La tragedia della pace : Da Versailles alla Ruhr

By Guglielmo Ferrero

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Title: La tragedia della pace
        Da Versailles alla Ruhr

Author: Guglielmo Ferrero

Release date: July 19, 2025 [eBook #76526]

Language: Italian

Original publication: Milano: Athena, 1923

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA TRAGEDIA DELLA PACE ***


                           GUGLIELMO FERRERO


                              LA TRAGEDIA
                               DELLA PACE

                        DA VERSAILLES ALLA RUHR



                            EDIZIONI ATHENA
                                  1923
                       MILANO — VIA VIGENTINA 7-9




                          PROPRIETÀ LETTERARIA


     _I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per
      tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l’Olanda._

                      COPYRIGHT BY G. FERRERO 1923

             Si riterrà contraffatto qualunque esemplare di
           questo 2.º migliaio che non porti il doppio timbro
              a secco della Società Italiana degli Autori.

                      TIPOGRAFIA SOCIALE — VARESE




PREFAZIONE 


_Questo libro è stato scritto per coloro, che vogliono nutrire la
mente di cibi sostanziosi, non di ciarle e di parole. Se sieno molti
o pochi non so. Vorrei che fossero molti; ma anche se saranno pochi,
mi riterrò largamente compensato della fatica, avendola spesa per gli
spiriti eletti. L’Europa muore di inanizione intellettuale. La lucerna
del pensiero si spegne. I pochi che posseggono ancora un po’ dell’olio,
con cui si alimenta la preziosa lucerna, hanno il dovere di mantenerla
viva, anche se spiacciono ai troppi fabbricanti di bengala, che a
quella pura luce vorrebbero sostituire i loro pirici lampi._

_Questo libro si compone di articoli pubblicati nel Secolo, ai quali
è stato aggiunto un «Primo discorso ai sordi», in parte pubblicato
nell’_«Illustration», _nella_ «Revue Universelle», _nell’_«Hearst’s
Magazine», _in parte inedito; e alcuni lunghi brani, pure inediti,
di un diario della pace. Spero tuttavia che non sarà un cartoccio di
briciole, simile a quelli che troppo spesso si offrono ai frettolosi
lettori del nostro tempo; ma un libro, nel quale i singoli saggi sono
stati fusi, quanto si poteva, in una unità organica. Per fonderli fu
spesso necessario o scorciarli, o allungarli, o rinforzarli di aggiunte
e di attacchi. Non furono toccate le previsioni, così quelle che si
sono come quelle che non si sono avverate; e degli articoli del Secolo
fu indicata la data della pubblicazione, per i lettori che fossero
avidi di confrontare il secondo testo con il primo._

_È stato possibile, e non troppo difficile, fondere in un tutto questi
scritti, staccati nel tempo e nello spazio, perchè erano riuniti da un
unico pensiero, che li legava come un filo. Credo di poter affermare
senza iattanza, che tra gli uomini di penna dell’Europa, sono stato
uno dei pochissimi, se non il solo, il quale dal 1914 in poi abbia
pensato e scritto, non obbedendo alle impressioni mutevoli degli eventi
o alla dottrina ufficiale di un partito o di uno Stato, ma seguendo una
idea. Un’idea che, se è venuta allargandosi e rafforzandosi, a mano a
mano che aderiva a una realtà enorme e sempre in sussulto, ha potuto
in una certa misura dominarla, perchè è rimasta sempre la stessa, non
curante di essere fraintesa e vilipesa dagli opposti partiti o negletta
dalle volubili infatuazioni dello spirito pubblico. Chi legga senza
preconcetti questo libro e i tre precedenti che hanno studiato via via
gli avvenimenti dell’ultimo decennio_ — La Guerra Europea, La Vecchia
Europa e la Nuova, Memorie e confessioni di un sovrano deposto —
_vorrà, spero, rendermi questa testimonianza_.

_Ma appunto perciò il lettore dev’essere preparato a ritrovare anche
in questo libro, come nei precedenti, una inquietitudine e quasi uno
spasmo, che ricomincia, si rinnova, si esaspera, invece che calmarsi,
con le incessanti riprese e sorprese della terribile vicenda, a cui
sottostiamo da quasi dieci anni. Anche questo spasmo è — in una certa
misura — una prova di verità. Dopo avere riconosciuto nella guerra
mondiale la prima delle grandi catastrofi, a cui negli ultimi anni
della pace avevo veduto correre quella aspirazione a una illimitata
potenza che è propria dei nostri tempi, fu facile di orientarsi,
perchè bastò applicare la dottrina agli eventi, dopo aver sfrondato la
storia del secolo_ XIX _delle leggende spesso puerili con cui i partiti
l’avevano falsificata. Ma che tragedia! Chi, comprendendola, non sente
la vertigine degli abissi?_

_Nel 1914 sembrò, per un attimo, che l’Europa volesse fare uno sforzo
eroico e ritrovare la salvezza in una dottrina, antica o nuova, di
austera saggezza. Ma il buon proposito non durò a lungo. A poco a poco
la guerra esaltò tutte le funeste passioni, che l’avevano scatenata.
«La chimera della potenza illimitata» — scrivevo nel 1916 — ha
abbagliato anche i paesi latini. Molti maledicono oggi la Germania, ma
con parole turbate e confuse, che, a chi le intende, la lodano invece
e la magnificano. Dopo tanto sangue, dopo tante perfidie e violenze,
molti nemici della Germania oscillano tra l’orrore e il desiderio di
imitarla[1]». E aggiungevo: «Per ritemprarsi e rinnovarsi» l’Europa
dovrà «affrontare un tempestoso periodo di disordine spirituale e
di anarchia politica»; perchè una istituzione sola sarebbe emersa
«intangibile da ogni rivoluzione e reazione: il suffragio universale...
sovrano fanciullo, capriccioso e incosciente, bonario e crudele, facile
vittima, per pochezza di mente e per rude semplicità di passioni, della
furberia e della impostura».[2]_

_E allora nessuno prevedeva ancora che il sistema monarchico
dell’Europa sarebbe stato distrutto!_

_Dopo la rivoluzione russa, durante le terribili prove del ’17 e
del ’18, quando alla baldanza del ’15 e del 16 succedè di nuovo lo
scoramento e la paura, di nuovo sembrammo porgere l’orecchio all’angelo
del buon consiglio. Ma dopo l’armistizio la chimera della potenza
illimitata entrò, come uno di quei diavoli di cui parlano le leggende
del medio evo, nei vincitori e li fece uscire di senno. Cadute le
grandi monarchie dell’Europa, spezzata l’ossatura che da un secolo
reggeva l’ordine sociale del vecchio mondo, sopraffatti i sentimenti
e le dottrine della democrazia e dell’umanitarismo con cui la guerra
aveva alimentato il proprio ardore, dalle passioni della vittoria —
risentimento, cupidigia, ambizione — l’Europa precipitò in una anarchia
rissosa, travagliosa, prepotente e impotente. Chi conosca i vizi
profondi della civiltà quantitativa non può meravigliarsene._

_«Tutte le autorità sono cadute» — scrivevo nel 1920 — «e perciò la
sola forza governa il mondo; la forza sola e nuda, o coperta appena di
qualche cencio rosso o di qualche brandello di bandiera nazionale; e
governa il mondo come può, per accessi e sussulti, senza discernimento,
straziandolo, perchè la forza è così debole quando è sola e nuda! Non
illudetevi o uomini! i soli titoli di autorità che ancora valgono sono
il ferro e l’oro. La libertà è morta, insieme con il diritto divino.
A volta a volta governerà chi riesca a farsi obbedire per un’ora
da centomila baionette; e a impadronirsi dei torchi ufficiali che
stampano la moneta. Il fatto deciderà del diritto, non il diritto del
fatto! La Rivoluzione ha finito la sua fatica: a furia di accrescere
la forza dei governi a scapito dell’autorità, li ha ridotti ad essere
pura forza, null’altro che forza, ossia volubilità, violenza, ferocia,
sospetto, cupidigia, venalità, orgoglio, ipocrisia, odio, incapacità
e debolezza... Quanti anni passeranno, prima che una autorità giusta,
serena, intelligente, nobile risplenda di nuovo sull’Europa, come
un generoso sole di autunno che indora e non accieca, che matura la
succulenta vendemmia e non prosciuga gli umori vitali, che sfolgora il
terso azzurro e non aduna tempeste!»[3]_

_Il libro, che presento ai lettori, racconta la storia di questa
catastrofe e tenta di ritrovare in mezzo alle macerie la via
dell’ordine, della libertà e della saggezza. Non che ci si trovi la
formula della salute o, come oggi si dice, di quella restaurazione, che
gli uomini di Stato promettono tutti i giorni ai popoli per l’indomani.
Il male è troppo profondo, perchè chi lo conosce possa illudersi
guarisca in pochi anni e per effetto di una ricetta miracolosa. La
confusione e l’agitazione, in cui viviamo, dureranno a lungo. Vedremo
i popoli oscillar da una parte all’altra delle dottrine più opposte,
rovesciar oggi quel che adoravano ieri, per inginocchiarglisi di nuovo
innanzi domani. Vedremo a volta a volta la ciarlataneria, la violenza,
forse anche la pazzia, conquistare il comando, sfregiare la libertà e
la giustizia. Nella storia sopraggiungono ogni tanto generazioni, che,
tutte intente in qualche opera particolare spesso meritoria e talora
anche gloriosa, innamorate della propria intelligenza e attratte dalla
speranza di una immaginata felicità nuova, si staccano dall’esperienza
dei secoli, dimenticando le regole elementari ed eterne dell’arte
di governarsi e di governare. Ma proprio in queste età, spesso
gloriose per altri meriti, lo Stato e la Società sembrano ricascare
in infanzia. Quando i Greci si fecero innanzi, con le loro colonie,
coi loro commerci, con le loro arti, con le loro filosofie, con le
loro conquiste, con le perenni rivoluzioni delle loro aristocrazie,
tirannie e democrazie, scompigliando il Mediterraneo nel tempo stesso
in cui l’abbellivano e l’istruivano, i sacerdoti egiziani, che li
osservavano dall’alta specola di una antica esperienza e saggezza,
li giudicarono dei «bambini». Non accade alcunchè di simile ai nostri
tempi? Giustamente, ma troppo orgogliosi della loro scienza, potenza
e opulenza, essi vogliono governarsi e non sanno più che cosa sia uno
Stato, un principio di autorità e di legittimità, un ordine legale, un
trattato; come un governo si faccia obbedire e si regga, come si debba
fare la guerra, come si possa fare la pace e mantenerla._

_Quanto questo stato di cose durerà nella civiltà occidentale, nessuno
potrebbe predire. Ma è certo che non durerà eterno._

_Come il mondo antico ritornò con i Romani, dopo la capricciosa
infanzia greca, alla maturità che sa governarsi e governare, così
l’Europa uscirà un giorno da questa sua presente infanzia politica,
piena di ingenuità, di errori e di imprudenze. Coloro che non hanno
perduto interamente il senso della eterna saggezza; coloro che anche
in questi tempi di anarchia vogliono sapere che cosa è uno Stato,
un principio di autorità e di legittimità, quale è la forza di una
legalità, come si fa e come si mantiene un trattato, preparano la
futura maturità dell’Europa._

  _Firenze, 14 marzo 1923._




PARTE PRIMA. 

L’ALBA TORBIDA DELLA PACE 


_Questa prima parte contiene un breve discorso sulla pace pronunciato
nei primi di Gennaio del 1919, pubblicato nel Secolo pochi giorni
dopo, il 14, sotto il titolo «Le baionette e l’idea»; e un articolo
pubblicato nel Secolo il 7 Gennaio del 1919 sul discorso pronunciato
dal Clemenceau, negli ultimi giorni di Dicembre del 1918, alla Camera,
sulla Francia e la pace._

_L’uno e l’altro scritto sono documenti dei due torbidi mesi, che
corsero tra l’armistizio e l’apertura del Congresso della pace, e
del fermentare e smarrirsi dello spirito pubblico, che in quei due
mesi incominciò. Ristampo il primo perchè è la chiave di tutto il
libro, contenendone l’idea madre; la sola — a mio giudizio — che
dia un senso a tutta la tragedia degli ultimi otto anni e la faccia
capire: la guerra mondiale esser terminata con la catastrofe del
sistema monarchico e aristocratico dell’Europa, ossia con un così
inaspettato e paradossale trionfo della rivoluzione francese e dei
principi del ’48 che già sin d’allora un conoscitore un po’ esperto
della storia del secolo XIX non poteva non restar perplesso e inquieto.
Ristampo il secondo, perchè il discorso del Clemenceau è un documento
importantissimo, a cui la frivola dissipazione spirituale di quei
mesi non fece attenzione. In esso si coglie sul vivo, nel suo primo
movimento quasi direi riflesso, quella subitanea paura della propria
inaspettata vittoria, da cui la rivoluzione francese fu presa,
nell’uomo e nel governo che allora reggevano la Francia, e il suo
ripiegamento frettoloso sulle tradizioni del passato: prima conferma
delle perplessità esposte nel precedente discorso._




I. 

Le baionette e l’idea[4] 


La rivoluzione francese fu definita da Napoleone: «una idea che
avrebbe trovato milioni di baionette». Noi potremmo capovolgere il
motto e definire la guerra mondiale: «milioni di baionette che cercano
un’idea».

Una bella mattina, due mesi fa, ci siamo risvegliati in pieno ’48.
Non è la repubblica del ’48, con il suo berretto frigio, la gonna e la
giubba plebea, il codazzo di operai vocianti e di vessilli scarlatti,
quella che si fa avanti nel cuore dell’Europa, tra le rovine fumanti
degli imperi germanici? La bandiera rossa che sventola sul palazzo di
Potsdam e sul castello di Schoenbrunn non è quella che gli operai di
Parigi offrirono, nei primi giorni di marzo del 1848, alla Repubblica
francese e che Alfonso Lamartine non osò innalzare sull’_Hôtel de
Ville_? Di sotto ai rottami dei due imperi sfasciati, non sbucano
forse al sole, liberi alla fine, i popoli e le città che il ’48 aveva
tentato di redimere dal servaggio moscovita, austriaco o prussiano: la
Polonia, l’Ungheria, la Boemia, Trieste? L’aquila bianca non ritorna
a fare il nido nelle foreste della Polonia e il tricolore non sventola
sulla vetta delle Alpi Giulie? Non sono fuggite ventiquattro dinastie;
e i soldati, reduci dal fronte, non alzano sulle proprie spalle,
acclamandolo sovrano del mondo, il suffragio universale? In mezza
Europa la Rivoluzione convoca uomini e donne, ricchi e poveri, dotti e
ignoranti, a darsi una libera legge. L’Inghilterra accoglie le donne
nella città politica. Il Re del Belgio, appena rientrato nel piccolo
regno, ha invitato il suffragio universale a sedersi sui gradini del
trono. Repubblica, Costituente, Suffragio universale, Sovranità dei
popoli, Liberazione delle nazioni oppresse, Resurrezione della Polonia:
tutti i sogni del ’48, crudelmente delusi per settanta anni, si
compiono.

Senonchè la sapienza dei popoli ammonisce che l’apparenza inganna.
Tragico groviglio di controsensi, la guerra mondiale termina in un
controsenso supremo. Sì, è finita la lunga guerra tra i popoli e il
diritto divino, tra le dinastie e le nazioni, che dalla rivoluzione
francese in poi, ha insanguinato l’Europa. Il diritto divino e il
principio dinastico sono caduti con l’impero russo, con l’impero
austro-ungarico e con l’impero tedesco. Il dramma, il grande dramma, di
cui la rivoluzione francese fu il prologo, è finito; ma in che modo e
con quali sorprese! La Repubblica è oggi acclamata proprio dai popoli
che non l’avevano mai desiderata. Trionfa il suffragio universale,
proprio quando tutte le forme del governo rappresentativo, di cui la
civiltà occidentale ha fatto la prova, sono screditate come non furono
mai. Mezza Europa si precipita in braccio alle Costituenti, per il
ribrezzo e lo schifo che incutono i Parlamenti ora in seggio. Sono
incoronate e collocate sul trono le nazioni, all’improvviso, trenta
anni dopo che i popoli oppressi erano stati abbandonati al loro destino
da tutti, dalla Poesia, dalla Scienza, dalla Storia, dalla Filosofia,
dai partiti, dai governi; quando l’imperialismo, più tracotante che
mai, li minacciava di nuove catene e il socialismo li consigliava a
cercare altre liberazioni; quando tutti avevano cominciato a disperare.

Il principio popolare e nazionale ha sgominato in questa guerra il
principio dinastico ed aristocratico; ma poco meno di mezzo secolo
dopo che, riconosciutosi debole, aveva conchiuso con questo una
tregua; e dopo una mischia accesasi per tutt’altro motivo. La guerra
mondiale è nata dalla sfida che gli imperi centrali lanciarono nel 1914
all’impero russo, antico alleato nelle guerre contro la Rivoluzione;
le democrazie occidentali sono state rimorchiate in questa «guerra
civile delle monarchie», ciascuna da ragioni e interessi particolari,
che non figuravano punto nell’asse ereditario della rivoluzione
francese. Eppure il destino ha voluto che le tre monarchie di diritto
divino mordessero insieme la polvere, anche l’impero russo, che pure
aveva combattuto con la parte più forte; ha voluto che le democrazie
occidentali si ritrovassero ad un tratto e all’impensata vittoriose,
non solo con le armi ma anche con le dottrine, di cui tanta parte
avevan già ripudiata come falsa e chimerica, con il cuore e con la
indifferenza se non con le labbra e con gli atti. Non si affrettano
i vinti a imparare quel linguaggio arcaico del ’48, che le democrazie
occidentali avevano quasi dimenticato? Drammaturgo imaginoso, la storia
teneva in serbo per l’ultimo atto del dramma, incominciato con la
rivoluzione francese, la più spettacolosa delle sorprese.

Ma questa appunto è la ragione per cui non mi sento tranquillo e non
posso a meno di diffidare. Diffidare, intendiamoci bene, non al modo
di coloro che sospettano nella rivoluzione tedesca una commedia,
inscenata per strappare ai vincitori condizioni migliori di pace.
Non si fanno rivoluzioni per finta! Ma a rischio di far dire che il
mio pessimismo è incurabile: io diffido di questo improvviso epilogo
del grande dramma, perchè pare nitido e chiaro, ed è faragginoso e
confuso. Si ritrova nell’epilogo il difetto che fu proprio del dramma
intero: quella violenza e quella confusione di aspirazioni, reali o
chimeriche, ma contradditorie, che da un secolo mettono l’Europa alle
prese con tanti nodi insolubili, e la esasperano, e la trascinano,
e la trascineranno giù per i precipizî di Satana, di tragedia in
tragedia, di catastrofe in catastrofe, finchè gli uomini non avranno
imparato a ritrovare la chiave della ragione e della equità in un più
chiaro ed umano senso dei limiti. Troppe cose che combattono insieme
chiedono i popoli oppressi alla libertà, improvvisamente ricuperata,
per troppa parte dono grazioso della fortuna più che acquisto meritato
del sacrificio. Troppe cose che non vanno d’accordo tra loro sperano
i popoli vinti, dall’impeto di collera con cui hanno rovesciato le
istituzioni, di cui furono, per amore o per forza, solidali nella
sanguinosa avventura. Troppe cose che si negano a vicenda esigono i
vincitori dalla vittoria, dimentichi che in questa guerra essi non
avranno vinto davvero il nemico se non vinceranno anche se stessi! Onde
i vincitori ed i vinti sembrano scambiarsi i programmi; e i vincitori
balbettano un po’ vergognosi il tracotante linguaggio con cui i vinti,
ai tempi delle liete speranze, sbigottivano i nemici e gli spettatori;
e i vinti scimmiottano, come possono, il generoso linguaggio che fluiva
così copioso dalle labbra dei vincitori, quando non erano ancora sicuri
della fortuna. Perciò tutti i movimenti nazionali scivolano verso
l’imperialismo come se in essi rivivesse lo spirito della Germania,
che forse nella Germania agonizza. Perciò ai principi del ’48 che
trionfano finalmente in Europa, si oppone — e si oppone, o ironia delle
cose! proprio nella Russia — un nuovo regime aristocratico ed una nuova
dottrina di privilegio. Il bolscevismo, quando esclude dal potere tutti
coloro che non sono proletari, non tenta di costituire una aristocrazia
a rovescio? E non rinnega, con un nuovo privilegio di classi nuove,
così la rivoluzione dell’89 come quella del ’48?

L’idea che milioni di soldati avevano visto scender dal cielo e porsi
alla testa dei loro battaglioni, e dar il segnale dell’assalto in tante
cruente battaglie, e consolare di una suprema speranza e di una suprema
promessa l’agonia di tanti caduti, sembra essersi dileguata, non
appena i protocolli dell’armistizio sono stati firmati. Il principio
o i principî, che dovrebbero riconciliare i popoli dell’Europa sotto
una legge comune, sembrano aver poca forza. La pace si annuncia come
un caos di passioni e di interessi rivali, meno sanguinoso della
guerra, se pure non del tutto incruento, ma non meno tempestoso.
Vuol ciò dire, come molti sussurrano, che quell’idea era una vasta
fantasima creata astutamente dalle ipocrite ambizioni dei governi, per
illudere i combattenti? Chi ragiona così, ha occhi ma non sa leggere
in questo caos; e non sa leggere in questo caos perchè ha smarrito
il buon senso, forse per acquistare qualche parte di quella scienza
profonda e molteplice, di cui il nostro secolo è così ricco. Ma il
buon senso invece vede chiaro anche in questo caos; e dice agli uomini
che vogliono e sanno ascoltarlo: «quando i governi avranno compilate
le loro tabelle mortuarie, risulteranno uccisi in questa guerra non
meno e forse più di dieci milioni di uomini. Un quadriennio solo ha
versato più sangue che tutti i secoli dalla fondazione di Roma al
principio del novecento; e per giunta ha incenerito metà delle vostre
ricchezze, frutto di così lungo lavoro; ha rinnegato sedici secoli di
cristianesimo, due secoli di umanitarismo, un secolo di libertà; ha
rovesciato su se medesime le fondamenta dell’ordine morale e politico.
Oggi dal Mar Giallo al Reno e alle Alpi, gli avanzi di tre imperi,
incendiati dal fuoco greco della rivoluzione, bruciano e fumano
lentamente sotto i nostri occhi; e le democrazie occidentali tremano
che il vento trasporti qualche favilla di quel fuoco sul loro tetto.
Voi avete scatenate tutte le forze di distruzione che sonnecchiavano
nella civiltà occidentale. E se avete fatto tutto ciò chiedete a voi
stessi, al presente, al passato, all’avvenire, alla saggezza dei grandi
e al buon senso degli umili: possiamo noi illuderci, se non vogliamo
suicidarci, che per incatenare queste forze di distruzione basti
far sulla carta dell’Europa alcune rettifiche di confini, sia pure
giustissime; arraffare qualche territorio di proprietà contestabile;
aggiungere qualche miliardo sul conto degli indennizzi dovuti dal
nemico; e ricominciar poi la gara degli armamenti e il gioco a
rimpiattello delle alleanze offensive e difensive?»

No: la pace è un caos, perchè l’Europa ha un’anima doppia, travagliata
da un male profondo — vizio od errore, e forse nel tempo stesso vizio
ed errore; e perirà, trascinando nella propria rovina l’America, se non
scende nella profondità della sua coscienza, per scoprire ed estirpare
questo vizio e questo errore. No: soltanto nella pace la guerra può
scoprire le ragioni e quindi vincere per sempre l’orrore di se stessa.
No: soltanto il giorno in cui la civiltà occidentale si accingerà con
fermo e chiaro proposito a questa riforma dei suoi principî e dei suoi
istituti, i milioni di baionette avranno finalmente trovato o ritrovato
l’idea, per cui hanno combattuto senza saperlo.




II. 

Il discorso e il pensiero di Clemenceau[5] 


Clemenceau ha parlato. Ha parlato la Francia. Noi conosciamo il
pensiero ufficiale della repubblica sulla pace. Ahimè! Questo pensiero
è debole, incerto, oscillante, timido e vecchio. Proprio così: timido
e vecchio. Invano si cercherebbe in quello una traccia del vigore, che
l’uomo e la nazione hanno mostrato nella guerra. Si direbbe che abbia
paura dell’avvenire come di un abisso che gli si spalanca dinnanzi e
perciò vuol ributtarsi indietro nel passato.

«C’è un vecchio sistema — ha detto il capo del governo francese — che
oggi sembra condannato, ma al quale io resto fedele in questo momento.
I paesi hanno preparato la difesa delle loro frontiere...». Interrotto
qui da uno dei soliti battibecchi parlamentari, il presidente del
Consiglio ha ripreso il suo pensiero, per ribadirlo. «I paesi dunque
hanno provveduto ad una salda difesa delle loro frontiere, con
i necessari armamenti, con l’equilibrio delle potenze...». Nuove
interruzioni, quetate le quali l’oratore ha soggiunto: «Questo sistema
sembra oggi condannato da solenni autorità. Eppure io faccio osservare
che se l’America, l’Inghilterra, la Francia, l’Italia si fossero
accordate per dichiarare che chi assalisse una di queste potenze
avrebbe avuto a che fare con tutte le altre...» A questo punto una
salva di applausi ha tagliato la parola dell’oratore che, sicuro di
essere stato compreso, non ha indugiato per terminare la frase, la
quale del resto, anche monca della sua conclusione, era chiara.

«Questo sistema di alleanze, al quale — lo dichiaro subito — io non
rinuncio, è il pensiero che mi guiderà alla conferenza, se la vostra
fiducia mi ci manda. Le quattro grandi potenze che la guerra ha
riunite, devono restare unite dopo la guerra, e affinchè restino unite,
son pronto a fare i sacrifici necessari....».

La pietra angolare della pace dovrebbe essere dunque un’alleanza degli
Stati Uniti, dell’Inghilterra, della Francia e dell’Italia, sostenuta
da armamenti preponderanti, e da frontiere ben munite, non da pezzi
di carta, come le convenzioni per la limitazione degli armamenti o per
gli arbitrati. Quasi a dissipare ogni dubbio il ministro ha aggiunto di
lì a poco: «Quanto alle garanzie internazionali, io dichiaro che, se
si lascia alla Francia il compito di provvedere alla propria difesa —
perchè essa non vuol rivedere le invasioni — se essa resta arbitra dei
propri ordini militari, io accetterò ogni nuova garanzia _supplementare
che potrà essere aggiunta_».

Il pensiero sembra chiaro. Le garanzie internazionali possono
aggiungersi ma non tener le veci degli armamenti. Anche in questo
dunque l’avvenire dovrebbe rassomigliare al passato. Sorga pure, sotto
il nome di Lega delle Nazioni, una seconda Corte dell’Aja, in mezzo
alla gara illimitata degli armamenti, archivio venerabile di inutili
protocolli.

Senonchè, se fino a questo punto il ministro francese procede chiaro e
coerente nell’esporre il suo pensiero, sembra invece contraddirsi ad un
tratto nel periodo che segue:

«_Je vais plus loin; si les garanties son telles, qu’elles exigent
des sacrifices de preparation militaire, je les ferai avec joie car je
ne veux pas imposer à mon pays des sacrifices inutiles_». Le garanzie
internazionali non sono più considerate come _supplementari_, ma come
_supplettive_ delle armi; non si aggiungono a queste, ma ne fanno le
veci, riducendole. Dunque, il ministro intende in un doppio modo le
garanzie internazionali e considera tanto gli armamenti quanto la loro
riduzione come «un sacrificio». Quando il Clemenceau dice di essere
disposto, se le garanzie internazionali lo esigono, a consentire
dei «_sacrifices de preparation militaire_» sembra considerare la
limitazione degli armamenti come alcunchè di penoso per la Francia:
un onere o una diminuzione. Invece quando aggiunge che consentirà a
questi «_sacrifices de preparation_» con gioia, perchè non vuol imporre
al suo paese dei «_sacrifices inutiles_» definisce sacrificio non la
limitazione degli armamenti, ma ogni preparazione militare, di cui
si possa fare a meno. La limitazione diventa quindi un bene. Nuova
contraddizione, che riprova come su questo punto il pensiero dello
statista è oscillante.

Disgraziatamente quella contraddizione è la oscura nuvola sospesa
sul nostro capo, in cui dorme forse più di un uragano. Il punto che
l’Europa deve decidere oggi è proprio questo: se le garanzie della
pace abbiano ad essere _supplementari_ o _supplettive_ delle armi;
se debbano aggiungersi o farne le veci ed in quale misura; se la
penna possa e in qual misura supplire la spada. Se devono essere
_supplementari_ la Società delle Nazioni sarà un inutile ingrandimento
dell’antica Corte dell’Aja; la guerra mondiale continuerà mutando forma
ed armi; nè si potrebbe predire chi vincerà da ultimo: se i latini, i
tedeschi o gli anglo-sassoni; se qualche nuova forma di dittatura, la
democrazia o il bolscevismo. Qualora invece le garanzie internazionali
riescano davvero a far le veci, in larga misura, delle armi, la
Società delle Nazioni sarà il principio fecondo di un nuovo ordine
internazionale, in seno al quale ogni popolo potrà ricomporsi. Ma è di
cattivo augurio per la pace che il capo del governo francese non veda
chiaro su questo punto. Tutto il discorso ribocca di un invincibile
attaccamento alle vecchie dottrine politiche del secolo XIX, e nel
tempo stesso di una fantasticità mascherata da realismo politico. Come
credere che un’alleanza eterna tra l’Italia, la Francia, la Inghilterra
e gli Stati Uniti sia altro che un sogno? Affinchè un’alleanza duri,
non dirò in eterno, ma per parecchie generazioni, è necessario posi o
sopra un principio, o sopra un interesse permanente, o su tutti e due.
La Santa Alleanza ha durato — si può dire — un secolo, perchè posava
sul principio dinastico e sull’interesse delle dinastie a difendersi,
difendendolo, contro le dottrine e i partiti rivoluzionarî. Oggi invece
non si vede nè il principio nè l’interesse, che potrebbero legare per
cinquant’anni la quadruplice imaginata dal Clemenceau. La paura della
Germania e del militarismo tedesco? Ma bisognerebbe ammettere che la
Germania e il militarismo tedesco saranno nei prossimi cinquant’anni
uno spavento e un pericolo come furono durante la guerra: il che non
è probabile, e ad ogni modo non è sicuro. Il mondo aveva dimenticato
che la integrità della Francia è necessaria alla libertà dell’Europa.
La Francia ha diritto di essere sostenuta e difesa nei suoi confini
storici contro la forza preponderante della Germania, che di nuovo la
minacciasse, anche da una alleanza mondiale, anche a costo di una nuova
gara illimitata di armamenti, anche a costo di una nuova guerra più
lunga e sanguinosa di quella che or ora è finita. Ma ad una condizione:
che sia chiaro esser i nuovi sacrifici inevitabili, perchè la Germania
e la Germania sola si è rifiutata, apertamente o subdolamente, ad ogni
ragionevole componimento ed accordo. Credo invece che la Germania
avrebbe poco da temere un trattato di alleanza tra la Francia,
l’Italia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti, il giorno in cui entrasse
nei popoli il sospetto che gli armamenti e gli odî delle nazioni
continuano, non perchè la Germania, ma perchè le potenze vittoriose non
hanno voluto fare i necessari sacrifici di ambizione e di forza.




PARTE SECONDA. 

IL CONGRESSO DI PARIGI 


_Questa seconda parte contiene alcuni studi sul Congresso della pace
che, come i lettori ricordano, si tenne a Parigi tra il Gennaio e
il Luglio del 1919. Di questi studi i primi cinque furono scritti a
Parigi nei mesi di Marzo e di Aprile, da me passati nella capitale
francese appunto per studiare le cose del Congresso: ma il quarto solo
fu pubblicato nel_ Secolo, _gli altri quattro sono nuovi, facendo
parte di un_ Diario della pace _inedito, in cui scrivevo le notizie
e le riflessioni di maggior importanza. L’ultimo studio, il sesto,
è un articolo pubblicato nel_ Secolo _il 31 Dicembre 1919: occhiata
retrospettiva all’annata e al suo lavoro per la pace._

_Ristampo questi studi tali e quali, lasciando in essi
quell’apprensione sospesa per un pericolo intravisto, ma non ancora
ben delineato nei suoi contorni, di cui sono pieni. I lettori vedranno
in questi studi definirsi a poco a poco più precisamente i dubbi già
espressi nella prima parte intorno alla fermezza e sincerità, con cui i
vincitori compirebbero il loro ufficio di improvvisati campioni dell’89
e del ’48. E vedranno spuntar l’idea che mi farà scrivere un anno dopo
le_ Memorie e confessioni di un sovrano deposto _e che mi sembra oggi
la chiave di tutte le presenti difficoltà dell’Europa: il principio
monarchico è caduto, ma il principio democratico, invece di trionfare,
vacilla sulle rovine del principio rivale; onde una insicurezza
universale che sembra dover durare a lungo e che richiederà rimedi più
profondi di quelli a cui pensano i medici oggi in voga._

_Nell’ultimo di questi scritti è enunciato un primo e risoluto giudizio
sul trattato di Versailles. Esso non è riconosciuto dai vinti come un
obbligo d’onore, riposa sulla forza soltanto; è dunque un trattato di
Francoforte, capovolto e di proporzioni più grandi._




I. 

Il Reno[6] 


Arrivammo a Parigi, Mario Borsa ed io, dopo un viaggio lungo e
incomodo, in un treno zeppo di ufficiali, che tornavano dall’Oriente.
Sentimmo tutti e due lo stesso fluido dell’aria. Sarei tentato di
definirlo: l’ossessione dell’indennità. Non s’è ragionato, si può
dire, d’altro. Tutti parlavano dell’indennità con una specie di
gioia vendicativa e maligna, come se tutto stesse ormai nel fare una
richiesta enorme, strabiliante, inaudita, ed ai tedeschi non restasse
più che impegnare il giaciglio e le pentole per pagare i vincitori;
come se la vittoria conferisse ai vincitori un diritto illimitato sui
vinti. Ho cercato di persuadere qualche viaggiatore che se l’imporre
una taglia sulla carta è facile, il riscuoterla è più difficile; che, a
tirarla troppo, anche questa corda potrebbe spezzarsi. Fiato sprecato!
«_Que les Boches payent, d’abord!_» È il ritornello obbligatorio.

Impressione penosa e prologo di cattivo augurio. Ho paura che questo
stato d’animo abbia a fruttificare grosse difficoltà per tutti. Che le
riparazioni stiano a cuore ai francesi, agli italiani, ai belgi e a
tutti i popoli devastati, si capisce. Ma le riparazioni appartengono
al regno della materia; e noi dobbiamo ricostruire in Europa, oltre
le case ed i muri, anche l’ordine. Badiamo, per la fretta di rifare
le case e i mobili, di non distruggere l’ordine per un secolo: chè
allora non solo le case e i mobili distrutti dalla guerra non sarebbero
rifatti, ma correrebbero il pericolo di essere distrutti anche quelli
che dalla guerra sono scampati!

Appena arrivato, corsi, come al solito, da M.....[7] Lo trovai nel
suo ufficio: un meraviglioso salone d’oro, fulgente delle più belle
eleganze di Luigi XV. Gli chiesi non senza una certa trepidazione, come
andava il Congresso della pace. Il suo viso si rannuvolò.

«La conferenza non va — mi disse — perchè non crede in nessun principio
e manca di direzione. Il solo che tenta di trovare questa direzione,
è Wilson; ma è solo, è combattuto aspramente, conosce poco l’Europa,
ha idee confuse, non vede chiaro egli stesso nel suo pensiero e
nei suoi principî, e perciò non può far molto o almeno non può far
tutto ciò che sarebbe necessario. Negli affari dell’Europa, — Reno,
Austria, Boemia, Polonia e via dicendo — l’Inghilterra è assente,
mezzo assonnata, senza opinioni chiare e ferme, come se si trattasse
di un altro pianeta. Quando non c’è di mezzo un porto, uno stretto,
un canale, una linea di navigazione, su cui mettere le mani, l’Europa
non esiste. E poi Lloyd George deve correre tutti i momenti a Londra,
per qualche affare interno. Uno sciopero dei suoi ferrovieri lo mette
in ansie e lo tiene in pensiero più che i confini della Polonia o la
sorte dell’Austria. Anche l’Italia è taciturna e passiva. Resta la
Francia... Non avendo voluto accettare i principî di Wilson come un
abbozzo per chiarirli, svolgerli, precisarli con le dottrine politiche
che la Francia difende da più di un secolo; non avendo voluto o saputo
infondere loro la chiarezza del nostro pensiero, la nostra esperienza,
lo spirito costruttivo di cui una volta eravamo dotati, gli uomini
che rappresentano la Francia sono stati costretti a ripiegare, più o
meno consapevolmente, per trovare delle direttive, sulle tradizioni
della politica francese: mescolo, come lei sa, di Antico Regime, di
Rivoluzione e di Impero. Ma Wilson ha in orrore queste tradizioni.
Onde lunghe e accanite discussioni, in cui Clemenceau e Wilson
disputano, senza intendersi, perchè parlano un linguaggio diverso,
e delle quali è spesso arbitro Lloyd George, che ha assistito alla
discussione distratto, senza capir bene nè l’uno nè l’altro, pensando
all’Egitto, all’Irlanda, ai ferrovieri, che ogni tanto gli giuocano un
tiro birbone. Wilson spesso ha ragione, ma non sa quasi mai difendere
bene il suo punto; e alla fine cede all’avversario, che, più esperto
delle cose europee, più agile e pronto, lo mette all’impiccio, gli
strappa una dopo l’altra le concessioni e le transazioni, imaginate
troppo spesso da Lloyd George, che hanno la virtù di scontentar
tutti. I piccoli popoli hanno capito a volo la discordia dei grandi,
e tirano l’acqua al loro mulino, senza scrupoli. Aggiunga la questione
dell’indennità, che imbroglia ancor più le faccende...».

Lo interruppi per accennare a quell’ossessione dell’indennità, di cui
lo spirito pubblico mi sembra schiavo; e gli dissi che mi pareva di
scorgere in quell’ossessione un pericolo.

«Ha ragione — mi rispose. L’avvenire dell’Europa dipende dal prezzo
del riscatto che il Congresso imporrà alla Germania. Se il Congresso
si sbaglia ed eccede, l’Europa sarà prima o poi _chambardée_ da capo
a fondo. I tedeschi firmeranno il trattato, ma poi studieranno ogni
astuzia per non eseguirlo, e faranno il possibile e l’impossibile per
buttar tutto all’aria».

Gli chiesi che prevedesse. 

«Potrebbe anche accadere che il Congresso si sciogliesse, senza
aver conchiuso la pace. Speriamo di no, perchè sarebbe una calamità
spaventosa. Ma anche se arriverà a conchiudere la pace, che stento
sarà! _L’Europa, non può fare la pace, perchè non sa quello che vuole._
Io mi domando a volte, se non incomincia in Europa una guerra di cento
anni!»

                                   *
                                  * *

Da due settimane ogni giorno ha confermato le previsioni dell’amico.
Questo Congresso è la Torre di Babele rifabbricata ai piedi di
Montmartre. Da due settimane mi pare di penetrare tutto quanto, con
il corpo e con la mente, nel più intimo e profondo senso filosofico
del racconto biblico. Ogni giorno odo le lingue del genere umano
confondersi ai piedi della torre, che l’orgoglio e la leggerezza umana
hanno edificata.

Non mi ero, purtroppo, ingannato punto, quando avevo visto nel
discorso di Clemenceau sulla pace un segno di stanchezza — sua e della
Francia. L’antico trionfa sul nuovo; il passato risorge dalla tomba
per strangolare in culla l’avvenire. Povera Lega delle Nazioni! Qui
a Parigi tutti, inglesi e francesi, ce l’hanno a morte con Wilson.
Si accusa il presidente americano d’essere tenero della Germania, di
non rendere giustizia alla Francia, e ai suoi sacrifici, di guastare,
impacciare e paralizzare il Congresso, con le sue ideologie di
professore e di protestante, di voler imporre all’Europa la Lega tra
le Nazioni, che è una utopia ridicola; di essere un ignorante, un
visionario e un primaire. A volte mi domando se è questa la città che
poco più di due mesi addietro intesseva per il presidente Wilson tante
ghirlande. È mutato il vento dell’opinione popolare? O quelli che oggi
lo vituperano tacevano allora?

Si sente nell’aria che forze occulte e potenti hanno agito
sull’opinione pubblica per irritarla contro il presidente. Napoleone,
scoperchiata la tomba degli Invalidi, presiede la conferenza, mentre
Wilson si nasconde ormai esautorato e impotente nel suo palazzo della
_Place des Etats-Unis_. Sul Reno e nell’Europa la pace porterà il
sigillo dei Bonaparte. Wilson riuscirà ad imporre qualche addolcimento:
quanto basterà per imputare a lui, di qui a qualche anno, tutte le
delusioni di questa pace in ritardo.

Si cercherà di disarmare la Germania, come Napoleone tentò di disarmare
la Prussia, togliendole le armi che ha e proibendole di fabbricarne
delle nuove. Si cercherà di minare sotto sotto, se sarà possibile,
la sua unità. Si cercherà di creare sul suo fianco orientale una
_forte_ Polonia, una _forte_ Boemia, una _forte_ Rumania, una _forte_
Jugoslavia, come se la forza di questi stati dipendesse dal volere
e dall’interesse delle grandi potenze che hanno vinto la Germania e
che vogliono mettersi al sicuro dalle sue vendette; come se nessuno
di questi stati, dopo essersi fatto, con il nostro aiuto, le ossa e i
muscoli, non potesse tradire i suoi protettori e passare al nemico. Si
studieranno insomma delle combinazioni più o meno artificiose di forze,
simili a quelle in cui si ostinò si illuse e si suicidò il grossolano
empirismo di Napoleone; e a cui dovrebbe servire di ragione l’interesse
degli stati che le fanno. Come se uno stato potesse esistere soltanto
per il comodo e l’utilità d’un altro!

«Ma crede lei — mi accade di ripetere quasi ogni giorno a questo e a
quello dei numerosi artefici della pace, maggiori e minori, che mi
vien fatto di incontrare — crede proprio che i tedeschi, i ruteni,
i lituani, condannati ad arrotondare a loro dispetto i territori
della nuova repubblica polacca; o i tedeschi, gli ungheresi, i ruteni
che la Boemia riceverà in dono, e tutti gli altri allogeni che la
Conferenza vuol consegnare ai nuovi stati dell’Europa orientale senza
una carta, senza uno statuto, senza una garanzia e per nessun’altra
ragione, se non perchè così torna comodo a questi stati e alle Potenze
che oggi compilano il trattato di pace, obbediranno? Un Governo si
regge parte per la forza e parte per il consenso, per un sentimento
sincero del grande numero, che riconosce come legittimo il comando e
doverosa l’obbedienza. Questi due elementi — forza e consenso — devono
incontrarsi ed integrarsi, perchè ciascuno è impotente da solo. Il
consenso cederebbe presto, anche nei popoli più docili, all’istinto
della rivolta, se la forza non stesse all’erta pronta a reprimerlo
appena leva il capo. Ma neppur la forza sola, senza l’aiuto del
consenso spontaneo, non riesce a governare. Nessun stato può mettere
un gendarme a fianco di ogni uomo, il quale non si riconosca obbligato
ad obbedirgli, perchè professa una religione diversa, perchè parla
un’altra lingua o perchè ha la pelle tinta di un altro colore. Crede
lei, per citare solo questo esempio, che i tedeschi di cui il Congresso
vuol far dono ai polacchi e ai boemi riconosceranno per legittima e
si sentiranno in coscienza obbligati ad obbedire alla repubblica del
professore Masaryk e del pianista Paderewski?

«L’ordine che il Congresso di Vienna impose all’Europa non ha durato
che 44 anni; e qualche strappo, come nel Belgio per esempio, l’aveva
già ricevuto prima del ’59. Eppure un secolo fa il prestigio delle
Corone era così grande, che in ogni paese un re, quali fossero le sue
virtù o i suoi vizi, poteva farsi riconoscere per un sovrano legittimo,
mandato da Dio. Tanto è vero che, per indurre i popoli a gettare quelle
Corone nella Neva, nella Sprea e nel Danubio, c’è voluto un secolo di
lotte e di guerre, il risveglio del sentimento nazionale, il fermento
delle idee liberali e democratiche, l’incredulità quasi universale,
un immenso rivolgimento della ricchezza e una rovina apocalittica. Ma
oggi? Oggi il solo crisma che abbia forza di attribuire ad un Governo
il carattere sacro di autorità legittima è lo spirito nazionale. Il
Congresso non è il Papa del Medio Evo: può assegnare dei territori;
non può dispensare patenti di legittimità. I polacchi ed i boemi
obbediranno al proprio Governo: non i tedeschi, gli ungheresi, o i
ruteni al Governo, per essi straniero, dei polacchi e dei boemi. Di
fronte ai popoli allogeni i nuovi stati non avranno che un titolo di
autorità: la forza».

«Nè basta: siete poi sicuri di quello che fate? Anche ammesso che
questi sudditi incorporati a forza irrobustiscano davvero la gracile
complessione dei nuovi stati, resteranno poi tutti fedeli al giuramento
di odiare fino all’estremo sospiro il nome tedesco?

«Gli umori dei popoli, come le inclinazioni degli stati, non sono
eterni: esempio, il Piemonte. Il Congresso di Vienna aveva sprangato
con il Piemonte le porte d’Italia in faccia alla Francia. Anzi perchè
la spranga fosse più robusta, la aveva saldata con i territori della
repubblica di Genova: quella astuta e intraprendente repubblica, che
nel seicento e nel settecento aveva sempre fatto parte a sè; che era
stata l’alleata e il banchiere della Spagna nella guerra dei trenta
anni. E il calcolo riuscì. Per trentatrè anni il Piemonte fece la
guardia sulle Alpi, sentinella vigile della Santa Alleanza contro la
Francia. Ma un bel giorno, nel ’59, la sentinella invece di chiudere
le porte d’Italia alla Francia, le aprì, e lasciò passare un esercito
francese, perchè l’aiutasse a scacciar l’Austria dalla valle del Po e a
diroccare l’ordine di cose costituito dalla Santa Alleanza in Europa».

