La giovinezza di Giulio Cesare, Volume I (of 2)

By Giuseppe Rovani

The Project Gutenberg eBook of La giovinezza di Giulio Cesare, Volume I (of 2)
    
This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and
most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions
whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms
of the Project Gutenberg License included with this ebook or online
at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States,
you will have to check the laws of the country where you are located
before using this eBook.

Title: La giovinezza di Giulio Cesare, Volume I (of 2)

Author: Giuseppe Rovani

Release date: January 24, 2025 [eBook #75196]

Language: Italian

Original publication: Milano: Felice Legros, 1873

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA GIOVINEZZA DI GIULIO CESARE, VOLUME I (OF 2) ***


                             LA GIOVINEZZA

                                   DI

                             GIULIO CESARE


                              SCENE ROMANE

                                   DI
                            GIUSEPPE ROVANI

                                VOLUME I



                                 MILANO
                         LEGROS FELICE EDITORE
                            Via S. Sofia, 29
                             M DCCC LXXIII

     Diritti di traduzione e di riproduzione riservati all’Editore.




     Tutti i diritti di proprietà letteraria riservati all’Editore
              a norma della Legge 25 giugno 1865, N. 2337

                 Tip. già D. Salvi e C., Via Larga, 19.




                          ALLA GENTILE SIGNORA

                              C. S. M. V.

                         CHE CONFORTÒ L’AUTORE

                               DUBITANTE

                     NEL COMPIMENTO DI QUEST’OPERA




PRELUDIO


Alquanti anni addietro, parlando di letteratura, e di teatro, e di
pittura, e della difficoltà di trovare argomenti degni e facilmente
inspiratori, ci siam lamentati dell’odio, onde sul nostro suolo
italo-greco si volle dar di martello a tutto ciò che sapeva di
greco e di romano. In architettura tutto dovea essere gotico, arabo,
longobardo; in pittura guai a vedere una clamide, un calzare, un pilo;
in musica, se fu sopportato l’elmo di Ezio, fu perchè Attila aveva
incendiato gli edificj antichi; e intanto i giovani pittori versavano
nella disperazione di trovare un soggetto che non fosse stato stancato
dalla scuola romantica; le Piccarde, e le Imelde, e le Pie, e le
Parisine, e i dogi di Venezia, e le Violanti, e le Margarite, e i
Torquati avevano bastantemente attediati i frequentatori delle sale di
Brera; e intanto noi pensavamo che il dipinto più famoso e più mirabile
e più attestatore di vero genio che mai siasi visto in Europa era stato
_l’Ultimo giorno di Pompei_ di Bruloff; che in Francia, Coutur vinse
tutti i quadri del Luxembourg, colla sua _Orgia romana_; che l’illustre
Hayez a vent’anni inspirandosi nel _Laocoonte_ di Virgilio, aveva
dato una grande promessa di mantenere la gloria delle arti italiane;
e altrove il celebre Klenz, inspirandosi in Grecia e in Italia, aveva
costrutti edifici mirabilissimi; e nelle faccende dell’arte drammatica,
Parigi respirò, quando Ponsard dall’asma di Hugo e Dumas ricondusse il
pubblico nel grande ambiente di Roma antica; e risalendo due secoli
addietro, il dio Shakespeare che aveva fatto parere angusti persino
Sofocle ed Eschilo, e fu il gran padre della poesia moderna, aveva date
le massime prove del suo genio indovinatore, mettendo in iscena la Roma
di Cesare e di Bruto colla potenza di un architetto archeologo che,
completando i ruderi, rifaccia una città.

Queste cose noi pensavamo, ma i pittori, mentre a parole ci
davan ragione, in fatto tornavano ai consueti amori; ma i giovani
drammaturghi crollavan la testa se lor dicevamo: «tornate indietro se
volete andare innanzi.» E la cagione della avversione loro stava in
ciò, che vedevano il mondo antico nei libri di scuola e nella storia
convenzionale di Rollin e nei quadri convenzionalissimi di David e
Camuccini. Non consideravano che il mondo antico diventava un nuovo
mondo per l’ispirazione dell’arte, se si sapesse davvero interpretar
Tito Livio, se si facessero quadri, drammi e romanzi col pennello
ricreatore, per esempio, di Gibbon.

Più volte anche noi fummo tentati di dettare qualche libro
d’invenzione, ricercando inspirazioni intatte in temi vetusti.

Ma la certezza di cadere ci tratteneva sempre, in considerazione
dell’inveterato pregiudizio del pubblico leggente. Non essendo
imperatori e nemmeno principi di Monaco, non potevamo, oltre alle
altre ragioni, aver l’autorità di far rivoltare tutta la folla verso
quella parte da cui era fuggita. Ma la vita di Giulio Cesare scritta
da un sovrano è stata così potente da far volger le teste di tutti gli
Europei a quel lontano orizzonte.

Nell’esame che noi abbiam fatto di quell’opera, abbiam dimostrato,
per ciò che riguarda il concetto, di essere avversissimi al modo
sistematico onde l’ex Sua Maestà ci mise innanzi la figura di Cesare.
Napoleone pretese di spogliare il suo eroe di tutte le basse scorie
dei minori viventi, di innalzarlo ad improbabile ideale di virtù, di
grandezza, di perfezione.

Troppi storici, egli dice, trovano più facile d’abbassare gli uomini
di genio, che d’innalzarsi, per una generosa inspirazione, alla loro
altezza, penetrandone i vasti disegni.

Ma il coronato scrittore, il quale comincia l’opera sua con quella
nobile sentenza, «che la verità storica non deve essere meno
sacra della religione» — la offese di tratto con questo sistema di
esagerazione. Giulio Cesare fu un uomo stragrande; ma pretendere di
purificarlo dei vizj che erano una fatale condizione dei tempi in
cui nacque; ma negare che egli abbia fatto uso di mezzi perversi per
raggiungere i suoi intenti; è dire ciò che la storia ricisamente
rifiuta. Come si spiega la sua costante amicizia col dissoluto
Sallustio? come quel perpetuo altalenare d’amicizia e di inimicizia con
Pompeo, con Cicerone, con Catone? che segreti nasconde la sua deferenza
per Catilina?

Se si dovesse dire quel che risulta dal vero storico e dall’analisi
investigatrice dei più profondi pensatori, la figura di Giulio Cesare
è una prodigiosa meraviglia considerata come un fenomeno umano, ma in
un senso diverso da quello onde lo considera Napoleone; vogliamo dire
che Cesare, tra le più grandi figure dell’umanita, si distingue per
aver compenetrato in sè solo le qualità più disparate e più opposte, e
tali, che pare un prodigio che un uomo solo, pur conservandosi nel più
mirabile equilibrio, abbia saputo assumerle tutte. Dell’umano poliedro,
Giulio Cesare mise in mostra tutte quante le faccie; è forse il solo in
tutta la storia che presenti questo carattere straordinario. Diremo di
più, il suo intelletto era così forte e la sua ragione così geometrica
e rigorosa, che usufruttava a grandi intenti persino le debolezze e le
aberrazioni del sentimento e del senso. Perchè dunque togliere al genio
di Giulio Cesare una delle più singolari condizioni del suo carattere?
Carattere che, sebbene con meno profonda impronta, si riscontra
in altri veri grandi genj, sia nel campo dell’arte come in quello
dell’azione. Il genio è un’arpa a mille corde; ciascuna alla sua volta
manda il suo suono; la luce dell’umanità si decompone nell’anima del
genio in raggi molteplici, ed esso li rimanda e li restituisce al mondo
trasformati o in un’opera dell’arte o in un sistema di rivoluzione.

Giulio Cesare avendo passato la sua gioventù in mezzo ai vizj,
vagheggino, bellimbusto elegante fino all’effeminatezza, fino a
temere di turbare l’acconcia disposizione delle non spesse chiome,
soffregandosi il capo con un dito solo, stando all’espressione di
Cicerone; seducente a tutte le donne e amante riamato, aveva conosciuto
il cuore umano e tutte le classi della società nei loro più intimi
penetrali; indebitato fino agli occhi, aveva dovuto aggirarsi fra i
turpi usurai di piazza, e colà scontrarsi e col veterano accattone
e coi falliti e colle ombre, e approfondire altre terribili piaghe.
Colla bacchettoneria di _Catone_ non avrebbe mai potuto pescare si
profondamente in quel torbido mare della feccia di Romolo.

Ecco perchè non conveniva spogliare Giulio Cesare di quegli errori e di
quelle colpe che lo abbassarono fino a livello de’ più bassi mortali;
ecco perchè conveniva dir tutta la verità anche ad onta che l’eroe
dovesse sembrare talvolta uno scellerato. Inoltre l’ex Imperatore,
per le sue ragioni, scrisse una storia dove si racconta e si discute,
non si drammatizza. Esso poi non tenne conto di quelle intime cagioni
che, apparentemente piccole, sono spesso i fattori dei più grandi
avvenimenti.

Nel suo libro, perchè non è libro d’arte, ma di scienza storica, le
figure non han rilievo, tra la moltitudine di esse non v’è prospettiva
aerea; di più, Roma non si vede che in piazza e, per così dire,
nelle ortografie degli edifizj. Ciò adunque che noi ci proponiamo
è di vederne gli spaccati, di penetrar nelle case, di considerare
il più grande dei Romani nei più minuti particolari della sua
vita, limitandoci per ora alla sua gioventù, perchè è la parte più
drammatica, perchè ci dà il modo di conoscere in tutta la loro varietà
i costumi romani, e perchè ci offre ovvie le occasioni di ritentare
alquanti problemi storici che lo scettrato scrittore sciolse alla sua
maniera e troppo da sovrano.




I.

IL TRIONFO DI POMPEO E L’ADOLESCENTE CESARE.


Correvano le none di maggio dell’anno di Roma 672, corrispondenti al
giorno 7 di maggio dell’anno 82 avanti Gesù Cristo. Era il giorno
statuito per il trionfo di Pompeo reduce dall’Africa, dove in soli
quaranta giorni aveva debellato e ucciso Domizio, fatto macello di
ventisette mila uomini, soggiogata la Libia, portata la strage persin
tra i leoni e gli elefanti, e regolate le faccende dei re ostili ai
Romani: per le quali cose era stato acclamato imperatore dai soldati,
pur essendo egli di soli 24 anni. Senza parlare dei dotti che avranno
letto gli annali di Fenestrelle e i commentarj Sillani e le vite
di Oppio e le monografie di Teofane, di Mitilene e di Posidonio,
chiunque ha scorso Plutarco saprà come quel trionfo gli era in prima
stato negato da Silla, perchè la legge portava che nessuno potesse
trionfare se non fosse già console o pretore. Ma Pompeo che faceva
l’umile allorchè tutti lo esaltavano, e saliva in orgoglio se altri gli
contrariasse, avendo avuto la millanteria di dire nell’adunanza istessa
ove trovavasi il dittatore, _che gli uomini adorano il sole che nasce a
preferenza del sole che tramonta_, con quell’insolita audacia percosse
talmente colui, che pur sembrava un dio assai più che un re, e un dio
crudele, da farlo prorompere in quelle parole:

— _Ebbene trionfi, trionfi, trionfi_.

Ma Silla prima aveva avuta l’imprudenza di dare l’appellativo di
_Magno_ al giovine Pompeo, forse perchè nell’assiduo altalenare
dell’umor suo, tormentandolo i pidocchi meno del consueto in quel
punto, e sperando di guarirne, erasi sentito trasportare alla bontà ed
all’entusiasmo.

Così dunque venne decretato il trionfo.

Nella prima parte della mattina, che i Romani chiamavano _diluculum_,
il campo Marzio era tutto occupato dalle soldatesche reduci
dall’Africa. Il campo Marzio, il quale era situato in modo da invadere
parte dell’area dove dopo Cesare fu il circo agonale ed oggi v’è la
piazza Navona, era come il _dietro le scene_, dove apprestavasi tutto
ciò che, nell’ora che chiamavasi _mane ad meridiem_, doveva passare in
processione lungo la via trionfale sotto gli occhi del popolo romano.
Alla quadriga in cui doveva sedere il Magno Pompeo erano già aggiogati
quattro elefanti, chè così egli aveva voluto, disdegnando i cavalli;
ma gli apprestatori del trionfo e della sua parte decorativa essendosi
accorti che que’ quattro enormi bestioni non potevano passare per
l’arco posticcio stato eretto all’uscita del campo Marzio, mandarono
tosto due centurioni veterani alla casa di Pompeo per avvisarlo
dell’inconveniente.

Il giovane ventiquattrenne stava nel suo cubicolo; sul letto, poco
più alto del pavimento, coperto d’una gran pelle d’un libico leone
che egli stesso aveva ucciso, era apprestato l’abito trionfale,
fatto di porpora, il quale veniva chiamato toga picta, ovvero tunica
palmata; v’era pure una corona d’alloro, e un ramo d’alloro. Traducendo
quell’intima scena romana nel più umile volgare moderno, quella stanza
del magno eroe pareva il camerino d’un tenore serio celeberrimo,
che ripetendo sotto voce la grande aria di sortita, presenta già gli
applausi strepitosi del pubblico in delirio.

Balbo il centurione fu introdotto nel cubicolo.

— Che cosa ti conduce qui? gli chiese Pompeo.

— Vengo per avvisarti, o imperatore, che gli elefanti non si possono
aggiogare.

— Che? Perchè? gridò Pompeo uscendo dalla maestosa tranquillità che era
il suo carattere esterno abituale.

— L’arco di campo Marzio è troppo angusto.

— E si atterri.

— Bisognerebbe atterrare tutti gli archi posticci fatti innalzare in
questi giorni lungo la via trionfale dall’architetto Poliarte.

— Mandami dunque qui questo Greco poltrone, ch’io lo farò flagellare
come una bestia da soma.

E Pompeo batteva i piedi al pari di una donna capricciosa che, un’ora
prima di recarsi al ballo, s’accorga che la sarta non le preparò la
veste secondo il suo gusto.

— Imperatore, interruppe allora il centurione....

— Che vuoi?

— Ricordati che i tuoi soldati ti han chiamato _Magno_ sul campo di
battaglia.

— E dunque?

— Tu non devi adirarti per così poco. Se ce lo comandi, noi centurioni
tireremo il tuo carro. Crediam bene di valere quattro elefanti. Se ciò
ti appaga, smetti lo sdegno, o Pompeo Magno imperatore.

Queste parole il centurione le pronunziò senza che la sua faccia si
atteggiasse punto al senso affettuoso ch’esprimevano. Era una di quelle
facce romane della prima razza, ampia, quadrata, magra, a risalti, di
quelle fatte apposta per la scultura monumentale che modella le teste
per esser vedute da lontano; di quelle facce che non piangono e non
ridono mai e dissimulano sotto l’apparenza di un orgoglio indomabile
perfino la tenerezza, perfino l’idolatria. E quel veterano infatti che
più volte aveva palleggiato Pompeo fanciullo, quando aveva fatte le
prime armi sotto a Strabone padre di lui, lo amava svisceratamente,
ma per timore ch’ei se ne accorgesse, solea fargli le più generose
profferte quasi sempre con faccia bieca.

Pompeo sapeva questo, e tranquillatosi di tratto, gli stese la mano,
che il centurione strinse come da pari a pari — e:

— Va, gli disse, appresta i quattro cavalli bianchi, e non se ne parli
più.

Il centurione partì. Pompeo, abbigliato che fu, uscì dal cubicolo,
venne al portico, dove la lettiga l’attendeva, e si fece trasportare
così al campo Marzio.

Colà giunto, appena mise piedi in terra e apparve la maestosa sua
figura, ornata di porpora, cinto il capo dell’alloro aurato, proruppe
un urlo giojoso di voci romane, e ben era, per ripetere Omero,

    _Di nove mila un urlo o dieci mila:_

e tra quell’applauso spiccavano le parole:

    Salve, imperator, salve, salve, salve.
    Jo triumphe. Jo triumphe. Jo.

La quadriga stava nel mezzo del campo Marzio; i quattro cavalli
bianchi erano aggiogati. Pompeo salì. Tutti i soldati si adunarono in
cerchio presso al carro; intorno al circolo tutto fitto e lucido d’armi
girava un altro cerchio di facce popolane. Pompeo tenne un discorso ai
proprj soldati; in prima parlando a tutti insieme, ne esaltò il valore
rammentando le vittorie ottenute; dopo lodò ciascuno in particolare.
In seguito venne la distribuzione dei premj. I quattro centurioni
più veterani presentarono a Pompeo i donativi, ch’eran per lo più
cose militari, corone d’oro e d’argento; ed esso, leggendo il nome
di coloro che ne dovevano essere insigniti, nomi che venivan scritti
sui donativi stessi, chiamò i distinti a riceverli ad uno ad uno.
Compiuta questa cerimonia, discese a fare il sagrificio; e del sangue
del vitello sgozzato ne empì una tazza per versarlo sul carro d’oro,
in modo che tutto apparisse chiazzato di macchie sanguigne. Finalmente
Pompeo risalì sul cocchio e la processione si mosse, e nello stesso
carro, dietro alle spalle istesse del trionfante, stava il carnefice,
come voleva il costume, il quale sosteneva sopra alla corona d’alloro
ond’era redimito il glorioso capo, un’altra pesante corona d’oro
massiccio; ed il carnefice gridava spesso ad alta voce:

    Respice post te hominem — memento te;

volendo con ciò ricordare al trionfatore l’incertezza dell’umana
fortuna.

Nel sito in cui Pompeo sedeva eravi un idoletto contro l’invidia,
e dal carro pendeva una sferza ed un campanello, che eran i segni
dei condannati a morte, per avvertirlo che dal colmo della gloria
poteva precipitare nell’estremo delle umane miserie. La quadriga
trionfale era preceduta da molti carri pieni di spoglie ed armi
nemiche, da trombettieri e suonatori d’istrumenti diversi; dopo di
essi conducevansi i buoi destinati al sacrificio, ornati di corone e
di bende, e colle corna dorate. Appresso spiegavansi i trofei della
Libia e la completa armatura dell’ucciso Domizio. Gran numero di
capitani dell’esercito di Domizio, seguivano il trionfo con catene
leggiere al collo, alle braccia, alle ginocchia. Davanti a costoro
precedevano saltando due giullari, che con gesti buffoni eccitavano
al riso gli spettatori, facendosi beffe dei prigionieri incatenati;
e un terzo giullare, che chiamavasi _Manduco_, moveva la bocca in
modo come se stesse mangiando i vinti. Senatori, soldati, cittadini
liberati, ambasciatori, centurioni, chiudevano la processione, la quale
percorreva la via trionfale per più di due miglia; i cittadini accorsi
erano per la maggior parte vestiti di bianco; i templi accanto ai quali
il trionfatore passava, erano aperti, e da essi uscivano profumi ed
incensi; il medesimo avveniva dei palazzi e delle case private che
rispondevano su quella via tutta coperta d’erbe odorose e di fiori.
La folla aspettante il carro trionfale, come lo vedeva giungere,
prorompeva nel solito grido: _Jo triumphe — Jo triumphe_. Allorchè il
trionfante Pompeo giunse al Campidoglio, discese nello spazio che era
tra il tempio della Fortuna e l’arco di Scipione. Il tempio di Giove
Capitolino allora non era ancora edificato; ma in sua vece sorgeva
una semplice ara. Nel momento che i prigionieri passando innanzi al
vincitore venivano condotti nel carcere Mamertino, Pompeo si prostrò
davanti all’ara, e in mezzo al silenzio che subito e profondo si mise
fra tanta moltitudine, pronunciò con voce sonora questa preghiera:

«A te, Giove Ottimo Massimo, a te Giunone regina, a voi tutti, o Numi,
di questa arce abitatori e custodi, lieto rendo grazie perchè avete
voluto che la repubblica romana venisse difesa ed ampliata dalle mie
armi. Così vi scongiuro a conservarla, ed a proteggerla in ogni tempo,
come ora fate.»

Finita questa preghiera, i vittimarj a’ piedi dell’ara uccisero venti
giovenchi, mentre Pompeo deponeva sull’ara stessa le spoglie più
preziose della vittoria.

Non è possibile immaginare spettacolo più grande, più maraviglioso,
più pittoresco di quello che offriva in quel momento il Campidoglio
colle sue adjacenze. Il fantasioso Martin che ritrasse con sì potente
matita il festino di Baldassare, appena basterebbe per dare una idea di
quella scena straordinaria, anche per la giacitura dei templi e degli
archi e delle vie e dei clivj, e de’ cento gradi della rupe tarpea, e
della gradinata che metteva all’arce capitolina; edificj e spazj che
per la varietà delle altezze si mostravano tutti allo sguardo gremiti
di popolo infinito. Al formicolìo dei cittadini e della plebe faceva
contrasto l’apparenza delle splendide lettighe dove sedevano le nobili
romane e alcuni dei più illustri patrizj; e fra tutti riluceva al
sole il carro tutto d’oro ed aspro di gemme, dove stava assiso Lucio
Cornelio Silla, il padrone di Roma.

Quantunque avesse cinquantasei anni e cominciasse già ad essere corroso
da quel morbo pediculare che poi lo trasse a morte, visto da lungi,
mostrava ancor bionda la chioma inanellata e spessa e prolissa, il solo
dono di cui la natura lo fece insigne, e in gioventù potè farlo parere
perfino avvenente. Ma ne’ suoi occhi grandi ed azzurri balenava una
luce sinistra, piena di terribilità, che teneva in isgomento i soggetti
e provocava in tutti un senso di disgusto indicibile, e tanto più che
al color fulvo-chiaro delle chiome e alla tinta cerulea degli occhi
faceva stranissimo contrasto il colore bruno della pelle chiazzata qua
e là di macchie bianche, onde, allorchè fu in Atene, un Greco mordace
avea chiesto chi mai fosse quel _moro infarinato_.

Ma intanto che sagrificavasi, tutte le teste a un tratto si volsero al
culmine del colle Capitolino. Colà con maraviglia di tutti era salito
un uomo a cavallo, per guardare la scena sottoposta; e subito per le
bocche di tutti corse il nome di Giulio Cesare. Perdonato da Silla per
intervento delle vergini Vestali, esso era in quei dì tornato a Roma
con intenzione di ripartirne tosto, affine di prendere commiato dalla
consorte e consolarla della morte d’una sua sorella, che era avvenuta
in quei giorni appunto. Sebbene quel grado di consanguineità non fosse
tale da obbligarlo a vestir la toga del corruccio, pure cercando esso
tutte le vie per rendersi singolare e fermar la pubblica attenzione
in ogni modo, apparve colà tutto bruno come la morte, e inforcando
un cavallo tutto nero come la pece. Pompeo trionfava e tutta Roma era
piena di Pompeo, pure in quel punto il diciottenne Giulio trovò il modo
di distaccare da colui gli sguardi del popolo romano e farli rivolger
tutti sopra di sè. Lucio Silla, seguendo il movimento di tutte le teste
che gli ondeggiavano d’intorno, dirizzò anch’egli colà la sua truce
pupilla, e vedendo l’abborrito fanciullo, ne torse indispettito la
faccia.




II.

LAJA PITTRICE E IL RITRATTO DI CESARE.


La ragione per cui sulla sommità del clivo Capitolino, intanto che
Pompeo trionfava, era comparso improvvisamente Giulio Cesare, non era
stata indovinata da nessun Romano; neppur da Pompeo, troppo saturo
d’orgoglio, per sospettare in altri intenzioni rivali. Ma l’osservatore
Lucio Cornelio Silla, che nella toga mal cinta del giovinetto parente
di Mario aveva letto il futuro, tosto, allorchè volse la testa iraconda
a quell’inattesa apparizione, ne intravide l’intento e ne parlò poi
sdegnosissimamente con Lucullo banchettando seco lo stesso dì.

Cesare il seppe, e giacchè, anche senza questo nuovo sdegno, non
riposava tranquillo sul perdono strappato all’onnipotente dittatore
dalle preghiere e dalle lagrime delle Vestali, pensò, come tutti sanno,
di lasciar Roma, e andò a militare in Asia sotto Marco Termo pretore,
intrattenendosi in Bitinia presso Nicomede; poi militò in Cilicia sotto
Servilio Isaurico, e non ritornò in Roma se non quando fu certissimo
che le piattole vendicatrici avevano consegnato all’Averno il suo
mortale nemico.

Appena ritornato, il suo primo pensiero fu di abbandonare il palazzo
avito che teneva sul Palatino e di farsi architettare nella Suburra
una piccola casa grecamente elegante, che in breve gli costrusse il
suo amico Ermodoro di Salamina, il celebre autore del tempio di Giove
presso il portico di Metello. Non v’è atto della prima gioventù di
Cesare, anche il più minuto e a primo tratto insignificante, che non
meriti di essere intimamente esplorato. Tutto per lui aveva una ragione
di essere; perfino le inezie tenevano in germe un remoto intento. Il
Palatino era il quartiere dove sorgevano i palazzi del più vetusto
patriziato romano (i nobiloni dei quattro quarti d’allora). Esso,
come dice Ampère, era a Roma quel che il sobborgo St. Germain è a
Parigi. Era la nostra Porta Nuova, il Borgo Nuovo, la via de’ Bigli,
la via Monforte; quel che si vuole insomma. Sulla linea parallela
del Palatino, al di là della basilica Opima e della via Sacra e del
tempio degli Dei Penati, correva la via del Foro alle Carine, dove
abitava la gente nuova, i cavalieri, gli uomini di toga e di borsa, i
causidici, i banchieri, i ricchissimi aggiotatori della pubblica fame.
Cesare abbandonando il quartiere della gente vetusta, non si degnò di
traslocare in quello della gente nuova, ma trasportò la sua dimora dove
s’affollavano a miriadi le casupole, le botteghe e le officine della
porca plebe, dove rintronavan martelli e incudini e stridevan seghe,
dove vagolavan meretrici e vespertini adulteri, dove stava persino
l’abbominata dimora del carnefice di Roma.

La Vedra, le Vedrazze, il borgo di Cittadella, il vicolo del Sambuco in
Milano potrebbero dare, sebbene con maggior decoro, una qualche imagine
della Suburra, la quale si stendeva sul monte Celio appena fuor della
mura (extra mœnia). E Giulio Cesare venne ad abitar qui precisamente.
Or non si pressente già colui che preferiva di esser primo in un
villaggio che secondo in Roma? La casa di Cesare, veduta da lunge
aveva l’apparenza di un tempietto greco: sarebbesi detta la dimora
di un nume, e ciò anche per l’eccessivo contrasto colle catapecchie
che in lungo e in largo le sorgevano d’intorno. Correvan le none di
maggio dell’anno di Roma 674 — ovverosia il cinque maggio. Era l’ora
quinta del giorno (_hora quinta diei; — mane ad meridiem_). Intorno
alla casa e sotto il portichetto a colonne joniche stavan clienti,
ombre; vi eran soldati dalle profonde cicatrici, dalle braccia monche,
dalle troncate gambe, dalle chiuse e bendate occhiaje, probabilmente i
derelitti veterani di Mario; — e fra tutti, per le insolite vesti, si
distinguevano i lerci ebrei, i vampiri usuraj che attendevano al varco
il già tanto indebitato pronipote della Venere dea. — Ma si entrino
i penetrali, a visitarvi il divo Giulio; e come l’Apollo sagittario
ei ci si presenta infatti nudo come la celebre statua greca, bianco
e diafano come il marmo pario, posante come quel dio. Egli stava in
quel punto facendosi ritrattare dalla più valente pittrice di quel
tempo, da quella celeberrima Laja di Mileto, che dipinse per la prima
volta sè stessa nelle proporzioni del naturale adoperando gli specchi
di cristallo grandi come il corpo umano: i quali specchi insieme coi
vitrei musaici, erano stati introdotti in Roma dalla Grecia fin dai
primi tempi di Silla (_Specula totis paria corporibus_). La giovine
Laja, severa come una Minerva, inaccessibile a qualunque senso che non
fosse il più profondo amore dell’arte, sedeva innanzi a quella statua
viva disegnandone i contorni su di un’ampia tavola.

Presenti a quella seduta artistica c’era il vecchio Sopolis, il
maestro di Laja, il più distinto ritrattista di Roma, prima che quella
fiorisse, e che amava la sua allieva più di sè stesso e della quale,
anzichè avere invidia, si gloriava. Medesimamente stava presso a Cesare
il suo vecchio famulo Taltibio, che idolatrava il padrone avendolo
portato fra le braccia infante. Cesare non credendo che Laja venisse
in compagnia di Sopolis, per un tratto di squisita delicatezza volle
presente il vecchio famulo, onde stornare sospetti e non scemare
d’un punto l’innocente severità dell’arte. Taluno potrebbe dire: e
perchè allora farsi ritrattare in quel costume così eccessivamente
scoperto? Cesare non lo deve aver fatto a caso. Sapeva di aver forme
bellissime e desiderava che ciò si sapesse in Roma e fosse testificato
dall’inappellabile giudizio degli artisti.

— Una dote di più, pensava egli, è un’arma di più. Cinquantamila
giovani dame romane ben possono, ad un bisogno e secondo i loro mezzi,
confederarsi a cinquantamila strenui soldati; e in ogni modo aiutarmi
nei privati convegni sollecitando a mio pro amanti, parenti e mariti.

La figura di Cesare, alta, elegante, asciutta come quella di tutti i
giovani, offriva all’occhio le proporzioni del discobolo greco. Vista
un po’ da lunge pareva aver braccia e gambe non fortissime; ma queste
vedute dappresso e misurate, oltrepassavano la grossezza comune;
grossezza che veniva dissimulata dall’egregia proporzione appunto.
Alcuni autori antichi e moderni ebbero a far le meraviglie confrontando
la gracilità alle fatiche incomportabili e straordinarie ch’egli solo
potè sostenere. Ma fisicamente, non si fa se non quel che si può fare:
e per quanto la virtù dell’animo, o a dir meglio, l’ispirazione, il
soffio, il dio prepotente della volontà possa far prodigi, se non c’è
la potenza dei muscoli, le fatiche non si possono protrarre a lungo.
Alessandro, Cesare e Bonaparte ebbero tutti e tre forme apparentemente
arrotondate; ebbero pelle candidissima e quasi muliebre; ma nessuno
più di loro seppe resistere alle fatiche del campo. La forza veniva
celata dall’epidermide; come l’ambizione sterminata e la profonda
scelleraggine dall’amabile astuzia e dall’ingannevole volto.

Tuttavia, in quelle membra egregie di Cesare, c’era un lieve difetto.
Verso le regioni dei lombi, la spina dorsale, quella che Napoleone
al cospetto della scoperta di Volta, disse essere la pila della vita
animale, appariva lievissimamente deviata; deviazione che l’anatomico
riscontrò pur nel cadavere imbalsamato di Napoleone allorchè da
Sant’Elena venne trasportato in Francia. Strana somiglianza che,
sebbene in diverso modo, pur si riscontra nell’apollineo collo di
Alessandro il Grande, di alcun poco inclinato da un lato. Si direbbe
che il _ganglio massimo_, che è la testa, abbia voluto in questi
tre uomini che rappresentano la più sterminata potenza delle facoltà
mentali, dare indizio della sua eccezionale pesantezza gravitando sulle
altre parti del corpo. E un altro difetto che non appariva ancora nel
ventenne Cesare, ma doveva rivelarsi precocemente, era la calvizie.
Non si può sapere da che questa sia derivata in lui, e come derivi in
altri. Ma la testa di Cesare offriva un fenomeno strano; mettendo la
mano al disopra di essa, anche alla distanza di un palmo, si sentivano
gli effetti come di una forte irradiazione di calore e sovente una
lieve onda di fumo vaporoso ne lambiva la superficie, quasi che una
fiamma riscaldasse internamente le cavità del cranio.

