. Sapeva così poco di lui! E dunque? Ma aveva promesso, aveva ella stessa sollecitato l’invito. La sua squisita gentilezza soffriva di ciò che avrebbe potuto interpretarsi nel senso di una goffa trascuranza. Rivedrebbe ella mai Moena?... forse no. Allora si decise. In una cartella di marocchino rosso spelacchiata agli angoli rimaneva uno di quei fogli di carta da scarto che i rivenduglioli smerciano nei paesi. Poche goccie di inchiostro in un calamaio di vetro e una penna spuntata bastarono al breve biglietto che ella scrisse in piedi. Nessuna preoccupazione della povera forma in cui si chiudeva il suo pensiero la turbò menomamente. Ripeteva a sè stessa con una certa dolcezza che Moena ricevendo il biglietto avrebbe scorto l’impossibilità assoluta in cui ella trovavasi di assistere alla conferenza, che questo gli avrebbe fatto piacere almeno perchè il suo amor proprio rimaneva illeso. Tranquilla, serena, chiuse il foglio in una busta troppo larga, vi appose l’indirizzo e lo lasciò sul tavolino nero del quale mascherava in parte la gondola. Colla prima posta di domani sarebbe partito. Ma non vi era pericolo che lo dimenticasse?... Si tolse dal collo la sottile catena dell’orologio e ve la posò sopra, delicatamente, intanto che rileggeva la soprascritta: Signor Ariele Moena. — Così — disse a voce alta — tutto è in regola. III. Si ritrovarono in società. Questa volta la signora, pur ricordando la soave impressione del loro primo incontro, quando la voce di lui dal fondo del salotto signorile e volgare si era alzata come un biancheggiare d’alba, non potè difendersi da una particolare ansia che era forse una sfiducia di sè stessa, quasi il timore di veder sciupato in una consuetudine senza interesse il bel gesto che l’aveva per un istante accostata ad Ariele Moena. Intuiva che nessuno dei discorsi soliti avrebbe potuto interessare quel giovane cui una invisibile corazza sembrava cingere di spiritualità e che aveva nello sguardo una inquietante ricerca, come l’inseguimento perenne di una idea, come un palpito d’ala ininterrotto che gli mantenesse intorno una atmosfera più pura. La fredda correttezza che era nel volto e nei gesti di Moena non lasciava adito a facili indagini. Si videro, si salutarono, poi furono divisi; Moena entrò in un crocchio di giovani, la signora si pose a ciarlare con qualche amica. Solo più tardi poterono avvicinarsi e ancora la signora fu assalita dalla curiosità di quell’anima. Un lento e dolce conversare si svolse subito fra loro, pari a sottil rivolo che nutrisse in entrambi occulti germi, girando per oscuri meandri dalla bassa poltroncina di vimini dove egli stava seduto al piccolo divano sulla cui sponda ella abbandonava il braccio; così placido, senza turbamenti, appunto come rivo d’acqua limpida, ma che pure sembrava in certi istanti fiotto di sangue pulsante blandamente ai polsi. Più la signora persuadevasi che la sua compagnia non era sgradevole a Moena e più le cresceva l’ansia di penetrare nel di lui pensiero. — Sa, — gli disse a un tratto — anderò presto a salutare le sue montagne. È molto tempo che non vede Trento? — Anni, — fece egli con un gesto scorato. — Ho cari amici lassù, vado a compire un pellegrinaggio di affezione. — Prende la linea di Ala o fa il lago? — Altre volte andai per Ala, ma non le nascondo che il lago mi tenta assai. — Non conosce il Garda? — No, — rispose la signora quasi vergognosa della confessione. — Ho torto, nevvero? — Ha torto perchè il Garda è uno dei più poetici laghi d’Italia ed amarissimo, come un certo mare.... — Oh! anderò senza fallo questa volta, — esclamò la signora con slancio. — Quanto sarei lieto di poterle servire da guida! Io lo conosco palmo a palmo. L’inaspettata proposta sorprese la signora, quantunque Moena l’avesse annunciata nel modo più semplice, senza alterare una linea del volto che solo si animò un poco continuando: — Il Garda apre la via ai laghi del Trentino che tra grandi e piccoli sono più di trecento. Ha una sua impronta particolare schiettamente italiana che tutti gli sforzi del pangermanismo non riescono a snaturare. Invano accorrono ad esso i capitali tedeschi popolando le sue rive di alberghi e di ville tedesche, invano una canzone di irredentismo a rovescio suona la diana per persuadere che il Garda italiano è una usurpazione; le sue acque profondamente azzurre, il suo cielo, i suoi fiori, i suoi aranci, i suoi ulivi, la sua storia, la sua gente, tutto grida Italia. — Queste parole accrescono il mio rimorso, — disse la signora. — Santo è il rimorso — ribattè il giovane — se conduce alla conversione. Vada, vada al Garda e ne parli e lo faccia conoscere. Noi trentini ci interessiamo a tutte le questioni che interessano il regno, ma abbiamo bisogno che anche i nostri fratelli si interessino a noi. — Il Garda è una delle porte del Trentino, la più affascinante, e l’oro tedesco la insidia senza posa. Noi dobbiamo vegliare per conservarla italiana. — Fare dell’irredentismo?... — mormorò la signora scrutando fissamente colle pupille le pupille di Moena. Egli ebbe un movimento di grazia improvvisa nella piega malinconica della bocca. Rispose: — Basterà amare. L’irredentismo per la maggior parte di noi è un sogno angoscioso, un anelito continuo anche se nascosto a liberarci da una oppressione che si traduce in cento forme di umilianti angherie, è una tensione spasmodica dei nervi, è un sospiro dell’anima, è un contrasto sempre più insopportabile fra il sentimento e la vita, fra l’aspirazione e la realtà, fra il nostro diritto naturale e la legge che ci è tirannicamente imposta. Per voi, per gli italiani liberi, sia l’irredentismo una forma di infinita pietà, un fraterno desiderio di saperci felici, un orecchio aperto ai nostri gemiti, una mano tesa alla nostra debolezza, un cuore che batta apertamente e lealmente accanto al nostro. Chiediamo troppo? L’ardore del giovane contenuto in una giusta padronanza di gesti e di voce trovava nelle più nobili fibre della donna un’eco già pronta. Ella non ebbe bisogno di molte parole per affermarsi. Dal suo sguardo, da quel tutto insieme misterioso e profondo per cui traluce il pensiero, Moena dovette sentirsi compreso. Soggiunse senza guardare la signora, già perduto nella visione dell’avvenire: — Quando parte? — Ma.... a giorni. — Se posso appena mi troverà a Desenzano, — disse improvvisamente. — Da troppo tempo non rivedo più il mio lago; sarebbe un piacere per me fargliene gli onori. La signora sorrise a guisa di assentimento con quel lieve imbarazzo di chi si sente preso in un cerchio non voluto e pure piacevole. C’era sempre questa specie di inconsistenza nei loro rapporti, come se invece di trovarsi di fronte un uomo ed una donna fossero due sogni che si sfiorassero. Alcuni giorni dopo scendendo sotto la tettoia elegante della stazione di Desenzano la signora non fu troppo meravigliata di non scorgervi Moena. Una sottile impressione di disinganno, forse, le attraversò la mente subito assorbita dalle necessità dell’ora, e mettendo piede sul battello si ripromise con tanta intensità di non lasciarsi sfuggire nessuna delle bellezze del lago che tutta la sua potenza di pensiero parve concentrarsi nella vista. La nobile Sirmione col sottile gruppo di abeti, col suo bel Castello, le sfilarono dinanzi mentre appoggiata al parapetto dell’_Angelo Emo_ affondava lo sguardo e l’anima nelle rive fuggenti calde di luminosi colori, e morbide e carezzevoli tanto, specchiate in quelle acque di un azzurro straordinario, che la dicitura di un albergo apparsa fra sì delicate bellezze le diede un urto al cuore. _Hôtel Eden_ diceva la scritta sfacciatamente esposta al sole, rammentandole di un subito l’invasione utilitaria e straniera di quelle rive nate per il sogno più puro di un poeta. Quasi per purificarsi gli sguardi li riportò sul nome del battello, _Angelo Emo_, dal quale una visione di venete bandiere sventolanti in trionfo parve venirle incontro a guisa di promesse e fu di nuovo tutta presa nell’ardore dell’ammirazione, sfuggendo i pochi passeggieri che si trovavano intorno a lei, che sentiva indifferenti al suo entusiasmo. Salò, Gardone, Gargnano le strapparono un piccolo grido di meraviglia. Dire che aveva per tanto tempo ignorato quella spiaggia incantevole e quel lago unico nella sua tinta di cielo, intensificata come se i profumi degli aranci in fiore passando e ripassando vi avessero spremute le nuziali ebbrezze della terra! Profonda e malinconica una commozione la strinse a sentirsi sola in quel momento, così staccata dalla sua propria esistenza, presa in una parentesi di impressioni che allontanava smisuratamente tutto ciò che soleva occuparla e interessarla. Vogava ella su quelle acque cerule nello splendido meriggio estivo verso l’ignoto domani con un cuore alleggerito da torrenti di lagrime, un dolce cuore rassegnato e tranquillo che più nulla chiedeva al destino. Per un istante i suoi amici, le sue amiche, i parenti le si affacciarono alla memoria, ma nello stesso modo che passano le figure sulle lastre di una lanterna magica, piatte, tremolanti, confuse. Nessuna si mesceva particolarmente al suo intimo senso di vivere, nessuna sorgeva al suo fianco colla imperiosa evocazione del desiderio. E il battello andava, andava dolcemente verso le terre trentine dove le prime case di Riva già biancheggiavano in una luce dorata di paesaggio meridionale. Il minuscolo treno che pare un balocco da bimbo accolse la viaggiatrice allo sbarco trasportandola subito per Arco e per Mori verso la foce del Sarca, lungo canali sinuosamente diffusi tra i prati, in vista delle belle montagne cinte di silenzio. Suonerebbe mai un giorno fra quelle balze l’inno della libertà?... La signora si accorse a un palpito accelerato del cuore che la sua immaginazione le anticipava avvenimenti chiusi ancora nei misteri del tempo. — Non importa. — ella pensò — che il cuore batta! nella speranza o nella disperazione, nell’anelito o nella preghiera, nella pugna o nell’attesa, che batta! ciò solo conta. Non aveva detto qualche cosa di simile pochi giorni prima Moena? Ah! sì, Moena. Doveva trovarsi a Desenzano, ma non era naturale che avesse dimenticato l’incontro a Desenzano? Un giovane doveva avere ben altro per il capo. Meglio così, forse. Si riversò tutta sulla spalliera del sedile, allentando il velo del cappello, sola nello scomparto e quindi libera e quasi felice. Socchiudendo gli occhi al molle ondeggiamento del treno, pur senza perdere di vista la fuga verde dei campi che le appariva a guisa di nastro serpentino tra la frangia delle palpebre, le irrompevano su dal petto le prime note dell’inno di Mameli: e a dischiuderle a mezza voce su quella strada, di fronte a quei monti, intanto che il treno correva verso Trento, la prese tale ebbrezza di sfida che per naturale consenso della fantasia parve le ritornasse da ogni balza e da ogni fratta l’eco di simpatie fraterne. Giunse a Trento che ancor batteva il sole in un barbaglio di raggi sulla statua di Dante. — Albergo Trento, — ordinò al fattorino che le portava le valigie. Ma quando, arrestata dinanzi al grandioso edificio, lesse sul frontone _Impérial_ tornò a ripetere con impazienza: — Trento, Trento. — Appunto, — rispose l’uomo, — è questo; solamente ora si chiama _Impérial_. Lo contemplava ella curvo sotto il bagaglio, mansueto, con una nube di tristezza forse inconscia in fondo agli occhi. Disse: — Brutto nome. — Eh! — fece l’altro sorpreso e dubbioso. Concluse la signora con slancio: — Ma per noi italiani è sempre Trento nevvero? E al gesto comune della mancia aggiunse un sorriso buono, quasi un sorriso di amichevole intesa che stabilisse il loro vincolo di nazionalità. Poche ore dopo, dall’ampio terrazzo che domina la piazza, la signora assisteva alla gloria del tramonto i cui ultimi raggi avevano già abbandonato il Dos, rifugiati sulla cima delle più alte montagne, indugiando in un dispiego di veli sanguigni striati di punti d’oro. La crocetta della chiesa di Sant’Apollinare, in basso, presso l’Adige, emerse per un istante o ella credette di vederla, memore del luogo antico e del piccolo cimitero dove riposano i padri all’ombra della loro fede. Immediatamente sotto a lei, intorno al monumento del Grande, suonava la banda militare e passeggiavano i cittadini a lento passo sparendo e ricomparendo d’in fra gli alberi novellini, nella cinta della graziosissima piazza, collo sfondo della neve sulla cresta dei monti più lontani. Erano uomini, erano donne e bambini, come dovunque. Erano vesti chiare, pennacchietti brillanti, ciarle e risa. Era la vita, la piccola vita individuale che si svolgeva in tenui fili dalla matassa aggrovigliata della vita comune. Affari, piaceri, amori, speranze, tradimenti, lutti, rinascite, tutto ciò fluiva sotto gli occhi della spettatrice che pur non volendo dimenticare il dolore intimo di quella gente lo andava indagando di gruppo in gruppo e soffermavasi con acuta penetrazione sui capannelli degli studenti, per passare egualmente acuto e penetrante agli ufficiali dalle divise variopinte, dal portamento spavaldo sotto i ciuffi di mortella dei loro _kepy_ in forma di vasi di fiori rivoltati. — Però le fanciulle non li guardano, — pensò la signora con orgoglio solidale di sesso. Così, isolata, mirando dall’alto la folla, quel terrazzo le parve a un tratto un simbolo della sua vita. Non aveva ella al pari di quelle fanciulle, di quelle giovani donne, percorsi i viali verdeggianti del sogno? non aveva spiccato fiori sui suoi passi? e ciarlato e riso agitando veli bianchi e veli rosei dinanzi all’invito di pupille innamorate? Una bronzea figura di poeta non aveva indicato alla sua anima schiava le vie della liberazione oltre i confini segnati da prepotenti passioni? Quante musiche soavi avevano accompagnati i suoi ritmi! Quanti raggi si erano posati sulla sua fronte, avevano lambiti i suoi capelli, le erano scesi ardenti e turbatori al cuore! E i purpurei meriggi succedendo alle rose dell’alba non le avevano preparato la pioggia delicata delle viole nei vesperi sospirosi di che s’era inebriata fino allo spasimo? Ed ora, ecco, riposava tranquilla su quel terrazzo, affacciata alla vita degli altri, mentre la notte stava tessendo alle sue spalle il nero manto dell’oblio. Giovinetta, aveva qualche volta pensato con terrore all’istante fatale della trasformazione. Certo se a vent’anni lo specchio che rimanda il fresco volto in cui s’aduna tutta la gioia di quell’età dovesse immediatamente sostituirvi la pallidezza sfiorita dei quarant’anni, una donna morrebbe di dolore; ma il passaggio avviene per gradi, per lievi insensibili gradi dove l’illusione spegnendosi a poco a poco attutisce i desideri e sui campi disertati dall’amore aduna le molli letificanti carezze della rassegnazione. Ella se ne era già imbevuta. Era l’albero che dati al vento i suoi pollini e i suoi profumi, dati alla terra i suoi frutti e il germe dei frutti futuri, sta ritto nella casta e appagata nudità del suo tronco non vissuto indarno. Era la fontana che zampillava un giorno in getto protervo iridescente al sole, fulgida di tutti i colori della terra e del cielo, sonante per gli echi della selva, florida dei pingui muschi che la cingevano di velluto e che pure ridotta a un sottile filo d’acqua vede ancora la rondine fedele attingere al suo umore e sostare nelle tiepide sere gli amanti attirati dalla sua mesta solitudine. Placido così il distacco dalla sua giovinezza, non strappo brutale, sibbene un lento cedere di forze, un digradare di colori, uno scambio di visuali per cui da combattente si era fatta spettatrice. Tale sensazione specialissima nella quale la dolcezza si fondeva alla malinconia, ma una malinconia senza rimpianti, una malinconia alata che sfiorava sorpassandoli i perduti beni, trovava in quell’ora del tramonto, in quel posto, in quella città bella e dolorante la sua estrinsecazione più compiuta. Ella si sentiva una cosa sola coll’aria, colla luce morente, colla solitudine del terrazzo, col primo arco di luna apparso timido in cielo. I sensi, la fantasia, gli affetti, tutto era calmo in lei come la dolce sera estiva, della calma pensosa di chi ha vissuto e non chiede e non desidera e non attende più nulla. La banda aveva finito di suonare. I capannelli ciarlieri diradavano intorno al monumento di Dante e ad essi si veniva sostituendo un raro passaggio di solitari affrettati verso la città. Appena una indistinta coppia nella zona degli alberi appariva e spariva con caratteristica lentezza indugiando dove più fitta calava l’ombra; poi anche quella dileguò e la piazza rimase deserta con nel mezzo l’alta figura del suo poeta. Notte! parola e cosa affascinante. Ogni rumore omai era cessato, ogni movimento, ogni segno di vita. La città dormiva assorta nelle memorie, cullata dalle speranze, sulla porta socchiusa del sogno. Solo la stazione co’ suoi larghi occhi di fiamma vegliava, sentinella vigile del domani che si avanza in silenzio. Una singolare forza di attrazione teneva la signora immobile sul terrazzo, avvinta da una indicibile dolcezza nuova, così soave e penetrante e lieve che quasi non sentiva più il corpo; la brezza stessa fresca e pungente che le stringeva le braccia sotto il velo onde erano coperte le dava un brivido vago di carezza immateriale, di sensazione indefinita, come un palpito che non fosse nato ancora e pur vivesse nel profondo dell’essere, nel mistero della notte, nell’aria, nel cielo, nella rugiada sparsa, nell’invisibile giro degli atomi, nel sospiro eterno delle cose. IV. Otto giorni di riposo sereno in una vecchia casa in fondo a una vecchia valle dove non giunge ancora fischio di locomotiva nè rombare di treni. Un silenzio altissimo fra mura nitide odoranti di freschi bucati casalinghi, di mele cotogne riposte negli armadi e fascetti di menta sospesi a seccare all’ombra. Una luce tranquilla, eguale, trattenuta da tende di percallo bianco con orlature rosse dietro le quali tremano i rami curvi di un salice piangente, onore e vanto del piccolo giardino. Una carezza degli occhi su mobili semplici un po’ antiquati, ampie poltrone, ampi letti, quadri ingenui, abbondanza di felci in vasi dalle sagome vecchiotte e gioconde. E poi un luccicare pallido di argenti secolari su tovaglie profumate di spigo, tra un sorriso di maioliche fiorate e di barattoli di conserve fatte in casa coi frutti dell’orto. Tutta la poesia sana e forte della tradizione, dell’ordine, della felicità, raccolte e custodite in quel fondo di valle, protetta dalle alte montagne, idealizzata nella solitudine. Questa era la dimora ove la signora stanca della vita cittadina andava a ritemprare i nervi e l’anima quasi in un bagno di pura linfa, accolta da fidi amici, riannodando fila interrotte di memorie e di affetti con quella soave malinconia che rievoca il passato senza amarezza e senza rimpianti. E poi un’altra corsa per monti e per valli ancora, attraverso le variatissime bellezze del suolo trentino; da val Redena a val di Sole, dal gruppo di Brenta ai gioghi della Presanella e ai ghiacci dell’Adamello, passando per tutte le graduatorie di una vegetazione che dagli ulivi del Garda sale ai prati alpini ed alle conifere della Madonna di Campiglio, per riparare infine in un piccolo, ignoto, remoto paesello composto di poche umili case e di due o tre pure umili alberghetti, aperti solo nella stagione estiva, all’entrata di un bosco magnifico. Lì il piacere della solitudine era perfetto, accresciuto quell’anno da una quasi totale mancanza di viaggiatori. La signora trascorreva le giornate nel bosco, così distaccata dalla sua vita solita, col pensiero addormentato in sì oblioso e dolcissimo torpore che un pacco di lettere venute a raggiungerla lassù le fu quasi cagione di meraviglia. Per una maggior sorpresa vi era fra esse anche una lettera di Moena affatto inaspettata. Diceva la lettera in frasi succinte l’impossibilità avuta di trovarsi a Desenzano nel giorno prestabilito e la decisione di venire a presentarle le sue scuse in terra trentina. Questa decisione gettò la signora in una specie di sgomento. Se la breve traversata del lago le aveva sorriso, il fatto che egli imprendesse un viaggio per venirla a trovare nella solitudine del suo ritiro, dove mancava qualsiasi forma di attrattiva socievole, la metteva nella necessità di supplire da sola a intrattenerlo ed ella era ormai entrata così bene nella sua parte di personaggio accessorio che la responsabilità di una prima parte la atterriva. Appunto perchè Moena le era apparso superiore al comune degli uomini, appunto perchè lo trovava interessante e più ancora e sopratutto perchè temeva di distruggere in lui una impressione simpatica, l’annuncio della sua visita le fu cagione di perturbamento e di angustia. Gli rispose secondo legge di cortesia che lo avrebbe riveduto volentieri, ma affrettandosi a soggiungere che il paesuccio dove ella contava di trascorrere una quindicina di giorni in solitudine non offriva nessuna risorsa per un giovane avvezzo alla vita cittadina; vi si sarebbe annoiato indubitabilmente. Se Moena, come ella pensava, aveva solo avanzato la proposta per mantenere la parola data, poteva tenersene all’offerta e afferrare la scappatoia dell’abile insinuazione. Ma così non fu. Di lì a pochi giorni Moena scrisse annunciando il suo arrivo. Ella non era tuttavia ancor sicura che venisse, quando se lo vide dinanzi nell’ora del vespero, sulla strada, all’entrata del bosco. Lo salutò con la mano ed egli discese subito dal veicolo che lo trasportava per raggiungerla. Leggermente imbarazzati tutti e due da una situazione che non appariva ben definita, il loro incontro si risentì dell’incertezza dei loro sentimenti. Precipitavano le parole senza guardarsi, camminando fianco a fianco sulla strada polverosa, parlando di argomenti che non li interessavano, pur di parlare e di mostrarsi disinvolti. Alle prime case del paese si disgiunsero. Moena andò in cerca del piccolo albergo che si era scelto per pranzare, la signora rientrò nel suo. Non entrò veramente: sedette su una panchina all’aperto chiedendosi che cosa avrebbe offerto a Moena per passare la giornata di domani. Un quartetto di musicanti girovaghi sulla soglia dell’albergo suonava per il diletto di due vecchie inglesi. La sera era dolce, serena: le note si spandevano armoniche sotto un pergolato di clematidi mezzo sfiorite; macchinalmente la signora raccoglieva i petali che le cadevano in grembo e li accostava alle labbra. A un tratto Moena le fu d’appresso: — Come, è già qui? E il pranzo? — Lo stanno preparando. Il giovane parlava a scatti, guardando nel vuoto. Si pose a descrivere il suo alloggio e la signora descrisse il paese, poi soggiunse: — Sono i luoghi dei quali abbiamo parlato senza immaginare allora che ci saremmo trovati insieme. Non disse quanto ne fosse meravigliata e un po’ anche inquieta, per non offenderlo. Era in lei vivissimo il desiderio di mostrarsi gentile, ma il pensiero del breve tempo che si conoscevano le ingombrava la mente di punti oscuri che la rendevano perplessa. L’orchestrina intanto suonava un notturno. Essi stavano seduti sulla medesima panchina, lontani l’uno dall’altra, e ascoltavano. Il tempo passava; ne passò molto, placido, tranquillo, su quello spianato quasi deserto, dinanzi all’albergo quasi vuoto, in un silenzio che la musica sembrava accompagnare come avrebbe accompagnato una canzone. Alfine la signora si sentì in obbligo di rammentargli il desinare. — Oh! c’è tempo, — fece Moena con tale accento staccato e deciso che anche alla signora parve che il tempo veramente si fosse arrestato. Tornarono ad ascoltare la musica e tratto tratto a bassa voce si scambiavano una parola, una impressione; raccolti ognuno ad una estremità della panchina, contegnosi eppure non indifferenti. Era in entrambi un vigilare di chi si avventura per sentieri nuovi verso una mèta indecisa, attraente ed ignota. Non si vedevano in volto, ma la voce che usciva dai loro petti somigliava un arpeggio iniziale di interne armonie; e nell’aria e nel cielo e nella sabbia fine che la signora avvertiva attraverso l’esile calzatura con una singolare sensazione di piacere, che il giovane incideva con la punta della sua mazza, pensoso, fremeva il mistero di un incantamento. In seguito ad uno sfoggio di composizioni straniere l’orchestrina attaccò un motivo italiano. — Verdi, — disse Moena, come uno che si sveglia accennando alle prime battute del _Rigoletto_. — Viva Verdi, _ora come allora_, — soggiunse la signora con una allusione che egli afferrò a volo. Sorrisero per essersi compresi. Il sentimento della patria che primo li aveva avvinti li dominò rapido, su quella terra irredenta che entrambi amavano, dando loro una straordinaria dolcezza. Benchè quasi sconosciuti e non sapendo nulla delle loro reciproche vicende, si indovinavano, si sentivano della stessa famiglia, avvertiti da un movimento, da uno sguardo: meno ancora, da qualche cosa di invisibile che sembrava allacciarli e cingerli in un magico anello. I concertisti si disponevano a riporre nelle guaine i loro istrumenti. — Ma che ora abbiamo fatta? — chiese la signora. — Che importa l’ora? — Anche il pranzo non importa? — L’ho dimenticato. — Se è così, buona notte, — disse la signora ridendo. — A rivederci domani. Purchè non s’annoi! — ella pensava salendo alla propria camera. La