Un matrimonio eccentrico

By Luigi Gualdo

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Title: Un matrimonio eccentrico

Author: Luigi Gualdo

Release date: April 20, 2025 [eBook #75916]

Language: Italian

Original publication: Milano: Treves, 1894

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK UN MATRIMONIO ECCENTRICO ***


                              LUIGI GUALDO


                             Un matrimonio
                               eccentrico

                                ROMANZO.



                                 MILANO
                        FRATELLI TREVES, EDITORI
                                 1894.




                          PROPRIETÀ LETTERARIA

                      _Riservati tutti i diritti._

                         Tip. Fratelli Treves.




UN MATRIMONIO ECCENTRICO. 




PARTE PRIMA. 


I. 

I servitori sembravano molto affaccendati nella sala da pranzo della
villa Arombelli, vasta, di forma semicircolare, un po’ fredda con le
sue pareti coperte di stucco rosa e le sue colonne in marmo bianco
sostenenti una vôlta dove si vedeva una classica nascita dell’Aurora
sopra fondo azzurro. La tavola, tutta pronta, era semplice, ma non
senza lusso. Non vi si scorgevano i raffinamenti della eleganza
moderna; ma piramidi alte di frutta in vasi della China, circondati di
fiori, rallegravano la candidezza della tovaglia e alternavano con dei
ricchi candelabri d’argento, l’illuminazione essendo di sole candele.
Gli angoli della sala rimanevano nella penombra.

Le altre stanze del pianterreno, il vestibolo, il gran salone, la sala
da bigliardo, la biblioteca erano deserte; il salotto d’angolo, tanto
abitato durante la giornata, pareva il più vuoto. Non occupate, le
poltrone apparivano più ampie del solito; il fuoco — quel fuoco che
si accende tanto gaiamente e che imparte tanto benessere nei primi
giorni di autunno — non aveva più fiamma, e trasformato in un bracere
incandescente che si sarebbe potuto credere alimentato da metalli in
fusione, gettava in mezzo alla stanza un largo riflesso rossiccio
che rendeva più nera l’oscurità circostante. Talora un domestico
attraversante le sale senza rumore, turbava solo il profondo silenzio;
perfino gli oggetti sembrava aspettassero. Suonava il primo colpo
di campana per il pranzo; gli orologi, suonando le sette, pareva si
rispondessero.

Codesta tranquillità contrastava con l’animazione che regnava più su,
al primo piano. Nei corridoi, le cameriere s’incrociavano, portanti
sul braccio talvolta delle vesti, sotto la cui ampiezza scomparivano
quasi; qualche uscio s’apriva mostrando dei piccoli interni eleganti
e in disordine. Le campanellate si succedevano, con timbri vivaci,
prolungati o impazienti. Nelle camere gli uomini si vestivano
gravemente, le signore si facevano belle con cure minuziose; si udivano
a momenti qualche parola pronunciata a voce alta o qualche scoppio di
riso represso.

Nel suo salottino particolare, ritiro nel quale non era facile
penetrare, la padrona di casa, la marchesa Arombelli — vecchia signora
gentilissima, vedova e senza figli, accarezzata dai suoi numerosi
parenti, e amata dai molti suoi amici — già vestita per il pranzo,
come quasi sempre in raso bruno ornato di trine antiche, dava alcuni
ordini alla sua cameriera. La marchesa era piccola, un po’ troppo
grassa, poco maestosa, con un viso calmo e buono, le guancie fresche,
i capelli grigi arricciati; e certi occhietti neri che denunziavano
però una vivacità latente, e a malgrado di tutto ciò aveva un’aria
molto aristocratica. Dall’attenzione che la cameriera prestava alla
padrona, si sarebbe potuto facilmente indovinare che accadeva qualcosa
di un poco insolito. E se ne sarebbe rimasti ancora più persuasi,
se si avesse potuto visitare ad una ad una le camere degli ospiti, e
sorprendere il cicaleggio delle signore, le quali si affrettavano un
poco, senza perciò trascurare alcuna minuzia della loro acconciatura.
La più elegante, la bella contessa Lassardi, aveva imperiosamente
mandato via la sua cameriera, che, diceva lei, non capiva mai nulla.

Ma nell’ultima stanza, in fondo al grande corritoio, a destra, una
fanciulla stava tutta pronta, seduta sopra una sedia, con i gomiti
appoggiati a un piccolo scrittoio, in una posa di abbattimento. Elisa
Valenti era pallidissima, con il viso stanco; una grossa lagrima,
una di quelle lagrime brucianti che non si cura più d’arrestare, le
scendeva lungo la guancia. Guardava fissamente il leggio silenziosa;
s’era lasciala vestire senza badare a cosa le mettevano, seria e
calma in apparenza; poi, appena rimasta sola, aveva approfittato di
quel momento di tregua per piangere. Adesso, non voleva più piangere,
ma sulla sua faccia si dipingeva l’espressione di un dolore quasi
disperato. In quell’ultima stanza di codesta villa, dove la vita
sembrava così facile e dolce, vi era dunque la sofferenza, e una
sofferenza acuta; una scena solitaria di un dramma forse semplice, ma
doloroso.

L’avvenimento che si aspettava in quel giorno non era certo
straordinario; si trattava dell’arrivo del nipote della marchesa,
il bel Massimo d’Astorre, celebre per le sue follie, per la sua
prodigalità e per le avventure della sua vita. La zia, che da parecchi
anni non lo aveva più rivisto, lo amava molto, benchè disapprovasse la
sua condotta, e s’era sentita commossa quando egli le aveva scritto
che verrebbe finalmente a farle la visita da tanto tempo promessa.
Avrebbe dovuto arrivare quel giorno verso le due; lo si era atteso
con impazienza, con curiosità, quasi con emozione — inutilmente. Si
parlava solo di lui in casa da una settimana. La vita si scorreva così
tranquilla, nelle uniformità delle abitudini, che l’arrivo di Massimo
acquistava il valore di un avvenimento d’alta importanza. Era qualcosa
d’interessante, di saporito, di piccante, come un lieve scandalo.
Verso le sei si discorreva ancora di lui nel salone, si diceva che
giungerebbe solo all’indomani, quando, annunciato ad alta voce, entrò
d’improvviso con una scioltezza sua speciale, baciò la mano alla
marchesa, s’inchinò davanti alle altre signore, e accontentò tutti.

Poi, ognuno era salito per vestirsi. E, lassù, si discorreva ancora
di lui, sottovoce; lo si analizzava, ci si vantava di essere in
relazione con lui o di non averlo voluto conoscere; si discuteva sulla
sua figura, sui modi, sulla sua vita. Le cameriere bisbigliavansi
all’orecchio una storiella udita in guardaroba, e che giù, nel
tinello, i servitori pure ripetevano. Era una spiegazione del ritardo
nell’arrivo del marchese. Si pretendeva ch’egli fosse veramente giunto
con il treno del tocco, ma accompagnato da una donna assai vistosamente
vestita e che parlava un po’ troppo forte; ch’erano stati riveduti
mentre facevano colazione insieme al piccolo caffè della stazione,
e che perciò aveva potuto giungere soltanto alle cinque. — Di certo
egli non s’imaginava di occupare tanto tutti, mentre nel quartierino
assegnatogli, discorreva col suo cameriere che disfaceva prestamente le
valigie.

S’udì il secondo colpo della campana. Il signor Gorletti, personaggio
disaggradevole, assai ricco e brutto, una specie d’uomo d’affari
in ritiro che la marchesa invitava, perchè altre volte l’aveva
possentemente aiutata a vincere una causa importante — era già nel
salotto d’angolo e aveva ravvivato il fuoco, quando tutti scesero.
Il salotto si rianimò; tutti sedettero per un momento nelle ampie
poltrone.

— Sono sicura ch’egli si farà aspettare, — disse la contessa Lassardi. 

Ma no; Massimo entrò all’istante stesso in cui, da un altro uscio, il
maggiordomo annunziava il pranzo. La marchesa prese il braccio di suo
nipote e seguì gli altri.

Elisa Valenti si era ben lavata gli occhi, s’era rifatto e calmato il
viso, e nulla in lei accusava una emozione qualsiasi. Il pallore de’
suoi lineamenti stanchi accusava piuttosto lo stato di triste apatia
cui si giunge quando non si spera più nulla!

Essa era bella, d’una bellezza mesta e dolce che non faceva impressione
sulle prime, ma che non si dimenticava; — sottile, bianchissima,
con degli occhi celesti, lunghi e velati, e dei magnifici capelli
castani. — Massimo, che non l’aveva rivista da molto tempo, la trovò
mutata; già la vita aveva tracciato le sue linee misteriose su quel
viso, e sembrava sofferente. Qualche gran cambiamento doveva essersi
prodotto, perchè apparisse così. Certo doveva aver già acquistato molta
forza d’animo per saper dissimulare a tal punto; nessuno, vedendola
discorrere, sorridere e mangiare, avrebbe indovinato che un quarto
d’ora prima essa piangeva come impazzita dal dolore; senza dubbio aveva
dovuto prendere lezioni precoci alla dura scuola del mondo, per sapere
già mettersi in tal modo una maschera sul viso. Una sola volta il suo
sguardo si fissò per un istante nel vuoto, quasi affascinata da una
visiono spaventosa; ma non fu che un momento e nessuno se ne accorse.

Erano dodici a tavola: quelli che già abbiamo nominato, poi donna
Maria Terzi, una parente della padrona di casa, giovane, brutta e di
una eccessiva eleganza; suo marito, un brav’uomo assai maturo e molto
insignificante, che parlava di cavalli soltanto; la loro bellissima
bambina con l’istitutrice, una inglese assai corretta, vittima ad un
tempo dei genitori spensierati e della fanciullina capricciosa; il
piccolo Giacomo Arombelli, erede presuntivo della marchesa, ch’era
accusato di fare troppo apertamente la corte alla bella contessa
Lassardi; un giovine pittore, protetto da tutti; e finalmente il
medico, vecchio silenzioso e gran mangiatore. La contessa era venuta
senza il marito, che, secondo il suo costume, s’era rifiutato ad
accompagnarla, detestando la vita di campagna.

La conversazione era animata; si ascoltava Massimo con grande
attenzione e non senza una curiosità troppo viva, cui la buona
educazione appena nascondeva. La contessa Lassardi e il piccolo
Giacomo gl’indirizzavano perfino delle domande troppo dirette, un po’
indiscrete, alle quali egli rispondeva vagamente, ma nel modo il più
cortese; egli divertì e raccontò qualche storiella scabrosa con un bel
sangue freddo — insomma egli stupì tutti per questo semplice fatto,
straordinario per essi, che diceva qualche cosa. Fu amabilissimo con
la zia ch’era alla sua destra, e galante, non senza una lieve punta
d’ironia, con la contessa, dall’altra parte, che appariva più colorita
e con lo sguardo più sfavillante del solito.

Tutto ciò non gli impediva di osservare. Non perdeva nulla di quanto
accadeva sotto ai suoi occhi, e indovinava anche benino ciò che non
si vedeva. Per abitudine e per gusto, amava, in società, a scrutare
“il disotto„, a cercare le cause celate di effetti appena visibili, a
intravedere le faccie vere sotto le fisonomie d’apparato, la natura
sotto la convenzione, i vizi e le virtù inverniciate dalla tinta
uniforme della vita mondana. La ingordigia del medico lo divertiva,
ed osservò che il signor Goretti guardava Elisa di soppiatto, press’a
poco nello stesso modo che il degno dottore contemplava ciò che
doveva mangiare. Varie pretese mal dissimulate scaturivano per lui
dal rumoroso cicaleggio della sua vicina di sinistra, e, nel mentre
vi rispondeva, non poteva a meno di sorridere alle occhiate feroci
lanciategli dal cugino.

Guardando Elisa Valenti, si convinse del tutto che un segreto si
nascondeva adesso sotto quel contegno tranquillo e dignitoso, sotto
l’espressione calma e un po’ forzata del suo volto. Il pensiero di
lei doveva assentarsi. Perchè, non essendo timida, e trovandosi in un
ambiente intimo, abbassava così spesso gli occhi? Era forse per evitare
degli sguardi troppo spesso fissati sopra di lei? Il suo riserbo,
a momenti eccessivo, e contrastante con la naturalezza de’ suoi
modi, derivava forse semplicemente dalla superiorità che, pure senza
confessarlo, doveva sentirsi sopra quelli che la circondavano?

— Il treno di Monza è stato oggi terribilmente in ritardo, non è vero?
— disse Giacomo.

— Non ne so nulla; arrivo dal lago di Como, dove sono stato a trovare
un amico d’infanzia, e sono venuto qui in carrozza.

— Ah! ecco! E sei venuto presto? 

— In due ore e ventidue minuti. 

Tutti lo guardavano, ma lui non sembrava accorgersene; soltanto,
siccome al Gorletti spuntava sulle labbra un sorriso stupidamente
maligno, gli gettò un’occhiata che lo fece cessare.

— Si può sperare, Elisa, che i tuoi arrivino finalmente domani? —
chiese la padrona di casa.

— La mamma giunge per certo; ho ricevuto una sua lettera ora. Ma credo
che mio padre si dovrà trattenere ancora qualche giorno a Milano.

— Sarò ben felice di rivedere la sua signora madre, — disse Gorletti
con un sorriso. Elisa non rispose affatto.

— Oserei chiederle, signorina, se la emicrania si è totalmente
dissipata?

— Sì dottore, va molto meglio, grazie a lei. 

Allo stesso tempo una piccola discussione s’era impegnata all’altra
estremità della tavola.

— Oh! donna Maria, esagerate! 

— Che dice donna Maria? 

— Ma pretendo semplicemente, — rispose questa, voltandosi verso Giacomo
che aveva fatto l’interruzione, — che non è possibile di vivere
secondo le esigenze d’oggi in una certa società, insomma di vivere
convenientemente, con meno di centomila lire di rendita.

— È una teoria pericolosa, — mormorò Gorletti. 

— E che può condurre assai lontano, — aggiunse il pittore a bassa voce. 

— Mi permetta di dichiararle, donna Maria, — rispose d’Astorre, — che
non sono del suo parere. Centomila franchi all’anno non bastano, o sono
troppi.

— Ah! questa è nuova! 

— Potrei anche provarlo esattamente, ma sarebbe troppo lungo. Rifletta
bene, e s’accorgerà che non ho torto.

— Io vorrei un milione per me sola, con Sarah! — gridò la piccina, con
la sua voce acuta, abbracciando la sua istitutrice.

Tutti risero, ma suo padre la fece tacere, ridendo però anche lui, e
rivolgendosi ad Elisa:

— E lei? Si potrebbe sapere la sua opinione su questo grave argomento? 

La marchesa fece un cenno assai significante a suo nipote, come per
arrestarlo. Massimo l’osservò. Egli, del resto, sapeva che i Valenti
non erano ricchi. Gorletti, allo stesso momento, ebbe un movimento di
curiosità, in attesa della risposta.

— Secondo me, tutto è relativo, e si può essere soddisfatti con poco, o
poveri possedendo dei milioni.

— Lei esprime così dicendo la mia stessa opinione in un modo più
semplice.

— Ah! scusa, non è la stessa cosa! — esclamò Giacomo. 

— Io credevo, — interpose Gorletti, — che la signorina Valenti
disprezzasse il denaro e tutte le cose positive.

Il dottore disse che lui pure lo credeva, giudicandola un poco
romantica.

— Lei s’inganna, dottore; io stimo invece altamente i beni materiali,
e per un motivo giustissimo, ch’essi soli cioè ne assicurano
l’indipendenza.

Vi fu un breve silenzio; la marchesa ne approfittò per mutar discorso.
Pochi momenti dopo il pranzo era finito; tutti si alzarono.

Appena in sala, la contessa Lassardi s’avvicinò a d’Astorre. 

— Sapete che sono in collera con voi, — disse, abbassando un po’ la
voce.

— Di già? Badate, mi farete diventar vano. 

— Come se non lo foste! Sì, sono in collera, perchè non mi avete voluto
ripetere che cosa si raccontava di me a Nizza; non bisognava allora
lasciarmi sapere che si raccontava qualcosa. Ma mi posso vendicare,
giacchè ne so di belle sul conto vostro.

— Ebbene, contessa, facciamo la pace. Venite qui; vi racconterò la
vostra storia, voi mi direte la mia.

Presero posto in un angolo della sala, e, per una ventina di minuti,
rimasero come separati dalli altri. Due o tre volte ella gettò dei
brevi gridi, nascondendosi il viso dietro il suo grande ventaglio.
Durante un minuto, lo guardò fisso negli occhi, e un lieve sorriso le
comparve sulle labbra. All’altra estremità della sala, il cugino teneva
un giornale in mano e li guardava per di sotto, furibondo.

Quando la confessione della contessa fu terminata, la marchesa chiamò
il nipote presso di sè.

— Vediamo, Massimo, vieni un po’ a discorrere con me, adesso. Sarai
dunque sempre incorreggibile, cattivo soggetto?

— Sempre, cara zia. _On a des principes._ 

— _Ou on n’en a pas._ Dici delle cose nefande.... e ne fai. Mi vennero
raccontati aneddoti da far fremere. Si pretende anche che sei talmente
incapricciato di una celebre attrice di cui ho scordato il nome (al
solito) che vuoi dirigere un teatro per lei.

— Sì, è un progetto che mi frulla nel capo. Bisogna incoraggiare
l’arte, e l’assicuro, zia, che la Kausler è un’artista veramente
superiore.

— No, non parlarmene. Ma questo è ancora nulla. E quell’orribile vizio
del giuoco!

— Ah! in quanto a quello, non sa dunque ch’è una passione che ne toglie
del tutto il libero arbitrio?

— Taci, mi fai orrore. È ridicolo che da parte mia io persista a
volerti bene, ad onta di tutto. Voglio dimenticare le tue colpe, per
ora, giacchè sei qui, giacchè almeno sei venuto, finalmente. Avevo
quasi perduto ogni speranza. Sa, signorino, ch’è un gran pezzo che non
lo si è visto?

— È spaventoso. Dieci volte fui sul punto di venire, e sempre....
Pensi, zia; due giorni fa ero a Parigi e non credevo affatto di poter
venire.... Ma, infine, ci sono!

Vicino al vasto camino, la conversazione continuava animatissima. Una
nuova disputa s’era impegnata fra Terzi e la contessa, e Giacomo vi
voleva prender parte. A una certa distanza, Gorletti l’osservava.

— Ma che ha dunque Elisa? sembra triste assai anche questa sera, —
diceva donna Maria che stava sfogliando dei libri a un tavolino.

— Non ne so nulla. Davvero che non mi ci raccapezzo più. 

— Da qualche giorno tutto ciò diventa proprio incomprensibile. 

— Ho un bel studiarla, rimane un mistero anche per me, — soggiunse il
dottore.

Donna Maria si avvicinò allora alla marchesa ed a Massimo. 

— Sapete di che cosa stiamo parlando? — chiese, gettando uno sguardo
dalla parte ov’era Elisa.

— Lo indovino. Lasciatela stare, povera ragazza; si sforza d’essere
socievole; non bisogna parere accorgersi di nulla.

— Naturalmente. Ma vado a parlarle per toglierla alla sua
contemplazione.

E andò a sedere essa pure accanto al fuoco. 

— Hai già notato, Massimo, ch’Elisa sembra sopra pensiero? 

— Certo, appena la vidi. Mi parve anzi assai mutata. 

— È assai bella, però. 

— Certo, ma c’è sul suo viso una espressione che fa pena a vedersi. 

— Credi che sarebbe possibile di giungere a comprendere qual sia la
causa della sua tristezza?

— E lo domanda a me? Ma, cara zia, lei lo deve ben sapere, lei che l’ha
sempre davanti, se io, rivedendola questa sera dopo tanto tempo, l’ho
indovinato da un’ora.

— Discorrendo con la contessa? 

— Ma sì; ciò non mi chiudeva gli occhi. 

— Ebbene, dimmelo, perchè è così mesta? 

— Ma, zia, perchè la si vuole costringere a sposare quel brutto signor
Gorletti.

La marchesa fece un movimento di viva sorpresa. 

— Massimo, devi essere il diavolo in persona! 

Egli si mise a ridere. 

— Ma niente affatto. Alcuni lievi indizi a tavola, il contegno d’Elisa
e di quel brutto signore hanno bastato a mettermi sulla strada. A
proposito, com’è che lei lo conta tra gli amici suoi?

— Egli mi ha reso servizio altre volte in circostanze assai difficili.
A dire il vero comprendo ch’egli non ti piaccia, così a prima vista;
ma ti assicuro che possiede delle qualità eccellenti. È un uomo
retto ed abilissimo, che ha raddoppiato la sua fortuna a poco a poco
e onestamente. È assai benefico. Sia detto fra noi: tre anni fa, ha
salvato i Valenti da una rovina certa.

— Ed è per ciò che ora gli vogliono dare la loro figlia? 

— Egli ha chiesto la mano d’Elisa; essa non voleva, e l’hanno pregata
di aspettare e riflettere bene prima di dare una risposta definitiva,
ma finirà a cedere. Non ha quasi nulla; gli affari della sua famiglia
sono di nuovo imbrogliatissimi; si dice che abbiano debiti ovunque.
Comprendo ch’ella non possa amare il Gorletti; anzi la compiango con
tutto il cuore; ma, lo confesso, mi sembra allo stesso tempo che il
rifiutare, nella sua posizione, sarebbe una follia, ed una colpa verso
i suoi. Del resto, non parlarne, te ne prego; non se ne sa nulla. Tu
indovini tutto!

— Lei ha forse ragione dicendo che quella ragazza non può rifiutare;
eppure quel Gorletti è brutto, vecchio, antipatico, troppo orribile
davvero! Al punto di vista naturale e semplice, all’infuori delle
necessità sociali, è una infamia! Ma si possono forse contare in questo
mondo detestabile?

Si alzò; il suo viso, fattosi scuro per un istante mentre pronunciava
codeste parole, riprese la sua espressione solita, e, col sorriso
sulle labbra, si riavvicinò alla contessa. La conversazione divenne
tosto generale. Giunse il curato, e la marchesa giuocò con lui varie
partite di _tresette_. Giacomo, in un angolo, sempre con un libro in
mano, teneva il broncio; il che, naturalmente, faceva raddoppiare
la civetteria della bella contessa verso il nuovo arrivato. Questi
raccontò nuovamente alcuni aneddoti parigini, parlò de’ suoi viaggi,
lanciò a Giacomo, a Gorletti ed anche al dottore qualche risposta
assai applaudita, e fu sempre più divertente. Si ripeteva a voce bassa
ch’egli aveva davvero dello spirito, e le sue narrazioni aumentarono
il desiderio di saperne di più, tanto che lo si osservava con sempre
crescente curiosità. La marchesa particolarmente lo ammirava, pure
con qualche riserva. La stessa Elisa aveva quasi soggiogato la sua
tristezza e prendeva qualche parte alla conversazione, tranquillamente.
Si servì il tè. Il fuoco fiammeggiava di nuovo, gettava grandi bagliori
dorati sulla tappezzeria verde chiara a grandi ramificazioni di
smaglianti colori, sopra le cornici dei vecchi quadri anneriti. Massimo
era stato bloccato in un angolo dal piccolo Giacomo, che lo interrogava
sopra vari argomenti equivoci, e rideva forte, adulatore sincero
qual’era, alle risposte del magnifico cugino. Sopra un divano, Gorletti
prendeva delle note, ed il dottore dormiva il sonno del giusto, in una
delle vaste poltrone, digerendo scientificamente.

Le undici e mezzo suonarono; il vecchio curato si era accomiatato, e
tutti si dettero la felice notte sul grande scalone, illuminato dai
domestici che portavano dei lumi.

Un quarto d’ora più tardi, tutto era tranquillo nella villa. Il pittore
si addormentava profondamente; Giacomo ed Arombelli vegliarono ancora,
fumando e parlando di cavalli; la padrona di casa leggeva nel suo gran
letto a colonne l’ultimo romanzo inglese della _Tauchnitz Edition_;
donna Maria, nella camera della sua amica, la burlava per il suo
contegno con d’Astorre, il quale, dal canto suo, certo non pensava a
lei, poichè, seduto a un tavolino, vicino al fuoco, scriveva alcune
lettere che parevano assorbire tutta la sua attenzione. Ma, in fondo in
fondo del lungo corridoio, Elisa Valenti aveva spento il lume, e, con
la faccia nascosta nel guanciale, piangeva ancora silenziosamente nella
notte.


II. 

Fu una notte orribile per Elisa; ogni pensiero era una sofferenza,
e cento imagini desolanti le sorgevano subitamente dinanzi — visioni
profetiche, terribili quanto la realtà. Poi si addormentò d’un sonno
pesante, pieno d’incubi, che furono solo interrotti dai primi raggi
del sole. Si svegliò bruscamente, e la verità, senza esagerazioni nè
paure nervose, le apparve in tutta la sua bruttezza. Sua madre doveva
giungere col treno di mezzogiorno, decisa a non più ammettere ritardi.
Bisognava decidersi nella giornata stessa, e la risposta _doveva_
essere affermativa. In mezzo a tutte le sue angoscie, essa si sentiva
ancora libera, a quell’ultimo istante; non lo sarebbe più alla sera. La
si costringerebbe ad accettare la corte ufficiale del signor Gorletti,
e fra un mese, fra quindici giorni forse.... A una tale idea, tutta
l’anima sua si ribellava. — Poi, di nuovo, l’orribile rassegnazione la
fiaccava. A poco a poco il circolo de’ suoi pensieri si allargò; essa
rivide la sua vita svolgersi davanti a lei; i ricordi indimenticabili,
le gioie perdute; poichè, sebbene giovane, aveva già un passato che non
potrebbe mai cancellare dalla sua memoria.

Rammentava indistintamente il formicolio dei passeggiatori e la lunga
fila di carrozze, alle Cascine, nelle calde giornate estive, mentre,
sotto la frescura degli alberi, guardava pigramente uno spettacolo
tanto splendido che ne rimaneva a momenti abbagliata, dal viale
polveroso fino all’orizzonte sfolgorante nella pompa del sole cadente
— ella si rivedeva seduta in una grande carrozza verde, nella quale
talvolta non si riusciva a farla star cheta, bimba capricciosa com’era,
annoiata dalla lentezza del cammino, e dove talora invece taceva e
restava immobile, resa meditabonda dalla precoce ammirazione delle
bellezze del paesaggio. Al giovedì, veniva anche il piccolo Giulio
Bardi, il compagno fedele de’ suoi giuochi, al quale voleva tanto bene,
ma che si stupiva sempre di vedere così serio, ne’ suoi abiti troppo
stretti da collegiale, ad onta della gioia d’un giorno “d’uscita„ — e
del quale si sforzava di non osservare troppo le povere scarpe ch’egli
nascondeva sempre.

Rammentava un vasto e ricco quartiere, e le ricche acconciature di sua
madre, che vedeva sovente alla sera, pronta per andare ad un ballo,
tutta gioiata, mentre si abbottonava i guanti davanti allo specchio al
quale gettava un ultimo sguardo; avea la vecchia Annunciata diritta
dietro a lei, che le presentava un mantello tutto a ricami. E se sua
madre la intimidiva sempre un poco, l’agghiacciava in quei momenti
sopratutto. In quanto a suo padre, passavano settimane intere senza
ch’ella lo vedesse; poi, una bella mattina, entrava bruscamente nella
sua camera, l’abbracciava ridendo, le dava dei dolci o qualche piccolo
regalo, e se ne andava.

Poi la scena mutava. Era il principio della rovina. Essa non
dimenticherebbe giammai le angoscie indovinate, le sventure intraviste,
le lotte, le dispute, le miserie alle quali aveva assistito senza
comprenderle del tutto — e le sue prime malinconie, attraversate da
risvegli di gioie infantili.

I suoi si decisero allora a partire, e viaggiarono lungamente. Dopo
un soggiorno di alcune settimane a Cannes, dove si era molto annoiata,
tra sua madre taciturna e triste, suo padre che fumava tutto il giorno,
passeggiando sulla spiaggia, andarono a Parigi. Là, intimidita dapprima
dal tumulto della grande città, quasi per poco rimpianse la sua
cameretta, dove soffocava, ma la cui finestra s’apriva sul vasto mare,
azzureggiante sotto il sole. A poco a poco s’interessò allo spettacolo
continuo svolgentesi sotto ai suoi occhi. Amava fare dei lunghi
passeggi con l’Annunciata; specialmente quando, stanche, prendevano
l’omnibus per tornare a casa. Quanto le sembravano allora già lontani i
bei giorni di Firenze! Passava quasi tutte le giornale con la vecchia
domestica, e la sera con sua madre, che usciva di rado, e finiva ad
addormentarsi, con un romanzo in mano. Suo padre le aveva lasciate per
andare a Londra, dove, da quello ch’ella potè capire, sperava potere
rifare una fortuna in una grande speculazione. Poco dopo egli vi si
fissò ed esse lo raggiunsero. Elisa ebbe appena il tempo di vincere
la prima impressione di tristezza, ma ripensò lungamente, dopo che fu
ripartita, alle praterie d’un verde chiaro dei parchi pubblici sotto
un cielo quasi incoloro dove brillava un sole rosso, a quelle lunghe
sfilate d’erba tenera e verdissima che non si ritrova altrove.

Gli affari tentati dal padre non riuscirono, e ritornarono a Parigi.
Poi, attraversando la Germania, rientrarono in Italia, e, sempre
costretti a vivere modestamente assai, andarono a stabilirsi in
campagna, in Piemonte dapprima, poi, definitivamente, al lago di Como.
Sua sorella, lasciata in collegio a Firenze, perchè troppo bambina
per viaggiare, li venne allora a raggiungere. Elisa, che l’amava
moltissimo, ridiventò allegra giuocando con lei. Pure, all’età in
cui le altre sono ancora bimbe, Elisa talvolta non lo era già più; e,
durante le belle sere di quel primo estate passate in riva al lago,
essa rimaneva a lungo appoggiata al davanzale della sua finestra,
ripensando a tutto quanto aveva veduto, riflettendo già a ciò che
sapeva della vita, e a ciò che tentava d’indovinare, volgendo nella
sua mente quei primi pensieri vaghi ed inquietanti, che, se potessero
esprimersi, formerebbero un poema sublime. Ma l’incanto di quelle
malinconie si dissipò bentosto, poichè fu visitata dal vero dolore,
che venne ad aiutare il rapido svolgimento dell’esser suo, aggiungendo
le orribili sofferenze di un primo lutto a quanto avevano già compito
la solitudine, la passione della lettura ed il raccoglimento. Un
mese soltanto dopo ch’erano state riunite, sua sorella, quella bimba
dalla testa bionda, possedente già l’adorabile bellezza degli esseri
privilegiati che devono solo conoscere l’alba della vita terrena, si
ammalò e lentamente morì, dopo una lunga lotta. — Quando Elisa potè
alfine ritrovare un po’ di calma, credette sentire che già nel suo
petto batteva un cuore di donna. Le sembrava che il dolore, venuto
in tal modo a prenderla per mano fino dai primi passi, dovesse ora
accompagnarla fino in fondo. La vita le appariva come una lunga e dura
prova, e, al tempo stesso, si sentì forte per combattere. Ma si trovò
ben sola.

Certo ella sentiva, nel forte slancio della sua gioventù appena
incominciata, anche quasi dei presentimenti di felicità, ma dinanzi al
suo sguardo teso, le lontananze apparivano melanconicamente velate.

Si desolava sopratutto di non amare i suoi genitori quanto avrebbe
voluto. L’affetto per suo padre era in lei vivissimo, senza dubbio;
ma egli si assentava troppo spesso, sembrava sempre preoccupato, ed
era di pessimo umore quando veniva a casa; lui che tutti, in società,
dicevano tanto divertente! E non poteva sentire per sua madre quella
confidenza soave e illimitata che le sarebbe sembrata naturale —
sebbene facesse ogni sforzo per amarla. Bisogna pur dirlo, l’attitudine
della signora Valenti dava ragione a sua figlia. Sempre occupata di
sè, inasprita contro tutti, non potendo mai rassegnarsi al cambiamento
successo, essa non sapeva cercare nella sua creatura, unica oramai,
quella consolazione di tutto, che avrebbe dovuto trovare in lei, e si
accontentava di far finta di dirigerne gli studi. Elisa ne soffriva
internamente, in silenzio, sforzandosi di sorridere e d’essere gentile,
e imparando in tal modo — all’età della imprevidenza — a nascondere le
sue pene e i suoi intimi pensieri.

La modesta casetta dove si erano ritirati, era situata sulla riva
destra del lago di Como, come sospesa a metà della salita sul versante
un po’ ripido della montagna — piccola, e tutta dipinta d’un orribile
color lilla scuro con delle persiane giallastre. Un giardinetto,
pieno di rose, sul davanti; a destra un orto, la strada a gradinata
sulla sinistra; e dietro la montagna che potevasi quasi toccare dalle
finestre posteriori del primo piano. Dal balcone sul davanti, al
contrario, si godeva di una veduta spaziosa, che cambiava continuamente
secondo le più lievi variazioni del cielo. Nelle belle giornate, lo
sguardo riposava sul lago tutto azzurro e sulla riva opposta, sparsa di
bianche ville, avente per sfondo le alte forme brune delle montagne;
a sinistra il lago si rinserrava, svoltando; mentre dall’altra parte
sembrava distendersi in una espansione infinita delle sue bellezze.
Abbandonando la casa, camminando a destra, l’occhio era subito attratto
in basso dal candore della Pliniana, contrastante con la sua corona di
verde cupo, ed esalante, dal delizioso abisso che si prolunga dietro la
villa, come il profumo d’una frescura ignota altrove — quasi divina.

Gorletti veniva allora spesso a trovarli, e impegnava lunghe
conversazioni ora con Valenti, ora con la signora. Si avevano per lui
i maggiori riguardi e sovente, ad onta di tutto, egli se ne andava con
un’aria malcontenta.

Una volta Elisa lo sentì che si arrabbiava e sgridava suo padre, e quel
giorno, con grande sorpresa di lei, gli si mostrò una cortesia ancora
maggiore del solito, e, quando partì, lo si pregò con insistenza di
ritornare.

Da quell’istante, ella cominciò a detestarlo davvero. Sua madre,
invece, non cessava dal cantare le lodi del signor Gorletti in tutti
i toni. Finì col dichiarare a sua figlia che quell’uomo avedutissimo,
d’un gran sapere e di buon consiglio, era il loro migliore amico; e
che, dal momento ch’egli si sagrificava per loro al punto di aiutarli
nel loro affari, bisognava manifestargli vivissima riconoscenza, e
confidare in lui completamente.

La loro posizione, infatti, migliorava un poco. Non già che potessero
sperare di rifare la fortuna perduta; ma si era almeno giunti
ad arrestarsi sul pendio di una rovina che li avrebbe condotti
irrevocabilmente alla miseria — ed ora potevano guardare un po’ più
pacatamente l’avvenire e vivere anzi un po’ meno male, con un benessere
relativo. Con quali mezzi Gorletti aveva potuto compiere un simile
miracolo? Ciò restava un mistero.

La signora Valenti, cui non piaceva il soggiorno del lago e ch’era
sempre triste quando rimaneva sola, cominciava intanto a trovare
qualche vantaggio nelle società delle famiglie del vicinato, e andava
spesso a far visite, combinando le cose in modo di non dover poi
ricevere, non amando di mostrare in qual modo fossero alloggiati.
Erano dei milanesi che passavano là quasi tutto l’anno, per gusto o
per economia; dei forestieri pressochè stabiliti, o venuti solo per un
breve soggiorno, ma coi quali si faceva presto conoscenza — talvolta
della gente un poco spostata e dei quali si susurravano ogni specie di
storie, più o meno false. Ma la signora Valenti non era mai stata molto
meticolosa in codeste cose, o lo diventava ancora meno; bastava che vi
fosse un’apparenza di eleganza perchè non si curasse troppo del resto.
Essa aveva conosciuto molta gente durante il soggiorno all’estero, e
ad ogni momento ritrovava delle persone che aveva già incontrate, e di
tutte diceva senza distinzione “sono vecchi amici„.

Intanto Elisa cresceva in libertà e si sviluppava moralmente e
fisicamente, senza che si pensasse molto ad aiutare la natura. Sua
madre, talvolta, le dava dei consigli sul modo di vestirsi, e non
s’incaricava più della sua educazione, come aveva avuto la pretesa di
farlo per lo addietro, giudicandola terminata. “Appena potrà abitare
una città, si _formerà_ ben presto; tutto quanto è stato possibile
nelle attuali circostanze, è stato fatto„, soleva dire. In realtà
l’istruzione della fanciulla era stata assai negletta, e sarebbe
rimasta quasi ignorante se l’amore alla lettura ed il suo innato
desiderio di sapere, non avesse meravigliosamente supplito alla
negligenza dei suoi.

La si lasciava libera, disapprovando però ad ogni momento ciò che
chiamavano le sue manie. Così, per esempio, rimaneva talora delle
giornate intere nella sua camera a leggere, mentre il tempo era
splendido e tutti correvano fuori. Poi, non appena il vento pieghettava
la superficie del lago e i grossi nuvoloni neri si ammonticchiavano
in cielo, se ne andava a passeggiar interminabilmente, finiva per
perdersi sui versanti boscosi delle colline, si spingeva a scoprire
luoghi sconosciuti per i piccoli sentieri nascosti tra i rovi — per
poi ritornare a casa, dopo varie ore di assenza, con la veste lacera,
e spesso tutta bagnata dalla pioggia dirotta. Allora la sgridavano
— il che non impediva che ricominciasse da capo. Sovente portava
seco una valigietta, quasi partisse per un breve viaggio, e restava
a leggere o a sognare con gli occhi aperti, accoccolata in qualche
strano cantuccio, all’ombra di un albero, da dove si dominava il lago.
Ogni giorno diventava più selvaggia, e rifiutava di accompagnare la
madre nelle sue visite; non era però esente di una certa civetteria,
e già imparava a vestirsi, benchè assai semplicemente e in un modo
un po’ diverso dal convenzionale. Finì col conoscere tutte le strade,
tutti i sentieri, tutti gli angoli e a famigliarizzarsi sempre più con
l’incantevole spettacolo che la circondava, e del quale non poteva
stancarsi, poichè era più variato de’ suoi pensieri di fanciulla, e
sembrava volesse compiacerla, accordandosi tanto bene con i sogni della
sua imaginazione.

Alla fine dell’estate, le ville o gli alberghi si popolarono. Da tutte
le parti giungeva gente. La stagione elegante incominciava; si parlava
di feste, di principi sovrani attesi con numeroso seguito, di regate,
d’illuminazioni. La signora Valenti trovava il soggiorno del lago meno
disaggradevole. Gorletti raccomandava l’economia. Elisa temeva che
la sua solitudine non ne avesse ad esser turbata. Dovette, infatti,
cambiare un poco le sue abitudini, moderare la sua passione di libertà,
ed accompagnare sua madre a qualche ritrovo dov’era stata invitata.
Si fecero delle escursioni sul lago. Una volta, per esempio, andarono
a Como ad incontrare alcuni “amici„ che arrivavano direttamente
da Venezia, per prendere a Colico la strada della Svizzera. Era
un’occasione per vedere tutto il lago.

Partirono all’alba; la _breva_ aveva soffiato nella notte, ma sul
far del giorno, sotto il cielo ridiventato tutto limpido, il lago
era perfettamente calmo. Faceva un calore aggradevole; dal ponte del
battello a vapore si scorgevano le due rive con la loro cupa verzura
dove biancheggiavano le ville e, innalzandosi dolcemente al di sopra,
le montagne dalle cime incoronate di sole. Grosse barche attraversavano
il lago, senza fretta, da una sponda all’altra. Vicinissimo al
battello, entro piccoli canotti di forma molto allungata, alcuni
giovanotti e ragazze remavano allegramente, ridendo della lieve
tempesta sollevata dalle ruote, e guardavano i passeggieri. A sinistra,
dove la riva è talvolta quasi a picco, qualche casa sembrava sorgere
dall’acqua; mentre a destra si vedevano correre delle carrozze sulla
strada, dalla quale s’innalzavano dei grandi alberi di tanto in tanto.
Davanti, in faccia, il lago si allargava, e lo sguardo si perdeva entro
una nebbia luminosa; all’indietro scompariva lentamente la piccola
città di Como, col suo porto in miniatura, la sua piazza ingombra di
gente, e la cupola della sua cattedrale. V’era folla sul ponte del
battello, quel giorno: uomini d’affari, forestieri, villeggianti. Elisa
godeva internamente del raggiante spettacolo svolgentesi dinanzi a
lei, ma parlava poco, e spesso il suo sguardo si faceva triste. Ella
soltanto rispondeva macchinalmente alle domande che le venivano rivolte
e che interrompevano la sua estasi tranquilla. Certi passeggieri la
interessavano; osservò una donna di una bellezza affatto speciale,
dalla figura giovanissima e dai capelli già bianchi, accompagnata da
un vecchio signore dall’aspetto militare, suo padre probabilmente; poi
un giovane, metà coricato sulla panchina, e che, malgrado il caldo,
era avviluppato in un _plaid_ fino agli occhi — due grandi occhi
neri che talvolta la guardavano fisso. La signora Valenti era gaia
e discorreva con tutti, tra gli altri anche col marchese d’Astorre,
che si trovava lì in compagnia di una famiglia inglese. Essa era
orgogliosa di mostrarsi intima con un uomo così elegante ed altolocato.
Egli indirizzò anche qualche volta la parola ad Elisa, e benchè lei
non avesse simpatia per lui, riuscì a attirare la sua attenzione
con le idee paradossali che sosteneva languidamente. Tutte le volte
che per caso avevano incontrato d’Astorre, la signora Valenti aveva
rimproverato a sua figlia di non esser stata abbastanza gentile.

Si passò davanti al falso castello dipinto color mattone, circondato
dai magnifici alberi della Villa d’Este, ed Elisa, voltandosi verso la
sponda di destra, cercò la loro casa. E vedendola, piccolissima, come
un balocco da gigante dimenticato tra il verde, sentì che già l’amava
con tutto il cuore, quel modesto rifugio tanto odiato da sua madre.
Poi il lago s’allargò. Le rive erano meno abitate; solo si scorgeva
qualche umile villaggio, e talora una timida casetta. Ai luoghi dove
il battello non approdava, alcune barche piene di gente si fermavano un
istante per prendere i nuovi arrivati.

V’erano mille cose da osservare sulla sponda più vicina. Si comprendeva
al modo con cui certi vecchi erano appoggiati a un parapetto di pietra,
che quella era la loro sola e quotidiana distrazione da moltissimi
anni. Alcuni preti, corpulenti, col tricorno inclinato per ripararsi
dal sole, e con un ombrello rosso in mano, saltavano pesantemente dal
vapore nella barca, indirizzando con famigliarità la parola a qualche
donna del popolo già seduta, con un fagotto tra le mani, un fazzoletto
a fiori in testa, e che rispondeva con un largo sorriso. Sotto un
pergolato, nel giardinetto di un’osteria, dei borghesi “in barracca„
sedevano a un tavolino, e quasi s’indovinava l’espressione delle loro
grosse faccie, rosse per il caldo e per lo sforzo fatto nel volersi
divertire.

A poco a poco la scena mutava carattere. Le montagne s’innalzavano
più maestose, in una nudità bruna. Il lago si rinserrava da una parte;
un promontorio formava una larga sinuosità, e al di là, in un piccolo
golfo riparato dal vento, le case sembravano cuocere sotto il sole.

Elisa osservò una darsena circondata da un muro di pietra, terminata da
una statua di vescovo annerita dal tempo e dalle vegetazioni parassite,
che, con le dita in alto, sembrava benedire i passanti; alzando gli
occhi li tenne a lungo rivolti allo svelto portico che sorge alla cima
della collinetta sopra il promontorio, sopra la Villa Arconati, ed i
cui tre archi eleganti, pieni di cielo azzurro, si disegnano nettamente
nello spazio, e nelle giornate chiare acquistano una bianchezza
splendente nella limpidezza dell’aria.

La sponda diventava aristocratica: non si vedevano che giardini
dal verde cupo, e dalla sabbia fina, che cancelli pesanti a blasoni
dorati. Un albergo, nuovissimo, con il suo lusso banale, appariva ad un
tratto mentre si stava ancora ammirando un’antica villa all’italiana,
abbandonata a metà, dove la natura aveva quasi ripreso possesso,
e invadeva liberamente i pergolati architettonici, mettendo così
in rilievo l’antitesi tra l’opulenza d’una volta e la prodigalità
moderna. Talvolta passavano dei canotti, ornati a poppa da una bandiera
stemmata, dove due barcaiuoli vestiti alla marinara, remavano con
gusto. Seguendo con lo sguardo quelle barche che filavano rapide, si
poteva imaginare tutta la vita delle persone che le occupavano. Spesso
una finestra apertasi d’improvviso, una carrozza che si fermava ad
una porta, un interno vagamente intraveduto, mostravano a Elisa del
frammenti d’esistenze ch’essa, nella sua giovane mente, ricostituiva
per intero.

A Cadenabbia, d’Astorre discese. V’era molta gente allo sbarco e
dinanzi al grande albergo. Alcuni forestieri prendevano il tè, seduti
davanti a un tavolino rustico. Una testa di fanciulla, bella come un
ritratto di Laurence, apparve ad un balcone. La gente si urtava. Dal
battello alla sponda era uno scambio di vociferazioni e d’ingiurie;
dei pacchi erano buttati a rischio di farli cadere nell’acqua. I
facchini, curvi sotto al peso dei bauli, bestemmiavano spingendosi.
Mentre due signori si chiedevano scusa d’essersi leggermente urtati, un
contadino li scostava con una gomitata, e passava oltre. Il segretario
dell’albergo stava diritto nella sua tenuta corretta, e sorrideva ai
forestieri.

Non si toccò Bellagio. Il paese prendeva ad ogni istante un aspetto
più severo, e senza la caldura soffocante, si avrebbe potuto credersi
in Svizzera. Il sole ardeva, ma si sentiva che certi soffii di brezza
giungevano direttamente dalle Alpi. Il lago, sempre più largo, si
biforcava allungandosi da una parte fino a Lecco, incassato fra le alte
montagne aride che s’era stupiti di vedere disegnarsi sopra un cielo
tutto azzurro. I passaggieri poterono soltanto gettare un lungo sguardo
da quel lato, giacchè il battello continuò diritto il suo cammino.

Durante la tarda colazione a Colico, Elisa parlò un poco, ma al
ritorno, sul ponte quasi deserto e silenzioso, al momento in cui sua
madre non cessava dall’esprimere quanto le doleva di aver lasciato
i suoi “amici„ e quanto le sarebbe piaciuto di continuare il viaggio
con loro, essa ricominciò a sognare, mentre l’ombra saliva e invadeva
lentamente le altezze. Invano suo padre tentò di scherzare. I suoi
pensieri la tenevano lontana da quanto la circondava, e faceva uno
sforzo per ricapitolare le impressioni di codesta giornata, che,
nella monotonia della sua esistenza, ella non potrebbe facilmente
dimenticare. Nulla le era accaduto; ma le sue idee avevano potuto
prendere un nuovo indirizzo, e, all’epoca della vita in cui si trovava,
i pensieri sembrano cose reali e hanno la importanza degli avvenimenti.

Settembre incominciava, ma, in quell’anno, il caldo sembrava più
pesante che in luglio. Elisa ne soffriva; diventava pigra, non faceva
più le sue lunghe passeggiate e stava per delle ore seduta all’ombra,
sull’erba, con gli occhi semichiusi, contemplando. Era quella che si
chiama “la bella stagione„, ma lei non l’amava, ed avrebbe preferito
lo spavento d’una tempesta all’afa di quelle giornate tutte uguali,
allorchè nella luce cruda, le tinte si confondono, e che sotto un
cielo di una serenità snervante, il paesaggio appare tutto confuso in
un pulvischio luminoso. Da un pezzo ella pensava che l’estate stava
per finire, ma l’estate perdurava e prolungava le sue insopportabili
giornate canicolari.

Essa piegava sotto il peso della solitudine. Le sembrava d’essere
sola al mondo, e di dovervi rimanere sempre sola; tutti quelli che la
circondavano erano per lei stranieri. E questo sentimento diventava
sempre più forte; più le rive del lago si popolavano, più sua madre
parlava ad ogni istante di nuovi venuti, e più si vedevano i battelli
a vapore zeppi di gente passare fieramente, come accasciati dal caldo,
sopra l’azzurro metallico dell’acqua, scuotendo il loro nero pennacchio
di fumo nell’aria torrida.

Era ancora quasi impossibile di uscire in pieno giorno, e le ville ben
chiuse, con le persiane chiuse e le tende abbassate, pareva facessero
la siesta. Quelle che bagnavano nell’acqua sembravano più felici.
Il marmo — codesto simbolo della freddezza — s’infiammava al sole.
L’asfalto dei terrazzi si copriva di fessure sotto i raggi possenti.
I mattoni e le tegole parevano cuocere di nuovo. I fiori troppo
largamente aperti piegavano il loro fragile capo ed avvizzivano ad un
tratto. I piccoli viali del giardino erano sparsi di foglie di rosa,
sparpagliate dal soffio ostinato dell’estate; vanamente nella frescura
relativa delle prime ore, Elisa rialzava gli arbusti cadenti, poichè
sempre il meriggio li rigettava quasi a terra.

I contadini imploravano la pioggia. Venne alfine. I temporali
scoppiarono, l’uno subito dopo l’altro. Brevi acquazzoni torrenziali
rigarono con le loro mille freccie bigie il cielo oscurato. — Quelli
che avevano combinato qualche gita per l’indomani erano desolati. —
Ma Elisa, contenta, contemplava il magnifico cambiamento di scena,
attraverso le persiane socchiuse. Poi, dopo quelle prime ardite
battaglie, il cattivo tempo si stabilì, vincitore. Durante molti giorni
una fine pioggia cadde incessante. Nei cieli svariati e talvolta
stranissimi, grossi nuvoloni viaggiavano lenti, mutando forme e
tinte, lasciando per caso scorgere qualche breve lembo d’azzurro, poi
mescolandosi d’un tratto e stendendosi come un grande lenzuolo plumbeo.
Tutto riviveva sotto la pioggia benefica — e l’estate, che aveva
resistito tanto a lungo, bruscamente cessava.

Eppure alcune settimane trascorsero ancora prima ch’Elisa sentisse
tutto l’incanto segreto e penetrante dell’autunno. Se ne accorse
quasi all’improvviso. Negli stessi giorni, verso la fine di ottobre, i
forestieri fuggirono intimiditi dai primi freddi; le foglie ingiallite
coprirono il suolo nei giardini deserti delle ville — e là, nei posti
dove tanti allegri cicaleggi erano stati accompagnati dal canto degli
uccelli, il silenzio regnò subitamente sotto gli alberi nudi. Come
sempre, sembrava che gli scoppii di riso che erano svaniti per l’aria,
aumentassero la tristezza delle case chiuse.

Ma le giovinette pensose che solo conoscono le sofferenze sane, e
nelle loro aspirazioni alle gioie pure non hanno altri presentimenti
che quelli dell’ignoto dolore, adorano la malinconia delle cose. Elisa
si sentiva riprender possesso del paesaggio, ora che tutti quegli
importuni se n’erano andati. Come prima essa di nuovo confidava al
_suo_ lago tutto quanto non sapeva esprimere, e le pareva che i suoi
più segreti pensieri fossero compresi da quell’ammirevole natura.

Una mattina, in una di quelle dolci e inquietanti giornate autunnali
in cui si vorrebbe poter camminar sempre, come nei racconti di fate,
alla scoperta di paesi sconosciuti, Elisa, spinta dal rinnovato
fascino d’una delle sue passeggiate abituali, si era lasciata
andare un po’ troppo lontano, e si perdette. Il suo vestito di panno
marrone, artisticamente rialzato sui suoi graziosi stivaletti, il suo
cappello di feltro a tese rialzate messo da una parte sopra i suoi bei
capelli, il suo giovane viso un po’ rosso per la crudezza dell’aria,
ella camminava speditamente, e guardava lontano dinanzi a sè, come
cercando l’orizzonte, mentre il suo pensiero si perdeva ben più lungi
ancora. Accorgendosi ad un tratto che non sapeva più dove si trovasse,
s’arrestò. Poi, riflettendo, tornò indietro, ma varii piccoli sentieri
profondi e una strada si offrivano a lei. Indecisa, si avventurò sulla
via più larga, a caso, rallentando il suo cammino nella speranza di
scorgere qualcuno a cui chiedere una indicazione. Finalmente, vide a
breve distanza un uomo che le voltava la schiena, e che, con la testa
bassa, pareva cercasse qualcosa per terra. Lo credette un contadino, e
lo chiamò. Vivacemente egli si voltò e le corse incontro; ma, quando
le fu vicino, ella dovette arrossire un poco e fu con una voce assai
timida che gli fece la sua domanda.

Egli non era un contadino, sebbene fosse vestito come potrebbe essere
il figlio d’un fittabile. Il suo costume un po’ grossolano contrastava
con un bel viso regolarissimo e bianco sotto l’imbronzatura del sole,
coi fini capelli castani, con gli occhi di un azzurro cupo e con una
speciale eleganza nell’andatura. Egli sollevò il suo cappello sformato
dalle pioggie, e, un poco turbato a sua volta, le chiese il permesso di
rimetterla sulla strada giusta.

Scambiarono qualche parola, imbarazzati, poi camminarono in silenzio.
Elisa si accomodò alla situazione un po’ difficile. L’italiano
purissimo ed il modo corretto ed anche alquanto ricercato d’esprimersi
del giovane, la stupirono e non giungeva ad indovinare chi fosse. Lo
guardava attentamente, alla sfuggita, quasi suo malgrado. Era chiaro
ch’egli conosceva i dintorni, ed il caso solo aveva vietato che non si
fossero già incontrati più volte; egli poi sembrava conoscerla pure,
lei e la sua famiglia.

— La lascierò quando scorgeremo la sua casa, — le aveva detto. 

Certo doveva aver ricevuta una educazione superiore, ma sembrava
povero. Mentre lei si rassicurava, ed arrischiava qualche frase,
lui sembrava diventare più riserbato. Sulle prime l’aveva guardata,
timido, come stesse per parlare, ma non vi si sapesse decidere; poi
non aveva più osato rivolgerle lo sguardo. Una volta le stese la
mano per aiutarla in un passo difficile; ma poi quando il sentiero,
rovinato dalla pioggia, divenne decisamente cattivo, non lo fece più.
Bruscamente, dopo un lungo silenzio, disse:

— Dev’essere stanca, signorina. Non si vorrebbe riposare un momento?
Non siamo che a metà strada.

Ella si fermò e sedette sopra un grosso tronco d’albero ch’egli
aveva ripulito; lui restò in piedi dinanzi a lei. Entrambi allora si
sentirono imbarazzati assai. Il vento stormiva tra le ultime foglie.
Non potevano vietarsi di ascoltare quel rumore. — Un pittore che li
avesse veduti in quel momento avrebbe trovato un quadro bell’e fatto,
tanto era seducente il contrasto fra essi ed il paesaggio circondante,
tanto la freschezza della loro gioventù splendeva sul fondo imbrunito
della natura.

Allora Elisa, felice un minuto prima, si sentì inquieta; ebbe quasi
paura, ed il solo presentimento ch’egli stava per dire qualche cosa, la
fece arrossire.

Ma impallidì quando finalmente egli susurrò turbato: 

— Lei non mi riconosce dunque, signora Elisa? Io l’ho riconosciuta
subito, sul battello, quest’estate. Ero in un angolo, tutto avvolto
nelle coperte, poichè uscivo appena di malattia. E, siccome lei mi
guardava, ho sperato per un istante, ed ho quasi avuto paura allo
stesso tempo. Sono diventato orso del tutto, e sua madre mi ha sempre
intimidito. Ma ecco ciò che desideravo: incontrarla sola.

Elisa si alzò, quasi spaventata, e fece una mossa per partire. 

Egli sorrise. 

— Davvero, — disse, — lei vuol fuggire? Sono dunque ben mutato? 

Una inflessione della voce la scosse. Lo guardò con attenzione,
stupitissima.

— Lui, — esclamò quasi involontariamente. 

— Come s’è fatta bella, ed alta! 

— Giulio Bardi! — disse lei. 

Era lui, infatti, il suo antico compagno, il meschino collegiale
di Firenze, diventato un bel giovane. Ella gli stese la mano con un
sorriso stupito, e lui la strinse amichevolmente.

Poi ripigliarono il loro cammino. Ambedue avrebbero voluto parlare e
non trovavano nulla da dirsi; pensavano che sarebbe stato naturale di
discorrere, e che dovevano avere molte cose da raccontarsi, e tacevano.
Elisa sentiva mille pensieri sorgerle nella testa, e guardava talora
il suo compagno, il di cui inatteso incontro le ridava dei ricordi
d’infanzia, ma c’era adesso un imbarazzo tra di loro.

Intanto lei si perdeva in congetture. In che modo era lì? Dove
dimorava? Com’era che non si fossero già incontrati?

Finalmente lui pigliò coraggio, e in un modo un poco contorto,
rispettoso e famigliare ad un tempo, le narrò in qual modo avesse
perduto i suoi genitori, e fosse rimasto solo e povero. Per fortuna suo
padre gli aveva dato una educazione utile, e lo aveva posto in grado
di trarsi d’impaccio. Abbandonato giovanissimo alla propria attività,
aveva acquistato una certa maturità precoce, la quale, visibile sul
suo volto, gli dava una seduzione di più, contrastando con la sua
giovinezza. — Elisa, guardandolo, osservava quanto fosse mutato, ma
ritrovava anche le traccie degli antichi lineamenti, mezzo cancellate
dalla sua memoria. Una piega del labbro, un’occhiata, un gesto,
bastavano ad evocare innanzi a lei una scena della loro fanciullezza,
ed, a momenti, egli le pareva talmente lo stesso, sebbene assai più
alto e bello, che si stupiva di non averlo riconosciuto subito.

Egli le raccontò la sua vita, li ultimi anni di suo padre che lei
rammentava benissimo, l’uscita dal collegio dove aveva tanto sofferto,
i suoi rapidi studi alla università di Pisa, che aveva lasciato da poco
con una laurea d’ingegnere.

Adesso era impiegato in una fabbrica situata a un paio di chilometri
di distanza, appartenente a un suo cugino, il di cui padre aveva fatto
fortuna nelle Indie dove possedeva diversi stabilimenti commerciali.
Egli ora studiava praticamente le macchine, intanto che gli si cercava
uno stabile impiego conveniente, poichè doveva lavorar molto e seguire
seriamente la carriera prescelta. Occupatissimo di mattina e di sera,
era talvolta libero nel pomeriggio, e faceva allora lunghe passeggiate.
Già più volte aveva sperato incontrarla.

— E perchè non è venuto a casa, semplicemente? 

— Non so. Non oso. Non vorrei.... 

— Ma ora verrà? 

— No, preferirei non venire, almeno per adesso. Più tardi forse.... 

— Eppure bisognerà bene che si decida a venire, se mi vorrà vedere. 

— Sì, ma.... 

Non finì, ma lei indovinò, poichè lo interruppe per fargli notare
alcune barche che filavano velocissime sull’acqua.

Mentre Elisa mostrava a Giulio la propria casa, videro varie persone
che si avvicinavano, appena celate da un gruppo di piante. Elisa udì
la voce di suo padre e quella di Gorletti, e voltandosi vivamente verso
il giovane gli disse “Addio!„ Lui capì, le strinse la mano rispondendo:
“Arrivederci„, e s’allontanò prestissimo.

Ella rincasò un poco turbata. Era contenta assai di aver ritrovato
il suo antico amico, e si sentì allegra, ad onta delle piccole
punzecchiature di sua madre e della presenza di Gorletti a pranzo. A un
certo momento, fu sul punto di parlare dell’incontro fatto, e non potè
decidervisi; provava una invincibile ripugnanza a farlo, anche perchè
non vi era autorizzata da Giulio.

