Degli ultimi casi di Romagna

By Massimo d' Azeglio

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Title: Degli ultimi casi di Romagna

Author: Massimo d' Azeglio

Release date: April 9, 2025 [eBook #75829]

Language: Italian

Original publication: Venezia: Gattei, 1848

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This book was produced from scanned images of public domain material from the Google Books project.)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK DEGLI ULTIMI CASI DI ROMAGNA ***


                                 DEGLI

                              ULTIMI CASI

                               DI ROMAGNA


                                   DI
                           MASSIMO D’AZEGLIO

                                          Verba utilia quaesivi.
                                                    _Eccl. XII._



                                VENEZIA
                COI TIPI DI LORENZO GATTEI EDIT. LIBRAJO
                                 1848.




A CESARE BALBO


_Ti dono questo mio scritto, non perchè intenda che l’autorità del
tuo nome abbia a farsi scudo a tutte le opinioni ch’egli esprime ma
perchè so esser tu ed io concordi sulla più importante, su quella
della nostra indipendenza; perchè so esser tu convinto, come io lo
sono, della necessità di soffocare in Italia ogni favilla di discordia
con larghe e reciproche concessioni sulle opinioni di minor conto,
purchè da tutti si dia mano alla grand’opera della nostra nazionale
rigenerazione; della necessità di discutere liberamente e senza mistero
le cose nostre, discussione alla quale hai degnamente aperto il campo
pel primo, e te ne è dovuto il vanto; perchè finalmente mi legano a te
stretti vincoli di sangue e di lunga ed immacolata amicizia, e vincoli
ancor più stretti, anzi i maggiori che possano stringere due cuori,
quelli d’un eguale ed ardente amore di patria, e del desiderio di porre
le forze e la vita per la sua liberazione._

                                                                M. A.




Sui moti di Rimini del settembre scorso (1846) pochissimi, e forse
que’ soli che si trovarono al fatto, hanno saputa la verità: ed in
Italia, ove le corrispondenze particolari non osano, ed i pubblici
fogli non vogliono dirla, non può essere altrimenti. Stando alle loro
notizie, copiate dai fogli stranieri, e sparse così in tutta Europa,
poche centinaia di disperati, guidati da un uomo condannato a dieci
anni di galera, hanno turbata la pace pubblica, e rovesciata in Rimini
l’autorità pontificia: poscia, spargendosi in piccole bande per
l’Apennino, e fuggendo dinanzi alle baionette svizzere, in pochi giorni
sono stati del tutto dissipati, e lasciando la città, hanno commesso
disordini e ruberie, riportando taccia di perturbatori, ladri e codardi.

Io stimo intempestivo e dannoso il moto di Rimini, come stimerò
sempre intempestivi e dannosi siffatti moti parziali, ed aggiungerò
a fronte alta, che li stimo perciò biasimevoli, non avendo diritto
una ristrettissima minorità di farsi giudice se sia o no opportuno
spinger la propria nazione nella gran lotta dell’indipendenza, non
avendo diritto di giocar su un tiro di dadi la sostanza, la quiete,
la libertà, la vita di un numero incalcolabile de’ suoi concittadini,
e, quel che più importa, l’onore e le sorti future della intera
nazione. Io disapprovo dunque il moto di Rimini; e questo scritto cadrà
probabilmente in mano di molti che di tal disapprovazione potrebbero
rendermi larga testimonianza, essendosi per tutta Italia sparsa molti
mesi innanzi la voce prepararsi un moto in Romagna, ed avendo io cento
volte ripetuto tenerla per cosa inconsiderata e dannosa.

Ma se ho creduto e credo che i suoi autori non abbiano posto mente
a quel che v’era d’impossibile, d’intempestivo, perciò d’ingiusto,
nella loro impresa, ciò non vuol dire che s’abbiano a tenere per
ladri e codardi, come hanno ripetuto i fogli italiani e stranieri; ed
ora che sono vinti, ora che sono parte ricacciati in esilio, parte
chiusi in carcere e sottoposti a giudici che non dirò prevaricatori,
non avendo il diritto d’accusar chicchessia senza chiare prove, ma
che dirò esposti a molte tentazioni di prevaricare, non piaccia a Dio
che in tutta Italia non sia chi alzi la voce per la verità, per dirla
imparzialmente ai vinti, come ai vincitori.

Il nasconderla o tacerla, sarebbe oggimai vano, puerile e forse peggio.

I casi di Romagna, per quanto di poco momento, sono pur sempre un
episodio della questione dell’indipendenza italiana, questione che
tanto più fervidamente viene agitata nel segreto de’ cuori e de’
colloqui, quanto più severamente le è vietato palesarsi in liberi
discorsi ed in libere dimostrazioni: questione che ogni giorno più si
estende, accendendosi anche in quella parte del popolo italiano, che,
mal osservata, sembra inerte e senza pensier di sè stessa: questione
che deve necessariamente agitare ogni nazione cui sia stata rapita
la celeste eredità, lasciatale dal padre comune di tutti gli uomini,
l’indipendenza: questione, finalmente, che può paragonarsi ad una gran
mina scavata sotto l’intera Penisola, alla quale non s’ha diritto dar
fuoco senza il consenso e l’approvazione dei più, tanto meno poi per
desiderii o patimenti parziali; ma questione generale, necessaria,
giusta, e che tutti giustamente e virtuosamente abbiam diritto di
trattare.

Ora, nascondere la verità su questa questione sarebbe vano, come
dicemmo, e puerile. Tutti i governi, tutte le polizie italiane sanno,
quanto lo sappiam tutti, che essa si discute, si agita, è in tutti i
cuori, su tutte le lingue, e nessuno certamente riuscirebbe a dar loro
ad intendere che non ci si pensa. Lo stesso s’ha da dire della polizia
dell’Austria e de’ suoi uomini di Stato, i quali debbono bensì pel loro
ufficio adoprarsi a danno anche dell’Italia, onde mantener validi i
legami che uniscono le varie parti dell’Impero tendenti a dissolversi,
e sono perciò politicamente da tenersi come nemici; ma che comprendono
essi stessi non esser possibile che la cosa stia altrimenti, ed hanno
poi, ne siam certi, mente troppo elevata (co’ nemici s’ha a spinger la
giustizia sino allo scrupolo) per osar condannare la tendenza dello
spirito italiano, e non rendergli anzi quell’omaggio che vorrebbero
fosse reso a loro, se si trovassero nelle nostre circostanze.

Se sarebbe puerile il creder di nascondere le nostre tendenze,
le nostre speranze; il volerle poi tacere, il non osar parlarne
moderatamente, e saviamente sì, ma liberamente ed a viso aperto,
sarebbe peggio, sarebbe oramai viltà.

Ma i governi? le polizie? le Commissioni? mi si potrà rispondere.

Prima di tutto non vedo che a chi ha osato stampare liberamente le sue
opinioni sulle sorti presenti e future d’Italia (e gl’invidierei questo
vanto se gli fossi freddo amico), pubblicandole col suo nome in fronte,
sia stato torto un capello. Cesare Balbo è testimonio vivente che io
affermo la verità, e Niccolini ed altri vivono liberi e tranquilli.

L’epoca de’ tiranni è molto lontana da noi. Il duca Valentino,
Bernabò Visconti, Pierluigi Farnese non sarebbero più possibili. Chi
volesse rinnovarli cadrebbe percosso dalla possente mano di quella
che è oramai la vera dominatrice del mondo, de’ principi come de’
popoli, l’opinione. Il dir tirannici i governi attuali d’Italia è
fanciullaggine alfieriana, come è fanciullaggine di poeta cesareo
chiamar ladro chiunque si muove per desiderio d’indipendenza.

I principi italiani, dovendo camminare tra due impossibili, o almeno
tra due estremi difficilissimi, e guidati quasi esclusivamente
dall’istinto della conservazione, non sono ne’ loro atti pubblici quali
si potrebbero desiderare; ma nel loro privato sono generalmente uomini
di temperato costume ed illuminati, ed al più potranno tagliar la via
degl’impieghi a chi scrivesse anche con moderazione e verità cose che
a loro non fosser grate, o non paressero opportune: ma certamente non
lo faranno nè imprigionare, nè impiccare; ed i libri, comunque poi
siano, non chiameranno sicuramente nelle parti d’Italia non soggette
all’Austria, le baionette tedesche.

Poi se tutto ciò non bastasse o non fosse vero, concediamo pure vi sia
pericolo a parlar liberamente, pubblicamente e moderatamente degli
affari nostri in casa nostra. Dirò allora che questo pericolo si
deve incontrare dall’uomo virtuoso e d’onore pel proprio paese, come
incontrerebbe quello della mitraglia quando la necessità o l’utile
della patria lo domandasse. Dirò che il pericolo che s’incontra per la
giustizia non deve trattenere dall’adempierla. Dirò che il coraggio
civile non è inferiore al valor militare, a quello delle congiure e
delle sommosse, ed è talora più opportuno, più applicabile a tutte le
circostanze, meno incolpabile dalla malevoglienza: che, quantunque
tanto più utile quanto maggiore è il numero di coloro che lo mostrano,
può tuttavia mostrarsi anche isolatamente ed individualmente, ed
il difetto del numero è allora compensato dall’esempio: allora, se
non altro, si giuoca la posta d’un solo, non quella di tutti o di
molti, senza aver avuto missione o consenso per arrischiarla. Dirò,
finalmente, che, se una nazione non si cura della sua indipendenza, non
deve muover nè rivoluzioni nè lamenti: se se ne cura, la desidera e la
cerca, deve saperla meritare: e si merita non con iscosse parziali,
intempestive, inconsiderate, che possono assomigliarsi all’atto
rabbioso d’una fiera che s’ostini a insanguinarsi il muso battendolo
invano contro i ferri della sua gabbia, più che alla generosa temerità
di esseri ragionevoli che si mettano ponderatamente ad impresa
pericolosa sì, ma non senza speranza di buona riuscita.

Si merita col mostrare che quella prepotente forza che ha potuto
materialmente sottomettere la nazione, non ne ha sottomesso la volontà,
chè in ciò soltanto consisterebbe la vera degradazione.

Si merita col mostrar virilmente, utilmente e tenacemente questa
volontà sempre ed in tutti i modi possibili.

Si merita col saper a tempo patire e sopportare con operosa
rassegnazione, ed a tempo osare con opportunità e con giudizio.

Si merita col pertinace studio d’ogni individuo per dotar sè stesso
della maggior forza morale possibile.

Si merita, finalmente, colla virtù degli opportuni, de’ lunghi, de’
grandi sacrifizii. E noi Italiani possiamo forse alzar la fronte,
metterci la mano al petto, e dire a Dio ed agli uomini: Ce la siam
meritata?

Prima di prendere a dimostrare le mie proposizioni, cioè essere il moto
di Rimini stato intempestivo, dannoso, e perciò biasimevole, sento il
bisogno di dichiarare che mi è costato assai aggiungere quest’ultimo
aggettivo, e non mi ci sono indotto se non dopo stretto esame e lunga
ponderazione.

L’alzar la voce per dir parole di biasimo ad uomini miei concittadini,
che credo bensì indotti in errore, ma contro i quali son ben lontano
dal muover le turpi accuse de’ fogli officiali, e che anzi hanno
il merito incontrastabile d’aver praticata la difficil virtù del
sacrificio, ed esposta la vita e quanto l’uomo ha di più caro per
ciò ch’essi stimavano giovevole alla patria, il contristarli ora che
la loro condizione, già assai dolorosa, s’è fatto peggiore, ora che
soffrono, ora che vivono del duro pane de’ vinti e degli sbanditi, mi
costa un vero sforzo, essendo nella natura mia sentirmi sempre più
inclinato a favorire il vinto, che il vincitore, e stimando non esservi
al mondo atto più vile ed abbietto di quello di lanciare il sasso a
chi fugge. Ma sento nella mia coscienza non commettere, con questo
scritto, atto che somigli a cotale viltà. Sento che mi muove soltanto
il desiderio di dire ciò che credo utile alla causa comune; di dire
il vero con tutta la moderata ed imparziale libertà di cui è capace
l’animo mio. Sento di non essere ora, come la Dio grazia non sono
stato mai, adulatore a persona, nè ai governi, ai quali non domando
oro, onori od impieghi, nè ai miei concittadini, dei quali, Dio lo
sa, desidero, sopra ogni cosa al mondo, la benevolenza e la stima, ma
purchè non mi costi, non dirò una menzogna, un’adulazione, ma neppure
una reticenza, trattandosi d’opinioni.

Risoluto ad esporle, perchè credo utile alla patria, non il mio povero
ingegno, ma il fatto di tener vivo un’aperta e moderata discussione;
perchè stimo sia per me debito d’onore mettermi francamente per quella
via, pericolosa o no, nella quale conforto ad entrare, parlerò senza
riguardo di persone: ho però voluto dir prima che sacrifico questi
riguardi alla verità ed all’utile della causa italiana, ma li sacrifico
col rammarico che si prova quando il dovere v’impone rimproverare o
contristare persona che si stimi e che s’ami.

Ora, ritornando al mio assunto, dico che l’opportunità è la massima
delle condizioni in tutte le cose umane; nelle cose di stato poi è
tutto. Per decidere dell’opportunità d’un atto convien prima aver
concepito chiaramente lo scopo al quale si tende, gli ostacoli che gli
si oppongono, i mezzi onde superarli.

Lo scopo degl’Italiani in tutti i loro moti dal 1820 in qua, se ne
togliamo i fatti del 21, è stato il sottrarsi ad abusi e patimenti
locali, e ciò isolatamente, senza molto pensiero de’ loro vicini
parimenti Italiani; e se in alcuni di codesti moti traspariva il
desiderio di riordinar meglio l’intera nazione, di spingere a scopo
comune le forze comuni, questo desiderio s’è sempre mostrato, per dir
così, in seconda fila, e si è poi fatto tacere del tutto appena si
è temuto potesse far pericolare l’impresa, che più premeva, tutta u
vantaggio locale.

E gl’Italiani hanno avuto quello che meritavano pel loro egoismo e per
la miseria dei loro disegni.

Lo scopo dell’ultimo moto, come degli antecedenti, tutto parziale e,
per dir così, provinciale, come sia stato ottenuto, lo possiamo vedere:
e le cose sono andate come dovevano necessariamente andare, ed anzi
come si è meritato che andassero.

Ed il consigliare gl’Italiani a mettere in prima fila la causa della
nazione. In seconda quella delle singole parti di essa, non è soltanto
consigliare a disegni più generosi de’ passati; è indicare un calcolo
di puro interesse, è indicare la sola via che possa, presto o tardi,
condurci ad ottenere prima il bene di tutti, poi, per necessaria
conseguenza, il bene d’ognuno.

E perchè è la sola utile, la sola buona? Perchè è la via della
giustizia, d’una giustizia talmente ammessa, talmente incontrastata,
talmente consentanea all’opinione di tutto il mondo, che, seguendola,
si può incontrar forse sventure e patimenti, ma non vergogna nè
avvilimento maggiore. Anzi i patimenti e le sventure sofferte per la
giustizia, per la difesa d’un santo diritto, ottengono l’omaggio ed
il rispetto dell’opinione universale, ritemprano il carattere delle
nazioni, e le rendono capaci e meritevoli di sorti migliori.

Questa via è la migliore, perchè riunisce la maggior forza col riunire
il maggior numero di volontà. Si potrà, di fatti, esser di diversa
opinione in Italia sul miglior modo di riordinare i singoli stati e
sulle forme del reggimento (e questa diversità emerge naturalmente
dalla disuguaglianza de’ gradi del soffrire), ma da Trapani a Susa
s’interroghi ogni Italiano se è utile all’Italia liberarsi dal dominio
e dall’influenza straniera, e nessuno, vivaddio, risponderà se non
affermativamente, nessuno ricuserà porre l’ingegno o la mano a questo
fine. Persino i nostri principi, se altrimenti dicessero, mentirebbero
alla loro coscienza, all’onore della loro dignità: tra le straniere
nazioni i popoli indipendenti mentirebbero al loro principio, i popoli
servi alle loro speranze, ai loro desiderii più cari.

Nel secolo in cui la schiavitù dell’individuo è oggetto d’abominio
universale, in cui le nazioni più potenti e civili tanto s’adoprano per
cancellarne dal mondo la macchia, nel secolo in cui si crede ingiusto
che l’uomo tenga incatenata la volontà, l’azione d’un altr’uomo, le
diriga al proprio utile, profitti della sua fatica, senza lasciargli
altro che la vita ed il più ristretto necessario per sostenerla, chi
potrà affermare che sia giusto da nazione a nazione quello che è tenuto
ingiusto da individuo ad individuo? Chi potrà negare all’Italia sola
quella nazionalità alla quale tendono tutte le razze, tutte le lingue
che vivono sparse sulla superficie del globo?

Per non essere entrati francamente e generosamente in questa via,
gl’Italiani sono stati e sono tuttavia, più che compatiti, derisi.

E considerando attentamente le condizioni attuali d’Italia e d’Europa,
si conosce se era possibile che in questo momento una mossa d’armi
ottenesse vittoria.

Mentre non le idee generose e d’onor nazionale, non le idee di
giustizia, ma lo studio del miglior impiego de’ capitali, decidono in
tutto il mondo della pace e della guerra, mentre il re Luigi Filippo
si mostra mantenitore ad ogni costo in Europa di quella pace che crede
utile alla Francia, si vorrà credere che per tenerezza dell’Italia
rinunci al suo sistema, metta in forse le questioni per lui più vitali,
vietando all’Austria di scagliar sull’Italia duecentomila soldati e
duecento pezzi di cannone? E gli agitatori di Rimini, di tutto lo
stato, di tutta l’Italia, che cos’hanno da opporle? Contro venti pezzi
in batteria, non dico più, voglion esser palle e non chiacchiere. E
se la Francia non arresta gli eserciti dell’Austria, li arresterà la
Russia? Sua rivale, lo concedo, per la dominazione delle razze slave
dell’Europa orientale, ma prima, e più di tutto, nemica per principio e
per gelosia della mal compressa Polonia, d’ogni moto nazionale, di ogni
idea di liberazione ottenuto col mezzo di moti popolari.

Gli arresterà la Prussia, anch’essa, è vero, rivale dell’Austria
nell’influenza sulla nazionalità germanica, ma anch’essa gelosa del
suo brano dì Polonia, ed avversa perciò a favorire quel principio che,
ammesso, dovrebbe turbargliene il possesso?

Gli arresterà l’Inghilterra, antica alleata dell’Austria, e giunta
a quell’apice di potenza e ricchezza, dal quale per una gran guerra
europea potrebbe soltanto discendere?

Chi adunque impedirà all’Austria di soffocare in Italia la prima
favilla d’un incendio che minaccia null’altro che la sua esistenza?

Se poi i fautori del moto di Rimini dicessero, come hanno detto in
altri casi consimili: _Se non ci avessero lasciati soli, se gli altri
Italiani tutti in massa si fosser levati?_

Rispondo: che per chi si mette a cose di stato, la qualità più
necessaria è avere il senso pratico, veder il mondo, gli uomini come
sono realmente, e non come forse dovrebbero essere; nè può dopo la mala
riuscita scusare il suo errore col dire: _e se avessero fatto.... ed
avrebbero dovuto far questo o quest’altro_. Chè gli accusati potrebbero
rispondere: _non ci avete interrogati se volevamo o credevamo opportuno
cooperare all’impresa, e non avendovelo perciò promesso, non avete
diritto di farci rimproveri_.

Ma, anche consultati, gl’Italiani in massa avrebbero ricusato di
levarsi in armi, perchè nella massa, tanto più in Italia, esiste
quel senso pratico che talvolta non si trova negl’individui: chi è
guidato da questo senso sa che gli uomini dotati di educazione, e
principalmente d’educazione politica, posson talvolta muoversi per
patimenti, desiderii o bisogni morali, ma costoro son dappertutto
il minor numero, e tanto più in Italia. Il numero maggiore privi
d’educazione civile, e non avendo il primo principio della politica
(ed in tale stato sono le masse tra noi), non si muove che per
bisogni, desiderii, patimenti materiali, e conviene sieno grandi ed
insopportabili; chè ai piccoli e sopportabili è avvezzo, usato com’è
dallo stato della società a sostentarne con virile rassegnazione i pesi
più gravi.

Ora, tanto generosa a’ suoi figli è la natura nella terra italiana,
che giammai la dappocaggine o la malignità degli uomini è bastata a
disperderne o consumarne i doni del tutto. Ed una delle cagioni delle
lunghe servitù d’Italia è forse, che la nostra terra ha potuto sempre
saziare ad un tempo l’ingorda avidità del vincitore straniero e la
fame dell’indigeno vinto. Il volgo italiano, a fronte di tante altre
nazioni, ignora, si può dire, la miseria, ignora la fame: e la fame è
la più potente tra le agitatrici de’ popoli.

Ma, soffrisse il doppio di quel che soffre, il senso del vero e del
positivo, sempre più pratico nel popolo, che ne’ signori, perchè il
popolo è più strettamente e continuamente alle mani cogli ostacoli
della vita, e s’avvezza a giudicarne meglio; questo senso, dico,
mostrerebbe al nostro la difficoltà, dovrei dire la impossibilità di
dar mano a moti simili a quello di Rimini.

Egli conosce che l’accordo di levarsi in pochi è inutile; di levarsi
in molti impossibile. E sarebbe strano certamente se nella patria di
Machiavelli, ov’egli proclamava non eseguibile la congiura di poche
diecine d’uomini, si tenesse eseguibile quella di migliaia e migliaia.

E se il popolo italiano non istudia la politica, non legge gazzette,
non sa d’equilibrio e d’interessi europei, sa poi tuttavia che,
quand’anche riuscisse a sottrarsi al giogo del suo governo locale,
non avrebbe fatto nulla, e gli toccherebbe combattere, disordinato ed
inerme, contro l’Austria, disciplinata ed armata.

Ma alla nostra destra, alla nostra sinistra, mi si potrà rispondere,
la Spagna e la Grecia non ci mostrarono forse quello che può un popolo
contro il dominio straniero?

A me sembra invece che queste due nazioni abbiano mostrato appunto
quello che non può il popolo, quando non è che popolo, e non ha nè
esercito, nè tesoro, nè buoni ordini.

Cominciam dalla Spagna.

La sollevazione di Madrid del 2 di maggio 1808 fu il primo grido
d’indegnazione che gettò la nazione contro la mostruosa violenza che
volea usarle Napoleone. Di pari indegnazione arse l’intera Penisola,
che si coprì di _guerillas_; ma se togliamo la giornata di Baylen e la
sua famosa capitolazione, dovuta più all’avarizia del general Dupont,
che alla perizia degli Spagnuoli, se leviamo l’assedio di Saragozza, di
Girona e Tarragona, gli Spagnuoli giammai poteron far testa all’aquile
di Napoleone. Ed eran pur già prima riuniti in corpo di nazione, buono
o cattivo, avean pure esercito e materiale di guerra, eran soccorsi
dall’oro dell’Inghilterra, dai suoi soldati, e li guidava il duca di
Wellington.

E se Napoleone non commetteva l’errore di aver due guerre ad un tempo,
accese alle due estremità del suo impero: se la Provvidenza non mandava
l’angiolo sterminatore a sorprendere il suo esercito nelle steppe della
Russia, cosa sarebbe divenuta la Spagna, anche aiutata dagl’Inglesi?

E dove sono gl’Inglesi, dov’è il duca di Wellington dell’Italia?

E per maggior prova, quando il popolo spagnuolo non ebbe più nè l’uno
nè gli altri; quando ebbe solo a dirla con una nazione grande, ordinata
e non occupata altrove, come andarono le cose?

Il duca d’Angoulême corse la Spagna dai Pirenei al Trocadero, come un
soldato viaggia col foglio di via, e tutto fu finito.

E la differenza corsa tra queste due guerre serve poi di nuova prova
all’altra mia proposizione: essere la causa dell’indipendenza tanto
più potente a riunire e render forte un popolo, che non la causa delle
istituzioni e della libertà. Per l’indipendenza gli Spagnuoli, riuniti
in una sola volontà, travagliarono per cinque anni Napoleone nel colmo
della sua potenza. Per le nuove istituzioni, divisi ed inerti, si
diedero, dopo un mese, a discrezione d’un duca d’Angoulême.

Poichè parliamo di Spagna e di _guerillas_, risponderò anche a
chi dicesse: che in Italia si avrebbero ad usare, che il paese
montuoso vi sembra atto, ec., ec. Chi così la pensa, sappia che non
è _guerillero_ nè capo di _guerilla_ chi vuole, e dove e quando lo
vuole. La _guerilla_ in Ispagna ha combattuto co’ Romani prima, poi
coi Goti e coi Mori, e, se parve spenta sotto i discendenti di Carlo
V e di Filippo V, ha mostrato sotto Napoleone che nel riposo non avea
perduta la mano del tutto; onde si deve riconoscere che è nella natura
stessa dello Spagnuolo, e, come ora si dice, una sua _specialità_. La
_guerilla_, anche in Ispagna, non si scosta mai dal proprio paese, e
quando se ne scosta perde ogni forza; e si potè vedere nell’impresa
tentata da don Carlos contro Madrid. La _guerilla_ vuol larghi tratti
di paese spopolato e senza strade, ove non possan le truppe regolari,
le artiglierie, i cavalli correr facilmente e raggiungerla, ed è
sempre, per dir così, l’espressione armata dell’opinione di quello
nel quale opera; e così essendo, trova pane, ricovero, aiuto, avvisi,
protezione per tutto, purchè, ben inteso, stia sempre tra chi la
conosce e pensa come lei.

Basta questo semplice ritratto della _guerilla_, o debbo aggiungere
altre parole per mostrare che in Italia è impossibile?

Un capo di _guerilla_ in Italia, dopo un mese, se non fosse preso,
avrebbe la scelta tra il morir di fame, o il diventar capo d’assassini.

Ora veniamo alla Grecia, e poche parole basteranno, essendo tra i casi
de’ due popoli grande analogia. Dall’epoca del Congresso di Vienna, il
pensiero della Russia di rannodare a sè la razza greco-slava, diede
animo a quanti volevano liberar la Grecia dal giogo ottomano. Scoppiò
l’insurrezione, e durò la guerra sino al 1827: finì, si può dire, colla
battaglia di Navarino. Questa battaglia, intendiamola bene, finì la
guerra. E da chi fu combattuta? Dalle armate di Francia, Inghilterra e
Russia, e non dai Greci.

E chi vede tra i possibili a favor dell’Italia una battaglia di
Navarino? Ho scelto quest’ultimo fatto come il più importante, come
quello che tutti li spiega, di tutti è la conseguenza, e taccio degli
infiniti soccorsi d’uomini, di denari, d’ingegni europei che furon
profusi in aiuto della causa dei Greci, i quali (si notino queste
circostanze) avevano a combattere un nemico fiacco, male ordinato e
da non potersi paragonare all’Austria per nessun verso; erano più del
nostro popolo usi all’armi, indurati alla fatica, pronti a mettersi
ad ogni ventura, e n’hanno dato gloriosa e mirabil prova nella lunga
guerra che fu (e questo è di gran peso) non solo d’indipendenza, ma
insieme guerra di religione. E la storia del mondo c’insegna, che
nessuna più di questa riunisce la volontà, le forze, accende il furore
d’una nazione e la rende invincibile.

E finalmente ambedue le nazioni suddette non posson paragonarsi
all’italiano; ambedue già dapprima formavano, bene o male, corpo di
nazione; ambedue soffrivano più assai della nostra; e certo non si
trovano in Italia, neppur nelle Calabrie o nell’interno della Sicilia,
tipi che somiglino al _guerillero_ spagnuolo ed al Palicaro od al
Clefto Greco, perchè questi tipi si formano in uno stato più selvaggio,
sotto giogo più duro e patimenti più atroci di quelli che abbia mai
conosciuti il popolo in Italia, la quale meno calpestata o calpestata
assai più, avrebbe forse potuto meglio riprender forza e riaversi.

Colle dette ragioni credo aver dimostrato che il moto di Rimini è stato
intempestivo ed inutile: ed è lo stesso che averlo inoltre dimostrato
dannoso. Si potrebbero tuttavia aggiungere molte altre riflessioni
sulla questione presa sotto quest’ultimo aspetto, e dire:

Che se in Italia sono in copia nature d’uomini potenti ed ardite che
non si perdono d’animo per la mala riuscita di quelle prove, ve ne
sono eziandio moltissime che ne vengono abbattute, e si rassegnano
poi a tener la causa italiana per ispacciata: simili a certi infermi
che, dopo aver tentato molti modi di cura, si tengono per incurabili,
mentre non tanto la perversità del male, quanto l’imperizia del medico
è cagione che non possano riaversi.

Che siffatti moti, ed il volerli degli uni e il non volerli degli
altri; le accuse, le recriminazioni, i dispetti e le quistioni che
partoriscono tra uomini dissenzienti sui mezzi, consenzienti per lo
scopo, seminano disunioni, sospetti, inimicizie ove più importerebbe
non fosse se non concordia, fiducia ed amore scambievole.

Che i governi, insospettiti e tementi non si rinnovino tali
disordini, e stimandoli fors’anche indizio di dio sa quali trame,
quali macchinazioni generali e sotterranee, e nutrendo timori, credo
io, assai più del bisogno, come sempre accade, ove si tratti di
pericoli oscuri ed indefiniti; ogni dì più moltiplicano le difese,
le precauzioni, le vessazioni di polizia, che pur tanto incagliano
l’onesto esercizio delle facoltà mentali e materiali della nazione, il
suo commercio, le transazioni, il suo generale sviluppo.

Che in questi inutili ed intempestivi sforzi si sprecano i più vitali
elementi del popolo italiano, si perdono gli uomini più arditi, di
maggior energia e di più potenti facoltà, i quali son costretti
abbandonar la patria o vivervi sotto il peso d’un oltraggioso perdono,
tenuti, per dir così, in quarantena, e ridotti alla più assoluta
inoperosità.

Che queste miniature di rivoluzione, di grave momento nel ristretto
cerchio ove succedono, e per coloro che ne sono attori, sono appena
avvertite fuori d’Italia, presso le nazioni ove, per la piena libertà
della parola e della stampa, si agitano apertamente le più importanti
questioni politiche e sociali; ove è per conseguenza il supremo
tribunale dell’opinione europea, l’officina, per dir così, d’onde
viene sparsa per tutto il mondo. E Dio volesse non fossero avvertite,
o fossero condannate e biasimate soltanto! ma sono derise, schernite.
Servon di tèma a brevi articoli di giornale, pieni d’una compassione
protettrice, di un ammonire sardonico, che ti fa dar di volta al sangue
più di qualunque improperio: ed il lettore straniero sorride e passa; e
l’opinione che di noi si sparge e si ferma è d’esser un popolo inetto,
privo d’ogni idea, d’ogni educazione politica, incapace di disegni
maturi e ponderati, incapace del lungo e pertinace lavoro, che conduce
finalmente alla rigenerazione; incapace egualmente di soffrire e di
combattere, e perciò degno della sua presente fortuna. E saremo dunque
tanto caduti, che la miseria, le lagrime, il sangue italiano abbiano
persino a dar materia di riso?

E non vorremo trovar modo una volta, che le nostre sventure déstino,
come quelle della Polonia e dell’Irlanda, nostre sorelle (poste in
condizioni, se non pari alle nostre, analoghe almeno alla nostra in
molti punti), lo sdegno che i generosi provano contro chi opprime,
l’antica ed onorevole pietà, che è conforto, speranza, e non oltraggio
agli oppressi? E l’Irlanda, la Polonia perchè l’ottengono? Perchè
soffrono più di noi, e più degnamente, più operosamente di noi.
L’opinione, la simpatia, il voto della civiltà intera sta per loro, e
sono pure oggidì i potenti alleati! E di noi? Di noi si ride.

Collo svolgere il filo del mio ragionamento, mi si presenta sempre più
evidente la verità espressa nella prima pagina; l’opportunità esser
tutto nelle cose di stato: e m’appare perciò pedantesca e superflua
la divisione da me adottata, che intende provare successivamente e
separatamente le mie proposizioni, mentre senz’avvedermene trovo che
nel dimostrare inopportuno il moto di Rimini, l’ho insieme e perciò
dimostrato dannoso e biasimevole.

Ciò nondimeno, poichè ho tenuta questa divisione, che non è per
avventura del tutto inutile ad esporre più ordinatamente le mie idee,
la manterrò sino al fine: ma al punto di volgermi alla coscienza di
chi è stato cagione si versasse inutilmente il sangue italiano, al
momento di chiedergliene ragione, m’accora, lo ripeto, il pensiero che
questo mio scritto cadrà probabilmente in mano di quelli che scontano
ora un errore di mente, non dico una colpa o un delitto, colla più
amara delle umane miserie, l’esilio; che contristerà forse le pensose
veglie dell’esule, di chi ha pur offerto in olocausto alla patria i
tranquilli colloqui della città, del tetto nativo, le domestiche gioie,
l’amor d’una madre, d’una sposa, dei figli; di chi s’è volontariamente
spogliato di questi tesori, ed insiem colla vita li ha gettati nelle
bilancie ove stanno in bilico le nostre sorti; di chi tende ora
l’orecchio ad ogni vento che spiri dalla terra d’Italia, sperando in
guiderdone di tanto sacrificio, gli porti almeno il suono d’una parola
di conforto, di compianto, o forse di lode.

Ed io dovrò esser quello che invece gli faccia suonar all’orecchio, e
più nel cuore, parole di biasimo?

Sì: lo stimo utile, lo stimo per me debito di onore, e più d’uno
in Italia penserà ch’io ho ragione. Non ch’io abbia la presunzione
di credermi l’interprete assoluto della verità; ma credo, e posso
credere, d’aver diritto come ogn’altro di esporre il frutto delle
mie riflessioni: credo utile eccitare la discussione, ed il mio più
caldo desiderio sarebbe che un ingegno più elevato e sottile del mio
rispondesse a questo scritto, ne additasse gli errori, indicasse
migliori e più prudenti risoluzioni; io benedirei la mano che scrivesse
e dimostrasse ch’io ho dato improvvidi consigli, a patto che ne
suggerisse altri non avvertiti da me e più profittevoli alla causa
italiana.

Credo l’avvenire gravido di diverse e grandi fortune per molte tra le
nazioni europee, che Iddio per gli arcani suoi fini spinge ad una meta
comune più o meno lontana, e credo possano assomigliarsi alle vergini
evangeliche aspettanti lo sposo. Le prudenti, che avean saputo tenersi
apparecchiate, vennero intromesse al convito; le stolte rimasero
escluse e derise.

Onde non sia tale la nostra sorte, discutiamo le cose nostre,
parliamone schiettamente, apertamente, con reciproca fiducia, senza
pensieri di amor proprio, senza cura d’individui, d’opinioni, di
parti. Cerchiamo la verità, diciamola senza pretendere aiutarla con
esagerazioni d’odio o di amore, di calunnie o d’adulazione. Invece
d’aiutarla, a codesto modo le daremmo impaccio, le torremmo vigore:
chè la verità, figlia di Dio primogenita, è forte per sè stessa
abbastanza, è forte quanto la sua origine celeste; e la causa della
nostra indipendenza, vincitrice o vinta, sarà sempre gloriosa sotto la
sua bandiera.

In nome di questa verità, io dico dunque che è fatto gravissimo, anzi è
il fatto il più grave di quanti possa l’uomo intraprendere, quello di
spingere la propria nazione nella sanguinosa via delle sommosse; perchè
è il fatto nel quale è più difficile fissar precisamente il limite tra
il giusto e l’ingiusto, tra l’utile ed il dannoso; è il fatto che può
condurre egualmente a quanto v’è di generoso, di grande, di virtuoso
al mondo, come può trascinare ai più fatali errori: che può esser la
sorgente d’immensi beni, come d’immensi mali; d’immensa gloria, come
d’immensa infamia; che, finalmente, può essere la salute d’un popolo o
la sua totale rovina.

L’intraprenderlo di propria autorità, il porvi mano e dargli la mossa
pel primo, può essere il sublime o dell’ardire o della temerità o della
pazzia, ma è sempre atto tremendo per chi abbia in pregio la giustizia,
la carità di patria, l’amore degli uomini, la fama propria e della
propria nazione. Chi se ne fa autore, si fa arbitro al tempo stesso,
come già dissi, delle volontà, dell’avere, della libertà, della vita
d’un numero d’uomini, che nè egli nè alcun altro, se non Iddio, può
prevedere e calcolare; e se ne fa arbitro per usare i più preziosi
beni, la più gelosa proprietà de’ suoi concittadini ad eseguire i
propri giudizi; se ne fa arbitro quasi sempre senza il loro consenso,
senza diritto, senza essere stato a ciò eletto da loro. E se a questo
fatto, invece d’esser uno, sono parecchi, ciò non muta lo stato della
questione, salvo che la responsabilità l’avranno parecchi invece d’un
solo.

Ora quello o quelli che si fanno arbitri delle cose altrui, senza
averne avuto l’incarico da chi n’era giusto e legale possessore,
sarà benedetto se le migliora, ma se le peggiora sarà maledetto, e
giustamente: e non vale scusarsi colle intenzioni, che possono far
perdonare l’imperizia di chi è posto ad un ufficio da altri, non di chi
vi si pone da sè.

E per esser giusti, per non usar due pesi e due misure, quando
noi popolo ci lagniamo dei principi assoluti e del modo col quale
amministrano la cosa pubblica, che mai rispondiamo a quelli che per
iscusarli dicono: _Hanno buone intenzioni; credono fare il bene?_
Rispondiamo: _L’intenzione non basta, e chi non sa fare, lasci
fare a chi sa!_ E rispondiamo bene. Ma la verità è una sola, e se
l’applichiamo ai principi, dobbiamo egualmente applicarla a chi fa
ciò che essi fanno, benchè con modi e con fini diversi. E se si
considera attentamente a quale delle due posizioni dia vantaggio questa
diversità, troveremo che l’arbitrio de’ principi genera di rado le
conseguenze calamitose che quasi sempre genera l’arbitrio de’ capi di
sommosse. Ed i principi hanno inoltre una posizione data, e che non si
sono scelta di loro propria elezione. Non essendo però mia intenzione
d’adulare i principi, aggiungerò che stimo alla lunga il loro arbitrio
di maggior danno ad un popolo: ma senza volere ora cercare chi de’
due più l’offenda ne’ suoi diritti, rimarrà sempre vera la mia
proposizione, che chi guasta di proprio arbitrio gli affari altrui, non
può scusarsi colla sola intenzione.

E che gli autori del moto di Rimini abbiano corso il rischio di
guastare gli affari di moltissimi, e forse dell’intera nazione, di
ritardare indefinitamente il suo progresso, di compromettere il suo
avvenire, di tirarle addosso la tremenda calamità d’un’invasione, mi
pare evidente dalle ragioni addotte fin qui. Piacque a Dio nella sua
bontà di mantenere il senno, e non chiudere all’evidenza gli occhi dei
più. Ma se la cosa fosse andata altrimenti, se tutte le sventure da
me enumerate, e che nessuno può negare possibili, si fossero versate
sulla già abbastanza infelice Italia, qual terribil giudizio pesava
su chi n’era stato cagione? Lasciamo stare il ludibrio, il rimprovero
dell’opinione universale; ma il rimprovero della coscienza, quale di
quei cuori generosi, amanti della patria e pronti (l’hanno mostrato)
a dar tutto per essa, quale, dico, avrebbe potuto sostenerlo senza
spezzarsi?

Io ho parlato parole severe; ho parlato di rimorsi; perchè credo
ufficio d’uomo che meriti un tal nome sapere a viso aperto rendere
testimonianza a quelle verità che gli appaiono evidenti ed utili,
dicendole non solo al potente che ti può nuocere (virtù, della quale
è gran parte l’orgoglio, e perciò non difficile), ma al debole, al
vinto, cui vorresti tender la mano, consolarlo, compiangerlo, invece di
riprenderlo. Bensì conosco qual eloquente risposta potrebber fare alle
mie parole gli uomini di Rimini, col solo esporre e mostrare al mondo
le miserie che soffrivano e che soffrono le Romagne.

Ed a chi ti dice: _Io soffro troppo_, come aver coraggio di rispondere:
_Tu non hai sofferto abbastanza?_ Essi hanno detto appunto: noi non
possiamo sopportar più oltre; e sembrerà loro duro sentirsi dire da
chi sopporta assai meno: Era dover vostro il soffrire ancora; ed a me
che scrivo, non è men duro il pormi in apparenza tra coloro ai quali
Cristo diceva:_ Oneratis homines oneribus quae portare non possunt, vos
autem ne uno digito tangitis sarcinas_: ma voglio pur seguitare come ho
cominciato, e dir il vero senza rispetti nè d’altri nè di me stesso:
e domando se, col non voler sopportare, hanno trovato sollievo, o non
piuttosto aggravati i loro mali?

Domando se stimano soffrir più che non soffre la Polonia? Lo sanno
eglino che cosa soffre questa nobile e sventurata nazione? Che miserie
soffre tacendo, orando, operando in tutti i modi che le son concessi,
onde rigenerarsi prima alla virtù, alla giustizia, per esser poi
rigenerata all’indipendenza ed alla libertà! Si specchino in que’
valorosi ed altrettanto disavventurati, che, immobili colle braccia
intrecciate sul petto, vedono il loro popolo decimato dalla frusta
del Cosacco, che lo caccia a frotte ne’ deserti gelati della Siberia;
vedono oltraggiata la loro fede, profanate le loro chiese, sedotta
la giovinezza, distrutto ogni viver civile; vedono coprirsi la loro
terra di fortezze destinate a render più salde le loro catene. Eppur
non si muovono, non danno mano all’armi, e non li trattiene il timor
della morte (l’hanno mostrato se sien capaci di viltà), ma li trattiene
il solo timore di dilatar le piaghe della patria ed accrescerne
le sventure; e siccome sono stati al mondo esempio di virtù nel
combattere, lo sono ora di altrettanta e maggior virtù nel soffrire.
Evitando egualmente i due più funesti effetti della disperazione, il
furor cieco e l’inerte rassegnazione, attendono taciti, pazienti ed
operosi a rannodare il loro popolo, renderlo migliore e perciò più
potente. I loro nobili, ravveduti ed ammoniti dal passato, tendon la
mano al povero, al contadino, che opprimevano e sprezzavano: lo chiaman
fratello, lo cercano ne’ suoi tugurii per portargli a consolazione del
presente la speranza d’un miglior avvenire. Vizio e rovina di quei
calpestati era l’abuso de’ liquori, coi quali dimenticavano per qualche
ora ne’ sogni dell’ebbrezza le miserie della realtà: e la pigione delle
taverne era una delle entrate dei nobili. Eppure v’hanno rinunciato,
l’hanno chiuse, hanno ristrette le loro spese, onde il popolo non
corrotto riprenda vigor morale e possa risorgere.... Questa è vera
fortezza, vera carità di patria; queste son le vie che onorano, rendon
venerabile anco la servitù, le ottengono il rispetto degli uomini,
talvolta il loro aiuto e sempre la misericordia, la protezione di Dio.

Ma se gli autori del moto di Rimini non hanno tenuto queste vie, se
il furore, l’intolleranza dei loro mali li ha trascinati ad atti che
sono da giudicarsi intempestivi, e perciò dannosi e biasimevoli, s’avrà
dunque, senza ammettere scusa, a pronunciar contro essi un’assoluta
condanna?

A questo punto ringrazio Iddio, che è oramai adempiuto per me l’amaro
assunto di contristare il vinto e lo sventurato, ed è venuto invece
il momento di volgermi al vincitore, a chi non prova nè le angustie
del carcere, nè le miserie dell’esilio, a chi è potente e gode d’ogni
favore della fortuna, e sento oramai venirmi più sicura, più libera la
parola.

Ma, prima di esaminare i modi tenuti dalla corte di Roma co’ suoi
sudditi, e particolarmente co’ suoi sudditi di Romagna; prima d’entrare
seco lei in discussione circa i suoi atti, vorrei sapere se la
discussione è possibile, vale a dire se partiamo da basi tenute vere
egualmente da ambe le parti; e per questo io domando se v’è un solo
Decalogo, un solo Vangelo, una sola morale data egualmente a tutti gli
uomini per norma delle loro azioni, o se invece vi sono due edizioni
de’ suddetti codici, ad uso l’una de’ principi, l’altra de’ popoli,
l’una dei governanti, degli uomini di stato, dei diplomatici, l’altra
della moltitudine governata.

Dovendo necessariamente interpretare io la risposta, la suppongo
consentanea alla dottrina professata in ogni tempo dalla corte di Roma;
esservi cioè, una sola morale pe’ grandi come pe’ piccioli, pe’ forti
come pe’ deboli, pe’ governanti come pei governati. Trovarci d’accordo
su questo punto è pure assai, ma non è tutto. Un’altra cosa mi resta
a sapere: e domando se a questa morale, a questa regola da seguirsi
indistintamente da tutti i viventi, si può applicare l’assioma che ogni
regola ha la sua eccezione, ovvero se le regole eterne della giustizia
e dell’onestà sono le sole alle quali non abbia mai l’uomo nè ragione
nè pretesto per disubbidire. Anche a questa domanda son costretto
rispondere da me, interpretando la decisione della corte romana
favorevole a quest’ultima opinione, che è necessaria conseguenza delle
dottrine da lei insegnate.

Posti d’accordo su questi due punti, e partendo essa ed io da questo
dato comune, che la morale è una sola, costringe egualmente tutti gli
uomini alle sue leggi, e non ammette possibile nessun caso, nessun
motivo di trasgredirla, la discussione divien possibile, e una cosa
sola resta ad esaminare: quali conseguenze tragga la corte romana da
queste premesse, e quali conseguenze ne ricavi, non dico io, chè non
conto nulla, o non conto che per un solo, ma il raziocinio, l’opinione
della civiltà universale.

O questa via di scoprire il vero è buona, anzi la sola buona, e non dà
motivo di lagnanza a nessuna delle due parti contendenti, o bisognerà
dire che la verità è una chimera, il cercarla un tempo perso.

Io dico dunque per prima cosa, che dalle suddette proposizioni emerge
necessariamente la conseguenza, che l’antico argomento della ragion
di stato, col quale si è voluto sin qui da moltissimi giustificare i
governi di quegli atti che si sarebbero condannati e tenuti ingiusti
in un privato, è argomento vano ed immorale; poichè o la giustizia è
legge universale, ed il mentire, il mancar di fede dovrà condannarsi
tanto in uno, come in molti individui, vale a dire nello stato e negli
uomini che ne regolano le risoluzioni; ovvero bisognerà almeno trovar
una regola che definisca qual numero d’individui riuniti è necessario
per far che l’ingiusto divenga giusto, l’immorale divenga morale.

E l’addurre in favore della ragione di stato l’utile dell’universale è
misero pretesto, non è ragione: o diversamente s’avrà a concedere che
la giustizia ammetta casi d’eccezione, ed allora parimenti non sarebbe
male dare una regola che insegnasse conoscere quali sono codesti casi.

Concederò che per l’utile dell’universale siano giusti per parte dello
stato certi atti che dovrebbero esser tenuti ingiusti per parte di un
privato; ma la difficoltà è soltanto apparente, e per iscioglierla
dobbiamo distinguere la giustizia positiva dalla giustizia relativa.

È ingiusto, verbigrazia, l’uccidere, ma divien giusto ove sia in
propria difesa: e questo è esempio di giustizia relativa.

Invece è ingiusto il mancar di fede, e lo è in tutti i casi, in tutte
le occasioni possibili: e questa è giustizia positiva.

Così, scegliendo ad esempio il caso più comune, nel quale è concessa
e tenuta giusta per lo stato un’apparente ingiustizia (e che per il
privato sarebbe ingiustizia vera), il caso d’espropriazione forzata,
consideriamo che in quest’atto sono da distinguere due casi; l’uno
dell’espropriazione violenta, assoluta, senza compenso, che con una
sola parola vien detta rapina, ed è caso d’ingiustizia positiva, e
perciò non vien permessa nè all’individuo nè allo stato, il quale
difatti, ove sia ben regolato, giammai la commette, e se toglie il suo
ad un privato per utile pubblico, usa l’avere del pubblico a dargli un
competente compenso.

Il secondo caso, questo appunto dell’espropriazione con compenso, non
è più rapina, nè caso d’ingiustizia positiva, poichè non si toglie
violentemente nulla al suo giusto possessore; e se gli si toglie
parte del libero esercizio della sua volontà, che potrebbe essere di
serbare ad ogni modo ciò che gli viene occupato, non gli si toglie pel
principio che uno debba essere sacrificato ai più, che, per quanto
abbia apparenza di giustizia, sarebbe cionnondimeno principio ingiusto;
ma gli si toglie perchè, essendo questo suo sacrificio necessario
all’esistenza o al bene almeno di quella società alla quale appartiene,
che lo protegge e lo difende nei suoi diritti, egli vien realmente
compensato con questi vantaggi della perdita d’una porzione della sua
libertà. E siccome questi vantaggi può darli in compenso lo stato, e
non il privato, è ingiusto occupare l’altrui violentemente per utile
privato, è giusto occuparlo per utile dell’universale.

Con ciò mi par dimostrato che la distinzione di giustizia positiva
e relativa può bensì usarsi per facilitare l’intelligenza della
questione, ma che di fatto è distinzione inesatta; bastando il dire che
l’ingiustizia è vietata e condannabile assolutamente, e che perciò nè
la ragion di stato, nè l’utile pubblico, nè alcun altro motivo la può
mai coonestare.

Queste idee sono talmente elementari, che al lettore farà meraviglia
ch’io abbia voluto il disagio di scriverle; e certamente pare un sogno
che s’abbia a prender la questione a questo modo e da questi principii,
che sembrerebbe non bisognassero di dimostrazione, e s’avessero a
tenere per sottintesi. Ma come fare altrimenti a voler entrare in
discussione con chi, facendosi al mondo nuncio della buona novella,
la rende poi cotanto trista a coloro che gli sono più immediatamente
affidati da Dio? con chi è custode e banditore del divin Codice della
giustizia, dell’amore e del perdono, e commette o permette almeno
l’ingiustizia, muta l’amore in odio, e non ha perdonato giammai? con
chi predica l’umiltà sul trono, la carità, chiudendo l’orecchio ad ogni
reclamo, l’amor del prossimo colle inique commissioni militari? Se a
costoro, vivaddio, si domanda: — Credete o non credete nella giustizia?
Credete o no in quello che predicate? — non se lo possono aver per
male, e nessuno al mondo lo potrà trovare strano.

E queste rigide parole io non le dico per odio del papato. Lo dichiaro
solennemente, prima di aggiunger altro, affinchè il lettore non mi
prenda in iscambio. Io venero il cristianesimo, venero il cattolicismo,
e stimerei l’ultima delle sventure per l’Italia se si turbasse la sua
unità religiosa, la sola che le sia rimasta. Di più; io neppur sento
astio od avversione contro la corte di Roma, dalla quale non ricevetti
giammai offesa veruna, e n’ho invece talvolta ricevuti favori, e
perciò le mie parole, per quanto acerbe, non s’hanno a prendere come
espressione dell’odio d’un nemico, ma piuttosto come effetto del dolore
che si desta in noi per l’amico che s’ostini alla sua rovina.

Io ho accusato d’ingiustizia il governo papale. Suppongo che egli,
interrogando, dica: — Che cosa dunque debbo fare? — Io gli darò
una risposta alla quale forse nè esso nè il lettore s’aspetta: gli
domanderò cosa che non parrà indiscreta, gli chiederò pe’ suoi sudditi
la grazia di essere un po’ più assoluto, un po’ più dispotico di quello
che è: anzi d’esser governo veramente assoluto e dispotico, ch’egli
crede essere, e non è.

Per governo assoluto s’intende quello d’un uomo che a suo pieno
arbitrio comandi ad un popolo; tanto è vero che la parola monarchia
altro non significa fuorchè comando d’un solo.

Ora si potrebbe affermare, che questo modo di principato, preso nel
suo stretto senso, non è possibile a nessun uomo, ed è possibile a
Dio soltanto: perchè Dio solo, e non altri, può esser simultaneamente
presente alle azioni di tutti i viventi, e dirigerle a suo piacere. Ma
lasciamo questa troppo stretta interpretazione.

Io dico che neppur in un più lato senso (salvo uno solo, che dirò or
ora), non è possibile all’uomo il governo assoluto. Perchè nessun uomo,
sieno pur immense quanto si voglia le sue facoltà corporee e mentali,
può giungere a provvedere coll’azione immediata della sua autorità
a tutt’i casi che si moltiplicano all’infinito giornalmente nel
reggimento di più milioni di sudditi.

Vi sono però due vie d’esercitare approssimativamente, dirò così, il
principato assoluto. Una illusoria pel principe stesso: l’altra reale,
per quanto lo può essere nelle condizioni della nostra natura.

La prima consiste nel far fare ad altri quello che non si può far da
sè; cioè nell’investire altri d’una porzione della propria autorità,
onde l’eserciti a sua discrezione. Ma questo è modo, non d’esercitare
il principato assoluto, bensì di spogliarsene. Questo è modo usato
in terra di Turchi, ed anche colà vien meno a misura che vi cresce
e s’estende la civiltà: ma non vien meno però tra’ Cristiani e più
particolarmente nello stato papale. Questo è modo più d’ogni altro
rovinoso pe’ sudditi e pieno di pericoli pel principe, il quale
non comanda, come abbiamo osservato, e non ha perciò i benefizii
dell’impero, ma ne ha invece tutti gli odii e le responsabilità; ed
ove gli uomini, investiti da lui del potere, ne abusino, incontra
necessariamente o taccia di crudele, se non li corregge, o di stolto e
poco avveduto, se, correggendoli, confessa implicitamente di non aver
saputo scegliere e conoscere i suoi ministri. Perciò, o disprezzo od
odio non lo può fuggire.

