The Project Gutenberg eBook of Storia della Repubblica di Firenze v. 1/3, by Gino Capponi This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Storia della Repubblica di Firenze v. 1/3 Author: Gino Capponi Release Date: February 1, 2022 [eBook #67295] Language: Italian Produced by: Barbara Magni, Carlo Traverso and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK STORIA DELLA REPUBBLICA DI FIRENZE V. 1/3 *** STORIA DELLA REPUBBLICA DI FIRENZE DI GINO CAPPONI. SECONDA EDIZIONE RIVISTA DALL’AUTORE TOMO PRIMO. FIRENZE, G. BARBÈRA, EDITORE. 1876. Depositata al Ministero d’Agricoltura, Industria e Commercio per godere i diritti accordati dalla legge sulla proprietà letteraria. G. BARBÈRA. _Gennaio 1875._ PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE IN-8º DEL 1875. Essendo a tutti oramai noto che le Prefazioni si fanno da ultimo; e poichè, fuori d’ogni mia speranza, mi fu concesso condurmi al termine di questo lavoro, voglio pur dire intorno ad esso alcune cose che poi mi dispiacerebbe avere taciute. Che io mi ci mettessi, andò a questo modo. Una gentile francese, madama Ortensia Allart, nota in Italia come in Francia per molte sue pubblicazioni, frutto di studi più che femminili e d’un pensiero che gode spaziare sul corso dei tempi; mandò alle stampe nel 1843 un ristretto della Storia della Repubblica Fiorentina, che per molti rispetti è il migliore di quanti se ne abbiano tentati fin qui. Di questo Libro il signore Alessandro Carraresi negli anni seguenti aveva compito una traduzione: ma in esso alcune cose erano di troppo per noi Italiani, altre non bastavano. Mi posi a farvi così a mente alcune note, poi a ristringere alcuni brani del testo francese, altri ad allargare: così a poco a poco mi trovai con tutto il pensiero dentro alla Storia di Firenze. I tempi erano fortunosi e a me difficili per molti rispetti: questo pensiero m’accorsi che mi era un riposo, e quindi usciva, quale si sia, l’Istoria presente, spesso interrotta per varie cause intramezzata da altri studi. In essa ritrovo perfino certe intonazioni che nei primi tempi a me venivano dallo Scrittore francese; di queste cose io ringrazio la Donna gentile, e più dell’avermi, senza che ella vi pensasse, imposto un obbligo che a me fu spesso un grande sollievo. Assunto una volta, mi pareva che fosse dovere di galantuomo porvi grandissima diligenza e molto pensarvi; perchè una storia fatta alla leggera, spesso riesce una storia falsa, cioè una menzogna. Così per tutti i mancamenti di questo Libro, sappia il Lettore che io non cerco a me altra scusa, eccetto quella molto plausibile del non avere io saputo fare più e meglio. In questi tempi un’altra cosa venne a fermare in me il proposito di pormi sul serio a fare una Storia della Repubblica di Firenze. N’ebbe prima in mente l’idea il signor Thiers, tanto da avere bene adocchiato e lungamente adoperato nel Canestrini l’uomo capace a provvedergliene qui la materia dagli Archivi nostri. Soleva dire il signor Thiers, che a lui parendo andare il mondo a una democrazia, era sopra ogni altra storia da studiare questa, come la più democratica dei tempi antichi e dei moderni. Ma un’altra Storia maggiore di troppo e tutta francese a sè chiamava l’illustre Autore; ed egli ha in oggi deposto affatto ogni pensiero di questa nostra, la quale avrebbe da lui avuta una celebrità che da niun altri potrebbe avere. Contuttociò non avrei potuto in modo nessuno venire a capo di questo Libro se allo scriverlo non avessi avuto l’opera continua e amorevole del Carraresi che potrà sempre dire pensando a me, _oculus fui cæco_. Mi è caro poi rendere grazie al signor Cesare Guasti che all’edizione volle prestare con tanta sua benignità le ultime cure, e che l’arricchiva di alcuni Documenti, con l’aiuto di quei valentuomini che nel Grande Archivio di Stato seco attendono a una istituzione molto onorevole al Paese nostro. Nè potrei qui tacere il nome del signor Barone Alfredo Reumont, del quale ho già detto a suo luogo come egli mi abbia nelle frequenti sue conversazioni di questi anni fatto quasi respirare l’aria di quei secoli nei quali vive con la memoria capacissima. Mi fu egli inoltre d’eccitamento alla presente pubblicazione, cui fece onore forse anche troppo il signor Gaspero Barbèra, quando egli volle a una Storia tutta popolana dare un abito che ha del signorile. SOMMARI DEL TOMO PRIMO. LIBRO PRIMO. _Capitolo_ I. — ORIGINE DI FIRENZE Pag. 1 Firenze, mercato di Fiesole, poi colonia romana. — Editto di Tiberio a favore dei Fiorentini. — Traccie d’edifizi romani in Firenze. — An. 405, 8 ottobre, giorno di Santa Reparata, un esercito di barbari sotto Radagasio è debellato da Stilicone nei monti di Fiesole. — An. 542, Totila re Goto assedia Firenze; la quale nè fu distrutta da Attila, nè riedificata da Carlo Magno. — Il Cristianesimo in Firenze fino dal IV secolo; antichi vescovi e antiche chiese. — Firenze, figlia di Roma; la razza etrusca si mantenne più in Fiesole. — Leggende intorno a Catilina e ad un re di Fiesole. — Vennero i Barbari e pigliarono residenza negli alti luoghi e nei castelli: gli antichi popoli abitavano le pianure. — Prime famiglie venute a stare in Firenze. — I Barbari poco numerosi nella Toscana, per la magrezza del suolo, e per essere meno percorsa dagli eserciti. — Verso l’anno 1010 i Fiesolani e i Fiorentini fanno un solo popolo con un solo stemma; è però falso che in quell’anno i Fiorentini pigliassero Fiesole. _Capitolo_ II. — LA CONTESSA MATILDE. — AMPLIAZIONE DEL CONTADO. — PRIME ZUFFE CITTADINE. — LEGA TRA LE CITTÀ DI TOSCANA. [AN. 1050-1215] 8 La contessa Matilde. — Primo cerchio della città e nuova cinta di mura. — An. 1081, l’imperatore Arrigo IV assedia Firenze, poi è costretto levare il campo. — La contessa Matilde promuove le libertà comunali ed amplia a Firenze il contado: le milizie fiorentine combattevano sotto al comando della Contessa. — An. 1115; morte della Contessa Matilde: progredisce l’indipendenza della città, soccorso ai Pisani e storia delle colonne di porfido. — An. 1125, presa di Fiesole: an. 1135, castello di Montebuoni abbattuto e i Buondelmonti costretti farsi cittadini. — Altre guerre in Toscana dove interviene l’autorità dei Marchesi. — An. 1147, crociata in Terrasanta. — Cacciaguida. — Firenze e Pisa messe al bando dell’Impero. — Le città di Toscana esercitando l’indipendenza si preparano a possederla. — Firenze in guerra con gli Aretini e coi Senesi. — An. 1177, prime guerre civili in Firenze: gli Uberti. — Pace di Costanza, an. 1183. — Empoli divenuta censuaria dei Fiorentini: castelli espugnati, i Conti di Mangona e di Vernio ricevuti in accomandigia. — Il Barbarossa venuto in Toscana toglie a Firenze tutto il contado. — Arrigo suo figlio tiene l’an. 1187 corte in Fucecchio; poi, morto il padre l’an. 1190, crea Duca di Toscana Filippo suo fratello. Questi l’an. 1197, morto Arrigo, abbandona l’Italia, e fu l’ultimo in Toscana dei Duchi o Marchesi: Firenze racquista il suo Contado. — Prima Lega Toscana fermata in San Genesio alla presenza di due Legati di Celestino III. — Certaldo e Figline fanno dedizione al Comune di Firenze; Semifonte distrutto per lunga guerra con divieto di farlo risorgere. — Montelupo edificato all’incontro di Capraia che era in forza dei Conti Alberti; Montemurlo avuto in compra dai Conti Guidi; altri castelli abbattuti: tenevano in protezione Montepulciano e Montalcino, dal che lunghe guerre co’ Senesi. _Capitolo_ III. — GOVERNO DI FIRENZE. — GUELFI E GHIBELLINI, BUONDELMONTI E UBERTI. — AFFRANCAZIONE DEI CONTADINI. — GUERRE IN TOSCANA. — CACCIATA DEI GUELFI. [AN. 1215-1249.] 22 Firenze retta da Consoli, dei quali varia il numero; antichi sono i Consoli delle Arti. — I Potestà non cominciano in Firenze subito dopo la pace di Costanza; dal 1218 in poi continua la serie dei Potestà sempre forestieri. — I Vescovi non ebbero in Firenze giurisdizione politica, e furono spesso col popolo. — Fondazione dell’Abbazia di Valombrosa. — 1215. Uccisione di Buondelmonte dei Buondelmonti: le nobili famiglie della città si dividono, e vi entrò il nome di Guelfi e di Ghibellini. — 1217. Cavalieri fiorentini alla Crociata; Buonaguisa della Pressa. — 1218. I Fiorentini fanno giurare alla Signoria del Comune tutto il Contado, e nel 1233 registrare i nomi degli abitatori, ciascuno secondo la sua condizione: abbattono molte castella di Nobili. — Continua la guerra con Siena. — Guerra contro Pisa. — 1229. Muore Accorso da Bagnolo glossatore. — Firenze cresceva molto in quest’anni per le arti e pei commerci: antichi dentro la città il Battistero di San Giovanni, e fuori il tempio di San Miniato. — Si popola il Sesto d’Oltrarno per nuove famiglie; edificazione di due ponti. — Sètta dei Paterini in Firenze, promossa da Federigo: battaglie contro essi in città, ricordate da due colonne. — Fondazione dell’Ordine dei Serviti. — I Ghibellini di Firenze rafforzati da cavalieri tedeschi, percuotono i Guelfi; questi, abbandonata la città, si spargono pei castelli e per le ville. — Torri dei Guelfi abbattute. — Espugnazione del castello di Capraia, dove molti Guelfi se erano rifuggiti; i quali trattati crudelmente dall’Imperatore sono da lui condotti in Puglia. _Capitolo_ IV. — PRIMA VITTORIA DEL POPOLO, E GOVERNO DEGLI ANZIANI. — FELICITÀ DEI GUELFI. [AN. 1250-1254.] 34 I Guelfi pigliano forza: il popolo si raduna in arme, elegge un Potestà nuovo e un Capitano del Popolo e dodici Anziani [20 ottobre 1250]. — Descrizione della gioventù in compagnie, sotto al comando del Capitano del Popolo. — Popolazione del contado divisa in leghe per la difesa del Comune. — Fondazione del Palazzo del Potestà. — Firenze si dichiara guelfa. — Nobili famiglie ghibelline mandate in bando fanno lega co’ Senesi. — Nuova moneta del fiorino d’oro. — Firenze si pone a capo della Parte guelfa; rinnalza e assicura questa nella città di Pistoia, soccorre i Perugini, combatte guerre fortunate contro Arezzo e Volterra e Pisa e Siena. — An. 1254, ch’ebbe nome d’anno vittorioso. _Capitolo_ V. — MANFREDI RE DI NAPOLI AIUTA I GHIBELLINI. — BATTAGLIA DI MONTAPERTI. [AN. 1254-1260.] 39 Moti dei Ghibellini, e bando dato alle maggiori di quelle famiglie. — Guerra con Pisa in servigio dei Lucchesi; virtù d’Aldobrandino degli Ottoboni. — Costumi dei Fiorentini. — Serraglio dei Leoni. — Guerra con Siena. — Il Carroccio. — Astuzia di Farinata degli Uberti; cavalieri tedeschi mandati da Manfredi. — Inganno tessuto da Farinata ai Fiorentini. — Consigli del Tegghiaio Aldobrandi e degli uomini prudenti; temerità d’alcuni degli Anziani. — Aiuti a Firenze di tutti i Guelfi di Toscana, a Siena delle città ghibelline. — I Fiorentini pongono il campo sul fiume dell’Arbia presso al castello di Montaperti. — Apparecchi dentro Siena, battaglia, tradimento di Bocca Abati, difesa del Carroccio. — Grande sconfitta dei Guelfi. _Capitolo_ VI. — FIRENZE IN MANO AI GHIBELLINI. — FARINATA DEGLI UBERTI VIETA LA DISTRUZIONE DELLA CITTÀ. — MISERIA DEI GUELFI. — DISCESA IN ITALIA DI CARLO D’ANGIÒ, E MORTE DEL RE MANFREDI. [1260-1266.] 51 I Ghibellini in Firenze. — Le famiglie Guelfe abbandonano la città. — Parlamento in Empoli, dove Farinata proibisce che Firenze sia disfatta. — La Toscana viene tutta nelle mani dei Ghibellini. — Famiglie guelfe rifugiate in Lucca, di dove poi sono costrette partirsi. — Miseria dei Guelfi, che si spargono per l’Italia e fuori. — Urbano IV chiama in Italia Carlo d’Angiò fratello di San Luigi re di Francia. — Battaglia di Benevento, morte di Manfredi. _Capitolo_ VII. — FINALE VITTORIA DEI GUELFI. — COSTITUZIONE DELLE ARTI. — MAGISTRATO DI PARTE GUELFA. — GOVERNO DELLA CITTÀ DATO AL RE CARLO PER DIECI ANNI. [AN. 1266-1267.] 56 I Guelfi levano il capo. — Due Frati Gaudenti vengono in Firenze a stare in luogo del Potestà. — Questi eleggono trentasei buoni uomini a riordinare la città. — Costituzione in collegi armati delle sette Arti maggiori e di cinque minori. — Insorgono molte potenti famiglie ghibelline, e con l’aiuto di cavalieri tedeschi combattono il popolo; ma tutti insieme sono costretti uscire dalla città, che rimase allora libera di sè stessa. — Signoria data al re Carlo per dieci anni. — Ingerenza in questi fatti del pontefice Clemente IV. — Costituzione della città: vendita dei beni dei Ghibellini: famiglia dei Mirabeau. — Creazione del magistrato di Parte guelfa. — Venuta in Firenze del re Carlo. LIBRO SECONDO. _Capitolo_ I. — GREGORIO X IN FIRENZE. — PACE DEL CARDINALE LATINO. — ISTITUZIONE DEL MAGISTRATO DEI PRIORI. [AN. 1268-1282] 69 1268. Corradino in Toscana. — Vendette contro ai Ghibellini. — An. 1273. Gregorio X in Firenze; pace da lui procurata tra le due parti, ma subito rotta; la città interdetta. — Per la prepotenza del re Carlo, Niccolò III consente al ritorno d’un luogotenente imperiale in San Miniato. — Discordie tra’ Guelfi. — 1280. Niccolò III manda il Cardinale Latino in Firenze: questi ferma una pace per la quale tornano i Ghibellini; i magistrati da mutarsi ogni due mesi: il Papa custode di quella pace. — Vespro siciliano. — Termine della Signoria di dieci anni concessa al re Carlo. — Abbassamento della Parte ghibellina. — 1282. Istituzione del Priorato. — Ordinamento delle Arti minori. _Capitolo_ II. — SCONFITTA DEI PISANI ALLA MELORIA. — IL CONTE UGOLINO DELLA GHERARDESCA. — GUERRA CONTRO AI GHIBELLINI D’AREZZO; VITTORIA DI CAMPALDINO, E BUONO STATO DELLA CITTÀ DI FIRENZE. [AN. 1282-1292.] 81 Sconfitta dei Pisani alla Meloria: il Conte Ugolino della Gherardesca. — Guerra contro ai Ghibellini di Arezzo. — Vantaggio ottenuto dagli Aretini alla Pieve del Toppo. Formazione dei due eserciti. — 11 giugno 1289, battaglia di Campaldino: grande rotta dei Ghibellini. — Mossa inutile verso Arezzo. — Feste in Firenze. _Capitolo_ III. — GIANO DELLA BELLA. — ORDINI DELLA GIUSTIZIA CONTRO I GRANDI. — ISTITUZIONE DEL GONFALONIERATO. [AN. 1293-1295.] 89 Felice stato della città. — Gli antichi Nobili e gli uomini del Contado. — 1293. Giano Della Bella. — Ordinamento della Giustizia e leggi successive contro ai Grandi. — Istituzione dell’ufficio di Gonfaloniere, sommo magistrato eletto a due mesi per la difesa dello Stato popolare e per l’esecuzione delle leggi contro ai Grandi. Aveva il comando delle milizie cittadine e di quelle che venivano somministrate dalle Leghe del Contado. — Pace con Pisa. — La città si divide per la esecuzione delle nuove leggi; avversi i giudici alle condanne. Il magistrato di Parte guelfa. I Grandi attizzano contro a Giano Della Bella l’odio del popolo; quegli va diretto al fine suo. — 1295. Corso Donati accusato di malefizio, viene assolto dal Potestà; questi, assalito dal popolo in furia, è tolto di ufizio. — Inquisizione contro a Giano per avere messo la terra a romore; Giano si parte ed è bandito. — Bonifazio VIII nemico a Giano: questi moriva esule in Francia. _Capitolo_ IV. — CERCHI E DONATI. — BIANCHI E NERI. [AN. 1295-1300.] 103 Vendette di parte; il Pecora beccaio. — I Grandi e i Ghibellini chiamano in Arezzo un Capitano dell’Imperatore. Non fece alcun frutto, e i Guelfi viepiù si rinforzavano. — Comincia la edificazione di Santa Maria del Fiore, di Santa Croce, e del Palazzo della Signoria. — Vieri dei Cerchi e Corso Donati. — Le parti loro pigliano nome di Bianca e Nera. In questa, le nuove famiglie mercanti che dominavano la città col nome guelfo: la parte Bianca era meno astiosa contro ai Grandi e ai Ghibellini. — Zuffe in città tra le due parti. — 1300. Bonifazio VIII manda in Firenze paciere il Cardinale d’Acquasparta, che parve troppo amico ai Neri e dovè partirsi. — La Signoria bandisce i capi delle due parti: priorato di Dante. — Guido Cavalcanti. — Prevale in Toscana la parte dei Bianchi. _Capitolo_ V. — VENUTA IN FIRENZE DI CARLO DI VALOIS. — CACCIATA DEI BIANCHI. — ESILIO DI DANTE. [AN. 1301-1302.] 113 Bonifazio VIII commette a Carlo di Valois venire in Firenze arbitro delle contese. — La Signoria manda ambasciatori al Papa, tra i quali era Dante. — Corso Donati e i Neri si accaparrano il favore del Papa e di Carlo. — Questi entra in Firenze con molti Francesi armati e con la promessa scritta da lui di non esercitarvi signoria nè giurisdizione. — Ma le violenze tosto cominciano eccitate dai Neri, essendo la Signoria inetta. — Corso Donati, rotto il bando, entra in Firenze con armati, esercita vendette contro a’ suoi nemici; ruberie, arsioni nella città e nel contado. — Il Cardinale d’Acquasparta torna in Firenze, ma i Neri essendosi opposti a ogni conciliazione, parte sdegnato. — Uccisioni tra parenti; morte del figlio di Corso Donati. — Per la denunzia d’una congiura, condanne in Firenze di morti e perdita degli averi e distruzioni delle case: esigli e bandi di rubello continuati anche dopo la partenza di Carlo di Valois: seicento persone bandite; Dante era tra esse. _Capitolo_ VI. — PACE TENTATA DAL CARDINALE NICCOLÒ DA PRATO. — INCENDIO IN FIRENZE. — ASSALTO DEI FUORUSCITI. — MORTE DI CORSO DONATI. [1303-1308.] 126 Prevalenza d’alcune famiglie nuovamente sorte col nome guelfo. — Discordie e zuffe, per cui la città è data in guardia ai Lucchesi. — Pacificazione generale cercata dal Cardinale Niccolò da Prato. — Tornano alcune famiglie di Bianchi. — Rovina del Ponte alla Carraia, con grande numero di morti, in occasione d’una festa. — Gelosie contro ai Bianchi tornati: si viene alle armi. — [10 giugno 1304] uno degli Abati appicca il fuoco nel primo cerchio, dov’erano le più antiche case dei Nobili. — Consumò l’incendio tutta quella parte della città: i Cavalcanti furono i più distrutti. — I Bianchi di fuori muovono mescolati co’ Ghibellini contro a Firenze: alcuni di loro [20 luglio], avendo fatto capo alla Lastra, entrano in città, ma sono ributtati e molti uccisi. — Roberto duca di Calabria viene capitano dei Fiorentini all’assedio di Pistoia. — 1306. Pistoia si arrende ai Fiorentini ed ai Lucchesi. — Istituzione dei Gonfalonieri di compagnie: nuovo ufficio di Esecutore degli Ordini di giustizia. — Il cardinale Napoleone degli Orsini tenta una impresa contro a Firenze. — Corso Donati, voltandosi ai Grandi e ai Ghibellini e ai Signori di fuori, viene condannato ed assalita e combattuta la casa sua; ma infine Corso, fuggendo, è ucciso [6 ottobre 1308]. _Capitolo_ VII. — ARRIGO VII. — UGUCCIONE DELLA FAGGIUOLA. — SIGNORIA DEL RE ROBERTO. [AN. 1309-1321.] 142 Arrigo di Lussemburgo alzato all’Impero col favore di Clemente V, vuol farsi in Italia pacificatore: gli uomini più saggi confidano in lui. — Manda in Firenze suoi Legati, male accolti dai grandi Guelfi. — La Parte guelfa e la ghibellina per tutta Italia fanno apparecchi di guerra. — 1310. L’Imperatore scende in Italia. — 1311. Riceve in Milano la corona. — Firenze, capo e anima d’una Lega guelfa in Toscana, fomenta le ribellioni in Lombardia. — Due Legati imperiali vengono fino alla Lastra presso Firenze, ma qui assaliti da gente armata e svaligiati, passano in Casentino per la via dei monti: poi vanno a porre camera imperiale in Civitella, luogo del Vescovo di Arezzo, citando a ubbidienza Guelfi e Ghibellini. — L’Imperatore a Pisa. — In Firenze, uccisione di due capi della Parte guelfa. — Nuova legge contro ai Ghibellini. — 1312. Arrigo riceve la corona in San Giovanni Laterano, gran parte di Roma essendo in mano del re Roberto capo della Lega guelfa. — Arrigo, sforzata la via per la Toscana, pone a’ 19 di settembre il campo a San Salvi sotto alle mura di Firenze. — [31 ottobre]. È costretto levare il campo. — Si ferma due mesi in San Casciano, indi a Poggibonsi, e non senza combattimenti torna in Pisa a’ 9 di marzo 1313. — Firenze riceve un Vicario del re Roberto senza mutare il governo. — 24 agosto. Arrigo muore in Buonconvento. — Uguccione della Faggiuola diventa signore di Pisa e di Lucca e capo di molte forze ghibelline, contro alle quali il re Roberto e i Fiorentini radunano un grande esercito di Guelfi: sono sconfitti a Montecatini, 27 agosto 1315. — Divisioni in Firenze: Lando d’Agubbio Bargello. — 1316. Uguccione perde lo Stato. — Guerre sotto Genova e in Lombardia, condotte dal re Roberto. — Castruccio Castracani lucchese, tirando a sè molte forze ghibelline, comincia [1320] la guerra in Toscana, e viene a porsi nel giugno 1321 fin sotto Fucecchio. — Collegio di Dodici Buoni uomini aggiunto ai Priori. _Capitolo_ VIII. — DANTE; SCRITTORI E ARTISTI SUOI CONTEMPORANEI. [AN. 1268-1322.] 165 Notizie intorno alla vita e alle opere di Dante. — Giovanni Villani. — Primi poeti toscani. — Guittone d’Arezzo. — Guido Cavalcanti. — Cino da Pistoia. — Francesco da Barberino. — Fra Jacopone da Todi. — Buonagiunta da Lucca. — Francesco Stabili detto Cecco d’Ascoli, arso in Firenze nel 1327. — Scrittori di prosa: Brunetto Latini, Ricordano Malespini, Bono Giamboni; versioni dal latino. — Dino Compagni. — Fra Giordano da Rivalta, Domenico Cavalca, Bartolommeo da San Concordio, pisani. — Giovanni Pisano, scultore: antichi monumenti di quella città. — Giovanni Cimabue, maestro di Giotto. — Arnolfo di Lapo disegnò la chiesa di Santa Maria del Fiore e quella di Santa Croce ed il Palazzo della Signoria e la Torre. — In quelli stessi anni, le chiese del Carmine, di Santa Maria Novella, di San Marco, la Loggia d’Orsanmichele, il Campanile. — Istituzioni di carità cittadina: Compagnia della Misericordia, Bigallo, Spedale di Santa Maria Nuova cominciato da Folco, padre di Beatrice Portinari. — Terzo Cerchio della città. — Industrie, commerci, viaggi dei Fiorentini: perchè Bonifazio VIII dicesse che erano nel mondo il quinto elemento. LIBRO TERZO. _Capitolo_ I. — IMPRESE E MORTE DI CASTRUCCIO. — INTERNE RIFORME; I MAGISTRATI TRATTI A SORTE. [AN. 1322-1328.] 183 Primi fatti di Castruccio. — Viene fin sotto Prato il primo di luglio 1323; ma tosto poi levato il campo, si riduce a Serravalle. — I Fiorentini popolarmente volendo da Prato procedere oltre, i Nobili si oppongono: scisma nel campo, e indi in Firenze, dove gli sbanditi pretendono essere rimessi: tentano entrarvi per forza, ma il colpo fallisce; e tre dei grandi puniti. — Alcuni degli sbanditi ottengono il ritorno. — Fazione dei Serraglini; condanna dei Bordoni. — Riforma per cui la Signoria e i maggiori uffici sono tratti a sorte. — Istituzione dei Pennonieri per maggior guardia della città. — Nobili per grazia recati a popolo. — Fallimento degli Scali e Amieri. — I Fiorentini, dopo avere soccorso a Genova e in Lombardia la Parte guelfa, raccolgono intorno a sè aiuti delle città amiche, assoldano Francesi e Tedeschi, e vanno contro a Castruccio: questi con grandi forze ghibelline, soccorso da Azzo Visconti con seicento cavalieri, vince grande battaglia all’Altopascio, 23 settembre 1325. — Viene sotto Firenze, empiendo di devastazioni e di rovine tutto il piano e le colline circostanti, 1326. — Signoria data per dieci anni al Duca di Calabria. — 1327. Discesa in Italia di Lodovico il Bavaro. — Viene a Pisa con Castruccio, il quale creato Duca di Lucca, lo accompagna fino a Roma; poi torna in Toscana per la ricuperazione di Pistoia, dove erano entrati per sorpresa i Fiorentini. — Dopo lungo assedio riavuta Pistoia, Castruccio muore il 3 settembre 1328. — Novembre. Per la morte del Duca di Calabria, Firenze tornata in libertà, riordina il governo. — Condanna a morte di Cecco d’Ascoli. _Capitolo_ II. — IL RE GIOVANNI DI BOEMIA SCENDE IN ITALIA. — PIENA D’ARNO. — DEDIZIONE DI PISTOIA, ED ALTRI ACQUISTI. — GUERRA CON MASTINO DELLA SCALA; FALLITA IMPRESA DI LUCCA. [AN. 1328-1342.] 205 Carestia in Firenze, e pubblici provvedimenti. — Tedeschi al Cerruglio offrono Lucca in compra ai Fiorentini, poi la vendono a uno Spinola. — Guerra in Val di Nievole e in Val d’Arno. — Scende in Italia il re Giovanni di Boemia d’accordo col Papa. I Fiorentini lo combattono, fatta lega co’ Signori ghibellini di Lombardia: è vinto, e torna in Germania. — 1333. Inondazione grandissima in Firenze e nel contado: viene in Firenze la processione dei Flagellanti. — Fallimento dei Bardi e dei Peruzzi. — Dedizione di Pistoia, d’Arezzo, di Colle di Val d’Elsa. — Conti e Signori di castelli ricevuti in protezione o accomandigia dalla Repubblica. — Terre franche edificate, vassalli fatti sorgere a coloni liberi. — Lunga contesa con gli Ubaldini; la Repubblica di San Marino. — Guerra con Mastino della Scala. — Compra di Lucca, e fallita impresa contro a questa città. _Capitolo_ III. — IL DUCA D’ATENE. [1342-1343.] 221 I Grandi e il Popolo sempre in arme tra loro: congiure, condanne. — Stava il Governo nelle maggiori famiglie popolane, delle quali erano venti Commissari, preposti alla guerra contro Lucca e diffamati dopo il mal’esito della impresa. — Gualtieri di Brienne duca d’Atene eletto capitano generale. — Pratica intelligenze coi Grandi e col popolo minuto contro ai mezzani prepotenti. — Fa Parlamento, e viene eletto Signore per un anno, e quindi a vita, 8 settembre 1342: occupa il Palazzo e abolisce il Gonfalonierato. — Si aliena i Grandi, promuove la plebe minuta: sue violenze, rapine, corruttele. — Fa pace co’ Pisani e lega con Signori di Lombardia. — Tre congiure che insieme si uniscono contro lui. — 26 luglio 1343, tutta la città in arme, asserragliate le vie; d’Oltrarno si smuovono Grandi a cavallo e popolo armato in grande numero; tutti vanno contro al Palagio. — Assedio al Palagio: crudeli vendette popolari contro a’ ministri del Duca. Questi infine rinunzia il Governo e torna in Puglia. — Quattordici eletti a riformare lo Stato. _Capitolo_ IV. — CACCIATA DEI GRANDI. — PESTE IN FIRENZE. [AN. 1343-1348.] 237 Ribellione del distretto. — I Grandi messi a parte degli uffici. — La città divisa in Quartieri. — Il popolo minaccioso impone ritogliere ai Grandi gli uffici. — Sedizione d’Andrea Strozzi, 24 settembre 1343. — I Grandi si afforzano seguiti da molta plebe; ma tutti quelli della parte destra dell’Arno sono costretti venire a patti. — L’Oltrarno rimane in forza dei Grandi: assalto alle case dei Frescobaldi, poi a quelle dei Bardi, che infino sono espugnate e vanno a sacco. — Una radunata di malandrini rubatori, dalle milizie del Potestà è percossa e gastigata. — Nuova riforma: passa il Governo dal grasso popolo negli artefici. — Effetti della cacciata dei Grandi. — 1348. Peste in Firenze e sue conseguenze. _Capitolo_ V. — DELLA CITTÀ E STATO DI FIRENZE. — ENTRATE E SPESE DEL COMUNE 248 Morte di Giovanni Villani. — Contado e Distretto; Fortezze. — Popolazione; consumi. — Scuole. — Chiese e conventi, spedali. — Fondachi, numero dei panni, Arte della lana e Arte di Calimala, Cambiatori. — Signorie forestiere, giudici, ufiziali. — Ville intorno a Firenze. — Entrate e spese del Comune. _Capitolo_ VI. — GUERRA CON L’ARCIVESCOVO DI MILANO. — TRATTATO CON L’IMPERATORE CARLO IV. — IL MAGISTRATO DI PARTE GUELFA. — ALBIZZI E RICCI. [AN. 1349-1358.] 258 Recuperazione di Colle, di San Gemignano, di Prato: strage dei Guazzalotri: accordo con Pistoia, nella quale mettono guardia. — Potenza di Giovanni Visconti arcivescovo di Milano: rompe guerra ai Fiorentini ed entra nel Mugello. — Nuova condizione dei Ghibellini in Toscana. — Carlo IV, imperatore debole, tratta in segreto coi Fiorentini. — I Veneziani e il Papa s’accordano a fare scendere l’Imperatore in Italia. — Carlo IV, coronato in Monza, viene a Pisa. — 1355. Trattato pel quale i reggitori di Firenze sono fatti vicari imperiali: nè a lui nè all’Imperatrice è permesso di entrare nella città. — Carlo IV, coronato in Roma, torna in Allemagna. — Prevalenza negli uffici delle Arti minori e nelle città di nuovi uomini venuti di fuori: consorterie, sètte, scioperi degli artefici. — Il Magistrato di Parte guelfa. Come ivi dominassero gli ottimati. — Della esclusione dei Ghibellini si fa un’arme contro alla parte popolare; arbitrio tirannico di cui s’investe quel Magistrato; pronunziano senza forma di giudizio divieti di accettare ufficio, ai quali danno nome di ammonizioni. Di qui nasce la contesa tra gli Albizzi e i Ricci. _Capitolo_ VII. — LA GRAN COMPAGNIA. — GUERRA CO’ PISANI. — SECONDA VENUTA DI CARLO IV IN ITALIA. — IL MAGISTRATO DI PARTE GUELFA: AMMONIZIONI. [AN. 1358-1374.] 291 Milizie straniere in Italia, la gran Compagnia. Questa volendo dalla Romagna passare in Toscana (1358), è rotta dai villani dell’Appennino. — I Fiorentini per lungo contrasto co’ Pisani si adoprano a richiamare i commerci a Talamone, e mettono in mare galee armate. — Volterra viene in signoria della Repubblica. — Guerra con Pisa [1362]. — Morte di Piero da Farnese, capitano dei Fiorentini: Pandolfo Malatesta sospettato. — I Pisani vengono fin sotto le mura di Firenze: poi avendo una compagnia inglese mutato bandiera, si fa pace [1364]. — Urbano V, e Carlo IV in Italia [1369]: potenza di Bernabò Visconti. — San Miniato viene in potestà della Repubblica. — Niccola Acciaiuoli Gran Siniscalco del regno di Napoli, sospettato in Firenze. — Leggi che rafforzano l’arbitrio del Magistrato di Parte guelfa. — Piero degli Albizzi. — I Ricci perdono lo Stato. _Capitolo_ VIII. — GUERRA CON PAPA GREGORIO XI. [AN. 1375-1378.] 318 Romagna recuperata al Patrimonio della Chiesa. — Mala contentezza dei Fiorentini e animosità contro essi dei Legati di Bologna: Giovanni Hawkwood condottiero inglese. — Guerra contro al Legato. — Quali leggi gravassero i cherici. Inquisizione. — Gli Otto della guerra. — Lega con Bernabò Visconti; fanno ribellare le terre della Chiesa. — Gregorio XI offre condizioni di pace, stornato dagli Otto. — Interdetto pronunziato in Avignone contro a Firenze ed ai Fiorentini in qualunque luogo dimoranti. — Eccidio di Cesena fatto da Inglesi e da Brettoni soldati della Chiesa. — Diligenza usata dagli Otto in quella guerra. — Gregorio XI torna a Roma. — Negoziati presto rotti. — La Repubblica fa riaprire le chiese in Firenze; confraternite, devozioni. — Santa Caterina da Siena e sue lettere a Gregorio XI. — Aperto dissidio tra gli Otto della Guerra e i Capitani di Parte guelfa. — Congresso a Sarzana per la pace. — Morte di Gregorio XI. — Firenze ottiene miti condizioni dal nuovo papa Urbano VI. _Capitolo_ IX. — LINGUA, LETTERE ED ARTI IN FIRENZE. — PETRARCA, BOCCACCIO. [AN. 1322-1378.] 341 Come si formassero la lingua e il popolo di Toscana. — In Italia il secolo che finiva nel 1300 fu quello dei grandi fatti e delle grandi cose. — Importanza durante quel secolo degli uomini dell’Italia media, che era la parte più latina: la poesia e le lettere nacquero ivi religiose e popolari; non si perderono in sottigliezze, ma seguitarono il comun senso della umanità. Crebbero e si fecero esemplari alla nazione per la finitezza della lingua e per la maggiore estensione del pensiero. — Ma su’ dialetti delle altre Provincie potevano poco, perchè la Toscana non era centro da cui potesse venire a diffondersi per tutta Italia un comun parlare. Quindi le incertezze e le contese che sono antiche quanto la lingua. — Dante: suo libro De Vulgari Eloquio. — La lingua illustre degli Italiani pareva sempre che fosse il latino. I libri toscani usciti dal popolo in tanto gran numero, poco erano conosciuti nel resto d’Italia. Scarsa l’azione del pulpito, della tribuna, del teatro. Quando si cominciò per tutta Italia a scrivere libri in lingua volgare, l’autorità del parlare dei toscani era venuta a ristringersi; parve da ultimo si perdesse troppo in facezie e in bassezze. — Ma la poesia ebbe una comune lingua. — Autorità somma esercitata in Italia dal Petrarca, e a lui rimasta per le sue liriche: nella vita fu egli italiano più che fiorentino. — Nel trecento abbassò il livello degli animi e parve non rimanessero che gl’ingegni. — Scrittori di prosa: Matteo Villani, frate Iacopo Passavanti. — Virtù e vizi dello scrivere del Boccaccio, che fu maestro sommo della lingua, ma la potenza di scrittore guastò pel concetto falso ch’egli ebbe dello stile, colpa dell’animo e dei tempi. — Santa Caterina da Siena ebbe doti di grande scrittore. — Altri autori di prose e poesie nella fine del trecento. — Studio pubblico in Firenze. — La Scultura progrediva più della Pittura. — Andrea Orcagna: edifizio d’Orsanmichele e Loggia sulla piazza dei Signori. APPENDICE DI DOCUMENTI. I. Breve di Clemente IV, de’ 25 marzo 1266, al cardinale Ottaviano degli Ubaldini per l’assoluzione della città di Firenze e di alcuni cittadini dalle scomuniche incorse quando era sotto la dipendenza del re Manfredi 373 II. Discorso intorno al Governo di Firenze dal 1280 al 1292; d’incerto autore 378 III. Istoria compendiata di San Gimignano 389 IV. _PROTESTATIO FACTA PER SINDICOS COMUNIS FLORENTIE DOMINO KAROLO ROMANORUM REGI_ 398 _CAPITULA CONCORDIE INTER DOMINUM KAROLUM ET COMUNE FLORENTIE_ 399 V. Matteo Villani; e il Ghibellinesimo in Firenze 404 VI. Provvisione del 27 gennaio 1371 dall’Incarnazione 415 VII. Discorso d’autore incerto, scritto l’anno 1377 _Del principio e di alcuni notabili del Priorato_ 420 NOTA INTORNO AI MALESPINI 425 NOTA INTORNO AL METODO DELLA CRITICA A PROPOSITO DELLA STORIA DI DINO COMPAGNI 434 NOTA CIRCA ALL’ATTO DI PROMISSIONE TRA I CONSOLI DI FIRENZE E GLI UOMINI DI POGNA 441 STORIA DELLA REPUBBLICA DI FIRENZE. LIBRO PRIMO. CAPITOLO I. ORIGINE DI FIRENZE. Narrare l’istoria della città di Firenze distesamente dai suoi primordi male potremmo, e non sarebbe dell’assunto nostro, per la incertezza o per la oscurità dei fatti, e perchè tardi questa città pigliò un carattere che la distinguesse tra molte in Italia. Non è dubbio che Firenze, chiamata da prima, come alcuni credono, o Villa Arnina o Camarzo, fosse nel suo cominciamento una borgata dell’etrusca Fiesole. Questa, dal monte sulla cui vetta sedeva, inviava con l’estendersi dei traffici i suoi mercanti giù nel piano, emerso dalle acque poichè il fiume Arno, rotte altre chiuse che lo impedivano, si fu aperta una via tra i massi della Golfolina: quindi l’origine di Firenze. Cresciuta pei coloni che vi stanziarono, soldati di Silla o più veramente di Ottaviano Cesare allora triumviro, in breve pel nuovo sito e per l’agiato luogo ebbe numero d’abitatori e decoro di edifizi, così da essere annoverata tra le buone colonie che Roma avesse in Italia. Sappiamo da Tacito come, regnando Tiberio, udisse il Senato gli oratori dei Fiorentini, i quali ottennero che la Chiana non fosse voltata a metter foce nell’Arno portando ruina d’inondazioni alla città loro.[1] Il circuito di un anfiteatro tuttora apparisce disegnato dalle vie che certo furono della edificazione prima; ebbe il Campidoglio ed hanno le Terme nomi derivati dai tempi romani. Caduto l’Impero per la invasione dei barbari, fu la Toscana prima soggetta come le altre provincie ai re Goti, sinchè poi divenne campo a quella guerra che a discacciarli d’Italia fu combattuta dai Greci. Ma non è vero che Totila nei monti di Fiesole fosse sconfitto ed ucciso: in quei luoghi Stilicone, agli 8 d’ottobre dell’anno 405, avea debellato Radagasio, il quale con grande accozzaglia di barbari d’ogni gente era disceso in Italia;[2] ed in memoria di quel giorno i Fiorentini celebrarono la festa di santa Reparata, cui dedicarono quello che poi fu il loro maggior tempio. Di Totila è vero che le sue armi nell’anno 542 assediarono Firenze, difesa da Giustino luogotenente dell’imperatore Giustiniano.[3] Ricadeva essa poco di poi sotto alla dominazione dei Goti, insintanto che Narsete non ebbe nell’anno 552 vinto ed ucciso Totila, e indi posto fine al regno Gotico in Italia. Da tuttociò avvenne che più tardi, scambiando i fatti e il nome di Totila con quello del più famoso tra i barbari, fosse creduto che Attila avesse distrutta Firenze, e Carlo Magno la rifacesse. Tradizioni così sformate ebbero corso lungamente presso gli storici anche più solenni, e a noi le trasmisero gli antichi cronisti, ambiziosi d’annestare gli oscuri fatti ai nomi più illustri e quasi a mitici personaggi: compongono esse la leggenda dell’istoria. Bene è da credere che Firenze, per quell’assedio e per l’oppressione recata dai barbari, patisse allora decadimento. Quindi è che nei due secoli della dominazione longobarda, e pure in quelli altri due che furono dopo Carlo Magno, non che essere a capo delle città di Toscana, io dubito che fosse annoverata tra le primarie: e Lucca fu sede a un Ducato longobardo, poi residenza prescelta sovente dai Marchesi di Toscana; e Pisa, già illustre, s’accresceva pe’ commerci, e grande aveva potenza sul mare. Per tale guisa i fatti di questi Marchesi, comunque in Italia d’assai grande nome dal nono secolo al duodecimo, non appartengono propriamente all’istoria di Firenze; la quale città ne apparisce quasi che oscura per tutto quel tempo. Nè durante quello è grande notizia di cose che spettino alla Chiesa fiorentina; intorno alla quale giova dire che, recato assai di buon’ora il Cristianesimo in Toscana, Firenze ebbe Vescovi nel quarto secolo; ed in sulla fine di questo, il più insigne tra essi, Zenobio; nel cui tempo sant’Ambrogio legato seco in amicizia, venuto in Firenze, consacrava quivi, com’è tradizione, la Basilica di San Lorenzo. Di più altre Chiese edificate e Badie fondate innanzi al mille, poco è da dire: fino al qual tempo la serie dei Vescovi fiorentini è spesso interrotta; si vede la Diocesi pigliare nome dal Battisterio o antico tempio di San Giovanni, e pare confondersi alle volte con quella di Fiesole. Ma dopo quell’êra di universale risorgimento ebbe principio la grandezza cui più tardi sursero la città e il popolo di Firenze: il che ne porge ora occasione a investigare sommariamente di quali schiatte e per quale modo il nuovo popolo si formasse, per quindi giugnere meglio preparati ai fatti che in breve sarà nostro obbligo di narrare. Nei lunghi contrasti, che dagli antichi tempi noi sappiamo avere Firenze avuto con Fiesole, ravvisa ciascuno le necessità di guerra che sempre furono tra le città e le rôcche, tra’ popolani mercati e gli alti luoghi dove annidavano le signorie castellane o i vicari dell’Imperatore. L’antica schiatta che in sè avendo ricevuto e conservato l’impronta romana, pigliò aspetto e nome di schiatta latina, tendeva incessantemente a segregarsi dalla nuova che solo dalle armi avea signoria; e il vinto popolo italiano, cui null’altro rimaneva che il mercatare e il coltivare, si riduceva in comune, ponendo una sorta d’assedio ai castelli, e a sè facendoli tributarii per la necessità che i violenti sempre ebbero degli industriosi, e così gradatamente soverchiandoli con la ricchezza che vien dal sapere, prima d’essere potenti a dominarli con le armi. A questo modo per tutta Italia, ma più che altrove nella Toscana, l’antica gente a poco a poco venne a prevalere sulle nuove, le quali rimasero o mescolate o cancellate in mezzo al popolo che sorgeva. I nostri autori hanno grande cura di ricongiungere le memorie della città loro a quella di Roma, di cui Firenze si chiamò figlia, e dicono come fosse in tutto edificata a imitazione di quella. Ricordano Malespini distingue gli uomini dell’antico popolo da quelli di schiatta longobarda, ma questi confonde sovente con gli altri che molto più tardi seguitarono gl’Imperatori. Descrive minutamente le famiglie ch’erano grandi al tempo suo, e dove andarono a posarsi quando vennero a città: ma le più care e la sua propria cerca derivare, non da origini tedesche, bensì da Fiesole o da Roma: taluni appella grandi baroni, e questi sarebbero i Tedeschi; di molti più afferma che erano antichissimi gentili uomini signori di ville e di castella nei luoghi loro; il che fa credere gli tenesse come antichi abitatori e proprietari del suolo istesso. Chi scoprisse alcuna cosa circa le origini e la schiatta e le possessioni di quelle famiglie che furono grandi nella città o nel contado, saprebbe assai dell’istoria nostra. Dove racconta il Malespini quella pretesa riedificazione di Firenze che per Carlo Magno si sarebbe fatta, aggiugne che «i Fiesolani e i Conti vicini, stretti amici de’ Longobardi, si mettevano a contrasto e non la lasciavano rifare;[4]» parole notabili, non per il fatto in sè stesso che alla critica non reggerebbe, ma perchè a noi lasciano assai bene intravedere quali tradizioni dominassero nel popolo Fiorentino e quali origini si attribuisse. I Fiesolani non si contrapponevano a che Firenze si rifacesse perchè distrutta non era, ma sibbene agli incrementi di essa; e tutti quei Conti nemici a Firenze nei tempi del Malespini, per nulla esistevano a quelli di Carlo Magno. Ma qui si vede come l’etrusca Fiesole, occupata dagli invasori che vi si erano afforzati, facesse parte co’ signori dei vicini castelli, e come il popolo delle città italiche dovesse riacquistarsi il proprio terreno contro a’ signori Longobardi o Franchi o in altro modo Germanici venuti in Italia con gl’Imperatori. In tale conflitto il nome di Carlo Magno rimaneva alto e riverito per avere egli assai rinnalzata la gente latina, e quindi Firenze non è maraviglia che lo avesse in luogo di secondo fondatore. Giovanni Villani dà ragione delle parti che a suo tempo dividevano Firenze dall’essere i Fiorentini usciti da due popoli diversi tra loro e per antico nemici sempre come erano i Romani ed i Fiesolani. Cotesto pensiero gli deve certo essere caduto in mente dall’avere Catilina posto il campo presso a Fiesole; donde poi nacque la storiella del re Fiorino e della regina Belisea. Ma pure in cotesto pensiero è qualcosa in cui si nasconde un vero sentito dagli antichi nostri, sebbene avvenisse a loro di frantenderlo e guastarlo per la ignoranza dei fatti e per gli abbagli della fantasia. Catilina con l’andare a porsi tra gli Appennini cercava, precorrendo pazzamente a Giulio Cesare, unire a sè i popoli che odiavano Roma col sollevare le antiche italiche schiatte le quali contro essa avevano combattuto la guerra sociale. Di questi popoli uno era quello di Fiesole città etrusca, e quindi avversa prima ai Romani e indi ai Fiorentini ch’erano in parte figliuoli dei Romani per la colonia ivi posta, e molto ambivano chiamarsi tali. Dove la prepotenza di Roma inviava de’ suoi a porre una colonia, metteva un seme d’inimicizie perenni tra gli uomini della città trasformata e più tra questa e gli abitatori dei luoghi vicini, cui la colonia aveva dato dei nuovi padroni. Le terre che furono a questi assegnate, un empio soldato le aveva rapite all’uomo di cui portavano il nome; l’antico italiano era ridotto a mendicare nei dolci suoi campi il pane che aveva egli medesimo fatto crescere, o fuggiva la patria occupata da genti straniere. Io credo le molte colonie romane sparse in Italia fossero cause non infrequenti del guerreggiarsi l’una con l’altra le città vicine, diverse di razza e spesso divise per odii antichi i quali più tardi parevano essere obliati.[5] Ma nei contrasti pei quali si venne dipoi a formare il nuovo popolo italiano, la razza etrusca e la latina stavano insieme contro ai germani invasori, i quali avevano posto sede negli alti luoghi fortificati. Questi però in Toscana ebbero minor possa, perchè le colline sottoposte e i piani anticamente impaludati avendo bisogno di opere assidue che gli rendessero produttivi, tentavano poco i nuovi uomini a fermarvisi o più scarsamente ne alimentavano la potenza: e così avvenne che il nuovo popolo di Toscana avesse mistura più scarsa che altrove di sangue trasfuso dai vincitori longobardi o eruli o goti. Del che si aggiunge un’altra ragione, a mio credere, potentissima. La Toscana, sebbene offra la dritta linea a chi accede inverso Roma, poco fu battuta dalle guerre, e si rimase come in disparte. Annibale prese con suo danno la via di Toscana, mal conoscendo la geografia: ma fatto esperto, chiamò il fratello a morire sul Metauro, che è la via piana benchè più lunga; cosicchè poi fu prescelta sempre alle invasioni ed alle guerre; e i Romani con l’aprire il passo del Furlo, confermarono alla Toscana le condizioni che la natura le aveva fatte, e per le quali, e per il suolo magro ed alpestre, rimase ella più quieta sempre e segregata e meno tocca dalle invasioni che altra qualsisia parte della Penisola. Il fatto stesso e per le stesse cause, scrive Tucidide che avvenisse nell’Attica, dove l’antica schiatta degli abitatori si rinnovò poco, e azione più debole fu esercitata dai sopravvenuti dei quali si forma la parte dei nobili. Intorno al mille, o quando che sia, troviamo che molti Fiesolani erano scesi ad abitare in Firenze facendo insieme co’ Fiorentini un popolo solo; tantochè raccomunarono l’arme delle due città, e fecero allora l’arme dimezzata vermiglia e bianca: il vermiglio con entrovi il giglio bianco era l’antica arma dei Fiorentini, e il bianco era dei Fiesolani che vi avevano una luna di colore azzurro. Sarebbe ciò, a detta dei nostri storici, avvenuto quando per tradimento e per sorpresa i Fiorentini concorsi a Fiesole in grande numero sotto apparenza di celebrarvi la festa di santo Romolo, avrebbero l’anno 1010 presa quella città e poi distrutta, salvo la Rôcca e il Vescovado. Ma noi crediamo più alla mescolanza dei due popoli che alla servitù dell’uno, trovando Fiesole caduta in mano dei Fiorentini molti anni poi. Nè in quei primi dopo al mille Firenze nè altre città italiche molto s’arrischiavano ad ampliarsi oltre quei confini che a ciascuna di esse avevano posti gli editti imperiali. CAPITOLO II. LA CONTESSA MATILDE. — AMPLIAZIONI DEL CONTADO. — PRIME ZUFFE CITTADINE. — LEGA TRA LE CITTÀ DI TOSCANA. [AN. 1050-1215.] Le guerre che arsero tra ’l Sacerdozio e l’Impero travagliarono con danno minore la Toscana di quello facessero intorno ad essa nelle più vicine provincie d’Italia. Firenze, che molto era dopo l’anno mille cresciuta di popolo e ricca di traffici e poco tinta di sangue germanico, aderiva sin d’allora alla parte della Chiesa. Quindi troviamo questa città prescelta sovente a dimora di quei Pontefici che nella contesa di già cominciata furono sovente esclusi da Roma. Così avvenne che Vittore II morisse in Firenze l’anno 1057, dopo avervi due anni prima tenuto un Concilio; e vi morivano pure Stefano IX, l’anno 1058, e tre anni dopo Niccolò II, se non ci inganna l’affermazione di alcuni scrittori.[6] Venuta dipoi questa città in retaggio con tutta Toscana alla contessa Matilde, e tosto accesa la grande guerra, stette Firenze volonterosamente per Gregorio VII. Laonde bene le avvenne l’anno 1081 d’essersi novellamente ricinta di mura: il primo cerchio comprendeva quell’angusto spazio che è tra ’l Duomo e l’Arno e tra le vie che ora conducono al ponte di Santa Trinita e a quello di Rubaconte, fin dove però non aggiugneva interamente; nè vi era per allora che il solo Ponte Vecchio, ed oltre al fiume non abitava che povera gente. I borghi già empivano il secondo cerchio quando l’imperatore Arrigo IV, nell’andare contro Roma attendatosi fuori della città presso Cafaggio dove ora è la chiesa dei Servi,[7] diede alla terra molte battaglie; ma dopo esservi stato più tempo e adoperatosi invano, «perchè la città era forte e bene murata e i cittadini bene in concordia,» e (aggiugnamo noi) per la potenza delle armi della contessa Matilde, se ne levò a modo di sconfitta.[8] Durava la guerra molti anni poi, ma la Toscana poco n’era scossa, vivendosi sotto all’impero di una donna che i suoi Stati reggeva con mano sicura; e dominatrice potentissima di quelle regioni per cui si stendono gli appennini, faceva in questi impedimento alle armi tedesche. Risedeva ella ordinariamente in Lucca, sebbene tenesse corte alcune volte anche in Firenze. Questa città dicono gli antichi scrittori avere negli ultimi anni di Matilde cominciato a muover guerre contro ai vicini signori. Infino dal 1107 avrebbe il Comune pubblicamente ordinato di allargare il contado di fuori ed accrescersi la signoria.[9] Vero è che in quell’anno furono ad abbattere il castello di Monte Orlandi di qua da Signa, che si teneva da un ramo dei possenti conti Cadolingi di Fucecchio: poi subito, al dire di quelli autori, essendosi i Pratesi «ribellati» ai Fiorentini, questi andativi «per Comune» gli avrebbono vinti e disfatto il castello di Prato; dov’erano discesi uomini che prima in sul Monte erano fedeli dei conti Guidi, ma per danari si ricomperarono. Distrussero l’anno 1113 un altro vicino castello dei Cadolingi, del quale scrivono che «facea guerra alla città cui lo avea ribellato il Vicario dell’Imperatore» che stava co’ suoi Tedeschi in San Miniato: fu egli quivi ucciso, e il castello preso e disfatto. Ma noi teniamo in questi racconti essere alquanto di boria cittadinesca. Viveva Matilde, della quale noi sappiamo ch’ella era di persona a quell’assedio di Prato l’anno 1107;[10] nè la guerra dei Vicari imperiali e dei Conti che aderivano ai Tedeschi, appelleremmo ribellione contro al popolo di Firenze, nè i Fiorentini possiamo credere la combattessero come stato libero, nè che avessero decretata insino d’allora la distruzione dei castelli. Bene erano le armi di questo popolo già valenti, e Matilde le adoprava contro a’ suoi nemici, ella che in Toscana molto promuoveva le libertà comunali: potrebbe in quell’anno 1107 avere essa ampliato il contado di Firenze ed alla città commesso le prime battaglie, che pure l’istoria dovea registrare. Ma non crediamo noi che debba essa tener conto di un certo trattato pel quale nell’anno 1102 i Consoli di quella città si sarebbero fatti promettere dagli abitatori del castello di Pogna in Val d’Elsa di far guerra e pace a volontà loro, e non ingerirsi nelle cose di Semifonte; essi all’incontro promettendo di aiutare e difendere i Pognesi, e fare loro amministrare giustizia in Firenze dal Console, eccetto che contro all’Imperatore o suoi Nunzi. Noi queste cose non possiamo credere, perchè messe fuori bene cinquecento anni dopo,[11] nulla rinvenendosi che accenni a questo negli scrittori più antichi; perchè i Fiorentini il loro Stato non allargarono se non più tardi; perchè nel castello di Pogna troviamo che pochi anni dopo avessero giurisdizione certi nobili di contado, dai quali poi venne ai conti Alberti di Mangona; perchè la contessa Matilde e prima e dopo del 1102 teneva placiti in Firenze, il che non ammette in questo Comune tanto esercizio di sovranità; perchè del castello di Pogna non è parola negli scrittori fiorentini prima del 1184, nè le guerre contro a Semifonte cominciarono se non verisimilmente anche più tardi.[12] Queste cose ora messe in chiaro quanto a noi sembra, veniamo ai fatti che abbiamo certi. La grande Contessa moriva nel 1115 ed il nome di lei rimase caro in Firenze, tanto che molte donne anche di artigiani per quattro secoli si chiamavano Contessa o Tessa. Due anni dopo troviamo un fatto che non possiamo tenere tutto per favola, benchè abbellito dalle fantasie degli scrittori e colorato delle passioni di quei tempi in cui fu narrato. Lo riferiamo con le parole stesse del Villani; perchè il linguaggio è storia pur esso, e a noi giova mantenerlo ogni volta che ne venga illustrazione ai concetti ed al racconto più evidenza. «Negli anni di Cristo 1117 i Pisani fecero una grande armata di galee e di navi e andarono sopra l’isola di Maiolica che la teneano i Saracini. E come fu partita la detta armata di Pisa, i Lucchesi per comune vennero a oste sopra Pisa per prendere la terra. I Pisani, avendo la novella, presero per consiglio di mandare loro ambasciadori a’ Fiorentini, dei quali erano in quei tempi molto amici, e pregarongli piacesse loro venire a guardia della città. I Fiorentini accettarono di servirgli; per la qual cosa il Comune di Firenze vi mandò gente d’arme assai a cavallo e a piede, e posersi ad oste di fuori dalla città; e per onestà delle loro donne non vollero entrare in Pisa, e mandarono bando che nullo non entrasse nella città sotto pena della persona. Uno v’entrò, sì fu condannato a impiccare. E’ Pisani vecchi ch’erano rimasti in Pisa, pregando i Fiorentini che per loro amore gli dovessero perdonare, questi non vollero consentire; ma i Pisani contradissero, e pregarono che almeno in su il loro terreno nol facessero morire: onde segretamente i Fiorentini dell’oste feciono a nome del Comune di Firenze comprare un campo di terra da un villano, e in su quello rizzarono le forche e feciono la giustizia. E tornata l’oste de’ Pisani dal conquisto di Maiolica, renderono molte grazie a’ Fiorentini, e domandarono quale segnale del conquisto volessero, o le porte di metallo o due colonne di porfido ch’aveano recate e tratte di Maiolica; i Fiorentini chiesero le colonne, e’ Pisani le mandarono in Firenze coperte di scarlatto. E per alcuno si disse che, innanzi che le mandassero, per invidia le feciono affuocare; e le dette colonne sono quelle che sono diritte dinanzi a San Giovanni. Per questo allora si disse, che i Fiorentini erano ciechi.