«Non sarebbe savio far tesoro di questo insegnamento? Riordinare
il mondo cascato nel caos, creare stati nuovi, dire ad uomini, che
sino a ieri furono un gregge di sudditi: «da questo momento siete un
popolo, levatevi e governatevi», non è forse esercitare sulla terra un
frammento della potenza divina? Ma un popolo non diventa da un giorno
all’altro Dio o Semidio solo gonfiandosi nel suo orgoglio, o ripetendo
sino a ubriacarsi: «Noi siamo i vincitori, i vincitori... i vincitori».
Uno stato non può sussistere per la sola virtù della forza; gli
occorre anche un’anima: o una tradizione, o una dottrina politica, o
un principio giuridico, o una fede religiosa, o una passione nazionale.
I due scalpelli che deve maneggiare lo scultore di stati sono la spada
e la penna. Con la spada sola e con la sola penna non si scolpisce che
qualche sgorbio....».

Fiato sprecato! Questi discorsi sono avidamente ascoltati e capiti solo
dagli estranei al Congresso. Quando li tengo a qualche membro, illustre
od oscuro, della Conferenza, mi pare di discorrere, io nella mia lingua
ed egli nella sua, con un tibetano. Entrando in quella che chiamerei
la zona del Congresso, mi pare di trovarmi come isolato in un vuoto,
in cui del mondo troppo lontano non giunge più che qualche rumore
affievolito. È una illusione mia? O costoro sognano, e impostano sotto
forme di stati nuovi delle ipotesi, che il tempo rovescierà?

Ma non è questo il peggio. Il Congresso brancola e tasta la strada col
bastone, come il cieco, proprio là dove dovrebbe veder più chiaro e
procedere più risoluto. La Francia ha vinto la Germania, ma con l’aiuto
di una coalizione mondiale. A sua volta la Germania, se è stata vinta
da una coalizione mondiale, ha distrutto l’impero russo; e se non si
vuole o non si può smembrarla, a lei spetteranno le spoglie opime di
questa vittoria sul grande impero slavo: il primato del numero. La
Germania, restando unita, sarà la nazione più numerosa dell’Europa,
sinchè la Russia non risusciti, anche se non riuscirà a incorporare in
sè i tedeschi dell’Austria. E poichè la Germania ha provato di saper
adoperare la forza del numero molto meglio della Russia, neppure questa
terribile guerra ha tolto via dal centro dell’Europa quello squilibrio
di forze, che fu lo spavento e il tormento della nostra generazione.
Alcuni vogliono persino che l’abbia accresciuto. E il Congresso che
siede appunto per restaurare questo equilibrio, che cosa pensa di fare?
Vengon i brividi a pensarlo!

Vuole innanzi tutto ricorrere al grossolano empirismo di Napoleone,
disarmando la Germania con una ingiunzione unilaterale, sorretta da un
diritto perpetuo di vigilanza sullo stato tedesco. Sembra incredibile,
eppure è vero. Francia, Inghilterra, Italia, America, Giappone insieme
non hanno saputo trovare altra garanzia di pace fuorchè questo rozzo
e screditato espediente, il quale fallì già clamorosamente più di un
secolo fa! Eppure chi non lo vede? Le amputazioni territoriali e le
taglie di guerra possono fare strazio del corpo e della carne di uno
stato: il disarmo unilaterale e la sorveglianza ledono l’autonomia e
l’indipendenza, feriscono l’anima. Costretta a rendere l’Alsazia, la
Lorena, la Polonia, e financo ricacciata sulla sponda destra del Reno,
la Germania sarebbe sempre uno stato, eguale a tutti gli altri stati
europei. Disarmata in mezzo ad una Europa padrona delle proprie armi
e vigilata, degraderà a stato protetto, come la Persia o poco meno.
E c’è al governo del mondo gente così stolta da credere che un popolo
in armi fino dagli albori della storia, che la più formidabile potenza
guerresca di tutti i secoli deponga umilmente e per sempre la spada,
solo perchè i signori Clemenceau, Lloyd George, Wilson e Orlando hanno
fatto un cenno?

Bisogna riconoscere che i calzolai del 1815 conoscevano il mestiere
meglio dei ciabattini del 1919! Nel 1814 l’Europa doveva sciogliere un
nodo simile a questo. La Francia era stata vinta da una coalizione;
ma era pur sempre la prima lama del mondo, poichè avrebbe potuto
sconfiggere, da sola a sola, tutti i suoi nemici, che soltanto insieme
e a fatica l’avevano debellata. Che cosa fecero gli uomini, anzi i
tiranni della Santa Alleanza? Imaginarono forse di fare protetta
e ancella dell’Europa, la nazione, che per tanti anni era stata
l’arbitra? No: si intesero per mantenere la pace e per difendersi,
reciprocamente, in caso di attacco, dando però nel tempo stesso
l’esempio della moderazione, rinunciando alle ambizioni pericolose,
limitando gli eserciti; e inclusero in questa intesa la Francia,
incatenandola senza umiliarla. Senza aver troppo l’aria di mischiarsi
nelle sue faccende interne, l’aiutarono a ricostituire un governo, il
quale dovesse sperare più dalla pace che dalla guerra. Riuscirono a
mettere di guardia al trattato di pace se non la Francia tutta, una
parte almeno; e proprio quella che per più di trenta anni tenne il
potere.

Così bisognerebbe fare adesso, anche se sia più difficile. Ma chi
ci pensa? Chi vuol sentir parlare di coteste utopie? L’Inghilterra è
persuasa che, tolte le armi alla Germania, non avremo da temere più
nulla. La Francia invece è più scettica; non vuol affidarsi al solo
disarmo e chiede una giunta: la garanzia _fisica_ del Reno.

In che cosa dovrebbe consistere questa «garanzia fisica» del Reno?
Seguendo i consigli del maresciallo Foch, il governo francese ha
rifatto sua e illustrato in parecchie memorie l’antica dottrina romana:
che il Reno è la difesa di tutta l’Europa meridionale e occidentale
contro i Germani; che la Germania minaccerà non la Francia sola, ma
l’Italia e l’Inghilterra, sinchè possegga sulla riva sinistra del
Reno un ampio e popoloso territorio, in cui preparare vaste imprese
di guerra a mezzogiorno e ad occaso; che i ponti del Reno sono le
porte di casa nostra — di tutti noi, abitanti dell’Europa meridionale.
Di questi principî, che la storia e l’arte militare riconoscono
veri, il governo francese non si fa forte, come dicono molti, per
esigere la riva sinistra del Reno. Quale governo oserebbe chiedere
all’Europa per proprio scudo, alla fine di una così terribile guerra,
un’Alsazia-Lorena ingigantita e a rovescio? Il governo francese propone
che il trattato di pace stacchi dalla Germania i territori tedeschi
posti sulla sinistra del Reno, li costituisca in uno o più stati
indipendenti, e vieti loro di conchiudere con la Germania trattati di
alleanza e di unione doganale.

Ma l’Inghilterra e l’America non vogliono sentir parlare di questa
«garanzia fisica»; ed hanno ragione, come i francesi hanno ragione
di non fidarsi troppo della «garanzia militare» del disarmo. Che
l’Europa meridionale sarebbe sicura, il giorno in cui la Germania
rivalicasse il Reno, chi può dubitarne? Da Ariovisto in poi, tutta
l’Europa meridionale è stata inquieta e in pericolo, quando ai
tedeschi è riuscito di metter piede sulla riva sinistra del Reno. «Non
oltrepassare il Reno, ma difenderlo a oltranza»: aveva raccomandato
Augusto, morendo, ai suoi successori; i quali avrebbero fatto bene a
non dimenticare mai, per venti secoli, il solenne consiglio di colui
che fu forse il più grande dei Romani. Ma poichè l’hanno dimenticato
troppe volte, è venuto proprio adesso il momento di rinfrescare nella
memoria degli uomini e dei governi d’Europa, quel canone di antica
sapienza? Basterebbe separare con l’inchiostro, in un trattato, i
tedeschi di qua e i tedeschi di là del Reno, per cancellare dalla
storia quell’oblìo e le sue conseguenze?

Molti francesi pensano oggi che la Francia sarebbe sicura _in aeternum_
se le frontiere occidentali della Germania fossero tracciate al Reno.
Ma ho paura che anche questa sia un’altra allucinazione della nostra
epoca. Se ci fosse domani una repubblica renana indipendente, essa
sarebbe dilaniata da due partiti: uno favorevole al nuovo ordine di
cose, l’altro avverso e legato con il pangermanesimo. I due partiti
si farebbero asprissima guerra con la parola, con la penna, con le
bombe; cercherebbero di far leva con tutte le passioni e tutti gli
interessi; e la Francia sarebbe inquieta per la malsicura fedeltà della
repubblica, che dovrebbe farle da scudo, come è inquieta oggi per i
torbidi umori della Germania tutta.

Il Reno sarebbe un baluardo inespugnabile di Roma e di tutti i suoi
figli, se le popolazioni rivierasche volessero far corpo con noi,
ed essere l’avanguardia dell’Europa meridionale contro le invasioni
germaniche; o se noi fossimo in grado di costringerle con la forza
ad essere la nostra avanguardia. Ma chi può illudersi, in tanta
esaltazione delle passioni nazionali, che le popolazioni tedesche
vogliano fare la guardia al Reno contro il germanesimo; o che noi
possiamo costringerle a difenderci, neppure con il disperato espediente
di una annessione? Sinchè il principio nazionale regnerà così
forte, una repubblica tedesca sarà, contro la lancia acuminata del
germanesimo, un povero scudo di cartone.

Purtroppo, con la rivoluzione francese e con il movimento nazionale
che essa ha generato, i tedeschi hanno riconquistato, nel secolo XIX,
la riva sinistra del Reno, che i loro antenati avevano conquistata e
colonizzata nei secoli della grande rovina romana!

Mi sbaglierò: ma per riconciliare la Francia e la Germania entro il
rifatto consorzio europeo non ci sarebbe che un mezzo: tentare una
specie di Santa Alleanza dei popoli, o, per parlare un linguaggio
meno mistico, tentare un sistema universale di mutue garanzie e di
reciproci controlli, nel quale la Germania fosse inclusa a condizioni
pari. Wilson ha buttato sulla carta un abbozzo di questo sistema. Ma
della Lega o Società delle Nazioni tutti ridono! Più pratico questi
restauratori del mondo o architetti di Babele — come chiamarli non so
— più mi sbalordisce la singolare allucinazione, in cui sono fissi.
Nel considerare la guerra e la pace, essi non tengono conto che degli
elementi favorevoli. Chi non sa che in tutte le cose umane non c’è mai
bene senza male, vantaggio senza inconvenienti, attivo senza passivo;
e che l’uomo di stato deve saper fare la differenza? Questi allegri
computisti fanno invece il loro bilancio sommando soltanto i crediti e
cancellando i debiti!

La caduta dell’impero d’Austria libera l’Italia da un vicino potente,
ma ci obbliga ad assestare le cose adriatiche diversamente dai
nostri piani antichi. Niente affatto: noi vorremmo goderci tutti i
vantaggi della sparizione dell’Austria e stabilirci sulle due rive
dell’Adriatico, come se sulle rovine dell’impero degli Absburgo non
fosse sorto uno stato slavo, nazionale di forme e di spiriti. La
caduta della monarchia in Germania è l’ultimo e più clamoroso trionfo
della rivoluzione francese; ma rafforzerà l’unità tedesca, perchè il
particolarismo in Germania si è sempre immedesimato con il principio
dinastico. I vincitori non ci sentono da questo orecchio, e sognano
che la sconfitta distrugga l’unità tedesca, perchè così fa comodo a
lor signori! Noi abbiamo vinto la Germania, ma la Germania ha vinto la
Russia. Eppure qui nessuno ci pensa. Ragionano tutti come se la Russia
posasse ancora il suo pesante stivalone sul petto della Turchia. Senza
la Russia forte in Asia, potremo noi tenere Smirne?




II. 

La nuova infanzia del mondo[8] 


Talleyrand, Talleyrand! Nessun miracolo ti può resuscitare? Tutta la
tua sapienza è stata dunque dispersa, come la cenere di un rogo, dal
vento del secolo decimonono? Solo il ricordo delle colpe e dei vizi
doveva sopravvivere di te?

Mi hanno mostrato questa mattina una carta dell’Ungheria con le
amputazioni che si vogliono fare, per «darle una buona lezione». Sono
rimasto di sale. Ma questa gente crede proprio sul serio di essere
stata delegata a punire popoli e stati da una luogotenenza generale
della giustizia divina sulla terra? L’Ungheria è uno stato millenare;
una unità storica e geografica, stagionata dai secoli e legata
internamente da forze di coesione che nè la penna, nè la spada possono
sciogliere da un giorno all’altro. In ogni tempo e luogo una ragione
di stato, che non fosse smaniosa di seminare tempeste e terremoti, si
sarebbe fatta scrupolo di spezzare e di mutilare, senza gravi e ben
ponderati motivi, questa unità a profitto di stati antichi e nuovi,
perchè il bene fatto a questi popoli pesa troppo poco a paragone del
male fatto a quella. Anche non ricevendo tutti i territori ungheresi
reclamati con titoli più o meno legittimi, la Boemia, la Rumenia, la
Jugoslavia non potrebbero lagnarsi della guerra e considerarsi vittima
dell’altrui prepotenza: se le sarà tolto tutto ciò che l’Intesa vuol
toglierle, l’Ungheria maledirà i vincitori, si considererà come una
vittima, sognerà vendette e riscosse, cospirerà in permanenza contro la
pace, farà lega, aperta o segreta, con tutti i nemici dell’Inghilterra
e della Francia. Questa sola considerazione avrebbe dovuto consigliare
moderazione e prudenza, a uomini di stato, i quali non si credano
investiti del potere di rifare in un giorno quel che la storia ha fatto
nei secoli. Ma non basta. Quando mezza Europa è in dissoluzione, è
savio distruggere con la forza uno dei pochi stati, che avrebbe ancora
la forza di reggersi per coesione interna? O il Congresso della pace,
come il Nerone della leggenda, vuole godersi dalla cima della torre
Eiffel lo spettacolo del mondo che brucia?

Ho esposto questi pensieri a un uomo politico francese di molta
coltura, di grande acume e che conosce bene l’Europa. Mi ha detto:
«_vous avez raison; mais les Hongrois ne sont pas interessants_».

Talleyrand è morto; e non risusciterà. Non risusciterà, perchè il mondo
vuole l’ordine a parole, e il disordine a fatti; e vuole il disordine,
perchè è ridiventato bambino. Proprio così. Un secolo fa l’uomo si
imaginò di essere giunto alla maggiore età; e distrusse tutte le
tradizioni, le dottrine politiche, i principî giuridici, le credenze
religiose con cui e per cui gli stati si reggevano. Sapeva però ancora
che uno stato e un ordine sociale non possono durare senza principî e
credenze; e aveva distrutto gli antichi perchè era persuaso di averne
scoperti dei nuovi, più veri e più giusti, e di poter con questi creare
un ordine di cose nel quale gli uomini sarebbero stati più felici.
Ma nel grande tramestio del distruggere gli antichi e del creare i
nuovi principî, nacquero delle guerre; e in queste acquistò fama e
credito un giovane ufficiale, nato in una isola aspra e selvaggia
del Mediterraneo. Aveva grande ambizione, quel giovane guerriero, una
smisurata presunzione che i successi precoci gonfiarono, pochi studi,
nessuna dottrina, grande astuzia e conoscenza delle piccole passioni
che muovono i singoli uomini, nessuna profonda conoscenza delle
correnti spirituali che vivificano gli stati e muovono i popoli, molta
prontezza e fiuto e intuito approssimativo delle cose... In quella
epoca torbida, in cui molti non credevano più nè ai principî antichi nè
ai nuovi, nè agli idoli in piedi da secoli nè a quelli eretti allora
allora, venne a questo guerriero fortunato il pensiero infantile di
dire agli uomini che, poichè non credevano a nulla, credessero a lui;
che egli con i suoi soldati, con il suo denaro, con le sue idee, con il
suo genio basterebbe a far le veci di tutti quegli elementi spirituali
che _ab aeterno_ erano stati l’anima degli stati; che egli da solo con
la sua penna e con la sua spada vincerebbe e distruggerebbe stati e
popoli, imperi e regni, repubbliche e religioni. E molti scambiarono i
fuochi di bengala che le vittorie accendevano intorno alla sua persona
per il nimbo di un vero Dio; cosicchè, abbagliati dalla gloria o
allettati dai premi, gli credettero e lo seguirono.

Non fu la politica di Napoleone una improvvisazione tumultuaria e
confusa di combinazioni instabili, che non avevano altra ragione se
non l’interesse politico della sua persona, della sua famiglia, della
Francia, come egli lo giudicava a volta a volta — e Dio sa se in questi
giudizi era capriccioso e volubile? Una improvvisazione tumultuaria
e confusa della forza, sempre sorpresa e delusa dagli effetti delle
sue combinazioni e sempre in lotta con quelli? Una improvvisazione
tumultuaria e confusa della forza che, cercando di servirsi, con eguale
indifferenza, dei principî antichi e dei nuovi, confondeva, screditava
e indeboliva gli uni e gli altri, preparando l’anarchia universale
per il giorno in cui la forza, di sua natura instabile, sarebbe venuta
meno? Vedetelo all’opera in Italia. Entra come un uragano; rovescia a
furia di decreti non solo gli antichi stati, ma, come Lenin in Russia,
tutte le leggi, su cui riposava l’ordine sociale da secoli; spoglia
e spossessa la Chiesa e la Aristocrazia; raccoglie in fretta e furia
una nuova classe governante tra gli elementi più loschi, mettendo a
capo di questa quei Commissari della repubblica, che si direbbero
proprio i fratelli maggiori dei Commissari di Lenin e che ad ogni
modo hanno con questi un’aria manifesta di famiglia; divide, impasta,
rimaneggia territori. Quale è il naturale effetto di questo frenetico
rimescolamento? I piemontesi, i lombardi, i veneti, sinchè erano
governati ciascuno dal Re di Piemonte, dall’Impero, dalla Serenissima,
dalle aristocrazie e dalle istituzioni secolari, a cui tante
generazioni avevano obbedito, vivevano tranquilli, contenti ciascuno
del proprio governo particolare, non pensando neppure che potesse
essere mutato. Ma quando Napoleone ebbe mostrato loro, distruggendoli,
che anche i governi più antichi potevano essere distrutti; che la forza
poteva da un giorno all’altro fare e disfare le istituzioni dei paesi,
incominciarono subito a pensare quale sarebbe la forma dello stato
più conveniente per essi, e a chiedere l’unificazione della valle del
Po gli uni, della penisola tutta gli altri. C’era da aspettarselo.
Per quale ragione, per esempio, i piemontesi che tanti secoli avevano
vissuto sotto lo scettro dei Savoia, dovevano ora obbedire gli uni
alla Francia, gli altri far parte della Cisalpina o del Regno italico?
O ciascun popolo sotto gli antichi governi e le antiche istituzioni,
o tutti uniti in un solo stato nazionale: non c’era terreno solido e
posizione stabile tra i due corni di questo dilemma.

Ma Napoleone, che aveva fatto dell’unità una necessità vitale
distruggendo in Italia i governi e le istituzioni particolari in cui
era da secoli divisa, non ne vuol sapere, perchè quell’unità avrebbe
disturbato la sua politica e molestato la Francia; e grida, strepita,
va in furia contro le conseguenze naturali della sua politica. «La
Cisalpina è per me una posizione offensiva contro l’impero e la casa
d’Austria» — dice un giorno al duca Melzi, che gli espone i lagni e
i desiderî degli italiani. Una civiltà immortale, un popolo vecchio
di duemila anni, e pur giovane, che era stato per secoli il maestro
dell’Europa, le sue tradizioni, le sue istituzioni, il suo passato,
il suo avvenire, non sono più, nel suo pensiero, che una «posizione
offensiva», un bastione, una trincea, una casamatta, nella guerra
tra lui, Napoleone, e la Casa d’Austria! Chi avrebbe potuto governare
un paese di antica civiltà con queste dottrine? E difatti Napoleone
tormenta per più di dieci anni l’Italia; la maltratta e la benefica;
la umilia e la rafforza; le regala stati e corone, strade e leggi; le
insegna a maneggiare le armi. Vana fatica, lavoro di Sisifo! Appena
la sua potenza vacilla, l’Italia rinnega e maledice, non ostante i
beneficî ricevuti, l’uomo che aveva voluto governare il mondo, senza
sapere che anche gli stati hanno un’anima oltre il corpo, e che se la
forza ha giurisdizione piena sul corpo, poco può sull’anima. Napoleone
sparisce, lasciando alla Francia, sola eredità della sua dominazione in
Italia, un odio non spento neppur oggi, dopo un secolo.

E in Germania, Napoleone e la rivoluzione francese non son forse
il padre e la madre dell’impero tedesco, tormento e spavento del
mondo? Distruggendo egli stesso, aiutando l’Austria e la Germania
a distruggere l’antico ordine di cose, Napoleone non ha liberato le
tempestose energie di quel popolo, che quell’ordine aveva incatenate?
Volendo fare della Germania uno strumento della propria fortuna, non ne
ha fatto il martello e il flagello della Francia? Quest’uomo è sembrato
a molti un gigante perchè l’hanno giudicato alla stregua del destino
comune degli altri uomini, anche dei più grandi, come se tra la fortuna
di un uomo e la sua grandezza spirituale ci fosse una proporzione, che
non c’è quasi mai. Ma per la giusta misura, occorre paragonare ciò che
ei volle, sentì, disse e fece con i doveri che la natura degli uomini
e degli stati impone a coloro che li governano: e allora apparirà una
specie di Dio fanciullo che, per divertirsi nei suoi giochi favoriti,
tenta di distruggere _in aeternum_ l’ordine del mondo, e non lo sa,
e crede d’essere un Dio serio e adulto, il quale regga il cosmo con
sapienza adorabile! In tutta l’opera sua c’è qualche cosa d’infantile,
che riconduce i tempi alla prima fanciullezza della storia. Infantile
era l’illusione che l’ammirazione e la paura del suo genio e dei
suoi soldati potessero far le veci, e non in Francia soltanto, ma
in mezz’Europa, delle mille anime secolari e originarie degli stati
europei. Infantile era l’illusione che egli avrebbe potuto improvvisare
una nuova dinastia sul terreno dell’Europa già minato sotto dalla
rivoluzione; e farla sacra e inviolabile agli occhi di tutti con il
doppio crisma della polvere da schioppo e dell’acqua santa. Infantile
era l’illusione che dieci secoli di storia si inchinerebbero come
lacchè al suo comparire e gli farebbero largo, in tutta Europa,
affinchè egli potesse salire sopra un altissimo trono improvvisato dai
suoi soldati e di lassù largire con un gesto all’Europa e al mondo
una felicità nuova. Infantile era l’illusione che i popoli da lui
taglieggiati, tiranneggiati, dissanguati per arricchire e ingrandire
la Francia, dovessero essere felici di immolarsi per lui; ammirare
non solo lui ma tutti i suoi fratelli e le sue sorelle; e scambiare
allegramente il proprio oro e il proprio sangue con qualche frase
retorica di dubbio gusto.

Abbagliati o violentati o allettati, i tempi, già disorientati dalla
rivoluzione, ricascarono rapidamente in infanzia sotto questo Dio
fanciullo; e giocando ogni giorno con quel Dio a creare con la forza
degli stati nuovi senza anima, si sarebbero alla fine dissolti tutti
in una selvaggia anarchia, se l’Europa a un certo momento non si fosse
scossa, per ritrovare con la propria virilità un ordine coerente e
duraturo. Il Congresso di Vienna salvò l’Europa dalla anarchia, a cui
il regime napoleonico l’avrebbe necessariamente condotta con quella
moltiplicazione di stati chimerici. Il Congresso di Vienna, oggetto per
un secolo di tante stolide declamazioni ed accuse, io non l’ho capito
che in questi mesi, dopochè ho veduto il Congresso di Parigi. O Mani
di Talleyrand, di Metternich, di Luigi XVIII, di Guglielmo Federico
III, di Alessandro I: che cerimonia d’espiazione vi dovrà un giorno
l’Europa, se mai le accada di uscir di questa senilità che l’ha rifatta
bambina! Ma quel lucido intervallo di saggezza durò poco. Ben presto
l’Europa ricascò nell’infanzia e quindi nel culto del Dio fanciullo;
raffigurò e ammirò in lui la propria cecità politica, le ambizioni
impazienti, l’arrivismo senza scrupolo, la fatuità, la prepotenza
arbitraria e capricciosa degli uomini e delle classi nuove, che via
via, di generazione in generazione, salivano al potere nel disordine
dei tempi, senza preparazione, e che imaginavano di poter fare tutto
appunto perchè non avevano mai fatto nulla, e perchè la loro ignoranza
e impreparazione non conoscevano i limiti del potere. Napoleone doveva
essere l’idolo di tutti i parvenus del secolo — che sono milioni e
milioni! Onde il suo spirito domina il Congresso, dove son tutti dei
Napoleoncini in borghese, dai rappresentanti dei piccoli stati ai capi
dei grandi; e s’immaginano di poter come Dio crear popoli e stati
a piacere con la matita; e seminano, come Napoleone un secolo fa,
spensieratamente a piene mani, tempeste.

Napoleone e Nietzsche: questi due nomi mi tornano spesso alla mente
insieme. Non è Nietzsche il Napoleone del pensiero moderno: formidabile
nel distruggere, infantile nel costruire? Non ha rovesciato dalle
fondamenta l’edificio dei tempi per giocare tra le sue rovine con dei
tirannelli di piombo, come i bambini giocano sul pavimento o sulla
tavola con soldatini di Norimberga? Napoleone è l’eroe, Nietzsche è
il pensatore di una civiltà cascata in infanzia, e che ormai precipita
addirittura nel così detto attivismo, nella filosofia dell’azione per
l’azione, ossia del gioco.... I fanciulli si distinguono dagli adulti
appunto perchè saltano, gridano, corrono per saltare, gridare, correre
e non per uno scopo: agiscono dunque per agire, e non per ottenere
qualche effetto preciso; sono attivisti, come il secolo nostro...

No, l’Europa non avrà pace, perchè non la vuole, perchè vuole e cerca
il disordine, illudendosi di poter dominarlo e costringerlo a servire,
come un docile servo, le proprie passioni. Così finisce la tragedia
di un secolo, che ha fatto grandissime cose, ma che ha falsificato
tutti i metri, rimbarbarita l’arte di governare, smarrito il senso dei
limiti e la nozione del bene e del male. Il Congresso di Vienna, che
volle davvero ristabilire l’ordine, seguì un principio, che era antico,
ma vivo ancora; e seppe distinguere abbastanza bene il possibile
dall’impossibile, anche se qualche volta si sbagliò nel fare i suoi
conti. Incerto tra due epoche, e desideroso di ordine e di pace solo
a parole, il Congresso di Parigi sembra non credere più nei principi
antichi, non credere ancora nei nuovi, e confonde ad ogni momento quel
che può farsi ed esistere con quello che si può desiderare o sognare!




III. 

L’America e il miracolo di San Gennaro[9] 


Il «realismo» degli Stati europei è davvero una cosa molto singolare. 

Ricordo alcuni fatti. 

All’intervento dell’America l’Intesa deve forse la salvezza; e certo
un grande addolcimento degli ultimi cimenti. Nella primavera del ’17,
quando gli Stati Uniti scesero in campo, la Russia agonizzava; la
Francia, l’Inghilterra, l’Italia, esauste da uno sperpero inaudito di
uomini e di ricchezze, incominciavano a scoraggiarsi e a smarrire la
fiducia reciproca, proprio mentre la guerra si inaspriva nell’ultima
e ferocissima stretta. Non ostante il troppo vantato dominio dei mari
anche le potenze dell’Intesa erano allora in procinto di trovarsi alle
prese con la fame vera e propria. Avrebbero resistito? L’America,
proprio allora, ci mandò un esercito fresco, ci aprì un credito
illimitato, ci diede il pane e il companatico necessari per far la
guerra senza i crampi di stomaco....

E quell’intervento era poco meno che un miracolo. Bisogna conoscere
l’America per imaginare che impresa sia stata imporsi la coscrizione,
allestire un esercito di milioni di uomini e mandarlo a combattere
nelle trincee della Champagne o della Lorena! Chi vuol farsene un’idea,
senza andare in America, rovesci il cannocchiale, e imagini quel che
sarebbe per i contadini della Romagna o del Poitou, per gli operai
di Milano o di Birmingham essere mandati a combattere sulle rive del
Missisipì. L’America ha compiuto una prodezza di questa natura. I
nostri vecchi avrebbero detto che quell’aiuto ci veniva dal cielo.

Invece i grandi Stati dell’Intesa fecero da prima i difficili. A
quante discussioni ho assistito, nel febbraio del 1917, a Parigi, nei
circoli ufficiali di tutta l’Intesa! Uomini gravi e di grande autorità
pesavano gli inconvenienti e i vantaggi dell’intervento americano
ormai imminente; e i più aggrottavano le ciglia, inquieti. Purtroppo
gli inconvenienti pesavano più dei vantaggi! Senonchè poche settimane
dopo che l’America aveva dichiarato la guerra alla Germania, circoli
ufficiali e popoli erano già persuasi che l’America aveva fatto
soltanto il proprio dovere, e purtroppo molto in ritardo. Se l’America
fosse intervenuta un po’ prima, la guerra sarebbe stata più corta e
l’Intesa, come era un suo sacrosanto diritto, avrebbe vinto con minor
fatica. Insomma il miracolo era diventato un avvenimento naturale, e
l’Europa aveva qualche recriminazione da fare all’America, che aveva
esitato un po’ troppo. Naturale era pure che l’America mettesse tutti
i suoi uomini e tutto il suo oro a nostra disposizione, perchè ce
ne servissimo senza contare! Combattevamo o non combattevamo per la
libertà, la giustizia e il diritto?

La guerra finisce; l’armistizio è firmato; alla fine di dicembre
Clemenceau annuncia alla Camera francese che l’Inghilterra e la Francia
sono d’accordo nell’escludere la questione dei mari dalla pace: ossia
nel passar sopra, come non esistesse, al maggiore tra gli interessi
che avevano spinto l’America a prendere le armi. Chi ha neppur badato a
quell’accenno? Chi ha neppur supposto in Europa che l’America potesse
avere nella guerra un interesse suo particolare, legittimo quanto
tutti gli interessi particolari delle altre singole potenze? E che
sarebbe stato, nel tempo stesso cavalleria e accortezza riconoscere e
soddisfare lealmente questi interessi?

Ora fanno tutti il broncio a Wilson ed all’America; accusano l’uno
e l’altra di voler pesar sulla pace oltre la misura dei sacrifici
consentiti per la vittoria; si lagnano che abbiano offerto all’Europa,
che ha bisogno di una spada, una vescica vuota e una lanterna
veneziana, la Lega delle Nazioni; e lodano il Clemenceau di aver
strappato al Wilson l’impegno di una alleanza formale. Alle persone
serie che incontro sembra che, acconsentendo a questa alleanza,
l’America abbia un po’ riscattato gli intollerabili capricci del suo
fantastico presidente, compiendo almeno una parte del suo dovere verso
l’Europa.

Mi sbaglierò: ma mi pare che l’Intesa abusa un po’ dell’America e
dei suoi miracoli. Invece di ringraziare Dio perchè ha fatto per
lei un miracolo, essa esige, e non senza una certa arroganza, che il
miracolo si rinnovi ogni sei mesi, a richiesta. Pare che con la Lega
delle Nazioni e con la promessa dell’alleanza Wilson stia impegnando
doppiamente e in anticipazione l’America a intervenire negli affari
d’Europa, ogni qual volta questi siano un po’ perturbati. E in cambio
di che cosa? Che cosa l’Europa promette a sua volta all’America,
fuorchè la gloria di combattere per «la giustizia e il diritto» a
fianco dell’Inghilterra e della Francia? A chi sa quanto è largo
l’Atlantico, questo impegno apparisce così grande, così grave, così
insolito, così disinteressato, che definirlo il secondo miracolo,
dopo l’intervento, non è esagerato. A tutti i politici «realisti» che
incontro qui, sembra la cosa più naturale e più semplice del mondo.

Sono io che farnetico o questa gente ha preso l’haschisch? A questa
gente, ad ogni modo, occorre ricordare che solo il miracolo di San
Gennaro si ripete a richiesta e a data fissa.




IV. 

Gli assenti presenti: Russia e Germania[10] 


La pace è un’impresa così difficile, perchè la guerra è stata tutta
un gigantesco controsenso. L’avevo già detto nel 1917, nel primo
studio della _Vecchia Europa e la Nuova_: la gente non ha voluto
persuadersene; se ne accorgerà ora! Si direbbe che la civiltà
occidentale conteneva nel proprio grembo, sotto la sua crosta
solidificata da un secolo, un altro mondo a rovescio di se stessa,
simile a quelle imagini capovolte dei villaggi posti in riva ad un
lago che si vedono nell’acqua; e che questo mondo a rovescio è salito
in parte a mescolarsi con quello ritto in un caos indecifrabile,
attraverso gli squarci della crosta spezzata in cento punti dalla
guerra.

Penso oggi al più gigantesco di questi controsensi: la Russia, che
è, insieme con la Germania, la grande assente presente del Congresso,
perchè nè l’una nè l’altra son qui, ma non si pensa che ad esse e di
esse solo quasi si parla. Non è stata la Russia, nel tempo stesso,
la salvezza delle democrazie occidentali e il loro mortale pericolo?
L’odio postumo dei partiti e delle scuole può coprire la fossa dello
Czarismo di contumelie, ma non cancellerà dalle pagine della storia
questa verità: che senza l’aiuto della Russia, gli Hohenzollern e gli
Absburgo sarebbero oggi padroni dell’Europa. I voti e gli augurî delle
radunanze socialiste non avrebbero salvato, nell’estate del 1914, la
Francia, se la Germania e l’Austria non avessero dovuto combattere
anche contro la Russia; e caduta la Francia che cosa avrebbe potuto
fare l’Inghilterra, sola, sul continente europeo, dove soltanto poteva
la guerra esser decisa? Ma non è neppure dubbio che l’impero moscovita
ha compromesso prima le democrazie occidentali e la loro causa
con le sue ambizioni; poi le ha esposte al pericolo estremo con le
ineguaglianze, con i mezzi tradimenti, con gli errori e infine con la
caduta.

Nè il doppio giuoco è terminato con la rivoluzione. Ritornata nelle
sue steppe, al momento di dividere le spoglie, la Russia è in questo
momento la salvezza dell’Europa. Il conchiudere la pace non è impresa
facile; ma sarebbe impresa poco meno che disperata, se al congresso
fossero presenti, e nel partito vittorioso, i rappresentanti e i
consiglieri dell’imperatore russo. Quel che questi signori avrebbero
chiesto in Europa, in Asia e nel pianeta Marte, è facile immaginare.
Ma l’astensione della Russia, se per un verso spiana, per un altro
arruffa le cose. Sinchè tanta parte della Russia sarà nemica dei suoi
antichi alleati, la Germania avrà in Oriente un appoggio per resistere
all’Occidente; e finchè la Germania non sarà lealmente riconciliata
con le democrazie dell’occidente, la Russia sarà inviolabile, poichè
la chiave degli affari russi è in Germania. La Germania è la migliore
specola da cui osservare, il miglior ponte da cui assaltare la Russia;
la Germania è la porta dell’Europa sull’antico impero moscovita e
la porta dell’impero moscovita sull’Europa; la Germania è la scuola
degli slavi e il mercato a loro più vicino sulle vie della civiltà
occidentale, il loro nemico più temibile ma anche l’alleato più valido.

Neppure la resurrezione della Polonia sembra possa mutare di molto
questo stato di cose, del quale molti non si accorgono. Sarebbe bene
invece ricordarsene, nel giudicare certe condizioni che il Congresso
di Parigi intenderebbe imporre alla Germania, almeno se quel che si
racconta è vero: ricordare, per esempio, che Napoleone potè imporre
la pace di Tilsitt, ma dopo aver vinto la battaglia di Friedland.
Quanti conoscono la storia delle guerre dell’impero intenderanno
l’ammonimento. La Germania è oggi il baluardo che copre il bolscevismo
contro le democrazie occidentali, obbligando queste, per giungere in
Russia, a fare il lungo giro di Arcangelo, di Odessa o addirittura
di Vladivostock. Ma è nel tempo stesso il baluardo che copre le
democrazie occidentali contro il bolscevismo, al quale sbarra la
strada dell’Occidente. Posizione intermedia, singolarmente labile e
pericolosa, per quanto non priva di certi vantaggi. Non potrà durare a
lungo. Se il Governo massimalista resiste e si rafforza, verrà giorno
in cui la Germania dovrà o allearsi con le democrazie occidentali
contro il bolscevismo o allearsi con il bolscevismo contro le
democrazie occidentali. Non si faccia troppo affidamento sul furore con
cui il Governo perseguita in Germania i partiti, che più rassomigliano
a quello dominante in Mosca. Il Cardinale di Richelieu ha fatto scuola
in Europa anche troppo!

Sarebbe bene non provocare il destino neppure ad Oriente. Ma chi ci
pensa?




V. 

Sfogo[11] 


Questa mattina mi sono sfogato. La persona con cui mi sono sfogato era
uno di quegli uomini rari, che per quanto non abbondino neppure qui, si
trovano in Francia più spesso che altrove: coltissimo, intelligente,
largo di mente, generoso di cuore, amico sincero e fedele. Sapevo di
parlare ad una persona che mi avrebbe capito. E gli ho parlato così.

«Lei sa che io sono un amico fedele. Ho avuto fiducia nella Francia
prima della prova, e quando tutta l’Europa o vi odiava, o vi
disprezzava, o diffidava di voi. Ma perciò debbo dirvi francamente
che me ne ritornerò in patria tra pochi giorni inquieto e pieno di
tristi presentimenti. Io non capisco la Francia, in questo momento;
o, se volete, ho paura di capirla. Ma come? Voi avete fatto, più di
un secolo fa, una immensa rivoluzione che ha sconvolto il mondo;
e l’avete imposta con la penna e con la spada all’Europa nolente.
C’era allora un ordine antico da secoli, di cui i popoli, buono o
cattivo che fosse, erano soddisfatti. C’era un diritto pubblico, che
regolava in una certa misura i rapporti tra gli stati, che proteggeva
abbastanza bene i piccoli e i deboli in mezzo ai grandi e ai forti,
che risparmiava il sangue e il denaro delle moltitudini, poichè le
guerre allora erano combattute tra sovrani e non tra popoli, con un
piccolo numero di soldati, e quasi tutti volontari. C’erano repubbliche
e monarchie e principati e ducati e staterelli in quantità; non
c’erano imperi, ma c’era l’impero, quello di Augusto, di Traiano e
di Costantino ancora vivo; e tutti questi governi erano deboli ma
rispettati come sacri, davano poco ai sudditi ma esigevano poco. Non
c’era per nessuno la libertà di riveder le buccie a Dio e alle Chiese
che lo rappresentavano; ma c’era per tutti quella di fare o di non fare
la guerra, a piacere. Voi non avete avuto rispetto per nessuna parte
di questo venerando edificio. Voi avete implacabilmente distrutto in
casa vostra prima, avete distrutto o aiutato a distruggere in tutta
Europa questo ordine di cose e i principî su cui posava, in nome dei
principî nuovi, che voi avevate annunciato al mondo, gli «immortali
principî» — come voi dite. Vi siete impegnati in una lotta terribile,
in casa vostra e fuori, in Francia e in Europa, contro tutti i partiti,
gli ordini sociali, le istituzioni che volevano difendere l’antico
ordine di cose; contro la aristocrazia, contro la Chiesa, contro la
Monarchia, contro l’Impero, contro la Casa d’Austria, contro la Casa
di Savoia, la Prussia, la Russia, l’Inghilterra. Questa lotta è durata
più di un secolo; e quanti colpi avete ricevuti, quanto sangue avete
versato, quanti sacrifici avete sostenuti! Per quattro generazioni
siete stati, si può dire, soli o quasi soli in guerra, con la spada e
con la penna, contro tutta la Europa. Le disgrazie che vi sono capitate
nel secolo XIX, sono nate, si può dire, dal vostro attaccamento a idee
e a dottrine, che l’Europa ha respinte ostinatamente nel 1793 come
nel 1848, restringendosi ogni tanto a sfruttarle cautamente, e il più
spesso contro di voi.

«Ed ecco alla fine, quando nessuno ci sperava più, nemmeno voi,
accade il miracolo. In un anno e mezzo, tra il marzo del 1917 e
il novembre del 1918, la nemica implacabile di voi e delle vostre
dottrine, la Monarchia, morde la polvere. Prodigio a cui nessuno
nella nostra generazione aveva mai sperato di assistere, i Romanoff,
gli Hohenzollern, gli Absburgo, i Wittelsbach sono scacciati dai loro
popoli. La Europa tutta si volge, come alla suprema speranza, verso le
idee e le dottrine che voi avete bandite al mondo nel 1793 e nel 1848:
suffragio universale, principio di nazionalità, fratellanza e lega dei
popoli, democrazia, diplomazia palese. L’America stessa viene in Europa
e si dichiara pronta ad aiutarla con tutte le sue forze e ricchezze a
far la pace e a costituire il nuovo ordine di cose sul principio della
sovranità popolare. La rivoluzione francese sta per trionfare; il ’48
sta per prendere la sua clamorosa rivincita; sta per scoccar l’ora
in cui voi potrete raccogliere il frutto di un secolo, erigere con un
nuovo ordine di cose il vero, l’immenso arco di trionfo della Francia
a cavallo dell’Europa, non il piccolo arco dell’Etoile che ricorda una
lunga fila di vittorie provvisorie, terminate con una disfatta sola, ma
irreparabile.

«E in questo momento supremo voi vi schermite, vi appartate e quasi
direi vi togliete con la fuga al vostro trionfo? Voi lasciate gli
Anglosassoni empirici e confusionari impadronirsi della vostra
dottrina, tentare di formularla e applicarla; li guardate con un
sorriso ironico mentre con maldestra serietà si sforzano di compire
l’ufficio che voi soli, insieme con noi italiani e con i tedeschi,
se essi avessero voluto, e se voi li aveste lasciati metterci mano,
avreste potuto compiere; e poi dichiarate che quelle sono chiacchiere e
favole, che a voi occorrono riparazioni e garanzie, miliardi per rifare
le vostre provincie distrutte, e cannoni, soldati, alleanze, confini
strategicamente sicuri, disarmo del nemico; non protocolli diplomatici,
pezzi di carta e ideologie di professori? Che altro vuol dire questo
atteggiamento ufficiale della Francia verso la lega delle nazioni e
nelle trattative per la pace, se non che la Francia non ha fiducia
nelle dottrine della rivoluzione, per cui ha combattuto un secolo
intero? È questo o non è questo il senso profondo ma luminoso della
politica francese nel trattato di pace?

«Lei sa quel che io penso degli «immortali principî...». Mi paiono
troppo confusi, vaghi, elastici, sentimentali; e perciò, almeno così
come sono oggi, non possono servire da ossatura solida ad un sistema di
diritto pubblico che si regga. Dovranno, per servire, essere elaborati
dalla dottrina e stagionati dal tempo. Ma non sono neppure un semplice
_flatus vocis_, o parole vuote, o astrazioni, come pretendono troppi
critici frettolosi. Esprimono oggi sentimenti che, pur essendo confusi,
sono forti nelle moltitudini: tanto è vero che hanno infuso in queste
il coraggio e la pazienza di combattere una guerra così lunga e così
atroce. E poi, buoni o cattivi che siano, abbiamo noi l’_embarras du
choix_? Altri principî più chiari e definiti, che regolino in qualche
modo, con un’ombra di legge, i rapporti tra gli stati europei? La
monarchia è caduta in Europa; e con essa il principio dinastico, che
a dispetto delle sue manchevolezze e ingiustizie, aveva mantenuto dal
1815 al 1914 un po’ d’ordine e una certa legge nei rapporti tra gli
stati europei. Caduto questo, se noi non riusciamo ad imporre un altro
principio di ordine, anche se grossolano e imperfetto, l’Europa si
dissolverà nella anarchia delle guerre perpetue. La forza sarà la sola
legge riconosciuta e rispettata tra gli Stati. Ora lasciamo i discepoli
imbecilli di Hegel ripetere che il diritto è la forza e che gli Stati
sono fatti per divorarsi a vicenda come belve feroci. Sappiamo tutti e
due che cosa sarebbe in Europa un nuovo medio evo alla nitroglicerina,
armato di bombe e di tritolo, senza Cristo e senza Inquisizione.
L’Europa non solo rimbarbarirebbe; ma precipiterebbe dal suo trono...».

«Bisognava dunque precisare e formulare nel Congresso di Parigi i
principî che dovevano regolare i rapporti tra gli Stati d’Europa, ormai
quasi tutti ordinati a repubblica, come il Congresso di Vienna aveva
precisato e formulato, come legge tra gli Stati monarchici di un secolo
fa, i principî della legittimità e dell’equilibrio. Occorreva mettersi
d’accordo sopra un modo di definire la nazionalità, che servisse
come equa norma per decidere almeno i più grandi fra i conflitti
nazionali. Occorreva riconoscere i diritti nazionali delle minoranze,
che sarebbero incluse nei nuovi stati e rimarrebbero prigioniere nella
cerchia degli antichi, e trovare il mezzo di garantirli. Occorreva
imaginare una formula per limitare gli armamenti, che conciliasse
le legittime armi d’ogni singolo stato con la libertà degli altri
e con il loro diritto di non subire, come un’imposizione prepotente
di un solo, gare illimitate di armamenti e guerre all’ultimo sangue.
Se il Congresso avesse affrontato queste tre questioni capitali, non
ci sarebbe stato tanto da discutere intorno ai fini della Lega delle
Nazioni. La Lega avrebbe dovuto mantenere la pace fondata su questi
principî, perfezionandoli nell’applicazione.

«Era questo un compito impossibile, anche se era più difficile di
quello che spettò al Congresso di Vienna? Non so. Ma chi aveva
il dovere di tentarlo almeno, se non voi, aiutati dall’Italia e
dall’America? Se non temessi di domandar troppo, aggiungerei che anche
i tedeschi avrebbero potuto e dovuto aiutarci. Poco assegnamento invece
si poteva fare sugli inglesi. Ma voi vi siete tratti sdegnosamente in
disparte, gli italiani non hanno fatto nulla e gli americani da soli
erano ridotti all’impotenza...».