La pittrice Laja non conosceva questi fenomeni, e non poteva prevedere
la calvizie futura nella chioma corvina acconciamente inanellata
dell’elegante patrizio; ed era tutta intenta invece, nella sfiducia
che in quel punto l’aveva assalita, a cercar di ritrattare la luce
degli occhi di Cesare (_nigri et vegeti_) che abbagliavano dominando,
e parevano parlare pur nel silenzio del labbro, il quale era roseo e
tumido a significazione di voluttà, e dava di tanto in tanto un tremito
lieve come se la parola gli scorresse sopra ed ei volesse trattenerla.
Pareva il labbro di lord Byron, questo Cesare non riuscito, come
Champagny ebbe già a definirlo.

La seduta durò quasi due ore.

A un certo punto Giulio Cesare con morbido accento:

— Sarai stanca, o Laja, disse, proseguiremo domani. Non voglio che
la tua mano s’affatichi più del conveniente. Tuttavia fammi certo, o
Laja, del quando, impiegando due ore al giorno, il mio ritratto sarà
compiuto.

— Oggi siamo alle none di maggio. A quelle di giugno il popolo romano
vedrà l’effigie tua sotto al portico di Metello. In quel giorno
farai in modo, o Giulio, di essere assente da Roma e farai correr
la voce che ciò possa essere per qualche grande impresa, a meno che
tu non t’incarichi di compirla davvero. Affinchè il ritratto sia
convenientemente apprezzato e metta in entusiasmo il tuo popolo,
conviene ch’ei senta il desiderio dell’originale lontano.

— Quel che possa avvenire tra un mese non lo so; ma certo sarà appagato
il tuo desiderio.

Laja si alzò e uscì col vecchio Sopolis, attraversando un lungo androne
affollato di cittadini romani.

Cesare infilò la toga che Taltibio gli porse e, guardandosi in uno di
quegli specchi grandi fino alla proporzione dell’uomo, che gli eran
venuti da Atene, se la cinse larghissima, studiando con gran cura un
partito di pieghe che pareva riuscito a caso e per gli effetti della
noncuranza. Voleva ei forse velare con quella, in apparenza, fortuita
combinazione di linee, di occhi e di borzacchini l’incorreggibile
deviazione della spina dorsale? Di Cesare in fuori, nemmeno Giove
Ottimo Massimo poteva saperlo.

Quando ei si fu bene acconciato, entrò nell’androne girando lo sguardo
intorno, sorridendo a quanti eran là congregati, stringendo la mano a
tutti.

— La dea Murcia vi ajuti, disse poi. Essa vi faccia parer comodo
l’avere aspettato e l’aspettare qualche poco ancora. I miei poveri
veterani mi attendono sotto il portico.

Uscì infatti. Alla sua comparsa que’ miserabili soldati claudicanti e
guerci e ciechi fecero circolo intorno a Cesare, ed egli stringendo la
mano a tutti, diede una dramma a ciascuno. Tutti i giorni essi venivan
là per ricevere quel sussidio e talvolta erano in numero di venti, di
trenta, di cinquanta.

Quand’essi furon partiti, Cesare ammiccò a tre giudei che gli si erano
avvicinati.

— È presta ogni cosa? domandò loro.

— Siam qui da due ore. Tutto è pronto.

— Entrate meco pel corritojo segreto.

Silenzioso procedette innanzi. Silenziosi lo seguirono i tre giudei.
Cesare entrò nella biblioteca, sedette, e chiese severo:

— Quanto avete portato?

— Quello che ci hai imposto. Sessanta talenti.

— Di che qualità?

— Di tutte. Non si può sempre tenerne in serbo una qualità sola. Ne
abbiamo di _attici_, di _eginetici_ e di _babilonesi_.

Il talento _eginetico_ aveva il valore massimo, ossia equivaleva
a ottomila franchi circa; il _babilonese_ a settemila, a seimila
l’_attico_; onde, per adequato, quei tre sucidissimi giudei avevan
portato a Cesare più di quattrocento mila franchi, una somma ben
ragguardevole; ma pel giovinetto mal cinto assomigliavano a un getto
d’acqua profluente sulle sabbie del deserto.

Uno dei giudei come ebbe deposto sovra una tavola di porfido egiziaco i
sessanta talenti, trasse di sotto al sajo un rotolo, lo spiegò dinanzi
a Cesare, porgendogli lo stilo che pur trasse di sotto il sajo:

— Segna or qui, domine, gli disse; per le calende di novembre
restituirai talenti cento.

— Che? esclamò Cesare, alzandosi iracondo. Quaranta talenti per mesi
cinque?

Il giudeo non rispose, e voltosi ai due ebrei che lo seguivano:

— Riprendete quell’argento, disse loro. Dolabella lo aspetta. Quaranta
talenti di premio son già pattuiti con lui.

Cesare smise l’ira di tratto e si diede a ridere, e battendo sulla
spalla del giudeo:

— Ringrazia il tuo dio, soggiunse poi, come io ringrazio Mercurio se
non t’ho ammazzato qui senza far parola, perchè sei un ladro simpatico.
Ma chi credi tu che io mi sia? furfante. Se Dolabella ti promise
quaranta talenti, il discendente di Venere te ne darà cinquanta, e
tosto scrisse nel rotolo le cifre volute e ci mise il C. Julius Cæsar.

Usciti che furono i tre giudei, Cesare recossi di nuovo nell’androne.

— Siam qui da due ore, o Cesare, e ci conviene recarci tosto
all’esperimento mattutino.

— Salve, o Cocceio; salve, Plauzio.

Eran quelli due celebri istrioni di Roma. Il primo rappresentava la
maschera di _Macco_ — qualche cosa tra il Pulcinella e l’Arlecchino
— ed era di tanta valentìa segnatamente nell’introdurre versi
improvvisati tra quelli di Plauto e di Terenzio, che tutta Roma
accorreva per sentirlo. Non c’è nulla di assolutamente nuovo e di
solitario sotto al cielo, e quel Cocceio forse era il grande arcavolo
del celeberrimo Sacchi di Venezia. L’altro era Plauzio e rappresentava
quella maschera che si chiamava _Papposilene_, dall’aspetto di un
satiro velloso.

— Ho con me l’_Eunuco_ di Terenzio, soggiungeva Cocceio, qui e qua
intercalato da certi miei versi, pe’ quali mi sembra che tutta Roma
riderà a crepapelle di Pompeo, di Cicerone, di Catone, di Lucullo
e dell’indorato Crasso. Vorrei, o Cesare, che tu mi aiutassi ad
aggiustarne la misura; a trovare ed aggiustar dardi per ferire chi ha
ad esser ferito, e dare così il tono alla gran voce del popolo romano.

— Va prima all’esperimento, poi torna da me all’ora seconda di notte.
Vale, o Cocceio; Plauzio, vale — e stringendo la mano all’uno e
all’altro li licenziava, intanto che rivoltosi ai clienti:

— Porgetemi le vostre querele, disse loro, e a rivederci domani al
pomeriggio sotto i portici del tribunale — _ai gradi aurelj_. — Ed
entrò in un’altra stanza.

— Salve, o Sallustio.

— Salve, Cesare. Questa volta ho empiti due rotoli. Coprii di ridicolo
l’affettato Ortensio; ho messo in evidenza tutti i difetti di Cicerone
e berteggiata la pingue eloquenza del pizzicagnolo Crasso.... Or mi
preme che tu legga la critica del modo onde Pompeo condusse la guerra
spartacia. Mi proposi mostrare che ben più che alla virtù propria, ei
deve tutto all’aiuto della cieca fortuna.

Ma chi era codesto Sallustio?

Nulla meno che il famosissimo Crispo Sallustio, l’autore della Guerra
Giugurtina e della Catilinaria, l’autore tradotto e ritradotto per
tanti secoli da miliardi di studenti.

Allora giovane ancora faceva quel che oggi si direbbe il _giornalista_,
e redigeva coll’aiuto d’altri, e segnatamente di Cesare, il
_Commentarium rerum urbanarum_; il _Moniteur_ d’allora; perchè Roma fu
la prima ad avere una gazzetta; e chi ne crede Venezia introduttrice
per la prima volta nel secolo decimosettimo s’inganna.

— Ci vorrebbe qualche cenno profondo e terribile intorno alle imprese
di Lucullo.

— Non posso parlare di lui. Egli mette a mia disposizione trecento
liberti per moltiplicare le copie del _Commentario_. Tu vedi. Ciascun
liberto me ne dà cinque copie al giorno. Uscendo tutte le settimane nel
dì sacro a Mercurio, ne circolano diecimila e cinquecento copie.

— E a una dramma per copia; che, a parlarti liberissimamente, è troppo
caro prezzo.

— Col tempo lo ridurremo. Per ora lascia andare. Mi gode raccogliere
quarantadue mila dramme al mese, salve le spese che non varcano dramme
due mila. Ciò che significa la rendita di quattrocent’ottanta mila
dramme ogni anno. Val quanto essere in una delle più ricche provincie
dell’Asia proconsole e senza essere ladri come Verre.

— Dunque Lucullo è il più gran condottiero che mai sia esistito?

— Sì, finchè mi presta i suoi trecento liberti. Nessuno saprebbe
aiutarmi così. Nè tu pure — quattrocent’ottanta mila dramme mi
lusingano la fantasia. (E una dramma valeva 97 centesimi di franco).

A questo punto il famulo Taltibio annunciò:

— Sergio Catilina.

E il bieco e livido Catilina spuntò sulla soglia.

— Venga, esclamò Cesare.

Ed or sentiremo come il mondo antico venne in quel dì palleggiato
dall’interloquio di questi tre _anticristi_. E le donne che si annoiano
di politica s’affidino per la presenza di Catilina. Per costui
assisteranno a sì terribili scene, che sovente ne avranno irte le
chiome.




III.

CESARE, SALLUSTIO E CATILINA.


Si fece il ritratto di Cesare, ne’ suoi più minuti particolari, dei
quali alcuni riescirono peregrini e stranissimi perfino a qualche
studioso; così, prima d’entrare nel fitto dell’azione, si vuol fare
il medesimo anche colla colossale e strenua figura di Lucio Sergio
Catilina, intorno al quale venti secoli di storia non seppero mai dire
compiutamente il vero manifesto, nè esercitare l’intuizione intorno
al vero nascosto. La lettera morta dei narratori antichi, allorchè
questi non sieno investigatori filosofi, e non abbiano l’immaginazione
ricreatrice, non basta perchè altri s’acqueti su di essa, e possa
farsi una idea precisa di quello che racconta. Il libello famosissimo
di Sallustio è un lavoro di egregie forme e d’uomo che in vecchiaja
si ricompiace d’arte, ma più fatto per insegnare a scrivere, che per
comunicare altrui la potenza di far rivivere tutto intero un periodo
della storia, ripresentandolo alla posterità col rilievo e la completa
planimetria di una città distrutta, fatta ricomparire col lavoro degli
scavi. Esso narra alla ricisa, e le sue pagine sono troppo fuggitive
per poter abbracciare tutta l’ampiezza del prolungato cataclisma del
tempo in cui visse. Quel libretto va dunque interpretato coll’ajuto
d’altri lavori, va compulsato ostinatamente, va costretto, quasi
diremo, colla tortura a confessare tutto quello che espressamente forse
vi si tacque.

Quando Catilina si presentò sulla soglia della camera di Cesare, e,
invitato, si assise, e, ancora invitato, stette ascoltando quel che
Sallustio con voce sonora leggeva a Cesare intorno alle guerre di
Pompeo, poteva avere trentacinque anni, ma ne dimostrava di più. Era di
statura, come suol dirsi, vantaggiosa, ma non alta; dalle maniche della
toga apparivan le braccia nude, affatto ossee, percorse da cordoni
grossi e da vene gonfie. Si vedeva che quelle braccia e quelle mani
avrebbero lasciato il segno dove fosser posate, press’a poco come,
vedendo la zampa poderosa del tigre, si crede tosto al naturalista il
quale assicura che quella può colla subita percossa rompere le reni al
cavallo assalito. La faccia aveva di forme ampie, stupendo l’ogivale,
ma il bianco dell’occhio era injettato di vene sanguigne, la fronte
attraversata da una grossa vena, le guance livide ed esagitate, sulle
quali appariva quel che potrebbe dirsi una battaglia di muscoli.
Pure, allorchè, a certe espressioni di Sallustio con cui investiva di
ridicolo Pompeo, egli sorrise, a un tratto parve che quella battaglia
sostasse, che un raggio di sole illuminasse quel mare in procella;
parve che quell’aspetto così tremendo e stravolto, potesse quasi
riaversi e rinfrescarsi e balzar fuori bellissimo, se un desiderio
appagato, se una fortuna raggiunta fosse venuta in suo soccorso; chè la
bocca, aperta al riso, si rivelava di eleganti forme antiche, con una
fila di denti, forti sì e grossi, ma bianchissimi.

Nella prima gioventù, allettato forse dalle lodi del rodio maestro
Apollodoro, che gli disse congratularsi seco dell’aver avuto da natura
il dono spontaneo dell’eloquenza, si diede insieme con Lucullo ad
approfondirsi nelle lettere greche e nella filosofia, e come chi in
ogni cosa si lascia portare agli estremi, affannavasi a poter riuscir
primo in quelle discipline; ma la forza del corpo avendolo fatto
attissimo alle fatiche del campo, a talchè divenne lo stupore de’
giovani e dei veterani, i quali dicevano non poter egli venir superato
facilmente da altri combattendo corpo a corpo, tutto per molto tempo
si diede alle cose di guerra, e con tale insistenza febbrile, che dagli
albori a vespero si maneggiava continuamente in quelle.

Ma, per decreto della fortuna, tale e tanto apparato di insigni
attitudini fuori affatto dell’ordine comune, dovevano, per l’esagerato
contrapposto di altre, e per un fatto specialissimo, condannare la sua
fama ad attraversare due mila anni perpetuamente avvolta di orrore. La
uccisione del patrizio Gratidiano è nota a tutti: quello fu il fatto
onde la figura di Catilina per la prima volta compare sulla soglia
della storia.

Sappiamo da Sallustio e da Cicerone e da Tito Livio, com’egli nato da
famiglia patrizia e ricchissima, nella prima gioventù, portato dalla
sua natura non paga che di esagerazione, si fosse dato allo spendere ed
al lussureggiare fuor d’ogni misura; apprendiamo altresì com’egli fosse
prodigo non per sè solo, ma con tutti, anche coi ricchissimi, e che il
donare altrui cavalli, armi dorate, opere d’arte, quando s’accorgeva
che queste venivano appetite, era per lui un’abitudine. Questo non è
indizio d’animo iniquo; ma tale abitudine, se giova altrui, è funesta
a chi la tiene; epperò venuto in rovina quasi totale, sapendo per aver
militato più volte, di essere attissimo anche alla condotta di una
guerra, desiderò ardentemente di essere spedito proconsole in qualche
provincia; ma per ciò gli occorrevan danari, onde placare i debitori, i
quali come vespe gli ronzavano intorno all’avito palazzo, e per nessun
conto non lo avrebbero mai lasciato partire senz’essere pagati. —
Ora quel Gratidiano era un suo amico, di sfondata ricchezza, il quale
volendo impiegare il molto oro lasciatogli dal padre stato più volte
proconsole rapacissimo, ambiva di acquistare i latifondi dei ricchi
venuti in basse acque, e li angariava usureggiando. Catilina si rivolse
dunque a colui per cedergli le terre e le ville che gli erano rimaste;
ma quegli negò assolutamente di fare il suo desiderio.

Onde Catilina, non potendo indovinarne il perchè, e parendogli
un’indegnità, e sospettando che la cagione fosse d’impedire a
lui di salvarsi dal naufragio dei debiti, e di rifarsi ricco e
coprirsi di gloria militando, montò in tale furore, che lo percosse
fierissimamente. Nè vi fu per allora altro. Ma quel rifiuto spietato
fece tale effetto sull’animo di Catilina, che l’odio non ne uscì mai
più; onde andava pensando al modo di vendicarsi.

E vennero le proscrizioni di Silla, di questo salassatore sistematico
del mondo romano. Per livellarlo e togliere le sporgenze e far
galleggiare un partito solo, colui aveva pensato di allagarlo di
sangue, come altri, in altri tempi, essendo aboliti dalla gentilezza
dei costumi i mezzi feroci, pur trovarono il modo di assassinar
l’Italia unificandola con mezzi violenti, assurdi, funesti, scalzando
autonomie, schiaffeggiando tradizioni gloriose, condannando, quasi
coscritti, a perpetue tappe i funzionarj della nazione per tramescolare
le genti; alternando la pubblica alla privata miseria; creando cariche
inutili per assicurare i traballanti puntelli del governo, nominando a
migliaja inutili impiegati nuovi, e licenziando utili impiegati vecchi,
colla paga e l’obbligo di non far nulla, per trasmutarli così in piante
parassite, in sanguisughe innocenti, ma sempre dannosissime all’erario,
epperò affogandoci tutti non nel sangue, ma nell’abisso senza fondo
d’un debito pubblico inaudito...

Chi sia stato più rovinoso all’Italia di quel vetusto Silla a sangue,
e degli odierni Silla a secco, potrà giudicarlo la più veggente
posterità.

Ma si torni a Sergio Catilina e a Gratidiano.

In uno di quei giorni orridi di Roma, al confronto dei quali è poca
cosa perfino _il tempo del terrore_ passato sulla Francia esterrefatta,
e ne’ quali guai a chi era ricco e del partito antisillano (chè
tutti avevano il diritto di ucciderlo, e troppo spesso la ricchezza
faceva che si confondessero espressamente partiti e partigiani),
Sergio Catilina vide da lunge passeggiante lungo Tevere Gratidiano,
sicurissimo di sè perchè era patrizio, perchè era sillano. Quella vista
gli fece di tratto balenar in mente un’orribile idea. L’odio non gli
si era mai spento in petto; ma in quel punto divampò con un ardore che
non può avere espressione. Accelerò il passo, onde presto raggiunse il
lento Gratidiano, e a pochi palmi che fu da lui, giacchè gli veniva da
tergo, Fermati, gli gridò, Gratidiano usurajo; e lo agguantò di colpo,
e lo atterrò, e della daga due e tre e dieci volte il trafisse e ne
fece colle mani stesse uno scialacquo di sangue; e così orribilmente
sfigurato se lo prese tra le braccia, e portatolo di peso alla curia
dove Silla stava dando ragione dall’alto di una gradinata, assiso in
una sedia d’oro:

— Prenditi, o padrone di Roma, questo verro scannato; da me scannato.
Esso possedeva dieci milioni di dramme, e tanto dell’agro romano quanto
misurano cento pietre miliarie. Io lo dono a te, o padrone di Roma.

E, così detto, partì senza aggiunger altro, lasciando esterrefatto
perfino Silla.

Un tale delitto è orrendo, e per nessun conto scusabile nemmeno da
un iniquo, quantunque vi si riveli qualche ragion mitigante. Se quel
Gratidiano, pur non danneggiando sè stesso, anzi lucrando, avesse
ajutato Catilina, questo, chi sa? puro di macchie, avrebbe attraversato
la storia e sarebbe giunto fino a noi forse come il più gran capitano
dell’antichità dopo Alessandro e Cesare. Ma queste non sono che
congetture, e il delitto sta e il modo atrocissimo di esso; a tal
che, pur tra quei costumi efferati dell’antica Roma, quando, divenuto
Silla dittatore, per alcun tempo un’apparente calma si sovrappose
al non spento Vesuvio e celò i sintomi di più tremende eruzioni, la
figura del giovane Catilina passeggiante per Roma faceva ribrezzo ai
timidi riguardanti. E perfino dal fratello venne aborrito e scansato;
e, fatalmente, venuti a parole, mentre armeggiavano nel campo Marzio,
e dalle parole ai fatti, Lucio Sergio uccise il fratello. La storia
registrò che gli tolse la vita per raccogliere tutt’intera l’eredità
paterna — e qui la congettura è davvero men forte della storia.

Se non che, tornato ricchissimo per la morte appunto del fratello,
di nuovo si diede a profondere oro, ed ingraziarsi, colla capziosa
eloquenza e coi vischiosi allettamenti dei doni desiderati, i
giovinetti patrizj, che banchettavan felici con colui che pure aveva
ucciso un patrizio morto in fama d’onesto e un fratello vissuto siccome
intemerato.

Ma a questo era trovata la scusa, e sovente, perfin la lode; la qual
cosa ci dà a pensare.

E più che mai si diede ad ingraziarsi la plebe; e i veterani, senza
riguardo che fossero piuttosto di Silla che di Mario; e i miserabili
avanzi della proscrizione sillana, ovverosia i figliuoli poverissimi
dei doviziosi padri stati legalmente assassinati, vaganti per Roma come
larve a questuare l’indispensabile obolo.

A questo momento trovavasi la vita di Lucio Sergio Catilina, quando
recossi a Cesare. Allorchè Sallustio Crispo stava leggendo a Cesare un
rotolo del suo _Commentarium rerum urbanarum_, la milesia Laja avrebbe
dovuto cogliere quel punto per ritrarlo. Nato essenzialmente scrittore
e ardente di fiamma intellettuale, si animava di un impeto insueto
allorchè declamava o leggeva qualche cosa di proprio o d’altrui. Allora
la sua faccia, bruttissima quand’era nella calma dello spirito o nella
concentrazione del pensiero, assumeva qualche cosa che, mentre era
refrattaria all’arte, pur riusciva ad appartenervi, soggiogandola,
quasi per conquista del più forte. I ritrattisti possono destare
entusiasmi strani, riproducendo di tali faccie, anche senza far gran
fatica; chè i punti salienti e le stravaganze e la vivacissima movenza
dan già il dipinto bell’e fatto. Sallustio aveva i capelli rossi
(rufi) copiosissimi, inanellati, scendenti fin quasi ai sopraccigli,
_rufi_ del pari e densi e grossi e arcuati — parevano due sanguisughe
sovrapposte agli occhi per placarne il lampo infiammato — e gli occhi
aveva non grandi, ma di quel glauco venereo che accusa il moto del
cervello traducentesi a un tratto in conflagrazione sensuale. La voce
avea sonora, profonda come quella del leone. Tre figure più dissimili,
e nel tempo stesso più attraenti e caratteristiche di quelle di Cesare,
Catilina e Sallustio, non era possibile trovare nemmeno allora, nemmeno
a Roma. Era il vitreo prisma triedro riflettente tutti i raggi del
mondo romano.

Nato di padre plebeo, ma non poverissimo, potè questi avviarlo allo
studio delle lettere greche; e l’oratore Apollodoro si meravigliò di
lui giovinetto, com’erasi meravigliato di Catilina; anzi nel ginnasio,
volle contrapporlo a quest’ultimo per suscitarne un’emulazione feconda;
e ciò che è strano, Catilina che voleva primeggiare in tutto, non sentì
mai invidia di Sallustio, forse per la propria notevole superiorità,
di cui Sallustio ebbe invidia: la quale ricomparve poi, a chi ben la
cerca, nel famoso libello. Sallustio era, in confronto di Catilina,
quel che Cicerone era in confronto di Cesare; il soggiogatore delle
Gallie e l’eroe fulminato di Perugia certo che avrebbero superati
ambidue, se non avessero avuto altro per il capo.

Ma Sallustio si addentrò più e più negli studj, e con tale ardore,
che sapeva a memoria i brani più insigni di Sofocle, e i passi d’oro
di Tucidide e Senofonte e le oda di Pindaro e i canti afrodisiaci
d’Anacreonte e alcune delle parti mirabilissime dell’artista Platone
assai più che filosofo. Declamava di maniera che anche lo zotico
centurione, indurito nell’armi, si faceva attento alla sua voce e
concentravasi in sè e dimenticava i castri e le guerre invocate. Le
più illustri dame romane gareggiavano per averlo nelle proprie dimore;
e più di tutte la _eminente_ Sempronia, famosissima allora, talchè è
famosa anche oggi; quella Sempronia dotta in greco e in latino, prima
nell’arte del canto e del ballo, bellissima fra tutte le belle donne
tiberine, ma ambiziosa ed aspirante a potenza ed a glorie virili;
il Catilina del suo sesso, in una parola; talchè ebbe poi seco a
confederarsi.

Ingraziatosi il così detto bel mondo dell’antica Roma, invitato,
adulato, pregato dalle donne romane a intrattenere le loro adunanze
perchè era anche eloquentissimo e audace nella disputa, onde, anche
per la voce sonora, spesso metteva altri a tacere; si sentì portato
all’eleganza, e, venduti gli augusti poderi aviti, tutto si diede al
lusso ed agli amoreggiamenti, e, credendosi avvenente, si condusse come
se lo fosse, e raccolse i premj dovuti alla sua fiducia. Usufruttando
la fama di giovine dottissimo, credette opportuno di continuare
quel _Commentario_ romano che non sappiamo da chi sia stato iniziato
primamente in Roma.

Divenuto ricco, accrebbe le eleganze e sdrucciolò alle dissolutezze,
pur tra la toga azzimatissima e i compri e non compri baci innestando
il greco di Tucidide e le armonie d’Omero.

A guardar certe apparenze e lasciando inesplorato il profondo
dell’animo, parrebbe di scorgere qualche somiglianza tra Sallustio e
Foscolo. L’eminente Sempronia, nelle pieghe del cui peplo il Romano
inciampò, parrebbe somigliare a quella lombarda inclita patrizia,
dotta in molti idiomi, bella come Venere, dalla cui rete afrodisiaca si
lasciò prendere l’Italo-Greco moderno.

Ma, a non trarre altrui in inganno, giova il dir tosto che la generosa
figura di Foscolo nè deve nè può entrare nell’accennato confronto.

Solo, certe somiglianze personali e talune abitudini della vita
privata e l’eccellenza nell’arte e la fama non moritura di ambidue, ci
suggerirono questo fuggitivo raffronto.

Ma Sallustio nacque povero e morì ricchissimo e di ricchezze
derivategli dalle genti espilate; laddove Foscolo nacque agiato e morì
in esilio e poverissimo, senza ottenere un frutto delle sue opere,
indarno celebrato.

Sallustio fu il satellite perpetuo di Giulio, lo seguì, lo adulò,
lo incensò quasi nume. Foscolo invece stette solo in piedi in mezzo
all’universo prostrato davanti al Cesare moderno. — È questa una
solenne grandezza che lo redime di tutti i suoi peccati.

Ma si ritorni al Cesare antico.




IV.

ATTICA ACCADEMIA DI MUSICA E POESIA NEL PALAZZO DELL’EMINENTE SEMPRONIA.


Nelle aule del palagio di Sempronia, eretto sull’aristocratico
Palatino, per l’ora della _primæ noctis intempestæ ad mediam noctem_
era stata invitata la classe più alta, più elegante di Roma, onde
assistere ad una _attica accademia_ di musica, di canto e di danza.
L’_eminente_ Sempronia prediligeva tutto ciò che richiamava la Grecia,
nell’idioma della quale ell’era insigne.

Gemeva Roma divisa in più partiti, la miseria affannava crudelmente
le derelitte plebi, gli odj imperversavano tra gli uomini nuovi e la
classe senatoria, e fervevano odj e inimicizie implacabili pur tra
senatori e senatori, tra patrizj e patrizj, tra console e console: era
una guerra di tutti contro tutti; guerra che perdurava per l’arbitrio
dei prepotenti che tutto avevano invaso, per la maestà delle leggi
strascinata nel fango, per la dea Giustizia esule dal suo tempio,
e fatta oggetto di scherno, ridotta qual era a larva di minaccia
senz’ajuto di pene inesorabili. Eppure su questo fondo procelloso,
su questa immensa negra acqua acherontea non mancavano le apparenze
di un perpetuo gaudio, di una ricchezza babilonese inesauribile, e i
circensi costavano tesori; ed Emilio Scauro spendeva duemila talenti
per l’erezione di un teatro temporario, ornato di trecentosessanta
colonne e di tremila statue; e le tuniche, e i pepli, e i flammei, e
le vesti femminee accusavano l’oro profuso, per le perle e per le gemme
dell’Indo, e i coralli e le cocciniglie dell’Eritreo.

È a un tale spettacolo che assisteremo nelle aule della _eminente_
Sempronia.

Nell’ora seconda della notte esse cominciarono ad affollarsi.

L’aula _magna_ mostrava nel pavimento un mosaico di Eraclito, scolaro
di Sosos, rappresentante le danze efesie; nella vôlta, era assiso un
Apollo citaredo tra le nove Muse, dipinto del greco Marco Plauzio Ceta.

Sei giri di sedie dorate stavano disposte a gradi e in emiciclo —
nel mezzo era quel che diremmo l’orchestra, per chi doveva suonare,
cantare, declamare; a questa si accedeva per una porta, attraverso la
quale, quand’era dischiusa, vedevasi una lunga fuga di sale, tutte
quante illuminate. Una reggia d’oggidì appena potrebbe venire al
confronto di quelle magnificenze d’allora. E venne l’ora che l’emiciclo
fu tutto gremito di viri togati e di pretestati giovinetti e di matrone
e di fanciulle. Brillavano di gemme le _zone_ ond’esse avean cinti i
fianchi; alcune portavan la _vitta_ o il _reticolo_, foggia adoperata
a far pompa della stessa prolissità delle chiome, sotto colore di
nasconderle:

    _Vitta coercebat positos sine lege capillos;_

altre avean coperto il petto del capizio, e dei suoi nodi s’eran
strette a dismisura per comparire più gracili e più aggiustate di vita:

    _Demissis humeris, cincto pectore, ut graciles fient._

Gli uomini di toga e di spada, allora già famosi in Roma, comparvero
ultimi, il che, o per vanità o per altro, fu sempre fatto dagli
antichi e dai moderni, e si adagiarono su certi stalli di greca
fattura addossati alle pareti laterali dell’aula. Comparvero Pompeo e
Lucullo; comparve Pomponio Attico; elegante la toga di un partito di
pieghe che sembrava preparato da Fidia, si mostrò Ortensio, l’oratore
numeroso ed a cadenze musicali, e nel quale più che il genio impetuoso
dell’eloquenza valevano i lenocinj dell’arte la più ricercata, e nelle
vesti appunto ne mostrava riprodotto lo stile; ed entrò Marco Tullio
Cicerone, a cui tutti volsero gli sguardi. E in vero, che malgrado
il vario frastuono dell’aula magna, e l’impaziente aspettazione degli
intervenuti, e i discordamenti accordati de’ suonatori già comparsi in
orchestra, soffianti nelle trombe argive ed egizie, e ne’ flauti frigj,
e pizzicanti cetre e formingie e testudis e magadis e anacreontici
bárbiton, siam costretti a fermarci più di quel che comporterebbe
il momento innanzi a questa grande tanto quanto eccezionale figura
dell’antichità.

Esso aveva la fronte amplissima e sì sporgente alle regioni del
sopracciglio, che gli occhi parean protetti da una tettoja; e quelli
avea profondi e di smorta luce e accusanti miopia, chè solea stringerli
ogni qualvolta mettea attenzione nel guardar qualche cosa. Pure da
quella cavità profonda e da quella semispenta luce, usciva di tant’in
tanto un baleno specialissimo di arguzia gioconda e amabilmente
ironica, che pareva rivelasse un perpetuo e filosofico sorriso
dell’intelletto.