[13]» Così di mezzo alla carità stessa noi vediamo spuntare quegli odi che doveano ardere tra le due città. La rôcca di Fiesole, che era tenuta da certi gentili uomini o cattani della città stessa, cadea per assedio l’anno 1125 in mano dei Fiorentini. E questi nel 1135 abbatterono il castello di Montebuoni, che dava nome alla famiglia dei Buondelmonti; i quali, per essere il luogo assai forte e che la strada vi correva a piedi, toglieano pedaggio, con molto incomodo della vicina città di Firenze. I Buondelmonti furono costretti farsi cittadini; ed è il primo esempio che noi troviamo d’un fatto comune ai vinti signori: a questi alle volte era imposto rimanervi il tempo prescritto d’uno o due mesi all’anno, o più a lungo, quando la città fosse in guerra. Coteste imprese erano dentro alle dieci miglia, termine assegnato dalla contessa Matilde, o forse anche prima, al contado di Firenze; la quale oltre quello non credo allora che si arrischiasse. Certo è che si trova nel 1134 un Ingelberto fatto marchese di Toscana; il quale cacciato dai conti Guidi, fu tre anni dopo rimesso in istato da un duca Arrigo di Baviera venuto in Italia con Lotario imperatore: il Duca e il Conte riconciliati assediarono Firenze, e presala, vi riposero il Vescovo che n’era stato prima ingiustamente cacciato. Di queste cose gli autori nostri non fanno parola.[14] Era l’anno 1144 marchese di Toscana Ulrico, sotto al quale i Fiorentini congiunti ai Pisani ebbero guerra contro ai Lucchesi ed ai Senesi, crudelmente combattuta, e indi composta dallo stesso Ulrico; il quale, per torne via le cagioni, dava in pegno Poggibonsi al Vescovo e ai Consoli della città di Volterra.[15] Continuava però la guerra dei Fiorentini contro ai conti Guidi, ai quali, tolsero nel 1154 il castello di Monte Croce dietro a Fiesole, da essi tentato con mala prova otto anni prima. Nel 1147 cavalieri fiorentini aveano seguito l’Imperatore Corrado alla Crociata in Terra Santa; uno dei quali fu Cacciaguida bisavo al nostro grande Poeta: questi descriveva i nomi delle famiglie che allora dominavano la città, dove in quelli anni l’autorità imperiale pare essere stata oltre al solito prevalente. Venuto all’impero Federigo I svevo, da noi chiamato il Barbarossa, investiva del marchesato di Toscana e del ducato di Spoleto e dei castelli e beni spettanti all’eredità di Matilde il duca Guelfo suo zio, discendente dal marito di questa, e congiunto di sangue agli Estensi: a lui prestavano ubbidienza i nuovi vassalli l’anno 1154. Teneva nel 1160 un parlamento in San Genesio, terra che giaceva ai piedi del colle dov’è San Miniato; ivi dando investiture a conti rurali e ordine alle immunità cittadine: donde recatosi in Germania, cedeva il ducato a un figlio del suo nome stesso; il quale, per essere ai popoli troppo benigno, parve a Federigo che egli contrariasse l’autorità dell’Impero. Di già il nome guelfo pigliava la parte che a lui rimase nella storia; e già era un insorgere di molte città di Lombardia; Genova e Lucca e Siena tenevano contro a Pisa le parti imperiali. Questa città molto negli anni precedenti si era mostrata devota ai Pontefici, e noi la vedemmo avere amicizia con Firenze che sempre osteggiava nei signori dei castelli le genti e la dominazione forestiera. Stringevano pertanto i Pisani e i Fiorentini insieme una lega l’anno 1171, per la quale si obbligarono quelli a condurre e ricondurre per mare le robe e mercanzie dei Fiorentini i quali pagassero le stesse gabelle dei Pisani, e ad essi diedero una casa o fondaco in Pisa a piè del Ponte: era la lega per quarant’anni, e da rinnovarsi ogni dieci anni; ma salva sempre la fedeltà all’Imperatore, il quale però non vollero che gli potesse liberare dai patti allora stretti e giurati.[16] Ma l’anno dipoi, venuto in Pisa Cristiano arcivescovo di Magonza e arcicancelliere dell’Impero, teneva nel borgo di San Genesio grande parlamento contro alle città renitenti; le quali negandosi venire ad accordi, egli in altro parlamento presso Siena, presenti i Signori ed i Valvassori e i Consoli delle città che erano tra Lucca e Roma, metteva i Pisani al bando dell’Impero, privandoli delle regalie loro e della Sardegna: faceva lo stesso contro a’ Fiorentini che aveano tentato cacciare i soldati tedeschi da San Miniato. Si venne agli accordi, e l’Arcivescovo tolse i bandi; ma perchè radunati in San Genesio i Consoli pisani e gli Ambasciatori fiorentini rifiutavano alcuni patti, furono presi e messi in catene.[17] Quindi la guerra si raccendeva tra le città, essendosi l’Arcivescovo partito allora dalla Toscana. Negli anni che furono tanto famosi per le guerre contro a Federigo Barbarossa e per la Lega lombarda, non troviamo che Firenze molto a quei moti partecipasse: ma con l’invadere i castelli e le terre de’ signori tanto aveva allargato il suo territorio, che già venne a riscontrarsi e ad aver guerra con gli Aretini perch’erano collegati a’ conti Guidi, e co’ Senesi per cagione di alcune castella del Chianti che i due Comuni si disputavano. Allora gli uomini di Poggibonsi, che prima vivevano con altro nome nel piano, si edificarono un castello nell’alto del poggio; e perchè stavano contro a’ Fiorentini, questi rafforzarono a poca distanza la terra di Colle in Val d’Elsa. Per questi fatti però non è da dire che per ancora le città godessero formale diritto al governo di sè stesse; ma con l’esercitare l’indipendenza s’avviavano a possederla. In quel tempo le città di Lombardia col forte resistere acquistavano a sè stesse e alle altre d’Italia i nuovi diritti che bentosto ebbero in Costanza solenne sanzione. Era l’anno 1177, nel quale in Venezia l’imperatore Federigo rendeva ubbidienza al pontefice Alessandro III, quando Firenze in quel passaggio da servitù a libertà cresciuta di gente varia ed irrequieta, cominciò a fermentare in sè medesima per cittadine discordie. Furono esse suscitate dalla famiglia potentissima degli Uberti, tedesca d’origine come dal nome si scorge, ma che aspirando a padroneggiare la città, gli adulatori dicevano essere della schiatta di Giulio Cesare. Questi «co’ loro seguaci nobili e popolani si diedero a battagliare contro a’ Consoli per la invidia della signoria che non era a loro volere. Fu sì diversa e aspra guerra, che quasi ogni dì, o di due dì l’uno, si combatteano i cittadini insieme in più parti della città da vicinanza a vicinanza, com’erano le parti; e aveano armate le torri, ch’erano in grande numero, alte cento e cento venti braccia. E in quei tempi per la detta guerra assai torri di nuovo vi si murarono, dei danari comuni delle vicinanze, che si chiamavano le torri delle compagnie:» e sopra quelle facevano mangani e manganelle per gittar l’uno all’altro, ed era asserragliata la terra in più parti. Durò questa pestilenza più di due anni, onde molta gente ne morì, e molto pericolo e danno ne seguì alla città: ma tanto venne poi in uso quel guerreggiare tra’ cittadini, che l’uno dì si combattevano, e l’altro mangiavano e bevevano insieme, novellando delle virtudi e prodezze l’uno dell’altro ch’essi facevano a quelle battaglie. Poi, quasi per istraccamento e rincrescimento, restarono dal combattere, e si pacificarono, e rimasero i Consoli in loro signoria. Alla fine pur crearono e partorirono le maledette parti che furono appresso in Firenze.[18] Così raccontano questi fatti gli antichi cronisti. Ne accusano essi la troppa grassezza e riposo in che era vissuta fino allora la città; ma veramente era il principio di quelle parti che non ancora pigliavano nome di Ghibellina e di Guelfa. Gli Uberti con altre nobili famiglie possenti in contado, e in città discese con la speranza di dominarla, cercavano mantenere con le armi imperiali la grandezza loro, battendo i Consoli nei quali stava la signoria e che seguivano, a quanto sembra, la parte che indi si chiamò guelfa: continuava dentro alla città la guerra che dai castelli si combatteva contro all’insorgere dei Comuni. Avevano questi pigliato in quelli anni forza e ardimento per le vittorie avute nei campi lombardi contro a Federigo, e per l’ampliarsi dei commerci, che in Firenze massimamente dovette essere grandissimo. I Papi, cresciuti allora in potenza, facevano a questa grande fondamento sulla indipendenza delle città, che volea dire del popolo latino ad essi devoto. Non bene era spenta quanto alla Toscana la lunga contesa per le donazioni che Matilde aveva fatte alla Chiesa della eredità sua, ma che non ebbero effetto mai. Nè forse era senza un qualche pensiero di rivendicarle che i Papi scriveano in quegli anni bolle (come si trova) dirette _ai popoli_ di alcune città state del patrimonio di Matilde. Comunque ciò fosse, la pace di Costanza e le franchigie ivi formalmente decretate (anno 1183) e la istituzione dei Potestà, sancirono alle città italiane quasi un’intera indipendenza. Quindi noi troviamo per tutto il secolo XII duchi e marchesi non già propriamente governare la Toscana, ma sibbene in nome degl’Imperatori tenerne l’alto dominio: guidavano le masnade, difendevano le parti dei conti e signori castellani che ubbidivano all’Impero, e da questi riscuotevano le tasse, e raccoglievano le milizie, proventi della sovranità. La quale però venendo a scadere, quei duchi e marchesi non furono altrimenti feudatari che avessero grado e potenza di principi; ma con l’andare del tempo discesero alla qualità di messi o ministri, i quali col titolo di vicari dell’Imperatore, esclusi dalle città, risedettero in San Miniato, luogo alto e munito, cui rimase poi sempre il nome di San Miniato al Tedesco. Negli anni dopo i Fiorentini a sè obbligarono gli Empolesi, costretti a farsi loro censuarii; ed abbatterono il castello di Pogna e quello di Montegrossoli nel Chianti. Fecero trattati co’ Lucchesi contro a Pistoia nemica d’entrambi, e con gli Alberti conti di Mangona e Vernio; i quali promisero da indi in poi fare pace e guerra a volontà del Comune, offrire una libbra di puro argento e un cero alla chiesa di San Giovanni Battista, e disfare alcune castella in Val d’Elsa e in Val d’Arno a scelta dei Consoli di Firenze. Ma non per anche la signoria libera si potea dire assicurata alla città, ed era un ondeggiare continuo; perchè l’indipendenza dei Comuni, mantenuta solamente dalla debolezza degl’Imperatori, pericolava ogni volta che scendessero di Germania soldatesche a difendere o a rafforzare l’autorità dell’Impero, e più che mai quando essi medesimi si appresentassero nell’Italia. Per tale modo nell’anno 1185, essendo la persona di Federigo venuta in Firenze nell’andare in Puglia, «gli furono attorno i nobili del contado, dei quali avevano i Fiorentini preso per forza ed occupato molte castella e fortezze, contro all’onore dell’Impero.[19]» E Federigo «tolse a Firenze tutto il contado e la signoria di quello sino alle mura, e per le villate facea stare suoi vicari che rendevano ragione e facevano giustizia.[20]» Così fece alle altre città di Toscana, salvo che a Pisa ed a Pistoia, ch’erano state con lui nelle guerre precedenti. Quando si vede nelle istorie e nei documenti cessare i Potestà e sottentrare ad essi i Vicari, si può inferirne con sicurezza che l’indipendenza municipale veniva meno di contro all’autorità imperiale. Dicono poi gli storici che il contado sino alle dieci miglia fosse più anni dopo restituito ad istanza del Papa e in grazia del merito che i Fiorentini s’erano acquistato in Terra Santa: ma noi crediamo che le città, partito appena l’Imperatore, da sè medesime lo recuperassero d’accordo col Papa. Innanzi però che ciò avvenisse, Arrigo svevo, dal padre associato all’impero nel 1187, teneva in quell’anno corte in Fucecchio. Nella Crociata moriva l’imperatore Federigo Barbarossa (1190), e il di lui figlio Arrigo VI creava duca di Toscana Filippo suo fratello: costui fu l’ultimo dei Duchi o Marchesi in questa provincia. Imperocchè morto l’anno 1197 Arrigo VI in Sicilia, della quale si era fatto signore per maritaggio con la erede dei Re Normanni; Filippo tornava frettolosamente in Allemagna. Ebbe l’Impero due competitori, e si trovò in Italia irreparabilmente affievolito: dal che le città presero sicurezza, e la potenza della Romana Chiesa di molto s’accrebbe. L’anno stesso Celestino III mandava in Toscana suoi legati il cardinal Pandolfo e il cardinal Bernardo; alla presenza dei quali nel mese di novembre 1197 fu in San Genesio conchiusa una compagnia o lega tra le città di Firenze, di Lucca e di Siena ed il Vescovo di Volterra come signore temporale di quella città, e le terre di Prato e di San Miniato, con riserbarvi luogo per Pisa, Pistoia, Poggibonsi, conti Guidi, conti Alberti e altri signori di Toscana. Venne pattuito che in ciascuno degli Stati uniti in lega fosse un capo chiamato Rettore o Capitano, che avesse arbitrio per le cose della lega, ma senza autorità nel governo della città sua; si radunassero questi ogni quattro mesi in una dieta o parlamento a comporre le discordie, e pei negozi che occorressero eleggendo uno di loro che avesse nome di Priore della compagnia. Nessuno dei collegati potesse conoscere alcuno per imperatore, re, principe, duca o marchese, senza speciale ed espresso comandamento della romana Chiesa; la quale dovesse, col richiederne le compagnie, ricevere aiuto per la difensione di sè stessa; come anche per ricuperare i luoghi perduti, eccetto quelli i quali fossero tenuti da alcuno de’ collegati.[21] Nel seguente anno 1198 asceso alla sedia pontificale Innocenzio III, scriveva una lettera al Priore ed ai Rettori della Toscana e del ducato di Spoleto, nella quale dopo avere affermata risolutamente l’autorità dei pontefici sopra quella degl’imperatori non che d’ogni altra potestà civile, dichiara in Italia stare il principato su tutti gli altri paesi cristiani per essere ivi divinamente posta la Sedia apostolica, cui s’appartiene la potestà del sacerdozio insieme e del regno. Promette a quella università di Stati il patrocinio della romana Chiesa, tenendosi certo della ossequiosa devozione che a lei presterebbero in ogni cosa, procurando l’onore di essa e l’avanzamento.[22] Per Innocenzio III la potenza del papato pervenne al suo colmo; e ch’egli intendesse, e che taluno dei successori suoi cercasse comporre in fascio le città italiche, o quelle almeno della Toscana, legate insieme da una supremazia che i papi sovra esse esercitassero, non crediamo noi che sia cosa da porre in dubbio. I Pisani a quella lega, come già divenuti imperiali, si rifiutarono; ma in essa entrarono l’anno dopo i conti Guidi e i conti Alberti, e poi gli uomini di Certaldo i quali aveano ai Fiorentini giurato fede, dalla quale non potesse nemmeno il Papa fargli prosciolti. Assai più ampia dedizione fecero gli uomini di Figline, che si obbligarono a pagare ventisei danari per focolare; tributo consueto dei vassalli al signore loro; ed oltre ciò, la metà dei pedaggi e dei mercati; a fare guerra e pace ad arbitrio del Comune di Firenze, ed ubbidire a ogni comandamento dei Consoli di questo, eccetto nel caso che a loro fosse comandato di abbattere in tutto o in parte la terra loro, cioè diroccarla cosicchè divenisse terra aperta.[23] Già era nata la lunga e difficil guerra ch’ebbe il Comune contro a Semifonte, forte castello nella Val d’Elsa e ostinatamente difeso dagli abitatori.[24] Cercarono i Fiorentini tôrre a Semifonte l’aiuto del Vescovo di Volterra, e dei conti Alberti, e dei Comuni di Colle e di San Gemignano; e molto e variamente si faticarono, sinchè l’anno 1202 (se pure ciò non fosse più tardi) per tradimento di chi n’avea la guardia entrativi dentro, lo abbatterono con divieto che mai più fosse riedificato. Sull’uscita dello stretto della Golfolina dove comincia la valle inferiore dell’Arno è Capraia, dov’erano conti della famiglia degli Alberti, e che ai Fiorentini pareva essere un pruno negli occhi; ma poichè prenderlo non potevano, gli edificarono all’incontro un altro castello, che a scherno del nome di Capraia appellarono Montelupo. I conti Guidi, che dall’appennino sovrastavano a Pistoia ed a Firenze, avevano spesse brighe e trattati e mutabili nimicizie con l’una o coll’altra di queste città. Male potevano a quel tempo difendere Montemurlo contro ai Pistoiesi, che a petto a quello aveano posto il castello del Montale: ma i Fiorentini prima difesero i conti Guidi, e poi da essi comprarono Montemurlo. Nel Mugello intanto avean disfatto Combiata, dov’erano certi Cattani o Castellani signori del luogo. Più altre fortezze abbatterono all’intorno, e già la potenza del Comune si allargava fino alla valle di Chiana, dove ebbero in accomandigia Montepulciano,[25] e in protezione tenevano gli uomini di Montalcino. Il che fu causa che nei primi anni del nuovo secolo più volte si affrontassero co’ Senesi; i quali vinti in più scontri, prometteano di lasciare liberi quei luoghi che fossero in protezione o in possesso del Comune di Firenze. Le città sorte nel tempo stesso e con istituzioni somiglianti, ma senza comun freno nè vincolo (perchè il principio dell’unità era straniero e nemico), si combattevano tra di loro per ampliarsi ciascuna il contado, ovvero secondo volevano le sètte, che già dividevano le membra lacere dell’Impero. CAPITOLO III. GOVERNO DI FIRENZE. — GUELFI E GHIBELLINI, BUONDELMONTI E UBERTI. — AFFRANCAZIONE DEI CONTADINI. — GUERRE IN TOSCANA. — CACCIATA DEI GUELFI. [AN. 1215-1219.] Da tempo antico le città italiche generalmente si reggevano per Consoli; il quale nome derivava ed era forse continuato dai magistrati di Roma antica. Già intorno al mille Firenze viveva «sotto la signoria di due Consoli cittadini col consiglio de’ Senatori, ch’erano cento uomini de’ migliori della città, com’era l’usanza data da’ Romani.[26]» Ravvisa ognuno qui i duumviri e il collegio de’ decurioni. So che era boria cittadinesca l’annestarsi a Roma per via di leggenda, ma qui è un fatto; e i Consoli si rinvengono per le città dell’Italia meridionale qua e là senza lunghe intermissioni, dai tempi romani fino al risorgimento dei Comuni. I quali che siano d’istituzione germanica lo creda poi chi ne ha voglia. In Firenze il numero dei Consoli variava più tardi secondo i tempi, e se ne trovano sino a dodici; ma però sempre delle famiglie nobili, perchè il governo della città rimaneva tuttora in mano degli ottimati: e nobili sempre si mantennero anche dopo il 1200 quando essi, o alcuni almeno di loro, si veggono pigliar nome di Consoli delle Arti. Un documento,[27] a cui però non osiamo dare intera fede, noterebbe l’anno 1204 Consoli dei Giudici e Notai, de’ Cambiatori, delle Arti della Lana e della Seta e di Calimala; uno preposto alle cose della giustizia, e due i Consoli dei soldati. Vi è pure il nome di un Senatore. Le Arti avrebbero avuto Consoli e Priori; vi sarebbe stato un Consiglio generale ed uno speciale, e dieci Buoni uomini per Sesto. Certo è che le Arti ogni dì più prevalendo, fu necessario con l’andare del tempo che gli artigiani man mano ottenessero una più larga partecipazione alle cose dello Stato. Già i Consigli si moltiplicano, ed i magistrati rappresentano i sestieri o i quartieri o secondo che fosse la città divisa. Il nome di _boni uomini_, che da principio significava gli uomini per nascita ragguardevoli, si trova dato poi agli eletti popolarmente dai collegi delle Arti o dai cittadini de’ sestieri. Nel popolo insomma era la vita della città innanzi ancora ch’egli venisse ad acquistarne la signoria. Ma il supremo diritto appartenente all’Imperatore (diritto non impugnato mai dalle città italiane) dovea pure soprastare al fatto cittadino; e quando per la Lega lombarda le città s’attribuirono un governo loro proprio e formalmente riconosciuto nella pace di Costanza, ebbero esse un magistrato di natura mista, giudice insieme ed ufiziale, in cui risedeva col nome di Potestà il diritto della spada, e che si trova chiamato alle volte Signore del luogo. Questo da principio l’Imperatore intendeva fosse da lui nominato ed investito, ma raramente gli accadde di esercitare tale prerogativa; e le città lo eleggevano a tempo di un anno o di sei mesi, avendo in sospetto quell’autorità che stava in luogo della suprema: sempre però di famiglia nobile anche nelle democrazie più gelose, e di schiatta forestiera perchè la rettitudine dei giudizi non fosse travolta dalle fazioni o dalle parentele. Teneva in Firenze egli da principio sua residenza nel Vescovado, poi nel Palagio da lui chiamato: veniva con molto accompagnamento; e sovrastando a ogni magistrato, aveva grandi onorificenze, in nome suo intitolandosi gli atti pubblici: il suo vestito era una lunga roba o bianca o gialla o di broccato d’oro, con in testa una berretta rossa. Nell’anno 1184, che seguì a quello della pace di Costanza, troviamo l’ufizio del Potestà ricordato la prima volta in un atto pel quale i Lucchesi prometteano fare certe cose a richiesta dei Consoli, del Potestà o d’altro Rettore della città di Firenze. Ma chi tenesse quell’ufizio noi non troviamo allora, nè per alcuni altri anni poi, che saltuariamente. Scrive il Malespini che i Potestà cominciarono in Firenze l’anno 1207 per torre ai Consoli la briga dei giudizi e questi fidare a uomini forestieri. Ma già nel 1193 si trova un potestà Caponsacchi stipulare in nome della città, insieme co’ suoi consiglieri e sette rettori delle Arti. Costui sarebbe stato di famiglia tra le più nobili di Firenze:[28] gli altri poi furono sempre forestieri; ed un Porcari si trova insieme ai Consoli dei mercanti pattuire in nome della città l’anno 1200, e continuare nell’ufizio il seguente anno; quindi nel 1207 quel Grasselli milanese che è nominato dal Malespini, confermato anch’egli per un altro anno: poi nell’anno 1209 un atto simile a quello del 1193 avere il nome di quell’ufizio non la persona; un Potestà essere in Firenze nel 1215, ed un altro poi nel 1218; dopo al quale si vedono continuare senza intermissione. Negli anni intermedi, quando gli atti solenni (come nel 1202 e 1212) non vanno in nome del Potestà, invece di quello abbiamo i Consoli, o fossero del Comune o della Milizia o dei Mercanti. Volemmo noi queste cose notare minutamente perchè importano alla storia del diritto, incerto com’era tuttavia in Firenze; sembrando a noi che mentre in Toscana le terre minori aveano a capo un Potestà, secondo appare dagli atti loro, un tale ufizio non avesse per trentacinque anni continuità in Firenze, dove alcune volte la suprema autorità ritornasse in mano dei Consoli. Nè a tutti gli atti dai quali traemmo queste indicazioni, veduti da uomo assai diligente, sapremmo noi negare fede, tanto più che nell’avvicendarsi in cima agli atti dei nomi dei Consoli con quello del Potestà, ne parve la sincerità di essi avere conferma. Dall’anno 1218 in poi, non già che cessassero nella città i Consoli, ma più non tenevano il supremo magistrato; e la rappresentanza cittadina risedette d’allora in poi costantemente nel Potestà, che seco aveva suoi consiglieri.[29] I Vescovi non esercitarono in Firenze mai giurisdizione politica; e questo ancora apparisce da tutta l’istoria, che il clero vi si mantenne in ogni tempo assai cittadino, senza di che non può aversi città ordinata nè religione pura. Gli Ottoni di Sassonia avevano fatto più che non volessero a pro dell’Italia, quando, per gelosia dei conti e de’ baroni, contrapposero alla feudalità i Comuni; e quando allargarono i privilegi de’ vescovi, così accostandogli alla parte popolana invece di rimanere tutti feudali e guerrieri, come gli avevano fatti i successori di Carlo Magno. Nè sono io certo che debba tenersi per vera quella opinione degli eruditi, la quale in oggi fa derivare il Comune dalle immunità vescovili e dal collegio degli avvocati delle chiese; ma è ben certo che nelle provincie meno aderenti all’Impero e che più sentirono la riforma di Gregorio VII, il clero ed il popolo si trovano uniti con più salda colleganza e con migliore temperamento. L’opera di quel Pontefice fu intesa a distruggere il fatto dei Carolingi: e nella guerra per le investiture si contendeva insomma se i vescovi s’avessero a eleggere in nome di Dio o in nome del Principe, e se tenere si dovessero pastori dei popoli o cortigiani dei re e capitani delle masnade; e nell’Italia importava l’essere i vescovi e gli abati, o italiani o tedeschi. Ma in Toscana la potenza dei marchesi e la forte signoria di Matilde fecero che i vescovi e generalmente il clero, dall’un lato contenuti, dall’altro venissero vie più ad accostarsi alla civil comunanza. I monasteri ed i conventi anch’essi appartengono all’istoria del popolo; ma qui non si vogliono descrivere le molte abazzie fondate verso il mille dal marchese Ugo di Toscana e un secolo dopo dalla contessa Matilde. Giova dire solamente quale principio avesse il monastero di Valombrosa, che diede nome a una riforma o nuova regola dei monaci di san Benedetto. Ciò fu intorno all’anno 1070 per opera di Giovanni Gualberto dei signori di Petroio in Val di Pesa, il quale incontrato presso alla chiesa di San Miniato un cavaliere ch’egli cercava a morte come uccisore d’un suo fratello, e questi chiedendogli mercè per Dio con le braccia in croce, Giovanni Gualberto punto da misericordia gli perdonò; e lo menò ad offrire in detta chiesa, quivi rendendosi monaco: donde poi salito essendo come eremita nell’alpe di Valombrosa, radunava intorno a sè altri monaci, e fondava il nobile edifizio che, ampliato dipoi ed abbellito dalle Arti, rendeva in Toscana molto popolare la memoria di san Giovanni Gualberto. Il nome di Guelfi e di Ghibellini, infino allora non mai pronunziato dagli storici, apparve in Firenze l’anno 1215, nato ivi per una privata contesa. Messer Buondelmonte della nobile casata de’ Buondelmonti, leggiadro e splendido cavaliere, aveva promesso di tôrre in moglie una fanciulla degli Amidei. Un giorno mentre egli cavalcava a diporto per la città, una donna di casa Donati per nome Aldruda lo chiama e, scese le scale, entra con esso in parole, non senza motteggiarlo perchè egli sia per isposare l’Amidei, nè bella nè sufficente a lui. Io vi aveva guardata, soggiunge, questa mia figlia; e gli mostra la donzella che l’avea seguita. Questa era di rara bellezza, tantochè Buondelmonte se ne accese, e senza pensare per nulla nè all’Amidei nè alla data fede nè alla ingiuria che era per fare nè al rischio cui andava incontro, rispose le cose non essere tanto innanzi che non si potessero frastornare: non molto dopo la sposò a moglie. Di tale ingiuria gli Amidei gridarono vendetta, e gli Uberti attizzarono quegli sdegni; ai quali partecipando più altri parenti, molte delle più antiche e nobili casate si congiurarono insieme di offendere Buondelmonte; e disputandosi in che guisa, il Mosca dei Lamberti si levò su e disse la mala parola: Cosa fatta capo ha; volendo dire, uccidiamolo e così al fatto sarà dato principio. Nè stettero a perder tempo, perchè raunati la mattina di pasqua di Resurrezione in casa degli Amidei da San Stefano, veggendo venire d’oltrarno Buondelmonte in su uno palafreno bianco, vestito nobilmente di nuovo di una roba bianca, si spinsero innanzi; ed incontratolo appena ch’egli ebbe sceso il Ponte Vecchio, appiè d’una statua di Marte che ivi era, avanzo del paganesimo; Schiatta degli Uberti lo rovesciò da cavallo, Mosca de’ Lamberti e Lambertuccio degli Amidei precipitandosi addosso a lui lo ferirono; da Oderigo de’ Fifanti, che gli segò le vene, fu tratto a fine. Per quella morte Firenze corse alle armi e a rumore; stettero i Guelfi co’ Buondelmonti, i Ghibellini con gli Uberti: e la città, non per anche lastricata, divenne campo dove si combattevano vicini contro vicini; secondo che le private nimistà, o l’aderire alla parte della Chiesa o dell’Impero, divisero le famiglie, sì fattamente che di settantadue casate nobili annoverate dal Malespini, trentanove divennero guelfe e il rimanente ghibelline. Qui ebbero principio nella storia di Firenze le interminate discordie; ed a noi tristo insegnamento viene dai fatti che si compivano allora presso altre due nazioni oggi potentissime in Europa. Imperocchè in quell’anno i baroni dell’Inghilterra congiunti ai borghesi ponevano con la Magna Carta i fondamenti su’ quali poterono nel corso dei secoli insieme crescere libertà e grandezza; e in Francia, per contrarie vie, Filippo Augusto con la battaglia di Bouvines accertava la grande unità che è forza ed anima dei Francesi. I fatti d’Italia in quegli anni fecondissimi consumavano la libertà e impedivano la grandezza. Ma per allora e per trent’anni dopo, mentre che in Italia ardevano guerre e si esercitavano più che in altro tempo mai atroci violenze, da tante e sì varie miserie comuni rimaneva offesa meno delle altre parti la Toscana, e la città di Firenze dovette in quelli anni molto avere prosperato; talchè al Malespini parvero beati quei tempi nei quali, secondo egli scrive, «quelli che si chiamavano Guelfi amavano lo stato del Papa, e quelli che si chiamavano Ghibellini amavano lo stato dell’Impero; ma nondimeno tutti traevano al bene comune, ed il popolo si manteneva in unità e in bene della Repubblica.[30]» Nell’anno 1217 andarono cavalieri guelfi e ghibellini alla Crociata che fu bandita da Onorio III per la impresa di Terra Santa; dove un Buonaguisa della Pressa acquistò gloria per essere egli salito il primo sopra le mura della città di Damiata, e la bandiera che ivi pose recò in Firenze con grande onore. Nell’anno 1218 i Fiorentini fecero giurare tutto il contado alla signoria del Comune; «che prima la maggior parte si teneva a signoria de’ conti Guidi e di quelli di Mangona e di quelli di Capraia e da Certaldo, e di più gentili uomini che l’aveano occupato per privilegi, per forza degli Imperatori.[31]» Queste parole sono di Ricordano Malespini, magnate fiorentino e guelfo; i cui maggiori doveano, come gli altri, tenere i loro castelli da imperiali privilegi e dalla forza; ma che vivendo tra gente libera, si andava educando al nuovo diritto, inverso il quale muovendo Firenze con più franco passo di altra qualsiasi tra le città emancipate, meritò bene dell’umanità. Traspare però nel nostro istorico il malumore di gentiluomo, dove enumerando in altro luogo e come di nascosto i danni sofferti da molte famiglie, aggiugne poi «tutte per terra:» i Malespini aveano anch’essi una tenuta dentro al contado con le altre disfatta. Cresceva Firenze affrancando i contadini dalla soggezione baronale e affratellandoli al Comune; il che era giustizia che si faceva contro ai soverchianti, per lo più stranieri, i quali ponendo aguati o serragli sulle vie, impedivano i commerci e si contrapponevano a ogni civil comunanza. Ma quelli assalti contro a’ cattani o signori di castelli, guardando ai modi che si tenevano, erano spesso «più con la forza che con ragione» come dichiara Giovanni Villani,[32] uomo di popolo ma sincero se altri fu mai: cosicchè molti nobili di contado, per isdegno o per aver patti migliori, donavano alla Chiesa le terre loro e le case ed i vassalli che per tal modo voleano sottrarre alla ubbidienza dei Comuni. Si trovano esempi di tali donazioni fatte al Vescovo di Firenze lo stesso anno nel quale vennero i contadini emancipati; e molti Fiesolani o nobili o altri giurarono a quel Vescovo fedeltà nel 1224, non bene essendo per anche formata la signoria del Comune sopra sè stesso e nel contado.[33] Ma questa venendo a crescere sempre, il Potestà dell’anno 1233 ordinava: «che dentro al mese di maggio tutti gli abitatori del contado fiorentino venissero a comparire nella città per notificare ai notai dei sestieri a ciò deputati di che condizione fossero ciascuno, cioè se cavaliere nobile o fattizio, o allodiere, o masnadiero, o uomo d’altri, o fittaiolo, o lavoratore o d’altra condizione egli fosse.[34]» Prima di quel tempo Firenze ebbe brighe co’ Perugini per le acque che in Arno scendevano dal Lago Trasimeno: cominciò poi lunga guerra con Siena per le controversie continue che davano i confini incerti e i signori che ivi seguivano contrarie parti. Vi era Poggibonsi fortezza imperiale, e tra i castelli che dipendevano dai Senesi, Mortennana degli Squarcialupi, battuto e ripreso più volte; trovandosi ivi usate quelle che poi divennero mine, ed erano fossi coperti pei quali entravano fino a scalzare i fondamenti delle mura e farle cadere. Dal lato opposto, dove il dominio di Firenze si toccava con quello di Siena, Montepulciano e Montalcino diedero occasione a quelle guerre, nelle quali ebbero i Senesi lega con gli Orvietani, mentre che Firenze si rinforzava di aderenti e di amicizie in quella parte degli appennini che scende in Romagna, di già estendendo l’azione sua oltre a’ confini della Toscana.[35] Con Pisa era guerra spesso combattuta ma sempre costante per la contrarietà d’interessi che la natura del sito aveva posto tra le due città, diversamente facoltose e già possenti ambedue: imperocchè Firenze a’ suoi commerci voleva uno sbocco sul mare, e Pisa glielo impediva. Questa era anche sempre in guerra con Lucca, la quale era certa di seco avere i Fiorentini: di poi una meschina contesa tra gli ambasciatori delle due città rivali convenuti in Roma all’incoronazione di Federigo II, bastò ad accendere una guerra. Dapprima si erano bene svillaneggiati e battuti nelle vie di Roma tra quanti Fiorentini e Pisani erano in Corte, o vi andarono per volontà di avere parte nella riotta; della quale fu principale istigatore quell’Oderigo Fifanti che aveva segato le vene a Buondelmonte, ed ora se la pigliava contro ad uomini ghibellini. I Pisani fecero arrestare tutta la roba e mercatura de’ Fiorentini che si trovò in Pisa, ch’era grande quantità; e i Fiorentini avendo chiesto fosse restituita la mercanzia, i Pisani superbamente negarono; e ai Fiorentini che minacciavano di muovere contro Pisa, risposero che avrebbono loro ammezzata la via: laonde incontratisi a Castel del Bosco, fecero battaglia con la peggio de’ Pisani, al dire degli storici fiorentini.[36] Moriva in quei tempi (1229) un celebre fiorentino, Accorso da Bagnolo, che professò giurisprudenza in Bologna e fu insigne tra’ glossatori dei libri delle romane leggi, talchè la fama e l’autorità di lui non sono spente ai dì nostri. Già da due secoli Arezzo aveva prodotto quel Guido che fu inventore delle note musicali: e in quei primi anni del XIII Niccolò pisano faceva risorgere la scultura, e Leonardo Fibonacci della città stessa recava in Europa le cifre numeriche e l’arimmetica degli Arabi. Sorgevano già le cattedrali bellissime di Lucca, di Pisa e di Siena. Fuori delle porte di Firenze già sino dai primi anni dopo al mille era la chiesa di San Miniato, nobile monumento di quell’architettura cristiana che nacque in Italia ne’ primi secoli della Chiesa. Nella città rimaneva antico e molto bello edifizio il Battistero, che prima dicevano essere stato tempio di Marte e poi consacrato a san Giovanni Battista; ma d’altri non si era per anche adornata che ne attestassero la magnificenza; nè si era illustrata per chiari ingegni, dei quali Accorso fu il primo. Doveano i commerci però di Firenze già molto essere ampliati, trovandosi avere l’anno 1214 il Marchese d’Este impegnato ai prestatori fiorentini tutti i suoi allodiali per le grosse somme di danaro che gli aveano essi somministrate.[37] Cresceva intanto la città oltr’Arno, dove molte famiglie venute di fresco in ricchezza aveano poste le case loro; talchè fu necessità fondare due nuovi ponti, che uno alla Carraia l’anno 1218, e l’altro nel 1237, cui diede nome il potestà Rubaconte da Mandella milanese. Avanti di cominciare la narrazione di fatti maggiori, giova dire alcuna cosa intorno alla setta dei Paterini o Albigesi, che di recente compressa nel mezzodì della Francia per sanguinose battaglie, aveva fomento in Italia dall’odio ardentissimo dei Ghibellini contro alla romana Chiesa, e dalla sciolta incredulità di Federigo II. Quell’asiatica dottrina recata in Europa dalle crociate e dai commerci, ebbe seguaci per tutta Italia anche nel secolo precedente: ora le parti civili di ogni cosa facevano arme, ed il pensiero audacissimo che voleva tutto comprendere, non aveva limiti al negare: la Somma di san Tommaso ed il poema di Dante ne mostrano quante fossero in quel gran secolo l’interezza e la comprensione filosofica della ortodossa dottrina, fuor della quale non era luogo che a una filosofia miscredente. Lo stesso Alighieri annovera tra gli increduli, oltre a Federigo imperatore, il cardinale Ottaviano degli Ubaldini e Farinata degli Uberti, capi della parte ghibellina; ed in Firenze sappiamo essere stati i Paterini apertamente promossi e spalleggiati dal Potestà che verso l’anno 1240 vi esercitava l’autorità imperiale.[38] Nella città due colonne, delle quali una ha in cima la croce, l’altra una statua di san Pier Martire, tuttora dinotano i luoghi dove i Paterini venuti a conflitto col rimanente del popolo furono vinti ed oppressi; nè più ricomparvero dopo la morte di Federigo e la vittoria de’ Guelfi. Intanto però anche le giuste censure e l’avversione di molti contro ai mondani vizi del clero, pigliavano faccia d’eresia; cosicchè apparve sospetto nel suo primo manifestarsi lo stesso pensiero di san Francesco, il quale tendeva a rinsanire la gerarchia con l’onorare la povertà, e faceva sorgere nella Chiesa un nuovo ceto di popolani; consacrazione e forza grande aggiunta ai _poveri_ e _impotenti_, che il patrocinio delle leggi tendea dovunque a rinnalzare. Sospetti egualmente riuscivano i primi eremiti che in Monte Senario cominciarono un nuovo Ordine, il quale avuta di poi solenne istituzione in Firenze, divenne l’Ordine dei Serviti. In Italia le riforme si traducevano sempre in popolari istituzioni, conservatrici però della unità religiosa che stava in cima e le conteneva dentro ai limiti d’un ossequio non mai cessato in alcun tempo. Tra queste forze venne ad infrangersi la potenza di casa Sveva e dei Ghibellini, come vedremo pei fatti che ora ne richiamano a più disteso racconto. L’anno 1248 Federigo principe d’Antiochia, figlio naturale di Federigo II, conduceva in Toscana suoi cavalieri, mandato dal padre ad opprimere la parte guelfa, ch’era il maggior numero. In Firenze le casate ghibelline si rafforzavano dando mano alle masnade tedesche; e unite a queste, combattevano di luogo in luogo, e fino all’ultimo serraglio, i Guelfi dentro alla città. Infine dovettero questi partirsene a’ 2 febbraio, giorno della Candelaia, 1249; ma però innanzi d’abbandonare la patria, armati com’erano, portarono a sepoltura feroci e piagnenti in lunga fila il cadavere d’un loro cavaliero per nome Rustico Marignolli caduto in quella battaglia: e depostolo nel chiostro di San Lorenzo, dove una lapida in onore suo tuttora si vede, sgombrarono la città ricovrandosi a Montevarchi ed a Capraia e sparsamente per le campagne ai castelli o ne’ poderi loro e degli amici. Aveano fede in sè medesimi e nella parte ch’essi tenevano: ma i Ghibellini ed i Tedeschi rimasti soli nella città, la governavano ad arbitrio loro. Abbatterono trentasei fra case e torri, e tra queste il nobile edifizio dei Tosinghi in Mercato Vecchio, detto il _Palazzo_; il quale era alto (dicono gli storici) novanta braccia, adorno di colonnette di marmo. Abbatterono anche la torre che si chiamava del Guardamorto, la quale era prossima a San Giovanni, con l’intenzione (secondo scrivono) di farla cadere addosso a quel tempio dove il popolo dei Guelfi solea radunarsi: ma Giorgio Vasari, che attribuisce all’ingegno di Niccola Pisano l’avere fatto ruinare quella torre sopra sè medesima, esclude il disegno imputato ai Ghibellini: a questi rimane, come nota il Malespini,[39] l’avere cominciato quella maledizione dell’abbattere le case, che poi divenne fatale usanza. Continuarono intanto la guerra contro i castelli: ed essendo Federigo istesso venuto in Toscana, quello di Capraia, dove si era chiusa gran parte della nobiltà guelfa, per lungo assedio fu espugnato; e Federigo, i capi dei Guelfi condotti in Puglia, scrivono facesse parte mazzerare, parte abbacinare, e indi chiudere in un chiostro. L’Imperatore tedesco percuoteva con gli ottimati gli ottimati, tra’ quali soli fin qui pareva la guerra essere combattuta: vedremo il popolo tutto intero unito e possente venire in iscena, e fare sua quella vittoria cui dato aveva egli compimento. Capitolo IV. PRIMA VITTORIA DEL POPOLO, E GOVERNO DEGLI ANZIANI. FELICITÀ DEI GUELFI. [AN. 1250-1254.] I Ghibellini con la forza delle straniere masnade imposero al popolo intollerabili carichi e l’oppressero in mal punto, imperocchè i Guelfi avevano al di fuori ricominciato la guerra, e il re Enzo di Sardegna, altro figlio naturale di Federigo II, dai Bolognesi vinto in battaglia, era imprigionato: la parte guelfa e popolare alzava il capo; talchè veggiamo in quegli anni altre città emancipate al modo stesso e con le forme che in questa sua liberazione pigliava il popolo di Firenze. Quivi frattanto gli Uberti e le altre nobili famiglie oltre ogni dire insolentivano: il popolo, che era fino allora stato soggetto al governo dei magnati, ora essendo fuori i nobili guelfi, ed esso capace a fare testa contro i Ghibellini, si levò, e tolse con mirabile felicità in mano sua tutto lo Stato. I buoni uomini, o come scrive il Machiavelli gli uomini di mezzo, o meglio direi coloro dai quali usciva in quel punto la nuova cittadinanza, il 20 ottobre 1250 si adunano a folla nella chiesa di San Firenze; ma non osando fermarvisi per timore della violenza degli Uberti che ivi presso abitavano, si ricovrano a Santa Croce, chiesa popolana dei Frati Minori, dove armati ed inquieti dimorano alcun tempo. Poi fatto animo, invece di tornarsene alle loro case, vanno con ordine militare ad afforzarsi presso la chiesa di San Lorenzo, dove tuttavia in armi si elessero trentasei caporali, tolsero il grado al Potestà e agli ufficiali posti dai Ghibellini, mettendo a guardia del nuovo Stato un Capitano del popolo, messer Uberto da Lucca; al quale aggiunsero dodici Anziani, due per sesto, acciò guidassero il popolo e consigliassero il Capitano. Questi doveva, come il Podestà, essere nobile e forestiere, ma di popolo gli Anziani: tra questi era un calzolaio, possente uomo, secondo appare, poichè lo chiamano Grande anziano; il quale divenne poi traditore, onde più tardi fu lapidato a furia di popolo. Scrissero tutta la gioventù in compagnie sotto a venti gonfaloni, e ordinarono che ciascun uomo uscisse presto ed armato sotto la sua bandiera, qualunque volta fosse dal Capitano o dagli Anziani chiamato, facendo gettare a questo effetto una campana. Il gonfalone del Capitano aveva la croce rossa in campo bianco; degli altri variavano i segni e i colori. Questa era la forza che il popolo ordinava a munimento della libertà sua: ma nelle guerre al di fuori andava l’esercito sotto gli ordini del Potestà, perch’era esercito del Comune o della intera città, nel quale tutti si comprendevano i vari ordini dei cittadini. I nobili e i potenti popolani formavano arme distinta, che si chiamava dei cavalieri, principal nerbo nelle battaglie. Ciaschedun sesto aveva l’insegna sua pe’ cavalieri, e similmente erano insegne variate per le armi de’ balestrieri e de’ palvesari, e per la salmeria e i guastatori e i marraioli e i palaioli. Queste insegne dava solennemente il Potestà ogni anno il dì della Pentecoste. La popolazione del contado fu parimente divisa in leghe, le quali ciascuna sotto a’ suoi gonfaloni l’una all’altra soccorrendo, dovevano inoltre, quando bisognasse, venire in arme nella città: novantasei erano i pivieri, i quali furono ordinati in leghe. E qui è da notare che a ciascun sesto della città rispondeva una parte del contado, cosicchè i vari pivieri ed i Comuni fossero come una dipendenza di quel sesto che incontro ad essi era posto, e le milizie delle leghe quando scendevano in Firenze s’aggregassero per sesti alle milizie cittadine, e le ingrossassero con lo stesso ordine. A difesa di sè stesso, ed a mostrare come in Firenze il governo dei magnati cedesse a quello della cittadinanza, ordinò il popolo che le torri onde era gremita la città, fossero tutte eguagliate all’altezza di cinquanta braccia, secondo scrivono: le torri dei nobili erano in grande numero; poche altre si chiamavano delle vicinanze, fabbricate da più famiglie insieme a difesa di case vicine:[40] con le pietre di quelle mozzate torri si cinse di mura la città oltr’Arno. Gettarono i fondamenti d’un palazzo per la Signoria, che prima non aveva pubblica residenza e gli Anziani tornavano alle loro case a mangiare e a dormire: dipoi quel palagio fu del Potestà. Alla novella della morte di Federigo II, la quale avvenne in Firenzuola di Puglia a’ 13 dicembre 1250, il popolo richiamò in città i fuorusciti guelfi, dicendo volere rappacificare le due fazioni. Veramente avere alterato le istituzioni municipali non offendeva le ragioni dell’Impero, come il richiamo degli sbanditi, il quale era atto di sovranità.[41] Così però la città in questi anni fatta opulente pei commerci, cresciuta di popolo, e avendo acquistata in guerra ed in pace la fiducia di sè stessa, pigliava in Toscana luogo soprattutte preminente, digià cominciando a essere noverata tra le maggiori d’Italia. La parte guelfa si rinforzava dopo la morte dell’Imperatore per la presenza di papa Innocenzio IV, che dal Concilio di Lione tornava a Roma colla sua corte. Frattanto Firenze e Lucca sole si erano chiarite guelfe, mentre al contrario Pistoia, Pisa, Siena e Volterra e quasi tutti i gentiluomini di contado seguitavano il ghibellinesimo. Firenze, crucciosa di vedere Pistoia stare al comandamento di Corrado successore del secondo Federigo, contro di essa faceva uscire le sue milizie cittadine: e perchè i nobili ghibellini rimasti dentro si erano opposti a cosiffatta guerra, queste milizie tornate vittoriose costrinsero al bando non pochi di quelle famiglie; i quali, usciti appena, stringevano società o lega col Comune di Siena. Abbiamo l’atto a ciò stipulato da uno di casa dei Lamberti come procuratore degli uomini di molte famiglie di cui si leggono i nomi.[42] Allora Firenze [luglio 1251], sdegnando avere comune l’insegna coi Ghibellini, lasciò loro l’arme del giglio bianco in campo rosso e appropriossi il giglio rosso in campo bianco. «Tuttavolta l’antica nobile e trionfale insegna del Comune di Firenze, cioè lo stendardo bianco e vermiglio che si portava sul carroccio, non cangiò mai.» La Repubblica seguitava felicemente la guerra contro i Ghibellini signori di alcune castella aiutati dai Pisani e dai Senesi, tantochè contro queste due città rivolse finalmente lo sforzo delle armi sue; nè migliori guerre nè più alto e giusto fine ebbe essa dopo quel tempo mai. I cittadini, tutti concordi pel buon governo e la lealtà loro, andavano a quelle militari spedizioni a piedi e a cavallo, con grande animo e ardire: Firenze ponevasi allora a capo di parte guelfa, e delle italiane libertà, e dei popoli che risorgevano; e se non fosse usar parole troppo magnifiche e boriose, quasi direi della civiltà del mondo. Fiorendo la Repubblica in potenza e in ricchezze a cagione della quiete dentro e dei buoni successi al di fuori, l’università dei Mercatanti, piuttostochè il Popolo ed il Comune, per onore di tutti ordinò che si coniasse moneta d’oro; per la qual cosa Firenze allora ebbe il fiorino d’oro di 24 carati. Otto di essi pesavano un’oncia; da una parte avevano il giglio, dall’altra san Giovanni Battista, e valevano venti soldi. Quando cominciarono a vedersi, niuno li voleva: ma tosto ebbero corso grande e grande credito in Europa e nei traffici d’Oriente. Un’altra volta i Fiorentini andati contro Pistoia, vi posero assedio; e avuto il disopra, quivi restaurarono parte guelfa a guarentigia del fatto, edificando un castello in sulla via di Firenze, che fronteggiasse i Pistoiesi. Eguali successi ebbero a favore dei Perugini ch’erano guelfi, e contro Siena e contro Arezzo; dove anche diedero bella prova di lealtà quando il conte Guido Guerra capitano de’ Fiorentini, avendo dato mano ai Guelfi di Arezzo perchè cacciassero contro ai patti i Ghibellini dalla città, il governo di Firenze volle che i patti si mantenessero e i Ghibellini vi rientrassero. Troviamo pure la confessione fatta da’ Guelfi d’Arezzo di somme imprestate ad essi in questi anni [1251-55] dai Fiorentini;[43] i quali dipoi avendo col toglierle alcune castella abbassato Siena, e andati ad oste contro Volterra, nel dare la caccia ai nemici fuggitivi entrarono nella città, forte pel sito in cima ad un monte. Allora si viddero venire incontro il Vescovo ed il Clero colle croci in mano, e dietro ad essi le donne scapigliate, tutti gridando: «Signori Fiorentini, pace e misericordia.» Si contentarono di riformare lo Stato e di cacciare i capi ghibellini senz’altra offesa. Vincitori di Volterra, vanno contro Pisa; e perchè i Pisani spaventati, pregando pace, ad essi inviarono ambasciatori con le chiavi della città in segno di sommissione, la guerra cessava; i Fiorentini accontentandosi di pattuire che le mercatanzie loro potessero entrare per mare e per terra liberamente in Pisa ed uscirne con franchigie di gabelle, e che i pesi e le misure usate in Firenze fossero comuni anche ai Pisani. Bastava loro il provvedere alla facilità dei commerci; nè a tanto possente e ghibellina città quei patti erano da imporre che altrove solevano ad incremento di parte guelfa, come non ricettare i fuorusciti, o per tre anni pigliare tra’ nobili di Firenze il Potestà, che doveva (come noi sappiamo) da per tutto essere forestiero. Tornava l’oste in Firenze tra le allegrezze e le feste nel gaio mese di settembre; ed a quell’anno tanto felice [1254] il nome fu dato d’anno vittorioso. Erano i primi gaudi della libertà, nei quali sembra che il giovane popolo innalzi a leggenda la propria sua istoria.[44] CAPITOLO V. MANFREDI RE DI NAPOLI AIUTA I GHIBELLINI. BATTAGLIA DI MONTAPERTI. [AN. 1254-1260.] Manfredi figlio naturale di Federigo II succedè l’anno 1254 al fratello Corrado sul trono di Sicilia e di Puglia in pregiudizio del nipote Corradino: da lui ebbe parte ghibellina gran sostegno, e la Toscana grande assalto. Ad istigazione di quel principe i Pisani di bel nuovo ruppero guerra ai Fiorentini ed ai Lucchesi, avendo sul territorio di questi assalito il castello del Ponte a Serchio, dal quale poi furono respinti con grave sconfitta: i vincitori volgendo l’oste contro alla stessa Pisa, giunsero fino a San Iacopo in Val di Serchio, dove tagliato un gran pino, fecero a dimostrazione di trionfo, sul ceppo rimasto, battere fiorini d’oro. Allora i Pisani gli richiesero di pace, che i Fiorentini concessero in modo grato ai Lucchesi; ma per avere alle mercatanzie libera la piaggia del mare fermarono che nel popolo di Firenze stesse la scelta del mantenere o del disfare il castello di Mutrone, che era tenuto dai Pisani.[45] Questi accettarono la condizione: dopo di che gli Anziani di Firenze in consiglio segreto presero partito, che il Mutrone fosse disfatto. Ciò si doveva nel dì seguente proporre in pubblico parlamento: ma intanto i Pisani bramando impedire che i Fiorentini a ogni costo dessero quel castello in signoria dei Lucchesi, avevano in Firenze mandato a tal fine celatamente un discreto segretario con denari assai da spendere. Si accostò il Pisano, per interposta di un amico, ad un grande cittadino anziano e possente in popolo e in comune, il quale avea nome Aldobrandino Ottoboni, franco popolano, offrendogli quattromila fiorini e più se ottenesse che il Mutrone fosse disfatto. Ma il vecchio Aldobrandino, da ciò argomentando che la distruzione del Mutrone, dai Pisani desiderata, verrebbe dannosa ai Fiorentini ed ai Lucchesi, come leale cittadino, senza far parola della offerta dei denari, con nuovi argomenti propose il contrario di quel che aveva nel precedente giorno, e fece vincere il partito che il Mutrone si conservasse: tanta fu la continenza di quel virtuoso e non troppo ricco cittadino, che il Villani paragona al buon romano Fabrizio. Poco dopo Aldobrandino moriva, e il Comune gli decretò in Santa Reparata un monumento di marmo elevato sopra a ogni altro, dove fu egli deposto a grande onore. Tre anni dopo i Ghibellini tornati in città fecero per empiezza di parte abbattere quella sepoltura, e il corpo di Aldobrandino trascinare per la città e gittare nei fossi. Manfredi era stato l’anno 1258 coronato in Palermo re di Sicilia; dal che ranimati i Ghibellini di Toscana, convenivano in segrete adunanze, tendendo le orecchie ad ogni novella. Gli Uberti ordivano gran congiura, ma fu scoperta la trama; citati, negarono i Ghibellini di comparire, insultando con ferite e con percosse la famiglia del Potestà. Al che il popolo, correndo armato alle case degli Uberti, uccise a furia Schiattuzzo di quella famiglia ed altri ad essa aderenti: Uberto Caimi degli Uberti e Mangia degl’Infangati, condotti al carcere, confessarono la congiura, per cui tosto ebbero il capo mozzo. I rimanenti degli Uberti con molte più casate ghibelline, i Fifanti, gli Amidei, i Lamberti, gli Scolari ed altre sì nobili che plebee, le quali sarebbe qui troppo lungo noverare, fuggirono dalla patria, ricoverandosi a Siena ch’era tenuta dai Ghibellini: le case e torri dei fuorusciti furono atterrate. Poco dipoi l’Abate di Valombrosa, pavese della famiglia da Beccaria, caduto in sospetto di perfidia ghibellina, fu posto al tormento e decollato da’ Fiorentini, i quali ne furono scomunicati dal Pontefice. Il popolo che resse in quei tempi la città, scrive il cronista che «fu superbo molto, di alte imprese e tracotato;» ma una cosa ebbero i rettori, che furono molto leali e diritti. E perchè un Anziano fece ricogliere dal fango presso a San Giovanni un cancello che era stato della chiusa del Leone, e lo mandò in una sua villa, ne fu condannato in lire mille, come frodatore delle cose del Comune.