Ciò accade ad ogni momento sotto il governo papale: e, per citare un
esempio tra mille, e dir cosa recente e notissima, tutti si rammentano
del fatto, accaduto or fa l’anno, d’un vescovo dello stato, che bandiva
un editto per dar nuovi regolamenti in materia matrimoniale, rafforzato
di gravi pene minacciate ai contravventori. Io ero in Roma. L’editto
girava di tasca in tasca, di conversazione in conversazione; e non ti
dico che risate se ne facesse. Convenne al governo annullarlo, chè, con
tutto il buon volere di salvar la riputazione del vescovo, non v’era
modo a far altrimenti, essendo la più pazza cosa del mondo: ma qual
guadagno vi facesse invece la riputazione del governo, e qual guadagno
faccia ne’ casi consimili, che pur troppo si ripetono di continuo, te
lo puoi immaginare: odio o disprezzo; di qui non s’esce.

Dunque un cotal modo d’esercitare il principato assoluto è pericoloso
pel principe, ed inoltre illusorio, ed il principe che lo segue crede
essere assoluto, e non è: e la sua autorità è meno ubbidita di quella
del sovrano dello stato più democraticamente rappresentativo del mondo.

Resta un altro modo, il migliore, il solo praticabile, il solo che
(data la monarchia assoluta) possa conciliare la possibile felicità dei
popoli colla sicurezza del principe, il solo non illusorio, e mediante
il quale il principe può realmente dire: Io comando ai miei sudditi
quanto è possibile che un uomo, e non un Dio, comandi ad altri uomini.

Questo modo è semplicissimo, e consiste in ciò: che il principe, di suo
proprio moto ed autorità, e per ispirazione divina se vogliamo, chè non
cerco briga sulle parole, decida una volta quali siano i suoi voleri,
li traduca in altrettante leggi, le promulghi, e dica ai suoi sudditi:
_dal maggiore all’infimo tutti le dovete egualmente ubbidire._

Ciò fatto, fissi un’ora, un giorno, ogni settimana, ogni mese, nel
quale ad ogni suo suddito sia lecito presentarsegli e dirgli: il
tal vostro ministro m’ha fatto ingiuria per aver disubbidito al tal
articolo della vostra legge. Provata la verità dell’accusa, punisca
il ministro, e faccia giustizia all’offeso; e questo principe potrà
veramente vantarsi d’esser principe assoluto, potrà dire: La mia
volontà è ubbidita da’ miei sudditi sino all’estremo limite cui può
giungere l’autorità di un uomo; potrà dire: Il mio principato è vera
monarchia.

Domando ora se tanto può dire il papa? domando se ai suoi sudditi non
tornerebbe meglio che potesse dirlo? Domando ai Romagnuoli se non
preferirebbero ubbidire a leggi buone o cattive, ma stabili, senza
eccezione di persone, uguali per tutti, piuttosto che all’arbitrio de’
loro monsignori, legati, vice-legati, delegati o che so io? domando se
non vorrebbero (essendo pur sudditi del papa) ubbidire almeno al papa,
e fosse il suo principato più assoluto che non è, anzi veramente e
realmente assoluto?

Ho fatto professione di dire la verità senza nè reticenze, nè passioni,
e mi trovo sforzato a lodar l’Austria. Il suo codice (salvo pe’ casi
di stato, ove è assolutamente iniquo) è uguale per tutti, non ammette
eccezioni nè di persone, nè di classi, nè di religione. Colla legge
alla mano l’ultimo facchino ha ragione contro il primo de’ signori o
degli stessi ministri del governo. E non dico per questo che le sue
leggi sieno buone, che sieno adatte ai bisogni degl’Italiani che le
ubbidiscono, ed intese al loro vero bene, e meno ancora che il suo
governo sia perciò accetto o debba essere accetto nella Lombardia e
nella Venezia, mentre è sempre governo straniero, e che anco nel far il
bene ha in mira il pessimo de’ mali, quello d’impedirci d’esser nazione
padrona di sè ed indipendente; ma dico che gli uomini si rassegnano
talvolta anche a mali gravissimi, quando è pure in essi regola certa,
imparziale ed uguale per tutti, e, contenti o no, vi s’accomodano. Ma
non s’accomodano giammai a veder, verbigrazia, di due delinquenti,
l’uno assolto, l’altro condannato per lo stesso delitto, a veder il
prete immune da quel castigo che percuote il laico inesorabilmente[1];
non s’accomodano alla vita di continuo sospetto, all’incertezza di
tutt’i momenti, al dubbio tormentoso ed incessante di esser o spogliati
dell’avere, o carcerati, od offesi arbitrariamente in qualsiasi modo,
senza aver via di richiamo, senza aver legge certa che li difenda.

E lo sa bene l’Austria, e ne fa pur troppo il suo profitto: ma tra i
governi italiani tutti più o meno mostran co’ fatti d’ignorarlo, e più
di tutti il governo papale; e se i suoi sudditi non amano il governo
straniero, e non cercano, come molti hanno detto e creduto, d’esser
riuniti all’Austria, se que’ ribaldi dei Castagnuoli e del Baratelli,
che s’ingegnavano propagarne il pensiero colla infame società
Ferdinandea, ed hanno avuta quell’accoglienza e que’ trattamenti che
meritavano, non hanno ottenuto il loro intento; se n’ha a rendere
grazia all’indole generosa de’ Romagnuoli, al loro spirito nazionale e
veramente italiano, pel quale voglion piuttosto soffrire ogni peggior
male, che sottoporsi allo straniero, al maggior nemico della patria
comune: ma dal canto suo, bisogna dirlo, il governo papale avea fatto
ogni opera onde venisser ridotti a questo doloroso partito.

Aver un codice (e per codice intendo non solo leggi, ma istituzioni,
ordini stabili e certi) è il primo dovere d’ogni governo, qualunque
sia la sua forma: è dunque il primo dovere, e dovrebb’esser la prima
cura del governo papale: e se i suoi sudditi lo chiedono, chiedono il
giusto, e se il governo lo nega, commette una iniquità.

Ma poichè non hanno ordine o legge certa, generale, imparziale; poichè
hanno pure a vivere, o, dirò meglio, ad ingegnarsi di vivere tirando
innanzi alla meglio, schermendosi contro le cento autorità che sono
tra loro in continuo contrasto, che si contendono l’amministrazione, e
si giuocano a palla i poveri sudditi, i loro averi, i loro interessi,
la loro libertà, avessero almeno questi disgraziati un modo d’alzar la
voce, e farsi sentire quando son troppo assassinati; avessero una porta
che s’aprisse ai loro richiami, un orecchio che li ascoltasse!

Ora dirò cosa che nell’anno 1845 parrà enorme, impossibile: chi non
conosce Roma la crederà una calunnia.

Il capo dello stato non ha giorno d’udienza pubblica, come hanno tutti
i sovrani assoluti. Ma questo è nulla. Se un suddito dello stato
domanda di parlare al papa, non gli viene concesso se non promette
formalmente prima, che non gli parlerà d’affari.

Questo fatto non ha bisogno di comenti, e chi non lo crede è padrone
di verificarlo. E se qualcuno m’opponesse, che è lecito presentar
memoriali, ricorrere ai tribunali, ai governatori, ai legati, alla
Segreteria di Stato, ec., ec., ringrazierei dell’avviso questo
valentuomo, e ringrazierei Iddio per lui di non avergli mai mandate
tribolazioni che gl’insegnassero qual fondamento si possa fare su
codesti modi.

Alle corte, o le mie accuse sono calunnie, e me lo provino, o è vero
che chi prédica la giustizia, e n’è il primo custode, commette invece
una iniquità, ed allora è ragionevole il domandargli se vi siano due
vangeli, due morali od una sola; se sia persuaso, o no, di quella che
predica ed insegna al mondo. È ragionevole intimargli di rinnegare
l’una delle due cose, o questa morale, o le proprie opere: domandargli
se crede che all’età nostra sia lecito, sia tra i possibili, stabilire
o mantenere un’autorità qualunque sulla negazione flagrante e continua
del proprio principio: se vi sia al mondo un uomo che abbia diritto
di sragionare contro tutti; se non è troppo stolta cosa il supporre
che tutti l’abbiano a sopportare in pace, e rassegnarsi agl’infiniti
mali che ne sono la conseguenza. È ragionevole il dirgli: Dei moti
di Romagna, delle uccisioni, degli esilii, delle lacrime di tanti
infelici, n’avete a render conto a Dio, voi governo, e non i vostri
calpestati sudditi. Il loro sangue vi ripioverà in capo; i loro dolori,
le loro lacrime, saranno giudicate da quel tribunale dinanzi al quale
non giunsero giammai nè corone, nè scettri, nè triregni, rimasti
nella polvere dei sepolcri, ma ove giungono e si presentan soltanto
anime nude, non protette contro la spada dell’eterna giustizia da
altro scudo, se non dalla propria innocenza; le opere vostre saranno
pesate con quelle bilancie incorruttibili, sulle quali la minima delle
ingiurie fatte al minimo degli uomini, pesa più di tutti i troni e di
tutte le corone dell’universo.

Od è falso questo che insegnate sulla giustizia di Dio, e sui suoi
tremendi giudizi nell’altra vita, ed allora le mie parole son pazze,
e fareste male a curarle: o quel che insegnate è vero, e ne siete
convinti, e credete che Iddio vi chiederà un giorno ragione dell’opere
vostre, e vi dirà: _io v’avevo dato un popolo, che cosa n’avete fatto?_
ed allora ditemi voi di qual nome s’abbiano a chiamare i vostri
atti! ditemi come s’abbia a trovare spiegazione dei modi che tenete:
ditemelo, chè da me non lo trovo, nè l’indovino.

I potenti, lo so, ridono in barba di queste che chiamano declamazioni,
ed a me paiono rigorose deduzioni; so ch’essi pensano o anco dicono con
ischerno: «Solito rifugio di chi non ha forza, e non può difendersi,
godersi in questo mondo nel pensiero d’esser vendicato nell’altro». Ma
se gli altri potenti lo dicono, non lo potete dir voi senza mentir a
voi stessi ed alle vostre parole. E poi, aprite gli occhi, e vedete se
la spada della giustizia eterna aspetta sempre l’uomo al varco della
tomba! Vedete se sempre ha tanta pazienza! Giratevi intorno lo sguardo:
vedete se l’ingiustizia, se la violenza è albero che metta profonde
e salde radici! Vedete da cinquant’anni in qua di quanti principati
più saldi cento volte del vostro, che credeano stare inespugnabili ed
inconcussi per la grazia di Dio, ed in suo nome poter commettere a man
salva l’iniquità, di quanti di questi, dico, non s’è veduta la rovina!
Vedete per tutto il mondo come le antiche ingiustizie abbiano scavato
la fossa sotto i piedi di chi se ne rese colpevole: vedete la Turchia
pagar le vecchie ingiurie fatte alla Grecia: la Russia tremar di
continuo dell’assassinata Polonia: l’Austria contare i giorni di vita
che le rimangono, spaventata d’ogni paglia che si muova in Italia, in
Ungheria, in Polonia o in altre provincie dell’Impero; chè con molti ha
conti aperti, e conti tremendi!

L’istessa Inghilterra, la felice, la potente Inghilterra, la signora
dei mari e delle ricchezze del mondo, vedetela turbata ne’ suoi trionfi
dallo spettro dell’affamata Irlanda, dal sospetto di una vendetta
domestica, che, al primo reale pericolo, potrebbe condurla all’ultima
rovina.

Dio è giusto e non protegge l’iniquità, e di tutte le sue doti la sola
che non sia infinita è la pazienza a sopportar l’ingiustizia. Abbiatelo
a mente.

Le mie parole non sono una minaccia. Quale autorità o qual potenza
avrei io di minacciare? Non sono un augurio, e tanto meno un desiderio:
come potrei desiderar il male d’un solo, fosse anco il più colpevole
de’ miei fratelli italiani? Ma son parole di dolore e d’amore, ancor
più che di sdegno, per vedere tanta parte di quell’Italia, di quella
patria che amo sopra ogni cosa al mondo, messa da voi nella dolorosa
alternativa, o di sopportare i mali che le fate soffrire, o di levarsi
in armi e cadere in mano de’ vostri carnefici o degli stranieri.

Son parole, alle quali mi sforzano la verità e la giustizia: e dopo
aver detto ai Romagnuoli: «Voi non avete saputo soffrire,» se non
dicessi agli uomini di Roma: «Voi foste iniqui con essi,» che nome
meriterei?

La mia accusa contro il governo papale di non aver dato a’ suoi
sudditi un codice che li regga, le racchiude tutte. Ma le parole che
mi sono uscite dalla penna son troppo gravi, perchè io non creda dover
mio mostrare ancor più espressamente che non le ho dette se non a
grandissima ragione; e debbo perciò entrare più addentro in questo
doloroso argomento. Debbo scoprire le molte piaghe che affliggono
quelle belle ed altrettanto disavventurate provincie; debbo citar
fatti, e, comunque io mi ponga con ciò ad un lavoro troppo più lungo
ch’io non avea disegnato intraprendere, conosco tuttavia non potermene
oramai altrimenti ritrarre coll’onor mio.

Proseguiamo dunque in nome della verità e di Dio, che la protegge, e
farò ogni opera per esser conciso quanto è possibile.

Il sistema economico dello stato e le sue finanze sono ridotte a tal
punto, che nessuno in tutta Europa ne ignora gli assurdi e l’imminente
rovina. E se d’una cosa si fa le meraviglie, è che questa rovina
non sia già consumata, in una parola che lo stato non si sia ancora
dichiarato fallito. Meraviglia ragionevole, sapendosi da ognuno che
la sua amministrazione spende da una mano più dell’entrata, e chiude
dall’altra le fonti della pubblica ricchezza.

Il sistema proibitivo inceppa l’esportazione e l’importazione con
gabelle esagerate, cui l’ignoranza dà nome di protettrici: con istolte
proibizioni, colle quali, invece di favorire l’industria nazionale,
si favorisce non l’industria, ma il monopolio di pochi, si limita il
lavoro e la produzione, si provoca il contrabbando, fonte di corruzione
e d’immoralità, ed ostile allo stesso governo, che mantiene con
esso una classe d’uomini, sempre pronta ad unirsi contro chi voglia
offenderla.

L’effetto di questo sistema è di far pagare ai sudditi tutti i generi
che consumano, più cari del loro prezzo reale, a danno loro e dello
stesso erario, ed a profitto d’alcuni pochi. In una parola, d’impoverir
tutti per arricchire qualcuno: e per porre il colmo all’assurdo del
sistema, le gabelle sono date in appalto (mentre in ogni stato ben
regolato si danno ad appalto le opere pubbliche, ma le imposizioni
s’amministrano ad economia), e per conseguenza la maggiorità de’
consumatori deve inoltre impoverirsi di tutto il guadagno e della
ricchezza degli appaltatori.

Di tutto ciò che per altra parte potrebbe aumentar la pubblica
ricchezza, il governo non vuol udire parola: in ogni cosa vede una
trama, una ribellione, un pericolo, e non vede il maggiore, il più
inevitabile di tutti: simile all’uomo che fuggisse, guardandosi dietro,
da un insetto, e non badasse ch’egli sta per gettarsi in un precipizio.

Roma ha detto: Io non credo nelle strade ferrate; e di questa
profession di fede ride l’Europa intera; ma non ne ridono i sudditi
pontificii.

L’evidenza dei fatti aiuta il mio desiderio d’esser conciso, e però non
aggiungo altro, se non che ora si dice che finalmente le strade ferrate
si facciano anche colà. Un giorno o l’altro vi si faranno, lo so; ma se
s’abbiano a far presto, lo voglio prima vedere.

Ad ogni altro modo di miglioramento s’oppone pertinacemente il governo
o con proibizioni o con incagli: non vuole istituzioni di banche
tendenti ad accrescere il credito pubblico[2], non associazioni
agricole, industriali. Paralizzata così ogni mossa del corpo sociale,
intercetta e tolta la circolazione dei suoi più vitali umori, questo
per necessità si viene ogni dì più depauperando.

I possessori agricoli, aggravati da tasse incomportabili, nè trovando
sbocco alle derrate, si vanno consumando, nè vien loro fatto giammai
di poter ragunare avanzi, ed ammassar que’ capitali che sono il nerbo
dell’agricoltura ed il solo modo onde migliorarla.

Il commercio è, si può dir, nullo, e lo stato più centrale d’Italia,
seduto su due mari e sulla nuova via che si va aprendo al commercio
d’Oriente, dell’India e della Cina, con fiumi in parte navigabili,
ricco di miniere e delle terre più fruttifere della nostra penisola,
abitato da un popolo nel quale la Provvidenza ha infuso a piene mani
prontezza d’ingegno, avvedutezza, energia, fortezza ed ardire, questo
stato ha due porti principali, Civitavecchia ed Ancona: io li ho
veduti ambedue non è molto: in ambedue, salvo qualche vapore estero
che vi getta l’áncora per poche ore, non ho trovato che qualche povero
trabaccolo o qualche paranzella di pescatori.

Io ero in Ancona nel settembre scorso, e da una inezia, che appena
meriterebbe esser avvertita, potei trarre argomento dello stato in
cui trovasi colà il movimento marittimo e commerciale. Volli prender
un guscio a un tanto l’ora per far un giro in mare, e veder da quale
aspetto la città si mostrasse meglio onde farne un disegno. Domandai
a due marinai quanto volessero, ed avvezzo alle indiscrete pretese
che in Genova, Livorno, Napoli ed altri porti sono solite a cotali
uomini, m’aspettavo che costoro mi domandassero almeno uno scudo l’ora.
Mi domandarono _due paoli_, mezzo raccomandandosi coll’espressione
dello sguardo, onde non li trovassi indiscreti. Non s’immaginavano
que’ poveretti che stretta di pietà mi dêsse invece al cuore la loro
domanda, che era a tariffa di forestiere, e perciò esagerata, e mi
svelava i patimenti e le angustie d’un popolo intero!

E se il governo vieta a’ sudditi, non dirò d’arricchire, ma di potersi
aiutare, nessuno almeno li spogliasse, li opprimesse d’imposizioni;
fossero almeno temperate le spese!

Ma che accada invece tutto il contrario è cosa talmente nota, che
sarebbe allungar inutilmente questo scritto l’impiegar parola per
dimostrarla.

Parlando in generale, più le derrate sono cattive a questo mondo, più
s’hanno a buon mercato. Ma non è così de’ governi. Più son cattivi, e
più costano. E lo sanno i sudditi pontificii, ai quali tocca pagare
non solo quel prezzo, sia pur elevato quanto vogliamo, che deve pagar
ogni popolo per essere governato, ma son costretti a saldare alla
cieca i conti di un improvvido sistema che li rovina, son costretti
mantenere un’armata d’impiegati inutili (fossero soltanto inutili!),
di doganieri, finanzieri, ec. Son costretti pagar grassamente alti
ministri, spesso forestieri, che occupano cariche alle quali non
possono aggiungere i comuni cittadini se non entrando negli ordini
sacri, abbiano o no la vocazione a questo augusto ministero. E le
cariche poi alle quali possono esser nominati anche i laici, come
governatori, giudici, presidenti di tribunali, ec., sono invece troppo
mal retribuite, onde possan le persone civili ricavarne un onesto
sostentamento alla loro famiglia. Ma di tutte le spese del governo
la più dolorosa a’ popoli è quella de’ mercenari svizzeri. Non parlo
della guardia svizzera dei palazzi pontificii, troppo poco numerosa
per essere di peso allo stato, ma parlo dei reggimenti svizzeri, che
offrono lo spettacolo doloroso, e strano veramente a’ nostri tempi,
delle antiche compagnie di ventura, nè si comprende come la nobile e
virtuosa nazione alla quale appartengono (se pur non sono una ragunata
di genti di varie nazioni, come da molti si dice) non tolga dai suoi
ordini questa usanza tanto contraria allo spirito nazionale, del quale
essa ha dato in ben opposti modi così splendidi esempi, e contraria
egualmente alla sua dignità.

Io, che conosco il piccolo esercito pontificio, al quale per essere
ottima truppa non manca se non un comando ed una direzione veramente
militare, io, che conosco in esso uomini pieni di onore, di generosa ed
ardita natura, ed eccellenti uffiziali, e li vedo in fila con codesti
Svizzeri, preferiti a loro, e meglio trattati di loro; io, nato (mi
perdoni il lettore se alla cosa pubblica ardisco frammischiare parola
d’affetti privati) di tal padre che in un esercito ed in tempi ove
l’ardire e l’onor militare non eran cose rare, n’era tenuto modello;
io, memore de’ suoi insegnamenti e dei suoi onorati esempi, memore
della viril fortezza d’una madre che godeva e si vantava d’aver tre
figliuoli nell’esercito, ove tant’altre n’avrebber pianto e tremato;
io, educato a tale scuola, mi sento ribollir il sangue al pensiero
dell’onta che son costretti sopportare quei soldati italiani! Onta
la più amara che possa versarsi su chi sente l’onore, la religione
della bandiera, vedersi escluso dal guardarla e difenderla, e vederla
affidata a mercenari stranieri!

Io fremo del giusto sdegno di que’ soldati italiani, io mi rodo
dell’onta loro.

Non sa il governo papale qual tesoro d’odio (e Dio voglia non sia
di vendetta) gli s’aduni contro tra i popoli e nell’esercito per
questa sua maledizione dell’armi mercenarie e straniere; che sarebber
assalite e certo disperse da’ Romagnuoli, se non sapessero ch’esse sono
l’antiguardo dell’Austria, che scompariranno il giorno ch’essa sia
tolta dal guardar loro le spalle, perciò inutili ora ed allora, inutili
in un caso come nell’altro. Ma che dico inutili? esiziali ai popoli,
come al governo, al quale sono non lieve occasione di rovina economica,
di predilezioni e d’ingiustizie a danno delle truppe nazionali, mal
pagate, lacere e rivestite de’ panni logori del mercenario straniero,
assetate di vendetta contr’esso, come appare dalle frequenti risse
soldatesche, nelle quali, stando ai racconti popolari, i dragoni
pontificii hanno dato buona prova di sè — ed io, che li conosco, lo
credo.

Sono incredibili le spese che costano codeste genti, la loro
insaziabilità, il loro continuo chiedere al governo, e più incredibile
la dappocaggine di questo nell’accondiscendere alla loro ingordigia.

Accadde pochi anni sono un fatto del quale io non ho veduto cogli occhi
miei il processo (e dico questo perchè non uso affermare se non le cose
che ho vedute e toccate), ma che tutto lo stato tiene per certissimo.
In un reggimento nacque discordia tra il colonnello ed i suoi capitani,
e la questione avea avuto origine nel riparto degli avanzi fatti sui
fondi d’arruolamento, che dal governo pontificio (con ordini de’
quali Machiavelli ha fatti conoscere abbastanza gli errori, e perciò
da secoli oramai condannati) vien dato quasi ad appalto: non potendo
accordarsi, i capitani fecer ricorso all’autorità.

Di questo accidente ne corse la voce, e ne fu portato a Roma
il giudizio. È impossibile che ambe le parti avesser ragione:
cionnondimeno il governo, per tenersi affezionati i suoi custodi,
congedò il colonnello con una pensione, gli diede maggior grado, e
rimandò con lodi i capitani alle loro compagnie.

E così si spende il denaro spremuto dai sudditi. Ma andiamo innanzi,
chè c’è di meglio. Non vi fosse altro male che di Svizzeri!

Alla fine in gente ordinata, buona o cattiva, in reggimenti di linea,
sieno pur ingordi, vadan pur cercando d’avvantaggiarsi alla meglio che
possono, v’è pur sempre un limite ed una qualche ombra di regola: se
non altro, è ordine di cose, che ha in sè un certo che d’aperto, di
franco, di conosciuto da tutti; i fatti accadono alla luce del giorno,
in faccia al pubblico, e con poco o niente mistero. Ma un altro più
nefando ordine è in Romagna, un’altra tenebrosa e scellerata potenza,
invisibile a tutti gli occhi, che tutti i cittadini, in ogni luogo, in
ogni momento della vita si sentono al fianco vigilante ed apparecchiata
a loro danno.

Il lettore a questa parola ha già pronunciata la parola polizia; ma
il lettore s’inganna. Io parlo di cosa più turpe, d’una nefandità più
nuova, più rara, anzi sconosciuta affatto a tutte le nazioni civili;
parlo di cosa della quale non oso, non voglio accusar il governo, e che
pure, non si può negarlo, egli conosce, sa che esiste, e non ne lava
l’infamia nei luoghi ove gli è concessa ogni potestà.

È in Romagna una generazione d’uomini vile, oscura, di rotta e
scellerata vita, usa all’ozio, al bagordo, alle risse da taverne, che
si grida devota al papa, al suo governo, alla fede, alla religione, e
con questo vanto si tiene sciolta d’ogni freno, d’ogni legge, stima
lecita ogni violenza (forse la stima meritoria) purchè sia contro
uomini che professino altre opinioni delle sue; lo che, come ognun
vede, è lo stesso che dire contro chiunque le sia odioso o nemico.

Questa mala razza, profittando del continuo terrore che è ne’
governanti, si combina in conventicole oscure, e vi prepara supposte
congiure, delazioni, e, peggio, vendette ed assassinii.

La città ed il borgo di Faenza son divisi da miserabile ed inveterato
odio cittadinesco, avanzo probabilmente d’antico parteggiare. Ai
disusati e vecchi nomi di parte son sottentrati oggidì quelli di
liberali per la città, di papalini pel borgo. Popolato questo d’uomini
di bestial ferocia, pronti alle risse ed al sangue, è il luogo che
può dirsi principal officina di violenze, principal nido di quella
scellerata genìa che, e quivi, ed a sua imitazione nell’altre città
di Romagna, provoca, batte, ferisce e talvolta uccide, e sempre a man
salva, coloro ch’ella dice liberali, o frammassoni, o carbonari.

Infiniti casi ne son accaduti dal 31 in qua, e ne vanno accadendo alla
giornata. Nel 31, nel tempo dell’occupazione austriaca, è avvenuto che,
trovandosi a notte avanzata pacifici cittadini per le strade, tornando
a casa da qualche veglia, s’imbattevano in frotte di que’ mascalzoni,
che prima con parole li offendevano, poi con mazze li battevano o con
coltelli li ferivano; e più volte sono stati repressi, sgridati e
minacciati dagli stessi ufficiali austriaci, che, quantunque stranieri,
quantunque nemici nostri, o ministri, se non altro, di potenza a
noi nemica, pur sentivano indignazione di siffatte enormità e della
scellerata connivenza del governo, non potean patire di veder trattati
a quel modo uomini tranquilli e disarmati, e li accompagnavano per puro
moto di umanità finchè li vedessero riparati e fuor di pericolo dietro
gli usci delle loro case.

In Francia, all’epoca del _Terrore_, furono uomini simili a costoro i
Marsigliesi, e furon la vergogna di quell’ordine di cose, la macchia
della bandiera tricolore, l’onta della causa della libertà; ma eran
tempi di transizione tra estremi opposti, tempi di ebbrezza, di
scatenamento universale: eppure chi oserebbe scusare le ingiustizie,
le violenze d’allora? Chi a quelle memorie non sente destarsi in cuore
affetto pietoso per le vittime, sdegno ed abominio contro i manigoldi?

Ma nella nostra età, oggi, ora mentre scrivo, pensare che tuttociò
accade o può accadere, non in paese sciolto d’ogni freno ed in piena
rivoluzione, ma in paese retto in nome di Colui del quale sta scritto,
che amò gli uomini sino a dar la vita per loro; in nome di quella
legge che comanda di perdonar al fratello sette volte settanta, vale a
dire sempre; pensare che ciò non sia favola, sogno o esagerazione di
parti, ma cosa per disgrazia dell’umanità e della religione vera pur
troppo e reale, è tal idea che la mente umana non la sostiene, è idea
che ti farebbe dubitar della luce del sole, e ti mette in cuore vera
desolazione.

Simile all’uomo presso ad annegarsi, che s’afferra a qualunque, benchè
debol virgulto, m’appiglio all’idea che il pontefice non sappia quello
che in suo nome si commette. Che non lo sappia? È egli possibile?
Ripugno ad entrare in questa questione; ma se egli lo ignora, ben lo
sanno i suoi ministri, o alcuni almeno de’ suoi ministri. Le parole
degne di cotali sciagurati, io mi vergogno pronunciarle, nè voglio
imbrattarne la mia penna, perciò non aggiungo sillaba, e li lascio
all’esecrazione degli uomini onesti di tutti i partiti e di tutte le
nazioni.

Usciamo di queste abominazioni: ma, pur troppo, mi tocca ad entrare in
cose non meno turpi, comunque non di così sozza lordura.

Parlo de’ giudizi, dell’inquisizione politica affidata a Commissioni
straordinarie, non vincolate da nessun ordine legale di processura,
e con illimitata autorità nelle condanne. In codesti tribunali, veri
_coupe-gorge_, come dicono i Francesi, tenuti per scellerati da tutte
le nazioni civili, perchè la loro stessa natura, la loro essenza
medesima è certo segno dello scopo al quale son destinati di servire,
cioè d’istrumenti alle vendette d’un principe, e non alla giustizia;
in questi tribunali, dico, gli stessi uomini sono insieme accusatori
e giudici; non v’è libertà nella difesa, e neppure nella scelta del
difensore, dato dai tribunali, e preso tra le persone a lui devote;
i processi oscuri, occulti, composti nell’interesse dell’accusa; i
costituti ingannevoli, suggestivi e pieni d’artificio, ed impiegata la
tortura morale, e si potrebbe dire anco la materiale; indefinita ed
arbitraria la classificazione delle colpe, per la qual cosa vengono
spesso puniti, come delitti di lesa maestà, l’opinione, il pensiero,
gli affetti dell’animo sfuggiti in qualche parola, in qualche scritto
imprudente, e castigati con pene che passano ogni idea di proporzione e
di giustizia, anche ammessa la reità dell’accusato.

A considerare la mansuetudine de’ tribunali delle nazioni civili, di
Francia, Inghilterra, Belgio, ne’ casi di stato, la loro scrupolosa e
direi timida premura pel reo, onde non gravarlo oltre l’onesto (e si
noti che se si mostrassero più severi, n’avrebbero forse motivo, per
essere in quegli ordini di principato meno oppressione pei sudditi
e più vie legali onde ottener giustizia ove si tengan gravati), a
vedere, verbigrazia, Luigi Napoleone rimandato sciolto dopo l’impresa
di Strasburgo; dopo quella di Boulogne, chiuso soltanto in carcere,
dove se fosse nato suddito del papa, non vi sarebbero stati bastanti
patiboli per ammazzarlo; veder in Francia ed in Inghilterra soltanto
esiliati, o rinchiusi come pazzi, uomini che aveano tentato uccidere il
re o la regina, e pensare da chi sono retti codesti stati, e da chi è
retto lo stato romano, pensare che a quelli si dà taccia o d’eresia, o
d’irreligione, che si tengono quegli ordini per tristi e pervertitori
dell’umana società, che si predican questi come gli ottimi, i santi;
a veder le opere, gli effetti degli uni e degli altri, vacillerebbe
l’umana ragione se Iddio per sua misericordia non avesse posto nel cuor
dell’uomo la facoltà di conoscere ed amare la verità e la giustizia, e
di detestare la menzogna e l’iniquità.

Le turpitudini e gli assassinamenti di cotali Commissioni si
rassomigliano, e sono pari in tutti i tempi ed in tutti i luoghi dove
vengono adoperate; perchè le medesime cause producono per tutto e
sempre i medesimi effetti, e perciò oramai di comune consenso delle
persone oneste sono tenute istrumento soltanto di violenza e di
vendetta.

L’esperienza ha mostrato che i ribaldi i quali accettano di sedervi, o
sappiano la mente di chi li ha posti a quell’ufficio o l’indovinino,
cercano e voglion colpevoli, e non innocenti; sanno che ad ogni
condanna salgono in grado presso il governo, mentre l’assolvere gli
farebbe calare; sanno che i più saldi gradini della scala de’ premii,
degli onori sono per loro i corpi delle vittime, innocenti o colpevoli,
poco importa. Il mondo è pieno, grazie alla stampa, delle infamie
che si commettono da costoro; i nomi de’ più famosi, quali furono in
Lombardia il Salvotti ed il Zaiotti, stanno affissi ad esecrazione
universale, e ad esempio de’ posteri sulla nuova via che segue l’uman
genere verso un migliore stato di giustizia e di diritto, come le
membra de’ malfattori si affiggevano un tempo sulle strade a terrore
ed esempio delle moltitudini. Ed ancora s’hanno a vedere Commissioni
speciali? E l’Italia avrà dunque il tristo vanto d’esser l’ultima ad
usarle?

Combattere ed infamare cotali scelleratezze sarebbe per avventura
cosa vana e superflua in ogni paese civile, ma non lo è pur troppo in
Italia, e giova, ad estirpazione totale di cotal peste (onde se ne
vergognino, se non altro, quelli che se ne vorrebbero valere), entrar
nel doloroso racconto de’ fatti di codeste Commissioni, e a questo
effetto narrare i casi di Romagna sin dal 43.

Io, che fo professione sopra ogni altra cosa di scrupolosa veracità;
io, che per aver vittoria di ogni più turpe iniquità, non la graverei
della minima delle calunnie, se dovessi ancor salvare il mondo con
essa, racconterò cose che non ho vedute, e delle quali perciò non
ho la certezza materiale; ma cose al tempo stesso che a ragion di
critica tengo per vere, e che sono tenute per tali da tutti. Se poi,
cionnonostante, m’accadesse di accusar ingiustamente o un privato o
lo stesso governo, ecco ciò che dichiaro onde serva di regola a chi
si tenesse gravato dalle mie parole. L’ultimo, il più umile e debole
degli uomini, ove mi mostrasse ch’io l’ho accusato ingiustamente, avrà
da me convenevole riparazione all’onor suo, e nel disdire le parole
dette, certo involontariamente, contro di lui, lo ringrazierò d’avermi
dato occasione d’adempiere ad un dovere d’equità: ma il più potente, il
primo de’ viventi, ove l’avessi giustamente accusato, tenterebbe invano
di farmi disdire d’una sola delle mie parole.

Io spero non essere, con questa dichiarazione dell’animo mio, uscito
de’ termini di quella modestia che mi si conviene, e prego il lettore
vi conosca soltanto il desiderio e la volontà d’esser franco, leale e
giusto coi nemici, come cogli amici.

Nella state e nell’autunno del 1843, essendo la Romagna in condizioni
analoghe alle presenti, le crescenti vessazioni doganali aggiuntesi a
tutte le altre provocazioni del governo, diedero occasione a qualche
tumulto nella provincia bolognese. Piccoli mercanti ed artefici del
popolo minuto, uniti ad alcuni contrabbandieri, stretti e perseguitati
più del solito dai gabellieri, si buttarono alla montagna, e vi vennero
più volte alle mani colle guardie di finanza: nè questi disordini
erano altro che una vana ed impotente resistenza di povera gente a chi
le turbava i suoi più o meno legali guadagni. In Bologna cittadini
di ogni grado compativano a que’ moti, conoscendoli frutto de’ mali
ordini delle gabelle, nè agitazione veruna si destava nella città. Ma
ciò non faceva pei ministri della polizia. Arte vecchia di costoro in
ogni paese è il supporre ed anche suscitare dimostrazioni avverse al
governo, per farvi i loro profitti; a questo effetto dipinsero ai loro
rettori gli accaduti disordini quali moti politici, ed incominciarono
tosto persecuzioni, visite nelle case, imprigionamenti, senza colpa
effettiva o competenti indizi, e quindi fuga di molti popolani, i quali
dubitando di non venir carcerati, si rifuggirono ai monti, accostandosi
a quei primi: e di costoro e d’altri esuli di più antica data si venne
ingrossando quella banda, che sempre più divenne argomento agli uomini
di polizia onde spaventare l’imbecillità dei governanti e spingerli
a radunare a furia le scellerate Commissioni speciali. Accresciuti
perciò i sospetti e i terrori nell’universale, e conoscendosi alcuni
arditi e generosi uomini delle prime famiglie della città, e da molto
tempo tenuti d’occhio o perseguitati dal governo, in urgentissimo
pericolo delle libertà o della vita, e nella necessità di scampare
ad ogni modo, piuttosto che provvedere alla loro salute soltanto
esiliandosi volontariamente, preferirono riunirsi a quegli sventurati
loro concittadini, che la nequizia de’ governanti stava per ridurre
all’ultimo estremo, soccorrerli coll’avere, colla persona e co’
consigli, e, facendosi loro guide, sottrarli alla galera od al patibolo.

In Bologna intanto la Commissione condannava moltissimi a lunghe
prigionie: sette od otto ammazzava. De’ modi tenuti per conoscere i
colpevoli poco o nulla è noto, perchè oscuri e segreti i processi e le
difese.

È fama che di molte di quelle vittime non fosse certo il reato.
Certissimo poi che la pena fu ad ogni modo arbitraria ed esorbitante.

Il colonnello de’ carabinieri, Freddi, uomo in Romagna odiatissimo,
che la voce pubblica dice fosse stato processato prima del 31, e
tornato poi in grado a’ governanti col secondarne le violenze, era
anche nel 43 anima e capo della Commissione di Bologna. Esso ed i suoi
pari fecero in quell’occasione grossi guadagni, predicati dal governo
quali mantenitori e vindici dell’ordine, delle leggi e de’ diritti
sovrani, e colmati di onori e di premii. Ma questa messe era per durar
poco. Veniva meno, era per cessare la loro bisogna, ed i profitti per
conseguenza. La città era ormai tranquilla, e le Romagne non avean dato
segno che mostrasse unione o corrispondenza cogli umori del Bolognese.
La Commissione si vedeva alla vigilia d’essere disciolta.

La provincia o legazione di Forlì, sottoposta al cardinal Gizi, al
quale ci gode l’animo render quell’omaggio che merita la sua umanità
e la nobiltà del cuore, che rifugge da ogni lordura di polizia, ne
impedisce le provocazioni ed ogn’altra ribalderia, non offriva campo
atto alla Commissione. I temperati modi del cardinale tenevano la
legazione incolpabile e tranquilla.

In Ravenna, invece, il cardinal legato Massimi, principe romano, che
nell’universale avea nota di superbia e rigidità, e s’era concitato
contro odio inestimabile de’ cittadini, inquietandoli con persecuzioni
più aperte e continue, con vessazioni e castighi arbitrari, col
mostrarsi disprezzatore de’ popoli, in Ravenna, dico, pareva alla
Commissione poter più comodamente ed a man salva esercitare le sue
ribalderie, ed aver aiuto e favore dal cardinale, facile ad ire e
vendette implacabili ed a stupidi terrori.

Commosso il popolo con atti ingiusti e violenti, e posta ad acerbe
prove la sua pazienza, accadde un fatto che nessuna provocazione può
certo rendere scusabile, ma che, dall’altro canto, non può recar
meraviglia, l’uccisione d’uno Svizzero e d’un carabiniere[3], fatto
segno per le dette violenze all’odio universale; e questi omicidii
dettero modo alla Commissione d’estendere le sue operazioni anco
sull’infelice Romagna.

S’immaginarono corrispondenze ed analogie tra i moti del 43 in Bologna,
e questo fatto accaduto del 45 in Ravenna; si sognaron trame e congiure
estese a varie città delle Legazioni, moltiplicando al tempo stesso le
carcerazioni a caso e senza motivo ragionevole in Rimini, in Ravenna
e nelle terre della Romagnuola. La supposta opinione dell’inquisito
era bastante cagione d’imprigionarlo, e ciò appare dalle infinite
liberazioni che, dopo mesi e mesi e talvolta anni di carcere, accadono
di persone dall’istessa Commissione riconosciute a forza innocenti.

I tormenti corporali, la strettezza d’ogni agio, le carceri insalubri,
le sorprese morali, i modi nefandi da essa usati per ottener
confessioni o rivelazioni, sono dolorosa ed orribile istoria, della
quale può aver idea chi ha letto i libri di Pellico o di Andryane: gli
scellerati si rassomiglian per tutto. Si può argomentare le crudeltà e
nequizie esercitate dalle Commissioni, nei segreti delle carceri e de’
tribunali, da quella usata ai prigionieri politici in pieno giorno ed
al cospetto de’ popoli l’estate scorsa.

Ne’ giorni e nell’ore più bruciate, sulle polverose strade della
Romagna, fu veduta venir lentamente una lunga fila di carrette guardate
da carabinieri e birri, sulle quali eran legati gl’inquisiti politici
che la Commissione faceva passare da un carcere all’altro. Non eran
costoro uomini avvezzi a cotale strazio, eran persone civili, di ogni
stato, d’ogni età, agli occhi stessi del governo forse innocenti
la maggior parte; e può immaginarsi con che cuore fosser veduti
attraversar a quel modo le città, sudici, impolverati, arsi dal sole,
legati e trattati come ladri di strada. A chi usa cotali modi credendo
incuter terrore, e ciò nel popolo che ha la fortezza e lo spirito del
Romagnuolo, può ben dirsi che Iddio ha tolta la mente ed ottenebrata la
vista!

Ma tutte le dette nefandità furono inutili ad ottenere lo scopo che
si voleva dalla Commissione. Le torture, le circuizioni, le domande
suggestive, le promesse d’impunità furon tentate tutte, e tutte
indarno, contro poveri popolani, i quali non per virtù, chè non avevano
in che mostrarla, ma per non avere nè saper che dire, tagliarono ogni
via alla Commissione di continuare il processo.

Disperati i giudici di poter far profitto veruno con que’ disgraziati,
correvano spesso dalle carceri al cardinale (così narra chi era a quel
tempo in Romagna), mostrandogli l’impossibilità di metter insieme tanto
da poterne far uscire con qualche color d’onestà una condanna, ed il
cardinale ad eccitarli a spendere, ad usar ogn’arte, far ogni prova per
trovar modo e cagione di castigo; e finalmente, non potendosi trovare
nè congiure, nè colpe politiche, si compose sopra apparenti analogie
di fatti lontani co’ presenti, di incerte deposizioni di testimoni
ignoti, confondendo insieme contrabbando e cose di stato, un processo,
dal quale la Commissione prese motivo di condannare due alla morte, e
moltissimi a venti, quindici, dieci anni di galera.

Un nobile e generoso atto venne a consolare l’universale nel lutto di
queste dolorose vicende, se tanta lode è dovuta all’adempimento d’uno
stretto dovere.

È costume delle Commissioni affidar sempre le difese de’ rei a persona
di loro fiducia, ed in questi ultimi casi ne fu dato il carico ad
Ulisse Pantoli, avvocato di Forlì, di nota fede al governo, che
si stimava avrebbe prestato mano alle intenzioni del tribunale.
Ma nell’animo onesto dell’avvocato potè più l’aperta verità e la
giustizia, che lo spirito di parte o l’amor del guadagno, e si
fece caldo e diligentissimo difensore di quegli sventurati, sino a
distruggere del tutto con salde ed evidenti prove l’accusa. L’onorata e
virtuosa temerità di quest’uomo dabbene generò contro esso nell’animo
del cardinale e de’ giudici odio fierissimo, che si fe’ palese con
perquisizioni, sottrazioni violente di carte provanti l’innocenza
degli accusati, ed in ultimo gli fu data Ravenna per carcere finchè la
sentenza tornasse ratificata da Roma. Liberato alla fine, si dice sarà
sospeso dall’ufficio, che ha in patria, di supplente al giusdicente
civile, e dall’esercizio della sua professione[4].

Sarà stanco oramai il lettore di sentire tante ribalderie, com’io sono
stanco e nauseato di scriverle, ma un ultimo fatto mi rimane a narrare,
ed egli ed io comportiamone il fastidio, chè sapere si deve ormai la
verità.

Uno de’ prigionieri, accusato d’aver avuta mano nell’uccisione del
carabiniere, si trovava per caso in villa la notte nella quale accadde
l’omicidio, e dormì in un’istessa camera con un frate francescano
cercante.

A prova della sua innocenza invocò a testimonio il frate, che affermò
la cosa esser vera, e ne ebbe un’acerba riprensione, e, richiamato a
Roma, la carcere in convento.

La cosa più probabile in tutto ciò è, che quella povera gente fosse
innocente; e, secondo ogni apparenza, i fatti del carabiniere e dello
Svizzero furono effetti di privata vendetta; delitti senza complicità
estesa, nè ramificazioni di trame, commessi da pochi già sottrattisi
alla forza del governo; e che il cardinale e la Commissione abbiano
iniquamente rapiti alle loro famiglie, mandati in galera, od ammazzati
molti poveri popolani, e con loro qualche cittadino di più alto stato,
o innocenti del tutto, o meritevoli almeno (e su ciò non v’è dubbio) di
castighi cento volte men gravi, empiendo le dette famiglie e le città
di squallore e di lutto, movendo per tutto spaventi, fughe e volontari
esilii, spargendo semi che frutteranno pur troppo, prima o poi, messe
inenarrabile di vendetta.

In tal condizione erano le Legazioni, quando nella state del presente
anno, tutta quella turba infelice d’esuli, fuggita di mano alla
Commissione, raccoltasi entro i confini della repubblica di San Marino,
che siede sull’Apennino a cavaliere della pianura e del mare, conobbe
che neppur quel luogo era per lei stanza sicura. Codesta radunata
di gente era composta di molti Riminesi campati dalle persecuzioni
della sacra Consulta, di fuggiaschi dalla bassa Romagna, travagliata
a quel tempo dalla Commissione, e stava per ingrossarsi di Dio sa
quanti altri delle circostanti province, minacciate tutte dallo stesso
flagello, se non che il cardinal Gizi, del quale abbiam già fatto noto
l’animo virtuoso e prudente, ricusò espressamente d’ammettere siffatta
abbominazione in Forlì, ove era la sede del suo governo, per la qual
cosa era voce che avesse a stabilirsi invece nella città di Rimini.

Gli esuli di San Marino trovavansi ogni dì a maggiori strette, scarsi
di denaro e d’ogni aiuto; lo scampo in Toscana, distanti com’erano dal
suo confine, si mostrava di troppa spesa e di grave difficoltà.

Non cessavano al tempo stesso le istanze e le minaccie del governo
pontificio alla piccola repubblica, affinchè consegnasse quelli che
s’erano commessi alla sua fede, mostrandosi risoluto invaderne lo
stato se persistesse nell’aver compassione di quegli sventurati, e nel
rispettare i santi diritti dell’ospitalità e dell’asilo.

Non trovando dunque altro modo d’uscir di quella rete, ovvero nutrendo
pure speranza che da una prova coll’armi sortisse qualche effetto
d’importanza, ordinarono tra loro fosse da muoversi in massa verso
Rimini, ove la scarsa truppa pontificia, poco amica al governo per
le narrate cagioni, non avrebbe forse voluto far testa, e gli amici,
parenti e concittadini li avrebbero aiutati.

Nel dare per certi i fatti che narro, non intendo rendermi egualmente
mallevadore delle intenzioni e de’ disegni, e per questa seconda parte
riferisco semplicemente le opinioni di coloro che, quantunque non
presenti a que’ casi, giudicano senza passione, e conoscono lo stato
delle faccende d’allora.

Ora, per usar quest’occasione con qualche effetto che facesse palesi
al mondo le condizioni delle provincie di Romagna, e le loro oneste
domande, pensarono stampare un manifesto alle potenze, con animo di
pubblicarlo in Rimini quando vi fossero giunti. Preso questo partito,
lo mandarono ad effetto, e senza contrasto veruno, occupata la città,
ed unitasi con loro la truppa pontificia, ebbero comodità di dichiarare
il loro intendimento coll’indirizzo, e con proclami al popolo ed alle
truppe[5].

In questo frattempo una banda di circa duecento uomini s’era già
riunita sui monti di Faenza e Forlì, composta d’esiliati volontari e
di fuggiaschi della Romagnuola, guidati da ricchi possidenti, disposti
a porre tutto il loro avere per mantenersi e far testa, e si movevano
alla volta di Rimini, mentre per la via Emilia le truppe svizzere si
venivano anch’esse accostando alla detta città, che al loro avvicinarsi
venne sgombrata dagl’insorti, i quali presero la via del confine
toscano.

A questo punto s’affaccia un quesito: come mai, uomini ai quali era
prosperamente riuscita la parte di maggior difficoltà nella loro
impresa, che avevano amiche e dell’istessa loro opinione le circostanti
provincie, tutte egualmente impazienti del giogo e de’ mali che
sopportavano, non hanno con più costanza durato nel loro proposito, non
hanno propagata la favilla accesa con tanta facilità, non hanno difese
le mura di Rimini e contrastatone l’ingresso alle genti del governo?

Un articolo della _Presse_, scritto da chi conosce l’Italia e le sue
condizioni, com’io conosco il mondo della luna, ricava da questo folto
argomento di affermare, che i casi di Rimini furon tumulto eccitato
da’ cervelli pazzi, per private e meschine passioni, alle quali non
partecipavano in nessun modo nè i loro concittadini, nè le altre parti
dello stato; e per provare il suo detto e mostrare che i sudditi
pontificii sono contenti del loro governo, adduce la tranquillità delle
altre province, e la loro nessuna partecipazione ai moti di Rimini.

Ma il giornale la _Presse_ è in grand’errore, se pure quest’errore non
gli viene in acconcio per trovare _abbonati_ negli stati italiani di
gelosa censura.

Sappia dunque l’Europa che la Romagna ed il rimanente dello stato
papale è rimasto tranquillo spettatore del caso di Rimini, non
perchè sia contento delle sue condizioni presenti, che ho dimostrato
bastantemente quali siano, ma perchè è in que’ popoli virtù ed amor
patrio bastante per sopportar con pazienza i mali che soffrono,
piuttosto che correr rischio di chiamare sulla patria comune sventure
maggiori, e tra le altre la peggior di tutte, l’invasione straniera.

Sappia che i tumulti di Rimini sono stati eccitati da uomini ridotti
a non aver più un palmo di terra sul quale posar piede in sicuro; da
uomini che nell’andare in letto la sera avevan ragionevol sospetto
d’essere svegliati la notte dai birri; da uomini tenuti in incessante
dubbio della libertà e della vita, e così condotti a menar vita
disperata; ed ognun sa che in cotali condizioni l’uomo si risolve a
tutto, purchè possa mutarle od uscirne.

Dunque, o il moto non si propagasse perchè non lo volessero gli autori
medesimi, stando contenti alla dimostrazione fatta ed ai richiami
pubblicati, e bastando loro ridursi a salvamento dopo aver fatte
conoscere al mondo le loro oneste domande; o non si propagasse per
retto giudizio e vero amor di patria degli abitanti delle circostanti
provincie; ovvero, finalmente, la cosa rimanesse di comune consenso in
questi limiti, è però sempre fatto certo ed incontrastabile che, non
la felice condizione degli abitanti dello stato, ma la loro prudente e
generosa carità di patria, ha prodotto l’effetto che tanto stranamente
induce in errore il giornalista francese.

E questo giornalista, che dal solo fatto della tranquillità dello stato
romano al momento della sommossa di Rimini ha cavata la conseguenza che
i sudditi pontificii son contenti, e che gl’Italiani non hanno pensiero
della loro indipendenza, ha spiegata la cosa precisamente a rovescio; e
sappia che la principal cagione della detta tranquillità, anzi la sola,
è stata il non voler turbare e compromettere inopportunamente la causa
generale e veramente nazionale dell’indipendenza.

E se nella prima pagina di questo scritto ho esposto le ragioni che mi
muovono a biasimare i casi di Rimini, ho anche ringraziato Iddio di non
aver chiusi all’evidenza gli occhi dei più; e mi giova qui ripetere
questo ringraziamento, ed estenderlo a tutti quelli fra gl’Italiani che
sostengono virilmente le loro miserie private, per non far più dure ed
insanabili quelle della patria comune.

Delle operazioni degl’insorti di Rimini, durante la loro breve
signoria, n’hanno dette vergognose e vili menzogne i fogli ufficiali e
pagati; vergognose e vili, perchè chi è potente dovrebbe contentarsi
della forza, e vergognarsi di usar la frode e la bugia. Tutti gli
onesti cittadini riminesi sono testimoni che gl’insorti osservarono
modestia e moderazione civile grandissima. Non una vendetta, non un
insulto o un’offesa fu commessa o sofferta in quella breve libertà,
a sfogo d’ire pur tanto antiche ed acerbe. Gli uomini che erano ai
pubblici uffici vennero tutti rispettati e lasciati ai loro posti. È
infame calunnia il dire che si sia chiesto, o voluto a forza danaro dai
privati o dalla Cassa di risparmio.

Dalle casse comunali e camerali furono presi tremila scudi, per usarli
al sostentamento della truppa, alle corrispondenze ed agli altri
bisogni del momento. Si può disputare sulla convenienza o l’onestà
dell’atto d’occupare lo stato; ma è conseguenza necessaria, e comune
in questo caso d’occupazione, comunque succeda, l’insignorirsi al
tempo stesso de’ modi di sovvenire alle spese, che mai non posson
sospendersi, qualunque sia il reggimento. Perciò si potrà condannare
e tener colpevole l’atto di porsi in luogo del governo esistente, ma
dar taccia di ladro a chi, dopo averlo occupato, adopera i suoi modi
d’azione, è sciocchezza che non è creduta neppur da coloro che tentano
usarla e farla credere a proprio profitto e ad infamia de’ loro nemici.

Uscendo da Rimini non portarono con loro gl’insorti se non quel
poco che avevan di proprio, e ciò è tanto vero, che que’ generosi
ed infelici uomini giunsero al confine toscano laceri e bisognosi
di tutto, e per umanità del granduca raccolti e soccorsi da’ suoi
ministri, furon provveduti nelle loro necessità, e non caddero almeno
di fame e di stento sulla strada che li conduceva alla terra d’esilio.