All’indomani ella uscì abbastanza tardi, e se ne andò per una strada
che non prendeva d’abitudine. Alla prima voltata, incontrò Giulio. Essi
affettarono una completa naturalezza, si misero a camminare insieme
senza dare importanza veruna al loro incontro, e più volevano parere
a loro bell’agio, più si sentivano internamente imbarazzati. Per lei,
codesto giovane, che non aveva subito riconosciuto il giorno prima, era
ad un tempo un fratello ed un estraneo. Talora, in presenza di lui,
credeva ridiventar bambina, e avrebbe voluto correre e giuocare come
una volta; poi, le sembrava commettere una strana azione, passeggiando
così sola con codesto giovane, e sentiva un indistinto rammarico che
ciò fosse strano, ed una malinconia di non saper più giuocare. Egli
le chiese s’ella avesse talvolta pensato a lui in tutto quel tempo, ed
ella rispose negligentemente:

— Sì, spesso. E lei rammenta le nostre grandi dispute, nel salottino
giallo, i giovedì sera, a Firenze?

Lui non aveva mai del tutto perduto di vista i suoi antichi amici,
durante quegli anni. Chiedeva loro nuove in collegio, a quanti
venivano. Aveva saputo dei loro viaggi, del loro ritorno, e che si
erano poi fissati sul lago. Anzi fece perfino, con delicatezza,
un’allusione alle loro disgrazie. Ed era stato ben contento di
trovare — per alcuni mesi almeno — un impiego così vicino a lei. I
primi giorni, appena giunto, n’era stato tutto felice, poi la sua
selvatichezza gli aveva impedito di presentarsi in casa sua. Sovente
aveva rigirato, come un ladro, intorno alla piccola villa. Assai
commosso nel riconoscerla sul battello, quella volta, non aveva avuto
il coraggio di mostrarsi. La sua idea fissa era d’incontrarla sola,
per parlarle a lei in particolare, prima; e una volta l’aveva veduta
infatti, ma non aveva osato. La trovava diventata imponente e non
si sarebbe forse mai deciso ad indirizzarle la parola, se lei non lo
avesse chiamato. Ciò la fece ridere. Gli chiese s’era stato felice.
Egli le rispose:

— No, la mia infanzia è stata triste, lo sapete, ed ho trovato la vita
dura fin dal principio. Ma ho buona speranza.

Poi aggiunse bruscamente: 

— Resterete sempre qui? 

— Non lo so. La mamma vorrebbe andare a Milano o a Firenze. Io,
preferisco rimanere.

Discorsero a lungo; il primo imbarazzo si dissipava a poco a poco.
Elisa fu sgridata quando ritornò a casa. Erano venute delle visite;
l’avevano domandata; lei non c’era mai. Era una vergogna di correre
sempre in quel modo per le strade, come una piccola selvaggia.

Restò due giorni in casa; uscì una volta sola, di sera, con sua madre.
Il terzo giorno se ne andò di bel nuovo, ma senza incontrare Giulio.
Si rimproverò di stupirsene, e fu adirata contro sè stessa, sentendosi
involontariamente malinconica.

Intanto era venuto l’inverno. La neve cadde d’improvviso e per qualche
giorno rigò di linee bianche il cielo ornato. Ma ben presto il sole
prezioso della stagione morta riapparve. La luce ridiventò chiarissima,
e le curve lontane s’accusavano sul fondo incolore dell’atmosfera,
riavvicinando gli oggetti e rendendo visibili i minimi particolari.
L’aria era sanissima ed il freddo diventava pungente. Sul cielo puro
e grigiastro, con delle aperture di azzurro smorto, le cime delle
montagne, già risplendenti sotto la bianchezza del loro primo manto,
erano dorate dai timidi raggi del sole.

Non si sa abbastanza cosa sia l’inverno al lago di Como. In realtà,
nulla è più bello. Ma, naturalmente, per abitudine e per moda, non vi
si va che nella bella stagione, e solo alcuni privilegiati godono le
magnificenze del gennaio, e le comprendono.

Le sponde brune e nude, i versanti spogli delle colline, la durezza
dei contorni, fanno sì che, nelle belle giornate, il lago tranquillo
sembra più piccolo e come più profondamente incassato nel suo bacino.
Vi regna un silenzio straordinario, che sembra scendere dalle altezze
nevose, e stendersi sull’acqua; e da tutto ciò scaturisce un intimo
fascino, una pace che accheta l’anima nostra soavemente e ne dà delle
idee tanto vere e sane, che perfino le ville tutte chiuse e come morte
non ne affliggono, poichè, nella maestà vivificante di quella scena, la
presenza dell’uomo ne sembra poco necessaria. È là che gli amici che
si amano sinceramente, possono provare la buona illusione di credersi
soli al mondo. Quanto si sta bene, in quelle belle giornate, nelle
ore del pomeriggio, in una barca che fila rapidamente sull’acqua! Il
rumore dei remi che solo turba il silenzio quasi solenne, ha, per chi
sa ascoltarlo, un cullamento di singolare dolcezza. Ben coperti, si
ha caldo, sotto il sole che diventa insopportabile qualche mese dopo,
e che intanto ha soltanto la soavità di una carezza. E, in codesto
benessere fisico completo, in questo calore dolce che non permette
di rimpiangere Nizza, lo sguardo si bea del contrasto del paesaggio
invernale che spiega tutte le sue fredde bellezze. Da certi punti dove
la riva scende a picco, alcune prestigiose stalattiti facendo pendere
le loro innumerevoli lame dai riflessi prismatici sono sospese alle
roccie severe che ricoprono della loro ombra l’acqua.

Fu durante uno dei più incantevoli inverni immaginabili, sulla sponda
destra del primo bacino del lago — il più caldo e il più riparato dai
venti — che Giulio ed Elisa s’incontrarono assai spesso senza darsi
ritrovo, e sentirono a poco a poco la loro antica amicizia rinascere
in loro, e modificarsi. Elisa rifece con lui tutte le sue abituali
passeggiate, e andarono insieme alla scoperta di altri posti ancora
sconosciuti.

Una sera, scendendo in sala, ella ebbe una scossa e si soffermò sulla
soglia, stupita. Giulio era là, seduto e discorrendo tranquillamente
con la signora Valenti e una vicina che veniva spesso. Egli non aveva
prevenuto Elisa, e dopo d’essersi lasciato pregare tante volte da lei
invano, aveva messo da parte la sua selvatichezza e vinto la ripulsione
che provava per i parenti della sua amica, ed era venuto per farle una
sorpresa.

— Elisa, — le disse suo padre, — spero bene che non fingerai di non
riconoscerlo. È il piccolo Bardi, il tuo compagno d’una volta.

Ella arrossì leggermente, stringendogli la mano, ma nessuna parola
tradì il legame già esistente fra di loro. Giulio chiacchierò
con naturalezza, parlò de’ suoi studi, de’ suoi progetti, ma,
accomiatandosi, gettò a Elisa un’occhiata che voleva dire: a domani.
Lei era contenta che si fosse deciso a venire, poichè l’idea di vederlo
di nascosto le ripugnava. Ma ritrovandosi all’indomani sola con lui,
pei viottoli, si sentì al contrario meno rassicurata, e, allo stesso
tempo, un pericoloso senso di nuovo benessere la penetrò.

Il modo che s’erano ritrovati, i loro incontri che sembravano assegnati
dal caso, davano alle loro relazioni una tinta di mistero, ch’era pieno
di attesa. Potevano passeggiare insieme senza essere veduti da alcuno.
I contadini, che talora li salutavano passando, li credevano fratello e
sorella. Giulio ritornò ben di raro alla villetta, dove però era stato
benissimo ricevuto. Seduti sull’orlo d’un sentiero, donde scorgevan
il lago ai loro piedi, ammirando le grandi nuvole che scorrevano pel
cielo, sopra le bianche creste delle Alpi velate di bruma, essi spesso
tacevano, imbarazzati come il primo giorno. Un sentimento sorgeva tra
di loro che si accentuava di momento in momento. Non ebbero giammai
bisogno di dirsi che si amavano, tanto venne naturalmente, e fin dalla
prima volta, se lo ripeterono.

I sentimenti si colorano a seconda dell’ambiente, e la cornice modifica
la passione. Il loro amore, nato nella solitudine, ebbe qualcosa di
primitivo; e, come nei tempi leggendari, la natura con la sua pace
vivificatrice, con i suoi fascini profondi e le sue voci segrete, vi
portò la sua innocente complicità. Fu cullato dalle calme bellezze di
un inverno dolce e severo, in un paesaggio di una magnifica uniformità,
e li avviluppò nella letargia delle cose.

Già forte quando ritornò la primavera, codesto amore scoppiò con gioia
nel sordo gaudio universale. Il tempo aveva volato per essi come in un
sogno. Presto si videro circondati dai grandi alberi frondosi, coperti
dall’ombra dei rami, inebbriati dai profumi, guardati dagli uccelletti
ch’essi non turbavano. L’azzurro tutto nuovo del cielo li riempiva
di una smisurata fiducia. Ottennero la famigliarità della natura;
nulla si disturbava per loro, non spaventarono nessuna bestiolina,
nessun’ala si apriva al loro avvicinarsi. Compresero tutti i rumori,
ed anche il divino silenzio delle cose. Lo splendore del sole sul lago
e l’ombra dei boschetti li riempivano d’una uguale luce. La grande
serenità sparsa entrava nei loro cuori; il vincolo che li univa si
serrava ad esempio del vincolo della creazione, le armonie esteriori
si ripercotevano in tutto il loro essere; il loro amore ingigantiva,
derivando la sua forza da tutte le forze visibili, unendo tutte le
potenze a tutte le purezze.

Elisa maturava rapidamente. La sua breve vita era stata abbastanza
variata. Nei frequenti cambiamenti d’orizzonte, aveva acquistato delle
vedute larghe e vere, e la sua eccezionale libertà le aveva dato una
giustezza di giudizio, un certo coraggio ed un’abilità in ogni cosa,
rare in società. E, sotto l’influenza della prova definitiva alla
quale essa si sottometteva, tutte queste qualità si sviluppavano
magnificamente in una quasi subita fioritura.

Spesso chiedeva a sè medesima in qual modo avesse potuto amarlo così
presto, e non trovava risposta. Del resto, una stagione era scorsa
appena dacchè il grande cambiamento era accaduto, e già le sembrava che
un lunghissimo tempo fosse passato. La sua infanzia elegante, i ricordi
dei giorni penosi, la vita all’estero, la solitudine degli ultimi mesi,
come tutto ciò era già lontano! Come tutte codeste ore non erano state
altro che una graduale preparazione all’ora presente tutta rischiarata
da una luce rivelatrice! Le succedeva, in una delle rare visite di
Giulio, a casa, alla sera, di guardarlo un pezzo di nascosto, mentre
si discorreva senza badare a lei, e, contemplandolo, essa si stupiva di
pensare che quel giovane da lei non riconosciuto poche settimane prima,
era diventato padrone dell’anima sua; eppure trovava ciò naturalissimo.

Vi era una certa similitudine tra il destino di Elisa e quello del
suo compagno d’infanzia; entrambi erano nati ricchi (poichè anche
il padre di Giulio si era rovinato, non per colpa sua, è vero,
ma completamente), ed entrambi si trovavano ancora al principio
della vita, quasi poveri; per entrambi il problema dell’avvenire si
presentava serio; lui doveva riconquistare una posizione; lei — e
ciò era ancora più inquietante — si vedeva condannata a cercare nel
matrimonio la fortuna prima della felicità. Giulio, serio, lavoratore
indefesso, era giovane in un modo divenuto rarissimo a’ giorni nostri;
pronto ad accogliere i sentimenti sani e vivificanti, amava la vita
di campagna, l’aria libera e lo spazio, l’attività del corpo e della
mente; egli ignorava il vizio, i morbosi desideri, le malate curiosità.
Ed allo stesso tempo era altrettanto lontano dal sentimentalismo falso,
dal romanzesco di convenzione; stava nella realtà, ma talmente rivolto
verso la verità, che poteva avvicinarsi all’ideale. Il suo soggiorno
alla fabbrica, i suoi studi misti a lunghe passeggiate solitarie,
la sua vita pura di campagnuolo libero, lo predisponevano a ricevere
quell’amore che, già da un pezzo — da quando aveva riveduto Elisa —
riempiva a poco a poco il suo cuore.

Intorno ad essi la natura sola esisteva; si sentivano isolati e
contenti di non dover nulla a nessuno; da sè si erano ritrovati,
e si bastavano. D’altronde, pensavano a nulla; di rado sognavano
all’avvenire, e senza fermarvisi. Ma, in fondo, intendevano bene che
perfino il presente non apparteneva loro del tutto. Talvolta non era
loro concesso che d’incontrarsi per un istante, in gran fretta, e
restavano parecchi giorni senza vedersi, per non svegliare sospetti.
Lui però era pieno di fiducia; lei, invece, sperava solo a momenti
e d’improvviso presentiva la separazione. In giugno Giulio dovette
partire diffatti. Lo zio suo materno, il padre del cugino presso il
quale egli abitava, era giunto da Calcutta. Restò un giorno solo per
visitare la fabbrica e portò via suo nipote, a Milano, dove molti
affari lo attendevano. Gli addii furono tristi assai; questa prima
separazione, che doveva pur essere brevissima, sembrava definitiva ai
due giovani. I genitori d’Elisa, suo padre specialmente, si accorsero
presto d’un grande mutamento che avveniva in lei. Una malinconia quasi
fisica e che tentava invano dissimulare s’abbattè su di lei. Contando i
giorni, aspettava; poichè Giulio ritornava appena partito lo zio.

Il giorno stabilito, Giulio non apparve. Elisa dissimulava sempre, ma
c’era qualcosa di febbrile nei suoi gesti. Andava sola a fare i suoi
passeggi — per i quali s’era ridiventati indulgenti — passo passo,
riandava tutte le strade, tutti i sentieri seguiti con lui. Finalmente
una domenica, mentre camminava più mesta che mai, Giulio le si parò
davanti d’improvviso, uscendo da dietro un grosso tronco d’albero, in
uno stretto viale. Era pallido assai, e sembrava un poco mutato. Al
solo mirarlo, essa ebbe il presentimento d’una sventura.

Sulle prime egli non volle dir nulla, e, per alcuni minuti, si
abbandonarono unicamente alla gioia del rivedersi. Infine, a poco a
poco, con tutte le precauzioni possibili, studiandosi di celare il suo
proprio immenso dolore, egli parlò.

Era semplice e terribile. Suo zio gli aveva fatto una splendida
proposta: lo condurrebbe via seco lui, lo associerebbe alla sua impresa
commerciale e lo aiuterebbe gagliardamente a rifarsi una fortuna. In
una parola, egli offriva assai generosamente al figlio di sua sorella,
diventato povero, un bellissimo avvenire che desolava il misero
ragazzo. Aveva voluto rifiutare; suo zio allora lo aveva guardato in
fondo agli occhi e gli aveva detto con un sorriso speciale: “Andiamo,
non facciamo sciocchezze, signor nipote mio.„ La situazione era troppo
evidente, d’altronde; ricusare sarebbe una follia.

Erano ai piedi dello stesso albero, sotto il quale, il giorno del loro
primo incontro, Elisa si era riposata. Essa si lasciò cadere sul grosso
tronco muscoso, con l’occhio fisso al suolo, pallida ora quanto lui,
istupidita. Restò per qualche istante immobile, mentre lui, silenzioso,
la guardava; poi si mise a piangere.

— Non vi può essere felicità per me, — disse Giulio finalmente, adagio,
a capo basso. — Andrò laggiù, lontano, diventerò ricco orribilmente;
a che mi servirà? Adesso la povertà è la mia disgrazia; allora, fra
molti lunghi anni, la fortuna mi peserà come un’ironia, e aumenterà la
mia disperazione. Sono assai positivo per la mia età, non mi faccio
illusioni; allo stesso tempo sento in me un amore eterno; non amerò
che voi in tutta la mia vita, anche se non dovessi più rivedervi. Voi,
dovrete maritarvi, dimenticarmi, poichè il ricordo mio non potrà che
rendervi infelice. Ah! tutto è finito!

— No, — rispose lei semplicemente, — non mi mariterò. 

— E che farete dunque? 

— Vi aspetterò. 

Le disse ch’era impossibile; ch’ella non poteva sagrificarsi in tal
modo, ma si sentiva commosso ed esaltato. Il loro amore, ancora troppo
puro per essere altro fuorchè una infinita tenerezza, nel mentre
riempiva a loro tutto il cuore, prendeva nel loro pensiero una forma di
entusiasmo. In un magnifico slancio, dimenticando tutto, finirono per
accettare la loro devozione reciproca e si fecero le sublimi promesse.

— Quanto tutto ciò è falso! — esclamò Elisa tutt’ad un tratto. — Che
bisogno abbiamo noi di denari! La povertà non sarebbe mille volte
preferibile alla separazione?

Esaltati, decisero ch’egli ritornerebbe a Milano e rifiuterebbe
decisamente la proposta dello zio; che dopo poi lei avrebbe il coraggio
di raccontare tutto a suo padre.

Elisa, sorretta da una forza interna, sicura di sè, sapeva che,
qualunque cosa accadesse, ella non cambierebbe mai. Ai primi passi
nella vita aveva preso la strada che seguirebbe fino al fondo.
L’indistruttibile amore, che si era impadronito di tutto l’esser suo,
le sembrava servisse di spiegazione a ogni cosa; la sua tristezza nella
solitudine, il suo desiderio di contemplazione e di libertà, i suoi
sogni, le sue subite gioie senza causa, essa ora comprendeva tutto
ciò. All’istesso tempo molte cose intorno a lei le apparivano false.
Se per caso leggeva un romanzo in cui la passione era mostrata come
una fiamma violenta e presto smorzata, sorrideva e chiudeva il libro,
pensando: è falso, con la certezza dell’esperienza; poichè l’amore le
sembrava la luce eterna. Leggendo trovò un giorno questa frase: “La
perdita delle illusioni è presto seguita dalla perdita delle credenze,
e che ne rimane senza la fede?„ ed ella pensò che giovane qual’era non
aveva illusioni, poichè credeva solo alla verità e che giammai potrebbe
perdere la sua fede, anche colpita dai più terribili disinganni o dalle
maggiori sventure. Le domeniche, nella chiesa umile del villaggio,
restava in ginocchio a lungo, con la testa china; e, spesso, nel suo
piccolo giardino, guardando il cielo bello e indifferente, essa pregava
Dio ingenuamente di accordarle la felicità. I suoi pensieri maturavano
di giorno in giorno, e le sembrava poter già abbracciare con lo sguardo
tutte le cose di questo mondo, e distinguere chiaramente il grano di
vero nascosto tra le falsità della vita. Tutto poteva ingannare, tranne
i suoi propri sentimenti.

Prima ch’ella potesse parlare a suo padre, fu sgridata da sua madre, la
quale le disse che comprendeva benissimo quanto accadeva, e che tutto
ciò era ridicolo; che un matrimonio tra lei e il piccolo Bardi sarebbe
assurdo e che non vi si poteva neppure pensare, aggiungendo: “Sono
ben lieta di sentire che è sul punto di partire per le Indie. Quando
ritornerà, sarai maritata, lo spero, e maritata bene, e riderai per la
prima all’idea che quel signorino abbia potuto piacerti per un momento.
Sei giovane, e non c’è fretta; la tua fanciullaggine lo prova, del
resto.„

Ma, la sera, mentr’essa piangeva nella sua camera dinanzi alla
finestra aperta, suo padre entrò senza bussare. La baciò in fronte
con tenerezza, e commossa da questa testimonianza d’affetto cui era
così poco avvezza, ella si gettò nelle sue braccia. La interrogò, con
bontà; lei rispose silenziosamente fra le sue lagrime, affermando col
capo. Allora, a poco a poco, egli si sforzò di farle capir ragione.
Si era seduto, e lei, a’ suoi ginocchi, lo ascoltava. Le disse con
fermezza che Giulio _doveva_ accettare l’offerta dello zio, e partire;
che sposarsi senza un soldo come farebbero adesso, sarebbe una pazzia
sotto tutti gli aspetti; che due o tre anni basterebbero a Giulio per
“farsi una posizione„, che ritornerebbe allora, e che se entrambi si
fossero mantenute le promesse reciproche e si amassero sempre, lui non
si opporrebbe alla loro unione, benchè avrebbe certo preferito vederla
fare una scelta più brillante, e ch’egli tenterebbe allora, certo
non senza difficoltà, di persuadere sua madre ad acconsentire. In tal
modo ella si sottometterebbe ad una prova donde uscirebbe sicura della
saldezza dei suoi sentimenti, o libera.

Elisa continuava a piangere, ma sentiva che suo padre aveva ragione. 

All’indomanl Giulio ritornò. Suo zio era andato in collera sul serio
quando aveva parlato ancora di rifiutare, e aveva dichiarato che, se lo
si metteva alle strette, era capace di condurlo via per forza.

Dalle due parti la separazione era stata dunque giudicata necessaria.
Bisognava sottomettersi.

Le ultime ore furono strazianti. Giurarono di non dimenticarsi mai, si
fecero tutte le promesse. Il caldo soffocante dell’estate accresceva
l’oppressione dei loro cuori. Nel cielo tutto azzurro, solcato a
grandi masse da nuvoloni d’un bianco argenteo che sembravano pesanti,
v’era qualcosa d’implacabile. Perfino sotto gli alberi pieni di nidi
addormentati, nella folta profondità delle boscaglie tanto note, non
si trovava più frescura; il verde diventava oscuro, sotto le vôlte di
frondi impenetrabili ai raggi s’infiltravano i gravi soffi canicolari.
Mentre tutto era come sospeso nella natura, pareva che anche i loro
cuori stessero per arrestarsi; ad onta del suo silenzio, del suo vuoto
apparente, quell’ora era suprema nella sua tranquillità solenne. —
Nulla era peranco mutato, si trovavano insieme come prima, più che mai
armonizzavano con le cose circostanti — e già la vita si svelava loro
sotto un nuovo aspetto. Una invincibile lassitudine si era impadronita
di loro, quando, dopo d’aver sperato per un istante, avevano dovuto
ricadere nella realtà freddamente crudele; poi si erano irrigiditi
contro la sorte, avevano voluto far faccia coraggiosamente alla
necessità, e vedendo il dolore riflesso dai loro due volti pallidi,
erano presi da una tale pietà l’uno per l’altro, che la loro immensa
pena cessava di essere personale e si nobilitava.

La vita sembrava loro ardua, adesso illuminata però dalla speranza,
ed accettavano valorosamente l’avvenire. La stessa bellezza del loro
amore li sosteneva. L’esaltamento delle loro anime era giunto al punto
in cui non lo si avverte più. La loro passione cresceva di entusiasmo
senza nulla perdere in purezza; un bacio sulla fronte sembrava loro
un’audacia, ma già si davano del tu senza quasi accorgersene — e in un
modo ben diverso che nella loro infanzia.

Ma, quando l’orribile giorno sorse alfine, quando, dopo che Giulio
ebbe fatto i suoi addii con voce commossa, poterono ritrovarsi soli
per un’ora ultima, in mezzo ai loro abbracci angosciati, si sentirono
turbati diversamente dal solito. Qualcosa sorgeva tra di loro che non
avevano mai ancora provato. Abbracciandosi per l’estrema volta, si
scambiarono il loro primo bacio....

Giulio partì. Suo zio doveva prima condurlo in Inghilterra, dove
resterebbero due mesi, e donde poi s’imbarcherebbero.

Elisa che altre volte aveva creduto soffrire della solitudine,
s’accorse di non conoscerla ancora; e per la prima volta si sentì
veramente sola. Si accasciò e perdette ogni coraggio. Le ore d’addio
trascorse con lui, i suoi accenti supremi le parevano involarsene
rapidamente a una distanza enorme. Non poteva dimenticare, ma
si sforzava invano di conservare davanti allo sguardo i colori
inesorabilmente impallidenti dei ricordi materiali; l’indebolimento
graduale dell’eco la desolava.

Non ragionava più; le sembrava ora talvolta d’essere stata ingannata.
“Oh! s’egli fosse ancora lì, non lo lascerei certo partire!„ diceva a
sè stessa. Ed insieme nuove idee sorgevano nella sua mente, e i suoi
sentimenti perdevano della loro semplicità. Era un poco smagrita, ed
in certi momenti, appariva tutta bianca. Talvolta, quando guardava il
lago, con l’occhio fisso su qualche barca che portava forse della gente
felice, sentiva un subito rossore salirle alla fronte. Mentre smarriva
ogni fiducia e non osava più interrogare il futuro, immensi rimpianti
inconscienti si accumulavano nel suo cuore. Certe parole udite per
caso, certe frasi trovate nei libri e che aveva lette senza prestare
attenzione, le ritornavano alla memoria e la facevano lungamente
sognare.

Quattro mesi trascorsero così, e contarono per lei come quattro anni.
Il freddo tornò. Essa aveva un poco mutato di carattere e molto di
abitudini; ora preferiva stare in casa. Talora usciva solo per andare
lentamente sino all’ufficio postale di Torno. L’impiegato, che aveva
molta simpatia per lei, scrollava spesso il capo, ma se aveva una
lettera, la guardava con occhio paterno, lieto di vederla sorridere.
Lei restava un momento a discorrere, e talvolta perfino andava solo per
vederlo, il che lo lusingava altamente.

Una lettera di Giulio arrivò anche alla signora Valenti. A Elisa egli
scriveva di rado, ma a lungo. Era sempre a Londra, e la partenza per
l’India era sempre rimandata. Tutto andava a meraviglia; suo zio gli
voleva sempre più bene, e nella casa egli era accarezzato come un
fratello dalla numerosa famiglia. Lavorava molto, e sperava poter
presto essere associato agli affari e guadagnare abbastanza rapidamente
una piccola fortuna per giungere ad abbreviare il suo esilio.

Ciò che nella forza del suo coraggio e della sua fede era sulle
prime sembrato quasi facile ad Elisa: sostenersi col ricordo e
con la speranza, ed aspettarlo seguendolo incessantemente col
pensiero, diventava di giorno in giorno più arduo e doloroso. Lottava
valorosamente, ma si sentiva mancare.

Quand’egli non scriveva, tutto diventava oscuro intorno alla fanciulla.
Come aveva compreso, la prima volta che aveva visto la scrittura di
Giulio, tutta la gioia contenuta in queste parole: una lettera di
lui, così sentì presto il terribile spasimo del cuore dell’attesa
delusa; dell’ora che tradisce passando lentamente; quel disinganno
continuamente rinnovato fino alla perdita totale della speranza: una
lettera che non giunge.

Pensando a lui, lo vedeva a Londra, in quella enorme città così
sontuosamente triste e freddamente pittoresca, della quale conservava
un vago ricordo. Poi l’oceano ignoto si distendeva dinanzi alla sua
immaginazione, e sull’immenso deserto dell’acqua, uno _steamer_,
che appariva come un punto nero, portava via a tutto vapore,
sotto un cielo infuocato, colui col quale ella avrebbe volontieri
sofferto tutte le miserie ed affrontato tutti i pericoli. Si turbava
subitamente, quando la visione di un naufragio sorgeva dinanzi a lei
con la chiarezza di un’allucinazione. E, giungendo a cacciare da sè
l’immagine insopportabile del suo amato, morente, solo tra il cielo
sordo e l’acqua furibonda, lo vedeva condurre una vita febbrile in
una nuova città esotica, dove dei monumenti pesanti e giganteschi
risplendono sotto il sole tropicale. Ed il viaggio del ritorno le
sembrava pressochè impossibile. Oh! certo l’avevano ingannata, e chi sa
quanto tempo doveva trascorrere prima ch’egli potesse ritornare! E lei
sopporterebbe la vita fino allora?

Era ben naturale che codesta fanciulla pensierosa avesse a ribellarsi
internamente contro le convenzioni della società, e, inconsciamente,
contro le leggi umane. Tutto, nelle regole della vita, le sembrava
assurdo. Nulla le pareva ora più stupido della “ragionevolezza„,
e non poteva sottomettersi alla necessità, tutta convenzionale, di
vivere così, separata da Giulio. L’amore era la suprema ragione e
doveva vincere. Non solo ella avrebbe accettato la povertà, ma avrebbe
sfidato lo scandalo e la vergogna per vivere con lui. Avrebbe tutto
schiacciato sotto i piedi, con indifferenza. Per raggiungerlo, per
seguirlo, avrebbe tutto lasciato, e avrebbe tutto affrontato per non
abbandonarlo.

Una sera, assai tardi, mentre già si dormiva in casa, ella camminava di
lungo in largo, pensando come sempre alle cause possibili del silenzio
di Giulio. D’improvviso udì un rumore nella camera vicina alla sua,
che le serviva di gabinetto, e la cui finestra guardava la montagna.
Entrò, il rumore fu ripetuto; qualcuno buttava qualcosa contro i vetri.
Istintivamente, sebbene un poco impaurita, aprì la finestra e si piegò
innanzi, guardando. Una voce bassissima, nell’ombra, pronunciò una
parola che non potè capire. Ma non fu capace di trattenere un grido,
poichè aveva riconosciuto la voce. Pazza di stupore e di commozione
si precipitò giù per la scala, anzichè discendere, senza nemmeno
pensare al pericolo d’essere udita, e un istante dopo, vide una forma
ch’entrava per la porta-finestra della sala da pranzo; riconobbe colui
ch’ella credeva tanto lontano, e tremante, smarrita, cadde nelle sue
braccia!

Lo zio di Giulio era stato costretto a ritornare in Italia prima di
lasciare definitivamente l’Europa, e suo nipote era con lui. Dovevano
rimanere qualche tempo a Milano — un paio di mesi forse — per terminare
certi affari. Giulio aveva domandato ed ottenuto un congedo di pochi
giorni ed era alloggiato in un piccolo albergo in riva al lago; ma
aveva dato la sua parola d’onore di ritornare e ripartire con lo zio, a
qualunque richiesta.

Elisa, credendo di sognare, caduta bruscamente dalla sua atra apatia
in una profondità di gioia sconosciuta, s’abbandonava tutta all’estasi
che la riempiva. Conobbe l’intensità dell’ora presente procurata dalle
soddisfazioni infinite, quando si oblia il passato e tutto, poichè
inabissati in un godimento extra-terrestre, viviamo momentaneamente
fuori del tempo. Più che mai, sentì il suo amore impadronirsi di tutta
intera la sua vita.

Il freddo era tornato; faceva un tempo orribile. Non era il magnifico
inverno dell’anno prima. Non potevano mostrarsi al di fuori, Giulio
essendo lì all’insaputa di tutti. Condusse una vita faticosa assai;
sovente se ne andava con una barca, ancora di notte, per prendere
il primo treno, e ritornava da Milano al ritrovo notturno. Entrava
per la porticina del giardino, che s’apriva con la massima facilità,
e penetrava nel salotto del pianterreno, dove Elisa lo aspettava.
Tutto dormiva nella casa; e, nel profondo silenzio, un rumore, lo
scricchiolare di un mobile, lo faceva trasalire; lei, al contrario, non
tremava.

La natura non li circondava ora più con la sua lussureggiante
tranquillità piena di pace. Si vedevano nella penombra di una sala
deserta, e dalla finestra solamente era loro permesso di gettare uno
sguardo furtivo al notturno paesaggio, dove si distingueva appena il
lago, d’un azzurro quasi nero, dalle solide tenebre delle montagne. Il
loro amore non poteva più adesso fondersi nelle bellezze esterne; non
aveva più tutta la terra per fiorire e tutto il cielo dove spaziare;
quattro pareti lo rinserravano fra cui si condensava terribilmente,
ed acquistava quella violenza di olezzo che turba il cervello e dà
l’ebbrezza a tutto l’essere nostro.

Si abbandonarono senza riserva alla loro passione. 

Furono lunghe giornate, rapide, febbrili, splendide — mattine di
attesa seguite da serate troppo felici. Il tempo volò con la velocità
conosciuta da coloro che hanno assaporato una beatitudine violenta
— e ricaddero dal cielo nell’inferno, quando giunse il giorno
della nuova separazione — ben più orribile questa volta. Lottarono
dapprima, s’irrigidirono, rifiutarono di cedere. “Lo lascierei davvero
ripartire„, diceva Elisa a sè stessa, “dopo che mi sono detta tante
volte che se per miracolo avesse a ritornare, non se ne anderebbe più?
Come lasciarci, poichè ci apparteniamo?„ — Eppure non si poteva far
diversamente. Dovevano rassegnarsi e sperare che la separazione sarebbe
la meno lunga possibile. D’altronde l’onore di Giulio era impegnato.
Suo zio non poteva accordargli nemmeno un’ora di libertà durante gli
ultimi giorni. La signora Valenti aveva progettato una corsa a Milano
fra una settimana, Elisa promise a Giulio che la rivedrebbe ancora una
volta. La separazione non fu però meno straziante; poichè in città non
potrebbero che stringersi la mano davanti alli altri; il che infatti
ebbe luogo una ventina di giorni dopo. Giulio partì definitivamente ed
Elisa rimase, sentendosi più desolata della prima volta, ma un po’ più
forte.

Un anno trascorse, tetro per Elisa, ma nel quale si verificò un
avvenimento che sembrò assai importante a sua madre: essa riannodò le
sue relazioni amichevoli con la marchesa Arombelli. La quale non amava
troppo i Valenti, ma si prese di tale affetto per Elisa, che vinse
i suoi scrupoli e cominciò d’allora a invitarli nella sua villa. La
comune conoscenza di Gorletti accrebbe la loro intimità.

Giulio scriveva sempre assai lungamente, se non regolarmente. Elisa si
sforzò di sopportare con coraggio la sua sorte dolorosa, e diede prova
di una forza, della quale non la si sarebbe creduta capace. Diventò
meno taciturna, cercò d’essere più affabile in famiglia, e, per quanto
piangesse e pregasse sovente nella solitudine della sua camera, seppe
trovare una certa serenità nella sua tristezza. Dapprima aveva piegato
sotto il soffio del destino; ora seppe irrigidirsi e resistere. Non
tardò a comprendere che il mondo nega le nostre sofferenze, o se ne
rallegra, e che le dobbiamo nascondere, che in ciò la dissimulazione è
necessità, specialmente per le anime superiori. Sola, restò la stessa;
con li altri, si fece uguale a loro. Dovette sentire di buon’ora che
all’infuori della vita vera dello spirito, la vita banale d’ogni giorno
s’impone, imperiosa, e che a meno di rompere tutti i vincoli, è forza
piegarsi alle esigenze sociali. Discorreva dunque come tutti, questa
fanciulla già donna la cui esistenza era riempita da un segreto unico;
la si vide interessarsi momentaneamente alle cose meno interessanti per
lei; imparò a ridere quando bisognava.

Le lettere di Giulio, così piene di speranza nei primi tempi,
cambiarono a poco a poco; sembrava meno certo di riuscire, oppresso
dal lavoro e attristato dal troppo lento risultato dei suoi sforzi.
Poi divennero più rare, con intervalli sempre più lunghi. Tutto si fece
più cupo intorno ad Elisa. Comprese che la separazione senza dubbio si
prolungherebbe più di quanto avesse mai previsto.

Il terzo anno giunse. Egli scrisse ancora una volta verso la fine di
gennaio, poi non scrisse più.

Dubbi atroci tormentavano Elisa; sua madre le disse un giorno di
sapere con certezza che Giulio aveva una relazione con una gran
signora inglese di Bombay, conosciuta per la sua bellezza e per le sue
eccentricità, aggiungendo che poteva anche dare delle prove. Elisa non
volle ascoltare nè credere, ma la sua ipocondria l’abbattè. Perfino
suo padre non osava più consolarla; essa rispondeva a chi la esortava
a considerarsi come liberata da qualsiasi promessa e a dimenticare,
ch’ella non cambierebbe giammai. La sua pacata fermezza fu da sua madre
trattata di ostinazione assurda.

Qualche tempo dopo suo padre ricevette una lettera di Giulio ch’egli
non ebbe coraggio di mostrare a sua figlia, ma fu inutile, poichè ne
ricevette lei stessa all’indomani una dello stesso significato. Giulio
diceva in modo semplice e breve ch’essendosi impigliato per proprio
conto in certe speculazioni un poco temerarie, aveva subito delle
perdite che lo costringevano a ritardare il suo ritorno in Europa,
e che non essendo più in grado di designare un termine preciso alla
propria assenza, si trovava obbligato dall’onore — per quanto ne
soffrisse — a pregarla di volersi considerare come sciolta da qualunque
impegno o promessa e libera di maritarsi, sebbene si vincolasse, lui,
a non amare ch’ella sola al mondo e a rispettare, inutilmente, la fede
giurata. Una grande tristezza pareva improntare quelle righe, sotto una
forma severa.

La signora Valenti, trionfante, pretese che quella lettera era soltanto
abile e provava la verità di quanto lei aveva narrato. Aggiunse che la
_lady_ in questione era vedova e che Giulio la sposerebbe.

Elisa ricevette il colpo mortale in pieno cuore, ma zitta. 

Così era finito il suo romanzo; già la vita le sembrava chiusa per lei. 

Cinque anni erano ora passati dalla partenza di Giulio. Con l’aiuto del
tempo, la sua nera tristezza si era in apparenza mutata in malinconia;
restò buona, affabile, paziente, ma diventava inflessibile appena si
volesse persuaderla a maritarsi.

Sua madre giunse quasi a detestarla, quando, a sei mesi di distanza
l’uno dall’altro, rifiutò due buonissimi partiti. “Ricusi una felicità
che non avevi neppure il diritto di sperare„ le aveva detto. Ma nulla,
nè preghiere, nè minaccie, nulla valse a farle mutar consiglio.


Ciò che abbiamo raccontato, tutti codesti ricordi, tutte codeste
gioie passaggiere e codesti costanti dolori, la sua vita, insomma,
si era svolta dinanzi a lei, mentre piangeva ancora alla fredda luce
dell’alba. Ma tutto era dominato dall’orrore del presente.

Discese un po’ tardi per la colazione. Tutti erano assai allegri,
donna Maria e la contessa Lassardi specialmente. Giacomo solo,
imbronciato, cercava inutilmente l’occasione per fare una scena a
quest’ultima. Massimo dichiarò che già l’aria della campagna gli
giovava, e divertì tutti col suo _entrain_ e col suo appetito. Gorletti
si mostrava amabilissimo, quasi galante, con Elisa sempre fredda.
Vennero portate le lettere; ve n’erano varie per Massimo, che sembrò
un poco preoccupato dopo d’averle lette — circostanza assai osservata e
commentata. — Alle due, la signora Valenti arrivò, e appena compiuti i
saluti, salì nella sua stanza con sua figlia.


III. 

Nella sua vita avventurosa, Massimo d’Astorre aveva trovato una tregua
per assaporare alla villa Arombelli un po’ di riposo, di cui aveva
gran bisogno; e ne godeva pigramente. Perfino il ricevere lettere lo
seccava. Dopo pochi giorni sentì che quella calma esistenza conveniva
alla disposizione momentanea del suo spirito, e si decise a prolungare
il suo soggiorno. Si sentiva negativamente felice, lontano dagli
eccitamenti, dai rumori e dalla fretta della sua vita abituale.

Era un uomo complicato e non facile a comprendersi, il marchese
d’Astorre. Lo si conosceva male. Aveva esordito nella vita da tanto
tempo ch’era facile perfino ingannarsi sull’età sua, e benchè fosse
giovane ancora, già si era sorpresi dalla sua gioventù persistente.
Possedeva d’altronde quella bellezza assoluta che sfida gli anni, si
capiva che il tempo non potrebbe gran che contro quei lineamenti di
regolarità perfetta, contro quel viso dall’aspetto quasi marmoreo,
animato però da due grandi occhi bruni dallo sguardo profondo. I
suoi capelli neri, un po’ lunghi, e la sua corta barba bruna facevano
risaltare il caldo pallore del suo colorito immutabile. Il suo collo
possente e quasi femminino ad un tempo, come quello delle statue
greche, e il suo corpo dalle proporzioni perfette — tanto raro ai
giorni nostri — ricordavano l’epoche pagane. Alto, elegantissimo —
d’una eleganza da lui stesso inventata, e di cui non pareva preoccupato
— sapeva essere freddo o cordiale, altero o seducente. Era festeggiato,
ammirato, detestato. Poichè si doveva amare oppure odiare quest’uomo
insolentemente bello, generoso all’eccesso, pieno di coraggio e di
audacia, il quale una volta a un ballo a Londra aveva inspirato una
tale subita follia a una gran signora, celebre per la sua avvenenza,
ch’ella s’era eclissata con lui attraverso il _cotillon_, e s’era
lasciata rapire, passando la Manica, ai primi albori, in veste da
ballo, con solo il cappuccio della sua pelliccia per coprire la
sua testa ingemmata. Era uno di quegli uomini che si cerca invano
d’imitare; e, naturalmente, aveva numerosi imitatori. Lo si vedeva a
un tal punto superiore a quanti lo circondavano che non era possibile
sottrarsi del tutto al suo dominio. Discendeva da una delle più
antiche famiglie della Romagna, stabilita da due secoli a Firenze,
dove era nato in un vecchio palazzo nero, fieramente stemmato alli
angoli. Uscito prestissimo dal collegio ov’era stato posto alla morte
dei suoi genitori, si trovò, quasi fanciullo ancora, padrone di sè e
possessore di una vasta fortuna. Tutte le strade si aprivano davanti
a lui; nulla si opponeva all’esecuzione di qualunque suo capriccio.
Le prime follie di quel ragazzetto, la cui straordinaria sicurezza
contrastava col viso ancora roseo, ebbero un carattere originale che
non dispiacque. Ancora quasi un ragazzo portò bravamente l’uniforme
di ufficiale di cavalleria. Poi, detestando già la vita monotona che i
suoi pari conducevano a Firenze, viaggiò. Più tardi, benchè sapesse che
ciò non gli servirebbe a nulla o a ben poco, era entrato nella carriera
diplomatica. Questo giovinetto audace, creduto abile solo agli esercizi
del corpo e alle prodezze fisiche, possedeva inoltre — senza che si
sapesse troppo come era riuscito ad acquistarla — una svariata e solida
istruzione. Fece dei brillanti esami. Già si scorgeva a quell’epoca
ch’egli si mostrava superficiale, e non lo era. Fu contento della sua
decisione, amando la vita mossa e trovando la diplomazia divertente,
fintanto che non si pensava a mandarlo nei posti noiosi, e tanto più
che si avevano per lui al ministero tutti i riguardi dovuti alla sua
posizione e alla sua indifferenza in quanto all’avanzamento.

Trovava che alla sua età le parole: _segretario di legazione_, stavano
bene sopra una carta da visita. Del resto, ammesso di buon’ora a tutti
i piaceri, in un ambiente di lusso e di vanità, trovando ogni cosa alla
sua portata, e le persone più in basso delle cose, troppo rapidamente
maturato dalla vita precoce e dalle affrettate letture, assaporando i
godimenti primi del desiderio, mordendo al pomo di tutte le scienze,
non accettando nessuna idea senza esame e ragionando troppo, non
considerando la sua superiorità che relativamente, in modo che il suo
orgoglio davanti agli uomini non trovava la sua giusta compensazione
nella umiltà davanti all’assoluto, egli si era trovato a vent’anni
tanto vecchio quanto si può esserlo a quell’età, e, poco dopo,
all’epoca delle passioni più nobili, non sentiva che quella dei vecchi,
l’ambizione. E quella pure non fortemente.

Nel mentre s’immergeva nei piaceri con un fare annoiato, cercava
intorno a sè, avidamente, un pascolo alla sua ambiziosa vanità,
tentando di scorgere uno scopo qualunque che valesse la pena di uno
sforzo. Gli parve impossibile di trovarlo. Si ostinò, provò ancora,
calcolò, e si persuase sempre più che non vi era nulla. “Forse„ diceva
a sè stesso “sono giunto troppo tardi o troppo presto.„

Allora, parendogli che le cose dette “serie„ non meritassero d’esser
prese sul serio, non pensò più che a vivere, e divenne un uomo
di piacere. Come accade sempre presso gli oziosi che hanno un po’
d’imaginazione, la passione del giuoco lo afferrò, e, unita ai suoi
gusti raffinati di lusso e di eleganza, lo condusse così lontano e così
presto, che lo si credette rovinato dopo cinque anni. E aveva infatti
dissipato il capitale accumulatosi durante la sua tutela, venduta la
quarta parte delle sue terre, e coperto il rimanente d’ipoteche, il
che non gl’impediva di continuare il suo solito modo di esistenza e di
gettare sempre il danaro a piene mani.

Egli dovette però finalmente conoscere gl’imbarazzi, tutti i piccoli
orrori degli espedienti, la mano di ferro della necessità, il quasi
insensibile scemare della considerazione intorno a sè, che rallegra
gl’invidiosi. Conobbe talvolta perfino quella miseria relativa che
pure ha le sue crudeltà. Dovette mescolarsi un po’ a tutte le società,
anche quando gli ripugnava, più che non avesse fatto fino allora, e
potè studiare la vita sotto i suoi più vari aspetti. Giorni penosi
cominciarono, e se il presente era duro, l’avvenire appariva nero.
Ma tenne sempre la testa alta ed il sorriso sulle labbra, sfidando
il destino, grato alli amici sinceri, e sdegnando di accorgersi delle
defezioni che la ingratitudine produceva intorno a lui.

Al momento in cui lo si credeva davvero giunto proprio al fondo, in
cui si diceva che avendo finito di raccogliere le briciole della
sua fortuna, sarebbe costretto a palesare la sua rovina, fece due
eredità grossissime, una dopo l’altra, quasi senza intervallo. Tutti
si aspettavano di vederlo in fondo all’abisso; lo si scorse sulla
vetta. Dieci volte più ricco di quanto non lo fosse mai stato, ebbe,
per servire a’ suoi desideri, per soddisfare i suoi nuovi capricci,
il potere che presta una fortuna colossale, quando si ha imparato, a
proprio danno, a farne uso. Ne usò generosamente, giacchè, prodigo
per sè stesso, era fastoso nel dare, e se ne nascondeva, forse
per buon gusto, come amava il lusso non troppo appariscente. Ma in
mezzo a codesta vita facile e faticosa ad un tempo, qual’era la sua
vita interna? S’occupava solo di cose sensuali, oppure un pensatore
celavasi in codesto gentiluomo scettico e negligente, disprezzatore
dell’opinione, sfidatore di tutto, che non si ricusava nulla, ed era
abbastanza distratto per accettare spesso la compagnia degli imbecilli
senza accorgersene?

Alcuni, fra coloro che lo conoscevano meno male, avevano indovinato
press’a poco tutto ciò, ma, per comprendere la sua vera natura, sarebbe
stato duopo rovistare più profondamente, e quelli stessi sarebber forse
rimasti allora assai stupiti. Benchè si desse raramente il disturbo
di piacere, aveva avuto dei successi di ogni specie. Se ne curava poco
assai, e non badava all’invidia che eccitava. Abbandonò la diplomazia,
e non ebbe più che la sua fantasia per legge. L’ultimo posto che occupò
fu quello di Pietroburgo, che dovette lasciare, al momento che stava
diventando quasi russo, in seguito a una seccante avventura terminata
da un duello. Si fissò allora a Parigi.

I suoi parenti ed amici d’Italia parlavano di lui come di un
personaggio bizzarro, e lo accusavano d’essere assai strano,
pretendendo però allo stesso tempo che vi fosse molta affettazione
nella sua originalità. Tentavano di farlo passare per un poco pazzo
e un poco “posatore„ insieme, il che non impediva loro d’invidiarlo
con tutta la debolezza dell’anima loro, e d’essere pronti a commettere
dinanzi a lui tutte le piccole viltà imaginabili, dopo d’averne detto
tutto il male che potevano. Lo si ammirava involontariamente, come si
ammira coloro che vivono fuori e vengono da lontano. Il suo arrivo
consideravasi sempre come un avvenimento; le sue più minute azioni
venivano osservate, i suoi modi, i suol vestiti; si ripetevano i suoi
motti. Quanto si raccontava di lui veniva commentato ed esagerato.

Tre giorni dopo, la contessa cambiò bruscamente di manovra e divenne
quasi fredda con lui; egli non si degnò di accorgersene, il che la mise
in uno stato d’ira contenuta che si volse a benefizio momentaneo del
cugino. Massimo non trovò per questo il suo soggiorno alla villa meno
aggradevole. Lo amavano assai, e lo temevano un poco. Giacomo osservò
che talvolta uno si sentiva benissimo in sua compagnia, e che poi
subitamente intimidiva. Si diceva sempre un po’ male di lui, ogni volta
se ne andava dalla sala, e lo si ascoltava sempre con delizia quando
voleva chiacchierare.

Presto stanca di stare imbronciata, la contessa ritornò all’assalto.
Massimo, per cattiva abitudine inveterata, si lasciò andare a farle
un po’ la corte. Ciò rompeva la monotonia della villeggiatura, poichè
amava e cercava il riposo, ma non lo poteva sopportare troppo completo.
In quanto a Elisa, la povera fanciulla ch’egli aveva ritrovata così
pallida ed infelice, essa gli faceva realmente pietà, quando pensava
al sagrificio che si voleva esigere da lei, al brutto avvenire che
l’aspettava. Si accusava sempre Massimo di non avere rispetto alcuno
per le donne; i suoi modi ironici, il suo cinismo, la sua condotta lo
provavano spesso, ma si sarebbe dovuto fare una distinzione, sottile,
ma vera, ed era questa: che s’egli disprezzava le donne, stimava però
altamente in cuor suo _la donna_. Forse il suo culto motivava il suo
disprezzo. Elisa gli sembrava una donna, nel più alto significato della
parola, cosa rara.

D’altronde, bisogna confessarlo, se Massimo rispettava la donna, se
soprattutto la compiangeva, egli amava la cortigiana. Epicureo per
natura e per abitudine, non avendo mai potuto intravedere l’amore che
di sfuggita, comprendendo l’arte sotto tutte le sue forme più sensuali,
indovinando tutta la scala delle voluttà, dalle più grossolane alle
più spirituali, egli avrebbe forse trovato un suo ideale in una etaira
greca risuscitata al secolo nostro. Avendo tutto provato egli si curava
poco di tutto; ma, da un paio d’anni, aveva conosciuto un’attrice
che lo aveva ammaliato. Artista appassionata, donna capricciosa,
intelligenza libera e corrotta, la Kanzler era tipica; possedeva
la bellezza pagana, sottomessa ed imperiosa ad un tempo. Una bontà
inconscia e la scettica indulgenza moderna dei sentimenti s’univa in
lei a una depravazione antica. Aveva le linee del marmo, ma non la
serenità; le sue forme, i suoi atteggiamenti ricordavano la divinità
del Rinascimento, ma l’anima sua conosceva tutte le tristi morbosità
del nostro tempo.

Massimo aveva osservato il pallore eccezionale d’Elisa, quando era
ridiscesa in sala all’ora del pranzo, il giorno dell’arrivo di sua
madre. L’orribile consenso era forse stato strappato? All’indomani
Gorletti era partito, richiamato in città da importanti affari. Pochi
giorni dopo Valenti era arrivato, con la sua aria distinta e gentile,
e affettando un’allegria continua che lo spingeva a dire talvolta delle
cose un po’ ardite. Egli pure però sembrava preoccupato, ed ebbe lunghe
conversazioni particolari con sua figlia. Annunciò alla marchesa che
con grande suo rincrescimento non poteva fermarsi più di due giorni.

Nella sua qualità di _viveur_ messo al verde, Massimo godeva della
campagna come un collegiale in vacanza. Avendo potuto vincere, dal
terzo giorno, l’abitudine di alzarsi solo per l’ora della colazione,
gustò la sana voluttà di passeggiare assai presto la mattina attraverso
il parco, nella frescura del risveglio delli alberi. Spiegò così bene
alla contessa Lassardi quanto ciò riescisse aggradevole ed igienico,
ch’ella si convertì a questa nuova teoria, di maniera che una bella
mattina il cugino Giacomo li riconobbe dalla sua finestra, mentre
camminavano insieme lentamente in un viale abbastanza lontano, vicino
alla casetta del giardiniere, e prese il partito di farsi richiamare
d’improvviso in città.

La stessa sera alcune visite vennero da una villa vicina, e si combinò
una lunga escursione per il dopo domani. Si doveva partire all’alba e
ritornare assai tardi per pranzo. Massimo dichiarò che non si poteva
contare su di lui, dovendo egli quel giorno andare a trovare alcuni
amici a Como.

— Giacomo è partito ben subitamente. Che cosa gli è successo, marchesa?
— domandò Terzi.

— Non ci capisco nulla. Pretende aver ricevuto una lettera di premura.
— Disse ciò con la massima sincerità, ed aggiunse: — Ma tornerà presto.

La conversazione divenne generale; ma, vicino al camino, d’Astorre e
la contessa erano appartati. Lei, seduta in una poltrona, riscaldava
le sue minuscole scarpette al fuoco fiammeggiante, le guancia fatte
rosee, ad onta del ventaglio giapponese col quale si riparava e ch’ella
sembrava guardar fisso, sorridendo. Lui, in piedi, un po’ chinato,
con l’aria seria, le parlava senza troppo abbassare la voce e molto
naturalmente.

— Come! — le diceva, — voi che pretendete essere indipendente, non
avete nemmeno il coraggio di restare a casa, quando una escursione
vi annoia? Scusatemi, contessa, ma dichiaro che, ad onta delle vostre
bravate, siete la più timida fra le donne.

— Ma che cosa si dirà? 

— Che volete mai che si dica? Ah! contessa, se nella vita vi lasciate
sempre arrestare da questa domanda, siete una donna finita. E,
sappiatelo bene, si tacerà sempre quando non si saprà nulla, e si
dirà regolarmente tutto quanto si vorrà inventare, per quanto abbiate
riguardi.

Lei tacque, pensierosa. 

— Mi credete dunque molto pericoloso? 

Ella alzò li occhi, lo guardò un istante senza rispondere, e mentre il
suo sguardo affermava, rispose risolutamente:

— No. Affatto. 

— Ebbene, allora? Nessuno lo saprà. Quando ritorneranno si crederà che
io sia pure appena tornato. A voi, la vostra emicrania sarà passata, ma
consulterete egualmente quel bravo dottore, che vi scriverà subito una
ricetta.

— Me ne vado. Ci guardano. Bisogna che faccia un po’ la mia corte alla
marchesa.

— Rispondete prima. Sì o no? 

— Ebbene, no! È impossibile! 

— Siete proprio certa di quel no? 

— Quasi. 

E si allontanò. Massimo accese una sigaretta e si mise a discorrere con
donna Maria e con gli altri.

Al posdomani, a mezzogiorno, Massimo era di ritorno. Giunse a piedi,
avendo congedato il vetturino al basso della salita conducente alla
villa, dove il suo cameriere era venuto a raggiungerlo per prendere la
sua roba, e entrò per la porticina del parco. Nessuno lo vide.

Attraversò le sale, penetrò in un piccolo gabinetto in fondo in fondo
all’appartamento, e parve sorpreso di non trovarvi alcuno. Montò per
una scaletta alla sua camera.

— Sono tutti partiti stamane? — chiese al suo cameriere. 

— Sì, signore, tranne la signora contessa Lassardi, che ha fatto
colazione sola qui a casa. Ma, un’ora fa circa, ha ricevuto un
telegramma, ed ha dato ordine di attaccare, mentre facevano i suoi
bauli. Saranno dieci minuti ch’è partita per arrivare in tempo al
treno.

— Davvero? — disse Massimo con tono indifferente. — Vi sono lettere? 

— Sì signore. Eccole lì sulla scrivania. 

— Va bene; vattene pure. 

Massimo prese le lettere. Due portavano i timbri postali; poi c’era un
biglietto contenente poche parole scritte a matita:

“Ricevo un dispaccio che mi annuncia l’arrivo di mio marito a Milano,
e che vi è subito caduto ammalato. Non v’è nulla di grave, ma io non
posso a meno di partire senza frapporre nessun indugio. Lascio una
lettera per la marchesa, e questo rigo per voi, in gran fretta. Ero
rimasta; non lo posso negare. Il caso dispone altrimenti. Devo dire
tanto meglio? Addio, arrivederci forse.„

Massimo provò un disappunto e, un poco stanco, si buttò sopra un
canapè e vi dormì un poco. Poi si alzò e s’avvicinò alla finestra;
vi restò a lungo, appoggiato al davanzale. Poi scese distrattamente,
e si mise a passeggiare di lungo in largo per le sale, riflettendo.
Un sorriso errava sul suo labbro. Si annoiava; ora, si trattava
d’uccidere il tempo. Vicino al piccolo gabinetto del fondo dov’era già
entrato arrivando, si fermò e tese l’orecchio, poichè gli pareva udire
un po’ di rumore. Dopo un minuto d’attesa, si decise a entrare con
precauzione.

Elisa Valenti, lungo distesa sopra un divano che occupava tutta una
parete, con la testa nascosta fra le braccia incrociate, piangeva a
calde lagrime, come impazzita di dolore. Pareva che fosse caduta colà,
affranta, per non rialzarsi più. Si sarebbe potuto crederla morta se,
di minuto in minuto, i singhiozzi non avessero scosso tutta la sua
persona. Portava un costume di mattina assai elegante, e i suoi capelli
tocchi da un raggio di sole, prendevano dei riflessi dorati. Con le
mani si teneva il viso sprofondato nel cuscini.

Rimase Massimo per alcuni istanti, non visto, a contemplarla, e
dimenticò la contessa. Si sentì risvegliare in lui l’interesse che la
terribile situazione di codesta fanciulla aveva fatto nascere. Essa
era lì, giovane, simpaticissima, e già il dolore, capace di rovinare
tutta una vita, pareva metterla fra i vinti di questo mondo. Certo,
quand’essa passava in carrozza, a fianco della marchesa, le contadine
dovevano invidiarla dal fondo dell’anima. Aveva il suo posto fra i
felici di convenzione; il lusso la circondava, l’eleganza del suo
vestire si aggiungeva all’eleganza della persona, ma quanto avrebbe
preferito il lavoro e la povertà alla miseria nascosta e reale
della sua esistenza! E, ciò ch’era peggio ancora, la si amava, si
simpatizzava con lei, la si compiangeva; ma chi pensava a soccorrerla?
Le si prodigavano l’espressioni della più affettuosa devozione, la si
accarezzava e adulava, ma l’idea non veniva neppure, ai suoi amici,
di cospirare tutti insieme per strapparla all’orribile sorte che
l’attendeva. Quanta egoistica impotenza in fondo a quell’amicizia
così bella apparentemente, così sincera anche, ma pur così debole! Si
accettava il suo sorriso artificiale, la maschera di freddezza che il
suo coraggioso orgoglio le imponeva; si fingeva pigramente di credervi.
Nessuno cercava di aiutarla. La marchesa, pur tanto buona, non
osava adoperare la sua influenza. La si amava fino ad esserle utile,
esclusivamente. Certo, era cosa molto difficile, quasi impossibile,
bisognava ammetterlo; ma come non c’era proprio nessuno nemmeno per
tentarlo?

Ella cessò finalmente di piangere, e, sollevandosi un poco sul gomiti,
guardò diritto innanzi a sè, senza veder nulla, col volto impietrito. I
suoi occhi ora erano asciutti; ma si scorgeva sulle guancie la traccia
delle lagrime arrestate, mentre la bocca pareva contratta dallo spasimo
interno. Massimo, celato a lei, la intravedeva di profilo.