preoccupazione che Moena dovesse annoiarsi non l’aveva lasciata ancora. Il giorno seguente fu speso a visitare il paese, il bosco, i dintorni. La signora affrancandosi a poco a poco dai suoi scrupoli andava in cerca di argomenti nuovi per intrattenere l’ospite; ma le frasi non erano mai molto lunghe ed avevano sempre da una parte e dall’altra quella ritenutezza di scandaglio che li teneva entrambi in uno stato specialissimo nel quale la commozione della scoperta si avanzava senza scosse, lentamente e morbidamente come un’onda. Parlarono di poeti. Egli aveva con sè un volume di Carducci. La signora non lo aveva letto da molto tempo; corse all’albergo a prenderlo e sotto gli alberi, all’entrata del bosco, lessero insieme il _Saluto italico_. La passione contenuta in quei versi, rivelata in lui dal pallore del volto e dalla intensità dello sguardo, si ammantava in una forma di aristocratica fierezza che tutta la sua persona, il suo atteggiamento, i suoi gesti accompagnavano con un ritmo di grande nobiltà. Alla sera presero posto sulla medesima panchina del giorno innanzi. Oramai la signora non temeva più che egli si annoiasse. Correva tra loro un accordo spirituale così perfetto che talvolta non avevano bisogno di parlare per intendersi; bastava un monosillabo pronunciato da Moena perchè ella terminasse il periodo, e tale scherma dove l’intuizione faceva miracoli di veggenza li rivelava l’uno all’altro in un modo inaspettato, sempre più profondo, dolcissimo. Pareva sulle prime che egli dovesse fermarsi un giorno solo; invece i giorni passavano meravigliosamente brevi e di partenza nessuno parlava. Stavano sempre insieme, tranne le ore del pomeriggio durante le quali si ritiravano ognuno nella propria camera per un reciproco riguardo di libertà, della quale tuttavia non usavano se non per pensare all’istante in cui si sarebbero riveduti. Il caso li pose di fronte un giorno nell’unica via del paese e senza dir nulla s’appaiarono uscendo a passi lenti per la campagna, lungo una stradicciuola che li condusse al cimitero. Quell’incontro fortuito aveva un sapore di frutto rubato al destino, contenente la trepida gioia dell’imprevisto. Il sole poteva essere splendido e il paesaggio magnifico, essi non se ne accorsero. Tutte le loro sensazioni movevano dall’interno, poichè le loro anime racchiudevano già un quadro compiuto che non aveva bisogno di cornice. Nulla del loro passato, comunque fosse, gravava su di essi; nè l’avvenire aveva potenza di distrarli da quello stato di perfezione in cui si movevano i loro corpi leggeri sfiorando appena la terra, come trasportati su una nuvola. Solo a tratti, quasi pavidi di un soverchio appagamento, interrompevano il silenzioso incanto con brevi osservazioni dove le voci tremavano e gli occhi non osavano scontrarsi. Nel mezzo del rustico cimitero ergevasi la cappella mortuaria dei signori del paese; goffo miscuglio di pretesa e di cattivo gusto che distolse subito i loro occhi. Disse ironicamente Moena: — Non basta essere ricchi. — Ah! no. Rammenta il salotto dove ci siamo conosciuti? E vi era pure il buon gusto degli arredi là.... ma non vi era altro. Una tomba recente arrestò la signora. — Forse sotto questo cumulo di terra sormontato da una rozza croce discese la spoglia di un’anima alta chiusa in una umile fede. — Rare sono le anime alte, — rispose gravemente il giovane. — Rare ma possibili. Crede? Una pausa, un attimo e Moena ripetè: — Credo. Uscirono taciti di tra le folte erbe che assiepavano il cancello miste a rovi fra i quali si impigliò un lembo dell’abito della signora. Egli fu pronto a liberarlo e da quest’atto comune eseguito con la maggior semplicità parve svolgersi un nuovo motivo di dolcezza che all’aria, al sole, alla beltà degli alberi e dei monti, non avvertita prima, impose calore e luce. — Io non comprendo — disse Moena varcando il cancello — l’odio feroce di Stecchetti sulla tomba di una donna. — L’odio in amore nasce dalla gelosia e la gelosia è di sua natura sensuale. Non la può comprendere lei che è idealista. La signora aveva pronunciate queste parole rapidamente, con sicurezza, ma poi soggiunse alzandogli per un istante gli occhi in volto e subito abbassandoli: — Suppongo almeno che lo sia. — Sì, sono idealista. Legge nelle anime, forse? — Leggo sulla fronte che è lo specchio dell’anima. Un ricordo le tumultuò al cuore. Disse, stornando leggermente il volto per non incontrare gli sguardi di Moena: — Come non devo saperlo se fu la prima rivelazione che io ebbi di lei! Muto egli attendeva ancora. — Rammenta i discorsi di quella sera, in quel salotto? Non fu la sua voce quella che sorse unica a protestare? Pensi che stavo io per dire le stesse parole sue, le stesse! Avremmo noi potuto pensare insieme la medesima cosa, le parole identiche, senza neppure sospettare l’esistenza l’uno dell’altro, se uno solo non fosse stato il nostro modo di sentire? — Dunque, — replicò Moena, — lei mi aveva già avvertito quando venne a porgermi il suo gentile conforto? — Sì. Quanti eravamo quella sera in quel salotto? Trenta? Quaranta persone? Io le conoscevo tutte, molte le chiamo amiche, si fa vita quasi comune, eppure io mi sentivo così sola, così lontana da tutti quando lei parlò! In seguito a queste parole la signora parve sollevata da un fardello che la opprimeva. Moena le aveva ascoltate rattenendo il passo affinchè nessun rumore rompesse l’armonia nuova che stava sorgendo. Ascoltò anche quello che la signora non disse, perchè vi sono per le anime tali momenti in cui l’involucro si fa trasparente e la parola non è necessaria. Con un filo d’erba tra le mani, le palpebre chine al suolo, egli la seguiva in silenzio. Solo dopo alcuni istanti mormorò sommesso: — La ringrazio per questa confidenza. Anch’io vivo tra uomini coi quali sono in perfetto accordo di pensiero, ho cari amici il di cui cuore batte come il mio nell’ideale di una patria interamente libera, ma se veniamo a parlare della donna e dell’amore si apre fra noi un abisso e non ci intendiamo più. — Io credo — soggiunse la signora con un po’ di precipitazione — che tutti i drammi e le tragedie che insanguinano il mondo in nome dell’amore abbiano la loro origine in un malinteso iniziale; malinteso facile quando un uomo e una donna si trovano di fronte. — Facile per la maggioranza, non per tutti. — La bellezza veramente ha un fascino che travolge il giudizio, no? — Per me non vi ha bellezza senza anima. È il contrasto continuo che ho coi miei amici; essi concretano nella donna una visione esclusivamente materiale che mi urta e mi ripugna. Contro il solito Moena si era accalorato parlando; la signora sentiva che era sincero. Il patetico speciale del suo volto lo indicava realmente alquanto diverso dal comune degli uomini e ancora una volta le apparve quasi ravvolto in una luce eroica che lo allontanava dalla realtà. In tutti i suoi atti manifestavasi questo distacco singolarissimo, questa invadenza dello spirito per modo che il suo corpo ne era soprafatto. Alla sera, quando sedevano sulla panchina per ascoltare la musica, egli si metteva sempre all’estremità opposta; nè per qualunque calore di conversazione il suo gesto usciva dal più scrupoloso riserbo, ispirato a lui da una sensibilità aristocratica sdegnosa dei contatti e di tutto ciò che fosse o potesse sembrare volgare. Pur v’era in quello spazio che la panchina segnava fra loro due, che la bianca sciarpa di velo della signora invadeva appena a tratti, una corrente di tacita intesa, una simpatia tenera e grave e come uno svolgersi di fili intorno a un telaio invisibile, come una argentea tela di aracnide sospesa in silenzio fra due rami. Ogni giorno che passava essi entravano vieppiù nel nirvâna, chè del nirvâna aveva tutte le parvenze e i misteriosi fascini quell’incontro di due esseri sconosciuti che si erano staccati dalla consueta esistenza per vivere di una sola vita, lontani dal mondo, senza chiedersi nulla, senza sapere, senza volere nulla, abbandonati alla deriva di una corrente incantata non sulle salde pareti di una nave ma sopra l’ala di un sogno. La felicità, se esiste, doveva trovarsi in quel senso di profonda comunione che li accompagnava dovunque, sia che errassero per i sentieri del bosco o che leggessero insieme o che insieme ascoltassero la musica o che parlassero o che tacessero o che, divisi dalla notte, si pensassero con una continuità di armonie segrete nella calma e gioiosa sicurezza di ritrovarsi al mattino. Era in quel loro intimo accordo una compostezza di linee che dall’avvicinamento comune di un uomo e di una donna faceva estollere il disegno di un’urna da cui vaporassero sottili aromi, emblema di una interna beltà non altrimenti rivelata; ed era pure il segno occulto che in tutte le forme della vita, dal roseo accendersi dell’alba all’inturgidire del fiore, dalle zolle che si aprono al grembo che palpita, annuncia un nuovo mistero dell’essere, un nuovo prodigio che sta per dischiudersi. Ma essi nulla sapevano nella divina inconsapevolezza che guida egualmente le creature all’amore e alla morte. La sensazione di sentirsi vivere che è la più semplice ed insieme la più compiuta li possedeva interi e nella intensità di quell’ora che si era arrestata su di essi ogni considerazione di vita non esisteva più; esisteva unica quella sensazione raddoppiata in potenza per il fatto di essere in due a sentirla, due cuori con un battito solo, con un solo piacere. In tale vibrante armonia la più semplice parola pronunziata dall’uno o dall’altro vestiva subito una grazia indicibile; bastava talvolta un piccolo movimento, un cenno. Egli amava di lei una particolare attitudine, un molle abbandono delle braccia e un chinar lieve del capo ascoltando; ella più che guardarlo ne assorbiva in un lento magnetismo l’irradiazione spirituale, quel non so che misterioso che esce da certe forme umane pari ad un fluido. Indugiavano una sera a prender posto sulla panchina, attratti da una maggiore soavità nell’aria che allettava a passeggiare sotto gli alberi, al limite del bosco. — Vuole una confessione puerile? — disse la signora. — Ho sempre desiderato di vedere il bosco di sera e non ho mai osato penetrarvi. — Per paura? — Paura? non saprei, non ho osato. — Vuole che proviamo adesso? In due avremo maggior coraggio. I primi alberi radi lasciavano scorgere un viale bianco illuminato dalla luna. La signora con un breve riso disse: — Proviamo. — E entrarono. L’impressione di frescura insieme alla luce blanda ed ai rumori vanenti man mano che il paese si allontanava, e la linea fantastica dei tronchi nella oscurità, e le radure improvvise tra fronda e fronda, tutte le novità dell’ora e del luogo sedussero la coppia poetica intenta a cogliere una forma gentile di bellezza, una sensazione ignorata di piacere. Avanzavano in silenzio, con un’ansia che leggiera dapprima cresceva col crescere delle tenebre, nella incertezza del terreno dove il piede posava mal sicuro, obbligandoli a soste improvvise per riprendersi e per orientarsi. — Ha paura? — chiese il giovane. — Che! — affrettossi a rispondere la signora, — non vi sono belve qui. Voleva scherzare, ma il riso le si spense in gola. Gli alberi infittivano, abbracciati, stretti, confuse le chiome sui nidi dormenti, roride di rugiada le gemme come bocche baciate. Il raggio di luna che li aveva guidati dapprima non era più che un tenue chiarore attraverso l’opacità fronzuta dei castagni. Ora non si scorgevano quasi neppure e andavano tentoni, presi da un brivido che non era di freddo, evitando di toccarsi. Non osavano parlare, e tacere sembrava loro anche più pericoloso perchè in mezzo al silenzio altissimo temevano di udire l’affanno dei loro respiri. La signora si mostrava la più disinvolta e come quella che meglio conosceva il bosco tentava di aprirsi un varco verso i sentieri noti, sbagliando tuttavia nella confusione delle tenebre, rialzando allora il proprio coraggio con parole staccate che suonavano con uno stridore di note false nella gran quiete misteriosa; e più ella parlava, più Moena taceva. Rapido un aroma scese dall’alto, li cinse. — La pineta! — esclamò la signora. Moena non rispose, ma si fermò fiutando l’aria. Ella ne scorgeva la linea snella della persona in sfumature d’ombra. Egli di lei fissava il velo bianco. — Prendiamo a destra? — disse lei. — Come vuole. — Sarà più breve. — Come vuole. La voce di Moena, alterata, bassissima, turbò la signora in modo straordinario. Il suo coraggio venne meno a un tratto. Sentì il fascino misterioso della notte avvolgerla in una rete di incanto, penetrarla tutta, quasi sfinirla nella invadente dolcezza dell’oblio. E il bosco diventava più nero, ed essi evitavano sempre più di toccarsi, chiusi in una follìa di terrore che faceva loro paventare ad ogni istante l’istante che sarebbe venuto dopo: inquietudine deliziosa di ciò che poteva accadere, spavento di una felicità troppo rapida e troppo vicina. — Non ci vedo più, — mormorò lei. Sostarono allora coll’impressione così viva della loro solitudine, che il silenzio si fece palpitante del palpito dei loro cuori. — Ha paura? — chiese ancora Moena pianissimo, — ha paura.... di me? — Oh di lei? no, no, no. Egli si irrigidì, conscio della propria responsabilità, temendo di distruggere con un gesto imprudente la divina ebbrezza che li circondava. Così ricaddero nel silenzio ardente dove i loro sensi privi di voce, di sguardi, di contatto, si cercavano. Un grido della signora fece sobbalzare Moena. Avevano affondato il piede in un terreno molle e l’inatteso ostacolo li teneva uniti in uno smarrimento più dolce di una carezza. Già egli sentiva la vertigine del pericolo impossessarsi di tutto il suo essere. Ella disse: — Non è nulla; siamo entrati nel prato, bisogna retrocedere. Il balsamo dei pini li raggiunse per la seconda volta. — Che profumo! Camminava ora leggiera sul sentiero di cui scorgevasi appena il chiaro nastro serpeggiante sotto gli alberi e, trepida delle pause prolungate, tentava romperle con brevi esclamazioni dove l’ansia che ella voleva nascondere trapelava suo malgrado in note tremanti che il silenzio del bosco le rimandava, con un prolungamento di singulti, attraverso la rugiada dei rami. Le loro gole erano chiuse, le loro arterie pulsavano disordinatamente e correvano, quasi, correvano quanto era loro concesso dalla via mal nota. Sotto un improvviso nereggiare di abeti ripetè Moena la sua singolare domanda: “Ha paura?„ cui ella rispose i tre “no! no! no!„ disperati, convulsi, sotto i quali celava un reale senso di paura senza nome, che non voleva confessare a sè stessa, meno che meno a lui, che la sbigottiva e la inebbriava insieme. Ma non potevano più reggere. Le parole ridotte a sillabe, a piccoli gridi gutturali, morivano nell’ansia dei loro petti. Il respiro affannoso di Moena seguiva da presso la donna: ella se lo sentiva penetrare nei capelli, sul collo nudo giù per il filo delle reni. L’ultimo silenzio fu uno strazio di passione. Vi è un’eco anche per il silenzio. Esso era impressionante nella oscurità che li circondava, mentre l’incenso della foresta dai vivi turiboli delle conifere erette a candelabri sembrava accompagnare il mistero di un rito dolce e solenne; ed ogni forma nuova di cespuglio o viluppo di rami, ferendo quell’unico dei loro sensi che non fosse assorbito dall’estasi, li richiamava alla visione di una realtà così palpitante che il battito dei loro cuori si arrestava. Il silenzio allora ghermendoli con raddoppiata violenza li lasciava spogli d’ogni velo l’uno di fronte all’altro nella magnifica gioia della rivelazione e pur trepidi del mistico terrore che dovette assalire i primi amanti sotto l’albero fatale del paradiso. Quando spuntarono lontanamente i lumi del paese parvero svegliarsi da un sogno. Senza guardarsi, senza darsi la mano, si separarono. V. Ma il domani!... Non una notte era passata su di loro; una vita. Essi ora _sapevano_. Essi ritrovandosi al mattino pallidi e disfatti si lessero reciprocamente negli occhi le deliziose sofferenze dell’insonnia trascorsa a rievocare sensazioni così sottili e squisite che rifuggivano dalla parola, come se la parola nel suo urto di cosa concreta dovesse frangerne il diafano tessuto. Non accennarono neppure alla passeggiata nel bosco, non vi fecero alcuna allusione, pur pensandovi sempre, anzi non pensando che a quella con una complicità di silenzio più turbatrice di qualsiasi confessione. Guardarsi, allora, con quel reciproco pensiero occulto era una dolcezza senza nome. Ripresero le loro conversazioni a scatti, note un po’ disordinate che si levavano ansiosamente dai loro petti nella ricerca della nota giusta, fremiti di corde sfiorate appena, arcate di violini morenti in un sospiro. Dal giorno che si erano trovati al cimitero, quando per la prima volta venne pronunciata fra loro la parola amore, l’argomento ritornava sovente a tentarli coll’inebbriante sentore di un giardino pieno di rose, non ancora dischiuso, ma vicino; e quel parlare d’amore fra due persone che si amavano senza esserselo ancora detto, fra una donna intelligente e un uomo delicato, sottilizzava l’essenza fino alla vaporosità di un etere. Era ciò a cui pensava Moena: — Le persone grossolane hanno in amore un piacere solo. I sensibili ne hanno mille. — I sette veli d’Iside destinati a coprire il mistero, — rispose la signora con un ardire a cui la purezza de’ suoi sguardi toglieva ogni interpretazione equivoca. — Sì, — riprese Moena convinto, — perchè, ammettendo pure che la meta sia una, è la scelta della strada e il modo di percorrerla che ne stampa la nobiltà. L’aforisma era ardito, tuttavia prima ancora di poter riflettere ella mormorò: — È vero. Approvando così la signora si raffigurava i pellegrinaggi compiuti fra i digiuni e le privazioni, i devoti giunti scalzi, in ginocchio, dinanzi al simulacro del Dio, È una via di passione quella che conduce al cielo. Come si intendevano sempre! Ma più la giornata scemava volgendo alla fine, una inquietudine singolare si impossessò di lei. Vedeva con ansia avanzarsi la sera. Avrebbe egli mai proposto una seconda passeggiata nel bosco? Questo pensiero che le sarebbe parso una profanazione dell’ora divina le riusciva intollerabile, sopratutto perchè Moena non sarebbe più stato Moena, quanto dire l’essere di tutte le finezze, di tutte le spiritualità. All’ora consueta essi ben si ritrovarono quasi sul limitare del bosco con quel pensiero unico inconfessato che li riempiva di una indicibile ebbrezza e di uno sgomento delizioso, ma nessuna parola venne a interrompere il duetto muto delle due anime. Sedettero sulla solita panchina, lontani l’uno dall’altro, bevendo il loro silenzio ardente. Il giorno appresso la signora, richiamata da un telegramma di affari, si stava preparando alla dipartita e togliendo il volume di Carducci dal nido di trine e di batiste dove lo aveva tenuto sepolto tutti quei giorni decise improvvisamente di riportarlo a Moena in quel suo piccolo albergo che ella vide sorgere tutto roseo in mezzo al verde. Non si aspettava di trovarlo in casa. Egli era là seduto sotto il breve portico; leggeva. Quando la vide si alzò senza dimostrare alcuna meraviglia. Semplicemente volle che entrasse, che sedesse anche lei, un momento almeno, sotto il portico. Tutto era luminoso; l’ora, il luogo, il breve portico riparato da una tenda, il piccolo giardino pieno di rose, la giocondità dei loro occhi che si guardavano insaziati cogliendo l’attimo. Egli aveva avuta l’intenzione di uscire e non era uscito.... I loro pensieri si incontravano dunque anche lontani? Cos’era? cos’era quel fascino che li avvinceva sì tenacemente? Moena disse a un tratto: — Sa il latino? — Il latino, perchè? — Mi viene in mente una frase. — Provi a dirla. Vi sono frasi latine che tutti intendono. — _Crescit eundo_, — pronunciò lentamente il giovane, fissandola. Ella rise, lui no. Ma l’aria intorno era dorata, le cose serene, i cuori sboccianti come fiori, i fiori palpitanti come cuori. Che dire? Che aggiungere? Si alzarono con una esuberanza di vita che traboccava, che faceva piegare i loro ginocchi sotto il peso di una felicità troppo grande. — Tenga lei il volume. — No, preferisco sia suo.... — ? — Poichè è stato mio tutti questi giorni. Non disse quanti pensieri vi aveva rinchiusi. Forse egli li avrebbe ritrovati più tardi. Immaginare che li avrebbe ritrovati, che avrebbe posato la mano, la faccia forse, forse la bocca in quelle pagine tutte piene di lei, le faceva passare un brivido sotto la pelle. Egli lo sentì. Alla sera, ancora, il ricordo del bosco li ossessionava. Si portarono inconsci fino al limitare di esso. Teneva la signora appoggiata la mano sul braccio di Moena, senza stringerlo, in un contatto quasi immateriale, ma ad un certo punto, pavida, lo premette retrocedendo. — No? — fece lui pianissimamente, come un soffio. — No, più. — Oh! avevo tanto temuto che ella lo richiedesse, — esclamò il giovane con un prorompere di giuliva dolcezza. — Ed io? Ed io dunque? Si strinsero un istante nella gioia di sentirsi sempre più compresi, sempre più uniti; ma il passeggiare li stancava. Sedettero sopra un rustico sedile ombreggiato da un tetto di paglia e da tralci d’edera. La loro commozione era al colmo. Moena, più ancora di lei appariva accasciato da una lotta interna, riverso sul sedile, colla fronte tra le mani. Soffriva. Il silenzio era altissimo; l’ombra cupa si frastagliava appena in qualche chiazza di luce, riverbero di lumi lontani, ricordo fioco di una vita che non era la loro. — Ah! se non è questo amore.... Le parole, soffocate, ella più che intenderle le indovinò. Maternamente gli pose una mano sui capelli, penetrata del suo soffrire, tutta assorbendo quella sincerità d’uomo che saliva a lei in uno di quei momenti di dedizione assoluta che trasfigurano il senso elevandolo alla poesia del mistero. Lo chiamò pronunciando il suo nome per la prima volta. — Ariele. Egli si sciolse. Chinandosi soggiunse ella con dolcezza: — Siamo forti. (Ma tremava.) Sorsero entrambi, ciechi e muti, barcollando nell’ombra. Un tratto Moena le cinse il fianco, lieve. Ella ansimò. La bocca di lui si avvicinava, ardente, cercando. La donna, tremebonda, sfuggiva ritorcendo il volto. — Perchè.... perchè? — supplicava il giovane. Alfine, lento, senza un grido, il bacio si staccò dalle loro labbra come frutto maturo che il ramo non può più sostenere. Lo assaporarono essi in un attimo di indicibile dolcezza senza più pronunciare parola, confusi, tremanti, serrando in cuore il loro dolce segreto. Quella notte Moena non chiuse occhio. Balzato dalle coltri arroventate sul far dell’alba andò solo a passeggiare nel bosco aspettando l’ora di potersi presentare alla signora. Doveva essere quello il loro ultimo convegno, avendo preso l’accordo che egli sarebbe partito prima di lei. Intuiva di chiudere un periodo unico nella sua vita e una grande tristezza si mesceva al ricordo dei giorni trascorsi in una estasi di sogno. Presso a nessuna donna si era sentito così felice, mai. Nel passare dinanzi al capanno che la sera innanzi aveva protetto il loro bacio si arrestò con una sensazione di tremore quasi religioso. Un esile tralcio d’edera pendeva al posto stesso dove le loro labbra si erano incontrate. Egli colse una fogliolina appena appena dischiusa a quel posto, fiore del loro bacio, fragile e gracile tanto che stava per suscitargli il rimorso di averla colta, così novellina e piccola, ma pensò subito: anche il nostro amore è novellino, — e sorrise del suo raro e breve sorriso. Tenendo la foglia con grandi precauzioni sul palmo della mano rientrò all’albergo e volle subito collocarla nel volume di Carducci, alla pagina intitolata _Panteismo_, sulle parole ultime: “Ella, ella t’ama„. Fu interrotta la soave occupazione da una lettera che Moena ricevette e lesse rapidamente tutto alterato in volto nello spasimo di un brusco trapasso. Quando si presentò poco tempo dopo alla signora la sua fisionomia non era ancora ricomposta; solo udendo che la signora aveva passata una cattiva notte e si alzava allora, ebbe un sussulto quasi di gioia. Anche lei, dunque?... Ma l’accordo non si stabilì. La signora avvertì subito negli occhi di Moena un pensiero al quale ella era estranea. Si aspettava di trovarlo più tenero, più ardente, desolato della loro separazione. Il dubbio che la sua condiscendenza della sera prima ne avesse intiepidito l’affetto la indurì, suggerendole parole fredde e altere. Pure avevano toccato insieme le soglie di una ebbrezza ideale, e il loro pallore e il cavo livido degli occhi parlavano della visione unica che li aveva tenuti desti entrambi. Per quale ragione Moena appariva inquieto e distratto invece di concentrare in quegli ultimi istanti tutte le passate dolcezze? — Non la riconosco più, — disse la signora. — Nulla è cambiato in me, — rispose Moena; — non le posso al momento dare più ampie spiegazioni. Saprà più tardi. — Oh! che cosa devo sapere? — La ragione del mio turbamento. — La dica ora. — Ora no, la prego. — Dunque, addio. Attese un gesto, una parola. Ripetè: — Addio. — Vedo che è in collera. — In collera? E perchè? Addio, addio. — Senta, noi ci ritroveremo, le dirò tutto, anche una cosa che le farà piacere. — A me? — Sì, se è piacere sapere che una persona ha sofferto per amor nostro. Si guardarono un secondo, quasi riprendendosi. Ma erano oramai troppo staccati. La signora, dolorando, affrettò la separazione con nel cuore ancora la speranza che all’estremo minuto egli avrebbe trovata la parola consolatrice. Egli, triste e paralizzato, si accomiatò con una stretta di mano così debole che ella lasciò cadere la sua, scorata. E rimase ritta a vederlo partire, con ciglio asciutto e le vene diaccie. A che cosa credere? All’estasi che dei giorni trascorsi aveva fatto un soave incanto o alla oscura minaccia che la nuova attitudine di Moena le veniva suscitando? C’era stato veramente quel sovrumano incontro delle anime che fa pensare a un intervento della divinità o non era stata che una illusione di più, una illusione aggiunta alle tante altre di cui aveva disseminata la vita? In malinconica solitudine rivide ella, prima di allontanarsi, ognuno dei sentieri dove era sbocciato il sogno, — avvezza alle crudeli dipartite, — rigustando colla voluttà di un dolore che credeva dimenticato tutta l’amarezza dei ricordi. Ma era pure così recente l’impressione del nuovo palpito e il cuore ne serbava impronta così vivace che il dolore non saliva al parossismo della disperazione ed era piuttosto un lento indugio della speranza sui severi ammonimenti del passato. Mentre stava per riporre le sue ultime robe nel baule si rammaricò di non avere trattenuto il volume di Carducci e nello stesso tempo pensando che Moena glielo aveva offerto ne risentì una dolcezza di conforto. Lo rileggerebbe egli? Rileggerebbe l’ultimo verso di _Panteismo: “Ella, ella t’ama!