[46] Firenze, che aveva come sua impresa il Marzocco, teneva insin d’allora per grandigia un serraglio di Leoni che venivano ad essa recati dai commerci nell’oriente: usanza continuata dalla Repubblica sempre, ed anche poi sotto al principato, fino alla memoria dei padri nostri. «I cittadini di Firenze allora (prosegue il Villani) vivevano sobri e di grosse vivande e con piccole spese, e di grossi drappi vestivano loro e loro donne. E molti portavano le pelli scoperte senza panno, con berrette in capo, e tutti con gli usatti (stivali di cuoio) in piede. E le donne fiorentine co’ calzari senza ornamenti; e passavansi le maggiori d’una gonnella assai stretta di grosso scarlatto, cinta ivi su d’uno scaggiale (cintura) all’antica, ed un mantello foderato di vaio col tassello sopra, e portavanlo in capo; e le comuni donne vestite di un grosso verde di cambrasio per lo simile modo: e lire cento era comune dote di moglie; e lire dugento o trecento era a quei tempi tenuta dote sfolgorata; e le più delle pulzelle aveano venti e più anni anzichè andassero a marito.[47]» Le quali parole confermano quelle a tutti note, dove l’Alighieri descrive l’antico vivere dei Fiorentini, che i vecchi tuttora potevano ricordare, tanto fu rapido il salire di questa città nella opulenza e nelle corruttele.[48] Siccome per la pace fermata tra’ Fiorentini e i Senesi, questi si erano obbligati a non ricevere fuorusciti; così i Fiorentini inviarono a Siena due ambasciatori, Albizzo Trinciavegli e Iacopo Gherardi dottori in legge; i quali giunti, chiesero che i rifugiati fossero cacciati via, ed aggiunsero intimazioni superbe; cui risposero i Senesi con l’accettare la guerra, che fu incontanente dichiarata. Su di che i fuorusciti si argomentarono d’inviare ambasciatori al re Manfredi per soccorso, tale sperandolo che bastasse a restituirli nella patria. Era capo dell’ambasceria Farinata degli Uberti, principale tra i Ghibellini, ed avea libera facoltà da’ suoi di fare e dire come a lui paresse. Venuti al cospetto del Re, inginocchiati, lo richiesero d’aiuto; ma egli, o temesse o diffidasse, promise a stento il magro soccorso di cento cavalieri tedeschi. Volevano gli altri, che aveano sperato tirarlo almeno a seicento uomini, ricusare la profferta; ma Farinata disse loro: «non rifiutiamo niuno suo aiuto, e sia piccolo quanto si vuole; mandi con esso l’insegna sua: tornati a Siena, noi la metteremo in tale luogo che converrà mandi egli gente a sufficenza.[49]» Accettarono, ma giunti a Siena furono accolti a grande scherno; e molto furono sbigottiti i fuorusciti che si aspettavano dal re Manfredi maggiore aiuto. Correva il mese di maggio del 1260, quando l’oste fiorentina andava contro Siena, conducendo seco il Carroccio, com’era usanza delle città libere d’Italia. Questo era «un carro in su quattro ruote, tutto dipinto vermiglio; e suso eranvi due antenne, sulle quali sventolava il grande stendardo dell’arme del Comune di Firenze, bianco e vermiglio.... Lo tirava un grande e forte paio di buoi, coperti di un panno anch’esso vermiglio: tenevano i buoi nello Spedale di Pinti a questo ufficio ed a niun altro; il guardatore di essi avea franchigia nel Comune. Quando era guerra, i conti e castellani vicini e gentili cavalieri della città lo traevano dall’Opera di San Giovanni, e condotto sulla piazza di Mercato Nuovo, lo posavano sopra un termine ch’era fatto d’una pietra tonda, raccomandandolo quivi al popolo di Firenze. All’oste lo guidavano i popolani, e di essi i migliori ed i più forti e virtuosi erano deputati a guardarlo, a piedi tutti; e nelle battaglie la forza del popolo intorno a quello si ammassava. E quando l’oste era bandita, un mese innanzi ponevano sull’arco della porta Santa Maria, in capo di Mercato Nuovo, una campana chiamata la Martinella, e quella del continuo suonava. Quando l’oste si moveva, la detta campana era levata d’in sull’arco e posta in un carro sopra un castello di legname; al suono di questa si guidava l’oste.[50]» Queste erano pompe del popolo vecchio e della Repubblica di Firenze. Andava l’oste contro Siena, e via facendo impadronitasi d’alcune castella, si accampava presso l’antiporta della città stessa al Monistero di Santa Petronella, dove su un poggetto rilevato innalzarono una torre da tenervi la campana. In Siena il disegno che Farinata aveva fatto sulla bandiera del re Manfredi, ebbe allora compimento: durando l’assedio, gli usciti di Firenze diedero un giorno mangiare ai cavalieri tedeschi; e bene avendogli avvinazzati, gli feciono armare e montare a cavallo per assalire il campo de’ Fiorentini, con la promessa anche di grandi doni e paga doppia. I Tedeschi forsennati e caldi di vino uscirono fuori; e perch’erano improvvisi, al primo assalto fecero grande danno, e molti del popolo e della cavalleria fuggirono, credendo fossero maggior numero di gente: poi ravveduti, si raccozzarono e diedero addosso ai pochi Tedeschi, dei quali molti furono uccisi; e la bandiera del re Manfredi presa e strascinata, fu poi recata a Firenze. Allora i Senesi e i fuorusciti ghibellini avendo accattato dalla compagnia de’ Salimbeni di Siena ventimila fiorini d’oro, mandarono altri ambasciatori annunziando a quel Re come la sua poca gente per gran valentia essendosi messi ad assalire l’oste dei nemici, prima l’avessero posta in fuga, e se più fossero stati, avevano la vittoria; ma per la poca gente, erano poi tutti rimasti morti, e l’insegna caduta in mano dei Fiorentini e svergognata: a ciò aggiugnendo quelle parole che seppero meglio ad ismuovere Manfredi.[51] Il quale crucciato allo intendere la novella, con la moneta dei Senesi mandò in Toscana il conte Giordano suo maliscalco ed ottocento cavalieri tedeschi; giungevano questi all’uscita del luglio 1260. Per questo rinforzo invigoriti i Senesi, bandirono oste sopra a Montalcino; e avendo richiesto l’aiuto dei Pisani e di tutti i Ghibellini di Toscana, bentosto raccolsero in Siena un esercito di molto polso. Ma non si credevano però avere fatto nulla se non tirassero i Fiorentini fuori a campo, i Tedeschi essendo pagati per soli tre mesi; e già n’era passato uno e mezzo, nè moneta avevano da più tenerli, nè mai l’avrebbero ottenuta da Manfredi. Ragionarono pertanto che al fine loro non perverrebbero senza grande maestria e inganno di guerra; del che l’industria fu commessa a Farinata degli Uberti. Sceglieva egli due frati Minori da inviare messaggieri al popolo di Firenze; e prima gli fece in gran segreto abboccare con alcuni dei principali di Siena, i quali diedero infintamente loro ad intendere che, bramando scuotere essi quella sorta di signoria che Provenzano Salvani esercitava dentro alla città, volentieri darebbero questa ai Fiorentini per diecimila fiorini d’oro: venissero con grande oste sotto cagione di fornire Montalcino, e andassero infino sul fiume d’Arbia, dove giunti avrebbero dagli amici loro la porta di San Vito la quale guarda verso Arezzo. I frati, condotti essi medesimi nell’inganno, vennero a Firenze con lettere suggellate, e fecero capo agli Anziani, profferendo che recavano gran cose in pro del popolo di Firenze, ma che erano tali che si voleano manifestare a pochi. Allora gli Anziani elessero due di loro; che uno era chiamato lo Spedito, audace uomo e intramettente; ai quali, poichè ebbero fatto sacramento sull’altare, i frati mostrarono le lettere, e tutto discopersero il trattato. I due portati da volontà diedero fede, e incontanente trovati i diecimila fiorini, radunarono Consiglio di grandi e di popolo, ai quali esposero che bisognava muovere l’oste d’intorno a Siena a fornire Montalcino, e quivi andare con grande possa. I nobili delle grandi case di Firenze ed il conte Guido Guerra ch’era con loro, e di milizia più sapevano che i popolani, ed ignoravano il trattato; conoscendo la nuova masnada de’ Tedeschi ch’era venuta in Siena, e la mala vista che fece il popolo a Santa Petronella quando i cento Tedeschi gli assalirono; e sapendo i cittadini non tutti essere bene disposti, e altresì pensando come si poteva in altro modo fornire Montalcino, al che gli Orvietani s’erano offerti; e che lasciando i Tedeschi stentare finchè non mancasse la moneta, si sarebbono straccati, e tornerebbero in Puglia lasciando i Senesi più in male stato che per l’innanzi: avvisando queste cose, diedero savio consiglio che per al presente non si dovesse muovere l’oste. Fu per essi tutti dicitore Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari, savio e prode cavaliere e di grande autorità: ma detto ch’egli ebbe, lo Spedito già inalberato nelle speranze e di natura presuntuoso, si fece a riprenderlo con vili parole tacciandolo di paura. Tegghiaio rispose: Tu non ti ardiresti di seguitarmi nella battaglia, dove starò io. Si levò Cece dei Gherardini a dire lo stesso che aveva detto messer Tegghiaio; ma gli Anziani gli comandarono non dicesse, e a chi arringasse contro al comandamento era pena cento lire. Il cavaliere voleva pagarle per contradire, ma gli Anziani raddoppiarono la pena una e due volte, ed egli voleva sempre pagare; comandarono si tacesse, pena la testa. E così vinse il peggior consiglio, che tutto l’esercito, levato il campo, senza indugio procedesse. Deliberatosi di combattere contro il parere dei nobili, il popolo fiorentino ricercò l’aiuto de’ suoi collegati, e l’ebbe da Lucca, da Bologna, da Pistoia, da Prato, da San Miniato, da Volterra, da San Gimignano e da Colle di Val d’Elsa, terre che allora formarono una lega guelfa col Comune di Firenze. Era il tempo del ricolto, e i contadini fatti soldati presero l’armi con ripugnanza. Di Firenze erano più di ottocento cavalieri, e ben cinquecento soldati a piedi, che mossero alla guerra al cominciare d’agosto col Carroccio e colla campana. Gli seguitò molta plebe colle insegne delle compagnie, e non rimase nella città casa nè famiglia che non vi andasse qualche persona a piedi o a cavallo, e di tale due, secondo che erano potenti.[52] Credettero fosse provvedimento più cauto menare seco i Ghibellini mescolati nelle compagnie, anzichè lasciarli mentre era assente la milizia, «quasi padroni della città.» Ma fu peggio, avendo quelli avuto agio d’aspettare, confusi tra’ Guelfi, il tempo acconcio al tradimento che già Farinata per altri suoi messi aveva ordinato. I Fiorentini oltrepassata Siena si fermarono a cinque miglia da quella città, dalla parte di levante sull’Arbia in Val di Biena, sito abbondante di acque e di pascoli, munito dai lati e a tergo dai colli di Montaperti, castello posto in una altura, e divenuto famoso per quella battaglia. Ivi a loro si aggiunsero Perugini e Orvietani che là gli aspettavano; talchè l’esercito assembrato aveva in tutto tre mila cavalieri e più assai migliaia di fanti, che in quelle guerre mal si contavano perchè andavano disordinati. In mezzo a cosiffatti apparecchi, e come accade all’appressarsi di grandi eventi, paurosi presagi si spargevano a Firenze, e a Siena, e in tutta Toscana. Siena con religiose cerimonie si consacrava quel dì alla Vergine come a signora unica e perpetua: la notte che precesse alla battaglia per tutte le chiese era un piangere, un pregare, un fare paci coi nemici che ognuno avesse. Venuta l’ora del mattino, a un grido del banditore, cinquemila cittadini senesi pigliarono le armi, e furono in punto per modo volonterosi, che il padre non aspettava il figliuolo, nè l’un fratello l’altro: con essi duemila fuorusciti fiorentini bramosi di recuperare la patria quanto erano i Sanesi di non perdere la loro, e ottocento soldati tedeschi sotto la condotta del conte Giordano: i Pisani, impegnati nella guerra coi Genovesi, non avevano potuto mandare altro che poca gente. L’esercito fiorentino accampato a Montaperti e gli Anziani che lo reggevano, fra i quali ci è noto soltanto il nome dello Spedito, attendevano sinchè la porta fosse loro consegnata com’era promesso; quando un grande popolano fiorentino chiamato il Razzante, di animo ghibellino, esce dagli accampamenti, entra in città, ed agli amici suoi narra privatamente come nel campo si buccinasse che Siena doveva esser tradita; e che l’oste guelfa era poderosa molto; e di troppo gran rischio la battaglia in su quel punto co’ Fiorentini. Ma Farinata, risaputi i discorsi del Razzante, gli gridò contro: «Uccideresti noi tutti se tu spandessi per Siena queste novelle, perchè ogni uomo faresti impaurire, ma vogliamo che dichi il contrario; perocchè se ora non si combatte, che avemo questi Tedeschi, mai non ritorneremo in Firenze; e per noi farebbe meglio la morte che andare più tapinando per lo mondo.» Accomodatosi il Razzante a quell’ammaestramento, si pone una ghirlanda in capo, rimonta a cavallo e simulando allegria viene al parlamento in palagio, dove era tutto il popolo di Siena, e i Tedeschi ed altre amistadi: ivi con lieta faccia dice che l’oste dei Guelfi si reggeva male, e che era male guidata e peggio in concordia; e che assalendoli francamente, di certo erano sconfitti. A grida di popolo si armarono tutti in Siena gridando: «battaglia battaglia.» Vollero i Tedeschi paga doppia, e l’ebbero: fu spalancata la porta San Vito che a levante stava di fianco all’accampamento fiorentino. Era presso che la metà del martedì, quarto giorno di settembre 1260. Innanzi andavano i cavalieri tedeschi, seguitati dalle genti d’armi di Siena a cavallo, dai fuorusciti, e dalla fanteria, tutti sotto ai loro stendardi. I Fiorentini dapprima crederono che i soli Tedeschi uscissero fuori a provocarli come nei giorni precedenti: ma quando scorsero la fiumana dei soldati versarsi giù per le colline, quando ravvisarono il popolo dei Senesi venire innanzi ordinato alla volta loro, sbigottirono. Perchè la mostra fosse maggiore, i Senesi avevano fatto uscire anche saccardi e fantaccini con elmo in testa: la fanteria mescolata ai cavalieri stava in ordine di battaglia sulle colline sotto le sue bandiere; le salmerie si fermarono in disparte quando cominciò la pugna. Innanzi agli altri i cavalieri tedeschi rovinosamente percossero i cavalieri dei Fiorentini, che ad assalto non preveduto male resistendo, videro tosto di mezzo a loro uscire i Ghibellini traditori e andare a porsi dall’altra parte. Le spade tedesche s’aprivano il campo tra l’oste nemica; il caldo era grande, il sole che piegava all’occidente feriva negli occhi le guelfe milizie. Di queste l’insegna era portata da Iacopo de’ Pazzi, uomo di grande valore; quando Bocca degli Abati, uno dei Ghibellini traditori che era in sua schiera appresso a lui, da tergo spingendogli addosso il cavallo gli taglia la mano, che cade giù con l’insegna. Al che i cavalieri, vedendosi a quel modo traditi dai loro ed abbattuta l’insegna, e dai Tedeschi sì forte assaliti, in poco d’ora si misono in isconfitta: ma perchè la cavalleria di Firenze prima s’avvidde del tradimento, non venne a perdere che trentasei uomini di nome, tra morti e presi. Rimaneva la milizia del popolo a piedi, che era molto numerosa e aveva più forte la coscienza della causa che essa difendeva; facevano calca intorno al Carroccio, alla cui guardia era quel giorno preposto un Giovanni Tornaquinci cavaliere d’antica età, sperimentato in molte battaglie e per famiglia capo dei Guelfi nel sesto di San Pancrazio: seco era un suo figliuolo e tre parenti del sangue istesso; i quali tutti, dopo lunga e appassionata resistenza, con lui cadevano sul mucchio dei morti. Ma la grande mortalità e presura fu dei fanti popolani di Firenze, di Lucca e d’Orvieto, i quali essendosi andati a chiudere nel castello di Montaperti, cadevano tutti in mano ai nemici. Tramontava il sole e la feroce zuffa durava ancora: terminò col giorno, avendo continuato senza interruzione sette ore. Dei Fiorentini oltre a duemilacinquecento furono uccisi e millecinquecento presi, tutti dei migliori del popolo e di ciascuna casa di Firenze:[53] gravi danni ebbero i Lucchesi. Il Carroccio, la Martinella e innumerabile preda d’arnesi rimasero al vincitore. Fu questa battaglia delle più sanguinose di quei tempi, siccome quella per cui fu rotto e annullato il popolo vecchio di Firenze che era durato in tante vittorie e grande signoria e stato per dieci anni.[54] Due croniche senesi descrivono a guisa di poema o di romanzo i colpi di lancia dei cavalieri tedeschi; di questo peccato almeno fu immune la parte dei Guelfi. Narrano poi la molta strage che da uomo a uomo fecero i pedoni e il grande numero dei prigionieri condotti in Siena dopo la battaglia: ivi è tuttavia memoria di una trecca per nome Usilia, che ne avrebbe condotti trentasei legati alla coda di un suo asinuccio. Da quelle cronache poco si rileva di quello che importi alla politica o alla guerra, ma bene dipingono gli affetti che in Siena dominavano e le passioni; e la leggenda poi s’innalza quando pone in iscena un araldo che stando a vedetta in cima alla torre dei Marescotti dentro la città, vede ed accenna via via ai trepidanti concittadini suoi i casi tutti della battaglia, e la vittoria su’ Fiorentini: qui è proprio l’Iliade; istoria non è, perchè da Siena era impossibile scorgere le mosse dei due eserciti nel campo di Montaperti.[55] CAPITOLO VI. FIRENZE IN MANO AI GHIBELLINI. — FARINATA DEGLI UBERTI VIETA LA DISTRUZIONE DELLA CITTÀ. — MISERIA DEI GUELFI. — DISCESA IN ITALIA DI CARLO D’ANGIÒ, E MORTE DEL RE MANFREDI. [AN. 1260-1266.] Giunta in Firenze la novella della sconfitta dell’Arbia e insieme con essa i fuggitivi accorrenti, si levò il pianto d’uomini e di femmine, ogni famiglia deplorando morti o prigionieri uno o più dei suoi. Gli scampati dalla battaglia e i nobili e popolani guelfi rimasti in Firenze, temendo l’arrivo imminente dei vincitori e fidando poco nella plebe dove erano molti aderenti ai Ghibellini, si risolvettero spatriare; e a’ 13 settembre 1260 usciti piangendo dalla città, si recarono a Lucca con le famiglie loro. Tale era la sorte in quelle guerre cittadine: i vinti perdevano con la potenza la patria e gli averi e ogni gioia della vita; uopo era fuggire. Ma insofferenti dell’esilio, cercavano guerra da chi si fosse contro alla città loro, dove ogni cosa rimaneva monca e interrotta, gli usciti recando qua e là per l’Italia gli sdegni loro e le querele. Esulavano fra gli altri i Bardi, i Rossi, i Mozzi, i Gherardini, i Cavalcanti, i Pulci, i Buondelmonti, gli Scali, gli Spini, i Giandonati, i Tornaquinci, i Tosinghi, gli Adimari, i Pazzi, tutte nobili casate; e delle popolane i Canigiani, i Machiavelli, i Rinucci, i Soderini, con altre molte che nel governo degli Anziani erano venuti in stato. Con essi ebbe bando Brunetto Latini, che fu poi maestro di Dante. Avealo inviato la Repubblica ad Alfonso re di Castiglia per chiedergli aiuto contro a’ Ghibellini, e in quel frattempo la parte sua essendo vinta, rimase egli in Francia, e quivi scrisse il suo Tesoro. Parve dipoi che i Guelfi avessero mostrato poco animo e fermezza nell’abbandonare la città, che era forte di mura e di torri e di fossi pieni d’acqua da poterla bene difendere e tenere. Nella domenica 16 settembre il conte Giordano, le masnade tedesche e gli altri soldati ghibellini di Toscana, arricchiti delle prede dei vinti, fecero ingresso nella città senza contrasto; e subito elessero Potestà di Firenze pel re Manfredi Guido Novello della famiglia dei conti Guidi, signori di Poppi in Casentino. Egli a tutti i cittadini fece giurare fedeltà al Re, e per i patti promessi ai Sanesi fece disfare cinque castella del contado di Firenze che fronteggiavano quel di Siena. Alloggiava dove poi fu il Palagio del Potestà; e poichè dentro era mal sicuro e fuori aveva la forza sua, fece aprire sino alle mura la via che tuttora ha nome di Ghibellina, per la quale potesse a ogni caso mettere dentro i suoi fedeli e uscire al bisogno fuori degli ingombri delle vie. Il conte Giordano con le masnade tedesche rimase capitano di guerra e vicario generale pel re Manfredi. Tutte le sostanze dei Guelfi andarono al Comune, e molte loro abitazioni furono rase dai fondamenti: Firenze era come in balía d’uomini stranieri. Quando in Roma giunse la novella della sconfitta dei Fiorentini, acerbo dolore ne provarono il pontefice Alessandro IV e i Cardinali pel grande abbassamento che ne veniva alla parte della Chiesa. Ma perchè il cardinale Ottaviano degli Ubaldini ghibellino ne faceva grande festa, il cardinale Bianco, che era guelfo e aveva fama d’astrologo, disse parole le quali furono presagio a molti della vittoria e del ritorno dei Guelfi nella patria loro. Questi frattanto sgombrarono non solamente Firenze, ma Prato ancora e Pistoia e Volterra e San Miniato e San Gimignano e molte altre terre di Toscana. Lucca rimase guelfa, e diede rifugio ai seguaci di quella parte. Quivi stanziando gli esuli fiorentini e spesso convenendo sotto la loggia innanzi alla chiesa di San Frediano, un giorno Tegghiaio degli Aldobrandi veduto lo Spedito che nel consiglio gli aveva detto villania e che allora pativa con gli altri la povertà e l’esilio: «Vedi (gli disse) a che hai condotto te e me e gli altri per la tua audacia e superbia.» Quegli rispose: «E voi perchè ci credevate?» parole abiette e senza pudore. Intanto i Pisani, i Senesi, gli Aretini, il conte Giordano con gli altri capi ghibellini di Toscana, ordinarono di fare in Empoli parlamento per assicurare la vittoria della parte loro e fare taglia, cioè compartire tra loro i carichi e le spese; ma in questo mentre lo stesso conte Giordano essendo richiamato in Puglia per mandato di Manfredi, lasciò vicario generale e capitano di guerra in Toscana il conte Guido Novello. Prima che egli andasse, adunatosi il parlamento, tutti i deputati delle città ghibelline e i feudatari vicini a Firenze opinarono che la città, disfatta in parte e priva delle sue mura, fosse ridotta a borghi aperti siccome quella il cui popolo era tutto guelfo: rialzerebbe (dicevano) essa tosto o tardi la parte della Chiesa; alla salute loro volersi la distruzione di Firenze. Tutti assentivano, quando uno solo si levò ad oppugnare il comun voto, Farinata degli Uberti. Sembra che allora nelle pubbliche arringhe dal dicitore solesse proporsi un motto, sul quale la diceria poi si svolgesse. Farinata propose due grossi antichi proverbi composti in uno, nel quale accennava all’autorità sua sopra gli altri, rozzi e impotenti a petto a lui.[56] Mostrò la follía di quell’atroce proponimento; e se altri non fosse cui stesse a cuore tale città, egli con la sua spada in mano finchè avesse vita la difenderebbe: disse, ed accennava uscir dalla sala. Grande cuore aveva, e ognuno temette nimicarsi tale uomo; il conte Giordano, prudentemente adoperando, tolse altri modi a contenere il popolo di Firenze; e così per l’alto animo e per la virtù di Farinata, la città fu salva: il nome di lui rimase glorioso nei tempi avvenire. La possanza della parte ghibellina si dispiegava in Toscana, dove il conte Guido Novello occupava parecchie castella dei Lucchesi. Il corso di tali conquiste si arrestava nondimeno davanti a Fucecchio, che difeso più di trenta giorni dal fiore dei fuorusciti guelfi ivi raccolto, restava finalmente libero dall’assedio. I Guelfi spedivano loro ambasciatori in Alemagna alla madre di Corradino legittimo erede di Corrado, ed il cui trono era tenuto da Manfredi suo zio, acciò loro affidasse il figlio; ma essa per la tenera età lo negava. Anche in seguito vedremo la parte abbassata cercarsi appoggio dallo straniero, intantochè la supremazia degli Imperatori apriva l’adito in Italia ai Tedeschi, e l’irrequieta gelosia papale ad altri principi stranieri. Alcuni tentativi guerreschi dei Guelfi per rientrare in Firenze andavano a vuoto: anzi provocavano maggiori assalti del conte Novello, che tornato ad oste contro a’ Lucchesi ed ai fuorusciti fiorentini, gli sconfiggeva. Qui l’ultima volta comparisce nelle storie Farinata degli Uberti. Questi a battaglia finita cavalcando, si era tolto in groppa Cece dei Buondelmonti suo prigioniero, quando Piero suo consorto, soprannominato l’Asino, con vituperosa crudeltà gliel’uccideva addosso, dandogli d’una mazza in sulla testa. I Ghibellini avevano occupato alcune castella dei Lucchesi, i quali bramosi di ricuperare i loro uomini rimasti prigioni in Montaperti che erano molti e dei migliori della città, fecero al conte Guido segretamente offerire, restituisse questi con le castella ed essi caccerebbero tutti i fuorusciti guelfi. La pratica venne copertamente condotta sì che niuna cosa ne trapelò a quei miseri, cui ad un tratto la Signoria di Lucca comandava sgombrassero la città e il territorio dentro tre dì, pena la testa: nè pietà ottennero nè indugio, e le masnade tedesche avanzavano. Abbandonarono Lucca essi e le famiglie loro nel 1263, e donne gentili, mogli dei fuorusciti fiorentini, furono costrette partorire tra le asprezze di quell’appennino che è tra Lucca e Modena: di qui rifuggivansi miseramente in Bologna. Chiusa era loro Toscana tutta, dove in poco d’ora non fu terra nè castello che non tornasse ai Ghibellini. Questa cacciata da Lucca fu bensì cagione di sorte migliore a parecchi fuorusciti, che riparatisi in Francia e avvantaggiatisi nei commerci, dipoi tornarono a Firenze: altri da Bologna passati a Modena e quindi a Reggio in aiuto dei loro partigiani, quivi onorati ed arricchiti di prede, cominciarono a formare una di quelle vaganti masnade di cui vedremo l’Italia essere inondata. Erano più di quattrocento uomini d’arme, tutti a cavallo e bene in assetto, capitanati da messer Forese degli Adimari, pronti a soccorrere parte guelfa, alla quale già novelle sorti si preparavano. La debolezza di papa Alessandro IV aveva giovato a Manfredi per istabilirsi sul trono di Puglia; ma non tardò ad ascendere la sedia pontificale Urbano IV francese, il quale si diede a rinnalzare parte guelfa, continuando i disegni che Innocenzio IV aveva concetti. Fermo nell’animo di abbattere ad ogni costo Manfredi, offerse nel 1263 la corona di Napoli a Carlo d’Angiò, fratello al re di Francia Luigi IX. Urbano moriva poco dipoi; ma Clemente IV, di lui successore e francese anch’egli, dava effetto al disegno. Così le speranze dei Guelfi risorsero in tutta Italia: e la famiglia Della Torre in Milano potentissima si distaccava dai Ghibellini per accostarsi a Carlo; mentre alcune città vicine, Verona, Brescia, Cremona, Piacenza e Pavia, rimanevano devote al ghibellinesimo ed a Manfredi. Noi non racconteremo la breve guerra dei due valorosi combattenti per le belle napoletane contrade: solo diremo che il saggio re San Luigi, irresoluto dapprima dell’aiutare o no il fratello in quella impresa di ventura, fu lieto infine di allontanare dalla Francia quello spirito altiero ed irrequieto con l’aprirgli lontano un campo alle ambizioni. Manfredi, che avrebbe potuto difendersi meglio nei luoghi fortificati, prescelse venire a grande battaglia nel piano della Grandella presso Benevento, dove tradito da una parte de’ suoi baroni dovette soccombere: mentre ferveva la mischia, nel rimettersi l’elmo in testa, l’aquila d’argento che vi stava per cimiero gli era caduta sull’arcione dinanzi; egli disse ai suoi: «Questo è segno di Dio;» e si gettò nel folto dei nemici, dove cadde ucciso. Era l’anno 1266.[57] CAPITOLO VII. FINALE VITTORIA DEI GUELFI. — COSTITUZIONE DELLE ARTI. — MAGISTRATO DI PARTE GUELFA. — GOVERNO DELLA CITTÀ DATO AL RE CARLO PER DIECI ANNI. [AN. 1266-1267.] Nelle schiere di re Carlo avevano combattuto i fuorusciti di Toscana, i quali offertisi al Pontefice sin dal principio della guerra e bene accolti, ebbero da lui l’insegna sua propria, che poi rimase alla parte guelfa, ed era un’aquila vermiglia la quale calcava un serpente verde. In Toscana, al primo annunzio di quella grande sconfitta e della morte del re Manfredi, i Ghibellini ed i Tedeschi perdettero animo; ed i Guelfi rincuorati si appressarono alla città da ogni parte del territorio dove erano ai confini, per ordinare nuove cose coi loro amici di dentro, avendo speranza d’essere aiutati dai partigiani loro dell’esercito di re Carlo. Allora il popolo di Firenze, col cruccio nell’animo delle perdite sofferte chi di padre, chi di figliuolo e chi di fratelli alla battaglia di Montaperti, cominciò a parlare alto per la città, dolendosi delle spese e carichi disordinati che pativano dal conte Guido Novello e dagli altri che reggevano la terra. I quali temendo a quei rumori che si levasse la plebe, e confidandosi di acquetarla per via d’una certa mezzanità tra le due parti, in luogo d’un solo Potestà com’era consueto, ne elessero due, che l’uno ghibellino Lotteringo degli Andalò, e guelfo l’altro Catalano dei Malavolti, ambedue bolognesi e dell’ordine cavalleresco de’ frati Gaudenti. Questi cavalieri propriamente erano detti di Santa Maria; abito loro la veste bianca ed un mantello bigio: gli obblighi, difendere le vedove e i pupilli, e come pacieri intromettersi nelle altrui discordie: «ma la grassa e poltronesca vita cui fin da principio si erano abbandonati, gli aveva fatti notare dai popoli con quell’appellativo di dispregio. Tuttavia per l’onestà dell’abito fu creduto allora in Firenze che i due sopra detti, i quali aveano lodevolmente tenuto il governo di Bologna, guarderebbero bene e lealmente il Comune da soverchie spese. Pigliarono essi l’ufficio non senza averne avuta prima licenza dal pontefice Clemente IV, e forse per espresso comandamento di lui:[58] giunti, ebbero stanza nel palagio del popolo di faccia a Badia. Ma essi tuttochè d’animo di parte fossero divisi, sotto la coperta di falsa ipocrisia, parvero essere in concordia più al guadagno loro proprio che non al bene della città:[59]» fosse o no vero, Dante gli pose nell’_Inferno_ tra gli ipocriti. Da prima i due Potestà ordinarono trentasei buoni uomini, fiore della cittadinanza, Guelfi e Ghibellini, popolani e grandi non sospetti, rimasti in Firenze alla cacciata de’ Guelfi, che gli dovessero aiutare co’ loro consigli e provvedere alle spese del Comune: si trova pure che volessero confinare alcuni uomini delle due parti.[60] Si radunavano i Trentasei ogni dì nella bottega e corte dei Consoli dell’arte di Calimala in Mercato nuovo. Da quella bottega uscì ad un tratto e come di per sè la Repubblica di Firenze. Era il popolo di questa città diviso da lungo tempo in compagnie d’arti e mestieri, e di presente contava sette arti maggiori e cinque minori. A ciascheduna i Trentasei diedero consoli o capitudini, e collegi e gonfaloni con insegne proprie, acciò se nella città alcuno si levasse in arme, le arti sotto le loro bandiere accorressero popolarmente alla difesa: pei quali ordini ciascuna arte di per sè armata ebbe suoi capi e sue insegne e sue passioni e sua possanza, intantochè il popolo veniva tutto ad essere nelle arti, e queste a pigliare come la Signoria della città; il che diede forma di poi ad essa ed ai pubblici costumi. Diremo delle sette arti maggiori i nomi e le insegne: quella dei Giudici e Notai aveva una grande stella d’oro in campo azzurro; quella dei Mercatanti di Calimala un’aquila d’oro in campo vermiglio; quella dei Cambiatori col campo egualmente vermiglio seminato di fiorini d’oro; quella della Lana con campo simile, ed un montone bianco; quella dei Medici e Speziali pure col campo dello stesso colore, e dentro la Nostra Donna col Figlio in collo; quella dei Setaioli e Merciai col campo bianco ed una porta rossa, pel titolo di Por santa Maria; quella dei Pellicciai col campo azzurro, le pelli di vaio ed un _agnus dei_:[61] le cinque minori più tardi furono ordinate. Ferivano queste novità la parte dei Ghibellini e soprattutti le grandi famiglie degli Uberti e dei Fifanti, dei Lamberti e degli Scolari e gli altri che n’erano capi. Pareva loro che i Trentasei favoreggiassero i guelfi popolani rimasti in Firenze; vedevano dopo alla battaglia di Benevento ogni mutazione andare contro la parte loro, e guerra essere di popolo acceso a tôrsi di dosso la signoria dei grandi. Talchè prestamente il conte Guido Novello mandava per gente ai vicini collegati, cioè a Pisa a Siena ad Arezzo a Pistoia a Prato a Volterra a Colle ed a San Gimignano, che stavano allora tutte con la parte ghibellina: sicchè coi secento Tedeschi che aveva, ben presto ebbe adunato in Firenze 1500 cavalieri. Ma per dare il soldo alle schiere tedesche voleva imporre una tassa che parve esorbitante ai Trentasei: la costoro opposizione aumentò il dispetto dei Ghibellini che, già sdegnati per il nuovo ordinamento dato al popolo, deliberarono mettere a rumore la terra, e col favore dei cavalieri tedeschi disfare l’ufficio dei Trentasei. Primi a levarsi furono i Lamberti, che armati coi loro masnadieri uscirono fuori delle loro case in Calimala gridando: «ove sono questi ladroni de’ Trentasei, che noi gli taglieremo tutti a pezzi.» Sentito ciò questi, che erano a consiglio nella solita bottega sotto la casa dei Cavalcanti in Mercato nuovo, escono di parlamento. Nella città è tumulto grande, ognuno serra la sua bottega, tutti s’armano ed accorrono nella via Larga e da Santa Trinita. Gianni de’ Soldanieri, uno dei grandi ghibellini, per montare in istato si fa capo del popolo abbandonando la sua parte; e Dante registra nell’_Inferno_ il nome suo dov’è la bolgia dei traditori. Intorno a lui ed a quelli di sua famiglia si ammassano i popolani armati in gran numero, e fanno serragli appiè della torre dei Girolami. Al che il conte Guido con tutta la cavalleria e coi grandi ghibellini in arme e a cavallo movendo dalla piazza di San Giovanni, faceva schierare i suoi contro a un altro serraglio che era sui calcinacci delle case de’ Tornaquinci; alcuni Tedeschi saltarono a cavallo dentro al serraglio stesso. Ma il popolo francamente tenne il fermo, difendendosi con le balestre e col gittar sassi dalle torri e dalle case; talchè vedendo il Conte di non poterlo rompere, facea voltare le insegne e con tutti i suoi tornava sulla piazza di San Giovanni; e quindi su quella di Sant’Apollinare, dove stavano i due frati Potestà: era la sua cavalleria tanto numerosa che tenea da porta San Piero a San Firenze. Ivi giunto, chiese le chiavi delle porte della città per fuggire; e temendo essere accoppato dai sassi che a lui fossero gettati dalle case, si pose ai fianchi Uberto de’ Pulci e Cerchio de’ Cerchi, e dietro a sè Guidingo Savorigi, che erano dei Trentasei e dei maggiori della terra, perchè gli fossero schermo. I due frati Gaudenti, gridando dal palagio, cercavano impedire quella fuga; chiamavano a nome Uberto e Cerchio, rincuorassero il conte Guido, che il popolo si acqueterebbe, che si troverebbe via di pagare i Tedeschi. Ma fu invano: perciocchè il Conte oltremodo impaurito non volle udire parola; e avute le chiavi, si ritraeva difilato egli con tutto il numero de’ suoi cavalieri. Se fosse stato in campagna aperta, certo che avrebbono i Tedeschi agevolmente disperse quelle milizie ragunaticcie e oppresso quel popolo inesperto delle armi: qui invece erano vie strette, ogni casa una fortezza, dove ciascuno dei cittadini difendeva le cose più care, e a tutti veniva pronto il soccorso: in questa sorta di battaglie rinviene il popolo la sua forza. Il Conte in mezzo a universale silenzio, fatto gridare se i Tedeschi ed i Pisani e gli altri collegati vi erano tutti, e udito che sì, uscì per una delle porte e s’indirizzò a Prato. Ma quivi giunto e parendogli di avere mostrato paura, volle il mattino seguente tornare indietro e ritentare per forza d’armi la sua fortuna. Ma fu troppo tardi: a tre ore di sole era presso alla porta del ponte alla Carraia, dimandando gli fosse aperto: il popolo rispose correndo armato alla difesa della città, la quale aveva buoni bastioni e buoni fossi, voleri unanimi e risoluti. I cittadini stettero ivi a guardia fino a sera; e allora il Conte e i Ghibellini, non potendo farsi aprire nè per minacce nè per promesse, se ne tornarono scornati a Prato, pur beati se avessero potuto impadronirsi almeno del castello di Capalle, che assaltarono via facendo per isbizzarrirsi. Dopo quel giorno, per oltre due secoli Firenze non vidde insegne straniere. Allora i Fiorentini, tornati liberi e mandati via i due Potestà, riformarono la terra, e per afforzarsi meglio avendo cercato soccorso dai popoli amici, ebbero da Orvieto cento cavalieri, messer Ormanno dei Monaldeschi per Podestà ed un altro gentiluomo per Capitano del popolo. Richiamavano al tempo stesso non solamente i Guelfi cacciati sei anni prima dalla città, ma gli stessi Ghibellini di breve fuggiti, uomini grandi e potenti, dei quali credevano i popolani tuttavia di non potere far senza, ma si adopravano a riconciliarli tra loro insieme ed a parte guelfa. Ordinarono pertanto che fosse pace tra le casate insino allora nemiche; ed a confermare questa pace Buonaccorso degli Adimari diede per moglie al figlio suo la figlia del conte Guido Novello; Bindo suo fratello si sposò ad una degli Ubaldini, e Cavalcante dei Cavalcanti facea sposare suo figlio Guido, poeta insigne, ad una figlia di Farinata degli Uberti. Altri maritaggi men chiari si fecero, ma sempre invano, perchè la memoria delle antiche offese poteva più del recente vincolo, e i popolani tosto pigliarono in sospetto quella concordia de’ grandi. La pace fu rotta, ed i Guelfi imbaldanziti per le vittorie di Carlo, inviarono segretamente ambasciatori a quel principe richiedendolo di gente. Mandava egli il conte Guido di Monforte con ottocento cavalieri francesi, i quali però al loro giungere in Firenze il giorno di Pasqua del 1267, non vi trovarono i Ghibellini, che ne erano usciti la notte precedente senza contrasto, rifugiandosi a Siena ed a Pisa o nelle proprie loro castella. I Fiorentini allora diedero la signoria della terra al re Carlo per dieci anni; e mandatagli per solenni ambasciatori la elezione libera e piena con mero e misto imperio, l’astuto Re rispose, che de’ Fiorentini voleva il cuore e la buona volontà senza altra giurisdizione. Ma pure ai preghi del Comune la prese indi a poco semplicemente, e d’allora in poi mandovvi annualmente suoi vicari, i quali avessero il reggimento della città, con l’assistenza di dodici buonuomini cittadini.[62] Era una sorta di dedizione, ma non portava o non pareva seco portare la servitù, perchè non era un dare al principe protettore tutto il governo, ma solamente la sicurezza di sempre andare con quella bandiera, che era di popolo, ma non si credeva per anche valesse da sè a reggersi e stare in alto: re Carlo era la spada di parte guelfa, come il Papa n’era l’anima; cosicchè dunque la suggezione al Papa ed al Re null’altro importava che una promessa al certo molto volonterosa di tenere quella parte, e difenderla sotto quei capi che allora il popolo riconosceva: ed a quell’ombra la libertà cresceva intanto e si consolidava per via di popolari istituzioni. Troviamo il Papa bensì pretendere nel reggimento della città più ingerenza che gli storici a lui non sembrino consentire, ma la traccia ne rimane in quelle lettere di Clemente IV che dipoi furono pubblicate.[63] Da queste appare come venissero i frati Gaudenti per eccitamento del Pontefice: il quale irato co’ Fiorentini, che a lui sembravano troppo lenti alla cacciata dei Tedeschi e alla oppressione dei Ghibellini, inviava quivi un cappellano suo, che intervenisse nel governo, uniformandolo ai disegni che egli aveva conceputi, con minaccia di censure e di pene temporali a chiunque osasse contravvenire. Aveva anche nominato nel primo tempo della emancipazione di proprio moto un Potestà e intendeva designare un Capitano del popolo, che governassero la città, i quali fossero di provata fede e in devozione a santa Chiesa. Ma costoro non troviamo che ottenessero giurisdizione; e pare a me che i Fiorentini molto bene si schermissero pigliando altrove il Potestà (come fecero quel d’Orvieto), e poi mettendo, come vedremo, sè stessi in cima alla parte guelfa per via d’un ordine tutto nuovo, che fu accertarsi con un solo atto la protezione del Pontefice e porre in salvo nel tempo stesso la loro propria indipendenza. Questa munivano contro ai Papi, come Pisa ghibellina sempre fu intesa a mantenerla contro agli Imperatori; e convien dire che fosse grande la forza allora delle città, le quali, sebbene divise tra loro, stavano in mezzo come sostegno all’uno o all’altro dei contendenti e insieme argine ad entrambi: allora i Papi erano più forti dopo all’eccidio di casa Sveva e per la vacanza dell’Impero. Venuto il primo dei vicari mandati dal re Carlo, furono eletti dodici buoni uomini perchè insieme con lui avessero il reggimento dello Stato, come anticamente gli Anziani; ai quali aggiunsero un Consiglio segreto di popolo, che ebbe nome di Consiglio del Capitano detto anche di Credenza della Massa de’ Guelfi, senza del quale non si facesse alcuna grande spesa o deliberazione. A questo modo la somma del governo era nel popolo, perchè agli ufficiali eletti da lui spettava iniziare e consultare da prima quel che importasse alla Repubblica. Ma ogni cosa deliberata nei Consigli popolari, doveva essere confermata nel Consiglio generale dei Trecento e in quello speciale dei Novanta e delle Capitudini delle sette maggiori Arti e dei dodici Buonuomini che era convocato dal regio Vicario, questi ultimi essendo i Consigli del Comune, che dal Popolo si distingueva, perchè era di tutti indistintamente i cittadini, e ad esso veramente appartenevasi la sovranità come al popolo il governo: gli chiamarono tutti insieme i Consigli opportuni; a quelli del popolo spettava dare gli uffici dei castellani, e tutti gli altri piccoli e grandi.[64] Fecero anche arbitri che ogni anno avessero a correggere gli statuti e ordinamenti del Popolo e del Comune. A camarlinghi del Comune furono eletti i frati della Badia a Settimo e quelli di Ognissanti, ogni semestre a vicenda. Nata questione tra i Guelfi circa i beni dei Ghibellini ribelli, papa Clemente IV e re Carlo ordinarono che ne fossero fatte tre parti: la prima fosse del Comune; la seconda dei Guelfi, per ammenda dei sofferti danni;[65] la terza per certo tempo fosse a parte guelfa. Alla quale poi rimasero i detti beni, e se ne fece cassa, e si attendeva sempre dipoi ad accrescerla, per dare forza a quella parte. Il che udendo il cardinale Ottaviano degli Ubaldini, disse: Poichè i Guelfi fanno mobile (vendono cioè i beni confiscati), i Ghibellini non vi ritorneranno mai più. La predizione si avverava. I Ghibellini o sospetti Ghibellini, per sentenza del vicario del re Carlo e del Comune di Firenze, furono parte fatti ribelli e sbanditi, parte confinati fuori della città e del contado e del distretto o solamente della città e del contado; alcuni potevano dimorare in Firenze sinchè il bando non fosse pronunziato contro loro in nome del vicario del detto Re. Abbiamo il registro di forse tre migliaia di cittadini condannati per successive provvigioni e riformagioni negli anni 1268 e 69.[66] E chi legga questo numero faccia misura delle passioni che agitavano quell’età, se a noi sia dato immaginarle. Molti fin d’allora abbandonarono non che Firenze l’Italia, dando principio alla numerosa colonia fiorentina che per esigli o per commerci si fondava nel mezzodì della Francia. Tra’ primi esuli che si fermarono in quella provincia, merita essere ricordato un Azzo Arrighetti, dal quale in Provenza derivava la famiglia poi tanto celebre dei Mirabeau. Ma soprattutto di gran rilievo fu la creazione di un nuovo magistrato col nome da prima di Consoli de’ cavalieri, poi di Capitani di parte guelfa, al quale spettava in ogni cosa la difensione di essa parte e la custodia dei beni e i provvedimenti da pigliare contro a’ Ghibellini. Per via di quella istituzione Firenze venne a farsi capo del nome guelfo in Toscana e fuori, dando la mano intorno a sè ad una grande e possente lega che da Bologna fino a Perugia si distendeva; spesso mutabile come gli eventi, ma sempre viva negli interessi e negli affetti di tutto quanto il guelfo popolo, che in questa parte dell’Italia ebbe la sua principal forza, ed in Firenze la rôcca sua. Quel magistrato si rinnovava ogni due mesi: v’era un consiglio segreto composto di quattordici, e il maggior consiglio ne avea sessanta grandi e popolani, per lo cui scrutinio si eleggevano i capitani di parte e gli altri ufficiali. Similmente si crearono tre grandi e tre popolani Priori di parte, i quali soprintendessero alla custodia della moneta, uno di loro tenesse il suggello, un altro fosse sindaco e accusatore dei Ghibellini. Radunavansi nella chiesa nuova di Santa Maria sopra Porta, per lo più comune luogo della città e posto in mezzo a case guelfe; e tutte loro segrete cose deponevano nella chiesa de’ Servi di Santa Maria.[67] La parte guelfa aveva in sè tutta la forza del nuovo Stato, e ad esso era come il principio della vita; per il che noi vedremo quel magistrato divenire formidabile, siccome quello che aveva in mano la libertà dei cittadini, i quali poteva mandare in esiglio o privare degli uffici come sospetti d’inclinazione alla parte ghibellina. Dal che avvenne che più tardi fosse abbattuto come tirannico, e infine tutte le antiche ingerenze di quel magistrato cessarono affatto; il nome però durava infino al passato secolo. I Fiorentini ed il maliscalco del re Carlo co’ suoi cavalieri francesi ebbero nuova vittoria sui primi illustri capi dei Ghibellini rifugiati nel castello di Sant’Ellero, donde avevano ricominciato la guerra. Essi erano in numero di ottocento, che tutti furono o morti o presi, e tra essi alcuni degli Uberti, dei Fifanti e di più altre famiglie ghibelline; colpo fatale alla loro parte. Un giovine degli Uberti, salito in cima a un campanile, vedendo non potere scampare, per non venire a mano dei Buondelmonti si precipitò abbasso. Gli altri prigionieri più ragguardevoli furono condotti a Firenze e messi nella torre del Palagio. Molte terre di Toscana allora tornarono a parte guelfa e cacciarono i Ghibellini, talchè Lucca, Pistoia, Volterra, Prato, San Gimignano e Colle fecero lega coi Fiorentini; e sole rimasero salde alla parte contraria Pisa e Siena: la forza dei Guelfi bentosto si distese in Lombardia. In questo tempo il re Carlo fatto dal Papa vicario imperiale in Toscana, dopo avere con lungo assedio avuto il castello di Poggibonsi, che si teneva per gli imperiali, venne con la sua baronia in Firenze, dove fu ricevuto come signore, andandogli incontro il Carroccio e molti armeggiatori. Gran lusso di vesti portavano i Francesi nelle città italiane, prese da stupore di tanto sfoggio e di quell’orpello cortigianesco. Negli otto giorni che passò in Firenze re Carlo, prima di proseguire la lenta e difficile guerra contro i castelli, fece cavalieri parecchi gentili uomini fiorentini; fu onorato con grandi feste, che già s’adornavano del bello delle arti: queste in Firenze pigliavano sede, insieme con la lingua e con la libertà. LIBRO SECONDO. CAPITOLO I. GREGORIO X IN FIRENZE. — PACE DEL CARDINALE LATINO. ISTITUZIONE DEL MAGISTRATO DEI PRIORI. [AN. 1268-1282.] In quest’anno 1268 la stirpe di quei possenti e molto famosi imperatori Svevi di Hohenstaufen finiva nel prode giovinetto Corradino, speranza de’ Ghibellini e da essi chiamato a scendere d’Allemagna; accolto con regi onori a Pisa, vincitore per brevi istanti nel piano dell’Arno sotto Laterina di ottocento cavalieri che il re Carlo teneva a guardia nella Toscana:[68] poi vinto appena che egli ebbe tocchi i confini del Reame, imprigionato e decollato per comando dello stesso Carlo, cui non pareva essere ben re finchè in vita rimanesse questo rampollo di Casa Sveva. Estinta la quale, veniva a termine la grandezza di quella contesa tra ’l sacerdozio e l’impero, ch’era durata oltre due secoli: le fazioni guelfa e ghibellina continuavano però sempre, ma senza intendere ad alto scopo e immiserite e sminuzzate. Noi non sapremmo essere in Italia equi giudici di Casa Sveva, segno agli odii contemporanei e a molti postumi desiderii. Firenze a ogni modo, e certo con essa la miglior parte d’Italia, si rallegrava alla caduta di quell’infelice giovinetto, il quale veniva straniero a dar mano per tutta Italia agli stranieri, ai grandi nemici del nome latino, a coloro che impedivano, quale si fosse, la nuova vita di questo popolo che, disciolto dalla imperiale soggezione, tornava libero di sè stesso. Ma la Repubblica fiorentina in questa guerra ebbe poca parte, siccome quella che era intenta a far vendetta contro a’ Senesi della battaglia di Montaperti, ognora per lei d’acerba memoria; patirono questi una totale sconfitta; e Provenzano Salvani, che in Siena era quasi che principe, fatto prigione, ebbe mozzo il capo. Resisteva Poggibonsi, nobile castello e molto splendido di edifizi; ma espugnato appena, mandava il re Carlo comandamento che fosse abbattuto insino a terra, e gli abitatori scendessero a vivere a modo di borghi giù nel piano sottoposto. Dipoi l’oste guelfa, avute più altre fortezze dei Ghibellini, andava sotto le mura di Pisa: e intanto perchè, a tenore di un accordo coi Senesi, i Ghibellini erano stati cacciati di Siena, quattro fuorusciti fiorentini, tre degli Uberti ed un Grifone da Figline, costretti partirsi di quella città, nell’andare in Casentino furono presi e condotti in Firenze prigionieri. Richiesto il re Carlo di quel che fare se ne dovesse, mandò al suo Potestà «che siccome traditori della Corona fossero giudicati.» Tutti furono decapitati, eccetto il più giovine degli Uberti tratto a morire nella fortezza di Capua. La mattina quando i due fratelli maggiori Neracozzo e messer Azzolino andavano al supplizio, il primo chiese all’altro: dove andiamo noi? Rispose il cavaliere: «a pagare un debito che a noi lasciarono i nostri padri.[69]» Nell’anno 1273 papa Gregorio X andando al Concilio di Lione passò per Firenze in compagnia dei Cardinali e del re Carlo, tornato allora dall’infelice spedizione in cui perì san Luigi, e di Baldovino imperatore latino, allora profugo da Costantinopoli. Firenze accolse a grande onore questi monarchi e la loro numerosa baronia; ed al Pontefice piacendo il mite soggiorno, ordinò di passarvi l’estate con la sua Corte. Dolente poi quel buon Pontefice al vedere questa sua cara città divisa e vedovata di tanti de’ maggiori cittadini, s’adoperava perchè tornasse in concordia. Fatti pertanto venire sindachi della parte ghibellina che da sei anni era in esiglio, congregò a’ due di luglio il popolo fiorentino sul greto d’Arno appiè del ponte Rubaconte, dove erano stati fatti grandi pergami di legname pei Principi e per la Signoria. Venutovi il Papa co’ suoi Cardinali ed il re Carlo e l’imperatore Baldovino con le loro Corti, promulgò il Papa sentenza di pace sotto pena di scomunica a chi la rompesse, e comandò ai sindachi di ambedue le parti che si baciassero in bocca. Quindi avuti ostaggi e mallevadori, fece rendere in mano di Carlo tutte le castella che restavano ancora ai Ghibellini, e gli ostaggi consegnò pure al re Carlo, che gli mandò in Maremma sotto la guardia del conte Rosso dell’Anguillara. Il dì medesimo fondò allato al ponte a Rubaconte la chiesa di San Gregorio, che facevano edificare i Mozzi mercanti del Papa e della Chiesa. Questa famiglia in piccolo tempo era venuta in tanta ricchezza e stato, che potè allora albergare il Pontefice nei suoi palazzi: ma egli quattro giorni dopo la pace giurata si partiva da Firenze; il che fu cagione che si tornasse alle discordie. I sindachi dei Ghibellini che avevano fatto il compromesso, erano rimasti in Firenze per dare compimento ai trattati; e tornandosene al loro albergo ebbero avviso che, se tosto non isgombrassero la città, il Maliscalco del re Carlo a petizione dei grandi guelfi gli farebbe tagliare a pezzi. O vero o falso che ciò si fosse, i Ghibellini incontanente essendosi partiti da Firenze, la pace fu rotta: di che il Papa si turbò forte, e ritiratosi in Mugello molto sdegnato contro al re Carlo, interdisse la città. Ma poi tornato da Lione e non potendo fare a meno di passare per Firenze a causa di una grande piena dell’Arno, all’entrarvi la ribenedisse; e non appena ne fu uscito, la scomunicava di bel nuovo. La morte lo colse pochi dì poi in Arezzo, dov’ebbe nel Duomo assai modesto sepolcro che ivi rimane tuttavia. L’Italia tutta era sconvolta per le contese di parte, ed i Fiorentini s’ingerivano in quelle di Toscana e di Romagna: Bologna vedeva nelle sue mura combattimenti interminabili fra emule casate. In Pisa il conte Ugolino della Gherardesca e i Guelfi erano rimessi per l’opera massimamente dei Fiorentini. Varia sorte ebbero le città lombarde, le quali dopo essersi con molta gloria emancipate dal giogo imperiale, vivevano però sempre nella dipendenza di signorie cittadine e castellane. Era in Milano possente la casa di quei Della Torre, i quali sconfitti dal marchese di Monferrato a Cortenuova, dove lasciarono due di loro morti in battaglia e sei prigioni, andarono in bando, e insieme con essi la parte guelfa. Allora tornò ivi con quelli di sua famiglia e con gli altri fuorusciti l’arcivescovo Visconti, il cui fratello Matteo, fatto capitano del popolo milanese, diede principio alla grandezza di quella casa, durata poi quasi due secoli. La Romagna, turbata del pari che le altre provincie italiane dal parteggiare delle sue città, veniva concessa (o, come dicevano, _privilegiata_) da Rodolfo di Habsburgo re dei Romani a papa Niccolò III degli Orsini, che cardinale modesto e pontefice ambizioso accumulava ricchezze e stati nella famiglia. Contuttociò il re Carlo ebbe a schivo d’imparentarsi con lui dicendo: «perchè egli abbia calzamento rosso, suo lignaggio non è degno di mischiarsi col nostro, e la sua signoria non è retaggio.