A questo punto il mio interlocutore mi ha interotto. 

«Lei ha ragione, pur troppo. La tragica contradizione in cui la Francia
è impigliata è questa. Ma non è difficile di spiegarla. Nel paese
coloro che hanno fiducia nei principî della rivoluzione del ’48, sono
numerosi».

«È vero — dissi io. — Quello che si può chiamare il gran pubblico mi
sembra abbia seguito più che spinto il governo della sua politica».

«Per l’appunto. Bisogna dunque spiegare l’atteggiamento del governo.
Questo fu l’opera del Quai d’Orsay e dello Stato Maggiore, che nutriti
ancora di tradizioni napoleoniche, amano poco e poco si fidano delle
ideologie rivoluzionarie. Ma è pure vero che il governo ha seguìto
docilmente questi consigli, e che il suo capo ha difeso le tradizioni
della politica imperiale con un ardore di novizio. Lei mi dirà che
Clemenceau è stato per tutta la vita un campione quasi fanatico della
rivoluzione e delle sue dottrine, e che un giorno la definì un «bloc».
E mi domanderà perchè questo discepolo fanatico ha voltato le spalle
alle sue dottrine proprio quando gli si apriva un’occasione unica di
mantenere almeno in parte le promesse che la Francia ha fatte al mondo.
Le confesso di non saper rispondere. È un mistero, per me...!»

«Si direbbe — ripresi io — destino della rivoluzione, che quando i suoi
principî stanno per vincere, apparisca un uomo il quale con l’autorità
acquistata combattendo per il loro trionfo li sconfigge definitivamente
e li ricaccia nel nulla. Il caso di Clemenceau non ripete, meno
vistosamente, la palinodia di Napoleone? Senonchè guardi in che
singolare postura la Francia viene a trovarsi di fronte all’Europa,
e l’Europa di fronte alla Francia. Più di un secolo fa la Francia
annuncia di aver scoperto i principî da cui deve cominciare un secolo
nuovo di felicità, si impegna in una terribile lotta per applicarli,
la vince. Ma allora apparisce l’uomo che confisca per sè i frutti
della vittoria; e che invece del nuovo ordine di cose promesso, impone
all’Europa un dispotismo militare molto più oppressivo e cupido che
i governi dei Re, da cui la rivoluzione voleva liberare l’Europa. Con
un forte scossone l’Europa rovescia questo dispotismo; e per riavere
un po’ di ordine e di pace restaura alla meglio, come si poteva dopo
tante demolizioni, i principi dell’ordine antico, da voi indebolito o
distrutto... L’ordine ricostituito non era perfetto; tuttavia l’Europa,
pur brontolando, ci si acconciava, per paura di peggio. Siete stati voi
di nuovo a rovesciare nel 1848 questo ordine vacillante, ripromettendo
al mondo la felicità nuova contenuta nelle vostre dottrine. Ma di nuovo
il mondo l’ha aspettata invano, cosicchè, dopo il ’48 si trovò senza i
beneficî dell’ordine antico e senza i beneficî nuovi da voi promessi
nel grande anno; finchè anche questa volta, per ridare un assetto
un po’ stabile all’Europa, si ritornò dopo il 1870 nella misura del
possibile ai principî antichi e all’ordine dinastico. Che cosa furono
il regime bismarckiano e la triplice alleanza se non una ristampa
in riduzione della Santa Alleanza? Ma neppure di questo nuovo ordine
voi foste contenti, e avevate ragione, poichè era stato fondato con
una violenza iniqua e scellerata a vostro danno. La restante Europa,
desiderosa di pace, ossequiosa per il più forte dell’ultim’ora,
cupida di ricchezze e di benessere, era pronta a sopportare con
rassegnazione cristiana l’iniquità inflitta a voi, e avrebbe voluto
eterno quell’ordine: voi no, voi lo avete implacabilmente minato,
non riconoscendo il trattato di Francoforte che ne era il fondamento,
dichiarandolo nullo _in aeternum_ poichè violava l’imprescrittibile
diritto dell’Alsazia e della Lorena. Voi avete affermato, a rischio
della vostra esistenza, esserci certi diritti dei popoli che la forza
deve rispettare: azione memorabile nella storia, gloria imperitura
della vostra nazione, che voi potete aggiungere a quella di tante altre
generose azioni da voi compiute nei secoli... Ma quando quest’ordine,
di cui l’Europa era soddisfatta, è finalmente caduto, un po’ perchè
il popolo che l’aveva creato a suo profitto ha voluto abusarne, un
po’ perchè voi l’avevate minato sotto sotto con la vostra generosa e
implacabile protesta, non aveva il mondo diritto che voi faceste un
grande sforzo per definire questi diritti imprescrittibili dei popoli,
per i quali il mondo intero andava in fiamme? Per fare una realtà di
quella fratellanza dei popoli liberi, che avevate annunciata come la
legge di vita all’Europa sino dal 1848?

«Invece voi — o almeno il governo che vi rappresenta — non ha
trovato, per riordinare il mondo, che delle combinazioni di forze
nello stile del Bonaparte!... Saranno ingegnose, quanto volete,
queste combinazioni; ma credete voi di poter fermare i tedeschi sulla
via delle loro ambizioni, opponendo loro soltanto dei cannoni e dei
soldati, e non una dottrina e un’idea? Se il domani sarà in balìa della
forza, pensate che i tedeschi hanno il numero. E pensate che l’Europa
attende da voi il compimento di una promessa che data ormai da più di
cento anni...».

Il mio interlocutore mi ha guardato, e poi levandosi, mi ha detto
con forza: «Noi manterremo la promessa. La nostra storia è piena di
contradizioni, di violenze, di catastrofi; ma è pura di tradimento. Non
tradiremo i popoli, che avranno avuto fiducia in noi».

— «Speriamo» — conchiusi io, rassicurato un po’, ma sino a un certo
punto soltanto.




VI. 

La radice del male[12] 


Il 1919 non passerà nella storia come l’anno in cui il nuovo ordine
di cose, ardentemente desiderato dagli uomini, è incominciato; ma
come quello in cui la rovina dell’antico fu consumata. L’Europa è
un caos, a paragone del quale l’ordine, che vigeva ancora nel 1914,
poteva considerarsi come perfetto o poco meno. Quell’ordine si reggeva
per un equilibrio di forze vere e per l’autorità di alcuni principî
invecchiati ma non ancora morti. Oggi non c’è più nè equilibrio di
forze nè autorità di principî. Tutte le forze sono state o distrutte
o spossate dalla guerra; tutti i principî, esautorati o confusi dai
trattati di pace, già compilati a Parigi o in preparazione.

Come nitida comincia ad apparire nelle sue linee maestre a chi ha occhi
per vedere, la tragedia a cui l’Europa ha soggiaciuto inconsapevole,
come l’agnello soccombe sotto il coltello del beccaio. Che cosa è un
trattato? È un pezzo di carta che lega e comanda per una sua misteriosa
e quasi magica virtù. Ma da che nasce questa virtù? Dalla forza
soltanto, no: perchè non essendo sempre chiaro chi sia il più forte e
chi oggi passa per più forte potendo domani scoprirsi più debole, ogni
trattato sarebbe un’occasione di guerre continue. Quella virtù magica
dei trattati nasce dalla autorità di un principio, riconosciuto dalle
due parti contraenti come vero e inviolabile, e per rispetto al quale
anche la parte a cui il trattato è di peso, consente ad osservarlo.

Nel diritto pubblico, che resse l’Europa prima della rivoluzione
francese, questo principio imperativo era l’onore dinastico. Un
trattato era considerato come un impegno d’onore del sovrano,
che l’aveva firmato. Un sovrano guerreggiava lunghi anni prima di
acconsentire a scrivere il proprio nome in fondo a un foglio di
carta, nel quale dichiarava di ceder ad un suo fratello questo o
quel territorio. Egli sapeva che quella goccia di inchiostro era
indelebile. Riconosciuto dagli altri sovrani, il trattato era un titolo
indiscutibile a favore del sovrano, a cui il territorio era stato
ceduto.

Ma le firme dei sovrani, che nel secolo XVIII erano il simbolo di un
principio di diritto pubblico, divennero a poco a poco una formalità
nei trattati del secolo XIX, quando la coscrizione e le rivoluzioni
democratiche ebbero scatenato sull’Europa le guerre dei popoli.
Il principio dell’onore dinastico si indebolì, e tra gli avanzi
dell’antico diritto pubblico si insinuò un principio nuovo: che un
trattato non può esser considerato valido in sè e per sè, ma solamente
in quanto non violi certi diritti dei popoli. La Francia sostenne, dal
1871 al 1914, la prova del fuoco per il nuovo principio. In forza di
questo principio la Francia ha dichiarato quasi per mezzo secolo di
subire ma di non riconoscere come valido il trattato di Francoforte,
perchè questo trattato violava un diritto imprescrittibile dell’Alsazia
e della Lorena, di cui nessun governo poteva disporre.

Questo principio ha preso forza nell’animo e nell’immaginazione dei
popoli, durante la guerra mondiale. I governi dell’Intesa — e in parte
anche i governi nemici — avevano dichiarato di riconoscerlo come il
fondamento dell’ordine nuovo. Ed è un principio alto e nobile, dal
quale un nuovo diritto pubblico dell’Europa potrebbe nascere, ad una
condizione però: che ci sia un certo accordo ed una certa lealtà nel
definire questi diritti dei popoli, di cui la forza non può fare
scempio, a cui anche la vittoria deve inchinarsi. Se no, che cosa
accadrà? Che cosa accadrà se ogni gazzettiere o filosofo o poeta o
diplomatico o uomo di stato o cavadenti sarà libero di definire a volta
a volta, come gli piace, questi diritti dei popoli; se ogni popolo
vorrà essere giudice inappellabile del proprio diritto e del proprio
dovere? Nessun trattato avrà più alcun valore, fuorchè quello che vorrà
riconoscergli il capriccio dei contraenti; ogni popolo potrà dichiarar
nulla la parte di un trattato che non gli garba come lesiva di qualche
diritto, che ciascuno poi definirà come meglio gli piace.

È proprio quel che accade ora. Il diritto dei popoli sta precipitando
l’Europa in un caos di discordie, di odî e di guerre: castigo meritato
dell’incoerenza, con cui l’Europa ha lasciato la Francia, dopo il
1870, dichiarar nullo _in aeternum_, in nome di quel diritto, uno dei
trattati su cui posava la pace del mondo, senza curarsi poi di definire
questi inviolabili diritti dei popoli. Il concetto nuovo del diritto
dei popoli ha indebolito l’antico rispetto in cui i trattati, come cosa
sacrosanta, erano tenuti; ma senza acquistare consistenza, precisione,
virtù imperativa da governar esso il mondo.

Il Presidente Wilson aveva intravisto la difficoltà; ed era venuto
in soccorso dell’Europa. Proponendo i famosi quattordici punti, si
era assunto il compito, adempiuto con tanto splendore dal Talleyrand
nel Congresso di Vienna; aveva tentato di definire i principî, con i
quali giudicare i diritti che i nuovi stati e gli antichi dicevano
di poter vantare sui territori disponibili. Impresa necessaria, ma
difficilissima: sia perchè i famosi punti erano soltanto un abbozzo;
sia perchè, per pacificare davvero l’Europa, occorreva che questi
principî fossero riconosciuti sinceramente non solo dei vincitori,
ma anche dai vinti, come il principio di legittimità era stato
riconosciuto da tutte le potenze nel Congresso di Vienna. Ma appunto
perchè l’impresa era ardua, era dovere tentarla. Quale vertigine ha
travolto le classi governanti e con esse i governi dell’Italia, della
Francia, dell’Inghilterra? Per quale ragione, mentre le moltitudini
avevano acclamato Wilson, come il salvatore, tante forze oscure hanno
cospirato a screditare come un vano sogno il primo e più urgente tra i
preliminari della pace?

L’Europa non sa ancora quello che ha fatto; non ha capito ancora di
aver distrutto tutti i sostegni dell’ordine internazionale e quindi
della pace, proprio nel momento in cui doveva restaurare nel mondo la
più vasta pace che si fosse ancora fatta. Oggi i trattati non hanno
più nessun punto fermo e solido a cui appoggiarsi: non la complicata
e gagliarda struttura giuridica della società del secolo XVIII, non
la tradizione diplomatica delle Corti e l’equilibrio delle forze del
secolo XIX, non i principî del nuovo diritto pubblico, che nessuno vuol
riconoscere, se non in quanto vanno d’accordo con le proprie ambizioni
e cupidigie. Non resta che la forza. Ma chi sa ormai dove risiede la
forza? L’Intesa ha vinto, ma insieme, e grazie alla mitraglia d’oro del
nuovo mondo; chi può sapere oggi quale sia la forza di ciascuna delle
potenze dell’Intesa da sola e quelle dei nuovi stati sorti dalle ruine
degli antichi? Cento anni di guerra, dunque!

«Colpa del capitalismo» — dicono i socialisti. I socialisti non
conoscono la storia dell’Europa meglio dei nazionalisti. Essi non
sanno che la dissoluzione presente è l’ultimo effetto di un disordine
intellettuale, che incomincia con il Rinascimento e con la Riforma;
e di un rivolgimento militare e politico, che incomincia con la
spartizione della Polonia e con la rivoluzione francese: prima che il
«capitalismo» ossia la grande industria nascesse. Il male è più antico
e profondo che i socialisti non credano; e il rimedio da essi proposto,
la soppressione del capitalismo, non basterebbe a curarlo.

A leggere i fogli socialisti, d’Italia e di fuori, si direbbe che il
trattato di Versailles è gemello del trattato di Brenno. Ma chi conosce
il trattato scuote le spalle. Esso contiene, sì, alcune disposizioni
che sono o troppo dure o ineseguibili accanto ad altre, che sono
savie e giuste. Ma il suo vero difetto è pur troppo un altro: che
tutte queste disposizioni — le giuste come le ingiuste — non riposano
su principî chiari, precisi, riconosciuti dalla coscienza universale
dei vinti e dei vincitori; ma su improvvisazioni e compromessi di
principî opposti, spesso arbitrari, poco chiari e contradditorî. Onde
tutti gli interessi lesi possono denunciare come ingiuste anche le sue
clausole più giuste; e siccome ormai i trattati che non sono giusti,
sono considerati come pezzi di carta, dichiararlo nullo, in tutto od
in parte. Non se ne fanno scrupolo gli stessi vincitori: immaginarsi
i vinti! La Germania non riconoscerà questo trattato come giusto
ed impegnativo più che la Francia abbia riconosciuto il trattato di
Francoforte; e non lo eseguirà che nella misura in cui sarà costretta
ad adempierlo dalla forza. Impresa difficile e piena di pericoli, per
un trattato che impegna almeno due generazioni e in tempi esausti dagli
eccessi deliranti della nazione armata.

Non mi meraviglio punto che già la Francia e l’Inghilterra siano piene
di inquietudini. L’inchiostro con cui il trattato è stato scritto non
è ancora asciugato, le ratifiche non sono ancora perfette, e già da
ogni parte si teme che la fatica di quest’anno sia stata quella di
Sisifo. Mi meraviglio piuttosto che tanta gente si sia illusa e si
illuda ancora, come se quel trattato potesse valere altrimenti, se
non per la forza materiale su cui potrà fare assegnamento. E poichè le
disgrazie non vengono mai sole, ecco che delle inquietitudini e della
insicurezza, generate da questi trattati, a cui manca l’autorità per
imporsi, approfittano i governi per tentare di ingrandire su questo
immenso sfasciume di rottami, l’antico militarismo, autore e padre
della rovina presente!




PARTE TERZA. 

I TRATTATI 


_Questa terza parte si compone di articoli pubblicati dal Secolo nel
1920 e nel 1921, che sono qui ristampati con qualche ritocco, dopo
essere stati legati in un insieme coerente. La data posta sotto il
titolo indica il giorno in cui l’articolo fu pubblicato nel giornale.
L’ultimo scritto_, La politica realistica, _è inedito: breve nota che
ho ritrovato tra i miei appunti del 1920._

_Questi articoli riuniti sono uno studio sulla pace, fatto circa
un anno dopo la conclusione dei trattati, e quindi maturato
nella meditazione e alla luce dell’esperienza. Le impressioni, i
presentimenti, le intuizioni, ancora oscillanti e confuse, che avevo
fissate sulla carta durante il Congresso della pace, si precisano
e si confermano in alcune conclusioni definitive sulla natura, gli
effetti, i difetti della pace, le quali si appuntano e si riassumono
in una conclusione generale: un trattato o un corpo di trattati non
poter reggersi che o per la forza o per il consenso o per l’uno o
l’altra; ai recenti trattati di pace far troppo spesso difetto così
la forza come il consenso. Onde una specie di protettorato del mondo
impotente, scritto sulla carta, e ragione di malcontento universale, di
insicurezza persistente e di oscuri pericoli._




I. 

L’America e i mari (27 novembre 1920) 


I trattati, che dovevano ripristinare la pace in Europa, sono stati
sottoscritti da più di un anno, ratificati tutti, sia pure a denti
stretti, fuorchè il trattato di Sèvres; e in parte applicati. A mano
a mano che ci allontaniamo dal Congresso, la «tragedia della pace»,
osservata durante il Congresso nei singoli episodi staccati, si
allinea innanzi al mio sguardo, come un insieme ed una unità. Tragedia
meno vistosa e clamorosa che la guerra, perchè quasi clandestina.
Non l’hanno capita neppure gli attori da strapazzo, che l’hanno
recitata. Ma se meno vistosa, è forse più terribile che la guerra.
Una catastrofe, i cui effetti colpiranno le generazioni, è accaduta
in poche settimane, all’insaputa di tutti, senza che alcuno se ne
accorgesse, nei conciliaboli segreti di pochi uomini, che un destino
cieco aveva scelti a caso, a cui aveva conferito il potere quasi divino
di disporre dei destini del mondo, e che se ne sono serviti senza
sapere quello che facevano.

Il principio della catastrofe fu così semplice, che nessuno se ne
accorse. Chi ricorda ancora come la cosa avvenne? Sul finire del
1918 Clemenceau pronunciò alla Camera francese un grande discorso,
per esporre le viste e i propositi del Governo francese intorno alla
pace. In quel discorso il Clemenceau lasciò chiaramente capire che
non credeva alla Lega delle Nazioni; che rimaneva fedele alla vecchia
scuola delle alleanze e degli equilibrî, e che vagheggiava una alleanza
tra l’Italia, la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti per imporre
la pace al mondo. Aggiunse avergli Lloyd George chiesto se a parer suo
senza l’armata inglese la guerra sarebbe stata vinta; come egli avesse
risposto che no; e si fosse accordato con il primo ministro inglese
di opporsi insieme nel Congresso a tutte le proposte, che diminuissero
o limitassero la potenza di quella armata. La Francia e l’Inghilterra
si dichiaravano avverse alla libertà dei mari, chiesta dall’America;
e rifiutavano di discutere al Congresso un nuovo statuto delle acque,
meno barbaro di quello che oggi impera sui mari.

Nessuno, in Europa, badò allora a questo annuncio. Eppure in quel
rifiuto era già contenuto, come la pianta nel seme, così il fallimento
della Lega delle Nazioni disegnata dal Wilson, come il fallimento delle
alleanze vagheggiate dal Clemenceau; così il riaccendersi delle dispute
e delle discordie che già avevano minacciato di distruggere la civiltà
occidentale, come il fallimento di tutto il Congresso. Per quale
ragione? Il velo del destino oggi si squarcia.

Perchè l’America dichiarò la guerra alla Germania? Perchè la
Germania voleva chiudere a suo arbitrio le vie del mare al commercio
tra l’America e i suoi nemici. L’America non volle riconoscere il
monopolio e la padronanza degli Oceani, che la Germania si arrogava.
Ma non la Germania sola: chè l’America ebbe, sin dal principio della
guerra, fiere dispute anche con l’Inghilterra intorno al blocco, al
contrabbando e ai diritti che anche l’Inghilterra si arrogava sul
commercio tra le potenze neutre e i suoi nemici. Scoppiata la guerra
europea, gli Stati Uniti hanno ad un tratto trovato sul mare, di cui
essi si erano serviti sino allora liberamente, come della grande via
comune del genere umano, due potenze nemiche tra loro, ma concordi
nell’affermare che quella via era invece loro proprietà e monopolio,
e che esse avevano il diritto di chiuderla a tutti, quando i propri
interessi lo richiedevano. L’America ha allora affermato, sotto nome di
libertà dei mari, i diritti generali di tutto il genere umano sulla via
comune delle acque; ma non potendo sostener questi diritti contro le
due potenze ad un tempo, si è unita alla più arrendevole e conciliante,
contro la più fiera e intransigente.

Senonchè l’America si impegnava nella guerra mondiale, in parte
almeno, come nemica della sua alleata e come alleata della sua
nemica. Nell’ardore del combattere, sinchè la guerra durò, il mondo,
e la stessa America, non si accorsero della contraddizione; ma la
contraddizione si fece manifesta, appena la guerra finì. Vinta in terra
e sul mare, catturata la flotta con cui aveva atterrito gli Oceani,
la Germania si univa subito all’America per chiedere la libertà dei
mari; ossia si mutava in alleata. A sua volta l’America non poteva più
chiedere il premio della sua vittoria alla nemica, perchè la Germania,
catturata la flotta, non la minacciava più sui mari; doveva chiederlo
all’alleata, all’Inghilterra, che, distrutta la flotta tedesca, restava
più potente e prepotente di prima sui mari. L’alleata prendeva dunque,
nei negoziati, il posto della nemica; e lo prendeva così pienamente,
che rifiutava di pagar essa all’America, al posto della Germania, il
premio della vittoria. Lo statuto dei mari doveva restare barbaro e
confuso come prima della guerra; nessuna soddisfazione doveva essere
data ai popoli, che reclamavano il mare come via comune del genere
umano.

Questo diceva, a chi avesse orecchie per intendere, il rifiuto
dell’Inghilterra, annunciato dal Clemenceau alla Camera francese, sul
finire del 1918, come un fatto che si intendeva di per sè. Quel rifiuto
era la prima catastrofe della vittoria. L’America fu defraudata del
giusto premio e doppiamente delusa; perchè ebbe danno, e grave, dalla
vittoria. Annientando la flotta tedesca l’America ha accresciuto il
pericolo inglese sul mare; tanto è vero che oggi è costretta a far sui
mari le veci della Germania, varando una immensa armata, per bilanciare
la forza inglese. Ma il rifiuto non colpì solo direttamente l’America;
colpì anche di rimbalzo l’Europa. L’Europa non potè più, dopo quel
rifiuto, chiedere all’America che partecipasse o alla Lega delle
Nazioni o a qualsiasi alleanza europea.

Durante tutto il Congresso della pace il Presidente Wilson e il
Clemenceau hanno voluto salvare il mondo, ma ciascuno a modo suo e
meglio dell’altro; l’uno con la Lega delle Nazioni, l’altro con la
vagheggiata alleanza tra l’Europa e l’America. Alla fine, dopo molto
combattere, si sono accordati di salvarlo due volte, con la Lega
delle Nazioni e con l’alleanza della Francia, dell’Inghilterra e
dell’America. Nè l’uno nè l’altro sembrano aver neppur sospettato che
ormai, dopochè l’Inghilterra aveva rifiutato di venire a patti sugli
Oceani, ambedue i disegni non erano più che utopie; perchè l’America
non poteva prender parte nè alla Lega delle Nazioni nè ad un’alleanza
europea, di cui l’Inghilterra facesse parte.

Eppure è così. Che cosa era comune alla Lega delle Nazioni imaginata
dal Wilson e alla alleanza proposta dal Clemenceau? Lo scopo: mettere
al sicuro tutte le potenze che ne facessero parte, anche l’Inghilterra,
da una egemonia continentale in Europa. Ma si poteva chiedere
all’America di impegnarsi a difendere l’Inghilterra sul continente
europeo e contro i suoi futuri dominatori, quando l’Inghilterra
rifiutava di darle alcuna garanzia contro i pericoli di una egemonia
degli Oceani? Ormai il pericolo per l’America era in Inghilterra, non
in Germania: e si voleva che si alleasse all’Inghilterra contro la
Germania? Quando mai s’è vista un’alleanza od una lega, che addossa
tutti gli oneri ad una parte e riconosce tutti i vantaggi all’altra?

Il giorno in cui l’Inghilterra rifiutò di discutere quella che gli
americani avevano chiamata «la libertà dei mari», _gli Stati Uniti
erano esclusi dagli affari europei_. Non riconoscendo l’Europa il
solo interesse, che avrebbe potuto spingere l’America a garantire in
parte l’ordine e la pace dell’Europa, non restava agli Stati Uniti che
ritornarsene a casa loro. Le poche persone, che non sognavano ad occhi
aperti, come i bevitori di _haschisch_, non si sono meravigliate punto
che, non ostante i generosi sforzi del Presidente Wilson, il popolo
americano abbia, nelle elezioni recenti, con un gesto risoluto, buttato
dalla finestra tutti i protocolli di Parigi: Lega delle Nazioni e
alleanze. Il solo miracolo che si ripete a giorno fisso è quello di San
Gennaro.




II. 

Le garanzie (15 dicembre 1920) 


Mentre l’Inghilterra rifiutava di riconoscere nel Congresso della
pace la libertà dei mari, la Francia chiedeva garanzie e riparazioni.
Richiesta non indiscreta, ma che pur troppo era in contraddizione con
le ambizioni oceaniche dell’Inghilterra. Prendendo per sè i mari,
l’Inghilterra toglieva alla Francia e agli altri alleati così le
garanzie come le riparazioni. Il Congresso non se n’è accorto; e perciò
ha perduto sei mesi per sciogliere un nodo insolubile.

Cerchiamo di chiarir questo nesso un po’ nascosto tra i mari e la
terra. Da che pericolo voleva essere garantita la Francia? Dalla forza
della Germania. In che sta questa forza? Nel numero. Tra le ragioni
per cui la guerra mondiale è scoppiata, non bisogna dimenticare lo
sbilancio della popolazione tra Francia e Germania. La guerra non
sarebbe scoppiata, se ci fossero stati dieci milioni di francesi di
più o dieci milioni di tedeschi di meno. Ma questo sbilancio non è
stato livellato dalla guerra mondiale. Oggi la Germania non soltanto
è più popolata che la Francia; ma, caduta la Russia e smembrata
l’Austria, è il primo Stato di Europa per il numero degli uomini, e
resterà tale sinchè la Russia non risusciti. È chiaro che, finchè la
Germania potrà opporre tre tedeschi a due francesi, la Francia sarà in
pericolo; e l’Europa tutta in bilico e malsicura. La Francia chiedeva
dunque garanzia, che i tedeschi non potessero approfittare a suo danno
dell’essere in più.

La richiesta, pur essendo giusta, non era semplice e facile. Ma non
poteva essere soddisfatta che o per imposizione o per accordo. Per
imposizione, se, come Napoleone dopo aver vinto a Jena la Prussia,
l’Intesa avesse approfittato della presente prostrazione della Germania
per imporle una limitazione unilaterale degli armamenti. Per accordo,
se, sotto nome di Lega o Società delle Nazioni, le grandi potenze
europee avessero conchiuso una tregua alla gara degli armamenti e alla
lotta per le alleanze; e se in forza di questa tregua la Germania si
fosse impegnata a limitare i suoi armamenti in modo da non minacciare
più la Francia. La Lega delle Nazioni sarebbe stata allora simile alla
Santa Alleanza, che fu per l’appunto una tregua.

Tutti sanno che il Congresso di Parigi ha preferito di imitare il
grossolano empirismo di Napoleone, anzichè prendere esempio dal
Congresso di Vienna. Nè è dubbio che in parte questa scelta deve
essere imputata ai popoli, perchè nei sei mesi seguìti all’armistizio
nessuno dei vincitori, in Europa, ha voluto sentir parlare sul serio
di una tregua o di una lega per la pace, che imponesse dei doveri ai
vincitori. Ma anche se i popoli fossero stati meno pazzi, se avessero
desiderato davvero di conchiudere una tregua, non avrebbero potuto,
dopo che l’Inghilterra aveva chiuso i mari al Congresso. In una tregua
universale, simile a quella conchiusa un secolo fa a Vienna, che
cosa poteva chiedere la Germania all’Europa, che cosa poteva offrire
l’Europa alla Germania in cambio della sua rinuncia al primato del
numero sul continente e ai suoi vantaggi? Una sola cosa: una rinunzia
equivalente dell’Inghilterra al primato navale e ai suoi vantaggi.
Messa in disparte la questione dei mari non si poteva più stringere
una lega volontaria per la pace e una tregua universale, perchè tutto
il beneficio sarebbe stato per l’Inghilterra, tutto il peso per la
Germania. L’Europa avrebbe chiesto alla Germania di spogliarsi della
sua forza sulla terra in cambio di nulla, così come aveva chiesto
all’America di entrare gratuitamente, con doveri soltanto e senza
diritti, in un’alleanza permanente a favore delle potenze dell’Intesa!

Nei primi mesi dell’armistizio le ambizioni oceaniche dell’Inghilterra
si sono trovate d’accordo con la pazzia dei popoli vittoriosi, per
strangolare nella culla quella tregua fra le grandi potenze europee,
che sola poteva salvarle tutte. Esclusa la tregua e l’accordo, era
necessità ricorrere all’imposizione; accettare il disarmo coattivo
e unilaterale, che già aveva fallito a Napoleone, sebbene la Prussia
del 1806 fosse più debole che la Germania moderna e la Francia potesse
allora contare sull’alleanza della Russia. Questo famoso fallimento
avrebbe dovuto indurre il Congresso e l’Europa a chiedersi un po’
seriamente, se era il caso di ritentare la prova, senza la Russia anzi
con la Russia nemica. Non solo invece nessuno ha dubitato; ma anche
oggi uomini di Stato e di penna, diplomatici e soldati, stentano a
capire quel che pure i fatti dimostrano ogni giorno a chi ha occhi e
sa vedere: la garanzia esser diventata uno spavento. Una garanzia, se
è davvero una garanzia, rassicura e tranquilla: questa invece inquieta,
spaventa, toglie il sonno anche a chi, per ora almeno, potrebbe dormire
tranquillo.

Poichè questo è il tragico nodo della politica continentale. La
Francia, che per il momento è sicura, si crede in pericolo, perchè le
hanno dato questa garanzia di sicurezza!

Che un nuovo 1813 minacci, ora o tra poco, non pare verosimile. Il
paragone non regge. L’Intesa, se non ha saputo fare la pace, non
ha abusato della vittoria come Napoleone. La Germania è spossata e
ha bisogno di riposo. Lo stato presente dell’Europa è dunque per la
Francia una seria garanzia. Ma questo disarmo imposto e accompagnato
da tanti controlli offende e umilia la Germania, perchè la sottopone
al protettorato dei vincitori. Nessuno sembra essersi accorto ancora
che il trattato di Versailles contiene in potenza il protettorato della
Germania. Chi può supporre che il popolo, ieri ancora più potente del
mondo, ieri ancora ammirato, a torto o a ragione, come il _leader_
della civiltà occidentale, si rassegni da un giorno all’altro a esser
trattato come il Marocco? Subirà l’imposizione, ingoierà l’umiliazione,
sinchè abbia sul collo la mano del nemico più forte, ma protestando che
è ingiusta, maledicendo quella mano, anche se non possa sperare in una
pronta riscossa.

Ed ecco voltarsi in veleno tutte le garanzie con cui la Francia
potrebbe e dovrebbe rassicurarsi. Che tranquillità possono darle alcune
migliaia di cannoni distrutti o gli effettivi ridotti, quando sa che
la Germania è piena di odio, e che, se la vendetta si offrisse, non
esiterebbe? La garanzia vera non è negli strumenti ma nell’_animo_.
Il numero e le armi senza l’_animus nocendi_ non inquieterebbero la
Francia. Il numero e l’_animus_, anche con poche armi, la spaventano.
Quali garanzie imaginare contro l’odio di un popolo, e contro le
occasioni che le vicende dei tempi possono offrirgli? Anche disarmata
la Germania, con la sua popolazione soverchiante e con il terrore che
risveglia il ricordo di quello che osò e seppe fare, apparirà sempre un
pericolo ai vicini che essa odia. E a rinfocolare il suo odio provvede
appunto ed egregiamente il disarmo obbligatorio, dato dal Congresso
alla Francia come garanzia!

Purtroppo l’Europa è già ricascata in quel circolo vizioso in cui si
dibatteva prima del 1914. La Germania ha paura della Francia e l’accusa
di opprimerla spietatamente; la Francia a sua volta ha paura della
Germania e l’accusa di volerla distruggere. La paura genera l’odio, e
l’odio alimenta la paura. La Germania è esasperata dalla umiliazione
del disarmo obbligatorio e sorvegliato; ma questa esasperazione non
lascia dormire la Francia, a cui quel disarmo doveva conciliare i sonni
tranquilli. Più la Germania disarmerà e più la Francia si insospettirà,
perchè crescerà l’odio della nemica. Non può accadere altrimenti. È
una catena. Un anno dopo la pace, la Francia arma 700.000 uomini per
disarmare la Germania; ma mentre la Germania si crede vittima di una
intollerabile iniquità, la Francia si sente minacciata. I due popoli,
uno disarmato e l’altro armato sino ai denti, si odiano più che mai,
perchè tutti e due hanno paura.

Il più grande orrore della storia europea! 




III. 

Le riparazioni (1 gennaio 1921) 


I tedeschi hanno fatto la guerra con il proposito di vincere e di
rovinare i nemici. Il crudele Dio della guerra, da essi adorato e
obbedito dopo il 1870, comandava di distruggere anche la proprietà
del nemico. Non è meraviglia che, terminata la guerra, le nazioni più
straziate abbiano chiesto le giuste riparazioni.

Ma la giustizia è spesso impotente a colpire gli uomini alla
spicciolata: imaginarsi i popoli! I governi, pur tentando di
soddisfarlo nella misura del possibile, avrebbero dovuto cercar di
frenare questo giustificato risentimento, ricordando ai popoli che,
purtroppo, è sempre più facile distruggere che creare, fare il male
che ripararlo. Invece lo hanno eccitato. Sul finire del 1918 Lloyd
George prometteva all’Inghilterra la testa del Kaiser e il risarcimento
totale delle spese di guerra, affermando pubblicamente che la Germania
avrebbe potuto pagare anche 600 miliardi. Ma quando i grandi delirano,
chi può sperare che i popoli siano savi? L’ossessione dell’indennità si
impadronì dello spirito pubblico.

Chi lo ha osservato da vicino al lavoro, sa con quanta leggerezza il
Congresso della Pace trattò questa materia. Non discusse mai seriamente
nè in quale misura si potesse chiedere riparazione secondo giustizia e
con fondata speranza di ottenerla; nè con quali mezzi ottenerla e con
che garanzie; nè come misurare il danno e il risarcimento di ciascun
alleato. Discusse invece tumultuariamente cifre grosse, mediocri,
piccole, ma tutte campate in aria; alla fine, come in un mercato, dopo
un lungo contrattare, venne nell’accordo di chiedere alla Germania un
primo acconto di 125 miliardi e di affidare ad una «Commissione delle
riparazioni» il compito di fissare la somma totale entro il 1º maggio
1921; quanto al pagamento, qualche santo aiuterebbe. Nella fretta
non si accorse neppure, che aveva condannato la Germania a essere
debitrice in perpetuità, ingiungendole di pagare sul suo debito totale
un interesse annuo del cinque per cento. Non i tedeschi, ma i francesi,
hanno calcolato che sommando quell’interesse ogni anno al capitale,
la Germania, pur pagando da 3 a 5 miliardi all’anno, di qui a 30 anni
dovrebbe ai suoi nemici su per giù la stessa somma!

Non c’è da farsi illusioni. Queste riparazioni abborracciate e
incoerenti, invece di riparare i guasti fatti dalla guerra, guasteranno
anche quel che alla guerra è scampato. Che la Germania voglia e
possa pagare anche solo 125 miliardi nello spazio di una generazione,
sembrerà per lo meno molto dubbio ad ogni persona di buon senso. Gli
scrittori francesi si sforzano da qualche tempo di dimostrare che la
Germania può pagare. Ma i loro argomenti, se sono ingegnosi, peccano
tutti per lo stesso difetto; suppongono che la Germania voglia, perchè
può e deve, lavorare per le sue vittime e per i suoi nemici, con lo
stesso fervore con cui prima della guerra lavorava per sè, per la
sua ricchezza e per i suoi piaceri. La Germania potrebbe pagare, se
acconsentisse a dare al mondo un così sublime esempio di pentimento
cristiano. Ma chi la crederà ambiziosa di questa palma?

La civiltà occidentale da un secolo non conosce riposo. Ma con
che pungolo ha incitato l’innata pigrizia degli uomini all’insonne
travaglio? Con l’allettamento di maggiori comodità e di maggiori
piaceri.

Da un secolo in Europa e in America l’agiatezza e il lusso delle
moltitudini crescono, con spavento non piccolo e scandalo di molti;
ma che cosa sono l’uno e l’altra se non il premio e lo sprone della
cresciuta alacrità? L’uomo non lavora, se non spera un premio. Gli
europei e gli americani lavorano molto più che gli orientali, perchè
hanno contratto bisogni e si sono avvezzati a godere molti beni, che
gli orientali non conoscono. Chi spera che i tedeschi lavoreranno
per una o due generazioni anche più indefessamente che nel passato,
contentandosi di vivere poveramente, come dei mussulmani, si illude. E
se i tedeschi non faranno questo sacrificio, come potranno riparare il
male? Risarcire una vittima vuol dire lavorare per essa gratuitamente.

Nè la forza può in questa materia far nulla. Anche la vittoria è
impotente. Lo staffile e la paura possono muovere alla meglio un rozzo
schiavo maldestro; non un operaio, nè un contadino dei nostri tempi, e
tanto meno un intero popolo. Se si tenterà di obbligare con la forza la
Germania a lavorare per le sue vittime, la Germania si spopolerà. Già
l’industria tedesca ha incominciato ad emigrare, per lo spavento delle
imposte che la minacciano. La guerra mondiale ha impoverito la Germania
più che i suoi nemici; e molti fatti inducono a credere che questa
miseria durerà a lungo, se pure non crescerà. Ma come sperare che la
Germania impoverita voglia e possa rifare tutto ciò che i suoi eserciti
hanno devastato?

Questi non sono arcani di saggezza riposta ma considerazioni del buon
senso. Molti ne convengono, ragionando a quattro occhi: ma a che serve?
L’Europa è incatenata dai trattati. I governi si attengono ai testi di
questi trattati; come se potessero eseguirsi alla lettera. I ministri
delle finanze fanno i loro conti, come se i crediti sulla Germania
fossero di scadenza infallibile. E potrebbero gli uni e gli altri fare
altrimenti? Potrebbe un governo, un anno dopo aver firmato dei trattati
di quella mole e averli proclamati la felicità e il prodigio del mondo,
dire che non sono applicabili? Potrebbe un ministro delle Finanze
dichiarare di sua testa inesigibile un credito, scritto in alcuni dei
più solenni documenti della storia universale?

A loro volta nessun giornale, nessun uomo eminente e autorevole vuole
assumersi la responsabilità di dichiarare imaginarî e irreali dei
diritti, che i governi dichiarano validi e fermi. Tutti coloro, che
sanno come stiano le cose, si legano a vicenda nella menzogna o nel
silenzio complice. Il pubblico, che non può discernere chiaramente
in così grandi cose il possibile dall’impossibile, e che è spinto a
chiedere riparazione e vendetta dalla giustizia e dall’interesse, si
conferma nella persuasione che la Germania pagherà. Che pagherà, perchè
_deve_ pagare.

Ma questa sicura aspettazione dei popoli lega i governi. Quale governo
oserebbe denunciare per malsicuri quei crediti, quando i popoli già si
immaginano di palpare il denaro? I popoli non intenderebbero ragione; e
si risentirebbero, come derubati, contro i governi.

Senonchè questo malinteso non può durare eternamente. Un giorno o
l’altro tutte le illusioni saranno sbugiardate dalla brutalità del
reale. Prima o poi, i popoli dovranno accorgersi che la Germania non
può perchè non vuole, e non vuole perchè non può pagare se non una
piccola parte delle indennità imposte. Che cosa accadrà quel giorno tra
i popoli illusi e delusi, e i governi compromessi e impegnati?

Io non so che cosa accadrà, e non voglio tentare di indovinarlo. Ma
confesso di non poter pensare a quel giorno senza ansietà, perchè
troppo dubito e temo che il terribile nodo non possa sciogliersi a poco
a poco, tranquillamente, senza strappi.

In questo almeno il Keynes ha ragione: un aiuto serio e efficace non
poteva esser dato ai paesi che più hanno sofferto per le devastazioni
delle guerre, all’Italia, alla Francia, al Belgio, alla Serbia, se
non da un accordo tra gli alleati. I più ricchi e fortunati tra i
vincitori avrebbero dovuto integrare, a condizioni eque e con sussidi
diretti e indiretti, le ragionevoli indennità imposte ai vinti, per
salvar ciascuno in particolare, salvando tutti insieme, vincitori e
vinti. Il sacrificio consentito dagli alleati più ricchi sarebbe stato
presto ricompensato dal rapido rifiorire della prosperità generale. Ma
questa intesa rigeneratrice non poteva essere stretta senza l’America;
e poteva l’Europa chiedere questo servizio e questo sacrificio
all’America, quando le aveva tolto il frutto della sua vittoria?
Si ricasca sempre lì. Esclusa dal Congresso della pace la questione
dei mari, tutte le questioni continentali sono diventate insolubili.
Perfino quella delle riparazioni.




IV. 

Trattati di carta velina (13 gennaio 1921) 


Fu un tempo, che i trattati si incidevano nel bronzo e nel marmo. I
tempi nuovi si accingono a copiarli sulla carta velina? L’inchiostro
dei trattati di Versailles e di Sèvres non era ancora seccato, e già si
parlava di rifarli! Non s’era visto ancora nella storia un così pronto
pentirsi dell’irrevocabile.

Sul trattato di Versailles cadono fitte le accuse. Sarebbe iniquo,
oppressivo, dettato dall’odio alla prepotenza. Esagerazioni. Il
trattato ha pregi e difetti; e tutt’assieme l’Europa potrebbe forse
compensare gli uni e gli altri in una applicazione savia e giudiziosa,
se non avesse davvero un difetto di cui nessuno parla, ma che è
peggiore di tutti i vizi denunciati, veri o falsi. Ed è che non si sa
precisamente se esista o non esista; se sia un trattato vero e vivo,
o un pezzo di carta inoperante a dispetto delle ratifiche. Chi dice
che è un trattato vero e chi dice di no; tutti aspettano impazienti
che i fatti sciolgano il dubbio, ma i fatti non hanno fretta; la parte
buona come la parte cattiva del trattato riposa sopra un’«incertezza»,
che non vuol chiarirsi. Onde la strana ansietà che si impossessa
dell’Europa, perchè non sa se ha o se non ha fatto la pace.

L’evento è così strano, che giova intenderlo bene. Un pezzo di carta
scritta non diventa un trattato operante, un impegno sacro, una legge
imperativa tra i popoli se non per virtù di consenso spontaneo o di
coazione. Affinchè un trattato non resti lettera morta e sia osservato,
è necessario che, o il vinto lo riconosca e si consideri obbligato,
sia dall’onore, sia dal suo stesso interesse, a obbedirgli; o che il
vincitore sia tanto forte che il vinto non osi ribellarsi e l’osservi.

Il trattato di Versailles sfugge all’uno e all’altro dei due requisiti.
Questo è il suo vero difetto. A torto o a ragione, i tedeschi sono
persuasi di aver dovuto subire a Versailles il ricatto di Brenno. Come
i francesi dopo il trattato di Francoforte, essi maledicono il trattato
e denunciandolo iniquo si considerano tenuti ad osservarlo soltanto
nella misura in cui la forza li costringa. Alla forza spetterebbe
dunque di far rispettare il trattato. Ma la forza c’è? In questo
sta il tutto. La Germania è stata vinta nella guerra mondiale da
una coalizione, che in parte si è sciolta, in parte si è rallentata.
Nessuno potrebbe oggi dire quali forze sarebbero pronte domani per
imporre il trattato alla Germania recalcitrante. La Francia sola? La
Francia e il Belgio? La Francia, l’Inghilterra, il Belgio? Nè è facile
indovinare quel che la Germania potrebbe fare domani, se volesse
tentare di lacerare il trattato od opporre una resistenza passiva.
Nessuno lo sa, neppure la Germania. Chi dice la Germania prostrata per
secoli; chi la rivede tra pochi anni più potente e minacciosa di prima.

Il male segreto che strugge l’Europa è proprio questa incertezza.
La Germania vorrebbe accertarsi che la coalizione nemica è sciolta
o impotente: ma i fatti la confortano appena di qualche malsicura
speranza. A sua volta la Francia vorrebbe esser certa che la coalizione
con cui ha vinto la guerra non l’abbandonerà mai; e che anche se si
sciogliesse, basterebbero al trattato le sue sole forze. Ma anche per
la Francia i segni dei tempi sono confusi e malsicuri. Le altre potenze
aspettano gli eventi, senza far nulla per chiarire quell’incertezza,
parlando come se la coalizione sussistesse ancora ed operando come se
non ci fosse più. Onde la coalizione e quindi la forza che dovrebbe
imporre il trattato c’è e non c’è; ora par che ci sia, ora no; e il
trattato compilato con tanta fatica sussiste e non sussiste, ora c’è,
ora non c’è, secondo che pare o non pare esistere una forza adeguata
per imporlo. La Germania si acconcia ad eseguire ad uno ad uno gli
impegni meno gravosi del trattato, ma tutti all’ultimo momento,
lentamente, cercando di guadagnar tempo e sperando che alla fine il
trattato apparisca non essere altro che un pezzo di carta, per la parte
non eseguita. La Francia invece fa disperati sforzi per tenere legata
la coalizione, e, temendo che alla fine si sciolga, cerca di affrettare
l’esecuzione; ma è sempre in ansia di trovarsi tra le mani una lettera
morta.