„_? E come nel verso, così ogni cosa intorno a lei ripeteva la magica parola: i monti, il bosco, i sentieri, il capanno, l’aria che andava e veniva agitando gli abeti, la luce che si spegneva gradatamente in cielo e le ombre della notte che scendevano piene di mistero e di brividi. Dormì un sonno profondo ma breve, tesa la volontà verso il viaggio che doveva ricondurla a casa, affrettandolo con impazienza. Nel salire al dimani rapidamente sul piccolo treno per Trento si trovò di fronte un ufficiale austriaco, gonfio, pettoruto nella sua divisa celeste a mostre verdi, lo sguardo misto di prepotenza e di diffidenza. Ella aveva quasi dimenticato in quei giorni di essere in terra irredenta. Cambiò subito sedile andando a rannicchiarsi nell’angolo opposto, il viso rivolto sulla campagna che fuggiva dietro a lei, pensando a Moena — a Moena che forse non pensava più a lei. A un tratto lo sportello di comunicazione fra quella e le altre carrozze del treno si apre e Moena appare. Un gran grido lo accolse. La signora, incapace di dominare la propria commozione, si nascose il volto tra le mani. — Che cosa avvenne? — chiese finalmente tentando di ricomporsi, ma cogli occhi nuotanti nell’ebrezza. — Le dispiace? — disse Moena sfavillante in volto della di lei gioia. — No, certo, ma come ha fatto? — (le pareva un sogno). — Non partì ieri? — Partii ieri, secondo eravamo d’accordo e.... tornai stamattina appena in tempo per saltare sul treno quando la vidi. Che importava a loro dell’austriaco? Si guardavano estasiati, ed anche non si guardavano, ma erano tanto felici di sentirsi vicini, di sapere oramai che si volevano bene; essi, così simili, così fatti l’uno per l’altro. Un istante la signora pensò di chiedergli spiegazione del contegno avuto quando si separarono, poi le parve che sarebbe perder tempo. Ogni attimo che passava era goccia di sangue aggiunta al sangue delle loro vene; conveniva assaporare quella pienezza di senso che scandeva sui loro polsi l’ora della felicità. Affacciati allo sportello credevano di interessarsi al paesaggio; esclamarono: Che bei monti! Che verde rigoglioso! In realtà non vedevano nulla, trasalendo per un fortuito incontro delle loro mani, una sottile nebbia sulle pupille, il cuore leggiero, leggiero.... Quando era calato l’austriaco? Non se ne erano neppure accorti. Trovandosi liberi si guardarono con un raddoppiamento di felicità, solo per avere l’aria in giro tutta per loro, tutta per il loro amore; ciò bastava al loro desiderio ancora fanciullo in quella deliziosa aurora di una nuova vita. Trento si avvicinava. — Ella si ferma? — Sì fino a domani. Entrarono insieme nella città cara. Videro gli alberi ondeggianti al soffio delle Alpi, videro la soave curva della piazza e la statua del poeta che ha scritto “Amor ch’a nullo amato amar perdona„. Ali di letizia li portavano. La signora pur non volendo discendere all’_Impérial_ in causa del brutto nome assunto guardò il terrazzo dove un mese prima aveva trascorsa una sera di infinita dolcezza, così sola, così staccata dal mondo, così rassegnata e calma e malinconicamente tranquilla. Quale cambiamento era avvenuto in lei!... Ma l’ora era di azione, non di meditazione. Moena le aveva suggerito lì presso un antico albergo caro ai trentini. Nell’istante di varcarne la soglia ella chiese senza guardarlo: — E lei dove alloggerà? — Farò come vuole.... qui o altrove. — No.... non qui. — Farò come vuole, come vuole, intende?... — ripetè il giovane con una voce che rammentò alla signora le parole da lui pronunciate nel bosco: “Ha paura? ha paura di me?„ L’albergatore intanto proponeva una camera. — Una camera per me sola, — si affrettò a dire la signora. Ancora non guardò Moena, ma tendendogli la mano nella penombra dell’angiporto: — Torni fra mezz’ora, — soggiunse con tenera dolcezza; usciremo insieme. La mezz’ora non era trascorsa e già egli attendeva sul ballatoio della scala. Lo vide ella in quella sua attitudine rispettosa e muta e ben sapendo di trovare forza nel contrapporgli una attitudine disinvolta, gli gridò giuliva: — Si è messo a posto coll’alloggio? Io ho una camera buonissima; prospetta il palazzo del diavolo. — Del diavolo? — Non sa? È trentino e non conosce il palazzo del diavolo? — Accade spesso di non conoscere quello che si ha in casa. — Guardi (la signora si scostò dalla soglia dell’uscio): lo vede? Moena fece qualche passo e come a lei parve di non dover insistere troppo in un riserbo eccessivo di fronte a una persona che le ispirava piena fiducia si accostò alla finestra d’onde si scorgeva il palazzo. Moena la seguì. — C’è una leggenda in proposito, ma non la ricordo. Si appoggiarono al parapetto della finestra, — l’uscio della camera era rimasto spalancato, — e sporgendosi fuori gustavano il sapore esotico della loro situazione con un po’ della giuliva spensieratezza di due scolari sfuggiti alla sorveglianza: due scolari che appena si conoscessero di nome e che attratti da un viottolo misterioso, da un volo di farfalla, dallo scintillare di un raggio sull’onda di uno stagno, senza premeditazione e senza mira fissa si fossero avviati insieme, la mano nella mano. Pensare poi che nessuno dei suoi parenti, de’ suoi amici, potrebbe neanche supporre che ella fosse a quell’ora alla finestra di un albergo di Trento insieme a Moena, faceva scorrere nelle vene della signora un fiotto di sangue così vivace che a lei, sempre sottomessa alle convenienze sociali, doveva rivelare in un baleno l’istante inebbriante e folle della rivolta. Disse improvvisamente: — Andiamo a fare un giro per la città? — Si sta tanto bene qui!... — implorò Moena. Accondiscese la signora e rimasero così ancora per un po’ di tempo, vicini e taciti in una quiete dolcissima di spirito, coi sensi appena sfiorati da un’onda tiepida e lieve, come un fluttuare di morbidezze indistinte. In tale soavissimo stato d’animo ella alzò gli occhi a guardarlo, stando egli di profilo in una luce quale non le era mai accaduto di poterlo osservare, e le parve bellissimo. Aveva uno di quei volti che solo il bulino od il cesello sembrano degni di scolpire nella nobiltà di una linea che unisce la finezza alla forza, il patetico delicato di un avorio quattrocentesco alla nitidezza acuta di una incisione in rame. La colpì in special modo la linea della bocca singolarmente pura che non lasciava posto a nessuna sinuosità sensuale: un breve arco roseo. La signora ne provò una sensazione di sorpresa, quasi lo vedesse allora per la prima volta, e insieme un sottile aculeo di punta che ancora non fa male ma che fa pensare al dolore. Disse: — Come è giovane! Sulla bella bocca di Moena apparve la piega malinconica di quel mezzo sorriso che lo faceva talvolta sembrare di maggiore età che non fosse. Rispose: — Giovane d’anni, non di esperienze amare. — Ha la sua mamma? — Nè padre, nè madre, nè alcuno. In uno slancio di umiltà e di affetto la signora soggiunse: — Vorrei essere la sua mamma. — Ma io non la potrei considerare con sentimento figliale.... Tacquero. La signora che stava appoggiata al parapetto della finestra sentì il cuore che le batteva contro le braccia. — Andiamo, — disse, staccandosi dal davanzale. Nel riattraversare la camera gli sguardi di entrambi caddero sul letto parato di rosso cupo, misterioso come un braciere nell’ombra. Moena rallentò il passo impercettibilmente; la signora, pure impercettibilmente, arrossì; ma fuori riprese la sua disinvoltura che le era a un tempo lancia e scudo. Dinanzi alle vecchie case di Trento, italianamente calde di quella architettura che fa tanto sentire la nostalgia di sè a chi viaggia nei nordici paesi, la sua passione di patria prese il volo. — Si può immaginare un tedesco sul balcone di casa Sardagna? e su quello di casa Geromia? e di casa Salvadori? E in quel delizioso Cantone di via Lunga dove i muri stessi sembrano avere un gaio cicaleccio in lingua del sì, e dietro le persiane occhieggiano pupille nere, e nei chiusi forzieri si conserva forse l’avanzo di una uniforme garibaldina macchiata di sangue a Bezzecca ed a Monte Suello, dica, dica, è possibile che passeggino ancora con quel fare da padroni i soldati dell’Austria? Moena osservò: — Parli piano. Guardandolo, ella vide che era pallidissimo. Attraversavano in quel momento piazza del Duomo, a casa Rella, dove accanto alla piccola fontana la signora avvertì subito l’aquila di Trento colla testa rivolta a destra; e più delle altre sparse per la città quella le parve particolarmente espressiva nel movimento doloroso della testa che si piega fino a toccare l’ala col rostro e a morderla. L’ignoto scultore lavorandola con particolare sentimento le aveva dato un’anima. — Ah! — fece — essa soffre come noi! — e tornò a guardare Moena con un impeto di passione e di pietà: la sua bocca di una purezza infantile, così malinconica, il pallore del volto, la linea nobile del profilo, quelle forme, quei gesti che corrispondevano in lei a segrete attrazioni di tutto il suo essere. Ora veramente la tela delle loro simpatie svolgevasi in una cornice affascinante. Fra il Duomo, magnifico esemplare della grandezza di Trento, e i tigli annosi che ne ombreggiano il sagrato, e le morbide linee di casa Rella leggiadre ancora sotto le ingiurie del tempo, e il basso portico pieno di memorie, e la fontana grande del Nettuno, e quella piccola coll’aquila dolorosa, le due anime fraterne si sentirono avvinte come non mai. Camminando fianco a fianco errarono a lungo in silenzio, consci di imprimere su ogni pietra l’orma profonda che l’amore e il dolore comunicano alle cose inanimate e le fa trasalire fin nello squallore delle rovine. Di comune accordo non vollero visitare il castello profanato da soldatesca straniera. Volsero invece i loro passi verso l’Adige, verso quella antichissima chiesa di Sant’Apollinare, culla e tomba della vecchia Trento, che sorge così romita e vaga ai piedi del Dos. L’arco verde dei monti serrava l’orizzonte dietro a una coppa di smeraldo dagli orli imporporati nell’ultima luce del tramonto, la fasciava l’Adige con una striscia d’argento e sull’alta cupola del cielo sorgeva, tenue falce appena disegnata, la luna. Irresistibilmente i versi del poeta tridentino corsero sulle loro labbra: Quando la fredda luna Sul largo Adige pende E i lor defunti l’itale Madri sognando van, Un corruscar di sciabole, Un biancheggiar di tende, Un moto di fantasimi Copre il funereo pian. Nè le commozioni di quel giorno, ultimo giorno concesso al loro sogno, erano ancora finite. A sera tarda, prima di dirsi addio, si ritrovarono presso la statua di Dante. Era giusto che il pellegrinaggio compiuto insieme si chiudesse ai piedi del grande italiano nel cui nome Trento ricorda e spera. Nessuna tristezza venne a turbare quegli ultimi istanti; nessuno dei due chiese promesse, nessuno ne fece. Erano certi oramai di amarsi e tanto bastava a renderli felici. La fresca inconscienza dei sentimenti veri abbattendo fra loro ogni convenzionalismo li lasciava liberi nella loro natura di esseri superiori, cui, più della legge, guidava un delicato istinto e più del rispetto umano era freno un invincibile orrore della volgarità. Così, guardandosi negli occhi, poterono ancora quella sera sorridersi nella infinita dolcezza delle albe che appena colorano i lembi del cielo. Seduti sotto gli alberi del piazzale quasi deserto la sensazione di irrealità che aveva accompagnato tutti i loro passi, ad onta dell’intimo accordo, anzi forse per questo, persisteva. Non era della vita solita il loro vivere di quei giorni. Un Dio agitava nei loro petti fiaccole di fede; essi non sapevano, non chiedevano, non aspettavano nulla, ma uno slancio alato li teneva sospesi al di sopra di ogni materiale preoccupazione; il mondo tutto era scomparso dall’asse dei loro sguardi. — Moena, — mormorò piano la signora, — quante volte ricorderemo quest’ora? Il giovane non rispose se non con un sospiro. Ella replicò: — Ariele è ben dolce, Ariele!... ma il primo nome che conobbi di lei fu Moena. La penserò con questo nome. Ed io, — soggiunse con una grazia ingenua che le dava a tratti una freschezza di fanciulla, — che nome avrò nella sua mente? — Nessun nome. Lei è lei, l’_Unica_! — pronunciò Moena con voce grave, — e la signora sentì che qualunque disinganno le preparasse il destino non avrebbe mai pagato troppo cara quella parola detta a quel modo, in quel posto, da quella bocca. La frescura della notte li teneva più vicini che non stessero abitualmente. Sul loro capo palpitavano le stelle, tutto intorno i lampioni della piazza davano luci alternate e per il contrasto ne rendevano più cupi i recessi. Un’aura di poesia spirava così dolce, così pacificatrice che i loro cuori vi si sommergevano. A un tratto dal caffè della stazione si avanzò un gruppo di ufficiali, parlando forte, trascinando con ostentazione le lunghe sciabole. La signora si accorse che Moena trasaliva e gli si fece più da presso, tacitamente. Quando gli ufficiali passarono dinanzi a loro Moena le afferrò una mano con impeto e gliela strinse mormorando: — Fino a quando? Ella bevve allora tutto lo spasimo di quell’anima rinchiusa, china sulla sua spalla, stretta a lui in un contatto che non aveva nulla di terreno, poi che sulla fronte di Moena stava la pallidezza dei martiri e ne’ suoi occhi il sogno degli eroi. Ah! veramente era quello l’amore! l’istante meraviglioso della compenetrazione di due anime, il desiderio diffuso in tutto l’essere che non ardisce precisarsi ed esala intero come un profumo sull’ara. La notte trentina li cingeva, molle dei vapori dell’Adige, fresca del vento delle Alpi; li cingeva col respiro delle case addormentate, dei sogni vaganti; e in quel mistico amplesso dove tutte le loro aspirazioni si fondevano con un divino abbandono il senso dell’eterno sprigionandosi dalle più profonde radici dell’essere esaltava il loro amore unificandolo al palpito stesso della città irredenta. Non lo dissero ma lo sentirono insieme; qualche cosa di loro, della loro grande passione, sarebbe rimasta sotto quel cielo, fra quei monti, fra quegli alberi, nella bronzea effigie del divino Poeta. VI. Sotto la tettoia della stazione di Rovereto Ariele Moena, in piedi, seguiva coll’occhio l’impicciolirsi del treno che correva verso Milano trasportando l’Unica. Stringeva fra le mani un fazzolettino ch’ella gli aveva gettato dallo sportello a guisa di un ultimo saluto ed ogni po’ se lo recava al volto per aspirarne il profumo col gesto lieve che gli era abituale in tutte le manifestazioni del senso. Al momento di lasciare la signora alla stazione di Trento egli era balzato nel riparto, dove l’aveva vista sola, per accompagnarla almeno fino alla prima fermata, prolungando il piacere di stare insieme; e quel breve volo da Trento a Rovereto compiuto nella gioia infantile dell’imprevisto, come già quello del giorno innanzi, senza scorgere nulla nè del paesaggio nè di quanto esisteva fuori di essi, aveva dato loro una sensazione di viaggio di nozze a cui l’irregolarità e la sorpresa conferivano quasi un sapore di fuga romantica. Uscendo da quell’estasi Ariele Moena conservava nella sua persona e ne’ suoi pensieri l’impressione speciale che provano i marinai mettendo piede a terra dopo un lungo viaggio tra cielo e mare: una scossa nell’arresto dei nervi usi al ritmo delle onde, una difficoltà per la mente che spaziava nell’infinito a cogliere i piccoli particolari della spiaggia. Uomini e donne si movevano intorno a lui gettandosi parole di comando, di raccomandazione, di saluto, parole che si incrociavano a sorrisi, a strette di mano, nell’aria attraversata da colonne di fumo, tra i rumori stridenti e paurosi di una stazione in movimento. Ma una zona meravigliosa, specie di etere imponderabile, isolava Ariele dal resto del mondo, pur mentre il senso della vita gli si rivelava con una forza nuova dandogli la misura intera del suo valore di uomo, del suo posto in mezzo agli uomini. Si sentiva buono, generoso, eroico. Tutto ciò che di nobile e di elevato sta nella natura umana urgeva con dolce tumulto al suo cuore, pari al seme nascosto che solleva la terra e spinge in alto il rigoglio della messe. Nessuna forma religiosa si imponeva all’anelito del suo essere trasportato oltre ogni sensazione precisa, ma era il nucleo stesso di tutte le religioni nella sua indistruttibile essenza d’amore che divinizzava la visione terrena investendola della propria fiamma. È una particolarità dell’amore, è il suo maggior titolo alla riconoscenza degli uomini questa spiritualizzazione dell’istinto che nella gretta vita di tutti i giorni apre uno spiraglio di luce ideale. Moena vi figgeva per la prima volta lo sguardo smarrito e commosso. Che cosa era avvenuto in lui, non nuovo alle imprese amorose, perchè una donna che forse non era la più bella gli suscitasse tanto turbamento? Perchè quella, non un’altra? È dunque vero che passano cento donne e si guardano, ma ne passa una e la si ama? Nel treno che lo riportava a Trento, solo, — mentre poche ore prima aveva percorso quella medesima via insieme alla diletta ed insieme avevano respirato, guardato, sorriso, tese le braccia, desiderato forse, forse spasimato, ma così ebbri della loro felicità, — in quel treno pieno di gente che gli sembrava più vuoto del deserto, Moena sentì improvvisamente la tristezza della separazione. Quegli occhi non li vedeva più, non vedeva più quel velo bianco, la dolce voce non risuonava più al suo orecchio. Era come se si fosse oscurato il cielo. Allora provò il bisogno di rievocare il breve passato e lo fece chiudendo le palpebre per ritrovare dentro di sè l’immagine cara. In quale istante veramente aveva egli incominciato ad amarla? Non lo sapeva. La prima volta le era apparsa appena; poi si erano ritrovati, poi una forza ignota lo aveva spinto a raggiungerla lassù nella sua disgraziata terra. E poi? Oh! la dolcezza infinita della vicinanza, quando la parola non ha ancora trovato il varco delle labbra, quando gli sguardi stessi timidi ed incerti si arrischiano appena ad incontrarsi, eppure tutto attrae, tutto avvince, le barriere cadono, i cuori si scoprono: due esseri, un uomo ed una donna che non hanno ancora pensato all’amplesso si trovano uniti nella divina nudità delle anime. E la sera della passeggiata nel bosco, quale filtro era sceso su di loro, quale prodigioso incantesimo, se ancora solamente a pensarci tremava fibra a fibra e si sentiva trasportato come da un palpito d’ali? Moena non aveva mentito confessandosi idealista. I suoi venticinque anni e la bella persona non potevano mancare di procurargli avventure galanti, ma egli era un curioso dell’amore, piuttosto che un famelico; Don Giovanni e Don Chisciotte insieme inseguiva i fantasmi del suo cervello coll’ardore poetico del cavaliere della Mancia, ma anche li abbandonava, insoddisfatto, appena si accorgeva di stringere fra le braccia una forma vana. Se nei primissimi anni la novità dei sensi e l’inesperienza lo avevano spesso illuso e più di una volta sulla vaghezza di un volto, dietro cui non palpitava nulla, il cuore si era pazzamente profuso, una precoce stanchezza non mancò di avvertirlo che là non era il soddisfacimento de’ suoi desideri. In questo appunto non andava d’accordo co’ suoi amici perchè non sapeva rassegnarsi a prendere dalla donna il momentaneo piacere che agli altri bastava. Per lui questo piacere non potendo essere causa ma effetto lo rendeva indifferente alle tentazioni comuni. Non era tuttavia così dissimile dagli altri uomini da non aver provato quell’acre curiosità che sferza loro il sangue in certe ore tempestose. Torbidi pensieri e suggestioni involontarie avevano talvolta guidato i suoi passi, ma la curiosità si era arrestata e quasi sempre spenta al solo approccio, sopraffatta da un istintivo disgusto. Era capace di seguire una donna che gli avesse appena rivolto il baleno di uno sguardo o mostrato l’ondeggiare di un nastro intorno alla vita sottile, preso da una vampata di desiderio che lo gettava ardente e cieco sull’orma de’ suoi passi, ma bastava che ella si arrestasse e che lo sguardo consapevole prendesse la volgare espressione dell’invito per renderlo di ghiaccio. Nel continuo bisogno di idealizzare la donna si era successivamente innamorato di creature femminee viste solamente nei ritratti; sarebbe partito come Rudello per ignote terre lontane alla ricerca di una Melisenda sognata, non per possederla, ma per morire ai suoi ginocchi. La spiritualità del suo temperamento trovava un rinforzo di idealismo nei ricordi di famiglia, nella educazione, nelle abitudini. Di nobile e antica schiatta guerriera cui la modesta fortuna era stata schermo ai rammollimenti di un soverchio fasto, gente rude e forte venuta dai monti, ingentilita per un seguito di donne che ne avevano conservate le tradizioni nel raccoglimento della casa, nel culto delle memorie, Moena portava in sè il tesoro di una razza. Il suo orrore della volgarità non era una cosa imparaticcia; egli l’aveva nel sangue. Tale sentimento applicato a tutte le manifestazioni della vita gli formava intorno quella specie di corazza che lo isolava qualche volta, ma anche lo proteggeva. Attraverso a questa corazza i segni misteriosi che fanno riconoscere nella folla gli spiriti fraterni avevano guidato l’Unica verso di lui. Non si erano guardati, si erano sentiti. Eppure egli la vedeva in quel momento distintissimamente. Evocata dalla prepotenza del desiderio la linea della di lei persona gli sorgeva dinanzi, rapida, sfuggente, ma viva di tutti i fremiti che l’avevano fatto palpitare poche ore prima al suo fianco; luminosa nel raggio che usciva dal fondo appassionato delle sue pupille; con quei gesti, quegli accenti, quei silenzi che non avrebbe saputo definire, ma che erano il mistero della di lei essenza, della di lei forma, del di lei tutto, la sua intimità di donna, il suo fascino di amante, erano Lei! Rapito nella dolcezza dei ricordi gli parve di cingerla, come una sera, lieve intorno ai fianchi, dandole l’anima in abbandono.... Quantunque al pari di tutti gli uomini egli avesse conosciuto presto il diletto d’amore e creduto di amare ed anche amato, ciò che provava ora non somigliava a nessuna delle passate ebbrezze. Egli era ora compiuto in sè. Il grande anelito della sua anima che altre volte ne divideva gli affetti e li gettava al vento stringevasi in una cosa sola coll’Unica, poichè pensando a lei non cessava di pensare alla patria schiava, a questo amore supremo che giaceva in fondo di ogni sua aspirazione, che formava il substrato di tutti i suoi pensieri, sangue del suo sangue e midollo delle sue ossa, fin dal primo aprirsi della ragione, quando udiva narrare in famiglia le persecuzioni patite sotto il governo austriaco e le infamie del carcere dove uno de’ suoi era morto. La possibilità di morire per una causa santa, e meglio che nel languore del carcere sotto il piombo di un soldato nemico, aveva agitato per lungo tempo i fantasmi eroici della sua immaginazione procurandogli vere voluttà di sacrificio e quasi una smania, una frenesia di offrire la propria giovinezza, di vedere quel suo sangue ardente che gli ribolliva dentro uscirgli dal petto e rigare la terra dove i suoi padri avevano imprecato e pianto. Nessuna offerta di piacere, nessuna lusinga di donna valeva per lui quei solitari vaneggiamenti dove le facoltà superiori della sua anima si esaltavano fino al delirio. Riavvicinandosi a Trento gli attraversò la mente il canto di Gazzoletti che sognando al pari di lui una morte gloriosa pensava all’ultimo nome che gli sarebbe palpitato nel cuore insieme a quello della patria; e lo comprese come non lo aveva compreso mai, e lo ridisse pieno d’entusiasmo, coi polsi che gli martellavano in un tumulto di febbre. Il sole tramontava sulla città quando egli vi