L’atto del granduca, giudicato variamente in Italia e fuori da’
principi e da’ popoli, ha destato dispetto in Austria, dispetto
misto d’invidia forse in qualche principe italiano, gratitudine ed
ammirazione tra noi popolo: e pensando a que’ nostri sventurati
fratelli, perseguitati e cacciati come belve per l’Apennino da’ birri
e svizzeri papali; stanchi, feriti, laceri, presso a cader nelle mani
di chi li avrebbe condotti al patibolo od alla catena de’ galeotti,
vedendoli poi, giunti al confine toscano, respirare dalle fatiche e dai
terrori della caccia sofferta, vedendoli consolati, soccorsi, avvinti
con pietosa cura al loro triste viaggio, non abbiam lingua che basti a
dire l’umanità del loro salvatore, non abbiam cuore che per benedirlo
e ringraziarlo, non mente che per lodarne la virtù: e se ci offende il
pensiero che un principe italiano abbia condotti i suoi sudditi, nati
d’un istesso sangue, parlanti la sua stessa lingua, a cercar salvezza
tra le braccia di principe uscito di sangue austriaco, lo sdegno che ci
si desta in cuore contro quel primo, non rende punto minore il rispetto
e la gratitudine che c’ispira la generosa umanità del secondo[6].

Mentre il moto di Rimini si risolveva nel modo che abbiamo narrato, i
dugento della montagna di Faenza, più tenaci nel proposito di venire
ad ogni modo alle mani, s’andavano accostando a’ loro consorti, ed
avrebber potuto facilmente tagliar la via a due compagnie di Svizzeri,
che, partite da Bologna, venivano lungo l’Emilia verso la marina, se
di questa mossa avessero avuto notizia. Giunti alle Balze, luogo poco
sopra Brisighella, e presovi alloggiamento in varie case, distanti gli
uni dagli altri, e tra loro separati dal fiume, si posarono quivi la
notte; sul far dell’alba una loro guardia avanzata di quindici o venti
uomini, alloggiata in un casale isolato, venne all’improvviso assaltata
da una compagnia parte di Svizzeri, parte di finanzieri e volontari.
Quest’assalto non fu però tanto repentino, che non desse campo ad una
sentinella di dar l’_all’erta_ a quelli del casale, che, armatisi
in fretta ed usciti contro ai nemici, ne sostennero virtuosamente
l’impeto, benchè di forza a lui tanto inferiori; e, favoriti
dall’asprezza de’ luoghi, con molte morti e molte ferite dopo breve
battaglia li ributtarono, tanto che venivano a mano a mano retrocedendo.

Il fiume gonfiato per le pioggie della notte, rendeva impossibile
a quelli che eran rimasti alle Balze di correre in aiuto de’ loro;
parimente impossibile a questi quindici o venti far frutto veruno
contro un numero d’uomini tanto maggiore, seguitando ad inseguirli in
luoghi più aperti; convenne loro dunque lasciarli andare, e trovar modo
di ricongiungersi al loro piccolo esercito. Venutine a capo, e tutti
insieme desiderando pur sapere più certe notizie delle cose di Rimini,
prima di mettersi in altro, seguitarono il loro viaggio, e giunti
l’indomani in Civitella, piccol luogo discosto dallo stato toscano,
intesero com’erano andate le faccende di là, e non trovando oramai modo
di reggersi, nè vedendo che ragionevolmente fosse per allora altro
da fare, presero anch’essi il partito di rimettersi all’umanità del
granduca, e si presentarono ai suoi confini.

Questa è la breve istoria degli ultimi casi di Romagna. Così per
la loro mole di poco momento, se vogliamo, ma segno infallibile di
condizioni gravissime nello Stato e nell’intera nazione, e perciò da
considerarsi seriamente e diligentemente da tutti.

Io mi son ingegnato farle in parte palesi col mio discorso, senza
passioni di parte, o riguardi di persone, di condizioni o di stato,
e quantunque non abbia detto tutto quanto si potrebbe dire sui modi
tenuti dal governo romano, credo aver detto assai per far nota la
verità a chi è capace d’intenderla e d’accettarla.

Preghiamo Iddio che ne facciano il loro profitto coloro cui più
importa, coloro che reggono il popolo, e tanto sicuramente vanno
mettendo il capo in bocca al leone, non col conscio ardimento dell’uomo
che conosce il pericolo e lo vuole affrontare, ma coll’improvvida
temerità del fanciullo che l’ignora.

La Romagna e l’intero stato si mostra tranquillo, e può dirsi di lui
quello che fu detto della Polonia: _L’ordre règne à Varsovie_; ma
non prendan lo scambio su questa tranquillità. Non l’otterrà vera nè
durevole il governo del papa co’ nuovi tribunali di sacra Consulta,
instituiti a cessar almeno la troppa infamia annessa al nome di
Commissioni, ma in effetto simili a queste nell’opere e negli uomini
che li compongono: non l’otterrà col terrore[7] delle carcerazioni,
che si moltiplicano tuttora in Rimini e nelle Legazioni, quantunque i
veramente partecipi agli ultimi moti sien tutti usciti dello stato:
non la otterrà coi bestiali modi che usa co’ prigionieri politici,
trattati come assassini e ladri, e tenuti alla catena con loro contro
il costume di tutte le nazioni colte, tantochè uomini gravi, spettabili
per talenti, per grado e per costume civile, compianti e desiderati,
nonchè dalle loro famiglie, dalle intere città, soffron la compagnia
de’ più vili ribaldi in Civitavecchia, San Leo, Forte Urbano e
Civitacastellana, sostenuti a quel modo la maggior parte senza prove
legali, e senza che molti di loro abbiano in lunghi anni di prigionia
(dico cose che tutti sanno) veduto pur la faccia d’un esaminatore o
d’un giudice; non l’otterrà col moltiplicare a propria guardia le
baionette mercenarie, come si dice intenda ora di fare: ma l’otterrà
colla giustizia, colla carità, col perdono ch’egli predica, e non
vuol praticare; l’otterrà coll’osservare una volta la santa legge che
insegna, l’otterrà collo scendere agli onesti accordi che chiede a lui
l’opinione dell’universale.

L’età nostra è acerba ai principi, ed aspra di ostacoli e difficoltà
gravissime, ma la più fatale per loro sta nel non conoscere, e forse
nel non voler conoscere, quella moltitudine che s’agita impaziente
alla base de’ loro troni; nell’ignorarne i pensieri, i desiderii, le
necessità, le forze, o forse nel credere di poterle sprezzare.

Non v’è principato, non autorità al mondo che possa star su altra
base che sull’opinione, sul consenso dell’universale. Unico legame
che impedisca l’umana società di dissolversi è l’idea d’un diritto
ammesso da tutti. I diritti dell’Impero nel medio evo, ed il diritto
divino hanno servito di cárdini al mondo finchè il mondo ebbe fede in
loro: ora questa fede è spenta, e nessun potere umano lo può oramai
ridestare. All’antica fede in que’ diritti n’è succeduta una nuova: la
fede nel diritto comune. I primi ad abbracciarla, come tutti i nuovi
credenti, son trascorsi ad eccessi, combattuti da eccessi contrari; e
questa è l’istoria dell’età nostra da circa sessant’anni in qua. Le
due forze tra le quali progredisce il mondo, poste a contrasto, hanno
seguita la legge dinamica per la quale due spinte in senso divergente
producon la media diagonale. L’idea del diritto comune, purgata da’
contrari eccessi, è fatta universale oramai; è l’opinione di tutti, e
l’opinione, l’abbiam detto, è la vera dominatrice del mondo.

Non pensino i principi poter venir seco a battaglia ed averne vittoria:
se gli adulatori, i cortigiani dicon loro che Luigi XVI, Carlo X in
Francia, Carlo V in Ispagna, don Michele in Portogallo e tant’altri son
caduti soltanto per trame di settari, per tradimenti di ribelli, per
vertigini di filosofi, per passioni ingorde, sfrenate, nemiche d’ogni
ordine civile, non credano a costoro.

Son caduti loro e i loro diritti, percossi dall’opinione. Tutti i
ribelli, i settari, i filosofi insieme non li avrebbero mossi d’un dito
se avessero avuta l’opinione per loro.

Si specchino nel governo più potente dell’universo, nell’Inghilterra;
a tutto ed a tutti si sente atto a resistere, ma si piega riverente
all’opinione. Essa volle la riforma elettorale, e le fu data. Volle
l’emancipazion dei cattolici, e l’ebbe. Ora vuole che i ricchi
dell’aristocrazia non possano, a loro profitto, far morire il povero
di fame, e mentre scrivo, Torys e Wighs, ministri ed uomini di stato,
la regina, i suoi grandi s’agitano, non han riposo nè dì, nè notte,
incalzati dalla sua voce, e tremanti di tardar forse troppo ad
ubbidirne i comandi.

Ma questa padrona del mondo ha anch’essa un padrone al quale serve,
che la muove, la dirige a’ suoi fini, e questo padrone è Dio: e Dio la
scatena a sua posta contro l’iniquità; e di quali modi si serve per
iscatenarla? di modi che, in verità, paiono uno scherno alla vanità
dell’umana sapienza. L’Inghilterra appunto ce ne presenta ora un
notabile esempio.

Il saldo ed antico edifizio della sua aristocrazia, opera di secoli,
orgoglio di tanti potenti ingegni, che l’Europa, guidata da Napoleone,
non valse a crollare, vacilla ora forse percosso da potenza maggiore
della sua? Ad ottener quello scopo al quale furono scarse le forze
dell’Europa e di Napoleone, s’è forse stretto in lega l’intero mondo?
Vediam forse che Iddio muova guerre, eccidii non mai sentiti, sprigioni
gli elementi contro quella vecchia e sinora inconcussa ingiustizia?
Nulla di tutto ciò. Egli infetta la radice di quella pianta che nutre
il popolo, infetta le patate: con questo vile istrumento, forse a
deridere la superba impotenza dell’uomo, egli opera quello che le forze
riunite dell’universo hanno tentato e tenterebbero forse indarno.

In questo fatto sono due insegnamenti importanti per ogni governo. Il
primo, che Iddio si stanca alla fine di soffrire l’iniquità, e che
poco gli costa l’abbatterla: e se la lezione non è nuova, sarebbe per
avventura cosa nuova per gli uomini il trarne profitto.

Il secondo, che il governo inglese, per quanto si senta forte,
non crede esserlo tanto da potersi mantenere contro l’opinione
dell’universale, nè poter fare senz’essa; ed anzi, che non per altra
cagione egli è forte e potente se non perchè non se ne stacca mai,
nè mai si sposta da quell’ampia e solida base; ed ov’essa si muti,
anch’esso si muta, ancorchè questa mutazione offenda gli uomini che
in esso hanno maggiore autorità: come accadde ne’ suddetti casi della
riforma e dell’emancipazione, e sta ora per accadere nel fatto della
legge delle biade.

Ora quello che non può il governo dell’Inghilterra, non creda poterlo
nessun altro, e meno d’ogn’altro il governo di Roma.

Come principato antico, e principato ecclesiastico, egli può ancora
avere forza grandissima, ove la sappia usare; ove sappia seguire
l’esempio dell’aristocrazia inglese, mutarsi a tempo a seconda
dell’opinione, accondiscendere alle sue oneste domande, e conoscere
che conviene talvolta concedere di buon grado una parte per non essere
spogliato poi violentemente del tutto.

Ma egli, invece, trascurando quella forza che è la vera, trascurando
quella tutta sua propria ch’egli ha come principe ecclesiastico, e
perciò tenuto in riverenza dai cattolici di tutto il mondo, si vuol
appoggiare alle due forze più invise all’opinione non solo d’Italia,
ma di tutta la civiltà cristiana: forze che, rovinando (e ciò accadrà
prima o poi), lo faranno rovinare con loro: e sono, in casa, le armi
mercenarie; fuori, le armi straniere.

Le mercenarie, oltre i danni già detti, recano ad un principe il
massimo di tutti, quello di torgli riputazione d’esser principe amato
da’ suoi sudditi: e veramente, ancorchè fosse odiato dagli uni, purchè
fosse amato dagli altri, potrebbe, coll’aiuto di questi, raffrenare i
primi.

Ma il fatto di provvedersi d’armi mercenarie, dimostra che non ha
nel suo stato in chi fidarsi: dimostra perciò ch’egli non è amato
da nessuno; ed allora il suo principato non si fonda se non sulla
violenza, tenuta da tutti per modo che implica illegittimità; e
mancando questa violenza, è forza che rovini.

Le armi straniere, vale a dire la protezione dell’Austria, lo
mantengono bensì in piè materialmente e violentemente; ma, come le
mercenarie, mostrano che non può far verun fondamento sui sudditi
propri: di giunta poi lo rendono odioso agl’Italiani, che ogni dì
più s’accendono per l’indipendenza, e vedono rinnovarsi a danno di
questa l’antica colpa del papato, di chiamar in Italia gli stranieri
onde valersi di loro contro gl’Italiani: e fuori d’Italia agli uomini
onesti, ancorchè caldi cattolici, è brutto spettacolo veder l’Austria
tener pe’ capelli la Romagna, onde possa il papa farne quel governo
ch’ei vuole. E di qui avviene che in Italia e fuori d’Italia, non solo
i protestanti od altri avversari di Roma, ma gli stessi cattolici
più a lei devoti, e gli stessi preti, ove non sien mossi da private
passioni, si spogliano d’ogni stima pel principato temporale del papa,
lo predicano dannoso alla fede ed alla religione, lo vorrebbero o
tolto affatto, o ristretto almeno in brevi confini: in una parola, le
due forze sulle quali vuol reggersi non potranno aiutarlo alla prima
occasione di qualche grave disordine nell’equilibrio d’Europa, ed ognun
vede quante prossime, per non dire imminenti ve ne sieno; e se non
saranno le dette forze atte a salvarlo allora, sono atte bensì, anzi
le più efficaci, ora a togliergli la sola, la vera forza che in ogni
tempo ed in ogni occasione sarebbe la sua più sicura difesa, quella del
consenso dell’opinione universale.

Conosco, e le conosce ognuno, le gravi difficoltà che, a volerla far
sua, circondano il governo di Roma. Enumerarle tutte sarebbe materia
d’un volume, e non lo credo necessario al mio proposito. Accenno
soltanto quella che a me sembra la massima, e che di tutte le altre
è l’origine. Per mutare o migliorare gli ordini d’uno stato bisogna
esserne signore di fatto, non di nome: bisogna che la potestà (stia
in un principe, o in una oligarchia, o in un’adunanza popolare, poco
importa) abbia modo di farsi ubbidire, ed abbiam mostrato che il papa
non l’ha questo modo; credendosi principe assoluto, non lo è. Egli
siede al governo d’una nave che non risponde al timone, e finchè non
avrà trovato modo a racconciarlo, egli giammai potrà dirigerla a buona
via. Egli è posto nella necessità d’usare istrumenti che gli sfuggon
di mano, e non l’ubbidiscono: ma questo vizio è meno degli uomini, che
degli ordini.

Gli uomini sono più o meno mossi per tutto dal loro utile privato.
Però negli altri stati i ministri, nati dell’istesso popolo, e legati
ad esso ed al principe in molti modi, conoscono essere il loro utile
privato connesso, per dir così, con quello del pubblico, non solamente
pel tempo presente, ma, avuto rispetto alle famiglie, anco pel passato
colle tradizioni, e per l’avvenire colle speranze. Non è così nel
principato ecclesiastico. Ogni pontificato co’ suoi ministri, e
quanti hanno uffici da lui, forma, per dir così, un sistema isolato
e da sè, che non ha nè precedenti, nè susseguenti (mi riservo però
un’eccezione): tutti i disegni, tutti gli atti del governo son riferiti
ad una misura, e questa misura è la probabile durata della vita del
pontefice. Guidati da un dato così incerto, tutti coloro che sono in
qualche ufficio, uomini la maggior parte esteri e non uniti allo stato
che reggono da verun vincolo, pensano ad assicurarsi il maggior bene
possibile, e ciò nel minore spazio di tempo possibile. Per questa
cagione, se anche salisse al pontificato un uomo dotato d’alta sapienza
nell’arte dello stato, e d’ugual virtù per usarla ad utile pubblico, e
senza pensiero di sè stesso, se questo pontefice volesse risolutamente
riformare gli abusi, che sono il profitto di tanti, e perciò vietar
loro l’occasione di avvantaggiarsi, costoro non gliel consentirebbero,
nè vorrebbero ubbidirlo, nè egli avrebbe modo a costringerli, come
abbiam detto, e troverebbero sempre via o segreta od aperta d’eluderne
le intenzioni, e il minor danno a cotal pontefice sarebbe il non poter
far frutto nessuno.

Dicendo che ogni pontificato forma un sistema da sè senza antecedenti
nè susseguenti, mi sono riservata una eccezione: eccola. Il solo anello
che concateni un pontificato con quello che gli ha a succedere, è la
paura d’un avvenire che nessuno può prevedere. Ognuno de’ ministri del
governo, volendo non solo mantenere l’ufficio ch’egli ha, ma salire
ad uffici maggiori, deve aver rispetto non tanto a coloro che hanno
autorità nel pontificato presente, ma a coloro insieme che potrebbero
salire in grado nel pontificato futuro: e siccome per gli ordini dello
stato i gradi sono aperti a tutti gli ecclesiastici, ed è insieme
impossibile leggere nell’avvenire d’ognuno, ne nasce che l’andamento
degli affari pubblici è complicato, più assai che altrove, d’infiniti
rispetti a privati e per mire private; e questo unico vincolo che
unisca il presente al futuro, è, come ognun vede, di danno anzichè di
vantaggio allo stato.

Dunque, restringendo le molte parole in poche, dico che il pontefice
avrebbe grandissima difficoltà cogli ordini presenti a secondar
l’opinione riformando il suo stato, perchè non ne è veramente padrone.
Non è padrone, perchè non vi son leggi universali ed ubbidite, nè
istituzioni salde che abbian profonde radici nel popolo; perchè
invece egli regge per via di ministri che operano ad arbitrio, e
quest’arbitrio che usano ora contro i sudditi, e l’usano male, per
esser la maggior parte esteri che cercano fortuna, ed hanno l’occasione
misurata ed incerta, l’userebbero contro il principe quando volesse
correggerli a danno del loro utile privato.

Ma il dire una cosa difficile, è dirla al tempo stesso possibile.
Sono tali e tante le necessità ed i pericoli dello stato, ch’egli
deve fare ogn’opera affinchè questo possibile si mandi ad effetto; e
certo, ogn’altro stato che non fosse come questo, retto, per dir così,
a vitalizio, cercherebbe riparare validamente a disordini che possono
trarlo a prossima rovina. Tuttavia anche fra gli uomini di Roma sono
molti, e ne conosco, che vogliono il bene: pensino che l’occasione è
grave, nè può esservi dubbio oramai sull’urgenza di provvedersi contro
un futuro più o meno remoto, ma infallibile apportatore di grandi
sventure.

Conoscere il male è sempre più facile che trovarne il rimedio.

Quantunque io non mi creda atto a tanto, credo tuttavia mi sia lecito,
senza dar segno di troppa presunzione, esporre meno forse le mie idee
su quest’argomento, che quelle d’uomini per prudenza ed amor patrio
degni di grandissima riverenza.

Le principali e più importanti furono espresse in un articolo della
Gazzetta Italiana del 25 ottobre scorso. Articolo anonimo, del quale
tuttavia credo indovinar l’autore. Se io m’appongo, l’autorità
dell’uomo accresce peso agli argomenti: s’io sbaglio, accetto sempre
ciò che tengo per vero e per utile, ovunque l’incontri e da chiunque mi
venga.

Abbiamo veduto che gli ordini presenti dello stato papale, oltre ad
esser dannosi al governo dei popoli, hanno in sè l’altro peggior danno,
d’esser inetti e ripugnanti per loro natura ad ogni miglioramento.
Convien dunque trovarne de’ nuovi. Per isciogliere un problema così
difficile, l’ordine e la chiarezza delle idee non è mai troppa, e mi
par necessario prender la questione da’ suoi principii.

La sovranità del popolo, furiosamente combattuta dagli uni e difesa
dagli altri a’ tempi nostri, è parola che, appena pronunciata, suscita
discordia: ma si potrebbe mutarla in un’altra, che verrà certamente
accettata da tutti, ed esprimerà forse più esattamente la verità: dire
il consenso universale, e prenderlo in politica per la base del diritto.

E chi non volesse ammetterlo come base del diritto in astratto, dovrà
sempre concedere sia base del diritto pratico, sia base del fatto.

Ed in prova della mia asserzione: perchè lo stesso diritto divino, e
gli altri diritti in apparenza più opposti al principio della sovranità
del popolo, sui quali s’è fondata pel passato l’umana potestà, hanno
essi potuto sostenerla? Perchè tutti credevano in loro, ed è lo stesso
che dire pel consenso universale.

Ora se il papa è divenuto principe per le donazioni di Pipino, di Carlo
Magno, della contessa Matilde e d’altri, perchè è stato tenuto perciò
principe legittimo? Perchè l’universale consentiva nel creder legittimo
questo modo d’acquistare, nel credere quelli che donavano legittimi
possessori della cosa donata; e si comprende che se l’universale avesse
creduto tutto all’opposto, non solamente questo acquisto, questo
principato non sarebbe potuto durare, ma neppur sarebbe venuto in mente
nè agli uni di concederlo, nè agli altri d’accettarlo.

Ma le età sono mutate, e nella nostra, ove si crede non sia legittima
la vendita dei Neri, sarebbe strano se si credesse legittima la
donazione dei Bianchi.

Si deve dunque riconoscere che l’idea sulla quale posava la legittimità
del principato ecclesiastico, come di tant’altri, più non esiste. Le
fondamenta dell’antico edifizio sono state corrose e scavate dal tempo,
e l’edificio è in puntelli.

Le nuove fondamenta, le sole sulle quali oramai egli possa reggersi,
sono nel diritto ammesso dal consenso universale, nel diritto comune.
Vediamo che a questo principio si vanno le une dopo le altre accostando
tutte le nazioni civili; i principi stessi, repugnanti o no, gli si
sottomettono, e la tendenza di tutti i popoli a cercare e volere
istituzioni che definiscano e conservino il diritto d’ognuno, lo
dimostra abbastanza.

Queste idee, questi desiderii non son nuovi. Nuovo piuttosto
in Occidente, e tra’ cristiani, è il principato assoluto senza
contrappeso o divisione d’autorità. In tutti gli stati furon sempre
corpi o legislativi o politici o municipali, i quali se talvolta non
esercitavano potestà di fatto, almeno ne mantenevano il diritto; e ciò
è durato più o meno per tutto, sino a Napoleone, che più d’ogni altro
si sentì forte e più d’ogni altro rese illusoria, anzi nulla la loro
azione. Egli più d’ogn’altro avvezzò i popoli all’ubbidienza passiva,
lasciò alfine in eredità ai re ed ai popoli la fede nell’onnipotenza
del principato, lasciò ai sovrani il suo scettro, ma non potè
lasciar loro il suo braccio. I popoli, rimessi dallo spavento di
quella tremenda, ma breve potenza, più non credono all’onnipotenza
de’ principi, e riprendono quella strada sulla quale si sono bensì
arrestati talvolta, ma senza deviarne giammai.

Il principato ecclesiastico, come gli altri, fu già contenuto da
giurisdizioni popolari o personali; e dovrei forse dire aiutato, poichè
gli permettevano volgersi con meno impacci alle cose spirituali ed
esercitare con maggior libertà l’alto suo ufficio.

Riordinar lo stato su queste forme, usando l’esperta sapienza
acquistata dalla civiltà moderna a scuola tanto lunga e sanguinosa,
stabilire che «il papa regni, e non governi» è forse il solo modo di
ridonar vita e vigore al suo principato sfinito e morente. Concedere
con prudente distribuzione l’autorità nello stato ad uomini dello
stato, che v’hanno diritto ed interesse, ed escluderne gli estranei, ai
quali le sole vie della gerarchia ecclesiastica si dovrebbero aprire,
è riforma tenuta inevitabile dal consenso universale, è riforma voluta
dalla giustizia. Fu promessa o in parte o per l’intero, dopo i casi del
31. La promessa non fu mantenuta, ed a ciò non v’è scusa; ma da questo
fatto è resa appunto più che mai potente la necessità di cancellare la
macchia prima d’ingiustizia, resa più brutta poi da quella della mala
fede.

Queste poche linee racchiudono, lo so, gravissimi fatti: racchiudono
disegni che vogliono ingegno, prudenza e fortezza grandissima in chi
abbia a farsene esecutore. Vedo, mentre scrivo, il sorrider degli
uni, lo scrollar del capo degli altri nel leggermi; ed io stesso,
conoscendo gli ordini presenti dello stato, le invecchiate abitudini,
le tradizioni di governo, mi spaventerei di tanti ostacoli se non
tenessi per fermo, che l’amor del giusto e la buona fede soprattutto in
chi comanda, avrebber bastante forza a superarli.

In cose di stato sono da fuggirsi le troppo rapide transizioni,
perchè si può bensì proclamar monarchie, costituzioni, repubbliche,
ma nessun potere umano può far repentinamente un popolo monarchico,
costituzionale, repubblicano, s’egli in effetto non lo è per i suoi
costumi e per le sue opinioni. Tutte le ferocie del Terrorismo non
valsero a far repubblicani i Francesi, che non lo erano. Non bastarono
le copie di costituzioni straniere fatte venire in Italia nel 21 per
render costituzionali gl’Italiani, che neppur essi allora non lo erano.
Le instituzioni d’un popolo possono assomigliarsi alle armature. L’uomo
vi s’avvezza dentro a poco per volta, e se fatte con diligenza alla
misura e secondo la forza della persona, la proteggono e l’aiutano; se
prese a caso da altri, l’impacciano e l’offendono.

Ma con prudente degradazione, purchè sia condotta, come ho detto,
dall’amor del giusto, da volontà ferma e da somma lealtà d’intenzioni,
potrebbe il governo di Roma, purchè lo volesse, ottenere ciò che a
prima vista sembra difficilissimo, per non dire impossibile.

Non è mio disegno discutere nè consigliare i modi da tenersi in
quest’impresa. Non credo, prima di tutto, che ne’ modi stia il maggior
ostacolo; non mi credo poi esperto abbastanza a cotal discussione,
nè che manchino al governo di Roma uomini d’ingegno e di prudenza
sufficiente a chiarirla e condurla a buon fine. Mi contento di dire che
l’edificio minaccia, ed in questi casi chi vi sta sotto ha la scelta o
di venirlo racconciando con prudente consiglio, o di aspettar che il
tetto gli rovini in capo.

Ma anco senza mutare gli ordini presenti, anco senza por mano a
riforme fondamentali, potrebbe il governo tener modi che servissero
a rannodargli l’opinione, ad acquistargli favore e riputazione,
a purgarlo dall’accusa d’essere nemico d’ogni progresso. Perchè,
verbigrazia, vietare a’ suoi dotti il concorrere agli annuali
congressi? Perchè vedere un pericolo dove l’Austria medesima non lo
vede?

Perchè non rinunciare ai vergognosi profitti del lotto? Lo so, per
ragioni economiche. Ma non è cosa oramai troppo brutta veder il capo
della religione tener la porta aperta ad un vizio cotanto dannoso e
corruttore, cagione al popolo di tanti errori, mentre gliel’hanno
chiusa le nazioni più civili? Ristringer le spese, ma ottener nome di
conseguente ai principii d’onestà e di morale che insegna, non sarebbe,
a conti fatti, maggior guadagno?

Perchè opporsi o apertamente o di sottomano ad ogni prova di migliorare
l’educazione, l’istruzione del popolo?

Lo so; dirò anche qui, perchè in queste prove crede veder un vasto
disegno di liberali per mutare lo stato. Ma, lo ripeto, crede egli
correr pericoli maggiori dell’Austria? E se confessasse crederlo, non
sarebbe questa la più accusatrice di tutte le confessioni? Non è forse
troppo vergognoso che, mentre si fa guerra ad Aporti, al suo Manuale,
alle sue scuole, si permetta dalla censura _Il libro dell’Arte_, libro
de’ sogni per vincere al lotto, l’_Indovinagrillo_, ec., ec.? Bello
veramente e morale insegnamento pe’ popoli!

Io amo la lealtà, e, lo concedo, l’istruzione del popolo muterà lo
stato alla lunga, e renderà impossibile il ritorno di tanti abusi. Ma
quest’istruzione si sparge inevitabilmente per tutto. Il governo papale
n’è cinto, n’è assediato, e non potrà riparare di non esserne invaso
alla fine, e nessuno gliene avrà grado. E poi, se l’istruzione fa le
rivoluzioni, le rende insieme meno sanguinose e sovversive. Il popolo
francese, meno educato, allagò la Francia di sangue, l’ottenebrò di
sacrilegi, di rapine, ammazzò il suo re, e non ebbe misura nel suo
scatenarsi. L’istesso popolo, più educato, combattè gloriosamente
tre giorni, vinse, non macchiò la vittoria nè d’una vendetta, nè
d’una rapina, e si tenne pago a strappar la corona ad un inetto, per
collocarla in capo ad un forte e prudente.

Gli uomini, come i bruti, più sono stupidi, più, è vero, si piegano al
giogo; ma se una volta lo scuotono, più sono stupidi, e più tremenda ed
irrefrenabile è la lor vendetta.

Perchè opporsi inesorabilmente alla costruzione di strade ferrate?
Sempre per lo stesso motivo. Pel timore che portino meno merci, che
idee. Ma un popolo impoverito, e lo sarà inevitabilmente quello che non
si provveda di questi nuovi modi di circolazione, mentre li acquistano
i suoi vicini, credesi forse non abbia idee pericolose a chi lo regge?

Credesi forse, che la povertà, l’invidia dell’altrui ricchezza, la
vergogna di sentirsi tanto da meno degli altri, non generino idee e
passioni che partoriscono alla fine effetti assai più importanti d’ogni
propaganda?

Il commercio (lo sa ognuno, e n’abbiam dato un cenno) ha già ripresa, e
sta per riprender ancor più l’antica via per la quale vennero a tanta
potenza e ricchezza Pisa, Amalfi, Venezia, Genova, Firenze, per la
quale l’Italia nostra divenne l’emporio dell’Europa, e la più civile
tra le nazioni cristiane.

Se all’epoca (non certo lontana) in cui il commercio, passando per
l’istmo di Suez, si getterà di nuovo ed unicamente dal Mediterraneo nel
mar Rosso e nell’Indiano, se allora, dico, l’Italia sarà attraversata
in tutta la sua lunghezza da una strada ferrata, è evidente quali
immensi profitti ne potrà ricavare. Agli uomini ed alle merci metterà
conto, tanto più nell’inverno, tener piuttosto la via di terra, che
quella di mare per trasferirsi nel settentrione d’Europa; e se il
governo di Roma s’ostina a render impossibile questa strada, s’egli
la vuole interrotta e perciò inutile, qual anatema universale non si
tira egli addosso dall’intera Italia? Quali scherni, quale sprezzo
dall’Europa intera, dalla civiltà, dall’opinione universale?

Egli teme il passo degli stranieri, e gli par forse che già troppi
ne vengano. Lo so, gli stranieri talvolta portano la corruzione, e
ciò forse accade in Italia. Ma perchè? Perchè è povera e debole. In
parecchie città, e più che altrove in Roma, moltissimi, non avendo
altro modo d’aiutarsi, aspettano, è vero, lo straniero, e, per farvi
su grossi guadagni, si contentano di porsi in condizioni abbiette e
vergognose. Ma apransi agl’Italiani modi liberi, virtuosi, onorevoli di
guadagno, e si vedrà se continueranno a rendersi vilmente servi all’oro
straniero. E per prova, anco altri popoli sono visitati da stranieri;
essi vanno in Francia, in Germania, per tutto; e s’ode dire forse che
avviliscano o corrompano codeste nazioni?

E per qual cagione non si dice e non è? Perchè a codeste nazioni
sono aperte vie libere ed onorevoli di arricchire, indipendenti dal
viaggiatore straniero, sul quale profittano per un di più: e sentendosi
indipendenti da esso, lo trattano alla pari senza lasciarsi nè avvilire
dal suo denaro, nè sottomettere dalle sue usanze e dalle sue opinioni.

Ad un popolo ignorante, debole e povero, tutto si muta in veleno: gli
lascino usar liberamente i doni di Dio, non gli tolgano le forze e con
esse il senso della propria dignità, divenga colto, ricco e potente,
e poi non temano nè forestieri, nè la loro corruzione, nè le loro
influenze.

Che al governo di Roma, composto ora esclusivamente d’ecclesiastici,
paia grave cedere l’autorità a’ secolari, sottomettersi a riforma
fondamentale, ammettendo la massima che il _papa regni e non governi_,
si comprende. Per quanto sia oramai cosa evidente per tutti e per lo
stesso governo, che a questa mutazione bisognerà a forza rassegnarsi
o prima o poi; per quanto si possa dire che il por mano con prudenza,
con volontà efficace e sincera, a condurre senza scosse codesta riforma
a buon fine, sarebbe atto di giustizia e sapienza di stato, degno
del rispetto e dell’ammirazione universale, tuttavia, lo ripeto, si
comprende che al governo paia grave e doloroso sacrificio, essendo
nella nostra natura lo spogliarci sempre malvolentieri ed a stento d’un
qualunque bene.

Ma in verità non si comprende per qual cagione egli ricusi promuovere
le riforme affatto secondarie ora accennate, che neppur posson
chiamarsi riforme, e non sono se non miglioramenti dimostrati necessari
dall’esperienza, che non solo non sarebbero di pericolo al governo,
ma lo difenderebbero invece dal pericolo reale, ogni dì più grave ed
urgente, di venire sconvolto ed abbattuto da’ suoi sudditi, giustamente
impazienti di tanti mali, appena n’abbiano modo ed occasione.

Ma di cotali accecamenti sono piene le storie; n’è piena la storia
d’Europa da settant’anni in qua, come è piena al tempo stesso delle
rovine che ne sono stata la conseguenza. Di tutte le cose utili, la
meno utile e praticamente profittevole è veramente l’esperienza; forse
per arcana disposizione di Dio, che alle cose umane volle imposta
condizione mutabile ed inferma.

Vorrà il governo di Roma seguire i consigli racchiusi in queste poche
pagine, consigli da me soltanto esposti, ma non miei, e dati invece
dall’opinione di tutta Europa? Non lo so... e forse dovrei dire lo so,
affinchè, separandomi dal mio lettore, non serbasse l’idea ch’io sono
di troppo beata semplicità.

Comunque sia, ho creduto utile all’Italia, e lo credo atto da imitarsi
(mi si perdoni se v’è presunzione in queste parole), il protestare a
viso aperto contro le ingiustizie che da noi si soffrono, qualunque
siano e da chiunque ci vengano.

Quest’idea mi conduce ora a volgermi ai sudditi pontificii, e più
particolarmente ai Romagnoli, i quali, lo prevedo, mi diranno: «Voi
biasimate ogni moto popolare, e lo tenete dannoso; ma se il governo non
si muta a nostro riguardo, dovremo dunque sempre soffrire e tacere?».

Quest’interrogazione è pur troppo dolorosa, e ragionevole al tempo
stesso, e dovendo pur rispondervi, dico esservi tra il soffrire e
tacere, ed il levarsi popolarmente in armi, che sono i due opposti
estremi, molti gradi intermedii. De’ due opposti, il primo si è fatto
oramai insoffribile; il secondo è dimostrato inutile e dannoso, non
dalle mie parole, ma dall’esperienza. Resta ad esaminare quali vie
rimangano aperte ed accettabili.

È cosa tenuta per innegabile da tutti, che le grandi mutazioni negli
stati, tendano esse ad ottenere l’indipendenza o la libertà, non mai
sono succedute nè posson succedere per via di passaggio rapido e
repentino: e se talvolta la mutazione appare rapida, non è in effetto,
nè si trova tale quando si considerano le cause che alla lunga l’hanno
preparata. Bensì, più la preparazione è stata condotta da lungi, con
lentezza e prudenza, più sicuramente e repentinamente è poi riuscito
il fatto che doveva esserne il compimento e l’ultima conseguenza. Così
un grand’albero cade abbattuto dall’ultimo colpo di scure; ma questo
colpo, per quanto valido, a che avrebbe servito se non era preceduto da
altri mille?

L’arte del maturare i disegni e prepararne la riuscita, l’arte di
murar la casa ad un mattone per volta, principiando di dove si dee
principiare, da’ fondamenti, non la conosciamo noi Italiani. Eppur
senz’essa non si fa nulla, e l’abbiano provato a nostre spese. Noi sin
ora abbiam tenuto modi che ci assomigliano all’uomo che, impaziente di
divorar la via tirato in cocchio da molti bravi e generosi cavalli, non
si dà tempo d’attaccarli a dovere, e senza badare se tutte le tirelle
e le guide lavorino, e prima di averle tutte assestate con diligenza,
frusta all’impazzata, e portato via così sprovveduto, non appena
lanciato, precipita e rompesi il collo.

Ciò ch’io dico parrà ovvio o volgare. Ma pur troppo le verità più
visibili sono le meno vedute.

Noi non abbiam conosciuto altro sinora che società segrete, trame e
congiure, che finivano poi in una sommossa parziale, in un assalto di
pochi armati. Fallita l’impresa, come dovea fallire, chi s’esilia, chi
è preso, chi si nasconde, e tutto è tranquillo per qualche tempo, e poi
da capo gl’istessi modi, le istesse prove, l’istessa fine.

Possibile che ad una nazione di così aperto ingegno, come è la nostra,
non venga in mente il pensiero che questa via non sia buona, che possa
esservene altra migliore?

Io ho detto, e credo nessuno vorrà negarlo, che l’opinione è oggi
la vera padrona del mondo. Ho detto che pel governo papale sarebbe
prudente, ottimo consiglio, anzi il solo oramai accettabile, il
sapervisi sottomettere. Quello che ho detto a’ governanti, lo dico a’
governati.

L’opinione in tutti i tempi è stata avversa alle imprese mal calcolate
ed improvvide; ed oggi più che mai, essendo più avvezzi gli uomini a
ragionar su tutto, essa biasima le nostre mal ordite ed impossibili
prove, e, quel ch’è peggio, ne ride. Non riderebbe forse se anco ci
vedesse usar la violenza, gettarci ad imprese affatto disperate, ma
gettarvici dopo avere esauriti tutti i mezzi, aver tentate tutte le vie
di migliorare le cose nostre. Di questi mezzi, di queste vie non ne
abbiamo però tentata nessuna.

Il coraggio delle congiure, delle sommosse, il coraggio fisico,
per così dire, e manesco l’abbiamo noi Italiani, come tutti gli
uomini d’immaginazione e sangue caldo. Ma ci manca, o l’abbiamo in
minor grado, il coraggio morale, il coraggio civile. A questo, a
raccomandarlo, a dirlo il più utile, anzi il solo, per ora almeno,
veramente utile, il solo necessario, tende tutto il mio ragionamento,
del quale si può in poche parole riassumere il senso, dicendo: doversi
usare da noi Italiani prima il coraggio civile per ottenere da’
nostri governi miglioramenti, istituzioni e temperate libertà; poi il
coraggio militare per ottenere l’indipendenza, quando ce ne vorrà Iddio
concedere l’occasione.

Protestare contro l’ingiustizia, contro tutte le ingiustizie
apertamente, pubblicamente, in tutti i modi, in tutte le occasioni
possibili, è, a parer mio, la formola che esprime la maggior necessità
della nostra epoca in Italia, il mezzo più utile e di più potente
azione quanto al presente.

La prima, la maggior protesta, quella che non dobbiamo stancarci
giammai di fare, che deve risuonar su tutte le lingue, uscir da tutte
le penne, debb’essere contro l’occupazione straniera, in favore
del pieno possesso del nostro suolo, della nostra nazionalità ed
indipendenza.

Vengono in appresso quelle dirette contro le ingiustizie e gli abusi ed
i mali ordini, se non altro, de’ nostri governi.

Non proteste a mano armata, come vollero farle a Rimini; chè una
protesta a quel modo, a volerla far ora in Italia occorrerebbero una
buona posizion militare, duecentomila uomini e duecento pezzi in
batteria: fatta invece con pochi fucili, è cagione che l’Europa si
burli di noi: perchè tutti sanno che le poche e deboli armi non bastano
a dar l’autorità della forza, e tolgono o diminuiscono almeno quella
della ragione.

La maggior forza d’una protesta sta nell’essere rigorosamente giusta e
rigorosamente incolpabile di violenza.

A chi ridesse (e ve ne saranno molti in Italia) della sola idea
d’ottener nulla dal governo pontificio o da qualunque altro governo col
solo mezzo della protesta, risponderò con un esempio recente, e del
quale non si potrebbe desiderare, nè immaginare il più importante ed il
più atto a dimostrare quanta forza abbia in oggi una protesta favorita
dall’opinione.

L’imperatore di Russia, assoluto padrone d’un immenso stato, fuor di
portata, per dir così, delle forze europee, alla testa d’un milione
e dugentomila soldati ha mosse persecuzioni contro i cattolici, che
posson dirsi un vero anacronismo, ha permesso si facesse strazio di
povere ed oscure monache, o, se non l’ha permesso, lo strazio almeno
s’è fatto ov’egli comanda, nè sappiamo per ora che ne sian puniti gli
autori.

L’Europa si commosse a questa barbarie. La stampa francese (_Journal
des Débats_) s’è portata con ammirabile dignità, e può dirsi sia stata
modello de’ modi che convien tenere in tali occasioni.

Fuggendo l’ingiuria e la vana declamazione, riferì semplicemente i
fatti, poi soggiunse: «Ignoriamo se questi fatti sieno esatti od
esagerati: comunque sia, a fronte di tali accuse, neppure un imperator
di Russia non può tacere; l’onore della sua dignità vuol che risponda.»

Non molto tempo di poi compariva un editto imperiale in data di
Palermo, se non erro, che chiariva e determinava le idee di tutti
sulla quistione delle persecuzioni religiose; in modo al quale nessuna
persona ragionevole può trovar a ridire.

L’editto, si potrà opporre, non sarà osservato: ammettiamo pure che non
lo sia o che lo sia debolmente; ma chi, di buona fede, potrebbe mai
asserire che le cose dei cattolici non abbian perciò migliorato punto
nell’impero? potrebbe credere assolutamente nulla l’influenza morale di
questo fatto? Non sarà sempre vero che un imperator di Russia è stato
citato dall’opinione al suo tribunale, e ch’egli non s’è creduto forte
abbastanza per ricusare di comparire?

Vorrei citare altri esempi, ma mi si metton in tanto numero sotto la
penna, che non so in verità quale scegliere.

Prendo quello che offre la Germania. Il suo stato politico per qual
via è egli giunto al punto in cui lo vediamo? Per via di sommosse, o
congiure, o società segrete? È vero, la Tugenbund, la Burschenschaft,
si son date un gran da fare, ma rappresentarono, a parer mio, più che
altro, la favola della mosca e del carro. Chi ha fatto più di loro,
chi ha fatto tutto, son quelli che hanno formata, educata, diretta
l’opinione coi loro atti di coraggio civile, co’ loro scritti: e che
cos’altro erano questi scritti e questi atti, se non proteste più o
meno esplicite contro ingiustizie ed abusi?

Quando in una nazione tutti riconoscon giusta una cosa e la vogliono,
la cosa è fatta: ed in Italia il lavoro più importante per la nostra
rigenerazione si può far colle mani in tasca.

Le vie aperte al coraggio civile, i modi del protestare sono infiniti,
e non è mio disegno proporli ed esaminarli uno ad uno in questo scritto.

Soltanto dico che quanto maggiore sarà in Italia il numero di coloro
che pubblicamente e saviamente discuteranno le cose nostre, che
protesteranno in qualunque modo contro le ingiustizie che ci vengano
usate, tanto più rapidamente e felicemente progrediremo nella via
della rigenerazione. Questa congiura, al chiaro giorno, col proprio
nome scritto in fronte ad ognuno, è la sola utile, la sola degna di
noi e del favore dell’opinione; ed a questo modo anch’io di gran cuore
mi dichiaro congiurato al cospetto di tutti, anch’io a questo modo
conforto ogni buon Italiano a congiurare.

In virtù di questo modo, che non ha bisogno nè d’accordi nascosti,
nè di tenebrosi ritrovi, nè di giuramenti segreti, ogn’Italiano può
dar la mano all’Italia da un capo all’altro della penisola senza
neppur conoscerlo, ognuno può metter le sue forze in comune per
l’opera comune. Opera nota a tutti pe’ mezzi, come pel fine, e perciò
leale; opera santificata dalla giustizia, protetta dall’opinione, ed
accompagnata dai voti di tutte le nazioni civili e di quanti sono al
mondo uomini onesti e di buona fede; opera che, condotta per le vie
della verità e della virtù, ci potrà meritare la benedizione di Dio, il
quale, volgendo finalmente uno sguardo anche a noi, vedrà forse che,
se furon grandi le antiche colpe d’Italia, dura pur anco già da molti
secoli il suo castigo.

La brevità che ho stimata opportuna a questo lavoro, m’ha impedito di
svolgere le importanti questioni che vi si propongono, e mi son dovuto
contentar d’accennarle, confidandomi, pel di più, nella sagacità del
lettore.

Egli dirà di me, dopo avermi letto, ciò ch’io dicevo a me stesso prima
di scrivere: non aver io, studioso non di scienze, ma d’arti, sapere
e mente, che basti a trattar profittevolmente materie politiche ed
economiche di tanta difficoltà. Non per questo ho voluto rinunciare
a ragionarne; e Dio sa con quanto piacere sagrifico un meschino amor
proprio al desiderio ed alla speranza di dar forse occasione ad uomini
di più alta mente, che non è la mia, d’entrar francamente nell’arringo
e correrlo con maggiori forze e miglior fortuna.

In tali pensieri ho dato opera e pubblicità al presente scritto; e se
per la protesta che racchiude a favore del nobile ed infelice popolo
della Romagna non ho avuta missione da lui; s’io l’ho fatta senza
consultarlo e di mio moto, mi conforto e credo che egli non vorrà nè
rinnegar le mie parole, nè sapermene mal grado.




DOCUMENTI


DIMOSTRAZIONE GENERALE

DELL’ENTRATE E SPESE DEGLI STATI PONTIFICII

_Estratta dal rapporto del signor_ BOWRING Londra, 1838

  SORGENTI PRINCIPALI D’ENTRATA

  N.º           CAPI PARTICOLARI                      SCUDI

   1   Imposte prediali, proprietà fondiaria, ec.   3,280,000
   2   Monopolii, dogane e tasse sul consumo        4,120,000
   3   Bollo e registro                               550,000
   4   Uffizio della posta                            250,000
   5   Lotterie                                     1,300,000

  TOTALITÀ DELLE ENTRATE                            9,500,000

  SPESE D’AMMINISTRAZIONE

  N.º          CAPI PARTICOLARI                       SCUDI

   1   Imposte prediali, proprietà fondiaria, ec.     760,000
   2   Monopolii, dogane e tasse sul consumo          460,000
   3   Bollo e registro                                90,000
   4   Uffizio della Posta                            150,000
   5   Lotterie                                       760,000

  TOTALITÀ DELLE SPESE DI AMMINISTR.                2,220,000

  _Entrata lorda_                             scudi 9,500,000
  _Deduzione delle spese di amministrazione_    »   2,220,000

  _Entrata netta_                             scudi 7,280,000

  SPESE DELLO STATO

  N.º          CAPI PARTICOLARI                       SCUDI

   1   Palazzi sacri, collegi sacri, congregazioni
         ecclesiastiche, e corpo diplomatico
         all’estero                                   500,000
   2   Debito pubblico                              2,680,000
   3   Spese del Governo dello Stato                  530,000
   4   Giustizia e polizia                            920,000
   5   Pubblica Istruzione, Belle Arti e Commercio    110,000
   6   Limosine e pubblica beneficenza                280,000
   7   Lavori pubblici, polizia e illuminazione
         di Roma                                      580,000
   8   Truppa di Linea e Carabinieri                1,900,000
   9   Cariche militari, Sanità e Marina              290,000
  10   Feste pubbliche e spese straordinarie           44,000
  11   Fondo di riserva                               100,000

  TOTALITÀ DELLE SPESE                              7,934,000

OSSERVAZIONI

1 Questa dimostrazione risulta dai documenti officiali comunicati dal
Governo pontificio al signor Bowring.

2. In questa dimostrazione non figurano la spese comunali e
provinciali: e quindi apparisce che il Governo spende poco o nulla
nelle provincie. Ricadono adunque sulle Comuni anche le spese che
toccherebbero al Governo.

3. La tenuità dell’entrata risultante dal titolo bollo e registro
dimostra la scarsità delle contrattazioni.

4 In questa dimostrazione non figura la spesa della truppa estera,
che si valuta ascendere a seimila uomini, e costare dieci milioni di
franchi.

5. Malgrado tutto questo, fra l’entrata e l’uscita vi è un deficit
annuo di scudi 654,000.


GOVERNO PONTIFICIO

IN NOME DI SUA SANTITÀ PAPA GREGORIO XVI FELICEMENTE REGNANTE

SENTENZA

                                   _Ravenna, oggi 10 settembre 1845._

La Commissione speciale, straordinaria, mista, instituita con
Notificazione della suprema Segreteria di Stato, 27 maggio 1843, ed
ora in forza della Notificazione dell’eminentissimo e reverendissimo
signor cardinale don Francesco Massimo, legato dì Ravenna, 29 gennaro
1845, sedente in questa città, e composta degl’illustrissimi ed
eccellentissimi signori:

Avvocato Antonio Colognesi, giudice del tribunale di appello per le
quattro Legazioni, sostituito al signor com. cavalier avvocato Luigi
Salina, presidente dello stesso tribunale.

Avvocato Attilio Fontana, assessore straordinario della legazione di
Bologna, sostituito al predetto signor avvocato Colognesi.

Cavalier commendatore tenente colonnello Stanislao Freddi, comandante
il corpo dei carabinieri pontificii nelle quattro Legazioni.

Cavalier tenente colonnello Luigi Magnani, comandante la piazza dì
Bologna.

Cavalier tenente colonnello Camillo Viviani, comandante la piazza di
Ferrara.

Si è radunata nella sala delle proprie udienze nel quartiere di San
Vitale nei giorni 1, 2, 3, 4, 5, 6 corrente mese, unitamente al signor
avvocato Giampietro Gozzi, procuratore fiscale, ed al signor avvocato
Ulisse Pantoli, difensore d’ufficio, assistendo il signor Raffaele
Magnani, facente funzione di cancelliere, per discutere; e nei giorni
9 e 10 stesso mese, a norma del dispaccio della suprema Segreteria di
Stato 2 agosto p.º p.º N.º 5316, per giudicare la causa

                                in punto
              _di società o lega per offendere e resistere
                         alla forza pubblica,_

                                 contro

Orioli Achille, Cappi conte Carlo, Camerani Paolo, Versari Francesco,
Gaiani Carlo, Miserocchi Felice, Barafa Andrea, Gambi Eugenio,
Giansanti Ciriaco, Fabbri Annibale, Randi Giuseppe, Paterlini Lodovico,
Dalcini Angelo, Bertacchi Francesco, Samaritani Saverio, Della Valle
Mauro, Moruzzi Eugenio, Tarifelli Leonardo, Golfarelli Emilio, Maraffi
Domenico, Orioli Febo, Bertacchi Ermenegildo, De Marchi Filippo,
Barbiani Giovanni, Bergozzi Giuliano, Gabici Pietro, Gabici Achille,
Baroncelli Giovanni, Boschi Domenico, Gianfanti Andrea, Vassura Paolo,
Miserocchi Domenico, Montanari Antonio, Montanari Vincenzo, Rivalta
Domenico, Zabberoni Pietro, Montignani Pietro, Vaccolini Giovanni,
Savini Giovanni, Angelini Angelo, Fiorentini Onofrio, Landi Vincenzo,
Pasini Mariano, Pambianchi Michele, Baldini Gaspare, Ortolani Giovanni,
Pascoli Lucio, Pugiotti Francesco, Rava Gaetano, Gianfanti Giovanni,
Della Torre Magni Marco, De Stefani Leonardo, Rambaldi Gaspare, Bezzi
Giovanni, Vicari Augusto, Camporesi Giacomo, Savorelli Luigi, Mazzetti
Luigi, Gambi Domenico, Gambi Antonio, Pinzi Francesco, Conti Antonio,
Fava Felice, Morigi Domenico, Landoni Teodorico, Carlini Gian Antonio,
Paoletti Luigi[8]:

Quello spirito d’insubordinazione, che oggi pur troppo serpeggia in
tante parti d’Europa, agitava eziandio da varii anni la tranquillità di
queste province.

Fino dall’estate 1843, quando in Bologna i liberali, coalizzati col
ceto dei contrabbandieri, tentarono colà di rinnovare la sacrilega
ribellione dell’anno 1831, i liberali di Ravenna avevano qui formata la
stessa alleanza colla turba dei contrabbandieri per conseguire lo scopo
medesimo. Già si scorgevano allora pubblicamente ammutinarsi non poche
centinaia di questi sciaurati, già si apprestavano le armi, si facevano
girare intorno le polizze ove raccoglier le firme di coloro che
volessero prender parte all’impresa, e fu udita la voce di chi annunziò
non doversi attendere il meriggio di quel giorno per dare lo scoppio.

Ma l’aggredire a petto scoperto la milizia del principe non è cosa di
sì facile assunto come l’ucciderne a tradimento un qualche individuo
fra le tenebre della notte. Perciò tante millantazioni svanirono senza
effetto, ed invece si limitarono tratto tratto a dare atroci esempi
della più nera viltà.

I registri criminali sono pieni, e ribollono di molte denuncie di
omicidii e ferimenti gravi dei pubblici funzionari, e di persone
affezionate al governo, che per ispirito di partito si verificarono in
questa provincia nel breve spazio di pochi anni, delitti sempre avvolti
fra il mistero, senza che se ne potessero distinguere gli esecutori,
comunque ogni ragionevole congettura guidasse a concludere che fossero
architettati da una fazione micidiale.