Del trattato di Sèvres il discorso è ancora più semplice. Qui non
ci sono dubbi. La forza per imporlo non è mai esistita; e perciò
il trattato non è esistito mai fuorchè nell’immaginazione dei suoi
compilatori. L’Inghilterra, la Francia, la Grecia fecero un giorno
un bel sogno: spartirsi le spoglie della Turchia, vinta nella guerra
mondiale, e della Russia, smembrata dalla rivoluzione. Senonchè non
bastava aver vinto un esercito tedesco sul Reno per impadronirsi della
Mesopotamia, della Palestina, della Siria, di Costantinopoli, del Mar
Nero; occorreva mandare in Asia un esercito, e strappare con una nuova
guerra quei paesi alla religione che ancora li domina. Nè la Francia,
nè l’Inghilterra potevano; e allora Lloyd George immaginò di intendersi
con Venizelos, offrendo in premio Smirne e la Tracia. Senonchè la
combinazione pericola, un po’ perchè l’esercito greco non basta al
compito, un po’ perchè il popolo greco non vuol più saperne di questa
guerra. Per odio alla guerra il suffragio universale ha rinnegato
Venizelos.[13] Ma se viene a mancare la sola forza, su cui l’Europa
poteva fare assegnamento per imporlo, che altro sarà il trattato di
Sèvres se non un pezzo di carta? L’Inghilterra cerca oggi di mettersi
d’accordo con re Costantino, affinchè continui in Asia Minore la
guerra incominciata dal Venizelos: ma questo stratagemma puerile potrà
soltanto ingrandire la catastrofe, differendola di qualche mese.

«Il mondo non muta — dicevano volentieri, durante la guerra, i
«realisti» e gli scettici. — In questa come in tutte le guerre, i
vincitori cercheranno alla fine di ingrandirsi a spese dei vinti,
obbedendo al proprio egoismo. È un sogno supporre che l’Inghilterra
acconsentirà mai a spogliarsi anche parzialmente, a favore del genere
umano, del dominio del mare; o che le grandi potenze superstiti, amiche
e nemiche, potranno intendersi tra loro e con l’America per tentare un
riordinamento generale degli affari di Europa, prendendo le mosse dalla
limitazione degli armamenti».

E purtroppo lo scetticismo ha avuto ragione. I vincitori hanno fatto la
pace, come se questa fosse una delle solite guerre, badando ciascuno al
suo interesse singolo e imponendolo nella misura della sua forza. Ma
si è avverata anche la previsione, che la saggezza veggente opponeva
a quello scetticismo: la pace non è pace e sta deludendo l’orgoglioso
egoismo che l’ha dettata. Non avendo riordinato l’Europa su principî
di solidarietà accettati dai vinti e dai vincitori, i vincitori non
hanno potuto nè dare alla Francia le garanzie da questa richieste, nè
agevolare ai paesi devastati dalla guerra la necessaria restaurazione;
ed alla fine hanno compilato dei trattati, la cui osservanza dovrebbe
essere imposta da una forza che spesso non c’è; più spesso non è ben
sicuro se esista o no.




V. 

Il capovolgimento dell’Austria-Ungheria (29 gennaio 1921) 


Nata dall’antico odio di Francia e Germania, la guerra mondiale ha
distrutto gli Absburgo. Ai vincitori è toccato anche il compito di
spartire l’eredità di quella corona.

Tutti sanno come si governava l’impero poliglotta degli Absburgo.
Molte razze diverse erano sottoposte al dominio di due razze egemoni,
i tedeschi e gli ungheresi, e all’autorità della corona imperiale che
le governava tutte, dominate e dominatrici, per mezzo di un’antica
aristocrazia e di una burocrazia fedelissima. Non erano pochi i
difetti di questo governo. Teneva in soggezione le classi medie e
l’intelligenza; cercava di soffocare la coscienza nazionale di tutti i
popoli dell’impero, che non parlavano tedesco o magiaro; accarezzava la
plebe e le permetteva anche di civettare con la rivoluzione sociale,
purchè fosse contenta di essere plebe soltanto e non aspirasse a
diventare nazione. A compenso di tutti questi difetti l’impero aveva
una qualità: non si reggeva soltanto per la forza. Tra i suoi titoli di
autorità c’era, oltre l’esercito e la polizia, anche il prestigio della
dinastia. Sebbene nell’ultimo mezzo secolo il sentimento nazionale si
fosse risvegliato nei popoli soggetti all’egemonia tedesca e magiara,
non aveva spento l’antica devozione alla dinastia. L’impero si reggeva
ancora, negli anni che precedettero la guerra, perchè milioni di uomini
parlanti lingue diverse veneravano l’imperatore come il legittimo
signore, e si credevano obligati ad obbedirgli.

La guerra l’ha provato. Da principio molti predissero che l’impero
sarebbe stato dopo pochi mesi sfracellato dall’esplosione degli odî
nazionali. Invece tra le razze dell’impero sottoposte all’egemonia
tedesca e magiara solo gli czechi hanno, sino dal principio della
guerra, resistito con un certo vigore all’autorità imperiale. Le altre
hanno combattuto fedelmente fino al 1918. Soltanto nella seconda metà
del 1918, quando la misura delle sofferenze fu colma, il sentimento
nazionale esplose nelle moltitudini, come un accesso di disperazione.
Tutti quei popoli vollero essere nazioni, quando s’accorsero che la
corona austro-ungarica non poteva più salvarli.

Così si sfasciò l’impero degli Absburgo. Con i suoi frammenti e con
numerose amputazioni dell’Ungheria, della Germania e dell’antico
impero russo, i trattati di pace hanno costituito tre nuovi stati:
la Polonia, la Czeco-Slovacchia, la Jugoslavia. Ma come li hanno
costituiti? Capovolgendo l’antica Austria-Ungheria degli Absburgo. In
questa il governo era monarchico e aristocratico. In quei nuovi stati
è repubblicano, fuorchè nella Jugoslavia; e in tutti è democratico,
perchè il suffragio universale è la fonte dell’autorità. Nell’impero
degli Absburgo i tedeschi e i magiari erano i dominatori e gli
oppressori: nei nuovi stati i tedeschi ed i magiari hanno preso,
insieme con alcuni popoli nuovi, il posto delle antiche loro vittime,
mentre queste salivano al rango di dominatori.

Il che può anche parere giustizia, almeno in una certa misura. _Qui
gladio ferit, gladio perit_. I tedeschi e i magiari hanno troppo
abusato della loro potenza nell’impero, impegnandolo nell’orribile
guerra. Che questi nuovi regni e queste nuove repubbliche siano stati
fondati quasi per rappresaglia contro l’impero, e che le minoranze,
prima della guerra sottoposte all’egemonia tedesca e magiara, vogliano
far sentire agli antichi padroni che il mondo si è capovolto, si
capisce, sino ad un certo punto. Il Congresso della pace, impegnato
a voler sciogliere tanti nodi insolubili, non ha avuto la forza di
frenare queste vendette.

Ma un pericolo c’è. Nell’impero degli Absburgo i tedeschi e i magiari
imponevano la loro egemonia un po’ colla forza, un po’ con il prestigio
secolare della corona degli Absburgo. Nei nuovi stati l’egemonia dei
polacchi, degli czechi, dei serbi sui tedeschi, sugli ungheresi, sui
croati, sugli sloveni, sui montenegrini, sugli albanesi e sui bulgari
potrà farsi valere soltanto con la forza. Appunto perchè i nuovi
stati riposano sul principio nazionale, non possono giustificare con
nessun principio di diritto l’oppressione delle altre nazionalità, la
persecuzione delle loro lingue, la chiusura delle loro scuole, la loro
degradazione politica. La forza resta il solo argomento. Onde la guerra
ha liberato i popoli, regalando loro dei governi che, sinchè lo spirito
attuale di rappresaglia infierisca, saranno molto più duri che l’impero
degli Absburgo; tanto più duri e violenti, quanto più deboli.

Poichè questi stati nascono deboli. Nascono esauriti dalla guerra,
e già falliti prima di aver cominciato ad amministrare; senza uomini
e senza mezzi adeguati al compito, senza altro principio di autorità
che il suffragio universale, ossia in balìa di moltitudini avvezze da
secoli ad obbedire un’autorità quasi assoluta. Potranno soverchiare
minoranze indocili, perchè avvezze da secoli a comandare?

E infatti vivono già tutti nel sospetto. La Polonia ha paura della
Russia e della Germania; e non è nemmeno sicura della Czeco-Slovacchia.
La Czeco-Slovacchia guarda con diffidenza la Germania e l’Ungheria. La
Jugoslavia ha paura dell’Ungheria e della Bulgaria; e, dopo la caduta
di Venizelos, non si fida più nemmeno troppo della Grecia. Ogni stato
si chiude in sè, si isola, vieta persino il commercio con i vicini. I
grossi eserciti sarebbero un buono scudo; e la voglia di possederli
non mancherebbe a nessuno di questi stati. Manca invece il denaro;
e non son neppur sicuri gli uomini, perchè nelle moltitudini, ieri
schiave oggi sovrane, le idee comuniste fanno strada. Incominciano gli
intrighi diplomatici, le intese, i progetti di alleanza offensiva e
difensiva, man mano che in ogni stato l’odio tra dominanti e oppressi
si inasprisce. La piccola Intesa è il primo tentativo di corroborare,
con gli accordi e con diplomazia, forze vacillanti e poco sicure di sè.

Insomma nella pace austriaca ritroviamo lo stesso difetto che nelle
altre paci. Anche questi trattati hanno creato un ordine di cose che
non può reggersi se non sulla forza: ma se la forza necessaria per
reggerlo esista, è dubbio. Onde un’incertezza, un sospetto, un’ansietà
universali. Se oggi ci sia nel cuore dell’Europa più giustizia che
prima della guerra, non so; ma è certo che c’è molto più odio e molta
più paura. L’odio che genera la paura; e la paura che genera l’odio.
Come uscire da questa tragica stretta?




VI. 

La Polonia e la Russia (28 agosto 1920) 


L’Intesa è miracolosamente scampata ad una disfatta in Polonia. 

Quando la fortuna volgeva favorevole alle armi sue, il Governo di
Mosca, prendendo a testo e ad esempio il trattato di Versailles, aveva
annunciato di voler imporre alla Polonia, tra le condizioni di pace,
il disarmo obbligatorio. Se la Polonia non avesse avuto la forza di
respingere l’invasore, che cosa avrebbe potuto fare l’Intesa? L’Intesa
non poteva aiutarla nè con armi temporali nè con armi spirituali.
Non poteva mandare soldati in Polonia; non poteva protestare contro
il disarmo imposto dai bolscevichi, poichè essa l’aveva imposto alla
Germania.

Difatti il governo inglese aveva già consigliato la Polonia di chinare
il capo, aggiungendo che il vinto aveva meritato la sua sorte; e molti,
in Inghilterra e altrove, aguzzavano i sofismi per dimostrare che le
condizioni poste dai bolscevichi alla pace erano eque e generose! Non
sembrerà vero ai posteri, ma è così. La Polonia sarebbe diventata un
protettorato russo: invece di essere il cuneo cacciato tra la Russia
e la Germania per separarle, sarebbe stata il ponte che le avrebbe
congiunte; il primo passo verso l’alleanza della Russia e della
Germania sarebbe stato fatto; e si sarebbe visto il primo schieramento
per una nuova guerra generale, più o meno lontana. Sarebbe difficile
immaginare per l’Intesa una disfatta più grave. Eppure l’Inghilterra e
l’Italia parevano già rassegnarsi in precedenza!

La Polonia, se ha commesso molti errori nel suo primo anno di vita,
ci ha almeno risparmiato questa calamità. Ad una condizione però: che
Francia, Italia, Inghilterra sappiano meritare l’insperata fortuna
delle vittorie polacche.

La politica russa dell’Intesa è viziata da una contraddizione, che è
la ragione profonda di molti guai presenti e che sarà seme di infiniti
mali futuri.

L’Intesa vuole che la Russia risusciti. Lo sprofondamento del grande
impero ha fatto in Europa ed in Asia un tal vuoto, che l’equilibrio
dell’intero pianeta è stato alterato. Sinchè questo vuoto non sia in
qualche modo riempito, non si potrà rimettere in pernio e bilanciar
bene nè l’Europa e nè l’Asia. Ma poichè i grandi e sùbiti rivolgimenti
ripugnano alla natura umana, sembra ai governi dell’Europa che più
prontamente e meglio di ogni altro riempirebbe quel gran vuoto uno
stato che rassomigliasse all’impero caduto: ossia unito e vastissimo.
Si aggiunga che nel vuoto fatto dall’impero russo sprofondando, è
sparita anche una parte della fortuna dell’Europa. Non potendo scendere
nell’abisso a rintracciare i suoi tesori, l’Europa non vedrebbe di
malocchio che di sotto ai rottami uscisse un nuovo gigante, capace di
riportarli sulle sue spalle alla luce del sole. Francia e Inghilterra
sognano un impero sifatto, che pagherebbe i debiti contratti
dall’antica Russia.

Per queste ragioni l’Intesa vorrebbe che la Russia rinascesse con
la forza e il vigore e la ricchezza di un tempo, se non maggiore. Ma
aspettando che risorga, la mura viva in precedenza, per il giorno della
resurrezione, nell’interno dell’Europa e dell’Asia. L’Inghilterra l’ha
isolata dal Baltico, con la sua oscura politica, che mira a far clienti
le repubblichette sorte negli ultimi anni sulle sponde di quel mare.
La Polonia è stata ricostituita, perchè sia la sua carceriera dalla
parte di Occidente e della Germania. Il trattato di pace con la Turchia
consegna Costantinopoli all’Inghilterra, alla Francia e all’Italia; e
sbarra di una triplice porta le sue comunicazioni con il Mediterraneo.
Il trattato tra la Persia e l’Inghilterra, per fortuna già sospeso e
che sarà abrogato, sarebbe stato un altro sbarramento, che la Russia,
ritornata a vita, avrebbe trovato nell’Asia Centrale.

È possibile supporre che la Russia, il giorno in cui ricuperasse
una parte dell’antico vigore, si acconcerebbe a vivere entro quella
prigione? I trattati di pace firmati nel 1919 e nel 1920 portano nei
loro fianchi molte guerre future; e tra queste anche una grande guerra
tra l’Inghilterra e la Russia e una grande guerra tra la Russia e
la Polonia. La Russia non potrà tollerare, se non per debolezza e
impotenza, di essere esclusa dal Baltico, di esser sorvegliata ed
isolata in Europa da una Polonia diffidente ed ostile, di aver tre
grandi potenze europee come sue carceriere a Costantinopoli. Quel che
farebbe la Russia il giorno in cui avesse recuperato le forze, si può
argomentare da quel che fa oggi, quasi agonizzante.

Nè si creda che l’Europa avrebbe da guadagnare, per questo rispetto, da
un mutamento di regime. Qualunque fosse il governo con cui si reggesse
la Russia, anche fosse un governo insediato dalle armi dell’Intesa,
sarebbe costretto a tentar di lacerare i trattati di pace del ’19 e del
’20, appena potesse, da una necessità vitale.

Questo stato di cose spiega in parte, se non giustifica, l’attacco
della Polonia. Esso è stato severamente biasimato. Non si negherà
che da un popolo, al quale la forza e la conquista avevano inflitto
tanti tormenti, si poteva aspettare di meglio, che questa fretta
famelica di conquistatori arrivati troppo tardi! Senonchè non bisogna
dimenticare che la Polonia è stata posta dall’Intesa in una posizione
quasi disperata di sentinella morta e che deve pensare ai casi suoi.
Si trova tra due giganti feriti; e sa che il primo, che abbia fasciate
le sue piaghe e recuperato le forze, le salterà addosso, se non le
salteranno addosso tutte e due insieme. Se anche prima della guerra
presente essa si faceva delle illusioni, non potrebbe più ignorare
che in una guerra con la Russia, essa non può sperare nessun aiuto se
non di consigli e di parole dai suoi alleati di Occidente. Essa deve
perciò cercare di indebolire quanto più può la Russia, anche con guerre
aggressive, per non ritrovarsi domani a subire una pace simile a quella
che i bolscevichi volevano imporle; poichè non c’è altra alternativa
finchè un nuovo spirito non soffi sull’Europa. O la Russia muore di
estenuamento e si dissolve in pulviscolo; o risorge, e la Polonia non
può sperare miglior sorte che di essere la sua protetta e il ponte che
la congiunge alla Germania.

Se ne ricordi, chi vuol orientarsi nel caos presente. Occorre, se
si vuol ridare la pace all’Europa, rifare la pace con la Russia; ma
sarebbe imprudente credere che la pace con la Russia sia minacciata
soltanto dall’imperialismo polacco. Grande e lodevole è lo zelo per
la pace di Lloyd George, dei pacifisti e dei laburisti inglesi; ma si
risveglia un po’ tardi. Sarebbe stato meglio si fosse manifestato non
soltanto quando i polacchi incominciavano ad essere respinti dagli
eserciti rossi; ma allorchè il Governo inglese firmava il trattato con
la Persia, o incominciava la sua oscura politica baltica, o compilava
il trattato di pace con la Turchia.

Se lo spirito e l’indirizzo di tutta la politica dell’Intesa verso la
Russia non mutano; se non si cesserà di considerare la Russia come un
moribondo, caduto sul campo di battaglia, e che i saccomanni possono
spogliare prima ancora che sia spirato, le vittorie dei polacchi non
serviranno a nulla.




VII. 

Il protettorato del mondo (10 agosto 1921) 


Ho riletto in questi giorni, uno dopo l’altro, tutti i trattati di
pace, che avrebbero dovuto sigillare per qualche secolo le porte di
Giano. Mi è parso di leggere un nuovo capitolo delle «Mille e una
notte». Poichè in quei trattati sta scritto il protettorato del mondo:
nè più nè meno. In forza di quei trattati la Francia, l’Inghilterra,
l’Italia e il Giappone si assumono di governare, o ciascuna in
nome proprio o tutte insieme, o per governo diretto o per via di
protettorato, l’Europa, l’Africa e quasi tutta l’Asia, ad eccezione
dei territori in potere dei bolscevichi: quello, insomma, che per gli
antichi era il mondo.

Non si potranno accusare i vincitori della guerra mondiale di soverchia
modestia!

Il trattato di Versailles sottopone le armi della Germania e le
industrie che fabbricano le armi alla sorveglianza di commissioni
permanenti delle potenze alleate. L’obbligo delle riparazioni, nella
forma in cui è stato imposto alla Germania, necessita il controllo
delle finanze. La commissione delle riparazioni ha già ricevuto ampi
poteri dal trattato di Versailles; ma questi non bastano. Già si
parla di una vera e propria commissione internazionale, che riveda
i conti dello stato tedesco, imponga economie e balzelli, impedisca
alla Germania di frodare i creditori dissipando la sua fortuna. Ma dal
controllo delle armi e delle finanze al controllo della politica estera
il passo sarà breve. È una catena. A che giova controllare le armi ed i
conti, se poi si lascia libero lo stato disarmato di cercare alleanze,
che compensino la sua debolezza? La Germania è dunque ormai un
protettorato collettivo della Francia, dell’Italia e dell’Inghilterra.
Quella che era ieri la prima potenza del mondo è oggi protetta da tre
potenze, ciascuna delle quali è molto più debole di essa!

Eguale è la condizione in cui i trattati di pace hanno posto l’Austria,
l’Ungheria e la Bulgaria. Le potenze vincitrici si sono assunta la
sorveglianza delle armi e delle finanze. Dell’Austria anche la politica
estera è sottoposta a controllo, almeno nei riguardi della Germania.

L’Ungheria invece è sorvegliata, se non dai trattati, dalle
Cancellerie, nelle sue istituzioni interne, poichè non può sciegliere
tra la repubblica e la monarchia o eleggere un nuovo re senza il
consenso dei vincitori.

Dell’antico impero turco la Siria, la Palestina, la Mesopotamia sono
diventate, sia pure per l’interposta persona della Società delle
Nazioni, e con la formola dei mandati, protettorati dell’Inghilterra e
della Francia. Le chiavi dei Dardanelli passano alla Commissione degli
Stretti, ossia all’Inghilterra, alla Francia, all’Italia. Il trattato
di Sevrès vorrebbe che il Califfo difendesse l’Islam da Costantinopoli
non più sua, come inquilino e protetto delle grandi potenze europee,
mezzo cristiane e mezzo miscredenti. Disarma la Turchia e sottopone
il suo esercito alla vigilanza di una commissione; le impone una
gendarmeria comandata da ufficiali europei, alleati o neutri; crea
una commissione finanziaria, che rivedrà i conti del governo turco,
e sarà composta dai rappresentanti dell’Italia, della Francia,
dell’Inghilterra e della Turchia, ma quest’ultimo a solo titolo di
consultazione. Senza il consenso di questa commissione nessun bilancio
sarà valido e il governo turco non potrà alterare nè imposte nè dogane!

Nè basta. Già il 13 dicembre del 1914 l’Inghilterra aveva proclamato
l’Egitto un suo protettorato, spezzando, con una prepotenza innanzi a
cui anche i tedeschi avrebbero forse esitato, quella che si potrebbe
chiamare l’ossatura legale di una civiltà tanto antica. Nel ’19 essa
tentava di impadronirsi, con un trattato, della Persia. Infine le
grandi potenze vittoriose si sono impegnate ad aiutare con denari, con
consigli, con funzionari, con appoggi diplomatici, gli stati nuovi e
vecchi, che sono nati o si sono ingranditi sulle rovine dell’impero
russo e della duplice monarchia: le repubbliche baltiche, la Polonia,
la Czeco-Slovacchia, la Rumenia, la Jugoslavia, la Grecia. Anzi
è già incominciata la gara per assicurarsi la clientela di queste
piccole potenze, in cambio di una benevola protezione. La Francia mira
alla Polonia, alla Czeco-Slovacchia, alla Rumenia, alla Jugoslavia;
l’Inghilterra alla Grecia e alle repubbliche baltiche.

È noto a tutti, infine, quel che accade tra il Giappone e la Cina. Ma
Giappone e Cina, per fortuna, sono molto lontani.

Siamo dunque i padroni del mondo. Roma è oscurata. Proconsoli,
pubblicani, amministratori: avanti! Se ci siamo assunti di governare
tre continenti e tante lingue, razze e religioni così diverse, vuol
dire che il genio politico corre le strade.

Non voglio qui discutere se questo «sistema» attui o rinneghi le
dottrine bandite dall’Intesa durante la guerra. Ma vorrei chiedere
invece se l’Italia, la Francia e l’Inghilterra — poichè il Giappone
si chiude negli affari dell’Oriente Estremo — hanno tutte insieme
e singolarmente i soldati, le intelligenze, la scienza di stato,
necessaria a reggere un così vasto e molteplice impero che abbraccia
tanti popoli e stati diversi. Chi non vede che occorrerebbero milioni
di soldati, ingenti capitali, un personale esperto che conoscesse
a fondo tutti questi paesi, dei governi saggi, risoluti, concordi
nell’azione comune, onniveggenti, che sapessero tenere d’occhio i
quattro punti cardinali, conoscere egualmente bene quel che matura in
Germania, nei Balcani, nell’Asia minore; provvedere con pari prontezza
e sagacia a un pericolo o a un bisogno che nascesse o sulle frontiere
della Persia o sulle rive del Baltico? Ci sono in Italia, in Francia,
in Inghilterra questi soldati, questi capitali, questi funzionari,
questi governi di esemplare saggezza? E se non ci sono, questo
«sistema» non crollerà un giorno sul capo degli incauti architetti,
come una torre di altezza spropositata?

Si rimprovera spesso a quei trattati lo spirito imperialista. Se
almeno fossero davvero imperialistici! La forza è una forza, se esiste
davvero, anche quando abusa. Ma i vincitori della Germania hanno
voluto abusare di una forza, che non possedevano. I trattati sono
non imperialisti, ma chimerici, perchè per applicarli occorrerebbero
forze che non ci sono. Sembrano aver pensato solo ai vantaggi che
assicuravano ai popoli, non agli impegni e alle responsabilità che
assumevano in loro nome, imponendo certe condizioni ai nemici; cosicchè
per disarmare, diminuire, umiliare il nemico vinto e obligarlo a
risarcire una parte del male fatto, hanno caricato sulle spalle dei
loro disgraziati popoli un peso, che questi non possono sopportare.

Dei quali pesi il più grave è forse il disarmo dei nemici vinti, che
nella ingenua convinzione dei vincitori doveva essere il loro maggiore
sollievo. I trattati di pace hanno disarmato la Germania, l’Austria,
l’Ungheria, la Bulgaria e la Turchia; ma i loro sagaci autori non
sembrano aver pensato che, disarmando questi stati, i popoli vincitori
si assumevano la responsabilità dell’ordine interno e della sicurezza
esterna degli stati disarmati, ossia di immensi territori in Europa
e in Asia, dei quali la maggior parte sfugge e sfuggirà sempre alla
loro potenza. Dopo averli disarmati, gli Stati vincitori non possono
e non potranno, se gli Stati vinti siano assaliti da nemici esterni od
interni, dir loro che provvedano ai casi propri con le piccole forze di
cui dispongono, anche se queste non bastano! Abbandonerebbero una terza
parte dell’Europa all’anarchia.

L’Alta Slesia è un bell’esempio dei pericoli, che aspettano al varco
questi protettori del mondo senza forze sufficienti. Inebriata dalla
vittoria, l’Intesa si è immaginata che lo spirito di Salomone si fosse
incarnato in lei; e che potrebbe dividere secondo giustizia l’Alta
Slesia tra polacchi e tedeschi. Senonchè al momento di procedere alla
spartizione, il novello Salomone si è accorto che spartire il paese non
bastava, bisognava anche persuadere o costringere i due contendenti
ad accontentarsi della parte che sarebbe toccata a ciascuno di loro.
Quanto ai tedeschi, finchè la Francia potrà mantenere sotto le armi
700.000 soldati, Salomone, salvo l’imprevisto, non dovrebbe correre
pericolo di essere vituperato come un giudice iniquo a Berlino. Ma
i polacchi? Con qual mezzo costringerli a rispettare la giustizia di
Salomone?

Il nodo insolubile dell’Alta Slesia è questo. L’Intesa non ha
nessun mezzo sicuro per farsi obbedire dai polacchi. I cannoni della
flotta britannica non servirebbero molto più che i discorsi di Lloyd
George. Se i polacchi si ribellassero a Salomone, l’Intesa dovrebbe o
permettere alla Germania di difendere i suoi diritti da sola annullando
il disarmo, o impegnarsi essa in guerra con la Polonia a difesa della
Germania disarmata. Chi può credere che la Francia acconsentirà ad
annullare da un giorno all’altro il disarmo imposto alla Germania dal
trattato di Versailles, senza i compensi e le garanzie che nessuno
vuol dare? Chi può credere che i soldati francesi, inglesi e italiani
rischieranno la vita per difendere gli interessi e i diritti tedeschi
nell’Alta Slesia?

Ma l’Alta Slesia è il primo dei grossi imbrogli, nati da questo
impotente protettorato del mondo. Il primo, non il maggiore. Altri
nasceranno, e più pericolosi, in Europa e in Asia. Lasciate che i tempi
e gli eventi maturino. Che peso è e sarà questo protettorato del mondo,
assunto da Stati che dovrebbero piuttosto pensare ai casi proprî!




VIII. 

La politica realistica 


I vincitori della guerra mondiale vogliono: 

_a_) disarmare la Germania, imporle il proprio protettorato,
costringerla a pagare una taglia di centinaia di miliardi;

_b_) mutilare l’Ungheria e fare la guardia all’Austria; 

_c_) murare la Russia nell’interno dell’Asia e dell’Europa,
addossandola ai ghiacci del polo;

_d_) togliere all’Islam Costantinopoli, smembrare l’impero turco,
conquistare l’Asia minore, la Siria, la Palestina, la Mesopotamia;

Nel tempo stesso: 

_a_) hanno espulso dall’alleanza l’America; 

_b_) si son fatti tra di loro mille dispetti e tradimenti, cosicchè
oggi il Belgio ha ragione di rinfacciare ai grandi alleati la loro
ingratitudine, l’Italia può lagnarsi a ragione d’essere stata
maltrattata, sotto sotto c’è un gran malumore tra Inghilterra e
Francia;

_c_) l’Inghilterra ha congedato quasi tutti i suoi eserciti; l’Italia
ha congedato quasi tutti i suoi eserciti; il Belgio ha congedato quasi
tutti i suoi eserciti; restano ancora sotto le armi 700.000 francesi,
che devono sostenere la pace e l’ordine del mondo; e la Francia si
rovina per mantenerli.

Nel secolo XX questa si chiama «politica realistica». 




PARTE QUARTA. 

VINTI E VINCITORI NEL CAOS DELLA PACE 


_La quarta parte si compone di articoli pubblicati nel_ Secolo _tra
il 1921 e il 1923, che analizzano e studiano alla luce delle idee
le conclusioni esposte nella terza parte, gli eventi di maggiore
importanza accaduti in quei due anni: la conferenza di Washington e
quella di Genova, la proclamazione dell’indipendenza dell’Egitto, le
difficoltà dell’Europa orientale, la riscossa della Turchia nell’Asia
Minore, la questione dei debiti, l’aggrovigliarsi del nodo delle
riparazioni, la nuova guerra tra la Francia e la Germania, incominciata
con l’occupazione della Ruhr. Mentre tutti questi eventi si spiegano
con le conclusioni della parte precedente, a loro volta le confermano,
mostrando come molte delle previsioni precedenti si sono verificate._




I. 

L’Europa dopo due anni di pace (8 novembre 1921) 


Sono due anni che la pace è stata scritta sulla carta. In che
condizione si trova l’Europa? Diamo un’occhiata in giro.

I trattati avevano intimato ai vinti di consegnare le armi. Invece
di obbedire, la Turchia le ha passate al governo di Angora, il quale
demolisce con quelle il trattato di Sèvres prima ancora che entri in
vigore. La guerra mondiale continua in Oriente; e gli Alleati possono
soltanto dare ai turchi e ai greci dei buoni consigli, che nessuno
dei belligeranti ascolta. Invano l’Inghilterra ha spinto innanzi la
Grecia! Mezza Asia Minore è devastata; la Grecia è rovinata e speriamo
non susciti per disperazione o per vendetta qualche grosso disordine;
gli affari d’Oriente precipitano in una anarchia, a cui non ci sarà per
lungo tempo rimedio. Strana ironia del destino! Quando tanti eserciti
formidabili della coalizione germanica si sono sciolti o sono stati
sbaragliati, tiene il campo, nell’interno dell’Asia, invincibile, un
piccolo esercito raccogliticcio di turchi, che si sostiene come può.

Un po’ meglio vanno le cose in Bulgaria. Qui almeno c’è un partito, il
quale riconosce giuste e prende sul serio le intimazioni e le minaccie
dell’Intesa... Ma quanto pesa la Bulgaria sui destini del mondo?

Come procedono le cose in Ungheria si è visto or ora.[14] L’Ungheria
non ha disarmato, ma ha nascosto armi e soldati dietro una tenda;
quanto basta, affinchè le apparenze siano salve, e l’Intesa possa
far le viste di non vedere. Di chi la colpa? L’Italia sospetta la
Francia, la Francia l’Inghilterra, l’Inghilterra l’Italia. Ma la
colpa è della Geografia che non vuole essere, come l’opinione degli
uomini, umile ancella della Vittoria. L’Ungheria fa oggi il comodo
suo, perchè due anni dopo l’armistizio, le grandi Potenze dell’Intesa
non hanno più nessun mezzo di imporle il disarmo, mancando tra l’una
e le altre quella contiguità di frontiera, che tiene gli stati deboli
nella soggezione dei forti. Gli stati nuovi che circondano l’Ungheria
e la isolano, non hanno potuto assumersi il compito di imporre e di
controllare di giorno in giorno il disarmo, perchè hanno cento altre
faccende e forse anche perchè il compito supera le loro forze. Hanno
preferito stringere la piccola Intesa.

L’Ungheria non ha disarmato e non disarmerà, come non pagherà il suo
riscatto. E poichè è stata in certe parti mutilata a capriccio, sta
in agguato, aspettando l’occasione. Carlo di Absburgo ha avuto troppa
fretta. Il paese è spossato, acefalo, in guerra con sè medesimo. Ma
che di qui a qualche anno ritrovi un po’ di forza, un governo ed una
occasione...

La Germania è, insieme con l’Austria, la sola tra le nazioni vinte che
abbia disarmato davvero, costretta dalla contiguità territoriale con la
Francia. La Germania, dunque, se non ha adempiuto proprio alla lettera
il trattato di pace, ha consegnato le armi che per quattro anni furono
il terrore del mondo; e per il momento non è in grado di minacciare
nessuno. Possiamo almeno qui respirare? Consolarci, che la minaccia
tedesca è sventata? Che la Francia potrà a sua volta deporre l’armatura
che la schianta?

Proprio all’opposto. La Francia e il Belgio sono costretti a tenere
sotto le armi quasi un milione di uomini, perchè hanno disarmato la
Germania. Questo è il paradosso, che strangola l’Europa come un laccio.

L’ho già scritto e lo ripeterò una volta ancora, perchè questa semplice
verità è la chiave di tutto il disordine presente. Il trattato di
Versailles, con le clausole del disarmo e con certe clausole che
riguardano le riparazioni, ha fatto della Germania un protettorato
comune dell’Italia, dell’Inghilterra e della Francia. Immaginarsi
che quella che era ancora, sette anni fa, la prima potenza del mondo,
accetti di diventare il Marocco di tre potenze, discordi tra di loro e
ciascuna più debole, è vivere con la testa nelle nuvole. La Germania
subirà questo protettorato, nella misura in cui la forza lo imporrà.
Ha disarmato perchè ai confini c’era un milione di soldati, pronti ad
invaderla. Sinchè questo milione di soldati minaccerà le sue frontiere,
obbedirà ruggendo di furore.

Ma per quanto tempo la Francia potrà mantenere, insieme con il Belgio,
questo milione di soldati sotto le armi? La Francia, già indebitata per
trecento miliardi?

Dal giorno dell’armistizio è cominciato tra la Francia e la Germania
un nuovo duello; incruento, muto, quasi direi immobile, ma non meno
implacabile e terribile che la guerra. C’è in Germania un partito,
che vuole eseguire il trattato, come esso dice, «nella misura del
possibile». Questo partito governa oggi. Ma perchè neppure questo
partito riesce a tranquillare la Francia? Perchè, in Francia, l’ansietà
pubblica non si calma mai, sia che il governo tedesco accenni ad
eseguire il trattato, sia che mostri di rifiutarsi? Perchè anche
quella debole e vacillante volontà di eseguire il trattato è legata,
in Germania, alla minaccia imminente di quel milione di uomini in armi.
Ma ad eseguire il trattato occorrerà, a dir poco, mezzo secolo almeno;
e chi può illudersi che la Francia, spossata dalla guerra, oberata di
debiti, reggerà per mezzo secolo al compito erculeo? La Germania non
ebbe da tendere altrettanto muscoli e nervi, dopo il 1870, per far
rispettare il trattato di Francoforte; eppure non ha resistito più di
44 anni, e alla fine fu, dallo stesso suo sforzo, precipitata nella
guerra. La resistenza passiva della Germania metterà la Francia ad un
cimento forse più terribile che la rivolta aperta.

Il tragico nodo della pace per la Francia è proprio questo. Quel
milione di soldati, con cui oggi la Francia e il Belgio impongono alla
Germania l’obbligo suo, non possono restare per anni ed anni a guardare
un nemico, che resiste passivamente, come non l’hanno potuto, e in
condizioni meno difficili, i grossi eserciti della Germania vittoriosa
dopo il 1870. Presto o tardi, se si lasciano andare le cose per la loro
china, accadrà o che i debiti rovineranno e sposseranno la Francia, o
questo esercito precipiterà sulla Germania, trascinato dalla sua stessa
mole e dal suo stesso peso, come una valanga che si stacca dal monte.
Le occasioni e le ragioni non mancheranno. Per quanto si guardi, non
si vede a quale altro fine siano avviate le cose dell’Europa, se non o
a una grande crisi in Francia o all’invasione della Germania, o forse
all’una e all’altra.

In tutti e due i casi avverrebbe il grande schianto dell’Europa.
Una grande crisi interna in Francia diroccherebbe quel che resta
dell’ordine sociale; e chi potrebbe prevedere tutti gli effetti di
un’invasione della Germania? Entrare in Germania sarà facile ad un
esercito francese e belga. Il difficile sarà d’uscirne.

Washington si accinge intanto a ripigliare l’opera fallita a Parigi.
Il Congresso, convocato dal presidente Harding per le limitazioni degli
armamenti, ha incominciato a sedere.




II. 

L’America e i mari (25 ottobre 1921) 


Washington si accinge dunque a ripigliare in parte l’opera fallita
a Parigi. E la ripiglia dalla questione dei mari cui il Congresso di
Parigi voltò le spalle per frugare nelle tasche della Germania qualche
miliardo di più, o per recuperare qualche quadro rubato un paio di
secoli fa. Non poteva essere altrimenti. Risaliamo con la memoria di
otto anni il corso della storia; e scopriremo facilmente perchè la
questione dei mari è vitale oggi per tutta la civiltà occidentale.

Una pace sonnolenta regnava allora sulle acque. Primeggiava per
numero e per reputazione la flotta inglese. Ma le cresceva accanto la
flotta tedesca, più piccola, tutta nuova, tutto ardore e impazienza
di mostrare quel che sapeva fare; e sapeva — al Jutland si vide
— manovrare e tirare meglio dell’inglese. Venivano poi la armata
americana, poderosa per numero di navi e potenza d’armi; la francese,
un po’ invecchiata e di crescita lenta, ma illustre per tradizioni
e memorie, forte di navi magnifiche e condotta da ufficiali valenti;
l’italiana, giovane, un po’ ineguale, ma plastica e di forza crescente;
la russa, ferita dalla sconfitta recente e in convalescenza;
l’austriaca, piccola ma saldamente annidata nell’Adriatico.
Nell’Estremo Oriente la cadetta della famiglia, ma già celebre e
ammirata per le prodezze compiute nell’ultima guerra: la flotta
giapponese.

Tutte queste armate si facevano allora equilibrio con il solo
mostrarsi, nella sottintesa volontà comune a tutti i popoli di
rispettare il mare come la grande via del genere umano, e di non
intralciare l’accesso alle terre, se non con un protezionismo ancora
blando, non universale, e quasi dappertutto temperato da trattati
di commercio. Che nei libri dei giureconsulti e negli archivi dei
ministeri sonnecchiasse un diritto di guerra sul mare barbaro e
corsaro, chi lo sapeva? Il mondo viveva beato nella sicurezza di
tutti i suoi mari, finalmente esplorati in ogni più recondito seno,
finalmente purgati dagli ultimi avanzi della pirateria, liberi
finalmente e aperti a tutti i popoli laboriosi.

Che resta di questo bell’ordine, meraviglia dell’ultimo secolo? Tre di
queste flotte sono sparite in fondo al mare: la tedesca, l’austriaca,
la russa. Due — la francese e l’italiana — vegeteranno per molti
anni, scarseggiando il denaro a mantenerle. Scomparse o declinanti
le altre armate, l’Inghilterra è ormai padrona dell’Atlantico e del
Mediterraneo, il Giappone del Pacifico. L’armata inglese sarà anch’essa
costretta, per economia, a rimpicciolirsi, ma senza danno, perchè
resterà più forte dei rivali che nel 1914, alcuni di questi essendo
morti, gli altri feriti. Il Giappone invece è diventato in questi sette
anni un colosso dei mari. Arricchito dalla guerra mondiale e liberato
dalla rivalità della Russia, giganteggia nell’Estremo Oriente come il
campione dell’Asia contro i barbari dell’Occidente.

L’equilibrio delle forze è rotto sui mari; e con l’equilibrio delle
forze qualunque nozione di diritto. Nessuna dottrina o tradizione,
nessun trattato o pezzo di carta tenta neppure più di definire, nonchè
di garantire, i diritti che i più deboli potrebbero vantare contro
i più forti sui mari. La libertà dei mari, di cui godevamo prima del
1914, era uno stato di fatto, mantenuto dall’equilibrio e dal consenso;
e perciò vacilla ora che, venuto meno l’equilibrio delle forze, non
si sa più se il consenso sussista ancora. Se l’Inghilterra, _per il
momento_, non sembra voler abusare della sua forza, il Giappone è un
enigma. Il Congresso di Parigi, infuriato a disputarsi i brandelli
dell’Europa, ha lasciato il Giappone e l’Inghilterra impadronirsi dei
mari senza condizioni, restrizioni e servitù, in tempi in cui un furore
selvaggio di prepotenza agita tutti gli Stati, e il mondo sembra voler
ripiombare in un secondo Medio Evo, irto di monopolî e di pedaggi.

Ha lasciato: o piuttosto, avrebbe lasciato, se non ci fosse stata
l’America. Gli Stati Uniti sono ancora in grado di varare una flotta
pari all’inglese; e perciò possono assumersi il compito di chiarire se
il tridente di Nettuno sia un gingillo, da borseggiare nelle sale di
un congresso diplomatico, approfittando della distrazione degli altri
Stati.

Gli Stati Uniti non furono delusi dalla guerra meno che i grandi
Stati europei. Cadute la Russia e la Germania, indebolite la Francia
e l’Italia, mutato in un odio e in un sospetto universale quel tacito
consenso dei popoli, che era la legge non scritta dei mari, l’America
s’è trovata, a guerra finita, minacciata sui due fianchi.

In fondo ai due Oceani, che ne bagnano le coste e che sono le sue
porte sul mondo, stanno ora le due potenze egemoni del mare. Che esse
vogliano abusare della loro forza, non è provato: ma quali garanzie
offre il futuro? Chi potrebbe, per esempio, impedire domani al
Giappone, alleato con l’Inghilterra, di tentar di fare della Cina una
colonia? La Russia per il momento è in catalessi.

Molte cose, intorno a cui l’Europa farnetica assai, si spiegano se non
si dimenticano questi fatti. Si spiega che gli Stati Uniti abbiano
stracciato il trattato di Versailles, il quale imponeva loro grandi
obblighi e non riconosceva nessun diritto. Si spiega che vogliano
varare una grande armata. Si spiega che esigano i loro crediti di
guerra. Si spiega che convochino la conferenza di Washington. Non si
spiega invece — o si spiega come una contraddizione dei tempi babelici
— che vogliano fare di Panama un passaggio americano privilegiato:
pericoloso esempio, che l’Inghilterra potrebbe ritorcere contro gli
Stati Uniti.

La Conferenza di Washington, massime se l’America, come si dice,
tenterà di indurre le potenze ad un accordo, che apra a tutti
egualmente le porte della Cina e che limiti gli armamenti navali,
tenterà dunque per la prima volta di strappare gli Oceani a
quell’anarchia della forza, a cui il Congresso di Parigi li ha
abbandonati. Le potenze navali minori, quelle minacciate più seriamente
dalla presente anarchia, provvederanno al proprio interesse aiutando
l’America, perchè se la Conferenza non riescisse in questo suo
compito, non resterebbe a queste potenze minori, che lasciare la gara
degli armamenti infuriare tra i due colossi superstiti sino al cozzo
definitivo; e cercare allora che questo termini con la distruzione del
più forte e l’irrimediabile spossamento del più debole. Se spesso la
saggezza è impotente, qualche volta l’impotenza è saggia.




III. 

Guerra e pace al Congresso di Washington (20 novembre 1921) 


Per trent’anni la pace fu la più solenne tra le imposture ufficiali.
Ogni Stato era solito dichiararsi pronto a disarmare, se gli altri
avessero dato l’esempio; e siccome tutti aspettavano che qualcun altro
incominciasse, nessuno si muoveva. Non si potrà negare agli Stati
Uniti il merito di aver rotto questa tacita cospirazione di pravi
intendimenti e di aver preso le altre potenze in parola, dicendo loro:
«se davvero siete disposte a limitare gli armamenti, purchè una grande
potenza prenda l’iniziativa, son qua io. Eccomi pronta».

Dopo tante promesse, dopo tante menzogne, dopo tanti sofistici
contorcimenti, questa rude e quasi brutale franchezza è un ristoro. Gli
Stati Uniti hanno fatto quello che la Francia, l’Inghilterra, l’Italia
avrebbero dovuto fare a Parigi due anni fa. Hanno posto al mondo il
quesito, se vuol la pace o la guerra, se vuol rinascere o dissolversi;
hanno messo il mondo a confronto con la propria coscienza; gli hanno
intimato di uscire dalla torbida contraddizione, in cui si logora da
tanti anni, preparando la guerra mentre dice che vuole la pace.

Il merito è grande. Ma grande è pure la responsabilità. La prova
è ardua per gli Stati Uniti non meno che per gli altri Stati. Che
benedizione sarà, per l’intero universo, se il tentativo riesce, anche
soltanto in parte. Ma se non riesce?

Al quesito, posto così rudemente dall’America: «volete la pace o la
guerra?», tutti gli Stati hanno risposto: «la pace». Quale avrebbe
osato rispondere: «la guerra?» Ma non lasciamoci illudere dalla
unanimità di queste risposte. Il mondo non farà senza disperate
resistenze l’esame di coscienza e la scelta, a cui l’America lo sforza
con così categorico invito. La proposta americana non ha trovato e
non troverà innanzi a sè che sorrisi, inchini e vie cosparse di fiori!
Nessuno oserà affrontarla a viso aperto. Ma attenta alla spalle! Quante
insidie la minacceranno nei particolari tecnici, nelle applicazioni
pratiche, nelle commissioni segrete!

Quelli che mi fanno paura sono i «periti», gli «esperti», i «tecnici»,
che gli uomini di Stato hanno condotti a Washington in tanto numero.
Che curioso personaggio, l’«esperto», della guerra mondiale! È quasi
sempre un uomo oscuro e ignoto, pescato in fondo a qualche pubblico
ufficio, il quale in virtù di una competenza indefinibile dovrebbe
sapere tutte le cose, che nessun altro sa, anche le più difficili
e oscure. Come sarebbe: quali siano i giusti confini tra due Stati,
che non esistono ancora; o quali i necessari armamenti di due Stati,
che non sanno se sono amici o nemici. A Parigi gli «esperti» furono i
piloti nascosti che condussero a rompersi su scogli invisibili molti
buoni propositi.