Il _quam ridiculum consulem habemus_ onde Catone ebbe a definire poscia
in pieno Senato il carattere di Cicerone, manifestossi in quella stessa
notte, appena ei si mise a sedere tra Pompeo e Lucullo, chè, girato
lo sguardo intorno, tosto, parlando sottovoce con loro, liberò il
volo a tali celie e scherzi ed epigrammi, che Lucullo rideva ad ogni
sua parola, e Pompeo, che non avrebbe voluto compromettere la dignità
imperatoria con risa scomposte, s’affannava a comprimerle, onde, per
la legge appunto della compressione, più violento che mai e plebeo gli
scoppiò un cachinno, che fece volgere su di lui tutte le pupille delle
dame romane.

Di lì a poco entrò Clodio, il giovinetto Clodio tanto bellimbusto,
azzimato e amante riamato delle tiberine beltà, quanto facinoroso
e accattabrighe sanguinario. Nessuno, nemmeno il più esperto
investigatore d’indoli umane, avrebbe potuto indovinare quel che
stava sotto a quelle formose apparenze; e come le chiome di femminile
mollezza e il volto imberbe di etrusca perfezione potessero dissimulare
un carattere sì feroce e protervo, e un cuore fatto d’agata, assai
più che di ferro. Soltanto la qualità della sua voce poteva renderlo
sospetto: chè quella non era nè maschile nè femminile, e mandava
de’ suoni misti come se fosse ancora in quella età critica in cui
l’adolescenza si svolge alla gioventù; e anche l’occhio, sebbene di
linee fidiache, mandava tratto tratto un guizzo di luce sinistra e
serpentina, che tosto si spegneva, quasi che una pellicola simile a
quella dell’avoltoio discendesse a coprirne la pupilla.

E in compagnia di Sallustio apparve Catilina. Il primo si recò
nell’orchestra. Catilina, torbido e accigliato e manifestamente
convulso, se ne stette in piedi, chè tutti gli stalli erano occupati.

Entrato quasi di celato alcuni minuti prima, aveva gettato l’occhio
lungo i gradi dell’emiciclo dell’aula magna per vedere se vi stesse
già seduta la sua Aurelia Drusilla, non la Dorestilla di cui parla
Sallustio, e che era già stata abbandonata da Catilina; — ma Aurelia
non vi era. Chi gli stava presso s’accorse che, messosi l’indice
tra’ denti, se lo compresse. Irrequietissimo uscì di nuovo, percorse
tutte le sale, discese alla soglia del palazzo. In quel punto per sua
fortuna, Aurelia balzava a terra dall’aureo cocchio, preceduta da due
servi e accompagnata dall’ateniese Armodio, suo commentatore quotidiano
di Omero ed Esiodo e d’Aristofane e dei tre tragedi. Catilina,
tramutatosi in viso di tratto e mandando luce dagli occhi e sorridendo,
le si mise d’accosto; ma, a un tratto:

— Tu, di recente, hai versato lagrime, le disse.

— Sì, rispose Aurelia, e ognora ne verserò finchè Tullo non sia mandato
a militare in qualche remota provincia.

— E che dunque avvenne?

— Quel che un tempo ogni dì, prima che venisse a morte l’infesto
Cetego; e il figlio è peggiore del padre, ed è mio figlio. Nessuna
madre al mondo fu mai tanto bistrattata come da costui. Però tu ne sai
la cagione, o Sergio.

Catilina si rifece cupo; seguìto dall’ateniese Armodio accompagnò
Aurelia presso Sempronia, la quale in solitario recesso stavasi
provando al canto accompagnata dal citaredo Psosias. E tosto Sempronia
si recò nell’aula magna, insieme con Aurelia, che pure doveva aver
seggio nell’orchestra, come la più insigne, in quel tempo, suonatrice
di _simikion_, specie di lira da quaranta corde accordate all’ottava a
due a due.

Appena Sempronia e Drusilla si mostrarono in orchestra, proruppe un
lungo applauso, al quale successe il più profondo silenzio; e comparve
allora Giulio Cesare; un prolungato bisbiglio femminile turbò il
silenzio alla comparsa di lui, che non a caso venne ultimo.

Anche nel secol nostro fu notato che gli uomini i quali furono o
vollero diventare illustri, sempre, quasi sovrani, comparvero ultimi ai
ritrovi e ai banchetti e alle feste cui erano invitati. È il desiderio
ognor vigile che li affanna di staccare sul fondo della buja folla come
individualità raggianti. Alle mense della veneziana Teotochi, lord
Byron, questo Cesare non riuscito, fece sempre attendere per più di
mezz’ora i commensali mormoranti d’impazienza.

Giulio Cesare, non vedendo stalli vuoti, si collocò, stando in piedi,
presso a Catilina. Sallustio era entrato in orchestra, e del suo _vale_
sonoro diretto a Sempronia e Drusilla echeggiò tutta l’aula magna.

E proprio dirimpetto a Catilina, tra il vano d’una porta d’ingresso
e lo stallo dov’era assiso il maestoso Pompeo assai più che Magno,
venne a piantarsi un giovinetto in pretesta, dalla faccia fierissima ed
arrotante gli occhi come bissonte provocato, e li fissava su Catilina
sfacciatamente.

Figlio del defunto Cetego e di Drusilla Aurelia, matrona di appena
trentatrè anni, e insigne di non superabile beltà, talchè pareva
non varcasse il quinto lustro, egli odiava Catilina, quantunque il
proprio zio fosse amicissimo di colui, di un odio che anelava di
tradursi in atti di sangue — l’odiava per il disdoro che la madre
propria si fosse invaghita di uno scellerato sanguinario, e più forse
perchè, doviziosissima qual ella era, veniva a metter tutto nelle mani
dilapidatrici di colui che, per forza, voleva diventargli marito.
Tra il figliuolo e la madre i dissidj e le rampogne e le ingiurie
duravano assidue da tempo, e un dì ei si lasciò trarre a percuotere il
bellissimo volto materno, ond’essa, apertasi con Sergio, questi giurò
di mettere in brani quell’adolescente furioso.

Ma eran già aperti sui leggii i rotoli della musica, i cui segni
stavano a quelli d’oggidì, ossia alle note di Guittone d’Arezzo, come
i numeri latini agli arabici. La musica romana, che era pur sempre la
greca, constava nientemeno che di 845 segni, così per le voci come per
gli strumenti, e venivan rappresentati dalle lettere dell’alfabeto,
naturali, rovesciate, inclinate, accentate, dimezzate.

L’accademia doveva aver principio da una sinfonia composta dal citaredo
Psosias, d’Atene, il quale, chi mai lo penserebbe? ad onta che l’idioma
della vocale sua patria, tutto soave di eufonie, e già musica per sè
solo, avesse dovuto di preferenza innamorarlo della melopea, pure, al
pari del più _irto_ contrappuntista tedesco, s’affannava di comparir
dottissimo nella _ritmopea_; la quale da tutti i musici greci era
stimata più importante degli stessi pensieri e delle stesse idee. Era
già l’arte della decadenza ellenica, per la quale vennero nel massimo
dispregio i canti semplicemente sublimi che avean messo il tumulto nei
cuori dei contemporanei di Sofocle. Nulla v’è di nuovo sotto al cielo,
e la grandezza dell’arte che sta nel semplice, essendo sempre dono di
pochissimi, tosto dall’impotente mediocrità viene disprezzata, perchè
gli uomini in ogni sfera e dell’azione e del pensiero e delle sue
diverse discipline ostentano di tenere in nessun conto quel che sono
impotenti a raggiungere.

E per verità, che quella sinfonia, sebbene perfettissimamente eseguita,
non piacque troppo all’uditorio, e dispiacque a Cesare intendentissimo
dell’antica musica greca; a tal che non si tenne in silenzio, e: —
_Bene, optime_, gridò a Psosias colla sua voce armoniosamente sonora, —
tu sei profondo al pari d’Archimede; — ma quegli coi numeri di Pitagora
e coi segni d’Euclide aperse nuovi cicli agli umani intenti. — Tu
invece, a chi servi tu? l’arte non deve servire che all’arte — officio
della musica è di esprimere alla sua maniera i pensieri e gli affetti.
Tutti i tuoi greci poeti furono sommi perchè fecondarono di idee e
scossero di efficaci commozioni chi li leggeva e li ascoltava. Ma tu e
i tuoi Greci moderni riduceste la musica ad un vuoto e sterile rumore.
Tuttavia, sei dotto, o Psosias — e ammiro le tue fatiche; bensì mi
lagno teco, perchè, percuotendomi l’orecchio, mi opprimesti il cuore,
vietandogli che battesse più alacre. Ed ora salvaci tu da tanto gelo,
o eminente Sempronia, col tuo canto divino; e tu pure, o Aurelia, dalle
dita vocali. —

Allora assurse la _eminente_ Sempronia. Ella fu la prima forse tra le
donne tiberine ad ottenere in dono dai concittadini quel predicato
di _eminente_. Questo le fu concesso e a significato delle doti
eccezionali della _decòra forma_, e delle virtù dell’intelletto,
e delle tre Grazie che pareano averla tenuta in custodia fin dalla
culla; ed anche perchè, a sollievo di chi non voleva toccar l’accusa
d’adulazione, essendo nata a Tivoli, derivava dai luoghi _eminenti_
della campagna romana e da’ suoi dolci colli. Anche oggidì si chiamano
_eminenti_ a Roma le donne cresciute sugli alti suoi poggi. Sempronia,
che i devoti amanti chiaman _diva_, avea questo di specialissimo, che
rendeva completamente il tipo antico e perpetuo della donna romana;
quella tremenda austera beltà che già tenne Clelia attraversante
il Tebro sotto i dardi nemici, e nel tempo istesso nell’arco del
sopracciglio e nel suo frequente aggrottarsi qualcosa che richiamava
la erinnica Tullia trasvolante sul cocchio parricida. Il volto di
Sempronia, precisamente come si osserva anche oggidì nelle più belle
Tiberine, era il trionfo della legge dei contrasti, la legge massima
dell’arte; severa e chiusa in sè, pareva una divinità sdegnata
che fulminasse i mortali. Ma se appena il sopracciglio si alzava e
tremolava il raggio della pupilla e il sorriso rivelava il tesoro dei
denti eburnei, tosto pareva dischiudersi un luminoso olimpo; a tal che
quel repentino trasmutamento aveva, quasi diremmo, tutti i caratteri
d’una solennità.

Non aveva che ventisei anni, e com’era il trionfo della bellezza era
anche il trionfo del peccato:

    E il peccato era in lei fatto natura.

Orfana di padre e di madre e ricchissima, sebbene fosse liberale di
soccorsi ai miseri, la sola virtù morale che avesse, non isdegnò i
lautissimi doni de’ suoi amanti, presentantisi talvolta in processione,
e paghi, sebbene fossero consoli e proconsoli e sacerdoti di Giove
e d’Apollo e duci dei cavalieri, di ottenere una minima quota dei
suoi sguardi, che dall’alto faceva cadere su di essi quasi fossero
pioggia d’oro. Era tempra di Semiramide colei, dall’ampia mente fatta
al dominio, e dal cuore non mai commosso proclive alla tirannia. Pure
avea una strana deferenza per Sallustio Crispo, deferenza, non amore,
perch’egli sovente doveva pure acconciarsi ad essere spettatore di
erotiche accademie.

Ma se lo storico sembrò ai posteri fatto di diamante, l’uomo ai
contemporanei apparve duttile come verga di sanguinella.

Annunciata da un preludio suonato da Drusilla sul _trigono_, ella cantò
un canzoncino di Anacreonte.

In quel canto, perchè le regole trovate dall’arte non sono che una
riproduzione della natura, v’era quasi tutto ciò che si ammirò nella
musica posteriore. Ella sfoggiò scale ascendenti, ossia l’_Agoge_,
e dalle basse balzando di tratto alle note alte con felicissimi
ardimenti, si fece ammirare in quella che chiamavasi _Ploke_, e
il limpido zampillo della voce prolungava sulle note tenute con
inalterabile eguaglianza, per virtù della _Jone_.

Dopo di lei Drusilla, accompagnata dal flauto frigio, suonò un concerto
sul _simikion_; e Psosias toccò la cetra, in cui era inarrivabile,
provocando le lodi di Cesare, che esagerò per compensarlo del rabbuffo
onde prima lo aveva investito, e del quale erasi pentito, perchè troppo
gli premeva di non inimicarsi nessuno.

Ci fu un quarto d’ora di riposo.

Catone, il rigido Catone, che aveva passeggiato nelle altre aule,
involandosi dispettoso alle blandizie della musica ch’ei soleva
chiamare _effeminatrice d’eroi_, comparve sulla soglia perchè
seppe che Sallustio Crispo, l’incomparabile declamatore, stava
per esporre il terzo canto dell’Iliade. Comparve, prese una sedia,
s’accostò all’orchestra, e, incrociate le braccia, stette ascoltando
attentissimamente.

Sallustio, annunciato che quel canto della Iliade era una traduzione di
esametri latini di ignoto scrittore, cominciò la recitazione. Più che
le donne stettero attenti gli uomini di spada.

Agli esperti, a Cicerone in ispecial modo, parvero stupendi e di nuova
eleganza quei primi esametri; e mirabilissimo quel passo onde Ettore
investe Alessandro di contumelie:

                    E non la cetra
    Ti gioverìa, nè quelle ciocche e il viso,
    Nè Venere e i suoi doni, ove la polve
    Ti contamini in campo. Oh se i Troiani
    Fosser men sofferenti, io ti vedrei
    Vestito di una grandine di pietre
    E pagato oggimai d’ogni lor lutto.

Gli esametri latini recavan forse davvero questa perfettissima
concinnità dei versi Foscolani.

Onde l’artista Cicerone non seppe trattenersi, e gridò:

— Non v’è poeta antico del Lazio; non Ennio, non Nevio, non altri, che
abbian scritto di tali carmi. Però se tu sei il felice traduttore, o
Crispo Sallustio, giacchè so che tieni altissimo ingegno, dillo, ch’io
ti bacerò sulla fronte.

— Non io, rispose Sallustio, ma è Giulio Cesare astante, che ora mi
fulmina degli occhi perchè ho tradito il suo segreto. Ei me li diede a
leggere, facendomi giurare che a nessuno al mondo li avrei mai dati a
vedere. Ma se a rompere un tal giuramento ho bene operato, lo dica il
tuo senno, o Marco Tullio; e Cesare mi perdoni.

E Cicerone attraversò tutta l’aula, si fermò innanzi a Cesare, e,
alzatosi, lo baciò in fronte, esclamando:

— A grandissime cose sei nato, o Giulio, io te lo annuncio..... e
sempre ti circondi Venere de’ suoi raggi, Venere la tua grand’ava
celeste. —

Proruppe un lungo applauso, e le fanciulle tenevan gli occhi intenti
sul giovinetto Giulio; che, stringendo la mano a Tullio, chinò il capo
girando lo sguardo intorno a ringraziar l’uditorio, ma con tale maestà,
che sembrava prenunciasse l’agitar della testa del Giove futuro.

E l’accademia vocale, istrumentale e poetica si sciolse, e dai gradi
dell’emiciclo discesero matrone e fanciulle; e tutte precorse da famule
eleganti, che dovevano apprestare altri seggi, passarono nell’aula
delle danze.

L’ora era tarda, l’_inclinatio mediæ noctis_ era già sopravvenuta.
Si cominciarono le danze, delle quali era conduttrice l’instancabile
Sempronia. Si produssero balli egizj, incessi etruschi, danze argive.
La decadenza di quest’arte non era ancora avvenuta; toccava infamarla
all’osceno Nerone. Ma allora, tuttavia, segnatamente nella danza
argiva, le movenze, gli atteggiamenti, i passi, il girare e l’inclinare
delle teste, la flessione delle braccia, il piegar delle dita, tutto
si proponeva l’intento di suggerire alle arti plastiche giri di linee
elegantissimi e scelti contorni e lievi protervie dissimulate da casti
sguardi.

In ultimo comparvero Sempronia e Drusilla in costume di Niso ed Eurialo
venuti a gareggiare in mezzo ai giuochi del campo dì Enea; e danzarono
accompagnandosi coi _crotali_ che dall’antico Ilio eran passati in
eredità alla gente latina. Fremettero a quel ballo audace (primo
annuncio di decadenza) i giovani romani, e acuti ardori li investirono
allo spettacolo di quei popliti fatali e di quelle pafiche gambe,
tradite agli sguardi dalle lievi e brevi tuniche che si alzavano troppo
spesso. Ma più di tutti fremette Catilina di forsennata fiamma; e
fremette il sedicenne Cetego maledicendo alla beltà materna.

E sangue, scellerato sangue, apprestò quella danza.




V.

L’IRA DI CETEGO.


Come cessò quella danza fatale, cui susseguì un urlo d’applausi
baccanti; e intanto che si disponevano a novi balli, novi attraenti
côri di alfesibee e alfesibei, Giulio Cesare fermò Catilina.

— E perchè, gli disse, ti aggiri irrequieto e terribile, così che
sembri un tigre bramoso?

— Tengo l’averno qui — quegli rispose, premendosi il cuore col pugno
serrato.

— Ma e la gloria della donna tua non ti lusinga invece? non ti accomuna
agli Dei?

— Sì, tutto che vuoi.... se non vivesse quell’irto cignale di fanciullo
che tu vedi or là... in fondo...

— È il figlio di lei. — Impara dunque a sopportarlo.

— Lo tentai; mi feci acuta violenza; ma colui non sopporta me... nè la
madre... e un dì fu sì feroce e codardo che la percosse in volto. Però
ei deve andar sotterra, e presto.

— Ami tu Aurelia davvero?

Catilina guatò Cesare con lampeggiante pupilla, e:

— Tu me lo chiedi?... Roma, l’Italia, il mondo, tutto che sta in cielo
e in terra, manderei in isfacelo io... per questa donna, a me, oltre
ogni umano pensiero, dilettissima. E così dicendo, strinse della
propria con sì tenace stretta la mano di Cesare, che questi ne diè
segno doglioso in un fuggitivo aggrottare del ciglio.

— Senti, Sergio, disse allora Cesare... Io mi propongo di renderti
amico e ligio il giovane Tullo, se concedi che in questa istess’ora io
gli parli. — Vedi ch’ei sta in profondo abboccamento colla giovanissima
Servilia, sorella a Catone; terrestre Ebe che lui infiamma d’amore,
come Roma vocifera. Non v’ha macigno che, tocco in sì rovente bragia, a
placito nostro tosto non si squagli.

— Hai seco parlato altre volte?

— No.

— Dunque vedo che non lo conosci, se credi ammansarlo. Però, se ci
riesci, ti ringrazierò ammirando.

E Cesare, lasciato Catilina, scansando con leggiadria i danzanti côri,
s’accostò ai due giovani. Ei non aveva mai parlato nè con l’uno nè con
l’altra; inoltre, è quasi ingiunzione di legge, l’aliare disattenti e
inconsapevoli e ciechi intorno a due che sieno infervorati in amoroso
colloquio. Ma Cesare invece infranse la legge di colpo, e si fermò
innanzi ad essi, e li guardò fisso; ma con sì benigna movenza di
pupilla, che nè a Servilia nè a Cetego venne in mente di chiamarlo
importuno; — e Cesare, inclinatosi tra l’una e l’altra testa:

— Cari colloquj io interrompo, soggiunse, ma contemplandovi invidioso
da lungi, sentii la necessità di gratularmi con te, o giovinetto
Cetego, che tanto premio ti meritasti; e con te, fanciulla, che Ebe a
me sembri: Ebe dalle chiome fragranti di nettare e ambrosia, fidente in
costui, il quale mi sembra una promessa di Marte.

Sorrise a Cesare Servilia d’ineffabile sorriso, pur tacendo, l’animo
grato le brillò nella pupilla: e Cetego li fissò pure, ma di uno
sguardo involontariamente fiero; chè natura gli aveva per tal modo
modellato il fortissimo ciglio, che mal poteva atteggiarsi a dolci
movenze: e codesta fierezza, che pareva dovesse renderlo inamabile alle
donne, era quella appunto che le traeva a sè, dominandole, e sovente
anche involontarie.

— Belle parole tu ne dici, o Cesare, esclamò poi... ma se son belle
pronunciate da te, ben migliori sarebbero, e a me più profittevoli, se
venissero dalla scellerata mia madre, e dall’inflessibile fratello di
costei.

— Nè tua madre è scellerata, nè inflessibile è Catone. Però, se lo
concedi, vorrei per poco trattenermi teco.

Dopo queste parole, Servilia essendo stata invitata a nove danze,
Cetego s’alzò, e:

— Sono con te, soggiunse; ma già ti avviso che tu alimenti impossibili
speranze. Non c’è altro che il ferro, nè altra dea che Nemesi a cui mi
affidi.

Cesare precedette, recandosi sopra un terrazzo del giardino pensile.
Cetego il seguiva; ma il giovinetto Clodio gli si attraversò allora
dicendogli:

— Che vuol Cesare da te?

— Lo saprai.

— Bada che i miei servi son pronti.

— A che i servi? Basto io solo in ogni modo.

— No, Cetego. Colui ha sempre seguaci numerosi di notte. Provvedi a te.

— Ora attendi. Tosto ritorno.

Il palazzo di Sempronia sorgeva sovra un dei più alti declivi del monte
Palatino. Dal terrazzo ove Cesare erasi recato, vedevasi gran parte
della sottoposta Roma, quella segnatamente che da porta Romanula si
estendeva fino alle stazioni dei municipj. Nereggiavano sull’azzurro
cielo in gigantesche proporzioni la basilica Porcia e la Opima e la
Fulvia Emilia; illuminate dalla luna, potevansi contar le colonne del
tempio degli Dei Penati e di quello di Castore e Polluce e della curia
Ostilia. Cesare, a guisa di chi vagheggia un latifondo cui sospira
di possedere, osservò, prima di parlare a Cetego, quella maestà
romana accresciuta dalla notte e dal cielo profondo e dai confini
indeterminati pel giuoco delle tenebre in contrasto colle varie ed
ampie macchie bianche della luce lunare. — E questa posò sulle figure
di Cesare e di Cetego, tagliando il viso di quest’ultimo, di maniera
che la parte inferiore era in ombra, spiccando netta la superiore,
la quale pareva uscire, come di soppiatto e sospettosa, da una selva
densissima di capegli a larghe anella, che, al par di quelli che si
vedono nel busto di Lucio Vero, aveano la loro radice a mezza fronte,
e insieme coi sopraccigli congiungentisi fitti all’inizio della linea
nasale, davano un aspetto terribilmente fantastico a quella testa
giovanile, cui Cesare artista ed esploratore di caratteri guardò a
lungo; e in guardarla, parea pensasse: Or vedo che le mie saran parole
al vento.

— Dimmi, o Cetego, entrò primo a parlar Giulio Cesare, hai tu fiducia
in me?

— Più di quella ch’io ho in altri, perchè tu sei il più giovane di
quanti hanno già qualche fama in Roma.

— E non per altra ragione?

— Sì, anche pel tuo ingegno, come assicura il greco Armodio; e perchè
sei il primo nel cogliere il bersaglio col pilo; e perchè sei il solo
che freni il cavallo pancia a terra tenendo le braccia intrecciate
dietro le terga.

— E non per altro?

— Altro non so di te... Ma della giovinezza in fuori... nessuna tua
virtù mi aggiunge fiducia... perchè quelle che ti ho accennate, se
saranno utili a te, temo possan riuscire dannosissime agli altri.

— Sebbene tu mi dica ingiuria, pure mi congratulo teco che in sì
giovane età parli, se non con senno verace, certo con tutte le
apparenze e le scaltrezze di un senno che par fatto d’esperienza.

— Chi rimane orfano ancor fanciullo, impara assai prima degli altri a
vivere e a giudicare degli uomini. Io poi non ebbi che affanni e dolori
atroci nella casa mia... Mio padre morì trentenne... e ancor ne ignoro
il come.

Qui Cetego stette muto un istante, poi ripigliò:

— Sventuratissimo colui che nacque da madre bellissima, la quale,
giovane tuttora, vede crescersi innanzi, quasi assiduo rimbrotto, un
figliuolo di tale apparenza ed aitanza e forza, che minaccia di farla
parer vecchia innanzi tempo.

— Ami tu la madre tua?

— No.

— E perchè?

— Per corrispondere all’odio suo...

— E come puoi credere ch’ella t’odii?...

— Insultando alla propria fama, ella insulta alla mia... però mi odia...

— In che modo insulta alla propria fama?... Il suo nome echeggia
dovunque in suon di lode...

— E di che lode mi parli tu?... mal t’infingi, o Cesare... e concedi
troppa importanza al fatto che nella vita mi precorri di sette anni. Ma
pensa che la mente mia è forte e scaltrita, come è virilmente muscoloso
codesto mio braccio gladiatorio. Guarda, o Cesare — e squassò al chiaro
di luna il suo braccio dritto, di sì poderosa apparenza, che se allora
vi fosse stato il dinamometro, esso ne avrebbe di tratto oltrepassato
la misura.

— Se la densità delle braccia fosse espressione d’intelletto.....
Ercole sarebbe Apollo..... Ajace avrebbe cantato Ilio invece di
Omero.... Burro, il gladiatore, tuonerebbe dai rostri come Tullio.....

— Degli altri io non so... Ben di me so questo... che mi sento uscito
d’adolescenza, e, precorrendo natura un buon tratto, or mi trovo
compiuto sì di fuori che di dentro e nel corpo e nell’animo al par di
chicchessia... E guai a chi s’attentasse insultarmi.

— Lode a te, o Cetego; ch’egli mi sembra sii stato battuto all’incude,
dove già stridette il ferro di Mario. Or se tu sarai quel che or
sembri, Roma dovrà gloriarsi del nome tuo.

Queste cose diceva Cesare; ma nell’intimo provò in quel punto per
Cetego la stessa inesplicabile avversione che Silla aveva sentita
per lui; ma Silla aveva palesato quel che Cesare dissimulò con arte
profondamente lusinghiera, intanto che a Cetego porgeva la mano, la
quale non fu respinta, ma nemmeno accolta dall’arcigno fanciullo che
tosto soggiunse:

— Non posso stringere la mano che stringe quella di Catilina. — Anche
di ciò mi loderai, o Cesare?

— Ammiro la tua sincerità selvaggia, non l’errore del tuo giudizio...

— Io detesto Catilina, assassino e fratricida. E tu, Cesare, ti
contamini della sua velenosa dimestichezza.

— Tu non lo conosci; nè conosci i fatti che detesti. — Ti do tempo
sette anni a darmi ragione.

— Nè sette, nè settanta. Odio quell’uomo, e l’odio mio è fatto
disprezzo. Però da questo punto, guaj se egli s’attenta di riporre
il piede nella casa degli avi miei. Sulla soglia di quella io farò di
lui quel ch’ei fece di Gratidiano in riva al Tevere. Lo giuro ai numi
dell’Averno; ad essi consacro il suo capo scellerato.

— Ma dimmi, o Cetego, hai tu il diritto di vietare alla madre tua di
venir sposa a quell’uomo che più le piace?

— Ne ho la volontà, se non ne ho il diritto; se poi tu parli di
Catilina, anche il diritto è con me.

— E credi che Aurelia tua madre debba obbedire a te, quasi a padrone?

— Non a me padrone, ma più che a padrone, al tiranno _onore_. E in
forza di questo io comando nella casa dei Cetegi.

— E Servilia? Non pensi a Servilia?

— È a lei che penso, e se Catone mi è avverso, non è già perchè io sia
Cetego, ma perchè sono il figlio dell’amante di Catilina.

— E se io parlassi, e se Catone non opponesse più l’inesorabile sua
parola ai desideri tuoi... e se la divina Servilia diventasse tua
moglie.... allora, pago di te stesso, non ti placheresti con tua madre,
col suo marito futuro?...

— Marito futuro? Ma chi è, ma chi ha ad essere costui?

— Non andare in escandescenze, o giovinetto; e giacchè ti credi già
degno della toga virile, fa che a me non sembri di soverchio la tua
pretesta. Or su, dêssi far senno e provvedere al tuo avvenire, pel
quale già temo.

— Altri piuttosto dee tremar per il proprio.

— Tu sarai padrone nella casa tua. Io farò in modo che l’intero asse
paterno venga tosto nelle tue mani; nè altri ti debba più governare.
Questo ottenendo, come puoi tu pretendere che altri debba essere tuo
schiavo?

— Non m’importa nè d’asse paterno, nè di libertà, nè di padronanza,
nè d’altro; quel che ho detto, ripeto, e quel che voglio, esser deve.
Intanto, io ti prego, o Cesare, di riferire a Catilina, che se questa
notte pensasse mai di toccar la soglia della casa dove io sto.... là si
fermerebbe cadavere, nel proprio sangue immerso.....

— Ti credetti acciajo da Mario... Or non mi sembri che zanna da tigre.
Però ti rinselva, e fa la tua strage se ti riesce. E Cesare, senz’altre
parole e senza saluto, lasciò Cetego sul terrazzo.

Le danze proseguivano. Cesare attraversò le sale, venne a Catilina, e:

— Nulla c’è a fare.

— Ben te lo dissi.

— Or devi star sull’avviso, o Sergio. Colui ha propositi di sangue, se
tu non rinunci a Drusilla, se non rinunci a metter piede nella casa dei
Cetegi.

— Quando così si vuole, quasi urlò Catilina allora, domani ella sarà
mia sposa... e stanotte dormirò nella casa dei Cetegi. E lui, lui
stesso padrone ultimo dell’antico palagio, getterò dalla torre che
guarda Tevere; e lunge lo scaglierò, come Pirro fece d’Astianatte, ed
Ercole di Lica. Lo giuro ai numi.

— Lascia i numi lassù, e a te provvedi. Ma le aule si vuotano, chè
l’ora del _conticinium_ è presta. Che pensi di fare or tu? Attendere il
_diluculum_, o uscir tosto?

— Uscir tosto, e in modo che Cetego se n’accorga. Spesso lo vidi in
colloquio con Clodio, il quale mi guatava bieco. Vo’ vedere se avran
l’audacia di seguirmi.

— Attenditi il peggio, o Sergio.

— Ho braccia strenue e daga sotto la toga, com’è mio costume di portar
sempre; e una siepe di giovani indebitati che strappai sovente alle
ugne dell’usurajo.

— Ed io verrò teco.

— No, piuttosto veglia in disparte, e governa le fila non osservato.

— Sia. Ma or vedo là Catone. Voglio parlargli; e mi par che stia
levando dal seggio la sorella Servilia. Colui affetta di non tener
cocchio, a pompa d’austerità e ad imitazione dell’arcavolo; — così il
piè leggiadro di lei dee inzaccherarsi, per la stranezza fraterna, nel
fango tiberino. — Ma ciò mi dà il pretesto di farmi loro compagno lungo
la via, sì che Cetego ne sia disciolto. Vo’ sentire quel che di costui
pensa Catone. È affar di breve ora. Dalla casa di Catone, ritornando,
terrò la via più dritta e più breve... Tu, se ti rechi al palagio
d’Aurelia o al tuo, fa di fermarti in veduta della via Sacra.

E Cesare lasciò Catilina, e volando a Catone, che già pareva partirsi
con Servilia, e prevenendo Cetego che veloce le si accostava:

— Or esco teco, o Catone, se me lo concedi, che di grave affare ho a
intrattenerti. E prima ti supplico ad attender qui un istante, che del
breve indugio mi darà venia Servilia tua; Servilia, raggio del cielo.

Catone non disse nè sì, nè no. Ammiccò del viso alla sorella, quasi a
dire: che tedio!... pur si dee aspettare.