L’ultimo però di questi misfatti, cioè l’omicidio del brigadiere
Sparapani, cui successe l’altro del fuciliere svizzero Adolf, come
dalla precedente nostra sentenza, eccitò in particolar guisa lo
zelo instancabile di questo politico dicastero, e fece conoscere
la necessità di svellere il male dalle sue radici, onde non si
riproducessero in avvenire sì atroci delitti. Riscontrando pertanto le
cagioni del disordine, seppe ravvisarlo nella esistenza di una società
di tristi, parte col nome specioso di liberali, parte contrabbandieri
d’instituto, ma tutti insieme collegati onde sconvolgere l’ordine
pubblico, violare impunemente le sanzioni penali, opprimere la forza
pubblica, che milita alla conservazione dello stato, alla esatta
osservanza delle sue leggi. Se pertanto non era agevole di scuoprire
gli autori degli enormi delitti finora avvenuti, non era arduo di
ravvisare quegl’individui che appartenevano a tale perversa alleanza,
e prevenire i sinistri effetti nelle loro cagioni. In simili pubbliche
calamità non altra norma insegna la prudenza civile. O infatti la
società è costretta a lasciare senza un freno valido il misfatto
perfezionato, e quindi a rimanersi il bersaglio della malefica attività
dei facinorosi, ovvero le conviene, alfine di evitare tanto disordine,
di frenarlo con ostacoli che a lui vadano incontro nel tempo che
si sviluppa, e lo arrestino per via prima che giunga alla sua meta
criminosa.

Ordinò pertanto l’arresto di coloro che erano più gravemente sospetti
di appartenere a tale iniqua collegazione, onde purgare la città da sì
perniciosa zizzania, _nam in mandatis Principum est, ut curet is qui
reipublicae praeest, malis hominibus provinciam purgare. L. 3 Digestis,
de officio Praesidis_.

E poichè il carattere più spiegato di tale congrega era quello
dell’odio e della nimistà contro la forza pubblica che mirava ad
opprimere, per innalzare il vessillo del popolare dispotismo, perciò
rimise al potere di questa Commissione speciale gli arrestati, onde,
sottoposti a regolare processura, subissero il castigo meritato delle
loro prave macchinazioni.

Portato il giudizio all’odierna radunanza, il primo obbietto d’ordine
recato in campo dal difensore degl’imputati, fu quello della
incompetenza, come se il relativo giudizio appartenesse ai magistrati
ordinari.

Il consesso giudicante però non ha stimato di dover arrestarsi a simile
difficoltà. Infatti la tesi proposta è la esistenza di una società
di anarchici, che sogliono sovrastare al potere legittimo, dominando
col proteiforme egoismo, onde far prevalere l’oggetto delle private
loro passioni alla legge, all’ordine pubblico e al bene comune della
società. Non può quindi giungersi a tale scopo senza prima abbattere la
forza pubblica, che forma la barriera difenditrice d’ogni costituzione
degli Stati. _Summa Reipublicae tuitio, de stirpe duarum rerum, armorum
scilicet, atque legum veniens, vimque suam exinde muniens. L. unic.
de Justinianeo Codice confirmando_. Perciò la soldatesca del governo
è la legge istrumentale, la legge viva e animata che al comando del
principe fa seguire l’obbedienza dei sudditi. Quindi le stesse leggi ci
dicono: _armari jura gladio ultore. L. 31. C. ad Leg. Jul. de adult.,_
e la medesima giurisdizione s’indica: _gladii potestas, gladii jus.
L. 70 ff. de R. juris, L. 6 ff. de officio Proconsulis, L. 6 § 8 ff.
de officio Praefecti, L. 6 ff. de interdictis et relegatis_, con ciò
dimostrandosi, che il potere legislativo e giudiziario attingono ogni
loro efficacia dal potere esecutivo collocato nelle truppe del governo.

Ora, fino dal maggio 1843 pubblicatosi l’editto istitutore di questa
Commissione, seppero gl’inquisiti che qualunque delitto in odio
della forza pubblica sarebbe per l’avvenire giudicato colle forme e
pene in tale editto prefisse. Se adunque posteriormente nell’agosto
1843 costoro si ammutinarono per investire la forza pubblica; se,
svanite le loro folli speranze, proseguirono a mantenersi collegati
per coadiuvarsi a vicenda nei pravi disegni, e tenere in istato
d’oppressione la milizia, non possono declinare da quel fôro speciale
che il legislatore aveva già loro stabilito prima della consumazione
del delitto. Nè in ciò si fa onta alla giurisdizione ordinaria della
sacra Consulta pei delitti di stato a termini degli articoli 45, 555
del regolamento di processura 5 novembre 1831, a cui è posteriore la
notificazione 27 maggio 1843. Essendo instituita oggi una Commissione
speciale, la quale protegge in queste due provincie le armi del
principe, questa dee prevalere alla giurisdizione ordinaria. L. 80
_ff. de R. juris_. E se anche la giurisdizione volesse ritenersi mista
o comulativa, dee farsi luogo alla prevenzione in forza dell’articolo
68 di processura, come saggiamente osservò il signor avvocato fiscale
nelle sue conclusioni.

Ritenuta pertanto la competenza di questa Commissione, si è disceso
a ventilare la seconda controversia, se consti, o no, in genere la
esistenza della società illecita contestata agli odierni inquisiti.

Moltissimi testimoni deponevano di tale alleanza di tristi per volgare
notorietà. Ma il tribunale non si è arrestato a simil voce, come ne
avvertiva la perspicace sanzione del diritto canonico: _Cap. Consuluit,
14 de appellationibus. — Cum multa dicuntur notoria quae non sunt,
prohibere debes ne quod dubium est pro notorio videaris habere_.
Trattavasi di un delitto formato da vincoli razionali, il quale non
cadeva sotto ai sensi in sè medesimo, ma potea soltanto rilevarsi nei
propri effetti discontinui; nel qual caso anche le deposizioni sulle
notorietà devono portarsi a minuto esame, calcolando le ragioni di
scienza, le fonti onde i testimoni attingono il proprio asserto, e la
corrispondenza della espressione usata dai deponenti nel caratterizzare
il delitto cogli elementi su cui ne avevano essi formata la idea:
altrimenti correva il giudice rischio di cedere i propri suffragi
al popolo, e rendere gli uomini vittima di una parola. _Farinacius,
de delictis, quaest_. 21 N. 89, 93, 95, 97, 99, 102, 104, 105; _de
test., quaest._ 70, _ampliatio_ 3, N. 6. Di fatti il nome di società,
peregrinando per tante materie economiche, scientifiche, civili e
religiose, si veste di altrettante diverse significazioni, quante sono
le cose e forme alle quali si applica. _Zanchius, de societ., part._ 1,
_cap_. 1, _N._ 24. — _Mantica, de tacitis et ambiguis conventionibus_,
lib. 6, _N_. 1. Perciò invece della espressione, i giudici hanno preso
in loro scorta la definizione.

Così i pubblicisti definiscono la società: _Societas est pactum vel
quasi pactum de fine quodam conjunctis viribus assequendo. V Volfius,
ibique V Vatel, in notis ad jus naturae et gentium, part_. 7, c. 1, § 1.

Posta la definizione, si passò ad analizzare gli elementi che la
compongono, seguendo i criminalisti, i quali indicano gli estremi
costituenti il Collegio illecito.

Tre ne stabilivano gli antichi. Segno comune, area comune, vicendevole
intelligenza, o trattato. Ma il chiarissimo Antonio Mattei, _de
criminibus, lib._ 47, tit. 15, N. 1, 2, 3, ben riflette che i due primi
estremi non sono necessarî. Non il primo, altrimenti si confonderebbe
il segno colla cosa significata. Qualunque sia, infatti, il modo con
cui i faziosi comunicano fra essi le loro perfide intelligenze, il
vincolo d’iniquità è sempre lo stesso, sia poi che usino le indicazioni
naturali e il linguaggio comune, sia che esista un distintivo di
convenzione, o nel gesteggiare compagnevole, o nello stemma e impresa
della società, o nella affissione del segnale, come a spiegata rivolta
suol avvenire.

Nemmeno necessario è il secondo estremo della cassa od area comune.
Imperciocchè, quantunque sia vero che non può darsi società senza
comunione, benchè possa esserci comunione senza società (_Leg. ut
sit ff. pro socio. — Zanchius, de societ., part_. 1, _cap_. 7, _N_.
42), pure non è necessario che siavi comunanza di materia o di cosa,
bastando che vi esista una massa accomunata di opere, come nel caso
presente (_Grotius, de jure belli et pacis, lib._ 2, _cap_. 12, _de
contractibus_, § 4), così nella società delle carovane niuno dei
viaggiatori comunica all’altro il dominio delle proprie salmerie,
sebbene ponga in massa la propria opera e forza onde resistere in caso
alle aggressioni dei barbari.

Restando dunque a provarsi il solo estremo del mutuo accordo a mal
fine, questo rimaneva stabilito nelle tavole processuali da questi
elementi.

1º. Dalle confessioni stragiudiziali di parecchi membri di tale
collegazione, deposte da quattro testimoni uditi in processo. Se
infatti questo delitto consiste nella reciproca intelligenza, e
nell’animo di collimare tutti al reo fine, niuna miglior prova si potea
conseguire di tale animo, se non la stessa confessione dei collegati.
Nè deve obiettarsi che la confessione non può cangiare, o stabilire
la natura della cosa, non supplendo questo mezzo alla deficiente
prova fisica di un delitto in genere. Imperciocchè quest’obietto
sarebbe appunto valutabile in un delitto di fatto permanente, ove, per
esempio, la sola confessione di aver ucciso non basterebbe a provare il
delitto in genere, quando della uccisione non constasse pei sensi. Ma,
trattandosi appunto di un delitto razionale di fatto transeunte, perchè
consistente nel reciproco accordo, la prova desunta dalla confessione
stragiudiziale non può incontrar tale obietto, quando poi non è sola,
ma da altri veementi indizi e argomenti corroborata. (_Carpzovius,
Prax. rer. crim., par._ 1, _quaest_. 16. _N_. 1 _et sequentibus_).
Tali veementi indizi si desumevano dalle varie cause di scienza che or
l’uno, or l’altro dei molti testimoni esaminati in processo adduceva
nel proprio giudizio sull’esistenza di tale società, e che si vengono
qui in seguito annoverando quali altri mezzi costituenti la prova
generica, cioè:

2.º Le numerose turbe di contrabbandieri, altri carichi delle merci
in frode, altri guerniti di armi or apparenti, or nascoste, che si
facevano vedere nei dintorni, entrando persino talvolta con somma
impudenza, di pieno giorno, e transitando per la città sicuri di
loro scarriera pel cumulo della forza maggiore. Imperciocchè al loro
incontro i militi di finanza erano costretti di cedere alla forza
dell’attruppamento, volgendo altrove il passo, e fingendo di non avere
mirato un sì grave disordine. La provvida legge, sempre coerente a sè
medesima, nell’editto 5 maggio 1822, tuttora vigente, stabilisce al
contrabbando in conventicola di due, tre o più persone la pena da tre
a cinque anni d’opera pubblica, ed eguale pena dai tre ai cinque anni
d’opera pubblica sanziona l’art. 143 del vigente regolamento penale per
la resistenza semplice alla forza, quando il delitto non è accompagnato
da circostanze aggravanti, che lo rendano resistenza qualificata. E ciò
sta in piena consonanza delle regole di comune diritto. Conciossiachè
l’unire una forza insuperabile nell’eseguimento di un’azione vietata,
onde se ne renda impossibile alla milizia del principe l’impedirlo,
costituisce per sè stesso una certa violenza, ossia un timore incusso,
il quale trattiene la soldatesca suo malgrado nell’impedire il
contrabbando commesso in danno del pubblico erario (_Leg_. 1 _ff.
quod metus causa_) ibi: _vis enim fiebat mentio propter necessitatem
impositam contrariam voluntati._ Ciò che spiega il giureconsulto _Voet,
ad pandectas_ 4, 2, 1. _Metui, vis inest, in quantum metus supponit
et vim, quidem non absolutam, sed conditionatam, non illatam, sed
ferendam. Sperelli, dec._ 5. _For. Ecclesiast., N.º_ 78 _et seq_.

3.º Gli assembramenti numerosi dei liberali e contrabbandieri che si
vedevano in questa città fino al primo arrivo della Commissione per
giudicare la causa degli omicidii Sparapani e Adolf, mostrando il
loro disprezzo verso la forza pubblica, essendovi chi depone d’aver
vedute le turbe di costoro passare vicino alcuni carabinieri, e fare ai
medesimi stomachevoli oltraggi, dovendo quei soldati usare prudenza e
continuare il loro cammino.

4.º Le pompe funebri celebrate coll’intervento di molti liberali in
morte di persone del loro partito, e ciò con tale pubblico scandalo,
che l’autorità ecclesiastica fu costretta a farne divieto con apposita
circolare. Dal che si arguisce la unione di costoro e l’aderenza ai
loro partigiani con fermezza durevole oltre la tomba.

5.º La fratellanza che si vedeva di continuo fra gente di simil
pensare, e la loro fuga e persecuzione dei buoni. La quale duplice
circostanza presenta in sè stessa la vera idea di fazione popolare.
_Lipsius, Politicorum, lib. 6, cap. 3: factionem nomino paucorum aut
plurium inter se coitionem, et ab aliis dissensum_.

6.º Il risentimento in comune delle pretese ingiurie, o per dir meglio,
degli atti di giustizia esercitati sopra a qualche individuo della
loro combriccola, o su qualche delinquente ai medesimi simigliante.
Ciò pure addimostra che quei perfidi si consideravano tutti di una
sola famiglia. _«Spectat enim ad nos injuria, qua in his fit qui vel
potestati nostra, vel effectui subjecti sunt». L._ 1, § 3, _ff. de
injur_.

7.º Gli applausi di comune accordo pubblicamente innalzati allorquando
avveniva qualche omicidio per odio di parte in persona di un impiegato
di polizia, o di un individuo della forza armata. Narra infatti un
testimonio, che, trovandosi una sera in teatro, udì ripetere spesse
volte fuor di proposito l’esclamazione _bravo, bravo_. Meravigliandosi
di simile improntitudine, e chiestone d’intorno il motivo, poichè gli
attori non meritavano certamente quegli encomii, fu ad esso risposto
non esser rivolti gli applausi agli attori, ma a chi avea fatto il
colpo di uccidere l’ispettore politico Montanari. Questo medesimo
testimonio poi nella mattina successiva all’omicidio del brigadiere
Sparapani, vide a passare gruppi di persone della feccia del Borgo
Adriano, le quali, fra esse ridendo, esclamavano: _bravo, bravo_.
Ed egli, che altro motivo non iscorgeva di simil grido, ricordando
il senso del gergo, ne dedusse non molto fuor di proposito, che si
applaudisse all’omicidio Sparapani.

8.º L’ordine che fra le compagnie dei contrabbandieri si scorgeva di
dipendenti e di capi, locchè addimostra come fossero organizzati fra
essi, costituenti perciò un collegio e un corpo sociale. _Societas est
multitudo ordinata; ordo autem quid aliud est quam series inferiorum,
ac superiorum? Galganetti, de jur. pub., tit._ 16, _num_. 21.

9.º L’uniformità del premio di uno scudo per ogni notte che si
accordava per testa a ciascuno degli spalloni nel contrabbando, dal che
si argomenta che non era distaccato un frodatore dall’altro, nel qual
caso i compensi dei tirini sarebbero stati diversi secondo le varie
convenzioni parziali, ma esisteva tra i contrabbandieri un sistema, un
temperamento uniforme, una armonia di misure, e perciò un proponimento
preso a comune, dirigendo i mezzi al fine con unione proporzionale.

10.º Finalmente, da qualche testimonio adducevansi altre ragioni
di scienza, cioè la reciprocanza di aiuti fra l’uno e l’altro dei
compagnoni, la esclusione di risse fra i medesimi, le frequenti
gozzoviglie comuni, lo scambio reciproco delle vesti, onde non esser
conosciuti nelle loro notturne sortite, i discorsi talvolta intesi
origliando notte tempo, fatti da persone incognite riunite, che
bisognava disfarsi, ovvero uccidere il tale ispettore di finanza,
o il tal brigadiere de’ carabinieri, energico nella repressione
del contrabbando, come avvenne prima dell’omicidio Sparapani;
il provvedimento di danaro negl’indigenti, che parea derivato
dai partigiani più facoltosi Al che deve aggiungersi l’argomento
validissimo tratto dal bisogno che un contrabbandiere aveva di unirsi
all’altro, onde ottenere una scambievolezza di sostegno per superare la
forza di finanza.

Per li quali motivi di scienza esposti dai deponenti, si deduce
non essere erronea la notorietà riferita dai testimoni, nè viziata
quell’idea di società che si erano essi formata, essendosi tale
immagine impressa nella loro mente come un fedele ritratto delle
circostanze, e alla giusta impressione dei testimoni corrispondea
l’espressione da essi usata in processo.

Ma qui si opponeva non essere stabilito il contratto di società fra
costoro, nè per convenzione simultanea scritta, nè per annotamento nei
ruoli, nè per altro segno espresso di alleanza. Per altro era facile
il rispondere non essere necessario alla società un patto espresso
ed esplicito, bastando eziandio l’implicito ed induttivo, ossia il
consenso comune, esternato coi fatti. Tale appuntamento di consenso a
mal fine espresso coi fatti, si verifica appunto nel caso concreto.

Se non che presentavasi il dubbio, se nella insubordinazione, nel
comune disprezzo delle truppe pontificie si verificasse veramente tra
correi o complici, l’idea del vincolo e dell’impegno reciproco, senza
cui non può darsi vera idea d’alleanza. Ma trattandosi di fazione
popolare a mal fine, non sembrò necessaria la mutua obbligazione, ossia
l’idea del vincolo e dell’impegno, bastando a ciò l’abituale unione de’
consensi a mal fine, reciprocamente riconosciuta ed approvata, come
si definisce appunto la fazione: _Malorum in eamdem rem consensus,
Cremani, de jur. crim., lib. 2, cap. 3, art. 1, par. 6_. Difatti il
carattere dell’impegno o vincolo non può mai legalmente verificarsi in
una società illecita, in cui la turpe promessa non forma nodo fra i
soci. L’obbligo di permanenza e perseveranza appena si verifica nelle
società lecite, di cui è scritto nella legge _Tamdiu C. pro socio:
Manet autem societas eo usque donec in eodem consensu perseveraverint.
At cum aliqui renunciaverint societati solvitur societas_. Basta dunque
all’idea di fazione il plesso ed intreccio che nasce dalle comuni
perfide intenzioni, insieme manifestate, accettate, abitualmente
ritenute, conformando ad esse l’esteriore condotta; ciocchè avvenendo,
si verifica il comune impegno, non già in faccia ai soci, ma in faccia
alla legge, divenendo ciascuno responsabile, non solamente del fatto
proprio, ma dell’operato eziandio di ciascuno degli altri cui esso
aderì; come nella costituzione _Quo graviora_, contro le società
illecite, rimarcava appunto la santa memoria di Leone XII, ripetendo il
detto di Paolo: _Qui talia agunt digni sunt morte, et non solum qui ea
faciunt, sed etiam qui consentiunt facientibus_.

Ma insorger qui potea la difesa, che, in tal guisa concependo una
lega, si confonderebbe la società con ogni complicità, appellandosi
impropriamente più delinquenti soci nel loro delitto.

Il quale ostacolo si togliea distinguendo in tre stadii il numero
dei più concorrenti a un delitto, secondo gli effetti morali che
ne derivano alla Repubblica. La sola qualità basta onde stabilire
la complicità. Un numero superiore determinato dalle diverse leggi
secondo la ferocia dei popoli e circostanza dei tempi, costituisce
la conventicola, quella cioè che per soli pochi istanti e per un
solo fatto speciale può formare una violenza pubblica capace nel
momento di sovrastare alla legittima forza. Tale numero nelle nostre
leggi è determinato negli art. 105, 106. Ma quando la società a mal
fine si estende ad un numero considerevole e permanente d’individui,
atto a compromettere lungo tempo la pubblica tranquillità, come nel
caso presente, in cui i collegati s’indicano a centinaia, allora non
trattasi di sola complicità, non di sola conventicola o violenza
pubblica, ma di violata pace pubblica. _Carpzovius, part. 1, cap.
35, de crim. fraternae pacis publica n. 13. — Bohemer., ad Carpzov.,
ibi, observat. 3, pag. 262. — Haunoldus, jurisprudentia judiciaria,
tom. 2, tract. 2, cap. 2, n. 482._ Anzi tale delitto di permanente
violenza, costituito da simil collegio illecito, sale al titolo di
lesa maestà, come si deduce dalla _Legge 2 ff. de Collegiis. Quisquis
illicitum collegium usurpaverit ea poena tenetur qua tenentur qui
armatis hominibus loca publica vel templa occupasse judicati sunt_. Che
è appunto quella di lesa maestà come nella _Legge 1, § 1, ff. ad Leg.
Jul. Majestatis_.

Il nostro Regolamento penale colloca esso pure il delitto delle società
illecite fra quelli di lesa maestà, _Lib. 2, tit. 2, art. 96_, e ben
a ragione. In ogni governo è necessario che siavi un potere capace
di superare e trionfare di tutti gli ostacoli. Senza questo potere
non vi è governo. Quando adunque una lega d’uomini violenti forma una
antiperistasi alla forza del principe, talchè i ribaldi non possano più
essere soggiogati dalla voce imperiosa della legge, allora si dichiara
una aperta guerra al principe, la sovranità è lesa, e i refrattari sono
ribelli.

Ma il difensore degl’inquisiti affacciava che lo scopo del contrabbando
non presentava i caratteri di tanta gravezza. A ciò risponderassi
primieramente col moto-proprio di Benedetto XIII, 17 settembre 1728,
richiamato in vigore dalla circolare della Segreteria di Stato per gli
affari interni 23 novembre 1833, N.º 8561, in cui i contrabbandieri
in conventicola armata, costituita anche da tre sole persone, sono
apertamente dichiarati ribelli. Inoltre i testimoni fiscali ci
attestano che gli spalloni sono anche liberali, e uniti coi nemici
del governo, tutti disposti ad insorgere, tutti pronti per resistere
contro la forza. Havvi dunque la prova del fine pessimo, delittuoso.
Ma, dato pure che i soci coinquisiti rimirassero al solo scopo del
contrabbando, chi vorrebbe negare che anche un tale disegno, concepito
da una moltitudine armata, ed abitualmente eseguito con tanta
pubblicità ed audacia, non comprometta lo stato? _Impossibile enim
est ut sacris tributis non illatis alioqui respublica conservetur:
Justinianus, Novella 149._ Perciò i criminalisti anche più liberi
riconoscono il contrabbando siccome un furto pubblico, un peculato
indiretto, il quale dissecca le sorgenti del pubblico erario, induce
la necessità di nuovi tributi, trasporta il carico delle imposte da un
novero di cittadini a un altro, che ne sarebbe stato esente, quando
i proventi della non frodata gabella fossero colati in integro nella
cassa del principe, avvezza lo spirito al sotterfugio, che da un genere
facilmente trapassa all’altro, insinua nei cittadini il disprezzo
della legge, forma una guerra d’interessi tra l’egoismo dei privati
e il paterno amministratore dei beni comuni, rende incerto il prezzo
delle cose mercatabili, vacillando ognora tra quello netto da gabella,
che offre di celato il contrabbandiere, e quello sopraccaricato
della imposta, che richiedesi in fôro; spinge alla rovina gli onesti
negozianti, fedeli contributori al loro principe, i quali non possono
competere col mercadante frodatore; fomenta l’ozio della plebe, la
quale in poche ore di rischio e di tenebre può lucrare quanto avrebbe
dovuto acquistarsi colla paziente, ma tranquilla fatica di tutto il
giorno, il quale trapassa in giuochi, gozzoviglie, ebrietà e mollezze,
che spesso vanno a scolare nella sentina dei lupercali; toglie alle
arti utili tante braccia di lavoratori, aumenta il costo delle mercedi
di opere a pregiudizio dei committenti per lo scemato numero degli
operieri, colloca il frodatore in una continua indisposizione di animo
contro la forza del principe, con grave probabilità ad ogni scontro
di resistenza, ferite, omicidii; espone, finalmente, la società a
un sommo rischio della propria dissoluzione sopra tutti i rapporti,
poichè, sottraendo le merci alla vista degli ufficiali finanzieri,
vengono sottratte egualmente alla ispezione dei magistrati sanitarii,
politici, religiosi: e quindi si possono introdurre vettovaglie
malsane, carni insalubri, provenienze talvolta sospette di contagio
epidemico, con pericolo della salute comune, del che non mancano anche
nei moderni tempi recentissimi esempi. Penetrano nella città con tali
clandestine introduzioni le corrispondenze, armi e gli emblemi che
fomentano ognora il frenetico spirito della rivolta, e spargonsi libri
ed immagini le più velenose per la morale, contrarie alle massime
sacrosante della religione cattolica; disordini tutti i quali nascono
ad un parto con quello del contrabbando, e che si eviterebbero in gran
parte quando la violazione dei sacri termini tra stato e stato, dei
confini continentali, delle mura cittadinesche, sanzionato dal comune
diritto con severissime pene, cessasse una volta di sconvolgere fra noi
l’ordine sociale.

Per questi motivi la Commissione si è convinta intorno alla esistenza
del delitto in genere.

Passando ad esporre i motivi della prova specifica nel sistema
dell’intima convinzione, sarà lecito di usare brevità.

Basti solo accennare che i massimi aggravati apparivano quasi tutti
colpiti da due o tre testimoni di confessione stragiudiziale,
amminicolata da gravi indizi, come Versari, Paccapeli, detto Galani,
Gambi Eugenio, Barasa, Baroncelli, Pambianchi, De Stefani, De Marchi,
altri dal possesso incolpante di prova congetturale scritta, come
Felice Miserocchi, altri dal possesso di prova reale, siccome Orioli
Achille, altri alfine da bastevoli, svariati argomenti, congetture
ed indizi, i quali, posti nella bilancia giuridica e prudenziale,
persuasero i giudicanti di ritenere la loro reità o complicità, se
non positiva, almeno negativa per connivenza o adesione indiretta,
graduando sul maggiore o minore concorso del dolo o colpa la pena
applicabile. Nè parve rigore soverchio di valutare in un delitto
di stato comunque vogliasi definire obliquo, la stessa complicità
negativa, come è disposto dal comune diritto: _Legge 5, Cod. ad Leg.
Jul. Maj., § 6_, perchè nei grandi delitti interessanti la comune
sicurezza la stessa omissione di non impedire le conosciute trame,
le intelligenze e i maneggi dei riottosi, forma una colpa punibile,
sebbene con mite castigo.

Per gli altri inquisiti poi non colpiti da bastevoli indizi per
ritenerli rei o complici, la giustizia del tribunale adottò le clausole
degli art. 446, 447 del vigente regolamento di processura.

Scendendo, infine, a ragionare sulla pena, ritennero i giudicanti
che la coalizzazione degl’inquisiti indettati per eguale illecito
proponimento, costituisse una permanente violenza, collimando il
concorso dell’uno ad accrescer l’audacia dell’altro, come in materia di
società illecite condolevasi l’accennato immortale pontefice Leone XII.
«_Perspicue patet perniciosissimarum harum societatum vim et audaciam
ex omnium qui iis nomen dedere consensione ac multitudine coalescere_».
Ma questo carattere di permanente violenza potrebbe comprendere diversi
titoli criminosi. «_Quoniam multa facinora sub uno violentiae nomine
comprehenduntur_» _Leg. quoniam multa C. ad Leg. Jul. de vi pub._

Poichè dunque niuna prova esiste in processo che alcuno dei giudicabili
siano correi o complici negli omicidii Sparapani e Adolf, ovvero negli
altri ferimenti ed uccisioni di militari o funzionarii rimasti tuttora
impuniti; poichè la unanime loro collegazione di fatto non presentava
i caratteri della società espressa e secreta di cui nell’art. 96;
poichè, infine, trattavasi di abito piuttosto che di specifici atti
contestati di resistenza per applicare l’art. 143; il tribunale si
limitò a contemplare il delitto come una permanente ingiuria atroce
alla legittima podestà e forza del principe, commessa o assentita
direttamente o indirettamente dagl’inquisiti in comune. E quindi fu
misurata la pena sulla base degli art. 328, 329, 331, cogli aumenti
circostanziali degli art. 107, 108 specialmente pei capi, e colla
aggiunta edittale dei gradi preveduti dalla notificazione 27 maggio
1843.

                            PER TALI MOTIVI

                      INVOCATO IL SS. NOME DI DIO

                        LA COMMISSIONE SUDDETTA

               _definitivamente sentenziando ad unanimità
                               di voti_.

Ritenuta la competenza, ha dichiarato e dichiara essere provata
in genere la esistenza in Ravenna d’una collegazione faziosa di
molti individui anche armati, tendente alla infrazione delle leggi,
specialmente erariali, con vilipendere in odio di uffizio, e incuter
timore alla forza pubblica, la quale milita per la conservazione dello
stato e per l’esatta osservanza delle sue leggi.

Parimente alla stessa unanimità ha dichiarato e dichiara constare
in ispecie colpevoli di appartenere alla detta collegazione Versari
Francesco, Paccapeli Carlo, Miserocchi Felice, Gambi Eugenio, Barasa
Andrea, Pambianchi Michele, Baroncelli Giovanni, Samaritani Saverio,
Randi Giuseppe, Paterlini Lodovico, De Stefani Leonardo, Dellavalle
Mauro, Dulcini Angelo, De Marchi Federico, Orioli Achille, Montanari
Antonio, Montanari Vincenzo, Tarifelli Leonardo, Moruzzi Eugenio,
Vaccolini Giovanni, Vicari Augusto, Cappi Carlo, Camerani Paolo,
Rava Gaetano, Giansanti Ciriaco, Vassura Paolo, Miserocchi Domenico,
Camporesi Giacomo, Savorelli Luigi, Angelini Angelo, Zabberoni Pietro,
Savini Giovanni, Gabici Pietro, Bertacchi Francesco, Bezzi Giovanni,
Della Torre Magni Marco.

E perciò, visti gli art. 328, 329, 331, combinati cogli art. 107, 108 e
13 del vigente regolamento penale, e coll’art. 1. della Notificazione
della Segreteria di stato 17 maggio 1843, alla stessa unanimità ha
condannato e condanna Versari Francesco, Paccapeli Carlo, Miserocchi
Felice e Gambi Eugenio alla galera per anni quindici; Barasa Andrea,
Pambianchi Michele, Baroncelli Giovanni, Samaritani Saverio, Paterlini
Lodovico e Randi Giuseppe alla galera per anni dieci; De Stefani
Leonardo, Della Valle Mauro, Dulcini Angelo, De Marchi Federico alla
galera per anni sette; Orioli Achille, Montanari Antonio, Montanari
Vincenzo, Tarifelli Leonardo, Moruzzi Eugenio, Vaccolini Giovanni alla
galera per anni cinque; Camerani Paolo, Cappi Carlo, Vicari Augusto,
Rava Gaetano all’opera pubblica per anni cinque; Gianfanti Ciriaco,
Vassura Paolo, Miserocchi Domenico, Camporesi Giacomo all’opera
pubblica per anni tre; Savorelli Luigi, Angelini Angelo, Zabberoni
Pietro, Savini Giovanni, Gabini Pietro, Bertacchi Francesco, Bezzi
Giovanni, Della Torre Magni Marco all’opera pubblica per anni due.

Ha poi dichiarato e dichiara, sempre ad unanimità, non constare fino
ad ora abbastanza provata la colpabilità dei Gambi Antonio, Fabbri
Annibale, Bertacchi Ermenegildo, Gianfanti Andrea, Landoni Teodorico,
Fiorentini Onofrio, Montignani Pietro, Pasini Mariano, Conti Antonio,
Boschi Domenico, Mazzetti Luigi, Maraffi Domenico, Baldini Gaspare,
Barbieri Giovanni, Pascoli Lucio, Golfarelli Emidio, Gubici Achille,
Rivolta Domenico, Ortolani Giovanni, Rambaldi Gaspare, Giansanti
Giovanni, Landi Vincenzo; doversi però tutti i suddetti, a termini
dell’art. 447 del vigente regolamento, di processura trattenere in
carcere altri sei mesi decorrendi dalla pubblicazione della presente
sentenza, onde assumere in tale spazio di tempo ulteriori indagini.

Ha poi dichiarato e dichiara, sempre ad unanimità, non constare
abbastanza la colpabilità degli altri detenuti Poletti Luigi, Carlini
Giovanni Antonio, Orioli Febo, Bergozzi Giuliano, Pugiotti Francesco,
Gambi Domenico, Pinza Francesco, Fava Felice e Morigi Domenico; perciò,
a’ termini degli articoli 446, 675, 676 del vigente regolamento di
processura suddetto ha ordinato ed ordina che vengano dimessi dal
carcere provvisoriamente.

Infine, sempre ad unanimità, ha dichiarato e dichiara esser tenuti in
solido tutti i suddetti condannati al pagamento delle spese di processo
e vitto, non che alla rifusione dei danni verso l’erario pubblico.

Tutte le suddette pene temporanee dovranno cominciare a decorrere tre
mesi dopo la rispettiva carcerazione dei condannati.

Il signor ff. di presidente s’incarica della redazione motivata della
presente sentenza.

  _Antonio Colognesi_
  _Attilio Fontana_
  _Stanislao tenente colonnello Freddi_
  _Luigi Magnani, tenente colonnello_
  _Camillo tenente colonnello Viviani_
  _Luigi Trogli, cancelliere_
  _Raffaele Magnani ff._


GOVERNO PONTIFICIO

               _Commissione speciale straordinaria mista
                          sedente a Ravenna._

Vista la presente sentenza,

Visto il dispaccio della Segreteria di Stato in cui si dichiara
che, essendo piaciuto all’eminentissimo e reverendissimo signor
cardinal Massimo, legato di questa provincia, chiamare lo sguardo
clementissimo di sua Santità sulla pronunciata sentenza, la Santità
sua, in contemplazione dell’officio usato da sua Eminenza, si è degnata
diminuire di due terzi la pena inflitta a ciascun condannato, e di
ordinare che siano dimessi fin d’ora in libertà provvisoria i ventidue
inquisiti che dovevano trattenersi in carcere per altri sei mesi,

                               SI ORDINA

Che, previa la intimazione della sentenza ad ognuno dei giudicati,
vengano dimessi immediatamente dal carcere tutti coloro che sono stati
dichiarati non bastantemente colpevoli, e vengano i condannati tradotti
ad espiare le rispettive loro pene nel senso della sovraindicata
minorazione.

Dalla Residenza della Commissione speciale straordinaria mista.

                                   _Gio. Pietro Gozzi Proc. Fiscale._

                             . . . . . . .

Ogni uomo di cuor retto, ancorchè inesperto della scienza legale, può
dar giudizio di questa sentenza, del modo con che cerca giustificarsi,
e dei principii al quali si appoggia.

M’è sembrato tuttavia opportuno mostrare quali diversi principii
stimasse doversi seguire nel giudicar cause di lesa maestà, Giovanni
Battista de Luca, cardinale di santa chiesa, nato a Venozza nella
Basilicata, referendario delle due segnature ed auditore d’Innocenzo
XI, che gli diede il cappello il 1 settembre del 1681.

Autore di molte opere legali tenute in gran conto (_Teatro della
giustizia e della verità. — Dottor Volgare_), ebbe il merito
d’avere assunta la storia del diritto come elemento sostanziale
d’interpretazione: d’aver ridotte sotto il dominio della ragione
e del buon senso molte questioni che la sofisticheria legale ed
il probabilismo aveano stravolte sotto vane formole e distinzioni
scolastiche: d’avere scritta l’opera del _Dottor Volgare_ in italiano
affinchè la giurisprudenza non fosse esclusivo monopolio de’ giuristi,
ma nota al tempo stesso a’ padri di famiglia, a’ cittadini ed ai non
professori.

Quest’uom dabbene, che doveva certamente aver in cuore un gran senso di
giustizia, così s’esprime appunto nel _Dottor Volgare_, lib. XV, cap.
5, _Dei delitti_, § 100 _Lesa maestà umana_.

«Per quel che dunque appartiene all’altra specie di lesa maestà umana,
questa contiene sotto di sè diverse specie, più o meno gravi; che
però non è materia che in tutto riceva una stessa regola generale
ed uniforme: mentre i criminalisti ne costituiscono diversi gradi o
specie, delle quali si tratta ancora dagli scrittori ecclesiastici
per il punto dell’immunità locale delle chiese, in occasione della
eccettuazione di questo delitto che se ne fa per la bolla di Gregorio
XIV, quando sia propria e del primo grado, ma non quando sia impropria
e del grado inferiore.

»Ed inoltre in qualsivoglia specie si può parimente dire che sia una
materia incapace d’una regola certa e generale, per la diversità
non solamente delle leggi, ma ancora degli stili e dei costumi dei
principati e paesi. Attesochè appresso alcune nazioni il ribellarsi al
proprio principe, ed il movergli la guerra, o veramente l’aderire ad
un altro principe suo nemico, o servirlo in guerra, è cosa la quale
frequentemente si usa, col titolo di mal contento; così facilmente si
perdona, ed il delinquente si riceve in grazia, nè ciò cagiona quegli
scandali e quelle infamie o male impressioni che porta in altri paesi
ed appresso altre nazioni, dalle quali ciò non mai si perdona: Che però
(conforme si è detto) il tutto dipende dalle leggi e dallo stile de’
paesi, e dalle circostanze particolari di ciascun caso, venendo più
frequentemente queste materie regolate in gran parte da quella legge
la quale volgarmente si dice _politica_, o veramente ragione di stato,
onde dalle persone bene intendenti degli affari pubblici, forse con
qualche ragione vengono stimati degni d’irrisione e di disprezzo quei
puri legisti i quali con la solita inezia leguleica vogliono regolare
queste materie con le regole generali della ragione civile comune,
e con le leggi dell’impero romano, fatte quando questo risiedeva
nell’Italia, o pure quando in Grecia, senza riflettere alla diversità
dei tempi e dei costumi e de’ principati. Ed ancora senza fare la tanto
opportuna, anzi necessaria riflessione alla storia legale, tante volle
accennata nel proemio, ed altrove: — Cioè che in queste nostre parti
europee occidentali queste leggi secondo la loro compilazione, la quale
fu fatta in Grecia per ordine di Giustiniano, non furono conosciute, o
veramente se furono conosciute, nondimeno andarono in tale disuso ed in
oblivione, sotto la quale furono sepolte per lo spazio di molti secoli,
nei quali, per le tante guerre e fazioni e per le mutazioni dei dominii
così frequenti, quei delitti di ribellione erano trattati diversamente
secondo la diversità delle nazioni e de’ dominii. Che però quando
cominciò l’uso delle suddette leggi civili erano già invecchiati, non
che introdotti gli stili e gli usi circa il modo di procedere in questi
delitti in ciascun paese.

E per conseguenza troppo chiara resta la semplicità di costoro, e
particolarmente nel volere applicare le autorità degli scrittori di un
paese, fondate nelle leggi e negli stili particolari di quello, agli
altri paesi totalmente diversi, e ne’ quali quelle leggi o stili non
vi siano; che però queste autorità servono sempre per inorpellare le
passioni, o veramente l’avarizia e la tirannia, la quale si voglia
esercitare.

Questa specie di delitto contiene sotto di sè diverse specie
subalterne, di maggiori o minori circostanze, o veramente di
diversi gradi. Attesochè, uno è quella lesa maestà la quale si dice
totalmente pubblica, e che riguarda lo stato della mutazione del
principato. E questa si suole spiegare col termine della ribellione
formale, sottraendosi dal dominio e dalla obbedienza di un principe,
e dandosi sotto il dominio o veramente sotto la protezione di un
altro, secondo le altre volte accennato famoso Vespero Siciliano. O
veramente eleggendosi un principe proprio: — oppure mettendosi in
stato di libertà e di repubblica. — E questa è la specie maggiore,
e la primaria, sopra la quale merita dirsi manifesta pazzia quella
de’ giuristi, nel mettervi bocca; e nel volerla regolare con le loro
leguleiche proposizioni, e con le tradizioni dei dottorelli, attesochè
di questi casi è regolatore l’evento della guerra e della maggiore
o minore potenza, per quel che se n’è accennato anco nella materia
giurisdizionale; che però pare avere la maggior parte più il politico
che il legale.

E lo stesso pare cammini nell’altra specie di lesa maestà parimente
pubblica, per la ragione dell’offesa la quale si faccia al principato,
ancorchè il delitto per parte di chi lo commette non sia pubblico,
nè popolare, com’è l’antecedente, ma sia privato: cioè che qualche
suddito, ribellandosi al proprio principe e negandogli l’ubbidienza,
gli muova guerra e gli faccia resistenza, o veramente che aderisca o si
dia al servizio di un altro principe suo nemico, oppure gli dia aiuto
di denaro, o d’arme e di vittovaglie in maniera che il delitto ferisca
il principato, e non la persona particolare di quel principe ovvero di
quel supremo magistrato.

La terza specie di lesa maestà, anche di primo grado, è quella la
quale riguarda il delitto che si commetta dal suddito nella propria
persona del principe sovrano, o veramente di quel suo vicario o
supremo magistrato il quale in sua assenza lo rappresenti totalmente,
e che vi stia in sua vece, ma che non ferisca il principato, perchè
non si faccia per mutare il dominio nè la forma del governo, ma che
solamente per vendetta privata o per odio pubblico si uccida quella
persona. E parimente sopra questa specie di delitto cade poca disputa,
che venga stimato gravissimo e degno di gravissime pene, della vita,
della confiscazione dei beni, dell’infamia e di qualche gastigo anche
nella posterità. Ma parimente gran parte vi hanno le leggi e gli stili
particolari dei principali».

                             . . . . . . .

_Domande dei sudditi pontificii, racchiuse nel manifesto diretto ai
principi e popoli d’Europa._

1.º Ch’egli conceda piena e generale amnistia a tutti i prevenuti
politici dall’anno 1821 fino a questo giorno.

2.º Ch’egli dia codici civili e criminali modellati su quelli degli
altri popoli civili dell’Europa, i quali consacrino la pubblicità dei
dibattimenti, l’istituzione dei giurati, l’abolizione della confisca e
quella della pena di morte per le colpe di lesa maestà.

3.º Che il tribunale del santo Officio non eserciti veruna autorità sui
laici, nè su questi abbiano giurisdizione i tribunali ecclesiastici.

4.º Che le cause politiche sieno quind’innanzi ricercate e punite dai
tribunali ordinari, giudicanti colle regole comuni.

5.º Che i Consigli municipali siano eletti liberamente dai cittadini,
ed approvati dal sovrano; che questi elegga i Consigli provinciali fra
le terne presentate dai Municipali, ed elegga il supremo Consiglio di
stato fra quelle che verranno avanzate dai provinciali.

6.º Che il supremo Consiglio di stato risieda in Roma, sovraintenda al
debito pubblico, ed abbia voto deliberativo sui preventivi e consuntivi
dello stato, e lo abbia consultivo nelle altre bisogne.

7.º Che tutti gl’impieghi e le dignità civili e militari e giudiziarie
sieno pei secolari.

8.º Che l’istruzione pubblica sia tolta dalla soggezione dei vescovi e
del clero, al quale sarà riservata la educazione religiosa.

9.º Che la censura preventiva della stampa sia ristretta nei termini
sufficienti a prevenire le ingiurie alla divinità, alla religione
cattolica, al sovrano ed alla vita privata dei cittadini.

10.º Che sia licenziata la truppa straniera.

11.º Che sia istituita una guardia cittadina, alla quale vengano
affidati il mantenimento dell’ordine pubblico e la custodia delle leggi.

12.º Che, infine, il governo entri nella via di tutti quei
miglioramenti sociali che sono realmente dello spirito del secolo, ad
esempio di tutti i governi civili d’Europa.

In data 23 marzo 1831 fu pubblicato in Roma e nelle diverse città dello
stato pontificio un editto che cominciava colle parole seguenti: —
Un’era novella, ec., e prometteva alle popolazioni delle Romagne molti
miglioramenti di governo. Ma dopo che fu affisso non riuscì più ad
alcuno di averne copia; mi è perciò impossibile porlo come avrei voluto
tra i documenti, ad appoggio della mia proposizione: «Non avere il
governo mantenuto le promesse del 31.» Tuttavia, quand’anche non fosser
cose note, a tutti, il solo fatto di affiggere un editto ed impedire
poi che se ne spargano copie, parla chiaro abbastanza.

Al detto editto fu poscia sostituito l’altro in data 5 luglio 1831[9],
che è attualmente in vigore. Ma tutti i governatori hanno in diverse
epoche ricevute circolari derogatorie ai pochi buoni articoli che sono
in esso, le quali circolari furono sette od otto.

A maggior prova in favore delle proteste incolpabili di violenza,
trascrivo qui la relazione d’un fatto avvenuto in Faenza tre anni sono.
Mi rendo garante della sua autenticità.

«Dopo che nel 1843 furono mandati a vuoto i tentativi di rivoluzione
dello stato pontificio, e furono costretti ad emigrare il cavaliere
Lovatelli e compagni, i volontari di Faenza cominciarono a dar segno di
voler ripetere le infami aggressioni degli anni precedenti, percotendo
ed impunemente ferendo ed ammazzando per le vie i pacifici cittadini. E
precisamente in una sera del settembre 1843 manifestarono questa loro
perversa determinazione aggirandosi per la città in copia e palesemente
armati, e minacciando con gesti e parole. I cittadini, irritati di
questa condotta, dalla pubblica forza tollerata, si unirono In numero
forse di un migliaio circa, e si recarono Inermi sulla piazza maggiore,
a protestare in faccia de’ carabinieri ivi accorsi, ed alla guardia
degli Svizzeri, che non volevano, come nei passati tempi, essere
impunemente percossi, feriti ed ammazzati. La forza usò prudenti parole
a persuadere i più irritati a calmarsi: ed i volontari si dissiparono
sentito il grosso ragunamento fattosi di cittadini sulla pubblica
piazza e nelle logge di essa, protestando ad alta voce non volere più
tollerare di essere bastonati nè ammazzati da sì infame canaglia di
briganti: questi si dissiparono tornandosene alle loro abitazioni.

Alcuni giovani a nome di tutti salirono al pubblico palazzo per fare
al governatore una rappresentanza, la quale fu amorevolmente accolta
(intimidito da questo forte attruppamento di cittadini). In seguito la
forza perquisì i volontari che incontrava di notte tempo, vietando loro
di portare armi occulte, e questi non osarono più turbare la pace del
paese. Nessuno poi dei cittadini fu per questo fatto nè manco ammonito
dal governo.»

SULLE ATTUALI CONDIZIONI DELLA ROMAGNA

DI GINO CAPPONI

                                 * * *

LA QUESTIONE ITALIANA

DI M. CANUTI

                                 * * *

LETTERA AL ROMANO PONTEFICE

DI ORAZIO BUSHNELL

DOTTORE DI TEOLOGIA DI HARTFORD, STATI UNITI D’AMERICA

                                 * * *

INDIRIZZO AI REVERENDI PRELATI

MONSIGNOR JANNI UDITOR SANTISSIMO E RUFFINI FISCALE GENERALE




SULLE ATTUALI CONDIZIONI DELLA ROMAGNA

DI GINO CAPPONI


La sommossa di Romagna è terminata: Iddio non voglia che le mannaie
e le catene brandite ora invece d’armi da coloro che men dovrebbono
usarle, non vengano tosto a suscitarne altre sommosse e più atroci
vendette. E, aggiunghiamo noi, non voglia Dio che le presunzioni di
coloro i quali crederono bastasse a liberare la patria alzare un grido
o un fucile, si voltino in disperazione; e che, dall’opposto lato,
la facile e comoda prudenza dei timidi prevalga così da persuadere
l’inerzia. In Romagna la rivolta è inevitabile per la qualità e le
opere del governo e per lo stato degli animi; anzi una continua
rivolta, più o meno flagrante, è la necessaria condizione di quella
provincia. Ma il buon successo di una rivoluzione è ivi difficile più
che altrove, perchè alla infelicissima Romagna manca un fine a cui
tendere, una sorte in cui sperare. Addosso a lei stanno tutte le forze
dell’Austria, preste a comprimere ogni moto di cui l’Italia possa
giovarsi; ed ancorchè all’Austria ciò sia vietato, ecco la Romagna
ridotta ad essere palleggiata nelle ambagi dei protocolli. Ed oltreciò
il governo, comunque non abbia amici, ha però un numero sufficiente
di partigiani armati, i quali pasciuti a spese pubbliche e ingrassati
negli odii, non ricusano menar le mani per la difesa di lui, dacchè
il governo si è ridotto miseramente a non essere altro oramai che
una fazione. Una rivoluzione fortunata delle Romagne è dunque assai
malagevole, sinchè ella non venga promossa da cause esterne e più
generali; ma lo stato delle Romagne, se fu sin qui torbido, ognidì
più diverrà tumultuario e minaccioso. Le commissioni militari non
pacificheranno quella provincia, dove spirano tante anime ardenti
e disdegnose di soggiacere a una brutal forza; le mannaie non la
quieteranno: e il governo, fatto più che mai straniero e avverso alla
nazione, debilitato dalle sue proprie colpe, debilitato dalla ignoranza
ognor crescente nei reggitori di quello stato, non potrà, senza erario
e senza credito, nemmen provvedere ai suoi stessi partigiani, pagare
gli Svizzeri e mantenersi coll’aumentare un deficit il quale diviene
sempre più rovinoso di anno in anno. Nè può adoperare alcun rimedio,
perchè in un corpo già guasto, gli stessi rimedi vengono a trasmutarsi
in veleno.

La condizione delle Romagne, anzi di tutto lo stato ecclesiastico,
dovrebbe adunque tenersi come disperata; e tanto più disperata, in
quanto che i rumori di quello stato necessariamente si propagano
per tutta Europa e fuori; e se il fare giustizia ai sudditi viene
in qualche modo a scuotere il seggio di quel principe che insieme è
centro dell’unità religiosa, le coscienze se ne turbano, la cristianità
si agita: cosicchè, nell’attuale ordine di cose, è come se la civil
giustizia andasse contro alla religione, e i poveri sudditi fossero
condannati a pagare sangue e lacrime e disordini per la quiete
universale delle coscienze e l’unità della Chiesa. Il governo tale
quale è non può reggere lo stato, perchè egli è ridotto dalla necessità
della sua natura a temere ogni riforma, a impedire ogni miglioramento.
Il governo del papa sussiste perchè tutti sentono il capo della
Chiesa cattolica dover essere indipendente dalle volontà di un altro
principe, e sicuro dai tumulti d’uno stato popolare. La sovranità fu
data al papa perchè egli avesse indipendenza: e considerata per tal
modo la sovranità di lui, si deve tenere non solamente giusta, ma
necessaria (Vedi la nota a pag. 154), e nell’istoria essa apparisce
come la più legittima per l’origine, e fondata più d’ogni altra sopra
il consenso dei popoli. Ma quando la prima volta, più di mille anni fa,
il pontefice divenne principe, e per molti secoli dipoi, la sovranità
si reggeva più che altro sulla potenza d’una idea astratta e sul
prestigio di un nome, ed era contenuta dalle giurisdizioni popolari
o personali che da ogni lato resistevano. I principi non governavano
come ora a minuto la macchina dello stato; e meno d’ogni altro gli
ecclesiastici si brigavano delle faccende amministrative, che essi
lasciavano trascorrere in mano dei secolari. Per tal modo il principato
degli ecclesiastici era ai sudditi generalmente dolce; e potevano le
due potestà andare insieme congiunte senza mostrarsi inconciliabili. Ma
ora che preti e vescovi è necessario che sieno curatori dell’economia
pubblica e inventori di tasse, e generalissimi delle milizie, e (ho
vergogna a dirlo) capi e incitatori di sbirri; ora i vizi d’un tale
reggimento si renderono intollerabili, perchè essi offendono, non che
il pensiero dei più veggenti, anche l’interesse dei più infimi e il
buon senso di tutti: e la dignità degli ecclesiastici si avvilisce
tanto più quanto è più costretta a divertire continuamente dall’alto
suo ministero. Ma se in qualche modo il principato secolare del
pontefice si potesse ricondurre a ciò ch’egli era una volta, mi pare
che le difficoltà, ora affatto inestricabili, si verrebbero a comporre,
per quanto è dato alle umane cose.

Le monarchie già sono e più che mai saranno astrette a concedere la
divisione di quei poteri, i quali da soli due o tre secoli in qua
furono, o parvero raccolti nella persona del principe; i governi
rappresentativi si distendono rapidamente su tutta Europa. E se in
alcun luogo la partecipazione dei cittadini allo stato è conveniente o
necessaria, tale si è certamente, e più che altrove, nello stato della
Chiesa, dove gli amministratori delle cose pubbliche, quando non sieno
tratti dalla nazione, riescono ad essa affatto stranieri per le qualità
del grado e dell’ufficio loro, e vengono affatto a segregarsi da lei,
quasi occupatori dell’altrui suolo. Laonde al pontefice si addice bene
di trarre la gerarchia ecclesiastica da tutto quanto l’orbe cattolico;
ma i reggitori e i ministri del governo secolare gli conviene escano
dalla nazione e sieno secolari: se no, tra la nazione e lui sarà lo
scisma inconciliabile, e amendue fiacchi e travagliati. Un papa che
regni senza governare, quest’è il solo mezzo atto a sciogliere il nodo,
sin qui disperato. Nè si alleghi la difficoltà che avrebbe il pontefice
a mantenere in quel modo l’autorità sua, imperocchè, oltre alla santità
del grado, lo stesso interesse dei Romani lo aiuterebbe a mantenerla.
Roma ha più bisogno del papa, che non il papa di Roma; s’egli, non
dico già si rifuggisse sotto le ali d’un potentato straniero (chè per
lui sarebbe un troppo discendere), ma solamente ne andasse a Orvieto
o a Viterbo, dovrebbero i secolari governanti richiamarlo con le mani
supplichevoli, come i Romani fecero più volte nel medio evo: il papa,
col solo ritirarsi sul Monte sacro, farebbe Roma deserta.

