Memorie della vita di Giosue Carducci (1835-1907)

By Giuseppe Chiarini

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Title: Memorie della vita di Giosue Carducci (1835-1907)

Author: Giuseppe Chiarini

Release date: June 23, 2024 [eBook #73895]

Language: Italian

Original publication: Firenze: Barbèra, 1907

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE DELLA VITA DI GIOSUE CARDUCCI (1835-1907) ***


VITA DI GIOSUE CARDUCCI.


   [Illustrazione: Ritratto]


                           MEMORIE DELLA VITA
                                   DI
                            GIOSUE CARDUCCI

                              (1835-1907)


                                RACCOLTE
                                   DA
                                UN AMICO

                          (GIUSEPPE CHIARINI).

                Seconda edizione corretta e accresciuta.



                                FIRENZE,
                          G. BARBÈRA, EDITORE.
                                 1907.




                FIRENZE, 706-1907. — Tipografia Barbèra
                     ALFANI E VENTURI proprietari.

  Compiute le formalità prescritte dalla Legge, i diritti di riproduzione
                      e traduzione sono riservati.




                              ALLA MEMORIA

                                   DI

                             ADRIANO LEMMI.




PROEMIO.


Feci la conoscenza personale del Carducci nell’estate del 1855. Lo
avea veduto tre anni avanti a San Giovannino delle Scuole Pie alle
lezioni di filosofia, dove andavo qualche volta benchè avessi terminati
l’anno innanzi gli studi. Egli entrò ch’era già cominciata la lezione,
entrò con passo ardito e franco e con la testa alta, e andò a mettersi
al suo posto nei gradi più bassi dell’anfiteatro. Io aveva sentito
parlare di lui con ammirazione dai suoi compagni di scuola, da alcuno
dei quali ebbi copia di qualche sua poesia, che mi parve molto bella.
Più tardi uno di quelli stessi compagni mi diede a leggere manoscritta
la canzone su Dante che il Carducci aveva composta nel 1854 per una
Accademia delle Scuole Pie, della quale dovrò parlare più avanti.
La canzone avea fatto un po’ di chiasso, specie fra i giovani, e ne
corsero delle copie manoscritte, una delle quali appunto fu data a
me. Io ne restai vivamente ammirato, e me ne crebbe il desiderio, che
già avevo, di conoscere di persona l’autore. Avevo fatta da poco la
conoscenza di Enrico Nencioni, stato condiscepolo del Carducci alla
scuola di retorica del Padre Barsottini, e suo amicissimo. Esposi
a lui il mio desiderio, ch’egli fu lieto di sodisfare. Il Carducci
faceva allora il secondo anno di studi alla Scuola Normale Superiore
di Pisa; ma veniva spesso nei giorni di vacanza a Firenze, dove aveva
parenti, presso alcuno dei quali andava ad alloggiare. Quando lo andai
a trovare in compagnia del Nencioni, egli abitava presso una zia, in
via Borgognissanti. Andammo di mattina (era di domenica) fra le nove e
le dieci. Egli era prevenuto, sapeva che io era un grande ammiratore,
anzi adoratore, del Leopardi, che amavo i classici, che facevo dei
versi, che ammiravo grandemente i suoi. Ci venne incontro in maniche di
camicia; ci demmo subito del tu, come s’usa fra giovani, si cominciò
a parlare di letteratura, si parlò del Leopardi, del Giordani; io
gli chiesi qualche cosa di suo, egli mi trascrisse lì per lì sopra un
grande foglio di carta gli ultimi due sonetti da lui composti, quello
che comincia _Poi che mal questa sonnacchiosa etade_ e l’altro _Ai
sepolcri dei grandi italiani in Santa Croce_; dopo di che ci lasciammo,
ed io me ne tornai lieto e contento come se portassi meco un tesoro.

Ci rivedemmo qualche volta nei giorni appresso in compagnia del
Nencioni, di Ottaviano Targioni Tozzetti, di Giulio Cavaciocchi e di
altri amici del Carducci e del Nencioni, che diventarono anche amici
miei. Egli tornò indi a poco a Pisa, poi andò a passare le vacanze
autunnali in famiglia a Pian Castagnaio, dove suo padre era medico
condotto; io dovei per ragione d’impiego andare ad Arezzo, dove stetti
fino ai primi del 1856. Avevamo promesso di scriverci: io fui il primo;
egli mi rispose da Pian Castagnaio il 4 settembre 1855, dicendomi
che là infieriva il colèra (il quale infieriva pure ad Arezzo), e
che aveva dovuto lasciare gli studi per curare gli ammalati. Fino dai
primi casi egli con un suo fratello ed altri due giovani senesi avean
prestato volontari l’opera loro; in seguito di che il Municipio aveva
composto di essi e di altri tre una commissione di assistenza gratuita,
incaricando lui della direzione.[Vedi note pag. 433]

Al riaprirsi dell’anno accademico 1855-56 il Carducci tornò alla Scuola
Normale; io ai primi del 1856 tornai, come ho accennato, a Firenze.
D’allora in poi le mie relazioni con lui e cogli altri amici fiorentini
furono continue, quasi giornaliere. Ma prima di proseguire, sarà buono
dire qualche cosa della infanzia e della prima giovinezza del poeta.
Il che farò, lasciando quanto più è possibile la parola a lui stesso,
e giovandomi delle testimonianze altrui. A questa parte della Vita
saranno dedicati i due primi capitoli: di ciò che narrerò negli altri
fui testimone io stesso. E poichè l’antica amicizia ha mantenuto fra
noi una corrispondenza epistolare che va senza interruzione dall’anno
1855 a questo in cui scrivo, attingerò, oltre che dalla memoria, da
questa specie di domestico archivio ciò che mi parrà conferir meglio a
delineare viva e vera la figura dell’uomo e dello scrittore.




CAPITOLO I.

(1835-1854.)

  Ricordo d’infanzia: «Via, via, brutto te.» — La famiglia Carducci
  e il padre del poeta. — I primi anni e i primi studi a Bolgheri
  e a Castagneto. — La famiglia Carducci a Firenze e Giosue alle
  Scuole Pie. — Giosue a retorica dal Padre Barsottini — Il Carducci
  e il Nencioni. — Passione di Giosue pei libri. — Il primo passo.
  — Il Carducci a Celle. — Primi sonetti satirici. — Accademia
  dei Risoluti e Fecondi. — Canzone del Carducci su Dante letta
  all’Accademia.


«Io della mia infanzia, scrive il Carducci, non ho memorie nè belle nè
buone nè curiose.

«Il mio più antico ricordo mi pone subito, ahimè, _in relazione con un
essere dell’altro sesso_, come si direbbe con la lingua d’un certo uso,
che, secondo i manzoniani, dovrebbe anche essere la lingua del buon
gusto. Mi ritrovo in un luogo nè bello nè brutto — forse un giardinetto
presso la casa ove nacqui, — a una giornata nè di primavera nè
d’inverno nè d’estate nè d’autunno. Mi pare che tutto, cielo e terra,
sopra, sotto, e d’intorno, fosse umido, grigio, basso, ristretto,
indeterminato, penoso.

«Io con una bambina dell’età mia, della quale non so chi sia o chi sia
stata, dondolavamo, tenendola per i due capi, una fune; e mi pare che
così dicevamo o credevamo di fare il serpente. Quando a un tratto ci
si scoperse tra i piedi una bella bodda: è il nome, nel dialetto della
Versilia, d’un che di simile al rospo.

«Grandi ammirazioni ed esclamazioni di noi due creature nuove su
quell’antica creatura.

«Le esclamazioni pare fossero un po’ rumorose. Perchè un grave signore,
con gran barba nera e con un libro in mano, si fece in sull’uscio a
sgridarci, o meglio a sgridarmi. Non era mio padre: era, seppi molto
tempo dopo, un marito putativo d’una moglie altrui alloggiata per certo
caso ivi presso.

«Io brandendo la fune, come fosse un flagello, me gli feci incontro
gridandogli: Via, via, brutto te!

»D’allora in poi ho risposto sempre così ad ogni autorità che sia
venuta ad ammonirmi, con un libro in mano e un sottinteso in corpo, a
nome della morale.»[1]

Questo aneddoto mostra già nel fanciullo una delle qualità più
caratteristiche dell’uomo. Perciò l’ho messo qui, affinchè sia come il
battesimo della vita del nostro poeta.

                                   *
                                  * *

Il piccolo ribelle nacque il 27 luglio dell’anno 1835 alle ore 11 di
sera in Val di Castello, frazione del comune di Pietrasanta, da Michele
Carducci e Ildegonda Celli. Gli furono dati all’atto del battesimo,
ch’ebbe luogo due giorni dopo, i nomi di Giosue, Alessandro, Giuseppe,
essendo compare un suo zio Natale Carducci.[Vedi l’atto di nascita
nelle note a pag. 434]

La famiglia Carducci, stabilita da gran tempo fra Serravezza e
Pietrasanta, discendeva dai Carducci di Firenze; e il nonno del
poeta, Francesco Giuseppe, andava orgoglioso di tale discendenza, e
si compiaceva molto, nella intimità della famiglia e degli amici, di
evocarne le gloriose memorie. Ma quelle memorie, troppo lontane, non
ebbero alcuna influenza sui suoi sentimenti politici: e nemmeno la
familiarità sua col poeta repubblicano Giovanni Fantoni, di cui era
grande ammiratore. Egli era e rimase un fedele suddito del Granduca
di Toscana; e come tale odiò le novità e le rivoluzioni. Il padre
del poeta invece, il dottore Michele, avea nel sangue l’istinto della
battaglia e della libertà. Fin da scolare prese parte alle cospirazioni
politiche, fu carbonaro, e dei pochi Toscani che pei fatti del 1831
patirono relegazione e prigionia. Quando gli nacque il primo figliuolo
Giosue, egli a Val di Castello era medico di una società francese che
aveva assunto l’escavazione di certe miniere di piombo argentifero,
poste tra Val di Castello e Serravezza. Ma o fosse l’indole sua
irrequieta, o che non gli piacesse, o non gli convenisse, l’ufficio
presso la società mineraria francese, o che, come altri dice, gli desse
fastidio la sospettosa vigilanza della polizia, ben presto abbandonò la
Versilia per la maremma toscana, e verso il 1838 andò medico condotto a
Bolgheri, frazione di Castagneto, e feudo dei Conti della Gherardesca.

                                   *
                                  * *

Tra Bolgheri e Castagneto la famiglia Carducci passò ben undici anni,
che il poeta chiama la sua _triste primavera_ e dei quali parla egli
stesso così: «Mio padre era un manzoniano fervente.... Ridottosi a
vivere in condotta in uno dei più oscuri paeselli della maremma, viveva
coi contadini, e, nelle ore di riposo o di sosta, con alcuni pochi
libri di storia e letteratura che, oltre i non pochi dell’arte sua,
aveva raccolti ed amava. Figuravano tra questi bellissime le opere del
Manzoni, con i giudizi del Goethe, le analisi critiche del Fauriel, i
commenti del Tommaseo; e quei volumi, rilegati con certa pretensione di
lusso, mostravano impressi nelle costole a oro certi fregi che rendean
figura come di casette con due alberetti davanti. Io, ragazzo di circa
dieci anni, credevo che quella fosse la canonica di Don Abbondio;
e leggevo e rileggevo _I promessi sposi_. Perchè fino a quattordici
anni non ebbi quasi altro maestro che mio padre, il quale altro non
m’insegnava che latino; ma, un po’ per l’indole sua, un po’ per i
doveri di medico, mi lasciava molta libertà e molto tempo per leggere.

«E io insieme alle opere del Manzoni lessi l’_Iliade_, l’_Eneide_, la
_Gerusalemme_, e la _Storia Romana_ del Rollin, e la _Storia della
Rivoluzione Francese_ del Thiers; i poemi con ineffabile rapimento,
le storie con un serio oblio di tutto il resto: e, aiutato da qualche
conversazione di mio padre con certi amici ed ospiti, per ragazzo ne
intendevo anche troppo. Invasato così di ardore epico e di furore
repubblicano e rivoluzionario, io sentivo il bisogno di traboccare
il mio idealismo nell’azione; e per ciò in brigata co’ miei fratelli
e con altri ragazzi del vicinato organizzavo sempre repubbliche, e
repubbliche sempre nuove, ora rette ad arconti ora a consoli ora a
tribuni, pur che la rivoluzione fosse la condizion normale dell’essere,
e cosa di tutti i giorni l’urto tra i partiti e la guerra civile.

«La nostra repubblica consisteva di ragunanze tumultuose e di battaglie
a colpi di sassi e bastoni, con le quali intendevamo riprodurre i
più bei fatti de’ bei tempi di Roma e della rivoluzione francese.
In coteste rappresentazioni, del resto, il rispetto alla storia non
era certo spinto a quegli eccessi pedanteschi che soglion guastare o
raffreddare l’effetto vivo drammatico. Che benedette sassate applicai
un giorno a Cesare il quale era su ’l passare il Rubicone! Per quel
giorno il tiranno dovè rifugiarsi non so dove con le sue legioni,
e la repubblica fu salva. Ma il dì appresso Cesare mi colse in una
macchia, affermando sè essere Opimio e quello il luco delle furie:
invano io protestai contro l’anacronismo e per la mia qualità di
Scipione Emiliano: egli mi fece togliere in mezzo da’ suoi cretensi
come un Gracco qualunque e flagellare, mentre io chiedevo che almeno
rispettasse la storia lasciandomi libero di farmi uccidere al mio
schiavo. Come picchiavano e rideano quei cretensi! Me ne vendicai, per
altro ed in breve, e storicamente, quando, presa d’assalto una rimessa
che facea da Tuileries, stimai bene di lasciar libero il corso al furor
popolare su gli svizzeri prezzolati di Luigi XVI.

«Ma il rumore di questi grandi fatti giungeva qualche volta alle
orecchie del mio manzoniano padre, il quale allora, nulla commosso
dalle mie oneste ferite, mi condannava pur troppo a lunghe prigionie;
in mezzo alle quali egli di quando a quando riappariva per rivedermi
il latino, e mi lasciava tre libri su ’l tavolo, dicendomi serio ed
asciutto: — Leggete qui, e persuadetevi che il _taratantara_ classico
non è più per questi tempi. — I tre libri erano: la _Morale cattolica_
di Alessandro Manzoni, i _Doveri dell’uomo_ di Silvio Pellico, e
la _Vita di San Giuseppe Calasanzio_ scritta da certo padre Tosetti
(parmi) del secolo passato.

«Che idea fosse quella del manzoniano mio padre di dare a leggere la
_Morale cattolica_ a un ragazzo, io non so: so che d’allora in poi per
un gran pezzo morale cattolica e frati, doveri dell’uomo e santini,
furono per me la stessa cosa; e odiai, odiai quei libri, d’un odio
catilinario. Essi mi rappresentavano la mortificazione, la solitudine,
la privazione di libertà e d’aria e di combattimento, la fame delle
grandi letture, un nuovo carcere tulliano. Trovavo uno sfogo ad
affacciarmi alla finestra, declamando la parte di Guglielmo de’ Pazzi:

    Soffrire, ognor soffrire? altro consiglio
    Darmi, o padre, non sai? Ti sei tu fatto
    Schiavo or così che del mediceo giogo
    Non senti il peso e i gravi oltraggi e l’onte?

Dispetto! i cretensi e gli svizzeri eran sotto la finestra, e ridevano,
e mi gettavano pomi.»[2]

Queste battaglie e le letture non erano i soli svaghi del selvatico
fanciullo, dice il Borgognoni: «e’ si teneva in casa e allevava
con grande amore una civetta, un falco e (imaginate!) anche un
lupacchiotto.» Ma il padre, cui tutto ciò non andava a genio, «un
bel giorno ammazzò il falco e regalò a un tale di Livorno il lupo.»
Giosue ne fu così addolorato, che «scappò di casa e passava le giornate
intere errando pei boschi in riva al mare e su pei colli cretacei.»[3]
Aveva intorno a dieci anni; e cominciò fin d’allora a sentirsi tentare
dalla smania di far versi; scrisse prima alcune ottave sulla presa di
Bolgheri, poi alcune terzine sulla morte di Cesare e un sonetto per la
morte della sua civetta. In questo tempo essendoglisi messa addosso
una febbre maremmana, che gli durò due anni, il padre (che stava
allora a Bolgheri), per vedere di guarirlo, lo mandò a Castagneto in
casa d’un collega. Qui Giosue, sentendosi pienamente libero, cominciò,
dice il Borgognoni, a farla da uomo; si legò in amicizia con un tale
Alessandro Scalzini repubblicano, e nella casa di lui spiegava ai molti
che accorrevano a sentirle, le poesie del Giusti, che allora andavano
attorno manoscritte. Fu richiamato a casa dal padre nel 1846; ma due
anni dopo, nella primavera del 1848, tutta la famiglia si trasferì a
Castagneto, e Giosue vi riprese la vita di prima. «Allorchè, scrive
il Borgognoni, fu affisso a Castagneto il bollettino che annunziava
lo statuto largito da Carlo Alberto, il Carducci ci scrisse sotto col
lapis:

    Esecrato Carignano
    Va il tuo nome in ogni gente,

con quanta approvazione dello Scalzini non è da chiedere. Seguì in
quei giorni una dimostrazione nel paese. Se non che non si vedeva bene
dove la dimostrazione andasse a parare. Allora il Carducci persuase lo
Scalzini e i suoi a levare il primo grido: _Abbasso tutti i re! viva la
repubblica!_ Lo Scalzini gridò, tutti gridarono: la dimostrazione era
riuscita.»[4]

                                   *
                                  * *

Intanto il padre, che, uomo libero e battagliero, come s’è detto,
avea preso parte fin dal principio ai moti del 1848, e tal parte
che ben presto la dimora di Bolgheri non gli parve più sicura per
lui, aveva trasportato le sue tende a Castagneto; ma anche qui non
potè durare lungamente. In quelli anni gli umori e le voglie erano
così diverse e divise, che un uomo poco prudente correva rischio
d’attaccare lite ad ogni momento. Dovè dunque l’anno dipoi, al tempo
del governo provvisorio del Guerrazzi, abbandonare anche Castagneto:
andò come medico _interino_ a Laiatico, ma ci stette ben poco,
costretto a fuggire dalla reazione moderata toscana, che ivi lo colse.
I contadini, dice il Borgognoni, lo costrinsero a baciare un busto in
gesso di Leopoldo II, e lo bastonarono anche, pare, un pochino. Egli
allora riparò a Firenze, dove avea parenti da parte della moglie,
dove gli era più facile passare inosservato, e dove poteva provvedere
meglio all’educazione dei figliuoli. Ben presto la famiglia andò
a raggiungerlo, e si allogarono in una povera casa in fondo di via
Romana, segnata del n. 1843. I figliuoli, che allora eran tre, Giosue
di 14 anni, Dante di 13, Valfredo di 8, furono subito messi alle Scuole
Pie.

Il corso classico secondario si compieva allora in tutte le scuole di
Toscana in sei anni; tre anni di grammatica (1ª, 2ª, 3ª grammatica), un
anno di umanità e due di retorica. Per quelli che volevano proseguire
gli studi, c’era un corso di scienze (filosofia, matematiche, fisica)
che durava un anno. Giosue fu inscritto nel maggio 1849 alla classe di
_umanità_, i due fratelli a classi inferiori. Era maestro di umanità
un Padre Michele Benetti, uomo colto e studiosissimo di Dante e dei
classici antichi, dei quali aveva, con un discorso a stampa, preso le
difese contro il Padre Ventura, che giudicava pericoloso lo studio
di essi nelle scuole. Non pare ch’ei facesse speciale attenzione al
Carducci: e si capisce; egli avea una classe di 62 scolari parecchio
indisciplinati; e il Carducci era stato da lui poco più di tre mesi.
Ma nei registri, che ancora si conservano, il maestro aveva notato che
il giovinetto era «assai bene istruito», e perciò fra gli scolari «da
passarsi», e che aveva tenuto una condotta _irreprensibile_.

Dei 62 scolari del Benetti soli 8 avevano in quell’anno ottenuto la
nota di _irreprensibile_; ed i 62 erano all’esame ridotti 43, avendone
il maestro dovuti espellere 8 e costringere altri a ritirarsi, per
gravi ragioni d’indisciplina. Ciò che dimostra, osserva il Padre E.
Pistelli, alla cui cortesia devo queste notizie,[5] che gli scolari
d’oggi non sono peggiori di quelli d’allora. «Io, soggiunge il
Pistelli, in 22 anni d’insegnamento ho dovuto espellere uno scolaro
solo.» Gli esami furono dati dal 21 al 31 agosto; e il Carducci
fu approvato con queste classificazioni: nei due latini scritti
_mediocre_, nella spiegazione a voce di Virgilio (_En._, l. V)
_ottimo_, nei precetti di letteratura _bene_, nella sfera armillare
_mediocre_, nella storia toscana _bene_.

«Da vecchio il Benetti, dice il Pistelli, parlava sempre dei suoi
scolari, e ne aveva avuti, a Firenze, a Cortona, a Siena nel Collegio
Tolomei, una infinità. Ma non ho memoria d’avergli sentito ricordar
mai il Carducci. Era uomo molto pio e scrupolosissimo, e forse non
ricordava volentieri chi in quegli anni era chiamato il cantore di
Satana.»

                                   *
                                  * *

Mentre Giosue stava per finire la scuola di _umanità_, il padre ebbe
per un momento l’idea di farlo entrare nel Liceo Militare e ne fece
domanda; ma poi, quale ne fosse la ragione, abbandonò quell’idea; e
terminate le vacanze scolastiche, il giovane riprese i suoi studi alle
Scuole Pie.[Vedi le note a pag. 434]

Il corso di retorica durava ordinariamente due anni, e il Carducci
li fece tutti due (1849-50, 1850-51). Era maestro il Padre Geremia
Barsottini, «anima ardente e, a quei giorni, liberale», dice il
Pistelli; un buono e brav’uomo davvero, dalla figura maestosa e
imponente, che contrastava in modo singolare con la sua faccia sempre
piena di sorriso e le sue maniere cortesi e carezzevoli. Era amato
e stimato, non pure dagli scolari, ma da tutta la cittadinanza; ebbe
fama di valente oratore; e di un suo volume di versi, un po’ rugiadosi
e sdolcinati, che piacevano molto alle signore, furono fatte più
edizioni. Pubblicò anche un’antologia omerica «Le bellezze d’Omero»,
e fu studioso dei classici; ma era e si mantenne sempre romantico.
Perciò il Carducci, che pure gli volle bene, non lo tenne mai per un
modello di insegnante; e perciò egli, per quanto sentisse l’ingegno del
Carducci, gli preferì il Nencioni, romantico come lui.

Nel primo anno di retorica il Carducci ebbe tra i condiscepoli Torquato
Gargani, ma non il Nencioni; il quale, per quanto appare dai registri,
fu con lui soltanto il secondo anno (1850-51).

Pel passaggio dal primo al secondo anno di retorica non c’erano esami.
Negli esami alla fine del secondo anno il Carducci fu approvato con
queste note: prosa italiana, _bene assai_; versione scritta dal latino,
_ottimo_; versione dal classico a voce, _bene_; versione scritta
dall’italiano in latino, _ottimo_; precetti, _ottimo_. L’esame di
greco, ch’era libero, il Carducci non lo diede. Se l’esame del Carducci
fu buono, quello del Nencioni fu migliore, avendo egli avuto la nota
di _ottimo_ anche nel latino orale, e di _bene_ nella prosa italiana,
senza l’_assai_, che attenua. Del qual fatto è, secondo il Pistelli, da
cercare la ragione nell’essere il Nencioni romantico come il maestro.
Non bisogna credere però che il buon Barsottini non avesse nei due
anni ch’ebbe sotto di sè il Carducci, misurato tutto il valore di lui.
Attesta il Pistelli nelle sue note di avere una sola volta parlato
del Carducci al Barsottini, quando questi era vecchio e malato; e il
Barsottini gli disse: «Ha mantenuto tutto quello che prometteva, ed era
tanto!»

Io poi ricordo. S’era negli anni fra il 1865 e il 1870: il Carducci,
venuto da Bologna a Firenze a passare alcuni giorni, era con me in
via Larga, non lungi da San Giovannino. A un tratto ci viene incontro
il Padre Barsottini, con la faccia illuminata da quel suo sorriso
gioviale, che pareva volere abbracciare e proteggere le persone
colle quali egli parlava. Si fermò, prese per le mani il Carducci, e
guardandolo affettuosamente, non senza un po’ di soggezione, gli disse:
«Bravo il mio Giosue, tu sei diventato un gran professorone.» Più che
nelle parole, c’era nel tuono della voce e in tutta l’espressione del
viso del buon frate la sodisfazione del maestro che diceva fra sè: Ed
io l’ho avuto scolare! Non parmi che il Carducci rispondesse con molta
espansione alla espansione del maestro; egli era allora la bestia nera
dei moderati toscani; e ciò lo metteva subito di cattivo umore tutte le
volte che s’incontrava con qualche toscano non dei pochissimi (cinque o
sei) suoi intimi. A me quell’incontro fece molto piacere; e ne serbai
viva memoria. Non credo che il Carducci abbia poi riveduto più il
Barsottini.

Per essere ammesso al corso di scienze il Carducci dovè l’anno appresso
(1851-52) dare un esame di aritmetica, nel quale fu approvato; e si
inscrisse alle lezioni di geometria, di fisica e di filosofia. Di
geometria e di filosofia era insegnante, o, come allora dicevano,
_lettore_, il Padre Celestino Zini, che fu più tardi direttore delle
Scuole Pie, e morì arcivescovo di Siena; di fisica, il Padre Filippo
Cecchi, che avea fin d’allora buon nome fra gli scienziati e che poi
s’acquistò fama per lavori importanti di meteorologia e di fisica. Nel
registro del Padre Zini il Carducci è notato _irreprensibile_ per la
condotta, _notabile_ per il profitto; ma nella colonna della frequenza
è scritto: «_quasi_ assiduo»: nell’esame fu approvato _a pieni voti
e pluralità di plauso_, come risulta dall’attestato che conservasi
nell’archivio della R. Scuola Normale Superiore di Pisa.[Vedi le note a
pag. 435]

Gli anni dal 1850 a tutto il 1852 furono i tre anni che il Nencioni
passò, come dice nel suo _Consule Planco_, «in continua compagnia, in
fraterna comunanza di studj e di affetti»[6] col Carducci.

Alla _quasi_ assidua frequenza alle lezioni di filosofia può servir
di commento il fatto accennato dal Borgognoni,[7] e confermatomi
dagli stessi Carducci e Nencioni, delle grandi passeggiate che i
due amici andavano a fare insieme pei colli di Firenze, saltando la
scuola. Anche mi raccontarono come essi, specialmente il Carducci,
per fare imbroncire il buon Padre Zini, lo aspettassero talora alla
porta dell’aula, quando usciva od entrava, e gli esprimessero la loro
ammirazione per la filosofia del Leopardi, dicendogli all’orecchio: —
Padre Zini, evviva il Leopardi. — Naturalmente il buon frate attribuiva
alla inesperienza e al bollor giovanile queste scappatelle, e pur
rimproverandole le compativa.

                                   *
                                  * *

«Quante cose, dice il Nencioni nello scritto che sopra ho citato,
potrei raccontare della vita domestica e scolastica del Carducci!»
Giacchè anche lui, come il Gargani, ci ha abbandonati innanzi tempo, e
a me non è dato supplire che in piccola parte alla copia di notizie che
loro avrebbero potuto dare sulla prima giovinezza dell’amico nostro,
riferirò qui due pagine dello scritto del Nencioni, note certamente a
molti, ma che tutti rileggeranno volentieri.

«Mi par di vederlo ancora, a scuola di retorica, un sabato che si
doveva spiegare qualche frammento di classico latino _ad libitum_,
escir dal suo posto, traversare impettito e fiero la scuola, e presso
la cattedra del maestro levarsi di tasca con meraviglia di tutti noi
un libriccino in carta pecora, un vecchio elzeviro, e cominciare a
leggere.... Era un Persio _senza note_. Stupore nella scolaresca, e
un certo imbarazzo nel nostro buono e bravo maestro, Padre Geremia
Barsottini. — Lesse, costruì, tradusse, commentò, franco, preciso,
sicuro, e se ne tornò al suo posto fra un silenzio d’ammirazione. —
Da quel giorno fu il dittatore della scuola. Lo vedo ancora arrivare
le mattine d’inverno quasi sempre in ritardo, in giacchetta di panno
turchino con bottoni d’ottone, con berrettino militare, senza paletot,
senza mantello, senza sciarpe, sfidando i geli, come Souvarow.

«L’adolescenza e la prima gioventù del Carducci sono state veramente
spartane: quelli anni così ridenti per tutti, furon per lui anni di
sacrifizj, di perseveranza, di lavoro ostinato, di dignitosi silenzi,
di nobili e alteri rifiuti. E conosco una povera casa in Firenze, in
fondo di via Romana, che fu testimone di giornaliere ignote lotte,
— consolate solo dalle pure gioje della poetica ispirazione, da
entusiasmi di ammirazioni artistiche, dalla lettura di qualche libro
prestato — povera casa dove il Carducci ha scritto i primi suoi versi,
le Odi oraziane, — e che a me ha insegnato più e meglio di tutti i
palazzi Strozzi e Farnese, che cosa sono le realtà e le idealità della
vita.

«Legato a lui fin d’allora di fraterna amicizia, gli procuravo dei
libri — ed ebbi così la fortuna di fargli conoscere alcuni poeti
stranieri, lo Schiller, fra gli altri, — e di italiani il Leopardi;
i cui Canti (vecchia edizione Piatti) da me prestati al Carducci,
destarono nel futuro poeta delle _Odi barbare_ un vero fanatismo.
Ricopiò, mi rammento, più della metà del volume; e il _Bruto Minore_,
e la _Saffo_, gli imparò subito a mente. — _Guido Mannering_ e altri
romanzi dello Scott, il _Guglielmo Tell_, alcune scene del _Fausto_,
lo colpirono vivamente fin d’allora: di Byron, a quel tempo, ammirava
più la vita che le poesie (è vero che lo leggeva tradotto in barbara
prosa). Lamartine non gli andò mai giù. Gli scritti clandestini di
Giuseppe Mazzini, che riceveva da un suo stretto parente, lo facevan
ruggire.... Anche l’_Ortis_ è un libro su cui l’ho visto fremere e
piangere.

«Cosa singolare! i libri di erudizione, particolarmente filologica,
erano per lui letture gradite, e avidamente cercate, quasi quanto
i poeti. Mi ricordo che dopo avere nitidamente trascritto, con una
diligenza da benedettino, le sue imitazioni da Orazio — una quarantina
di _odi_, di cui due solamente sono restate negli _Juvenilia_, — egli
cedè volentieri il volumetto manoscritto, in baratto con una vecchia
edizione del _Malmantile_ annotato dal Biscioni, e tornò a casa
glorioso e trionfante col grosso polveroso volume, prezioso per lui più
per le note erudite che per l’arguto testo fiorentino.»

A proposito della sua passione pei libri il Nencioni mi raccontò che il
giorno che egli riuscì ad avere, non so se comperate o donategli, le
poesie del Foscolo, per le quali spasimava da lungo tempo, tornando a
casa, salì in ginocchione la scala che dall’uscio di strada conduceva
diritta al povero quartiere, e giunto nella stanza dov’era sua madre,
presentatole il libro, volle s’inginocchiasse a baciarlo. La mattina
di poi, quando il Gargani andò da lui, lo trovò non ancora finito
di vestire, che gli veniva incontro, e lì in cima alla scala, senza
lasciarlo entrare, gli lesse ad alta voce, commentando con le sue
ammirazioni, una gran parte dei _Sepolcri_.

                                   *
                                  * *

Nell’anno 1852, mentre _studiava, o a dir meglio_ (sono sue parole)
_non studiava affatto filosofia dagli Scolopii_, il Carducci _fece
il primo passo verso il numero dei più, cioè degli uomini stampati_.
«Lo feci presto, dice, e da buon italiano, con un sonetto, un sonetto
d’occasione, e quale occasione! per i coristi del Teatro di Borgo
Ognissanti, o salvo il vero, della Piazza Vecchia.... Stavo vicino di
casa in via Romana con Emilio Torelli stampatore, e già dei fedeli, dei
veramente e onestamente fedeli, di F. D. Guerrazzi. Egli mi chiese il
sonetto. Come dir di no a un democratico del ’48, che aveva tale una
franca impostatura tra di soldato e di ciompo (egli fu capitano dei
municipali, e sua madre era piemontese), e portava sempre uno smisurato
cappello o di felpa o di paglia, all’ombra delle cui grandi ale poteva
riparare una cospirazione? Diedi il sonetto; e fu stampato, anonimo.
Non me ne ricordo, ma ci doveva essere qualche frase di Armonide
Elideo, o, meno arcadicamente, d’Angelo Mazza.

«Il vero primo passo per altro, e questo con la ferma intenzione di
peccare, solamente non seguìta dall’effetto, lo avevo mosso qualche
mese innanzi. In quegli anni io scrivevo sempre: ammiravo il bello
da per tutto, cioè non capivo nulla. Ebbi in una giornata di luglio
il coraggio di mettere assieme in tutti i metri che mi corsero per la
testa (nessun barbaro: allora, al più, rifacevo alcaiche sul modello
del Fantoni) una novella romantica. L’intitolai _Amore e Morte_. C’era
dentro un po’ di tutto — un torneo in Provenza — e il rapimento della
regina del torneo fatto da un cavaliere italiano vincitore — e una
fuga con dialoghi al lume di luna tra gli abeti — e il fratello della
vergine non più vergine che raggiungeva gli amanti in Napoli — e un
duello — e la morte del vago — e la monacazione della vaga — e un
successivo impazzamento — e l’annessa morte dopo la confessione in

    Endecasillabi
    Catullïani
    Dolci per facili
    Modi toscani.

      (ROSSETTI, _Veggente in solitudine_.)

                             . . . . . . .

Ricordo.... due strofe, quando la regina del torneo posava una
ghirlanda su ’l capo del vincitore, che s’era tratto l’elmo:

      Qui la bella di Tolosa
    Del baron gli occhi fisò,
    Poi tremante e vergognosa
    Chinò gli occhi e sospirò.
      Ma una fiamma al roseo volto,
    Una fiamma le salì
    Quando il nero crin disciolto
    Fra le dita errar sentì.

«Finita che ebbi la novella verso le quattro di sera, e il caldo era
grande (come scrivevano i vecchi cronisti), pensai a farla stampare.
Perchè no? Leggevo stampati tutti i giorni tanti versi che mi parevano
peggio dei miei. L’abate Stefano Fioretti pistoiese compilava allora
certo foglio teatrale e letterario, intitolato non ricordo più se
l’_Arpa_ o il _Liuto_ o il _Trovatore_ o il _Menestrello_, o quale
altro de’ nomi d’oggetti di spogliatoio melodrammatico che usavano
ancora su quegli sgoccioli del romanticismo. Mi manca il tempo e la
serenità dell’animo a raccogliere e rendere i tratti di ciò ch’era
allora l’abate toscano: non prete del tutto, ma nè men secolare: molto
arcadicamente o romanticamente letterato: il cappello lungo; cravattina
simulante il collare sotto al solino imbiancato co ’l turchinetto;
abito moderatamente talare tenuto aperto per lasciar vedere una
catenella d’argento a mezzo la sottoveste abbottonata fin molto in
su; tutto in nero, s’intende; nero ed argento; in argento legate
possibilmente le lenti, pomo d’argento o d’altro metallo biancheggiante
nella canna d’India; infine andatura un po’ solenne, ma con passi di
minuetto e naso all’aria. Il Fioretti del resto era persona piacente,
e galantuomo, e buon compagno: aveva l’ufficio del giornale in un de’
vicoli che rameggiano da via Calzaioli. Salgo le scale con grande
trepidazione; il direttore non c’era, c’era la governante, o la
cameriera, o la nipote; non so in somma che cosa fosse precisamente. Il
che mi piacque, non mica per la cameriera o governante o nipote — che
era del resto un bel pezzo di ragazza, tipo fiorentino del Ghirlandaio
un po’ volgarizzato — ma io, figuratevi, ero troppo fresco dell’_Amore
e Morte_ e della mia creazione di Gilda. Mi piacque perchè così potei
scrivere una lettera al direttore (a parlare mi sarei imbrogliato), con
la quale gli lasciavo e raccomandavo la mia novella: sarei tornato il
giorno dopo per la risposta. Tornai; e il piacente abate con squisita
cortesia mi fece capire che la mia novella era troppo lunga e troppo
letteraria per un foglio come il suo.

«Rividi poi, circa il 59, e più volte, l’abate Fioretti; e finimmo
buoni amici. Mi dava o mi mandava certe sue cantate storiche. Una mi
ricordo: _Gli Orti Oricellari a tempo dell’ultima cacciata dei Medici
da Firenze_, fu musicata dal Mabellini per i parentali a Niccolò
Machiavelli celebrati in Pistoia la sera del 26 luglio 1863. E me ne
ricordo un’aria a più voci tra Palla Rucellai, il Machiavelli figliolo
e Zanobi Buondelmonti.

        PALLA.

    Ah.... del ribelle moto
      Côrremo i frutti amari.

        MACHIAVELLI.

      Ai Medici devoto
      Vedrem l’Oricellari?

        PALLA.

    Tutti i tiranni abomino
      Detesto al par di te;
      Ma nella plebe instabile
      Non so ripor la fe’.

        BUONDELMONTI.

    Torna a regnare il popolo
      Che plebe vil non è.

»Io gli lodai quella cantata. Sicuro! Gli ero debitore dell’avermi
risparmiato la stampa della novella. Immaginatevi se i critici italiani
avessero poi scoperto che a sedici anni feci una poesia romantica!»[8]

                                   *
                                  * *

Finiti nel 1852 gli studi agli Scolopii, il Carducci andò colla
famiglia a raggiungere il padre, che fino dall’anno innanzi era andato
medico condotto a Celle nel Montamiata. Quivi passò quasi tutto il
1853, riordinando e compiendo con assoluta libertà, che lo condusse
ad un classicismo assoluto, i suoi studi letterari. Non li aveva
tralasciati mai neppure a Firenze nell’ultimo anno mentre studiava
filosofia. Anzi specialmente in quell’anno le conversazioni col
Nencioni, i libri ch’ei gli procurava da leggere, quelli che cercava
da sè nelle biblioteche fiorentine, dove volle vedere anche i codici,
contribuirono a svolgere, non senza un po’ di confusione, le attitudini
sue svariatissime, di erudito insieme e d’artista. Dalla lettura dei
lirici dei primi secoli nel _Manuale_ del Nannucci, nella raccolta
del Valeriani e nei codici della Riccardiana, passava a scrivere
odi saffiche o alcaiche ad imitazione d’Orazio, sonetti burleschi e
satirici, e, come s’è visto, anche poemetti romantici.

De’ sonetti satirici ne avea composti fin da retorica. I primi a
provare la mordacità della sua musa giovanile furono i suoi compagni di
scuola. Mi ricordo che il Nencioni, raccontandomi le loro inimicizie e
guerricciole di scolari, mi recitava dei pezzi di sonetti carducciani
veramente feroci. Il Carducci poi, mandandomi nel settembre del 1860
da Pistoia la intiera raccolta manoscritta di tutti i suoi sonetti
burleschi e satirici, mi scriveva: «Ho voluto conservare due di quelli
fatti da ragazzo per un’ambizioncella di mostrare come pensavo e
sentivo ec. ec., e come presto incominciai l’arringo satirico, pel
quale veramente sarei fatto più che per ogni altro.» E prometteva di
mandarmi poi altri saggi di poesia satirica puerile, «sciatti saggi,
diceva, ma che pur dicono qualche cosa, molto più certo delle poesie
serie che facevo a quel tempo.»

Non ricordo bene; ma credo che fra quei sonetti ce ne fosse uno su
Celle (ad imitazione di quello del Berni su Verona) il quale cominciava
così:

    Questa Celle è una terra di Toscana,

ed uno contro un suo compagno di scuola, che avea parlato male di lui.

Quei sonetti li rimandai dopo parecchi anni al Carducci, che ne fece
una scelta per la edizione definitiva degli _Juvenilia_.

                                   *
                                  * *

Mentre il nostro era a Celle avvenne un fatto che determinò la scelta
della sua carriera nella vita.

Fra gli scolari di retorica delle Scuole Pie, in quelli anni che c’era
appunto il Carducci, esisteva un’Accademia, che avea nome dei «Risoluti
e Fecondi», della quale era come Presidente il Padre Barsottini. Ne
facevano parte i migliori alunni, e tra questi naturalmente dei primi
il Carducci, il Nencioni e il Gargani. Per una delle tornate di cotesta
Accademia, che fu tenuta nel 1853, il Carducci, narra il Borgognoni,
mandò alcuni suoi versi sulle Crociate, «i quali, dice egli, oltre che
al Padre Barsottini, ebbero la ventura di piacere non poco e a Leopoldo
Cempini (stato già amico del Giusti) e al canonico Sbragia, prete di
parte moderata scappato nel 1848 in Piemonte col Giorgini, i quali
due si trovarono tra gli astanti. Lo Sbragia anzi disse al Barsottini
persuadesse il Carducci a concorrere alla Scuola Normale, di cui egli
era in allora il rettore. Il Barsottini non si fece pregare, come non
si fece pregare il Carducci, il quale concorse, ottenne e andò.»[9]
Così avvenne che il Carducci prese la via dell’insegnamento.

Anche entrato alla Scuola Normale, Giosue seguitò ad appartenere
all’Accademia, la quale tenne una delle sue più famose sedute l’8
settembre 1854. Ne fu stampato il programma (Firenze, coi tipi
Calasanziani, 1854) con questo titolo: «Il Genio cristiano | del medio
Evo | in Italia | Trattenimento letterario | dato | nella Sala delle
Scuole Pie fiorentine | dagli Accademici | _Risoluti e Fecondi_ | la
sera del dì 8 settembre 1854.» Il discorso preliminare fu letto dal
Padre Barsottini, compilatore del programma, il quale comprendeva
ben 22 numeri. Lessero poesie, fra gli altri, Pietro Dazzi (_Boezio
nella sua carcere_); Enrico Nencioni (_Il trovadore_); Cesare Parrini
(_Federigo Barbarossa_). Ultimo lettore, quello del n. 22, fu il
Carducci; e il numero diceva così: «I fatti accennati dimostrano quali
elementi di vita accoglie in sè il Medio Evo. Non manca che una voce
la quale tuoni su questo Caos, come un tempo sul Caos antico la voce
di Jeova, e crei. Questa possente voce è la voce di DANTE. — Canzone
del signor Giosue Carducci, _Accademico Risoluto_.»[Vedi l’intero
_programma_ nelle note a pag. 436]

Questo, nota il Pistelli, «era il pezzo forte del trattenimento, ed
ebbe un gran successo.» La canzone fu poi stampata per intero a pag.
33 del volumetto di _Rime_ (San Miniato, tip. Ristori, MDCCCLVII) con
questa nota: «Questo canto fo pubblico, perchè il meno ignoto de’ miei
saggi poetici e quello che meno spiacque, e perchè forse a miglior
tempo lo racconcerò: fatto nella primissima gioventù parmi dia più fumo
che luce.» Nelle successive edizioni delle sue poesie il Carducci ne
accolse soltanto due frammenti, _Prometeo_ e _Dante_, con correzioni,
non molte, ma notevoli, nel secondo.




CAPITOLO II.

(1853-1856.)

  Il Carducci alla Scuola Normale Superiore di Pisa. — Pratiche
  religiose. — Burle dei compagni. — Riunioni al caffè dell’Ebe. — Il
  ponce nel guardaroba. — «Viva Giove! abbasso il successore!» — Il
  _Poverello d’Assisi_ e i Fioretti di san Francesco. — Il mercato
  dei maialini. — Allocuzione ai _maialini fratelli in Gesù_. — La
  _toilette_ per prepararsi a studiare Tito Livio. — Una lezione
  di letteratura italiana presa dal Nisard. — Prepotente bisogno di
  studiare. — Rigori disciplinari e beghineria. — Il beato Giovanni
  della Pace. — Lettera del Carducci sulla Scuola Normale. — Umor
  nero. — La cerimonia della laurea. — Gli esami di magistero.
  — Epopea sul padre Arno Dio etrusco dalla glauca capelliera. —
  Pratiche e raccomandazioni per la nomina del Carducci a maestro di
  retorica nel Ginnasio di San Miniato.


La Scuola Normale Superiore di Pisa, istituita con decreto napoleonico
del 29 gennaio 1813, riordinata con motuproprio granducale del 1846,
fu, nella nuova sua forma di istituto aggregato all’Università, e
perciò dipendente dal capo di essa, che allora chiamavasi Provveditore,
aperta soltanto il 12 novembre 1847. Era, ed è ancora, una specie di
Collegio convitto (come il Ghislieri di Pavia), con un certo numero
di posti gratuiti, che si conferiscono per concorso fra giovani che
hanno compiuto gli studi secondari e vogliono darsi alla professione
dell’insegnamento. I giovani ammessi hanno nella scuola, salvo che
non chiedano un correspettivo in denaro, vitto e alloggio durante il
corso degli studi universitari, assistono alle lezioni dell’Università,
hanno altre lezioni nell’interno del Convitto, e al fine degli
studi prendono, oltre la laurea, il diploma di magistero, cioè di
abilitazione all’insegnamento nelle scuole secondarie.

Sulla fine del 1853 il Carducci si presentò alla Scuola accompagnato
dal padre. Era vestito dell’uniforme prescritta allora dal regolamento
(soprabito e panciotto di panno turchino, calzoni neri, mantello
nella stagione invernale, e cappello a staio). I normalisti, che erano
sparsi a crocchi nell’andito del primo piano, aspettando il suono della
campanella che li chiamasse a desinare, fecero subito liete accoglienze
al nuovo venuto; e bench’egli fosse di modi un po’ bruschi, presero
subito a volergli bene.

Uno di quei normalisti, entrato anche lui in quell’anno alla Scuola,
che si affezionò subito al Carducci, e gli fu poi sempre amico fedele
e sincero, Ferdinando Cristiani, scrisse, pregato da me, una breve
notizia sul _Carducci alla Scuola Normale_, che fu pubblicata nella
_Rivista d’Italia_ (fascicolo di maggio 1901). Da essa e da alcuni
appunti favoritimi da un altro compagno di studi del Carducci alla
Normale, il prof. Giuseppe Puccianti, traggo per la maggior parte il
materiale di questo capitolo, riferendo, dove mi sembri opportuno, le
parole stesse dei due egregi uomini amici miei.

                                   *
                                  * *

«Gli atti della vita quotidiana della Scuola Normale, scrive il
Cristiani, erano regolati da un rigido orario, per la veglia e il
riposo, per lo studio e la ricreazione, per la mensa e il passeggio,
per la messa e il rosario. Poteva forse a qualcuno mancare la voglia,
ma non il tempo, di pregare: ogni mattina la messa, ogni sera il
rosario ed altre giaculatorie non brevi. Nè finivano qui gli obblighi
religiosi; chè ogni due o tre mesi un reverendo veniva a fare raccolta
dei nostri peccati.

                             . . . . . . .

»Ogni mese dovevamo pure intervenire, cogli altri scolari della
Università, alla congregazione, nella chiesetta di San Sisto. Guai
a chi avesse ciarlato durante la lunga predica, o fosse mancato
all’appello; i bidelli con lapis e carta prendevano nota di tutto per
riferirne ai superiori. Per giunta alla derrata, tutte le domeniche
c’era spiegazione del Vangelo, fatta dal Rettore.

»Tutte queste pratiche di religione toglievano del tempo allo studio;
e il Carducci, che del tempo era economo come l’avaro della borsa,
portava anche alla messa, in cambio del libro d’orazioni, un qualche
classico del formato in sedicesimo.

»Qualche volta i compagni stessi si divertivano a disturbarlo mentre
egli studiava; ed ecco come. Al Carducci, ricevuto normalista, era
stata assegnata la seconda camera a destra di chi entra dalla porta del
corridoio interno. Nella anticamera, una stanzuccia piuttosto buia, si
trovavano in fila su una panca dieci lucernette d’ottone a un lucignolo
e, d’inverno, anche dieci caldanini, che erano i nostri caloriferi.
Sicchè, tornando la sera a casa, ognuno di noi andava a prendere il
suo lume; e siccome a quell’ora Giosue stava già al lavoro, così a
parecchi veniva il desiderio di dare un saluto all’amico _Pinini_.[10]
Se Giosue era di buon umore, la porta di camera stava aperta, e allora
s’entrava tutti e ci si sdraiava sul letto e si facevano scherzi che
non spiacevano a Giosue; ma se poi ci dimenticavamo la discrezione,
sapeva metterci fuori per amore o per forza. La camera serrata a chiave
era segno d’umor nero, o forse di più intensa voglia di studiare; e
siccome non si voleva neppur in quelle sere lasciar di salutarlo a
modo nostro, gli si faceva la serenata in coro, cantando stornelli di
vario genere con accompagnatura di contrabbasso, _fatica speciale_ di
un nostro compagno, che produceva quel suono strisciando il pollice
all’uscio. La pazienza, si dice, ha un limite, e il Carducci faceva
presto a varcarlo. Una sera, aperto l’uscio all’improvviso, rincorse di
furia cantanti e suonatori, che fuggirono a gambe levate.

                             . . . . . . .

»Dopo desinare, a stagion buona, scendevamo nel cortile, dove per unico
passatempo erano una dozzina di grosse palle di legno da giocare alle
bocce. A quei tempi non si parlava nè di ginnastica, nè di scherma,
nè v’era biliardo o altro giuoco. Terminata la ricreazione, si
studiava, ciascuno nella propria camera, fino all’ora del passeggio.
Uscivamo a coppie, o anche soli, ma quasi sempre c’incontravamo fuori
di Porta alle Piagge; e lì avvenivano spesso vivissime discussioni
fra il Puccianti e il Carducci, tanto più vive quando il primo,
per incitare l’amico alla lotta, metteva innanzi la questione della
superiorità del Manzoni sugli altri poeti moderni: allora, da una parte
e dall’altra se ne sentivano delle cotte e delle crude, e la disputa
finiva a sera, quando tutti d’amore e d’accordo tornati in città ci
riunivamo al caffè dell’Ebe. Riunioni clamorose e gioconde, che erano
per Giosue il divagamento più grato. Là era nel suo vero regno, e,
con davanti il ponce ed un sigaro in bocca, teneva desta per un’ora
la geniale conversazione. Conveniva sovente a quei ritrovi serali
Felice Tribolati, ingegno arguto e narratore inesauribile di piacevoli
aneddoti appresi dalla bocca di Giovanni Rosini, di cui fu ammiratore
e familiare. C’era anche Narciso Pelosini, già dottore in legge e
praticante l’avvocatura, allora giovane d’idee avanzate, non fervente
cattolico come dipoi. Col Tribolati e col Pelosini, ora morti, veniva
talora Francesco Bonamici, giovane di molti studi e d’ingegno e, come
il Pelosini, di parola facile e abbondante.

»Qualche altro divertimento ce lo procuravamo da noi in collegio, nelle
poche sere che i più denarosi avevano il permesso d’andare al teatro.
Adunati in una stanza al terzo piano, che serviva ad uso di guardaroba,
avendo con noi rhum, zucchero, limone, e una macchinetta a spirito, si
faceva il ponce bianco, che sorseggiavamo poi allegramente tra i più
svariati e gioviali discorsi e sollazzi.»[11]

                                   *
                                  * *

A proposito di burle e del Manzoni, una volta il Puccianti fece questa
al Carducci. Passando una sera davanti alla porta della camera di lui
e trovandola chiusa, perch’egli era già a letto, si mise a battervi
su dei pugni così sonori, che avrebbero, dice lui, _svegliato anche
un baco da seta quando dorme la grossa_. Giosue, se non era sveglio,
si svegliò, e si diè a gridare con quanto ne aveva in gola e a
bestemmiare. Il Puccianti, che non voleva altro, cessati i picchi,
cominciò a declamare ripetutamente ad alta voce l’Inno del Manzoni:

    Dormi, fanciul, non piangere,
    Dormi, fanciul celeste,

con quel che segue. A ciò il Carducci non potendo reggere, balzò
giù dal letto, aprì furiosamente la porta, e presentandosi sulla
soglia ignudo com’era, gridò rabbiosamente: — Viva Giove! abbasso
il successore! — Guai, dice il Puccianti, se i superiori l’avessero
sentito!

                                   *
                                  * *

Una mattina i due amici andarono insieme all’Università. Appena
arrivati, il bidello dice loro: Il professore stamani non fa lezione.
Era una bella giornata di primavera, ed essi pensano di godersela
andando a fare una passeggiata fuori delle mura. Giosue era di
bonissimo umore, e in quella disposizione d’animo che, specie quando
trovavasi in compagnia di qualche amico, eccitava in lui l’estro
inesauribile delle bizzarrie. Bisogna sapere, dice il Puccianti,
che tutti i giorni egli era come dominato da un’idea fissa. L’idea
fissa di quella mattina era il _Poverello d’Assisi_, per amore del
quale egli aveva imparato a memoria i luoghi più belli e singolari
di quel singolarissimo libro dei _Fioretti_. «Quindi (cedo la parola
all’amico Puccianti), appena uscito sul Lungarno tutto sorriso dal
sole, in quell’ora del tempo e in quella dolce stagione sentì le varie
voci della natura, e come se fin da quel giorno meditasse il _Canto
dell’amore_, molto comicamente e in istile che chiamerò francescano
cominciò a tirar giù le lodi, non mica del _Gran Pan che non è morto_,
ma proprio delle creature, e più particolarmente di frate Sole, di
frate Arno e perfino di suora Luna, che non c’era.

»In san Francesco la lauda delle creature son pochi versi, e lui (il
Carducci) non la finiva più: un’idea o un’immagine se ne tirava dietro
un’altra, come le ciliege. Basti il dire che dalla cantonata di via San
Frediano eravamo arrivati alla Porta fiorentina, e lui seguitava con
la stessa foga, anzi pareva che cominciasse in quel momento. Passata
la Porta, ci fermammo sulla piazza di San Marco, e lì ci dette negli
occhi uno spettacolo a cui non eravamo avvezzi. C’era il mercato dei
maialini. A quella vista l’oratore francescano, che fino a quel momento
si era occupato unicamente delle creature prive di senso, rivolgendosi
a un tratto alle creature sensate, si fece ad esortare quei _leggiadri
porcellini fratelli in Gesù_ a render grazie a Dio dei tanti doni che
ne avevano ricevuti ec. ec. E siccome tutte quelle _dolci e divote
cose_ le indirizzava specialmente a quello dei maialini che aveva più
vicino, io, per metterlo al punto, gli dissi come in aria di sfida: —
Sta bene che tu gli dica coteste _dolci cose_, ma scommetto che non
hai il coraggio di abbracciarlo. — Non ho il coraggio...? o sta’ a
vedere. — Si chinò, e gli stese le braccia al collo, dicendogliene in
particolare delle altre anche più dolci. Dopo di che ce ne tornammo
alla scuola senza altri incidenti.»

Quando trent’anni più tardi il Puccianti lesse il sonetto _Santa Maria
degli angeli_, che è un’apostrofe a frate Francesco, e termina così:

    Ti vegga io dritto con le braccia tese
    Cantando a Dio: — Laudato sia, Signore,
    Per nostra corporal sorella morte!

il pensiero gli corse subito al mercato dei maialini in piazza San
Marco.

                                   *
                                  * *

Un’altra mattina, narra il Puccianti (ed anche qui lascio a lui la
parola), «entro nella stanza del Carducci, e lo trovo tutto intento a
pettinarsi, a farsi un bel nodo alla cravatta e spazzolarsi con cura,
cercando di mettersi nella maggiore eleganza relativa possibile. —
Vedi, mi dice, mettendomi a studiare Tito Livio, faccio come faceva
(a prenderlo a parola) il Machiavelli quando entrava nelle corti dei
principi antichi, e li interrogava ed essi gli rispondevano, e _si
pasceva così del cibo che solum era suo_, come ci dice egli stesso
nella famosa lettera al Vettori. — O gli abiti curiali? domandai io.
— Questi miei son tanto curiali quant’erano i suoi — mi rispose; e si
mise a tavolino. Tanto è vero che gli scherzi suoi avevano bene spesso
un fondamento erudito. E veramente fin d’allora possedeva un’erudizione
singolare nelle cose storiche e letterarie e anche filologiche, così
antiche, come moderne.

»Se un professore esponeva a scuola una dottrina non sua, senza
indicarne le fonti, egli spesse volte le cercava e le trovava. Una
volta appunto sentiamo all’Università una lezione sull’epopea primitiva
e secondaria premessa da un nostro insegnante ad un suo corso sulla
_Divina Commedia_. Ci parve bellissima, com’era veramente. — Sai da
chi l’ha presa? — mi disse Giosue. — Dal Nisard. — Cerca il libro,
traduce dal francese in buon italiano tutta la lezione, e chiamato
poi a ripetere, la ridice con una franchezza tale da far meraviglia
agli uditori. E non aveva mica molta facilità di parola; tutt’altro;
anzi, preso all’improvviso, era spesso impacciato, e la frase gli
usciva di bocca come a scatti, faticosa. Avvezzo fin d’allora a
frugare col pensiero a fondo le cose, e a scegliere i modi più efficaci
per manifestarle, faceva come sentire lo sforzo di una composizione
necessariamente affrettata. Non era un parlatore, era uno scrittore
fino da normalista. Ma in casi simili a quello detto sopra faceva
sempre così: scriveva le cose da dire, le rileggeva più volte, e,
siccome lo scritto dalla carta gli si stampava nella memoria tenace,
venuto il momento le ridiceva tali e quali, e stavo per dire le
rileggeva ad alta voce nel _libro della mente_.»

Alla meravigliosa erudizione del giovane Carducci conferiva senza
dubbio in gran parte la memoria felice, ma in parte anche maggiore lo
studio, ch’egli fece sempre intenso e continuato. Lo studio non era
per lui l’adempimento di un dovere, era un bisogno prepotente dello
spirito. Narra il Cristiani ch’egli, concedendo al sonno poche ore
della notte, passava quasi sempre l’intera giornata a studiare. «Anche
oggi, dice, passati da allora quarantacinque anni, mi par di vederlo
seduto al suo tavolino, con in bocca una gran pipa di spuma, tutto
assorto nello studio degli autori suoi prediletti, scriver note e
pensieri, o scattar come una molla e, a passi concitati, andar su e giù
per la camera, declamando ad alta voce i luoghi degli scrittori ond’era
più fortemente commosso.»[12] Anche attesta il Cristiani che, mentre
parecchi normalisti, come in generale accade alla maggior parte degli
studenti, erano costretti a lunghe veglie all’avvicinarsi degli esami,
il Carducci non avea bisogno, per prepararsi ad essi, di alterare
menomamente il suo sistema di vita e l’ordine delle sue occupazioni.
Non solo: ma come egli, buono in fondo e cordiale nonostante i suoi
modi un po’ bruschi, era largo d’aiuto ai compagni, che all’occasione
non lo risparmiavano, così trovava il tempo di ripetere e spiegare loro
le lezioni dei professori; ciò che accadeva specialmente verso la fine
dell’anno scolastico.

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                                  * *

Che cosa il Carducci pensasse dei suoi insegnanti, della vita e degli
studi alla Scuola Normale, appare da una lettera ch’egli mi scrisse ai
primi del 1856, quando faceva là l’ultimo anno. Sicuro, non bisogna
prendere alla lettera le sue parole, il cui colorito è estremamente
acceso, come portava la sua bollente natura e la irritazione dell’animo
prodotta dall’ambiente in cui era costretto a vivere.

Pisa, e specialmente l’Università e la Scuola Normale che n’era
parte, scontavano le pene del loro passato liberalismo; le pene
dell’aver protestato per non voler le Dame del Sacro Cuore, le pene
delle lezioni patriottiche del Centofanti e di altri professori, le
pene del battaglione universitario del 1848. Da ciò una recrudescenza
di beghineria che pesava sopra tutta la città, da ciò l’eccesso di
pratiche religiose, con le quali si credeva stupidamente di rimettere
la gioventù nella retta via dell’ossequio alla Chiesa e allo Stato
(cioè al restaurato Governo granducale); da ciò i nuovi e inauditi
rigori verso gli studenti, ai quali per ogni menoma scappatella
si minacciavano e si applicavano punizioni; da ciò il Provveditore
trasformato in una specie di capo di Polizia, e i bidelli e i serventi
in spie e questurini.

Naturalmente se c’era modo di mantener viva l’agitazione nei giovani
per il desiderio della libertà, e il trionfo delle idee patriottiche
era codesto.

Immaginarsi come ne dovesse fremere internamente il Carducci! Egli
aveva, è vero, una distrazione potente e un conforto grande negli
studi, che lo assorbivano intero; ma in cotesto porto, nel quale
riparava dalla vita reale, lo sdegno e la irritazione contro questa
trovavano nuovo alimento, e le sue idee e i suoi pensieri se ne
coloravano sempre più in nero.

Quella recrudescenza di beghineria che ho detto, della quale
l’Arcivescovo e il clero di Pisa profittavano pei loro fini,
soffiandoci dentro in tutti i modi, diede occasione al Carducci di
scrivere la poesia satirica _Al beato Giovanni della Pace_, ch’è
stampata in fine dei _Juvenilia_. Mandandomela nel maggio del 1856, mi
scriveva: «Ti voglio mandare uno scherzo fatto in questi giorni, non
perchè meriti come poesia, ma perchè tu vegga come ad ogni occasione
io protesti contro il secoletto ipocrita. Da un pezzo in qua (due anni
mi pare) è venuta la manía di riscavare i vecchi santi e di metterne
su de’ nuovi, ultimo guizzo dell’idea cristiana-romantica. A questi
giorni, e precisamente dopo trattata e firmata la pace di Parigi, hanno
trovato un frate del secolo XIII, che appunto ha nome di _Giovanni
della Pace_, venerato in Pisa nei secoli passati. Hanno stabilito di
riscavarlo, metterlo in onoranza nel Duomo, portarlo a processione.
Figurati il buggerio. Il Carducci ha scritto questo _Inno sacro_.»
Seguiva la trascrizione dell’Inno: poi ripigliava la lettera, parlando
delle pratiche ch’ei già faceva per avere il posto d’insegnante di
retorica a San Miniato, chiedendo in proposito qualche consiglio agli
amici, e dandoci la notizia che aveva stabilito di cominciare nelle
vacanze la traduzione in versi del III libro dell’_Eneide_ di Virgilio
e della _Teogonia_ di Esiodo.

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                                  * *

Ed ora ecco alcuni frammenti della lettera alla quale sopra ho
accennato. A me era venuta improvvisamente l’idea di abbandonare il
meschino impiego che allora avevo, e di andare alla Scuola Normale.
Ne scrissi al Carducci, chiedendogli consiglio e istruzioni; ed egli
mi rispose: «E tu.... vorresti entrare nella Scuola Normale? Cessi Dio
tanto pericolo che ti minaccia se tu vieni qua, dove questa marmaglia
o ti farà perdere il senno o ti spingerà al suicidio.... Se tu vieni
qua, dalla parte dell’insegnamento (del latino), avrai un professore
ciarlone, che ti stancherà a forza di citazioni e di date quando fa
bene, quando cioè copia da tutti i libri che può aver per le mani,
senza mentovar mai nessuno: del resto ti dirà con aria cattedratica
quelle cosette che sanno anche i bambini della seconda, senza un’ombra
mai di critica, senza un bagliore di ragionamento; cose fritte e
rifritte da tutti gli accademici, da tutti gli scrittori di retorica,
da tutti gli arcadi di tutti i tempi; e così correranno i tuoi tre
anni di studi sulla letteratura latina, sulla quale perderai molti
giorni senza imparare altro che date.... Per la letteratura greca
avrai due uomini che il greco lo sanno; sentirai che dissertazioni
calorose, infiammate, vulcaniche sulla funzione degli aoristi! sentirai
declamata con l’enfasi epica la genealogia de’ tempi de’ verbi, come
se fosse la genealogia degli Eacidi; ma della filosofia di cotesta
divina letteratura greca, de’ bei tempi di Atene, delle cause che
ispirarono coteste opere divine, del metodo e del sistema di cotesta
poesia, del confronto con la latina e con l’italiana, nulla, nulla,
nulla: chè coteste menti son nate per declinare verbi, non per sentire
e far sentire il bello, non per pensare: guai, guai nella Scuola
Normale a colui che pensa! Della filosofia razionale e morale non ti
parlo;... ti avviso però che della razionale avrai a ripetitore un
collegiale, avvezzo a giurare sulle parole del maestro, il quale senza
aver mai visto in viso una traduzione dal greco, ti comincierà a dir
male delle arti e lettere greche e ti leverà alle stelle i Goti: e tu
freddamente l’ammazzerai, e allora ti metteranno in galera. Bandita
la letteratura italiana: già saprai da te come i giovani usciti
finora dalla Scuola Normale adulterano laidamente la lingua toscana:
imparerai il gergo convenzionale, grammatico, retorico, filosofico:
la lingua in cui scrissero Dante, Machiavelli, Leopardi, fa paura a
questi vili oppressori e castratori degli ingegni giovanili: chi studi
davvero cotesta lingua, bisogna che studi gli scrittori repubblicani
del Trecento, nazionalissimi del Cinquecento, e pensatori tremendi
del secolo nostro; bisogna che studiando cotesta lingua, studi la
nazione, e imprima come suggello nell’animo il carattere italiano
puro. E nella Scuola Normale, guai, guai, tre volte guai a costui!
— In quanto al trattamento per ora si sta male, i venturi staranno
malissimo. Avrai sempre addosso un imbecille che parla sempre di frati,
di monache, di conventi, e che moverebbe compassione se non fosse
arcinoiosissimo. Nel direttore degli studi un galantuomo, buon uomo,
il quale ti mostrerà in sè l’impotenza e l’idea risibile che piglia
il galantuomo circondato da birboni d’ogni maniera: crederà di farti
del bene col chiacchierarti intorno sempre, sempre, sempre, e ti darà
buone parole, ti sarà gentilissimo, ma non ti schermirà mai dalle
stoltezze e dalle oppressioni dei vilissimi superiori. Sarai inondato
da una caterva di spie vilissime, minacciato da un provveditor birro
arcivilissimo, che ti griderà sempre punizioni e carcere, e se tu non
vuoi altro, galera.... Quando non ti oltraggino, ti stomacheranno
o con il mormorare di continuo femminilmente su’ fatti altrui, col
parlare di lettere come parlano dei paduli di Vecchiano, con l’aver
sempre in bocca il quattrino e il tozzo, o spregiare o compassionare
ogni infelice che non abbia o il quattrino o il tozzo (materialisti
manzoniani). In fine se vuoi venire alla Scuola Normale, o càstrati o
schiàcciati, o fatti banderuola a tutti i venti, o vieni per imparare a
soffrire e a odiare. Questi sono i danni: degli utili ve n’è uno solo,
quello di divenire dottore senza spendere altro che 40 lire.»

                                   *
                                  * *

Il Carducci avea fin da giovane dei periodi di umor tetro che talvolta
gli duravano a lungo. In quei periodi avea bisogno di star concentrato
in sè stesso; ogni fatto esterno, ogni rumore, ogni voce, che tentasse
distrarlo, lo urtava, lo infastidiva, lo faceva dare in escandescenze.
Non c’era che qualche intimo, che potesse allora avvicinarlo, qualche
intimo che, conoscendolo bene e volendogli bene, sapesse evitare
ogni parola, ogni atto, ogni accenno che non gli andasse a genio, e
secondando il suo bisogno di taciturnità, fosse capace di star con lui
magari per delle ore senza profferire parola.

Quando egli era in uno di quei periodi, se gli avveniva di parlare o
scrivere sopra un argomento qualunque, le parole, i ragionamenti, le
immagini gli uscivano dalla bocca o dalla penna colorate in nero: i
fatti non si alteravano, ma la luce sotto la quale erano esposti dava
loro un aspetto che, pur rispondendo nella sostanza al vero, differiva
alcun poco da esso. Probabilmente la lettera di cui ho riferito
alcune parti fu scritta in uno di quei periodi; e si capisce come il
Carducci, al quale la regola, la disciplina e le consuetudini della
Scuola Normale e della Università non andavano punto a genio, sfogasse
scrivendola tutte le ire e le scontentezze che gli avevano amareggiato
quelli anni di studio. Oramai egli stava per uscirne. Ma pur troppo
non doveva essergli molto più lieta, benchè in apparenza più libera, la
vita d’insegnante che uscito di là avrebbe cominciato.

                                   *
                                  * *

Il corso degli studi alla Scuola Normale durava tre anni. Alla fine del
primo i normalisti doveano rispondere sulla materia del terzo corso
universitario; alla fine del secondo doveano dare l’esame di laurea.
Il Carducci si presentò a questo esame il 16 giugno 1855, e il 25 fu
insignito della laurea.

«Allora, per ottenerla, scrive il Cristiani, non si presentavano
tesi, e perciò l’esame non differiva da quello degli altri anni del
corso universitario. Un po’ diversa da quella d’oggi era la cerimonia
della laurea. I candidati in giubba e cravatta bianca movevano insieme
verso la curia arcivescovile, e lì, entrati in un’ampia sala, dove si
tenevano anche i pubblici dibattimenti delle cause appartenenti al fôro
ecclesiastico, attendevano la venuta del vicario capitolare.

»Il vicario, entrato in compagnia del cancelliere, dava principio
alla cerimonia con un discorso sui doveri che i buoni cittadini hanno
d’esser fedeli al Sovrano, e zelanti della nostra santa religione, e
faceva recitare ai candidati il _Credo_; poi, fatte infilare loro certe
cappe sdrucite della forma di quelle dei professori d’Università, li
chiamava a nome a uno a uno, li faceva avvicinare, e misurava loro in
testa un berrettone dottorale, profferendo la formola: _accipe pileum
pro corona_. Poneva fine alla cerimonia il giuramento solenne che tutti
dovevano profferire, ripetendo parola per parola quello che ad alta
voce leggeva il cancelliere. Suggellava la consacrazione lo squillo di
due trombe.»[13]

Nel luglio dell’anno appresso (1856) ebbero luogo i pubblici
esperimenti che conferivano ai normalisti il grado di magistero.
«Il 2, scrive il Cristiani, il Carducci fece la lezione sul tèma di
letteratura italiana da lui scelto: _Dell’influenza provenzale nella
lirica del secolo XIII_.... Il tèma era stato trattato da lui con lungo
studio e con grande amore; tuttavia gli mancarono due voti di plauso;
mentre non glie ne mancò neppur uno nella lezione (che fece qualche
giorno dopo) sul tèma di filosofia, _Del culto interno ed esterno_,
copiata in gran parte dal Rosmini.»[14]

Il Carducci usava fin d’allora, come notò già il Puccianti, scrivere le
lezioni che dovea dire a voce, affine d’imprimersele nella memoria più
ordinate, più chiare, più precise. Io posseggo l’autografo delle due
lezioni ch’egli fece per ottenere il magistero; e credo non dispiacerà
ai lettori conoscere la chiusa di quella sulla letteratura italiana,
la quale nel manoscritto ha un titolo un po’ diverso da quello indicato
dal Cristiani. È intitolata: _Della poesia cavalleresca o trovadorica_,
e finisce così:

«A mostrare il processo di questo risorgimento intellettuale (il
risorgimento della letteratura e dell’arte in Italia sul finire del
medio evo), bisognerebbe ch’io con la scorta dell’istoria condottomi
prima là su le sponde del mar di Sicilia dove fino dal 1180 suonava
la rozza ma fervida italiana canzone di Ciullo d’Alcamo, quindi su le
piazze di Assisi e di Fano dove le armi de’ cittadini uccidentisi tra
loro restarono dal ferire alla poesia ispirata di san Francesco e di
fra Pacifico, poi nella grande Università di Bologna madre del sapere
italiano, mi fermassi in ultimo a contemplare la società fiorentina
del secolo XIII, di quel tempo che i nostri cari cronisti chiamano il
_tempo del buon popolo vecchio_.

»Vedrei colà virtù civili grandissime senza burbanza, virtù famigliari
amabilissime senza mollezza, virtù artistiche grandissime senza sforzo:
e quei nobili e quelli artefici che seduti insieme nella chiesa di
San Giovanni dettarono le costituzioni del 1250 e del 1282, trattare,
disvestito il lucco, il pennello e lo scarpello, la penna e la spada,
come si trattavano allora: vedrei i figliuoli di cotesti uomini
alla scuola di Brunetto Latini, altri apprendere a ben parlare e ben
guidare il comune in su le opere di Cicerone e di Sallustio, e fra
questi Giovanni Villani; altri accogliere il tesoro dell’enciclopedia
contemporanea, e tra cotesti il Cavalcanti e l’Alighieri, che vi si
ispiravano alla poesia filosofica: quindi tra le feste popolari del
Calen di maggio, tra le splendide cavalcate de’ giovani, nelle cortesi
ragunanze di popolo o sotto le loggie delle potenti famiglie o intorno
al San Giovanni nascere la freschissima poesia di Dino Frescobaldi e
Gianni Alfani.

»Dopo ciò noi avremmo innanzi agli occhi tutto il processo della poesia
toscana, la quale comincia didascalica e con la forma narrativa della
visione ed allegoria nel _Tesoretto_ del Latini, nella _Intelligenza_
di D. Compagni; seguita filosofando con maestà italiana nelle canzoni
dell’Alighieri e del Cavalcanti; quindi nelle ballate e ne’ sonetti
d’essi e dell’Alfani e del Frescobaldi con una religiosa purità di
affetto non più sentita, con una agilità di forme non più veduta
pare voglia aspirare al cielo, a quella guisa che vi aspirano i due
angeli dipinti da Giotto nel tempio d’Assisi; infine dinanzi al popolo
italiano ammirato sorge solitaria e gigantesca accanto a Santa Maria
del Fiore la Divina Commedia.

»Tutto ciò avveniva, o signori chiarissimi, in quel tempo così
superbamente compianto da una gente che ripone la somma civiltà nel
non far nulla o nel rifar male quello che gli antichi fecero bene,
in quel tempo che Carlo Botta chiamò lo _stolido e scapestrato medio
evo_, fra quelli uomini che Carlo Botta chiamò _goffe bestiaccie del
medio evo_. E fra quelle _goffe bestiaccie_ erano Tommaso d’Aquino
e Dante Alighieri. Ora dirimpetto ad essi fra i moderni economisti e
politicanti chi grande?»

Il Carducci trattò poi nell’età matura questi medesimi argomenti di
storia letteraria con ben altra compiutezza di studi ed originalità di
pensieri; ma non è senza interesse vedere com’egli vi si cimentasse
fin d’allora, in un tempo cioè in cui erano una novità in Italia; e
vi si cimentasse per impulso del proprio ingegno, senza avere dai suoi
professori nessuno indirizzo, nessun consiglio ed aiuto.

                                   *
                                  * *

Finiti gli esami, Giosue andò per qualche giorno a casa a Santa Maria
a Monte, indi a Firenze a trovare gli amici; ma, prima di lasciare la
Scuola Normale, mi ragguagliò con lettera dei 3 luglio del resultato
del suo esame sulla letteratura italiana. La lettera diceva così:

«Ieri ebbi l’esame, o meglio feci la lezioncetta, e l’esito ne fu
per me più che gradevolissimo. A pena cominciai ebbi l’uditorio dei
chiarissimi in capelli bianchi e in toga, e dei chiarissimi in erba, e
degli oscurissimi ancora, contro il costume attentissimo e silenzioso
per un’ora (e dovevo parlare mezz’ora): e io lo padroneggiai col
portamento e con la voce. Vi fu chi disse ch’era rimasto spaventato
dalle mie citazioni fatte a memoria. Non potei finire del tutto il
mio ragionamento, perchè il Provveditore mi disse da ultimo, vedendo
che non la finivo più: Debbo annunziare al dottor Carducci, con mio
dispiacere, che il tempo assegnatogli dalla legge è di già scorso da
due quarti d’ora. E sonò il campanellino. E allora io birichinescamente
feci un salto col quale dalla cattedra fui in terra tutto d’un pezzo. E
l’uditorio rimase meravigliato anche della mia agilità nel far salti.
Poi vennero i mirallegro, gli abbracciamenti, i baci dei chiarissimi
e dei non chiarissimi, e tutte le persone della sala mi si raccolsero
intorno. Poi andò a finire in un gran simposio; dopo il quale, la
sera, lung’Arno, accompagnato dagli amici, io declamava un’epopea
improvvisa sul padre Arno Dio etrusco dalla glauca capelliera, il quale
non voleva riconoscere i lumi a gaz nè il vapore: e vi entravano di
mezzo Tarconte, Porsena, la vergine Camilla e Turno, i quali andavano a
spegnere i lumi a gaz, e portavano fuori le vecchie lucerne sepolcrali
di Tarquinia e dei sepolcreti di Ceri. Eroe dell’epopea, ch’io un
po’ cantavo, un po’ declamavo, era un vaso etrusco personificato, il
quale entrava nell’_Ussero_ e spaccava le tazze, i gotti, e simili
buggeratelle moderne. E i compagni ridevano tremendamente, e la gente
passava di lontano intimorita: e tutto questo lo facevo in abito nero,
e con grandissima cravatta bianca, e i solinoni bianchi fuori, secondo
il costume del Tasso.»

                                   *
                                  * *

Per la nomina del Carducci al Ginnasio di San Miniato si adoperarono
anche il Rettore della Scuola Normale e il Provveditore della
Università, i quali pur non potevano ignorare il carattere forte
e indipendente del giovane; ma anch’essi erano vinti dalle prove
d’ingegno e di dottrina ch’egli avea date, le quali naturalmente dovea
parer loro che tornassero ad onore della Scuola e della Università. Per
questa ragione anche i professori gli volevan bene e lo portavano, come
si dice, in palma di mano, perdonando alla singolarità dell’ingegno le
sue capestrerie.

Uno di essi, il professore di pedagogia e direttore della Scuola
Giuseppe Pecchioli, scrisse nell’agosto da Livorno al proposto della
cattedrale di San Miniato, da cui principalmente dipendeva la nomina
degli insegnanti del Ginnasio, raccomandando come ottimo il Carducci,
insieme a due altri, l’un dei quali buono e l’altro mediocre, e
dicendolo: «Attissimo alla cattedra di letteratura latina e greca,
benchè il suo forte, a vero dire, sia piuttosto la letteratura
italiana.» Proseguiva la lettera dicendo: «Sulla moralità non debbo far
gradazioni, perchè, in tutto il tirocinio universitario e normalistico,
la loro condotta è stata esemplare, come si conveniva a giovani
iniziati ad una carriera delle più delicate e importanti.»[15]

Quei professori non erano aquile, ma avevano abbastanza comprendonio
da capire che il Carducci non era un allievo come gli altri; e forse
speravano, nella loro ingenuità ed ignoranza del mondo in mezzo al
quale vivevano, che quei giovani usciti dalla rigida disciplina
scolastica ed entrati nella vita, avrebbero, per il bisogno di
assicurarsi il tozzo, smorzato a poco a poco i loro ardori giovanili,
e finito col diventare uomini seri e posati. Povera gente! come ci
vedevano poco! Il Carducci e il Cristiani (nominato con lui al Ginnasio
di San Miniato) prima che finisse l’anno doverono fuggirne; e l’uno di
lì a poco divenne il poeta della rivoluzione, mentre l’altro era andato
a combattere le battaglie per la liberazione d’Italia.

Ma non anticipiamo.




CAPITOLO III.

(1856-1857.)

  Gli amici di Firenze. — L’ode alcaica _A Giulio_. — Prime prove
  letterarie nell’_Appendice alle Letture di famiglia_. — _Fiori
  e spine_ di Braccio Bracci. — La _Diceria_ di G. T. Gargani.
  — Scandalo sollevato dalla _Diceria_. — Gli amici pedanti e
  la _Giunta alla derrata_. — Giovinetto romantico inventato dal
  Carducci. — Il Carducci in famiglia a Santa Maria a Monte. — Mia
  visita al Carducci a Santa Maria. — Il Carducci va maestro di
  retorica a San Miniato al Tedesco. — Il _Passatempo_ e gli amici
  pedanti. — La _casa dei maestri_. — Alla méssa in domo. — Processo
  per accusa d’empietà. — Il Cristiani propone al Carducci di
  stampare le sue poesie. — «_Jacta est alea._» — Pubblicazione delle
  _Rime_. — «Viva Apollo Febo lungi-oprante, Patareo, Delio, Cinzio,
  e moia chi dice di no.» — Il Carducci lascia San Miniato.


Mentre il Carducci era a Pisa, specie nell’ultimo anno, stette in
continua corrispondenza con gli amici di Firenze, scrivendo al Gargani,
al Targioni ed a me, più spesso che agli altri a me, che ero una specie
di segretario della nostra piccola società. La corrispondenza era sopra
tutto letteraria, ed aveva per iscopo di comunicarci i nostri lavori e
di confortarci a vicenda nel sostenere col ragionamento e coll’esempio
il classicismo in letteratura. Ci preparavamo, senza saperlo, alla
fondazione della società degli amici pedanti, che sorse in quell’anno
stesso, e affilavamo le armi per le future battaglie.

Il 27 aprile 1856, mandandomi manoscritta l’ode alcaica _A Giulio_,
ristampata in tutte l’edizioni dei _Juvenilia_, Giosue mi scriveva:
«Ode alcaica di soggetto serio, e in cui si tratti con forme classiche
di cose del medio evo, e di 21 strofe, non è stata mai fatta in Italia;
questo solo di singolare ha l’ode mia. Quel che mi vo’ sforzar di
provare col fatto, è di far vedere che si posson trattare con le forme
greche e latine le cose a cui dicono i barbari italiani volersi forme
nuove, e intendono le romantiche. Quello che ho detto io con le forme
d’Orazio e Giovenale, questi cani l’avrebber detto con le forme dei
cori del Manzoni.»

Le lunghe lettere che il Carducci mi scriveva e le poesie che mi
mandava, erano da me lette agli altri amici, al Targioni e a Torquato
Gargani, coi quali facevamo tutti i giorni la nostra passeggiata al
Parterre fuori di porta San Gallo. E là disputavamo di letteratura,
parlavamo degli ultimi libri letti, ci consultavamo sui lavori da
fare o che stavamo facendo. Avevamo tutti tre le stesse idee in fatto
di letteratura, ch’erano pure le idee del Carducci, benchè ciascuno,
s’intende, avesse gli autori suoi prediletti. Ma era questione del più
o del meno: tutti eravamo d’accordo nel mettere sopra tutti Dante e il
Petrarca fra gli antichi, l’Alfieri, il Parini, il Monti, il Foscolo,
il Leopardi fra i moderni. Io aggiungevo a questi un prosatore, il
Giordani, del quale a poco a poco inoculai l’ammirazione anche agli
altri.

Il Targioni aveva preso di recente la laurea in legge, ma aveva
tutt’altra voglia che di fare l’avvocato. Il Gargani era tornato di
fresco da Faenza, dove aveva fatto per tre anni il precettore in una
casa privata.

                                   *
                                  * *

Si aggiungevano spesso a noi nelle nostre passeggiate al Parterre il
Nencioni ed altri giovani stati condiscepoli di lui, del Carducci
e del Gargani alle Scuole Pie; ma non tutti avevano le nostre
idee nè facevano della letteratura la loro prediletta e principale
occupazione. Ricordo fra questi Luigi Prezzolini, dottore in legge,
gran giobertiano, che disprezzava il Giordani, chiamandolo retore e
parolaio, ed avea perciò con me frequenti e feroci dispute; e Giulio
Cavaciocchi, grande ammiratore del Tommaseo, nostro aiutatore nelle
ricerche di lingua al tempo delle nostre guerre letterarie, e grande
cercatore di spropositi negli scritti del Fanfani. Il Prezzolini andò,
dopo il 1860, segretario del Peruzzi ministro a Torino e finì prefetto
(la politica del Pelloux lo mise a riposo nel 1899 ancor valido di
forze e pieno di spirito, di che egli si afflisse, e indi a poco morì).
Il Cavaciocchi entrò anche lui verso il 1860 negli uffici pubblici,
aggiunse alla sua ammirazione per la prosa del Tommaseo quella per la
prosa del Ranalli nelle _Storie_, e morì di mal sottile nel 1867, che
non aveva ancora trenta anni.

Questi due nostri amici non scrivevano allora e non scrissero mai nè
articoli per riviste, nè libri: il loro amore per la letteratura, più
savio del nostro, si limitò sempre alla lettura: noi invece scrivevamo
e pubblicavamo. Il Carducci, il Nencioni ed io avevamo stampato dei
versi fino dal 1855 in un _Almanacco delle dame_ edito dal cartolaio
Chiari a Firenze; e il Carducci anche prima di quel tempo il sonetto
pei coristi del teatro di Borgo Ognissanti e un’ode per nozze: aveva
poi pubblicato in quello stesso anno 1855 un’Antologia poetica con
larghe annotazioni intitolata _L’arpa del popolo_, componendola
delle poesie già da lui di mano in mano illustrate nelle _Letture di
famiglia_, periodico fondato e diretto da Pietro Thouar. Ma le nostre
vere prove letterarie le cominciammo l’anno appresso nell’_Appendice
alle Letture di famiglia_, altro periodico fondato e diretto dal Thouar
stesso. Il Carducci vi pubblicò, sotto il titolo di _Saggi di studi
sopra la lingua e letteratura latina_, il commento di un pezzo delle
Georgiche di Virgilio e dell’Epodo VII di Orazio, con la traduzione in
prosa e larghissime illustrazioni. I versi della Georgica commentati
e tradotti sono i 43-71 del primo libro. Alla traduzione seguono
cinque dissertazioni: I, Dell’accordare il tempo stabilito da Virgilio
all’arare con quello stabilito da Esiodo, e della primavera e dello
Zefiro; II, Del monte Tmolo; III, Dell’India conosciuta da’ Greci e
da’ Romani; IV, Dell’Arabia in generale, e particolarmente dell’Arabia
felice e de’ Sabei; V, Dei Calibi, e dei ritrovatori e lavoratori del
ferro. Con uguale larghezza illustrò l’Epodo oraziano, facendo seguire
al commento osservazioni e notizie particolari sopra i punti più
importanti, sopra i traduttori e gli imitatori. Oltre ciò collaborò col
Targioni e col Gargani ad un saggio d’interpretazione delle poesie del
Parini, del Foscolo e del Leopardi, pubblicato in quello stesso anno
1856, dopo il quale cessammo di scrivere nell’_Appendice_.

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                                  * *

Intanto un livornese nostro coetaneo, Braccio Bracci, che noi non
conoscevamo di persona, e che più tardi divenne nostro buon amico,
pubblicò un volumetto di versi «Fiori e Spine», con in fondo una
lettera del Guerrazzi, che, per una delle poesie ristampata nel libro,
chiamava il poeta _uccello destinato a gran volo_. Il Gargani, che
da guerrazziano, quale il Carducci lo avea conosciuto alla scuola
dì retorica, si era nei tre anni di dimora a Faenza _convertito_,
come dice il Carducci stesso, _a un classicismo rigidamente
strocchiano_, ebbe primo di noi conoscenza dei versi del Bracci, e
ne fece col Targioni e con me argomento di discussione nelle nostre
passeggiate. I versi erano su per giù dei soliti, come ne facevano
i giovani d’allora, che avean letto il Prati e gli altri moderni.
Il Bracci aveva in famiglia qualche improvvisatore, credo il padre
stesso; ed egli pure, se ben ricordo, fra le allegre brigate d’amici
improvvisava. Nessuna meraviglia quindi che ne’ suoi versi ci fosse
un po’ dell’improvvisatore; ma non c’era nessun sapore di classicità;
l’espressione era poco meditata e lavorata; qualche verso non
tornava; e poi quel titolo «Fiori e Spine» e l’elogio del Guerrazzi,
che consigliava il poeta a studiare _la poesia degli Alemanni, dei
Polacchi, degli Scandinavi e dei Russi_, tutto ciò ci fece uscire dai
gangheri, e fece venire in testa al Gargani di scrivere una critica
del volumetto del Bracci. Al che il Targioni ed io lo incoraggiammo.
Il Carducci, appena informato da me di ciò, mi rispondeva: «Ho caro,
anzi carissimo, che il Gargani attenda a riveder le bucce al Bracci:
ci avevo pensato io: l’esame me ne distornò: del resto vorrei che fra
noi facessimo giuramento di non lasciare impunito qualunque libretto
di poesia sia per venir fuori da oggi in poi. Anche questo sarebbe un
mezzo ad ispaventare la canaglia. La quale ho sentito dalla tua lettera
legarsi a nuova offesa del nome italiano. Facciano: noi risponderemo
alla loro strenna col libro nostro sul Pazzi e con articoli di critica.
E sosterremo a mezza spada, finchè morte ne segua, la scuola antica,
e con lavori di nostro e con osservazioni su gli altrui; così, anche
non potendo eseguire la intenzione nostra, ci valga e basti l’onore
dell’aver protestato e francamente, giovani e soli, contro una
irruzione straniera nelle lettere peggiore della irruzione straniera
armata nel paese.»

                                   *
                                  * *

Inutile dire come queste parole aggiungessero sproni alla nostra voglia
di battagliare. Il Gargani cominciò subito a scrivere la critica dei
versi del Bracci, e giorno per giorno veniva leggendo al Targioni
ed a me ciò che aveva scritto; noi facevamo le nostre osservazioni,
assentendo più volentieri dove la critica era più feroce. Per noi era
questione più che altro di sentimento, non era quindi e non poteva
essere questione di serenità di giudizi. Perchè le punture della
critica fossero più acute, il Gargani elesse pel suo discorso, anzi
_Diceria_, com’egli la chiamò, la forma ironica, esaltando ciò che
intendeva deprimere, deprimendo ciò che voleva esaltare. Il discorso
gli si allargò per via, tanto che il Bracci divenne poco più che
il pretesto per assalire tutta la letteratura romantica. Ma dove
pubblicare il discorso? Era troppo lungo per un articolo di giornale;
e difficilmente se ne sarebbe trovato uno a Firenze che volesse
accoglierlo. Allora si pensò di stamparlo in opuscolo a spese nostre,
cioè degli amici. Il Carducci ai 5 di giugno mandava come contributo
suo e del Pelosini quattro paoli, scrivendo: «Di più non possiamo per
ora. Gli altri leopardiani (il Tribolati e il Bonamici) invieranno,
spero, presto.» Come si vede, non eravamo ricchi.

Che cosa fosse la strenna che io denunziavo al Carducci come _nuova
offesa al nome italiano_ non ricordo esattamente: credo la strenna
intitolata _Il Giglio fiorentino_, pubblicata appunto in quell’anno a
Firenze dagli editori G. Riva e Comp. Era un volume in-8º di pag. 148;
e fu compilata da Ferdinando Martini, che aveva allora sedici anni e
che non vi mise il suo nome, ma vi mise innanzi una sua breve prosa,
della quale più tardi fece giustizia da sè, scrivendoci su di sua mano:
_scritto asinesco_. La copia dov’è questa giustizia è ora posseduta da
Guido Mazzoni, che dandomene notizia aggiunge: «Del resto la strenna è
come tutte le altre; tra i collaboratori anzi ve n’ha degli eccellenti:
il Tommaseo, il Thouar, il Maffei, il Carcano, il Conti, l’Emiliani
Giudici, il Borghi, ecc. E ci son lettere inedite del Giusti, del
Giordani, del Gioberti.»

Probabilmente io avevo avuto notizia della strenna molto inesattamente
dal Cavaciocchi; e su quella inesatta notizia avevo scritto chi sa
che cosa al Carducci. Il nostro libro sul Pazzi doveva contenere
sei canzoni sopra sei busti, che lo scultore amico nostro aveva, per
nostro suggerimento, incominciato a modellare, con l’intenzione di
scolpirli in marmo. Erano i busti dell’Alfieri, del Parini, del Monti,
del Foscolo, del Leopardi, del Giordani. Il Carducci avea già scritto
la canzone pel busto d’Alfieri, che si legge nei _Juvenilia_, il
Gargani scrisse quella sul Foscolo, che pubblicò più tardi con un’altra
canzone, un idillio e dieci sonetti (Faenza, Conti, 1861), Francesco
Donati (uno scolopio che avendo fino dai primi del 1856 conosciuto
alcuni di noi, diventò subito amico di tutti) scrisse, ma non pubblicò
mai, quella sul Parini.[Vedi le note a pag. 443] Quella sul Monti non
rammento con esattezza a chi fosse assegnata: parmi al Carducci. Il
Targioni ed io cominciammo, ma non finimmo, le nostre sul Leopardi e
sul Giordani.

Il libro poi non si fece: e dei busti furono finiti, se ben ricordo,
quelli soli dell’Alfieri, del Parini, del Foscolo e del Leopardi.

Ma fu finita e stampata in quattro e quattr’otto la _Diceria_ del
Gargani con questo titolo: «Di Braccio Bracci e degli altri poeti
nostri odiernissimi, Diceria di G. T. Gargani, a spese degli amici
pedanti.» Il nome di _amici pedanti_ fu una trovata del Gargani,
ch’ebbe subito la nostra approvazione.

                                   *
                                  * *

Quando il Carducci, dati gli esami a Pisa, e fatta una visita alla
famiglia, andò a Firenze, la _Diceria_ era stata pubblicata allora
allora, ed aveva, com’è naturale, sollevato uno scandalo enorme. I
nostri amici stessi (non pedanti, s’intende), con a capo il Nencioni,
la condannavano. La condannava anche il Donati, che pure era classico
quanto noi. Degli altri è inutile dire. Anzi il Nencioni, per mostrare
che non partecipava al classico nostro fanatismo, pubblicò nello
_Spettatore_ alcuni versi _Al Manzoni_. Restammo a difendere la
_Diceria_ il Carducci, il Targioni ed io, che da quel momento fummo
i soli veri amici pedanti. Non che non sentissimo anche noi quel
che c’era in essa di esagerato e di irragionevole nella sostanza,
di strano e di barocco nella forma; ma si trattava dell’onore delle
armi; e quanto alla bontà del concetto fondamentale non avevamo e
non ammettevamo alcun dubbio. Per un pezzo nelle nostre passeggiate e
tutte le sere al Caffè Vitali in via Por’ Santa Maria battagliavamo
fieramente con gli altri amici intorno alla _Diceria_. Tra quelli
che più la vituperavano c’era un buon diavolo, che voleva passare per
intendente di lingue orientali, anzi a dirittura per orientalista; che
pubblicava, copiandole di su i codici che non sapeva leggere, scritture
del trecento; che facea de’ versi come questi:

    D’Alighieri nudrice,
    Sua comedia felice-
    mente divina a noi pose nel core:

    Amammo, e dei mortali
    Similmente immortali
    Credevamo gl’intenti, e fu utopia.

Costui, un buon diavolo, come ho detto, che noi, specialmente il
Nencioni, prendevamo un po’ in giro, non sapeva nominare la _Diceria_
altrimenti che la _Diceriaccia_. Ferdinando Martini, che in un
giornaletto _La Lente_ pubblicava periodicamente il bollettino della
salute del Gargani, la chiamò con più spirito la _Su’ Diceria_,
alludendo alla poca eleganza, diciamo pure alla poca correttezza, del
vestiario dell’amico nostro. Tutti gli altri giornali di Firenze, _Lo
Spettatore, Il Passatempo, La Lanterna di Diogene, L’Avvisatore, Il
Buon Gusto, Lo Scaramuccia, L’Eco dei teatri_, rovesciarono, con un
accordo mirabile, un mucchio di scherni e di contumelie sopra il povero
Gargani.

Il _Passatempo_, che nel suo n. 30 (26 luglio 1856) aveva pubblicato un
articolo serio ma durissimo contro l’autore della _Diceria_, gli fece
nel successivo n. 31 (2 agosto) la caricatura.[Vedi le note a pag. 443]

Il Gargani per una malattia avuta da ragazzo aveva perduto i capelli,
e portava la parrucca. La figura di lui è ritratta al vivo dal
Carducci con queste parole: «pareva una figura etrusca scappata via
da un’urna di Volterra o di Chiusi, con la persona tutta ad angoli,
ma senza pancia, e con due occhi di fuoco.» Nella caricatura fattagli
dal _Passatempo_ non c’è la più lontana somiglianza con lui. Egli è
raffigurato, con un gran testone e gli orecchi molto lunghi, seduto
allo scrittoio nell’atto di scrivere la risposta ai giornali; intanto
che un ragazzetto, il _Passatempo_, ritto sulla spalliera della
poltrona ov’egli siede, gli toglie la parrucca lasciando scoperta la
nuca, sulla quale si legge: _Di Braccio Bracci e degli altri poeti
odiernissimi_. Sopra la caricatura è questo titolo: _Il Passatempo e un
pedante_; e sotto, le parole che dice il ragazzo alzando la parrucca:
— _Vediamo che cos’ha in questo zuccone.... To! sembrava che ci dovesse
avere un’altra Divina Commedia e invece_....

                                   *
                                  * *

Se l’articolo del _Passatempo_ contro il Gargani era duro nella forma,
e sgarbato appunto perchè serio, oggi sarebbe difficile non riconoscere
che nella sostanza era in molta parte ragionevole. Ma gli amici pedanti
si sentirono solidali, e forti della bontà della loro causa, si misero
con ardore all’opera, e nel dicembre di quello stesso anno lanciarono,
in risposta agli avversari del Gargani, un volumetto di 160 pagine
col titolo: _Giunta alla derrata_. Il libro era composto di due parti.
Parte prima: _Ai poeti nostri odiernissimi e lor difensori gli amici
pedanti_; Parte seconda: _Ai giornalisti fiorentini Risposta di G. T.
Gargani, comentata dagli amici pedanti_. Nella parte prima c’erano un
preambolo, tre sonetti caudati in stile fra del Menzini e di Salvator
Rosa (1º _Alla Musa odiernissima_, 2º _Ai poeti nostri odiernissimi_,
3º _Ai filologi fiorentini odiernissimi_)[16] e due discorsi, per
illustrazione al sonetto secondo, _Della moralità e italianità dei
poeti nostri odiernissimi_; coi quali, a combattere il romanticismo,
ci facevamo forti dell’autorità del Botta, del Rosmini, del Gioberti,
del Niccolini, del Monti, del Giordani, del Foscolo, del Goethe e del
Byron. Autore del preambolo e dei sonetti era il Carducci, ed anche
estensore dei due discorsi, la materia dei quali era stata raccolta
un po’ da tutti, ma sopra tutti da lui. La risposta del Gargani ai
giornalisti era stata comentata dal Targioni e da me. In una delle note
erano due sonetti miei a Victor Hugo e al Lamartine, che furono più
tardi attribuiti al Carducci. Io poi feci ammenda di quel giovanile
peccato studiando seriamente le opere di quei due scrittori contro i
quali avevo blaterato senza conoscerli abbastanza.

In fine del discorso primo il Carducci narrava di un giovinetto
conosciuto, diceva lui, da alcuno degli amici pedanti, «bella mente in
vero e fortissimo cuore; e se allevato fra costumi e studi altri da
quelli che il secolo porta, nato ad amare ed operare santamente ciò
ch’è bello e generoso.» «Al contrario, proseguiva, letti e studiati
quei libri che oggi si leggono e si studiano, cotesto infelice a
diciassette anni cominciava un suo dramma con un coro di streghe a
questa maniera:

      Or che strisciano fra’ lampi
    I cavalli di Satano,
    E del ciel pe’ negri campi
    Mena tresca l’uragano;
    Or che l’Alpi accende a festa
    La bufera e la tempesta,
    E sta dentro a’ nugoloni
    La versiera ad ulular;
    Tra le folgori e fra’ tuoni
    Noi veniamo a cavalcar.