E Cesare cercò allora di Sempronia, che erasi ritratta con Aurelia, la
quale tutta affannosa, le stava parlando.

— O Aurelia, Cesare le disse; vengo per ammonirti di non ti staccar mai
per questa notte dal fianco di Sempronia.

— E che altro avvenne? Oh parla. Io tremo ancora dei feroci propositi
di Sergio. E Cetego mi fulminava or ora con sanguigna pupilla. O
Dei!... — e Aurelia cadde in ginocchio, e aggiunse palma a palma, e
protese lo sguardo in alto e pronunciò preghiere.

— Circondati di calma, o Aurelia, esclamò Cesare, e in me ti affida. Ed
or salvete, o donne.

Così le lasciò, venne a Catone e del braccio sostenendo Servilia tra la
folla che si accalcava agli esiti del palagio, passò innanzi a Cetego
fermatosi per salutar Servilia, la quale gli rivolse un lungo sguardo,
da cui parevano uscir parole chiarissime di rimprovero amaro e di
cocente desiderio.




VI.

AURELIA E CATILINA.


Cesare accompagnava Servilia, sorreggendola del braccio, con eleganza
molle che non pareva promettere il futuro mangiator d’erbe condite in
olio guasto. Eppure la futura cortesìa resa alla agreste cordialità
degli abitanti del cisalpino villaggio, aveva un nesso con quella
eleganza comandata dall’eccezionale istante e dalle braccia olimpiche
della attraente Servilia. Accanto al giovane Cesare, col Cesare già
tenuto in Roma nelle sfere dove la dea Voluptas avvolgeva la gioventù
delle sue rosee nubi, veniva Catone, chiuso in sè, severo, col capo
basso, tutto ad angoli e a cateti, come il teorema di Pitagora. E a lui
disse Cesare:

— Catone, mi son proposto di commuovere la tua sapienza che ha tre
lustri più della mia e accenna alla natura del diamante, la quale
taglia e non si lascia mai tagliare.

— Parla, o Giulio.

— Puoi tu permettere, o Catone, che in codesta già tanto infelice
e contaminatissima Roma, debba avvenire una scena turpe di sangue,
essendone provocatori e volendone essere autori uomini della classe più
insigne, e pur essi insigni di qualche virtù?

— Non so nè a chi accenni, nè a che; però parla più chiaro.

— Chiaro io ti parlerò, e così che me ne farai rimprovero. Concedi
adunque, e tosto, che Cetego impalmi Servilia.

Catone lo guardò senza rispondere. Servilia accennava a Cesare di non
proseguire.

— Tu avresti dovuto parlarmi di questo fuor della vista e dell’udito
di costei; pur ti ringrazio d’aver fallito alla più volgare prudenza,
perchè di tal modo parlerò una volta sola invece di due.

— Fu dunque alta prudenza la mia e profonda cognizione dell’indole
di Catone se omisi i riguardi che ai mezzi uomini si concedono.
E Servilia, se è tua sorella, deve essere di tal tempra da non
isgomentarsi di cosa nessuna, e avere il diritto di sapere ciò che la
riguarda.

— E lo sappia.

— Perchè dunque tu, suo tutore saviissimo, le contendi la sua felicità
suprema?

— E in che fai tu consistere la felicità?

— Nel conseguimento dei propri desiderii.

— Va bene. Ma qual tempo tu concedi ai desiderii, perchè debbano
considerarsi atti di ragione e di salute, e non già di esaltazione e di
febbre?

— Non occorre il tempo per giudicar della ragionevolezza del desiderio.
Cetego, giovane ricco e patrizio, ama Servilia adolescente, beltà
meravigliosa, sorella di Catone. Se qui non trovi la ragione compagna
dell’affetto, dove la cerchi tu?

— La cerco nella durabilità del contento. Ma Cetego sarà figliastro
dell’aborrito Catilina, onde tu già vedi quanti guai futuri. Ma anche
senza di questo, Cetego è tal tempra che riesce insopportabile a me,
che voi tutti, pel mio rigore, chiamate insoffribile. E costei, questa
fanciulla, questa bizzarra creatura, per la _forma decòra_ impasto
d’Ebe, come espressero le tue parole, ma pur anco impasto di Nemesi e
di Lubenzia, come io ne so, mal verrebbe opportuna a colui che tiene
la cervice di porfido e il cuor più duro della cervice, e aspira già al
dominio e ad essere inesorabile con tutto e con tutti, pur non varcando
i tre lustri che di un anno solo. Però se Giove lo fulminasse, lo
giuro a te, o Cesare, io farei ecatombi a Giove. Se Cetego vivrà, tutti
saremo schiavi... tutti, e tu pure, o Cesare giovinetto, che io non amo
per la stessa causa onde aborro colui... Ma tu hai i capelli di seta e
la pelle lucente, quasi argilla di Cipro, onde lusingandomi che Venere
possa assassinar Marte, ancor ti sopporto. Tu non potrai mai negare la
sincerità del mio labbro.

— Ti ringrazio, o Catone, che tu mi stimi oltre il valore. Ma di ciò
sarà giudice il tempo. Ora, solo mi preme che tu veda la sincerità onde
mi faccio intermediario fra te e Cetego. Io desidero stornar delitti,
e tu vuoi alimentarli; però non so bene qual più valga del tuo senno
maturo o del mio che gl’inconsapevoli potrebber credere acerbo.

— Qual senno tu abbi non so; ben so che di raggiante intelletto ti fe’
dono l’arcavola tua. — Ma verrà giorno che mi giudicherai; e questa
Servilia, al cospetto della quale, pel grande amore appunto ch’io
ho per lei, ora sembro crudele, mi chiamerà pietosissimo invece e
salvatore suo. Non so se Cetego vivrà, perchè i violenti trovan sempre
morte innanzi tempo, ma s’egli mai avesse a vivere vita completa,
avventurati coloro che si saranno involati al suo dominio. Ricordati,
o Giulio, di queste mie parole.... e salve. La mia dimora mi attende,
e il _diluculo_ è presto. Catone il censore, la gloria della casa
nostra, nacque là in quel cadente palagio, dove io nacqui e costei e
il fratello mio, che pure io amo di profondo amore, e pei quali, dopo
questa mia cara Roma, che sarà eterna, tutto io darei. Inflessibile
mi credete, e lo sono, e comprendo gli affanni di questa giovinetta
amante non scaltrita; ma a chi più costi la mia inflessibilità, tu
lo considera, o Cesare, guardando le mie lagrime, che a dispetto mi
prorompono dagli occhi. E guardami tu, o Servilia, e perdona alla mia
crudeltà, perchè è fatta d’amore. Salve, Cesare.

Catone andò innanzi; Servilia, salutando, guardò Cesare con lunghissimo
sguardo, e in esso v’era l’amore per Cetego, amore che parea presentire
la morte; e v’era, nel tempo stesso, il primo vaghissimo afflato di
un affetto novo, che, per arcani processi, spuntava allora allora
dall’inconsapevole cuore.

Cesare, rimasto solo, nel silenzio della notte, rimeditando la figura
tutta di Servilia, quasi pittore che volesse colorire un ritratto senza
guardar altro e non fidandosi che dell’abilità della mano interprete
della tenace memoria, dimenticossi della moglie pur giovine e bella,
in quei giorni primaverili ridottasi a Tivoli per usufruire aure più
salubri: se ne dimenticò e pensò a Servilia, e considerando quella
grazia soave e quella greca gentilezza di forme, e quella pelle pastosa
e fragrante quasi fosse migliaccio e mandorla insieme; e quell’occhio
ineffabile dove il lampo dell’intelletto parea asperso di voluttà,
sentì gli assalti d’una voluttà eccedente, la quale essendo per la
prima volta _cesarea_, toccava un ideale non comprensibile se non
da chi alla natura di un poeta concitato al sublime confederasse le
effervescenze di faunina protervia; la quale appunto si rivelava nel
labbro tumido del giovinetto Giulio. Assorto in tali pensieri, progredì
la via.

Il palagio di Catone, poco oltre il simulacro di Venere Claucina e le
taberne argentarie, prospettava la _via Sacra_ tra il foro Pescatorio e
il tempio di Giano superiore.

Cesare, sostato un istante, sentì un lontano suono di voci e grida.
Accelerò il passo. Ei non aveva daga, chè quando non militava avea
per costume di non portar mai armi. Venne a’ primi limiti della via
Sacra. Protese l’orecchio, sentì suon di ferri, e apponendosi al vero,
accorse. Or che cosa era avvenuto?

Catilina, prima di lasciar la casa di Sempronia, erasi recato presso
di lei, per levare Aurelia e accompagnarla, in cocchio, al palagio
dei Cetegi — chè Cesare non gli aveva detto nulla di quanto avea
raccomandato ad Aurelia stessa.

— Le aule si vanno vuotando, e tu rimani, Aurelia? così le disse
Catilina con una blandizie d’accento, che parea venire da tutt’altro
apparato di voce.

— E che?... Cesare mi pregò di non staccarmi dal peplo di Sempronia.

— Ringrazio Cesare del pietoso consiglio, e più dell’averlo taciuto a
me, chè ben sapeva l’avrei respinto. Ma la moglie di Sergio Catilina
non deve involarsi a pericolo nessuno. Pensa, Aurelia, che io testè
giurai a Cesare che domani innanzi all’ara noi saremmo consacrati
marito e moglie. Or quel che io giurai a Cesare puoi tu giurarlo a me?

Aurelia taceva...

— Puoi tu giurarlo a me? ripeteva Sergio quasi ruggendo.

— Giuralo, disse ad Aurelia la virago Sempronia.

Aurelia si scosse e:

— Non è bisogno che nè tu, nè questi mi sollecitiate. Quel che già
dissi, esser deve. Quest’uomo fortissimo sarà il marito mio. — Lo
giuro ai numi — e già lo è, senza che un’ara splenda d’inutile fiamma.
Prendi, o Sergio, e stringi la mia nella tua mano; basti quest’atto per
attestare a tutti ch’è indissolubile il nodo.

A tali parole il volto di Catilina raggiò d’insolita luce, baciò in
fronte Aurelia, baciò sulle gote Sempronia.

— Ed ora si vada alle tue case, soggiunse ad Aurelia, ed io verrò teco.
Cetego morente ti lasciò, finchè tu vivi, l’utile dominio di essa. —
Ti assidi adunque padrona là donde vorrebbe scacciarti lo scellerato
figliuolo.

E il figliuolo, non scellerato, ma caparbio, avendo visto uscir Cesare,
e indarno aspettando la madre e non sapendo imaginare dove Catilina si
fosse recato, si partì dal palagio di Sempronia insieme con Clodio.

Partì stretto al braccio del veramente scellerato suo amico, d’indole
felina; e d’uno in altro passo, seguito dalla canaglia romana che
l’amico assoldava, sen venne all’avito palagio. Toccò la soglia Cetego
e chiese all’_ostiario_, che era un negro dell’Abissinia e già parlava
la lingua del Lazio:

— È rientrata la madre mia?

— No.

— E nessun altro?

— No.

— Più non comprendo, o Clodio, allor soggiunse all’amico, il quale
ascoltava tacendo e irrequieto che già non ci fosse cagione da menar le
mani.

«Ebbene, entriamo noi, Clodio; e questa tua plebe passi insieme; ella
sarà inaffiata di falerno.

Clodio, fatto un segno ai seguaci che a un suo cenno si trattennero
in un lungo e cupo androne, varcò il limitare con Cetego, il quale
rivoltosi all’ostiario moro:

— Bada che nessun altro deve metter piede stanotte in questa mia
casa....

— Pensa che tua madre non è ancora entrata, rispose il moro.

— Non parlo di mia madre, o stoltissimo, ma di chiunque non appartiene
alla famiglia dei Cetegi.

— Ma...

— E che hai a dire?

— Domando a te, domine, che cosa io dovrò dire a Catilina se...

— Se... prosegui...

— Se, come di consueto, venisse qui?

— Guarda questa riga fatta di marmo rosso... Ebbene... se Catilina,
entrando, osasse varcar questa riga, tu in quell’istante morirai.

— Ebbene, io morirò. Ma non sta nelle mie forze il respingere colui.
Un dì che m’indugiai a rispondere, mi rovesciò là d’un colpo di mano, e
ancor ne porto il segno; però comandami, o Cetego, cose a me possibili,
e obbedirò; e in ogni modo aggiungi a me altri servi i quali mi
aiutino.

— A un sol tuo cenno — guarda là quanta gente è addensata — a un sol
tuo cenno dunque, saran qui tutti per aiutarti.

Appena Cetego ebbe finito di parlare, che durando il più profondo
silenzio per l’attenzione paurosa e dell’ostiario e degli altri servi,
si sentì non molto da lungi un rumor profondo di ruote. Cetego stette
in ascolto, e, incrociate le braccia sul petto e piantandosi sul
limitare colle gambe a centina, quasi dovesse sostenere una vôlta,
stette attendendo, presago, il cocchio materno.

E il cocchio veniva infatti, solenne, cupo, lentissimo; chè, dopo
disceso dal palagio di Sempronia che stava in luogo eminente, doveva
risalire il declivo per toccar quel dei Cetegi.

Cominciava il primo _diluculo_ colla sua luce fredda e misteriosa.
Nel cocchio d’oro sedevano Catilina e Drusilla. Ai lati di esso,
giacchè ascendevasi il declivo a passo, procedevano in spesse schiere i
giovanetti amici di Catilina; e dietro al carro pur procedevan serrati
gli amici e i clienti di Sempronia; e, a qualche distanza, scorgevasi
una nube di schiavi a lei devoti; e davvero che pareva une nube,
eclissandosi al suo passaggio le argentee chiazzature della morente
luna. Quel pittore che amasse inspirarsi a Roma antica, e volesse
anche ritrarre uomini e donne eccezionalmente grandi sì nel bene che
nel male; e volesse ritrarre Catilina ed Aurelia nel loro cocchio
d’oro, non dee far altro che rammentar il carro dove l’incomparabile
Sabatelli pose a sedere Jezabele e Acabbo minacciati da Elia, intanto
che i bruni cavalli, guidati dall’inconscio auriga, facevano sterzare,
allontanandole dall’infesto profeta, le tardissime ruote.




VII.

LA MORTE DI CETEGO.


Cesare dunque accorreva dalla vetusta casa dei Catoni: Aurelia e
Catilina assisi nell’aureo cocchio, discendevano per il clivo Palatino:
Cetego sul limitare dell’avito palazzo li attendeva colle braccia
conserte e col labbro inferiore compresso dai denti. La casa dei
Cetegi sorgeva tra i rostri della Curia, il fico Ruminale e le statue
di Pitagora e di Alcibiade; Silla avrebbe voluto farla distruggere
perchè turbava il sistema architettonico del Comizio per le adunanze
curiate, e del Foro romano. Non la rispettò che per deferenza al padre
di quel giovine tremendo e per la grande antichità dell’edificio a
stile etrusco, di cupa e quasi sacerdotale apparenza. La facciata
prospettava la parte settentrionale del Foro romano; e Cetego, sebbene
fosse assorto in terribili pensieri, pure, attratto dalla maestà
degli edificj, guardava il tempio di Saturno a sinistra e quello
della Concordia a destra e il portico Capitolino, e più in alto quel
del Tabulario, e più in alto ancora le sommità degli edificj del
Campidoglio, a cui sovraemineva il gigante frontone del tempio di Giove
e la gran macchia bruna del dio fulminante che staccava sul glauco
cielo di quella Roma luminosa anche di notte.

Cetego tendeva l’orecchio al rumor cupo e ancor lontano delle ruote
del cocchio materno, e aspettava impaziente; e il cocchio discendendo
il clivo passò innanzi al sepolcro dei Cinzii, e alla basilica Porcia,
e alla corinzia rotonda dei Penati, e venne a Giano superiore e
oltrepassò l’arco Fabiano e il simulacro di Venere Claucina. Aurelia
tremò quando vide il fico sacro Ruminale che sorgeva non lunge
dalla sua casa. Catilina stesso si scosse ed aggrinzò la fronte e di
sdrajato che egli era si mise eretto in sulla pelle di pardo. E il
carro svoltò e fu in veduta della casa di Cetego, e Cetego mandò un
cupo bramito come il leone che vede la preda. Tutti i liberti e gli
schiavi e alquanti gladiatori dalle poderose membra ch’egli cresceva
nei sotterranei al pugilato come oggi nelle stalle si crescon poledri
alle corse, si strinsero intorno a lui. Allora l’auriga, sollecitato
da Catilina, sferzò i cavalli spingendoli a tutta corsa, talchè,
trattenuti, appena sostarono davanti a Cetego che quasi ne andava
travolto. I seguaci del cocchio di Aurelia si misero a gran corsa
anch’essi, sparpagliandosi lungo la via, come frammenti di una fitta
nube, la quale di nuovo si raddensò intorno al cocchio quando fermossi
di tratto innanzi a Cetego. E Catilina sorse e balzò in terra e porse
il braccio ad Aurelia che, non osando, si trattenne.

— Tu, Aurelia, discendi invece, gridò allora Cetego — e risalga
costui e si rechi alle sue case, chè queste soglie non hanno ad esser
contaminate mai più dal vile suo piede.

Catilina non rispose che col terribile suo sguardo, e non fece un
passo innanzi per allora — parea perplesso; Cetego guatava fisso
Catilina e stava, come tigre, per balzargli addosso, ma non si mosse
per allora — anch’egli parea perplesso; Aurelia, alzatasi, stringeva
di una mano il balteo dorato del cocchio, tenendo il dritto piede in
quello, e il sinistro a terra, incerta di quel che si facesse, e cogli
occhi spalancati e vitrei e fissi al figlio che non guardava lei.
Ci fu istante in cui il silenzio fu così profondo, che quella folla
densissima d’uomini parean larve inanimate, e a pochi passi fuor di
quella scena sariasi detto che là c’era solitudine.

Ma a un tratto:

— Eroe assassino, gridò Cetego, eroe di rapine, eroe drudo. Se le leggi
non stessero là inutili e disprezzate, deposte indarno nelle arche del
Tabulario, tu già da tempo saresti stato strangolato nei sotterranei
del carcere Mamertino. Ma non solo assassino, ma non solo ladro, ma non
drudo solo, ma vile tu sei, chè non hai cuore di avanzarti d’un passo.

Catilina ruggì a quei detti, e, tratta la daga, si slanciò di tratto su
Cetego, che, pur colla daga stretta in pugno, lo attese imperterrito,
immobile; e il fortissimo colpo di Catilina parò col braccio
fortissimo. Aurelia si ritrasse in cocchio gridando: — T’arresta, o
Catilina, per colei a cui sagrifichi io ti scongiuro. — Non ferire, o
Cetego, per l’ombra del padre tuo ti supplico in ginocchio.

Catilina, a quelle supplichevoli grida, sentì fatto più debole il ferro
di Cetego, che fu invaso da un orror sacro udendo invocata l’ombra
paterna; e certo avrebbe potuto ucciderlo allora, se anche a lui il
ferro non fosse crocchiato in pugno, chè si sgomentò di uccidere il
figlio di colei, per amor della quale avrebbe ceduta l’ambita Roma ai
nemici. Intanto la turba degli schiavi di Sempronia, sguainate le armi,
si strinsero intorno a Catilina, come per proteggerlo; e incontanenti
fecero lo stesso i servi di Cetego, il quale si vide accerchiato da
tutte le parti, gridando tra gli altri un gladiatore: — «Io, io, mi
batterò per te. Non c’è nessuno più forte di me in Roma.»

La rauca voce millantatrice del gladiatore non indarno fu intesa dai
gladiatori di Sempronia, che si sentirono offesi per sè medesimi.

— E or la vedremo, gridò uno fra tutti, e avanti, e penetriamo le porte.

E le due schiere avverse si slanciarono contemporaneamente l’una
sull’altra mandando un urlo, che rintronò assai lungi. Così tanto
Catilina che Cetego rimasero serrati in mezzo, come se comandassero un
battaglione quadrato.

Fu allora che Cesare, staccatosi da Catone, a quell’orrendo urlo
accelerò il passo, e più e più procedea veloce come l’Apollo d’Omero,
il sagittario Apollo, quando nella sua terribilità s’affretta a
saettare il campo acheo. Procedea, non armato, agitando colla destra
una verghetta elegante ch’egli solea sempre portar seco. Era quello
un costume dei più eleganti giovani di Roma, quando, svestite le
armi, passeggiavano la città. Chi la avea d’avorio, chi d’ebano, chi
d’argento e d’oro, chi d’altre materie. Quella di Cesare era fatta con
osso di crocodilo, e avea la virtù di esser duttile ed infrangibile;
all’estremità di quella elegante verghetta luccicavano al raggio lunare
due palle d’oro; ma non erano d’oro altrimenti, eran di piombo.

Tutto era calcolato nelle abitudini di Cesare. Mescolandosi egli spesso
nelle taberne colla più turpe feccia romana, trovandosi sovente a tu
per tu con qualcuno dei gladiatori stati messi in libertà, ubbriachi
di falerno guasto, e però facilissimi agli insulti ed alle risse, egli
comparendo non mai armato, era però sempre più armato degli altri; e
avea l’arte di non lasciarsi mai uscir di mano quella verga e di non
lasciarla toccare nemmeno ai più fidati amici.

Quando Cesare si trovò a quel punto della via Sacra che tocca il clivo
Palatino, si fermò per lasciar passare un cocchio dove sedeva Sempronia
colla testa alta e come stesse ascoltando; e i cavalli erano flagellati
a precipitarsi a pancia terra. Intanto che altri ed altri uomini
armati correvan giù a rompicollo pel clivo seguitando il cocchio,
Cesare continuò la via rapido ancor più, ma senza correre; gli sarebbe
sembrato di smarrire dignità, pur in faccia a sè solo.

Intanto che Cesare s’affrettava, Servilia, chiamata anch’essa dagli
insoliti urli, e sospettando ogni danno (chè nelle aule di Sempronia
già erasi accorta apprestarsi alcunchè di terribile), e temendo per
Cetego, non ebbe timore di nessun’altra cosa, neppure del fratello
Catone che erasi ritratto in biblioteca; — e disse a tre ancelle che
avevano vegliato per aspettarla dalle danze: — Abbiate pietà di me,
vogliate seguirmi. — Osiamo. — Sentite questi urli — oh Numi!!... Hanno
ammazzato il mio Cetego — fate presto.

Le ancelle amavano quella bellissima tra le fanciulle di Roma, la
quale, satura come era di onda erotica, era naturalmente portata alla
gentilezza carezzosa, e amava le ancelle quasi fossero sorelle sue. —
Ond’elle:

— Noi ti seguiamo, Servilia; ma e il fratel tuo?

— Zitto — usciamo — nessuno parlerà. E vennero alle soglie dove
vegliavano due servi. Allorchè questi videro Servilia, fecero per
opporsi. Essi tenevano ordini severi, in seguito a quanto era avvenuto
con Cetego. — Ma Servilia li saettò con tale sguardo, dove imperava il
comando e s’umiliava la preghiera e a coloro parea raggio di Olimpo,
chè non fecero più motto; e Servilia uscì accompagnata dalle tre
ancelle.

Uscite che furono, Servilia affrettò il passo così che parea volasse;
e le ancelle sebben tutte giovani, la seguivano con lena affannata.
Spirava il vento crepuscolare e svolazzavano i veli a quelle
fanciulle. Servilia era sempre innanzi all’altre, e a lei svolazzava,
crepitando, la vesta azzurro-stellata. Parevan le _Ore in ritardo_ che
s’affrettassero a raggiungere il sole che stava per sorgere fra pochi
istanti.

E giunsero innanzi alla casa di Cetego nel punto che Cesare,
soverchiando colla sua voce squillante e già imperatoria il frastuono
orrendo:

— Sospendete i brandi, gridava; vi scongiuro per Giove che di là vi
guata e par che accenni di fulminarvi. Sospendete i brandi, ho detto; e
tu parti, o Catilina, e tu entra nelle tue case, o Cetego.

— Non sarà mai ch’io mi parta di qui senza entrare nella casa
d’Aurelia, chè di Aurelia è la casa e non di costui.

— Nè quest’uomo di sangue entrerà mai a contaminare la dimora degli avi
miei. Lo giuro.

— Parti dunque, o scellerato, gridò allora a Catilina l’imberbe Clodio
scelleratissimo.

— Parti, o Catilina, gridò medesimamente il gladiatore che primo colla
sua millanteria aveva suscitato la pugna.

Catilina sentendosi così insultato da uno schiavo, non ebbe più
ritegno, e gli si gettò addosso. La lotta era orribile.

Ma Cesare accorse, e percosse di tal forza il cranio del gladiatore,
che quello fu visto procumbere tosto al suolo, come il toro virgiliano
sotto al cesto d’Entello.

Allora Cetego che amava quel suo fedelissimo schiavo, già tanto caro
al padre, si avventò furibondo su Cesare che si scansò, percuotendo
nel tempo stesso il braccio del giovane; e accorreva Catilina in
soccorso di Cesare, e un nugolo di servi da una parte e dall’altra si
azzuffarono in orrenda miscela. Mandava acute strida Aurelia dall’alto
del cocchio. Sempronia, la virago Sempronia, eccitava i proprj servi
a difendere Catilina. Servilia domandava ad alta voce Cetego, che non
sentiva più nessuno. E la pugna continuava; e Cesare, Cesare stesso
in quel punto più valoroso che assennato, armato la sinistra della
sua verga, la destra di una daga che aveva raccolta da terra, faceva
strage a destra e a sinistra, invulnerato sempre. Ma nel turbinío della
mischia, Catilina cercava sempre di Cetego, e Cetego di Catilina;
ond’essi si trovarono ancora dirimpetto e si azzuffarono. Ci fu un
punto che Cesare era rimasto solo, chè tutti gli eran caduti d’intorno;
e allora s’accorse di Servilia che a gran voce continuava a chiamar
Cetego, e vedendo Cesare, passò imperterrita sopra i cadaveri e:

— Salvami Cetego, o Cesare, gli gridava; tu lo puoi.

— Non lo posso.

— Ah spietato!

— No.

— Ahi, Catilina gli è sopra.

— Pietà, Catilina, gridava Aurelia.

Ma la daga di Catilina penetrò in quel punto nel petto di Cetego, e
questi cadde colla daga infissa.

In questo istante affannato e cupo giungeva sul luogo Catone, il
quale, saputo di Servilia uscita, accorse là sospettando; e in mezzo a
tutti quanti, alla caduta di Cetego fatti immobili e muti, stette muto
anch’esso, e vide Aurelia balzar dal cocchio e accostarsi al figlio e
inginocchiarsi e piegarglisi sopra.

— No, madre, va. Io scendo a trovare l’ombra del padre mio. Va. — Io ti
consacro ai numi dell’Averno.

E in quest’istante, volendo i servi estrargli la daga dal petto:

— No, disse, la vita ne uscirebbe tosto col sangue. Rammento
Epaminonda. Ma prima di morire ho bisogno di dir parole a tutti.

Aurelia, sempre in ginocchio, rigate di largo pianto le guancie,
guardava il cielo.

— Romani, quanti siete qui: io muojo e appena ho varcato il sesto e
decimo anno. Catilina, uccidendo me, si tolse dinanzi colui che certo
gli avrebbe vietato di assassinar la patria, ch’egli ha in animo di
ferire, come già fece con Gratidiano e col fratel suo. O Catone, che or
vedo qui, a un morto puoi credere, giacchè a me vivo non credesti mai.
Ma la tua sapienza fu inutile per me, chè non giungesti a comprendere
qual anima forte si celava dentro a questo corpo. Io idolatrava questa
mia Roma, al par di te e più di te, o Catone, sebbene così giovane;
e la idolatrava come si fa con chi, piagato già da orrende sventure,
pur ci accorgiamo che il fato gliene prepara di irreparabili. I suoi
assassini vivono tutti, ed io muojo, io che forse l’avrei salvata.
Giovane io sono, ma molte cose io vidi e previdi e so e prevedo.
Cassandra era giovane. — In questa patria mia infelicissima, tutta
infestata di ambiziosi, di fedifraghi, di concussatori, di ladri,
di traditori, di meretrici uomini e donne, io muojo incontaminato;
il peccato non mi toccò; e così io mi serbavo, perchè senza la virtù
dell’animo e senza il corpo fortificato dalla fisica virtù, nessuno
potrà aspirare ad amar la patria ed a salvarla; il maestro mio,
parlandomi di Socrate, mi disvelava tutta la sapienza di quell’Uomo
Nume. Ed ecco perchè mi percuotesti a morte, tu primo, o Cesare. Tu
mi temevi, e tu, non so con qual potenza furiale, mi fiaccasti il
fortissimo braccio, che poi non resse a quel di colui che là mi guata;
e certo ei sarebbe caduto primo, se tu non eri, o Cesare.

E tacque; e Servilia, neppur trattenuta da Catone, gli si accostò
allora, singhiozzando e tentando indarno di parlare.

— Non piangere, Servilia, esclamò Cetego. Va, va in pace. — Tre lustri
tu conti appena, e Venere ti colmò dei suoi doni. Va. — Altri ti
ameranno; altri amerai tu.

Catone trasse indietro Servilia.

E Cetego, dopo un istante, si squarciò la tunica e se la strappò di
dosso.

A quell’atto inconcepibile, gli astanti strinsero il cerchio.

Ed egli si trasse la daga, e dal petto balzò il sangue a fiotti. Allora
ei v’intrise la tunica e ve la inzuppò: — poi si alzò con uno sforzo
sovranaturale e, fatti alcuni passi barcollando, si collocò in modo da
poterla sbattere di quanta forza aveva sul volto a Catilina, che tutti
trattennero dal precipitarsi sul moribondo; e il sangue quasi minuta
pioggia spruzzò d’intorno ad aspergere quanti eran là presso; e il
volto di Catilina non avea parte che non fosse insanguinata e faceva
orrore la luce degli occhi suoi guizzante in quella tinta.

Cetego cadde col capo indietro e là giacque.

Sorgeva il sole.




VIII.

MORTE D’AURELIA.


Sempronia, previdente per Drusilla Aurelia, che, sempre in ginocchio e
immobile, stava là sul campo funesto, collo sguardo intento ed attonito
e senza espressione; la fece portare nel proprio cocchio, e senza che
quella volesse o non volesse, seco la trasse e ricoverolla nel proprio
palagio.

Catilina salì nel cocchio d’Aurelia e, strappate le redini all’auriga,
sferzò egli stesso i cavalli e involossi e, fermatosi in riva del
vicino lago di Giuturna presso al tempio di Castore e Polluce, lago
sacro, discese, e tutto vi si deterse, quasi a scongiurare gli avversi
numi e il fato, e l’orrore che, pure ad onta dell’animo efferato,
avealo invaso sentendosi e vedendosi intriso di tanto sangue. Si
ritrasse poscia all’avita casa sul Palatino; donde, rimandato il
cocchio d’Aurelia, uscì nel proprio qualche tempo dopo e sollecitò i
cavalli fino a Nettuno, vico in riva al mare, dove tenea sontuosa villa
ed ampio agro e lungo tratto di terra aspro di fittissima pineta. Ai
coloni, ai servi, agli schiavi ingiunse con minaccia di morte, nessuno
osasse por piede in quella selva; e là ei si ridusse, affrettando passi
in assidua irrequietudine, e giacendo sulla nuda terra e mandando urli
di disperazione. I coloni e i servi lo udivan esterrefatti, quasi una
fiera s’aggirasse colà, e sentivan sovente il nome di Aurelia cupamente
echeggiato nella calma della notte.