Nel pontefice, attorniato dal sacro collegio dei principi della Chiesa,
starebbe l’alta sovranità tanto sicura e inviolabile, quanto a niun
principe secolare mai non è dato di possederla: e se dall’amministrarsi
lo stato a quel modo, si dubitasse che al papa venissero meno le
rendite necessarie alla maestà del pontificato, agevol cosa riuscirebbe
l’assegnargli, in modo certo e al tutto immune da spoliazione, tanta
ricchezza che bastasse a mantenere anche esteriormente la dignità
dell’eccelso grado. Inoltre mi pare che i potentati cattolici, i quali
bene e debitamente si contrapposero all’abuso tanto eccessivo una volta
dei proventi ecclesiastici, ora (ed allora più che mai) potrebbero,
senza danno e senza scapito della dignità d’entrambi, assicurare al
pontefice una moderata prestazione che immediatamente derivi da quegli
uffici ch’egli esercita: uffici che importano la quiete delle coscienze
e il buon ordine degli stati. A chi paga un console o un ambasciatore
in terra di barbari per vana apparenza di decoro o per guadagno assai
dubbioso, mi pare non disconvenga pagare al papa una bolla per le
istituzioni dei vescovi o per altro qualsivoglia titolo: il che a’
popoli riuscirebbe assai meno gravoso di tante inutili spese ch’essi
fanno in terra straniera. E se tali spese giovano ai commerci, questa
puranche varrebbe a stringere la fraternità tra le nazioni cristiane.

Io so bene che tali riforme non mai si fecero di buon grado e per
ispontanea concessione, bensì condotte dai tempi e da forza di
necessità. Ma qui necessità stringe, e i tempi le maturarono, ed ora
la forza minaccia di compierle. I rivoltosi dell’altro dì non si
levarono, come per l’innanzi, contro ai preti, perchè son preti, nè
contro l’altare; non abbatterono gli stemmi, nè rinnegarono sudditanza
al papa: ma da lui chiederono un governo da cristiani, e sulla bianca
bandiera scrissero giustizia e leggi: _leggi conformi ai diritti
delle nazioni civili_; tanto oggi divennero attemperati i consigli
anche degli uomini più inaspriti, e il pensiero provvido e le volontà
discrete. Che il papa abbia principato vuole ora ciascuno, sino a
coloro che più ne soffrono: i tempi gliel diedero, nè si voglion
rompere le tradizioni: e se in antico era male che il papa non fosse
principe, ora disfarlo sarebbe peggio (_Vedi la nota_ a pag. 154).
Ma un principato di questa fatta vuole altra qualità di ministri,
d’istituzioni, di leggi; o il papa si faccia gradatamente a concederle,
o al primo alitare d’un qualche vento in Europa la forza cieca gliele
imporrà; e qui è da scegliere, tra il bruttare di sangue la tiara
perchè poi cada nel fango, o renderla più venerabile agli occhi di
tutti, con l’assolverla da ogni colpa. Questo gridan alto i Romagnuoli;
questo ripetono a più bassa voce nelle altre provincie i sudditi,
ch’esser vorrebbono cittadini: e la separazione dell’ecclesiastico dal
civil governo, sola possibile uscita dalle presenti difficoltà, già si
pronostica in Roma, non pur dai laici solamente, ma dagli ecclesiastici
più assennati e migliori, e su nelle stesse anticamere del Vaticano,
insino all’ultima porta là dove sta chiuso a ogni discorso il vecchio
infelice. E a questo fine mi sembrano bene accomodarsi i nuovi costumi
che già si veggono apparire in Roma; dove molti dignitari della Chiesa,
meno ambiziosi oggimai di scienza profana, ed assai meno ravvolti
che prima non fossero nelle conversazioni secolaresche, danno segno
di ridursi ad un vivere più clericale. Anticipare l’evento che i
tempi maturano, incombe oggi a tutti coloro che più hanno a cuore la
religione e l’Italia, professando nei discorsi e negli scritti (per
quanto ci è dato) quelle opinioni che stanno già nel pensiero di tutti;
e una franca ed onesta voce, in qualche modo possiamo alzarla noi pure,
se la timidità non cel vieta. Ma più d’ogni altro è necessario sien
pronti al soccorso i principi italiani, a’ quali non giova starsi con
le mani alla cintola quando la vicina cosa è in fiamme o in rovina;
e tra essi ve ne ha che per le forze militari e per la condizione
politica mi pare non debbano temere scherno e dispregio, se un bel
giorno dichiarano non aver essi più voglia di tollerare in silenzio,
che solo patrono e guardiano dell’Italia abbia ad essere lo straniero.
Tempo è che i principi italiani intervengano pur essi in quelle cose
che importano alla salute d’Italia.

                                                        GINO CAPPONI.

  NOTA.

  I mali che affliggono da secoli la Chiesa e l’Italia procedono
  tutti da una sola fonte, la riunione di due incompatibili poteri
  nella persona del vescovo di Roma. La cura radicale di quelli
  può quindi trovarsi nella separazione dei poteri medesimi, nel
  restituire, cioè, la Chiesa nello stato in cui nacque e fiorì, e
  si sparse per tanta parte di mondo. Il dire che era male in antico
  che il papa non fosse principe, o che il principato del papa sia
  ora necessario, pute di eresia. Il Concilio stesso di Trento non
  osò dire altro, se non che sarebbe eresia il sostenere che il papa
  non potesse essere principe. Che la sovranità poi sia stata data
  al papa onde egli avesse indipendenza, è uno svarione storico
  troppo grosso perchè occorra di confutarlo. Che, finalmente, sia
  necessario che il papa non dipenda dalla volontà di un principe
  qualsiasi, e che per questo ogni Italiano voglia ch’egli abbia
  un principato indipendente, non è vero nè teologicamente, nè
  storicamente, nè politicamente; e novantanove sopra cento
  Italiani disinteressati farebbero di ciò, ove parlar potessero
  liberamente, ampia testimonianza. Del resto, ognuno ha a mente i
  versi di Dante, del Petrarca, ec., e sa quel che abbiano intorno
  a questi punti scritto altri sommi Italiani e stranieri, san
  Bernardo, Châteaubriand, ec., ec. Il fatto lagrimevole è questo,
  che il principato temporale del papa non può in verun modo essere
  riformato.

                                                   (_Nota aggiunta_.)




LA QUESTIONE ITALIANA

DI M. CANUTI

                            L’Europa non avrà riposo, finchè quella
                            nazione, la quale nel Medio Evo accese
                            la fiaccola della civiltà e della
                            libertà, non fruisca essa pure la luce
                            ch’ella creò.

                                  (SISMONDI, _Storia del risorgimento
                                  della libertà Italiana._)


Fra le questioni delle quali maggiormente dovrebbe l’Europa liberale,
e meglio ancora la Francia occuparsi, quella dell’Italia ha un posto
eminente. Il governo francese, ad onta de’ suoi sforzi per conservare
la pace, potrebbe improvvisamente trovarsi avvolto in una guerra,
ed allora l’alleanza de’ circostanti paesi, e più d’ogni altro
dell’Italia, gli addiverrebbe veramente necessaria.

Da lunga pezza avrebbe la Francia dovuto favoreggiare l’emancipazione
della nostra penisola. Per isventura nol fece, e par fino che attender
voglia l’ora del pericolo per accingervisi. Ma dovrebbero gl’Italiani
starsene sino al tocco incerto di quest’ora colle mani in mano, o non
piuttosto apparecchiarsi a rigenerare da sè la loro patria?

L’Italia non può rimanersi ov’ella è più lungamente: e sarebbe cosa
iniqua il pretendere che il nostro bel paese, l’incivilimento del quale
non è punto inferiore a quello d’altre colte nazioni, e nel quale i
sentimenti di nazionalità e di indipendenza si sono di già estesi
fra il popolo cotanto, giaccia tuttavia a pezzi sotto il giogo di
stranieri, e scemo d’istituzioni rappresentative.

I politici moti che da quasi mezzo secolo tratto tratto colà si
manifestano, traggono l’origin loro da questi sentimenti di libertà e
d’indipendenza. I governi però, invece di arrendersi alle politiche
esigenze delle popolazioni, sprezzarono mai sempre l’opinion pubblica,
ed ai desiderii di nazionalità colle persecuzioni, ai diritti colle
violenze corrisposero. Eppure i sovrani d’Europa ed i principi d’Italia
di promesse di libertà ai popoli, quando di loro ebber bisogno,
non furono parchi. Il re Ferdinando di Sicilia, l’arciduca Carlo
d’Austria, il generale Nugent, lord Bentink ebbero a promettere agli
Italiani, anche avanti la caduta di Napoleone, indipendenza nazionale e
costituzionali franchigie. E queste promesse furono rinnovate al tempo
della Ristorazione del 1815, benchè sempre bugiardamente.

Ma agl’Italiani non corre punto l’obbligo di giustificare la
rivendicazione delle loro libertà per le promesse dei governi,
avvegnachè le ragioni loro siano fondate sul principio della sovranità
nazionale, sul diritto d’ogni popolo a governarsi da sè, e sulle
condizioni morali del loro paese. Tuttavia sono desse un argomento
che conforta assai i legittimi richiami delle diverse provincie
dell’Italiana penisola.

È noto che il granduca di Toscana, Ferdinando I, accogliendo il 7
gennaio 1815 i membri del Consiglio generale di Firenze, venuti a
congratularsi con lui del suo ritorno ne’ suoi stati, ebbe loro a
dichiarare «che la felicità de’ suoi sudditi costituiva il primo de’
suoi doveri; che non avea dopo la sua tornata potuto prevedere ogni
cosa, nè stabilire in Toscana le istituzioni tutte, le quali erano
dalla condizione intellettuale del popolo richieste; ma che non sarebbe
corso molto tempo prima che il suo popolo possedesse una Costituzione
ed una rappresentanza nazionale».

Quest’ottimo disegno, il quale l’Austria non volle nè allora nè
poi fosse recato ad effetto, era stato pure nudrito dal granduca
precedente, Leopoldo I, fra le cui riforme a pro’ della Toscana
primeggiava, come ben sappiamo, quella di una costituzione per ordine
suo compilata dal senator Gianni.

Ferdinando di Napoli prometteva dal canto suo in tutti i proclami da
lui nel 1815 indirizzati ai Napoletani, leggi fondamentali, civile
libertà, formali guarentigie. E perchè le sue promesse non venivano
mai adempiute, gli abitanti delle Due Sicilie si levarono nel 1820
come un sol uomo, proclamando una costituzione, la quale venne poi
accettata e giurata dal re e da tutta la reale famiglia. Ma, posto in
non cale il prestato giuramento, essendo il re delle Due Sicilie corso
a Laybac ad invocare l’assistenza dell’Austria, il popolo tradito si
arrese alle baionette straniere, ma non rinunciò per questo a’ suoi
diritti. Chè anzi nel punto stesso in cui l’esercito austriaco invadeva
la capitale, 19 marzo 1821, il deputato Poerio facea dal parlamento
approvare una dichiarazione, la quale finiva così: «Noi protestiamo
contro una siffatta violazione del diritto delle genti, siamo risoluti
di serbare intatti i diritti della nazione e del re, ed appellandocene
alla saviezza di S. A. R. e del suo augusto genitore, rimettiamo la
causa del trono e della nazionale indipendenza nelle mani di quel Dio
che regge i destini dei sovrani e dei popoli».

I torti inflitti a’ Siciliani dalla corte di Napoli sono ancor più
gravi. Imperciocchè la Sicilia avea da secoli una costituzione, la
quale, modificata nel 1812, non potea esser abolita per l’atto di
unione dell’Isola a Terraferma. Ciò non ostante il parlamento siciliano
non fu più d’allora in poi convocato.

Quel paese però non ha mai dimenticato cotale infrazione di solenni
trattati ed obblighi: e lo scontento dei Siciliani si è anche
maggiormente accresciuto per questo, perchè l’Isola loro fu sempre,
ed è tuttavia, bistrattata come una provincia di conquista. Il
siciliano parlamento ascende ad un’epoca molto più remota, che non
la signoria dei Borboni in Sicilia, e questa non sarà mai tranquilla
sinchè non venga redintegrata nelle sue franchigie, o non usufrutti in
compagnia delle altre provincie d’Italia le benedizioni della libertà e
dell’indipendenza.

Ma non potrà negarsi che quasi tutti gli stati della penisola non
abbiano a vicenda tentato di spezzare il giogo del dispotismo, e
vinto i loro propri governi: l’intervento austriaco soltanto valse a
ripor loro addosso le catene, e ribadirvele. E ciò perchè, fidando
nella giustizia della loro causa, i governi surti dalla rivoluzione
sconobbero la necessità d’evocare tutte quante le forze loro in
sua difesa, e perchè, invece di opporre al comune nemico le forze
stesse strettamente collegate, elessero piuttosto di soccombere
spicciolatamente.

Noi non farem parola del regno Lombardo-Veneto. Sottoposto a straniera
dominazione, esso è calpestato da un esercito troppo numeroso, perchè
il suo pensiero possa con atti esterni rivelarsi. Ma le torture dello
Spielberg fanno bastevolmente testimonio dell’amore dei Lombardo-Veneti
alla causa nazionale, ed il martirio dei Bandiera e d’altri a Cosenza
prova quanto profondi siano i loro sentimenti politici e la loro
devozione all’Italia. Ci allargheremo però di più in ciò che spetta
agli stati della Chiesa, perchè è quivi che si rinnovano più di
frequente i politici tumulti, ad onta delle instancabili persecuzioni
e dei mali che inevitabilmente ne conseguitano. Una delle cagioni di
questi sconvolgimenti è comune a tutte le varie popolazioni della
penisola. Imperciocchè ognuna di esse è tormentata dal bisogno
d’emanciparsi e di protestare contro il trattato di Vienna, il quale
gli antichi governi ristabilì, governi, le forme ed istituzioni dei
quali troppo dall’opinione pubblica e dalle condizioni sociali del
paese discordano. Ma le provincie sottoposte a Roma hanno ragioni
affatto loro proprie per essere dell’amministrazione pontificia
discontente. Stando alle più fresche notizie d’Italia, gli umori
delle popolazioni dello stato papale fermenterebbero gravemente, ed
il governo di esso non si reggerebbe in piè che pel terrore. Si può
quindi affermare che la questione, rimasta per l’evacuazione d’Ancona
indecisa, è più vivace che mai, e merita perciò d’essere esaminata
posatamente.

Eravamo al principio di febbraio quando le popolazioni dell’Italia
centrale, cioè dei ducati di Parma e Modena, e dello stato della Chiesa
tentavano d’emanciparsi. E questo movimento, il quale rispondeva a
quello che avea operata la rivoluzione di luglio, avveniva senza
violenza e spargimento di sangue. Non appena però erano scorsi due
mesi, che un esercito austriaco, il quale avea già occupato Parma e
Modena, invadea Bologna e la Romagna. I patriotti, benchè inferiori
in numero, sostennero valorosamente uno scontro cogli Austriaci a
Rimini; ma, abbandonate dalla Francia, lasciate a sè sole, difettando
di validi mezzi di resistenza, quelle provincie ricaddero sotto la
dominazione pontificia. Così la rivoluzione degli stati della Chiesa
fu dall’intervento straniero compressa senza che alle doglianze delle
popolazioni venisse data retta. E queste doglianze erano poi tanto
ovvie e fondate in ragione, che gli stessi rappresentanti dello
cinque maggiori potenze, Francia, Inghilterra, Austria, Russia e
Prussia, ebbero nel 31 maggio 1835 a presentare al cardinal Bernetti,
pro-segretario di stato, una nota, o _memorandum_, il quale conteneva
le riforme politiche ed amministrative ch’esse raccomandavano al
novello papa Gregorio XVI di concedere a’ suoi sudditi.

Il _memorandum_ è del tenor seguente:

«Il governo pontificio deve esser posto su di una base solida, per
via dei miglioramenti stati già indicati ed annunciati dalla stessa
santa sede. Questi miglioramenti poi, che, a tenore dell’editto
dell’eminentissimo cardinal Bernetti, fonderanno un’êra affatto nuova
per i sudditi di sua Santità, si collegano con una interna garanzia,
sicura da pericoli e conforme all’indole di ogni governo elettivo.

»Per raggiungere codesto scopo salutare, il quale, a ragione della
situazione geografica e sociale dello stato della Chiesa, interessa
tutta Europa, fa duopo che l’ordinamento sistematico dello stato
medesimo si appoggi a due principii vitali: 1º all’introduzione dei
miglioramenti di che si tratta, non solo nelle provincie insorte, ma in
quelle ancora che se ne stettero tranquille, e nella capitale medesima;
2º _all’ammissione generale dei laici agli uffici amministrativi e
giudiziari_. E queste miglioranze dovrebbero comprendere il sistema
giudiziario, e quello delle amministrazioni municipali e provinciali.
In quanto all’ordine giudiziario l’esecuzione interna e lo sviluppo
delle promesse e dei principii del _motuproprio_ dell’anno 1816 offrono
mezzi più certi ed efficaci per riparare alle universali doglianze in
proposito di questa parte importantissima dell’organizzazione sociale.

»L’amministrazione generale delle municipalità _elette dalle
popolazioni_, e lo stabilimento di municipali franchigie che ne
determinino l’azione entro la sfera degl’interessi locali dei
Comuni, devono costituire necessariamente le basi di ogni miglioria.
L’organizzazione poi dei Consigli provinciali, come Consigli
permanenti, destinati a prender parte al governo di ciascuna
provincia nell’adempimento del loro ufficio, e con attribuzioni
convenevoli ad una più numerosa adunanza, specialmente riguardo ai
maggiori interessi della provincia, sembra attissima ad introdurre
nell’amministrazione miglioramenti e semplicità, sicchè valga a
sorvegliare l’amministrazione comunale, ripartire le imposte e fare al
governo conoscere i veri bisogni delle provincie.

»La gravissima importanza, in ogni stato bene ordinato, delle
finanze, e di una amministrazione del debito pubblico atta ad
aggiungere al credito finanziario del governo le più desiderate
garanzie, ad accrescerne i mezzi e ad assicurarne l’indipendenza,
pare che renda necessaria la creazione di uno _stabilimento centrale
a Roma_, a cui, come a corte suprema, vengano commessi tutti i
rami dell’amministrazione civile e militare, e lo sovrintendenza
del debito pubblico, con attributi adequati allo scopo salutare ed
importantissimo a cui si mira. Quanto più cotale istituzione farà prova
della propria indipendenza e dell’unione del governo collo stato,
tanto più corrisponderà alle benefiche intenzioni del sovrano ed alle
aspettazioni del pubblico.

»Ma per giungere a questo punto, bisogna eleggere d’infra i consiglieri
provinciali uomini atti a costituire una _Giunta dei consiglieri
di governo_, un Consiglio amministrativo generale. Tale giunta
sarebbe parte d’un Consiglio di stato, i membri del quale verrebbero
scelti dal sovrano d’infra gli uomini più ragguardevoli per natali,
ricchezze e talenti. Senza uno o più stabilimenti centrali di questa
sorta, intimamente collegati colle persone più notabili di uno
stato doviziosissimo, come questo è, di elementi aristocratici e
conservatori, è manifesto che la natura di un governo elettivo priverà
inevitabilmente le miglioranze che faranno la gloria immortale del
regnante pontefice, di quella stabilità che è tanto instantemente
domandata dal popolo; stabilità la quale sarebbe tanto più ferma,
quanto più i benefizii largiti dal sovrano pontefice fossero pregevoli
e grandi».

La corte papale non accettò questo _memorandum_. Nulladimeno il
cardinal Bernetti, il quale per un suo editto d’aprile 1831 avea
accertato il pubblico «delle benevole intenzioni del santo padre, per
le quali un’êra novella sarebbe tosto cominciata,» s’impegnò, per
così dire, verso la Francia in parecchie note, ma specialmente in
quella indirizzata il 3 giugno al conte di Saint-Aulaire, di concedere
miglioramenti poco dissimili da quelli indicati dal _memorandum_. La
nota era concepita nei termini seguenti:

«.... Il sottoscritto cardinale ha l’onore di far noto a V. S. che
niente che vaglia far felici e contenti i suoi dilettissimi sudditi
nel riordinamento della cosa pubblica, sfugge all’acuto sguardo
del santo padre. Ognuna di queste provvisioni verrà, in quanto le
risguardi, acconciamente applicata alle provincie ed alla capitale.
Gli offici amministrativi e giudiziari non saranno esclusivamente
conferiti ad una classe privilegiata, ed il _motuproprio_ di sua
santità Pio VII riceverà un conveniente sviluppo. Nei comuni verrà
introdotto un sistema che li abiliti a provvedere da sè a’ loro propri
bisogni. L’amministrazione, per una legge saviamente concepita, sarà
affidata all’ordine dei proprietari, senza però escluderne l’influsso
convenevole delle persone più istrutte o dedite alle industrie, ma in
modo che l’interesse dell’ordine più numeroso, quello dei proprietari,
non rimanga vittima dell’interesse degli altri. Le provincie pure
avranno Consigli e commissioni amministrative, delle quali i Consigli
comunali forniranno gli elementi ed il modello. La revisione dei
conti della pubblica amministrazione, l’ammortizzazione del debito
pubblico, il governo delle finanze verranno organizzati in guisa, che
nessun sospetto insorga contro la probità degli amministratori, il
buon uso delle pubbliche entrate, e la saviezza che presederà alla
determinazione delle imposte ed al metodo di riscuoterle. L’osservanza
fedele e durevole delle leggi verrà garantita da convenevoli
istituzioni...»

Il cardinal Bernetti ebbe forse intenzione di adempiere queste
promesse; ma lo spirito retrogrado della romana corte, e la sua
ripugnanza ad innovazioni, non lasciarono che le riforme venissero
introdotte. La corte di Vienna pure, la quale era intervenuta nel
_memorandum_, s’oppose a quei miglioramenti. Ognuno sa che l’Austria da
lungo tempo agogna le legazioni; e per questo le importa assaissimo di
accenderle d’odio contro il governo pontificio.

In questo mezzo il conte di Saint-Aulaire presentò alla corte di
Roma una nota in data 1.º luglio 1831, con cui richiedeva, fra le
altre cose, l’immediata evacuazione degli Austriaci, la pubblicazione
di un’amnistia, e la concessione delle riforme amministrative e
giudiziarie. A questa il cardinal Bernetti due dì appresso rispondeva
che il santo padre non opponeasi alla partenza delle truppe imperiali;
che accorderebbe una amnistia; ma che, in quanto alle riforme, egli
non voleva gli venissero imposte, «perchè,» diceva egli, «il cuore
del santo padre non ha duopo di stimoli, nè la volontà di lui di
guarentigia». Perciò la conferenza diplomatica rimase a Roma costituita
in permanenza.

Noi ora vedremo in qual guisa siano state le promesse sovrane eseguite.
Gli Austriaci sgombrarono bensì le legazioni verso la metà di luglio
1831, ed allo stesso tempo un’amnistia politica fu pubblicata:
ma da essa vennero esclusi quaranta dei _rei principali_ e tutti
gl’_indiziati_ della capitale. Gli uni languono tuttavia nell’esilio;
gli altri gemettero nelle prigioni per essere di poi condannati dal
tribunale politico.

Le legazioni erano allora governate da pro-legati laici. La guardia
civica, o nazionale, di nuovo posta in attività, vi manteneva la
pubblica pace, in mancanza delle truppe papali, che s’eran sostate alle
porte di Romagna.

Le popolazioni aspettavano impazienti il compimento delle più
sacre promesse. Quale non fu pertanto l’indignazione loro quando
apparve il primo _motuproprio_, o editto del 5 luglio 1831, intorno
all’ìnstituzione dei Consigli comunali e provinciali, senza alcuna
delle garanzie indicate dal _memorandum_?

In fatti il principio dell’elezione popolare, che è un diritto antico
degl’Italiani, consacrato dai loro statuti, e riconosciuto pure dalla
nota delle cinque grandi potenze, era rigettato da questo editto, pel
quale la nomina dei Consigli spettava esclusivamente e direttamente
al capo d’ogni provincia. In quanto all’indipendenza e libertà di
discussione e voto, basterà citare gli articoli 10 e 12 del titolo I.
In essi è detto: «Nessuna proposta potrà offrirsi alle deliberazioni
del Consiglio, se l’atto di convocazione non fa cenno dell’oggetto da
discutersi, e se la proposta medesima non fu preventivamente sottoposta
all’autorità superiore. I processi verbali delle sedute saranno
trasmessi al capo della provincia, dal quale dipenderà in ogni caso
l’approvazione, o viceversa, degli atti del Consiglio.»

In quanto alla formazione di una giunta o d’un Consiglio di
stato sedente a Roma, ed alla nomina dei laici alle magistrature
amministrative e giudiziarie, non se ne fece neppur parola.

Da ogni canto petizioni e deputazioni furono inviate a Roma per
protestare contro l’editto 5 luglio, e domandare l’esecuzione delle
promesse miglioranze. Roma rispinse quelle e queste.

Altri editti pubblicati in ottobre e novembre 1831 colmarono la misura
del generale scontento. Questi editti contenevano regolamenti di
procedura civile e criminale, i quali confermavano tutti quasi gli
antichi abusi, come l’amovibilità dei giudici, l’enormità delle tasse
giudiziarie, l’appellazione dalla cosa giudicata al supremo potere
dello stato, la conservazione del _foro misto_, pel quale i laici
vengono sottoposti alla giurisdizione ecclesiastica, anche in affari
civili; il segreto dei dibattimenti davanti ai tribunali criminali, la
procedura sommaria nei delitti politici, la moltiplicità dei tribunali
privilegiati, le commissioni speciali o politiche, il _santo ufficio!_

Le provincie non poteano aderire a siffatte disposizioni; contro ad
esse il corpo degli avvocati, la guardia nazionale e tutti gli ordini
del popolo protestarono altamente. Per superare questa opposizione, la
corte di Roma mandò il cardinale Albani, come commissario straordinario
delle quattro legazioni, con illimitata facoltà: le forze papaline
verso la fine di gennaio 1832 si inoltrarono nella Romagna: a Cesena
vennero esse alle mani con una porzione delle guardie nazionali. E
questo diede occasione alle truppe austriache d’intervenire nuovamente,
e di aiutare il cardinale Albani a stabilire un potere i primi atti
del quale furono i massacri di Cesena e Forlì, lo scioglimento della
guardia nazionale, la creazione di un tribunal speciale, e la condanna
arbitraria di un grosso numero di cittadini.

Il gabinetto francese, preseduto allora da Casimiro Perrier, giudicò
doversi spedire un’armatetta ad Ancona, tanto per contrabilanciare
l’autorità dell’Austria in Italia, ed assicurare l’indipendenza
degli stati della Chiesa, quanto per costringere il papa, come ebbe
a dire Perrier stesso nella seduta della camera del 7 marzo 1832, ad
introdurre nell’amministrazione del regno miglioramenti reali, e certi,
e tali «che stabilissero la sicurezza della santa sede sopra basi
più salde, che quella d’una repressione periodica, ed assicurassero
permanentemente la tranquillità delle popolazioni, soddisfacendo a
legittimi bisogni e ragionevoli desiderii.»

La popolazione d’Ancona, interpretando seriamente quest’occupazione
della città loro per le truppe francesi, non potea immaginarsi che il
governo papale verrebbe ristabilito prima di subire alcune riforme. E
perciò fece essa, per atto solenne, presentare al delegato apostolico
una rimostranza, e chiedere buone leggi, inviolabili guarentigie ed una
savia distribuzione di poteri. Questa domanda era basata sulle parole
proprie del re de’ Francesi, pronunciate all’aprimento delle camere,
e sul _memorandum_ 21 maggio 1831. Una simile supplica venne pure
dirizzata al generale Cubières perchè la raccomandasse al suo governo.

In risposta a questa domanda però il santo padre fulminò una bolla di
scomunica contro gli Anconitani; ed il governo papale d’allora in poi
è andato sempre più a ritroso. Così tutte le nomine dei consiglieri
comunali delle legazioni di Ravenna e Forlì vennero cassate, quantunque
fatte secondo i principii dell’editto papale e coll’approvazione del
cardinale segretario di stato; e furono ai consiglieri destituiti
surrogate persone elette a dispetto delle regole dalla legge stabilite.

Questi atti illegali provocaron talmente le Romagne, che, ad onta
della presenza degli Austriaci, il popolo assalì la forza pubblica, i
consiglieri dismessi protestarono, ed i nuovi rifiutarono l’ufficio.
Il governo fece sostenere gli uni e gli altri, e per soprassello,
parecchi altri cittadini, fra cui alcuni ecclesiastici, per aver eglino
disapprovati siffatti arbitrii.

La nomina dei consiglieri comunali e provinciali di Bologna non fu
manco arbitraria: ma le rinuncie furono tanto numerose e tanto spesso
ripetute, che la corte di Roma si trovò costretta di promulgare una
enciclica sotto il giorno 10 aprile 1832, per la quale le attribuzioni
dei consiglieri venivano ancor più limitate. Disponeva essa: 1.º che
non sarebbe accettata alcuna rinuncia di consiglieri; 2.º che le
adunanze dei Consigli sarebber valide e legali, qualunque fosse il
numero dei consiglieri presenti; 3.º che qualora i Consigli ricusassero
di votar le spese e le imposte comunali e provinciali, ciò sarebbe
fatto dalla congregazione governativa.

Fu pubblicato inoltre un regolamento sull’istruzione pubblica,
specialmente nocivo all’università di Bologna, da secoli
celebratissima: il debito pubblico fu aumentato: _prestiti forzati_
vennero imposti: fu organizzata una specie di pubblico assassinio
mediante la creazione dei _centurioni_, o _volontari pontificii_, i
quali perpetrarono atrocissime cose sulle persone dei liberali: fu
assoldata una legione straniera, composta di cinquemila Svizzeri,
gravosissima allo stato.

I consigli provinciali di Bologna, di Perugia, della Romagna, benchè
nominati dal governo, non indugiarono a mandare a Roma istanze di
riforma, umilissime, moderatissime: ma Roma fece ad esse pure la sorda.

L’andamento del governo pontificio era tanto opposto ai veri interessi
delle provincie ed alle promesse fatte nel 1831, che il ministro
inglese, lord Seymour, il quale era intervenuto alla conferenza di
Roma, se ne partì per ordine del gabinetto britannico, indirizzando ai
rappresentanti delle altre potenze la famosa nota del 7 settembre 1832,
nella quale, fra le altre, occorrono le seguenti parole:

«..... I rappresentanti delle cinque potenze non durarono molta pena
a discoprire i vizi principali del sistema amministrativo di Roma, e
ad additarne gli opportuni rimedi. In maggio 1831 presentarono essi
al governo pontificio un memoriale contenente le miglioranze le quali
eglino unanimemente riconobbero, e dichiararono essere _indispensabili
alla tranquillità dello stato della Chiesa_. Meglio di quattordici mesi
sono trascorsi dalla presentazione di questo memoriale (_memorandum_)
e _nessuna delle raccomandazioni_ nel medesimo contenute è stata
ancora eseguita ed accettata dal governo papale; anzi gli editti
preparati, o pubblicati, nel mentre dichiarano che qualcuna di queste
raccomandazioni sta per essere attuata, _differiscono essenzialmente_
dalle provvisioni nel memoriale registrate».

Lord Seymour avea piucchè ragione: le riforme suggerite nel
_memorandum_ 21 maggio non furono mai concesse; e noi abbiamo già
avvertito che l’editto di luglio soppresse nell’istituzione dei
Consigli municipali il più importante principio, quello, cioè,
dell’elezione popolare.

In quanto alla secolarizzazione delle magistrature, la santa sede
non volle mai udir ragione. Anzi il cardinal Lambruschini, attuale
segretario di stato, abolì la sola innovazione operata dal cardinal
Bernetti intorno la nomina dei pro-legati, o governatori laici delle
provincie: dimodochè colla notificazione 30 giugno 1836, la quale
ristabilì i cardinali legati nelle quattro legazioni, fu ripristinato
il governo papale nella precisa condizione in cui la rivoluzione del
1831 ebbe a trovarlo.

L’esclusione dei laici non si restringe agli uffici del governo.
I tribunali supremi di Roma, l’A. C., la Rota, la Segnatura, la
sagra Consulta, ecc., sono composti di soli prelati. I laici sono
pure esclusi dalla segretaria di stato, dalla tesoreria, dal _buon
governo_, ed anche dalla direzione superiore del ministero della
guerra. E finalmente gli ecclesiastici preponderano sui laici anche
nella corte di revisione dei conti, istituita dall’editto 31 novembre
1831, la quale è composta di quattro prelati e quattro laici, sotto
la presidenza di un cardinale, che, nel caso di un’uguale divisione
di voti, determina la maggioranza col voto proprio. Ma d’altra parte,
qual pro’ fa mai questa istituzione (la quale è nulladimeno una fra
le meglio ordinate), standosene tutta da sè, in un paese in cui le
leggi relative alla determinazione e ripartizione delle imposte sono
arbitrarie ed improvide, il tesoriere o ministro di finanza senza
risponsabilità, il dilapidamento dei denari pubblici inevitabile,
perchè cominciando esso da chi non può essere giudicato nè punito,
finisce negli ufficiali subalterni, dei quali il maggior numero è in
odore di venalità e d’incapacità?

La sola legislazione criminale è stata modificata in questo, ch’ora
vi sono un codice penale ed un codice di procedura criminale, laddove
prima della rivoluzione del 1831 non vi aveva che i diversi _bandi_ dei
legati, ed una specie di procedura tradizionale. Ma quanti abusi e vizi
intollerabili non racchiudonsi in questi nuovi codici!

Noi ci contentiamo di notare che il codice penale ristabilisce la
confisca per delitti politici, prodiga la pena di morte e quella
dei lavori forzati a perpetuità, e commina la pena delle galere
fino alla semplice corrispondenza politica di un individuo con un
membro qualunque di una società segreta. Il codice di procedura non
offre alcuna garanzia agli accusati, specialmente agli accusati di
crimenlese. Gl’imputati politici non hanno nemmeno il diritto di
scegliersi un difensore, e non vengono confrontati coi testimoni;
la sentenza è inappellabile; il processo segreto è sommario; i
dibattimenti a porte chiuse. Il codice civile, cotanto importante, non
è ancora promulgato. Onde che la legislazione degli stati pontificii
consiste delle antiche leggi romane, del diritto canonico, delle
costituzioni apostoliche e di alcune disposizioni del _motuproprio_ di
Gregorio XVI pubblicato nel 1834; disposizioni le quali modificano il
diritto romano, specialmente in ciò che riguarda le successioni, dove i
maschi sono smisuratamente favoreggiati a pregiudizio delle femmine.

Quel _motuproprio_ contiene pure l’organizzazione giudiziaria, la quale
lascia sussistere i tribunali civili supremi della capitale, da noi già
mentovati, tutti composti di soli prelati, i tribunali dei vescovi,
il tribunale del vicariato di Roma, e parecchie altre ecclesiastiche
giurisdizioni, le quali hanno, fra gli altri privilegi, quello di
giudicare i laici, anche negli affari civili.

Tale era la condizione miserabile di quel paese. Pure, ad onta dei
gravi disordini dell’amministrazione e degli innumerevoli mali
ch’esse dovevano sopportare, le provincie sopportavano pazientemente,
imaginandosi che lo stendardo tricolore che sventolava sull’Italia
avrebbe, tosto o tardi, condotto la santa sede a sciogliere la data
fede. Ma gli uomini, nelle cui mani era caduta la somma delle cose
francesi nel 1838, invece d’imitare Thiers, il quale nel 1836 ricusò
d’evacuare Ancona, sgombrarono quel posto importante senza che il
papa avesse concedute le promesse riforme, o data alcuna garanzia pel
futuro. Allora videro le popolazioni chiaramente che non dovevano
far calcolo che sulle proprie forze, se pur volevano riconquistare
le loro franchigie. Un tentativo d’insurrezione si fece in Bologna
nel 1843. Le cause che l’arrestarono son notorie. Roma avrebbe dovuto
aprire gli occhi alfine, e soddisfare i bisogni ed i voti onesti delle
popolazioni; ma non fece niente altro, che incrudelire su chi aveva
messo mano a quel moto, e incaponire sempre più a non toglierne le
cagioni. Invece di alquanto sgravare i sudditi, il governo accrebbe
il peso delle contribuzioni a loro imposte: invece di porre le
finanze in ordine, aumentò il _deficit_ ed il debito pubblico: invece
d’incoraggiare l’agricoltura, il commercio, l’industria, il progresso
delle scienze e delle arti, lasciò il popolo scioperato, inceppò il
corso dei buoni studi, censurò i congressi scientifici, s’oppose alla
costruzione delle strade ferrate, e pose incagli all’introduzione degli
utili ritrovati.

Per compiere questa pittura aggiungeremo che Roma non solo conservò i
tribunali politici, le giurisdizioni ecclesiastiche, l’Inquisizione,
ma creò inoltre commissioni militari, le quali furono prodighe oltre
misura della pena di morte contro ogni principio di giustizia e
d’umanità; conciossiachè la morte inflitta da tribunali militari, dopo
uno sommaria procedura, senz’alcuna delle guarentigie riconosciute
dalle leggi di tutte le nazioni incivilite, non può chiamarsi atto
di giustizia, ma bensì giudiziale assassinamento. Quindi è che il
malcontento è universale: le persecuzioni incessanti, le prigioni piene
a ribocco, e i rifuggenti a strani asili sempre più numerosi.

Un tale stato di cose non può durar lungamente; se non vi si apporta
qualche alleviamento e rimedio, questo turbamento si estenderà e
radicherà non solo negli stati del papa, ma nel resto d’Italia ancora.

Non mi tratterrò a dimostrare quanto l’onore e l’interesse della
Francia siano compromessi nella presente quistione. Basta leggere i
brillanti discorsi pronunciati in occasione dell’evacuazione d’Ancona
dai signori Guizot e Duchâtel, attuali ministri, e dai signori Thiers,
duca di Broglio, Villemain, de Vatry ed altri molti oratori eminenti
delle due Camere per chiarirsene.

Spero che il governo francese non vorrà abbandonare del tutto
quelle misere popolazioni, i cui numerosi e giusti richiami contro
l’amministrazione papale gli sono notissimi. Spero che l’attual
ministro di Francia presso la corte di Roma volgerà tutta la sua
influenza e diplomatica perizia a favore del paese suo nativo, onde
conseguisca le necessarie riforme.

Ma non conviene che gl’Italiani si nutrano di illusorie speranze.
Essi debbono far valere la loro causa con prudenza politica non meno
che con energia e perseveranza, aver di mira il bene della loro
patria, e non il successo di un sistema o di un partito, e ricordarsi
che senza concordia, e soprattutto senza unione, l’Italia non potrà
giammai superare i grandi ostacoli che le attraversano le vie alla sua
rigenerazione ed alla sua felicità.

  Parigi, settembre 1845.




LETTERA

del reverendo ORAZIO BUSHNELL

DOTTORE DI TEOLOGIA DI HARTFORD, STATI UNITI D’AMERICA

AL ROMANO PONTEFICE GREGORIO XVI.


  _Venerando Pontefice!_

So che queste mia lettera non verrà da voi bene accolta. Io parlerò
in essa schietto e senza sospezione che l’eminente dignità vostra
mi assoggetti ad una indebita ritenutezza; ma parlerò in guisa che,
se talvolta sembrassi vostro avversatore, voi, nullameno, possiate
riconoscermi avversatore rispettoso e liberale.... E sta bene
l’aggiungere che nel fare il giro dell’Italia, il quale ho testè
compito, io non adempiva ad alcun incarico dell’alleanza cristiana. Ma
venni a voi semplicemente, come la comune dei viaggiatori fa, benchè
non scevro di dubbio, per lo stile del vostro breve (contro l’_Alleanza
medesima_ 8 _maggio_ 1844), ch’io dovessi ad un abbaglio di polizia la
permissione avutane di passare. Vidi naturalmente quel che si offerse
agli occhi miei: investigai, come ogni intelligente viaggiatore suol
fare, e forse con una non ordinaria diligenza, e niente mi riuscì più
gradito, che di rinvenire alcune cose per le quali il mio giudizio del
vostro sistema potea essere alquanto raddolcito; e quando poi giunsi
a scoprirvi parti eccellenti e belle veramente, ebbi a provarne un
purissimo contento. Eppure ne ritorno collo spirito afflitissimo del
tristo spettacolo che ho visto: la lugubre imagine del vostro stato
m’insegue dappertutto: e se mi assido a scrivere questa rimostranza,
il fo nella speranza delle benedizioni che sono promesse a chi visita
coloro che gemon nelle carceri, e ad essi ministra... E prima di tutto
deggio protestare contro al disonore che voi fate alla religione per
quella specie di civil governo che voi, congiuntamente col vostro
spirituale officio, sostenete. Egli è, per non dire altro, un fatto
molto straordinario questo, che voi, il quale vi chiamate ministro,
anzi vicario di Cristo, siate diventato appunto quel regal personaggio,
quel re, il quale Cristo non volle a niun modo essere. Tale però
voi siete, e di questo la responsabilità grava le vostre spalle;
responsabilità la quale dee misurarsi non solo dall’estensione del
poter vostro, ma, e molto più, dalla santità delle vostre pretensioni.
Voi vi dichiarate capo della Chiesa di Cristo... e pure voi avete
fama d’essere capo del pessimo governo di tutta Cristianità[10]. Al
viaggiatore che attraversa gli stati vostri, nulla si appresenta
che indichi prosperità o contentezza: niun segno di miglioramento
gli rallegra la vista, che non sia smentito da segni di scadimento
e ruina. Come la mesta Campagna, regione un tempo di fertilità e di
vita, accerchia Roma di silenzio e desolazione, così, politicamente
parlando, ogni cosa vostra che partecipi della natura della speranza,
della bellezza sociale, del pubblico avanzamento, langue e disseccasi
nell’aere maligno del vostro sacerdotale dispotismo. I vostri ministri,
benchè tutti assoluti, non hanno alcuna determinata sfera d’azione, nè
sottostanno ad alcuna responsabilità. Nei decreti loro contraddicono
l’un l’altro e voi medesimo, usurpando anche le attribuzioni delle
corti di giustizia per opposte vie, come queste alla loro volta
violano la giurisdizione e le decisioni l’una dell’altra. L’obbedienza
è perplessa e schernita, ed il torto, circondato da tante emole
magistrature, le quali dovrebbero esserne i vindici, è costretto a
comperarsi la sua riparazione a tal costo, che il pubblico rimedio
riesce spesso peggiore e più crudele della privata ingiuria. Perchè
ogni centro di potere, eccettuatine pochi, è la sede di qualche
imbroglio, e bazzicanvi dattorno creature d’amendue i sessi, le quali
sanno colla chiave di sporchi e criminosi segreti, o per virtù di ben
noti articoli di società, aprire e chiudere a loro talento le porte
del favore. L’innocenza non è protezione, perchè i vostri processi
criminali sono segreti, come tutte le opere delle tenebre. Se uno ha
beni non gli resta altro scampo che quello di correre arditamente
l’arringo, e scapparne fuori con quel che gli può rimanere, oppure
d’aprirsi sordamente la via con gl’intrighi e le subornazioni. Il
dar saggio di ingegno crea, a chi non è nel sacerdozio, sospetti e
pericoli: spie se ne stanno in agguato per una qualche mercede, e
l’esilio non si fa lungamente attendere. Il vostro clero ambizioso
e vorace ha invaso non solo le chiese ed i monasteri, ma ancora gli
stadi dell’educazione, le corti di giustizia e tutte le magistrature
maggiori: fino il ministro della guerra deve essere un prelato. Ogni
nutritiva ed eccitante speranza è perciò tolta alla gioventù. Niuna via
ad avanzamento è schiusa, eccetto quella cui si entra per la umil porta
della dipendenza ecclesiastica: lo che disanima ogni magnanimo conato,
e volge tutti i rivoli dell’ambizione entro lo stagno dell’ipocrisia,
il più vile de’ peccati. Mai non potrò obbliare il mesto sguardo di
un brillante e compito giovane quando mi disse: «Alcuna speranza,
signore, non v’ha qui per noi: i preti ci hanno tolto ogni cosa».
Frattanto voi avete l’esercizio dei più proficui negozi venduto, come
monopolii. Il traffico di contrabbando, che a quelli tien dietro in
lucro, è pur esso virtualmente venduto, essendo i dazi da cui procede
tenuti alti, come ne corre voce fra le persone più gravi, per un
continuo intrigo dei contrabbandieri con certuni presso del governo.
Quel che ne rimane dopo che la cortigianerìa ha esausto i suoi sorrisi,
e l’astuzia la sua cupidigia, va a nutrire l’onesta industria. Il
lavoro manuale poi, essendo naturalmente la più indifesa delle potenze
sociali, giace depresso più disperatamente ed angosciosamente d’ogni
altra. E per timore che la miseria alzi il sospiro dell’impazienza,
o l’infortunio sprigioni il non permesso gemito, voi stanziate nelle
vostre impoverite e scorate provincie un esercito di soldati grosso
abbastanza per contenere un impero in pace. Indi imponete loro un altro
esercito di ecclesiastici fuori affatto di misura coi mezzi, e, vorrei
sperare ancora, coi peccati di esse (a Roma si conta un ecclesiastico
fra ventotto abitanti), il quale di necessità viene, come il primo,
sostentato dalla borsa del popolo: e poi, quasi che la terra non
fornisse ministri di concussione abbastanza, voi mettete a quartieri in
quelle un terzo esercito di santi, flagello pessimo e terribilissimo;
perchè santi ogni terzo giorno di lavoro scendono dal cielo a legare
le mani all’industria. Forse i vostri popoli sorreggersi potrebbero,
se non prosperare, al peso delle vostre terrene concussioni. Ma
quando il cielo stesso vien giù a deluderli, ogni loro sforzo sarebbe
insufficiente. Quale popolazione, infatti, privata di una terza parte
della sua industria, quale popolazione educata alla scioperatezza e
spinta a gironzar per le vie, come la vostra fa nei dì feriati, ed
in questa guisa a consumare un terzo del suo tempo in un _legale far
niente_, potrebbe lungamente ritenere qualche vestigio di prosperità
o savia economia? In verità io non ebbi mai un’idea così magnifica
della liberalità della natura, che allorquando rimirai l’innumerabile
esercito di consumatori il quale voi avevate potuto condurre alla preda
senza lasciarvi dietro le spalle una fame ed una mortalità universale.

Per fornire questa miseranda pittura non mi è duopo d’aggiungere altro
se non che voi avete aduggiato le abitazioni del vostro popolo, e
resele aride di consolazione. Perchè è quivi che gli oppressi degli
altri paesi ponno sempre temperare colla libertà e nell’espansione
dell’amore e delle simpatie domestiche l’amaritudine delle loro
afflizioni.

Ma da voi i vostri confessori vanno sempre, come i vostri agenti di
polizia, rovistando sintomi di scontento, ed odorando, per dir così, in
ogni canto le ansie meditazioni della sventura. Spesso a Roma sentiva
io vantarsi che i vostri preti formano una così mirabil polizia!
Voi intromettete un confessore tra moglie e marito, e tra loro due
ed i loro figliuoli; talchè, se questi biasciano un libero motto, o
prorompono in un sospiro a mensa, sanno già che un invisibile orecchio
gli avrà intesi; ed allora, se scansano la prigione, proveranno ciò
che sia l’obliterare colle penitenze l’angoscia ch’ei cercarono
d’alleggerire colle parole. Conseguentemente è loro mestieri di
chiudersi in petto i pensieri loro, di non confidare l’uno nell’altro:
al focolare non v’è libertà, la mensa è un circolo di spioni, e
l’ultima gocciola di consolazione che il cielo concede in alleviamento
dei dolori dell’oppressione, è così dissipata.

Laonde avviene di necessità che il carattere del vostro popolo è
tanto depresso, quanto lo sono le sue economiche circostanze: del che
nessun viaggiatore sta lungamente in forse. Poichè egli osserva più di
tutto la generalmente bella forma della gente, lo sguardo brillante
ed intelligente, tanto ad essa comune; ma una breve ora gli basta
poi per discoprire in essa una malinconica assenza di tuttociò che
tira al generoso. I vostri sudditi sono appassionati, facili alle
ire, servili, vendicativi, e tristamente sforniti d’industria, di
ordine, di previdenza. Non dico questo di tutti, ma dei più; e ne do
carico a voi, che, regnando sopra di loro in nome di una religione che
promette di esaltar l’uomo ad una divina immagine, gli avete avvallati
anche al di sotto della loro animale natura, ridotti ad una più
profonda ignominia, che il peccato, senza di voi, non avrebbe fatto.
E non si fu per qualche penosa consapevolezza di queste cose che voi
v’induceste a stabilire un più generale sistema di educazione? Ero lì
per ringraziarvene; ma perchè, quando volete compiere un dovere che ha
qualche cosa di cristiano in sè, accoppiate ad esso un qualche segno
opposto all’indole del cristianesimo? Perchè, per esempio, insegnate
voi, per quel che mi fu detto, la geografia d’Italia, e proibite
quella del mondo? Perchè temete voi di far conoscere al popol vostro
quel mondo il quale Cristo imprese di rendere una sola confraternita
nel Vero? Forse perchè non venga in esso a destarsi qualche ubbiosa
veglia di libertà o di lume, conoscendo la più nobile istoria e la più
felice condizione d’altri popoli? Voi avete pure una gazzetta piccina
come la vostra geografia; appena grande quanto una lastra di vetro,
e singolare per questo soltanto, che tuttociò che potrebbe in alcuna
guisa occasionare una riflessione, ne è diligentemente escluso. Anzi la
via più corta ad un Romano per sapere ciò che avvenga in Italia stessa,
è quella di prendere una gazzetta inglese o francese. È dunque per
siffatti modi o stromenti che voi sperate di purgare il carattere del
vostro popolo ed il diffamato nome del vostro governo? Siete voi cieco
a tal punto, che pensiate di poter fare uomini dei vostri sudditi, in
questo secolo senza lumi, senza notizia del mondo, degl’imperi nei
quali è spartito, e delle istituzioni che differenziano questi imperi
medesimi?

Queste censure del vostro governo potrebbero per avventura essere
in alcuni particolari erronee: ma la loro giustezza in genere è
manifesta al vostro popolo stesso ed a tutti i viaggiatori. Forse
voi, rispondendo, addurrete la separazione del vostro civile governo
dall’ecclesiastico, per cui ogni apparente menda di quello debba
considerarsi da sè stessa, ed attribuirsi a cagioni istoriche distinte
dalla vostra religione. Ma si troverà, al contrario, che ciascuna
delle note di civile abbassamento, da me indicate, se ne scorrerete
la lista, è una legittima conseguenza di cause ecclesiastiche, e
niente altro. E di ciò potrei fornirvi anche una prova statistica:
perchè non ha molto che ho visto provarsi da un curioso confronto di
dati statistici, quantunque il documento non siami ora accessibile,
che la pochezza delle esportazioni dai differenti Stati d’Italia,
la mancanza di educazione, la gravezza delle imposte, il numero dei
delitti e dei bastardi stava in istrettissimo rapporto coll’abbondanza
degli ecclesiastici! Roma, la città spirituale, la metropoli della
Chiesa di Dio, ha più ecclesiastici di ogni altra, ed è perciò pessima
e vilissima sopra ogni altra italiana città! Voglia Dio concedervi
qualche cristiana sensibilità perchè piagniate di un fatto tanto
umiliante!

Considerate un momento la posizione vostra rispetto a noi ed al mondo.
Noi vi veggiamo esercitare un poter regale: voi ci dite ancora di
essere il primo vescovo della Chiesa di Dio ed il rappresentante di
Cristo in terra. Noi ci aspettiamo però da voi il più benigno governo
del mondo, la nazione più illuminata, magnanima, libera e felice.
Invece voi svergognate pubblicamente la religione di Cristo col fare
che ogni bene sociale sia per essa aduggiato. Tutti i calcoli fondati
sulla benignità della virtù cristiana si trovano costì erronei, e non
ci resta che d’inferire, che, se Cristo veramente è rappresentato
da voi, Cristo è il più fatale ostacolo al miglioramento ed alla
felicità del genere umano. L’induzione è irresistibile, e, quel che
è più, si fa. Protesto io perciò in nome del mondo cristiano contro
i falli per i quali voi fornite al mondo un tanto funesto argomento.
Io nè dico, nè credo che voi siate un tiranno, nè so che alcuno dei
vostri sudditi vi giudichi tale. Ma la gran disgrazia è che la vostra
ecclesiastico-civile architettura v’ha assegnato un posto che è il
posto soltanto di un tiranno. Perchè voi siete dall’ufficio vostro
locato nel centro di un sistema di oppressione, onde lo governiate;
dimodochè, se non abbondate nell’esercizio dell’officio stesso in prove
di misericordia, che equivalgano ad una rivolta contro quel sistema,
voi fate il déspoto, benchè con tanta più bella maniera, quanto più
sono le vostre intenzioni umane. Voi siete chiamato, nello stile
ufficiale, il _papa_, cioè il padre del vostro popolo; e non dubito
che questo titolo non vi riesca carissimo; e volesse il Cielo che la
vostra infelice ignoranza di una così bella connessità non rendesse a
voi più facile l’ingannarvi in questo, che altrimenti non avverrebbe!
Ma dove sono gl’indizi di quella scambievole confidenza, di quella
scioltezza di modi, di quella tenerezza di protezione corrisposta da
altrettanta tenerezza di rispetto, che contradistinguono i rapporti di
una vera paternità? È egli paterno l’andare in chiesa, come voi fate,
per mezzo due file di soldati? È egli paterno l’assoldare, come voi
fate, reggimenti mercenari, perchè non osate fidarvi del vostro popolo?
Tratto tratto scoppianvi intorno rivoluzioni, e voi mandate a chiamare
le truppe austriache onde vi proteggano da disfatta e da espulsione. E
si sa già dal mondo intero, e da voi meglio che da tutti, che non v’ha
giorno nel calendario nel quale il vostro popolo, se fosse lasciato
fare, non vi caccerebbe d’Italia. In questo io non ravviso niente di
paterno; ed invano cerco qualche scena di paterna benignità in cui voi
accoglieste i vostri figli al seno in libertà, e riceveste le figliali
loro tenerezze. Quel che ho scoperto di più somiglievole a ciò è quando
voi siete visto per l’aria portato al di sopra di loro, trinciando
benedizioni. Ma tosto che questa pompa è finita, voi scappite dentro i
recessi del Vaticano come un oriental tiranno, con intorno sentinelle
che proteggano i vostri sonni. Che se una qualche rivoluzione avesse a
scoppiare prima dell’alba, voi avete sotto il guanciale la chiave di
una porta di soccorso, ed una coperta galleria murata in aria, lunga
mezzo miglio, per cui potreste sbiettarvela entro Castel Sant’Angelo
e rifugiarvi dietro le sue artiglierie. Colà, colla miccia in mano,
Vostra Paternità attenderebbe i suoi figli per carezzarli....