      Odi: all’imo del burrone
    Ove fondo è più il cammino
    Tuona il bronzo del ladrone
    E caduto è il peregrino.
    Odi: un fulmine rompente
    Sovra un capo ch’è innocente.
    Odi: i figli desolati
    Con la madre a lamentar.
    Su la strage de’ creati
    Noi veniamo a cavalcar.

      Su, da bravo, Farfarello,
    Mena l’anche, mena l’anche!
    E tu, duce del bordello,
    Capitano Malebranche,
    A servirci di concenti
    Reca tutti i tuoi tormenti.
    O che danze argute e belle!
    Che gentile armoneggiar!
    O che vaghe damigelle,
    Che soave cavalcar!

      Ed intanto su le culle
    Vengan lemuri cruenti
    A succhiar membra fanciulle
    In ferali abbracciamenti:
    Cacci l’uomo sogghignando
    Entro l’uom ferro nefando:
    E sien coltrice i trafitti
    Spose e vergini a stuprar.
    Fra i dolori e fra i delitti
    O che vago cavalcar!

»Nel medesimo introduceva un masnadiero a cantare nefandamente così:

      Son masnadiero figlio del monte
    Come la quercia di quel dirupo:
    È la mia patria l’asil del lupo,
    È la mia vita strage e tenzon.

      Son senz’amore, senza speranza:
    Ma son tremendo come la morte:
    Il cuore ho duro, l’anima ho forte
    Come la pietra di quel burron.

      A me che importa se miei non sono
    Quei verdi colli che il sol fa lieti?
    Ma il vin che stilla da quei vigneti
    Entro il mio nappo viene a brillar.

      A me che importa se amor mi niega
    La bella figlia del castellano?
    Quand’ho sicuri pugnale e mano,
    Quando al suo sposo la so strappar.

      Quando il mio nome suona a que’ vili
    Che traggon vita di pace e d’agi,
    Dentro i tuguri, dentro i palagi,
    Trema il villano, trema il baron.

      Son masnadiero figlio del monte
    Come la quercia di quel dirupo:
    È la mia patria l’asil del lupo,
    È la mia vita strage e tenzon.

»Di cotali cose non abbiam ricordo si scrivessero nel cinquecento,
quando i giovani italiani studiavano in Petrarca in Boccaccio e
nei latini che pur sono scrittori immorali: al secolo decimonono le
scriveva a diciassette anni tale che aveva studiato in altri libri
ch’io non vo’ nominare: e un anno dopo moriva disperato del ritrovare
nel mondo quelle sensazioni selvagge ch’ei ci voleva trovare a ogni
costo.»

Inutile dire che la storia e i versi del giovinetto erano pura
invenzione del Carducci. Ho voluto riferirli (poichè la _Giunta alla
derrata_ è un libro oramai introvabile) a titolo di semplice curiosità.

                                   *
                                  * *

Sulla fine di ottobre, quando il libro era quasi finito di stampare,
il Carducci mi mandò da Santa Maria a Monte, dove era andato a passare
una parte delle vacanze in famiglia, e dove io aveva promesso d’andare
a trovarlo, un sonetto con la coda, da stampare in grossi caratteri
ed affiggersi alle cantonate, per avviso che il libro dei pedanti era
uscito. Il sonetto fu poi stampato soltanto nella copertina di dietro
del volume, e diceva così:

    Voi avete a sapere, o fiorentini,
    Che il libro de’ pedanti è uscito fuore:
    Lo pubblicammo co’ nostri quattrini
    Per Giovanni Campolmi stampatore.

    Non vi sapremmo dire il gran rumore
    Che ne faranno i nostri cittadini,
    E lo schiamazzo il rovello il furore
    De’ giornalisti grossi e de’ piccini.

    Questo libro contien prima un avviso
    O vuoi racconto, o vuoi prefazïone,
    Con lettere venute dall’eliso.

    Due Sonettesse che son due matrone
    Ne vengon dopo, e con pulito viso
    Si strascicano dietro un gran codone.

                    E seguita il trescone
    Con un sonetto che ne vien da poi,
    Ch’abbiam mandato a certi vostri eroi.

                    E per questi e per voi
    Due discorsi ci son, che a certa gente
    Piaceran molto ed a cert’altra niente.

                    Oh come è prepotente
    E fiero in vista e savio a un tempo e matto
    Un comento di poi ch’abbiamo fatto,

                    Per chiudere il contratto,
    A du’ parole da Beppe Gargani
    Mandate a dire a’ giornali toscani.

                    Da buoni italiani,
    De’ politici nostri a gran dispetto,
    Noi volemmo finir con un sonetto.

                    E questo vi sia detto,
    Che di motti ve n’ha molte maniere,
    E che a più d’un si danno le billere.

                    Il Franzi profumiere
    Il Moro ed altri ve lo venderanno:
    Rispetto al prezzo s’accomoderanno.

                    Or ite col buon anno:
    E compratelo pur se lo volete;
    Ch’io vi prometto che voi riderete.

Con la lettera, che mi portava il sonetto, il Carducci mi mandava
anche il principio dell’ode _Agli italiani_, da lui scritta nel 1853
ed ora rimpastata, e mi parlava de’ suoi studi: «A proposito: molto
ho studiato: ho letto quattro volte attentissimamente capitolo per
capitolo tre libri del Guicciardini e uno del Machiavelli: tre volte
parimente ho letto la Congiura dei Baroni, e preso da tutti estratti di
fatti e di parole: ho studiato la filippica seconda, e il primo delle
georgiche, e tutto Fedro: e ho riletto Orazio: ho messo insieme e da
appunti miei e dalla memoria 256 osservazioni di lingua e di stile
(latine e italiane). Il mio fardello filologico si accresce. Quanto
studio in campagna, e quanto poco in città! seguitare a studiare come
ho studiato in questi giorni (bada, sempre, sempre, sempre) e poi
diverrei erudito.»

Seguiva la trascrizione dell’ode e poi il giudizio: «Non c’è male: la
mistura dello stile è latina, ma francamente maneggiata: ed è delle
mie poesie quella in cui meno si scorga l’imitazione. Preparami il tuo
giudizio: a Firenze la sentirai finita.» La lettera si chiudeva con
queste parole: «Son contento e lieto: bellissime giornate, che a me
risplendono solamente dalle finestre: ho libri e fogli d’intorno.»

                                   *
                                  * *

Il Carducci moriva di voglia di vedere stampata la _Giunta_; e sperava
ch’io glie la portassi, andando a fargli la visita promessa; ma lo
stampatore tardava, ed io andai senza il libro.

Arrivai verso sera, e trovai, venuto ad incontrarmi a piè della
salita che conduce al paese, il padre di Giosue. Giosue, non ancora
interamente libero delle febbri, che gli s’erano messe addosso poco
dopo il suo ritorno in famiglia, era, per consiglio del padre, rimasto
a casa. Io feci allora per la prima volta la conoscenza del dottor
Michele e della sua famigliuola. Per quanto grande fosse la nostra
intimità, Giosue non me ne aveva mai parlato: il poco ch’io ne sapeva,
lo aveva appreso dal Nencioni e dal Gargani. Fatti molto alla buona
i convenevoli d’uso, il Dottore ed io ci avviammo per la salita: egli
parlava, ed io lo stava a sentire. Nel breve tempo che impiegammo per
arrivare a casa, egli mi aveva raccontata in brevi e crude parole la
storia delle tre o quattro principali famiglie del paese. Per quel
che ora posso ricordarmi, non mi fece grandi elogi di nessuna. Mentre
passavamo di sotto alle case ove quelle famiglie abitavano, egli, con
mia grande meraviglia, parlava ad alta voce, per modo che la gente
ch’era lì sulla via poteva benissimo sentire. Avendogli io fatto
qualche osservazione di ciò, mi rispose: Oh, non fa niente, lo sanno
tutti ciò ch’io penso di loro!

In quel ridente paesello, che Giosue salutava indi a poco
coll’affettuoso sonetto «O cara al pensier mio terra gentile,» che ora
è il XXI dei _Juvenilia_, avea trovato, dopo tanto errare, modesta
e quieta dimora la famiglia Carducci; quieta quanto consentivano il
carattere forte e un po’ autoritario del padre, e i caratteri forti
e indipendenti dei due figli maggiori, specialmente di Giosue. La
famiglia era amata e stimata in paese, specie dalla gente del popolo;
perchè il Dottore, nonostante i suoi modi un po’ bruschi, esercitava
l’ufficio suo con amore e conoscenza e la signora Ildegonda, la moglie,
era donna di una bontà rara, che si faceva conoscere e apprezzare
al primo avvicinarla. Tutti sapevano che nei pericoli, in mezzo ai
quali il Dottore si era più volte trovato durante i rivolgimenti degli
anni 1848 e 1849, essa avea dato prova di coraggio e di forza d’animo
singolari; tutti sapevano ch’essa era stata ed era l’angelo tutelare
della casa. Se l’ordine e la pace regnavano in essa, era in gran parte
merito di lei.

Qualche volta a tavola le conversazioni degeneravano in dispute, e le
dispute in questioni, specie se si parlava di cose letterarie, dove
il Dottore aveva le sue idee fatte, che non erano, sappiamo, quelle di
Giosue, e Giosue una competenza molto più grande, che gl’impediva, dato
il suo carattere, di tollerare ciò che parevagli errore; ma a tempo e
luogo interveniva la madre, per la quale Giosue ebbe sempre una grande
venerazione, e una parola di lei impediva che la quistione degenerasse
in vera e propria zuffa.

Il giorno dopo il mio arrivo, il Dottore mi menò a fare una passeggiata
per la campagna, facendomi da Cicerone. Parlammo di molte cose,
e naturalmente anche di Giosue, ch’era rimasto a casa, della sua
malattia, del suo ingegno, de’ suoi studi, della sua prossima nomina
a maestro nel Ginnasio di San Miniato al Tedesco. Si capiva che il
padre conosceva il valore del figliuolo, che gli voleva bene, e in
cuor suo n’era anche orgoglioso; ma non lo dava affatto a divedere;
parlava di lui come d’uno che quasi non gli appartenesse, e manifestò
anche l’opinione che avrebbe avuto corta vita. Se era un presentimento,
fortunatamente fu falso. Parlammo anche degli altri figliuoli,
specialmente del secondo, di Dante, il quale trovavasi un po’ a
disagio in quel piccolo luogo, dove non era facile che si facesse, come
vivamente desiderava, una posizione.

Due giorni dopo, Giosue era affatto libero della febbre. Nel breve
tempo ch’io mi trattenni ancora a Santa Maria a Monte, passammo le
intere giornate passeggiando, conversando, leggendo. Leggevamo fino
alla sera tardi prima d’andare a letto. Una delle nostre letture
serali, o piuttosto notturne, furono i poemi didascalici del Rucellai
e dello Spolverini. Quelle letture fatte in compagnia del Carducci
erano per me di una utilità e di un piacere indicibili. Fin d’allora
egli aveva una conoscenza della nostra letteratura poetica veramente
meravigliosa.

                                   *
                                  * *

Ai primi di novembre tornammo a Firenze per dare l’ultima mano e
l’ultima spinta alla pubblicazione della _Giunta alla derrata_; ma
ci trovammo dinanzi un ostacolo impensato, che durammo molta fatica a
vincere: le sùbite paure del Targioni, che nientemeno voleva sopprimere
il libro, per risparmiare, diceva, a sè ed a noi un processo e la
prigione. Finalmente, come Dio volle, il libro uscì; ma il Carducci
non potè assistere alla pubblicazione e al chiasso che doveva
suscitare, perchè, venutagli appunto allora la nomina di maestro a San
Miniato, dovè subito recarvisi a cominciare la scuola. Gli mandammo
là il libro, ed egli rispondendomi dolevasi che non gli avessi detto
niente dell’accoglienza fattagli dai giornali. «E che tacciono questi
canterini dalle golette fangose? Che il libro fu forse l’offa tremenda?
Oh, oh, oh, direbbe Macbeth. Scrivimi subito, per Iddio Apollo. Non
imitar me tristo annoiato infelice.» Mandava tre paoli per il libro,
scusandosi di non potere di più perchè diceva: «Ho solamente 77 lire
il mese.» Era questo il suo stipendio di insegnante, che ridotto dalle
lire codine alle italiane, fa 64,68; cioè poco più di due lire al
giorno, la paga di un onesto facchino. In quei primi giorni si trovò
male a San Miniato: «Non ho voglia, mi scriveva, di parlarti della
mia vita, ch’è trista e goffa assai.» Ma non era il misero stipendio
che lo angustiava: era la novità del luogo, l’aver lasciato Firenze,
le biblioteche, i banchetti dei librai, gli amici. Tanto è vero che
qualche giorno dopo mostravasi più sereno, e scusandosi del non aver
risposto ad una lettera del Targioni, mi scriveva: «Gli dirai che mi
perdoni: ma in quel tempo che mi scrisse era impossibile mi distornassi
dalla mia scuola. Insegno greco: evviva: FACCIO SPIEGARE LUCREZIO AI
MIEI RAGAZZI: evviva me.»

Io non gli avevo scritto niente dell’accoglienza fatta al nostro
libro dai giornali, perchè questi non ne avevano ancora parlato. Ma
non tardarono molto; e le accoglienze, come era da aspettarsi, furono
tutt’altro che oneste e liete; ci fu però una notevole differenza fra
queste e quelle fatte alla _Diceria_.

Le intemperanze nostre avevano spaventato siffattamente i buoni
fiorentini, che i librai ebbero sulle prime paura del nostro libro, e,
quasi fosse appestato, non volevano prenderlo a vendere.

Ma quando, superate le prime avversioni, il libro fu conosciuto, molti
di quelli stessi che avevano vituperato la _Diceria_, e seguitavano a
non mandarla giù, resero giustizia, pur non approvando tutte le nostre
opinioni e la fierezza delle nostre polemiche, alla serietà dei nostri
studi e intendimenti: e l’ingegno del Carducci cominciò fin d’allora,
nella cerchia ristretta di una parte dei toscani così detti culti, ad
essere riconosciuto e rispettato.

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                                  * *

Per quanto l’autore nominale e occasionale della società degli amici
pedanti fosse il Gargani, il vero capo e ispiratore di essa era, si
capisce, il Carducci; la cui vita letteraria cominciò, si può dire,
fin d’allora, con quelli istinti di avversione ed opposizione ad ogni
volgarità e viltà e ciarlataneria, che hanno ispirato e diretto poi
sempre l’opera sua di scrittore. Tanto che, arrivato presso alla fine,
egli ha potuto affermare con piena sincerità, che i principii da lui
seguiti scrivendo, furono sempre gli stessi. «In politica, l’Italia
su tutto: in estetica, la poesia classica su tutto: in pratica la
schiettezza e la forza su tutto.»[17] Che è quanto dire l’italianità su
tutto. Questo era il programma degli amici pedanti: il Carducci che lo
avea formulato lui nella _Giunta alla derrata_, non fece che esplicarlo
ed applicarlo in tutte le sue opere come poeta, come prosatore, come
insegnante.

Non mette conto parlare di qualche giornalettucciaccio teatrale,
scritto da gente peggio che illetterata, il quale seguitò a blaterare
contro il Gargani e gli _amici pedanti_. Chi se ne ricorda più? Ma un
di quelli che andava per la maggiore, il _Passatempo_, seguitò anche
lui e peggio degli altri.

C’era la sua ragione. Il _Passatempo_ era un giornaletto settimanale
umoristico, con caricature, fabbricato quasi clandestinamente in
Palazzo Vecchio, fra i Ministeri dell’istruzione e dell’interno, da
Pietro Fanfani ed alcuni accoliti suoi; i quali prima che uscisse
la _Diceria_ avean fatto l’occhio dolce ad alcuni di noi, e qualche
grazioso invito a collaborare; perchè il _Passatempo_ avea nel
suo programma il corretto scrivere italiano, anzi toscano, anzi
fiorentino. Ma uscita la _Diceria_, e mentre si preparava la _Giunta_,
il Fanfani e i suoi compagni capirono dall’atteggiamento nostro che
noi eravamo dei rompicolli, il cui contatto poteva essere pericoloso
per impiegati fedeli del Governo granducale, e che eravamo tomi da
rivedere le buccie, anche nel fatto della lingua, a vocabolaristi e
linguisti famosi come il Fanfani. Perciò si schierarono bravamente
contro di noi. Il _Passatempo_ pubblicò subito nel suo n. 46 (29
novembre 1856) un feroce articolo contro la _Giunta alla derrata_, che
chiamava _un miserabile affastellamento di arroganti contumelie e di
bizze impotenti_, dichiarando che _si teneva onorato delle villanie
degli amici pedanti_, e che _non voleva dar loro il gusto di nessuna
risposta_; ma viceversa rispondendo con l’articolo stesso. Del che
accortosi, terminava così: «Ma adagio adagio darei a queste parole
aria di risposta, e così la darei vinta a’ pedanti, dal che Dio mi
guardi. La risposta se la daranno da sè medesimi se mai avviene che
mettan giudizio, la qual cosa per altro è assai dubbia.»[Vedi le note a
pag. 443] Pur troppo i pedanti non misero giudizio: seguitarono ancora
a scrivere e combattere con le medesime idee per le medesime idee;
e il _Passatempo_, che non voleva più occuparsi di loro, seguitò a
gratificarli de’ suoi vituperii, pigliando di mira in particolar modo
il Carducci, specie dopo ch’egli nel luglio dell’anno appresso ebbe
pubblicato il volumetto delle sue _Rime_.

                                   *
                                  * *

Della sua vita a San Miniato il Carducci ha dato da sè uno _specimen_
tale, che non permette ad un suo biografo, chiunque ei sia, di dirne
altro. Chi non ha letto in _Confessioni e battaglie_ le _Risorse di
San Miniato al Tedesco_? Se qualcuno non le ricordasse, vada e le
rilegga. Io qui mi limiterò a rammentare da quello scritto qualche
fatto più notevole, usando, quanto mi sarà possibile, le parole stesse
dell’autore.

Insieme col Carducci andarono al Ginnasio di San Miniato gli altri due
normalisti raccomandati dal professore Pecchioli al proposto Conti,
Pietro Luperini e Ferdinando Cristiani. Pietro, il più anziano dei
tre e il più positivo, dice il Carducci, insegnava umanità (terza
ginnasiale); Ferdinando grammatica (seconda e terza); il Carducci
retorica (quarta e quinta); cioè faceva «tradurre e spiegare a due
ragazzi più Virgilio e Orazio, più Tacito e Dante che potessero; e
buttava fuor di finestra gl’Inni sacri del Manzoni.»[18]

Appena arrivati, i tre maestri «si accontarono con una brigata di
giovinotti, piccoli possidenti e dottori novelli, che passavano tutte
le sante giornate a mangiare e bere, a giocare, amare, dir male del
prossimo e del governo.»[19] Questi giovinotti andavano spesso a
trovare i maestri, che abitavano, tutti insieme e tutta loro, una
casetta nuova subito fuori Porta fiorentina, appigionata ad essi da
un oste, detto Afrodisio, il quale provvedeva ai maestri anche il
mangiare. La _casa dei maestri_, come il vicinato la chiamava, cominciò
presto ad aver «mala voce all’intorno per i molti strepiti che vi si
udivano di notte e di giorno, ogni qualvolta l’allegra compagnia la
invadesse.»[20]

«Qualche volta, scrive il Carducci, andavamo anche alla méssa, in domo;
e una di quelle mésse m’è ancora in memoria per la lieta illustrazione
di certi quadri o affreschi, che il capo più ameno della brigata
recitava, menandomi in giro per le navate, in istil bergamasco,
contraffacendo il parlare d’una venditrice di castagne compatriotta
del poeta Bernardino Zendrini, e con un sistema critico di perpetua
comparazione tra la figura di san Giuseppe e quella del sotto-prefetto,
che, tutto in nero, ascoltava il divino ufficio nella prima panca.

»_Hinc mihi prima mali labes._ Da cotesta bergamascata e dalle mie
smargiasserie di antimanzonianismo mi si levarono intorno i fumacchi,
e ben presto mi avvolsero e tinsero tutto, d’una leggenda d’empietà e
di feroce misocristismo. Assai prima che l’imperatrice Eugenia avesse
a inorridire su i grassi venerdì santi del principe Girolamo Napoleone
e dell’accademico Sainte-Beuve, corse per Valdarno una spaventosa voce,
che io il venerdì santo del ’57 fossi sceso da San Miniato alla taverna
del piano, e all’oste sbigottito avessi fieramente intimato: Portami
una costola di quel p.... di Gesù Cristo. È vero che in quell’anno io
andavo pensando o andavo dicendo di pensare un inno a Gesù con a motto
un verso e mezzo di Dante, _Io non so chi tu sie nè per che modo Venuto
se’ quaggiù_; ma è anche vero che quel venerdì santo io ero a Firenze,
e quei mesi studiavo appassionatamente Iacopone da Todi e annunziavo
a tutti la sua gran superiorità su ’l Manzoni e lo salutavo Pindaro
cristiano, e composi una lauda al Corpo del Signore. Il che tutto
non impedì che non mi fosse avviato un processo; e un processo di tal
materia a quegli anni in Toscana poteva menar lontani. Per fortuna che
del ’57 anche c’era in Toscana, pur all’ombra della cappamagna di santo
Stefano, del buon senso parecchio e dell’onestà.»[21]

                                   *
                                  * *

Il Carducci parla poi delle visite che nelle belle domeniche d’aprile,
di maggio e di giugno gli andavano a fare da Firenze il Nencioni, il
Gargani e il Chiarini, del chiasso e delle bizzarrie che facevano, lui
specialmente e il Gargani; d’un suo amoretto, che non durò, dice lui,
cinque giorni; e finalmente della proposta di stampare le sue poesie,
fattagli un bel giorno dal Cristiani, per potere col guadagno ch’ei ne
sperava pagare i loro debiti all’oste e al caffettiere.

«Le poesie, scrive il Carducci, massime allora, io le faceva proprio
per me: per me era de’ rarissimi piaceri della mia gioventù gittare
a pezzi e brani in furia il mio pensiero o il sentimento nella
materia della lingua e nei canali del verso, formarlo in abozzo, e
poi prendermelo su di quando in quando, e darvi della lima o della
stecca dentro e addosso rabbiosamente. Qualche volta andava tutto
in bricioli; tanto meglio. Qualche volta resisteva; e io vi tornavo
intorno a sbalzi, come un orsacchio rabbonito, e mi v’indugiavo sopra
brontolando, e non mi risolvevo a finire. Finire era per me cessazione
di godimento, e, come avevo pur bisogno di godere un poco anch’io, così
non finivo mai nulla.»[22]

La risposta del Carducci al Cristiani _aspettante, e che pur tacendo
parlava_, fu un bel no; e il Cristiani _se ne andò, scrollando la
testa_. Ma l’oste e il caffettiere tempestavano coi loro conti; il
tipografo, messo su dal Cristiani, _offeriva un’edizione economica e
trattamento da amico_; e così andò a finire che il Carducci cedè, e la
stampa delle sue poesie fu deliberata.

Se gli amici nelle belle domeniche d’aprile, di maggio e di giugno
andavano a San Miniato a trovare il Carducci, anch’egli, quando avea
due o tre giorni di vacanza di seguito, andava a Firenze a trovare
gli amici. Il 19 febbraio mi scriveva da Santa Maria a Monte, dove
fino dal giovedì grasso era andato a cercare della caccia da portare
a Firenze per fare un desinaretto cogli amici: «Sabato il giorno sarò
a Firenze con quattro grossi e belli uccelli di palude, dei quali tre
moriglioni e un’arzavola da farne un umido stupendo. Voi preparate,
se si deve fare il pranzo domenica.» Mentre scriveva era di così
cattivo umore, che neppure l’idea del pranzo bastava a rasserenarlo.
«La inerzia mia, proseguiva, è grande: la noia della vita è giunta a
tal grado che io non posso sopportare più me stesso: io non faccio più
nulla: non farò più nulla: tutto è vanità, anche la letteratura e la
gloria. Perchè perdere il mio tempo e la mia salute a far commenti e
poesie? No, non faccio più nulla e non farò più nulla: e faccio bene.»
Era uno di quei momenti di scontentezza da cui il Carducci non di rado
era preso, ma che fortunatamente passavano presto: e contribuiva sopra
tutto a farli passare lo studio e il lavoro. Venne, si fece il pranzo,
che fu lietissimo, e passammo insieme lietamente gli ultimi giorni di
carnevale. Tornato a San Miniato, scrisse nel marzo l’ode alla beata
Diana Giuntini, e attendeva a correggere e finire le altre poesie che
voleva stampare.

Il primo d’aprile, mandandomi il manifesto per la pubblicazione del
volumetto mi scriveva: «_Jacta est alea!_ Il manifesto per le mie
_Rime toscane_ è stampato: nè posso più ritrarmi. Pensa a persuadere
il Targioni che la cosa non è fatta male, avuto riguardo a’ debiti
grandi ch’io mi ritrovo. Per l’amor di Dio, non mi fate rimprovero ora
perchè altramente troppo pensiero me ne piglierebbe.... Il libro sarà
composto di una prefazione in prosa lunga assai, di una prefazione in
versi: poi, 1º libro, sonetti: 2º libro, odi: 3º libro, ballate: 4º
libro, canti. — Due altri sonetti ho fatto, e finito secondo il costume
pagano l’ode alla beata Diana, che è la più di gusto antico fra le mie
odi oraziane. Il tutto sentirete a Firenze, chè ora non ho voglia di
scrivere più oltre.»

                                   *
                                  * *

Nel maggio lavorò moltissimo a compiere e correggere le poesie da
mettere nel volumetto, del quale aveva già cominciato la stampa, e a
comporne delle nuove. Prima del 20 aveva finito l’ode _Agli Italiani_,
e aveva scritto, fra altri versi, il principio del _Canto alle Muse_,
che, mi scriveva, «per l’anima d’Omero, sono i migliori versi ch’io
abbia mai fatto.» E anche a me quando poi me li mandò manoscritti,
parvero bellissimi, e glie ne scrissi lodandoli entusiasticamente. Ho
voluto ora rileggere il lungo frammento intitolato _Omero_, ch’egli
accolse poi nelle edizioni successive delle poesie; e (perchè non
dirlo?) ho trovato giustificabile e giustificato il mio giudizio
entusiastico di quarantacinque anni fa. Quei versi mi paiono ancora
belli quanto i più belli del Foscolo; ma si capisce che, se non ci
fossero stati prima il Foscolo, il Monti e il Leopardi, il Carducci
forse non li avrebbe scritti, certo non li avrebbe scritti a quel modo.
Il 26 mi mandava le prove di stampa dei sonetti, che allora erano 28, e
furono ridotti a 25; il 6 giugno avea finito l’ode _A Febo Apolline_,
cominciata il 25 novembre 1851 a Firenze, e ripresa soltanto a San
Miniato nel dicembre 1856.

Nel luglio ebbe per un momento l’idea di prender parte al concorso
allora aperto per la cattedra di eloquenza italiana nell’Università
di Torino. «Se vi fossero nomi famosi, mi scriveva, non avrebbero
aperto il concorso: io avrei caro di sapere se vi paresse audacia
il presentarmi anch’io.» Io non so che cosa gli rispondessi; ma
probabilmente l’idea gli passò via subito ed egli non ne fece altro.

Mentre attendeva alla stampa delle poesie, che fu compiuta in poco
più di due mesi, dal maggio al luglio (il volume fu pubblicato
il 23), era agitato da sentimenti diversissimi, ora di eccessiva
depressione, ora di esaltazione non meno eccessiva. L’8 di giugno
mi scriveva: «Poco importami vedere il mio nome stampato in cima a
una ventina di componimenti, che pochissimi intenderanno, due o tre
leggeranno sbadigliando senza intendere, tutti disprezzeranno, e più
quelli che meno li avranno intesi! Ahi stoltezza stoltissima tutto,
e lo studiare e il credere alla fama e il desiderarla, e più grande
stoltezza stoltissima il credere e pretendere di pensare bene soli
fra milioni che ridono o compatiscono, e dirlo in faccia a cotesti
milioni, e pigliarci il maledetto sdegno. Ragazzaccio impertinente,
avrebbon ragione di dirmi gl’italiani, e chi se’ tu che col latte ancor
su le labbra pretendi sedere a scranna e insultare noi venticinque
milioni? Degna tua punizione il sorriso e lo scappellotto. Sta bene!
E io, siccome quegli che fo un gran gridare con picciolette forze,
a mo’ della rana e della cicala, dovrei pigliarmi lo scappellotto, e
_buci_. Presunzione da ragazzi: per dire a un secolo intero, tu fai
male, altre faccie voglionsi che la mia, altri studi, per Dio! Or sia
così, e gl’italiani mi deridano e mi piglino a scappellotti; bene sta:
nè io fiaterò. Orgoglio! come se gl’italiani volessero curarsi del
librettuccio mio, il quale dalle mani di pochi ragazzi e giovanetti
passerà, come dicea fra Gargani, a formare aquiloni a’ fanciulli, e
anime a dipanar gomitoli alle signorine.»

                                   *
                                  * *

Con una lettera successiva, annunziandomi che la stampa del libretto
era finita, e giurando e spergiurando che, salvo il Mamiani, il
Gussalli, il Ferrucci, il Mordani, il Tommaseo e il Thouar (solo tra’
fiorentini), nessun altro dovea averlo in regalo, diceva tra le altre
cose: «O belve di trecentomila capi, Giosue Carducci non vi presenterà
il libretto suo, perchè gli diciate che è un giovane di buone speranze,
se si converte alla buona filosofia. No, bestioni, io sputerò in faccia
alla vostra filosofia: e vo’ credere nelle Muse e in Apollo sempre:
e quando sarò per morire mi farò leggere Omero: e non sia vero che
intorno a me siano preti. Mi farò bruciare sopra un rogo di legna di
pino, a cui sottostaranno tutti i miei libri. Sì, sì, viva Apollo Febo
lungioprante, Patareo, Delio, Cinzio, e moia chi dice di no.... Per
Iddio Apollo, di’ ch’io credo assolutamente nella religione d’Omero,
e che io non iscrivo di mitologia per imitazione o perchè sia uno
scolaretto, ma perchè credo che vera poesia, hai inteso, _vera poesia_
non è che là.»

All’ultim’ora il Carducci dimise il pensiero delle due prefazioni, una
in prosa e l’altra in versi, della divisione delle poesie in quattro
libri e d’una piccola introduzione esplicativa dei saggi del _Canto
alle Muse_, che doveva essere indirizzata al maestro suo Michele
Ferrucci; e il libretto uscì composto soltanto di venticinque sonetti,
di dodici Canti e dei detti _Saggi di un Canto alle Muse_. Tra i Canti
erano comprese due ballate di stile antico e la _Lauda spirituale_
per la processione del Corpus Domini. Una delle ballate, _La bellezza
ideale_, era dedicata al Padre Barsottini, l’altra, _Ultimo inganno_,
a Francesco Donati delle Scuole Pie, la _Lauda spirituale_ a Giulio
Cavalocchi; alcuni sonetti e la maggior parte dei Canti erano
indirizzati o dedicati ad amici (Chiarini, Tribolati, Nencioni,
Targioni, Buonamici, Pazzi, Cristiani, Gargani, Panicucci); i saggi del
_Canto alle Muse_ erano dedicati a Michele Ferrucci. Era premessa alle
poesie questa dedicatoria: «A voi| Giacomo Leopardi e Pietro Giordani|
viventi| queste mie rime| come ad autori e maestri| offerto avrei
vergognando| le quali parmi ora superbo| consecrare| alla memoria di
voi grandissimi| io piccolissimo.|»

Inutile dire che lo scopo del libro, quello cioè di pagare i debiti,
non fu raggiunto. «I debiti, scrive il Carducci, anzi che estinguere,
dilagarono,» tanto che dovettero intervenire i babbi e le mamme a
pagarli; «e le Rime rimasero esposte ai compatimenti di Francesco
Silvio Orlandini, ai disprezzi di Paolo Emiliani Giudici, agl’insulti
di Pietro Fanfani.»[23]

Alla fine d’agosto il Carducci abbandonò San Miniato, per andare a
passare alcuni giorni in famiglia a Santa Maria a Monte, e di lì si
recò nella prima metà di settembre a Firenze.




CAPITOLO IV.

(1858-1860.)

  Nomina del Carducci a professore nel Ginnasio d’Arezzo, non
  approvata dal Governo. — Critiche alle _Rime_ del Carducci. —
  Sonetti satirici del Carducci. — Sonetto del Fanfani contro il
  Carducci. — Il _Momo_. — Il trionfo di Farfanicchio e la caricatura
  degli _amici pedanti_. — Una lettera del Guerrazzi. — Giudizio
  del Carducci intorno ai suoi critici. — Il Carducci si stabilisce
  a Firenze. — Francesco Menicucci. — Riunioni serali degli _amici
  pedanti_. — Morte improvvisa di Dante Carducci. — Il Padre
  Consagrata (Francesco Donati). — Riunioni e letture serali in casa
  Chiarini. — Il Carducci e Gaspero Barbèra. — I primi volumetti
  della _Collezione Diamante_, curati dal Carducci. — Polemica col
  _Passatempo_ per una poesia di Isidoro Del Lungo. — Morte del
  padre del Carducci. — Giosue porta la famiglia a Firenze. — Prime
  speranze della guerra per l’indipendenza. — Gli _amici pedanti_
  fondano _Il Poliziano_. — La canzone _A Vittorio Emanuele_. —
  Il Carducci prende moglie. — Riunioni al caffè Galileo. — Silvio
  Giannini, l’ode _Alla croce di Savoia_ e il Salvagnoli. — Nomina
  del Carducci al Liceo di Pistoia. — Nascita della figlia Beatrice.
  — Nuovi volumetti della _Collezione Diamante_. — Il Carducci
  a Pistoia. — Louisa Grace-Bartolini. — L’ode _Sicilia e la
  rivoluzione_. — «Oh i codici del Poliziano e dei poeti antichi in
  Riccardiana!» — Il ministro Mamiani offre al Carducci la cattedra
  di lettere italiane all’Università di Bologna.


Lasciando San Miniato, il Carducci era deciso di non tornarvi, e perciò
aveva concorso ad una cattedra nel Ginnasio municipale d’Arezzo. Vinse
il concorso, e fu nominato; ma le accuse d’empietà e di liberalismo,
che dalle autorità politiche di San Miniato erano giunte al Governo
granducale contro il giovane insegnante, furono cagione che la nomina
di lui non fosse approvata. Era allora impiegato al Ministero della
istruzione Pietro Fanfani, furibondo contro il Carducci e gli _amici
pedanti_, che non gli avevano risparmiate e non gli risparmiavano
critiche e canzonature.

Il Fanfani era stato fino allora in Toscana una specie di dittatore
nelle cose della lingua; e gli _amici pedanti_, mettendo in mostra
gli errori che, appunto nel fatto della lingua, si trovavano nei suoi
libri (la maggior parte dei quali commenti e postille ad opere altrui),
erano stati cagione che l’autorità e la fama di lui ne erano rimaste
un po’ scosse. E poichè non v’è arme più terribile a ciò del ridicolo,
il Carducci s’era divertito e si divertiva a lanciargli contro i suoi
sonetti burleschi: avea scritto proprio per lui quello della _Giunta
alla derrata_ «Ai filologi fiorentini odiernissimi»; e, venendo
nel settembre a Firenze, ne aveva portato con sè un altro composto
allora allora a Santa Maria a Monte, intitolato _Pietro Fanfani e le
postille_.

Anche a Firenze seguitò a comporne altri, che sono rimasti inediti, un
de’ quali mi rammento che cominciava:

    Ser Fanfana, buon giorno! Urla il Ricordo
    Che tu gli hai strazïato una edizione;
    Grida Barbèra: Or ve’ filologone
    Che con le concordanze è mal d’accordo.

Il sonetto alludeva appunto agli errori che gli _amici pedanti_ avevano
trovato in alcuni libri curati dal Fanfani per gli editori Ricordi e
Barbèra.

                                   *
                                  * *

La guerra accesa dalla _Diceria_ e dalla _Giunta_, invece di posare,
si era rinfocolata più terribile e più accanita dopo la pubblicazione
delle _Rime_ del Carducci, sulle quali i giornali e i giornalisti
avversari degli _amici pedanti_, con a capo il Fanfani, si erano
gettati rabbiosamente, facendone uno strazio bestiale.

Bestiale, perchè, pur ammesso che il giudizio dei critici potesse
essere in parte traviato dalle bizze personali, le più di quelle
critiche dimostravano l’assoluta incapacità nei loro autori d’intendere
poesia. E gli _amici pedanti_, i quali erano in buona fede convinti
che nelle _Rime_ ci fosse la rivelazione di un ingegno poetico vero,
e che ciò che i critici vituperavano e schernivano fosse appunto la
rivelazione di quell’ingegno, non erano disposti ad ammettere che in
quelle critiche ci potesse essere niente di ragionevole.

Del Carducci è inutile dire se gli prudevano le mani. Egli aveva
specialmente allora una gran voglia di scrivere poesie satiriche, ed
era tutto contento quando gli se ne porgeva occasione.

Appunto in quel tempo, fra l’anno 1857 e il 1858, compose la maggior
parte dei sonetti burleschi, che sono ora raccolti nel libro V dei
_Juvenilia_, ed altri che, come ho accennato, rimasero inediti. Gli
stampati ad eccezione dei primi tre e di quello _Sur un canonico che
lesse un discorso di pedagogia_, si riferiscono tutti alle scaramuccie
degli amici pedanti col Fanfani e gli altri scrittori del _Passatempo_.

Il Fanfani pubblicò le sue critiche alle _Rime_ del Carducci, invece
che nel suo giornale, in un altro, _La Lanterna di Diogene_, adducendo
a ragione del suo scrivere lo scandalo suscitato, diceva lui, fra le
persone serie da un articoletto laudatorio di esse _Rime_, nel quale
il Carducci era chiamato il miglior poeta italiano dopo il Niccolini
e il Mamiani. Quell’articoletto, firmato E. M., era stato scritto
da un avvocato Elpidio Micciarelli, amico del Targioni, e pubblicato
nella _Lente_; e pur nella _Lente_ il Carducci rispose ai primi due
articoli del Fanfani; il quale rincarò la dose delle impertinenze negli
altri.[Vedi le note a pag. 453]

Oltre questi articoli, il Fanfani compose anche un lungo sonetto con la
coda parodiando le _Rime_ del Carducci. Poichè il Carducci saettava lui
ed i suoi di versi satirici, anche i Passatempisti non vollero essere
da meno. Non ricordo o non ritrovo se il sonetto del Fanfani fosse
pubblicato; credo di no: noi ne avemmo copia da Giulio Cavaciocchi, che
bazzicando il Ministero della istruzione conosceva il Fanfani, e faceva
come da gazzettino fra i due partiti belligeranti.

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                                  * *

Ai tanti giornaletti settimanali, che pullulavano allora in Firenze,
l’avvocato Micciarelli ne aggiunse nel gennaio del 1858 un altro,
che battezzò col nome di _Momo_, e che mise a nostra disposizione.
Nel n. 12 di questo giornale (26 marzo 1858) furono pubblicati i due
sonetti satirici del Carducci, _A Messerino_ e _A Bambolone_, che
sono i LXXVIII e LXXX del libro V dei _Juvenilia_ nella edizione delle
_Poesie_. Ma nel giornale furono stampati con qualche leggera variante
e con intitolazione diversa: _Bambolone_ era chiamato _Caracalla_, e
_Messerino, Rondellone_; e c’era innanzi ai sonetti questa minacciosa
rubrica: «SONETTI DUE, cavati da un Ms. che sembra appartenere al
secolo XVI exeunte, e che si trova, a cercarlo, nella Biblioteca di
Parigi, dove altri molti ne sono di simiglianti.»

Sotto il nome di _Caracalla_ si nascondeva uno dei consorti del
Fanfani, canzonato dal Carducci nell’altro sonetto, _Il Burchiello ai
linguaioli_ (LXXVII, lib. V _Juvenilia_). _Rondellone_, o _Messerino_,
era Giuseppe Polverini, editore e proprietario del _Passatempo_, un
buon diavolo, mezzo letterato anche lui, che, fregandosi al Fanfani e
agli altri scrittori del suo giornale, s’era impolverato di letteratura
e aveva scritto e stampato delle prose e dei versi. Il Cavaciocchi
ci era venuto a riferire ch’egli andava dicendo di voler pagare dei
ragazzi i quali, prendendo a fischi gli _amici pedanti_ tutte le volte
che uscivano per le vie, li costringessero a scappare di Firenze; e il
Carducci aveva scritto il sonetto.

Quasi in risposta ai due sonetti del Carducci pubblicati nel _Momo_,
il _Passatempo_ nel suo n. 14, anno III (3 aprile 1858), pubblicava
un sonetto caudato con questo titolo: «Il trionfo di Farfanicchio
arcipoeta, o del Gigante da Cigoli, che abbacchiava i ceci con le
pertiche: diceria in versi di un poeta che non è poeta.» Farfanicchio
era, si capisce, il Carducci. Il sonetto, come gli altri scritti
del _Passatempo_, non portava firma; ma era stato composto (sapemmo)
da Antonio Fantacci, uno degli scrittori più ingegnosi e più culti
del giornale, e, a differenza di quello del Fanfani, non mancava di
spirito.[Vedi le note a pag. 453]

Lo stesso numero del _Passatempo_ aveva in fine della quarta pagina
la caricatura degli _amici pedanti_, cioè del Carducci, del Targioni e
di me. (Il Gargani, da un pezzo fuor di Firenze, non aveva preso parte
alle nostre ultime lotte.) In una specie di quadro erano disegnati su
in alto i ritratti del Manzoni, del Gioberti, del Grossi, del Tommaseo,
e giù in basso gli _amici pedanti_, che inforcando dei cavallini di
legno movevano in guerra contro quei grandi; da un lato il Targioni
con in mano una targa, in mezzo il Carducci con in mano un cardo da
cardare la lana, dall’altro lato io con una trombettina dal collo lungo
e stretto.

Il _Momo_ pubblicò più tardi, nel n. 26 (1º luglio), un articolo
di lode sulle _Rime_ del Carducci, togliendolo dalla _Rivista
contemporanea_ di Torino; e più tardi ancora, nei nn. 33 e 35
(19 agosto e 2 settembre), riprodusse un articolo, pure in lode
delle _Rime_, composto da Giuseppe Puccianti, e già stampato in un
giornaletto pisano, _L’Osservatore_. In questo giornaletto, compilato
dal Puccianti stesso e da altri amici di Pisa, scrivevamo di tratto in
tratto anche noi. Il Carducci vi pubblicò l’ode _I voti_ con una mia
breve introduzione e l’ode _A Diana Trivia_.

Gli attacchi del _Passatempo_ contro gli _amici pedanti_ in quell’anno
1858 non si limitarono al sonetto su Farfanicchio e alla caricatura.
E prima e dopo, facendo la rassegna del _Momo_, ce ne diceva di tutti
i colori. Ciò, lungi dal turbarci, ci metteva di buon umore, dandoci
materia e occasione a proseguire la battaglia.

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                                  * *

Ma non la pensava come noi il buon Silvio Giannini, che, amico ed
estimatore del Carducci, vedeva di mal occhio quelli attacchi feroci
contro il giovane poeta. E sperando di farli cessare coll’intervento
di un giudice autorevole, scrisse al Guerrazzi domandandogli il suo
parere intorno alle _Rime_. Avuta la risposta, la mandò al Direttore
del _Passatempo_, con preghiera di pubblicarla: e il _Passatempo_ la
pubblicò, per mostrare (così diceva un breve cappello premesso alla
lettera) «che le cose dette contro il Carducci non furono dettate da
animosità verso la sua persona, o da poca stima del suo ingegno, ma dal
cruccio di vedere che egli il suo ingegno spendeva in misere dispute
ed in servigio di una fanciullesca fazione letteraria che era lo spasso
e lo scherno di Firenze.» Quest’ultima era una pretta bugia, poichè il
_Passatempo_ sapeva benissimo, e lo aveva detto e lo ripeteva, che il
Carducci era lui il capo della fazione (se fazione poteva chiamarsi).
La dichiarazione poi di stima al Carducci era tanto poco sincera,
che il _Passatempo_ d’allora in poi seguitò a blaterare contro di lui
peggio di prima. Ne vedremo fra poco un saggio a proposito dell’ultima
e fiera polemica che il Carducci ebbe con esso per una poesia di
Isidoro Del Lungo.

Ecco la lettera del Guerrazzi al Giannini, che fu pubblicata nel n. 16,
anno III del _Passatempo_ (17 aprile 1858).

«.... Ho scorso le poesie del Carducci. Che posso dirgliene io?
Penso che pessimamente adoperarono a suonargli le tabelle dietro: mi
maraviglio della insolita inurbanità e me ne affliggo pel mio paese.
Ormai della fama di gentilezza più poco gli avanza; voglia pertanto
tenerla cara. Di più: il giovane, il quale invece di commettersi
alle dissipazioni coltiva gli studii, e non pure si mostra schivo,
ma impreca ai vizii, facile e non irrimissibile peccato degli anni,
merita conforto, e di molto, massime considerati i tempi. Quanto a
lingua e a concetti, vuolsi adoperare carità e ammonimenti fraterni,
non ira nè scherno, anco avendo ragione: ma i critici l’hanno? Le più
volte no. Infatti, io mi sento poca cosa: non mi state a dire di no:
io conosco benissimo quanto peso: nondimeno la Italia condotta alla
_liquidazione_, mancatele le pezze di panno rosato, mette fuori i suoi
scampoli, fondi di magazzino, e di questa ragione ciarpe, e ci entro
anco io. Eppure, se lo rammenta, signor Silvio? A Livorno mi presero
a fischi. Cosicchè; se la natura non mi avesse regalato un’anima di
leccio, mi sarei ripiegato come un lombrico, e come lui, rannicchiato
sotto terra. Io al Carducci avvertirei: Bada, figliuolo mio, dubito che
tu erri in lingua, e in concetti; in lingua, che deve con lungo amore
ricavarsi dai Classici, non per rimetterla cruda nei tuoi scritti,
bensì per farne impasto il quale sia ben tuo, e fuso al tuo fuoco, e
plasticato alla tua maniera: altra cosa è imitare, altra è copiare;
anzi, neppure imitare mi garba, e tu copii, copiare è da scimmie; imita
il comune degli uomini; l’ingegno forte, piglia e fa suo.

»Alla servilità della parola dà incitamento la servilità del pensiero.
Imperciocchè, che abbachi mai con l’aura greca e con la latina? Io temo
forte, che il tuo maestro non t’abbia soffiato sul cervello un’aura di
pedanteria, e reso tale come una foglia di platano a mezzo novembre.
Che concetti meschini, che pensieri scemi sono eglino questi? Tu non
hai ad essere latino, nè greco, come nè anco francese o tedesco, bensì
italiano, e dei tuoi tempi; perchè ogni letteratura deve porgere ai
futuri testimonianza della età in cui fu. Non sentire come Orazio, non
pensare come Pindaro: da te senti e pensa. Che grulleria è cotesta di
spregiare quanto ignori? Inghilterra, Germania e (mirabile a dirsi!)
la Scandinavia e la Persia possiedono tesori di poesia per splendore
d’immagini, per squisitezza di sentimento, tali, appo cui impallidisce
quanto conosci di greco, di latino, ed anco, ohimè! di italiano. Tutto
guarda, tutto esamina; allargati la mente: la mente umana, meglio
del Panteon, deve dar posto a tutti gli Dei. Medita, di nuovo medita;
questo viene da volontà: e poi senti; e questo altro ti darà natura;
e quando spirano dentro amore ed entusiasmo, nota, e sarai poeta; chè
molto di favore ti compartiva il cielo. Di questo mi contento: leggi,
prima di poetare da capo, il quarto canto del Fanciullo Aroldo di
Byron; e poi ci riparleremo.

»Ecco come avrei ammonito il suo amico Carducci. Ed Ella perchè non lo
ha fatto? E se nol fece, e perchè non lo fa? Lo avvisi, lo conforti
anche da parte mia, e rassicuri che le ali ei le ha; solo che sappia
volare. Ami e veneri il suo maestro Ferrucci, ma cammini da sè....
Genova, 12 aprile 1858.»

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                                  * *

Nella lettera del Guerrazzi erano, come si vede, molte osservazioni
giuste; ed egli ebbe il merito di sentire l’ingegno del giovine poeta
anche attraverso le imitazioni dei classici; ma non capì e non poteva
capire come quelle stesse imitazioni fossero indizio di un ingegno
che in esse e per esse cercava la via di riconoscere ed esplicare
la propria originalità. Il povero Michele Ferrucci, sospettato dal
Guerrazzi di aver soffiato nel cervello del suo alunno un’aura di
pedanteria, era innocentissimo delle imitazioni oraziane del Carducci e
della sua idolatria per i classici. Quelle imitazioni poi erano tanto
poco effetto di pedanteria, che prepararono le _Odi barbare_; ciò che
intravide il Mamiani.

Dove il Guerrazzi aveva ragione era nel rimproverare al Carducci il
disprezzo per le letterature straniere; disprezzo forse più ostentato
che vero, del quale il poeta si guarì ben presto da sè, senza però
arrivar mai, credo, a persuadersi che la poesia scandinava e persiana
fossero superiori alla latina e alla greca.

Dodici anni più tardi il Carducci, parlando delle sue poesie giovanili,
e dichiarando che aveva riconosciuto quel che c’era di vero in alcune
delle critiche fattegli, così riassunse e giudicò le critiche stesse:

«Tutti si accordavano nell’accusarmi d’idolatria per l’antichità e
per la forma: pur taluno avrebbe usato misericordia all’aristocrazia
del mio stile, se gl’inni a Febo Apolline e le odi a Diana Trivia non
fossero apparsi in tanto folgorare di bello cristiano veri e propri
peccati. I giornali teatrali poi si detter faccenda per insegnarmi
la lingua: un maestro di scuola, che aveva dell’autorità in critica
sbalordì la gente empiendo mezza una pagina del novero di tutti i
classici da me imitati, fra i quali Pindaro, ch’io aveva così imitato
com’egli letto: un sopracciò dei modi di lingua, autore di scritti
lepidi che egli chiama, non si sa perchè, capricciosi, per certi
versi sciolti nei quali ei pretendeva ch’io scimmieggiassi i greci,
mi paragonò, parmi, ad Arlecchino: un terzo, molto affocato per la
congregazione di San Vincenzio di Paola e scrittore di strofette
religiose che dell’evangelio avevano l’umiltà e gli _et_, si affaticava
a persuadermi come l’uomo anche in poesia conviene mostrarsi qual è, nè
più nè meno: e io ne sarei andato d’accordo, ove non ci fosse stata di
mezzo una difficoltà, ch’ei voleva ch’io mi mostrassi qual era lui: un
quarto, critico e storico molto riputato, affermava fra amici che quel
libretto accusava il difetto assoluto d’ogni possibile facoltà poetica
nell’autore.»[24]

Il critico e storico molto riputato era Paolo Emiliani Giudici; il
sopracciò dei modi di lingua era (si capisce) il Fanfani; il maestro di
scuola non mi ricordo se l’Orlandini, o il Bianciardi; dell’altro, che
oggi nessuno ricorda, è inutile fare il nome.

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                                  * *

Nei primi giorni del suo arrivo a Firenze il Carducci si alluogò per
qualche tempo in alcune stanze a un primo piano di faccia alla casa
abitata dalla famiglia Menicucci in via Mazzetta: quelle stanze erano
state prese in affitto da uno della famiglia stessa; della quale Giosue
era spesso ospite quando si trovava a Firenze.

Francesco Menicucci, un bel tipo di popolano fiorentino, degno d’essere
vissuto ai tempi della repubblica, si era sposato in seconde nozze
con una Celli sorella della madre del Carducci, ed aveva, tra altri
figli del primo letto, una figliuola di nome Elvira dell’età presso a
poco di Giosue. Bazzicando questi per casa fin da quando andava alle
Scuole Pie, i due giovani si erano innamorati, e, poi, coll’assenso dei
parenti d’ambo le parti, fidanzati. Il Menicucci, buono e brav’uomo,
se altri mai, aveva nel suo salotto da pranzo, fra i busti in gesso
di Dante, del Machiavelli e d’altri grandi italiani, una piccola
biblioteca storico-politica, e nella testa un gran guazzabuglio
d’avvenimenti e d’uomini dell’antica Roma e di Firenze repubblicana;
nomi e avvenimenti che poco o molto entravano sempre in tutti i
suoi discorsi politici, e anche non politici. Egli aveva preso viva
parte ai moti rivoluzionari del 1848; nei quali la sua gigantesca
figura e l’anima bollente e irrequieta gli avevano naturalmente fatto
rappresentare la parte di capopopolo. Una volta, mi fu detto, trascinò
da sè solo un cannone dalla Fortezza da basso a non so quale altra
parte della città; e si trascinava dietro, con la voce tuonante, coi
gesti energici e con le grosse parole, il popolo, che a quei tempi era
sempre per le strade a fare dimostrazioni. Inutile dire ch’egli aveva
per Giosue un’ammirazione senza confini; e i discorsi di lui, ch’egli
ascoltava avidamente, andavano ad accrescere il guazzabuglio di parole
e d’idee che fermentava nella sua testa.

Gli _amici pedanti_ erano soliti radunarsi la sera in casa dell’uno o
dell’altro a leggere, a conversare, a disputare. Una sera si radunarono
in casa Menicucci, dove Giosue aveva allora i suoi libri, e dopo una
breve discussione si stabilì di leggere Orazio. Il Menicucci, ch’era
presente, chiese il permesso di assistere alla lettura, dicendo: Io non
so il latino, ma quella bella lingua mi piace molto a sentirla leggere.
Andammo nella stanza dove erano i libri, e quando la lettura stava per
cominciare egli domandò sottovoce ad uno dei convenuti: Sono le poesie
di Orazio Coclite?

Per lui stare a sentire i nostri discorsi era un gran piacere; e noi,
che gli volevamo tutti un gran bene per la sua grande bontà, e per
l’adorazione ch’egli aveva per il Carducci, sopportavamo volentieri
i suoi discorsi anche quando, come spesso accadeva, non riuscivamo a
cavarne gran costrutto.

Io che stavo vicinissimo a lui di casa, in via Romana presso la
piazzetta di San Felice, lo incontravo spesso, ed egli mi fermava
sempre per parlarmi di Giosue. Quando questi ebbe a San Miniato
quell’amoretto del quale parla nelle _Risorse di San Miniato al
Tedesco_,[25] una leggera nube turbò momentaneamente le relazioni di
lui con la famiglia Menicucci. Durante quel breve tempo io credei che
il povero signor Francesco volesse impazzire. Egli veniva a cercarmi
quasi tutte le sere, aspettandomi quando io uscivo di casa, e non
sapeva parlarmi d’altro: nei suoi discorsi c’entravano sempre, si
intende, gli uomini di Plutarco, e qualche sentenza del Machiavelli,
che non mi rammentavo di aver mai letta nelle opere del Segretario
fiorentino. Io cercavo di acquetarlo e di assicurarlo che tutto si
sarebbe accomodato; e ciò gli faceva un gran piacere.

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                                  * *

Una mattina dei primi di novembre (1857) mi capita a casa il Targioni,
commosso e spaurito. Io era sempre in letto. — Vèstiti subito, mi dice;
dobbiamo andare da Giosue a dargli una triste notizia: suo fratello
Dante si è ucciso. — Io non avrei dato fede a quelle parole, se la
faccia di chi le pronunziava non ne avesse confermata pur troppo la
verità. Andammo. Sentendo la nostra voce, Giosue saltò giù dal letto,
e mezzo vestito venne ad aprirci: era ilare e lieto, e ci accolse
scherzando: ma al nostro turbamento e alle nostre prime parole, si
rannuvolò, capì che qualche grave sciagura doveva essere accaduta, e
appena uno di noi pronunziò il nome di suo fratello, egli disse: Non mi
nascondete la verità, è morto, si è ammazzato.

Andò per alcuni giorni a casa, ove scrisse la canzone _Alla memoria di
D. C._; e tornato a Firenze prese in affitto, nei primi del 1858, una
camera mobiliata in via Romana al secondo piano della casa, dove al
primo abitavo io colla mia famiglia.

Tornò triste e accorato, non pure della morte del fratello, ma delle
condizioni in cui aveva lasciato la famiglia, specialmente il padre,
che affranto dal tragico caso cadde malato e non si riebbe più.

Appunto per ciò bisognava vivere, bisognava cercare nel lavoro l’oblio
dei mali, e il modo di affrontare l’avvenire che si avanzava scuro
e minaccioso. Ciò sentì istintivamente il Carducci, e riprese la sua
vita di lavoro e di studio, con nessun altro diversivo che la compagnia
degli amici e i colloqui con la fidanzata.

Passava tutto il suo tempo nelle biblioteche, e in casa a studiare e
a scrivere, e dava qualche lezione. Una delle sue passioni più grandi
erano i codici e le edizioni rare delle poesie antiche. Veniva fin
d’allora preparando i materiali per quella mirabile edizione delle
poesie italiane del Poliziano, che potè perciò compiere anche stando a
Bologna. Noi ci vedevamo allora tutti i giorni, e le ore del pomeriggio
e la sera le passavamo sempre insieme. Quando aveva scritto qualche
cosa che voleva farmi sentire, picchiava nel pavimento, ed io che
avevo la mia camera sotto la sua, mi affacciavo alla finestra, ed a
lui già affacciato, dicevo: Ora vengo. Così sentii a uno a uno, appena
composti, la maggior parte dei sonetti satirici contro i nemici degli
_amici pedanti_.

Ho accennato alle nostre radunanze serali, a proposito di quella di
casa Menicucci. Queste radunanze si tenevano ordinariamente in casa
mia, e furono inaugurate il 17 febbraio 1858, prima sera di quaresima,
e _prima del simposio dei sapienti_, come fu scritto a piè di certi
versi burleschi composti in comune quella sera stessa; nella quale,
invece del ponce, ch’era la bevanda di rito, si bevve un certo caffè,
che doveva essere prelibato, e non fu niente di particolare.

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                                  * *

Ma, prima di quel tempo, e dopo, qualche radunanza fu tenuta a
San Giovannino nella cella del Padre Francesco Donati, il quale ci
preparava colle sue mani dei ponci che rimasero famosi. Il Carducci li
rammentava anche qualche anno dopo, andato a Bologna. In una lettera
del 7 febbraio 1861 rileggo queste parole, che mi risvegliano molte
dolci memorie. «Salutami di grandissimo cuore il gran Padre Consagrata,
e digli come io spasimo per lui, ed amerei essere, piuttosto che qui in
questo tristo giovedì grasso, nella sua cella a bere quei famosi ponci,
come nel felice 1856 e 1857.» Padre Consagrata era il soprannome che il
Carducci aveva messo per ischerzo al Donati, facendogli un sonetto, che
ora dopo tanti anni mi rifiorisce nella memoria.

    O padre Consagrata, io ti vo’ fare
    In nova foggia una laudativa.
    O Cecco mio da bene, o mio compare,
    O padre Consagrata, evviva, evviva,

    Evviva chi ti tenne a battezzare,
    Chi t’allattava e chi ti rivestiva.
    Oh quanti baci ch’io vorrei donare
    A quella zana che ti custodiva!

    O zana, che per tutta la giornata
    Tenevi questo fiorellin d’amore,
    Dico il mio Cecco, il padre Consagrata,

    Io t’amo, o zana, con tutto il mio cuore,
    E vorre’ ti vedere rinserrata
    Entro un’urna d’argento a grande onore.

Al sonetto doveva seguitare una lunga coda, di cui non fu scritta che
la prima strofe, che non ricordo interamente.

Il Donati, nato a Serravezza nel 1821, e fattosi scolopio a 24
anni, era stato chiamato nel 1856 a Firenze ad insegnare filosofia
e matematiche in San Giovannino. Uomo di larga cultura, non solo
letteraria, ma anche scientifica, coltivava, oltre gli studi
matematici, quelli di scienze naturali; ma la sua passione più grande
in quelli anni era la lirica toscana dei primi secoli. Studioso della
bella lingua e dei canti popolari della sua Versilia, nei quali trovava
tanta analogia con la lingua e la poesia toscana del trecento, scriveva
sonetti, ballate e canzoni, ma sopra tutto ballate all’uso antico, con
qualche contemperamento di moderno e di popolare. Ne scrisse molte, che
rimasero tutte inedite, ad eccezione di due o tre d’argomento sacro,
una delle quali sull’annunciazione della Madonna, stampata, parmi, a
pochi esemplari. Alludendo a questo suo amore per la poesia antica,
il Carducci, nella lettera con la quale m’incaricava di salutarlo,
soggiungeva: «Digli che se egli, purista ferocissimo, mi tien sempre il
broncio, a cagione dei decasillabi e dell’edizione del Rossetti (della
quale però ho le mie buone ragioni), gli preparo un volumetto di — Rime
di M. Cino e degli altri poeti del secolo XIV — raccolte da moltissimi
libretti, e confrontate su molti e varii e preziosi libri stampati, e
scelte con tal gusto, che beato lui quando le vedrà.»

A mostrare l’agilità dell’ingegno e la larghezza di cultura del Donati,
basterà ch’io dica ch’egli scriveva anche di filologia italiana con
sicurezza di dottrina ed acume di critica, che pubblicò un _Saggio di
un glossario etimologico di voci proprie della Versilia_, un Discorso
_Della poesia popolare scritta_, e con un suo libretto molto singolare
e ingegnoso propose una nuova maniera d’interpretare le pitture ne’
vasi fittili antichi.[Vedi le note a pag. 453] Anche lui, come il
Gargani, come il Cavaciocchi, come il Nencioni, il Targioni ed altri
amici e conoscenti nostri di quel tempo, non può leggere queste pagine,
che io per tale rispetto scrivo con un grande senso di rammarico.

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                                  * *

Oltre il Carducci, convenivano alle nostre radunanze del 1858 il
Nencioni, il Cavaciocchi e il Targioni: il Gargani era allora a
Volterra precettore in una casa privata. Leggevamo di preferenza
l’Ariosto, il Berni, i canti carnescialeschi ed altre poesie antiche;
ma nelle sere che la compagnia era al completo, oltre che leggere, si
scherzava e si faceva del chiasso, un gran chiasso: s’improvvisavano, a
un verso per uno, sonetti con la coda ed altre poesie satiriche dirette
sempre contro qualcuno dei letterati fiorentini, che avevamo già
sferzati nella _Giunta alla derrata_, e che ora si sfogavano a dir male
delle poesie del Carducci. In una delle sere di febbraio scrivemmo,
ad imitazione dei canti carnescialeschi, un _Canto di Lanzi che vanno
a distruggere San Miniato_, facendo così poeticamente le vendette
dell’amico ch’era dovuto scappar di là perdendo il suo misero impiego.
Quando eravamo il Carducci ed io soli, si studiava più sul serio, con
piacere non meno grande: ho sempre viva nella memoria la sodisfazione
ch’io provava traducendo con lui Omero.

In mezzo a questi svaghi, agli studi e alle polemiche letterarie,
il Carducci fece la conoscenza di Gaspero Barbèra, al quale fino dai
primi d’ottobre del 1857 aveva proposto una edizione di tutte le opere
italiane di M. Angelo Poliziano. Il Barbèra aveva fondato da poco, in
compagnia d’altri, una casa editrice, e cercava chi potesse lavorargli
per la parte letteraria. Cosicchè fu felice di trovare nel giovane
capo degli _amici pedanti_ il collaboratore di cui aveva bisogno e
che subito riconobbe prezioso. Dopo qualche primo esperimento, non
molto fortunato, il nuovo editore aveva, per consiglio di un libraio
torinese, iniziato, con la ristampa dei quattro poeti in formato e
caratteri minuscoli, la sua _Collezione Diamante_, che fu accolta con
grandissimo favore.

L’accoglienza favorevole lo incoraggiò ad aggiungere ai quattro poeti
una giudiziosa scelta di scrittori classici italiani d’ogni età; ed
offrì al Carducci di curargli la correzione filologica e tipografica
del testo, annotando dove occorresse e facendo le prefazioni, mediante
il compenso di cento lire toscane per ogni volumetto. Fu una fortuna
per il Carducci e per il Barbèra. Il Carducci ebbe modo di indirizzare
ad un fine determinato e proseguire i suoi studi letterari, ritraendone
un lucro, benchè piccolo, a lui prezioso; il Barbèra fece lauti
guadagni, che diedero stabilità alla sua casa, e gli permisero di
allargare la sua industria con vantaggio della cultura. Due volumetti
pubblicò in quell’anno il Carducci, le _Satire e poesie minori
di Vittorio Alfieri_, e la _Secchia rapita_, iniziando con le due
prefazioni che vi mise innanzi quel nuovo metodo di critica letteraria,
storico ed estetico ad un tempo, del quale doveva indi a poco assurgere
maestro a tutti, e maestro sommo.

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Mentre stava scrivendo la prefazione alla _Secchia rapita_, ebbe quella
feroce polemica col _Passatempo_, che già accennai, per una poesia
di Isidoro Del Lungo intitolata il _Trionfo della Croce_. Non starò
a riferire ciò che in questo proposito scrive il Del Lungo in una
lettera a me, pubblicata nel fascicolo di maggio 1901 della _Rivista
d’Italia_,[26] al quale rimando i lettori. Dirò soltanto che l’autore
anonimo degli articoli del _Passatempo_ rispondeva agli argomenti
del Carducci chiamandolo _Iddiastro degli amici pedanti, e ridicolo
Golia_, minacciandogli i _Paralipomeni della Nanea_, dicendogli che
stenterelleggiava, accennando alla sua _audacissima dappocaggine_, al
suo _orgoglio smisurato_, alla sua _vergognosa arroganza_, tacciandolo
di _malafede_, di _sfoggiata slealtà_, di _abietti principii_,
trattandolo di _malnato_, di _mentitore impudente_, e conchiudendo che
voleva _far maciulla di lui_. Certo il Carducci non aveva fatto delle
carezze allo scrittore del _Passatempo_; gli avea dimostrato ch’e’
s’era messo a far lezione su materie delle quali non sapeva neppure
gli elementi, e aveva detto che questo era un po’ da ciarlatano; gli
avea squadernati sul viso gli spropositi suoi badiali e perciò lo aveva
chiamato uomo di _dura cervice_; aveva accennato al mistero onde il
_Passatempo_ amava circondarsi e alle maniere da esso usate con certi
galantuomini, e gli avea dato dell’_animale anfibio_ e del _villanzone
tarchiato_. Queste, diceva il Carducci, non sono ingiurie nè
impertinenze; perchè, secondo la definizione della Crusca, l’ingiuria
è _una offesa volontaria contro il dovere_, e l’impertinenza un _detto
o fatto fuor di quel ch’appartiene al luogo al tempo e alle persone_.
Ma ciò su cui il Carducci insisteva, ciò che lo disgustava e indignava
era la viltà dell’anonimo. Alla osservazione del _Passatempo_, che _nel
nostro paese era accordato il diritto di non firmare gli scritti_,
rispondeva che a ciò ripugnano il buonsenso e l’onore; ripugna il
buonsenso, il quale ci dice che la legge non può volere che ogni
vigliacco si faccia riparo dell’anonimo ad oltraggiare un galantuomo
che firma; ripugna l’onore, perchè quando tu mascherato offendi altrui,
e l’offeso t’invita a smascherarti, sei in dovere di farlo; e se nol
fai, è segno che non puoi mostrare la faccia tua fra i galantuomini.

Il Carducci esponeva le cose che io ho accennate in un articolo
pubblicato nel _Momo_ del 1º luglio. S’intende che l’oltraggiatore,
invitato a smascherarsi, fece orecchie di mercante. È questa la storia
di tutti i vigliacchi, la cui progenie dura ancora vegeta e prospera
nel nostro felice paese. Se non che oggi in certi casi all’anonimo si
sostituisce la intervista, cioè una vigliaccheria in due, perchè l’uno
dice, l’altro sconfessa, e qualche cosa della calunnia si spera che
intanto rimanga. Alcuni chiamano ciò abilità politica: a me è sembrata
sempre falsità bella e buona.

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                                  * *

Una lettera del 15 agosto chiamò il Carducci a casa, al letto del
padre suo moribondo. Ebbe la lettera nelle prime ore del pomeriggio:
partì subito, ma lo trovò già morto. La notte di quel giorno stesso
mi scrisse: «Era già spirato alle ore sei e mezzo. Che la sua malattia
fosse mortale egli lo sapeva: e me l’avea detto l’anno passato quando
ne fu colto la prima volta, e me l’aveva accennato lievissimamente in
una lettera sua (l’ultima che mi facesse scrivere) del mese passato: e
lo sapevo anch’io; ma così presto non credevo.» La lettera proseguiva
descrivendo lo stato dell’infermo negli ultimi giorni, e si chiudeva
così: «Pover uomo, si sentiva da un anno a questa parte disciogliere
e mancare a poco a poco: lo sentiva e lo sapeva che dovea morire: ed è
morto tanto quietamente, tanto securamente. Ed io non l’ho visto prima
di morire, ed egli non ha visto me; e gli occhi suoi si sono chiusi
desiderando i figliuoli lontani, ed è morto pensando che li lasciava
soli e dispersi nel mondo, e che forse la sua povera vedova può mancare
anche di pane, e che forse andremo tutti mendicando: e non aveva
ancora cinquant’anni. Non è potuto sopravvivere al suo figliuolo.» Un
poscritto aggiungeva: «Ti prego di dire a tutti i miei parenti che non
venga nessuno: voglio esser solo: già tornerò prestissimo a Firenze ad
accomodare le mie cose.»

Il padre del Carducci morendo lasciò al figliuolo per tutta eredità
dieci paoli, come scrisse egli da sè rispondendo a chi lo accusava
di non essere nel 1859 partito per la guerra della indipendenza.[27]
Non è dunque a meravigliare ch’egli nel primo momento della disgrazia
fosse assalito da tristi e scoraggianti pensieri; deve piuttosto
far meraviglia ch’egli trovasse poi in sè il coraggio e la forza di
affrontare serenamente, in quelle disgraziate condizioni, la lotta per
la esistenza; tanto maggior meraviglia, quanto l’alterezza dell’animo
suo lo fece allora e sempre aborrente dal domandare. Anche di questi
giorni, pensando con compiacenza al tempo della nostra gioventù, mi
scriveva: «Oh i nostri begli anni tanto presenti alla mia memoria!
Allora non si pensava di farsi avanti e di farsi un posto. Si pensava a
fare, a scrivere; e la fortuna, se venne, venne inaspettata; e noi non
la sollecitammo davvero.»

Tornato a Firenze, vi trasportò indi a poco la famiglia, prendendo in
affitto poche stanze _in una casa in Borg’Ognissanti, a un piano molto
in su, anzi a una soffitta_; e seguitò a studiare e a lavorare con la
medesima passione, con la medesima alacrità, non dico maggiore, perchè
era impossibile.

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                                  * *

«Il nostro patriottismo, scrissi altrove parlando del Carducci e degli
amici suoi giovani, si rifugiava nella letteratura. Dante, il Petrarca,
l’Alfieri, il Foscolo, il Leopardi erano i nostri Santi Padri. Nei loro
scritti adoravamo, nel loro nome invocavamo la grande patria futura,
un’Italia forte e gloriosa che avesse dell’antica le virtù senza i
vizi.»[28] Ma anche seguivamo intenti con l’animo qualunque indizio di
più o meno lontana speranza di liberazione della patria ci portassero
gli avvenimenti politici, e gli scritti dei liberali italiani, esuli
per grandissima parte in Piemonte; in quel Piemonte al quale, dopo
la disgraziata fine dei moti degli anni 1848 e 49, erano volti gli
occhi di quanti anelavano ad una riscossa. Negli ultimi anni del
1858 la guerra per la indipendenza d’Italia era il nostro discorso di
tutti i giorni, ma in mezzo ai discorsi patriottici non dimenticavamo
la letteratura: ci venne proprio allora il pensiero di smettere le
polemiche letterarie nei giornaletti in foglio volante, e fondare un
periodico di studi seri, tutto nostro. Il disegno ne fu ventilato
fra il Carducci, il Targioni e me: si stabilì che il periodico
sarebbe mensile ed avrebbe nome il _Poliziano_. Ci rivolgemmo per
aiuto e consiglio a quelli fra i letterati italiani, che sapevamo più
favorevoli alle nostre idee; al Mamiani, fra gli altri, al Ranalli, al
Gussalli, al Centofanti, all’Ambrosoli. Avemmo da tutti incoraggiamenti
e conforti; e dall’Ambrosoli una lettera piena di savi avvertimenti
e consigli, che pubblicammo nel primo fascicolo del giornale, il
quale fece la sua comparsa nel mondo letterario il gennaio del 1859.
Promisero e diedero la loro collaborazione il Gussalli, Raffaello
Fornaciari, Francesco Donati (che vi pubblicò il suo Saggio di un
glossario etimologico della Versilia), Giovanni Procacci, Giuseppe
Puccianti e gli altri amici di Pisa, Pelosini, Tribolati e Bonamici. Lo
scritto più notevole di tutto il giornale fu il Discorso d’introduzione
del Carducci, _Di un migliore avviamento delle lettere italiane moderne
al loro proprio fine_, stampato nei due primi fascicoli.

Oltre che per il _Poliziano_, il Carducci seguitava a lavorare per
conto suo e a preparare altri volumetti per la Collezione Diamante
del Barbèra. Ma gli avvenimenti politici incalzavano. Dopo le famose
parole pronunciate da Vittorio Emanuele il gennaio 1859 nel Parlamento
di Torino, inaugurando la nuova legislatura, fu chiaro a tutti che
da un momento all’altro sarebbe scoppiata la guerra con l’Austria,
la sospirata guerra dell’indipendenza. Per non essere allora col
Piemonte e con Vittorio Emanuele sarebbe bisognato non avere nelle
vene stilla di sangue italiano. E al Carducci venne subito il pensiero
della Canzone a Vittorio Emanuele. Cominciò a scriverla subito e ne
parlava ogni giorno con noi e ce ne leggeva le strofe a mano a mano
che le aveva composte. Tra il marzo e i primi d’aprile la finì; e gli
amici, che ne erano tutti entusiasti, ne fecero a gara delle copie
manoscritte, che presto si sparsero per la città e fuori. Io ne feci
e mandai una al Gussalli, col quale ci scrivevamo per ragguagliarci
a vicenda delle novità politiche. Egli scrivendomi il 19 aprile mi
informava delle condizioni della Lombardia, dove l’Austria radunava
un esercito formidabile; e ringraziandomi della poesia del Carducci,
diceva: «l’ode mi riesce bella tutta; alcune strofe bellissime: degna
assolutamente che l’autore l’accarezzi coll’estrema diligenza. Quando
la pubblicherà? dove?»

Le preoccupazioni politiche ci avean fatto fino dai primi d’aprile
venire l’idea di sospendere la pubblicazione del _Poliziano_: ma i
nostri impegni coll’editore, e quelli dell’editore cogli abbonati ci
costrinsero a seguitare, nostro malgrado. Il fascicolo di aprile uscì
con molto ritardo; di che noi ci scusammo con un avviso agli abbonati,
nel quale era detto: «nei momenti supremi in che il popolo più civile
d’Italia dovea dichiararsi se avesse o no ad essere italiano, chi
avrebbe potuto scrivere di filosofia, o chi avrebbe voluto leggere
scritture di filologia?» e promettevamo che avremmo seguitato
regolarmente le nostre pubblicazioni.

Era intanto avvenuta la pacifica rivoluzione toscana del 27 aprile
1859; il Granduca se n’era andato, accompagnato a porta San Gallo dal
popolo, che salutò la sua partenza come l’aurora della liberazione
della patria. Un solo pensiero occupava oramai le menti e i cuori di
tutti, il pensiero delle sorti della guerra. Ferdinando Cristiani era
accorso, prima del 27 aprile, ad arruolarsi nell’esercito piemontese.
Poco appresso partì per la guerra anche il Gargani, benchè gracile
di costituzione e di salute malferma. Noi mandammo fuori ancora
altri due fascicoli del _Poliziano_, quelli del maggio e del giugno,
che pure uscirono in ritardo; e poi deliberammo di sospendere le
pubblicazioni. Le paure e le incertezze succedute, per l’improvvisa
pace di Villafranca, alle grandi speranze cui si erano aperti gli
animi per le vittorie di Palestro, di Magenta, di San Martino; e il
pensiero che, se gl’Italiani non sapevano profittare della occasione
presente per unirsi in nazione, una occasione simile non sarebbe forse
tornata mai più, ci rendevano impossibile la regolare occupazione del
giornale, che nessuno del resto avrebbe avuto voglia di leggere. Il
Carducci nei momenti d’entusiasmo per le vittorie delle armi italiane
aveva scritto dei sonetti per la guerra dell’indipendenza, tre dei
quali furono pubblicati nel fascicolo d’aprile, e cinque nel fascicolo
di maggio. Il 4 di maggio aveva pubblicato pei tipi del Barbèra la
Canzone a Vittorio Emanuele, già stampatagli nascostamente da altri con
la data di Torino; e nel fascicolo di giugno, ultimo del _Poliziano_,
pubblicò l’_Annessione_, il cui titolo fu poi cambiato in quello di
_Plebiscito_. Poco appresso compose l’ode _Alla Croce di Savoia_, che
pubblicò nell’ottobre pei tipi di Mariano Cellini.

Frattanto aveva preso moglie.

Il Carducci amò sempre collegare i lieti avvenimenti suoi di famiglia
a qualche grande fatto della patria. Gli parve perciò che il primo
fiorire delle speranze per la guerra della indipendenza fosse il
momento più opportuno per isciogliere la promessa antica da lui fatta
alla giovine figliuola del Menicucci; e il 7 marzo furono celebrate
con molta semplicità le nozze, alle quali assistemmo come testimoni il
Targioni ed io. Usciti di chiesa accompagnammo la sposa a casa, e poi
sposo e testimoni andammo a fare una passeggiata alle Cascine.

La condizione di uomo ammogliato non mutò niente nelle abitudini
del Carducci. Condusse per allora la moglie nell’umile casa di Borgo
Ognissanti, di dove, due mesi dopo, si trasferì con la famiglia in
una casa egualmente umile, ma meno incomoda, di Via dell’Albero, e
seguitò la sua vita di lavoro e di studio. Usciva soltanto per andare
nelle biblioteche, per dare qualche lezione e per passare qualche ora
in compagnia degli amici. La sera, dopo la nostra solita passeggiata,
ci riunivamo in un caffè, il Caffè Galileo, posto sull’angolo fra Via
de’ Cerretani e Via Rondinelli. Non erano più le riunioni ristrette ed
intime del 1858 in casa mia. La società era cresciuta di parecchi altri
amici, ed anche solo conoscenti. Ricordo, oltre il Prezzolini, Luigi
Billi, Fortunato Pagani, Emilio Puccioni, Olinto Barsanti e l’editore
Gaspero Barbèra. Si conversava e discuteva molto animatamente di un po’
di tutto, ma sopra tutto di letteratura e di politica.

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Non rammento se ai nostri ritrovi al caffè venisse anche Silvio
Giannini; ma lo incontravamo spesso. Egli s’era messo in testa due
cose: far mettere in musica e cantare l’ode _Alla Croce di Savoia_,
e menare il Carducci dal Salvagnoli; e vi riuscì. Il Salvagnoli era
Ministro del culto, ma, come il più letterato fra i membri del governo
liberale toscano, si occupava anche delle cose della istruzione, alle
quali era preposto il Ridolfi; perciò il buon Giannini voleva fargli
conoscere di persona il Carducci.

L’ode fu messa in musica dal Romani e cantata alla Pergola dalla
signora Piccolomini; e il Carducci dovè durare gran fatica per
liberarsi dalle improntitudini dell’amico, che voleva di forza ch’ei si
mostrasse al pubblico tra le ballerine e le coriste. Ma liberarsi dalla
visita al Salvagnoli non potè.

Andarono: il Salvagnoli li accolse molto cortesemente; domandò
al Carducci che cosa faceva, perchè non chiedeva un posto
nell’insegnamento; e accortosi dalle risposte di lui che non aveva
nessuna voglia di domandare, disse: Ci penserò io. Indi a poco fu
offerta al Carducci una cattedra al ginnasio d’Arezzo, ch’egli, per le
nuove condizioni sue di famiglia, non potè accettare: non molto dopo,
sulla fine di dicembre, gli venne la nomina alla cattedra di lingua
greca nel liceo di Pistoia, che accettò.[29]

In quello stesso mese di dicembre, il giorno 12, gli era nata, di sette
mesi, la prima figliuola, la Bice. Il lieto avvenimento fu festeggiato
la sera fra pochi intimi. C’era, ricordo, il buon Silvio Giannini, che
in quella occasione scrisse e fece stampare uno stornello, sfuggitomi
dalla memoria e di fra le carte.

Nell’anno 1859 il Carducci pubblicò altri tre volumetti nella
Collezione Diamante del Barbèra; _Del Principe e delle Lettere
dell’Alfieri_, nel febbraio; _Le poesie di Lorenzo de’ Medici_,
nell’aprile; e verso la fine dell’anno _Le poesie di Giuseppe Giusti_.
Le distrazioni e le preoccupazioni della politica non gli avevano
impedito di lavorare. «La prefazione alle Satire dell’Alfieri,
scrive il Mazzoni, si era chiusa con le lodi a lui _che bandiva primo
l’impresa fatale a questa nuova generazione d’Italia, che più infelice
e più debole dell’antica, pur doveva propugnarla fino a tre volte in
meno di cinquant’anni_; la prefazione alle _Prose_ di lui fremeva tutta
amore di libertà dalle prime parole alle ultime; che parlando del conte
astigiano e del suo _tribunato rinnovatore_, squillavano non so se
come minacciosi segnali d’assalto o come lieta fanfara della vittoria
imminente.»[30] Nella prefazione invece alle poesie del Magnifico il
Carducci non mise, sono sue parole, nè una scintilla dell’ardore che
avvampava tutto e tutti. «Intesi, dice egli, a scagionare quanto potevo
il Magnifico, e, contro le idee allora dominanti, a gittare i semi
delle idee mie intorno alla significazione e al valore del Quattrocento
e del Rinascimento, idee che poi svolsi in rime e prose audaci anche
troppo.»[31] Quel discorso mostra come il giovine scrittore avesse fin
d’allora vivo il senso della verità storica, così vivo ch’ei non seppe
sagrificarlo mai a nessun altro, per quanto nobile, sentimento. Mentire
al vero gli sarebbe parsa un’offesa alla patria. La prefazione alle
poesie del Giusti fu, come dice il Mazzoni, «pur con le mancanze e le
inesattezze allora inevitabili, la prima vera biografia e la critica
prima del satirico toscano.»[32]

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                                  * *

Fra i 7 e gli 8 gennaio del 1860 il Carducci si trasferì con la
famiglia a Pistoia, dove lo chiamava il suo nuovo ufficio. La legge
che istituiva in Toscana i Licei uscì soltanto il 10 marzo. Uscita la
legge, l’insegnamento del greco gli fu mutato in quello dell’italiano
e del latino, e il greco fu dato a Raffaello Fornaciari. Oramai l’anno
scolastico essendo più che a metà, e non potendosi modificare a quel
punto i programmi d’insegnamento e gli esami, il Carducci, d’accordo
col Direttore della Scuola, stabilì che per quello scorcio d’anno
avrebbe fatto soltanto delle lezioni cattedratiche. Il 3 maggio
(giovedì) mi scriveva: «Le mie lezioni incomincio sabato, anzi leggo
la mia introduzione; la quale è troppo dotta per i dotti pistoiesi;
ma è scritta male, per ciò solo sarà forse lodata.» E il 16 maggio
aggiungeva: «Lessi la mia introduzione; già ho fatto quattro lezioni,
con facilità e chiacchiera che mai ai miei dì m’avrei sognato d’averne
cotanta.» E lamentavasi, scherzando, che non gli fossero pagati gli
stipendi. «Quel che più monta, affedidio, di riscuotere il denaro delle
nuove paghe e’ non si parla: ma io ho commesso a un cuoiaio o vaiaio
che tu vogli più sacca e di pelle di lionfante, e ho ordinato le carra
a ciò: tanta sarà la somma degli arretrati, quando verrà il cenno ch’e’
ci sien pagati: e forse ciò non vedrò de’ miei, ma il vedranno i miei
figli, _et nati natorum et qui nascentur ab illis_.»

A Pistoia fece conoscenza con la Louisa Grace Bartolini, in casa della
quale convenivano Giovanni Procacci, il Fornaciari e qualche altro
professore del Liceo, i pochi cioè che in città si occupassero di
lettere. Ci capitavamo anche il Gargani ed io e qualche altro amico di
Firenze, quando s’andava a Pistoia a trovare il Carducci; ciò che per
lui era sempre una festa.

Non ho bisogno di dire chi fosse la Louisa Grace, dopo ciò che di lei
scrisse il Carducci nel discorso premesso alle _Rime e Prose_ di lei,
e ristampato nei _Primi Saggi_.[33] Mi basterà riferire qui le poche
parole ch’egli nelle edizioni ultime delle Poesie pose in nota all’ode
indirizzata all’egregia donna e composta in quel primo anno ch’e’ la
conobbe. Dice la nota: «La Louisa Grace, nata in Bristol nel 1818, morì
in Pistoia nel 1865. Quelli che solo abbian visto di lei le versioni
dei canti di T. B. Macaulay e E. W. Longfellow e le _Rime e Prose_
pubblicate dopo la sua morte dal marito Francesco Bartolini (Tipografia
dei Successori Le Monnier, 1869 e 1870) non potrebbero ancora farsi
un’idea giusta del suo ingegno, della dottrina in più lingue e
letterature e dell’ancor più grande gentilezza e generosità dell’animo
suo.»[34]

Il Carducci aveva cominciate appena le sue lezioni a Pistoia quando
si sparse la notizia della spedizione di Garibaldi in Sicilia. Se,
dopo la trista pace di Villafranca, gli animi degli italiani si
erano a poco a poco risollevati per la unione della Toscana, delle
Romagne e dell’Emilia alle antiche provincie, rimaneva ancora un gran
problema da sciogliere, anzi due: Roma e Napoli; cioè il modo di
riunire al nuovo regno d’Italia quella più che metà di esso che ne
rimaneva ancora disgiunta. Qual cosa più atta a colpire le menti, a
destare l’ammirazione e l’entusiasmo, che l’eroica impresa dei Mille?
Il Carducci si sentì romper dal cuore le strofe vibranti e suonanti
dell’ode _Sicilia e la Rivoluzione_; e appena finito di scriverla,
venne a Firenze a farla sentire agli amici. Eravamo in pochi, non
più di cinque o sei, radunatici a ciò in casa di Luigi Billi; e tutti
applaudimmo freneticamente. L’odio pei decasillabi manzoniani era, come
per incanto, scomparso dagli animi degli _amici pedanti_. La poesia ci
rapiva, perchè in quel momento rispondeva al sentimento da cui tutti
eravamo compresi. Non mi ricordo se fra i presenti alla lettura ci
fosse il Padre Donati: ad ogni modo sono questi dell’ode _Sicilia e la
Rivoluzione_ i decasillabi pei quali il Carducci mi scriveva nel 1861
che il buon Padre Consagrata gli teneva il broncio.

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                                  * *

Nel gennaio del 1860 era stato nominato Ministro dell’istruzione a
Torino Terenzio Mamiani. Fin dalle _Rime_ di San Miniato e dai primi
scritti di prosa del Carducci egli avea indovinato (come più di
vent’anni dopo ebbe a scrivere) _il genio profondo ed originale sortito
da natura_ al giovane toscano. Diventato Ministro, pensò subito a lui,
e il 4 di marzo gli scrisse: «La fortuna togliemi per il presente
di poterle offerire una cattedra di eloquenza italiana in qualche
Università, come porterebbe il suo merito»: e soggiungeva che gli
sarebbe obbligato se intanto, come _avviamento a salire più alto fra
poco tempo_, fosse disposto ad accettare una cattedra di liceo a Torino
o a Milano. «Ad ogni modo, proseguiva, s’Ella non è contenta della
presente sua sorte, ed io rimango consigliere della Corona, mi sforzerò
di mostrarle la stima e l’amore in che la tengo.»

Il Carducci rispose il 21 ringraziando con viva effusione: non credere
che per gl’interessi domestici gli sarebbe utile il trasferimento
in Piemonte o in Lombardia, dove il vivere era più caro che non in
Toscana; tanto più che l’officio suo a Pistoia era remunerato di tale
stipendio, che può, diceva, _bastare a chi si contenti del poco_. «Ma
quando, proseguiva, l’E. V. mi reputi idoneo a professare eloquenza o
letteratura italiana in alcuna Università del regno, e gli si offra
il destro di collocarmivi; io son disposto di accettare, sia nelle
vecchie o nelle nuove provincie, con tutta la volontà e con gratitudine
eterna.»

Il destro di collocare il Carducci in una Università non tardò a
presentarsi al Mamiani; ma il Carducci non ci pensava più. Egli stava
abbastanza volentieri a Pistoia, perchè vicina a Firenze: ma oh quanto
avrebbe preferito Firenze stessa! Io lo sapeva, e il desiderio suo
era anche il mio. Perciò ai primi d’agosto lo avvisai ch’era vacante
al liceo fiorentino la cattedra di greco, e che io, allora impiegato
al Ministero della istruzione, avevo già fatto pratiche per lui,
e lo consigliavo di rivolgersi al Mamiani, perchè raccomandasse la
cosa al Ricasoli, capo del governo toscano. Egli mi rispondeva il 10:
«Avrei carissimo di tornare a Firenze, per più ragioni», e ne numerava
quattro; la terza era: «per tornare a fare miei lunghi colloqui colle
edizioni antiche e coi codici riccardiani e magliabechiani», e la
quarta «per fare il giro ai barroccini di sotto gli Uffizi, e comprare
gli amatissimi libri vecchi a poche crazie, o vuoi centesimi.» E
soggiungeva: «A proposito: ma che farò io bene di scrivere a Mamiani?
incomodarlo per sì piccola cosa?» La lettera terminava: «Oh i codici,
i codici del Poliziano e dei poeti antichi in Riccardiana! Io li veggo:
io li veggo: io li rivoglio.»

Scrisse al Mamiani, e il Mamiani gli rispose il 18 agosto, offrendogli
la cattedra di eloquenza nell’Università di Bologna, e dicendogli: «Mi
scusi del ricusare che fo di scrivere al Ricasoli per la cattedra in un
liceo fiorentino.»[Vedi le lettere del Mamiani nelle note a pag. 492]




CAPITOLO V.

(1860-1871.)

  Il Carducci a Bologna. — Il Carducci ed Emilio Teza. — La
  toga a mezzo. — La prolusione e le prime lezioni del Carducci
  all’Università. — Altri lavori. — Canzone in morte di Pietro
  Thouar. — Il Gargani promesso sposo. — Morte del Gargani. — Lezioni
  su Dante, Petrarca e Boccaccio. — L’ode _Nei primi giorni del
  1862_. — Evoluzione del Carducci da monarchico a repubblicano. —
  Periodo d’incubazione poetica. — Nuovi volumetti della _Collezione
  Diamante_. — L’ode _Dopo Aspromonte_. — L’Inno _A Satana_ e la
  pubblicazione delle _Poesie italiane del Poliziano_. — Lezioni
  all’Università dall’anno 1862-63 in poi. — La _Rivista italiana_
  e l’_Ateneo italiano_. — La Festa di Calandrino e un sonetto
  inedito del Carducci. — Custoza e Lissa. — L’ode _Agli amici della
  Val Tiberina_. — Mentana. — L’epodo per Odoardo Corazzini. — La
  sospensione del Carducci. — Pubblicazione delle poesie _Levia
  Gravia_. — Il primo periodo dei _Giambi ed Epodi_. — Le poesie
  nella edizione Barbèra.


Ai primi di novembre il Carducci faceva i preparativi per il
trasferimento a Bologna, preparativi noiosi per tutti, noiosissimi per
lui, che non ebbe mai attitudine e pazienza a simili faccende. Intanto
veniva pensando alla prolusione, alla quale aveva scelto per soggetto:
«Delle diverse età storiche della letteratura italiana», ovvero
«Introduzione alla Storia letteraria d’Italia»; e si arrabbiava dello
stile,_ l’infame, l’iniquo, il traditore stile_, diceva lui; molto
diverso in ciò da certi scrittori odiernissimi, ai quali ogni profluvio
di parole che scoppia loro dalla penna è lo stile nel quale essi si
ammirano.

Il 6 di novembre mi comparve inaspettato in casa, portandomi il
volumetto delle _Satire di Salvator Rosa_ (nella Collezione Diamante)
da lui annotate e fornite d’una prefazione, ch’egli chiama «la più
elegante, academicamente parlando, delle sue prose», ed annunziandomi
che tra qualche giorno partiva per Bologna; partiva solo; la famiglia
sarebbe andata più tardi, quando egli avesse trovato casa. Partì
difatti la mattina del 10; e la sera, arrivando, trovò ad aspettarlo
all’ufficio della diligenza Emilio Teza, che, nominato anche lui
professore in quella Università dal Mamiani, lo aveva preceduto
di qualche giorno. Il Teza lo accompagnò quella sera stessa e la
mattina dipoi a vedere la città, che _gli parve dovesse piacergli ed
essere consentanea ai suoi gusti_. In quei primi giorni _desinavano
insieme_, e passavano _insieme di belle ore_; e insieme risero molto
alla solenne apertura degli studi, «dove, fra la calca dei canuti
professori con toga stola e pileo erano per giovinezza e giubba e
guanti bianchi spettabili» loro due. Il 23 mi scriveva: «Son dietro
a ricopiare la prolusione; che rimpastata di diversi elementi è
riescita pure non male (eccetto che per la dicitura), essendo una
introduzione non tutta volgare alla storia letteraria d’Italia, e un
programma degl’intendimenti che i classici veri portano nello studio
di quella. Ma son determinato di non darla a stampare; perchè troppo
v’è del discorso polizianesco (il discorso d’introduzione al giornale
_Il Poliziano_), e perchè deve rientrare in un lavoretto che medito
col titolo di _Pensieri per introduzione alla storia delle lettere
italiane_; il quale però per gli amici non sarà nulla di nuovo.»
Questo lavoretto diventò poi a poco a poco i cinque discorsi _Dello
svolgimento della letteratura nazionale_.

Il Carducci e il Teza, che avevano riso de’ vecchi professori in toga,
dovettero poi comprarsela anche loro, e se la comprarono a mezzo: «la
toga coll’ermellino col bàtolo e colla coda e il berrettone quadro
lungo con le frange intorno e una gran nappa in cima», che è cosa,
mi scriveva il Carducci, «da non potersi descrivere: pel berrettone
imagina la porta San Nicolò col suo torracchione in cima, e avrai un
quidsimile.»

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                                  * *

La sera del 3 di dicembre gli arrivò la famiglia, con la quale si
accomodò provvisoriamente alla meglio in una casa presso San Salvatore;
di dove nel maggio dell’anno dipoi (il maggio a Bologna è il tempo
degli sgomberi) andò ad abitare in Broccaindosso, una delle strade più
umili della città. Quivi rimase fino al 1876. Nel 1876 si trasferì in
Via Mazzini ad un ultimo piano del palazzo Rizzoli, proprio sotto il
tetto; ed ivi stette per ben quattordici anni fino al 1890, nel quale
anno tornò sulle mura Mazzini, nel quartiere di un villino, che abita
ancora.[35]

Ormai i più grossi pensieri erano passati, ed egli si trovava quasi in
ordine per cominciare le lezioni.

Aveva preso per argomento alle lezioni, che volea cominciare il 15,
la letteratura in Italia avanti Dante, e mentre andava preparandosi
mi scriveva: «Io sono dietro ai pesanti studi di erudizione: i quali
costringendomi a cercare tanti libri scritti male e molti francesi,
e molti d’ignobile modernità, finiranno con lo spegnere in me quel
pocolino di gusto che avevo preso, e col cancellarmi quel pocolino
di lingua che avanti i ventitrè anni avevo imparato.» Queste paure,
interamente vane, mostrano però come, anche in mezzo agli studi
d’erudizione, il sentimento dell’arte non lo abbandonasse mai.

Il 22 gennaio 1861 aveva fatto già cinque lezioni, che a lui
naturalmente parevano poche. E mi scriveva: «Gran calca alla
prolusione: molta gente alla prima lezione, specialmente giovani,
che mi piaceva: ora da ultimo quasi nessuno, perchè la lezione di
diritto commerciale messa su ultimamente mi toglie tutti i giovani:
uditori di fuora ne vengono pochi, chè non se la dicono gran fatto
cogli studi: tanto che stamane, che mi toccava, non ho fatto lezione,
perchè gli ascoltanti eran solamente tre.... Parlo delle origini
della letteratura italiana. E parendo a me che facciano cosa molto
irragionevole quegli storici e critici che ci danno a un tratto la
lingua e la letteratura come fatta, che ci dicono finita di subito
l’antichità col 476 in cui cadde l’impero, ho trattato nelle prime
quattro lezioni delle ragioni che erano già negli ultimi tempi della
letteratura latina per l’esistenza di una nuova letteratura.» La
lettera seguitava esponendo il contenuto e lo spirito di queste prime
lezioni, e le pazienti e faticose ricerche che aveva dovuto fare per
raccogliere, quasi tutto da sè, il materiale. «Nella seconda parte del
corso, ripigliava la lettera, andando dalla caduta alla restaurazione
dell’impero, da Odoacre a Carlo Magno, andrò penosamente cercando tutti
i testimonii che m’affermano la conservazione dell’arte e del pensiero
romano in Italia, e ordinandoli e cavandone altre deduzioni. Poi, da
Carlo Magno al sorgere dei comuni andrò studiando la formazion della
lingua (storicamente) e le origini della rima: dal sorgere dei comuni
alla morte di Federigo II studierò i monumenti della letteratura. Due
lezioni preparerò che non saranno volgari, Omero e Virgilio nel medio
evo.»

Mentre lavorava così per il corso all’Università veniva terminando
il volumetto delle _Poesie di Gabriele Rossetti_ per la Collezione
Diamante del Barbèra, che uscì in quello stesso anno, scriveva un
saggio sullo Scalvini, pensava ad una biografia del Leopardi per
la _Galleria contemporanea_ dello Stefani, e mandava innanzi di
tutta forza il grave lavoro della edizione delle _Poesie italiane_
del Poliziano. Aveva bisogno di lavorar molto e di guadagnare, per
rimettersi delle gravi spese che gli era costato il trasferimento. E
lo cruciava il pensiero che questi lavori gl’impedivano di attendere
alla poesia ora che gli pareva che _forse in quella avrebbe potuto fare
qualcosa_.

«Del Poliziano, diceva la lettera, ho già mandato a stampare la Giostra
e parte del comento, sul quale seguito a lavorare di gran lena; e
benchè abbia ristretto il disegno, che a principio era cosa di erudito
secentista, grave per me, noiosa e inutile agli altri, ne son contento.
La vita del Leopardi non ho anche incominciata: ho quasi finito il
saggio su lo Scalvini, in cui vi sono parecchie cose acerbe, ma dette
freddamente, contro la letteratura odierna. Del resto annaspo di
molto: vedremo se poi saprò tesser nulla. Studio e leggo sempre sempre
sempre: non ho fatto conoscenza con nessuno, non vo da nessuno. Non
vo più neppure al caffè, nè piglio più ponce: sto sempre solo o col
Teza. Scrivo quasi tutto il giorno; oltre lo scrivere leggo di latino
e studio di greco; in due settimane mi sono ingollato la Elettra di
Sofocle, e sei libri di Virgilio, ho corretto il testo delle _Stanze_,
e scritto il comento a cinquantasei. Tu vedi che lavoro. Alla poesia
non so quando tornerò, ma vorrei fare una canzone sul monumento a
Giacomo Leopardi, finir l’ode alla libertà, fare un canto in terzine
su Roma, un’ode _La plebe_. Ma ho gran paura che non mi riesca più far
versi. Perchè l’idea in mente l’ho troppo grande; e fargli come gli
ho fatti fino ad ora non sarei contento.... Vedi, amico mio, vedi se
questa è superbia smisurata. Ma forse, più che superbia, è amore di
quest’arte degli Dei, contemplando la quale viverò e morirò, già che
acquistarne il magistero non posso.»