giunse. Non entrò, ma per una stradetta nota alla sua fanciullezza, non più riveduta, e di cui la nostalgia lo riprese in quel fiorire nuovo di vita, quale confuso desiderio di consacrare la nascente felicità presso una tomba cara, lasciato il piano, su su per un molle declivio portossi in alto; e quanto più si sollevava più gli cresceva quell’impeto di grandi cose, quel bisogno di darsi, di prodigarsi fuori di sè stesso, impaziente dei lacci che lo stringevano alle miserie dell’esistenza comune. I freschi verzieri, gli orti amorosamente coltivati all’ombra degli ippocastani si sprofondavano sotto i suoi piedi in un morbido ondeggiamento lasciando emergere le chiese, i campanili, le torri, la macchia screziata delle case e l’Adige, l’Adige impetuoso travolgente le sue onde opaline con foga d’armigeri correnti alla battaglia. Tutte le sue visioni insorsero, tutte! Le antiche infantili meraviglie ai racconti del padre che soldato sotto l’Austria aveva disertato per correre nelle file di Garibaldi quando in Piemonte e in Lombardia si davano le prime spallate al colosso, la malinconica vita di esiliato lontano dalla famiglia, il ricongiungersi a questa appena le circostanze apparvero propizie; e la morte prematura del padre e il lungo seguito di affanni che la accompagnarono adunando sul capo già pensoso di Ariele la tristezza incancellabile delle infanzie dolorose. E poi il lento formarsi della sua coscienza di giovane in terra libera, col ricordo dell’avita casa perduta, col rimpianto di tanti sacrifici inutili, coll’eco continua di pianti sommessi. Pianti? L’illusione che gli aveva fatto scorgere nei flutti dell’Adige una foga di armigeri correnti alla battaglia mutava forma sotto i suoi sguardi allucinati. Lagrime erano; lagrime ininterrotte che dalle balze e dalle fratte, dalle Dolomiti splendenti, dalle Giudicarie austere, dai boschi dell’Anàunia, dalle città segnate in fronte col suggello di San Marco andavano, andavano, andavano a ricercare il cuore della patria. O Verona, non le senti tu queste lagrime dei fratelli gemere sotto l’arco de’ tuoi ponti severi? Non le sente Venezia quando la gondola silenziosa trascorre nell’incanto lunare trasportando il sogno di due felici? E tu, perla staccata dall’italo monile, Trieste, o sorella, odi?... Ariele si esaltava in cotali pensieri che l’ora e il luogo e lo stato particolare dell’anima sua vestivano di lirismo appassionato, abbandonandosi intero come soleva alle audaci fantasie, in oblio assoluto d’ogni altra cosa. D’improvviso, nel fascio di raggi che il sole morente dardeggiava sulla città, il suo sguardo distinse la massa bruna del Castello coi suoi merli ghibellini rizzanti le punte intorno al torrione dove i fieri segni di Roma scompaiono coperti dall’aquila imperiale, dove s’affloscia sull’asta minacciosa la bandiera dai colori abborriti; e in quel trionfo insolente dello straniero, in quel dispiego di forza brutale cui rispondeva dall’alto dei forti il lugubre profilo dei cannoni, tutti gli orrori delle prigioni austriache colla tetra coorte dei supplizi e delle forche che tanti nobili cuori tolsero all’Italia, ripresentandosi al suo spirito, gli mandarono alla fronte una ondata di sangue così violenta che abbattendosi contro un sasso sul ciglio della strada rimase a lungo immobile nell’annientamento della disperazione. E pure fiaccato il suo spirito errava con tenace delirio di memorie intorno alla fossa del Castello dove venti giovani italiani dei Corpi Franchi presi a tradimento furono un giorno uccisi dal piombo austriaco, per il solo delitto di essere italiani. E il ventunesimo era un fanciullo, un fanciullo di quindici anni per il quale il venerando vescovo, dopo di avere chiesta invano la grazia di tutti, implorò che nei diritti dell’innocenza fosse salvo — almeno il fanciullo! Ma il tiranno disse no e il tenero corpo cadde insieme agli altri.... Ah! non le Madonne dolci e le grazie dei liutisti affrescate entro i muri del Castello vedeva Ariele colle pupille aperte sul passato! Egli vedeva nella notte funerea del delitto un tacito avanzarsi di uomini, deludenti la sorveglianza delle sentinelle, strisciare sotto gli spalti, scendere carponi nella fossa e cercare i cadaveri e caricarseli sulle spalle amorosamente come persone vive, come fratelli vivi.... Poi risalire lenti e dolenti la scarpata sotto i fucili pronti delle sentinelle e dileguarsi nella notte portando in salvo le spoglie dei martiri strappate alla fossa infame. Ombre, sangue, morte vedeva Ariele intorno al Castello, sempre vaneggiando. Quando rinvenne, le tenebre avevano già involta Trento, visibile appena per i punti luminosi che la picchiettavano di innumeri pupille, vigile e desta nell’ombra; vigile e desta. Parve allora ad Ariele che fili invisibili gli si allacciassero intorno e voci misteriose piegando verso lui un fiato ardente gli mormorassero: “Aiuto! Siamo in mille e mille come te. Siamo poveri, dispersi, abbandonati; il giogo tiene curve le nostre fronti, le minaccie inceppano i nostri polsi, il terrore chiude le nostre bocche, atrofizza il nostro pensiero; e siamo tanto miseri che parecchi fra noi non hanno neppure coscienza della loro servitù, e siamo così inviliti che per paura non osiamo nemmeno sperare„. E i fili tremavano come nervi febbricitanti e le voci singhiozzavano.... Se i propositi di Ariele fossero stati meno fermi si sarebbero insaldati per sempre in quell’ora di contemplazione in cui parvero venire a lui le energie imploranti della città oppressa, lassù su quel colle d’onde l’occhio la abbracciava intera. La necessità di unirsi, di formare una lega di resistenza che fosse come un sol cuore dal battito incessante, si imponeva al suo fervido entusiasmo. Più che un conflitto sanguinoso egli vagheggiava ora il trionfo delle forze occulte della stirpe, l’unione degli uomini di buona volontà. Non è questa l’idea che deve rigenerare il mondo? Le opere che disgiunti non riescono a compiere, morte nella sterilità del desiderio, sorgerebbero allora in un potente slancio di vita. Oh! quando saranno uniti tutti, tutti, uomini dei monti e uomini della valle, colui che semina le spiche nel campo e colui che le raccoglie e colui che le ripone; ed ancora i pastori del gregge ed i pastori delle anime, tutti, tutti, tutti! La visione si allargava allo sguardo profetico di Ariele. Era pur stato un tedesco che affacciandosi a quei monti aveva esclamato: “Qui incomincia l’Italia„. Parla dunque il diritto dei popoli nella bandiera naturale che gli stranieri incontrano appena usciti dai loro paesi brumosi salutando l’Italia nei colori del nostro cielo e del nostro mare, negli occhi delle nostre donne, nei segni della nostra storia. Non più armigeri, non più lagrime svolgeva ora il bel fiume. Ariele lo vedeva scendere vergine linfa cristallina dall’alvo nativo e scorrere tra sponde fiorite in mezzo a un popolo festante che canta la nuova canzone di libertà: Adige italiano in terra italiana. Dinanzi a quest’ultima visione il petto gli si gonfiava in un rigurgito di vita, in un folleggiare audace di speranze, mentre il sangue giovane urtando i suoi polsi vi accendeva fiamme di passione e l’occhio inquieto frugava nelle tenebre. Dai profondi abissi del suo essere una voce si agitò sollevando al suo sogno la terra, i monti, le acque, le linfe degli alberi, le correnti dei venti, il fuoco dei vulcani, tutte le forze della natura congiunte al grido disperato degli uomini in uno slancio di esaltazione sublime, in un magnifico assurgere verso la felicità, verso la libertà. Poter avere allora l’Unica vicino a sè.... cuore contro cuore! Un desiderio altissimo lo assalse, lo investì; desiderio così acuto di stringere un’anima che la visione femminea sfiorò appena i suoi sensi esaltati nell’ardore di un’unione sovrumana, fuse nel suo pensiero la donna e la patria con tale trasporto di tutto sè stesso che sentì di toccare in quel punto il culmine della sua vita ideale. Altre ore più grandiose o più pugnaci gli preparava forse il destino, ma quella sarebbe rimasta al di sopra di tutte come il luminoso zenith della sua giovinezza. VII. Al sommo della scala, dove il servitore attendeva tenendo aperto l’uscio, un grande specchio riflettè tutta intera la persona della signora che saliva. Ella si vide alta e sottile nell’abito scuro rischiarato appena dal velo bianco che le fasciava il cappello e trasalì riconoscendosi. Rispose rapida al saluto del domestico, rapida attraversò le prime stanze del suo appartamento e giunse alla camera da letto dove subito nella vecchia specchiera a colonnine dorate ella si rivide. Quella era dunque la donna amata da Ariele Moena! Si sbarazzò del velo e del cappello tornando a guardarsi, colla faccia vicina al cristallo che si appannò del suo fiato. Mentre portava istintivamente la mano al taschino del petto per estrarne la pezzuola si sovvenne di averla gettata ad Ariele dal finestrino del vagone, a Rovereto, e sorrise. Una poltrona stava accanto; vi si lasciò cadere premendo il volto contro i cuscini, col cuore che le balzava, — un attimo, — ma sorse subito in piedi. Andava e veniva per la camera, lesta, vivace, sfiorando il tappeto con passo leggiero di farfalla che rade il suolo; non sentiva il peso del suo corpo; pareva che l’aria la portasse. Ed era pure dentro di lei un tintinnio giulivo, come di campanelluzzo d’argento, come un riso d’angeli profondo e sommesso, udito da lei sola. Parlando colla cameriera sentiva il bisogno di dirle delle parole buone nello stesso modo che l’avrebbe fatta partecipe del profumo di un fiore che tenesse fra le mani. La di lei bruttezza le faceva compassione; non si era mai accorta che fosse così brutta; gialla, allampanata, le mancava un dente davanti. — Hai perduto un dente. — Sì, signora contessa. È stato l’altro giorno; dovetti farlo levare perchè soffrivo come una dannata. — Poverina, bisognerà rimetterlo. La accarezzò benevolmente sui capelli ben pettinati e le volle dare un conforto: disse: — Hai dei bei capelli ancora. Stava al suo servizio da vent’anni, avevano press’a poco la stessa età, conosceva quasi tutta la sua vita. — Se sapesse! — pensò la signora, e tornò a guardare il vuoto lasciato dal dente nel volto della donna con una bizzarra sensazione di terrore e di gioia che le fece passare dinanzi agli occhi la giovanile freschezza della bocca di Moena. Nella assenza di quasi due mesi si erano accumulate diverse notizie che la cameriera si affrettò a comunicarle. La signora marchesa era venuta più di una volta in persona a chiedere della signora contessa; il tappezziere aveva portato il cofano; s’erano rotti i vetri della veranda in una notte di violento temporale; il pittore chiedeva se la signora contessa fosse disposta a rifare il cornicione del salotto; la vecchia magnolia del giardino era morta.... La signora ascoltava tutto ciò con apparente interesse per non mortificare la cameriera e toglierle il piacere del racconto. In realtà ognuna di quelle parole risonava a vuoto nel suo cervello e le piccole cose che una volta forse avrebbero trattenuta la sua attenzione le sembravano ora lontane da lei, ricacciate in una vita anteriore, con quel digradare sfumato dei piani che nei quadri antichi, dove la figura è tutto, rappresenta negligentemente il paesaggio attraverso il vano ristretto di una finestra. Le ciarle della cameriera erano il vano angusto per il quale ella guardava con indifferenza il paesaggio rimasto estraneo al suo pensiero dominante. Anche vicino a lei, nell’immediato contatto dei mobili che la circondavano, che erano i suoi mobili, compagni di tanti anni, testimoni di gioie, di illusioni, di dolori, avvertiva il nuovo motivo sopraggiunto quasi un velo roseo sospeso fra lei e gli oggetti, quasi un pulviscolo luminoso che posandosi sulle forme ne smussava gli angoli e rialzava il tono dei colori. Una esultanza di vita che sembrava non avesse ragione diretta, tanto lo zampillo gorgogliava profondo in tutto il suo essere, la teneva in uno stato di equilibrio d’onde appariva più che mai vana la distinzione fra spirito e materia, poichè ella gioiva di vivere nella sua carne sana e palpitante così come nella alacre intelligenza e nella sottile sentimentalità della sua anima essenzialmente femminile. Rientrando nella propria casa aveva coscienza di portarvi un contributo di commozioni, di accrescerla in valore intimo, e le tardava che il fuoco del suo cuore passasse negli oggetti che le dovevano servire per sentirli veramente suoi, per riprenderne possesso in seguito al temporaneo abbandono. Un cumulo di lettere e di circolari arrivate durante la sua assenza giacevano sullo scrittoio. Ella vi posò la mano distratta, senza curiosità. Andò invece a guardar fuori dalla finestra dove gli alberi nel vecchio giardino formavano un gruppo denso di verde e di ombra che subito cattivò la sua attenzione e dove immerse lo sguardo perdutamente, come dentro a un’acqua morbida. Erano i noti alberi che ella aveva guardato tante volte con placido diletto, che fiorivano ogni primavera sotto i suoi occhi e ad ogni autunno ingiallivano regolarmente, sempre allo stesso modo; ma se gli alberi erano ancora quelli, cambiata era la sensibilità degli sguardi che vi si figgevano pieni del ricordo di altri alberi, di altre ombre. Stette a lungo colle pupille immobili nella attrazione di quel verde, sentendone la frescura e i misteriosi fruscii e quasi un respiro di persona viva tra fronda e fronda. Si toccò la fronte, la guancia, il collo; chiuse gli occhi e un brivido le passò nell’alto delle braccia.... I giorni che seguirono ella dovette per forza occuparsi di affari e di cure mondane, svolgendo dai veli del sogno la sua personalità effettiva, ma sempre l’accompagnava quell’interno tintinnio giulivo, quel riso d’angeli profondo e sommesso che dall’imo più segreto della sua psiche saliva ad accenderle sul volto una scintilla di rinnovata giovinezza. Con una assenza di calcolo, che nel suo temperamento serio e grave segnava la nota più sincera di quello straordinario amore, non si chiedeva ancora dove il nuovo sentimento l’avrebbe condotta e coll’assoluto disprezzo che spinge gli audaci a sfidare i pericoli dell’abisso tendeva essa pure la fronte e il petto alla sferza del vento, alto il respiro verso la libera vastità dell’orizzonte, bevendo ondate di vita. Fuori, per le vie della città, ogni cosa le si presentava sotto mutato aspetto. Come il suo passo era più svelto e le sue pupille più lucenti, anche i fabbricati e i negozi e la gente si animavano del suo nuovo punto di vista. Adagiata da molti anni nell’indifferentismo di una rinuncia austera e voluta ritrovava con meraviglia l’antico piacere dinanzi alle vetrine dove l’eleganza più raffinata invita la donna ad ornare la propria bellezza. Non proponeva a sè stessa nessuna mèta, ma il suo sguardo errava carico di rinnovata curiosità su quelle armi dei femminili combattimenti verso cui per un prodigio che ancora non sapeva spiegarsi si trovava di nuovo sospinta. Era una impressione di giuocatore che tagliato fuori dalla partita si sente improvvisamente ripreso, sente tornare ai suoi polsi i battiti febbrili della lotta. Tale meravigliosa rinascita di sensazioni che ella credeva sepolte per sempre col suo passato le riserbava la sorpresa di vedersi riflessa nella attenzione degli uomini. Quegli sguardi che fra uomo e donna nella età felice si incontrano rapidi e scintillano rubando ad ogni beltà un po’ del suo profumo, ad ogni cuore un po’ del suo desiderio e che i giovani portano con sè, focolare di energie continuamente rinnovate, sorgente inavvertita e diffusa della loro sicurezza, tornavano a lei dai lontani paesi dell’illusione. Quando sorprendeva fermo ne’ suoi sguardi uno di tali sguardi, una commozione non ignota ma quasi dimenticata le accelerava nelle vene il corso del sangue ed ella stessa non si meravigliava più dell’effetto che produceva, poichè una fioritura di giovinezza partendo dal suo interno le inghirlandava la fronte, gli occhi, la bocca, tutta la persona, dei colori della sua gioia. Dai limbi oscuri dell’età dolorosa ai quali la sua anima già piegava in malinconica rassegnazione un miracolo d’amore l’aveva riportata nei giardini dell’incanto dove ferve la vita. Ella era ancora giovane, ancora bella, desiderata ancora, amata ancora. Quale donna aveva mai ottenuta una simile grazia? In mezzo alla folla delle strade le accadeva pure di scorgere talvolta o una pallida guancia o una linea delicata che le riconduceva improvvisamente dinanzi il volto di Ariele. Fissava allora quel simulacro come non aveva mai osato di fissare lo stesso Ariele, ansiosa, palpitante, finchè l’inganno spariva lasciandola insoddisfatta eppure eccitata: ed avveniva ancora questo: lo sguardo che pensando a Moena ella aveva arrestato sopra un altro uomo le ritornava carico di improvvisi desideri, sì che intorno a lei l’atmosfera palpitava continuamente delle folli ed inebbrianti sensazioni dei vent’anni. Ma la sensazione più deliziosa la provava al mattino, quando, appena schiusi gli occhi, il nome di lui le balzava dall’oblio del sonno al ritmo della vita con un trillare d’allodola che si alza nel cielo. Ella nasceva così tutti i giorni alla gioia. Tutti i giorni la divina giovinezza perduta le si riaffacciava nell’amore di Ariele, nel ricordo dei loro silenzi ardenti. Una visione meravigliosa andava formandosi allora nella sua fantasia. Le sembrava di vedere sè stessa, piccola bimba, incamminata lentamente sull’erta di un monte cogliendo fiorellini e pietruzze, inseguendo farfalle e scarabei, nel biancore rosato dell’alba; e via via che saliva dardeggiando più vivido il sole sbocciavano tutto intorno fiori pomposi, si innalzavano steli, si svolgevano ombre di fronde allietate di canti, popolate di nidi; ondate di profumi attraversavano l’aria a tratti; e se pure a tratti grosse pietre inceppavano il sentiero, se qualche rovo pungeva a tradimento, se qualche serpe strisciava di sotto alle pietre, la smania di cogliere quei fiori, di posare sotto quelle ombre, di udire quei canti, di raggiungere quei nidi, dava forza alla viandante. L’alternativa della gioia e del dolore le svolgeva una trama di vita in mezzo alla natura feconda, sotto la vampa del sole spremente intorno essenze di fiori, tepori di alcove. Nel suo pieno meriggio andava la pellegrina ansando, su, verso la vetta, fra pietre sempre più rudi, fra spine sempre più acute, fra serpi sempre più insidiose cogliendo ancora qualche raro fiore, beando l’occhio sulla porpora disperata del tramonto, china la fronte al mistero dei nidi dove i pigolìi tacevano a poco a poco mentre a lei le forze venivano meno. Di repente il sole scompare, piomba la montagna a picco, precipita la china fra un diroccare di pietre, ulula il vento, sbatte la piova, neri fantasmi attraversano l’oscurità. È il buio, è il freddo, è la morte. L’abisso ultimo sta per inghiottirla!... Ed ecco che mentre ella si abbandona chiudendo gli occhi al gran nulla, un fiume ridente scorre a’ suoi piedi, una barca la raccoglie ed ivi stanno fiori olezzanti, musiche celesti, battiti d’ali, morbidezza di piuma, calore, raggi, vita; e due braccia la stringono e una bocca la bacia col divino bacio d’amore.... In tale poetica esaltazione di spirito ella rivide Moena. Le apparve all’improvviso, come egli soleva, presentandosi in casa sua senza che ella ve lo avesse mai invitato, senza che nessuno dei due avvertisse l’infrazione alla regola, tanto era per loro unico un pensiero, unico un desiderio, usciti entrambi dal mondo reale per vivere insieme quel loro sogno. E il sogno interrotto riprese con un semplice cambiamento di scenario. Invece del rustico sentiero, della panchina, del bosco, del capanno, il salotto li accolse. Aveva pur esso ombre discrete, silenzi suggestivi dietro le portiere chiuse, al ticchettìo di una pendola antica, tra gli ori pallidi delle cornici e i fiori languenti nei cristalli. Ella fu felice di vederlo entrare così nella sua esistenza, interessarsi a tutto quanto la circondava, osservare i quadri, accarezzare i velluti, odorare i fiori, riflettere nello specchio il suo nobile profilo, lasciare l’impronta del suo braccio sulla spalliera della poltrona, l’eco della sua voce nell’aria. La sottile ebbrezza dell’intimità tornò ad avvolgerli, nell’asilo sicuro, dove solo il loro volere era limite al desiderio. Tornarono a quel singolar parlare di cose indifferenti coll’accompagnamento in sordina dei loro cuori commossi che era uno dei più grandi incanti della loro conversazione, sostenuta sempre nel tono cerimonioso della terza persona, ma anche quello pieno di una tenerezza nascosta, come se ognuno pensasse _tu_ e solo per pudore pronunciasse _lei_. Persisteva in entrambi così unanime la paura di decadere che la lotta continua che ne derivava era un fascino di più; fascino alato, spirituale, dove i sensi tuttavia non perdevano nulla, anzi si affinavano in un seguito di sensazioni delicate, raggiungendo la trasparenza del liquore che abbandona nel filtro le scorie impure e si condensa in goccia di topazio e di rubino dove l’ardore è raggio e la voluttà essenza inafferrabile. — Questo lo portava il giorno della conferenza, la seconda volta che la vidi, — disse una sera Moena accennando a un gioiello che pendeva dal collo della signora. La sua mano dalle forti e belle linee virili contrastava colla pallidezza quasi sofferente del volto; era il volto di un poeta e la mano di un soldato; pure tale mano riattaccavasi alla sensibilità del volto per la leggerezza diafana del gesto che aveva indicato il gioiello, dando alla signora l’impressione vaga di una carezza non eseguita ma pensata. Rispose sorpresa: — Come mai lo ricorda? — Ricordo anche l’abito che indossava la prima volta. — Oh! no, è impossibile. In quel momento!... — Era grigio. — È vero. — Una sinfonia di grigio sfumata in bianco. — È vero, è vero. Ma come ha potuto guardare il mio abito allora? — Non so. Non ho guardato l’abito, ho guardato lei intanto che si allontanava e mi rimase negli occhi quel colore di nube argentea. La vedo ancora, nel vano della porta, sparire.... — Moena, — ella esclamò con subitaneo slancio, — chi ci avrebbe detto quella sera che saremmo diventati.... (si arrestò). — Che saremmo diventati?... — ripetè Moena rilevando l’interruzione con una punta sottile di malizia. — Tanto amici, — rispose la signora seria seria. Ma subito si lessero fino in fondo all’anima ed una gaiezza irresistibile li rese per un istante fanciulli. Avevano spesso assalti di gioia, così, per una parola, per un’allusione, per un pensiero côlto a volo, prima interpretato che detto. Somigliavano veramente a due fanciulli che avendo trovato nei campi un bottino di frutti, prima ancora di assaggiarli si inebbriano nella loro scoperta; in tale freschezza di sensazioni la donna emulava il giovane fino a superarlo, fino a dargli l’illusione assoluta della propria giovinezza. Nato da un eccitamento dei nervi il riso di lei le serviva anche di difesa quando la tentazione la serrava troppo da presso e temeva di scoprirsi. Era una forma di resistenza che non ingannava nè l’uno nè l’altro, ma che permetteva a entrambi di guadagnar tempo prolungando le ore indicibilmente dolci dell’amore che sale. Per quanto la loro intimità crescesse di giorno in giorno, il riserbo di Ariele non usciva dalla signorile compostezza che era una forma del suo sentimento, ma che, senza volerlo, aumentava il pericolo per l’assoluta fiducia che ispirava. Gli accadeva qualche volta di entrare preoccupato e sedendo in silenzio presso a lei prenderle le mani esili e fresche per sprofondarvi la fronte. Stava così senza parlare in grande delizia, ed ella lo sentiva ardere. Anche le posava qualche volta delicatamente la testa sull’omero o sui ginocchi mormorando: “Potessi restare sempre qui!„ Un dolore nascosto gemeva in fondo a quell’abbandono tenero e casto; o forse un seguito di dolori, tutta la tristezza che faceva tanto pallide le sue guancie, tutti i pensieri che oscuravano i suoi occhi sempre un po’ velati. A poco a poco fluirono le confidenze: l’infanzia orfana, la prima gioventù sciupata follemente, i facili amori che non avevano lasciato traccia, la corsa frenetica dietro chimere che svanivano appena tocche e finalmente la sua donazione intera, anima e corpo, all’idea che riassumeva in sè ogni aspirazione d’avvenire: la patria libera. Allo slancio di simpatia spirituale che li aveva prima congiunti si aggiungeva ora per i patimenti di Ariele un sentimento di pietà, di tenerezza materna che illudeva a tratti la signora, la quale sobbalzata dalla passione come sopra le onde di un mare burrascoso, ora piena di ardire, ora pavida del vicino abisso, tentava nascondersi dietro la maschera dell’amicizia. Egli insorgeva dolce e fermo: “Non voglio la sua amicizia....