  Londra, aprile 1846.




INDIRIZZO

AI REVERENDI PRELATI

MONSIGNOR JANNI UDITOR SANTISSIMO

E

RUFFINI FISCALE GENERALE


Quando voi moveste dalla capitale alla volta di queste provincie, vi
precorse una voce, la quale diceva: essere voi deputati a consultare
le popolazioni intorno ai loro bisogni e alle cagioni del loro
malcontento. Strano ufficio in vero, e che avrebbe comprovata nel
Governo nostro una maravigliosa ignoranza dello stato positivo de’
paesi a lui soggetti, ma dal quale nondimeno avremmo avuto indizio di
buona volontà ne’ reggitori e speranza di lieti successi, perocchè
sarebbe stata aperta con ciò la via alle legali rappresentanze, e
tolta occasione al protestare violento. Ma da quella opinione fu ben
altro l’effetto; ed oggi una voce popolare vi dice: semplici revisori
di processi e d’atti giudiziari. Una voce popolare, abbiam detto,
perocchè niun atto pubblico fa noto l’oggetto della vostra venuta tra
noi, niun appello a niuna classe o corpo di cittadini die’ titolo ad
alcuno di presentarvisi e far rimostranze. Siete adunque venuti a far
nulla per gl’interessi generali delle popolazioni, poco o niente per
qualche diritto o interesse personale che sia stato offeso, come tutto
dì avviene nell’amministrazione della giustizia; e Dio pur voglia
che, almeno in questa parte, a qualcuno di que’ poveri innocenti, che
languono nelle galere per forza d’iniqui giudizi politici, la vostra
opera valga la redenzione! Ciò sarebbe per avventura l’unico bene reale
che uscir potesse da voi.

Sono molti anni che continui mali umori e moti popolari, provanti
gravi sofferenze in chi li opera, estrema inciviltà nel governo in cui
nascono, affliggono, più o meno, tutto lo stato pontificio. Nè è a dire
che que’ moti sieno l’effetto della intemperanza di pochi faziosi.
Chi vive nei nostri paesi, e conosce le remote cause e le immediate
provocazioni, sa che certi umori sono la espressione di una opinione
universale, spinta di tanto in tanto a manifestarsi violentemente dal
mal governo di quegli stessi a’ quali starebbe il sacrosanto obbligo
di por mano ai rimedi civili del male. A che, con ipocrite e compre
parole di giornali, illudere voi medesimi, e tentare di nascondere al
mondo, con incomportabili menzogne, le piaghe vostre e de’ sudditi?
Oggi che i popoli hanno coscienza di sè, ella è impossibil cosa il
governarne a grado vostro i pensieri e i giudizi. L’opinione rende a
ciascuno il suo avere secondo I meriti; ed oggi in Italia i popoli
pontificii sono compianti pel loro patire, e difesi da pubblicazioni
imparziali e documenti, che, dopo fatta la giusta parte del biasimo
all’inconsideratezza dei poveri tormentati, consegnano ad eterna
infamia le nequizie e gli arbitrii di reggitori spietati ed ipocriti.

Quando un governo, dopo tante e così significanti lezioni, prosegue
nella sua mala consuetudine, non si possono fare che due supposizioni:
o che egli non comprenda affatto alcuna ragione di beni e di mali
civili, e vada innanzi alla cieca, ignorando i propri doveri, non che i
pericoli che gli sovrastanno, o che egli sia coscienziosamente tristo
e tirannico, e, a poter perseverare nelle sue voglie malvagie, fidi o
nella sua propria o nell’altrui potenza. Sia l’uno, sia l’altro errore
che oggi guida la politica della vostra corte, o signori, noi crediamo
opportuno l’esporvi senza velo i sentimenti, le speranze, i travagli
dei popoli, e recarvi a mente quelle generali condizioni politiche
alle quali è forse unicamente raccomandata la vita del governo vostro.
I primi potreste ignorarli, e non è meraviglia in chi vive in una
capitale non curante ed oziosa; sulle seconde potreste illudervi. Noi
saremo franchi e sinceri, senza passione nelle nostre parole, perocchè,
forti della ragione e della opinione, non abbiamo bisogno di esagerare.

Signori! chi conosce un poco la storia, e la studia con animo libero
da preoccupazioni, comprende che vi sono delle leggi providenziali che
si effettuano inevitabilmente nel corso delle cose umane, nè forza di
volontà individuale può nulla contr’esse. Quando in sul finire del
passato secolo, una grande nazione, venuta alla coscienza di alcune
idee e diritti civili, volle scuotere il giogo degli antichi privilegi
feudali, le stolte reazioni dell’egoismo de’ nobili e del clero non
impedirono la necessità degli eventi, ed altro non fecero che rendere
più terribile e profonda la rovina del vecchio edificio. Dio ci
guardi dal giustificare gli eccessi della rivoluzione francese; noi
rechiamo l’esempio unicamente per dimostrare che la forza delle idee
si sa fare la strada a tutti gli ostacoli. Cinquanta in sessant’anni
d’esperienze dopo quella grande scossa hanno ammaestrato popoli e
re; hanno generato un completo rivolgimento nella natura dei primi
e nella politica de’ secondi. Il popolo, oggigiorno, non è più una
massa ignorante e passiva, non è più materia maneggiabile a grado di
privilegiati e di sovrani. Un medio ceto numeroso, illuminato, potente,
depositario delle opinioni civili, delle arti, delle scienze, un popolo
che tende per tutto a sollevarsi alle prerogative e ai diritti morali,
costituiscono nella attuale società una forza che si va ogni dì più
emancipando dalla obbedienza passiva, e forma della pubblica opinione
un terribile sindacato al potere. La civile egualità innanzi alle
leggi, il diritto politico del cittadino a far sorvegliare per mezzo ai
abili rappresentanti gl’interessi comuni dell’associazione alla quale
appartiene, il dovere d’ogni nazione di rivendicare sè stessa da tutto
ciò che tende a dividerla, a offenderne il ben essere materiale e la
moral dignità, a impedirne que’ sociali sviluppamenti a cui è chiamata
dalla Provvidenza, sono idee così profondamente impresse nella ragione
e coscienza dei popoli, che il non avvertirle non può dipendere che
da ignoranza, e il non farne conto, o il volerle rintuzzare, che da
una misera illusione ed oltracotanza dell’egoismo governativo. Però
i principi e governi illuminati vanno inclinando l’animo a favorire
queste necessarie condizioni di vita pei loro stati, e si può dire
oramai, che, in mezzo a questo movimento della civiltà europea (a non
volere parlare della Russia, che può considerarsi, pei suoi ordini
politici e pe’ suoi modi barbarici, fuori d’ogni questione civile),
non rimane addietro che l’Austria, nella sua decrepita vecchiezza, e
qualche piccolo stato italiano, che raccomanda il filo della debole sua
vita al simulacro cadente dell’Impero. Il nostro governo è nel novero
di questi servitori dello straniero in Italia.

Signori! le garantie civili, che assicurano il morale esercizio
della libertà privata e la reciproca indipendenza de’ consociati; le
franchigie politiche, che somministrano alla volontà illuminata delle
nazioni i mezzi di manifestarsi e di agire; il buon ordinamento degli
studii, necessari a tutti i più nobili perfezionamenti delle società,
e pe’ quali la pubblica opinione acquista i mezzi di migliorarsi e
di progredire; e, dietro a ciò, lo sviluppamento della liberalità
commerciale, delle istituzioni animatrici, della produzione agricola
e manifatturiera, la moralità e l’istruzione delle classi inferiori,
e le providenze opportune a sollevarle dall’abbiezione in cui vivono,
tutto questo forma, presso a poco, il programma del liberalismo. Non
si tratta di sovvertire la società ma sì bene di migliorarla, non di
annientare il sentimento dei doveri religiosi, morali e civili, ma
di avvalorarne negli animi la dignità e guarentirne l’osservanza.
Ciò non si ottiene dai popoli coll’avvilirli e renderli poveri e
schiavi, sì bene col sottrarli, per quanto è possibile, alle abbiezioni
delle necessità materiali, ed elevarli alla vita dello spirito,
all’intelligenza de’ rapporti e doveri sociali.

Ora, rispondeteci in coscienza: questi desiderii, queste speranze
del liberalismo vi sembrano elle un bene o un male? Non sono anzi
le condizioni essenziali della vera moralità, della vera religione?
Credete voi che possa comprendere la dignità della religione di Cristo
l’anima dello schiavo? Che possa innalzarsi al sentimento dei doveri
religiosi l’uomo nel quale cercate di spegnere il sentimento dei doveri
verso la patria, verso la propria nazione?

Sì, o signori, noi lo proclamiamo altamente; se il liberalismo consiste
nell’amore della nostra nazione, nella speranza della sua indipendenza,
dell’associazione dei suoi interessi economici e morali, nel desiderio
d’istituzioni che assicurino i progressi della intelligenza o della
moralità, che aumentino coll’agiatezza la civiltà, che con larghe e
ben regolate leggi economiche ci ritornino nello splendore dei nostri
antichi commerci, che, offrendo al povero popolo mezzi d’istruzione,
di lavoro, di risparmio, lo educhino alla moralità degli affetti
domestici, e ne innalzino l’anima al concetto di una Provvidenza che si
occupa delle sue miserie, se questo è liberalismo, noi lo proclamiamo
in faccia a tutta l’umanità e nel cospetto di Dio, siamo liberali.
Noi comprendiamo che questo nome possa parere una bestemmia a qualche
appaltatore di gabelle pontificie, a qualche monsignore, che speri, col
non saper far nulla, essersi acquistato merito ad una delegazione o
ad un cappello cardinalizio, e non pensi che ad impinguare la propria
famiglia delle ricchezze dello stato; ma per noi popolo, questo nome è
cosa grande, che ci lega a tutte le più care speranze, a’ più elevati
destini, ai quali la Provvidenza chiama l’umanità. Ora dimanderemo a
voi che cosa fa il governo pontificio, non già in fatto di riforme
politiche (chè potrebbe parere un sogno il pretendere una costituzione
dal papa), ma almeno in favore di quegl’interessi economici e civili
che, senza scemare menomamente il potere assoluto, assicurano anzi,
col ben essere e la tranquillità dei sudditi, la esistenza medesima
d’un governo? Da quali norme di ragione e di giustizia, da quali lumi
è guidato nel regime dei popoli alla sua cura commessi? Signori,
nell’attuale movimento degl’interessi civili ed economici delle varie
nazioni, colle strette attinenze che si vanno generando fra popolo
e popolo per la necessità delle comunicazioni, e pei rapporti delle
industrie e dei commerci reciproci, il primo dovere di un governo che
non voglia rovinare prima i suoi sudditi e poi sè stesso, si è quello
di studiar bene la suscettibilità produttiva e la posizione relativa
dei propri stati, onde adattarvi un conveniente ordinamento di leggi
industriali e commerciali, ed assicurare per tal modo il ben essere
della popolazione nelle sue classi diverse. Per lo stato pontificio
v’ha in ciò, oltre ad un dovere comune di ogni governo rispetto ai
governati, un dovere verso tutta la nazione. Il governo nostro sarà
tenuto a render conto, non solo ai suoi sudditi, ma a tutta Italia,
della sua zotica opposizione a quei miglioramenti economici che sono
richiesti dal tempo. La sua contrarietà alle strade ferrate, per citare
un esempio, impedendo una spedita comunicazione tra le Due Sicilie
e l’Italia settentrionale, è inceppamento grande a quello sviluppo
di attività commerciale a cui tendono gli altri stati italiani, e
può esser causa alla nazione di perdere molte buone occasioni di
risorgimento, e fonte di miserie infinite. Dicasi altrettanto della
opposizione che troverebbe una lega doganale italiana presso i nostri
governanti, siccome buoni servitori che sono, forse senza avvedersene
nè anco, degli interessi austriaci in Italia. Ma torniamo a noi, sui
quali ora ricade il maggior peso di questa cattiva economia politica;
se pur di tal nome, che suppone scienza, si può chiamare una farragine
di disposizioni arbitrarie, non emanate da alcun principio di vera
dottrina e di pratica illuminata, protezioni assurde, proibizioni
irragionevoli, rovinosi appalti finanziari, monopolii, e tutta la
trista schiera delle infelici illusioni del sistema proibitivo. Tutt’i
governi civili di Europa hanno conosciuti i danni di questo falso
sistema, e vanno emendandosene; anche gli altri principi italiani
provvedono ai casi propri con saviezza e coscienza; solo Roma vuol far
male per non fare ciò che fanno gli altri; e anche in questo ella è
umile discepola dello indietreggiare dell’Austria. Niun altro mezzo poi
di miglioramento morale ed economico è incoraggiato, e neppur tollerato
tra noi. Si sa l’avversione dei superiori per tutto ciò che puzza
d’associazione; bando assoluto adunque a questa idea in qualunque sua
applicazione, che è come dire bando ad ogni impresa di migliorazioni
agricole o manifatturiere, bando a società di qualunque genere,
sieno gravi o dilettevoli, ad accademie scientifiche o letterarie,
ad istituzioni filantropiche. Tutte le nostre città, o signori,
hanno sofferte ripetute ripulse a tutte le dimande fatte al governo,
intorno alle qui riferite cose. Intanto una frequente gioventù,
non educata a nobili emulazioni, e veggendosi attraversata ogni
generosa ed utile carriera, si abbandona all’ozio, alla sensualità,
allo scetticismo; il popolo, nella inoperosità e nella miseria, va
perdendo quella seconda vita, che è propria di lui, e che, bene usata
da accorti reggitori, potrebbe partorire generosissimi effetti; le
classi medie, i possidenti, i negoziatori impoveriscono: scarsi e
mal commerciabili i redditi, infiniti i pesi, e con tanta gravezza
delle imposte anche indirette, e spesso arbitrarie a carico delle
comuni e delle provincie, il governo non basta a sostenere le spese
ordinarie, per le quali sole v’ha un notevole _deficit_, senza poi
far parola delle truppe estere, che sono altra gravissima sorgente
di rovina economica per lo stato, di demoralizzazione, di sozze e
crudeli malattie, e di irreligione pel popolo. Se a questo aggiungasi,
che quel poco che ci resta è mal guarentito, che la sicurezza del
cittadino è disturbata di continuo da aggressioni e ladronecci, per
non curanza delle polizie, che hanno occhi soltanto per travedere
colpe politiche, anche dove non sono; se aggiungasi che non esiste un
codice di leggi bene ordinate e appropriate ai nostri bisogni, che le
procedure civili sono lunghe, dispendiosissime, complicate ad arte
dal curialismo romano, al quale ne viene affidata la compilazione,
voi, o signori, riflettendo a tutto questo con sincero cuore, dovrete
convenire di due cose: l’una, che il governo ha offesi sino ad ora
enormemente con la sua mala amministrazione gl’interessi dello stato,
e questo è un male grande pei sudditi; l’altra, che da tutte queste
cagioni debbe necessariamente generarsi nell’animo dei medesimi una
immensa disistima verso i reggitori, per la loro poca intelligenza
dei buoni ordini civili, e rivolgimento grande di coscienze, per la
loro volontaria perseveranza negli errori; e questa seconda cosa è un
grandissimo male per il governo; e presto o tardi se ne accorgerà,
perchè gli affari del mondo oggidì camminano presto, e guai a chi resta
addietro, e per volere star fermo, fa male agli altri. Nondimeno, o
signori, se i danni si fermassero qui, i popoli curverebbero forse le
spalle, e pazienterebbero. Ma vi ha di peggio assai. Vi ha la polizia
con le sue vessazioni politiche, v’ha i commessi, i carabinieri, i
volontari, coi loro atti arbitrari, violenti, provocanti l’ira del
popolo. Non v’ha peggior cosa per un governo, che questa del permettere
gli arbitrii, e levar via dagli animi, esso per primo col proprio
esempio, il sentimento della legalità. Se un governo non sa rispettare
la legalità, non la rispetteranno certo i suoi sudditi; sono poi un
effetto di questa indulgenza del governo all’arbitrio, gli eccessi
di una fazione di gente scellerata, che vive dello spionaggio, che
si arricchisce di ogni falso allarme dei governanti, e però soffia
nel fuoco, provoca, attizza; ne sono un effetto gli operamenti delle
commissioni; e se avete sindacati con coscienza i loro processi, se
vi siete informati nei nostri paesi della loro condotta, saprete
meglio di noi che cosa siano. Noi possiam dirvi (unico compenso nella
nostra sventura) che l’infamia delle medesime, la qual tutta ridonda
a vergogna di chi le permise ed incoraggiò, è oggi pubblicamente nota
per le stampe; e perchè sappiate che giudizio fanno di siffatte cose
i pensatori anche i più moderati, e per non ripetere più a lungo cose
note e dette da altri, noi vi rimettiamo ad un libro che tramanderà ai
posteri la memoria di questi obbrobrii; un libro di un uomo generoso,
il marchese Massimo d’Azeglio, conosciuto e amato da tutta Italia pei
suoi meriti letterari ed artistici, e per le sue alte virtù civili.
Signori! quest’uomo, al nome del quale rispondono con viva gratitudine
i cuori d’un intero popolo, assunse spontaneamente la nostra difesa,
come si piglia dai generosi la difesa della sventura. In quel suo
libro, al quale noi tutti possiamo fare testimonianza, ei dice la
verità, ma non dice tutto, perchè bisogna vivere e soffrire lungo tempo
nei nostri paesi, per poterlo dire. Voi vedrete da quel libro che,
se qualche centinaio di tribolati ha protestato violentemente contro
la persecuzione e l’ingiustizia, ciò avvenne dopo tali provocazioni,
che fanno ricadere tutta la responsabilità di quei fatti sul capo di
chi ci governa. E se quei pochi si mossero per non saper soffrire,
gli altri, e son tutti, sapete perchè non favorirono il movimento?
Perchè non era tempo; perchè, più dalle proprie scontentezze, prendon
norma dagl’interessi italiani, perchè Italia e la sua indipendenza ci
sta in cuore più dei nostri particolari bisogni. Signori! una tale
situazione è grave pei sudditi, gravissima pel governo. Il male ha
profonde radici, nè i modi estraordinari e tirannici di repressione,
le carceri, i patiboli valgono ad annichilire le idee, sibbene a
concitare le passioni. Noi abbiamo detto in principio, che un grande
cangiamento si è operato nella natura dei popoli, e che i re hanno
imparato, la maggior parte, a rispettare in quelli la dignità d’uomini.
Le esorbitanze del potere si fanno ogni dì più infrequenti, e, a
parlar solo di cose italiane, i principi della Penisola, più o meno,
vanno operando qualche cosa di bene. L’agricoltura, l’industria, il
commercio, gli studi, le arti, l’educazione popolare, le istituzioni
di pubblica beneficenza fioriscono in Toscana, nelle Due Sicilie e in
Lombardia ancora, e sopra tutti in Piemonte. Visitate le città, le
borgate, le campagne, e vi troverete frequenti scuole infantili, case
di carità e d’industria, uomini di scienza e caritatevoli, parrochi
pieni di dottrina, veri ministri del Vangelo, che istruiscono i
fanciulli del loro popolo, che predicano l’amore, la fratellanza, la
virtù; e da per tutto vita attiva, lavoro, moralità. Signori! nelle
nostre città, nelle nostre campagne il popolo è abbandonato alla
corruzione e alla miseria. Nelle nostre città si sono uditi vescovi
predicare la guerra civile, la crociata contro i liberali; si sono
veduti i preti mescolarsi alle misere ire di parte, eccitare la
canaglia a furibonde passioni. Non v’ha terra cattolica in cui il prete
veramente cristiano sia così raro, come nello stato della chiesa; sono
immischiati a tutte le passioni più avare e più sozze di questo basso
mondo; e il popolo ne ha mali esempi e scandali, e diviene miscredente.
A tutti questi inconvenienti, voi recherete in iscusa questa parola:
Le rivoluzioni!... Signori! le rivoluzioni non le fanno i popoli
ben governati. Costa assai una rivoluzione, perchè un popolo vi si
precipiti entro, senza gravissime cagioni; e sono queste cagioni che i
governi savi cercano di torre via. I popoli pontificii hanno diritto di
fare un confronto tra i procedimenti degli altri governi e quelli del
proprio; e se, alla vista del progredimento delle condizioni civili dei
popoli cristiani in generale, e degli stati italiani in particolare,
i popoli pontificii dimandano ai loro governanti che cosa hanno fatto
dalla restaurazione in poi, noi non sappiamo che risposta potranno
dare. Gli studi permessi nelle università possono essere una misura
delle viste scientifiche e civili del nostro governo. Tutte le scienze
che servono a formare uomini di stato, o giovano allo sviluppo della
vita industriale e commerciale, tutte quelle discipline che eccitano
gli animi a sentimenti patrii e generose espansioni, ne sono bandite
come una maledizione. Nulla di economia sociale, di diritto pubblico,
di storia letteraria, civile e politica italiana, poco di letteratura
italiana, e quel poco pedantescamente insegnato, poco o nulla di
scienze naturali applicate alle arti, nulla, insomma, di tutto ciò che
dà vita e moto all’attuale civiltà. Nondimeno da molti si studia senza
il permesso dei superiori; le idee, materia sottilissima, filtrano da
tutte le parti, e ciò non fa che accrescere il divorzio tra governo
e sudditi. Signori! noi vogliamo concedervi (così tra parentesi) che
tutto questo sia un male; che la tendenza delle nazioni ad una vasta
associazione d’interessi, che queste industrie, questi commerci, queste
garanzie politiche, questa libertà della stampa, questo voler sapere
come si è governati, questo volere inframmettersi delle azioni dei
principi, che da prima trattavano le loro bisogne con tutto il loro
comodo, senza che altri vi ponesse mano, sia un male, una diavoleria.
Ma che cosa ci volete fare? ella è divenuta una smania di quasi tutta
Europa. Anche la Germania ha voluto la sua lega doganale, e adesso
vuole le sue costituzioni. Quella instancabile Polonia risorge sempre
più fiera ed eroica dalle sue rovine, e più tempo corre, più si
avvalora nella fede de’ suoi santi diritti, più s’inquieta del mercato
nefando che d’essa fu fatto. Nè l’Ungherese e il Boemo osservano
inerti i magnanimi ardimenti, e l’Austria ha grandi conti da saldare
anche a quelle nazioni. E Italia non dorme, e grida allo straniero, e
sembra, ora più che mai, rallegrarsi di vicine speranze. Contro questa
forza della opinione, che (lasciando la parentesi gesuitica) non è
un male, perchè si conforma ai più sacrosanti diritti della umanità,
contro questa forza, dico, credete voi che la volontà di pochi, a’
quali tornerebbe a conto il contrario, possa bastare? La storia ha
mostrato che questa lotta dell’egoismo de’ pochi contro il diritto di
tutti alla perfine va a finir male; e il meglio sarebbe di cedere e
rispettare i diritti dei popoli. I governi prudenti lo fan per amore; i
meno savi, presto o tardi, sono costretti a farlo per forza. Signori!
vi hanno governi protestanti in Europa, e lo diciamo a vergogna de’
governi cattolici, e in particolare del nostro, il quale dovrebbe
insegnare la buona via a tutti gli altri, v’hanno governi protestanti,
i quali, guidati insieme dal lume della scienza e della carità, non
si vergognano, nè si stancano di analizzare e studiare profondamente
le miserie sociali onde sono afflitti, e penetrandone le più riposte
origini, vanno adoperandosi di medicarli per quanto è da loro.

Que’ governi, o signori, rispettano ne’ tumulti popolari il diritto che
ha chi soffre di lamentarsi qualche volta. Che cosa fa ora, o signori,
l’Inghilterra protestante verso l’infelice Irlanda? non le apparecchia
catene, non carceri, non patiboli; ma le dà adito invece a poter
manifestare più ordinatamente e con più legalità le proprie piaghe. Il
governo inglese sa che i popoli agiscono più tranquillamente quando
sono equamente costituiti. Ora a noi. Per quanto il governo si studii
di mentire il vero senso de’ moti popolari dello stato, il fatto è che
questi moti, e i più recenti in particolare, non significavano altro
che un bisogno di riforme economiche e civili. Le dimande espresse nel
manifesto pubblicato in Rimini non erano nè eccessivamente ardite, nè
contrarie a quelle norme di ragion civile che molti buoni governi,
anche assoluti, oggi hanno adottate; e basti l’esempio di Prussia,
altro governo protestante, che fa vergogna all’apostolica Roma. Or
bene; che cosa hanno fatto i nostri reggitori dal moto di Rimini in
poi? Hanno vieppiù aggravata la mano sui sudditi, hanno sparso nuovi
semi di malcontento, non solo nelle quattro Legazioni, ma anche nelle
Marche e nell’Umbria, con arresti e persecuzioni: non hanno ascoltata
alcuna delle fatte dimande, e per tutta ammenda ai mali passati e
presenti, mandano voi, o signori, non a raccogliere i voti delle
popolazioni, non a studiarne i bisogni, ma a spazzare la polvere degli
archivi e a sfogliar processi; e intanto i gravi disordini, gli errori
amministrativi d’ogni genere, gli arbitrii e le provocazioni, severe e
profonde cagioni del nostro mal essere, rimangono intatti. La vostra
missione adunque fu in tutto inutile e ridicola; e noi protestiamo
contro la leggerezza di un governo che giuoca spensieratamente, per un
male inteso interesse per una inconcepibile mania di opposizione, la
quiete, la moralità, la vita de’ suoi sudditi. Signori! Noi vi vogliamo
dire, infine, tutta la verità. Non crediate che qui si congiuri e si
tramino ascose insidie al potere. Forse i cattivi procedimenti dei
nostri rettori andranno movendo, or qua, or là, reazioni e tumulti;
ma le quistioni che abbiamo col governo hanno per noi un interesse
secondario, e la principale è la questione italiana. Sarebbe inutile
di perder tempo ed opera nelle prime, innanzi che la seconda non si
maturi. Il giorno che i nostri fratelli italiani crederanno di poter
combattere lo straniero, noi li seguiteremo coll’energia di un popolo
stanco e indignato; e allora, o signori, tutte le ragioni tra la corte
romana e i suoi sudditi saranno in breve pareggiate. Ecco tutto. Questo
giorno può essere lontano, ma potrebbe eziandio essere poco remoto.
Vi sono grandi probabilità anche per questa seconda combinazione.
L’Austria, quest’edificio composto di elementi che ripugnan tra loro,
e tenuto insieme sin qui dalla sola forza materiale, nell’interesse
di una famiglia sovrana, quest’opera mostruosa dell’ambizione, ha in
sè i germi del proprio dissolvimento. D’altronde una grande mutazione
si va compiendo nello spirito del popolo italiano. Egli sente il
suo avvenire, si riscuote alle memorie gloriose del suo passato, si
va educando ai sacrifici, ai martiri, e le vessazioni non fanno che
rattemprare vieppiù gli animi, per modo che noi dobbiamo saper grado,
in certa maniera, a chi ci fa male. La vita italiana d’oggidì si è
dunque elevata al sentimento della nazionalità. L’Italiano non si
rifugge più, per evitare il senso delle sue miserie, in uno spensierato
sensualismo. Guardate la letteratura, prima espressione del sentire di
un popolo. Essa oggi non è più profumata dalle lascivie mitologiche,
dalle ridicolezze pastorali dell’Arcadia; ma è piena d’aneliti
italiani. L’epoca letteraria presente è un preludio che annunzia le
armonie della futura resurrezione. Non v’ha città, non v’ha borgo oggi
in Italia, ove ogni ceto non s’interessi delle nazionali speranze, non
si accenda ai discorsi o agli scritti generosi di cose patrie.

Signori! credete voi che l’egoismo e le profane ambizioni di poche
tonache nere, di pochi mantelli prelatizii basteranno a trattenere
questo movimento providenziale di un popolo intero? Ora a fronte di
questi bisogni, di questi sentimenti, che cosa si vorrebbe fare del
suddito pontificio? Un individuo privato di forza e di dignità, un
essere passivo che si vuole escludere da ogni cooperazione generosa
al ben essere e alla gloria della sua nazione, a cui si impedisce
persino l’intervenzione ai congressi scientifici italiani, in cui
ogni nobile pensiero, ogni desiderio civile è punito come un delitto.
Signori! vi pare egli che ciò possa essere, che ciò possa durare? che
anime generose, venute nella coscienza della propria dignità, della
propria libertà morale, possano patir questo? Non solamente il nostro
governo attraversa ogni via di progresso materiale del quale pur si
giovano gli altri sovrani per tenere a bada i popoli, contentandoli in
questa più bassa sfera di bisogni; il governo pontificio distruggere
vorrebbe sopra tutto ogni dignità civile nei propri sudditi. I più
elevati bisogni dell’anima, quei sentimenti pei quali l’uomo si sente
partecipe di qualche cosa di più grande, che non è la sua meschina
individualità, pei quali patria, nazione sono idee che fanno battere
il suo cuore, tutti questi sentimenti sono in diritta opposizione
cogl’interessi della corte romana. La censura pontificia non ha voluto
passare soventi volte l’attributo d’Italiano, nel suo senso più elevato
e nazionale. Deplorabile aberrazione, e che sarà feconda di grandi
sventure! Signori! il papato, ne’ bei tempi delle Comuni italiane,
fece doppia opera d’indipendenza: liberò la religione dalla soggezione
degl’imperatori tedeschi, aiutò le città italiane nella gloriosa fatica
della loro emancipazione. Le industrie, i commerci, le arti belle, le
lettere fecondarono la rinata civiltà italiana in quei tempi di libertà
nazionale, e la civiltà italiana fu la fonte di tutte le civiltà
europee. Ciò rese il papato popolare e nazionale nel medio evo. Da che
il papato si congiurò negl’interessi dell’assolutismo, e in quelli
dell’Austria, divenne odioso, antinazionale. Non solo i suol sudditi,
ma tutta la nazione protesta contro quella illiberalità, e questa turpe
alleanza del papa cogli stranieri; e tale protesta è terribile.

Valga l’ammonizione.

Dagli Stati Pontificii, 28 aprile 1846.


  FINE.




INDIRIZZO

AL SUCCESSORE DI GREGORIO XVI

SCRITTO PER CURA DI UN GALANTUOMO

                                              _Diligite justitiam qui
                                              judicatis terram._


Gregorio XVI, dopo aver regnato quasi sedici anni, è morto in pochi
dì, plaudenti alla sua dipartita da questo mondo forse nove decimi
dell’intero suo popolo. Dissero di lui molte vituperevoli cose. Credo
calunnioso quello che si riferisce alle lascivie, esagerato quanto si
bucinò delle crapulosità, vero del suo egoismo fratesco, dell’animo
chiuso alla compassione, degli altri vizi che costituiscono un pessimo
re. Tuttavia anche egli avrà il suo apologista; sarà forse il solito
francese Artaud, che ha regalato al pubblico tante menzogne su Pio VII,
Leone XII e Pio VIII. Per buona sorte i posteri avranno altre storie da
leggere su questi papi, che non quelle dateci dal francese scrittore;
diversamente, addio verità e buona fede.

Ma Gregorio è già stato giudicato da tutt’altri giudici, che non quelli
del mondo, e ora sa ben egli se gli sarebbe tornato meglio il conto di
essere stato un papa e re galantuomo.

Questo mio scritto non ha per iscopo il discorrere della riunione
e indipendenza di tutta Italia. Un cambiamento così grande potrà
forse accadere, ma siccome io non credo alla distruzione dell’impero
austriaco, primo ostacolo per la formazione della nostra nazionalità,
così ritengo che dei papi-re ve ne saranno ancora per molto tempo.
Fidando però nella soverchiante forza delle attuali circostanze
politiche, posso lusingarmi che un papa nuovo o per buona volontà o
per proprio interesse debba devenire a cotali miglioramenti civili,
da poter dire una volta i suoi popoli che il Governo pontificio non è
più finalmente il peggiore regime di quanti ve ne siano al mondo, non
esclusi neppure i governi della Turchia e della Russia, se non in modo
assoluto per questi ultimi, avuto riguardo almeno al grado progressivo
del nostro incivilimento.

Papa Gregorio XVI, salito in trono in momenti da far tremare qualunque
coraggioso, si dispose a fare qualche miglioramento politico in
favore de’ sudditi, e prometteva con molte amorevoli parole un’_era
novella_, per isviare forse quella tremenda tempesta che minacciava
così appresso il governo pretesco. Era riserbato ai soliti Tedeschi
di rassecurarlo, e colla forza fisica far tacere i popoli, e frenarli
nelle loro disposizioni. Fu allora che Gregorio dimenticò di aver
promesso l’_era_, e se pure pose mano a dare un qualche ordinamento
a certe instituzioni, ciò fece perchè da straniera forza vi fu
costretto. E così, se ordinò la compilazione di un codice criminale,
mentre tutt’ora erano in vigore gl’infami bandi generali, o qualche
istruzione circolare pei giudizi criminali, a questo si venne non tanto
col saggio fine di abolire gli abusi e l’arbitrio, ma per compilar
su all’impazzata quel titolo sui delitti di fellonia, che è una
mostruosità pe’ tempi nostri, un vero anacronismo.

Dopo che e colla forza straniera e col carcere e coll’esilio di molti
il governo papale si vide al sicuro d’ogni pericolo, e quando gli
autorevoli stranieri cessarono d’insistere per qualche miglioramento,
Gregorio XVI non si occupò più di alcuna utile ordinanza, derogò con
secrete e pubbliche circolari a molte di quelle che erano state fatte,
ed avendo già dichiarata nulla ed irrita una capitolazione che avea
a nome della S. S. segnata l’eminentissimo Benvenuto, si pensava ad
innalzar patiboli e mannaie per disfarsi di coloro che avevano sturbata
l’antica oziosità de’ preti. Se non che a tanta nequizia si oppose un
potente, non so più se per amor di giustizia, o per quella malvagia
ipocrisia di che ne’ primordi del suo regno abbisognava.

Insomma dalla rivoluzione del 1831 il governo segnò un’epoca di
efferata tirannide; l’arbitrio e l’insolenza e l’oppressione furono il
carattere politico distintivo del regime pontificio; e con sì grande
pervicacia si perseverò nelle iniquità, che un nuovo papa troverà tanto
da migliorare, da rendere immortale il nome suo, e far contenti e
tranquilli quei popoli che la fortuna gli darà da governare.

Questo scritto io indirizzo al successore di Gregorio, non senza
invidiargli la gloria di cui si coronerà se avrà cuore e mente di non
ormare il suo antecessore, la fama del quale durerà obbrobriosa per
molti secoli.

Io non tratterò la materia che sto per iscrivere da profondo filosofo
e politico. Questo esigerebbe una mente altissima ed un tempo assai
lungo. Traccerò i principali mali del governo presente, e proporrò quei
rimedi che una spassionata pratica di cose sa proporre.


CAPITOLO I.

E poichè mi è caduto in acconcio di nominar poco sopra il codice
criminale, io voglio, senza pretendere di farne un’analisi filosofica,
enumerare alcuni principali difetti, seguendo in ciò, non già la mia
particolare opinione, chè non avrebbe valore alcuno, ma quella di
giurisprudenti dottissimi, tanto nazionali, che stranieri. E qui,
come che quello che io sto per dire non appartenga strettamente al
codice stesso, bensì al regolamento di procedura criminale, è il
luogo veramente da mostrare come una stranissima legge vieta che le
sentenze emanate dai tribunali collegiali di prima istanza sieno sempre
inappellabili, tranne quelle di pena capitale, che possono venir
nuovamente discusse in un tribunale d’Appello. Notate mostruosità
di legislazione! Un reo può richiamarsi da una sentenza pretoriale
che gl’infligge la pena di un mese di detenzione, e deve chinar la
testa e tacersi alla condanna di una galera perpetua. Si dirà che un
giudice singolare potea errare, potea non applicar bene la legge, ed
essere impossibile che un tribunale collegiale, composto di quattro
individui, possa esser tratto in errore da danneggiar la vita del reo.
Senza opporre a questa obbiezione validissime ragioni di diritto, che
pur ve ne sarebbero moltissime, piacemi di addurne una sola materiale
e semplice, alla portata anche di un volgare, e dirò che: se nelle
cause civili di diritto e di fatto, siano pur anche di una piccolissima
somma, un giudizio contrario, benchè unanime, può venire appellato,
riappellato, visto, rivisto, da far dibattere anche un mezzo secolo
avanti tutti i tribunali dello stato una causa qualunque; vi sarebbe
maggior rettitudine e giustizia di accordare l’appellabilità nelle
cause criminali, le di cui sentenze affliggono il morale ed il fisico
degl’individui, che in vero è un po’ più delle sostanze e di alcuni
diritti privati.

So che gli autori di quel regolamento hanno addotte anche altre ragioni
a sostegno di questa pratica criminale; ma per mia fè, niuna di esse
regge al paragone del fatto che ho accennato io, in confronto del quale
tutte le cose che essi hanno dette sono di un valore minore assai,
e non possono aver mai trionfo su di quello. Quindi faccio fine su
quest’articolo, che io ho trattato, come tratterò gli altri che gli
verranno dietro, in una maniera popolare, perchè bramo essere inteso
dai più.

Esaminati in cumulo ed in particolare i titoli del codice criminale,
sonvene alcuni che bastevolmente corrispondono agli attuali bisogni
del popolo, e reggonsi su buoni principii di diritto. Ma non v’è capo
dove non sia incastonata, dirò così, quasi gioiello della tirannide,
una pena improvvida, un’ingiustizia, una legge fuori dell’attualità, e
sproporzionata all’epoca.

Tu vedi nel primo titolo al paragrafo 7.º sanzionati i tribunali
ecclesiastici, ed il privilegio ai preti ed a taluni altri di eccepire
al foro sacro.

Tali prerogative sono state dimostrate ingiuste. I tribunali ordinari
devono servire per tutti, ed è tempo che nuove bolle e nuove
costituzioni apostoliche deroghino a quelle che accordano cotali
esenzioni, poichè una sola legge, una sola norma deve regolare ogni
ceto, ogni condizione, ogni casta di uno stato. Nulla di più assurdo e
ridicolo di quello di accordare ai preti un grado minore di pena, come
se nella natura del prete fosse insita di necessità e sempre qualche
qualità sgravante il grado di un delitto. Io stimo che il prete debbasi
nelle punizioni considerare come qualunque altro cittadino, e se vi
dovesse esser mai una diversità di grado nella pena che gli s’infligge,
questa dovrebbe consistere anzi in un aumento; poichè la colpa è sempre
più orrida nell’uomo del santuario, il quale si presume debba essere
puro, addottrinato, civile, in istato insomma da essergli facile lo
evitare un delitto e saperne prevenire le cagioni.

Nel titolo della estinzione dei delitti e delle pene si accorda qua e
là a caso e capricciosamente la prescrizione anche a delitti atroci; ma
al paragrafo 47.º si dichiara, che questa non ha mai luogo nei delitti
contemplati al lib. 2.º, tit. 1.º e 2.º —

Basta aver fior di senno per indovinare a che cosa si riferiscano
cotali numeri. Gregorio XVI, non meno efferato di quell’altro Gregorio
XII che sempre sclamava col Profeta: _maledictus homo qui prohibet
gladium tuum a sanguine_, avrebbe più facilmente rinunziato al papato,
che sacrificare il piacere della crudeltà contro di coloro che osarono
o con parole o con fatti mostrarsi nemici del governo de’ preti.

Senza che io parli degli altri inconvenienti compresi in tutti i titoli
del libro 1.º, ciò che hanno fatto e possono meglio fare i criminalisti
scrittori, passo al libro 2.º del codice che si riferisce ai delitti
in ispecie ed alla loro punizione, e mi occuperò quasi esclusivamente
del titolo 2.º, quello precisamente che ha dato luogo alla formazione
di questo _modello corpo_ di leggi criminali. «L’attentato alla vita
del sovrano, ancorchè non segua l’effetto, è punito colla morte di
esemplarità,» così il § 83.º

Io voglio esser tanto generoso con quel leggidatore da menargli buona
la pena di morte per chi attenta alla vita del sovrano. Ma, per amor
del cielo, che non la prodigalizzi poi tanto, perchè io non gli verrò
già fuori colle teoriche del Beccaria, che potriano aver del rancido
ed esser sospette, gli potrò inculcare di leggere un recente scrittore
cattolicissimo, più cattolico per avventura dei preti stessi di Roma,
il quale asserisce, senz’andar troppo per il sottile, «che la pena
capitale è certo equa e legittima quando è assolutamente necessaria
alla salute della Repubblica; ma aggiunge accordarsi oggi tutti i
giudiziosi nel reputarla dannosa, non che superflua, rispetto ai
delitti che si attengono alle politiche opinioni.» E se sapeste poi
quante innumerevoli e difficili condizioni si richiedono perchè possa
quella pena dichiararsi assolutamente necessaria, voi vi smarrireste
nelle ricerche, e trovereste che mai, o quasi mai, si verificherebbe
cotale necessità. Tuttavia, perchè l’attentare alla vita del sovrano
è un fatto, più che una opinione politica, io a malincuore sì, ma
convengo esser giusta la pena capitale, sempre però che il delitto sia
provato più che matematicamente e giudicato da un tribunale ordinario
per escludere quella ribaldaglia di Commissioni, di cui il nome deve
essere sempre aborrito e spregiato da ogni buon cattolico ed onesto
cittadino.

Infatti, come soggiunge il nominato: «Tutti oggi convengono che, quando
la pena del capo è richiesta, essa non può esser giustamente inflitta
fuori di quegli ordini giudiziali che assicurano all’innocenza la
maggior guarentigia possibile, e rimuovono dalla coscienza pubblica
il gravissimo scandalo che nascerebbe quando l’effusione del sangue
non fosse appieno giustificata nell’opinione universale. Altrimenti
la morte data anche all’uomo più facinoroso del mondo non è un atto
di giustizia, ma un assassinio: perchè assassino si chiama l’uccisore
di un uomo la cui reità non è chiarita e certificata giuridicamente
mediante il concorso di quelle moltiplici cautele, che non sono mai
troppe quando il piato riguarda la vita e la morte dei cittadini.»

«E perciò que’ tribunali straordinari subitanei, fatti o per dir
meglio abborracciati a furore, e composti di giudici ignoranti,
inesperti, parziali, venderecci, prezzolati, avvezzi a menar le mani,
a far sangue, e abili a trattar la sciabola anzichè la bilancia della
giustizia; quei processi occulti e senza regola; quei costituti subdoli
e insufficienti; quei modi sommarii e precipitosi, che si costumano
fra i barbari orientali, sono reputati iniqui ed infami dai popoli
cristiani e civili.» Mi esimo di parlare più a lungo delle Commissioni
militari o miste, dopo questo fedelissimo quadro del Gioberti,
e perchè spero che i miei lettori conoscano anche il libriccino
dell’italianissimo Azeglio, in cui di codeste infamissime Commissioni
si parla come ogni galantuomo ed Italiano deve discorrerne.

«E la società ha anche ragione ad esigere, prima che la legge si
valga del funesto diritto di sangue, che si abbia l’occhio all’età,
all’educazione, all’indole, alla professione, alla vita preterita del
delinquente, agli aggiunti del delitto, ed a tutte le circostanze
che possono scemare la gravezza, e render per qualche verso chi
l’ha commesso degno di scusa e di compatimento.» Che è quanto dire
co’ principii della vera scuola criminale, che le pene inflitte a
quei delitti, che un governo savio non seppe prevenire, sono pene
ingiuste, la cui infamia sta in quelli che le danno, non in coloro
che le ricevono, e si risolvono esse stesse in altrettanti delitti di
violazione privata e pubblica, ed ingiustizie enormissime. Ora lascio
io giudicare ai più indifferenti: se il governo papale sa prevenire
con un onesto regime il desiderio di ribellione ne’ suoi popoli, o se
invece non sarebbe giustificata una rivoluzione ogni giorno.

«Sono puniti con la morte di esemplarità coloro che promuovono o
sostengono la sedizione o insurrezione, ec.» § 84.º Regolamento, ec.

Vi sono nelle umane società certi momenti, certi estremi in cui un
popolo ha tutto il diritto a ribellarsi ad un sovrano, o a cambiare
stato, o a dimandar quei miglioramenti che sieno proporzionati al grado
del proprio incivilimento. Io non debbo sviluppare codeste dottrine, ed
entrare in certe disquisizioni. Trattarono questo argomento scrittori
più che ortodossi, e quando queste teorie giovavano all’interesse della
santa Sede, essa medesima le lodava e sanzionava. Oggi è utile alla
teocrazia di Roma di esercitare con sicurezza la tirannide, e condanna
nel capo gli autori diretti o indiretti di qualunque ammutinamento.
Ma il _jus sanguinis_ nel caso nostro _non est in jure_, e la maggior
parte delle cose dette nell’articolo superiore appoggiano anche
troppo la mia opinione, perchè io debba ripetere quelle massime, ed
aggiungerne altre a convalidar l’argomento.

«Il condannato pei delitti contemplati nei due articoli precedenti
perde ogni diritto alla porzione disponibile del suo patrimonio, ec.» §
85.º

Eccoci alla confisca dei beni. A quella pena che fa soffrire
all’innocente l’ammenda del reo, e che pone nell’innocente stesso la
disperata necessità di commetter delitti. Checchè abbiano detto alcuni
accigliati criminalisti sulla convenienza della confisca, nè io, nè
alcun uomo che abbia in cuore un po’ di rettitudine potrà patire che
per la pretesa cattiveria di un padre debbano i figli trovarsi nella
miseria, e scontare essi la pena di un delitto che non commisero e che
non avrebbero potuto evitare.

Se i legislatori presero norma dall’Esodo, dove trovano scritto che Dio
punisce le colpe de’ padri ne’ figli, talora fino alla terza e quarta
generazione, oh ben s’illusero essi!!

Le cose di Dio sono imperscrutabili ad occhio umano; forse le parole
del santo libro sono dirette a dipingere con enfasi orientale l’orrore
della colpa, e quel giudice che volesse prender norma dai giudizi
divini per giudicare gli uomini, addimostra una tracotanza che
oltraggia la natura e la divinità. E poi, nella nuova legge di Gesù
Cristo, quando la mercè della santa redenzione gli umani furono tolti
dalla captività di satanno, non si umanizzò tutto quaggiù, non fu
bandito il rigor delle pene, non s’inculcò dalla legge evangelica la
carità, la moderazione, la mitezza de’ giudici?....

E da ultimo occorre che i legislatori alla perfine si uniformino alle
sentenze della moderna filosofia, le quali stabiliscono che le pene per
un sol delitto, in un solo individuo, non possono, non debbono esser
multiplici ma sempre _uniche_ e proporzionate alla qualità, al grado
della colpa.

Il § 86.º inclina ad esser più umanitario, e diminuisce di due ed anche
di tre gradi la pena a coloro che furono sedotti a cospirare, ec.

La seduzione vera importa, il più delle volte, estrema accortezza nel
seduttore, e somma esperienza nel sedotto. Però in questo caso era più
consentanea alla giustizia una pena correzionale ed una ammonizione ad
esser più cauto, di quello che limitarsi alla diminuzione della pena.

«Quelli che nella sedizione o spontaneamente o all’ordine del
magistrato o all’intimazione della forza si sono ritirati, e depongono
le armi restano esenti da pena, _ad eccezione de’ capi, o complici
principali_.» Qui la resipiscenza viene calcolata per alcuni, rimane
inutile per gli altri. Quando la legge è autorizzata a far calcolo
e dare un valore al pentimento di un delitto incominciato, non deve
aver luogo distinzione di sorta; tutti debbono esser compresi nella
santa legge del perdono, e più quelli che, per esser capi o complici
principali di un fatto contro il governo, dovettero naturalmente fare
uno sforzo maggiore per persuadere a loro stessi d’intralasciare
un’impresa che era già radicata ne’ loro cuori, e piena di speranze
e di probabilità. Quindi si deve supporre in loro più ingenuità nel
pentimento e più costanza nel perseverare nel bene.

«I §§ 88.º e 89.º puniscono con la pena di morte l’attentato
(quand’anche non ne segua l’effetto) alla vita de’ cardinali, o ai capi
magistrati in odio di ufficio, ec.»

Eccovi prodigalità inaudita di decapitazione, e infame abuso di forza
e di potere governativo. Poi nei seguenti articoli non si discorre
altro che di ammazzare, di galere perpetue, di galere a vent’anni, a
quindici, a dieci, a cinque, a tre, e si è adoperata un’arte diabolica,
insidiosa a cercar trame da per tutto, a sognar società in ogni
riunione, a punire un atto, un pensiero, uno scherzo inconsiderato,
una parola incauta, un sorriso innocente. E persone illustri, civili,
scienziate, educate ad una vita comoda, agiata, si condannano a
portar ferri, ai lavori pubblici, accanto al ladro, all’assassino, al
parricida, fra uomini malvagi, rozzi, ineducati, abbietti; nel lezzo
delle galere pontificie, umide, malsane, ove si dà un vitto insalubre,
nauseante, scarso, che farebbe ribrezzo agli stessi animali. E queste
sentenze si danno, invocato prima il santissimo nome di Dio, a nome di
Sua Santità, successore di san Pietro, vicario di Gesù Cristo in terra,
che dovrebbe figurare nel mondo come simbolo di pace, di carità, di
umiltà.

Io ho raccattato su in un periodo tutto l’infame titolo dei delitti
di lesa-maestà, perchè mi mancò il cuore, e fui nauseato dal farne
un’accurata analisi, che avrebbe condotto ad una noiosa lungaggine ed
indispettito troppo il lettore. Ognuno può di per sè stesso gittare
un’occhiata su quel codice _Modello_, promesso con tanta pomposità di
parole, e la morte mi colga in mal punto, se la lettura di esso non
produce in un cuore un poco delicato quel fremito e quella indignazione
che ognuno suol provare alla vista di una forza prepotente, che altro
diritto non ha per nuocervi, all’infuori della forza materiale che
prepondera.

Dal titolo 3.º al titolo 9.º inclusive sono raffazzonate molte leggi
fra buone, cattive e pessime, che abbisognano di una radicale riforma.
Starà al nuovo papa il commetterne lo studio a persone probe ed
intelligenti, che non mancano sicuramente nello stato pontificio.
Nè bisogna col consueto egoismo ritenere che il privilegio della
scienza sia rinchiuso nella sola città di Roma. Certo nella capitale
non mancano persone oneste e dotte, il cui consiglio può riputarsi
gravissimo in materie sì fatte. Ma nelle provincie sonvi sapienti
modesti, che intendono molto bene le cose pel verso loro, ed è
ormai tempo che quando si tratta di ben pubblico vengano chiamati i
consiglieri più idonei, senza tanto riguardo ai pretesi privilegi de’
giuristi della regina Roma. Ma tornerò su questo argomento a suo luogo,
e farò vedere in un apposito titolo dove arrivi la sfrontata tracotanza
del governo nel conferimento degli impieghi. Ora mi preme di dare
un’occhiata al titolo 10.º del codice _Modello_ sui delitti contro i
buoni costumi e contro l’onestà.

L’indecente abuso di lasciar libera alle donne la scelta del tribunale
ove discutere una causa di stupro ed ingravidamento ha portato che
bagasce d’ogni genere (approfittando dell’ignoranza de’ preti e della
loro condiscendenza nel favorire il puttanesimo), appena si avvedono di
portare in seno un illegittimo frutto de’ loro diversi amori, corrono
avanti ai tribunali ecclesiastici ad incolpare di uno stupro il più
delle volte violento, quello fra’ tanti che torni meglio al conto de’
loro cattivi desiderii, di un buon dotamento cioè, o di un probabile
matrimonio. Basta che una svergognata sgualdrinella, accusando
qualunque per autore del di lei spulcellamento, possa giungere a
provare che quel male avventurato praticasse nella di lei casa, ed
amoreggiasse con seco, perchè i tribunali ecclesiastici, senz’altro
cercare, lo condannino a tre anni di opera pubblica, o a dotare, o
sposare la zambracca svergognata.

Qui, come avverte saviamente Filangeri, un delitto commesso in due
viene punito nel maschio, premiato nella femmina. Quanto è necessaria
però una radicale riforma su questa legge proteggitrice della
bricconeria di cotali bertucce!

I tribunali ecclesiastici se devono bandirsi, come dicemmo in
principio, per ogni sorta di quistioni civili e criminali, molto più
sono da abolirsi in questo caso, in cui la cognizione scandalosa di
certe disoneste materie appena è tollerabile dai laici, i quali pure
dovrebbero trattarle con la maggior verecondia. Quindi i §§ 168.º,
169.º del codice _Modello_ devono cancellarsi, sostituendone uno
più mite assai per punire coloro che saranno senza dubbio chiariti
stupratori violenti, e quando la semplicità e specchiata condotta
della stuprata sarà apertamente manifesta, non già dai documenti
parrocchiali, soliti ad essere menzogneri in ciò, ma da ripetute
ed esatte informazioni e deposizioni, dalle quali risultino la
irreprensibile condotta, la seduzione e la violenza. Senza questa
riforma i piati di tal genere saranno frequentissimi innanzi ai
tribunali, e diventerebbe troppo svergognata la protezione che la legge
accorderebbe a coloro che, giusta il dir del Piazzoni, _multoties sibi
dotem lucrantur et repetito mercatu porcum suum vendunt_. Conchiudo che
lo stupro debbasi punire quando vi è aggiunta una provata violenza,
e che negli altri casi non ha luogo alcuna inflizione di pene, e
solamente una correzionale per guarentigia del buon costume, comune
però ad ambedue i complici maschio e femmina insieme.

Gli altri paragrafi componenti il titolo di cui ci occupiamo,
sono tutti o quasi tutti meritevoli di riforme, o modificazioni
proporzionate allo stato attuale de’ costumi e delle presenti
cognizioni.