[70]» Così voltavasi contro al Papa, e aduggiava con la potenza sua la maestà del pontificato, colui medesimo che dai papi male era stato chiamato perchè fosse scudo alla Chiesa contro agl’imperatori; e Niccolò abbassando l’animo alle personali cupidigie, e per amore della famiglia sua forte sdegnato contro al re Carlo, privava questi del titolo e ufficio di Vicario imperiale nella Toscana, e quasi fattosi Ghibellino concedeva ritornasse in questa provincia un luogotenente dell’Impero. Solevano questi dimorare in San Miniato; di là contrastando, secondo che avevano sussidio d’armi, alla potenza sempre crescente delle città e ai governi popolari. Questo faceva o tollerava papa Niccolò nella Toscana e nella Romagna: privava dipoi l’Angioino del grado onorifico di senatore della città di Roma, e serbava contro lui maggiore vendetta preparando a’ danni suoi la ribellione, che poi non vidde, della Sicilia. Frattanto i grandi guelfi di Firenze riposati delle guerre di fuori e ingrassati degli averi tolti ai Ghibellini, cominciavano per invidie e per superbie a nimicarsi fra loro. La maggior briga ferveva tra gli Adimari e i Tosinghi e tra’ Donati ed i Pazzi: la città n’era grandemente travagliata. Quindi i Capitani di Parte ed il Comune di Firenze inviarono ambasciatori a papa Niccolò III, chiedendo pacificasse i Guelfi tra loro e che non si cacciassero via l’un l’altro. Nello stesso tempo anche gli esuli ghibellini mandavano al Pontefice chiedendogli desse esecuzione alla sentenza di pace fatta da papa Gregorio X fra essi ed i Guelfi. Questa il Pontefice confermava, e sulla fine del 1279 ingiunse al cardinale Latino dei Malabranca suo nipote di sorella, ed allora paciaro in Romagna, di trasferirsi a Firenze con trecento cavalieri per sedare quelle dissensioni. Costui, uomo destro, riconciliò co’ Buondelmonti gli Uberti; e perchè dei primi alcuni si negavano, gli scomunicò, e la città gli sbandì. Con solennità pari a quella ordinata da Gregorio X, esso Cardinale nei primi giorni del 1280 convocò il popolo a parlamento nella piazza di Santa Maria Novella: era dell’Ordine dei Predicatori, e poneva egli la prima pietra di quella chiesa. Fece che i sindachi delle due parti nemiche si dessero il consueto bacio: i Ghibellini furono richiamati e rintegrati nelle loro possessioni, salvo che a circa sessanta dei più principali fu ordinato, per più sicurtà della terra, che certo tempo stessero ai confini tra Orvieto e Roma sotto la guardia del Pontefice: primi descritti tra gli esclusi sono i figliuoli ed i congiunti del quondam Farinata degli Uberti. E paci singolari furono fatte, dal che tornò calma per breve tempo nella terra.[71] Ordinò inoltre il Cardinale che il Potestà e il Capitano del popolo fossero per due anni eletti dal Papa, e che gli Anziani o Buonomini, in luogo di dodici, d’allora in poi fossero quattordici, otto Guelfi e sei Ghibellini, grandi e popolani; ma il numero di questi prevale nei cataloghi che ne rimangono. Al Papa giovava col riamicare le parti attribuirsi un’alta mano nelle cose di Toscana; disegno concetto prima da Celestino e Innocenzio terzi, e ripigliato poi quando nella vacanza dell’Impero il Papa eleggeva re Carlo d’Angiò vicario imperiale in questa provincia. Ad abbreviare le gelosie e le impazienze ed i sospetti, massime ora che nei magistrati sedevano uomini Ghibellini, il Cardinale ordinava che l’ufficio degli Anziani avesse durata di soli due mesi; il quale termine si perpetuava pei maggiori uffici nelle successive mutazioni, perchè il popolo, una volta che ebbe gustato i magistrati brevi, non fu possibile che se gli lasciasse togliere di mano fino agli estremi della Repubblica: e nello spesso variare delle istituzioni cittadine rimase quest’una, pieghevole sempre al dominio delle fazioni ed all’arbitrio dei potenti. Dipoi la parte guelfa risentiva dalla percossa del suo capo agitazioni novelle: si apprestava Carlo a portare guerra in Oriente, e già sognava maggiori grandezze, quando l’insolenza dei Francesi fece scoppiare una tempesta per la quale in un giorno venne egli a perdere la Sicilia. Giovanni da Procida gentiluomo napoletano preparò quella sollevazione, che indi scoppiava per grande impeto popolare; i Greci ed il Papa erano partecipi della trama. Il lunedì dopo la Pasqua di Resurrezione del 1282 a ora di vespro ebbe principio in Palermo la carnificina; tutta la Sicilia fu in ribellione, ed i Francesi da per tutto spenti. Il re Pietro d’Aragona intanto s’armava per invadere la Sicilia come ultimo erede della Casa Sveva: Carlo, avuta la trista novella, francescamente esclamò: «Sire Iddio, dappoi ti è piaciuto di farmi avversa la fortuna, piacciati almeno che il mio calare sia a petitti passi.[72]» Volgevasi intanto con grande sforzo alla recuperazione dell’Isola; al quale effetto, poichè era scaduto il termine della signoria che i Fiorentini gli aveano data, mandarongli questi cinquanta cavalieri di corredo e cinquanta donzelli o valletti, gentili uomini delle principali case di Firenze, perch’egli desse loro il cingolo militare; e con essi altri cinquecento bene a cavallo ed in arme, capitanati dal conte Guido da Battifolle dei conti Guidi, ch’era venuto a parte guelfa: i quali tutti, ricevuti graziosamente dal Re, passarono in Sicilia seco lui, ed ebbero parte nelle grandi guerre che ivi con varie e fiere sorti furono combattute. In questo mezzo era venuto a morte papa Niccolò III, e il Luogotenente di Rodolfo si era partito dalla Toscana con le sue poche genti, dopo avere inutilmente tentato con le minaccie e con le armi le città guelfe. Erano queste rassicurate viemaggiormente per la creazione del nuovo papa Martino IV, uomo assai ligio come francese al re Angiovino; intantochè la lontananza di questo Re per i fatti di Sicilia veniva a togliere d’in sul capo a quelle città un protettore fatto gravoso perchè non era più necessario. A sostegno della parte ghibellina non rimaneva altro che Pisa, implicata nelle guerre ad essa infelici contro a’ Genovesi; e nella Romagna non aveva il conte Guido di Montefeltro nome ed insegne di ghibellino, se non a fine di occupare quante più potesse in quella provincia delle città della Chiesa, per quindi tenerle senza nè papa nè imperatore. Nelle quali condizioni correndo quell’anno 1282 i Fiorentini, per la venuta nella Toscana di un altro Luogotenente dell’Impero,[73] cominciarono a vedere con dispetto la Repubblica governarsi da rettori d’ambedue le parti. Aveva la pace del cardinal Latino fatto tornare nella città molte famiglie ch’aveano nome non già potenza, nè forse animo troppo arrabbiato, di Ghibellini. Ma esclusi erano gli Uberti e quei da Gangalandi ed i Lamberti e gli Amidei ed i Fifanti e gli Scolari e i Soldanieri e i Caponsacchi ed i Pazzi di Val d’Arno e i da Ricasoli del Chianti, e gli altri che vivere più non sapevano nella patria loro se dominare non la potessero sotto all’ombra dell’Impero. Il Papa offriva, come vedemmo, ricetto ad essi intorno a Roma sotto alla guardia e a discrezione sua; ma credo io pochi accettassero: laonde molti dei confinati vennero tosto fatti ribelli, e ad essi tolta l’assegnazione (la dicevano salario) spettante loro sopra alle terre ed agli averi dei quali furono privati al tempo della condannagione. Degli altri, dicono gli scrittori che riebbero i beni loro; ma Firenze non ha istorici se non guelfi, e le restituzioni secondo i termini del trattato dovendo farsi dalle due parti, e i Ghibellini essendo rei di antichi danni e spoliazioni, il difficile conteggio non è da credere inclinasse a benefizio dei tornati. Imperocchè nè il Papa stesso voleva poi che la città fosse altro mai che città guelfa, e tale fu anche dopo avere ammesso a grazia i più inferiori della parte ghibellina. Pe’ Guelfi era il vantaggio sempre, sì nel numero degli Anziani, e sì nelle altre stipulazioni di quel trattato per cui veniva concesso a pochi stentatamente riporre il piede nella città: era prescritto che rimanessero altri molti nelle ville, sintanto almeno che il Potestà e il Capitano non avessero forza bastante di cavalieri e di pedoni da contenere cotesti uomini, sospetti sempre di non amare lo Stato libero. Oltre ciò, è fatto che la vacanza dell’Impero e la debolezza dei successivi imperatori confuse avevano le due parti: più volte i papi si adoprarono perchè fossero i Ghibellini o i ribelli di altro nome restituiti nella città; e nel trattato, quando si viene alla formazione dei Consigli, troviamo essere mentovati i neutri, che nelle guerre cittadinesche farebbero sempre il maggior numero, se a pigliare cotesto nome si arrischiassero. Era il contrasto oggimai tutto tra ’l nuovo popolo e gli antichi nobili: questi cercavano accostarsi ai signori de’ castelli, quale che fosse la parte loro: e intanto che una dei Tosinghi andava moglie a Maghinardo da Susinana gran condottiero, un Adimari principale uomo di parte guelfa si era congiunto ad una figlia del capo stesso dei Ghibellini che era il conte Guido Novello. Coteste erano ambizioni che dividevano parte guelfa, altri dei nobili procacciando partecipare co’ mercatanti grossi la popolare dominazione. I grandi guelfi erano signori, scrive il Compagni che intervenne tuttora giovine a quei fatti; ed il nome ghibellino svaniva intanto, sicchè gli avversari loro poterono, senza quasi che apparisse, contraffare ai patti della pace. Il soprastare montò a questo, che levarono in breve tempo tutti gli onori e i beneficii ai Ghibellini; infine mutarono, due anni soli dopo la pace fatta, la forma stessa del reggimento costituendolo tutto popolare. I quattordici Buonomini ordinati dal cardinal Latino, otto dei quali erano Guelfi, come dicemmo, e sei Ghibellini, male si accordavano tra loro. A racconciare quindi lo Stato ed a stringere il governo in poche mani e più sicure, fu deliberato d’annullare l’ufficio dei Quattordici, creando in quella vece altra signoria di durata parimente bimestrale: ai nuovi magistrati diedero il nome, anche prima usato, di Priori delle Arti. Così il governo era tutto dato in mano al popolo trafficante:[74] della quale innovazione furono autori i consoli dell’Arte di Calimala, dove erano i più savi e possenti cittadini di Firenze, di maggior seguito, grandi e popolani, che intendevano a procaccio di mercatanzia e più amavano parte guelfa e di Santa Chiesa. I primi priori furono tre: Bartolo de’ Bardi di nobile schiatta, per il sesto d’Oltrarno e per l’arte di Calimala; Rosso Bacherelli, per il sesto di San Piero Scheraggio e per l’arte de’ Cambiatori; Salvi del Chiaro Girolami, per quello di San Pancrazio e per l’arte della Lana. A mezzo giugno entrarono in ufficio per ivi durare fino alla metà d’agosto, al qual tempo doveano essi dare lo scambio ai nuovi eletti. Abitavano e mangiavano alle spese del Comune nel luogo stesso dove si adunavano gli Anziani al tempo del popolo vecchio e i Quattordici dipoi, cioè nelle case presso Badia: avevano a loro servizio sei berrovieri o birri e sei messi, per richiedere i cittadini. A questi Priori e al Capitano del popolo, cui fu aggiunto allora il titolo di difensore delle Arti, spettava amministrare le grandi e gravi cose del Comune e raunare i Consigli e fare le provvisioni. Essendo piaciuto all’universale quell’ufficio nel primo bimestre, quando il secondo fu venuto ne elessero sei, uno per sesto; ed alle tre delle sette Arti maggiori ammesse a cotesto magistrato aggiunsero quella dei Medici e Speziali, quella dei Setaioli e Merciai di Porta santa Maria, e quella dei Pellicciai e Vaiai. Poi vi aggiunsero le altre maggiori e minori fino a dodici, e a tanto fu esteso poi alcune volte anco il numero dei Priori. Tra essi erano dei grandi e dei popolani, ma di buona fama ed opere, e che fossero artefici o mercadanti: chi a niuna arte si ascrivesse aveva nome di scioperato, che si trova nelle leggi, e che in Firenze ora si dice dei fannulloni e scostumati. Così per allora si ordinava la Repubblica; erano eletti i nuovi Priori da quelli che uscivano di ufizio, uniti ai Collegi delle dodici Arti, e ad un numero determinato di Arroti o aggiunti per ciascun sesto: l’elezione si faceva per isquittinio segreto, e chi aveva più voci era fatto de’ Priori. Ciò avveniva nella chiesa di San Piero Scheraggio, di faccia alla quale abitava il Capitano del popolo nelle case che furono de’ Tizzoni. E nota qui sempre, che il Capitano veniva eletto dai Consigli del popolo, siccome era il Potestà dai consigli del Comune. Finalmente, a somiglianza delle maggiori si ordinavano anche le minori Arti, che per allora erano cinque; e queste pure ebbero armi e bandiere loro. Quella dei mercadanti a ritaglio, berrettai e rigattieri, un gonfalone bianco e vermiglio; quella dei beccai, giallo con entro un capro nero; i calzolai, a liste bianche e nere; quella dei muratori e falegnami, il campo vermiglio con entro la sega e l’ascia; e quella dei fabbri e ferrai, col campo bianco e tanaglie in nero.[75] In breve il numero delle Arti minori crebbe fino a quattordici; le arti più minute e di minor conto rimasero sotto alla dipendenza delle ventuna, che avevano consoli ed insegne loro, e massimamente delle sette chiamate maggiori, nelle quali era la forza del capitale e gli estesi traffici, o risiedeva l’autorità delle più nobili professioni. I Senesi, ad imitazione dei Fiorentini, poco dopo creavano il loro magistrato dei Nove, bimestrale anch’esso, e uscito dalle arti: Pistoia, Lucca e le altre città guelfe di Toscana, per le cagioni medesime e ad esempio di Firenze, anch’esse adottarono somiglianti ordini popolari. Così erano le Arti venute a pigliarsi nelle mani loro lo Stato, che essendo tutto divenuto popolare, dava a Firenze un tale carattere che non ha esempio nelle istorie. L’ingegno svegliato e popolarmente ingentilito dal senso del bello, i grossi guadagni che molti adescavano degli stessi grandi a stare a bottega e ad aggirarsi in mezzo alla plebe; queste cagioni diedero il governo in mano al popolo trafficante. Fu a questo gran lode avere saputo all’ordinamento di sè stesso trovare una forma certo variabile e imperfetta, ma che pure ebbe durata più lunga di quella che altrove si trovi concessa ai governi popolari, perchè in Firenze i Buonomini, la buona parte conservatrice, per lungo tempo si contrappose alle ambizioni pubbliche e private. In mezzo a un popolo sempre armato per la difesa della sovranità che a sè medesimo arrogava, e benchè mancasse qui un Senato o una qualunque autorità permanente che in sè mantenesse la scienza politica e le tradizioni di governo; non però andarono i suffragi in piazza, e sempre le scelte furono in mano dei collegi e dei magistrati. Ma suoi freni ebbe la libertà e la Repubblica suo decoro più dai costumi che dalle leggi; altiero animo pigliava il popolo, e i mestieri s’innalzavano allo splendore di arti belle, insegnatrici di una eleganza che nulla aveva di plebeo; il nome romano tenendo qui sempre come un’alta signoria, con la riverita autorità del Pontificato, e da principio con quella non bene cancellata dell’Impero.[76] CAPITOLO II. SCONFITTA DEI PISANI ALLA MELORIA. — IL CONTE UGOLINO DELLA GHERARDESCA. — GUERRA CONTRO AI GHIBELLINI D’AREZZO; VITTORIA DI CAMPALDINO, E BUONO STATO DELLA CITTÀ DI FIRENZE. [AN. 1282-1292.] I mari di Pisa e di Genova vedevano l’anno 1284 quei feroci combattimenti onde era abbassata la potenza dei Pisani totalmente sconfitti da’ Genovesi in una battaglia navale presso lo scoglio della Meloria; nella quale perderono essi più di quaranta galere e sedici mila combattenti, cinque mila uccisi ed il resto prigionieri. Firenze e le altre città guelfe in tal congiuntura viepiù si ristrinsero contro la misera Pisa ridotta alle angustie estreme. Fermarono esse di assaltarla per terra, mentre i Genovesi continuerebbero a tempestarla dal mare; tanto era l’odio già contro quella città rivale e la cupidigia di soverchiarla pei commerci. Allora il conte Ugolino della Gherardesca, potentissimo ed ambizioso tra’ cittadini di Pisa, divisò rompere questa lega e conducendo a parte guelfa la città sua, occuparne egli la signoria. A lui nuoceva la mala fama, correndo voce che egli avesse nella battaglia della Meloria dato il segnale di ritirarsi alle galere da lui comandate, a fine con ciò di indebolire la patria sua e divenirne più facilmente signore, contrapponendosi per il fine stesso anche al ritorno dei prigionieri ch’erano in Genova. Ora costui, per acquistarsi favore in Firenze, presentò alcuni (come fu detto) dei maggiori cittadini di grandi fiaschi di vernaccia, nei quali insieme col vino erano fiorini d’oro. Ottenne così che i Lucchesi ed i Genovesi soli andassero contro Pisa, della quale il conte Ugolino pigliava lo Stato con la oppressione degli Anziani che in essa reggevano. Cresciuto in tirannide, divenne più odioso: inimicossi co’ suoi e con parte guelfa; cacciò da Pisa Nino Visconti ch’era giudice di Gallura nella Sardegna, dove i Pisani avevano grande signoria. Fu accusato di avere fatto per gelosia dello Stato avvelenare il conte Anselmo da Capraia suo nipote, giovane di grande aspettazione, e di avere a’ Fiorentini ed a’ Lucchesi voluto tradire alcune castella de’ Pisani. Nel tempo stesso cercava pure segreti accordi co’ Ghibellini, ma rifiutando poi di chiamarli ad avere parte nella signoria, fu assalito armata mano dall’arcivescovo della città, Ruggero degli Ubaldini. Scrive il Villani che poco innanzi mostrando egli a un Marco Lombardo, uomo di corte che stava seco, le grandi ricchezze della sua casa, gli domandò se cosa alcuna vi mancasse; rispose quegli, che una sola: l’ira di Dio, che sopravverrebbe. Appresso, comunque valorosamente combattesse, il conte Ugolino della Gherardesca fu chiuso prigione con due figli e due nipoti nella torre dei Gualandi, di cui le chiavi dopo alcuni mesi nel marzo dell’anno 1289 furono fatte gettare in Arno; cosicchè quell’infelice, dopo di avere chiesto invano un sacerdote che lo confessasse, moriva di fame con i quattro giovinetti: davano a lui perpetuo nome i versi di Dante. Essendo morto Carlo d’Angiò primo re di Puglia, ed il successore di lui Carlo II caduto per grande battaglia navale in prigionia degli Aragonesi di Sicilia nel 1287, i Ghibellini avevano rialzato gli animi a speranze nuove e fatto capo in Arezzo. Quivi si era prima formato sotto parte guelfa un governo popolare, il quale odioso del pari ai grandi guelfi e ghibellini, da loro insieme fu abbattuto con sanguinoso rivolgimento; ed il governo venuto in mano dei grandi, bentosto divenne cosiffattamente ghibellino, che Rodolfo imperatore potè mandare in Arezzo con poche genti un suo Vicario. Capo di quella parte in Toscana e nella Romagna e nella Marca era Guglielmo degli Ubertini vescovo d’Arezzo: ma essendo nata di queste cose grande paura e gelosia nei Fiorentini,[77] questi chiamarono bentosto a sè le altre città guelfe, ed assembrarono loro sforzo; in tutto due mila seicento cavalieri e dodici mila pedoni. Dei cavalieri, ottocento erano di Firenze grandi e popolani, e trecento pigliati a soldo, e cinquecento della taglia o lega guelfa; Lucca ne mandò trecento, Siena quattrocento, Pistoia centocinquanta, Prato, Volterra, San Miniato e San Gimignano cinquanta ciascuna, Colle trenta: quelli tra’ conti Guidi che erano Guelfi, i marchesi Malespini, il Giudice di Gallura, i conti Alberti di Mangona, Maghinardo da Susinana ed altri signori, il rimanente: questo fu il maggiore esercito che i Fiorentini adunassero dopo il ritorno di parte guelfa. Si formava in questo modo, secondo abbiamo dalle provvigioni di quegli anni stessi, ed era modo quale si conveniva a una milizia di cui le cerne si facevano per le botteghe; com’ivi è detto:[78] descrivevano per cinquantine gli uomini ch’erano in età dai 15 ai 70 anni, e tra essi cavavano fuori quelli che andassero con l’esercito; gli altri restavano come esenti alla custodia della città, pagando le spese ed il soldo di coloro i quali erano andati in campo. I Ghibellini a quelle guerre non andavano, ma i cavalli loro doveano imprestare ai Guelfi. Vi erano poi le cavallate che s’imponevano ai sudditi guelfi e ghibellini, e si distinguevano dalla cavalleria degli ausiliari e mercenari.[79] Dipoi Carlo re di Napoli già liberato di prigionia, traversando la Toscana per andare in Puglia, e soffermatosi in Firenze qualche tempo, diede alla Repubblica cento de’ suoi cavalieri e un gentiluomo francese che gli comandasse, col rinnovare ad essa il privilegio di portare in oste la insegna reale. Ma prima che tutte si radunassero queste forze, aveva la guerra continuato già tutto l’anno 1288 con vari successi di correrie; nelle quali una volta gli Aretini si erano mostrati giù per la valle dell’Arno fino a San Donato in Collina, tanto che si vedevano da Firenze i fumi delle case e delle arsioni. Un’altra volta cercando i Senesi occupare o guastare Lucignano, castello che era disputato tra essi e gli Aretini, questi incontratigli alla Pieve al Toppo non lungi da Arezzo, gli misero in fuga con grave disastro. Buonconte da Montefeltro e Guglielmino de’ Pazzi usciti d’Arezzo furono autori della sconfitta nella quale periva Rinuccio Farnese capitano di molta fama in quella età. Dipoi, l’anno susseguente, con maggiore sforzo e più maturo disegno, la prima mossa dell’esercito fiorentino accennava contro Arezzo; ma poi ad un tratto, come era convenuto, a’ 2 di giugno, suonando le campane a martello, s’indirizzò verso Casentino con buona mano d’ausiliari, andando a porsi sul Monte al Pruno, per ivi attendere di Bologna altre genti collegate e fare campo grosso: di lì scesero tosto nel piano di Casentino per guastare le terre del conte Guido Novello ch’era potestà d’Arezzo. Il Vescovo e gli altri capitani ghibellini accorsero con tutta l’oste loro a Bibbiena per impedire il guasto: erano 800 cavalieri e 8 mila fanti, molto bella milizia ed il fiore dei Ghibellini di Toscana, della Marca, del ducato di Spoleto e della Romagna; i quali pigliando i Fiorentini in dileggio, gli proverbiavano dicendo che si lisciavano come donne e pettinavano le zazzere. Era un sabato mattina, 11 giugno 1289, e già i due eserciti l’uno a fronte dell’altro appiè del monte di Poppi presso Certomondo nel piano di Campaldino si ordinavano più maestrevolmente che non fosse mai stato fatto sino allora in Italia. Amerigo di Narbona, siniscalco del re Carlo, e i capitani dei Fiorentini disponevano le schiere: scelsero 150 armati alla leggera da stare in fronte di tutto l’esercito col nome allora di feditori; tra’ quali erano venti cavalieri novelli decorati del cingolo militare in quella occorrenza: messer Vieri de’ Cerchi uno dei capitani, ancorchè malato di una gamba, non si ristette perciò dal voler essere di quel numero, e quando eleggere gli convenne per lo suo sesto, non volendo alcuno di ciò gravare, elesse con sè i suoi figli e i nipoti. Del che si ebbe grande onore; e pel suo buono esempio e per vergogna molti altri nobili cittadini si misero tra’ feditori: uno dei quali era Dante Alighieri, giovane allora di ventiquattro anni. Veniva poi la schiera grossa fasciata di pedoni, e dietro tutta la salmeria radunata, che la munisse e tenesse ferma. Di costa erano due ale di palvesari, di balestrieri e di pedoni con le lance lunghe; ed i palvesi col campo bianco e giglio vermiglio attelati dinanzi: allora il Vescovo aretino, che avea corta vista, vedendo biancheggiare qualcosa, domandò: «quelle che mura sono?» fugli risposto: «i palvesi dei nemici.» Più indietro, ai fianchi dell’oste fiorentina, dugento cavalieri e pedoni Lucchesi e Pistoiesi sotto il comando di Corso Donati, allora potestà di Pistoia. Messer Barone de’ Mangiadori di San Miniato, franco ed esperto cavaliere, raunati gli uomini d’arme, disse loro: «Signori, le guerre di Toscana solevansi vincere per bene assalire e non duravano, e pochi uomini vi moriano; chè non era in uso l’ucciderli: ora è mutato modo e vinconsi per istare ben fermi; il perchè io vi consiglio che voi stiate forti, e lasciateli assalire.[80]» Gli Aretini dalla loro parte, avendo buoni capitani di guerra, ordinarono saviamente loro schiere; e anch’essi posero innanzi tutti i feditori in numero di trecento, fra i quali dodici dei maggiorenti della terra, che si faceano chiamare i dodici paladini: e dato il nome ciascuna parte alla sua oste, i Fiorentini _Nerbona Cavaliere_ e gli Aretini _San Donato Cavaliere_, i feditori degli Aretini si mossero con grande baldanza a sproni battuti a ferire sopra l’oste de’ Fiorentini. Gli seguitava tutto l’esercito, salvo il conte Guido Novello, il quale rimase, quale se ne fosse la cagione, senza mettersi alla battaglia e poi fuggì alle sue castella. Gli Aretini veniano innanzi con grande animo e sicurtà; e fu così forte la percossa, che i più dei feditori de’ Fiorentini furono scavallati, e la schiera grossa rinculava buon pezzo del campo: ma però non si smagarono nè ruppono, anzi costanti e forti ricevettero i nemici; e avendo le ali in ordinanza da ciascuna parte, gli rinchiusono tra quelle e combatterono aspramente. Corso Donati, che era da banda coi Lucchesi e Pistoiesi, ed avea comandamento di stare fermo e di non ferire sotto pena della testa, quando vidde cominciata la battaglia, disse come valente uomo: «se noi perdiamo, io voglio morire nella battaglia co’ miei cittadini; e se noi vinciamo, chi vuole venga a noi a Pistoia per la condannagione:[81]» e francamente mosse sua schiera, e col ferire i nemici di costa fu grande cagione che fossero rotti. La battaglia fu molto aspra e dura, le quadrella piovevano, gli Aretini ne avevano poche ed erano feriti per costa; l’aria coverta di nuvoli, la polvere grandissima. I pedoni degli Aretini si metteano carpone sotto i ventri dei cavalli con le coltella in mano e gli sbudellavano; alcuni dei loro feditori trascorsero tanto, che nel mezzo della schiera furono uccisi molti di ciascuna parte. Quel giorno fu grande paragone di valore: molti che erano stimati di grande prodezza si diportarono vilmente, e molti di cui non si parlava vennero in fama. Dei popolani fiorentini che avevano cavallate, molti stettero fermi, molti niente seppero se non quando i nemici furono rotti. Furono rotti gli Aretini non per poca valentia loro, ma per lo soperchio de’ nemici; i soldati fiorentini gli ammazzavano, i villani non avevano pietà. I vincitori non corsero ad Arezzo perchè al Capitano e ai giovani cavalieri bisognosi di riposo parve avere assai fatto. Più insegne ebbero di loro nemici e molti prigioni, e molti ne uccisero, che ne fu danno per tutta Toscana. Degli Aretini furono morti più di millesettecento a cavallo e a piedi e presi più di duemila, sebbene parecchi dei migliori fossero poi trafugati o per amistà o per essersi ricomperati con danari. Tra i morti rimasero Guglielmo degli Ubertini vescovo di Arezzo, grande guerriero, e messer Guglielmino de’ Pazzi di Valdarno co’ suoi nipoti; questi era tenuto il più avvisato capitano che fosse in Italia: moriva Buonconte[82] figlio del conte Guido da Montefeltro, e tre degli Uberti e uno degli Abati e più altri fuorusciti fiorentini. Dei vincitori mancarono tre soli cavalieri; ma feriti molti più, sì cittadini che stranieri. Narra il Villani che la novella di questa vittoria giunse in Firenze il giorno medesimo, a quella medesima ora ch’ella fu, essendone ai Priori venuto il grido, nè mai si seppe da chi uscisse. Egli medesimo giovinetto era in Palagio e l’udì, e vidde come all’annunzio tutta la città stesse in sentore: ma quando giunse chi era stato nella battaglia, fu grande allegrezza; e poteasi fare con ragione, avendo quella sconfitta fiaccato l’orgoglio della parte ghibellina in tutta Toscana.[83] I Fiorentini dopo la vittoria di Campaldino, avuta Bibbiena ed altri castelli, andarono contro Arezzo; ma era troppo tardi, chè gli scampati dalla battaglia vi erano dentro; e il governo dell’esercito fiorentino era venuto alle mani di due Priori delle Arti, male capaci di quell’ufficio. Diedero il guasto alla contrada, e per la festa di san Giovanni fecero correre il palio sotto le mura d’Arezzo: atto di scherno o di possesso in quella età molto consueto, com’era altresì gettare dentro alle città assediate per dileggio cose vili; ed allora bruttamente vi manganarono dentro gli asini mitrati, dispetto e rimproccio all’ucciso vescovo guerriero. Stettero ivi da venti dì; ed alla fine, dopo assalti male condotti ed infruttuosi, si partirono per lo migliore, lasciando fornite le tolte castella; ed i Priori ebbero accusa di essersi ritratti per baratteria. Ad ogni modo però grandi effetti ebbe quella vittoria, beneficio della città di Firenze; laonde l’esercito fu ivi accolto a grande festa e trionfo. Tutta la spesa di questa guerra fu fatta col tesoro del Comune ed ascese a più di trentasei mila fiorini d’oro; il che fa fede del buono ordinamento della città e delle molte ricchezze; massimamente chi guardi a tanti nobili edifizi costrutti in quelli anni più che in altro tempo mai. Tornato l’esercito, i popolani sospettando che i grandi innalzati dalla vittoria non gli opprimessero, di nuovo ordinarono più strettamente le milizie delle Arti: ma queste, intese a guardia della libertà, poco eran’atte alle imprese grandi, siccome quelle che mal soffrivano d’allontanarsi dalla città, laddove era la forza loro. Cosicchè, tranne piccoli fatti contro ad Arezzo e contro Pisa,[84] ebbe Firenze più anni di pace ogni dì montando, chè ognuno guadagnava d’ogni mercatanzia, arte o mestiere: avea da trecento cavalieri di corredo, e molte brigate di cavalieri e donzelli che sera e mattina imbandivano conviti. Di Lombardia e di tutta Italia traevano quivi buffoni ed uomini di corte; e non passava per Firenze alcun forestiere che avesse grado e nome onorato, il quale non fosse da quelle brigate a gara convitato e da esse accompagnato a cavallo per la città e fuori, come avesse bisogno. Nel mese di maggio si facevano brigate e compagnie di gentili giovani; innalzando nelle vie larghe e nelle piazze certi come padiglioni, che appellavano corti, chiuse di legname, coperte di drappi e zendadi, per convegno di sollazzi: e per la festa di san Giovanni si fece sulla contrada di Santa Felicita oltrarno una compagnia di mille uomini, o più, tutti vestiti di nuovo di robe bianche, guidata da uno chiamato il Signore dell’amore. Brigate e compagnie di donne e donzelle con musicali strumenti andavano per la terra ballando con ordine, inghirlandate di fiori: dandosi tutto il popolo ai giochi, ai lieti desinari ed alle cene, con giocondo conversare e allegre feste e graziosi canti.[85] CAPITOLO III. GIANO DELLA BELLA. — ORDINI DELLA GIUSTIZIA CONTRO I GRANDI. ISTITUZIONE DEL GONFALONIERATO. [AN. 1293-1295.] Lieti giorni erano quelli che il nostro maggiore Cronista si aveva goduti nell’età sua prima; e quindi credo in lui venisse quella serenità di giudizi per cui ne sembra non di rado Giovanni Villani andare più in là di altri storici più solenni. Non fu questo popolo temprato giammai a’ forti propositi, che sempre hanno in sè qualcosa di malinconico e di cheto; era una vita che si espandeva seguendo l’ingegno, più ch’ella non fosse raccolta in sè stessa sotto al dominio del volere. Firenze aveva poco sofferto al paragone d’altre città; e lo stato popolare si era qui formato naturalmente, agevolmente, perchè in sè aveva la propria sua necessità, e perchè insomma il popolo era qui da più che altrove ed i nobili da meno. Quindi anche troviamo nelle cose dello Stato valere il consenso più della forza e più della riposta sapienza dei pochi: guardando ai civili ordinamenti di esso, parrebbe che fosse come un vivere alla spensierata; ma la Repubblica si reggeva ed anzi lasciava un’orma profonda, perchè il numero dei _buoni uomini_ qui era grandissimo, svegliati gli ingegni, gli animi per quella età temperati, allegri gli umori e vôlti al piacere, ma in popolo artista cercati i piaceri più eletti e gentili; era la giovinezza di Dante, era l’adolescenza di Giotto. Firenze aveva uomini affaccendati nei lavori, esperti nei traffici, ammaestrati dal conversare libero e continuo con gli altri cittadini, esercitati per la frequenza di viaggi lontani, e ampliata la mente dal molto vedere gli altri uomini e le cose. Imperocchè avevano allora i commerci pigliato rapidissimo incremento: Giovanni Villani dimorò assai tempo in Bruggia di Fiandra, dove i mercanti fiorentini avevano emporio; andavano molti negli scali di Levante.[86] E allora sorgevano a un tratto quei nobili edifizi nei quali ha Firenze la sua grandezza; ed allora questo popolo, avendo formata la nuova sua lingua, godeva l’incanto della giovane parola la quale usciva a lui dalle labbra, rivelatrice di un’armonia che stava nell’anima, strumento lucido al pensiero. Non avea Firenze per anche abusato nè le ricchezze a corruttela, nè la libertà in licenza; le passioni pubbliche non erano scese a private cupidigie; gustava tuttora in molta opulenza le care letizie dei semplici costumi, le città e i popoli fatti liberi a lei guardavano con amore. Il nome guelfo, come era inteso nella Toscana più che in altra provincia d’Italia, questo avea fatto, che da principio nobiltà e popolo nella comunanza d’un affetto nazionale si fossero molto l’uno all’altro avvicinati e in qualche parte insieme confusi. Non pochi signori degli abbattuti castelli e cattani spossessati o dalle guerre civili ruinati, aveano cercato compenso nelle arti per le quali vedeano montare tante famiglie popolane; molti rimasti ancora in grado, e andando insieme con la parte vincitrice, s’erano calati alle ambizioni cittadine, cercandosi un modo prima insolito di potenza. Tra’ due ordini non pareva la compagnia guasta finchè la guerra continuava contro a’ Ghibellini; ma questa era vinta, e in quel mezzo l’onda popolare vie più saliva: quando il governo venne alle mani dei Priori delle Arti, non parve ai nobili che ne fosse loro lasciata parte da contentarsene, benchè nel priorato entrassero pure «dei buoni uomini mercatanti, sebbene fossero dei potenti.» Ma erano guardati con occhio geloso, ed ogni cosa voltava contro a loro nella città, dove la prevalente massa dei minori faceva gran siepe attorno ad essi. Certo che abolire i vassallaggi feudali e fare le leggi usbergo ai deboli anzi che flagello in mano dei forti, erano cause se altre mai giustissime e sante: ma gli uomini sogliono fare male anche le buone cose; per il che i signori turbati o minacciati nelle possessioni loro del contado, ed oggi angariati dove solevano angariare; e come quelli ch’avevano l’arme in mano, ed un seguito di loro fedeli e contadini dei quali aveano forse vantaggiato studiosamente le condizioni; i signori, dico, anzichè potessero alla lunga fare col popolo buona compagnia, venivano spesso alle ferite ed agli oltraggi ed agli omicidi, massimamente nel contado inverso ai piccoli cittadini; ed allegando quelli che prima erano diritti ed ora violenze, facevano forza nei beni altrui. Viveano tuttora de’ magnati che aveano veduto il ceto loro essere ogni cosa avanti al 1250, ed erano sempre in condizioni da soverchiare quella civile egualità sopra la quale si voleva ora fondare lo Stato: vi erano Comuni, dei quali il governo era in mano di militi o nobili.[87] Quindi è che parve cosa giusta fare contr’essi leggi disuguali e per sè ingiuste, dove le ire servivano di fonte al diritto. Al che si offriva molto buona l’occasione, perchè i grandi aveano tra loro brighe e discordie che le maggiori non ebbero mai dopo il ritorno della parte guelfa. Guerra tra gli Adimari e i Tosinghi, tra i Rossi e i Tornaquinci, tra i Bardi e i Mozzi, tra i Gherardini e i Manieri, tra i Cavalcanti e i Buondelmonti, tra Frescobaldi e Frescobaldi, tra Donati e Donati, ed in molte altre casate: prima le sêtte dei violenti sè stessi offendono con le proprie mani, e indi periscono per le altrui. Correndo l’anno 1293 alcuni uomini dabbene, artigiani e mercatanti di Firenze, si posero insieme cercando rimedi a quel disordine; e capo di essi fu un valentuomo, antico e nobile cittadino ricco e possente, di grande autorità presso i Guelfi, nominato Giano della Bella. Si trovò egli dei Signori i quali entrarono in ufficio ai 15 di febbraio,[88] e cogliendo l’opportunità dell’arbitrato ch’era consueto fare per la correzione delle leggi, formarono quelli statuti contro a’ nobili che furono chiamati Ordinamenti della giustizia. Per questi erano decretati gastighi ai grandi che oltraggiassero i popolani, raddoppiando contro loro le pene comuni; prescrivendo che l’un congiunto fosse tenuto per l’altro, e che i maleficii si potessero provare per due testimoni di pubblica fama; pena barbara e dettata dai feroci odii cittadineschi era il disfare le case. Gli Ordinamenti della giustizia furono in seguito ampliati, e ne abbiamo assai redazioni. Lo Statuto Fiorentino comprende tutto intero l’arsenale delle leggi e ordini contro ai grandi, e noi da esso abbiamo tolti alcuni punti qui sotto notati, i quali sieno schiarimento a questa materia.[89] Non potevano i magnati accusare nè testimoniare, nè stare in giudizio contro a’ popolani senza il consenso dei Priori (_Statut., Rub._ 43 _et alibi_); ma per contrario non si ammettevano eccezioni a favor loro contro ai testimoni popolani: non abitare dove commisero malefizi, nè presso ai ponti centocinquanta braccia (_Rub._ 49, 50): non uscire di casa in tempo di rumore, nè altri andare alle loro case; non assistere accompagnati da masnadieri in arme ai funerali, monacazioni o nozze fuori della famiglia loro (_Rub._ 46, 47, 48): quando il Gonfaloniere andasse per la città in ufizio, alcun grande non poteva mostrarsi in quel luogo (_Rub._ 44). La Rubrica 24, sotto il titolo _de causis faciendi magnates_, contiene la forma del processo e del giudizio spettante ai Priori e ai Collegi delle Arti, pel quale un uomo o una famiglia popolana erano fatti grandi; il che faceva cadere sopra essi tutti i divieti dagli ufizi e tutte le pene di chi fosse nato dentro a quell’ordine. Bastava un solo testimonio _de visu_ e due di pubblica fama, o solamente quattro di questi ultimi (_Rub._ 23): un tamburo o cassetta murata era posta innanzi la casa dell’Esecutore per le denunzie segrete (_Rub._ 96). Dovevano i grandi dare sicurtà per le offese e pel pagamento delle multe a cui venissero condannati (_Rub._ 33): ma era proibito ad essi fare accatto od imprestito per il detto pagamento, con pena anche ai prestatori (_Rub._ 9 degli _Ordinamenti di giustizia_): i popolani non denunzianti l’ingiuria sofferta dai grandi pagavano multa (_Statut., Rub._ 68); ma era permesso anche ai grandi battere in casa impunemente i servi loro, e in ciò si stava al gius comune (_Rub._ 69). Minutamente si provvedeva contro agli acquisti ed occupazioni di beni fatte dai magnati a pregiudizio dei popolani o delle chiese e dei conventi. In certi casi erano i grandi fatti sopraggrandi; il che importava, oltre alla perdita di ogni beneficio o attenuazione ad essi concessa, anche il divieto di abitare ulteriormente in quel luogo della città o del contado dove solevano e dove erano per l’addietro le case loro (_Rub._ 31). I popolani consorti dei magnati non potevano abitare nello stesso quartiere in Firenze o nella stessa pievania in contado che i magnati consorti loro, nè tenerli come tali, nè immischiarsi nelle loro brighe (_Rub._ 23). I magnati che per favore divenivano popolani, avevano obbligo di mutare le armi delle famiglie loro (_Rub._ 41). A ciò queste leggi avessero certa e permanente esecuzione, ordinarono contemporaneamente che al novero dei sei Priori fosse aggiunto un Gonfaloniere di giustizia, da rinnovarsi ogni due mesi (cosicchè ogni anno uno ne avesse ciaschedun sesto della città); a lui consegnando il Gonfalone del popolo col campo bianco e la croce rossa, con mille eletti pedoni, pronti a muovere ad ogni suo ordine e richiesta contro ai grandi: e perchè la prima cosa a lui commessa era disfare le case, troviamo oltre a’ fanti essere centocinquanta maestri di pietre e di legname, e cinquanta picconieri armati di buoni picconi e di scuri e di altri arnesi cosiffatti. Baldo Ruffoli fu il primo in quell’ufficio di Gonfaloniere, che poi rimase e fu il supremo tra i magistrati della Repubblica per tutto il tempo ch’essa ebbe vita: i vecchi Signori con certi aggiunti o _arroti_ elessero i nuovi. Le Arti maggiori e le minori rappresentate dai loro consoli ebbero Balía, per la quale procedettero a cosiffatti ordinamenti. I mille pedoni del Gonfaloniere furono in seguito aumentati fino al doppio, poi a quattromila; cinquecento erano somministrati dai pivieri suburbani. Riordinarono a questo effetto nel contado quelle che appellavano Leghe del popolo, secondo abbiamo più sopra descritto. Si componevano esse di comunelli e di parrocchie unite tra loro come in piccole federazioni che s’amministravano da sè, ma governate da un vicario o capitano della Repubblica, per mezzo del quale imponeva essa all’occorrenza le taglie in uomini e in danaro.[90] Le aggregazioni erano mutabili, ma ogni popolo doveva appartenere a una di esse leghe. Le quali avean obbligo di stare a difesa di parte guelfa cacciando i ribelli e gli sbanditi, o conducendoli nelle forze del Comune; opporsi a qualunque violenza e incendi e rapine, facendo osservare contro a’ grandi gli Ordinamenti della giustizia; venire al soccorso della città e del popolo di Firenze armati e presti ad ogni chiamata. La Repubblica aveva le gabelle dei mulini, gualchiere, mercati e pedaggi; insomma, quasi una signoria feudale sopra le leghe, le quali da sè provvedevano alle interne spese per via di tasse o penalità liberamente imposte ed amministrate: eleggevano a questo fine i loro propri Gonfalonieri e Pennonieri ed un Consiglio pel governo della lega; ma sopra questi era l’alta vigilanza dei magistrati della Repubblica, la quale obbligava gli eletti ad accettare gli ufizi e ad amministrarli sinceramente e virilmente. Nello stesso anno 1293, per fortificare il governo del popolo e per abbattere sempre più il potere dei grandi, chè spesso la guerra gli rinvigoriva, i Fiorentini acconsentirono a fare pace co’ Pisani affievoliti e abbassati dalla fortuna delle armi: i Pisani rimandassero il conte Guido di Montefeltro riponendo i Guelfi, e avessero in Pisa i Fiorentini libera franchigia, senza pagare gabella di loro mercatanzie. A detta pace intervennero i Lucchesi ed i Senesi e tutte le terre della lega guelfa di Toscana. In questo tempo era tanto il tranquillo stato, che dì e notte non si chiudevano le porte della città; nè vi avea gabelle; ma essendovi bisogno di moneta, anzichè porre balzelli, si vendevano le mura vecchie e i terreni dentro e di fuori ai confinanti. Ed il Comune rivendicò parecchie sue giurisdizioni sulle terre del distretto.[91] Così nel cominciamento di questo nuovo Stato si fece molto di bene al Comune, ed a ciascuno cui per l’addietro fossero dai potenti state occupate le possessioni, furono restituite. Riebbe il Comune per questo modo la giurisdizione intera di Poggibonsi, che si reggeva prima da sè, e di Certaldo e di Gambassi e di Loro e di altre terre, e molte possessioni state prima occupate dai Conti e nel Mugello dagli Ubaldini, e in città lo spedale di sant’Eusebio, nel quale i grandi avevano poste le mani. Il popolo era molto fiero e caldo dentro e al di fuori, ed in signoria. L’autore di un maleficio essendosi fuggito in Prato, mandarono i Signori un messo a richiederlo: e perchè i Pratesi, allegando la libertà loro, negarono darlo, gli condannarono a pagare lire diecimila e che lo rendessero. Stavano sempre disubbidienti; ma quando udirono mosse le masnade dei Fiorentini inverso Prato, diedero i danari e il malfattore. De’ primi ad essere puniti, secondo le leggi novellamente poste, furono i Galigai, uno dei quali rissando aveva ucciso in Francia un popolano. Dino Compagni, istorico di quei fatti e che fu il terzo Gonfaloniere di giustizia, col gonfalone e le armi andò alle loro case ed a quelle dei loro congiunti, e le fece disfare secondo le leggi. Questo principio fu pernicioso ai Gonfalonieri seguenti (così Dino); perchè se le disfacevano secondo le leggi, il popolo diceva che erano crudeli, e che erano vili, se non le disfacevano bene affatto: quindi avvenne che molti sformarono la giustizia per tema del popolo. Uno dei Buondelmonti avendo commesso un maleficio di morte, gli furono disfatte le case per modo che dipoi ne fu ristorato. Pochi maleficii si nascondevano, che dagli avversari non fossero ritrovati; ma la giustizia però, o a dir meglio le vendette, si facevano disegualmente. I giudici ossia tutta la turba dei legisti che insieme ai rettori o magistrati forestieri intervenivano nei giudizi, diversamente corrotti o parteggianti in vario modo, ingarbugliavano le ragioni, ed era lagnanza che tenessero sospese lungamente le questioni e ogni ragione si confondesse. Troppo gran braccio dato ai giudici cresceva il male che era inerente alla ingiustizia delle leggi, da cui pigliavano scusa i giudici a non mantenerle. Ma i grandi di questo fortemente si dolevano, ed agli esecutori di esse dicevano: «un caval corre e dà la coda nel viso a un popolano; o in una calca uno darà di petto senza malizia ad un altro, o più fanciulli di piccola età verranno a questione; gli uomini gli accuseranno; e se battiamo un nostro fante, dobbiamo noi essere disfatti?» Giano della Bella, uomo di grande animo e tanto ardito che difendeva quelle cose che altri abbandonava, e parlava quelle che altri taceva, era tutto contro a’ colpevoli; e tanto era temuto dai rettori, che non osavano nascondere i maleficii. Allora i grandi cominciarono a parlare contro a lui, e abbominando le leggi, minacciavano di squartare i popolani che reggevano. Tali minaccie rapportate furono cagione che questi sempre più inacerbissero, e per paura e sdegno inasprissero le leggi; sì che da ciascuna parte l’odio si raddoppiava. Il magistrato di parte guelfa era la sede e la fortezza dove i grandi ritenevano tuttora il grado che in altri uffici era loro dinegato; e per lunghi anni vedremo noi contro agli artefici accesa la guerra di quel magistrato, rifugio ultimo che rimanesse alla ingerenza dei magnati. Quelli che ne erano capitani, solevano essere cavalieri; e contro a questi aveva ordinato Giano, che le famiglie dove fossero uomini aventi il grado di cavaliere, s’intendessero dei grandi e fossero inabili ad essere dei Signori, o ad aver luogo nei Collegi: queste famiglie furono trentatre.[92] Si trova altresì che Giano volesse togliere ai Capitani di parte guelfa il suggello ed il mobile o patrimonio della Parte, che era cresciuto in quegli anni, come era stato l’intendimento della sua prima istituzione: ma ora Giano volea quei beni recare in comune, non già che fosse egli poco guelfo, ma per abbassare i grandi che dominavano quell’ufficio. Con essi andavano uomini potenti, i quali non tutti erano nobili di sangue ma per altri accidenti chiamati grandi,[93] e molti che aveano co’ magnati parentela. A questi erano da aggiugnere non pochi uomini di famiglie nobili per ambizione fatte di popolo, ma cui sarebbe piaciuto meglio avere grado dalla nobiltà loro, che non sedere nei Consigli come speziali o lanaioli. Tutti costoro male pativano l’uguaglianza delle leggi, ed astiavano l’autorità di Giano, e la parte troppo grande da lui toltasi nello Stato. Toccando quel tasto il quale sapevano in Firenze essere il più sensitivo, spargevano ch’egli col togliere forza al magistrato di parte guelfa volesse di cheto dare mano ai Ghibellini e fargli salire di bel nuovo in signoria: in ogni tempo questa fu l’arte dei potenti Guelfi, tenere il popolo a sè ubbidiente con la paura dei Ghibellini; la quale valse allora non poco a sgominare la parte stessa che era con Giano stata da prima, e per siffatti sollevamenti a rigonfiare la feccia plebea. Era uno chiamato Pecora, gran beccaio protetto dai Tosinghi, il quale faceva la sua parte con falsi modi e nocivi alla Repubblica: tutti l’avevano in odio, persino gli altri dei beccai, perchè le sue malizie usava senza timore, minacciava i rettori e gli ufficiali, e profferivasi a malfare con grande nerbo di uomini armati. Giano, ambizioso di stare contro a ogni disordine egli solo, bentosto si ebbe tirato addosso molto gran piena d’inimicizie; i grandi attizzavano le gelosie de’ falsi amici, e le invidie popolari, e la malizia dei giudici, e le ree opere de’ beccai. Si congiurarono contro lui; congreghe si facevano in casa dei grandi; il partito d’uccidere Giano, più volte posto, non ebbe seguito; gli artifiziosi consigli prevalsero. «Ed io (scrive Dino) gli palesai la congiura un giorno che io era con molti, e tra essi dei falsi popolani, per raunarci in Ognissanti, e Giano se n’andava a spasso per l’orto; e mostraili come lo faceano nemico del popolo e degli artefici, e che il popolo gli si volgerebbe contro.» Così accesi erano gli animi, allorchè messer Corso Donati, de’ più nobili e possenti cittadini di Firenze, ebbe parte in una zuffa nella quale per alcuni suoi familiari e consorti era stato morto un popolano ed alcuni altri feriti. Correndo il gennaio del 1295, fu presentata l’accusa da ambe le parti, ed il processo era venuto innanzi al potestà Gian di Lucino da Como, cavaliere di gran senno e bontà. Il popolo era contro a messer Corso e attendeva che il Potestà lo condannasse. Già il gonfalone della giustizia era stato tratto fuori, quando il Potestà (dicono) ingannato da un suo giudice, assolvè il Donati e condannò gli avversari suoi. Il popolo minuto credette che ciò avesse fatto per danari, e uscendo a corsa dal palagio, gridò ad una voce: muoia il Potestà! al fuoco, al fuoco! all’armi, all’armi! viva il popolo! Si armarono allora e trassero a furia al palagio del Potestà con stipa per ardere la porta. Giano, che era coi Priori, udendo il grido, esclamava: io voglio andare a campare il Potestà dalle mani del popolo. E monta a cavallo e si presenta alla moltitudine, esortandola di richiamarsi in debito modo al Gonfaloniere di giustizia; ma la plebe forsennata gli rivolta contro le lancie e lo costringe a tornare indietro. Anche i Priori scendono in piazza col Gonfaloniere per attutare quel furore, ma invano; chè il popolo invade il palagio, pone a ruba i cavalli e gli arnesi del Potestà, straccia i processi, pone le mani addosso alla sua famiglia, ed in quella rabbia commette di mille strane cose. Il Potestà e la sua moglie, gentildonna di gran bellezza, menata da lui di Lombardia, spaventati chiamando la morte si erano rifugiati nelle case de’ Cerchi: messer Corso, che era pure nel palagio, non per anche terminato, fuggì per i tetti. «Il dì seguente si radunò il Consiglio e per onore della città fu deliberato, che le cose rubate si rendessero al Potestà, e che del suo salario fosse pagato: e così fecesi, ed ei partissi.» La città rimase in gran disordine: i cittadini buoni biasimarono quello che era stato fatto, altri ne dava la colpa a Giano cercando cacciarlo o farlo mal capitare, e diceano: poichè cominciato abbiamo, osiamo il resto. I grandi e i giudici e notai con molti popolani grassi, amici e parenti de’ grandi, accordatisi contro lui, fecero sì che i nuovi Priori loro aderenti formassero inquisizione contro a Giano e suoi seguaci per aver messo la terra a romore. Ma il popolo minuto per ciò grandemente conturbato si affollò attorno alla casa di Giano, profferendosi di esser con lui in arme a difenderlo e correre e combattere la terra. E già un suo fratello avea tratto in Orto san Michele un gonfalone dell’arme del popolo; ma Giano vedendosi tradito ed ingannato da quelli stessi che erano stati con lui a fare il popolo, e conoscendo che la loro forza unita a quella dei grandi era molto potente, e che tutti già si erano assembrati in arme attorno al palagio dei Priori, abborrì dalla guerra civile. I Magalotti suoi parenti, famiglia che aveva tra gli artefici grande seguito, lo consigliarono che a cansare quei primi impeti si assentasse alquanti giorni dalla città. Ed egli, cedendo al malo consiglio, si partì di Firenze il 3 marzo 1295: subito fu sbandito, e condannato negli averi e nella persona, e la sua casa rubata e mezzo disfatta. Si aggiunse ai suoi danni anche il papa Bonifazio VIII, come si rileva da un breve assai violento contro a Giano, fino a bandire la scomunica contro a chiunque lo favorisse; in essa involvendo tutta la città, nel caso che Giano vi fosse tornato, e ordinando sotto le censure stesse il bando anche di un suo fratello e di un nipote. Aveva egli l’anno innanzi avuto in Pistoia, dov’era andato potestà, gravi dissidii col vescovo, pe’ quali perdette la potesteria; e pochi giorni innanzi l’esiglio da Firenze, ebbe in Pistoia condanna di ribello egli ed una figlia di lui maritata. L’istoria non mai si conosce tutta intera; e in questo fatto noi troviamo Bonifazio sin da’ primi giorni del pontificato avere posto le mani nelle cose di Firenze, e ordite già quelle intelligenze nella città che indussero poi mutazioni tanto gravi.