Si ritirò adagio e andò in giardino. L’imagine di quella ragazza,
piegata sotto il dolore, restava innanzi a lui simile a una visione;
la tristezza della vita gli si palesava sotto un aspetto che gli era
quasi sconosciuto. Irresistibilmente rientrò e si avvicinò di nuovo
al gabinetto. E lui stesso che accusava gli altri, lui abituato a
infrangere gli ostacoli, che poteva fare per lei? Nulla, proprio nulla.
Ascoltò, e udì ancora il respiro affannoso della fanciulla. Era tentato
di entrare, di farsi vedere, di chiederle se poteva esserle utile in
qualche modo, di offrirle i suoi servigi, ma a che avrebbe giovato?
Nulla dunque poteva sottrarla alla stretta delle mani rapaci di
quell’odioso Gorletti? Massimo, sentì che l’antipatia ispiratagli fino
dalla prima volta che lo aveva veduto, per quel brutto omiciattolo,
ora si mutava in odio. Egli avrebbe voluto poter rendere la resistenza
possibile alla signora Valenti, tanto per renderla felice quanto per
far del male a Gorletti.

Poi le sue idee cambiarono direzione. “Essa non è del suo secolo la
poveretta„ pensava. “Quante fanciulle si troverebbero felici a suo
posto! Come darebbero volontieri la loro mano bianca a qualche mostro
ancora più brutto di Gorletti, ma ricco quanto lui! Come saprebbero
bene, nelle loro testoline dalla espressione ingenua, prepararsi
un delizioso e comodo avvenire! Come lo scruterebbero, ne’ suoi più
minuti particolari, codesto avvenire, mentre vedendole ad occhi bassi,
appoggiate ad una sedia in una posa un poco pensosa, si ammirerebbe la
modestia del loro atteggiamento e la loro seducente serietà.„

Sulla punta dei piedi, guardò di nuovo dall’uscio del gabinetto.
Elisa stava sempre allo stesso posto. Per caso, voltò il capo, e lo
vide. D’un salto si alzò, eccessivamente sorpresa, appoggiandosi allo
schienale del canapè, mentre asciugava rapidamente col fazzoletto le
traccie delle lagrime recenti.

Massimo le stese la mano, come faceva tutti i giorni, e lei stese la
sua, macchinalmente.

Era senza voce. L’idea che d’Astorre, da lei creduto a Como, avesse
potuto vederla nello stato di crisi in cui si trovava, la turbava e le
faceva male.

— Come? Lei è già di ritorno? — gli disse alfine, con un grande sforzo,
per essere calma, appena potè parlare.

— Sì. E non sapeva che lei fosse qui, altrimenti non mi sarei permesso
d’entrare. Le chiedo perdono. Mi ritiro subito, se vuole.

— Ma no, non lo mando via, — rispose cercando di sorridere. — Sono
io che dovrò andarmene fra un momento; ho tante lettere da scrivere.
Mi annoia molto, tanto più che non mi sento bene; ho un mal di capo
terribile. È perciò che sono rimasta sola a casa; il sagrificio non è
stato grande, d’altronde; le lunghe escursioni non mi divertono troppo.

Parlava con fatica. La crisi non era finita. Massimo taceva e
l’osservava. D’un tratto ella chiese:

— Lei era lì da un poco? mi ha veduta! 

— Sì; ero qui, l’ho veduta. 

— Devo sembrarle ben debole, se non ridicola. Eppure non sono avvezza a
tali crisi nervose, e non piango facilmente.

Massimo la guardava con molta attenzione e come per leggerle
nell’anima, ma non v’era nulla d’irrispettosamente curioso nel suo modo
di osservarla.

— Senta, — le disse alfine; — lei è buona e intelligente insieme.
Lo avevo sempre intraveduto, ora ne sono sicuro. Le sue qualità si
accompagnano più spesso che non si creda. Ebbene, non devo neppur
io farle l’effetto d’uno stupido; è dunque perchè mi crede cattivo,
che mi parla in tal maniera? Sì, lei deve avere una pessima idea sul
conto mio. Ciò è abbastanza naturale; lei crederà sinceramente alla
fama di cui godo, oppure è il mio aspetto, sono i miei modi, le teorie
che affetto talvolta, che l’avranno fatto giudicare da sè stessa
sfavorevolmente di me. Ebbene, credo che lei sbaglia. Ho forse commesso
dei delitti, ma in fondo sono altrettanto scioccamente buono quanto
dev’esserlo un uomo di spirito. Mi guardi bene in faccia; forse si
accorgerà che non mi ha mai visto. E se le facessi una domanda... Se mi
permettessi di parlarle sinceramente, mi crederebbe spinto da una bassa
curiosità o da un sincero interessamento?

Era vero; egli non aveva mai ispirato nessuna fiducia a Elisa, che lo
giudicava un uomo freddo, cinico, pericoloso; le pareva ch’egli stesse
a capo di quella schiera spensierata e dura dei “felici del mondo„
con la quale non poteva lei aver nulla di comune, i suoi difetti le
facevano paura quanto le sue qualità. Ammirava talora il suo spirito,
ma lo temeva, parendogli lui intelligente e perverso, e non poteva
difendersi da una certa diffidenza istintiva.

Ora, forse a motivo dello stato dell’animo suo, egli le apparve
subitamente tutt’altro. Vi era nella sua voce, nel suo accento, nel
suo sguardo, in tutta la sua persona, qualcosa di sincero, di severo,
di profondo ch’ella scopriva per la prima volta. Ella non lo avrebbe
creduto capace di pronunciare le parole ch’egli ora le aveva rivolte, e
che, nella sua sorpresa, ella intendeva appena. Lui, ch’era detto così
leggiero ed orgoglioso, così scettico e freddo, era proprio lui che le
aveva detto quelle parole con tanta bontà e quasi umilmente?

— Ci conosciamo da un gran pezzo, — seguitò, — benchè assai poco.
Si ricorda di un giorno — alcuni anni fa — che l’ho incontrata sul
battello del lago? Io era con i Stanley, mi sembra. Mi sono rammentato
di quel giorno. Lei era silenziosa assai, e malinconica già della
malinconia delle fanciulle. Io la osservavo. Lei sognava certo
d’avvenire, guardava la vita e, apparentemente, non le pareva gaia.
Allora la sua mestizia era piena di grazia. Io pensava: Che buona cosa
poter esser triste in quel modo! Io, quel giorno, ero allegro assai, e
l’invidiavo. Ho constatato un grande cambiamento, ritrovandola qui. Ora
non la invidio più. Mi permette di parlarle così?

Elisa non poteva rispondere, poichè le lagrime ritornavano, ad onta dei
suoi sforzi per trattenerle. Cedette di nuovo ad un tratto e nascose
il viso tra le mani per un istante. Quando rialzò la testa, d’Astorre
riprese:

— Non le faccio paura, spero? Pensi che ho novantanove anni. 

Un lieve sorriso involontario passò sulle labbra della fanciulla. 

— No, — disse finalmente, — non mi fa paura. Mi perdoni; certo mi
deve trovare ben strana. Sento che lei è buono, la ringrazio; ma mi
lasci. È inutile che finga, o che le racconti ciò ch’ella non ignora.
La marchesa m’ha detto — me ne rammento ora — ch’ella aveva tutto
indovinato da sè fin dal primo giorno. Lei sa perchè sono disperata,
sebbene non lo possa comprendere completamente. Tutti lo sanno,
d’altronde, oramai. E lei, che potrebbe dirmi?

— Non vorrei dir nulla, ma sarei felice di poter esserle utile in
qualche maniera.

— È impossibile, — rispose lei sorridendo amaramente, e con tale un
accento che Massimo rimase qualche minuto senza aggiungere una parola.
Durante questo silenzio, la osservava. La perdita d’ogni speranza
si leggeva tanto chiaramente in quello sguardo quasi vitreo, in quei
lineamenti rigidi; il suo pallore contrastava talmente con la seduzione
giovanile delle forme, mostrando in piena fioritura la giovinezza del
corpo e già finita quella dell’anima, le traccie crudeli della vita
erano già tanto visibili su quel viso dimagrato, ch’egli ne ebbe paura
e che una specie di rispetto quasi religioso s’impadronì di lui davanti
a una tale disperanza. E quella forza nel dolore, quell’abitudine
di dissimulazione erano più penose da osservarsi in quella fanciulla
che una esplosione di sofferenza. Per un effetto d’abitudine, si era
irrigidita, aveva ripreso possesso di sè stessa, e si era rialzata
diritta nella sua posa corretta e solita.

— Grazie per l’interesse che prende per me, — continuò rinfrancata. —
Ne sono commossa, ma, lo ripeto, lei non può far nulla per me; nessuno
lo può. Vede, sono calma. Credo stimarlo come merita, poichè non
rimpiango più che lei abbia visto la mia vera fisonomia. Sarei desolata
che chiunque altro fosse stato al suo posto. È forse una esagerazione
di fierezza che mi dà questo eccessivo pudore dei sentimenti, ma
che vuole? Sono così. Grazie ancora. Ora devo salire, è già troppo
tardi....

Si era alzata, ma lui la trattenne. 

— Resti ancora un poco, la prego. Senta: lei non può dunque farmi
l’onore di accordarmi la sua amicizia?

Lo guardò stupita, e fece un cenno d’assentimento. 

— Ebbene, lei ha la mia, l’ha completamente, come la do io quando
l’offro, il che non mi succede spesso. Ed ora mi permetta dunque di
dirle ciò che penso, di parlarle francamente: lei non deve sposare
quell’uomo.

Elisa scosse tristamente il capo, con quel gesto che significa: a che
vale parlare? Poi, d’un tratto, tornando a sedere:

— Sa che cosa m’ha detto mia madre? M’ha detto.... oh no! non le
posso ripetere le sue parole. E mio padre.... il mio povero padre s’è
messo in ginocchio davanti a me.... Capisce?-... Gorletti ha fatto
tutto per noi. Due volte già ha salvato la mia famiglia con un’abilità
straordinaria. Adesso la rovina ne minaccia ancora, la rovina completa,
e che cosa si può sperare? Non può più far nulla, siamo alla fine di
ogni espediente, non v’è più nulla da tentare. Egli ha chiesto la mia
mano; un tale matrimonio accomoda tutto....

— E lei ha accettato! 

— Sì, quasi. Ma ho detto che sono ammalata — il che è vero — e che
mi si lasci ancora in riposo per qualche giorno. Il caso ha fatto che
egli ha dovuto partire. È una breve tregua.... Ma ritornerà, e allora
bisognerà.... Oh! senta, vorrei tanto morire!

Queste ultime parole furono pronunciate con un accento così raro di
sincerità, che Massimo restò alcuni momenti senza potere articolare una
sillaba.

— Non parli così, — disse infine. 

— Sarei rassegnata se mi si lasciasse in pace. Non posso spiegarle il
perchè, ma la mia vita è finita, ne sono certa. Non aspettando più
nulla al mondo, potrei essere calma e buona se mi si accordasse il
riposo. I miei avrebbero tutto il mio affetto; nasconderei loro le mie
tristezze, troverei sempre un sorriso per mio padre. Ma preferirei
entrare domani in un convento, piuttosto che piegarmi a ciò che si
vuole.

— Ma in tal caso, resisti a oltranza. Che diavolo! È passato il tempo
dei matrimoni per forza.

— Ed infatti nessuno impiega la forza. Non si esercita alcuna violenza.
Ci si accontenta di dirmi, che, se rifiuto, sono un mostro di malvagità
stupida, e che, per un inconcepibile capriccio, getto la mia famiglia
nella miseria, nello strazio, nel disonore. Tutti mi danno torto. Sua
zia stessa, la marchesa, così buona e intelligente, mi consigliò il
sagrificio.

— E lei è ben certa che mia zia non abbia ragione? Ha riflettuto bene?
Io, individualmente, sento ciò che sente lei, e non le dico questo
adesso che a scarico di coscienza. Ma insomma, non potrebbe darsi
che forse troverebbe almeno la calma in codesta vita nuova che le si
propone? Tante altre sarebbero quasi felici a suo posto!

— No, io non troverei che l’orrore di tutti i minuti. Ma farò quanto si
vuole che io faccia. Lei stesso, ora, non pare più che mi comprenda.
Sì, rinuncierò a tutto, alle mie idee, ai miei sentimenti, alla mia
dignità e alla mia libertà, e soffrirò quanto mi si vorrà far soffrire.
Mai sagrificio sarà stato più completo, e nessuno potrà sapere quanto
mi sarà costato. Dacchè mi si dice che lo devo, farò il mio dovere fino
in fondo; ma non mi si può impedire di soffrire, e di pensare che il
mio dovere è più arduo di quello degli altri, e ben pesante per le mie
forze.

— Ebbene, se è così, lo ripeto, resista. 

— Lei non ha dunque capito ch’è impossibile, che mio padre ne
diventerebbe pazzo? Moralmente, ho ragione; ma dal punto di vista
mondano, praticamente, ho torto. Il signor Gorletti non è soltanto un
uomo ricco, onorato; è anche il migliore amico della mia famiglia. Non
è forse cosa assurda da parte mia il risentire per lui un’antipatia
irresistibile, di non poterlo nemmeno stimare? Ero piccina, che
già veniva a casa, e già non lo potevo soffrire. Mi si raccomandava
d’essere cortese con lui, e mi si sgridava perchè scappavo via appena
lo vedevo. E poi.... e poi sarebbe lo stesso se si trattasse d’un
altro. Vi sono anche altri motivi. Non mi voglio maritare. Perchè si
vuole assolutamente che tutte le fanciulle si maritino?

— So, infatti, che lei ha già rifiutato vari matrimoni. 

— Sì, e ad ogni volta mia madre s’è messa in furia. Quando il signor
Gorletti, che non pareva pensasse punto a me, ha cominciato un bel
giorno a farmi dei complimenti, sono rimasta talmente stupita da
non credere a ciò che udivo. Allora mia madre m’ha gettato in viso
tutti i miei rifiuti precedenti, dicendomi che questa volta bisognava
vincere il mio “partito preso„ e che non potevo dir di no. Poi mio
padre, che mi ama a modo suo, ha cercato di persuadermi. Mi ha parlato
per delle ore, chiedendomi scusa d’insistere, dimostrandomi che era
necessario, supplicandomi, facendo brillare a’ miei occhi i vantaggi
che avrei accettando, e l’immenso servigio che gli avrei reso. La mia
antipatia per Gorletti non ha fatto che aumentare. Tuttavia farò il
mio dovere secondo il mondo, e se ne dovrò morire, tanto meglio. Mi
perdoni di parlare così; sento bene che non lo dovrei, ma lei ha voluto
conoscermi. Talvolta, vede, sono quasi rassegnata; sento solo un dolore
stanco e un profondo disgusto. Poi, d’improvviso, mi rivolto di nuovo,
e piango e mi contorco in un’altra crisi disperata. Nessuno mi vede, e
ritrovo in pubblico la mia calma apparente. Lei mi ha sorpreso oggi in
uno dei miei momenti di debolezza. Era venuta qui, credendomi sola in
tutta la casa, poichè detesto la mia camera, quella camera dove l’altro
giorno ho acconsentito alla mia rovina. Ma ora vi ritorno per scrivere.
Adesso sono calma. È finito. Dimentichi, la prego, ciò che ha visto
e ciò che le ho detto, e a questa sera. Vedrà che pranzerò come gli
altri.

Si alzò di nuovo. Massimo la guardava attentamente. Il suo viso aveva
preso un’espressione risoluta.

— Ebbene, no! — esclamò alzandosi lui pure e picchiando del pugno sul
tavolo, — no, lo giuro, non sposerete quell’uomo! Piuttosto lo ammazzo.

Ella lo guardava. 

— Non mi parli così. Pensi che mio padre gli deve tutto. 

— No, non lo ammazzerò, benchè ciò avrebbe semplificato la questione.
Ma lei non lo sposerà. La stupisco; non mi crede capace di avere un
poco più di volontà delli altri? Mi domanderà con qual diritto vengo
così ad offrirle il mio appoggio, quasi a suo malgrado? Col diritto che
ha un uomo qualunque d’impedire, se lo può, che un’infamia si compia;
di salvare uno che si perde, dovesse farlo anche contro la sua volontà.
Sarebbe sul punto d’annegare, che potrei, suppongo, tirarla fuori
dall’acqua, anche senza il suo permesso? Metterò dunque un ostacolo a
questo matrimonio, non so ancora in qual modo, ma disfarò tutto. Nella
mia vita ho posto sufficiente energia nel compiere delle cose che non
ne valevano la spesa, perchè mi sia concesso di usarne una volta per
impedire il male, quando non posso vederlo di sangue freddo. Sentite:
io non vi amo; non sono nemmeno vostro amico che da un’ora; quando vi
lascierò, non vi rivedrò forse mai più; ma dacchè mi trovo qui, farò
tutto ciò ch’è in mio potere per togliervi dalla orribile situazione in
cui vi trovate.

Elisa salì, e Massimo uscì per la porta-finestra del gabinetto. Un
giardino all’italiana, a disegni regolari, a forme simmetriche, si
stendeva davanti alla facciata della villa. Dietro, il terreno saliva
in molli ondulazioni a un parco a bosco, assai vasto, dove regnava
d’estate una frescura deliziosa. Massimo accese uno zigaro e fece
rapidamente il giro del giardino, poi voltando intorno alla casa,
s’internò nel bosco. Camminava assai presto, come per far moto,
calpestando le foglie morte che già coprivano il suolo, mentre i
rossi bagliori del tramonto si riflettevano nei viali, passando fra
i rami alti già per metà spogliati. A poco a poco rallentò il passo.
Rifletteva profondamente; certo chi l’avesse veduto in quell’istante
avrebbe indovinato ch’egli era assorto in un lungo monologo. Talvolta,
mordendo il suo zigaro, lasciava perfino sfuggire dalla sua bocca
qualche parola scucita. Ritornò alle macchie di fiori già scolorate
del giardino, e vi passeggiò ancora a lungo. La villa bianca e gaia,
con le sue verande ornate di arrampicanti, occupava tutto il fondo del
giardino, e sembrava bassa ad onta dei suoi due piani. Egli guardava,
meditando, i vetri cui i raggi del sole cadente facevano risplendere.
Dall’altra parte la vista dominava la pianura, che, tutta a colori,
s’allargava fino all’orizzonte imporporato. Passeggiò a lungo. Non ci
si vedeva più affatto ch’egli errava tuttora per i viali oscuri.

Quando rientrò, tutti erano tornati e stavano per mettersi a tavola. Si
erano divertiti ed erano allegri assai. La marchesa dichiarò che non
si sentiva punto stanca, e ch’era pronta, se volevano, a ricominciare
all’indomani. In quanto alla subita partenza della contessa Lassardi,
produsse un poco di stupore, ma non soverchio, sebbene il pittore
tentasse di far notare la coincidenza della partenza di lei con quella
di Giacomo. Tuttavia un telegramma che giunse dopo pranzo, annunziante
che Lassardi stava un poco meglio, ma che la sua malattia era però
d’una certa gravità, pose termine alle congetture.

Elisa sembrava esattamente la stessa delli altri giorni, ma non
parlava. Gorletti aveva trovato modo di sederle vicino. La presenza
dei suoi genitori sembrava pure renderla diversa. Il marchese
sorprese anche varie volte il signor Valenti che guardava sua figlia
di nascosto, assorto nel contemplarla con affetto. L’interesse
possente che Massimo prendeva sempre più al dramma celato che si
passava sotto a’ suoi occhi, non gl’impediva di conversare. Ma il
suo spirito diventava mordente, incisivo; fece pompa, con espressioni
seducenti e raffinate, di teorie eccessivamente ciniche, e si mostrò
amaro, pessimista, quasi brutale. La marchesa ne fu scontenta, ma
non lo lasciò vedere, sapendo per esperienza che, in codesti casi,
le osservazioni non facevano che incoraggiare il suo elegante nipote
a far peggio. Elisa, dopo l’inatteso dialogo successo tra di loro,
lo guardava, stupefatta, e chiedeva a sè stessa quali fossero i
veri sentimenti di quell’uomo. Finì col decidere che forse era stato
sincerissimo in ciò che le aveva detto qualche ora prima, e che lo era
ancora adesso. Un tale giudizio certo si avvicinava molto alla verità,
poichè la natura di Massimo era multiforme.

La serata non fu allegra. L’assenza della contessa Lassardi si faceva
sentire. Poi, un vago imbarazzo regnava nella sala. L’attitudine
di Gorletti rivelava sempre più le sue attitudini matrimoniali. Il
pittore, mancante spesso di tatto, si permise anzi una mezza allusione.
Elisa era così pallida che dovette pretestare una indisposizione,
il che porse il destro al dottore di far divergere le assiduità di
Gorletti. La madre d’Elisa stancava tutti col suo cicaleggio incoerente
e il suo buon umore fuori di posto, mentre il padre pareva ingolfato
nella lettura dei giornali. Sola la padrona di casa non usciva dalla
sua calma abituale, ma ella pure piegava talvolta la testa, in atto
pensieroso, sul suo eterno ricamo. Gorletti essendosi alzato per
un momento, Massimo attraversò bruscamente la sala e venne, senza
complimenti, a prendere il posto di lui a lato di Elisa. Non le rivolse
che di rado la parola, ma non si mosse più fino al momento in cui tutti
si alzarono. Si trovò ciò un poco strano, e Gorletti guardò Massimo a
più riprese; ma questi non ebbe l’aria di accorgersene.

Quando fu solo nella sua camera, Massimo fece i suoi piccoli
preparativi, come qualcuno che non ha voglia di andare a letto.
Accese tutte le candele dei candelabri, mise un costume da camera di
stoffa orientale, e coi piedi nelle pantofole, si stese in una gran
poltrona. Rimase un gran pezzo immobile; si sarebbe potuto scorgere,
dall’espressione seria, preoccupata della sua fisionomia, che dei
pensieri assai definiti gli si agitavano per il capo. Evidentemente
riprendeva e continuava il soliloquio del giardino.

Prese una scatola di sigari, ne scelse uno con molta cura, e lo accese.
Lesse alcune pagine d’un romanzo, scrisse due lettere, mise in ordine
alcuni oggetti, alcune carte sparse, poi si avvicinò allo specchio
e vi si guardò minuziosamente. Si ravviò la barba e i capelli con la
spazzola, a lungo, con molta cura secondo la sua abitudine, ma allo
stesso tempo in un modo così distratto e macchinale che non sembrava
avesse piena coscienza di ciò che faceva. Cadde in un’apparente
contemplazione interminabile di sè medesimo, ma di nuovo il pensiero si
agitava attivamente sotto la sua fronte.

Sopra un mobiletto c’era un ritratto che non lo lasciava mai. La
cornice era d’oro, d’un finissimo lavoro, sormontata da una corona
marchionale, ed il ritratto rimaneva di solito nascosto da due piccole
imposte chiudenti a chiave. Massimo lo apri e lo mirò lungamente.
Era l’imagine di una donna nella prima gioventù, seducente piuttosto
che bella, dall’aspetto dolce e un po’ malato, in grande toeletta,
con il collo circondato da sette fila di grosse perle; il suo sguardo
infantile e mesto allo stesso tempo, i suoi capelli bruni semplicemente
acconciati, avevano qualcosa d’indefinibile e di commovente. Vedendo
quella pittura di una straordinaria finitezza di tocco, e senza dubbio
opera di un abilissimo artista, contemplando l’espressione serena e
quasi inconsciente nella sua malinconia di quel giovane e pallido viso,
si sarebbe facilmente indovinato ch’era l’imagine di una persona morta.
Si spieghi come si può o si neghi un tale mistero, è però successo a
tutti, vedendo un ritratto sconosciuto di dire a sè stessi: Questa
persona non è più sulla terra. E si sentiva bene, guardando quella
dolce figura, quella testa di donna e di bambina ad un tempo, che
adesso quelle labbra dovevano essere scolorate, e quei grandi occhi
chiusi per sempre.

Quel ritratto, come una reliquia, seguiva Massimo dappertutto nel
cammino disordinato della sua vita. Contemplandolo, il suo volto
prendeva una espressione di tristezza e di amore che non gli si vedeva
mai. Chi era dunque quella donna?

Era una donna per la quale Massimo aveva risentito una profonda
affezione, e la di cui perdita era stata il solo dolore sacro della sua
vita; solo quando pensava a lei, quell’uomo forte e sdegnoso sentiva il
suo cuore farsi debole, e nel suo petto oppresso rinascere un rimpianto
eterno, quasi un rimorso. — Era sua sorella.

Mai non poteva egli dimenticare il gran dispiacere della sua infanzia,
la sua prima separazione dalla sua piccola sorella adorata, la costante
e gaia compagna di tutti i suoi giuochi, quando il tutore ebbe deciso
di metterla in collegio. Rivedendola, durante le vacanze, ogni anno la
trovava più alta, un po’ mutata, più gentile per tutti, e sempre gli
si attaccava al collo nello stesso modo. Aveva sei anni più di lui, e
mentr’egli non era ancora che un ragazzetto, lei diventò subitamente
una donna.

Un giorno il tutore era giunto al collegio, e gli aveva dato una grande
notizia: sua sorella stava per maritarsi. Sposava il marchese Ricaldi,
un bel giovane, ricco assai, capitano di cavalleria e ufficiale
d’ordinanza del re. Era un magnifico matrimonio. Massimo ne fu molto
stupito; gli pareva impossibile che la sua piccola Lina potesse
diventare una gran signora da un giorno all’altro; ma non se ne sentì
rallegrato.

Non assistette al matrimonio ch’ebbe luogo a Firenze, e non rivide sua
sorella che sei mesi dopo. Ella si appese al suo collo e lo abbracciò
con l’antico abbandono, ma con un affetto ancora più tenero, e fu assai
contenta di rivederlo. Fatta più alta e un poco smagrita, la trovò
più seducente che mai. Alle domande se fosse felice, rispose: “Sì,
e più ancora adesso che ti rivedo.„ In quanto a suo cognato, Massimo
vide in lui un bell’ufficiale e un perfetto gentiluomo, ma non seppe
difendersi da un certo sentimento di lieve ripulsione, che tentò invano
di combattere, davanti al viso un po’ duro, alle maniere cortesi e
compassate, alla conversazione precisa e pedante di lui.

Tre anni dopo, Massimo, nella gioia di aver lasciato il collegio per
sempre, rivide sua sorella; la trovò pensierosa e più seria. Rispose
alle sue domande dicendo, fra le altre cose, che disgraziatamente non
si è sempre fanciulli.

Massimo cominciò la sua vita di piaceri e di avventure. Ma in mezzo
a tutte le sue follie, precocemente maturo, il giovine freddo,
noncurante, non dimenticò mai la sua diletta sorella che gli era
sembrata meno felice di quanto ella diceva. Restò però assai lungamente
assente.

Quando, ritornato in congedo, prima di andare a Pietroburgo, salì le
scale del palazzo Ricaldi, si sentì commosso. Guardandola, mentre la
teneva abbracciata, trovò Lina assai cambiata; poi, discorrendo, si
accorse ch’era inquieta, nervosissima, preoccupata. Non rassomigliava
più affatto alla sua capricciosa compagna d’altre volte. Le prese
le mani, lo guardò a lungo nelli occhi e le rimproverò di non avere
maggiore confidenza in lui. Rispose che non aveva nulla e scoppiò a
piangere.

Il fatto è ch’era infelice assai, avendo sposato suo marito senza
conoscerlo, senza sapere cosa faceva. Nei primi tempi, egli la
spaventava e provava per lui una specie di allontanamento. Invano si
era sforzata di vincersi. Lui, d’altronde, non l’aveva certo aiutata
a ciò. Severo, minuzioso, altero e tirannico, la trattava come si
tratta un bambino, talvolta come una nemica, ed esigeva da lei una
sottomissione passiva, senza nulla far mai per ottenere il suo affetto,
mentre viveva, dal lato proprio, perfettamente a suo capriccio. Lei non
aveva un’amica; non andava in società, che ai grandi ricevimenti, dove
si annoiava molto.

Massimo fece allora delle rimostranze a suo cognato, e questo le
accettò quasi umilmente. “Ebbi torto in varie cose; me ne accorgo,
e ti ringrazio di parlarmi franco. Tutto anderà meglio, vedrai.„
Così gli disse. In quanto a Lina, era tanto contenta di rivedere suo
fratello, che la sua tristezza si dissipò fino al giorno in cui dovette
ripartire.

Massimo se ne andò in Russia, più tranquillo. Oh! se avesse potuto
prevedere come rivedrebbe la sua sorella adorata!

Fu solo due anni dopo. Massimo, del tutto libero, e continuando a
camminare noncurante attraverso i suoi successi, era a Parigi. Spesso,
in mezzo alla sua vita troppo riempita, pensava alla sorella. Nei
suoi rari momenti di solitudine, rivedeva il gabinetto giallo dove le
aveva detto addio; talvolta, nell’allegria rumorosa di una cena, la
cara imagine di lei sorgeva improvvisa dinanzi a’ suoi occhi. Tuttavia
era rassicurato sul suo conto. Mentre nel primi tempi dopo la loro
ultima separazione, Lina scriveva solo raramente poche righe sempre
improntate di mestizia, adesso invece riceveva da lei delle lunghe e
buone lettere affettuose, nelle quali diceva sempre che tutto andava
meglio, che suo marito era migliore per lei, e non la tormentava più.
Soltanto, di tempo in tempo, ella si lagnava un poco della salute.
Alla fine dell’estate, scrisse ch’era stata veramente ammalata; che
ora si sentiva di nuovo bene, e più forte — i bagni di mare, a Livorno,
avendole giovato assai.

Dopo queste lettere, Lina rimase a lungo senza scrivere. Finalmente
Massimo seppe dal cognato ch’essa era stata di nuovo male, ma che
ora si sentiva molto meglio. Ella stessa aggiungeva una parola,
assicurandolo che non si doveva inquietare.

Decise però di andarla a trovare. Ma non gli fu possibile di partire
tanto presto come avrebbe voluto. Sottili legami di ogni specie lo
trattenevano. La sua partenza fu ritardata di settimana in settimana,
di giorno in giorno. Una notte, rincasando, trovò un telegramma: “Lina
gravemente ammalata.„ Partì subito.

In ferrovia, sentì bene, nella sua angoscia, che passava delle ore
indimenticabili, ma le ore che trascorsero dal momento in cui entrò nel
palazzo Ricaldi, finchè ne uscì di nuovo per non rimettervi mai più i
piedi, gli restarono nella memoria come un orribile sogno fatto vero,
dal quale non gli fu più possibile di svegliarsi completamente.

La casa tutta intera era piena di quei sordi rumori, di quel viavai,
rapido e silenzioso, che annunciano la morte vicina. Vi si sentiva,
dalla vigilia, un lieve odore d’incenso. I servitori, in un’attitudine
di circostanza, con la faccia lunga, stavano immobili, oppure passavano
come ombre attraverso le sale, guardando tutto con occhio curioso.
Soffocati singhiozzi venivano da un angolo buio. Sembrava che la luce,
entrante dalle vaste finestre attraverso le ricche cortine, fosse
diversa dalli altri giorni, e si era ingenuamente sorpresi nel vedere
li oggetti al loro posto solito, inanimati come sempre, in mezzo al
fremito che sembrava turbasse l’aria.

Lina spirava. Massimo si precipitò nella camera, pallido come la
morente, tutto il sangue essendogli rifluito al cuore. Ella lo
guardò in faccia coi suoi grandi occhi aperti, senza vederlo. La
vecchia Sofia, che aveva avuto cura della loro infanzia ad entrambi,
in ginocchio sui talloni e accasciata per terra, piangeva in modo
straziante. Il medico — attempato e severo — stava in piedi dall’altra
parte del letto. Un uomo seduto in una poltrona si teneva la testa fra
le mani, in modo che non lo si poteva vedere. I lineamenti di Lina, pur
conservando la loro dolcezza, avevano già preso una rigidità terribile.
Il dottore la toccò, e fece un cenno del capo alli assistenti. Alcuni
istanti passarono. Erano tutti immobili come la morte. Di tanto in
tanto un singulto turbava il silenzio solenne.

Un momento dopo si udì un rumore di passi e di voci alte nella stanza
vicina. Istintivamente tutti si voltarono, e Massimo andò verso
l’uscio. Mentre varcava la soglia sentì, dietro a sè, a prendergli le
mani. Era il giovane di cui non aveva veduto il viso. Non lo conosceva.
Durante un secondo guardò, sorpreso, codesto sconosciuto che lo
guardava a sua volta dolorosamente. Ma scorgendo la profonda simpatia
dipinta sulla sua faccia tutta bagnata di lagrime, Massimo non chiese
nulla e strinse forte le mani che avevano stretto le sue. Le voci
s’incrociavano nella stanza vicina. Era Ricaldi, che, tutto tremante,
interrogava i servitori. Si era assentato, da due giorni, credendo a
un falso miglioramento nello stato dell’ammalata, ed era giunto in quel
momento. Massimo si avvicinò a lui, ma non potè parlare.

Il giovane era scomparso. 


Perchè in quella notte insonne il ricordo della sua povera Lina gli
ritornava in mente in un modo così straziante? Tutto si ripresentava
alli occhi suoi in una chiara e dolorosa visione, e si rammentava dei
particolari quasi dimenticati. Si ricordò del suo soggiorno in campagna
in un’antica villa abbandonata, subito dopo i funerali, e di tutto
ciò che la vecchia Sofia gli aveva narrato. A sentirla lei, la povera
marchesa era sempre stata infelicissima; suo marito era cattivo con lei
e la maltrattava, e lei non respirava che quando era via. Il dottore,
nel quale Massimo aveva piena fiducia, non era del tutto del parere
della buona donna, e non ammetteva come lei che i dispiaceri della
marchesa avessero precipitato la sua fine.

“È morta disgraziatamente e semplicemente di etisia galoppante; aveva
una lieve tendenza alla consunzione e non si è curata in tempo; quando
mi hanno chiamato, era già troppo tardi. Non si muore tanto spesso come
si crede di malattie morali.„

Massimo si sforzò di credere alle parole del vecchio medico, eppure la
sua coscienza gli rimproverava molte cose. E perchè Lina, che, certo,
non aveva avuto un’esistenza calma, si era ostinata nelli ultimi tempi
a fargli credere l’opposto? E perchè l’aveva creduta, e perchè era
restato tanto tempo senza venire? Intravedeva una grande abnegazione,
una lotta interna, dei sentimenti nascosti e delle sofferenze segrete.
La sua perspicacità aiutava a farlo soffrire. — Indovinava un romanzo.
— Diceva bene a sè stesso che forse esagerava, e che, sopratutto, non
avrebbe forse potuto far nulla; ma tuttavia, al rimpianto straziante
di quel dolore del quale sentiva che non si sarebbe giammai consolato
completamente, si aggiunse un vago rimorso.

Finalmente Massimo si coricò e dormì d’un sonno non tranquillo come al
solito. Ma, nei suoi sogni, rivide ancora sua sorella, tanto amata e
tanto soave; gli sembrava udirla mormorare indistinte parole, volgendo
verso di lui il suo sguardo di donna e il suo sorriso infantile.


IV. 

Di giorno in giorno la condotta di Massimo stupiva più vivamente
tutti. Non celava punto l’interesse ch’Elisa Valenti destava in lui;
troppo spesso le si metteva vicino, o la osservava da lontano. Essa
sembrava imbarazzata dalla persistenza di lui ad avvicinarla, e non
perciò diminuiva la sua tristezza. Però non era con lui esattamente
come nei primi giorni. Massimo non sembrava farle la corte affatto, e
meno ancora lei accettarla; ma v’era tra di loro qualcosa di nascosto.
Più ancora delli altri, la padrona di casa era sorpresa di ciò che
chiamava, fra sè, la mancanza di tatto di suo nipote.

D’Astorre non si dava più la pena di celare la sua profonda antipatia
per Gorletti. E questi gliela restituiva cordialmente, benchè non lo
mostrasse nei suoi modi.

La signora Valenti, sola, pareva non si accorgesse di nulla.
Dal momento della partenza di suo marito (che aveva promesso di
ritornare) era diventata più severa con sua figlia, sebbene, a modo
suo, capricciosamente, avesse certi slanci di tenerezza improvvisa,
esagerati, al punto di abbracciarla con passione in pubblico. Con
d’Astorre _posava_ sempre; a momenti fredda e cerimoniosa, poi di una
eccessiva gentilezza, non esente da civetteria. Ella sapeva, del resto,
ringiovanirsi a meraviglia e faceva sfoggio di acconciature, dalla
marchesa dichiarate assurde.

Elisa stessa non comprendeva troppo l’attitudine di Massimo a suo
riguardo. Sempre lo pregava di non tentar nulla in suo favore, di
lasciare che il suo destino si compisse; egli rispondeva ridendo
e continuava come prima. Volle esser tenuto al corrente di quanto
succedeva tra lei e sua madre. Seppe da lei, una sera, che fra due
giorni il matrimonio verrebbe ufficialmente annunziato. Subito dopo,
Gorletti doveva partire; sua madre e lei rimarrebbero ancora una
settimana alla villa, mentre colui aggiusterebbe i suoi affari, poi si
ritroverebbero tutti a Milano, dove il matrimonio avrebbe luogo.

All’indomani, subito dopo la colazione, si partì per una lunga gita
in carrozza. Come per caso Massimo prese posto a fianco della signora
Valenti e fu assai assiduo presso di lei. Con un’abile manovra,
aveva quasi costretto Gorletti a salire a cassetto vicino a Terzi che
guidava, mentre Elisa aveva potuto mettersi in un’altra carrozza con la
marchesa, il medico ed il pittore.

Una grotta naturale, profonda e buia, dove mormorava una sorgente il
di cui sottile zampillo rigava perennemente la penombra, e di cui si
andava a bere l’acqua freddissima e di una incomparabile purezza,
era lo scopo della escursione. Vi si giunge per una stretta valle
verdeggiante, che, d’improvviso a uno svolgere di strada, prende un
carattere selvaggio ed alpestre. Sotto un’altra roccia a picco tutta
umida, muscosa e nerastra, sta l’angusta apertura, buco nero spalancato
nel quale è d’uopo avventurarsi. Il bello consiste in ciò: che uscendo
da un’altra apertura dal lato opposto della montagna, si trova un
paesaggio tutto diverso, ridente e appena mosso. Una terza uscita è
praticata a mezza strada, nel fianco della roccia.

Massimo entrò per il primo. La signora Valenti prese il braccio di
Gorletti. La marchesa ed Elisa penetrarono timidamente, scortate dalli
altri. Non si parlava più. Di tanto in tanto, un grido, uno scoppio
di riso soffocato, una rapida domanda, ed ecco tutto. Ognuno guardava
ai propri piedi, benchè non ci si vedesse affatto, e pensava a sè.
— Di qua, signore, — gridava l’artista, — non abbiano paura; sono
solo i primi dieci passi che costano. Dopo la strada è facile. — Il
medico cadde due volte. Elisa, preoccupala, camminava a stento senza
troppo curare dove andasse. D’un tratto si trovò smarrita, cercò di
orizzontarsi, e non vi riuscì. Tutti erano lontani già; non li vedeva
più. Non volle domandare. Dopo un istante d’incertezza, udì un rumore
di passi che ritornavano verso di lei.

— Di qui! — disse una voce. 

— Da che parte? 

— Mi dia la mano e non tema di nulla. 

Riconobbe le voce di Massimo. 

— Così, così.... Si lasci guidare, si lasci sempre guidare da me. 

— Preferirei esser fuori. 

— Ci saremo fra due minuti, ecco. Vede la luce? 

Un momento dopo erano all’apertura laterale. 

— E gli altri? — domandò lei. 

— Hanno attraversato la grotta, come si vede, in tutta la sua
lunghezza. Noi faremo il giro esternamente e li raggiungeremo in tre
minuti. Ma si riposi, prima, un momento; dev’essere stanca.

E continuò dopo una breve pausa: 

— Non si perda di coraggio. Io sono allegrissimo, invece. Tutto va
bene; si rassicuri. A proposito, bisogna che approfitti di questo
momento, per farvi una dichiarazione. Signora Elisa, io non vi amo;
non vi amo affatto. Non lo dimenticate; e non abbiate dunque paura di
nulla. Ma vi salverò.

Il loro arrivo all’altro ingresso della grotta fu accolto da una
quantità di domande; ma la marchesa aveva l’aria un poco imbronciata, e
Gorletti stava in disparte.

Massimo pareva divertirsi assai. Al ritorno, riprese il suo posto a
lato della signora Valenti e la fece ridere pazzamente per tutta la
strada. Talora interpellava Gorletti, sempre a cassetto, obbligandolo a
voltarsi e volendo che ridesse lui pure.

Nell’altra carrozza, quasi non si parlava. Elisa contemplava il
paesaggio oscurantesi nella porpora del tramonto. Cominciava a far
freddo e una tinta grigia si stendeva sulla via, sulli alberi, come un
mantello di malinconia invitante al sonno, mentre che nelle lontananze
le tinte dell’orizzonte facevano sognare. Involontariamente ammirava,
lasciando che i suoi pensieri indistinti e dolorosi si modificassero
secondo i diversi aspetti del cielo.

Che voleva d’Astorre? pensava. Come s’imaginava di poterla salvare?
Nessuna speranza era possibile. Il suo sagrificio poteva forse venir
ritardato, ma non vi si poteva sottrarre. Eppure, più che mai ciò le
sembrava impossibile e l’idea sorgeva in lei che qualcosa succederebbe
forse. Ma che cosa? Le tenebre si facevano più fitte intorno a lei,
gradatamente e sicuramente, come si vedevano a poco a poco distendersi
sulle campagne. Quale scampo poteva esistere?

Dopo pranzo, la signora Valenti si avvicinò alla marchesa e le disse
ch’era un poco inquieta sul conto d’Elisa, la quale non le sembrava
stesse bene. E rivolgendosi a lei:

— Ragazza mia, sei pallida e non hai quasi mangiato, oggi. Sii savia e
va a dormire. Prendendo delle precauzioni quando si è ancora in tempo,
si evita talvolta una malattia. Va, mia cara, verrò a raggiungerti fra
poco, chè sono stanca assai io pure.

Elisa non fu malcontenta d’ubbidire. Sua madre la seguì presto
infatti, e si assise a’ piedi del letto. Là le tenne un discorso che la
sorprese. Le disse che Gorletti era impaziente ed aveva vivo desiderio
che si annunciasse il loro matrimonio prima di lasciare la villa della
marchesa; poichè in ogni modo, certi affari urgenti lo chiamavano in
città al posdomani.

— Ma, mia cara, giacchè si è aspettato così a lungo, e che la cosa è
decisa, non è vero? tra di noi, non vedo perchè non si aspetterebbe
ancora qualche giorno. Tu saresti meglio ristabilita in salute, e più
forte per sopportare tutte le noie dei complimenti, delle visite,
dei preparativi, ecc. (chè, veramente, la tua salute m’inquieta un
poco e hai bene cattiva cera anche oggi); lui, dal canto suo, avrebbe
terminato i suoi affari e si andrebbe in città tutti assieme, ciò che
sarebbe pure forse meglio. Intanto, curati bene e cerca di riprendere
i tuoi bei colori. Sai anzi cosa faresti, se volessi seguire del
tutto i miei consigli? Staresti in camera tua per un giorno o due.
Egli comprenderebbe allora che ho ragione, che tu hai davvero ancora
bisogno di un po’ di riposo e che deve moderare la sua impazienza. E ti
ritroverebbe migliorata in salute e più calma....

— Farò quanto vorrai, — rispose Elisa con una rassegnazione che
le riusciva facile. E una vaga speranza penetrò nel suo cuore, suo
malgrado.

La signora Valenti ebbe all’indomani una conversazione con il suo
futuro genero, e al posdomani egli partì. Valenti giungendo secondo
la sua promessa, fu un poco stupito di tale partenza. Elisa discese
solo al terzo giorno, per la colazione. Il medico, ch’era salito per
vederla e le aveva ordinato dei rimedi ch’ella non aveva preso, l’aveva
anzi fatta rimanere a letto per ventiquattr’ore. Aveva anche veduto la
marchesa più volte, ed il resto del tempo era rimasta abbandonata alle
sue riflessioni.

Il non veder più lo sguardo di Gorletti fissato sopra di lei,
attraverso la tavola, le fu di tanto sollievo, ch’ella sentì grave il
peso terribile del sagrificio chiestole. Tutto il sangue le si gelava
nelle vene all’idea di diventare la moglie di quell’uomo.

Un inesplicabile sorriso passò sulle labbra di Massimo quando seppe ciò
ch’era successo tra lei e sua madre.

— Va bene, — disse, — ciò non mi riesce inaspettato. 

E mentre si discorreva un po’ rumorosamente intorno a loro, egli
aggiunse:

— Il medico non vi permette ancora di uscire di casa, non è vero? 

— Già; non ne ho nessuna voglia, d’altronde. 

— Tanto meglio. Vi devo parlare a lungo. 

Quando, più tardi, si ritrovarono soli, nello stesso gabinetto dove per
la prima volta Massimo l’aveva sorpresa in un accesso di disperazione,
Elisa non potè impedirsi dal dirgli che, ad onta di quel nuovo ritardo,
ella non aveva speranza alcuna.

— Avete torto. Vi rammentate che a questo stesso posto dove siamo,
quando vi ho dichiarato che impedirei codesto matrimonio, mi avete
assicurato ch’era impossibile nemmeno ottenere un ritardo? Vi faccio
rispettosamente osservare che adesso sono venuti, invece, per così
dire, a domandarvelo, un tale ritardo, e che il signor Gorletti non è
più qui. Aveva anzi una strana figura nell’andarsene.

— Ritornerà. È invano che lei prova sempre di darmi una speranza. Pur
troppo il matrimonio è ben deciso.

— No, un tale matrimonio non si farà. È rotto. Non ho che una parola
da dire per ciò. Quell’uomo è partito per non più ritornare. La sua
partenza, e tutto quanto è accaduto, avreste forse dovuto indovinarlo,
è opera mia. Anderò fino in fondo. Lungamente ho cercato un mezzo
per salvarvi, e, lo confesso, senz’alcun risultato. Ma, adesso, ho
finalmente scoperto. È un mezzo assai semplice, benchè un po’ violento.

— E qual’è questo mezzo? 

— Lo saprete subito. Ma prima lasciatemi ancora dirvi poche parole.
Perdonatemi d’esser costretto a parlarvi di me stesso. Ma è necessario
per spiegare le cose. Poi mi conoscete tuttora assai male, e, lo
temo, vi faccio ancora paura, sebbene sentiate che vi sono amico.
Ma siete intelligente, siete un vivente esempio di codesta verità
troppo ignorata, che si può avere un’anima elevata, e, ad onta di ciò,
indovinare tutto; di più, per la vostra età, avete visto molte cose;
potrete dunque non offendervi di quanto vi voglio proporre.

— Nulla è possibile, vi dico. 

— Non m’interrompete, e ascoltate, ve ne prego. Io sono solo al mondo,
non ho più parenti vicini, e nessuno è più libero di me. Mi si conosce
ovunque, conosco moltissima gente; vi sono molti che si dicono miei
amici, e ne ho assai pochi. Pare anche che abbia dei nemici; ignoro
assolutamente a cosa debbo un tale onore. Pieno di difetti, ho però
osservato che quando ho ubbidito al mio primo impulso, ho sempre
agito bene; il che prova che in me l’istinto è forse superiore al
ragionamento. Conduco una vita molto irregolare, e che mi sarebbe
difficile lo spiegarvi. Resisto difficilmente a’ miei capricci.
Talvolta rimango a lungo nello stesso posto, senza che si sappia
perchè; poi parto bruscamente; vado dove la sorte mi sospinge. Del
resto, manco assolutamente di principii e credo a ben poche cose;
vedete che non mi mostro migliore di quel che sono. Ora sapete a che
sono ben deciso? da un pezzo? È, per mio conto, a non ammogliarmi mai.
Ho per ciò le mie profonde ragioni. Poi detesto il matrimonio. Molte
cose mi sono indifferenti, e rinuncierei volontieri a molti vantaggi;
ma, a nessun prezzo, non abdicherò mai la mia indipendenza. E la stimo
così altamente che mai, sotto alcun pretesto, assalirei la libertà d’un
altro. Sarei dunque un pessimo marito, e stupido. Dunque, escludo, per
me il matrimonio. Me ne infischio del mio nome che finirà forse con me,
e della mia fortuna che passerà in mani straniere, se ne resterà. Le
cose sociali mi toccano assai poco, e non mi commuovo molto per ciò che
mi riguarda personalmente. Cerco di annoiarmi il meno possibile, anche
se per giungere a questo scopo, devo interessarmi a delle assurdità; e
in quanto a ciò che succede nel mondo, guardo tutto ciò come in teatro,
dalla mia poltrona, che certo è una delle migliori. Se posso essere
utile a qualcuno lo faccio con piacere. Do ben di rado la mia amicizia,
sul serio, ma la do senza riserve. In quanto alla mia fortuna è assai
considerevole; la fortuna di un lord inglese agiato, ricchezza grande
in Italia. Non mi è stato possibile di rovinarmi, benchè vi abbia
messo tutta la buona volontà; ora non mi ci provo più. Da questo lato
mi sono posto in quiete. Diedi una smentita a quelli che pretendevano,
all’epoca in cui spendevo sempre tre volte la mia rendita, che nessuna
fortuna mi avrebbe mai bastato, mostrando loro che con solamente una
ventina di milioni, o poco più, non faccio più debiti. Sono lieto di
farvi sorridere....

— Sì, ma tutto ciò non mi dice.... 

— Aspettate. Ecco press’a poco chi sono io. Credete ancora che chi dice
tanto male di me abbia ragione del tutto? Diffidate ancora di me?

— No, credo anzi che siete migliore di quello che sembrate.... 

— Non è così; sono esattamente come sembro a quelli che mi conoscono
un poco. Ma veniamo al fatto. Forse a quest’ora può darsi che non
rimaniate oltremodo stupita nel sentire il mezzo che ho trovato per
salvarvi. D’altronde bisogna accettarlo per questa eccellente ragione
che non ve ne sono altri.

— Ebbene! ditemelo finalmente.... 

— Io vi sposo. 

Elisa lo guardò fisso, arrossì, si provò a sorridere e disse: 

— Mi sembra che il momento sia scelto male per celiare. Del resto non
sono scorsi tre minuti dacchè avete affermato la vostra risoluzione di
non ammogliarvi mai.

— Ed è perciò appunto che vi posso offrire la mia mano. 

Massimo non scherzava. Spiegò la sua idea a Elisa che lo ascoltava
muta per lo stupore. Lui impegnava la sua parola di gentiluomo di non
essere mai per lei che un amico; lei sarebbe del tutto libera e avrebbe
sempre tutta la sua stima. Tutto si ridurrebbe a ciò, che avendo
invano cercato un altro mezzo conveniente per impedire il matrimonio
con Gorletti, aveva pensato che il meglio era d’offrire ad Elisa
una posizione indipendente e tutta quella somma di benessere che può
rendere nella vita l’assenza di felicità meno dura. Ma non poteva far
ciò, secondo le leggi del mondo, senza aggiungervi il suo nome, e lo
dava, non compiendo il minimo sacrificio; poichè in tal modo faceva uso
eccellente di una cosa di cui era ben certo che non avrebbe mai sognato
di servirsi altrimenti per sè. Si salveranno le apparenze per quanto
possibile, senza però inquietarsene fuor di misura, e, appena che
Elisa sarebbe stabilita nella sua nuova esistenza, lui riprenderebbe
la sua vita solita. Un tale progetto lo seduceva; riconoscente se lei
gli facesse l’onore di accettare, sarebbe felice di compiere un atto
semplicissimo, del quale forse nessuno ancora aveva avuto l’idea prima
di lui.

— Mi avete ripetuto più volte, senza dirmi precisamente il perchè,
che non aspettate più nulla dalla vita, che cercate la pace soltanto;
ebbene, vi offro un palazzo a Firenze, che sarà vostro, e dove starete
meglio che in un convento; trovandovi la tranquillità assoluta e le
distrazioni che vorrete scegliere, infine un matrimonio che non è
un matrimonio, e la mia semplice amicizia. Se avete bisogno di un
consiglio, saprò darvelo non più cattivo di quello che farebbe un
altro. In un certo senso, e per questo scopo, è impossibile essere
maggiormente adatto l’un all’altro di quanto siamo noi. Giacchè non
vogliamo maritarci nè l’uno nè l’altro, ciascuno per i nostri motivi
particolari, sposiamoci noi per il pubblico. Dal lato mio ci troverò
pure dei vantaggi, non foss’altro che quello di por termine alfine a
ciò che si venga a farmi delle proposte di matrimonio.

Elisa sorrise di nuovo. Poi, seriamente, rispose che ad onta della sua
stranezza, l’offerta era nobilmente generosa, ma che lei non poteva
acconsentire. Codesta proposta straordinaria non la scandalizzò, ma la
trovò ineseguibile. Tuttavia si sentì profondamente commossa, sebbene
non lo seppe esprimere.

Sorridendo, Massimo insisteva, talora in modo energico, talora giocoso. 

— No, è impossibile. È impossibile in tutti i modi, — ripetè Elisa.
— Finirete pure col comprenderlo. È mio dovere il rifiutare, dovessi
anche parere scioccamente ingrata. Vi è ancora un motivo più serio di
tutti gli altri, che dovrò avere il coraggio di confessare....

Furono interrotti dal brusco ingresso della signora Valenti. 

— Ah! eccoli, — disse a sua figlia. — Ti ho cercato dappertutto. È
donna Maria che mi ha detto ora ch’eri qui col marchese. Non sei dunque
andata in carrozza con gli altri? Ebbene, hai ragione. Quelle trottate,
alla lunga, stancano, e comincia a fare un freddo al ritorno!... trovo
ch’è peggio che d’inverno.

Quella notte Elisa non potè chiuder occhio. La proposta stranissima ed
inattesa d’Astorre, l’orizzonte affatto nuovo che si apriva innanzi a
lei, le riempivano la testa di pensieri confusi. Non poteva dubitarne:
Massimo parlava sul serio. Aveva trovato modo di mantenere la sua
parola; le offriva di salvarla davvero! Gorletti, l’orribile incubo
delli ultimi mesi, poteva essere allontanato per sempre! Poichè,
n’era ben sicura, sua madre in un tal caso, non esiterebbe un momento
a mancare di parola. Elisa aveva un sol cenno da fare per evitare il
precipizio, che da tanto tempo s’apriva davanti a lei, inevitabile.
Le si offriva onorevolmente una vita calma, tranquilla, indipendente,
circondata da tutti i conforti del lusso, e, accettandola, avrebbe la
felicità negativa alla quale poteva ancora aspirare, e ciò rendendo i
suoi genitori pazzi di gioia! La tentazione era forte. Una soluzione
bizzarra, magnifica, che l’imaginazione non avrebbe saputo inventare e
di cui la speranza sarebbe stata assurda, si mostrava d’improvviso per
risolvere il problema finora insolubile del suo destino.

Ma come poteva accettare una proposta tanto bizzarra, insolita e troppo
generosa, tanto più lei, di cui il cuore non viveva solo di un ricordo
indimenticabile, lei, la cui esistenza monotona era tutta riempita
da un segreto amato e doloroso. Adesso Massimo non le ispirava più la
più piccola diffidenza. Le pareva di aver compreso d’un tratto i lati
più nobili di quell’uomo, la cui cattiva riputazione era l’opera di
gente che probabilmente non lo valevano. Ma, essendo lei quello che
era, poteva forse accettare, in condizioni così eccezionali, e non
fosse pure che alli occhi del mondo, la mano di un uomo che ignorava
il passato di lei? Il racconto della sua vita, la sua confessione
completa, non basterebbero a fargli comprendere la necessità di un
rifiuto? Essa lo credeva fermamente; sentì che lo doveva fare, poichè
lui meritava la sua fiducia intera, codesto uomo elegante, stanco,
cinico, che solo aveva saputo aiutarla, lui ch’era considerato come il
più freddo tra gl’indifferenti.

Intanto, tutti si occupavano di Massimo e del suo modo di condursi con
la signora Valenti. Non si parlava d’altro alla villa. La marchesa
cominciava ad inquietarsene. Con minore malignità delli altri, ella
pure si posava però la domanda: — Quale può essere il suo scopo? —
In quanto a donna Maria non poteva contenersi. Si disseccava ne’ suoi
sforzi per non parlare, poi parlava di colpo.

— Hai veduto? — diceva a suo marito. — Erano ancora insieme ieri
nel gabinetto là in fondo. È una cosa che non ha nome. Chi l’avrebbe
creduto di un uomo così _blasé_? Poichè infine, Elisa è una buonissima
ragazza, ne convengo, e anche bellina, se si vuole, ma, dopo tutto,
cosa può avere di tanto interessante! e sopratutto....

— Ah! donna Maria, — interrompeva il dottore, — l’amore non ragiona. 

— Ma, insomma, è o non è innamorato, quel misterioso d’Astorre? 

— Sapete cosa penso io? Tutto ciò finirà male assai; credete forse che
vi sia nulla di sacro per quelli uomini lì?

— E ad onta di tutto. Elisa è sempre triste e taciturna, — osservò
Terzi.

— Oh! in quanto a questo, capisci bene, quando si hanno avute le storie
che ha avuto lei, si ha di che rifletterci e rimanere pensierosa per un
bel pezzo.

All’indomani, Elisa ripetè a Massimo che gli sarebbe profondamente
grata per sempre, ma che non poteva acconsentire.

— Se volessi, — disse Massimo, — potrei benissimo far senza della
vostra accettazione. Basterebbe che parlassi con vostra madre. E allora
per davvero non vi sarebbe più possibile rifiutare! Ma, se vi salvo,
non voglio che ciò avvenga a vostro malgrado.

Infatti, la signora Valenti era in uno stato straordinario di tensione
nervosa. Aveva la febbre addosso, non sapendo se poteva sperare, a
momenti piena di paura, poi abbandonantesi a sogni inauditi che le
sembravano vicino a farsi veri, e dai quali si risvegliava per dirsi
che sognava. Eppure continuava, come aveva incominciato, a recitare
la sua doppia parte con una estrema prudenza; ma se la si vedeva
tranquilla e sorridente, non n’era meno agitata internamente. Cercava
di sapere che si dicesse intorno a lei e d’indovinare dal contegno
delli altri cosa pensassero sulla questione che l’appassionava;
n’era turbata, dicendo a sè stessa con terrore che se un tale stato
d’incertezza, tra gioie impreviste e difficoltà gravi si dovesse
prolungare, ne impazzirebbe.

Massimo aveva dunque ben ragione di parlare in tal modo ad Elisa. 

Ma questa s’armò alfine di tutto il suo coraggio, e gli disse: 

— Bisogna che vi faccia la mia confessione. Giudicherete poi voi
stesso. Vi devo raccontare tutta la mia vita.

E allora, lealmente e degnamente, in un modo semplice e breve, senza
nulla omettere e senza nulla esagerare, senza volere nè accusarsi
nè scusarsi, ella gli disse tutto quanto si è raccontato più sopra,
la triste storia del suo passato; e gli confessò che quell’amore
indimenticabile non uscirebbe mai dal suo cuore; che non amerebbe
mai nessuno e nulla al mondo, e che resterebbe interamente fedele per
sempre all’assente che non doveva più rivedere. _Lui_ aveva mancato
alla sua parola per necessità, ed ella trovava ciò così tristamente
naturale, che non aveva bisogno di perdonargli; ma lei lo amerebbe
sempre e rimarrebbe sempre la stessa. Lei lo amerebbe eternamente,
pur avendo la certezza assoluta che nessuna speranza era possibile.
L’ultima notizia di lui era la notizia del suo matrimonio e che si
era definitivamente stabilito a Bombay. Ritornerebbe d’altronde, che
lei non lo vorrebbe rivedere. Non sarebbe mai sua, ma il suo cuore gli
apparterrebbe sempre.