«Se i vindici della giustizia, allorchè hanno a trattare di un
infanticidio, quella scrupolosa diligenza che adoprano nello
scrutinare le prove del fatto, l’adoprassero insieme nell’indagare e
comprendere tutte le cause morali che possono avere influito sull’animo
dell’imputata, prima o nell’atto ch’essa divenne colpevole, e queste
ponessero in giusta bilancia cogli effetti, io son certo che un buon
terzo fra le infanticide diventerebbero presso loro più oggetti di
commiserazione che di pena; un’altra terza parte potrebbe essere con
più rettitudine inviata ad un ospizio di dementi, che sul patibolo;
nell’ultime finalmente assai poche troverebbero che fossero state
guidate al delitto per assoluta immanità. Imperocchè non le più cupe
immagini di Dante, non i più tetri pensieri di un Byron basterebbero
a dipingere l’orribile strazio d’una infelice giovanetta che, resa
vittima d’un fuggevole delitto, sia in sul punto di doverne emettere
dalle viscere proprie l’illegittimo frutto, di trovare il mezzo di
nasconderlo per sempre alla vista degli uomini. Spaventose idee a
infamia perpetua, di miseria, di carcere, di carnefice, di morte; una
religione che la condanna come colpevole ad eterno supplizio, uno
stato che minaccia ad ogni istante con dolori atrocissimi la vita, una
folla di teneri sentimenti materni, che quanto più dolci al cuore,
altrettanto avversi ed abborriti insorgono alla ragione, che li teme
e con violenza li soffoca, una solitudine orribile, una privazione
assoluta di soccorsi, uno sfinimento mortale di forze: questi sono
i primi e veri testimoni del delitto, che i giudici dovrebbero
consultare, e riflettere poscia per sè medesimi se così strane e
diverse torture di corpo e di mente siano piucchè bastevoli a togliere
ogni discernimento e giudizio, e qual valore dinanzi alla legge debba
darsi ad una colpa che il più delle volte è commessa nello smarrimento
dei sensi e dell’intelletto.»

Io non ho potuto resistere al desiderio di trascrivere letteralmente
questo commovente quadro del professore Pucinotti, il quale senza altri
argomenti mi deve bastare per dichiarare soverchiamente rigorosa la
pena che al capo 276.º § 7.º, la legge infligge a quelle madri che,
spinte da una terribile riunione di circostanze, si determinarono
a commettere un atroce delitto qual è l’infanticidio. Il cielo non
voglia che alcuno avesse a credere che io volessi scusare un eccesso
così mostruoso nell’umana società. Ma siccome è certo che le spinte
a cotal delinquenza furono e debbono essere sempre formidabili,
la legge dovrebbe esser più umana nella maggior parte de’ casi, e
solo conservarsi severissima in quelle circostanze in cui potesse
manifestissimamente provarsi, che non ebbe luogo il concorso di tante
imperiose impulsioni morali, che non fu insomma irresistibile la
tendenza a delinquere. Vero è che la legge in parte considerò le cose
anzidette, e volle che non vi andasse la pena del capo per quella madre
che commise l’infanticidio onde occultare per sentimento di onore un
parto illegittimo: ma la reclusione perpetua è, a parer mio, troppo
soverchia, e a sentimento di dottissimi filosofi dovrebbe essere un
poco diminuita.

Non so poi perchè nel titolo 21.º, al capo 308.º, la legge ordini
che nell’esposizione di un infante, la pena si aumenti di due gradi,
quando l’esposizione fosse fatta dai genitori. Ciò starà bene allorchè
l’esposizione fu fatta da genitori legittimi, per certe ragioni, che,
qualunque esse siano, non sono mai attenuanti il delitto. Ma se intende
parlare di esposizione di figliuoli illegittimi, questo, io penso, è
stimolo a far commettere più facilmente l’infanticidio, il qual delitto
essendo di facile occultazione e di prove difficili, una madre sarà
meglio tentata ad uccidere il figlio sulla speranza di totale impunità,
di quello che ad esporlo col timore di una pena lunghissima. Ed oltre
a ciò sono di opinione che la madre che espone il figlio lo faccia
colla speranza che le venga rinvenuto e raccolto ed assicurato; con
che avendo essa voluto evitare un delitto maggiore, merita in vece una
pena minore, non già che venga aggravata di due gradi, siccome poco
filosoficamente si è fatto nel codice _Modello_.

Nel titolo 23.º, dove si parla delle ferite, è a considerare che il
codice adotti una riforma basata sui principii esposti dal professore
Pucinotti, che è stato il primo a render filosofico un trattato il
quale fino ai nostri giorni fu troppo grettamente considerato. I
governi sani non debbono esser ritrosi ad accettare i miglioramenti che
presentano progressivamente le scienze; ma il nostro, non v’è chi possa
negarlo, è sempre l’ultimo a risentire l’influenza del progresso, ed
il più delle volte s’induce al meglio non tanto per il desiderio del
buono, quanto perchè ve lo costringe la necessità.

In questo medesimo titolo, al capo 217.º, vuol punire le ferite
tendenti a suicidio colla detenzione sotto sorveglianza da uno a tre
anni. Dio perdoni questo goffo svarione legale a quell’inesperto che
lo consigliò. Egli non previde che tanta punizione esacerberà sempre
più l’anima di quello sciaurato che tende ad uccidersi; che se anche
non riuscirà a eludere la sorveglianza per effettuare ciò che va
meditando, darà piena esecuzione al proprio proponimento appena avrà
subìta la ingiusta pena. Gl’individui che tentano di uccidersi, tutti
i criminalisti ne convengono, meritano, più che pene, compassione.
Occorre apprestar loro medicine morali, che tranquillizzino il loro
spirito turbato, e farli sorvegliare; e qualora in qualche caso dovesse
aver luogo una punizione, questa deve limitarsi a misure correzionali
di polizia, e nulla più.

Mi credo autorizzato a risparmiarmi qualunque osservazione sul titolo
25.º dei furti, perchè tutti gl’intelligenti convengono nella necessità
di costruirne un nuovo, atto a punir con più giusta proporzione un
genere di delitti tanto nocivi all’umana società. Si è accordato
soverchio favore a’ ladri, e si è detto loro apertamente che quando
abbiano a rubar mille scudi, meglio è che ne rubino diecimila,
ventimila, poichè la pena o è quella medesima, o vi è tanta poca
differenza da compensar molto bene un furto grandioso, tale che possa
costituirsi in ricchezza, allorchè saranno dopo dieci o quindici
anni usciti dai luoghi di condanna. Nei furti qualificati poi la
condiscendenza che accorda la legge è anche più indulgente, poichè la
pena massima di quindici o venti anni inflitta a chi ruba cinquecento,
non viene aumentata quand’anche il ladro rubasse scudi diecimila.

Pongasi il caso di un domestico che goda la piena confidenza di
ricchissimo padrone: lo deruba di un’enorme somma. Viene condannato a
quindici o venti anni. Egli sarà entrato giovanissimo nella galera,
ne verrà fuori fatto adulto, e potrà godersi le ricchezze derubate o
in luogo straniero, o adoperando nel luogo stesso del delitto poche
cautele che bastino a farlo comparir tale da non essere in caso o di
restituire o di rifare il danno. Condannino pure di trivialità queste
osservazioni, ma io avrò sempre parlato di fatti probabilissimi,
suscettibili ad essere intesi ed apprezzati da tutti.

Queste poche cose ho io creduto di dire intorno al codice criminale
vigente nello stato pontificio. Dissi da principio che avrei fatto
osservare solamente i mali maggiori che in esso si contengono, e ben
mi sono io strettamente attenuto alle promesse. Chi avesse e volontà e
mente di fare opera pietosa ai sudditi pontificii, dovrebbe con ogni
impegno studiarne parte a parte ogni articolo, ed accennare quelle
riforme e modificazioni che una sana teorica di diritto criminale sa
proporre. Il successore di Gregorio XVI, chiunque egli sarà per essere,
non vorrà certo isfuggire a que’ miglioramenti che menti illuminate
e scevre da pregiudizii gli proporranno. Se egli sarà geloso della
propria gloria, e se considererà che una incancellabile infamia cadde
sulla memoria dell’antecessore, vedrà che sarà più vantaggioso per sè,
essere amato piuttosto che odiato dal proprio popolo.


CAPITOLO II.

Ora io dovrei, e lungamente, parlare di quella imbrogliatissima
collezione di norme e regole nei giudizii criminali che viene
intitolata con le pompose parole di _Regolamento organico, e di
procedura criminale_. Ma se io ciò facessi m’intricherei in un
laberinto da cui non potrei riuscire. Ivi sono raccolte disposizioni
contraddittorie, ordinanze incertissime, principii immorali, tranelli
alla innocenza ed ogni sorta di nequizie, errori di diritto, di equità,
di giustizia. Vi sarebbero, è vero, qua e là sparsi buoni ornamenti, vi
figurano monitorii a non abusare, ad attenersi a certe norme, che in
effetto sarebbero secondo le leggi del giusto; ma non vi sono minacce,
non pene pei trasgressori, tanto che nella più parte de’ casi gli
officiali ed i magistrati ed i ministri possono fare come fanno a posta
loro, a capriccio, senza che per questo vengano o interdetti o puniti.
Non posso però esimermi dall’accennare i precipui inconvenienti che con
la semplice lettura di quel libro si fanno manifesti agli occhi anche
di un volgare. Tali sono, a modo di esempio:

Il divieto della pubblicità dei giudizii, che è contro la sicurezza de’
prevenuti.

La validità delle deposizioni anche dei parenti in primo grado ne’
delitti di lesa maestà: infame abuso de’ soli governi tirannici e
contrari alle leggi del Vangelo.

Il riunire nei giudici singolari il carico di costruire il processo
nelle cause di loro competenza, ed il diritto di emanar sentenze nelle
cause stesse. Essi diventano giudici e parte, ed il giudicio pel reo
sarà sempre contrario, perchè nessun governatore, o assessore, o
giusdicente vorrà condannar mai una propria produzione con un giudizio
contrario allo scopo che si prefisse mentre costruiva il processo
stesso.

L’inutilità dell’appello in certe cause minori di minima pena. Prefigge
la legge un termine di dieci giorni per la revisione di una causa
pretoriale. Se al prevenuto fu inflitta la pena di quindici giorni, tra
per il tempo che accorda la legge al tribunal superiore per riveder la
causa, e per i giorni che si consumano negl’intìmi, nelle dichiaratorie
ed altre formalità, la pena è scontata per intero: per cui si rende
inutile qualunque diritto di appellabilità. E se il giudizio fu
ingiusto, un innocente avrà dovuto subire una pena per l’imprevidenza
della legge.

Il non essere obbligatorio ai giudici di conformarsi al parere giurato
dei periti, quando questo ha luogo nelle cause maggiori, o minori. Qui
il pontefice legislatore sembra che voglia far partecipi i giudici
della infallibilità che a lui solo accorda Gesù Cristo, o almeno li
crede enciclopedici. A che serve, dirò io, il voto delle persone
dell’arte, se, dopo che è stato invocato per un giudizio, i giudici non
vi si debbano attenere?

L’esser sufficiente ai giudici il convincimento morale per sentenziare
della vita, o della libertà de’ rei. Questo paragrafo è stato sempre
cagione di risa ai sapienti.

L’accordare l’impunità pei soli delitti di lesa maestà. Infame abuso
anche questo, proprio dei soli governi tirannici.

E non finirei mai se volessi seguitare ad enumerare i mali maggiori
di codesto regolamento; ond’è che io faccio fine, inculcando
fervorosamente anche adesso al dotti italiani di pubblicare quelle
norme utili e saggie che mirano al migliore andamento della procedura
criminale.


CAPITOLO III.

L’ordine delle materie mi condurrebbe adesso a dover dire qualche
cosa sul codice civile dei sudditi pontificii. Ma per grazia della
santa Sede apostolica noi manchiamo di un codice parziale. Il lettore
non mi faccia il broncio, perchè la bisogna va proprio così, ed io
non ispaccio menzogne. Per noi sta ancora il vecchio corpo delle
leggi giustinianee, vestito qualche volta alla bergamasca con bolle e
costituzioni apostoliche, talchè è un ridere proprio da matti vedere
il digesto sì fattamente imbavagliato. V’è però un regolamento di
procedura, dove hanno cacciato qualche cosa di positivo sui testamenti,
un saggio brevissimo, dirò così, di legislazione. Le incoerenze che
sono dentro questo regolamento, le formalità inutili, le lungaggini
dannose, le oscurità di certe disposizioni, le massime erronee, le
esorbitanti tasse e governative e curialesche, formano un tutto così
variato che miglior musaico credo non sia mai stato lavorato dai nostri
buoni antichi. Da tutto ciò emerge che i giudizii sono eterni, mille
possono essere gli appelli secondo la maggiore o minor scaltrezza dei
curiali, le spese infinite, e quando la causa è terminata il vincitore
non ha guadagnato niente, il perdente rimane senza nulla, ed il
patrimonio combattuto parte se lo piglia il Governo, parte i causidici.
Perciò si dà luogo a contratti nascosti, fittizii, immorali, cagione
essi stessi di nuove liti e di miserie.

Io questa volta non mi rivolgerò agli scienziati italiani, perchè
propongano essi un codice al governo pontificio. Sentii sempre lodare
da tutti il corpo di leggi fatto riunire da Napoleone sotto il suo
assoluto impero. Tranne alcune cose, che forse non converrebbe
accettare al governo nostro, io stimo che quel codice sia utilissimo
e adattato per noi. Il nuovo papa potrebbe ingiungere ad alcuni dotti
di esaminarlo, ed apporvi quelle poche riforme che sono necessarie, e
quindi adottarlo. Il bene, da qualunque parte ne venga, non iscapita
mai della sua natura. E poi quel codice non è già opera di Napoleone.
I primi dotti d’Europa ne furono i compilatori: egli non ebbe altro
merito che di saperli cercare e scegliere.


CAPITOLO IV.

BOLLO E REGISTRO.

La primaria istituzione del bollo e registro ebbe per iscopo la
sicurezza e la data certa de’ contratti. Ma il governo pontificio ne ha
fatto un ramo disonestissimo di finanza. Non vi è regola certa e norma
alcuna sulle imposizioni delle tasse, e dipende dal capriccio e dalla
ignoranza dei popoli il tassare un atto più o meno, secondo che è a
grado loro, talmente che si vede talora in un officio tassar dieci per
una registrazione, mentre per l’atto medesimo vi domandano venti in un
altro luogo.

Le tasse sono sempre enormissime e sproporzionate, talchè è un lamento
universale de’ popoli contro questo balzello del registro, il quale
porta per necessaria conseguenza che i contratti sieno pochi, o mal
fatti, e nascostamente fatti a danno della buona fede e della morale
pubblica. Vi è obbligo a registrare certi atti che non abbisognerebbero
di tale formalità, ed il governo fa una speculazione sui giuochi
pubblici, sulle morti, sugli spettacoli, e poco manca che non faccia
registrare e bollare l’atto di nascita di ogni individuo, la pompa
solenne del santo battesimo. Conchiudo che la gravezza di queste tasse
è un latrocinio, la pretensione del governo far bollare e registrare
certi atti è una ingiustizia. Ond’è che su questo ramo ci vuole
una radicale riforma, diretta a mantenere lo scopo vero di questa
istituzione, senza soverchio peso del popolo.


CAPITOLO V.

GIUOCHI PUBBLICI.

Il giuoco del lotto è una imposizione volontaria, ma mostruosa
invenzione dei governi poco civili, che favorisce ogni sorta
d’immoralità e di superstizione. È estremamente dannoso alle famiglie,
specialmente povere, poichè colla seducente promessa di far diventar
ricche con pochissimo le persone che giuocano, questi dissipano quel
poco di denaro che traggono dal proprio mestiere, e soffrono e fanno
soffrire i disagi della fame, del freddo, della nudità alla innocente
prole di cui sono padri. Il vivente Giovenale toscano, filosofissimo
poeta, ha scritta una frizzantissima poesia su questo tema, da
disgradare qualunque prolisso trattato morale che si potesse stampare
su questo proposito. Io, che non pretendo affatto di essere autore
di cose nuove e rare, la riporto per intero, a comodo di quei pochi
che non la conoscessero, e mi risparmio così altre parole su questo
capitolo. Eccola:

    Don Luca, uom rotto,
      Ma onesto pievano,
      Ha un odio col lotto,
      Non troppo cristiano,
      E cose da cani
      Dicendo a chi giuoca,
      Trastulla coll’oca
      I suoi popolani.

    Don Luca, davvero,
      È un buon galantuomo,
      Migliore del clero
      Che bazzica in duomo;
      Ma è troppo esaltato,
      E crede che tocchi
      Al prete aprir gli occhi
      Al volgo gabbato.

    In oggi educare
      O almeno far vista
      È moda: il collare
      Diventa utopista;
      E ognuno si scapa
      A far de’ lunari.
      Guastando gli affari
      Del trono e del papa.

    Il giuoco in complesso
      È un vizio bestiale,
      Ma il lotto in sè stesso
      Ha un che di morale;
      Ci avvezza indovini
      E d’ottimo cuore,
      E a fare il signore
      Con pochi quattrini.

    Moltiplica i lumi,
      Diverte la fame,
      Pulisce i costumi
      Del basso bestiame:
      E in fatto lo stato,
      Non troppo corrivo,
      Se fosse nocivo
      L’avrebbe vietato.

    Lasciate, balordi,
      Che il lotto si spanda,
      Che Roma gli accordi
      La sua propaganda.
      Si gridi per via
      — Fedeli, un bel terno!! —
      Si aiuti il governo
      Nell’opera pia.

    Di Grecia, di Roma
      I regi sapienti
      Usavan la soma
      Secondo le genti,
      E a norma del vizio
      Il morso e lo sprone.
      Che brave persone!
      Che re di giudizio!

    Con aspri precetti
      Licurgo severo
      Corresse i difetti
      Del Greco leggero;
      E Numa con arte
      Di santa impostura,
      La buccia un po’ dura
      Del popol di Marte.

    Nel cuor di coniglio
      Di tisici servi
      È savio consiglio
      Deprimere i nervi,
      All’uomo corrotto
      Che nulla più crede
      È manna la fede
      Del giuoco del lotto.

    Tal fede impugnare
      Non è galateo;
      Ci lasci giuocare,
      Signor Galileo!
      Studiar l’infinito?
      Che gusto imbecille!
      Se fo le Sibille
      Non sono inquisito.

    Sì. Un giuoco sì bello
      Compensa il Vangelo,
      E mette in duello
      L’inferno col cielo:
      E un’anima pia,
      Se il diavolo è astratto,
      Implora l’estratto
      Coll’Ave Maria.

    Per dote sperata
      Da pigra quintina
      La serva piccata
      Fa vento in cucina;
      Degli ambi sognati
      L’idea saporita
      Sostenta la vita
      Di cento affamati.

    Presente alla gogna,
      Dicevo con pena:
      Per questa vergogna
      Il popol si frena.
      Nel braccio mi dà
      La donna vicina,
      E dice: «Berlina
      Che numero fa?»

    Se passa la bara
      Del morto, ogni cosa
      Domandano a gara. —
      Che gente pietosa!
      Eh! un popol di scettici
      Non piange disgrazie,
      Ma giuoca le crazie
      Sui colpi apopletici.

    Evviva la legge
      Che il lotto mantiene!
      Il capo del gregge
      Ci vuole un gran bene:
      I mali, i bisogni
      Degli asini vede,
      E al fieno provvede
      Col libro dei sogni.

    Che il sogno è un mistero
      Ne abbiamo le prove,
      Ma, a detta d’Omero,
      Deriva da Giove?
      E Giove è il guardiano,
      E i vivi ed i morti
      Per cento rapporti
      Si tengon per mano.

    Chi trovasi al verde
      Lo ascriva a suo danno:
      Lo stato ci perde,
      E tutti lo sanno!
      Lo stesso don Luca
      In fondo è convinto
      Che a volte ci ha vinto
      Persino il Granduca.

    Contento del mio,
      Nè punto nè poco,
      Per grazia di Dio,
      Mi curo del giuoco:
      Ma certo se un giorno
      Mi cresce la spesa,
      Galoppo all’impresa,
      E strappo uno storno.

La concessione generosissima del governo per le Tombole è arrivata
tant’alto, che i villaggi regolati da un povero sindaco hanno anch’essi
la loro Tombola di cinquanta o cento napoleoni. Poco importa se
i concorrenti giuocatori lascino perir di fame la sera la povera
famigliuola, o vadano alla strada il dì innanzi per tentar la fortuna;
basta che il governo bazzichi il terzo o il quarto di tutto quello che
si è introitato; per il rimanente caschi il mondo che non vi è nulla a
ridire. Le riffe private e pubbliche sono così frequenti e numerose,
che è proprio una vergogna tollerarle ulteriormente. Il governo ha
fatto sembiante di proibirne la esecuzione. Ma sapete perchè? per
la viltà di rubare anche in quelle un quinto almeno di diritto di
registro, la cui tassa sana l’immoralità di codesto abuso.

Checchè si voglia dire in contrario, la Francia, con tutto che venga
tiranneggiata dall’attuale re costituzionale, è la prima nazione civile
di Europa. E la Francia ha già da qualche tempo abolito il giuoco del
lotto. Ogni nazione deve imitare ciò che vi è di buono nelle altre.
E così si fanno progressi; diversamente, in luogo di andare avanti
presto, faremo il passo della testuggine, o meglio quello retrogrado
del gambero.


CAPITOLO VI.

DELLE DOGANE.

Le dogane sono istituite in tutti i governi. Lo Stato deve aver le sue
rendite, colle quali poter soddisfare ai gravi impegni ed obblighi cui
soggiace. È un lamentarsi ingiustamente per questo genere di pagamenti,
ai quali fa duopo che i sudditi si sottopongano volonterosamente.

Ma per render meno onerosa questa imposizione, occorre che il governo
adotti un sistema di umanità il più possibilmente generoso. Le
vessazioni che continuamente vengono fatte e dai ministri doganali
e dalle guardie di finanza, rendono troppo odioso ai popoli questo
ramo, ed il rancore degl’individui si scarica sempre a danno del
Governo. Le tasse debbono esser più proporzionali, la piccolissima
industria nazionale più favorita, il sistema di proibizione abolito,
annullato il monopolio dei pochi, che è sempre a danno di molti. È
necessaria la istituzione di un regolamento doganale, che il pubblico
deve conoscere per norma propria. Gli editti, le circolari, che
servono attualmente di codice agli uffiziali delle dogane, sono una
raccolta di massime contradittorie, incerte, ingiuste, sempre oscure
e misteriose. Frequentemente avviene che la tesoreria o modifichi o
deroghi certe leggi che sono a notizia di molti, e non accade mai,
o quasi mai, che e la modificazione e la deroga si facciano note al
pubblico; ond’è che un buon numero di persone viene preso a questa
insidia che il Governo tende, e quindi si estorcono multe sanguinose,
si fabbricano processi e criminali e civili, e si tradisce la buona
fede dell’onesto commerciante e del buon cittadino. Il modo di
procedere verso i contravventori alla legge ed i contrabbandieri è
tirannico, vessatorio, degno della sacra Inquisizione. Se qualcuno che
si trova ingiustamente gravato osasse muover lite contro la Camera, il
giudizio è sempre contrario se (come il più delle volte accade) emana
dal tribunale della Camera stessa. Ove poi per mirabile o fortuito
caso il giudizio fosse favorevole, le immense spese a cui l’attore
soggiacque non gli sono rifatte mai, perchè è massima che il Governo,
sebbene abbia il torto, non debbe compensare i danni di quello che
dovette spendere molta somma a farsi render ragione. Solito abuso
di potere ed infame amministrazione di giustizia. Viene confuso il
contrabbandiere di professione, che ruba moltissimo all’erario, col
privato cittadino che froda una piccola tassa sopra un genere di valor
minimo che serve ad uso proprio. Nè mi si opponga che esiste pure
una circolare recente di un tesoriere espulso, colla quale si faceva
intendere ai ministri e alle guardie doganali che non si avessero ad
irritare i privati con vessazioni per frodi di piccol valore; perchè
io vi so dire che tanto i ministri, come le guardie sono veramente una
masnada di ribaldi, che minacciano, battono, uccidono per bagattelle
da nulla, per certe bazzecole il cui dazio frodato non reca il minimo
danno all’erario. Anzi cotestoro pigliano di mira più particolarmente
i piccoli contrabbandi, perchè quasi sempre complici delle grandi
contravvenzioni; con questo fanno un lucro grandissimo, con gli altri
non percepirebbero nulla. È proprio doloroso il trovarsi, come è
accaduto a me, ne’ confini specialmente di Toscana e di Napoli, a
vedere un’orda di sfrenati soldati italiani, correr dietro a certi
sciaurati contrabbandieri, italiani anch’essi, batterli specialmente,
ed anche ucciderli per toglier loro un fardelletto, che poi si trovava
contenere una dozzina di scodelle di terra, o una mezza libbra di
generi coloniali, o qualche otre contenente poche libbre di olio
fetidissimo.

Io fremo d’indignazione quando sopra gli uffici doganali miro le
insegne di santa Chiesa, e penso che da quei luoghi escono ordini
disumani, ministri avari, ladri, uccisori de’ propri fratelli, persone
che mancano di pietà, di religione, di modestia, di civiltà. Io sempre
ricordo a quella vista i sublimi concetti di quel nostro Allighieri, il
quale parlando appunto di queste sante insegne, di cui il governo de’
preti sì abusa, esclama, pieno di fuoco, in bocca di san Pietro:

      Non fu nostra intenzion c’a destra mano
    De’ nostri successor parte sedesse,
    Parte dall’altra, del popol cristiano:
      Nè che le chiavi che mi fur concesse
    Divenisser segnacolo in vessillo,
    Che contro i battezzati combattesse.
      Nè ch’io fossi in figura di sigillo
    A privilegi venduti e mendaci,
    Ond’io soventi arrosso e disfavillo.

Accade frequentissimamente che misere famigliuole di campagna, prive
di un obolo, arrischino di raccogliere qualche libbra di acqua salata
nelle tante sorgenti che sono sparse in certi luoghi delle province,
e se ne servano per farne un amarissimo e disgustoso cibo, facendovi
cuocere o pochi vegetabili, o un poco di farina gialla. Non è a dire a
quanti barbari trattamenti vengono sottoposti questi disgraziati. Poca
cosa sarebbero le battiture, le ferite che riportano dagli scherani del
papa, o da quelli del duca appaltatore. Quegli infelici vengono molte
volte uccisi sul luogo del contrabbando, ed i rei non solo non vengono
puniti, ma talora furono decorati con croci, o nastri da cavalieri, e
regalati con danaro.

Io non dico menzogne; i fatti che racconto sono autentici, noti a
tutti, vanno per le bocche di tutti, e tolgono ogni volta al Governo
mille buoni partigiani, che in avanti avrebbero data la vita a sostegno
della santa Sede.

E, per far ritorno alle dogane pontificie, conchiudo che istituiti,
ordinamenti giusti e chiari, abolito il sistema proibitivo, diminuite
certe tasse di generi che a noi mancano, aumentatene alcune altre
per cose di minor conto e di lusso, emanate leggi severe contro i
ministri vessatori e violenti, regolata la procedura civile e criminale
che ha luogo a carico de’ contravventori, può questo ramo rifiorire
onorevolmente, ed esser meno gravoso, ed anche accetto ai sudditi
pontificii. Sono qua e là per lo stato impiegati pieni di capacità,
atti a proporre riforme; e deve il sovrano eccitarli a presentare
analoghi regolamenti, da farsi poi ad altri considerare prima che
vengano adottati. —


CAPITOLO VII.

Questo capo io avevo riservato per parlare degli uffici del censo,
catasti, ipoteche, archivi.

Simili instituzioni essendo basate sopra savi principii che il Governo
nostro ha già da qualche tempo adottati, io mi esimo dal farne parola.
Pochi miglioramenti saranno necessari nella parte pratica, per dire che
in questo ramo vi è perfezione. Il Governo non deve però tralasciarli,
e dimandi ed accetti ed adotti quelle riforme che saranno necessarie.
Anche in codesti uffici abbiamo impiegati abilissimi, ottimi, per dare
utili e saggi consigli.


CAPITOLO VIII.

POLIZIA.

Non è da far maraviglia se, avendo noi veduto la mostruosità d’un
codice criminale, la mancanza di un codice civile, la insussistenza
di regolamenti doganali, ora diciamo che la Polizia non abbia neppur
essa un codice che serva di direzione agli ufficiali reggitori, e sia
di guarentigia alla sicurezza privata e pubblica de’ cittadini. Qui
è dove l’arbitrio e l’insolenza e l’oppressione del Governo spiccano
mirabilmente. La Polizia è il nucleo della tirannide pontificia. In
ogni capoluogo di provincia, in ogni città, in ogni terra, in ogni
villaggio sono impiegati politici, nelle persone de’ legati co’ loro
direttori, in quelle dei delegati co’ loro segretari, ne’ governatori,
nei priori comunali, ne’ sindaci.

La forza di Polizia, ne’ luoghi ove esiste, dipende immediatamente
da costoro, colla differenza che ognuno de’ capi è in relazione
diretta coll’immediato superiore. Più è sublime il grado di quello
che rappresenta nei luoghi la persona del sovrano, più è grande la
indipendenza di lui, maggiori gli arbitrii, più ristretta la libertà
individuale, meno garantita la sicurezza personale.

Un capo di Polizia, appunto perchè non vi è un codice, può far tutto.
Egli s’immischia in affari civili, criminali, religiosi, economici,
politici, privati, pubblici.

Qualunque misura può adottare in via politica, qualunque violenza può
commettere, senza che niuno possa richiamarlo, rimproverarlo, perchè è
sempre in grado di poter in apparenza giustificare un’imprudenza, una
imprevidenza, un arbitrio, una soperchieria.

Un dicastero di Polizia è più infame del tribunale del santo Officio.
Sia pure assurdo, contrario alla giustizia, immane il procedere di
quest’ultimo, sarà sempre vero che egli ha un sistema, una norma nel
procedere, una regola da seguire. La Polizia carcera un individuo, lo
bandisce da un paese, lo sorveglia, gli nega un foglio di passo, lo
ristringe dentro un territorio, lo diffida da esercitar diritti civili;
gli nega di portar armi lecite, si oppone alla di lui istruzione, lo
priva d’impieghi onorevoli, di cariche conferitegli da un Consiglio,
lo costringe a non uscir di dotte, a non farsi attore in teatro, lo
annienta, lo distrugge.

La Polizia v’intercetta lettere agli uffici postali, le legge, le
ritiene, o ha la sfrontatezza di consegnarle dissigillate.

A qualunque ora può entrarvi in casa, cercarvi nella persona, nelle
cose, s’impossessa di oggetti, di scritti, di libri, di armi, di denaro.

La Polizia a capriccio fa chiudere officine, caffè, bagordi, ridotti,
impedisce giuochi leciti ed illeciti; si oppone quando lo voglia ad
ogni onesto ricreamento de cittadini, vietando musiche, cantori, balli,
riunioni decorose e lecite.

La Polizia impone ad arbitrio tasse sui caffè, locande, bettole,
trattorie. Instituisce multe a capriccio fuori di leggi note,
all’insaputa del Governo superiore e della Suprema di Stato. La Polizia
fa pagare i permessi di permanenza a periodi arbitrari, con tasse
diverse per ogni paese, per ogni individuo, secondo la matta volontà di
un legato o delegato.

La Polizia vi fa pagare i visti sui passaporti, impone tasse, multe
dove crede, sempre fuori di nota legge, a piacer suo, a posta propria.

Io non so dir di più. La Polizia, che in uno Stato ben regolato è
un officio necessario, quando sia diretto da un codice imparziale,
conosciuto da tutti, nel nostro è luogo tenebroso, misterioso, composto
da persone odiate, da capi inetti e timidi, da commissari atroci ed
iniqui, da ispettori fanatici e ribaldi, da spie vili e calunniose, da
ribaldaglia scellerata, tolta dal lezzo delle città, dalle carceri,
dalle galere. E quantunque poco religiosamente, ben a ragione un autore
vivente dice «che se Dio lo avesse chiamato ne’ dì della creazione,
egli lo avrebbe consigliato a formar col limo più vile, impastato
col veleno della vipera e del rospo, i commissari di Polizia, perchè
non avessero avuto il diritto di dire di esser formati ad immagine e
similitudine sua».

A me, che debbo trattar sempre le cose sui principii generali ed
indeterminati, non rimane altro ad aggiungere in questo spaventevole
titolo. Un codice di polizia è lavoro altamente scabroso per la
facilità in cui si può incorrere a stabilire ordinanze arbitrarie, che
offendono la libertà dei cittadini. Ciò nondimeno non ne è impossibile
la compilazione. Un poco di bene vi è a ricavare dalle costituzioni dei
regni civili, un po’ se ne può trarre dai codici del cessato Impero,
molto posson fare i dotti politici dello Stato. Comunque sia, questo
libro è di necessità pel nostro Governo. Esso deve stare fra i primi
ordinamenti civili che il nuovo papa sarà per darci, perchè non vi può
esser miglioramento dove si fasciasse sussistere una Polizia qual è la
presente, che, come dianzi dicemmo, è nucleo di tirannide formidabile.

Dunque ai capi di Polizia, mi si opporrà, non sarà dato mai deviare
alcun poco da questo codice particolare, il quale non potrà poi
contenere tutti i fatti parziali possibili ad accadere in un luogo,
in una città popolosa, faccendiera? Essi, quando il loro libro non
consideri qualche evenimento particolare, devono farla da autorità
conciliatrici, sentir sempre le parti che fra di loro contendono, e
negli altri casi adoperare misure prudenziali, in cui l’arbitrio,
se deve aver luogo, non offenda l’individuo, od arrechi il minimo
dispiacere possibile.

Lo stesso vagabondaggio, tanto trascurato dalle Polizie moderne,
ha diritto a pretendere che l’arbitrio operi nel minimo grado
sugl’individui che lo compongono, e quelle misure che la Polizia
dovesse pigliare contro di costoro avrebbero ad essere sempre piene
d’umanità, tendenti solamente a prevenire i delitti e ad assicurare la
tranquillità pubblica. E chi fosse così generoso da pubblicar presto i
fondamenti elementari di un tal libro, ben meriterebbe della patria.


CAPITOLO IX.

CARCERI.

Quando si dice da noi che un individuo rimane sostenuto sulle prigioni,
tosto subentra un’idea di un patire grandissimo, e si grida alla
tirannide, all’abuso. Già altrove notammo che le prigioni ed i luoghi
di condanna nello Stato pontificio sono luoghi orridi, malsani, oscuri,
obbrobriosi all’umanità.

Ora è da avvertire che in codeste sucide carceri sono sempre confusi
il reo coll’innocente; un primo delinquente col delinquente abituato;
l’uomo educato con quello della plebe; il reo di grave delitto col reo
di lieve colpa.

Senza poter pretendere che il Governo adotti un sistema penitenziario,
quale lo vogliono le colte nazioni d’oggi, mi par giustizia che i
sudditi possan chiedere una riforma notabile su questo proposito;
che le carceri debbano essere salubri; che vi sian da per tutto case
di correzione per gli eccessi d’insubordinazione; che debban esser
distinti i rei dagli accusati, quelli che già furono condannati da
quelli che nol sono.

La carcere pei meri accusati debbe essere un luogo di reclusione
comodissimo, lauto il trattamento, molta la libertà, con la cautela di
sorveglianza per non informare il processo, ed altre condiscendenze.
Poichè se dalle risultanze del processo avesse poi a dichiararsi la
innocenza di un inquisito, con qual giustizia si sarà potuto aggravare
sopra la persona di questi un soverchio rigore; e così anche pei
condannati? Minore indulgenza sarà d’uopo per essi, ma locali sani,
vitto salubre, abbondante, nettezza nel vestiario, nelle persone, nelle
cose.

E quello che non ho notato nel capitolo sul regolamento organico e di
procedura, noterò adesso, cioè la necessità d’una maggiore speditezza
nei giudizi, colla istituzione dei tribunali criminali esclusivi,
poichè ogni giorno di carcere che subisce un accusato, il quale poi
fosse dichiarato innocente, è un’ingiustizia che grida vendetta
avanti il cospetto di Dio. Io credo che non possa esservi cosa più
orribile ad un uomo di vedersi rinchiuso, e malamente trattato,
fra persone delittuose, colla coscienza della propria innocenza. E
perchè il legislatore non ha da immaginare quadri così luttuosi e
di abbominazione? forse sono poco frequenti i casi d’individui che
furono rinchiusi per mesi ed anni o per arbitrio delle polizie, o per
negligenza di processanti, o per incuria di tribunali, che poi non
furono rinvenuti rei, anzi furono dichiarati innocenti.

E in questo articolo, sebbene dovesse avere un posto particolare, mi
piace aggiungere che i delinquenti i quali subirono una condanna,
nell’uscir che fanno dalle prigioni non arrivano mai a godere dei
diritti civili, o per mancanza del Governo o per il pregiudizio della
società. È quindi ben necessario che il sovrano istituisca lui, o
favorisca la istituzione de’ patronati, la quale è diretta a far
proteggere gl’individui che uscirono dal carcere, a sorvegliarli
paternamente, a sovvenirli, a procurar loro occupazioni, impieghi, a
prevenire insomma, che, stretti da necessità e scontenti della mala
accoglienza che ricevono, ritornino a commettere delitti e a diventare
malvagi e pericolosi cittadini.

Credo che la carceri del santo Ufficio siano attualmente le ordinarie
prigioni dei vescovi o quelle governative. Da che non usan più gli
auto-da-fè, io non presto fede alle fandonie che si raccontano rispetto
ai carcerati per delitti religiosi. Comunque, è obbligo del Governo,
finchè non abbia abolito interamente il santo Ufficio (ciò che deve
far presto) d’impossessarsi di quei prigioni, sostenerli nelle carceri
ordinarie, e punirli proporzionatamente secondo i loro delitti, essendo
giusto che in materie religiose debba esser tolleranza da parte del
Governo, ma rispetto sommo dal lato dei sudditi.


CAPITOLO X.

RELIGIONE.

Il presente capitolo discende molto bene dagli ultimi periodi del
precedente. Dissi dell’obbligo che hanno i cittadini a rispettare
la sacrosanta religione degli avi nostri, e della tolleranza che il
Governo aver deve per le opinioni religiose. Io non so come non si
debba esser perfetto cristiano da colui che intese pel verso suo la
santa legge del Vangelo. Io ti adoro, religion santissima di Gesù
Cristo, credo alla santità della tua legge, imploro di morire nel seno
della santa

Chiesa, di essere sepolto tra’ miei padri, di profittare delle preci
de’ fedeli, dei suffragi dei santi ministri, di godere la celeste
gloria del paradiso; questa è la profession della mia fede. Con tutto
ciò, siccome le volontà degli uomini sono libere per concessione
divina, e perchè alcuni ciecamente discredono dalle massime della
Chiesa, questi non si devono costringere col ferro e col fuoco a
credere in Gesù Cristo: si tengano però obbligati a rispettare in tutto
e per tutto le pratiche nostre religiose, le opinioni, il dogma, la
dottrina cattolica. I contravventori si debbono punire dai tribunali
ordinari con pene proporzionate risultanti da un filosofico titolo di
codice che il nuovo papa ci darà. — Questo capitolo sulla religione
importerebbe esso solo un grande volume, ove si volesse discorrere
di tutti gl’inconvenienti che sono nella disciplina e nelle pratiche
ecclesiastiche. Io accennerò per sommi capi quelle cose che mi sembrano
più degne di rilievo, e sulle quali possono adottarsi provvidenze
utilissime.

I vescovadi non son ben distribuiti nel nostro stato. Un immenso tratto
di paese, e per ordinario quello che avrebbe più bisogno d’un pastore,
ne è privo. In altri luoghi sono frequenti poco men che le parrocchie.

Le rendite di alcuni vescovadi sono scandalosamente strabocchevoli,
quelle di alcuni altri sono per la parsimonia indecenti: qui il rimedio
è facile. Si erigano nuove chiese episcopali dove il bisogno lo esiga,
ed alle chiese straricche si tolga la rendita per quelle. Sia, se non
un perfetto pareggio in tutti i vescovati, almeno un poco di equilibrio
che modifichi il fasto di alcuni vescovi, incoraggisca l’animo di altri.

Il popolo ignora i fondamenti di nostra santa religione. Causa n’è
specialmente ne’ piccoli luoghi la vergognosa inerzia dei parrochi, che
non ispiegano il catechismo e che non danno istruzioni individuali ai
teneri ragazzi. I signori vescovi sorveglino con rigore la condotta di
questi pastori, fra i quali io conosco invece certi lupi che consumano
molto lautamente il gregge a loro affidato. Vi sia una dottrina di
facilissima intelligenza, sia adottata universalmente in tutte le
diocesi, nè si permetta ai vescovi di aggiungervi, o togliere, o
modificare le massime che vi sono dichiarate, perchè, sebbene io
creda che lo scopo di queste riformazioni sia sempre santissimo, pure
ingenera grande confusione nelle menti grossolane del volgo, che
impara poi di mala voglia, o non comprende d’aver creduto santamente
in passato, e sente rimorsi per un errore che non ha commesso: come
non ha guari accadde in una vasta diocesi, nella quale uno zelante
vescovo volle cambiare le parole degli atti di fede, di speranza e
carità, ed i diocesani volgari si spaventarono orrendamente temendo di
esser dannati, perchè prima non seppero bene, poi per la difficoltà
ad imparare il vero. L’ammissione al clericato ed al presbiterato si
fa senza troppo considerarvi sopra dai vescovi. Il clero dello stato
pontificio è il più ignorante di tutto il clero cattolico, salve poche
eccezioni. Basta avere studiato gramatica latina, e saper quattro
pagine di un libro qualunque di morale per diventar prete e canonico e
confessore. E con quanto danno della religione, ognuno che abbia fior
di senno sel può da sè medesimo considerare. Però al sacro ordine del
presbiterato non si dovrebbero promuovere che quelli i quali, avendo
prima dato saggio di una savissima condotta, fecero poi i loro studi in
perfetta regola, e si sottoporranno a rigorosissimo esame delle scienze
filosofiche, morali, dommatiche, teologiche.

E con questo rimane anche provveduto in appresso ad una buona scelta di
parrochi di campagna, dove si vedono talora certi ignoranti, i quali
insegnano in buona fede eresie e massime erronee al ceto de’ contadini,
che in vero avrebbe bisogno di una istruzione religiosa purissima, per
essere nelle campagne stesse la demoralizzazione pervenuta al massimo
grado.

La collazione de’ benefizi sia un po’ più equamente distribuita, nè
si tolleri l’abuso di veder pochi straricchi di rendite per molti
benefizi, ed altri averne un solo miserabile, capace appena di campar
la vita di un individuo.

Le confraternite, arciconfraternite di Roma e provincie sono un
semenzaio di ribaldi, che fomenta le dissensioni cittadine, son cagione
di un mal inteso fanatismo religioso, origine di scandali obbrobriosi.

Queste vengano abolite; si lascino sussistere le sole antichissime del
santissimo Sacramento e della buona morte, e le rendite delle compagnie
servano allo stato per isdebitarsi in parte con gli usurai ai quali si
vendè il morto papa.

Sonovi anche certi ordini religiosi che hanno rendite immense. Se
non temessi di osar troppo, direi che si abolissero per isdebitar lo
stato colle ricchezze di costoro. Ma i Gesuiti, oh i Gesuiti, sì, è
necessità che sian soppressi, distrutti fin dalle radici, disperdutane
la memoria. Pio VII col restituirli, sperò, il santo pontefice, che
si fossero corretti de’ loro vizi, che avessero ripigliati i santi
principii co’ quali istituì il loro fondatore.

Adoperar parole contro di costoro dopo quel che ne scrissero autori
gravissimi ed ortodossi mi sembra affatto inutile. Chiunque sarà per
essere il nuovo papa ei non potrà stare felice in trono se non imita
quel Ganganelli di sacra memoria, che, prima di risolversi alla loro
abolizione con quel suo celebre breve _Dominus ac Redemptor_, li studiò
profondamente, li conobbe indegni di rimanere, trovò essere necessità
la loro distruzione.

E poichè siamo a parlar de’ frati, io debbo ricordare che vi è grande
abuso nell’accettazione di nuovi confratelli, e somma imprudenza nel
farli professare in età troppo verde. Io non dubito di asserire che se
un pontefice promulgasse una legge nella quale autorizzasse i frati di
tutti gli ordini a restituirsi al secolo, i conventi rimarrebbero quasi
vuoti. Tanto sono essi pentiti di trovarsi adulti colà dove adolescenti
giurarono di morire. Niuno faccia il voto solenne se non a trent’anni.
Quest’è l’epoca della vita in cui l’uomo difficilmente s’inganna nella
scelta del suo stato.

_Nemo militans Deo implicet se negotiis saecularibus_. Con questo
insegnamento, che è pur chiarissimo, è insopportabile l’abuso di alcuni
preti d’immischiarsi non solo in affari politici, economici, ma di
abbassarsi perfino alcuni di essi in affari di commercio, in monopolii,
in negozi di cambio, e via discorrendo. Ve ne ha taluno che, lasciato
da parte l’ufficio divino e la santa messa, padroneggia nelle campagne,
servendo, in qualità di fattore o ministro, un qualche grande, a cui
presta poi anche il servizio di cappellano confessore, Dio sa con
quanta riprovevole indulgenza!

Questo è costume frequentissimo, specialmente nelle provincie
dell’Umbria e della Marca.

Il nuovo papa ammonisca severamente i vescovi contro un abuso ch’è
nocivo alla santa religione.

Le funzioni religiose non si eseguiscono sempre con quel decoro
che esige la casa di Dio. Tranne alcune chiese cattedrali, dove il
cerimoniale è con qualche esattezza osservato, negli altri luoghi,
pochi preti, con paramenti indecenti, senza niuna esattezza e
regolarità, si fanno lecito di praticare le più auguste funzioni della
Chiesa con iscandalo degli spettatori, ai quali la funzione stessa
diventa argomento di scherno e di motteggi scherzosi.

È però necessario che ogni chiesa matrice, anche de’ piccoli luoghi,
sia fornita di tutto il bisognevole, e di un numero bastevole di
ministri per la esecuzione delle pubbliche funzioni, e ne venga
impedita la pratica per prevenire la derisione de’ troppo satirici
secolari.

Tutto ciò sia sottoposto alla severa sorveglianza de’ vescovi.

E per chiudere questo articolo, nel quale infinite cose si potrebbero
dire, ove se ne dovesse fare un trattato, dirò che interessa alla santa
religione nostra: che i ministri del culto sien esemplari in tutto,
pii, dotti, devoti, da poter servir d’esempio e modello a tutti gli
ordini civili dello stato.

Che certe pratiche minute di devozione, certe riunioni superstiziose
sono sempre a danno di una soda e ragionevole credenza.

Che la tolleranza di alcuni pregiudizii, il favore che si accorda a
certi miracoli, a certi santuari, l’opinione che si vuol mantenere
su certi prodigi non verificati, son cose tutte di particolare
speculazione di alcuni, e di superstizione per altri e di
raffreddamento religioso per tutti.

Per ciò, un nuovo pontefice, se deve esser cauto nella remozione di
tanti abusi, non deve però trascurare di sradicarli a tempi opportuni,
sotto favorevoli condizioni. Il ritornare la religione cattolica alla
primitiva semplicità è desiderio onesto che il papa deve favorire.
Senza di questo il protestantismo potrebbe arrivare ad aver un
vantaggio sopra di noi, e con danno della verità, della pace del mondo.


CAPITOLO XI.

ISTRUZIONE.

Se Leone XII non avesse fatto altro nel suo regno che la bolla _Quod
divina sapientia_, esso meriterebbe per questo solo di essere appellato
papa di santa memoria.

Infatti prima che da lui si promulgasse il regolamento sugli studi,
la istruzione era sotto un’epoca di mortificante deterioramento,
irregolare il corso delle scuole, massimi gli abusi, infiniti i
privilegi a certi comuni, a certi luoghi, ed anche ad alcuni privati,
di conferir lauree in ogni ramo di scienza. Egli soppresse codesti
inutili diritti, ristabilì alcune antiche università, richiamò gli
antichi licei, istituì accademie, ordinò norme e leggi anche sulle
scuole private.

Ma ogni radicale riforma è difficile che sul momento riesca perfetta,
ond’è che egli lasciò ai vescovi la presidenza in tutto il ramo
dell’istruzione, e qui il buon pontefice errò, fors’anche per colpa de’
tempi.

La piccola istruzione fu anche troppo negligentata, ed i metodi
proposti non sono dell’attualità.

Il nuovo papa vedrà di per sè quanto sia assurdo far immischiare i
vescovi nella pubblica istruzione. La loro missione dev’essere tutta
religiosa, e l’educazione scientifica de’ giovani ha bisogno di
tutt’altri direttori che non sono i vescovi.

E così dicasi de’ metodi ne’ primi studi.

Quando le cose vecchie non son buone in confronto delle nuove, queste
debbono preferirsi. Le scuole di mutuo insegnamento sono da preferirsi
pe’ giovanetti, ed i sistemi frateschi sono da abolire nelle scuole
di filosofia. Non c’illudiamo. L’influenza del buono sarà sempre
preponderante, ed i falsi metodi se non si aboliscono, vanno a cader
da loro; colla differenza che se i giovani studieranno su buoni e
retti principii, saranno dotti e savi cittadini, se saranno istruiti
falsamente, la tendenza del secolo gli farà correggere da loro stessi,
ma di non tutte le massime erronee si spoglieranno, nè saranno i
migliori cittadini e i più buoni cattolici.

Le università abbisognano di cattedre di che mancano; tali sono una
scuola di letteratura, di economia pubblica, di diritto delle genti, di
diritto naturale, ecc.

Si vuol più cautela nell’accordar permissioni per istruire la gioventù.
Quanto è lodevole l’insegnamento dei padri Barnabiti e Scolopi,
altrettanto sono nocivi i principii di alcune scuole pubbliche e
private, sieno del sesso maschile o femminile, e troppo si è larghi
da per tutto nel concedere autorizzazione a questo fine. Un’apposita
congregazione provinciale deve sorvegliare il ramo dell’istruzione,
ed ogni paese deve avere sue deputazioni che dipendano da quella. —
La congregazion degli studi in Roma sia anch’essa composta di dotti
ed onesti secolari, ed abbia il supremo potere su tutte le scuole
dello stato. Con questo mezzo si perfezionerà il sublime progetto del
buon Leone XII, ed il nuovo papa si avrà il merito di esser nomato il
riformatore degli studi. Mi riman solo una cosa da avvertire su questo
argomento, e poi do termine.

In tutte le università si adopera un’indulgenza troppo nociva
nell’accordar le lauree. Moltissimi dottori sono ignoranti. Per
porre una remora all’abuso de’ collegi esaminatori, gli esami sien
pubblici, e le dissertazioni per lauree sieno scritte su tema dato
improvvisamente, e corra l’obbligo all’università di pubblicarle in
istampa a proprie spese.

Questo è l’unico modo per evitare che i professori e gli esaminatori
abusino, ed è cagione ancora che i giovani studino con profitto per ben
proprio e per utilità della patria.


CAPITOLO XII.

TRUPPE.

Lo stato nostro, di sua natura pacifico, diventerebbe tranquillissimo e
sicuro quando siano accordati ai sudditi quei miglioramenti che vengon
dimandati dall’attuale incivilimento. È per questo che la santa sede
può abbisognare di poche truppe, che si posson comporre seguitando
ad attenersi al sistema di accettare i volontari che si presentano,
adoperando maggior cautela nel ricevimento, ed escludendo quelli che
mancano di documenti che comprovino una buona condotta.

Io penserei che si potessero anche ricevere individui che furono già
inquisiti, o la condotta dei quali è sospetta ai magistrati politici là
dove essi sono domiciliati. Ma di cotal razza di soldati si dovrebbe
fare un battaglione a parte, regolato da disciplina militare più
severa, e sorvegliato con maggiore attenzione. Così da cattivi soggetti
si potrà trarre buon profitto, si riformerebbero i loro costumi, e
col tempo si restituirebbero alla società cittadini purgati, degni
di considerazione. E se il papa dovesse combattere contro i nemici
della santa sede, di quali truppe si servirebbe egli all’occorrenza?
Il ciel volesse che il papato diventasse militare per Italia nostra!
Ma qualunque potesse essere il bisogno ne’ papi di aver truppe, io
vedo che lo stato potrebbe, all’occorrenza, aver buoni soldati, se,
adottando una specie di coscrizione municipale, col titolo di truppe
urbane facesse in ogni luogo iscriver ne’ ruoli secondo le leggi di
coscrizione coloro che vi debbono stare, ed obbligasse gli arruolati
ad esercitarsi nelle manovre militari, dirette da pratici istruttori,
che non mancano in alcun comune. Così il governo potrebbe calcolare
all’occorrenza su truppa regolare ed abituata all’esercizio dell’armi,
facendo che i coscritti si prestassero ad ogni chiamata dello stato,
che li armerebbe regolarmente alla opportunità. Io credo che la più
parte de’ lanzi che l’imperatore manda a soccorrere il papa, quando
i sudditi gli si ribellano, siano corpi di riserva che i capi delle
municipalità fan chiamare, forse a suon di campane, allorchè il governo
ne abbisogna. Da tutto ciò ne emerge che le truppe straniere devono
esser subito congedate, e tolto così una profonda cagione di rancore ai
popoli, che a malincuore sopportan la presenza di codesti mascalzoni,
vergogna e disonore della patria libera da cui vengono.

Appena si crederebbe da chi non è statista che un buffo regno come il
nostro, di poco più di due milioni d’individui, abbia due diversi corpi
di truppe politiche per la sicurezza dell’interno. E molto meno si
crederebbe che sianvi paesi sforniti affatto di soldati di polizia, per
lo che il reggimento civile in questi luoghi non ha sostegno di sorta,
ed è libero a tutti di fare almeno quel che si vuole senza dipendenza
dell’autorità.