Sbollita l’ira contro Cetego, dopo la morte di lui; inorridito di avere
ucciso il figlio di Aurelia, per la quale egli ardeva di erinnico
amore; pensando che dessa lo avrebbe respinto da sè, e in olocausto
dell’estinto e per timore dei Romani che certo avrebbero fatto segno
di pubbliche contumelie la donna che si fosse sposata all’uccisore del
proprio figlio; fu investito dal terrore d’averla perduta per sempre;
onde i gemiti, e gli urli, e il rifiutato cibo, e la barba lasciata
crescere in disordine selvaggio.

E intanto il cadavere di Cetego fu trasportato nella sua casa; il
giovane Clodio, non avendo Cetego nessun parente in Roma nè prossimo nè
lontano che gli chiudesse gli occhi e la bocca, come voleva il rito,
adempì al funebre ufficio, chiamandolo ad alta voce e più volte per
nome, quasi tentando di richiamarlo in vita, così pure richiedendo la
consuetudine; e il cadavere fu lavato e profumato dai _pollinctori_, e
poscia venne esposto nel vestibolo della casa coi piedi rivolti verso
la porta; e un vaso d’iridescente murrina colmo di acqua lustrale fu
posto vicino al capo dell’estinto, che tutta Roma accorse per vedere;
e gli accorsi, segnatamente le donne, si aspergevano di quell’onda per
purificarsi.

Tre giorni stette esposto così, dopo i quali preceduto da suonatori di
flauto accompagnanti le nenie, e dalle piangenti prefiche, da donne
bianco-vestite e redimite il capo di corone, da una folla d’amici e
conoscenti, tutti guidati dai _designatori_ portanti torcie, e tutti
cogli occhi fissi sull’_arcimimo_, il quale procedeva accanto alla
lettiga dov’era il cadavere e portava una maschera che ne ritraeva le
fattezze; perchè Cetego era patrizio e avea il diritto dei ritratti
(_jus imaginum_) accanto al feretro; i _vespilloni_ recavano i busti
del padre e degli avi suoi. Il convoglio attraversò il Foro, dove si
fermò, e qui il giovinetto Clodio, salito sulla tribuna, ne recitò la
laudazione; il più virtuoso dei giovanetti, il solo forse in tutta
Roma che fosse senza labe, doveva essere lodato da colui che, già
perverso e soltanto amato da Cetego perchè dissimulatore seco, dovea
poi recare al colmo la scelleraggine romana. Ma Catone, conoscitore di
Clodio, salì anch’esso dopo lui la tribuna, quasi a placar l’estinto
avendo la coscienza della propria virtù; e Catone discese in mezzo ai
gemiti degli astanti; e il convoglio stava per procedere quando Cesare,
attraversato il Foro, improvvisamente, con meraviglia di tutti, salì la
tribuna. I cittadini ch’erano accorsi nella notte della lotta funesta,
e assistendo alla morte di Cetego, avean sentite le sue parole estreme
accusanti Cesare qual prima cagione della morte sua, bisbigliarono al
primo e quasi furono per prorompere in tumulto alla comparsa inattesa
di colui pel quale Cetego era morto; ma il giovane Cesare, girato
intorno lo sguardo imperterrito e pieno di una calma sicura e fidente
che conquideva, comandò il silenzio e parlò:

— O Romani, o Roma tutta, chè vedo il Foro non bastare a contenere
quanti ella aduna di cittadini nobili e grandi e virtuosi e pietosi.
Voi avete bisbigliato al mio primo apparire; e il bisbiglio mi parve
fosse per tramutarsi in contumelia. Nè io mi lagno. Una voce mendace
corse per tutto ad accusar me della morte di questo più che sacro
tra i giovanetti mortali onde Roma, s’ei fosse vissuto, sarebbe stata
ancor più gloriosa e più forte; e, quel che meglio era da invocarsi,
la gloria e la forza sua, per virtù dell’anima divina che infiammava
queste strenue membra che qui giacciono senza vita, non avrebbero mai
più avuto da temere gl’invidiosi fati che a tanta gloria e a tanta
forza or vorrebbero far guerra, aiutati dagli scelleratissimi che,
non idolatrando che l’utile proprio, vedrebbero senza turbamento
messa tutta a soqquadro la sacra patria. Se questo io penso e dico e
solennemente proclamo, poteva io volere la morte di questo giovane,
che primo io compresi ed additai ad altri? _Promessa di Marte_ io lo
chiamai, e con questa lode che la verità e la giustizia mi dettavano,
io tentai di trattenerlo, deviando la bollente ira sua da propositi
non degni di lui. Tutto quello che per me si poteva io feci a stornare
l’orrenda sciagura che, preveduta da me, pur troppo, venne. Io
supplicai Catone, il virtuoso Catone, a conceder la mano di Servilia
a Cetego, perchè nel soddisfacimento del desiderio amoroso, ogni ira
svanisse e il sacro giovane fosse conservato a Roma. Catone è qui;
Catone conobbe dopo di me il grande animo di Cetego; Catone or ora vi
comandò le lagrime. Ed egli non sa mentire. Interrogate or dunque lui
se quel ch’io dico è il vero.

— Catone, con voce profonda: — è vero, disse.

La folla si raddensò allora e strinse più fitto il cerchio intorno alla
tribuna donde parlava Cesare.

— Che più? esso continuava, quando dalla casa di Catone sentii l’orrido
urlo notturno della battaglia funesta, m’affrettai per fermarla.
E, gettatomi nella mischia, supplicai Catilina a partire di là;
supplicai Cetego ad entrare nella casa sua; li supplicai colla voce
aspra dell’ira che il mio timore e la mia pietà rendeva imperterrita.
Tu Clodio, che sei qui, e strenuamente aiutasti l’amico tuo nella
lotta sanguinosa; per l’amore dunque che portavi a questo giovinetto,
proclama ora al cospetto di quanti son qui la verità delle mie parole.

— La proclamo, gridò Clodio, non iniquo in quel punto; e, volgendosi
alla folla, Cesare dice il vero, continuò, credete a lui; Cesare voleva
salvar Cetego.

— Sì, voleva salvarlo con pericolo mio, e se io non paravo il ferro di
Cetego che già mi era addosso per squarciarmi il petto, oggi io sarei
qui al suo posto. E bene sarebbe stato; chè io dispero di eguagliare
così santa virtù; ma l’amor della vita è irresistibile nei mortali,
onde mi difesi e lui percossi. E non ero nemmeno armato. Ed or datemi
venia, o Romani, s’io parlai di me; datemi venia e considerate che lo
feci per mostrarvi ch’io non era indegno di pronunciare il compianto
sul sacro suo capo. Ma ogni sua lode stia tutta in queste mie
esortazioni che ora rivolgo alla eletta schiera dei giovinetti suoi
colleghi che, ammirando e ringraziando, qui vedo, e che insieme con lui
dalle labbra inspirate di Antioco Scalonita beveste la divina sapienza
di Socrate. E Socrate era il Nume del vostro giovinetto collega, e
morendo lo nominò. Vogliate dunque, o giovani, imitare l’estinto amico
vostro. Senza virtù, ei disse morendo, non si può aspirare ad amar la
patria. Con queste parole sacre ei si fece l’elogio da sè stesso. Fate
dunque che riviva Cetego in tutti voi, o giovinetti, speranza della
patria. Fategli onore imitandolo. E la luminosa ombra sua, là nei
beati Elisi, esulterà sapendo che lasciò di sè così forte amore e così
profonda traccia nella sua Roma che tanto idolatrò. —

Cesare discese. L’ammirazione della folla compunta era al colmo.

Il convoglio mosse verso il campo di Marte, dove facevasi la sepoltura
dei patrizii; i cadaveri della plebe aveano le loro fosse nel campo
Esquilino. Il rogo era colà apprestato; chè dopo Silla e negli ultimi
cento anni della repubblica, l’inumazione era stata abolita pei ricchi.
Il rogo era costrutto di legno di tasso, di pino e di frassino, ed
era coperto di rami di cipresso. Il corpo fu unto di nuovo, e dopo
che Clodio ebbe alzate le palpebre e dischiusi gli occhi all’estinto
e messogli tra i labbri l’obolo onde pagar Caronte, il cadavere fu
messo sulla catasta che incendiata lo vestì di fiamme altissime, le
quali lo trasmutarono in cenere e in aride ossa, che, lavate poi con
latte e vino, furono deposte dentro un’urna funeraria. Gli _ustori_
la consegnarono a Clodio e a tre giovinetti dell’età di Cetego che
dovevano deporla nel mausoleo di famiglia, sorgente lungi da Roma in
riva al mare, presso Ponte Gatera. Le tombe dei ricchi venivan quasi
tutte erette in riva al mare.

Adempiuto a tal rito, il sacrificatore immerse un ramo d’ulivo
nell’acqua lustrale, ne asperse gli astanti ad intento di
purificazione; finalmente la prefica _princeps: — Ilicet,_ pronunciò
ad alta voce, e significava _ire licet_; e un lungo e suonante _vale_
pronunciarono in risposta più migliaja d’astanti che tosto partirono;
e Clodio e i tre giovinetti, saliti in cocchio ed abbraccianti l’urna
viaggiarono per Ponte Gatera.

Tre giorni appresso nel vetusto palazzo di Cesare, che pur sorgeva sul
Palatino e dove dimorava la moglie sua, fu dato il convito funerario; e
nove giorni più tardi, nel palazzo di Lucullo, il quale era parente dei
Cetegi ed era tornato in Roma due giorni prima, fu data, per compire il
rito, la grande cena, così detta la _Novendiale_. La cena fu apprestata
in Apolline, ch’era la più suntuosa delle aule di Lucullo. — Quando
i convitati entrarono, i cori espressero un lugubre canto greco, il
celeberrimo canto che già Alessandro aveva fatto comporre da Alchemene
citaredo e musico per i funerali di Efestione. Tutti i convitati erano
avvolti in un manto nero e stettero in piedi ad ascoltare un compianto
che Lucullo disse in greco, perchè era presente il filosofo Antioco
Scalonita che non conosceva la lingua del Lazio. Allorchè Lucullo
si tacque, una fanciulla tutta velata a bruno ed a cui due altre
fanciulle, pure in gramaglia, tenean sollevato il peplo, girò intorno
intorno porgendo a ciascuno quel medesimo vaso di pietra murrina
che, già deposto presso il cadavere di Cetego, avea contenuto acqua
lustrale; e in quel momento era colmo invece di falerno consacrato
all’ara di Bacco, e sorseggiato prima dalle rituali labbra delle
vergini vestali. Quei vasi di pietra murrina eran stati portati per la
prima volta in Roma da Pompeo, e li avea consacrati a Giove Capitolino.
Un sol vaso di quella pietra, volendolo la gara ambiziosa dei ricchi
sfondati, costava ingenti somme. Quello che allora girava intorno, era
costato ottanta talenti, quasi mezzo milione di lire italiane; e in
seguito costarono ancora di più. Nerone ne acquistò uno per un milione
e mezzo. Il delirio degli acquirenti era generato dall’ignoranza della
materia onde constava quella pietra, varia di colori, ma più di rosso
e di bianco e di un terzo colore senza nome, ma fiammeggiante e che,
lumeggiando gli altri, produceva le tinte dell’arcobaleno. Que’ vasi
venivano tratti dall’Oriente e segnatamente dalla Parzia. (_Oriens
murrhina mittit; maxime Parthici regni_).

Adempiuto a codesta cerimonia, tutti i convivi svestirono la gramaglia
e comparvero in candida toga. Lucullo disse altre parole, e si
assisero. Non erano più di dodici, perchè i Romani, eccettuate le
grandi solennità pubbliche dove i convitati non si contavano, non
amavan di varcare quel numero; e quando non potevano esser dodici,
avevano gran cura di trovarsi nel triclinio in numero dispari, di
tre, di sette, di nove. Lucullo, il padrone, collocossi, come voleva
l’infrangibile costume, sul letto a dritta in capo del desco. Il letto
più onorevole essendo quel di mezzo, vi fu messo a sedere il retore
Diodato, settantenne, e ciò per omaggio alla sua gran fama, alle sue
virtù, alla sua grave età, ed anche per gli obblighi impreteribili
dell’ospitalità; vi sedettero Antioco Scalonita, Filone platonico,
e Apollonio rodio, venuto a visitar Roma e dove, venerato da tutti,
dimorava da più mesi. Essi furono invitati da Lucullo a quella
_novendiale_ per essere stati maestri al giovane Cetego. Crasso sedette
all’estremità a sinistra insieme con Cicerone e Sallustio. Catone si
assise con Cesare, al quale, essendo il più giovane, fu dato l’ultimo
posto che era quello dell’estremità a destra.

L’ebano, il cedro, l’avorio, l’oro e l’argento erano le materie
ond’erano contesti e fregiati i triclinj. I cuscini, aspri di gemme,
rosseggiavan di porpora a ricami d’oro. Sui tripodi ardevan fiamme
diffondenti aromatici odori. E gli uomini assisi a quel triclinio
rappresentavano compiutamente la condizione degli ultimi cento anni
della repubblica romana, dai quali doveva scaturire tutta quanta la
posterità. L’esule sapienza greca, venuta a diffondere in Roma un
tal grado di coltura, che attraversando gl’intelletti di Cesare e di
Cicerone e di Sallustio, doveva preparare poi il secol d’oro della
letteratura latina. Lucullo, stracco di guerre e di vittorie, obeso
di ricchezze, reduce dalle spedizioni in Oriente, profondente già il
lusso asiatico che doveva corroder Roma e prepararne la decadenza ed
apprestare le brache muliebri dell’imberbe Eliogabalo. Catone l’estremo
raggio del passato; Cesare la torbida luce del futuro; Pompeo, il
trionfo della mediocrità inghirlandata; Cicerone la sapienza onnigena
che, circuendo le questioni da tutti i lati, si arresta ognora nel
dubbio scientifico e pratico; e s’accosta senza fiducia a tutti i
partiti, e non sa a che appigliarsi, e fa ridere di pietà l’ignoranza
imperterrita che va dritta come saetta al suo scopo, e s’accampa nelle
sedi del genio. Il convivio fu protratto a notte alta. Levate le mense,
Lucullo pronunciò un altro discorso nel greco idioma. Il falerno
intanto girava in copia, talchè i greci filosofi parean trasmutati
in ebriosi Anacreonti; e Cicerone parlava greco, saettando d’obliqui
strali intinti d’amabile piacevolezza il Magno Pompeo, che, appena
intendendo greco e non sapendolo parlare, faceva umilissima figura in
quel simposio, sebbene imperatore laureato; Cesare solo non beveva;
eppur s’era assiso accanto al rigido Catone già tutto arrubinato
di falerno bevuto a larghe canne. Catone, virtuoso in tutto, solo
in ciò eccedeva; Cesare, corrotto, e fallace, e vizioso, e ognora
mascherato, quando il voleva, d’iridescenti virtù, in questo solo era
irrimproverabile. Ma l’uno doveva morire per la repubblica e non avea
timore che i suoi desiderii trapelassero dal sincero lieo; l’altro
invece aveva a preparar l’impero, e la tranquilla e cauta linfa doveva
mascherare i suoi disegni.

Intanto che i funerei convivi di Lucullo, giocondissimi di falerno
più che addolorati per la morte di Cetego, uscivano dall’alto
palagio del più ricco allora e più prodigo dei Romani, del prode e
grande al pari dei più insigni, del capostipite dei sibariti futuri;
e riducevansi alle loro dimore; voci d’ire e d’affanno morale, e
imprecazioni furiali, e gemiti e pianti e preghiere udivansi nelle aule
dell’eminente Sempronia.

Catilina era uscito dal suo covo di belva e dalle ombre della pineta
che facea tetre le sponde di quel tratto del mare Interno; e saputo che
Aurelia dimorava presso Sempronia, inaspettato entrò nelle stanze di
questa, e inaspettato stette innanzi alla donna che ancora ei voleva,
la quale fremette e si alzò alla vista di lui.

— Dunque mi neghi tu, le disse, a quell’atto, Catilina.

— Non io ti nego, no, ma la sventura.

— E tanto amore, e tanto dolore, e tanto sangue sarà stato invano?

— Non fu invano il sangue, pur troppo. Esso ci ha divisi per sempre.

— Osi tu dirlo a me?

— L’ombra di Cetego lo comanda.

— E questo è l’amor tuo?... tu dunque m’ingannavi. Non è amore se non
quello che, ardendo indomabile, calca disprezzando tutte le cose umane
e divine, se queste gli si oppongono.

— Abbi pietà di me, Catilina; pensa a Roma; pensa alle pubbliche
maledizioni, se le nostre mani congiunte avessero a contaminare le are.

Catilina guatò a lungo Aurelia con occhi ardenti che non poterono
essere sopportati nè da quelli di lei nè da quelli di Sempronia, la
quale era presente, e, a qualche distanza, ritta e immobile e colle
ciglia aggrottate, quasi simulacro d’inesorabil diva, guardava e
fremeva, e insieme pur temeva e non osava parlare.

Catilina facea sgomento. Tacque assai tempo, tenendo fissi gli occhi
a terra, e di tanto in tanto facendo atti che accennavano l’orrenda
interna battaglia; poi a un tratto:

— Ebbene, proruppe, sieno dunque placati gli Dei del cielo, e
gl’inferni Dei, e i Romani tutti che tanto aborro, e le ombre del tuo
sposo primo e del tuo figlio unico, ma tu sii sacrificata a tutti. Sì,
tu morirai per mia mano qui, oggi, adesso — ed io mescerò, intermedio
questo mio ferro benefico, il solo benefico meco e pietoso, mescerò il
tuo sangue col mio, e morirò accanto a te.... e diede in uno scoppio di
pianto ineffabile, che sgorgando su quel terribile volto, faceva senso
più che se fosse stato sangue; e fu il primo e l’ultimo che versassero
gli occhi di Catilina. E pianse Aurelia... e pianse Sempronia...
chè Catilina in quel punto era sincero, ed estremo com’era in tutto,
l’amore che nutriva per Aurelia era tale che nessun umano concetto
arriverebbe a significarlo.

Aurelia, tutta in lagrime, si gettò allora ai piedi di Catilina, e:

— Abbi pace, gli disse. Tu mi hai vinta. Io sarò tua per sempre. Solo
concedimi otto giorni di abluzioni lustrali, ond’io possa placare i
numi. Io lascio Roma; nell’avita mia villa mi reco lungo il mare —
tu la conosci. Là saremo sposi, e tosto darem le vele ai venti; — e
Roma ci dimentichi e il mondo. Se tanto, come vedo, tu mi ami, a che
grandezza, a che potenza vuoi aspirar tu? A tutte cose l’amore sorvola
indomato. Tu lo hai detto.

Di tratto a Catilina tramutossi il volto: un raggio di gioia guizzò
negli occhi suoi, e:

— Ben lo sapevo. Non potevi tu essere mendace meco. Ora io ti lascio,
o donna. Solo io voglio assaporare questi momenti di gioja suprema,
che nemmeno gli dei possono aver maggiore; nè Giove, l’onnipotente
re del cielo. Addio, Aurelia; fra otto giorni ci rivedremo al mare.
Addio, Sempronia. Grandi, immortali cose noi dovevamo intraprendere. Ma
Aurelia mi fa disprezzatore d’ogni grandezza e d’ogni potenza divina ed
umana. Addio — e partì.

E Sergio Catilina uscì; e lentissimo, assaporando un orgoglioso gaudio,
per le profferte ultime di Aurelia e le ginocchia di lei piegate, vagò
lunga ora per le vie di Roma; e poscia risalì alle proprie case, donde,
fatti aggiogare al carro due ardenti poledri, ritornò a Nettuno, che
non molto distava dalle ville d’Aurelia; ritornò alla fittissima sua
pineta bruna; e nel centro di quella fe’ consacrare un’ara a Venere,
che tutta precinse di mirti e imbalsamò di fiori e al sommo vi depose
un vaso di marmo pario, nel quale, apertasi col proprio ferro una vena,
fece piovere molta onda di sangue, e fu sangue votivo — e per otto
giorni colà stette, leggendo e rileggendo, nelle ore diurne, la fedeltà
di Penelope nel greco d’Omero, e in Esiodo l’estremo sacrificio della
moglie entusiasta di Capaneo; e dormendo le notti abbandonato alla nuda
terra.

Aurelia lasciò Roma; condusse con sè la casa tutta, le ancelle,
gli schiavi, e rifiutò di essere accompagnata da Sempronia che le
si profferse. Venne alla sua villa in riva al mare. Si purificò; e
per otto dì, sparso il capo di cenere, stette innanzi all’effigie
dell’estinto marito e alla toga insanguinata del figlio. Ella amava
Catilina d’un amore inesplicabile; ma forse più per essere stata
attratta nel vortice violento del forsennato amore di lui, e per lo
sgomento ond’erane oppressa, che per elezione spontanea del cuore.
Perdurando nella purificazione e nel pianto penitente, pur era di
continuo esagitata da pensieri in assidua lotta tra loro. Le notti
aveva insonni; e se appena appena per la stanchezza del corpo, le si
chiudevano le palpebre, svegliavasi di colpo esterrefatta; e vedeva
l’ombra del marito e la più feroce ombra del figlio; e gemeva e
gettavasi in ginocchio e protendeva le braccia orando, non sapeva a
quali numi.

Ella considerava come, per Catilina, fosse disprezzata e insultata
da tutte le dame romane, invidiosissime della sua beltà, in confronto
della quale reggeva la sola di Sempronia; sapeva come la maggior parte
di quelle dame fossero assiepate d’amanti non amati e non temuti, a’
quali, nel fuggitivo delirio, concedevano ogni favore; ma la minore
avvenenza e il non esser insigni in arte nessuna, com’ella era, le
circuiva di opportuna e complice oscurità, la quale facevale beate e
trionfanti, pur tra il lezzo dei peccati che ad esse dovevan comandare
il rimorso e il pubblico vitupero a Roma. E misurava tutta la propria
sventura, e si disperava e tremava in aspettando Catilina. E sorse
l’ottavo giorno. Certissimamente ei sarebbe venuto. Inorridì Aurelia
a quel pensiero, e, stata immobile davanti all’effigie del marito e
baciata e ribaciata la toga di Cetego, e guardato a lungo il cielo,
quasi avesse voluto penetrare i regni superni a interrogar gli Dei; a
un tratto, fermato un proposito, chiamò e fece chiamare le ancelle e i
servi e gli schiavi quanti eran là a sè d’intorno; e:

— Preparatevi a partir tutti per Roma in sull’istante. Io rimango qui
sola.

Alcune ancelle le si fecero intorno, come sospettando una sventura, e:

— E perchè ne rimandi così, o padrona benefica?

— Non vi rimando. Sol vi prego di precedermi — lasciatemi sola qui. Ve
lo impongo; e lo disse in modo che nessuno più si oppose, e al liberto
che sopraintendeva alle domestiche faccende:

— Fa che si apra la porta massima del palagio, e stia aperta; e si
aprano le altre porte; e tutte rimangano spalancate insieme a quelle
che conducono a questa mia stanza. Che non intervenga inciampo; e
nessun uomo, nessuna donna non odasi più sotto a questo tetto; e il più
profondo silenzio lo circondi, prima che la clessidra segni passato il
_diluculo._

E tutti partirono e il silenzio circondò l’alto palagio, e soltanto
udivansi le onde del mare flagellar le rive. Passarono le ore della
_mane ad meridiem_; e da lunge a confondersi col mugghio marino s’udì
un rumor cupo di ruote, e di lì a poco il fischio d’un flagello equino
e uno scalpito affrettato di cavalli. Era Catilina che da Nettuno
veniva rapidissimo ed esultante, governando egli stesso le briglie.

E fu innanzi all’alta porta, che trovò spalancata e senza ostiarii.
Non ci pensò. Svoltò allora e girò nell’interno recinto e balzò dal
cocchio, lasciando le redini all’auriga. Fatti alcuni passi e non
vedendo comparir nessuno (chè di solito, come ognora vedevasi nei
palagi dei ricchi patrizii, una folla di servi ingombrava gli atrii
interni), stette sopra di sè un istante, e percorrendo gli atrii e le
stanze terrene anteriori e non scorgendo anima nata, si sentì tutto
cosparso di un sudore gelato; e penetrò nelle stanze più interne, e di
porta in porta venne a quella di Aurelia.

Ella giaceva sul proprio letto, immersa in un lago di sangue. Vedevasi
a terra una daga. Aurelia era avvolta nel peplo: nella sinistra teneva
la toga di Cetego; nella destra un papiro che parea stringere colle
dita irrigidite.

Catilina levò il papiro, lo scorse, e queste parole vi lesse: — _Morii
per placare le ombre del mio marito Cetego e di Cetego mio figlio. Vivi
e purga la tua fama._

Catilina mandò un gemito che non può essere narrato.

In quel punto anch’esso poteva comandare la pietà.




IX.

SEMPRONIA E CATILINA.


Sempronia aveva lasciato Roma alcuni giorni dopo Aurelia, e recossi,
correndo il tepido maggio, alla sontuosa sua villa, sorgente tra
Nettuno e Ponte Gatera, tre _miliarie_ da quella d’Aurelia. Allorchè
questa lasciò Roma sì d’improvviso, mostrando nell’aspetto un affanno
che parea provocare il turbamento mentale, e stette invincibile nel
respingere le profferte di Sempronia di accompagnarla, essa temette il
peggio, senza tuttavia osare di attraversare con violenza i desiderii
di Aurelia, che nella profondità del suo dolore diceva di voler vivere
in solitudine. Ma la molta casa di Drusilla ripartendo per Roma, così
avendo comandato la padrona, e le ancelle e i servi e il maggiordomo,
sospettando fosse per succedere qualche sventura, credettero opportuno
prender la via che da Ponte Gatera passava innanzi alla casa di
Sempronia, per avvisare qualche servo di lei onde a corso sforzato si
recasse a Roma a darle avviso di tutto, non potendo essi altrettanto
per la lentezza delle cavalcature. E così fecero; e avendovi trovato
Sempronia stessa, la misero in tale apprensione, ch’ella partì senza
por tempo in mezzo, e a velocissimo corso venne a Ponte Gatera troppo
tardi, ma pure non inutilmente.

Sapendo che il palagio doveva esser vuoto, non provò, anche per il
diverso affetto che nutriva per Aurelia, quell’orrido sgomento onde
Catilina era stato colpito; pure attraversò gli atrii tremebonda; con
respiro affannato mise il piede nella stanza d’Aurelia; vide, guardò,
mandò un gemito, s’accostò al letto insanguinato, toccò la fronte ad
Aurelia, chiamò ad alta voce Catilina, che, in ginocchio accanto al
letto, stringeva nella propria una mano della estinta, sulla quale
teneva impresso il labbro; onde, perdurando la immobilità di lui e il
profondo silenzio, pareva che il bacio estremo della disperazione si
fosse come pietrificato su di essa.

Sempronia lo chiamò ancora; ed ei si scosse, e alzò la testa, e guardò
colei attonito e a lungo. Pareva non la ravvisasse. E Sempronia scôrse
allora il papiro, e, non opponendosi Catilina, lo lesse, e:

— Scuotiti, o Sergio: te lo dice una donna che pure è sopraffatta dal
dolore.

E ciò dicendo, si gettò a sedere, e pareva non potesse più proseguire;
pur si fece forza, e accostatasi a Catilina:

— Sorgi, le ripetè. Parla. Ho bisogno di sentire una voce che risponda
alla mia. Sventurato sei tu; sventuratissimo. Io ti comprendo appieno.
Ma sorgi in ogni modo; e, vivendo per la gloria, glorifica la donna
tua, che morendo (già tutto indovino senza saperlo) si divise in due,
dandosi in olocausto al figlio, e legando a te il più sviscerato amore
espresso da queste parole immortali. Però avventuroso ancora io ti
reputo, o Sergio, pur nelle più acute fitte del tuo non comparabile
dolore.

Catilina si alzò, e senza parlare, ma con uno sguardo pieno di
significazione, strinse la mano di Sempronia.

— Vivrò, soggiunse poi: Aurelia me lo comanda. Sarei sacrilego se non
la obbedissi con religione. Purgherò la mia fama, sebbene io sia stato
più sventurato che colpevole.

— E quest’alta donna che per amor tuo compì il grande atto romano, sia
l’assidua inspiratrice di ogni tua opera futura. Però, giura qui sul
suo sacro capo, che salverai Roma, strappandola alle mani che ora la
stanno sbranando.

— Sì Aurelia, ripetè allora gemendo Catilina e torcendo il capo
perchè gli ripugnava che Sempronia vedesse il suo pianto; lo giuro sul
tuo capo. Consacro la mia vita a Roma; e s’io l’addurrò a grandezza
e potenza imperitura! e se gli Dei concederanno che io ne diventi
l’arbitro, ajutatori miei quanti Romani aspirano al grande intento, a
te dedicherò un tempio, e sarà il tempio della _Diva Aurelia_; e le
donne romane andranno in quel recinto a ricevere da te consigli di
fortissima virtù.

— E i numi ti saranno propizj, soggiungeva Sempronia; molti si
accostarono a noi in questi giorni, me esortatrice; ed altre donne
insigni che irresistibilmente inducono i giovani più nobili e generosi
all’alta impresa; e a me attrassi Fulvia, e per lei Quinto Curio, al
quale se falliscono intelletto e cuore, bene soccorre la sterminata
opulenza onde faremo uso, se la fortuna comanderà di venire al ferro
e alla strage; e mandai lettera a Cetego lo zio, perchè tosto ritorni
a Roma, che sdegnato lasciò; ora che, ereditando tutte le ricchezze
dei Cetegi, accumulate per tre secoli, con esse farà paga l’ira sua
e completerà il suo senno e renderà invincibile il braccio e te farà
grande e immortale, o Catilina. Tu che fosti capace di così indomabile
amore, immense cose farai — ed io assegnerò a fortuna il perpetuare
Aurelia tua, infiammandoti ognora delle sue estreme parole.

Catilina guardò Sempronia a lungo, chinò il capo e tacque.

Le trame della famosa congiura, i ricordi della quale dovevano stancare
più di venti secoli, erano state gettate da tempo, anzi un tentativo
era già stato fatto ma interno, per cui quella congiura ebbe due
fasi. Catilina, profondissimo scrutatore di menti e di cuori, avendo
penetrato l’ambizione di Sempronia, la quale, non che uscire affatto
dall’indole muliebre, e per il genere e per la forza espansiva, sarebbe
stata eccedente ed eccezionale anche in un uomo forte, credette bene di
metterla a parte de’ proprj disegni, sembrandogli che le attrattive di
quella donna fossero per riuscire onnipotenti sugli animi dei più caldi
fra i giovani romani, e così fu.

E Catilina raccomandò a Sempronia di star chiusa con Sallustio, sebbene
lo prediligesse. Ma dessa, se lo prediligeva, non lo amava; perchè
l’ambizione di lui versava in tutt’altra sfera della sua, e non le
pareva di quella tempra fortissima ch’ella, quantunque donna, presumeva
d’avere. Onde, se l’arte li avvicinava, il campo dell’azione li
divideva; e avrebbe voluto che Sallustio fosse Catilina, e spesso ebbe
a dire ad Aurelia, come fosse degna d’invidia e dovesse riputarsi la
più fascinante fra le donne, se avea saputo domare colui che uomo era
e leone, e talora pareva assumere le forme e gli attributi di un dio
terribile.