Quando ebbe finito, Massimo le prese ambo le mani, le baciò e le disse: 

— Elisa, quanto m’avete raccontato tanto francamente e nobilmente,
aumenta la stima profonda ed il rispettoso affetto che sento per
voi. Sono un peccatore indurito, e il mio cinismo nella vita vi
spaventerebbe: il mondo mi ha reso scettico assai e credo facilmente al
male e di rado al bene; ma le eccezioni provano la regola, e in questo
mondo basso, volgare e malvagio, voi siete una splendida eccezione. Lo
vedo, ed io non sbaglio. Il vostro racconto mi prova più che mai quanto
ho ragione di compiere ciò che ho deciso di fare; lo desidero adesso
cento volte più di prima. Lo farei quasi anche a vostro malgrado.
Ma voi acconsentite, non è vero? Giacchè gli ostacoli che credevate
insormontabili, riaffermano, al contrario, la mia risoluzione? Fra
poco mi divertirò assai dello stupore generale, quando si sappia che
vedranno una marchesa d’Astorre. Rideremo.

— Eppure, sentite.... 

— Cara ragazza, non una parola di più. È deciso. 

Sarebbe troppo difficile il dipingere la gioia della signora Valenti
quando seppe che le sue più folli e assurde speranze si sarebbero
realizzate, e che sua figlia stava per acquistare una delle più alte
posizioni cui fosse possibile ambire in Italia, sposando un uomo, che
ad onta della sua condotta, era il sogno dorato e inaccessibile di
tutte le donne. Durò grandissima fatica a non parlarne, giacchè si
era deciso di tenere la cosa segreta per qualche tempo, prima dietro
preghiera di Massimo e per evitare pettegolezzi, e poi per riguardo a
Gorletti, sebbene la signora Valenti gli scrivesse per dargli congedo
abbastanza brutalmente, protestando che non era stato possibile
vincere l’ostinazione di sua figlia, e che lei non la voleva forzare!
E come benediceva ora Elisa di aver tanto resistito! Come le sembrava
superiore e intelligente! Quale fortuna che avesse sempre rifiutato
tutti i partiti! Non poteva cessare dall’abbracciarla e l’accarezzava
in un modo materno e servile, facendosi umile dinanzi a lei in
anticipazione, mentre, piena del suo grande segreto, non poteva a meno
di mostrarsi gaia ed orgogliosa con gli altri.

La marchesa fu eccessivamente stupita quando suo nipote le confidò la
sua risoluzione, senza beninteso dirle l’esatta verità. Le confessò
tuttavia che il suo scopo principale era quello di salvare Elisa,
senza troppo negare (in risposta alle domande contorte della vecchia
signora), ch’egli non contava abdicare alla propria indipendenza, e
che su questo, lui ed Elisa erano perfettamente d’accordo. La marchesa
intravide un poco la verità, ma non del tutto; e l’idea di questo
matrimonio le sembrò, in fondo, una follia di Massimo, e le parve un
poco scandalosa, diversa dalle altre; sebbene non ne fosse malcontenta
da certi lati.

La curiosità di donna Maria e delli altri rimase insoddisfatta. Non
seppero nulla di quanto succedeva, e certo, ad onta di tutte le loro
congetture, non indovinarono affatto.

Ciò che li stupì più di tutto, fu la partenza di Massimo, più strana
ancora del suo arrivo. Una bella mattina, dopo una serata delle solite,
durante la quale si era soltanto osservato che pareva sempre più intimo
con Elisa e con la signora Valenti, mentre pure si notava che non si
parlava più del ritorno di Gorletti, la marchesa, a colazione, annunciò
che suo nipote aveva dovuto partire, prestissimo, senza ch’ella stessa
sapesse il perchè. La signora Valenti raggiava.


V. 

Il matrimonio si fece due mesi dopo, senza alcun apparato e
quasi segretamente, alla villa. Massimo era stato assente durante
l’intervallo ed era solo arrivato alla vigilia. La marchesa, sempre
stupita, e che aveva quasi rinunciato a comprendere, non pensò più
che a mostrarsi amabile, e lo fu squisitamente. Seppe resistere alla
tentazione fortissima di fare un po’ di predica al nipote, che non la
intimidiva; e fu meglio. Ma, per davvero, non vi rimetteva della sua
stupefazione.

La cerimonia ebbe luogo nella piccola cappella privata. Gli sposi
partirono subito dopo.

Quando furono soli in un vagone-salone dell’espresso tra Milano e
Firenze, Elisa sentì più intensamente ancora che nei giorni precedenti
tutta la stranezza della sua situazione. Le sembrava essere ella stessa
l’eroina di un romanzo che venisse raccontato, e recitare una parte,
non sopra un teatro, ma per davvero, in una commedia che fosse la
vita medesima. Stupita si guardava a giro, come ne accade nei sogni,
attrice e spettatrice in uno. Massimo, di una cortesia fina e discreta,
meno famigliare forse di prima, ma amichevole, taceva o discorreva
con naturalezza, senza maggiore imbarazzo che se fosse stato nel
_tête-à-tête_ il più solito. Giacchè egli possedeva quella scienza
tanto difficile dei modi, per la quale dovunque e sempre si trova
la nota giusta. Ma Elisa lo ascoltava e rispondeva macchinalmente,
distratta. Ella si trovava in una di quelle ore in cui il cervello
lavora da sè e per suo conto e in cui le idee si agitano talmente
che quasi si neutralizzano. È sopratutto in simili momenti che alla
domanda: — A che pensate? — rispondiamo: — A nulla.

Le pareva aver perduto il senso della realtà delle cose, e la certezza
della propria individualità. Mentre molti dubbi le attraversavano
rapidi la mente, provava una tema indefinita di agir male e anche
di risvegliarsi da quel sogno reale quale procurava già l’immenso
sollievo di sentirsi in salvo, liberata dall’incubo del quale aveva
tanto sofferto. Alfine poteva respirare liberamente, e ciò la stupiva.
Qualcosa le mancava, e che? chiedeva a sè stessa, e si accorgeva ch’era
il peso che le aveva oppresso il petto fino allora. Mentre tante
imagini si svolgevano davanti alla sua mente, tutto il corpo suo si
assopiva in un grande e nuovo benessere materiale. Si sentiva quasi
in casa sua nel vagone ben chiuso cui la lampada rischiarava appena.
Avvolta caldamente nel suo mantello, lontana dalle paure e dalle noie,
immobile, sebbene trascinata a tutto vapore verso un posto sconosciuto,
le sembrava d’essere sollevata e rapita a forza da una possanza
irresistibile e buona, e nel letargo graduale di tutto l’essere suo un
sentimento quasi involontario di cieca fiducia la riempiva, più forte
de’ suoi pensieri. Abbandonandosi alle sue sensazioni, le sembrava fare
ciò che doveva.

Massimo chiacchierava senz’ordine, ma in un modo interessante. Poi
tacevano, come lo possono due amici che non sono imbarazzati dal
silenzio. Ma, attraverso i suoi sogni svariati ed i discorsi del
suo compagno di viaggio, Elisa ascoltava attenta il rumore regolare
e cadenzato del treno, e in quel fragore monotono, l’orecchio suo
scopriva ogni specie di musiche imaginarie che parevano una traduzione
de’ suoi pensieri troppo vaghi in una ritmica favella ignota. La notte
era fredda. Dai vetri ben chiusi non si vedeva che le tenebre, solcate
talvolta da un improvviso luccicore all’avvicinarsi di una stazione.
In quell’angusto spazio, la sua vita intera le sembrava rinserrata; che
poteva ancora esserci al di fuori? e in quella specie di scatola comoda
e calda, circondata da gelido buio e corrente attraverso lo spazio
sopra una traccia di ferro dove nulla poteva sorgere, ella intravedeva
un simbolo del suo nuovo destino.

— Mi permettete di fumare? 

— Ma certo. 

Egli accese un sigaro. I più insignificanti particolari: una portiera
mal chiusa, l’impiegato venuto a rettificare un errore, un _buffet_
inaccessibile, un altro treno che s’incrociava col loro, tutto
gli porgeva il destro per raccontare qualche incidente di viaggio,
divertente o strano, il comico della sua situazione, un giorno che
per aver seguito un capriccio o per distrazione, si era trovato sopra
una linea, mentre i suoi bagagli se ne andavano a gran velocità
per un’altra. Elisa, quasi a suo malgrado, s’interessava a quanto
egli diceva, per il modo che lo diceva, e fu sorpresa ella stessa
di sentirsi discorrere, famigliarizzata, e narrò a sua volta alcune
impressioni della sua vita un poco nomade e dei suoi ricordi di
fanciullezza.

Poi Massimo le schizzò qualcuno de’ suoi progetti per lei. La
villa, presso Firenze, dove come sapeva andrebbero ora, era stata
completamente rifabbricata e ristaurata, ed era pronta. — (Ciò era
stato fatto l’ultima volta ch’egli vi aveva dimorato, dopo la morte
di sua sorella). — Questa villa, d’ora innanzi, le apparteneva. Egli
aveva ora l’intenzione di passarvi alcune settimane. Di là, farebbe
delle gite frequenti in città, e ne’ suoi altri possedimenti, per
affari e per rivedere gli amici. Lei potrebbe visitare il vecchio
palazzo di Firenze, ch’era pure a sua disposizione, e comandarvi le
migliorie che crederebbe utili, benchè la consigliasse a cambiar poco,
anche all’interno gli appartamenti avendo molto carattere. Aggiunse
che l’aiuterebbe in tutto ciò, e che l’idea di occuparsi in tal modo
lo divertiva infinitamente. Lei potrebbe, nella società fiorentina,
scegliere le sue conoscenze, a meno che non preferisse veder nessuno.
Se, volendo condurre una vita affatto di casa, temesse allo stesso
tempo la solitudine, sarebbe facile — con un po’ di ricerca — il
trovarle una dama di compagnia. Non avrebbe per caso un’amica che
potesse invitare a venire per qualche mese con lei, o con la quale
potesse viaggiare se una tale idea le sorridesse? Appena avrebbe, in
un modo o nell’altro, stabilita la sua vita, lui contava ripartire, per
Parigi probabilmente. Del resto, vicino o lontano, lei potrebbe sempre
far calcolo sopra di lui.

Elisa si sentì assai confusa ascoltando codesti discorsi, e cercò di
esprimergli la sua profonda riconoscenza, e assicurandolo che in pace e
tranquilla non desidererebbe altro.

— Sono sicuro che non vi pentirete d’aver avuto fiducia in me. Ma è
tardi per voi; ora aggiusterò ogni cosa perchè possiate provarvi a
dormire. In quanto a me non sarà difficile, dormo in ferrovia e ovunque
come nel mio letto.

Preparò tutto, tirò la tendina della lampada, poi le diede la buona
notte e la lasciò perchè si coricasse, poi fumò una sigaretta e si
stese a sua volta, per addormentarsi quasi subito.

Ma Elisa non potè pigliar sonno. Guardava talvolta Massimo disteso
dall’altra parte, talvolta i vari oggetti sparsi. I suoi occhi si
fissavano sulla serratura d’argento d’un sacco da viaggio dove la luce
si rifletteva, o sul disegno complicato di una coperta, e contemplava
queste cose lungamente. Dopo tutto, la presenza di quell’uomo sdraiato
non lontano da lei, la stupiva. Coricato, egli pareva grandissimo, e
quasi le faceva paura. Il suo pensiero errava, correva assai più rapido
del treno, e non in una direzione sola; ma in ogni senso, ora non
vedendo che l’attimo presente, poi perdendosi nell’avvenire; poscia, e
più sovente, risospingendosi nel passato. Più che mai, in quella notte,
l’imagine di colui ch’ella aveva per sempre perduto, sorgeva innanzi a
lei per sedurla mestamente, e opprimerla senza posa. Quel nome “Giulio„
pareva si disegnasse continuamente davanti ai suoi occhi, invano
chiusi.

Tutti i ricordi, i più soavi e i più dolorosi, ritornavano per morderle
il cuore; ma pensava a quanto il cammino della sua vita aveva ora
di meraviglioso. Rivedeva delle amiche da lungo tempo scomparse,
delle compagne d’infanzia, conosciute nei suoi viaggi, e diceva a sè
stessa che per certo la loro sorte non poteva rassomigliare alla sua.
Pensava anche a sua madre, folle di gioia e d’orgoglio, a suo padre,
vanitosamente felice lui pure — a Gorletti, furibondo e in collera
con la sua famiglia, e che lei avrebbe probabilmente il piacere di
non rivedere mai più — e una quantità di particolari le riempivano la
memoria e si mescolavano ai ricordi imperituri del suo perduto amore.

A poco a poco, le sue idee si fecero confuse, udì sempre più
indistintamente il rumore regolare del treno, che parve dolcemente
cullarla, e si addormentò d’un sonno grave e ripieno d’imagini. Tra
i suoi sogni incoerenti, vide più volte una donna di sorprendente
bellezza, altissima, colossale, che la guardava con due grandi
occhi neri e risplendenti, e che la riempiva di spavento, solo con
l’allungare verso di lei la sua mano bianca coperta di anelli. La
riconosceva senza averla mai vista; era la moglie di Giulio. Giunse
a fuggire e si trovò in un salotto di eccezionale ricchezza, dove
la marchesa Arombelli la teneva abbracciata, come proteggendola.
Dalla finestra aperta scorgeva un paesaggio tropicale stendentesi a
una distanza favolosa; si vedeva all’orizzonte il grandioso profilo
vago d’una città con tempii dorati, mentre una schiera di elefanti
bianchi s’avanzava sopra una strada polverosa. Allo stesso tempo
le braccia che s’allacciavano la strinsero fino a farle male, e una
paura istintiva s’impadronì di lei, che si mutò in terrore, quando
s’accorse che al posto della marchesa era Gorletti che la teneva
strettamente abbracciata, gridandole: “Ah! credevi di potermi sfuggire!
No, m’appartieni, e piuttosto che lasciarti partire, ti schiaccierò!„
E sentiva che davvero la stritolava; le mancava il respiro. Un grido
solo, lo sapeva, sarebbe bastato a liberarla, ma l’era impossibile di
emetterlo, e si sentiva morire nella impotenza dei suoi sforzi.

L’angoscia stessa dell’incubo la svegliò. Albeggiava. Una pioggia
furibonda batteva contro i vetri. Vide Massimo addormentato, e un
senso di delizioso sollievo la riempì tutta; l’orrenda visione che
l’era sembrata tanto reale non era che un sogno; mentre questo sogno
di trovarsi sola col marchese d’Astorre, alle sei del mattino, in un
vagone, e d’essersi sposata a lui, questo sogno che, anche desta, le
pareva così bizzarro, era la semplice e vera realtà.

Si era oltrepassato gli Appennini ed il paese pigliava un carattere
più decisamente italiano. La campagna si stendeva, d’una tinta calda
e svariata, con pochi alberi; si vedevano del casini di villeggiatura
dipinti a colori chiari, con i tetti piatti e un terrazzo. La pioggia
fina, violenta, spinta obliquamente dal vento mattutino, rigava il
cielo grigio. Le terre arate, i campi, le ville, i contadini conducenti
le loro bestie, tutto era lavato da quella impetuosa pioggia autunnale.
Nella fredda luce del mattino, quello scenario sempre moventesi, ma
uniforme, assumeva una malinconia senza espressione, che, alla lunga,
serrava il cuore e turbava il pensiero. Elisa, stanca, guardava
inconsciamente le fini linee incessanti.

— Buongiorno, — fece una voce dietro a lei. 

Fu con un sorriso un poco imbarazzato che ella stese la mano a Massimo. 

— Ebbene, signora marchesa, come ha dormito? 

— Abbastanza bene, grazie, — rispose arrossendo un poco. 

Ricaddero nel silenzio e tacquero a lungo. 

Entrambi sognavano diversamente. Quelle ultime ore parvero loro assai
lunghe. Si arrivò alfine. Lasciarono i domestici alla stazione per
occuparsi dei bagagli, e salirono in un _landau_ che li aspettava.

I cavalli presero un buon trotto e dopo un po’ più di un’ora si
fermarono alla _Villa del Giglio_, davanti al grande cancello di ferro
ornato che s’aprì da sè. La carrozza girò sulla fina sabbia dei viali,
e s’arrestò all’ingresso principale, dove scesero.

Quelli di casa guardavano Elisa con una intensa curiosità che si
sforzavano di rendere rispettosa. Si servì la colazione in un salottino
tappezzato di stoffe chinesi dove fiammeggiava un gran fuoco.

Più tardi, cessata la pioggia, Massimo guidò Elisa a visitare la villa
e il giardino. Tutto le piacque. La casa, vecchia di tre secoli,
vastissima, rettangolare con due ali proeminenti, massiccia e di
buon stile, stava sopra una lieve altura, alla quale si giungeva per
l’ampissimo giardino, salendo insensibilmente, e donde si godeva d’una
incantevole veduta. La spianata stendentesi davanti alla facciata
aveva un particolare carattere di gaiezza calma. Si scorgevano lontane
le molli ondulazioni delle montagne; a destra, il simpatico profilo
delle colline di Fiesole e la cupola di San Miniato. Il giardino
non era nè abbandonato, nè molto ben tenuto; ma sui grandi terrazzi
vicini alla casa, ci si sentiva dolcemente riscaldati dai raggi del
sole di novembre, ch’era riapparso, mentre s’indovinava quanto doveva
essere aggradevole, d’estate, la profonda frescura dei viali angusti,
serpeggianti tra gli alti alberi frondosi.

Nell’interno, gli appartamenti erano stati abilmente ristaurati. Erano
grandi sale chiare dalle volte ornate di affreschi d’un gusto violento
e raffinato, nei quali si erano introdotte per quanto possibili le
comodità moderne, conservando il carattere fiorentino delli stucchi,
delle stoffe e del mobilio. Le stanze del primo piano, alle quali
si accedeva per una larga scala di marmo, erano assai grandi ed i
gabinetti per vestirsi avevano press’a poco le dimensioni di un salone
francese.

Pranzarono a un tavolino, già tutto pronto, accanto al fuoco. Da molto
tempo Elisa non aveva mangiato di così buon appetito. Massimo, allegro
come un ragazzo, giunse a farla ridere. Stanca dal viaggio, si ritirò
presto, non potè addormentarsi che assai tardi, ma si svegliò poi
tardissimo. Dalle finestre i raggi di un sole smorto venivano a posarsi
sulle tende rosa a grandi fiorami del suo letto.

Varie settimane passarono così. Di giorno in giorno le indistinte paure
di Elisa si dissipavano, ed entrava con maggior confidenza in quella
nuova e strana vita, che aveva l’apparenza della felicità e dove lei
trovava una gran pace.

Nessuno sospettò la verità completa. Naturalmente in società il
matrimonio del marchese d’Astorre preoccupò tutti assai. Lo stupore era
enorme, e da un pezzo se ne parlava in tutte le case di Firenze. Nel
vecchio nucleo toscano, riservato e un po’ pesante, nelle riunioni più
brillanti e più varie della colonia forestiera, dalle duchesse e dalle
cantanti, alle Cascine e al club, nei palchetti e nei salotti, non si
discorreva d’altro. Le ipotesi le più assurde venivano formulate con
un sangue freddo ammirabile, i giudizi più diversi s’incrociavano; si
approvava, si biasimava, si sorrideva con malignità, si alzavano le
spalle e si facevano perfino delle scommesse. I bene informati (ve ne
sono sempre) raccontavano come le cose erano successe. Da un pezzo,
senza dirne nulla e negandolo anzi, Massimo voleva prender moglie. La
signorina Valenti, civetta di prima forza, aveva manovrato tanto bene
che lui, l’uomo freddo e scettico, si era innamorato di lei come un
ragazzo. Ma non si decideva. Allora i Valenti si erano serviti d’un
vecchio ebreo arricchito, un certo Gosnelli, il quale aveva finto di
domandare la ragazza in matrimonio, per “far saltare„ il marchese.
Questi, pur comprendendo che commetteva una stoltezza, era caduto
nel tranello come uno sciocco. E si conchiudeva che coloro i quali
si credono più forti delli altri, finiscono sempre così. I Valenti
poi, intriganti, — si sapeva — avevano giuocato la partita con una
finezza!...

— Secondo le sue abitudini, quel pazzo di d’Astorre agirà, mi si è
detto, come nessuno lo farebbe. Figuratevi che mi si assicura che
ha deciso di non presentare la sposa a nessuno! Vedrete che ora ch’è
ammogliato, vivrà come un orso.

Queste parole furono pronunciate una sera, verso la mezzanotte, da lady
Thompson, nella sua sala piena di gente, una delle sale più eleganti e
più frequentate della città.

— Ora stanno in campagna, in una solitudine completa. Cos’è l’amore!
Ecco un uomo che cambierà di vita e di carattere da un giorno
all’altro. E credete dunque, lady Thompson, che codesta luna di miele
va a prolungarsi indefinitamente?....

— È ciò che si pretende. Ma badate bene ch’io non ne credo nulla. E più
esagereranno le cose sul principio, più presto finirà.

— Che volete dire con quell’“esagerare le cose?„ 

— _Pas de bêtises_, barone, ve ne prego. Il fatto è che non credo
che codesta bella marchesina, giacchè si dice ch’è bella, adesso,
quella Valenti; quando la vidi altre volte l’ho trovata orrenda, uno
scheletro, uno spettro, mia cara; ebbene, non credo che quella potrà
mai essere un buon acquisto per Firenze.

— Per me, — disse uno dei signori, — Massimo è un uomo che si affoga,
perduto per sempre. Quando il diavolo, invece di farsi eremita, prende
moglie, e in quelle condizioni, è assai peggio, credete a me.

— Ma staranno qui o a Parigi? 

— Chi lo sa? Si dice però ch’egli abbia comperato i cavalli di quel
Russo ch’è scomparso d’improvviso.

— Quando si pensa al matrimonio che d’Astorre avrebbe potuto fare! —
disse una signora.

L’inattesa notizia del suo matrimonio si sparse a poco a poco; fu
uno stupore generale, in Italia e fuori. Le madri di figliuole da
marito furono specialmente e dovunque senza pietà contro codesta
“avventuriera„ che il marchese aveva sposato, senza che si capisse
il perchè. Quante vaghe speranze fondate su nulla, eppur vivaci,
tagliate nel fiore! Quante ire sorde, quante rabbie segrete di donne
d’ogni specie, in tutte le società! Quanti sorrisi cattivi, quanti
detti ironici, quanti progetti di vendetta o di lotta, quante lagrime
nascoste forse! Più sovente se ne rideva forte, sicuri che Massimo
non poteva udire. La curiosità di conoscere la marchesa d’Astorre era
universale.

Ma a Firenze l’eccitamento prodotto da quel matrimonio fu tale, che
non contenti di ciarlarne a ogni momento e di raccogliere e spargere
tutti i pettegolezzi che si mormoravano sull’inesauribile soggetto, gli
oziosi finirono ad appassionarvisi, come di qualcosa che li toccasse al
cuore. Si finì lentamente d’accordo sopra un punto: che cioè era stato
un matrimonio d’amore, e che innamorato di sua moglie non la mostrava
a nessuno, essendo geloso, come lo diventavano spesso i cinici quando
amano.

C’è da imaginarsi dunque lo stupore delli astanti quando una sera
d’improvviso d’Astorre entrò al Club e si mise a giuocar tanto forte e
con tanta persistenza, che all’otto del mattino era ancora allo stesso
posto e pareva lontano le mille miglia dall’abbandonare la partita.
Aveva fatto il suo ingresso con tanta naturalezza, era sembrato così
serio e così calmo, talmente come al solito, e discorrendo subito come
se fosse venuto sempre e che nulla fosse accaduto, che nessuno osò
rivolgergli la minima domanda. L’argomento consueto di tutte le sere fu
subitamente messo in disparte. Venti persone circondavano il tavolino
da giuoco dov’era Massimo, e guardavano la partita con un interesse
doppio, quello di seguirne le peripezie emozionanti per sè stesse,
e quello di contemplare il giuocatore la cui presenza li sorprendeva
tanto.

Nelle altre sale si parlava di lui sottovoce: si commentava la sua
condotta. Gli scherzi grossolani non mancavano, accompagnati da gesti
e occhiate significative. Quelli stessi che, il giorno prima, avevano
parlato di Massimo come di un cavaliere travestito da pastorello, e
nuotante in pieno idillio, dicevano ora: “Mi ci aspettavo. Di già;
vedete? Ne ha abbastanza; cosa sarà fra sei mesi? L’ho sempre detto,
d’altronde, non poteva finire diversamente.„ — “Vuoi dire incominciare„
replicò un altro. — “Sentite, signori miei„, disse un terzo, abbassando
sempre più la voce, “propongo che Pierino faccia attaccare i quattro
cavalli e che si vada tutti a trovare la marchesa.„ — “Ebbene?„
chiesero tutti a un giovane che veniva dalla sala di giuoco. “Sarà un
marito sfortunato; vince sempre. Una vena incredibile!„

Fra poco l’interessamento si fece tanto forte che la sala da giuoco
fu affollata. Si pigiavano alli usci. Quelli che cenavano posavano un
momento la forchetta per andare a dare un’occhiatina, e ritornavano
a portar notizie. Dei corrieri si erano improvvisati tra il club e la
casa di lady Thompson.

All’alba, tutti si trovarono ancora lì, immobili. Si scorgeva una
smorta linea di luce disegnarsi dietro le persiane. Le candele
sul tavolino, quasi tutte consumate, gettavano una fiammella alta.
L’attenzione era sempre intensa; i giuocatori apparivano stanchi. Un
giovanissimo principe russo, invitato della vigilia, era pallido assai;
aveva tutto perduto. Solo, Massimo sembrava fresco come al principio.
Guadagnava ottantotto mila franchi.

— Mi accorderete, spero, la mia rivincita domani notte, — disse il
forestiero.

— Subito anzi, principe, — rispose Massimo. — Perchè lasciare la
partita? Stiamo benissimo qui, mi pare. Spero che questi signori non
siano troppo stanchi. Domandiamo da mangiare, che per mio conto non
mi ricordo più di aver cenato, riposiamo un’oretta, e ricominciamo.
Coraggio, amici miei, la vita è breve!

— Ma sono le otto del mattino. 

— Che monta! Che si portino dei lumi e che si chiudano bene le imposte!
Non voglio sapere ch’è giorno. Il giorno è ignobile.

Così fu fatto. Massimo cominciò a perdere. Alle tre del pomeriggio
aveva tutto riperso; poi riguadagnò. Tutti cadevano dal sonno,
non potendone più, ma continuavano. Nella giornata gli spettatori
ritornarono; si pranzò e si ripigliò a giuocare. Alle otto il principe
pregò qualcuno di prender le carte in sua vece, e cadde d’un pezzo,
addormentato, senza che lo si potesse smuovere. La rivincita l’aveva
avuta; perdeva appena pochi luigi. Massimo aveva sviato la vena, e
guadagnava cinque mila franchi soltanto.

— A che ora s’è terminata ieri la partita? — chiese lady Thompson a’
primi che si presentarono da lei quella sera.

— Non è terminata. Giuocano ancora. 

Finalmente i giuocatori si alzarono e Massimo partì dal Club, lasciando
il campo libero al commenti.

Ma la “partita„ che si giuocava allora al club lo interessava assai;
prese l’abitudine di ritornarvi. Lo si vide nei teatri, da per tutto.
Sembrava meno ammogliato che mai. Talvolta scompariva per un poco, ma
poi tornava.

Costretti di tacere in sua presenza e abituati a poco a poco alle
stranezze della sua condotta che, dopo tutto, non doveva troppo
sorprenderli, i ciarlatori di società parlarono meno di lui dopo
qualche tempo; ma una grande curiosità li riempiva riguardo alla
marchesa d’Astorre, e si ricominciò a discorrere di lei quando giunse
in città. Non fu tuttavia facile il vederla; usciva in carrozza spesso
di buon’ora, ma sempre a ora fissa, e se ne andava a fare un giro
alle Cascine, nei viali appartati e ancora deserti. In fondo, là dove
incomincia la campagna, scendeva di carrozza e passeggiava all’aria
aperta, sotto gli alberi dei rami nudi e neri, nettamente disegnati sul
cielo azzurro, guardante l’Arno rigonfio, incessantemente fuggente in
flutti giallastri di cui il sole dorava magicamente la sporcizia. Ma
un giorno ella si attardò un poco, e al ritorno s’incrociò con tutta la
fila delli equipaggi e dei passeggiatori. Fu una vera fortuna per tutti
quelli occhi curiosi. Videro allora un equipaggio come da un pezzo
non se n’era visto uno simile alle Cascine, d’uno stile inimitabile:
una _calèche_ deliziosa, un cocchiere magnifico! due cavalli bai
splendidi, magistralmente attaccati, e aventi delle rose alle orecchie,
particolare che contrastava con la sobria semplicità della tinta verde
cupa della carrozza e delle livree severe, senza ornamenti, ma senza
difetti; insomma un insieme che sarebbe stato approvato a Hyde Park.
Alcuni tra i passanti, ad onta della loro curiosità, dimenticarono di
guardar bene la signora, distratti dalle perfezioni dell’equipaggio.
Quelli che la osservarono poterono soltanto intravedere rapidamente
una signora vestita di nero, elegante e distinta, con un velo che le
nascondeva il viso. Un’altra volta fu vista con Massimo, ma codesto
equipaggio impareggiabile, ritornava sempre quando gli altri andavano.

Eppure si continuava a credere che Massimo amasse molto sua moglie, e
ch’ella fosse innamoratissima di lui. La sua vita in disparte, un po’
misteriosa, e che la curiosità pubblica non giungeva a ben capire,
doveva confermare una tale opinione. Vi fu dunque un grande stupore
quando, Massimo essendo scomparso da quindici giorni, scomparsa che
molti attribuivano all’impero sempre crescente di sua moglie su di lui,
si seppe che invece era partito.


VI. 

Con l’aiuto del tempo la società si abituò alla presenza tranquilla
della marchesa d’Astorre. In verità, non dava noia ad alcuno.
Solamente, siccome bisognava bene che ci si vendicasse della sua
selvatichezza, della poca premura da lei dimostrata a conoscer gente,
si sparse la voce ch’ell’era di una “povertà di spirito„ veramente
notevole. La si fece creder stupida. Si disse che s’ella si nascondeva,
era per paura di mostrare — nelle loro conversazioni! — il vuoto della
sua testolina, e la sua ignoranza.

Intanto Elisa si sentiva ben sola nei grandi appartamenti sontuosi e
severi del palazzo di Astorre. Uno strano silenzio regnava in quelle
stanze dalle vôlte tanto alte, coperte d’oro annerito dal tempo; in
quelle sale dalle ricche tappezzerie oscure e impallidite, dalle tende
pesanti cascanti in pieghe superbe. I folti tappeti soffocavano perfino
il lieve suono dei suoi passi. In un gran letto del cinquecento, a
colonne, il cui baldacchino blasonato sembrava pesare sul suo capo,
ella giungeva difficilmente ad addormentarsi.

I giorni scorrevano, lenti e tutti compagni, e le sembrava vivere in
uno stato di mezzo sonnambulismo continuo, che toccasse un di mezzo tra
la letargia ed il sogno. Pensando alle angoscie trascorse di recente,
al terribile pericolo cui era così miracolosamente scampata, ella si
rimproverava talvolta di non apprezzare abbastanza l’immenso benessere
della sua nuova posizione. Lottò contro l’impigrirsi morboso di tutte
le sue facoltà e cercò di crearsi una vita tranquilla e occupata. Due
stanze del suo troppo vasto quartiere, le più piccole e le più comode,
furono addobbate a suo talento, e vi passò le giornate, leggendo molto,
avidamente. La lettura era sempre stata la sua occupazione prediletta;
ora diventava un bisogno, quasi una mania; talvolta interessandosi a un
libro al punto di dimenticare sè stessa e di mescolarsi all’esistenza
fittizia dei personaggi; tal’altra leggendo per leggere e divorando
pagine e pagine senza sempre curarsi di capirle tutte. Le dolci ed
angosciose imagini del suo passato non sorgevano più allora dinanzi
a lei, ma era invasa da una tristezza fisica, lentamente, fino a far
tutta parte di lei stessa; penetrava nelle sue ossa e nella sua carne e
circolava col suo sangue. Elisa giungeva a dimenticare i suoi pensieri
così mestamente inutili; ma intanto che la sua mente s’interessava
a cose estranee, l’incurabile malinconia che la opprimeva tutta la
inchiodava per delle ore allo stesso posto, l’illanguidiva in una posa
accasciata, spegneva il suo sguardo ed improntava tutto l’essere suo di
quella immobilità e di quella lentezza piena di lassitudine che sono i
segni dell’aver rinunciato a tutto.

La lotta era finita; più che mai sentiva il vuoto. E sopratutto
fuggiva l’ozio materiale che permette il lavorio del pensiero. Nei
primi tempi del suo strano matrimonio, la presenza di Massimo, che
la rassicurava e l’intimidiva insieme, l’aveva costretta a pensare
ad altro. Ma ora si trovava sola, circondata di lusso, caduta in
un’esistenza imprevista e sontuosamente calma, in una pigrizia che
abbisognava sempre combattere. E nel suo gabinetto tutto coperto di
una gaia stoffa a grandi arabeschi, a metà sdraiata sopra una poltrona
vicina al fuoco, essa leggeva un volume dopo l’altro; preferendo i
romanzi dai quali è difficile staccarsi, pieni d’avventure perigliose e
drammatiche, e il più possibile all’infuori della vita reale. Gli altri
— i veri — le facevano troppo male. E spesso, col libro aperto sulle
ginocchia, guardava attraverso i vetri l’oscuro palazzo sorgente di
faccia, e sopra il tetto, una stretta striscia di cielo, d’un azzurro
risplendente, e così si dimenticava a lungo, sognando a quanto aveva
letto. Tuttavia, attraverso la fabbrica delle invenzioni romanzesche,
qualcosa d’intangibile penetrava, un velo s’intrometteva, ed era il
ricordo del passato ognor presente, anche a sua insaputa.

Qualcuna delle sue antiche amiche erano venute a farle visita; Elisa
le aveva ricevute, e per caso, non ebbe a pentirsene, avendole trovate
discrete e piene di tatto. Esse però le rimproverarono di rinchiudersi
in una solitudine troppo completa, ed Elisa dovette convincersi che
fino ad un certo punto avevano ragione. A poco a poco lasciò dunque che
si allargasse la piccola cerchia delle sue conoscenze, pur vivendo in
una solitudine relativa. Lentamente prese qualche interesse a quanto
le accadeva d’intorno. Certe bellezze dell’esistenza, per sè stessa,
all’infuori di qualsiasi idea di felicità, si rivelarono a’ suoi occhi.
Ell’era, ad onta di tutto, assai attaccata alla vita; poichè quando
una creatura è stata creata per vivere il più completamente e il più
felicemente ch’è possibile quaggiù, il gusto della vita le rimane,
qualunque siano le sventure che gli uomini le infliggono. Mai, nemmeno
nei momenti di più vera disperazione, Elisa aveva desiderato di morire.

Seppe ancora uscire vittoriosa dal suo abbattimento profondo. Con
uno sforzo, in cui mise tutta la sua energia, la reazione ebbe luogo.
Essa indovinava che la sua posizione e il suo modo di vivere facevano
nascere molti commenti, e con tutte si rinchiudeva in una grande
riserva, pur mostrandosi gentile.

Un giorno, sul piazzale delle Cascine, la bella contessa Goffredi,
una delle donne più alla moda in quel momento, fece accostare la sua
carrozza a quella di lady Thompson. C’era folla quel giorno, in quella
specie di salone all’aria aperta ch’è il ritrovo generale, e le due
carrozze riunite furono subito circondate di gente.

— Ho fatto una scoperta, — disse la contessa. 

— Interessante? 

— Interessantissima; sapete d’onde vengo? Dal palazzo d’Astorre. Ho
discorso durante _più di un’ora_ con _lei_.

— Che! ma se non la conoscevi? 

— Scusa, mia cara, la conosco da ieri. L’ho veduta da mia cognata. 

— E subito, contessa, siete andata a farle visita oggi? 

— Credo bene. Sapete che sono un po’ curiosa e che quando voglio far
qualcosa lo faccio subito. D’altronde, che male c’è mostrarsi cortese?
Insomma, ne vengo.

— E la scoperta? 

— Eccola: quella donna non è punto sciocca. Discorre divinamente.
Ha perfino dell’ingegno, quella donna, ve lo dico io, e se volesse,
avrebbe anche spirito!

Intanto Elisa passeggiava sola, secondo il suo costume, in fondo in
fondo, scaldandosi al sole invernale, ed ignorando completamente il
voltafaccia dell’opinione che stava compiendosi in suo favore, per
merito della importante scoperta fatta dalla contessa Goffredi. Ed il
mutamento si compì davvero. Non esser più del parere di chi dichiarava
la marchesa d’Astorre una stupida, divenne una moda raffinata.
Bisogna poi anche ammettere ch’Elisa stessa, per sua propria virtù,
e pur continuando a vivere a modo suo, aveva finito col conquistare
il rispetto e la simpatia di moltissimi. D’altra parte ciò inacerbì
l’opinione dei nemici a qualunque costo, l’antipatia dei quali si
trasformò quasi in odio, senza ch’essi stessi avessero saputo dire
il perchè, e che, d’allora in poi, trovarono che un po’ di calunnia
diventava assolutamente necessaria.

Qualche tempo dopo, in una sera di ricevimento grande da lady Thompson,
l’uscio della sala bianca e oro, dove una cinquantina di persone si
trovavano già riunite, parve aprirsi più largo del solito, e si vide la
contessa Goffredi entrare, accompagnata dalla marchesa d’Astorre. Tutti
rimasero stupefatti, benchè la padrona di casa avesse, dal principio,
annunciato una “sorpresa„. Era la prima volta ch’Elisa si mostrava in
società. La vista di lei, data in pascolo alla curiosità universale,
aguzzò tale curiosità nel mentre la soddisfaceva. Cento sguardi si
posarono su di lei.

Elisa parve a grande suo vantaggio; alta, pallida, seria e sorridente,
quasi bella, assai semplicemente e un po’ stranamente vestita, giacchè,
a modo suo, sapeva acconciarsi. Ad onta di quanto si era detto e
pensato sul conto suo, si era in complesso prevenute adesso in suo
favore; e doveva piacere.

Quella sera come sempre, regnava nella sala bianca e oro a grandi tende
di raso color foglia morta ricamate di fiori variopinti, un’atmosfera
pesante e profumata ch’era l’aria naturale dei frequentatori. Quasi
tutte le donne erano in abito scollato, e quelle spalle bianche, fra le
quali ve n’erano di assai notevoli, sembravano espandersi in quell’aria
viziata come nel loro elemento; presentavano uno strano aspetto
di salute fittizia, quasichè quelle donne fossero state le piante
carnali di quella serra. Ve n’erano di una bellezza fine e stanca,
le cui teste patrizie erano per davvero quelle delle figlie degeneri
dei modelli delli antichi pittori, e che sarebbero certo appena più
belle rivestite d’un costume fiorentino dell’epoca di Lorenzo il
Magnifico, anzichè acconciate com’erano con la penultima moda parigina
mal compresa. Altre, invece, straniere o viaggiatrici, indossavano,
con i raffinamenti più nuovi, quella livrea della suprema moda che
crea una specie di frammassoneria delle ultra-eleganti dell’oggi;
per la quale, senza conoscersi, si ritrovano dovunque colla stessa
pettinatura e con lo stesso insieme. Se ne vedevano di giovanissime, il
cui sguardo spento e sapiente faceva tremare; delle vecchie incrostate
di belletto, ma con l’aria candida. Tentando d’indovinare l’età
probabile di due principesse russe, due sorelle coperte di gemme, e
d’una bellezza diversa, ma provocante allo stesso grado, si fluttuava
tra diciannove e quarantacinque anni. Una americana, giunta da poco,
attirava l’attenzione per la smisurata lunghezza della coda del suo
abito, contrastante con la mancanza di stoffa del corpo ch’era certo
soltanto simbolico; era una giovane sposa che amava suo marito alla
follia. Una diecina di donne circondavano da vicino la padrona di
casa, ancora bella assai, e riccamente vestita. Le chiacchiere erano
femminili; gli uomini formando un gruppo a parte; alcuni soltanto si
piegavano sullo schienale di una poltrona e parlavano sottovoce, mentre
ammiravano l’effetto delle perle sulla bianchezza delle carni. Sopra un
divano, in un angolo, una spiegazione aveva luogo tra un ufficialetto
ed una principessa romana d’una bellezza maestosa e matura. Sopra
i canapè di velluto bruno larghissimi e bassissimi, sulle _chaises
longues_ a schienale fuggente, alcuni giovani ai stendevano con un’aria
profondamente annoiata. Un cembalo verticale, in legno di rosa, stava
aperto, e talvolta qualunque ne tirava qualche accordo e suonava alla
sordina le prime battute di un valzer. Gli sguardi delli amatori di
oggetti rari erano attirati da grandi _étagères_ coperte di ninnoli
preziosi e di statuette di Sassonia, e sul folto tappeto violetto,
alcune pelli di tigre si stendevano, le cui teste dalli occhi di vetro
sembravano voler mordere coi loro denti acuti i piedini raffinatamente
calzati.

Si fumava la sigaretta dappertutto; ma, separato dalla gran sala,
da un’altra sala un poco oscura, si apriva un gabinetto destinato
specialmente ai fumatori. Questa stanza, tappezzata di velluto verde e
rischiarata solo da due grandi candelabri fiancheggianti il camino in
marmo nero, offriva un delizioso ritiro, dove le signore pure venivano
sovente a riposare sulle vastissime poltrone di cuoio in una dolce
penombra e nella tranquillità di una conversazione languida, fumavano
del tabacco orientale. Talvolta però una discussione un po’ viva vi
scoppiava, oppure vi s’impegnavano per caso di quei discorsi in due
abbastanza intimi perchè quelli che si presentavano all’uscio sovente
non ne varcassero la soglia.

Elisa guardava pacatamente ed osservava, dissimulando l’imbarazzo che
suscitavano in lei i numerosi sguardi fissi. I signori, quasi tutti,
avevano chiesto di esserle presentati. Sebbene accogliesse ognuno col
sorriso sulle labbra, la si trovò troppo riservata ed un poco altiera.
Molti non le indirizzarono che tre o quattro parole; alcuni cercarono
di attaccare un discorso seguito. Le donne si mostravano fredde, benchè
lady Thompson e la contessa Goffredi facessero di tutto perchè Elisa si
trovasse bene. Del resto, Elisa non comprendeva più d’una terza parte
di quanto si diceva; le frasi pronunciate non avendo valore che per
il sottinteso al quale sarebbe stato necessario d’essere iniziata. Si
parlavano diversi gerghi speciali.

— Eh! marchesa, che nuove ha di suo marito? 

— Eccellenti; è a Londra. 

— E come va che lei non l’ha accompagnato? 

— Per vari motivi. D’altronde aspetto mia madre fra pochi giorni. Viene
da Milano per farmi visita.

Un vecchio signore si avvicinò. 

— Sono molto legato con Massimo, marchesa. Lo difendo sempre quando lo
si attacca, ma sapendolo a Parigi quando lei è qui, ho quasi voglia di
dir male di lui io stesso.

— S’allontani allora, perchè io non senta. 

— Oh! oh! benissimo.... a meraviglia!... Ma le scrive sovente,
m’imagino.

— Assai sovente. 

La contessa Goffredi pose una domanda ad alta voce, che fece mutar
discorso.

Frattanto nei gruppi d’uomini non si parlava che della marchesa. — Era
simpaticissima. Non una bellezza, ma v’era qualche cosa. — E poi....
Sì, ma.... Massimo in fondo era una bestia. — Quella donna recita una
parte, ma scommetto ch’è infelice assai. — Certo, giacchè è innamorata
pazza di suo marito. — Ne sei certo? — Ho delle prove. — Ma come
accade?... — Mio caro, è semplicissimo; lui ne ha già fin sopra le
orecchie. Credo bene che lei recita una parte, trovo anzi ch’è la più
gran posatrice ch’io abbia mai veduto. — È una donna fredda. — No, è
timida. — Oh! timida poi!... — Vi assicuro che discorre assai bene; non
è vero, Pierino! — Oh! io non ne so nulla. Se credete che mi voglia far
presentare!...

Ad onta di tutto, codesta prima comparsa d’Elisa fu un successo. Molte
prevenzioni furono distrutte al vederla da vicino. La vecchia contessa
Gritti dichiarò che si vedeva costretta a scusare, fino ad un certo
punto, l’assurda _mésaillance_ di Massimo.

Un po’ prima di mezzanotte Elisa si alzò per andarsene. 

— Come? non vuol restare per cena? Sarà pronta in un istante. 

Appena fu uscita, parlarono forte tutti insieme. 

— Zitti! — fece lady Thompson, — aspettate dunque un minuto! 

Ma non si poteva. Le opinioni s’incrociavano come i raggi di un fuoco
d’artificio accesi per errore tutti in una volta. I servitori che
entrarono nella sala vicina portando del tavolini già serviti per la
cena, fecero diversione. Ma, appena furono seduti alla piccola mensa,
dalle tovaglie coperte di cristalli, di bottiglie colorate diversamente
dai vari vini, eccitati da tutto ciò e dai profumi di alta gastronomia,
che venivano a frammischiarsi al soliti profumi dell’appartamento,
ognuno ricominciò con maggior lena.

— Andiamo, tregua alle maldicenze! — disse la padrona di casa, dopo un
momento. — La proteggo e le voglio bene. E voi, barone, cattiva lingua,
tacete!

— Scusate, non dicevo nulla di male. Al contrario sono pieno di
moralità. Trovo semplicemente che Massimo ha torto d’assentarsi; è il
mio umile parere.

— Signori e signore! — gridò quello che tutti chiamavano Pierino, — io
scommetto....

— Andiamo, basta, tacete! 

Ma lui finì la frase sottovoce, fra le risate mascoline e la
disapprovazione ipocrita delle donne.

All’indomani, un gran numero di biglietti di visita furono consegnati
al guarda-portone del palazzo d’Astorre. Alcuni giovani, senza aver
avuto nessun invito, chiesero anzi se la marchesa fosse in casa.

Elisa aveva detto la verità: aspettava sua madre, e anche suo padre.
Arrivarono infatti due giorni dopo.

La posizione dei genitori d’Elisa era stata benissimo regolata da
Massimo. Aveva ottenuto per Valenti un impiego lucrativo abbastanza a
Milano, e ch’egli desiderava da un pezzo ed era completamente adatto
a lui, poichè si trattava sopratutto di discorrere con molta gente.
E la signora Valenti adorava Milano, sua città natale, ch’ella non
aveva dimenticato mai nelle sue peregrinazioni. “Far figura„ a Milano
— come diceva — le sembrava la maggior felicità della vita. Ciò non le
impediva di aver l’intenzione d’andare spesso a trovare sua figlia,
la sua cara marchesa “che però non voglio disturbare, nel gran mondo
dove brilla„ aggiungeva, facendo sentire tutta la grandezza de’ suoi
sacrifici. Diceva anche che Firenze le rammentava ricordi dolorosi.
D’altronde d’Astorre le aveva benissimo fatto intendere ch’ella non
doveva in nessun modo abusare della sua posizione di suocera.

Adesso Elisa, felice di rivedere i suoi, abbracciò suo padre con
effusione, e confrontò la paura da lei provata in faccia a sua madre
altre volte, all’affezione semplice che ora sentiva per lei, ad onta
delle diversità delle loro nature. La ricchezza aristocratica del
palazzo d’Astorre colpì la signora Valenti; ma diede dei consigli di
abbellimento per le grandi sale, che, per fortuna, non furono seguiti.
Sposando Massimo, sua figlia l’era sembrata così “abile„ che le portava
sempre il maggior rispetto, e che non osava nemmeno troppo insistere
quando tentava di convincerla d’andar molto in società e di prendere il
posto che le confaceva. In quanto alla stranezza inerente al matrimonio
stesso, all’assenza prolungantesi di Massimo, alla calma d’Elisa che
sembrava approvare la condotta del marito, di cui non parlava che
con l’accento di un’alta stima e d’una gratitudine illimitata, la
signora Valenti se ne stupiva come tutti se ne stupivano, ma rimaneva
intimidita davanti alla riservatezza di sua figlia, e, dopo qualche
prova, non osò più interrogarla. D’altronde ella usciva dalla mattina
alla sera, nella carrozza d’Elisa, girava, faceva commissioni, andava
a rivedere tutte le sue antiche conoscenze, per abbagliarle coi vestiti
nuovi e coi racconti delle splendidezze di suo genero.

— M’hai detto che ti scrive spesso, e non ho ancora visto una sola
lettera di tuo marito dacchè sono qui, — le disse un giorno.

— È che probabilmente starà per tornare e vorrà farmi una sorpresa. 

Ma, in quel punto, un cameriere entrò con una lettera. 

— Sarebbe sua? 

— Sì. 

— Guarda, che stranezza! proprio al momento che lo stavo accusando! 

Elisa lesse rapidamente la lettera, la rimise nella busta, e disse che
Massimo le annunciava il suo ritorno fra quattro o cinque giorni.

— Non me la fa vedere, — pensò la madre. — Quella lettera dev’essere
ben fredda o troppo tenera.

Ecco la lettera: 

  “Sapete, cara marchesa, che scrivete in un modo delizioso? La
  vostra ultima mi è piaciuta assai, e ho dei rimorsi come per
  un delitto di aver così lungamente tardato a rispondervi. Ma
  la mia vita oziosa è così occupata! Non trovo tempo per nulla,
  e ci vuole una tempra come la mia per resistere alle fatiche
  della mia pigra esistenza. Parigi è animato come ai suoi più bei
  giorni! L’eroina del momento è sempre la Kautgler, codesta attrice
  diventata celebre in quindici giorni, e che fa fremere tutto il
  teatro per il modo con cui pronuncia una sola parola. È sopratutto
  straordinaria nelle parti fredde e malvagie. Ma, se vi volessi
  mettere un poco al corrente, non finirei più, e credo che tutto
  ciò non v’interesserebbe gran che. Vi racconterò alcuni aneddoti
  al mio prossimo ritorno. Queste righe non hanno altro scopo che
  quello di annunziarvelo. Partirò, credo, doman l’altro, mi fermerò
  due giorni a Nizza, d’onde schizzerò dritto a Firenze. Non credo
  sarà per starvi molto. Sarete in città o in campagna, o avrete
  qualche progetto?... E siete dunque stata da lady T....? È un bel
  stabilimento, ma non mi pare che vi ci dovete trovar bene. Pur
  vivendo ritirata, siete stata pur costretta di mostrarvi qualche
  volta; tanto meglio. Credo che un po’ di distrazione vi gioverà.
  Tuttavia vi stimo troppo altamente per darvi dei consigli.... La
  somma che inviaste a quella povera Marietta è insignificante e non
  valeva la spesa di parlarne. Raddoppiate dunque, e non guardate mai
  tanto da vicino a tali cose un’altra volta, nè mai. Uno dei peccati
  capitali mi manca del tutto: l’avarizia. Che volete? Non siamo
  perfetti. Addio, mia cara Elisa, cercate di distrarvi, come potete,
  e arrivederci. Vi bacio le mani.

                                                         “ASTORRE.„


VII. 

La spiegazione di codesto problema insolubile: il matrimonio di
Massimo, per mezzo dell’ipotesi di una passione irresistibile, sembrava
sempre più insufficiente ai curiosi mondani. La primavera era giunta, i
mesi passavano, Massimo al suo ritorno aveva ripreso la sua vita libera
e svariata, e, dal lato suo, la giovane marchesa continuava ad essere
savissima, benchè fosse evidentemente abbandonata, e si mostrava sempre
d’una notevole serenità di spirito, un po’ malinconica, è vero, ma
calma e sorridente, e la si vedeva così sinceramente affettuosa e buona
per suo marito, del quale essa sempre altamente si lodava, mostrandogli
una riconoscenza senza limiti e dei sentimenti inalterabili, che non
si sapeva più cosa pensare; infine si credeva generalmente che Massimo
l’avesse proprio sposata per amore, ma che in lui codesto amore era
stato solo un violento capriccio, e che, già stanco di sua moglie,
l’abbandonava senza riguardo alcuno. Le “amiche„ compativano Elisa
e cominciavano a parlarle con un tono di affettuosa commiserazione,
non esente da una certa gioia sorda e mal celata; ma rimanevano poi
sempre sconcertate, nel vedere così poco comprese da lei, e nell’udire
in che modo ammirativo ella parlava di suo marito. Si finì però
col credere che anche in ciò recitasse una parte; alla perfezione,
non lo si poteva negare. Ma i più maligni cominciarono finalmente
a mormorarsi all’orecchio: “Quella donna è forse straordinariamente
furba„, e qualche tempo dopo si decise che doveva per certo avere un
amante. Codesta imperiosa necessità una volta ammessa, non si poteva
più indietreggiare, e siccome essa non ne aveva, si tentò, quasi
inconscientemente, di inventarne uno. Ma era meno facile che non sia
di solito; era anzi assai difficile. Non si lasciò però scoraggiare per
così poco.

Alcuni giunsero, a forza di astuzie e d’insistenza, a farsi ricevere
dalla marchesa, ad onta della consegna. Altri, senza quasi confessarlo,
le fecero la spia. Fu seguita per le vie quando usciva sola a piedi. La
cameriera, che aveva lasciato una delle più ricche famiglie di Firenze
per entrare al servizio della nuova marchesa, fu abilmente interrogata.

Ben presto Elisa si accorse, mentre gli altri lo avevano già osservato,
che un giovane piuttosto insignificante che l’era stato presentato, si
trovava, come per caso, sempre e dovunque dov’ella andava.

Giuseppe Tordini, da tutti chiamato Beppe, figlio di un banchiere
felicissimo in affari, ma avaro, desiderava una cosa sola: disfare la
fortuna ammassata da suo padre; e vi s’ingegnava assai bene, essendo
già noto a tutti gli usurai della penisola. Alle Cascine, all’ora in
cui non vi è ancora nessuno, lo si vedeva a cavallo, che seguiva ad una
certa distanza una carrozza color verde cupo ricercante la solitudine;
spesso, alla sera, lo si sarebbe potuto ravvisare, appoggiato contro
la muraglia del palazzo d’Astorre, nel momento in cui la carrozza
rientrava, per approfittare dell’istante di arresto, gettando un lungo
sguardo attraverso i vetri. Senza che si sapesse come vi riuscisse,
egli si trovava infallibilmente il primo a un ricevimento, se Elisa vi
andava, o al teatro, s’ella, per eccezione, vi si lasciava condurre. Nè
brutto nè bello, con l’aria stupida ed astuta, insieme, correttissimo
nel vestire, egli recitava con coscienza la sua parte, e sapeva
anche servirsi, per la sua attitudine di aspirante, della espressione
malinconica che si dipingeva talora sulla sua fisonomia triviale e che
non era dovuta che alle sue preoccupazioni pecuniarie.

Non era il solo, d’altronde. Nello stesso modo che, nella loro saggezza
piena d’esperienza, quei signori avevano deciso che la marchesa di
Astorre non potrebbe restar fedele a suo marito; d’altro lato, una
mezza dozzina almeno tra i giovani disoccupati che si credevano più o
meno dei seduttori, s’erano fatto questo ragionamento: “Così non la può
durare; suo marito la trascura. (Essa non lo ama forse già più, se pure
l’ha amato mai). È una donna giovane, bellina e che si _annoia_; non
si diverte delle distrazioni mondane; vuol dunque l’amore. Perchè non
sarei io che?... Attenti dunque e mettiamoci avanti!„ E lo facevano a
modo loro.

Ma Tordini, che non temeva il ridicolo di cui non era capace di
accorgersi, era il più audacemente sciocco nel seguire il suo scopo.
Dotato d’un amor proprio volgare e senza limite, egli sentiva un
gran piacere solo nel compromettere la marchesa per quanto potesse;
d’altronde cominciava anche a innamorarsene o a crederlo, ben inteso
che, ad onta di ciò, avrebbe certo preferito di passare per l’amante
della marchesa, piuttosto che d’esserne amato senza che lo si sapesse.
Quando giungeva a vederla in casa sua, si sentiva timido assai, e
allora, disperando di guadagnar mai terreno, diceva a sè stesso che
sarebbe costretto a contentarsi delle apparenze, spinte il più lontano
possibile.

Un pomeriggio, Tordini era stato fermato da un amico sotto al portone
del palazzo d’Astorre, mentre stava per entrarvi, quando un giovinetto
biondo e pallido, alto assai e tutto vestito di nero, scivolò vicino
a loro. Tordini udì il guardaportone rispondere allo sconosciuto:
“Sì signore„ e, un istante dopo, suonò la campana annunziatrice delle
visite. Ma quando, tutto felice di aver incontrato un amico proprio a
quel posto, entrò a sua volta, gli fu detto che la marchesa era uscita.
Ciò gli parve assai ambiguo, e lo adirò in modo da sentire il bisogno
di sfogarsi. Codesto semplice aneddoto, narrato a tutti, fu una vera
fortuna per i curiosi maligni che da lungo tempo cercavano il difetto
della corazza della incomprensibile marchesa.

Dappertutto e sovente si parlava della indifferenza cinica di Massimo,
come marito, e si dicevano in proposito le cose le più buffe. Tuttavia
una sera al club, mentre Massimo entrava bruscamente, la conversazione
rumorosa d’una diecina di giovinotti cessò di botto, e successe un
silenzio imbarazzante. Si vide un lieve aggrottare del ciglio sul
fronte del nuovo venuto, ma bentosto egli si mise a discorrere nel modo
il più naturale.

Qualche giorno dopo si recitava una commedia nuova al teatro Niccolini.
Il teatro era pieno. Il sipario era appena calato alla fine del terzo
atto, quando Massimo entrò in un palchetto d’uomini dove si discuteva a
voce alta sui meriti del dramma. Tordini vi si trovava.

— Andiamo, via, siamo ragionevoli! — esclamò. — Vi può essere lì dentro
dello stile, della scienza, che so io? tutto quel che volete, ma in
nome del cielo! è naturale? Chi fra noi si lascierebbe ingarbugliare da
una donna, come quel barone che l’autore vuol renderci interessante? Le
cose non succedono così, nella vita.

— E poi, — disse un altro, — è immorale. 

— Io sono per la scuola realista, — soggiunse un terzo. 

— Mi piacciono le situazioni forti. 

— Tutto quel che volete, ma domando che sia verosimile! Tu, caro
mio, sei come Pierino: amate le esagerazioni, che io detesto; mi
piacciono le cose possibili. È come quando Rossi recitava le tragedie
di Shakespeare! Senza contare che fanno sbadigliare, vi chiedo un poco
se avete mai visto della gente comportarsi come quei personaggi? Per i
libri è lo stesso: aprite un romanzo di Gaboriau o di George Sand....

— Signor Tordini, fareste meglio a tacere, — disse Massimo con gravità.
Essi si conoscevano poco, di modo che una tale interruzione agghiacciò
tutti.

— E perchè? scusi? — ribattè Tordini, ma con la voce mutata. 

— Perchè è quello che c’è di meglio a fare quando si è tanto cretino
come lo siete. Vi ho sentito molte volte dire delle stoltezze enormi
parlando di cavalli, di cui vi siete però occupato tutta la vita;
imaginati cosa potete dire, espettorando opinioni letterarie.

Tordini si fece pallido. 

— Andiamo, andiamo.... — disse un altro con un tono che voleva essere
conciliante. — Il dramma ti dispiace? Ognuno sentì l’inutilità di
questo tentativo di diversione.

— Non l’ho nemmeno ascoltato, il dramma. Del resto, non mi sono
rivolto a te, ma al signor Tordini. È forse colpa mia se non lo trovo
divertente?

Si guardarono stupiti e, dal loro sguardi, si poteva comprendere che
avevano tutti la stessa idea.

— Signor marchese, — disse infine Tordini, — credo che lei ha voluto
offendermi.