[94] Moriva Giano esule in Francia. «Ciò fu gran danno alla città nostra, scrive Giovanni Villani, e massimamente al popolo, perchè egli era il più leale e diritto popolano, e amatore del bene comune, che uomo di Firenze, e quegli che mettea del suo in comune e non ne traeva. Era presuntuoso e volea le sue vendette fare, e fecene alcuna contro gli Abati suoi vicini col braccio del Comune: e forse per gli detti peccati fu per le medesime leggi, benchè a torto e senza colpa, giudicato.[95]» Lasciava Giano di sè gran traccia nella Repubblica di Firenze, che dall’ufficio del Gonfaloniere avrebbe pigliato maggiore forza e stabilità, se era creato a più lungo tempo. Ma il voto di lui e del Villani e del Compagni e degli altri buoni popolani, quello di mettere in comune il governo dello Stato cosicchè ad esso partecipassero le Arti maggiori e le minori e il popolo grasso e gli artefici minuti, cotesto voto incontrò pure nuovi e diversi impedimenti. Negli anni stessi era in Venezia Piero Gradenigo, pel quale mutavasi ivi il politico reggimento, ma oppostamente a quel di Firenze. Qui ogni cosa era per il popolo, tutto in Venezia per gli ottimati: parvero allora le due maggiori tra le città libere d’Italia capitanare le divisioni e la nazionale debolezza, la quale può dirsi che in quegli anni fosse decretata. CAPITOLO IV. CERCHI E DONATI. — BIANCHI E NERI. [AN. 1295-1300.] Bandito Giano della Bella, si venne ad accusare gli amici di lui, i quali furono condannati chi in cinquecento lire e chi in mille. La città rimase in grande discordia; chè prendendosi in disamina le azioni di lui, variamente se ne parlava in biasimo e in lode. Intanto i contrari occupavano gli ufficii: il Pecora beccaio, uomo bilingue, seguitatore di male, lusinghiero, insomma tristo per ogni verso, corrompeva il popolo minuto, ordiva congiure, e maliziosamente dava ad intendere ai nuovi Signori che erano eletti per sua operazione. Molti altri abbindolava promettendo loro ufficii: grande era del corpo, ardito e sfacciato e gran ciarlatore, e diceva palesemente chi erano stati i congiurati contro a Giano. Intanto, per voglia di mal fare, non per amore di giustizia, pigliava a perseguitare questo e quello; arringava spesso nei Consigli, e si millantava essere egli che aveva liberata la città dal tiranno Giano, e che molte notti era ito di queto con certo suo lanternino a sollecitare i congiurati ed a conferir con loro in non so quale cantina sotterra. I pessimi cittadini chiamarono Potestà un messer Monfiorito da Padova, povero gentiluomo, acciò rendesse ragione come a loro piacesse. Egli e la famiglia sua palesemente vendevano la giustizia, e non ne schifavano prezzo piccolo o grande che fosse: ma finalmente cadde in tanto abominio che i cittadini, non potendolo più soffrire, fecero pigliare lui e due suoi famigli e metterli alla tortura. Confessò cose che produssero vitupero e pericolo a molti; e nato disparere se dovesse più lungamente torturarsi o no, vinse la prima sentenza; e però quel cattivo cantò nuovamente sulla corda, sicchè nuova infamia ne raccolsero i rettori e parecchie condanne in danari. Ad onta che i Padovani più volte mandassero a domandare il Monfiorito, fu cacciato in prigione; e vi sarebbe vilmente marcito, se certa donna degli Arrigucci che aveva il marito in prigione con lui, non avesse loro fatto pervenire lime sorde ed altri ferri, per cui si fuggirono.[96] I grandi frattanto non si ristavano dal tentare novità in Firenze: capi erano di quella parte Forese degli Adimari e Vanni de’ Mozzi e Geri Spini, i quali una volta si appresentarono in arme sopra cavalli coperti, co’ loro masnadieri e contadini; ma vista la forza del popolo soperchiare, si ritrassero senza far nulla. Avevano pure chiamato in Toscana un cavaliere Giovanni di Celona, che dall’Imperatore ebbe carta e giurisdizione sulle terre che egli guadagnasse. Venne costui per consentimento, come fu detto, di papa Bonifazio, e andò a posarsi in Arezzo con cinquecento cavalli; ma poco fece, e per trenta mila fiorini d’oro che a lui diedero i Fiorentini, si partiva. E questi frattanto, i quali avevano fatto lega con gli amici guelfi di Toscana, per afforzarsi da quella parte edificarono nel Valdarno di sopra i castelli di San Giovanni e di Castel Franco, dove si rifuggissero i vassalli dei vicini signori e tutti quelli che amavano la parte guelfa ed il viver libero. In Firenze erano anni prosperi; e allora ebbero cominciamento il grande tempio di Santa Maria del Fiore e quello di Santa Croce ed altri, e il Palagio del popolo per abitazione della Signoria. Ma (dice il Villani) la grassezza partorì superbia e corruzione, per la quale furono finite le feste e le allegrezze dei Fiorentini, che infino a quei tempi stavano in molte delizie e morbidezze. Dalla discordia dei Buondelmonti cogli Amidei, già gran tempo, erano sorte le maledette parti Guelfa e Ghibellina; ora dalle discordie di due altre famiglie, i Cerchi e i Donati, sorsero le parti Bianca e Nera: rinnovamento sotto altro nome delle fazioni medesime. Firenze la quale ogni dì montava per il numero di genti, chè aveva dentro più di trenta mila cittadini atti alle armi e più di settanta mila distrettuali in contado,[97] e buona cavalleria e franco popolo e ricchezze; signoreggiando quasi tutta Toscana, non paventando nè dell’Impero nè dei propri fuorusciti; Firenze la quale poteva a tutti gli Stati d’Italia colle sue forze rispondere; essa medesima colle proprie mani si fece quel male che dal di fuori non paventava. Era la famiglia dei Cerchi di nuova schiatta, ma buoni mercatanti e gran ricchi: tenevano molti familiari e cavalli, sfoggiavano in vesti ed in suppellettili, superbi per grande e numeroso parentado; ma uomini rozzi e salvatichi, siccome gente venuta di picciol tempo in grande stato e potere: avevano comprato il palazzo dei conti Guidi, il quale era presso alle case dei Pazzi e dei Donati in quel sesto di porta San Piero che si chiamò Sesto degli Scandali, perchè ivi la vicinanza di molte famiglie possenti era occasione di gelosie, ogni sesto avendo suoi propri uffiziali e quasi in sè le passioni di una piccola repubblichetta. I Donati erano gentiluomini e guerrieri; ma di poca ricchezza e possanza, sebbene capo di quella famiglia fosse un uomo assai formidabile, Corso, il cui nome stava in alto fino dalla giornata di Campaldino: talchè per la bizzarra salvatichezza degli uni e la superba invidia degli altri nacque sdegno tra le due casate. Tra gli avversari si lanciavano motti pungenti; e perchè Vieri, capo della famiglia de’ Cerchi e chiaro anch’egli in Campaldino, era di poca malizia e poco bel parlatore, quando si sapeva che avesse parlato nelle ragunate de’ suoi, Corso diceva _ha ragghiato oggi l’asino di Porta:_ e i motti si risapevano, nè mancavano giullari che gli rapportassero anche l’un cento peggiori del vero.[98] La divisione ebbe nuova esca dal seme di parte Bianca e Nera, venuto di Pistoia, dove un legnaggio di nobili e possenti uomini, ch’erano i maggiori di quella città, poco prima si era diviso in due parti, l’una detta dei Cancellieri bianchi, l’altra dei Cancellieri neri. I Fiorentini, per timore che di ciò non sorgesse ribellione a danno dei Guelfi, s’intromisero tra le due parti, e tolta per sè la signoria della città, sconsigliatamente mandarono a confino in Firenze questi e quelli: così gli odii pistoiesi passati a Firenze moltiplicarono la contaminazione. I Cerchi divennero capi di parte bianca, e i Donati di parte nera.[99] I cittadini grandi, e popolani e artefici minuti, viepiù si partirono; gli stessi uomini di chiesa diedero l’anima chi ad una setta chi all’altra. Quella dei Cerchi era la più numerosa, e pel grande seguito che avea, pareva che fosse in loro potere la città: erano ben veduti dagli artefici perchè di buona condizione e molto serviziati, e per la memoria di Giano della Bella cui avevano aderito: i Ghibellini gli amavano perchè meno duri nel mantenere le leggi: e allora si trova che i Cerchi disertando le raunate della parte guelfa, più si accostarono ai popolani e alla Signoria. Delle maggiori famiglie avevano seco gli Scali e tutti i Cavalcanti e gli Adimari, parte dei Mozzi, dei Bardi, dei Nerli, dei Frescobaldi, dei Rossi; i Mannelli, i Malespini, i Falconieri. Tutti i mezzani stavano con essi, e i migliori uomini che volevano con Dino Compagni l’egualità e la pace, e i fieri ingegni di Dante Alighieri e di Guido Cavalcanti per l’ampio concetto che si avevano formato del viver libero e civile. Cotesti già un poco infino d’allora si accostavano al ghibellinesimo, perchè i grandi e possenti Ghibellini essendo iti in bando, rimanevano di quella parte in Firenze le sole famiglie di minor conto, e con esse molti del minuto popolo, i quali educati alle antiche clientele in casa dei grandi, vivevano male sotto alla meno lauta e spesso più dura signoria dei grossi mercanti. Co’ Donati erano quasi tutti questi, nobiltà nuova e popolana che già intendeva in sè ristringere signorilmente lo Stato, unita co’ grandi Guelfi, ed insieme con essi volendo imporsi al popolo degli artefici. Aveva questa parte le sue maggiori aderenze fuori, e credito e amicizie co’ signori: la seguitavano in Firenze, tra gli altri, i Pazzi, i Visdomini, i Buondelmonti, i Tornaquinci, i Gianfigliazzi, i Brunelleschi, gli Acciaiuoli, e con molta parte delle casate loro due possenti uomini, Geri degli Spini e Rosso dei Tosinghi della Tosa, e le più grosse famiglie guelfe. Messer Corso Donati era cavaliere, gentile di sangue, del corpo bellissimo e grazioso parlatore, sottile d’ingegno, superbo, cupido, animoso, audacissimo nelle ambizioni e in quelle smodato; a grandi cose attendeva sempre. Era congiunto in amicizia co’ signori di fuori, e molti servizi faceva; radunava intorno a sè masnadieri, e grande seguito aveva: tale era quell’uomo.[100] Venute le feste di calen di maggio 1300, le brigate d’ambedue le parti in arme scorrevano per la città, prendendo sollazzo. I giovani della famiglia dei Cerchi cavalcavano con altri in numero di più di trenta. E coi giovani dei Donati erano i Pazzi, gli Spini ed alcuni loro masnadieri. Si guardavano gli uni dagli altri; ma intantochè stavano a vedere ballare donne sulla piazza di Santa Trinita, ambedue le parti cominciarono a provocarsi e a spingere i cavalli l’uno contro l’altro, tanto che nacque una grande mischia, in cui molti restarono feriti: fu tagliato il naso ad uno dei Cerchi da un masnadiere dei Donati; quindi gli odii più crebbero, aspirando ambedue le parti alle vendette. Molto aderivano i Donati, siccome coloro che si vantavano Guelfi puri, all’amicizia del Papa, rinfacciando di continuo ai Cerchi ed ai Bianchi la loro lega co’ Ghibellini. Sedeva allora sulla cattedra pontificale Bonifazio VIII, uomo d’ingegno grande e di audacia smisurata. A lui pertanto molti si volsero di concordia, pregandolo che egli per il bene della città e di parte di Chiesa vi mettesse consiglio: il Papa mandava per messer Vieri dei Cerchi, sperando, perch’egli era grande mercatante in Roma, volesse in lui rimettere le differenze; offrendogli pace onorevole, ed aggrandire lui ed i suoi. Ma Vieri non volle ciò assentire, dicendo che non aveva guerra con nessuno; e si tornò a Firenze: il Papa rimase molto sdegnato contro a lui ed ai Bianchi. Avvenne (prima o poi si fosse) che molti cittadini recatisi per seppellire una morta alla piazza de’ Frescobaldi, ed essendo usanza della terra a simili radunate che i cittadini sedessero in basso in sulle stoie di giunchi, e i cavalieri e dottori in alto in sulle panche, e dei Cerchi e dei Donati quelli che non erano cavalieri essendo a sedere in terra gli uni dirimpetto agli altri; uno di loro, o per racconciarsi i panni o per altra cagione, si levò ritto. Gli avversari per sospetti si levarono anch’essi, e misero mano alle spade; stavano per azzuffarsi, ma i presenti s’intramezzarono; e per allora non fu altro. Ma i Cerchi, e tra essi Guido Cavalcanti, vollero andare contro alle case dei Donati; dalle quali furono o ributtati, o per consiglio di buoni uomini trattenuti. Narrammo di Guido essere egli stato unito in matrimonio con la figlia di Farinata degli Uberti: giovane ardito, ma sdegnoso e solitario e intento allo studio che a lui diede gloria; era egli nemico di messer Corso, e più volte avea deliberato d’offenderlo. Corso, che forte lo temeva perchè lo conosceva di grande animo, aveva tentato di farlo assassinare mentre andava in pellegrinaggio a San Iacopo di Gallizia. Perlochè Guido tornato a Firenze istigò molti giovani, che gli promisero aiutarlo contro a messer Corso; e un dì essendo a cavallo con alcuni de’ Cerchi, con un dardo in mano spronò contro lui, credendosi seguitato dai compagni, che non si mossero. Trascorrendo, lanciò il dardo, ma invano; e inseguito dai Donati, fu percosso coi sassi anco dalle finestre e ferito in una mano. Dipoi essendo alcuni dei Cerchi ai loro poderi di Nipozzano in Val di Sieve, e nel tornare dovendo passare sotto a Remole ch’era dei Donati, questi co’ loro armati contesero il passo, e vi ebbero feriti di ambe le parti. Per la qual cosa gli uni e gli altri furono accusati e condannati a pagare certa moneta, e, in mancamento, a stare in prigione: erano poveri i Donati, che non potendo pagare andarono in carcere; poteano i Cerchi, ma non vollero per non essere consumati, come fare si soleva, con le condanne. Così anch’essi furono chiusi nelle prigioni; dove un giorno a desinare quattro dei Cerchi, mangiato un migliaccio, del quale erano stati regalati dal soprastante della prigione che era ser Neri Abati, morirono: questi, che poi vedremo pessimo uomo, ne fu incolpato, ed anche si disse ciò avere fatto ad istigazione di Corso Donati: non si cercò il maleficio perchè provare non si poteva, ma l’odio più crebbe tra le due parti. Allora i Capitani di parte guelfa e gli altri Neri, temendo che per le dette sètte e brighe, parte ghibellina non esaltasse in Firenze; che sotto titolo di buon reggimento già ne facea il sembiante, e molti Ghibellini tenuti buoni uomini erano stati cominciati a mettere in sugli uffici; furono col Papa, col mezzo degli Spini, che erano banchieri di lui e molto possenti in Roma. Laonde il Papa mandava legato in Firenze il cardinale Matteo d’Acquasparta; il quale vi giunse nel mese di giugno dell’anno 1300, e fu ricevuto dai Fiorentini a grande onore. Ma quando egli chiese balìa di riformare la terra e di raccomunare gli uffici, quelli della parte bianca che guidavano la Signoria, per tema di perdere loro stato ed essere ingannati dal Papa e dal Legato, non vollero ubbidire. Di già la contesa, per quante altre cause vi si mescolassero e qualsivoglia nome avesse, mostrava essere tra’ mercanti guelfi e i grandi oppressi co’ loro seguaci, che in sè riteneano un qualche spirito ghibellino. I primi tentavano raccogliersi sotto un nuovo ordine di ottimati, e per essi era il Cardinale; la Signoria stava in mano dei Bianchi, i quali voleano meno esclusivo il reggimento. Dante Alighieri per nobiltà di sangue e d’animo mal soffrendo i nuovi possenti, e già inclinato a favorire la parte oppressa dei Ghibellini, fu tra’ Priori di quel bimestre. Avvenne che andando la vigilia di san Giovanni le Arti alla chiesa del Santo ad offrire, secondo l’usanza, precedute dai loro consoli, questi furono manomessi e battuti da certi grandi, i quali dicevano: «noi siamo quelli che demmo la sconfitta a Campaldino, e voi ci avete rimossi dagli uffici e onori della città nostra.» Su di che i rettori tennero consiglio di più cittadini, e tra questi era Dino Compagni: deliberarono confinare,[101] della parte dei Donati, Corso e Sinibaldo suo fratello, Rosso della Tosa e Geri Spini con due dei Pazzi ed altri, a Castello della Pieve; dei Cerchi tre, ma rimase Vieri in Firenze; andò con altri di questa parte a Sarzana Guido Cavalcanti. Ma i Donati, forse perchè vedevano rimasto colui che era capo dei nemici loro, non si volevano partire; e già i Lucchesi, di coscienza del Cardinale, venivano in loro aiuto con grande numero di soldati, se non che la Signoria con le minaccie gli obbligò a fermarsi. Corso ed i Neri furono costretti andare al confine; ma le intenzioni del Cardinale troppo essendosi palesate, molti se gli voltarono contro, e uno del popolo andò colla balestra a saettare un quadrello alla finestra del Vescovo dove abitava il Cardinale: il dardo si ficcò nell’asse, e quegli impaurito andò a stare oltrarno in casa de’ Mozzi: i Signori, per un cotale rimedio, lo fecero presentare di mille trecento fiorini nuovi. «Io glieli portai in una coppa d’argento (scrive Dino Compagni), e dissi: Monsignore, non gli disdegnate perchè sieno pochi, perchè senza i Consigli palesi non si può dare più moneta. Rispose gli avea cari; molto gli guardò, e non gli volle.» Poi data opera, sebbene invano, a fine di ridurre a miglior modo la elezione dei Priori, che frattanto però saviamente facevano armare la città, vedendo essergli contrari i Bianchi che guidavano la Signoria, partissi lasciando la città interdetta. Questa rimase allora tutta in mano dei Bianchi, i Cerchi essendo stati, non bene sappiamo dopo quanto tempo, rivocati dal confine per l’infermo luogo di Sarzana: tornò ammalato Guido Cavalcanti, che della infermità moriva.[102] Corso Donati, rotto il confine, andossene in Roma o in Anagni, dov’era il Papa; il perchè fu condannato nell’avere e nella persona. Gli altri dei Neri furono più tardi rimessi in patria: ma pareva loro troppa male stare; tantochè fu detto, che se Vieri dei Cerchi avesse avuto quell’animo e quella capacità che non aveva, poteva forse anche pigliare la signoria per sè; nè mancava chi a ciò lo esortasse. Laonde i principali dei Neri e i Capitani di parte guelfa e altri cittadini si radunarono in Santa Trinita, deliberati di rialzare lo stato loro comunque si fosse; ma conosciuto di non avere forze a ciò sufficienti, senza niente fare uscirono dalla chiesa. Tra essi era, benchè non fosse di loro parte ma desideroso di unità e pace, Dino Compagni, che innanzi si partissero diceva loro: «Signori, perchè volete voi confondere e disfare una così buona città? Contro a chi volete pugnare? contro a’ vostri fratelli? Che vittoria avrete? non altro che pianto.» Uscito anch’egli di Santa Trinita, andò insieme con altri Priori, facendosi mezzano perchè niuno scompiglio nascesse da quella raunata. E ciò promisero i Signori; ma quando si seppe che il conte Guido da Battifolle chiamato dai Neri s’accostava in arme, questi fu condannato in grave pena; e più che mai scoprendosi gli odii e le malevolenze d’amendue le parti, ciascuno procurava offendere l’altro. Frattanto in Pistoia, dove i Fiorentini avevano giurisdizione, per opera di rettori mandati a tal fine, con lunga offensione e atroce guerra e miserie grandi era cacciata la parte dei Neri.[103] In Lucca la casa degli Interminelli co’ loro seguaci, che teneano parte bianca e s’accostavano co’ ghibellini Pisani, credendo fare così in Lucca come i Cancellieri bianchi in Pistoia, si levarono, ed ucciso il giudice Obizzo degli Obizzi, volevano pigliare la terra; ma i Neri, essendo in maggior forza, gli oppressero e sbandirono, e molte loro possessioni arsero e disfecero. In Gubbio pure i Ghibellini aveano cacciati i Guelfi; ma questi, con l’aiuto de’ Perugini rientrati, cacciarono i Ghibellini dalla città.[104] CAPITOLO V. VENUTA IN FIRENZE DI CARLO DI VALOIS. — CACCIATA DEI BIANCHI. — ESILIO DI DANTE. [AN. 1301-1302.] «Levatevi o malvagi cittadini, pieni di scandali, e pigliate il ferro e il fuoco colle vostre mani, e distendete le vostre malizie; palesate le vostre inique volontà e i pessimi proponimenti: non pensate più; andate e mettete in ruina le bellezze della vostra città. Spandete il sangue dei vostri fratelli, spogliatevi della fede e dell’amore; nieghi l’uno all’altro aiuto e servizio; seminate le vostre menzogne, le quali empieranno i granai de’ vostri figliuoli. Credete voi che la giustizia di Dio sia venuta meno? Pur quella del mondo rende uno per uno. Guardate a’ vostri antichi, se ricevettero merito nelle loro discordie. Non v’indugiate, miseri; chè più si consuma un dì nella guerra, che molti anni non si guadagna in pace; e piccola è quella favilla che a distruzione mena un gran regno.» Con queste parole Dino Compagni, dà principio al secondo libro della sua storia, apprestandosi a narrare i tristi fatti che seguitarono per la venuta in Firenze di Carlo di Valois, che ebbe soprannome di Carlo senza terra, perchè avendo tutta sua vita cercato un regno, non l’ebbe mai. Questo principe, fratello di Filippo il Bello di Francia, era passato in Italia in soccorso del re Carlo II di Napoli alla guerra di Sicilia, allettato anche dalla speranza che il Papa a lui avea data di cose maggiori. Ma i seguaci di parte nera tanto avevano operato presso Bonifazio, mettendo innanzi che la città tornava in mano dei Ghibellini, gli Spini suoi mercatanti di tante reti lo avevano avviluppato, che appena il Valois fu disceso in Italia, lo stesso Pontefice l’aveva pregato venisse in Firenze per essere ivi arbitro e finitore delle discordie con titolo di paciero. Ma era sospetta la costui venuta molto ai reggitori di Firenze che seguitavano parte bianca; il perchè mandarono al Papa tre ambasciatori, uno dei quali fu Dante Alighieri. Molto in quei mesi poteva in Firenze l’autorità di tanto ingegno: aveva nei Consigli due volte opinato così da offendere del pari Bonifazio ed il Valois, negando al primo cento cavalli da lui chiesti, e al secondo ogni sussidio per la impresa di Sicilia. Quando si fu al mandare l’ambasciata in Roma, avrebbe egli detto queste superbe parole: «s’io vo, chi resta? s’io resto, chi va?» Andò con gli altri;[105] ed appena giunti, il Papa gli ebbe soli in camera, e disse loro in segreto: «perchè siete voi così ostinati? umiliatevi a me, ed io vi dico in verità, che io non ho altra intenzione che di vostra pace: tornate indietro due di voi, ed abbiano la mia benedizione se procurano che sia ubbidita la mia volontà.» Due si partivano, rimase Dante. Mentre era Carlo in via, gli si erano appresentati in Bologna uomini mandati dalle due parti; quelli dei Neri dichiarandosi Guelfi e fedeli della Casa di Francia; quelli dei Bianchi protestandosi del pari amici di lui, e facendogli molte profferte: nondimeno egli per allora, senza passare nè per Pistoia nè per Firenze, tirò diritto a Roma. Cadeva appunto allora in Firenze la elezione della nuova Signoria; tra gli eletti era Dino Compagni: ma gli altri pure erano uomini non sospetti e buoni, nei quali il popolo minuto non meno che i Bianchi riponevano grande fidanza; ma tuttavia troppo deboli rispetto alle presenti condizioni della Repubblica, e tali che i Neri si confidavano guadagnarseli. Accorsi a visitarli, dicevano loro: «Signori, voi siete buoni, e quali bisognavano a questa nostra città. Voi vedete la discordia dei cittadini: a voi conviene pacificarli, o la città perirà. Voi siete quelli che avete la balía. E noi a ciò fare vi profferiamo l’avere e le persone di buono e leale animo.» Rispondeva loro Dino per commissione dei suoi colleghi, e diceva: «Cari e fedeli cittadini, le vostre profferte noi riceviamo volentieri, e cominciare vogliamo a usarle: e richieggiamovi che voi ci consigliate in tal guisa, che la nostra città debba posare.» Promisero intanto accomunare gli uffici tra gli uomini delle due parti. «E così noi perdemmo il primo tempo (seguita Dino), perocchè non ci ardimmo a chiudere le porte nè a cessare l’udienza ai cittadini; diemmo loro intendimento di trattare la pace, quando si conveniva arrotare i ferri.[106]» Più di loro ne sapeva messer Corso pel suo ingegno e per la domestica educazione a maggioreggiare. Quei dabbene, usciti dal banco o dal fondaco, non erano atti a reggere lo Stato in condizioni tanto difficili, tra ’l furore delle parti, in faccia al Papa ed allo straniero. I Capitani di parte guelfa, esortati a ciò dai Priori, si diedero di buon animo a interporsi per la concordia; ma niuno gli ascoltava, anzi in quel mentre i Neri, che aspettavano la venuta del Valois, fecero deposito pel soldo di lui e de’ suoi cavalieri di settanta mila fiorini d’oro. Carlo intanto da Roma si era mosso inverso Toscana, e giunto a Siena, inviava suoi ambasciatori a Firenze, chiedendo essere quivi ammesso. I Signori, per essere il caso grande e nulla volendo fare senza il consentimento de’ loro cittadini, richiesero il Consiglio generale della parte guelfa, e le Arti divise nei settantadue mestieri, i quali tutti avevano consoli; e imposero loro, che ciascuno consigliasse per iscrittura, se alla sua Arte piaceva che messer Carlo di Valois fosse lasciato venire in Firenze come paciere. Risposero tutti, si accogliesse come signore di nobile sangue; salvo i Fornai, che dissero che nè ricevuto nè onorato fosse, perchè venía per distruggere la città. Gli furono dunque mandati alcuni autorevoli cittadini a significargli che poteva liberamente venire come paciere, purchè promettesse per lettere bollate che non intenderebbe con ciò acquistare giurisdizione sopra i cittadini, non occuperebbe veruno onore della città nè per titolo d’Impero nè per altra cagione; nè le leggi della città muterebbe, nè le usanze. Avevano pregato il suo cancelliere a distorlo dal fare l’entrata il dì d’Ognissanti, perchè il popolo minuto in tal giorno faceva festa coi vini nuovi; il che poteva dare cagione d’assai scandali. Gli ambasciatori si presentarono al principe per avere le suddette lettere bollate; che se non avessero potuto conseguirle, avevano comando di negargli il passo e la vettovaglia, quando fosse giunto a Poggibonsi. Ma egli promise tutto, e diede la lettera: «ed io la vidi, e feci copiare (soggiunge Dino), e tennila fino alla sua venuta.» E quando fu venuto, io lo domandai, se di sua volontà era scritta: rispose, sì certamente. E perchè egli camminava alla volta di Firenze con paurosa esitanza, i Neri per affrettarlo gli donarono diciassette mila fiorini. Intanto il nostro dabben Compagni con onesto e santo pensiero radunava molti buoni cittadini, oltre agli ufficiali della Repubblica, nella chiesa di San Giovanni, e con paterna effusione di cuore gli esortava ad onorare la venuta di Carlo di Valois col togliere di mezzo gli sdegni ed unirsi tutti in un sol volere, come convenivasi ai cittadini della più nobile città del mondo, ed a giurarsi buona e perfetta pace sul fonte del loro battesimo. Giuravano toccando i sacri vangeli; ma quelli stessi che mostravano piangere per tenerezza e baciavano il libro, furono poi i più ardenti nelle vendette. I Neri cercarono fin dal principio trarre profitto dalle aderenze dei Bianchi con la parte ghibellina; il che tirava addosso a questi tutto il pondo di parte guelfa. Il primo novembre 1301[107] entrò in Firenze Carlo di Valois seguíto da ottocento cavalieri francesi, ai quali poi s’aggiunsero altri quattrocento venuti a pochi per volta di Lucca, di Siena, e di Perugia e dalla Romagna, cosicchè in tutto erano 1200 all’ubbidienza sua. Fu ricevuto a grande onore e con armeggiamenti. Smontò a casa i Frescobaldi, perchè erano oltrarno, dove abitavano i grandi in luogo più facile a difendere, e segregato dalla frequenza del popolo e dalle vie strette degli artigiani che egli temeva. Attendeva intanto co’ suoi cavalieri ad afforzarsi oltrarno; il che diede ai cittadini tale sospetto che molti s’armarono grandi e popolani, ciascuno a casa de’ suoi amici, abbarrandosi la città in più luoghi. La Signoria vecchia aveva eletto quaranta cittadini d’ambedue le parti, che la consigliassero; ma costoro tutto il giorno non facevan altro che ingombrare la ringhiera, biasimare i Priori, chiedere eleggessero i nuovi prima del tempo debito; erano impaccio e non aiuto. Carlo avea fatto invito di mangiar seco ai Priori, che rifiutarono, dicendo non essere ciò ad essi lecito per le leggi: e inoltre temevano uscire di palagio, sospettando un qualche agguato, e per essere la città inquieta e in grande trepidazione. In mezzo alla quale, ed a richiesta di Carlo, dai Priori della Repubblica adunati nella chiesa di Santa Maria Novella, col Potestà e Capitano, col Vescovo e molti dei più spettabili di Firenze, gli fu data balía di pacificare i Guelfi insieme.[108] Giurò, e come figlio di re promise conservare la città in pacifico e buono stato; ma incontanente fece il contrario. In questo mentre erano tornati da Roma i due ambasciatori con le parole del Papa; al quale bramavano taluni almeno della Signoria ubbidire, scrivendo a lui ma segretamente per la paura dei Neri, mandasse in Firenze per addirizzare la città un messer Gentile da Montefiore cardinale. Da Roma scriveano che gli ambasciatori erano d’accordo col Papa; laonde i Neri temendo per quelle pratiche una qualche mutazione, si ponevano dal canto loro sulle difese. La Signoria ordinava processione e preghiere a fine di allontanare la tempesta, che altri avrebbe voluto affrontare. Si provarono a mandar fuori bandi e leggi rigorose, ma non si ardivano farle eseguire. Intanto quelli di parte nera andavano dicendo: «noi abbiamo un signore in casa, il Papa è con noi; gli avversari nostri non sono guerniti nè da guerra nè da pace; danari non hanno, i soldati non sono pagati.» A questi pensieri consentiva molta parte del popolo, ansiosa di cogliere quella occasione a fare una buona cacciata di nobili, e assicurarsi per l’avvenire. In tale baldanza i Neri prendevano le armi; e primieramente i Medici potenti popolani, dopo l’ora di vespro assalivano e ferivano a morte un valoroso uomo di popolo. La moltitudine allora s’armava a piede e a cavallo; la Signoria comandava che venissero fuori le schiere del Comune; e queste, sebbene parteggianti in segreto pei Neri, venivano e spiegavano le loro bandiere; ma non vi era chi confortasse la gente che si accogliesse al palagio dei Signori, quantunque il gonfalone della giustizia fosse alle finestre. Solamente quei soldati che non erano corrotti, con alcuni altri cittadini convenuti più per curiosità che per zelo, stavano in armi attorno al palagio. I Signori, non usi a guerra, attendevano a dare udienze; e frattanto cadeva il giorno. Il Potestà, invece d’andare com’egli doveva in armi alla casa dei malfattori, lasciava i Priori nelle peste: il popolo era senza consiglio: lo stesso Capitano nulla faceva. Venuta la notte, la gente si ritrasse, e ciascuno asserragliò le vie che menavano alle proprie case. Manetto Scali, in cui parte bianca poneva grande fidanza perchè era potente di amici e di seguito, afforzò le sue case con edificii da lanciar pietre: gli Spini, di parte nera, che avevano il loro grande palagio incontro al suo, ed eransi gagliardamente premuniti, dissero agli avversari con finta amistà: «deh! perchè facciamo noi così? noi siamo pure amici e parenti, e tutti Guelfi: noi non abbiamo altra intenzione che di levarci dal collo la catena che il popolo ha posto a voi e a noi. Perdio, dunque siamo uniti tra noi, come dobbiamo essere.» Egualmente parlarono i Buondelmonti ai Gherardini, i Bardi ai Mozzi, l’istesso molti altri; sicchè i contrari si ammollarono, ed i seguaci loro invilirono. I Ghibellini, ciò vedendo, si crederono traditi da quei medesimi guelfi bianchi nei quali fidavano, e presso che tutti si ritrassero da parte. I baroni di Carlo intanto stavano attorno ai Signori, facendo istanza perchè loro dessero la guardia della città. Ebbero soltanto quella del sesto d’oltrarno, dopochè Carlo ebbe giurato per mezzo de’ suoi, cancelliere e maresciallo, l’avrebbe tenuta a petizione della Signoria. Ma questa, smarrita, non sapeva a qual risoluzione appigliarsi; gli confondevano le novelle varie che a loro giungevano, ogni rimedio andava a vuoto: chiamarono alle armi gli uomini del contado; ma essi, devoti al nome guelfo ed al Papa, spiccavano le insegne dalle aste e gli tradivano. Mentre i Francesi davanti ai Priori giuravano della loro osservanza e lealtà, fattosi giorno, si sparge voce che per chiamata di Carlo stesso, Corso Donati, seguíto da molti amici a cavallo è presso a Firenze: ed egli infatti giunto a’ sobborghi della città, trovate chiuse le porte delle vecchie mura, se n’era venuto a porta a Pinti allora vicina alle sue case; e questa coll’aiuto de’ seguaci suoi aveva sforzata. Entrato in città, fece testa sulla piazza di San Pier Maggiore, ed afforzò il campanile della stessa chiesa: dentro alla quale egli ed i suoi mangiarono ritti. Sbaragliati pochi Bianchi che s’erano a lui parati dinanzi, trasse a dare il sacco ed a bruciare le case degli antichi Priori che lo avevano sbandito: corse dipoi alle carceri del Comune, e apertele a forza, liberò i prigionieri; indi al palagio del Potestà ed alle stanze dove risiedevano i Priori, i quali costrinse ad abbandonare il seggio e tornarsene alle case loro. I Francesi tuttavia non si ristavano dalle solite protestazioni, e che il principe farebbe la vendetta grande, e per nulla toccherebbe la Signoria del Comune. Carlo si fece dare in custodia i più ragguardevoli di ambedue le parti; ma tosto i Neri lasciò andare, e i Bianchi ritenne prigionieri quella notte senza paglia e senza materasse come uomini micidiali. Grida sdegnosamente il Compagni: «o buon re Luigi, che tanto temesti Iddio! ov’è la fede della real Casa di Francia? O malvagi consiglieri, che avete il sangue di così alta Corona fatto non soldato ma assassino, senza vergogna![109]» Avevano i Priori (o altri che fosse) fatto suonare a stormo la campana grossa del loro palagio; ma invano, perchè la gente sbigottita non trasse fuori: di casa Cerchi non uscì uomo a cavallo nè a piè armato: due soli degli Adimari co’ loro congiunti vennero al palagio; ma non vedendo altri, retrocessero, rimanendo la piazza deserta. La sera stessa, alcuno credette vedere una croce rossa appesa al palagio della Signoria, segno dell’ira divina. Allora i malfattori e sbanditi ch’erano nella città, inanimati dal vederla senza difesa nè signoria, mettono a ruba i fondachi e le botteghe, ardono le case dei loro nemici, feriscono e uccidono i migliori della parte bianca. Chi temeva gli avversari, si ricoverava, o nascondeva la roba nelle case degli amici: i Neri potenti estorcevano danari ai Bianchi; maritavansi le fanciulle a forza. Messer Carlo di Valois nè sua gente non pose riparo, nè attenne sacramento nè alcuna delle cose promesse da lui. Sei giorni durò questo malfare nella città; quindi per altri otto, masnade armate si spargevano d’intorno, mettendo a sacco e a fuoco le case, onde molto numero di belle e ricche possessioni furono guaste. Quando una casa ardea forte, Carlo domandava: «che fuoco è quello?» eragli risposto, che era una capanna, quando era un ricco palagio: il contado ardeva d’ogni parte. I Priori invano pregarono per Dio molti dei popolani potenti che avessero pietà della città loro; i quali niente ne vollero fare. Vennero ad essi a tempo rotto sostituiti altri Priori di parte nera, da continuare nell’ufficio insino a’ quindici di dicembre. Corso Donati, che dal Compagni è detto crudele più di Catilina, adunò in quel saccheggio molto tesoro a danno dei Cerchi e loro amici: quando passava per la terra, la plebe gridava: «Viva il barone!» e pareva la terra sua. Carlo, signore di grande e disordinata spesa, fece richiedere di danari gli antichi Priori aggiungendo le minaccie; ma non ne diedero; perchè tanto crebbe il biasimo per la città, che egli lasciò stare. Fece pigliare un ricco popolano, il quale lo aveva ricevuto e molto onorato ad un suo bel luogo quando andava ad uccellare co’ suoi baroni, e gli pose di taglia 4000 fiorini, o lo manderebbe prigione in Puglia; pure a preghiera di amici lo lasciò per fiorini ottocento: e per simile modo ritrasse molti danari dai cittadini. Grandissimi mali fecero i Rossi ed i Tornaquinci; alcuni dei Bostichi presero a guardare pel prezzo di cento fiorini i beni di un loro amico ricco popolano, e poichè furono pagati, li posero a ruba essi stessi: questi Bostichi davano la corda agli uomini in casa loro, le quali erano in Mercato Nuovo nel mezzo della città, e di mezzo dì li mettevano al tormento. A molti pupilli fu tolta la roba, a molte vergini l’onore: molti innocenti, dannati a pagare mille fiorini sotto pretesto che avessero fatto congiura, erano poi cacciati dalla città. Molti nascosero in luoghi segreti i loro tesori: non pochi dei Bianchi, antichi Ghibellini, si accordarono coi Neri per ingegno di malfare; molti in pochi giorni mutarono lingua. I vecchi Priori furono svillaneggiati e calunniati, perchè cessero senza combattere; ma la colpa fu dei Cerchi (questo scrive Dino), i quali per avarizia e per viltà non fecero difesa o riparo contro i loro nemici:[110] e a chi ne li riprendeva, rispondeano che temevano le leggi; quando invece se n’erano stati per non avere a mantenere i fanti. Infine gli incendi e le ruberie cessarono: il Valois d’accordo con la Signoria prese a raffrenare alcuni popolani di parte nera. E in quel mese stesso di novembre giunse di nuovo a Firenze come legato del Papa il Cardinale di Acquasparta coll’intendimento di pacificare i cittadini: co’ matrimoni cercò riunire parecchie famiglie; ma volendo anche rendere comuni gli ufficii alle due parti, ed opponendosi acciò i Neri spalleggiati dal Valois, se ne partì non meno irato dell’altra volta. Il giorno di pasqua di Natale Niccolò de’ Cerchi, nell’andare ad una sua possessione con sei famigli ed un figlio giovinetto che era in capelli a testa scoperta, passando per la piazza di Santa Croce nel tempo che un frate vi predicava, s’abbattè in Simone Donati figlio di Corso e nipote di Niccolò dal lato di madre, che avea seco alcuni amici a cavallo. Simone allora spinto da infernale pensiero lo insegue, lo assale, lo rovescia da cavallo e lo uccide segandogli le vene; perchè messer Niccolò abbandonato da’ suoi, che solo pensano a scampare il figlio, non s’aspettava ciò dal nipote. Ma non andò questi senza punizione, perchè l’assalito gli avea menato un colpo mortale in un fianco, del quale Simone anch’egli spirava la notte seguente nella chiesa di San Piero. Prima di morire, pentito pregava il padre ed i suoi si rappacificassero co’ Cerchi. Grande fu il lutto di messer Corso per la morte di quel giovane: egli era il primo di Firenze per cortesia e valore, in lui ogni speranza del padre e della casata. Il Valois intanto era andato in Roma a domandare danari al Papa; ma questi gli rispose: io ti aveva mandato alle fonti dell’oro; se non ti sei cavato la sete, tuo danno. Chi guardi addentro in queste brutture, dirà le fazioni averne avuto la prima colpa, Carlo ed il Papa l’odiosità, rei sopra ogni altro quelli che trassero nella patria loro un principe forestiero con la sua corte e le masnade; dirà il contegno del Valois quale potevasi attendere da un venturiero, errore grave di Bonifazio in quei fatti essersi ingerito. Cercava riunire in un sol fascio la parte guelfa; e al più ambizioso dei pontefici doveva gradire l’idea vagheggiata da molti suoi predecessori, di farsi arbitro della Toscana: ma infine Bonifazio VIII, come aveano fatto Gregorio X e Niccolò III, mandò un legato a fare opera di conciliazione; ed il Cardinale d’Acquasparta, se prima aveva protetto i Neri, gli avversò poi quando le violenze più atroci stettero dalla parte loro. Dante accusava il principe francese presente e complice, quando egli fu bandito; e con le roventi parole ond’egli macchiò Bonifazio, gli fece peggio che non gli facesse in Anagni più tardi il fratello di questo Valois. Quali motivi personali avesse Dante a sì fiero odio contro a Bonifazio, quel che avvenisse mentre egli rimase in Roma ambasciatore o nella dimora che ivi protrasse fino al gennaio dell’anno seguente, noi non sappiamo. L’esiglio non venne a lui dal Papa, ma in quel tempo tra loro due qualcosa d’oscuro dovette nascere, che da un lato accese in patria contro lui tante ire, dall’altro gli aveva confitte nel cuore di quelle offese che sono dure a ricordare, ma vendicarle pareva dolce all’iroso animo del poeta. In quei giorni venne a luce una congiura, o vera o falsa che fosse, della parte bianca con un certo barone francese chiamato Pier Ferrante di Linguadoca[111] per ammazzare Carlo di Valois tornato allora in Firenze. Laonde questi, radunato la notte un consiglio segreto di pochi cittadini, trattò con essi di prendere certi creduti colpevoli e fare loro mozzare il capo. Mandarono subito a cercare due Adimari padre e figlio e Manetto Scali: ne andarono in traccia nei contorni di Firenze, forando con ferri anco la paglia dei letti; ma non si trovarono, perchè del consiglio taluni si erano allontanati a procurare che i nominati nell’accusa avessero agio allo scampo. Giano de’ Cerchi figlio di Vieri, sostenuto nel palagio da Carlo per averne danari, ebbe modo di fuggire: i beni di tutti questi andarono al Comune, dal quale ebbe Carlo ventiquattromila fiorini d’oro. Continuarono le condanne tutto il tempo che il Valois dimorò in Firenze, e fu insino ai 4 d’aprile, essendo allora Potestà messer Cante dei Gabbrielli da Gubbio, uno di quei cavalieri i quali vennero dietro a Carlo; e si protrassero le condanne anche poi nei seguenti mesi. Tra’ condannati fu Dante Alighieri: abbiamo la prima sentenza contro lui e tre altri, data ai 27 gennaio, per la quale era egli dannato a pagare cinquemila fiorini d’oro ed al confine. Dante era di Roma venuto in Siena, dove lo colse la prima sentenza; la quale, per non essere egli comparso in giudizio, fu aggravata con altro bando, che a’ 10 marzo ordinava gli fossero tolti gli averi, disfatte le case ed egli stesso bruciato vivo qualora avesse rotto il confine: fu poi compreso in quella condanna generale che si trova pronunziata il giorno stesso della partenza di Carlo. Per questa Cante de’ Gabbrielli condannava di nuovo le antiche famiglie dei grandi ghibellini, e sbandiva e confinava molti dei Cerchi, dei Cavalcanti e degli Scali, ed alcuni degli Adimari e dei Mozzi, e uomini d’ogni qualità e grado, in tutto seicento, dei quali i nomi a noi rimangono.[112] Tra questi era ser Petracco di Parenzo dall’Incisa, stato cancelliere della Repubblica e notaio delle Riformagioni, cui nacque in esilio Francesco Petrarca. Da prima richiesti e non comparsi, ebbero da Cante de’ Gabbrielli condanna, per la quale andarono stentando la vita per lo mondo chi in qua e chi in là. Furono i beni loro messi in comune, le case disfatte;[113] e delle pietre di quelle si trova che fossero edificate le nuove mura della città di Firenze: non gli salvarono parentele antiche o recenti maritaggi. Dipoi, mentre andavano i Fiorentini e i Lucchesi contro a Pistoia difesa francamente da uno degli Uberti, in Firenze per altre carnificine altri erano sostenuti e torturati e decollati. Il che più volte si ripeteva nel seguente anno 1303, Folcieri da Calboli essendo in Firenze Potestà, e potentissimo presso i Neri messer Musciatto Franzesi ricco banchiere fiorentino, principale uomo presso i re di Francia.[114] CAPITOLO VI. PACE TENTATA DAL CARDINALE NICCOLÒ DA PRATO. — INCENDIO IN FIRENZE. — ASSALTO DEI FUORUSCITI. — MORTE DI CORSO DONATI. [AN. 1303-1308.] Il governo di Firenze per la cacciata dei Bianchi era venuto alle mani di quelle famiglie, sia di grossi mercatanti o sia di nobili fatti popolani, che si appellavano Guelfi neri e si tenevano Guelfi puri. Capi erano di quella parte i Della Tosa e i Brunelleschi, famiglie di grandi, e Geri Spini gran mercatante e i Pazzi, diversi verisimilmente o separati da quei di Valdarno: v’erano di grandi i Buondelmonti, i Pulci, i Tornaquinci, i Bardi, i Rossi, i Nerli e parte dei Gianfigliazzi e dei Frescobaldi. Vi erano di quelle famiglie di grossi mercanti che primeggiarono dipoi sempre nella città e con altre sorte dal popolo via via formarono la nobiltà nuova, Magalotti, Mancini, Peruzzi, Antellesi, Baroncelli, Acciaiuoli, Alberti, Strozzi, Ricci, Albizzi, Rucellai, Altoviti, Aldobrandini, Bordoni, Cambi, Medici, Giugni ed altri. Corso Donati era con essi e soprastava per alto animo, per grandi fatti e grande seguito; più ambizioso che partigiano, male soffriva consorteria, ed era egli uno di quegli uomini che fanno il male tutt’ad un tratto, ma poi sdegnano le basse arti ed i raggiri delle fazioni. La schiatta e l’indole e i costumi lo inclinavano verso i grandi; «pratico e domestico di nobili uomini e famoso per tutta Italia;[115]» amato era anche dall’intima plebe usata vivere nella dipendenza dei grandi signori, e che più ha in odio le mezzanità. Quei nuovi uomini la opprimevano con gli smodati balzelli, e perfino si diceva che alterassero le farine e molto avessero guadagnato su’ prezzi del grano venuto da fuori per la carestia che fu in quegli anni; cosicchè il grido era, che si rivedessero le ragioni del Comune. Corso Donati aveva seco Lottieri vescovo di Firenze, consorto ma nemico a messer Rosso Della Tosa, che aveva lo Stato; e così la parte contraria ebbe nome di parte del Vescovo, la quale cercava col mutare il reggimento, rimettere i Bianchi. Al modo solito era guerra in molti luoghi della città: furono armate le torri, ed in su quelle del vescovado stava rizzata una manganella per gittare ai vicini. Corso andò una volta in arme con molti all’assalto del palagio; durava la zuffa più giorni. Era il febbraio del 1304, e grave pericolo avrebbe corso la città se il Comune non avesse mandato per aiuto ai Lucchesi, i quali subito vennero a Firenze in grande numero popolani e cavalieri. Fu data loro piena balía, ed essi la esercitarono per sedici giorni, finchè a certi Fiorentini essendone parso male e grande oltraggio ed offesa, ciò diede occasione a nuovi ripetii:[116] con tuttociò le cose quietarono per allora, e fu eletta la Signoria nuova. Era morto Bonifazio VIII dell’insulto avuto in Anagni per mandato di Filippo il Bello re di Francia, e del quale era stato orditore Musciatto Franzesi dal suo castello di Staggia presso Poggibonsi. Il nuovo papa Benedetto XI con buona intenzione mandò in Firenze paciere il cardinale Niccolò da Prato dell’ordine de’ Predicatori, uomo a que’ tempi assai rinomato e d’origine ghibellino. Giunse egli nel marzo, ed ebbe dal popolo balía per un anno con l’autorità di potere costringere i cittadini alla pace, la quale fu fatta da principio con grande festa e suonare le campane; ma non però tutti la volevano. Il vero popolo la desiderava; ma i grassi popolani e i grandi che reggevano lo Stato, forte temevano il ritorno dei fuorusciti fatti ribelli, dei quali occupavano le possessioni. Il Cardinale rinnovò l’ordine delle Compagnie armate del popolo, come erano state a tempo degli Anziani: rimase quell’ordine e fu maggior forza alla parte popolare. Di più, egli fece venire quattordici fra i caporali dei fuorusciti bianchi e ghibellini per trattare con loro d’accordo: venuti, alloggiarono in casa i Mozzi dove stavano rinchiusi da sbarre per non essere offesi: i Ghibellini di dentro aveano frattanto levata la testa, e alcuni di plebe furono visti baciare le armi degli Uberti. I Guelfi erano tra sè divisi: ma taluni dei principali fecero di nascosto dire ai quattordici caporali che si partissero, perchè altrimenti avrebbero il grosso del popolo contro; e quelli sgombrarono. Dopo di che il Cardinale fu consigliato fare una mossa inverso Pistoia, e rappacificare quella terra sempre più feroce d’ogni altra nelle parti cittadine. Ma trovò gli animi troppo duri; e a Prato istessa patria sua i Guazzalotri che ivi dominavano, istigati dai reggitori di Firenze, se gli voltarono contro e cacciarono i parenti di lui che sdegnato bandiva la croce addosso a Prato. Faceva poi da Firenze muovere le armi contr’essa; ma quella radunata di milizie diede nuovi sospetti, ed egli essendo minacciato in casa e veggendo fallato lo scopo cui era venuto, si partiva di Firenze ai 4 giugno, dopo avere dannato i cittadini all’interdetto. In mezzo a queste perturbazioni un fatto lugubre aveva lasciato molto gli animi atterriti. A festeggiare il Cardinale da Prato, che era in amore dei cittadini quando speravano per suo mezzo d’avere concordia, si fecero per calendimaggio a gara l’una contrada dell’altra le usate allegrezze, «come al buon tempo antico.» Infra gli altri, quelli di Borgo san Frediano pensarono un gioco, ma odioso molto e spaventevole: mandarono un bando che chiunque volesse sapere novelle dell’altro mondo dovesse quel dì essere in sul ponte alla Carraia e d’intorno all’Arno: quivi su barche e navicelli avevano fatta come una figura dell’inferno con fuochi ed altre sembianze di tormenti, e uomini contraffatti a demoni orribili a vedere e anime ignude messe a quei martorii con tempesta di strida grandissime. Era il ponte alla Carraia allora di legname da pila a pila; talchè per la gente che vi trasse si caricò tanto, che rovinò in più parti e cadde con quelli che v’erano sopra. Molti vi annegarono o si guastarono le persone, molti (come per beffa era ito il bando) andarono morti a sapere novelle dell’altro mondo, con grande pianto e dolore di tutta la città, che ognuno credette avervi perduto il figlio o il fratello.[117] Per le paci fatte dal Cardinale da Prato erano tornati e rimanevano in Firenze alcuni dei Bianchi; tornarono quelli che professavano mantenersi Guelfi, il che volea dire stare col popolo delle Arti e non permettere che i grandi rompessero gli ordini posti contro a loro. Si trovò pertanto, partito appena il Cardinale, grande in Firenze la possa dei Cavalcanti, dei Gherardini e dei Cerchi: di questi, Vieri pare non fosse tornato in Firenze. Andò in Arezzo dopo l’esiglio e pubblicò avviso, che chiunque avesse ad avere da lui, mandasse là e sarebbe pagato cortesemente: dicesi che pagò più di 80 mila fiorini.