                                   *
                                  * *

Nel febbraio stava già preparando, come accennai, il volumetto delle
_Rime di Cino e d’altri del secolo XIV_, e si raccomandava agli amici
di Firenze per aver notizie e riscontri sui codici. Il 4 di giugno,
tornando, richiamatovi da me, sull’argomento della poesia, mi scriveva:
«Di me che ho a dirti? che mulino sempre poesie in testa, e non scrivo
mai un verso: per verissimo timore anzi disperazione che il fatto non
risponda all’idea mia. Pur un giorno qualche cosa scoppierà: e o sarà
un fiasco orribile, e allora addio alla poesia, o sarà qualche cosa....
Se in quest’anno mi riesce comporre o finire l’ode alla libertà, l’ode
sulla plebe, un canto di versi sciolti su i _Martiri_ ec., la canzone
per un monumento a Giacomo Leopardi, una (la chiamo così per ora, non
sapendo esprimermi altramente) _marsigliese italiana_ per le future
battaglie, e una canzone su la _Poesia_; stampo allora un libretto di
poesie fra vecchie e nuove, con le quali chiudo il periodo giovanile.
E dopo penso a scriver poemi. Poemi? Sì signore, poemi filosofici:
_Prometeo_ ec. ec.» Quanto alle lezioni diceva: «Le mie lezioni
finiscono giovedì, se pur son cominciate mai veramente. E vedi! una
delle poche consolazioni che oramai potessi avere, sarebbe far lezione
di letteratura come intendo io a un uditorio come vorrei io, cioè
vivente! perchè in verità sento che per questo ci sarei fatto.» Questo
uditorio vivente, che allora gli mancava, ebbe, come vedremo, il merito
di crearselo, nel giro di pochi anni, da sè.

La _marsigliese italiana_ ch’egli andava meditando dice chiaro
come, anche in mezzo ai gravi studi d’erudizione per preparare i
corsi universitari, il suo primo pensiero fosse sempre la patria.
La miracolosa impresa di Garibaldi, che, liberato in pochi mesi dal
Borbone la Sicilia e il regno di Napoli, presentava l’8 novembre 1860
a Vittorio Emanuele i plebisciti di quelle provincie, aveva aperto
alle più grandi speranze gli animi di tutti coloro che affrettavano
col desiderio la compiuta liberazione d’Italia. Era possibile lasciare
ancora Venezia in balía degli stranieri, Roma nel dominio dei preti?
Licenziando i suoi volontari, Garibaldi non avea forse detto loro di
tenersi pronti per le future battaglie? Il 18 febbraio 1861 si era
aperto a Torino il primo Parlamento italiano, il 14 marzo Vittorio
Emanuele era stato proclamato Re d’Italia; e pochi giorni dopo un voto
del Parlamento proclamava Roma capitale del nuovo regno. Si doveva
forse supporre che quel voto fosse un voto puramente platonico? E chi
poteva non desiderare che l’acquisto di Venezia e Roma fosse l’opera
del valore italiano?

Per allora le poesie che il Carducci andava mulinando non gli vennero
fatte. Forse gli altri studi a cui per dovere attendeva non glie ne
lasciarono l’agio; forse mancò la opportuna disposizione della mente;
forse il pensiero non era al tutto maturo. Nel giugno la morte di
Pietro Thouar e l’affetto grande ch’egli aveva a quell’uomo veramente
egregio gli suggerirono una canzone, in cui egli volle cercare il
semplice e il tenue, che si conveniva al soggetto, ma al quale la
natura sua era poco portata; e la canzone riuscì, pur nell’affetto,
un po’ fredda. Nel luglio scrisse due sonetti, _A Giovanni Procacci_
(pubblicato nella prima edizione dei _Levia Gravia_, con le sole
iniziali di lui nell’Indice[36]), ed _Omero_, e ne cominciò un terzo
pure su _Omero_; fra il novembre e il dicembre compose sei strofe
della Canzone _In morte di G. B. Niccolini_, che doveva seguitare coi
grandi nomi del concetto romano, poi la caduta della Chiesa cattolica
e il trionfo di Roma Italiana. Il Niccolini non era che un pretesto.
Stampando per la prima volta quel frammento di canzone nella seconda
edizione dei _Levia Gravia_, l’autore soppresse la prima strofe e metà
dell’ultima.

L’idea di pubblicare in quell’anno 1861 un volumetto di poesie
tra vecchie e nuove, nell’agosto era già tramontata, per la buona
ragione che le poesie nuove non erano state composte. Invece gli era
venuta l’idea di rimandare la stampa delle poesie a un altro anno, e
pubblicare prima un volumetto di prose. «Tanto per ispigrirmi, diceva;
perchè veggo bene che, se non faccio animo e rompo il ghiaccio, non
farò mai nulla.» Le prose dovevano essere: _Un sommario_ (filosofico)
_della storia letteraria d’Italia_; i Discorsi d’introduzione al
giornale _Il Poliziano_ molto accresciuti, e parecchi saggi di
biografia e critica storica e letteraria (Poliziano, Medici, Berni,
Casa, Tassoni, Rosa, Chiabrera, Testi, Menzini, Metastasio), alcuni
fatti, altri da fare.

Ma anche di questo disegno per allora e per un pezzo non ne fece
niente: e fu bene. Seguitò a lavorare e a studiare; e nel lavoro
e nello studio il suo forte ingegno venne sempre maturandosi e
affinandosi, e accumulando materiali preziosi sì per le lezioni sì per
le opere che doveva scrivere più tardi.

                                   *
                                  * *

Agli ultimi di luglio il Gargani, allora professore al liceo di Faenza,
andò a Bologna a trovare il Carducci, e a’ primi di agosto partirono
insieme per Firenze, dove nel settembre li raggiunsi anch’io da Torino.
Passammo insieme lietissimi giorni. Il Gargani era raggiante di gioia,
perchè promessosi sposo di una giovine, sorella d’un amico comune:
e noi eravamo tutti contenti del vederlo così felice. Ma, tornati
nell’ottobre ciascuno alla propria dimora, la mattina del 24 ricevei
una straziante lettera del Gargani, il quale mi annunziava che la sua
donna lo aveva abbandonato, ch’egli era corso immediatamente a Bologna,
a casa del Carducci, e che questi partiva quella sera stessa per
Firenze a chiedere ragione per lui. Il Carducci andò e tornò e non potè
che consigliare l’amico a darsi pace. Lo rivide ai primi di dicembre in
Bologna, poi nel febbraio del 1862 a Faenza, e gli parve di trovarlo
consolato. Se non che il 19 del mese stesso una lettera da Faenza
gli annunziava che il Gargani era malato gravemente: corse subito e
passò quasi intere due settimane al letto dell’amico, ragguagliandomi
quasi giorno per giorno degli alti e bassi della malattia, la quale
lasciava per allora poca speranza. La speranza venne alla metà del mese
di marzo; e il Carducci tornò a Bologna, ove seguitò a ricevere per
alcuni giorni notizie consolanti. La mattina del 29 un dispaccio lo
avvisò di un improvviso peggioramento: tornò a Faenza e trovò l’amico
in agonia, che non potè riconoscerlo. Mi scrisse subito: la lettera
terminava: «Ecco un’altra pagina, e delle più belle, della storia della
vita finita.» La memoria del Gargani durò sempre viva nell’animo del
Carducci. Scrisse allora un breve ricordo dell’amico, che fu pubblicato
in un giornale fiorentino, _Le Veglie letterarie_; fece di lui menzione
con questi versi nella poesia che chiudeva i _Levia Gravia_ nella prima
edizione e li apriva nell’ultima:

    O ad ogni bene accesa
    Anima schiva, e tu lenta languisti
    Dall’acre ver consunta e non ferita:
    Tua gentilezza intesa
    Al reo mondo non fu, che la vestisti
    Di sorriso e di sdegno; e sei partita:

ne parlò a lungo nel capitolo III delle _Risorse di San Miniato al
Tedesco_, pubblicate la prima volta nella seconda serie di _Confessioni
e Battaglie_ (Roma, Sommaruga, 1883). Diceva cominciando: «G. T.
Gargani morì d’amore e d’idealismo in Faenza il 29 marzo 1861», e
finiva: «Domani è il giorno dei morti. O amico, che giaci muto e freddo
nella fossa di Romagna, a te certo non spiace che io rinnovelli ancora
per un poco la memoria delle nostre estati fiorentine.»

                                   *
                                  * *

Nel secondo anno (1861-62) ebbe regolarmente inscritti alle sue lezioni
sei scolari, e trattò in esse del Petrarca, cominciando dal narrarne
la vita e i tempi. «Per ora, anzi per molti anni, mi scriveva il
22 dicembre 1861, non voglio nelle mie lezioni uscir mai da Dante,
Petrarca e Boccaccio: poi, studiati bene i gran fondamenti e le
colonne, passeremo agli architravi e alle parti del tempio.» Oltre gli
scolari, aveva anche degli uditori; e fino dai primi di quel secondo
anno cominciò a vedere l’effetto miracoloso che la sua parola faceva in
essi: parecchie volte alla fine di un sonetto o di una stanza del poeta
da lui illustrata, gli uditori uscivano spontaneamente in un fremito
d’assenso e di piacere. «Questo deriverà, diceva, dal grande affetto di
che mi riscaldo leggendolo e sviscerandolo: ma più certo dalla bellezza
sovrana di quei versi, che, più li studio, più mi paiono _divini_. Alle
bestie che ragliano su Messer Francesco canonico strame e mazzate.»

Io debbo farmi forza per non lasciare più spesso la parola al
Carducci quando parlo delle sue lezioni. Nelle lunghe lettere
ch’egli mi scriveva in quegli anni versava tutto sè stesso, tutta
l’esuberanza d’idee che gli studi ostinati e profondi facevano
sbocciare dall’ingegno caldo e fremente; e niente meglio di quelle
lettere potrebbe spiegare l’influenza grande che l’insegnamento suo
ebbe d’allora in poi sulla gioventù che accorreva alla sua scuola.
Facendo lezione, egli iniziava i suoi scolari alla intelligenza delle
sue poesie e delle opere con le quali doveva poi illustrare tutta la
letteratura italiana. In lui il professore, l’erudito, l’artista, il
poeta erano una cosa sola, erano cioè quattro faccie diverse della
stessa persona, ciascuna delle quali completava le altre.

Checchè egli mi scrivesse, il pensiero della poesia non lo abbandonava
mai; e la poesia che più spesso e più forte allora lo tentava era la
politica. L’8 gennaio 1862, lamentandosi del mio silenzio, mi scriveva:
«Vediamo se, mandandoti un’ode di 32 strofe, rispondi»; e mi mandava
l’ode _Nè primi giorni del 1862_, che aveva intenzione di pubblicare
subito. Il momento sarebbe stato opportuno; ma sulla fine del mese
stesso aveva mutato pensiero; e abbandonata anche l’idea di pubblicare
in quell’anno una raccolta di scritti in prosa, pensava invece di fare
nell’estate o nell’autunno «una edizioncina di RIME (_io rimatore_, a
dispetto di tutti i menestrelli che stampano POESIE, oggi che neppur
Domeneddio saprebbe più creare (ποιειν), LIRICHE oggi che _lira_ vuol
dire _svanzica_ o _franco_, CANTI oggi che non cantano se non che
i merli e gl’istrioni, serbo il titolo di RIME).» Aveva in animo di
ristampare alcune di quelle del volumetto sanminiatese, ed aggiungerne
delle nuove, tutte politiche.

                                   *
                                  * *

Sappiamo da lui stesso che in quei primi anni bolognesi il Carducci
non praticava nessuno, nemmeno dei suoi colleghi dell’Università,
ad eccezione del Teza; onde la evoluzione delle sue idee politiche,
che appunto allora stava facendosi, si fece unicamente per opera
degli avvenimenti pubblici e delle riflessioni e dei ragionamenti che
questi gli suggerivano. Nel 1859 egli aveva, come tutti gl’italiani
che volevano la liberazione dagli stranieri e l’unità della patria,
accettato la monarchia di Vittorio Emanuele, anzi presa per essa
una caldana, che, com’egli medesimo disse, non potè durare, perchè
logicamente la monarchia costituzionale è un’assurdità, praticamente
una immoralità; e perchè Governo e Parlamento fecero e fanno di tutto
perchè gli animi retti ed onesti prendano in aborrimento quella forma
ibrida di governo. Ma fino ai primi del 1862 egli non si era staccato
del tutto dalla monarchia: n’è prova questa strofe della poesia che
allora mi mandò. Il poeta, rivolto alla Libertà, le dice:

    Pianta le insegne italiche
    Di Roma tua sui mal vietati spaldi;
    Guida all’Isonzo e all’Adige
    Il tuo fedel Vittorio e Garibaldi.

La poesia fu però stampata soltanto nel 1871 e ridotta da 32 a 23
strofe, fra le quali manca questa che ho riferito: essa ricomparve
nella edizione definitiva dei _Levia Gravia_, ove le strofe crebbero
fino a 28, ma ricomparve mutata così:

    Pianta le insegne italiche
    Di Roma tua su i mal vietati spaldi,
    Guida tonando a l’Adige
    La secura virtù di Garibaldi.

Il perchè della mutazione è facile a capire: dopo l’8 gennaio, giorno
nel quale fu compiuta e mandata a me la poesia, il poeta aveva a poco a
poco perduta la fede nella monarchia come atta a compiere l’unità della
patria: e quando la pubblicò si era apertamente staccato da essa.

Non era passato ancora un mese dall’8 gennaio, e il Carducci mi
scriveva: «Udisti, frate, le dimostrazioni toscane sobillate dal
Ministero, che movono al grido di _Viva il papa_? Ah vergognosa
Italia ricasoliana! Ah sozza e laida e brutta plebaglia rinfantocciata
diplomaticamente! _Viva il papa_ nel 1862! Dopo Alfieri, Giordani e
Leopardi, Viva il papa! Viva il papa non re. Ma anzi come papa, come
prete è sempre più detestabile.... Io credo che i popoli non debbano
mentir mai: grideranno _Viva il papa_ per un fine che non sarà ch’e’
viva: ma cotesto grido in bocca de’ figliuoli e dei nepoti delle
migliaia di vittime fatte dal grande assassino cattolico è osceno....
E credi tu che s’andrà a Roma? Le son baie. A Roma non si va che con la
rivoluzione.»

Si aggiunga a ciò la cessione di Nizza e Savoia alla Francia, il modo
indegno col quale il Governo e il Parlamento avevano trattato Garibaldi
ed i suoi dopo la gloriosa guerra che aveva riunito all’Italia le
provincie meridionali; si aggiungano finalmente le repressioni armate a
Sarnico ed Aspromonte delle spedizioni garibaldine tendenti a liberare
Venezia e Roma; e si intenderà facilmente come al Carducci ciò che nel
Re e nel Governo era prudenza politica, per paura di compromettere le
conquiste già fatte, sembrasse tradimento della patria.

                                   *
                                  * *

Egli mulinava sempre poesie: era questo un vero periodo d’incubazione:
i pensieri e belli e grandi gli affluivano in copia alla mente; ma non
si sentiva sicuro del modo di esternarli, e si proponeva di mettersi
tutto, per istudio di stile, su Omero e Virgilio, su Dante e l’Ariosto.
Il 16 maggio mi scriveva: «penso e immagino e fantastico e invento
sempre, stancandomi proprio solo nei pensieri: onde se, aggiuntavi la
vita romita e il non potere sfogarmi con nessuno e lo studio in cose
faticose, non impazzisco, è gran meraviglia della mia costituzione.»
Oltre quelle accennatemi precedentemente, aveva immaginato tre nuove
poesie liriche: _Alla Grecia, Gli Slavi, La Polonia_; poi un Epodo
satirico, a ecloga, _L’Arcadia nuova_, per isfogarsi contro i nuovi
Arcadi politici e letterari; poi una serie di canti, con intenzione
più larga e universale, contro la società com’è costituita ora; poi
una serie d’Idilli storici; finalmente un dramma, per rappresentare la
prima rivoluzione democratica di Firenze, _Giano della Bella_. «Tutte
queste poesie, mi diceva, eccetto il dramma, che non ho maturato bene,
le ho fatte tutte, le ho divise nelle loro strofe ec. Quel che manca è
la potenza di esprimerle.» Alla stampa di un volume di scritti in prosa
per ora non pensava più; cioè non pensava più al primo disegno, perchè
già ne avea in mente un altro. Il Barbèra stava per cominciare la
stampa dei poemi del Monti, ai quali egli voleva premettere un Saggio
_su l’ingegno e l’animo del mio buono_, diceva, _e coglione Vincenzo_.
Scritto questo discorso e fatta l’edizione, cui allora pensava, del
Berchet, si proponeva di comporre un libro in prosa (nel quale avrebbe
raccolto, rinsanguandole, parecchie delle prefazioni e dei discorsi
già fatti) con questo titolo: _La rivoluzione e la poesia in Italia
dal 1764 al 1848_; e me ne spiegava a parte a parte il disegno. La sua
mente era, come si vede, in continua ebullizione.

Ai primi di luglio venne, come aveva promesso, a trovarmi a Torino;
andai a prenderlo alla stazione, ed egli discese dal treno tenendo
sulle braccia alcuni volumi della prima edizione dei _Misérables_
di Victor Hugo, che avea portati con sè per seguitarne e compierne
la lettura durante il viaggio e nei giorni che sarebbesi trattenuto
a casa mia. Il capo degli _amici pedanti_, che leggeva e rileggeva,
per istudio di stile, Omero e Virgilio, Dante e l’Ariosto, non viveva
fuori del mondo, non si chiudeva tutto nello studio degli antichi e
nelle ricerche d’erudizione; la sua mente e il suo cuore erano aperti a
tutte le voci della vita, a tutte le manifestazioni dell’ingegno umano,
da qualunque parte venissero; e di lì a qualche anno si vide quale
influenza avessero sopra di lui le opere di Victor Hugo.

Tornato a Bologna si recò nel settembre a Firenze per attendere al
lavoro del Poliziano. Era addolorato e indignato per il tristo episodio
d’Aspromonte, dove il governo italiano aveva dato prova anche una volta
d’insipienza e di viltà; e a Firenze, in Riccardiana, con innanzi il
codice del suo poeta, e a lato le bozze di stampa, cominciò l’ode _Dopo
Aspromonte_, dove sono le terribili strofe contro Napoleone III, che
nella prima edizione delle _Poesie_ (Barbèra, 1871) furono omesse, e
la finì la sera in una camera che aveva in affitto. Mandandomela il 12
ottobre, avvertiva: «Bada, e’ fu scritta in poche ore. Dunque chiedo
perdono di parecchie strofette e di molte frasi _ineguali_, per non dir
peggio. Ma lirica e’ mi par che ve ne sia.» Le correzioni che poi vi
fece pubblicandola non furono molte nè gravi.

Nel febbraio del 1863 compose e pubblicò in un giornale di Firenze
_La gioventù_ (anno III, n. 3) la poesia _Il Carnevale_, che allora
chiamò _Idillio_: ma non era finita, e il poeta vi aveva scritto in
fine: _Il seguito a quest’altr’anno_. Il seguito venne invece cinque
anni più tardi, nel 1868: e allora la poesia fu ripubblicata intera in
un giornale di Bologna _L’amico del popolo_, che ne fece anche cento
estratti. La parte aggiunta fu l’ultima, _Voce di sotterra_.

                                   *
                                  * *

Ai 21 di marzo dello stesso anno 1863 nacque al Carducci la seconda
figliuola, cui mise nome Laura. Me ne dava notizia pochi giorni dopo,
scusandosi dell’avere per quella ed altre ragioni tardato a scrivermi,
e del non mandarmi ancora un articolo che io aspettavo da lui per la
_Rivista italiana_.[37]

In quei primi anni della dimora del Carducci a Bologna ci scrivevamo
lunghe e frequenti lettere, ragguagliandoci dei nostri studi, dei libri
che comperavamo, di quelli che andavamo leggendo. Con la lettera,
che mi portava la notizia della nascita della Lauretta, l’amico mi
parlava di alcuni scritti del Giordani, che aveva letto o riletto in
quei giorni. «Che meraviglia di stupenda scrittura quella del _Peccato
impossibile_! Ben poche pagine di Voltaire son degne di starle a
fronte: ma solo di lui. E che grande e splendido e terribile nemico
di tutti i vili nemici del genere umano era quel Giordani: il solo
veramente libero degli scrittori italiani moderni. E come scrittura,
e come pensiero, e come opera, io vado pazzo di quel _Peccato_. Oh
quanto avrei pagato che tutti i vescovi e arcivescovi avesser dato
noia al terribile piacentino, e che egli avesse fatto a tutti una
scrittura come è questa e quella al Sanvitali!» Alcuni giorni dopo, per
sollevarsi dai faticosi studi di erudizione, rileggeva il Cavalca. «Non
parmi vero di sdraiarmi, leggendo, per rimedio alle tante offe di stile
pedantesco o accademico o gotico che mi tocca ingoiare, qualche bella
pagina di prosa (rileggo il Cavalca, di cui ho acquistato tutte le
opere, e che mi è sempre più mirabile, o, per dir meglio, miracoloso:
parmi il Canova della prosa. Rileggi, ti prego, la Vita di Sant’Antonio
e quella di Sant’Apollonio, e stupisci a tanta potenza di stile di quel
povero stolto fratacchione).»

Ai primi d’ottobre andò a Firenze per dare l’ultima mano alla
edizione delle poesie italiane del Poliziano, e finire il discorso
d’introduzione. Il 15 mi scriveva: «Oggi è stampato l’ultimo foglietto
di conchiusione del Poliziano; e domani a sera saran pubblicate le
prime copie.» Con la medesima lettera mi mandava l’_Inno a Satana_,
composto in quei giorni, o meglio nella notte di uno di quei giorni,
per leggerlo il giorno di poi in un pranzo d’amici a Monte Asinario, al
quale assistevano, fra gli altri, Luigi Billi e Alessandro D’Ancona.
Mandandomelo, mi faceva le stesse avvertenze che per l’ode _Dopo
Aspromonte_: «È inutile ch’io segni al tuo giudizio le molte strofe
tirate giù alla meglio per finire, nelle quali è il concetto dilavato,
ma non la forma. Bisogna tornarci su, su questa poesia, e con molta
attenzione. Ma nonostante mi pare che pel concetto e pel movimento
lirico io possa contentarmene. Dopo letto, ricorda che è lavoro di
una notte.» Anche le correzioni fatte poi all’inno non furono molte nè
sostanziali.

A me parve subito allora, e pare anche oggi, che l’ode _Dopo
Aspromonte_ e l’_Inno a Satana_ segnassero un progresso notevole
nell’arte poetica dell’autore, non solo quanto al modo di concepire,
ma anche quanto alla forma, _appunto_ perchè l’autore nella foga
della ispirazione non si era troppo preoccupato di essa. Questa
preoccupazione venne dopo, e non fu male: oramai le poesie erano quello
che dovevano essere: e chi poteva dire leggendole che il poeta, per
comporle, avesse studiato in Omero e Virgilio, in Dante e nell’Ariosto?
Qualche lieve preoccupazione della forma si sente invece nel Carnevale,
che tuttavia per il concetto e per una maggior libertà e sicurezza di
esecuzione in confronto alle poesie degli anni innanzi, è degna di
stare accanto alle odi _Dopo Aspromonte_ e _Satana_ e prenunzia con
esse il poeta dei _Giambi ed Epodi_.

Dopo le poesie politiche del 1860 il Carducci era stato quasi tre anni
senza pubblicare versi; e quando pubblicò il _Carnevale_, poi se ne
pentì. Ma abbiamo visto come in quei tre anni egli, pur non scrivendone
che di rado, immaginasse continuamente poesie: e (cosa singolare) fra
le poche che scrisse non c’era propriamente nessuna di quelle che aveva
pensate. In quei tre anni il suo tempo fu quasi tutto occupato negli
studi di erudizione, di critica e di filologia per le lezioni e per
il Poliziano: se non che in mezzo a tali studi le concezioni poetiche
fiorivano come nel loro terreno naturale. Ciò potrà parer singolare a
quelli che ancora credono che il poeta debba essere un ignorante, ma
non parrà a coloro che invece sanno che la dottrina e la critica vere
sono non solo due grandi aiuti, ma due grandi fonti di ispirazione
poetica all’uomo di genio.

                                   *
                                  * *

Nelle lezioni dell’anno accademico 1862-63 e dei seguenti il Carducci
seguitò ad occuparsi, come già mi aveva annunziato, del Petrarca e
di Dante, ai quali poi aggiunse il Boccaccio. Il pensiero suo fin dal
principio fu di studiare a fondo, per una serie di anni, la storia del
gran triumvirato letterario italiano, cioè la storia dell’arte e del
pensiero in Italia nel _grande e glorioso trecento_, come diceva lui;
e questo studio lo fece come non era stato fatto mai, come non poteva
esser fatto da altri che da lui. Il 13 gennaio 1863 mi scriveva: «Ora
sono occupato tutto tutto nel duecento e trecento della letteratura
italiana; tutto tutto; e non mi rimane ora libera.... Mentre metto
insieme gran materia per un corso di lezioni dal 1183 al 1268, che
comincierò venerdì, seguito l’illustrazioni delle cose migliori del
Petrarca in confronto a Dante. Caro Beppe, non so quanto pagherei tu
fossi a sentire alcuna mia lezione d’illustrazioni sulle canzoni del
Petrarca: credi che le faccio con amore indicibile, e con una diligenza
così sottile, che non trovo da rimproverarmi per ora. Sono intorno alle
tre canzoni su gli occhi: e sono sempre più innamorato del mio gran
Petrarca, il quale nel fatto dello stile mi riesce perfetto.»

La pubblicazione del Poliziano, avvenuta, come abbiam visto, il 16
ottobre 1863, fece chiasso anche a Firenze. Vi fu chi lo chiamò lavoro
spaventoso: fra i pochi intelligenti produsse, come doveva, un senso
di meraviglia. A parte il discorso, importante per la dottrina, per
la bontà e novità dei giudizi, era la prima volta che il testo di uno
scrittore italiano usciva in Italia emendato secondo i dettami della
moderna critica dei testi: e le difficoltà che l’autore aveva dovuto
superare non erano poche nè piccole. E l’autore era sopra tutto un
poeta; e a Firenze passava per un poeta scapigliato.

È veramente incredibile quanto il Carducci lavorasse in quelli anni.
Nel 1862, oltre tutti gli altri lavori e studi di cui ho parlato,
pubblicò non meno di tre volumetti della Collezione Diamante; le Poesie
di Cino da Pistoia e d’altri del secolo XIV, ch’era venuto preparando,
come già dissi, fino dall’anno innanzi, i Canti e Poemi di Vincenzo
Monti (due volumi), pei quali non ebbe il tempo o l’opportunità di
scrivere il saggio che aveva divisato. Mentre stava ultimando il
Poliziano, preparò, pure per la Collezione Diamante, la traduzione
del poema di Lucrezio fatta dal Marchetti, nella quale, contro la sua
aspettazione, ebbe da fare moltissimo, e che pubblicò nel 1864. Nel
maggio era al sesto libro, e mi scriveva: «Mi confermo sempre più per
l’esperienza nell’opinione che in Italia non v’è un testo di classico
condotto, non dico bene, ma passabilmente da capo a fondo.»

Contemporaneamente attendeva a due altri lavori gravi e ponderosi, una
raccolta dei _Canti carnascialeschi_ per un editore di Milano, ed una
di Ballate per la _Collezione di antiche scritture italiane inedite
o rare_ fatta dal Nistri di Pisa sotto la direzione di Alessandro
D’Ancona. A proposito dei quali mi scriveva: «Ho finito di mettere
insieme il primo volume dei Carnascialeschi, e sono a metà del secondo:
forse la parte più difficile è passata. Preparo il secondo volume
delle Ballate per il D’Ancona; il secondo che sarà il primo stampato
e conterrà: 1º Tutte le Ballate del Medici, riviste su i codici ec.
(alcune inedite; molte stampate ma senza nome); 2º Tutte le Ballate
del Poliziano; 3º Tutte le Ballate del Giambullari, una del Pulci,
e qualche altra di qualcuno dei più famosi contemporanei del Medici.
Il primo dee contenere quelle del Sacchetti e degli altri trecentisti
della seconda metà e dei primi quattrocentisti: il terzo quelle del
Giustiniani e di altri non toscani: il quarto le anonime; molta roba
inedita e rarissima.»

Lavorava, lavorava, ma non aveva fretta di stampare. I disegni di
pubblicazioni di lavori originali, sia di verso, sia di prosa, si
succedevano, si modificavano, e poi restavano lettera morta; cioè no,
restavano materia viva, che aveva bisogno di essere meglio maturata e
lavorata, prima di diventare opera degna, secondo l’autore, di vedere
la luce. Nei tre anni dopo il 1860 e nei quattro che seguirono fino al
1868, il Carducci non pubblicò oltre i quattro già indicati, che due
altri volumetti della Collezione Diamante, il Lucrezio del Marchetti
nel 1864, e le tragedie del Monti nel 1865; poi un volumetto di poesie
di Matteo Frescobaldi nel 1866 (Pistoia) e tre sole poesie originali,
l’_Inno a Satana_, _Il Carnevale_, e l’ode _Agli amici della Val
Tiberina_, della quale parlerò più avanti.

L’_Inno a Satana_ fu stampato, in piccolissimo numero d’esemplari fuori
di commercio, nel novembre del 1865 a Pistoia, con in fronte il nome
di _Enotrio Romano_, che il Carducci prese allora per la prima volta. E
lo conservò fino alle prime _Odi barbare_, ma aggiungendovi dal 1871 in
poi il suo nome vero, messo or l’uno or l’altro dei due fra parentesi.

                                   *
                                  * *

Oltre i lavori dei quali ho fatto parola, collaborò negli anni dal
1863 al 1865 alla _Rivista italiana_, come già accennai, e nel 1866
all’_Ateneo italiano_ che a quella successe, mandando all’una e
all’altro articoli, quasi tutti d’erudizione e di critica, alcuni
dei quali (i più brevi) sono raccolti nella prima serie di _Ceneri e
faville_.

La _Rivista_ fu fondata nel 1860 a Torino dal ministro Mamiani, o
coll’assenso e l’aiuto di lui; e s’intitolò da prima _Effemeride
della pubblica istruzione_. Ne ebbe la direzione Luigi Ferri, allora
Segretario particolare, o, come oggi dicono, Capo di gabinetto del
Ministro. Quando al Mamiani successe il De Sanctis, e questi prese per
suo segretario Cesare Donati, la direzione della _Effemeride_ passò
a lui; che, dopo qualche tempo, quando il titolo del giornale era già
mutato in quello di _Rivista italiana con le effemeridi della pubblica
istruzione_, mi pregò di scriverci ed aiutarlo nella compilazione. A
poco a poco, non saprei dir come, la _Rivista_ rimase interamente nelle
mie braccia; ed io, quando nel 1865, col trasferimento della capitale,
dovei tornare a Firenze, la trasformai nell’_Ateneo italiano_, che
cominciò le sue pubblicazioni nel gennaio del 1866 e le terminò col
finire dell’anno. Erano fra i collaboratori della _Rivista_, e poi
dell’_Ateneo_ oltre il Carducci, il Teza, il Comparetti, il D’Ancona,
ed altri; uno dei più operosi Pietro Risi, allora professore al Liceo
d’Alessandria, uomo di vivo ingegno e di molta dottrina.

Nel gennaio del 1865, rispondendo, con lettera del 14, ad alcune
proposte mie di articoli per la _Rivista_, il Carducci mi scriveva:
«Le condizioni che mi proponi mi tornano: ma l’impedimento è nelle
moltissime brighe che mi si sono addensate intorno quest’anno.
Figurati che fra le altre mi han fatto consiglier di reggenza: non si
sa che cosa abbia a consigliare. Figurati che mi hanno appioppato la
supplenza di lettere italiane al Liceo; o meglio me la sono appioppata
da me, lasciandomi vincere alle strettissime istanze. E poi mi bisogna
finir presto lo scritto intorno le rime di Dante,[38] per cui mi sono
impegnato col Cellini. E poi ho da rivedere stampe del Monti e del
Rucellai. E poi ho le lezioni. Vedi se potrei, esser di più caricato.
Nonostante ho messo mano a un articolone in forma di lettera a te,
intitolato: _Appunti su la poesia popolare italiana del secolo XIII_; e
vedrò di finirtelo presto.» L’articolo, o meglio gli articoli vennero
soltanto verso la fine di febbraio e furono pubblicati nei fascicoli
della _Rivista_ del 6 e 13 marzo, con questo titolo: _Della lirica
popolare italiana del secolo XIII e XIV e di alcuni suoi monumenti
editi o trovati ultimamente_ (da lettera a G. Chiarini).[Per gli altri
scritti pubblicati dal Carducci nella _Rivista_, vedi le note a pag.
497]

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                                  * *

Circa la supplenza del Carducci al Liceo, ha narrato recentemente un
curioso aneddoto il commendatore Alberto Dall’Olio, ch’era a quel tempo
studente liceale, e fu testimone e parte del fatto.[39] Il professore
di lettere italiane del Liceo, già nominato, tardando a venire, ed
avendo fatto mala prova due altri supplenti, fu pregato il Carducci.
Egli allora a Bologna era noto in un cerchio abbastanza ristretto
di studiosi e di persone colte: i giovani del Liceo forse non ne
avevano sentito mai parlare; ad ogni modo non lo conoscevano. L’ultimo
professore ch’essi avevano avuto era Leopoldo Marenco; la cui _bella ed
elegante figura, tra di militare e di trovatore_, scrive il Dall’Olio,
_avevamo ancora dinanzi agli occhi_: «e ci risonava ancor negli orecchi
l’accento inspirato col quale egli ci leggeva, anzi ci declamava i
versi.»

Lascio narrare interamente all’antico scolare, che fu poi sindaco
di Bologna, l’ingresso del Carducci nella scuola, e quello che poi
avvenne. «Vedemmo avanzarsi impettito tra le due file di panche,
in aria tra spavalda e spaurita, un omino con una gran zazzera e
una barbetta nera arruffata. Vestiva un soprabito piuttosto corto,
scrupolosamente abbottonato, e teneva in mano.... un _gibus_.

»Salì sulla cattedra, e per prima cosa schiacciò nervosamente con
un bel colpo il suo _gibus_: non c’era nulla di straordinario, ma
noi cominciammo a guardarci l’un l’altro, e qualche sorriso corse
sommessamente per l’aula; egli se n’accorse e si rannuvolò. Fatto sta
che, quando prese a parlare, la sua voce era così incerta e la parola
gli usciva così a stento dal labbro, che la nostra ilarità, per poco
repressa, non potè più essere trattenuta. «Cet âge est sans pitié»;
è proprio così: e più il professore intaccava, e più noi ridevamo. Fu
dapprima un lieve susurro: poi crebbe, si innalzò, rumoreggiò in uno
strepito incomposto e sgarbato.

»Che in questo modo le cose non potessero andare innanzi era manifesto;
ma lo scioglimento fu rapido e brusco. Il timoroso professore ad un
tratto si fece ardito: si levò, raccolse le cartelle de’ suoi appunti:
con un energico pugno rialzò il malaugurato _gibus_, se lo piantò in
capo e mormorando rotte invettive uscì impetuosamente dall’aula.»

Gli scolari capirono d’averla fatta grossa. Entrò intanto il Preside,
che meravigliato e indignato disse loro chi era l’uomo al quale avevano
fatto quella villana accoglienza (sarebbe stato meglio l’avesse detto
prima): ed essi mortificati chiesero come potevano rimediare. Fu
stabilito di eleggere subito una commissione, della quale il Dall’Olio,
come il più giovane, doveva essere l’oratore, che, guidata dal Preside,
si recò nella sala dei professori, dove il Carducci era ancora. «Al
vederlo tutto accigliato e fiero, dice il Dall’Olio, io fui vinto dalla
soggezione, e balbettai a mala pena qualche parola; ma il Preside
parlò per noi, e il Carducci, burbero benefico se mai ve ne furono,
intese ciò che non gli avevamo saputo dire, e ci perdonò di gran cuore,
assicurandoci che presto avrebbe ripreso le sue lezioni.»

I giovani aspettarono con grande impazienza la ripresa delle lezioni,
che furono poche, perchè presto arrivò il nuovo titolare: «ma
quale traccia incancellabile, scrive il Dall’Olio, non lasciarono
esse nell’animo nostro, e quanta ammirazione non ne ritraemmo per
quell’omino, che da principio avevamo così male accolto!»

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                                  * *

Nelle vacanze autunnali del 1865 il Carducci venne a Firenze, dove io
ero già tornato da alcuni mesi con la famiglia. Avevo presa in affitto
una villetta sul Mugnone alle falde di Fiesole, che fu, finchè io vi
restai, il ritrovo de’ pochi amici rimasti dopo il 1859 a Firenze, e
di quelli che, come il Carducci, di tratto in tratto vi capitavano:
c’erano Francesco Donati e Giulio Cavaciocchi. Ai vecchi se ne aggiunse
uno nuovo, Pietro Risi, che ho già nominato, col quale io era da
qualche tempo in relazione amichevole per la collaborazione di lui
alla _Rivista_. Appena arrivato a Firenze, ai primi di Settembre, legò
subito stretta amicizia col Carducci, col Donati e con me. Di carattere
gioviale, franco ed aperto, amante del lieto conversare, ch’ei sapeva
tenere sempre desto, e trovandosi all’unisono col Carducci e con me
nelle opinioni letterarie filosofiche e politiche, egli fu l’anima dei
nostri amichevoli ritrovi in quei dolci mesi di settembre e d’ottobre.
Oh le belle passeggiate a Fiesole, in quelle domeniche piene di sole,
parlando di libri vecchi e nuovi, di edizioni rare, del nuovo giornale
l’_Ateneo_ che stavamo per fondare, discutendo di erudizione, di
poesia, di politica, dicendo male dei romantici, dei moderati, del
governo, inventando la società di Calandrino!

Io che avevo pochissimi libri, in confronto dei molti che aveva il
Carducci, provavo un gran piacere a regalargliene di tratto in tratto
qualcuno che sapevo a lui caro. Egli pur essendo, in fatto di libri,
il più ricco di tutti gli amici suoi letterati, ricco nella quantità e
nella qualità, tutte le volte che andava a trovare qualcuno di loro,
la prima domanda che faceva presentandosi era: Che libro mi regali
oggi? E tutti sentivano il dovere di fargli il regalo di un libro.
Una di quelle domeniche (me ne ricordo come fosse ieri), la domenica
del 2 ottobre, in cui si festeggiava per la prima volta Calandrino,
mentre facevamo la salita che dal Ponte alla Badia va a San Domenico,
dissi a un tratto al Carducci: Sai? ti voglio regalare il Virgilio del
Didot.[40] Il Carducci fece un salto e in segno di gioia gittò in aria
il cappello, che andò a cascare di là dalla siepe in un campo. Durammo
non poca fatica a raccoglierlo; poi ripigliammo, facendo i più matti
discorsi, il cammino per Fiesole, mentre a casa si stavano facendo
i preparativi per la festa. Al ritorno s’andò a cercare l’elitropia
per il Mugnone, ed empiteci le tasche di sassi neri, che battezzammo
per elitropia, se ne mise da per tutto, ma specialmente nei piatti
dei commensali: e mentre si aspettava l’ora del desinare, si scrisse,
collaborandovi tutti, il decreto che istituiva la società e la festa di
Calandrino. Il decreto fu scritto parte dal Carducci, parte dal Risi:
la parte più notevole e significativa di esso sono i _considerando_,
nei quali era detto: _esser debito di ogni nazione rendere onoranza
a quelli uomini che più conferirono a fermarne la indole; Calandrino
essere veramente quel che dicesi il tipo della stoltezza italiana_,
la quale pareva avere raggiunto a quei giorni _l’ultimo termine
della sua perfezione; mentre la nazione fu troppo larga di facili
onoranze ad uomini di gran lunga men degni, lui essere stato sempre
e al tutto dimenticato_.... Perciò s’instituiva una società nel nome
di lui, ed una festa annuale da celebrare in suo onore nel mese di
ottobre nei luoghi fatti solenni dalla memoria dell’_uom semplice e
di nuovi costumi_.[Vedi le note a pag. 498] La parte principale, anzi
sostanziale, della festa, era un banchetto, al quale ciascuno dei
convitati dovea _leggere o dire parole in prosa o in rima a gloria
dell’eroe_. Il Risi lesse un polimetro, il Donati una ballata, io una
novella, il Carducci questo sonetto:

    Buon dì e buon anno dea Domineddio
    A questo branco di brave persone.
    Doh, non traete i sassi: i’ son ben io,
    Bench’io non ho gonnella e capperone

    Calandrin sono: e vengo con disio
    Giù dal Canto alla macina in Mugnone:
    E non vo’ per la pietra; ma giulío
    Ho la ribeba in mano e le canzone.

    Quanto vo’ bene a chi m’aprì l’avello!
    Ch’or veggo rifiorir la mia casata,
    E Buffalmacco e Bruno e Maso e Nello.

    Deh dov’è monna Tessa mia dolciata
    E ’l porco mio e ’l prete? I’ vo vedello
    E salutar tutta la mia brigata.

                  Or non è diretata
    La stirpe mia; or pe’ nostri confini
    Son ventidue milioni i Calandrini

                  Attesi tutti e chini
    L’elitropia a cercar dell’unità,
    La libertà con la prosperità:

                  E pur va e pur va
    Unguanno e l’altro, che sudati e lassi
    S’han per le rene e ne’ garetti i sassi.

                  Più tristi ch’e’ tre assi
    Son oggi i Buffalmacchi: e monna Tessa
    Con la voce in falsetto di badessa

                  A ministrar s’è messa.
    Or non son io che di mogliema impregno:
    Più savio Calandrino ha il vostro regno.

                  Venga, ben venga il degno
    Baron di Broglio che col vin v’ammalia:
    Egli impregnò dell’unità d’Italia,

                  E figlia sempre, e a balia
    Alloga tuttavia tanti figliuoli,
    Che di Marradi avanzano i fagiuoli.

                  Nè manca chi v’imboli
    Il porco e a voi con le pallotte apprenda
    Che voi ’l rubaste e vogline l’ammenda.

                  Or sì ch’è reverenda
    La mia gesta, e al favor tutto s’inchina
    Di così fatta gente calandrina.

                  O prole mia divina,
    Regno mio bello e popolo felice,
    Io Calandrin, non Dante, com’uom dice,

                  Io fui la tua radice.
    Goditi Alfonso[41] per vicario mio,
    Chè starai bene con Domeneddio.

                  Or fatevi con Dio,
    Brigatella discreta, e state sodi
    Alla bombanza; ch’io men vo a Bengodi.

                                   *
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Il Carducci alla fine d’ottobre tornò a Bologna, e il Risi indi a poco
andò a Siena, dove era stato trasferito come professore di Liceo.
Tornato a Bologna, il Carducci si mise tutto negli studi. Come dai
grandi materiali danteschi raccolti per le lezioni degli anni innanzi
aveva tratto fuori nel 1865 il discorso su le Rime di Dante, così
nell’anno di poi mise insieme di su i materiali stessi i tre discorsi
_Della varia fortuna di Dante_, che videro la luce nella _Nuova
Antologia_ dell’ottobre 1866 e marzo e maggio 1867.

Negli studi cercava una diversione agli incresciosi pensieri delle
vicende politiche. Aspromonte gli aveva lasciato nell’animo una grande
amarezza; la convenzione del settembre 1864 e il trasferimento della
capitale a Firenze erano sembrati a lui, come a molti, una tacita
rinunzia a Roma. Ebbe un barlume di speranza nella primavera del 1866,
quando l’alleanza con la Prussia e la guerra offrivano all’Italia
l’occasione di affermarsi e compiere la sua unità: invece avemmo
Custoza e Lissa, e l’umiliante regalo di Venezia, in premio dell’avere
arrestato Garibaldi alle porte di Trento. Una dura fatalità pareva
incombere sull’Italia. Il giugno 1867 il Carducci mi scriveva: «Pur
troppo le cose vanno male e di che modo! Vorrei raccogliermi solamente
negli studi e non pensar più a nulla, ma l’animo non me lo permette. Mi
sfogo di quando in quando a far sonetti.» Ne aveva pubblicati tre nella
_Rivista Bolognese_, un quarto, _Al Petrarca_, me lo mandava due giorni
dopo manoscritto insieme all’ode _Per la rivoluzione di Grecia_.

A queste poesie tenne dietro l’ode _Agli amici della Val Tiberina_.

Nell’agosto del 1867 il Carducci, accettando l’invito della famiglia
Corazzini, andò a passare qualche giorno alla Pieve San Stefano,
col proposito di visitare le sorgenti del Tevere. Nella vita sana e
patriarcale della campagna, in mezzo a gente di cuore e alla buona,
egli si sentiva rifatto, e ritrovava il suo buon umore. Il 15 agosto,
invitandomi a raggiungerlo, mi scrisse una lettera piena d’allegria
e di facezie, a cominciare dalla data: «giorno dell’Assunzione
di Maria Vergine [treno diretto per il Paradiso].» Ma il pensiero
degli avvenimenti politici non lo abbandonava neppur là. C’era tra i
fratelli Corazzini quell’Odoardo che pochi mesi dopo morì delle ferite
ricevute a Mentana. Naturale che in quei lieti ragionari si parlasse
del desiderio e del bisogno di vendicare la patria delle umiliazioni
patite. Da quei discorsi e dalla visita alle sorgenti del sacro
fiume nacque la poesia _Agli amici della Pieve_, che è veramente il
primo epodo, ed è una specie di fanfara, annunziante la spedizione di
Garibaldi su Roma.

Ahimè, se il governo, che aveva organizzato le sconfitte di Custoza
e di Lissa, era caduto sotto la generale riprovazione, quello che gli
successe era pure il governo che aveva dato all’Italia Aspromonte.

E le preparò Mentana.

Tornato a Bologna tutto pieno dell’entusiasmo che gli aveva dettato
l’ode, la quale fu subito stampata a Pistoia (Società tipografica
pistoiese, Carducci, Bongiovanni e C., XXV agosto MDCCCLXVII),
il Carducci si mise all’opera con gli altri membri di un comitato
dell’Associazione democratica per promuovere ed aiutare la spedizione
garibaldina nell’Agro Romano.

Inutile dire di che sdegno e dolore fu preso quando, dopo l’annunzio
dell’assassinio dei fratelli Cairoli a Villagloria e della vittoria di
Garibaldi a Monterotondo, seppe sbaragliati i garibaldini a Mentana
dagli _chassepots_ francesi, Garibaldi arrestato e tradotto nella
fortezza del Varignano. Chi poteva non coprirsi la faccia per la
vergogna di chiamarsi italiano? Più che il dolore, sfogò la feroce ira
sua nelle terribili strofe _Meminisse horret_, scritte nei primi giorni
di novembre a Firenze. Indi a poco ebbe a Bologna la notizia della
morte di Odoardo Corazzini, e gli ruppe dal cuore il famoso epodo,
che commosse tutti e che ai pochi intelligenti di poesia, ai quali la
politica non annebbiava l’intelletto, parve una cosa veramente nuova e
meravigliosa.

L’epodo fu pubblicato nel giornale democratico di Bologna _L’Amico
del Popolo_ del 19 e 20 gennaio 1868, e fattane subito una edizione a
parte in opuscoletto (Bologna, Tipografia degli Agrofili italiani). Fu
ristampato a Pistoia, riprodotto intero dal giornale _La Riforma_, e in
parte da un giornale di Palermo.

Una lettera del Carducci del 30 marzo 1869 mi diceva: «Eccoti una
ballata di Goethe, tradotta il sabato santo nello stesso metro e nello
stesso numero di versi».

Da qualche tempo s’era dato sul serio allo studio della lingua tedesca,
cominciato un po’ alla stracca col Teza fino dal 1862, e poi lasciato
andare. Ora lo aveva ripreso con l’aiuto d’un maestro, e con grande
passione, tanto che presto era riuscito a padroneggiare i poeti più
difficili; il Klopstock, il Goethe, lo Schiller, l’Uhland, l’Hölderlin,
il Platen, il Heine; i quali tutti, ma non tutti, s’intende, nello
stesso grado, egli ammirava e prediligeva. Da alcuni di essi, specie
dallo Schiller, tradusse molto, per suo esercizio, in prosa letterale;
poi dal Heine e da qualche altro venne in vario tempo traducendo in
versi alcune liriche, con felicità straordinaria.

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                                  * *

Nel novembre 1867 un decreto governativo trasferiva il Carducci dalla
cattedra d’italiano dell’Università bolognese a quella di latino
dell’Università di Napoli. Il Carducci non accettò il trasferimento, e
il Ministro dovè revocarlo.[42] Qualche mese appresso un altro decreto
lo sospendeva dall’insegnamento e dallo stipendio e lo deferiva al
Consiglio Superiore sotto l’accusa di sentimenti ed atti demagogici
e sovversivi, fra i quali la firma di un indirizzo al Mazzini ove si
facevano voti per un nuovo e migliore ordine di cose.

Imperava allora il Menabrea, che aveva mandato i soldati italiani a
far da comparsa alla tragedia di Mentana, e che aveva colleghi nel
Ministero il Gualterio, il Cantelli, ed il Broglio all’istruzione.

Il Carducci, per quanto disgustato, non si commosse affatto della
sospensione: mandò la sua difesa al Consiglio Superiore, ben sapendo
che le sue ragioni non avrebbero contato niente.[43] Il 21 maggio
1868 mi scriveva: «Io, amico mio, sto bene: lavoro al mio comento sul
Petrarca: riveggo le stampe d’un libretto di _Poeti erotici del secolo
XVIII_ per il Barbèra; gli preparo un altro libretto di poeti lirici
dello stesso secolo; scrivo una vita del Savioli erudita e critica per
la Deputazione di Storia patria; correggo per la lingua un informe
manoscritto d’un generale; fo lezione di storia a tre ufficiali.
Rade volte in vita mia son vissuto così quieto e sereno: aggiungi
che mi riman tempo per leggere; e leggo assai di Giovenale e delle
_Georgiche_. Vivo quieto e sereno; se bene qualche fiato dell’umana
viltà che mi giunge si provi a volermi commovere.»

Proprio in questo tempo aveva finito di correggere le ultime bozze
delle poesie _Levia Gravia_, che furono pubblicate il 1º di giugno
dalla Tipografia Niccolai e Quarteroni di Pistoia. Era la prima
raccolta di poesie che mandava fuori dopo il volumetto sanminiatese
del 1857; ed era molto diversa da tutte quelle che negli anni innanzi
aveva avuto in animo di fare. Comprendeva, in quattro libri, cinquanta
sonetti e ventiquattro fra odi e canzoni; la metà circa riprodotte
dal volumetto di San Miniato, l’altra metà nuove; nessuna d’argomento
politico.

Il libro di cui furono stampati soltanto trecento esemplari, a spese
dell’autore, ebbe pochissima diffusione: si può dire che fuori di
qualche amico e di qualche raro intelligente e amatore d’arte, ben
pochi ne compresero il valore.

Il Carducci aveva escluso deliberatamente dal suo volume tutte le
poesie politiche; ma gli avvenimenti pubblici erano stati e seguitavano
ad essere così gravi e dolorosi, che l’imagine loro assediava e
agitava continua l’animo del poeta. Era una specie di ossessione
che essi esercitavano sullo spirito di lui. Dopo Mentana, per tacer
d’altro, l’uccisione di Monti e Tognetti, e più tardi l’entrata a
Roma, che doveva essere un fatto glorioso, e fu una nuova vergogna.
Come tacere, come non protestare contro la viltà degli uomini che
rappresentavano l’Italia ufficiale? Quasi strappato a forza agli
studi d’erudizione e di critica nei quali cercava la pace, il poeta
pigliava per un istante la penna e scriveva: nel novembre del 1868
l’epodo per Monti e Tognetti, che fu subito pubblicato nel n. 339
del giornale _La Riforma_, e riprodotto in opuscolo (dalla Tipografia
Niccolai e Quarteroni di Pistoia), da vendersi a favore delle famiglie
dei decapitati; fra il 1868 e il ’69 i tre sonetti _Ehu pudor!_; nel
gennaio del 1870 l’epodo _In morte di Giovanni Cairoli_, che fu pure
pubblicato nella _Riforma_ (n. 45, 14 febbraio 1870); e nel giugno,
calmatosi un po’, quello _Per le nozze di Cesare Parenzo_, nel quale
al rabbioso impeto archilocheo degli altri epodi succedevano più miti
armonie.

                                   *
                                  * *

All’epodo per Monti e Tognetti, che il Carducci mi aveva mandato
manoscritto, io aveva fatto alcune osservazioni, alle quali egli
rispose cercando persuadermi che avevo torto; nonostante conchiudeva:
«Piglia tutto ciò per una esplicazione di teorica, non per una
difesa: vedi se ragionandovi sopra, ti puoi accostare a me; o,
altramente, significa pure le tue idee di nuovo e quelle che ti possono
sopravvenire. Perchè avrei caro che tu persuadessi me; allora in un
altro epodo (oramai sono il poeta degli epodi) mi atterrei alla tua
teorica.» Io avevo biasimata come non rispondente al vero, nella prima
parte dell’epodo, la rappresentazione del pontefice, che cinicamente
si frega le mani pensando alla scure che taglierà le teste dei due
condannati, e ci scherza sopra con un linguaggio sarcastico che mi
parve ributtante. Le risposte del Carducci lì per lì mi persuasero, ma
confesso che non riuscirono a farmi piacere interamente quella parte
della poesia.

Era questo il primo periodo dei _Giambi ed Epodi_, e terminava con esso
il decimo anno della dimora del Carducci a Bologna. In quei dieci anni
l’ingegno suo si era completamente svolto e affermato: non gli restava
che perfezionarsi e ascendere securamente al sommo dell’arte.

Intanto il Barbèra, il quale voleva bene al Carducci e sentiva la
potenza dell’ingegno di lui, ma era ben lontano dal parteciparne le
opinioni, e sapeva come editore fare gli affari suoi, gli offrì di
stampare in un volume tutte le sue poesie, comprese le ultime; ed
il Carducci accettò, e dentro l’anno approntò il volume, che uscì
nel febbraio 1871; diviso in tre parti: _Decennali_ (1860-1870),
_Levia Gravia_ (1857-1870), _Juvenilia_ (1850-1857). I _Decennali_
comprendevano tutte le poesie d’argomento politico, a cominciare
dall’ode _Sicilia e la Rivoluzione_, escluse le precedenti, che
l’editore voleva e l’autore non volle ristampare; i _Levia Gravia_
e _Juvenilia_ riproducevano, con qualche cosa di più, e una diversa
partizione, il volume pistoiese del 1868.

Nello stesso anno 1870 io proposi al Carducci di stampare dal Vigo un
volume di studi letterari: sulle prime disse di no, e offrì invece di
fare una raccolta di rime antiche (_Le caccie del secolo XIV_), per le
quali aveva già pronto molto materiale, e la _Vita Nuova_ di Dante con
tutte le rime che appartengono alla serie di essa, e con illustrazioni
scelte di altri, italiani e stranieri, e sue nuove. Alla mia insistenza
che l’una cosa non escludeva l’altra, si arrese, ma di mala voglia, e
il 23 dicembre mi scriveva: «L’anno venturo volevo consacrarlo intero
al mio Petrarca e al mio Dante: perchè frastornarmene? Sono annoiato
e infastidito del ristampare le mie poesie: perchè ricondannarmi,
povero asino, a portarmi dietro il concime e il letame della mia
propria stalla rivedendo le bruttissime prose? Lasciami svoltolarmi
nella grande erba verde del Petrarca, lasciami andar lento lento,
asino filosofo e critico, nella gran selva di Dante. Che importa a me
di tutto il mondo vivo? Voglio dimenticarlo.... Molto meglio di tutto
sarebbe che il Vigo si stesse contento per ora a far le _Caccie_.
Oh il bellissimo librettino che vogliam fare!... Altra cosa che mi
arride è la _Vita Nuova_ con tutti i suoi commenti e le poesie che
si riferiscono a cotesto ciclo della Vita di Dante, e forse anche
in un altro volumetto le poesie della _Scuola di parte bianca_,
Cavalcanti, Cino, Frescobaldi, ec. Sentirai la storia della _Vita
Nuova_ e del pensiero interiore di Dante, sentirai e dirai, bravo!
Ci lavoro ora all’Università: scrivo ora tutto il commento. Scriverò
le lezioni. Un altr’anno faremo un bel volume.» Tuttavia consentì a
stampare un volume di prose sue, a condizione che il Vigo non avesse
fretta, e gli lasciasse agio a finire e correggere alcuni scritti che
dovevano entrare nel volume. Nell’agosto dell’anno venturo venne per
una quindicina di giorni a Livorno, e fu conclusa definitivamente la
pubblicazione del volume degli _Studi letterari_, che tardò ancora tre
anni a venir fuori.




CAPITOLO VI.

(1870-1878.)

  Morte della madre e del figlio Dante. — «Sono io l’ortolano
  delle monache?» — Le _Nuove Poesie_. — Critiche dello Zendrini
  e del Guerzoni, e risposte del Carducci in _Critica e Arte_. —
  La libreria Zanichelli. — Seconda edizione delle _Nuove Poesie_.
  — Discorso sulle poesie latine dell’Ariosto. — Primi tentativi
  d’imitazione dei metri antichi greci e latini. — _Studi letterari_
  editi dal Vigo. — _Bozzetti critici e discorsi letterari_, idem.
  — _Saggio di un testo e commento delle Rime del Petrarca._ —
  Prime _Odi barbare_. — Altre poesie in rima. — Candidatura alla
  Deputazione del Collegio di Lugo. — Nomina, ed esclusione per
  il sorteggio. — Giudizio del Carducci sul Parlamento. — Visita a
  Francesco Donati a Serravezza. — I _Postuma_ di Olindo Guerrini. —
  Accoglienza dei critici italiani alle _Odi barbare_. — Il Carducci
  a Perugia e il _Canto dell’amore_. — L’ode _Alla Regina d’Italia_.
  — _Eterno femminino regale._ — L’ode per Eugenio Napoleone.


La vita del Carducci a Bologna nei primi dieci anni corse fin quasi
all’ultimo serena e tranquilla, se non quanto la turbarono gli
avvenimenti politici. Dopo il primo anno, benchè seguitasse a fare
vita molto ritirata, cominciò a stringere relazione con qualche altro
collega della Università, oltre il Teza. Si compiacque molto della
grande benevolenza che gli mostrò fra i primi l’archeologo Francesco
Rocchi, decano della facoltà di filologia, già discepolo di Bartolomeo
Borghesi ed amico di Vincenzo Monti; e fece presto la conoscenza di G.
Battista Gandino, di Pietro Ellero e di Enrico Panzacchi. Qualche anno
più tardi prese dimestichezza coi professori Giuseppe Ceneri, Quirico
Filopanti, Costanzo Giani e Pietro Piazza, verso i quali, oltre la
stima personale, lo attirava la conformità delle opinioni politiche.
Il Ceneri e il Piazza ebbero nel 1868 comune con lui l’onore della
sospensione dalla cattedra: il Filopanti, quando l’8 dicembre 1869
il giornale democratico di Bologna, _Il Popolo_, ristampò l’_Inno
a Satana_, condannò, con una lettera al Carducci, pubblicata il
giorno dipoi nel giornale stesso, quella poesia chiamandola _un’orgia
intellettuale_. Da qui le _Polemiche sataniche_, cioè la risposta
del Carducci al Filopanti nel numero 10 dicembre del _Popolo_, e la
risposta _Al critico del Diritto_ nei numeri 27 e 28 dicembre dello
stesso giornale.

Ma l’anno 1870 fu triste al Carducci. Tre anni innanzi, il 21 giugno
1867, la sua casa era stata rallegrata dalla nascita di un figlio
maschio, al quale fu compare il Teza, che oltre il nome di Dante,
scelto dal padre, gl’impose quelli di Bruto e di Augusto. Il fanciullo
cresceva vegeto, robusto, intelligente, _che pareva per l’età sua un
miracolo_. «Ed era, scrivevami il padre, buono e forte e amoroso, come
pochi. E diceva — Salute, o Satana, o ribellione — con tutta la sua
gran voce, picchiando la sua manina su la tavola o il piede in terra.»

In quel triste anno morì ai primi di febbraio la madre del poeta; e il
9 di novembre gli morì quell’amore di bambino, intorno al quale egli
_aveva avviticchiate tutte le sue gioie, tutte le sue speranze, tutto
il suo avvenire_.

Io conobbi, come ho già detto, la madre del Carducci nei primi anni
della mia amicizia con lui, e sapevo la vita di sagrifizio e di
abnegazione che essa aveva condotta; avevo visto cogli occhi miei
propri com’ella fosse una di quelle donne rare che sotto modeste
apparenze nascondono un’anima eroica. E provai gran piacere quando
qualche anno appresso, nella mia prima visita al Carducci a Bologna,
la rividi; rividi quella faccia, non bella, ma espressiva di una gran
forza d’animo e di una grande bontà, la rividi illuminata da una luce
di contentezza, che pareva aver cancellato ogni traccia dei passati
dolori. Come godeva essa quando il figliuol suo accarezzandola con gli
occhi, che raramente sorridevano, le diceva scherzando: «Mamma, sei
contenta d’avere un figliuolo bravo come me?»

Il piccolo salotto da pranzo, dove noi tre eravamo seduti, era molto
umilmente arredato; il muro imbiancato di calce, senza un cencio di
tappezzeria o uno sgorbio di pittura; poche sedie impagliate, una
tavola e un armadio di legno grezzo, ecco tutto. Ma oh come, ora,
ripensandoci, mi pare che quell’umile salotto fosse bello, grande e
pieno di gloria! E come mi paiono al confronto brutte e meschine le
stanze con tanta pretensione d’arte addobbate dai nuovi minuscoli
ammiratori del grande Leonardo!

Il dolore del Carducci per la morte della madre fu grande: pure se ne
diede pace, cercando un conforto nella religione delle ricordanze. La
mancanza dei genitori è dolorosa, ma si riesce a farsene una ragione
guardando ai figliuoli che ci crescono intorno. La morte dei figliuoli
pare invece un fatto contro natura e non si sa darsene pace. «Pare, a
sentire certuni, mi scriveva il Carducci, che la morte di un bambinetto
di tre anni debba essere una miseria comportabile. Non è mica vero:
vanno via tre pezzi della vita.» Cercava dimenticarsi negli studi, ma
il suo pensiero era sempre lì. Poco più di un mese dopo, scrivendomi
lungamente dei suoi lavori, mi mandava tre sonetti fatti allora, fra i
quali quello che comincia:

    O tu che dormi là su la fiorita
    Collina tosca, ec.

e diceva: «Ahi, ahi, il mio pensiero torna pur sempre lì; e sempre più
mi sento desolato.» Venne l’estate ed egli scriveva:

    L’albero a cui tendevi
    La pargoletta mano,
    Il verde melograno
    Da’ bei vermigli fior,

    Nel muto orto solingo
    Rinverdì tutto or ora
    E giugno lo ristora
    Di luce e di calor.

    Tu fior de la mia pianta
    Percossa e inaridita,
    Tu de l’inutil vita
    Estremo unico fior,

    Sei ne la terra fredda,
    Sei ne la terra negra;
    Nè il sol più ti rallegra
    Nè ti risveglia amor.

Due anni dopo, il 1º marzo 1872, nacque al Carducci l’ultima figliuola,
cui egli mise nome Libertà, ma che in casa fu poi chiamata da tutti,
dal padre stesso, la Tittì.

Intanto il Barbèra aveva pubblicato il volume delle _Poesie_; il quale,
benchè contenesse nei _Decennali_ gli epodi pel Corazzini, per Monti e
Tognetti e pel Cairoli, l’ode _Dopo Aspromonte_ e l’_Inno a Satana_,
cioè una serie di poesie interamente nuove, forti e coraggiose, non
ebbe quello che veramente si dice un gran successo; e forse non l’ebbe
appunto per ciò. Il volume era, non può negarsi, composto di elementi
molto diversi; ed uno che lo leggesse per la prima volta, poteva
trovarsi un po’ sbalestrato. Quale salto dall’inno a Febo Apolline
all’epodo per Monti e Tognetti, dall’ode alla Beata Giuntini all’epodo
pel Cairoli! Ma doveva necessariamente esser così. L’autore aveva
voluto presentarsi al pubblico tutto intero; ed aveva anche avvertito:
«Nei _Juvenilia_ sono lo scudiero dei classici; nei _Levia Gravia_
faccio la mia vigilia d’armi; nei _Decennali_, dopo i primi colpi di
lancia un po’ incerti e consuetudinari, corro le avventure a tutto mio
rischio e pericolo.» Chi poi non fosse stato impedito da preconcetti
o d’arte o politici, poteva ben trovare anche nei _Juvenilia_ i germi
dei _Decennali_. Ma quella specie d’incertezza o di contrarietà con la
quale alcuni, specialmente in Toscana, accolsero il volume delle poesie
doveva durar poco.

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                                  * *

Può parer singolare che le maggiori contrarietà alle poesie del
Carducci venissero appunto dai toscani; e più singolare ancora, ma
invece è naturalissimo, che cotesti toscani, che parlavano di lui a
denti stretti, ricorressero poi a lui tutte le volte che saltava loro
in testa di pubblicare un giornale, una strenna o che altro di simile.
Ciò lo seccava maledettamente, e lo faceva dare in escandescenze.
In generale non rispondeva: ad uno più insistente rispose una volta
così: «Caro C.... — Il mio silenzio voleva dire: 1º che in generale
non amo scrivere per istrenne o per simili gentilezze, le quali mi
rassomigliano troppo alle Rime scelte degli Arcadi o alle Rime oneste
del Mazzoleni (salvo la eleganza e dottrina, che a queste ultime in
ispecie non manca). In quante strenne hai tu visto il mio nome? 2º
che in particolare non intendo affatto affatto di scrivere in strenne
toscane o per società toscane in Toscana. Come? I signori toscani non
hanno per me che maldicenza od oblio, e poi quando salta loro in testa
una libidinuzza accademica di strenne o di altre sì fatte insalatuzze,
vengono a seccar me! Sono io l’ortolano delle monache? 3º che io non
potevo personalmente accettare la forma del tuo invito: — Ho il piacere
d’invitarti a collaborare ec. ove tanti illustri ec. ec. EVITERAI
ogni argomento ec. ec. — Caro C., padrone di dire al tuo ortolano:
Ohe, Cecco, fammi un’insalatina così e così, ma bada non ci mettere
cicerbita nè pozzolana. — Hai voluto spiegazione del silenzio. E io te
l’ho data. Spero che avrai capito. I miei rispetti ai signori e alle
signore che sono con te della brigata, ec. ec.»

Questo modo di trattare non era il più adattato a farsi della
_réclame_, a procurarsi degli amici laudatori e devoti; ma allora non
era per anco venuta la stagione dei superuomini, nè si conoscevano
certe raffinatezze della ciarlataneria, con le quali oggi si
predispongono abilmente gli applausi del pubblico. Il Carducci poi
provava un gusto matto ad andare contro la corrente, quando (s’intende)
gli pareva d’aver ragione.

Nei due anni che successero alla pubblicazione delle Poesie (edizione
Barbèra), insistendo nelle qualità degli epodi che più avevano urtato
il gusto del pubblico, ne aveva composti de’ nuovi più ardenti di
bile e più arditi, e aveva composto parecchie altre poesie, varie
d’argomento e di stile, le quali rivelavano com’egli, arrivato oramai
alla maturità dell’ingegno, e liberatosi d’ogni incertezza e scioltosi
d’ogni legame, si sentiva padrone al tutto dell’arte sua. Fra le poesie
composte in quei due anni c’erano traduzioni di liriche dal Goethe, dal
Platen, dal Heine negli stessi metri originali; c’erano le _Primavere
elleniche_ e i giambi _A certi censori_ e _Ad un heiniano, Versaglia_
e l’_Idillio Maremmano, Io triumphe_, e _Sui campi di Marengo_, la
poesia _Classicismo e romanticismo_ e il _Canto delL’Italia che va in
Campidoglio_, l’ode per l’_Anniversario della repubblica francese_ e il
sonetto _Il bove_.

Le _Primavere elleniche_ erano state pubblicate nel 1872 dal
Barbèra in un fascicoletto a pochi esemplari non venale, e quasi
contemporaneamente in un giornaletto letterario _Il Mare_, fatto dal
Targioni e da me a Livorno; il quale pubblicò anche nel primo numero
(7 luglio 1872) la poesia _Ad un heiniano_ e nei successivi alcune
delle liriche tradotte dal tedesco. _Il Canto dell’Italia che va
in Campidoglio_ e qualche altra poesia d’argomento politico furono
pubblicate in giornali politici e fecero un po’ di scandalo.

Tutte queste poesie con parecchie altre il Carducci, alla fine del
1872, le diede a stampare al tipografo Galeati d’Imola, mancato pochi
giorni fa alla stima di quanti lo conobbero e all’arte tipografica che
coltivò con eleganza, il quale le pubblicò nel settembre dell’anno
successivo col titolo di _Nuove Poesie_. Il volume, di 130 pagine,
conteneva in tutto 44 componimenti ed in appendice il _Prologo_ ai
_Levia Gravia_, che il Barbèra non aveva creduto di pubblicare per
certe allusioni a Pietro Fanfani.

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Le _Nuove Poesie_, pur eccitando in Italia, com’era naturale, molti
risentimenti, fecero grande impressione e si imposero. La satira
non aveva risparmiato i nomi propri di uomini politici e letterati
illustri, ai quali si capisce che non poteva far piacere l’esser messi
alla berlina. Il primo movimento fu di dispetto. Ma, anche lagnandosi
della poca cortesia del poeta, i più riconobbero il valore dell’opera
sua. L’edizione fu in breve esaurita. Tutti si occuparono del libro,
anche fuori d’Italia. L’editore della _Revue des Deux-Mondes_ lo mandò
a chiedere al Galeati; il Turgenieff ne chiese al marchese Arconati
di Parigi, l’Arconati all’autore. Carlo Hillebrand ne scrisse nel
supplemento all’_Allgemeine Zeitung_ del 1º novembre 1873, Adolfo
Pichler nell’_Abendpost_ di Vienna del 10 giugno 1874 e Carlo von
Thaler in un’appendice delle _Neue Freie Presse_ di Vienna del 12 marzo
1875; tutti tre riconoscendo la straordinaria potenza ed originalità
del poeta italiano. Il critico invece della _Revue des Deux-Mondes_
non comprese affatto nè il poeta nè la sua poesia; onde il von Thaler
scrisse giustamente di lui: «Manca al signor Étienne ogni facoltà
di concepire la vulcanica natura del Carducci, e l’impeto di quella
polemica che butta indietro d’un colpo il liscio accademico francese.»

I critici italiani, quasi tutti intinti di politica moderata, pur
inchinandosi al forte ingegno del poeta, non poterono nascondere il
loro malumore; alcuni dissero una quantità di sciocchezze; più di tutti
lo Zendrini e il Guerzoni, scusabile il primo, perchè era stato molto
maltrattato dal Carducci, meno scusabile l’altro, perchè, nominato di
recente professore d’Università in grazia dei suoi meriti patriottici,
volle soltanto darsi l’aria di grande maestro in critica, menando
sciabolate per diritto e per traverso sopra le _Nuove Poesie_; con
grande ammirazione e sodisfazione dei giornali moderati del tempo.
Il Guerzoni pubblicò la sua critica nelle appendici della _Gazzetta
Ufficiale_ del 12 settembre 1873; lo Zendrini attaccò il Carducci
in alcuni articoli della _Nuova Antologia_ (dicembre 1874, gennaio
e febbraio 1875). Il Carducci, sollevandosi da una piccola polemica
personale ad una grande questione d’arte e d’onestà letteraria,
scrisse, in risposta a loro, la mirabile prosa _Critica e Arte_, che fu
poi stampata intera nel volume _Bozzetti critici e Discorsi letterari_
edito dal Vigo nel 1876. Ma sette capitoletti, quelli concernenti il
Guerzoni, furono pubblicati nella _Voce del Popolo_ di Bologna del
febbraio 1874.

La prima edizione delle _Nuove Poesie_ non solo fu, come è detto,
presto esaurita, ma fece anche esaurire l’edizione delle _Poesie_
fatta dal Barbèra, il quale mise subito mano ad una seconda, che uscì
nel 1874; ne fece una terza nel 1878 e una quarta nel 1880; tutte
ripetizioni della prima, salvo un diverso ordinamento delle poesie, e
l’aggiunta nelle ultime due della biografia del poeta scritta da Adolfo
Borgognoni. Il Barbèra avrebbe voluto nella ristampa delle _Poesie_
comprendere anche le _Nuove_, ma non potè, perchè l’autore si era già
impegnato per esse con lo Zanichelli.

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                                  * *

La libreria Zanichelli era in Bologna il ritrovo di tutti gli studiosi.
Naturalmente il Carducci, non per trovarvi gente (di che non aveva gran
voglia, come sappiamo), ma per avervi notizia delle novità librarie e
comprar libri, vi capitava spesso; e la schietta cortesia del signor
Nicola e dei figli fu cagione che ben presto entrò con essi in grande
intimità. E come il vecchio Zanichelli faceva anche l’editore, e
aveva voglia di allargare in questa parte la sua industria, non tardò
a nascergli il desiderio di pubblicare qualche libro del suo nuovo
avventore. Il centenario dell’Ariosto che, con un anno di ritardo,
doveva celebrarsi nel maggio del 1875 a Ferrara, fu l’occasione
favorevole ai disegni dell’editore libraio; e si trovarono d’accordo
che il Carducci gli avrebbe preparato uno studio sulle poesie latine
dell’Ariosto. Intanto che egli attendeva a questo lavoro, si presentò
l’opportunità di fare una seconda edizione delle _Nuove Poesie_. Lo
Zanichelli non se la lasciò scappare; il Carducci aderì di buon grado;
e così nell’aprile del 1875 uscì pei tipi del libraio bolognese la
seconda edizione delle _Nuove Poesie_, che si avvantaggiava sulla
prima per tre piccoli componimenti nuovi, e che recava innanzi tradotti
gli articoli di Carlo Hillebrand, Adolfo Pichler e Carlo von Thaler.
A questa seconda edizione ne successe una terza nel 1879, in formato
elzeviriano, eguale nel resto alla precedente, salvochè n’era stato
tolto il _Prologo_ ai _Levia Gravia_, ed aveva innanzi una prefazione
di Enrico Panzacchi, il quale dava del Carducci poeta il più compiuto
ed equanime giudizio che fino allora fosse stato pubblicato.

La seconda edizione delle _Nuove Poesie_ fu il primo libro del
Carducci pubblicato dallo Zanichelli. Nel maggio del 1875 pubblicò
la prima edizione, in pochi esemplari, del volume sulle poesie latine
dell’Ariosto, e ne mandò fuori una seconda l’anno appresso. D’allora in
poi lo Zanichelli divenne l’editore diremo così ufficiale delle poesie
del Carducci.

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Tener dietro minutamente in tutte le sue parti all’operosità letteraria
del nostro, è cosa non dirò difficile, ma quasi impossibile, anche per
me, specie d’ora innanzi. Le lezioni all’Università, gli studi critici,
le polemiche, le opere d’erudizione, le poesie, si contendevano le
ore e i minuti di lui, il quale passava nello stesso giorno dalle une
alle altre con una mirabile agilità ed instancabilità. Si preparava
alle lezioni, correggeva la materia e le stampe dei suoi volumi di
prosa, scriveva articoli per la _Nuova Antologia_ e per altri giornali,
attendeva alle nuove edizioni delle sue poesie, dove aggiungeva,
mutava, correggeva, non mai contento di sè; scriveva relazioni per la
Deputazione di Storia patria, dava sferzate terribili ai suoi critici,
componeva poesie nuove.

Non aveva, si può dire, finito di pubblicare le _Nuove Poesie_ e
già mulinava le _Odi barbare_. Il 16 dicembre 1873, inviandomi l’ode
_Su l’Adda_ mi scriveva: «Ti mando una nuova poesia: nuova in tutto,
anche nel metro, che è antico e senza rima. Leggila, falla leggere
a Ottaviano (il Targioni) e rimandamela.» Glie la rimandai con le
nostre osservazioni, che trovò giuste; e rispondendomi il 1º gennaio
1874 soggiungeva: «Voglio farne altre delle odi in metri consimili
e in quel genere: sentirai, sentirai. Ho voglia anche di fare delle
elegie in esametri e pentametri, come Goethe. Non so perchè quel che
egli fece col duro e restio tedesco non possa farsi col flessibile
italiano.» Con la stessa lettera mi diceva: «Io leggo nelle ore di
riposo, a questi giorni, i colloqui di Goethe con Eckermann e le
_Elegie romane_, e queste letture mi fan ritornare con tutta l’anima e
la persuasione alla grande poesia greca. In fondo, confessiamolo, fu
la più gran poesia della terra: Omero, Pindaro, Sofocle, Aristofane,
Teocrito, sono gli ultimi confini del bello di primo getto, giovenile,
florido, sereno. Dopo viene il riflesso, il contorto, il vecchio. Noi
abbiamo dei _frissonnements_ d’inverno, e crediamo che sieno i brividi
della ispirazione.» Ai primi di luglio dello stesso anno, mentre stava
scrivendo il discorso sul Petrarca, che lesse il 18 del mese stesso in
Arquà, tornava a parlarmi delle poesie in metro antico, così: «Tento i
metri antichi, greci e latini. Son cose che devon parer molto brutte.
Lo faccio a posta per i fanfullisti e i guerzoniani. Ho fatto l’alcaica
pura con versi che non rimano e non tornano. Farò l’esametro e il
pentametro. E mi divertirò. Tutta questa letteratura che esiste ora è
abietta. Tutta questa società è tal cosa che non merita ci occupiamo
di lei. Ritorniamo dunque all’arte pura, ai greci e ai latini. Come
son ridicoli nanerottoli cotesti realisti italiani!» Ai primi d’agosto
venne a Livorno, e mi fece sentire le prime strofe dell’ode alcaica
intitolata _Ideale_, che fu la prima da lui composta in quel metro.

Intanto aveva finito il volume degli _Studi letterari_, che fu
pubblicato dal Vigo ai primi di quell’anno 1874, e conteneva i cinque
discorsi _Dello svolgimento della letteratura nazionale_, e gli scritti
_Delle rime di Dante, Della varia fortuna di Dante_, e _Musica e
poesia nel secolo XVI_; ed aveva subito messo mano all’altro volume
dei _Bozzetti critici e discorsi letterari_, e al _Saggio di un testo
e commento nuovo delle Rime del Petrarca_. Il lavoro sul Petrarca,
intorno al quale aveva speso tante fatiche, era stato da lui cominciato
alcuni anni prima per il Barbèra; ma siccome procedeva alla stracca,
e dal ’70 in poi era stato interrotto, egli sulla fine del 1873 si
sciolse dall’impegno, e limitando il lavoro ad un _Saggio_, lo diede a
stampare al Vigo.

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Il volume dei _Bozzetti critici_ e il _Saggio del Petrarca_, pubblicati
nel 1876, diedero insieme col volume degli _Studi letterari_ la misura
intera del valore del Carducci come storico della letteratura, come
erudito, come critico, come prosatore, come polemista. Degli _Studi
letterari_ la _Revue critique_ diede un giudizio molto giusto; disse
che di tutti i libri scritti sulla _antica letteratura italiana ce
n’era pochi che fossero al tempo stesso così attraenti e così solidi_;
e a proposito _Del Saggio del Petrarca_ scrisse queste parole, che si
possono applicare anche agli _Studi letterari_: «Il Carducci sa essere
il più esatto degli eruditi, il più minuzioso dei critici, e al tempo
stesso un pensatore originale e uno scrittore ardito.»

Nel volume dei _Bozzetti critici_ erano, fra altri scritti di minore
importanza, ma tutti notevoli come esempi di prosa nuova, viva,
efficace, le _Polemiche sataniche_, gli scritti sul _Secondo centenario
del Muratori_ e su _Alcuni critici del Manzoni, Critica e Arte_, e il
discorso _Del rinnovamento letterario in Italia_, ch’era stato letto
dall’autore per la inaugurazione degli studi nella Università il 16
novembre 1874.

Nei primi dieci anni del suo insegnamento il Carducci si era occupato
quasi esclusivamente della parte antica della letteratura italiana,
cioè delle origini, e del grande periodo classico. Quelli anni
d’insegnamento si rispecchiano nel volume degli _Studi letterari_.
Dopo il 1873 incominciò a fare più larga parte nelle sue lezioni
alla letteratura moderna. Nei primi del 1874 fece per quattro giorni
di seguito lezione sul _Cinque Maggio_, raffrontandolo coll’ode di
Victor Hugo su Napoleone II; e il citato discorso d’inaugurazione
all’Università del 16 novembre dell’anno stesso fu una mirabile
introduzione agli studi di letteratura moderna, che appunto allora
cominciò a trattare più di proposito con un corso sulle poesie del
Parini.

La scolaresca, che, passati i primi anni, era venuta sempre lentamente
crescendo, dopo la pubblicazione delle _Nuove Poesie_ crebbe d’un
tratto in modo straordinario, essendosi aggiunti ai veri e propri
studenti i così detti uditori; ciò che al professore dava fastidio;
nè egli lo nascondeva. Narra un suo scolare, ora divenutogli collega,
che al cominciare dei corsi annuali, fra le altre sue avvertenze
soleva esserci questa: «Che gli studenti non filologi e non studenti
si compiacessero di non affollargli la scuola, perchè egli non era
una prima donna o un tenore nè pensava a dilettare i curiosi. Il qual
desiderio (prosegue il narratore), quantunque ripetuto e rincalzato
spesso, non trovava esaudimento. Molti, troppi venivano: e in fondo, se
anche taluni eran mossi da mera curiosità, rare volte curiosità fu più
scusabile.»[44]

È giusto; ma è anche scusabile il Carducci se qualche volta gli scappò
la pazienza. Non ci fu tra quelli uditori chi lo accusò pubblicamente
di avere nelle sue lezioni infamato il Parini? Si ebbe perciò una
lezione, che non so quanto gli profittasse, ma che probabilmente non
dovè fargli molto piacere.

Mentre attendeva nella scuola alla illustrazione delle poesie del
Parini, raccogliendo preziosi materiali pe’ suoi lavori critici
intorno a questo poeta, non dimenticava il Carducci le _Odi barbare_.
Nell’aprile del 1875 scrisse l’ode _Fantasia_, il cui primo titolo
era _Rimembranze antiche_, nell’agosto dell’anno stesso _Ruit hora_,
nel marzo del 1876 _In una chiesa gotica_, nel luglio la prima parte
dell’ode _Alle fonti del Clitumno_, che finì e pubblicò nell’ottobre
in un giornale bolognese _La Vedetta_ (n. 3, 21 ottobre 1876). L’ode
_Nella Piazza di San Petronio_ (che da prima aveva un altro titolo,
_Natura, Arte, Storia_), fu composta nel febbraio 1877; e fra il ’76
e la prima metà del ’77 tutte le altre che con quelle già indicate
formarono il primo volume.

Ma questa nuova forma di poesia era ben lungi dall’avere assorbito
interamente il poeta. Negli anni dal 1874 al 1877 compose le prime
venti strofe della poesia _Davanti San Guido_, cominciò e condusse
molto innanzi la _Sacra di Enrico V_ e la romanza storica in ottonari
_Faida di Comune_; cominciò pure la prima parte della _Canzone di
Legnano_, che finì poi nel 1879; scrisse l’ode _Alla Rima_, i primi
cinque capitoli dell’_Intermezzo_, ed altro. Ciò tutto dimostrava
come il poeta delle _Odi barbare_ non solo non avesse fatto divorzio,
come alcuni parvero dubitare, dalla rima, ma avesse anzi seguitato a
cercare anche fuori dei metri classici nuove forme alle sue concezioni.
_Faida di Comune_, la _Canzone di Legnano_ e l’_Intermezzo_ non solo
proseguono trionfalmente l’opera dell’autore delle _Nuove poesie_,
ma portano in essa alcune note interamente nuove. La maggior parte di
queste poesie furono compiute e pubblicate più tardi. Le _Odi barbare_
videro la luce, come è noto, nel luglio 1877.

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                                  * *

Poco prima il poeta aveva corso un grave rischio, il rischio di entrare
nel Parlamento italiano. Anzi i voti dei cittadini di Lugo ce lo
avevano mandato; ma la fortuna questa volta gli fu propizia: mentre si
faceva il sorteggio dei professori, ella, cavatasi la benda, adocchiò
il nome di lui e lo trasse fuori, risparmiandogli di perdere il tempo e
guastarsi il sangue in quella bolgia, dove per trovarsi ad agio bisogna
essere almeno un po’ ciò che lui non è punto; un po’ intriganti, un
po’ ipocriti, un po’ ciarlatani. Anche una certa dose d’ignoranza e
di cretinismo non guasta: ma ciò che giova soprattutto e non avere
convinzioni facendo mostra d’averne, e deporre sulla soglia ogni avanzo
di rispetti umani e di scrupoli.

Per un momento il Carducci ebbe l’illusione ch’essere una particella
della rappresentanza nazionale fosse pure onorevole cosa, e per la
quale si potesse rendersi utile alla patria: onde alla lettera del
Direttore del giornale _Il Lavoro_ di Lugo, che offrivagli a nome
delle sezioni riunite di quel collegio politico la candidatura alla
Deputazione, rispose, dopo averci pensato un pezzo, il 19 ottobre 1876,
così:

«Non le nascondo che pendei lungamente incerto (e quindi anche la
tardata risposta) fra l’accettare o no l’onorifica offerta. Me ne
sconsigliavano il pensiero di dovere intermettere, anche per poco,
quelli studi che furono e sono l’occupazione e il conforto della
mia vita, e più ancora la conoscenza, che io ho prima di ogni altro
e pienissima, della mia scarsezza e inesperienza dinanzi all’alto
officio. Ma per contro ripensai, o, meglio, qualche amico mi fece
ripensare: che, dopo aver sostenuto, come io feci sempre, l’utilità e
il dovere per la parte democratica di entrare nelle elezioni e nella
rappresentanza nazionale, ritrarmi ora io personalmente dal pericolo
della prova, sarebbe un disertare dinanzi alla battaglia, dopo aver
gridato agli altri _avanti avanti_....

»E però accetto. Accetto non foss’altro pel rischio della
battaglia.»[45]

Il 19 novembre, dopo avvenuta l’elezione, il Carducci, in un banchetto
offertogli dagli elettori, fece il suo discorso, diremo così, politico,
dichiarandosi poeta e repubblicano e sostenendo che la poesia, come
la intendeva e faceva lui, _non è tal colpa per cui un uomo abbia a
soffrire la diminuzione civile_. Quel discorso, splendido di concetti
e di forma, e in alcuni punti veramente eloquente, è oggi stampato nel
volume quarto delle opere, col titolo _Per la poesia e per la libertà_,
e mostra chiaramente che il Carducci non era un uomo politico possibile
nella Camera d’allora, nè, tanto meno, d’ora.

Del resto egli stesso era così poco desideroso d’andare a esercitare il
suo ufficio di deputato a Montecitorio, che il 31 gennaio 1877, alla
vigilia del sorteggio dei professori, mi scriveva: «Non sono andato a
Roma ancora, nè v’anderò se non dopo il sorteggio, se questo mi tornerà
favorevole. Se no, sono rassegnatissimo a starmene. Mi trovo molto bene
solo. Mi faccio sempre più orso. Viva Atta Troll.» E conchiudeva un
suo sfogo contro la politica parlamentare con queste parole: «Il vero
non esiste. Il bello si è rifugiato all’inferno e l’onesto in galera.»
Un poeta e idealista quale il Carducci come poteva trovarsi bene in
un’accolta di uomini, che, salvo qualche eccezione personale, è la
negazione della sincerità e dell’estetica? Egli, che aveva fatto allora
allora proposito di abbandonare la poesia dei giambi ed epodi, per
tornare all’arte pura e serena, egli a Montecitorio sarebbe diventato
idrofobo.

Meglio dunque che ne rimanesse fuori. E rimastone fuori, non gli
mancarono le occasioni di esporre la sua opinione sul Parlamento
e sui governi che ne furono via via la degna espressione. Quindici
anni dopo, nel novembre del 1883, scriveva: «Certo che, a giudicarlo
(il Parlamento) dal valor suo concettuale, da ciò che ammira come
eloquenza, da ciò che gusta come spirito, da ciò che crede politica
fina, e più dalle prede di voti che il Ministero esercita su quel suo
cabotaggio di piccolo corso, ci sarebbe da disperare: ma in fondo è
un collegio di buoni ragazzi, che vogliono, come i loro mandanti, più
figurare e divertirsi che lavorare: onde venti giorni di discorsi e
di emendamenti, e ordini del giorno a tonnellate, e dieci leggi votate
in dieci minuti: folla agli scandali, deserto ai bilanci: fanno forca,
burlando il maestro. Oh fate forca, fate forca allegramente, onorevoli:
già di tanta eloquenza non una parola echeggerà nell’avvenire.» E
conchiudeva: «Ho paura che, se con sì fatta gente non si fondano le
repubbliche, nemmeno si afforzino le monarchie: ho paura che intanto
abbiamo quel che ci meritiamo, Machiavelli Depretis e Tacito Chauvet:
ho paura che avremo nell’avvenire anche di peggio.»[46]

La profezia pur troppo si avverò.

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                                  * *

Nel giugno del 1877 il Carducci era a Massa, mandatovi dal Ministero
ad ispezionare quel liceo; e là scrisse nel giorno 13 la nota apposta
alle _Odi barbare_, per ispiegare la ragione del titolo e della novità
metrica da lui tentata. Il 14 mi scrisse una cartolina, invitandomi ad
andare a raggiungerlo per recarci insieme la domenica prossima, 17, a
Serravezza, a vedere l’amico Francesco Donati, ch’era là da qualche
tempo ammalato. Io non avevo più notizie di lui da qualche anno.
L’ultima sua lettera a me credo fosse del febbraio 1871 da Urbino,
dov’egli era insegnante di lettere italiane nel liceo fino dal 1866.
Arrivai a Massa il sabato sera; andai col Carducci, non mi ricordo
perchè, a far visita al Prefetto; e la mattina dipoi di buon’ora
partimmo con una carrozzella alla volta di Serravezza.

Il tempo era bellissimo. Uno splendido sole di giugno empiva di luce,
di movimento, di vita la lussureggiante vegetazione della campagna,
fresca e odorata dei vapori notturni discioltisi allora allora al
raggio del sole. Io vedevo per la prima volta quei luoghi, dei quali
aveva tante volte sentito celebrare la bellezza dal Carducci e dal
Donati; e il Carducci, a cui la vista di essi rinfrescava le dolci
memorie e le impressioni della fanciullezza, mi aiutava con le sue
parole a meglio sentirne l’incanto. Giunti in vicinanza del paese
lasciammo la vettura a piè d’una salita, affinchè il cavallo si
riposasse, e proseguimmo a piedi il resto della via. Trovata, dopo
qualche domanda alle prime persone che incontrammo, la casa dell’amico,
ci facemmo annunziare. Egli era fuori, non so se nell’orto, o presso
qualche conoscente: accorse subito, e rimase molto meravigliato e
giubilante della nostra visita, ch’era ben lontano dall’aspettarsi.

Ma oh quale dolorosa impressione provammo alla sua vista! E forse
non riuscimmo a nasconderla interamente; poichè egli, dopo le prime
espansioni di gioia e di affetto, si rannuvolò un poco e disse
tristamente: — Vedete come è ridotto il vostro Cecco! Vi ringrazio,
amici, che siete venuti a darmi l’ultimo addio. —

Veramente non c’era più in lui nemmen l’ombra dell’uomo di un tempo.
Quella faccia, nella sua alfieriana austerità, luminosa e serena, era
divenuta fredda e smorta; la fronte ampia, solcata d’infinite rughe,
pareva come rattratta; gli occhi, privi della loro vivezza e mobilità,
erano come velati d’una nube di tedio; le guance scarne e infossate. E
la barba da parecchi giorni non rasa, e i capelli incolti, e le vesti
trasandate davano al povero amico nostro l’aspetto di un uomo che,
sentendo d’avere un piè sulla fossa, avesse detto a sè stesso: a farmi
la _toilette_ per l’altro mondo non ci ho da pensare io.

Egli voleva pure offrirci qualche cosa, e non avendo niente lì sotto
mano, s’inquietava di non potere. Noi gli dicemmo che non avevamo
bisogno di niente, ch’eravamo venuti soltanto per vederlo e far due
chiacchiere con lui, che non potevamo trattenerci se non pochi istanti:
avevamo il legno che ci aspettava giù in fondo alla scesa, e dovevamo
ripartire subito. Tentammo contradire alle sue insistenti affermazioni
che non lo avremmo più riveduto, e ci provammo più volte a fargli
coraggio, pur sentendo la vanità delle nostre pietose menzogne.

Quella visita fu uno strazio: ci era penoso il rimanere, più penoso
l’andarcene. Qual contrasto fra quella vita che si spegneva e la
natura intorno esuberante di vigore, di calore, di luce! Come triste
il pensiero che davvero non ci saremmo più riveduti! Finalmente ci
facemmo un animo risoluto, abbracciammo l’amico, e quasi a forza,
poichè egli pareva non potersi staccare da noi, ci allontanammo. Aveva
voluto accompagnarci per un pezzetto di strada, benchè il camminare
lo affaticasse, e noi lo avessimo pregato di rimanere; poi fermatosi
su un rialto di dove si scorgeva buon tratto della strada che dovevamo
fare, seguitò a salutarci con la mano e con la voce fin che ci vide e
credè che noi potessimo udire le sue parole. Le ultime che ci giunsero
all’orecchio furono: — Addio per sempre. —

E fu vero: non passò un mese, ch’era morto. Il Carducci ed io volevamo
fare qualche memoria di lui; ma la mancanza di notizie della sua vita
ed altre difficoltà furono cagione che il nostro proposito rimase per
allora senza effetto. Certe cose, anzi molte cose, se non si fanno
subito, non si fanno più. La vita è così: gli avvenimenti si incalzano,
e il domani getta nel dimenticatoio molti propositi dell’ieri. Non
dispiace, son certo, al Carducci che io, ad ammenda della nostra
dimenticanza d’allora, abbia fatto qui ricordo dell’amico nostro.

E di altri dovrò farne.

Se per ciò queste mie note biografiche somiglieranno qua e là un
necrologio, che colpa ne ho io? Colpa sarebbe se dinanzi ai nomi dei
cari amici che ci precederono nel gran viaggio alla città dell’ignoto,
io non mi soffermassi per mandar loro almeno un saluto.

Salutiamo dunque anche il buon uomo Francesco Menicucci, che appunto in
quel tempo mancò ai vivi. Il 24 maggio, mentre il Carducci stava per
venire in Toscana a visitare i licei di Pisa e di Massa, la moglie di
lui partiva per Firenze a rivedere l’ultima volta suo padre, ch’era in
fine.

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                                  * *

Tornato a Bologna il Carducci consegnò allo Zanichelli la nota su le
_Odi barbare_, e queste furono subito finite di stampare e messe in
vendita.

Pochi giorni innanzi, l’editore stesso aveva pubblicato le poesie di
Olindo Guerrini, dal titolo _Postuma di Lorenzo Stecchetti_, iniziando
con questo volume e con le _Odi barbare_ la sua biblioteca elzeviriana,
che nei primi anni levò grande rumore, e fece girare la testa a molta
gente. Il vedere stampati i propri versi, o le prose, ma specialmente i
versi, in quelli eleganti volumetti civettuoli, faceva credere a molti
ch’e’ dovessero, come a loro anche agli altri, parere più belli.

La moda passò, come, o presto o tardi, passano tutte, e dei libri
durarono quelli che avevano ragione di durare. Ma è pur sempre vero
che, indipendentemente dal merito, _habent sua fata libelli_; o,
meglio, che _alii habent, alii merentur famam_; con questo però che
delle fame superiori al merito in generale pensa il tempo a fare
giustizia. Nei tre anni dal 1878 al 1880 furono fatte tre edizioni
delle _Odi barbare_ e sette dei _Postuma_ di Olindo Guerrini.

Veramente lavoro d’arte nel libretto del Guerrini ce n’era, e c’erano
dei versi molto felici e molto girati bene, come diceva il Carducci;
ma c’era anche molta imitazione, e della roba scadente e volgare. Ciò
che fece la fortuna, veramente straordinaria, del libro, fu, oltre la
materia appartenente per tre quarti al genere voluttuario, la grande
facilità della verseggiatura, la naturalezza e semplicità della lingua
e dello stile. Non un verso duro, non una rima stiracchiata, non una
parola, non una frase, che non fosse a tutti chiarissima. Chi leggeva
capiva e si divertiva; e gli pareva che se avesse avuto voglia di fare
dei versi, li avrebbe voluti fare a quel modo. Ma certo anche il genere
entrò per buona parte nella fortuna del libro. Erano gli anni in cui le
porcherie dei romanzi dello Zola, non dirò erano perdonate all’autore
in grazia dell’arte sua, ma acquistavano ad essa ammiratori e lettori.
«Oggi in Italia, diceva un amico mio, parlando delle poesie del
Guerrini, per i _crevés_ ci vuole quel genere, come negli ultimi del
regno di Luigi Filippo e del secondo Impero: non vogliamo più sapere
delle grandi idee, delle grandi questioni, dei grandi amori del bello
e del vero, della grande arte: dateci della porcheria, dice la gioventù
scettica che vien su, dice la gente di mezza età affarista e vigliacca,
dicono i vecchi corrotti, e la canea dei critici e dei giornalisti
e dei professori e dei ciarlatani, dateci della porcheria, qui siamo
tutti d’accordo, qui non v’è più partito.»

Il volume, delle _Odi barbare_ venuto fuori quando d’ogni parte e
su tutti i giornali suonavano le lodi della felice facilità delle
poesie del Guerrini, non poteva naturalmente incontrare il gusto del
pubblico. Se nei primi tre o quattro giorni se ne venderono mille
copie, ciò si deve al fatto che la fama del poeta posava oramai sopra
basi granitiche; un libro suo nuovo bisognava comprarlo: ma alla
grande maggioranza, che gustava i versi dei _Postuma_ scorrenti come
un giulebbe, quelli delle _Odi barbare_ doveano di necessità parere
duri, sversati, sgarbati. Il Trezza ne scrisse un articolo di lode,
ragionato bene, nel _Diritto_; e un altro pure lodativo, ma leggiero,
il Barrili nel _Caffaro_. Ma di lì a poco, apriti cielo: scoppiò da
tutte le cateratte del giornalismo italiano un diluvio di censure
contro l’opera del _grande_, del _potente_, del _poderoso_ poeta, che
questa volta, poveretto, aveva perduto la bussola. Le critiche erano
un ammasso di bestialità, ma erano spontanee, sincere; erano uno sfogo
irresistibile di gente che non poteva trattenere più il peso delle idee
che le gravava l’intestino cerebrale, e doveva pure liberarsene, per
non scoppiare.