— Lo ignoro, signore, non sono io giudice di ciò. 

Tordini si alzò irritatissimo. Lo si trattenne. 

— Calmatevi, in nome del cielo; non facciamo scandali qui. 

— Ebbene, sì, avete ragione. Ma capirete che non la può finire così. 

— Finirà come vorrete, — disse Massimo. 

Codesto duello sorprese tutti: prima perchè il modo di agire di Massimo
diventava sempre meno facile a comprendersi; poi per le condizioni
dello scontro. D’Astorre aveva la scelta delle armi, essendo lo
sfidato. Alcuni vani tentativi di aggiustamento furono sinceramente
proposti dai padrini; molto seccati che non si potesse evitare di andar
sul terreno; poichè, sebbene non vi fosse insulto grave, il duello non
poteva a meno però d’esser serio. Ecco perchè: Tordini, dotato d’una
forza muscolare più comune, passava per il miglior tiratore di sciabola
della città, e per non arrischiare d’essere stupidamente tagliato in
due, i padrini di Massimo si vedevano costretti a proporre la pistola.
Dall’altro lato i padrini dell’avversario, pur comprendendo che gli
altri avevano ragione, lasciavano intendere che d’Astorre non sarebbe
generoso usando del suo diritto, poichè lo si sapeva, alla pistola,
terribilmente sicuro del fatto suo.

— Signori, — finì col dire Massimo, — credo d’aver trovato una
soluzione soddisfacente per tutti. Che ne direste se, per tagliar
corto alle difficoltà che incontriamo, dessimo per una volta un buon
esempio, scegliendo l’arma dei gentiluomini? Domando il permesso di
scegliere la spada.

Ciò parve assai originale e non meno serio perciò, ma si accettò,
non potendosi fare altrimenti. Il duello ebbe luogo due giorni dopo.
Tordini ebbe il braccio passato da parte a parte, e dovette stare a
letto per sei settimane. Massimo aveva scelto il posto dove voleva
ferire il suo avversarlo, ma fu lui stesso assai lievemente ferito alla
mano.

Si erano battuti alla _Villa del Giglio_, sopra un praticello tutto
verde, circondato da alberi alti ancora spogli di fronde, verso le
dieci del mattino. A mezzogiorno, tutti già sapevano come le cose
si erano passate, e se ne discorreva dappertutto, mentre Massimo,
contrariamente alle sue abitudini, faceva colazione con Elisa, avendo
voluto rassicurarla con la sua presenza, per il caso ch’ella avesse
scoperto la verità; ma lei ignorava tutto, e credette senza fatica alla
spiegazione qualunque ch’egli le diede della sua mano avviluppata di
seta nera.

— Sapete, — disse Elisa, — che ho dovuto fissare un giorno per
ricevere: il giovedì dopo le cinque. È ridotto alle minime proporzioni.
È noioso, ma non c’era modo d’esser tranquilla. Ciò che m’irrita poi
adesso, sono gli ostinati che persistono a venire nelli altri giorni.
Vorreste credere che quell’insopportabile Tordini è venuto ancora
sabato scorso? per fortuna che avevo la mia lezione di musica; senza
di ciò, i servitori sono tanto sciocchi che lo avrebbero forse lasciato
passare.

— A proposito, come vanno le cose col vostro protetto? 

— Il mio gran professore? Non male; tranne che mi fa pena; ha l’aria
tanto infelice!

— Come si chiama? 

— Wurtz. 

— È tedesco? 

— Di nome. È nato a Prato. 

— Mi pare che abbia molto ingegno, quel ragazzo, ma è ben brutto. 

— E così buffamente vestito, povero diavolo! Ma, davvero, è un
eccellente musicista.

— È forse innamorato di voi anche lui, come Tordini? 

— Andiamo, Massimo, che sciocchezza! 

E tuttavia, era semplicemente vero. Quel povero musicista si era
lentamente e fortemente innamorato della gran signora, con la quale,
tre volte alla settimana, leggeva le sinfonie di Beethoven. Si era
innamorato di lei, ma ben diversamente di Tordini. Contemplava a lungo
il suo profilo purissimo, quando, cogli occhi fissi sulla musica,
dimenticava forse la presenza di lui, ed egli pensava allora alla
suprema dolcezza che proverebbe se potesse finire la sua miserabile
vita consolato da lei, e la vedeva seduta al suo capezzale di malato,
rivolgendogli qualche parola di pietà. E si sentiva impallidire, se per
caso lei si chinava verso di lui, suonando a quattro mani, per vedere
dov’era giunto sulla musica, o se le loro dita si toccavano nel voltare
le pagine.

L’idea era venuta ad Elisa da un pezzo che ritroverebbe una vera
distrazione dai suoi pensieri nella musica, abbandonata da qualche
anno, e avendo preso per professore questo Wurtz che l’era stato
raccomandato da suo padre, trovò dapprima che aveva ragione, ma quel
giovane malinconico non era il maestro adatto per lei. Egli l’attristò
ben presto col suo atteggiamento, e vedendolo evidentemente soffrire,
non poteva lasciarsi condurre liberamente nel mondo sconosciuto dove
l’armonia ne trascina.

Wurtz non osò giammai nemmeno lasciare intravedere alla marchesa il
segreto che gli riempiva il cuore. L’adorava come una santa, e, con
la meravigliosa intuizione che dà l’amore ardente e puro, indovinava
ch’essa non era felice. L’espressione di quel viso così nobilmente
calmo — enigmatica per tutti — a lui sembrava chiara, vi scorgeva
il pallore della rassegnazione. Ma sentiva bene ch’ella non soffriva
come lui; che se aveva perduto ogni speranza, non conosceva però più
la tortura della passione senza rimedio. Le parlava con un rispetto
profondo, umile e timido, ma quanto il suono della sua voce stessa
tradiva il suo culto fervente!

Elisa non aveva compreso subito; e, buona con tutti, lo fu con lui.
Quando, commosso dalla sua bontà, egli le raccontava qualcosa della
propria vita, le diceva discretamente le sue pene, le sue miserie,
l’adorazione sua per l’arte, lei lo incoraggiava con simpatia, e una
semplice parola, insignificante in sè stessa, ma detta in un certo
modo, gli faceva tutto dimenticare per un istante. Ma presto egli
arrossiva d’essersi lasciato andare a parlare, e vergognoso del tempo
rubato, le diceva ad un tratto: “Scusi, signora marchesa, vuole che
ricominciamo questa pagina?„

A poco a poco egli si accorse che se si sentiva talvolta consolato,
più spesso soffriva troppo d’essere vicino a lei. Il contenersi gli
diventava ogni giorno più difficile. Elisa lo vide, comprese, e ne fu
afflitta. Quel grande musicista non sapeva dissimulare. Dava la sua
lezione ad ogni volta un po’ peggio, ed Elisa poteva di meno in meno
prestare tutta la sua attenzione al fascicolo aperto davanti a lei.
Invece di distrarla, quell’ora passata con quel giovane brutto ed
infelice, fisicamente e moralmente malato, la ripiombava nei pensieri
ch’ella sfuggiva. E quando la guardava, credendo di non esser veduto,
lei pensava a quell’altro sguardo profondo che una volta si era così
spesso smarrito nel suo, e ch’ella non rivedrebbe più mai.

La vigilia di quel giorno, in cui seduta in faccia a Massimo, a
colazione, discorreva amichevolmente con lui, senza sapere ch’egli
veniva dall’avere arrischiato la vita, Wurtz era giunto come al
suo solito, più smorto che d’abitudine, e si era messo a dare
conscienziosamente la sua lezione. Ma, nel bel mezzo di una sinfonia,
ad uno di quei passi dove sembra che l’umanità tutta si assorba
nell’infinito, Elisa, vedendo le lunghe mani scarne del pianista
tremare febbrilmente sui tasti, si volse a lui, e all’aspetto del suo
viso contratto non seppe trattenersi dal chiedergli: — Che cos’ha? — A
tali parole, l’emozione spezzò in lui la volontà, e mentre gli occhi
gli si riempivano di grosse lagrime, s’interruppe d’un tratto per
nascondersi la faccia tra le mani, e si mise a singhiozzare come un
bambino.

Elisa non osò dirgli nulla. Egli si rimise abbastanza presto con uno
sforzo violento, e rosso di vergogna, senza dir verbo, ricominciò la
pagina, facendo segno col dito, e andò valorosamente sino alla fine del
pezzo, senza più ardire nemmeno di guardarla, poi, finita la lezione,
le disse: “Mi voglia perdonare, signora„, e dopo una pausa: “Devo
ritornare?„

— Ma sì, lunedì come al solito. 

Eppure, ella comprendeva bene che valeva meglio non avesse a ritornare. 

— L’ho incontrato l’altro giorno, il vostro professore, — continuò
Massimo, mentre stendeva per la seconda volta la mano sinistra verso
un piatto; — e sembrava un uomo colpito dal fulmine. Fra di noi: lo
credo un po’ pazzo. Mentre mi salutava passando, l’ho fermato. “Ebbene„
gli dissi, “maestro, abbiamo delle pene di cuore?„ Il povero diavolo è
diventato rosso come bragia. Che dite di ciò?

— Che volete che vi dica! Aveste torto di metterlo nell’imbarazzo; è
così timido!

— Dolente io stesso di averlo turbato, gli chiesi se fate dei
progressi; lui si turbò ancora di più, e mi rispose con poca chiarezza,
ma in modo da farmi intendere che c’è in voi la stoffa di una grande
artista. Il che è possibilissimo. Lo interrogai allora sul numero delle
sue lezioni; mi confessò che ne ha pochine, che non sa mettersi avanti,
farsi valere, che dei forestieri talvolta prendono dodici biglietti,
poi partono bruscamente. Intendo, gli dissi, tutto ciò è incerto
assai. È d’un posto fisso che avreste bisogno. Perchè non concorrete
al posto di professore ora vacante nel collegio delle fanciulle a
Pistoia? Replicò ch’era necessario dare un esame e sopratutto avere
delle raccomandazioni. — Ma in quanto all’esame siete sicuro del fatto
vostro, non è vero? — Perfettamente. — Ebbene, soggiunsi, m’incarico io
di raccomandarvi.

— E si presenterà al concorso? 

— Certo, ed otterrà il posto. Ne ho già parlato ai membri della
commissione. A meno però che non ci teniate assolutamente a non
cambiare maestro.... Insomma, feci bene?

— Perfettamente, amico mio. Prima di tutto sarò lieta che la sorte di
quel povero giovane migliori, poi.... non mi distrae, al contrario.

Elisa uscì per un istante, e ritornando nella sala da pranzo, riconobbe
la voce di Paolo Goffredi — cognato della contessa, un dei pochissimi
intimi della casa — che discorreva con Massimo. Alcune parole, sebbene
pronunciate a voce bassissima, le giunsero all’orecchio prima che
varcasse la soglia; apprese il duello. Una tale notizia la colpì e la
commosse; d’improvviso fu assai sorpresa di non aver già sospettato la
verità. Rimettendosi dallo stupore, entrò tuttavia come se nulla fosse.

Quando, più tardi, spinto da lei, Massimo stesso le disse che si era
battuto quella mattina, assicurandola che vi era stato trascinato solo
da una istintiva antipatia per Tordini, Elisa, senza precisamente saper
perchè, si sentì di nuovo commossa, ma lo guardò con una espressione di
grande stupore. Ella pure non giungeva a comprenderlo.

La sua affezione per Massimo, sincerissima, aumentava, ma pure non
aveva mai saputo disfarsi completamente da un certo quale imbarazzo che
provava davanti a lui. Talvolta si sentiva per un’ora del tutto intima
in compagnia di lui, poi subitamente, egli le faceva quasi paura. Nella
perfezione stessa dei lineamenti del suo viso, nel suo modo risoluto
d’agire in ogni cosa, nella sua suprema eleganza, v’era qualcosa che
l’agghiacciava.

Qualche volta si lasciavano essendo i migliori amici del mondo; poi
rivedendolo con altri, le sembrava quasi di non conoscerlo più, e
che perfino la sua voce non fosse più la stessa. Spesso, quando egli
si dimenticava a discorrere nel gabinetto di lei, essa guardava quel
profilo tanto regolare, quella nobile figura, e pensava come fosse che
un uomo simile conducesse una tal vita. Lui, così buono e generoso,
aveva talora delle parole che le facevano orrore. Riflettendo, ella
comprendeva quali dovessero essere le seduzioni da lui esercitate,
con la sua figura, col suo spirito, con la sua stessa freddezza e
con la incontestabile superiorità emanantesi da tutta la sua persona;
ma ella pensava che se la sorte li avesse avvicinati nella sua prima
giovinezza, quando l’anima sua si apriva all’amore, ella non avrebbe
potuto amarlo, ed il ricordo le tornava della poca simpatia che sentiva
per lui quando, con sua madre, lo incontrava per caso. Ad onta di
tutto, non poteva a meno di stimarlo altamente, eppure molte cose la
urtavano in lui; l’affetto riconoscente che gli dedicava era profondo,
ma non cieco.

Strane ineguaglianze di carattere si ritrovavano in Massimo. Si
metteva in collera ben di rado; ma, se ciò gli accadeva, era con una
esplosione terribile. Per di più aveva inesplicabili puerilità. Un
abito mal riuscito gli dava lo spleen. Nelle sue ore cattive poteva
diventar brutale, ed allora egli non si faceva mai vedere da Elisa;
ma lei lo sapeva. Dava una importanza enorme, che sorprendeva Elisa,
a tutto quanto ha rapporto col benessere materiale. Del resto,
l’affezione ch’egli risentiva per lei aumentava ogni giorno; erano
molto sinceramente amici e perfino _camarades_. Massimo anzi spingeva
ciò fino a parlare talvolta come avrebbe parlato ad un uomo, e a
raccontarle aneddoti ed episodi della sua vita ch’ella non giungeva
sempre a comprendere e che la stupivano. Una parola troppo sincera che
sfuggiva talvolta a Massimo la scuoteva. Le opinioni di lui spesso la
turbavano e la rendevano più triste.

Ella aveva poco vissuto, quella povera Elisa ancor tanto giovane e che
non poteva più nulla attendere; il suo cuore aveva conosciuto i palpiti
supremi e non poteva più battere che debolmente per simpatizzare con le
sofferenze altrui. Aveva molto pensato; eppure osservava ora intorno
a lei molte cose di cui non aveva mai sospettato l’esistenza; codesta
società, alla quale ella quasi non si frammischiava, ma della quale
era una unità, si presentava a’ suoi sguardi sotto aspetti finora
sconosciuti; nella sua nuova situazione di spettatrice, creduta a torto
chiamata a recitare una parte, non poteva a meno d’imparare.

La contessa Goffredi, che ad onta di molti difetti superficiali, era
buona ed intelligente, diventava sempre più amica d’Elisa, la sola
amica forse, perchè non le faceva mai nessuna domanda e non esigeva
confidenza alcuna. Per di più, Elisa si era a poco a poco formato
un ristretto circolo di uomini, fra i quali il più assiduo era Paolo
Goffredi. Era un bel giovane, di un ingegno e di una pigrizia parimenti
naturale, annoiato e stanco, ma soggetto ad eccessi di pazza allegria.
Poco colto, possedeva però quella rapidità di comprensione, quella
disposizione a tutto, quella specie di scienza embrionaria innata,
ch’è il privilegio delli italiani intelligenti, dei meridionali in
ispecie. Conduceva una vita gaia, non aveva per la marchesa d’Astorre
che un’amicizia rispettosa e devota, e gli piaceva di respirare da lei
un’aria più sana che altrove.

Le persone dotate di un certo spirito di osservazione stimavano di
più in più Elisa, e, comprendendo che una donna onesta può avere una
pura e franca amicizia anche con dei giovani, non trovavano nulla a
ridire. In quanto alli altri, si dividevano in due categorie: prima
quelli che per un fenomeno facile ad intendersi avevano modificato di
molto la loro opinione sulla marchesa dopo il duello di Tordini, e poi
gl’incorreggibili, i quali, spinti al peggio, dicevano cose orribili, e
perdendo la testa, non avevano nemmeno più la finezza d’inventare delle
storie almeno credibili.

Molte cose, lo ripetiamo, stupivano Elisa, tra le altre che ci si
ostinasse tanto ad occuparsi di lei che così poco si occupava delli
altri. Poi la vita mondana le pareva sempre più strana. Le donne
specialmente parlavano un linguaggio ch’ella non capiva. Tutti i punti
di veduta le sembravano falsati, e gli uomini e le donne tutti malati
moralmente, diversamente ma allo stesso grado. I felici della terra
soffrono dunque quanto i diseredati? diceva a sè stessa, ed inseguono
la felicità per vie assurde. Sentiva che v’era in tutto qualcosa di
falso ch’ella non sapeva definire e che è forse soltanto una grande
ingenuità sotto ad una grande corruzione. L’atteggiamento, talora
triste, talora avidamente ostile delle fanciulle, la faceva sopratutto
riflettere, ed ella lo confrontava al cinismo delli uomini e alla
diversa fortuna delle maritate, alcune schiave, spezzate dalla vita
o reiette fuori della società, altre trionfanti nel male. Non sono
forse quasi spaventevoli, infatti, codeste giovinette così ben educate,
quando si vedono “nel mondo„, e, a seconda dei loro sguardi, della loro
posa, della loro bellezza, non si deve forse tremare o per esse stesse
o per gli altri?

E ch’erano mai tutti quei giovani che sarebbero stati tanto insistenti
intorno a lei, s’ella lo avesse loro permesso? Perchè ve n’era un
numero così grande, sempre pronti a fingere dei sentimenti tanto poco
sinceri? E perchè Paolo Goffredi, eccezionale, il solo che si mostrasse
qual’era realmente e non le facesse la corte, perchè era spesso d’un
umore nero o di una gaiezza malsana? quale poteva essere il segreto
motivo di una tale mancanza d’equilibrio morale in un giovane dotato di
tutte le qualità e che poteva aspirare a tutto?

In mezzo a codeste riflessioni, Elisa comprendeva sempre più la
necessità di occuparsi. Le sue giornate si divisero regolarmente tra
la lettura, il cémbalo, il passeggio, in modo da lasciare il minor
tempo possibile al pensiero. Tuttavia godeva anche del lusso di cui
Massimo esigeva che si circondasse, avendo sempre amato le cose belle.
La ricerca del gusto vero in tutto quanto le apparteneva diventava una
delle sue migliori distrazioni. La sua vanità femminile — esistendo
sempre, anche in una vita passiva — trovava il suo páscolo insieme
al sentimento artistico, ch’era sempre stato fortissimo in lei. Era,
d’altronde, uno dei mezzi coi quali poteva far piacere a Massimo.
Confessiamolo subito, anche le cose chiamate futili la interessavano,
e si occupava seriamente delle sue acconciature. Chi le avrebbe detto,
nelle ore angosciose della villa Arombelli, che un giorno verrebbe,
quando, a malgrado di tutto, ella avrebbe lunghe conferenze con una
sarta? Le realtà della vita s’imponevano a lei, utilmente.

Ma le ore di abbattimento giungevano lo stesso, giornate intere
talvolta. Una domenica sera, dopo d’aver accompagnato alla stazione
suo padre, che aveva passata una settimana da lei, Elisa ritornava in
carrozza aperta. Era una pura e splendida sera; il sole tramontato da
un pezzo, ma la caldura ancora soffocante; l’aria pesante s’impregnava
di profumi. Le vie si riempivano d’una folla animata. Tutto un popolo
stava fuori. Il cocchiere aveva preso per la strada più lunga, ed
i cavalli costretti al passo, in un concentramento di vetture da
nolo e di equipaggi, avanzavano a stento. Senza troppo saper perchè,
Elisa soffriva atrocemente. Appoggiata in un angolo della carrozza,
si sentiva presa da una tale impazienza nervosa che guardava quasi
con odio la folla e li ostacoli che prolungavano la sua attesa. Un
male morale e fisico insieme l’avviluppava tutta come in una rete di
ferro, e s’imaginava che una volta rientrata nel suo gabinetto sarebbe
guarita. Guardava il cielo d’un implacabile azzurro, già sparso di
stelle, e le vie lunghe e tortuose, e le piccole porte chiuse, col loro
martello lucido, e le larghe aperture spalancate dei neri palazzi.
Macchinalmente leggeva le insegne delle botteghe chiuse, alle quali
le sembrava quasi trovare un senso concordante co’ suoi pensieri
indistinti; poi dopo d’aver osservato ne’ suoi più minuti particolari
il vestito domenicale di qualche femminuccia, ricadeva nella sua
dolorosa meditazione. Delle fanciulle passavano, tenendosi per il
braccio, con un velo sui capelli bruni, e le loro lunghe ed ampie vesti
strascinantesi a terra discorrendo ad alta voce e mordendo gaiamente
coi loro buoni denti un qualche frutto comperato allora. Una donna del
popolo, che teneva un bambino per mano, si voltava per scorgere più
a lungo il brillante equipaggio che passava, e certo non sospettava
che da quella bella carrozza era sceso sopra di lei uno sguardo più
invidioso del suo.

Finalmente Elisa si trovava seduta sopra un divano, e sentiva un gran
bisogno di riposo, quando Goffredi entrò. Gli disse ch’era un poco
soffrente, pregandolo di scusarla se parlava poco.

— Mi manderete via se vi annoio, marchesa. Del resto sono talmente cupo
anch’io questa sera....

Per un bel po’ di tempo non scambiarono infatti che qualche breve
parola, e talvolta il silenzio pareva non dovesse più essere
interrotto. Rimanevano in faccia l’un dell’altro naturalmente con
quella famigliarità italiana che concede anche di tacere. Ciascuno
sognava per proprio conto. Elisa sentiva a poco a poco che la stretta
della despotica angoscia si disserrava di quella pena che, senza una
ragione definitiva, la soffocava; e la crisi passava lentamente; il
periodo acuto del suo spleen, che in quella sera la vista delle cose
esterne avevano reso quasi insopportabile, finiva. Goffredi pure,
dal canto suo, si assorbiva nei suoi pensieri intimi, rivoltava venti
soluzioni diverse nella sua mente; sentendosi, lui pure, abbattuto a
modo suo, e soffriva della pesantezza snervante dell’atmosfera. V’erano
nella sua vita parecchie difficoltà volgari, dei dolori complicati
da trivialità le quali (stava pensando) non sarebbero state affatto
comprese dalla donna che gli stava davanti, pur tanto intelligente ed
indulgente e per la quale egli sentiva altrettanta stima quanto verace
amicizia. E osservandola com’essa appariva in quel momento, con la
guancia appoggiata alla mano e lo sguardo distratto, egli rifletteva
a quanta compassione gli ispiravano coloro che, seduti al posto
invidiato dove egli si trovava, non avrebbero nulla compreso di una
tal donna, e si sarebbero creduti quasi obbligati a farle la corte. E
sorridendo pensava quanto lui ne sarebbe incapace, lui che aveva pur la
riputazione d’essere intraprendente assai.

Massimo entrò e chiacchierarono un poco. Aveva molta simpatia per
Goffredi che dal canto suo avrebbe fatto qualunque cosa per lui.

Rimasto solo con Elisa, Massimo le si sedette vicino. Sembrava allegro.
Da qualche tempo passava le sue notti al giuoco. Ad onta della sua
gaiezza, il suo viso aveva la particolare espressione dei giorni
cattivi. Dopo un silenzio chiese ad Elisa come si sentiva.

— Così, non male. 

— L’emicrania, ancora? 

— Sì, un poco, ma va meglio. 

— Ebbene addio. Vado a vestirmi. 

Ma non se ne andò subito. Stette a guardarla. Da qualche giorno aveva
osservato ch’ell’era più nervosa del solito.

— Non siete brillante stasera, — le disse. 

— No; codesti primi caldi mi abbattono. 

— Sì, il tempo è greve. Ma mi è venuta l’idea che vi può essere
un’altra causa alla vostra malinconia, una causa nuova, — disse
sorridendo in un modo speciale. — Potreste essere per cinque minuti,
abbastanza poco donna per mostrarvi completamente franca e sincera?

— Massimo! — rispose lei stupita; — sapete bene che lo sono sempre con
voi?

— Ebbene! vediamo.... vi ho io già detto che quel povero Wurtz ha
ottenuto il posto al collegio di Pistoia?

— Sì, lo so. Ma a quale proposito? 

— Siate franca. Ne siete contenta? 

— Contentissima per lui, ve lo assicuro. Guadagna stentatamente la vita
e non è felice.

— E non rimpiangete le sue lezioni? Non vi garbava.... che vi facesse
la corte?

— Basta, Massimo! Perchè mi parlate così? In che modo vi possono venire
alla mente simili idee?

— Va bene. Scusate, — disse alzandosi. — Ma calmatevi. Credo a
tutto ciò che mi dite, ma, dopo tutto, non ho pensato che delle cose
possibilissime. Del resto, tutto ciò non mi riguarda.

Ed uscì canterellando un’arietta. 

Il gabinetto era del tutto buio. Elisa rimase a lungo senza muoversi
punto, con lo sguardo fisso sopra un gruppo di porcellana che si
distingueva più chiaramente nell’oscurità calante. Ascoltava i minimi
rumori. Senza accorgersene aveva prestato l’orecchio attentamente
all’urto lieve e decrescente delli usci che si chiudevano, quando
Massimo era partito; poi aspettò quasi con impazienza il rullìo che
doveva produrre la carrozza uscendo, ma non si udì nulla. Un servitore
entrò portando una lampada a paralume che depose con silenzio sopra
un tavolo, coperto da un tappeto rosso che s’illuminò subitamente. Il
gruppo mitologico fu avvolto d’ombra. Suonarono le ore, ripetendosi
ai campanili delle chiese. Erano i soli rumori del di fuori. Elisa
soccombeva a una fatica morbosa e pensava che farebbe bene ad andarsene
a letto, ma non poteva alzarsi dal suo posto. La sua mano bianchissima,
un po’ troppo lunga e magra, coperta di anelli scintillanti, si
stendeva sul suo vestito nero; e le sembrava che non giungerebbe mai
a sollevarla. In quella penosa indecisione la sua volontà non ebbe
nemmeno più la forza di lottare; cedette vilmente alla prostrazione
che l’invadeva tutta, e contando talvolta alla péndola i minuti
interminabili lasciò scorrere le rapide ore.

Il silenzio sembrava aumentasse. D’improvviso ella udì un rumore di
passi; credette che fosse il servitore, ma l’uscio s’aprì e Massimo
entrò, in abito di sera.

— Mi credevate già uscito, non è vero? Ci ho messo un pezzo a vestirmi,
poi sono disceso fino al basso dello scalone, ma ho dovuto risalire. Vi
debbo dire una parola.

— Che cosa? 

— Vi debbo chiedere scusa. 

Elisa, stupita, turbata, non trovando parole, gli stese la mano. 

— Sì, vi voglio chiedere scusa, — ripetè seriamente. — Lo sapete, li
uomini come me, anche quando non sono nè del tutto malvagi, nè del
tutto sciocchi, feriscono talvolta le donne come voi, senza saperlo, o
senza poterselo impedire. Mi dev’essere accaduto spesso; e questa sera
in un modo imperdonabile a’ miei occhi. Ora, una volta per tutte, bramo
che mi perdoniate e che mi promettiate di non dare più valore che non
meritano alle assurde parole che mi possono sfuggire.

— Siete già perdonato. 

— Grazie. Ero desolato, vedete, mia cara Elisa, essendomi accorto che
siete assai malinconica in questi giorni, di aver accresciuto la vostra
tristezza così stoltamente. Infatti ecco il risultato. Siete rimasta lì
nel vostro cantuccio a riflettere al male che vi aveva fatto, a sognare
tristamente a tutto quanto non può a meno di rendere foschi i vostri
pensieri. Davvero, ve lo assicuro, non potevo uscire senza rivedervi.
Ecco, mi sono accorto da poco di una cosa, e ve la voglio dire: la mia
amicizia per voi è più grande ancora di quello che credevo.

— Siete buono, lo so. Le vostre parole mi fanno bene, e vi ringrazio
dal fondo del cuore di essere ritornato. Ma ora, andate, addio.

— Ebbene, me ne vado più contento. Sentite una cosa ancora, prima che
parta. Sapete che non amo le frasi e che non sono tenero. Ma ve lo devo
dire stasera, una volta per sempre: vi voglio bene fraternamente.... un
po’ anche forse come un padre.

— Ebbene! intimidite talvolta un poco la vostra sorella, ma,
Massimo, essa ha per voi un affetto maggiore di quello ch’ella sappia
dimostrarvi, e che voi crediate.

Le baciò la mano. 

— Sì, siete una sorella per me; avete preso il posto di quella che
perdetti. — Le aveva più volte parlato della povera Lina. — E vi
voglio bene come un fratello, ma assai meglio di quanto i veri fratelli
sappiano amare, — soggiunse con amarezza.

Le teneva sempre la mano, vi fu una lunga pausa. 

— Addio dunque, — riprese Massimo senza però ancora alzarsi, — devo
andare al teatro.

— Andate allora, è già tardi assai. 

— Sì tanto più che una.... persona mi vi aspetta. Ma bah! che importa,
— riprese gaiamente. — A proposito, sapete chi è che mi aspetta?
Indovinate!

Elisa sorrise quasi suo malgrado per il subito mutamento di tono di
Massimo.

— Indovinate! — ripetè. 

— Ma come volete che indovini? 

— Arriva da Milano. 

— Ciò non mi mette sulla buona strada. 

— Ebbene! Non è altro che la contessa Lassardi. 

— Davvero? Da quanto è qui? 

— Da tre giorni. Pare, se oso così parlare, — continuò quasi
comicamente, — ch’è sempre innamorata di me. Ma non ne dite nulla; mi
piace che mi si creda discreto.

— Non ne ho ancora mai saputo nulla. 

— Tò, è vero, non ne potete saper nulla. Eppur tutto ciò rimonta a una
data.... Andiamo dunque, silenzio! Addio, e dormite bene.

— Addio, e grazie! 

Egli la baciò in fronte ed uscì. 

Cinque minuti dopo, ella udì il rumore della carrozza che passava sotto
il portone.




PARTE SECONDA. 


I. 

La vita del marchese e della marchesa d’Astorre cambiò poco nei due
anni che seguirono. Massimo non si pentì mai di ciò che aveva fatto,
d’essersi ammogliato in apparenza, alli occhi del mondo. Salvato da
qualunque tentazione di matrimonio, e sempre completamente libero,
divertendosi della curiosità ch’eccitava, contento di sapere Elisa
tranquilla e di vederla invidiata, lusingato nel suo amor proprio e nel
suo permanente desiderio di stupire la folla, aveva al tempo stesso
la coscienza di aver compito una bella e buona azione, rarissima.
Anche da lontano, godeva della felicità materiale d’Elisa, ch’era
opera sua, di lui; e l’affetto che le aveva dedicato gli procurava
una intima soddisfazione. Era un’amicizia che gli avrebbe permesso di
restare dieci anni senza vederla, ma per la quale egli non la poteva
dimenticare, una intimità che si rinnovellava sempre dopo ogni lunga
assenza, e che lo spingeva a parlarle con l’abbandono che si prova con
un vecchio compagno. Sì, benchè l’amicizia sia pur possibile tra un
uomo e una donna, Elisa era per lui ancor più un _amico_ che un’amica.
Come sarebbero rimasti stupefatti se avessero potuto sapere la verità,
quelli che lo credevano innamorato di sua moglie! S’egli per caso si
ricordava ch’Elisa era una donna, il suo “amico„ si trasformava allora
in una sorella, ed ecco tutto.

Massimo rimase assente a lungo, a Parigi e a Londra; poi fece parte di
una missione straordinaria diplomatica in Svezia; come sempre, fu assai
osservato dappertutto, seducendo i conoscitori col gusto raffinato
del suo lusso, divertendo tutti con la sua conversazione scintillante
e con i suoi atti talora più paradossali ancora dei suoi discorsi,
con la sua animazione e con la sua freddezza, con la sicurezza delle
sue mosse e con il suo atteggiamento noncurante. Ebbe con una giovane
ereditiera inglese un romanzetto di cui si ciarlò assai, e che aveva un
lato drammatico e un lato comico. Due volte si guastò con la Kautzler e
rifece la pace. Guadagnò ora moltissimo al giuoco — lui che altre volte
aveva tanto perduto — come inseguito da una fortuna insolente.

Tuttavia egli si annoiava spesso. La monotonia derivava per lui dalla
varietà stessa della sua esistenza, ed i mezzi ch’egli così largamente
possedeva per appagarsi tutti i capricci, gli facevano più fortemente
sentire la vanità della loro realizzazione. Si possono acquistare tutti
i godimenti, ma è impossibile procurarsi un solo desiderio. Pensava
spesso che si deve ritrovare molto più vera varietà, molto più colore
in una vita apparentemente uniforme, nella quale ciascun particolare
acquista un’importanza vitale, che in una vita come la sua; che forse
l’interesse esiste solo nel proseguimento di uno scopo unico. Le sue
antiche idee di ambizione gli tornavano allora, sentiva il peso della
sua intelligenza infruttuosa ed era ripreso dalla tentazione di trarne
partito e di cercare qualche parte importante da recitare.

Nel terzo anno del suo matrimonio, Massimo rimase per molti mesi senza
mai farsi vedere a Firenze; mai non era stato così a lungo assente.
Quando vi ritornò nello stato d’animo che si è descritto ora, giunse
pieno di progetti d’ogni specie, ancora non definiti.

Durante tutto quel tempo, Elisa, dal canto suo, si era piegata sempre
un poco più alle realtà della vita, mentre la società si era un poco
abituata a lei. Fu amata senza speranza, fu corteggiata invano; si
continuò a dire di lei il maggior bene e il maggior male; ella non
si fidò mai che delle rare amicizie esperimentate e sincere. Aveva
continuato a vivere in una solitudine relativa, mostrandosi assai
benefica, riconoscente e rassegnata, occupata e tranquilla, ed aveva
anche un pochino viaggiato. Si era un tantino mutata; al morale, aveva
trovato l’equilibrio ed una quasi serenità che non aveva mai sperato
poter raggiungere; al fisico, si era singolarmente abbellita. Le donne
hanno talvolta come una fioritura inattesa. Trovò nelli esercizi
raccomandati dai medici un tale benessere e una tal pace, una così
sana e vera distrazione dai suoi pensieri, che vi si dedicò con anima.
Sovente, alla mattina, montava a cavallo, e cullata dai movimenti
cadenzati del nobile animale, respirando a pieni polmoni l’aria
fresca che le accarezzava il viso, sentendo i suoi occhi riempirsi
di luce e ammirando senza riflessione la bellezza delli alberi verdi
sull’azzurro del cielo, ella si sentiva possentemente vivere, di
quella buona esistenza quasi vegetale ch’è il migliore controveleno
dei sentimenti morbosi. Fortificata da codesta vita regolare, igienica
e facile, il suo corpo erasi magnificamente maturato, il suo colorito
aveva acquistato una trasparenza e una freschezza affatto nuova, e
l’espressione indelebilmente malinconica della sua fisionomia rendeva
più seducente la fioritura della sua persona; il contorno rotondo del
suo viso contrastava col suo sorriso rassegnato, la purezza dei suoi
occhi col loro sguardo profondo.

Massimo osservò questo mutamento. Occupatissimo nei primi giorni, non
ebbe tempo di pensarvi, e vide poco Elisa. Un dubbio gli attraversò la
mente, però. Quale poteva essere la causa di un tale nuovo rigoglio
di bellezza? Forse che una vita nuova era sorta in lei? Amava forse
qualcuno? — E qui bisogna che abbiamo il coraggio di dirlo, a rischio
di scandalizzare: scettico e fraterno insieme, Massimo non era geloso.
E nemmeno aveva sul così detto onore coniugale le idee generalmente
ammesse. E non amando Elisa, e non volendo occuparsi di lei che come
amico, non era mai stato geloso in nessun modo; aveva allontanato il
musicista Wurtz, solo per la paura che attristasse Elisa e forse la
compromettesse senza volerlo; e la scena che termina la prima parte di
questo volume, se non è stata male interpretata, avrà mostrato a qual
punto egli sarebbe stato indulgente — e perfino cinico — riguardo a
Elisa.

La osservò tuttavia per curiosità, e si convinse ben presto della
falsità del suo dubbio. Ma guardandola non poteva persuadersi di avere
davanti alli occhi la stessa donna di prima. L’aveva sempre trovata
simpaticissima; ora, quasi inconsapevole, l’ammirava.

Del resto, la vedeva di rado, costretto ad andare un poco dappertutto,
era ricercato assai dopo la sua lunga assenza. Vari affari lo
reclamavano, e si occupava di diversi progetti ancora non ben definiti.
Talvolta lo si voleva convincere a rientrare in diplomazia, e non
sempre vi si mostrava mal disposto; allora gli si dimostrava che poteva
aspirare a tutto.

Tale era la situazione, quando, semplicemente e senza scossa, quasi per
caso, le cose cambiarono ad un tratto.

Vi fu un ballo da un vecchio diplomatico austriaco in ritiro, ma la
cui influenza politica era ancora grande, una festa magnifica, avente
al tempo stesso un carattere ufficiale. Un’ora del mattino scoccava
già, quando Massimo — sempre in ritardo come d’abitudine — salì lo
scalone tutto coperto di fiori del sontuoso palazzo dove il barone di
K. aveva da poco preso la sua dimora. Elisa, rimasta tutto il giorno
nella incertezza, aveva finito col dichiarare che non sarebbe andata.
Come al solito, molti sguardi si voltarono verso l’uscio per il quale
d’Astorre fece il suo ingresso, nel bel mezzo dell’animazione della
sala da ballo. Ad onta della sua estrema amabilità e della modestia
voluta del suo atteggiamento, egli imponeva. Avanzava frammezzo ai
gruppi, lentamente, portando molto elegantemente i numerosi ordini
che coprivano il suo abito, sorridendo e cercando di farsi strada
per giungere fino al padrone di casa che lo aveva visto e gli veniva
incontro. Il barone discorse abbastanza lungamente con lui, poi furono
separati dalla formazione di una contradanza. Massimo continuò il suo
giro dell’appartamento fermato ad ogni istante, costretto talvolta a
ritornare sul suoi passi, sempre osservato e avendo sempre l’aria di
non accorgersene punto. Nella sala del _buffet_, si sentì toccare il
braccio; era lady Thompson che volle assolutamente presentarlo, al
passaggio, ad una napoletana, bellissima, arrivata di fresco, e della
quale già si parlava assai.

— Come la trovate? — gli chiese un giovinotto che aspettava per
parlargli il momento in cui lascerebbe quelle signore. — È la bellezza
del momento.

— Mediocre, mio caro; non c’è una sola vera donna, qui, stasera. Me ne
vado a fumare.

Ma, mentre si avviava verso l’estremità dell’appartamento,
attraversando una sala quasi vuota, dovette fermarsi. Una donna che
non riconobbe, vedendole solo la schiena, attirò la sua attenzione. Si
voltò due volte per ammirare la sua grazia, la sua sveltezza unita alla
imponenza, le sue magnifiche spalle, e l’acconciatura caratteristica.

La sala da fumare era piena di gente e vi si cicalava rumorosamente.
Massimo n’ebbe subito abbastanza; gettò la sigaretta e ritornò nella
sala da ballo. Entrandovi incontrò la contessa Goffredi che gli disse
ch’Elisa lo cercava.

— Ma come! È qui? 

— Già; l’ho decisa io verso le undici, e siamo venute insieme. Ma,
eccola, la vedete, là, che entra a braccio del generale.

— Dove? 

— Là in fondo. Andate ad incontrarla. 

La marchesa d’Astorre s’avanzava lentamente, dando il braccio ad un
vecchio in uniforme e per lei succedeva una specie di ondulazione
nella folla, poichè tutti si spingevano per vederla o si scostavano con
ammirazione per lasciarla passare. Mai il cambiamento accaduto in lei
era apparso così visibile, mai il nuovo carattere della sua bellezza si
era tanto accentuato. Il suo aspetto eccitava la curiosità, poichè, per
uno di quei casi che succedono talvolta alle donne le più oneste, aveva
combinato quasi inconsciamente una di quelle _toilettes_ provocanti
che obbligano, in un ballo, gli uomini a parlarsi piano, all’orecchio,
mentre le donne, con un sorriso maligno, lanciano le loro osservazioni
le più acerbe e le meno sincere. In Italia la moda delle vesti
_collantes_ cominciava appena appena in quel momento, e mentre le altre
sfoggiavano ancora delle sottane un po’ rigonfie di stoffe leggiere
coperte di nodi e di cianciafruscole, Elisa, un po’ vergognosa del
troppo grande successo della sua _toilette_ parigina, era serrata come
in un fodero semplice di un raso rosa pallidissimo, con una corazza
assai lunga e stretta, e di cui solo la coda era ricoperta d’una
massa di trine e di fiori. Dalla sua vita sottilissima, s’allargava
un busto maestoso che pareva affatto nuovo e fatto per l’occasione,
e delle spalle meravigliosamente rotonde e candide e un collo d’una
rara purezza di linee, senza nessuna gemma. L’acconciatura della testa
ne mostrava la forma, e da una folta massa di capelli serrati sulla
nuca, folleggiava qualche piccola ciocca. In un atteggiamento modesto e
lievemente imbarazzato, ma camminando sicura, ella s’avanzava sempre,
gettando talvolta, nel passare davanti ad uno specchio, uno sguardo
lungo de’ suoi occhi azzurri, come per ben riconoscere sè stessa. D’un
pallore sano, il suo viso si armonizzava singolarmente con la tinta
del vestito, il cui taglio ardito contrastava invece con la serietà
della sua fisonomia e con la mestizia del suo sorriso. Uno scultore non
avrebbe forse troppo ammirato quel genere di vestito, che affilando
ed allungando troppo la vita, marcando troppo le forme, sembra voler
correggere l’esemplare della donna dato da Dio, ma avrebbe certo lodato
le braccia alle quali i lunghi guanti nulla toglievano della loro
classica bellezza. V’era folla intorno al quadrato dove stava Elisa,
e il suo cavaliere non le poteva quasi parlare, perchè ad ogni momento
qualcuno si avvicinava per mormorarle una frase. Evidentemente non si
vedeva che lei, e mai era stata tanto circondata. Massimo comprendeva
ciò più che non si sarebbe creduto, poichè, chi avrebbe indovinato
ch’era d’improvviso, lui pure, sotto il fàscino?

Alla fine della quadriglia, Elisa lo vide, e venne a sedersi presso
a lui, raccontandogli come lo avesse cercato inutilmente fino allora.
Mentr’essa parlava, Massimo, con gli occhi bassi, ascoltava invece ciò
che gli diceva una breve scarpina di seta rosa che oltrepassava l’orlo
della veste. Poi rialzò il capo, e ammirando Elisa da vicino e in ogni
particolare, non poteva rimettersi del tutto dalla prima sorpresa che
gli aveva cagionata l’apparizione di lei.

— Non mi piace questo vestito, — soggiunse lei. — Mi si guarda troppo.
E voi, come mi trovate?

— Tanto bella che non vi ho riconosciuta. 

— Grazie per il complimento, — rispose ridendo. 

Ma lui non sorrideva nemmeno. La guardava serio, con uno sguardo
freddo, fissamente e in un modo che la seccava un poco. Parlarono
ancora di cose indifferenti; poi vi fu un silenzio. Il viso di Massimo
si oscurava. Silenzioso, non sembrava volesse muoversi. Lei non ardiva
alzarsi. L’orchestra attaccò un valzer. Essi stavano vicinissimi
all’uscio per il quale passavano le coppie. Elisa lasciò ancora cadere
una parola di tempo in tempo, alla quale Massimo non rispondeva più;
era ingolfato in una meditazione piena di sogni dalla quale non fu
risvegliato che dal silenzio dell’orchestra, quando il valzer cessò.
Girando gli occhi intorno, non si sentì come al solito. Gli pareva che
lo si osservasse, e che si osservasse Elisa vicina a lui. Pensando che
si doveva trovar strano di vederlo così, presso “sua moglie„, lasciò
sfuggire un lieve scoppio di riso, e come Elisa gliene chiedeva il
perchè, le rispose un po’ brutalmente per la prima volta. Elisa che si
sentiva nervosa in quel momento, ne fu assai sorpresa, e un po’ offesa,
più che non lo sarebbe stata in qualunque altra occasione. Era lei che
adesso osservava lui; e sempre non osava alzarsi. Massimo, punto di
mira di molti sguardi, si sentiva leggermente ridicolo.

— Ebbene, — disse alfine, — non vi muovete dunque più? non ballate? non
andate al _buffet_?

Ella rispose molto dolcemente: 

— Avevo promesso alla contessa che sarei andata a cena con lei e i suoi
amici. Ma sono un poco stanca e non ne ho voglia; la carrozza è già
venuta.... preferirei quasi andarmene a casa.

— Andiamo allora! Ne ho abbastanza anch’io di questo ballo. Vi
accompagnerò.

Elisa si alzò senza nulla aggiungere. 

— Venite da questa parte. Conosco l’appartamento. Di qua è più corto. 

E, attraversando una serra deserta, infilarono un corridoio di
disimpegno, e si trovarono subito in anticamera. Ma dalla prima sala
d’ingresso, molte persone allungarono il collo per vedere la marchesa
d’Astorre a braccio di suo marito.

Elisa, un po’ attristata, chinava il capo, mentre Massimo respirava
il profumo speciale che emanava da lei, e sentiva la rotondità del suo
braccio sul suo.

L’aiutò a ben coprirsi, e discesero soli lo scalone. A metà v’era
un grandissimo specchio incorniciato da alti arbusti. Vi si videro
insieme. Era una bella coppia che si rifletteva in quello specchio.

Abbasso, il guardaporta fece avanzare il _coupé_. Elisa vi salì, e
Massimo rimase un minuto con un piede già nella carrozza, mentre il
servitore vi arrampicava a cassetto. Ma d’un tratto cambiando idea, si
ritirò, chiuse, sbattendola violentemente, la portiera e fece cenno al
cocchiere di partire.

Poi accese un sigaro e se ne andò a piedi. 

Tre giorni passarono senza ch’Elisa rivedesse Massimo. Durante codesto
tempo riflesse molto sulla strana condotta di lui. Poi lo ritrovò tal
quale lo aveva sempre conosciuto. Solamente egli la osservava come lei
lo studiava.

L’impressione che la festa da ballo del diplomatico austriaco lasciò
nello spirito di Massimo fu più forte e durò più a lungo di quello
ch’egli avrebbe creduto. Elisa si era rivelata a lui sotto una luce
nuova, e codesto _viveur_ aveva sentito bruscamente sorgere in lui
per quella donna, che alli occhi di tutti era sua moglie, uno di quei
violenti capricci d’uomo annoiato che possono condurre assai lontano.
Per un caso che sembrava una malizia della sorte, la nuova bellezza
d’Elisa era precisamente la bellezza che Massimo gustava a quel preciso
momento della sua vita. Di più, credette accorgersi che la conosceva
male, e che molti lati di codesta donna, senza alcun dubbio superiore,
gli erano tuttora nascosti; ed allora, alla sua nuova ammirazione, si
unì una viva curiosità. Gli pareva che vi fossero ora due donne in lei:
l’antica ch’egli amava ancora d’una affettuosa amicizia, e la nuova che
lo turbava. Per questa non aveva che un capriccio, al quale, a momenti,
soffriva di dover resistere; ma quando vedeva solo l’altra non poteva
considerarla che come una sorella adottiva. Tuttavia scompariva ciò che
v’era stato fino allora di paterno nei suoi sentimenti. Aveva sempre
considerato Elisa come una persona differente assai da lui; moralmente
superiore, ma inferiore sotto altri aspetti; l’aveva trattata un po’
come si tratta un ragazzo; e ciò era naturale, dacchè sulle prime era
stato spinto verso di lei da un istinto di protezione.... Adesso, ciò
non gli era più possibile. La sentiva sua eguale.

Il marchese d’Astorre divenne timido. Un desiderio lo ringiovaniva,
e per la prima volta in vita sua, scorgeva ostacoli insormontabili al
compimento del suo desiderio. Si sarà già compreso ch’egli aveva una
probità sua particolare, codesto uomo senza principii che disprezzava
tante idee ammesse; e secondo le sue idee speciali, la situazione era
estremamente delicata. Se si avesse potuto leggere i suoi pensieri, si
sarebbe rimasti assai sorpresi, e forse alcuni lo avrebbero trovato
ridicolo. Perchè non gli era stata accordata la fortuna d’aver un
capriccio per qualunque altra donna?

Fosse stata una regina, egli si sarebbe gettato con gioia, a capo
fitto, nell’avventura, attraverso tutte le difficoltà e tutti i
pericoli; mentre invece davanti ad Elisa pensava piuttosto a fuggire.
Esaminava però freddamente la propria posizione, con la sicurezza di
vendetta che non gli mancava mai.

Riflesse al passato ed al presente d’Elisa, come non lo aveva mai fatto
fino allora. E una mattina ch’egli l’accompagnava a cavallo, ammirando
la sua bellezza completata, il suo profilo che faceva sognare, la
profondità azzurra de’ suoi grandi occhi distratti, tutto il fascino
spirituale del suo viso e la squisita eleganza delle mosse, pensò
tutt’ad un tratto all’avvenire di lei; pensò che forse quella donna
giovine s’ingannava credendo la propria vita finita, e per qualche
istante si sentì geloso di un futuro improbabile. Era una mattina
deliziosamente fresca e primaverile; tutto un concerto di uccelli
nascosti scoppiava in note perlate nella tenera verdura delli alberi;
le zampe dei cavalli risuonavano piacevolmente sul suolo appena
umido; ci si sentiva invasi da qualcosa di sanamente voluttuoso che
impediva di parlare, e Massimo osservava talvolta qualche passeggiatore
mattutino che gettava loro uno sguardo d’invidia.

— Sapete Elisa, — disse bruscamente, mettendo il suo cavallo al passo,
— che mi è stato offerto il posto di ministro a Washington?

— Davvero! Ma certo non accettereste d’andar tanto lontano! 

— Confesso che sono indeciso. 

Lo guardò assai stupita. 

— Sì, sono indeciso. Da un lato, penso che dovrei interrompere tutte
le mie abitudini, cominciare una vita nuova, e dico a me stesso che
non ne vale la pena. Ma, da un altro lato penso che mi annoio, che
molte cose non m’interessano più, non mi divertono; che un cambiamento
mi farà bene, che voi non avete bisogno di me, poichè, naturalmente,
non mi è mai venuta l’idea che mi accompagnereste laggiù, e non lo
vorrei, e che.... E poi, vedete, sono forse ambizioso! Questa offerta è
lusinghiera assai.... Pensate un po’, ho lasciato la carriera essendo
solo segretario, ed ecco che d’un tratto verrei nominato ministro.
Poi mi si assicura che non rimarrei un pezzo in America, e che dopo
potrei scegliermi un posto di ambasciatore in Europa. Confessate che la
tentazione c’è.

— Lo dite con un accento che smentisce le parole, e temo poco la vostra
partenza. Se ardissi, aggiungerei anche che non credo troppo alla
vostra ambizione.

Massimo la guardava. Aveva pronunciate quelle parole gaiamente
abbastanza, ma osservò un certo lievissimo turbamento nella fisionomia
di lei. Elisa comprendeva. Ad onta del suo fare sicuro, si sentiva a
disagio. L’imbarazzo ch’ella aveva sempre provato davanti a Massimo,
diventava diverso e più penoso, sebbene sapesse meglio celarlo.

Senza tradirsi altrimenti che con alcune gentilezze previdenti,
Massimo passava ora tutto il tempo che poteva presso Elisa. Restava
per lunghe ore a discorrere con lei, perdendosi talvolta in certe
dissertazioni a perdita di vista, come non lo aveva mai fatto prima.
Ma gli accadeva di fermarsi di botto, accorgendosi di non poter
continuare. Non sapeva più parlare di certe cose sulle quali prima
si esprimeva anche troppo liberamente. Dopo d’averla per tanto tempo
trattata _en garçon_, si sentiva preso da insoliti pudori, e temeva
ad ogni istante di scandalizzarla, di offenderla nelle sue delicatezze
femminili. La purezza che riflettevano gli occhi di lei lo imbarazzava.
Ed allo stesso tempo ella lo sorprendeva con la giustezza di certe sue
opinioni, con qualche parola inattesa e profonda. La intelligenza di
lei doveva essersi singolarmente maturata col resto, nelle meditazioni
della sua vita tranquillizzata.

E come mai aveva saputo perfezionare il suo gusto al punto di renderlo
impeccabile, e porre in tutto quanto portava ed in tutto ciò che la
circondava una nota di originalità, tanto più difficile a imitarsi
ch’essa pareva più di discreto? Aveva acquistato un vantaggio immenso
su tutte le donne, quello di non rassomigliare ad alcuna. Forse n’era
la causa la sua posizione tanto diversa da tutte le altre.

Massimo pensava talvolta seriamente davvero ad allontanarsi, accettando
il posto che gli si offriva. Ad onta dei mutamenti esteriori, della
nuova bellezza d’Elisa, egli la sapeva irremissibilmente fedele al
passato. Per di più non poteva avere per lui, in ogni modo, che dei
sentimenti di stima e di riconoscenza, egli se ne avvedeva bene. Non le
ispirava nessuna confidenza sorta dal cuore, la simpatia d’Elisa per
lui era una simpatia di ragione e non d’istinto, l’imbarazzo, la tema
ed il vago malessere che sempre aveva provato davanti a lui, esistevano
tuttora ed aumenterebbero certo s’egli cambiasse di attitudine in
faccia a lei. Ella aveva saputo ricambiare con una franca affezione
la generosa amicizia di lui; non potrebbe avere dell’odio per il suo
amore?

Ed egli non s’ingannava del tutto. Quando Elisa ebbe tutto indovinato,
un fremito la colse da capo a piedi. L’avvenire che fino allora si
stendeva alli occhi suoi simile ad un lungo viale fresco ed uniforme,
le apparve pieno di pericoli. Molte volte aveva pensato ai rischi
inerenti alla sua posizione stessa; mai non aveva previsto quanto
accadeva.

Massimo diceva a sè stesso che codesto capriccio per sua “moglie„
sebbene assai forte, rassomigliava a vari altri capricci, che avevano
poco durato e che svanirebbe esso pure. Decise dunque che sarebbe
assurdo l’abbandonarvisi; tuttavia, mentre tutto ciò che ancora pochi
giorni prima lo interessava a Firenze, non gli offriva più la minima
distrazione, non poteva a meno di rimanere vicino ad Elisa.

Gli sembrava ch’ella lo sfuggisse un poco; trovava dei pretesti per
uscire quando egli mostrava di non voler andarsene. Nei loro lunghi
_tête-à-tête_ ella dirigeva la conversazione con molta abilità e non
senza una certa quale fatica appena visibile. Evidentemente temeva i
silenzi.

Il posto di Washington non poteva essere ufficialmente offerto a
d’Astorre che fra tre mesi. Non si sentì capace di rimaner fino a
quell’epoca. Una sera decise ch’era meglio partire subito. Lasciò
intendere che probabilmente finirebbe con l’accettare d’andare in
America, e che intanto doveva andare a Milano e forse ritornare a
Parigi. Quando annunciò codesta risoluzione ad Elisa, essa sembrò, come
al solito, trovare la sua partenza naturalissima. Egli ne fu un tantino
ferito, lui, che poche settimane prima, sarebbe stato stupito dalla più
piccola osservazione da parte di lei. Tuttavia, mentre le chiese ancora
una volta il suo parere riguardo a Washington, ella ne lo sconsigliò.
Sebbene un poco imbarazzata, fu con lui affettuosa come lo era sempre,
mentre lui, la sua decisione una volta presa, ritrovò tutta la sua
sicurezza, e si mostrò tal quale voleva essere fino all’ultimo mattino
che passò con lei.

Avevano fatto colazione insieme discorrendo di cose indifferenti. Si
avvertì Massimo che la carrozza era pronta. Si alzò e dicendo addio
ad Elisa seppe baciarla in fronte fraternamente, con la sua serenità
abituale.

La freddezza stessa, la sua forza di volontà di lui, turbarono Elisa.
Si sentì a disagio. Vi fu un lungo minuto di silenzio imbarazzante; uno
di quei silenzi specialmente profondi durante i quali ne sembra quasi
di vedere le parole che non pronunciamo ondeggiare indistintamente per
l’aria. D’improvviso Massimo, con l’uscio già in mano, si rivolse e
disse tranquillamente:

— Credo che ho ragione di partire. C’intendiamo, non è vero? Non
posso precisare la durata della mia assenza, ma spero che non sarà
troppo lunga. Durante questo tempo rifletterò e prenderò una decisione
riguardo a Washington. Ch’essa sia negativa o affermativa, ci
rivedremo. Sì, è meglio così; lo sentite voi pure. Insomma, addio, e
arrivederci. — E partì, lasciando Elisa turbata.

Una specie di rimorso la colse, che credette passeggiero, e che
invece andò crescendo nei suoi primi giorni di solitudine, giacchè
fece in modo di vedere pochissima gente, sentendo un gran bisogno di
raccogliersi. Qualcosa le gridava che aveva avuto torto, e le sembrava
che le cose esterne, il cielo, lo spettacolo della vita, tutto si
associasse a codesta voce. S’ella avesse chiesto l’avviso di chiunque,
era sicura che si sarebbe dato ragione ad un tale sentimento, nuovo
ed ancora oscuro, che si elevava, dal fondo della sua coscienza,
contro tutti i motivi trovati dal suo cuore per fare come le piaceva.
Diceva a sè stessa che la situazione tanto eccezionale creata dal suo
apparente matrimonio con d’Astorre, era rimasta possibile tra di loro
fino a quel giorno a causa del loro rispettivo modo di vivere; ma che
cessava d’esserlo dal momento che uno dei due, per qualunque motivo
fosse, cambiava; che la sua fedeltà eterna ed assoluta ad un assente
perduto per sempre, vera al punto di vista di un’alta realtà poetica,
inattaccabile secondo il suo cuore, era falsa al punto di vista pratico
della vita sociale. Dal giorno in cui Massimo, a modo suo, l’amerebbe
davvero, dal giorno ch’essa potrebbe diventar utile alla felicità di
lui, il suo dovere non sarebbe forse di sagrificare il suo culto del
passato all’uomo che aveva fatto tanto per lei, di tentare di rendergli
tutto intero il nuovo affetto ch’egli le dedicava? Lui l’aveva salvata,
restituita ad una vita possibile; aveva compito per lei ciò che nessuno
avrebbe potuto nè saputo compiere; doveva ella adesso rifiutarsi
al solo mezzo che le veniva offerto di mostrargli degnamente la sua
gratitudine?

E tuttavia, appena pensava all’esistenza che dovrebbe intraprendere, se
davvero Massimo lo volesse, e ch’ella credesse doversi confondere al
suo volere, una tristezza affatto nuova le serrava il cuore. Sentiva
qualcosa che moriva dentro all’anima sua. A certi momenti, con la
forza della ragione, ciò le pareva facile; poi tutto l’essere suo
si ribellava, e vedeva dinanzi a sè, non più il partito migliore cui
coraggiosamente appigliarsi, ma un penoso dovere da compiere soffrendo
e nascondendosi di soffrire.