In verità sono una delle tante imposture moderne: compiacenti
prestanome, dietro i quali gli uomini di Stato, con il pretesto
della competenza tecnica, mettono in salvo la propria responsabilità.
Confini e armamenti sono materie che appartengono non ai professori
di statistica e di geografia, o agli ufficiali di terra e di mare, ma
alla grande arte di governo, in cui l’uomo di Stato deve essere solo
esperto, perito, competente e maestro, con piena responsabilità. Se
avessimo uomini veri di Stato, essi creerebbero dalla propria mente
i principî direttivi della limitazione degli armamenti, consultando
gli uomini dell’arte militare soltanto per i particolari e per
l’applicazione. Con uomini come quelli che oggi reggono tanti governi,
deboli, incerti, poco autorevoli, gli «esperti» possono diventare
gli occulti e irresponsabili sicari, che strozzeranno al buio, con i
sofismi e gli egoismi della propria arte limitata, un’idea di valore
universale.

Nè la tecnica è il solo pericolo. Non si potranno limitare gli
armamenti, se non si freneranno le cupidigie e le ambizioni che si
appiattano dietro le armi e che le muovono. Un disarmo parziale suppone
una parziale pacificazione; e perciò richiede che almeno alcune tra
le maggiori discordie, da cui i popoli sono oggi fatti l’uno all’altro
nemici, siano composte con una transazione, che accontenti per qualche
tempo tutte le parti. La Conferenza sarà dunque costretta a tentare di
comporre le discordie e le rivalità di maggior momento: compito arduo,
nel quale i nemici occulti della pace cercheranno di colpire a morte il
piano della limitazione degli armamenti.

I popoli vogliono la pace, ma non sempre ne sanno il prezzo, o
son disposti a pagarlo. Facilmente si accendono per rivalità e per
interessi, che un giorno o l’altro li obbligheranno alle armi, quando
meno se lo aspetteranno e quando sarà troppo tardi. Dalla rivoluzione
francese in poi tutti i macchinatori di guerre hanno approfittato
di questa debolezza dei popoli, per sforzarli a combattere. Ne hanno
approfittato a Parigi, per deludere l’universale desiderio di pace; e
ne approfitteranno per far fallire anche il Congresso di Washington!

È necessario dunque che l’opinione di tutti i paesi vigili; perchè
molti tentativi saranno fatti per ingannare anche a Washington «lo
spirito del mondo». La stretta è forse decisiva; perchè chi potrebbe
prevedere gli effetti di una seconda delusione, che seguisse quella di
Parigi?

In Europa la disperazione si impadronisce dello spirito pubblico, in
tutti i paesi. Pur sapendo che se gli Stati non conchiudono almeno una
tregua di mezzo secolo, nessuno potrà sfuggire ad una ruina totale, i
popoli hanno quasi perduto la speranza che questa tregua salvatrice si
possa mai stringere. Se dopo Parigi, anche Washington dovesse fallire,
la disperazione diventerebbe irrimediabile. Gli odî e i sospetti tra
gli antichi alleati, già così grandi, divamperebbero irrefrenabili.
Nulla esaspera più che un tentativo fallito di pacificazione. O la
conferenza di Washington riuscirà ad assestare un po’ le cose del
mondo, o sprofonderemo nell’anarchia e nel disordine per generazioni.

Sarebbe puerile imaginare che Washington possa comporre tutte le
discordie, che oggi aizzano gli uni contro gli altri i popoli. Ma avrà
fatto poco meno di un miracolo, se riuscirà a comporre alcune di queste
discordie, _perchè avrà mostrato con i fatti all’universale scetticismo
che il comporle non è impossibile_. Indicibile sarà il conforto
che questa rinascente fiducia infonderà nello spirito del mondo,
oggi sgomento. Riconfortato, lo spirito del mondo che oggi sta per
abbandonarsi disperato alla minacciosa oscurità del destino, ritroverà
la forza di provvedere alla propria salvezza. In ogni impresa, il
difficile è cominciare.

Siano i popoli questa volta, più attenti, più chiaroveggenti, più
fiduciosi, che non durante il Congresso di Parigi. È il solo consiglio,
che sembri quadrare con la realtà, sulle soglie della nuova Conferenza,
nell’imminenza della seconda prova.




IV. 

Concatenazione (3 dicembre 1921) 


Il proposito del presidente Harding di circonscrivere le discussioni è
già stato in parte deluso. La terra e il mare, l’Oriente e l’Occidente
sono così legati, che da tre settimane le discussioni di Washington si
svolgono attive e feconde solo quando si allargano, mentre quelle che
non si allargano si spengono.

È apparso subito chiaro che non si potevano bilanciare secondo una
certa proporzione le tre maggiori armate del mondo, lasciando fuori del
conto le due minori: Francia e Italia. Ma come fissare una proporzione
tra le due flotte minori e le maggiori, e tra l’una e l’altra delle
due flotte minori senza pesare almeno i maggiori interessi inclusi
in quella che si suole chiamare la politica mediterranea? Francia e
Italia sono potenze continentali. Le armate navali e gli eserciti di
terra sono i due bracci della loro difesa. Se nell’Estremo Oriente la
necessaria potenza delle flotte dipende in parte dalla Cina, dalle sue
rivoluzioni, dalla politica che le potenze vogliono seguire nel vasto
impero di mezzo, nel Mediterraneo dipende in parte anche dall’assetto
del continente europeo. Per questa sola concatenazione, la questione
dei mari tende ad allargarsi fino ad abbracciare mezza la terra. Ma non
è la sola.

Si è discusso e si discute assai, a Washington, dei sottomarini.
Ma le sorti dei sottomarini sono legate al diritto di blocco e
al contrabbando di guerra. Sinchè l’Inghilterra non rinuncierà a
dichiarare contrabbando di guerra tutto ciò che le piace, e al diritto
di fare morire di fame i suoi nemici, che hanno bisogno del mare per
nutrirsi, nessun popolo potrà gettar via quest’arma.

Il sottomarino è la fionda di David nel duello contro il Golia dei
mari. I tedeschi l’hanno infamato, distruggendo le navi invece di
catturarle; ma hanno ricorso a questo odioso procedimento, perchè
i loro porti erano troppo distanti dai mari dove operavano. Nel
Mediterraneo i sottomarini potrebbero far la guerra di corsa come gli
incrociatori, catturando e rimorchiando nei porti le navi mercantili
del nemico, in regola con la coscienza del mondo.

Sembra che la discussione intorno agli armamenti terrestri si sia già o
stia per arenarsi a Washington, nonostante gli sforzi della delegazione
inglese e della delegazione italiana. Chi può meravigliarsene? Armi e
trattati di pace sono legati tra loro in Europa. Dei trattati conchiusi
nel 1919 e nel 1920 alcune parti di maggiore importanza non si reggono,
se non perchè sono puntellate da parecchi milioni di baionette.
L’Ungheria e la Bulgaria stanno ferme, solo perchè strette in una
cerchia di ferro. Il trattato di Sèvres è un pezzo di carta, perchè
l’Intesa non ha le forze per imporlo. Limitare l’esercito francese e
voler piegare la Germania sotto il mezzo protettorato del trattato di
Versailles, è un controsenso.

Il Briand ha fatto al Congresso una pittura della Germania, che
all’ingrosso è fedele. La Germania si chiude in un odio torvo che,
se è impotente per ora, è già una tacita sfida ai vincitori. È quindi
probabile che un parziale disarmo della Francia accrescerebbe piuttosto
il coraggio di questo odio che non ne addolcirebbe il furore. Ma se la
tesi ufficiale della Francia si ferma qui, un osservatore imparziale
deve procedere oltre e chiedersi per quale ragione la Germania, che
pure anch’essa ha tanto bisogno di pace, ritorna a desiderar nel
fondo del cuore la guerra. La risposta è sicura: perchè nel trattato
di Versailles sono scritte alcune condizioni così umilianti, che
nessuna grande potenza accetterà mai, anche se possa essere costretta
per qualche tempo a subirle da una forza soverchiante. I posteri
stupiranno, che uomini di Stato si sieno illusi di poter fare della
Germania un Marocco europeo, senza condannare l’Europa alla guerra
perpetua.

Un Congresso, che non possa o non voglia considerare nel suo insieme lo
stato presente dell’Europa tutta, potrà soltanto sfiorare la questione
degli armamenti.

Si direbbe che l’universo intero prema alle porte del Congresso di
Washington, per invaderlo con tutti i suoi disordini, le sue furie,
i suoi dolori, i suoi feroci egoismi; e che nella angusta sala in
cui si radunano, gli uomini del Congresso facciano forza alla porta,
perchè resista alla spinta. Il giorno in cui la porta si spalancasse
e l’Universo irrompesse con il suo terribile corteo, gli uomini del
Congresso dovrebbero fuggire saltando dalle finestre!

Si ricasca in quel tormento che non dà pace agli uomini dal giorno
in cui la guerra è cominciata. Il mondo è diventato troppo grande,
troppo complesso, troppo difficile, per la mente degli uomini, che
devono governarlo. La creatura è confusa dalla enormità della propria
creazione; e si perde in piccoli vaneggiamenti. Che cosa fu il
Congresso di Parigi, se non la tragica frantumazione e dispersione di
un pensiero universale? Si doveva rifare il mondo; ma l’Inghilterra
era ipnotizzata da pochi pozzi di petrolio, la Francia dal Reno,
l’Italia da Fiume. Spaventato dalla grandezza del mondo e dei compiti
che nel mondo lo aspettano, lo spirito della civiltà occidentale
corre a rifugiarsi in se medesimo, facendosi piccino piccino. Quanto
siamo lontani dal pensiero sintetico e costruttivo, che regnò nel
Congresso di Vienna! Di qui l’universale trionfo, proprio quando
più necessiterebbero le grandi menti, di tanti piccoli sofisti e di
tanti piccoli rètori: i primi, abilissimi nel rimpicciolire le cose
grandi, i secondi nell’ingrandire le piccole, e gli uni e gli altri nel
confondere, illudere, ingannare insieme lo spirito pubblico.




V. 

La Germania e il suo riscatto (17 marzo 1921) 


Non mi ero ingannato. 

Il nodo delle indennità tedesche è peggio che un nodo gordiano, perchè
non può essere nè sciolto nè tagliato. È inutile tormentare tabelle,
numeri e cifre per sapere se la Germania possa o non possa pagare: gli
oracoli matematici non rispondono della volontà dell’uomo. La Germania
non vuole pagare; il popolo tedesco tutto quanto, dai contadini e dagli
artigiani ai magnati dell’industria e della finanza, non vuole espiare
la guerra mondiale con mezzo secolo di lavori forzati. I vincitori
si trovano alle prese non con le arti e gli accorgimenti volpini d’un
governo; ma con la chiara, risoluta, brutale volontà di un popolo. Non
pago! Hanno essi il mezzo di piegarla?

Nel governo tedesco, che dovrebbe essere il collettore del riscatto,
gli Alleati non hanno trovato e non troveranno che un’invincibile
malavoglia, figlia di un deliberato proposito e di una reale impotenza.
Rovesciata la monarchia ereditaria, il governo tedesco deriva oggi
i suoi poteri, la sua autorità, la sua legittimità dal suffragio
universalissimo. La repubblica tedesca sarà, se volete, un’impostura
in tutto il resto; in questo no. L’unico appoggio su cui può far leva,
per agire, è la volontà del popolo, vera o supposta, espressa dal
suffragio universale. Ma poichè il popolo tedesco non vuol pagare il
riscatto, il governo tedesco dovrebbe far leva sulla volontà del popolo
per violentarla proprio nel suo desiderio più vivo e più forte. Questo
è, come avrebbero detto gli antichi, un «problema d’Archimede»: la
quadratura del circolo.

Se gli Alleati vogliono il riscatto, dovranno andare a riscuoterlo da
sè. Questa è la verità. La logica implacabile dei loro errori e delle
loro illusioni li spinge a invadere la Germania. Fanno ora un primo
passo, timido e incerto, sperando di spaventare il governo tedesco, di
forzargli la mano e di poter tornare presto indietro con la cambiale
firmata, annunciando ai popoli che la questione è assestata e che il
riscatto sarà pagato. Hanno essi, gli invasori, almeno tanta voglia di
poter domani ritornare indietro, quanto i tedeschi di vederli partire!
Ma anche questa è una nuova illusione. Ceda o non ceda il governo
tedesco, firmi la cambiale o la laceri, non ci sarà guadagno. Sinchè il
popolo tedesco tutto quanto non voglia nè intender ragione nè espiare
nè pagare — e pur troppo non lo vorrà mai — gli Alleati dovranno
passo passo avanzare in Germania sino ad occuparla tutta: operazione
gigantesca, che supera le forze degli Alleati, che costerebbe più che
non possa fruttare, e che, riuscendo, sconvolgerebbe l’Europa.

Se la Germania fosse governata da una monarchia autorevole e potente,
come era ai suoi bei giorni quella che cadde nel 1918, essa potrebbe
forse, in una certa misura, costringere il popolo a pagare il riscatto
ai vincitori. Ma ora c’è la repubblica, il governo del popolo anche
in Germania; il suffragio universale anche in Germania ha debellato
il principio dinastico e calpestato il diritto divino; e non c’è
mezzo di venire a capo di nulla con quest’obbligo, che pure dovrebbe
essere sacrosanto per tutti i tedeschi, di aiutare le loro vittime a
rifarsi il tetto e il focolare distrutto. Ma i popoli sono dei bestioni
irresponsabili, peggio dei re assoluti di un tempo, dallo spirito
semplice, che non si curano di molti proprî interessi, perchè non li
conoscono neppure; che non chiedono sul serio se non pace e lavoro,
pane e companatico, circensi e baldorie; che di solito si contentano
di buone parole e di bei discorsi. Ma guai se alcuno di questi
bestioni si fissa in una idea semplice, che sia capita dal suo grosso
cervello e che esalti qualche sua forte passione! Nessuna forza dello
spirito e della materia potrà vincere quell’ossessione. I ragionamenti
dell’Equità, della Saggezza, del Buon senso e della stessa Evidenza
non avranno altro effetto che di mettere il bestione in un furore
indicibile. Nessuna parola, neppure se risuoni dal cielo, troverà
la via della sua mente e del suo cuore. Nessuna frusta, o bastone, o
flagello, o catena avrà ragione del suo cuoio indurito, anche se i suoi
guardiani osassero adoperarli. Ma i guardiani non oseranno adoperarli;
perchè appena il bestione monta in furia, fuggono tutti spaventati a
rimpiattarsi.

Di nuovo la Francia vede insorgere contro di sè le dottrine e i
principî della rivoluzione che essa ha bandito al mondo per liberarlo;
è delusa in un suo diritto da quel suffragio universale, per cui versò
il suo sangue migliore nel ’48. Quale è l’oscuro e profondo disegno
della Provvidenza — uso il linguaggio della Chiesa — nel ferire la
nobile nazione con le armi stesse della sua spensierata generosità? O
vecchio mandarino cinese, forse tu solo hai letto a libro aperto nella
storia dell’Europa, che per tanti di noi è ancora un libro chiuso. Ad
un illustre deputato socialista belga, che alcuni anni fa si trovava
a Pechino, e che magnificava la rivoluzione francese, il vecchio
mandarino disse, scrollando il capo:

«Sì, sì: la rivoluzione francese è stata un grande evento. Ma è ancora
molto recente. Sarebbe forse prudente, prima di giudicarla, aspettare a
vedere dove va a finire!»

È forse questa la ragione profonda per cui la Francia sembra
abbandonare la rivoluzione e le sue dottrine, quando l’una e le
altre stanno per trionfare? La Rivoluzione sarebbe forse una figlia
snaturata, di cui la madre deve diffidare, perchè la tradisce?




VI. 

La guerra e la ricchezza (17 dicembre 1921) 


Ma la Germania è proprio povera come si dice? O tende la mano e si
veste di cenci per impietosire il passante e disarmare il creditore?
Questo è il rompicapo con cui il mondo è da due anni alle prese.

Anche questo è un caso strano davvero. Nessuna epoca ha tanto amato,
magnificato, studiato la ricchezza. La ricchezza passa per essere la
cosa più positiva, solida, reale, che esista. Ed ecco che, tutto ad
un tratto, nessuno la sa più distinguere dalla povertà e riconoscere a
segni sicuri e stabili, in uno degli Stati più grandi del mondo e che,
fino a sette anni fa, passava per uno dei più ricchi.

Ogni tanto l’Europa rabbrividisce. Un grido di spavento si leva dalle
Borse, dalle Banche, dalle Gazzette, «La Germania sta per fallire; la
sua moneta è vilissima carta; il suo governo implora dai vincitori
una dilazione del riscatto, come lo scampo supremo dalla imminente
catastrofe». Ogni tanto giungono dalle città, un tempo così floride,
dell’impero, notizie di una miseria profonda, che rode le ossa e i
muscoli della nazione: le classi lavoratrici e la condizione media.

Senonchè nel tempo stesso l’Europa si domanda se per caso l’asse della
terra non si sarebbe spostato. Con la moneta ancora poco inquinata
e la finanza non del tutto a brandelli; con un immenso impero di
cui la vittoria ha arrotondato i confini, gli inglesi hanno sulle
braccia milioni di operai senza lavoro. Invece la Germania, sola
tra le grandi potenze manifatturiere, può oggi mantenere accesi
tutti i fuochi, far muovere tutti i telai. Essa ha già riconquistato
tutti i mercati, da cui la guerra l’aveva staccata, scacciandone i
concorrenti inglesi, americani e francesi; e già ricomparisce con navi
e commercio suo sugli Oceani, su cui l’Inghilterra si era illusa di
non ritrovarla per secoli. La flotta mercantile tedesca è la sola che
non marcisce nei porti, e tutti prevedono che sarà tra poco la prima,
se non per il numero bruto, per la giovinezza, per l’attività, per la
potenza. Perfino con la Russia i tedeschi sembrano avviare di nuovo
il commercio, e con profitto! Gli inglesi ci si erano provati, anche
essi; e non era certo la voglia che difettava loro. Lloyd George non
aveva forse dichiarato che «un popolo di mercanti non può aver troppi
pregiudizi?» Un imperatore romano non aveva già detto dell’oro _non
olet_ e gli inglesi non si vantano di essere i romani moderni? Ma il
desiderio è stato vano. Là dove essi hanno fallito, soli i tedeschi
sembrano riuscire.

L’Europa assistè ad una specie di risurrezione della Germania, che
sembra una sfida a tutte le leggi della ragione e della giustizia,
perchè segue una sconfitta rovinosa, una rivoluzione più rovinosa
ancora, e procede di passo con il fallimento dello Stato. Ebbi spesso
occasione, negli anni passati, di osservare che la guerra mondiale era
tutto un tragico groviglio di controsensi. Ma questa risurrezione del
vinto è l’ultimo, il più profondo ed arcano di quei controsensi; quello
che colpisce più fortemente la immaginazione dei popoli e turba con
una specie di sbigottimento mistico quel po’ di buon senso, che ancora
sopravvive nelle menti. Molti si domandano in cuor loro, con un certo
terrore, se la Germania non era nel vero, quando mosse alla guerra con
quelle dottrine, da sette anni oggetto di tante maledizioni ufficiali.
Altri si chiedono se non abbia fatto qualche patto con il Diavolo,
così caro ai suoi poeti e ai suoi filosofi; e conosciuto dal Diavolo
il segreto di cavar oro, fortuna e prosperità anche dalle catastrofi.
E non pochi spiano ogni suo atto e gesto, per veder se riesca loro di
scoprire questo segreto.

Ma il segreto non c’è. La Germania si è messa a lavorare con furore,
perchè è stata impoverita molto più che i suoi nemici dalla guerra.
Impoverimmo tutti durante la guerra; ma noi popoli dall’Intesa meno
della Germania, perchè facemmo guerra da signori, indebitandoci fra
noi, con i neutri di tutto il mondo e con gli Stati Uniti, limitando
quanto era possibile, sia pure a spese dell’avvenire, le privazioni.
Questo è oggi il vero, l’unico e semplice segreto della ricchezza e
della povertà in Europa.

Che la guerra abbia impoverito il mondo, tutti, più o meno, sono
persuasi. Molti, tuttavia, osservando che il danaro circola, che se
ne spende più di prima e che il mondo continua a camminare, almeno in
apparenza, come una volta, si domandano in che cosa consista questo
impoverimento; e se veramente è grande quanto si suppone. Cerchiamo di
rispondere a questi dubbi, e di chiarire come la guerra abbia distrutto
una parte della ricchezza comune.

L’ha distrutta con lo sterminio degli uomini e con la devastazione
dei territori. Ogni uomo che sa lavorare è un capitale, perchè ha
costato e perchè produce. Noi raccapricceremmo, se potessimo valutare
in denaro gli otto o dieci milioni di uomini che la guerra ha uccisi,
le devastazioni che hanno mutato in deserti tanti floridi territori.
La lista era già lunga nel 1918; bisogna ora aggiungere l’Asia Minore,
spopolata dai Greci e dai Turchi.

Ma la guerra non ha soltanto ucciso milioni di uomini e devastato
ricchi territori; ha anche sperperato immensi capitali. Prima della
guerra l’Europa e l’America consumavano ogni anno una parte di quello
che possedevano, non per soddisfare i propri bisogni ma per produrre
altri beni; per costruire fabbriche, per coltivare terre, per sfruttare
miniere, e via dicendo. Perciò la ricchezza totale cresceva ogni
anno. Dal 1914 al 1921 pochissimi capitali sono stati destinati alla
moltiplicazione dei beni che gli uomini consumano; i risparmi sono
stati quasi tutti, negli Stati più ricchi del mondo, inghiottiti
dalla guerra o dai disavanzi dei bilanci; non hanno dunque servito ad
accrescere il lavoro ma ad alimentare il consumo; ossia a permettere
a molte, a troppe persone di consumare più che non producessero. Da un
anno, per questo rispetto, si va un po’ meglio; ma il miglioramento è
lento. E quanti anni ci vorranno per recuperare il perduto!

Si aggiungano i paesi ormai esclusi dal giro degli scambi, come la
Russia, l’Austria, la Turchia. Si aggiungano gli impegni contratti dai
governi con i debiti di guerra, con le pensioni, con i risarcimenti. Si
aggiungano le imposte, il caos monetario e gli impacci del commercio,
moltiplicati dalla guerra e dalla pace. Questa lista delle cause che
spiegano la povertà presente del mondo, è già lunga. Ma non basta.
C’è ancora una complicazione, a cui troppo poco si bada, ma che è
di grandissima importanza, perchè esaspera la povertà comune. _La
ricchezza totale non è soltanto diminuita, ma è anche distribuita
in maniera diversa._ In tutti i paesi la guerra ha smisuratamente
arricchito un piccolo numero di persone e impoverito più o meno le
masse.

Quando la ricchezza totale aumenta, tutti possono arricchire, perchè
ognuno migliora il suo stato, attingendo a questa nuova ricchezza
aggiunta all’antica. La guerra invece arricchisce sempre un piccolo
numero di persone nel tempo stesso in cui, attirando a sè tutti i
capitali, impedisce che la ricchezza totale cresca, e, distruggendone
una parte, la diminuisce. Ma se la somma della ricchezza totale resta
uguale o diminuisce, un piccolo numero di persone non può arricchirsi
che impoverendo tutti gli altri. E questo è successo, più o meno,
dappertutto, dopo il 1914.

Così è accaduto che in tutti i paesi belligeranti, le classi medie
sono impoverite ed ora impoveriscono anche le moltitudini, mentre un
piccolo numero ha accumulato favolose fortune. Proprio come accadde
in tutta l’Europa durante le guerre della Rivoluzione e dell’Impero.
Ma in Germania questo sbilancio della fortuna tra i pochi arricchiti
e la massa impoverita è maggiore che nei paesi dell’Intesa, perchè noi
abbiamo in parte fatto la guerra col danaro del mondo. Dal 1914 al 1919
l’America e l’Inghilterra hanno guadagnato favolose ricchezze, vendendo
al mondo intero a caro prezzo le loro materie gregge, i loro manufatti,
i loro servizi. Con questi guadagni hanno pagato una parte delle
proprie spese di guerra e fatto i prestiti agli alleati: prestiti che
sono stati fino ad ora dei regali, perchè i debitori non hanno pagato
nessun frutto. C’è dunque stato durante la guerra, e per causa della
guerra, un trasporto di ingenti ricchezze da tutto il mondo nei paesi
dell’Intesa, per il quale una piccola minoranza ha potuto arricchirsi
senza troppo impoverire la massa.

Lo sbilancio apparisce invece in tutto il suo orrore nella Germania,
la quale ha dovuto far la guerra e sostenere gli alleati con la sua
sola sostanza; senza altro sussidio di ricchezze esterne fuorchè i
saccheggi dei territori invasi, il Belgio e gli altri. Questi saccheggi
le hanno fruttato, ma le hanno anche costato assai; e non si possono
paragonare ai vantaggi assicurati all’Intesa dal commercio mondiale
dell’Inghilterra e dell’America. E questa è la vera ragione per cui
la Germania è agli estremi. Sulla Germania corrono oggi due opinioni
contradditorie. C’è chi la dice prospera; e chi la vuole rovinata. Ma
tutte e due le affermazioni sono, in un certo senso, vere. Una parte
della Germania — industriali, banchieri, speculatori, proprietari
grandi e piccoli — si è favolosamente arricchita; la condizione media
e le classi operaie sono impoverite. Il rinvilio della moneta è stato
l’agente più attivo di questa rivoluzione economica.

Gli operai si sono meno impoveriti che le classi medie, perchè possono
difendersi meglio, ma anche per gli operai la prosperità del 1914 è
ormai un lontano ricordo. E questo è, secondo me, il grande spavento
e pericolo della Germania, che non dobbiamo mai perder di vista, se
vogliamo capire ciò che succede e ciò che purtroppo succederà tra poco
nell’antico impero degli Hohenzollern.

Parlavo, alcuni giorni fa, con un uomo politico, colto e intelligente,
il quale mi diceva di non capire come la Germania potesse esser
stremata, poichè non aveva debiti con l’estero. «Ma la ragione della
sua povertà è appunto questa — risposi. La Germania è rovinata, perchè
ha dovuto far tutta la guerra con le sue sostanze, e non ha potuto far
debiti fuori. Chi fa un debito, finchè non lo paga, arricchisce. Quello
che ci ha salvati, sinora, noi dell’Intesa, son questi debiti. In parte
noi abbiamo fatto la guerra con il danaro altrui».

Singolare paradosso da aggiungere agli altri! I debiti sono oggi la
nostra vera ricchezza.

Ma sotto questa luce si vede subito quanto è vitale la questione nei
debiti, che tanti trattano così leggermente!




VII. 

I debiti (16 maggio 1922) 


In che consiste la vera questione dei debiti? Ci è facile di rispondere
ora che sappiamo come la guerra ha impoverito il mondo.

Indebitati siamo tutti, più o meno, in Europa. Vinti e vincitori siamo
tutti imprigionati in una intricatissima rete di crediti e debiti, il
cui capo è di là dell’Atlantico nelle mani dell’America, creditrice
di tutti. Di fronte agli Stati Uniti, che non hanno debiti ma crediti
soltanto, e in tutto il mondo, si allineano la Russia, la Germania,
l’Austria, l’Ungheria e la Bulgaria, che sono soltanto debitrici.
In mezzo stanno l’Inghilterra, la Francia, l’Italia, il Belgio, la
Rumenia, la Serbia, il Portogallo, che sono a volta a volta creditrici
e debitrici: tra loro, con l’America, con gli altri Stati vinti.

Quale è la dottrina dell’America, creditrice universale? Che i debiti
devono essere pagati. Ma a questa dottrina, gli Stati, che hanno debiti
soltanto, oppongono di non potere. Gli Stati intermedi, creditori e
debitori ad un tempo, inclinano a professare una dottrina a doppia
faccia: aver diritto di riscuotere interi i crediti, ma non poter
pagare i debiti. Come raccapezzarsi, ai piedi di questa nuova Babele?

Che tutti gli impegni — debiti antichi, debiti di guerra, riparazioni —
_dovrebbero_ essere mantenuti, è ovvio. Uno Stato, che promette e non
mantiene, compie un atto ostile, perchè defrauda lo Stato contraente
del suo diritto. Che fiducia e quale Spirito di intesa può regnare tra
Stati, i quali minacciano tra i denti l’uno all’altro di distruggere le
tavole su cui scrissero d’accordo i diritti e i doveri reciproci?

Un impegno è un impegno, se non è un pezzo di carta. Ma se è vero che
i debiti _dovrebbero_ essere pagati, è anche vero, purtroppo, che a
pagarli c’è un impedimento quasi insuperabile in ogni paese; quello
sbilancio delle fortune, quell’impoverimento del maggior numero,
quell’arricchimento di pochi che è stato di tutti i frutti della guerra
il più amaro.

Soltanto le classi più numerose possono alimentare di somme ingenti gli
erari. Sulle classi più numerose vivevano prima della guerra i grandi
Stati. Ma chi può pensare che il popolo e le classi medie stremate
dalla guerra potrebbero oggi provvedere allo Stato le immense somme,
con cui ognuno potrebbe liberarsi?

La Germania per esempio: affinchè la Germania mantenesse gli impegni
del trattato, occorrerebbe un governo così forte, da potere estorcere
alle classi medie e alle moltitudini, senza compenso, per trenta o
quaranta anni, la somma di lavoro, necessaria a rifare in Francia
e altrove quanto gli eserciti hanno distrutto. Senonchè anche in
Germania, ora che la monarchia è caduta, il governo è creatura del
suffragio universalissimo, cosa propria di quelle classi medie e
popolari, che dovrebbe spremere sino alle ossa. Il suffragio universale
dovrebbe creare un governo, il quale lo riducesse dalla povertà in
cui è ora alla disperazione; essere, come un asceta di altri tempi, il
proprio tormentatore e flagellatore! Chi crederà che ciò sia possibile?

L’Italia non è stata impoverita dalla guerra, quanto la Germania
e l’Austria; perchè essa non è stata costretta a nutrire la guerra
soltanto con la propria sostanza; e ha potuto in parte alimentarla con
il credito altrui. Quei venti miliardi di oro, che l’Italia deve alla
Francia, all’Inghilterra, all’America, colmano la differenza tra la sua
discreta agiatezza e la povertà della Germania o dell’Austria. Ma se
noi dovessimo restituire quelle somme dovremmo spolparci e diventare,
come l’Austria, scheletri ambulanti. Gli Absburgo hanno potuto, durante
la guerra, ridurre il loro impero pelle e ossa: ma sono caduti proprio
per questa ragione. Nessun governo potrebbe ripetere questa crudele
operazione, in Italia ed in tempo di pace. Il governo che la tentasse
non arriverebbe al terzo giorno.

Per uscire da questa stretta mortale, non si vede che un mezzo: non
già le _tabulae novae_, la cancellazione, ma una riduzione generale
di tutti i debiti: russi, tedeschi, austriaci, ungheresi, bulgari,
francesi, italiani e via dicendo. Bisognerebbe che i creditori
acconsentissero di buon grado a ridurre i propri diritti alla misura
del possibile; e che i debitori si accingessero sul serio a mantenere
gli impegni così ridotti, riconoscendoli sacri. La America, che
riceverebbe il danno maggiore da questa riduzione universale, dovrebbe
ricevere compensi d’ordine politico.

Sarà possibile un atto di così generosa saggezza? Io non lo so.
Ma mi pare manifesto che, senza questo accordo, non ci sia modo di
sfuggire ad una frantumazione morale dell’Europa, ancora più atroce
del disordine, che oggi imperversa. Il fallimento universale, di cui
gli Stati si minacciano a vicenda, lascerebbe dietro sè rancori e
diffidenze implacabili, poichè tutti i popoli si crederebbero vittime,
i creditori spogliati come i debitori insolventi. Il diritto, in
nome del quale i creditori denuncerebbero la frode subìta, sarebbe
incriminato dai debitori come una mostruosa sopraffazione.




VIII. 

I trionfi dell’imperialismo europeo: l’indipendenza dell’Egitto (23
marzo 1922)


Per quanto il proposito di eludere il principio nelle eccezioni
provvisorie sia manifesto, non è cosa di poco rilievo che l’Inghilterra
si rassegni a riconoscere l’indipendenza dell’Egitto. Gli artigli
incominciano ad aprirsi. Il tempo farà giustizia delle riserve mentali
e dei tranelli diplomatici.

La formula, che può definire la guerra dell’Intesa, si trova già nella
Somma di S. Tommaso. Fu una guerra combattuta «per una causa giusta
ma con prava intenzione». Le grandi potenze dell’Intesa volevano la
pace, perchè della guerra avevano troppa paura, e se fosse dipeso
dalla volontà loro, le armi sarebbero rimaste appese alla parete.
Assalite con perfidia e all’improvviso, corsero a staccarle con il
solo proposito di difendere la propria vita. Ma poi, quando videro che
erano in molti, e in forze, e in grado di aver ragione del nemico, si
lasciarono tentare dalla gola di fare qualche «buon colpo». L’occasione
pareva di quelle che non tornano due volte in un secolo. La prava
intenzione entrò nella giusta causa, come un baco in un bel frutto
intatto.

L’Inghilterra fu la prima e la più audace ad allungare le mani. Già il
13 dicembre del 1914, con il pretesto di abolire gli ultimi diritti
sovrani della Sublime Porta sulla terra dei Faraoni, proclamava il
protettorato dell’Egitto. L’occupazione del 1882 era stata un atto
arbitrario e temerario, del quale l’Italia e la Francia onestamente e
saviamente non vollero essere complici; perchè mancava di ragione e
giustificazione, ed ebbe terribili conseguenze alla distanza di più
che trent’anni. Per quale ragione, nel 1914, la Turchia prendeva le
armi e scendeva in campo a fianco degli imperi centrali? Perchè l’altra
parte l’aveva costretta a questo passo, pericoloso per sè e funesto pel
mondo, con un seguito di minaccie e violenze, che incominciano appunto
con la occupazione dell’Egitto e terminano con la conquista della
Tripolitania. La Turchia incomincia a staccarsi dall’Inghilterra e ad
avvicinarsi alla Germania, dopochè, occupando l’Egitto, l’Inghilterra
si fu interposta tra essa e l’Africa mussulmana. Gli Inglesi furono nel
1882 troppo lesti di mano con il Nilo e l’Egitto; e perciò nel 1914 la
Turchia isolava la Russia dai suoi alleati, la precipitava nell’abisso,
e con la Russia avrebbe forse precipitato tutta la Intesa, se l’America
non accorreva al soccorso.

Gli uomini di Stato seminano vento e i popoli raccolgono tempesta.
L’Egitto è tanta parte del mondo mussulmano e del sistema mediterraneo,
che soltanto un imperialismo senza cervello poteva illudersi di
impadronirsene senza generare, presto o tardi, qualche enorme
disordine. Ma alla reazione degli eventi contro la sua prima violenza,
l’Inghilterra rispose ribadendo l’errore; proclamandosi protettrice di
un paese mussulmano che tollerava di mala voglia perfino la sovranità
nominale del Sultano di Costantinopoli; assumendo senza autorità
l’alto governo di un vasto paese, che non potrebbe reggere se non con
la forza. Ma di queste piccolezze nessuno si diede pensiero a Londra,
nel 1914. Il ferro e il fuoco dominavano allora la terra ed i mari.
Il mondo formicolava di soldati. La legge marziale impose all’Egitto
il protettorato, strappò alla gleba i coloni per arruolarli negli
eserciti, confiscò al «fellah» il cotone che aveva coltivato con il suo
sudore....

Ma alla fine la pace ritornò. L’Inghilterra si accorse allora che non
aveva alcuna autorità per installarsi in Egitto come erede dei Faraoni
e dei Tolomei: che non avrebbe potuto «proteggere» l’Egitto, se non
opprimendolo con centinaia di migliaia di soldati; e che questi soldati
non aveva. E allora, di mala voglia, si è a poco a poco incamminata
sulla via delle necessarie rinuncie....

Avrebbe dovuto accorgersi prima, che non possedeva nè l’autorità nè
la forza per governare l’Egitto, come potenza sovrana. La tragedia
della guerra e della pace sta tutta qui. Socialisti e imperialisti
hanno deriso insieme la «guerra liberatrice dei popoli» e «la pace
giusta e democratica»; hanno canzonato Wilson e coloro che lo hanno
preso sul serio; hanno detto che non c’è nulla di nuovo sotto il sole;
che anche questa guerra, come tutte le altre, doveva terminare con la
spogliazione e lo sterminio dei vinti. Eppure se coloro che bandirono
quelle formule, spesso le intesero confusamente, le spiegarono male
e confondendole si confusero essi stessi, essi balbettavano almeno
la verità vitale della guerra e della pace, chiusa agli ottenebrati
intelletti degli altri. Il mondo versa in tremenda confusione, perchè
non ha saputo estrarre questa verità da quelle formule confuse.

A quale mutamento soggiace l’ordine universale, per effetto del grande
cozzo dei popoli e degli imperi? Anche i meno chiaroveggenti lo vedono:
il mondo si sta spartendo tra un grande numero di stati medî. I grandi
imperi, o sono già stati distrutti come l’impero russo, l’impero turco,
l’impero austro-ungarico, o sono stati amputati e ritagliati come
l’impero tedesco, o vacillano, come l’impero inglese e il francese.
Francia e Inghilterra possono sperare di conservare ciò che possedevano
fuori di Europa prima della guerra, se useranno la necessaria prudenza;
ingrandirsi, no. La guerra le ha troppo indebolite.

«Il vincitore cadrà moribondo sul cadavere del vinto», dissi nel 1916.
Non occorreva virtù profetica, per indovinarlo; bastava avere occhi
e vedere. L’uomo di Stato può essere indifferente al bene e al male;
ma deve almeno capire e indovinare l’inevitabile. Invece i governi
dell’Intesa incominciano ad accorgersene appena adesso, dopo tre anni
di vaneggiamenti e litigi; leggono nel libro del destino, solo quando
la necessità li obbliga a compitarlo. Eppure l’avvenire è scritto
a lettere cubitali in quel libro, aperto a tutti. Non espansioni,
conquiste, nuove rivalità; ma o, come nel 1815, raccoglimento e
riconciliazione, o la rovina. L’Inghilterra cederà l’Egitto, sgombrerà
Costantinopoli, non si reggerà a lungo in Mesopotamia e in Palestina;
e Dio solo sa quel che l’aspetta in India. La Francia ha sgombrato la
Cilicia e non pare probabile che possa prender saldo piede in Siria,
tanto più che inglesi e francesi non sono riusciti ad andare d’accordo.
Molto incerto appare anche nell’Africa il destino delle più recenti
conquiste: Tripolitania e Marocco.

Il mondo si sta spezzettando in un grande numero di Stati di media
grandezza, distinti più o meno chiaramente e sicuramente secondo lo
spirito nazionale, retti da istituzioni elettive. L’êra dei grandi
imperi è finita. Quella condizione di cose per cui fu possibile ad
alcuni Stati europei, nel secolo XVIII e XIX, di raccogliere sotto il
loro dominio un grande numero di popoli e di territori, viene meno. Se
sarà bene o sarà male, si può discutere: ma è così. Sono queste le due
grandi realtà storiche, adombrate sotto le formule un po’ nebulose:
diritto dei popoli a governarsi e pace democratica. Gli imperialisti e
gli imperialismi arrivano in ritardo, come frutti fuori di stagione.
Non c’è ambizione, che possa resistere a questa forza dei fati e dei
fatti.

Alle grandi potenze superstiti dell’Europa — all’Italia, alla Francia,
all’Inghilterra, alla Germania — non resterebbe più che intendersi
per esercitare, aiutandoli, una certa autorità morale su questi nuovi
governi che sorgono, o sugli antichi che si rinnovano; per impedire
eccessi, sbalzi, scosse troppo violente; e per assicurare la pace e
la ricostruzione della fortuna universale. Questa è la sola politica
«realistica», a cui dovrebbe por mano la Lega delle Nazioni, il giorno
in cui scendesse dalle nuvole, dove amici e nemici l’hanno collocata.
Fuori di questo vero «realismo» non ci sarà per l’Europa che il
disordine, la violenza e la povertà.




IX. 

L’imbroglio orientale (15 maggio 1922) 


Nessuno cancro fu più difficile ad estirpare dalla chirurgia
diplomatica, che quello da cui oggi è rosa l’Europa: i recenti, non
imperialisti, ma chimerici trattati di pace. Se Stati e popoli sono
pronti a rifarli nelle parti di cui si lagnano, nessuno vuole che
siano toccati là dove gli assicurano — o sembrano assicurare — qualche
vantaggio o speranza, vera o illusoria. Pacificare il mondo, sì, tutti
vogliono — popoli e Stati: ma nessuno è poi capace per pacificarlo
davvero di fare un sacrificio serio e fecondo; tutti sperano anzi di
rifarsi nella Conferenza di Genova di molte delusioni passate, vere e
immaginarie.

Prendiamo un esempio solo: gli affari orientali. Molti li credono
pericolanti a danno e con minaccia di tutti, solo perchè alcuni Stati
di Europa si ostinano a fare il broncio al governo dei Sovieti.
Aspettano quindi con impazienza che la pace con i bolscevichi sia
suggellata, per gridare anch’essi: _nunc est bibendum!_ A leggere certi
giornali si direbbe che il giorno in cui tutta l’Europa abbraccerà la
Russia e con questo abbraccio accoglierà di nuovo la figliuola prodiga
nella famiglia, la antica felicità perduta ritornerà a far lieti tutti
i popoli.

Ma sono anche queste illusioni. Purtroppo gli affari dell’Europa
orientale non sono così semplici, come molti pensano. Quale è il
pericolo, che sordamente minaccia quella tormentata parte dell’Europa?
L’incerta posizione in cui la Polonia, la Ceco-Slovacchia e la Rumenia
stanno di fronte alla Germania e alla Russia. Amici o nemici? In guerra
o in pace? Non si sa. Intermettendosi tra la Germania e la Russia,
la Polonia e la Ceco-Slovacchia si sono poste in istato di ostilità
latente con ambedue. La Polonia ha anche esasperato la ostilità
latente, quando ha preso territori, che la Germania e la Russia, a
torto o a ragione, considerano ancora come proprî.

A sua volta la Ceco-Slovacchia è sorta come una sfida al mondo
germanico, che per tanti secoli aveva oppresso le popolazioni slave
della Boemia. Che meraviglia se i tedeschi la guardano con occhio
torvo? Nè la Rumenia ha esitato ad aprire un grosso conto con la
Russia, prendendo la Bessarabia. La piccola Intesa si schiera dunque
sopra un doppio fronte: contro la Russia e contro la Germania. Ed
ha alle spalle l’Ungheria che, persuasa anch’essa di essere stata
derubata, spia un’occasione....

Le nuove frontiere tracciate dall’Intesa nell’Europa orientale tra le
rovine degli imperi moscovita e austro-ungarico non sono riconosciute
nè dalla Germania, nè dalla Russia, nè dall’Ungheria, come l’annessione
dell’Alsazia e della Lorena non fu riconosciuta dalla Francia dopo
il 1870. Il nuovo ordine di cose, creato nell’Europa orientale dai
trattati di pace del 1919, posa sopra un diritto, riconosciuto per
tale soltanto dai vincitori, il che vuol dire che non posa su nessun
diritto, ma sulle baionette. E allora, come si regge? Si regge perchè,
_per il momento_, Ungheria, Russia, Germania sono incatenate.

È impotente l’Ungheria, mutilata e decapitata: monarchia senza re. È
impotente la Russia, la cui spada, già spuntata dagli czar, è stata
spezzata dai bolscevichi. È impotente la Germania, esausta dalla
guerra, disarmata dai trattati, e minacciata sul Reno da un grosso
esercito di francesi e di belgi. Molti giornali si meravigliano
che a Genova la piccola Intesa segua la Francia, piuttosto che la
Inghilterra e l’Italia. Pensano forse che, per far l’Europa obbediente
ai vincitori, bastino i discorsi di Lloyd George? Ma le catene
dell’Ungheria, della Germania e della Russia, non saranno eterne.
Se le tre nazioni sono oggi impotenti, quanto tempo potrà durare per
noi questa comoda felicità di cose? In questo sta il tutto. È inutile
farsi illusioni: le potenze vittoriose saranno fra poco capaci forse di
pacificare il mondo, ma non più di sorreggere con la forza gli Stati
che hanno creati o ingranditi nell’Europa Orientale. L’Inghilterra e
l’Italia hanno già ridotto i loro eserciti alla stretta misura della
difesa; e presto la Francia dovrà imitarle. La Francia sta impegnando
il letto e la pentola per fare con un grosso esercito il gendarme
dell’Intesa e dei trattati nell’Europa continentale, lucrando per di
più, come ricompensa, l’odio universale. Si stancherà di questo ingrato
e rovinoso ufficio. E allora? Che cosa accadrà, quando la Polonia, la
Ceco-Slovacchia e la Rumenia dovranno fare assegnamento sulle proprie
forze soltanto? Massime se al Sansone moscovita ricominceranno a
spuntare i capelli?

Quel che prepari l’avvenire nell’Europa orientale, nessuno può
indovinarlo. Ma il presente è minato sotto sotto da una incertezza
incurabile, perchè i vincitori _si sono illusi di potere rifare
l’Europa orientale da soli, contro la Russia e contro la Germania ad un
tempo_. Bisognava rifarla o d’accordo con la Germania o d’accordo con
la Russia: d’accordo con la Germania, dunque, poichè l’Occidente aveva
voltato le spalle alla Russia, infuriato, dopo la rivoluzione.

Si ricasca sempre lì. I vincitori non hanno capito che la rivoluzione
russa — la massima vittoria della Germania nella guerra — imponeva
loro l’obbligo, se non volevano precipitare l’Europa nel caos, di fare
alla Germania condizioni molto miti, perchè se la Germania era vinta,
non era però messa, e non poteva esser messa, nell’impossibilità di
vendicarsi di una pace cartaginese. Dico oggi queste cose, perchè le
ho dette e scritte nel 1919: ma allora chi dava retta, in Italia, in
Francia, in Inghilterra? Appena si nominava la Germania, si vedeva
spuntare, sul volto dei vincitori, il cipiglio truculento di Brenno.