Passato il diluvio, e spazzatene le lordure nelle fogne, tornò a
splendere il sereno del buon senso; le bellezze delle _Odi barbare_
furono più generalmente comprese; e lo stesso Guerrini, uomo d’ingegno
vero, e fine e versatile, cominciò a farne anche lui.

L’anno dopo mise fuori un nuovo volume di versi, _Nova Polemica_,
migliore del primo, ma che non ebbe così grande e intero successo come
quello, per molte ragioni che qui sarebbe fuor di luogo cercare.

Le _Odi barbare_ ebbero anche il merito di suscitare importanti
questioni d’arte e di metrica, che non furono inutili al progresso
degli studi.

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Nel luglio e nell’ottobre del 1877 il Carducci andò a Perugia
commissario per gli esami di licenza liceale. «Qui il paese è veramente
bello, mi scriveva il 26 di luglio, tale che fa intendere la Scuola
umbra: che linee d’orizzonte, che digradare vaporoso di monti in
lontananza! Fui ad Assisi: è una gran bella cosa, paese, città e
santuario, per chi intende la natura e l’arte, nei loro accordi con la
storia, con la fantasia, con gli affetti degli uomini. Sono tentato
di fare due o tre poesie su Assisi e san Francesco.» Peccato che non
facesse altro che il bel sonetto _Santa Maria degli angeli_. Invece
nell’ottobre «passeggiando per la piazza Vittorio Emanuele, ov’era una
volta la Fortezza Paolina, e onde si vede oggi un panorama dell’Umbria,
che, fra le vedute non di mare, è certamente una delle più belle
d’Italia», cominciò il _Canto dell’amore_, che finì e pubblicò nel
gennaio dell’anno appresso pei tipi Zanichelli. Poi nel novembre 1878
la visita dei Reali a Bologna gli ispirò l’ode alcaica _Alla Regina
d’Italia_, che fu pubblicata l’anno stesso dagli stessi editori.

L’ode _Alla Regina_ suscitò le ire dei democratici repubblicani, i
quali oramai consideravano il Carducci come il poeta del loro partito.
Ma diciamo subito che ne provarono un senso come di sorpresa alcuni
degli amici stessi del poeta: il Nencioni fra gli altri e chi scrive
queste pagine; non per l’ode in sè, nella quale niente è di dinastico,
ma per il fatto che l’autore della _Consulta araldica_ e di _Versaglia_
avesse scritto un’ode _Alla Regina_. Il Nencioni, che non partecipò mai
le ammirazioni del Carducci per Robespierre e Saint-Just, appena letta
l’ode mi scrisse: «Che ti pare dell’ode alla Regina del Carducci? A me
ha fatto una curiosa impressione un’ode alla Regina scritta da Enotrio
Romano.» E mi lodava alcune parti dell’ode che più gli piacevano. Io
non nascosi al Carducci la mia impressione, ch’era su per giù quella
stessa del Nencioni; e il Carducci mi rispose spiegandomi come la cosa
era andata. «Anzi tutto, mi scrisse, l’ode me la ispirò Lodi. Per far
dispetto al _Fanfulla_ e a’ monarchici rabbiosi, perchè non fa un’ode
alla Regina? Tanto lei ha rifiutato la croce di Savoia, e nessuno ha un
appicco a dire, che voglia ringrazionirsi. Si può esser gentili senza
essere apostati.» Soggiungeva, aver saputo fino dal giugno innanzi
come la Regina ammirasse le sue poesie, e specialmente le odi barbare,
come avesse espresso il desiderio di vederlo quando andava a Bologna,
come avesse voluto ch’egli fosse proposto per la croce del merito;
soggiungeva avergli essa parlato con molta cortesia delle sue poesie.
«Tu intendi, proseguiva, che dopo tutto quello che di me e delle mie
poesie e delle odi barbare avevano detto e scritto i consorti, quelle
lodi e quelle attenzioni mi piacquero. Imparate un po’, canaglia, a
essere almeno educati: chè in quanto a capir qualche cosa è tempo
perduto. E credo che la Regina abbia veramente capito delle odi
barbare più assai che molti poeti e critici italiani. Ella è figlia
d’una donna sassone, ed è stata avvezza a leggere la poesia tedesca.
Se sapessero i poeti delle barcarole e i critici delle mandolinate
che io scrivo che un mezzo per capire le mie odi barbare è conoscere
la poesia tedesca! Ma tu m’intendi. I giornali clericali dicono: Dopo
Passanante, Carducci: il Carducci ha fatto l’attentato su la Regina;
e se la pigliano con la Regina che lodò le odi barbare. Arcangelo
Ghisleri nella _Rivista Repubblicana_ scrive un mucchio d’insolenze
e d’ignorantaggini e scipitaggini. La _Perseveranza_ scrive che al
suon delle odi alcaiche si vuol far l’evoluzione dalla monarchia alla
repubblica. Aurelio Saffi — lo riscontrai, dopo due mesi, la prima
volta, il giorno che si vendeva l’ode, — mi disse: — Prima di tutto, mi
rallegro di cuore per la bellissima ode. Voi avete dato una nobilissima
prova della squisitezza e gentilezza dell’animo italiano. Altro che ode
barbara! — Dopo tutto ciò io sono contento di me.»

Il Ghisleri aveva nel suo articolo _mandato_ il Carducci _a scuola di
dignità dal Foscolo_, scrivendo, fra le altre, queste parole: «Che
direbbe lo sdegnoso cantore delle _Grazie_ nel vederle oggi buttate
in pascolo alla folla come un _instrumentum regni_?» E il Carducci
scriveva a me: «Ugo Foscolo non si contentò di fare de’ versi berenicei
su la Viceregina, ma stiaffò tanto d’Aiace sul viso a quel povero
Beauharnais che anche titolava di vigliacchi gl’Italiani, e mandò i
suoi versi a Milano perchè fossero veduti e approvati.»

Le ragioni addotte dal Carducci escludevano il più lontano sospetto
di cortigianeria dalla composizione dell’ode, e chi lo conosceva non
poteva avere avuto neppur l’ombra di tale sospetto; ma sopra tutte le
altre ragioni dell’averla composta stava, secondo me, questa, ch’egli
accenna in fine della lettera ad Achille Bizzoni del 19 gennaio
1879: «La Regina è una bella e gentilissima signora, che parla molto
bene, che veste stupendamente: ora non sarà mai detto che un poeta
greco e girondino passi innanzi alla grazia e alla bellezza senza
salutare.»[47] Insomma ciò che vinse il poeta fu l’_Eterno femminino_.
Il suggerimento del Lodi non avrebbe trovato l’animo di lui così
disposto ad accoglierlo, s’egli non avesse avuta già piena la mente
della visione della Regina nel breve passaggio di lei per Bologna.
Scritta l’ode, sentì più tardi il bisogno di spiegarne l’origine,
e scrisse la bella prosa _Eterno femminino regale_, pubblicata
nella _Cronaca bizantina_ del 1º gennaio 1882. Ma il fatto è che,
pur seguitando a credersi e proclamarsi repubblicano, il poeta con
quell’ode e con quella prosa muoveva i primi passi verso il suo ritorno
alla monarchia.

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                                  * *

Oramai i metri barbari erano entrati nel patrimonio artistico del
poeta; ed egli, pur allargandone le forme e perfezionandole, da qui
innanzi seguiterà a poetare ora in questi, ora negli antichi metri
rimati, secondo che gli uni o gli altri gli parrà si accordino meglio
alla forma organica con la quale i sentimenti e i pensieri poetici gli
si andranno determinando nella mente.

La seconda edizione delle _Odi barbare_ fu pubblicata nel 1878, con
innanzi il mio discorso su _I critici italiani e la metrica_ di esse
odi; la terza nel 1880 con la giunta di una _Bibliografia di alcune
opere del Carducci_.

Quando questa uscì, egli aveva già composto altre quattro delle più
belle fra le nuove _Odi barbare_: tutte quattro nel 1879: _Saluto
italico_ nel gennaio, _Pel Chiarone_ nell’aprile, _Per la morte
di Napoleone Eugenio_ nel giugno, _Fuori alla Certosa di Bologna_
nell’agosto. Le prime strofe dell’ode per Napoleone, ch’è e rimarrà
non solo una delle più belle fra le odi barbare, ma una delle più
belle liriche del Parnaso italiano, le scrisse fra un esame e l’altro
all’Università, letta ch’ebbe nei giornali la notizia della morte del
giovane principe. Uscito, andò alla libreria Zanichelli, chiese una
carta d’Aiaccio, la considerò un istante, si fece prestare un giornale
illustrato ove era una figura della casa ove nacque Bonaparte, e
tornato a casa, fra la sera e la mattina seguente finì l’ode. Ne aveva
cominciate anche altre; fra le quali fino dall’8 luglio 1878 _Miramar_,
che rimase incompiuta fino al settembre 1889. Tanto questa che _Saluto
italico_ gli furono ispirate dalla visita ch’egli fece a Trieste
appunto nel luglio 1878.




CAPITOLO VII.

(1878-1883.)

  L’ode _Saluto italico_. — Visita a Trieste. — Scritti per Guglielmo
  Oberdan. — Il _Fanfulla della Domenica_. — Il Carducci a Roma.
  — Il Carducci e il Prati. — Enrico Nencioni. — Il _Bothwell_ del
  Swinburne e il libraio Goodban. — Angiolino Sommaruga. — I saloni
  gialli del _Capitan Fracassa_ e la corte letteraria alla _Cronaca
  bizantina_. — Il Carducci e la _Cronaca bizantina_. — La _Domenica
  letteraria_. — La _Domenica del Fracassa_. — Arresto del Sommaruga.
  — Opinione di Gandolin sul Sommaruga in America. — Il Carducci al
  Consiglio superiore dell’istruzione. — Vita del Carducci a Bologna
  dopo il 1870. — Le serate da Rovinazzi e da Cillario. — Il pasto
  del mago. — I dodici sonetti _Ça ira_. — Le critiche ai sonetti. —
  Il _Ça ira_ in prosa.


    Oh al bel mar di Trieste, a i poggi, a gli animi
    volate col nuovo anno, antichi versi italici:

    ne’ rai del sol che San Petronio imporpora
    volate di San Giusto sopra i romani ruderi!

    Salutate nel golfo Giustinopoli,
    gemma de l’Istria, e il verde porto e il leon di Muggia;

    salutate il divin riso de l’Adria
    fin dove Pola i templi ostenta a Roma e a Cesare!

    Poi presso l’urna ove ancor tra’ due popoli
    Winckelmann guarda, araldo de l’arti e de la gloria,

    in faccia a lo stranier, che armato accampasi
    su ’l nostro suol, cantate: Italia, Italia, Italia!

L’ode _Saluto italico_, cui appartengono questi versi, composta, come
fu detto, nel gennaio del 1879, fu pubblicata la prima volta nel n.
4 (21 aprile 1879) della _Giovine Trieste_, giornale irredentista
rivoluzionario, che si stampava a Roma, con la falsa data di Trieste,
e si diffondeva nelle terre irredente. L’autore tentò in quell’ode
un nuovo metro barbaro, in risposta a Paulo Fambri, che col nome di
_Molosso_ aveva fatto nel _Fanfulla_ una critica molto spropositata
della metrica delle _Odi barbare_. L’ode comincia:

    Molosso ringhia, o antichi versi italici,
    ch’io co ’l batter del dito seguo o richiamo i numeri

    vostri dispersi, come api che al rauco
    suon del percosso rame ronzando si raccolgono.

    Ma voi volate dal mio cuor, com’aquile
    giovinette dal nido alpestre ai primi zefiri: ecc.

Il Carducci rispose sempre così alle critiche irragionevoli. Ma questo,
che riguarda soltanto la parte formale della poesia, era il meno;
l’importante era la sostanza di essa, era il sentimento e lo spirito
che glie l’avevano dettata; e l’importanza maggiore della forma stava
in ciò, che, a portare il saluto della patria alle antiche terre
italiche ancora divise da lei, il poeta non aveva trovato messi più
degni degli antichi versi italici.

                                   *
                                  * *

Il Carducci era, ed è certo ancora in cuor suo, un irredentista; nè
può se non deplorare che la parola _irredentismo_ sia oramai quasi
cancellata dal vocabolario e dai cuori degli italiani. Gli scritti
su Oberdan, ch’egli ha raccolti e ristampati nel dodicesimo volume
delle _Opere_ pubblicato nell’anno scorso, sono una fiera rampogna
del poeta all’Italia. Non mai come ora fu vero il verso tante volte
rimproveratogli: «la nostra patria è vile.» E pure, diciassette anni fa
egli sperava ben altro.

E ben altro pensava quando nel luglio del 1878 andò, come dicemmo, a
visitare Trieste.

Il suo nome, il suo patriotismo, le sue poesie erano ben note agli
italiani delle provincie irredente; onde egli ricevè là un’accoglienza
entusiastica.

Il giornale _L’Indipendente_ annunziava l’8 luglio il suo arrivo
con queste parole: «Abbiamo da ieri fra noi l’illustre poeta Giosue
Carducci, il quale, trovandosi a Venezia per ragione di studi, volle
visitare anche la nostra città.» E due giorni dopo rendeva conto
del banchetto col quale gl’italiani di Trieste celebrarono il lieto
avvenimento.

«Ieri dopo pranzo, nella sala del Monte Verde, un’eletta di cittadini
raccoglievasi a geniale banchetto, per festeggiare, auspice la Società
di Minerva, Enotrio Romano.

»Erano là rappresentate tutte le classi della cittadinanza; il nostro
piccolo ma laborioso mondo artistico, le migliori notabilità del fôro
e della stampa, e le rappresentanze delle più cospicue associazioni
liberali.

»Intorno a quel desco Enotrio Romano raccolse numerosi e cordiali
saluti: — il saluto della giovine letteratura, ardente di nobile volere
nel cammino segnato dai grandi, — il saluto della classe lavoratrice,
in cui le febbri dell’avvenire si rattemprano fra il sudato fervore
delle officine; — il saluto di quella Tergeste che lavora e spera,
colla fiducia ch’è degli onesti e colla perseveranza ch’è dei forti.

»Enotrio Romano udì incrociarsi intorno a lui l’evviva cordiale alle
patrie associazioni e al nome venerando di chi ne propugnò i diritti; —
udì, intorno a lui, la parola di quella concordia, ch’è il vincolo più
robusto e più bello tra le classi della nostra cittadinanza.

»E Giosue Carducci rispose con profonda commozione, con sentito
affetto; — rispose parole che non possono uscire che dall’anima di un
grande, che sente, che ama e che comprende.»

Alla sera due imbarcazioni di canottieri attendevano al molo San
Carlo il poeta, per condurlo, in compagnia di alcuni dei partecipanti
al banchetto, a fare una passeggiata in mare; la mattina di poi
una ristretta brigata d’amici lo accompagnò a visitare la vicina
Capodistria, dove si rinnovarono le cordiali accoglienze. Aveva deciso
di partire la sera, ma, cedendo alle vive insistenze degli amici,
rimise la partenza alla mattina dipoi. Quando partì, la stazione era
affollata di cittadini d’ogni classe, recatisi a stringergli la mano.
Egli era commosso. Le sue ultime parole nel congedarsi da loro, furono:
A rivederci presto!

                                   *
                                  * *

I sentimenti e i pensieri che la visita a Trieste suscitò e lasciò vivi
e incancellabili nel cuore e nella mente del Carducci sono adombrati
nell’ode _Saluto italico_; ma proruppero poi veementi e feroci quattro
anni appresso quando Guglielmo Oberdan, glorioso ma inutile martire,
salì il patibolo. Victor Hugo e Francesco Carrara avevano chiesto
all’Imperatore la grazia del condannato. Victor Hugo gli aveva detto:
_Siate grande_; il Carrara: _Siate magnanimo_. Il Carducci scrisse:

«No, perdoni il grande poeta: no, Guglielmo Oberdan non è un
_condannato_.

»Egli è un _confessore_ e un _martire_ della religione della patria.»

                             . . . . . . .

«Egli andò, non per uccidere, io credo, per essere ucciso.

»E oggi in questa oscurazione d’Italia, c’è un punto ancora della sacra
penisola che risplende come un faro: ed è la tua austriaca prigione, o
fratello!

»Tutte le memorie, tutte le glorie, tutti i sacrifizii, tutti i
martirii, tutte le aspirazioni, tutte le fedi, sonosi raccolte là,
nella oscurità fredda, intorno al tuo capo condannato, per consolarti,
o figliuolo, o figliuolo d’Italia!

»Oh poesia d’una volta! Chi potesse pigliare il tuo cuore e darne a
mangiare a tutti i tapini della patria, sì che il loro animo crescesse
e qualche cosa di degno alla fine facessero! — Oh poesia d’una volta!
Chi potesse, consolandoti anzi morte con la visione del futuro, farti
segno di rivendicazione, e trarre intorno la imagine tua, e batterla su
i cuori, gridando: Svegliatevi, o dormenti nel fango, il gallo rosso ha
cantato

»No, l’Imperatore non grazierà. No — perdoni il grande poeta —
l’Imperatore d’Austria, non che fare _cosa grande_, non farà mai cosa
giusta. La giovine vita di Guglielmo Oberdan sarà rotta sulla forca: e
allora, anche una volta,... sia maledetto l’Imperatore!...

»A giorni migliori — e verranno, e la bandiera d’Italia sarà piantata
su ’l grande arsenale e su i colli di San Giusto, — a giorni migliori,
l’apoteosi.

»Ora, silenzio.»[48]

Così scriveva il Carducci il 19 dicembre 1882 nel _Don Chisciotte_ di
Bologna.

E il giorno di poi:

«Guglielmo Oberdan fu fucilato o impiccato questa mattina alle ore 9 in
Trieste.

»È austriacamente naturale.

»L’Imperatore si affrettò a rispondere così al poeta francese, che lo
sperava grande; al professore italiano, che lo invocava magnanimo.

»È austriacamente più che naturale.»[49]

Due giorni dopo:

«Italiani, facciamo un monumento a Guglielmo Oberdan!

»Ma no, monumento. La lingua academica di questa età gonfia e vuota mi
ha tradito.

»Volevo dire: Segniamo sur una pietra, che resti, la nostra obligazione
con Guglielmo Oberdan.

»Guglielmo Oberdan ci getta la sua vita, e ci dice: Eccovi il pegno.
L’Istria è dell’Italia.

»Rispondiamo: Guglielmo Oberdan, noi accettiamo. Alla vita e alla morte.

»Riprendemmo Roma al papa, riprenderemo Trieste all’Imperatore.

»A questo Imperatore degli impiccati.»[50]

Nell’ira sua il Carducci sperava che il volontario martirio del giovine
triestino non sarebbe stato inutile. E il 27 luglio del 1885, ad un
telegramma dell’_Indipendente_, che portavagli in Carnia, dov’egli era
a villeggiare, i saluti e gli auguri dei Triestini pel suo genetliaco,
rispondeva così: «Cari signori, Vi ringrazio. In mezzo secolo che
ho vissuto vidi gran cose. Me ne sa male pe’ miei nemici; ma spero
di campare almeno altri sedici anni; e conto di vedere ancora cose
bellissime; vederle e farne parte; non maestro, ma compagno e fratello
anziano della nobile gioventù che ama la patria. Ora e sempre vostro
Giosue Carducci.» Ecco perchè io dissi che diciassette anni fa sperava
ben altro. I sedici anni sono passati; ma la sola cosa, certo non
bellissima, ch’egli ha potuto vedere è stata la conferma per altri
dodici anni della triplice alleanza.

Il poeta stava rivedendo le bozze dei suoi scritti su Oberdan, raccolti
nel vol. XII delle _Opere_, e il Ministero Zanardelli firmava la nuova
e più lunga rinunzia alla rivendicazione di Trento e Trieste.

Abbandoniamo il malinconico argomento e torniamo a parlare di poesia.

                                   *
                                  * *

Il 24 agosto dell’anno 1879 il Carducci mi scriveva: «Ora ho il
pensiero a finire _Sirmione_ e potendo l’_Aurora_; poi delle odi
barbare ne ho in mente anche parecchie; e se saprò temperare e fondere
bene le imagini e i concetti con la forma regolare e chiara, spero
che qualche cosa di buono verrà fuori.» Nell’anno seguente aveva, non
pure finito l’_Aurora_, ma composte altre quattro nuove odi barbare:
_La Madre_ (gruppo di Adriano Cecioni) nell’aprile, _Una sera di San
Pietro_ e _Sogno d’estate_ nel luglio, e l’ode _A Giuseppe Garibaldi_
nel novembre.

Nel luglio dello stesso anno 1879 Ferdinando Martini fondò il _Fanfulla
della Domenica_. «Cosa bella mortal passa e non dura», disse il
poeta; e si sapeva anche prima. Non è quindi a meravigliare se il
bel _Fanfulla della Domenica_ del Martini durò poco più di due anni
e mezzo: ma finchè durò fu un piacere. Ogni buon italiano, più o
meno amante di letteratura, più o meno desideroso di istruirsi e di
procurarsi con poca spesa uno svago intellettuale, poteva ogni domenica
che Dio metteva in terra, svegliandosi alla mattina e uscendo di casa,
comperarsi con la tenue moneta di due soldi quattro grandi pagine, e
talora, con quattro soldi, otto pagine di scritti, ove era distillato
il meglio di ciò che producevano settimanalmente i migliori letterati
d’Italia. L’ingegno facile elegante simpatico del Martini aveva saputo
raccogliere intorno a sè e disciplinare l’opera dei più valenti
scrittori del tempo, dando al giornale un’impronta di serietà e di
agilità che contentava i gusti più difficili. Il Martini naturalmente
cercò il Carducci, e il Carducci fu uno dei più assidui scrittori del
_Fanfulla della Domenica_. Le odi barbare _Alla Certosa di Bologna,
Pe ’l Chiarone, La madre, Sogno d’estate, Una sera di San Pietro,
All’aurora_, ed altre sei poesie, fra le quali quella _Pel processo
Fadda_, videro per la prima volta la luce nel giornale del Martini;
e parecchie prose, le polemiche col De Zerbi su Tibullo, due scritti
sull’Ariosto, quello sul Littré, ed altri.

Il _Fanfulla della Domenica_ mi conduce a dire qualche parola degli
altri giornali letterarii sbocciati a Roma intorno a quel tempo, delle
relazioni che ebbe con essi, con uno specialmente di essi, il Carducci,
e delle gite di lui a Roma.

                                   *
                                  * *

Mario Menghini errò affermando che il Carducci visitò Roma la prima
volta nell’estate del 1872.[51] Forse, per una facile confusione di
ricordi, scambiò il 1872 col 1874. Ma quella del 1874 fu una visita
per modo di dire, poichè, non potendo trattenersi che poche ore,
il Carducci vide soltanto il Pantheon, il Colosseo e le Terme di
Caracalla. Così mi disse egli stesso; ed aggiunse: «San Pietro lo
lasciai al Papa.» La vista di quei monumenti, per quanto fugace, dovè
certo fargli grande impressione; ma l’impressione non si tradusse per
allora in fantasmi poetici bisognosi di fissarsi immediatamente nella
strofe e nel verso.

Rivide poi la città tre anni dopo, nel marzo del 1877; e quella fu
la vera prima sua visita a Roma. Egli la vide allora a suo agio, in
compagnia di un amico, che la conosceva a palmo a palmo, Domenico
Gnoli; e la vista gli suscitò tale un tumulto di sentimenti e
d’idee, che tornato a Bologna scrisse nell’aprile le due odi barbare,
_Nell’annuale della fondazione di Roma_, e _Dinanzi alle Terme di
Caracalla_.

    Salve Dea Roma! Chinato a i ruderi
    del Fôro, io seguo con dolci lacrime
    e adoro i tuoi santi vestigi,
    patria, diva, santa genitrice.

Visitando i gloriosi avanzi della città immortale, in compagnia
dell’amico, vedeva in ogni sasso in ogni rudere rivivere dinanzi agli
occhi suoi un pezzo della storia di quel gran popolo che gli aveva
acceso nella fantasia, fin da ragazzo, quelli che rimasero poi sempre i
più alti ideali della sua vita.

Molti poeti, specialmente stranieri, hanno sentito la poesia di Roma
antica; nessuno, credo, l’ha sentita ed espressa così profondamente,
così altamente come il Carducci, perchè nessuno ebbe alto come lui il
concetto della città fatale, nessuno ebbe, come lui, pieno il cuore
e la mente della grandezza e della gloria di lei, nessuno credè, come
lui, che, tornata ad essere la capitale d’Italia, ella dovesse colla
sola virtù del suo nome e delle sue memorie fare assurgere la patria
alla dignità dei suoi antichi destini.

Nei giorni di quella prima visita del Carducci a Roma, trovandosi
egli una sera al Caffè del Parlamento, in compagnia dell’amico
Gnoli, questi gli disse, accennando un signore piuttosto vecchio, che
seduto ad un tavolino dirimpetto consumava una quantità di cerini per
accendere un sigaro, che gli rimaneva sempre spento fra le labbra:
— Non conoscete quel signore là? — No. — È il Prati: volete che vi
presenti? — Volentieri: l’ho veduto alcuni anni sono a Firenze; ma ora
non lo avrei riconosciuto. — I due amici si alzarono, e avvicinatisi
al tavolino dinanzi al quale il vecchio bardo sedeva, lo Gnoli fece
la presentazione. — Davvero, questi è il professor Carducci? fece
il Prati, rallegrandosi tutto: oh come sono contento di conoscervi!
bravo, bravo! sedetevi qui accanto a me; — e come il Carducci si fu
seduto, aggiunse: — Ma sapete che voi avete composto alcune poesie
sotto le quali io metterei volentieri il mio nome? — Con queste parole
il vecchio bardo credè di aver fatto al Carducci il più grande elogio
possibile; e il Carducci con una modestia sincera, che oggi non è più
di moda, si tenne onorato di quelle parole, e ringraziò con effusione.

Dopo il 1877 il Carducci tornò a Roma ogni anno, spesso più d’una
volta, datagliene occasione dalle adunanze della Giunta per la licenza
liceale e del Collegio degli esaminatori, di cui faceva parte. Due
volte ci venimmo insieme; e mi ricordo che fra le cose che volle sempre
vedere e rivedere erano le Terme di Caracalla e il Gianicolo. «Se io
abitassi a Roma, mi diceva una mattina mentre salivamo il colle famoso,
vorrei trovarmi una casa quassù, per contemplare la posizione fatale
della divina città.»

                                   *
                                  * *

Nel 1880 venne a stabilirsi a Roma Enrico Nencioni; nel 1881 ci venne
Angiolo Sommaruga; il più vecchio amico del Carducci, e il nuovo
editore delle opere sue. Vennero entrambi a cercarvi lavoro.

Quando dopo il 1860 gli _amici pedanti_ si dispersero, condotti
ciascuno dai casi della vita in una città diversa, il Nencioni aveva
già lasciato Firenze, per cominciare la sua _via crucis_ di precettore
privato in case patrizie; la quale _via crucis_ durò, con qualche breve
interruzione, e qualche vano tentativo di uscirne, più di venti anni.

Non so se per effetto di essa, o anche un po’ per la natura sua, egli,
che aveva cominciato giovanissimo a scrivere, e a venti anni aveva
già pubblicato dei versi, in quel lungo periodo che abbraccia tutta la
sua giovinezza e la virilità non scrisse e non pubblicò quasi niente.
I soli scritti da lui pubblicati sono, credo, l’articolo su Roberto
Browning nella _Nuova Antologia_ del luglio 1867, e alcune appendici
letterarie nel giornale politico _L’Italia Nuova_ fondato nel 1870 da
G. Barbèra e diretto dal Bargoni; giornale ch’ebbe pochi mesi di vita.

Il povero Nencioni, che aveva fondato grandi speranze sopra di esso,
le vide sul più bello sfumare; e per un cumulo di circostanze, alle
quali non fu estranea una certa sua irresolutezza, non gli fu possibile
trovare un posto nelle scuole o in qualche ufficio pubblico in quelli
anni dal 1860 al 1880, nei quali tanta gente che valeva meno di lui
seppe mettersi a posto.

Se la condizione di precettore privato gli creava molti legami, gli
lasciava tuttavia assai tempo da leggere e studiare per conto suo,
e gli forniva mezzi da comprar libri. Ed egli (questa era la sua
grande felicità) ne comprava e leggeva continuamente. Era un lettore
appassionato, instancabile, un vero divoratore di libri. Ed era un po’,
come il Carducci e come me, bibliofilo e bibliomane. Un libro nuovo di
Victor Hugo, del Browning, del Swinburne, lo teneva incatenato per ore
ed ore, facendogli dimenticare ogni altra occupazione. E l’aspettazione
di un libro nuovo era per lui una febbre.

Ne citerò un esempio. Egli aveva nel maggio del 1874 ordinato al
libraio Goodban di Firenze due copie del _Bothwell_ del Swinburne,
una per sè, una per me. Il 13 giugno mi scrive: «Caro Chiarini; Apri
l’orecchio al mio annunzio, e odi, e inorridisci! Ieri sera entrai così
_en flânant_ da Goodban. Vedo là sul banco un bellissimo e grossissimo
volume legato in tela celeste. Attratto da una corrente _magnetica_,
lo prendo, e leggo: _Swinburne’s Bothwell_. — Ma dunque c’è già il
_Bothwell_! Ha questa copia sola? — Oh, è una settimana che questa
era venuta per la posta per M.r Russell; ma non l’ha voluta perchè
c’è una pagina rotta. — Dove? — Guardi qua. — Infatti, non una, ma due
pagine son lacerate, e manca il pezzo stampato. — O che ne fa di questo
volume? — Lo rimando all’editore: ho già scritto. — Costa? — Lire 24, e
il 20 per cento di commissione. — Me lo dia per 20, e lo prendo io così
com’è — Non posso — Perchè? — Perchè l’editore deve sapere, vedere,
avere una lezione ec. ec. — Scappai, per non offrirgli 24, 30, 40 lire,
quel che voleva.... Il cane Goodban mi dette parola che al più tardi
il 30 giugno avremo le due nostre copie commesse. Io sognerò di questo
libro finchè non l’ho.»

In quei venti e più anni è facile immaginare quanto il Nencioni
lesse di libri italiani, francesi, inglesi e tedeschi. Della lingua e
letteratura francese ed inglese divenne in breve assolutamente padrone.
La letteratura tedesca la conosceva fino da giovane nelle traduzioni
italiane e francesi; poi studiò anche la lingua, tanto da poter leggere
e gustare nell’originale il Heine ed altri poeti meno difficili. Come
e perchè in questo lungo periodo di tempo, nel quale venne accumulando
tanto materiale di cognizioni sulle letterature moderne, quasi
sconosciute in Italia, gli mancasse l’occasione o la voglia, o l’una e
l’altra insieme, di scrivere e pubblicare, io, come già accennai, non
saprei dire esattamente. Forse gli bastava la felicità di poter leggere
e studiare per sè, e comunicare la felicità sua con qualche amico.

Ma finalmente nel 1880, a quarantatrè anni, finita l’educazione
dell’ultimo suo alunno, il Principe di Caramanico, un giovane che fa
onore al maestro, bisognò prendere una risoluzione; ed egli la prese,
ed eroica: si ammogliò il 27 ottobre a Firenze, e ai primi di novembre
mise casa a Roma, deliberato di vivere del suo lavoro di scrittore, che
cominciava, si può dire, allora. Chi lo spinse alla risoluzione eroica
fu il Martini, offrendogli una larga collaborazione nel _Fanfulla
della Domenica_. Il Martini aveva conosciuto il Nencioni fino dalla
primissima gioventù (da ragazzi erano stati a scuola insieme), gli era
sempre rimasto amico, ed apprezzando giustamente l’ingegno e la cultura
di lui, aveva subito capito che sarebbe stato un collaboratore prezioso
pel suo giornale; nè s’ingannò. Il Nencioni fu uno degli scrittori
più assidui del _Fanfulla della Domenica_; scrisse poi anche in altri
giornali e nella _Nuova Antologia_; e i suoi scritti piacquero molto, e
lo fecero ben presto conoscere.

Prese casa in Via Goito; si sentiva beato di stare a Roma, dove vedeva
quasi ogni giorno il Martini, e, tutte le volte che vi capitava, il
Carducci; e dove fece in breve molte conoscenze, quelle del D’Annunzio
e del Sommaruga, fra le altre.

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                                  * *

Chi era e che cosa voleva a Roma Angelo Sommaruga? Lasciamolo dire
a Gandolin, che lo conobbe bene, e che era in grado di giudicarlo.
«Correva, scrive Gandolin, il fortunato e singolare periodo
dell’Abruzzo nell’arte: Michetti, Barbella, Tosti, D’Annunzio; la
pittura, la scultura, la musica, la poesia. Quest’Abruzzo aveva
allora il suo cenacolo naturale in quella brutta e simpatica sala
del _Capitan Fracassa_, che al pubblico era nota, o piuttosto ignota,
sotto questa pomposa denominazione: _i saloni gialli_.» Quei _saloni
gialli_, che poi erano una sala soltanto, di pochi metri quadrati,
«raccoglievano spesso le più note celebrità contemporanee.... Giovanni
Prati, Pietro Cossa, Paolo Ferrari, Giosue Carducci, Olindo Guerrini,
Enrico Panzacchi, Francesco De Renzis, Ferdinando Martini, Anton Giulio
Barrili, Aurelio Costanzo, Mario Rapisardi, Leone Fortis, Matilde
Serao, Gerolamo Rovetta, Gabriele D’Annunzio.... e una schiera infinita
d’artisti, dal Barabino al Ximenes, dal Gayarre al Maurel.... tutti
sono passati per i _saloni gialli_.

»Certo furono gl’invidiati _saloni gialli_ che consigliarono il
Sommaruga a istituire qualche cosa di analogo. Una mattina, mentre
stavo, solo, a quella scrivania che rappresentava l’autorità del
Direttore, e che poi era di tutti, vidi entrare, lungo, spettrale,
con quel sorriso strano che metteva in mostra i denti superiori
assai sporgenti, Angelo Sommaruga, che, con l’ombrello in mano e il
cappello in testa, si buttò a sedere sopra una poltroncina molto bassa;
occupando così, con la gettata delle gambe, e la proiezione dei piedoni
enormi, quasi tre quarti dell’uffizio. Egli cominciò a parlarmi, con
quel suo gergo italo-meneghino, di un certo suo progetto di fondare
una casa editrice, con la base di un gran giornale letterario, e a
proporre delle combinazioni — scambio d’articoli, premi agli associati,
_réclame_ comune, e via dicendo — col _Capitan Fracassa_.

»Quel progetto del quale mi parlava assai vagamente era invece maturo.
Il Sommaruga si impadronì dell’Abruzzo, e prese in affitto, al cantone
di Via Due Macelli, quel mezzanino che doveva diventare la famosa
redazione della _Cronaca bizantina_. L’Abruzzo popolò di distici e
di pupazzi le pareti: il Tosti andò a canticchiarvi sul pianoforte le
sue canzoncine montanare, e finalmente il Sommaruga potè vantarsi di
avere i suoi _saloni gialli_, giocondati dalla presenza giunonica di
Adele Mai, la stupenda mima che doveva essere (perdono, o signora!) la
Vittoria Colonna di quella corte letteraria.»[52]

Non so se i _saloni gialli_ della _Bizantina_ surrogassero in
tutto e per tutto quelli del _Capitan Fracassa_; so che nella Corte
letteraria giocondata dalla presenza giunonica della Mai, primeggiavano
il D’Annunzio, lo Scarfoglio, Giulio Salvadori, Cesario Testa
(Papiliunculus); e so che quando trovavasi a Roma, vi era assiduo
il Carducci, il quale aveva fatto soltanto qualche rara apparizione
al _Capitan Fracassa_. Quando egli capitava alla _Bizantina_, tutti
gli Dei minori della Corte sommarughiana gli si stringevano intorno
rendendogli omaggio come a sovrano.

Anche il Nencioni bazzicò, credo, gli uffici della _Cronaca bizantina_;
ma, come il Carducci, non vide nulla, non capì nulla del lavorio
tenebroso che là si faceva dalla gente che voleva riuscire a qualunque
costo, con qualunque mezzo.

                                   *
                                  * *

Il Sommaruga, prima di venire a Roma a tentare l’attuazione dei suoi
progetti, aveva stimato opportuno assicurarsi la cooperazione del
Carducci. Era per questo effetto andato a Bologna, e presentatosi al
poeta, gli aveva parlato della fondazione della _Cronaca bizantina_ e
chiestogli per essa articoli e poesie con profferta di larghi compensi.
Il Carducci, sempre disposto ad aiutare l’operosità coraggiosa e le
ardite iniziative, aveva accettato l’offerta e promessa l’opera sua.

Indi a poco l’editore e il poeta rivedutisi a Roma confermarono
il patto stretto a Bologna. E il 15 giugno del 1881 uscì il primo
fascicolo della _Cronaca bizantina_, portante per motto nella testata
due versi del Carducci (_Impronta Italia domandava Roma — Bisanzio essi
le han dato_), ed avente inquadrata nella prima pagina l’ode barbara,
_Ragioni metriche_. Il giornale era di gran formato, a quattro colonne,
in rosso e in nero, con grandi fregi e molta pretensione di eleganza
tipografica. Aveva fra i collaboratori, oltre gli Dei della Corte
sommarughiana, il Guerrini, il Panzacchi, il Cesareo, il Pascarella,
il Fontana, il Mantovani, il Pascoli, il Guarnerio, il Nencioni, il
Mazzoni, il Fleres ed altri.

Il Carducci diede alla _Bizantina_ nei primi diciotto mesi (giugno
1881-dicembre 1882) non meno di dodici poesie e quindici scritti
in prosa; nei due anni successivi (1883-84) cinque poesie e sei
articoli; e diede all’impresa editoriale i tre volumi di _Confessioni
e Battaglie_, un volume di _Conversazioni critiche_, e gli opuscoli
_Eterno femminino regale_, e _Ça ira_ (i famosi sonetti, ch’ebbero dal
Sommaruga non meno di sei edizioni).

In capo a due o tre anni la _Cronaca bizantina_ aveva raggiunto
una tiratura di dodicimila copie; così almeno dicevano gli annunzi
sommarughiani; e il Sommaruga aveva inondato il mercato librario di una
quantità di libri di sua edizione, alcuni dei quali avevano avuto una
fortuna straordinaria. Tutto dunque pareva procedere a vele gonfie. Ma
_chi troppo tira, la corda si strappa_.

Cinque mesi prima che il Sommaruga lanciasse la _Cronaca bizantina_
il Martini aveva abbandonato il _Fanfulla della Domenica_, e fondato
la _Domenica letteraria_, portando con sè il meglio dei suoi vecchi
collaboratori, alcuno dei quali, fra gli altri il Nencioni, pur
seguendolo rimase anche al _Fanfulla_. Questo fu il segnale della
dispersione delle forze, e il principio della fine dei giornali
domenicali. Nell’agosto del 1883 il Martini lasciò anche la _Domenica
letteraria_, la quale, passata nelle mani del Sommaruga, andò a poco a
poco perdendo terreno, benchè il Carducci vi seguitasse a scrivere per
tutto il 1883, e le desse anche un paio di articoli nell’84.

Quando io nel novembre 1884 venni a stabilirmi a Roma, il Sommaruga
offrì a me, per mezzo del Carducci, la direzione di quel giornale
con un largo compenso; ma io rifiutai. Accettai invece di dirigere la
_Domenica del Fracassa_, che i proprietari del _Fracassa_ quotidiano
avevano stabilito di fondare, per far concorrenza agli altri giornali
domenicali. Ma perchè la concorrenza avesse probabilità di riuscire
vittoriosa, ci volevano quattrini; e questi non c’erano.

                                   *
                                  * *

Intanto il Sommaruga «per l’avidità di un guadagno momentaneo, scrive
Gandolin, e la smania morbosa di _réclame_, si lasciò prendere in
quell’ingranaggio di odio e di scandali che furono le _Forche caudine_
dello Sbarbaro; e fu quello il segnale della decadenza, sebbene avesse
tentato di puntellare le sue imprese mediante un giornale quotidiano,
organizzato con una certa serietà d’intenti e di propositi, _Il
Nabab_.»[53]

Passarono pochi mesi, e la _Cronaca bizantina_ (n. 5, 1º marzo 1885)
annunziò qualmente Angelo Sommaruga «dopo aver passato in gaia comitiva
l’ultima notte di carnevale al veglione del Costanzi divertendosi....
non pria adagiato fra le morbide coltri, odorate di soavi ciprigne
fragranze, si vedesse apparire innanzi, col mandato di arrestarlo, un
esercito d’alti e bassi agenti di polizia.» Soggiungeva la _Cronaca_
che l’accusa sotto la quale il Sommaruga veniva arrestato era di
tentativo di ricatti; ma i lettori stessero pur tranquilli, che
Angiolino sarebbe uscito ben presto dalla durissima prova _deterso da
ogni macchia_. Invece, finito il processo, il Sommaruga, per quanto
_deterso_, stimò prudente di andare a prendere una boccata d’aria in
America.

«Quando egli lasciò l’Italia, scrive Gandolin, non pochi dissero: —
Vedrete che laggiù lavorerà sul serio, e farà fortuna. Dopo tutto è un
gran lavoratore, e avrà potuto adesso convincersi che il più fruttifero
dei lavori è sempre il lavoro onesto.» Ma Gandolin, che non era di
questa opinione, soggiunge: «Che!... il pero farà sempre delle pere:
e non succederà mai che un fico faccia delle albicocche. — Andato in
America, Angiolino fece il Sommaruga.»[54]

Inutile dire che il Carducci nella sua grande e ingenua bontà, non
sospettò mai che la _Cronaca bizantina_ «servisse di coperchio, come
dice Gandolin, ai non delicati maneggi del Sommaruga»; inutile dire che
disapprovò altamente e francamente il Sommaruga dell’avere accettato la
compagnia dello Sbarbaro per la pubblicazione delle _Forche caudine_;
e che fu ben lontano dall’approvare tutta la letteratura di che
l’_Abruzzo forte e gentile_ infiorò la _Cronaca bizantina_ e le altre
pubblicazioni sommarughiane. Ma, anche condannando il Sommaruga là dove
non poteva scusarlo, il Carducci non gli fu mai giudice molto severo.

La _Domenica letteraria_ passò dal Sommaruga alla _Tribuna_ e andò
sempre di male in peggio.

La _Domenica del Fracassa_ visse poco più d’un anno, dal 28 dicembre
1884 al 14 febbraio 1886; ma la sua vita breve non fu affatto
ingloriosa. Cominciò pubblicando nel primo numero la magnifica ode del
Carducci _Presso l’urna di Percy Bysshe Shelley_; e finchè visse, fu
l’unico giornale domenicale al quale il Carducci desse suoi scritti.
Le diede altre otto poesie, cioè tutte quelle che compose nel 1885, e
sette scritti di prosa.

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                                  * *

Nel 1881, con decreto regio del 12 maggio, il Carducci fu nominato
membro del Consiglio superiore della istruzione. Il Baccelli, allora
Ministro, aveva riformato il Consiglio, anche per ciò che concerne
le nomine dei Consiglieri; le quali, per effetto della riforma, si
facevano per una metà dalle Facoltà universitarie, per l’altra metà
dal Ministro. I nominati duravano in carica cinque anni, e non potevano
essere rieletti se non dopo un anno d’interruzione.

È notevole come nè questa prima volta, nè le altre successive nelle
quali il Carducci entrò nel Consiglio, non vi entrò mai per elezione
delle Facoltà, ma sempre per nomina del Ministro. E quelli che lo
videro all’opera attestano com’egli fosse diligente e scrupoloso nel
disbrigo degli affari che gli erano affidati.

L’ufficio di consigliere gli diede occasione di recarsi anche più
spesso a Roma. E a Roma passava quasi tutto il giorno a lavorare al
Ministero della istruzione o nelle biblioteche: la sera poi andava a
godersi un po’ di riposo e di svago nei _saloni gialli_ del Sommaruga.

                                   *
                                  * *

Questa, di prendersi un po’ di svago la sera, era, già lo sappiamo,
un’antica abitudine del Carducci. Questa abitudine e le altre che aveva
da Firenze e Pistoia portate a Bologna, non erano mutate, o di poco,
dopo il 1870, quando, come accennai, aveva fatto qualche relazione più
stretta con alcuni dei colleghi. La sua vita era rimasta suppergiù la
medesima, ed era questa:

La mattina, appena alzato, prendeva una tazza di caffè, che si
faceva portare in camera; indi passava nel suo studio a lavorare. A
mezzogiorno si sdigiunava con una tazza di cioccolata o due uova, e
riprendeva subito il lavoro; il quale durava fino verso le 2 nei giorni
che aveva lezione, e fino alle 5 o le 6 negli altri giorni. Nei giorni
di lezione stava chiuso nello studio più rigorosamente del solito, per
prepararsi, e non voleva essere disturbato per nessuna ragione. Un po’
prima delle 2 usciva di casa per andare all’Università, dove la lezione
durava sempre più d’un’ora. Ciò fino a tutto il 1875. Dopo, avendo
nel dicembre di quell’anno (con decreto ministeriale de’ 19) avuto
l’incarico dell’insegnamento della Storia comparata delle letterature
neolatine, la lezione diventò di due ore; fece cioè due lezioni di
seguito, una di letteratura italiana e una di Storia delle neolatine.

Uscendo dall’Università per andare a casa, o alla libreria Zanichelli,
dove di solito capitava tutti i giorni, era spesso accompagnato da
alcuni scolari, pei quali la lezione seguitava, strada facendo, finchè
lasciavano il professore.

Verso le sei andava a pranzo; ed era tutto lieto quando ci aveva
qualche amico, al quale fare assaggiare una delle sue bottiglie
prelibate. Ne aveva la cantina ben fornita, e se ne compiaceva. Dopo
quello dei libri, era l’unico lusso che si permettesse, e che non gli
costava gran che, perchè durò degli anni a farsi da sè il vino in casa,
e molte di quelle bottiglie gli erano regalate. Dopo pranzo, verso le
8, usciva a prendere il caffè e una boccata d’aria. Fra il 1876 e il
1880 soleva andare al _Caffè de’ Grigioni_, dove per lo più incontrava
Ugo Brilli e Severino Ferrari, due degli scolari suoi ai quali era più
affezionato, e che gli erano affezionatissimi; tal volta, ma raramente,
qualche collega. Preso il caffè e fatte due chiacchiere, usciva di
nuovo a passeggiare; e la passeggiata aveva sempre per mèta ultima la
bottiglieria Rovinazzi, o Cillario, o qualche piccola osteria fuori di
porta.

Qui, bevendo, i convenuti facevano spesso un po’ di lettura; per
lo più si leggeva un classico italiano, talora anche latino; e si
parlava d’arte e di letteratura; raramente di politica. La politica
turbava quasi sempre la serenità del Carducci, e finiva col farlo
inquietare. A queste riunioni, che solevano durare un paio d’ore e
più, capitavano spesso altri amici e conoscenti: ricordo alcuni di
quelli che ci ho veduti io stesso quando ero a Bologna: l’avvocato
Antonio Resta, l’avvocato Barbanti, Luigi Lodi, Gino Rocchi. Qualche
sera che il professore, come lo chiamavano, era più di buon umore del
solito, divertivasi a scherzare satireggiando contro i letterati più
o meno famosi che non gli andavano a genio, o che gli avevano dato
qualche fastidio; e gli altri, specialmente il Brilli e il Ferrari, gli
tenevano bordone.

                                   *
                                  * *

Il Ferrari aveva dato al Brilli il soprannome di Mago, celebrando le
gesta di lui in un poema, che non finiva mai, e che credo non sia stato
nè sarà mai finito. D’allora in poi il Carducci chiamò sempre il Brilli
col nome di _Mago_, o _Maghetto_; e questo nome dava spesso occasione
ai suoi scherzi.

Una sera d’ottobre del 1879 la solita piccola comitiva trovavasi alla
solita ora alla bottiglieria Rovinazzi; e il Brilli, o avesse appetito,
o non gli piacesse risciacquarsi lo stomaco col solo vino, chiese
qualche cosa da mangiare, e gli portarono dei biscottini. Il Carducci,
ridendo e ammirando l’appetito del Brilli, chiese un pezzo di carta e
una penna e scrisse:

        IL PASTO DEL MAGO.

      Il mago ha vinto. Del.... la pancia
    Ei diguazzando ha trapassato già,
    Poi disdegnoso gitta via la lancia,
    Si tura il naso, e brontola — Puah! —

      Datemi — ei grida — a consolarmi il cuore,
    Datemi un piatto almen di confortini,
    Da immollarsi nel vin dal bel colore —
    Confortini, vogl’io, non biscottini.

      È biscottini un barbaresco nome
    Che ai tempi degli eroi non risonò.
    Ecco, il gran sole io piglio per le chiome,
    Per farmi lume al mio gnomo lo do. —

      E si pone alla mensa. Il sole brilla
    A lui dinanzi come un lumicino.
    Il gnomo a lui del bel vin rosso sprilla,
    Gli porta la Rotonda per tondino.

      Ei mangia mangia mangia i confortini,
    Ei mangia mangia, e mai sazio non par:
    Confortini non son, son gli Appennini:
    Vino non è ch’ei beve, è un rosso mar.

      È il rosso mar del sangue dei cialtroni
    Giganti ch’ei trafisse ed abbattè.
    . . . . . . . . . . . . . . . . .
    . . . . . . . . . . . . . . . . .

      E beve beve beve, e sempre ha sete;
    Ei beve beve, e dice: Ancora un po’;
    Sento del caldo. Pigliam due comete;
    Un ventaglio pel fresco ne farò.

      E mangia e mangia. Non son biscottini,
    Non gli Appennini sono; elle son ossa,
    Ossa de’ suoi nemici filistini,
    A cui crudele egli invidiò la fossa.

      E le fe’ triturare e macinare,
    Ed impastare e cuocere le fe’
    A fuoco lento. S’odono gridare
    Sotto i suoi denti, e dicono: mercè!

(Scritto dinanzi al pasto del Mago nella bottiglieria Rovinazzi alle
ore 8¾ del 21 ottobre 1879 — dell’èra della servitù — dal povero
rapsodo Giosue Carducci.)

Dopo questi scherzi innocenti il Carducci, accompagnato dagli amici,
tornava a casa allegro e contento: giunto al portone del palazzo
Rizzoli, dove allora abitava, si faceva dare dei cerini, se non ne
aveva, e non ne aveva quasi mai; apriva e, facendosi lume da sè,
saliva le lunghe scale, finchè arrivato al suo quartiere, dove tutti a
quell’ora dormivano, accendeva la candela che trovava al solito posto
nella stanza d’ingresso, e se ne andava in camera, dove, messosi in
letto, aspettava il sonno leggendo qualche pezzo dei classici suoi
preferiti.

                                   *
                                  * *

E la mattina di poi ricominciava la solita vita.

Le poesie pubblicate dal Carducci nei giornali domenicali e nella
_Cronaca bizantina_ non furono le sole da lui composte in quel periodo
di tempo, di circa sei anni, dal 1879 al 1885. Oltre le odi barbare
_Per Eugenio Napoleone_ e _A Garibaldi_, pubblicate dallo Zanichelli
nello stesso anno 1880 in cui furono composte, oltre l’ode barbara per
le nozze della figlia Beatrice, pubblicata in alcune copie distinte
del volume _La Poesia barbara nei secoli XVe XVI_ offerte agli
amici (Bologna, Zanichelli 1881), e l’ode _A Vittore Hugo_ (Bologna,
Zanichelli 1881); pure di quell’anno compose, nell’aprile _Campo di
Roncisvalle_, e tradusse nel giugno l’ode di Platen su la lirica: poi
nel maggio del 1883 mandò fuori, editi dal Sommaruga, i dodici sonetti
intitolati _Ça ira_; e nel luglio del 1884, essendo a Genova, pensò sul
luogo e pochi giorni dopo compose a Courmayeur l’ode barbara _Scoglio
di Quarto_, che per allora rimase inedita. Ne aveva pensate e voleva
comporne altre tre, e voleva finirne altre ancora cominciate da un
pezzo, fra le quali _Miramar_, cominciata, come sappiamo, fino dal
luglio 1878.

Ai sonetti _Ça ira_ toccò un po’ la sorte delle prime _Odi barbare_,
che cioè la critica si sbizzarrì sopra di essi con un ammasso
di stupidaggini. Nè fra i critici mancarono uomini autorevoli:
basti citare il Bonghi ed un M. T., nel quale il Carducci sospettò
nascondersi il senatore Tabarrini; ma poi seppe essere un conservatore
cattolico a lui affatto ignoto. Ciò che fece perdere le staffe ai
critici fu la preoccupazione politica. Mentre il Carducci non aveva
avuto che un intendimento artistico, quello cioè di tentare col
vecchio sonetto una rappresentazione _rapida e breve di avvenimenti
storici, senza mistura di elementi personali_, ed aveva scelto come
materia a ciò adatta i più terribili episodi di quel tragico momento
della rivoluzione francese che fu il 1792, i critici vollero in quella
rappresentazione puramente oggettiva vedere espressi i sentimenti
di lui poeta e lo accusarono perciò di aver fatto della _lirica
partigiana, complice dei ciechi furori della plebe e dei sofismi dei
demagoghi, lirica e retorica repubblicana_; e tanto la preoccupazione
politica li acciecò, che l’un d’essi attribuì al poeta le parole da lui
messe in bocca al feroce parrucchiere che fece osceno strazio del corpo
della principessa di Lamballe.

Passata la piena degli spropositi, tutti poi riconobbero che il
Carducci coi dodici sonetti tentò e vinse una prova non meno ardua
di quella tentata con le _Odi barbare_. Non che nei sonetti non
fosse qua e là qualche durezza e qualche scorcio un po’ ardito; ma
anche in queste durezze e in questi scorci stava la efficacia della
rappresentazione.

Le critiche irragionevoli ebbero poi la virtù di ispirare al Carducci
una delle sue prose più belle, la prosa del _Ça ira_. La scrisse a
Bologna nell’agosto dello stesso anno 1883 in cui aveva composto i
sonetti, e me la lesse nel settembre alla Maulina, in campagna di
Lucca. Mi ricordo ancora l’impressione singolare di quella lettura,
alla quale assisteva il buon Carlo Bevilacqua, genero del Carducci,
morto poi così immaturamente nel 1898, e qualche altro, che non ricordo
bene. Stavamo davanti a una piccola finestra che dava sui campi.
Benchè settembre, faceva ancora assai caldo nella campagna lucchese;
e l’aria che per la finestra aperta penetrava nella stanza, benchè
temperata dalla verde frescura degli alberi di fuori, era pur sempre
l’aria d’estate. Ma tutti attenti alla lettura, che fin dalle prime
pagine ci aveva afferrati e ci teneva incatenati, non sentivamo il
caldo. La finezza e la serena superiorità della critica, che poneva e
risolveva le quistioni storiche estetiche con la sicurezza di chi ha
subito veduto gli errori e il lato debole degli avversari; il tuono,
ora serio, ora scherzevole, ora sarcastico della discussione; le
descrizioni e le digressioni, vive, fresche, umoristiche, onde quella
era intramezzata e rallegrata, e la voce calda e animata del Carducci
che dava risalto e rilievo ai chiaroscuri di quei periodi limpidi,
scintillanti, trascinanti, ci fecero passare le due ore che durò la
lettura, senza che quasi ce ne avvedessimo. Quando rilessi poi stampata
quella magnifica prosa, mi fece anche maggiore impressione, poichè
l’autore vi aveva aggiunto alcuni dei pezzi più belli, come la chiusa e
la digressione su la campagna toscana del Valdarno.

I critici, per quanto mi ricordo, stettero zitti come olio.




CAPITOLO VIII.

(1881-1888.)

  Matrimonio della figlia Beatrice. — Il Carducci alla Maulina.
  — «La gatta non istà del suo meglio». — Gita a Volterra. — Il
  banchetto alla società democratica e il banchetto al Collegio degli
  Scolopii. — Visita a San Gimignano dalle belle torri. — «Sommaruga
  vuole la mia pelle, e non me la paga.» — Edizioni definitive delle
  poesie, _Juvenilia, Levia Gravia, Giambi ed Epodi_ nella collezione
  elzeviriana Zanichelli. — _Confessioni e Battaglie_ nella edizione
  Sommaruga. — _Nuove Odi barbare_. — Posto d’Ispettore Generale
  degli studi classici. — L’ode _Scoglio di Quarto_. — Disturbo
  nervoso. — Peregrinazione maremmana. — Debolezze e vertigini. —
  Il Carducci in Carnia. — Candidatura alla deputazione nel Collegio
  di Pisa. — _Davanti a San Guido_ ed altre poesie. — Pubblicazione
  delle _Rime nuove_. — La cattedra dantesca a Roma. — Dante e
  l’Italia ufficiale. — Rifiuto della cattedra dantesca. — Discorso
  su Dante all’Università di Roma. — Discorsi su _Jaufrè Rudel_ e su
  _Lo studio di Bologna_. — Il Carducci a Madesimo nell’agosto 1888.
  — Dichiarazione nel _Resto del Carlino_.


Nella fine del capitolo precedente ho parlato della Maulina e di Carlo
Bevilacqua; e un po’ avanti accennai all’ode del Carducci per le nozze
della figlia Beatrice. Torniamo un po’ addietro, e ricolleghiamo con
quelli accenni le fila del nostro discorso.

Beatrice, la figlia maggiore del Carducci, andò sposa il 20 settembre
1880 a Carlo Bevilacqua, appartenente ad una famiglia di agricoltori
lucchesi, che aveva suoi possedimenti alla Maulina, dove dimorava,
coltivando da sè le sue terre. Uno de’ figli maggiori faceva il notaio
a Lucca. Carlo, laureatosi in matematiche a Pisa, aveva preso la via
dell’insegnamento, ed era professore nei licei governativi. In uno di
questi aveva avuto preside Ferdinando Cristiani, che gli fu occasione e
mezzo a conoscere la famiglia Carducci. Da qui il matrimonio suo con la
Bice. Professore nel 1880 al Liceo d’Arezzo, fu nell’ottobre del 1881
trasferito a Livorno nel Liceo presieduto da me.

Nell’agosto di quell’anno 1881 il Carducci andò alla Maulina a fare
la conoscenza della famiglia del genero; e là si trovò così bene, che
vi tornò poi nel settembre del 1882 e del 1883 a passare una parte
delle vacanze autunnali. Il 9 agosto del 1881, invitandomi ad andare a
trovarlo, mi scriveva: «Qui gente buona, semplice, laboriosa: mi pare
che mi rifarei fra questi vecchi onesti e diritti e faticanti, fra
questi giovani robusti e modesti lavoratori, fra queste donne buone e
schiette e che parlano così bene, fra questi bambini che all’occorrenza
vanno scalzi. Quanto pagherei a essere un di loro e a non essere io!
Io, se il mio infame nonno non avesse sciupato tutto scioccamente,
poteva essere così: un piccolo possidente e buon lavoratore de’ suoi
campi, e non uno che, per esempio, se la pigliasse con Mario Rapisardi.
Ah!»

Quella sana vita campagnuola che invidiava lo metteva spesso di buon
umore, cosa che gli avveniva di rado in città. Il 29, incaricandomi di
alcune imbasciate per sua moglie, che insieme con la figlia Lauretta
era da alcuni giorni ospite in casa mia a Livorno, mi scriveva: «Qui
stiamo tutti bene.... Carlo oziando e studiando algebra, il signor
Giuseppe (il padre) facendo nottata ai malati ed essendo un po’ malato
il giorno lui, gli altri lavorando più di me, che metto insieme lettere
del Guerrazzi e scrivo lettere mie. E tutti salutiamo te e i tuoi, e
l’Elvira e la Lauretta, a cui mandiamo dicendo tante cose. Veramente
la gatta (attenta l’Elvira) non manda a dir nulla e non istà del suo
meglio. Da che non c’è più l’Elvira, ella seguitava allegramente a
montar su i letti, su le tavole imbandite, a metter le zampe e il muso
nei piatti. Ieri assaltò la tavola ch’eravamo a pranzo: prima avanzò
lentamente una zampina, e con quel viso di scimunita guardava come se
non fosse affar suo; poi mosse anche l’altra zampina; poi un salto,
e fu in tavola; e prese un mezzo pollo arrosto; e via, via. La Bice
e la signora Carmelinda (la madre di Carlo) si misero a urlare, io a
ridere; Carlo le corse dietro con la bacchetta di faggio, le diè un
gran colpo sulla testa; e la gattina giù. Ahimè non ruberà più altro
nè dormirà più i suoi sonni sul letto dell’Elvira. In vano si provava
a salire sul letto della Bice. Ora andrà a dormire per sempre là dove
i gatti leggiadri e ladri riposano dalle smorfie ingannevoli e dalle
ruberie agili e dimenticano le bastonate e i calci umani e le fami
lunghe sofferte e i topi e i passerotti e i pulcini male desiderati e
studiosamente insidiati. Di’ all’Elvira che non pensi tanto a questa
gatta moriente, se non già morta, e mi mandi a dire a che ora sarà a
Lucca venerdì o quando verrà.» Un poscritto aggiungeva: «La gatta, in
quello che scrivo, è migliorata e si spera salvarla.»

                                   *
                                  * *

L’anno dopo (1882) il Carducci, prima d’andare alla Maulina, venne,
verso la fine di luglio, a Livorno, a vedere la figliuola ed il genero.
Io dovevo ai primi d’agosto recarmi a Volterra per una Commissione
d’esami, di cui facevano parte il Bevilacqua e Guido Mazzoni: proposi
al Carducci di unirsi a noi, ed egli, che non aveva mai visto Volterra,
accettò di buon grado. Partimmo il 2 agosto. Il Carducci durante il
viaggio ci raccontò che a Volterra suo padre, prima imprigionato, poi
relegato là, come sappiamo, pei moti del 1831, aveva conosciuto la
fanciulla che poi sposò.

Ci allogammo tutti insieme in una locanda; e nelle ore che noi della
Commissione avevamo libere s’andava insieme col Carducci a visitare
le cose più notevoli della città. Il Palazzo comunale, il Duomo, il
Battistero, il Museo etrusco e la Biblioteca furono le cose delle quali
egli si interessò maggiormente. Nella Biblioteca col suo fiuto felice
scavò un antico manoscritto di poesie del secolo XIV, che si trattenne
a studiare mentre noi facevamo gli esami. Comprò opuscoli di poesia
popolare dal famigerato tipografo Sborgi; fece ricerca, accompagnato
da noi, della casa dove aveva da ragazza abitato sua madre, e vide le
finestre dell’appartamento già occupato dall’orologiaio Celli padre
di lei. Riscontrammo insieme nella chiesa parrocchiale l’atto di
matrimonio del padre del Carducci, e si vide che le nozze non erano
state celebrate a Volterra, ma a Val di Castello, dove la sposa era
stata accompagnata da un suo fratello. L’atto di Volterra era soltanto
la dichiarazione delle nozze avvenute.

Oltre il Museo, dove il Carducci si trattenne a lungo, visitammo le
tombe sotterranee etrusche, che gli fecero una grande impressione,
tanto che disse voleva scriverci un’ode. La visita al Penitenziario,
dalla quale non potemmo liberarci, lo turbò e lo lasciò di cattivo
umore.

Per quanto desiderassimo di starcene da noi, non potemmo liberarci da
due banchetti, l’un dei quali faceva singolare contrapposto all’altro.
La Società democratica, della quale era Presidente il deputato radicale
conte Nicolò Maffei, e i Padri Scolopii, presso i quali avevamo dato
gli esami, vollero aver l’onore di sedere a mensa col poeta di Satana.

Al banchetto democratico il deputato Maffei fece, come di rito, un
brindisi al Carducci, del quale toccò, per iscancìo, qualche spruzzo
anche a me ed al Mazzoni. Il Carducci, ch’era stato chiamato dal Maffei
_il poeta della ribellione_, rispose poche ma buone parole, che al
Mazzoni, il quale ne serbò ricordo, pare fossero nel giornale locale,
che le riferì, colorite un po’ diversamente. Le parole, secondo il
ricordo del Mazzoni, furono, per ciò che concerne l’appellativo dato al
poeta, queste: «M’han qui chiamato il poeta della ribellione: ebbene,
io devo dire che oggi alla democrazia sono state aperte tutte le vie
legali e scientifiche; e ribelle sarebbe chi da qui innanzi tentasse
opporsi al suo logico e necessario progresso.»

Il banchetto agli Scolopii fu più in famiglia e perciò più giocondo.
Dove entra la politica c’è sempre qualche cosa che impedisce la libera
espressione dei sentimenti e dei pensieri. Quei Padri, fra i quali
c’era pure della brava gente, erano tutti lieti d’avere fra loro un
uomo famoso, ch’era pure uscito dalle loro scuole, e del quale alcuno
fra essi era in grado di apprezzare l’ingegno più dei soci della
Democratica.

Ripartimmo da Volterra la mattina del 9, col proposito già fatto di
andare a vedere, nel ritorno, San Gimignano, San Gimignano dalle belle
torri, che nessuno di noi conosceva.

Eran venuti, a piedi, da Livorno a Volterra, per farci una
improvvisata, un figliuolo mio con un amico, stato compagno del Mazzoni
al liceo. Il Mazzoni con questo amico vollero fare a piedi il viaggio
da Volterra a San Gimignano, per desiderio che avevano di vedere certe
miniere che si trovavano a mezza strada; perciò partirono prima: il
Carducci, il Bevilacqua ed io con mio figlio partimmo più tardi in
carrozza; e ci ritrovammo poi tutti quasi contemporaneamente a San
Gimignano.

San Gimignano sbalordì d’ammirazione il Carducci con le sue torri,
il carattere medioevale, gli affreschi del Ghirlandaio; vi ritrovò un
certo Ducci canonico, stato con lui alla Scuola Normale di Pisa, e si
fecero assai festa. Veduto tutto quello che c’era da vedere, la sera,
tutti in carrozza, s’andò a Poggibonsi, e di lì in treno a Livorno;
di dove poi il Carducci partì col genero e con la figliuola per la
Maulina.

                                   *
                                  * *

Alla Maulina il Carducci, nel 1881, s’era, fra le altre cose, occupato
della pubblicazione delle lettere del Guerrazzi, il cui primo volume
era uscito nel 1880 pei tipi del Vigo, e il secondo uscì poi in quello
stesso anno 1882.

Le altre occupazioni alle quali attendeva nei sei anni della sua
collaborazione ai giornali domenicali e alla _Cronaca bizantina_, erano
molte, erano tante, che a volte si sentiva stanco, e si meravigliava
lui stesso di resistere a così gran lavoro. Il 13 dicembre del 1883
mi scriveva: «In questo mese, amico mio, ho lavorato tanto, che, se
non sono ammattito, è un miracolo. Sommaruga vuol la mia pelle, e
non me la paga.» A parte le lezioni all’Università, che furono sempre
la sua principale occupazione e alle quali anche allora dedicava il
miglior suo tempo; a parte le gite a Roma per le adunanze del Consiglio
Superiore; a parte le altre faccende, fra le quali non indifferente
il segretariato della Deputazione di storia patria, che teneva fin
dal 1865; a parte tutto ciò, e le nuove poesie e prose che mandava ai
giornali, veniva preparando per lo Zanichelli le edizioni definitive
delle varie raccolte delle sue poesie in tanti volumetti elzeviriani;
raccoglieva e pubblicava, pure in un volume elzeviriano, nel marzo del
1882, le _Nuove Odi barbare_, con innanzi tradotta l’ode del Platen _La
Lirica_; e metteva in ordine quattro volumi di prosa per il Sommaruga.
Il volumetto elzeviriano dei _Juvenilia_ fu pubblicato nell’aprile
1880, quello dei _Levia Gravia_ nel settembre 1881, quello dei _Giambi
ed Epodi_ nell’ottobre 1882. In ciascun volume la raccolta delle poesie
era stata riordinata a rappresentare più esattamente e compiutamente
un determinato periodo dell’arte del poeta. I _Juvenilia_, che nella
prima edizione Barbèra erano 38 componimenti divisi in tre libri, e
nella seconda 43, divisi in quattro libri, nella edizione Zanichelli
furono quasi raddoppiati di numero e divisi in sei libri; essendo
state aggiunte nei due libri nuovi le rime politiche giovanili e le
satiriche in gran parte inedite. I _Levia Gravia_, che nelle edizioni
Barbèra comprendevano prima 44, poi 43 poesie, divise in quattro libri,
furono invece nella edizione definitiva ridotti a tre libri e di non
poco diminuiti, avendone l’autore tolto tutte le poesie composte avanti
il 1861 e dopo il 1867. I _Giambi ed Epodi_ raccolsero riordinate e
corrette tutte le poesie d’argomento civile e politico composte dal
1867 al 1872, così quelle dei _Decennali_ dell’edizione Barbèra come
le pubblicate nelle _Nuove Poesie_ della edizione imolese del Galeati.
Per ciascuno dei tre volumi l’autore scrisse una prefazione, ch’era
come un pezzo delle sue _Memorie_; e appunto col titolo _Dalle mie
memorie_ alcuni frammenti della prefazione ai _Levia Gravia_ e di
quella ai _Giambi ed Epodi_ furono, come abbiam visto, pubblicati nel
_Fanfulla della Domenica_ e nella _Cronaca bizantina_: la prefazione ai
_Juvenilia_ fu anche stampata nella _Lega della Democrazia_ di Roma del
19 aprile 1880, quando il volume stava per essere messo in vendita.

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                                  * *

Gli scritti di prosa che il Carducci ordinò per il Sommaruga furono le
tre serie di _Confessioni e Battaglie_ e un volume di _Conversazioni
critiche_. La prima serie fu pubblicata nel marzo del 1882, la seconda
ai primi del 1883, la terza e le _Conversazioni critiche_ nel 1884.

I tre volumi _Confessioni e Battaglie_ (il titolo felicemente trovato
compariva allora per la prima volta) comprendevano tutti gli scritti
di critica polemica e d’argomento più o meno personale che il Carducci
era venuto scrivendo da poco innanzi il 1870 fino al 1883, non esclusi
quelli già pubblicati nel volume dei _Bozzetti critici_ (ediz. Vigo),
cioè il _Secondo Centenario del Muratori, Polemiche sataniche, Due
manzoniani_ e _Critica e Arte_. A questi si aggiungevano la prefazione
alle _Poesie_ nella edizione Barbèra, le prefazioni ai _Juvenilia_,
ai _Levia Gravia_ e ai _Giambi ed Epodi_, il discorso politico agli
elettori di Lugo, le polemiche col Rizzi e coll’Alberti (_Novissima
polemica_), quelle col De Zerbi (_Tibulliana_) e col Rapisardi
(_Rapisardiana_), gli scritti _Eterno femminino regale, Risorse di San
Miniato al Tedesco, Ça ira_, ed altri minori, ma non meno importanti a
delineare intera la figura dell’uomo e dello scrittore, e dare compiuta
la misura della sua forza e della sua agilità come schermidore.

Qualcuno paragonò questi scritti a risuonanti e sfavillanti squadroni
di cavalleria che dove passano sbaragliano tutto ciò che si para
loro dinanzi; e il paragone è giusto. Non si dice con questo che
lo scrittore qualche volta non passi il segno; anzi si afferma
esplicitamente che lo passa più d’una volta; ma lo spettacolo di
quella balda fierezza, di quella risolutezza, rapisce e incanta. Ciò
che fa la gran forza di questi scritti polemici è, come già dissi
parlando di _Critica e Arte_, che l’autore dalle questioni personali
si solleva sempre ad alte questioni di letteratura. In un breve e
mirabile scritto della prima serie, pubblicato la prima volta in
un giornaletto di Bologna, il _Preludio_, in risposta ad un signor
A. F. che nel _Giornale della Provincia di Vicenza_ aveva fatto al
poeta, a proposito dell’_Ode per la morte di Eugenio Napoleone_, molti
complimenti e detto qualche insolenza, il Carducci dice: «i lettori,
spero, mi renderanno questa giustizia, che io non combatto mai per
dimostrare che io sono bello, buono, bravo; combatto per un’alta,
severa e morale idea che ho dell’arte e della critica, contro quelli
che dell’arte e della critica non hanno la stessa idea. E poi c’è chi
dice che io non sono idealista.» Parlai già del _Ça ira_ in prosa,
che fra gli scritti polemici del Carducci è certamente uno dei più
belli; ma tutti in generale sono splendida conferma di quella vecchia
sentenza, che uno scrittore non è mai tanto eloquente come quando parla
di sè. E il Carducci parla di sè non come un letterato che calcola
gli effetti delle sue parole, ma come un uomo che parla, che parla
semplicemente _ex abundantia cordis_. Ciò che il Giorgini disse della
poesia del Carducci, si può a più forte ragione dire della sua prosa. È
noto che egli non licenzia alla stampa mezza pagina che non abbia prima
meditata; ma tanta è la spontaneità e la naturalezza, tanto il brio
di alcuni dei suoi scritti polemici, specialmente dei più brevi, che
paiono improvvisati. Io non conosco nella nostra letteratura un’altra
raccolta di scritti che sia per tale rispetto paragonabile a questa.

Nel volume delle _Conversazioni critiche_ il Carducci raccolse, con
emendazioni ed aggiunte, dodici scritti, due dei quali pubblicati
nella _Nazione_ di Firenze fino dal 1861 e ’62 (_Per il Classicismo
e il Rinascimento; Il Buco nel Muro di F. D. Guerrazzi_); gli altri
pubblicati in altri giornali od altrove, dal 1867 al 1883: fra questi,
cinque sul Parini lirico ed uno sulla adolescenza e gioventù poetica
del Foscolo.

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Le _Nuove Odi barbare_, pubblicate, come ho detto, nel marzo del 1882,
erano venti, comprese _La Lirica_, tradotta dal Platen, e due odicine
tradotte dal Klopstock. Splendide tutte le originali; sopra tutte
_All’Aurora, Sirmione, Saluto italico. Alla Certosa di Bologna, A
Giuseppe Garibaldi_; assolutamente perfette, oltre l’ode per _Napoleone
Eugenio, Sogno d’Estate_ e _Per le nozze di mia figlia_.

Messe fuori le edizioni definitive delle poesie _Juvenilia, Levia
Gravia, Giambi ed Epodi_, il Carducci pensò fino dal febbraio 1885 a
riunire e pubblicare in un volume le poesie in rima, non comprese in
quelle tre raccolte, cioè quanto restava delle _Nuove Poesie_, toltine
i _Giambi ed Epodi_, e tutte le poesie in rima composte o finite dopo
il 1872. Sperava di pubblicare questo nuovo volume, col titolo di _Rime
nuove_, nel luglio di quello stesso anno; ma invece non potè fino al
giugno del 1887; troppe erano le poesie da finire che voleva mettere
nel volume, troppe le altre cose che aveva da fare. Attendeva alla
stampa di un nuovo volume di prose pel Sommaruga, _Vite e Ritratti_,
che rimase interrotto per la rovina del troppo intraprendente editore;
scriveva un saggio sull’_Inno della Risurrezione di Alessandro
Manzoni e di San Paolino d’Aquileia_, che fu pubblicato nell’_Archivio
storico per Trieste, l’Istria e il Trentino_; componeva e pubblicava
nella _Nuova Antologia_ il ritratto della contessa Serego-Alighieri
Gozzadini, che fu poi messo come prefazione alla Vita della egregia
signora;[55] curava la scelta e pubblicazione degli scritti di Alberto
Mario; rivedeva e correggeva insieme con Ugo Brilli il libro delle
_Letture italiane_ per le scuole ginnasiali; scriveva per la _Domenica
del Fracassa_ i _Colloqui manzoniani_ in risposta ad alcune critiche
dello Zumbini. E appunto in questo tempo gli ronzavano per la testa
delle poesie nuove che si doleva gli mancasse il tempo di scrivere.

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                                  * *

Nell’aprile del 1884 Ferdinando Martini, andato Segretario Generale al
Ministero della istruzione, ebbe l’idea di creare un Ispettore Generale
degli studi classici, e ne parlò al Carducci per sentire se sarebbe
stato disposto ad accettare quell’ufficio. Il Carducci me ne scrisse
chiedendomi il parer mio, e dicendomi che per più ragioni, a suo avviso
molto forti, dubitava di accettare. Io non so che gli rispondessi, ma
certo lo dovei sconsigliare, poichè egli riscrivendomi qualche giorno
dopo mi diceva: «Trovo giuste le tue considerazioni circa l’offerta
fattami. Del resto la vita di Roma non mi attrae: è troppo invadente:
non c’è da liberarsi da certi contatti che io non amo: non mi
lascerebbero neanche la libertà della solitudine o del ritiro, che in
Bologna ho secura.»

Certo il Carducci sarebbe stato un ottimo Ispettore degli studi
classici, e l’opera sua, se avesse potuto spiegarsi libera e piena nel
Ministero della istruzione, avrebbe potuto recare non poco giovamento
alle nostre scuole; ma probabilmente il Martini parlò della sua idea
col Ministro, ch’era allora il Coppino, e pensarono che togliere il
Carducci all’insegnamento superiore e ai suoi studi sarebbe stato
un danno per nessuna guisa riparabile; o forse bastò il rifiuto del
Carducci a fare che l’idea non avesse seguito.

Il Martini era ed è uno dei pochi uomini politici aventi conoscenze
esatte e idee sane intorno ai bisogni della istruzione. Se allora
dimise il pensiero di un Ispettore degli studi classici, non
modificò le sue convinzioni circa la necessità di un simile ufficio
nel Ministero; e tornato dopo otto anni alla Minerva in qualità di
Ministro, istituì l’Ispettorato Generale. Peccato che un uomo di così
fine penetrazione come lui, il quale doveva pur conoscere i suoi polli,
cioè i suoi possibili successori, non pensasse che fra questi ce ne
poteva essere uno che in fatto d’Ispettorato fosse nichilista.

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                                  * *

Cominciando da quell’anno 1884, il Carducci andò a passare i mesi
dell’estate sulle Alpi. Il 27 luglio mandandomi da Courmayeur l’ode
_Scoglio di Quarto_, mi scriveva: «Come ricordo del mio anniversario,
ti mando quest’ode, pensata, o, meglio, sentita a Genova, su ’l luogo,
scritta qui tra boschi d’abeti su la Dora. Non mai come in questi
giorni ho intesi i versi d’Orazio:

      .... quae Tibur aquae fertile praefluunt,
    Et spissae nemorum comae,
      Fingent aeolio carmine nobilem.

Ma la mia solitudine è grandiosa più di quella d’Orazio, l’Alpi e la
Dora.» Soggiungeva che sarebbe rimasto a Courmayeur fino alla fine
d’agosto; che aveva intenzione di comporre tre altre odi; che ai primi
di settembre sarebbe tornato a Bologna, dove si dovevano fare le nozze
della sua seconda figliuola, la Lauretta.

Le nozze ebbero luogo invece tre anni più tardi, il 20 settembre 1887,
e la Lauretta con lo sposo rimase poi sempre in Bologna, vicino ai
genitori.

Nell’ottobre ci rivedemmo a Roma, dove io era stato trasferito
come Preside di Liceo, e dove egli veniva di frequente, come ho già
detto, per le adunanze del Consiglio Superiore e per altri incarichi
ufficiali.

In trenta anni da che ci conoscevamo non avevo memoria che il Carducci
fosse stato mai seriamente ammalato. La sua fibra forte e resistente
non si era mai risentita delle soverchie fatiche mentali; ma nel 1885
un leggero disturbo lo avvertì della necessità di moderare il lavoro
intellettuale e interromperlo col riposo e con gli esercizi del corpo.
Nel marzo, una mattina, mentre stava, secondo il solito, lavorando
nel suo studio, fu preso a un tratto da un intorpidimento del braccio
destro, che lo impressionò tristamente. Fu cosa passeggera; ma che gli
lasciò per qualche giorno un po’ di debolezza in tutta la persona,
specialmente al braccio. Io lo andai a vedere quasi subito, e lo
trovai non solo rimesso della lieve indisposizione, ma di buon umore
e tranquillo, che stava scrivendo una poesia; mi pare la sestina _Una
notte di Maggio_, pubblicata poi nella _Domenica del Fracassa_ il 17
dello stesso mese. Si recò pochi giorni dopo a Livorno a fare la Pasqua
con la figliuola; e di lì venne a Roma, che stava apparentemente bene.
Passando per la maremma sotto Castagneto pensò, e tornato a Bologna
scrisse il sonetto «Dolce paese onde portai conforme» pubblicato
nella _Domenica del Fracassa_ del 3 maggio. La visita di quei luoghi
dov’ei passò la sua fanciullezza gli destava sempre molti ricordi e il
desiderio di rivederli. Non c’era più stato da sei anni.

La prima volta che ci tornò, nell’aprile del 1879, era stato un
avvenimento. Si capisce; n’era partito ragazzo di tredici o quattordici
anni, vi tornava uomo fatto e poeta famoso. «Che cosa accadesse in
quel giorno a Castagneto, scrive un castagnetano e testimone oculare,
Averardo Borsi, io non saprei ridire efficacemente. Su per la salita
che dalla stazione della ferrovia conduce al paese, il Carducci —
pur tacendo il suo nome — aveva interrogato lungamente il postino,
chiedendogli notizie degli amici d’infanzia, dei luoghi, dei progressi
agricoli, delle condizioni del paese; e il postino rispondendogli
guardava lo strano personaggio e faceva mille supposizioni sull’esser
suo.

                             . . . . . . .

»Scese in mezzo al paese, tra una folla di sfaccendati, che
ammiravano la sua tuba dal pelo un po’ arruffato, e andò a cercare
mio padre. Mezz’ora dopo era circondato da un gruppo di amici, che lo
festeggiavano con quella semplicità schietta che è virtù del popolo
maremmano. Alla sera, mentre pranzava in casa mia, venne la banda, e
con la banda tutto il paese plaudente acclamante.»[56]

Quella volta il Carducci si trattenne poco a Castagneto; ma promise
di tornarvi; e ripassando di lì in via ferrata nell’aprile del 1885
dovè rammentarsi la promessa, perchè arrivato a Bologna scrisse al
Borsi: «Conto di fare una peregrinazione maremmana, cominciando da
Castiglioncello e terminando a Campiglia e San Vincenzo. Voglio proprio
rivedere uno ad uno i luoghi della mia prima età. E condurrò meco un
giovane romagnolo, che sarà mio genero.[57] Conto per un banchetto a
Donoratico.» Nel maggio andò. «E il banchetto ci fu, scrive il Borsi,
gaio, rumoroso, circonfuso di calore e di luce, lì all’ombra della
fiera torre, in un bosco fresco di lecciuoli e di giovani querce, fra
le quali al suono dell’_Inno di Garibaldi_, proclamammo la candidatura
politica del Carducci.»[58]

                                   *
                                  * *

Dopo i pochi giorni di riposo nel marzo, e salvo le brevi gite a
Livorno e a Castagneto, il Carducci era tornato al lavoro, come prima.
E non fu bene: ma chi avrebbe saputo o potuto imporgli un lungo e
assoluto riposo intellettuale?

A me, che gli chiedevo notizie della sua salute, rispondeva il 24
giugno da Bologna: «Bene non sto: ho tali debolezze e vertigini e
mancamenti di quando in quando che non mi piacciono. I medici dicono
essere esaurimento nervoso, e vogliono ch’io vada in montagna. Il
primo di luglio andrò a Desenzano per gli esami; e poi a Oropa, o
nella Carnia, a Pian d’Arta.» E il 29: «Domani parto per Desenzano,
dove starò fino al 13 o al 14, e poi andrò a Piano d’Arta, sopra
Tolmezzo, nella Carnia. Finiti gli esami, faresti bene a toglier su il
tuo sacco e venirtene anche tu. Ivi monti e valli e foreste di abeti
ed acque fredde e carne ottima e vin di Conegliano, e trote, il tutto
a sei lire il giorno. Non si spende poi nulla per quella gran cosa,
di essere lontani dagl’imbecilli e dai birbanti.» Alla metà di luglio
partì da Desenzano per Arta, «dove, scriveva, se mi troverò bene, starò
tutto l’agosto, facendo il meno possibile; cioè rivedendo soltanto le
stampe delle _Letture_ e il _Mazzini_ della signora Mario, e leggendo
probabilmente Sofocle. Mi pare di non aver più nulla nella testa.
Bisogna che mi rifaccia.» E arrivato a Piano d’Arta, mi scrisse il 21:
«Sono qui da domenica, e mi pare di starci bene, non ostante che anche
quassù abbia trovato dei poeti e delle donne ammiratrici. Io conto di
rileggere Sofocle, e guardare un po’ la storia di Carnia e la poesia
popolare friulana: senza far nulla non potrei stare; e il chiacchierare
con la gente mi farebbe venire l’estenuamento nervoso, anche se non
l’avessi.»

Frutto della sua dimora a Piano d’Arta furono le due poesie _In Carnia_
e _Comune rustico_.

Tornò a Bologna che si sentiva rifatto; e poi che la gita del maggio
a Castagneto aveva rinfiammato gli amori suoi per la Maremma, deliberò
di tornarci nell’ottobre, come aveva promesso, e persuase me a tenergli
compagnia. Arrivammo là il 18, egli da Livorno, io da Roma: la mattina
dipoi ci raggiunse, pure da Livorno, Leopoldo Barboni, il quale dieci
anni più tardi descrisse quella nostra scampagnata in un grazioso
libretto, _Col Carducci a Segalari_.[59]

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                                  * *

Ed ecco il Carducci un’altra volta in pericolo d’entrare a
Montecitorio. Sappiamo bene ch’ei ne aveva poca voglia, e che non gli
era dispiaciuto punto di esserne la prima volta stato messo fuori dalla
fortuna; e che dopo avea ricusato più volte le candidature offertegli.
Ma ora chi glie la offriva erano i suoi maremmani, quel popolo a cui
lo legavano tante memorie care, e glie la offrivano perchè andasse
a combattere quel governo di Agostino Depretis, ch’ei giudicava
esiziale alla patria. Con tutto ciò stette lungamente in dubbio
dell’accettare, e non si risolvè se non quando _un nobile amico e un
gran cittadino, Agostino Bertani, con l’ultima lettera ch’egli scrisse
poche ore innanzi la morte, lo sollecitò che accettasse_. «Obbedisco
(scrisse allora nella lettera _Al Comitato democratico elettorale del
Collegio di Pisa_ pubblicata nel _Resto del Carlino_ di Bologna del 9
maggio 1886) alla voce che mi viene d’oltre la tomba, obbedisco alla
voce che mi suona di riva al mio mare. E obbedisco alla voce, che
mi comanda dentro, del dovere. Però che io credo che questa non più
amministrazione giustamente costituzionale ma governo ostinatamente
personale danneggi e perverta l’Italia: sì che se il mio nome può
dare pur un minimo colpo al minimo dei puntelli di cotesta oppressione
barocca, vada pure il mio nome.» E il 19 maggio fece il suo discorso
agli elettori nel Teatro Nuovo di Pisa, discorso di aperta e fiera
opposizione al Ministero Depretis; ma nella elezione gli avversari
moderati ebbero il di sopra; e così anche questa volta il Carducci
fu salvo dal pericolo che la politica militante traendolo a sè lo
distraesse dagli studi. E fosse egli o non fosse entrato alla Camera,
la politica avrebbe seguitato, come seguitò, il suo poco patriottico e
meno morale _tran tran_. Nel 1883 egli avea scritto: _De malo in peius,
venite adoremus_. Il peggio non potea non venire: che cosa verrà dopo
il peggio che dura da tanto tempo vattel’a pesca.

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                                  * *

Nell’estate del 1886 il Carducci tornò sulle Alpi; il 28 luglio era a
Caprile, dove contava di trattenersi e si trattenne tutto agosto. Il
21 mi scriveva: «Io qua sono tra le vere Alpi: torrenti alpini veri,
al cui strepito mi addormento leggendo il _Riccardo III_ e la _Morte di
Cesare_ dello Shakespeare. Grandi, cioè strette e dirupate vie alpine;
ma ombreggiate di selve di abeti e larici, alla cui ombra _studio_
le Georgiche. Monti veramente stupendi: moli dolomitiche, che paiono
architetture di Titani che vogliano imitare a modo loro Michelangelo
e il Brunellesco: la Civetta, il Pelmo, la Marmolade: l’uno più bello
dell’altra: la Civetta, che io vedo, anzi che io ho, dinanzi alla mia
finestra, bellissima. Sento e penso molte cose; ma non ho voglia di far
versi, perchè oramai mi accorgo che la forma è inferiore al concetto, e
quello che imagino e sento immeschinisce prendendo a costringerlo nelle
parole o diventa falso. Riveggo con molta attenzione le _Letture_,
secondo volume nuovamente annotato, e le stampe delle _Rime nuove_. Ho
cercato di rifare alcuni versi.... altre poesie ho finite.»

Nell’ottobre tornò a Castagneto. Se gli amici maremmani si dolsero
della sua candidatura non riuscita, egli cercò persuaderli che ciò era
stato per lui un bene economico e morale, e che non perciò era meno
grato a loro della prova di amicizia che gli avevano data.

Tra le poesie finite a Caprile, o poco prima, o poco dopo, c’era quella
intitolata _Davanti San Guido_, rimasta interrotta fino dal 1874:
probabilmente ritrovò l’ispirazione per finirla nelle recenti sue
visite a Castagneto.

La selvaggia campagna maremmana ha lasciato una forte impronta nelle
poesie del Carducci. La terza parte dell’_Avanti avanti_, ch’è la
più bella e la sola veramente originale, il _Chiarone_, l’_Idillio
maremmano_, _Rimembranze di scuola, Sogno d’estate_ ed altre fanno
rivivere dinanzi alla fantasia del lettore la storia antica, i
vari aspetti della Maremma dai più orridi ai più sereni e ridenti,
e le forti impressioni che ne ebbe il poeta; ma la poesia che più
compiutamente rispecchia i suoi ricordi giovanili è certamente _Davanti
San Guido_.

Le altre poesie finite a Caprile erano probabilmente _Faida di
Comune, La Sacra di Enrico V_, l’_Intermezzo_ e il _Congedo_; le quali
apparvero per la prima volta intere nella prima edizione delle _Rime
nuove_, finita di stampare dallo Zanichelli il 20 giugno 1887. Con le
_Rime nuove_ restava compiuta e ordinata in quattro volumi (oltre i
due delle _Odi barbare_) la raccolta di tutte le poesie del Carducci:
1º vol. _Juvenilia_, 2º _Levia Gravia_, 3º _Giambi ed Epodi_, 4º _Rime
nuove_; nei primi due i tentativi e la preparazione, negli altri e
nelle _Odi barbare_ l’opera originale del poeta, che ora si presentava
al pubblico nella sua interezza.

                                   *
                                  * *

Il volume delle _Rime nuove_ si apriva con l’ode _Alla Rima_ e si
chiudeva con il _Congedo_, di cui furono pubblicate le prime tre strofe
nella _Cronaca bizantina_ del 16 dicembre 1882, col titolo _Che cosa
non è il poeta_. Le poesie, 97 in tutte, erano divise, senza la prima
e l’ultima, in otto libri: nel terz’ultimo il _Ça ira_, nel penultimo
traduzioni, o rifacimenti, dal tedesco, dallo spagnuolo, dal francese
antico; nell’ultimo l’_Intermezzo_, diviso in dieci capitoli.

Il poeta nella Prefazione ai _Giambi ed Epodi_ (1882) aveva detto:
«Queste rime non vanno oltre il 1872; e di comporne ancora di simili
non mi sento più in vena»; ma anche tre anni dopo, nel giugno del 1885,
scriveva:

    Tirreno, anche il mio petto è un mar profondo,
    E di tempeste, o grande, a te non cede:
    L’anima mia rugge ne’ flutti, e a tondo
    Suoi brevi lidi e il piccol cielo fiede.

E mandandomi il sonetto, in fine del quale era la data 186.... mi
scriveva: «Ci ho messo un po’ di data per dare ad intendere a me
medesimo, che oramai la ragione illumina e vince in me le torbide
collere e che non è più il tempo delle procelle.» Ma inutilmente
cercava egli di farsi questa illusione. Nell’anima sua c’era e rimaneva
sempre un fondo di scontentezza e d’irrequietudine, che ogni tanto
aveva bisogno di sfogo: e allora lo scrittore doveva pigliarsela con
qualche cosa o con qualcheduno, magari con sè medesimo e con le sue
idee; e guai allora a chi o a che gli capitava sotto! Non scrisse
più, è vero, poesie politiche: le sue bizze e le collere, alle quali
cercò sempre cagioni degne, le sfogò in prosa (nelle _Confessioni e
Battaglie_ delle quali abbiamo già parlato), e nell’_Intermezzo_, il
quale fu collocato in fondo alle _Rime nuove_, quasi un fuor d’opera.
Il poeta stesso dovè sentire che con le _Rime nuove_ legava poco; e
perciò nella edizione ultima delle Poesie gli assegnò un posto a sè, il
suo vero posto fra i _Giambi ed Epodi_ e le _Rime nuove_.

Quei critici dilettanti di cronologia, che, come il mio amico Mestica,
sudano molte camicie per disfare l’ordinamento ideologico nel quale
un grande poeta dispose i suoi versi, siano avvisati che renderebbero
un cattivo servizio al Carducci e farebbero addirittura contro la
volontà sua ristampando le sue poesie in un ordine diverso da quello
nel quale egli le ha volute. Della cronologia ne ha tenuto conto da sè
quanto gli è parso. Così fecero il Leopardi ed il Foscolo: i quali, se
tornassero al mondo, non sarebbero, credo, niente grati al Mestica del
riordinamento da lui fatto delle loro poesie.

Una cosa è da notare a proposito di tre poesie comprese nel penultimo
libro di _Rime nuove_, che sono _Il Passo di Roncisvalle_, pubblicata
la prima volta nella _Nuova Antologia_ (maggio 1881) e riprodotta in
una strenna livornese _L’Estate_ (agosto 1882), _Gherardo e Gaietta_
pubblicata nel _Fanfulla della Domenica_ (3 aprile 1881) e _La
lavandaia di San Giovanni_, pubblicata la prima volta nel primo numero
della _Rassegna settimanale_ del Sonnino (6 gennaio 1878),[60] poi
nella _Cronaca bizantina_ del 1º giugno 1882. In queste tre poesie, la
prima delle quali, _meglio che traduzione, è una ricomposizione epica
di su diverse redazioni di romanze spagnuole e portoghesi_, la seconda
è traduzione dal francese antico, e la terza dallo spagnuolo, il poeta
diede saggio di una nuova barbarie metrica, e discorse di essa le
ragioni in una breve introduzione alla seconda di coteste poesie. In
essa dice: «Fra un’ode barbara e l’altra, io mi provo anche a tradurre
delle romanze antiche francesi e spagnuole e dei canti popolari
tedeschi.»

                             . . . . . . .

«Certe traduzioni dal francese antico e dal tedesco le faccio in metri
che rispondano più esatto si possa agli originali. Alle assonanze
non ho ancora avuto il coraggio di spingermi; ma farò il possibile di
arrivarci presto. Tutto per procurare un piacere ai miei cari montoni
d’Arcadia: sono tanto graziose quelle bestioline, specialmente quando
diventano idrofobe.»

Alle assonanze si spinse più presto ch’egli stesso forse non pensava
quando scrisse queste parole; poichè il 12 dello stesso mese di aprile,
in cui uscì nel _Fanfulla della Domenica_ la romanza tradotta dal
francese antico, mi mandò una parte, e il giorno di poi il resto, della
romanza spagnuola _Il Passo di Roncisvalle_, ch’è appunto ad assonanze.

                                   *
                                  * *

Con legge del 3 luglio 1887 fu istituita dal Parlamento italiano una
cattedra dantesca nella Università di Roma. Non mai istituzione fu, a
giudicarne dai resultati, più inutile, a giudicarne dagli intendimenti,
più sbagliata di questa.

Quanto alla inutilità, basti il fatto che, dopo quindici anni che
fu istituita, la cattedra dantesca ancora non c’è. Come? Perchè? —
Forse in quindici anni il Governo non è stato capace a trovare fra i
letterati italiani uno degno di occuparla? Eppure non c’è stata mai
come in questi anni tanta abbondanza di lettori ed interpreti della
Divina Commedia. Anche, diciamolo, perchè è la verità; gli studi
sul nostro sommo poeta hanno oggi fra noi molti e degni cultori.
Come dunque? — Ma i savi governanti avevano istituita la cattedra
dantesca per darla al Carducci, e il Carducci non la volle. — Già, è
vero: i savi governanti volevano dare la cattedra al Carducci, perchè
ignoravano ciò che il Carducci aveva scritto su Dante: il che dimostra
quanto umile fosse la loro cultura.

Il povero Alighieri ebbe sempre poca fortuna coi politicanti
dell’Italia nuova: tutte le volte ch’essi vollero occuparsi di lui,
non ne imbroccarono una. Istituirono nel 1860 una cattedra dantesca
nell’Istituto Superiore di Firenze, per darla al buon Padre Giuliani, e
il meglio che poterono fare, quando egli morì, fu di lasciarla vacante;
celebrarono nel 1865 il centenario dantesco, e mai non furono dette e
fatte tante sciocchezze quante allora nel nome di Dante; istituirono
la cattedra dantesca a Roma, e (ciò che ancora è il meno peggio) la
cattedra dantesca, come abbiamo detto, non c’è; pensano ad inalzare
un monumento a Dante in Roma, e ci pensano dopo più di trent’anni che
l’Italia è a Roma, ci pensano dopo che l’Imperatore di Germania ha
voluto, e forse perchè ha voluto, che a Roma sorgesse una statua di
Goethe, ci pensano presentando un disegno di legge alla Camera nè più
nè meno che se si trattasse di mettere un nuovo balzello. L’Italia
ufficiale è stata sempre di una volgarità desolante, incapace di un
pensiero alto, di un sentimento generoso, di un forte entusiasmo; ed
anche, diciamo la dura parola, molto ignorante.

La cattedra dantesca fiorentina, finchè durò, fu una innocente
Accademia destinata a far passare qualche ora della settimana alle
signore che non sapevano come ammazzare il tempo. Tra le visite alle
amiche per fare un po’ di maldicenza, e un giro per via Tornabuoni e
via Calzaioli per dare un’occhiata alle ultime novità delle vetrine e
mangiare da Giacosa due pasticcini, mezz’ora di chiacchiere del Padre
Giuliani era una benedizione. Si arrivava all’ora del _déjeuner_ senza
avvedersene.

Ma il senno del nostro Parlamento volle alla cattedra dantesca romana
dare un significato e uno scopo politico, volle farne la bandiera e lo
scudo della unità d’Italia, una specie di baluardo contro l’invadente
clericalismo, una specie di pulpito, in permanenza, tuonante contro
le dottrine della Chiesa cattolica e del Vaticano. E per questa specie
di predicazione si scelgono come testo le opere dell’Alighieri che fu
profondamente cattolico, si va a prendere come espositore il Carducci
che conosce bene il suo Dante, che volle sempre essere un professore di
lettere, non un predicatore.

Combattere il clericalismo! Niente di più meritorio per un Parlamento
e per un Governo veramente italiani: e mille modi c’erano e ci sono
di combatterlo efficacemente con delle buone leggi, con una savia
amministrazione, e innanzi tutto coll’avere per guida nei propri atti
la rettitudine e la sincerità, non la menzogna e l’ipocrisia, che
sono le arti dei clericali. Ma credere di combattere il clericalismo
stipendiando un professore più o meno coscienzioso, il quale nel nome
di Dante vada espettorando due o tre volte la settimana, in un’aula
della _Sapienza_, delle declamazioni anticattoliche per eccitare la
gioventù a mangiarsi un prete a colazione e a desinare un gesuita, è
non solo una sciocca illusione, ma una mancanza di rispetto a Dante e
una offesa al professore onesto cui per avventura si offrisse quello
stipendio.