Massimo scrisse semplicemente, dando sue nuove ed informandosi
affettuosamente di Elisa, press’a poco nel modo solito. Ciò la
tranquillizzò ed ella cominciò a sperare che nulla verrebbe mutato
nella sua vita. Ma una mattina, ricevette la lettera seguente:

  “Cara Elisa, non ve lo posso nascondere più a lungo; mi annoio a
  morte. Ho creduto passeggiero il mutamento che da qualche tempo
  già s’è prodotto in me, ed ora mi pare invece che debba essere
  definitivo. Bisogna che la mia vita prenda un altro indirizzo.
  Dirvi ciò che sapete già mi sembra inutile. Nella vostra qualità
  di donna e di donna intelligente, dovete avermi compreso assai
  meglio ch’io non comprenda me stesso. E lo confesso, ho sovente
  dei momenti in cui non comprendo affatto. Non posso più continuare
  a mandarvi poche frasi banali. Bisogna che io sia sincero, e
  che prenda una qualche decisione; ma codesta decisione la dovete
  prendere voi per me. Il meglio di tutto sarebbe che accettassi il
  posto di Washington? Se lo credete, ditemelo; poichè ho fretta di
  conoscere la mia sorte, e se tale è il vostro consiglio, scriverò
  subito al ministero. Se no, ditemi di ritornare presso di voi, ed
  accorrerò. Ma, — lo sapete, non è vero? senza che ve lo apprenda?
  — sarebbe ora per non lasciarvi. La situazione è nuova e piccante,
  conveniamone, poichè mi si prende per un uomo di spirito, e mi
  si crede vostro marito; per di più ho la riputazione di un gran
  furbo, ed io, antico diplomatico ed _ex-viveur_, non so altro
  che indirizzarvi scioccamente la frase seguente: Marchesa, mi
  permettereste di farvi la corte?

  Che direbbero i miei amici se potessero rubare questa lettera
  alla posta? che ne penserebbe persino l’impiegato indiscreto
  che l’aprisse per zelo? Che ne penso io stesso scrivendola? Non
  lo so bene; ma ciò che so, ciò che mi stupisce, mi affascina e
  mi addolora nello stesso tempo è che cercando d’indovinare ciò
  che ne penserete, voi, il mio cuore batte come quello di uno
  studente di vent’anni, del tempo quando ve n’erano ancora. Sì,
  vi vedo da qui aprire questa lettera credendo di trovarvi le
  “mie notizie„, vedo il vostro occhio scorrere distrattamente le
  prime righe, poi restare come attaccato ad una parola; vi vedo
  ricominciare a leggere, incerta di aver ben compreso. Pur troppo!
  avete perfettamente compreso ed è la pura verità. Ma siete poi
  veramente sorpresa? No, nevvero? Avevate indovinato da un pezzo.
  Sì, mi sembra vedervi di profilo, con la vostra dolcezza serena,
  e cerco d’intravedere per disotto l’occhio vostro azzurro fisso
  sulla carta. È un sorriso che spunta all’angolo del vostro labbro?
  Ma forse m’inganno, ed invece impallidite.... In nome del cielo,
  siate sincera! che nessuna idea, nessuna paura, nessun scrupolo
  vi impediscano di dirmi la verità. Per non influenzarvi, ripeto
  che non so io stesso, che ignoro se non sia meglio ch’io parta.
  Meditate queste parole. Siate franca.

  Se sapeste da quanto tempo desidero dirvi tutto ciò senza potermi
  decidere! Ho ragione di dirle finalmente? Ne dubito tuttora. Mi
  ero allontanato per non parlare, e non avrei forse fatto meglio
  serbando sempre il silenzio, che da lontano mi pesa più ancora che
  vicino a voi? No; questa lettera partirà ora e la leggerete presto.
  Ma, ancora una volta, ve ne supplico, dite la verità. Rispondete
  presto. Riflettete bene, ma non troppo a lungo. Lasciate parlare
  l’istinto; sono convinto che in questo caso _le premier mouvement_
  sarà il buono, il più vero almeno.„

                             . . . . . . .

Quando Elisa ricevette codesta lettera era nel suo gabinetto con la
contessa Goffredi e il cognato di questa. Impallidì infatti leggendola.
Poi, padroneggiando la sua emozione, riprese il discorso interrotto,
non sapendo troppo quello che diceva, e pensò un istante a confidar
loro ogni cosa e chiedere un loro consiglio. Come tutte le persone
che non hanno mai parlato delle loro pene ad anima viva, provava, ad
un tratto, giunta a tal punto, un imperioso bisogno di espansione. Ma
non ne fece nulla, poichè nello stesso tempo che bramava parlare, ne
sentiva l’impossibilità, e lasciò partire i suoi amici senza essersi
tradita.

Il momento decisivo era giunto; bisognava rispondere senza ritardo.
Ma il ritardo ci fu. Venti volte prese la penna, e la posò. Le
ore sembravano passare con una velocità spaventosa. S’era dapprima
accordata la notte per meditare, ed infatti non dormì, ma nulla era
fissato nella sua mente quando fu giorno. All’indomani mattina uscì
a cavallo; ma sotto alla frescura delli alberi, sussurrante all’aria
aperta, ogni pensiero si arrestava nel suo cervello, e la vista
dell’orizzonte la riempiva di una specie di sogno vago così ondeggiante
che non poteva associare due idee.

Si rinchiuse nel suo gabinetto e là non ebbe che tristezza. Sentiva
bene di non avere il diritto d’essere indecisa, e che bisognava fare
ciò che credeva fosse il suo dovere. Dopo d’esserselo detto tante
volte e l’averlo compreso da tanto tempo, come esitava ancora? Eppure
Massimo non la pregava forse di rispondere tutta la verità? Qual’era la
verità? Si accorgeva che il suo pensiero celava un sofisma. “Lo devo
dunque ingannare?„ ripeteva a sè stessa, rileggendo la lettera di lui
per la ventesima volta. — No, bisogna che ciò che tu _devi_ rispondere
_diventi_ la verità, le rispondeva la coscienza.

Intanto il tempo scorreva. Tre giorni passarono. Risoluta finalmente
adesso, voleva scrivere — ma non lo poteva. Diventava quasi un incubo.
Pensava all’impazienza di Massimo, a tutto ciò ch’egli doveva supporre
e si faceva amari rimproveri. Da tutta una giornata già egli avrebbe
dovuto avere la risposta. Ella non usciva più dal suo gabinetto, non
voleva vedere alcuno, provava una sofferenza affatto nuova; si diceva
ammalata — e lo era.

Finalmente alla sera uscì, e rientrò quasi subito, affranta e sollevata
ad un tempo. Aveva spedito un dispaccio con una sola parola: “Venite.„


II. 

Era una mattina deliziosa; il mese di maggio incominciava. Alla _Villa
del Giglio_ la primavera risplendeva. Faceva fresco ancora, ma il cielo
era già d’un azzurro intenso; all’orizzonte soltanto alcune sottili e
lunghe nuvole bianche si stendevano, orlate al di sotto da una linea
rosea. Il verde nuovissimo delli alberi appena fronzuti diventava cupo
nello spessore dei boschetti. Una luce dolce ed uguale faceva risaltare
i più minuti particolari dell’ammirevole paesaggio fiorentino dove lo
sguardo non trovava che bellezza e non trovava limiti. Nel giardino
tutto fioriva, ed il prato davanti alla casa, che terminava un vasto
terrazzo di marmo, era pieno di rose.

Dalle finestre del primo piano, Massimo, nascosto dietro una
persiana socchiusa, guardava un viale laterale dove Elisa passeggiava
pensierosa.

Egli la osservava. Era pallido e si sarebbe potuto scorgere sul suo
viso quelle contrazioni involontarie che produce la sofferenza repressa
in fondo al cuore. Studiava la fisonomia di sua moglie, che vedeva
benissimo in volto, e quanto l’andatura di lei poteva tradire, con la
fissità di sguardo dello scienziato che vuol strappare un segreto alla
natura. Era lì da un’ora, inconscio dello scorrer del tempo.

Dal canto suo Elisa non sapeva d’essere osservata. Sul suo viso
leggevasi l’espressione d’una di quelle tristezze alle quali vi si
abbandona nella solitudine con una voluttà amara, ma che non si
mostrano ad alcuno. La sua posa languente, il camminare lento ed
incerto, un gesto che le sfuggiva talvolta, tutto dimostrava ch’essa si
credeva solissima.

Tre volte di seguito Massimo fece una mossa come per lasciare la
finestra e scendere nel giardino, ma tre volte mutò avviso e riprese la
sua immobilità.

Rifletteva e sognava. Pensava a tutto quanto era successo dopo il suo
ritorno, alla conquista di sua moglie, che la vigilia ancora credeva
del tutto compita, e di cui adesso dubitava di nuovo, senza che nessun
avvenimento importante fosse accaduto per far cambiare le cose, nè
scemare le sue speranze di un felice avvenire, le quali erano quasi
svanite davanti ad uno sguardo involontario d’Elisa, e solo per quello.

Da un mese la luna di miele era sorta per lui all’orizzonte, dopo tre
anni di matrimonio apparente. Incredulo dapprima alla propria felicità,
nel mentre stesso che l’assaporava, aveva poi dovuto convincersene;
di giorno in giorno aveva sentito tale felicità farsi più vera, più
possibile; d’ora in ora il sorriso di Elisa gli era sembrato più
sincero. Frattanto però aveva conosciuto il crudele alternarsi del
dubbio e della sicurezza, e dal giorno prima, tutti i sospetti già
antichi avevano saputo più che mai penetrargli nel cuore per roderlo.
Che cosa era dunque successo? Quasi nulla.

Il giorno innanzi era andato a Firenze per affari, molto seccato di
dovervi rimanere quarant’otto ore. Giammai Elisa gli era apparsa più
adorabile che nel lasciarla, e in città la rivedeva sempre, in piedi
sul terrazzo, vestita di chiaro, appoggiando una mano alla massiccia
balaustra, e con l’altra mandandogli un bacio, mentre la carrozza
s’allontanava. Per un concorso non sperato di circostanze, potè in
poche ore vedere tutte le persone di cui abbisognava, e sbrigare ogni
cosa. Allegro al pari di uno scolaro che trova la scuola chiusa, era
ritornato la sera stessa alla villa; ma per la strada, certi importuni
presentimenti che lo avevano agitato nella giornata, lo tormentarono e
divennero insopportabili. Vari particolari gli ritornavano alla mente
per turbarlo: un motto, un atteggiamento d’Elisa, uno sguardo sorpreso;
una risposta, di certo innocente, ma dalla quale era stato offeso,
la momentanea freddezza di lei, le sue rinascenti malinconie — ed il
demonio del dubbio s’era impossessato di lui. Tutte le paure che lo
avevano assalito nei giorni precedenti fecero di lui la loro preda.
Diventato nervoso all’eccesso, come lo si è sempre quando si entra in
una nuova fase della vita, la sua imaginazione si accendeva facilmente,
volendo negare a sè stesso il proprio soffrire, ma essendo in realtà
in uno de’ suoi peggiori momenti, fu in una pessima disposizione di
spirito e in uno stato quasi morboso, che senza essere annunciato,
entrò sulla punta dei piedi nel gabinetto dalla tappezzeria chinese
nel quale Elisa stava spesso alla sera. Vi era infatti, sola, immobile,
disoccupata, seduta sopra una sedia davanti a un gran tavolo al quale
appoggiava i gomiti, con le due mani sostenendosi il mento e guardando
fissamente i disegni del paralume posto sulla lucerna.

Massimo, invece di andare fin presso a lei senza far rumore, per
sorprenderla, come ne aveva l’intenzione, si era fermato sulla soglia,
non osando più avanzare. Ciò che i suoi occhi, troppo abituati a
leggere sulla fronte delle donne, trovarono sul viso d’Elisa tanto
tristamente assorta nella solitudine, gli cagionò un acuto dolore.
La sua memoria evocò il ricordo dell’atteggiamento disperato di lei
quando l’aveva sorpresa piangente nel salottino di fondo, alla villa
Arombelli. Essa non piangeva più, adesso, ma il suo sguardo era
ancora quello d’allora, e la rigidità della sua posa poteva rivelare
uno sforzo altrettanto penoso quanto l’angoscia l’aveva altre volte,
allora, prostrata singhiozzante su quel canapè dove s’era buttata,
stremata di forze. Questa volta, ora, non si muoveva più che se fosse
stata di marmo, e per uno spazio di tempo del quale Massimo non avrebbe
saputo precisare la durata, egli rimase, trattenendo il respiro, a
guardarla. E gli sembrò sentire tutti i suoi presentimenti verificarsi,
e gli apparve chiaro d’essersi illuso credendosi amato; tutte le
diffidenze che aveva prima vinte, ritornarono in lui, e nervosamente
scosso, si sentì invadere da un dolore quasi fisico e dalla certezza
che sarebbe infelice per sempre.

Ecco tutto. Bisognava che Massimo fosse assai cambiato, per lasciarsi
tanto fortemente turbare da così poco. Ma bisogna rammentarsi ch’egli
aveva realizzato il suo sogno senza poter quasi credere alla sua
felicità, e che il più lieve avvenimento bastava per ripiombarlo nello
scetticismo. Sapeva d’altronde che nessuna parola può essere tanto
sincera quanto lo sguardo di una persona che si crede sola e non sa
d’esser vista. Il capriccio violento che d’improvviso aveva risentito
per Elisa, quel capriccio nato in una notte di ballo e al quale aveva
inutilmente tentato di resistere, si era a poco a poco trasformato in
amore. Quando si era assentato prima di scrivere la lettera che aveva
tanto turbato Elisa, aveva confusamente sentito che al desiderio che lo
spingeva verso di colei che da tanto tempo era chiamata sua moglie, si
mescolava un sentimento più profondo. Non bisogna stupirsene. Poichè
non si deve dimenticarlo, a questa donna di cui la nuova bellezza
lo aveva abbagliato, e quando non se lo aspettava punto, egli voleva
già bene, fraternamente, prima, e di codesta mescolanza della brama
inconsciente e d’una sincera amicizia, che cosa poteva nascere, se non
l’amore, ch’è la tenerezza dell’anima unita al tumulto dei sensi?

Quella timidezza che s’era impadronita di lui davanti ad Elisa, vista
sotto al nuovo aspetto, persisteva tuttora. Quando, richiamato, era
giunto alla _Villa del Giglio_, dove, dietro sua preghiera, Elisa
era andata ad aspettarlo, egli affettava una sicurezza calma che non
possedeva più. Tuttavia ritrovò tutta la sua forza. Sentì che una sola
mossa sbagliata, che il minimo fallo poteva far perdere la partita,
e ritrovò la certezza del suo colpo d’occhio, tutta la sua scienza e
tutto il suo fascino.

Se, per conquistare a poco a poco il cuore di una donna, per accendere
in lei una fiamma che non possa spegnersi che per colpa nostra, e
per conservarla sempre viva, non basta la bellezza e l’intelligenza,
se bisogna perciò sapere tutto quanto non si può imparare in nessun
libro, se in una parola l’amore è un’arte; Massimo fu artista quanto
è possibile di esserlo. Aveva molta esperienza, ma ebbe abbastanza
genio per comprendere subito che non bisognava servirsene, che la sua
esperienza gli farebbe perdere la partita o lo svierebbe, e fu abile
e forte al punto di dimenticare tutto ciò che sapeva e d’indovinare
tutto ciò che ignorava. Elisa non rassomigliava ad alcuna delle donne
ch’egli aveva conosciuto; là era la seduzione sua; là pure stava
l’ostacolo. Cominciò col farle quasi timidamente la corte, con tutte
le delicatezze che il suo tatto gli suggeriva, ma fu perfetto, non
solo a motivo del suo squisito istinto e della sua innata eleganza, ma
anche, bisogna dirlo, per prudenza. Avanzava con mille cautele, a guisa
di un esploratore in paese sconosciuto, sorpreso lui stesso della sua
timidità da scolaro e dei suoi dubbi da vecchio. Lo sguardo suo diceva
ciò ch’egli voleva fargli dire, il suo volto sembrava di marmo animato,
ma un tormento si nascondeva in fondo a lui.

Conosceva le donne — ne aveva per lo meno conosciute un gran numero.
Era giunto, non già a non credere più a nulla, ma a credere a tutto
— il che vuol dire che le sapeva capaci di tutte le nequizie, di
tutti i vizi, di tutte le abbiezioni, ma anche delle devozioni più
complete e dei maggiori sacrifici. Aveva intraveduto codesta verità,
che quasi tutte hanno nella loro vita un giorno di disinteresse
assoluto, nel quale si danno senza sottintesi e dimenticando ogni
cosa, mentre un uomo calcola quasi sempre, anche in piena passione.
Tuttavia, mentre le stimava capaci di tutto indovinare per mezzo delle
sensazioni, le credeva intellettualmente inferiori e non suscettibili
di comprendere mai una idea astratta. Aveva conosciuto delle donne
virtuose per principio, per religione, o per orgoglio solamente e per
un alto sentimento del dovere; delle grandi signore, in altissima
posizione, sagrificanti tutto ad un uomo indegno; delle fanciulle
ch’erano morte senza confidare il segreto del loro cuore; delle artiste
appassionate per l’arte loro e che vi avevano rinunciato per amore;
delle cortigiane, che dopo d’essersi immerse nel fango di tutte le
turpitudini, avevano avuto il loro giorno di eroismo. Sempre aveva
incontrato delle nature imperfette, illogiche, impetuose nel bene e nel
male, cedenti il più delle volte ad un impulso inconsciente; in tutte
aveva trovato un lato misterioso; e là si era fermato, troppo incurante
per tentare di approfondire.

Ma, per lui, le donne si dividevano innanzi tutto in due grandi
categorie: le savie e le pazze. L’innocenza di alcune vere fanciulle
gli era talora sembrata incantevole, e spesso si era sentito pieno di
rispetto davanti ad alcune donne di cui era stato costretto ad ammirare
la virtù. Le _altre_, le appassionate, le cercatrici, le corrotte,
le aveva tutte amate a modo suo. Della sua relazione con lady Jane
S., ch’egli aveva rapita nel modo che raccontammo, aveva conservato
lungamente il ricordo; poichè essa era talmente donna, che v’era in
lei un po’ di tutte le donne, sebbene fosse allo stesso tempo unica
nel suo genere. E si ricordava la duchessa di Monteverde — una vera
italiana, nel senso che i forestieri attribuiscono a questa parola —
e della quale meglio di alcun altro egli aveva potuto apprezzare la
meravigliosa bellezza, poichè, per il primo, domò quella indomita,
e venti altre, di cui l’amore differiva quanto le figure, e le cui
capigliature brune, bionde o fulve, e li sguardi ardenti o profondi,
narravano per ciascuna una storia diversa.

Ma non aveva mai incontrato una donna che come Elisa avesse amato
veramente e semplicemente, e che incapace di oblio, fosse restata
senza sforzo fedele ad un assente perduto per sempre; una donna
dotata allo stesso tempo d’un supremo buon senso, d’una giustezza di
vedute sorprendente, d’una facoltà rara divinatrice di quanto non
poteva comprendere, virtuosa, naturalmente anzichè per principii,
che camminava sempre sulla linea che si era tracciata, non avendo
però alcun pregiudizio; inflessibile senza rigidezza e senza che
nè l’orgoglio, nè una fede profonda, nè le paure del mondo, fossero
la causa della sua virtù, incapace di fallire ed indulgente per gli
altri; una donna pura senza essere innocente, non credendo a nessuna
convenzionalità e avente però dubitato delle leggi sociali, ma che
andava sempre dove la sua coscienza la conduceva, intelligente, senza
che la testa potesse mai smentire il cuore.

Ed il dubbio gli era venuto allora di non saper forse nulla in fatto
di donne, ed assai poco in fatto di amore. E felice, sedotto e quasi
pauroso del suo successo, vedeva Elisa mostrarsi più amante di quello
che avesse osato sperarlo. Ma dopo d’averla sorpresa assorta in quella
meditazione dolorosa del giorno innanzi e aver lungamente studiato
la sua vera fisionomia senza essere visto, una luce s’era fatta in
lui ad un tratto, e aveva compreso ch’ella lo amava per dovere, per
riconoscenza, ma che, con l’amarlo, compiva un sagrificio.

Abbasso, nel giorno, Elisa pure s’inabissava nelle sue riflessioni.
Aveva saputo che Massimo, ritornato la sera prima verso le dieci, si
era ritirato senza lasciarsi vedere. Sebbene avvezza alle sue piccole
eccentricità, si perdeva in congetture. La inquietudine persistente
le faceva quasi dimenticare la sua triste meditazione del giorno
prima, uno di quei ritorni verso il morto passato che, dopo il grande
cambiamento sopravvenuto nella sua vita, l’avevano spesso assalita e
ch’ella combatteva con tutte le sue forze. Durante i famosi tre giorni
di lotta interna, dopo ricevuta la lettera di Massimo, aveva creduto
d’aver dato gli ultimi pensieri al suo passato, ma dacchè era entrata
in una vita nuova (avvenimento strano al quale era forza sottomettersi,
ma che talvolta le sembrava ancora quasi incredibile), mentre sentiva
che _voleva_ amare Massimo e che vi riescirebbe, aveva però di tempo
in tempo delle ribellioni che non poteva padroneggiare. E però, ad
onta di tutto quanto, riflettendovi, si applaudiva della sua decisione,
poichè vedeva che Massimo l’amava, e riconoscendo in lui delle qualità
sconosciute, sentiva ch’ella si doveva a lui!

— È precisamente ciò che ammiro in lei, ch’è causa ch’ella non mi
può amare. Appartiene tutta intera alle sue memorie, e non è mia che
per dovere. Come posso sperare io, la cui vita sregolata è stata per
lei motivo di scandalo, per il quale essa ha certo più affetto che
stima, come posso io sperare di farle dimenticare l’amore di tutta la
sua vita, giacchè il tempo non ha saputo darle l’oblio, nè il mondo
distrarla?

Così dicevasi Massimo, ed attraverso la persiana socchiusa, i pensieri
che credeva leggere sul viso di sua moglie, confermavano le sue paure.

Finalmente discese, e s’avvicinò a lei. 

Elisa sorrise al vederlo, gli corse incontro e gli chiese, non senza un
certo imbarazzo, perchè non s’era mostrato il giorno prima.

— Ero stanco, — rispose. 

Ella si volse verso di lui, con un’aria incredula e disse dolcemente: 

— M’è rincresciuto assai e ne sono stata un po’ inquieta; tanto meglio
se la stanchezza n’era la sola ragione. Ma non lo credo. Ed avreste ben
torto di non dirmi tutto.

Dopo un silenzio di qualche minuto, Massimo disse bruscamente: 

— Volete proprio saperlo? 

— Sì, lo voglio. 

— Ebbene! è perchè vi ho osservata a vostra insaputa, ieri sera, e che,
separati com’eravamo da una diecina di passi, i vostri pensieri erano
tuttavia tanto lontani che io non avrei potuto attraversare la distanza
per giungere sino a voi.

Lo guardò stupita, ma, subitamente, comprese tutto, nel modo stesso che
in una notte buia il paesaggio si svela ai nostri occhi per un secondo,
ai brillare d’un lampo.

— Ascoltate, Elisa, — continuò lui; — non ho dormito un istante dopo di
avervi veduto ieri, e ho molto pensato. Ebbene, sapete, in una parola,
il risultato delle mie riflessioni? È che ho avuto torto di ritornare e
che avrei fatto meglio d’accettare il posto in America.

Elisa gli prese ambo le mani ed esclamò: 

— Vi giuro che avete torto di pensarlo! 

Egli baciò quelle mani ch’erano nelle sue, e le disse “Grazie!„ poi si
arrestò, poichè l’accento col quale lei gli aveva detto quelle parole
l’aveva commosso, e già turbato. Però riprese:

— Sì, lo so, _volete_ amarmi; ma non è forse soltanto per un’idea
di dovere? Non sareste stata più felice, più calma almeno, se avessi
continuato a non avere per voi che una semplice amicizia? Non avrei
fatto meglio nascondendovi i miei nuovi sentimenti? Come quando vi
ho fatto la mia strana proposta di matrimonio, là da mia zia, non
preferite ancora adesso la pace, la solitudine a tutto?

— Massimo.... 

— E per me, non sarebbe stato meglio se avessi ucciso il mio amore
dentro di me prima che ingigantisse? Ora soffrirò atrocemente. Ma siamo
ancora in tempo. Partirò. Ritornerò quando potrò di nuovo rivedervi
come una sorella.

— Massimo, lasciatemi parlare. E prima, una sola domanda: non ho io il
diritto di pretendere che mi crediate?

— Sì. 

— Potete dubitare per un solo istante della mia sincerità? No, perchè
sono sempre stata assolutamente sincera. Ebbene, credete forse che
adesso, se partiste in quel modo, me ne potrei consolare? Voi che foste
così buono, che comprendeste così bene le mie timidezze, rispettando
perfino le mie puerilità, non capite che se _ho voluto_ amarvi come
dite, l’ho voluto per davvero; ed è ora che parli di partire, ora che
comincio ad amarti....

Massimo, benchè ripetesse ancora a sè stesso tutto quanto si era
detto nella notte, sentiva però già, ascoltando queste parole, le sue
paure diminuire, fondere per così dire dentro di sè. Eppure alcuni
particolari gli tornavano in mente, insignificanti, ma che lo facevano
soffrire: si ricordava di averla ancora offesa o scandalizzata senza
volerlo e di aver veduto i suoi occhi profondi fissare su di lui il
loro sguardo sorpreso, a una frase che gli era sfuggita.

Oh! quanto rimpiangeva adesso di averla trattata dapprima _en
camarade_; quanto avrebbe voluto ritirare le confidenze che le aveva
fatto in alcuni momenti di allegria discorsiva, non averle raccontato
troppi aneddoti della sua vita, che talvolta, dopo pranzo, aveva
sciorinati come fosse stato a una tavola di amici.

Ebbero insieme una lunga spiegazione. E alla sera, in quella sala
stessa di cui alla vigilia non aveva voluto varcare la soglia, Massimo
sentì, sebbene mescolato ancora a qualche dubbio vago che sarebbe
presto dissipato, quella calma speciale che segue le dure prove finite
e che rassomiglia alla languida voluttà della convalescenza. Oh! se
talora non era ancora del tutto sicuro che aveva ragione di non pensar
più a partire, sentiva però anche che non lo potrebbe. E come avrebbe
saputo resistere al sorriso di Elisa, dove vedeva sorgere tutto quanto
non aveva osato sperare? Come non sarebbe stato commosso da quella
voce piena di una soavità nuova? Come non si sarebbe abbandonato senza
forza alla seduzione di quella intimità, nella quale le minime parole
prendevano un valore enorme come se fossero pronunciate per la prima
volta, dove i silenzi erano così dolci? Egli la contemplava, sdraiata
sopra un sofà basso coperto di una stoffa a disegni smaglianti,
sulla quale spiccava la stretta sua veste d’un grigio pallido,
quasi argentato; guardava talvolta vicino a lui quei piccoli piedi,
raffinatamente calzati, poi l’occhio suo seguiva le linee pure che il
vestito disegnava, per fermarsi a quel viso tanto conosciuto e tanto
nuovo, dove incontrava due occhi azzurri, il cui sguardo profondo
s’incontrava col suo.... e vi trovava una infinita malinconia, ma
anche una luce insolita. Dalla finestra aperta si vedevano i cespugli
profilati in nero nel chiaro di luna, ed il cielo tutto tempestato di
stelle.

Si è voluto raccontare questo episodio, perchè fu l’ultimo di tal
genere. Elisa, durante la scena in giardino, aveva subito sentito di
aver recitato male la sua parte, non solo, ma anche di non aver fatto
uno sforzo abbastanza sincero per compiere quanto si era promessa,
per ricacciare le sue tristezze nel più profondo del suo cuore, e
per amare suo marito. E come s’è visto, aveva saputo rassicurarlo con
poche parole ispiratele dal pericolo. Poi, d’ora in ora, fece meglio, e
riuscì. Ella vedeva il cambiamento che accadeva in lui, commossa dalli
sforzi ch’egli faceva per piacerle, per indovinarla, per modificarsi.
I lati più nobili della natura di Massimo si schiarivano ora alli occhi
di lei. Egli aveva saputo a poco a poco guadagnare la sua fiducia, far
scomparire tutte le vecchie prevenzioni. Ella lo amava già un poco e
si sentiva vicina ad amarlo più ancora, non già di quell’amore che non
si può risentire che una volta sola e ch’essa non ritroverebbe più, no;
altrimenti; ma sinceramente. Nuovi aspetti della vita le si rivelavano
ancora, ed era felice della contentezza della sua coscienza.

In codesta nuova esistenza, Massimo trovava una calma sconosciuta
fino allora. Non si curava in nessun modo di quanto potesse succedere
fuori della _Villa del Giglio_. D’un tratto aveva perduto tutte le sue
antiche abitudini; non trovava più nessun fáscino nella vita mossa, non
era più giuocatore.

Codesta solitudine in due, raramente interrotta da qualche breve visita
d’amici, gli sembrava la sola possibile. Paolo Goffredi e la contessa
soli venivano abbastanza regolarmente. Lady Thompson stessa, spinta
dalla sua insaziabile curiosità, giunse una volta coi suoi intimi;
erano diciotto in tre carrozze fra cui uno _stage-coach_ con quattro
superbi cavalli, e una gran pompa di vesti primaverili.

L’estate s’inoltrava. Da Firenze e dalle ville vicine, tutti se ne
andavano al mare, in Svizzera, o altrove. I d’Astorre non si mossero,
con gran sorpresa dei curiosi. Faceva un caldo torrido; nel giardino
l’erba dei prati, quasi bruciata, ingialliva, e un polverio luminoso
avvolgeva il passaggio, mentre che il cielo, infuocato fino ad essere
bianco, era rigato qua e là da grandi strisce dorate. Ma tanto più si
gustava la frescura interna, fin dal vestibolo, dove un alto zampillo
d’acqua si sparpagliava in una gran vasca in forma di conchiglia; la
penombra delle sale, dove le persiane chiuse e le tende abbassate
mantenevano una frescura conosciuta soltanto nei paesi caldi. Sui
grandi divani ricoperti di cuoio nero le vesti di mússola di Elisa
mettevano una nota chiara, e Massimo a suo lato intento a rinfrescarla
con un grande ventaglio, trovava ch’era perfettamente inutile, non solo
di partire, ma nemmeno di cambiar posto. Pensava talvolta che in quello
stesso momento le camere d’albergo strette ed incomode, erano tutte
occupate, che gli ambiziosi continuavano ad inseguire lo scopo della
loro ambizione, che v’erano delli uomini che pedinavano delle donne
per le vie, che nei teatri si applaudivano delle ballerine visibilmente
morenti per il caldo, che nei clubs ci si sedeva intorno ad un tappeto
verde, e tutto ciò lo stupiva assai.

In settembre dovettero però fare una breve assenza, poichè da molto
tempo, Elisa aveva promesso una visita a’ suoi genitori, ed un’altra
alla marchesa Arombelli, e non era più possibile il differirle. Fu con
una emozione differente che rividero la villa Arombelli, e la loro
buona zia, tanto felice di constatare il mutamento avvenuto in suo
nipote e di rivedere la sua diletta Elisa, diventata così bella e che
più di qualunque altra meritava la sua felicità. I Valenti vennero
pure a raggiungerli alla villa; il padre, ad onta della sua leggerezza,
amando sempre la figlia teneramente, e la madre adorando “la sua cara
marchesa„.

Riaccompagnarono la loro figlia in Toscana e passarono tre settimane
alla _Villa del Giglio_. Massimo scelse quell’epoca per avere un po’ di
gente, ma gl’invitati ripartirono allo stesso tempo che i Valenti, e di
nuovo la solitudine in due ricominciò.

A Firenze si accusava ormai Massimo di misantropia. I servitori
stessi, alla villa, si stupivano del cambiamento sopravvenuto nella
vita del padroni e della persistenza del marchese nel rimanere in
campagna; ne cicalavano lungamente nel tinello. Ciò li annoiava;
numerosi, disoccupati, trovavano che se si continuava così il posto
non varrebbe più nulla. Il lusso della casa pareva infatti un po’
fuori di luogo per codesta luna di miele in ritardo e prolungata. In
scuderia i cavalli ingrassavano; perchè lavoravano troppo poco ed i
cocchieri non si curavano abbastanza di farli muovere, in quel paese
senza osterie, se non era per spingersi fino in città. La cameriera
non aveva più da preparare le acconciature complicate per la sera; i
servitori in mezza livrea, sdraiati su delle sedie in anticamera, non
erano più svegliati dal campanello, e il piccolo paggio inglese, un
bel birichino di diciott’anni che ne dimostrava nove, era ridotto a
corteggiare le due grosse contadine che aiutavano in cucina. In quanto
ad Antonio, il cameriere fedele del marchese, non gli si affidava
più nessuna commissione delicata da compiere, e nessun biglietto da
portare. Solamente qualche volta il marchese e la marchesa uscivano
a cavallo. Non volevano il _groom_, e se ne andavano al passo, lungo
la strada polverosa che presto abbandonavano per internarsi in certe
stradicciuole anguste dove i due cavalli stentavano talora a camminare
di fronte. Gli alberi troppo rari non facevano ombra abbastanza, ma a
quell’ora mattutina, il sole di autunno dava un calore aggradevole.
Poi si attraversava qualche gruppo di case dove i bambini seminudi
si rotolavano nella polvere, dove le galline spaventate fuggivano
dinanzi al trotto dei cavalli. Sulla porta delle loro povere case, i
paesani venivano a veder passare “i signori„ e ammiravano il portamento
svelto d’Elisa, lo spessore della massa di capelli sotto la sua
piccola tuba d’uomo, la finezza de’ suoi lineamenti ammorbiditi dal
velo; osservavano come il marchese montava bene, e calcolavano il
prezzo probabile delle due magnifiche bestie. Raramente assai vedevasi
luccicare un lampo d’invidia nell’occhio di quella brava gente, ed
il saluto che indirizzavano ai “padroni„ era rispettoso, ma insieme
amichevole, poichè il popolo, in Italia, non ha odio nel cuore;
disdegna sovente, ma non conosce quasi mai quella invidia viziosa che
conduce all’esecrazione. Quei visi stanchi, astuti e rassegnati ad un
tempo, esprimevano sopratutto la pazienza.

Massimo chiacchierava molto ed era felice delle pronte risposte
d’Elisa, che poi ad un tratto non ascoltava più, assorto nel
contemplare la sua bellezza. Poi tacevano, sognando ciascuno per
proprio conto; ed i loro sguardi si smarrivano allora in quel vasto
cielo che si stendeva dinanzi a loro, d’un azzurro pallidissimo, e però
caldo, fino ai contorni indistinti delle montagne immense all’orizzonte
in una bruma tiepida, meridionale, speciale. Cento vaghi rumori
animavano il paesaggio; certe campane lontane ma di cui non si perdeva
una sola vibrazione attraverso l’aria purissima; dei grandi carri che
si udivano rotolare pesantemente, assai prima di vederli apparire,
col loro cavallo ornato di fiocchi rossi, guidato da un contadino col
cappello di paglia calato sulla faccia color di mógano, e che sdraiato
boccone sul fondo, dormicchiava a metà, cantarellando uno stornello.
Da una parte, le colline si riunivano in dolci pendii, e un po’ più
lontano, si scorgeva per il lungo la bella città ridente nel suo
giardino verdeggiante e fiorito, la linea elegante de’ lungarni, ed il
profilo fiero e famigliare di Palazzo Vecchio.

Rientravano per la colazione; nella sala da pranzo vasta ed allegra,
la tavola era pronta, con tutto ciò che si può imaginare di più
delicato, con frutte straordinarie miste a fiori entro grandi piatti.
La giornata passava sempre con una rapidità della quale erano attoniti
essi medesimi. Massimo trovava difficilmente il tempo per occuparsi un
poco de’ suoi affari, — che pure adesso pretendeva dirigere, — ed era
seccatissimo quando non poteva proprio a meno di assentarsi.

Elisa leggeva ancora, ma meno assai d’una volta, e ad onta di
ciò non aveva se non ben di rado di quelle lunghe meditazioni che
fanno scorrere le ore inavvertite, ma penose. Soltanto suo marito
la preoccupava talvolta ancora. Non lo comprendeva che a metà. Per
esempio, come spiegare quel cambiamento radicale? E perchè si era
innamorato di lei, improvvisamente, a quel ballo del barone di K.?
Perchè, fino a quella sera memorabile, l’aveva sempre guardata con una
completa indifferenza, ad onta dell’affetto che sentiva per lei, e come
potevasi spiegare che da un _capriccio_ (cosa incomprensibile per lei),
nascesse un amore tanto profondo? Che cosa poteva ammirare in lei a tal
punto, di un tratto? Quanto doveva esser stato strano il passato di un
tal uomo! quanti pensieri, che essa ignorerebbe sempre, avevano dovuto
sorgere in quella testa! e, a malgrado di tutto, quante differenze
intime ed essenziali fra loro due! E qual mutamento nella sua vita di
donna! chi avrebbe mai potuto prevederlo due giorni prima di quella
notte in cui Massimo era stato impressionato da lei, a quel ballo? La
sua sola certezza era che aveva ragione di fare tutto il suo possibile
per amarlo, che in ciò stava il suo dovere e lo scopo necessario della
sua esistenza. La vita, ch’ella credeva terminata, ricominciava di
nuovo. L’Elisa d’altre volte, che viveva cupamente all’insaputa della
gente, che la credeva tanto diversa, era morta ora in un certo senso,
ed invece la marchesa d’Astorre, diventata una persona vera, era la
moglie di Massimo, doveva amarlo, lo amava già!

Passarono l’inverno a Firenze, dove Massimo si divertì a ristaurare il
vecchio palazzo con un gusto squisito, consultando spesso sua moglie.
Ricevettero un poco, ma andarono il meno possibile dalli altri. Nessuno
pensò più a far la corte alla marchesa d’Astorre, e si cercò invano
di dirne del male. La salute di Massimo non essendo perfetta, per
la prima volta in vita sua, ed i medici avendo detto che nell’estate
bisognerebbe pensare ad una cura, ne approfittarono per ritornare alla
_Villa del Giglio_, appena finito l’inverno.


III. 

Elisa stava sola nel suo angolo prediletto della sala, vicino alla
finestra, chiusa per la pioggia che incominciava a cadere. La mattina
era stata soffocante; ora faceva quasi freddo. Non una nuvola nel cielo
uniformemente grigio, non un soffio che agitasse una sola foglia dei
grandi alberi, nè staccasse il pétalo d’un fiore. Massimo era andato in
città, donde doveva ritornare all’indomani con due o tre amici. Ella
pensava a lui, mentre lavorava ad un ricamo che gli era destinato. “È
però noioso„ diceva a sè stessa, “ch’egli non possa ritornare questa
sera. Pranzerò sola, ed oggi ciò mi annoia....„ Poi, rammentando
d’improvviso che doveva scrivere una lettera, dimenticata già da un
pezzo, lasciò il lavoro e sedette davanti ad una piccola scrivania.
Aveva appena tracciato le parole: _8 aprile_ al sommo del foglio,
quando suonò la campana annunciante una visita. Ascoltò, stupita,
con l’occhio fisso all’uscio. Si era già alzata quando un servitore
entrò, portando sopra un piatto d’argento un biglietto da visita ed una
lettera:

— C’è di là un signore che chiede se la signora marchesa lo vuol
ricevere.

Elisa lesse sul biglietto: _Carlo Orlandi_ e un tal nome non le ricordò
nulla. La lettera era della contessa Goffredi, solo due righe di
raccomandazione, che percorse rapidamente d’un’occhiata.

— Fate entrare quel signore. 

Il servitore uscì e rientrò pochi istanti dopo annunciando il
forestiere, il quale, dalla soglia, fece un profondo saluto. Era un
vecchio personaggio d’apparenza gioviale, la cui figura nel suo insieme
non mancava di un lato comico, mentre la faccia — una buona faccia
larga e rossa incorniciata di favoriti bianchi — esprimeva una gaiezza
tranquilla, una grande indulgenza per tutti e una certa soddisfazione
di sè. La sua bocca era disegnata largamente sotto un naso un po’
schiacciato; de’ sopracigli molto folti proteggevano due occhietti
grigi pieni di bonomia e di malizia insieme; una foresta di capelli
tagliati a spazzola, d’un bianco argenteo, copriva la sua grossa testa.
Piccolo e tarchiato, portava un paio di calzoni grigio-perla, un abito
nero e un panciotto di velluto marrone a fiorellini rossi, sul quale
pompeggiava una pesante catena d’oro, con molti sigilli che battevano
sul suo ventre rispettabile. Nella destra teneva il cappello, i guanti
e un bastoncino.

— Signora marchesa, — disse, con il respiro un po’ corto, — mi scusi se
mi presento con così poca cerimonia. La contessa che ha avuto la bontà
di darmi quella lettera, mi ha anche incaricato di portarle codesto....

E offrì a Elisa un piccolo involto suggellato. 

Era un gioiello ch’ella attendeva infatti. Lo guardò per un istante, lo
pose sopra un tavolino, dicendo:

— La prego di sedere.... Lei è molto gentile di aver voluto disturbarsi
per così poco.

E intanto osservava il suo interlocutore, la di cui visita le sembrava
strana e inutile sopratutto, e che, dal canto suo, continuava a
sbuffare un poco. Sedette pesantemente sopra una poltrona, che cambiò
di posto per non avere la luce nelli occhi, e quando ebbe ripreso
fiato, rispose:

— Oh! signora, felicissimo!... La contessa Goffredi è... è sempre... è
sempre stata buonissima per me.

— La conosce da molto tempo? 

— Oh! sì! signora marchesa, l’ho conosciuta bambina! L’ho vista ieri.
Sono andato da lei espressamente per domandarle una parola di scritto
allo scopo di presentarmi qui. Scusi il mio ardire, di cui sono confuso
io stesso.... La contessa m’ha detto di dirle tante e tante cose.
È tanto graziosa, e in fede mia!... tanto bella anche! — soggiunse
ridendo ad un tratto.

Era visibilmente imbarazzato, ma dopo una pausa, continuò: 

— Si figuri, signora marchesa, che io sono a Firenze da alcuni giorni.
Avevo assolutamente bisogno di vederla, lei, signora, proprio lei!...
Ma non avevo l’onore di conoscerla.... Come farmi presentare? La
difficoltà mi sembrò tanto maggiore quando seppi ch’ella viveva,
piuttosto ritirata, in campagna. E ciò che v’è di più bizzarro, è che
avevo già veduto varie volte la contessa, senza pensare d’indirizzarmi
a lei. Fu lei, che per caso nominò la signora marchesa. “La conosce?„
chiesi io. “È la mia migliore amica„, mi rispose.

— È vero, e sono riconoscente che lo dica altamente. Raccomandato dalla
mia amica, lei non poteva dubitare d’esser ben ricevuto.

Il vecchio signore continuò a discorrere, imbrogliandosi un poco;
non sapendo, visibilmente, come venire al fatto, parlando molto,
come chi non ha fretta. Intanto Elisa accorgendosi di aver a fare
con un brav’uomo, un po’ originale, ma non dispiacente, lo ascoltava
domandando a sè stessa: “Cosa vuol conchiudere?„ un po’ seccata ancora
d’esser stata disturbata nella sua solitudine, un po’ divertita dai
modi e dalle verbosità dello sconosciuto.

Si capiva subito che doveva essere un uomo assai ricco, e del resto,
non lasciava per un pezzo tale circostanza in dubbio, poichè parlava
volentieri della sua fortuna. Intrattenne Elisa di vari acquisti
fatti il giorno innanzi da un antiquario, tra le altre cose, di una
coppa cesellata attribuita a Benvenuto, che gli costava cinquantamila
franchi; giunse fino a raccontarle di certi due cavalli sauri che
volevano vendergli per forza, aggiungendo che diffidava non essendo
conoscitore.

Poi si fermò e vi fu un silenzio. Elisa, un poco imbarazzata, a
sua volta, cercava un soggetto di conversazione, ma al momento in
cui stava per indirizzargli una domanda qualunque a proposito della
contessa Goffredi, egli disse bruscamente, tentando di farlo con aria
disinvolta:

— Scusi, signora marchesa, si ricorda lei ancora di un suo amico
d’infanzia.... che si chiamava Giulio Bardi?

Elisa sentì tutto il sangue che le affluiva al cuore. Diventò pallida
orribilmente....

Mai come in quel minuto aveva avuto bisogno di tutta la sua forza,
di tutta la scienza di dissimulazione acquistata. Seppe arrestare il
trémito che s’impadroniva di tutto il suo corpo, e fu con voce quasi
ferma che rispose dopo un poco:

— Certo, me ne ricordo! Lei lo conosce?... 

— Sono suo zio. 

Un lampo improvviso illuminò la mente di Elisa: rammentò ad un tratto
quel nome dimenticato di Orlandi, che aveva altre volte sentito
pronunciare — un secolo fa — laggiù nella casetta in riva al lago. Ora
avvolse il suo interlocutore in uno sguardo pieno di una curiosità
intensa. Mentre lui continuava a parlare nel suo modo prolisso, lei
non era più capace di stare attenta; e talora le sfuggivano delle frasi
intiere. Contemplò, per qualche minuto, fissamente, la catena d’oro del
vecchio, ed i fiorellini rossi del suo panciotto. D’un lungo discorso
ch’egli fece in cui mescolò il racconto del suo viaggio con la storia
d’un processo che aveva dovuto iniziare a Londra contro un mercante
di quadri, e la contessa Goffredi a suo nipote, lei non udì che queste
parole: “Giulio è arrivato con me a Firenze„, e le udiva sempre, anche
quando il signor Orlandi era entrato in un nuovo argomento.

Ella finì però col prestare tutta la sua attenzione. 

— Sì, signora marchesa, — diceva Orlandi, — se lei me lo permette, le
narrerò la semplice storia delli anni ch’egli passò con noi a Bombay.
E, innanzi tutto, creda che tutto il bene che potrei dire di lui non
sarebbe mai che una metà di quello che merita. Non è soltanto un bravo
ragazzo, e un uomo raro, come non se ne trovano. Si potrà credermi
acciecato da un affetto quasi paterno. No, signora, glielo assicuro;
lo amo, è vero, come se fosse mio figlio, ma non sarebbe neppure mio
nipote, che non ne parlerei altrimenti. D’altronde, tutti quelli che
lo conoscono mi darebbero ragione. Ah! perchè bisogna ch’egli non
sia felice, lui che meriterebbe tanto di esserlo!... Senta, signora,
io avrei molte cose da dirle se osassi parlarle in confidenza. E se
dovessi andarmene senza averlo fatto, lo rimpiangerei certo amaramente,
essendo venuto apposta perciò, lo confesso; ma non ne avrò mai il
coraggio se lei non mi dice che me lo permette, se lei non m’incoraggia
un poco.

— Dica tutto, la prego, parli liberamente, e sia certo che
m’interesserà.

— Grazie. Ebbene, innanzi tutto, mi lasci dirle che io la stimo
altamente e che l’approvo di aver saputo trovare la felicità, di non
aver sagrificato tutta la sua vita a un sogno irrealizzabile, come
l’ha fatto stupidamente mio nipote, che io adoro, ma che in ciò è un
pazzo. Ora prendo coraggio, perchè, mi permetta di dichiararlo, lei
m’ispira una grande simpatia, e mi sembra che la conosco da un pezzo.
(E ciò è anche vero, in un certo senso). Sì, piglio coraggio, giacchè
vedo che lei è buona veramente come mi è stato detto. Se lei sapesse
quanto Giulio ha valorosamente lottato, attraverso ogni ostacolo, ed a
qual prezzo ha conquistato la bella posizione che occupa adesso, e che
pure gli dà così poca soddisfazione! Se lei sapesse a che punto egli ha
_allora_, sul principio, lavorato per... per ritornare in Europa, e con
quale forza di carattere ha continuato a lavorare anche quando lo scopo
era scomparso, e ch’egli continuava il suo cómpito solo per sopportare
virilmente il suo dolore!

Elisa ora non era più pallida, ma respirava con difficoltà. Fece una
domanda, a voce bassissima:

— E come accadde il suo matrimonio? 

— Quale matrimonio? Ah sì! capisco.... la voce che s’è fatta correre
del suo matrimonio con la bella lady Harris, la vedova del generale! È
falso.

— Impossibile! Gliene parlai io stessa nelle mie lettere e non mi ha
mai contraddetta; non mi ha più risposto.

— Vuole che le dica tutta la verità? 

— Sì. 

— È la signora Valenti, di lei madre, che lo ha imposto assolutamente a
mio nipote!

— Ma chi ha potuto forzarlo a mentire? 

— Non ha mentito, signora marchesa, ma acconsentì a non smentire. Forse
ebbe torto. Ma, lo confesso, fu anche per mio consiglio ch’egli agì in
tal modo. E non doveva sembrar giusto? Poteva egli permettere che lei
lo aspettasse tutta la vita? Senza codesta bugia, codesto silenzio, lei
avrebbe pure voluto mantenere le sue promesse, sebbene inutilmente, e
forse non si sarebbe mai risolta ad essere felice come lo è ora.

Parlando di suo nipote, il signor Orlandi trovava un linguaggio più
chiaro, più preciso, e poteva diventare quasi eloquente. Continuò senza
che Elisa pensasse più ad interromperlo. Raccontò in che modo Giulio,
a Bombay, s’era messo al suo cómpito con coraggio e perseveranza,
lavorando da mattina a sera, pieno d’una speranza che traspariva sotto
alla sua abituale malinconia, amato da tutti, adorato in famiglia,
stimato dalli operai. Mentre non mancava mai ad alcuno dei suoi doveri,
trovava tempo per studiare senza posa, e fu presto capace di occupare
nella fabbrica un posto assai elevato. Non s’era mai veduto un giovane
mostrare tanta forza di volontà. Suo zio gli accordò allora ciò che
aveva già accordato ai propri quattro figli, i quali erano tutti
impiegati nei suoi ufficî: lo associò cioè alli utili, aumentandogli
allo stesso tempo la paga. Giulio era preso da una vera febbre
di lavoro, poichè andava diritto dinanzi a sè, risolutamente, non
permettendo alli ostacoli di rallentare il suo cammino, con l’occhio
fisso allo scopo luminoso che gl’impediva di sentire la stanchezza.

Ma una tentazione gli si presentò, alla quale non seppe resistere.
Uno dei suoi compagni di ufficio gli offerse di associarlo ad
una speculazione un po’ arrischiata, ma che in caso di riuscita,
quintuplicava i loro modesti capitali. Già l’amico di Giulio aveva
realizzato qualche beneficio. Giulio sulle prime capì che non aveva
il diritto di tutto impegnare così sopra un colpo di dadi, ma a poco
a poco il pensiero che potrebbe forse, in un mese, por fine alla sua
incertezza, a tutte le sue angoscie, all’esilio, ritornare in Italia e
sposare colei che amava, lo sedusse talmente, che finì col cedere alle
istanze e alli argomenti dell’amico. Imaginarsi la sua disperazione
quando quindici giorni dopo, arrivarono cattive notizie! Credette
d’impazzire, poichè al suo dolore si unì il rimorso: tutto era perduto,
e perduto per colpa sua! Oh! come maledisse la impazienza nostalgica
che lo aveva spinto a tanta imprudenza, come si pentì di aver prestato
orecchio alla voce tentatrice della superstiziosa speranza che gli
gridava: tu riescirai! Giammai Giulio diede prova di tanto coraggio
come quando ricuperò virilmente la forza necessaria per rimettersi
al lavoro dopo il terribile colpo che lo aveva colpito, nulla lo
sosteneva più. Fu allora che le sue lettere ad Elisa diventate già meno
frequenti durante l’eccitazione della speranza, cessarono del tutto.
Che poteva scrivere? Sentiva bene che doveva compiere il proprio dovere
e dirle la verità, e che non avendo ora più certezza alcuna di poter
mai ritornare in Europa, doveva liberarla da ogni promessa, pregarla
anzi di dimenticarlo e di non sagrificare la sua vita ad un ricordo,
ma il farlo era al disopra delle proprie forze. Finalmente si decise
a scrivere al signor Valenti. Fu la signora Valenti che rispose,
dicendogli, molto duramente, che il suo dovere di uomo onesto era di
togliere ogni illusione ad Elisa, per guarirla dell’“assurda follia„
e della ostinazione nella quale persisteva e ch’egli non doveva più
indugiare. Egli fece quanto gli si chiedeva, con la morte nell’anima, e
continuò a lavorare come un sonnambulo.

Poco dopo, lady Harris, vedova d’un generale inglese, ucciso in una
delle rivoluzioni indiane, venne a dimorare presso gli Orlandi che
la conoscevano da un pezzo. Bellissima, originale assai, e, a quanto
dicevasi, molto ricca, suo marito avendole lasciato una grossa fortuna,
parve sulle prime accasciata dal dolore; ma presto si consolò, e mostrò
a Giulio una così marcata simpatia che tutti ne parlarono. Doveva
stare tre settimane in casa Orlandi; vi restò sei mesi, e partì con
tanto rimpianto, che era facile vedere che non avrebbe domandato di
meglio che di rimanervi sempre. Sulle prime Giulio eccitò l’invidia;
poi si finì col ridere di lui. Nella famiglia tutti si sforzarono,
in tutti i modi possibili, a persuaderlo di sposare la bella vedova.
Come rifiutare la felicità accompagnata da una sì grande fortuna?
Qual colpo di sorte inatteso! Egli però rimase fermo; nulla potè farlo
piegare. Senza che si giungesse mai a sapere in qual modo, la signora
Valenti seppe quanto accadeva, e raccontando le cose a suo capriccio,
cominciò col dire che Giulio era l’amante d’una inglese eccentrica, la
quale dimorava nella casa stessa dello zio di lui. Lo ripeteva, lo si
ricorda, a sua figlia, da mattina a sera, e finì col dare la notizia
positiva che Giulio aveva sposato la “bella avventuriera„ come ella si
permetteva di chiamarla. Poi scrisse a Giulio dicendogli che l’ultima
sua lettera non avendo bastato a vincer la pazza tenacità di Elisa,
lei le aveva dato la notizia del matrimonio di lui, consigliandogli
d’altronde di farlo se non era già fatto, e pregandolo in tutti i casi,
di annunciarlo lui stesso ad Elisa; “poichè„ diceva “è il solo mezzo
di deciderla a dimenticarvi ed a maritarsi, com’è suo dovere„. Giulio,
disperato, trovò tuttavia che aveva ragione, e senza nulla affermare,
non negò, e lasciò credere a Elisa d’essersi ammogliato.

— Il mio furbo d’un nipote, — continuò il signor Orlandi, — non volendo
sentirsi perennemente rimproverare la sua fedeltà ad una promessa
dalla quale lei, signora, lo aveva sciolto, e che non poteva sperare
di realizzare mai più oppose una sola ragione a tutte le nostre
preghiere, dicendo ch’era troppo orgoglioso per sposare una donna
tanto ricca quanto lo era lady Harris. Non disse la verità che a me
solo, assicurandomi che non prenderebbe mai moglie, che tutto gli era
indifferente dal momento che egli aveva perduto lei, che non amerebbe
mai altri che lei, e che non aspettava più nulla dalla vita. Aggiunse
che l’idea del suicidio non gli era mai venuta, solo perchè non credeva
teoricamente che l’uomo abbia il diritto di por fine alla propria
esistenza, e che, dovendo vivere, continuerebbe a lavorare senza
lagnarsi.... ma ch’era tutto quanto poteva fare per me.

Intanto che il vecchio signore parlava, Elisa lo ascoltava avidamente,
tenendo però la testa rivolta contro alla luce per nascondere
l’emozione che provava. Durante un silenzio, e avendo ritrovato il
suo potere su sè stessa, si voltò, e attraverso i vetri chiusi, vide
il giardino, gli alberi ancora tutti bagnati e l’orizzonte che si
rischiarava. Guardò i viali, la lunga balaustra del terrazzo, le
macchie dei fiori, e le sembrò non riconoscere più quel luogo tanto
famigliare a’ suoi occhi.

— Quando la notizia del di lei matrimonio col marchese d’Astorre ne
giunse, osservai bene mio nipote; compresi ch’era un colpo terribile
per lui, benchè avesse rinunciato ad ogni speranza. Si padroneggiò,
tuttavia, e dopo pochi giorni, non mi sembrò più triste che al solito.
Mi disse anche che approvava lei per la decisione presa, e che faceva
i voti più sinceri perchè ai vantaggi d’una così bella posizione si
unisse la felicità. Lasciammo l’India sul finire dell’anno scorso. Ho
ceduto il mio stabilimento a mio figlio maggiore e mi sono stabilito
a Londra, dove ho una casa di banca. Giulio, che rimarrà con me, ne
sarà il direttore capo, ed io vivrò pressochè ritirato dalli affari. Ho
lavorato abbastanza per conto mio.

— E lei rimarrà ancora qualche tempo a Firenze? 

— Partiamo fra tre o quattro giorni. Non ho più nulla che mi vi
trattenga. Ho visto i miei corrispondenti, ho stretto la mano a pochi
vecchi amici, e giacchè lei ha avuto la bontà di lasciarmi tutto
dire, quando mi accomiaterò, signora marchesa, la mia missione sarà
terminata; poichè, — aggiunse abbassando un poco la voce, — è _lui_ che
mi ha pregato di vederla e di parlarle.

Elisa ebbe una lieve scossa. 

— Ed ora.... ciò che mi rimane da dire è il più difficile. 

Esitava e sembrava più imbarazzato che mai. 

Elisa lo guardava. Non poteva più considerare quell’uomo come un
estraneo; egli le ispirava la confidenza che ispira un vecchio amico; e
sentì ch’ella doveva parlare liberamente. Per di più, colpita da quanto
aveva udito, riuscendo solo con uno sforzo violento e continuo a non
mostrare il tumulto che quelle brusche rivelazioni suscitavano in lei,
e il disordine de’ suoi sentimenti, voleva però saper tutto; bisognava
dunque incoraggiarlo.

— Scusi il mio turbamento. Lei ha evocato dinanzi a me tutti i ricordi
della mia vita, tutto un passato che non ho mai posto in oblìo, che
non dimenticherò mai, ma che è chiuso in fondo al mio cuore e del quale
credevo di non dover mai più sentire a parlare.... ancora meno parlare
io stessa. Capirà facilmente a che punto ciò mi riesce difficile.
Inoltre, lei mi ha ora svelato cose che ignoravo, ed è assai naturale
che tutto ciò mi turbi profondamente. Nulla può cambiare nella mia
vita, signor Orlandi, nè nei miei sentimenti, e le scoperte dolorose
che potrei fare circa le circostanze che mi guidarono allora, possono
commuovermi, ma non possono avere influenza alcuna su di me. Non
saranno, anzi, che inutilmente penosi. Non importa, bisogna che io
sappia tutto.

Ella si fermò un istante, poi soggiunse, stupita lei stessa di poter
pronunciare tali parole con tanta calma:

— Lei mi ha svelato tutto quanto io avrei dovuto ignorare per sempre:
che sono stata ingannata.... e ingannata da mia madre! Forse ha creduto
far bene, mia madre, e gli altri hanno creduto di compire un dovere,
aiutandola a persuadermi di quella menzogna. Può imaginare a che punto
mi turba tutto ciò che ella mi ha raccontato d’improvviso, al momento
che non mi vi aspettavo affatto, dopo tanto tempo che mi sforzo a non
pensare al passato. Ma ora esigo che lei mi dica tutto ciò che mi deve
dire. È necessario. Vede che le parlo con tutta sincerità, dandole
l’esempio. La nostra conversazione, signor Orlandi, è eccezionalissima.
Ma adesso sembra anche a me di conoscerla da un pezzo. Parli dunque
senza paura.

— Grazie, marchesa; lei mi rende il cómpito meno difficile, e per
mostrarle che obbedisco mi permetterò di indirizzarle una domanda assai
indiscreta. Mi dica.... mi dica se è realmente felice? Scusi, so che
lo è, tutti lo dicono e tutto lo prova. Ma mi piacerebbe sentirlo dalla
sua propria bocca.

— Sì, sono felice; felice quanto è possibile di esserlo. 