„ Una sera osò soggiungere: “Voglio il tuo amore„. Ella si celò il viso tra le mani e poichè lui insisteva, tenendola stretta ai polsi, pazza ella stessa d’amore e di improvviso desiderio ebbe la forza di gettarsi indietro, spaventata. — Mi respinge? Mi respinge? — le soffiò egli sulla faccia; ed essendo riuscito a distaccarle le mani la fissava con occhi pieni di tristezza. — Non sono io che la respingo, — mormorò lei tutta tremante, — è il destino che ci ha posti troppo lontani. Moena, siamo stati molto imprudenti.... Oh! non lei che è giovane, ma io.... io sono la vera colpevole. — È colpa l’amore? — disse Moena colla sua voce calda che veniva dal profondo. — Per noi è più che una colpa (sollevò essa pure verso di lui le pupille angosciose), è un delitto di lesa natura. L’alba non può unirsi al tramonto. — Ma noi fummo due albe! Non ricorda, poichè ha nominato il destino, in qual modo lo stesso destino ci ha guidati l’uno verso l’altra? Lei non fu allettatrice, io non fui seduttore: mai sentimento nacque con maggiore spontaneità, con maggiore sincerità del nostro. Appunto, poichè un abisso ci divide, come dice lei, non la leggerezza dell’età, nemmeno l’occasione ci spinsero ad amarci. Ci amiamo perchè non possiamo fare diversamente. — E se c’ingannassimo? — pronunziò debolmente la signora. — Lei stessa non è convinta di quello che dice, — affermò Ariele con risolutezza. — Sapesse quale sacrificio mi è costato il venire a raggiungerla lassù.... Ella interruppe: — Un sacrificio? — Sì, ma non è il momento di parlarne. Parliamo invece del nostro dolce e così recente passato. Ricorda l’incontro sulla strada? Che cosa speravo io allora, che cosa volevo? Lo ignoro. Forse non l’amavo ancora: chi può dire quando incomincia l’amore! Ma fui tanto felice, quella sera, sulla panchina, al suono della musica che per quanto uscita da istrumenti comuni sembrava a me un concento di paradiso; e le lampadine elettriche chiarivano appena la spianata solitaria, e il suo velo bianco mi portava a tratti sul volto il suo respiro.... ricorda? — Ricordo. — E i nostri silenzi.... li ricorda? — Anche quelli! — E.... Si guardarono, trasalendo in tutte le loro fibre, sprofondate le anime nelle pupille. Mormorarono insieme pianissimo: — Il bosco.... — Vedi, vedi? Questa sola evocazione ci dà la febbre e vuoi che non sia amore? Ella teneva il capo reclino ansimando. Non vide gli occhi di Ariele quando rammentò il bacio nel capanno.... ma la voce suadente continuava, ritornata alla forma di rispetto che era tra loro un tacito accordo di resistenza, più ardente forse dell’abbandono. — E quel meriggio d’oro in mezzo alle rose? la sua cara visita? il _crescit eundo_? — Dio! — esclamò la signora, — che ore divine vi sono nella vita! E la sua apparizione in treno il giorno che partii.... — E il grido che ella gettò vedendomi.... — E il piccolo albergo di Trento, quella finestra di fronte al palazzo del diavolo, quel davanzale su cui ci appoggiammo insieme immemori del mondo.... Ancora si guardarono. Ancora nei loro occhi che si dicevano tutto passò il lampo di un ricordo, di un pensiero; ma i labbri tacquero. Trento rivisse nelle loro parole evocatrici allora; Trento col suo fascino misterioso, colla sua bellezza dolorosa, la Trento del loro sogno e del loro amore. Indugiati sulle memorie dell’ultima sera trascorsa ai piedi della statua di Dante, il rosario di passione che essi avevano sgranato li cinse di una collana luminosa le cui faccette alternate erano stelle ed erano lagrime. — Crede? Crede? Le giuro che non ho mai provato vicino a nessuna donna la commozione che risentii presso a lei, che risento ancora.... — Basta, Ariele. Non sa quanto male mi fanno queste parole? Non comprendi dunque?... Non comprendi?... Erano entrambi agitatissimi. I loro sguardi che prima si passavano da parte a parte non si vedevano più; le loro mani, le loro braccia si cercavano automaticamente, si stringevano con movimenti convulsi. — E tu comprendi tutto quello che sei per me? una creatura quasi non terrena, tanto mi sembra impossibile ciò che avvenne, ciò che avviene, ciò che dovrà avvenire. Comprendi che finchè il cuore scanderà un palpito tu mi avrai, come nessuna mi ebbe, come nessuna mi avrà; come tutte le forze dell’anima ti desiderano in questo istante?... Comprendi? Addio, addio, fuggo. Ella non lo ritenne. Sfinita, abbandonata sui cuscini del divano le cantava ancora nell’orecchio la voce di Moena “come nessuna mi ebbe, come nessuna mi avrà„ e una ebbrezza meravigliosa la invase, qual di lama che penetra senza far soffrire, in fondo, in fondo, in fondo, fino a dare la dolcissima morte. VIII. Una camera ampia, alta di soffitto. Le pareti dalla imbiancatura gialliccia sono ricoperte di carte geografiche, di un crocefisso e di un ritratto rappresentante una brutta donna austera illuminata appena nelle pupille da un raggio di smorta bontà. Sul pavimento di mattoni all’antica poggiano lunghe tavole dove sono schierati i lavori delle orfanelle simmetricamente disposti sopra un fondo di traliccio verde. Quattro finestre aperte dànno su un cortile magramente alberato, battuto in pieno dal sole; un sole fastidioso che le tende di cannuccia non riescono a tenere lontano, che penetra afoso attraverso gli interstizi gialli e ripercotendosi sul giallo delle pareti diffonde nell’aria un tono persistente e monotono di landa, di aridità, di deserto. Il crocifisso rigido e il rigido ritratto femminile e le carte geografiche col loro reticolato asciutto, tutto pieno della noia e della fatica delle scolare, aggravano l’aere di un imponderabile senso di tedio. La signora, prima fra le patronesse, girava lentamente intorno alle tavole dei lavori, e una suora, accompagnandola, le andava mostrando i più meritevoli, specialmente un lenzuolo ricamato sulla cui rimboccatura una fontana lanciava il suo getto a punto pieno ricadendo intorno a una vasca dove nuotavano alcuni cigni. La suora fece osservare il rilievo dei cigni che sembravano vivi. — C’è del cotone sotto, naturalmente, — si affrettò a soggiungere poi per scarico di coscienza, schiudendo le labbra a un sorriso meccanico senza luce, mentre con la mano additava altri lavori, tracciando nell’aria brevi gesti concentrici e timorosi che non smuovevano una sola piega della pellegrina raccolta sul suo petto. — Camicie, pantofole, cuscini, borse da tabacco, posapiedi. Hanno lavorato molto quest’anno le nostre ragazze, — continuò la suora, — e non c’è nemmeno qui tutto. Una tovaglia da altare, commessa dall’Arcivescovo (fece una piccola riverenza) è già partita per una chiesa di Brianza. E si ingegnano anche a disegnare. Guardi questa capanna, abbastanza riuscita, nevvero? Pencola forse un poco a sinistra, ma si può immaginare che vi sia stata una scossa di terremoto. La soddisfazione di avere detto una cosa spiritosa a una signora del gran mondo diffuse una placida gioia sul volto della suora. Erano quelle le sue grandi occasioni, il cui ricordo doveva bastarle per le lunghe giornate di clausura che sarebbero venute in seguito. I suoi occhi trascorrevano placidi dal punto in croce all’orlo a giorno, accarezzando un mazzo di fiori di carta posati dentro a un vaso di maiolica celeste con tale serena incoscienza di tutto ciò che non fosse scuola, lavoro e preghiera che la signora ne provò una specie di disagio. Pensava: Se le dicessi ciò che mi tumultua nel cuore, ora, mi comprenderebbe? — Desidera visitare le classi? — Oh! no, fa troppo caldo. — Caldo? — ripetè la suora meravigliata. — Abbiamo abbassate tutte le tende per conservare le stanze fresche. Non aveva caldo, la suora, sotto l’abito di lana che pur non lasciava scoperta una sola linea nè del collo, nè dei polsi. Ella aveva anche riunite le mani pallide e molli sotto la pellegrina. Somigliava così al quadro appeso alle pareti, il ritratto della fondatrice della casa, vestita al pari di lei, come se la pellegrina livellatrice delle forme avesse imprigionato la viva e la morta nello stesso sudario di rinunzie. Lo sguardo della signora vagava dalle finestre assolate alle carte geografiche ed al crocefisso, arrestandosi un istante sul ritratto per ricadere a piombo sulla figura della suora che le stava davanti e che sentiva tanto lontana da lei. Mio Dio, — pensava, — ha ella mai avuta una fronte d’uomo appoggiata sul suo cuore? — Coll’anno nuovo, — disse la suora, la quale avendo raggiunto l’ultima tavola si trovava presso la porta d’uscita e giudicava esser tempo di metter fuori le sue ultime batterie di campagna, — avremo la luce elettrica. — Davvero? — Per opera di un benefattore, naturalmente, il quale si incarica dell’impianto. È stata una bella idea, non c’è che dire, ma abbiamo molti altri bisogni.... molti. Lo stato della guardaroba è compassionevole.... Aspettiamo lo slancio di qualche anima buona.... — Lo slancio non basta, sorella, — interruppe la signora con un sorriso. — Certamente, ma speriamo.... speriamo nella generosità delle nostre patronesse. Chi può, nevvero?... — Terrò nota del desiderio. — Che il Signore la benedica, signora contessa. — Non me! Non me! — esclamò vivamente la signora, — e già nel suo pensiero si delineava la testa amata sulla quale avrebbe voluto ricondurre tutte le benedizioni. Ogni suo atto, ogni suo pensiero, qualunque fosse, prendeva ormai quella direzione, gravitava per forza maggiore intorno all’astro da cui le veniva calore e luce; e se per poco si trovava costretta ad allontanarsene, subito vi ritornava con un riflusso di gioia che le rendeva di volta in volta sempre più impossibile vivere altrove. Il sogno era diventato la sua realtà. Per questo lasciando l’asilo corse veloce alla propria dimora, già così piena di lui, dove le era caro raccogliersi per intensificare l’estasi. Ma un’amica l’aspettava, antica e fedele, venuta dalla provincia, che non vedeva da gran tempo e alla quale tese le braccia con sincero affetto. Fu il loro incontro simile a una pagina cara di un libro dimenticato che si apre improvvisamente. — Sei sempre la stessa, — disse l’amica con schietta ammirazione. Non potè la signora, per quanto lo avesse desiderato, renderle il medesimo tributo. La figura che le stava dinanzi, bellissima un giorno e non ancora vecchia, era già ricoperta dallo strato opaco e denso che scende sopra certi volti di donna come un sipario a rappresentazione finita. I suoi capelli, tuttochè ancora bruni, non avevano quel movimento leggiero di una testa sulla quale passa l’ala vagabonda delle dolci visioni; ne’ suoi occhi c’erano troppi numeri, troppe combinazioni sagge e scrupolose perchè lo sguardo potesse ancora sfavillare di fronte all’impreveduto; la linea della bocca, asciutta, in una posa ieratica di immobilità appariva chiusa per sempre ai fremiti del desiderio; bella coppa di Museo a cui nessuno pensa di accostare le labbra. C’era la polvere del tempo sulle sue guancie, dove la regolarità di una vita tranquilla trionfava nella pienezza di un frutto ben conservato, ma dove più non corre la linfa rinnovatrice del ramo; e quell’andare e venire delle luci, quell’alternarsi di toni che dinota l’altalena continua dello spirito moriva sul volto dell’amica in una patina uguale che ne materializzava l’espressione. La signora rimase un attimo confusa. Aveva torto l’amica di avere tanto mutato o il torto era suo a non mutare? — Stai molto bene, — le disse finalmente, lieta di aver trovato una frase opportuna in non assoluto dissidio colla verità. — Davvero la salute è buona, ne ho bisogno per condurre tutta la mia baracca. — Con molti burattini? — Cinque. Si dilungò compiacentemente a parlare de’ suoi figli, specialmente delle ragazze che erano le maggiori; una al ginnasio, l’altra in un collegio svizzero, la prima già laureata dottoressa in lettere. — Quanti anni ha? — Venti. — Presto presto dunque.... — Sì, ha in vista una cattedra. — Scusa, volevo dire un marito. — Eh! sì che pensa al marito! È tutta studi, non ha in mente altro. Molto meglio per lei, del resto. La signora ammutolì. Continuò l’altra narrando una storia complicata di affari andati male, di una causa perduta, di invidie fra parenti, di malattie, di morti, di eredità, di governo e di tasse. — Ecco la vita, — pensava la signora colla sensazione bizzarra di guardare il mondo da un altro mondo, provando un po’ di vertigine e un lieve ronzìo nelle orecchie. — E tu? — fece a un tratto l’amica, — narrami di te. — Oh!... io.... non ho nulla. — Come sei bella in questo momento! Ti è venuto un po’ di rosso alle guancie. Mi riappari tale e quale eri quel giorno, sai, della famosa gita in barca? Avevi un abito rosa, allora, e ti si sciolsero le treccie nell’impeto del vogare. Quanti anni sono passati? Fu la volta di rievocare cose e persone, tanti fatti, tanti avvenimenti che avevano avuto il loro istante di importanza, per cui si era palpitato o riso o pianto insieme ad altra gente che ora non c’era più, morta, dispersa, perduta.... — E l’Adele? Ricordi il suo disperato amore per un uomo che aveva vent’anni più di lei, le sue lettere roventi, i versi che gli scriveva, il proposito di farsi rapire? S’è poi monacata come ne ebbe l’intenzione? Non ne seppi più nulla. A noi ora tali follie non sembrano possibili, vero? Ci vogliono proprio i quindici e i vent’anni per simili ubriacature. La signora sembrava ascoltare questo cicaleccio sorridendo a fior di labbra, abbandonata sul cuscino di mussolina bianca a trafori che la spalleggiava nella piccola poltrona; ma la sua mano errante intorno ai ninnoli del tavolino aveva una carezza particolare per un cofanetto dove giaceva l’ultima lettera di Ariele Moena; una lettera ricevuta quel mattino stesso, nella quale Moena le annunciava la sua visita per la sera. — E a teatro vai? — Qualche volta. — Io ho veduto appunto ier l’altro la Gramatica nella commedia _L’età d’amare_. La conosci? — La commedia? No. — Magnifica. Gran trionfo per la Gramatica. A quarant’anni l’amore deve tacere e deve morire. Ella ha dato un bel rilievo a questa situazione arrischiata. Non ci voleva meno della sua abilità per rendere interessante una passione che diversamente non si capirebbe. — Noo? — No, assolutamente. Ogni cosa a suo tempo. L’amore col primo capello bianco è imperdonabile. Vi fu un silenzio. La signora mormorò piano: — Forse hai ragione; eppure, tutto comprendere non è tutto perdonare? L’amica scuoteva il capo dubbiosa. — E si può fare un passo più innanzi — disse una voce che fece voltare la testa alle due amiche. — Perdonare anche quando non si comprende. Un vecchietto era sulla soglia, lindo, sereno, col sorriso indulgente di chi non chiede più nulla alla vita. La signora lo salutò con espansione, quasi con riconoscenza. — Neanche un grande commediografo, neanche una abilissima attrice, — continuò il vecchietto sempre sorridendo, — possono comandare all’amore di tacere e di morire. L’amore non ubbidisce che all’amore. Nuove visite seguirono immediatamente il vecchietto che si vide soffocata la sua filosofia tra una grossa matrona da una parte e due ragazze dall’altra; chiuso fra un cicaleccio serrato dove alternativamente emergeva la voce della matrona deplorante lo scarso raccolto dei bozzoli e quella delle ragazze esaltate nel racconto di una volata in aeroplano. A un tratto la conversazione divenne generale intorno a un pettegolezzo di cronaca cittadina; brillò di spirito, spumeggiò di malizia, salì con violenza di razzo ai fastigi dell’iperbole, ricadde in bagliori di stelle filanti, languì, si spense. Il vecchietto stava per pronunciare un aforismo, una delle ragazze si guardava la punta degli scarpini; una signora in un angolo, che non aveva detto ancor nulla, lanciò la parola “villeggiatura„ e allora tutti si affrettarono ad annunciare i loro progetti, vantando quale i monti quale il mare, quale l’uno, quale l’altro posto; si citarono alberghi, si calcolarono altezze; nomi umili e nomi reboanti incrociarono la sfida. Treni e automobili sfilarono all’orizzonte. La signora continuava a mostrarsi attenta ai discorsi de’ suoi visitatori, essendosi rizzata sulla poltroncina, il mento teso in avanti, le pupille aperte, l’espressione della fisionomia gentile e raccolta, approvando o disapprovando con un lieve cenno, con un monosillabo. Le stava dinanzi la grossa matrona, la quale ridendo aveva uno special modo di scuotere le spalle come fa un anitroccolo le ali quando diguazza in uno stagno; tale vista le accresceva un malessere indefinito, una impazienza, una noia che la rodeva tutta sotto l’aspetto grazioso. Fra due ore, — pensava a tratti socchiudendo rapidamente le palpebre, — lo vedrò. Questa visione interna le dava una forza di resistenza sulla quale ognuno dei presenti poteva facilmente ingannarsi. Appena furono partiti corse ad aprire le finestre e nell’aria pura che entrava respirò a pieni polmoni, sollevata, libera; libera finalmente! Rientrò poi nella stanza misurandola a passi rapidi, mettendo a posto una sedia, un ricamo; la sua persona le apparve di traverso in uno specchio e si piacque: un’onda di gioia la invase tutta. Disse forte: Moena! Moena!... Se quando la prima volta che lo vide ed ella aveva pensato: _Quale donna passerà nel sogno di quegli occhi?_ una voce le avesse mormorato all’orecchio: _Tu!_... Ancora le sorgevano tali momenti di meraviglia, ancora le accadeva di chiedere a sè stessa: Possibile? La singolarità di quell’amore che stringeva in una rigida acerbezza di bocciolo fermenti insospettati di frutto maturo, che univa a frigidi candori di alba la porpora magnifica e spasimante dei tramonti per cui palpita in cielo tutta la morente voluttà della luce, la innalzava a uno stato di estasi panteistica come se convergessero in lei per vie di mistero le forze generatrici della natura creando nel suo seno il miracolo della giovinezza eterna. Solo uno che dal sepolcro risorgesse, serbando memoria di essere stato morto e sulle sue ossa scheletrite vedesse rifiorire la carne, e sentisse battere i suoi polsi, ed alzarsi dall’immoto cervello il volo dei pensieri, ed affluire il sangue al cuore ricco di tutti i desideri della vita, quello solo poteva comprenderla: ma quell’uno non esisteva! E tutti gli altri che vedeva intorno, uomini e donne, si muovevano sulla pista dell’esistenza comune, avevano un’altra voce, pronunciavano altre parole; i loro gesti ripetevano per lei l’inconsistenza dei gesti di un automa. Forse erano fantasmi? Forse invece erano semplicemente uomini e allora era lei stessa che si trovava fuori della comunità, salamandra viva in un cerchio di fuoco, trasfigurata, transumanata. Ebbene? La coscienza di poter offrire un amore raro, di rispondere veramente al bel nome di Unica che Ariele le aveva dato, sosteneva il suo orgoglio all’altezza del suo amore. Poichè il bisogno dell’eterno aveva tormentato senza consumarlo il suo spirito ardente, ella si slanciava con rinnovellato trasporto alla conquista del suo ideale. Confusamente in alcuni istanti, chiarissimo in alcuni altri, il pensiero che Ariele non avrebbe potuto conservarsi suo per sempre ed esclusivamente suo non era di ostacolo al prorompere della passione, nello stesso modo che alberi e sassi e dighe non arrestano l’impeto della bufera quando in essa si scatena la furia degli elementi; ma sovra tutto ella pensava che se l’ebbrezza d’amore è fugace, restare quale ricordo al sommo di una bell’anima, come altare in una coscienza, come faro in una vita, fosse tale premio che ben meritasse di affrontare amarezze e dolori e lagrime infinite. Le deliziose parole di Ariele “Come nessuna mi ebbe, come nessuna mi avrà„ le stavano fisse nel pensiero e le ripeteva follemente. Se anche ciò non dovesse essere vero nel futuro, nessuna forza umana cancellerebbe il divino istante in cui egli le aveva pronunciate con piena fede. E che cosa è la felicità se non uno di cotali istanti la cui memoria irraggia tutta una esistenza? Poter dire: “Ho amato; fui amata; i tesori della terra i segreti del cielo mi furono rivelati in un bacio„, non è mescersi alla immortalità del tutto, non è afferrare la vita nella sua intima essenza, forse nel suo unico perchè? Oh! una sera, quale luce straordinaria era brillata nelle pupille di Moena abitualmente velate e gravi! una luce azzurra che accendendosi improvvisamente ne aveva mutato il colore dell’iride, mentre egli la guardava a fondo, tenendola per i polsi in un desiderio ambiguo di allontanarla oppure di attirarsela violentemente sul petto, e un riso di voluttà, di sfida inconsapevole, faceva palpitare l’ugola a lei, quasi riversa! In quell’attimo la giovanile bellezza di Ariele rifulse così trionfante che il suo godimento a guardarlo se ne era esasperato fino alla sofferenza. Nulla vi poteva essere di più, nulla! Ella sentiva che quella intima comprensione, quell’estasi, quell’amore condiviso e pieno non calmava la sete che aveva di lui; che quando pure si fosse saziata di tutto il suo corpo non lo avrebbe mai stretto abbastanza; che gli occhi, le braccia, la bocca non riescono a imprigionare l’anelito supremo di un’anima sitibonda di assoluto, che va fino all’annientamento, alla distruzione, alla morte, — e quando la passione raggiunge tali vertici oltre cui non vi è posto che per Iddio, la creatura mortale può alzare orgogliosa la fronte: ella ha toccato l’eterna verità; ma può anche morire, perchè la vita le ha dato tutto ciò che poteva dare. IX. Una separazione ancora; calda, fremente, senza promesse, come l’altra. — Potrò venire a trovarla? — aveva chiesto Moena all’ultimo istante. No, non era possibile. La signora si ritirava ogni anno di quella stagione in una sua terra dove tutti la conoscevano, dove era amata e venerata, dove i suoi passi, i suoi gesti, le menome azioni della sua vita semplice e pura si svolgevano in vista di un intero paese. Non era possibile. Partì sola. Forse in tale spontanea rinuncia si celava un occulto istinto di tregua alla dolcezza dolorante delle carezze incomplete: a quella intimità di tutti i giorni che pur conservandosi casta rimoveva in entrambi torbide fiamme. Nelle ultime sere aveva avuto l’impressione precisa di rasentare un abisso, e per quanto si ripetesse che ciò non poteva essere, il brivido del pericolo le era rimasto nella carne commisto ad una gioia profonda e spaventosa. Molte volte era stata desiderata; molte volte aveva sorpreso nelle pupille di un uomo quel lampo di divina follia che lo prostra tutto intero, lui, il suo orgoglio e la sua volontà ai ginocchi di una donna; e sempre tale atto le era apparso misterioso e solenne, come quei magnifici spettacoli elementari che sollevano i turbini e le tempeste, che scuotono la terra nelle sue viscere più profonde, che dai cieli squarciati e dalle gonfie maree mandano a tutto ciò che vive il palpito fraterno della natura creatrice. E lei pure aveva desiderato. Risalendo il corso degli anni ritrovava nella memoria antiche battaglie dalle quali era uscita vincitrice portando stimmate gloriose di passione e di sacrificio; ma nel pensarvi ora (e quanto vi pensava all’ombra tranquilla degli alberi testimoni del passato!), sfogliando i suoi ricordi col gesto lento che stacca dal cuore di una rosa i petali ad uno ad uno, era dal suo proprio cuore che staccava le bende di ferite oramai chiuse e le lasciava cadere davanti a sè, ammucchiandole, gettandovi a furia come dentro a un rogo tanti fiori, tante lettere, tante dolci parole, e promesse e sospiri e illusioni felici. Sorgevano per incanto (là sotto gli alberi che avevano misurato i suoi passi di bimba) i primi trionfi della sua bellezza nascente, i primi sguardi, i primi avvertimenti del senso sperduto nei veli confusi dell’innocenza. E le paure, i propositi, le lotte, gli accasciamenti, i giorni della desolazione, le notti della insonnia, quando l’amore uscendo dalla larva che lo mostra così dolce all’apparire le si era rivelato nella sua potenza di dominatore tirannico e crudele. Tutto sorgeva. Ma da questo scrigno della memoria dove ella aveva accumulato e sepolto tesori di passioni le sue mani febbrili li andavano a ricercare con una frenesia acre di sacrifizio. Tutto ella traeva e tutto ella gettava in quel rogo fantastico: desideri, speranze, sconfitte, trionfi; l’ebbrezza degli amati, la disperazione dei respinti; tutto, tutto ciò che aveva sofferto, tutto ciò che aveva fatto soffrire. E ancora: i rimpianti, i pentimenti, lo sdegno, la pietà, le fatali nostalgie, i sottili veleni rimasti in fondo alle passioni morte simili ai rottami che si lascian dietro i naufragi, che le onde sollevano e sbattono sulle rive, sollevati da lei, sbattuti da lei contro il suo cuore, ricadevano nel rogo, lo colmavano. Era la sua esistenza intera svolgentesi sotto i suoi occhi che ella guardava attraverso il nuovo incantesimo. Che via lunga! Come la piccola sè stessa appena allacciata al sentiero cresceva ad ogni passo, ad ogni passo tramutavasi; e il sentiero s’affondava in lontananze nebulose dove alcune ombre passavano senza far rumore, dove non eravi più luce di vita, ma solo un crepuscolo di ricordi affievoliti. Si vedeva distesa in un ampio letto, più pallida delle trine che la cingevano, così debole che mal sopportava l’impeto del sole baluccicante sui vetri della finestra; e l’infermiera cauta, con scarpe di panno, attraversava la camera per andare a sciogliere le cortine, — se le rammentava ancora, azzurre, — che subito immersero la camera in una soave penombra. Risentiva il torpore morbido delle membra abbattute in seguito alla gran crisi della maternità, il languore delle vene vuotate e l’aspetto diverso delle cose che si ripresentavano a’ suoi sensi, dopo di avere rasentato l’abisso della morte. Che vi era più per lei, allora, se non un andirivieni di persone sorridenti chine sul suo letto e sulla piccola culla