Codeste eccezionali doti di Catilina avevano percosso l’eccezionale
Sempronia, e allorchè poi lo vide mandar gemiti e versar lagrime e
a tutti rivelare i segni di un amore senza esempio, sentì vivissimo
il desiderio che a lei, stanca oramai di adorazioni sempre eguali,
e che nell’assidua moltiplicità si scancellavano a vicenda, toccasse
finalmente in sorte un uomo di quella tempra. Però, varcando i limiti
di quella prudenza che deriva dall’orgoglio femminile, potè proferire,
pure in presenza della salma d’Aurelia, quelle parole che a Catilina
comandarono un pensieroso silenzio. Ma Sempronia, adunati servi e
schiavi e donne libere e vergini e sacerdoti e sagrificatori e ustori e
préfiche gementi, fece apprestare all’amica Aurelia onori funebri degni
di asiatica regina; e quando le fiamme del rogo estremo innalzarono
altissime le loro lingue luminose, i naviganti del Mare Interno,
calando allora la notte, credettero, guardando da lungi, fosse luce di
faro.

Catilina partì con Sempronia; e nella villa di lei si raddensarono,
lungi da Roma, più e più le trame della congiura. E vi furono adunanze
quotidiane. Cesare vi fu chiamato, e parve lasciarsi attrarre. Ma ora
si ha vederlo altrove.




X.

I GIUOCHI DEL CIRCO MASSIMO.


Alle calende di giugno, ricorrendo la festività del dio Vulcano, si
apprestavano, come di consueto, pomposi giuochi e gare di corse, a
cavallo, colle bighe, a piedi. Que’ giuochi si facevano nell’antico
Circo Massimo, e vi accorreva tutta Roma e gente extra-urbana e di
tutta Italia.

Quel circo fu dal Prisco Tarquinio fatto innalzare tra i monti Palatino
ed Aventino. Costrutto con legno in principio, fu al tempo dei Scipioni
rifatto con marmi e pietre e mura laterizie. Appellavasi _Massimo_ per
la sua ampiezza. Plinio lasciò scritto ch’era lungo circa duemila e
duecento piedi, largo intorno a mille. Secondo Dionigi d’Alicarnasso,
poteva contenere 150 mila persone ai tempi di Tarquinio; secondo
Plinio, 260 mila al tempo dei Scipioni; secondo Aurelio Vittore,
al tempo di Cesare, la sua grandezza era tale da contenere 300 mila
persone. Quel circo era più lungo che largo, la parte anteriore a linea
retta, la posteriore a linea curva. Era cinto da portici di sessanta
arcate.

Sotto que’ portici aprivansi botteghe per la vendita di commestibili,
ed anche di mercanzie (_tabernæ mercatorum_); sovra que’ portici erano
sedili di pietra a scalea. V’eran le carceri a vôlta pei cavalli e
i carri e le bighe; tra i portici e il vacuo scorreva l’_Euripo_, il
quale era un canale largo e profondo. Le mete eran di legno dorato;
nel mezzo sorgeva un alto obelisco dedicato al Sole (_obeliscus Solis_)
quasi albero di nave; presso al quale sorgeva il suo tempio, e intorno
i simulacri delle dee Pollenza e Cerere e Libera e Murcia e Venere.
Fino al tempo di Cesare non si davano che spettacoli romanamente
ma grettamente popolari, ma la distinzione e l’eleganza greca dei
giuochi olimpici non cominciò che con Cesare. Le gare non v’eran
sostenute che dai giovani patrizj di Roma. Non fu che sotto Costanzo
che nel Circo Massimo si diedero combattimenti di gladiatori; e sotto
Claudiano caccie di leoni e di tigri. Se il Colosseo, che a noi posteri
impiccioliti, sembra la costruzione più gigantesca e poderosa e insigne
di magistero architettonico che vanti l’antichità, non conteneva che
80 mila spettatori; se la moderna Arena milanese, che in altezza è la
sesta parte del Colosseo, ma in area è il doppio, pur non potrebbe
contenere che 40 mila spettatori pigiatissimi, l’immaginazione si
smarrisce pensando ai 300 mila spettatori che potevano sedere nel Circo
Massimo, e quasi è tentata a credere mendace Aurelio Vittore, se questo
non fosse rinfrancato dall’autorità di Dionigi d’Alicarnasso e di
Plinio.

Ventiquattro erano i giovani patrizj che intervenivano a dar spettacolo
di sè correndo a piedi, a cavallo, sui carri, nelle bighe. Nessuno
doveva aver varcato il quinto lustro. Venivano scelti fra quanti si
presentavano agli esperimenti, i quali duravano otto giorni prima della
festa. Nè solo in quegli esperimenti davasi il _diritto di corsa_ alla
prevalente valentìa personale, ma sì anche alla bellezza fisica. A pari
valore il più bello era prescelto. Presiedeva a tale giudizio l’Edile
di Roma; e i giudici non dovevan essere romani, ma d’altre parti
d’Italia, e meglio della Grecia; ed eran pittori e scultori tra i più
celebrati. Que’ giovani dovevano aver tutti militato in due campagne
almeno; e se avevano guadagnato la corona civica o la murale o qualche
altra onoranza di guerra, poteva bastare anche una campagna sola. Era
dunque per tali cagioni desideratissima quella maniera di spettacoli
in Roma. Le dame romane poi e le nubili fanciulle aspiranti ad amori
e a sponsali, e le vergini vestali istesse, sollecitate da irrequieti
ardori del sangue, trovavano acutissimo il diletto nel sedere colà
spettatrici. Per tutti poi era pieno del più alto interesse il vedere
in quei giovani eletti le speranze più insigni della patria, destinati
forse a diventar conquistatori ed eroi.

Nell’ora che appellavasi _sol_, e correva tra l’inclinazione del
meriggio e la _suprema tempestas_, il popolo entrò per dodici arcate
che stavan presso alle _tabernæ mercatorum_, dove i più comperavan pane
e commestibili, e frutta e aranci e cedri a soddisfare l’aspettato
desío del cibo e l’inevitabile sete. Gli ordini più distinti dei
cittadini, gli uomini di toga e di spada, colle mogli, coi figli,
entravano per la porta di quattro alte edicole, che si chiamavano
_Mœniana_, i capi saldi del circo, sormontati da quadrighe di bronzo.
I due consoli, il sommo pontefice, i sacerdoti, il capo degli auguri,
l’Edile, le Vestali entravano per la porta massima dei grandiosi atrj
che costituivano la facciata del circo, e si chiamavano _Oppida_. Qui
sorgeva il palco dei giudici presso alla meta. Quale spettacolo fosse
già per sè solo la vista di circa 300 mila persone tutte addensate in
un luogo, la fantasia se lo figuri. Suonava d’ogni intorno quell’ampio
ricinto della gran voce del popolo, spezzata in molteplici parlari:
e pareva il Tevere quando, muggendo, s’affretta alla foce. Al fine
squillarono le trombe, al cenno dell’Edile cessò il rumore delle
voci, e il vasto silenzio significava che tutte le pupille erano
rivolte alle Carceri, donde dovevano uscire nelle bighe i ventiquattro
giovani eletti per fare il primo giro così detto d’introduzione. E le
ventiquattro bighe uscirono, ed eruppe un applauso che squarciò l’aria,
e le bighe in tre file di otto per ciascuna procedettero lentissime, e
quasi radendo le balaustre dei podj, perchè gli incliti aurighi fosser
veduti più dappresso dagli spettatori.

Nella prima fila bello e poderoso appariva il giovinetto Isaurico
Servilio, trionfatore della Cilicia. A lui la Parca appena

    Il decimo ed ottavo anno filava.

e già aveva pugnato su tre campi di battaglia; infelicissimo tuttavia
per non avere ancora meritato corone. Presso lui procedeva Clodio —
Clodio Apollo, — com’era soprannominato in Roma dalle dame e dalle
fanciulle, e perchè aveva fulva la morbidissima chioma che gli scorreva
sul collo, ad onta del più rigido costume romano, e bianco-rosea
aveva la pelle; e nell’arco del sopracciglio e in quello del labbro e
del mento fidiaco recava invero le sembianze dell’Apollo greco. Viso
di fanciulla era quello e pareva esprimere indole soave e gentili
costumi. Ma Nerone invece e Caligola ed Eliogabalo insieme ei sarebbe
riuscito, se, nato duecento anni dopo, gli fosse toccato in sorte
l’impero romano. Nato negli ultimi tempi della repubblica, si dilettò
ad empir Roma di stragi, e a far delle leggi ludibrio, e a gettare
insidie perpetue a quelli che invidiava ed odiava. Pur le fanciulle
inconsapevoli lo guardavano ammirate; e Pompea, l’adolescente figliuola
di Pompeo, arse d’incompreso ardore quand’egli la saettò d’uno sguardo
lungo — amoroso.

Nel mezzo della prima fila, non a caso concedendo ai cavalli le
briglie in modo che di tutta la testa sopravanzassero gli altri, per
cui, facendo della propria biga un cuneo, pareva primo e duce agli
altri, procedeva il superbo Scipione, il pronipote dell’Africano;
faccia rigorosamente romana, severa come lo stile dorico, straniera al
sorriso, non ammorbidita mai da uno sguardo benigno; teneva capelli
fitti e brevi, e barba intera, invadente i zigomatici. Non amava
nessuno, se si eccettui Catone; non era amato da nessuno. Presso al
quinto lustro, avea già combattuto in quattro battaglie con valore
incredibile; ma l’intelletto non era pari al suo braccio, nè alla
costanza del volere. Aspirava al primato, credendo che il sangue degli
avi lo dovesse costituire in eccezionale privilegio. Ma quasi che
l’arte volesse sfoggiare la virtù dei contrasti, accanto a lui veniva
Tullo Fideno, più noto in Roma pel soprannome di _Favonio_. Caro alle
Grazie, soffuso il volto di una tinta di beatitudine perpetua che
gli derivava dalla sanissima epa e dalla bontà del cuore, sollevava
sempre, al suo comparire, un giocondo rumore fra i cori delle fanciulle
danzanti in mezzo agli allori e gli oliveti del Pincio, e quel rumore
pareva fremito di foglie agitate dall’aura primaverile; ed egli era
invero balsamico come quell’aura, e come quell’aura veloce e lieve
nelle gare delle corse pedestri. Onde un dì l’epigrammatico Cicerone lo
appellò _Favonio_, nome che per l’uso si sovrappose poscia al vetusto
della casa Fidena.

Nella seconda fila veniva il figliuolo di Dolabella, che, seguito il
padre in Asia, imitatore così del valore come della rapacità paterna,
era tornato a Roma ricco di talenti argentei e di gemme preziose e
di statue d’oro rapite ai templi delle divinità straniere; e presso
Dolabella veniva Cajo Popilio, già nemicissimo di Cesare per la
competenza nel tribunato dei soldati. E Cesare era l’ultimo della terza
fila, e non a caso s’era locato ultimo; e presso lui stavan Cassio e
Casca. Il fato aveva così ravvicinato que’ tre giovani, apprestando
alla storia l’inesauribile tema.

Le tuniche di quei ventiquattro giovani, facendo combinazione con delle
fasce trasversali e con un nastro serico onde ciascuno chiudeva il
volume dei capegli, li facevano distinguere anche da lontano, essendo
state infisse alle colonne che dividevano i 24 compartimenti del
circo altrettante tavole, che a grandi caratteri mostravano i nomi dei
gareggianti.

Così, per modo d’esempio, Scipione vestiva la tunica porporina,
colla fascia e nastro bianco; Favonio appariva ceruleo tutto; Giulio
Cesare portava la tunica alba, attraversata da una fascia azzurra, e
sul nastro che si fermava alla sommità del fronte, luceva una stella
contesta con zaffiri dell’Eritreo, e gli luceva in fronte a significar
Venere progenitrice e l’alta origine divina.

Compiuto il giro del circo, fra i continui battimani e i sonori
_salvete_ del virile pubblico, le ventiquattro bighe rientrarono nelle
Carceri; e dopo qualche tempo, allo squillo delle trombe circensi, i
ventiquattro uscirono tutti, chiamati ad uno ad uno, secondo portava
la scelta della sorte; chè l’ultimo dei ventiquattro, ossia colui che
era il più lontano dall’_Euripo_, si trovava nella condizione peggiore.
Primo venne chiamato Scipione; Giulio Cesare fu il quarto; Favonio
riuscì terz’ultimo. La prima gara era quella della corsa a piedi, come
quella in cui dovevano i gareggianti adoperare tutte le forze proprie.
E in quel giorno il desiderio e l’attenzione e l’aspettazione e
l’interesse erano più vivi che mai, per la ragione che sapevasi che, di
tutti, senza confronto, i più veloci corridori erano Favonio e Cesare;
e che tra loro non erasi mai potuto, in molte altre gare d’esperimento,
sentenziare con certezza quale dei due fosse il più veloce. Bene la
maggior parte parea propendere per Favonio, ma Cesare l’avea pur vinto
molte volte, e allorchè Favonio lo potè sorpassare, tosto correva
per Roma la voce che Cesare, il ricercato amante, avea lasciate le
forze sul non suo talamo; e si pronunciavano i nomi delle afrodisiache
spossatrici.

I soldati, i forti, gli uomini, anche le dame, stavano tutte per
Cesare; ma le fanciulle ingenue, che, pur guardandolo con deferenza,
eran sovente sgominate dal lampo del suo sguardo, il quale spesso
rivelava l’interna battaglia del pensiero che, dimentico e di voluttà
e d’amori e tediato dello spettacolo della beltà, inseguiva coll’ansia
dell’ambizione il potere ed il dominio; le fanciulle dunque stavan
tutte per Favonio, e tremarono per lui, quando al suono della tromba i
ventiquattro si slanciarono al corso. A Cesare era toccato il numero
due presso il podio; a Favonio il quattordicesimo. Cesare apparve
dunque subito il primo al primissimo slancio. Da ventiquattr’ore non
avea fatto un passo; aveva dormito profondo la notte; s’era nudrito
sobriamente tra il mattino e il pomeriggio, ed erasi immerso in un
bagno tepido, soffregandosi il corpo con manipoli di foglie di menta
decotte; chè credevasi allora potessero comunicar robustezza. Tutto il
primo giro fu primo e quasi tutto il secondo; ma al finire di questo,
Favonio gli fu presso, poi lo sorpassò, e al principiar del terzo
gli stette pari e tornò secondo, forse per aver dato il piede in una
scheggia di sasso o d’altro, e Cesare gli era innanzi d’una decina di
palmi romani. Gli gridò allora Favonio: — Deh, Cesare, lascia a me il
premio. — S’io rimango secondo, perdo la fanciulla mia, che mi vuol
primo o mi nega. — Io sento la morte nella tua vittoria.

Cesare udì, pensò più che mai il passo, e i dieci palmi diventaron
venti o ventiquattro. Se non che, quando fu lontano dalla meta la stesa
di due braccia, fermossi a un tratto, e disse a Favonio: — Va avanti e
sii il primo.

Tutto il Circo assurse a quella fermata non attesa di Cesare; e il
silenzio dominò quelle trecento mila bocche; e discese l’Edile e
discesero i giudici dal seggio, e interrogaron Cesare e Favonio.

— E che avvenne, o Giulio?

— Nulla avvenne, ma il premio dev’esser dato a lui, come il più veloce.
Guardate che il suo destro piè fa sangue. Qualche sasso avverso
lo ferì; però non accetto i profitti dall’altrui disgrazia. Egli
meritamente è il primo.

Per tutto il circo correva una domanda sola; ma qualche tempo dopo,
dal seggio dei consoli e dell’Edile e dei giudici, volò la risposta
per tutto il circo; e l’entusiasmo fu immenso; e — Viva Giulio Cesare!
si gridava da tutte le parti. Ma i giudici stettero dubbiosi nel
pronunciare la sentenza. Gli uni dicevano non essere nella consuetudine
il tener conto delle sventure; però doversi il premio a Cesare; altri
dicevano che il primo giunto alla meta era stato Favonio; e parimenti
non essere nella consuetudine di tener conto delle cagioni, ma del
fatto ultimo e compiuto. Però, fatto arbitro l’Edile, questi decretò
doversi dare il primo premio a Favonio, e un premio straordinario o
di eccezione a Cesare. I consoli confermarono il giudizio dell’Edile.
Quando Favonio ricevette il premio, che fu un caduceo d’oro, Cesare
lo baciò in fronte, e alla sua volta ei ricevette dall’Edile un anello
prezioso che quegli si trasse dal dito; e così i due premiati rifacendo
il giro del circo, avvolti nell’onda assordante dei più frenetici
applausi, ritornarono alle Carceri.

Scorso un quarto d’ora, squillarono le trombe e uscirono dodici bighe.
Perchè lo spazio interposto tra l’Euripo e il Podio fosse sufficiente
al corso delle bighe, se per caso avessero a venir tutte di fronte, i
gareggianti si dividevano in due schiere di dodici ciascuna. Fatti tre
giri la prima, usciva la seconda, che faceva altrettanti giri. Il primo
e il secondo delle due schiere, ossia i quattro prevalenti rimasti
soli, correvan poscia gli ultimi tre giri, e quegli solo che primo
toccava la meta toccava il premio.

Questa corsa non pareva presentare interesse veruno, e la ragione era
chiara. Nelle corse d’esperimento s’era conosciuto che Cesare aveva
asserito il vero, allorchè disse di possedere i due poledri più veloci
che allora fossero in Roma, e gl’increduli non avevano più trovato
inverosimile che, fatti venire appositamente dai presepi dell’Arabia
Felice, gli fossero costati dodici talenti (circa ottantaquattro mila
lire italiane). Era dunque una gara di ricchezza e di prodigalità più
che di valentía, e già se ne poteva indovinare l’esito. Primi nelle
due corse di preparazione erano stati Cesare e Scipione; nella seconda
Dolabella e Favonio, i quali ricomparvero poi nella corsa _decretoria_.
Quale guidatore di cavalli Cesare era insigne, senza dubbio il primo;
onde nella prima corsa aveva lasciato indietro di un giro e mezzo gli
altri. Ma anche a Scipione intervenne lo stesso; e i suoi cavalli erano
nati in Roma, da una famosa coppia andalusina che Sertorio, durando la
guerra ispanica, aveva mandato in dono al padre di lui.

Scipione adunque, Cesare, Dolabella e Favonio usciron dalle Carceri e
si fermarono rigorosamente a quella riga nera trasversale che concedeva
a colui che trovavasi nel posto men vantaggioso qualche palmo più
innanzi degli altri. Suonò la tromba; al terzo squillo si slanciarono
al corso. Era profondissimo il silenzio, tanto l’attenzione generale
era concentrata. Sì Cesare che Scipione rattenevano i cavalli a quanta
forza avevan nelle braccia; di maniera che Dolabella e Favonio furono
di qualche palmo innanzi a loro nel primo giro; al secondo Scipione
tenne men tese le redini e volò innanzi a Cesare d’un mezzo giro
buonamente. Ma Cesare, a questo punto, rallentò le redini, e i suoi
cavalli che rilucevano all’ultimo sole pel serico pelo dorato che
pareva murrina cangiante, si precipitarono furiosi al corso; e parevano
acque di torrente rovinanti improvvise pei levati incastri. Passarono
il mezzo giro, un istante furon presso alla biga di Scipione, la
sorpassarono a volo, e una ruota sola della biga cesarea toccava terra.
Trovossi un giro intero innanzi a tutti, venne alla meta, la sorpassò;
e dovette cedere ai cavalli, che, sfrenati a quel modo e indarno
trattenuti, ripercorsero un altro giro intero. L’entusiasmo fu al
colmo. Tutta Roma là raddensata ululava frenetica. Applaudiva l’Edile,
applaudivano i consoli.

Il premio fu un elmo e uno scudo di preziosa materia e di più prezioso
lavoro; Cesare fece il consueto giro del vincitore, glorioso della
velocità incomparabile de’ suoi cavalli; e rientrò per prepararsi
all’ultima gara. Quest’era la più aspettata dal pubblico, la più
difficile e la più pericolosa pei contendenti! Essi dovevano correre
il pallio su cavalli che non conoscevano, cavalli della razza romana
allevati a spese dell’erario; poledri ardenti, già domati a sopportare
il cavaliere, ma bisognosi ancora di lungo ammaestramento; e però assai
pericolosi e pei vizii che ancor tenevano; e perchè, non sapendo i
cavalieri circensi l’indole particolare di ciascuno, e il grado della
forza e della velocità, più ancora che alla propria valentía, la quale
doveva essere insigne, bisognava che si raccomandassero alla fortuna.

Nelle corse d’esperimento quei cavalli, scelti a sorte, erano già
stati adoperati; ma dovendosi ancor sorteggiare nella gara circense,
le difficoltà e i pericoli rimanevano gli stessi. I ventiquattro
cavalli furon tratti fuori. Ciascuno portava un numero sulla fronte.
I contendenti vennero chiamati dall’Edile per ordine d’alfabeto.
Un fanciullo estraeva i numeri, e al cavaliere veniva consegnato
il cavallo che la sorte aveagli decretato. Adempiuto a questo, i
ventiquattro contendenti salirono in groppa. Volate, impennate, scarti,
salti, agitamenti di testa, fremiti, sbuffi furono le prime difficoltà
a superare.

Ma alfine potè incominciare la corsa.

Il premio, come sempre, era dato al primo che toccava la meta; ma con
questa particolarità in tal gara, che tutto era permesso per giungervi;
qualunque astuzia, qualunque inganno. Bastava toccarla primo. Nè è a
dire quanto il pubblico romano si appassionasse a tale spettacolo.

Spinti i cavalli alla corsa, slanciatone uno, e fu quello toccato a
Scipione, successe la gara naturale fra i poledri stessi. Ma allora
avvennero accidenti molteplici che lasciavano ognora in ansia gli
spettatori. Favonio, appena giunto a mezzo del primo giro, dovette
acconciarsi a retrocedere col cavallo che lo riportò di sbalzo nelle
Carceri. Il cavallo di Scipione, che fu primo in tutto il primo
giro, quando fu percosso dal flagello di Dolabella che veniva presso
Scipione, questo fu di colpo sbalzato di groppa, e venne così a far due
o tre capivoltate a terra avvolto ne’ globi della polvere olimpica.

Cesare, il primo dei cavalcatori di Roma, come tutti gli storici
suoi contemporanei e i posteri narran concordi, e in conseguenza
invidiato e temuto nelle gare, stava apprensivo e in guardia e
oculatissimo; però approfittando della sventura di Scipione, sospinse
il cavallo fino a sorpassar tutti gli altri. Ma venendogli d’accosto
Clodio, che gli sferzò improvviso il cavallo, imitando Dolabella, fu
portato a impennate nel mezzo del campo, e sarebbe stato rovesciato
nell’_Euripo_, s’ei non fosse sbalzato a terra e lasciato il cavallo
in balìa di sè; ma fu vendicato da Lutazio, che fece rotolare nella
polvere l’imprecante Clodio. Cesare, fremendo, chiuso in sè, stava
attento alla corsa; chè usciti che furono i più viziosi poledri, parea
procedesse regolarmente. A lui mordeva di trovarsi fra quei cinque o
sei ch’eran caduti a terra. Guardava dunque attentissimo ogni cosa, e
pensava se gli potesse venir fatto qualche tentativo straordinario; e a
un certo punto, Cassio apparve primo, e di tanto sopravanzò gli altri,
che oramai non rimaneva più dubbio sul vincitore.

Cesare il vide venir precipitoso. Stette in sull’ale allora, e quando
Cassio fu vicinissimo, ei misurò il tempo, spiccò un salto, e in men
che non si dice, fu in groppa, strappò il freno di mano a Cassio che
rovesciò nella polvere; e Cesare procedette innanzi fra gli applausi
del Circo frenetico d’entusiasmo pel colpo inatteso, e toccò primo la
meta.

Ma che nodo inestricabile di eventi si generò da questo fatto! e che
odio si preparò Cesare; e come forse gli idi di marzo si collegarono
a quella prima offesa toccata al pallido Cassio; e d’altra parte, che
nuovi e strani e perigliosi amori femminei si apprestarono a Cesare per
quella triplice vittoria!




XI.

INCORONAZIONE DI CESARE NEL CIRCO MASSIMO.


Una delle ragioni, anzi la sola veramente forte ragione per la quale
Cesare aveva desiderato di ottenere la triplice vittoria (e quando
dovette scavalcare pel traditore flagello di Clodio, aveva affrontato
alla sua volta, la più ardua difficoltà degli esercizii equestri,
saltando in groppa al cavallo già vincitore di Cassio e rovesciando
l’amico nella polvere circense), fu la specialità del diritto che
a lui concedeva quella triplice vittoria appunto. Il caso che un
_concorrente_ riuscisse ad ottenere tutti i premi delle gare erasi,
in tanti anni, verificato sì rare volte, che lo si reputava quasi
improbabile, e in ogni modo tanto eccezionale da costituire in un
diritto eccezionale anche il vincitore. Questi adunque oltre il premio
comune della corsa, riceveva dall’Edile una corona d’alloro; ma la
specialità del diritto consisteva in questo, ch’egli, fra le fanciulle
patrizie che sedevano al Pulvinare, poteva scegliere quella che doveva
incoronarlo. Saliva perciò in aureo cocchio e, accompagnato a piedi
da tutti i competitori, sedendogli accanto il sacerdote di Vulcano che
gli portava la corona, faceva il giro di tutto il circo, poi, fermatosi
innanzi al Pulvinare, nominava ad alta voce quella che doveva porgli
la corona sul capo. E Cesare salì in cocchio e compì il giro, e quando
stette innanzi al Pulvinare nominò Servilia.

Era quello un onore grandemente ambito dalle fanciulle romane. E in
quel dì molte vi aspirarono tremando ansiose quando Cesare fu per
pronunciare l’inclito nome. E grande fu la meraviglia in tutti quando
sentirono prescelta Servilia; e dolorosa e dispettosa la sorpresa in
lei, che detestava Cesare, pensando che per esso, quantunque si fosse
scolpato nell’orazione funebre per Cetego, questo non aveva potuto
sopportare il ferro di Catilina. Alzò gli occhi al cielo; ma dovette
assurgere, quando le vergini vestali, dal loro posto distinto, come
voleva la cerimonia, le si fecero accanto per accompagnarla sull’alto
ripiano della scalea che dal Pulvinare metteva nel circo. Cesare,
sebbene fosse già per la seconda volta marito, marito di Cornelia e da
essa idolatrato fino al delirio; e la soave e infelice sposa sentisse
già nella salute affranta gli effetti di un amore sconfinato e non
corrisposto; pure ei non seppe o non volle dal dolore e dal rimorso
che talora lo investiva, accettare i consigli che lo dissuadevano dal
pensare ad altre donne e più che mai alla divina Servilia. Ma di colei
si accese fin d’allora che seppe come ella ardeva per Cetego: che gli
parea di non aver mai veduto forma di donna più perfetta, più elegante
e più attraente di quella: onde avvezzo a superare tutte le difficoltà
e ad appagare ogni aspirazione propria, aveva come giurato a sè stesso,
di tentar tutto che appena fosse nel possibile, perchè colei gli si
piegasse amorosa, dominata e vinta e irresistibilmente conquisa. Cesare
conosceva sè stesso, e in altre consimili vittorie erasi accorto di
possedere il fascino del crotalo che sulla propria lingua trisulca
sforza filomela a sollecitare il volo, pur nell’istante ch’essa geme
l’ultimo singulto.

E Cesare ascese la scalea, e fermossi sul penultimo grado, e il
sacerdote consegnò la corona a Servilia, che la prese tremando:

— Perchè tremi, o fanciulla? esclamò allora Cesare con voce sonora.
Io ho voluto che tutta Roma ti venerasse qual Dea largitrice
di assoluzione ai pentiti mortali. Chè io subisco il pentimento
d’involontaria colpa. Ma Cetego desideravo felice, lo giuro ai Numi;
e però sollecitavo il fratel tuo a farti sua consorte; e Cetego io
supplicai perchè deponesse le ire e non volesse provocare irreparabili
sventure. S’io lo percossi non fu che per fuggir morte. Perdona adunque
e adempi al rito e fa glorioso il mio capo non dell’alloro che tengo
dalla fortuna, ma del tocco soave delle tue mani che me lo impongono.

Le alte parole, lo sguardo di Cesare radiante per l’intimo gaudio,
il sovrumano aspetto di lui, il grido concorde scoppiato allora da
tutto il Circo: _Perdona, o Servilia_ — commossero la fanciulla, che,
inchinandosi, depose la corona sul capo di Cesare, il quale, quasi
sfiorando in quel punto il volto di Servilia, sommessamente le susurrò:

— Io ti amo, o Servilia, e da tempo, e di un amore che non può essere
compreso che da intelletto divino. E fu Venere mia gran madre ad
apparirmi in sogno per rivelarmi i decreti del fato, il quale noi vuol
congiunti in vita e in morte.

La fanciulla sentì e tremò e non rispose. Mai non avrebbe creduto che
Cesare potesse pensare a lei a quel modo; e l’orgoglio le s’interpose
tra il passato e il futuro.

Cesare ridiscese la scalea, risalì il cocchio.

Servilia circondata dalle Vestali si assise in un seggio dorato,
e innanzi a lei, salutandola Antistite della festa, passarono
inchinandosi i consoli e l’Edile e le dame romane e le fanciulle.

Lo squillo di più trombe diè allora il segno che il popolo romano dovea
sgombrare il circo.

Il sole era caduto, e il popolo, uscendo dagli atrj e dai meniani,
suonante come onda di fiume, si recò al monte Pincio, in vetta al quale
era l’ara di Vulcano, e colà dovevasi continuare e chiudere la sacra
festività fino _ad mediam noctem_.

Il vincitore del circo doveva comparirvi.

L’Antistite della festa, sempre accompagnata dalle Vestali, doveva
recarsi ad assidersi colà in un bosco d’allori, in seggio d’onore.

Calò la notte; sorse la luna. Cesare ascese il Pincio, e recatosi
innanzi a Servilia, come voleva il rito, le porse la mano. Ella
discese, e accanto a Cesare, passeggiò in mezzo al popolo romano i
viali del Pincio. La processione delle Vestali lor teneva dietro a
pochi passi.

L’alto onore a cui Servilia fu assunta in quel dì pel volere di Cesare,
le parole di lui inaspettate, conflagranti, avevano messo uno strano
tumulto nel sangue già ardente della quindicenne fanciulla. Ell’era
in quell’età, ed aveva tale tempra da farle amare l’amore prima
dell’oggetto che doveva riscaldarlo; e ciò per la voluttuosa e vaga
albedine di aspirazioni e di desiderj mille.

Sebbene l’austero Cetego avesse potuto non parere adatto all’indole di
lei; pure, essendole comparso innanzi per il primo quando l’adolescenza
si svolgeva nella giovinezza, tosto essa gli si era affezionata con
ardore. Se a quella fanciulla fosse stato interdetto di veder mai
sembianza d’uomo, il sangue tuttavia le avrebbe riscaldata la fantasia
così da comunicarle la potenza creatrice, e farle idoleggiare nella
vuota solitudine qualche larva ideale. Se Cesare non le fosse comparso
innanzi così presto, così inatteso, e non le si fosse dichiarato
in quel modo, ben avrebbe perdurato più a lungo nell’amoreggiare,
interprete il dolore, coll’ombra dell’estinto Cetego; ma sarebbe
pur sempre venuto il dì che quella, eclissata da un corpo vivo, non
sarebbe più stata evocata. Chiaro dunque è come nel breve tempo che
era trascorso dal crepuscolo alla _prima nox intempesta_, onnipotente
l’avesse già dominata il nuovo amore, sebbene prima avesse potuto
detestar Cesare.