— N’ero certo; e son ben contento di sentirmelo confermare da lei.
È anche troppo che vi sia un solo infelice. Ma vi sono di quelli che
sono nati per esser tristi; si direbbe che ciò li diverte. Mio nipote
è di costoro. L’amo quanto i miei figli, lei lo sa; ma a quel punto
di vista, è un idiota. È quasi ricco adesso, e siccome lavora sempre
(credo che sarebbe morto senza di ciò) lo sarà ancora di più. Ma non
vivrà mai che nel passato. Ho sperato a lungo un cambiamento; adesso
non spero più nulla. Forse che un nuovo soggiorno, a Londra, gli farà
bene; ecco tutto. Ora, se ha voluto venire a Firenze, è unicamente
perchè non cessa mai dal pensare a lei. Già, nei primi tempi del suo
matrimonio, aveva trovato modo di avere sue nuove e perfino delle
informazioni sul marchese. Lei mi permette di dir tutto, non è vero!

— Sì, glielo ripeto. 

— Ebbene, gli avevano detto molto male del marchese d’Astorre. Per
molto tempo egli l’ha creduta infelice, signora. Più tardi ha saputo la
verità. Gli è stato provato che il di lei matrimonio era stato, d’ambo
i lati, un matrimonio d’amore, e che se suo marito aveva forse avuto
qualche torto sul principio, si conduceva ora in un modo esemplare; e
che lei lo ama, e che, veramente, ella ha vinto il primo premio nella
lotteria della vita, avendo tutto: la fortuna, gli onori e la vera
felicità per di più. Marchesa, non si sa quanta bontà e abnegazione
contiene il cuore di Giulio!... È stato lieto di scoprire tutto ciò,
poichè, dal giorno in cui l’ha irrevocabilmente perduta, non ha mai
augurato altro che la sua felicità. Si è assicurato a Firenze della
verità di quanto gli era stato detto; ha veduto il marchese per le vie,
ed ha capito tutto. Ciò che già sapeva gli è stato confermato, e in
fondo è per questo solo motivo che ha voluto venire.... Ma non proprio
solo per questo.... Vi era anche un altro desiderio che lo spingeva:
quello di rivederla una volta.

— A che gioverebbe? — disse tristamente Elisa. 

— Mi lasci finire. Voleva vederla, lo voleva assolutamente. Sperava
almeno di scorgerla, di poterla guardare da lontano senza che lei lo
sapesse, al passeggio, in teatro. Gli fu detto che lei si trovava in
campagna per un pezzo. E allora ha pregato me di riuscire a venir
qui, a farmi presentare a lei, e insomma di ottenere il colloquio
confidenziale che nella sua bontà ora mi accorda. Ha voluto che almeno
io la vedessi, e sentissi dalla sua propria bocca che lei.... che lei
è felice. Mi ha supplicato di tutto osservare, di descrivergli la villa
da lei abitata, di rammentarmi le minime sue parole.

Elisa accennò di voler parlare, ma si fermò. 

— Non è ancora tutto, — continuò il signor Orlandi. — Egli mi ha
incaricato di rivelarle finalmente la verità sul passato. L’ho fatto.
Mi ha detto di esprimerle i voti sinceri e ferventi che sempre le
ha inviati col pensiero.... Di più, signora marchesa, mi ha fatto
promettere di dirle anche che la sua vita tutta intiera le appartiene,
ch’egli dipende da lei, e che vi obbedirebbe in tutto.

— No, non posso ammettere ciò!... E in che cosa mi vuole obbedire? 

— Nel decidere ciò che deve fare. Deve restare o deve partire? 

— Ma lei m’ha detto già che la decisione di suo nipote è presa di
ritornare a Londra.

— Egli vi è dispostissimo; ma vuole che sia lei a decidere. Senta;
io sono ben lontano dalle idee romantiche; basta guardarmi per
esserne convinto. Ma lo assicuro che in fatto di abnegazione io credo
mio nipote capace di tutto. Vede, quel ragazzo lì è il sagrificio
personificato. La sua è una natura eccezionale, e dopo quanto fece,
si può fidarsi di lui completamente. Mi ha dunque detto, quel povero
Giulio, che avendo ben osservato le cose come si trovano nelle
circostanze attuali, vi sono per lui due strade ben distinte da
prendere: l’una, di allontanarsi del tutto e di accontentarsi di
vigilare su di lei da lontano; l’altra, di rimanere a Firenze, e di
diventare semplicemente e nobilmente suo amico. Se lei crede che la
presenza di lui possa esserle utile in un modo qualunque, se la sincera
amicizia di lui, offerta sinceramente e senza sottintesi, può non
esserle disaggradevole, egli resterà. Non le parlerà mai del passato;
egli si accontenterà di un posto fra gli amici poco numerosi che la
circondano, felice se potrà talvolta renderle il più piccolo servizio.
Ma egli pretende che sta a lei e non a lui il giudicare se un tale
progetto è chimerico o possibile. Se lei decide che val meglio non
vederlo e che deve partire, egli le obbedirà ciecamente.

Il signor Orlandi fu interrotto da un servitore che portava una
lettera. Era un biglietto di Massimo, che annunciava con grande suo
rincrescimento essere costretto a rimanere ancora a Firenze fino al
dopo domani. Elisa, ora, fu quasi contenta di pensare che, dopo partito
il signor Orlandi, avrebbe ancora delle lunghe ore di solitudine
davanti a lei. Si alzò, uscì un istante e ritornò dopo due minuti.

Sedette, seria, calma e un poco pallida. 

— Scusi, — disse finalmente. — Non m’aspettavo certo a quanto ella m’ha
detto ora. È dunque _lui_ che lo ha pregato di venire?

— Sì signora. Ma, la supplico, non risponda che dopo d’aver ben
riflettuto.

— Ho riflettuto. Egli deve partire. 

— È una decisione irrevocabile? 

— Assolutamente. Vediamo; lei stesso, signor Orlandi, non trova forse
che ho ragione? Francamente. Sì, non è vero?

Egli soggiunse, dopo un istante: 

— Che gli devo dire? 

— Le dirà che sono profondamente commossa da tutto ciò che ho saputo
adesso, e riconoscente verso di lui. E, s’egli mi obbedisce, come lo ha
promesso a lei, s’egll parte, come lo esigo.... in questo caso gli dirà
anche che dal canto mio non ho mai scordato il passato, ma ch’è sepolto
in fondo a me.

Si fermò, con gli occhi bassi. 

— Egli comprenderà che ho ragione, che deve partire. Non credo che dopo
d’esser stati, per tanto tempo... promessi l’uno all’altra, si possa
diventare buoni amici. È un sogno falso e impossibile. Poichè, glielo
dica bene, io sono perfettamente felice. Amo mio marito, al quale devo
tutto, e tutto il mio avvenire appartiene a lui. Dica anche a suo
nipote che mi affligge di saperlo tanto triste sempre, e che faccio
dal fondo del cuore, i migliori voti perchè trovi ancora un po’ di
felicità. Vorrei che non mi sacrificasse tutta la sua vita. Non debbo
forse parlare così, e non ho ragione?

— A chi lo dice, signora marchesa! 

Chiacchierarono ancora per qualche tempo. Il sole era sbucato
fuori dalle nubi e mandava la sua luce nella sala, posandosi anche
sui capelli bianchi e sulla buona grossa faccia dell’Orlandi, e
rischiarando il pallore d’Elisa; ma il suo corpo che rabbrividiva, non
si riscaldava sotto i raggi che rallegravano le tende rosso-scure delle
finestre, e le belle pitture della vôlta.

Elisa accompagnò il suo visitatore fino al giardino, dove la sua
carrozza lo aspettava da un pezzo. Aveva rifiutato di rimanere a
pranzo, rispondendo: “Giulio mi aspetta.„ Strinse calorosamente ed a
più riprese la mano alla marchesa, e partì.

Ella seguì con lo sguardo la carrozza fino allo svoltare del viale,
rispose un’ultima volta con un cenno del capo al saluto del signor
Orlandi, e rientrò in casa. Sedette di nuovo al suo solito posto, con
lo sguardo fisso talora al giardino, festoso sotto gli ultimi raggi del
sole, talora inchiodato alla poltrona ch’era stata avvicinata alla sua.
Vi restò immobile, lungamente, col corpo appoggiato all’indietro e la
testa china, immersa profondamente nel suoi pensieri.

Finalmente si alzò, e passeggiò lentamente nella sala in lungo e in
largo. Dopo d’averlo fatto una diecina di volte, si fermò dinanzi
al suo piccolo scrittoio, e là, gettando un’occhiata alla lettera
incominciata quella mattina, il suo sguardo s’inchiodò su queste
parole: 8 aprile.


IV. 

Elisa commise un errore. Quando suo marito ritornò, non gli soffiò
verbo della visita avuta. Non che avesse formato il progetto di
celargliela; tutt’altro, aveva al contrario deciso di parlarne, ma
Massimo giunse di buonissimo umore e raccontando una quantità di
storielle, di modo che durante tutto il giorno, ella cercò invano
un’occasione per entrare in argomento. Dopo un silenzio di tutta una
giornata le parve ancor più difficile il farlo, non sapendo quale scusa
dare per aver tanto aspettato. E se ne avesse parlato di sfuggita
e come senza attaccarvi importanza alcuna — l’attenzione di Massimo
una volta risvegliata — non sarebbe forse costretta a rispondere a
varie domande imbarazzanti? Continuò dunque a tacere, mentre se lo
rimproverava, finchè sentì l’impossibilità assoluta di parlare, e finì
col volersi convincere ch’era meglio così.

Eppure ella soffriva intanto. Nulla era cambiato in apparenza, ma
ciò non bastava; essa avrebbe voluto essere ancora la stessa in
realtà, interiormente; e invece il suo cómpito, che stava diventando
quasi facile prima della visita tanto inattesa del signor Orlandi,
le pareva ora al di sopra delle sue forze, benchè talora tentasse di
negarlo. Alli antichi pensieri dolorosi si aggiungeva quel rimpianto
specialissimo e terribile che forma il fondo innominato di quasi tutte
le vite infrante, il rimpianto _di ciò che avrebbe potuto essere_.
L’idea di rivedere sua madre la faceva tremare. Per mostrarsi sempre la
stessa in faccia a suo marito bisognava ora spesso recitare un’atroce
commedia. Faceva sforzi inauditi per dimenticare, per non sapere
quello che sapeva, per riacquistare la pace ottenuta prima con tanta
perseveranza.

E bisognava celare le pene mai confessate, recitare la parte
sorridendo, e dissimulando sempre, poichè la sua sola consolazione
stava nell’idea che Massimo non ne sospettava nulla.

Ma s’ingannava. A Massimo era nota la visita dello zio; egli aveva
tutto compreso e indovinato. Soffriva lui pure, e peggio ancora,
dubitava. Una sera, al teatro, Giulio Bardi gli era stato mostrato,
e durante tutto lo spettacolo, non aveva fatto altro che osservarlo.
Aveva dovuto ammirare un volto espressivo, impallidito dalle sofferenze
e dall’ostinato lavoro, delli occhi, una fronte, dei lineamenti di una
bellezza forse inapprezzabile dal volgo, ma che certo una donna non
poteva dimenticare; qualcosa di fermo e di doloroso nelle sinuosità
della bocca, appena nascosta dai baffi leggieri, un mento ben disegnato
e un po’ forte, segno di volontà tenace. Vide un uomo che dai piedi
alla testa differiva da lui quanto è possibile imaginarlo, un uomo che
a prima vista gelosamente stimava, ma che gli sarebbe stato impossibile
di amare, anche se avesse ignorato il suo nome. Sentendo parlare della
fortuna che Bardi aveva lentamente guadagnato e della considerazione di
cui godeva, vedendo la tristezza rassegnata del suo sguardo, di cui lui
solo, Massimo, fra tutta quella gente, sapeva la causa, egli indovinò
da cima a fondo tutta la coraggiosa vita di quell’uomo. Lui, il gran
signore scettico, che dalla sua facile filosofia era stato soltanto
spinto al piacere, lui il gaudente intelligentissimo, d’uno spirito
tanto fino e d’una coltura tanto raffinata, si sentì — ora che un
amore vero aveva illuminato l’anima sua — si sentì per la prima volta
umiliato nella sua eleganza, e pieno d’invidia per quel lavoratore,
invidiandogli la dura vita oscuramente consacrata al dovere, i dolori
sani, i sentimenti inalterabili, la umile grandezza. Per di più,
l’orribile gelosia del passato — sconosciuta fino a quell’istante —
si scatenò ad un tratto ferocemente in tutto l’esser suo, e sentì che
sarebbe stato orgoglioso di stringere la mano di quell’uomo, e felice
di ucciderlo.

Egli aveva indovinato, o press’a poco, tutto quanto poteva significare
la visita dell’Orlandi a sua moglie. E la sua allegria, il suo buon
umore al ritorno, non erano stati che un tranello nel quale Elisa
si era lasciata cadere. D’ora in ora egli aveva febbrilmente atteso
ch’ella gli parlasse della visita ricevuta, ed il di lei silenzio
gli parve colpevole e confermò i suoi sospetti. La gelosia imparte
a chiunque una imaginazione sfrenata; nel cervello di Massimo essa
risvegliò delle idee talmente eccessive, che a momenti si credeva quasi
pazzo. Egli spiò scioccamente sua moglie con l’astuzia di un Vidocq
sorvegliante l’autore di un delitto. Ogni attitudine, ogni parola
d’Elisa — che stava solo per metà in guardia — erano per lui oggetto di
commento e d’analisi.

Codesto paradiso della _Villa del Giglio_, dove il scenario della
felicità sussisteva ognora, dove nulla era cambiato, dove la vita
rimaneva la stessa, diventò un inferno. Vi si recitava ad ogni ora una
terribile commedia a due personaggi, sotto la quale covava un dramma.

Giunta l’estate andarono insieme a Viareggio, poichè era stata
consigliata l’aria di mare a Massimo. Presero una casa assai comoda
sulla spiaggia, ma ad una certa distanza dalla piccola ed affollata
città. Là, Massimo continuò ad essere amabile e di eccellente umore, in
apparenza, mentre spiava Elisa ad ogni momento. S’egli avesse potuto
vedersi, non si sarebbe riconosciuto. Fece una corsa a Firenze, per
sapere se Bardi era partito, e gli fu detto ch’era a Londra da un
pezzo. Ciò non lo tranquillizzò che per metà, e perduto ogni pudore,
prese l’abitudine di leggere le lettere indirizzate a sua moglie.

Tre settimane trascorsero senza il minimo avvenimento. Si conduceva
la vita la più tranquilla; e lady Thompson che venne un giorno da
Livorno a vedere i d’Astorre, dichiarò loro che bisognava esser pazzi
per preferire quella spiaggia antipatica al bel paesaggio affollato
dell’Ardenza, dove ci si distrae tanto bene dalla vita invernale,
vedendo tutti i giorni le stesse persone che si vedono a Firenze, e
compiendo esattamente le stesse evoluzioni alle ore stesse.

Quali lunghe ore terribili Massimo passava solo nella sua camera,
seduto a un tavolino vicino alla finestra, fingendo d’essere occupato
a scrivere, con lo sguardo smarrito sulla immensità del mare! Sentendo
spesso un gran bisogno di solitudine, aveva inventato un lavoro storico
— imaginario — al quale era cosa intesa ch’egli si dedicava quando
stava ritirato nel suo quartiere. Eppure non aveva scoperto nulla;
ma l’atteggiamento d’Elisa era tale da non dissipare i suoi dubbi, e
si tormentava senza posa. Cercava sempre, ma invano, di dimostrare a
sè stesso la stoltezza e la malvagità de’ suoi sospetti. Come alcuni
piccoli fatti, che certo sarebbero sembrati insignificanti a molti
altri, erano bastati a distruggere quella felicità di cui aveva
cominciato a godere, e che non aveva apprezzato quanto lo faceva
adesso mentre crudelmente dubitava di tutto! E quanto rimpiangeva la
noncuranza di quella felicità sparita!

Aveva saputo che Giulio Bardi non era mai stato ammogliato. Elisa era
stata vittima di una menzogna, o aveva voluto ingannarlo, lui, Massimo?
Poi, pensando alle condizioni del suo proprio matrimonio siffattamente
eccezionale, vedeva quanto fosse assurda una tale idea. Ma appena, per
caso, aveva scoperto che Bardi era celibe, appena lo aveva veduto, ed
aveva saputo la visita del signor Orlandi ad Elisa, aveva indovinato
tutto il resto: la sublime fedeltà inutile del Bardi, la ragione
del suo arrivo a Firenze, in circa, ed il motivo della apparizione
dello zio alla _Villa del Giglio_. In teatro, il suo sguardo si era
incrociato una sola volta con quello di Giulio, ma quanto c’era in
quella rapida occhiata!

Talvolta anche, Massimo passeggiava solitario. Un giorno che seguiva
un sentiero attraversante i campi, vide dinanzi a sè, a una grande
distanza, un uomo la cui apparenza lo fece impallidire, perchè credette
riconoscere colui al quale pensava troppo spesso. Ad onta della sua
vista eccellente non poteva esser certo di nulla. Affrettò il passo e
vide l’individuo entrare in una cascina di contadini, circondata da
un campicello, alla quale il sentiero conduceva. Passò davanti alla
casa completamente chiusa, ebbe la tentazione di entrarvi, ma riflesse
che sarebbe forse imprudente, e ch’era meglio ritornare all’indomani.
Ritornò infatti, e ritornò tutti i giorni durante una settimana senza
poter scoprire nulla, non osando credere alla testimonianza incerta
dei suoi occhi, ma spaventato dai presentimenti del suo cuore. Durante
questo tempo egli osservava Elisa sempre più, e credeva intravedere
in lei un cambiamento più visibile ognora, un imbarazzo angoscioso,
ch’ella studiava invano di celare. S’imaginava di scorgerla scuotersi a
un rumore qualunque o impallidire senza motivo. Ostentò di star fuori
a lungo, di andare come alla ricerca di qualcosa per i campi, e gli
sembrava ch’ella si turbasse, quando le raccontava i suoi passeggi. E
lui, eccitato dall’orribile desiderio di sapere la verità, qualunque
fosse, soffriva senza quasi averne più coscienza, e si mostrava
calmissimo.

Finalmente, avendo la febbre, non potendo più sopportare un tal dubbio,
decise che scoprirebbe tutto. Stanco di passare ore ed ore in ricerche
infruttuose, andò ad appiattarsi vicino alla casa sospetta, nascosto
da un gruppo d’alberi, e vi stette una intera giornata. Quando venne
la sera, senza che avesse veduto cosa alcuna, si avvicinò sulla punta
de’ piedi e penetrando nel recinto come un ladro, scavalcando la siepe,
andò a guardare attraverso ai vetri. Vide una famiglia di contadini;
stavano seduti intorno alla tavola, aspettando la cena che una vecchia
finiva di apparecchiare. A momenti l’uomo antico risorgeva in lui, e
rideva di sè stesso, ma molto amaramente. Restò lì a lungo, con una
pazienza ostinata, ma dovette finalmente abbandonare il suo posto di
osservazione senza aver nulla scoperto.

Tre giorni dopo, all’istante in cui meno se lo aspettava, e quando
aveva rinunciato a sapere la verità, vide Giulio Bardi in persona,
ch’entrava in un piccolo albergo vicino alla stazione. Questa volta
nessun dubbio era possibile. Massimo lo vide senza esser visto; ebbe
un sussulto interno come se avesse ricevuto una palla nel petto. Rimase
durante alcuni minuti pallido ed immobile, senza pensiero. Tutte le sue
idee erano smarrite; aveva solo coscienza di una irreparabile sventura.
Trovò, per caso, Elisa in numerosa compagnia; delle visite da Livorno,
la marchesa Celori con tutto il suo codazzo. Massimo seppe mostrarsi
cortese, e nessuno si accorse di nulla. Chiacchierò, e fece dello
spirito.

Ma quale tumulto di insopportabili pensieri lo assalse poco dopo,
ritrovandosi solo e rientrato in pieno possesso di sè! Dunque Bardi
era forse sempre stato nascosto lì vicino, mentre lo si credeva a
Londra! Era dunque già ritornato, oppure non era mai partito, e codesta
falsa partenza era stata imaginata per stornare i sospetti. E com’era
possibile supporre ch’Elisa non lo sapesse? che tra di loro non vi
fosse complicità? Corrispondevano dunque? Con quali mezzi?

Tuttavia, riflettendo, gli pareva impossibile che avessero potuto
vedersi durante quel tempo. Continuò a sorvegliare tutto; qualche
giorno dopo credette indovinare che Bardi era partito, ma senza averne
certezza alcuna. Ed ora che i suoi dubbi si erano avverati, affranto,
gli fu tuttavia più facile il dissimulare, poichè egli era un uomo
d’azione, ed ora si poteva agire; vi era un punto di partenza. Si
stupiva lui stesso della propria calma in faccia ad Elisa, e certo ella
non lo poteva credere in guardia.

Era stato stabilito, fino dal principio del loro soggiorno in
Viareggio, ch’Elisa, prima di tornarsene a casa, sarebbe andata a fare
finalmente una visita ad una sua amica d’infanzia, che non aveva mai
riveduto, promessa da moltissimo tempo. Codesta amica, figlia di un
fabbricatore di porcellane abbastanza ricco, aveva sposato per amore
un povero impiegatuccio per nome Vegezzi, il quale, costantemente
maltrattato dalla sorte ed infelice, aveva finito con l’accettare un
misero posto di segretario, senza nessuna speranza di promozione nella
piccola città di G..., quasi un villaggio, dove sarebbe probabilmente
costretto a rimanere sempre. La signora Vegezzi scriveva di tratto
in tratto alla marchesa d’Astorre, la quale, naturalmente, non aveva
voluto dimenticarla. Ma ogni anno Elisa prometteva alla umile amica
d’andare a farle una visita, a lei ed a’ suoi figli (ne aveva sette)
e sempre qualche ostacolo sorgeva all’ultimo momento. Questa volta,
appena giunta a Viareggio, Elisa aveva dichiarato a Massimo che non
ritornerebbe a Firenze senza essere andata a G.... e Massimo le aveva
risposto:

— Hai ragione; non devi più mancare, assolutamente. Ma mi scuserai se
non ti accompagnerò. Confesso che, proprio, non mi divertirebbe punto.

Ma alla vigilia della partenza, Massimo disse d’improvviso a colazione: 

— Dopo tutto, ho pensato bene.... È meglio che ti accompagni a G.... 

Guardava fisso sua moglie, ciò dicendo, e credette scorgere in lei un
lieve turbamento, subito represso.

— Sì, è meglio. Sarai forse costretta di passarvi la notte.... 

— È assai probabile, ma che monta? La cameriera mi accompagna, e basta.
Sarebbe un troppo grande sacrificio per te il venire, e non lo posso
permettere. Ti annoieresti orribilmente. E cosa fareste tutto il giorno
mentre io starei a cicalare con la mia amica?

— Eppure credo che sarebbe meglio. 

— Ma no, ti dico; dopo mi rimprovereresti per certo di averti lasciato
venire....

— Ebbene, sarà come vuoi. 

Un terribile sospetto gli aveva attraversato la mente, e tutto quanto
osservò d’Elisa non abbandonandola mai in quel giorno, non fece che
confermare la sua idea. E allora il suo piano fu subito tracciato.

Al momento di partire egli chiese a Elisa se la signora Vegezzi era
informata del suo arrivo.

— No, — rispose, — le voglio fare una sorpresa. D’altronde, la vita
di quella poveretta è talmente monotona, che si è sempre sicuri di
trovarla. Me lo ha scritto tante volte!

Massimo accompagnò sua moglie alla stazione. Le disse che partiva
un’ora dopo per Livorno, dove si fermerebbe fino a sera, e prenderebbe
poi l’ultimo treno per Firenze.

Andò infatti a Livorno, ma non vi rimase un minuto. Ebbe appena il
tempo di saltare in un vagone di un treno che gli fu indicato dietro
sua domanda, senza nemmeno prendere il biglietto, e un’ora e mezza
dopo sua moglie, scese alla piccola stazione di G.... La giornata era
nebbiosa e triste. Massimo rialzò il bavero del leggiero soprabito
che portava, e andò diritto all’albergo. Non si poteva sbagliare,
essendovene uno solo di possibile: l’_Albergo della Stella_.

V’era molta gente, essendo giorno di mercato, e fu data a Massimo una
camera abbastanza pulita al secondo piano, dove salì rapidamente. Si
mise alla finestra e guardò per qualche tempo la folla variopinta,
composta di contadini che spingevano le loro bestie, di mercanti
vagabondi seduti vicino alla loro merce in mostra, di campagnuole le
cui croci d’oro ed i grossi pendenti pesantemente lavorati brillavano
sulle vesti a grandi fiorami. Parlando tutti ad una volta, gridando
e gesticolando, tutta codesta gente si pigiava nella via angusta e
tortuosa. Una pioggierella cominciava a cadere, e sopra quella platea
di cappelli di feltro grigi o neri s’aprivano qua e là certi enormi
ombrelli rossi. A destra, la via svoltava bruscamente; a sinistra
s’apriva una piazzetta dove risplendeva l’insegna dorata di un caffè
elegante, che doveva essere evidentemente il caffè, poichè varii
ufficiali stavano seduti ai tavolini che invadevano il marciapiede.

Massimo guardava tutto ciò, come in un sogno, e già chiedeva a sè
stesso cosa fosse venuto a fare. Aveva ceduto ad un irresistibile
impulso; ma come un tal fatto mostrava bene il mutamento profondo
successo in lui! Rammentava i suoi motteggi d’una volta contro
altri che avevano compite tali imprese, e si ricordava le sue teorie
d’indifferenza, e quanto si credeva allora sicuro di restar sempre lo
stesso! E rideva amaramente.

Si bussò all’uscio; era il cameriere. 

— Vengo a chiedere a che ora il signor marchese desidera pranzare? 

Stupito d’essere conosciuto. Massimo guardò il cameriere, ch’era
proprio il cameriere d’albergo di provincia, alto, svelto, servile ed
impertinente ad un tempo, sporco e pieno di pretesa nel vestire.

— Mi conosci? — domandò. 

— Perfettamente, — rispose l’altro. E continuò con sicurezza: — Il
signore è il marchese Ferraris. Mio fratello maggiore ha servito,
anticamente, il vecchio marchese a Parma. Mi ricordo ancora le feste
magnifiche ch’egli dava. Ma il signore non c’era mai; preferiva
divertirsi a Milano....

— Ah! davvero! m’hai riconosciuto subito.... — disse Massimo, che
felice d’esser preso per un altro, si guardò bene dal disingannare il
cameriere. — Ebbene, mi porterai da pranzo fra un’ora, qui.

— Il signore ha ragione. Abbasso c’è troppa gente oggi. Conta partire
col treno di questa sera?

— Non so. Può darsi. 

Massimo era sorpreso lui stesso della sua propria calma. 

Pranzò, assaggiando macchinalmente un po’ degli otto piatti che gli
vennero serviti e facendo discorrere il cameriere, il quale subito lo
mise al corrente di tutti i pettegolezzi della piccola città.

— Conosci il signor Vegezzi? 

— Credo bene che lo conosco. Ma non sta più qui. 

Massimo si sentì impallidire. 

— Da quando? 

— Ma.... da circa un mese. 

— Ed è partito.... con la famiglia? 

— Sì, signor marchese, con tutta la famiglia, da un mese e più. Lei è
forse venuto per parlargli?

— No; ma l’ho conosciuto altre volte. E avete dunque gran concorso di
gente, oggi?

— Come sempre al martedì. Ma oggi non abbiamo solamente dei mercanti di
buoi. C’è una duchessa ch’è pure arrivata questa mattina e che ha preso
il numero 7.

— Una vera duchessa? 

— Per Dio! Si vede subito. Aveva un sacchetto in mano, con la cifra E.
A. in oro, e la corona. Una bellissima donna! Ha insieme la cameriera.

D’un tratto Massimo ebbe un vago terrore di saperne troppo, e cambiò
discorso. Ma presto il cameriere ricominciò a parlare della “duchessa„;
raccontò che appena giunta, era uscita, ma per ritornare presto, e
che dopo non aveva più messo piede fuori dalla camera. Che poi aveva
chiesto a che ora partisse il treno per Prato, e che avendo saputo che
non ve n’era più fino all’indomani alle sei e mezzo, aveva comandato
che la si risvegliasse alle cinque. Era dal cameriere del primo piano
ch’egli aveva avuto tutti questi particolari.

Massimo rimase assai perplesso di codesta partenza per Prato. 

Quando, finito di pranzare, rimase solo, camminò a lungo intorno alla
vasta camera, grande e quasi senza mobili, fumando e riflettendo.

— In fondo, — pensava di nuovo, — che son venuto a fare? È assurdo.
Come ho potuto immaginare.... e accorrere qui, per un semplice dubbio
senza la minima prova, mentre anzi al contrario, riflettendo, è quasi
impossibile.... Eppure, questi Vegezzi che non vi sono più!... Come
poteva lei ignorarlo? Ma fa lo stesso, è assurdo, ed io sono pazzo.
E poi, se avessi anche ragione ne’ miei sospetti, che cosa posso
scoprire, ed in qual modo? Bella situazione! Sono stupido. Ho la
febbre. Come avrei riso sul muso, cinque anni fa, a chi m’avesse detto
che verrei incognito in una stanza d’albergo per far la spia alla mia
propria moglie, come un marito da teatro.

Si riaffacciò alla finestra: nella via quasi deserta adesso, non
pioveva più, ed il cielo rischiarato s’imporporava sotto gli ultimi
raggi del sole che tramontava.

Una ragazza bella assai si appoggiò al balcone della casa in faccia.
La guardò macchinalmente. Lei si ritirò; allora egli guardò ancora la
strada. Vide un forestiero che parlava, sulla porta, col cameriere. Il
forestiero fece un gesto, e Massimo riconobbe Giulio Bardi. Due minuti
dopo lo vide entrare nell’albergo.

Un’ora più tardi, a notte fatta, Massimo andò a girare cautamente
per i corridoi. Era il vero albergo italiano all’antica, con qualche
timida pretesa di comodi moderni. Il cortile era zeppo di carrozze di
tutte le specie, di barroccini polverosi, di cavalli appena staccati,
e in mezzo a tutti codesti impedimenti stavano dei curiosi in folla;
contadini, mercanti girovaghi e borghesucci, alcuni che disputavano
tuttora il prezzo di una vendita, altri che ridevano, mentre in un
angolo scoppiava una lite fragorosa. A ciascuno dei due piani della
casa, un balcone esterno, girava tutt’all’intorno del cortile e dava
accesso alle camere, di cui si potevano leggere i numeri dal basso.
Due scale, l’una a destra, l’altra a sinistra. Abbasso c’era la sala
comune, la cui porta semiaperta lasciava passare una lunga striscia di
luce ed il rumorìo confuso delle conversazioni avvinazzate. Esattamente
al di sopra la sala da pranzo destinata ai forestieri distinti. Massimo
vi entrò e la trovò vuota. Due finestre si aprivano sopra un terrazzo
coperto che dominava da una grande altezza una vallata profonda,
che pareva un precipizio, in fondo alla quale biancheggiavano,
semi-rischiarate dalla luna velata, le pietre di un torrente a
secco. Dal lato opposto del burrone s’innalzava una lunga catena di
colline verdeggianti, rallegrate da gruppi di case e di ville che
s’intravedevano appena. A destra si stendeva la città.

Avventurandosi pei corritoi, Massimo aveva scoperto che il numero 7 si
trovava a lato della sala da pranzo, ma più elevato della metà di un
piano da alcuni gradini, come succede spesso in quel genere di case
di costruzione irregolare. Aveva resistito alle tentazioni di aprire
l’uscio e d’entrare bruscamente. Aveva prestato l’orecchio e non aveva
udito nulla. Poi aveva provato d’aprire uno delli usci delle camere
vicine, ma erano chiuse. Allora era ritornato sul terrazzo. Restò
alcuni minuti a guardare il paesaggio, appoggiato al parapetto. Una
immensa nube s’avanzava rapidamente; ben presto coprì la luna; non fu
più possibile di vedere le ondulazioni delle colline, nè il profilo
esatto della città; solo perdendosi a picco nella profondità, lo
sguardo distingueva come un nastro bianchiccio formato dal letto del
torrente. Il terrazzo coperto era appoggiato da una parte al corpo di
casa principale, dove un lungo balcone si distendeva. Dal terrazzo si
poteva quasi toccarlo. S’indovinava facilmente che la prima finestra
prospiciente su quel balcone doveva essere quella della stanza numero
7.

Massimo era pallidissimo. I dolori articolari di cui da qualche tempo
soffriva lo avevano ripreso, ed a momenti il cuore gli batteva quasi
dovesse spezzarsi, poi sembrava si dovesse arrestare. Come sempre, la
sofferenza morale si confondeva col dolore fisico. I pensieri orribili
che cozzavano nella sua mente lo spaventavano, e in mezzo ai suoi
tormenti sentiva in fondo alla coscienza come una voce schernitrice
che insultava alla sua miseria. Mille cose del passato, alcune delle
quali non avevano più il minimo rapporto con la situazione presente,
sorgevano davanti a lui; e in modo irregolare ed illogico tutta la
sua vita gli apparve innanzi alli occhi. Ed ecco dov’era giunto!
Ch’era diventata la fredda superiorità per la quale era sempre stato
padrone delle sue passioni? In qual modo aveva perduto quella cinica
indulgenza per tutte le colpe delle donne, fosse anche per quelle di
una donna amata, la quale gli avrebbe fatto altre volte considerare
la gelosia come una debolezza indegna d’un uomo conscio del proprio
merito, come una malattia antiquata, condannata al ridicolo nella
nostra società moderna? Disceso adesso al livello di coloro dei quali
si era maggiormente burlato, aveva perduto tutta la sua scettica
bontà; si sentiva brutale, capace di tutto, quasi bramoso di scandalo.
Si attaccava borghesemente a’ suoi diritti di marito e sentiva nello
stesso tempo ribollire in tutto l’essere suo le ire di un amante
ingannato. Le leggi sociali, di cui aveva spesso biasimato ridendo
la ingiusta severità, gli sembrarono molli ed insufficienti. Non si
riconosceva più.

Un sentimento affatto nuovo si mutava in dolore e lo morsicava nelle
più intime fibre — l’odio — e della forza di quest’odio misurò a qual
punto amava quella donna che certo lo ingannava. Gli parve ad un tratto
sentire il suo amore ingrandirsi come per fargli scoppiare il cuore;
amava al punto d’uccidere e di morire. Cattive passioni ignote fino
allora si destavano in lui, un spaventoso desiderio di vendetta lo
opprimeva. Poi un intenerimento s’impadroniva di lui, dei minuti nei
quali tutta la disperazione d’una vita era contenuta.

Si ricordava le differenti fasi della sua esistenza dacchè aveva
conosciuto Elisa, e sognava, considerando dove il suo bizzarro
matrimonio lo aveva condotto. Quale seducente e originale punto di
partenza, e quale volgare caduta!

Ma non dominava più sè stesso. Il sacro ricordo di sua sorella che gli
attraversò lo spirito, non valse neppur quello a calmarlo.

I pensieri calunniatori contro sua moglie che adesso lo tenevano in
loro balìa risalivano indietro fino al giorno in cui aveva incontrato
Elisa Valenti. Credendo Bardi ammogliato, era stata felice di sposarlo
lui, Massimo, invece di Gorletti; ma forse era sempre rimasta in
corrispondenza col suo antico amante. Dimenticava che ciò gli sarebbe
stato indifferente, altre volte.

Ma la sua rabbia, l’odio suo, nascondevano un terribile dolore. Non
ne aveva forse coscienza, ma domandava vendetta meno per la cosa
in sè, che nella speranza di trovarvi un qualche sollievo alla sua
insopportabile tortura. Con l’occhio fisso al balcone, pensava che
certo _lui_ doveva essere là, dietro quel muro, solo con lei. E allora
le più dolci ore della _Villa del Giglio_ gli ritornavano alla memoria,
e rammentava le lunghe sere d’estate nella gran sala silenziosa, quando
la luna delle belle notti posava l’incanto del suo bagliore sui capelli
sciolti d’Elisa.... E rammentava i suoi dubbi rinascenti e da lei
dissipati con tanta bontà.... Mentiva dunque volgarmente essa pure! Ah!
oramai non v’era più da dubitare. Ella lo ingannava, lui, a chi doveva
tutto. Perchè non aveva almeno avuto la pietà di lasciarlo fuggire
lontano, quando lo aveva voluto? Non gli restava più adesso che da
rendere il male per il male, e dopo, da sperare che la fine di codesta
brutta commedia che si chiama la vita non si facesse molto aspettare.
E il suo dolore era nobile e volgare ad un tempo; soffriva nel più
profondo dell’animo suo, e insieme — lui tanto superiore alle piccole
vanità — si sentiva, per la prima volta, ferito nel suo amor proprio.

Guardava sempre il balcone, misurava l’altezza che ne lo separava.
Evidentemente non v’era altro mezzo. Fece il giro del terrazzo; non
trovò alcuno.

Allora gettò un ultimo colpo d’occhio intorno, poi salì sul parapetto
di pietra, abbrancandosi prima con una mano, poi con l’altra, alle
sbarre del balcone superiore, si lasciò andare e fu librato nello
spazio, sull’abisso nero. Il ferro gli tagliava le dita, ma con la
tensione de’ suoi muscoli esercitati, salì lentamente. D’un tratto una
di quelle orribili fitte cui era soggetto talvolta, gli attraversò il
cuore. Ebbe un áttimo di debolezza. Ma dopo quel secondo di suprema
angoscia, s’irrigidì, e con uno sforzo violento, continuò e giunse ad
aiutarsi coi ginocchi e coi piedi. Finalmente, dopo un minuto di un
secolo, scavalcò il balcone che si stendeva innanzi a lui in tutta la
sua lunghezza. Si avvicinò alla finestra con le maggiori precauzioni.
L’idea gli era passata rapida per la mente che tutto sarebbe inutile se
le imposte erano chiuse. Non lo erano. Perfino i vetri stavano aperti.
Gl’interstizi delle persiane chiuse erano abbastanza larghi perchè si
potesse vedere tutto quanto succedeva nell’interno ed udire tutto.

Elisa, sola, con un libro in mano, seduta sopra una poltrona vicina a
un tavolino dove ardevano due candele, leggeva tranquillamente. Massimo
restò con gli occhi fissi su di lei.

In quell’istesso punto si bussò all’uscio. Elisa posò il libro, e
prestò l’orecchio. Si bussò un po’ più forte.

— Avanti! — disse lei con una voce un po’ timida. 

E Giulio Bardi entrò. 


V. 

Elisa si alzò di soprassalto, e riconoscendo Giulio al chiarore
malfermo delle candele, divenne bianca. La sua bocca si aprì come per
emettere un grido che non venne fuori, e, tutta tremante, si appoggiò
con le due mani al tavolino. Ella aveva sul viso qualcosa dello stupore
che si prova alla vista d’un fantasma.

Giulio, assai commosso, si era fermato contro l’uscio, richiudendolo
senza rumore dietro di sè. Restarono senza poter parlare. Elisa era non
solo senza parole, ma senza idee; ella non viveva che dalli occhi. Una
realtà, rassomigliante ad un sogno, l’affascinava. Balbettarono insieme
qualche parola senza comprendersi.

— Voi? Voi qui? — disse lei finalmente con la sua voce appena
ricuperata.

— Sì, sono io.... perdonate.... — ma non proseguì subito,
dimenticandosi a guardarla.

Lei tremava sempre. 

— Come siete venuto? Perchè siete qui? — ripetè con tuono esaltato. 

— Ve ne supplico, non siate tanto turbata. Permettetemi di parlarvi; è
necessario.

Elisa ricadde sulla poltrona e si nascose la testa fra le mani. 

— No, partite, non vi voglio ascoltare! Che mai possiamo dirci? 

Ella sentì le proprie mani scostate dal suo viso da quelle di Giulio,
poi se lo vide seduto in faccia e tenendo sempre una delle sue mani
nelle sue, ch’ella tentava di ritrarre. Rivide quel volto dolce e serio
che da sì lungo tempo non aveva più contemplato che nei suoi sogni, e
uno sguardo non mai scordato si sprofondò nel suo.

— Lasciatemi, — mormorò, — lasciatemi! 

Ma egli non si muoveva e riteneva sempre la mano di lei che stringeva
febbrilmente. Il suo sguardo doloroso non implorava altro che pietà.

— Se sapeste tutto ciò che ho fatto per giungere fino a voi, non
parlereste di scacciarmi.

— Come siete venuto? — ripetè lei. 

— Non lo so.... non ho tempo adesso di raccontarvelo. Scusate, —
riprese dopo una pausa e lasciando andare la mano di lei. — Bisogna
perdonarmi. Era necessario. Ho saputo ch’eravate qui (in qual modo
non preme), ch’eravate qui sola, e vi ho seguita, poichè mi riesciva
impossibile di esiliarmi come me lo avete comandato, senza vedervi
un’ultima volta. Calmatevi, ve ne supplico. Vi faccio dunque paura!...
Mio zio m’ha detto tutto ciò di cui l’avete incaricato per me. Ad
onta delle vostre buone parole, ho dapprima trovato la vostra sentenza
crudele, nel mentre stesso che vi comprendevo....

— Ebbene? Com’è che siete venuto allora? 

— È soltanto adesso, dinanzi a voi, che sento nella mia emozione
profonda, che avete veramente ragione. E vi obbedirò senza mormorare.
M’ingannavo me stesso pensando ad altro. Partirò, e non vi rivedrò
forse mai più. Vi ero già deciso, e lo sono ancora, ve lo giuro....
Ma, lo ripeto, partire senza avervi parlato una volta ancora, mi
sarebbe stato impossibile. Ecco perchè sono venuto.... Tremate?... Di
che potete temere? Ho forse neppure tentato d’andare da voi dopo che
me lo avete proibito?... Pensate: sono ritornato da Londra apposta
per vedervi, non fosse che per un istante.... in istrada.... senza
mostrarmi. Eravate in campagna. Ciò che mio zio mi ha detto, non mi
ha desolato quanto potreste crederlo. Sapere da voi stessa che siete
felice.... voi almeno! è stata quasi una consolazione per me. Avevo
fatto un ultimo sogno.... impossibile! me ne accorgo adesso, aveva
sperato poter diventare vostro amico e vedervi di tempo in tempo....
Sentendo il vostro rifiuto, ho ubbidito senza lagnarmi. Sono ripartito.
Ma un pensiero mi perseguitava, doloroso, orribile. Dicevo a me stesso
che lasciavo l’Italia senza neppure avervi veduto.... e che ogni
giorno, ogni ora, allargherebbe ancora lo spazio che ne divide. La mia
ultima probabilità era perduta. Era al disopra delle mie forze; tornai
a Firenze di nascosto, quasi come un ladro. Mentii a mio zio, e a
insaputa di lui, ritornai solo, senza nessuno per sostenermi nelle mie
buone risoluzioni, per farmi arrossire di me stesso, se non seguivo la
via che mi ero prescritta come un dovere. Ho vissuto celato, facendo
spiare le vostre mosse con un mezzo senza pericolo che ho trovato. È
stato in tal modo che sono giunto a vedervi, alla stazione, frammezzo
alla folla, il giorno della vostra partenza per Viareggio. Quando mi
sono trovato davanti a voi, ho creduto svenire, io che avevo resistito
a tutto! Non mi avete visto....

— V’ingannate. Vi ho visto.... Ma, mio Dio! perchè m’avete inseguita
fin qui?... Mi fate orribilmente soffrire!...

— Davvero?... M’avevate visto?... L’ho creduto per un minuto, poi
mi sono detto: No! sei troppo pazzo! Lo speravo e lo temevo.... Ma,
dopo quel momento, la mia forza mi abbandonò. Nel tempo stesso che
mi rimproveravo la mia mancanza di logica, la mia imprudenza, partii
all’indomani per Viareggio; partii senza scopo, senza motivo, spinto
da un desiderio irresistibile... semplicemente per vedervi ancora. E
davvero, alla stazione, mi riconosceste?...

— Subito.... Eppure.... 

— Sono mutato, non è vero? assai mutato. Pensate agli anni che
trascorsero da quando ci lasciammo, e pensate a tutto quanto ho
sofferto. Non ne parliamo più. Adesso permettete che vi guardi.
Questa è un’ora che non tornerà più. Sì, vi ho seguita, e a Viareggio,
nascosto, ho passato dei giorni quasi felici nella solitudine di una
stanza d’osteria, pensando che non eravate lontana, e che di tempo in
tempo, potevo scorgervi un istante di sfuggita. Vi ho intravista solo
quattro volte in quindici giorni, ma mi è bastato per farmi sopportare
quasi allegramente la mia prigionia volontaria. Intanto però un
desiderio di parlarvi, non fosse che per un’ora, senza testimoni, si
è bentosto impadronito di me con una violenza tale, che non fui più
capace di lottare. Le mie giornate furono passate a cercare di scoprire
un momento favorevole. Ma il rischio era troppo grande, avevo paura
per voi. Finalmente, quando non speravo più, codesto caso inatteso e
imprevedibile del vostro viaggio qui, del quale ho potuto aver contezza
facendo interrogare abilmente la vostra padrona di casa, mi ha offerto
la possibilità di un ultimo tentativo. Ho saputo che verreste sola.
Benchè fossi sicuro di dispiacervi, di spaventarvi, come avrei potuto
resistere alla tentazione?

— Lo avreste dovuto però.... Sarebbe stato meglio. 

La voce d’Elisa era ridiventata più ferma, ma parlava a stento. 

— Perdonate la durezza delle mie parole. Ma a che serve il rivederci?
Io non mi appartengo più, sono legata irrevocabilmente ad un altro....
che devo amare.... che amo. Avevo detto a vostro zio che dovevate
partire, e non conservare di me che un incancellabile ricordo, come io
lo conservo in fondo all’anima mia.... E a quale condizione, gli dissi
che ad onta di tutto, non vi potevo dimenticare? Alla condizione che
mi obbedireste e non cerchereste di rivedermi. Ho aggiunto che il mio
più ardente desiderio era di sapervi meno infelice, trovando un po’ di
serenità nella vostra vita tanto triste per colpa mia, tutta di dovere
e di sacrificio.... E voi....

— Non parlatemi di cose impossibili. Potete rimproverarmi d’aver
disubbidito e d’essere qui. Ma non potete comandare ai miei sentimenti.
Il mio amore per voi è eterno, perchè è al di sopra della vita umana
e della nostra sorte passaggera. È mio diritto d’essere infelice per
voi. Voi, avete potuto esser felice; vi approvo sinceramente, ma non
sapreste esigere lo stesso da me. Vi giuro, Elisa, che in queste mie
parole non v’è nemmeno l’ombra di un rimprovero. I nostri destini sono
stati diversi; abbiamo fatto ciascuno il nostro dovere. Ingannata da
me, ed una tale menzogna era necessaria, sciolta da tutte le nostre
promesse, credendomi debole, dimentico, colpevole forse, mentre fui
solo imprudente, d’una imprudenza che scontai con la disgrazia di tutta
la mia vita, voi mi avete ancora atteso, voi avete lottato, oh! lo so
ed indovino! vi siete ostinata a lungo, poi infine, il tempo ha fatto
l’opera sua, la vita ha avuto la sua influenza, un sentimento nuovo ha
trovato posto nel vostro cuore, ed avete accettato la felicità. Avete
fatto bene. Ma io, che non avevo nulla da rimproverare fuorchè a me
stesso, io, che sapevo tutta la forza del vostro carattere e tutta la
infinita bontà dell’anima vostra, io, ch’ero sicuro che se non avessi
mentito per dovere, sarei stato da voi aspettato sempre, io, che dovevo
desiderare la vostra felicità per mezzo di un altro, poichè io stesso
vi ci avevo spinto, e la profonda approvazione della mia coscienza ha
appena compensato l’immensità del sacrificio! potevo io esser felice
avendovi perduta, potevo io vivere d’altro che di memorie? L’avvenire,
possibile e necessario per voi, non esisteva per me. Ed intanto ho
tutto rinchiuso dentro di me. Credete voi che si sappia veramente come
ho vissuto? Ho obbedito, per quanto lo potevo, alle leggi sociali; ho
potuto trovare la rassegnazione apparente per quelli cui volevo bene;
ho lavorato e mi sono reso utile alli altri ed a me, ma che non mi si
chieda di più! Nessuno ne ha il diritto.

— Se sapeste quanto mi fate soffrire! Vedete bene la mia emozione,
non mi provo a celarla. Un brivido mi ha presa dal momento che apriste
quell’uscio, e tremo ancora.... Risparmiatemi!...

Egli la guardò con una espressione nuova sul viso; poi ripigliò con un
tono amaro:

— Ah! capisco!... Nella vostra esistenza calma, il mio ricordo è
rimasto come un’eco lontana della vostra prima giovinezza.... ma vivete
in piena vita reale, come una signora della società che siete; avete
cercato e trovato la pace; le vostre giornate, tutte uguali nella loro
amabile varietà, si seguono senza scosse; voi vi adagiate, fiorite
nella vita tranquilla e opulenta dei felici di quaggiù, e la vostra
malinconia, seducente alli occhi altrui, si è raddolcita anche per voi,
e bruscamente io sorgo qui simile allo spettro brutale del passato,
e vengo, io che il mondo non seppe mai deridere, tanto seppi sempre
tacere! vengo a far pompa dinnanzi a voi dei miei dolori che non potete
nemmeno più comprendere!

Si alzò e camminò fino in fondo alla camera, lentamente, a testa bassa.
Quando rialzò li occhi, vide Elisa che lo guardava fissamente, con la
faccia contratta, e quando i loro occhi s’incontrarono, egli scorse
delle grosse lagrime, ch’ella non potè trattenere che le colavano per
le guancie; e dopo un istante di lotta vana, ella nascose il viso sul
braccio appoggiato al tavolino, e scoppiò a piangere.

Giulio rimase un minuto immobile, come pietrificato, a contemplarla.
Poi cadde a’ suoi piedi, e prendendole la testa nelle sue due mani,
la costrinse a volgere verso di lui il viso bagnato di pianto. Guardò
quelli occhi rossi, quelle labbra convulse dai singulti, sentì presso
di sè il soffio ansante del seno di lei, ed il fiato di lei sulla
sua bocca, e si rigettò all’indietro, poi si piegò sopra quelle mani
bianche diventate inerti che coperse di baci.... Vi fu un silenzio.
Restò immobile, con la faccia quasi sui ginocchi d’Elisa.

Lei rivide quella testa, quel collo, che aveva altre volte veduti tanto
spesso così, e durante un áttimo, dieci anni della sua vita sparirono.

Il passato risorgeva davanti a lei, nella sua antica e imperitura
bellezza. Rivedeva la casa del lago di Como, i sentieri dove i piedi
s’imbarazzavano nei cespugli e dove lo sguardo si riempiva delli
azzurri dell’acqua e del cielo, l’albero sotto al quale essi avevano
pianto alla loro prima separazione, e la piccola sala dei ritrovi
notturni all’epoca del ritorno inatteso di Giulio, quei rapidi giorni
di febbrile felicità ch’erano rimasti come la nota la più acuta
e sonora della sua vita. I ricordi dalle care tinte impallidite
ridiventavano dei ricordi d’ieri; essa rivedeva ogni pietra, ogni
cespuglio della strada di Torno, di quella strada che aveva tante
volte percorso andando alla posta, col cuore pieno di speranza, per
ritornarsene in preda a una tristezza mortale; rivedeva il piccolo
cannotto nel quale si erano talvolta arrischiati sul lago, lo svolto
della strada dove penavano tanto a lasciarsi dopo le loro lunghe
passeggiate, la sua camera dove sempre i suoi pensieri si rivolgevano
a lui, attraverso l’oceano, dopo ch’era partito. Poi la notte profonda
dell’anima sua, quando aveva finalmente perduta ogni speranza, le
angoscio della lotta dalla quale era uscita rassegnata, i desideri
insopportabili e pazzi di vederlo una volta ancora e morire.

Ed ora egli era lì, chino sopra di lei, a’ suoi piedi; ella sentiva le
mani di lui che toccavano le sue, vedeva quella testa appoggiata sulle
sue ginocchia. Ed ella contemplava, assorta in un’estasi inconsciente,
in un completo oblìo del presente.

D’un tratto, ella osservò che quei capelli tanto noti, quei capelli
da ragazzo morbidi ed ondulati, erano brizzolati di fili bianchi. E
con la sensazione di una orribile stretta al cuore, essa si svincolò
finalmente.

Ma svegliandosi, si ritrovò tuttora in un sogno. Perchè trovavasi, con
lui, in codesta camera banale, con le sue pareti dipinte a quadretti
gialli e rossi, i suoi mobili volgari e scompagnati, la sua alcova a
tende scolorate?

Allora, mentre ascoltava come in sogno ciò che Giulio continuava
a dirle, il suo pensiero ritornò ai giorni più recenti, al nuovo
cambiamento nella sua vita, al tempo ch’era già trascorso, rapido e
penoso, dopo la visita di Orlandi, dal momento in cui era venuto a
turbarla annunciandole l’arrivo di suo nipote a Firenze fino all’ultimo
giorno di sofferenze segrete a Viareggio, dove notava con paura
l’attitudine incomprensibile di Massimo. Mutato per lei, senza ch’ella
sapesse indovinare perchè, era diventato aspro, freddo e distratto
all’istante in cui avrebbe avuto il maggior bisogno d’essere sostenuta
e incoraggiata. Avrebbe voluto abbrancarsi a lui, e Massimo sembrava
allontanarsi. Doveva avere del sospetti ch’ella indovinava; ma quali
precisamente? Paurosa, non ardiva interrogarlo, nè scandagliarlo in
nessun modo. Che sapeva? Che pensava? Lei aveva creduto che Giulio
fosse ritornato a Londra, e sulle prime ne aveva provato una specie di
sollievo. Ma, a poco a poco, nella tristezza della solitudine, davanti
a suo marito che non riconosceva più, un rimpianto sorse nel suo cuore.
Durante le sue lunghe giornate solitarie, nel salotto soffocante
del suo quartiere ammobiliato, illanguidita del caldo opprimente,
l’occhio fisso sul vasto mare che pareva assopito sotto i raggi di
un sole torrido, una idea s’impadroniva di lei che tentava invano di
scacciare. Avendo riveduto Giulio per un minuto, una brama la riempiva
di rivederlo ancora. La parola _giammai_ si disegnava davanti a’ suoi
occhi in lettere di fuoco. Avendolo riveduto, — e come dimenticare la
scossa di quel minuto secondo? — le sembrava impossibile di dover dire
a sè stessa: morrò senza aver sentito una volta ancora il suono della
sua voce, senza potergli dire una parola.

Ed ora egli era lì, davanti a lei. 

Le parlava con una voce dolce, che pareva venisse da lontano, e che
infatti s’innalzava per lei in un mormorio, come dal fondo delli anni
spariti. Le domandava sempre perdono d’essere venuto e l’assicurava,
con un così triste sguardo! che non cercherebbe mai più di rivederla.
Non voleva che un ultimo sorriso e che una mano indulgente nella sua.
E, senz’ordine, interrompendosi, le raccontava la propria vita, gli
avvenimenti di tutto quel tempo che li aveva separati, le proprie
disperazioni, ed in quel racconto le parole non erano nulla. Lei lo
ascoltava macchinalmente, leggendo nelle pupille di lui tutti i segreti
dei suoi dolori, tutte le lotte della sua coscienza, e la terribile
vittoria sopra sè stesso. Le parlò della sua lunga assenza, della sua
sventura, della menzogna alla quale aveva dovuto acconsentire, poi del
suo ritorno, e di quello che aveva sentito alla notizia ch’ella era
maritata col marchese d’Astorre.

Parlando, Giulio era stato sincero. Davvero, venendo, ad onta di tutti
i rischi, fino in quell’albergo per rivederla, nessun pensiero era nato
nella sua mente ch’egli avesse a rimproverarsi. Per nulla al mondo,
egli avrebbe voluto turbare la pace, la felicità di colei che adorava
d’un amore santificato da tanto soffrire. Era entrato la sera in quella
camera, dove nessuno poteva sospettare la sua presenza, perfettamente
sicuro di sè. E non aveva dubitato di uscirne, forse un po’ consolato,
forse più affranto di prima, ma senza che la sua coscienza avesse nulla
da rinfacciargli. Una carrozza stava pronta, che doveva condurlo a
una stazione, donde ripartirebbe per non più ritornare. Sapeva bene
che rivedendo Elisa, parlandole, proverebbe la più forte emozione
della sua vita, e che forse, attraverso il suo amore purificato, tutte
le violenze della passione si ridesterebbero in lui, ma sapeva pure
che adesso Elisa apparteneva volontariamente ad un altro, ch’ella lo
amava, che gli doveva la felicità, e sentiva ch’egli non mancherebbe al
proprio dovere, e che si mostrerebbe a lei come gl’incombeva di essere.

Ma non si era aspettato a trovarla quale essa gli appariva allora.
“Certo sarà commossa assai rivedendomi„ erasi detto, ma non avrebbe
mai creduto di vedere quelle lagrime ardenti smentire le fredde parole
ch’ella aveva tentato di rivolgergli, nè di sentire la mano di lei
febbrile quanto la sua propria, nè di leggere in quelli occhi la
rivelazione involontaria di tutto l’antico amore risorto. Un sospetto
gli attraversò la mente, che lo rese come pazzo e gli fece tutto
dimenticare: ella forse aveva mentito ad Orlandi, si provava a mentire
ancora, ma tutto quanto diceva era falso, ed ella lo amava come prima!

Allora sentì tutte le sue risoluzioni squagliarsi e gli sembrò che
un abisso si aprisse sotto ai suoi piedi, pieno di disperazione e di
gioia. Tacque d’improvviso, e fissò negli occhi di Elisa uno sguardo
che voleva penetrare fino all’anima.

— Continuate, — disse. — Giacchè siete qui, parlate. E parlate presto,
perchè il tempo incalza.

— No, nulla ne incalza, — rispose con voce cupa. 

Poi serrandosi le tempie nella mano destra, esclamò con tono mutato: 

— Dio mio! pensare che se fossi ritornato qualche mese prima, allora,
non apparterreste ad un altro! Ironia insultante della sorte! Voi,
Elisa, la mia Elisa, vi guardo e non ne ho il diritto, prendo le vostre
mani nelle mie, e per questo sono costretto a nascondermi! Non siete
più la mia Elisa, siete la marchesa d’Astorre. Ma pensate dunque,
dopo tutto, mi avete lungamente e pazientemente aspettato, povera
fanciulla mia, mio angelo adorato.... e più che non avreste dovuto; ma
perchè Dio ha permesso che, ad onta del vostro coraggio, io arrivassi
troppo tardi? E come lo avevo altre volte predetto, ritorno ricco,
considerato.... ed avrei potuto avervi! No, è troppo! Perchè non sono
morto in mare, ritornando!...

— In nome del cielo, calmatevi! Perchè vi esaltate così, perchè questo
mutamento!

— Perchè? Perchè leggo nei vostri occhi; perchè le vostre parole hanno
mentito ed i vostri sguardi sono sinceri.... perchè mi ami ancora!
Elisa, perchè ci amiamo sempre!

E, debole com’essa era, egli se la prese tra le braccia. 

— Vieni, — le disse, — partiamo! Vedi bene che sono io! Ti ritrovo!
Il tuo corpo freme tra le mie mani.... come posso credere alle tue
parole? Ti giuro che tu mi ami! Dimentico tutto. Se ci amiamo, tutto
il resto è falso. Oh! dimmi, Elisa, non senti l’eternità del nostro
amore? Come vuoi che di un tale passato non rimanga nulla?... Come?
tutto dovrebb’esser vano? e inutili i nostri dolori? Avremmo dunque
mentito, allora, ci saremmo ingannati? Quelli che negano l’amore
avrebbero dunque ragione, e noi avremmo scambiato un lampo con la
luce immortale?... Ti ricordi le nostre promesse?... Non senti tu che
i vincoli che ci univano non sono spezzati? Mettete sopra un piatto
della bilancia tutte le leggi sociali, tutti i doveri mondani, tutte le
catene della vita, e sull’altro un sentimento d’origine divina.... da
qual lato piegherà? Tu fosti mia; lo sei ancora. Farò tutto quello che
vorrai. Fuggiamo lontano da tutti, che nessuno più ci veda!...