accanto, nell’odore aromatico della camomilla e del pane bruciato, fra un incrociarsi di consigli e di raccomandazioni fatte a bassa voce coll’indice sul labbro, al tinnire lieve del cucchiaino d’argento contro gli orli della coppa nella quale prendeva i primi alimenti? Non credeva ella allora di avere compiuta la parabola ascendente de’ suoi giorni? di avere chiusa la sua vita di giovane donna? e che la voce di quel piccolo essere suo (voce così nuova) dovesse sola oramai destare le misteriose rispondenze del suo cuore? Ricordava la lunghissima convalescenza, quando era così debole, così debole che mai più avrebbe creduto di potersi reggere in piedi, e già tentava d’acconciarsi ad una placida vita di infermuccia, a muoversi adagino nel suo bell’appartamento, a passare le giornate tranquilla, adagiata sulla poltrona, guardando il cielo attraverso i vetri, chi sa per quanto tempo! per sempre forse? Ricordava in modo singolare l’impressione avuta da un luminoso meriggio sulla fine di marzo, con quella luce d’oro trasparente nel cobalto dell’aria propria della stagione ventosa; e quella gaiezza impaziente dei mandorli che fa sprigionare i fiori prima delle foglie; e le folate di pollini misteriosi, di odorose pelurie roteanti a sciami nei raggi del sole, sotto il volo delle rondini; e i terrazzi e i balconi spalancati dove le donne affrancano con un filo di ferro i vasi delle violacciocche; tutta la primavera sorridente intorno a lei, alla sua giovinezza ammalata.... Ah! la sottile malinconia che l’aveva presa scorgendo in un giardinetto due vecchie ritte a ciarlare tra le aiuole di prezzemolo novellino; ritte su due piedi e salde, mentre lei non poteva abbandonare la sedia a sdraio.... Ridevano, le vecchie, accentuando le rughe dei loro volti incartapecoriti, coi cernecchi grigi che danzavano nel vento; e un giovane can volpino ubriaco di primavera ad ogni po’ addentava le loro gonne con uno squassone tanto forte che le faceva traballare. Allora ridevano, ridevano più ancora, le vecchie.... Anni o secoli erano trascorsi? Non li volle contare. Il rogo si colmava di croci e di bare; ma una scintilla si era accesa là dove il regno della morte aveva già steso le sue ombre acquietatrici. Una scintilla piccola dapprima, quasi inavvertita, — una fiammolina tenue, un po’ fredda ancora ed incerta, saliente serpentina con moti tardi, con indugi timorosi, — un istante di sosta in un tepore dolcissimo, — un occulto fremito, — un improvviso accendersi poi e un divampare magnifico in lingue di fuoco balzanti alla conquista, irrompenti, dominatrici, folli, assurde, — raccogliendo nella festa dei loro colori la tenerezza madreperlacea delle albe, l’oro dei meriggi ardenti, la sanguigna porpora del tramonto, — ed in quella ebbrezza di combustione come il pulsare di mille vite in una delirante ora di febbre. Rogo d’amore! La poesia del simbolo rispondeva alla poesia della fiamma: la vedeva ella e la sentiva veramente nella intensità delle sue carezze più profonde di un morso; già le carni le scottavano, già un primo grido di spasimo attraversava il piacere, già la fiamma le era cintura, manto e casco, — il rogo la investiva tutta. Il rogo la investiva tutta ed ella cantava in mezzo alle lingue di fuoco le glorie dell’amore. Creatura di passione, intelligenza vigile, l’Unica alternava a questi abbandoni della fantasia lucidi istanti di ragionamento. Quando si accorgeva che la sua carne e la sua anima soffrivano insieme di intimi flagelli era pur d’uopo che tendesse la mente alle oscure minaccie del futuro. Per quanto luminoso sia un tramonto, per quanta apoteosi di raggi ne circondi il breve arco sul cielo, ella sapeva che lo segue da vicino la notte; e Ariele era così giovane! Un’ansia tormentosa, un sottile rodimento la assaliva pensando a lui in quelle sere estive in cui l’aria era pregna di effluvi, molle di languori. Dove era Ariele? Ah! perchè non aveva potuto fermare per l’eternità le sere trascorse insieme, lassù fra i monti trentini, nell’attimo felice del loro amore nascente? perchè ora, giunto alla piena maturanza, questo frutto d’oro che le Esperidi le avrebbero invidiato, pesava già nelle sue mani coi fili misteriosi del presentimento? Una lettera fremeva ad ogni movimento del suo busto; Ariele le scriveva tutti i giorni; eppure attraverso lo spazio che li separava ella intuiva un esercito di nemici. Dove era, dove era Ariele? Forse ad uno di quei ritrovi dove gli uomini costretti nell’afa della città vanno a respirare la sera sotto un gruppo d’ippocastani, alla soglia di un caffè, mentre una orchestrina suona i pezzi della _Bohème_ e donne biancovestite, colle braccia nude, gli omeri nudi, stanno sedute languidamente guardando? o forse egli era in casa, in quella casa che ella non conosceva, ma che aveva pensato tante volte con infinita tenerezza? Sì, doveva essere in casa; studiava, leggeva, pensava a lei forse.... La sera era molto calda, egli stava presso alla finestra.... Altre finestre erano in giro, certamente tutte aperte.... Che effetto farebbe ad un giovane, solo, in una sera d’estate, in un’ora di abbandono, il profilarsi alla finestra dirimpetto di un grazioso volto femmineo, di uno sguardo cercatore? Non insisteva su questi pensieri, ma bastava che attraversassero il suo cervello per lasciarvi un’ombra e in quell’ombra il suo sogno d’amore si materializzava. Era ancora l’anima di Ariele che teneva la sua soggiogata in soavissima comunione, ma era pure la sua bocca e i suoi occhi che ella vedeva continuamente, sempre, fino alla sofferenza. Una idea pazza la tentava qualche volta; tornare improvvisamente in città, correre a lui, alla sua casa, suonare il suo campanello, apparirgli!... La suggestione di tale istante le faceva passare un brivido nel midollo delle ossa abbandonandola al fascino della tentazione, alla vertigine del peccato. Aveva temuto tutta la vita quel peccato; temuto dapprima e combattuto per religiosità di sentimento come onta e disonore massimo. Assurgendo in seguito ad un più alto concetto di dignità, aveva intuito l’orrore degli amplessi mentiti e divisi e la responsabilità grave sopra tutte del contrabbando coniugale per cui il frutto dell’amore clandestino usurpa il nome e i diritti della prole legittima. Più ancora di qualsiasi altra considerazione quest’ultima, imponendosi alla sua lealtà, era stata la sua salvezza durante il periodo degli aspri assalti: non poteva averlo dimenticato. Nè la sua coscienza era cambiata intorno al concetto del dovere che una donna onesta ha verso l’uomo di cui porta il nome, verso i figli che da lei aspettano l’esempio; la sua linea morale non si era scossa; era sempre la creatura di passione e di volontà che dell’amore aveva fatto un calice di elevazione, un santuario sacro alla idealità della vita; sensibile e fiera, ardente e onesta. Ma se nulla era cambiato in lei, se nelle sue fragili parvenze di fanciulla il cuore aveva conservato la freschezza dei vent’anni e la mente tutto il suo vigore, altro aspetto avevano assunto le circostanze e le cose. Sciolta dai vincoli di famiglia, padrona di sè, semplice dinanzi a Dio che ella adorava con spirito religioso in tutte le forme del mistero, era libera, era sola; nessuna responsabilità incombeva più sulla sua coscienza, nessun compromesso coi suoi doveri; non l’umiliazione della menzogna, non la ripugnante divisione delle carezze, non lo spettro del tradimento. Amata, amava. Il peccato dolcissimo che non poteva più nuocere ad alcuno, che era il suo diritto di natura, il premio forse delle passate rinuncie, tante volte respinto, tante volte domato, creduto così lontano oramai, ecco riaffacciavasi con tentazioni nuove alla sua resistenza disarmata. Una logica ferrea l’aveva condotta dal primo bacio, quasi inconsapevole tanto era stato sincero, a un crescendo di desideri, a quell’ardore di rogo dove il suo passato si consumava, dove ella stessa bruciando di una fiamma che era insieme divina ed umana giungeva a formulare, pur tremando, pur rifuggendo ancora, il terribile assioma: L’amore che non è tutto è nulla. Con tale concessione ella ripudiava in un colpo ogni argomento di lotta. Cessate le ragioni altruistiche che erano state i veri alleati della sua virtù, la sua anima coraggiosa si sentiva attratta irresistibilmente a gettarsi intera, a perire intera sul suo rogo d’amore. Conobbe ore di rapimenti sovrumani a pensarsi tutta di Ariele con l’abbandono assoluto che le donne appassionate ma di abitudini caste trovano appena nel segreto del loro desiderio, quando la carezza è ancora immateriale e che nessuna realtà, nessuna causa esterna attutisce la vibrazione di una sensibilità che va oltre la carne e la sorpassa. Poichè ciò che vi è di profondo nella voluttà ha una recondita origine divina, l’amore il più nobile vi assurge col tremore sacro di chi compie un rito e dove altri trova una caduta esso consacra un olocausto. Sola nei prati, nei boschi, al rezzo degli alberi, allo scrosciare delle fonti, presso l’intimità dei nidi, presso l’arcano dei boccioli, intenta ai silenzi delle lontananze, l’Unica si sentiva in comunione di vita colla natura. Posseduta dal bisogno dell’eterno che è la ragione stessa dell’amore, come già una sera a fianco di Moena, ella pensava ancora che qualche cosa della sua grande passione resterebbe in quei prati, in quei boschi, nell’eco di quelle fonti, nell’idilio rinnovato dei nidi, nel rinnovato arcano dei boccioli schiudentisi in fiore. E una forza straordinaria la sospingeva quasi a volo, con un sentimento di riconoscenza alla vita per quella grande gioia che le aveva riserbata, con una tenerezza commossa che le teneva il cuore in un continuo palpito di simpatia e di pietà. Tese le braccia all’aria, al cielo, a Dio, il grido di Faust le prorompeva dalle labbra: “Arrestati, ora felice!„ X. Un primo dolore le venne dalle lettere di Ariele piene di tristezza e di scoraggiamento. Egli accennava senza precisare a lotte diuturne che lo prostravano. Non scriveva mai a lungo: le sue pagine, anche quelle d’amore, erano formate da frasi a scatti, con una mancanza quasi assoluta di aggettivi, chiare e disadorne; qualche volta fredde ma attraversate da improvvisi slanci di passione; da una sola parola violenta, turbatrice, simile a un bagliore di lampo. Conservava, scrivendo, il pronome rispettoso in terza persona quale era stato adottato per tacito accordo nei loro colloqui e che diffondeva sulla loro intimità quel velo di pudore tanto caro alla loro delicatezza; ma come nei colloqui, anche nelle lettere il _tu_ a volta prorompeva, ripreso, riabbandonato, con una alternativa di movimenti così caldi di vita e di sincerità che davano a quei fogli un palpito di cuori. Una volta una lettera di tenore austero, dove in ogni parola trapelava la sofferenza, finiva bruscamente, come un singhiozzo: “Oh! potessi piangere almeno sul tuo seno adorato!„ Quel giorno ella sentì più che mai la penetrazione del sentimento amoroso nelle cellule riposte del suo essere, dove è il deposito santo della pietà; pianse con lui, per lui, pensando essere le lagrime il cemento che rende tangibile l’ideale e imperituro il sogno; dolci lagrime che l’amore imbeveva di tutti i suoi aromi, che le sfioravano le guancie con un sapore di baci consacrati e le cadevano in petto come fossero le lagrime stesse di Ariele. Ariele le raccolse nella calda risposta di lei rimandandole un nuovo grido del suo cuore esulcerato: “Non so ora se soffro più per me o per te„. L’amata partì. Egli andò ad incontrarla alla stazione, quando scese dal treno in un morente vespero di settembre, e i loro primi sguardi si evitarono, smarriti, quasi come il giorno in cui si erano trovati lassù, all’entrata del bosco, non amandosi ancora e già trepidi del mistero che sfiorava le loro fronti. Moena appariva molto cambiato. Il pallore del suo nobile viso aveva preso una tinta cerea; la signora se ne sentì il cuore stretto. Ella non volle servirsi della carrozza e preferì attraversare i giardini a piedi per stare più a lungo con lui. Sperava di trovarvi una solitudine che rammentasse ad entrambi i bei giorni del passato. Ma si ingannò. I giardini a quell’ora erano attraversati da turbe di operai che uscivano dagli opifici, di ragazze impertinenti e ciarliere. Cercò coll’occhio un sentiero appartato e non le riuscì di trovarne uno. Dovunque, all’ombra delle magnolie, presso la fontana, dietro i cespugli delle azalee, nei grandi viali di ippocastani, intorno ai piccoli laghi, dovunque era folla di pupille curiose, di bocche schernitrici e scioccamente e volgarmente maligne. — Non ci potremo parlare, — disse scoraggiata. — No, nè qui nè altrove, — rispose Moena senza guardarla. Errarono un po’ incerti, presi da un malessere irritante. Nuova gente continuava ad affluire dai cancelli; non era così ch’ella aveva immaginato quell’incontro e una grande malinconia scendeva sulla sua irritazione. Perchè egli non parlava? Disse ancora: — Ma infine che cos’ha? — Sono stanco. — Stanco? — Di lottare, di soffrire. — Ed io? Voleva aggiungere: Sono io nulla? non posso nulla? Due ragazze si erano fermate a guardarla. Era la sola signora che si trovasse a quell’ora nei giardini. Mormorò pianissimo: — Andiamo, andiamo, è impossibile rimanere qui. Ma verrà, nevvero, verrà a dirmi tutto? — Verrò. — Domani? — Domani. Affacciandosi più tardi a una finestra del suo salotto che dava sulla via, le parve di vederlo rasentare lentamente il sentiero opposto. Era veramente lui? o l’ombra del suo desiderio? La via era deserta, la finestra bassa; ella si chinò facendo schermo delle mani alla bocca, mormorando: Domani! L’ombra assentì col capo. E furono finalmente soli nel salotto recondito, caldo ancora dei loro ultimi colloqui. Moena giunse prima che fosse notte, nell’ora dolce della sera che avvolge le cose in un fluido misterioso. Nessuno dei due aveva preparate le parole, nessuno dei due disse ciò che voleva dire, intimiditi dalla lontananza che li aveva divisi, tanto intimi e pure ancora ignoti l’uno all’altro. Ritrovarono la commozione iniziale che aveva congiunte le loro anime, resa più ardente e più profonda dalle memorie del passato non lontano; e se pure il bisogno delle confidenze tumultuava nei loro cuori le bocche restavano mute, dissuggellate appena da qualche parola che rispondeva troppo imperfettamente a ciò che sentivano. Stando così in dolcissimo spirituale congiungimento sembrava loro che a parlare avrebbero sempre tempo, mentre quello era tempo d’amarsi in silenzioso ardore, cogli occhi e colle labbra anche, ma senza la voce che precisa in un suono materiale la celeste armonia delle anime e dei sensi. — E di che soffre? Questa la prima domanda che l’amata susurrò presso il volto pallido del suo amico. — Di tutto. Di questo amore.... — Ma io soffro con lei, lo sa. Soffro più di lei.... — Non più di me. — Io ho la disperazione di esserle così lontana! — Ed io quella di sapere che ho incontrato l’unica donna mia troppo presto per me, troppo tardi per lei.... Con un grande schianto ella replicò: — La sua via è lunga; incontrerà ancora. — Oh! non lo dica. Accade una sola volta, e non a tutti, di trovare il vero amore. Ella pensò con uno schianto più grande ancora quanto sia facile l’inganno e l’illusione al cuore dei giovani, ma non lo disse. Mormorò invece pianissimo: — Noi non siamo solamente fuori della legge, lo sa, siamo fuori della natura. — E che importa se ci accontentiamo? — Ma non ci accontentiamo, — concluse l’Unica lentamente, solennemente, in profonda tristezza. Tacquero. La notte era scesa, il salotto si riempiva di ombre; ella si mosse per schiudere la luce. — Restiamo così, — disse Ariele arrestandola con un gesto. La sua voce era velata. China la fronte sull’omero dell’Unica sembrava riposare in soave dolcezza come uno che da gran tempo non riposa, e lei, sovrastandogli col capo, muta lo riguardava alla tenue chiarità del cielo che per la finestra aperta rompeva appena le tenebre con un lontano riflesso lunare. Sentiva l’amata la gravità dell’ora adducente una fase nuova al loro affetto e desiderosa di cimentare il proprio coraggio gli alitò sul volto: — Parli. Ma non era forse abbastanza densa la notte per ombrare il pudore di quel grande affanno che trapelava nell’abbandono del giovane. Senza far motto ella gli si strinse da presso accarezzandogli la fronte e le palpebre, nascondendolo contro il suo cuore. Soffi di eternità passarono in quell’amplesso. — Lei non mi conosce, — disse Moena staccandosi lentamente, riprendendosi. Un gran gelo strinse l’Unica ai lombi, le salì alla strozza: egli le era tuttora assai vicino per sentire che tremava. Era vero. Non lo conosceva. La rapida ascensione del loro amore, quella vampa che l’aveva investita senza quasi lasciarle il tempo di difendersi, aveva anche soffocato in lei la naturale curiosità. Ignorava troppe cose di lui, del suo passato, della sua vita. Nei loro dolci colloqui non vi era stato posto che per il sogno; giungeva forse l’ora del risveglio? Ma la trepidazione durò un attimo e la fiamma la cinse ancora, bramosa, sitibonda di spasimi. Mormorò in un rantolo: — Chiunque tu sia! Moena non rispose subito. Nel silenzio che seguì il pulsare dei loro cuori preludiava solo l’angoscia della confessione. — Quando le apparvi, — egli disse finalmente, — nel salotto signorile aperto ai fortunati della vita, ricorda? potevo sembrare anch’io uno di quei fortunati. Come da un vascello appena varato gli ottoni luccicavano al sole e il pavese sventolava baldanzoso. Non ho avuto io il coraggio di sfidare uno di quei signori perchè aveva insultato la mia patria? — Ebbene, questo coraggio lo avrebbe ancora. — Non so.... Io mi domando ora se fui pazzo a riporre la mia fede in una causa che non ha seguaci, a credere amici miei, amici del mio ideale, gente ambiziosa e vile pronta a rinnegare il proprio credo quando il credo non risponde all’interesse: m’illudevo di avere con me un esercito di volonterosi e non era che un branco di assoldati. Oh! è terribile essere solo! — Ma questo non è un demerito; nessuna ombra ne può venire a lei, se pur molto dolore. — Ombre ha sempre la disfatta. — Dai disinganni si risorge, agli errori si ripara.... Vi fosse pure una colpa, la sincerità delle intenzioni la scusa. L’Unica pronunciò queste ultime parole affacciata a possibilità mostruose che non osava precisare. Moena sempre più triste soggiunse: — Certe colpe che non sono forse le più gravi nella vita di un giovane la società non le perdona. Lei stessa se mi vedesse un giorno, un prossimo giorno, esposto al pubblico disprezzo.... — No! — Se fossi obbligato a lasciare questa città, a nascondermi.... a portare lontano la mia miseria e lai mia vergogna.... Ondate di tenerezza e di affanno schiantavano il cuore dell’Unica. Una sensibilità sovracuta le faceva provare in quell’istante la stessa impressione di inafferrabilità che l’aveva assalita una sera sotto il fascino giovanile della bellezza di Ariele. Come aveva sentito allora i limiti impotenti della voluttà, così la sofferenza la stringeva ora ne’ suoi ferrei nodi ed ella vi si dibatteva incatenata fra i due poli estremi dell’amore e del dolore dove la creatura mortale si frange nella sua miseria. — Ma che avvenne? — implorò con un gemito. — Io ho tutto perduto. Sono un vinto. Il tradimento di colui che credevo il più fido de’ miei compagni ha attirato su di me la estrema misura dell’estradizione. Non potrò più rimettere il piede sulla mia terra. — Questa è una gloria! — gridò l’Unica. — È la palma dei martiri. Moena tacque. Nel buio della stanza fatto più profondo la linea della bella persona, tutta racchiusa e muta, emanava un inquietante fluido di mistero. Ella quasi prona ai suoi ginocchi, divinando, mormorò: — Non è tutto. Un sospiro di Ariele, passò nell’aria ripetendo: — Non è tutto. E allora, col volto inabissato nelle mani di lei, a scatti, a pause penose, raccontò la folle giovinezza e le imprudenze che gli avevano fatto perdere tutto ciò che rimaneva del suo patrimonio affidandosi a falsi amici, trascinato dall’amore di patria nel quale voleva redimersi delle passate leggerezze e degli anni perduti; disse la somma di forze e di lavoro date alla santa missione lottando, solo, sconosciuto, nella grande città che egli sognava di attrarre al suo ideale e i fili di congiungimento che finalmente era riuscito a stabilire e che il decreto di esilio spezzava per sempre, lasciandolo alle prese con un groviglio di speranze deluse, di interessi lesi che si sarebbero rivoltati contro di lui sotto la pressione brutale della lotta per la vita. Tutto non disse, ma ciò che l’orecchio non raccolse l’anima amante intese. — Amico mio, vorrei poter dare in questo istante alla sacra parola amico il suo significato più profondo e più ardente per dedicarla a te! Tante, troppe donne hanno già detto di amarti; te lo diranno ancora. Io voglio oltrepassare questa misura limitata dell’amore umano. Io voglio essere tu! E poichè soffri ora spasmodicamente, voglio soffrire anch’io per te, con te, inondarmi di tutte le tue lagrime, sanguinare di tutte le tue ferite. Mio povero fanciullo, che cosa posso fare? Si comprendevano così sempre in una meravigliosa intuizione dei loro sentimenti che se egli paventò per un istante il pericolo di una offerta, ella nella mente di lui ne lesse la ripugnanza e senza precisare, senza insistere, con atto umile e semplice soggiunse: — Venga sempre da me quando soffre. Mi prometta questo almeno. — Oh! non vorrei che mi vedesse in certi momenti della mia vita.... — Perchè? Perchè? — angosciosamente ella chiese: — Momenti che non può nemmeno immaginare. Si passò una mano sulla fronte. L’amata ne indovinò vagamente il gesto nell’ombra. Disse ancora lui (e la voce era sempre più fioca): — Ricorda quando la lasciai dopo i giorni del nostro incontro lassù?... il mio turbamento, che ella prese per freddezza, nell’ora dell’addio? — Sì, ricordo. — Avevo ricevuto una notizia grave, la prima di un seguito disastroso, di una infinita sequela di guai. — Denaro? — mormorò l’Unica col più fievole dei suoi accenti, quasi per nascondere il vocabolo brutale, per mitigarne la stonatura in quel soave concerto delle loro anime. — Anche denaro, — sospirò Moena. Pronunciato da loro, nella oscurità del salotto che li rendeva invisibili l’uno all’altra, il simbolo di ogni volgarità sembrava uscire dalla sua forma plebea per rivestirsi di un candore che era significato di fiducia intera. Si sentivano per tal modo maggiormente legati, come nel denudamento di una ferita, come se un nuovo velo fosse stato tolto al mistero del tempo in cui non si conoscevano, acquistando di minuto in minuto la sicurezza che potevano confidarsi qualunque segreto nella fusione assoluta dei loro cuori e della loro coscienza. Egli le aveva detto una volta ai primi giorni della nascente simpatia: “Crede lei che si ami una donna, che la si ami profondamente, per la sua sola bellezza?