Ci voleva invece il sorriso di Alessandro I, di Talleyrand e di
Metternich. Come le cose dell’Europa non poterono essere assestate nel
1815 senza il concorso e il consenso della Francia, così nel 1919 erano
condannate a restare in un rovinoso disordine senza il concorso e il
consenso della Germania. Lo so: soltanto una saggezza quasi sovrumana
avrebbe saputo sorridere nel 1919, sanguinanti ancora le ferite. Il
risentimento, che ha dettato i trattati di pace, era umano. Ma non
sarà, per questo, meno funesto alle vittime.

Sia che discutano la pace con la Russia, sia che preparino patti di
garanzia, sia che cerchino nella riduzione degli armamenti uno scampo
dal fallimento, sia che vagheggino l’intesa e la riconciliazione
con la Germania, i vincitori inciampano sempre in quello scoglio:
l’ordine di cose, creato da loro nell’Europa orientale, è subìto, non
è riconosciuto per giusto e legittimo dai vinti. Proprio come accadde
alla Germania, dopo il 1870, nell’Alsazia e nella Lorena. La storia
si ripete. La Polonia, la Ceco-Slovacchia, la Rumenia fanno ora vive
istanze, perchè i bolscevichi si impegnino per iscritto, nero sul
bianco, a riconoscere i mutamenti territoriali, operati dai trattati di
pace. E i bolscevichi acconsentiranno, come prometteranno di pagare i
debiti e di accogliere fraternamente i capitali stranieri. Ma i patti
sarebbero osservati, se domani le forze crescessero alla Russia? Quando
la buona fede non fosse più la maschera dell’impotenza?

Pericolo lontano, ma che turba e inquieta, quasi fosse imminente. Nè
può essere altrimenti. L’errore, commesso nell’ebbrezza della vittoria,
quando si volle rifare l’Europa orientale contro la Germania e contro
la Russia, è di quelli che incatenano a sè per lungo tempo; che non si
possono riparare, senza averne prima pagato il fio con molte sofferenze
e delusioni. Almeno se vinti e vincitori non fossero disposti
nell’Europa orientale a far omaggio alla Pace, gli uni di una parte dei
loro rancori e delle loro proteste, gli altri di una parte delle loro
ambizioni e delle loro cupidigie....

Ma sarebbe un miracolo! 




X. 

I trionfi dell’imperialismo europeo: la riscossa turca (22 settembre
1922)


Le grandi Potenze dell’Intesa possono ora contemplare in Oriente
l’opera propria e dichiararsi soddisfatte. La Grecia, rovinata e tra
poco in rivoluzione; l’Asia minore devastata; la Turchia in armi,
nemica, furente, e in procinto di chiudersi ai cristiani e all’Europa
forse per secoli.

Non la piccola Grecia è stata vinta, sotto Smirne; ma la grande
Inghilterra, ma l’Europa, ma tutto il mondo, che si dice ancora ed è
cristiano di nome soltanto, con le sue torbide o impotenti ambizioni.

Il male è sempre quello: il non voler riconoscere, i vincitori della
guerra mondiale, che la vittoria, _se ha accresciuto la loro sicurezza,
ha diminuito la loro potenza_. In Inghilterra, in Francia, in Italia,
gruppi pur troppo influentissimi, ma ciechi, si imaginano ancora che
la vittoria abbia conferito loro una specie di sultanato del mondo;
un diritto regio di dominazione su territori, su razze, su popoli che
sfuggono invece al loro infiacchito vigore. E per correre dietro a
questa immaginaria potenza quei gruppi farebbero getto anche del frutto
acquistato davvero con tanti sacrifici: la sicurezza!

Eppure anche questa pagina della storia è scritta in caratteri chiari,
per chi sa leggere il libro.

Negli ultimi secoli l’Europa ha potuto conquistare tante parti del
mondo, perchè dal giorno in cui un tedesco incominciò la guerra chimica
tritando e mescolando del carbone, del salnitro e dello zolfo, gli
europei sono stati sempre superiori nelle armi. Ma questa superiorità
è finita con la guerra mondiale. Con la guerra mondiale l’Europa si è
disarmata forse per secoli.

Se la spada dei vinti è spezzata, quella dei vincitori è spuntata
ed ottusa: questa è la verità. Nè l’Inghilterra, nè la Francia, nè
l’Italia non possono più mandare eserciti in terre lontane, per
spedizioni di lunga lena. Potremmo rifare, domani, l’impresa di
Tripoli?

Quando uno Stato è più forte per armi, può giustificare le sue
conquiste con la ragione del cannone. Tuttavia, se vuol ricorrere alla
dottrina, è regola di buona prudenza, anche per lo Stato più forte, non
contraddire con la dottrina la propria violenza: non incatenare in nome
della libertà, non saccheggiare a difesa del diritto di proprietà!

Ma i vincitori della guerra mondiale hanno commesso anche questo
errore. Mentre si assumevano, quasi inermi, una specie di protettorato
del globo, bandivano la teoria dei diritti delle nazioni. Il vero
nemico dell’imperialismo è il nazionalismo; eppure quasi dappertutto i
nazionalisti sono anche imperialisti.

Se la patria è il sommo bene per gli italiani, sarà il sommo bene
anche per i francesi, per i tedeschi, per gli slavi, per i magiari,
per i turchi. Che logica è questa, di volere che di qua da un palo il
difendere la patria sia il più santo dei doveri e il più infame dei
delitti di là da quel termine? Se le patrie non imparano a rispettarsi,
il patriottismo diventerà legge di universale sterminio per la
distruzione di tutte le patrie.

Se la logica manca, ci fossero almeno i cannoni! Se i cannoni
arruginiscono, ci fosse almeno un po’ di logica! Ma la bizzarra insegna
del nuovo imperialismo, fermentato nelle ebbrezze della vittoria,
è proprio questa: senza logica e senza cannoni. Inerme, impotente,
prepotente. Contro la ragione, fuori della verità, nella sfera dei
torbidi sogni!

Che meraviglia se le catastrofi si seguono? Poichè anche questa di
Smirne è una catastrofe. Aspettando di subirne gli effetti, poniamo il
quesito: quale fu la cagione?

Una piccola dimenticanza, in cui sono incorsi gli uomini di Stato
che imbastirono a San Remo il trattato di Sèvres. Costoro avevano
dimenticato una cosa da nulla: che la Russia era caduta; che, sparita
la Russia, non c’era più, in tutta l’Asia continentale, altro esercito
fuorchè l’indiano, troppo piccolo e troppo lontano, per servire al
caso; che quindi non c’era più alcuna forza capace di imporre alla
Turchia vinta il trattato, nelle parti in cui la Turchia non lo
accettasse.

Mezzo secolo fa, quando l’Europa era ancora un continente civile e
colto, queste cose si sapevano nelle Cancellerie. Nel 1920, i capi
di tre grandi Stati, tra i quali quel Lloyd George, a cui alcuni si
affiderebbero addirittura per l’alto governo dell’Europa, non ci hanno
pensato!

Kemal pascià si rifugiò tre anni fa ad Angora con tremila uomini.
Perchè ha potuto preparare pazientemente l’esercito, che ha
riconquistato l’Asia minore? Perchè non c’era più nessun esercito in
Asia, che potesse rompergli a tempo la tela sul telaio. L’Inghilterra
chiamò in aiuto i Greci: espediente vano e quasi ridicolo. La religione
e il sentimento nazionale fecero l’opera loro d’accordo. Il governo
di Angora ha puntato contro l’Intesa non solo i cannoni della vecchia
Turchia e dei bolscevichi, ma anche i principî della libertà dei
popoli, con cui l’Intesa avea sollevato il mondo contro i tedeschi.

Ed ora molti credono che, per ristabilire la pace in Oriente,
l’Inghilterra, la Francia e l’Italia debbano interporsi tra i Turchi
e i Greci. Beati coloro, che non hanno occhi! Ma se è proprio contro
i supposti pacieri che i Turchi combattono, per la riconquista di
Costantinopoli e di Adrianopoli! Smirne è solo una tappa: meta il
Bosforo, e le città sante dell’Islam.

Se i turchi non sono in grado di riconquistare Costantinopoli, dominata
dal mare, non andrà molto che il terreno di Bisanzio scotterà sotto
i piedi alle Potenze che la occupano. Presto o tardi — o forse più
presto che non si creda — l’Inghilterra, la Francia, l’Italia, saranno
costrette o a stracciare anche le ultime pagine del trattato di Sèvres,
sgombrando Costantinopoli, o a mandare in Asia eserciti a combattere i
turchi. Tener Costantinopoli dal mare è come voler appendere una donna
a un albero per i capelli.

Perciò non c’è da sperare una pace facile e prossima. Dopo la guerra
dell’Europa contro se stessa, incomincia con questa rivincita
dell’Islam la guerra dell’Asia contro l’Europa. Come le guerre
della rivoluzione e dell’impero fecero perdere all’Europa la maggior
parte dell’America, la guerra mondiale le costerà l’Asia e una parte
dell’Africa.

Dall’Asia minore lo spirito aggressivo dell’Islam passerà in Siria,
in Palestina, in Mesopotamia, in India, in Egitto, nell’Africa
settentrionale. Inghilterra, Francia, Italia si troveranno presto
impegnate in una guerra lunga, minuta e implacabile contro l’Islamismo.
Molto sangue sarà ancora versato; molte ricchezze saranno disperse e
distrutte.

Chi semina vento raccoglie tempesta. E l’Europa ha seminato tanto
vento, da un secolo in qua!




XI. 

Il nodo insolubile delle riparazioni (24 maggio, 6 giugno e 22 novembre
1922)


Che la Germania non pagherà se non una piccola parte del riscatto
iscritto nei trattati, ed a stento, sono forse stato il primo a
dirlo, sino dal 1919. Dissi allora, ed ho ripetuto molte volte, che
la Germania non manterrà i suoi impegni, perchè le classi medie e le
masse sono state impoverite troppo dalla guerra; onde nessun governo
sarà così forte, da poter estorcere alla nazione le favolose somme
del riscatto. La giustizia sarà impotente contro questa immunità,
assicurata alla Germania dalla immensità stessa delle sue distruzioni.
Purtroppo la Germania gode «l’irresponsabilità del terremoto». Ma per
quanto sia persuaso di esser nel vero, riconosco che non tutti sono
obbligati a pensar così, perchè questa è una congettura verosimile, ma
non obbligatoria per la sua evidenza; perchè le teste non sono fatte a
squadra, e le passioni e gli interessi divergono anche più delle teste.
Anzi riconosco che a due popoli è ancor quasi impossibile di vedere
questa verità, che agli altri apparisce ogni giorno più evidente: onde
una nuova lacerazione dell’Europa.

Questi popoli sono la Francia ed il Belgio. 

Molti credono che il nodo delle riparazioni sia insolubile, perchè
la Francia è governata ora da partiti a cui si fa colpa di essere
«militaristi» e «imperialisti». A un secolo di distanza Napoleone
minaccerebbe ancora la pace dell’Europa dalla tomba degli Invalidi.
Perciò molti sperano nelle elezioni future. Anche Mario Borsa è di
questo parere. Ma credo che questa illusione sia frutto di una scarsa
conoscenza delle cose francesi. Che la Camera francese del 1924 abbia
a rosseggiare in confronto della presente, è possibile; ma non per
questo la politica della repubblica muterà, nelle questioni che nascono
dall’applicazione dei trattati, _almeno se la situazione non muta_.

In questa politica è necessario distinguere le parole e i fatti, la
forma e la sostanza. I discorsi degli uomini che da tre anni governano
la Francia possono essere stati qualche volta poco felici; ma chi ha
seguito i convegni diplomatici, tenuti dal 1920 in poi per discutere
intorno all’applicazione dei trattati, sa che, pur cercando di non
dar troppo nell’occhio e spesso affettando un’aria di transigenza,
il governo francese ha concesso molto alla Germania. Per ricordare
un esempio solo: le ha concesso l’anno scorso di pagare un miliardo,
invece di dodici, alla prima grossa scadenza. Non è poco, mi pare.
Quando gli «zelanti» — chiamiamoli così — rimproverano al governo
francese di abbandonare in tutti i convegni qualche diritto della
Francia, esagerano, forse, ma non inventano.

Ma se gli atti inclinano spesso alla conciliazione, i discorsi sono
quasi sempre fieri. E non quelli degli uomini di governo soltanto.
Nessun capo di quella opposizione, che forse governerà domani la
Francia, ha mai ammesso che il trattato di Versailles possa essere
riveduto; tutti ripetono sempre, come il governo, che il trattato deve
essere rispettato. Come si spiega questa contraddizione?

Chi ama rovistare nei vecchi libri, può trovare nel Vattel, giurista
famoso del XVIII secolo, questa curiosa teoria: i sovrani in guerra
non dovere mai presumere che la causa propria sia più giusta di quella
dell’avversario o che l’avversano abbia torto in suo confronto; ma
considerare sempre la causa avversaria altrettanto giusta quanto
la propria, e quindi scendere in campo, ammettendo che il proprio
avversario abbia ragione.

Teoria strana e paradossale, che il giurista conforta con una
giustificazione non meno singolare. Egli dice che, tra due stati in
guerra, nessuna autorità può decidere. Ogni parte è giudice della
propria causa; tutte e due quindi si persuaderanno di avere la ragione
per sè; e una volta persuase tutte e due di difendere la giustizia,
la guerra diventerà eterna e universale. Diventerà eterna, perchè,
le due parti essendo persuase di avere ragione, nessuna si vorrà mai
rassegnare alla propria sconfitta, giudicandola immeritata. Diventerà
universale, perchè le due parti, persuase di difendere il diritto,
si crederanno obbligate a cercare in ogni parte quanti più alleati
potranno.

Anche a me le pagine del vecchio giurista erano parse strane ed
oscurissime, quando le lessi per la prima volta, tanti anni fa. Che
pretesa era questa, che uno Stato scendesse in campo contro un altro
Stato, ammettendo che le ragioni avversarie valevano le proprie? Ma
come la oscura dottrina mi sembra chiara e profonda, dopo le tragiche
esperienze degli ultimi anni!

Può sembrare strano, ma è così: l’Europa rischia di non avere più pace,
appunto perchè nella guerra mondiale gli animi sono stati infiammati
dall’idea della giustizia! Appunto perchè alla guerra i popoli sono
stati chiamati come a una grande ordalia, i vincitori non furono paghi
di averla vinta, ma vollero anche restaurare il diritto violato e
fare giustizia. Se no, la vittoria sarebbe apparsa parziale e in parte
inutile.

Il vero nodo delle riparazioni, che nessun convegno, accordo, progetto,
transazione o minaccia riesce a sciogliere, è questo. Si considerano
di solito le riparazioni come una questione di dare e di avere. Così
fossero! Le difficoltà, per quanto grandi, sarebbero piccole. Ma,
pur troppo, nello spirito dei due popoli maggiormente offesi dalle
invasioni tedesche, la Francia e il Belgio, le riparazioni sono anche
una questione di giustizia, un risarcimento dovuto al diritto violato.
Perciò la Francia e il Belgio sono intrattabili su questo punto; ed è
loro così difficile di intendersi con l’Italia e con l’Inghilterra, che
le considerano come un interesse economico. Gli uni parlano una lingua,
che gli altri non capiscono.

Provatevi a ragionare con un francese o con un belga, a dimostrargli
che la Germania, impoverita dalla guerra e dalla altrui povertà,
governata da un governo impotente, non riuscirà mai a mettere insieme
le somme del riscatto. Nove volte su dieci, egli vi ascolterà per un
po’, poi vi interromperà, dicendo concitatamente: «Noi volevamo la
pace. I tedeschi, un bel giorno, hanno voluto la guerra, sono entrati
nel Belgio a tradimento; grazie a questo tradimento hanno potuto
invadere la Francia, fare scempio dei suoi dipartimenti più floridi.
Hanno rotto: paghino. Non è giusto che la Francia e il Belgio debbano
essere ridotte alla miseria, perchè un bel giorno ai tedeschi è venuto
in mente di assalirli a tradimento, per la speranza di un grosso
bottino».

Che cosa possono i numeri, gli argomenti, i calcoli del possibile e
dell’impossibile, contro questo ragionamento, dettato dal risentimento
dell’offesa ricevuta? Molti francesi e belgi vogliono il denaro
tedesco, come noi desideriamo che l’autore di un feroce assassinio
sia giustiziato. Noi sappiamo che la morte del reo non ridarà la
vita alle sue vittime; ma vogliamo la sua morte come una vendetta ed
una espiazione necessarie a placare il nostro senso della giustizia
offesa. Che la Germania non pagherà nè nella misura nè nei termini
stabiliti dai trattati, molti incominciano a pensarlo, anche in Francia
e in Belgio. Ma non importa: non vogliono rinunciare ai loro diritti,
anche se in parte illusorî; vogliono con quelli spaventare, umiliare,
maltrattare la Germania, perchè queste rappresaglie soddisfano il
sentimento della giustizia offesa dall’aggressione.

Moltiplicate questo stato d’animo per milioni di uomini e calcolate.
Che marea di pubblica collera!

L’Europa pericola tutta quanta, per la contraddizione, che corre tra
questo stato d’animo e la realtà. Sinora si è tirato avanti alla
meglio, supponendo l’insolvenza della Germania passeggera. Tutti
gli accordi e i convegni dei capi di Stato si fanno per concedere
differimenti e moratorie, che dovrebbero essere provvisorie, affinchè
la Germania abbia il tempo necessario per prepararsi a pagare.

Il giorno apocalittico sarà quello in cui la insolvenza della Germania
dovrà essere riconosciuta ufficialmente come definitiva.

Questo giorno, presto o tardi, verrà, e forse verrà più presto che non
si creda.

Che cosa accadrà quel giorno? In quali moti e scatti proromperanno
la Francia ed il Belgio sotto il colpo di questa, che offenderà i due
popoli come una delle più orrende ingiustizie della storia? Questo è
l’enigma dell’avvenire: enigma pauroso, perchè in quel giorno le annose
teorie del Vattel potrebbero avere qualche terribile riprova.

Nè purtroppo si vede, almeno per ora, quel che si potrebbe fare, per
parare questo pericolo. Ma forse sarebbe già un vantaggio, se gli
altri popoli si convincessero che le riparazioni sono, per la Francia
e per il Belgio, non soltanto affari di danaro, ma anche questione
di giustizia. Comprendendo questo animo dei due popoli, gli altri
Stati potrebbero almeno astenersi da argomenti e procedimenti che, pur
dettati dal desiderio di riconciliare gli antichi avversari, irritano
ancora più le ferite troppo fresche degli aggrediti.

Appunto perchè avevano chiamato i popoli a combattere per la giustizia
e per il diritto, gli uomini di Stato avrebbero dovuto sapere che era
una tremenda responsabilità l’avere vinto la guerra e il fare la pace.
Il fare giustizia tra i popoli è compito quasi divino. E invece... Ma
chi legge ancora il Vattel?

Aspettiamo, dunque, vigilando, che gli effetti degli errori maturino,
con la speranza che maturi insieme anche qualche rimedio; e sforziamoci
non tanto di fare la pace con la Russia quanto di prevenire una nuova
guerra tra Francia e Germania. Poichè questo è il vero pericolo che ci
minaccia. Il trattato di Versailles matura lentamente nei suoi fianchi
questa nuova guerra, che potrebbe incominciare con una invasione, non
contrastata, della Germania e finire....

Come potrebbe finire, nessuno lo sa. Non auguro alla nostra
generazione, di veder come potrebbe finire, e perciò le auguro di non
vederla neppur incominciare. La nuova guerra non rassomiglierebbe punto
a quelle che i due popoli hanno combattuto nel secolo passato e nel
presente.




XII. 

Sisifo (9 gennaio 1923) 


Una volta ancora il mondo aveva sperato che il nodo delle riparazioni
sarebbe sciolto, e una volta ancora è stato deluso. Ma la speranza
era vana. Non mi ero ingannato, quando avevo, mesi e anni addietro,
giudicato che le riparazioni sono un nodo che «_rebus sic stantibus_»,
nella presente condizione delle cose europee, non può essere nè
tagliato nè sciolto. E neppure è difficile scoprire per quale ragione,
a chi sappia che cosa è un trattato.

Un trattato è un impegno tra Stati. Ora gli impegni tra gli Stati sono
simili agli impegni tra i singoli: valgono o per il consenso o per
la forza. Io fo’ a voce una promessa; e mi sento così obbligato dalla
mia parola, che la mantengo spontaneamente anche a mio danno: questo
è un impegno, che vale per consenso. Ma firmo un contratto, poi me ne
pento, e vorrei, giunto il tempo, non osservarlo; senonchè ho paura di
un processo, della giustizia, dell’usciere, e perciò lo adempio: ecco
un impegno che vale per la forza. È manifesto che tutti gli impegni,
privati o pubblici, con cui i singoli uomini e gli Stati si legano —
contratti, promesse, trattati, convenzioni — vanno ascritti all’una
o all’altra famiglia. Dove non c’è nè volontà pronta ad adempiere, nè
forza capace di costringere la volontà riluttante, non c’è nè contratto
nè trattato, ma un inutile pezzo di carta.

Tale è purtroppo il caso delle riparazioni tedesche. Quale è la forza
che potrebbe costringere la Germania a pagare per quaranta, o cinquanta
anni il riscatto del sangue? Minacciando di varcare il Reno, gli
alleati possono costringere il governo tedesco a firmare nuove cambiali
e nuovi «pagherò», che alla scadenza saranno poi gettati con gli
impegni precedenti nella fossa comune degli inadempienti. Per spremere
dalla nazione tedesca i miliardi del riscatto, neppure l’occupazione
della Ruhr basterà; gli alleati dovrebbero impossessarsi addirittura
dell’intero governo del paese. Lo scrissi qui nel 1919, quando
l’universale si illudeva che la vittoria avesse conferito all’Intesa
una specie di sovranità illimitata sulle cose del mondo; lo ripeto
ora, che i fatti incominciano a parlare chiaro anche ai sordi. Un
riscatto, che deve essere pagato in cinquanta anni, non è una indennità
di guerra, è un tributo. Ma per riscuotere un tributo, e un tributo di
quella forza, occorre un esattore spietato. Sperare che in Germania,
e in una repubblica governata dal suffragio universale per giunta,
ci sarà mai un governo nazionale, disposto ad affrontare l’odio della
esazione per il piacere all’Intesa, è puerile. La Intesa dovrà andare
ad esigere il tributo in Germania, in tutta la Germania, e non soltanto
nella Vestfalia, se proprio vuole il denaro. Ma chi crede gli alleati
capaci di assumersi per mezzo secolo anche il governo della Germania,
alzi la mano.

La forza dunque non c’è. E non c’è neppure il consenso. È ridicolo
chiedersi e discutere con tanta serietà, come fanno i governi, i
ministri, gli esperti, i giornali, se la Germania possa o non possa
pagare il riscatto. Ma se volesse, potrebbe pagare anche le somme che
Lloyd George chiedeva nel 1918! Se volesse: ossia, se il popolo tedesco
fosse disposto a vivere di pane e acqua e ad andare a piedi scalzi,
per mettersi in regola con il trattato di Versailles. Ma non vuole,
purtroppo; e non vuole perchè...

Il «perchè» è il punto che la stoltezza dei vincitori non ha voluto
capire nel 1919 e non vuol capire nemmeno adesso. Eppure in questo
sta il tutto. Si dice spesso nei discorsi ufficiali — a Capodanno
l’ha ripetuto anche il Presidente Millerand — che in Europa non ci
sarà nè ordine nè pace, finchè i trattati internazionali non saranno
rispettati. Verissimo. Ma poichè i trattati non sono rispettati che o
per forza o per consenso, sarebbe stato necessario che i vincitori,
là dove la loro forza non giungeva, avessero cercato di assicurare
ai trattati il consenso «spontaneo e sincero» dei vinti. Non c’è
impegno valido, nè nel diritto pubblico nè nel privato, se il consenso
è viziato dalla violenza. Voler imporre ai vinti con la forza dei
patti che i vinti non vogliono, e pretendere poi, quando la forza per
imporli manca, che li osservino spontaneamente, come impegni d’onore
liberamente accettati, è vana illusione.

Molti si meravigliano che nel 1814 Talleyrand, pochi giorni dopo essere
arrivato a Vienna per sostenere le ragioni della Francia vinta, fosse
trattato dai vincitori come un amico, un collaboratore, un maestro.
Ma quei vincitori che, nonostante la vittoria, avevano conservato un
po’ di testa e un po’ di buon senso, sapevano che con la forza sola
non avrebbero potuto imporre il trattato per molti anni alla Francia;
volevano che valesse nel tempo e nello spazio oltre il breve raggio
delle loro spade sguainate; si proponevano di esigere il rispetto anche
in nome dell’onore e della lealtà. Ma come avrebbero potuto, se il
consenso della Francia fosse stato strappato a forza, con la spada alla
gola?

La diplomazia del Sei e del Settecento era piena di singolari artifici,
per escludere dalle trattative di pace l’argomento della forza. I
protocolli del congresso di Vestfalia sono una interminabile accademia
di discussioni giuridiche. Quanto hanno riso di queste sottogliezze,
durante il secolo XIX, gli uomini di penna e di spada! Ma quei sovrani
erano più savi dei loro matti motteggiatori; poichè essi volevano —
e perciò aguzzavano l’ingegno a quelle sottigliezze — che i trattati
valessero per se stessi, come impegni liberi dell’onore, e non
solamente nella misura della forza pronta ad imporli.

Che cosa hanno fatto, invece, i vincitori nel 1919? Hanno addirittura
ostentato di imporre ai vinti i trattati di pace con la forza, con la
sola forza, non tenendo conto del loro consenso, al punto che si son
rifiutati di discuterli! Quando il Brockdorf-Rantzau tentò a Versailles
di mercanteggiare la somma del riscatto offrendo cento miliardi, non
fu nemmeno ascoltato. I tedeschi dovettero impegnarsi a occhi chiusi
a pagare la somma, che una certa commissione fisserebbe nell’avvenire;
ossia firmare una cambiale in bianco, sulla quale i vincitori avrebbero
poi scritto a piacere la cifra del debito! E ora si vorrebbe che i
tedeschi si sentissero impegnati dall’onore ad adempiere il patto? Ma
siamo sinceri: ci sentiremmo noi in obbligo, se un trattato di questo
genere ci fosse stato imposto dai tedeschi? I tedeschi ripetono oggi
il ragionamento che i francesi fecero dopo il 1870: «il trattato ci
è stato imposto con il coltello alla gola; nella misura in cui ci
costringeranno ad osservarlo, lo subiremo; ma non lo riconosceremo
mai».

Per salvare nel 1919 l’Europa da una pace calamitosa quanto la guerra,
occorreva capire il grande esempio del 1815 e sforzarsi di imitarlo:
consorziare la Germania in una pace, discussa ed accettata da lei
con la maggiore sincerità e libertà, che possano accordarsi con lo
stato di necessità in cui si trova un vinto; impegnarla moralmente e
interessarla nel tempo stesso a fare il possibile per riparare i guasti
della guerra. L’impresa, lo so, era molto più difficile che nel 1815;
ma bisognava almeno tentarla! Invece i vincitori volsero brutalmente le
spalle al dovere. Ed ora le conseguenze dell’errore maturano...

Sarà forza espiarle. Se le riparazioni sono un nodo insolubile nelle
condizioni presenti, non vuol dire che il nodo non sarà sciolto mai
e che ministri e giornalisti continueranno _in aeternum_ a emulare
Sisifo. Questo problema, che non può essere sciolto nelle condizioni
presenti, graverà su queste condizioni, per trovar modo di sciogliersi
in una condizione di cose diversa. Il non poter gli alleati nè
applicare nè modificare il trattato in una parte di tanta importanza
come le riparazioni, indica che tutto l’ordine di cose creato dai
trattati è precario; e che potrebbe essere sconvolto da inaspettati
rivolgimenti. Il primo di questi rivolgimenti sarà l’invasione della
Germania. Questa invasione era scritta, per chi lo sapeva leggere, nel
trattato di Versailles; e il momento in cui non potrà esser differita
dalla tardiva ma impotente saggezza dei vincitori, non dovrebbe esser
lontano. Incomincerà timidamente; e forse è destinata a scatenare
quella rivoluzione, che a molti segni si vede maturare in Germania, e a
cui la caduta della dinastia servirà forse soltanto di modesto prologo.




XIII. 

La nuova guerra (10 settembre 1923) 


«Una nuova guerra tra Francia e Germania è il vero pericolo che ci
minaccia. Il trattato di Versailles matura lentamente nei suoi fianchi
questa nuova guerra, che potrebbe incominciare con una invasione, non
contrastata, della Germania e finire.

Come potrebbe finire nessuno lo sa. Non auguro alla nostra generazione
di vedere come potrebbe finire, e perciò le auguro di non vederla
neppure incominciare. La nuova guerra non rassomiglierebbe punto
a quelle, che i due popoli hanno combattuto nel secolo passato e
presente».

Così scrivevo nel _Secolo_ il 24 maggio 1922. La facile previsione si
è avverata. La nuova guerra tra la Francia e la Germania, che maturava
da quattro anni, è incominciata con la invasione non contrastata della
Vestfalia; e non rassomiglia alle altre guerre della famiglia.

La resistenza passiva, a cui il Governo tedesco si appiglia, sarà
impotente. Utile nelle lotte intestine di un popolo e nelle guerre
civili, lo sciopero e il _sabotage_ sono un _telum imbelle_, contro un
esercito che avanza numeroso, agguerrito, compatto. In questa guerra
tra un armato e un inerme, l’inerme non ha speranza. Chi tra le due
parti in guerra ne andrà di mezzo sarà la Vestfalia, ridotta a grande
scuola pratica di tattica rivoluzionaria — scioperi, _sabotage_ e via
dicendo — per il proletariato dei due paesi. Poichè anche i soldati
francesi, combattendo la guerriglia rivoluzionaria dei tedeschi,
impareranno come si fa. Oh intelligenza dei governi!

Ma se la resistenza della Germania è sterile, sterile è pure la forza
della Francia e del Belgio. Nè la parte armata nè l’inerme possono
sperar nulla da questa strana guerra. Quale risultato positivo
palperanno la Francia e il Belgio alla fine della loro spedizione?
Se la Francia e il Belgio vogliono che il Governo tedesco sottoscriva
qualche nuovo «pagherò», vinceranno facilmente. Ma quello che importa
alla Francia e al Belgio sono i pagamenti. E questi pagamenti, nelle
condizioni in cui è ridotta, la Germania, neanche volesse, non potrà
più farli per lungo numero di anni. L’effetto più terribile — o il più
benefico — del rinvilio della moneta è proprio questo: che di quanto
esso cresce, altrettanto diminuisce la potenza fiscale dello Stato. Là
dove la moneta è distrutta, come in Germania, l’erario dello Stato non
esiste più.

L’esercito francese e l’esercito belga potranno arrivare fino a
Berlino; non potranno spazzare via il lenzuolo di assegnati sotto cui
la Germania è sepolta. Eppure questo miracolo soltanto potrebbe salvare
i loro crediti e con i loro crediti l’Europa. La Germania è uno Stato
fallito e insolvente. Solo il giorno in cui la sua moneta e il suo
erario fossero ricostituiti, si potrebbe ricominciare a parlare sul
serio dei suoi debiti e dei suoi impegni. Ma quanti anni ci vorranno,
ed anni di vera pace?

E allora? 

Più medito sugli eventi, e più mi pare probabile che dobbiamo aspettare
o un miracolo o grossi rivolgimenti. La stretta a cui siamo giunti può
definirsi così. Il trattato di Versailles e la Germania, quale oggi è,
non possono coesistere. O il trattato di Versailles è stracciato; o la
Germania presente sparirà per ricomparire in altra forma: quale, Dio
solo lo sa.

Molti inclinano oggi in Italia a credere che per la Francia il denaro
del riscatto sia un pretesto, e copra il proposito di spezzare e
smembrare la Germania. Questa supposizione sembra invece a me uno
di quegli errori storici con cui il senno di poi fa combaciare le
intenzioni e gli effetti. Il trattato di Versailles fu fatto con il
sincero proposito che la integrità morale e territoriale della Germania
fosse salva. La Francia aveva chiesto da principio che i territori
posti sulla sinistra del Reno fossero staccati e ridotti a forma di
repubblica indipendente. Inorriditi, Wilson, Lloyd George e Orlando
gridarono «no»; e posto il principio che, quando avesse restituito
il mal tolto, la Germania dovesse essere inviolabile nel corpo e
nell’anima, come tutte le altre nazioni, compilarono il trattato di
Versailles, credendo di togliere di mano alla Francia il coltello con
cui avrebbe volentieri squartato il nemico.

L’Europa può oggi misurare dagli effetti la chiaroveggenza degli
uomini, a cui essa affidò il compito di fare la pace. _Ormai
il trattato di Versailles non è più, e non può essere più che
uno strumento per distruggere la Germania_. In che misura potrà
distruggerla, nessuno lo sa. Ma non c’è dubbio, per chi ha occhi e
vede, che una distruzione parziale o totale della Germania è il solo
frutto, che esso può ancora maturare. Ineseguibile e chimerico nelle
sue parti più importanti, ma non abrogabile perchè ci sono potenze che
non possono rinunciare gratuitamente e per buon cuore ai diritti che
conferisce loro, il trattato spinge e spingerà alcune tra le potenze
vittoriose a misure di coercizione, che si aggraveranno per via e che
non potranno aver altro effetto sicuro se non di gettare la Germania,
già rovinata dalla guerra e dalla pace, nel caos.

I lettori fedeli sanno con quale ostinazione batto e ribatto da
quattro anni questo chiodo: che il trattato di Versailles piega la
Germania sotto il protettorato collettivo dell’Italia, della Francia
e dell’Inghilterra; che questo protettorato è una combinazione
politica stravagante e fantastica, e sarà domani il vaso di Pandora di
tutta l’Europa! Immaginate quello che era stato sino al novembre del
1918 il popolo più potente del mondo, mutato da un giorno all’altro
nel Marocco di tre potenze tra loro discordi e di cui ciascuna è
più debole; questo, sì, è futurismo politico! Ma all’ignoranza dei
popoli il futurismo di Wilson, di Lloyd George, di Clemenceau e di
Orlando, piacque, anzi parve un po’ timido, e fu perfino accusato di
umanitarismo democratico. Erano stati davvero poco esigenti quegli
uomini, che non avevano neppur voluto andare a dettar la pace a Vienna
e a Berlino!

Ed ecco, dopo quattro anni, la Francia e il Belgio sono presi
nell’ingranaggio micidiale di questo protettorato impossibile, e
trascinati dall’impegno di imporlo a misure di coercizione, di cui si
può sicuramente prevedere che riusciranno a tutto fuorchè ai fini a
cui mirano; che rovineranno la Germania senza salvare, anzi spossando,
i suoi nemici. Poichè non è da credere che la Francia ed il Belgio
possano sostenere per mesi e mesi una fatica di tanta mole, senza
risentirsene.




PARTE QUINTA. 

PRIMO DISCORSO AI SORDI 


_Questo_ Primo discorso ai Sordi _fu composto in tempi diversi, a mano
a mano che le occasioni e gli eventi muovevano l’ispirazione. Alcuni
frammenti furono pubblicati nel_ Secolo, _nella_ Revue Universelle,
_nell’_Illustration, _e nell’_Hearst’s Magazine _di New-York. Lo
pubblico qui intero, come conclusione e coronamento di questa storia
ragionata di quattro anni._




INTRODUZIONE. 


Noi non sappiamo quel che facciamo: questa è la nuda verità. Non
conosciamo il passato, non ci curiamo dell’avvenire, non sappiamo
neppur vivere nel presente. Viviamo fuori del tempo, fuori della
ragione, fuori della realtà, nel rapimento di un’allucinazione torbida.

Che cosa vogliamo? È un mistero, che non possiamo mai chiarire a noi
stessi, perchè vogliamo sempre l’opposto di quel che vogliamo. Sembra
assurdo, ma è così. Noi vogliamo l’assenzio volendo il miele; la
tenebra volendo la luce; la schiavitù volendo la libertà, la povertà
volendo la ricchezza, l’anarchia volendo l’ordine, la guerra volendo la
pace.

Noi costringiamo, tiranni crudeli, tutte le cose del mondo, anche le
più sacre, o a rinnegare la propria ragione di esistere, o a entrare
in guerra con se medesime, o a falsificare la propria natura, o
addirittura a suicidarsi sotto i nostri occhi per il nostro capriccio;
ma senza cessar di volere i beneficî di cui potevano esserci larghe
quando erano vive, schiette, coerenti.

Mi guardate stupiti, o miei diletti contemporanei, come se parlassi il
linguaggio della Sibilla? Queste parole vi sembrano oscure? Cercherò di
spiegarle con alcuni esempi, se le vostre orecchie non saranno colpite
da una sordità fulminea, appena giungerà loro la prima parola di
verità.




I. 

Il suicidio della forza 


Noi abbiamo creato l’impotenza moltiplicando la forza. 

Le civiltà che furono prima della rivoluzione francese, anche
le più gloriose, erano deturpate da tre piaghe: l’ignoranza,
l’ozio, l’isolamento. Pochi studiavano; chi lavorava, e chi no; e
ciascuno da solo, o quasi; e schiavo delle regole dell’arte sua. Di
costoro i più diventavano alla fine maestri; ma guai a coloro che
l’eccellenza respingeva come indegni e incapaci! Cadevano nell’ozio,
nell’accattonaggio o nel delitto.

Nè i popoli, se rispettavano l’autorità, erano molto obbedienti.
Obbedivano al re e allo Stato, ma solo quando l’uno e l’altro erano la
voce e il braccio della tradizione e finchè si contentavano di poco.
Aborrivano dal nuovo, non volevano balzelli e imposte, odiavano le
armi; erano deboli, timidi, poveri, lenti, dispersi. Nè gli Stati erano
forti. Paghi del rispetto, esigevano poco oro e punto sangue; poco
potevano e poco osavano.

Che mutamento, nel secolo XIX! Il mondo pullula di giganti dalle membra
ciclopiche: popoli e Stati. Gli Stati diventano mostruose divinità
onnipotenti. Obbligano i popoli a studiare, a lavorare, a fare la
guerra; li smungono e taglieggiano senza tregua. Non li lasciano più
dormire; non cessano un istante dal tormentarli con qualche nuova
esigenza, in nome della libertà, del progresso, della patria, del re,
dell’imperatore, della repubblica, del socialismo — nomi diversi che
coprono tutti lo stesso dovere: obbedire, lavorare, pagare. Ma più
sono tormentati, più i popoli si prestano, si fondono in grandi masse
omogenee di professioni, di classi e di partiti; imparano a lavorare
indefessamente e gregariamente; si lasciano addottrinare dal maestro,
spremere dal pubblicano, maltrattare dal capo e dal sergente; vanno
alla scuola, all’officina e alla caserma; obbediscono a tutte le leggi
che i governi fanno in loro nome; vestono nel secolo della libertà,
l’abito di tre discipline — lavoro, stato, esercito!

L’ordine nato da questo straordinario rivolgimento era, fino a pochi
anni fa, la meraviglia della storia. Era così perfetto e così solido,
che pareva addirittura incastrato nell’ordine cosmico. Il giro delle
cose umane — lavoro, soddisfacimento dei bisogni, sollazzi, riposo
— procedeva regolare e puntuale come il giro del sole. Nella propria
cerchia, e purchè non volesse uscirne, ogni uomo, dall’artigiano al
milionario, poteva soddisfare ogni suo desiderio. L’obbedienza allo
Stato era pronta e precisa, come un riflesso. Una parola ed un cenno: e
le casse dello Stato rigurgitavano d’oro; e gli uomini più dolci e miti
partivano infuriati per la guerra; e sarebbero stati pronti a volare,
se una legge l’avesse ordinato.

Che cosa resta oggi, dopo dieci anni, di questo ordine meraviglioso?
Pochi rottami perduti in un caos apocalittico. Tutte le luci si
spengono nel cielo e tutte le autorità cadono sulla terra. Le corone
e gli scettri più antichi e venerati sono stati gettati dai popoli
inferociti nel rigagnolo. I parlamenti sono esautorati e disprezzati.
I figli non obbediscono più al padre; le donne non vogliono più
dipendere dall’uomo; i cittadini si ribellano allo Stato, i soldati
agli ufficiali, gli impiegati e gli operai ai capi. Chi ha il diritto
di comandare? Chi ha il dovere di ubbidire? Mistero. Coloro che fino a
dieci anni fa comandavano, oggi tremano. Coloro che ubbidivano, ridono
del dovere come di una superstizione passata. Si lavora ancora, ma
disordinatamente e a capriccio.

Come accadde? Perchè un ordine, che pareva così saldo, si sciolse in
così breve tempo nel caos? Si sono mai posti questi quesiti, i molti
Sisifi di ogni lingua che ogni tanto si radunano in qualche città
dell’Europa per ricominciare l’eterno lavoro della pace? Nessuna
preparazione sarebbe migliore che il meditare questo punto. Poichè
nella guerra mondiale noi abbiamo veduto compiersi uno dei fenomeni
più terribili e meravigliosi della storia: il suicidio della forza.
I vinti sono morti e i vincitori sono moribondi, perchè hanno abusato
della propria forza, i vinti anche più dei vincitori, oltre i limiti
dell’umano.

Sì, i popoli obbedivano. E perciò gli Stati li hanno sottoposti alla
più arbitraria delle tirannie, disponendo a capriccio della vita e
dei beni di tutti, dissipando in sei anni, in folli spese, la fortuna
faticosamente accumulata in cinquanta, gettando da un giorno all’altro
alla rinfusa tutte le età, la giovinezza imberbe insieme con la
maturità quasi canuta, in mezzo agli orrori e ai terrori della guerra
più micidiale che abbia mai insanguinato la terra; falsificando la
misura del lavoro, e profondendo tra gli uomini una vana ricchezza di
carta filogranata.

Neppure Tebe, Ninive e Babilonia hanno conosciuto questo delirio; hanno
esercitato sul gregge umano l’onnipotenza quasi divina degli Stati
moderni, tutti sorti in nome della libertà. Ma perciò i popoli non
vogliono più obbedire a nessuno, e gli Stati giacciono tutti fulminati,
rovinati, inermi, esautorati, senza finanze e senza esercito, i
vincitori ridotti a dar quotidiano spettacolo della loro impotenza
in faccia ai vinti, ai quali non resta nemmeno più la parvenza della
forza.

La Germania inerme o quasi disarmata incute più terrore che mai ai suoi
nemici. Sui pianori dell’Asia Minore sono cominciate le resistenze
passive, ben più difficili a vincere che i milioni di baionette e le
migliaia di cannoni mostruosi della guerra mondiale.

La forza si è suicidata! Noi non mediteremo mai abbastanza su questa
verità semplice, luminosa e profonda, che è la chiave del presente
e dell’avvenire. C’è un limite, oltre il quale la forza si annienta.
La civiltà occidentale l’ha spensieratamente oltrepassato; e colpita
fulmineamente da un’improvvisa incurabile debolezza, è stramazzata
ansante.

Noi abbiamo ancora milioni di soldati e milioni di baionette; ma non
possiamo più servircene che per distruggere noi stessi. Le armi ormai
non feriscono più che chi le fabbrica e le maneggia. La guerra e la
rivoluzione — le due figlie gemelle della forza — sono ormai egualmente
impotenti. Potranno impaurire, devastare, insanguinare ancora il mondo;
inferociranno forse ancora spietatamente; ma non debelleranno più la
debolezza inerme. A questa spetta ormai il dominio del mondo, sulle
rovine della forza, esautorata dal suo stesso eccesso.

Di nuovo il mondo si è capovolto. I deboli vinceranno i forti. 

Ma saranno i tempi capaci di intendere queste parole di verità? 




II. 

L’eterno passato 


Carichi di sapienza arcana, noi non sappiamo più quello che sanno
i fanciulli: che il fuoco brucia, arde, consuma, incenerisce; che
l’emorragia dissangua; che la distruzione vince sempre la creazione
alla corsa.

Il mondo non può credere ancora ai suoi occhi. Quella, proprio quella
è la Russia, che dieci anni fa abbagliava l’Europa con la corona di
Giustiniano e il mantello di Teodora? Quella che, coperta di piaghe,
affamata, a brandelli, insozzata di fango e di sterco, tende la
mano al passante sulle vie del mondo? L’antica regina dell’Oriente e
dell’Occidente?

Il nostro stupore non vuol arrendersi alla realtà. I re diventano
mendicanti e i mendicanti re solo nelle favole dei poeti e sulle scene
del teatro. Che questa regina sia stata deposta e condannata a marcire
per lungo tempo nella miseria e nella sozzura, non ci pare possibile.

Eppure, tra i dettami del buon senso e gli insegnamenti della pratica,
c’è anche questo: il distruggere essere più facile e pronto che
il creare. Occorrono all’uomo diciotto o venti anni per imparare a
sussistere da sè. Un secondo basta ad ucciderlo. Il fuoco, acceso dalle
nostre mani, è capace di divorare in una notte l’opera di molti secoli.
L’ascia, che noi abbiamo arrotata sulla mola, orba in un giorno del
loro pupillo prediletto — l’albero — gli innumerevoli anni, che lo
tirarono su a poco a poco dal seno della terra.

Se applicassimo questo dettame del buon senso alla Russia, non
misureremmo con una occhiata sola la voragine del così detto «problema
russo», spalancatasi nell’Europa orientale? Quattro anni di guerra
e quattro anni di rivoluzione hanno divorato l’opera di parecchie
generazioni. Molte generazioni saranno necessarie per rifarla. Il resto
è illusione.

Ma noi non ragioniamo così. Tra noi e questa verità elementare si
interpone il ricordo di una favolosa avventura.

Più di un secolo fa, un popolo volle rifare l’«edificio dei
tempi»: l’ordine sociale. Per rifarlo, rovesciò la colonna maestra
dell’edificio: l’autorità del Re. L’edificio rovinò addosso al
demolitore; e sembrò seppellirlo per sempre, sotto le macerie.
Quand’ecco, a un tratto, il popolo, scosse di dosso queste macerie, e
sbucò fuori non solo illeso, ma con una forza così indiavolata, che
in un baleno rifece l’edificio dei tempi, e conquistò mezza Europa,
infondendole la propria energia.