— Tacete! 

E con uno sforzo violento, Elisa si svincolò. 

Essa si volse verso la finestra, e Massimo che udiva tutto, vide
rivolto verso di lui il viso di sua moglie, e su quel viso una
espressione ch’egli non potrebbe mai più dimenticare. Vide i suoi
occhi alzati al cielo, i suoi lineamenti contratti da una lotta ultima,
un’angoscia suprema che agitava tutto il suo corpo.

Giulio volle seguirla all’altra estremità della stanza. 

— Restate, — gli disse. — Non saprete mai a che punto soffro. Per
pietà, Giulio! (egli trasalì sentendola chiamarlo per nome), calmatevi!
Non mi avvicinate più!

Rimase qualche tempo accasciata, incapace di parlare. Il silenzio era
strano in quella camera. Poi finalmente ella disse a voce bassissima,
con uno sforzo:

— Se sapeste come amo veramente mio marito, e quanto e perchè lo amo,
non mi parlereste come fate.

— Ciò è falso. Voi non lo amate, poichè amate me. L’ho veduto, l’ho
vedo ancora. Non posso credere alle vostre parole. Nient’altro è vero
tranne il tremito della vostra mano nella mia. Il vostro, Elisa, è un
carattere sincero e retto; non avete mai saputo mentire. Ma io non vi
accuso; anzi vi stimo e vi ammiro sempre più. Si capisce tutto, quando
si ama come amo io. La vostra menzogna è sublime. Imponete silenzio
all’anima vostra per compiere ciò che credete il vostro dovere. Ma io,
in questo momento supremo, vedo al di là delle considerazioni umane.
Guardate: adesso sono calmo. Ascoltatemi. Io pure ho provato che so
tutto sagrificare all’idea del dovere. È per fare ciò che dovevo, che
mi condannai io stesso a mentire, che ho frantumato il mio proprio
cuore. Posso dunque giudicare. Ebbene! ve lo dico in tutta sincerità,
il vostro dovere non può consistere nell’amare quell’uomo. Ad onta
delle leggi e della morale passeggiera di questo mondo, quali sono
i suoi diritti paragonati ai miei? Io, ebbi la vostra prima parola
d’amore, e vedo che mi amate ancora; io, vi ho tutto dato e tutto
sagrificato, e sarei pronto a sagrificare tutto ancora, se veramente lo
amate, vostro marito. Ma come lo fareste credere? Che ha fatto, lui?
Oh! credetelo! ho ragione. Vorrei che vostro marito fosse qui e mi
sentisse.

— Giulio, è me che dovete ascoltare, — disse Elisa lentamente. — Non
parlate così; non dite nulla di cui potreste pentirvi più tardi. In
nome del passato, che resta sacro nella mia memoria, ve ne supplico!

V’era qualcosa di così decisivo, di così solenne nella sua voce, che
Giulio ne fu colpito in mezzo al suo esaltamento, e che tacque mentre
Elisa sembrava riflettere....

— Sapete quali furono per me gli anni che seguirono la vostra partenza?
— continuò finalmente, e come se parlasse tra sè. — V’immaginate il
lutto che si distese per me sulla natura, la disperazione che cadde
sul mio cuore? Nessun vecchio, disingannato di tutto e stanco della
sua lunga giornata, sentì mai il peso dell’esistenza troppo gravosa
per le sue forze, come lo sentii io allora, al principio della vita,
giovinetta cui sorrideva il mondo. Ed io, non avevo nemmeno il lavoro,
un cómpito per distrarmi. Non avevo che la mia solitudine e i miei
pensieri, e non me li permettevano. Mi era proibito di soffrire, e di
giorno in giorno, i miei spiavano l’istante in cui dovesse cessare il
mio dolore eterno. Mentre desideravo morire, si pensava a maritarmi.
Rifiutavo sempre, lottavo. Ma finalmente si decise, mio malgrado,
il mio matrimonio.... e sapete con chi? con quell’uomo che voi pure
detestavate e che veniva tanto spesso da voi.... Gorletti. Codesto
matrimonio era una necessità assoluta; la miseria sorgeva davanti a
noi, ed io dovevo salvare la mia famiglia. Tutti mi consigliarono di
cedere, perfino le persone migliori, le più intelligenti. Non sapevo
resistere alle minaccie di mia madre, alle preghiere desolate di mio
padre, all’opinione universale. Come avrei voluto morire! ma lo potevo
ancor meno. Il sacrificio era deciso; ad onta della mia ripugnanza,
del mio orrore, avevo dovuto acconsentire.... Sola, non potevo lottare
contro tutti e contro la sorte. Mi si compiangeva, ma nessuno ebbe
l’idea di venirmi in aiuto. E, d’improvviso, all’ultimo momento, un
uomo giunse, che lo fece. Come un angelo salvatore s’intromise tra me
ed il destino, e con mano possente, arrestò sull’orlo del precipizio
quella che i suoi amici vedevano cadere con vani rimpianti e nulla più.
E quest’uomo mi conosceva appena; non ero per lui che una conoscenza
banale, indifferente. Ma egli comprese e volle salvarmi. E per ciò
fare, mi sposò; mi diede il suo nome, il suo appoggio, la sua fortuna e
non mi chiese nulla in cambio. Potevo rifiutare? Avevo la scelta?

— Non lo amavate, dunque? 

— No, non lo amavo allora. Ma già mi sentivo irrevocabilmente legata a
lui da una riconoscenza della quale non mi potevo sdebitare. Mi aveva
resa ad una vita possibile. Voi, vi credevo perduto per sempre, sposato
con un’altra; vivevate sempre nell’anima mia, ma solo per la memoria.
Il tempo scorreva per me, calmo; ero triste, ma esistevo come in sogno.
D’Astorre, invece, attivo, errante, proseguendo sempre qualche progetto
da me ignorato, viveva in un modo bizzarro, disordinato, che io non
capivo. Per me, egli non era, come dal primo giorno, che un amico
sicuro e sincero.

A poco a poco egli cambiò. Tutte le cose esterne cessarono
d’interessarlo; si attaccò sempre più a me ed alla casa; cessò di
assentarsi. Mi chiese se io volevo essere tutto per lui. Raddoppiò di
cure, di delicatezza. Seppe guadagnare tutta la mia fiducia, lui che
talvolta m’intimidiva; si corresse di tutti i suoi difetti. — E dal
giorno ch’egli mi amò in tal modo, credetti mio dovere di amarlo, e
l’amai veramente. Ebbene, non comprendete che adesso devo morire prima
d’ingannarlo? Ah! Giulio! la felicità ideale che altre volte sperammo
è svanita per sempre, e nulla la può risuscitare quaggiù. Voi avete
vissuto come io avevo l’intenzione di vivere, cioè rinunciando alla
vita; io ho dovuto cominciare una nuova esistenza e vi ho trovato la
pace ed un benessere calmo che per me è il dovere. Il ricordo del
passato non può spegnersi in me, e mio marito lo sa; poichè non ho
voluto nulla nascondergli, ma la mia vita gli appartiene adesso. Ho
sofferto quanto voi; ho forse pensato ancora di più. Riflettete, e
sarete costretto di darmi ragione. Nelle mie lunghe meditazioni ho
tutto previsto, perfino quest’ora. Sono debole, è vero, e la commozione
che ho provato vedendovi apparire al momento in cui meno me lo
aspettavo, mi ha fortemente scossa.... Ma ho tanto pensato, che non
posso fallire....

— È perchè il ricordo in voi è meno vivo che in me. 

— No, v’ingannate ancora; se vi parlo così, non è perchè dimentico,
ma perchè rammento. Confrontate ciò che fu il nostro amore a quello
che sarebbe ora! Invece dell’abbagliante splendore, dell’ebbrezza
santa che abbiamo conosciuto, che cosa avremmo? Una passione colpevole
e sconvolta, una felicità cattiva, avvelenata di rimorsi. Il nostro
passato, così bello nei nostri ricordi, e che, separati, non potremo
mai dimenticare, sarebbe esso pure guastato da un presente colpevole, e
che sembrerebbe la parodia di quanto abbiamo sognato. Tutta la mia vita
s’interpone tra di noi.

Giulio non osava più interromperla. Ascoltava, con la testa china,
quelle parole tanto vere che risuonavano stranamente in quella camera,
guardando talvolta le due candele già per metà consumate, talvolta
rivolgendosi verso Elisa con un gesto di violenta negazione ch’ella
reprimeva subito.

— Tutto quanto mi dite è vero a un certo punto di vista, — disse lui
finalmente con gran tristezza, dopo una lunga pausa; — tutto è d’una
verità crudele. Ve lo ripeto, avete ragione, e vi stimo altamente di
parlare in tal modo, sebbene mi spezziate il cuore. Il nostro amore
sarebbe adesso colpevole; è vero. Il dovere ne lo proibisce; ma,
credetelo, il dovere soltanto. Vedete, sono calmo. Sarò anche forte;
avrò l’orribile coraggio di obbedirvi. Una vostra parola mi è sacra.
Ma a quest’ora suprema, Elisa, confessate la verità. È il dovere che
ne separa ancora, inesorabile, null’altro che il dovere. Ma voi mi
amate, mi amate come sempre, mi amate come io vi amo. Datemi questa
consolazione terribilmente amara di confessarmelo, e partirò.

— Non sarebbe una conclusione. Mentre invece se mi poteste comprendere,
se poteste intravedere la verità tal qual’è, e tale che ve la voglio
dire tutta intera, vi trovereste un sollievo vero, e la forza di
rassegnarvi alle tristi leggi della vita che non possiamo discutere.
Dicendo che v’è nel nostro passato qualche cosa di eterno che non può
morire, e che le nostre anime sono unite da un vincolo indissolubile,
dite il vero.... Ma v’ingannate credendo che io possa amarvi come una
volta. Allora potevo darmi a voi tutta intera, consacrarvi tutte le ore
del mio tempo, tutti i miei pensieri e tutte le mie sensazioni; adesso
invece appartengo ad un altro e da alcuni anni egli ha la mia vita
di tutti i giorni.... e come avrei potuto diventar sua, senza nulla
dargli del mio cuore? Perchè volete che dicendovi che lo amo, non lo
dica che per farvi ancora più crudelmente soffrire? Oh! no, Giulio, non
si tratta del dovere solamente, del dovere sociale, come vi ostinate
a crederlo.... Se avessi potuto continuare ad essere tutta vostra,
_allora_, non avrei forse calpestato tutti i doveri? Ma perchè vorreste
che ci rendessimo ora infelici, cercando una felicità impossibile
che non potremmo trovare se non al prezzo della pace della nostra
coscienza?

Elisa gli disse che aveva lungamente riflettuto nelle ore della sua
solitudine. Gli spiegò che la vita è molteplice e che quando i nostri
voti non sono aiutati da circostanze eccezionali, l’ideale è presto
soffocato dalla realtà e non può più esistere che nel segreto del
nostro cuore. Se non ne viene concesso d’isolarci dal mondo, siamo
ben presto ravvolti dalla mischia, siamo costretti ad abbandonare i
grandi spazi puri dove la nostra immaginazione vagava, e di camminare
nell’erba, sull’orlo della strada.

Elisa, mentre ripeteva tutto ciò, era pallida quanto Giulio. 

Lui aveva abbassato il capo; era vinto. Vedeva chiaro finalmente
quanto ella avesse ragione. Con un brusco movimento, si alzò quasi per
partire.

Elisa trasalì, e allora, lei che aveva saputo parlare con tanta calma
e con tanta verità, affranta dalla intensa emozione e dalla tensione
dello sforzo, si mise a piangere.

— Per pietà, Elisa, se volete che abbia la forza di fare ciò che devo,
non piangete! Vedete, vi ho compresa, sono ridiventato me stesso. E
siete debole voi, adesso, ve ne supplico.... Eppure grazie! grazie per
queste lagrime!

Ella gli stese le mani, oramai, asciugandosi gli occhi. 

— Ho ben ragione, non è vero? Dunque, giurate di obbedirmi? 

— Lo giuro. 

— Restate ancora un poco, allora. Che io possa avere la dolcezza di
parlarvi liberamente, adesso che sono altrettanto sicura di voi che di
me, che io possa tenere senza paura per pochi istanti la vostra mano
nella mia! Se sapeste quanto, io pure, desideravo parlarvi ancora una
volta, quanto l’ho sopratutto desiderato il giorno che vi ho rivisto!
Sì, oso dirvelo, ad onta dell’imprudenza, ad onta del pericolo, ad
onta di tutto, non posso biasimarvi di essere venuto. È una felicità
insperata e che nessuno può rimproverarmi, e sarò più forte, d’ora
in poi. Siete buono e grande, Giulio, come lo foste sempre. Oh! senza
fallire, senz’aver nulla da rinfacciarmi, potervi parlare sinceramente
questa volta ancora! Oh! se potessi sperare, che voi pure sarete meno
infelice per avermi veduta! Ma tutto è così triste....

Giulio guardò il suo orologio. 

— Ho ancora un’ora da rimanere. Lasciate che vi guardi. 

Intanto, Massimo, di fuori, su quel balcone, dove, quando Bardi era
entrato nella camera, aveva dovuto abbrancarsi alla sbarra per non
fare irruzione, avendo sul capo la serenità del cielo stellato, sotto i
piedi l’abisso aperto, e davanti agli occhi, tra gli interstizi delle
persiane, la scena che abbiamo descritto, — aveva vissuto altrettanti
anni quanti erano i minuti passati, tutta una vita, se si considera
il tumulto delle passioni diverse, cambianti ad ogni nuova fase
del dialogo, e la dolorosa varietà de’ suoi pensieri e delle mosse
dell’animo suo. Dinanzi a quella scena, dove il suo avvenire era in
giuoco, una di quelle trasformazioni aveva dovuto compiersi in lui;
che, troppo bruscamente subìte per scosse violente, possono uccidere
un uomo, specialmente nel suo stato. Ma una così intensa curiosità
lo aveva inchiodato al suo posto ch’era passato dallo spavento e
dall’orrore all’ammirazione, quasi senza sentirlo. Tremò dai piedi
alla testa senza che l’occhio suo s’abbassasse per un secondo, senza
che le sue mani potessero muoversi. Rimase sino alla fine, atterrato,
affranto, consolato tutt’insieme e di volta in volta. Aveva tutto
sospettato, tutto, tranne ciò che vedeva ed udiva. Dal primo momento
in cui si era sentito come trafitto dalla certezza acuta che tutto era
perduto, egli aveva temuto, sperato, dubitato, pronto a maledire o a
piangere, sino alla fine; e tutto lo aveva sorpreso, strappato dalla
logica della sua esperienza per aprire alle sue riflessioni degli
orizzonti inesplorati.

A un certo momento aveva alzato gli occhi alla gran vòlta oscura
e splendida, e si sarebbe potuto crederlo sul punto di cadere in
ginocchio come se una preghiera riconoscente gli salisse alle labbra.

Ma non si sentì felice quand’ebbe tutto veduto. Una disperazione
nuova si aumentava lentamente in lui. Tutta la sua passione brutale,
i suoi desideri di vendetta, ed i suoi furori pieni di angoscia,
si dissipavano, e non sentiva più che la vergogna di sè stesso,
l’ammirazione e la pietà. Egli moralmente scompariva davanti a quei due
ch’egli aveva considerato come colpevoli, e che ora contemplava simili
ad esseri superiori. Qualcosa contorcevasi morendo dentro di lui, e un
sentimento affatto nuovo vi nasceva. Al posto del suo amore turbato,
che avrebbe potuto condurlo fino al delitto, sorgeva una infinita
tenerezza che aveva quasi sete dell’amara voluttà del sacrificio.

Aveva visto adesso l’amore nella sua estrinsecazione la più alta, ed a
momenti, era stato costretto di dimenticare che lui stesso amava quella
donna, a piedi della quale stava un altro.

Aveva compreso codesto amore, del quale da un pezzo conosceva la prima
parte, ed alla fine del quale egli aveva così stranamente assistito.
Che diventavano i suoi sentimenti, confrontati coi sentimenti dei quali
aveva ascoltato la involontaria eloquenza? Aveva sentito la sua gelosia
umiliata, intravedendo le segrete profondità di quelle due anime,
sentendo più che non dicessero le parole, credendo leggere sui loro
lineamenti confessioni non espresse.

Il suo sguardo si perdeva in giù, al basso, e vedendo le pietre del
torrente biancheggiare sempre nell’orrore delle tenebre, ebbe per un
istante la vertigine della profondità, del silenzio dell’abisso dove
tutto si oblia, e lui, che due ore prima, voleva vivere per vendicarsi
e punire, pensò allora che sarebbe stato meglio — soccombendo al dolore
che lo aveva assalito durante la sua pericolosa ascesa al balcone —
cadere nel precipizio e trovarvi la morte, che sarebbe stata la pace
per lui e la felicità per gli altri.


VI. 

Nella sua camera rosa, in quello stesso letto dove aveva dormito per la
prima volta giungendo dalla Lombardia alla _Villa del Giglio_, Elisa
stava coricata. Un bel raggio di sole ancora caldo penetrava dalla
finestra semi-aperta, illuminava la tinta rosa delle tende, faceva
brillare la doratura di una cornice, e pareva volesse ridonare il
colore alle guancie pallide della convalescente.

Elisa aveva abortito, e durante alcuni giorni, era stata male assai.
I suoi genitori erano venuti. La speranza tardi concepita e di nuovo
perduta di vedere presto un bambino rallegrare la casa, aveva afflitto
tutti, ma la signora Valenti specialmente piangeva a calde lagrime
il piccolo erede svanito. Elisa, la quale ad onta de’ suoi sforzi per
reprimere un tal sentimento, era stata penosamente turbata dall’arrivo
di sua madre, dopo d’averla vista seduta al suo capezzale, aveva
finito col rispondere ad uno dei suoi abbracci esaltati con un bacio
silenzioso, ch’era, senza che nessuno lo sapesse, un bacio di perdono,
e più che mai, dopo quanto era passato, le aveva fatto bene la presenza
di suo padre, tanto buono a malgrado delle sue debolezze.

La signora Valenti era appena uscita dalla camera. Massimo stava seduto
a’ piedi del letto, sulla gran poltrona, dove, pur malato egli stesso,
era rimasto cinque notti a vegliare. In nessun posto, d’altronde,
avrebbe potuto dormire. Aveva passato là delle ore interminabili,
nella penombra vagamente rosea della stanza appena rischiarata dal
dolce bagliore di un lume da notte, facendo talvolta, mezzo svegliato
com’era, i più strani sogni, talvolta invece rivedendo gli avvenimenti
recenti disegnarsi, con nettezza straordinaria sul fondo di pallide
tenebre dove si perdeva il suo sguardo. Sempre rivedeva la scena
che aveva prodotto in lui una nuova trasformazione, sempre pensava
al modo con cui era partito, aprendo macchinalmente, dal balcone,
la porta-finestra mal chiusa della camera attigua a quella occupata
da sua moglie; come si era trovato, più tardi, alla stazione, quasi
senza saperlo, e com’era ritornato alla villa, e vi aveva trovato
un telegramma di Elisa che lo avvertiva di non poter tornare prima
dell’indomani. Era giunta infatti, e gli aveva raccontato che non
aveva trovato la signora Vegezzi a G..., poichè suo marito era stato
trasferito a Prato, due mesi prima, e che allora si era decisa ad
andarvi, il che aveva prodotto un ritardo di un giorno, che i Vegezzi
stavano bene loro, ed i loro sette figli, e ch’erano rimasti assai
felici e lusingati della sua visita.

Durante le ore passate a G..., Massimo era stato balestrato tra gli
estremi dell’amore, dalla passione tormentosa e violenta alla tenerezza
senza limiti, da tutti i furori dell’egoismo esasperato alla completa
rinunzia di sè stesso.

Ora si rifaceva l’equilibrio. Sentiva quanto il suo amore per Elisa
fosse pieno di disinteresse, ma — sebbene l’idea di sagrificarsi lo
tentasse — comprendeva di non esserne capace. Tutto si confondeva
nella sua testa stanca. Il pensiero si era in lui mescolato al sogno,
nel corso di quelle lunghe notti insonni. Vergognoso della sua gelosia
passata, dopo d’aver udito le nobili parole di sua moglie, giudicava
amaramente la situazione come avrebbe potuto giudicarla un terzo
disinteressato, ma in ciò fare, un dolore tanto acuto lo riempiva che
non mancava di una certa orribile voluttà.

Diceva a sè stesso: una volta, per caso, è accaduto che nella nostra
società triste e depravata, due esseri si amassero realmente, del raro
e vero e imperituro amore. Furono divisi; ma essi si sentirono uniti
ad onta della distanza, dalle loro anime, come se le loro mani non si
fossero sciolte. Il giovane aveva potuto ritornare in Europa, — avendo
prima dovuto mentire perchè la sua fidanzata fosse libera, — e l’aveva
trovata moglie di un altro che l’aveva sposata per salvarla, spinto a
codesta facile buona azione dalla bontà leggiera che sta in fondo ai
cuori corrotti. E questo marito, il quale poi aveva amato sua moglie
per capriccio, deve rendere per sempre impossibile la felicità tra due
esseri che sembravano creati apposta per amarsi!

E, esaltato, esagerando perfino ciò che gli sembrava la verità, egli
si persuadeva d’aver fatto l’infelicità di Elisa. Adesso sarebbe
felice, se non lo avesse incontrato allora sul suo cammino. E che cosa
meritava lui, non avendole portato che un amore tardivo, dopo una vita
sregolata, un amore al quale lei non poteva corrispondere che per
un’idea di dovere? Se, realmente, egli sentiva per Elisa un affetto
profondo, se veramente egli voleva fare qualcosa per la sua felicità,
perchè non lo farebbe sagrificandosi, come prima lo aveva fatto senza
merito; perchè avendo voluto una volta salvarla da Gorletti, non la
salverebbe adesso da sè medesimo?

Ma sentiva di non poterlo. Ancora rimpiangeva talvolta di non essere
piombato in fondo al precipizio, sul quale era rimasto per un istante
sospeso nella indimenticabile serata a G...; ma adesso, ad onta di
tutto, le mollezze dell’amore lo riprendevano, contemplando Elisa
addormentata, pallida, sul candore dei guanciali.

Ed Elisa pure, con gli occhi semi-chiusi, guardava suo marito a lungo,
senza ch’egli se ne accorgesse. Nella letargia della malattia, tutte le
sue idee si erano come velate, e gli avvenimenti che l’avevano tanto
scossa, le parevano già lontani. Ma Massimo le ispirava sempre una
penosa paura. Lo vedeva devoto, attento a’ suoi minimi desideri, ma
sempre triste ed inquieto, ed aspettava invano da lui una parola che
rompesse il ghiaccio, che attenuasse la sensazione d’un qualcosa di
straordinariamente teso fra di loro.

La sua vita era mutata. I giorni penosi di Viareggio non erano stati
che una lenta preparazione ad una crisi che lei presentiva. Ed,
infatti, la presenza inattesa di Giulio a G..., e le ore passate
con lui, avevano marcato un punto d’arresto nella sua esistenza. E
bisognava voltare una nuova pagina, adesso. Bisognava che la vita
interrotta fosse ripresa, e resa possibile. Lo desiderava ardentemente,
di tutto cuore, ma perciò era necessario che Massimo la incoraggiasse,
trovasse la parola che doveva tutto dissipare. Benchè non si sentisse
colpevole, avrebbe però voluto dir tutto, ma una invincibile ripugnanza
l’arrestava, e avrebbe voluto sentire da lui, prima, almeno una sola
parola pronunciata come le altre volte.

La casa sembrava più silenziosa che mai, ad onta della presenza
dei Valenti. I servitori con l’istinto loro, fiutavano nell’aria un
cambiamento, del quale tentavano invano di precisare le cause. Le vaste
sale del pianterreno sempre vuote, sembravano pure aspettare qualcosa
che non doveva giungere mai. Si restava negli appartamenti del primo
piano, vicini alla camera di Elisa. Quando vi erano riuniti, provavano
tutti un lieve imbarazzo indescrivibile, ciascuno a modo suo.

Massimo errava solo nel giardino dove aveva tante volte passeggiato
con Elisa, e le memorie che sorgevano ad ogni passo, come spiranti
dagli alti alberi, come susurrate dalle ultime foglie cui già la brezza
autunnale scuoteva, gli sembravano memorie di cose morte, per sempre
sepolte nel passato lontano, e che nulla più potrebbe far rivivere. Gli
pareva certo che codesto silenzio pesante sopra ogni cosa non potrebbe
venire interrotto mai più. I soavi parlari, le tranquille gaiezze che
gli rendevano una nuova gioventù, la delizia dello sentire dimenticato
il mondo nelle dolcezze di un egoismo in due, tutto ciò era volato via
per sempre. Se guardava all’ora del tramonto le valanghe di porpora e
d’oro spegnersi lentamente all’orizzonte, e l’ombra invadere a poco a
poco i contorni lontani di Firenze, diceva a sè stesso che quel poema
celeste, variato tutti i giorni e costantemente sublime, non darebbe
più le ali alla sua imaginazione, poichè egli non troverebbe più in sè
stesso le mille tinte cangianti di un imperituro amore, armonizzantesi
col cielo.

Giungeva a pensare che sua moglie ingannava sè stessa credendo di
amarlo, e che resterebbe sempre tra di loro un terribile segreto a
separarli. Quante volte, dacchè lei era convalescente, egli aveva
voluto parlare, e quante volte aveva sentito la impossibilità di
articolare le parole!

Finalmente, quel giorno, senza ch’egli sapesse dove trovava un tale
coraggio, prese la mano d’Elisa che tenne lungamente nella sua, e le
chiese di ascoltarlo, deciso a dir tutto.

Ma lei trasalì, e divenuta seria, si sollevò a sedere nel letto,
esclamando:

— Sono io che devo parlarvi! 

E allora, a poco a poco, fermandosi spesso, in preda a una sofferenza
visibile, ma ben risoluta a fare ciò che meditava da un pezzo, e allo
stesso tempo come consolata ad ogni parola che le usciva dal labbro,
gli raccontò tutto quanto s’era passato a G....

Massimo si arrestò di botto, e si guardò bene dall’interromperla.
Pallido, attento, non perdeva una sillaba, e talvolta, un sorriso
commosso gl’illuminava gli occhi. Lei raccontò tutto, senza volere
nulla nascondere nè attenuare, con la sincerità assoluta d’una donna
cui la dissimulazione aveva già costato quanto una menzogna. Nulla al
mondo avrebbe più potuto commuovere Massimo, di questo racconto, del
quale ogni parola fiammeggiava dinanzi a lui. Padrone di sè, seppe
ascoltare sino alla fine quella nobile confessione, umilmente detta.
Elisa parlava lentamente, sentendo la mano di suo marito stringere
sempre più forte la sua.

Ma non resistette più appena ella ebbe finito, e precipitandosi in
ginocchio contro il letto, disse:

— Sapevo tutto! 

E con grande stupore d’Elisa le narrò a sua volta in qual modo e con
quali sentimenti era stato testimonio di tutta la scena.

Elisa, affranta dall’emozione, sentì allora che vi era qualcosa di
provvidenziale in questo fatto che l’ingiusto sospetto per il quale
suo marito era stato spinto a farle la spia, aveva servito a mostrargli
tutta la verità, nella sua evidenza, con una certezza che niente altro
al mondo avrebbe potuto dargli. Mentre Massimo parlava, i ricordi
indimenticabili del suo colloquio con Giulio le apparivano adesso sotto
una luce nuova: sentiva d’essere stata come ispirata da una potenza
superiore a pronunciare quanto aveva saputo dire in quel momento
supremo. Ad ogni frase del racconto di suo marito, ad ogni parola che
talvolta veniva fuori penosamente, ella vedeva tutto quello ch’egli
aveva dovuto soffrire in quel giorno, tutto le mostrava la nobiltà
celata nel fondo di quell’anima, che nè le corruzioni del mondo, nè lo
scetticismo della sua vita, avevano potuto soffocare.

Dopo una tale confessione, si sentirono entrambi sollevati, ma ciò
non bastò ancora a togliere la barriera che sembrava separarli, nè a
dissipare l’ombra stendentesi sopra la villa.

Elisa guarì presto, ma le si raccomandarono le maggiori cure,
consigliandole allo stesso tempo di distrarsi. Massimo continuò ad
occuparsi esclusivamente di lei, ma senza poter ritrovare nè la sua
forza di carattere, nè il suo coraggio morale, dicendo a sè stesso
che la sorte non avendo concesso la formazione di un nuovo vincolo
tra di loro, per mezzo di un bambino, egli non poteva più sperare
nell’avvenire.

Massimo propose a Elisa di stabilirsi per tre mesi a Firenze, e di
andarvi prima dell’epoca fissata per accompagnarvi la signora Valenti,
la quale desiderava passarvi alcuni giorni prima di tornare a Milano.
La sua villa, da lui tanto prediletta poco prima, non gli piaceva più,
e pensò che un cambiamento sarebbe forse salutare.

Egli contava sulle distrazioni forzate. Per di più, pur troppo! la
solitudine completa con Elisa gli sembrava cattiva per entrambi.

Nei primi giorni passati al palazzo d’Astorre, accadde infatti che le
cure necessarie, le visite da ricevere e da restituire, certi affari
stati un poco negletti e dei quali bisognava occuparsi, la compagnia
della contessa Goffredi e di qualche altra amica intima, presero buona
parte del loro tempo. Di comune accordo tacito, accettarono, in una
certa misura, tutte le banalità della vita cittadina, e si crearono
delle piccole occupazioni coi doveri trascurati prima con tanta
felicità. Cedevano talora pigramente a ogni specie di voglie barocche
che passavano per il capo della signora Valenti; e Elisa accompagnava
spesso suo padre nei suoi interminabili vagabondaggi per le vie,
ascoltando il suo cicaleggio un po’ vuoto, ma affettuoso, e sentendogli
ripetere, quasi con una specie di piacere, tutte le storielle della sua
gioventù, che lei sapeva a mente, e che gli aveva sempre udito recitare
con la stessa espressione di fatuità stanca.

A Firenze si trovò Massimo mutato. Non era meno elegante; il pallore
del suo viso un po’ smagrito, gli dava anzi una seduzione nuova al suo
volto, che non era alterato, ma più serio. Solamente, parlava poco e
sembrava preoccupato. Il suo sguardo, più profondo, non si fissava più
sulle persone con quella rapida fissità di osservazione che turbava
ed affascinava altre volte; era divenuto distratto e pensoso. Aveva
perduto quella prontezza alla risposta che lo aveva reso celebre; la
freccia, lanciata qualche volta ancora per abitudine, scoccava lenta e
come in ritardo, ed egli la vedeva cadere a terra, noncurante.

Lo si diceva ammalato, più seriamente ch’egli non lo credesse, poichè
ne parlava ridendo. La verità era che le forti scosse morali avevano
alterato la sua salute e un poco scossa quella costituzione di ferro
che aveva resistito a tutto il resto. Il suo medico, della sincerità
del quale egli era sicuro, lo aveva rassicurato, pure raccomandandogli
di evitare le emozioni, e di fare una vita regolare; ma talvolta lui
sentiva dei tristi presentimenti.

Ma non era di ciò che si preoccupava. Ciò che voleva era riconquistare
la felicità perduta, trovare in sè la forza che vincerebbe il destino,
rivivere ancora un poco come aveva vissuto durante tre anni, ma
assaporando assai meglio, ora, la sua felicità. — Tuttavia, nelle sue
ore di scoraggiamento, quando non osava più sperare, gli accadeva di
augurarsi di andarsene presto, bruscamente, senza soffrire. Poichè, ad
onta di tutti i ragionamenti che si ripeteva nei suoi momenti lucidi,
era assai scorato. Uno sforzo era necessario, lo sentiva, e gli mancava
la forza. La molla sembrava spezzata in lui. Il desiderio immenso che
lo riempiva, che lo faceva soffrire e sperare, che solo lo aiutava a
vivere, codesto desiderio era infinito, ma impotente. A momenti non
provava più nulla, tranne un gran bisogno di riposo. Sentivasi ancora
un animo fiero e dei muscoli d’atleta, ma non sapeva più servirsene e
aveva perduto ogni fiducia. Diventava talvolta indifferente e cascava
a poco a poco in quell’apatia che ne addormenta per delle giornate
intere, e dalla quale il colpo acuto del dolore bruscamente ritornato,
simile a un dolore fisico, ne risveglia ad un tratto.

In società lo si guardava assai con una curiosità nuova; per molto
tempo non se ne accorse. Delle nubi erano dunque venute ad oscurare
quella luna di miele che pareva dover splendere sempre, si diceva. Una
sera che Massimo se ne stava silenzioso in un angolo della sala, lady
Thompson emise questa sentenza profonda:

— Pare che anche la felicità non renda felici. 

Ma, un’altra sera, che Massimo assisteva a una partita, nella sala da
giuoco, e che lo si credeva attento alle varie peripezie, mentre in
realtà non vedeva nemmeno le carte, udì alcuni giovani che parlavano di
lui. Lo si compativa.

Egli eccitava dunque la pietà, adesso! La ferita, che risentì di colpo
il suo amor proprio, fu per lui come una puntura di sprone. Alzò la
testa e tutta la persona. Vedendosi in uno specchio ch’era davanti,
constatò che non era più lo stesso, che bisognava ridiventarlo, e che
a quel prezzo solo potrebbe forse ancora riacquistare la felicità.
Si guardò intorno simile ad un uomo che si ridesta, e la sua energia
gli ritornò. Fu come una trasformazione. Con un violento sforzo di
volontà, egli si mutò. Ritornò nella sala grande, dove lady Thompson
pure parlava di lui a voce bassa, circondata dai suoi intimi, e fu come
se Massimo d’Astorre facesse il suo ingresso dopo una lunga assenza.
Mentre parlava, col suo brio ritrovato, vedeva attraverso il grande
uscio aperto, nella sala vicina, Elisa, che in mezzo a un gruppo di
donne pretenziosamente vestite, dominava per la sua stessa semplicità
e per lo splendore calmo della sua bellezza. Mai gli era sembrata
tanto seducente. L’amò in quel momento al punto da dimenticare i suoi
recenti dolori. Vedendolo discorrere, ella gli sorrise, e da quel solo
sorriso egli si sentì riempire di un orgoglio senza limiti. Si trovò
subitamente in eccellenti disposizioni, sul proprio terreno, ed ebbe un
vero godimento nella ripresa di possesso di sè medesimo.

Da questo momento, Massimo ebbe bensì ancora qualche ora di debolezza,
ma ricominciò a lottare. Si applaudì d’essere venuto a Firenze, poichè
lì solamente aveva potuto uscire a poco a poco dallo stato di marasmo
in cui era caduto. Ridivenne per Elisa quello ch’era stato nei primi
giorni del loro amore. Contemplò rifiorire la sua bellezza dopo la
convalescenza circondandola di cure discrete, con tutte le delicatezze
della sua natura. Seppe ritrovare le seduzioni ispirate dalla passione,
ed erano più affascinanti, velate dalla tristezza ch’egli non le
nascondeva, a lei. Eppure, egli non s’imponeva, comprendendo che
bisognava lasciare agire il tempo; la spingeva a distrarsi un poco,
cercando tutto quanto le potesse piacere di più. E non le mostrava
più le sue paure, i suoi turbamenti; si celava nelle ore cattive.
Ancora infelice assai, passava però in mezzo alla folla, superbo di
vedersi invidiato. Riuniva tutta la forza rimastagli, e di gioventù e
di spirito, in un grande sforzo. Per il momento sentiva ch’essi erano
più riavvicinati in mezzo al mondo, che soli. Studiava ogni gesto,
ogni atteggiamento d’Elisa, cercava di vederle passare sulla fronte
i pensieri, d’interpretare le parole, di leggere nelli occhi, e uno
sguardo triste bastava ad agghiacciarlo per un momento, mentre una
stretta di mano aveva il potere di rendergli intero il suo coraggio.

Per un tacito accordo non parlavano di quanto era passato. La pace che
stavano ritrovando poteva essere facilmente turbata, lo sentivano, e
un vago imbarazzo esisteva tuttora fra di loro. Comprendevano che il
silenzio era buono ed aiutava il tempo. Per il momento, si celavano a
loro stessi i loro propri segreti.

Massimo d’altronde usciva molto, la lasciava coi suoi parenti, e sua
madre, ignara di tutto, era soddisfatta delle buone disposizioni di
suo genero per lei, e ne approfittava per prolungare il suo soggiorno
in Toscana, ben contenta di mostrarsi alle Cascine nel magnifico
equipaggio della figlia.

V’era ressa intorno ad Elisa, e molti le facevano la corte,
rispettosamente. Quelli che si ostinavano a non amarla erano ora
contradetti risolutamente. Lady Thompson affermava che la marchesa
d’Astorre stava perdendo il suo solo difetto, quello d’essere un
poco ritrosa, e non ne parlava più che come della sua migliore amica,
pretendendo perfino di essere gelosa della contessa Goffredi, la quale,
sola, indovinava che doveva essere accaduto qualcosa d’insolito alla
_Villa del Giglio_. Pure non poteva nulla comprendere di positivo, e
rimpiangeva assai che Paolo fosse assente, poichè lui forse avrebbe
scoperta in parte la verità. Ma Paolo era in Oriente, per un lungo
viaggio.

Intanto Elisa, ritrovandosi in società, si rendeva conto di molte
cose che prima le riuscivano oscure. La luce si faceva ancora una
volta, e certe abitudini strane le apparivano ora quasi naturali. Meno
ritrosa, sentiva che la distrazione può talvolta essere necessaria, e
subiva volentieri l’influenza delle cose esterne, del rumore che la
vita mondana metteva intorno a lei, e che poneva la sordina ai suoi
incessanti pensieri, al suoi ricordi ancora troppo vivi.

E comprese meglio Massimo. Indovinò quanto negli uomini il carattere,
la condotta, tutto, è subordinato alle circostanze, alla posizione
sociale, al primo passo dell’adolescenza, all’esempio altrui, alla
vanità eccitata, ad una curiosità insaziabile, non trattenuta da alcun
principio.

Riesciva ad essere buona ed affettuosa, a mostrare che nulla era
mutato in lei. Ma talora, quando si trovavano soli, lo sguardo fisso
di Massimo che cercava di penetrare fino in fondo all’anima sua, la
scoraggiava, e sentiva un turbamento pieno di paura, quando, dopo un
subito abbraccio pazzamente appassionato, egli si svincolava di botto,
e indietreggiava, con una espressione di sofferenza, e come se avesse
sulle labbra una domanda che non poteva formulare. E lei non sapeva
certo indovinare cosa egli pensava allora.

Egli pensava che una condanna incombeva sopra di lui, e che avendo
imparato così tardi ad amare, non poteva essere completamente amato. La
sorte gli rifiutava le gioie misconosciute altre volte, adesso che le
intendeva, ed a lui che aveva solo veduto il lato plastico dell’amore,
erano rifiutate per sempre le supreme delizie dell’unione assoluta del
sentimenti. Quando vedeva Elisa sorridergli, quando se la stringeva
al cuore, egli però sentiva di non possederla tutta. Cosa non avrebbe
dato per averla incontrata pel primo, per regnare su quell’anima
qual signore unico, per essere solo al mondo ad adorarla, perchè lei
non avesse il minimo pensiero segreto, il minimo ricordo che non gli
appartenesse! Lui, tanto orgoglioso e tenero della sua libertà, una
volta, si sentiva ora superbo di appartenere tutto intiero e per sempre
a una donna, e disprezzava il suo passato così pieno e così vuoto
ad un tempo, ma avrebbe voluto accontentare tutte l’esigenze della
possessione; comprendeva che il desiderio umano è sempre incompleto, ma
che deve almeno essere soddisfatto per tutto quanto le leggi terrene
permettono. Pensava che in quella solitudine dell’amore che mette il
deserto fra noi ed il mondo, egli non possedeva tutta l’anima di Elisa,
neppure quando la rinchiudeva nella rete della sua tenerezza, della
quale non si poteva disfare una sola maglia. E si sentiva invadere
allora da un immenso sconforto che lo rendeva debole come un fanciullo.

Pensava spesso a Giulio Bardi, troppo spesso. Dal giorno in cui aveva
veduto e compreso quell’uomo, qualcosa di nuovo gli era stato rivelato.
Aveva incominciato ad odiarlo di un odio intenso, poi lo aveva
ammirato, anzi allo stesso tempo. Adesso rifletteva senza posa a quel
rivale per sempre allontanato, ma che restava sempre presente alla sua
memoria.

Pensava che quell’uomo, consacrato al lavoro fino dalla sua prima
giovinezza, era stato condannato all’esilio e ad una fatica incessante,
quasi materiale e certo inferiore alla sua intelligenza, e che, in
codesta vita tutta di dovere, l’amore era stato il solo punto luminoso,
un amore sublime e forte, che giungeva fino al sagrificio completo.
Lui, Massimo, al contrario, nato tra i felici del mondo, possessore
di un gran nome e di una sostanza colossale, avendo conosciuto tutti i
piaceri, tutti i godimenti, e perfino le emozioni che sono le più rare
nelle classi privilegiate — lui, ammirato, lusingato, gustato, eccitato
in tutte le sue vanità, non aveva pensato mai che a sè stesso, e aveva
sdegnato i sentimenti più nobili. E adesso, convertito, aspirante alle
voluttà più alte, dopo d’essersi avvolto nelle più basse, stanco di
tutto, annoiato, rivolto verso la verità per un ultimo capriccio, e
non comprendendo la curiosità della passione ideale, completa, che dopo
d’aver avuto tutte le altre — era venuto, lui che aveva tutto, a rubare
l’amore di tutta la sua vita a quell’altro che non aveva nulla!

Ma, ad onta di tali pensieri — che certo ben pochi avrebbero compreso —
egli voleva vincere.


VII. 

Fu d’uopo tuttavia pur finire col ritornare alla villa. Un giorno,
Elisa, indovinando il desiderio che suo marito non osava esprimere,
glielo aveva chiesto per la prima. Ed infatti, Massimo aveva
subitamente sentito il bisogno di rivedere la casa da lui amata, il
giardino dove gli alberi gli erano sembrati altre volte più verdi che
in qualunque altro luogo, più susurrante la brezza, e più rosee le
rose, l’orizzonte verso il quale avevano preso il volo i suoi sogni
più felici. Temeva allo stesso tempo di ritornarvi, e quando finalmente
partirono, sembrava che cedesse alla volontà di sua moglie.

E davvero, un indistinto sentimento di paura s’impadronì di lui quando
la carrozza si fermò all’ingresso.

Ma, subito dai primi giorni, tutto andò bene abbastanza. La situazione
non si era nè peggiorata nè migliorata. I Valenti li avevano lasciati,
ma invitarono alcuni amici a venirli a trovare, e per qualche tempo,
non rimasero sovente soli.

A poco a poco Massimo si accorse che aveva avuto torto di temere; il
silenzio, la pace della campagna gli fecero bene, lo calmarono. Giunse
a non esser più turbato dall’idea della solitudine, a desiderarla quasi
ancora. Le antiche abitudini s’impadronirono nuovamente di lui, e vi si
abbandonò.

Ma soffriva sempre in segreto, col sorriso sulle labbra, la testa alta;
recitando la sua parte con tutte le sue forze riunite in una continua
tensione della volontà, studiando Elisa incessantemente, amandola con
le precauzioni suggerite dalla speranza non rassicurata.

Quasi a loro insaputa, per la china naturale delle cose, la solitudine
si rifece lentamente intorno a loro.

Il lusso da cui erano circondati, e che prima sarebbe sembrato
seducente ad un artista, formando un simpatico contrasto, per la sua
pesantezza e la sua inutilità, col semplice colloquio di due amanti,
aumentava ora la malinconia della villa, e sembrava il contorno
naturale di quella coppia diventata seria. Poichè vedendoli si
sarebbe difficilmente indovinato la lotta nascosta che li divideva
loro malgrado, e per la loro attitudine e la loro maniera d’essere,
li si avrebbe realmente scambiati per due persone unite dai legami
del matrimonio, dalla stima e da una fredda reciproca affezione, che,
ritrovandosi soli, dissimulano correttamente la loro aristocratica
noia.

E, in realtà, succedeva loro spesso d’interrompere un lungo silenzio
per riprendere una conversazione banale, che non impediva loro di
essere assorti nei loro soliti pensieri. D’ora in ora diventava loro
più difficile il parlare, e allo stesso tempo più doloroso il tacere.
E tutto camminava con precisione intorno ad essi; i numerosi servitori
in piccola livrea compivano i loro doveri senz’alcun rumore, con la
solennità di una funzione, ogni cosa giungendo puntualmente all’ora
stabilita. Massimo si occupava adesso della regolarità del servizio, e
nessun capriccio turbava la sontuosa eleganza della tavola. Adesso il
cocchiere inglese osava importunare i padroni, per venire, con la cera
seria sulla sua alta cravatta, a sottoporre qualche grave questione
al signore; poichè Elisa non montava più a cavallo, ma ogni giorno una
carrozza, perfetta, si presentava davanti al terrazzo verso le quattro,
e si andava a fare un giro.

Alla fine d’una giornata particolarmente bella, essendo l’aria dolce e
profumata, Massimo propose di andare a prendere il caffè sul terrazzo
del giardino. Il pranzo era stato assai silenzioso, e nella vasta sala
sonora non si udiva che il leggiero rumore inerente al servizio il
meglio fatto.

Elisa accettò, ed attraversando il giardino, andarono a sedere
sulle poltrone di legno, coperte di cuscini, che sul vasto terrazzo
sembravano aspettassero perpetuamente qualcuno. Sopra il basso e largo
parapetto di marmo, certi vasi enormi dai quali sorgeva una pianta
rara, mettevano un tocco verdeggiante a distanze eguali. Appoggiandosi
e guardando in giù, si vedeva un alto muro dritto, al piedi del quale
il disordine intricato di grossi cespugli, dal verde assai cupo,
nascondeva una stretta viuzza dove non risuonava che di raro il passo
di qualche fanciullo. Poi lo sguardo scorreva sulle cupole oscure fatte
dagli alberi, e si perdeva poscia nella pianura, dalla vegetazione
povera, il cui colore terreo prendeva delle tinte dorate sotto gli
ultimi raggi del sole. Più in là si distingueva appena, nella bruma
calda, l’ondulazione molle delle colline, e nella polverosa lontananza
non si poteva precisare la linea dell’orizzonte. Nella vasta distesa
dove vagava lo sguardo, i sogni indistinti che s’alzano in noi nelle
ultime ore del giorno, potevano incontrarne altri sparsi nei mille
colori di una tal scena che mutava sempre, confondersi, ed intangibili
perdersi nello spazio.

Non una foglia si muoveva; non soffiava alcuna brezza. Nel giardino,
sul terrazzo, nella vastissima distesa di paesaggio, tutto era
immobile. La varietà stupenda delle tinte del cielo, dove il poema
del tramonto si svolgeva in quella sera con una ricchezza speciale,
contrastava col silenzio profondo e l’assenza di ogni movimento. Non si
sentiva nulla, e l’occhio vedeva delle esplosioni di colore, delli echi
perduti di tinte, che sembravano sonorità visibili. Un velo vaporoso
d’una diafaneità ideale si stendeva dovunque. I più lievi rumori
prendevano una importanza insolita.

Sopra un tavolino rustico, un vassoio d’argento era stato posto, e le
tazze, la caffettiera, la zuccheriera, su cui la luce cadente accendeva
del fuggitivi bagliori, tutto prendeva quell’aspetto d’inusitata
eleganza che acquistano all’aria aperta gli oggetti fatti per
l’interno. Un piccolo servitore, un _page_, fresco come una rosa, tutto
vestito di panno verde cupo, il corpo sottile, stretto nell’attillata
giacchetta a tre file di bottoni di metallo, i capelli rigidamente
pettinati, se ne stava dritto, aspettando. Sopra un altro tavolino, a
fianco di Massimo, erano delle scatole di sigarette, dei giornali, un
libro tra i fogli del quale splendeva un tagliacarte smaltato.

Lui, quasi coricato nella poltrona, rovesciato all’indietro, guardava
nel vuoto. L’atteggiamento stanco del corpo robusto, dava l’idea della
forza al riposo, ed il cuscino bruno attaccato allo schienale faceva
risaltare il pallore del suo viso. Sembrava riflettere, e talvolta
il suo sguardo si fissava su di Elisa, senza che paresse vederla.
Lei guardava il paesaggio, appoggiata alla balaustra; il suo lungo
e stretto vestito chiaro serpeggiando intorno al sedile. Una mossa
ch’ella fece attirò l’attenzione di Massimo sulla sua mano fina coperta
di anelli, ed egli ruppe il silenzio con un’osservazione banale.

Quelle tre persone su quel terrazzo, davanti a quel tramonto, formavano
un quadro bell’e fatto per un pittore di _high-life_.

Ma un osservatore avrebbe difficilmente indovinato il senso nascosto
nell’attitudine del marito e della moglie, nei loro pigri discorsi.
Avrebbe soltanto notato una specie di stanchezza che pesava su di loro,
una noia malinconica, dei sintomi di malattia morale, il contrasto
tra la bellezza e l’eleganza di quella coppia e la serietà delle loro
fisonomie. Gli sarebbero apparsi siccome una nuova prova della mancanza
possibile della felicità in mezzo ai raffinamenti nell’opulenza. La
loro solitudine dorata sembrava greve per loro in quel momento, e si
vedeva che nè la ricchezza delle cose materiali, nè le magnificenze
della natura avevano potenza di distrarli. Eppure tra di loro aleggiava
l’amore.

Rimasti soli, tentarono di parlare indifferentemente di questo e di
quello, con naturalezza, come oramai avevano imparato a farlo; ma in
quel giorno i loro discorsi cadevano ad ogni momento, ed il silenzio
riusciva a loro più penoso che mai. Ciascuno si sentiva il cuore grosso
di tutto quanto non dicevano, ma le parole si agghiacciavano loro in
bocca. Elisa sorrideva a suo marito; ma lui le guardava gli occhi e non
vedeva il sorriso.

Preso il caffè, e qualche frase insignificante ancora scambiata, il
silenzio era ridiventato profondo. Ma Massimo stava per parlare. L’ora
era giunta. Forse solo sentiva l’influenza, come la sentiamo sempre,
di trovarsi in un luogo dove da un pezzo non aveva più l’abitudine di
rimanere: su quel terrazzo, all’aria aperta. D’un tratto pronunciò
qualche parola, ma con una voce così gutturale, così soffocata,
ch’Elisa le udì male, non osando indovinarle, non credendo alle proprie
orecchie.

— Elisa, pensate spesso a lui? 

Le sillabe, chiare questa volta, risuonarono stranamente, e la loro
vibrazione nell’aria immobile, spaventò quasi colui che le aveva
pronunciate. Avrebbe forse voluto dire tutt’altro, ma la sua idea
fissa, in quel momento speciale, si era a sua insaputa formulata.
Elisa non comprese la domanda che dopo alcuni secondi. Un minuto
interminabile passò. Ma l’ostacolo era varcato, rotta la diga, ed ora
bisognava parlare.

Il cielo si oscurava a poco a poco; scendeva la sera in un lungo
crepuscolo.

Massimo si avvicinò a sua moglie, sedette sui cuscini che stavano ai
piedi di lei, e la guardò negli occhi.

— Sei sorpresa, — gli disse, — e taci; ma bisogna che _io_ parli, e
bisogna che tu mi risponda. Questo momento doveva giungere; se non
ne approfittiamo, non ritornerà forse mai più, e saremmo per sempre
infelici. Noi non rassomigliamo agli altri; ci siamo conosciuti ed
abbiamo vissuto in un modo così diverso, che dobbiamo dirci tutto,
anche ciò che non si dice. Ho troppo sofferto in questi ultimi giorni.
Se devo continuare a vivere, bisogna che ritrovi la felicità perduta,
che non ci sia più tra di noi due quel qualcosa che non possiamo
nominare, e che ne divide. Lo vuoi? Mi puoi amare ancora?

— Lo sai bene, — rispose lei finalmente con dolcezza. — Ho un solo
desiderio: è di vederti più felice, ma non osavo sperarlo. Eppure ti
ho ben provato che ti amo. Tu pensi sempre al passato; ma di me tu sai
tutto, mi vedi come sono, e devi ben comprendere che voglio dedicarmi a
te.

— Elisa, non è così che ti vorrei sentir parlare. D’altronde non
hai risposto alla mia domanda. Ebbene, non rispondere. Posso bene
indovinare. Sono io che ho troppo pensato a _lui_, che non posso
impedirmelo. Dal giorno in cui l’ho veduto, in cui l’ho compreso, nuovi
orizzonti si sono aperti dinanzi a me; ho riconosciuto molte verità
che avevo invano cercato di negare altre volte. Ho lungamente pensato;
ho fatto sopratutto dei confronti. L’amore che mi puoi dare non può
essere, lo so, che il frutto di uno sforzo, d’un oblio volontario da
parte tua, e che il risultato del mio amore che t’avviluppa sempre. So
bene che, avendolo riveduto, hai potuto separarti da lui, ma non hai
potuto dimenticarlo. Eppure, poichè sei qui, poichè la sorte ti ha data
a me, vorrei ritrovare tutta la felicità perduta, e renderla maggiore.
Ma che vi sia tra di noi una fiducia assoluta!

— Oh! quanto mi fanno bene le tue parole, Massimo! L’indifferenza
apparente ch’era fra di noi, mi pesava quanto a te. Ma non osavo dir
nulla. Devi però sapere che sono sincerissima, e che non avremo mai
nulla di nascosto l’uno per l’altro. Io pure soffrivo. Bisognerà che
siamo il più felici possibile. Vedrai quanto saprò esser buona. Voglio
fare dei progetti. Prima staremo qui finchè vorrai, poi andremo a
viaggiare.

— Sì, ma per ritornare qui. 

— Oh! io non domando di meglio. Adoro questa casa. 

— Grazie, mia cara. Vorrei poterti far conoscere tutta la mia
vita, tutti i miei pensieri, tutto quello che ho visto e che ho
conosciuto.... e tutto quello che sento adesso, perchè tu possa
comprendere in qual modo speciale ti amo. Noi altri, di cui la vita è
stata irregolare, abbandonata a tutti i capricci d’una imaginazione
alla quale nessuna necessità poneva dei limiti, quando finalmente
l’amore vero si rivela a noi, amiamo con delle gioie e dei dolori
particolari, difficilmente compresi, e per noi, che non la meritiamo,
la felicità è ben più squisita che per coloro cui è dovuta, essa ha
il fáscino immeritato del frutto proibito, del tesoro trovato. Per
possederla, non fosse che brevemente, impieghiamo tutte le nostre
forze, tutta la nostra esperienza e combattiamo con accanimento in una
lotta suprema contro il destino che ci siamo fabbricati noi stessi.

Elisa ascoltava le parole di Massimo, che le rivelavano delle cose
da lei in parte indovinate da un pezzo, e che in quel momento vedeva
chiaro. Lui continuava a parlare seduto a’ suoi piedi, stringendosi
contro lei, trovando degli accenti di passione diversi da quelli
ch’ella conosceva. Era commossa assai, e nell’ombra crescente, in mezzo
ai fiori esalanti i loro ultimi profumi, ella si abbandonava tutta
intera al turbamento da cui era invasa, l’onda dei pensieri confusi
nella sua testa neutralizzandosi in una specie di sensazione in cui il
sogno dominava.

A un certo punto Massimo si alzò e andò ad appoggiarsi al parapetto
del terrazzo, guardando davanti a sè come se interrogasse l’orizzonte.
Elisa lo seguì con gli occhi, e bentosto lo richiamò. Egli venne di
nuovo a sedersi riavvicinandosi a lei e la osservò ancora fissamente,
il suo viso avendo nuovamente mutato di espressione. Elisa china verso
di lui, tutta vibrante di ciò che aveva udito, commossa dalla solennità
tenera dell’ora, dal silenzio delle cose, dallo sguardo luminoso che
rischiarava il pallore di Massimo, ricominciò a parlargli a voce bassa,
adagio.

Ma sembrò non udirla, e interrompendola, disse alfine: 

— Bisogna che ti sveli tutto il mio pensiero, che ti dica qualcosa
che poi non ripeterò più. Sei giovane ancora, Elisa, e alla tua età
si crede la vita più breve che non lo sia davvero. Sovente, in una
esistenza, ricominciamo la vita parecchie volte. Ebbene! tu potrai
forse ricominciarla un giorno, e un tal giorno forse non è molto
lontano.

— Non comprendo. 

— È semplicissimo. È raro che nella mia famiglia si viva lungamente, ed
io sono ammalato....

— Massimo! — gridò lei, prendendogli le mani, — ti proibisco di parlare
così!

— Mi ascolterai invece tranquillamente fino in fondo. Non v’è nulla
di tanto terribile in ciò che ho a dirti. Lo ripeto, te ne devo
parlare una volta, poi sarà finito. Sai che detesto tutto ciò che ha
un’apparenza lugubre. Del resto non c’è niente da farci, e tutto avrà
luogo come Dio vorrà. Il mio presentimento mi può ingannare, ma devo
dirtelo.

— Ma io non voglio! 

Le impose silenzio con un gesto e con un sorriso. 

— Sì, Elisa, ora mi sento bene, non soffro; può darsi che m’inganni,
ma può anche darsi che il male esista. Del resto, tu non sai tutto.
Un giorno, abbastanza recente, ho desiderato morire. Mi è sembrato
che, scomparendo, avrei quasi fatto il mio dovere. Io, che dimentico
facilmente ciò che ho letto, mi sono rammentato di un romanzo che
m’impressionò fortemente a diciott’anni, di un romanzo dove il
protagonista si uccide per lasciare sua moglie libera, e ciò combinando
il suicidio in modo che lo si creda vittima di una disgrazia. Ma sono
un uomo soltanto, e non ho codeste sublimi virtù del sagrificio che
possono trasformare un contadino in un eroe. No, sentii che il mio
immenso amore è però egoista, che ti volevo ancora, che, vivo, non
potevo cederti ad alcuno! No, vedi, voglio tutta intera la mia parte
di bene; sia pur corta! Dopo, ricomincierai la vita; ma, frattanto,
adesso, Elisa mia, bisogna molto amarmi, bisogna amarmi quanto ti
amo!...

Queste parole pronunciate con una gran calma, contrastante con
l’atteggiamento ed i gesti appassionati, caddero tutte calde nel
silenzio della notte serena. E prima ancora ch’egli avesse finito,
Elisa stava nelle sue braccia, con gli occhi velati di lagrime,
abbandonandosi, con uno slancio e una passione nuova, la testa china
sul petto di lui.

Massimo se la strinse in un abbraccio pazzo, volendo ancora parlare, ma
non potendolo più. Il suo sguardo si volse al cielo stellato per poi
ritornare a posare su quella testa amorosa, e si sentì in quel punto
siffattamente felice, che comprese di non aver più nulla da temere
nella vita, nè da rimpiangere nella morte.

Era il primo trionfo del marchese d’Astorre. Quella sera egli aveva
vinto.


  FINE.




DEL MEDESIMO AUTORE: 


  _Costanza Girardi_            L. 1 —
  _La gran rivale_                 1 —
  _Decadenza._ 2.ª edizione        1 —





Nota del Trascrittore 

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK UN MATRIMONIO ECCENTRICO ***


    

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to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
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visit www.gutenberg.org/donate.

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
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against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
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outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
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Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of
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editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in
the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not
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