L’onda del popolo romano si apriva all’apparir di lei; gli sguardi
si fermavano avidi su quella meravigliosa beltà. Ebe l’aveva
soprannominata Cesare quand’ella brillò nelle aule di Sempronia — e
parea veramente la Ebe dell’Olimpo d’Omero; chè l’onda voluminosa
delle chiome sembrava oro, ma quando l’artefice nel riforbirlo,
gli comunica quel colore particolare che par vermiglio insieme e
nero, e che i Latini chiamavano feniceo; però il colore della pelle,
nella fronte, nel collo, nel seno, nelle braccia, rendeva il candore
trasparente dell’alabastro, che tramutavasi in roseo pallido nelle
gote; brillando il cinabro schietto sulle labbra ognora semichiuse, per
la struttura del naso e nari strettissime, più forse che la perfezione
lo comportasse; e nel volto quel che appariva di più insigne era la
linea soavissima che girava le parti esterne dell’occhio; occhio di
colore azzurro-profondo, e ch’ella girava lento ma luminoso e raggiante
come l’aria di Roma; quell’aria singolare che Cicerone ebbe a chiamare
_lux_, sebbene avesse navigato il mare Argolico, e visitata la chiara
Zacinto. Di finissimo bisso avea la veste, che secondava con indulgenti
pieghe le coscendici dense: quella cadeva prolissa fino ai legami
della _solea_, che lasciava veder nudo il candido piede. La zona tenea
d’argento, e la cingeva sì adatta e breve che pel contrasto del fianco
ricolmo concitava il sangue dei Quiriti ammiratori. Nude mostrava le
braccia fin oltre la spalla; e il bisso aprivasi alla regione delle
acsille che le caste _alipile_ avevan detonse.

Cesare passeggiò qualche tempo senza dir parola, assorto nella
contemplazione di sì attraente beltà; e così, standole assai presso,
e sentendo una fragranza speciale che Servilia effondeva dalla pelle,
fragranza come di citiso fiorito, trovò che potè essere veritiero
Aristossene, quando lasciò scritto che Alessandro Magno spirava dalla
pelle soavissimo odore; e si apponesse Teofrasto quando asserì che ciò
derivava dalla fervida temperatura del corpo di lui e dalla concozione
che il calore fa degli umori, onde gli aromi nascono là dove più arde
la terra. Un tale fenomeno che il caldo giugno potè far palese, più che
mai rese acuto in Cesare il desiderio amoroso di Servilia; onde così le
parlò allora:

— Ambrosia tu spiri dalle divine membra, o Ebe, più cara di quella che
sorride a Giove.

Servilia alzò gli occhi in viso a Cesare.

— Pronuncia una parola, ei proseguì allora; fa che non sia stato invano
quanto ti dissi allora che mi hai posto questo alloro sul capo.

— Tu sai, Cesare, la condizione dell’animo mio; che penseresti di
Servilia tu, se potesse dimenticar Cetego così?

— Non io ti dirò di dimenticarlo; la memoria di Cetego sia sacra in
perpetuo. Pur gli estinti non risorgono; e i doni più che divini onde
Venere ti colmò, non debbono struggersi in inutile pianto.

— Non mi tentare, o Cesare; io pavento l’ombra minacciosa di Cetego.

— Ma se Cetego non avesse vinto il tuo cuore, ma se per altri tu non
avessi mai sentito, nè oggi sentissi amore, le mie parole sarebbero
cadute sì inutilmente dal mio labbro, e sarebbero rimaste là sui gradi
del circo, quasi doni spregiati, e non voluti raccogliere?

— Io le raccolsi quando pronunciai il tuo perdono. Però non t’odio io
più.... le tue parole mi hanno conquisa; e la virtù della tua mente
e l’aitanza sovrumana del tuo corpo, e Venere che brilla in cielo or
mi comanda di venerarti. Ma non tentarmi; ancora te ne scongiuro, o
Cesare.

E così parlando continuarono il giro pei viali del Pincio, e
ritornarono all’ara di Vulcano, dove le Vestali, disposte in circolo,
raccolsero nel proprio seno Servilia.

Cesare piegò allora un ginocchio innanzi a lei, che doveva spruzzarlo
d’acqua lustrale, come voleva il rito; poi si alzò dicendole sommesso:

— Oggi mi hai imposto il glorioso alloro, e asperso di sacra onda; ma
domani verrò a chiederti una fronda di mirto.

Presso al circolo delle Vestali, in mezzo alle quali Servilia si
assise, seguendo con lungo sguardo Cesare, che di ricambio saettò
lei di uno sguardo profondo, breviloquente, efficace ancor più dei
Commentarj che scrisse poi, stavano in crocchio alcuni dei più illustri
personaggi di Roma. E Cesare, partendo, s’incontrò in esso. Quel gruppo
glorioso nel quale Cesare diè di fronte era costituito nullameno che
di Catone fratello e tutore e custode della Servilia-Ebe, di cui ella
era indegna ed egli di lei; tanto che non parean i portati di un talamo
istesso, e forse non lo eran davvero; tanto la virtù romana, pur nel
fitto della più rigida apparenza, si dilettava ad insultar cielo e
terra, e obbedendo all’onnipotente natura più che alle leggi che la
vendetta senile aveva redatte, mescolava pupille cerulee e pupille nere
e colori olivigni e pafici candori sotto un medesimo tetto.

E Lucullo, il glorioso, l’opulento, l’elegante, il dotto, il già
inclito per virile beltà, ma in quel punto già scendente pel decimo
lustro, e però non più caro alle flore primaverili, parlava a Catone
della Servilia sua e gli gridava alto; chè il dio Vulcano gli aveva
concesso in quella notte di tuffare le bramose labbra nei dolii colmi
di lieo. Gli gridava alto queste parole:

— Solo oggimai io sono; stancata ho la gloria; ed ella ha tediato
me; io feci scorrer sangue a torrenti, in onta a Platone divino che
aborriva il sangue e malediva a chi lo versava. Ricco son io così,
che i re da me debellati mai non arrivarono a tanto. Non ho figli
presso di me; e sono estinte o ripudiate le mie molte mogli; riviver
dunque io voglio e rinnovare una gioventù artificiale, inaffiando
il cuore di sangue riscaldato dalla bellezza e dalla adolescenza non
anco sospettata di prepostere colpe. Concedimi dunque, o Catone, la
divina sorella tua in consorte. Felicissima io la farò, e tanto più
quanto meno io sono giovane; chè l’esperienza lunghissima mi scaltrì a
non essere marito importuno e, trascorsa che sia la dodicesima parte
del primo anno nuziale, a concedere, vedendo e non vedendo, qualche
spiraglio alle future aspirazioni muliebri; poichè a profonda pietà
mi commovono le donne dannate all’assidua contemplazione di un sempre
egual marito. Ma io saprò involarmi a tempo; e Servilia sarà proclamata
felicissima tra le romane donne, se tu, o Catone, me la concedi in
isposa.

— Se in te, rispose Catone, parla il volere dell’intelletto e il
consiglio del cuore più che lo stimolo transitorio dell’agitante
falerno, mia sorella, della quale io sono tutore, sarà tua consorte.

Cesare udì e fremette; chè ben conosceva Catone, il quale le sue forti
virtù offendeva coll’avarizia, e bramava di levarsi dell’importuna
tutela di Servilia; Cesare per di più temeva che la fanciulla potesse
pendere incerta tra lui giovane sprofondato nell’abisso dei debiti,
e il ricchissimo e già tanto glorioso Lucullo, ancora bello di volto
e di membra pur nella protratta virilità; e che quando Anacreonte
lo inspirava, pareva che dal bigio autunno retrocedesse a rinnovare
gli aurei giorni dell’estate. Fremette ma dissimulò; e disse parole
gioconde a Lucullo e confortò Catone. È inutile proseguire il discorso,
ma essi avranno parte ad un avvenimento che sta fra i più famosi
che segnalarono l’ultimo centenario della romana repubblica; vogliam
dire la congiura di Catilina, che ci siamo proposti di rappresentare
e discutere più che superficialmente; e sebbene molti fatti della
giovinezza di Cesare, degni di ritrattazione, sieno avvenuti prima
della congiura stessa, pur ci conviene, in onta all’ordine cronologico,
darle la preferenza; perchè assai cose anteriori rimarrebbero
incomprensibili senza la luce delle successive; e ci pare inoltre che i
pensamenti di Cesare, le sue aspirazioni e la profonda sua acutezza, e
lo sfoggio delle più attraenti e luminose qualità adoperate all’intento
del più profondo e longanime egoismo, tutti si rischiarino e prendano
rilievo attraverso a quell’uragano, dall’esito del quale dovevano
dipendere le future sorti dello Stato romano.




XII.

SALLUSTIO E LA CATILINARIA.


Se il monumentale Sallustio avesse fatto il debito suo, le nostre
pagine sarebbero oziosissime; ma già lo si disse: Sallustio fece
un’opera mirabile per l’arte, insufficiente per la storia; spesso
indegna di fede per il suo carattere di libello partigiano, e in taluni
passi, in onta alla sua brevità, offrente incertezze e contraddizioni
e assurdità tali che possono ravvisarsi dalla critica più volgare. Le
orazioni ch’ei fa recitare a Cesare, a Catone, ad altri, sono lavori
d’arte oratoria, non mai di politica e storica sapienza; non v’è mai
l’utile grandezza, per esempio, delle concioni di Tito Livio, nelle
quali, pur sfoggiandosi tutto il lusso accessorio dell’eloquenza,
si riassumono nulla meno che interi sistemi d’ordine pubblico, di
riforme legali, di amministrazione, di relazioni internazionali.
Quelle concioni erano inventate da Livio; ma, inventando, indovinava
e spiegava e ricreava i momenti storici e i personaggi. Lo stesso
Shakespeare nelle orazioni di Bruto e di Antonio par che conosca Roma
più di Sallustio. Nè il solo Sallustio ci costringe a non star contenti
al suo detto, sebbene sia il più manchevole ed infido di tutti; ma dopo
avere interrogati tanti altri storici per controllarlo e completarlo,
ci converrà stare in guardia anche di essi, facendo uso di quella
chiave universale e perpetua dell’indagine storica, che è fatta di
raffronti e di logica. Quante favole e asserzioni riferite in buona
fede dal sommo Livio caddero di tratto, appena quella chiave dischiuse
dei segreti non avvertiti e non sospettati prima! Così non potè più
esser Lucrezia la cagione della caduta dei Tarquinii, nè la simulata
pazzia di Bruto primo, ma l’autorità regia raccomandata alla morte
degli Ottimati; ma la fortezza del Campidoglio, che fu per Roma antica
quel che furono le fortificazioni per Parigi moderna.

Medesimamente, per toccare di un ordine di cose già da noi trattato
nella descrizione del Circo Massimo e dei giochi romani e dei più
illustri giovani gareggianti, non potemmo tener fede a quelle parole
di Cornelio Nipote: _Magnis in laudibus tota fuit Græcia victorem
Olimpiæ citari.... quæ apud nos ab honestate remota ponuntur_. I
circhi antichi di Roma erano costruiti sulle forme dei circhi della
Grecia, precisamente come l’Olimpico; e allora l’architettura rivelava
completamente l’uso dell’edificio nel tutto, nelle parti, nello scopo.
Nel tempo poi che decorse dalla morte di Silla a Cesare, l’imitazione
greca, nelle scienze, nell’oratoria, nelle arti, nel costume, erasi
in Roma fatta delirio, specialmente per impulso di questo giovine re
della moda; per lui vi fu un impetuoso riflusso di democrazia che,
trionfando Silla, era stata respinta momentaneamente da un violento
regresso dell’intera legislazione romana. I filosofi greci, scacciati
dai Sillani, come propalatori di idee sociali, ritornarono in folla nei
primi tempi di Cesare, perchè in un sistema di rivoluzione più elementi
disparati si connettono fra loro. Così la democrazia greca ajutò forse
la ricomparsa dei trofei di Mario. Così anche i giuochi ellenici,
imitati con più caldo impeto, dovevano, per la parte che loro spettava,
ajutare la nuova alluvione che Cesare meditava; tanto più che egli
primeggiava in quei giuochi, e non trascurava occasioni ad attrarre gli
sguardi e l’ammirazione del popolo romano e dei militi innamorati della
prestanza fisica. Se non che Cornelio Nipote scrisse nei primi anni
d’Augusto, quando forse per qualche legge di lui, che pose gran cura
nel riformare i pubblici spettacoli, sarà stato conteso ai patrizii
di fare di sè mostra nei circhi, e nei teatri pubblici, e la nuova
costumanza confuse colle anteriori.

Queste cose noi ridiciamo ai lettori, perchè lungo questo lavoro si
preparino ad assistere a un quadro storico il quale vorrebb’essere
arte innanzi tutto, ma anche indagine e discussione; e dove l’autore
si propone emanciparsi da quella antica legge che comandava di non
offendere le credenze invalse per trovare più facile l’applauso; ed
introdurre l’arte, pur sempre conservandole il poetico suo scopo,
nel campo della critica storica, a cui il lettore deve mescersi per
giudicare poi se l’autore abbia avuto torto o ragione. Secondo il
primo esempio datoci da un ingegno tanto grande quanto originale e
rivoluzionario, non sarebbero più degni d’essere trattati quei soggetti
dove non ci fossero a sommovere questioni intorno a qualche personaggio
od avvenimento o costume caratteristico; nè il poeta dovrebbe mai
più occuparsi d’intrattenere il pubblico, quando non abbisogni di
rettificare sentenze che il pubblico ha accettate senza esame.

Ed or si prosegua.

Erano corsi quasi due anni dagli ultimi fatti che abbiamo raccontato;
il concetto della vasta congiura non aveva ancor potuto tradursi
in atto. Le difficoltà erano immense; alcuni ostacoli parevano
insormontabili. Il segreto però era rimasto profondissimo tra Catilina,
Sempronia, Cetego, lo zio del giovane estinto, Quinto Curio, Fulvia e
Pisone, che già avevan avuto parte in quella prima congiura denominata
del _cinque febbrajo_, perchè siccome esso era stato il giorno della
prima fondazione di Roma, così doveva anche essere l’anniversario di
quella e l’inaugurazione di una Roma nuova. Sempronia, che in tutto
teneva dell’indole di Catilina, e quasi il superava nel delirio
dell’ambizione, per accaparrarsi i complici e tenerseli fedeli, in
quegli anni s’era immersa nei debiti fin sopra il capo, onde nè colle
proprie ricchezze, nè con quelle dello zio Cetego che fu dissanguato,
non poteva più ajutar Catilina. Pare che questi, permettendolo
Sempronia stessa, si fosse accostato ad una Oristilla, dama romana
sterminatamente ricca; e colle arti sue inesplicabili, le si fosse
aggavignato al cuore, e però fosse riuscito nell’intento di farla
dichiarare garante degli impegni di lui in faccia agli innumerevoli
creditori.

Sallustio raccontò essersi allora tenuto per certo che Catilina abbia
ucciso il proprio figlio per far piacere ad Oristilla; ma di ciò non è
a tener conto.

Ardendo sempre più Catilina di compir l’impresa; e avendo più volte
tentato Cesare, che gli pareva il più opportuno ad agitar Roma;
essendosi quegli ognora scansato, risolse di aprirsegli ancora, onde si
recò con pochissimi fidi alla casa di lui nella Suburra.

— Quantunque di tanto sii tu più giovane di noi, disse Catilina
a Cesare, pure ancora siam qui venuti per consiglio e per ajuto.
L’impresa che tu sai pare matura. Vieni dunque or tu a comunicarle
l’ultima spinta.

Pare che Cesare non volesse compromettersi in quella, prima di non
avere approfondito il terreno ed esplorato il cielo d’ogni intorno;
onde:

— Quello che già ti dissi, ora ti ripeto. Soltanto, come mi sono
obbligato, oggi mi obbligo a tenere il segreto. Io non voglio aver
parte in cosa che mi sembra uscire dal probabile e quasi dal possibile.

— Eppure tutta Roma è con me; e la sua parte più giovane e più generosa
promette di corrispondere alle beneficenze ond’io la colmai.

— Promettere è agevole; ma le beneficenze già usufruttate, allorchè
viene il momento estremo di contraccambiarle, tosto si convertono in
ingratitudine. Altro ci vuole; e ben io proporrei cosa utilissima, se
fossi nella tua toga e volessi tentare una simile impresa.

— Parla.

— Ritorna colla memoria a tanti anni addietro della repubblica romana.

— A quando?

— Al tempo in cui Roma, estendendosi sempre più, si trovò aver quasi
tutto da amministrare negli Stati esteri. Allora si cominciò a dare
il primo crollo all’aristocrazia di famiglia. La democrazia non ha
più formidabile nemico che in questa aristocrazia casalinga, che,
se ha avuto un crollo, pur è ancor tanto onnipotente. Molti secoli
trascorsero prima che al padre fosse conteso di appropriarsi anche ciò
che acquistavano i figli; però questi, cittadini nel foro, schiavi
in casa, dovevano combattere e guadagnare persino la preda bellica
per lasciarla ai padri che potevano diseredarli. Ci fu un momento che
questi giovani generosi si sentirono attiepiditi considerando una sì
grande ingiustizia. — Che si fece allora? si riconobbero i _peculii_,
ossia fu stabilito il diritto di proprietà su tutto quello che i figli
acquistavano in guerra. Il _peculio castrense_ fece così ribollire più
guerriero il sangue nei petti dei giovani romani. Ma, lo ripeto, la
potestà patria non fu tocca che in un lato dal _peculio castrense_ —
e oggi essa è ancora prepotenza più che potestà. Queste cose io non le
dico perchè l’utile mio proprio mi faccia parlare. Mio padre è morto;
nessuna potestà pesa dunque su di me; chè io vivo del mio diritto.
Dunque è un’ingiustizia assoluta che mi fa forza. Ma è anche contro una
tale ingiustizia che fremono tutti i giovani romani i quali hanno il
padre vivo.

«Ora chi si mettesse alla testa di così fortunosa impresa, qual è
questa tua, dovrebbe in alcune conventicole notturne, dove questi
giovani, invitati con arte, verrebbero ad adunarsi in folla; dovrebbe
giurar loro, sull’ara, con tutta la solennità di un giuramento sacro,
accresciuto da cerimonie eccezionali e tali che potessero percuotere la
loro fremente imaginazione; che sarà abolito per sempre il diritto di
vita e di morte che hanno i padri; che più non debbano essere preteriti
i figli nei testamenti, che quand’anche _per valide_ ragioni potessero
venir diseredati, questo non si possa fare che _nominativamente_. E v’è
altro a prometter prima. Venga abrogata quella iniqua legge di Silla
la quale tiene anche oggi i figli dei proscritti incapaci dei pubblici
diritti. Costoro brulicano a migliaja di migliaja, e s’affretterebbero
da tutta Italia a far grosse le legioni di colui che sentisse aver
tanto di forza da ricostituire su novelle fondamenta la repubblica
nostra, e sulla vasta base del diritto sociale ripiantare la grandezza
romana che l’aristocrazia, ristretta sì ma tenace e profonda, minaccia
dalle radici.

«Queste cose io proclamerei, se credessi opportuno oggi di tentare
un’impresa pericolosissima qual è quella di cui mi hai parlato e mi
parli. Ma io dissi quel che dissi, solo a sfoggio di parole, come se
Apollonio Rodio volesse farmi argomentare su d’un tema qualunque. Però
come io tenni e tengo e terrò il segreto, anche tu lo terrai; e se i
miei pensieri ti fossero per giovare, falli tuoi, che io non ne voglio
sapere. E ancora ti sconsiglio dal tentare una sì audace impresa.»

Catilina non ripetè parola, e insiem cogli altri lasciò Cesare, il
quale nel salutarlo lo guardò con profonda significazione, e parea
volesse dirgli: Avevi a venir solo, e ti avrei parlato in diverso modo.
E Catilina, trovatosi libero coi colleghi: Or mi accorgo, disse, che
fu pessimo consiglio l’essere ritornati da costui. Ma basteremo noi
a tutto, e non parlò più. Sibbene fece tesoro delle parole di Cesare;
o per dir più giusto, gli parve di comprendere quanto colui fosse per
fare.

Veramente, leggendo l’orazione che poscia ei tenne ai congiurati,
orazione evidentemente inventata da Sallustio, non avremmo il diritto
di dir questo; ma come si può egli credere a quell’orazione; come si
può comprendere l’acutezza di Catilina se fossero veri quei due passi
della concione dove le parole contraddicono ai fatti e alle asserzioni
stesse di Crispo:

«Anzi che una misera, obbrobriosa vita (è Sallustio che sfoggia arte
oratoria per bocca di Catilina), e fatta omai dell’altrui superbia
ludibrio, senza onore si perda, non è egli meglio da vittoriosi morire?
Ma gli uomini attesto e gli Dei, ch’ella sta in noi la vittoria, non in
costoro fra le diuturne loro ricchezze invecchiati, avviliti....

«Qual uomo di virile animo soffrirà che ricchezze a costoro
sopravanzino da fabbricar nei mari ed i monti appianare, mentre il
necessario perfino a noi manca? Due e più palagi a costoro; a noi un
tugurio neppure.»

Ma basti di Sallustio, al quale domanderemmo, se rivivesse, come abbia
potuto, in quel breve riassunto della congiura Catilinaria far dire
in un luogo tali parole a Catilina, e in un altro narrare in che modo
colui abbia potuto adunarsi intorno a sè tanti giovinetti; col donare
cioè a chi cavalli, a chi statue, a chi danaro. Quei giovani, a sì
strane parole, avrebbero prorotto in tali risa da far dileguare ogni
disegno di congiura, e da farne andare scornato lo stesso Catilina.

Ma ora trattasi di determinare le cause vere e speciali, e non
probabili che in quel periodo storico, le quali devono aver provocato
il fenomeno fino ad ora inesplicabile, che tanti giovani appartenenti
alle più cospicue famiglie di Roma abbian seguito al campo con sì
ardente alacrità, il tanto aborrito Catilina, e colà sian caduti quasi
tutti da eroi.

Le cause generalissime assegnate da Sallustio, e che toccando fenomeni
di tutti i tempi non rivelano per nulla il caratteristico assetto di
Roma al tempo della giovinezza di Cesare, non bastano a spiegare quel
fatto singolare.




XIII.

LA PATRIA POTESTÀ.


Per tornare alla questione toccata da Cesare, la patria potestà
tanto nel fatto arbitrariamente eseguito, che nel diritto meditato
con intenzione di sapienza e di umanità, sia che questo proceda
spontaneamente dal naturale, o si fissi con arte nel civile, è
argomento vetustissimo. Attraversò tutte le civiltà, sempre di volta
in volta modificandosi, sempre accennando all’intento del meglio, ma
senza mai risolversi in una sentenza postrema, che appaghi tutte le
coscienze, tutti i pensamenti dei savii e faccia scomparire tutti i
dubbii. Anche oggidì presenta i caratteri di un problema di cui la
soluzione attenda il futuro e minacci di rimaner perpetua.

Dalle leggi delle dodici tavole nelle quali appare che la
collaborazione di Ermodoro, esule dalla Grecia democratica, indarno
valse a placare l’aristocratica e spietata scienza dei giuristi
romani, alla odierna legge italiana, i giureconsulti intorno a molti
e pericolosi problemi appaiono ognora in disaccordo. Quelli tra loro
che innanzi ad altro interrogarono il diritto naturale e, inspirati
da una filosofia fatta troppo credula dal sentimento e dall’amore,
trovarono nel sangue paterno tutte le guarentigie alla possibile
felicità dei figli, mostrarono di non conoscere tutta la terribilità
del cuore umano, della quale i fenomeni vedonsi sovente anche in
coloro che adempiono ai doveri di cittadini intemerati, che passano
ilari al cospetto del codice, inutile per essi, che persino meritarono
ed ottennero premii dal pubblico riconoscente. Chi dalla natura e
dalla condizione e dal diritto tiene un potere, facilissimamente, sia
nella sfera della pubblica azione che in quella della vita privata
e domestica, è tentato di trasmodare alla tirannia. Quei sapienti
innamorati sentenziarono essere eccezione il padre che non ama i figli;
ma non pensarono che nell’amore stesso che si manifesta in loro al
cospetto o della beltà delle figlie o dell’ingegno dei figli, è deposto
il più delle volte un germe occulto di egoismo, il quale esploderà
tantosto che a quella beltà tenti accostarsi alcun mortale non ricco;
o quell’ingegno, tratto irresistibilmente a coltivare la non doviziosa
arte, diserti il foro, o il nosocomio, o il trabucco. Quante fanciulle
cui la beltà fu dono sventuratissimo, vennero costrette dal buon padre
a concedere la mano ad uomini odiati, de’ quali la ricchezza e la
condizione privilegiata rendevano amabilissimi a lui solo, e vennero
dannate a infelicità perpetua, e di cosa in cosa, persino a cercare
nel peccato un lenimento all’affanno. Chi sa quante volte dietro al
sacerdote benedicente l’infausto nodo, la sposa desiderante e piena la
fantasia di formose apparenze, vide sorgere lento lo spettro voluttuoso
dell’adulterio, iridiscente come le ali di Lucifero, e irridere al
rito, quasi aspettando un avvenire vicino.

Il furore di dominio spesso dissimulato dalle più benigne apparenze, la
gelosia inesorabile nell’amministrazione e nel godimento dei possessi,
mantennero sovente i figliuoli quasi poveri nella casa del ricchissimo
e fastoso genitore.

Lo spettacolo di uomini non ancora _viri_ a quaranta, a cinquant’anni,
tenuti in continua ed umiliante soggezione del padre; e a tale età
ritraenti uno scarso sussidio non proporzionato alla casalinga dovizia,
è caso frequentissimo e volgare.

Quel pensatore sommo che fu Leopardi, al quale forse i giustissimi
sdegni erano di soverchio esacerbati e incruditi dalla maledetta
condizione del suo corpo e della salute, la quale gli fece veder la
vita attraverso a un prisma di troppo tetra luce, ebbe a dire che
nessun uomo ci addita la storia, il quale sia stato operatore di grandi
e gloriose cose, vivente il padre.

Alessandro, Cesare, Napoleone, egli diceva, sfolgorarono indipendenti
da ogni predominio paterno. La sentenza dell’inclemente filosofo
parrebbe varcare il confine del giusto; ma anche nell’esagerazione,
quasi in procella, s’agita pur sempre e appare il vero.

Se non che Leopardi viveva in tempi e in un paese dove alla patria
potestà la legge concedeva diritti ancora eccessivi. Nelle Romagne e
in Toscana il padre avea diritto all’usufrutto dei beni peculiari del
figlio fintantochè questi non avesse raggiunta l’età d’anni trenta;
il che significava che un uomo a quell’età già matura era ancora
fanciullo; e sì manifesto errore volevasi mantenere dai giureconsulti
di quelle regioni quando avversavano i redattori del nostro Codice
odierno. Leopardi imprecava alla caparbietà senile dei giuristi i
quali, scelti fra gli assai provetti, e portando nella redazione di
codesta parte del codice, quel dispregio che in un certo ordine di cose
i vecchi hanno per i giovani, congiurarono a rendere in essi inutili
quelle facoltà d’azione che dai venti ai trent’anni negli uomini di
mente sana sono potentissime. La storia ci apprende che Leopardi aveva
ragione.

Alessandro a vent’anni aveva già sottomesse la Cilicia e la Pamfilia e
tagliato il nodo gordiano; a trenta era compiuta per lui ogni possibile
conquista. A Pompeo ventiquattrenne era stato concesso l’onore del
trionfo; Annibale appena ventenne imperava e teneva in temuto dominio
l’esercito cartaginese sebbene fatto d’uomini di molteplici razze e di
varie nazioni.

Che se balziamo ai tempi moderni, Gastone sotto le mura di Ravenna
moriva di spingarda a ventitrè anni ed era già da tempo governatore
della Lombardia e generalissimo delle truppe francesi; Bonaparte poco
oltre il quinto lustro aveva già vinte dodici battaglie, annientati
cinque eserciti, disarmato il re Sardo, atterrito Ferdinando di Napoli,
umiliato Pio VI, rovesciate due repubbliche, e a trent’anni già console
onnipotente di Francia preparavasi all’universale Impero. Pitt e Fox
a ventiquattro anni erano già antagonisti, e se il primo sì giovane
governava sapientissimo la _positiva_ Inghilterra; Fox già tuonava nel
Parlamento con quell’eloquenza invadente e invitta che dal suo tempo
e dalla sua patria, per trovargli un riscontro, ci fa risalire alla
Grecia e a Demostene. Che se dal campo agitato dell’azione digrediamo
alle sgombre sfere del pensiero; Leibniz a 17 anni insegnava calcolo
sublime a Gottinga; Pascal ventenne inventava la macchina aritmetica;
Gœthe, compiuto appena il quarto lustro, aveva già scosse le menti
ed agitati i cuori di tutta Europa e introdotta ovunque la moda del
suicidio; Beccaria, Filangieri, Romagnosi, tutti assai prima del
trentesim’anno, avevano compiute le opere per le quali sono immortali.

Ma bastino le citazioni, chè a proseguirle si colmerebbe un volume.

Codesta digressione relativa alla patria potestà considerata
generalissimamente nei codici moderni, potrà forse parere inutile;
pur ne giova a tener conto del progresso del pensiero da Roma antica a
noi; perchè, se ancor sorvivono molti elementi che sono in contrasto
colla natura, colla ragione e colla giustizia assoluta; tuttavia,
al confronto di tutti i codici dell’evo moderno e del medio, la
legislazione romana rispetto alla _patria potestà_, appare veramente
abnorme e monstruosa e incredibile.

Incredibile tanto più se si considera che Roma è la patria antichissima
della scienza del diritto; che questa le comunica un carattere suo
proprio, essenzialmente storico; che essa fu ed è la madre di tutte le
legislazioni del mondo civile; che vive ancora ed è ancora la massima
parte di tutti i codici d’Europa.

La quarta legge delle dodici tavole spettante alla patria potestà è la
ferocia belvina convertita in scienza e consolidata nel diritto civile.

I figli in Roma erano cittadini, in faccia agli altri uomini persone,
al cospetto del padre schiavi e cose; nè mai diventavano maggiorenni.

Il legislatore dei Romani, scrive Dionigi d’Alicarnasso, diede al
padre ogni potestà sui figli, per tutto il tempo della loro vita;
tiene il diritto di sostenerli in carcere, di sferzarli a morte, di
venderli. Anche console e proconsole o duce d’eserciti e trionfatore,
il figlio era pur sempre sottomesso alla monstruosa potestà del padre.
Della spietata aristocrazia domestica non v’ha esempio in nessun’altra
legislazione, nemmeno nelle più truci consuetudini delle barbare genti.

Giustiniano, sebbene al suo tempo la patria potestà fosse ridotta a
misura più mite, diceva con dolore: — Non vi sono uomini al mondo, che
abbiano tanta potestà sui figli come noi. — _Liberis jus vitæ_, così è
fermato nelle dodici tavole, _necis venundandique potestas patri esto_;
e soltanto in un momento di luce, che per quei cupi legislatori potè
parere serena, fu statuito che: _Si pater filium ter venundavit, filius
a patre liber esto_. Eppure Cicerone, il primo dell’antichità che offra
i caratteri dell’uomo e del pensatore moderno, il solo che in Roma non
renda il fenomeno dell’irremovibilità latina, il solo che dal tormento
del dubbio scientifico sia tratto a interrogare la ragione pura, lodava
le dodici tavole; e chiamava incondito e ridicolo ogni diritto civile
fuorchè il romano. Ma Cicerone era patrizio; e l’ordine privilegiato al
quale apparteneva facea velo al giudizio anche di quel sommo.