Per tutte queste ragioni il Carducci rifiutò la cattedra. E sia perchè
tutti quelli che l’avevano proposta e glie l’avevano offerta, avevano
inteso di fargli onore, sia perchè amici suoi rispettabili e degni
desideravano che l’accettasse, egli espresse il suo rifiuto in termini
molto cortesi, con una lettera ad Adriano Lemmi, che fu pubblicata
nella _Gazzetta dell’Emilia_ del 23 settembre 1887, e che ora può
leggersi a pag. 347 del dodicesimo volume delle Opere. E poichè la
cattedra era stata creata per lui, e per fare un po’ di _bum bum_,
nessun ministro di buon senso (e ce ne furono) ebbe poi il coraggio
di correggere l’errore della istituzione, o sopprimendo la cattedra,
o affidandone magari l’insegnamento a qualche valoroso dantista (e ce
ne sono anche fra i giovani), il quale illustrasse filologicamente,
criticamente, storicamente le opere dell’Alighieri. No, si voleva un
nome famoso e il _bum bum_. Per i rappresentanti dell’Italia ufficiale
ciò che importa sono le parole, non le cose. Mettere il poeta di Satana
a commentare Dante, contro il Vaticano. Ecco la gran trovata.

Dopo tutto ciò, il Governo nella relazione che precede il disegno di
legge per il monumento a Dante ha il coraggio di citare come un grande
atto dell’Italia nuova la istituzione della cattedra dantesca a Roma.
Nessuna meraviglia se di qui a quindici anni un’altra relazione per
un altro disegno del genere, citerà a gloria dell’Italia ufficiale la
legge del monumento a Dante, che (speriamo) non si farà.

Dante ha il suo busto al Pincio, e basta: che ragione c’è d’innalzarlo
all’onore d’un monumento in Roma, mettendolo alla pari di Marco
Minghetti e di Quintino Sella?

                                   *
                                  * *

Torniamo alla cattedra dantesca e al Carducci. Quella che ho detto
fu la ragione principale della sua rinunzia; ma ne ebbe anche altre.
Io pure, per il desiderio di averlo vicino, lo avevo consigliato di
accettare, dicendogli: «Quando avrai accettato, farai lezione di che e
come ti parrà.» Egli a dì 8 ottobre mi rispose: «Le ragioni che addussi
(nella lettera al Lemmi) erano per me validissime. Ma poi altre ne ho
d’ordine privato. Sono stanco, stanco, stanco, di fare il professore;
che non è poi un mestiere per cui abbia avuto mai vocazione.
Ricominciarlo a Roma, ora che son quasi vecchio e del tutto disilluso,
mi avrebbe fiaccato e reso più triste e scontento d’avere accettato.
Preferisco il pensiero solitario e gli studi laboriosi in biblioteca e
nel mio gabinetto alla comunicazione col pubblico, che insomma non amo.
E sono più selvatico e ombroso ora che non fossi da giovine. Avvezzo
come sono alla cattedra di Bologna, non posso contenere un’irritazione
nervosa, quando ci vado. Figurati quello mi sarebbe avvenuto a Roma.
Sarei morto arrabbiato prima del tempo. È inutile: quando devo andare
a presentarmi a un uditorio che non sia di giovani a me conosciuti,
mi pare che vengano a sentirmi come una prima donna, o a vedermi come
un ballerino, e mi vien voglia di trattarli come, a mio parere, si
meritano. Un po’ è paura, un po’ è superbia.»

Il buon Coppino, allora ministro, tanto per dissimulare il fiasco della
istituzione della cattedra dantesca, pensò di sostituirvi un corso
di letture, e pregò il Carducci di cominciarle lui. Il Carducci per
cortesia annuì, e fece la prima l’8 gennaio 1888. Le letture non ebbero
poi gran seguito, ma quella fu un avvenimento letterario di grande
importanza, al quale il Ministero dell’istruzione, l’Università romana,
e in genere il così detto mondo ufficiale, rimasero quasi interamente
estranei.

Il Carducci lesse il discorso _L’opera di Dante_, nel quale
riaffermando il suo concetto circa le idee politiche dell’Alighieri,
lo chiarì meglio, e quasi direi lo completò con queste parole: «Non
è il caso di cercare nelle massime monarchiche dell’Alighieri un
principio all’unificazione d’Italia, se non in quanto questa fosse
compresa nell’unità del Cristianesimo. L’amor patrio e l’idea nazionale
fiammeggiano nel sentimento che il poeta ebbe profondissimo delle
glorie e delle miserie d’Italia, nel sentimento dell’Impero come
istituzione romana, come diritto italico.»

                             . . . . . . .

«Il libro di Monarchia è l’ultima scolastica espressione del
classicismo politico medioevale; e cercarvi ciò che oggi dicesi lo
stato pagano e lo stato ateo sarebbe fare un’ingiuria all’Alighieri
secondo le sue idee. Ma gloriamoci — e non è poco — altamente,
sinceramente e securamente gloriamoci, che Dante è il maestro nostro
ed il padre nella conservazione della tradizion romana del rinnovamento
d’Italia, ch’egli fu il testimone e il giudice nei secoli, il più puro
e tremendo giudice e testimone, del malgoverno della gente di chiesa e
della necessità morale di averlo abbattuto.»[61]

                                   *
                                  * *

Due altri importanti discorsi fece in quello stesso anno (1888) il
Carducci; il dì 8 aprile la lettura su Jaufrè Rudel in Roma alla
Palombella, il 12 giugno la orazione su _Lo studio di Bologna_,
celebrandosi l’ottavo centenario di quella Università. Fu una festa
mondiale e nazionale al tempo stesso; mondiale perchè festa della
cultura alla quale partecipò tutto il mondo civile, nazionale perchè
Bologna in quel giorno, dopo 29 anni che vide cacciata l’ultima volta
e per sempre la signoria straniera, inaugurò il monumento a Vittorio
Emanuele, al fondatore con Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi della
nazione italiana.

La parola del Carducci suonò alta e degna della solenne occasione.

«La gloriosa Superga, disse egli terminando, presso la tomba del re
de’ Sabaudi più doloroso aspetta invano il re più grande non pur
de’ Sabaudi ma dell’età nostra, il re che fu invocato e coronato
liberamente dal popolo italiano. Poi che Vittorio ebbe recato l’aquila
sua su ’l colle fatale ove Romolo cercò gli auspicii alla fondazione
dell’urbe, Roma, avvolgendo del suo divino amplesso nella morte il re
delle Alpi, lo depose, nel tempio di tutti gli dèi della patria, re
d’Italia e di Roma. Nessuna o pietà o empietà d’uomini ritoglierà più
dal Panteon Vittorio: nessuna o malignità o violenza di cose abbatterà
più in Roma la bandiera che dall’onta dei patiboli salì alla luce
del Campidoglio. Voi, Sire, fedele assertore di otto secoli di storia
italiana, Voi, interprete augusto e mantenitore sovrano del vóto di
tutto il popolo vostro, Voi, con parola che suona alta nel cospetto
del mondo, o Re, le diceste: Roma, conquista intangibile. Sì, o Re,
conquista intangibile del popolo italiano, per sè e per la libertà di
tutti.»

                                   *
                                  * *

Nell’agosto il Carducci tornò sulle Alpi: andò a Madesimo, di dove il
25 mi scriveva: «Io qua su faccio poco: cioè, faccio di grandi bagni
e di grandi passeggiate. Figurati che la mattina faccio la immersione
in una gran vasca, temperatura 6 gradi: circa le 4 pom. la doccia.
E così a forza di azione e reazione mi passo gran parte del giorno.
Azione e reazione che faccio sempre camminando. Poesie ne ho pensate,
ma non scritte: da prima, perchè faceva un gran freddo: nubi, acqua,
vento, neve: poi, perchè vado a zonzo...... Nelle ore d’intervallo o
passeggiando leggo Orazio, e cerco di rimandare a mente le odi che
avevo dimenticato. Leggo, per istudio, le odi di Klopstock: e sono
riuscito a dominare un poco quel difficil tedesco. Venendo a Bologna,
cerca di leggere attentamente la prima ode Klopst. _Der Lehrling der
Griechen_, dove ho difficoltà e dubbi.»

Io era solito andare quasi tutti gli anni nel settembre a Bologna a
passare alcuni giorni in compagnia del Carducci. Ci trovavo quasi
sempre qualcuno dei più antichi ed affezionati scolari suoi, Ugo
Brilli, Severino Ferrari, Tommaso Casini, che il Carducci invitava
spesso a desinare, e coi quali andavamo di tanto in tanto a fare
qualche passeggiata in campagna, e passavamo la sera alla bottiglieria
Cillario, od altrove, conversando molto animatamente. In quell’anno il
Carducci tornando da Madesimo aveva promesso di passare da Sondrio, per
vedere il vecchio amico Prezzolini ivi prefetto; io dovevo aspettarlo
a Bergamo per proseguire insieme per Bologna; ma non potei muovermi, e
ci rivedemmo a Roma agli ultimi di settembre, dove egli dovè recarsi
anche nei mesi successivi per le adunanze della Giunta del Consiglio
Superiore.

Il 15 dicembre fece pubblicare nel giornale il _Resto del Carlino_ di
Bologna questa dichiarazione:

«Per molte ragioni, inutili a esporre, sono dispiacente di esser
costretto a dichiarare anche una volta in pubblico, che io non posso
tenere carteggio letterario o didattico o politico di nessuna guisa,
all’infuori dei doveri d’ufficio e d’amicizia intima; per ciò solo,
che, se anche mi abbondasse la facilità di scrivere e la facoltà di
pagare un segretario, mi mancherebbe a ogni modo l’ozio e il tempo di
leggere: di che devo pregare i gentilissimi signori scriventi a me di
avermi per necessariamente scusato.

»Dello scrivere poi per la stampa, o del tenere discorsi, ho il
diritto, non avendo io mai usato di lavorare a commissione, di dire che
io scrivo e parlo quando mi pare e piace, e nessuna cosa o circostanza
o persona può persuadermi ad avere, per compiacenza, delle idee, quando
non ne ho e non voglio averne.»

Il Carducci sperava con ciò di liberarsi dalla noia di dover tutti i
giorni aprire e scorrere, almeno in fretta, una quantità di lettere
inutili e sciocche, alcune delle quali lo facevano talvolta andare
in bestia: ma la speranza fu vana. È il destino degli uomini famosi:
destino che pei degnamente famosi è una disperazione; per quelli altri,
i quali come i cantanti e le ballerine corrono i teatri in cerca di
applausi, può essere che sia una beatitudine.




CAPITOLO IX.

(1889-1891.)

  Il Carducci primo eletto al Consiglio comunale di Bologna. —
  Edizione delle opere complete. — Le _Terze Odi barbare_. — Raccolta
  e riordinamento di tutte le odi barbare in un solo volume. — Nomina
  a Senatore. — Una cena finita male. — Caduta del primo Ministero
  Crispi. — Vita del Carducci a Roma. — La trattoria in Via dei
  Sabini. — Il Castello di Costantino. — In casa di Adriano Lemmi. —
  «Scusi, lei non capisce niente.» — Evoluzione politica del Carducci
  spiegata da lui stesso. — Dimostrazione degli studenti radicali
  contro il Carducci. — Fischi all’Università. — «È inutile che
  gridiate _abbasso_: la natura mi ha messo in alto.» — Ripresa delle
  lezioni.


Il 30 gennaio 1889 il Carducci mandò fuori il primo volume della
raccolta delle _Opere_; il 3 febbraio fece una nuova lettura in Roma
alla Palombella sul tema «La poesia e l’Italia nella quarta crociata»;
il 10 marzo pubblicò un secondo e il 15 giugno un terzo volume delle
_Opere_; il 2 settembre fece sposa l’ultima delle sue figliuole,
la Libertà; il 31 ottobre pubblicò le _Terze Odi barbare_; e il 10
novembre nelle elezioni comunali riuscì il primo eletto con 7965 voti
su 10128.

Era entrato nel Consiglio il 25 luglio 1869, e vi fu sempre rieletto;
ma la straordinaria votazione del 1889 fu una specie di plebiscito,
col quale la città di Bologna volle attestare all’illustre uomo la
sua riconoscenza per avere resistito ai lusinghieri inviti che da
qualche tempo con tanta insistenza lo chiamavano a Roma. Egli aveva
fin d’allora, anzi da un pezzo, nel cuore quello che doveva dire
pubblicamente alcuni anni più tardi, in occasione del suo primo
giubileo di magistero, ai sindaci di Bologna e di Pietrasanta; le
ragioni cioè di sentimento e di affetto, per le quali Bologna gli
era divenuta una seconda patria, dalla quale sentiva oramai di non
potersi staccare; ragioni che quasi scherzando aveva adombrate nella
sua lettera al Lemmi con queste parole: «Se ho da fare ancora il
professore, sento di non poter farlo utilmente che a patto di poter
salutare, ogni volta che vado alla scuola e ne esco, la torre degli
Asinelli.»

Già qualche anno prima del 1889 il Carducci era andato pensando a
raccogliere e ordinare in una edizione uniforme e completa gli sparsi
suoi scritti. Nel 1884, pubblicando le _Conversazioni critiche_, il
Sommaruga aveva annunziato come in corso di stampa le seguenti opere:
1ª _I trovatori alla corte di Monferrato_, 2ª _Vite e Ritratti_, 3ª
_La Canzone di Legnano_, 4ª _Scatti e Schizzi_; e come in preparazione
queste altre: 1ª _Studi letterari_, 2ª _Discorsi letterari_, 3ª
_Novelle_, 4ª _I Ciompi_. Di corrispondente alla realtà in questi
annunzi non c’era altro che la stampa di alcuni pochi fogli di quel
volume _Vite e Ritratti_ che, come dissi, rimase interrotto per il
processo e la conseguente disparizione del Sommaruga.

Ma, fuori che per le _Novelle_ e i _Ciompi_, per le altre opere il
Carducci aveva già pronta molta materia. Scomparso il Sommaruga, gli
Zanichelli, i cui rapporti col poeta erano venuti facendosi sempre più
intimi, anche dopo la morte del padre loro, avvenuta improvvisamente
il 7 giugno 1884, gli proposero di far essi la raccolta completa de’
suoi scritti; ed egli accettò. Trovandosi in Roma, mi parlò più volte
di quella raccolta, ed una tra le altre buttò giù un primo abbozzo di
disegno della raccolta stessa in venti volumi. Nell’abbozzo c’è una
lacuna: dal volume IX si passa al XII; non so se per una svista, o per
altra ragione; ma poichè quell’abbozzo, che ritrovo fra le mie carte,
è cosa molto diversa dalla raccolta ora in corso di stampa, credo non
dispiacerà ai lettori conoscerlo. Eccolo:

  I. _Trovadori alla corte di Monferrato._

  II. _Studi di filologia e letteratura medievale._ — Delle antiche
  rime ne’ memoriali di Bologna. — Rimatori del secolo XIV. —
  Leggenda de’ sette savi, ec.

  III. _Studi letterari._ — I. L’amore e la poesia nel secolo XIII.
  — Bernardo di Ventadorn. — Guittone d’Arezzo. — Guido Guinicelli. —
  Guido Cavalcanti. — Delle Rime di Dante.

  IV. _Studi letterari._ — II. Della varia fortuna di Dante. —
  Canzoni storiche del Petrarca. — Musica e Poesia nel sec. XIV. —
  Lorenzo de’ Medici e Angelo Poliziano.

  V. _Ludovico Ariosto._

  VI. _Discorsi letterari._ — Virgilio. — Dante. — F. Petrarca. — G.
  Boccaccio. — Dello svolgimento della letteratura nazionale. — Del
  rinnovamento letterario in Italia, ec.

  VII. _Vite e Ritratti._ — I...... A. Tassoni. — S. Rosa. — A.
  Marchetti. — ec. ec.

  VIII. _Vite e Ritratti._ — II. P. Metastasio. — C. I. Frugoni.
  — Poeti erotici e lirici del sec. XVIII. — Vittorio Alfieri
  prosatore.

  IX. _Vite e Ritratti._ — III. G. Giusti. — G. Rossetti. — G.
  Mameli. — G. Prati. — G. Regaldi. — Louisa Grace. — Contessa
  Gozzadini, ec.

  XII. _Giuseppe Parini._

  XIII. _Bozzetti di letterature straniere._

  XIV. _Conversazioni critiche._

  XV e XVI. _Confessioni e Battaglie._

  XVII. _Schizzi e Scatti._

  XVIII. _Juvenilia. — Levia Gravia._

  XIX. _Giambi ed Epodi. — [Rime nuove]._

  XX. _Odi barbare._

Al n. XIX mancano nell’autografo, evidentemente per una svista, le
_Rime nuove_, che io perciò mi sono permesso di aggiungere.

Varie considerazioni si possono fare intorno a questo elenco: prima
di tutte, che quando l’autore lo compilò aveva in animo di compiere
alcuni lavori o farne dei nuovi, dei quali gli è mancato il tempo o
l’opportunità; seconda, che la disposizione organica da dare ai suoi
scritti è per lui lavoro di molta importanza, il quale perciò va
soggetto a molte mutazioni, prima di esser compiuto. Questo così per
le prose come per le poesie; ciascuna serie delle quali corrisponde a
uno speciale ordine di studi, di pensieri, di fatti nei diversi periodi
della vita dello scrittore. Naturalmente alcune mutazioni avvenute
nella disposizione delle prose dipendono dal fatto che all’autore
accadde di comporre alcuni lavori ai quali da prima non aveva pensato.

Il volume, annunziato nell’elenco come il primo della serie, ed
annunziato pure come il primo di quelli in corso di stampa dal
Sommaruga fino dal 1884, non è ancora uscito; anzi non è neppure
annunziato come di prossima pubblicazione nella edizione delle _Opere_
fatta dallo Zanichelli, della quale sono stati pubblicati fino ad
oggi ben tredici volumi. Ma dopo i tre primi, pubblicati nel 1889,
l’edizione andò rallentando; nei nove anni che seguirono furono
pubblicati soltanto sette volumi; e dopo la pubblicazione del volume
X nel gennaio 1898 vi fu una sosta di quattro anni, ora fortunatamente
cessata.

                                   *
                                  * *

Dei dieci volumi pubblicati nei nove anni dal 1889 al 1898 otto
comprendono le prose e due le poesie. I volumi delle prose sono: I.
_Discorsi letterari e storici_, II. _Primi saggi_, III. _Bozzetti e
scherme_, IV. _Confessioni e Battaglie_, V e VII. _Ceneri e faville_
(serie 1ª e serie 2ª), VIII. _Studi letterari_, X. _Studi saggi_
e _Discorsi_. I volumi delle poesie sono: VI. _Juvenilia_ e _Levia
Gravia_, IX. _Giambi ed Epodi_ e _Rime nuove_.

Nella distribuzione degli scritti in questa raccolta completa delle
opere l’autore ha tenuto conto al tempo stesso della materia e della
forma. I volumi I, II e VIII (salvo nel I i due discorsi _Lo studio
di Bologna_ e _Per la morte di Garibaldi_ e le _Relazioni di Storia
patria_) sono tutti formati di studi letterari, con questa distinzione,
che il primo comprende gli studi in forma di _discorsi_, il secondo
quelli in forma di _saggi critici_, l’ottavo i veri e propri _studi
letterari_ in forma di dissertazioni. Tre di questi, insieme coi cinque
discorsi _Dello svolgimento della letteratura nazionale_, che ora sono
nel I volume, componevano gli _Studi letterari_ pubblicati dal Vigo nel
1874 e ripubblicati nel 1880. Il volume X, che comprende scritti vari
anche di forma, ma per la maggior parte letterari, può considerarsi
come una appendice ai tre volumi degli studi di letteratura italiana.
Nel volume I ai cinque discorsi _Dello svolgimento della letteratura
nazionale_ sono aggiunti i discorsi _Pel monumento a Virgilio, L’opera
di Dante, Alla tomba del Petrarca, Ai parentali del Boccacci_, e _Del
rinnovamento letterario in Italia_, che ne formano il complemento e la
illustrazione, contribuendo a fare di esso il volume letterariamente
più importante e più originale di tutta la raccolta delle prose.

Come il volume degli _Studi letterari_ del Vigo conteneva il primo
nocciolo, per così dire, degli scritti letterari del Carducci raccolti
nei volumi dei quali abbiamo parlato, così il volume dei _Bozzetti
critici e discorsi letterari_, pubblicato dallo stesso Vigo nel 1876,
conteneva il primo nocciolo degli scritti di critica e polemica,
che, con l’aggiunta dei più importanti e nuovi dai tre volumi di
_Confessioni e Battaglie_ del Sommaruga, formarono i volumi III e IV
delle opere complete, _Bozzetti e scherme_ e _Confessioni e Battaglie_.
Nei _Bozzetti e scherme_ furono accolti cinque scritti dal volume del
Vigo, su _La Dora_ del Regaldi, su _La vida es sueño_ del Calderon,
_Goffredo Mameli, Il secondo centenario del Muratori_ e _Di certi
giudizi intorno al Manzoni_; gli ultimi due dei quali erano stati
riprodotti nelle _Confessioni e Battaglie_, edizione Sommaruga. Due
soli scritti del volume del Vigo, _Polemiche sataniche_ e _Critica e
arte_, riprodotti pure nel volume del Sommaruga, trovarono posto nel IV
delle _Opere_. Ad essi furono aggiunti undici scritti dalla raccolta
sommarughiana di _Confessioni e Battaglie_, quelli ai quali più
propriamente si conveniva questo titolo; e così con altri tre nuovi,
_Ricordo d’infanzia_, la prefazione al _Libro delle prefazioni_,[62]
e il _Discorso agli elettori di Pisa_, questo volume IV raccolse tutti
gli scritti nei quali l’autore parla di sè, della sua vita e dell’arte
sua, dagli anni primi al 1886, e combatte pei suoi ideali di scrittore
e di cittadino.

I volumi V e VII, _Ceneri e faville_, raccolgono gli scritti minori
di argomento vario, letterari, politici e semipolitici, sparsi
dall’autore in giornali, ed opuscoli, ma sopra tutto in giornali, e
perciò difficilissimi a trovare. Il volume V contiene la prima serie
di tali scritti dal 1859 al 1870; il VII la seconda dal 1871 al 1876.
Naturalmente queste, che l’autore chiama _misere bricciche_, non
hanno letterariamente l’importanza degli scritti maggiori raccolti
negli altri volumi; ma sono anch’esse nobili e preziose testimonianze
dell’animo e dell’ingegno dell’autore, e perciò tutt’altro che inutili
alla piena conoscenza dell’uomo e dello scrittore.

I due volumi delle poesie, VI e IX, pubblicati, uno nel maggio 1891,
l’altro nel maggio 1894, comprendono tutte le poesie in rima già
raccolte nei quattro volumi della collezione elzeviriana, _Juvenilia,
Levia Gravia, Giambi ed Epodi, Rime nuove_ (edizioni definitive), non
senza qualche aggiunta e mutazione di posto a qualche componimento.

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                                  * *

Le _Odi barbare_ seguitarono e seguitano ancora a rimaner fuori dalla
raccolta delle _Opere_. Dopo le _Nuove_ pubblicate nel 1882, egli era
venuto componendone altre, di alcune delle quali abbiam fatto cenno:
_Su Monte Mario_ e _Alessandria_ pubblicate nella _Domenica letteraria_
del 1882, _A Gino Rocchi_ nella _Cronaca bizantina_ del 1883, _Presso
l’urna di Percy Bysshe Shelley_ nella _Domenica del Fracassa_ del 1884;
_Scoglio di Quarto_ mandata a me nel luglio del 1884 da Courmayeur con
l’annunzio che stava scrivendone altre due (le quali erano _Courmayeur_
e _Il liuto e la lira_). Oltre queste, altre ne aveva cominciate,
fra le quali _Miramar_, di cui compose, come già dissi, le prime sei
strofe nel luglio del 1878, e che fu compiuta soltanto nel settembre
1880, poco innanzi alla pubblicazione del terzo volumetto delle _Odi
barbare_, finito di stampare il 31 ottobre del detto anno.

Le odi comprese in questo terzo volume erano venti, e tutte
dello stesso valore delle prime e delle seconde. Qualcuno accennò
scioccamente a crepuscolo e decadenza del poeta. L’accenno dimostrava
soltanto che chi lo faceva aveva ammirato le prime e le seconde
_Odi barbare_ senza avere conscienza vera del loro valore poetico.
Se qualche cosa era da notare nelle ultime, era solo una maggiore
perfezione della forma: l’ispirazione, la fantasia, il sentimento
erano alla medesima altezza. Certamente l’ode per Napoleone Eugenio
era e rimarrà sempre una delle più belle, ma _Miramar, Presso l’urna di
Percy Bysshe Shelley_ e _Scoglio di Quarto_ sono degnissime di starle
accanto. Già, secondo me, parlando delle _Odi barbare_, non si dice
bene a dire, queste son più belle di quelle altre; sono, specialmente
le terze, tutte egualmente belle; il loro piacere più o meno potendo
dipendere dall’argomento, dalla disposizione d’animo di chi legge e
da tante altre circostanze. A voler giudicare equamente le terze _Odi
barbare_ in confronto delle prime e delle seconde, bisogna leggerle nel
volume del luglio 1893, ove le odi dei tre periodi sono tutte insieme
raccolte e diversamente ordinate in due libri. Da questo ordinamento,
ch’era (si direbbe) nella testa dell’autore fin da quando egli le
veniva sparsamente componendo, tutte le odi acquistano maggior valore
e un più largo significato, illustrandosi l’una l’altra e formando
un tutto armonico di una bellezza e di una potenza di pensiero e di
fantasia meravigliose. Per esempio, quella piccola, ma stupenda, ode
di quattro strofe, intitolata _Colli toscani_, giustamente ammirata
dal Tomaselli,[63] quanto non acquista messa, come ora si trova, dopo
_Sogno d’estate_ e innanzi l’altra _Per le nozze di mia figlia_! Nelle
cinquantadue odi, quante sono tutte insieme, vive un intero mondo
poetico, che dalle evocazioni storiche grandiose e fatali, dai ricordi
commoventi e fecondi di meditazioni, dalle glorie e dagli eroismi
antichi e nuovi della patria, alle rivendicazioni della giustizia,
alle considerazioni filosofiche sulla vita e sul mondo, ai sentimenti
e agli affetti della famiglia, santificati in una divina comprensione
della natura, raccoglie quanto di più nobile ed alto può innalzare e
infiammare un cuore umano. Che cosa sono di fronte a questo piccolo
volume di poco più di 160 pagine i molti volumi di vaniloqui poetici,
dove vampeggia qua e là una imagine, talora veramente bella, talora
stramba e bislacca, in mezzo ad una affaticante virtuosità di parole,
che gl’imbecilli chiamano linguaggio degli Dei?

                                   *
                                  * *

Nel luglio del 1890 il Carducci pubblicò l’ode barbara intitolata
_Piemonte_, che i monarchici esaltarono molto (forse più del giusto), e
che i repubblicani _con goffa barbarie_ chiamarono «una riabilitazione
di Carlo Alberto a base di Garibaldi»: nel 4 dicembre dello stesso anno
fu nominato Senatore.

Alla sua assunzione alla Camera vitalizia il Governo, impersonato
allora nell’on. Crispi, il quale, andava lieto e superbo della stima
e dell’affetto che gli dimostrava il Carducci, aveva pensato fino
dall’anno innanzi, ma la nomina dovè essere rimandata, perchè il
Carducci non aveva ancora quei tanti anni di accademico che sono
richiesti per essere tenuto degno di entrare nell’alto consesso.

Di lì a due mesi, quando nessuno se l’aspettava, il Ministero Crispi
cadde.

Era ne’ primi giorni di febbraio del 1891. Un antico scolaro del
Carducci, il dottore Innocenzo Dall’Osso, che, consapevole della
misera condizione fatta dall’Italia agli insegnanti, aveva preferito
alla professione di professore quella di negoziante di tortellini,
trovandosi di passaggio a Roma, si incontrò con Ugo Brilli suo
antico compagno d’Università ed allora professore al Liceo Mamiani
di Roma. Naturalmente parlarono del loro antico maestro, che appunto
di quei giorni trovavasi in Roma; il Dall’Osso espresse il desiderio
di vederlo; e il Brilli, accontatosi con Edoardo Alvisi, allora
bibliotecario della Casanatense, e con altri amici comuni, propose,
ciò che fu subito accettato da tutti, di fare una cena, alla quale
sarebbero invitati il Carducci, il Dall’Osso e pochi altri.

La cena (nella quale, si intende, dovevano primeggiare i tortellini)
fu fissata per le ore 6 alla trattoria _La torretta di Borghese_,
in piazza Borghese, dove era cameriere un giovinotto di Bologna
soprannominato _Barzilai_, entusiasta del Carducci. Eravamo fra gli
invitati Luigi Lodi ed io. Quella sera, se non isbaglio, pioveva,
una di quelle pioggie fini, insistenti, noiose, che a Roma, quando
cominciano, pare non vogliano finir mai. Io arrivai in compagnia
del Brilli e dell’Alvisi. Il Carducci c’era già. Mi presentò il suo
ex-scolaro: gli altri, già arrivati, li conoscevo. In breve la comitiva
fu quasi al completo: mancava soltanto il Lodi. Mentre si aspettava
che i camerieri annunziassero pronta la cena, una conversazione animata
empiva di lieto romore la stanza. Il Carducci era di bonissimo umore,
e faceva con me sue facete e malinconiche considerazioni intorno
alla fortunata condizione del suo scolaro negoziante di tortellini
in confronto di tanti altri che trascinavano miseramente la vita in
qualche città delle isole, insegnando latino e greco a ragazzi che
non avevano nessuna voglia d’impararlo. All’annunzio che i tortellini
erano in tavola, ci precipitammo tutti nella sala da pranzo; e il lieto
romore andò sempre crescendo mentre ciascuno cercava il suo posto.

Cominciarono a sfilare le portate dei tortellini, cucinati in tutte
le guise; cominciarono e non finivano; come non finivano le lodi dei
commensali a così squisite minestre. Il pranzo procedeva allegramente,
e lo sfilare dei vassoi di tortellini era finito, quando a un tratto
comparve il Lodi, il cui posto accanto a me era rimasto vuoto. Entrò
dicendo che veniva dalla Camera con una strabiliante notizia: — Il
Ministero Crispi stava cadendo: forse era già caduto: egli Lodi aveva
lasciato la Camera in votazione: l’appello nominale aveva già superato
la metà dei presenti, e il Ministero si trovava in minoranza: nel qual
caso, osservò il Lodi, l’esperienza insegna che i più di quelli che
restano voteranno contro: avrebbero votato in favore se non avessero
avuto la sicurezza che il Ministero era spacciato. —

Naturalmente il Lodi, che allora scriveva in un giornale di
opposizione, era tutto sodisfatto; però, sapendo quanto il Carducci
fosse affezionato al Crispi e quanta ammirazione avesse per lui, cercò
di contenersi. Nè risparmiò titoli poco onorevoli a quelli onorevoli
che, avendo fino allora sostenuto il Ministero, ora che lo vedevano in
procinto di cadere gli si erano voltati contro. Ma la sodisfazione che
gli si leggeva nel viso traspirava, starei per dire, dai pori stessi
delle sue parole, se anche di biasimo ai vincitori. E qualche motto di
disapprovazione per il Crispi gli uscì pure di bocca.

Alle prime parole del Lodi il Carducci rannuvolatosi gridò: — Non è
possibile. — Quando poi dal seguito del racconto capì che la cosa
era vera, ruggì: — Vigliacchi; è l’unico uomo di stato che possa
governare l’Italia, e tenerne alto il nome: vigliacchi. — E ruotando
gli occhi fiammanti d’ira, e fissandoli di tratto in tratto sul Lodi,
pareva volesse stritolarlo, annientarlo col solo sguardo. Qualcuno,
non mi ricordo chi, si provò a gittare qualche parola che temperasse
l’effetto prodotto nell’animo del Carducci dall’improvvisa notizia;
io, che lo conosco bene, mi tacqui sapendo che qualunque parola poteva
affrettare lo scoppio della burrasca, invece di scongiurarlo; e, ad
ogni nuova osservazione o risposta del Lodi, m’aspettavo di vedere il
Carducci balzare in piedi ed avventarglisi contro. Dovette accorgersi
anche il Lodi che non era prudente seguitare la conversazione su
quell’argomento, e, non mi ricordo se col pretesto di tornare alla
Camera, o con altro, levatosi da tavola se ne andò.

L’allegria, rotta a quel modo, non fu più possibile rannodarla. Il
Carducci rimase cupo e muto per tutto il resto della serata. E la
tempesta sconvolse non soltanto la nostra piccola comitiva, ma tutto
lo stabilimento. Il padrone, che aveva sperato di farsi con la nostra
cena un po’ di _réclame_, ne rimase più sconcertato di tutti: faceva
di tratto in tratto capolino alla porta e guardava il Carducci; ma
vedendolo sempre più nero e adirato, tornava indietro e respingeva con
bel garbo gli avventori che dalle altre sale si affollavano verso la
nostra, per desiderio di vedere il poeta. Il povero _Barzilai_, che
aveva fatto del suo meglio per adornare la sala e la tavola, ed aveva
perfino trovato dei fiori freschi, rari in quella stagione, rimase
tutto dolente che nessuno li avesse apprezzati.

La cena finì in mezzo ad un silenzio di tomba: quando uscimmo (pioveva
sempre) avevamo l’aria di gente che torna da un funerale. S’andò al
Caffè Morteo in Via Nazionale: nè fu possibile per istrada calmare il
Carducci, il quale andava brontolando fra sè e sè e mettendo di quando
in quando a mezza voce qualche esclamazione. Pareva che avesse perduto
fino la conoscenza delle persone, perchè più d’una volta si fermò per
istrada domandando al Brilli: — Ma chi è colui là? — Ed era uno dei
nostri commensali.

La sera dopo, il Dall’Osso invitò ad una cena più ristretta alcuni dei
medesimi amici, per far sentire loro i suoi tortellini. Il Carducci era
più calmo, ma non aveva ritrovato il buonumore che gli è abituale in
simili occasioni: pareva impensierito, triste, come se fosse sotto il
peso di una grave sciagura.

L’ammirazione e l’affetto del Carducci per il Crispi erano d’antica
data: si collegavano e si confondevano con la storia del risorgimento
d’Italia. Ora poi le testimonianze di stima e di amicizia che ne aveva
ricevute nei tre anni e mezzo circa ch’egli era stato al potere, lo
avevano maggiormente stretto a lui. E dopo ch’egli fu caduto, non si
lasciò sfuggire occasioni, anzi andò cercandole con ogni studio, per
dimostrargli sempre maggiormente la sua devota affezione. Forse non
pensò neppure che ciò avrebbe potuto procurargli qualche fastidio per
parte di quei radicali, che già da un pezzo (dall’ode alla Regina in
poi) lo accusavano disertore ed apostata del loro partito; o se ci
pensò, si sentì forte e sicuro nella coscienza di adempiere ciò che
stimava un dovere.

                                   *
                                  * *

Dopo la nomina a Senatore, il Carducci venne anche più spesso a Roma.
Della sua vita romana in questo ultimo periodo scrisse con reverente
affetto Mario Menghini. «A Roma (il Carducci) cambia notevolmente di
abitudini (le abitudini sue a Bologna sono già note ai lettori). Si
alza verso le otto se è d’inverno, verso le sette se d’estate.... ed
esce per andare al Senato, da quando è senatore. Gli anni avanti era
solito rintanarsi nella Biblioteca Casanatense, dove il fedele Alvisi
(bibliotecario) teneva a sua disposizione una stanzetta per studiare.
Anche in Senato il luogo prediletto dal Carducci è pur sempre la
biblioteca. Colà, curvo sul tavolino, legge, prende appunti, corregge
prove di stampa, scrive lettere: insomma è sempre alle sue occupazioni
preferite.... Ma il cannone di mezzogiorno lo toglie dai suoi studi;
egli vuole andare a mangiare e attende con impazienza il nostro
giungere. Perchè posso dire che a Roma il Carducci ha sempre appetito,
un appetito formidabile; ed ama la cucina casalinga, e, non meno del
Chianti, il vino dei Castelli romani.»[64]

Finchè rimasero a Roma, il Brilli e l’Alvisi furono i due che col
Menghini andavano abitualmente a prendere il Carducci alla Casanatense
o al Senato per condurlo ed essergli compagni a colazione. Nella
trattoria giungevano poi, se non c’erano già, altri compagni; spesso
Cesare Pascarella, Vittorio Fiorini, Policarpo Petrocchi (ora morto
improvvisamente e immaturamente); più di rado, perchè non sempre
libero, Francesco Torraca. Io ci andavo quando potevo. Qualche impronto
riusciva talvolta ad intrudersi, con fastidio di tutti, nella piccola
brigata. Ciò bastava a mettere di malo umore il Carducci; il quale a
tavola, in buona e ristretta compagnia, è sempre allegro ed espansivo;
ma appunto perciò bisogna che la compagnia sia piccola e d’intimi.

Le trattorie preferite dal Carducci erano in generale di quelle dove
si mangia alla buona e si spende poco. Negli ultimi anni «il ritrovo
abituale, scrive il Menghini, era una piccola trattoria in via dei
Sabini.... che aveva il pregio di preparare dei desinari salubri a poco
prezzo. L’onesto proprietario era orgoglioso di servire il Senatore
(così chiamava sempre il Carducci): e credo che nessuno sia stato più
intelligente di lui nel soddisfare i gusti, modestissimi del resto, del
nobile avventore. La tavola era sempre coperta di biancheria di bucato,
e sempre adornata di fiori.

»Il convegno però delle grandi occasioni, quando il Carducci poteva
godere più di due ore di libertà, era il Castello di Costantino, la
famosa trattoria che sta a cavaliere del _gran monte plebeo_; luogo
veramente incantevole, che ha di fronte il Palatino e ai tre lati le
Terme di Caracalla e Monte Mario. La tavola allora era più numerosa, i
discorsi più vari e meno intimi.»[65]

La sera il Carducci soleva mangiare in casa, presso la famiglia d’uno
dei due o tre amici dei quali accettava in Roma l’ospitalità. Quando
era da me, le sere ch’eravamo soli si divertiva, dopo pranzo, a
giuocare a briscolone col più piccolo dei miei figliuoli, rallegrandosi
molto e facendo le più sonore risate quando gli accadeva di vincere.

Non gli mancavano inviti a pranzo fuori, ch’egli soleva accettare se
di persone a lui simpatiche. Fra i più graditi erano quelli di Adriano
Lemmi, dal quale passavamo (io gli era sempre compagno) delle serate
piacevolissime. C’era sempre un’eletta di brave persone, serie senza
musoneria, fra le quali e durante il pranzo e dopo si intavolavano
animate discussioni, di storia, di arte, di politica.

Io aveva conosciuto il Lemmi fino dal 1885 poco dopo la mia venuta
a Roma. Lo trovavo quasi tutte le sere alla Birreria Morteo in Via
Nazionale in un piccolo crocchio di amici, coi quali passava volentieri
qualche ora conversando. Gli ero stato presentato da un professore
del mio liceo, Florestano Tano; ed egli, sapendomi amico del Carducci,
amicissimo suo, m’aveva fatto la più cordiale accoglienza. Nei primi
tempi il crocchio alla birreria era ristrettissimo: ne facevano
parte, oltre il Tano, Luigi Castellazzo, l’autore del _Tito Vezio_
ed ex-condannato dell’Austria, Ettore Socci non ancora onorevole, e,
quando era in Roma, il Carducci. Veniva qualche volta, ma di rado,
Ulisse Bacci; vennero più tardi, ma anch’essi saltuariamente, Felice
Cavallotti e il conte Luigi Ferrari, ucciso poi così miseramente a
Rimini. Forse dimentico qualcun altro.

Il Lemmi, che conosceva gli uomini politici più autorevoli, tanto
quelli ch’erano al potere, quanto quelli che c’erano stati o aspiravano
ad andarci, era sempre fornito di notizie, e dirigeva e presiedeva, per
così dire, le nostre conversazioni. Le quali, aggirandosi generalmente
sui fatti del giorno, si capisce ch’erano spesso vive e romorose.

Data la qualità e notorietà delle persone, era naturale che quelle
conversazioni eccitassero la curiosità dei frequentanti la birreria.
Onde accadde che dai tavolini vicini al nostro qualcuno prestasse
attenzione ai nostri discorsi, e che qualcuno anche, non invitato, ci
mettesse bocca. Ciò, se non poteva piacere a nessuno di noi, a lungo
andare dispiacque molto al Lemmi; il quale dopo qualche tempo cessò
di venire alla birreria, invitando alcuni dei più intimi a prendere il
ponce o la birra in casa sua. E di tanto in tanto, quando il Carducci
era a Roma, ci invitava anche a desinare.

Rammento fra quelli che avemmo più spesso commensali il generale Sani,
il dottore Achille Ballori, l’onorevole Filippo Mariotti, Ulisse Bacci.
Vennero qualche volta anche l’onorevole Fortis, il conte Luigi Ferrari,
la signora Jessie White Mario, Guido Mazzoni.

In casa Lemmi non c’erà pericolo che la conversazione languisse. Chi
pensava a tenerla desta era il signor Adriano, come alcuni di noi lo
chiamavamo. Con i suoi settant’anni e più egli aveva una vivacità e una
freschezza di spirito più che giovanili. La sua vita fortunosa, la sua
amicizia con gli uomini che prepararono il risorgimento nazionale, dei
quali egli fu anche il compagno d’azione e il cassiere, fornivano alla
sua memoria una quantità inesauribile di fatti e di aneddoti ch’egli
non si stancava di raccontare. Nelle discussioni sopra qualunque
argomento egli aveva sempre le idee sue personali, che non erano quasi
mai quelle degli altri, che spesso anzi erano opposte a quelle degli
altri; e le sosteneva con una tenacia non di toscano, ma di ligure,
e con una energia e vivezza di linguaggio veramente mirabili. Quando
il suo oppositore era un dei più giovani, ad esempio il Bacci, di cui
aveva molta stima ed al quale era molto affezionato, l’intercalare
col quale cominciava, interrompendolo, la sua risposta, era questo: —
Scusi, lei non capisce niente. — Ma nessuno s’impermaliva o si lasciava
sgomentare; e le repliche fioccavano vive, magari pungenti. Quando
poi per l’ora tarda i convitati si disponevano a partire, lasciando
interrotta l’ultima discussione, rimaneva in tutti il desiderio
di riprenderla al più presto, non per conchiudere, ma per rimanere
ciascuno, s’intende, con la propria opinione.

Il Lemmi, amico del Crispi fin da quando giovani cospiravano insieme,
gli era sempre rimasto fedele, e si trovava perfettamente d’accordo
col Carducci nell’apprezzare l’opera di lui come uomo di Stato e capo
del governo. Aveva perciò veduto anch’egli con dispiacere la crisi
del febbraio 1891, e giudicava anch’egli molto severamente la condotta
della Camera in quella occasione.

Indipendentemente dalle qualità personali che facevano caro il Lemmi
al Carducci, questa conformità d’idee rispetto al Crispi stringeva
sempre più i legami della loro stima ed affezione reciproca. E, com’è
naturale, si trovavano d’accordo nel sentirsi tanto più legati al
Crispi ora ch’egli era in disgrazia.

                                   *
                                  * *

Fin da quando il Carducci pubblicò l’ode a Margherita di Savoia, i
monarchici andavano vantando che il poeta della repubblica era stato
guadagnato alla monarchia dalla graziosa Regina. Fin d’allora i
repubblicani lo accusarono, come abbiam visto, di aver disertato la
parte loro.

Il Carducci aveva anche, come pure abbiam visto, fatte nel 1888 e 1889
due conferenze alla Palombella in presenza della Regina, la seconda
delle quali (_La Poesia e l’Italia nella quarta crociata_) terminava
con un grazioso saluto a Sua Maestà; ed aveva nelle _Terze Odi
barbare_, pubblicato una nuova ode alla Regina, _Il liuto e la lira_.

In tutto ciò niente di strano; e niente di strano nel fatto che il
poeta nel marzo del 1891 invitasse il Crispi a fare da padrino a la
bandiera che le signore di Bologna avevano ricamata per il Circolo
monarchico universitario; niente di strano, dico, dopo ch’egli aveva
_confessato francamente_ in quali circostanze e per quali ragioni fosse
avvenuta quella che poi chiamarono la sua _evoluzione_.

La quale più tardi spiegò anche più chiaro con queste parole: «Io,
di educazione e di costumi repubblicano (all’antica), per un continuo
svolgimento di comparazione storica e politica, mi sentii riattratto
e convertito ingenuamente e sinceramente alla monarchia, con sola la
quale credo ormai fermamente possa l’Italia mantenersi unita e forte:
oltre di che mi professo affezionatamente devoto alla grande civiltà e
umanità di Umberto I.»[66]

Il Crispi, non poeta, ma semplicemente uomo politico, si era anche
lui di repubblicano convertito a monarchico dicendo: «La monarchia ci
unisce, la repubblica ci dividerebbe», e nessuno ci aveva trovato a
ridire, benchè in fondo a quel mutamento stesse la nobile ambizione
di salire al governo, mentre in fondo all’evoluzione del Carducci non
c’era nessuna ambizione e nessun vantaggio di nessun genere.

Tenuto poi conto della grande stima che il Carducci faceva del Crispi,
come cittadino e come uomo di Stato, può anche essere che nella sua
evoluzione avesse pure influenza l’esempio di lui. La ragione del poeta
e dell’uomo di Stato era in fin dei conti la medesima.

Dunque niente a ridire, per le persone ragionevoli e spregiudicate, sul
mutamento dell’uno come su quello dell’altro.

Ma è naturale che i repubblicani condannassero severamente,
brutalmente, il Carducci; per questa ragione sopra tutte, che la
perdita di lui era pel partito una gran perdita. Morti Garibaldi e
Mazzini, morti Mario e il Cattaneo, divenuti ministri della monarchia
il Cairoli ed il Crispi, non rimaneva se non che il poeta della
democrazia e della repubblica passasse anche lui armi e bagaglio al
partito monarchico.

I moderati toscani avevano rimproverato al Carducci di avere rinnegato
la Canzone a _Vittorio Emanuele_ e la _Croce di Savoia_ per inneggiare
alla repubblica; ma per la gioventù romagnola il Carducci era soltanto
il poeta di Satana e dei _Decennali_, il poeta di Monti e Tognetti e
del Cairoli, della _Commissione araldica_ e di _Versaglia_.

La gioventù romagnola fra il 1870 e il 1875 era quasi tutta
repubblicana; è quindi naturale ch’essa facesse del Carducci il
poeta suo prediletto. Però nei decennio dal 1875 al 1885 molti di
quei giovani, avviatisi a diventare uomini maturi, avevano per lo
svolgersi degli avvenimenti politici rimesso molto del loro ardore
repubblicano; ed erano quindi in grado di meglio intendere e di
giudicare più serenamente l’opera del Carducci poeta e cittadino. La
gioventù nuova non era invece in questo caso: al partito repubblicano
era venuto a poco a poco ad aggiungersi il socialista; ed a Bologna
ambedue riguardavano naturalmente con odio e con disprezzo il circolo
monarchico universitario.

I giovani, si sa, portano l’ardore della gioventù nella professione
delle loro idee; essi sono, e debbono sempre essere, perchè giovani,
eccessivi in tutto. Di ciò meno che altri può meravigliarsi il
Carducci. Essi naturalmente non accettarono la giustificazione che il
poeta diede dell’avere scritta l’ode _Alla Regina_: se avessero saputa
la storia, probabilmente avrebbero pensato che Barnave pagò con la
testa l’aver sentito pietà di Maria Antonietta quando l’accompagnò nel
triste ritorno a Parigi.

Altri tempi ed altri avvenimenti, coi quali non è dato istituire
confronti. Sta bene. Ma insomma l’autore dei _Giambi ed Epodi_ aveva,
dopo le odi e le lodi alla Regina, celebrato Carlo Alberto, ed aveva
accettato la nomina a senatore: e quasi ciò non bastasse, si apprestava
a fare da padrino, in luogo del Crispi, alla bandiera del Circolo
monarchico universitario.

Questo per gli studenti repubblicani e socialisti fu il colmo. E
la sera del 10 marzo 1891, dopo una conferenza commemorativa del
diciannovesimo anniversario della morte di Giuseppe Mazzini, un
centinaio di giovani, fra i quali parecchi studenti, si recò alla
casa del Carducci sulle Mura Mazzini, per fargli una dimostrazione
ostile. La turba dei dimostranti prendendo da Via San Stefano per Via
del Piombo, fu, come accade, ingrossata dai soliti curiosi, tanto che
quando giunse dinanzi alla casa del poeta era di circa trecento. Il
Carducci non era in casa. I dimostranti si sfogarono gridando _abbasso_
e fischiando e poi se ne andarono.

Il giorno di poi essendosi sparsa la voce che gli studenti monarchici
volevano fare una controdimostrazione in favore del Carducci quando
egli recavasi all’Università a far lezione, gli studenti radicali,
in numero di circa cinquecento, si radunarono verso le ore due
nell’Università, e non appena il professore comparve incominciarono a
fischiare e gridare _abbasso_. Egli, come se ciò non lo riguardasse,
si fece largo tra i fischianti, ed entrò nell’aula per fare la
sua lezione. Dietro di lui entrarono in massa i dimostranti; egli,
apparentemente calmo, sali la cattedra avendo intorno alcuni studenti
e studentesse di filologia, ed accingevasi a fare lezione, quando
ricominciarono le grida di _abbasso_ ed i fischi. Impedito di far
lezione dal baccano che andava sempre crescendo, egli, acceso un
sigaro, si mise a fumare, non senza prima aver risposto a quelli che
gridavano: «È inutile che gridiate _abbasso_, la natura mi ha messo in
alto; dovreste piuttosto gridare _a morte_.» E poichè ai fischi e agli
_abbasso_ si aggiunsero le grida di _cretino, vigliacco, buffone_, ed
altre più gravi ed atroci ingiurie, egli _montò ritto in piedi sur una
tavola che era dinanzi alla cattedra, per meglio esporsi ai fischi e
per ricevere in pieno petto gli oltraggi_. Ciò irritò maggiormente i
dimostranti, i quali divenuti tanti energumeni _si ruinarono contro
la tavola, fracassarono le lampade, mandarono in pezzi più assi de
la cattedra_, e rintuzzarono il professore con gli studenti e le
studentesse che gli s’erano stretti intorno, _tra la cattedra e il
muro, tanto che la respirazione diveniva ogni momento più difficile e
la stretta era non senza pena e pericolo_.[67] Una signorina svenne e
fu salvata per la finestra, un’altra n’ebbe intormentito un braccio,
un’altra ci rimise il mantello. Erano sopravvenuti durante il tumulto
i professori Pelliccioni e Ciaccio, l’economo dell’Università cav.
Damiani e Olindo Guerrini, ma non erano riusciti a calmare quei
furibondi, nè a persuaderli a sgombrare l’aula, poichè il Carducci
aveva dichiarato ch’egli era in casa sua e non sarebbe uscito se non
l’ultimo di tutti. Sopravvenne in fine il professore Albertoni, il
quale, come socialistoide, fu accolto da una ovazione dei dimostranti;
ma neppure egli riuscì a persuaderli a sgombrare. Se ne andarono
quando vollero, cioè quando capirono che tanto il professore non se ne
andava, ed erano forse stanchi di quella, come il Carducci la chiamò,
_prolungata esercitazione nelle imitazioni animalesche_.[68]

Usciti i dimostranti, uscì anche il Carducci insieme coll’economo
Damiani. Fu fatto salire in una vettura e accompagnato a casa. Gli
studenti e una parte dei dimostranti, che aspettavano fuori, seguirono
la carrozza, quelli acclamando il professore, questi seguitando a
oltraggiarlo. Fu detto che uno dei dimostranti, aggrappatosi alla
carrozza tentò di colpirlo; ma il poeta con un telegramma da Genova
alla _Gazzetta dell’Emilia_ affermò che nessuno aveva portato la
mano sopra di lui. Il _Resto del Carlino_ però disse che nel suo
interrogatorio il Carducci non aveva escluso di essere stato minacciato
e percosso, ma aveva soggiunto che ciò sarebbe avvenuto in seguito a
sua provocazione.

La mattina del 13 gli studenti monarchici prepararono in piazza
Vittorio Emanuele una dimostrazione in onore del professore.
Naturalmente i radicali, saputolo, si riunirono anch’essi per
controdimostrare; e gli uni applaudendo e gli altri fischiando,
per i Portici del Pavaglione e via Farini, si spinsero fino in via
del Piombo, alla casa del Carducci, dove giunti si azzuffarono, si
strapparono una bandiera e ne ruppero l’asta. Il Carducci, ch’era a
Genova, vide il Verdi, andato a cercarlo, e di tutto gli parlò fuor che
del successo in Bologna; tanto poco ci aveva il pensiero.

                                   *
                                  * *

Il fatto della prima dimostrazione (le altre non furono che una
conseguenza naturale di quella) fu deplorevole, ma i precedenti da me
narrati lo spiegano. Il ministro Villari, parlandone alla Camera disse:
«Quando assistiamo a fatti come quelli di Bologna, dove impunemente si
insulta l’uomo, il cittadino, il maestro, mi sembra vedere dei figli
che insultano il loro padre.» Nobili parole che furono una giusta
condanna del fatto indegno.

Gli studenti radicali in un foglietto stampato si giustificavano
dicendo: «Il poeta e il letterato tutti ammiriamo. Noi abbiamo
fischiato il disertore di una bandiera.» Dal loro punto di vista essi
avevano in apparenza ragione; ma avevano torto nella sostanza. Per
ammirare il poeta e il letterato bisognava comprenderlo; ed essi non lo
comprendevano: essi vedevano nel Carducci il poeta del loro partito; ed
il Carducci era ben altro; era un poeta superiore a tutti i partiti.

Gli studenti radicali di Bologna commettevano lo stesso errore nel
quale erano caduti i monarchici moderati, che dopo il 1860 accusavano
di defezione l’autore della Canzone _A Vittorio Emanuele_ e della
_Croce di Savoia_. La ragione dell’errore l’accennava il Carducci
stesso con queste parole dirette al ministro Villari: «Il Ministero
della pubblica Istruzione volle fare in piccol tempo troppe scuole
e troppi professori in un paese che non poteva nè dare tanto, nè
portare tanto.»[69] Insomma la ragione era l’ignoranza. Con ciò non
intendo negare che parte, e principalissima parte, nel fatto, avesse
la passione politica, la quale è sempre bestiale; ma credo che, se gli
studenti radicali avessero veramente (cioè comprendendolo) ammirato il
poeta, non avrebbero fischiato in lui ciò ch’egli non era e non fu mai,
il disertore di una bandiera. La sua bandiera, ch’egli non disertò mai,
fu sempre una sola, la bandiera della nazione, la bandiera italiana.

Che dopo l’ode alla Regina i suoi ideali politici non erano affatto
mutati basterebbero a dimostrarlo, se non lo dimostrasse tutta la
vita e tutta l’opera sua, le odi _A Giuseppe Garibaldi_ e _Scoglio
di Quarto_ e i sonetti _Ça ira_. Mentre i repubblicani lo accusavano
di avere rinnegato i suoi antichi ideali, i monarchici lo accusavano
d’inneggiare ai sinistri e sanguinari apostoli della Rivoluzione
francese.

Nei giorni dei tumulti e in quelli che seguitarono il Carducci non
perdè mai la sua calma e la sua serenità di spirito. Attendeva ai
suoi studi come se niente fosse avvenuto: si occupava allora del
Goldoni, intorno al quale aveva in animo di comporre una corona di
sonetti. Furono scritti in quel tempo i quattro che poi pubblicò per
le nozze della figlia di Ferdinando Martini. Nè si preoccupava affatto
del ricominciare le lezioni: e quando una quindicina di giorni dopo
le ricominciò, tutto procedè tranquillamente. Uno dei suoi antichi
scolari, che assisteva alla prima lezione, mi diceva: «Nessuno avrebbe
potuto immaginare quel giorno che circa un mezzo mese prima dentro
quell’aula si era venuti alle vie di fatto ed era mancato poco che non
si fosse versato del sangue.»




CAPITOLO X.

(1892-1902.)

  Il Carducci al Senato. — Studi e lezioni sul Parini. — La _Bicocca
  di S. Giacomo, La guerra, Il Cadore_. — Lezioni all’Università su
  l’Alfieri e le tragedie di soggetto romano e italiano. — Ultimo
  Ministero Crispi. — Polemiche crispine. — Onoranze al Carducci
  per il giubileo del suo magistero. — Il Nencioni scrittore. —
  La paroletta misteriosa di un lucherino. — Malattia e morte del
  Nencioni. — Il Carducci presidente della Commissione per gli
  scritti inediti del Leopardi. — Studi leopardiani. — Morte di Carlo
  Bevilacqua. — _Rime e Ritmi._ — Due degli ultimi sonetti. — Il
  Carducci a Madesimo nel luglio del 1899. — La prefazione ai _Rerum
  Italicarum Scriptores_ del Muratori. — Nuovo disturbo nervoso. —
  L’edizione delle poesie complete in un volume. — I volumi XI, XII
  e XIII delle _Opere_. — Lavori riserbati dal poeta agli ultimi anni
  della sua vita. — La biblioteca del Carducci.


I doveri d’insegnante e il bisogno di non trascurare i suoi studi e
lavori letterari non consentirono al Carducci di prendere viva parte
ai lavori del Senato. Nel 1892, essendo Ministro della istruzione il
Martini, prese una volta la parola per difendere da non giuste accuse
le nostre scuole secondarie, ed in particolar modo gli insegnanti di
esse; a proposito dei quali disse: «Possano quei degni insegnanti
che da tanti anni lavorano come martiri e sono pagati come....
non oso esprimere il termine del paragone.... che sono ballottati
irrisoriamente di promessa in promessa, di riforma in riforma, e per
giunta tenuti in sì mediocre concetto dai più; possano una buona volta
veder rialzate le loro sorti, possano sentirsi tenuti dalla nazione nel
concetto che meritano. Se ciò non avverrà, e presto, sarà incagliato
pure quel progresso che certo oggi è nelle scuole; verrà a raffreddarsi
la fiducia che molti, io avanti tutti, ora hanno in un fulgido avvenire
della scuola e della coltura italiana. Perchè, in fine, pretendere che
giovani, uscendo dopo tante spese dall’Università a vent’anni, debbano
essere pronti a spendere con entusiasmo la migliore età in divulgare
fra gente svogliata le letterature di Omero di Virgilio di Dante,
a insegnare la storia universale, compresa la geografia, e tutta la
filosofia, e tutta la matematica, e tutta la fisica, e, di più, tutto
che piaccia aggiungere a un ministro di buona volontà; e ciò con la
speranza di arrivare quando che sia ad avere cinque lire al giorno;
onorevoli colleghi, questa è una pretesa che si fonderebbe su una
iniquità sociale.»[70]

Dopo queste ed altre sante parole in difesa della coltura classica,
approvate calorosamente dall’alto consesso, e rimaste poi, come accade,
senza nessun effetto, il Carducci per un pezzo non si fece più vivo.
I soli discorsi di qualche importanza che disse più tardi in Senato
furono, se non erro, quello dell’aprile 1897 per Candia, e quello del
marzo 1899 per la convenzione universitaria di Bologna, stampati nel
volume XI delle _Opere_.

Le frequenti gite a Roma non impedirono al Carducci di attendere con
l’usato zelo alla sua scuola. Ma nel 1893, cominciando a sentirsi un
po’ stanco, chiese ed ottenne per aiuto quel suo antico e valoroso
discepolo, che già conosciamo, Severino Ferrari, degno e per
l’affetto al maestro, e per la larga cultura, e per l’ingegno vivo, di
proseguirne l’opera e gli intendimenti.

Nei quaranta anni di magistero universitario il Carducci tornò più
volte, com’è naturale, su gli stessi argomenti; ma non rifece mai una
sola volta i medesimi corsi. L’argomento era lo stesso, ma il corso era
interamente nuovo, era cioè il risultato di studi e ricerche nuove, che
compivano quelle del corso o dei corsi precedenti. Fino dal 1874-75
egli aveva fatto un corso sulle poesie del Parini; aveva poi negli
anni 1881-82-83 scritto alcuni articoli sul Parini pel _Fanfulla della
Domenica_, per la _Domenica letteraria_ e per la _Nuova Antologia_, che
raccolse con emendazioni ed aggiunte sotto il titolo _Pariniana_ nel
volume delle _Conversazioni critiche_ (Sommaruga, 1884). Nel febbraio
del 1886 fece alcune lezioni sul Parini, il Boileau, il Pope; e nel
1888 un corso compiuto e larghissimo sul poema _Il Giorno_: onde trasse
in gran parte la materia per altri scritti sul poeta lombardo; fra i
quali capitalissimo il libro _Storia del «Giorno» di Giuseppe Parini_
edito dallo Zanichelli nel 1892.

Se con questo libro egli aveva esaurito i suoi studi sul poema
pariniano e detto intorno ad esso l’ultima sua parola, era ben lontano
dall’aver compiuto le sue ricerche e formulati i suoi giudizi intorno a
tutta la poesia pariniana. Tornò perciò ad essa con un corso di lezioni
sulle odi nell’anno scolastico 1890-91; e poichè l’intero anno non
gli bastò a compiere il corso come lo intendeva lui, lo ha ripreso e
terminato nell’anno scolastico 1901-902.

                                   *
                                  * *

Nonostante il lavoro della scuola, le molte occupazioni officiali
e le molte distrazioni per le frequenti sue gite a Roma, gli ultimi
dieci anni del secolo passato non furono letterariamente poco operosi
nella vita del Carducci; nè la sua vena poetica accennò a stanchezza o
languore.

Il 22 agosto 1891 il re Umberto passò in rivista le truppe italiane
presso la Bicocca di San Giacomo, e il Carducci, pigliando occasione
da questo fatto, scrisse e pubblicò nel settembre l’ode che prende
nome da quel luogo rimasto celebre nella storia politica e militare
del Piemonte per gli avvenimenti dei quali fu teatro. Due mesi più
tardi, al tempo del famoso congresso per la pace, scrisse un’altra
ode, _La guerra_, che fece un po’ di scandalo fra i radicali, i quali
lo accusarono di avere adulterato il pensiero di Carlo Cattaneo,
perch’egli aveva messo come epigrafe ai suoi versi le proprie parole
con le quali esso Cattaneo attesta la necessità storica della guerra.
Un’altra accusa non meno strana fu fatta a quell’ode, d’essere cioè una
poesia dinastica; il qual fatto dimostra semplicemente che, quando nel
giudicare di un’opera d’arte c’entra la passione politica, il buonsenso
se ne va a spasso.

Nell’estate del 1892 il Carducci andò a Pieve di Cadore; di lì ad
Auronzo, e da Auronzo a Misurina, dove si trattenne circa due settimane
solo. In Cadore trovò conoscenti ed amici, che gli furono compagni
e guida a visitare quei luoghi che vedeva per la prima volta. Volle,
com’egli usa sempre, essere informato di tutto; si procurò delle buone
guide, lesse una storia del Cadore; e la statua del Tiziano, ch’è
nella Piazza di Pieve, e una piccola lapide lì presso rammentante
l’eroismo di Pietro Calvi, gl’ispirarono insieme agli altri ricordi e
al grandioso e al pittoresco dei luoghi, una delle più belle odi da lui
composte in questi ultimi anni; l’ode intitolata _Cadore_. La scrisse
nei giorni della breve dimora a Misurina, e la pubblicò nel settembre,
tornato a Bologna. A Pieve di Cadore pubblicò egualmente nel 1892, a
spese di quel Municipio, le _Antiche laudi cadorine_ con una prefazione
datata del 15 agosto.

Nel luglio del 1893 andò a villeggiare a Castiglione de’ Pepoli in
Provincia di Bologna; di lì venne a Roma pei lavori del Senato; e
terminati questi, andò per alcuni giorni sulle Alpi. Nell’ottobre
fu in Mugello, a Pilarciano presso Vicchio, ospite dell’amico Luigi
Billi; poi, fatta una corsa a Roma, tornò a Bologna. Quivi riprese i
suoi studi, facendo all’Università un corso su Vittorio Alfieri e le
tragedie di soggetto romano e italiano (l’anno innanzi aveva fatto un
corso sul teatro latino nei secoli XIV e XV), e scrivendo i Saggi sul
_Torrismondo_ e su l’_Aminta_ del Tasso, che furono pubblicati, prima
nella _Nuova Antologia_ del gennaio, del luglio e dell’agosto 1894, e
poi nel terzo volume delle Opere minori del Tasso curate dal Solerti.
Il 27 dicembre mi scriveva: «Io sto bene, anche perchè studio assai e
assai tranquillamente.»

Dopo quell’anno nell’estate tornò sempre sulle Alpi; nel 1894 a
Madesimo; nel 1895 a Courmayeur, dove scrisse le due brevi poesie
_L’Ostessa di Gaby_ e l’_Esequie della guida_; e nei quattro anni
successivi a Madesimo.

Di poesie, dopo il _Cadore_, non scrisse, o almeno non pubblicò altro
fino al 1895. Nel gennaio del 1895 pubblicò l’ode _Alla figlia di
Francesco Crispi_ (nel giorno delle sue nozze), che dal livore politico
fu fatta segno, non solo a sciocche e maligne critiche, ma a ignobili
scherzi da parte di giornalisti, che pur professavano, o almeno avevano
professato fino allora, la più alta ammirazione e il più gran rispetto
al poeta.

                                   *
                                  * *

È noto in qual modo cadesse nel novembre del 1893 il Ministero
Giolitti; e come, incaricato della formazione del nuovo gabinetto
l’onorevole Zanardelli, egli lo avesse composto; nè altro mancasse
al suo, come dicono, insediamento che l’approvazione del Re. Già i
nuovi Ministri ricevevano i telegrammi di congratulazione de’ loro
innumerevoli amici, che in questa occasione diventavano anche più
innumerevoli; già quelli che gustavano per la prima volta la voluttà
dell’alto ufficio avevano ordinata al sarto la montura, o uniforme che
s’abbia a dire; già dai piccoli impiegati dei Ministeri (i quali in
generale, salvo quelli dei gabinetti, si rallegrano di ogni cambiamento
di ministri) si aspettava con impazienza la presentazione delle nuove
Eccellenze; quando, che è, che non è?, corre la voce che il ministero
zanardelliano era stato un aborto, e che il Re aveva dato incarico
della formazione di un altro gabinetto all’onorevole Crispi.

Il Crispi lo formò e tale che prometteva di essere forte e duraturo.

La infelice prova fatta dal gabinetto Rudinì prima, da quello Giolitti
poi, il fiasco dell’onorevole Zanardelli, e la conosciuta energia
e tenacia dell’onorevole Crispi, che pareva il solo uomo capace di
dominare la situazione difficile e pericolosa, in che il Ministero
Giolitti aveva lasciato il paese, davano tutte le apparenze della
forza al nuovo gabinetto; ma erano anche in sostanza i germi della
sua debolezza. Tanto che, se potè durare due anni e qualche mese, potè
perchè il suo capo si impose quasi alla Camera e la tenne gran tempo
chiusa; ma durò in mezzo all’imperversare di una tempesta, che pareva
doverlo sommergere ad ogni istante.

Tutte le furie dell’ira erano rivolte in ispecial modo contro il
Presidente del Consiglio. Non c’è esempio, credo, nella storia
parlamentare di una opposizione tutta fatta di diatribe e di
contumelie, in gran parte personali, come quella che imperversò sul
capo dell’onorevole Crispi negli anni 1894 e 1895.

È noto il triste episodio del plico Giolitti, di cui si valsero pei
loro fini quelli stessi fra gli oppositori che mostravano disgusto per
l’atto del deputato di Dronero; è nota la ferocia degli attacchi coi
quali l’onorevole Cavallotti perseguitò in tutti gli atti della vita
il suo antico compagno di fede. Quanto alla stampa di opposizione,
i complimenti di che essa onorava tutti i giorni il Presidente del
Consiglio si possono compendiare in queste parole di Guglielmo Ferrero:
Crispi fu il _peggior ribaldo che abbia governato l’Italia in questo
secolo_, e il suo Ministero _il più disonesto, scellerato e pazzesco
governo che si sia visto, questi ultimi cinquant’anni, nell’Europa
civile_.

Inutile dire come di ciò fosse addolorato e disgustato il Carducci;
il quale non potè lasciar passare senza qualche parola di protesta
le gravi ingiurie che piovevano sul capo dell’illustre suo amico. Il
31 dicembre 1894 gli mandò questa lettera di saluto pel nuovo anno:
«Caro grande amico, — Nulla oggimai Vi manca di ciò che per lo più è
toccato ai sommi cittadini nella storia dei popoli; nè dopo salva la
patria, l’ingratitudine di quelli che Vi invocavano; nè, dopo il colpo
dell’assassino, l’aggressione di quelli che voi amaste e beneficaste.
La procella selvaggia nè anche risparmiò il giovine capo della figlia
presso le nozze. Serena e calma, in mezzo e sopra questo osceno
infuriare di malvagità faziose e ambiziose, la vostra forza. Salute e
rispetto. G. C.»

E quando pochi giorni dopo, il 10 gennaio 1895, la figlia del Crispi fu
sposa, il Carducci pubblicò l’ode nuziale cui ho già accennato, nella
quale sono questi versi:

                innalza, o bella figlia,
    Innalza al padre in faccia
    Gli occhi sereni e le stellanti ciglia.

      Ei nel dolce monile
    De le tue braccia al bianco capo intorno
    Scordi il momento vile
    E de la patria il tenebroso giorno.

      Ne l’amoroso e pio folgoreggiare
    De gli occhi in lui levati
    L’ampio riso rivegga ei del suo mare
    Ne’ dì pieni di fati

      Quando novello Procida,
    E più vero e migliore, innanzi e indietro
    Arava ei l’onda sicula:
    Silenzio intorno, a lui sul capo il tetro

      De le borbonie scuri
    Balenar ne i crepuscoli fiammanti;
    In cuore i dì futuri,
    Garibaldi e l’Italia: avanti, avanti!

L’accecamento dei nemici del Crispi arrivò a negare la parte ch’egli
aveva avuta, principalissima e determinante, nella insurrezione
siciliana e nella spedizione dei Mille, e ad accusare il Carducci di
avere con quei versi fatto ingiuria, egli, pure _studioso severo_ della
storia, alla verità. A ciò il Carducci non potè tenersi, e rispose
nella _Gazzetta dell’Emilia_ del 21 e 25 gennaio e del 1º febbraio
1895, dando ai detrattori del Crispi una severa lezione di storia
e di onestà, che terminava con queste parole: «Deh quanto mi fate
compassione, o ragazzi vecchi! Ma la colpa non è vostra. Può darsi che
voi sappiate le genealogie dei Faraoni o che siate simbolisti. Ciò sta
bene a buoni bizantini.»

Tutti i brevi scritti del Carducci che si riferiscono al Crispi e
al secondo suo Ministero, sono raccolti nel dodicesimo volume delle
_Opere_ pubblicato nel 1902.

                                   *
                                  * *

Colla fine dell’anno accademico 1894-95 avendo il Carducci compito
trentacinque anni del suo insegnamento universitario, i colleghi e la
città intera deliberarono di celebrare con solenni onoranze il giubileo
del suo magistero. Il pensiero di ciò era sorto qualche anno prima,
fin da quando il Carducci nel 1887 ricusando la cattedra dantesca
nella Università di Roma, aveva dato la maggior prova che per lui si
potesse del suo affetto a Bologna. Si sarebbe voluto fare il giubileo
nel 1890, dopo i trent’anni di magistero. Ma il bisogno e il desiderio
che le feste riuscissero veramente grandi e solenni, portò la necessità
di ritardarle. Non si trattava delle solite onoranze ad un professore
illustre di un illustre Ateneo; Bologna volle e seppe mostrare ch’ella
sentiva tutta la grandezza dell’uomo, del cittadino, del maestro che
si voleva onorare, maestro non di una scuola, non di una provincia, ma
dell’Italia; volle mostrare che si sentiva orgogliosa di avere nutrito
e cresciuto nel suo seno il poeta della nazione risorta. Si costituì
un Comitato dei più autorevoli cittadini, presieduto dal Sindaco di
Bologna, il quale preparasse degnamente le feste pei primi dell’anno
1896.

La gran festa ebbe luogo il 6 febbraio alle ore 2 pom. nella sala
maggiore dell’Archiginnasio, sede dell’antico studio di Bologna.
La città tutta era presente nelle sue rappresentanze più degne. Con
quella solenne dimostrazione essa volle confermare in faccia al mondo
quello che già si sapeva, che cioè il tumulto indegno del marzo 1891
fu l’opera di pochi dissennati, alla quale la città era perfettamente
estranea. Erano accorsi intorno al maestro alcuni de’ suoi più diletti
scolari, il Pascoli, il Mazzoni, il Ferrari, il Casini, e altri ancora.

Il Sindaco, dopo un discorso degno veramente dell’alta occasione,
consegnò al Carducci il decreto con cui egli era nominato cittadino
onorario di Bologna, e la medaglia d’oro per lui coniata, a
commemorazione della festa. Dopo di che parlarono brevemente il Preside
della facoltà di lettere, Francesco Bertolini; il professore di lettere
latine, G. B. Gandino, e il Sindaco di Pietrasanta, venuto a presentare
al festeggiato una pergamena con gli omaggi e gli augurii de’ suoi
concittadini. Per ultimo il senatore conte Pier Desiderio Pasolini,
con un nobile atto, non compreso nel programma della festa, offrì con
acconce parole al poeta un ramoscello colto da un alloro che cresce
vicino alla tomba di Dante in Ravenna.

A tutti rispose il Carducci ringraziando con un breve discorso nel
quale versò tutto l’animo suo grande e buono; discorso che è ristampato
nel vol. XII delle _Opere_, e che dovrebbero rileggere e meditare tutti
i giovani che si sentono nati a fare qualche cosa nel mondo.

A questa, che fu la solennità principale, altre due se n’aggiunsero. La
Regia Società di Storia Patria, di cui il Carducci è presidente, volle
fargli una speciale dimostrazione di onore, offrendogli in una pubblica
tornata accademica, tenuta il 13 febbraio, una pergamena miniata, a
testimonianza della gratitudine per gl’insigni servigi da lui resi
per oltre sei lustri all’Istituto. E gli studenti della facoltà di
lettere, prima che cominciassero le feste ufficiali, ebbero il pensiero
affettuoso di offrire al maestro un albo contenente i ritratti di
quanti gli erano stati discepoli dall’anno 1860 in poi; e glie lo
offersero il 24 gennaio.

Il Carducci rispose loro: «Grazie, il pensiero è gentilissimo. È di
farmi rivivere nei miei giovani anni, dei quali certo la miglior parte
è quella che passai stando coi giovani.... Della parte della mia vita
spesa con voi certo non ho da pentirmi, non ho da farmi rimprovero,
se non qualche volta di troppa passione, ma non mai di cosa che
fosse contro la purità della vostra mente e del vostro cuore. Da me
non troppe cose certo avrete imparato, ma io ho voluto ispirar me e
innalzar voi sempre a questo concetto: di anteporre sempre nella vita,
spogliando i vecchi abiti di una società guasta, l’essere al parere, il
dovere al piacere; di mirare alto nell’arte, dico, anzi alla semplicità
che all’artifizio, anzi alla grazia che alla maniera, anzi alla forza
che alla pompa, anzi alla verità ed alla giustizia che alla gloria.
Questo vi ho sempre ispirato e di questo non sento mancarmi la ferma
coscienza.»[71]

                                   *
                                  * *

Dopo le onoranze del giubileo, un grave dolore percosse in quell’anno
medesimo l’animo del Carducci; la morte del suo vecchio amico Enrico
Nencioni, avvenuta il 25 agosto 1896 all’Ardenza presso Livorno. E
quando quattro anni più tardi, nella primavera del 1900, ammiratori ed
amici del morto si apprestavano ad inaugurarne la tomba nel Cimitero di
San Felice a Ema, il Carducci inviò questo telegramma: «In memoria di
Enrico Nencioni manda sincere e dolenti parole chi sin dall’anno 1849
gli fu amico fedele, e ne ammirò l’ingegno e il naturale poetico; ed
ebbe poi dalla sua letteratura molteplici e preziosi documenti.» Fino
dal 1871 nella prefazione alle sue poesie (edizione Barbèra) aveva
scritto di lui: «Sentirei d’essere ingrato se non ricordassi almeno a
me stesso quanto io debbo al fraterno ingegno di Enrico Nencioni, che
mi fu sin dai primi anni aiutatore, coll’ardor suo e coll’esempio, al
culto di ciò che è bello in ogni forma.»

Questa benefica influenza della consuetudine col Nencioni la provarono
più o meno tutti gli amici suoi che si occuparono di lettere. E
debbono in parte averla provata quei molti che lo conoscono soltanto
per aver letto i molti scritti che negli ultimi quindici anni della
sua vita pubblicò in giornali e riviste. Il Nencioni è uno scrittore
estremamente, come oggi dicono, suggestivo.

Leggendo qualche suo articolo o nella _Nuova Antologia_, o nel
_Fanfulla della Domenica_, o nella _Domenica letteraria_, o in qualche
altro giornale, a me pareva di sentirlo discorrere come quando andavamo
insieme a passeggiare per ore ed ore alle Cascine o in Boboli, due
delle sue passeggiate favorite; o mi pareva di leggere una sua lettera,
una di quelle lettere nelle quali versava dall’animo pieno le vive
impressioni delle sue svariate letture.

Dissi già com’egli cominciasse la professione di scrittore dopo i
quarant’anni. Da ciò, credo, deriva quello che è il principale difetto
de’ suoi scritti, qualcosa cioè di non bene consistente e, direi quasi,
non completo; e da ciò quella grande qualità che compensa largamente
il difetto; una freschezza quasi giovanile di impressioni rese con
molta sincerità ed ingenuità. Il Nencioni, più che un vero e proprio
scrittore, è quello che i Francesi chiamano _causeur_; un _causeur_
pieno di brio, di spirito, di coltura, coltura facile, leggera, e
tuttavia ammirabile; un _causeur_ che non vi secca mai, che state
sempre volentieri a sentire, anche quando, come qualche volta gli
accade, si ripete, o ripete ciò che innanzi han detto il Sainte-Beuve o
altri stranieri.

I tre anni (dal 1880 al 1883) che egli passò a Roma nel modesto
quartierino di Via Goito furono, credo, dei suoi più felici. Ed oh
quanto gli dispiacque di lasciare quel quartierino, di lasciare Roma!
Nè avrebbe certo pensato a cambiare, se non erano le paurose necessità
del futuro; e non ci pensò senza dolore. Ma a quella età, con la natura
sua semplice e ingenua, e con la nessuna abilità d’intrigare, e di
farsi della _réclame_, come poteva egli sperare di procacciarsi co’
suoi scritti una posizione sicura per il resto della vita?

Fortunatamente l’amicizia di Ferdinando Martini gli venne in aiuto,
ottenendogli nel 1883 dal Ministro Baccelli un posto d’insegnante
nell’Istituto magistrale femminile di Firenze. A Firenze ebbe poi
un’altra cattedra all’Istituto della SS. Annunziata. Si trattava in
ambedue le scuole di insegnare letteratura a delle giovinette, ed
era ciò a che il Nencioni si sentiva chiamato; si trattava di avere,
come si dice, assicurato il tozzo per la vecchiaia; cioè assicurato
_sicut in quantum_, perchè s’egli avesse dovuto lasciare l’insegnamento
prima d’aver diritto a pensione, avrebbe probabilmente dovuto morire
d’inanizione, come il nostro buon amico Telemaco Signorini pittore, o
andare a finire in uno spedale.

Ma la fortuna (questa volta non sotto la forma di un deputato
influente, ma sotto quella di un semplice lucherino) gli risparmiò
l’una e l’altra cosa. Un giorno mentre passeggiava pel Colle di San
Miniato col suo giovine amico Ettore Zoccoli, _un lucherino guizzando
a volo quasi gli sfiorò i capelli lasciando nell’aria una paroletta
misteriosa_. Quella paroletta, dice lo Zoccoli, parve un segno di
elezione. «Dieci mesi dopo Enrico Nencioni era morto.»[72]

Io amo molto gli uccelli, che sono, come il Leopardi dice, le più
liete creature del mondo; ma confesso all’egregio Zoccoli che quel
lucherino lo avrei mandato volentieri a farsi benedire; perchè in somma
quel segno di elezione si tradusse in una penosa malattia, che fece
soffrire orribilmente l’amico nostro e lo condusse alla tomba all’età
di cinquantanove anni, quando egli sognava di fare chi sa quante altre
passeggiate per il Viale dei Colli, di scrivere chi sa quanti altri
articoli di letteratura inglese, di comprare e leggere chi sa quanti
altri libri, di conversare chi sa quante altre volte col suo amico
Zoccoli e con me!

Il 13 luglio 1895 mi scrisse: «Da sette mesi son malato di _nevralgia_
di petto. Ho molto sofferto. Ho creduto di non ti riveder più — e ho
pensato spesso a te con l’antico affetto, e un intenso desiderio di
riabbracciarti. Ora sto _assai meglio_. Scendo in giardino, cammino,
mangio con buon appetito — e la terribile insonnia è scemata: ma
non son guarito: e i disturbi nervosi ogni tanto si riaffacciano a
tormentarmi. Già il Carducci, che mi ha visto più volte, ti avrà detto
tutto.» Pur troppo; e sapevo da lui che la malattia era irrimediabile.

Da che il Nencioni era tornato a Firenze, io andavo spesso a trovarlo,
e passavamo insieme delle mezze giornate piacevolmente. Ma dopo ch’egli
fu attaccato dalla terribile malattia, le mie visite a lui doventarono
per me un tormento. Egli conservava intera la sua vivacità di spirito,
credeva che il suo male presto sarebbe passato, parlava di mille
disegni che voleva colorire; ed io doveva secondare i suoi discorsi
e fingere di partecipare le sue illusioni. Nell’ottobre del 1895 lo
andai a trovare in compagnia d’altri amici in una villetta al Poggio
Imperiale. Mi fece una gran festa: s’illudeva di star meglio e d’essere
in via di guarigione. Poco dopo tornato a Firenze, mi scrisse: «Vo
sempre migliorando — tanto che ho potuto riprendere le lezioni ai due
Istituti. Ma non posso dirmi ancora guarito. Ho sempre qualche leggero
accesso, e i dolori nevralgici alle braccia e alle mani, che a giorni
mi tormentano molto.... Quanto fui felice di rivederti! e quanto mi
dolse di vederti solo per pochi minuti, e in compagnia di altri....
Avrei bisogno di star con te una settimana intera, tante son le cose di
ogni genere che avrei da dirti e da domandarti.»

Il miglioramento fu pur troppo più apparente che sostanziale, e di
breve durata. Quando lo rividi alcuni mesi dopo nella sua casa di
Via Maggio, era ridotto in così tristi condizioni che appena poteva
parlare, ed era niente più che l’ombra del Nencioni di una volta.
Lo lasciai con un triste presentimento; e non lo rividi più. Nè il
Carducci nè io non potemmo avere la dolorosa sodisfazione di dare
all’amico l’ultimo addio e di accompagnarlo alla tomba!

                                   *
                                  * *

Nel marzo del 1897 fu pubblicato, per cura di alcuni amici del
Nencioni, un primo volume di scritti di lui, _Saggi critici di
letteratura inglese_ (Firenze, Successori Le Monnier), al quale doveva
fare la prefazione il Carducci; ma, quale si fosse la ragion vera
(probabilmente gli mancò il tempo), se ne cavò allora con poche parole,
promettendo la prefazione pel secondo volume. «Non voglio preoccupare
il luogo qui in questo primo volume: mi parrebbe quasi villano, e certo
men pietoso, parlare prima dell’amico: rileggendo di lui mi voglio
mantenere l’illusione che quella voce soave dalle colorite e forti
inflessioni, come io la ho ancora negli orecchi, ancora si conquisti e
assoggetti l’attenzione. Lasciamolo prima parlare lui, il caro morto.
Io verrò poi.»

Se non che nel 1898 gli stessi amici, senza niente dirne al Carducci,
mandarono fuori il secondo volume, _Saggi critici di letteratura
italiana_ (Firenze, Successori Le Monnier), con uno scritto del
D’Annunzio di due anni innanzi.

Il Carducci in quell’anno era stato nominato presidente della
Commissione per la pubblicazione dei manoscritti del Leopardi
appartenuti al Ranieri. Dall’esame di essi prese occasione a tornare
sopra i suoi studi su la poesia leopardiana; e nei primi dell’anno
diede alla _Rivista d’Italia_ (fascicoli del 15 febbraio e del 15
marzo) due articoli su _Le tre canzoni patriotiche di G. Leopardi._
Il 29 giugno, celebrandosi a Recanati il centenario della nascita
del Leopardi, pubblicò un notevole studio su tutta la poesia del
Recanatese: _Degli spiriti e delle forme nella poesia di Giacomo
Leopardi_. Allo studio aggiunse, emendati e accresciuti, gli articoli
su _Le tre canzoni patriotiche_. Ed allo scoprimento del busto del
poeta nella grande aula del palazzo comunale di Recanati pronunziò in
nome del Ministro della pubblica istruzione, che lo aveva incaricato
di rappresentarlo, il breve ispirato discorso che leggesi nel volume XI
delle _Opere_.

In occasione delle feste leopardiane fu anche dato in luce il primo
volume degli scritti inediti con una prefazione di esso Carducci;
il quale, a compimento de’ suoi studi leopardiani, avea nell’anno
stesso delle feste fatto all’Università un corso di lezioni su Giacomo
Leopardi.

In mezzo a questi lavori lo colse improvvisamente nel dicembre del
1898 un altro grave dolore, la morte del genero suo Carlo Bevilacqua,
il quale in ancor florida età gli lasciava vedova con cinque figli la
sua Bice.[73] Corse a Livorno a prendere la figliuola e i nipoti, li
portò a Bologna, e li collocò vicino a sè, provvedendo come potè meglio
alla sistemazione della piccola famiglia, sì che non le mancasse nè il
sostentamento nè la educazione.

                                   *
                                  * *

Sulla fine del medesimo anno 1898 raccolse in un volumetto elzeviriano,
sotto il titolo _Rime e Ritmi_, tutte le poesie da lui scritte dopo
le _Rime nuove_ e le _Terze Odi barbare_. Il volume fu finito di
stampare il 15 dicembre, ma comparve in pubblico con la data dell’anno
dipoi. Oltre le poesie da me accennate, ne comprendeva altre poche,
composte fra il 1896 e il 1898, durante la dimora del poeta nelle
Alpi, alcune delle quali furono pubblicate nella _Nuova Antologia_ del
16 novembre 1898 sotto il titolo _Idilli alpini_. Sono da aggiungere
a queste l’ode _Alla città di Ferrara_, composta nell’aprile del
1895 per il centenario del Tasso, le terzine _Pel monumento a Dante
in Trento_, composte nel settembre del 1896, l’ode _La chiesa di
Polenta_, pubblicata nel luglio del 1897, e l’ode _Alle Valchirie_
per la morte dell’imperatrice d’Austria, composta nel settembre del
1898 e pubblicata nella _Rivista d’Italia_ del 15 ottobre successivo.
Le terzine pel monumento a Dante attestano che i sentimenti del
poeta verso le provincie irredente erano ancora quei medesimi che gli
dettarono nel gennaio del 1879 _Saluto italico_ e negli anni dal 1882
al 1886 gli scritti su Guglielmo Oberdan; le odi _A Ferrara_ e _La
chiesa di Polenta_ sono le ultime due grandi odi storiche composte dal
Carducci, degne di chiudere la gloriosa serie delle _Odi barbare_.

Il volume _Rime e Ritmi_ è dedicato ad una signorina con questi versi:

    O piccola Maria,
    Di versi a te che importa?

    Esce la poesia,
    O piccola Maria,
    Quando malinconia
    Batte del cor la porta.

    O piccola Maria,
    Di versi a te che importa?

e si chiude malinconicamente con questo congedo:

    Fior tricolore,
    Tramontano le stelle in mezzo al mare
    E si spengono i canti entro il mio core.

Scrivendo questi versi il poeta era certamente sotto il peso di un
triste presentimento; e pure egli aveva composto allora allora due
sonetti freschissimi d’ispirazione giovanile:

        IN RIVA AL LYS.

          A S. F.

    A piè del monte la cui neve è rosa
    In sul mattino candido e vermiglio,
    Lucida, fresca, lieve, armonïosa
    Traversa un’acqua ed ha nome dal giglio.

    Io qui leggo, Ferrari, e la famosa
    Riva d’Arno ripenso e il tuo consiglio;
    E di por via la piccioletta prosa
    E altamente cantar partito piglio.

    Ma il Lys m’avvisa — Al nulla si confonde
    Questo mio canto, e non se ne rammarca;
    Pur di tanto maggior vena s’effonde. —

    Ond’io, la fronte di superbia scarca,
    Torno al mio cuore; e a’ monti a l’aure a l’onde
    Ridico la canzon del tuo Petrarca.

        SANT’ABBONDIO.

    Nitido il cielo come in adamante
    D’un lume del di là trasfuso fosse,
    Scintillan le nevate alpi in sembiante
    D’anime umane da l’amor percosse.

    Sale da i casolari il fumo ondante
    Bianco e turchino fra le piante mosse
    Da lieve aura: il Madesimo cascante
    Passa fra gli smeraldi. In vesti rosse

    Traggono le alpigiane, Abbondio Santo,
    A la tua festa: ed è mite e giocondo
    Di lor, del fiume e degli abeti il canto.

    Laggiù che ride de la valle in fondo?
    Pace, mio cuor; pace, mio cuore. Oh tanto
    Breve è la vita ed è sì bello il mondo!

Questi due sonetti, composti nell’agosto e nel settembre 1898, sgorgano
dalla medesima vena limpida e piena, dalla quale balzarono negli anni
dal 1870 al 1880 i più bei sonetti delle _Rime nuove_; ambedue sono
pervasi da un senso intimo di malinconia che s’insinua quasi non visto
in mezzo alla descrizione delle incantevoli scene alpine che il poeta
ha dinanzi. Col primo si ammonisce di por da banda i suoi versi, troppo
povera cosa di fronte alla grande poesia della natura, la quale pure va
a perdersi nel nulla; col secondo si rimprovera i tumulti dello spirito
che gl’impedirono di godere quanto avrebbe potuto le gioie del mondo.
Il poeta sente che gli anni incalzano; che bisogna dire addio a molte
belle e buone cose; che gli amici, i parenti, se ne sono andati, se ne
vanno; che il verno si avvicina; e pure quanta freschezza nelle parole
e nei suoni che esprimono quei suoi sentimenti! Perchè dunque il poeta
non dovrà seguitare a scrivere ancora dei versi?

Ahimè, non seguitò. Dopo quel volume la voce del poeta, insino ad oggi,
non si è più fatta udire.

                                   *
                                  * *

Egli, come già dissi, tornò a Madesimo anche nel luglio del 1899.
Vi andò qualche giorno dopo di lui un suo scolare, Alfredo Panzini;
che, pregato da me, scrisse pel fascicolo di maggio della _Rivista
d’Italia_ del 1901, dedicato al Carducci, una breve notizia della vita
del maestro suo in quei luoghi. Non dispiacerà ai lettori che io ne
riferisca qui qualche brano:

«Il Carducci in quell’anno, e credo anche prima, abitava a _Villa
Adele_ e faceva i suoi pasti alla tavola comune nell’_Albergo della
Cascata_; modesto albergo di montagna, dovè c’è pulizia, buona cucina
e nulla più. Unica distinzione al poeta, il posto di capo tavola: al
suo giungere un saluto amichevole è sempre dato ed è reso: soltanto il
giorno del suo anniversario (cade il 27 di luglio), qualche applauso e
qualche altra modesta onoranza.

»L’anno che vi stetti io, oltre all’applauso, ci furono due righe
semplicissime firmate da tutti gli ospiti della _Cascata_, e un gran
bel mazzo di fiori di giardino.....

»Il buon Ciocca (il padrone dell’albergo) aveva anche preparato la
galanteria di un bel dolce, e noi si era ormai giunti a quello, e il
Carducci non veniva. Del resto nessuna meraviglia; a Madesimo pochi
furono i giorni che lo vidi arrivare insieme agli altri commensali.....

»Arrivò in fine; scoppiò l’applauso; egli vide i bei fiori, la lettera
e ci ringraziò, ma non fece alcun discorso.....

»Il Carducci fece in fine sturare alcune bottiglie di eccellente vino
di Valtellina augurando salute a tutta la compagnia: noti e ignoti
bevvero.

»Anche questo è costume abituale in quel dì, almeno così mi dissero i
frequentatori di Madesimo.

»Il Carducci arriva tardi sì a colazione che a pranzo, semplicemente
perchè lavora.... Nel tempo che ci rimasi io, lavorava più di otto ore
al giorno. Non dico che facesse bene, ma era così.

»La mattina si sottopone lietamente alla doccia gelida, poi viene la
passeggiata, poi al tavolo....

»Al pomeriggio la cosa si ripete con la semplice inversione che, prima
viene il lavoro, poi qualche volta una seconda doccia, poi la reazione
passeggiando.

                             . . . . . . .

»A Madesimo, dopo colazione, si attardava un poco insieme agli altri
ospiti presso il limitare dell’albergo.

»Non ho visto al Carducci fumare che il modesto sigaro toscano, e
soltanto dopo il pasto e non mai fra il giorno. Se lo prepara a suo
modo, cioè non tagliandolo a metà, ma mozzandolo più che spuntandolo
dall’un lato e dall’altro; poi più che accenderlo lo brucia per un buon
pezzo, ed aggradisce molto se altri gli si presta.

»Seduto presso l’uscio, il Carducci tenta di fumare; la gente intanto
va, viene, si siede lì presso, lo saluta, gli rivolge la parola, se
vuole: egli risponde a tutti.....

»Ma è inutile: il sigaro toscano, a dispetto di tutte le cure, non vuol
andare, non va. Il Carducci ha tollerato abbastanza: fa un piccolo atto
d’impazienza e getta il maligno fumaiuolo lungi da sè.

                             . . . . . . .

»L’ottimo Ciocca (che è corso apposta sino a Chiavenna per veder modo
di accontentare il Carducci) accorre col mazzo dei toscani ed offre
la scelta, imprecando alla Regìa con termini che il rispetto pel suo
illustre amico non sa frenare.

»Qualche ospite offre altri sigari: egli ringrazia e ricusa.

                             . . . . . . .

»Non lo si rivede che sul vespero.»

Quel lavoro continuato di più che otto ore al giorno, specie dopo
il disturbo che il Carducci aveva avuto nel 1885, e dopo i fenomeni
d’esaurimento nervoso provati più volte alcuni anni di poi, fu certo
una imprudenza. Alcuni dicono anche che, quando si fa la cura dei
bagni freddi, l’attendere a lavori mentali faticosi e prolungati è
pericoloso. Ma egli non lo sapeva, non ci pensava. Probabilmente
credeva che gli effetti di quella cura pronti e immediati gli
rinforzassero la fibra lì per lì tanto da permettergli di lavorare
a suo agio. E aveva portato con sè un carico di lavoro assai grave,
tanto grave, che a momenti se ne sentiva come oppresso. Il 26 agosto
mi scriveva: «Caro amico, quanto ho da fare anche quassù! Figurati
una prefazione alla ristampa dei _Rerum Italicarum Scriptores_ del
Muratori.» Oltre questo lavoro, aveva, credo, in animo di compiere lo
studio su gli Scritti di Alberto Mario, scelti e curati da lui, che
doveva uscire in fronte al secondo volume, già pronto da tempo. Il
primo era stato pubblicato fino dal 1884.

Tornò a Bologna ai primi di settembre con la prefazione al Muratori
quasi finita (mancava l’ultimo capitolo, che scrisse più tardi): ma lo
studio sul Mario, la prima parte del quale era stata pubblicata nella
_Nuova Antologia_ fino dal 1897, non era andato innanzi. E la illustre
vedova di Alberto, a cui tardava veder pubblicato quel secondo volume,
chiese al Carducci facoltà di pubblicarlo con la sola parte del proemio
già fatta, e nel 1901 lo mandò fuori.

                                   *
                                  * *

A quelli che videro il Carducci dopo il ritorno da Madesimo egli parve
un po’ affranto e di umore non lieto: evidentemente non stava bene:
la cura climatica, paralizzata ne’ suoi effetti dall’eccessivo lavoro,
non aveva prodotto il benefizio degli anni innanzi. La mattina del 25
settembre, a Bologna, appena alzatosi da letto e fatto il solito bagno,
ebbe un nuovo disturbo nervoso, pel quale rimase impedito specialmente
nel braccio e nella mano destra. Fu messo a letto e curato; e il male
apparve subito non grave. Appena potè moversi, andò in campagna ad
Ozano dal suo collega professor Gandino, indi a Firenze dal dottore
Luigi Billi; e le cure della scienza e dell’amicizia gli alleviarono il
male. Il 20 ottobre mi scriveva facendo alcune proposte circa il modo
di provvedere al suo insegnamento (io era allora nel Ministero alla
Direzione della istruzione superiore); e la lettera finiva: «_Intendi
me’ ch’io non ragiono_, perchè sono tardo a pensare, e scrivo colla
mano d’altri. Per me andrebbe benissimo se potessi riacquistare in
breve l’uso della mano. E ti dico che spero di arrivare a fare qualche
lezione.»

D’allora in poi andò sempre lentamente migliorando, e potè riprendere i
suoi lavori e fare, anche, come sperava, qualche lezione; ma (ciò che
più lo ha turbato e lo turba) non potè riacquistare pieno e spedito
l’uso della mano destra, onde è obbligato a dettare, o a scrivere
lentamente col lapis.

Nell’estate del 1901, tornando a Madesimo, si era proposto, dissero
alcuni, di riprendere e finire la _Canzone di Legnano_; ma, quale si
fosse la ragione, il proposito, se veramente lo fece, rimase senza
effetto. Nè ha scritto altre poesie. Ha scritto invece delle prose,
ed ha atteso e attende con molta alacrità a proseguire e compiere
l’edizione delle _Opere_.

Delle Poesie lo Zanichelli mandò fuori nel dicembre del 1901 una
edizione di tremila copie, in un solo volume di oltre mille pagine;
la quale fu una festa per molta gente; per tutti gli uomini del tempo
nostro che giunti alla vecchiaia serbano ancora vivi gli affetti e gli
entusiasmi della loro giovinezza, e per tutti quelli che, giovani nel
decennio dal 1870 al 1880, sentirono in pieno l’influenza del poeta
dei _Giambi ed Epodi_, delle _Rime nuove_ e delle _Odi barbare_. La
nuova gioventù, fatta eccezione di pochi, non credo che gusti davvero
le poesie del Carducci, benchè il poeta ad essa prediletto ed i suoi
seguaci, quando leggono in pubblico i loro versi, non dimentichino di
propiziarsi l’uditorio con un inno di gloria al grande maestro.

L’edizione delle Poesie fu esaurita in pochi giorni, tanto che lo
Zanichelli dovè subito metter mano ad un’altra di cinquemila copie.