„ Allora non si era soffermata su questo pensiero, ma ecco che ora lo comprendeva con una rispondenza di tutto il suo essere. Cercò nel buio la mano di Ariele accarezzandola dolcissimamente, esclamando piano a più riprese: — Poveretto! Poveretto! — e c’era più amore in quel lamento che non nel più caldo bacio. Soggiunse dopo una pausa: — Un’altra cosa ancora aveva promesso di dirmi nell’ora dell’addio, la ricorda, quella? — E poi? — fece Ariele turbato, — se ne ricevesse una cattiva impressione? — Come sarebbe possibile? Non ci dobbiamo noi intera sincerità? — La vuole? — Assolutamente. Non deve farmi anche piacere? — Un poco, forse. Ariele sembrava pentito, esitava. Ma ella lo investì con insolita prepotenza amorosa: — Voglio! La voce di Ariele non aveva più suono; l’Unica colle braccia tese si protendeva tutta verso di lui, ansando, ascoltando: — Poichè è la sola prova d’amore che posso offrirle se mai un giorno ella avesse a dubitare della sincerità de’ miei sentimenti, le dirò dunque che per venire a raggiungerla lassù, per la gioia di restarle vicino, ho compiuto un sacrificio del quale mi è impossibile descrivere in poche parole il valore. Lei però deve comprendermi. Io, per la prima volta in vita mia, ho umiliato la mia fierezza di gentiluomo, ho infranto il voto di non separarmi mai da una sacra reliquia paterna, ho salito le scale del luogo dove i più miserabili vanno a cercare l’obolo per sfamarsi.... L’anello che mio padre morendo mi pose al dito, dove per crudele ironia è impresso lo stemma della mia famiglia.... — Perduto! — gridò l’Unica. — L’ho riscattato in questi giorni. La penosa confessione aveva esaurito il giovane. Con voce roca e fioca tentò di aggiungere una parola che non gli riuscì di pronunciare. Fu ancora lei che la indovinò, fu lei che posandogli una mano sulla bocca volle risparmiargli l’umiliazione ultima, ma lo aveva appena tocco che si ritrasse sgomentata. Le labbra di Ariele erano fredde. Balzò in piedi e corse ad aprire la chiave della luce elettrica. Ah! quel volto! Egli stava riverso, col capo abbandonato, le palpebre chiuse in un languore mortale. Le fini linee della guancia e del profilo, assottigliate in un ritiro improvviso del sangue, apparivano marmoree, accentuando l’espressione di immaterialità che lo rendeva simile in quell’istante a un deposto dalla croce. Si riscosse accorgendosi che l’amata andava in cerca di soccorso. — Non chiami nessuno, — implorò. — Vado io.... — No, resti. Non mi occorre nulla, non voglio nulla. Resti presso a me, lei sola. Con atto di infinita stanchezza le posò la testa in grembo. Ella conosceva quell’atto che era tra i più intimi della loro intimità e le era il più caro per il tenero significato di fiducia che racchiudeva nel suo abbandono quasi infantile; ma vedendolo grandemente abbattuto volle che maggior agio trovasse sulle sue ginocchia e ve lo adagiò supino, reggendogli la nuca sul proprio braccio col gesto pietoso della divina Madre. Quale mai Calvario aveva egli percorso? Quali cadute lo avevano prostrato? Da quali, da quanti amari calici era sceso il tossico e l’assenzio a violare il fiore delle sue labbra? Molte cose egli aveva dette, ma le più sottili, le più profonde rimanevano chiuse nel cavo delle sue guancie emaciate, nella piega dolorosa della sua fronte dove raggiava il pallore dei martiri, nell’arco dei suoi occhi dove moriva un sogno di eroi. Insensibilmente il giovane corpo cedeva alla dolcezza del riposo: le membra rigide, le labbra socchiuse nel volto cereo gli dettero per un momento un tale aspetto di cadavere che l’Unica, piegata su di lui, credette di assorbirne l’estremo anelito e tutta conversa su quella bocca che non osava baciare ne sfiorò appena il gelo in un lungo appassionato lievissimo congiungimento, tentando di soffiarvi dentro il proprio respiro; nè mai estasi d’amore felice scosse le viscere di una donna come in quell’attimo sovrumano attraversato dai brividi della morte. Non così certo aveva pensato di ritrovarlo, non così lo aveva vagheggiato nella ardente solitudine del desiderio; ma quanto ogni gioia di accesa fantasia era sorpassata dal possesso di quell’anima venuta a spirare fra le sue braccia! Era suo, tutto suo. Con un tenero orgoglio, con una tacita sfida alla folla sconosciuta di amici e di rivali che le contrastavano nell’ombra l’amore di Ariele, ella sentiva il peso delle care membra gravare sul suo grembo delicato, lo ascoltava, lo ricercava quel peso con squisita voluttà femminile, mentre guardando il nobile volto che la sofferenza cingeva di un’aureola indefinita le sembrò che la bellezza interna di Ariele, tutto ciò che formava il nucleo e il fulcro della sua ragione d’essere, chiusa oramai nel cerchio delle sue braccia, scendesse nell’anima sua come nel suo naturale sepolcro. Nimbate di luce nuova, splendide di un fulgore d’oro su fondo di tenebre, le parole profetiche di Ariele le apparvero sciolte dai veli misteriosi del destino. “Come nessuna mi ebbe, come nessuna mi avrà.„ Era vero. Così, così! Nuove forze di idealità si riversarono a fiotti nel suo cuore, esaltandolo, trasportandolo in una magnifica assunzione. O mio Ariele, — pensò, — chi ti ha amato, chi ti amerà mai come io t’amo? Si chinò ancora una volta sulle labbra del giovane, le gentili labbra che ella prediligeva sopra ogni altra sua materiale bellezza, le labbra dalle quali era uscita la parola che prima l’aveva avvinta; e in un delirio rapido e folle, in un acuto desiderio di congiungimento eterno, la possibilità che egli le morisse veramente tra le braccia ed ella con lui le attraversò lo spirito come una liberazione divina. XI. Tutto in natura procede a stati consecutivi che non possono mai nè essere eguali nè rinnovarsi. Questo pensiero le stava fisso nella mente una sera di autunno avanzato, sola, nel salotto dove Moena non sarebbe venuto quella sera. Qualche cosa cambiava intorno a lei col movimento delle molecole d’aria che si spostano, movimento invisibile ma pure avvertito da una sensibilità amorosa che vigila. Ella era immensamente triste. Sapeva Ariele immerso nella duplice lotta per l’esistenza e per l’ideale e dinanzi al dramma oscuro di quella giovane vita la fiamma della sua passione la cingeva con maggior impeto, commista al nuovo elemento di dolore che raddoppiava in lei la sensazione umiliante della sua impotenza a farlo felice. Una coppa ricolma d’acqua era a portata della sua mano. In quella coppa ella ed Ariele avevano tante volte estinta la sete insieme, trepidi di desiderio, e il ricordo dolcissimo la indusse ad accostarvi le labbra. Poi tornò a colmarla, sì che non vi era più spazio per una sol goccia. — Il filosofo — pensò — vi porrebbe una foglia di rosa.... ma io, io che cosa posso aggiungere ancora? Che c’è oltre l’amore se non la morte? La morte corona e premio, sola conservatrice dell’amore. Questa idea si impossessò di lei col fascino di esempi immortali. Francesca, Parisina, Isotta, Ines de Castro, l’ignota amante del re di Thule, Giulietta, Ofelia, non devono forse alla morte di essere ancora così vive? Quale amore in carni caduche resiste all’azione del tempo? E il suo, il suo, per intima fatalità non doveva essere più che ogni altro caduco? Ella avrebbe pur voluto come l’eroica Sitâ del Ramayana farsi compagna appassionata dell’esilio di Ariele, seguirlo nelle aspre lotte, spezzare con lui il duro pane e come Sitâ gettarsi nelle fiamme per provargli la purezza del suo amore, se al pari di Sitâ nella veste vermiglia della trionfante giovinezza, della imperitura bellezza, potesse dischiudergli le braccia e dirgli: Sono tua per sempre! Ma un amore che non può pronunciare questa promessa ha esso il diritto di esistere? Finchè Ariele le stava vicino, i suoi sguardi, le sue parole, il suo raro sorriso, i suoi silenzi penetranti erano una realtà troppo cara alla donna amante perch’ella non ne subisse il dominio; ma in quelle sere di solitudine nelle quali Ariele lontano da lei combatteva ignote battaglie, la eccezionalità dolorosa della sua condizione balzava fuori crudelmente nuda da un vero inesorabile e senza veli, poichè non un uomo, non un vincolo, non una legge, non scrupolo, non prudenza, non paura, non rispetti umani le impedivano di darsi intera ad Ariele. L’ostacolo che li divideva era di natura insormontabile, cresceva anzi di giorno in giorno scavando fra di loro l’abisso. Non era già oggi un po’ più vecchia di ieri? E domani?... Liba l’ebbrezza insieme all’amato, mesci il tuo spirito al suo, fosse un solo istante, e avvenga che può! Sì, anche questo pensava in una ripresa violenta dell’istinto; ma dopo, morire! La bellezza pacificatrice della morte, quale le si era rivelata la sera in cui aveva tenuto Ariele inerte sui suoi ginocchi, ingigantiva nella sua mente promettendo riposo a’ suoi nervi esasperati, apoteosi magnifica di un amore impossibile. Morire intanto che il suo corpo resisteva ancora all’oltraggio degli anni, intanto che i suoi occhi sapevano ancora accendere il desiderio e la sua bocca soddisfarlo e l’anima sua con ala leggiera ancora non aveva scordate le vie del volo. Morire così, nelle braccia di Ariele, coll’amore di Ariele. Si inteneriva a tale visione che l’avrebbe assisa nel di lui pensiero veramente come l’unica donna degna di lui. Quale mai fra le tante che lo avevano amato, fra quelle che lo ameranno in avvenire porgendogli ricchi doni di gioventù e di bellezza, quale potrà esalare con più umile ardore l’incenso di un’anima come la sua? Altre lo amino nel tripudio della speranza, nell’orgoglio della conquista, lo amino nella gioia, lo amino nel piacere: resti a lei la sorte divina di soffrire e di morire per lui. Composta nelle pure linee del ricordo non sarebbe ella l’indimenticata? E se i destini della patria si svolgessero gloriosi dopo il lungo servaggio, se egli avesse la gioia di entrare nella sua città acclamando Trento libera, — qualsiasi l’ora segnata sull’invisibile quadrante, — potrebbe egli attraversare _quella_ via senza guardare _quella_ finestra?... Potrebbe egli non pensare, allora, al cuore che aveva battuto così intensamente accanto al suo? E più tardi, forse, più tardi, in una blanda sera, fra suoi monti, seduto all’aperto al limitare di un bosco, ascoltando una musica lontana, gli si reclinerà sul petto la pallida bella fronte e qualche bambino razzandogli ai ginocchi chiederà incuriosito: — Che hai, padre, che piangi?... Le ultime grigie brevi giornate di novembre precipitavano verso la fine dell’anno. Moena non veniva più tutte le sere, aggravato da una soma di lavoro al quale doveva sobbarcarsi per far fronte a’ suoi impegni e per riannodare le interrotte fila del suo sogno di patria. L’amata restava sola, col vago presagio di solitudini anche più tristi, presagio alimentato dal crudele bisogno di rimuovere il ferro nella sua ferita. Già erano lontane le ore della letizia prima, quando il cuore le trillava in petto con saluto di allodola allo schiudersi mattutino delle pupille, balzando dall’oblio del sonno al ritmo della vita, nella gioia straripante di sentirsi amata. Il folleggiante fanciullo che è amore bambino le apportava crescendo il pondo grave di ogni maturanza, l’occulto strazio delle forme che mutano, della sostanza che si rinnova, della vita che passa. Troppo sentitamente amava perchè il dolore non fosse con lei e troppo alta era l’anima sua per non accogliere il compagno inseparabile di ogni profondo cuore; ma la legge misteriosa ed oscura che lega alle più nobili coscienze una più forte facoltà di soffrire concede pure l’inesprimibile dolcezza che nel fiero supplizio doveva rammentare a Prometeo l’orgoglio di misurarsi con un Dio. Ed aveva quel suo dolore latente, diffuso come un velo sulle più dolci ebbrezze, una azione purificatrice che sembrava renderle innocenti, sembrava detergerle dall’originario istinto sensuale sommergendole in tanta offerta di sacrificio, in sì pronta e sincera dedizione che ogni volgare scoria cadeva. Poichè anche stringendo Ariele fra le sue braccia ella sentiva in sè la presenza del dolore, e mai poteva dimenticare la crudeltà del suo destino sì che in olocausto ardente trasformavasi il bacio sulle sue labbra smorte, colpa ed espiazione insieme le era il suo grande amore e perciò sacro. Per torturarsi maggiormente, per flagellare e per domare i sensi aveva la crudeltà di guardare in faccia l’avvenire e la donna che da soglie sconosciute, ancora non vista ma sicura, avanzavasi lentamente contro a lei, sul suo sentiero.... Colei che l’avrebbe surrogata. Tenero e grave Ariele l’assicurava che ciò non doveva accadere, che non accadrebbe mai, ch’ella resterebbe l’Unica nel futuro come nel passato. Ed ella taceva, ma non credeva. Con una raffinatezza da inquisitore si indugiava talvolta a immaginare le sembianze di quella donna, — bella certamente, più bella di lei, sopratutto più giovane, — e il modo e il come della loro conoscenza, e i primi sguardi. Una serpe le si aggrovigliava nel seno a rammentare i silenzi di lui così eloquenti, i parchi detti, il riserbo signorile e pure così penetrante d’ogni suo gesto, quel pallore, quella voce. Sapendo le attitudini care al di lui pensiero e le parole che tornavano più frequenti alle sue labbra ne improvvisava i colloqui: E dove si vedranno? Quali altri luoghi gli saranno prediletti? Quali forme nuove gli si imprimeranno nella mente? Quale colore egli amerà nell’abito della novella amata? In quale ora, in quale istante scoccherà l’attimo supremo?... Aveva allora una visione acuta di ciò che doveva accadere, il ricordo precisando le immagini con un realismo spietato. Troppo conosceva le minime inflessioni della sua voce, i mutamenti del suo volto, e come s’accendeva il desiderio nelle sue pupille, ed in qual modo e per quale curva lenta e dolce piegavasi la sua bocca al bacio perchè tutto il suo essere non fremesse di un infinito spasimo. Il supplizio era talvolta così forte che decideva di sottrarvisi, di fuggire, per dimenticarlo, per mettere mare e monti fra lei e quell’impossibile amore. Ma egli appariva e ricominciava il sogno. Sul finire di un giorno d’inverno, — da due o tre giorni non si vedevano, — il caso li pose di fronte nelle vie della città. Fu una gioia improvvisa ed ingenua che li riportò ai loro primi incontri. — Come _lassù_, — disse Moena ponendosele al fianco. Ella volse un poco la testa per guardarlo alla luce dei fanali che stavano accendendo e riprovò la stessa impressione penetrante che aveva avuto una volta alla finestra dell’albergo di Trento. — Oh! lassù, lassù, — mormorò appassionatamente, — vi ritorneremo mai? — Io lo spero. — Sempre si spera, ma.... — Io lo voglio. Erano in mezzo alla folla che tratto tratto li sospingeva l’uno verso l’altra e quel rapido contatto li faceva trasalire di una non ancora conosciuta dolcezza. Accadeva pure che per il rapido avanzarsi di un tram, di una automobile, egli la arrestasse stringendola al braccio lievemente e sotto la pelliccia l’amata sentiva la carezza. Non potevano parlarsi con tante persone intorno, con tanto rumore, ma era nuovo il piacere di trovarsi lor due soli mischiati a una turba di indifferenti che rendeva più acuta la sensazione della loro vicinanza, più squisito il mistero del loro amore. Cadeva la nebbia rigida e avvolgente con un fascino di veli sovrapposti in un fluttuare d’ombre, in un vanire fantastico di contorni e di luci. Ella si serrò il manicotto contro il petto, fin sotto la gola. A un tratto lo porse a lui: — Senta come è morbido. Ariele vi immerse il volto e la bocca: — _Crescit eundo?_ — chiese lei, pianissimo, toccando quasi colle labbra la spalla del giovane. Tutte le rose che fiorivano intorno a loro in quell’evocato giorno di lontana letizia riapparvero, si diffusero nella nebbia umida, si sparsero a petali, a ciocche, a corone, invermigliando l’aria che divenne tutta del colore di quelle rose, come quel giorno! E non dissero più nulla, camminando insieme, vicini, beati, senza vedere i passanti, urtandoli. Ma queste alternative di scoramento e di ebbrezza la uccidevano. Ella aveva da tempo la prescrizione medica di evitare le forti commozioni, minacciata da un mal di cuore che la sua eccessiva sensibilità rendeva pericoloso. La vita del pensiero era in lei così intensa che un’ora sola di gioia o di dolore le alimentava un seguito di vibrazioni tali da esaurirla. Bastava talvolta una lettura per far sorgere d’un colpo tutti i tormenti della sua anima. Appunto in quei giorni le accadde di leggere una di quelle creazioni tra la fiaba e il romanzo dove gli autori nordici sanno trasfondere il loro profondo senso della vita. “Un bambino errando per le vie della città si trova dinanzi a un gran muro bianco forato da una porta verde. Un istinto inconsapevole lo spinge ad aprire quella porta ed eccolo in un giardino meraviglioso pieno di fiori olezzanti, di frutti, di uccelli dalle piume iridate e lucenti come gemme, dal canto soave di arpe d’oro. Eleganti pantere, piccoli leoni mansueti gli si avvicinano lambendogli le mani. Schiere di fanciulli sorridenti lo circondano, lo invitano a giuocare ed egli giuoca ed è felice. Tutto intorno a lui è bellezza, luce, armonia, bontà. Come mai egli si ritrova solo, piangendo, in una via deserta sotto la pioggia, sotto le raffiche?... Non glie lo domandate; non lo sa. Ma il ricordo del giardino meraviglioso ritorna periodicamente nella sua esistenza ricondotto quasi dalle crisi successive della vita. Egli rivede ancora la porta verde nel muro bianco, ma tutte le volte che cerca di avvicinarvisi un incidente si mette tra lui e il sogno e gli impedisce di entrare. Quante occasioni mancate! Che struggimento del bene perduto! Finalmente una notte in cui la fantasia eccitata e i nervi tesi gli rendono più che mai imperioso il bisogno della felicità, passando da una via sconosciuta, si trova dinanzi ad una impalcatura che sembra un muro bianco segnato da una porta verde. Col cuore che gli palpita si accosta, apre, fa alcuni passi e cade da un’altezza di trenta piedi. _Egli aveva creduto_....„. . . . . . . . Lesse e pianse. Tutto quell’inverno Moena non apparve in società. Poco noto prima, lo si stava dimenticando. Solo una volta la signora sorprese il suo nome pronunciato da due giovani che stavano in disparte a narrare i particolari di una partita galante. — Non ci doveva essere anche Moena? — Non ha accettato. — È singolare quel giovane. — Sì, abbastanza. Dicono che sia innamorato. — Di chi? — Fino ad ora è mistero, ma sai, sono di quelle cose che si fiutano nell’aria. Presto o tardi lo si saprà. Alle prime parole udite tutto il sangue della signora le affluì al cuore, rombò violento nel suo petto, sollevandolo, ricadde lungo le vene, giacque, lasciando lei immobile nello stordimento di una leggera ebbrezza. Poi le venne un po’ di paura pensando che qualche cosa del suo segreto fosse già trapelato nel pubblico e con tale rodìo nella mente la assalì il bisogno di vedere subito Moena, di comunicargli i suoi timori, forse sperando di esserne rassicurata. Gli scrisse raccomandandogli di non mancare quella sera, ma sul punto di spedire la lettera riflettè che la posta non l’avrebbe recapitata che il giorno dopo e come il suo domestico trovavasi assente per altre incombenze si avviò lei stessa alla dimora di Moena per lasciargli la lettera alla porta. La casa dove Ariele abitava era da sì gran tempo il punto convergente de’ suoi pensieri, l’aveva tante volte immaginata e sognata che ad accostarvisi in realtà le tremavano i ginocchi. Già appena imboccata la via, dopo di avere letto e riletto il nome sulla targa quasi non si potesse persuadere che fosse proprio quella, sprofondò lo sguardo fino all’estremità con un morbido languore di carezza, pensando: questi sono i luoghi che egli vede sempre, sono le pietre dove i suoi piedi passano e ripassano, è l’aria impregnata della sua persona. Strinse le labbra e respirò forte colle narici aperte, la fronte alta, sembrandole che qualche cosa di lui la penetrasse. Forse una allucinazione fluttuava dinanzi alle sue pupille? No. Ariele le veniva incontro rapidamente con una espressione negli occhi di felicità e di stupore. — Lei qui? Dovette spiegargli la singolarità dell’incontro e il desiderio di trovarsi con lui per conferire sui discorsi uditi e sulle conseguenze che ne verrebbero se il loro amore fosse divulgato. Era un po’ convulsa, tremava. Ariele volle subito protestare sulla sua discrezione. Ella lo interruppe non permettendo che fra loro due potesse nemmeno insinuarsi l’ombra del sospetto e cercava nomi, cercava fatti per spiegare le parole che aveva sorprese. — Mi dica tutto, mi dica tutto, — pregava il giovane. Ma lì, sulla via, nella chiara luce del giorno, agitati entrambi, compresero che era impossibile parlare. Si trovavano proprio dinanzi alla porta di Ariele. Egli l’accennava con uno de’ suoi gesti brevi e riservati. La signora ebbe un sussulto. — Un momento solo.... — mormorò lui, supplice. — Venga lei questa sera da me. — Non posso questa sera, assolutamente. Ella lo guardò dritto negli occhi, vide che era sincero, esitò. Esitavano entrambi. Furono pochi momenti di incertezza turbatrice. — Incomincia a piovere, — disse Ariele. — È vero, — confermò la signora. Entrarono, rapidi, in silenzio: ella dietro lui, fiduciosa, su per le scale chiare. Quando udì stridere la chiave nella toppa ebbe ancora un istintivo movimento di arresto che le parve una inutile viltà e che superò varcando la soglia alteramente. Forte delle sue intenzioni, appena messo il piede nelle camere di Ariele sedette sovra un piccolo divano che le si presentò per primo, continuando il discorso interrotto, con tutta naturalezza, come se si fossero riparati semplicemente sotto a una grondaia. Era tuttavia una calma d’apparenza; lo sentivano, se lo leggevano reciprocamente sul volto. A una pausa del loro conversare la signora volgendo gli occhi in giro li arrestò sopra un ritratto a olio di giovane donna; una delicata e fine e fiera bellezza. — Mia madre, — disse Ariele. Ella si alzò, commossa, avvicinandosi al dipinto con religiosa curiosità, con una tenera gelosia del vincolo indistruttibile che legava quella donna ad Ariele. Toccò la cornice, lieve, con un gesto di carezza, mormorando: Fortunata! Le parve allora di potere con maggior franchezza guardare il luogo dove si trovava, i mobili, i quadri. Ogni cosa aveva per lei un interesse profondo, ma anche un mistero inquietante. Moena che le leggeva nel pensiero si affrettò a dire col suo mesto sorriso: — Tutte queste suppellettili sono un avanzo del naufragio della mia famiglia. Erano infatti mobili antichi e signorili, qualche ceramica di fabbrica vecchia, una pendola di stile, uno stipo intarsiato, un bel bronzo di soggetto classico. Moena accompagnando lo sguardo della signora e interpretandone l’espressione soggiunse: — Credo che morirei di fame piuttosto che separarmi da questi oggetti. Comprese l’Unica allora interamente nella loro intima nobiltà le lotte eroiche e sconosciute del giovane. Più ancora quando aperto lo stipo le volle mostrare i cimeli sacri al suo cuore, i ricordi del congiunto morto nelle prigioni dell’Austria, le ultime righe di lui scritte col proprio sangue, — come la pezzuola di Enrico Tazzoli, — e le lettere, e i capelli che sua madre stessa aveva recisi sulla testa del martire. Moena si esaltava nella evocazione, si trasfigurava sotto la vampa dello sdegno e della pietà; il pallore della sua fronte bellissima lo aureolava di una luce ideale. — Oh! come la ringrazio, — esclamò, — come la ringrazio di essere venuta! Questi sono brani di vita, della vera vita che non mi è, che non mi sarà mai concessa. La fatalità inesorabile dei loro destini acuiva in modo meraviglioso l’illusione che li rendeva felici in quell’istante. Un impeto di passione disperata li gettò, quasi inconsapevoli, nelle braccia l’uno dell’altra. Egli la sentì fremere come un giunco sul suo petto, un solo istante, poi subito si divelse. La signora guardava ora un piccolo oggetto, un ricamo elegante e fresco appoggiato sulla spalliera di una poltrona e che non poteva avere nessun rapporto coi mobili antichi. Anche quello sguardo Ariele comprese: — Il dono di una amica, — mormorò. — Non chiedo spiegazioni, — interruppe la signora con insolita alterigia. — Non può ascrivermi a colpa se prima di conoscerla.... — insistè Ariele. Ella si pose un dito sulle labbra invitandolo al silenzio ma tutte le sue torture l’avevano ripresa. Eccola dunque, lei, l’invincibile, nella camera del suo amante; eccola travolta dalla volgarità dei soliti amori, decaduta da tutti i suoi sogni. Potrebbe lasciare anche lei un ricordo in quella casa un nastro, un guanto, e quel nastro e quel guanto andrebbero confusi chi sa con quanti altri, dimenticato alfine, spazzato via.... Si strinse nel mantello, gli tese la mano: — Addio Moena. — Non così, — supplicò lui. La prese per i polsi, la fece sedere con delicata violenza sul divanino, le si pose ai ginocchi, e con tenerezza, con umiltà, con quel suo riserbo più avvincente di qualsiasi ardore rifece la loro storia, così semplice, così divinamente pura e divinamente triste. — Non mi lasci, per carità, non mi lasci.... — Fanciullo! — ella disse. Ed aveva sorriso. Quando sorrideva sembrava giovanissima. — Come sei bella! — esclamò Ariele ammirandola. Si alzò di scatto sfuggendogli verso il fondo della stanza, credendo di dirigersi all’uscita. Si trovò invece presso ad una porta aperta dalla quale scorgevasi la camera di Ariele. Volle retrocedere; ma egli l’aveva raggiunta e gli palpitava nello sguardo quella luce azzurra che l’amata conosceva, che lo trasfigurava tutto. Muto, tremante, la cinse. Anima e sensi spasimavano. Per un attimo le forze dell’Unica parvero mancare in quella tentazione suprema. La voce di Ariele le soffiò sulle labbra: Mia... — E mentre la serrava anelante al petto, mentre luce e ragione e vita sparivano dai loro sguardi, le labbra baciate mormorarono in uno spasimo di terrore e di ultima difesa: — No, Ariele.... morirei! Il giovane allentò le braccia.... XII. — La glicine è fiorita, — disse un mattino la cameriera schiudendo le persiane in camera della signora. Poco dopo la signora affacciossi a sua volta guardando giù nel giardino i bei grappoli color d’ametista pendenti sul muro, turgidi sotto le goccie della rugiada come gole di donna indiamantate. Rifiorirono, — pensava, ma non sono più i grappoli dell’anno scorso. L’alta specchiera fra due colonnine dorate la riflettè, discinta come era, ancora avvenente in una sua speciale eleganza di linee, ancora donna. Ancora? e per quanto tempo? Salì col palmo della mano lungo il braccio, il braccio bianco che Ariele non conosceva, che non avrebbe mai cinto così nudo il suo collo; piegò la faccia lentamente fino a toccarlo, in alto, dove si congiunge alla spalla, e stette un attimo colle labbra appoggiate alla fresca morbidezza della propria carne chiudendo gli occhi con uno spasimo disperato. Sul vassoio del caffè c’era il saluto quotidiano di Ariele, il suo raggio di sole. Poche parole, talvolta una sillaba sola, un grido ardente dell’anima “Tu!