Nè si creda che l’atroce legge rimanesse lettera non esercitata;
Bruto, Cassio, Fulvio, Fabio Eburno, Scauro furono tutti sacrati a
morte dai padri furiali. Lo storico Paolo, vissuto a Roma, testimoniò
che la risorsa ordinaria dei padri versanti in angustie pecuniarie
era di vendere i figli. Dopo tali enormezze legali, può sembrar mite
il diritto che avevano i padri sui beni dei figli, derivassero loro
o per eredità della madre e dei parenti, o per guadagni da essi fatti
in particolare, o per le ricche prede che portavano dalle terre dove
avevano militato.

Al tempo di Cesare una serie numerosissima di leggi le quali,
promulgate in trecento e più anni, portavano il nome di chi le aveva
proposte e fatte accettare in Senato, in molta parte modificarono e
attenuarono quelle delle dodici tavole; e per quanto riguardava la
patria potestà, lasciando sopravvivere la tirannia aristocratica del
padre nei diritti di fustigare, di uccidere, di vendere i figli, fu
statuito ch’ei non potesse avere più alcun diritto su quello che essi
avevano acquistato in guerra.

A provocare, come già udimmo da Cesare, l’ardore guerresco dei
giovani, avvisatamente i giuristi avevano resa loro incresciosa la vita
domestica; chè il militare in terre lontano dove il valore procurava
gloria e ricchezze li sollecitava al campo.

Gli acquisti fatti dai figli in guerra furon denominati _Peculio
castrense_. Pur se la legge vigeva, non sempre veniva osservata; chè
tutti gli altri diritti lasciati ai padri, troppo spesso rendevano
irrito quel solo stato concesso ai figli.

Bastava una minaccia del padre avaro e tiranno, perchè i figli si
lasciassero rapire tutto quello di che la legge li costituiva in
assoluta proprietà. Non tutti i padri erano efferati, molti erano
giusti, alcuni miti e clementi. Ma se un’indole perversa governava la
volontà paterna, il figlio poteva bensì ricorrere al pretore e farsi
patrocinare dal più eloquente oratore; ma la sentenza favorevole al
figlio veniva poi ad infrangersi contro all’inesorabile petto del
padre, il quale colla morte poteva togliere al figlio la proprietà che
il pretore gli aveva dato colla legge.

Ed ora in un fatto romano famigliare vedremo la riprova di queste
asserzioni storiche.




XIV.

MARCO SCEVA.


Dalla casa degli Sceva che sorgeva sul colle Palatino, alle none di
luglio dell’anno 690 _ab urbe condita_, usciva un giovane di strenue
forme. Sebbene clamidato mostrava nudissime le braccia fino al sommo.
Il volto, la trasparenza della pelle, l’occhio lucente che mandava un
raggio ingenuo, ad onta ch’ei paresse turbatissimo, rivelavano che quel
giovane appena poteva aver varcato di due o tre anni il quarto lustro.
L’interno soliloquio di un animo affannato appariva nei movimenti
concitati di tutte le membra, e più nelle braccia, nelle quali
guizzavano i muscoli come se, provocato a vendetta, ei percuotesse
fieramente qualcuno.

Quel giovane era Marco Sceva figlio di Publio; quello Sceva che
cento anni dopo, già fu detto, gli endecasillabi di Lucano dovevano
consacrare all’immortalità. Certamente men grande di Cesare, meno di
Pompeo, men fortunato dell’uno e dell’altro, fu tuttavia ancor più
valoroso di quei due valorosissimi, e come quelli non sono stati,
intemerato e santo e intatto dalla gloria tentatrice. Il poeta dei
tempi di Nerone, entusiasta d’ammirazione, lo tramandò ai posteri
perchè questi, nella immane corruttela romana, vedessero un eroe
completo senza innesto di colpa.

Ma provoca una strana meraviglia il fatto che quel giovane di natura
sì generosa, sì forte, sì intera, procedesse da un padre che persino
la Roma inquinata di allora dispregiava ed abborriva, quantunque fosse
uomo senatorio e consolare e fosse ricchissimo e avesse militato con
Silla, con Sertorio e con Lucullo non senza riputazione di valoroso.
Il Cenci di Roma moderna può dar qualche imagine della natura di quel
Cenci antico, odiatore di figli, tentatore di figliuole.

Marco Sceva, disceso dal Palatino, d’una in altra via, s’incamminò
alla sacra, e da quella piegando al foro e radendo le taberne,
accelerò il passo al fornice fabiano, e così, venuto alla Suburra,
si fermò innanzi alla casa-tempio, come l’appellavano i Romani, del
divo Cesare. Nominossi all’ostiario, il quale rivolto ad altri servi,
lor disse riferissero a Cesare che Marco Sceva desiderava parlargli.
Fu introdotto. Cesare sedeva nella Biblioteca, elegante, azzimato,
profumato, quasi stesse in mezzo ad un circolo di giovani dame. Si alzò
all’apparire di Sceva in sulla soglia, gli mosse incontro con abbandono
cortesissimo, lo salutò, gli prese la mano, e:

— La tua mano è piombo, o Marco; tu puoi tentare a certame l’immortale
amante di Dejanira. Ma quali cure ti mandarono a me?

— Orribili cure.

Come sappiamo erano quelli i giorni, in cui, come in onda bollente,
si sommoveano e riscaldavansi i progetti, le trame, i disegni di
Catilina e degli altri congiurati. I giorni in cui nella casa di
Precia, famosissima cortigiana di Roma, quella all’influenza della
quale ricorse lo stesso Lucullo per ottenere il governo della Cilicia,
adunavansi i giovani del più alto patriziato romano, eccitati ognora
dal febbrile Catilina. I giorni in cui le altre cortigiane, la
Chiledone mantenuta da Verre, e la Flora pagata da Pompeo, e la Lesbia
e la Lice e la Cloe indorate dall’indebitato Antonio, console con
Cicerone, andavano rinfiammando gli assidui loro visitatori all’impresa
di rovesciar la Repubblica; e Sempronia faceva altrettanto; e la
nobilissima e perversa Fulvia teneva da Quinto Curio, cieco d’amore,
tutti i segreti della congiura; e accoglieva Lentulo, amatore sostituto
e non riamato, e lo sollecitava e lo faceva ardere d’ira, e gli
sosteneva il coraggio, sebbene avversa a quelle mene, in segreto, e
traditrice, poi in palese.

Cesare, sapendo tutto questo, credette, al primo, che Marco Sceva fosse
venuto a lui per interrogarlo intorno a quell’impresa — ma Sceva:

— Orribili cure, proseguì, accelerarono i miei passi alla tua dimora.

— Ma quali cure?

— I tormenti di Dite son refrigerio in paragone di quelli a cui
soggiacio nella mia casa maledetta dagli Dei immortali.

— Narra. Affannato di troppo mi sembri tu. Io, tranquillo, forse ti
potrò giovare di consiglio. Qualche cosa già so.

— Tu sai, divino Giulio, ch’io militai sotto Pompeo contro Mitridate.

— Non v’è romano che non lo sappia. Non v’è romano che non conosca
le prove di valore mirabilissime che hai date. La corona di quercia
e la murale e la lorica che il gran Pompeo ti ha donato, ne sono i
testimoni.

— E sia; ma la onesta e lecita contentezza che mi verrebbe da tali
premj e dagli applausi che, pur nel più fitto e nei più fieri pericoli
della mischia mi vennero sovente dai miei commilitoni, tutto scompare
e si trasmuta quasi in uno scherno crudele della fortuna, se penso alla
mia condizione di mortale disperatamente infelice. Quando fu debellato
il re, e Pompeo non potendo andare nell’Ircania e al Caspio per la
moltitudine dei serpenti velenosi, si ritirò nell’Armenia piccola, a
lui furono condotte tutte le schiave del voluttuoso Mitridate. Pompeo
non le accolse, ma pensò invece di rimandarle ai loro genitori, essendo
per la maggior parte figliuole di capitani e di primati; e comandò
questo; ma Demetrio, il liberto e maggiordomo suo, il Demetrio ladrone
come tu sai, e già ricco sfondato, del quale tu conosci la natura
stranissima e prepotente, che è più padrone del padrone, onde si fa
lecito di rimproverarlo spesso e aspramente, e Pompeo ne ride e lascia
dire e fare, perchè è innamorato del liberto, Demetrio adunque, vedendo
passare come in processione la lunga schiera delle più sfolgoranti
beltà dell’Asia, apertosi a me che gli stava presso in quel momento:
— Bene fu inspirato Silla dagli Dei, quando disse Pompeo esser Pompeo
Magno, ma asino Magno io lo proclamo adesso, e se egli rifiuta questi
doni del sommo cielo, doni di pregio inestimabile, io me ne terrò due
o tre; chè di tante bellissime ci sono sempre quelle che avanzan le
altre; e verrà tempo, lo giuro per gli Dei, che invoglieranno anche
Pompeo. Prendendomi allora per mano, scegline pur tu un pajo che
ti faran bene. Te ne faccio un dono. Pompeo non oserà parlare. Tu
sai, Cesare, che Demetrio quasi più famoso del padrone ama ed odia
pazzamente sempre; quando ama protegge e darebbe il sangue per il suo
protetto; quando odia perseguita senza posa, e a tale che seppe rendere
odiosissimi al troppo credulo Pompeo persino alcuni dei suoi più cari
amici. A me toccò in sorte di essere assai ben veduto da lui, onde,
rapacissimo qual è, e nel punto stesso anche assai generoso, chè tanta
ricchezza addensata in pochi anni, gli dà una gioconda e benefica
ebbrezza al capo, mi ricolmò spesso di doni. Di quella schiera di beltà
celesti tornanti alle case, ei ne trattenne sei.

Pareva fosser più paghe le fanciulle che rimanevano, delle altre
avviate alle case paterne, case non regali e certo silenziose dei
tripudj onde Mitridate rallegrava i ginecei. Ancora invitato da
Demetrio a trascieglier le donne mie, ne vidi una di sì attraente
bellezza ch’io ne fui preso di colpo e mi appagai di lei sola. Essa
parlava greco, e comunicava alla naturale soavità delle vocali onde
l’idioma d’Omero è sì musicale, un suono particolare che le rendeva
ancor più soavi. Richiestala se non le sarebbe dispiaciuto viver meco,
chinò il capo arrossendo; quel rossore valse per mille parole, onde in
me l’amore di cui era già sorto il germe a un tratto si fe’ gigante e
ardentissimo. Condottala alla mia tenda, mi recai poscia con Demetrio,
che ciò volle, a visitare il castello tenuto in custodia da Stratonica
e dove erano riposte immense ricchezze. Pompeo il giorno prima non
prese che quei tesori che gli pareva sarebbero stati d’ornamento ai
templi e di maggior pompa al trionfo. Però saputosi questo da Demetrio,
volle veder meco Stratonica a cui Pompeo avea lasciato ogni cosa; e
le ingiunse in suon di minaccia, ch’egli si voleva prendere quel che
Pompeo aveva rifiutato.

Demetrio parlò così deliberato e fiero, che Stratonica in prima non
fe’ motto; poi, dopo qualche silenzio: ecco, prendete, gli disse.
E Demetrio in vasi d’oro e in monili e in gemme, si pigliò le cose
che più gli piacquero, e caricatone un carro e il proprio cocchio,
mi volle condurre alla mia tenda dove, pregandomi a ricevere qualche
segno dell’amor suo, depose alcuni di quei vasi d’oro e mi diede assai
gemme; ma non volendo io per nessun conto accettare, salì in furore
che pareva sincerissimo e minacciommi dell’odio suo. — Io desidero
la vostra benevolenza, gli risposi, ma questa ben mi era sufficiente
anche senza tali ricchezze. Si rasserenò Demetrio e parea felice
d’avermi arricchito. Riposando la guerra, con queste ricchezze e con
quella fanciulla più che divina, tornai a Roma, dove credevo che le
due corone riportate e la lorica argentea a me donata da Pompeo mi
avrebber fatto meno odioso al padre. Ma gl’infernali Dei parvero tenere
in feroce dominio la casa mia ben più di prima. Il padre, coprendomi
di contumelie e chiamandomi ladro più di Verre, pur si tenne tutto
quanto io gli veniva mostrando, e quando adocchiò quella mia fanciulla,
tremai veggendo come nel suo occhio lupigno balenasse un raggio fatale
acceso dagli estri di Venere. Da quel giorno è un perpetuo litigio; da
quel giorno le grida onde il padre copre le mie parole, sebbene calme,
tremende, sembrano aver converso in un antro ferino la vetusta e nobile
casa degli Sceva.

— Ma perchè conducesti colei sotto al tetto paterno? ma non avevi amici
in Roma dove celarla?

— Ebbi fiducia, ti dico, nelle corone avute e nel dono di Pompeo;
sperai che per questo il padre sarebbe venuto a più miti consigli;
pensai che già egli scende per l’undecimo lustro, e gli umori acri e
guasti del sangue onde spesso ei si corruccia e geme, vanno per lui
accelerando il lavoro delle Parche. Ma egli tentò Gordiene mia che lo
respinse, fierissima; però la fece chiudere nell’ergastolo dove in
oscena mescolanza gli schiavi tumultuano in perpetue liti; maschi,
femmine, fanciulli. Bensì atterrai la porta dell’ergastolo e uno
schiavo che colsi presso alla fanciulla da lui accarezzata, di tal
colpo lo colsi che cadde rovescio e più non sorse. Ma accorse il padre
avvisato dai perfidissimi servi e colà fecela rinchiudere. Un litigio
orrido avvenne tra me e lui. Ei minacciò, io minacciai; ed ora tremo
di me stesso, tremo di lui, chè io sento, o Cesare, la tentazione del
parricidio.

— Bada, Marco, di non ripetere mai più queste parole scellerate. Pensa
che nell’otre chiuso e gettato al mare, ospiti il gallo, il gatto,
il serpe e il pavio non fan buon giuoco. Tralascio l’infamia. Tu sei
devoto agli Dei immortali di Roma; il tuo sangue dee scorrere per lei
sola e per la gloria che t’irradierà fin nei beati Elisi. Te consiglio
intanto a ripetere a Catilina tutto che mi hai detto; egli pensa a far
distruggere la legge che dà ai padri tanta possanza sui figli.

— Lo so; già m’affiatai più volte con Catilina..... Oh la fortuna
sorridesse davvero all’audacia....

— Comprendo a che accenni; pure io reputo intempestiva l’impresa
di Catilina; nè sarò mai per approvarla. Tuttavia, ripeto, versa
in Catilina tutto intero il tuo affanno; da questo nuove, inattese,
grandissime cose nasceranno.

Cesare si alzò, e stringendo fortemente la mano a Marco Sceva: —
Ascolta il mio consiglio, ripetè. Va tosto a Catilina.

Sceva partì.

Cesare voleva la congiura, voleva che la Repubblica qual era allora
andasse sossopra; voleva che tutti gli ordini si tramescolassero e
si confondessero in un’alluvione rinnovatrice. Però consigliava e
sconsigliava, diceva e non diceva, faceva di fuga passare innanzi
allo sguardo altrui, i più audaci e risolutivi disegni. Ma operava di
queto e cauto, perchè vedeva l’impresa pericolosa e incertissima — e,
rimettendosi a sedere:

— Codesto giovane forte, ardente, infelicissimo, già glorioso,
infiammerà tutta la gioventù romana a inaudite imprese, e gli Dei
immortali provvederanno.




XV.

GLI ERGASTOLI PRESSO GLI ANTICHI ROMANI.


Gli ergastoli, o luoghi di lavoro forzato, presso gli antichi Romani,
dipendevano dalla giurisdizione privata. V’erano gli ergastoli urbani
e i suburbani o campestri. I primi stavano nei vasti sotterranei dei
palagi patrizj; gli altri presso le ville e nelle campagne. Gli schiavi
e i servi colpevoli venivan chiusi nei suburbani; e durante il giorno,
trascinando le catene, e sotto l’assidua minaccia della verga del servo
custode, lavoravano i campi. I non colpevoli empivano i sotterranei
dei palagi romani. Attendevano a lavori diversi: le donne a tesser
lini, a cucire saj, a listar clamidi e toghe, ad apprestar pepli;
gli uomini a lavorar calcei e solee, a tingere del colore del pesce
triglia, che latinamente chiamavasi _mullus_, il mulleolo lunato ed
il cucirvi sull’estremo il C, significante il numero centenario dei
Romani: a preparare i calcei puri o _peroni_ per la folla dei servi e
degli schiavi. Era interdetto ogni sorta di lavoro che desse fragore
e potesse turbare i tripudj dei lucidi triclinj ove sdrajavansi i
padroni, o i profondi silenzj delle camere cubiculari.

La giovane Gordiene era stata chiusa dal padre di Marco Sceva nel
sotterraneo appunto del suo ampio palagio.

In quel vasto antro dove s’affollavano uomini e donne a centinaja,
gemeva Gordiene e malediceva al padre di Marco e supplicava gli Dei
perchè mandassero il giovane valoroso in suo soccorso. Ma colà invece
discendeva il padre a vederla, a parlarle, a tentarla, a minacciarla; e
sovente se la faceva condurre nelle segrete stanze, dove colla violenza
avrebbe soddisfatto alle brame procaci, se essa la prima volta levando
da una guaina d’oro che teneva nell’aureo cinto una breve lama ricurva
non avesse così parlato:

— Questa, disse al vecchio Publio, è intinta di veleno d’aspide; tu
mi puoi trafiggere a morte; ma tu cadrai senza vita prima di me, come
fossi colto dal fulmine, se appena di un punto ti sfioro la pelle.
Re Mitridate, maestro in preparar veleni, diede un tal dono a me ed a
Stratonica divina, perchè fosse custodia alla beltà nostra, e sgomento
alla violenza dei tentatori. —

Il giorno in cui Marco Sceva fu alla casa di Cesare, Gordiene era stata
insidiata dal padre di lui, ed ella, come sempre, avealo respinto e
atterrito col funesto splendore dell’avvelenata lama.

Però il padre di Marco, temendo e considerando che la via della
violenza gli era interdetta, ricorse alle blandizie, alle promesse,
giurò alla fanciulla l’avrebbe rimessa in libertà e resala degna
d’essere invidiata dalle più nobili dame romane; ma Gordiene era
incrollabile; e alzando la voce e facendo vibrare in suon minaccioso
e beffardo il suo greco accento: — Antepongo, esclamava, di essere
schiava del figlio tuo, che libera con te e per te. —

Marco, quando venne al Palatino per recarsi al palagio di Catilina,
ritorse il passo e tornò al palagio paterno.


  FINE DEL PRIMO VOLUME.




INDICE DEL PRIMO VOLUME.


  PRELUDIO                                             _Pag._ 7
      I. Il trionfo di Pompeo e l’adolescente Cesare     »   17
     II. Laja pittrice e il ritratto di Cesare           »   33
    III. Cesare, Sallustio e Catilina                    »   55
     IV. Attica accademia di musica e poesia nel
           palazzo dell’eminente Sempronia               »   75
      V. L’ira di Cetego                                 »  101
     VI. Aurelia e Catilina                              »  121
    VII. La morte di Cetego                              »  137
   VIII. Morte d’Aurelia                                 »  157
     IX. Sempronia e Catilina                            »  187
      X. I giuochi del Circo Massimo                     »  197
     XI. Incoronazione di Cesare nel Circo Massimo       »  223
    XII. Sallustio e la Catilinaria                      »  243
   XIII. La patria potestà                               »  261
    XIV. Marco Sceva                                     »  277
     XV. Gli ergastoli presso gli antichi Romani         »  293





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA GIOVINEZZA DI GIULIO CESARE, VOLUME I (OF 2) ***


    

Updated editions will replace the previous one—the old editions will
be renamed.

Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright
law means that no one owns a United States copyright in these works,
so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United
States without permission and without paying copyright
royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part
of this license, apply to copying and distributing Project
Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™
concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark,
and may not be used if you charge for an eBook, except by following
the terms of the trademark license, including paying royalties for use
of the Project Gutenberg trademark. If you do not charge anything for
copies of this eBook, complying with the trademark license is very
easy. You may use this eBook for nearly any purpose such as creation
of derivative works, reports, performances and research. Project
Gutenberg eBooks may be modified and printed and given away—you may
do practically ANYTHING in the United States with eBooks not protected
by U.S. copyright law. Redistribution is subject to the trademark
license, especially commercial redistribution.


START: FULL LICENSE

THE FULL PROJECT GUTENBERG LICENSE

PLEASE READ THIS BEFORE YOU DISTRIBUTE OR USE THIS WORK

To protect the Project Gutenberg™ mission of promoting the free
distribution of electronic works, by using or distributing this work
(or any other work associated in any way with the phrase “Project
Gutenberg”), you agree to comply with all the terms of the Full
Project Gutenberg™ License available with this file or online at
www.gutenberg.org/license.

Section 1. General Terms of Use and Redistributing Project Gutenberg™
electronic works

1.A. By reading or using any part of this Project Gutenberg™
electronic work, you indicate that you have read, understand, agree to
and accept all the terms of this license and intellectual property
(trademark/copyright) agreement. If you do not agree to abide by all
the terms of this agreement, you must cease using and return or
destroy all copies of Project Gutenberg™ electronic works in your
possession. If you paid a fee for obtaining a copy of or access to a
Project Gutenberg™ electronic work and you do not agree to be bound
by the terms of this agreement, you may obtain a refund from the person
or entity to whom you paid the fee as set forth in paragraph 1.E.8.

1.B. “Project Gutenberg” is a registered trademark. It may only be
used on or associated in any way with an electronic work by people who
agree to be bound by the terms of this agreement. There are a few
things that you can do with most Project Gutenberg™ electronic works
even without complying with the full terms of this agreement. See
paragraph 1.C below. There are a lot of things you can do with Project
Gutenberg™ electronic works if you follow the terms of this
agreement and help preserve free future access to Project Gutenberg™
electronic works. See paragraph 1.E below.

1.C. The Project Gutenberg Literary Archive Foundation (“the
Foundation” or PGLAF), owns a compilation copyright in the collection
of Project Gutenberg™ electronic works. Nearly all the individual
works in the collection are in the public domain in the United
States. If an individual work is unprotected by copyright law in the
United States and you are located in the United States, we do not
claim a right to prevent you from copying, distributing, performing,
displaying or creating derivative works based on the work as long as
all references to Project Gutenberg are removed. Of course, we hope
that you will support the Project Gutenberg™ mission of promoting
free access to electronic works by freely sharing Project Gutenberg™
works in compliance with the terms of this agreement for keeping the
Project Gutenberg™ name associated with the work. You can easily
comply with the terms of this agreement by keeping this work in the
same format with its attached full Project Gutenberg™ License when
you share it without charge with others.

1.D. The copyright laws of the place where you are located also govern
what you can do with this work. Copyright laws in most countries are
in a constant state of change. If you are outside the United States,
check the laws of your country in addition to the terms of this
agreement before downloading, copying, displaying, performing,
distributing or creating derivative works based on this work or any
other Project Gutenberg™ work. The Foundation makes no
representations concerning the copyright status of any work in any
country other than the United States.

1.E. Unless you have removed all references to Project Gutenberg:

1.E.1. The following sentence, with active links to, or other
immediate access to, the full Project Gutenberg™ License must appear
prominently whenever any copy of a Project Gutenberg™ work (any work
on which the phrase “Project Gutenberg” appears, or with which the
phrase “Project Gutenberg” is associated) is accessed, displayed,
performed, viewed, copied or distributed:

    This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and most
    other parts of the world at no cost and with almost no restrictions
    whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms
    of the Project Gutenberg License included with this eBook or online
    at www.gutenberg.org. If you
    are not located in the United States, you will have to check the laws
    of the country where you are located before using this eBook.
  
1.E.2. If an individual Project Gutenberg™ electronic work is
derived from texts not protected by U.S. copyright law (does not
contain a notice indicating that it is posted with permission of the
copyright holder), the work can be copied and distributed to anyone in
the United States without paying any fees or charges. If you are
redistributing or providing access to a work with the phrase “Project
Gutenberg” associated with or appearing on the work, you must comply
either with the requirements of paragraphs 1.E.1 through 1.E.7 or
obtain permission for the use of the work and the Project Gutenberg™
trademark as set forth in paragraphs 1.E.8 or 1.E.9.

1.E.3. If an individual Project Gutenberg™ electronic work is posted
with the permission of the copyright holder, your use and distribution
must comply with both paragraphs 1.E.1 through 1.E.7 and any
additional terms imposed by the copyright holder. Additional terms
will be linked to the Project Gutenberg™ License for all works
posted with the permission of the copyright holder found at the
beginning of this work.

1.E.4. Do not unlink or detach or remove the full Project Gutenberg™
License terms from this work, or any files containing a part of this
work or any other work associated with Project Gutenberg™.

1.E.5. Do not copy, display, perform, distribute or redistribute this
electronic work, or any part of this electronic work, without
prominently displaying the sentence set forth in paragraph 1.E.1 with
active links or immediate access to the full terms of the Project
Gutenberg™ License.

1.E.6. You may convert to and distribute this work in any binary,
compressed, marked up, nonproprietary or proprietary form, including
any word processing or hypertext form. However, if you provide access
to or distribute copies of a Project Gutenberg™ work in a format
other than “Plain Vanilla ASCII” or other format used in the official
version posted on the official Project Gutenberg™ website
(www.gutenberg.org), you must, at no additional cost, fee or expense
to the user, provide a copy, a means of exporting a copy, or a means
of obtaining a copy upon request, of the work in its original “Plain
Vanilla ASCII” or other form. Any alternate format must include the
full Project Gutenberg™ License as specified in paragraph 1.E.1.

1.E.7. Do not charge a fee for access to, viewing, displaying,
performing, copying or distributing any Project Gutenberg™ works
unless you comply with paragraph 1.E.8 or 1.E.9.

1.E.8. You may charge a reasonable fee for copies of or providing
access to or distributing Project Gutenberg™ electronic works
provided that:

    • You pay a royalty fee of 20% of the gross profits you derive from
        the use of Project Gutenberg™ works calculated using the method
        you already use to calculate your applicable taxes. The fee is owed
        to the owner of the Project Gutenberg™ trademark, but he has
        agreed to donate royalties under this paragraph to the Project
        Gutenberg Literary Archive Foundation. Royalty payments must be paid
        within 60 days following each date on which you prepare (or are
        legally required to prepare) your periodic tax returns. Royalty
        payments should be clearly marked as such and sent to the Project
        Gutenberg Literary Archive Foundation at the address specified in
        Section 4, “Information about donations to the Project Gutenberg
        Literary Archive Foundation.”
    
    • You provide a full refund of any money paid by a user who notifies
        you in writing (or by e-mail) within 30 days of receipt that s/he
        does not agree to the terms of the full Project Gutenberg™
        License. You must require such a user to return or destroy all
        copies of the works possessed in a physical medium and discontinue
        all use of and all access to other copies of Project Gutenberg™
        works.
    
    • You provide, in accordance with paragraph 1.F.3, a full refund of
        any money paid for a work or a replacement copy, if a defect in the
        electronic work is discovered and reported to you within 90 days of
        receipt of the work.
    
    • You comply with all other terms of this agreement for free
        distribution of Project Gutenberg™ works.
    

1.E.9. If you wish to charge a fee or distribute a Project
Gutenberg™ electronic work or group of works on different terms than
are set forth in this agreement, you must obtain permission in writing
from the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, the manager of
the Project Gutenberg™ trademark. Contact the Foundation as set
forth in Section 3 below.

1.F.

1.F.1. Project Gutenberg volunteers and employees expend considerable
effort to identify, do copyright research on, transcribe and proofread
works not protected by U.S. copyright law in creating the Project
Gutenberg™ collection. Despite these efforts, Project Gutenberg™
electronic works, and the medium on which they may be stored, may
contain “Defects,” such as, but not limited to, incomplete, inaccurate
or corrupt data, transcription errors, a copyright or other
intellectual property infringement, a defective or damaged disk or
other medium, a computer virus, or computer codes that damage or
cannot be read by your equipment.

1.F.2. LIMITED WARRANTY, DISCLAIMER OF DAMAGES - Except for the “Right
of Replacement or Refund” described in paragraph 1.F.3, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation, the owner of the Project
Gutenberg™ trademark, and any other party distributing a Project
Gutenberg™ electronic work under this agreement, disclaim all
liability to you for damages, costs and expenses, including legal
fees. YOU AGREE THAT YOU HAVE NO REMEDIES FOR NEGLIGENCE, STRICT
LIABILITY, BREACH OF WARRANTY OR BREACH OF CONTRACT EXCEPT THOSE
PROVIDED IN PARAGRAPH 1.F.3. YOU AGREE THAT THE FOUNDATION, THE
TRADEMARK OWNER, AND ANY DISTRIBUTOR UNDER THIS AGREEMENT WILL NOT BE
LIABLE TO YOU FOR ACTUAL, DIRECT, INDIRECT, CONSEQUENTIAL, PUNITIVE OR
INCIDENTAL DAMAGES EVEN IF YOU GIVE NOTICE OF THE POSSIBILITY OF SUCH
DAMAGE.

1.F.3. LIMITED RIGHT OF REPLACEMENT OR REFUND - If you discover a
defect in this electronic work within 90 days of receiving it, you can
receive a refund of the money (if any) you paid for it by sending a
written explanation to the person you received the work from. If you
received the work on a physical medium, you must return the medium
with your written explanation. The person or entity that provided you
with the defective work may elect to provide a replacement copy in
lieu of a refund. If you received the work electronically, the person
or entity providing it to you may choose to give you a second
opportunity to receive the work electronically in lieu of a refund. If
the second copy is also defective, you may demand a refund in writing
without further opportunities to fix the problem.

1.F.4. Except for the limited right of replacement or refund set forth
in paragraph 1.F.3, this work is provided to you ‘AS-IS’, WITH NO
OTHER WARRANTIES OF ANY KIND, EXPRESS OR IMPLIED, INCLUDING BUT NOT
LIMITED TO WARRANTIES OF MERCHANTABILITY OR FITNESS FOR ANY PURPOSE.

1.F.5. Some states do not allow disclaimers of certain implied
warranties or the exclusion or limitation of certain types of
damages. If any disclaimer or limitation set forth in this agreement
violates the law of the state applicable to this agreement, the
agreement shall be interpreted to make the maximum disclaimer or
limitation permitted by the applicable state law. The invalidity or
unenforceability of any provision of this agreement shall not void the
remaining provisions.

1.F.6. INDEMNITY - You agree to indemnify and hold the Foundation, the
trademark owner, any agent or employee of the Foundation, anyone
providing copies of Project Gutenberg™ electronic works in
accordance with this agreement, and any volunteers associated with the
production, promotion and distribution of Project Gutenberg™
electronic works, harmless from all liability, costs and expenses,
including legal fees, that arise directly or indirectly from any of
the following which you do or cause to occur: (a) distribution of this
or any Project Gutenberg™ work, (b) alteration, modification, or
additions or deletions to any Project Gutenberg™ work, and (c) any
Defect you cause.

Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s
goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg™ and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state
visit www.gutenberg.org/donate.

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
donate, please visit: www.gutenberg.org/donate.

Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of
volunteer support.

Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in
the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not
necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper
edition.

Most people start at our website which has the main PG search
facility: www.gutenberg.org.

This website includes information about Project Gutenberg™,
including how to make donations to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to
subscribe to our email newsletter to hear about new eBooks.