Il volume delle Poesie, quanto al contenuto, riproduce esattamente
i due volumi (VI e IX) delle _Opere_, nell’ordine stesso, cioè
_Juvenilia, Levia Gravia_, Inno _A Satana, Giambi ed Epodi, Intermezzo,
Rime nuove_; poi le _Odi barbare_ (ultima edizione in un volume), il
volumetto _Rime e Ritmi_, ed in fine la prima parte della _Canzone
di Legnano_, che non era stata mai compresa in nessuna delle tante
raccolte parziali delle _Poesie_. Ciò nella prima edizione. La seconda
ha in più due sonetti, che erano stati dimenticati nella prima e nella
edizione delle _Opere_, un’_Appendice_ di cinque brevi componimenti,
che il poeta non aveva creduto o non si era ricordato di comprendere in
nessuna delle precedenti raccolte, e quattro facsimili.

Delle _Opere_ sono usciti, nel febbraio del 1902 il vol. XI, contenente
la serie terza ed ultima di _Ceneri e Faville_, nel giugno dello
stesso anno il vol. XII, contenente la serie seconda di _Confessioni e
Battaglie_, e nel gennaio di quest’anno 1903 il vol. XIII, contenente
la prima parte degli _Studi su Giuseppe Parini_ sotto il titolo _Il
Parini minore_.

La serie terza di _Ceneri e Faville_ comprende gli scritti minori del
Carducci dal 1877 al 1901, raccolti col medesimo metodo e coi medesimi
intendimenti degli scritti delle due prime serie; e sono, come essi,
testimonianze importanti dell’ingegno, dell’animo e dell’operosità
dell’autore; tanto più importanti, quanto si riferiscono all’ultimo
periodo della sua vita. Ci sono i brevi discorsi detti al Senato, fra
i quali coraggioso e nobilissimo quello per Candia; i discorsi _Per
il decennale dalla morte di Mazzini, Per lo scoprimento del busto di
Giacomo Leopardi a Recanati_; lo scritto per la morte di Vittore Hugo,
che il Carducci scrisse a mia richiesta per la _Domenica del Fracassa_;
e mandandomelo mi scriveva: «Eccoti quello che ho scritto singhiozzando
a tratti come un bambino.» Ci sono le relazioni per le prove d’italiano
su la licenza liceale, per la gara tra i licenziati d’onore dai licei,
su i programmi e le istruzioni per l’insegnamento dell’italiano nelle
scuole classiche; alcune relazioni alla Deputazione di storia patria;
alcune recensioni; e un’altra quantità di piccoli scritti d’occasione,
che tutti hanno la loro importanza per chi voglia conoscere a fondo
l’uomo e lo scrittore.

Ma importanza molto maggiore hanno gli scritti della seconda serie
di _Confessioni e Battaglie_; la maggior parte dei quali illustrano e
spiegano i sentimenti politici dell’autore e la condotta di lui come
cittadino negli ultimi trent’anni dopo il 1870.

Nella prima serie l’autore raccolse, come sappiamo, quasi tutti gli
scritti maggiori dei tre volumi sommarughiani, quelli più specialmente
ai quali meglio conveniva il titolo di _Confessioni e Battaglie_; e ne
lasciò fuori alcuni pochi di minor mole; coi quali appunto comincia la
seconda serie. Gli scritti di questa, quasi tutti brevissimi (pochi
superano le cinque o sei pagine, due soli le venti), sono riuniti
sotto varie rubriche, secondo la materia che trattano. Le rubriche
sono ventitrè: fra le più importanti quelle che raccolgono gli scritti
per Garibaldi, per Alberto Mario, per Guglielmo Oberdan, per Francesco
Crispi, per le accapigliature del Carducci coi socialisti, per le
dimostrazioni degli studenti radicali contro il Carducci, e per le
onoranze del giubileo. Se ne togli gli scritti riuniti sotto la prima
rubrica _Schermaglie di letteratura_, che sono i pochi rimasti fuori
dalla raccolta sommarughiana, tutti gli altri non erano stati mai
stampati in nessun volume, e la maggior parte di essi, disseminata
e dispersa in foglietti e giornali politici e letterari, era oramai
impossibile a trovare. Ugo Pesci in un articolo, pubblicato nel
_Giornale d’Italia_ del 10 giugno 1902, ha rilevato egregiamente
l’importanza di questo secondo volume di _Confessioni e Battaglie_; dal
quale s’impara, egli scrive, «che il Carducci ha sempre considerato le
cose politiche con serena obiettività ed imparzialità; che quantunque
non gli sia mai stata conferita da alcun partito la laurea d’uomo
politico, si trovano facilmente ne’ suoi scritti giudizi e sentenze di
un vero statista; e che la pretesa sua incoerenza politica in realtà
non esiste, anche quando può lasciarla supporre un qualche scatto del
gran cuore del poeta.»

Il vol. XIII, _Il Parini minore_, ha poco di nuovo; ma tutti gli
scritti compresi in esso e già pubblicati sono stati, come il Carducci
usa sempre, riveduti e corretti per questa edizione. Aprono il volume
due scritti, che videro la luce nella _Nuova Antologia, Il Parini
principiante_ (Fasc. 1º gennaio 1886), _L’Accademia dei Trasformati
e G. Parini_ (Fasc. 16 aprile e 1º maggio 1891), lavoro quest’ultimo
rimasto incompiuto; seguono i cinque scritti, che sotto il titolo
_Pariniana_ furono già raccolti nel volume _Conversazioni critiche_;
poi quattro scritti sui sonetti del Parini, il primo dei quali fu
pubblicato nel giornale _Natura ed Arte_ del 15 dicembre 1894, il
secondo e il terzo nella _Nuova Antologia_ del 16 settembre e del
16 dicembre 1900; il quarto ed ultimo è inedito. Chiude il volume un
_Saggio di bibliografia pariniana_.

Gli ultimi tre scritti di questo volume non sono i soli pubblicati dal
Carducci dopo che fu colpito dalla malattia.

Nel 1899, prima ch’egli andasse a Madesimo, era uscito nel fascicolo
16 maggio della _Nuova Antologia_, col titolo _Tragedia falsa e uomo
vero_, lo studio sulla _Ecerinide_ di Albertino Mussato da lui composto
per la edizione che di quella tragedia curava, pei tipi Zanichelli,
Luigi Padrin. Il volume della _Ecerinide_, con lo studio del Carducci,
fu poi finito di stampare nel novembre e pubblicato con in fronte la
data del 1900.

Una delle prime cose delle quali il Carducci si occupò appena in
grado di rimettersi al lavoro, fu il compimento della prefazione
ai _Rerum Italicarum Scriptores_, della quale lasciò pubblicare
due saggi (nella _Nuova Antologia_ del 1º maggio e nella _Rivista
d’Italia_ del 15 maggio 1900), e che indi a poco uscì intera nel primo
fascicolo della importante pubblicazione. Nello stesso anno 1900
attese in collaborazione con Severino Ferrari, alla pubblicazione,
pei tipi Zanichelli, delle Rime di Bartolomeo Del Bene per le nozze
Albicini-Binelli.

Gli ultimi due lavori del Carducci sono l’importante studio _Dello
svolgimento dell’Ode in Italia_, pubblicato nei fascicoli 1º e 16
gennaio 1902 della _Nuova Antologia_, e il saggio di traduzione e
commento delle Odi di Orazio (i primi tre Epodi) pubblicato nel
fascicolo del 16 dicembre di quell’anno nello stesso periodico.
L’autore delle _Odi barbare_ volle, in arte, mantenersi fedele fino
all’ultimo ai suoi primi amori.

                                   *
                                  * *

Accennai nel capitolo V ad una raccolta di _Canti carnascialeschi_
alla quale il Carducci stava lavorando nel 1864 per un editore di
Milano, e ad una di _Ballate_ per la _Collezione di antiche scritture
italiane inedite o rare_ incominciata intorno a quel tempo dall’editore
Nistri di Pisa. Quelle due raccolte facevano parte di un grande lavoro
sulla poesia semipopolare dei primi secoli, che il Carducci aveva
vagheggiato fino dagli anni più giovani, pel quale aveva messo insieme
molti materiali anche prima d’andare a Bologna, e del quale seguitò
ad occuparsi poi sempre con grande amore pure dopo il 1864. Ma non
ne pubblicò che due brevi saggi: nel 1871 le _Cantilene e ballate,
strambotti e madrigali nei secoli XIII e XIV_ (Pisa, Nistri), e nel
1896 le _Cacce in rima dei secoli XIV e XV_ (Bologna, Zanichelli).

Avendo io chiesto al Carducci qualche notizia intorno a quel suo
lavoro, che sapevo quanto gli stava a cuore e quante fatiche gli era
costato, egli mi rispose il 25 aprile 1902 così: «Ahimè! Tu mi inviti
a dire quel che ho più desiderato, quello su cui ho più lavorato e
quello che speravo dover essere l’ultimo lavoro da compiere nella
mia vecchiaia. I Canti carnascialeschi editi e inediti sono tutti
pronti con le varianti per la stampa. Speravo finire la mia carriera
poetica come Uhland, dando una edizione critica delle Canzoni a ballo
semipopolari del ’300 e ’400, e ne ho invero preparato una gran massa.
Ho quasi finito i Sirventesi italiani, curiosissima e rara raccolta.

»Se io, invece di attendere alla stampa delle opere mie, avessi energia
ed attività per lavorare sulla poesia semipopolare dei primi tre secoli
(sirventesi, ballate, madrigali, canti carnascialeschi, ec.) e vi
potessi lavorare con i criteri della filologia critica e non coi metodi
pedanteschi di oggi, i miei voti sarebbero compiuti.

»Altro dei miei indirizzi letterarii avrei vagheggiato nel
Rinascimento. Le opere latine e italiane di Francesco Maria Molza so
come andrebbero fatte, e ho messo insieme moltissime carte inedite
pescate per le biblioteche anche di Roma: ma non ne potrò condurre a
fine nulla. Eccoti quel che ti posso dire fin qui.»

È da augurare non solo che queste fatiche del Carducci non vadano
perdute, ciò di che non v’ha oramai più nessun pericolo, ma che le cure
ch’egli deve alla stampa delle opere sue e le condizioni di salute
gli lascino tempo e modo di compiere con l’aiuto (che certo non gli
mancherebbe) di qualche suo valoroso discepolo, quel lavoro col quale
egli si proponeva di chiudere la sua carriera poetica.

Con tale augurio mi è caro affrettarmi al fine di queste memorie, nelle
quali tutto potrà mancare fuorchè l’affetto per l’amico e l’amore della
verità che non può scompagnarsi da quello, quando è sincero.

                                   *
                                  * *

Nel 1901, essendo compiuto il quarantesimo anno dell’insegnamento del
Carducci, gli studenti pensarono di dargli qualche segno di onoranza.
Era un pensiero affettuoso, facilmente spiegabile e commendevole dopo
il malore che aveva colpito il loro maestro.

Questi, avutone sentore, si affrettò a pubblicare nella _Gazzetta
dell’Emilia_ del 17 marzo la seguente dichiarazione:

«Che gli studenti pensino di ricordare i quaranta anni
dell’insegnamento da me impartito in questo studio, l’ho caro; anche
per il modo del ricordo non rumoroso. Se non che giornali e lettere e
fin poesie vengono a minacciarmi di quel che oggi dicesi _giubileo.
Giubileo_, secondo un sacro scrittore, significa anno di quiete
perfetta; nel quale la Chiesa promette remissione delle colpe a chi
compia certi atti di penitenza. Ora sono io in istato di far penitenza?
Ne dubito. Di più fra l’un giubileo e l’altro devono intercedere,
secondo la legge mosaica, cinquanta anni: ridotti dalla legge cristiana
a venticinque. Ma per me sono appunto cinque anni che fu celebrato
un giubileo. Ripeterlo a così breve termine eccederebbe ogni facilità
d’indulgenza. Veramente e brevemente: ringrazio di cuore, ma mi trovo
in tal disposizione di spirito e di corpo che ogni menomo romore, reale
o metaforico, ne turba la quiete; senza la quale non potrebbe essere
_giubileo_.»

Inutile. Oramai che la parola _giubileo_ era stata buttata là, la
gente che s’era messo in testa di farlo lo volle fare. Non credo
che la quiete del Carducci ne rimanesse turbata; poichè tutto si
ridusse a un discorso letto da Giuseppe Picciola nella sala del Liceo
Musicale di Bologna il 13 maggio, sotto gli auspicii degli studenti
dell’Università, e a qualche telegramma che in quei giorni fu inviato
al poeta. Egli rispose cortesemente ai telegrammi di S. M. la Regina
madre e del Presidente del Consiglio; ma del giubileo, fatto contro la
sua volontà, non si mostrò niente sodisfatto.

Invece ebbe l’anno dipoi una grande sodisfazione per l’atto generoso
e gentile di S. M. la Regina madre, che, acquistando la biblioteca di
lui, della quale gli lasciò l’uso, ne assicurò la conservazione.

Quarantacinque anni fa in un accesso di classico furore egli sognava
di farsi dopo morte bruciare sopra un rogo di legna di pino insieme a
tutti i suoi libri. Oggi gli sorriderà, credo, un pensiero migliore: il
pensiero che, passato questo vento di follia presuntuosa, che trascina
la gioventù odierna a cercare gl’ideali dell’arte e della vita al di là
del buonsenso e del bene, le giovani generazioni avvenire cercheranno,
curiose e riverenti, i libri ov’egli studiò, le carte ove depose il
frutto de’ suoi studi, per iscoprirvi il segreto di quella grande arte
che non sa scompagnare dal culto della bellezza il culto della virtù e
della patria.




CAPITOLO XI.

GIOSUE CARDUCCI E IL SUO TEMPO.

  Carattere dell’uomo. — Condizioni dello spirito pubblico in Toscana
  dopo il 1849. — Precoce spirito d’opposizione. — Il Carducci e i
  primi fatti del risorgimento italiano. — L’Aleardi e lo Zanella
  poeti della nuova Italia. — Il poeta dei _Giambi ed Epodi_,
  esaltato dai repubblicani, maltrattato dai monarchici. — _Nuove
  Poesie._ — La critica del Guerzoni nella _Gazzetta ufficiale_.
  — La gioventù italiana si volge al Carducci. — L’Aleardi
  riconosce d’avere sbagliato strada. — Classicismo del Prati e del
  Dall’Ongaro. — Le Università italiane nella prima metà del secolo.
  — Il metodo storico negli studi letterari. — Le _Odi barbare_ e la
  critica dei giornali. — Scrittori messi in satira dal Carducci. —
  Il De Amicis e il Giacosa. — Poca simpatia per il poeta delle _Odi
  barbare_, ed impreparazione del pubblico a gustarle. — Reazione.
  — Edizioni elzeviriane dello Zanichelli. — La poesia verista e
  il _Grido_ del Rizzi. — _Novissima Polemica._ — Idee del Carducci
  intorno alla poesia amorosa. — Il Manzoni e il Leopardi. — Vittorio
  Emanuele, Garibaldi e Cavour. — La cultura letteraria in Italia
  dopo la conquista di Roma. — L’Italia si accorge finalmente di
  possedere un poeta vero. — Gli scolari del Carducci. — Giovanni
  Pascoli e Giovanni Marradi. — Severino Ferrari e Guido Mazzoni. —
  Ugo Brilli. — Il Carducci non rappresenta, come scrittore, il suo
  tempo. — Passione del Carducci per la storia. — Il mondo ideale del
  poeta.


Ricordano i lettori le parole dette dal Carducci ai suoi scolari nel
primo giubileo? «Io ho voluto ispirar me e innalzar voi sempre a questo
concetto: di anteporre sempre nella vita, spogliando i vecchi abiti di
una società guasta, l’essere al parere, il dovere al piacere; di mirare
alto nell’arte, dico, anzi alla semplicità che all’artifizio, anzi
alla grazia che alla maniera, anzi alla forza che alla pompa, anzi alla
verità ed alla giustizia che alla gloria.»

E pure egli l’amava la gloria.

    Ahi, da’ prim’anni, o gloria, nascosi del mio cuore
    Ne’ superbi silenzi il tuo superbo amore.
    Le fronti alte del lauro nel pensoso splendor
    Mi sfolgorâr da’ gelidi marmi nel petto un raggio,
    Ed obliai le vergini danzanti al sol di maggio
    E i lampi de’ bianchi omeri sotto le chiome d’òr.

    E tutto ciò che facile allor prometton gli anni
    Io ’l diedi per un impeto lacrimoso d’affanni,
    Per un amplesso aereo in faccia a l’avvenir.

Ma quel concetto, che gli fu guida nell’opera sua d’insegnante, gli fu
anche guida fin da’ primi anni nelle azioni e negli scritti, nella vita
e nell’arte. E non glie lo aveva insegnato nessuno; gli era fiorito
spontaneamente nell’animo per effetto delle facoltà largitegli da
natura, e svoltesi liberamente nella vita libera della campagna, fra
gente del popolo non guasta dalle ipocrisie della città. Quando egli
a quattordici anni andò a Firenze ed entrò nelle Scuole Pie, il suo
carattere era, si può dire, formato; cioè gli elementi costitutivi
di esso aveano avuto modo di esplicarsi e di prendere consistenza:
e questi elementi erano un forte sentimento di sè che lo faceva
insofferente di ogni freno, una esuberanza di vitalità che gli faceva
aborrire le mortificanti dottrine del cattolicesimo, una invincibile
sincerità, un odio feroce di ogni oppressione, un bisogno istintivo di
combattere, un desiderio sfrenato di sapere, l’orgoglio di discendere
da un popolo che fu grande e glorioso, la vergogna d’essere un Italiano
moderno.

La trista fine dei moti del 1848 gli aveva lasciato l’animo pieno d’ira
e di amarezza, la quale trovò pascolo e si rafforzò nella lettura degli
scritti del Leopardi, che contribuirono a fare di lui un pessimista;
intendiamoci, non un pessimista rassegnato, che stima inutile
combattere, un pessimista ribelle e rivoluzionario, che, non potendo
altro, gitta la sua voce fra le genti a rampognarle e svergognarle.
Ciò che lo innamorò sopratutto del Leopardi fu il sentirsi simile a
lui nella ammirazione sconfinata per gli antichi greci e romani, per la
sincerità e la forza della vita e dell’arte loro.

                                   *
                                  * *

Tale essendo, il Carducci si trovò fin da scolare in opposizione col
tempo suo; cioè, anche prima. Fin da ragazzo, pur ammirando _I Promessi
Sposi_, che lesse cinque volte, fu classico ed antimanzoniano per
opposizione al manzonianismo del padre suo; e sotto la disciplina del
maestro Barsottini, religioso e romantico, si rafforzò nel classicismo
e nella irreligiosità. Sappiamo che cosa pensasse de’ suoi maestri
all’Università di Pisa e alla Scuola Normale. «La lingua in cui
scrissero Dante, Machiavelli, Leopardi, diceva egli, fa paura a questi
vili oppressori e castratori degli ingegni giovanili.»

Que’ maestri riflettevano in generale le condizioni della cultura
dell’arte e dello spirito pubblico in Toscana; delle quali erano indice
tre periodici fiorentini, lo _Spettatore_, il _Piovano Arlotto_ e
l’_Archivio storico_. Lo _Spettatore_, diretto da Celestino Bianchi,
rappresentava la letteratura manzoniana e romantica, con intendimenti
liberali prudentemente dissimulati; il _Piovano Arlotto_ era il corifeo
della letteratura toscaneggiante, che ama lo scherzo e la burla, sotto
il cui velo piacevasi trattare talora per allegoria qualche quistione
politica, in modo da non compromettersi; l’_Archivio storico_, con
idee più larghe e maggior serietà di cultura, intendeva a mantener
vivo l’amore agli studi della storia nostra e il sentimento della
italianità.

Quelli fra i letterati toscani, che nel 1848 avean fatto onestamente
professione di liberalismo, dopo il ritorno del Granduca tenevano
chiusi gelosamente in petto i loro sentimenti; e si occupavano
di letteratura, di erudizione, di lingua, col proposito manifesto
di giovare alla diffusione della cultura, e, alcuni specialmente,
coll’occulto di propugnare e diffondere, con molta moderazione e
circospezione, le idee liberali. A questo duplice scopo mirava anche
la _Biblioteca nazionale_ Le Monnier, sia col procurare nuove e più
corrette edizioni dei classici nostri illustrati e annotati, sia col
ristampare le opere di scrittori italiani moderni ispirate a sentimenti
patriottici. I letterati toscani davano di preferenza l’opera loro
all’_Archivio storico_, all’Accademia della Crusca e alla illustrazione
dei classici. Bene inteso che non tutti lavoravano con gli stessi
sentimenti e intendimenti. Ce n’era di quelli il cui pensiero non
andava più in là del dizionario e della grammatica.

L’Accademia dei Georgofili era poi, come chi dicesse, la rocca entro la
quale si tenevano chiusi i caporioni del liberalismo moderato toscano,
che si trovarono poi così solennemente canzonati dell’aver fatta, in
odio al Guerrazzi, la restaurazione. I più notevoli fra quelli uomini
erano il Lambruschini, il Salvagnoli, il Ridolfi, Cesare Guasti,
Gaetano Milanesi, l’avvocato Galeotti, Marco Tabarrini, Tommaso Corsi,
Celestino Bianchi; tutti, quale con maggiore, quale con minore ingegno,
quale con animo più o meno disposto a novità politiche, brava ed
onesta gente, ma quasi tutti (eccettuati forse due o tre) della scuola
cattolica-manzoniana, che faceva capo a Gino Capponi. Giovan Battista
Niccolini, fieramente avverso alle loro idee, se ne stava in disparte
solitario e sdegnoso. Qualcuno anche si era adattato oramai al governo
del Granduca, e in fondo in fondo non desiderava novità, o che se
novità in senso liberale avessero a farsi, si facessero col Granduca.
Altri poi, di cui non importa fare i nomi, venuti su magari nel 1849
col ministero democratico del Guerrazzi, erano reazionari feroci o
paurosi.

                                   *
                                  * *

Cresciuto in questo ambiente e sotto maestri, che coll’esempio e
con la parola predicavano il rispetto alle autorità costituite,
la religiosità, la prudenza, il Carducci, alla Scuola Normale di
Pisa, della quale era direttore, come sappiamo, il canonico Sbragia,
ex-liberale del 1848 e manzoniano, parodiava gl’inni sacri, scrivendo
delle strofe come queste:

    Viva pur Sandro Manzoni!
    Quanto è mai che s’arrabatta
    Co’ filosofi nebbioni
    E gli storici a ciabatta!
    Acqua santa a piena mano,
    Tutto il secolo è cristiano.
    . . . . . . . . . . . . . .
    Che volete? Il Cristianesimo
    È un romanzo che fa chiasso.
    Ci scordammo del battesimo,
    Ma cantiamo col compasso
    Come un’aria di Lucia
    Paternostro e avemmaria.

I versi non son belli: tutt’altro; ma mostrano nel giovine lo spirito e
il carattere dell’uomo, mostrano come poco questo carattere si piegasse
agli insegnamenti che contrastavano con le sue tendenze. E a ventidue
anni, un anno dopo ch’era uscito dalla Scuola Normale, pubblicava un
volumetto di versi, tutti riboccanti di classicismo e di paganesimo, e
rampognanti la viltà dell’Italia moderna.

Un sonetto al Metastasio si chiudeva col noto verso:

    Il secoletto vil che cristianeggia

Un altro, _Ai sepolcri dei grandi Italiani in Santa Croce_, terminava
così:

    .... in questi avelli or vive,
    Qui solo, e in van, la patria nostra antiqua:

    Ai quali io siedo e fremo, a le mal vive
    Genti imprecando, de l’etade iniqua
    Dispregiator, ch’altro non posso, eterno.

In un’ode _Agli Italiani_ il poeta gridava:

    O di cuor peregrina e di favella
    E di vesti e di vizi, o in odio ai Numi
    E a gli avi ed a la patria, or che presumi,
                            Stirpe rubella?

    Sgombra di te la sacra terra: o in fondo
    Giaci da secolar morbo disfatta;
    E i vanti posa o la superbia matta
                            Favola al mondo.
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Che se il fato n’è avverso, e se a te giovi
    L’oblio perenne e i gravi pesi e l’onte;
    Rompan su d’oltre mare e d’oltre monte
                           Barbari novi,

    Frughin de gli avi ne le tombe sante
    Con le spade ne’ figli insanguinate,
    E calpestin le sacre al vento date
                           Ossa di Dante.

La forza e l’audacia di questi e d’altri simili versi eccitavano
l’ammirazione e l’entusiasmo dei pochi amici del poeta; ma rispondevano
così poco al sentimento pubblico d’allora, che anche uomini, i quali
si credevano e a modo loro erano liberali, furon tratti a biasimare
altamente il volumetto carducciano, e non ebbero niente da opporre
a chi dichiarò che l’autore si mostrava destituito d’ogni facoltà
poetica.

                                   *
                                  * *

Il 1859 mutò per poco la posizione del Carducci rispetto al pubblico.

Da qualunque parte fosse venuta l’iniziativa della liberazione
d’Italia, chiunque se ne fosse fatto l’autore, avrebbe avuto
l’incoraggiamento e le lodi del giovane poeta; il quale, non appena
balenò la possibilità della guerra del Piemonte all’Austria, compose
la canzone _A Vittorio Emanuele_; e così dopo la pacifica rivoluzione
toscana del 27 aprile si trovò d’accordo con la maggioranza dei suoi
concittadini, che volevano l’unione al Piemonte, e cantò la _Croce
di Savoia_ e l’_Annessione_. Queste poesie fecero dimenticare il
libretto di due anni innanzi, e il Carducci parve divenuto il poeta
dell’opinione pubblica liberale in Toscana.

Ma l’accordo durò poco. Dopo Villafranca venne la spedizione dei
Mille, e il poeta, che aveva in cima dei pensieri il compimento della
unità nazionale, si fece naturalmente garibaldino. Gli avvenimenti
successivi, la paurosa politica dei liberali moderati e la loro
soggezione a Napoleone III, che aveva rotta sul principio l’impresa
della liberazione d’Italia, che ne avversava in mille maniere il
compimento, che manteneva i soldati francesi a Roma, raffermarono ogni
giorno più il distacco del Carducci dalla maggioranza monarchica. Da
che la monarchia si chiariva incapace di compiere, almeno per allora,
l’opera del risorgimento nazionale, le idee del poeta si trovarono
naturalmente d’accordo con quelle dei partiti avanzati (in parte
avversi alla monarchia) che non ammettevano indugio.

Egli era allora a Bologna, ed essendo in quella disposizione d’animo
ed avendo quelle idee, s’era venuto a poco a poco avvicinando agli
uomini che quelle idee medesime professavano, ai giornalisti che le
sostenevano. È naturale che in quell’ambiente, come oggi si dice,
egli si trovasse a suo agio; come è naturale che quell’ambiente
esercitasse qualche influenza nell’animo di lui. Superfluo avvertire
che una gran parte della gioventù romagnola, che per ragione di studi
o d’altro affluiva a Bologna, e già cominciava ad ammirare il poeta,
era repubblicana. Ad acuire l’opposizione del Carducci alla politica
del governo si aggiunsero i dolorosi fatti della guerra del 1866,
la politica spiegatamente reazionaria di esso governo, e le piccole
persecuzioni alle quali il poeta fu fatto segno dal Ministero.

Nel 1868 fu pubblicato il volume dei _Levia Gravia_, una raccolta di
poesie, dove, fra lo sdegno per le ingiustizie sociali, domina una
nota di sconforto e di sfiducia, una nota quasi direi leopardiana. Ma
in mezzo a quello sconforto, e in mezzo agli studi d’erudizione e di
filologia di quello che può chiamarsi un periodo di raccoglimento del
poeta, scoppiarono pure dall’animo di lui l’ode _Dopo Aspromonte_ e
l’_Inno a Satana_, e indi a poco i primi _Epodi_, di cui l’ode e l’inno
furono come l’avanguardia.

L’_Inno a Satana_, composto nel 1863 e pubblicato nel 1865, non
fu veramente conosciuto che dopo la ristampa fattane nel 1869 dal
direttore del giornale democratico _Il Popolo_ di Bologna, E. Bordoni,
in occasione che si apriva a Roma il concilio ecumenico. Quella poesia
e i primi Epodi ebbero, com’è naturale, l’approvazione e le lodi dei
repubblicani, e in genere dei giornali e degli uomini d’opposizione,
più, s’intende, per ragioni politiche e di partito, che come opera
d’arte e come manifestazione di un alto ingegno poetico. Le persone
così dette serie, i liberali moderati, gli uomini d’ordine, dissero:
Questo non è un poeta, è un energumeno.

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                                  * *

Il suo poeta, anzi i suoi poeti, l’Italia liberale li aveva già:
a parte il Prati, famoso da un pezzo, aveva l’Aleardi, sorto poco
prima del 1860 a gareggiare con lui, e venuto subito in gran fama
per la dolcezza e malinconia dei suoi _Canti_, ristampati dal Barbèra
nel 1864; aveva lo Zanella, il cui nome quasi sconosciuto prima del
1867 fuori del Veneto, si diffuse ben presto per tutta Italia dopo
l’edizione delle sue poesie fatta pur dal Barbèra nel 1868.

La capitale era allora a Firenze; e un po’ dello spirito cattolico
guelfo movente dal palazzo Capponi avvolgeva il governo e la
maggioranza da esso rappresentata. Le poesie dello Zanella, nelle quali
la religione, la scienza e l’amor di patria si davano la mano, poesie
semplici ed eleganti, se talora un po’ accademiche, rispecchiavano,
anche meglio di quelle del Prati e dell’Aleardi, il sentimento
della maggioranza legale del paese. La poesia del Carducci stonava
orribilmente, e doveva parer degna del piombo che ferì Garibaldi ad
Aspromonte, o almeno almeno delle manette che strinsero i polsi degli
arrestati di villa Ruffi.

Il poeta da giovane aveva detto che la sua musa era cresciuta colle
tenui miche d’Orazio; ora, alla distanza di pochi anni, i suoi
concittadini lo chiamavano il poeta _della barricata_ e delle _Grazie
petroliere_. E pure egli non aveva fatto che crescere, crescere coi
medesimi sentimenti, con le medesime aspirazioni che gli fervevano in
cuore fin dalla prima giovinezza.

Ad alcuni dei pochi amici, che avevano ammirato le sue poesie
giovanili, parve anche, dopo i due Epodi per Corazzini e per Monti
e Tognetti, che il suo gusto letterario cominciasse a corrompersi. —
Perchè? — Perchè nella meditazione e negli studi di quel periodo di
raccoglimento l’orizzonte delle sue idee si era venuto allargando,
il suo ingegno si era svolto e rafforzato; e lo scudiero dei classici
aveva sentito il bisogno di liberarsi da ogni soggezione e di correre,
come disse egli stesso, le avventure a tutto suo rischio e pericolo.
Naturalmente ciò ch’egli in quel periodo aveva letto di poeti stranieri
moderni conferiva alla liberazione e alla educazione delle sue facoltà
poetiche; e i segni ne apparivano nelle ultime poesie.

Quando nel 1868 uscì il volume dei _Levia Gravia_, la pubblicazione
di esso passò quasi inosservata. I buoni moderati erano tutti intenti
a gustare il loro Zanella, uscito appunto in quel medesimo anno, e in
quel medesimo anno proclamato dalla _Nuova Antologia_ il nuovo poeta
d’Italia.

Non che qualcuno non avesse sentito e detto qual poeta vero e forte
annunziavano i due Epodi pel Corazzini e per Monti e Tognetti: ma
pochi porsero orecchio a quelle voci. Fra codesti pochi fu l’editore
Gaspero Barbèra; il quale, diremo meglio, aveva forse già sentito da sè
la potenza dell’ingegno del Carducci anche come poeta. E pur sapendo
quali avversioni incontrassero nel pubblico, specialmente toscano, i
suoi versi, gli chiese di farne una edizione. Egli sapeva anche che,
nonostante quelle avversioni, l’ingegno dell’uomo cominciava ad essere
riconosciuto, e capì che, data quella forza di mente e quella tempra di
carattere, il poeta avrebbe finito coll’imporsi. Intanto il Carducci
che, per le sue opinioni politiche, aveva, come sappiamo, avuto dal
governo parecchi fastidi ed una sospensione, seguitò per la sua via
senza scomporsi, seguitò a scrivere, quando l’occasione lo stimolava
e l’animo dettava dentro, versi sempre più ardenti e più arditi: e il
Barbèra ai primi del 1871 pubblicò, raccolte in un volume, tutte le
poesie composte da lui fino allora, non escluso l’_Inno a Satana_ e i
versi nuovi. L’editore voleva comprendere nel volume anche la canzone
_A Vittorio Emanuele_ e le altre poesie politiche anteriori al 1860;
ma l’autore non volle: «Quei versi, disse, li ristamperei, se fossimo
in repubblica: ora nol fo, per più ragioni degne.» Fra queste c’era,
credo io, bench’egli nol dicesse, il proposito di rimanere tutto intero
nella opposizione, e come tale presentarsi nel suo libro. Del quale
affermava, _a rischio_ (son sue parole) _di passare per bugiardo o per
superbo_; «Io ne’ miei versi come disperava di piacere ai più, così non
me lo sono proposto per fine.»

                                   *
                                  * *

E i più non si curarono dei suoi versi, che furono esaltati dai meno,
dai radicali e dai repubblicani, specialmente di Romagna. Qualcuno dei
più ne andava dicendo il maggior male possibile nei crocchi letterari
di qualche grande città; diceva che il Carducci non aveva nè affetto nè
fantasia nè forma, che era freddo, che scriveva poesia per forza, che a
far poesia come quella tutti eran capaci.

— Ah sì? pensò il Carducci, a cui queste maldicenze erano riferite
da alcune signore; ah sì? sentirete se son freddo, se i miei versi
son fatti per forza, se tutti li sanno fare! — E nel 1873 pubblicò le
_Nuove Poesie_, dove, in mezzo ad una grande varietà ed originalità
di componimenti poetici, erano i nuovi e più terribili giambi ed
epodi, che ad alcuni di quei critici e ad alcuni dei letterati e degli
uomini politici più in vista dovettero sapere di forte agrume. Non fa
meraviglia se il Bonghi, uomo che in letteratura teneva, nella opinione
dei più, un posto eminente, dichiarava: «In realtà, chi legge il
Carducci?... io me ne stanco e non mi vergogno di confessarlo.»

Che lui se ne stancasse è naturale, perchè, a parte la diversità
profonda delle opinioni, nei giambi c’era qualche zampata anche
per lui; ma che la gente non lo leggesse, era un’illusione o un pio
desiderio del dotto uomo.

La prima edizione delle poesie del Barbèra (di sole mille copie) in due
anni non si era esaurita, mentre delle poesie dell’Aleardi dal 1864 al
1873 ne erano state fatte quattro edizioni per un numero complessivo di
6500 copie, e di quelle dello Zanella dal 1868 al 1873 due edizioni di
1500 copie ciascuna. Ma pubblicate appena le _Nuove Poesie_, a quella
prima edizione ne successe subito una seconda; e poi una terza e una
quarta, intanto che delle _Nuove Poesie_ si faceva una ristampa dallo
Zanichelli.

Che cosa era avvenuto?

Errerebbe chi credesse che le _Nuove Poesie_ avessero portata al
Carducci la popolarità, cui egli non aspirò e che non ebbe mai.

Fra la gente timorata di Dio ed ossequente al Re s’era formata una
specie di leggenda intorno al nome del poeta di Satana, che faceva di
lui qualche cosa di pauroso e di terribile. I letterati, che avevan
ricevuto da lui qualche cenciata, si contentavano di dire che era un
maleducato e un villano; quelli che non lo conoscevano se lo figuravano
una specie di belva feroce; le donne e i ragazzi avevan paura di lui
come del peccato e del diavolo, salvo qualcuna che, avendo già qualche
pratica col peccato e col diavolo, moriva di voglia di conoscere come
il poeta di Satana era fatto.

È probabile che quella leggenda di terribilità facesse nascere in
alcuni il desiderio di conoscere le _Nuove Poesie_, delle quali,
appena pubblicate, ci fu subito chi si affrettò a dir male; ma, più che
probabile, è certo (quali si fossero le ragioni) che le _Nuove Poesie_,
senza neppur l’ombra d’un po’ di réclame editoriale o giornalistica,
furono subito lette in Italia e fuori; e tutte le persone cólte e
spregiudicate, ch’erano in grado d’intenderle e di gustarle, tutte
senza distinzione di partito, ne rimasero colpite come d’un fatto nuovo
e singolare nella letteratura e nell’arte, non italiana, ma europea,
come della rivelazione intera e compiuta di quel vero poeta, che i
due Epodi avevano solamente annunziato. Gli stranieri, in particolar
modo tre tedeschi, furono i primi a riconoscere il fatto e segnalarlo
all’attenzione generale.

C’era di che.

Pubblicando, soli due anni avanti, le poesie della edizione Barbèra, il
Carducci aveva detto: «Mossi, e me ne onoro, dall’Alfieri, dal Parini,
dal Monti, dal Foscolo, dal Leopardi; per essi e con essi risalii agli
antichi, m’intrattenni con Dante e col Petrarca, ad essi, pur nelle
scorse per le letterature straniere, ebbi l’occhio sempre.»

La derivazione dai classici si sentiva nei _Juvenilia_ e nei _Levia
Gravia_, come si scorgeva nei Decennali qualche segno delle scorse per
le letterature straniere.

Ma nelle _Nuove Poesie_ il poeta era lui, proprio lui, con una
fisonomia spiccata e caratteristica, che non si poteva confondere nè
rassomigliare con quella di nessun altri. E quanti aspetti varii e
nuovi e tutti originali in quella fisonomia! Che mirabile contrasto di
suoni, di colori, di atteggiamenti in quel volumetto di liriche!

Il fatto, riconosciuto solennemente, come ho detto, da tutte le persone
cólte e spregiudicate, non si poteva oramai contestare. E non osò
contestarlo nemmeno la critica dei giornali moderati, nemmeno quella
della _Gazzetta ufficiale_ del regno, ma vi girarono attorno con molte
restrizioni, con molte sciocchezze, con molte malignità, tentando di
scemarne l’importanza. — Il Carducci, sì, è un gran poeta, diceva il
critico della _Gazzetta ufficiale_; e soggiungeva: peccato che sia
un uomo _bilioso, scervellato e selvatico_! che si lasci dominare dal
suo _sciagurato temperamento_, dall’_orgoglio_, dall’_atrabile_, e nel
_parossismo cronico del suo sdegno_, nel _tumulto anarchico de’ suoi
errori_, gitti all’aria _urli di furore e gridi di rabbia felina_!
— Questa critica, che si chiamava da sè _cortese ed onesta_, che
pretendeva _scendere dall’alto forte di verità ed ispirata d’amore_, e
invitava il poeta ad _accoglierla come un’amica_, fu portata in trionfo
dai giornalini, dai giornaletti e dai giornaloni moderati, con grande
sodisfazione del grosso pubblico, che non capiva e non poteva capire il
poeta.

Il Carducci pensò: _dagli amici mi guardi Iddio_; e questo pensiero
diventò, con grande sodisfazione degli ammiratori delle _Nuove Poesie_,
una delle sue prose polemiche più magistrali, _Critica e Arte_, che
ridusse al silenzio gli avversari. Ma ridurre al silenzio non vuol dir
persuadere. In generale la critica e la polemica più persuasive non
persuadono se non coloro che non hanno bisogno di essere persuasi.

                                   *
                                  * *

Intanto la gioventù, non solamente di Bologna e delle Romagne, dove
il Carducci era, più che altrove, conosciuto ed amato, ma anche delle
altre parti d’Italia, aveva cominciato a leggere le sue poesie ed
entusiasmarsene. Le vicende della patria, ch’era in sul comporsi a
nazione, avevano ancora, trent’anni fa, virtù di commuovere gli animi
dei giovani. E come i giovani, quando non sono guasti dalla educazione,
o per natura scettici ed egoisti, si sentono naturalmente attratti
verso tutto ciò che agli occhi loro è nuovo, grande e generoso, si
volsero con ammirazione al poeta dei _Giambi ed Epodi_. Non ho bisogno
di nominare quelli che a Bologna erano scolari suoi, i quali sono una
legione, che oggi onora gli studi e le scuole, primo fra tutti per
ingegno e dottrina Giovanni Pascoli; del quale mi fu raccontato che
una sera al Caffè dei cacciatori fosse fatto leggere al Carducci, che
allora lo conosceva appena, un sonetto; e che egli dicesse: — Sarei
contento d’averlo composto io. —

Fuori di Bologna uno dei primi a sentirsi preso dalla poesia del
Carducci fu Giovanni Marradi, che negli anni intorno al 1870 era
studente al Liceo di Livorno, e faceva fin d’allora dei versi, anzi ne
aveva già stampati. Io ne mandai alcuni manoscritti, nel gennaio del
1871, al Carducci, il quale mi rispose: «Ho letto le poesie dell’alunno
del tuo Liceo. Intanto c’è del colorito temperato animosamente, e c’è
dell’onda di verso; e ci è attitudine e pieghevolezza; e mostra di
amare nei moderni quel che han meglio. Vorrei più sobrietà e più nerbo.
Ma ci è stoffa. Studiare, studiare, studiare: meditare, meditare,
meditare: amare e odiare fortemente: e poi riuscirà. Ma non si perda
in quel limbo d’arte e d’idee che è la società odierna, specialmente in
Toscana. Sono eternamente sospesi fra il bene e il male, fra la verità
e la convenzione: è un eterno compromesso in istile e in concetti. E
ne vengon fuori i Dall’Ongaro e gli Zanella (2ª edizione).» Con quella
seconda edizione il Carducci intendeva dello Zanella poeta politico
negli ultimi due anni, e del Dall’Ongaro che si era messo a fare il
classicheggiante.

                                   *
                                  * *

Qualche anno più tardi, il Carducci cantava, per le nozze di sua figlia:

                        L’umide
    pupille fise al vel fuggente,
    la mia Camena tace e ripensa.

    Ripensa i giorni quando tu parvola
    coglievi fiori sotto le acacie,
    ed ella reggendoti a mano
    fantasmi e forme spïava in cielo.

    Ripensa i giorni quando a la morbida
    tua chioma intorno rogge strisciavano
    le strofe contro a gli oligarchi
    librate e al vulgo vile d’Italia.

    E tu crescevi pensosa vergine,
    quand’ella prese d’assalto intrepida
    i clivi dell’arte e piantovvi
    la sua bandiera garibaldina.

Non c’è nessun vanto in queste strofe: esse contengono la storia
esatta della poesia del Carducci. La quale volle e seppe compiere
una rivoluzione; rivoluzione contro i sentimenti, le idee e le forme
che dominavano la vita e l’arte nel tempo suo, la vita e l’arte di
una società languida e molle, senza forti convinzioni, _eternamente
sospesa_, come egli diceva, _fra il bene e il male, fra la verità e
la convenzione_. E la rivoluzione tanto fu compiuta, che quando la
musa del Carducci stava piantando sui clivi dell’arte la sua bandiera
garibaldina, il buon Aleardi, una sera, rispondendo a certuni che gli
lodavano alcuni versi suoi, uscì a dire: «Non lodate, non lodate. Di
tutta questa roba non resterà nulla di qui a vent’anni. Ho sbagliato.
La strada è un’altra; e c’è già chi l’ha vista, e se non pretende di
percorrerla troppo in furia, arriverà sicuro alla meta e otterrà fama
vera e durevole. È un gran dolore, cari miei, quello d’aver lavorato
tanti anni e dover poi confessare a sè stesso di non aver fatto nulla
che valga.»[74]

Se la fama dell’Aleardi cominciò a declinare a mano a mano che si
facevano strada le poesie del Carducci, giustizia vuol che si dica
che le previsioni del poeta circa la completa oscurazione del suo nome
furono più pessimiste del vero; poichè dei suoi _Canti_ dal 1873 in poi
furono fatte altre quattro edizioni, l’ultima delle quali è del 1899.
E l’editore, ch’è uomo pratico di queste cose, ritiene che altre se
ne faranno. C’è dunque ancora in Italia chi legge ed ammira l’Aleardi:
ciò che non può dirsi, almeno allo stesso grado, dello Zanella, le cui
poesie, dopo le due prime edizioni del Barbèra ed una dei Successori Le
Monnier, non sono state più ristampate.

Fa singolare riscontro alla rivoluzione compiuta dalla poesia del
Carducci il fatto che due corifei del romanticismo, il Prati e il
Dall’Ongaro, al quale già accennai, vicini a chiudere la loro carriera
poetica si volsero al classicismo. Il Prati quando, al tempo della
capitale a Firenze, il ministro Broglio faceva predicare il verbo della
lingua popolare e manzoniana, si mise a comporre versi latini, tradusse
un libro dell’Eneide, e pubblicò l’_Armando_, nella seconda parte
del quale è il _Canto d’Igea_; un canto che, a giudizio del Carducci
stesso, è «ciò che di più sanamente classico ha prodotto la poesia del
tempo nostro in Italia.»[75]

                                   *
                                  * *

Insieme con la rivoluzione della poesia, il Carducci ne fece un’altra;
quella degli studi di critica e storia letteraria, nella quale ebbe
compagno l’amico suo Alessandro D’Ancona.

Nella prima metà del secolo passato le così dette cattedre di eloquenza
delle nostre Università erano state palestra di esercitazioni retoriche
ed accademiche, di maggiore o minor valore, secondo il maggiore
o minore ingegno degli oratori; ma gli uomini come Ugo Foscolo vi
capitavano di rado e non vi duravano a lungo; e Francesco De Sanctis,
che in tempo a noi più vicino, senza troppo approfondire i particolari,
ebbe una felice intuizione generale dei fatti storici della
letteratura, e sopra quella fondò la sua critica nuova e geniale, è una
gloriosa eccezione.

Il Carducci, anche prima di salire la cattedra dell’Ateneo bolognese,
aveva indovinato da sè il metodo vero degli studi di storia e critica
letteraria, cioè il metodo delle ricerche diligenti e pazienti dei
fatti, sui quali fondare poi il ragionamento critico ed estetico.
Cotesto metodo egli aveva cominciato già ad applicarlo nei Saggi da
lui premessi ai volumetti della _Collezione Diamante_ del Barbèra. E
naturalmente, quando si trattò di insegnare la storia della letteratura
all’Università, sentì il bisogno di cominciare dalle origini,
appunto perchè meno conosciute e più oscure, e perchè senza di esse è
impossibile rendersi ragione degli svolgimenti successivi.

Lo stesso fece il D’Ancona, nominato, quasi contemporaneamente al
Carducci, professore di lettere all’Università di Pisa. La cosa era
così nuova, che produsse un po’ di scandalo fra i letterati della dotta
Alfea. — Ma questa non è letteratura italiana, questa è archeologia —
dicevano i buoni Pisani, che ricordavano le chiacchiere sconclusionate
del Rosini, e la lettura degli _Ammaestramenti_ del Ranalli, fatta
da Michele Ferrucci dalla cattedra d’eloquenza dell’Ateneo pisano.
Certamente il Carducci non aveva imparato da loro.

È noto come il metodo storico abbia interamente rinnovato fra noi
gli studi letterari; come è noto che nella scuola del Carducci non
ci fu mai pericolo ch’esso ingenerasse freddezza e aridità. Oltre
i suoi scolari, fanno di ciò testimonianza i suoi libri di prosa;
i quali possono dividersi in due grandi categorie, libri di storia
e critica letteraria, libri di critica d’arte e polemica. I primi
sono un riflesso del suo insegnamento, e mostrano com’egli, armato
d’una erudizione larga, minuta e precisa, sapesse coll’ingegno vivo,
acuto, luminoso, penetrare più addentro negli argomenti che prendeva
a trattare e scoprirne aspetti nuovi rimasti fino allora ignorati. I
secondi sono un compimento dei primi, e un commento e una illustrazione
continua dell’arte sua.

Il merito del Carducci erudito e scrittore di prosa fu riconosciuto
più presto e più generalmente che quello di lui poeta, perchè a quel
riconoscimento non contrastavano, o contrastavano meno, le opinioni
politiche, la mancanza di gusto e le vecchie abitudini e i pregiudizi
di scuola. E, diciamo anche, l’incoltura e la presunzione della critica
spicciola dei giornali. I letterati serii, che si scandalizzarono alle
audacie di pensiero dell’_Inno a Satana_, ammiravano l’erudizione e
la critica di cui il poeta aveva dato saggio con la edizione delle
poesie italiane del Poliziano; gli uomini e i giornali politici, che
non potevano mandar giù le satire acerbe dei _Giambi ed Epodi_ e si
provavano a gittare qualche frizzo contro qualche stranezza o durezza
delle _Nuove Poesie_, pur ammettendo il valore poetico non comune del
libro, si sentivano in dovere di lodare senza restrizione gli _Studi
letterari_ pubblicati dal Vigo.

Ma quando qualche anno dopo uscirono le _Odi barbare_, apriti cielo.
Non c’è esempio nella nostra letteratura di un diluvio di spropositi
come quello che piovve allora sul capo del poeta. La critica dei
giornali non aveva dato mai prima, e credo non desse mai dopo, uno
spettacolo così stupefacente di ignoranza e di miseria intellettuale.
Un critico che andava per la maggiore, e che ammanniva periodicamente
ai lettori e alle lettrici della _Illustrazione italiana_ sue lezioni
di buon gusto e di estetica, disse che le _Odi barbare_ erano una
stonatura, una musica barbarica, una _decalcomania_; un altro, brava
e cólta persona, disse che non erano state scritte sul serio, che il
poeta aveva voluto prendersi burla del pubblico; un terzo, scienziato
e giornalista, scrittore di drammi e di cose militari, pubblicò, come
dissi in principio del cap. VII, un articolo pieno d’errori, per dare
una lezione di metrica al Carducci. Questa critica, indipendentemente
dalla parte che poteva avere in essa qualche dispetto personale,
rappresentava la opinione vera e il grado di cultura della maggioranza
del paese di fronte alla poesia delle _Odi barbare_.

                                   *
                                  * *

Ho parlato di dispetti personali. Era naturale, era umano che molti
avessero dei risentimenti contro il poeta, perchè molti erano stati
fatti segno ai suoi strali, alle sue punture, ai suoi scherzi.
Il Carducci, fino da giovane, fu uomo di passione, d’impeti, di
scatti; ebbe letterariamente antipatie molto pronunziate, nè sempre
giustificate. Di alcune lo riconobbe egli stesso e con nobile
franchezza lo confessò; perchè nelle sue antipatie non c’era niente di
personale. Quando nello scrivere un di quei nomi gli capitava sotto la
penna, bisognava ch’ei lo bollasse.

Paulo Fambri, che i lettori già sanno essere lo scienziato e
giornalista che volle dare al Carducci una lezione di metrica, fu
chiamato da lui _il grosso Voltaire de le lagune_; e perchè era in
fondo un brav’uomo, le punture ricevute dal poeta non gl’impedirono
di riconoscerne il valore. Lo stesso di altri. Il Bonghi fu, come
ho detto, tartassato dal Carducci, e più d’una volta; e più d’una
volta criticò egli il Carducci, nè molto felicemente; ma poi finì col
riconoscere, non senza molte restrizioni, com’era suo costume, i meriti
di lui. Il Bonghi, anche quando lodava, aveva sempre l’aria di dire:
Voi avete fatto una bella cosa, ma io l’avrei fatta diversamente, cioè
meglio.

Uno dei più maltrattati dal Carducci in verso ed in prosa fu lo
Zendrini, che non si ristette dal criticare il Carducci fin che potè,
ch’era un di quelli che dicevano male delle sue poesie nei crocchi
delle signore (ciò ch’era naturale, dato il modo suo d’intendere
e concepire la poesia e l’arte, affatto opposto a quello del
Carducci); ma quando egli fu morto, il Carducci, dovendo parlare di
lui, e volendolo fare «con quella coscenziosa e meditata libertà e
schiettezza, della quale, diceva, gl’italiani han troppo bisogno,»[76]
rese, senza niente disdirsi, piena giustizia al suo ingegno e alla sua
dottrina, si dolse ch’ei fosse mancato all’arte, quando forse stava
per rinnovellarsi, e concluse, a proposito di lui e di altri morti di
fresco: «Magari fossero vivi! Combatteremmo ancora.

    »L’uom s’affronti con l’uom: pugna è la vita.»

Due che, pure punzecchiati dal Carducci, non dissero mai una parola
contro di lui, sono il De Amicis e il Giacosa; ma non si può pretendere
che tutti abbiano la loro virtù; la quale è forse il miglior modo di
rispondere agli assalti della critica e della satira, quando si crede
di non meritarli o si sente che sono eccessivi. Ebbero essi medesimi la
prova di ciò quando più tardi videro il Carducci rendere giustizia ai
meriti loro.

Domenico Gnoli narrò nella _Nuova Antologia_ del 15 marzo 1880 questo
aneddoto, la cui verità gli era stata confermata dal Carducci stesso:
«In una linea di strada ferrata presso Modena viaggiavano insieme
alcuni uffiziali, e, discorrendo degli scritti del De Amicis, ne
dicevano male a torto e a ragione. Un signore, che stava in un angolo
leggendo, a poco a poco fu tratto anche lui nella conversazione, e
prese a difendere il De Amicis. — È inutile, rispondeva un uffiziale,
io sto col Carducci: _Edmondo da i languori, il capitan cortese_. Ma
il Carducci, ripigliava il signore, ha detto così in una satira, che
non va presa alla lettera; e poi se lo ha chiamato _da i languori_, non
ha detto già che gli manchino altre buone qualità. E ricordò le pagine
della caccia del toro nella _Spagna_ e altre belle descrizioni. — Ma
avendo detto nella discussione che il Carducci non era infallibile,
parve agli altri ch’egli parlasse del poeta con poco rispetto, e
la questione si faceva più viva. Intanto giunsero alla stazione:
gli uffiziali nello scendere dettero al signore le loro carte da
visita, e il signore rese la sua. Chi era? Il Carducci mi perdoni
l’indiscrezione: era proprio lui.»[77]

Qualche cosa, se non di simile, di analogo, avvenne tra il Carducci e
il Giacosa. Questa volta chi narra è il Carducci stesso. Egli aveva
pubblicamente e ripetutamente dichiarato che non voleva, non sapeva
e non poteva fare scritti, sia di prosa, sia di verso, nè conferenze
o altro, a richiesta altrui: pure cedè ad un invito del Giacosa, che
lo pregava di una conferenza a Torino per l’Esposizione, con offerta
di compenso. «Prima di tutto, scrisse il Carducci, il Giacosa è il
Giacosa, cioè un uomo di cuore e d’ingegno, del quale come scrittore,
quand’era nella prima sua maniera, io aveva detto troppo male, e non mi
parea vero di manifestarmegli grato del non aver egli badato a cotesto
per mostrarmi la sua affezione.»[78] Poi aggiunse altre ragioni che qui
non importano.

Ma non si può pretendere, come ho detto, che tutti abbiano la
longanimità del De Amicis e del Giacosa; benchè certo sarebbe bene.

Lunga è la lista degli uomini pubblici, dei letterati, dei giornalisti,
più o meno violentemente attaccati dal Carducci, o fatti segno alle
sue punture satiriche, per effetto delle sue convinzioni politiche,
artistiche, letterarie. Oltre quelli che ho già nominati, a chi conosce
le opere del poeta vengon subito in mente i nomi del Lanza, del Sella,
del Gualterio, del Cialdini, del Persano, del Mancini, del Villari, di
Nicomede Bianchi, del Fanfani, del Rapisardi, del De Zerbi, d’Yorick,
dell’Alberti, del Rizzi: e chi sa quanti altri ora mi sfuggono!

È naturale che la maggior parte delle persone attaccate dal poeta, fra
le quali non poche di valore indiscusso e indiscutibile, non avessero
per lui gran simpatia, sia pure che ne riconoscessero l’ingegno. Questo
dovette esser pure un grande coefficiente della cattiva accoglienza
ch’ebbero al loro primo apparire le _Odi barbare_.

Il favore col quale appunto in quel tempo erano accolti i libri del
De Amicis era dovuto, è vero, in gran parte, anzi in massima parte,
alla materia e alla forma, che rendevano quei libri accessibili e
adatti alla intelligenza, al gusto e alla cultura della maggioranza dei
lettori e delle lettrici italiane; ma è fuori di dubbio che una parte
di quel favore deve attribuirsi anche alla simpatia del pubblico che lo
scrittore aveva saputo guadagnarsi co’ suoi _Bozzetti militari_.

                                   *
                                  * *

Con tutto ciò, fatta la debita parte alla poca simpatia che godeva
il poeta, rimane fermo che la ragione principale della non buona
accoglienza incontrata dalle _Odi barbare_ sta, come dissi, nella
impreparazione del pubblico anche cólto a gustarle ed intenderle.
Aveva perfettamente ragione il Carducci quando, a proposito dell’ode
alla Regina, mi scriveva che un mezzo per capire le odi barbare era
conoscere la poesia tedesca.

Solo che i lettori italiani avessero potuto leggere nell’originale,
non dirò le odi del Klopstock e del Platen, ma le _Elegie romane_
e l’_Arminio e Dorotea_ del Goethe, i metri delle _Odi barbare_ non
avrebbero fatta loro quella strana e sgradevole impressione, che fu la
cagion prima che impedì a molti di capire. E non si creda che cotesti
molti fossero tutti gente incólta: c’era perfino qualche professore di
lettere meritamente stimato, e veramente dotto.

Le poesie del Carducci in generale, e le _Odi barbare_ in particolare,
vogliono essere lette con molta attenzione nel silenzio tranquillo del
proprio studio; vogliono, dirò di più, essere meditate e studiate, come
tutta la poesia densa di pensiero e nutrita di dottrina: senza di ciò è
impresa disperata il comprenderle. E allora accade che, dopo una prima
lettura superficiale, si butta via disgustati il libro, dicendo: Ma che
cosa annaspa costui? Chi lo capisce è bravo.

La reazione contro il primo giudizio della ignoranza e della fretta non
tardò però molto. Quelli che non avevan capito alla prima, sentendo che
c’era chi aveva capito, rilessero, studiarono e cominciarono a capire
anche loro; e non andò molto che le _Odi barbare_ furono proclamate la
più alta poesia del Carducci. Alle prime seguirono poi le seconde e le
terze, che confermarono, amplificandolo, il giudizio definitivo. Cosa
poi singolare: le prime odi barbare, se si deve giudicare dal numero
di edizioni che hanno avuto, sono state lette anche più delle seconde
e delle terze, essendo di quelle stato messo in circolazione un numero
maggiore di copie; ben sedicimila, prima delle ottomila copie delle
_Poesie complete_.

Se si considera che l’Italia è un paese che legge poco e non compra
libri; e che le poesie del Carducci non furono, come oggi si usa,
declamate nelle sale e nei teatri, per accattar loro favore, nè la loro
nascita fu mai annunziata telegraficamente come un grande avvenimento;
che insomma mancò ad esse quella sapiente _réclame_ che oggi i poeti
sanno fare alla merce loro, bisogna pure riconoscere ch’esse dovettero
avere in sè una gran virtù per vincere tutte le resistenze, per farsi
leggere ed ammirare.

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                                  * *

Intorno a quel tempo, negli anni cioè poco prima e poco dopo il
1880, ci fu in Italia una specie di risveglio poetico. Erano gli anni
della prima fioritura delle edizioni elzeviriane dello Zanichelli in
Bologna, e del primo fortunato periodo del _Fanfulla della Domenica_
in Roma. Il primo volumetto elzeviriano pubblicato dallo Zanichelli
fu il Canzoniere di Lorenzo Stecchetti, _Postuma_; al quale, con pochi
giorni di distanza, tennero dietro le prime _Odi barbare_ del Carducci.
Accennai nel capitolo VI le ragioni del successo veramente sbalorditoio
dei _Postuma_: basti dire che in meno di tre anni ne furono fatte
sette edizioni, ed oggi siamo alla ventiduesima. Dopo i _Postuma_ e
le _Odi barbare_ vennero le poesie del Panzacchi, il _Polychordon_ di
Vittorio Salmini, le _Nuove Liriche_ di Naborre Campanini, i _Nuovi
Versi_ di Vittorio Betteloni, le _Canzoni moderne_ di Giovanni Marradi
(Labronio), i _Miei Canti_ di Corrado Ricci, le _Poesie_ di Enrico
Nencioni, le _Nuove Poesie_ del Fontana, i _Versi_ del Tarchetti, e
un’altra quantità di poesie d’altra gente più o meno nota. Naturalmente
questa efflorescenza non era tutta di fiori aulenti d’un modo; e non
tutta la produzione poetica italiana si limitava ad essa; ma il più e
il meglio certamente era lì. Un po’ per ragione dell’editore, un po’
perchè cotesto movimento letterario si era creato intorno al Carducci,
si parlò molto impropriamente di Scuola bolognese. Inutile dire che il
Canzoniere dello Stecchetti diede la stura a una quantità di poesie più
o meno pornografiche, che i loro autori chiamarono veriste, tanto che
verismo parve per un momento diventato sinonimo di pornografia.

Ci fu della buona gente che si scandalizzò e gridò contro questo
verismo. E, facendo un po’ di confusione, misero in un mazzo col
Guerrini il Carducci, considerandoli tutti due come i capi della Scuola
bolognese, cioè verista, o pornografica.

Il grido venne da Milano; in forma di pochi sonetti satirici molto
mediocri, preceduti da una breve prosa arguta e frizzante; opera gli
uni e l’altra di Giovanni Rizzi, un buono e brav’uomo, molto manzoniano
e molto attaccato alle sue idee morali e religiose. Al _Grido_ milanese
fece eco da Firenze un misero libretto del commediografo Luigi Alberti,
buon uomo anche lui, ma quanto commediografo poco felice, altrettanto
scrittore infelicissimo di prosa e di versi.[79] Rispose il Guerrini
con un primo opuscolo di versi, _Polemica_; poi con un libretto di
versi e prosa, _Nova Polemica_; finalmente il Carducci con lo scritto
_Novissima Polemica_ pubblicato nel giornale _Il Preludio_ di Bologna
(10 novembre 1879). Prese ultimo la parola il Rizzi con una nuova
edizione del suo _Grido_,[80] accresciuto di una _Appendice_, mista
pure di prosa e di versi; ma la vittoria restò letterariamente agli
accusati; e il povero Alberti, investito da una scrosciante pioggia
di ridicolo, rovesciatagli addosso dalla penna del Carducci, rimase,
credo, intontito.

Il Carducci durò poca fatica a rispondere vittoriosamente quanto a sè,
perchè l’accusa fattagli era ingiusta; il suo sano e forte paganesimo
non avendo niente di comune col verismo pornografico dello Stecchetti.
Quanto a questo, non seppe difenderlo meglio che allegando la sua
discendenza legittima da Alfredo Di Musset, e mostrando che anche
della brava gente, come il Tasso, il Corneille, il Parini e il Giusti,
avevano a tempo loro composto dei versi licenziosi ed equivoci. Ma ciò
non era una giustificazione. Nella sostanza i difensori della morale
rimasero, per ciò che riguardava lo Stecchetti, dalla parte della
ragione. Lo riconobbe in certo modo il Carducci stesso quando scriveva:
«Anche a me, se ci bado, questa mostra in versi, che dura da qualche
mese, di tante alcove in disordine non piace punto, perchè in somma
è poco pulita, e riesce, come tutte le mostre, cordialmente noiosa.
Desidero poi che il Guerrini s’allarghi fuor del genere voluttuario,
come ha già mostrato di volere e saper fare.»

Dieci anni più tardi il Carducci esprimeva così le sue idee intorno
alla poesia amorosa, idee alle quali rimase sempre fedele nei versi che
scrisse. «Quanto all’amore, io credo, che la poesia recente sia tornata
ad abusarne, e sono ben lungi dal concedere importanza e valore di arte
a quegli sfoghi di erotismo e a quelle civetterie dell’_io_ mughetto
che i rimatori odierni si concedono. Lasciamo stare, per amor di Dio,
Saffo; e non gridiam miracolo a tutte le inezie e porcherie di Catullo,
e confessiamo che nei _Lieder_ di Heine abbondano i madrigaletti:
dei parnassiani francesi non mette conto discorrere. Insomma della
poesia d’amore ammetto soltanto quella che la impressione singolare,
fenomenale, individuale trasmuta nella rappresentazione universale,
storica, umana: quasi quasi sto per dire che nella poesia d’amore
io amo l’allegoria. Che un verseggiatore pensi di una Teresa o d’una
Carolina così e così, ch’egli desideri di farle o le faccia questo e
questo, e ch’ella faccia a lui questo e quest’altro; è cosa che può
importar molto per quel momento a lui, che probabilmente importerà
poco a lei e che non importa nulla a me. Ne faccia pur memoria il caro
verseggiatore nel suo _carnet_ e ne componga versi per albi o per
ventagli o per ventarole o per musica; ma le confessioni da nessuno
richieste e solo a’ collegiali curiose d’un vanesio o peggio non sono
poesia: ci mancherebbe altro!»[81]

La questione della pornografia in versi fu ripresa nei giornali
domenicali del 1883 dal Panzacchi, dal Nencioni e da me, in
contradizione con Luigi Lodi, a proposito di alcune poesie del
D’Annunzio. Noi in fondo sostenevamo allora, contro il Lodi, le
medesime idee ch’ebbe ad esporre più tardi il Carducci col pezzo di
prosa che ho riferito.[82]

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                                  * *

Chi scriverà la storia della letteratura italiana nella seconda metà
del secolo passato, giunto al tempo di cui parliamo dovrà rilevare
alcuni fatti abbastanza consolanti; a parte quel risveglio poetico,
che, se ne togli il Carducci, ha poca o nessuna importanza, e che col
Carducci era cominciato assai prima. Tutta la poesia vera della seconda
metà del secolo è nelle opere di lui, le quali, come altri osservò,
sono talora poesia se anche scritte in prosa.

La prima metà del secolo ebbe due ingegni di prim’ordine, pensatori,
prosatori, poeti, il Manzoni e il Leopardi; i quali, rappresentando
fortunatamente due scuole diverse, anzi opposte (che cioè si credevano
e volevano essere opposte, mentre miravano allo stesso fine), la scuola
romantica e la classica, furono cagione che in processo di tempo queste
si giovassero reciprocamente, correggendo ciascuna le deficienze e
gli eccessi dell’altra. Intorno a quei due grandi, il grande agitatore
genovese, sognante l’unità d’Italia, quando essa non poteva essere più
che un sogno, e una larga schiera di scrittori (filosofi, romanzieri,
poeti) che le opere loro dirizzarono al fine glorioso della liberazione
della patria, mantenendo vivo nei petti degl’Italiani l’odio ai
principi e agli stranieri che la tenevano divisa ed oppressa.

Nei primi venti anni della seconda metà del secolo la politica
fece, com’era giusto, tacere la letteratura; e l’Italia ebbe, invece
di grandi scrittori, tre uomini d’azione, un re, un guerriero, un
diplomatico, che, aiutando gli eventi, seppero compiere quella gloriosa
opera della liberazione della patria, e trasformare in realtà il
sogno di Giuseppe Mazzini. Dinanzi alle ombre di Vittorio Emanuele, di
Garibaldi, di Cavour, le ombre dei grandi scrittori della prima metà
del secolo piegano riverenti la fronte.

Ma dopo che nel 1870 l’Italia ebbe conquistata la sua capitale, si
vide che quei venti anni di silenzio non erano stati infruttuosi per
la letteratura. Un nuovo soffio di vita intellettuale era passato
sopra la giovane nazione; i migliori ingegni si erano venuti aprendo
e maturando al sole della libertà; il movimento degli studi presso gli
altri popoli aveva stimolato alla emulazione gl’Italiani; l’amore alle
discipline storiche, già in onore fra noi, si era ravvivato, allargato,
e rafforzato nella ricerca paziente dei documenti e dei fatti; nelle
discipline filologiche era penetrato il rigore scientifico, nelle
letterarie il metodo storico, saviamente contemperato all’estetico,
già signoreggiante in alcune regioni d’Italia per opera di Francesco De
Sanctis; le correnti delle due scuole, romantica e classica, si erano
frattanto venute lentamente fondendo, e gl’ingegni meglio aperti alla
verità avevano riconosciuto e preso quello che c’era di buono nell’una
dottrina e nell’altra.

Le Facoltà filologiche dei nostri Atenei, cresciute dopo il 1860
di numero e andate via via rinsanguandosi di nuove forze, contavano
insegnanti che con le opere loro e col nome tenevano alta nel mondo
la riputazione degli studi italiani. Anche fuori delle Università le
lettere avevano quasi in ogni ramo rappresentanti e cultori, più o
meno famosi, ma tutti notevoli e degni, che nei giornali domenicali,
nelle riviste e nei libri, illustravano la storia letteraria e civile,
disputavano d’arte, di critica, scrivevano novelle e racconti; notevole
sopra tutti per la sua operosità e versatilità, veramente meravigliose,
e pel suo sapere enciclopedico, non sempre sicuro, Ruggero Bonghi, che
traduceva e illustrava Platone, scriveva la storia di Roma, fondava e
dirigeva la _Cultura_, dava articoli a tutti i giornali, e dissertava
di politica, di archeologia, di storia, di filosofia, di estetica, di
filologia, di linguistica, e di non so quante altre cose nella _Nuova
Antologia_.

Aggiungasi che dalle Scuole universitarie di Bologna, di Pisa, di
Firenze, di Napoli, usciva una schiera di giovani, nutriti di studi
seri, pieni d’ingegno e d’ardore, che promettevano di proseguire
onorevolmente nell’insegnamento e nei libri l’opera dei loro maestri.

                                   *
                                  * *

Tali erano le condizioni della cultura letteraria in Italia poco dopo
il 1880, intorno cioè al tempo in cui il valore del Carducci cominciò
ad essere generalmente riconosciuto. L’Italia si era finalmente accorta
di possedere un poeta vero; i più illustri contemporanei, anche quelli
che fino a poco tempo addietro lo avevano guardato un po’ di traverso,
non sdegnavano di avvicinarsegli e di rendergli onore; e la gioventù
italiana, che già da alcuni anni lo ammirava, sentiva crescere ogni
giorno il suo entusiasmo per lui.

Accennai già a questo fatto ed agli scolari del Carducci in Bologna
dopo il 1870. Dissi pure che intorno al 1880 ci fu una specie di
risveglio poetico, a proposito del quale si parlò molto impropriamente
di Scuola bolognese.

Tutto ciò ha bisogno di qualche spiegazione.

Se in un certo senso può dirsi che il Carducci ebbe una scuola, ciò
deve intendersi unicamente della influenza che gli scritti suoi, così
di poesia come di prosa, esercitarono sopra la gioventù del suo tempo;
ma come questa gioventù non fu soltanto quella della Università di
Bologna, sì della Italia intera, così la scuola, se mai, deve chiamarsi
italiana, non bolognese. Parlare di scuola poetica bolognese, perchè
lo Zanichelli pubblicò quasi contemporaneamente nella sua collezione
elzeviriana le _Odi barbare_ del Carducci, le poesie del Panzacchi, del
Guerrini e di qualche altro, e perchè il Carducci prese parte insieme
col Guerrini alla polemica contro il Rizzi e l’Alberti, è un non
senso. Le poesie del Panzacchi non avevano nessun punto di contatto con
quelle del Carducci, e non ne risentirono alcuna influenza; quelle del
Guerrini anche meno. Che nel volume _Nova Polemica_ ci fossero alcuni
componimenti in metri barbari, non vuol dir niente: la sostanza e gli
spiriti delle nuove poesie del Guerrini erano rimasti gli stessi, o
di poco modificati, e perciò molto diversi dalle poesie del Carducci.
Anche non vuol dir niente che il Panzacchi e il Guerrini, come tutti
gli altri scrittori di versi di quel tempo, chiamassero il Carducci
maestro. Si può dare ad uno il nome di maestro, e non essergli scolari.

Gli scolari veri del Carducci erano la nuova generazione che allora
veniva su, nel pieno fiore della giovinezza, e non solamente in
Bologna. Per quei giovani la pubblicazione di ogni nuova poesia di lui
era un avvenimento. Bisogna essere stati in mezzo a loro, e rammentarsi
l’impazienza con la quale attendevano ogni numero del _Fanfulla
della Domenica_ che doveva recare una nuova _ode barbara_; bisogna
rammentarsi l’interesse e l’entusiasmo con cui la leggevano e le
discussioni calorose, animate, interminabili che vi facevano sopra.

Io nominai due degli scolari dei Carducci, uno, scolare vero a Bologna,
il Pascoli, l’altro, scolare da lontano, il Marradi; autori ambedue di
poesie che sono lette e piacciono. Le _Myricæ_ del Pascoli hanno avuto
in pochi anni sei edizioni; le _Poesie_ che il Marradi scelse dalle
varie raccolte da lui pubblicate dal 1879 in poi e riunì l’anno passato
in un volume edito dal Barbèra, sono già alla terza edizione.

Il Marradi è (come il Carducci lo chiama) «poeta mero: impossibile a
lui mortificare l’ingegno nella vil prosa, sì della critica e della
filologia, sì del bozzetto e della novella.»[83] Le poesie del Pascoli
invece (non poche, e tutte attestanti, attraverso l’ispirazione forte
e sincera, un lavorio d’arte, che a volte può parere eccessivo) non
sono che una piccola parte dell’opera sua letteraria. Il Pascoli,
oltre che poeta, è prosatore, critico, erudito, filologo, commentatore,
interprete, traduttore. Anzi, a considerare l’insieme del suo lavoro,
si direbbe ch’egli è poeta a tempo perso, nelle ore d’ozio (ben poche)
che gli concede la sua instancabile operosità. Scrive poesie latine;
traduce metricamente da Omero ed Esiodo, da poemi e romanze in francese
antico; passa da questi allo Shelley, al Tennyson, a Victor Hugo;
torna dal francese e inglese moderno al greco di Platone e al latino di
Livio; dai commenti a Vergilio ed Orazio passa all’_Inferno_ di Dante;
e scrive intorno alla _Commedia_ opere di lunga lena, per le quali si
potrebbe credere ch’egli in tutta la sua vita non avesse fatto altro
che studiare il poema divino.

Gli scolari del Carducci sono un numero infinito (quando dico scolari
intendo tutti quelli che nella loro educazione letteraria sentirono
l’influsso di lui): ebbene, fra cotesti moltissimi sono ben pochi
quelli che si volsero alla poesia: non passano, credo, in tutti, la
mezza dozzina; o la passano di poco. Perch’egli davvero non incitò
nessuno a comporre versi; e a quei ragazzi, che, dopo la fortuna
dello Stecchetti, si misero a scrivere poesie veriste, quando ebbero
la infelice ispirazione di rivolgersi a lui, diede tali lezioni, che
dovettero rammentarle per un pezzo e perdere per un pezzo la voglia di
disturbare le Muse. Ad una di quelle lezioni, pubblicata nel _Preludio_
di Bologna del 9 novembre 1881, lasciandola ristampare l’anno dopo,
annotava: «I ragazzi che fanno gli omettini e i cattivelli e saputelli,
che bestemmiano, che fumano, che seccano la gente grande mettendosi
fra’ piedi, io gli ho a noia, e, fedele all’educazione antica, li
piglio a scapaccioni.»

Ma per le poesie di due scolari suoi veri, Severino Ferrari e Guido
Mazzoni, ebbe parole di lode e consigli amorevoli. Il Ferrari fece
un anno solo di studi a Bologna e gli altri all’Istituto superiore di
Firenze, dove lo attiravano le biblioteche; il Mazzoni, presa la laurea
in lettere a Pisa, andò a fare un anno di perfezionamento a Bologna, e
l’impressione che riportò della Scuola del Carducci ebbe un’influenza
grande nella sua vita di scrittore e d’insegnante. Anche per lui e pel
Ferrari la poesia è quasi un di più; gli studi che più strettamente si
attengono al loro insegnamento assorbendo la maggior parte della loro
operosità; e il Mazzoni spendendo tutto sè stesso per la scuola, anzi
per le due scuole alle quali attende. E l’uno e l’altro san poi trovare
il tempo di accrescere il patrimonio letterario della nazione con
pubblicazioni importanti.

Come il Ferrari si unì al maestro per compiere il commento alle Rime
del Petrarca, di cui il Carducci aveva dato fuori un saggio fino dal
1876, così un altro dei suoi scolari, Ugo Brilli, collaborò con lui
alla compilazione delle _Letture italiane_ per le scuole ginnasiali;
perchè in tutta l’opera sua di scrittore e di insegnante il Carducci
si inspirò sempre a quel concetto che riferii con le sue stesse
parole in principio di questo capitolo; e niente gli parve conferir
meglio all’attuazione di esso quanto il rafforzare e migliorare nelle
scuole secondarie lo studio dei classici e tener desto e operante
nei giovani il culto della patria. Perciò non gli parve ingloriosa
fatica apparecchiare libri di lettura per i ginnasi; perciò accettò di
dirigere una biblioteca scolastica di scrittori italiani, alla quale
collaborarono amici e scolari suoi; perciò attese con amore negli
ultimi anni ad una scelta di _Letture del risorgimento italiano_, alla
quale attribuiva maggiore importanza, e della quale si compiaceva molto
più che delle altre sue opere. Nè senza grande amarezza constatò che al
nobile pensiero suo male rispondeva il pensiero del pubblico italiano.

Egli aveva pubblicato la prima serie delle _Letture del risorgimento_
nel 1896: l’anno appresso, pubblicando la seconda, vi premetteva, fra
le altre, queste parole: «Alcuno, forse benevolo, si compianse, come
d’un segno dello scadimento dei tempi e dell’oscuramento degl’ingegni,
di questo attendere d’un poeta a scelte di storia. Grazie. Troppi versi
ho io fatto, e troppo poco ne sono contento: vorrei avere adoperato
meglio il mio tempo, e tutta la gloriola, se pur gloriola v’ha, del
mettere insieme sillabe e rime abbandono volentieri per le ore di
sollevamento morale e di umano perfezionamento che procura ai bennati
la rivelazione d’un’anima grande, la narrazione d’un fatto sublime,
l’esposizione di pensieri superiori al senso e all’immediatezza utile
e pratica. Niente è sì esteticamente bello come la devozione e il
sacrifizio d’un uomo alla libertà, alla patria, a un’idea; niun dramma
parve a me sì commovente come il delirio di Camillo Cavour moribondo,
niuna epopea sì vera e splendente come le battaglie di Calatafimi e
Palermo, niuna lirica sì alta come il supplizio di Giuseppe Andreoli,
di Tito Speri, di Pier Fortunato Calvi.»

                                   *
                                  * *

Il decennio fra il 1880 e il 1890 fu, come sappiamo, uno dei periodi
più fecondi e felici della opera letteraria del Carducci; nel 1882
pubblicò le _Nuove Odi Barbare_, nel 1883 i sonetti _Ça ira_, nel 1883
e ’84 le tre serie di _Confessioni e Battaglie_ e le _Conversazioni
critiche_ (edizione Sommaruga), nel 1884 lo scritto _Dell’Inno La
Risurrezione di Alessandro Manzoni e di San Paolino d’Aquileia_ e il
discorso _Per un monumento a Virgilio in Pietole_, nel 1887 le _Rime
nuove_, nel 1888 i tre discorsi su _L’opera di Dante_, su _Jaufré
Rudel_, su _Lo Studio bolognese_, nel 1889 il discorso _La poesia e
l’Italia nella quarta Crociata_ e le _Terze Odi barbare_, nel 1890
l’ode _Piemonte_. E come d’allora in poi il vigore del suo ingegno e
l’operosità sua non accennarono mai a declinare, nè passò anno fin
verso la fine del secolo ch’egli non pubblicasse nuovi scritti in
poesia ed in prosa attestanti quella operosità e quel vigore, così
l’ammirazione per lui andò sempre crescendo.

Pure chi volesse dal favore col quale, specie nell’ultimo ventennio,
furono accolte le opere sue argomentare ch’egli come scrittore
rappresentasse il tempo suo, s’ingannerebbe, secondo me, grandemente.

Dall’inno _Al beato Giovanni della pace_ alle _Rime di San Miniato_,
dalle poesie per _Aspromonte_ e _Mentana_ alle odi _Per la commissione
araldica_, per _Giovanni Cairoli_, al _Canto dell’Italia che va in
Campidoglio_, all’ode _A proposito del processo Fadda_, egli non
fa che rampognare e vituperare i suoi cari compatrioti. E se con la
poesia li rampogna e li vitupera, non li tratta meglio con la prosa.
A parte gli scritti polemici (i quali pur mostrano che le idee dei
suoi critici erano agli antipodi con le sue, e che perciò anche fuori
della poesia egli non era l’uomo del suo tempo), basta rammentarsi
ciò ch’egli scrisse contro i _numeri unici_, contro le _arcadie
della carità_, contro le _conferenze_, contro la _monumentomania_,
contro le processioni, le commemorazioni, i banchetti patriottici,
letterari, scientifici, tutte cose che rimarranno caratteristiche
della età nostra, per persuadersi che sarebbe un controsenso chiamarlo
rappresentante di quella età. Io lo direi piuttosto un giudice e
censore di essa severo e spietato.

                                   *
                                  * *

Egli fu studioso della storia come pochi. Lo studio della storia fu in
lui una passione, che dai primi anni lo accompagnò per tutta la vita.
La conoscenza piena, minuta, sicura, che, per effetto di tale studio
appassionato e non mai interrotto, venne acquistando degli avvenimenti
umani presso tutti i popoli in tutti i tempi, formò il substrato
della sua vasta cultura, e si era, direi quasi, immedesimata coi suoi
sentimenti e co’ suoi pensieri.

Con la storia e per la storia egli viveva nel passato, viveva in un
mondo ideale, popolato di uomini forti, giusti, virtuosi, sinceri;
e quando da cotesto mondo gli accadeva di scendere nel mondo reale e
trovarsi a contatto con gli uomini del tempo suo, con gli uomini veri,
si adirava di trovarli tanto diversi, e sfrenava contro di essi, sotto
forma di periodi o di strofe, le freccie avvelenate dell’ira sua.

Si capisce da ciò come la prima accoglienza ai suoi scritti fosse
naturalmente di avversione e di repulsione. Ma dopo che la luce di
quell’ingegno, sfolgorando in tutta la sua pienezza, apparve splendida
e pura alle menti da prima incerte e restie, tutti cominciarono a
poco a poco a comprendere che le ire, le bizze e le invettive dello
scrittore movevano da un’idea superiore di giustizia e di moralità,
e quell’avversione e quella repulsione cominciarono a poco a poco a
cedere il luogo all’ammirazione e alla lode.

Se dopo la così detta _evoluzione_ del poeta si levò qualche voce
discorde intorno all’opera letteraria di lui, se qualcuno si provò a
deprimere, in confronto delle poesie anteriori, le grandi odi storiche
composte dal 1890 in poi, e qualcuno ad esaltarle eccessivamente
proclamandole superiori alle prime, furono voci procedenti dalla
passione e dalla politica, e perciò di nessun valore nel campo
dell’arte, voci che il vento di un giorno bastò a disperdere e che oggi
più nessuno ricorda.

Oggi che l’opera dello scrittore è compiuta, il consenso unanime della
nazione ne riconosce l’alto valore e la consegna alla storia.




CAPITOLO XII.

(APPENDICE.) (1903-1907.)

  Non par vero che debba esser morto. — La malattia si era arrestata,
  ma le tracce di essa rimanevano. — Disperazione di non potere
  scrivere speditamente. — Lucidità della mente e difficoltà di
  esprimersi. — Severino Ferrari supplente al Carducci. — Lezioni
  all’Università. — Morte di Severino Ferrari. — Il Carducci in
  Toscana. — Edizione delle Opere: i vol. XV e XVI. — Saggio su la
  Canzone di Dante delle tre donne, dedicato a Luisa Zanichelli nelle
  sue nozze. — Lettera di dedica al padre di lei. — L’ultimo periodo
  dell’opera letteraria del Carducci. — Il Carducci chiede il riposo
  dall’insegnamento. — Ricompensa nazionale. — Saluto di commiato
  degli studenti. — Il volume delle _Prose_ scelte. — Ritorno da
  Madesimo nel 1905. — Ultima lettera sconsolata. — Il telegramma al
  _Secolo_. — Condizioni gravissime del poeta. — Il premio Nobel.
  — La cerimonia della premiazione a Stocolma e a Bologna. — Il
  discorso del Barone De Bildt. — Morte del Poeta. — Il dolore di
  tutto il mondo civile. — Onoranze ufficiali. — Il dolore del popolo
  bolognese. — I funerali, e il corteo.


Io sperava non mi toccasse aggiungere un ultimo capitolo a queste
_Memorie_, non mi toccasse mettere la parola _fine_ alla vita
dell’amico mio.

Scrivo con l’animo ancora turbato dalla notizia, non inattesa, e
tuttavia quasi incredibile, che quella nobile vita si è spenta. Certe
anime privilegiate, a chi ha avuto la fortuna di vivere per lungo tempo
in comunione di pensieri e di sentimenti con esse, parrebbe dovessero
essere immuni dalla legge che condanna i viventi tutti a morire.

Si dice: — Morirono Dante, lo Shakespeare, il Goethe, Victor Hugo:
perchè non avrebbe dovuto morire il Carducci? — Anche: — La vita in
questi ultimi due anni era divenuta a lui un supplizio; e la morte è
stata una liberazione. —

È vero: ma quando l’uomo che abbiamo amato e venerato fino ad ieri,
oggi ci dicono che è scomparso dal mondo, che domani e per tutti i
giorni avvenire non lo vedremo mai più, mai più; questo ci pare un
fatto anormale, mostruoso, contrario alle idee di bontà e di giustizia,
un fatto che sconvolge l’ordine morale delle cose.

I grandi trapassati, per quanto grandi e degni d’ammirazione e d’amore,
sono altra cosa dai granduomini coi quali abbiamo vissuto insieme, che
abbiamo amati e ci hanno amato; e confondere gli uni con gli altri non
è possibile. Gli uni, quando noi venimmo al mondo, appartenevano già a
un altro mondo, al mondo delle ombre; gli altri sono parte del nostro
mondo, sono parte di noi stessi; e quando ci vengono tolti, è come se
ci venisse strappata una parte dell’anima nostra.

                                   *
                                  * *

Dopo le cure che si ebbe ad Ozano nella villa del prof. Gandino, e a
Firenze in casa del dott. Billi, il Carducci si era alquanto riavuto
del disturbo che lo colpì il 25 settembre 1899; e si disponeva a
tornare a Bologna a riprendere la sua vita e le sue occupazioni
ordinarie. Pareva ristabilito sufficientemente in salute: ma se la
malattia si era arrestata, le tracce e i germi di essa rimanevano nel
corpo dell’uomo. La macchina era forte; ma i guasti interni, prodotti
in essa dal primo colpo, non si potevano interamente eliminare:
bisognava contentarsi che non si allargassero.

Il Carducci tornò a Bologna, ma non era più lui; si sentiva come
dimezzato. Non camminava più franco; parlava con qualche difficoltà;
era tardo a pensare. Ciò che più d’ogni altra cosa lo affliggeva era
quel po’ di paralisi al braccio e alla mano destra, che gl’impediva
di scrivere correntemente. Egli, che pure aveva una bella e ben
formata calligrafia, quando gittava in carta i primi abbozzi delle sue
composizioni, o scriveva lettere agli amici, faceva correre la penna
su la carta con tale rapidità, che senza molta pratica e molta fatica
non si decifrano certi suoi manoscritti. Ora è facile immaginare quanto
gli dolesse e lo turbasse il non avere più pronta e obbediente la mano
a tradurre speditamente su la carta il suo pensiero. Il 20 ottobre,
dandomi sue notizie, mi scriveva, come vedemmo: «Per me andrebbe
benissimo se potessi riacquistare in breve l’uso della mano.» Pur
troppo non potè; per quanto avesse fatto a Firenze, sotto la direzione
della signora Marianna Giarrè-Billi, lunghi esercizi di calligrafia, in
grazia dei quali era riuscito a scrivere qualche cosa, ma con istento e
fatica.

A Bologna sulla fine del febbraio 1901 volle fare un’altra prova:
pregò lo Zanichelli di procurargli alcune penne d’oca, nella speranza
che con esse lo scrivere gli sarebbe stato più facile. Lo Zanichelli
glie le procurò, e il Carducci appena avutele si ritirò nella stanza
attigua alla libreria Zanichelli, sedette alla scrivania, e scrisse con
carattere un po’ stentato, ma chiarissimo, questi versi:

        PENNA D’OCA.

    Voglio scriver presto come
    A’ miei be’ giorni.
    Vola come il pensier, mia buona penna.
    Non ricordare il tardo augel palustre;
    Vola là dove il mio pensier t’accenna,
    O bellissima pennato penna illustre,
    Vola, vola per Dio, che non t’aggiunga
    La tua sorella del lavoro industre.

Purtroppo la prova, per quanto riuscita in apparenza, non ebbe
l’effetto desiderato. Tanto è vero, che il 24 dicembre 1901 il Carducci
mi scriveva: «Questa maledizione di dover dettare, o non potere
scrivere se non lentamente col lapis, mi dispera e toglie energia ed
efficacia alle mie lettere, nelle quali io era consueto versarmi intero
e franco.»

Ad un uomo, la cui attività stava tutta nel pensiero, e la vita nel
bisogno di comunicare altrui il pensiero suo, impedire il libero e
spedito funzionamento degli organi che servono alla trasmissione di
esso pensiero con la parola scritta o parlata, fu una vera crudeltà.

La sua mente, se anche divenuta più tarda a pensare, era rimasta
viva e lucidissima. Onde egli sentiva tanto più acuto il dolore che
alla lucidezza della mente non rispondesse più la facilità della
espressione. Questo fu durante gli anni della infermità il suo massimo
tormento.

Gli stava in mente che avrebbe avuto da dire ancora tante cose alla
gioventù che si affollava nella sua scuola, in quella scuola che
era stata per tanti anni il suo regno; e sapeva che gli scolari
aspettavano, come una grande fortuna, di riudire la sua voce. Il
suo primo ripresentarsi ad essi dovette essere per lui una grande
sodisfazione; ma la sodisfazione non fu senza un po’ d’inquietudine,
poichè non si sentiva padrone sicuro de’ suoi organi vocali. Se quelle
prime lezioni furono una festa pei suoi scolari, per lui furono uno
sforzo, dopo il quale si trovava affaticato e scontento.

Fino dal 1893, dovendo spesso recarsi a Roma per il Consiglio superiore
e per il Senato, il Carducci chiese al Ministero un supplente,
affinchè dalle sue assenze non dovesse venir danno all’insegnamento.
Il Ministero affidò il delicato ed onorevole incarico alla persona
designata dal Carducci stesso, a Severino Ferrari, professore
all’Istituto femminile superiore di Firenze. E il buono e bravo Ferrari
accettò il grave ufficio, correndo tutte le settimane da Firenze a
Bologna, da Bologna a Firenze, per attendere alla cattedra del maestro
e alla sua. Ma dopo che il Carducci fu colpito dal male, si capì
che il doppio ufficio pel Ferrari era troppo gravoso, e lo si nominò
professore ordinario di stilistica all’Università, affinchè potesse
fare le lezioni di lettere italiane alle quali non bastava il Carducci.

Nei due anni dal 1899 al 1901 il Carducci potè fare dodici lezioni
all’anno; nei successivi ne fece dalle quattro alle cinque per anno.
Nelle lezioni dal 1899 al 1903 trattò delle poesie del Leopardi
(l’_Ultimo canto di Saffo_ e l’_Inno ai patriarchi_); dello svolgersi
dell’ode dalla prima età della lirica nazionale fino al Parini;
del Parini principiante; delle Odi di G. Parini; e della genesi
della _Divina Commedia_ nella _Vita nuova_. Oltre queste lezioni
di letteratura italiana, ne fece nel 1898-99 quattro di letteratura
provenzale, leggendo e commentando il poemetto: _L’infanzia di Gesù_.
Le ultime quattro lezioni del 1904 ebbero per argomento la Canzone di
Dante _delle tre donne_; sulla quale scrisse poi il saggio che dedicò
alla figlia dello Zanichelli per le sue nozze.

La cattedra di lettere italiane a Bologna fu disgraziata anche nel
supplente. Nell’ottobre del 1902 il Ferrari ammalò. Dopo alcuni mesi
parve guarito e riprese le lezioni; ma il male ricomparve indi a non
molto con maggior gravità, ed egli dovè di nuovo lasciarle. Il 18
gennaio del 1905 fu messo in una casa di salute, e il 24 dicembre dello
stesso anno morì.

La malattia e la morte del Ferrari furono pel Carducci un dolore
acutissimo, del quale la sua salute dovè naturalmente risentirsi.
Mentre il Ferrari era malato in Bologna, il Carducci volle andarlo a
trovare, benchè dovesse salire ad un secondo piano, il cui accesso non
era molto comodo. Ve lo accompagnò l’avv. Antonio Resta, il quale mi
raccontava che l’impresa di quella ascensione fu abbastanza difficile e
non senza qualche pericolo.

Per comprendere qual dolore fosse pel Carducci la morte del Ferrari,
basta sapere ch’egli lo amava come un figliuolo. Che cosa pensasse
dell’ingegno e della poesia di lui, giudicata appena mediocre dalla
critica prosuntuosa di un facitore di versi mediocri, lo dicono queste
poche righe di lettera: «Severino, caro amico e figlio, i tuoi sonetti
mi hanno più di quattro o sei volte toccato fino alle lacrime. Tu hai
l’anima buona, e profonda l’intuizione della poesia.»

Quando il 31 gennaio 1901 il Ferrari fece una lettura dantesca
in Firenze ad Orsanmichele, il Carducci volle andare a sentirla.
Assistevano a quella lettura anche il Mazzoni e mia figlia. Quando,
finita la lettura, il pubblico si avviava per uscire, fu da qualcuno
notata la presenza del poeta. Un mormorio corse per la sala, gli occhi
di tutti si rivolsero verso di lui, e ad un tratto scoppiò come per
incanto una immensa ovazione. Il Carducci, che non ebbe mai paura dei
fischi e degli oltraggi (come provò nella pazza e feroce dimostrazione
degli studenti di Bologna nel 1891), sentì sempre un bisogno istintivo
di sottrarsi alle acclamazioni e agli applausi. Sconcertato da quella
ovazione, ricorse per aiuto a mia figlia, che gli stava lì presso, la
prese a braccio, e raccomandandosi che lo salvasse, scese con lei le
scale, e con lei si rifugiò nella chiesa d’Orsanmichele. È uno di quei
tratti che dipingono l’uomo; e del Carducci se ne potrebbero raccontare
molti di somiglianti.

                                   *
                                  * *

Nei primi anni della malattia il Carducci tornò più volte in Toscana,
anche per consiglio dei medici. Tra la fine di settembre e l’ottobre
del 1900 fu per circa quindici giorni a Pilarciano presso Vicchio nella
villa dell’amico dott. Luigi Billi: vi tornò per circa venti giorni nel
settembre e ottobre del 1902. Nello stesso anno era stato a Firenze in
casa del Billi nei mesi di marzo e d’aprile.

A Bologna la maggiore operosità del Carducci si raccolse intorno alla
edizione delle sue opere. In quella edizione si trattava non soltanto
di raccogliere, ordinare e correggere gli scritti già pubblicati, ma di
compierne e rifonderne alcuni, e di aggiungerne dei nuovi. L’edizione
si era arrestata nel 1898 al volume decimo: negli anni 1902 e 1903 il
Carducci, come dissi nel cap. X, mandò fuori altri tre volumi, l’XI,
il XII e il XIII; l’ultimo dei quali contenente la prima parte degli
_Studi su Giuseppe Parini_, sotto il titolo _Il Parini minore_. Il
volume XIV, doveva contenere la seconda parte di tali studi, sotto il
titolo _Il Parini maggiore_. La stampa di esso era avviata e condotta
molto innanzi, ma rimase sospesa per alcuni scritti che l’autore non
aveva compiuti a suo modo. Uscirono intanto nel 1905 i volumi XV e XVI,
portanti l’annunzio che entro l’anno stesso uscirebbe anche il XIV, il
quale si attende in questi giorni, postumo.

I due volumi usciti nel 1905 sono fra i più importanti della raccolta.
Il XV comprende gli Studi su Lodovico Ariosto e Torquato Tasso; il XVI,
intitolato _Poesia e Storia_, contiene uno scritto su la Canzone di
Dante «Tre donne intorno al cor mi son venute», la prefazione ai _Rerum
italicarum scriptores_ del Muratori, la prefazione alle _Letture del
risorgimento italiano_, gli scritti per _le tre Canzoni patriotiche del
Leopardi_, e _Degli spiriti e delle forme nella poesia del Leopardi_,
lo studio _Dello svolgimento dell’ode in Italia_ pubblicato, come già
fu detto, nei fascicoli 1º e 16 gennaio 1902 della _Nuova Antologia_,
e la prefazione alla raccoltina di poesie intitolata _Primavera e fiore
della lirica italiana_, pubblicata dal Sansoni nel 1903.

Il primo studio del vol. XV è ora intitolato _La gioventù di Lodovico
Ariosto e la poesia latina in Ferrara_. Nella prima edizione questa
operetta, come il Carducci la chiama, aveva per titolo, _Delle poesie
latine edite ed inedite di L. A._; il qual titolo fu in una ristampa
del 1881 modificato così: _La gioventù di L. A. e le sue poesie
latine_. Accogliendo questa operetta nel volume XV delle _Opere_,
l’autore l’ha _accresciuta di varii capitoli e in tutti corretta, dove
non anche rifusa_. Ciò spiega la modificazione ultima del titolo, e
dà a tutto il lavoro un’aria di novità e di maggior compitezza. Segue
all’operetta lo splendido Saggio su l’_Orlando Furioso_, pubblicato la
prima volta nel 1881 dal Treves come prefazione all’_Orlando Furioso_
illustrato del Doré, e ristampato poi nel volume _La vita italiana nel
Cinquecento_, edito dallo stesso Treves nel 1893. I saggi sul Tasso
che chiudono il volume trattano dei _Poemi minori_, dell’_Aminta_ e
del _Torrismondo_. Il primo e il terzo furono pubblicati nella _Nuova
Antologia_ (fascicolo 1º agosto 1891 e 1º gennaio 1894) e nel volume
III delle Opere minori in versi di Torquato Tasso, a cura di A. Solerti
(Bologna, Zanichelli, 1895); gli altri su l’_Aminta_ vennero in luce
nella _Nuova Antologia_ (fascicoli 1º luglio, 15 agosto e 1º settembre
1894 e 1º gennaio 1895), ed uno di essi, il terzo, anche in fronte al
Teatro di Torquato Tasso, a cura di A. Solerti (Bologna, Zanichelli,
1895); e furono poi ristampati tutti con molte e importanti correzioni
e giunte nel volume II della _Biblioteca critica della letteratura
italiana diretta da Francesco Torraca_ (Firenze, G. C. Sansoni editore,
1896), onde sono stati riprodotti con qualche lieve ritocco.[84]

Lo scritto su la Canzone di Dante, che apre il vol. XVI, è interamente
nuovo, e fu, come è detto, pubblicato nel 1904 per le nozze di Luisa
Zanichelli, con innanzi questa lettera al padre di lei.