Lascio degl’inconvenienti che accadono fra i diversi corpi politici,
i quali fra di loro non si ricambiano stima, anzi si aborrono
cordialmente.

Lascio dei privilegi che si accordano ad un corpo di questi, all’altro
si negano.

Ma prudenza di governo è quella di lasciare certe terre e castelli
popolatissimi senza l’ombra di una guardia e in balia di loro stessi
i popolani di que’ luoghi? Anche qui mirabilmente spicca l’egoismo di
Roma. Colà sono migliaia di soldati di ogni arma solamente per pompa,
per inutile lusso, per far corte al papa, ai cardinali, ai prelati, ai
capi dello stato-maggiore.

Perchè non si debbono egualmente distribuire le truppe per lo stato e
lasciarne solo un maggior numero nella capitale per decoro e servizio
delle corte? Perchè il governo non se ne serve a far scortar le
diligenze, e garantire con una buona mano di dragoni il danaro che i
privati inviano ne’ luoghi con quel mezzo mal sicuro?

È poca ingiustizia dello stato il far pagare a due per cento il
trasporto dei danari, e poi non garantirli in caso di assassinio? In
luogo di due finanzieri, perchè la polizia di Roma non fa scortare da
otto dragoni le diligenze ed i corrieri? Indicati gl’inconvenienti in
questo titolo, ne emergono facili le riforme. Il nuovo papa le adotti
se brama sentirsi nominare papa e re galantuomo.


CAPITOLO XIII.

APPALTI.

Non v’è economista che non gridi la croce contro gli appalti. Tutto
il lucro che rimane all’imprenditore è a danno dello stato e dei
sudditi. Poi le angherie dei privati contro il pubblico, alienano gli
animi dal cuor del sovrano. Sono infiniti i mali insomma che da questo
falso sistema provengono. Io piglierò ad esempio l’amministrazione de’
tabacchi. Un recente signore ne è l’appaltatore. Arricchitosi non si
sa come, esercitando i suoi una servilissima arte, poi divenuto ricco
banchiere e duca, dando ad usura ai papi il suo oro mal’acquistato,
facendo mostra di generosità co’ primi piaggiatori di Roma, prodigando
a tempo utile qualche elemosina al popolazzo, allogando di tempo in
tempo lucrose opere ad artisti, profondendo danaro scaltramente in
società brillantissime, oscurando il lustro dei veri principi romani,
arrivò costui a padroneggiare lo stato e rendersi devoti i capi di
tutti i dicasteri, ad estorquere concessioni e privilegi dalla corte,
e farla, in fine, con pochi altri vili satelliti, da vero tiranno, e
soperchiatore in tutti i dominii della santa sede.

I di lui agenti hanno demoralizzato tutti i buoni e schietti abitanti
che sono lungo il lido del mare dal Tronto a Comacchio e sull’altro del
Mediterraneo. Ha istituito una polizia composta di sgherri armati, i
quali abusano della protezione che loro accorda il governo. Ha posto
la diffidenza nelle famiglie, il sospetto fra gli amici e parenti, ha
favoreggiato lo spionaggio, ha comprato i tradimenti, ha tradito la
buona fede dei sudditi, ha tolto all’amore del governo mille cuori
devotissimi. Ha corrotto magistrati, ha sedotto soldati, ha sacrificato
molti individui, ha immiserite comode famiglie, ha deteriorato il
commercio di mare, l’industria pubblica e privata.

Che più? Ha turbato colle sue perquisizioni la sacra pace dei
religiosi, delle vergini di Gesù Cristo, le ceneri de’ defunti.

Dio mantenga il di lui tremendo giudizio sopra di costui, e non gli
accordi mai quella prole che agogna!!

Gli appaltatori degli altri rami sono anch’essi più o meno dannosi allo
stato, sia dal lato economico, sia dal lato morale. Ma la perversità è
massima nell’amministrazione de’ tabacchi, ed è argomento di gravissimi
scandali, da che l’imbecillità di un papa egoista ne die’ la privativa
all’appaltatore presente.

Io ho sentito parlare di progetti su questo argomento che mi sembrano
molto utili allo stato. Ignoro se siano facilmente eseguibili, ma se
il governo ne farà argomento di disquisizione con persone atte a dar
consigli, mi par probabile di poterli effettuare.

Intendo parlare della libertà di commercio sui tabacchi e sui sali.

Poniamo che il governo abbia un milione netto di rendita sui sali e
tabacchi. Istituisca una tassa provinciale proporzionata, che renda
allo stato quello che introita coll’appalto, ed i sudditi saranno ben
contenti di fare un pagamento di poco rilievo a rate, e scegliere
e comprare dai più esatti industriosi sia il sale, sia il tabacco,
che sarà sempre abbondante nello stato, ed a prezzo tenuissimo. Se
si ha a dir la verità, i tabacchi dello stato pontificio sono per
avventura migliori di tutti quelli degli stati italiani. Ma i prezzi
loro enormissimi, ed i tabacchi che costerebbero lieve somma, sono di
pessima qualità, insopportabili, da non poterne far uso.

Quando la fabbricazione de’ tabacchi era libera, v’era fra i
commercianti una gara utilissima, venivano occupati sperimentati
artisti nazionali, e in questo maleaugurato bisogno del popolo si
provvedeva con soddisfazione dell’odorato, e con moderatissimo
incomodo delle borse. Lo stesso dicasi del sale. Ogni industriante
aveva un interesse a fabbricarne dell’ottimo, e non si vide altro che
in quell’epoca portata a perfezione l’operazione di questo genere
necessario, o introdotto nello stato il miglior sale che trovasi in
natura in altri luoghi più fortunati.

Non vi fu caso mai che alle popolazioni mancasse un genere o l’altro.
Ma a garantire i consumatori da un’evenienza appena possibile mille
modi avrebbe il governo, tra’ quali l’istituzione a proprie spese di
spacci normali in ogni comunità.

Io mi sono diffuso a parlare a lungo di questo appalto, poichè è quello
che è più degli altri tirannicamente amministrato, e mal si sopporta
dai popoli che alle oppressioni del governo si aggiunga quella d’un
esoso privato, che con sue ladronerie si compera ormai i dominii della
santa sede.

L’altro dazio gravosissimo al popoli è quello del macinato. Io stimo
che il governo potrebbe, con proprio vantaggio e più tranquillità dei
sudditi, adottare un progetto simile al precedente, e toglier via dalle
provincie tanta ribaldaglia di appaltatori, che fanno malcontente le
popolazioni a danno sempre della sicurezza del pontificato.

Le forniture sono un _fac simile_ degli appalti. Colla differenza che
la trufferia dei fornitori si fa più direttamente a danno dell’erario,
e ne risentono alcune classi di persone che hanno diritto ad esigere
più riguardi e più compassione dal governo. Tali sono le truppe,
malmenate tanto dai fornitori generali di Roma, ed i poveri carcerati,
specialmente delle provincie, dove il trattamento ed il vestiario viene
subappaltato due o tre volte; tanto che l’ultimo fornitore rade fino
alla pelle lo sciagurato prigioniero, per far anch’esso un lucroso
guadagno. Io non so se fosse possibile al governo di amministrar
queste cose a proprio conto: è però vero che un tale ramo esige una
prontissima riforma, che migliori la condizione di queste classi, e
specialmente dell’ultima, la quale ha diritto ad ogni nostro riguardo
ed alle nostre premure.

Ma qualcuno potrebbe opporre che coll’abolizione di certi appalti un
numero grandissimo d’impiegati rimarrebbe sprovvisto improvvisamente
senza aver altre risorse. Per ciò che riguarda gl’impiegati camerali
essi hanno diritto ad essere mantenuti in soldo e si porranno in
riposo, o si faranno occupare in altri impieghi. Quanto agl’incaricati
dell’attuale appaltatore de’ tabacchi essi siano congedati con qualche
gratificazione, e tornino alle loro antiche professioni, o si procurino
qualche occupazione, e facciano insomma quello che prima dell’appalto
ducale facevano. La carriera stessa militare può servire a moltissimi
di onesta professione ed onorata.

Tutte le altre privative e privilegi ed esenzioni sono, più o meno, un
abuso del governo per procacciare un piccolo lucro a sè stesso, e che
arricchiscono qualche privato con danno di tutti gli altri sudditi.

Merita però anche questa parte una seria disquisizione le di cui
risultanze tendano a far vantaggio ai più, allo stato medesimo,
che suona lo stesso. Nè s’intenda con ciò che le invenzioni o i
perfezionamenti nei rami industriali non debbano premiarsi ed
incoraggirsi co’ dovuti onori e privilegi. Quando il vero merito o una
scoperta utile alla nazione implora dal Governo protezione e soccorso,
si deve essere generosi nel concedere, perchè la ricompensa alle cose
utili è stimolo a sempre progressivi miglioramenti.


CAPITOLO XIV.

MANIFATTURE, INDUSTRIA AGRICOLA, ECC.

Manifatture nazionali, industria agricola, società d’incoraggimento,
case di soccorso, istituti di beneficenza, case di sanità, ricoveri,
bagni pubblici, scuole di arti, scuole di nautica, sale d’asilo,
spedali di maternità, ec., sono tutte parole, per noi pontificii, che
abbiamo lette nei giornali italiani e stranieri, o sentite ricordare da
qualche viaggiatore nazionale che abbia veduta e percorsa la sua patria.

Non mi si opponga che Roma è ricca di opere pie e di stabilimenti
utili, e che in qualche paese dello stato già sono istituite casse
di risparmio, ed altre e savie istituzioni: poichè io risponderò
che codeste eccezioni sono di maggior cordoglio per chi desidera
miglioramenti, i quali ove non spandano la benefica influenza da
pertutto, servono invece di rancore e d’invidia contro gli abitanti
della capitale, i quali sembrano accampar diritto a privilegi che non
sono conceduti agli abitanti delle provincie.

E poi se vi volesse fare un esame di codesti istituti che sono in Roma,
e che si riducono alla perfine a qualche ospedale od altri pochissimi
stabilimenti di utile pubblico, si vedrebbe che alla direzione di
alcuni son sempre preti o pavonazzi, o rossi o neri, che ne sciupano
le rendite, se ne profittano, e non sanno porre un’ombra di ordine
nell’interno di esse; e direttori di altri sono sfaccendati artisti,
capi di fabbriche ignoranti, o inerti di loro natura, o tendenti
solamente al proprio lucro, o godenti una inopportuna protezione di
qualche impiegato autorevole di governo, o mancanti affatto, benchè
meritevoli, della necessaria protezione del sovrano. A sviluppare
questo capitolo con qualche analitico esame sarebbevi voluta una
memoria che avrebbe essa sola occupate molte pagine. Mi è bastato
accennare i sommi capi per ricordare al successor di Gregorio, che non
per colpa nostra noi non risentiamo ancora la influenza del progresso,
ma per ignoranza e per mala volontà di chi ha retto e governato finora.

E chiuderò col dire che le istituzioni umanitarie accennate nel primo
periodo del presente capitolo, ove trovassero appoggio nel governo
e mano forte nella classe dei ricchi, oltre alle tante utilità di
che sarebbero feraci, preverrebbero che il pauperismo, proprio
compassionevole, del nostro stato sarebbe grandemente diminuito, e il
vagabondaggio e gl’individui oziosi di cui noi abbondiamo, sarebbero
ridotti al minimo numero, con molta soddisfazione de’ sudditi tutti
e specialmente di certe città dove la poveraglia di necessità e di
professione è di grave noia alla tranquillità dei cittadini, e di niuna
sicurezza individuale.


CAPITOLO XV.

AMMINISTRAZIONI COMUNALI.

Chi si ferma a guardare nella corteccia le istituzioni dei Consigli
comunali, riman sorpreso, come nel governo dei preti possa esservi un
ordinamento tanto democratico.

In fatti ogni municipio ha copioso numero di comizii, tratto da tutte
le classi degl’individui che compongono una comunità.

Ma il governo nell’istituire gli ordini municipali gittò nella
bocca degli affamati terra, e non pane. Lascio della sorveglianza e
supremazia tirannica e capricciosa che viene accordata ad ogni capo di
provincia, su’ negozi della comunità. Lascio della esosa dipendenza che
si esige dalle magistrature nell’obbligare a comunicare in antecedenza
ai delegati e governatori le proposte di cui deve farsi discussione.

Ma i comizii vincano pure a pieni suffragi un partito che venne posto
a squittinio secreto; quella risoluzione dev’esser sempre approvata
dai delegati, i quali a posta loro, a pieno capriccio, per vedute
parzialissime e private, molte volte negano la sanzione dell’atto il
quale rimane sul colpo nullo ed invalido, come se non avesse avuto
luogo alcuna discussione. E non sono mica rare le prepotenti negative
de’ delegati ad approvare certi atti consigliari. Queste accadono di
continuo, e specialmente contro le piccole comuni, che sono più assai
tirannicamente trattate di tutte le altre. Così l’apparente democrazia
de’ Consigli diventa autocrazia, ed i delegati tutti dello stato sono i
czar delle provincie.

Or lascio che altri immagini gli arbitrii de’ legati, la influenza de’
quali presso il governo è molto maggiore.

Trovo giusto che una supremazia de’ capi delle provincie sorvegli al
buon ordine delle cose municipali; che gli atti consigliari non si
debbano sanzionare se le formalità volute dalla legge si trascurarono
nella celebrazione degli atti medesimi; ma le risoluzioni che a
maggioranza dei voti prendono i rappresentanti del popolo, sieno
rispettate, e non dipendano dalla ignoranza o malizia de’ capi delle
provincie, i quali nella maggior parte non essendo statisti, niun
interesse hanno per le cose nostre, e consumano il tempo nel capo-luogo
tra le adulazioni de’ patrizi, nelle crapule, nelle lascivie e
nell’ozio più riprovevole.

Lasciano essi la cura degli affari più gravi nelle mani de’ loro
secretari generali, moltissimi fra’ quali sono diretti dall’amor del
lucro, dalla forza degl’impegni, dalla passione della vendetta. Ecco
il beato regime di che si godono le più belle provincie d’Italia. Ecco
i bravi governanti che i papi mandano a felicitare i popoli. Abatini
discoli o porporati astuti stranieri, sempre ignoranti, scolaruzzi
senza studio, vanarelli, pazzarelli, gonfi degli onori che loro vengono
resi dai nobiluzzi delle città, senz’amor del pubblico bene, pensanti
solamente a vivere, anzi a vegetare.

E l’ubbriaco Tedesco sa e conosce meglio di noi cotali obbrobri, e
manda suoi lanzi a reprimere le nostre rivoluzioni!!! Ma Dio non paga
il sabato. E la vendetta ch’egli fa contro gli oppressori di un popolo
quanto è più lontana, tanto è più gagliarda. Sel sappia lo stupido
Ferdinando; Iddio non paga il sabato!

E chiudo questo capitolo imprecando cordialmente ogni vendetta contro
al Tedesco, pregando il cielo che faccia parer buone e sante queste
mie parole al successore del Bellunese, già da incorruttibil giustizia
giudicato.


CAPITOLO XVI.

IMPIEGATI.

Il conferimento degl’impieghi è di quasi esclusiva attribuzione
della segreteria di stato. La nomina è sempre tutta a nome del
sovrano, ma poche volte ei se ne briga davvero, tranne il caso in cui
voglia provedere qualche suo ben affetto, o raccomandato da persona
autorevole. Nei primi anni del pontificato di Gregorio il di lui
aiutante di camera vendeva a prezzi fissi i posti e le cariche anche
più onorevoli e sublimi. Talchè si videro fra i giudici, governatori,
cancellieri, proposti, e via discorrendo, persone che occupavano posti
vilissimi, o avevano servito nelle truppe, o erano cherici, o non
avevano fatto alcuno studio, o erano istruiti in rami diversi affatto
da quelli dell’impiego che andavano ad esercitare. Lo stesso sistema è
adottato dalla segreteria di stato, eccetto rarissime cose. L’impegno
di cardinali, di nobili romani, de’ ministri, degli stessi servitori di
qualche personaggio, basta ad ottenere un biglietto di nomina. Talora

    «Spiccano ciò che voglion da palazzo
    »Chi porta bella moglie e bel ragazzo,»

perchè i segretari di stato, i sostituti, i primari impiegati sono
anch’essi composti di polpa ed ossa come tutti gli uomini, e si danno
buon tempo, ed amano le loro lasciviole, e si piegano volentieri alle
lacrime di qualche bella signora o di qualche scaltra zombracca.
Questo sistema fa che gli onesti impiegati, i quali abborrono ogni
sorta d’intrigo, rimangono molti anni ne’ loro posti senza ottenere
avanzamenti, ed i faccendieri, che possono spendere od estorquere una
commendatizia, o procurarsi una protezione, hanno avanzamenti lucrosi
ed onorevoli senza merito, senza giustizia, senza onestà. Ed ecco
perchè nei tribunali, ne’ dicasteri, in tutti gli uffici si trovano
sempre impiegati facili ad esser sedotti, incapaci a rettamente
eseguire le loro attribuzioni, mancanti di pratica, di teoria, e quindi
attivissimi a male amministrare la giustizia, a commettere errori
dannosi per le cose del pubblico e per gli affari de’ privati, ora per
ignoranza, ora per cattiveria.

Gl’impieghi si conferiscono a preferenza ai Romani, o almeno in molto
più favorevole proporzione per essi, poichè fra di loro tutti sono
figli o nipoti di preti, di prelati, o addetti alle case de’ cardinali,
o stretti in amicizia co’ ministri stranieri e con i loro domestici.
Costoro, quando vengono a coprire le cariche in provincia, sono
orgogliosi, insolenti, maneschi, ingiusti, tanto che sono odiati da
tutti, e cagionano male umore contro il Governo. Quanto è necessaria
un’attiva e radicale riforma su questo delicatissimo ramo! Abbia pure
lo stato ottime leggi, savissimi ordinamenti, istituzioni onorevoli;
se gl’impiegati non sono probi ed intelligenti, il malcontento durerà
sempre, si darà ognora luogo all’arbitrio, e i sudditi lamenteranno,
non avranno amore e rispetto al sovrano, desidereranno cambiamenti
politici, e faranno congiure e tenteranno ribellioni. Un miglioramento
in ciò debbe esser prontissimo e radicalissimo. Senza di esso ogni
altra buona ordinanza sarà inutile, poichè sono i cattivi esecutori
delle cose quelli che rendono vani i buoni ed utili miglioramenti.

Perchè gl’impieghi non si dovrebbero conferire dietro rigorosissimo
esame relativo?

Perchè non esigere dai richiedenti la prova certa di una immaculata
condotta?

Perchè a circostanze pari l’anzianità non viene calcolata?

Perchè gli assegni non si proporzionano, e non si aumentano certe
vilissime paghe d’impieghi delicati, e non si toglie così un argomento
potente alla prevaricazione?

Perchè non si danno compensi alle fatiche straordinarie, alle
operazioni utili dello stato?

Perchè non si esige dai capi d’ufficio un’attiva sorveglianza e
mensuali ingenui rapporti?

Perchè non si stabiliscono da per tutto ispettori provinciali
probissimi, ch’esaminino con pieno rigore la condotta degl’impiegati, e
perchè non sono gl’ispettori stessi sottoposti a rigoroso rendimento di
conto delle loro operazioni?

I sorvegliatori attuali sono tutti pressochè uguali a quell’uditor
santissimo che presentemente va facendo un viaggio di piacere per lo
stato col titolo di visitatore. Ha dato una occhiata a certi locali, a
certi uffici, ed ha trovato, il buon uomo, che tutto andava in piena
regola e perfettamente, anche dove le cose andavano in malissima
regola e in pieno disordine. Io non so a che scopo avvisasse il
viaggio di costui. Certo è ch’egli non fece nulla, e si è procacciata
l’indignazione de’ popoli e la derisione degl’impiegati.

Concludiamo. I preti stiano nel santuario. Non s’impaccino
negl’impieghi dello stato, perchè è giusto che i primi posti ch’essi
occupano si cedano ai laici. E più presto il papa giunge a ciò, e più
sicuro sarà in trono, e contenti saranno i suoi sudditi. Questo è osso
un po’ duro da rodere per loro. Ma è di giustizia un cotal cambiamento.
È nel desiderio dei più, e basti.


CAPITOLO XVII.

STAMPA.

La libertà della stampa, quando essa abbia un limite e si opponga alla
pubblicazione di cose irreligiose e disoneste, è affare utilissimo e
necessarissimo ad ogni governo ben regolato.

Quando a ciascuno fosse fatto lecito di censurare la condotta
degl’impiegati, quando si potesse dire liberamente a carico dei
signori ministri, quando si potesse levar la voce contro gli errori
che commette il Governo, quando fosse tollerato parlare della cattiva
amministrazione pubblica, quando fosse permesso pronunciare il proprio
sentimento su certi metodi di studio; io vi so ben dire che i signori
impiegati opererebbero con miglior giustizia, il Governo rifletterebbe
di più sulle determinazioni che prendesse, l’erario non sarebbe
l’ufficio legale di latrocinii, gl’instruttori adotterebbero i metodi
riconosciuti migliori, e così ogni cosa prenderebbe il suo posto
conveniente, ed i popoli avrebbero meno ragione di lamentarsi, ed il
regno de’ preti diverrebbe a tutti accetto e gradito.

E chi scrive sia responsabile di quello che asserisce, quando le cose
stampate offendono direttamente le persone ed abbiano apparenza di
calunnia.

Così la censura sacra, la censura politica non si opporranno più al
progresso delle scienze, perchè quelle menti torbide d’inquisitori,
commissari, trovano da evitar sempre qualunque libro scientifico, e
gli scrittori, o indispettiti od iscoraggiati, dimettono il santo
pensiero di scriver per la bassa ed alta istruzione, ed al popolo non
si distribuisce il pane dello sapienza, si eterna la di lui ignoranza
e rozzezza. Il santo Padre nuovo non tema, no, di accordare la
libertà della stampa; egli deve valutare i vantaggi ch’essa arreca, e
deve considerare ch’è mezzo atto a favorire il contento dei popoli,
ch’è quanto dire che assicura le saldissime ed eterne basi al trono
pontificale.


CAPITOLO XVIII.

SALUTE PUBBLICA.

Dà argomento di somma civiltà quel paese che s’interessa molto della
salute de’ popoli. Ma se si ha a dire il vero la igiene pubblica
è assai nel nostro stato trascurata. Ond’è che il nuovo sovrano
deve mantenere in vigore le poche buone leggi che vi sono in questo
proposito, riformare quelle che meritano correzione, istituirne delle
nuove, atte a guarentire la salute della nazione.

Qui non v’è bisogno d’interessare i medici italiani perchè scrivano
per norma del Governo. Vi sono opere classiche che ne trattano
estesissimamente, fra le quali quella del piemontese Lorenzo
Martini[11] e di Gian Pietro Frank, che possiamo riputare come nostro
connazionale.

Io mi contenterò di accennare la necessità in che siamo di avere
alcune cose essenzialissime per la tutela della sanità del popolo. E
giustizia vuole che a questa si dia subito prontissima mano ed aiuto,
perchè è troppo grave colpa del Governo il non riparare a certi danni
frequentissimi nell’umana società.

Ne’ luoghi di marina, dove la prima industria è la pesca, accadono
spesso morti per annegamento, nella mancanza in che si è degli
argomenti opportuni a risuscitare, dirò così, i poveri affogati.

La società filantropica di Londra, di cui è capo il re, ha salvato
in pochi anni la vita a moltissimi asfittici, che nello stato nostro
vengono seppelliti per morti. Fino a che il sovrano non oppone a cotali
disgrazie tutti quei mezzi che la scienza gli ha proposti, egli si
fa reo della morte di ciascheduno, e ne dovrà render conto a Dio, il
quale, quando gli affida le nazioni, impone di ben guardare la vita de’
propri sudditi.

E così parlo della mancanza di un porto o un canale da Ancona fino
al confine del Tronto, per cui le barche da pesca nelle burrasche
frequenti dell’Adriatico non avendo altro rifugio che il lontanissimo
porto di Brindisi, in ogni caso di tempesta si perdono molti legni
col proprio equipaggio, e ciò per colpa del Governo, che in così
lungo tratto di mare non ha eretto mai un asilo di sicurezza per que’
disgraziati.

È inconveniente grandissimo la facilità, anzi il favore e lo stimolo
che dai parrochi si adopera per la celebrazione dei matrimoni, senza
guardare affatto la salute fisica degl’individui che si maritano, e se
abbiano mezzi economici a campare una famiglia. Ecco perchè da noi si
vedono schiere di tisici, di scrofolosi, di apopletici, di sifilitici.
Così la nazione perde della propria robustezza, e in pochi anni si
riduce lo stato ad uno ospedale d’incurabili. La Polizia abbia sue
leggi atte ad impedire matrimoni malsani, e badi che ne’ contraenti non
manchino affatto i mezzi della sussistenza. Quest’ultima providenza
vale anche a prevenire la funesta propagazione de’ ladroncelli, poichè
in cotali coniugii i padri esigono che la prole si procuri da sè stessa
quel mantenimento che si ottiene poi nei furti di campagna e nelle
piccole ruberie delle strade.

È grandissima l’inerzia del governo a non riparare ai primi
impaludamenti di alcuni territorii, che poi col tempo non si tolgono
più, o almeno importeranno grandissime spese. Quasi ogni provincia
dello stato è soggetta a queste disgrazie, e la cattiva sanità o la
morte degli abitanti di questi luoghi sono pure mali di cui la colpa
essendo del sovrano, egli ne renderà conto a Dio, se dal canto suo non
adopererà quei mezzi che la scienza idraulica propone.

L’ignorante e superstizioso abuso di suonar le campane nei momenti
delle rivoluzioni atmosferiche, costa la vita a non pochi fanatici, ed
il regnante si fa reo avanti Dio della morte di costoro, perchè non ne
impedisce con legge la pratica.

In molti piccoli municipii si seppelliscono ancora i defunti nelle
chiese. E ciò importa che nelle calde stagioni si sviluppi sempre
qualche mortale epidemia, che uccide non pochi cittadini. Il capo dello
stato è l’uccisore di costoro, perchè non seppe rendere universale la
legge de’ cimiteri rurali.

In molte comunità, sia per colpa dell’autorità civile, sia per la
negligenza degl’impiegati sanitari, i commestibili che si vendono al
pubblico sono molte volte mal sani, e ne va di sotto la salute e la
vita di molti. Il principe risponderà a Dio di codesti danni, perchè
non fece rispettare le leggi, che pure su ciò provvidi papi emanarono.

Gli ospedali mancano in molti paesi dello stato, e non pochi individui
periscono per mancanza di soccorsi. Anche la morte di costoro peserà
sulla bilancia del supremo giudizio a danno dei reggitori del trono.

Gl’incendii, la mancanza de’ ponti, le strade pericolose, gli edifici
cadenti, e mille altre cagioni di danno pubblico e privato, obbligano
per giustizia il sovrano a spander per lo stato i corpi de’ pompieri,
a ordinar la fabbricazione de’ ponti, ad accomodar le strade e a far
demolire gli edifici pericolosi, ed altro. Tutte queste cose ove
vengano trascurate, il giudizio di Dio sarà grave contro colui che
impera, perchè avrebbe dovuto reggere qual padre i popoli che gli
furono affidati.

Ed ho accennato le cose essenzialissime, che richieggono pronto
provvedimento, perchè se avessi voluto enumerare tutti i mali relativi
alla sicurezza e sanità de’ popoli, io avrei dovuto fare un lungo
trattato, inutili d’altronde, perchè, come dissi di sopra, noi non ne
manchiamo, e può il Governo perfezionare la igiene dello stato se vorrà
prendere regola da quei libri utilissimi.


CAPITOLO ULTIMO.

Io mi era proposto di trattare ancora diversi altri argomenti
utilissimi in questo libricciuolo. Ma la necessità mi ha indotto a por
termine al mio lavoro, perchè giunse nelle provincie la notizia della
rapidissima elezione del nuovo pontefice. Il nuovo unto del Signore,
il supremo re della terra sarebbe, secondo la novella percorsa,
l’eminentissimo cardinale Mastai di Sinigaglia, vescovo della città
d’Imola. Io m’ho visto una commozione di animi così straordinaria
per la costui esaltazione, che rare volte i popoli s’addimostrano sì
lieti per cagioni di pubblica e comune fortuna. E posso credere che la
esultanza dei sudditi sia pienamente giustificata, poichè il novello
sovrano è ricco di rare virtù, di sapienza, di umanità, di carità
evangelica.

È in me fede grandissima ch’egli accolga le parole espresse nel
presente indirizzo con quella gentilezza di cuore con cui ricevette
ognora ed esaudì le preghiere di tanti sciaurati al suo sacro impero
nella diocesi d’Imola sottoposti. E la bontà di cui è riccamente adorno
mi fa sperare ancora, che se il desiderio in me del pubblico bene mi ha
portato talora ad adoprare parole aspre e rigorose contro il reggimento
politico del cessato sovrano, egli vorrà usarmi quella indulgenza che
può meritare uno il quale, amico com’è della Sede apostolica, vuole
e brama che i sudditi di tanto sovrano non abbian lamenti a fare, e
si chiamin lieti e contenti di esser figli e vassalli del regno della
Chiesa.

E potrei quasi far sacramento, che fra non molto tempo le popolazioni
vedranno praticati i più saggi ordinamenti di cui si gloriano le
nazioni civili.

Le sciagurate famiglie de’ prigioni politici riabbraccieranno nelle
loro case i loro più cari.

I popoli avranno un codice criminale e civile, la cui mercè la vita e
le sostanze degli uomini saranno rese tranquille e sicure.

Le procedure criminali correranno più spedite, saranno cristianamente
trattati gl’inquisiti, ed abolite interamente le infami giunte e
commissioni militari e civili.

Le imposizioni non saranno più gravose ai sudditi, e cesseranno le
angarie e i soprusi dei regolamenti doganali e daziari.

La Polizia avrà sue leggi certe, e non si darà più luogo all’arbitrio.

L’istruzione favoreggiata e facile, e libero a tutti di dissetarsi al
calice della scienza.

Provveduto all’educazione fisica e morale degli infanti, assicurato un
asilo o sussidio alla impotente vecchiezza.

Cacciate le truppe straniere, e congedati i corpi de’ malvagi volontari
pontificii.

Protetta la industria nazionale, e vietati i tirannici appalti.

Resa più splendida la cattolica religione nostra col rimuoverne gli
abusi, e col creare pii e saggi ministri.

Soppresso l’ordine de’ Gesuiti, peste mortale del mondo cattolico.

Istituite ordinanze onorevoli per la retta amministrazione delle cose
municipali e provinciali.

Occupate negli impieghi le persone più meritevoli, e rese le debite
ricompense al merito.

Accordate le più interessanti cariche dello stato a laici dotti e
probissimi.

Concesso ad ognuno lo stampar liberamente, ne’ limiti della religione e
della onestà.

Guarentita la pubblica sanità e sicurezza coll’adottamento di savie
leggi igieniche.

E questa sarà propriamente per noi l’_era novella_ promessa per la
paura d’un papa, osservata per la magnanimità di un altro.

Ma quanti ostacoli non troverà egli il nuovo gerarca per la esecuzione
di così utili ordinamenti! Sono alcuni fra’ porporati che, vedendo
in ogni innovamento una pericolosa concessione, e desiosi di vedere
oppressi i sudditi o per inopportuna paura o per malignità di cuore,
consiglieranno insistenti di lasciare le cose nello stato in cui sono,
ispireranno dei dubbi sulla ingenuità di coloro che dimanderanno le
riforme, in ogni movimento innocente sogneranno una ribellione, e si
faranno essi stessi nascosti autori di fatti sospetti, di scritti
incendiari, di emblemi rivoluzionari. La satanica arte di costoro
potrebbe trionfare della perspicacia del sovrano. Il nuovo principe
non creda alla buona apparenza delle loro parole. Essi, come dice
sant’Agostino, sono al di fuori scialbati candidissimamente, ma
hanno l’anima nera come tizzo di carbone. Quando i popoli pontificii
si vedranno posti al rango che si addice all’attuale loro civiltà
smetteranno ogni idea di cambiamento politico, troveranno dolce il
comando della monarchia pontificale, non avranno ad invidiare i vicini
reggimenti civili di stati italiani; faranno voti per la conservazione
della santa Sede, e prepareranno cogli scritti e colle parole una
gloriosa immortalità a Pio IX, che soddisfece ai prepotenti bisogni de’
tempi.

E però il perdono ch’egli darà agl’inquisiti di stato sia santo ed
ingenuo, come quello che darebbe Gesù Cristo se avesse da tornare sulla
terra.

Se l’amnistia non viene accompagnata dalla reintegrazione ne’ diritti
civili, se quegli che vien perdonato non è sicuro dalla calunnia
di nemici, dalla indiscreta sorveglianza di commissari di polizia;
se gli vien restituita una libertà con limiti angustiosissimi; se
non viene saggiamente provveduto alla di lui sussistenza, ove ne
abbisogni; se gli verranno fatte insidie morali, e valutato a delitto
il pensiero o una parola, questa amnistia diventerebbe un laccio, un
tranello empissimo, più orribile e penoso della stessa condanna a cui
l’inquisito politico soggiacque.

E so ben io che la santa virtù del nuovo regnante abborrisce da cotali
vili ed insidiosi concetti. Ma nella corte s’introducono sempre alcuni
astuti che ordiscono segrete mene contro l’umanità, e questi sono
nemici dell’uomo, sono nemici del Governo, ma si dichiarano da loro
stessi e filantropici e devoti al vicario di Gesù Cristo.

Da questi truculenti si guardi il successore di san Pietro, e ponga
freno alla loro prepotente influenza, col distrugger tosto ogni sorta
di arbitrio alla Polizia, nucleo fin ora di tirannide non solo, ma
primario elemento di schiavitù, massima cagione del mal contento de’
popoli, e potente nemico del governo pontificio.

Ma qui gl’infiniti amici del Governo, i pretesi sostenitori del trono
e del pontificato seguiteranno a gridare e dire come la esperienza
addimostri la inefficacia della clemenza, e che i malcontenti, anche
dopo il perdono, si mostrarono coi fatti nemici violentissimi del
Governo.

Io risponderò dicendo, che la massima parte di coloro i quali furono
nuovamente rilegati in carcere fu ristretta per semplice sospetto
della irrequieta Polizia; e che i loro incarti, fabbricati da perversi
e sanguinari processanti, non diedero risultanze positive, o si
trattò solamente di semplici parole, o fatti isolati di niun valore.
E nell’altra parte se vi furono individui i quali ritornarono ad
inveschiarsi profondamente in affari politici rilevanti, questi sono
di quella classe di cui poco sopra io parlavo, posta in uno stato
di violenza terribile, vale a dire, trascurata non solo dal Governo
e dalla società, e priva di mezzi di sussistenza, ma provocata
gravissimamente dalla insolente Polizia o per inopportune sorveglianze
o perchè privata dell’interna libertà, e non reintegrata mai ne’
diritti sociali, al godimento de’ quali ognuno di loro intendeva. Ed
ecco perchè io raccomandava che il perdono fosse generoso, amplissimo,
ingenuo, generale.

E così pongo fine a questo qualunque siasi lavoro che intrapresi al
solo scopo di esser utile ai miei compatriotti. In esso non adoperai
studio di sorta a farne un libretto elegante e filosofico: volli
attenermi ad un linguaggio di comune intelligenza, e presi nota
solamente di quelle cose più rilevanti che mi parevano degne di
ricordo e necessarie di miglioramento. Quindi non frasi, non regolare
ordine di materie, non concetti nuovi e profondi. Il miglior pregio
del libro, sono la verità e la santità del fine. Se una sola delle
mie idee non esistesse già nella mente del sovrano, che deve intender
certo a cambiamenti solidissimi, e fosse tolta in considerazione io mi
chiamerò fortunato di aver avuto una parte benchè impercettibile nello
stabilimento del bene universale.




RELAZIONE

DEL FATTO AVVENUTO IN CESENA

LA SERA DEL 14 LUGLIO 1846.


Molte cose sono state ragionate da varii, sui cattivi ordini che
aggravano il nostro stato, e che ne fanno, per così dire, una
anormalità, in mezzo al progresso civile de’ tempi nostri. Ma per
comprendere i mali effetti di quelli, e trarne argomento a spiegare
il profondo malcontento che regna in queste provincie (malcontento
che non si acqueterà mai, ove il nuovo sommo pontefice non dia mano
con ardimento e risoluzione a riforme radicali, vincendo la subdola
opposizione e la mala fede con che molti suoi iniqui ministri gli
possono attraversare ogni buona intenzione), a comprendere, dicemmo,
pienamente i mali effetti di quegli ordini, più d’ogni ragionamento,
giova sovente il rappresentare l’azione concreta nella realtà de’
fatti. Certi episodi della vita sociale de’ nostri infelicissimi
paesi bastan soli a rivelare que’ mille patimenti, que’ mille dolori
morali e que’ profondi fremiti di sdegno disperato che dee provare
un popolo generoso nel vedersi (oltre all’altre sue grandi sventure)
senza delitto macellato impunemente da una mano vilissima di sgherri
stranieri, a’ quali un massacro, che rinnovasse la memoria de’ Vespri
siciliani, sarebbe poca pena alla sola colpa di starci qui insolenti
e briachi in sul viso. Ma veniamo al fatto, che giustificherà appieno
l’ira delle nostre parole. — Al qual fatto, perchè sia inteso bene da
chi non conosce le piaghe de’ nostri paesi, ci fa d’uopo premettere un
breve commento. Egli è da sapere adunque che il difetto d’operosità
industriale e commerciale, le cattive leggi economiche, la mancanza
assoluta di educazione popolare, la poca agiatezza e i pochi risparmi
delle classi elevate, e la conseguente difficoltà per le classi
operaie di trovar lavoro, e, non ultima cagione di miserie e di
corruzioni, le truppe estere, che precludono la carriera militare
ai figliuoli del nostro popolo, tutte queste e molte altre cagioni,
che lungo sarebbe l’enumerare, vanno ogni giorno più arruolando alla
turba de’ delinquenti molti popolani corrotti dalla indigenza, dalla
ineducazione e dalla abitudine de’ vizi. Tutta questa gente, nelle
nostre città, si va organizzando in associazioni giurate al delitto,
e muove una aperta guerra alle proprietà e alla sicurezza personale
del cittadino. Ciò è conosciuto dalle Polizie. E però chi facesse
una statistica de’ furti e delle aggressioni impunite che avvengono
in queste provincie, troverebbe di che far maraviglia a un uomo de’
secoli barbari. Ma la cosa va più innanzi in molti paesi; le Polizie
si contentano, non solo che vi si rubi alla piena luce del giorno, ma
che vi s’inquieti il pacifico cittadino con insolenze e minacce, e
pare insomma che s’intenda a provocare e sfrenar la canaglia contro
le classi medie ed elevate, la cui inclinazione all’ordine e alle
riforme civili, chiamata dalle nostre Polizie istesse liberalismo,
arrovella tutti questi nostri impiegati, gente la più parte ignorante e
immorale, e che però ha solo nel durar de’ disordini qualche speranza
di potersi mantenere in grado. La cosa è giunta a tale in alcune
città, che in Faenza, per esempio, or son pochi dì, fu fatta una
istanza, sottoscritta da centinaia di cittadini, non che da sacerdoti,
parrochi di campagna, ecc., e inviata al pontefice per ottenere
permesso di armarsi a difesa dei propri averi, e far quello che non
sanno fare (così esprimevasi quello scritto) tante truppe nazionali
e forestiere. Ma se queste ultime non sanno o non curano frenare i
ladri e gli assassini, coi quali hanno perfetta affinità, sanno molto
bene farla da carnefici sugli onesti e tranquilli cittadini. — Ora
udite l’avvenuto. — Nella sera dei 13 corrente fu, in Cesena, ferito
d’un’archibugiata un Eutimio Stefani, per sopranome Timino, il quale
unito ad un tal Mamolino, di recente dimesso dal carcere, erasi fatto
capo di un’orda di masnadieri, che da lungo tempo, percorrendo le vie a
mano armata e provocando i buoni cittadini, infestavano questa città,
stimolati non si sa bene da chi, certo tollerati dalla Polizia. Il male
essendo divenuto insopportabile, ed avendo costoro nella mattina del
14 minacciata aspra vendetta del loro capo, la sera di detto giorno
molti giovani, costretti dalla necessità della comune difesa, eransi
ragunati nella piazza di San Francesco, con animo di punire quella
mala gente, e veder modo di fiaccarne per sempre la baldanza. Di tale
assembramento fu dato preventivo avviso al governatore, il qual disse
sapere ove i ladri si riunivano e dove avean riposte le armi, e che
avrebbe in breve trovata via di farli arrestare e perquisire. Fu di
tutto parimenti avvertito il comandante di piazza capitano De-Bons.
All’una ora di notte partiva dalla piazza maggiore un carro di polvere,
scortato da un forte distaccamento di Svizzeri, e dirigevasi verso San
Francesco. Alla testa di costoro erano l’ufficiale generale, e Vesi,
agente di Polizia. Il militare convoglio trapassò la piazza, ove stava
assembrata quella gioventù, senza incontrare alcuna minaccia, alcun
insulto, e si fermò innanzi alla porta della caserma Carabinieri, nella
quale era stato il giorno, ed ove aveva ordinato il capitano De-Bons
fosse ricondotto. Non si sa per qual motivo la porta della caserma
fosse chiusa, nè s’intende perchè l’ufficiale generale, non provocato
da alcuna offesa, senza curare quelle preventive cautele che sono un
dovere sacrosanto anche quando è assolutamente necessario il far impeto
sul popolo, con inaudita improntitudine, fatta voltare la fronte ai
soldati, comandò due scariche di plotone contro gli assembrati, la
maggior parte de’ quali erano seduti sulle macerie ivi esistenti,
bevendo e conversando pacificamente. Appena eseguito l’assassinio,
fuggirono i vili appiattandosi dietro il carico della polvere. Molti
furono i giovani feriti, cinque caddero semivivi sul luogo, due dei
quali già morti. Tanto è vero poi che quella gioventù non avea pensiero
ostile alla forza, che, sebbene così brutalmente trattata, e in numero
tanto maggiore da vendicare a larga misura sui fuggiaschi assalitori il
sangue de’ loro fratelli iniquamente versato, pure sgombrò la piazza.
Niuno Svizzero fu ferito, e tutti i cittadini lo furono alle spalle:
lo attestano concordi i chirurghi, lo provano le sezioni ai cadaveri.
Quella notte fu terribile alla città pei gravi danni che potevano
generarsi alla medesima da una popolare reazione. Fu necessaria tutta
la prudenza, il sangue freddo, e diremo l’eroica rassegnazione di
alcuni giovani per impedire che molti i quali erano corsi ad armarsi
non assalissero i vili assassini de’ loro amici, dando il segno di
un generale massacro. Quanto non lascia sperar bene di sè così fatta
gioventù, capace di frenarsi per l’amore dell’ordine e per la speranza
di trovar ragione sulla giustizia del novello monarca!

Oggi è cosa per mille indizi a tutti manifesta, che quell’eccidio
derivò da tradimento, e ciò non fa specie; ma quello che più fa
meraviglia tra noi, gli è che gli Svizzeri abbiano osato, in faccia
alla coscienza di tutto un paese, tentar la menzogna fingendo, ne’ loro
rapporti, che gli assembrati volessero impadronirsi della polvere, e
che da ciò fossero costretti a far fuoco. Un pretesto era certamente
necessario per veder di schermirsi pure in alcun modo da tanta infamia;
ma l’addotto da loro era troppo assurdo, perchè non venisse subito
smentito: molto più che anche la forza nazionale, aggiunta all’estera,
a scorta del convoglio, altamente ripete: il contegno dei cittadini
essere stato tale da non dar luogo a pretesti — Ora siamo in istato
d’assedio. Gli Svizzeri, benchè duplicati di numero, conscii come sono
della lor iniquità, tengonsi sempre sotto le armi, e sono segregati da
ogni consorzio. L’ufficiale generale, che comandò il fuoco, per tutta
punizione è stato traslocato a Forlì. — La nostra magistratura sta
redigendo un ricorso contro la forza e la Polizia, il quale documento
verrà spedito a Roma. Tutti i cittadini di ogni colore, di ogni stato
sono pieni d’indignazione, di orrore, di odio contro la brutalità de’
nemici. Taccio le lagrime disperate delle madri, delle famiglie, dei
parenti, che si videro rapiti i loro cari in così orribil modo. Uno
spettatore dell’assassinio dell’altra sera gridava col pianto dell’ira
negli occhi: «Ogni straniero è per noi Italiani sempre nemico, ma niuno
straniero è così barbaro, così feroce, così bestiale come lo Svizzero.»
E dicea pur troppo la verità: ma questi sozzi e infami rifiuti
dell’Elvezia tremino di quel pianto e di quel grido, e riflettano
che già troppi sono i motivi che li rendono esosi al nostro popolo,
ai quali aggiungendosi queste incomportabili provocazioni, la lunga
pazienza non tarderà a convertirsi in furore. Quanto a noi facciam voto
che, ad evitare ogni ulteriore scandalo ed altre più gravi sventure, il
pontefice provvegga sollecitamente al pericolo con risoluto consiglio,
liberando lo stato da questa dolorosissima piaga delle armi mercenarie,
che sono il più grande insulto e il peggior danno che un Governo far
possa ai suoi sudditi.

                                              Cesena, 16 luglio 1846.


  FINE.




INDICE


  A Cesare Balbo                                    Pag. 5
  Degli ultimi casi di Romagna                           7
  Documenti                                            107
  Sulle attuali condizioni della Romagna
    di Gino Capponi                                    147
  La questione italiana
    di M. Canuti                                       157
  Lettera del reverendo Orazio Bushnell
    al romano pontefice Gregorio XVI                   181
  Indirizzo ai reverendi prelati monsignor Janni
    e Ruffini                                          195
  Indirizzo al successore di Gregorio XVI              217
  Relazione del fatto avvenuto in Cesena
    la sera del 14 luglio 1846                         297




NOTE:


[1] Nello stato papale il prete delinquente è punito con un grado
di pena minore, che non il secolare. Mentre dovrebbe essere appunto
l’opposto, e punirsi più rigorosamente l’ecclesiastico, il quale
pel suo stato è tenuto dar buon esempio, che si suppone persona più
istruita e frenata da più alto grado di moralità.

[2] Salva la Banca romana.

[3] Carlo Adolphe, Antonio Sparapani.

[4] A far conoscere sempre più le iniquità delle Commissioni, non è
inutile narrare alcuni particolari sul fatto dell’avvocato Pantoli,
e di questo processo. Non trovando la Commissione altri che volesse
incaricarsi della difesa, avea scelto quest’onest’uomo, che per la
sua nota devozione al governo potea ragionevolmente supporsi si
sarebbe fatto docile istrumento del tribunale nell’ufficio al quale si
destinava. Il colonnello Freddi andò in persona a Forlì per vincer le
sue ripugnanze e condurlo a Ravenna, come accadde appunto. Accortosi
il Pantoli nel corso del processo con quanta iniquità fosse condotto,
si pose in opposizione aperta cogli atti della Commissione: diede
eccezione d’incompetenza all’avvocato Attilio Fontana, assessore
straordinario, per causa d’aver preso parte al processo, e non poter
perciò esserne giudice: ad appoggiare la detta eccezione produsse un
attestato di don Trenta, parroco di San Vitale, deponente aver proposta
l’impunità a Domenico Boschi come via di salute, e ciò per ordine del
giudice Fontana. Entrò la polizia, ed intimò all’onesto curato di dar
copia dell’attestato. Ricusando questi coll’addurre che ciò non potea
fare senz’ordine del suo superiore ecclesiastico, fu per ordine del
cardinale legato rinchiuso in una stanza, nè potè uscirne senz’avere
scritto il chiesto attestato. — Di questo Fontana si narra (non posso
affermarlo come certo) che per trovar materia al processo si facesse
condurre la notte manettato nelle carceri in forma di uomo arrestato
e perseguitato dalla Commissione, affinchè i prigionieri nel primo
moto di pietà più facilmente gli s’aprissero, e potesse cavar loro di
bocca qualche confessione. L’incompetenza dell’assessore Fontana non
fu ammessa dalla segreteria di Stato, come neppure l’altra eccezione
d’incompetenza che il Pantoli promosse contro l’intero tribunale per
difetto di giurisdizione, inquantochè esso era stato incaricato di
conoscere dei delitti commessi contro la forza pubblica, non già dei
delitti meramente politici.

[5] Ignoro se l’idea di dare alla mossa di Rimini il carattere di
protesta sia nata prima o dopo l’impresa. Quanto a me ho parlato
di questi fatti come se tal idea non fosse stata giammai espressa,
sembrandomi progetto da esser piuttosto deriso presso i popoli più
esperti delle possibilità e convenienze politiche, e perciò progetto
fuori d’ogni discussione quello di voler protestare con poche armi,
mentre la stampa dei paesi liberi d’Europa avrebbe potuto prestar
l’opera sua a render pubblica ed incolpabile una ragionevole e
dignitosa protesta de’ sudditi pontificii: e certamente in Romagna, ove
sono tanti uomini arditi, e sprezzanti il pericolo della carcere ed i
dolori dell’esilio, si sarebbe trovato più d’uno contento di firmarla
a nome di tutti, se non fosse sembrata cosa dignitosa il lasciarla
anonima.

Aggiungerò più innanzi, nel parlare de’ modi di protestare in Italia,
altre ragioni a questo proposito.

[6] Io avea scritte queste linee due mesi prima della consegna del
signor P. Renzi, per la quale sono sforzato aggiunger questa nota.

Il signor P. Renzi era uno de’ principali del moto di Rimini; ed
accolto dalla Toscana, si era cogli altri ridotto in Marsiglia. Dopo
poco tempo tornò, senza però farsi nuovamente reo verso il governo
pontificio. Fu arrestato immediatamente, e denunziato il suo arresto
al Nunzio. Questi lo chiese in virtù del malaugurato trattato di
estradizione per cause politiche.

Intanto la diplomazia s’agitava, gridando contro il governo toscano per
quella ch’essa chiamava connivenza co’ ribelli. Il granduca manteneva
la sua buona volontà ed il desiderio di salvare quell’infelice.

I consultori legali del governo opinavano non essere l’estradizione
di questo caso imposta dal trattato, e formale invece nel governo il
debito di salvare il Renzi, per virtù della promessa fatta all’atto
ch’esso cogli altri s’erano arresi alle truppe toscane. Ma il ministero
insistè, e dopo contrasto durato infelicemente più d’un mese, e che per
la sua stessa durata dava animo a sperar bene, il Renzi fu consegnato
al papa.

È doloroso che gli uomini testè entrati nel ministero toscano sieno
giudicati dall’opinione pubblica (essa assolve il granduca, o non
l’accusa se non di debolezza e d’essersi lasciato troppo dominare
dall’influenza del suoi ministri e della diplomazia) pei sostenitori
più ostinati di questa ingiusta, inopportuna ed impolitica risoluzione.
Il ministero ha tolto a sè medesimo l’appoggio dell’opinione con
quest’atto, che sembra possa considerarsi come suo programma politico,
e che il pubblico ha accolto con dolore, biasimo e sospetto; quasi
presagio d’un nuovo sistema, che toglierebbe al governo toscano la
maggiore, per non dir la sola sua forza, quella d’esser tenuto dolce ed
umano.

Avendo lodato il primo atto del granduca, la veracità della quale fo
professione, mi sforza a biasimare il secondo.

Non è fuor di proposito l’osservar qui che l’Austria non ha restituiti
al papa i rifugiati a Fiume. Espongo l’osservazione, e ne lascio i
comenti al lettore.

[7] Per aver idea della stima che si fa in Romagna della prigione, è
da sapersi che se domandate colà ad un giovane: — Siete mai stato in
carcere? — vi risponde quasi con rammarico: — Non posso ancora dire
d’esser uomo. —

[8] In tutti, sessantasette inquisiti, dei quali cinque possidenti,
cinque negozianti, cinque esercenti arti liberali, cinquantadue
artigiani e mestieranti diversi; e venticinque di loro ammogliati e con
prole.

[9] Per mostrar l’inefficacia di quest’editto basti notare le seguenti
disposizioni:

_Titolo II, Art._ 2.

La nomina de’ consiglieri fu affidata per la prima volta ai delegati.

_Art._ 10.

Fu vietato che potesse porsi in deliberazione qualunque proposizione se
prima l’oggetto della medesima non fosse stato manifestato all’autorità
governativa.

_Art._ 12.

Fu stabilito che il processo verbale dovesse essere approvato dal
delegato.

_Titolo III, Art._ 9.

Gli atti de’ Consigli provinciali furon sottoposti all’esame ed
all’approvazione del preside e della congregazione governativa. Fu
vietato che i Consigli provinciali potessero occuparsi di atti diversi
dai meri amministrativi, e fu data al delegati facoltà di discioglierli
ad arbitrio.

[10] Vedete quel che ne scrivono, fra tanti altri, lord Brougham nella
sua filosofica politica, Hanke nella Storia del papi dei secoli XVI
e XVII, e Rosselli in Roma verso la metà del secolo XIX, edizione di
Parigi. (_Nota aggiunta_)

[11] Vedasi la sua POLIZIA MEDICA, Capolago, 1834, volume unico in 8.º,
con tavole in rame.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. Per comodità di lettura è
stato aggiunto un indice a fine volume.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK DEGLI ULTIMI CASI DI ROMAGNA ***


    

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providing copies of Project Gutenberg™ electronic works in
accordance with this agreement, and any volunteers associated with the
production, promotion and distribution of Project Gutenberg™
electronic works, harmless from all liability, costs and expenses,
including legal fees, that arise directly or indirectly from any of
the following which you do or cause to occur: (a) distribution of this
or any Project Gutenberg™ work, (b) alteration, modification, or
additions or deletions to any Project Gutenberg™ work, and (c) any
Defect you cause.

Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s
goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg™ and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state
visit www.gutenberg.org/donate.

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
donate, please visit: www.gutenberg.org/donate.

Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of
volunteer support.

Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in
the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not
necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper
edition.

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facility: www.gutenberg.org.

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including how to make donations to the Project Gutenberg Literary
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