„. Il saluto di quel mattino recava “Più che come sempre„. Così rinasceva l’alternativa del dubbio scorato e dell’inebriante miraggio, della ragione che le suggeriva: fuggi, e dell’amore che le diceva: vieni. Fu ancora in quel tempo di primavera, durante un molle vespero, pochi giorni appresso dalla fioritura delle glicini che ella credette di scorgere in Ariele una inquietudine nascosta, una specie di disagio nel quale egli si distraeva sfuggendo alle di lei carezze. Si pose allora ad esaminarlo acutamente, a scrutargli in volto le gradazioni di quel suo pallore di sensitivo; avrebbe voluto sviscerargli i pensieri, leggergli dentro, cogliere gli aneliti del suo cuore nelle inflessioni della sua voce; ma il segreto che si nasconde in ogni creatura umana le rimaneva invisibile anche in quella creatura amata. Tutta la sua passione, tutta la sua dedizione erano vane. L’estasi amorosa le poteva far credere in certi istanti di formare un’anima sola, ma non era vero. Le loro anime restavano due anche nei momenti della maggiore intimità come erano due i loro corpi per quanto un disperato amplesso li avvincesse in questo desiderio supremo. — Ariele.... Si scosse, la guardò con occhi ingranditi da un’ombra violacea. Il profumo delle glicini saliva dal giardino umido e oscuro, misteriosamente. Il pensiero ha volo d’angelo e volo di strige. Ella pensò: Una donna! Ma ecco che egli non lo vedeva questo pensiero e affinchè nulla di esso trasparisse sulla sua fronte agitata, nella soffocazione improvvisa che la prese al sommo del petto, corse ad affacciarsi al balcone. — Che ha? — chiese Ariele. — Nulla. Era la prima volta che mentiva e una grande amarezza gliene rimase sulle labbra ermeticamente chiuse da un suggello d’orgoglio. Il giovane la raggiunse appoggiandosi vicino ad essa sul davanzale. — Come a Trento, — disse dolcemente. L’amata fece un gesto vago, curvandosi nell’olezzo delle glicini che non erano più quelle dell’anno scorso.... — Mio Dio, mio Dio! — mormorò quando fu sola, tutta colma la bocca, gli occhi e l’anima della presenza di Ariele, — dovrò io entrare nella volgarità e nel ridicolo della gelosia? L’assurdo di un amore che non poteva avere nessuna via di uscita, che era fuori del tempo e della possibilità, impotente a dare la gioia della continuazione, quell’amore che era il suo; folle amore, dolorosissimo fra tutti gli amori, le riaffacciò alla mente la visione del rogo. Come erano belle le prime faville! come balzavano liete e vivide e sicure a ricercare l’altezza! Oh! dove era più il divino incanto dei primi sguardi, delle prime parole? dove il primo avvolgere trepido e caldo della fiamma? dove il primo morso ardente? Ecco ora una grevezza di fumo salirle al respiro e un bruciore insopportabile dilaniarle le carni e l’aria intorno mancarle a poco a poco e velarsi la luce e cessare la magìa dei suoni e sentire la voragine che la inghiottiva membro a membro. E poi?... Cenere. Lo doveva sapere. Lo sapeva infatti, nello stesso modo che giunti all’età della ragione si sa che si deve morire; ma come la visione della morte non paralizza la vita così ella aveva amato senza pensare più alla fine dell’amore o piuttosto trovando una superiorità di sentimento, un generoso disdegno di ogni calcolo in quel suo offrirsi deliberatamente al sacrificio. Appunto perchè privo di speranza sentiva la rarità del dono fatto ad Ariele e lo misurava con appassionata fierezza all’amore che gli avrebbero offerto altre donne con tanta usura di interesse e di ipoteche. Se c’era un pensiero che la sorreggeva nello strazio era quello: sapere che malgrado le insidie del destino, malgrado le seduzioni che attendevano al varco la giovinezza di Ariele, malgrado egli potesse amare ancora, molto, perdutamente, quando vorrà raccogliersi in sè nelle ore solenni del ricordo e meditare e giudicare quel nome di Unica che egli aveva trovato per lei, tutta la sua coscienza gli griderebbe: “È vero. Ella sola ti ha amato!„ Ora bisognava morire. Morire come? Fuggire, strapparselo dal cuore, distruggere ogni memoria ogni segno del passato, lasciarlo libero, Morire a lui, per lui. Una sera in cui era sola e più ardentemente lo desiderava si volle figurare la disperata solitudine che l’attendeva quando egli non venisse più; le ore tremende dell’abbandono in quella stanza tutta piena di lui, dove avevano tante volte evocato l’idillio timido e confuso del loro amore nascente argomentando che dovesse essere eterno. Qualunque cosa avvenga, — egli diceva, — non posso nemmeno immaginare di vivere senza di te! Ma lei col tormentoso presagio che fa di certe anime il carnefice di sè stesse vedeva già il suo posto vuoto e l’aria agitata un dì dalle loro parole starsi immobile nella tragica immobilità che circonda i sepolcri. Quando quella portiera non si sollevasse più, quando la bella persona di Ariele riempiendo il vano dell’uscio non accendesse più di mille lumi lo spazio, quando egli non toccasse più i suoi ninnoli, i suoi libri col grazioso gesto infantile che le piaceva tanto in lui, quando sorridendo e guardandola non accostasse più le dolci labbra alla coppa dove ella beveva, quando tutte le care intimità del loro amore fossero finite e l’ombra terribile del nulla scendesse sulle sere del futuro, come potrebbe resistere a tanta rovina? Morire, morire, morire! Con questa parola terminava ogni suo soliloquio; era diventata la sua ossessione, il suo incubo. Rimpiangeva continuamente l’ora di passione profonda durante la quale aveva tenuto Ariele sfinito in grembo, suo, tutto suo, in suo pieno dominio, con quelle labbra gelide dove ella aveva soffiata la propria vita, dove avrebbe potuto accostare la morte e morire con lui e sparire per sempre nel vortice oscuro dell’al di là, insieme. Che cosa è mai il senso occulto che al cieco barcollante nel buio indica l’avvicinarsi di un ostacolo? E sulla spiaggia battuta dal mare, mentre il pescatore si allontana gonfie le vele di vento e di speranza sorridendo alle promesse di felice ritorno, che cosa è l’improvviso presentimento che nei raggi dei sole e nella festa delle onde stringe il cuore alla donna rimasta sulla riva? Non è forse che per certe sensibilità acute e in alcune circostanze e in alcuni stati speciali dell’animo sembra di sentire nell’ombra i passi misteriosi del nemico ignoto? Lei stessa, la sopravissuta alle battaglie della vita, muto il cuore, muti i sensi, spenta la fantasia nell’acquietamento d’ogni desiderio, non aveva sentito il tacito avanzarsi di un palpito nuovo, non nato ancora ma già esistente intorno a lei nell’aria, nel cielo, nell’invisibile giro degli atomi, nel sospiro eterno delle cose, lassù, sul terrazzo di Trento, in una indimenticabile notte? Ora sul plettro de’ suoi nervi le voci fatidiche piangevano con accenti di terrore. Perchè, se nulla era mutato, se un anno appena era trascorso dall’incanto iniziale, se Ariele giurava di amarla ed ella lo amava ogni giorno più? Giunse a non potersi dominare, a non sapere più nascondere nemmeno a lui lo stato di inquietudine dal quale scaturivano a volta parole amare che dovevano apparire ingiuste ad Ariele, che lo turbavano e lo indisponevano, mentre lei rifugiandosi in una dignità incompresa si rifiutava alle dolci carezze quanto più ne aveva cocente la bramosìa. Un bisogno la prese all’improvviso di staccarsi da Ariele, coll’atto inconsulto del ferito che staccando le bende si illude di sfuggire al tormento, ma travolta nelle astuzie dell’istinto scelse per meta della sua fuga il posto medesimo dove ad ogni sasso, ad ogni fronda avrebbe incontrato ancora la memoria di Ariele, là dove si erano amati. Partì con meraviglia di lui e tristezza contenuta che ella giudicò indifferenza. Dal canto suo Ariele non comprendeva tale subitanea decisione di recarsi in una terra a lui vietata. Il saluto ultimo alla stazione tra la folla irritante e vuota fu come un agitarsi di fiaccole dietro un vetro opaco; i loro cuori si cercarono invano ed ella andò così, chiamata dalla voce che non ha nome, verso il compimento del suo destino. Rivide le città, rivide i paesi, le verdi selve, i piani ondulati, le Dolomiti splendenti, le Giudicarie austere, l’Adige bello e doloroso, Rovereto dolcissima, Trento memore. Un’onda di commozione che era quasi felicità le sollevava il petto ripassando per i luoghi noti, ribevendo quell’aria e quella luce. Le memorie, dono crudele e magnifico per cui si centuplica la vita, solo possesso vero nel trascorrere ininterrotto del tempo, sorgevano ad ogni passo avviluppandola in una carezza d’amore. Sogno? Che importa! Il sogno è l’ala della realtà. Quando giunse al rifugio alpestre dove Moena era venuto a rintracciarla credette le mancasse il cuore. Volgeva il tramonto, l’ora stessa dell’arrivo di Moena. Nel momento che la carrozza passava all’entrata del bosco i suoi occhi spalancati cercarono sè stessa, in quella sera, rifacendo il loro incontro così timido e scolorito nell’alba ancora frigida dei sensi chiusi. Ma quando a notte fatta volle riaffacciarsi ai primi alberi del bosco, ansiosa, tremante, allucinata, non le fu possibile inoltrarsi di un passo. I fantasmi del passato la ricacciavano indietro; udiva la voce di Moena bassa e alterata sussurrare nell’ombra: Ha paura? Disfatta, convulsa, si accasciò contro un albero, urtando alla ruvida scorza le mani delicate con un bisogno fisico di farsi male, di trarre alla superficie della pelle quello spasimo orrendo che la straziava dentro. Anche Ariele una volta nello stringerla le aveva fatto male e rievocandone ora la sensazione tutto il suo corpo fremeva in una indicibile voluttà di martirio, sentendo veramente una fitta acuta che le trapassava il cuore. Da qualche tempo soffriva così nella sua carne, nel giro del sangue, in tutti i nervi schiantati dalla intensità della passione e della lotta. Abbandonata sul tronco dell’albero ebbe in quel punto pieno sentore della propria miseria, di essere un povero corpo stremato, una povera anima inutilmente dolorante. Si premette con tutte e due le mani le braccia, le spalle, i fianchi gemendo: Misera me!; — e piegò la testa, umile, vinta. Un rumore d’acqua veniva dalle cupe profondità dello spazio, ma ella non ricordava che vi fosse in vicinanza nè cascata nè fontana; e poichè la notte, il silenzio, un misterioso terrore, un senso di isolamento e di abbandono la cingevano di una cattiva malìa le parve che quello fosse un pianto disperato, il pianto dei luoghi dove era passato l’amore, dove non passerebbe più. Ascoltando sempre a capo chino, tutta raccolta in sè quasi per nascondersi e immedesimarsi e sparire nel palpito universale, per non essere più nulla altro che una cosa morta, parvele ancora che nell’acqua invisibile scrosciasse improvvisamente un riso di scherno alto, sonante, — poi, lento, a tratti, un lieve e molle pispigliare di goccie, un indugio di soavità, come un rosario sgranato di baci, come un mormorio di parole raccolte da labbro a labbro, — e le lagrime di nuovo, — e di nuovo alta, sonante, prolungata, acutissima, la risata di scherno.... . . . . . . . — Non è più lei, signora, — le disse un giorno in sua ingenua schiettezza una vecchierella del paese. Era vero. Lo sentiva, lo vedeva; non era più lei. Accadevale ora di fermarsi dinanzi allo specchio per guardare se avesse ancora sotto gli occhi il cerchio bruno che le era rimasto dalla notte insonne, se crescesse il solco emaciato della guancia e ripeteva a mezza voce con una tristezza che era tutto uno schianto un verso di Keats: “Oh! dove sono i canti di primavera, dove?„ E la natura intorno era tanto bella, tutta verde e azzurra, punteggiata dalle stelle bianche delle pratelline nella distesa dei prati, dai ciuffi d’oro delle ginestre nei boschi, fra quelle deliziose montagne trentine colore d’ambra e di lapislazzuli, colore di croco e di opale, varie, eleganti, disegnate sullo sfondo del cielo con la morbidezza di profili a sanguigna. La vita si svolgeva così, tranquilla nelle opere dei campi, nelle placide case, tra le viuzze sassose dove i bimbi giuocavano sotto l’occhio sereno delle madri, dove le fanciulle appendevano tralci di garofani alle finestre e nulla veniva mai a turbare la calma un po’ dormiente un po’ infingarda di quei montanari cui il breve orizzonte era mondo. L’anima in pena cercava di interessarsi a questa vita semplice; discorreva colle donne delle loro faccende, dei loro figliuoli; ascoltava racconti di cose umili; voleva mettersi al loro livello, voleva dimenticare di essere la creatura di passione e di pensiero, scendere a loro, assidersi placida con loro alla mensa quotidiana, ai quotidiani lavori; guardare l’erba che spunta, le galline che razzolano, le nubi in cielo, e incrociare a sera le mani sul grembo nella attesa indifferente del dimane sempre eguale. Vi riusciva in certi momenti di atonia durante i quali un velo soffice tessuto di languore e di rassegnazione la fasciava, dandole il momentaneo sollievo di una applicazione fresca sopra una piaga che brucia. Ma improvvisamente, senza che nulla fosse mutato nell’aria, nel cielo, nel rameggiare degli alberi, nello scorrere dei ruscelli, nella torbida pace circostante, il cuore le dava un balzo, la memoria le riaffacciava una visione. — Lui, Lui, sempre Lui! — e folle di rinnovellata angoscia fuggiva per sentieri deserti torcendosi le mani sul petto affannoso. I fanciulli l’amavano; sovente guardandoli si acquietava nella loro innocenza. Talora sulla fronte dell’uno, sulla bocca dell’altro, credeva ritrovare una somiglianza con Ariele e allora più intensa si faceva la sua attenzione, più dolci e prolungate le sue carezze; ma erano illusioni fuggevoli. In realtà nessun volto somigliava a quello di Ariele; il desiderio dell’amante lo cercava invano. Solo guardando dentro sè stessa, nel raccoglimento desioso delle rimembranze, le linee dell’amato si ricomponevano in loro specialissima delicatezza virile, in loro fine regolarità di camméo e il senso acuto della di lui bellezza, anche lontana, le dava quel tormento di cosa inafferrabile già provato quando Ariele era nelle sue braccia, per l’ansia segreta che la bellezza suscita in fondo al piacere che essa dà, quasi un senso più preciso della morte nel maggior fervore di vita. Erano andati i fanciulli, renitenti le madri, a una sagra su un monte vicino e le madri stavano in gran pensiero per un folto accavallarsi di nubi nunziatrici di prossima bufera, rifacendosi ad ogni istante sulle porte delle loro case a guardare da lungi se apparissero; la signora buona prendeva parte alla loro preoccupazione tentando rassicurarle. Se non che a un tratto la bufera incalza sollevando turbini di vento e di foglie, lampi spaventosi fendono le nubi, terribili boati echeggiano di valle in valle, stridono gli alberi piegati al suolo, muggiscono le mandre spaventate; schianti di imposte sbattute, di assi che si fendono raddoppiano gli strilli delle donne e il pianto dei pargoli; qualche vecchia in disparte prega fervorosamente. Ma un grido li domina tutti: “I nostri figli! i nostri figli!„ Le madri non dicono altro, immobili sulle soglie, il grembiule buttato sulla testa a riparare la furia dell’acquazzone, coll’occhio che non abbandona la strada per la quale devono giungere i fanciulli. Il terrore e l’angoscia crescono di minuto in minuto. Eccoli finalmente! Una macchia bruna appare in alto sul declivio del monte. Si muove, si snoda; un punto rosso emerge. “È lei, è Maria!„ esclama una donna. Un fremito di gioia corre in tutti i cuori. Le vecchie dicono: “Sia ringraziato il Signore!„ La furia dell’uragano è calmata; piove ancora, ma già il cielo si chiarisce attraversato dall’arcobaleno: “Sia ringraziato il Signore! Sia ringraziato il Signore!„ Il gruppo dei fanciulli si approssima; la gonnella rossa della piccola Maria danza al vento. Corrono, gocciolanti d’acqua, giù dai viottoli, balzando di sasso in sasso, agitando in alto i cappelli. Già sono vicini; già si ode lo scroscio delle loro risa, si vedono le treccie delle bimbe disfatte appiccicate sul collo e sul dorso; più di un bimbo ha strappato i pantaloncini, ha perduto il cappello; e ridono. Uno inciampa e cade; ride, si rialza, torna a correre. Un altro canta, spavaldo, colle mani in tasca, il nasino per aria a sfidare le ultime gocciole. “Come ci siamo divertiti!„ esclama la piccola Maria appena può far udire la sua voce. Un bambino, soletto, piagnucola; aveva comperato alla sagra una bella trottola e non la trova più. “Ora sì, — minacciano le madri con piglio tra il burbero e il commosso, — dobbiamo fare i conti. A letto subito!„ Ma la Maria non si muove. È la capoccia della compagnia, deve narrare in qual modo andò la gita e lo fa stando in piedi contro la tavola, addentando una mela acerba. Piccoletta, tarchiata, ha le braccia nude a metà, sode, un po’ ruvide per il vento e per il sole, colla pelle tesa fragrante di salute, scura verso le mani, più bianca nel risalire. Non è bella, è giovane. I suoi capelli hanno il rigoglio di una criniera e di una foresta; i suoi occhi guardano tra le palpebre lisce come specchi di laghi alpini; una peluria di pistillo adombra con un incomparabile belletto le sue guancie troppo tonde; ha la bocca carnosa di una freschezza insolente, con denti acuti e bianchi di bestiola selvaggia, e morde la mela con tanto impeto che il sangue sprizzando dalle gengive riga di vermiglio la polpa del frutto. Sembra che la bufera invece di abbatterla abbia rintuzzate tutte le sue forze, come se tra lei e l’acqua e il vento e i fulmini fosse corsa una magnifica tenzone, una gioiosa battaglia risolta in sua vittoria. Oh! giovinezza, giovinezza! — pensa l’attardata viandante; e tutto in sè le pare vano, trista la sua carne, vuoto il suo cuore, inutile il suo affetto — Giovinezza, solo tesoro! . . . . . . . Ariele tardava a scrivere, nè ella per fierezza sollecitava le sue lettere. Era forse la fine? la fine sempre temuta, pur se qualche volta implorata, liberatrice finchè lontana, spaventosa nei rantoli dell’agonia? la fine gelida e volgare che non lascia nulla dietro a sè, la fine dell’avventura comune? Era questo che la aspettava dopo tanto slancio ideale, dopo tanta intima, profonda, appassionata intesa? Era questo che meritava l’anima sua? Che cosa sarebbe di lei, della sua vita, non sapeva, non voleva pensare. Era giunta a quel punto della sofferenza che confina colla insensibilità. In tale stato ipnotico errava tra le piante e le erbe atrofizzando il pensiero nella contemplazione dei piani verdi, sprofondandovi l’occhio fino ad averne una ebbrezza sensuale dove l’assillo del ricordo annegava morbidamente. L’ora culminante di tale abbandono ricorreva ogni giorno al tramonto del sole. Le piaceva allora portarsi all’entrata del bosco, presso alcuni scalini di pietra dai quali aveva visto arrivare Ariele. Sedeva abbattuta, chiuso il capo nel suo velo bianco, chiuse le mani in grembo, simile a un marmoreo simulacro del dolore, a una sfinge dal segreto inviolato. Stava così una sera, immobile, in solitudine assoluta, — i grilli appena stornellavano in fondo al prato, — quando un passo d’uomo vicino a lei le fece sollevare la fronte. — Unica! Si scolorì nel volto che apparve come un’ostia tra la nuvola del velo; le pupille sbarrate per la grande fissità non avevano sguardo: balzò in piedi, muta. Egli vide in quegli occhi altrettanto timore quanto amore. — È l’addio, — disse. — L’addio? — fece ella scuotendosi. — Forse l’addio ultimo. — No! Tutte le sue energie scattarono. Gli si appigliò al braccio, ansante, delirante: — Che avvenne? Come sei qui? — Parto. Sono venuto a dirti addio. — Addio? Perchè? — Parto, — ripetè Ariele. Ella vide allora un grande smarrimento ne’ suoi sguardi e insieme una risolutezza disperata. — Dove vai? — Non so. Molte cose sono avvenute che tu ignori. — Dimmele. Ariele si guardò intorno sospettoso. Ella comprese. — Quale rischio corri? — Il rischio di perder tutto. — E sei venuto? — Per te. — Aspetta, aspettami qui. Il luogo è deserto, fra poco sarà notte, non ci vedrà nessuno. Vado a fingere di coricarmi e poi ritorno. Aspettami. Divorò la via in un baleno. Breve tempo era trascorso dalle prime parole quasi febbrili e già ella rifaceva il cammino con passo così rapido e leggero che pareva un volo. — Ora siamo liberi. Hai tempo? — L’alba non mi deve trovare qui. Più che il pericolo mio penso che se mi arrestassero non potrei servire la causa nei fini che mi sono proposto. Fui scelto per una missione difficile che mi colma di gioia ma anche di responsabilità. Dipende da una risposta che avrò domani il sapere come e dove mi sia possibile agire. — Agire?.... Ariele sorrise al tremito che ella ebbe. — Non colle armi. In regime di tirannia la lotta deve essere cauta, la preparazione lunga, i mezzi occulti. Ma il momento è propizio, molte cose sono da fare. — E non vi è pericolo? — Pericolo? — Per te, per la tua vita. Egli si illuminò tutto di quella sua luce pallida che lo rendeva simile ad un martire e ad un eroe. — La mia vita? ma è ciò che desidero, dare la vita per la mia patria. Aveva pronunciato queste parole con tanto ardore che l’amata se ne sentì quasi ferita. Chiuse le palpebre, un attimo, serrando i denti con un profondo sospiro. — E non posso far nulla io? — Sì, amarmi. — Oltre l’amore, nevvero? oltre la vita. E così che intendi? — L’anima tua grande è il mio faro. Credo ciò che tu credi. E come non avessero più nulla da aggiungere all’armonia dei loro cuori, tacquero. La notte li avvolgeva morbida e discreta con panneggiamenti d’ombra; il bosco dinanzi a loro commosso da fremiti impercettibili univa il suo respiro all’ansia dei loro petti. Nello stesso momento ricordarono entrambi la sera in cui vi erano penetrati e sùbito l’uno sentì ciò che l’altra sentiva nel meraviglioso intuito della loro vibrante sensibilità. A lenti passi, senza pronunciare una parola, Ariele si avviò verso i primi alberi radi dove le stelle posavano i raggi attenuati del loro splendore sui candelabri degli abeti. Senza pronunciare una parola l’Unica lo seguì. Repente uno strido lugubre fendette l’aria. Egli la scorse che trasaliva e stringendola lieve alla vita disse per rassicurarla: — Non è nulla, un uccello notturno. Quel contatto tolse a lei un po’ della sua forza. La sua spalla toccava la spalla del giovane; al tenue chiarore delle stelle vide l’avorio de’ suoi denti biancheggiare nel roseo arco delle labbra. Un soffio le uscì dalla gola riarsa: — Mi ami ancora? Ariele non rispose, la strinse più forte. L’ora ineluttabile si librava su di essi, fatale, misteriosa, tutta pervasa di passione e di lagrime. Un altro soffio quasi indistinto. — Non ti vedrò forse più.... — Perchè dici questo? Certe cose non si devono dire. — È vero. Non si devono dire. Tacquero ancora, inoltrandosi. Le stelle erano lontane; nessuna luce giungeva oramai sotto la volta fittissima dei rami; l’incenso della foresta vaporava solo, qual profumo sull’ara, in attesa del sacrificio. L’Unica rabbrividì a un tratto come se una mano che non fosse quella di Ariele l’avesse toccata. — Ho paura, — gli singhiozzò tutta tremante colla faccia nascosta nel suo petto. Egli la resse sulle braccia mormorando: — Amore.... L’abisso nero delle conifere li avvolse, li inghiottì.... Nell’ombra fascinatrice il silenzio si fece sacro dello spasimo di due anime. XIII. Morta! L’incredibile notizia percorse rapidamente il piccolo paese. Non si voleva credere. Le donne accorsero, per vederla, seguite dai fanciulli e tutti piangevano. L’avevano trovata al mattino sulla soglia della sua camera, riversa, fredda. — Come mai, — chiedevansi l’un l’altra, — se la sera antecedente si era ritirata presto ed ora ella era vestita per intero e il letto non appariva tocco? Aneurisma, — era stata la sentenza del dottore; ma le donne si guardavano tra loro con un brivido ed a quella parola incomprensibile facevano seguire un’interrogazione: Perchè? Composta amorosamente sulle coltri era bella di una bellezza arcana non mai vista. Le sue ciglia abbandonando la luce sembravano chiuse sopra la dolcezza suadente di un sogno. — In vita non aveva questa espressione beata, — osservò una delle donne. — No, si direbbe che ora è felice. Alcuni fanciulli che erano andati in cerca di rami d’abete entrarono in punta di piedi e ne copersero il letto. La piccola Maria recante un fascio di ciclamini si accingeva a coronarne il guanciale, ma si interruppe con una esclamazione di sorpresa: — Ha degli aghi di pino nei capelli! — E in basso alla gonna! — confermò un fanciullo. . . . . . . . Un silenzio religioso si fece nella camera. Di nuovo le donne guardarono la morta e si guardarono tra loro, colpite dalla sensazione di quel mistero che non sapevano spiegare, che stava sospeso sul bel cadavere a guisa di nube adunata dagli angeli per difendere il segreto che l’aveva spenta. FINE. DELLA MEDESIMA AUTRICE (Edizioni Treves): _L’indomani_, romanzo. Nuova edizione in-8 con 27 disegni di UGO VALERI e copertina a colori. 3.º migliaio L. 2 — _Crevalcore_, romanzo. 3.ª edizione » 4 — _Una passione_, romanzo » 1 — _La vecchia casa_, romanzo. Formato bijou » 3 — _Duello d’anime_, romanzo. 2.ª ediz. » 4 — _La sottana del diavolo_, novelle. 2.ª ediz. » 4 — Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK ROGO D'AMORE *** Updated editions will replace the previous one--the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. 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The Foundation's EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state's laws. The Foundation's business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation's website and official page at www.gutenberg.org/contact Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine-readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. 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