[118] Ma la fortezza dei ritornati era nelle case dei Cavalcanti presso a Mercato Nuovo, dove oltre a quelle che abitava la famiglia loro assai numerosa, molte ne avevano all’intorno; e i quattordici caporali prima di partirsi aveano fatto consiglio di ridursi in quelle case dei Cavalcanti e quindi combattere. Ma non furono voluti ricevere, perch’era tra essi uno degli Uberti con altri spacciati Ghibellini, ed i Cavalcanti anch’essi odiavano quella parte. Ora dunque di là cominciava la mischia: non fece alcuna mossa Corso Donati perchè era infermo di gotta, e per lo sdegno preso contro ai capi della parte nera. I Medici e i Giugni primi assalirono i Bianchi: ma questi, bene sostenuta la battaglia, prevalsero tanto co’ loro seguaci, che si distesero per Mercato Vecchio fino a San Giovanni senza contrasto. Era cresciuta ad essi la forza dalla città e dal contado; molta gente del basso popolo gli seguiva, e i Ghibellini per la meglio si accostavano a loro: di campagna erano venuti quei da Volognano signori di castella, co’ loro amici; si disse, più di mille fanti. Pareano allora i Neri sul punto d’essere cacciati, quando ser Neri Abati, priore di San Piero Scheraggio, quello che noi già vedemmo gridato reo d’avvelenamento, parente a quel Bocca traditore che avea fatto cadere a terra in Monte Aperti la bandiera guelfa, per accordo fatto co’ Neri appiccò il fuoco alle case di altri Abati: era fuoco lavorato, a quel che dissero; ed in altri luoghi da altri fu appiccato nel tempo stesso. Le fiamme in poco d’ora da Mercato Vecchio si estesero in Calimala; e con empito e furia col conforto della tramontana, e per l’alimento che loro porse la fusione di certe immagini di cera appese alla nostra Donna ch’era nella loggia di Orto San Michele, in quel giorno distrussero oltre le case degli Abati quelle dei Caponsacchi, degli Adimari, Toschi, Lamberti, e moltissime altre; non che le botteghe di drappi di Calimala, tutte quelle attorno a Mercato Vecchio sino a Mercato Nuovo, e le case dei Cavalcanti, dei Gherardini, dei Pulci, degli Amidei, degli Amieri. L’incendio si distese da Vacchereccia per la strada di Por Santa Maria fino al Ponte Vecchio: giunse fin presso al Palagio della Signoria, distrusse quello del Capitano e la torre dov’era la campana, che ruinò con grande fracasso. Il danno di arnesi, tesori e mercatanzie fu senza misura, perchè in quei luoghi erano quasi tutte le merci e cose care di Firenze. Inoltre la città fu posta a ruba dagli armati, poichè mentre le case ardevano si combatteva in più parti. I malandrini pubblicamente correvano tra le fiamme rapinando ciò che potevano arraffare; nè alcuno attentavasi a ridomandare il suo, chè ognuno paventava di peggio, e tutti tremavano. Il Potestà con molti soldati venne in Mercato Nuovo, ma non fece alcuna difesa, nè prestò aiuto: guardavano il fuoco, e standosi a cavallo davano impedimento ai pedoni e a chi tentava soccorrere. In quel giorno, che fu a’ 10 di giugno 1304, si trova che oltre a 1700 case fossero guaste: erano anguste generalmente, molte famiglie avendo più case attigue pei figli che via via si ammogliavano.[119] Per quell’incendio furono abbassate molto le antiche famiglie le quali tenevano il primo cerchio, o (come scrivono) il _midollo_ e _torlo_, della città di Firenze, quasi tutto arso e devastato. Nè credo io per questo che un pensiero neroniano spingesse con animo deliberato la nuova gente a disfare il nido dove buon numero degli antichi grandi avevano stanza; ma certo è che allora ogni signoria di nobili può dirsi che fosse interamente diradicata, e i nuovi ordini assodati. Dentro alle città ed in Firenze massimamente erano come due campi nemici: molto importava la postura dei caseggiati dove le schiatte viveano co’ loro consorti ed attorniate dai loro dipendenti, difese da torri che si guardavano l’una l’altra così fattamente che la vicinanza spesso faceva nascere le amicizie come le inimicizie; certi quasi direi punti strategici atti al difendersi o all’aggredire faceano la forza d’alcune famiglie. Quegli tra i grandi che vennero ultimi si posero oltrarno; e possenti pei commerci, e uniti tra loro, vedremo più tardi che guerra facessero. Ma qui nel centro del primo cerchio erano le case di molti più vecchi e già scaduti signori, in mezzo a cui stavano alcuni dei più recenti che si avevano procacciata grandezza col farsi Guelfi. I più di questi erano divenuti Bianchi; e primi tra essi rimaneano i Gherardini, grandissimi in contado; e soprattutti i Cavalcanti,[120] perchè oltre a’ castelli e alle possessioni aveano gran numero di case in Firenze: quindi è che l’assalto andò contro a loro più direttamente. Aveano essi da principio voluto correre e metter fuoco alle case dei nemici, ma la parte loro gli ritenne. Patirono danni maggiori d’ogni altro per la molta entrata di pigioni che aveano in quel luogo frequentatissimo di botteghe, e furono con gli altri fatti ribelli dopo al fuoco. Del popolo molti aveano patito gravissimi danni, ma nulla fu a petto della gran percossa ch’ebbero i nobili; i quali divisi tra loro, non che provarsi in quel disfacimento a rompere gli ordini della giustizia, ciascuna parte s’abbracciò col popolo per mantenersi quanto oramai fosse possibile in istato. E qui, anticipando di poco i tempi, diremo altre ruine dei Cavalcanti; i quali essendosi afforzati in certi loro castelli di Val di Greve e di Val di Pesa (che uno, il più forte, avea nome delle Stinche), il popolo uscito gli assaltò e disfece; e perchè i prigionieri menati in Firenze furono chiusi dentro ad un carcere di nuovo fabbricato, questo pigliò nome di carcere delle _Stinche_; nome che durava fino ai giorni nostri. Feroci tempi, nei quali vivere più non sapevano in città divisa altro che vinti nella oppressione, o vincitori con prepotenza; quindi la parte troppo sovente stava in luogo della patria, che pure amandola disfacevano a solo fine di possederla, o costretti erano di abbandonarla. Fin qui esponemmo le sorti dei Bianchi tornati in Firenze perchè volevano rimanere Guelfi: rifacendoci ora un poco indietro, diremo degli altri. Dopo l’esilio i fuorusciti, avuto in Siena dubbioso favore, s’erano la maggior parte raccolti in Arezzo, città ghibellina e che aveva per Potestà un uomo molto possente e riputato nella sua parte, Uguccione della Faggiola, signorotto d’uno tra’ castelli frequenti allora nei più alti gioghi dell’Appennino. Quivi dimorarono oltre ad un anno i fuorusciti, e sotto l’ombra di Uguccione essendosi data forma di governo regolare, elessero loro capitano Alessandro da Romena dei conti Guidi, e intorno a lui dodici consiglieri, uno dei quali fu Dante. Ma si era Uguccione in quel tempo rappacificato col papa Bonifazio VIII; laonde i Bianchi d’Arezzo fecero capo a Scarpetta degli Ordelaffi, signore in Forlì, che aiutandosi d’una Lega possente in Romagna avea messo insieme quattro mila fanti e settecento cavalli; ai quali aggiugnendosi i fuorusciti, deliberarono insieme uno sforzo contro la Toscana. Aveano per loro gli Ubaldini di Mugello; nel quale entrati assalirono il castello di Puliciano, ma con successo infelicissimo, perchè molti dei loro essendo morti o presi, questi ultimi ebbero iniquo supplizio dal crudele Potestà dei Fiorentini; i quali avevano rinnovata contro ai ribelli la taglia o lega con gli amici Guelfi di Toscana.[121] In questo mezzo, quattordici della parte dominatrice in Firenze erano stati da Benedetto XI citati a comparire in Perugia dinanzi a lui, per quivi purgarsi della rifiutata pace e delle minaccie fatte al Cardinale da Prato e dell’incendio. Corso Donati, benchè si fosse tenuto di mezzo, andò con essi; andarono messer Rosso della Tosa, Geri Spini, Betto Brunelleschi ed altri, con grande accompagnamento: ma sopravvenne la morte di quel buon Pontefice; di che fu gran pianto, e uscirono gravi e lunghi danni alla cristianità. Intanto però i fuorusciti, pigliato animo dallo sdegno del Papa contro ai Caporali di Firenze e dalla assenza di questi, s’erano acconciati co’ Ghibellini di Pisa e con Tolosato degli Uberti che era Capitano allora in Pistoia. Gli Uberti, rubelli da quarant’anni della patria loro e che non aveano quivi trovato mercede nè misericordia, non s’abbassarono però mai, e fuori tennero grande stato praticando con re e con signori quanto potevano per la parte loro.[122] Si erano i Pisani avanzati fino a Marti; muovea Tolosato da Pistoia con trecento cavalieri; quei di Forlì, capitanati dal Baschiera dei Tosinghi,[123] giovane ardito che avea seco 1200 uomini d’arme a cavallo e molti aiuti di Bolognesi, Romagnuoli, Aretini, scendendo giù per l’Appennino, inopinatamente furono alla Lastra sopra Montughi presso a Firenze due miglia. Nella città era malferma ogni cosa: i reggitori, non sapendo bene quali avessero amici o nemici, diceano parole umili, e spargevano essere giusto richiamare gli sbanditi. Se quei della Lastra facevano impeto, entravano forse nella città sprovveduta, dalla quale erano taluni usciti a confortarli facessero presto. Ma indugiarono quella notte per aspettare l’Uberti, che da Pistoia veniva per l’Alpe co’ suoi cavalieri e molti soldati a piede. Poichè non lo vedevano comparire, allo spuntare del giorno 20 luglio, il Baschiera dei Tosinghi, vinto da volontà più che da ragione, come giovane, vedendosi con bella gente, si cacciò innanzi ed entrò nei borghi di San Gallo senza contrasto, chè allora non erano fatte le mura nuove nè i fossi, e le vecchie, schiuse e rotte in più parti. Ruppero un serraglio, del quale gli Aretini trassero il chiavistello e per dispetto portato ad Arezzo lo posero nella loro maggior chiesa. I Bolognesi erano rimasti alla Lastra, forse perchè a’ Guelfi ch’erano tra loro non piacea l’impresa. Ma gli entrati, che furono oltre a 1200 cavalieri con molto popolo di contadini che gli avevan seguitati, si schierarono in sul Cafaggio presso alla chiesa dei Servi e fino a quella di San Marco, con le insegne bianche spiegate e con le spade ignude e rami d’ulivo gridando Pace. Il caldo era grande, sicchè parea che l’aria ardesse, e il luogo mancante d’acqua per loro e pe’ cavalli. Alcuni de’ più bramosi fuorusciti venuti alla Porta che si chiamava degli Spadai, la ruppero, entrando con parte della loro gente fino presso alla piazza di San Giovanni: e se la schiera grossa gli seguitava, quel dì avrebbono avuto vittoria: imperocchè molti nella città gli aspettavano: ma poichè seppero che insieme con gli usciti Guelfi bianchi era gran forza di Ghibellini di Toscana e fuori, nemici antichi della città, si mutarono per odio di quel nome e per temenza d’essere poi cacciati e rubati, se in loro favore si fossero discoperti. Cotesti più degli altri si mostrarono vivi alla difesa per non parere colpevoli; e così forse dugento cavalieri e cinquecento pedoni raccoltisi intorno a San Giovanni rispingeano fuori della porta gli avversari, quando avvenne che ardesse per fuoco messovi un palagio presso alla porta; e il fuoco cresceva. Quelli della schiera grossa rimasti in Cafaggio si crederono traditi, e già fiaccati dalla sferza del sole e dalla sete, e avendo sentito che i Bolognesi al primo annunzio di mala riuscita si erano partiti dalla Lastra; tutti si misero in fuga, gettando l’armi senza assalto o caccia di cittadini, che quasi non uscirono loro dietro. Tolosato degli Uberti scontrati in Mugello i primi fuggenti cercò ritenerli, ma fu invano. Nella disordinata fuga, molti trafelarono, e molti presi furono impiccati nella piazza di San Gallo e sugli alberi per la via. Tale fine ebbe quella impresa, dopo alla quale i fuorusciti si dispersero tra’ Ghibellini cercando rifugio. La sorte istessa toccò a Dante, sebbene dobbiamo tenere per certo non essere egli venuto con gli altri contro a Firenze,[124] biasimando quella mossa, e fin da principio avendo tenuto in piccola stima i Bianchi, tra’ quali gli accadde avvolgersi perchè i contrari gli parevano essere peggiori. Disdegnò il nome di ghibellino ed a sè fece parte da sè stesso, non avendo egli dove posare, in mezzo ad un secolo insano e sconvolto, la vita misera nè il pensiero. Pistoia era sempre in mano dei Bianchi o piuttosto dei Ghibellini; e Tolosato degli Uberti, che n’era Capitano, avea favore dagli Aretini e dai Pisani e dai Bolognesi. Laonde i Fiorentini co’ Lucchesi deliberarono di muovere contro a Pistoia grande guerra; ma la città essendo ben munita di mura e di fossi, pigliaron partito di tenerla stretta per assedio buona pezza. Dipoi elessero loro capitano a quella impresa Roberto duca di Calabria primogenito del re Carlo secondo di Napoli; e quegli nel mese d’aprile 1305 venne in Firenze con molta baronia di cavalieri Aragonesi e Catalani a quivi pigliare il bastone del comando. S’accendeva la guerra allora viepiù feroce: i Pistoiesi uscendo fuori veniano spesso alle mani co’ nemici; nella città era difetto di viveri; i governatori della terra mandavano fuori fanciulli e poveri e donne di bassa condizione, ma gli assedianti facevano agli uomini tagliare i piedi e alle femmine smozzicare il naso. Gli usciti di Pistoia che conosceano le donne dei loro nemici, più imbestiavano nel vituperarle; ma il Duca molte ne difese, maggior pietà essendo negli uomini di guerra che nei parteggianti. Clemente V, che era successo a Benedetto XI, persuaso dal Cardinal da Prato, mandò in Firenze nel mese di settembre due suoi Legati a comandare si levasse l’oste da Pistoia sotto pena di scomunica; e tosto il Duca partitosi dall’assedio, si recò in Francia dove il Papa dimorava: ma i Fiorentini disubbidirono al comandamento. Crescevano intanto le difficoltà e le spese, per il che ordinarono una gravezza o taglia, che si chiamò la Sega, sopra i Ghibellini o Bianchi, i quali dovevano pagare ogni dì tanto per testa; chi tre lire, chi due, chi una, secondo che parea loro potesse ciascuno sopportare; fossero al confine o in città rimasti, doveano pagarla. E a tutti i padri che aveano figli atti alle armi imposero altra taglia, se questi tra venti dì non si appresentassero nell’oste. Molti contadini furono costretti militare senza soldo. Fra queste miserie passò l’inverno. Ai Pistoiesi, ridotti agli estremi, speranza sola era la disperazione; quando accostatosi alla città il cardinale Napoleone degli Orsini legato del Papa, i Fiorentini si consigliavano finalmente venire ai patti. Pistoia si arrese il 10 aprile 1306, salve le persone. I vincitori guastarono le muraglie della città, che erano bellissime; il contado andò diviso tra’ Fiorentini e i Lucchesi, i quali partirono tra loro altresì la signoria di Pistoia; chè i primi vi mandarono il Potestà, e i secondi il Capitano. L’esercito tornò a Firenze, dove coi festeggiamenti consueti fu celebrata una vittoria tardi acquistata e crudamente.[125] Allora voltatisi a fortificarsi contro gli Ubaldini, perpetui nemici che teneano l’Appennino con molte castella e infestavano il Mugello, ruinarono la loro principal sede in Monte Accianico, fabbricando a petto a questa una nuova terra che si chiamò della Scarperia, rifugio e fortezza agli uomini del contado che prima stavano sotto a quei signori. Per queste vittorie, e perchè la guerra pone sempre in più alto grado coloro ai quali spetta il governarla, parendo ai gelosi popolani di Firenze che i loro grandi e possenti uomini troppo venissero in baldanza, attesero a dare con nuove riforme più forza al popolo, e ordinarono in miglior guisa le compagnie o milizie cittadine, che rifatte dal Cardinale da Prato, aveano sempre per loro insegne quelle delle Arti: ma ottennero adesso Gonfaloni loro propri, donde nacque l’ordine dei Gonfalonieri di compagnie, d’allora in poi tenuti dei primi ufficiali dello Stato: fu aggiunto alle insegne il rastrello del re Carlo. Era in Firenze come in ogni altra città libera il Potestà, cui s’apparteneva il diritto della spada, e nel cui nome tuttora s’intitolavano gli atti pubblici, perchè egli solo rappresentava, ma quasi per via di una legale finzione, l’imperiale potestà, messa da parte, ma formalmente non mai abolita nei governi popolari. Però scemava ogni giorno più l’autorità di quel magistrato, del quale sovente la città era mal soddisfatta; perchè oltre all’essere forestieri, come signori di gran lignaggio male col popolo s’intendevano, e poco amavano quelle leggi ch’essi dovevano eseguire: uno di loro, per sottrarsi al sindacato, portava seco come in pegno il suggello del Comune, nel quale era inciso un Ercole. E prima essendo per maleficii sostenuto in Palagio un Talano degli Adimari Cavicciuli, i consorti suoi avendo percossi gli armati del Potestà che erano fuori, e così entrando nel Palagio vuoto, ne trassero quel Talano, senza che poi di tanto eccesso fosse giustizia o punizione. Del che sdegnato il Potestà, si partiva senza avere finito l’anno; e perchè la città non poteva rimanere senza rettore, divisero per i mesi che avanzavano l’ufficio tra dodici cittadini, due per sesto, che uno grande e uno popolano; e si chiamarono le dodici potestà. Quindi volendo i Fiorentini trasferire la potenza ognora più in quei magistrati ch’erano a guardia della libertà; al Capitano del popolo creato, siccome abbiamo detto, molti anni innanzi, ma che doveva essere nobile, aggiunsero un Esecutore degli ordini di Giustizia, che fosse pure egli forestiero: a lui spettasse fare inchiesta e procedere contro a’ grandi che offendessero i popolani; ma questi, che non esercitava giurisdizione, poteva essere anche di popolo.[126] Di queste riforme si tennero i grandi più che mai gravati. Il cardinale Napoleone degli Orsini, dopo la caduta di Pistoia, s’era condotto a Bologna, e quivi raccolte molte genti dalle terre della Chiesa, e gli usciti di Firenze, e da Roma quelli i quali stavano per il Papa, andò con oltre 2000 cavalli a porsi in Arezzo, quivi molto bene ricevuto. I Fiorentini, senza aspettare d’essere aggrediti, per la via di Val d’Ambra si accostavano con forte esercito ad Arezzo; ed allora il Cardinale, fatto altro consiglio, venne per il Casentino fin presso a Firenze, avendo speranza d’esservi introdotto. Ma poichè seppe dietro sè avere perduto Arezzo, vedendosi chiuse le vie della guerra, si diede a trattare con Geri Spini e Betto Brunelleschi, a lui mandati dalla Repubblica. Voleva egli con minaccie il ritorno degli usciti, ma quei due tanto lo menarono in parole, che egli senza nulla fare, ed anche essendogli poi tolta dal Papa la legazione, si partiva. I Fiorentini per quelle mosse aveano posta forte gravezza sopra i chierici; i quali facendo difficoltà al pagare, e i monaci di Badia avendo chiuse le porte e suonate le campane, alcuni malandrini di plebe minuta, sospinti da altri, per forza entrarono nel convento che fu rubato; ed il Comune, perchè avevano suonato, voleva tagliare il campanile fino da piede, ma fu invece dimezzato per altezza, con furia da molti discreti uomini biasimata.[127] Fu detto la mossa del Cardinale contro a Firenze fosse con intesa di Corso Donati, il quale aspirasse con tale aiuto alla signoria. Teneva lo Stato allora una mano di grossi popolani, che tra sè e gli aderenti loro gelosamente ne dividevano l’autorità e i profitti. Ma Corso Donati nè voleva nè sapeva usare quei modi; sempre ambizioso di cose grandi, alle minute non attendeva, nè a lui piaceva di avere grado cui altri seco partecipasse. Male col popolo se la intendeva; ma pare avesse egli aderenze nella Toscana fra i collegati e presso i popoli delle terre e dei piccoli Comuni, i quali vivevano in dependenza dai Fiorentini e spesso erano angariati dagli ufficiali che la Repubblica vi mandava. Amico e pratico dei Signori in Toscana e fuori, aveva egli tolta di recente per isposa la figlia di Uguccione della Faggiuola, di già il più forte ed il più temuto dei capi ghibellini. Questo era scoprirsi come aderente a quella parte: e Corso tirava a sè i grandi, e prometteva di annullare gli ordinamenti ch’erano fatti contro a loro; ond’essi più arditi, nelle piazze e ne’ Consigli superbamente parlavano: e i nobili di oltrarno diceasi che stessero parati a una mossa per la mutazione dello Stato. Di già offese e ferimenti avvenivano tra le due parti: armava Corso gli amici suoi, tra’ quali era di popolani la casa Medici: avea richiesto un forte aiuto da Uguccione, e già le masnade ghibelline di questo cominciavano a mostrarsi infino a Remole presso alla città. A questa novella, una domenica mattina, 6 ottobre 1308,[128] si levò grande rumore: per ordine della Signoria le campane suonano a martello, si radunano i Consigli, ed in un’ora Corso Donati viene accusato e giudicato e condannato come rubello e traditore del Comune. Da casa i Priori mossero incontanente dietro al gonfalone della giustizia, il Potestà ed il Capitano e l’Esecutore con le loro famiglie, ed i gonfaloni delle compagnie col popolo armato, e le masnade catalane col Maliscalco del re Carlo: aveano chiamato dal contado le compagnie delle leghe, ma queste poi non abbisognarono. A furore di popolo andarono contro alle case dei Donati da San Pier Maggiore. Del che subito avvisato Corso, si asserragliava con forti sbarre a piè di una torre a cui facevano capo due strade; seco avea molti consorti ed amici e fanti armati con balestre; i Bordoni erano a lui venuti con gran seguito e co’ pennoni dell’arme loro. Egli per la gotta non potendo maneggiare le armi, inanimava e lodava i suoi che francamente combattevano; aspettava l’aiuto dei soldati d’Uguccione, e sperava quello dei nobili d’oltrarno e di alcuni altri per la città. Durò la battaglia gran parte del giorno; si combatteva con lance e con balestre e pietre e fuoco; gli assalitori di numero soverchiavano, ma tutti non erano dell’animo stesso, a taluni non piacendo quello che si faceva. Sull’ora di vespro si udì che le genti di Uguccione tornavano indietro da Remole per un falso avviso, come poi fu detto, pel quale crederono Corso a quell’ora essere stato già preso e morto. Allora quelli di dentro al serraglio si cominciarono a partire; e certi del popolo, avendo rotto il muro d’un giardino, entrarono dentro. Corso, vedendosi rimasto molto sottile di gente, deliberò abbandonare la difesa ed uscire dalla città; gli amici suoi fuggirono per le case, taluni fingendo essere della contraria parte. Uomini armati andavano intanto a caccia dei fuggenti; e avendo incontrato sul ponte d’Affrico Gherardo Bordoni l’uccisero, e un giovane degli Adimari Cavicciuli, tagliatagli barbaramente una mano, andava a conficcarla nell’uscio d’un altro Adimari suo nemico. Alla fine Corso, anch’egli fuggendo, presso a Rovezzano fu raggiunto da certi soldati catalani, i quali volendo menarlo preso a Firenze, ed egli pregandoli e promettendo molta moneta se lo scampassero, nè potendo ciò da essi impetrare; come fu presso a San Salvi, per paura di essere giustiziato, si lasciò cadere dal mulo sul quale l’aveano posto; ma infermo com’egli era per la gotta, gli rimase un piè nella staffa, e la bestia più traeva. Accorrevano i villani ed altra gente; uno dei soldati, temendo non glielo cavassero dalle mani, gli diede d’una lancia nella gola e lo lasciò per morto. I frati di San Salvi lo fecero trasportare al loro monastero, chi disse vivo e pentito de’ suoi peccati, chi disse già morto: ivi fu interrato senza pompa, per timore del Comune.[129] Ma dopo tre anni ammorzati gli odii, ed in molti ridestandosi l’amore per Corso, ed in più altri l’ammirazione; i consorti e gli amici di lui, dissotterrato il cadavere, gli celebrarono in San Salvi esequie solenni, ma non però senza che uomini armati stessero a guardia della chiesa contro ogni insulto degli avversari. CAPITOLO VII. ARRIGO VII. — UGUCCIONE DELLA FAGGIUOLA. SIGNORIA DEL RE ROBERTO. [AN. 1309-1321.] Per la morte del re Carlo II d’Angiò, Roberto suo figlio, e già duca di Calabria, era succeduto alla corona del regno di Puglia nel mese di maggio dell’anno 1309, essendo rimasta quella di Sicilia in potestà di Federigo Aragonese. Ma il re Iacopo d’Aragona, che dimorava in Ispagna, era venuto in grande concordia con gli Angiovini di Napoli, e quindi co’ Guelfi di tutta Italia. Firenze aveva nimicizia permanente co’ Pisani che in Toscana erano sempre capi della parte ghibellina, cacciato avendo di signoria Nino di Gallura, che insieme al conte Ugolino della Gherardesca l’aveva tirata per brevi anni a parte guelfa. Di questo Nino rimaneva la figlia unica Giovanna (che Dante ricorda con tanto dolci parole), erede ai possessi ed ai titoli sovrani del padre in Sardegna. Ma perchè Iacopo d’Aragona si stringesse agli Angiovini contro al fratello di Sicilia e rinunziasse ai suoi diritti sopra a quell’isola, Bonifazio VIII gli aveva largita una papale investitura sulla Sardegna; e i Fiorentini, mentre diceano loro fine essere l’insediare la figlia innocente del Giudice di Gallura, null’altro cercavano che indebolire i Pisani chiamando in Sardegna il re d’Aragona. Con essi era pace in quegli anni, e tra le due Repubbliche passavano lettere bugiardamente affettuose: mentre da quella di Firenze si offriva danaro all’Aragonese perch’egli scendesse a occupare la Sardegna, mandandogli a questo fine ambasciatori. A nulla riuscirono coteste pratiche per allora, perchè il re Iacopo avendo in casa guerra migliore contro ai Mori di Granata, preferì all’oro dei Fiorentini l’aiuto di navi offertogli da Pisa, e questa mantenne per altri pochi anni il possesso di Sardegna a malgrado i Fiorentini, cui non parevano stranieri all’Italia altri essere che i Ghibellini, e senza scrupolo si aiutavano di chiunque mostrasse favorire parte guelfa. Cercavano insieme per via di trattati estendere i commerci loro di molto ampliati negli ultimi anni, e massimamente in quei paesi i quali restavano tuttora più addietro nello svolgimento delle industrie. Di quei maneggi abbiamo un cenno, ma insufficente, dal Villani, e la notizia ne rimaneva chiusa negli archivi, finchè ai dì nostri non venne in luce tratta dai registri della Signoria.[130] Dacchè fu eletto Clemente V, prima arcivescovo di Bordeaux, era il papato tenuto in Francia sotto la dura custodia del malvagio re Filippo il Bello. A questo andarono le ambizioni fatte allegre nei pontefici dopo alla caduta di Casa Sveva; ma quella caduta, e poi la lunga vacanza e l’abbassamento dell’Impero, non che rialzare la Chiesa di Roma, sembravano piuttosto avere invilite le braccia di lei, come si esprime il Compagni. Dappoichè nacquero come ad un portato il nuovo Impero occidentale e la potenza civile dei Papi, le due supreme potestà, che il mondo cristiano invocava, si sostenevano l’una l’altra in mezzo alla stessa perpetua lotta che era tra loro, così fattamente da essere l’una all’altra necessarie; entrambe avendo comune ragione nella universalità di quel principio che in due non mai bene poteva dividersi, e che ambo insieme rappresentavano. Bene gli antichi imperatori volevano imporsi patroni alla Chiesa, ma grande ed alta sempre la volevano; invece i due primi re Angiovini, chiamati e nutriti da Papi francesi, la tennero sotto a odiosa tutela, e parte guelfa mutò sembianza poichè ebbe a capo un re forestiero. Poi la violenza che tirò in Francia la sedia istessa pontificale, prostrava in Italia ogni principio d’autorità; gli Stati della Chiesa vedeano alternarsi tirannie prelatizie e cittadine, e Roma lacera e impotente non sapea portare nè il peso istesso del nome suo, nè il beneficio della libertà. Ora Filippo avea teso ogni arco per fare avere il seggio imperiale a suo fratello Carlo di Valois, che ai papi sarebbe stata servitù peggiore di quella temuta sotto Casa Sveva dalla unione all’Impero dei reami di Sicilia. Clemente V allora ebbe un forte pensiero; e lungi dal cedere al re Filippo su questo punto, faceva eleggere il conte Arrigo di Lucemburgo: i nostri cronisti di ciò fanno onore al cardinale Niccolò da Prato. Il nuovo eletto era signore di piccolo Stato, ma savio e prode; la dignità imperiale scaduta di forza, avendo percorso anch’essa il tempo delle esorbitanze sue, parea volersi con Arrigo VII ritrarre alla fonte e alla purezza del suo principio. In quanto all’Italia, intendeva egli esercitarvi d’accordo col Papa quell’alto ufficio di moderatore che dalle congiunte due potestà il mondo aveva più secoli invocato vanamente. Era una splendida astrazione, e sembra invero che Arrigo VII l’avesse nell’animo franco e leale: i migliori uomini d’Italia aspettavano lui sanatore di quelle piaghe che a tutti dolevano. Dante, all’udire non falsamente predicare il senno e la moderazione di lui, credette in lui scorgere quell’uomo del suo pensiero, che uniti in concordia l’Impero e la Chiesa, e dato ordine all’Italia, sotto di sè agguagliasse, arbitro supremo, le sorti del mondo composte a giustizia ed a temperata libertà: quindi egli serbava a lui nel poema un seggio tra’ sommi nel più alto Paradiso. Un altro virtuoso ed illustre fiorentino, guelfo e popolano, di mite ingegno e di natura poco ambizioso, Dino Compagni, anch’egli aveva chiamato co’ voti Arrigo, e aveva in lui sperato. In quella vacanza che il nostro Dino faceva principiare dalla morte di Federigo II (quegli non tenendo veri imperatori i quali non erano discesi in Italia a pigliar la corona) _l’Imperatore del Cielo, scrive egli, provvide e mandò nella mente del Papa e dei Cardinali di eleggere il savio Arrigo di Lucemburgo_. Il Compagni, guelfo al modo stesso dell’Alighieri, voleva però che nell’Italia non fosse spenta l’autorità dell’Impero, la cui potenza sognavano ordinatrice sovrana, bastante a frenare con armi legittime le tirannie d’ogni sorta; e così quella dei re di Francia, che angariavano i pontefici, come in Italia quella dei tiranni lombardi o toscani, ghibellini o guelfi, signori feroci in chiuse castella, o falsi o invidi popolani. E Dino condanna le città e i signori che ad Arrigo resistevano, e soprattutto l’ardimento dei Fiorentini o dei capi della parte nera, che per danari o per ogni maniera di pratiche destavano contro al Signore giusto ribellione. Giovanni Villani, benchè si tenesse coi Guelfi più stretti, applaudiva anch’egli ad Arrigo, chiamando lui «savio e giusto e magnanimo, disceso per farsi pacificatore dell’Italia.» La massa intanto di parte guelfa tutta era in arme ed in sospetti per la prossima venuta del nuovo eletto Imperatore. Il re Roberto, che n’era capo, aveva mandato in Firenze un suo maliscalco con 300 cavalieri catalani, i quali andarono coi Fiorentini verso Arezzo, ed ivi ebbero buon successo contro agli Aretini condotti da Uguccione della Faggiuola. Poi nel giugno del 1310, quando si appressavano ad un’altra spedizione contro di quella città, una lettera imperiale comandava loro di abbandonare la impresa, Arrigo intendendo scendere in Italia a comporre le discordie. Mandava poi questi in Firenze Luigi di Savoia, eletto da lui senatore in Roma, con altri a richiedere la città di fargli omaggio nella coronazione sua, e che frattanto gli inviassero ambasciatori a Losanna; innanzi tutto richiamassero le genti loro da Arezzo. Molti dispareri sorsero in Firenze per tale ambasciata, e assai fu discusso circa l’ubbidire o no: rispondeva prima nel Consiglio Betto Brunelleschi, che mai per niuno Signore i Fiorentini inchinarono le corna: ma più onestamente, sebbene allo stesso effetto, rispose Ugolino Tornaquinci in nome della Signoria. Gli uomini savi ripresero Betto, nè il popolo lo commendò. Gli ambasciatori continuando recarono alle genti sotto Arezzo il comandamento di partirsi; ma non avendo ciò ottenuto, andarono a porsi in Arezzo molto indignati contro a’ Fiorentini.[131] Aveano molte città italiane mandato ad Arrigo ambasciatori in Losanna: e già quelli dei Fiorentini erano eletti, ed avevano apparecchiato i panni per le robe da comparire onorevoli, e fatti altri apprestamenti; allorchè per certi grandi guelfi di Firenze si sturbò l’andata. Ora appresentandosi al Signore le varie ambascerie delle città di Toscana, domandò perchè non vi fosse quella di Firenze. Rispostogli essere per il sospetto che ivi si aveva di lui, ripigliò: «Male hanno fatto, chè nostro intendimento era di volere i Fiorentini tutti, e non partiti, a buoni fedeli; e di quella città fare nostra camera e la migliore di nostro imperio.[132]» Altre difficoltà sorsero fra lui ed i Fiorentini, i quali nel seguente agosto maggiormente insospettiti, fecero mille cavalieri cittadini, si cominciarono a guernire di soldati e di moneta, e strinsero lega col re Roberto e con più città di Toscana e di Lombardia, all’intento d’impedire la passata d’Arrigo in Italia: mentre al contrario i Pisani, che la bramavano, mandarono a questo 60 mila fiorini d’oro, ed altrettanti gliene promettevano quando fosse giunto nella città loro. Con questo aiuto si mosse Arrigo da Losanna per passare le Alpi. Ed in quel tempo il re Roberto tornando da ricevere la corona in Avignone venne in Firenze: intimorito al pari dei Fiorentini per la passata dell’Imperatore, si sforzò di conciliare i Guelfi tra loro, ma con poco frutto. Albergato nella casa dei Peruzzi, ebbe dalla Repubblica onoranze e molto danaro, tantochè ogni dì più si andava rafforzando con lui l’amicizia. Sul cadere di settembre l’Imperatore, passato il Cenisio, calò in Piemonte ed in Lombardia. Soggiornò in Asti più di due mesi, e di lì poi giunto ad un bivio che conduceva quindi a Milano e quindi a Pavia, il vecchio Matteo Visconti caporale dei Ghibellini, alzando la mano, gli disse: «Signore, questa mano ti può dare e torre Milano.[133]» Matteo era capitano di quasi tutta la Lombardia, uomo astuto più che leale. Guidotto della Torre, che dominava in Milano, capo di parte guelfa e unito in lega co’ Fiorentini, vedeva con timore avanzarsi l’Imperatore in compagnia dei Visconti: avrebbe voluto fare resistenza; ma visto non potersi fidare del popolo, accolse con grandi dimostrazioni di rispetto l’Imperatore; il quale condusse le due famiglie rivali a forzata riconciliazione, donde usciva quindi con la caduta dei Torriani la signoria dei Visconti. Era il gennaio 1311: la venuta dell’Imperatore fu nell’Italia variamente accolta. Lo sperare dei Ghibellini si ridestava, e invano Arrigo mostrava volere essere amico a tutti; pigliava in Milano la corona, ed accoglieva del pari Guelfi e Ghibellini: seco erano tre Cardinali legati del Papa; cosicchè la prima volta, ma per breve tempo, le due supreme potestà sembravano congiunte insieme, in un voler solo. Ma di ciò quegli animi sfrenati non si contentavano; i Ghibellini diceano, e’ non vuole vedere se non Guelfi; e i Guelfi diceano, e’ non accoglie se non Ghibellini.[134] Falliva la parte d’arbitro supremo, che Arrigo si aveva assunta con lo scendere in Italia; costretto accorgersi dove fossero i suoi amici naturali e dove i nemici, senz’altra forza che dei baroni accorsi a lui, senza moneta, quando non la spremesse di fondo al popolo; Arrigo, a malgrado i buoni suoi proponimenti, costretto vessare e costretto inferocire, bentosto non fu in mezzo ad uomini italiani altro che un tedesco imperatore. L’avere egli posto vicari imperiali nelle città invece dei potestà e dei capitani, diceva abbastanza quel ch’egli volesse. Così era tutta la vita nostra ricacciata un secolo addietro, e innanzi tempo compressi i vizi nella servitù. Firenze, postasi a capo della contraria parte, allora si diede a rinforzarsi di mura, a stringersi maggiormente colle città guelfe toscane e lombarde, ad esortarle si opponessero per ogni modo all’Imperatore, inviando loro a questo effetto moneta e soccorso di soldati mercenari. Dante in Milano avea veduto l’Imperatore, dal quale sperava in patria il ritorno. Poi dal Casentino, dove era in casa i Conti Guidi, scriveva due molto famose lettere, che una ai principi ed ai popoli d’Italia perchè si assoggettassero all’Imperatore, e l’altra a questo, esortandolo al compimento della impresa; nella prima intitolando sè stesso «l’umile italiano Dante Alighieri fiorentino indegnamente sbandito;» e la seconda, oltrechè nel proprio suo nome, in quello di «tutti universalmente i Toscani che pace desiderano,» degli esuli cioè che a Dante s’erano accompagnati e di coloro che a lui consentivano. In questa esortava l’Imperatore a rompere ogni indugio; scendesse tosto di Lombardia, venisse contro a Firenze sola, dove era il nido e la forza della ribellione; questa essere «la pecora inferma, la quale col suo appressamento contamina la gregge del suo signore:... lei ricondotta, le sparse forze dei contumaci in Lombardia tosto verrebbero sgominate:... ed allora l’eredità nostra, la quale senza intervallo piangiamo esserci tolta, incontanente ci sarà restituita.» In questa lettera è solenne documento dei concetti e dei dolori e delle passioni che dentro agitavano la fiera anima del Poeta. L’Italia pareva cedere ad Arrigo. Cremona soccorsa dalle genti e dai danari dei Fiorentini gli faceva resistenza: tuttavia poco stante venne in potestà sua, mandando a lui dei suoi cittadini scalzi col capo nudo, in sola gonnella e colla correggia al collo a domandare mercè: i Bresciani, dapprima ossequiosi, istigati poi dai Fiorentini, in un subito gli negarono ubbidienza, e tornarono poscia ad arrenderglisi nel settembre del 1311. Siccome però Milano e la parte dei Torriani insorgevano, era evidente come tutte quelle città null’altro aspettassero che il destro a nuovamente ribellarsi. Ma Genova accolse poco dipoi tra le sue mura l’Imperatore, che fu onorato con pari sollecitudine dalle due fazioni, quella dei Doria che vi dominava, e quella degli Spinola che n’era stata sbandita. Parma ed alcune città di Romagna erano tenute fortemente da un cavaliere catalano che era a’ servigi del re Roberto; con esso andavano le genti dei Fiorentini e i fuorusciti di Brescia e quelli che indi a poco rientrarono in Cremona. Padova si ribellava anch’essa in quei giorni: i Fiorentini, mentre cercavano suscitare da ogni lato nuovi nemici ad Arrigo, si studiavano anche di porgli inciampi con l’inviare a questo effetto legati nella corte Avignonese, dove spesero assai danari e altro non ebbero che parole. Munivano intanto di forti difese i vari passi dell’Appennino; e rinnovarono la lega co’ Bolognesi, Lucchesi, Sanesi, Volterrani e Pratesi, e con tutte le altre terre guelfe di Toscana, mentre taglieggiavano Pistoia molto aspramente colle imposte. Si dava Siena di ora in ora a questo o a quello. Da Genova si erano intanto avviati verso Toscana due messi imperiali, Pandolfo Savelli notaro pontificio e Niccolò vescovo di Butronto, autore quest’ultimo di una molto credibile relazione che, intitolata a Clemente V, è il più autorevole documento che abbiamo sul viaggio di Arrigo VII in Italia.[135] Avuto mandato di ricevere l’omaggio dai signori e dalle città di Toscana, chiesero il passo ai Bolognesi, ai quali scrissero che andavano nunzi di pace con lettere papali e imperiali: ma l’inviato loro fu messo in carcere; donde poi fuggito, recò la novella ai due Legati, che immantinente voltati a destra, per vie orribili cercavano luogo a varcare l’Appennino. Incontrarono soldati della Repubblica di Firenze, mandati a guardia di quelle strette; ma che, saputo come l’Imperatore avesse presa la via di Genova, tornavano indietro: furono da questi lasciati andare senza contrasto, non senza paura (scrive il nostro dabben Tedesco); e salvi giunsero alla Lastra vicino a Firenze. Mandarono quivi a chiedere ospizio per lettere al Potestà e al Capitano, perchè come uomini imperiali teneano da meno l’autorità del Gonfaloniere. Subito in Firenze si radunò gran Consiglio; e per la città intanto si diceva essere venuti messi di quel tiranno che di Germania era disceso in Italia a distruzione di parte guelfa sotto l’ombra della Chiesa e avendo prescelto cherici all’inganno, con grande moneta. I due Legati, aspettando le risposte, avevano la mattina dopo già fatto mettere all’ordine i cavalli e legare le some; quando, mentre erano a mensa, udirono la campana suonare a martello e viddero la strada empirsi d’armati che circondarono la casa; dove uno dei Magalotti tentava salire con grida, ma il padrone della casa gli stava incontro a capo la scala. Pur nonostante quelli bentosto salirono su: dei familiari, chi si celava sotto ai letti, e chi saltando per la finestra fuggiva; un povero frate moriva nel salto: lo scrittore di questa scena ringrazia Dio d’avere serbata però sua fermezza. I somieri con le robe furono tutti menati via: ma dalla città venivano uomini mandati dal Potestà e dal Capitano, e con essi uno degli Spini che gli esortò a voltare indietro con la speranza di riavere le robe loro; portavano lettere pontificie, che i Legati negarono pure di farsi leggere: i sopravvenuti gli avviarono tosto per la via dei colli di San Gaudenzio, donde pervennero sulle terre dei Conti Guidi, nel Casentino. Riebbero undici dei loro cavalli e tre somari; il Vescovo di Butronto perdè la cappella sua ed ogni cosa che egli avesse al mondo in oro o in argento, salvo l’anello ch’egli portava in dito e lo stile col quale scriveva sulle tavolette da ricordi. Pandolfo Savelli, che avea più da perdere, perdè ogni cosa.[136] I Conti Guidi erano parte Guelfi, parte Ghibellini: tutti giurarono fedeltà, e promisero di appresentarsi al Signore e fargli omaggio nella coronazione; i Guelfi si mostravano più caldi, ma chiedeano indugi, temendo i popoli e le terre circostanti. Di quella famiglia era il Vescovo d’Arezzo, che volentieri accolse i Legati nella città sua, e giurò pei beni temporali, avendo quei Vescovi il grado di Conti palatini. Poi gli condusse a Civitella, sua terra murata sopra un alto poggio che domina tutta la Valle di Chiana con ampia corona dei monti appennini: cedeva quel luogo perchè ne facessero come una camera dell’Impero. Di là mandarono citazione ai Fiorentini ed ai Senesi, tosto poi dannandoli come contumaci a pene gravissime secondo il diritto, del quale il buon Vescovo di Butronto capiva poco; ma il Savelli, dicevano tutti che se ne intendesse molto bene. Citarono anche le terre circonvicine a comparire per sindachi, dei quali molti comparvero, pochi si scusarono o chiesero indugio per la paura o per avere le robe loro in su’ mercati dei non ubbidienti. Quelli di Cortona per bocca del sindaco aveano giurato, ma popolarmente in piazza non vollero, dicendo sarebbero stati distrutti dai Perugini, e da quei di Gubbio e di Città di Castello, e che gli Aretini poco gli amavano: ottennero anch’essi però dilazione con poca voglia dei due Legati. Ad essi frattanto mandarono alcuni maggiorenti di Perugia, dicendo voleano avere pace con l’Imperatore, pagandogli certa somma e un tributo annuo pei castelli di ragione dell’Impero che essi tenevano, e per il Lago; le quali cose affermavano di possedere giustamente, avendone privilegio da un papa e consenso da un imperatore; ma chiesti mettessero fuori quei titoli, non gli aveano. Parve una truffa ai due Legati: mandarono un frate per questo a Perugia; ma tosto fu detto a lui se ne andasse, perchè il popolo era guelfo, e quando sapesse che si invocavano carte e privilegi, direbbe tradite le libertà sue. Citarono pure i Conti di Mangona, quei di Montedoglio, Uguccione della Faggiuola, i Pazzi di Valdarno, i Conti Ubertini e quei da Pietramala, i Marchesi ch’erano assai dai monti d’Arezzo fino a quelli di Perugia: e generalmente i Signori di castelli e nobili dei distretti di Firenze, di Siena, d’Arezzo e di Chiusi; in tutti forse cinquecento Ghibellini e Guelfi. Giurarono molti, il maggior numero in segreto per salvarsi ad ogni evento; chi all’appresentarsi ponea condizioni, i Legati condannavano.[137] In Genova era venuta a morte l’Imperatrice: dopo di che Arrigo mandò ai Legati lo raggiungessero in Pisa con quante più genti potessero: muovevano questi col Vescovo d’Arezzo e altri Signori che da quelle parti ebbero animo di seguirli: girarono attorno alle terre dei Senesi, e di castello in castello, da Radicofani vennero a Santa Fiora, da quei Conti assai bene accolti, ed avviati per mare fino a Castiglione della Pescaia, dove si distendeva l’ampio dominio dei Pisani. Trovarono in Pisa l’Imperatore, che per avere deposto gli Anziani e messo al governo della città un suo Vicario, avea forte turbato gli animi e discontentati. Aveva da Genova fatto processo ai Fiorentini, dipoi condannati nelle persone e negli averi; da Pisa mandava soldati nei confini loro, e facea gran prede in sulle vie: essi che aveano le loro genti fatte venire di Lunigiana e posto in difesa San Miniato ed altri luoghi, rinforzati di duecento cavalieri che il re Roberto aveva mandati, con grande fervore correano alle armi, prorompendo in grida d’onta contro l’Imperatore, chiamandolo crudele, tiranno e ghibellino: nei bandi loro dicevano, a onore di Santa Chiesa ed a morte del Re della Magna. Tolsero le aquile dalle porte, le rasero dovunque fossero o intagliate o dipinte, pena a chi le riponesse.[138] Tale era il sentire del popolo di Firenze; ma vero è poi che molto venivano eccitati dai rettori, che degli spiriti popolani si facean arme e ne acquistavano a sè grandezza. Mugnevano il popolo per fare danari, che spargessero la guerra in tutta Italia contro all’Imperatore: onde ire di parte, e poi vendette cadevano sopra i capi di quella setta, da noi più volte nominati. Betto Brunelleschi ghibellino rinnegato, ricco ed avaro, da due giovani dei Donati assalito in casa sua mentre giocava a scacchi e ferito nella testa, moriva indi a poco. Pazzino dei Pazzi s’era acconciato coi Donati della morte di messer Corso: ma era in odio però a quei sempre indistruttibili Cavalcanti; uno dei quali saputo com’egli fosse ito a cacciare col falcone ed un solo famiglio sul greto d’Arno da Santa Croce, gli tenne dietro con alcuni compagni: Pazzino, poichè gli vidde, cominciò a fuggire; ma tosto raggiunto, cadeva trafitto. A quel misfatto, i Pazzi e i Donati, col Gonfaloniere di giustizia, corsero alle case già restaurate dei Cavalcanti; le quali difese da essi e dagli amici loro, non si poterono espugnare; ma quarantotto dei Cavalcanti ebbero condanna negli averi e nella persona, e due figli di Pazzino dal popolo furono fatti cavalieri e donati largamente.[139] Malvagie sovente erano le opere di coloro i quali teneansi la città in pugno; ma con farla essere tutta guelfa mantenevano ad essa la forza che è nell’unità, e quel carattere per cui solo ebbe ella grandezza. In quell’anno 1311 una provvisione richiamava i Guelfi che dopo all’ottobre 1308, cioè dopo alla morte di Corso Donati, per qualsivoglia cagione fossero fuorusciti, e confermava e rinforzava il bando e le condanne contro a’ Ghibellini, dei quali si leggono i nomi descritti in lunga serie.[140] Sono oltre a mille, chi tenga conto delle famiglie che tutte intere ebbero bando: Ghibellino da quel giorno volle dire nemico e ribelle. Di questa legge fu autore e ad essa dava il nome Baldo d’Aguglione, giureconsulto, cui l’Alighieri diede mala fama: aveva costui dichiarato irrevocabile il lungo esilio del Poeta. Dino Compagni era come guelfo rimasto in Firenze, e, come vedemmo, dannava la guerra che ad Arrigo si faceva; ma quando s’accorse questo Imperatore incrudelire, e fattosi capo della parte ghibellina venire in armi contro a Firenze divisa e guasta, allora il buon Dino, che scampo non vede, poichè non vede giustizia da parte nessuna, depone la penna come disperato con queste parole: «O iniqui cittadini, ora vi si comincia a rivolgere il mondo addosso; l’Imperatore con le sue forze vi farà prendere e rubare per mare e per terra.» Viveva il Compagni più anni dipoi; ma l’istoria non continuava, fallito il presagio ma insieme fallito l’antico disegno, e forse confuso egli e sopraffatto dai tempi nuovi e dalle nuove necessità che non erano a lui nell’animo potute capire, e contro alle quali repugnava l’intelletto con giuste ma inutili ed importune antiveggenze.[141] Mentre che Arrigo dimorava in Pisa aspettando novelle genti d’Allemagna, il re Roberto aveva mandato in Roma Giovanni suo fratello con secento cavalieri catalani e pugliesi, ai quali bentosto s’aggiugneano le milizie dei collegati di Firenze, di Lucca e di Siena e degli altri amici di Toscana. Giovanni con questa forza e con l’aiuto degli Orsini e loro seguaci teneva il Campidoglio, Castel Sant’Angelo, la chiesa e palagi di San Pietro e tutto Trastevere; gli Imperiali, San Giovanni Laterano, Santa Maria Maggiore, il Colosseo e Santa Sabina. Ciascuna parte s’abbarrò e asserragliò fortemente; nè i Fiorentini di quella città dimenticarono di fare ivi correre come a Firenze il dì di san Giovanni il solito palio di sciamito chermisino. Giunto l’Imperatore in Roma, cercò aprirsi il passo a San Pietro, dove intendeva prendere la corona. Accaddero molti scontri e battaglie, nelle quali essendo rimasti i Pugliesi vincitori, Arrigo nell’agosto del 1312 si contentò farsi coronare in San Giovanni Laterano dai tre Legati del Pontefice, ch’erano il Cardinale da Prato e il Fieschi e il Pelagrù. Dimorò in Tivoli pochi giorni, e per la via di Viterbo, avendo prima visitata Todi che gli era amica, e devastato il territorio di Perugia, venne a Cortona: i baroni alemanni, la maggior parte, più volentieri sariano andati diritto a Pisa e indi tornati alle case loro. Cortona giurava fedeltà a Cesare, ma ostavano i diritti che per diplomi di Carlomagno diceva tenere su quella città il Vescovo d’Arezzo. Era in Cortona venuto un messo da Firenze nel nome di Geri Spini e di messer Pino della Tosa, questi succeduto alla possanza di messer Rosso suo consorto; entrambi più temperati di quelli i quali aveano per l’innanzi tenuto lo Stato: proponeano accordi, che allo scrittore tedesco pareano facili a conchiudere, «perchè io non aveva (soggiugne) imparato a conoscere i Toscani.» Ma nulla si fece; e Arrigo venuto innanzi, batteva Montevarchi, che tre dì essendosi validamente difesa, poi si arrendeva a discrezione: e occupato per battaglia San Giovanni, e senza guerra Figline, ponevasi incontro al castello dell’Incisa. In questi fatti ebbe prigioni cinquanta cavalieri catalani tenuti a soldo dai Fiorentini ribelli; ch’era caso di maestà per gli imperiali giuristi, e volevano fossero impiccati; ma comandò Arrigo che, spogliati, andassero liberi. Nel forte sito dell’Incisa erano milleottocento cavalieri fiorentini per tenere il passo all’Imperatore: aveva la Repubblica cresciuto fino a milletrecento il numero delle cavallate; gli altri erano forestieri, e gente a piè assai; per anche non erano giunti gli aiuti dei collegati. Venuti nel piano che è sotto al castello, i Tedeschi sul greto d’Arno schierati offersero battaglia; ma quei di Firenze, sebbene fossero maggior numero, la rifiutarono; e i Tedeschi allora, guidati dai fuorusciti che avevano seco, girando per istretti ed aspri luoghi dal poggio di sopra valicarono il castello e vennero dalla parte che è verso Firenze. Dall’Incisa erano usciti molti dei migliori cavalieri, sperando chiudere loro il passo al rientrare sulla via; qui fu assai duro combattimento, ma infine i Tedeschi rispinsero gli altri dentro al castello, e procedendo verso Firenze, l’Imperatore varcato il fiume a’ 19 settembre, poneva il campo al monastero di San Salvi, che è presso alle mura. Ardeano i Tedeschi e distruggevano all’intorno quanto potevano arrivare, a confessione dello imperiale scrittore; e i Fiorentini vedendo l’arsione delle loro case, s’armarono a suono di campana, e sotto ai gonfaloni delle compagnie vennero in piazza: il Vescovo di Firenze co’ cavalli dei chierici armato vi trasse anch’egli, e tutto il popolo a piede con lui. Serrate le porte di Sant’Ambrogio e de’ Fossi, subitamente vi fecero steccati e stettero a guardia il dì e la notte, finchè non cominciarono a tornare per vie diverse i cavalieri ch’erano all’Incisa; giugnevano gli aiuti mandati da Lucca e da Siena e dalle altre città guelfe di Toscana, dai Bolognesi e Romagnoli e da quei di Gubbio e di Città di Castello, in tutto quattro mila uomini a cavallo e grande numero di gente a piè. Ma nulla tentarono contro agli assedianti per essere senza capo e male uniti, e perchè non si fidavano stare a petto di quella possente cavalleria tedesca. Erano giunti nel campo d’Arrigo altri mille cavalieri che Arezzo e le amiche città di verso Roma ed i signori dei castelli a lui mandavano. Ma egli pure si tenne fermo, nè alla città diede mai battaglia, solo guastando le campagne dove la raccolta in quell’anno era stata ubertosa molto: i contadini di quella parte ch’egli teneva e delle valli di Sieve e di Greve, per fare guadagno, venivano al campo e lo mantenevano fornito. L’Imperatore giaceva infermo in San Salvi di febbre continua; e già temendosi la sua morte, alcuni dei baroni che da più tempo stavano in campo a proprie spese, volendo a sè stessi provvedere per l’inverno, chiesero licenza. I Fiorentini rimbaldanziti, i più andavano disarmati e tenevano aperte tutte le porte, eccetto quella che rimaneva di contro al nemico: entravano e uscivano le mercanzie come non vi fosse guerra. Ebbe Arrigo per qualche tempo speranza d’accordi, essendo ricomparso nel campo quel messo ch’era andato a lui in Cortona; ma si guastarono perchè i Fiorentini ostinatamente a lui negavano l’entrata della persona sua in Firenze, contrastando ora e poi sempre agli Imperatori mettere piede nelle città murate, dove era sovrana la libertà dei Comuni. Consentivano tenesse Arrigo un Vicario che nel dominio dei Fiorentini esercitasse la imperiale giurisdizione, contando poi farlo sgombrare ogni volta fosse egli di troppo; bene accettavano il nome e il diritto, ma non la persona e le armi dell’Imperatore: e questi, perduta ogni speranza di avere Firenze, levava l’assedio il giorno ultimo d’ottobre. Valicò Arno, ed il pericolo era grande, chè mentre le schiere passavano, quei della città che avevano i ponti e la scelta, con poche balestre potevano assalire o l’una o l’altra parte dei Tedeschi divisi dal fiume: in Firenze suonavano le campane, ma niuno si mosse. Lì appresso nei colli intra i quali scorre l’Ema, era un castello dei Bardi e dentro ventidue nobili donne di quella consorteria co’ loro bambini e molte ricchezze. Il luogo era forte e ben guardato, ma cedè al primo appresentarsi d’Arrigo, il quale faceva onoratamente accompagnare le donne dove a loro piacesse, contro al parere dei Toscani ghibellini che seco erano e volevano farsene un pegno da richiamare all’ubbidienza quella possente famiglia di magnati mercatanti. Arrigo andò a porsi con tutta l’oste indi a San Casciano, dove stette due mesi accampato: molti castelli occupò all’intorno, dei quali abbruciò alcuni ed altri ritenne: troviamo notato in Val di Pesa Lucardo dove si fanno i buoni formaggi, ed il castello di Santa Maria Novella appartenente ai Gianfigliazzi. Frequenti erano le avvisaglie co’ Fiorentini che scorrevano intorno al campo, e spesso avevano la peggiore, sebbene fossero maggior numero: buona prova fecero i cavalieri d’una compagnia di volontà, dov’erano dei più pregiati donzelli di Firenze, alcuni dei quali morirono combattendo a Cerbaia sulla Pesa. L’esercito Imperiale diradava per malattie, nè altro era da fare contro a Firenze; per il che Arrigo dopo l’Epifania muovendo il campo, lo condusse a Poggibonsi; e dimoratovi, restaurava l’antico castello ch’era in sul Poggio a cui diede nome d’Imperiale. Ma qui era stretto dall’una parte dai Senesi, dall’altra dai Fiorentini e da trecento cavalieri che il re Roberto mandò a Colle di Val d’Elsa. Cosicchè Arrigo, scemato di genti e di là partitosi, giugneva in Pisa non senza contrasto a’ 9 di marzo.