«A Cesare Zanichelli: _Extremum hunc, Arethusa, mihi concede laborem_.
Siami lecito, se non è superbo, ridire il voto del pastore virgiliano
nell’ultima egloga, qui su ’l principio di questo che è l’ultimo certo
de’ miei lavori danteschi: ultimo, perchè, in quel poco di vivere che
mi avanza, raccoglierò forse ancora e compiendo ripasserò quei troppi
scritti che nella foga degli anni mi lasciai trasportare a buttar giù,
ma pensarne e ordirne de’ nuovi non è più di stagione. Sono oggimai
quaranta anni, o Cesare, ch’io col discorso delle Rime di Dante posi
il piè fermo nel campo dello scrivere italiano; ed ora stanco ne lo
ritraggo con questo saggio su la più nobile canzone di Dante: da lui
cominciai, con lui finisco. Quanti pensieri, quante speranze, quanti
propositi, quanta parte del nostro piccolo mondo, ci si è incalzata
sotto gli occhi, ora rapita nell’alto dalle idee, ora sommersa nelle
cure in questo non lungo spazio della vita umana che sono quaranta
anni. Speranza e pensiero, e ora dolce proposito di vita, a te la
figliuola primogenita tua: con la quale mi è caro a ricordare che
nacque e crebbe e fiorì in atto la divisata stampa delle così dette
opere mie di letteratura. Crescevano i volumi della stampa, crescevano
gli anni della Luisa: quelli già esuberanti del rigoglio giovanile
accennano ora a posare e declinare; questi di florida maturità si
rallegrano e prosperano. E così duri ella e séguiti fiorendo lunga
stagione in compagnia dell’uomo degno, dottore Francesco Mazzoni, a
cui tu hai commesso la sua gioventù. E a te in lei e da lei sia dato
raccogliere i premi della modesta operosa bene spesa tua vita: dalla
quale io come ebbi molte prove di amicizia così ti voglio lasciare un
segno di gratitudine in queste carte, che dal soggetto almeno tengono
un abito gentile, che te le farà, spero, esser care. — Madesimo su lo
Spluga, 14 agosto 1904. — Giosue Carducci.»

Questa lettera è un modello di prosa limpida e schietta, la quale
attesta che la mente dell’autore, dopo cinque anni ch’egli era stato
còlto dal male, si manteneva lucida e viva, come ne’ tempi migliori,
e piegavasi agile ad esprimere tutte le delicatezze dell’affetto e del
sentimento. Ma è importante anche per altre ragioni; perchè ci fa fede
che il grande scrittore, il quale cominciò l’opera sua letteraria con
Dante, con Dante volle finire; e perchè è una nobile testimonianza
della amicizia che legò lo scrittore all’editore. In tanti anni non
sorse mai l’idea dell’interesse a turbare le loro relazioni; la fiducia
dell’uno nell’altro fu sempre reciproca e piena. Mentre tutti si
accapigliano per il vile denaro, è uno spettacolo consolante questo
di un grande scrittore che alla vigilia di congedarsi dal mondo sente
il bisogno di lasciare un segno di gratitudine al suo editore per le
molte prove di amicizia avute da lui. Se per opera d’altri avvenne poi
qualche cosa di diverso, ciò non tocca il Carducci, la cui anima buona
è tutta nella sua lettera.

Il saggio su la Canzone delle tre donne e tutti gli altri scritti
raccolti con esso nel volume XVI rappresentano nel complesso la parte
maggiore dell’opera letteraria del Carducci nell’ultimo periodo della
sua vita. Il periodo comincia splendidamente con quella mirabile
sintesi della Storia del risorgimento italiano, ch’è la prefazione
alle _Letture_, scritta nel 1895 e pubblicata nel 1896, nella quale
c’è dentro tutta la vita e tutta l’anima del poeta; seguono nel 1898
gli scritti su le poesie del Leopardi, che sono quanto di più luminoso
sia stato scritto ad illustrare la terribilità tragica della vita e
dell’arte del recanatese; succede, nel 1899 e nel 1900, la prefazione
al Muratori, monumento singolare di dottrina, e forse l’occasione più
prossima della malattia che turbò gli ultimi anni di vita dell’autore;
chiudono il periodo gli scritti _su lo svolgimento dell’ode in
Italia_, del 1902, e _su la Canzone di Dante_, del 1904. A questi è
da aggiungere, per ragione di tempo, lo scritto su l’ode di Giuseppe
Parini, _La caduta_, che fu pubblicato nel fascicolo di marzo 1904
della _Nuova Antologia_, e che farà parte del vol. XIV delle Opere.

Il Carducci dice nella lettera allo Zanichelli che raccoglierà forse
ancora nelle _Opere_, ripassandoli e correggendoli, quei troppi scritti
da lui buttati giù nella foga degli anni: ma «pensarne e ordirne di
nuovi, aggiunge, non è più di stagione.» Con i due scritti del 1904
egli sentiva che il tempo della sua produzione letteraria era finito.

Quello della creazione poetica era finito anche prima, nel 1898. Egli
lo aveva sentito e significato con lo stornello che chiude il volumetto
di _Rime e ritmi_; scrivendo il quale il poeta doveva essere, come
dissi, sotto il peso di un triste presentimento. Prima ancora che il
male lo colpisse, una visione interna lo aveva avvertito che la poesia
non sarebbe andata più a lui.

                                   *
                                  * *

Se gli scritti composti nel 1904 mostrano che l’attività mentale
del Carducci resisteva ancora alla infermità del corpo, ciò non vuol
dire che nei cinque anni passati l’infermità fosse stata debellata,
e nemmeno attenuata. Al contrario. L’attività mentale e la volontà
indomabile combattevano una specie di lotta con la infermità. E nella
lotta il lavoro del cervello consumava lentissimamente la resistenza
delle forze fisiche. Il medico, che vigilava attento le condizioni del
malato, dovè accorgersi di ciò, e riuscì a persuaderlo della necessità
di liberarsi da una parte del suo lavoro, da quella che più lo
preoccupava, cioè le lezioni all’Università. Fu un gran dolore per il
Carducci separarsi per sempre dai suoi scolari; ma ne sentì il dovere,
e presentò nel dicembre del 1904 al Ministero la domanda di riposo.
Era Ministro l’onorevole Orlando, il quale con un disegno di legge, che
gli fa onore, propose al Parlamento una pensione annua di Lire 12,000
per il Carducci, quale ricompensa nazionale, come fu data ad Alessandro
Manzoni.

Ferdinando Martini, relatore di quel disegno di legge, lo presentò alla
Camera con queste parole:

«_Onorevoli Colleghi._ — Giosue Carducci, cui gli anni e le illustri
fatiche affralirono il corpo, se non poterono velare la luce del grande
intelletto, abbandona la cattedra, onde per quaranta anni profuse i
tesori della dottrina, educò le menti e le coscienze all’austerità
degli studi e all’altero amore della patria.

»Il Governo del Re propone che si assegni al Carducci una rendita
vitalizia di dodicimila lire e sia così consacrata per opera del
Parlamento la riconoscenza del popolo italiano.

»Non osiamo, onorevoli Colleghi, esortarvi a consentire in quella
proposta, accolta dagli uffici tutti non pure con favore, ma con
plauso: sentiamo che ogni incitamento sarebbe irriverente. La
deliberazione del Parlamento assicuri al gran vecchio tranquilli
riposi, avvalori l’augurio e la speranza di nuove opere belle; e il
glorioso poeta della Italia rigenerata, il forte e fidente vaticinatore
de’ suoi alti destini, il benigno invocatore di più liete sorti alle
umane genti affaticate ascolti nell’omaggio dell’Assemblea Nazionale
la voce ammirata e benedicente delle generazioni lontane. _Ferdinando
Martini._»

Superfluo dire che la Camera approvò.

Una volta tanto il Parlamento e il Ministero avevano saputo fare cosa
degna. Io me ne rallegrai col Carducci; il quale mi rispose: «Chi ce lo
avrebbe detto quando nella nostra gioventù eravamo segno alli scherni
fiorentineschi? Pure io vorrei tornare a que’ giorni. Eravamo molto più
allegri e più confidenti. Io sto così così: ma non posso venire a Roma,
come pure desidererei. Ahimè!»

L’omaggio dell’assemblea nazionale, nel quale il Carducci dovè
sentire, come ben disse il Martini, la voce ammirata e benedicente
delle generazioni lontane, confortò certo il poeta; ma egli sentiva
che si andavano spezzando ad uno ad uno i legami onde era attaccato
alla vita; e naturalmente preferiva agli omaggi, ch’essa gli recava
in questa tarda ora, le battaglie e le tempeste della sua gioventù.
Nonostante i suoi crucci e le sue ire, nessuno amò e apprezzò la vita
più del Carducci; nessuno ebbe di essa un ideale più alto e più umano.
E appunto perchè sentiva la bellezza e la bontà della vita, nessuno
aborrì più di lui dal pensiero della morte.

Quando si seppe all’Università che il Carducci si ritirava
dall’insegnamento, gli studenti vollero con pensiero affettuoso
portargli il loro reverente saluto di commiato. Andarono in commissione
alla casa del poeta, il quale, avvisato, li aspettava nel suo studio,
e li accolse amorevolmente; li trattenne a lungo; mostrò loro a parte
a parte i tesori della sua biblioteca; e quando se ne andarono, li
accompagnò fino alle scale, lasciandoli pieni di ammirazione e di
entusiasmo.

                                   *
                                  * *

Negli anni della malattia il Carducci aveva fatto a Bologna la sua
solita vita. La mattina stava in casa a lavorare, assistito dall’amico
che gli faceva da segretario, dottore Alberto Bacchi Della Lega; andava
tutti i giorni a passare un’ora alla libreria Zanichelli, dove leggeva
i giornali, e vedeva qualche intimo, poi tornava a casa; e dopo il
pranzo, se il tempo lo permetteva, usciva di nuovo a fare due passi,
accompagnato sempre da qualcuno.

L’ultimo di questi anni pieno ancora di operosità fu per il Carducci il
1904. Oltre i lavori per le lezioni e per la edizione delle _Opere_,
dei quali ho parlato, attese a mettere insieme, per consiglio del suo
editore Zanichelli, una larga scelta delle sue _Prose_ in un volume, da
fare riscontro al volume delle _Poesie_, e la pubblicò con questa breve
prefazione.

«La buona riuscita della stampa di tutte le mie poesie in solo un
volume incuorò all’editore il pensiero di tentare la medesima prova con
gli scritti miei di prosa: sol che questi e per la quantità e per la
qualità non si prestavano a esser raccolti tutti in un volume agevole;
e bisognò per amore o per forza venire a una scelta. Nel qual bisogno
l’animo mio fu di scegliere quelli soltanto che potessero significare
qualche cosa nella storia letteraria o politica, mentre più benigno e
più largo procedeva il criterio dell’editore. Nella scelta definitiva
mi giovò molto il parere e il giudizio del mio amico Alberto Dallolio,
il quale anche, bontà sua, si incaricò di condurre in porto tutta
l’edizione. E questa, per la esattezza e la diligenza arguta di cui
il già Sindaco di Bologna volle dar prova pure in siffatta materia
inferiore della letteratura, è riuscita accuratissima. Io, mosso
dall’esempio dell’amore che altri metteva nelle cose mie, diedi qualche
ritocco alla lingua e fermai al suo posto la disposizione cronologica
delle prose. Le quali così vengono ad affrontare nella nuova veste la
pazienza del pubblico. — _25 ottobre 1904._»

Il volume delle _Prose_ ebbe non minor fortuna di quello delle
_Poesie_, e giovò insieme con esso a far conoscere più largamente,
al di fuori della cerchia dei puri letterati e degli studiosi,
l’ingegno e l’opera del Carducci. La sua fama crebbe in questi ultimi
anni meravigliosamente, tanto che il nome di lui diventò popolare.
Il giudizio della posterità, che riconosce e consacra gl’immortali,
cominciò per lui mentre egli era ancora vivo.

                                   *
                                  * *

Dopo il 1901 il Carducci nella estate tornò tutti gli anni a Madesimo,
fino al 1905. Ma, mentre negli anni innanzi ci s’era trovato abbastanza
bene, nel 1905 vi ebbe dei disturbi, che lo consigliarono a tornare a
Bologna prima del tempo stabilito. L’11 agosto era ancora a Madesimo, e
mi scrisse di là una lettera, che mi turbò grandemente.

Io gli aveva mandato la mia _Vita del Leopardi_, non pensando affatto
che avesse agio di leggerla, tanto meno di scrivermene. Invece il 12
agosto ricevei una lettera di lui, con la quale mi diceva d’aver letto
il libro in due giorni; e soggiungeva: «La seconda parte la lessi in
una notte insonne, e finii la mesta lettura la mattina di una bella
primavera di maggio;

    E la dolcezza ancor dentro mi suona.

»E voglio tornare a leggerla quando il mio spirito si trovi meglio
disposto. Ora tanto del fisico come del morale sono proprio affranto:
la macchina è forte e potente, ma la malattia ha ripetuto i colpi e
sempre li rinnova. Sarà quel che Dio vuole.

»Auguro a te con tutto il cuore miglior condizione di vita che non sia
la mia. Ripenso con dolcissimo desiderio a te ed alla nostra gioventù.

»Credevo d’incontrare il mio fine sereno e senza contrasti; ma, ahimè!
la fine è e più vuol essere amara per me e quelli che sono parte
migliore di me. Ricordami ai tuoi figli e a tua moglie con moltissimo
affetto, e tu ancora ricordati del tuo povero ma fedele amico. Dire
che nulla mi manca, che gli amici e i buoni han cercato di circondare
d’ogni cura la mia vecchiezza. Ma mi sento mancare il meglio. Ahimè!»

Questa lettera mi parve come l’ultimo addio dell’amico.

                                   *
                                  * *

Tornato a Bologna, e rimessosi alquanto dei disturbi avuti a Madesimo,
si ricordò d’un suo lavoro che rimaneva ancora incompiuto, il volume
della _Antica lirica italiana_, cominciato già da parecchi anni per
la Ditta Sansoni. Turbato da questo ricordo, scrisse a Guido Mazzoni
pregandolo di aiutarlo a finire quel lavoro, e di andare a Bologna per
prendere accordi sul modo. Il Mazzoni, che villeggiava a Bardalone
nell’Appennino pistoiese, avuta la lettera del Carducci, ch’egli
dice straziante, andò il 9 settembre a Bologna; e andarono con lui
mia figlia Nella e mio figlio Piero, i quali desideravano rivedere e
salutare l’amico nostro, che da qualche anno non vedevano più.

Il Carducci, il quale voleva un gran bene a tutti i miei figliuoli,
particolarmente alla Nella, fu molto contento di rivedere lei e Piero,
e fece loro grandissima festa. Poi parlò col Mazzoni del lavoro pel
quale lo aveva chiamato, e del quale gli aveva già parlato e scritto
altre volte. Il Mazzoni, sapendo di che cosa trattavasi, non durò gran
fatica a indovinare i pensieri e i desiderii del Carducci, anche a
traverso le sue smozzicate parole. In breve si intesero; e il Mazzoni,
tornato a Firenze, riprese il lavoro rimasto interrotto, lo compì,
scrisse una breve prefazione in nome del Carducci, che la approvò nelle
bozze e la firmò come sua; e così il volume potè uscir fuori in tempo
che il maestro lo vedesse, e potesse consolarsi di averlo, almeno a
quel modo, compiuto. L’_Antica lirica italiana_ (_Canzonette, canzoni,
sonetti dei secoli XIII-XV_) è un volume di 490 pagine in 8º a doppia
colonna; Firenze, G. C. Sansoni, 1907.

Quando il Mazzoni e i miei figliuoli congedatisi, dopo una non breve
e commovente visita, erano già sulle mosse per andarsene, il Carducci,
sentendo che il Mazzoni doveva recarsi a Trieste per alcune conferenze,
li richiamò indietro per far vedere loro la medaglia che i Triestini
coniarono per lui, e si commosse grandemente ai dolci ricordi che
il nome di Trieste gli suscitava. E il Mazzoni, andato a Trieste
nell’ottobre, commosse a sua volta i Triestini, portando loro il saluto
dell’infermo poeta.

Mio figlio mi scrisse poi da Bardatone, informandomi delle condizioni
di salute del Carducci, le quali rimanevano sempre gravi e penose. Non
camminava più se non sorretto: il parlare gli si era fatto sempre più
difficile, e s’inquietava quando non gli riusciva di esprimersi.

Passati alcuni giorni, il Carducci andò per qualche tempo in campagna
a Lizzano, nella villa del conte Pasolini Zanelli; ed ivi parve
che migliorasse. Dico parve, perchè nel fatto il male era andato
lentissimamente proseguendo nella trista opera sua. Rientrò nel
novembre a Bologna.

Si era intanto sparsa nei giornali la novella che intorno a lui si
stava organizzando, d’intesa col Cardinale Svampa, una congiura di
clericali e clericaleggianti, per preparare il poeta di Satana a
rientrare nell’ora suprema in grembo alla chiesa. La novella arrivò
fino a lui. Ne fu seccato, indignato: e il 30 novembre mandò al
giornale _Il Secolo_ questo telegramma: «Agli scrittori del _Secolo_.
Nè preci di cardinali, nè comizi di popolo. Io sono qual fui nel 1867;
e tale aspetto immutato e imperturbato la grande ora. Salute. Giosue
Carducci.» Io non so se nella novella ci fosse niente di vero: se
c’era, bastò questa dichiarazione del poeta a sfatare la congiura.

Oramai il Carducci non usciva più di casa se non in carrozza,
accompagnato dal cameriere, che aveva cura della sua persona e non
lo abbandonava mai. Si faceva accompagnare quasi ogni giorno fino
alla libreria Zanichelli, ma non scendeva di carrozza. Si tratteneva
alcuni istanti dinanzi alla libreria prendendo il caffè, mentre Cesare
Zanichelli stava allo sportello, o si sedeva nella carrozza accanto a
lui. Nel maggio del 1906 andò in campagna a Barbianello, una collina
a pochi passi dalla città, poi tornò a Lizzano, e nell’ottobre a
Bologna. Il 9 settembre ebbi queste notizie di lui da Ugo Brilli. «Che
le debbo dire del Carducci? La sua presente infelicità mi par grande
quanto la sua gloria. Non parla quasi affatto più; non può tracciar
più nè meno quella specie di ghirigoro che era la sua firma ultima.
Lo depongono di peso dal letto su la poltrona, e su la poltrona lo
trasportano a braccio — in due uomini — da luogo a luogo. Di su la
poltrona lo mettono ne la carrozza: non può andare che di passo, e
poichè camminando scivola un po’ in giù di sul sedile, bisogna la
carrozza si fermi, scenda il servitore di cassetta, abbassi il mantice,
e di dietro tiri su — di qua e di là per le ascelle — per appoggiarlo
allo schienale, il povero paziente. Al quale pare si rattrappiscano e
rendano a poco a poco inerti anche le dita.

»In viso è un po’ scarno, ma gli occhi pieni di vita, di anima, di
risolutezza. È nervoso! villeggia a Barbianello..... In un quartiere
accanto al suo villeggia il dott. Boschi, suo medico curante. Mi diceva
il Boschi che venerdì passato gittò in terra non so che piatti, e che
ci bisognò la pazienza e autorità sua per abbonirlo.....

»Sono qui da dieci giorni, e l’ho veduto due volte. Potrei andar
sempre, ma uno ci si trova un po’ confuso. Non è quasi possibile
discorrergli, poichè soffre di non poter rispondere.»

Dopo il ritorno a Bologna nell’ottobre, il Carducci cessò di andare
alla libreria Zanichelli. La sua vita oramai era finita. Quel po’ che
glie ne restava era uno strazio supremo, contro il quale egli talora
si ribellava, dando in escandescenze, come quella che fu calmata a
Barbianello dal dott. Boschi.

                                   *
                                  * *

Pare un’ironia del destino che fossero serbate al grande uomo le
maggiori sodisfazioni, quando egli non era oramai altro che l’ombra di
sè stesso.

L’Accademia di Svezia, nel conferimento dei premi Nobel per l’anno
1906, assegnò quello della letteratura al Carducci. Il 10 dicembre
ebbe luogo a Stocolma la solenne cerimonia per la consegna dei premi;
alla quale il Carducci non potè per le condizioni della sua salute
intervenire. Il premio di lui avrebbe dovuto, secondo le regole di
prammatica, esser consegnato al rappresentante diplomatico dell’Italia;
ma il Re Oscar, per attestare l’ammirazione sua e della Svezia verso
il poeta della Nazione italiana, volle, con gentile e nobilissimo
pensiero, incaricare il rappresentante del suo paese in Italia, Barone
De Bildt, di recarsi a Bologna a consegnare al Carducci stesso il
premio da lui vinto. Così nel giorno medesimo in cui si distribuivano a
Stocolma nella grande sala dell’Accademia reale di musica i premi Nobel
ai vincitori, una più modesta ma non meno interessante e significativa
cerimonia, aveva luogo a Bologna nell’umile e glorioso studio del
Carducci, dove il Barone De Bildt consegnava al poeta il suo premio.

Alla cerimonia di Stocolma assistevano il Re Oscar, i principi e le
principesse reali con il loro seguito, il corpo diplomatico, i ministri
svedesi, la famiglia Nobel, i rappresentanti delle Università e degli
Istituti superiori della Svezia.

Alla cerimonia di Bologna assistevano la moglie del poeta, le figlie, i
generi, i nipoti e il fratello di lui, il Prefetto, il Pro-Sindaco, il
Rettore della Università, l’on. Malvezzi, e pochi amici.

Re Oscar aveva mandato al Barone De Bildt questo telegramma:
«Vogliate significare a Giosue Carducci le mie più fervide e sincere
congratulazioni in occasione del premio che egli ha così ben meritato.»

L’elogio del Carducci fu letto nella cerimonia di Stocolma dal
Segretario perpetuo dell’Accademia svedese, dottore Af Vocsen, il quale
esaltò il contenuto ideale della poesia carducciana. Nella cerimonia
bolognese il Barone De Bildt lesse in italiano un discorso nobile ed
alto, che fu ascoltato dal poeta con grande attenzione.

Dopo avere accennato alla cerimonia di Stocolma e all’incarico da
lui avuto, disse: «Nell’eseguire questa a me ben grata missione, non
intendo tessere nessun panegirico, ben sapendo che la modestissima
mia voce nulla può aggiungere alla vostra gloria, e che presso di
voi «i pappagalli lusingatori» non sono stati mai i benvenuti. Vengo
semplicemente a dirvi perchè vi abbiamo prescelto e perchè crediamo e
sappiamo anco in questo nostro giudizio consenzienti quanti nel mondo
civile onorano l’arte e l’ingegno.

»Il testamento di Nobel prescrive che il premio di letteratura debba
essere conferito a quello fra gli scrittori moderni che abbia compiuto
l’opera la più grande e la più bella in senso idealistico, e tutta
l’opera vostra, illustre maestro, è improntata al culto dei più alti
ideali che sono sulla terra, gli ideali della patria, della libertà e
della giustizia. È l’amor di patria che vi ha ispirato fin dalla vostra
prima giovinezza; della patria, come l’ha fatta ricca di bellezze la
natura; della patria, come la sognarono e la fecero i forti antenati;
della patria, come la conquistarono e la riedificarono i vostri
contemporanei con le loro battaglie e vittorie, le loro sofferenze
e le lotte, i loro martiri e trionfi. È sempre la patria che domina
il vostro pensiero, sia che cantiate le gesta gloriose dei suoi eroi
delle antiche repubbliche, sia che vi passi davanti agli occhi il dolce
sorriso della prima regina d’Italia.

»E quando la patria è l’Italia, non va disgiunto dall’amor di patria
l’amor di libertà. Freme nelle vostre Odi, riempie, portato dai virili
accenti della vostra lira, il cuore d’un popolo, passa i monti ed i
mari, sorge alla vostra invocazione come genio potente all’invito del
mago, ed aleggia sopra il mondo battagliero ed invitto. Questa è opera
vostra, della vostra anima così romanamente forte, così italianamente
gentile.»

Il discorso segue con un accenno agl’ideali di giustizia e di
religione, e conclude dicendo:

«La severità morale delle vostre liriche, la candida purezza nella
quale sorge il vostro canto verso le alte cime, tutta l’austera
semplicità della vostra vita sono pregi elevatissimi, davanti ai quali
c’inchiniamo tutti, a qualunque religione e partito noi apparteniamo,
sono doni di Dio che, sotto qualunque forma apparisce, è sempre
lo stesso, e da cui imploriamo che continui a scendere sul vostro
venerando capo la santa benedizione che si chiama amore.»

Alla fine del discorso il Carducci parve che volesse rispondere; ma
vinto dalla commozione non potè che ripetere: «Grazie, grazie», mentre
stringeva lungamente le mani del Barone De Bildt.

                                   *
                                  * *

Due mesi e sei giorni dopo, la mattina del 16 febbraio, il sole si
levava pallido e caliginoso sopra la città di Bologna; illuminava
di un bianco acciecante la neve che come lenzuolo funereo avvolgeva
tutto intorno la casa del poeta; penetrava con un timido raggio per
le imposte socchiuse nella stanza ove egli giaceva; ma il poeta, che
tanto amò ed esaltò il sole, che forse sperava di salutarlo ancora
una e più volte, non vedeva quel raggio. Intanto i giornali volavano
recando per le contrade d’Italia le dolorosa novella: _Giosue Carducci
è morto_;[85] e dai petti degl’Italiani si levava un gemito sordo,
affannoso; e un’ombra di lutto si distendeva sopra tutta la penisola,
ne valicava i confini.

Il lutto non era lutto di una nazione, era lutto di tutto il mondo
civile.

Dopo la morte del gran Re, dopo quella di Garibaldi, dopo la morte del
Re buono, nessun’altra sciagura nazionale toccò così profondamente il
cuore dell’Italia.

La prima impressione fu di stupore; non pareva possibile che
quell’uomo, benchè non più giovine, benchè da alcuni anni malato,
dovesse morire. Poi sorse in tutti un imperioso bisogno di far sapere
al mondo quanto ciascuno aveva amato e ammirato quel nobile capo.
Si ebbe paura di dir poco, si ebbe paura che gli altri dicessero di
più; e per non rimanere indietro, si abbandonò il freno alle parole.
Può essere che qualcuno non serbasse la misura e la compostezza
consigliate e raccomandate dalla solennità del caso e dalla grandezza
e semplicità dell’uomo che si voleva onorare; ma le piccole vanità,
le piccole preziosità, le piccole teatralità andarono perdute in quel
grande scoppio di sentimento forte e sincero, che fu il dolore del
popolo italiano. Nella imponente dimostrazione di quel dolore quelle
piccolezze rimasero senza significato, quasi inavvertite. Chi andò
cercando la retorica in alcuni dei discorsi che dilagarono su pei
giornali, fece cosa perfettamente inutile; e fece, senza saperlo, un
po’ di retorica anche lui. C’è della buona e brava gente, che senza
retorica non sa esprimere i suoi sentimenti benchè sinceri.

L’Italia ufficiale volle fare largamente il dover suo. Ci fu una
specie di gara fra il Governo e il Parlamento. Il Presidente del
Consiglio propose alla Camera l’erezione di un monumento al Carducci
in Roma; l’onorevole Rosadi ed altri deputati proposero la tumulazione
dei resti mortali del poeta in Santa Croce. Le proposte furono non
solo approvate, acclamate. Ci fu dopo il discorso del Presidente
del Consiglio un momento di commozione generale, che fece dire a un
giornale: «qualcosa della grande anima del poeta sembra aleggiare
per l’aula, dalla quale esula così spesso ogni nobile sentimento
d’italianità e d’arte.»

Tenuto conto di quella commozione e dei nobile spettacolo che diede
di sè l’assemblea, le deliberazioni di essa furono degne di lode. Ma,
detto ciò, è lecito ricordare al Governo e al Parlamento che in Santa
Croce c’è un altro grande poeta, che aspetta da più di trentacinque
anni la sua tomba. Quel poeta si chiama Ugo Foscolo. Al Carducci però
fu risparmiato l’onore, e la mortificazione, di essergli vicino. La
famiglia di lui e i Bolognesi hanno voluto ch’egli resti a Bologna.

Quanto al monumento in Roma, si può osservare che altri pure degni non
lo hanno, e lo hanno altri men degni. Ma per il Carducci c’è questa
circostanza speciale: nessuno ha amato e glorificato la nuova Roma
quanto lui. Resta che, passati gli entusiasmi, il monumento non vada in
dimenticanza, come la tomba del Foscolo.

                                   *
                                  * *

I funerali furono fatti il 19 febbraio; solenni, imponenti. Tutta
l’Italia vi era presente, l’Italia ufficiale, ed il popolo: e dal
popolo venne la solennità, l’imponenza. Anche questo fu degno: non
furono fatti discorsi.

Del corteo funebre Guido Mazzoni scrisse così:

«Non è stato un corteo funebre; è stato il passare per tutta Bologna di
un carro trionfale. Passava lento tra due schiere di popolo; piovevano
dalle finestre ramoscelli d’alloro e fiori; il sole accompagnava
luminoso quel procedere di stendardi, di bandiere, di corone. E dicono
che battendo nella lastra di vetro che nell’alto della cassa lasciava
mirare il volto del Poeta, dicono che talora lo facesse raggiare.

»Perchè tanto? perchè tutto il popolo ha seguito col saluto reverente,
con le lacrime, col mormorio represso dell’acclamazione, sino alla
Certosa, il Poeta?

»Perchè ha sentito in lui il più alto interprete della Patria.

»Difficili sono le poesie del Carducci a intenderle tutte e davvero: ma
al popolo basta, più che la profonda intelligenza degli accenni storici
e delle frasi belle, il sentimento vivo che balza fuori dall’arte.

»E tutta l’arte del Carducci grida: — Italia, Italia, Italia! — Lo
grida in faccia agli stranieri, lo grida in faccia a noi, lo grida ai
posteri nel nome di tutte le glorie del passato, da Dante a Garibaldi.

»Così le onoranze officiali sono state soverchiate dall’irrompente
onda dell’ammirazione, o piuttosto dell’amore, del popolo bolognese e
romagnolo ed emiliano accorso a fare omaggio al suo, al nostro Poeta.

»Grande è stata in tutti, anche per ciò, la commozione. I gonfaloni,
le bandiere, le corone, le autorità, tutto è stato oltrepassato dal
consenso popolare alle onoranze decretate dal Parlamento in nome della
nazione.

»Ma più commovente ancora è stato, là nella quieta Certosa, il muto
dolore dei più stretti amici e dei parenti. Stendeva la neve un candido
manto tutt’intorno; e gli ultimi raggi del sole l’andavano vivificando
di tocchi d’oro. Poi imbruniva. Un gran raccoglimento era in noi e
intorno a noi.

»Egli aveva cantato quel Cimitero. E aveva espresso il desiderio dei
morti quivi composti in pace, con versi immortali:

    — Freddo è quaggiù: siamo soli. Oh amatevi al sole! Risplenda
    Su la vita che passa l’eternità d’amore. —

»Il suo voto vibrava più acuto negli animi nostri, là, dove stavamo
per lasciare le membra sue; ma non temevamo per lui il freddo della
tomba nè la solitudine. Troppi cuori egli ha scaldato della sua
fiamma, perchè non gli giunga ora e sempre l’amor loro: troppi animi ha
esaltati perchè non gli giunga ora e sempre il loro reverente consenso.

»L’eternità d’amore risplenderà su lui finchè la sua poesia sarà
sentita, ammirata, amata; e sarà, finchè la lingua di Dante duri
strumento di tutto quanto il pensiero e di tutto quanto il sentimento
del popolo nostro, dalle Alpi alla Sicilia.»




NOTE.


NOTE AL PROEMIO E AL CAPITOLO I.

(_Pag. 3._)

Riferisco il frammento della lettera del Carducci da Pian Castagnaio,
che si riferisce alla nomina della Commissione per il colèra.

  Per quello che spetta ai nostri studi, de’ quali tu mi scrivi
  parole gentili, da due settimane gli ho abbandonati; occupato come
  sono nell’assistere ai malati di colera che abondano pur in questo
  paese. In mancanza di persone che assistessero, poichè tutti o per
  poco animo o per inettitudine si ricusarono, io, mio fratello e due
  giovani senesi prestammo volontaria l’opera nostra ne’ primi casi.
  Dietro la qual cosa il Municipio ha creduto bene di fare di noi e
  di tre altri una Commissione gratuita di assistenza, incaricando me
  della direzione e della compilazione di un regolamento sanitario
  per altre Commissioni di vigilanza su’ commestibili, nettezza
  esterna, soccorso agl’indigenti, disinfettazione e inumazione
  ec. E io, come è dovere di buon cittadino, misi da una parte la
  vita meditativa per la attiva, la quale, come c’insegna il nostro
  gran Leopardi, è più degna e più naturale all’uomo che non sia
  l’altra. E così farò in ogni circostanza in che il bisogno pubblico
  lo richieda, avendo io dato studio alla vita meditativa appunto
  perchè l’attiva ci era vietata dalle condizioni del paese nostro
  infelicissimo.

(_Pag. 7._)

Riferisco l’atto di nascita del Carducci, già pubblicato da Giuseppe
Picciola nelle note al suo Discorso: _Giosue Carducci_ ec.; Bologna,
Zanichelli, 1901.

  Certificasi dall’infrascritto Segretario Capo della Sezione
  Ministeriale dello Stato Civile e Statistica generale, come dal
  registro delli Atti di Nascita avvenuto (sic) nella Comunità di
  Pietrasanta nell’anno 1835, e che si conserva nella citata Sezione,
  apparisce sotto il n. 144 il seguente atto:

  «Giosue, Alessandro, Giuseppe Carducci, figlio di Michele e di
  Ildegonda Celli, l’uno Medico, l’altra Possidente, dimoranti nel
  popolo di Val di Castello nella Comunità di Pietrasanta, nacque nel
  dì ventisette Luglio Milleottocentotrentacinque, alle ore undici
  di sera, e fu battezzato nel dì 29 detto nella Chiesa del nominato
  popolo. — Compare: Natale Carducci.»

  Ed in fede

  Dalla Sezione Ministeriale dello Stato Civile e della Statistica
  generale, li 24 maggio 1853.

                                 _Il Segretario Capo della Sezione_
                                        ATTILIO ZUCCAGNI ORLANDINI.

(_Pag. 15._)

Nell’Archivio segreto del Buon Governo, filza 5, dal n. 615 al 740-1849
— Delegazione di S. Spirito — Affari informativi — Archivio di Stato
di Firenze — trovasi una Lettera del Delegato Palazzeschi al Delegato
di S. Spirito in data 29 agosto 1849, con la quale si richiedono
informazioni sulla condotta del giovane Giosue Carducci che abita
in Via Romana, N. 1843, il quale ha fatto domanda per l’ammissione
al Liceo militare Arciduca Ferdinando. Il Delegato di S. Spirito
avverte il supplicante di provvedersi del certificato medico di sana
costituzione e di presentarsi all’esame di ammissione che avrà luogo
il 15 settembre 1849 sulle seguenti materie: Letteratura italiana,
Aritmetica ragionata e Geometria piana.

(_Pag. 18._)

Ecco i certificati degli studi del Carducci alle Scuole Pie, già
pubblicati dal Picciola nelle note al suo Discorso sopra citato:

                                           Firenze, 20 maggio 1853.

  Per me sottoscritto, maestro di Rettorica nel Collegio delle Scuole
  Pie di questa città, certificasi che il giovane Giosue Carducci,
  figlio di Michele, negli anni scolastici 1850-51, frequentò le mie
  lezioni con molto impegno, studio e profitto singolarissimo, e,
  dotato di bell’ingegno e ricchissima immaginazione, e colto per
  molte ed eccellenti cognizioni, si distinse primo tra i migliori
  e compì con tutta lode il suo corso di Belle Lettere: buono
  poi per indole, si condusse sempre da giovine cristianamente e
  civilmente educato. Tanto per la verità; della quale in fede gli
  rilascio la presente testimonianza, la quale desidero sia di utile
  raccomandazione a questo buono e bravo Giovine, che fin d’ora ha
  fatto concepire di sè le migliori speranze.

                                                 GEREMIA BARSOTTINI
                                         _delle Scuole Pie M.º P.ª_

  Confermo quanto sopra, e certifico inoltre come d.º giovine passò
  in seguito a studiare in d.º Collegio Filosofia, Geometria e Fisica
  e ne compì il corso con lode e profitto notabilissimo e si condusse
  in modo irreprensibile. In fede

                                                     PAOLO SFORZINI
                                         _Pref.º delle Scuole Pie._

      _Visto_ COSTANTINO PAOLI
      _Rettore delle Scuole Pie._

                         SCUOLE PIE FIORENTINE.

  Noi infrascritti, avendo trovato in regola gli attestati
  trimestrali rilasciati al giovine Giosue del D.r Michele Carducci
  di Pietra Santa, dai quali risulta che, durante l’anno accademico
  1851-52, è intervenuto alle lezioni di Filosofia Razionale e Morale
  in questo Collegio di S. Giovanni Evangelista delle Scuole Pie, e
  nella sua condotta si è diportato in modo irreprensibile;

  ed avendo assistito all’esame che il medesimo subì nel dì 23 agosto
  1852 sopra le materie studiate, e nel quale venne approvato a pieni
  voti e pluralità di plauso;

  rilasciamo al prefato giovine la presente attestazione di nostra
  mano firmata.

      Firenze, questo dì 24 agosto 1852.

               _V.º Il Rettore del Collegio, Presidente dell’Esame_
                                                  COSTANTINO PAOLI.

      EUGENIO BARSANTI } _Lettori di Scienze nel Collegio
      FILIPPO CECCHI   } delle Scuole Pie Fiorentine, ed
      CELESTINO ZINI   } esaminatori deputati._

                          _Il Prefetto delle Scuole Pie Fiorentine_
                                                    PAOLO SFORZINI.

(_Pag. 30._)

Riferendo qui appresso l’intero _programma_ dell’Accademia degli
Scolopii del 1854, alla quale il Carducci, che allora era a Celle,
mandò a leggere la sua canzone su Dante, non sarà senza qualche
interesse dire due parole di un’altra simile Accademia tenuta il 16
marzo 1860, alla quale assistè Niccolò Tommaseo, che ne scrisse nel
giornale torinese l’_Istitutore_ in modo onorevole per gli Scolopii.
«Che il culto accresciuto alle lettere italiane, scrisse il Tommaseo,
non ispenga in queste Scuole l’amore alle latine, n’è prova l’Accademia
recitata sere fa; della quale i componimenti, riveduti certamente dal
maestro, si fa credibile essere degli allievi, e dalla riuscita felice
d’altri alunni, e dal modo stesso ch’egli erano detti, con intelligenza
e franchezza, semplicità e sentimento.»

I componimenti letti in questa Accademia del 1860 furono diciotto, e
tutti su Dante, tre dei quali in versi latini. Uno dei lettori è oggi
decoro delle nostre lettere ed ornamento della Università di Roma,
Giacomo Barzellotti: lesse una prosa che aveva per argomento la Divina
Commedia paragonata coll’Eneide, e una elegia latina _In morte di
Dante_, della quale il Tommaseo riportò nel suo scritto sei distici,
facendovi intorno osservazioni che tornavano a lode del giovane autore.
«Non dico, scriveva il Tommaseo, che uno scrittore maturo non possa
più condensare il pensiero e l’affetto; dico che questi versi hanno
andatura latina non solamente in ciascuna locuzione da sè, ma nel loro
congegno, e nell’armonia, e nella vita che anima il tutto; e questo è
pregio anco ne’ provetti ormai raro.» Degli altri componimenti diceva:
«Tutti versavano intorno a Dante; e altri ve n’era, felici. E la scelta
dell’argomento dice lo spirito di queste Scuole, ma il modo come i temi
son trattati dice altresì la prudente saviezza che le governa.»

In fine dello scritto, lodando il marchese Ridolfi, allora ministro
della istruzione, di avere restituiti alle Scuole Pie _quei diritti
che avevano di pari con le altre per la promozione degli allievi agli
studi superiori_, diritti che erano stati tolti loro dal ministro del
Granduca, Leonida Landucci, dolevasi di non potere in tutto esaltare
quel che il Ridolfi fece, «o piuttosto, dice egli, lasciò fare durante
il suo ministero.» — «Non posso, aggiungeva, non mi dolere per la
Toscana e per lui, che alla legge degli studi, meditata da Raffaello
Lambruschini e da’ suoi colleghi valenti, si sostituisse una cosa che
certo non darà legge, e perdessesi questa con tante altre opportunità
di porgere al resto d’Italia un nobile esempio.» La cosa sostituita
fu la legge toscana 10 marzo 1860, infelicemente copiata dalla legge
Casati; la quale tanto ha dato legge, che dopo più di quaranta anni
dura ancora quasi soltanto in ciò che ha di peggio.

Ecco il _programma_ dell’Accademia del 1854:

                                   I.

_Il Medio Evo._ — Prosa preliminare del P. Geremia Barsottini D. S. P.,
Presidente dell’Accademia.

                                  II.

La Roma antica era caduta. La società aveva bisogno di un urto
violento che la scotesse dal suo letargo mortale; aveva bisogno di
nuovi elementi che rendessero la vita alle membra di lei quasi morte.
I popoli del settentrione nella loro giovenile e selvaggia vigoria
compiono il decreto della Provvidenza. L’Italia invasa dai Barbari è un
caos di principii vitali, il quale non aspetta che una voce potente ad
ordinarsi in creazione bellissima.

_I Barbari in Italia._ — Ottave — del Sig. Leopoldo Bruscoli,
Accademico Risoluto.

                                  III.

Ultimo esempio della dignità romana, ultimo amico di Roma e delle
glorie antiche, nuova ed ultima manifestazione dell’idea latina
ritemprata nel principio cristiano, ci si mostra.

_Boezio nella sua carcere._ — Sciolti — del Sig. Pietro Dazzi,
Accademico Risoluto.

                                  IV.

Nelle prime barbariche irruzioni i Papi, che altro non potevano,
frenano gli oppressori ponendo loro innanzi la Croce, consolano gli
oppressi con la dottrina del Dio della mansuetudine e dei dolori.

_San Gregorio Magno._ — Prosa — del Sig. Paolo Tincolini, Accademico
Risoluto.

                                   V.

A difesa dell’Occidente minacciato dal fanatismo di Maometto, Carlo
Magno rinnuova l’Impero romano: s’accorge che la sede dell’Impero
dev’essere Roma, a lato della cattedra di Pietro; la forza con la
sapienza, la spada col pastorale. A ciò caccia i Longobardi, così mette
fine ai dominii barbarici in Italia.

_Carlo Magno._ — Prosa — del Sig. Guido Siccoli, Accademico Risoluto.

                               VI e VII.

Il Feudalismo creato da Carlo Magno produce pur qualche bene. Stringe
il vincolo di famiglia tanto poco curato dagli antichi, e ravvicina il
signore allo schiavo mutato in servo della gleba.

_I Castelli del Medio Evo._ — Ottave — del Sig. Raffaello Agostini,
Accademico Fecondo.

_I Servi della gleba._ — Canto popolare — del Sig. Alessandro Papini,
Accademico Fecondo.

                                 VIII.

Il Feudalismo sempre più ravvicina i Grandi alla Plebe: la Religione di
Cristo stabilisce e mette in azione l’eguaglianza avanti a Dio.

_Il Tabernacolo del Castello._ — Ballata — del Sig. Guido Blanc,
Accademico Risoluto.

                                  IX.

Eroe della religione, difensore degli oppressi, primo infrenatore dei
corrotti e de’ superbi, apostolo potentissimo della legge di Cristo, la
più gran mente del Medio Evo, ci apparisce.

_San Gregorio VII._ — Prosa — del Sig. Giorgio Mariotti, Segretario
dell’Accademia.

                                   X.

Il principio popolare santificato dallo spirito del Vangelo è svolto
e favorito dall’umile famiglia di Cristo, dai Monaci. Gli antichi non
avevano borghesia, non popolo; aveano cittadini ozianti o militanti
e plebe di servi faticante pe’ grandi. I Monaci stringono le società
dell’agricoltura e del commercio e convocano le genti intorno alle
chiese.

_San Benedetto._ — Prosa — del Sig. Giovanni Panattoni, Accademico
Risoluto.

                                  XI.

Dal principio aristocratico modificato col principio cristiano si
forma la Cavalleria, difesa degli oppressi, religione dell’eroismo
e dell’amore. E già l’amore non è più una voluttà, ma un affetto
santificato nel rispetto alla donna.

_La Cavalleria._ — Polimetro — del Sig. Guido Puccioni, Accademico
Risoluto.

                                  XII.

Il principio religioso si fa ogni giorno più forte. La tomba di Cristo
è il sospiro di tutti i fedeli: del vecchio, che vuole su quella
santificare la morte; del giovane, che vuole inaugurarvi la vita; del
giusto, che va a cercarvi ispirazion di costanza; del peccatore, che
vuol trovarvi e conforto e perdono.

_Il Pellegrino._ — Polimetro — del Sig. Ferdinando Montauto, Accademico
Fecondo.

                                 XIII.

Ma la tomba di Cristo è in mano degli infedeli. I pellegrini sono
angariati, e i fratelli europei si levano a vendetta e a sgombrare
Terra Santa dai Musulmani. Le Crociate collegano Europa ed Asia,
diffondendo il commercio e la civiltà.

_Le Crociate._ — Polimetro — del Sig. Michelangelo Pagni, Accademico
Fecondo.

                                  XIV.

Dalla religione e dall’amore, idee riunite nella Cavalleria, nasce
la Poesia trovadorica, che di natura sua è conciliatrice di civiltà e
gentilezza nelle anime inferocite tra le guerre ed il sangue.

_Il Trovadore._ — Cantica — del Sig. Enrico Nencioni, Accademico
Risoluto.

                                  XV.

Mentre i Trovadori diffondono nei loro canti il principio eroico del
Cristianesimo, a diffondere la nuova morale che sarebbe stata compressa
sotto il regno della forza, giova la nuova e ingenua letteratura
nata nel popolo, e manifestatasi nelle tradizioni sacre col nome di
Leggende.

_Maria al castello ospitale._ — Leggenda popolare — del Sig. Damiano
Damiani, Accademico Fecondo.

                                  XVI.

Dei primi Trovadori arditi e destri in armi, fedeli al loro Sire e alla
loro dama, è esempio.

_Ser Blondello che libera di prigionia Riccardo Cuor di Leone._ —
Sirventese — del Sig. Jacopo Mensini, Accademico Fecondo.

                                 XVII.

S’arma un’altra Crociata. La Francia ha bisogno dell’Italia già
fiorente di potenza, e chiede aiuti a Venezia. Arrigo Dandolo, Doge
ottuagenario, segue i Crociati: armato di tutto punto, fra la strage e
gl’incendi, sale primo sulle mura di Bisanzio, e vi pianta la bandiera
di San Marco: acclamato re, ricusa la corona de’ Cesari.

_Arrigo Dandolo._ — Ballata — del Sig. Giuseppe Bambagini, Accademico
Fecondo.

                                 XVIII.

I tempi eroici del Medio Evo sono cessati. In Italia il Feudalismo cede
luogo ai Comuni. Seguono più forti le lotte tra l’Impero e la Chiesa,
fra i Grandi e il Popolo, fra i Ghibellini e i Guelfi. Primo in questa
lotta è

_Federigo Barbarossa._ — Frammento storico — del Sig. Cesare Parrini,
Accademico Risoluto.

                                  XIX.

L’Imperatore, costretto a cedere di fronte alla Religione ed al Popolo,
si volge a pensieri più miti e ferma co’ Lombardi

_La pace di Costanza._ — Terzine — del Sig. Enrico Panattoni,
Accademico Fecondo.

                                  XX.

Mentre il mondo combatte, e l’Italia è inondata di sangue per le
contese tra Popolo e Grandi e per crudeli avarizie, un umile fraticello
va di terra in terra gridando: Amore, amore! Ei non vede e non pensa
che amore. Per lui tutto è amore, da Dio e dalle opere sue più grandi
fino alla colomba dell’aere e al fiore del campo. Per lui tutti gli
esseri sono fratelli. Questo umile fraticello è

_San Francesco d’Assisi._ — Canzone — del Sig. Giovanni Del Corona,
Accademico Risoluto.

                                  XXI.

La civiltà sempre più manifestasi in ogni fenomeno della Storia
italiana. La donna nobilitata dalla Cavalleria, esaltata dai Trovadori,
santificata dalla Religione, divien culto pei popoli d’Italia. I Vespri
siciliani ripetono ancora la terribile parola: Guai a chi insulta

_La dignità della donna._ — Canzone — del Sig. Pirro Pasta, Accademico
Fecondo.

                                 XXII.

I fatti accennati fin qui dimostrano quali elementi di vita accoglie in
sè il Medio Evo. Non manca che una voce che tuoni su questo caos, come
un tempo sul caos antico la voce di Jeova, e crei. Questa possente voce
è la voce di

_Dante._ — Canzone — del Sig. Giosue Carducci, Accademico Risoluto.


NOTE AL CAPITOLO III.

(_Pag. 65, 67, 82._)

Riferisco, in nota a questo capitolo, la Canzone inedita del Padre
Francesco Donati, e gli articoli del giornale _Il Passatempo_ su la
_Diceria_ del Gargani e la _Giunta alla derrata_ degli _Amici pedanti_.

        _A Enrico Pazzi_
    _quando scolpiva il busto di G. Parini._

      Perchè di speme il core
    Rifiorisca e s’accenda al bel desio
    Di gloria, e l’ozio, che le menti ha dome,
    Cessar non dolga, forse alto valore
    T’infonde amico fato, o Pazzi mio?
    Dei grandi, onde vivrà l’italo nome
    Invidïato sempre, irriso mai,
    Le divine sembianze
    Ecco a morte ritoglie
    Tua gentil opra. Arrida il ciel pietoso
    Al laudabil pensier, che in te s’accoglie:
    E surga schiva di corrotte usanze
    E codardo riposo
    E oblique voglie omai la gioventude
    Sè temprando degli avi alla virtude.
      Emula brama spinse
    Da basso loco a glorïosa meta
    L’Ateniese garzon che a Salamina
    Di barbarico sangue il mar dipinse;
    E sovente, cred’io, per la segreta
    Ombra notturna la Maestà latina
    Circa alle sante immagini dei padri
    Biancovestita ai figli
    Di Quirino discese
    Ad infiammar le giovinette menti;
    Onde poi sì robusta ala distese,
    Fatto maggiore da i maggior perigli,
    Fra i marziali cimenti,
    La vittoria seguendo in ogni lido
    L’augel che pose in Campidoglio il nido.
      E mentre a voi non pesa
    Nel dedaleo lavor vita novella,
    Alme sdegnose, disperar non lice
    Di nostra patria anco giacente e offesa
    Da molto sonno ed avvilita ancella:
    Poichè spenta non è la fiamma altrice
    Del valor primo, e la potente Vesta
    Dall’ausonie contrade
    Esular non sostenne
    Quando l’instabil dea sul Palatino
    Rendeva al tergo le fugaci penne.
    Ma voi, d’ira succenso e di pietade
    Il sembiante divino,
    I cor pungete e le menti cadute,
    E da vergogna ne verrà salute.
      Così dal ciel reddia
    Fatta secura la virtù pudica
    Agli stuprati lari ove al tuo verso,
    Al sì lodato verso alta ironia
    Affidasti, o Parini. A te nimica
    Volgea l’improba sorte, ed il perverso
    Secol crudele a laute mense accolto
    A te, pietoso figlio,
    Scarso pane niegava
    Di che sfamar la tua madre dolente!
    Empio! ma te non vide in fra la prava
    Turba l’altero capo e ’l franco ciglio
    Piegar servilemente;
    E privo di rimorsi all’atre porte
    Libero e nudo t’accogliea la morte.
      Ma non senza la doglia,
    Che induce al core la tradita speme;
    Ahi più d’ogni altra fieramente insana:
    Quando alla patria tua presso alla soglia
    Di libertà gli scherni e le catene
    Una gente doppiò superba e vana:
    Qual buon nocchiero in fortunoso mare
    Non s’abbandoni lasso
    A paura e sconforto
    E della sua virtù non si ricreda.
    Campa la rea procella e giugne a porto;
    Così venisti confidente al passo,
    Onde non è chi rieda,
    Certo che ancor, se miseri e prostrati,
    Splendidi foran della patria i fati.
      Ma Italia anco si duole
    E si dorrà, chè non è lieve il danno,
    O santo Petto, della tua partita;
    E a noi di tanta madre oscura prole
    E di povero cor nel grave affanno
    Pur te, pur te, che sì l’onori, addita:
    Lacrimosa si va cercando intorno
    Col guardo inconsolato
    E le marine e il seno;
    Ma la costanza tua, ma la tua fede
    E la bella innocenza e il desir pieno
    Di libertà, di gloria, indegno fato!
    La misera non vede:
    Non vede quell’amor che d’ira imprenta,
    Nè cor che all’ira ed all’amor consenta.
      Omai la sacra pianta
    Di virtù più non cresce, e fatta inerte
    Nel terren più ferace e sotto il cielo,
    Che di superbo sole i giorni ammanta,
    E fra le mani a tanto culto esperte
    Fiori e frutti non mena; orrido gelo
    L’umor vitale ne imprigiona e lega.
    Chè a guadagno servile
    E core, e mente, ed opre
    Volge la gente, sì che in altra parte
    Intendimento alcun non si discopre.
    Cieco desio fa legge, e tiensi a vile
    Il sacro ingegno e l’arte:
    Perchè Italia ne geme, e piange, e grida,
    Veggendo in ogni figlio un parricida.
      O patria mia, se volta
    Non venga a sera tua fatal giornata
    Pria che ricinga il venerabil crine,
    Che di mille corone ancor s’affolta,
    Quella perchè temuta e invidïata
    Andar ti fero le virtù latine,
    A questo vivo marmo or ti conforta.
    Qui qui verranno a schiera
    I tuoi figlioli, o madre,
    E quinci spira peregrino affetto
    E altissimo pensier d’opre leggiadre:
    Nè fia chi pur sogguati alla severa
    Fronte e nel conscio petto
    Romper non senta la profonda calma,
    Nè surga al fiero tempestar dell’alma.
      Spera: vanir non puote
    La tua speranza mai se pria disciolto
    L’universo non torni al nulla antico:
    E lento pur dalle superne ruote
    Nei luminosi campi il sol fia volto,
    Come aggrada alla sorte, un raggio amico,
    Che ti vesta di luce, Italia, aspetta
    Dalla ragion dei tempi.
    Poichè l’ordine eterno,
    Che agli esseri dà vita e moto e posa,
    Fòra distrutto, se qui ver discerno,
    Ov’eterne ruine, eterni scempi
    E ogni diversa cosa
    Più che morte non è premesse al fondo
    Chi niuno ebbe maggior, pari o secondo.
      E tu dall’alte sedi,
    Laddove gli immortali han fida stanza,
    Se il futuro le soglie a voi non niega,
    Spirto gentil, fruttificar già vedi
    Questa da lungo dì culta speranza,
    Ed oh! pel forte amor che a noi ti lega
    Qual fia nostra grandezza? un’altra fiata
    L’italo Marte doma
    Vedrà la terra? o fòra
    Del selvoso Appennino il mar coperto
    Ove il giorno s’accende, ove scolora?
    Di sapïenza fia l’eterna Roma
    Novello tempio aperto?
    O seguirem nell’arti eccelse ed alme
    Cogliendo sempre orgoglïose palme?
      O più nobil arena,
    Se l’orme ricalcar non è fatale,
    Il ciel n’appresta? A te forse all’amplesso
    Accolto già della sottil Camena,
    Allor che t’inspirò canto immortale,
    Tanta mole di gloria era concesso
    Nell’abisso veder della sua luce.
    Oh! quel divin sorriso
    Di natura t’aperse
    Liberi doni e affetti, e le beate
    Gioje schiuse d’amor, poichè t’offerse
    Spettacol grato col giocondo viso
    La celeste beltate:
    E al fiammeggiar di due luci amorose
    Rider vedesti le create cose.
      Ove d’amor non fiede
    L’alta virtù, quinci la vita fugge
    E morte incombe e, se d’amor digiuna,
    Come putrido stagno immota siede
    L’alma nel petto e suo vigor distrugge
    Miseramente in infima lacuna.
    Amasti, o saggio, e l’amor tuo derise
    Sciocco vulgo maligno,
    Chè i primi casi in loco
    T’ebber condotto ov’egli colpa estima
    In sen nutrire l’amoroso foco:
    Ma tu le candid’ale, italo cigno,
    Spiegasti all’ardua cima,
    Ove l’occhio non giugne nonchè ’l vano
    E procace clamor di vulgo insano.
      Amor, speme e disdegno,
    O ben creato spirto, anco ti piaccia
    Versarne in cor dagli effigiati marmi,
    Sicchè rivolte sien l’opre e l’ingegno
    Ove segnasti luminosa traccia
    Col dolce suon d’armonïosi carmi
    E la vita operosa e intemerata.
    E tu, Pazzi, che sai
    Coi divini portenti
    Dell’arte tua gentil sovra il sentiero
    Di gloria richiamar l’itale genti,
    Segui l’opre mirande, e sì vedrai
    Sul gemino emisfero
    Ove bella virtù si onora ed ama
    Carca del nome tuo volar la fama.

  Modigliana, 15 febbraio 1856.

                                                       FRANCO DONATI.

         _Di Braccio Bracci e degli altri Poeti odiernissimi._
               _Diceria di G. T. Gargani._ Firenze 1856.

Avevamo fatto proposito per certe ragioni di non fiatare di questo
libercolo; ma dacchè tutti i giornali lo han giudicato, purtroppo
secondo il merito, duramente, non possiamo più rimanerci in silenzio
neppur noi: e però, lasciato il solito tenore del _Passatempo_, che
per le medesime ragioni non conviene qui, diremo poche e non beffarde
parole, solamente per dolerci del vedere come il signor Gargani poco
più che ventenne presuma tanto di sè e ardisca quello che presume e
ardisce in esso opuscolo, il quale è di sorte che fa aperto segno non
avere il suo autore nemmen una delle mille parti che si richieggono
allo scrittore. E di fatto ordine e disposizione veruna vi si cerca
invano, saltandosi continuamente di palo in frasca nel più pazzo
modo, e proprio _placidis coeunt immitia, serpentes avibus geminantur,
tigribus agni_: non v’è ombra di giudizio letterario, perchè si trovano
messi in un mazzo il Manzoni, il Tommaseo, l’Arcangeli, il Giudici,
il Cantù, il Prati, il Guerrazzi, Gino Capponi, il Bracci, il Pieri,
il Cempini, il Piave, il Bianciardi, il Bonghi, lo Zauli Sajani, il
Lorenzini, ed altri; guazzabuglio irriverente e dissennato: non v’è
odore di buono stile o di buona lingua, essendoci stranissimo accozzo
di svenevolezze moderne con le più squarquoje frasi del Pataffio
e del Burchiello, per forma che qui tu leggi il _chiacchillare_,
il _ciaramelle sfacciati_, la _svergognanza_, l’_immiata_, il
_traricchissimo_, la _buassaggine_, lo _gnaffe_, l’_alle guagnespole_
con altre simili a barche; ed accanto accanto il francese _A meno che_
per _salvochè_, l’_abitudine_ per _uso, consuetudine_; il _troppo
sventati per istare_ per _troppo sventati da stare_: la sensitività
delle passioni, la illiberalità dell’argomento, le _celebrità_ per
_uomini celebri_ (errore che non basta il Giusti a scusarlo), _a tale
scrupolosi da_, per _tanto scrupolosi che_: l’_anima tutta zucchero
e latte_ con altre infinite; e con l’aggiunta di veri spropositi di
grammatica, come _dasse_ per _desse_, non ammesso da nessun grammatico,
nè usato da verun buono scrittore, e il _vuo’_ usato per _voglio_,
quando dovea dirsi _vo’_ dacchè _vuo’_ è abbreviatura di _vuoi_: i
quali errori e altri simili, se possono comportarsi in altrui, non
possono tollerarsi in chi fa il maestro a color che sanno. Oltre a
questo si vede nel libretto una contradizione flagrante, perchè dove a
pag. 8 si beffa il Gelli per avere con parole da galantuomo biasimato
le vergognose guerre de’ letterati, e si fa aperta professione di
accattabrighe, come ne dà prova il libro medesimo, a pag. 55 si dice
che _i più scrittori dell’appendice alle Letture di famiglia_ (fra’
quali il Gargani intende noverar sè e i suoi amici) _hanno la vecchia
ubbìa di rispettare le opinioni di tutti_. Ma vizio capitalissimo
e che vince tutti gli altri presi insieme è questo, che il signor
Gargani avendo avuto alle mani un argomento eccellente, quello cioè di
difendere gli studj classici, non ha saputo raccapezzare una pagina che
si regga in gambe, e il fino oro che trattava lo ha tramutato in vil
piombo. Per la qual cosa egli ha fatto opera contraria direttamente
al fine propostosi, dacchè non pure non farà essa ricredenti i
nemici de’ buoni studj classici, ma darà invece loro materia di dire
malignamente: «Se tali studj non conducono chi si affatica in essi
come il Gargani, ad altro che a scrivere sì grottescamente come ha
fatto egli, ed a sragionare come egli ha sragionato, Dio ci guardi da
tali studj.» Coloro poi che gli amano sinceramente, e non disamano il
signor Gargani, piangeranno del vederli difesi così a rovescio, e dirò
anche vituperati; ed egli non potrà fare che non si volgano a lui e non
gli dicano: «Vi par egli codesto il modo di difendere cosa sì bella
e santa: vi par egli che stia bene a nessuno, ed a voi massimamente,
il parlare con ischerno di uomini che, se hanno dottrine diverse da
quelle professate da voi, son pure uomini ricchi di sapere e degni di
ogni riverenza, e il mettergli alla pari co’ più vili guastamestieri?
Immaginatevi per un poco di trovarvi in luogo dove fossero il Manzoni,
il Tommaseo, l’Arcangeli (se potesse rivivere), Gino Capponi, e lo
stesso Guerrazzi, avreste voi cuore di mantener loro in faccia le
beffarde parole che avete scritte in questo mal libro: ovvero sarebbe
tanta la vostra confusione che non che fiatare, non ardireste nemmeno
levar gli occhi in faccia loro? Mettetevi le mani al petto, e fate
senno per un’altra volta.»

E così gli diciamo noi, non per animosità nè per male che gli vogliamo;
ma per desiderio di vedere ch’egli faccia ammenda di questo lavoro con
altri lavori più assennati, e più degni della umanità delle lettere.

       (Dal giornale _Il Passatempo_, anno I, n. 30, 26 luglio 1856.)

            _Giunta alla derrata: Ai giornalisti fiorentini
       risposta di G. T. Gargani commentata dagli_ Amici pedanti.

Quando uscì fuori la famosa _Diceria_ di G. T. Gargani, che un po’
fece sbellicar dalle risa per le sue scempiaggini, e un po’ fece
stomacare tutti gli uomini di senno per il modo irriverente col quale
vi si trattavano letterati grandi e di gran fama, tutti i periodici
fiorentini misero degnamente in canzonella esso Gargani ed i suoi
_amici pedanti_. Il solo _Passatempo_ (derogando dal suo proposito,
che è quel di celiare) trattò con parole gravi, e più amichevoli che
altro, lo spiacevole argomento; sperando che que’ _pedanti_, quasi
tutti giovinetti usciti or ora dalle scuole minori, si movessero al
biasimo universale degli uomini di senno e di tutta la stampa, ed
usassero meglio per un’altra volta l’ingegno che Dio potesse aver
conceduto a qualcuno di essi, dopo averlo più maturamente coltivato. Ma
la cosa andò altrimenti, perchè i _pedanti_ invece infellonirono; ed
ora hanno fatto un altro libro pieno delle più furenti parole contro
coloro che biasimarono il primo, ribadendo tutte le pazze cose in
quello già dette, e vituperando nel tempo stesso persone dottissime e
venerande: un libro, i cui autori si mostrano crassamente ignoranti
di ciò che fin qui è stato scritto nella materia che hanno a mano;
e, come se fossero d’un altro mondo, armeggiano fanciullescamente di
ciò che altri ha nobilmente combattuto: un miserabile affastellamento
insomma di arroganti contumelie e di bizze impotenti, che faranno rider
saporitamente coloro che conoscono quegli atleti lilliputtini dai quali
esse vengono, se non quanto sarà loro amareggiata l’ilarità dal vedere
le lettere italiane così vituperosamente trattate, e venute a tali
mani. Ora gli altri giornali faranno ciò che lor piace: io _Passatempo_
per parte mia son fermo di non dare a’ pedanti il gusto di veruna
risposta. Solo non posso tenermi dal significare il mio dispiacere
vedendo giovani di così poca età avere a vile il biasimo universale, ed
entrare nell’arringo delle lettere con le armi vituperose de’ facchini
e de’ mercatini. Per ciò che spetta a me, io mi tengo onorato delle
costoro villanie, quando esse mi sono comuni con uomini che tutto
il mondo onora e riverisce. Rispetto alle questioni letterarie che
muovono, intendo di avvertirgli che dove essi credono combatter me,
combattono dottrine e proposizioni di autori approvati per solenni
maestri, e discutono cose mille volte trattate e ormai giudicate: e
dove essi combattono il detto di colui cui si credon ferire con le
loro parole, si mostrano ignoranti di ciò che egli medesimo ed altri,
di lui assai più valenti, hanno già scritto replicando a quelle stesse
obiezioni che essi fanno ora come nuove; per modo che il risponder loro
sarebbe un ripetere il già detto e ridetto come essi appunto ripetono
a uso pappagallo il già detto e ridetto facendo quelle obiezioni. Dirò
altresì che le parole dette ad uno di loro da uno de’ miei scrittori
circa a’ verbi _Dare_ e _Fare_ non furon sapute riferire; e che se esso
le ripetesse, come è pronto a ripeterle, ma a voce, forse, e senza
forse, non saprebbero essi che cosa rispondere. E loro domanderò se
credono veramente, col difendere il _dasse_ per _desse_, il _vuo’_ per
_voglio_, e simili spropositi, di far sì che gli scrittori italiani
gli accettino mediante la loro autorità, e che si abbiano a correggere
tutte le grammatiche scritte dal Bembo in qua; e domanderò se per
mantenere nel verbo _dare_ la radice _da_, e mandarlo sopra _amare_
diranno io _dai_ per _diedi_ o _detti_ come _amai; dammo_ per _demmo_
come _amammo; daò_ per _dette_, come _amò; darono_ per _diedero_ come
_amarono_ e simili; e se insegneranno che così si abbia a scrivere.
Inquanto poi agli esempi che recano, gl’inviterei a mostrarmi i codici
antichi e autorevoli che gli dessero come essi gli danno (avvertendogli
per altro, circa all’esempio del Malespini, che l’accurata edizione del
Fellini ha _desse_ e non _dasse_, e che _desse_ e non _dasse_ hanno
i codici magliabechiani; sicchè essi commettono anche la _mancinata_
di alterare gli esempi); e in qualunque caso gli assennerei che pochi
esempi non fanno forza contro l’uso costante di tutti i secoli o di
tutti gli scrittori, nè contro le regole di tutti i maestri: senza che,
trattandosi di coniugazione di verbi, non dirò la critica, ma il senso
comune insegna che gli esempi spicciolati non fanno forza, ma bisogna
poter dire _il tale autore_ CLASSICO _usa sempre il verbo_ DARE _a
quel modo_; perchè se uno scrive per esempio mille volte regolarmente
_desse_, e una o due volto _dasse_, quell’una o due vuol dire o che
senza accorgersene l’ha scritte, o che è errore di stampa, o che
c’è qualche altra cagione da non valutarsi nulla. E se mi venissero
fuori con l’uso del popolo, loro direi che il popolo usa per esempio
_stiedi, stiedemo, ebbimo_ e altre simili voci spropositate, le quali
potrà venire in mente a qualcuno di difendere per via d’analogia, ma
a nessuno, se non pazzo, di scriverle egli o di insegnarle a scrivere
altrui. Circa alla voce _abitudine_, cui essi difendono a quel mo’ a
pappacecio con esempio del Botta, potrei insegnar loro che ne dice il
Botta stesso in una lettera al Robiola, dove questi gli riprendeva tal
voce e altre simili non buone usate da lui, della qual riprensione
il Botta stesso si dichiara degno, e condanna per conseguenza e
l’_abitudine_ ed altri errori da lui usati. E in ogni caso dovean
sapere ciò che della voce abitudine e dell’autorità del Botta che la
usa, e dell’Accademia che la registra scrive il Gherardini, della cui
autorità essi altrove si fanno forti, e che non è certo uomo sospetto,
e lui in qualunque caso riprendere e non me. Ma che vale ragionar con
gente che per provare che s’ha a dir _dassi_ argomentano che facendosi
l’imperfetto del congiuntivo col cambiamento in _ssi_ dello _sti_
del perfetto dell’indicativo, da _dasti_ vien _dassi_ e non _dessi_,
mostrandosi ignoranti di tutto ciò che sanno i ragazzi delle scuole
minori, che _dasti_ cioè è lo stesso idiotismo che _dassi_, e che dee
dirsi _desti_, così per l’intrinseca ragione del verbo _dare_, come
per insegnamento non del solo Mastrofini da essi citato, ma di tutti i
maestri e di tutti gli scrittori da che lingua è lingua.

Ma adagio adagio darei a queste parole aria di risposta, e così la
darei vinta a’ _pedanti_, dal che Dio mi guardi. La risposta se la
daranno da sè medesimi se mai avviene che mettan giudizio, la qual cosa
per altro è assai dubbia.

     (Dal giornale _Il Passatempo_, anno I, n. 46, 29 novembre 1856.)


NOTE AL CAPITOLO IV.

(_Pag. 96, 98, 99 e 115._)

               Polemica intorno alle _Rime_ del Carducci.

Aggiungiamo qui, per quelli che ne fossero curiosi, alcuni particolari
e qualche documento intorno alla polemica alla quale diede luogo la
pubblicazione delle _Rime_ del Carducci; polemica che, come i lettori
sanno, si può dire la continuazione di quella degli _amici pedanti_ coi
giornali fiorentini del tempo.

Il volumetto delle _Rime_ fu pubblicato agli ultimi di luglio del 1857;
e nel giornale umoristico _La Lente_ del 4 agosto usciva un articoletto
firmato E. M., il quale era poco più che un annunzio benevolo della
pubblicazione. L’E. M. era, come dissi, l’avvocato Elpidio Micciarelli,
amico del Targioni ed ammiratore del Carducci, quello stesso che l’anno
dopo fondò e mise a disposizione degli _amici pedanti_ il giornale
_Il Momo_. Nell’articolo se la pigliava contro coloro che dicevano
il tempo della poesia essere finito, nè ammettevano, s’intende, altra
poesia che la romantica; e, affermando che il volumetto delle _Rime_
dimostrava il Carducci essere «poeta per concetto, per sentimento, per
forma, grande, delicato, profondo»; conchiudeva: «A coloro ai cui occhi
l’opera rettamente usata dell’ingegno e della scienza è cosa santa da
non profanarsi con meschini giudizii, ma da rispettarsi come l’arca
della gloria nazionale, penso, sarà lecito il dire che dopo quelle di
Niccolini e di Mamiani questa è la migliore poesia che ai giorni nostri
sia uscita in Italia.»

Il Fanfani, ch’era pieno di stizza contro il Carducci e gli _amici
pedanti_ per ciò che avevano scritto contro di lui nella _Giunta
alla derrata_, pigliando occasione dalle lodi del signore E. M. della
_Lente_, scrisse subito un articolo pieno di veleno e di stupidaggini
intorno alle _Rime_; ma, invece di pubblicarlo nel suo giornale _Il
Passatempo_, lo stampò (senza nome, s’intende) nei numeri 8 e 14 agosto
della _Lanterna di Diogene_.

La _Lente_ del 25 agosto, protestando di voler rimanere estranea alla
questione, pubblicò una lettera del signor E. M. al Direttore e una del
Carducci al signor E. M., tutt’e due in risposta agli articoli della
_Lanterna_; e questa tre giorni dopo (n. del 28 agosto) rispondeva con
un articolo, intitolato: _Le bizze di Giosue Carducci_. La settimana
avanti (n. del 21 agosto), avendo saputo che il Carducci stava
preparando le sue risposte, aveva minacciato di _chiudere la lizza con
una caricatura_.

Nella _Lente_ del 1º settembre tornarono in iscena il signor E. M.
e il Carducci; questi con una seconda lettera che rispondeva alla
parte letteraria della critica della _Lanterna_, quegli con una breve
dichiarazione premessa alla lettera del Carducci, con la quale diceva,
non parergli _dignitoso continuare polemiche con chi intendeva a modo
della_ Lanterna _l’ufficio delle lettere e del giornalismo_. «Lascio
adunque libero il campo, finiva, a questi detrattori di un giovane
della cui stima mi onoro; e ciò fo con animo sereno, sì perchè non
li invidio nella ingenerosa opera loro, sì perchè sono intimamente
convinto che il giovane poeta, continuando alacremente negli studi,
occuperà un bel posto nella odierna nostra letteratura a dispetto de’
suoi avversari.»

Alla seconda lettera del Carducci il Fanfani rispose con un quarto
articolo nella _Lanterna_ del 5 e con un quinto in quella del 12
settembre, intitolato: «Così all’amichevole si rimpedula il cervello al
dottor Giosue Carducci.»

Le lettere del Carducci dovevano seguitare, perchè la materia alle
risposte gli abbondava; ma nella _Lente_ del 15 settembre comparve
questa dichiarazione, che troncò la polemica: «Il signor dottor Giosue
Carducci aveva portato a questa Direzione parte della continuazione
della sua replica agli articoli della _Lanterna_, ma con dispiacere
noi abbiamo sentito la necessità di doverci astenere dal pubblicarla,
inquantochè vi si accennava ad un lungo proseguimento di questa
polemica, la quale di natura sua ci pare aliena alla indole del nostro
giornale, che è tutto umoristico.»

Intanto che il Fanfani pubblicava nella _Lanterna_ i suoi velenosi
articoli contro il Carducci, il giornale _Il Passatempo_, facendo
la commedia, fingeva tener dietro alla polemica con l’aria di chi,
disinteressato, vuol giudicare serenamente. E nella _rassegna dei
giornali_ chiamava (15 agosto) «nel tutto insieme giusta, ma troppo
acerba, anzi feroce» la critica della _Lanterna_; lodava (22 e 29
agosto) la critica di Napoleone Giotti nello _Spettatore_, dicendola
pacata e giudiziosa, ma non senza mite ironia; e biasimava (29 agosto)
il Carducci e il signore E. M. per le loro risposte alla _Lanterna_,
troppo aggressive.

Nel n. del 5 settembre del _Passatempo_ l’articolo della _Lanterna,
Le bizze di Giosue Carducci_, era battezzato per «una risposta vivace
ed arguta quanto altra mai», e si esprimeva la speranza che anche
il Carducci, seguendo l’esempio della _Lanterna_, si moderasse nelle
repliche. Ma poche righe più giù, parlandosi del secondo articolo del
Carducci nella _Lente_, gli si faceva rimprovero di uscir sempre dai
termini della moderazione.

A proposito del quarto articolo del Fanfani nella _Lanterna_ (n. 17,
5 settembre) il Passatempo del 12 settembre scriveva: «Si torna sulla
questione del Carducci, al quale il suo critico inesorabile, esclamando
_Il povero Giosue Carducci vagella_, scrive una lettera per dargli
una lezione di scherma, di cui dovrebbe, se è tale quale si tiene,
far suo pro. Non curi le lische, chè ve ne sono, e prenda la polpa.»
E poche righe più giù diceva: «Troppo più che scherzo ci pare la
fiera derisione di chi difese nella _Lente_ il Carducci.» Finalmente,
parlando della dichiarazione della _Lente_ circa la cessazione della
polemica, scriveva: «Lodiamo il proposito del Carducci, e più lo
loderemmo se l’avesse fatto prima.»

Non basta: la moderazione, anzi la generosità del _Passatempo_ arrivò
fino a prendere le difese del Carducci contro il Direttore di un
giornaletto teatrale, che lo aveva chiamato _pedante nel midollo
dell’ossa, fradicio pedante non poeta, membro della società di mutuo
incensamento, pastorello d’Arcadia, martire dello sgobbo_, ec. ec. Il
Carducci si era contentato di riderne, e di scrivere, per uso degli
amici, un sonetto di risposta, che cominciava così, e che, s’intende,
non fu mai stampato:

      Ora itevene, o Muse, a sbordellare,
    E Palla sia che scingavi le zone,
    Poi che questa reliquia del bastone
    Vuole anch’ei di poetica trattare.

      O fogna di sporcizie, o lupanare,
    Quand’esci a ragionar con le persone,
    Prima alla fronte mettiti un crocione,
    Chè non ci venga la gente a pisciare.

Nel terzo verso si allude ad una solenne bastonatura che il Direttore
del giornaletto teatrale aveva ricevuto da un pagliaccio di una
compagnia equestre.

Il _Passatempo_, pigliando la cosa sul serio, rispose così (n. del 21
novembre 1857):

  Il signor Carducci non merita una tirata d’orecchi come voi
  gli fate; l’avreste preso forse per un Garelli, per un Bertini
  _et similia_?... Il Carducci è un giovane a parer mio educato a
  buonissimi studj; sicchè avete commesso villanìa a trattarlo in
  quel modo lì.... Io non dirò che le poesie del Carducci sieno
  senza mende, ma da un’altra parte, ditemi, possono mettersi in un
  mazzo con tante e tante altre che si veggono andare attorno? In
  un punto del vostro articolo vi lasciate scappare queste po’ po’
  di bestemmie: «Pretendere di farci rinculare fino all’epoca di fra
  Guittone e di Dante da Majano, belare leziosaggini e smancerie come
  un pastorello d’Arcadia ec.» Vi fa torto il non aver conosciuto che
  il Carducci con quella sua forma poetica non volea far altro che
  ricondurre in Italia l’amore dei buoni studi.... io scommetto mille
  contr’uno che il Carducci infine infine farà qualche cosa meglio di
  me e di voi e di tanti altri nostri carissimi compagnoni.

Quando il _Passatempo_ scriveva così, doveva certamente supporre che
nessuno sapesse quello che tutti sapevano, che cioè lo scrittore degli
articoli della _Lanterna_ contro il Carducci era il Fanfani; e doveva
anche essersi dimenticato che quelli articoli in fondo in fondo e’ li
aveva sempre approvati.

Come saggio della polemica intorno alle _Rime_ del Carducci, riferisco
l’articolo del Fanfani nei due primi numeri della _Lanterna_, e la
seconda lettera del Carducci nella _Lente_.

E faccio seguire ad essi l’articolo che, in forma di recensione, fu
pubblicato nel fascicolo del maggio 1858 della _Rivista contemporanea_
di Torino.

Se i giornalisti fiorentini, seguendo il Fanfani, erano stati unanimi
nel vituperare le _Rime_ del Carducci (la _Lente_, che aveva accolto le
prime risposte del Carducci, poi si ritrasse subito, per non rompere il
bell’accordo), l’autorevole _Rivista_ torinese (nella quale scrivevano
il Guerrazzi, il Vegezzi-Ruscalla, il Nigra, il Maestri, il Gallenga,
lo Zini, il Massari, ed altri valentuomini, molti dei quali emigrati
in Piemonte per ragioni politiche) non ebbe che lodi per il libretto
del giovine poeta; e, ciò che più monta, lodi che mostravano un giudice
competente e sereno.

L’articolo non era firmato, ma nella _Rassegna bibliografica_, della
quale faceva parte, c’era un primo articolo firmato _Luigi Zini_, nel
quale, a proposito delle _Satire e poesie minori di Vittorio Alfieri_
pubblicate dal Carducci, si diceva: «Un giovane poeta toscano: al quale
nei primi passi l’invidia e la cattiveria delle consorterie hanno
gittato subito pietre ed improperii, per inconsueti modi violando
le leggi della cortesia toscana, ma che ad uno dei nostri sommi,
giudice formidabile e severo, è apparso siccome Achille fanciullo che
apprende da Chirone (e il Chirone vuole sia Ugo Foscolo); questo giovin
poeta, Giosue Carducci, del quale forse avrò altrove a dir qualche
cosa, o in questa o nella prossima rassegna, vi appose una breve ma
succosa prefazione, ec.» Queste parole fecero supporre al Targioni
e al Micciarelli che la recensione non firmata fosse dello Zini, e
ristampandola nel _Momo_ (n. del 1º luglio) l’attribuirono senz’altro
a lui. Ciò naturalmente diede fastidio al _Passatempo_, il quale nel
suo n. 27 (3 luglio 1858) accennando a quella recensione vi contrappose
la sola parte della lettera del Guerrazzi che criticava il Carducci, e
mandò copia del giornale allo Zini. Lo Zini si affrettò a rispondere al
_Passatempo_ che la recensione non era sua, e il _Passatempo_ pubblicò
la lettera dello Zini nel numero del 10 luglio. Ciò non ostante il
Targioni e il Micciarelli seguitarono a credere che la recensione fosse
dello Zini, e nel n. 28 del _Momo_ (15 luglio) pubblicarono una curiosa
rettificazione, che finiva così: «nonostante la protesta pubblicata
dal _solerte Passatempo_, inclinavamo.... a restare, per lo meno,
nella nostra opinione; quando ci è pervenuta quasi sicura notizia che
non proprio il signor Luigi Zini, ma un tal _Gigi Zoni_ è l’autore
dell’articolo. E questo sia detto in lode del vero, e, anche un poco,
del benevolo _Gigi Zoni_.»

Il Targioni e il Micciarelli avevano preso una solenne cantonata. Non
c’era nessuna ragione di supporre non sincera la dichiarazione dello
Zini. Ad ogni modo c’era un fatto che tagliava, come si suol dire,
la testa al toro. In un articolo, _Miscellanei_, ch’era sotto altro
nome una rassegna bibliografica, pubblicato nel fascicolo di giugno
della _Rivista contemporanea_, lo Zini stesso parlava in modo alquanto
diverso delle _Rime_ del Carducci, il cui volumetto, diceva, eragli
stato dato da un illustre scrittore, che lo aveva postillato di sua
mano. L’illustre scrittore non era, si capisce dalle parole dello Zini,
altri che il Guerrazzi. Le parole dello Zini, sotto forma di dialogo,
erano queste:

  — Insomma che dirai di queste poesie? — insistette l’inquisitore.

  — Nulla probabilmente, e domanderò scusa agli autori e
  all’uditorio. Delle _Rime_ del Carducci aveva quasi sacramento di
  parlare, e già lo promisi nella passata dispensa, quando, senza
  che io ne sapessi, altri ne parlò distesamente e con molto miglior
  garbo di quello che io avrei potuto. Io le aveva qui, e postillate
  al lapis per mano di tale che può ben sedere _pro tribunali_....
  Già sapete di chi intendo parlare. E poi vedete a chi donava
  l’autore questo volumetto.

  — Lasciami vedere.... Oh! ben credo che gli s’abbia a far
  riverenza. Ma vediamo le postille. Questi tratti muti probabilmente
  significheranno che si poteva far meglio.... Oh! Ecco qui una
  postilla al sonetto a Enrico Nencioni: _bei versi ma di poco
  concetto!_ Più oltre, a Giuseppe Parini: _bei versi e concetto
  degno e santo!_ Sonetto al conte Terenzio Mamiani Della Rovere,
  ve’ la postilla alla prima quartina: _non capisco niente_, e
  neanch’io in verità. Qui nel primo canto a Targioni-Tozzetti: ah!
  c’è un’invocazione del poeta alle muse perchè lo aiutino a cantar
  di Grecia e del Lazio; leggiamo la postilla: _non latino nè greco:
  codesti spiriti cessarono: canta, o giovine, le cose odierne, e
  t’invada lo spirito dei tuoi tempi. Il maestro pedante non abbia il
  vanto di avere spenta in te la sacra fiamma._

  — Ah! qui il genio provato dall’esperienza, nel saggio di canto
  alle muse, dove Omero è raffigurato pari al re de’ numi, seduto
  nel foro e cinto da una corona di popolo riverente, scintillante
  il cielo, sorridenti gli Dei, soffia sulle giovanili illusioni
  del genio anco imberbe: _cantava a’ pentolai per una pentola_; e
  _udito il canto lo giuntavano poi_! Stupenda e a proposito. E qui
  in fondo? _Esercitazioni giovanili; ci si sente il Foscolo; e’ pare
  Achille che fanciullo apprenda da Chirone!_

  — Già il dissi nella precedente rassegna. Eh! se le poesie
  mi venissero così annotate, e da mano così autorevole, ben mi
  rischierei a intrattenerne i lettori, vincendo la mia natural
  repugnanza!

L’autore della recensione, fra i vari pezzi delle poesie da lui
citati, riportava intero, senza nessuna osservazione, il sonetto _Al
Mamiani_: basterebbe questo a dimostrare ch’e’ non poteva essere lo
Zini, il quale dichiarava di non capire la prima quartina di quel
sonetto. Chi fosse, sarebbe difficile dire oggi; ma volendo cercarlo
fra i collaboratori della _Rivista_, ci potremmo fermare, con qualche
probabilità di coglier nel vero, al nome di Felice Daneo, che nel
fascicolo di aprile pubblicò un lungo articolo sulle poesie del
Mamiani. Chi sa che il Mamiani, il quale conosceva il Daneo ed aveva
già concepito molta stima del giovane Carducci, non gli avesse dato lui
a leggere le _Rime_!

Comunque sia di ciò, una cosa importa notare, che gli amici pedanti non
erano soli in Italia a riconoscere l’ingegno dell’amico loro.

Ed ecco ora i documenti.

                                  ————

          Critica di Pietro Fanfani alle _Rime_ del Carducci.

«Dopo quelle di Niccolini e di Mamiani questa è la migliore poesia che
ai giorni nostri sia uscita in Italia.» E. M. (_Lente_ del dì 4 agosto
1857.)

  Quando uscì fuori il Gargani con quella famosa su’ _Diceria_
  (badate bene di non legger _sudiceria_) nella quale si davano
  frustate senza misericordia a tutti gli odierni poeti, e quando
  gli _amici pedanti_ applaudirono a quel lavoro del loro collega,
  e lo difesero poi e lo ampliarono con la non meno famosa _Giunta
  alla derrata_, ci immaginammo che quando venisse fuori qualche loro
  lavoro poetico, avremmo sentito cose di cielo, miracoli di arte e
  d’ingegno, e da far parere tanti barbagianni poeti grandi e piccini
  stati sin qui. Pensate poi cosa credemmo dovessero essere queste
  _Rime di Giosue_, il quale è l’Achille di quel valoroso esercito
  degli _amici pedanti_, e con quanta avidità lo cominciammo a
  leggere.

  Ma appena cominciato ci cascò il pan di mano, e strascinatici in
  fondo a mala fatica, dovemmo conchiudere che questo libricciuolo
  non è altro che una _Raccolta di poesiucole_ di più tra le tante
  che se ne vede uscir fuori a questi giorni.

  Imitazione servile e affettata de’ poeti antichi; soverchio
  abuso di modi e figure di poeti latini e greci volute scodellar
  pari pari nella poesia italiana; noiosa e continua introduzione
  di versi interi d’altri poeti; noiosissimo e scolarescamente
  puerile rinfrancescare di patronimici e di parole composte alla
  greca; sconfinata presunzione che fa parlar l’autore come se
  fosse poeta veramente, e poeta già noto, già vecchio, già sommo;
  il solito rampognare il secolo vile, l’altrui ignavia, le altrui
  scapestrataggini, cosa disdicevole a un giovine di 21 anno e che
  non fa professione di anacoreta: oscurità in molte composizioni, e
  costrutti stortissimi.

  Il poeta Giosue ha intitolato delle poesie a tutti gli _amici
  pedanti_, credendo buonamente di mandarli alla posterità, ed essi
  che forse crederanno di andarci per questa via, gliene renderanno
  merito facendo un articolo per uno su pei vari giornali, in lode
  del loro immortalatore, e così «dilectus noster nobis et nos illi»;
  e già l’abbiamo cominciato a vedere nella _Lente_ del 4 agosto.
  Ha poi intitolato e sonetti e canzoni a uomini grandi viventi per
  averne grazie e parole benigne. Ma tali argomenti che valgono?
  Se le poesie son veramente quali le tiene l’autore e gli _amici
  pedanti_, cioè tali che niun altro a questi giorni possa volar
  tant’alto, anche senza tali ammennicoli il nome del Carducci sonerà
  chiaro tra breve quanto quello del Leopardi, e le cose sue saranno
  comprate a peso d’oro dagli editori; se poi sono quali le teniamo
  noi, cioè tali che non escono dal modo comune e mezzano, nè con
  questi ammennicoli, nè col doppio più, il nome del Carducci non
  sonerà più chiaro di quello dei Bracci, dei Pieri, dei Pierini,
  e degli altri mille scrittori di poesie che a questi giorni ci
  nascono come funghi.

  Questo noi crediamo, se non quanto il Carducci sembraci nutrito
  di migliori studi degli altri poetucoli e crediamo che, formato il
  giudizio e temperato il bollor giovanile, possa fare qualche cosa
  di buono. Facciamo intanto vedere alcune delle stranezze di questo
  giovane poeta.

  Pag. 1. — _Se il fato assente affettuoso alcun voto mortale._ Che
  vuol dire?

  Pag. 2. — Il _disio che per donna m’incende_ ci pare sgarbata
  maniera per significare l’amore: e non sappiamo che cosa voglia
  dire che l’_altra_ (larva) _traggemi in parte ov’io spiro a’
  fantasmi e pur gravami il vero_.

  Pag. 3. — L’_altera giovinetta bella_ è un verso fatto di zeppe;
  è un modo mal preso dagli antichi, e affettatissimo il dire che
  _Beltade addimostra una donna per propria angiolella_.

  Pag. 4. — Ridicolo è il principio del sonetto _O nova angela
  mia senz’ale al fianco_. Non regge il dire _forse avverrà ch’io
  segni le tue vestigie_ per _che io ti segua_; perchè le vestigia
  si segnano da sè, e non le segna chi vien dietro, e ci pone su
  i piedi. Inintelligibile è poi la terzina seconda, e ridicolo
  l’ultimo verso _L’ale tue d’ôr non mettan fuor la punta_.

  Pag. 5. — Sa di Burchiello il principio del sonetto con quel
  _Candidi soli e riso di tramonti_; è stranissimo quell’_espero
  roseo che sormonta l’alte serene_ (zeppe) _vie dei firmamenti_;
  e più strana che mai quella luna che su i sentier tacenti (quali
  sentieri sono?) _rende imago_ (ma imago di che?) _entro laghetti e
  fonti_ (ma nelle fonti che imagine può restarci, essendo l’acqua
  in continuo moto?). E nell’ultimo verso quel _caro petto della
  donna mia_ non può sonar proprio altro, posto a quel modo, che
  _mammelle_. O poeta Giosue, adagio a ma’ passi! Sono un grave
  sproposito quelle _acque cadenti giù per li verdi tramiti de’
  monti_, perchè ne’ tramiti non ci corre l’acqua ma ci camminano
  gli uomini, non essendo altro il tramite che una via stretta; e poi
  perchè i tramiti dei monti non son verdi, cioè coperti d’erba, non
  essendo i monti generalmente erbosi, ed erbosi non essendo mai i
  tramiti, come quelli che sono scalpitati dagli uomini.

  Pag. 8. — Son cosa veramente comica quelle _itale usanze che
  debbono i lor colori al pennello di Goldoni_, e quel dire che egli
  mostrò _a quanti frutti e fiori sorga un ingegno latino in suolo
  rubello_.

  Pag. 16. — Strano è il dire che l’alma della sua donna _ridea e
  trasparia ne’ suoi occhi come ride in serena onda una stella_.
  Prima perchè senza dire che la stella è riflessa nell’onda, pare
  che il luogo proprio delle stelle sia l’onda: poi perchè l’epiteto
  di _sereno_ mal si addice a onda, e finalmente perchè l’onda,
  non essendo puramente acqua, ma il moto dell’acqua o l’acqua in
  moto, non si può dire che vi si vedano riflesse le stelle che solo
  possono vedersi in acqua limpida e ferma.

  Pag. 17. — Non sappiamo che uscita sia quella del Sonetto XVII
  dove si dice, parlando a un cavallo, l’_uomo quando disse te
  bruta ignobil salma_ (non è più vero che il cavallo è un bruto)
  _mente a sè adulando_; ed è ridicolissimo il giurarlo per il
  cavallo medesimo (_Per te lo giuro_). E quella _piaga che stride
  sanguinosa_ (pag. 18) non è una perla?

  E il _bianco seno di Corinna che sorgeale sotto le corde auree
  gementi_ (il verso bisognava finirlo) nel Sonetto XXI (pag. 21) non
  è un’altra perla?

  E l’_ingegno altero, integro, eretto_ (pag. 22) che roba è? e non
  sono zeppe?

  E dire _il gener vostro_ per i vostri discendenti (pag. 24) non è
  pazzia?

  Pag. 27, 28, 29. — Vorrebbe dirci il poeta unico dopo il Mamiani
  e il Niccolini che roba è l’_aer livida che stride divisa
  dai moschetti_? E quell’_incestare_ (usato altre volte) per
  contaminare o simile che verbaccio è egli? O non lo sa quel che
  è _incesto_? come si fa dunque a trasportarlo a tal significato?
  e poi _incestare_ val _mettere nelle ceste_, e va fuggita
  questa anfibologia. E quella _sposa ingenua_ che _agogna gaudii
  notturni_, ci par che sappia proprio poco d’ingenua! Quella _prora
  aspro lavoro di liverpoolica mano_ è cosa veramente da matti:
  indovinate che è la _mano sonora liverpoolica_? sono gli artefici
  di Liverpool, e chiamasi _sonora_ la lor mano perchè lavorando
  adoprano martelli, seghe o altro, e fanno del romore. Che vi pare?
  ben trovato eh? E l’_Euro che scavalca gl’ispidi flutti_, non è una
  perla? L’Euro agita il mare o solleva i flutti, ma scavalcarli non
  sappiam che voglia dire, perchè _scavalcare_ vale _buttar giù da
  cavallo_. E perle sono pure la _mente che calca rischi e terrori_;
  e quello _sfidar co’ baci_. Quel tale poi che _stanco alle prove_
  (a che prove?) _depone sopra niveo petto_ (e batti col petto; il
  poeta Giosue, a quel che pare, va matto del petto), la _fronte
  carca di glorie_ non vale un tesoro?

  Pag. 33 e seg. — Il Canto a Dante è una brutta contraffazione del
  centone famoso del Giusti; oscuro spesso, ed è vero il giudizio che
  ne dà l’autore medesimo, cioè _che dà più fumo che luce_; se non
  che noi vediamo il fumo solo. Ci si ammirano i _fratelli duellanti
  a uccidersi: le civili fiamme udite su civili mura; il marito che
  ruina in armi erompendo dagli amplessi: le bionde e canute chiome
  addensate in gran sangue; questa ombra_ (il Petrarca disse _questa
  morte, ombra_ non istà) _che à nome vita ed è sì bassa_ e questo
  che vuol dire? _la rea Meloria che sorge_ nel medio evo _dal mar
  toscano_; l’_equoreo seno incestato_ (al solito) _di sangue; la
  forza e la ferrata necessità che si premono a tergo di Prometeo; le
  foreste aurite_, e simili altre garbatezze.

  Pag. 52 e seg. — Quella _lent’ombra nordica_ (specie di
  ombrantroff) _che preme i laureti d’Arno_, è da Beco sudicio; e _il
  lituo retico che freme dove nascea Marone_ è da matto; prima perchè
  _lituo_ presso di noi non è altro che bacchetta degli auguri o da
  pastori; e poi perchè se s’ha da intendere per strumento da fiato
  (il che non concediamo, benchè lo facesse Orazio in latino), non si
  può dire che freme; essendo strumento di suono dolce, lo suoni chi
  vuole.

  Pag. 63 e seg. — Ci sarebbe da notare le _ultime strida che premon
  la vita_ non si sa di chi, in quella sestina contraffatta su le
  antiche, tutta smancerie e lascivie amorose, ma pur dedicata a un
  frate. Le _umide pupille oblique immote_ (a pag. 66) _che dolci
  fiammeggiano_ (se sono umide come fiammeggiano?, e poi se sono
  _immote_ e _oblique_ vuol dir che chi le aveva era guercia); _le
  quieti torbide interrotte da sogni atri; la schiva dea_ (Diana)
  _che scinge a Endimione notturna Venere!!!_ (a pag. 67). _Il petto
  immansueto_ che _durò gl’imperii d’amore_ e la _religion di Delo
  che più non mugge dagli aditi_ (a pag. 68).

  Pag. 73 e seg. — Nella lauda spirituale si comincia a dire _alla
  umana gente_ che _tolga via le porte_, ma essa per toglierle via
  aspetterà di sapere di che porte si tratta. Si dice alle fanciulle
  che _diano la_ ROSA, _a piena mano_ (La rosa? ohe!) e che _diano
  il mirto in suo cammino, con la bianchezza del fior gelsomino_.
  Si dice che _dal volto del Redentore fugge la morte_, e poco dopo
  si dice che _l’ombra di morte stiè nera intorno a lui_, e che _il
  padre suo non volse la fronte al suo chiamare_; e un’altra volta
  si dice che _diasi palma e alloro a piena mano sovra il sentier del
  nostro pellicano_: ed un’altra volta ancora si dice alle fanciulle
  che diano _con umil fede il fior delle contrade_. C’è poi una
  _reggia che si estolle d’artificio mira_; la _morte_ che _vive_ e
  altre gentilezze simili.

  Pag. 77 e seg. — Potremmo farvi vedere una _genía bugiarda_ che
  _irrompe nel vietato falsa e codarda_ per mostrarvi con che garbo
  il poeta Giosue trasporti in italiano i modi di Orazio; la _dormita
  inerzia che dalle cune prime opprime noi volenti, genti mal
  vive_. Potremmo domandare a voi che cosa mai facevano gli antichi
  quando _immoti prostravano a morte libera devoti Marte straniero_.
  Potremmo chiamarvi ad ammirare i _campi che suonano sotto il gran
  cavallo_; il _prepotente canto_, il _docil guizzo de’ seguaci
  moti_, ed altre tante belle cose, ma siamo stanchi, e se mai le
  serberemo ad altra volta.

  Non possiamo tacere peraltro di que’ _saggi di un canto alle Muse_.
  Qui il poeta Giosue si è dato a scimmiottare a rotta di collo il
  fare de’ Greci e del Leopardi, ma il fa così sguaiatamente che
  c’è tornato in mente, leggendo questo lavoro, Stenterello quando
  si trova diventato Re, e vuol provarsi a procedere alla reale, e
  lo fa con quel garbo che tutti sanno. Senza che vi si ammirano le
  solite gioie, come il propagar la vita con vitto ferino: le vite
  che gemono chine sull’opera del pane crescente!!! la procella che
  scoscende divina; i monti esercitati dal piè degli immortali; le
  ombre de’ numi; il vulgo addensato su gli omeri (gobbo?), le vesti
  ondeanti ec. ec....

  Si conchiude che questa raccolta di Rime vale poco più delle tante
  e tante uscite fuori a questi giorni, se non che è maggiore la
  presunzione dell’autore, il quale per questo mi par che possa
  paragonarsi a un passerotto di nido che si pretende d’essere
  un’aquila. Questo basti per ora a mostrare di che forza sia un
  poeta che si è avuto l’impudenza di porre per terzo con Niccolini e
  Mamiani e di chiamarlo unico: se occorrerà mostreremo altrettante e
  più magagne, e analizzeremo qualche suo componimento.

                             (Dalla _Lanterna di Diogene_, anno II,
                                  nn. 13 e 14; 8 e 14 agosto 1857.)

            Risposta del Carducci alla Lanterna di Diogene,
                  in forma di lettera al signor E. M.