Dopo venti anni di guerra si trovarono tutti, vinti e vincitori, più
forti che prima di impugnare le armi. Per la prima volta una civiltà
fu rinsanguata e ritemprata da una emorragia torrenziale. Una guerra
implacabile di venti anni fu il vestibolo del più operoso e del più
fortunato tra i secoli della storia.

Non c’è, da quattro generazioni, precetto umano o divino, dottrina
sacra o profana, ammonimento dell’esperienza o dettame del buon senso,
il quale abbia forza di resistere al ricordo di questa favolosa
avventura, nella civiltà occidentale. Da quattro generazioni, la
Rivoluzione e la Guerra sono due divinità, a cui la civiltà occidentale
offre i suoi sacrifici in segreto, quando non osa pubblicamente. La
poesia le ha inghirlandate; la scultura le ha onorate con il marmo e
con il bronzo; la filosofia e la storia le hanno inchinate, adulate,
sfruttate. Due antiche dinastie — gli Hohenzollern e i Savoia —
le hanno prese tutte e due — non la Guerra soltanto, ma anche la
Rivoluzione — al loro servizio, insieme con la Religione e la Scienza.
E i popoli in travaglio, le classi e gli uomini maltrattati dalla
fortuna, le dottrine in lotta con il presente le hanno invocate e
attese come la vendetta e il riscatto.

Ricordate la spensierata baldanza della Russia, quando le fiamme della
rivoluzione incominciarono a lambirla e l’investirono? Essa rideva e
danzava. Era così sicura — e il mondo con essa — che il fuoco l’avrebbe
ringiovanita! L’antico regime era così guasto, corrotto, iniquo! E
quando di nuovo, spezzata la colonna maestra, l’edificio dei tempi
cascò addosso al demolitore, nessuno si spaventò.

Come cento anni fa, il popolo sarebbe sbucato anche questa volta
di sotto alle rovine più forte. Al dettame del buon senso, che il
distruggere è facile, il creare difficile, nessuno pensò.

E nessuno se ne ricorda neppur ora. Il mondo aspetta sempre, dopo
cinque anni, sperando o temendo, le grandi sorprese della nuova
rivoluzione. Che anche una rivoluzione possa spegnersi oscuramente e
lentamente in una lunga miseria, non viene in mente a nessuno.

Che giorno sarebbe quello in cui il mondo si persuadesse che la
rivoluzione russa porta in grembo una sorpresa sola, la sorpresa che
il semplice buon senso poteva prevedere sin dal principio: l’obbligo di
rifare in molti anni quanto fu distrutto in poche settimane!

Da quel giorno la civiltà occidentale rientrerebbe, camminando verso
l’avvenire, in quello che si potrebbe forse chiamare «l’eterno
passato»; nel destino comune di tutte le generazioni. Nessuno
lo conosce più, questo «eterno passato»; perfino la storia l’ha
dimenticato, per lo zelo di servire la Guerra e la Rivoluzione; e
perciò tutti aspettano di rivedere ancora una volta il miracolo del
fuoco che rigenera, dell’emorragia che rinsangua, della creazione che
vince la distruzione alla corsa.

Sì! più di cent’anni fa l’Europa uscì ringiovanita dal fuoco. Ma
quando, di nuovo, tante benigne influenze pioveranno dalle stelle sopra
il capo di un’epoca, come allora? Quanti secoli dovranno correre, prima
che di nuovo tante circostanze favorevoli si incontrino nella breve ora
di poche generazioni e si fondano in una unica spinta?

Paragoniamo la rivoluzione francese a quella russa: che distacco nei
tempi! La rivoluzione francese nasce in grembo alla pace e ad una
tradizione di disciplina antica di secoli; è fatta da una generazione
che aveva imparato a ragionare e ad obbedire. La rivoluzione russa
scoppia in grembo alla guerra e ad una anarchia spirituale già vecchia,
in tutta l’Europa, di un secolo; è fatta da una generazione ormai
avvezza a non obbedire più che per forza e a ragionare con la logica
della passione e dell’interesse.

La rivoluzione francese distrugge lo Stato; ma libera l’industria,
l’agricoltura, il commercio dalle catene degli antichi privilegi e
monopolî: parziale compenso ai danni dell’anarchia. La rivoluzione
russa distrugge lo Stato; e incatena, imbavaglia, soffoca l’industria,
l’agricoltura, il commercio.

La rivoluzione francese arma le masse, incomincia le guerre dei popoli,
invade l’Europa, distrugge le antiche istituzioni e si salva con la
guerra dal fallimento. L’oro e l’argento, che la pietà dei fedeli
aveva deposti nelle chiese e nei conventi dell’Europa cattolica, i
tesori grandi e piccoli, pubblici e privati, dei paesi conquistati
risarciscono le sue distruzioni. Per guarire la piaga degli assegnati
prima che incancrenisca, la rivoluzione trova un rimedio: i tesori
degli uomini e di Dio.

La rivoluzione russa — fortunatamente! — è ridotta a difendersi con
gli avanzi dell’esercito imperiale. Nell’arte della guerra ha mutato
solo il colore delle insegne. Ma anche avesse la forza di saccheggiare
l’Europa, potrebbe curare la piaga degli assegnati con l’oro delle
conquiste? I tempi sono mutati. Oggi i metalli preziosi si nascondono
sotto terra come serpenti. Gli eserciti rossi non sarebbero ancora
giunti alla prima tappa e già tutto l’oro e l’argento dell’Occidente si
sarebbe messo in salvo. Non c’è speranza: la cancrena degli assegnati
divorerà la rivoluzione.

Vera scossa tellurica, la rivoluzione francese sprigionò il fuoco
interno, che da secoli ardeva, invisibile, sotto la crosta solidificata
dell’Europa. Da due secoli l’uomo aveva accumulato un tesoro di
cognizioni e di scoperte che, animato da una ambizione conquistatrice,
poteva far di lui un semidio. Al di là dell’Oceano l’America, immensa,
ricca di climi, feconda di biade e di messi, rigurgitante di metalli
e di combustibili, aspettava. Quando, alla fine, dalle mistiche nozze
del Fuoco con l’Imaginazione nacque la macchina a vapore, incominciò la
parte più gloriosa della favolosa sventura: la conquista della terra e
dei suoi tesori.

I cento anni, che corsero dalla battaglia di Waterloo alla battaglia
della Marna furono l’epoca più fortunata della storia universale.
Nessun secolo godè i privilegi, che un destino misterioso ha accumulato
sul capo di questo figlio prediletto della rivoluzione. Esso potè
sognare l’anarchia, adorare la Rivoluzione, giocare a distruggere e a
rifare il mondo sulla carta, godendo dell’ordine più solido e perfetto
che fosse mai stato stabilito sulla terra. Potè adorare la guerra,
inventare e fabbricare più armi che da Caino in poi, in grembo alla
pace più feconda che abbia mai allietato il genere umano.

Chi può sperare fortune simili a questa, dalla nuova rivoluzione che,
guardando torva verso l’Occidente, si ritira nelle steppe?

Non illudiamoci sulla fragilità della fortuna, che ha favorito
quel secolo felice tra tutti. Noi stiamo per rientrare «nell’eterno
passato», sotto l’impero di quelle semplici verità del buon senso, che
la fortuna aveva sospese a beneficio di poche generazioni.

Guerre e rivoluzioni ricorrono ogni tanto; fanno parte anch’esse,
come la pace e l’ordine, del nostro destino. Ma son prove lunghe e
terribili, che consumano alcune generazioni a beneficio di altre. Guai
a quelle, cui tocca! Solo ogni tanto, per misteriose ragioni, la prova
si muta in una avventura trionfale e in una specie di eroico baccanale.

L’errore universale dei nostri tempi è proprio questo. Noi ragioniamo
oggi, ricordando troppo l’eroico baccanale di guerre e di rivoluzioni
di un secolo fa. Perciò i fatti voltano le spalle tutti i giorni
alle nostre previsioni e speranze. Perciò ci domandiamo sgomenti se
l’universo si è capovolto, se l’asse della terra si è spostato, se la
ragione stessa è entrata in delirio.

No, l’universo non si è capovolto, e l’asse della terra non si è
spostato. Questo caos universale degli imperi e delle idee, dei popoli
e delle dottrine, è una grande semplificazione. La mano misteriosa,
che muove le cose del mondo, ha scritto in quello, con caratteri
giganteschi, sulla faccia degli oceani e dei continenti, alcune
semplici verità, che avevamo dimenticate. Questa, per esempio: che il
fuoco brucia, incenerisce, distrugge, devasta, non rigenera o crea.

A ragione noi cerchiamo il filo che lega la rivoluzione francese e la
rivoluzione russa. L’una nasce dall’altra; ma non è la ripetizione
di ciò che non poteva e non potrà mai ripetersi. Tutte e due sono
invece il principio e la fine. La rivoluzione francese è la porta
fiammeggiante per cui la civiltà occidentale si slancia impetuosa,
giovane, spensierata nella favolosa avventura della conquista della
terra. Con la rivoluzione russa, essa inciampa e cade per la prima
volta a mezzo del suo cammino, stanca, ansante, invecchiata.

Si rialzerà di nuovo, curerà le ginocchia ferite, ripiglierà il
cammino: ma quando capirà di nuovo il senso profondo di quella umile
preghiera, che per tanti secoli la Chiesa insegnò ai popoli:

    _A peste a fame a bello_ 
    _libera nos, Domine?_ 

Anche questa è una parola di verità, alla quale il mondo è sordo. 




III. 

Il culto del fuoco 


Noi siamo ritornati al culto del vecchio Agni; e in lui solo crediamo. 

Ricordate le speranze, di cui si infiorarono l’Europa e l’America tanti
anni fa, quando la rivoluzione scoppiò in Turchia ed in Cina? L’aurora
della libertà e della democrazia albeggiava dunque anche sull’Asia,
antica madre del dispotismo! Ma l’illusione durò poco. Se gli antichi
regimi giacevano a terra, morti, il mondo vide presto i nuovi rotolarsi
nella polvere, come epilettici, nelle convulsioni dei colpi di stato,
dei pronunciamenti, delle dittature e delle guerre civili.

Ricordate le promesse anche più abbaglianti del 1918? Ad un tratto, sul
cadere di quell’anno, il grande sogno del 1848 parve realtà: la Polonia
risorta, la repubblica a Mosca, a Berlino, a Vienna; le corone nel
rigagnolo; i re in esilio; i popoli chiamati a governarsi da sè.

Ma anche questa volta l’illusione fu breve. In Russia e in Ungheria la
rivoluzione subito inciampò e cadde dopo i primi passi. In pochi mesi
il suffragio universale fu spossessato da dittature militari, il cui
solo titolo a governare era la forza: di tutti i titoli del comando, il
più incerto, mutevole e debole.

Negli altri Stati, che sono sorti sulle rovine degli Absburgo e degli
Hohenzollern, la volontà del popolo, espressa dal suffragio universale,
governa ancora. Ma chiamata da un giorno all’altro a cingere la
corona, è fiacca, incerta, vacillante; non comanda, balbetta; a stento
riconosce di volta in volta se stessa. Ed è in guerra con se medesima,
in tutti i nuovi stati; qui per antichi odî di parte, là per inveterate
rivalità di classi o di interessi; altrove per discordie religiose, per
diversità di lingua o di razza.

Tutto è incerto in questi governi; il titolo dell’autorità, la forza
di cui dispongono, la vera volontà che li muove. I loro discorsi
sibillini, i loro atti equivoci, non lasciano capire agli altri ciò che
forse è oscuro a essi stessi. Non si sa bene nè donde vengono, nè dove
vanno, nè quanto dureranno, nè quel che vogliono, nè quel che possono
fare, nè quali impegni prendere, nè in che misura mantenerli. La loro
natura è l’incertezza. Due volte il mondo fu illuso e deluso? Perchè?
La verità è questa: che i governi sono le ossa delle nazioni; e che il
mondo intero è affetto da rammollimento delle ossa.

L’enorme scossa dell’Europa si è sentita, sotto, sotto, anche in
Asia. Anche là gli edifici più antichi si screpolano e scricchiolano.
Gli uomini di Stato inglesi avevano fatto un bel sogno: impadronirsi
dell’Asia dopo la caduta della Russia, con la penna ed il gesto.
Errore! La Russia la trascina con sè nella polvere. In Turchia, in
Persia, in India, l’Inghilterra aveva appoggi, amici, partiti che ne
desideravano l’aiuto e la protezione, sinchè il colosso russo era, nel
lontano settentrione, il terrore dell’Asia. Ma ora che il male maggiore
è sparito, l’Asia non vuole neppure il minore. L’Inghilterra ha dovuto
restituire all’Afghanistan la sua indipendenza e libertà, pericola in
India, non ha potuto mantenersi in Persia, non si reggerà a lungo nè
in Mesopotamia, nè a Costantinopoli, proprio perchè non c’è più la sua
potente rivale a disputarle la preda.

La dominazione europea vacilla in Asia come in Egitto. I popoli
orientali non possono più reggersi con le antiche istituzioni paesane,
nè far proprie le istituzioni dell’Occidente. L’Asia è insonne per
questa doppia impossibilità; e rovescierà la dominazione dell’Europa,
per cascare anch’essa in una lunga anarchia.

Le nazioni, che hanno ancora ossa dure e salde, sono poche. E anche
queste per quanto tempo?

«Chi ha il diritto di comandare e in quali limiti? Chi ha il dovere
di obbedire e sino a qual punto?» Ecco l’eterno e tormentoso quesito,
che non dà pace agli uomini. Gli uomini non possono vivere felici,
se non sono persuasi di averlo sciolto alla perfezione: onde tutti
i secoli e tutti i popoli si illudono, via via, di aver trovato la
risposta perfetta, ma per un istante solo! Chè presto o tardi tutti i
governi, anche i più ammirati, vengono in odio, sia che i governi con
il tempo si guastino, sia che si guastino gli uomini. E allora l’eterna
questione si ripresenta, ora qua ora là, sulla faccia del globo.

Senonchè oggi l’universo intero sembra malcontento di tutti i principî
di autorità, che il genere umano ha sinora inchinati, in Oriente
e in Occidente, nell’antichità e nel presente. Nessuno lo appaga
interamente; nessuno gli pare giusto, verace, schietto, scevro di
insidie nascoste; di nessuno si fida e a nessuno si affida. Perciò odia
il presente e dispera dell’avvenire.

Chi lamenta che il mondo si sfascia, non delira. Le sue ossa sono
frolle. Viviamo in tempi di disordine universale. Eppure, eppure.

Eppure ogni mattina, l’antico servitore, nostro prepotente Signore
e Dio, il Fuoco, si risveglia e risveglia il mondo. Le caldaie si
accendono, le ruote e le cinghie ricominciano a girare, allacciate.
Il contadino ritorna al campo, l’operaio all’officina, il mercante
alla bottega, l’impiegato all’ufficio, il banchiere e l’avvocato allo
studio. Non tutti ci ritornano volentieri; ma tutti ci ritornano, sia
pur brontolando.

Tutti i giorni, in Europa e in America, la grande macchina, che il
Fuoco anima, si rimette a girare, mantenendo nel mondo un certo ordine,
in luogo delle antiche autorità, o indebolite o cadute. Il Fuoco è
il nostro tiranno, perchè ci sforza a produrre e a consumare, anche
quando siamo stanchi e sazî; ma in compenso ci condanna a un lavoro,
che non è più, come il lavoro degli antichi, solitario. Appunto perchè
è gregario, il lavoro moderno lega le città alle campagne e i cittadini
allo Stato; incatena l’uno all’altro gli uomini, le classi, le regioni,
i popoli, i continenti. Finchè questa catena non si spezzi o non si
sciolga, un certo ordine regnerà nel mondo, anche orbo di leggi.

Il Fuoco è oggi il guardiano dell’ordine, il vicario dei Re e di
Dio, che esso ha deposti. Se le ossa dei popoli e delle nazioni
rammolliscono, il lavoro è una specie di busto o di armatura che
sorregge, invece delle ossa tramutate in poltiglia, i popoli e le
nazioni.

È vero che il mondo si sfascia, ma è vero anche che ci regna ancora un
ordine quasi miracoloso, se si pon mente che nessuno lo governa più: nè
Dio nè lo Stato; nè la Legge nè la Spada. Ha dunque il mondo trovato
un principio di ordine nuovo, nel Fuoco? Il Fuoco non è più soltanto
il padre delle arti, ma il legislatore dell’Universo senza gendarmi e
senza demonî?

Molti lo sperano e lo pensano. Il mondo moderno non è nè cristiano nè
ateo; è ritornato senza accorgersene alla idolatria; adora ancora un
Dio con fervore, e quello solo: il Fuoco, il vecchio Agni risorto dopo
tanti secoli. Lo adora con tanto fervore, che confida in lui, perchè lo
salvi anche dalla propria follìa.

Ed i fatti sembrano dargli ragione. Paragonate la Russia e la
Germania. In poche settimane i russi avevano rovesciate le colonne
della società: la Monarchia, la Chiesa, la Burocrazia, l’Esercito.
La dinastia deposta, l’amministrazione decapitata, la religione
esautorata, l’esercito sciolto, rimaneva intatto tra tante rovine il
tempio del Fuoco, la grande macchina della produzione, la proprietà
sola e nuda, non più difesa dal prestigio della Corona, dall’autorità
della religione, dalla forza dello Stato. «Distruggete anche quella:
abbiamo fatta la rivoluzione sopratutto per distruggere la proprietà»,
gridarono milioni di miserabili.

Incominciò allora il tragico dubbio della rivoluzione russa. Le
moltitudini non sentivano ragioni, volevano i beni dei ricchi; ma
la rivoluzione, dopo aver deposto Dio e lo Czar, esitava, esitava,
esitava, sacrilegamente savia, a devastare anche il tempio del Fuoco:
le officine, le fattorie, le banche. Esitò per otto mesi, dal Marzo
al Novembre, non osando dire che la proprietà era più sacra della
croce e dello scettro; ma riserbandole quel po’ di rispetto che ancora
sopravviveva. Sinchè la Follìa arrivò, armata di clava. Aveva letto
in un libro tedesco, che se tutto il mondo è fatto male, la macchina
della produzione è la sua parte più difettosa, che crea e distribuisce
la ricchezza nel dolore e nell’ingiustizia, che per rifare il mondo
bisogna rifarsi da quella. E poichè la trovava sola, e senza difesa,
con pochi colpi la spezzò.

Il castigo fu pronto. Gli uni non potendo e gli altri non dovendo
più neppur lavorare, non sopravvivendo alcun principio di ordine e
di coesione, neppure il lavoro, tutto si sciolse. Invano i demolitori
tentarono di improvvisare una rozza dittatura militare con gli avanzi
dell’esercito e della polizia dell’antico regime. Tre anni accumularono
nell’impero russo tante rovine, a cui in altri tempi non avrebbero
bastato tre secoli: città abbandonate, vie distrutte, terre devastate,
arti e industrie spente, peste, fame, guerra!

La Germania invece... 

Il popolo, che dieci anni fa era retto dal governo più forte per
autorità e per armi, non ha oggi, e quel che è più terribile, non può
più avere — governo di sorta. Odia l’antico regime, perchè ha distrutto
la sua fortuna e una civiltà; non ama il nuovo, perchè è un ripiego
della disperazione imposto dalla forza delle cose al suo orgoglio.

Improvvisata, figlia della sventura, nuda di autorità e di prestigio,
retta da uomini oscuri, servita a malincuore da una burocrazia ligia
al passato, la repubblica tedesca è l’organo di una gigantesca
dilapidazione della fortuna pubblica. Non uno Stato, ma la sua
negazione. Il vecchio Dio dei tedeschi s’è ritirato, dopo l’armistizio,
in fondo al cielo, come i loro re nei castelli aviti.

Ma che importa? Il Fuoco impera in Germania, più potente che gli
antichi re, principi e duchi: e da solo mantiene l’ordine e la
prosperità. Disarmata, mutilata, isolata, la Germania si è tutta
immedesimata, anima e corpo, con la sua gigantesca macchina di
produzione: ammirazione e invidia del mondo. Si è rimessa all’opera
quasi con raddoppiato furore. Sole ormai nel mondo le sue navi non
marciscono neghittose nei porti; sole, le sue officine lavorano a
pieni fuochi; soli, i suoi operai protraggono la fatica oltre il terzo
del giorno, e, fatto il ragguaglio della moneta, per una mercede più
piccola, che quella che chiedevano prima della guerra. Pare che un
nuovo destino stia per rivelarsi all’uomo in Germania: governarsi senza
governo.

Ma è l’ultima delle illusioni che il secolo XIX ha seminate con tanta
prodigalità! Diffidate, diffidate, diffidate di questa illusione,
se non volete aggiungere nuove rovine alle antiche. La Russia si
è suicidata distruggendo dopo lo Stato anche la macchina della
produzione; la Germania si suicida, più lentamente, quando abbandona
lo Stato alla rovina, pur di lavorare senza riposo. Il Fuoco è un
Dio potentissimo; ma non può governare il mondo. Una nazione non
può reggersi a lungo per il sostegno di un busto; ossa sane, dure ed
elastiche insieme, ci vogliono.

Il mondo ha bisogno di autorità in cui creda, di governi che la
governino. Ne hanno bisogno i popoli mussulmani come i cristiani, la
razza bianca come la razza gialla, l’Europa come l’America.

L’armatura degli interessi economici regge ancora alla meglio la
civiltà occidentale; ma stolto chi crede possa reggerla a lungo e
da sola! Tutti vogliono oggi farsi alchimisti, costruire macchine,
incanalare e maneggiare il fulmine. I tempi ci insegneranno tra poco
che il compito delle nuove generazioni non è preparare nuove ricchezze
per le future dilapidazioni, ma rispondere di nuovo all’eterno quesito:
«Chi ha il diritto di comandare? Chi ha il dovere di obbedire?»

Compito più difficile che il crear ricchezze. 

Ma quando lo riconosceremo, e ci accingeremo ad assolverlo, non con
balorde improvvisazioni, ma seguendo gli insegnamenti dei savî?




IV. 

Il supremo fiore della Storia 


Noi abbiamo contraffatto, svisato, falsificato anche il Comunismo:
supremo fiore della storia!

Bussa a denari, e forte, il nuovo Comunismo![15] 

Per una rivoluzione, che pochi anni fa gridava ai quattro venti di
volere rifare il mondo _ab imis_; che per un pezzo si è vantata di aver
ricominciato la storia, abolendo la moneta, non c’è male. In quattro
anni i riedificatori del mondo non solo hanno tentato di rifare alla
meglio la polizia, l’esercito e l’amministrazione degli Czar, ma ora
ritornano addirittura, seguendo le traccie dell’impero moscovita, a
bussare alle porte ben note, anche se qualche volta un po’ sorde, delle
banche dell’Occidente.

Chi se ne meraviglia? Gli ingenui o gli ignoranti, forse. Con la
rivoluzione, s’è sprofondato in Russia un ordine antico di cose;
non sono esplose forze nuove, capaci di creare un ordine diverso e
migliore. E non sono esplose, perchè non c’erano e non ci sono, queste
forze nuove, nè in Russia nè altrove; perchè sotto le dottrine che
sembrano più rivoluzionarie, anche sotto il socialismo e il comunismo,
si nascondono oggi le stesse passioni, che muovono e animano i tempi
presenti e il regime borghese: ricchezza e potere.

Il comunismo, per esempio: terrore dei borghesi e speranza dei
proletari! Siete voi proprio persuasi che il comunismo sia contrario
alla natura umana, come ripetono tutte le cattedre ufficiali?
Come si spiegherebbe allora che la storia sia piena di istituzioni
comuniste, alcune delle quali antiche come la civiltà? La famiglia è
una istituzione comunista. Istituzioni comuniste sono i più antichi,
gloriosi e meravigliosi ordini monastici.

No, non si può dire che in sè e per sè il comunismo sia contrario alla
natura umana. Vero è invece che le è conforme, ma solo _nella misura in
cui la natura umana è capace di spirito di sacrificio e di rinuncia_.
Non c’è comunismo, se non là dove i singoli rinunciano ad una parte
dei beni — proprietà e libertà — che potrebbero godere da soli, per un
fine ideale; se non quando una forte passione — l’amore paterno o il
fervore religioso, per esempio — rintuzza e deprime l’egoismo, avido
di godimenti. Inteso così, il comunismo è uno dei fiori più belli della
storia — ed uno dei più rari.

Senonchè il comunismo, che parla dalla Russia ai popoli come un
maestro, e li incita ad applicare le sue dottrine, non chiede alle
masse rinuncie e sacrifici in vista di un bene ideale; ma promette
loro quegli stessi beni che prometteva il capitalismo — ricchezza,
agi, piaceri, potenza — e in misura maggiore, e con minor sacrificio;
offrendosi alle moltitudini come il continuatore del capitalismo, che
compirà la stessa opera ma molto meglio. Esso promette agli uomini
un’abbondanza anche più facile che la passata; ossia quello che,
per la sua stessa natura, non può dare. Il comunismo può assicurare
agli uomini le gioie spirituali di una convivenza allietata da alte
speranze comuni, non le orgie dell’abbondanza. A queste provvede il
«capitalismo».

Alla società moderna si possono rinfacciare mille difetti, appunto
perchè essa ha tutto sacrificato alla quantità, anche la virtù e la
bellezza. Ma non si può negare che abbia almeno scoperto il segreto
dell’abbondanza, moltiplicando le ricchezze del mondo. Supporre che un
«sistema comunista» possa vincerla in questa lizza è un sogno.

«_Io rido, quanto sento i socialisti dire che vogliono rovesciare la
potenza del capitale con le dottrine di Carlo Marx! Essi che gridano
primo dovere del popolo moltiplicare i suoi guadagni e i suoi bisogni!
L’impero del capitale rovinerà il giorno in cui il popolo prenderà in
orrore i lussi e gli sprechi e i piaceri e i vizi, che le classi alte
gli inoculano, per rinfacciarglieli poi, dopo che hanno battuto moneta
con quelli_».

Così scrivevo più di dieci anni fa, prima del cataclisma. In questo
passo sta la chiave di molti presenti misteri. Sinchè il popolo
aspirerà a calzarsi di seta, a mangiar polli, ad andare ai bagni come
alla perfezione e alla felicità, il «capitalismo» sarà il padrone del
mondo. Socialismo e comunismo dovranno servirlo, anche immaginandosi
di combatterlo. Il vero difetto del capitalismo sta nel crear _troppa_
ricchezza.

Non è dunque meraviglia che i bolscevichi siano oggi costretti a
fare la corte ai banchieri d’Occidente. I bolscevichi hanno potuto
distruggere, in Russia, il corpo della «società borghese», non lo
spirito. Questo vive anche in essi. Essi vogliono ciò che volevano
i loro predecessori: una Russia quanto più è possibile ricca e
potente. Per rifare rapidamente la ricchezza e la potenza della
Russia è necessario del «capitale». Per trovare del capitale è
forza rivolgersi al «capitalismo», anche dopo averlo maledetto.
Anche questa è una catena; e per spezzarla una rivoluzione politica
non basta. Occorrerebbe la sapienza di Socrate e di Aristotile,
la saggezza di Augusto e di Talleyrand, la poesia di Virgilio e
di Dante, l’insegnamento del Vangelo, un po’ dello spirito di San
Francesco d’Assisi e di San Francesco Saverio, qualche brandello
dell’Ecclesiaste, l’essenza depurata delle dottrine di Comte, di
Mazzini, di Lamennais. Troppe cose, perchè ci possiamo pensare! Sordi
alla voce del vero comunismo, ascolteremo noi il falso?




V. 

Nè Cristo, nè Anticristo 


Abbiamo esautorato lo spirito e la materia. Non obbediamo più nè a
Cristo nè all’Anticristo.

Molte leggende la passione politica ha accreditate intorno agli atti
ed ai disegni della Santa Sede e di Benedetto XV durante la guerra
mondiale. Si è perfino denunciato il Vaticano come un ufficio di
propaganda tedesca! Vero è invece che la Santa Sede fu alacre e zelante
nell’addolcire le crudeltà e nel lenire i dolori della ferocissima
lotta, quanto timida ed esitante nell’affrontare gli interessi, le
passioni e le dottrine, che hanno scatenato il flagello. La Chiesa
fu tra i combattenti ministra della Carità più che Cattedra della
Giustizia!

La paura della Russia, che ambiva immensi territori cattolici in
Europa e in Asia, soffocò nel papato, per tre anni, l’orrore della
violenza germanica. «La vittoria della Russia sarebbe stata una rovina
per la Chiesa non minore della Riforma» — disse a me, nella primavera
del 1918, uno dei più alti prelati della Curia. Se per le potenze
occidentali lo czar era il sovrano di un immenso impero, un amico e
alleato potentissimo, per Roma era il capo di una Chiesa scismatica,
che avrebbe tentato di sradicare il cattolicismo dagli Stati, in cui
fosse entrato. Curiosa coincidenza: la alleanza della Russia costò
alla Francia e all’Inghilterra non soltanto le simpatie dei partiti più
rivoluzionari, ma anche quelle della Chiesa cattolica!

Caduto l’impero russo e dileguate queste paure, le simpatie per la
Francia, per l’Italia e per l’Inghilterra presero forza anche in
Vaticano; ma non al punto da scuotere la persuasione, che gli imperi
centrali avrebbero vinto la guerra. Questa persuasione — molto diffusa
in tutti i paesi neutrali ed anche in quelli dell’Intesa, tra le
persone che non erano obbligate a credere alla vittoria per dovere
d’ufficio — spiega forse molti atti e atteggiamenti della Santa Sede,
a cui si sono cercati fini più reconditi. Molti, anche nel governo
della Chiesa, consideravano la vittoria della Germania e dell’Austria
una calamità: ma siccome la ritenevano sicura, pensavano che la Chiesa
dovesse, con una neutralità prudente, prepararsi a intervenire come
moderatrice presso il troppo feroce vincitore.

La forza e il furore degli Stati combattenti intimidirono anche la
più antica potenza spirituale della civiltà occidentale. Indebolita
dai colpi che il secolo XIX le ha inflitti e da quella specie di
irrigidimento ombroso con cui cerca di difendersi contro lo spirito
avverso dei tempi; armata solamente di libri e di pergamene, di carta
e di penna, la Chiesa non ha osato affrontare il furore di ambizioni,
di cupidigie, di odî, di orgogli scatenato dalla guerra sul mondo; le
coalizioni di interessi, che hanno armato per quattro anni l’Europa
contro se stessa. Ha cercato, quanto poteva, di soccorrere le vittime
di questo furore, ma senza correre il pericolo di esasperarlo, cercando
di frenarlo senza forze adeguate.

Che questa politica non fosse animata da uno spirito eroico, è
manifesto. Ma è pure manifesto che riesce oggi più facile ad un critico
e ad uno storico vantare a tavolino l’audacia del grande eroismo
cristiano, che non fosse al papa di praticarlo tra il 1914 e il 1918.
Lasciamo dunque all’avvenire giudicare se Benedetto XV sia stato o non
sia stato troppo cauto. L’osservatore contemporaneo deve piuttosto
cercare che cosa indichi e di che cosa sia segno questa prudenza.
Dell’indebolirsi e declinare dell’autorità spirituale della Chiesa?

Molti lo pensano e l’hanno ripetuto, in questi anni. Il coraggio è il
compagno della forza. Un potere che si lascia disarmare, confessa la
propria debolezza. E fino a questo punto chi ragiona così ragiona bene.
Se la Chiesa si fosse sentita più forte, avrebbe levato maggiormente
la voce in difesa dei deboli, che tante volte l’hanno chiamata in
aiuto, durante la guerra, come ministra di Carità e di Giustizia. Ma
l’illusione comincia, quando si spera, come tanti hanno sperato durante
la guerra, che su questo indebolimento della potenza spirituale più
antica debbano grandeggiare le nuove potenze spirituali e temporali,
che oggi reggono il mondo: lo Stato, la scienza, i grandi organi
dell’opinione, i maggiori imperi che si spartiscono il globo, il
capitale e i potenti strumenti che esso muove, le masse organizzate e
la loro volontà.

Purtroppo, Berlino e Parigi, la guerra e il Congresso della pace,
dimostrano che le potenze nuove non sono meno inferme delle antiche,
anche se la malattia di cui soffrono è diversa. Finchè l’impegno fu di
distruggersi a vicenda, le potenze spirituali e temporali del secolo
hanno fatto meraviglie: quando invece si sono accinte a rifare quello
che avevano distrutto, sono state forse meno modeste e caute della
Chiesa, ma non più capaci. Se la Chiesa ha potuto far poco, con le sue
pergamene e con i suoi libri, per ridare al mondo la pace, gli Stati
non furono più fortunati, con i mezzi immensi di cui disponevano.

Gli imperi centrali erano più forti per armi e sapevano fare meglio la
guerra. Questa è la ragione per cui la loro vittoria sembrò a tanti
sicura sino all’ultimo. Ma questa fu invece la ragione della loro
sconfitta. A che cosa ha servito la smisurata forza di cui disponevano,
se non a distruggere se medesimi, dopo avere dissanguato i nemici?
La Germania non è forse soggiaciuta ad una specie di congestione
della propria forza? Oggi i vincitori sono i più forti, per armi,
per ricchezza e per saldezza interiore; ma a che serve loro questa
forza se invano cercano di mettere pace e ordine nel mondo? Nè le
ricchezze dell’America, nè l’armata dell’Inghilterra, nè l’esercito
della Francia, nè la scienza degli esperti, nè la sottigliezza dei
diplomatici, nè la volontà dei popoli, nè le vociferazioni dei
giornali, nè l’oro e i consigli dei banchieri, nè le sedute dei
Parlamenti, nè la potenza gregaria e l’infatuazione dottrinale del
socialismo hanno potuto, finora, far più che le encicliche di Benedetto
XV. La parola sembra avere perduto la sua antica potenza sulle menti
degli uomini; ma dalla stessa impotenza sono colpite le armi, la
ricchezza, la scienza e tutte le altre forze, a cui i moderni facevano
più largo credito che alla parola.

Questa universale impotenza è il vero terrore dei nostri tempi. È vero:
Benedetto XV, non ostante il suo zelo cristiano e l’immensa autorità
di cui era investito, è riuscito soltanto a lenire alcune tra le più
atroci sofferenze della guerra. Ma gli altri potentati non sono stati
capaci di fare nè meglio nè più per ridare al mondo la pace. Nel
groviglio delle autorità spirituali e delle potenze temporali che se
la contendono annullandosi, l’Europa resta abbandonata a se stessa,
prostrata nell’inerzia smaniosa di un esaurimento spirituale, che
sembra disperare della propria guarigione.

Il pontificato di Benedetto XV, come il tormentoso smarrimento in cui
si dibattono gli Stati tutti dell’Europa, vincitori o vinti, provano
che nè la Chiesa nè lo Stato moderno, ciascuno da sè, sono in grado
di trarre l’Europa dalla stretta in cui si è cacciata. Ma potrebbero
riuscire meglio, unendo le loro forze? E se questo accordo non sia
possibile, quale sarà il destino dell’una e dell’altro nell’avvenire
prossimo? Quale la sorte dell’Europa?

Tremendi quesiti, con cui si troveranno alle prese i successori di
Benedetto XV, per molte generazioni! Che essi almeno non siano sordi,
come sono sordi i tempi!




VI. 

Il ritorno dei barbari 


«È vero: — si ripete spesso quando si ragiona dei nostri tempi
e dell’avvenire — l’autorità si sfascia oggi in Europa, come si
sfasciò nel terzo secolo. Ma oggi non ci sono più barbari capaci di
approfittare della nostra anarchia!»

È vero. I tempi sono mutati. Nel terzo secolo della nostra êra, civiltà
e barbarie combattevano ad armi uguali. Oggi non più. La barbarie è
inerme, di fronte alla civiltà. Il suo ardire e il suo impeto sono
impotenti contro le nostre armi.

Ma siamo noi veramente sicuri? È proprio vero che i barbari vivono
tutti sotto la tenda?

Barbara non è l’epoca in cui la forza e la materia dominano, non
limitate e non regolate nè dalla legge, nè dalla giustizia, nè
dall’amore, nè dalla socievolezza, nè dalla bellezza, nè dalla cultura?
Non diciamo barbari i popoli, che al disciplinato regno della giustizia
e della ragione preferiscono la violenta tirannide della passione e
della forza?

Ma allora quanti barbari ci sono ancora e vivono nel cuore stesso della
civiltà occidentale! Se ne incontrano dappertutto: nelle accademie e
nei governi, nelle università e nelle officine, fra gli eruditi e fra
gli analfabeti, in mezzo al popolo e in mezzo ai grandi, tra i ricchi e
tra i poveri. Anzi, ognuno di noi è quasi una doppia persona; in parte
civile, in parte barbaro. Guardiamo un po’ dentro noi, e ci accorgeremo
che l’uomo civile e il barbaro non guerreggiano più, come un tempo, ai
confini dell’Impero Romano, ma in ogni coscienza.

Noi siamo barbari, quando assumiamo la massa, il peso e il numero come
misura del merito e della eccellenza. Siamo barbari, quando ammiriamo
un edifizio perchè è massiccio e vistoso, una chiesa perchè luccica
d’oro e di marmi, un vestito perchè costa molto, un popolo e un uomo
perchè sono ricchi e potenti.

Siamo barbari, quando beviamo, mangiamo e fumiamo oltre il ragionevole,
con intemperanza. Siamo barbari, quando prodighiamo la ricchezza solo
per far vedere che la possediamo e per abbagliare i vicini. Siamo
barbari, quando ammiriamo con uguale ardore la bellezza di una donna
e il diamante che luccica nei suoi capelli. Siamo barbari, quando ci
lasciamo abbrutire dalla rude potenza delle macchine e dalla furia
frenetica dei nostri tempi. Siamo barbari, quando ci spogliamo del più
grande tesoro che Dio ci ha donato — la intelligenza — per infonderla
nella materia; quando ci vantiamo di rimbecillire, per creare dei
congegni di ferro ogni giorno più intelligenti.

Siamo barbari, quando, inorgogliti e inferociti dalla intelligenza
micidiale che abbiamo risvegliata nella materia, abdicando la nostra
sovranità, aspiriamo ad essere i re dell’Universo, innanzi a cui tutte
le cose della creazione devono inchinarsi.

Siamo barbari, quando crediamo di poter riscattare con le invenzioni
meccaniche e con le scoperte chimiche le nostre colpe, i nostri
errori, la nostra cecità e le nostre follìe. Siamo barbari, quando ci
illudiamo che il vapore, l’elettricità, i raggi X, il telegrafo senza
fili, il radium, i crogiuoli dei chimici, le imprese del commercio, le
audacie delle industrie, le meraviglie dell’agricoltura, effettueranno
la seconda redenzione del genere umano, dopo il sangue di Cristo;
e purificheranno il mondo dalle cattive passioni che lo infestano,
inaugurando il Regno della Pace e della Saggezza.

Spesso i barbari «_ab intus_» sono più pericolosi che i barbari
di fuori. Quelli di fuori si avanzano allo scoperto, e si possono
segnalare, contare e fermare con la forza. Ma a quale segno sicuro
riconoscere i barbari dei nostri tempi? Quando neppur essi hanno
sentore dell’essere proprio e gli altri sanno così poco discernerli,
che spesso li ammirano come i campioni e i difensori della civiltà?

Anche questo è un pericolo che ci minaccia sulle vertiginose altezze
della nostra potenza. Scambiando per segni di progresso i vizi della
barbarie, grossolanamente mascherati e contraffatti, la civiltà
occidentale si affida troppo spesso, per salvarsi, alla distruzione e
alla morte.

Osservate tutte le armi di cui è così fiera: quelle natanti fortezze di
acciaio, che infestano i mari; quei cannoni dalle gole profonde come un
abisso; quelle mitragliatrici che irrorano la terra con una pioggia di
morte minuta, incessante, invisibile; quei falchi di metallo, da cui
piovono i fulmini; quei milioni di baionette che scintillano ai raggi
del sole.

Ci siamo affidati a questi terribili strumenti di guerra, affinchè
tenessero a distanza i popoli che, a torto o a ragione, chiamiamo
barbari. Al riparo di questa muraglia di ferro e di fuoco, innalzata
dal nostro genio, noi viviamo sicuri, che non dovremo più fuggire
innanzi a una nuova passata alluvionale di Mongoli. Ma donde è mosso
l’uragano di violenza, che per cinque anni ha devastato l’Europa,
se non da quegli stessi strumenti di guerra, in cui avevamo posto la
nostra sicurezza e la nostra speranza?

La civiltà occidentale giace prostrata e agonizza sotto la mole di
quelle armi, con cui si era rivestita per difendersi.

Le armi che dovevano difenderci dai barbari, si sono rivolte contro di
noi. Eccoli, anzi, i veri barbari del nostro tempo: sono esse! Barbari
di ferro e di acciaio, temprati nel fuoco dalle nostre braccia, e
contro i quali siamo impotenti come i Romani erano impotenti contro i
Germani ed i Goti.

L’intelligenza letale, che abbiamo risvegliata nella materia con
il nostro orgoglio e la nostra ambizione; quell’intelligenza letale
che ammiravamo come il prodigio del nostro genio, quando sterminava
i nostri nemici, ha ormai annientato anche noi: vinti e vincitori
insieme. Questa è la grande nemica della civiltà occidentale, più
implacabile delle orde barbariche che distrussero l’Impero Romano.
Non potremo salvarci dai nuovi barbari con il ferro, poichè sono essi
stessi il ferro; non potremo salvarci con quell’oro che Roma gettò così
spesso agli invasori per fermarli quando non poteva respingerli, perchè
non sono avidi, come gli antichi barbari, della nostra ricchezza, ma
della nostra distruzione.

Visibili o invisibili, questi barbari _ab intus_ non potranno essere
vinti che da armi invisibili e immateriali: la Ragione, la Giustizia,
la Saggezza. Il giorno in cui la Ragione, la Giustizia, la Saggezza
riappariranno nel mondo, i barbari, che sono ritornati a devastare
l’Europa, volteranno le spalle e partiranno per sempre. Ma per quanto
tempo, prima di questo ritorno, il mondo volterà le spalle anche a
questa parola della verità?




VII. 

L’idropisia del denaro 


Noi abbiamo tolto valore alla misura di tutti i valori concreti. 

Una nuova malattia è apparsa nel mondo: «l’idropisia del denaro».
La civiltà occidentale è gonfia di una mostruosa idropisia di oro,
d’argento e di carta monetata.

Vi parrà forse inverosimile, o uomini del mio tempo: eppure è così.
C’è troppo denaro nel mondo; e perciò c’è troppo bisogno, tormento,
insoddisfazione, vizio, perversione, odio e povertà. Troppo denaro
vero — oro e argento, negli Stati Uniti d’America, e in tutti gli Stati
neutrali, impinguati sulla guerra degli altri; e troppo denaro spurio —
carta monetata — negli Stati che furono belligeranti.

Dalle trincee, nel 1914, incominciò a fluire un Pactolo rosseggiante,
nel quale si confondevano sangue e oro: il sangue di una generazione
immolata al Dio della guerra, e le ricchezze di tre generazioni
liquidate per acquistar ferro, bronzo, fuoco e congegni di guerra.
Piccolo in principio, questo fiume d’oro e di sangue è gonfiato di
anno in anno, finchè ha straripato sulla faccia della terra. Non
c’è mai stato tanto denaro nel mondo — vero o spurio. In dieci anni
si è raddoppiato, quintuplicato, decuplicato a seconda dei paesi.
L’alluvione l’ha trasportato dappertutto, anche nelle capanne e nei
tuguri. Tutti ormai lo posseggono, il denaro, che per tanti secoli non
aveva voluto rifugiarsi che in pochi palazzi. Il mondo dovrebbe dunque
essere felice secondo la nostra saggezza. Il denaro non è la ricchezza?
La ricchezza non è la felicità? Il mondo invece è malato e soffre!

Sì: mentre tutte le altre ricchezze servono l’uomo soltanto secondo la
propria natura, rigida e limitata, il denaro è — o sembra — uno schiavo
docile e mobile, pronto a tutti i travestimenti, solo che il suo
signore comandi.

Chi possiede una casa, una terra, del ferro, della lana, del grano
non può servirsene che per i fini e gli uffici a cui la natura
destina questi oggetti. Se vuol servirsene ad altri fini ed uffici
deve venderli, ossia convertirli in denaro. Ne è dunque il padrone, a
condizione di essere schiavo della loro destinazione. Il denaro no:
fa tutto ed è tutto. Si nasconde e si ostenta; corrompe e benefica;
incoraggia il genio e lo sfrutta; premia la virtù e assolda il delitto;
onora Dio e incoraggia il vizio. È amico e nemico, maestro e lenone,
creatore e distruttore.

Insomma è angelo e demonio. Ed è pronto a servir l’uomo come egli
vuole, nell’una o nell’altra di queste opposte persone.

Gli uomini, che sono persuasi di essere furbi, si sono accorti da
un pezzo di questa prodigiosa virtù. Perciò hanno immedesimato il
denaro e la ricchezza, sebbene il denaro sia non _la_ ricchezza ma
_una_ ricchezza, quando è d’oro e d’argento; e non sia neppure _una_
ricchezza, ma un segno della ricchezza spesso ipotetico e non di rado
addirittura fallace, quando è di carta. Perciò sono stati così cupidi
in tutti i tempi e in tutti i luoghi di denaro vero o spurio; e non si
reputano felici se non quando lo posseggono, sebbene a un uomo perduto
nel Sahara un pane ed un otre di acqua sarebbero più preziosi che un
sacco di monete d’oro.

Ma questo servo docile e sorridente è un nemico nascosto e implacabile.
La storia ce lo ripete a ogni pagina: quando, per una ragione o per
un’altra, una età è sorpresa da una improvvisa abbondanza di denaro,
ecco crescere il prezzo delle gioie, dei vini, delle vesti preziose;
ecco sorgere da ogni parte edifici di lusso e di piacere; ecco l’amore
farsi prodigo e venale; il Piacere e la Voluttà aprire taverne, teatri,
danze, lupanari e tutti i luoghi in cui l’uomo può comperare per denaro
e al minuto la spicciola felicità dei sensi.