[142] Quivi sovvenuto d’armi e di danari e di galee dai Genovesi e da Federigo di Sicilia, e avuto anche di Allemagna grande rinforzo, s’apparecchiava a maggiori imprese; frattanto bandiva ribelli all’Impero il re Roberto ed i Fiorentini.[143] I quali per questo crescente pericolo e perchè i grandi, aggravati dalla guerra, più forte chiedevano avere parte nei magistrati, diedero per cinque anni al re Roberto la signoria della città, a questi patti che ne pigliasse egli la guardia e la difesa, senza alterare però il governo come era allora costituito, salvo che in luogo del Potestà il re mandasse un suo Vicario che si mutava ogni sei mesi: il primo di questi, Iacopo Cantelmo, venne in Firenze nel giugno del 1313. Lucca e Pistoia fecero anch’esse quel che Firenze aveva fatto. A’ 5 d’agosto l’Imperatore muoveva da Pisa per ire contro al re Roberto; ma dopo avuti co’ Fiorentini piccoli scontri intorno a Siena, egli già infermo da più tempo, ai 24 dello stesso mese venne a morte in Buonconvento, e fu detto di veleno a lui apprestato in modo sacrilego: queste favole consolano i civili odii e gli intristiscono. La sepoltura di lui si vede tuttora nel Camposanto della città di Pisa, che a lui fu tanto bene affetta. Falliva per quella morte l’ultimo conato per cui nell’Italia si cercasse ricondurre viva e presente l’Imperiale potestà, e i Fiorentini furono liberi da un grande pericolo. Ad essi però altro e non piccolo sopravvenne, imperocchè i Pisani temendo le vendette di tutta Toscana, dopo avere offerta invano la signoria della città loro al re Aragonese di Sicilia ed al Conte di Savoia e a talun altro dei baroni i quali avevano seguitato Arrigo, trovarono alfine chi avidamente la occupasse. Era questi Uguccione della Faggiuola, da lungo tempo ruminante pensieri ambiziosi, allora vicario Imperiale in Genova, e per la molta sua scienza di guerra, pel grande seguito e per la riputazione che si era acquistata, rimasto a capo della parte ghibellina. Faceva egli suo pro della stanza che in Pisa continuarono per qualche tempo molti cavalieri dell’esercito tedesco disperso per la morte d’Arrigo VII; e dopo avere sparso il terrore nei paesi circostanti, occupava Lucca, della quale con grande violenza si fece signore, essendo riuscito tardo ed inutile il soccorso dei Fiorentini. E questi al vedere tanto gran nembo di guerra addensarsi contro loro, chiesero d’aiuto il re Roberto; il quale inviava ad essi ben tosto Piero duca di Gravina, suo minore fratello, con trecento cavalieri. Ma Uguccione continuando a farsi innanzi, poneva assedio a Montecatini, avendo con sè l’aiuto dei Visconti e molto numero di Tedeschi e Ghibellini di Lombardia e fuorusciti Toscani, che facevano grande esercito. Era il Duca di Gravina molto grazioso in Firenze, talchè poco meno non gli dessero la signoria a vita, e per favore eleggeva anche i Priori ed il Gonfaloniere: ma non bastando contro alle forze troppo maggiori di Uguccione, venne da Napoli altro numero di cavalieri; e con essi il Principe di Taranto, anch’egli fratello del Re, al quale spettando per la età il comando, fu la ruina di quella impresa. Grande e memorabile battaglia si combatteva sotto Montecatini a’ 29 d’agosto 1315, nella quale ebbe Uguccione vittoria intera e vi morivano oltre il Duca di Gravina e il figlio del Principe, forse duemila tra cavalieri e pedoni, e centoquattordici (scrive il Villani) i quali erano de’ maggiori cittadini di Firenze: quivi, in Bologna ed in Perugia ed in Siena e in Napoli, per il pianto dei cittadini perduti, tutto il popolo si vestì a lutto.[144] Firenze intanto per quella rotta venne a partirsi novellamente: due sètte erano surte tra’ Guelfi; una, con a capo Pino della Tosa, amava la signoria del re Roberto e dei Francesi; l’altra, retta da Simone della stessa casata, stava all’incontro, nè vergognò cercare aiuto anche di Tedeschi: entrambe erano seguitate da nobili e plebee famiglie, ma quella di Simone aveva maggiore potenza e credito presso al popolo. Padroneggiava la città; e se non avesse temuto Uguccione, avrebbe essa cacciato quella che stava pel Re. Aveva questi già licenziato il Conte Novello, suo capitano di guerra, il quale come Vicario teneva in Firenze, ma con poca autorità, le veci di Potestà e di Capitano: la parte contraria occupava il priorato e tutti i pubblici uffici, e molto poi si rinforzava creando nel maggio del 1316 un bargello, che fu Lando d’Agubbio, uomo carnefice e crudele, cui diedero in seguito anche il gonfalone della Signoria. Costui risedendo a piè del palagio dei Priori, mandava a pigliare per la città e per la campagna chiunque volesse, sotto colore di essere Ghibellini, e senza processo gli faceva tagliare a pezzi con le mannaie. Fu in tal modo trattato un giovine de’ Falconieri innocente, e molti di altre casate nobili e del popolo. Si fece in quel tempo una moneta falsa, quasi tutta di rame bianchita d’argento di fuori, e gli chiamarono _bargellini_. Lando d’Agubbio riempiva di terrore Firenze, quando grandi e popolari alla fine insofferenti di quella bestiale tirannia, si rivolsero segretamente al re Roberto, il quale inviava suo Vicario il Conte di Battifolle; e questi avendo levato di mezzo, a grande fatica, lo scellerato bargello, nell’ottobre dello stesso anno tolse di mano a quella setta il priorato e gli altri uffici. I nuovi dodici Priori che vennero poi, furono presso che tutti di parte del Re, ed il Conte da Battifolle governò allora la città con saggezza e senza confische. Ed in quegli anni istituirono la registrazione dei Contratti, gravandoli di una gabella; e procedeva l’edificazione delle nuove mura di Firenze. In questo frattempo la caduta di Uguccione liberava i Fiorentini d’un grande sospetto, se non fosse dopo lui sopravvenuto ai danni loro un uomo che fu troppo di lui più formidabile. Aveva Uguccione perduto in un giorno, e fu detto per sua incuria, le due città di Pisa e di Lucca; dopo di che nell’aprile del 1316 gli convenne fuggirsi esule in Verona a Can Grande della Scala: esempio memorabile di fortuna sempre fugace in quei condottieri che a un tratto sorgevano e tosto ad altri davano luogo. Pisa cedè per allora in potestà del conte Gaddo della Gherardesca, intanto che Lucca ebbe a signore Castruccio Castracani degli Interminelli; il quale seguace in Lunigiana di Uguccione, e ivi già possente e sospettato da lui, saliva dai ceppi e dagli appresti di morte a quella grandezza che tosto vedremo. Dapprincipio il re Roberto, venuto a pace con Pisa e Lucca, seco trasse i Fiorentini; e a questo modo Toscana fu quietata per allora.[145] Ma l’anno dipoi il Re, dopo avere tentato una impresa contro la Sicilia, venne a soccorrere Genova assalita dai fuorusciti ghibellini e dalle forze di Matteo Visconti signore di Milano e molto terribile sostenitore di quella parte. Aveva Matteo firmato una lega con l’Imperatore di Costantinopoli, col re Federigo di Sicilia, con Castruccio signore di Lucca e con la città di Pisa. Roberto, all’incontro, avendo in Firenze ottenuta la continuazione della signoria per altri tre anni, ebbe da questa città l’aiuto di cento cavalieri e cinquecento fanti, con più altri che gli vennero dalla Toscana e dalla Romagna. Gli scontri sotto Genova erano frequenti; il Re stesso e i suoi gentiluomini battagliavano con la spada in mano. Finalmente l’assedio fu tolto; ma ricominciava con nuovo furore, partitosi il Re, che andò in Avignone a ritrovare il Pontefice. Guelfi e Ghibellini si combattevano in Lombardia, dove i Fiorentini mandarono soccorsi d’arme: i Ghibellini però sempre eran ivi prepotenti, e soprattutti Matteo Visconti; cosicchè i Guelfi ed il re Roberto e con essi papa Giovanni XXII, procurarono venisse in loro aiuto di Francia Filippo nipote del re Filippo di Valois; il quale apparve un istante, e nulla fece. Pure le forze napoletane essendosi presso a Genova incontrate con le siciliane, queste ebbero la peggio; talchè l’assedio fu tolto, ed ivi prevalsero il re Roberto e la parte guelfa. Ma Castruccio, sollecitato da Matteo e dalla lega ghibellina, aveva cominciato fin dalla primavera del 1320 la guerra contro ai Fiorentini; la quale durò tutto quell’anno con varia fortuna, avendo potuto i Fiorentini per alcun tempo tenere a bada Castruccio, che accennava contro a Genova. Ma questi dipoi rinvigorito di nuova gente che gli era scesa di Lombardia, e dimostrata la virtù sua, pigliò a forza più castella, e ruppe in più scontri le genti nemiche, portando la guerra con danni gravissimi e con terrore dei Fiorentini fin sotto Fucecchio nel giugno dell’anno 1321. Il che destando gravi lagnanze con biasimo del Gonfaloniere e de’ Priori, a questi fu aggiunto un consiglio di dodici Buoni uomini, senza dei quali ai Priori non fosse lecito di pigliare alcuna grave deliberazione: cotesto ordine assai lodato rimase durevole d’allora in poi nella Repubblica.[146] CAPITOLO VIII. DANTE; SCRITTORI E ARTISTI SUOI CONTEMPORANEI. [AN. 1268-1322.] Dante Alighieri nacque in Firenze l’anno 1265, d’antica e nobile famiglia guelfa. Era quella parte in bando tuttora, e convien dire che il padre, o almeno la madre di lui, prima degli altri fossero in patria rimessi; senza di che non avrebbe egli potuto qui avere la _fonte_ del suo _battesmo_. Tornarono i Guelfi l’anno dipoi, ed i Ghibellini cacciati perderono per sempre lo Stato: a questo modo l’Alighieri non ebbe mai dalla comunanza dei dolori passioni che molto lo stringessero a quella parte a cui di nome apparteneva, non vidde intorno a casa sua le armi tedesche; ma con le prime voci che dentro all’animo gli scenderono udiva compiangere al misero Corradino, e in odio venuta la cupa superbia di Carlo d’Angiò: udiva da molti lamentare la vacanza dell’Impero, le voglie divise, e le inferme condizioni dell’Italia; vedeva ammontarsi già intorno le colpe della parte vincitrice. Questa era la sua: ma dal silenzio degli storici e di Dante stesso dobbiamo tener per certo che il padre di lui non fosse dei più fortunati a quel banchetto, nè quella famiglia fu mai doviziosa da stare in alto per sè medesima; e già le minori tra le nobili casate, quando anche guelfe, aveano sul capo il nuovo popolo delle arti, che riuscì a pigliarsi con la istituzione dei Priori in mano lo Stato, quando era il poeta nell’adolescenza. Combatteva egli a Campaldino insieme co’ Guelfi; ma tosto dipoi ecco essere i nobili vessati ed oppressi da leggi crudeli e all’ozio costretti, se non rinnegassero il grado loro, ma tuttavia sempre in patria sospetti. Si pensi ognuno quale fosse il cuore di Dante quando egli dovette, per conformarsi ai novelli tempi, dare il suo nome all’Arte degli Speziali. Ma la sua vita negli anni primi fu di amatore e di poeta, che in sè cercava come tradurre l’amore in idea; e questa educando via via con la scienza, dare una forma a quel pensiero che già tutto ambiva in sè comprendere l’universo. Dovea ben essere quella vita, e noi sappiamo che fu, solitaria: poco la Repubblica e le ambizioni e le tempeste in campo angusto lo attiravano; le sètte guardava dall’alto, e quasi alle due parti indifferente; delle armi sue in Campaldino poco si gloriava: scriveva d’amore, e già nella mente ferveva confuso il sacro Poema. Per tutti quegli anni prima che fosse egli a mezzo del cammino della vita, vedeva in Firenze, gli uomini più saggi studiarsi in più modi a rappacificare insieme le sètte nemiche, tornando in patria gli sbanditi; vedeva all’incontro una mano di potenti saliti dal basso, fondare sull’odio ai Ghibellini ed ai Magnati tale uno Stato che non sopravanzasse l’altezza loro. Coteste cose a Dante erano tanto odiose quanto era egli appassionato, e avevano toccato il colmo quando l’età lo condusse ad avere parte negli uffici. Fu breve l’avvolgersi di lui nel turbine della vita pubblica: in quella portava un alto animo, vôlto sempre a rettitudine, ed un ingegno che trascendeva i fatti e gli uomini circostanti, e fiere passioni pronte a trasmodare se l’ira o il dispregio o l’insofferenza le accendesse. Ma dei primi uffici esercitati da lui sappiamo ciò solo, ch’egli ebbe col nome d’ambasciatore l’anno 1299 dalla Repubblica una commissione al Comune di San Gimignano: le altre supposte da taluno dei suoi biografi non sono che favole. Tenne due mesi il Priorato; e da quella fonte (come egli scrive) d’ogni sua miseria, usciva l’esilio che tutta d’allora in poi mutò la sua vita. Chi voglia ad un tratto farsene ragione, guardi la sua effigie fiorente di giovinezza come ora tornò in luce dipinta da Giotto; poi ripensi l’altra scarna ed irosa che a tutti i secoli diede immagine del sommo Poeta. Già era scritta la _Vita Nuova_ nell’anno suo ventisettesimo, che è il tempo in cui la giovinezza suol farsi virile, e molte idee prima vaganti pigliano fermezza, e l’uomo acquista più intera e più salda la coscienza di sè stesso. Morta era Beatrice e quindi l’amore, poichè ebbe perduta l’immagine viva che a sè lo attraeva, divenne un pensiero, voleva dal libro della _Vita Nuova_ salire al Poema allora concetto e come uscito dalla prima opera giovanile; all’alto disegno doveva farsi guida Beatrice stessa celestialmente trasformata, ed egli in quest’opera tutto infondere sè medesimo. Così nell’amore cercava egli sempre l’interezza del volere: ma dentro all’animo trasmutabile e fuori di esso erano impedimenti d’ogni maniera, da lui accennati e a lui solo noti; e _fosse_ gli si _attraversavano_, e _catene_ lo stringevano. Ond’egli «volse i passi suoi per via non vera:» sentiasi _gravate le penne in giuso_, aveva perduto _la speranza dell’altezza_. Come egli potesse tanto _smarrire la via diritta_, noi nol sappiamo; lo sapeva egli, e dalle grandi altezze si fanno le grandi cadute. Si ammogliava in quelli stessi anni alla Gemma dei Donati, famiglia come gli Alighieri di antico lignaggio ma di piccola ricchezza; era di essa quel messer Corso senza del quale può tenersi che non avrebbe Dante esulato, e tra’ parenti di Gemma e quelli di Corso potevano essere inimicizie, le quali si è visto che erano tra Donati e Donati prima dell’anno 1293. S’immischiò allora nelle pubbliche faccende; ed ecco sull’anima cadere il ghiaccio delle cose materiali, ed il cuore, non più di sè pago, sentire inceppato da nuove passioni. Ma sempre al Poema come a suo rifugio ricorreva l’intelletto, mirando a quel punto dove poesia e filosofia stanno insieme congiunte, e verso il quale intendeva egli col viaggio simbolico. Dai fatti studi sempre alternati con la poesia uscirono alcune esercitazioni filosofiche più tardi prodotte col nome di _Convito_; doveano essere maggior numero, e di questo libro almeno una parte certo è che fu scritta innanzi l’esilio. Pare alle volte che si annesti con la _Vita Nuova_; e per l’andare incomposto si vede che è frutto via via di studi non ben digeriti: quel trattato sulla nobiltà direi scritto a conforto dell’abbassamento in che fu ridotto il ceto de’ grandi pei recenti ordini di giustizia; ma qui non è Dante acceso per anche dalle ire di parte. Nel principio del _Convito_ con argomenti di molto affetto si scusa d’averlo scritto in quel volgare che aveva egli appreso fino dalla culla, e che in altro libro poco più tardi vituperava; ma in questo mezzo l’esilio intervenne, o più veramente la disperazione del ritorno. Avea nell’esilio e nella varietà delle dimore sentito più vivo, e quasi direi a sè più vicino, il pensiero dell’Italia; di questa s’era egli fatto cittadino; e la sventura sua medesima ampliando gli abiti della vita, lo conduceva là dove la mente godeva fermarsi, io dico al grande e all’universale. Sentiva mancare alla nazione una lingua che tutti accettassero come signora; e scrisse il libro _De Vulgari Eloquio_, non a vendetta contro a Firenze, ma come colui che le incertezze o le insufficienze quanto all’uso di questa lingua tentava risolvere, ad essa guardando come di fuori e per dottrina e speculazione: vagante italiano, cercava un volgare che «in nessun luogo riposasse,» tuttavia ritenendo nello scrivere quello medesimo ch’era stato «congiugnitore de’ suoi parenti.» Ma usò il latino in questo e nel libro della _Monarchia_, dove egli intende chiarire e svolgere quel principio d’unità imperiale che, uscito da Roma, aveva mille anni tenuto implicato il mondo cristiano come in un nodo che i due capi stringessero andando per contrario verso. Qui Dante parrebbe fatto straniero alla città sua; ma come alle ire che lui consumavano sta in fondo l’amore, così nel concetto ideale affatto di questo libro si accolgono dottrine che non contrastavano nè al sentire di uomo italiano, nè a quel diritto di cittadina indipendenza che Dante avrebbe in patria voluto a ogni costo mantenere. Nel libro pertanto della _Monarchia_ abbiamo l’esposizione del sistema cui Dante, è vero, s’ingegnava allora di dare coerenza per via di sofistiche argomentazioni; ma noi crediamo da gran tempo tutto quell’ordine di concetti stesse nel fondo del suo pensiero. L’avere egli posto nella città e nel popolo di Roma la fonte di quel diritto dal quale uscisse il sommo impero ed universale, non era dottrina che Dante si fabbricasse allora a comodo della sua tesi, ma era italiana, era cattolica, era grande; era dottrina che ambiva con l’ordine assicurare la libertà, nell’unità ammettere e comprendere le varietà; farsi attuazione dei voleri di Dio sulla terra, fondando tra gli uomini, col regno della virtù, perpetua pace universale: la monarchia dell’Alighieri, l’impero, il veltro, non potevano essere a questo modo altro che ideale cosa. Quindi a noi pare che mentre i libri del _Convito_ e del _Volgare Eloquio_ null’altro ci mostrano che studi interrotti; la _Vita Nuova_ e la _Monarchia_ ne dieno ragione, quello dell’anima del Poeta, questo del pensiero civile o politico quali si vennero a trasfondere nella grande opera del Poema. È certo che Dante lo aveva cominciato, e in qualche parte già era noto, prima ch’egli uscisse di Firenze. Concetto nell’animo subito dopo la morte di Beatrice nove anni innanzi l’esilio, volea da principio egli scriverlo in latino, come libro che doveva non mai abbassarsi dalle ideali regioni; ma io credo pure che l’affetto in lui prepotente gli facesse tosto mutare pensiero: ed è fuori d’ogni dubbio che i primi canti composti in Firenze fossero in volgare. Abbiamo indizi e autorità non al tutto vane che l’opera del Poema interrotta al fine del settimo Canto, ricominciasse fuori di patria col principio dell’ottavo. Ma non vuolsi però immaginare che un tale lavoro procedesse per ordine come farebbe un calcolo d’aritmetica, nè che l’Alighieri poi non mutasse o trasponesse quello che aveva prima scritto. Chi oserebbe divinare dentro ai segreti di una fantasia possente le vie per le quali si viene a svolgere la composizione? nè Dante pensava i lunghi affanni che egli darebbe ai commentatori. Nel sesto dell’Inferno la predizione di Ciacco si aggira su’ guai della _città partita_ dove i _giusti non sono intesi_: dovea pertanto in patria essere egli tuttavia. Ma ben si ode stridere il dolore della recente ferita in quelle furiose parole contro a Filippo Argenti, le quali s’incalzano per più terzine del Canto ottavo con tanto feroce compiacimento. Scriveva queste dunque già essendo in esilio; al quale accenna chiaramente ma in modo assai più temperato nel decimo Canto, quando oltre a due anni dopo la prima cacciata erano scorsi, ma tuttavia gli balenava di tratto in tratto qualche fiducia del ritorno. Dovevano certo fino dal principio nella contestura del Poema entrare le umane come le divine cose, entrarvi ma sotto a un guardo più sereno, perchè non cercava allora il Poeta altro che inalzarsi fuori delle interne passioni dell’animo, che egli con la scorta di Virgilio e di Beatrice sperava domate. Quindi è che il linguaggio e il pensiero stesso nei primi sette Canti mi sembrano avere tempra più mite; in questi è Dante, ma non per anco inacerbito dalle sue piaghe e, se oso dirlo, sanguinante. Roma nel secondo è Roma ideale, non quella ond’egli si chiamò tradito; l’Impero deriva da essa ed insieme l’_ammanto papale_, sotto a cui non guardava egli per anco agli uomini che lo portavano. Questa è una sorta di professione di fede posta in principio e rimasta ferma per tutto il Poema; se non che essendosi dopo all’esilio in lui destate nuove passioni che pur volevano disfogarsi, sentì egli avere bisogno di scendere ad altro linguaggio da quello che avrebbe voluto da prima serbare. Allora cred’io desse al Poema titolo di Commedia; e scrisse il libro del Volgare Eloquio, il quale doveva nella parte non compiuta esporre le regole che a sè medesimo cercava egli quanto alla lingua ed allo stile in questo genere di composizione. La stesura del sacro Poema e la fatica del condensare ivi gli affetti ed i pensieri che la forte anima comprendeva, lo _fecero macro_ tutto il rimanente della vita: ne usciva il libro più intiero in sè stesso che umano ingegno mai pensasse. Come niuna opera di poesia si spazia su tanta ampiezza di cose, dai tramiti angusti della vita materiale fino alle più alte rivelazioni della coscienza; così nessuna riesce a comporre tante cose in un concetto unico, nel quale Dio, l’uomo e l’universo, come l’uno all’altro necessari si offrono insieme all’intelletto e a tutta l’anima del Poeta: in ciò a mio credere sta la preminenza dell’Alighieri tra’ poeti di ogni lingua. Altri ebbe forse dopo lui in altro idioma e sotto forma drammatica, una vena più ricca e possanza di creare in maggior copia immagini vive; prodotti di una facoltà inventiva che una dopo l’altra e ognuna da sè le fa passare incessantemente dinanzi al pensiero, come obietti nei quali non pare che egli si fermi o che più all’uno che all’altro consenta. Ebbe il maestro di Dante, Virgilio, più di lui squisito e fino il sentire di ciascuna cosa, e dolce e armonica sempre la parola nutrita d’affetti. Ma per l’Alighieri il mondo pare che si rifletta insieme tutto dentro a lui solo; talchè in lui sta l’unità del Poema suo e sta insieme l’universalità, perchè il pensiero di lui ambiva come da un centro a una circonferenza _volgere il sesto_ fino all’estremo dove non vanno altro che le idee, e tutte chiuderle in sè stesso. Così nel libro è tutto l’uomo, e quindi il nome di lui ha quasi un culto nel mondo. Della sua vita noi volemmo qui solamente toccare i fatti che appartengono all’istoria, dappoichè in tanta eccellenza di argomento noi male potremmo aggiungere cosa, la quale ai dì nostri non fosse di troppo. In quello stesso anno 1300, in cui Dante percorreva il celestiale suo viaggio, un mercante fiorentino Giovanni Villani trovandosi in Roma pel grande Giubbileo che Bonifazio VIII aveva intimato e al quale accorrevano cristiani d’ogni paese in numero incredibile, «veggendo le grandi e antiche cose di Roma, e leggendo le storie e’ grandi fatti de’ Romani, pigliò animo a scrivere i cominciamenti di Firenze e i fatti dei Fiorentini, e le altre notabili cose dell’universo in brieve.» Quella cronaca o storia è la maggiore alla quale uomo avesse posto mano da molti secoli. Così ad un tratto le nuove italiane lettere sorgeano giganti ed a sè faceano campo l’universo. Nota il Villani stesso, come «Firenze allora fosse nel suo montare e asseguire grandi cose, siccome Roma nel suo calare:» nè falso era quel giudizio; ma non che nell’ordine politico, anche nell’ordine intellettuale il montare di Firenze non corrispose intieramente al miracolo di quei primordi. Gli uomini dall’ampio e forte pensiero qui aveano spirato le aure del secolo magnanimo di San Tommaso e dell’Alighieri; ma innanzi di rinvenire altezze consimili, Firenze aspettava la dantesca anima di Michelangelo e l’intelletto di Galileo. La Poesia Italiana era sorta prima della metà del secolo tredicesimo: i Siciliani la celebrarono accolti nella splendida e gaia corte di Federigo II, il quale egli stesso amava far versi di lingua volgare in un co’ suoi figli; quasi piacesse allo Svevo anche in ciò contrastare ai Provenzali, che n’erano stati più antichi maestri. «Lo re (Manfredi) spisso la notte esceva per Barletta, cantando strambuotti e canzuni, che iva pigliando lo frisco; et con isso ivano dei musici siciliani, ch’erano gran romanzaturi.[147]» Dante incontrava nel _Purgatorio_ Guido Guinicelli [m. 1276], pel quale ebbe l’arte del canto maggiore coltura che in Sicilia non avesse, e parve seco lui pigliare stanza in Bologna, dove accorrevano da oltre un secolo gli studiosi di tutta Italia. Dei Toscani poeti, un Lapo degli Uberti e quel cardinale Ottaviano degli Ubaldini che nelle istorie è ricordato come gran capo di parte e politico ardimentoso, furono tra’ primi dei quali sia rimasta memoria. Guittone d’Arezzo [m. 1294] ebbe maggiore e più durevole fama: di lui ci pervennero versi e prose, ma troppo guasti dalla sformata lezione perchè ne sia dato recarne ora buon giudizio; talune però, e massimamente un celebre sonetto di lui alla Vergine, mostrano in lui un poeta vero ed una lingua non balbettante. Ingegno acuto e capace di più alto volo, ma fantastico e temerario nelle filosofiche speculazioni e nelle sètte politiche, fu Guido Cavalcanti, che parve allo stesso Alighieri degno di correre seco gli spazi dei morti: egli e Cino da Pistoia [n. 1270, m. 1337], poeta insigne e giureconsulto, se non erano offuscati da quel terribile coetaneo loro, avrebbono fama e lode maggiore per aver essi precorso a quella poesia più temperata e più serena che il sovrano d’un’altra età Francesco Petrarca seppe condurre a sì alto segno. Francesco da Barberino [n. 1264, m. 1348] espresse in rime non infelici concetti morali ed alcune delle filosofiche sottilità che al tempo suo predominavano; i libri di lui non sono picciol lume alla storia dei costumi e del pensare dell’età sua. Fra Iacopone da Todi [m. 1306] scriveva cantici che tuttora ci rimangono in gran numero, alquanto rozzi e che risentono del parlare umbro; non mai però senza vigoria di stile e d’affetto, e spesso rivelatori di quelle passioni religiose che alle politiche si mescevano. Nè vuolsi tacere il lucchese Buonagiunta, che Dante stesso parve agguagliare al più chiaro tra’ poeti siculi Iacopo da Lentini ed a Guittone d’Arezzo. Di altri minori non è qui luogo a discorrere, tra’ quali due si rendettero famosi per nimistà contro all’Alighieri; e furono Dante da Maiano e Francesco d’Ascoli, il quale in Firenze come eretico e stregone fu arso l’anno 1327, autore d’un poema intitolato l’_Acerba_; titolo che bene si poteva convenire anche alla maligna e riottosa natura di lui. La Prosa in Italia principiò ad essere coltivata nel tempo stesso della Poesia. Questa precede nei popoli i quali pervengono la prima volta a civiltà; ma in Italia le nuove lettere tutte nutrivansi di memorie: ed il volgare non era altro che un latino trasformato dalla lenta opera dei secoli, il quale divenne idioma nuovo e compiuto appena che il parlar comune ebbe acquistato tanta sicurezza di sè medesimo, che potesse nelle scritture distinguersi dalla lingua madre, e pigliar forma tutta sua propria. Il che nella prosa dovette rendersi più agevole di quello che fosse nel linguaggio figurato, dove predominavano gli esemplari o provenzali o latini, e che non traeva dal comun parlare norme sicure e bastevoli alla ambizione letterata di quei primi verseggiatori. La Cronaca di Matteo Spinelli pugliese [n. 1230], anteriore ad ogni altra in lingua volgare, è più italianamente scritta che non le rime dei Siciliani i quali sforzavano l’aspro dialetto a’ suoni e alle forme dei cantori provenzali.[148] Ma bentosto il seggio della lingua e del sapere veniva a porsi in Toscana. Più antico d’ogni altro fu Brunetto Latini, maestro di Dante, autore d’un Libro di sentenze rimate a cui diede il nome di _Tesoretto_. La maggiore opera sua, il _Tesoro_, fu scritta in francese: la chiameremmo oggi una piccola enciclopedia, contenendo essa quanto di fisica o di certa pratica filosofia chiudevasi allora nelle comuni scuole. Di lui abbiamo però in volgare anche versioni dal latino; e queste forse avranno dato al giovanetto suo discepolo animo a scrivere quella lingua che egli udiva parlare alla madre. Comincia la serie degli Storici Fiorentini dalla Cronaca che va sotto il nome di Ricordano Malespini, continuata da Giachetto suo nipote sino all’anno 1286. Pei tempi anteriori al 1300 basterà qui ricordare, come documenti della lingua, la versione dei Trattati d’Albertano da Brescia fatta l’anno 1278 da un notaio pistoiese, e quelle assai più notevoli di Bono Giamboni, il quale moriva prima che Dante scrivesse. A questi però sovrasta molto con quella sua Cronaca il fiorentino Dino Compagni [m. 1323]: l’Alighieri tiranneggia col fiero ingegno la lingua, alzandola come una bella prigioniera fino agli amplessi del sire; Dino, che ha tanto viva ed efficace la parola, non riesce però a nascondere un qualche sforzo nella composizione; sinceramente appassionato, ma pure ambizioso di dare al racconto la forma di storia secondo forse potè averne l’esempio in Sallustio. In quanto all’arguta speditezza dello stile si lascia il Compagni addietro il Villani, che tanto lo supera per la universalità dell’argomento e nella scienza dei fatti. Agli storici ed ai poeti s’aggiungevano i Moralisti; la lingua bastava a tutto svolgere il pensiero come a significare l’affetto. Il più antico di cui si abbiano predicazioni in volgare fu il frate Giordano da Rivalta [m. 1311]; non quali però da lui venivano pronunziate, ma trascritte compendiosamente da uno degli ascoltatori suoi. Conseguitava bentosto dello stesso ordine dei Predicatori, e nato pure di quella stessa provincia Pisana, altro d’assai maggiore scrittore Fra Domenico Cavalca [m. 1342], maggiore forse d’ogni altro che avesse mai l’idioma nostro, quanto alla proprietà delle parole e alla disinvoltura dell’andamento e alla naturalezza delle armonie: ascetico e moralista nei trattati che di esso ci rimangono in buon numero, egli è narratore impareggiabile in quelle vite o leggende dei cenobiti e degli anacoreti, che vanno col nome di Vite dei Santi Padri. Terzo dell’Ordine e della provincia stessa fu Bartolommeo da San Concordio [m. 1347], il quale con un breve libretto d’antiche sentenze ridotte in volgare meritò anche meglio della lingua che non per la traduzione delle Storie di Sallustio. Questi furono i principali tra gli scrittori che appartengono alla età dell’Alighieri e ai primi anni del secolo quattordicesimo. Il dodicesimo era stato come il secolo eroico della città di Pisa, il secolo delle grandi imprese: nel susseguente ella pervenne a quello splendore, al quale suole nelle umane cose conseguitare la decadenza. Aveva essa edificato già innanzi la fine di quel secolo il suo mirabile Duomo, nel 1152 il Battistero, e nel 1174 il famoso Campanile. Bonanno pisano architettore di questo bello e singolare edifizio, si rendè chiaro altresì per lavori di fusione in bronzo: una porta del Duomo della sua città, e quella del tempio di Monreale presso Palermo di già prenunziano alle arti una adolescenza promettitrice. La Scultura mantenuta viva per tutti i secoli anteriori dalle grandi opere architettoniche alle quali era ella necessario ed abbondante sussidio, la scultura precorreva nel suo risorgimento alla pittura, ed ebbe il suo Giotto in Niccola Pisano nato verso il 1204, settant’anni prima del fiorentino Pittore. Molte sculture a basso rilievo in Pisa ed altrove, e soprattutto la celebre arca di San Domenico in Bologna, pongono il nome di Niccolò in cima a quelli degli altri grandi restauratori o, a dir meglio, fondatori delle arti belle in Italia. Giovanni suo figlio dava il disegno di quel mirabile Camposanto che fu incominciato nella città di Pisa l’anno 1278, sei anni prima della sconfitta che nelle acque della Meloria poneva termine alle grandezze di quella illustre città. La Pittura nei secoli precedenti era in mano dei Greci, i quali anche nella decadenza dell’Impero bizantino uscivano fuori a praticare come mestiero le arti belle. I mosaici soli mantenevano qualche grandiosità di composizione, ed era il pennello rozzamente usato dai miniatori: queste arti in Italia comunque non affatto estinte mai, da pochi si trovarono oscuramente esercitate prima del secolo tredicesimo. Firenze, venuta (come dicemmo) in potenza assai più tardi di altre città toscane, incominciava forse ultima tra queste la serie dei suoi pittori; ma occupò tosto il primo seggio, e lo ritenne poi senza intermissione. Siena ebbe il suo Guido, mentre Giunta Pisano dipingeva in quella città dove Niccola aveva innalzato a più alto segno la scultura. Ad essi in Lucca s’accostava un Buonaventura Berlinghieri; e in Arezzo Margheritone scultore e architetto, che fioriva dopo la metà di quel secolo medesimo, fu anche pittore: nei primi tempi gli stessi uomini professavano tutte insieme le arti del bello. Veniamo adesso ai Fiorentini. Andrea Tafi, mosaicista, è messo innanzi come pittore con lode soverchia dal Vasari, studioso di corteggiare alla città principesca; Buffalmacco ha più nome dai novellieri come bizzarro ingegno, di quel che egli abbia pe’ suoi dipinti. A Giovanni Cimabue si volle negare, contro al Vasari ed all’Alighieri stesso, il vanto dell’avere egli innanzi a Giotto suo discepolo tenuto il campo della pittura; ed il plauso popolare che diede il nome alla via Borgo Allegri, e le fiaccole onde fu accompagnata in Santa Maria Novella quella Madonna di lui che ivi tuttora si vede, oggi con troppa incredulità si tengono come favole: in qualunque tempo ciò avvenisse, potè quella tavola, che per ampiezza di stile segna un progresso nell’arte, esser cagione di festa in un popolo già tanto vivo al senso del bello. Ma Giotto agli altri poco dovette, e l’arte a lui ogni cosa [n. 1276, m. 1337]; e se le pratiche del dipingere dopo lui molto si raffinarono, e all’arte venne grande soccorso da quella scienza che si trasmette; io non so poi chi lo vincesse quanto alla verità dei concetti, e alla naturalezza delle mosse, e alla evidenza dell’espressione. Il pecoraio del Mugello, che ampliò la pittura con la potenza che era in lui somma di comporre semplicemente le grandi storie, ornava con le sue opere molte tra le maggiori città d’Italia; e fu capo d’una scuola che instaurava le arti moderne, e che dipoi le conduceva sino all’ultimo confine loro: Gaddo e Taddeo della casata illustre dei Gaddi, furono primi tra’ suoi discepoli. A Giotto Firenze deve anche il suo mirabile campanile, dove la varietà delle ardite forme che il medio evo seppe inventare, vien temperata e quasi costretta a regolare bellezza dalla semplicità delle linee che appartengono allo stile classico. Le tradizioni grecolatine, in Italia mantenute dalla presenza dei monumenti, di rado concessero alle nostre cattedrali quella terribile maestà ch’esse ebbero nel settentrione, e forse renderono talvolta incerto lo stile anche dei primi restauratori. L’Architettura cristiana a cominciare dal quarto secolo (infino cioè dalla istituzione del culto pubblico e solenne) si creò forme sue proprie, ed innovò sull’antica arte. Poi nel dodicesimo secolo la forma di croce data generalmente alle chiese e i sesti acuti e le spire sostituivano all’arte greca un’arte nuova e tutta germanica, la quale non vuolsi certo paragonare all’antica quanto alla purità dello stile e alla simmetrica perfezione delle parti; ma come barbara e più audace sorpassa e trascende quegli esemplari del bello, con la profusione degli ornati, con la novità delle invenzioni, con l’arrischiato congegno degli archi e delle volte e delle cupole; ma sopra ogni cosa per l’accorgimento del temperare la luce, e per l’intendere che fanno le grandi linee verso il cielo, con religiosa ispirazione. Nel Duomo di Santa Maria del Fiore l’opera del Brunelleschi soverchia oramai quella d’Arnolfo, il quale poneva mano al grande edifizio l’anno 1298; ma sien pure false le parole della commissione che la Repubblica avrebbe a lui data quattro anni innanzi, certo è che la Cattedrale fiorentina è la maggiore tra quelle nelle quali gareggiavano allora tante città d’Italia. Ed in quegli anni Firenze deliberava tutte in un punto mirabili costruzioni; imperocchè per l’opera dello stesso Arnolfo sorgeva il Palagio del Comune [1298]; e l’audacissima torre s’innalzava sopra un’altra torre che appartenne già a una famiglia di grandi; e la piazza della Signoria s’apriva sulle rovine delle case che furono degli Uberti: anche il tempio di Santa Croce, cominciato l’anno 1294, fu architettura d’Arnolfo. L’antico Palagio del Potestà, monumento d’altri tempi e d’altri ordini politici, è dell’anno 1250; dell’anno 1268 la chiesa del Carmine, del 78 Santa Maria Novella, dell’85 la Loggia d’Orsanmichele, dell’anno 1299 San Marco, e del 1308 la Prigione delle Stinche _in qua carcerentur et custodiantur magnates_: di quei medesimi anni splendidissimi è la chiesa vecchia di Santo Spirito, rifabbricata dipoi grandiosamente dal Brunelleschi. Nel 1293 il Battistero di San Giovanni, più anni prima ornato già di mosaici, venne al di fuori incrostato di marmi bianchi e neri. Alle civili passioni mescevasi del pari ardente ed operosa la carità cittadina; molte tra le benefiche fondazioni di cui fu l’Italia iniziatrice alle altre genti, appartengono a quelli anni stessi. Tra le quali è debito ricordare la sempre vivace nelle buone opere confraternita della Misericordia per l’assistenza degli infermi; e quella del Bigallo, e più altre che furono istituite dalle compagnie degli artigiani a soccorso degli ammalati e dei poveri dell’arte loro. Lo Spedale di Santa Maria Nuova venne fondato l’anno 1285 da un cittadino il cui nome è a noi già caro per altro modo, Folco padre di Beatrice Portinari: abbiamo tuttora l’effigie in marmo della vecchia serva di quella famiglia, mona Tessa, la quale cominciò prima a raccogliere malati in alcune stanze della casa. La religiosa pietà del padre cresceva ai gentili costumi la figlia ispiratrice dell’Alighieri; e mona Tessa con l’operosa carità sua temprava forse al poeta giovinetto, anch’essa, talune delle più dolci sue note. In quelli stessi ultimi mesi dell’anno 1298, nei quali ponevasi la prima pietra di Santa Maria del Fiore, ebbe anche principio il terzo cerchio della città: il vescovo di Firenze e quelli di Fiesole e di Pistoia, in compagnia di molti prelati e religiosi, furono a benedire la prima pietra, seguitati da popolo innumerabile e da tutta la Signoria e ordini della città.[149] Dentro alla quale gli uomini atti a portare armi, si trova che sommavano a trenta mila, e settanta mila nel contado. Ne manca una istoria piena abbastanza ed accurata degli incrementi che il commercio e le industrie dei Fiorentini dovettero avere rapidissimi in quella seconda metà del secolo tredicesimo, e i quali produssero la grande opulenza cui sorse a un tratto questa città. I Fiorentini si spargevano per tutta Europa e per l’oriente, infaticabili faccendieri;[150] al moto degli animi non bastavano i confini angusti della città e dello Stato; e anche gli esilii servivano ad ampliare le relazioni e l’ingerenza loro nelle faccende dei più lontani paesi. Un racconto di cui si trova frequente ricordo nelle antiche scritture, non vuol credersi del tutto falso: narrano esse come l’anno 1300 essendo in Roma venuti ambasciatori a Bonifazio VIII da ogni parte della cristianità, dodici tra questi (dei quali i nomi si leggono) mandati da vari principi e perfino di Russia e di Tartaria, fossero di patria fiorentini. Forse erano uomini mercatanti andati a Roma pel Giubbileo ed insieme convenuti all’udienza del Pontefice; del quale poi corse questo detto: i Fiorentini essere nel mondo il _quinto elemento_. Quello fu il tempo delle più vere grandezze a questo popolo fiorentino che tutte in un subito le dispiegava, o tutte in germe le conteneva: nè credo si trovi nelle istorie esempio d’un’altra città, la quale più secoli vissuta con piccola fama, sorgesse in pochi anni fino a porsi direi quasi a capo della civiltà nell’Europa risorgente, e ad un tratto manifestasse tale espansione di vita e tale magnificenza d’opere e tale altezza d’ingegni. Maggiori sorti forse potevansi allora promettere alla città di Firenze, se non che molto d’appresso e da ogni parte la stringevano le forze rivali di tante altre città italiane; e ciò che a lei facessero i politici rivolgimenti veniamo adesso a narrare. LIBRO TERZO. CAPITOLO I. IMPRESE E MORTE DI CASTRUCCIO — INTERNE RIFORME: I MAGISTRATI TRATTI A SORTE. [AN. 1322-1328.] Ora comincia la più pericolosa guerra che avessero mai intorno a casa i Fiorentini. Castruccio degli Interminelli, cacciato da Lucca insieme col padre come Ghibellini, aveva condotto la gioventù poveramente dapprima in Ancona, quindi a Lione di Francia in servigio di mercatanti. Fece dimora anche nella Inghilterra, venuto in favore di quel re, ma gli convenne poi fuggirsene. Combattè con eccellente lode di valore le guerre di Fiandra sotto Alberto Scotto piacentino, e si acquistò grazia presso a Filippo re di Francia, a cui lo Scotto serviva. «Era della persona molto destro, grande, d’assai avvenente forma, schietto e non grosso, bianco, e pendea in pallido; i capelli diritti e biondi con assai grazioso viso.[151]» Grande maestro di guerra, e discostandosi dai modi usati nel governarla, fidava poco nelle fortezze, dicendo piacergli le fortezze le quali camminano; e intendeva le ordinanze strette, che rispondono ad ogni cenno del capitano. Potente sugli animi, e sufficiente a mantenere nei soldati la disciplina e nei popoli l’ubbidienza, da piccolo stato s’avviò a grandezza cui niun altro capo ghibellino infino al suo tempo avea nell’Italia osato aspirare. Ma nulla fondava, perchè ai figli suoi nemmanco rimase la possessione della città di Lucca, ed egli non fu altro che un nome nell’istoria.[152] L’Italia, allora emancipata dalla Germanica signoria, non aveva ben certe ancora le sorti sue, dappoichè il popolo dei mercanti e quel dei signori, col nome di Guelfi e di Ghibellini, si pareggiavano tuttavia. Da questi poteva forse alla nazione venire grandezza, da quelli usciva la libertà: prevaleva essa principalmente nelle città di Toscana, varia come il suolo che la produceva; ma erano invece nei piani Lombardi signorie possenti, costumi baronali e principeschi: ivi era più scarso il sangue latino, e il fiume del Po chiamava a confondersi nella unità tutte le acque che in lui sgorgano. Castruccio pertanto rinveniva intorno a sè campo meno atto alle grandi imprese; era egli a Pisa come straniero, e a Firenze si può dire, che il suolo stesso lo respingesse. Nondimeno, se egli non moriva, quel che fosse per avvenire non so; e quel grande uomo insufficiente a fare sorgere un’Italia forte, poteva opprimere la Toscana. Cessata, dopo otto anni e mezzo, nel 1322 la signoria del re Roberto, i Fiorentini ricominciarono a eleggere essi, come per l’innanzi, il Potestà e il Capitano. Continuavano intanto a combattere in Toscana contro Castruccio, e in Lombardia soccorrevano quella maggior guerra che le genti della Chiesa portavano contro a Matteo Visconti fin sotto alle porte di Milano. Ma questa perdeva poi bentosto il suo pericolo essendo venuto a morte Matteo in età di novant’anni, pur sempre fiero ed avveduto, e uomo di grandi fatti e consiglio: finiva scomunicato come eretico e scismatico. A quella morte, il maggiore figlio suo Galeazzo Visconti era cacciato in breve ora prima da Piacenza e poi da Milano; il che era sgominare tutte le forze de’ Ghibellini, e a Firenze se ne fecero le usate feste. Ma quivi durava poco tempo la letizia, poichè Castruccio, ingrossando sempre dopo avere fin dall’anno innanzi costretto Pistoia ad essergli tributaria, tirato a sè uno dei capitani forestieri ch’erano al soldo dei Fiorentini, e resi vani i disegni di quella Repubblica la quale cercava farlo assalire per mare e per terra dai Genovesi, «pieno d’audacia e baldanza, il dì di calende luglio 1323 subitamente cavalcò in sul contado di Prato, perchè i Pratesi non gli voleano dare tributo; postosi a campo alla villa d’Aiuolo con seicentocinquanta uomini a cavallo e quattromila pedoni.» I Fiorentini, incontanente saputa la novella, serrate le botteghe e lasciata ogni arte e mestiere, cavalcarono a Prato, popolo e cavalieri; ciascuna Arte vi mandò gente a piede e a cavallo, e molte casate di Firenze grandi e popolani vi mandarono masnade a piedi a loro spese; e i Priori pubblicarono, che qualunque sbandito guelfo si rassegnasse nella detta oste, sarebbe fuori d’ogni bando. Il dì seguente si ritrovarono in Prato i Fiorentini, che assommavano a millecinquecento cavalieri e ventimila pedoni;[153] d’essi, quattromila e più erano degli sbanditi, molto fiera gente. Disegnavano per l’indomani uscire a battaglia contro Castruccio; ma egli il dì appresso, levato il campo, si partì d’Aiuolo; e colla preda che avea fatta in sul contado di Prato, passò l’Ombrone, e senza arresto e di buon andare si ridusse a Serravalle. «Se i Fiorentini avessero mandato (scrive il Villani) di loro gente come potevano ad intercettare l’oste di Castruccio da Serravalle, al certo costui e la sua gente rimanevano morti e presi: _ma a cui Dio vuol male, gli toglie il senno_.[154]» I Fiorentini rimasti in Prato con poco ordine e senza capitano, e perchè i nobili non volevano vincere la guerra a pro dello Stato popolare; scisma e discordia nacque nel campo, imperocchè il popolo tutto voleva seguire dietro a Castruccio, e i nobili quasi tutti non voleano. Chiedevano essere liberati dagli ordini della giustizia, o come da loro si chiamavano, _della tristizia_;[155] la qual cosa il popolo non acconsentendo, fu mandato a Firenze ambasciatori per la deliberazione, se dovessero andare innanzi o ritornare in Firenze. Si venne a consulta intorno a ciò nel palazzo del Comune: ma per non essere modo all’accordarsi, tirando innanzi di consiglio in consiglio senza pigliare partito; il popolo minuto ch’era di fuori, cominciando da’ piccoli fanciulli, raunatisi in quantità innumerabile di gente, gridando Battaglia battaglia, e Muoiano i traditori, e gittando pietre alle finestre del palagio; fattasi notte, i signori Priori col detto Consiglio, per tema del popolo e quasi per necessità, stanziarono che l’esercito procedesse. Il quale moveva da Prato a Fucecchio; ma giunti quivi in disordine, ricominciarono i lamenti, e i nobili si rifiutavano. Però l’esercito che, accresciuto di nuovi rinforzi mandati da Bologna e da Siena, avrebbe potuto spingere l’impresa con suo vantaggio contro a Lucca, non avendo capitano che fosse da ciò, tornava in Firenze senza nulla fare, con grande vergogna. Venne ad aggiungere peggio al male, chè gli sbanditi ad istigazione di certi nobili si accostarono a Firenze a insegne levate, credendo per forza entrare dentro. Sentendo ciò il popolo, a suon di campane s’armò in difesa della città; e la mattina seguente essendo tornata la cavalleria col rimanente di quell’esercito, gli sbanditi si fuggirono; ma di lì a poco di nuovo chiedendo essi l’osservanza della promessa che aveano avuta solennemente dai Priori, non si trovò via per gli forti ordini contro loro che ottenessero il ritorno.[156] Allora otto dei loro caporali, che erano in Firenze a sicurtà per sollecitare d’essere ribanditi, reggendo fallita la speranza, ordinarono congiura nella città col favore di certi nobili i quali erano delle stesse loro case: e la notte di san Lorenzo vennero alle porte della città da più parti sessanta a cavallo e più di millecinquecento a piedi con le scuri per tagliare la porta verso Fiesole. Del che avutosi qualche sentore la sera innanzi, la città fu in arme e in gran tremore, dubitando il popolo di tradimento per parte dei grandi. Ma gli sbanditi ch’erano di fuori, veduto portare fiaccole sulle mura, e che nessuno rispondeva loro dentro, si partirono, senz’altro fare, alla spicciolata. Volevano allora i reggitori fare giustizia dei congiurati, ma si rimasero, tanti n’erano colpevoli. Il grosso del popolo chiedeva a ogni modo che giustizia si facesse; e alla fine essendo apposto ad Amerigo Donati, a Tegghia Frescobaldi ed a Lotteringo Gherardini che avessero acconsentito alla congiura, furono citati a comparire: confessarono di avere sentito il trattato, ma non esservi legati; e perchè nol palesarono a’ Priori, furono condannati ciascuno in lire 2000 e al confine per sei mesi fuori della città e contado quaranta miglia;[157] mite punizione, che fece il popolo mormorare. Poco di poi gli sbanditi ai quali era stato promesso il ritorno, l’ottennero sotto certe riserve, e con esclusione di quelli che parvero o più colpevoli o pericolosi. Ma qui, seguitando gli interni fatti, diremo come sulla fine di quell’anno essendo il governo dei popolani troppo ristretto e dominato da una fazione che si chiamò dei Serraglini, e della quale stava a capo la famiglia assai brigante dei Bordoni, parve a’ buoni cittadini si dovesse accomunare il governo fuori di quella fazione, ampliando il numero di coloro che risedessero nei magistrati. E perchè nelle elezioni le brighe riuscivano a soverchiare la volontà comune ed erano spesso cagione di scandali, e per la brama, o quasi direi per la manìa, d’egualità che dominava nella Repubblica fra tutte la più democratica che fosse mai; nè attentandosi d’affrontare ogni due mesi i tumulti d’una elezione popolare e di suffragi dati in piazza; in luogo di voti, posero la sorte; modo novello che, mantenuto sempre dipoi, divenne costume rimasto vivo fino ai giorni nostri e ch’io non temo di appellare funesto. Per quello viene ad abbassarsi l’autorità dei magistrati, del che si giovano le democrazie come i governi più assoluti; ma col decadere i magistrati lo Stato decade, e se pericoli sopravvengano, si trova ignudo d’ogni difesa. Fu data balìa a’ Priori di quel tempo, e ad altri dei maggiori popolani che allora avevano magistrato, di imborsare i nomi di coloro i quali dovessero tenere il priorato per quarantadue mesi, mischiandovi gente che n’era esclusa da più anni: da quelle borse poi venivano ogni due mesi tratti a sorte i nomi di quelli che volta per volta dovessero risedere: in seguito estesero l’ordine medesimo ai dodici Buonuomini e a’ Gonfalonieri delle compagnie, e a’ condottieri delle milizie. Ed oltre a ciò, per assicurarsi che le compagnie armate del popolo fossero pronte ad ogni difesa, e perchè i Gonfaloni sotto a’ quali si radunavano parve non bastassero per ciò che erano pochi e radi, e le case dei grandi gli tramezzavano così da impedire talvolta il subito radunarsi; per questo posero altre insegne, alle quali i cittadini uscendo di casa potessero correre, se alcun rumore nascesse, ed ivi raccogliersi con sicurezza per la vicinità: chiamavano queste insegne Pennoni, e Pennonieri i minori capi, i quali dovevano condurre ciascuno le genti raccolte ai Gonfalonieri delle compagnie. Trentasei furono i pennoni, divisi a due o a tre o a quattro sotto ciascuno gonfaloniere di compagnia: tanto geloso era questo popolo, e tanto minuto nei provvedimenti. L’anno dipoi, sembrando le borse non essere fatte con diligenza e con libertà bastante, furono esse rivedute: non trovarono il male grande quanto si credeva, ma pur nonostante corressero il fatto, così che fossero imborsati quei buoni cittadini i quali ne erano stati esclusi per le brighe dei Bordoni: e poi volendo contro a questi severamente procedere così da estirpare quel morbo insino dalla radice, fecero d’avere a loro modo un Esecutore degli ordini della giustizia; e questi poi, non senza contrasto, puniva di multa e sbandiva i principali di quella famiglia ed i maggiori loro aderenti. Ma il guasto poi non si correggeva senza incorrere in un altro male, perchè gli uomini forestieri cui davano giurisdizione, soventi volte ne abusavano, siccome avvenne anche in allora: talchè avanzando un altro gran passo in quella via tutta cittadina, e dismettendo ogni finzione o rimembranza dei vecchi tempi e della scossa autorità imperiale, decretarono che il Gonfaloniere co’ Priori e co’ Buonuomini potessero, come capi e principi dello Stato, annullare il Potestà e il Capitano e l’Esecutore che abusassero del loro ufficio; ma è da notare il modo che tennero: non osando fare che il Gonfaloniere andasse contro alle potestà che per antico diritto da più valevano che la sua, diedero a lui facoltà di rimuovere quella famiglia che ciascuno dei predetti magistrati portava seco in molto numero, e che erano la forza sua: nulla potevano senza la famiglia loro; talchè il popolo venne così di piatto all’intento suo, e lo stesso Potestà altro non fu da quell’ora in poi che un mero giudice salariato.