      Onorevol signor E. M.,

  E tenendovi la parola[86] vengo alla parte buffa del mio
  intrattenimento; nella quale, per mostrarmi da vero buon _amico
  pedante_, anzi l’ACHILLE _degli amici pedanti_, io vi darò lo
  spettacolo di questo Tersite de’ critici che salta e guaisce sotto
  i colpi della clava erculea di noi pedanti, la logica e l’autorità:
  «Sallo Iddio che sa tutte le cose, dirò col Lasca (lett. al gobbo
  da Pisa), quanto mal volentieri entri seco nell’arringo critico
  a contrastare; non già ch’io creda di poter perdere, ma perch’io
  spero non acquistare, vincendolo, onore e pregio alcuno.» Ma sì
  fiera cosa è la presunzione di cotestui, e con tant’aria e’ si
  allaccia la giornea e con tal muffa va per la maggiore e sputa
  tondo e sentenzia, che a sanarlo di questa sua malattia di credersi
  tale da poter dare i cavalli altrui e chiarirlo della ignoranza
  sua smisurata e favolosa e’ parmi di fare opera di misericordia.
  Or dunque accorrete, o signori e signore, allo spettacolo, dove
  udirete Tersite che la trincia da critico, ed abburatta cotali
  spropositi che mai sentiste i più nuovi. Ma.... _date operam et cum
  silentio animadvortite ut pernoscatis_.... Ecco Tersite in iscena.
  E monta in cattedra, e badatosi a destra e a sinistra, si spurga,
  si soffia, e con voce di pedagogo mi vien domandando:

  — Poeta Giosue — _Se il fato assente affettuoso alcun voto mortale_
  — che vuol dire?

  — Maestro Tersite — _Forse avverrà se il ciel benigno ascolta
  Affettuoso alcun prego mortale_ (Tasso, Gerus.) — che vuol dire?
  — _I Pisani non l’assentiro_ (la domanda degli ambasciatori
  fiorentini, Giov. Villani) — che vuol dire? Vedete! alla scuola
  d’umanità il Tasso, e specialmente il suo canto dell’Erminia,
  s’imparava a memoria: che non tornate per lo vostro meglio a
  umanità?

  — Sfacciato e linguacciuto ragazzo! Ma IL _disio che per donna
  m’incende_ ci pare sgarbata maniera per significare l’amore.

  — Davvero? Come delicato il maestro Tersite! Ma _cupido_ e
  _cupiditas_ chiamò Ovidio la passione d’amore, e IGNIS Virgilio,
  e _ardor_ Seneca: e in proposito di amori i verbi _calere ardere
  urere_ s’incontrano a ogni piè mosso ne’ poeti latini. E a Giuseppe
  Franck, medico filosofo, pareva che l’_intenso desiderio d’ottenere
  un individuo d’altro sesso costituisse l’amore_ nel grado suo di
  passione (_Patol. med._, Malat. del sist. nerv., cap. XXI). Vero
  è che voi m’arieggiate il platonico, e questa _carnalità_ latina e
  medicale non vi farà. In questo caso, vi parleranno in lor volgare
  quei cavallereschi poeti del nostro medio evo: — _Amore è un disio
  che vien dal core Per l’abbondanza del gran piacimento_ (il notaro
  da Lentino).... _Desidèro di voler, nato per piacer del core_ —
  e — _Piacer di forma dato per natura_ (Inc. aut. del sec. XIII).
  — e il metafisico Dante — _Beltade appare in saggia donna pui Che
  piace agli occhi, sicchè dentro ’l core Nasce un disio della cosa
  piacente_. — Ma, e dove lascio il moralista Castiglione, il quale
  diceva che, secondo che dagli antichi savi è diffinito, Amor non
  è altro che un certo DESIDERIO DI FRUIR LA BELLEZZA (_Corteg._,
  lib. IV, § 51). Che parvene egli, mastro Tersite? se volete altro,
  sappiatecel dire; e anco diteci dove stia proprio il mal garbo
  della nostra perifrasi.

  — Bene, bene. Ma non sappiamo cosa voglia dire che l’_altra_
  (larva) _traggemi in parte ov’io spiro a’ fantasmi — e pur gravami
  il vero_.

  — Non sapete? guardate mo’! E che è che non sapete? forse che _in
  parte_ o in _quella parte_ vale _in luogo_ o _in quel luogo_? Ma
  anco i ragazzi vi recitano a mente — _Levommi il mio pensiero in_
  PARTE _ov’era — Colei_.... e il Tasso nelle rime scriveva — _portar
  le mie preghiere in_ PARTE _dove — Vi sia chi le raccoglia_. —
  Ovvero non sapete che l’IN PARTE usasi ancora metaforicamente a
  significare certe contrade metafisiche del pensiero? E il Petrarca
  cantava — _In quella parte dove amor mi sprona — Conven ch’io volga
  le dogliose rime:_ — e il beato Giovanni delle Celle scriveva —
  _Io sono in_ PARTE _che altro non posso se non pregare Iddio_. — O
  è lo _spiro_ che vi dà noia? Ma il Foscolo cantò — _Anch’io Pingo
  e_ SPIRO _a’ fantasmi_. Nè intendete ancora? Di grazia: andate
  e leggete qualche cosa delle operette morali del Leopardi, con
  alcuna pagina pur del Foscolo; e il concetto allora vi apparirà
  lucidissimo.

  — Diavolo! o che a me col mio titolo di chiarissimo e con quel
  tòcco di nomea che mi rimpasto non mi abbia a riuscir d’impappinare
  questo ragazzo? proviamolo in un altro tasto. — Poeta Giosue,
  L’ALTERA GIOVINETTA BELLA è un verso fatto di zeppe, l’_alte serene
  vie de’ firmamenti_ sono zeppe, _e l’ingegno altero integro eretto_
  che roba è? e non sono zeppe?

  — Affè di tutti i pagani che hanno fatto tanto scandalo, la teorica
  delle zeppe è la parte culminante della vostra critica, caro il mio
  chiarissimo. Or udite verso fatto di zeppe da Dino Frescobaldi:
  — _questa pietosa giovinetta bella_: — udite zeppe che metteva
  Francesco Petrarca — _la mia fiorita e verde etade — Dolce cantare
  oneste donne e belle — Oimè il leggiadro portamento altero_: udite
  zeppe di Torquato Tasso nelle rime: — _fece le fiamme placide e
  tranquille — Quando sprezzata grande e chiara fama — Come al partir
  d’oscura notte ombrosa — Che non t’ascondi omai sola e romita_. —
  Udite zeppe, ch’il crederebbe, pur di Vittorio Alfieri e pur nelle
  rime: — _Sole d’un mesto velo tenebroso — io ti vedo coprir — E
  quel suo di lei sola umile altero — atto_. E i versi fin qui citati
  sono, e non c’è che dire, sono anco nella disposizione delle parole
  fratelli maggiori del verso mio _Questa è l’altiera giovinetta
  bella_.

  — Va tutto bene, ma io dico _l’ingegno altero integro eretto_.

  — Ma io dico a voi, se nel Petrarca leggiamo i _passi tardi e
  lenti_ con il _vecchierel canuto e bianco_; e _lieti e contenti_
  nel Tasso, e nella prosa del Casa le _chiome canute e bianche_ «de’
  quali modi (scrive l’illustre Fornaciari) chi mostra maravigliarsi,
  mostra non esser punto domestico dei classici, i quali e per
  seguire il comun parlare, e per esprimere più efficacemente una
  cosa pongono talvolta due voci di simile significazione piuttosto
  che una», come potete voi chiamare zeppa l’aggruppar mio di due
  o tre epiteti a diversamente e più efficacemente qualificare un
  soggetto?

  — Ma l’esempio de’ classici....

  — Mancano eglino gli esempi dei classici che abbiano accompagnato
  un nome di tre e più epiteti? Udite Francesco Petrarca: _Vaghe
  pupille angeliche beatrici — Della mia vita. Misero mondo instabile
  e protervo — La dispietata mia ventura — Noiosa, inesorabile,
  superba — Quel vago dolce caro onesto sguardo_. — Udite Torquato
  Tasso: _Vaghe, leggiadre, amorosette e pronte serve di lei — O
  santa, o pura, immacolata fede_. — Udite Vittorio Alfieri: _O
  leggiadro soave e in terra solo — Viso — O bei leggiadri angelici
  costumi_. — E Giacomo Leopardi: _Nel petto — Nell’imo petto grave
  salda immota — Come colonna adamantina siede_.... — E Niccolò
  Tommaseo, in prosa, nel proemio al suo Dante del 1854: _E avventò
  rigido, intero, diretto, quasi saetta quel verso variissimo_. — E
  questo è proprio il caso del mio _ingegno altero, integro, eretto_,
  non vi pare, maestro Tersite?

  — Questo però non potrete negare, che è affettatissimo il dire che
  _beltade addimostra una donna per propria angiolella_.

  — Eppure a me pareva, e parrà anco ad altri, che la mia sia
  imagine più modesta che non queste due: _Beltade e Cortesia sua
  dea la chiama_ (Dante da Maiano) — _E la Beltade per sua dea la
  mostra_ (G. Cavalcanti): io più umanamente avea detto: _per propria
  angiolella_, e _angiolella_ è vocabolo risuscitato dal Mamiani.

  — In ogni modo è sempre affettato, come ridicolo è il principio del
  sonetto: _O nova angiola mia senz’ala al fianco_.

  — Ridicolo? e perchè? Noi leggiamo in Petrarca: _Questa fenice
  della aurata piuma_ — e: _Nuova angeletta sopra l’ale accorta_,
  — come in Giusto de’ Conti: _Quest’angeletta mia dall’ali d’oro_
  — e nelle rime di Torquato Tasso: _Nuova angeletta dall’eterne
  piume_: — e non ci paiono, e non parranno al maestro Tersite
  ridicoli principî di componimento! Tanto meno, se s’avesse a fare
  con uomini di buona fede, dovrebbe parer ridicolo il verso mio; il
  quale contiene un pensiero naturalmente più vero che non quello
  del Petrarca, e del De’ Conti e del Tasso. Infatti cotesti poeti
  parlano di donne che sono _fenici con penne_ o _angiolette con ali
  d’oro_, mentre io mi contento di dire presso a poco così: — O tu
  che di bellezza e costumi sei simile agli angioli, ma angiola non
  sei.

  — Oh, m’avete fradicio con cotesta vostra logica, poeta Giosue! E
  io che m’immaginava che un poeta e un poeta ragazzo non sapesse po’
  poi andar tanto per la sottile! Ma voi foste a scuola i sofisti.
  Sibbene cotestoro non vi insegnarono a dir le cose per modo che
  le s’intendano, difatto inintelligibile è la terzina seconda di
  cotesto vostro Sonetto IV. E asserisco questo senza neppur riferire
  la terzina, tanto dell’asserir mio son sicuro.

  — Ma sapete, mastro Tersite mio, quel che dicea Vincenzio Monti a
  certi suoi critici, i quali a petto a voi eran tanti Aristotili
  per asini e tristi che e’ fossero? «Prima di giudicare, diceva
  Vincenzio Monti, siamo tenuti ad intendere: nè io ho mai saputo che
  della ignoranza di chi legge debba accusarsi chi scrive.» Ecco la
  mia terzina, e giudichi il pubblico se voi asseriste vero: io dico
  alla fanciulla che amando lei mi purificherò,

        «Se di tanto mi degna il primo amante
      Che, mentre io tenga del mortale incarco,
      L’ale tue d’ôr non mettan fuor la punta.»

  Terzina inintelligibile certo a cui della filosofia platonica
  ignori sino al linguaggio, a cui non sappia che sieno l’eleganze
  toscane, a cui Dio abbia negato le facoltà del ragionamento. Di
  fatto, chi conosca pur il linguaggio della filosofia platonica
  intende che il «primo amante» è Dio, chiamato dall’Alighieri
  il «primo amore», e si ricorda che il Tasso cantava alla Pietà:
  _Scaldi gli alati amori — di novo e dolce foco e ’l primo Amante_,
  e che il Costanzo presso il poeta filosofo Terenzio Mamiani dicea
  dell’amore: _amore è cetra — Che d’alme corde ed infinite e sante
  — Leva eterna melode al primo Amante_. E chi sappia d’eleganze
  toscane intende che _mentre io tenga del mortale incarco_ vale:
  mentre io viva unito al corpo, ricordandosi del dantesco — per
  l’_incarco_ — _Della carne d’Adamo onde si veste_ — e ricordandosi
  pure che il _del_ usano spesso i poeti nostri a significare come
  una parte d’un oggetto: _Infondi in me di quel divino ardore_
  (Guittone); _E’ non par che tu sentissi mai di bene alcun_ (Cino);
  _Mentre mia luce del mortale Avrà_ (Giusto de’ Conti). E chi
  s’intende di logica, vede subito che essendosi detto nel primo
  verso _Questa angeletta mia senz’ala al fianco_, nell’ultimo
  si viene a desiderare che le ale d’angelo non appariscano alla
  giovinetta, cioè che ella non passi a vita angelica, cioè che la
  poveretta non muoia. Intendete ora, mastro Tersite?

  — Ben be’: queste le son sofisticherie, le quali non per tanto non
  impediscono che cotesto ultimo verso _L’ale tue d’ôr non mettan
  fuor la punta_, sia ridicolo, poeta Giosue.

  — Tersite, questa volta tu se’ reo d’irriverenza a Terenzio Mamiani
  della Rovere; il quale scrisse: _Oimè che la diadema èlle apparita
  — Oimè che l’ale han messo fuor la punta_. — Giù in ginocchio,
  Tersite, e la corda al collo! come usavano i rei del medio evo
  quando chiedean perdonanza.

      (Dal giornale _La Lente_, anno II, n. 35, 1º settembre 1857.)

                Recensione della _Rivista contemporanea_
              (Vol. XIII, anno VI, Fasc. del maggio 1858.)

_Rime di Giosue Carducci_. (San Miniato, Tip. Ristori, anno 1857.)

  Da quelle care e sacre convalli ove la poesia d’Italia mise il
  primo vagito, e dove vivono e perenni si tramandano colle tele
  e coi marmi, e più ancora con la favella le memorie di sì grande
  infelice, si leva oggi il canto di ventenne poeta. — È preludio
  di gloria novella, e fra le codardie di un secolo audace e frale,
  testimonianza di vita, di speranza e d’amore. — Per esso il cielo
  natio non si coverse di boreali caligini: ma sordo ai clamori d’un
  volgo insano, tenne fede all’eredità del patrio senno, e senza
  rossore bevve all’immacolate sorgive della sapienza. — Così si
  rannodano in bella guisa entro i suoi carmi e le antiche memorie
  ed i fremiti della presente generazione, chè altrimenti la poesia
  anzichè ministra di conforti diverrebbe sterile e fatua fiammella
  che dileguasi senz’altro pel cielo. Quel mite popolo della Toscana
  serba ancora gl’influssi del genio pelasgico e armonizza in sommo
  grado la gentilezza jonia alla maestà delle genti doriche; ad
  esso prescrissero i cieli di custodire il palladio della favella,
  che in tanta ruina d’umani casi è pur largo compenso. — E ai
  vati poi sempre animati da un soffio fatidico fu dato destare le
  genti mal vive, agitando, come l’angelo sospirato dal paralitico,
  queste acque stagnanti. La malaugurata semenza dei miseri poeti
  è feconda in Italia; chè a pochi fu concesso discendere nei
  penetrali dell’anima, e a pochissimi destare i sopiti pensieri
  per levarli all’altezza di Dio. Corrono insensati la facil china
  dell’universale costume, e giovani, schivi d’ogni fatica, levano
  a cielo ciò che non intendono, predicando il concetto al di
  sopra della forma; e benchè quello a questa sovrasti, la favella
  ed il numero sono, a dir così, l’istrumento in cui l’idea si
  travasa; e se quello non è al tutto accomodato a riceverla e
  modularla, l’istessa idea può scemare di forza e sformarsi. — A
  Giosue Carducci non bastarono le nude forme, ma crebbero in lui
  inspiratrici di carmi due muse immortali, l’Amore e la Patria,
  s’intrecciarono insieme, conquistarono il giovinetto suo cuore,
  lasciando integra e robusta la fede degli avi suoi. — Nè i molli
  vagiti o i disperati lamenti approdarono a lui che, levato in più
  alta sfera, s’ispira ai canti di quel Grande che, provando breve e
  ristretta la cerchia di questo pianeta, non si disse pago sinchè
  non ebbe descritto a fondo l’intero universo. — A questo audace
  ingegno che riflette con Michelangelo la giovinezza della nazione,
  tien dietro il giovinetto vate, che nutrito alla divina scuola
  sente il soffio di Dante e la dolcezza di quel mesto poeta

      Che Amore nudo in Grecia e nudo in Roma
      D’un velo candidissimo adornando,
      Rendea nel grembo a Venere Celeste,

  Il libriccino che ti si raccomanda, o lettore, di sole 90 facciate,
  esce umile e schietto, schivo d’ogni orpello e liscio straniero,
  dai tipi Ristori in San Miniato. Gli splendono in fronte due nomi
  fra i più augusti del secolo, cioè quello dell’infelice Giordani,
  e dell’infelicissimo Leopardi. Ti si schierano poi innanzi 25
  sonetti: ma non ti turbare, chè non sentono già il leppo della
  lucerna, nè la fiacca cascaggine de’ Petrarchisti, ma piuttosto
  un’aura foscoliana e il reciso verso d’Alfieri. La brevità della
  forma non lo costringe, non lo impaccia, come avviene ai mediocri,
  ma franco il pensiero discorre con meravigliosa serenità, limpido
  e puro, e con quell’unità di concetto che è tutta propria di
  siffatto genere di poetare. Due larve, anzi due furie, dice il
  poeta, fanno strazio di lui, l’amore della sua donna e quello
  ancor più fiero della sua patria; e benchè il disinganno lo vinca
  a quando a quando, pure sotto sì dura sferza non vengono meno, e
  l’uno e l’altro combattono a gara. — Nell’intitolarne uno a Pietro
  Metastasio, ei trova modo di rimbeccare il secolo sì proclive
  a mescolare il linguaggio dell’Evangelo al novellare dei trivi.
  L’anima del poeta si sdegna che la scena divenga scuola di vizii,
  poichè com’ei dice:

        Scuola or la scena è d’ogni cosa ria,
      Dove scherza il delitto e dove ardito
      L’adulterio in gentil vista passeggia.

        E a questi esempi il suo nome nodrito
      Vuole, e te mastro di virtude obblia
      Il secoletto vil che cristianeggia.

  E bellissimi e degni d’esser qui ricordati sono quelli al Parini,
  al Niccolini e al Monti, che si dipartono dalla schiera volgare,
  come l’autore dai molli esempi e dai tristi. Questo a Terenzio
  Mamiani trascrivo intero:

        Come basti virtù, perchè suprema
      Ira e furor d’ingegni, e pellegrino
      Regno più in fondo il nome italo prema,
      A contrastare il fato in cor latino,

        Ben mostri or tu, che, mentre ignuda e scema
      D’ogni loda e bel pregio a reo cammino
      Torce la gente, in su l’etade estrema
      Sofo e vate d’Italia e cittadino

        Vero pur sorgi, come a ’l secol bello
      Quando a ’l valor natio spazio era dato
      D’addimostrarsi in generosi esempi.

        O d’antiqua virtude ultimo ostello
      Petto roman, tu solo in contra il fato
      Dura, e di te nostro difetto adempi.

  E se volgiamo alla poesia gentile, come trovarne di più soave e
  al tempo stesso più calda d’affetto, più semplice e bella nel suo
  natio candore?

        A questi dì pur io ti vidi. Uscia
      A pena il fior di tua stagion novella;
      E la persona pargoletta e bella
      Era tutta d’amore un’armonia.

        Vereconda sul labbro ti fioria
      L’ingenua grazia e la gentil favella:
      Come ride in serena onda una stella,
      Ridea l’alma negli occhi e trasparia.

        Tal io ti vidi. Or con disio supremo
      Te per questo nefando aere smarrita
      Pur cerco e invoco: e sol mi sento, e tremo;

        Chè spento è al tutto ogni buon lume, e vita
      Già m’abbandona, e son quasi all’estremo.
      Luce degli anni miei, dove se’ gita?

  Tale è la semplicità dell’affetto profondamente sentito, che non
  osi penetrare l’arcano di quell’anima afflitta, e pur ti attristi
  con lui. E quel fazzoletto che ispirò sì leggiadri versi e quella
  tomba d’amico ne’ verdi anni rapito alla speranza e all’affetto,
  e persino il sonetto che celebra il cavallo vincitore degli angli
  puledri sente a un tempo e le fragranze dei giardini d’Atene, e lo
  squillo de’ giochi elei. Ma qui s’apre più larga vena d’armonia
  ne’ canti, poichè il pensiero in più largo gira, e le forze del
  giovanile ingegno si rilevano nella loro maestà. Non è un fuor
  d’opera quella invocazione a Giacomo Leopardi, che parrebbe
  quasi redivivo nei forti e pensati carmi dell’ausonio Carducci; e
  questo non è plagio di penna venduta o dolce inganno d’amichevole
  affetto, ma spontaneo grido di fratelli lontani che salutano in
  lui una gloria novella ed un vate degno della sua patria, conscio
  de’ suoi dolori. A cui fu largito intelletto di bellezze poetiche
  e che non fu guasto dall’alito delle nordiche muse, questi canti
  sembreranno un prezioso gioiello, e forse più che un preludio un
  nobile esempio alla schiera de’ giovani studiosi. Alcuno arriccierà
  il naso all’uso frequente degli Dei della favola, che raffreddano
  per così dire il pensiero trasportandolo nella regione de’ sogni;
  noi crediamo scusarlo col confronto d’altre inarrivabili bellezze
  e coll’esempio de’ più venerati maestri. E se a me non fosse
  conteso di penetrare nel segreto di tante bellezze che l’arte
  asconde ai profani, forse le piccole mende di voci antiquate e
  di quasi oscurità nel periodo di leggieri scomparirebbero. Dirò
  come ognuna di queste canzoni senta il greco pennello, e come la
  bellezza vi si diffonde più grata vedendo che l’arte ministra del
  colorito vi appresta le forme senza imprigionarne e tormentarne il
  pensiero. E mentre a danno del pensiero stesso la forma è presso
  i moderni o negletta o straniera, per esso invece, come avviene
  dei sommi, il pensiero signoreggia sempre senza danno di quella.
  Si provò anzi, per quella simpatia de’ Latini e dei Greci che in
  lui è grandissima, a rinnovare, come il Gargallo e il Labindo, e
  costringere in saffici e asclepiadei idee nostrane e casalinghe.
  Lascio ad altri il pronunziare se raggiunse la meta, e se difatto
  convengano a’ nostri pensieri le forme del Lazio, poichè a me
  sembra una mostra d’ingegno anzichè un ritmo ben acconcio alla
  armonia della favella nostra. Spezzato ad ogni tratto e quasi
  sminuzzato, la maestà di questa lingua se ne offende, come quella
  di Bernardo Davanzati nella traduzione di Tacito. Nè qui mi allungo
  per non ritardarne l’assaggio. Prescelgo fra tutte quella canzone
  che intitola — _Dante_ — dalla quale vorrei estrarre sol qualche
  brano, ma lo faccio a malincuore, perocchè degna d’esser copiata
  le mille volte, sebbene, com’ei confessa, fosse questo il primo
  cimento, la prima nota della sua lira:

        Ma questa umile aiola
      Ove si piange e s’odia,
      E questo eterno inganno, e questa vana
      Ombra ch’à nome vita ed è sì bassa
      T’era in dispetto. Poi che il sacro verso
      A tutto l’universo
      Descrisse fondo e ’l buon sofo gentile
      Te mise dentro a le secrete cose,
      Veder volesti come l’angiol vede
      Colà dove non è di nebbia velo,
      Amar volesti come s’ama in cielo.
      Su per le vie d’amore
      Quest’umil creatura
      Risospingendo innanzi al creatore,
      Quetar volesti in quell’eterno vero
      Che il grand’amor ti dette e ’l gran pensiero.
      Cesse Virgilio in faccia
      A tanta luce: e tu, deserto e solo
      Spirito uman, per entro il gran disio
      Sommerso vaneggiavi, e dubitando
      Duolo e disdegno avei di te sì forte
      E tanto amaro che nulla è più morte.
      Tu disperavi: quando
      Su l’angeliche penne
      Al tuo dolor sovvenne
      Quella ch’è amore e visïone e luce
      Fra l’intelletto e ’l vero:
      Nomarla a me lingua mortal non lice:
      Tu la dicesti, amando, Beatrice.
      Così di sfera in sfera
      Tutto era melodia quello che udivi,
      Tutto quel che vedevi ardore e luce,
      E tutti quanti erano amore i sensi,
      E lo spirto ed il verso un’armonia
      Simile a quella che là su s’india.
        Deh, qual parveti allora
      Quest’umil patria, e qual de le partite
      Città la lite, ahi come quella eterna
      Che sempre trista fa la valle inferna....

  E qui tralascio perocchè mi converrebbe trascriverla intera, anzi
  trascrivere l’intero volume, che merita altri elogi e più nobile
  encomiatore. Mirabile è pure la gentile ballata che rammenta
  le schiette e semplici rime de’ primitivi poeti toscani, del
  Cavalcanti, del Frescobaldi, che, lungamente e con grande amore
  studiati, derivarono nelle sue rime quella purezza inarrivabile che
  vi intraluce. Poi nel canto degli Italiani così esclama:

        O di cuor peregrina e di favella
      E di vesti e di vizii o in odio a’ numi
      E agli avi ed a la patria, or che presumi,
                            Stirpe rubella?
        Sgombra di te la sacra terra: o in fondo
      Giaci da secolar morbo disfatta;
      E i vanti posa, e la superbia matta,
                            Favola a ’l mondo.
        Chè non per cifre e teoremi acuti
      D’economista la civile arride
      Felicitate, nè la via divide
                            De’ vizii arguti:
        Nè di vigore un secol guasto allieta
      Sillogismo di tumida sofia,
      Non clamor di tribuni, e non follia
                            D’ebro poeta.
        Quando virtude con fuggenti piume[87]
      Sprezza la terra e chiede altro sentiero,
      L’ardor del buono e lo splendor del vero
                            Rado s’alluma.
        Inerte il cuor gli spirti suoi più belli
      Ammorza, e stagna torbida la mente:
      Speme si vela, e disdegnosamente
                            Guarda gli avelli.
        Vinci l’errore; e a’ veri lumi tuoi
      Mira, o dispersa italica famiglia:
      Levati, e nuova il buon cammin ripiglia
                            De’ vecchi eroi.

  Così il poeta ripiglia veramente il cammino de’ buoni, e uscendo
  solingo dalla turba, mira a quell’uniche stelle della Virtù e della
  Fede, le sole che fanno capaci i popoli di rifarsi come la fenice,
  perchè, come disse un arguto scrittore, quando la servitù entra
  per la porta di settentrione in una città, è segno evidente che la
  virtù è già uscita per la porta di mezzogiorno. Ed è quindi gran
  lode per lui che, mentre tutto declina a pravo costume, sappia
  durare co’ pochi nell’operosa virtù e nella carità della patria
  saldo fra gli ozi codardi e la pressura dei forti e lo scherno dei
  vili, vincendo ogni prova nella fede d’un tempo migliore.

Il _Momo_, riproducendo questo articolo nel suo n. 26 (anno I, 1º
luglio 1858), vi premetteva un cappello, nel quale, fra le altre cose
era detto:

  È notabile che come ora è stato primo a parlare con lode delle Rime
  del Carducci un giornale torinese, fu pure un giornale torinese
  (la _Rivista enciclopedica italiana_) che primo, e solo, lodò
  il Carducci degli _Studi di filologia e lingua latina_ da lui
  stampati nell’_Appendice alle Letture di famiglia_. I quali _Studi_
  perchè qua in Toscana passarono, come al solito ogni buona cosa,
  inosservati; ci piace ripetere qui le parole di quel giornale,
  molto onorevoli al Carducci, che sono nella dispensa dell’ottobre
  1855:

  «Non possiamo a meno che lodare di bel nuovo il pregiato lavoro
  del signor Carducci sulla lingua e letteratura latina, il quale
  non si restringe solamente ad una interpretazione del testo
  delle Georgiche, ma spazia altresì pei campi della storia e
  della linguistica, e procede per via di confronti letterari tra
  gli autori greci e latini a svelarci i tempi di Virgilio ed i
  più reconditi pensieri di lui. Onde noi non abbiamo difficoltà
  nell’affermare che il signor Carducci farà opera che potrà stare
  a paro di quella dell’Heine e di altre di dottissimi critici che
  hanno illustrato i nostri classici antichi. Continui pertanto il
  Carducci nel lodevole divisamento, che sarà per riportarne utile e
  vanto a sè medesimo e alla patria nostra.»

                                  ————

                Due sonetti satirici contro il Carducci.

Riferiamo anche, come documenti delle guerre letterarie del Fanfani
e del _Passatempo_ contro il Carducci e gli _Amici pedanti_, i due
sonetti citati a pag. 96 e 98. Il primo, del Fanfani, è inedito;
l’altro, del Fantacci, fu, come dissi, pubblicato nel _Passatempo_.

      O Giosuè poeta, chiaro lume
    Di Fiorenza e d’Italia, il tuo Fanfani
    Vorria baciarti quelle santi mani
    Che dettarono il nobile volume.
      Ma _d’Apollo incremento_, sulle piume
    Di gloria t’ergi, e a noi miseri, insani,
    Facendo bocchi, in Pindo ti rimani
    Tutto cambiato dall’uman costume.
      _Proteggitore_ almen resta _indigete_
    De’ tuoi pedanti alle tue voglie pronti,
    E sazia lor la poetica sete.
      Spira i fantasmi spesso, e se da’ monti
    Sorge la luna, dille che in sua quiete
    Imago renda entro laghetti e fonti,
                E con loro si acconti;
    Che se a te l’ali han messo fuor la punta,
    Almeno lei non sia da lor disgiunta.
                Se poi nella sua giunta
    Desio per donna incende i tuoi clienti,
    Fa’ che dal luogo ove tu ti contenti,
                Tra soavi concenti
    Scenda un’altiera giovinetta bella
    Che _di beltate sia propria angiolella_.
                E non bastando quella,
    Venga insieme con lei la verginetta
    Che pur _lamenta in quella ballatetta_.
                Venga, venga, l’aspetta
    _Il gener tuo negli omeri addensato_;
    Gli è ciò nei voti; ma se gli è negato,
                Irrompe nel vietato,
    E l’aer livida, a man di quei suggetti,
    Strider potria divisa da’ moschetti;
                I domestici tetti
    D’ampia clade incestarvi e in sè rubelli
    Duellare ad uccidersi i fratelli.
                Pietade in te favelli,
    I tuoi fantasmi lucidi invia loro,
    E ad essi fiorirà l’età dell’oro.
                Di vil patria a disdoro
    Ricorda che _balzò con franco volo_
    Di Flora il tempio, al mondo unico e solo,
                Sull’_attonito suolo_:
    Rinfaccia a’ vili le _rigide torri_
    Che di lusso vestironsi; soccorri
                Deh per pietà soccorri
    All’_arte putta_, straccia il culto osceno,
    E al desio del raro in questo ameno
                Italico terreno
    Accendi i cuor disfatti, e sii tu guida
    _A lei cui premon già l’ultime strida_.
                Non odi come grida?
    È la tua patria che da te conforto
    Dopo Dio spera, e che l’adduca in porto,
                Saggio nocchiero e accorto.
    _Candidi soli e riso di tramonti_
    Pur rivedrà, alte terrà le fronti,
                Se in suo servigio pronti,
    Tu suo duce, tu figlio suo diletto,
    Tu ingegno divo _altero integro eretto_.
                Nemmen ti sia in dispetto
    Volger pietoso uno sguardo a colui
    Che ripassa sì bene i versi tui
                E fe’ stringerti in hui
    Per duol la bocca, chè nol fe’ per male,
    Ma per metterti in zucca un po’ di sale.
                Se la scusa gli vale,
    Si scusa a te: tu dunque gli perdona,
    Ad esso il bacio d’amicizia dona,
                Ed ei che non minchiona,
    Ei della gloria in la magione eterna
    Ti farà scorta con la sua _Lanterna_.

_Il Trionfo di Farfanicchio arcipoeta, o del Gigante da Cigoli che
abbacchiava i ceci con le pertiche. — Diceria in versi d’un poeta che
non è poeta._

      Faccian festa per oggi i Fiorentini
    Ed escan per le piazze a processione;
    Su per i tetti montin le persone,
    S’aggrappino agli arpioni i birichini.
      Di festoni, d’arazzi e di setini
    S’adorni ogni finestra, ogni balcone;
    E suonin pur senza discrezïone
    Campane, campanacci e campanini.
      Largo al re de’ pedanti; in sua fidanza
    Ecco ch’ei se ne vien, gonfiando in via
    Sì che pare in persona la burbanza.
      Se nol vedete non è colpa mia
    Chè più di quattro spanne non avanza
    Sebben si creda somigliar Golia.
                Ciascuno, in cortesia,
    Gli faccia di berretta, quando passa,
    E stiasi per rispetto a testa bassa,
                Ch’egli è quel tal che abbassa
    La gloria de’ poeti laureati
    E sconfonde e flagella i letterati
                Viventi e trapassati.
    Il sol suo nome al povero Manzoni
    Fa per paura venire i bordoni
                E la fa ne’ calzoni.
    Se volge un’occhiataccia al Tommaseo
    Lo fa proprio restar come un babbeo
                E diventa un pigmeo.
    Nulla dirò del Grossi e del Cantù
    Che omai di questi non si fiata più
                Da che lor boia ei fu.
    E sua mercè vedrem ch’anco il Guerrazzi
    Presto sarà, come interviene ai pazzi,
                Ludibrio de’ ragazzi.
    Basta ch’ei levi la tremenda voce,
    Si fa ciascuno il segno della croce
                E via fugge veloce,
    Sì forte te lo acchiappa la paura
    D’aver da lui qualche bastonatura
                Anzi pur la tortura!
    Quando ha la penna in man, Gesummaria!
    Gli par la lancia aver dell’Argalia;
                Sì che ognun scappa via,
    Perchè con quell’arnese onnipotente
    Tutto rompe e sbaraglia come niente.
                Di grazia, o buona gente,
    Fatevi avanti e squadratelo bene
    Da capo a’ piedi e poi da petto a rene;
                Eccolo ch’ei ne viene,
    Guardate se non par quel da Gubbiano
    «Che estinse il Gallo e seppellì il Germano.»
                Corpo di Tamerlano!
    Egli è da suoi pedanti circondato
    Torvo ha lo sguardo e il crine rabbuffato:
                Ha un calzon rovesciato,
    Un cappellaccio sulle ventitrè,
    Ed un vestito che chiede mercè;
                Ohïmè! Ohïmè!
    S’egli ti mette addosso l’occhio torto
    Tu puo’ far conto d’esser bell’e morto,
                Ed ogni priego è corto.
    Ve’ se non par ch’e’ dica: «Olà perdio!
    Non abbiate paura, son qua io
                »Per far pagare il fio....
    Qualvolta alcuno osasse d’aprir bocca
    Entro in valigia.... e allor bazza a chi tocca,
                »La mia saetta scocca;
    Se mi monta la bizza di far carne
    A chi voglio prometterne, a chi darne,
                »Tagliarne ed affettarne....»
    (Metaforicamente, ci s’intende).
    Or dite un po’, con lui chi ci contende?
                Tante cose stupende
    Gli stanno così fitte nel cervello
    Come le acciughe dentro un caratello;
                Ci ha tutto il buono e il bello,
    Sì vasta e peregrina erudizione,
    Che ne restan di sasso le persone;
                Ci ha Omero, Cicerone,
    Aristotele, Seneca e Longino,
    Virgilio, Quintiliano e il Venosino;
                Tutto il greco e il latino,
    Il succo dei più celebri scrittori
    Filosofi, poeti e prosatori.
                Che odori! che sapori!
    Ci ha insomma d’ogni cosa un precipizio;
    Però, se debbo dirla, ho grave indizio
                Che ci manchi il «Giudizio»;
    Il qual dicono (oh caso singolare!)
    Che per quanto si sia dato da fare
                Non c’è potuto entrare.
    Del resto poi tutto vi sta a dovere
    E la bottega par d’un rigattiere,
                Dove ognun può vedere
    La roba vecchia insieme con la nuova.
    Armi, cenci, orinal, granate e uova.
                In quel cervel si trova
    Anco la polla della presunzione,
    Dell’arroganza e dell’indiscrezione.
                Son pur d’opinïone
    Che ci abbia il seme dell’impertinenza,
    Della spavalderia, dell’insolenza.
                Cattedra d’eloquenza
    Avrà, cred’io, e allievi ne verranno
    Che come i can mastini abbaieranno,
                Ringhieran, morderanno.
    Che il ciel ne scampi i poveri cristiani
    Da sì fatta rettorica da cani!
                Perder vorrei le mani
    Se a dargli, come dicon, dello spago
    Non doventa col tempo antropofàgo,
                O, dirò meglio, un drago,
    Che sarà poi (se pur non piglio errore)
    Del regno delle lettere il terrore.
                Facciasi dunque onore
    Al nostro Farfanicchio arcipoeta
    Più chiaro ancora del maggior pianeta;
                E come a propria meta
    Trionfalmente ne venga portato
    Nel bel mezzo di piazza del mercato
                E quivi, coronato,
    Facciangli intorno i beceri gran festa,
    E d’urli e fischi in mezzo a una tempesta
                Cantino le sue gesta
    Col ritornel, che assai gli piacerà,
    Del _Nani, Nani, Nani, qua qua qua_,
                Che tanto ben ci sta;
    E a così lieti, becereschi canti
    Rispondan _Nani Nani_ anco i pedanti.
                Io poi mi farò avanti
    E dirò a Farfanicchio in sul mostaccio:
    «Bada! ci ho in corpo un altro sonettaccio;
                »E s’io non te lo faccio
    Con una coda più lunga di questa
    Mozzo mi sia.... volevo dir la testa.»

            Articolo del Carducci sul _Trionfo della Croce_.

Riportiamo finalmente dal n. 23 del _Momo_ (anno I, 10 giugno 1858)
l’articolo del Carducci sul _Trionfo della Croce_ del Del Lungo,
che diede occasione all’ultima polemica del Carducci stesso col
_Passatempo_.

            _Il «Trionfo della Croce» dì Isidoro Del Lungo._

  È una canzone di metro toscano; fatta da un giovinetto di
  diciassette anni. Delle idee svolte liricamente questo è il
  nesso. — St. I e II. Dopo la redenzione, a Dio che preparava una
  civiltà nuova agli uomini rigenerati dalla nuova fede, piacque di
  porre il principio e la sede di questa fede e civiltà nella terra
  d’Italia; non sì però (st. III) che la religione di Cristo non
  diffondesse la sua luce pur sul resto del mondo e non si facesse
  ispiratrice di pensieri forti e atti magnanimi a tutte le genti.
  Da questo cominciamento convenientissimo a poeta italiano e ben
  legato col resto dalla opportuna transizione della st. III, passa
  il giovinetto scrittore a mostrare (nelle st. IV e V) la diversità
  filosofica delle due credenze, etnica e cristiana; accennando il
  prevalere di quest’ultima per la speranza che divinamente infonde
  nelle anime combattute dalla trista verità della vita (st. V) e
  per la forte volontà che mette nei suoi credenti (st. VI, primi
  7 versi). — Ma la religione di Cristo è anche oppugnatrice della
  prepotenza e confortatrice a forti fatti: in prova di che si
  ricordano le crociate (st. VI, ultimi 4 versi, e st. VII). —
  Quindi, come ispirati dal pensiero medesimo, che armò le crociate
  alla diffusione della fede, si rammentano l’italiano cantore di
  esse (st. VIII), l’italiano navigatore che primo piantò la croce su
  le terre scoperte dall’ardir suo (st. IX): e si chiude la canzone
  colla diffusione trionfale della religione cristiana nel nuovo
  mondo (st. X). E il Tasso e il Colombo, confortato e rianimato il
  primo nei dolori ineffabili dai sentimenti religiosi, armato il
  secondo di meravigliosa fortezza cristiana contro le avversità,
  a me paiono convenientemente introdotti, ad esempio del doppio
  effetto che il poeta nella st. VI e VII ha detto esercitare la
  religione cristiana su le anime credenti.

  Tutto ciò è versificato in X stanze di bella poesia, dove i
  concetti e le imagini sono non diffusi (come si suole da giovani
  e in questi tempi) ma acconciamente raccolti e quasi condensati
  con arte severa che mostra nel giovinetto assai potenza di stile:
  e il verso è armoniosamente variato negli accenti e nelle pose, e
  con regolarità non servile intrecciato e interrotto: e lo stile è
  temperato ne’ classici latini con accorta mistura di alcuna soavità
  toscana, come specialmente insegnarono fare Foscolo e Leopardi.
  Non sì però che alcun che d’eterogeneo non ci si senta talvolta, e
  che tu non urti in qualche forma antilogica: il che è da perdonare
  all’età acerbissima. Accenno quel che a me pare difetto. St. I....
  _redenta dal peccato antico Tornò libera e sciolta Agli amplessi
  di Dio l’umana polve_: l’umana polve no, pare a me; l’anima umana:
  nè della polve potrai dire che sia _redenta_ cioè ricomperata _dal
  peccato_, e nè meno che ella divenga _libera_ e _sciolta_; che anzi
  ella importa sempre servitù e cattività alle anime degli uomini. —
  St. II.... _Esulta De’ tuoi martiri il frale entro la tomba_. Frale
  si dirà del corpo finchè retto dalla vita può esser franto; quando
  è nella tomba è già franto; dunque non può esser più _frale_,
  sibbene spoglia. Nè _frale_ (da frango) sta bene con _esulta_ (da
  _ex-sultare_): anche le parole prese di per sè hanno una cotal
  logica; che gli scrittori primitivi (per così dire) intuiscono, i
  secondarii devono studiare nelle etimologie, nelle analogie, nelle
  derivazioni e nelle mutazioni stesse del significato elementare. —
  St. II. _E all’orgoglio mortal di nuovo insulta L’aquila del Tarpeo
  fatta colomba_. Le metamorfosi lasciamole a Ovidio: a me questa
  imagine non va, perchè non sorge dal vero. Di più, tanto è che si
  parla d’_aquile romane_ o di _colombe cristiane_ che ormai le son
  frasi d’Arcadia anche queste. — Nella st. IV si dice: _Per te del
  mortal velo il greve incarco Con pronta ala s’inalzi Spregiando il
  fango vile a miglior parte_. Pare a me che dare _ali_ e _volo_ a
  _un greve incarco_, non sia bello: più questo _greve incarco del
  mortal velo_, che è il corpo, deve, _spregiando il fango vile_,
  cioè la materia e ciò che a la materia aderisce, _inalzarsi a parte
  migliore_. Ora cotesto inalzarsi pur con il corpo non avvenne
  mai, ch’io creda, se non a que’ buoni servi di Dio che poterono
  godere le estasi beate: nè il giovinetto autore certo vorrà che
  tutti i cristiani debbano riuscire cotanto estatici. — Nella st.
  VII havvi certa _ira di Numi_ un po’ troppo pagana, dove si parla
  di crociate: come pure nella IX, dopo aver domandato _se la prova
  del mortale viaggio è più dura a’ generosi per decreto celeste_,
  segue a dire il poeta: _o con superba Voglia saetta il fato Più
  altamente le più alte teste_: il qual fato qui è proprio il fato
  pagano di Omero e di Eschilo, e contrasta troppo manifestamente col
  _decreto celeste_ che è tutto cristiano. — Nella st. VIII dicesi:
  _Poi ch’a’ flutti del tuo mare si sposi L’armonia di Torquato_. Che
  vuol dire _un’armonia la quale promette sè_ (_sposare_ da _spondeo
  sponsum_) _ai flutti_? La maniera latina, maritare l’armonia
  ai versi, ai numeri, alle corde, sebbene arditissima la intendo
  (_armonia_ vale _congiungimento e connessione di più in uno_): _lo
  sposarsi dell’armonia ai flutti_, no: ed è, o a me pare, maniera
  non vera, che mal si accorda con altri modi belli e potenti di
  questa poesia; senza però ch’io creda col _Passatempo_ «pazzamente
  romantiche» le altre imagini a cui questa frase si collega. Al qual
  _Passatempo_ non saprei compatire la maraviglia, che significata
  da tre punti ammirativi egli mostra a questi versi.... _Oh non
  al pio Cantor doveano_ OSTELLO _Esser le sale dei potenti e gli
  auri_...; se non ripensando a quella sentenza del Metastasio: _la
  meraviglia dell’ignoranza è figlia_. S’io avessi a trattar con
  persone che niente niente sapessero di grammatica, potrei dir loro
  che la locuzione _le sale de’ potenti e gli auri_ viene a dir le
  _aurate_ sale _de’ potenti_: e ciò per una certa figura che si
  chiama _endiadis_, per la quale Virgilio disse _Pateris libamus et
  auro_ e Lucano con modo similissimo a quello del signor Del Lungo
  _Non auro tectisve modus_. Ma perchè di grammatica non sa niente
  certo chi scrive _cæteribusque_, e chi scrive _cæteribusque_ è
  il _Passatempo_, comecchè e’ faccia il rigattiere di critica e
  se l’allacci e vada per la maggiore tra’ giornali di Firenze, io
  voglio ch’egli mi perdoni questa digressioncella sull’_endiadis_
  che lui non tocca. Tornando al signor Del Lungo, direi che nella
  canzone di lui sarebbero da notare lo scadere degli ultimi quattro
  versi in certe stanze, e la soverchia predilezione ch’egli mostra
  d’avere per gli infiniti aggruppati al modo latino; se non fosse
  ormai il tempo di riportare certi luoghi della canzone che a
  noi paiono di bellezza franca e sicura, perchè i leggitori ne
  giudichino di per sè.

  Parla della Fede stabilita in Italia come in sua propria sede:

        E te, candida dea, giova il sorriso
      De l’italico sole,
      E dal tirreno mar sorger la luna
      E cader d’Appennino
      Le grandi ombre notturne; onde le stole,
      I labari di Cristo, la fortuna
      De le chiavi celesti al tiberino
      Lito commetti. . . . . . . . .

  Confronta le due credenze:

        Tempo fu già che di graditi errori
      A l’intelletto un velo
      Fecero i sensi; onde i bugiardi Dei,
      Cura amabil de’ vati,
      Tenner l’Olimpo, e la quadriga in cielo
      Febo guidò: ne’ graziosi e bei
      Fantasmi il viver nostro e ne’ dorati
      Sogni fuggia; nè il vuoto
      Delle cose mortai, nè ’l desir folle,
      E le vane speranze e il fine ignoto,
      Timido del dolor, ricercar volle.
      Tu che del vero inesorato ai danni
      In arcana alleanza
      Le gioie unisci onde beltà s’india,
      Ch’al dolore e a la morte
      Insegni la preghiera e la speranza,
      O Santa Fe’, la stolta codardia
      Vinci. . . . . . . . . . .

  Parla delle Crociate:

        Vedrai raccolte per lo immenso piano
      Sotto i vessilli tuoi
      Cento ondeggiare e cento aste di guerra,
      E converso in acciaro
      Il pastoral degl’infulati eroi,
      E riversarse una nell’altra terra
      A far parere il gran possesso amaro.
      Ahi quanta ira di Numi
      A l’Orïente! e gemer per la muta
      Notte di moribondi! e quale a’ fiumi
      Di barbarico sangue onda cresciuta.

  Parla del Colombo e dell’America convertita al Cristianesimo:

        Forse è la prova del mortal viaggio
      Per decreto celeste
      Più dura ai generosi? o con superba
      Voglia saetta il fato
      Più altamente le più alte teste?
      O Ligure nocchier, non da l’acerba
      Fortuna a te fu schermo il disfidato
      Furor de l’oceano,
      E superar degli uomini la guerra
      E de le cose, e con ardita mano
      Fra ’l cielo e’ flutti ricercar la terra.
        Ma su la prora fortunosa i santi
      Vessilli ergea la Fede,
      Ed era stella per cotanto mare.
      Oh del culto verace
      Lume novello! ecco da l’erma sede
      Inusitate preci, e sorger are
      E stringer patti ed annunziar la pace.

  Queste cose erano state pensate e in parte scritte prima che il
  _Passatempo_ tanto rabbiosamente latrasse contro lo scrittor
  giovinetto. Il quale latrato però non mi spaventa così ch’io
  non voglia dire il parer mio al signor Del Lungo: Giovini che
  a _diciassette anni_ ritrovino e dispongano così bellamente la
  materia poetica, e le imagini contemperino ai sentimenti, e alle
  une e agli altri lo stile, e questo con tanta accorta parsimonia
  condensino, pare a me che per lo più sieno rari: massime oggi.
  Ho veduto altra vostra canzone; nella quale più sparpagliate le
  imagini, più rumoroso il sentimento, più misto e incerto lo stile:
  da quella a questa è un progresso. Non sì però che nella fusione
  meccanica del vostro stile non si scorgano come a righe ed a strati
  i metalli diversi (nè tutti buoni) dei quali lo componete. Or su:
  via alcuno di cotesti metalli: del resto fate sì che la fusione
  vi riesca compatta ed unita: chè, volendo, potrete. Come io credo
  non vi facessero esaltar su voi stesso gli encomi dell’_Arte_,
  così spero che il maledire del _Passatempo_ a voi giovinetto non
  vi farà nel giudizio vostro rimpicciolir di soverchio. E come
  io m’indovino che voi pur imberbe potreste insegnare a molti in
  materia di stile (a me primo); così vi prego quello che ho creduto
  dire sul fatto vostro a non tenerlo in conto di ammaestramento.
  No, no, di grazia, che io non voglio fare il maestro a persona. Sì
  piuttosto accettatelo, se vi piace, come parere di tale che non vi
  conosce pur di vista, e che veduta la vostra canzone volle dirvi
  quello che in essa gli aggrada e quello che no: e forse vede male.
  Al _Passatempo_ parecchie cose direi, se non me ne distornasse
  il ripensare la _dura cervice_ di cotesto quid simile d’animale
  anfibio. Mi starò contento a dimandargli questo: Parrebbevi giusto,
  signor _Passatempo_, che un villanzone tarchiato, il quale altro
  non sa che sarchiare le orticacce e le malve, pigliasse a pugni e
  pedate un ragazzino perla sola ragione che quel ragazzino coltiva
  perbenino un suo giardinetto? certo direte che no. Anche: con che
  faccia osate voi sotto la sicurtà dell’anonimo svillaneggiare N.
  F. Pelosini, il quale vilmente provocato risponde a un anonimo
  insultatore, ed è pur tanto gentile che non istrappa la maschera
  dal viso a costui; quando voi nè pur nominato in bene nè in male
  buttate una manata d’impertinenze a un D. A. B.; il quale, poniamo
  che nelle lodi eccedesse, poniamo che certi pensieri caricasse
  un po’ troppo, pur non disse tutto affatto affatto malissimo? O
  chi siete voi che ad una persona, la quale prende sopra di sè la
  _responsabilità_ di quello che dice e si firma, togliete il diritto
  della difesa; e per voi fate un diritto dell’aggressione anonima?

                                  ————

Rettifica ad una Nota alle Poesie del Carducci.

(_Pag. 96._)

In una nota al volume delle _Poesie_ (Bologna, Zanichelli, 1902),
pag. 259, il Carducci dice che il sonetto _Sur un canonico che lesse
un discorso di pedagogia_, fu stampato la prima volta nel giornale
_Il Momo_ di Firenze con innanzi una letterina, ch’egli riporta nella
nota stessa. La memoria ingannò il poeta. Letterina e sonetto dovevano
essere veramente pubblicati nel _Momo_, ma (non ricordo per quale
ragione) non furono: furono invece stampati soltanto il 18 agosto 1872
nel giornale _Il Mare_ di Livorno (n. 13). Il _discorso di pedagogia_
che diede occasione al sonetto, fu letto dal canonico Enrico Bindi in
una radunanza dell’_Ateneo_ tenuta al Palazzo Riccardi a Firenze.

                                  ————

Notizia intorno agli scritti del Padre Francesco Donati.

(_Pag. 112._)

Pubblicai nelle Note al Cap. III la canzone inedita del Donati per il
busto del Parini scolpito da Enrico Pazzi. Era mio intendimento di dare
qui una notizia compiuta degli scritti di lui editi e inediti, in verso
e in prosa: ma essendomi stato impossibile raccogliere altri documenti
oltre i pochi che conservo fra le mie carte, debbo limitare a questi la
notizia, che, non saprei dire di quanto, ma sarà certo incompiuta.

Il _Saggio di un Glossario etimologico della Versilia_ fu pubblicato
nei fascicoli 3º e 4º del _Poliziano_ (Firenze, Cellini, 1859); il
Discorso _Della poesia popolare scritta_ nei numeri 13 e 14, anno I,
delle _Veglie letterarie_ (Firenze, Tipografia Spiombi, 1862); il
libretto _Della maniera d’interpetrare le pitture nei vasi fittili
antichi_ fu pubblicato in Firenze dalla Tipografia Calasanziana nel
1861, e ne fece una recensione il Carducci nel giornale _La Nazione_
di Firenze, la quale è ristampata nel vol. V delle _Opere_ a pag. 29 e
seg.

Oltre questi lavori, io posseggo copia dei seguenti scritti a stampa
del Donati:

  _Alla Vergine del Soccorso_, Versi; Firenze, coi tipi Calasanziani,
  1855 (sono una Canzone e una Ballata, _L’Orfanella_);

  _Notizie storiche della Madonna del Soccorso e della sua cappella_;
  Massa, pei Frediani tipografi ducali, 1858;

  _Alla Madonna del Soccorso_, Canzone e Stanze (dieci ottave), in un
  libretto di poesie pubblicato a Massa per la incoronazione di essa
  Madonna a Serravezza nel 1858;

  _Sonetto per la commemorazione di Gesù morto_, dedicato ai
  venerabili confratelli della Misericordia in Serravezza; Firenze,
  Tipografia Calasanziana, 1861;

  _In lode di Cosimo Mariani_, parole del suo confratello Francesco
  Donati D. S. P.; Siena, Tipografia dei Sordo-muti, 1864.

Nel 1865 il Donati collaborò alla _Rivista italiana_, e nel 1866
all’_Ateneo_, diretti da me, mandando all’una e all’altro articoli,
note e recensioni di filologia italiana.

Io conservo di lui manoscritte una diecina di poesie, quasi tutte
inedite, la maggior parte _ballate_. Credo che il Carducci alludesse
anche al Donati, quando a proposito di una ballata di Guido Mazzoni,
scrisse: «La vecchia ballata endecasillaba di Franco Sacchetti e
d’Angelo Poliziano la rinnovò con garbo un po’ arcaico Terenzio
Mamiani; la mantrugiò con diversa gaglioffaggine certa buona gente
(c’ero anch’io) fra il ’50 e il ’60 o giù di lì.» Allora tanto il
Carducci quanto il Donati, nella loro ammirazione per la ingenua
semplicità e grazia degli antichi rimatori toscani, credevano possibile
rinnovare, imitando, quelle forme, senza pensare che l’imitazione è
artifizio, e che l’artifizio è precisamente l’opposto della semplicità
e della grazia.

                                  ————

Lettere di Terenzio Mamiani a Giosue Carducci e del Carducci al
Mamiani.[88]

(_Pag. 132._)

      Chiarissimo Signore,

                                        Torino, li 4 di marzo 1860.

  La fortuna togliemi per il presente di poterle offerire una
  cattedra d’eloquenza italiana in qualche Università, come
  porterebbe il suo merito; poichè in Torino è occupata, in Milano
  leggerà l’insigne letterato Aleardo Aleardi, in Genova non si pensa
  per ora di riaprirla, e debbe cessare a Pavia. Di Bologna non so, e
  quando facciasi l’annessione e quivi sia vacante quella cattedra,
  volentieri ci vedrei salire il mio signor Carducci, posto che la
  gradisse. Intanto io non voglio tacere che nel prossimo ordinamento
  de’ nostri licei, se Ella accettasse d’insegnare rettorica qui in
  Torino o in Milano, io me le crederei obbligato e ciò le sarebbe
  ottimo avviamento a salire più alto fra poco tempo. Consideri con
  agio la mia proposta e sappia che i nuovi licei debbono essere
  condotti a molto maggior dignità di prima e secondo la nuova legge
  anche gli emolumenti sono aumentati non poco. — Ad ogni modo,
  s’Ella non è contenta della presente sua sorte, ed io rimango
  Consigliere della Corona, mi sforzerò di mostrarle la stima e
  l’amore in che la tengo.

  La prego di non intermettere i suoi studj e nudra la giovine
  mente di forte e profondo sapere con la _storia_, la filosofia, la
  meditazione e qualche scienza _positiva_.

  Scusi ad un vecchio la mezza temerità di farmi consigliere non
  domandato e forse non opportuno. Mi voglia bene.

                                                    Suo devotissimo

                                                  TERENZIO MAMIANI.

      Illustre e venerato Signore,

                                            Pistoia, 21 marzo 1860.

  Mal potrei significarle a parole gli affetti che in me suscitò
  l’ultima lettera di che Ella volle onorarmi: tengo miglior partito
  il tacere, sicuro che lo spirito gentile di Terenzio Mamiani,
  che di tanta generosità è capace, intenda meglio che qualunque
  profusione di parole, il mio silenzio.

  Maturata la generosa proposizione dell’E. V., credo che a me, il
  quale devo provvedere al sostentamento d’una famiglia, non sarebbe
  per gl’interessi domestici utilissimo il trasferirmi in Piemonte
  o in Lombardia, dov’è più caro il vivere che non nella nostra
  Toscana: tanto più che l’officio affidatomi dal Governo provinciale
  è, secondo l’ultima legge, remunerato di tale stipendio che può
  bastare a chi si contenti del poco. Ma quando l’E. V. mi reputi
  idoneo a professare eloquenza o letteratura italiana in alcuna
  Università del Regno, e le si offra il destro di collocarmivi;
  io son disposto di accettare, sia nelle vecchie o nelle nuove
  provincie, con tutta la volontà e con gratitudine eterna, tanto
  di me proprio quanto della mia famiglia, verso l’uomo illustre che
  oramai riguardo come mio benefattore.

  Accetti, illustre signor conte, i miei vivissimi ringraziamenti a’
  suoi saggi consigli, de’ quali faccio tesoro, e l’espressione della
  mia venerazione e, se me lo permette, dell’amor mio: e dove, così
  piccolo come sono, potessi servirla, mi tenga per cosa tutta sua.

                                   Ossequiosissimo e obbligatissimo

                                                   GIOSUE CARDUCCI.

      Illustre e venerato Signore,

                                           Pistoia, 11 agosto 1860.

  Le condizioni della mia famiglia non mi permisero, quel che io
  pur desideravo, accettare l’onorevole offerta che la S. V. si
  compiacque farmi nel marzo decorso. Ora mi si presenta occasione,
  in che il valido patrocinio di Lei può volgere in meglio le
  mie sorti: ed io, tutto fidente nella benevolenza da Lei tanto
  benignamente dimostratami, non mi risto dall’invocarlo.

  Vaca nel Liceo di Firenze, per morte del prof. titolare di corto
  avvenuta, l’insegnamento della lingua e letteratura greca: a me, e
  per gli studi e per gli interessi miei, sarebbe utile tornarmene in
  quella città, dove anche ho congiunti ed amici, e dallo attendere
  a curare alcune edizioni ricevo aiuti a sostener la famiglia; dove
  in fine ho tutto che fa cara la vita e in che può meno inutilmente
  spendere la gioventù chi non potè darla fra le armi alla patria.
  Per che ho fatto dimanda al Direttore della Istruzione pubblica,
  che voglia trasferirmi a quell’insegnamento: nè sarebbe gran
  promozione, fra lo stipendio che ricevo ora e quello che è annesso
  alla cattedra vacante correndo divario di sole 200 lire italiane.
  Quando Ella volesse scrivere in mio favore al Governatore generale
  della Toscana o al Direttore dell’Istruzione pubblica, o tenere
  altro modo che più le paresse opportuno, son certo che quei signori
  inchinerebbero facilmente all’autorità di Lei e seconderebbero
  i suoi consigli, e in me ne crescerebbe, se fosse possibile,
  gratitudine ed amore al conte Mamiani.

  Anche, veda e perdoni la confidenza originata in me dalla sua
  cortesia, anche oso raccomandarle un amico mio, giovine di ottimi
  studi, Giulio Cavaciocchi. Questi, impiegato nel Ministero della
  Guerra, domanderebbe esser trasferito al Ministero della Istruzione
  pubblica, in officio consimile a quel che tiene ora: e credo in
  verità che i suoi studii e la educazione e l’indole lo facciano più
  acconcio ad essere impiegato nel Ministero della Istruzione che non
  in quello della Guerra. Egli avrà fatto o farà pratiche a ciò, o in
  Torino dove dee in breve trasferirsi, o in Firenze. Quando la S.
  V. Ill. ma volesse adoperarsi a pro di lui, e consolerebbe me del
  sapere adempiti i voti dell’amico, e l’amico mio si reputerebbe a
  ventura il poter esser grato a un uomo il quale da lungo tempo egli
  venera.

  Dalla cortesia della S. V. spero perdono alla mia soverchia
  confidenza, e godo nel confermarmi novamente con affettuosa
  riverenza

                                               suo obbl.mo e dev.mo

                                                   GIOSUE CARDUCCI.

      Mio caro Signore,

                                         Torino, li 18 agosto 1860.

  Il Prati, per ragioni al tutto speciali, rinunzia la cattedra
  di eloquenza italiana nella Università di Bologna. Io mi terrei
  fortunato ed anche un poco superbo se Ella, caro signore, mi
  concedesse di nominarla a quel posto. Bologna, certo, non è
  Firenze, ma è grande città che portò molto meritamente il titolo
  di dotta; e il popolo suo, affabile e cordialissimo, a Lei, ne sia
  sicuro, farebbe festa più assai che al Prati. Oltre l’emolumento
  di 3000 franchi, avrebbe in corto tempo altri 1000 come dottore di
  collegio; e ivi promulgata la legge sarda, Ella parteciperebbe alle
  iscrizioni e alle propine. Da ultimo, Le prometto che cessata la
  mezza autonomia toscana e cambiata in un largo sistema di libertà
  per tutti comune, se la Università di Firenze verrà dichiarata
  governativa, mi darò cura di restituirla alla sua diletta città. Mi
  dica dunque un bel sì, e mi scusi del ricusare che fo di scrivere
  al Ricasoli per la cattedra di un liceo fiorentino.

  Mi creda

                                                    suo devotissimo

                                                  TERENZIO MAMIANI.

      Illustre Signore ed Amico,

                                                  14 novembre 1882.

  Tardi vi giungono i miei ringraziamenti caldi e sinceri del
  cortesissimo dono delle vostre _Odi_. Ma volli leggerle prima
  e altamente ammirarle. Sono dette barbare per vera ed aperta
  antifrasi, perchè nessuna cosa più classica venne prodotta nel
  nostro tempo. E quale arte, uso e maniera latina può in Italia
  avere del barbaro? Felicissimo voi che sapete arricchire la lingua
  volgare di mille bellissime forme dell’idioma del Lazio, tanto che
  la figliuola sembra tramutata affatto nella sua madre; nè so quale
  altra favella neo-latina avrebbe potuto vincere la prova.

  Il Tolomei nel cinquecento e la sua dotta Accademia entrati nella
  medesima impresa vostra, caddero sotto la soma sproporzionata alle
  loro spalle. Oggi, invece, l’Italia intera vi applaude e gode e
  si compiace del notevole incremento che avete recato alle nostre
  lettere. La qual differenza fra i due tentativi mi torna facile
  a spiegare, visto che allora vi si arrischiarono grammatici e
  retori dove occorreva un poeta vero ed ardito quale voi siete. Ed
  uno dei mirabili effetti che ne sono provenuti sembrami quello di
  avere ringiovanito innumerevoli forme ed immagini che diventavano
  stracche e tediose ne’ nostri verseggiatori.

  Una sola cura vorrei che pigliaste in qualche nuova edizione delle
  _Odi_, e cioè che accennaste con quali norme e con che sentimento
  avete condotto la nuovissima prosodia, e sotto quale legge piacevi
  di ordinare i nostri dattili e i nostri spondei contemperati agli
  accenti ed al numero delle sillabe. Certo l’analogia col latino non
  basta e convien supplire con qualche ragion fonetica accettabile a
  tutti e la quale divenga patrimonio comune e fermo della nazione.

  Da capo vi ringrazio del prezioso dono e mi sento superbo d’essere
  stato fra i primi a indovinare il genio profondo ed originale
  sortitovi da natura.

                                                             Vostro

                                                  TERENZIO MAMIANI.


NOTE AL CAPITOLO V.

(_Pag. 161._)

Do qui una nota degli scritti pubblicati dal Carducci nella _Rivista
italiana di scienze, lettere ed arti con le Effemeridi della pubblica
istruzione_, e nell’_Ateneo italiano_; ma non son sicuro che sia
esatta, perchè nella copia dell’_Ateneo_ che ho potuto far esaminare
mancano tre fascicoli.

                          _Rivista italiana._

  Quattro articoli sulla _Scelta di curiosità letterarie inedite
  o rare dal sec. XIII al XIX; Bologna presso Gaetano Romagnoli;
  1861-63_. Sono pubblicati tutti nell’anno IV; il primo nel n. 132
  (30 marzo 1863), il secondo nel n. 136 (27 aprile 1863), il terzo
  nel n. 147 (13 luglio 1863), il quarto nel n. 148 (20 luglio 1863).

  [Questi articoli furono ristampati in uno dei volumetti della
  _Scelta di curiosità letterarie_; ma lo scritto rimase ivi
  incompleto, come era nella _Rivista_, dove in fine dell’ultimo è
  stampato: _continua_.]

  _Rettificazione a una notizia pubblicata dal prof. A. De
  Gubernatis_; anno IV, n. 196 (25 giugno 1864).

  [La notizia riguardava una proposta di E. Teza a proposito di
  dialetti.]

  _Della lirica popolare italiana del sec. XIII e XIV e di alcuni
  suoi monumenti editi o trovati ultimamente_ (da lettera a G.
  Chiarini); anno VI, nn. 232 e 233 (6 marzo e 13 marzo 1865).

  Recensione del libro: _Niccolini, Monti, Giordani, Lettere inedite
  con note_ di Pietro Bigazzi, Firenze, Barbèra, 1865; anno VI, n.
  246 (2 ottobre 1865).

  _Una collezione scolastica ad maiorem Dei gloriam_ anno VI, n. 247
  (9 ottobre 1865).

  _Dei principii informatori dell’antica letteratura italiana:
  Avvertenza_; anno VI, n. 248 (16 ottobre 1865).

  _Due Verbali di due sedute della R. Società di Storia patria di
  Bologna_; anno VI, n. 249 (23 ottobre 1865).

  _Tre Sonetti:_

  «Io ’l vidi. Su l’avello iscoverchiato....»

  «Ella ove incurva il ciel più alto l’arco....»

  «Disse e movea.... Come ne’ turbin torti....» anno VI, n. 250 (30
  ottobre 1865).

  Nello stesso numero altri due _Verbali_ come sopra.

                           _Ateneo italiano._

  Recensione dell’opuscolo: _Quando Claudia Frullani si univa con
  fede di sposa a Vincenzio Mazzoni_: sonetti IV di EMILIO FRULLANI;
  Firenze, novembre 1865, Tipografia Le Monnier; n. 7, gennaio 1866.

  _Poesie fiorentine storiche del 1494_; n. 14, gennaio 1866.

  Articolo intitolato: _Letteratura Dantesca_, in cui si parla di:
  _Sunto di tre letture pubbliche in preparazione della festa del
  Centenario di Dante, fatte da Stefano Bissolati_ per incarico del
  Municipio di Cremona; Cremona, Ronzi e Signori, 1865; _Per il sesto
  centenario di Dante, Ricordo al popolo_, Firenze, Bettini, 1865; n.
  21, gennaio 1866.

  Articolo _Letteratura Dantesca_, in cui si parla di: _Vita di
  Dante Alighieri_, scritta da FRANCESCO GREGORETTI; Venezia,
  Naratovich, 1864; _Rapporto della Commissione istituita dalla
  Società senese di Storia patria municipale per la ricerca di
  tutto che in Siena si riferisce a Dante Alighieri e alla Divina
  Commedia_; Siena, Moschini, 1865; _Opere Dantesche appartenenti
  alla Biblioteca Franchetti in Firenze_, pubblicate in occasione del
  sesto centenario di Dante; Firenze, Tipografia Capponi, 1865; n. 4,
  febbraio 1866.

  _Una poesia storica del sec. XVII_; n. 11, febbraio 1866.

(_Pag. 166._)

A titolo di curiosità, riferisco il decreto che istituiva la Società di
Calandrino.

  Considerando esser debito d’ogni nazione rendere onoranza a quelli
  uomini che più conferirono a fermarne la indole;

  Item; che Nozzo di Perino altramente chiamato Calandrino dipintor
  da Fiorenza sia veramente quel che dicesi il tipo della stoltezza
  italiana, la quale pare avere aggiunto oggigiorno l’ultimo termine
  della sua perfezione;

  Item; che, mentre la nazione fu troppo larga di facili onoranze a
  uomini di gran lunga men degni che Calandrino non fosse, questi fu
  al tutto e sempre dimenticato;

  I sottoscritti, convenuti da ogni parte d’Italia, preso da sè, come
  già altri fece, il mandato del popolo italiano, hanno decretato e
  decretano:

  I. È instituita una società intitolata da Calandrino e una festa
  annovale a commemorazione di lui da celebrare nel mese di Ottobre
  nei luoghi fatti solenni dalla memoria dell’_uom semplice e di
  nuovi costumi_.

  II. La festa sarà tenuta con un simposio a cui si darà
  cominciamento con un piatto di lasagne, e si mangeranno oche,
  paperi e salciccie, il tutto affogando in un fiumicel di vernaccia.

  III. Tutti i convitati si prepareranno al simposio udendo con
  gran compunzione la lettura di alcuna delle novelle in cui Messer
  Giovanni Boccaccio celebrò le azioni del gran cittadino.

  IV. Nella sala del simposio dovrà essere un qualunque segno a
  ricordar Calandrino.

  V. Ognuno dei convitati dovrà o leggere o dire parole o in rima o
  in prosa a gloria dell’eroe.

  VI. In tutta la giornata è vietato ai componenti il convito dire o
  fare cose savie.

  VII. I soci che fossero assenti da Firenze saranno per coscienza
  obbligati a partecipare in ispirito alla festa, mangiando
  divotamente vuoi lasagne, vuoi paperi, vuoi oche, vuoi salciccie, e
  soprattutto astenendosi dal dire e fare cose savie.

  VIII. Ogni socio si adoprerà perchè cresca quanto più è possibile
  il numero degli adepti, e il nome di Calandrino viepiù sempre si
  augusti.

  Dato al Ponto alla Badia in riva al Mugnone questo dì due Ottobre
           dell’anno 1863 e 517 dalla composizione del _Decameron_.




INDICE


  PROEMIO                                                     Pag.  1

  CAPITOLO I (1835-1854) 5

  Ricordo d’infanzia: «Via, via, brutto te.» — La famiglia
    Carducci e il padre del poeta. — I primi anni e i primi
    studi a Bolgheri e a Castagneto. — La famiglia Carducci
    a Firenze e Giosue alle Scuole Pie. — Giosue a retorica
    dal Padre Barsottini — Il Carducci e il Nencioni. —
    Passione di Giosue pei libri. — Il primo passo. — Il
    Carducci a Celle. — Primi sonetti satirici. — Accademia
    dei Risoluti e Fecondi. — Canzone del Carducci su Dante
    letta all’Accademia.

  CAPITOLO II (1853-1856)                                          31

  Il Carducci alla Scuola Normale Superiore di Pisa. —
    Pratiche religiose. — Burle dei compagni. — Riunioni al
    caffè dell’_Ebe_. — Il ponce nel guardaroba. — «Viva
    Giove! abbasso il successore!» — Il _Poverello d’Assisi_
    e i Fioretti di san Francesco. — Il mercato dei maialini.
    — Allocuzione ai _maialini fratelli in Gesù_. — La
    _toilette_ per prepararsi a studiare Tito Livio. — Una
    lezione di letteratura italiana presa dal Nisard. —
    Prepotente bisogno di studiare. — Rigori disciplinari e
    beghineria. — Il beato Giovanni della Pace. — Lettera del
    Carducci sulla Scuola Normale. — Umor nero. — La cerimonia
    della laurea. — Gli esami di magistero. — Epopea
    sul padre Arno Dio etrusco dalla glauca capelliera. —
    Pratiche e raccomandazioni per la nomina del Carducci a
    maestro di retorica nel Ginnasio di San Miniato.

  CAPITOLO III (1856-1857)                                         57

  Gli amici di Firenze. — L’ode alcaica _A Giulio_. — Prime
    prove letterarie nell’_Appendice alle Letture di famiglia_.
    — _Fiori e spine_ di Braccio Bracci. — La _Diceria_ di G.
    T. Gargani. — Scandalo sollevato dalla _Diceria_. — Gli
    amici pedanti e la _Giunta alla derrata_. — Giovinetto
    romantico inventato dal Carducci. — Il Carducci in
    famiglia a Santa Maria a Monte. — Mia visita al Carducci
    a Santa Maria. — Il Carducci va maestro di retorica a San
    Miniato al Tedesco. — Il _Passatempo_ e gli amici pedanti.
    — La _casa dei maestri_. — Alla méssa in domo. — Processo
    per accusa d’empietà. — Il Cristiani propone al Carducci
    di stampare le sue poesie. — «_Jacta est alea._» —
    Pubblicazione delle _Rime_. — «Viva Apollo Febo
    lungi-oprante, Patareo, Delio, Cinzio, e moia chi dice di
    no.» — Il Carducci lascia San Miniato.

  CAPITOLO IV (1858-1860)                                          93

  Nomina del Carducci a professore nel Ginnasio d’Arezzo,
    non approvata dal Governo. — Critiche alle _Rime_ del
    Carducci. — Sonetti satirici del Carducci. — Sonetto del
    Fanfani contro il Carducci. — Il _Momo_. — Il trionfo di
    Farfanicchio e la caricatura degli _amici pedanti_. — Una
    lettera del Guerrazzi. — Giudizio del Carducci intorno ai
    suoi critici. — Il Carducci si stabilisce a Firenze. —
    Francesco Menicucci. — Riunioni serali degli _amici
    pedanti_. — Morte improvvisa di Dante Carducci. — Il Padre
    Consagrata (Francesco Donati). — Riunioni e letture serali
    in casa Chiarini. — Il Carducci e Gaspero Barbèra. — I
    primi volumetti della _Collezione Diamante_, curati dal
    Carducci. — Polemica col _Passatempo_ per una poesia di
    Isidoro Del Lungo. — Morte del padre del Carducci. — Giosue
    porta la famiglia a Firenze. — Prime speranze della guerra
    per l’indipendenza. — Gli _amici pedanti_ fondano _Il
    Poliziano_. — La canzone _A Vittorio Emanuele_. — Il
    Carducci prende moglie. — Riunioni al caffè Galileo. —
    Silvio Giannini, l’ode _Alla croce di Savoia_ e il
    Salvagnoli. — Nomina del Carducci al Liceo di Pistoia. —
    Nascita della figlia Beatrice. — Nuovi volumetti della
    _Collezione Diamante_. — Il Carducci a Pistoia. — Louisa
    Grace-Bartolini. — L’ode _Sicilia e la rivoluzione_. —
    «Oh i codici del Poliziano e dei poeti antichi i
    Riccardiana!» — Il ministro Mamiani offre al Carducci la
    cattedra di lettere italiane all’Università di Bologna.

  CAPITOLO V (1860-1871)                                          133

  Il Carducci a Bologna. — Il Carducci ed Emilio Teza. — La
    toga a mezzo. — La prolusione e le prime lezioni del
    Carducci all’Università. — Altri lavori. — Canzone in morte
    di Pietro Thouar. — Il Gargani promesso sposo. — Morte del
    Gargani. — Lezioni su Dante, Petrarca e Boccaccio. — L’ode
    _Nei primi giorni del 1862_. — Evoluzione del Carducci
    da monarchico a repubblicano. — Periodo d’incubazione
    poetica. — Nuovi volumetti della _Collezione Diamante_. —
    L’ode _Dopo Aspromonte_. — L’Inno _A Satana_ e la
    pubblicazione delle _Poesie italiane del Poliziano_. —
    Lezioni all’Università dall’anno 1862-63 in poi. — La
    _Rivista italiana_ e l’_Ateneo italiano_. — La Festa di
    Calandrino e un sonetto inedito del Carducci. — Custoza e
    Lissa. — L’ode _Agli amici della Val Tiberina_. — Mentana.
    — L’epodo per Odoardo Corazzini. — La sospensione del
    Carducci. — Pubblicazione delle poesie _Levia Gravia_. —
    Il primo periodo dei _Giambi ed Epodi_. — Le poesie nella
    edizione Barbèra.

  CAPITOLO VI (1870-1878)                                         178

  Morte della madre e del figlio Dante. — «Sono io l’ortolano
    delle monache?» — Le _Nuove Poesie_. — Critiche dello
    Zendrini e del Guerzoni, e risposte del Carducci in
    _Critica e Arte_. — La libreria Zanichelli. — Seconda
    edizione delle _Nuove Poesie_. — Discorso sulle poesie
    latine dell’Ariosto. — Primi tentativi d’imitazione dei
    metri antichi greci e latini. — _Studi letterari_ editi
    dal Vigo. — _Bozzetti critici e discorsi letterari_, idem.
    — _Saggio di un testo e commento delle Rime del Petrarca._
    — Prime _Odi barbare_. — Altre poesie in rima. —
    Candidatura alla Deputazione del Collegio di Lugo. —
    Nomina, ed esclusione per il sorteggio. — Giudizio
    del Carducci sul Parlamento. — Visita a Francesco
    Donati a Serravezza. — I _Postuma_ di Olindo Guerrini. —
    Accoglienza dei critici italiani alle _Odi barbare_. —
    Il Carducci a Perugia e il _Canto dell’amore_. — L’ode
    _Alla Regina d’Italia_. — _Eterno femminino regale._ —
    L’ode per Eugenio Napoleone.

  CAPITOLO VII (1878-1883)                                        212

  L’ode _Saluto italico_. — Visita a Trieste. — Scritti per
    Guglielmo Oberdan. — Il _Fanfulla della Domenica_. — Il
    Carducci a Roma. — Il Carducci e il Prati. — Enrico
    Nencioni. — Il _Bothwell_ del Swinburne e il libraio
    Goodban. — Angiolino Sommaruga. — I saloni gialli del
    _Capitan Fracassa_ e la corte letteraria alla _Cronaca
    bizantina_. — Il Carducci e la _Cronaca bizantina_. — La
    _Domenica letteraria_. — La _Domenica del Fracassa_. —
    Arresto del Sommaruga. — Opinione di Gandolin sul
    Sommaruga in America. — Il Carducci al Consiglio superiore
    dell’istruzione. — Vita del Carducci a Bologna dopo il
    1870. — Le serate da Rovinazzi e da Cillario. — Il
    pasto del mago. — I dodici sonetti _Ça ira_. — Le
    critiche ai sonetti. — Il _Ça ira_ in prosa.

  CAPITOLO VIII (1881-1888)                                       244

  Matrimonio della figlia Beatrice. — Il Carducci alla Maulina.
    — «La gatta non istà del suo meglio.» — Gita a Volterra. —
    Il banchetto alla società democratica e il banchetto
    al Collegio degli Scolopii. — Visita a San Gimignano dalle
    belle torri. — «Sommaruga vuole la mia pelle, e non me la
    paga.» — Edizioni definitive delle poesie, _Juvenilia,
    Levia Gravia, Giambi ed Epodi_ nella collezione elzeviriana
    Zanichelli. — _Confessioni e Battaglie_ nella edizione
    Sommaruga. — _Nuove Odi barbare._ — Posto d’Ispettore
    Generale degli studi classici. — L’ode _Scoglio di Quarto_.
    — Disturbo nervoso. — Peregrinazione maremmana. — Debolezze
    e vertigini. — Il Carducci in Carnia. — Candidatura alla
    deputazione nel Collegio di Pisa. — _Davanti a San Guido_
    ed altre poesie. — Pubblicazione delle _Rime nuove_. — La
    cattedra dantesca a Roma. — Dante e l’Italia ufficiale. —
    Rifiuto della cattedra dantesca. — Discorso su Dante
    all’Università di Roma. — Discorsi su _Jaufrè Rudel_ e su
    _Lo studio di Bologna_. — Il Carducci a Madesimo
    nell’agosto 1888. — Dichiarazione nel _Resto del Carlino_.

  CAPITOLO IX (1889-1891)                                         281

  Il Carducci primo eletto al Consiglio comunale di Bologna. —
    Edizione delle opere complete. — Le _Terze Odi barbare_. —
    Raccolta e riordinamento di tutte le odi barbare in
    un solo volume. — Nomina a Senatore. — Una cena finita
    male. — Caduta del primo Ministero Crispi. — Vita del
    Carducci a Roma. — La trattoria in Via dei Sabini. — Il
    Castello di Costantino. — In casa di Adriano Lemmi. —
    «Scusi, lei non capisce niente.» — Evoluzione politica
    del Carducci spiegata da lui stesso. — Dimostrazione degli
    studenti radicali contro il Carducci. — Fischi
    all’Università. — «È inutile che gridiate _abbasso_: la
    natura mi ha messo in alto.» — Ripresa delle lezioni.

  CAPITOLO X (1892-1902)                                          312

  Il Carducci al Senato. — Studi e lezioni sul Parini. — _La
    Bicocca di S. Giacomo, La guerra, Il Cadore._ — Lezioni
    all’Università su l’Alfieri e le tragedie di soggetto
    romano e italiano. — Ultimo Ministero Crispi. — Polemiche
    crispine. — Onoranze al Carducci per il giubileo del suo
    magistero. — Il Nencioni scrittore. — La paroletta
    misteriosa di un lucherino. — Malattia e morte del
    Nencioni. — Il Carducci presidente della Commissione per
    gli scritti inediti del Leopardi. — Studi leopardiani. —
    Morte di Carlo Bevilacqua. — _Rime e Ritmi._ — Due degli
    ultimi sonetti. — Il Carducci a Madesimo nel luglio del
    1899. — La prefazione ai _Rerum Italicarum Scriptores_ del
    Muratori. — Nuovo disturbo nervoso. — L’edizione delle
    poesie complete in un volume. — I volumi XI, XII e XIII
    delle _Opere_. — Lavori riserbati dal poeta agli ultimi
    anni della sua vita. — La biblioteca del Carducci.

  CAPITOLO XI. — GIOSUÈ CARDUCCI E IL SUO TEMPO                   351

  Carattere dell’uomo. — Condizioni dello spirito pubblico
    in Toscana dopo il 1849. — Precoce spirito d’opposizione.
    — Il Carducci e i primi fatti del risorgimento italiano. —
    L’Aleardi e lo Zanella poeti della nuova Italia. — Il poeta
    dei _Giambi ed Epodi_, esaltato dai repubblicani,
    maltrattato dai monarchici. — _Nuove Poesie._ — La critica
    del Guerzoni nella _Gazzetta ufficiale_. — La gioventù
    italiana si volge al Carducci. — L’Aleardi riconosce
    d’avere sbagliato strada. — Classicismo del Prati e del
    Dall’Ongaro. — Le Università italiane nella prima metà del
    secolo. — Il metodo storico negli studi letterari. — Le
    _Odi barbare_ e la critica dei giornali. — Scrittori
    messi in satira dal Carducci. — Il De Amicis e il Giacosa.
    — Poca simpatia per il poeta delle _Odi barbare_, ed
    impreparazione del pubblico a gustarlo. — Reazione. —
    Edizioni elzeviriane dello Zanichelli. — La
    poesia verista e il _Grido_ del Rizzi. — _Novissima
    Polemica._ — Idee del Carducci intorno alla poesia amorosa.
    — Il Manzoni e il Leopardi. — Vittorio Emanuele, Garibaldi
    e Cavour. — La cultura letteraria in Italia dopo la
    conquista di Roma. — L’Italia si accorge finalmente di
    possedere un poeta vero. — Gli scolari del Carducci. —
    Giovanni Pascoli e Giovanni Marradi. — Severino Ferrari e
    Guido Mazzoni. — Ugo Brilli. — Il Carducci non rappresenta,
    come scrittore, il suo tempo. — Passione del Carducci per
    la storia — Il mondo ideale del poeta.

  CAPITOLO XII. — Appendice (1903-1907)                           399

  NOTE AL PROEMIO E AL CAPITOLO I                                 433

  NOTE AL CAPITOLO III                                            443

  NOTE AL CAPITOLO IV                                             453

  NOTE AL CAPITOLO V                                              497




NOTE:


[1] CARDUCCI, _Opere_. Bologna, Zanichelli, vol. IV, pag. 3 e seg.

[2] CARDUCCI, _Opere_. Bologna, Zanichelli, vol. III, pag. 143 e seg.

[3] BORGOGNONI, Biografia del Carducci premessa alla terza edizione
delle _Poesie_ di lui. Firenze, Barbèra, 1878, pag. X.

[4] BORGOGNONI, op. cit., pag. XIV.

[5] Il Padre Pistelli le raccolse veramente per uso di Guido Biagi; il
quale volle gentilmente comunicarmele; di che gli son grato.

[6] _Consule Planco_, Lettera a Ferdinando Martini, pubblicata nella
_Domenica letteraria_ del 30 aprile 1882, come saggio del volume _Il
primo passo_ stampato a cura di quel giornale.

[7] BORGOGNONI, op. cit., pag. XVII.

[8] CARDUCCI, _Opere_, vol. IV, pag. 7 e seg.

[9] BORGOGNONI, op. cit., pag. XVIII.

[10] Era il soprannome stato messo al Carducci alla Scuola Normale,
«causa, dice egli stesso, un raddoppiamento spostato nella coniugazione
del verbo πίνειν.» Vedi CARDUCCI, _Opere_, vol. IV, pag. 19.

[11] FERDINANDO CRISTIANI, _Il Carducci alla Scuola Normale_, nella
_Rivista d’Italia_, anno IV, fasc. V (maggio 1901), pag. 44 e seg.

[12] CRISTIANI, _Scritto_ citato, opera citata, pag. 46.

[13] CRISTIANI, _Scritto_ cit., op. cit., pag. 48 e 49.

[14] CRISTIANI, _Scritto_ cit., op. cit., pag. 49.

[15] Vedi lo scritto di GUIDO MAZZONI, _Giosue Carducci e Gaspero
Barbèra_, nel citato fascicolo della _Rivista d’Italia_, pag. 59.

[16] Questi tre sonetti sono ristampati nel libro V dei _Juvenilia_
sotto i n. LXXIII, LXXIV, LXXV, con poche modificazioni il 1º e il
3º, mutato assai, e scorciato d’un terzo nella coda, il 2º. Anche
l’ordine loro è cambiato: viene primo quello _Ai poeti odiernissimi_,
col semplice titolo _Ancora ai poeti_; secondo quello _Ai filologi_,
col titolo _A scusa d’un francesismo scappato nel precedente sonetto_;
terzo quello _Alla musa odiernissima_, il cui titolo è rimasto
immutato.

[17] CARDUCCI, _Opere_, vol. V, pag. IV.

[18] CARDUCCI, _Opere_, vol. IV. pag. 19.

[19] Ivi, pag. 20.

[20] CARDUCCI, _Opere_, vol. IV, pag. 20, 21.

[21] CARDUCCI, _Opere_, vol. cit., pag. 21, 22.

[22] CARDUCCI, _Opere_, vol. cit., pag. 35.

[23] CARDUCCI, _Opere_, vol. IV, pag. 36, 37.

[24] CARDUCCI, _Opere_, vol. IV, pag. 52, 53

[25] Vedi _Opere_, vol. IV, pag. 29 e seg.

[26] Vedi la lettera a pag. 51 e seg. del citato fascicolo della
_Rivista_. L’autore anonimo degli articoli del _Passatempo_ era, come
poi sapemmo, e come il Del Lungo scrive nella sua lettera a me, Corrado
Gargiolli, che in seguito cercò con grande insistenza l’amicizia di
lui. Vedi nelle note a questo capitolo l’articolo del Carducci sulla
poesia del Del Lungo.

[27] Vedi CARDUCCI, _Opere_, vol. IV, pag. 76 e seg.

[28] CHIARINI, _Giosue Carducci, Impressioni e ricordi_. Bologna,
Zanichelli, 1901, pag. 303.

[29] Vedi CARDUCCI, _Opere_, vol. IV, pag. 72 e seg.

[30] _Rivista d’Italia_, fascicolo del maggio 1901, pag. 62.

[31] CARDUCCI, _Opere_, vol. IV, pag. 44.

[32] _Rivista d’Italia_, loc. cit.

[33] CARDUCCI, _Opere_, vol. II, pag. 441 a 484.

[34] _Poesie di Giosue Carducci._ Bologna, Zanichelli, 1901, pag. 370.

[35] Chi fosse curioso di maggiori particolari sulle case abitate dal
Carducci a Bologna, li troverà nell’articolo di Ugo Pesci, _Il Carducci
intimo_, nella Rivista popolare illustrata, _Il secolo XX_ (n. VI,
novembre 1902).

[36] Nelle edizioni definitive delle Poesie fu messo nei _Juvenilia_.

[37] Era la _Rivista italiana di scienze, lettere ed arti_, con le
effemeridi della pubblica istruzione, che si pubblicava a fascicoli
settimanali di 16 pagine in Torino, e della quale parlerò più avanti.

[38] Doveva essere, e fu, pubblicato nel volume _Dante e il suo
secolo_, messo insieme da Gaetano Ghivizzani e stampato dal Cellini in
occasione del centenario dantesco.

[39] Nel n. 33, anno III, del _Giornale d’Italia_ (2 febbraio 1903).

[40] Era la graziosa edizione di _Virgilio_, col comento latino ad
imitazione di quelli del Bond, pubblicata da qualche anno, poco dopo
quella dell’_Orazio_.

[41] Si allude ad Alfonso La Marmora, allora Presidente del Consiglio.

[42] Vedi due lettere del Carducci a Gaspero Barbèra nelle _Memorie di
un Editore_, pagg. 569 e 572.

[43] Vedi la difesa mandata dal Carducci al Consiglio Superiore, nel
vol. V delle _Opere_ a pag. 56 e seg., la quale fu contemporaneamente
stampata nel giornale _L’Amico del Popolo_ di Bologna del 7 aprile
1868. Vedi anche la prefazione ai Giambi ed Epodi nel vol. IV delle
_Opere_.

[44] GIUSEPPE ALBINI, _Il Carducci nella scuola_, in _Rivista
d’Italia_, fascicolo del maggio 1901, pag. 91

[45] Dal giornale di Bologna _La Vedetta_, anno I, n. 2 (20 ottobre
1876).

[46] CARDUCCI, _Opere_, vol. IV, pag. 464 e seg.

[47] CARDUCCI, _Opere_, vol. IV, pag. 357.

[48] CARDUCCI, _Opere_, vol. XII, png. 235, 238 e 239.

[49] CARDUCCI, _Opere_, vol. cit., pag. 242.

[50] Ivi, pag. 243.

[51] MARIO MENGHINI, _Il Carducci a Roma_, nel fascicolo del maggio
1901 della _Rivista d’Italia_, pag. 126.

[52] _La Nuova Rassegna_, anno I, n. 3 (5 febbraio 1893).

[53] _La Nuova Rassegna_, num. cit.

[54] _La Nuova Rassegna_, num. cit.

[55] _Maria Teresa Di Serego-Alighieri Gozzadini_, con prefazione di
GIOSUE CARDUCCI. Bologna, Zanichelli, 1884.

[56] AVERARDO BORSI, _Il Carducci in Maremma_; nella _Rivista
d’Italia_, fascicolo del maggio 1901, pag. 33, 34.

[57] Giulio Gnaccarini, che fu poi sposo della Lauretta.

[58] BORSI, scritto cit., pag. 36, 37.

[59] Livorno, Tipografia Giusti, 1895.

[60] Insieme con la romanza spagnuola, _La lavandaia di San
Giovanni_, il Carducci pubblicò in quel primo numero della _Rassegna
settimanale_ la ballata danese _Sir Òluf_ (La figlia del re degli
elfi), raccogliendole tutte due sotto il titolo _Da mezzogiorno a
settentrione_. La stessa _Rassegna_ pubblicò poi, i primi cinque
capitoli dell’_Intermezzo_ nel n. 5 (3 febbraio 1878), la prima parte
della _Canzone di Legnano_ nel n. 65 (30 marzo 1879), e le due odi
barbare _Ave_ e _Nevicata_ nei nn. 120 (18 aprile 1880) e 170 (3 aprile
1881).

[61] CARDUCCI, _Opere_, vol. I, pag. 224, 225.

[62] Il Libro delle prefazioni, stampato nel 1888 dall’editore Lapi di
Città di Castello, fu fatto pubblicare, col consenso dell’autore, dagli
scrittori del giornale _Il Capitan Fracassa_, che lo diedero in premio
ai loro associati. Contiene, oltre la prefazione, i seguenti scritti:
1º _Cino da Pistoia ed altri rimatori del secolo XIV_, 2º _Lorenzo de’
Medici_, 3º _Alessandro Tassoni_, 4º _Vita di Salvator Rosa_, 5º _Della
poesia melica italiana e di alcuni poeti erotici del secolo XVIII_, 6º
_La lirica classica nella seconda metà del secolo XVIII_.

[63] Le _Terze Odi barbare di Giosue Carducci:_ articolo di Angelo
Tomaselli nella _Rassegna emiliana_, anno II, fasc. V.

[64] MARIO MENGHINI, _Il Carducci a Roma_; in _Rivista d’Italia_
fascicolo di maggio 1901, pag. 130, 131.

[65] MENGHINI, scritto cit., pag. 133.

[66] CARDUCCI, _Opere_, vol. XII, pag. 440.

[67] Vedi CARDUCCI, _Opere_, vol. XII, pag. 568.

[68] CARDUCCI, _Opere_, vol. XII, pag. 569.

[69] CARDUCCI, _Opere_, vol. XII, pag. 570.

[70] CARDUCCI, _Opere_, vol. XI, pag. 369.

[71] CARDUCCI, _Opere_, vol. XII, pag. 572 e seg.

[72] Vedi il giornale _Il Marzocco_, anno V, n. 19 (13 maggio 1900).

[73] Ugo Pesci, generalmente bene informato delle cose riguardanti
il Carducci, in un diligente e interessante articolo, _Il Carducci
intimo_, pubblicato nel Secolo XX (n. VI, novembre 1902) scrive a
proposito della morte del Bevilacqua: «Una mattina nella primavera
del ’99 la morte lo colse all’improvviso, su la cattedra, mentre
faceva lezione; ed i suoi due figli più grandi, ancora adolescenti,
ascoltavano in una sala vicina la lezione d’un altro maestro!» Ciò non
è esatto. Carlo Bevilacqua morì la mattina del 2 dicembre 1898 nel suo
letto, per malattia quasi improvvisa (dissero una _colica epatica_)
che gli si era manifestata con grande violenza due giorni innanzi.
Nel giorno 30 novembre aveva fatto regolarmente le sue lezioni e preso
parte attivissima ad una adunanza del Collegio degli insegnanti, senza
accusare nessun disturbo. La notte gli prese il male; nel giorno di poi
migliorò; la mattina seguente ebbe un improvviso peggioramento, e morì.
Era nato a San Quirico di Moriano presso Lucca il 6 aprile 1849.

[74] Vedi il libro di Giulio Padovani, _A vespro_. Bologna, Zanichelli,
1901, pag. 109.

[75] CARDUCCI, _Opere_, vol. III, pag. 271.

[76] CARDUCCI, _Opere_, vol. III, pag. 280.

[77] _Nuova Antologia_, vol. XX (seconda serie), pag. 374.

[78] CARDUCCI, _Opere_, vol. XII, pag. 161.

[79] _Polemica novissima_, per LUIGI ALBERTI. In Firenze, pei tipi
dell’Arte della Stampa, 1878.

[80] GIOVANNI RIZZI, _Un grido_; quarta edizione con Appendice. Milano,
Brigola, 1879.

[81] CARDUCCI, _Opere_, vol. XI, pag. 295.

[82] Quelli scritti polemici furono poi raccolti in un libretto,
intitolato: _Alla ricerca della verecondia_. Roma, Sommaruga, 1884.

[83] CARDUCCI, _Opere_, vol. III, pag. 436.

[84] Ciò che è detto qui dei Saggi su l’_Aminta_ serva di correzione
e compimento a ciò che dei Saggi stessi è detto a pag. 317 di questo
volume.

[85] Il Carducci morì il 16 febbraio allo ore 1,28. Aveva avuto un
attacco d’influenza l’8 febbraio, del quale il 12 pareva guarito, tanto
che espresse il desiderio di alzarsi; ma il 14 tornò la febbre con
bronchite e pneumonite, che tolsero subito ogni speranza di guarigione.

[86] Data nella prima lettera, con la quale il Carducci parlava della
malignità del suo critico.

[87] Così sta questo verso nella prima edizione delle _Rime_ (San
Miniato, 1857); e così fu riprodotto in tutte le altre fino all’ultima
delle _Poesie_ complete in un volume. È singolare che l’autore non si
accorgesse che la rima non è esatta, o che, se se ne accorse, credesse
bene di non correggere.

[88] Debbo le prime due di queste lettere alla cortesia del professore
Adriano Augusto Michieli, che le copiò per me dalla Marciana di
Venezia, ove conservansi con altre carte del Carducci. La terza fu
stampata nel _Giornale d’Italia_ 30 marzo 1907 a cura del signor G.
Emilio Curàtulo. Le altre due le pubblicai io stesso nel fascicolo del
maggio 1901 della _Rivista d’Italia_.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE DELLA VITA DI GIOSUE CARDUCCI (1835-1907) ***


    

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with your written explanation. The person or entity that provided you
with the defective work may elect to provide a replacement copy in
lieu of a refund. If you received the work electronically, the person
or entity providing it to you may choose to give you a second
opportunity to receive the work electronically in lieu of a refund. If
the second copy is also defective, you may demand a refund in writing
without further opportunities to fix the problem.

1.F.4. Except for the limited right of replacement or refund set forth
in paragraph 1.F.3, this work is provided to you ‘AS-IS’, WITH NO
OTHER WARRANTIES OF ANY KIND, EXPRESS OR IMPLIED, INCLUDING BUT NOT
LIMITED TO WARRANTIES OF MERCHANTABILITY OR FITNESS FOR ANY PURPOSE.

1.F.5. Some states do not allow disclaimers of certain implied
warranties or the exclusion or limitation of certain types of
damages. If any disclaimer or limitation set forth in this agreement
violates the law of the state applicable to this agreement, the
agreement shall be interpreted to make the maximum disclaimer or
limitation permitted by the applicable state law. The invalidity or
unenforceability of any provision of this agreement shall not void the
remaining provisions.

1.F.6. INDEMNITY - You agree to indemnify and hold the Foundation, the
trademark owner, any agent or employee of the Foundation, anyone
providing copies of Project Gutenberg™ electronic works in
accordance with this agreement, and any volunteers associated with the
production, promotion and distribution of Project Gutenberg™
electronic works, harmless from all liability, costs and expenses,
including legal fees, that arise directly or indirectly from any of
the following which you do or cause to occur: (a) distribution of this
or any Project Gutenberg™ work, (b) alteration, modification, or
additions or deletions to any Project Gutenberg™ work, and (c) any
Defect you cause.

Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s
goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg™ and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state
visit www.gutenberg.org/donate.

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
donate, please visit: www.gutenberg.org/donate.

Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of
volunteer support.

Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in
the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not
necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper
edition.

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facility: www.gutenberg.org.

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including how to make donations to the Project Gutenberg Literary
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