Appunto perchè questo pericoloso servitore si offre all’uomo per
servirlo a suo piacere, come un angelo o come un demonio, l’uomo è
più facilmente vinto dalla curiosità di vedere come serve un demonio.
Che cosa è stata la guerra mondiale? Una notte di Getsemani della
civiltà occidentale o un saturnale? Al genere umano, che sudava sangue
nella trincea, il denaro consigliava di consolarsi e rifarsi, dandosi
all’orgia nelle città.

Fortunata ancora l’America, che almeno ridonda di vero denaro — oro,
argento e biglietti che si possono convertire in oro ed in argento. Il
denaro vero è immune dalla moltiplicazione illimitata; perchè a scavare
dalle viscere della terra dell’oro e dell’argento ci vuole tempo e
fatica. Ha quindi un peso, una consistenza e un valore stabile, se non
immutabile; onde gli uomini sono spinti a conservarlo. L’Europa invece
è idropica di falso denaro.

In America il denaro, appunto perchè è vero ed autentico, è raddoppiato
soltanto. In Europa s’è moltiplicato in dieci anni, cinque, dieci,
venti volte. La carta e l’inchiostro costano così poco; i torchi girano
così veloci!

Ma moltiplicandosi all’infinito coi giri del torchio, questo denaro
perde via via consistenza, peso e quindi sicuro valore; perdendo
consistenza, peso e valore si volatizza e sfugge anche alle mani, che
più bramose vorrebbero stringerlo. Perchè conservare un denaro fluido,
volatile, il cui valore scompare da un giorno all’altro, come il
profumo di una fiala aperta? Tutti gli dànno la caccia, ma appena lo
afferrano, se ne disfanno per ricominciare la caccia e per disfarsene
di nuovo; il circolo non si ferma mai, anzi gira ogni dì più veloce;
il denaro non sta più fermo un minuto, passa da una mano all’altra,
insegnando l’ozio, la prodigalità, il lusso, la dissolutezza,
la ghiottoneria a milioni di uomini, che ieri ancora vivevano
semplicemente.

Il denaro vero, autentico, che ha un peso certo, una forma
obbligatoria, un conio indelebile, che l’uomo deve fabbricare di
buon metallo con lunga fatica, può servire l’uomo come angelo o come
demonio. Il denaro falso, segno menzognero di ricchezza immaginaria,
stampato in materie fragili e caduche, che l’uomo moltiplica senza
fatica, non può servirlo che come demonio.

Molti congegni infernali ha inventato la civiltà occidentale, ebbra
di morte, per suicidarsi al cospetto dei secoli. Tra questi congegni,
accanto alla bomba, al siluro, alle miscele esplodenti e all’otre dei
vapori letali, occorre annoverare anche l’umile pietra che stampa e il
suo torchio. Essa non ha sfondato tetti, affondato navi, ma ha fatto
di peggio: ha falsato una cosa sacra, una misura, la misura del lavoro
umano. Poichè in mezzo a tanti servigi loschi, frivoli o brutti che
esso rende all’uomo, questo è l’ufficio augusto del denaro, quello per
cui partecipa un poco della natura divina e corrompendolo, corrompiamo
noi stessi.

Ha falsato la misura del lavoro; e falsandola, se non ha ucciso uomini,
donne, fanciulli nel sonno, come la bomba e il siluro, ha ucciso e
uccide nel cuore degli uomini l’amore del lavoro, la preveggenza, la
parsimonia, la virtù di contentarsi; delude, tormenta, inganna tutto il
genere umano con il nuovo supplizio di Tantalo, con il miraggio di una
ricchezza che si allontana, appena l’uomo tende la mano per ghermirla.
Inganna e inferocisce, perchè l’uomo, esasperato da questo gioco
maligno, va in furia, dà in smanie, e vuol vendicarsi su qualche cosa e
su qualcuno.

Non ci fu mai tanto denaro nel mondo e non ce ne fu mai così poco.
Tutti ne hanno maggior bisogno, e si sentono più poveri, quanto più
abbondano di questo falso denaro che invilisce moltiplicandosi: Stato,
città, banche, industrie, commerci, famiglie. Ci fu mai per il genere
umano supplizio più atroce?

C’è troppo denaro nel mondo; e perciò ce nè troppo poco. 

Questo falso denaro è la lebbra dei nostri tempi, la lebbra che la
civiltà occidentale ha riportato a casa dalle trincee. Per quanto tempo
ci tormenterà? Il fuoco soltanto può salvarci dal contagio micidiale di
questa lebbra incurabile. Ritorniamo a coniare il denaro vero, che è la
misura sacra e autentica del lavoro umano. Tra le espiazioni del sangue
versato, a cui la civiltà occidentale dovrà sottostare, è necessaria
anche una purificazione del denaro. Non l’esige l’Economia, scienza
senza cuore: la vogliono la Verità, la Rettitudine, la Lealtà.

Ma questa parola di verità sarà intesa dagli uomini? 




VIII. 

La vittoria acefala e l’ora di Barabba 


Domenico Giuliotti ha letto sull’orologio della storia che questa è
«l’ora di Barabba». L’intuizione è profonda.

Questa cronaca di quattro anni narra una storia sanguinante di errori
caparbi. Hanno sbagliato tutti e sempre, impantanandosi nel proprio
errore: i governi, le diplomazie, la Banca, gli Stati maggiori, la
Scienza, gli oracoli della pubblica opinione e perfino la Retorica!
Sono stati delusi nelle loro speranze i popoli, gli Stati, i partiti,
cosicchè tutti maledicono oggi la pace e si accusano a vicenda. Non è
contenta l’Inghilterra, che invece di conquistar tutta l’Asia e tutti
gli Oceani, ha perduto e sta perdendo l’Egitto, l’India, l’Irlanda,
la parte migliore della sua clientela forestiera; ed è minacciata sul
mare dall’America e dal Giappone. Non è contenta la Francia, che si
sente in pericolo quanto più la Germania si indebolisce; non è contenta
l’Italia, non è contenta la Polonia, non è contenta la Jugoslavia...
Dei vinti non parliamo. L’Europa è tutta rancori, dispetto e rabbia.
La pace è il lavoro di Sisifo. Ogni stagione arriva con una nuova
promessa; ma il solleone uccide insieme con le rose anche le speranze
della primavera, e l’autunno volta le spalle al solleone e alle sue
promesse, per rincorrere un’altra illusione e delusione.

Sì, lo so: fare la pace era difficile, ma non più, e forse meno, che
nel 1814. Quando Napoleone sprofondò con tutto lo scenario dipinto
di quella sua spettacolosa coreografia a cui aveva dato il nome di
impero, lasciò — monumento della sua sapienza — l’Italia, la Francia,
il Belgio, l’Olanda, la Spagna e una metà della Germania senza governo.
E a quei tempi i popoli, quando si trovavano ignudi a quel modo,
avevano ancora bisogno del sarto, che facesse loro il vestito, perchè
non sapevano maneggiare la forbice e l’ago. La sartoria di Vienna
dovette, nel 1814 e 15, tagliare e cucire molti abiti nuovi, ripulire
rattoppare e rammodernare molti abiti vecchi, per tanti popoli che la
rivoluzione e l’impero avevano lasciati in camicia e che aspettavano
il vestito da quella famosa bottega. Ma ora i popoli sanno come si fa,
quando un regime casca; sanno come in dodici ore si taglia nel panno
di una rivoluzione un governo provvisorio, e in un mese o due, una
costituente, una costituzione e una repubblica definitiva. Nel 1919,
quando il Congresso di Parigi aprì le porte, tedeschi, polacchi, russi,
ungheresi, boemi, austriaci, tutti i popoli che sul finire del 1918
avevano gettato la livrea della Corte, s’eran già tagliati da sè un
casacca repubblicana. Il Congresso di Parigi doveva soltanto giudicare
se la casacca era troppo ampia o troppo piccola, fare qua e là qualche
ritocco al taglio, e cucire.

Se gli uomini nel 1814 seppero tagliare e cucire tanti vestiti, come
mai gli uomini del 1919 non sono stati capaci neppure di cucirli alla
meglio? L’arte della grande sartoria è così decaduta? Eppure nel suo
piccolo studio nascosto in fondo a un giardino, senz’altro oracolo da
consultare che pochi volumi nei quali era scritta la storia del secolo
XIX, lontano dai conciliaboli dei grandi e senza partecipare ai loro
segreti consigli, uno scrittore aveva capito, e giorno per giorno
aveva avvertito i popoli e i governi, che quei trattati resterebbero
in molte parti lettera morta, che in troppi punti deluderebbero le
speranze e befferebbero gli ingenui propositi dei compilatori. Nè lo
spirito di Ezechiele era entrato in lui: l’involontario profeta vuole
essere il primo ad attestarlo! Gli era bastato conoscere che cosa è
un trattato, come si osservi e si imponga; gli era bastato sapere
che cosa è un governo, come si regga e donde attinga la forza di
comandare e il diritto di farsi obbedire; gli era bastato possedere
una nozione approssimativa dei limiti oltre i quali la forza non può
essere adoperata con buon successo da uno Stato con i suoi e fuori dei
confini; gli era bastato conoscere un po’ la storia dell’Europa prima
e dopo il 1789 e applicare con buon senso e serenità queste conoscenze
ai compiti differenti dei compilatori del trattato. Gli era bastato,
insomma, avere un po’ di testa...

Senonchè qui appunto, nella testa, era il vizio. La vittoria, che per
quattro anni noi abbiamo cercata ansiosamente con gli occhi in tutti
gli angoli dell’orizzonte; la vittoria, che apparve all’improvviso
un giorno, ad Oriente, dopo quattro anni di disperati richiami e di
inenarrabili stragi, era acefala, come il marmo di Samotracia. Nessuno,
lì per lì, nel tumulto della gioia, se n’accorse. Ed era acefala,
perchè era apparsa, quando sull’orologio dei secoli batteva l’ora di
Barabba.

Il male, di cui l’Europa muore, è questo. Non l’intelletto soltanto è
tocco, ma anche, e più, la volontà. I vincitori hanno fatto male i loro
conti allora; e oggi che si accorgono di averli sbagliati, non sanno
rifarli, perchè hanno voluto e vogliono abusare di una forza che non
posseggono se non nella eccitata fantasia; e hanno voluto e vogliono
abusare di una forza che non posseggono, perchè non sanno e non
vogliono più sapere che cosa è un trattato, un governo, un esercito;
e non lo sanno e non vogliono più saperlo, perchè sono dominati da
cattive passioni: ambizione, orgoglio, prepotenza, cupidigia, vendetta,
fatuità. La catena che la vittoria acefala ha gettato al loro collo e
con cui li trascina al macello, è questa.

Scampati alla disfatta quasi per miracolo, e soltanto per una
abbondanza di uomini, di armi e di denaro così soverchiante, che tutti
gli errori, le negligenze, le leggerezze, le inettitudini non hanno
potuto annullarla, i vincitori tanto più si sono inebriati, perchè
da un pezzo ormai, in fondo al cuore, disperavano di vincere; hanno
dimenticato, sebbene fosse manifesto, che erano anch’essi spossati
poco meno dei vinti e che _la vittoria aveva accresciuto la sicurezza,
ma diminuito la potenza_ di tutti i grandi Stati dell’Intesa; si
sono invaniti, esaltati, inferociti. Tutte le passioni del dominio e
dell’acquisto, che sonnecchiavano in questo o quel gruppo dei ceti
governanti; tutti i vulcani che durante la guerra parevano spenti
per sempre hanno ricominciato a fiammeggiare. Gli uni adocchiarono
territori; gli altri sognarono vendette e rappresaglie, che
amareggiassero agli avversari la disfatta quanto la loro tracotanza
aveva inferocito la lotta; tutti furono invasi da una smodata smania di
bottino e di preda; tutti si convinsero che erano stati i più valorosi
che avevano fatto i sacrifici maggiori, che potevano rivendicare il
merito più insigne e i trofei più smaglianti della vittoria, che il
proprio interesse era diventato il fulcro dell’universo. Intanto i
redivivi delle trincee si precipitavano affamati nell’orgia in cui
già da tre anni tripudiavano i favoriti della guerra; e facevano della
pace una gigantesca _kermesse_. Tutti credevano — o vivevano come se
credessero — che la pace potrebbe continuare in eterno a liquidare il
capitale, di cui la guerra aveva già divorato tanta parte: fabbricanti
e mercanti, banchieri e accollatari, funzionari e giornalisti,
ministri e diplomatici. Era opinione universale — perchè nessuno voleva
pensare alle imminenti, fatali scadenze — che incominciava un’êra di
straordinaria prosperità per l’industria ed il commercio; e questa
sorridente ma un po’ sventata opinione si faceva forte, per rassicurare
i dubbiosi, di ragioni sostanziose come questa: esserci nel mondo
nazioni intere — la Russia, l’Austria, la Germania, l’Ungheria, la
Rumania e via dicendo — bisognose di tutto, perchè avevano logorato
nella guerra il proprio corredo! «Ma se domani io avessi bisogno del
castello di Versailles, non per questo potrei acquistarlo — dissi
una sera a Parigi, a tre banchieri, che si lusingavano a vicenda con
questo bel ragionamento. Per comperare un oggetto, non basta averne
bisogno; è necessario anche possedere i mezzi di acquistarlo, ossia
qualche cosa da scambiare con colui che lo possiede!» Ma questo
ragionamento, cascando in mezzo a quel crocchio di finanzieri, fece
proprio il tonfo di un incredibile paradosso. Tutti comperavano,
vendevano, giocavano, speculavano, spendevano, gozzovigliavano da un
capo all’altro dell’Europa. Uno sgualdrinaggio impudente svergognava
le strade, i caffè, i balli, i ritrovi privati; l’oro e i diamanti
scintillavano, la seta luccicava, le pelliccie si gonfiavano pettorute
in alto e in basso, in una ostentazione sfrenata che confondeva
principesse e contadine, meretrici e matrone, in ogni paese. Lo Stato,
stava al centro della _kermesse_, simile a un Gambrino ubriaco a
cavalcioni di una botte gigantesca; e dominava dall’alto il baccanale,
lo incoraggiava con la voce, con il gesto, con l’esempio, continuando
a gettare alle folle ubriache il salvadanaio di tutti a manciate. Guai
ad accennare che ormai gli impegni degli Stati erano tanti, da doversi
pensare con prudenza non solo a ritornare all’antica parsimonia, ma a
verificare se gl’impegni presi si potevano mantenere! Disfattismo della
pace; crimine di lesa patria!

Il mondo era a tal punto impazzito, che mentre affilava i coltelli
per scuoiare la Germania con il trattato di Versailles, le regalava
miliardi e miliardi per premiarla di aver fatto la guerra all’universo.
Proprio così: parlo sul serio. Un caso così straordinario non si era
ancora veduto. «Non comprate marchi. La Germania è stata rovinata dalla
guerra. Chi compera marchi, presta a un fallito».

Quante volte ho ripetuto questo consiglio, nel 1919, quando il marco
di carta valeva ancora un mezzo marco d’oro! Non ho mai presunto di
dare consigli al denaro in cerca di profitti. Ma mi pareva di dovere e
di poter dare questo consiglio, non come uomo di finanza, ma come uomo
provveduto di qualche grano di buon senso.

Ma anche questo savio consiglio, come tutti gli altri, è stato inutile.
I miei amici, ricchi e poveri, uomini e donne, ammiratori e avversari
del nome tedesco, comperarono marchi, marchi, marchi. E non i miei
amici soltanto, ma tutta la città, in cui abito, ma tutta l’Italia, ma
tutta l’Europa e l’America. «La Germania è intatta. La Germania lavora.
La Germania è la Germania. La sua carta sarà domani oro di zecchino»,
dicevano e pensavano tutti. E ad ogni ruzzolone che il marco faceva, in
folla e a precipizio, a comperare!

Chi potrebbe contare oggi i miliardi che l’Europa e l’America hanno
regalati alla Germania, dall’armistizio in poi, speculando balordamente
sul marco? Poichè le somme che i compratori hanno perdute sono state in
parte guadagnate dalla Germania; sono dunque un dono del mondo a quella
che ieri ancora era la «nemica del genere umano», fatto o in monete
buone o in monete migliori della sua.

In quale Stato di Europa una favilla di civismo sincero sopravvisse a
questo orrendo baccanale, celebrato su dieci milioni di tombe? Guerra e
pace, forza e diritto, patria e umanità, conservazione e rivoluzione,
ordine e disordine, bianco e rosso non furono più, dal giorno
dell’armistizio, che bandiere di interessi e di passioni in guerra.
Sulla rovina della monarchia e sulla inesperienza della democrazia,
gli uomini e i partiti più avversi sognarono tutti il potere eterno
e incontrollato, la dittatura; e se la disputarono, esaltando il
sentimento popolare già delirante con una gara di folli promesse. I
partiti e i gruppi che, per essersi trovati al potere quando finalmente
la Vittoria era apparsa, si erano imaginati di averla essi chiamata,
la presero in ostaggio e la costrinsero a promettere al popolo quel che
non poteva dare: territori, corone, tesori, ricchezze. Ma i socialisti
si erano accorti che la Vittoria era acefala; e stavan pronti a
coglierla in fallo con le sue promesse bugiarde, e ad ammutinare le
masse perchè la lapidassero.

I conciliaboli, in cui la pace fu tramata, erano infettati dalle
esalazioni asfissianti di queste torve passioni nemiche. Immersi nella
nebbia di quelle esalazioni, gli spiriti si sono ottenebrati, non hanno
potuto più discernere il vero dal falso, il possibile dall’impossibile,
il fittizio dal solido, il sogno dal reale. Per pensare rettamente,
come per pregare, occorre una certa purezza di anima. La passione a
volte fa incespicare, nonchè la logica, anche l’abbaco. Accadde così
che i vincitori — popoli e governi — non intesero più nè i comandi
del dovere nè i consigli della prudenza. Non hanno capito che, tolte
alla Germania l’Alsazia e la Lorena, spolverato l’articolo del vecchio
trattato di Praga ancora ineseguito dopo tanti anni che le faceva
obbligo di indire i plebisciti nelle terre dello Schlesvig, strappate
alla Danimarca, bisognava rispettare l’integrità della Germania, anche
a costo di deludere qualche speranza; andar piano con il coltello
ad oriente; sforzarsi di ottenere il suo consenso a quei mutamenti
territoriali che la risurrezione della Polonia imponeva; in ogni caso
non smembrare l’Alta Slesia ma lasciarla tutta alla Germania, dopo che
il plebiscito aveva scelto. Non hanno capito che avevano il diritto e
il dovere di dire alla Polonia: «tu sei resuscitata; e chi resuscita,
può essere contento anche se resuscita con le sole ossa e la sola
pelle. L’adipe verrà poi, se i tempi e la salute e il destino e la
Provvidenza vorranno...». Non hanno capito che dovevano incoraggiare e
aiutare la repubblica tedesca, mostrandosi con essa meno esigenti che
con la monarchia, e offrendole in ogni caso _una pace non umiliante
ma decorosa_, come quella che gli alleati avevano offerto nel 1814 a
Luigi XVIII e alla monarchia legittima restaurata sul trono di Francia.
Non hanno capito che, mettendo in un fascio, oltre il Reno, repubblica
e monarchia con un trattato umiliante, toglievano alla repubblica
la forza, nonchè di eseguire il trattato, di governare la Germania e
la precipitavano nel caos. Non hanno capito che le riparazioni e le
indennità non dovevano essere imposte in misura arbitraria e accettate
senza discussione come l’espiazione di un delitto orrendo, di cui
il popolo tutto fosse responsabile; ma presentate alla discussione
e al consenso del vinto, come un pegno della sua sincera volontà di
riconciliarsi con il mondo, contribuendo alla restaurazione di una
pace umana per tutti. Non hanno capito che il disarmo della Germania
o faceva parte di una tregua conchiusa con animo sincero dalle
maggiori potenze d’Europa _sulla terra e sul mare_, simile a quella
che le grandi monarchie avevano conchiusa a Vienna nel 1814, o non
sarebbe che una maldestra imitazione di uno dei più barocchi impiastri
dell’empirismo napoleonico. Non hanno capito che la Germania era stata
rovinata dalla guerra; e che era ridicolo immaginarsela scintillante
di oro e di raso quando era coperta di cenci, per non rinunciare
alla speranza di spogliarla. Non hanno capito che la caduta della
Russia mutilava la loro vittoria; che vincitori in Occidente, essi
erano stati vinti in Oriente; che tra i due punti cardinali poteva
intervenire soltanto un compenso parziale; che, caduta la Russia,
tutta la dominazione europea nell’Asia vacillava e la Turchia poteva
essere annoverata piuttosto tra le potenze vincitrici che tra le
vinte, essendo stata liberata dal nemico implacabile che da due secoli
la perseguitava a morte. Non hanno capito infine che, scioltosi il
nesso dinastico da cui sino al 1918 popoli e genti di lingua e di
razza diversa erano stati legati insieme, in vasti e potenti imperi,
nel cuore dell’Europa, occorreva legarli con qualche altro nesso, se
non si voleva che la Libertà si presentasse a questi popoli tenendo
in mano, come primo regalo, delle catene di ferro; e che questo nesso
nuovo non poteva essere cercato che nella volontà profonda dei popoli
stessi, espressa dai plebisciti. Non inarcate le ciglia per lo stupore,
o lettori. La volontà dei popoli, nella quale l’Europa cerca oggi
affannosamente quel principio di diritto, senza cui un governo non è
che un odioso atto di prepotenza, non può esprimersi e articolarsi,
ossia farsi una realtà viva e operante, se non per plebisciti,
lealmente fatti e osservati. Al di fuori di questa, per quanto rozza
articolazione, la volontà dei popoli è soltanto una maschera, di cui si
copre l’arbitrio del più forte, il quale si arroga di sapere quel che
un popolo vuole, meglio del popolo stesso! Bisognava dunque concedere
i plebisciti chiesti dall’Ungheria e dagli altri popoli vinti;
bisognava moltiplicare i plebisciti su tutti i punti controversi, dal
Montenegro all’Alta Slesia; farli e osservarli con quella lealtà, che
un anno prima della guerra mondiale avevo già invocata come divinità
tutelare dei tempi, i quali non credono più a nessun vero trascendente
e assoluto, ma si reggono su principî convenzionali, limitati e
facilmente rovesciabili. L’Europa non sarebbe, no, un Eden di pace
oggi; ma ci sarebbe già, sotto questa mobilità universale, qualche
punto fermo.

I vincitori non hanno capito nè queste cose nè molte altre, che li
avrebbero aiutati a salvarsi. Senonchè mi pare che questo studio
mancherebbe della sua conclusione e terminerebbe senza finire, se,
giunti a questo punto, non ci proponessimo il quesito: per quale
ragione queste cattive passioni sono state così forti, da spegnere
addirittura il senso di conservazione in Stati e in popoli interi?
Quale demonio è entrato in questi popoli e in questi Stati, che
sembrano tutti usciti di senno e posseduti? Se noi riusciamo a
sciogliere questo quesito, potremo abbracciar con una occhiata sola,
da una specola dominante, tutte le osservazioni fatte via via e
sparse nelle pagine di questo volume. E lo possiamo sciogliere con
una risposta sicura. L’Europa non ha avuto, alla fine della guerra,
la purezza d’animo necessaria a pensare rettamente e a discernere la
realtà dalle allucinazioni, perchè dal 1848 in poi ha logorato la sua
antica riserva degli ideali, senza rinnovarla, come un erede dissennato
che divora il patrimonio degli avi.

Questa riserva ideale si componeva di tre tesori: il cristianesimo,
l’umanesimo, l’umanitarismo liberale del secolo XVIII; e tutti e tre
i tesori rigurgitavano di sentimenti, di dottrine, di tradizioni,
di regole, di esercizi, di scuole e di precetti, che servivano a
comprimere e contenere gli egoismi violenti e brutali della natura
umana, a mansuefare la bestia, che sonnecchia in ognuno di noi. Ma
tutti questi tesori sono ormai dispersi e... Sì: in ogni strada le
chiese aprono le porte ospitali al passante, officiano, pregano,
suonano le campane. Ma dove e quanti sono ancora i veri cristiani,
i quali sentono che l’uomo è un Dio decaduto; e che non può lucrare
la redenzione di cui ha bisogno più che dell’aria per vivere, se non
riconosce tutta la depravazione della propria natura, per impegnare con
quella un disperato duello? Dove sono e quanti sono in questa strana
epoca, in cui ogni uomo è persuaso nel fondo della sua coscienza di
essere un Dio perfetto; ed è soddisfatto di sè al punto, che non trova
altra ragione di dolersi, se non della sorte e degli altri? Ci sono
ancora delle cattedre da cui si leggono e si spiegano Orazio e Pindaro,
Virgilio e Omero, Livio e Tucidide; ce n’è più che non ci siano
mai state e che non occorra. Ma queste cattedre oggi pretendono di
spiegare il _vero_ Orazio e il _vero_ Pindaro, il _vero_ Virgilio e il
_vero_ Omero, il _vero_ Livio e il _vero_ Tucidide. Chi cerca più, in
quegli avanzi di una civiltà morta, in parte anche falsandoli con una
ammirazione che riconosce in essi soltanto bellezze e virtù, e le vuole
esagerare di proposito per farne uno specchio di perfezione immacolato;
chi cerca più il modello di una compostezza, di una sobrietà, di una
eleganza, di una moderazione, di una nobiltà che temperi e raffini
così lo stile delle lettere come il pensiero politico, il gusto delle
arti come il costume privato? Dal secolo XVIII tre magiche parole
erano venute a volo fino a noi, come tre arcangeli, attraversando le
tempeste, e avevano messo il piede nel cuore dell’Europa: libertà,
uguaglianza, fratellanza. Erano parole un po’ leggere, e leggermente
vestite di un ottimismo iridescente un po’ frivolo; ma erano
anch’esse maestre, anche se talora un po’ deboli e svenevoli, di buoni
sentimenti, perchè insegnavano ai potenti a non abusare del potere, ai
fortunati a non presumere della loro fortuna sino al punto di credersi
migliori, agli uomini, alle classi, ai popoli ad aiutarsi ed amarsi.
Volgete oggi gli occhi intorno: che scempio e che rovina! Chi crede
ormai a queste parole, quando la nostra epoca le pronuncia, più che
alle moine contrattate della prostituta?

Noi viviamo — fu detto — del profumo di un vaso vuoto. La civiltà
quantitativa e l’ideale della potenza hanno bruciato a poco a poco
le radici dei sentimenti nobili, dei gusti delicati, del pensiero
disinteressato. A mano a mano che la popolazione cresceva, a mano a
mano che crescevano i bisogni, l’avidità, la fretta di lucrare; a mano
a mano che le ambizioni e le cupidigie si rincorrevano furiosamente a
gara nel mondo, come in un immenso circo, per contendersi il premio,
le masse acquistavano una certa istruzione e scioltezza di spirito,
una alacrità, una prontezza, una agilità prima ignote. Ma le _élites_
spirituali sparivano; tutte le eccellenze si livellavano in medie nè
troppo basse nè troppo alte; dal monte alla valle la terra a poco a
poco si spianava; si diffondeva vittoriosa una brutalità procacciante,
a cui non importava null’altro fuorchè il lucro, il successo e il
libro dei delitti e delle pene: non la carità e non il diritto, non
la legalità e non l’urbanità. Lavorare, produrre, vincere i rivali,
correre a rompicollo, non dormire, guadagnare, spendere, credersi Dio,
non ricordare mai il passato, non pensare all’avvenire, viver solo nel
momento presente, pensare solo e sempre all’interesse urgente e alla
passione traboccante! Tutti gli istinti nobili e tutte le aspirazioni
disinteressate si ottundevano, tutti i pensieri sostanziosi e profondi
si volatizzavano in queste frenesie. L’uomo disimparava il pregare
e il pensare; appunto perchè l’una e l’altra operazione richiedono
un’anima non troppo impura. Sulla smania del lucro singolo si accavallò
la ambizione della potenza e prepotenza comune. Tra il 1890 e il 1895
i grandi popoli dell’Europa parevano in procinto di dimenticare e di
perdonare. Perfino la Germania sembrava voler nascondere i suoi recenti
e troppo vistosi trofei di guerra. Ma l’ambizione delle conquiste
si risvegliò in Inghilterra nell’ultimo quinquennio del secolo. Una
sciagurata parola «imperialismo» contaminò il dizionario di tutta la
civiltà occidentale. Il cattivo esempio dell’Inghilterra fece subito
scuola, in America, in Germania, in Francia, in Russia, in Italia.
Mentre meccanici e chimici inferocivano la guerra armando la Morte di
mostruose falci a vapore, poeti, filosofi, pubblicisti incitavano i
popoli ad abusare spietatamente della propria forza contro i popoli
inermi o deboli; e i governi si impegnavano in una bassa gara di
prepotenze e di perfidie per «_etwas erwerben_», come diceva Nicola II
a Guglielmo II: per arraffar qualche cosa, poco importa che cosa e in
che modo. Neppure i popoli fratelli di razza, di lingua, di civiltà,
di storia, seppero più essere amici; Caino fu l’inconsapevole modello
e maestro di una civiltà dilaniata; la prepotenza, il disprezzo dei
trattati, lo spergiuro, l’inganno, la slealtà furono vantati come le
carte di nobiltà dei popoli grandi. E venne il giorno in cui noi, figli
primogeniti della civiltà europea, noi carichi di venticinque secoli
di gloria, tripudiammo tutti per tre mesi — popolo e signori — e ci
gridammo rinati all’antica grandezza, perchè, senza essere provocati,
avevamo assalito un impero decrepito e gli avevamo strappato una
provincia, che non poteva difendere!

Quando scoppiò la guerra il mondo, per un momento, ritornò in se
stesso, scorse l’abiezione in cui era caduto, volle rialzarsi... Chi
l’ha udito e veduto, non dimenticherà mai il silenzio religioso in
cui, durante gli ultimi mesi del 1914, si avvolse Parigi: simbolo di
un’epoca che capiva ad un tratto di avere troppo errato. Ma durò poco.
Questa diabolica guerra esasperò in tutti, negli uni con il pericolo,
la sofferenza, la schiavitù, negli altri con la baldoria, i piaceri,
gli immeritati lucri, l’atroce egoismo del tempo. Quando la strage
finalmente cessò, erano morte tutte le virtù, per cui la civiltà nostra
era stata nobile e grande; la santità, la saggezza, la giustizia, la
cavalleria, l’umanità, il senso del dovere, il disinteresse civico,
la sobrietà del pensiero, la compostezza del sentimento, il rispetto
dell’altrui diritto e dell’altrui dignità. Sopravvivevano ancora un
po’ di carità nelle donne, e negli uomini il temerario eroismo di
Icaro. Chi negherà all’ardore con cui tanti giovani delle classi alte
e colte si sono sacrificati nella guerra, l’omaggio che merita ogni
forma del sacrificio? Ma è forza riconoscere pure che questo spirito di
sacrificio era facilmente trascinato dal suo impeto fuori dell’umano,
talora perfino nel selvaggio; e che dopo aver moltiplicato gli eroi in
mezzo alla mischia furente del genere umano, moltiplica ora nella pace
i _dervish_ urlanti del nazionalismo, che vanno in giro per l’Europa
predicando la guerra eterna.

Ma qui odo una voce irritata interrompermi: «Lo confessate dunque. La
guerra per la libertà e per la giustizia, che i governi dell’Intesa
avevano bandito, era una impostura. Se ci avete creduto in buona fede
foste degli imbecilli. Avevamo ragione noi di ammonire il popolo;
si combatteva per il carbone e per il petrolio. Noi soli vedemmo
chiaro». No: non vedeste punto chiaro. Il sentimento che mosse
l’Europa a prendere le armi contro la soverchiante potenza della
Germania era sincero; e non era punto, come troppi stolti che si
credano savi ripetono, una romanticheria quarantottesca; era un moto
improvviso e irresistibile dell’istinto di conservazione, finalmente
ridesto. L’Europa aveva capito, in quel breve ma lucido intervallo,
che la forza, di cui era così fiera, distruggerebbe alla fine la
sua ricchezza, la legge equa e savia sotto cui viveva, i tesori più
preziosi di una civiltà secolare. Quale era il dovere di chi conosceva,
perchè era stato il solo ad esplorarlo nelle sue pieghe più riposte,
il disordine morale e intellettuale in cui il Ferro e il Fuoco, il
trionfo della civiltà quantitativa, la rozza ideologia del progresso
avevano gettato la civiltà occidentale? Doveva dire all’Europa, proprio
nell’istante in cui sembrava accorgersi dei suoi errori e dei suoi
vizi e volersi emendare: «tu sei dannata; non sperare redenzione; ogni
tuo buon proposito sarà vano; ritornerai dalla guerra come una Furia
anguicrinita?» La civiltà occidentale è da un secolo tiranneggiata da
alcune passioni violente e feroci che ormai, nelle generazioni viventi,
non sentono più freno alcuno: nè la religione, nè la tradizione,
nè la saggezza di qualche autorità rispettata, e neppur la nozione
chiara del proprio interesse o l’istinto di conservazione, se si vuole
adoperare una parola più corrente. Per questo ha combattuto la guerra
più atroce della storia. Per questo non sa fare la pace, ossia non sa
ricavare dalla guerra il solo frutto che avrebbe potuto compensare in
parte i vincitori e salvare dalla disperazione i vinti. Per questo è
minacciata di distruzione totale e rimbarbarisce; perchè civiltà è il
prevalere di certe virtù difficili e di certi sentimenti generosi sulle
passioni elementari della perversa natura umana. Si potrebbe definirla
altrimenti? Ma la tirannia sempre più fiera di queste passioni non s’è
stabilita in un giorno e non dura per caso, senza ragione profonda,
anche se porta nel suo grembo una rovina apocalittica. Chi potrebbe
presumere di indovinare quando questa tirannide cederà lo scettro
a sentimenti più umani e a dottrine più illuminate? Forse domani,
forse tra un secolo. Ed anche se ci fosse un genio così potente, da
indovinare che il grande rivolgimento avverrà tra un secolo, sarebbe
forse dispensato dal dovere di ripetere ai contemporanei che le loro
passioni li accecano, e di incoraggiare tutti i tentativi, anche se
timidi e saltuari, di detergere dalla propria vista questa cecità?
Quale è il grande movimento della storia che non ha incominciato
con parziali fallimenti? Chi ha una coscienza e una fede, consulta
forse, prima di difendere un principio, il lunario del successo e tira
l’oroscopo per sapere quando trionferà?

Scrivevo nel 1920: «tutte le autorità sono cadute; e perciò la sola
forza governa il mondo; la forza sola e nuda, o coperta appena di
qualche cencio rosso o di qualche brandello della bandiera nazionale; e
governa il mondo come può, per accessi e sussulti, senza discernimento,
straziandolo, perchè la forza è così debole, quando è sola e nuda!
Non illudetevi, o uomini: in Europa i soli titoli di autorità che
ancora valgono sono il ferro e l’oro. La libertà è morta, come il
diritto divino. A volte a volte governerà chi riesca a farsi obbedire
per un’ora da centomila baionette, e ad impadronirsi dei torchi
ufficiali che stampano la carta moneta[16]». Questa pagina annunciava
il fascismo e il suo avvento. Dovevo perciò mettermi alla testa anche
io di spedizioni punitive o sovvenzionare squadre d’azione? Appunto
perchè la libertà è morta, non voglio fare il becchino; ma preparare la
resurrezione, prossima o lontana. Chi non è un commediante di dottrine
così fa.

Sì: la guerra, incominciata come una crociata per la difesa di idee e
di principî, termina in una furibonda rissa per i carboni della Ruhr
e per i petroli di Mossul. I vincitori non sono stati degni nè della
causa che difesero nè della vittoria che la fortuna aveva loro largito
perchè ne facessero uso migliore. Sono forse per questo mutate le leggi
che regolano il mondo e la pazzia è diventata ragione, il vizio virtù?
È vero nel 1923, come era vero nel 1914, che l’Europa non avrà mai la
pace finchè non la vorrà; ma l’avrà subito, intera, totale, sicura,
il giorno in cui la vorrà, ossia il giorno il cui le torve passioni
oggi dominanti cederanno il posto a un po’ di modestia, a un po’ di
generosità, a un po’ di considerazione, a un po’ di saggezza. Ridotto
a questi termini, che soli son veri, quanto è semplice e quanto è
complesso il «problema» della pace! È semplicissimo, poichè un moto
dell’animo, che mille volte si ripete nella vita dell’uomo più umile,
basta a risolverlo. È complicatissimo, perchè un moto, che è così
facile nell’animo del singolo, diffuso a tutta la civiltà occidentale,
deve sollevare e capovolgere il peso di un secolo — e di che secolo!

I nostri tempi possono calpestare, vilipendere, fare scempio del
cristianesimo, dell’umanesimo, dell’umanitarismo, quanto loro piace.
Ma dovranno ritornare ad essi con un po’ di sincerità, se vorranno
la pace, la prosperità e l’ordine; e sinchè non ci ritorneranno, si
struggeranno nella guerra, nell’odio, nella miseria, nell’anarchia
rossa o nella tirannia bianca. In questo sta il tutto.

Al lavoro, dunque. I quattro calamitosi anni che ci separano dalla
guerra sono soltanto un momento della lunga storia che racconta gli
inciampi, le cadute, gli errori, le emende, le riprese dell’uomo
nella sua via tribolata. Non disperiamo; e se l’avvenire è oscuro,
rivolgiamoci a contemplare il passato, poichè lì almeno vediamo più
chiaro; e rallegriamoci che, a dispetto di tanti amari disinganni, il
troppo sangue profuso non fu tutto sprecato, perchè un acquisto almeno
è ormai assicurato: un acquisto immenso, di cui i secoli esulteranno
a mano a mano che, allontanandosi dai nostri tempi, lo vedranno
grandeggiare in cospetto della storia. La guerra ha spezzato nelle
mani dell’Europa quell’arme mostruosa, che era il tormento, il terrore,
l’orrore del mondo. Poco importa se dei governi spauriti impegnano gli
ultimi arredi per vestire e mantenere soldati, soldati, soldati! Quella
mostruosa elefantiasi della forza, che incominciò con la rivoluzione
francese e con l’impero napoleonico, è finita, e per sempre. L’esercito
tedesco, non è più. Non è più l’esercito austro-ungarico. Dell’esercito
russo sopravive un’ombra. Esistono ancora o non esistono più un
esercito inglese e un esercito italiano? Nessuno saprebbe rispondere
con sicurezza. L’esercito francese è ancora in armi, smisurato; e molti
eserciti minori, ma troppo grossi, luccicano tra le rovine dell’impero
degli Absburgo, agitando coccarde e bandiere nazionali. Ma manca ormai
a tutti questi eserciti, per mantenersi e per crescere, così il denaro
come il modello; quel modello da imitare, francese prima, tedesco
dopo il 1870, senza il quale non c’è e non ci può essere nè spirito nè
tradizione che vivifichi dei corpi così massicci. Il sistema è stato
distrutto dalle sue iperboli. _Mole ruit sua._ L’Europa non sarà più
lo scandalo e il terrore del mondo con la elefantiasi militare, che
l’aveva sformata.

Guardate l’America, guardate l’Asia: sono forse due selve di baionette?
Non si reggono con poche forze armate? Tutte le civiltà che furono
prima della rivoluzione francese, non professarono il principio che
le armi, per servire, devono essere buone ma poche? La mostruosa
parentesi, aperta con la rivoluzione francese, sta per chiudersi.
Ritorneremo anche noi, Europei, nell’eterno passato, in quella che è
stata — e sarà — la legge costante della vita, la regola indefettibile
della saggezza: non solo per vivere e camminare, ma anche per poter
combattere, esser necessario non caricarsi troppo di ferro.

E insieme con il sistema militare, agonizza anche l’imperialismo
europeo. Si può ora ricominciare a sperare che il mondo, liberato da
questo flagello, respirerà domani. Quella condizione di cose, per cui
alcuni popoli d’Europa poterono negli ultimi due secoli conquistare
così smisurati territori e assoggettare al prepotente loro dominio
tanti popoli, dei quali parecchi avrebbero dovuto venerare e ammirare
come maestri, volge al suo termine. Come le guerre della rivoluzione e
dell’impero fecero perdere all’Europa la maggior parte dell’America,
la guerra mondiale le strapperà l’Asia e una parte dell’Africa. Noi
vedremo l’Asia madre e maestra, il continente che diede la luce a
Confucio, a S. Paolo, a Maometto, dove si svolse il mistero della
Redenzione, dove furono scritti i Vangeli, libero finalmente dal
prepotente dominio dei barbari occidentali, adoratori del Fuoco.

Giorno memorando nella storia sarà quello in cui, scacciata dall’Asia,
l’Europa rientrerà in se stessa e nell’«eterno passato»! L’orgoglio,
per cui s’è creduta maestra e sovrana dell’universo, proprio quando
smarriva la nozione stessa del governo e dell’autorità, sarà umiliato
quanto merita.

Aspettiamo dunque quel giorno con fede. Quel giorno, forse, i sordi
incominceranno ad udire.


  FINE.




INDICE 


  PREFAZIONE                                            pag.  5

  PARTE PRIMA

  L’ALBA TORBIDA DELLA PACE

     I.  Le baionette e l’idea                            »  17
    II.  Il discorso e il pensiero di Clemenceau          »  25

  PARTE SECONDA

  IL CONGRESSO DI PARIGI

     I.  Il Reno                                          »  35
    II.  La nuova infanzia del mondo                      »  53
   III.  L’America e il miracolo di San Gennaro           »  64
    IV.  Gli assenti presenti: Russia e Germania          »  68
     V.  Sfogo                                            »  72
    VI.  La radice del male                               »  83

  PARTE TERZA

  I TRATTATI

     I.  L’America e i mari                               »  95
    II.  Le garanzie                                      » 102
   III.  Le riparazioni                                   » 108
    IV.  Trattati di carta velina                         » 115
     V.  Il Capovolgimento dell’Austria-Ungheria          » 119
    VI.  La Polonia e la Russia                           » 127
   VII.  Il protettorato del Mondo                        » 133
  VIII.  La politica realistica                           » 140

  PARTE QUARTA

  VINTI E VINCITORI NEL CAOS DELLA PACE

     I.  L’Europa dopo due anni di pace                   » 145
    II.  L’America e i mari                               » 151
   III.  Guerra e pace al Congresso di Washington         » 156
    IV.  Concatenazione                                   » 163
     V.  La Germania e il suo riscatto                    » 166
    VI.  La guerra e la ricchezza                         » 172
   VII.  I debiti                                         » 179
  VIII.  I trionfi dell’imperialismo europeo:
           l’indipendenza dell’Egitto                     » 183
    IX.  L’imbroglio orientale                            » 190
     X.  I trionfi dell’imperialismo europeo:
           la riscossa turca                              » 197
    XI.  Il nodo insolubile delle riparazioni             » 203
   XII.  Sisifo                                           » 211
  XIII.  La nuova guerra                                  » 218

  PARTE QUINTA

  PRIMO DISCORSO AI SORDI

  _Introduzione_                                          » 227

     I.  Il suicidio della forza                          » 229
    II.  L’eterno passato                                 » 234
   III.  Il culto del fuoco                               » 243
    IV.  Il supremo fiore della Storia                    » 253
     V.  Nè Cristo, nè Anticristo                         » 258
    VI.  Il ritorno dei barbari                           » 264
   VII.  L’idropisia del denaro                           » 269
  VIII.  La vittoria acefala e l’ora di Barabba           » 277




  _Altre opere dello stesso Autore:_

  GRANDEZZA E DECADENZA DI ROMA.

  Vol.   I: _La conquista dell’Impero_               L. 7.50
  Vol.  II: _Giulio Cesare_                          »  7.50
  Vol. III: _Da Cesare ad Augusto_                   »  7.50
  Vol.  IV: _La Repubblica di Augusto_               »  5. —
  Vol.   V: _Augusto ed il Grande Impero_            »  5. —

  FRA I DUE MONDI                                    L. 6.50

  LA VECCHIA EUROPA E LA NUOVA                       »  5. —

  MEMORIE E CONFESSIONI DI UN
    SOVRANO DEPOSTO                                  »  5. —

  ROMA NELLA CULTURA MODERNA.

  Discorso tenuto in Campidoglio il 21 aprile 1910,
    commemorando il Municipio il «Natale di Roma»    »  3. —

  IN MEMORIA DI CESARE LOMBROSO

  (1910). Conferenza, con due ignorati scritti
    giovanili di Lombroso                            »  3. —

  _In preparazione_:

  LA ROVINA DELLA CIVILTÀ ANTICA.




NOTE: 


[1] La vecchia Europa e la nuova, pag. 316. 

[2] La vecchia Europa e la nuova, pag. 34-35. 

[3] Memorie e confessioni di un sovrano deposto, pag. 289. 

[4] 14 gennaio 1919. 

[5] 7 gennaio 1918. 

[6] Da un _Diario della Pace_, inedito. Scritto a Parigi, nel marzo del
1919.

[7] M.... è uno degli spiriti più forti e profondi della Francia;
come tale sarà ammirato, oltrechè dai suoi amici, anche dalla élite
colta dell’Europa, quando si deciderà a far partecipe del suo sapere
un pubblico più largo. Nel 1919 occupava una posizione ufficiale, non
certo adeguata al suo merito, ma tale da permettergli di sapere quanto
accadeva nel Congresso.

[8] Da un _Diario della Pace_, inedito. Scritto a Parigi nell’aprile
del 1919.

[9] Da un _Diario della Pace_, inedito. Scritto a Parigi nell’aprile
del 1919.

[10] 19 marzo 1919. 

[11] Da un _Diario della Pace_, inedito. Scritto a Parigi nell’aprile
del 1919.

[12] 31 dicembre 1919. 

[13] Allusione alle elezioni greche del 1921. I lettori ricorderanno
che in seguito a queste elezioni il Ministero del Venizelos fu
rovesciato e il re Costantino richiamato dall’esilio.

[14] Allusione al tentativo di restaurazione monarchica, fatto da Carlo
di Absburgo.

[15] Allusione ai prestiti chiesti dalla delegazione russa, alla
conferenza di Genova, nella primavera del 1922.

[16] _Memorie e confessioni di un sovrano deposto_, pag. 289. 





Nota del Trascrittore 

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA TRAGEDIA DELLA PACE ***


    

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