[158] In quello stesso anno ebbero grazia dieci casate di grandi e venticinque schiatte di nobili di contado, le quali furono recate a popolo. Il che da molti fu biasimato,[159] perchè erano famiglie di picciol conto; laddove molte di popolani possenti e oltraggiosi erano degne d’essere messe tra i grandi per bene del popolo. Condizione singolare di questa città, dove i grandi si vivevano come stranieri nella Repubblica; e molti del popolo e sin’anche della plebe, impinguati, dai guadagni, e spinti innanzi dagli uffici, pigliavano i vizi o scimmieggiavano le vanità dei grandi. Del che il Sacchetti ne ha lasciato curioso esempio dov’egli narra come «un grossolano artefice, avendo bisogno forse per andare in castellaneria di far dipignere un suo palvese, mandò alla bottega di Giotto, avendo chi gli portava il palvese drieto; e giunto gli disse: Dio ti salvi, maestro; io vorrei che mi dipignessi l’arme mia in questo palvese.» Giotto vi fece tal dipintura ch’era una burla; e l’altro vistala, e dicendo a Giotto male parole, questi rispose: «Tu dei essere una gran bestia, che chi ti dicesse: chi se’ tu? appena lo sapresti dire; e giungi qui e di’: dipignimi l’arma mia. Se tu fossi stato de’ Bardi, sarebbe bastato: che arma porti tu? chi furono gli antichi tuoi? deh che non ti vergogni! comincia prima a venire al mondo, che tu ragioni d’arma, come se tu fossi de’ Reali di Francia.» Infine l’autore: «ogni tristo vuol far arme e far casati; e di tali, che li loro padri saranno stati trovati agli ospedali.[160]» A dimostrare poi quanto grande moto di ricchezze fosse nella città di Firenze, ne basti dire che una compagnia di cambiatori e mercatanti, quella degli Scali e degli Amieri, i quali erano degli antichi grandi, falliva ad un tratto per quattrocentomila fiorini d’oro, dopo essere durata oltre cento anni, tirando seco altre buone compagnie, o rendendole sospette con grave scapito dei commerci.[161] Castruccio intanto continuava ferocemente la guerra che abbiamo lasciata sotto le mura di Fucecchio, dove i Fiorentini per discordie non si attentarono di assalirlo. Aveva egli poi cercato invano di occupare per aspra battaglia quella terra posta a capo della inferiore valle d’Arno e della strada verso Pistoia. Invano pure tentava, per tradimento d’alcuni, la signoria della città di Pisa; perchè i Pisani, del pari temendo i Fiorentini per antichi odi, e Castruccio che gli avrebbe assoggettati alla vicina Lucca, si adoperavano in più modi a schermirsi d’ambedue: ma trista era quella condizione; e Pisa venuta già da molti anni in sul discendere, aveva perduto allora appunto ogni signoria nell’isola di Sardegna venuta in mano degli Aragonesi. Castruccio ogni dì più raccoglieva intorno a sè le maggiori forze ghibelline; mentre Firenze dall’altro lato si muniva d’amistà collegandosi e soccorrendo, qualora i casi ciò richiedessero, le città guelfe della Toscana, e Orvieto e Perugia etrusche e guelfe, ed in ogni tempo consorti e amiche a’ Fiorentini; e quelle pure della Romagna. Fu grande l’aiuto che ad essi prestarono in quella guerra i Sanesi, dei quali venne anche molto numero di cavalieri per generosa volontà d’animo. Capitano era dei Fiorentini Bertramo del Balzo, chiamato il Conte Novello, perchè non era di famiglia, ma fatto conte dal re Roberto, e da lui mandato a’ soldi della Repubblica insieme con poche centinaia di milizie. Avevano anche i Fiorentini assoldato Francesi in numero di trecento; ma tardi vennero, ed a Firenze non recarono l’aiuto che si sperava, caduti anche taluni di loro in sospetto di tenere segrete pratiche con Castruccio. Ma tutto il nodo di quella guerra può dirsi che fosse allora Pistoia, dove era signore un Filippo Tedici, lungamente bramoso non d’altro che di venderla a quel maggior prezzo che un de’ vicini gliela pagasse; e i Fiorentini per alcun tempo l’ebbero anch’essi a discrezione, ma la perderono ad un tratto soverchiati dalle arti e dalle armi di Castruccio.[162] A quell’annunzio, vedendo grave e soprastante il pericolo alla città stessa di Firenze, con grande studio si diedero a raccogliere un esercito, che riusciva assai numeroso di cavalieri e di fanteria, avendo prestato in tutto il corso di quella guerra opera egregia i collegati. La spesa ammontava (secondo scrivono) a tremila fiorini d’oro al giorno; somma incredibile a quei tempi e in territorio così angusto: ma le gravezze di nuovo imposte si pagavano alacremente dai cittadini, che difendevano sè medesimi e da sè stessi le amministravano. E perchè il Conte Novello si era mostrato poco esperto della guerra, e da star male a petto di un tanto avveduto capitano qual era Castruccio, in sua vece elessero il catalano Raimondo da Cardona, sperimentato nelle guerre di Lombardia, nelle quali però sempre fu egli infelice, ed allora usciva dalla prigionia in cui lo tennero i Visconti. Andava questi a porsi a campo sotto Pistoia, invano tentando con ogni artifizio smuovere Castruccio, il quale così pertinace in aspettare com’era pronto nell’assalire quando l’occasione fosse buona, si tenne chiuso dentro le mura. Per il che il Cardona avendo preso migliore partito, e sottrattosi per via di strattagemmi alla vigilanza di Castruccio, andò a gettarsi con tutta l’oste dall’altra banda di quei poggi, i quali dividono dalla pianura di Pistoia la valle d’Arno; e avendo espugnato il ponte a Cappiano, passato il fosso della Gusciana ed occupato Montefalcone, andò a porsi all’Altopascio, che in pochi giorni se gli arrese, di là minacciando Lucca stessa, e pronto ad ogni combattimento. Ma se quella mossa parve essere di buon augurio, male risposero gli accorgimenti del capitano quando il nemico gli stava a fronte, e mancò l’arte dell’accamparsi. Una prima battaglietta lasciava in forse la vittoria; se non che il campo rimasto a Castruccio, a lui diede quell’onore che è per sè stesso una grande forza: e intanto l’oste de’ Fiorentini scemava per morbi in quei terreni impaludati, correndo l’agosto; e oltreciò si disse, che il Cardona lasciasse per moneta partirsi dal campo i soldati; e che l’esercito al combattere si trovasse dimezzato. Castruccio pativa travagli consimili: ma intanto scendeva dalla Lombardia per dargli aiuto Azzo Visconti con ottocento Tedeschi; ed egli indugiava sinchè giungessero, e stava lì fermo con mirabile costanza, ed intratteneva con fallaci negoziati l’imprudenza del Cardona. Giungeva Azzo, ma prima di combattere mercanteggiava; nè si sarebbe forse egli mosso quand’era d’uopo, se al giovanile animo di lui non facevano assalto grande la moglie stessa di Castruccio e le più belle donne di Lucca, a lui deputate perchè dell’avarizia si vergognasse. Usciva infine egli da Lucca, e diede dentro animosamente quando la pugna era cominciata; la quale voltatasi non senza molto contrasto in favore di Castruccio, ottenne questi vittoria piena, massimamente perchè era egli stato molto sollecito d’intercettare tutti i passi ai nemici che fuggivano; cosicchè il numero dei prigionieri sopravanzò quello dei morti: e gli effetti riuscirono ai Fiorentini anche peggiori della stessa rotta, che fu ai 23 settembre 1325. Oltre a buon numero di cavalieri toscani, rimasero presi in quei fatti il capitano Raimondo da Cardona col figlio suo, ed Urlimbacca tedesco, uomo di grande valore ed assai caro ai Fiorentini; e con più altri francesi Piero di Narsi, del quale un figlio giovinetto fu morto; ed egli liberato dalla prigionia, ebbe dipoi la trista sorte che in appresso racconteremo. Castruccio fu detto che avesse del riscatto di tanti illustri prigionieri ben centomila fiorini d’oro.[163] Abbiamo la lista dei feditori, e poi quella dei prigionieri caduti in mano di Castruccio per quella battaglia; dopo la quale più non si trova che i cittadini di Firenze andassero di persona in grande numero alle guerre. Nè indugiò guari il vincitore, che scese rapido e terribile alla volta di Firenze. Ripigliate le tolte castella, che tosto disfece, poneva assedio a Carmignano; e senza aspettare la resa di quello, invadeva Signa, che per viltà dei soldati bentosto cedette. Ed egli padrone oramai di quella ricca e popolata pianura che sta intorno alla città dalle due parti dell’Arno, percorsala tutta partitamente in più giorni e quasi a disegno di bene ordinata distruzione, dopo avere lasciato ai soldati campo alle rapine dei ricchi mobili e degli arnesi ond’erano piene le ville e le chiese ed i monasteri decorati dalla pietà dei cittadini, cominciò a disfare le ville stesse e gli edificii. Cosicchè tutto lo spazio il quale è dai poggi di Colombaia e di Marignolle e di Giogoli infino a quelli che soprastanno a Careggi, ed a piè del monte infino a Sesto e a Calenzano, e quanto egli più poteva intorno alla città, tutto fu arso o devastato: fu danno gravissimo anche di opere che avevano pregio eccellente per l’arte, la pittura avendo già formato scuola in Firenze di chiari artefici, ed i cittadini compiacendosi adornare co’ dipinti le case loro ed i monasteri. Azzo Visconti veniva poi a vendicare l’ingiuria sofferta quando i Fiorentini pochi anni innanzi avevano corso un palio intorno alle mura di Milano; e venne Azzo a solo fine di correre un palio presso alle mura di Firenze al ponte a Rifredi, siccome tre altri ne aveva Castruccio corsi a Monticelli; che uno di cavalli, l’altro di fanti e il terzo di femmine meretrici: e in onta pure dei Fiorentini, a Signa dove egli aveva posto il campo suo, fece battere moneta d’oro. I Fiorentini a quei danni e a quelle depredazioni non si mossero, com’è solito delle città ricche, le quali temono più che ardiscano: e pure Firenze era gremita di gente ivi rifuggita da ogni parte della vicina campagna; ma non fecero, pel troppo ingombro, altro che produrre malattie e morti che furono in città più numerose di quelle che avrebbono incontrate combattendo. Si aggiungeva, che le mura lasciavano spazi tuttora aperti, di poco avendo cominciato a cingere il sesto d’oltrarno; il che serviva molto ad accrescere il terrore: era questo il terzo cerchio della città che via via si ampliava. Castruccio dipoi tornato a Lucca, volle onorare a modo antico le sue vittorie, e conduceva trionfo splendido, egli preceduto da lunga fila di prigionieri, i quali andavano con torchietti accesi a fare offerta a san Martino, da lui prescelto nuovo patrono alla città. E di lì subito si riconduceva intorno a Firenze, ponendo assedio a Montemurlo e continuando le devastazioni; le quali così dai primi giorni d’ottobre durarono sino al finire di quell’anno ed anche all’entrare del successivo 1326, per lo spazio di più mesi. In tali angustie dei Fiorentini, abbiamo documento che richiamarono, facendone cerna molto rigorosa, non pochi di quelli uomini o famiglie i quali avessero avuto condanna per causa di parte o anche di private nimicizie, sebbene fossero veri Guelfi.[164] Temevano anche di tradimento; e a quelle famiglie che avevano prigionieri alcuni dei loro nelle mani di Castruccio, stanziarono fosse vietato il governo dei castelli, con farle inabili agli uffici che più importassero alla guerra. Cresceva terrore il sospetto che Guido Tarlati dei signori di Pietramala, vescovo d’Arezzo, muovendo dall’opposta parte, venisse a compiere la ruina; ma questi, geloso della grandezza di Castruccio, si tenne fermo nella provincia sua, contento recare ai Fiorentini non gravi danni, che profittassero a lui solo. E questi, sebbene allora messi a sì dure strette, quel che potevano per moneta sempre operavano francamente; e col nemico alle porte loro diedero aiuto ai Bolognesi in certa guerra di Lombardia: quindi posero altre gabelle, e le riscossero in grande somma. Ma tuttociò non bastando, e caduti un’altra volta nella consueta necessità di ricorrere a signoria forestiera, concessero questa negli ultimi giorni del dicembre a Carlo duca di Calabria figlio primogenito del re Roberto, facendo a lui condizioni anche più larghe di quelle che erane usate: doveva egli tenere al servigio de’ Fiorentini mille cavalli oltramontani, ed essi pagare a lui per dieci anni della signoria duecentomila fiorini d’oro all’anno finchè durasse la guerra, e centomila in tempo di pace. Co’ Fiorentini erano dunque Spagnuoli, Francesi ed inclusive Tedeschi, essendo soliti i cavalieri di quella età porsi al servizio di chiunque gli facesse battagliare: Castruccio aveva seco Tedeschi ed Inglesi e Borgognoni, taluni dei quali avendo contro lui ordito congiura, egli con fiero animo, ed in presenza di tutto il campo, ad essi fece mozzare il capo. Tornava dipoi una terza volta nel febbraio intorno Firenze, e smantellata Signa che non gli serviva, fortificò Carmignano che egli voleva fare sedia della guerra; corse la valle di Pesa fino a San Casciano ogni cosa distruggendo, e con audace proponimento voleva chiudere l’Arno nella Golfolina per indi allagare l’odiata città: ma trovò essere ciò impossibile. Tirato quindi per falsi complici dentro un aguato Piero di Narsi, che prigione liberato da Castruccio poi capitano de’ Fiorentini gli aveva tramata la morte, fece a lui mozzare il capo come traditore delle onorate leggi della milizia. Furono allora Castruccio ed il Vescovo d’Arezzo percossi dal Papa di nuova scomunica; il quale però non volle bandire contro ad essi la crociata, benchè richiesto dai Fiorentini; bensì eleggeva il re Roberto vicario in Italia dell’Impero che in Allemagna era vacante. Da Napoli veniva allora in Firenze con la prima mano di soldati il francese Gualtieri di Brienne duca d’Atene, che poi vedremo troppo famoso nelle istorie nostre. E nei giorni ultimi del luglio 1326 giungeva lo stesso Duca di Calabria, con la Duchessa sua moglie figlia di Carlo di Valois, e con Giovanni principe della Morea suo zio che aveva anch’esso la moglie, e con Filippo despòto di Romania suo cugino, e con molta baronia di varie nazioni; in tutto duemila cavalieri, dei quali duecento erano a spron d’oro: si aggiungeva poi la corte del Cardinale Legato, venuto anch’egli nei giorni stessi. Ingente spesa alla città, ed ai costumi molto gran guasto recarono quelle corti forestiere, con grave lamento dei timorati popolani che a noi trasmisero questi fatti.[165] Leggi frequenti, e sempre inutili, tentavano porre un qualche freno agli adornamenti ed allo sfoggiare delle donne: ora i Francesi, grandi vagheggiatori, ottennero dalla Duchessa di Calabria si abolissero quelle leggi; e le donne imbaldanzite viepiù sfrenarono negli addobbi: coteste erano le _valenti donne_ magnificate poi dal Boccaccio e fatte celebri nel _Decamerone_. Tanto numero di assoldati, e gli aiuti che man mano venivano dalle città guelfe di Toscana, e le cerne di milizie che si facevano nel contado, allontanarono da Firenze la guerra portata allora da Castruccio in Lunigiana; dove i marchesi Malaspina, da lui spossessati, se gli volgevano contro con fresche armi di Lombardia. Continuava essa più mesi senza gran frutto, poichè Castruccio, solenne maestro, la sosteneva com’era solito animosamente. Piaceva al Duca di Calabria più che il combattere starsi a Firenze in largo vivere: aveva tolto egli per sè anche il diritto di nominare i magistrati della Repubblica, ed annullando le imborsazioni vecchie, faceva eleggere chi a lui piacesse: fu tra gli altri Gonfaloniere un della casa degli Acciaioli, già bene affetta ai re di Napoli. Ma in ciò mostrava egli buon giudizio, che i cittadini delle famiglie grandi facendo pratiche perchè fosse a lui data signoria libera, la rifiutava, ben conoscendo la forza vera della città stare nel popolo, e che meglio era farselo amico volonteroso che averlo suddito malcontento. Altre città e non poche terre di Toscana s’erano a lui date; e Prato in perpetuo, ch’era il più prossimo a Firenze: inoltre Carlo teneva Siena e grande stato da quella parte; in Roma aveva potenti amici, e più altri in Genova che lo seguitavano: così da Napoli fino alla Provenza, che apparteneva al re Roberto, ogni cosa era in soggezione di questo capo di parte guelfa: Parma e Bologna si erano date al Legato del Pontefice, che in Italia guerreggiava. Dal che venuti in apprensione grande i Ghibellini, s’appigliarono dal canto loro a quel partito che era ad essi consueto, chiamando in Italia questa volta non le forze ma la persona ed il nome dell’Imperatore di Germania. Era questi Lodovico di Baviera, salito all’Impero per lungo contrasto, ma in esso mal fermo, e svogliato dell’Italia perchè, non avendo sue forze proprie, gli conveniva stare quasi a discrezione di quei vassalli dei quali era egli poco altro che un mercenario. Venuto a Trento, si radunarono intorno ad esso i Visconti di Milano con gli Scaligeri di Verona e co’ signori di Mantova e co’ Marchesi da Este, e gli ambasciatori di Federigo re di Sicilia e di Castruccio, e quanti erano fuorusciti ghibellini da ogni parte d’Italia. Vi andò il Vescovo d’Arezzo, dal quale fu poi l’Imperatore incoronato a Milano come re di Lombardia; e quel Vescovo scomunicato si rivolgeva contro al Papa, che dai Ghibellini radunati venne deposto e chiamato eretico. Mentre avvenivano tali cose, e che il Bavaro intorno a sè raccoglieva quante forze a lui prestassero gl’Italiani, in Toscana il Duca di Calabria intendeva con la guerra ad infestare Castruccio, e in Lucca stessa gli suscitava contro una potente congiura, bentosto repressa e ferocemente gastigata. Una mossa vigorosa dell’esercito dei Fiorentini aveva intanto miglior successo, imperocchè Santa Maria in Monte, allora tenuta come il più forte castello il quale fosse nella Toscana, a un tratto investita con fiero assalto, dovette cedere alle armi guelfe, stando Castruccio sulle difese intorno a Lucca finchè il Bavaro non giungesse, ed aspettando maggiori cose. Gli andava incontro sino a Pontremoli con grande pompa di accoglienze; quindi con forze riunite, nei primi giorni del settembre 1327, vennero a porre l’assedio a Pisa; la quale, benchè fosse antica ghibellina, temeva Castruccio ed aborriva sopra ogni cosa dal sottostare alla vicina Lucca. Era nel campo il Vescovo d’Arezzo, anch’egli pauroso di quella grandezza a cui vedeva salire costui quando egli avesse acquistato Pisa. Tantochè, dopo avere inutilmente cercato gli accordi, quando egli vidde l’Imperatore entrato in Pisa e seco quell’uomo dal quale ogni cosa dipendeva, si partì cruccioso, e in pochi giorni venne a morte, prima di giungere in Arezzo. Rimane di lui nella chiesa cattedrale di quella città un molto splendido monumento, dove con belle sculture sono effigiate le profane imprese di lui, coi nomi di molte castella espugnate. Il Bavaro intanto, il quale non volle per allora dare Pisa parendogli essere città da smugnere poi da vendere quandochè fosse, a caro prezzo; venuto a Lucca, insignì Castruccio facendolo Duca di questa città; nuovo titolo nè ad altri dato in Italia sino allora dagli Imperatori d’Allemagna: poi venne seco fino a Pistoia, da dove Castruccio gli mostrò Firenze, invano studiandosi fargli aggradire quella impresa. Al Bavaro invece premeva quella del Regno, e prima l’andare in Roma a farsi incoronare. Castruccio dovette di male animo seguitarlo, costretto da quella necessità che rendeva inabile ogni capo ghibellino ad acquistarsi una grandezza tutta sua propria e nazionale. Nè meglio fruttava agli Imperatori la corona ch’essi venivano a cercare in Roma, e meno d’ogni altra la falsa corona che il Bavaro si fece imporre sul capo da un suo antipapa, con vana pompa e poco seguito e favore. Moveva quindi inverso Napoli; ed a quell’annunzio si partiva nei giorni ultimi del dicembre da Firenze il Duca di Calabria chiamato dal padre, e qui lasciando un suo vicario. Ma non potè il Bavaro tentare l’impresa del Regno, imperocchè essendo venuto a Castruccio subito avviso che la città a lui tanto cara di Pistoia, sorpresa per grande notturno assalto dai Fiorentini, era caduta in mano di questi e posta a sacco per dieci giorni; egli, senz’altro discorrere,[166] lasciata Roma e seguitato da tutto il nerbo delle sue genti, per la via della Maremma venne a Pisa; e considerato quello essere tempo e necessità da gettar via ogni riguardo verso l’Imperatore, e che alla recuperazione di Pistoia gli abbisognava far capitale di tutta Pisa, pigliava in mano il dominio libero della città, recando a sè tutte le entrate e gabelle del Comune e gravandola di nuove taglie: al che il Bavaro fu costretto a mal suo grado di consentire. E Castruccio, venuto il dì ultimo del maggio 1328 a porre con la persona sua l’assedio a Pistoia, combattè per oltre due mesi la città contro al Vicario del Duca ed al Maliscalco della Chiesa, con grande fatica d’opere d’assedio e molti scontri con gli inimici; i quali tentato inutilmente di fargli abbandonare l’impresa col minacciarlo essi dalla banda di Pisa e di Lucca, e in lui trovata contra ogni insulto quella costanza che gli era solita, infine lo viddero sotto agli occhi loro stessi entrare a patti nella città rimasta vuota di provvigioni. Di lì anelava all’impresa di Firenze, essendosi il Bavaro digià accostato fino a Todi col proposito di farsi innanzi per la via d’Arezzo, intantochè altre delle sue genti calavano dalla parte del Mugello, e Castruccio preparava maggiore guerra e più terribile per le vie note della pianura. Nè sarebbe stato nulla che l’Imperatore avesse in quel mezzo abbandonata l’impresa, andato a congiungersi in Maremma con le forze di Pietro figliuolo del re di Sicilia ch’era sbarcato a Talamone, se tanto pericolo della città di Firenze non fosse ad un tratto venuto a cessare per la morte di Castruccio. Il quale, infermo per le fatiche da lui sostenute nell’assedio di Pistoia, finiva la vita in Lucca il terzo dì del settembre: ma quella morte rimase occulta per alquanti giorni poi, siccome aveva egli prescritto, perchè i figliuoli avessero agio di assicurarsi nello Stato. Era Castruccio duca di Lucca, signore di Pisa e di Pistoia e della Lunigiana e di gran parte della riviera di Genova di Levante, con più di trecento castella murate: ma quante fossero le difficoltà nelle quali si avvolgeva quella sforzata sua grandezza, parve che avesse egli mostrato allorachè in Roma alla incoronazione dell’Imperatore, sopra una sua roba di sciamito chermisi portava scritti questi due motti: dinanzi al petto _Egli è quello che Dio vuole_, e dietro le spalle _Sarà quello che Dio vorrà_. E poco innanzi alla sua morte, conoscendosi morire, disse ai suoi più stretti amici: che dopo lui vedrebbero rivoluzione.[167] Era in età di 47 anni quando moriva. Due mesi dopo venne a morte Carlo duca di Calabria, il che fu ruina di casa d’Angiò rimasta priva di successione maschia; ma Firenze per tal modo riacquistava la libertà quando era cessata la necessità della difesa. Laonde attesero i magistrati a riordinare lo Stato; e perchè tale ordinamento rimase poi stabile e diede forma alla Repubblica, lo trascriveremo qui distesamente in molte sue particolarità. «Volendo che lo squittinio de’ loro magistrati procedesse sinceramente, trovarono questa via, che tutti gli ufficiali che di presente governavano la città, come Priori, Consiglieri, Gonfalonieri di compagnie, Capitani di parte guelfa, Cinque della mercatanzia e Consoli delle arti, ciascun magistrato con due arroti popolani per sesto, che vennero a fare il numero di novantotto persone, nominassero tutti coloro che di trenta anni in su erano stimati degni del priorato. Ciascun de’ quali, avendo sessantotto fave nere, avesse a imborsarsi di sesto in sesto per esser tratto a’ tempi ordinati, di mano in mano che si facea la creazione de’ nuovi magistrati. Alla qual cosa procedettono con tanto riguardo, che oltre aver preposto al contar delle fave sei Religiosi forestieri d’ottima fama, vollono ancora che il forziere ove dette borse si conservavano fosse portato nella sagrestia de’ frati Minori, e che di tre chiavi che v’erano, una tenessono i frati conversi di Settimo, l’altra il Capitano del popolo, e la terza il ministro de’ frati Minori, con ordine che ogni due mesi, tre dì innanzi che i vecchi Priori deponessero il loro ufficio, facessero venire il detto forziere, e in presenza di tutto il consiglio aprirlo e trarre a ventura tante bollette quante bisognavano a fare i nuovi Priori; i quali s’intendessero esser subitamente fatti, se non erano impediti dal divieto: il quale a quelli d’una famiglia s’intendeva esser di sei mesi, e tra padri, figliuoli e fratelli, di due anni. Questo ordine con molte altre circostanze necessarie fermato per gli opportuni Consigli, fu approvato in pieno parlamento nella piazza de’ Priori li 11 di dicembre; nel quale annullati tutti i Consigli vecchi, ne furono formati due soli; uno di trecento uomini, ove non intervenivano altri che popolani, del quale era capo il Capitano del popolo; e l’altro di ducentocinquanta, dove entravano popolani e grandi, e di questo era capo il Potestà; e le deliberazioni prese dalla Signoria doveano, per esser valide, essere prima approvate in quello del Popolo, e poi in quello del Potestà.[168]» Nota qui presiedere il Potestà al Consiglio del Comune, e il Capitano a quello del Popolo: la distinzione era solenne, nè vuole essere dimenticata mai: il Popolo aveva il governo del Comune rappresentato dal Potestà; il Capitano era custode di quel governo, e comandava la forza armata dei popolani. Ciascun Consiglio aveva pure la sua campana, l’una appellata campana del Comune e l’altra del Popolo. Spettando al Popolo la prerogativa, il Consiglio del Comune dove i grandi si ammettevano, veniva ultimo alle approvazioni. Qui aggiugneremo alcune altre più particolari costumanze, tratte da un’opera tuttora inedita ma d’assai fede e diligenza.[169] Allorchè la nuova Signoria entrava in possesso, sedendo i nuovi ed i vecchi insieme sulla ringhiera del Palagio abbigliata di ricchi e belli arazzi, e fatte le opportune dicerie, il Gonfaloniere nuovo riceveva lo stendardo del popolo dalle mani, nei primi tempi, del Potestà o del Capitano, poi da quelle del Gonfaloniere che usciva: andavano quindi ad offerire in San Giovanni, con molto grande accompagnamento. Nelle stanze del Gonfaloniere erano custoditi gli stendardi della Repubblica, e i contrassegni delle fortezze, e le chiavi delle porte della città chiuse la notte, e che non si aprivano senza un partito della Signoria. A lui spettava rappresentare la Repubblica nelle maggiori occasioni, dando egli la bacchetta del comando al Potestà e al Capitano del popolo e all’Esecutore ed ai Capitani che si eleggevano per le guerre. Il Gonfaloniere ed i Priori mangiavano insieme ed in cerimonia, suonando le trombe ed altri strumenti; dai quali erano pure accompagnati quando uscivano per ufficio, preceduti dai mazzieri con molta guardia e solenne pompa. La spesa pel vitto e mantenimento dei Signori e dei donzelli e serventi loro montava a dieci fiorini d’oro il giorno: erano compresi nella famiglia del Palagio cinque Religiosi, da principio Valombrosani, per dire la messa nella interiore cappella e per la custodia delle borse e dei sigilli. Era vietato ai Signori uscire di Palagio privatamente; e se taluno volesse andare la notte senza che il popolo lo sapesse alle sue case, gli abbisognava la licenza del Proposto, di quello cioè che tra’ Priori quel giorno aveva la presidenza: non potevano andare a’ mortori, nè a messe novelle, nè ai vestimenti delle monache. Ad essi non era lecito trattare da solo a solo con alcuno, quando anche fosse dei loro congiunti; ma davano udienze frequenti, e (a quello che scrive il Giannotti) continue tanto che l’impaccio delle private faccende riusciva ad essi d’impedimento a bene attendere alle pubbliche. Un tristo fatto vuolsi notare: nel precedente anno 1327 per condanna dell’Inquisizione fu arso in Firenze come eretico e stregone Francesco Stabili, noto col nome di Cecco d’Ascoli. Abbiamo di lui fatto ricordo come poeta, ma ebbe altresì fama grandissima per dottrina; lesse in Bologna astronomia, ed in un trattato della Sfera avea prodotto molte opinioni sugli influssi delle stelle. Allora stava come astrologo presso il Duca di Calabria, ma un frate Minore vescovo d’Aversa e cancelliere del Duca lo fece pigliare; e più cose inverosimili si raccontano di quella morte, della quale però sembra che fosse principale autore Dino del Garbo, solenne medico fiorentino, scrittore anch’esso di vari libri. L’Inquisizione non fu giammai in Firenze molto viva; tolta di mano ai Predicatori fin dal secolo precedente, fu data invece ai frati Minori, bene accetti a questo popolo perchè nella regola di san Francesco era stata la consecrazione o in qualche modo il primo inizio della Italiana democrazia. Favorirono gli Inquisitori ne’ primi tempi gli odi di parte con le condanne e le confiscazioni di cui percossero i Ghibellini: ma dipoi stettero quasi inoperosi, messi anche in burla da questo popolo; il quale sebbene parteggiasse per la Chiesa e nelle opere di religione si dimostrasse molto magnifico, era geloso e guardingo assai quanto allo stato ed alla giurisdizione. CAPITOLO II. IL RE GIOVANNI DI BOEMIA SCENDE IN ITALIA. — PIENA D’ARNO. — DEDIZIONE DI PISTOIA, ED ALTRI ACQUISTI. — GUERRA CON MASTINO DELLA SCALA; FALLITA IMPRESA DI LUCCA. [AN. 1328-1342.] Nel detto anno 1328 e fino al 1330 fu grande caro in Firenze e in tutta Toscana ed in gran parte d’Italia, tantochè il grano dai 17 soldi lo staio montò fino al prezzo di un fiorino d’oro. Fu sì crudele la carestia, che i Perugini, i Sanesi, i Lucchesi, i Pistoiesi e più altre terre di Toscana cacciarono fuori degli Stati loro tutti i poveri mendicanti, per non poterli sostenere. I quali venuti in grande copia a Firenze, quivi trovarono campamento, avendo il Comune fatto venir grano di Sicilia, ch’era portato a Talamone; e con la perdita di 60 mila fiorini d’oro in quei due anni, gli riuscì tenere il prezzo del grano a mezzo fiorino, tuttora col quarto d’orzo mescolato. «Vendevasi in piazza ad Or San Michele con tanta furia di popolo, che convenia vi stessero a guardia le famiglie delle Signorie armate col ceppo e mannaia per fare giustizia, e se ne fece tagliando membri. Infine provviddero di fare pane per il Comune a tutti i forni, di peso d’once sei il pane mischiato, a danari quattro l’uno. E (dipoi seguita il Villani) tuttochè io scrittore non fossi degno di tanto ufficio, mi trovai ufficiale con altri a così amaro tempo, e con la grazia di Dio fummo de’ trovatori di questo rimedio, onde si contentò la povera gente, senza scandalo o rumore; e con questo testimonio di verità, che in niuna terra si fece per gli possenti e pietosi cittadini tante elemosine a’ poveri, quante in quella disordinata carestia si fece per gli buoni Fiorentini.[170]» I figliuoli di Castruccio dopo la morte del padre aveano a Pisa _corso la terra_; usato modo di attestare e con la forza di confermare la possessione d’una città: ma vennero tosto dall’Imperatore privati di quella, e poi di Lucca stessa, e perdettero ogni signoria, la quale tentarono più volte poi di racquistare, ma senza frutto. Rialzava il capo nella Toscana la lega guelfa capitanata dai Fiorentini, che strinsero pace con Pistoia liberata, e poco dipoi in Montopoli con Pisa istessa conciliando a breve tempo le vertenze consuete per il passaggio delle mercatanzie. Ma l’Imperatore, dopo avere dai Pisani cavati danari quanti più poteva, lasciò la Toscana costretto partirsi per il motivo che ora diremo; e dopo essersi trattenuto qualche tempo in Lombardia, se ne tornava in Allemagna. Causa al partirsi gli aveva dato, che ottocento cavalieri tedeschi per non essere pagati se gli ribellarono, postisi a campo in sul poggio del Cerruglio che aveva Castruccio fortificato gli anni innanzi; e di qui poi sotto la condotta di Marco Visconti, correndo le terre e devastando le campagne, come gente bisognosa che vivevano di ratto, ebbero il castello dell’Agosta dal quale Lucca era dominata, ed in breve ora la città stessa. Questa, perchè non ne volevano altro che moneta, mandarono a offrire per ottanta mila fiorini d’oro ai Fiorentini; e Marco istesso venuto in Firenze sollecitava il trattato, che andò a vuoto quella volta e un’altra poi, quando i Tedeschi la profferirono di bel nuovo, ed una compagnia di mercanti Fiorentini, tra i quali era Giovanni Villani, accettavano di comperarla privatamente per conto loro: ma ne furono impediti da gelosie tra’ cittadini; ed i Tedeschi, dopo averne anche avuto trattato co’ Pisani, la venderono a Gherardino Spinola genovese, il quale divenne per trenta mila fiorini d’oro signore di Lucca: a tale bassezza era caduta quella città. Ebbe egli guerra co’ Fiorentini, i quali cinta con vano assedio la stessa Lucca, espugnarono Montecatini, con buoni successi anche nell’inferiore Valdarno; e San Miniato, antico seggio degli imperiali Vicari o Capitani, venne pur esso in potestà loro. Qui dirò cosa da farne amare al paragone i tempi nostri: il Capitano dei Fiorentini perdè la condotta perchè lasciava per moneta i contadini seminare le terre loro: dovevano i campi dei nemici rimanere incolti, e tutti patire degli odii scambievoli. Tanto crudeli erano le guerre quando tra’ popoli si facevano, e così era l’amor di patria ristretto dentro a breve spazio. In questo mezzo era disceso nell’Italia il re Giovanni di Boemia, figlio rimasto d’Arrigo VII, invitato dai Bresciani, a’ quali pareva essere oppressi dai Visconti. Di prima giunta ebbe, oltre a Brescia, Bergamo e Parma e Reggio e Modena, e dallo Spinola a buon mercato ebbe in vendita la infelice Lucca. Aveva la Chiesa antiche ragioni su talune di quelle città; ma il Re procedeva d’intelligenza e con l’amistà del Cardinale Legato, il Papa cercando farsene strumento contro all’Imperatore bavarese e ai Ghibellini di Lombardia. Laonde temette Firenze allora quell’ingrossarsi dello Stato pontificio intorno ad essa da ogni lato; temeva il Papa più che l’Imperatore lontano e povero e discreditato. E quanta fosse la confusione in cui vivevano le italiane cose mostrò la lega che insieme strinsero i Fiorentini ed il re Roberto con gli Scaligeri e co’ Visconti e con gli altri Ghibellini; lega improvida tra nemici, che per viluppi ogni ora nuovi sempre dovevano poi combattersi. Ma i primi frutti se ne ottennero, e ciò bastava: i collegati presso Ferrara ebbero la meglio in una grande giornata, e il francese Cardinale restò prigione dei Bolognesi; se non che tosto i Fiorentini ne procurarono la liberazione, perchè troppo non volevano tenere guerra contro alla Chiesa: il re Giovanni ripassò le Alpi. Nuovi disastri sopravvenivano in questi tempi alla città. Le inondazioni dell’Arno più gravi erano e più frequenti in quei secoli che a’ dì nostri. Narra Giovanni Villani come nell’anno 1333, il dì d’Ognissanti, «cominciò a piovere diversamente in Firenze ed intorno al paese nell’alpi e montagne, e così seguì al continuo quattro dì e quattro notti, crescendo la pioggia sformatamente che pareano aperte le cateratte del cielo, e colla pioggia continuando spessi e grandi e spaventevoli tuoni e baleni, e cadendo folgori assai; onde tutta la gente viveva in grande paura, sonando al continuo per la città tutte le campane delle chiese, e in ciascuna casa bacini o paiuoli; con grandi strida gridandosi a Dio Misericordia Misericordia; fuggendo le genti di tetto in tetto, facendo ponti da casa a casa; ond’era sì grande il romore e il tumulto, ch’appena si potea udire il suono del tuono. Per la detta pioggia il fiume d’Arno crebbe in tanta abbondanza d’acqua, che prima onde si muove scendendo dell’alpi con grande empito e rovina, sommerse molto del piano di Casentino, e poi tutto il piano d’Arezzo e del Valdarno di sopra, abbattendo e divellendo gli alberi e mettendosi innanzi e menandone ogni molino e gualchiere ch’erano in Arno, e ogni edificio e casa appresso all’Arno che fosse non forte: onde perirono molte genti. E poi scendendo nel nostro piano presso a Firenze, accozzandosi coll’Arno il fiume della Sieve, la qual’era per simil modo sformata e grandissima, e avea allagato tutto il piano di Mugello; il giovedì a nona, a dì 4 novembre, l’Arno giunse sì grosso alla città di Firenze, che egli coperse tutto il piano all’intorno della città fuori di suo corso in altezza in più parti sopra i campi, ove braccia sei e dove otto e dove più di dieci braccia. E fu sì grande l’empito dell’acqua, che rotte le porte e gran parte delle mura, inondò tutta la città stessa; tantochè nella chiesa e duomo di San Giovanni salì l’acqua infino al piano di sopra dell’altare, più alto che mezze le colonne di porfido le quali stanno alla porta. E al Palagio del popolo dove stanno i Priori salì il primo grado della scala dove s’entra, incontro alla via Vacchereccia, che è quasi il più alto luogo di Firenze. E al Palagio dove sta il Potestà salì nella corte disotto, dove si tiene la ragione, braccia sei. Ruppe la pescaia d’Ognissanti, e incontanente rovinò e cadde il ponte alla Carraia, e poi subito quello di Santa Trinita, e il ponte Vecchio; cadde in Arno la statua di Marte che era a piè di esso ponte; e quello a Rubaconte fu danneggiato molto, e rovinò a terra il palagio del castello d’Altafronte: caddero gran parte delle case di qua e di là d’Arno fino al ponte alla Carraia e alla gora del Mulino; che a riguardare le dette rovine pareva quasi un caos. Tutte le vie e case e botteghe terrene e vôlte sotterra rimasero piene d’acqua e di puzzolente mota, che non si sgombrò in sei mesi; e quasi tutti i pozzi furono guasti e si convennero rifondare. L’Arno coperse tutto il piano verso ponente fin’oltre a Prato e fin presso a Pisa, guastando i campi e vigne, menandone masserizie, case, mulina, ponti e molte genti, e quasi tutte le bestie. Questo diluvio fece alla città e contado di Firenze infinito danno; di persone intorno a trecento, che al principio si credea più di tremila; e di bestiame grande quantità, di rovina de’ ponti e di case e molina e gualchiere in grande numero, che nel contado non rimase ponte sopra nessun fiume o fossato che non rovinasse; di perdita di mercatanzie, panni lani di lanaiuoli per lo contado; e di arnesi e di masserizie e del vino, che ne menò le botti piene, assai ne guastò; e simile di grano e biade ch’erano per le case; senza la perdita di quello ch’era seminato, e il guastamento e rovina delle terre e de’ campi: che se l’acqua coperse e guastò i piani, i monti e le piaggie ruppe e dilaniò, e menò via tutta la buona terra.[171]» I danni pubblici e privati, scrive il cronista contemporaneo, che gli era impossibile per alcun numero adequare. Avremo però spesso occasione di accennare come nei pubblici danni cercasse suo pro la ferocia delle parti, cagione forse anche degli incendi che assai frequenti si rinnovarono in tutto il corso di quegli anni. Ed a quei tempi venne in Firenze una di quelle processioni di Flagellanti, noti abbastanza per le istorie in altre parti d’Europa. Erano da diecimila Lombardi condotti da un frate Venturino da Bergamo dell’ordine dei Predicatori. Dovunque passavano, gridavano pace e misericordia. Ed il Frate predicava con efficaci parole, «quasi affermando e dicendo: quello che io vi dico sarà, e non altro; chè Iddio così vuole.» In Firenze dimorarono quindici dì, ed ogni giorno nella piazza Vecchia di Santa Maria Novella erano messe tavole e mangiavano 500 per volta e più. A Roma andarono, ingrossati molto d’uomini toscani che gli seguitavano; e di là quindi in Avignone a Corte del Papa: ma per la presunzione del Frate, e perchè diceva che non era niuno degno papa se non stesse a Roma alla sedia di san Piero, e per tema ch’ebbe il Papa che per le sue prediche non commuovesse il popolo cristiano, lo mandò a confino, e comandogli che non confessasse persona nè predicasse a popolo. «E questi sono (continua il giusto e pio Villani) i buoni meriti che hanno le sante persone da’ prelati di Santa Chiesa; ovvero che fu giusto per temperare la soperchia ambizione del Frate, tutto ch’adoperasse con buona intenzione.[172]» In quelli stessi anni cominciarono a crollare e poco dopo fallirono la compagnia dei Peruzzi e quella dei Bardi, le quali avevano sovvenuto il re d’Inghilterra nelle guerre contro a’ Francesi che a lui valsero le vittorie di Crécy e di Poitiers. Per le loro mani venivano tutte le rendite e lane e cose di quel re, ed essi fornivano tutte sue spese e bisogni: tantochè i Bardi si trovarono avere da lui più di centottanta migliaia di marchi di sterlini, e i Peruzzi più di centotrentacinque migliaia; che ogni marco valeva più di fiorini quattro e un terzo d’oro, e in tutto montava più di un milione e trecentosessantacinque mila fiorini d’oro. Bene erano in quella somma da contare le provvisioni a loro fatte in molti anni; «ma grande follia fu avere messo tanta gran somma in uno Signore,» come scrive lo stesso Villani il quale era o era stato in società coi Peruzzi.[173] Molti di questi danari erano ad essi dati in deposito da cittadini e forestieri; cosicchè il danno fu grande, e per qualche tempo scemò il credito della città di Firenze, nelle mercatanzie e nelle arti. Continuava però la costruzione dei pubblici edifizi; e allora sorgeva il campanile di Giotto, ed all’Arte della lana fu data la cura di proseguire la fabbrica di Santa Maria del Fiore, interrotta molti anni, a questa assegnando certi proventi nuovi o soprattasse alle gabelle del Comune. La Repubblica frattanto da ogni parte si ampliava fuori dei termini dell’antico Stato; e primo passo in quella via per cui si perde la libertà fu estendere il dominio in altre città use a viver libere ed a fiorire nella indipendenza.[174] La giustizia delle repubbliche cessa pel fatto delle conquiste; non sanno reggerle temperatamente, e con le offese che ad altri recano, a sè preparano servitù. A Roma e in Grecia le oppressioni di molti popoli si coprivano con la bugia delle colleganze; nella Toscana lo stesso nome soleva darsi alle dedizioni, rifugio ultimo delle città smunte o lacerate dalla discordia. Prima a cedere fu Pistoia, che prima era stata cagione di scandali, e che aveva sopra ogni altra patito in quegli anni, talchè l’istoria ne è lamentevole.[175] Fidava da ultimo nella fortuna di Castruccio; ma pochi mesi dopo la morte del gran condottiero dovette Pistoia venire a patti co’ Fiorentini, i quali ne presero la guardia, ed uno loro cittadino popolare andò a risedervi per capitano. Due anni dopo, nel 1331, entrativi a forza con l’aiuto della parte che stava per loro, corsero la terra, disfecero tutte le fortezze del contado, ed una tosto ne fabbricarono dentro la stessa città. La dedizione era per due anni,[176] continuata di mano in mano; un magistrato istituito per le cose di Pistoia, e che dipoi ebbe nome di _Pratica Segreta_, non è gran tempo che fu abolito. Nel 1332 i Fiorentini fecero lega con la famiglia dei Casali, i quali avevano la signoria di Cortona, e gli tolsero in protezione; ch’era già porre come un freno in bocca ad Arezzo. Le ambizioni del Vescovo Tarlati avevano fatto a questa città quel che alla misera ed esausta Lucca le grandezze di Castruccio. Morto il Vescovo, era capo di quella famiglia il vecchio Piero, suo maggior fratello, noto col nome di Pier Saccone: questi avuta contraria la sorte delle armi, e stretto in mezzo tra città guelfe, prima cercò fare accordo co’ Perugini per la signoria d’Arezzo, poi la cedè ai Fiorentini l’anno 1337. I patti furono, che per dieci anni il Comune di Firenze avesse in Arezzo impero e libera giurisdizione, tenendo quivi oltre al potestà e al giudice delle appellazioni, un capitano di custodia e di guardia con dugento cavalli ed altrettanti fanti italiani, ma non d’Arezzo nè del contado. Che gli Aretini fossero esenti da nuove prestanze, che si reggessero a popolo guelfo e ghibellino; che gli esuli della città e del contado fossero rimessi a’ loro beni ed agli onori. L’istesso obbligo noi troviamo nel trattato con Pistoia, inteso al fine di mantenere viepiù divise le città suddite: dai Ghibellini poco temevasi, ed in Firenze il nome guelfo era strumento alle soperchierie d’alcuni uomini prepotenti. I Fiorentini mandarono a pigliare la possessione di Arezzo dodici Commissari grandi e popolani: i grandi veggiamo questa volta figurare, perchè l’impero spettava al Comune di Firenze, nel quale tutti si comprendevano i cittadini indistintamente, benchè lo stato fosse del Popolo; ed in Arezzo poi volevano (come dicemmo) piaggiare i nobili. Vi mandarono nel tempo stesso il Generale di guerra con trecento cavalieri in arme e tremila pedoni del Valdarno di sopra, ai quali uscì incontro due miglia fuori della città il popolo d’Arezzo con rami d’ulivo in mano gridando pace e perpetua felicità alla Repubblica Fiorentina. Piero Tarlati gli ricevè in sulla porta della città, della quale poi nel maggior tempio furono date ad essi le chiavi e il gonfalone della giustizia; non senza le pompe delle usate dicerie, che si facevano in latino. Contuttociò il primo atto della nuova signoria fu edificare una fortezza a sopraccapo della città, e una bastìa presso alla porta la quale s’apre verso Firenze. Nell’anno 1338 Colle di Valdelsa si diede anch’esso ai Fiorentini. I patti vari delle dedizioni per cui si compose il nuovo Stato della Toscana, indussero molta varietà di privilegi, e condizioni disuguali nelle città minori e nelle terre o comunità, e vita propria in ciascuna d’esse. I Tarlati ritenevano intorno Arezzo molte castella, che per l’accordo furono date in protezione alla Repubblica. I Barbolani, cui era sede il forte sito di Montaguto, ottennero anch’essi esenzioni e privilegi finchè più tardi vennero a porsi sotto la stessa accomandigia. I possenti Conti Guidi, che rimasero per cento anni poi dominatori del Casentino, in quel trattato ebbero favore siccome amici della Repubblica; la quale però in quell’anno dava opera a fondare Terranuova nel Valdarno superiore perch’ella stesse a fronteggiare cotesti Conti e gli Ubertini, e raccogliesse gli uomini liberi via via sottratti alla dominazione loro: alla famiglia degli Ubertini, ed ai Pazzi di Valdarno, ed a quei della Faggiuola, ed ai conti di Montefeltro, ed ai conti Montedoglio fu vietato d’accostarsi per dieci miglia alla città d’Arezzo. Molte contese e trattati vari in questi anni ebbe la Repubblica, siccome n’ebbe essa in ogni tempo co’ Signori dei castelli fin dal principio della libertà:[177] costrinse i Bardi alla cessione della contea di Mangona, restando ad essi quella di Vernio, l’una e l’altra avute in compra dai successori dei Conti Alberti che la tenevano dai Cadolingi. Ai più deboli talvolta prestava aiuto contro a’ potenti; riduceva altri a prestarle omaggio offrendo un cero a San Giovanni; i vassalli dei Signori faceva sorgere a coloni liberi,[178] ed il popolo dei contadini viepiù avanzandosi da ogni lato, in mezzo ad esso rimanevano le rôcche nude e solitarie, intorno intorno come assiepate dai frutti vegeti della libertà. Per le quali opere la Repubblica meritava molto bene di tutta Italia e della umanità: quel carattere che la Toscana ebbe suo proprio e che apparve nella formazione della lingua, fu mantenuto nelle istituzioni; e il genio etrusco ed il latino presso che soli vi dominarono, perchè il suolo era quasi sgombro da ogni vestigio di fedualità straniera. Quindi la copia delle tradizioni che indussero in questo popolo, come esperienze anticipate, la temperanza nei pensieri; e quindi la buona economica istituzione e le abitudini civili, che pure in mezzo a feroci tempi lo educavano tuttavia alla mitezza dei costumi; pregi del popolo di Toscana, che sopravvissero a ogni decadenza ed a lui sono felicità. Ma la più lunga delle contese che la Repubblica avesse mai co’ Signori dei castelli, fu con la casa degli Ubaldini, dominatori assai potenti degli appennini verso Bologna, pei quali spesso davano mano ai Ghibellini di Lombardia, e infestavano le strade con grave scapito dei commerci.[179] Vedemmo come i Fiorentini validamente gli contenessero dalla parte del Mugello; edificarono in questi anni dall’altra banda di quei monti ed afforzarono una terra, cui diedero nome di Firenzuola a suggerimento del Villani, siccome narra egli medesimo.[180] Tutte queste terre franche che si rinvengono per l’Italia, mi pare abbiano la stessa forma, come hanno certo nella Toscana: un quadrilatero che le due maggiori vie dividono in quattro minori quadrati, facendo croce in una piazza che sta nel mezzo ed una porta a ciascun capo di quelle vie: eguale in tutto era la forma che anticamente i Romani eserciti davano ai loro accampamenti. Nè prima sorta era una di queste terre che ad essa concedevano lo Statuto, com’era costume che ogni Comunità avesse allora sue proprie leggi per l’interiore amministrazione. Costretti noi a tacere molte di quelle piccole fastidiose guerre che ad ogni tratto si combattevano, e il por mano che faceva la Repubblica a molte cose in ogni luogo dove occorresse alla difesa o all’ampliazione di quello Stato ch’essa reggeva; diremo solo che il Comune libero di San Marino fu mantenuto per l’amicizia e co’ denari de’ Fiorentini, cui premeva da quel lato averlo a guardia della Romagna; talchè per essi potè scampare quella onorata repubblichetta, che avanzata come un saggio o una briciola del medioevo, rimane infino ai giorni nostri.[181] Ma la Repubblica di Firenze in tutto il corso di quegli anni troviamo essere governata, non da uomini potenti de’ quali il nome ottenesse fama per grandi geste e grande seguito, bensì da mediocri ed oscuri cittadini e di famiglie che poi rimasero anche talvolta dimenticate, sebbene altre pure ne fossero che appunto allora pigliavan luogo tra le maggiori della città. Quella politica operosità che da più anni si dispiegava con sufficiente concordia, o almeno senza civili guerre, non ebbe capi che la guidassero, nè alcuna sorta di continuità ne’ magistrati e nei consigli, che si mutavano ogni tratto; e i divieti erano molto lunghi; pareva che ognuno da sè facesse la parte sua, gl’ingegni essendo molto arguti e gli animi eccitati, e questo popolo mercatante avendo esteso l’azione sua molto al di là della breve cerchia del suo piccolo territorio. Firenze condusse le cose sue prosperamente quanto era dato a democrazia, che non è atta alle imprese grandi; quella di Lucca ebbe mali effetti, come appresso racconteremo. Il re Giovanni di Boemia nel partirsi che fece d’Italia, negli ultimi giorni del 1334 aveva impegnato per poca moneta la città di Lucca ai Rossi di Parma; e questi, inabili a tenerla, l’anno di poi la rivenderono a Mastino della Scala. Costui, facendo suo grande pro dell’abbassamento dei Visconti dopo la morte di Matteo e la discesa del Bavaro, potè accrescere la potenza di casa Scaligera così da essere egli divenuto a tutta Italia formidabile più che altro principe fosse stato mai dopo la dissoluzione dell’Impero, per le ricchezze e per il numero delle città che gli ubbidivano: dicevano ch’egli si avesse di già fatto fare una corona d’oro per coronarsi in re d’Italia: Verona credè tornati i tempi di Berengario. Quindi subito contro a lui si collegarono i signori di Lombardia e di Romagna e le città di Toscana; il re Roberto, impacciato nelle cose di Sicilia, prestava aiuto poco valevole. Ma i Fiorentini all’impedire la formazione di uno Stato che minacciasse le città libere, sempre andavano di grande animo;[182] e avuta la meglio in un primo fatto d’arme sul colle più volte combattuto del Cerruglio, allontanarono facilmente dalla Toscana la guerra. Nella quale erano già entrati i Veneziani gelosi molto di quella potenza di Mastino che già da più parti si avvicinava all’estuario, avendo Padova e Treviso e altri luoghi circostanti: quella fu la prima volta che la Repubblica di Venezia pigliasse parte molto attiva ne’ fatti d’Italia, ogni suo studio essendo volto alle cose dell’Oriente. Cosicchè dopo una lunga guerra, benchè di gran mole quanto il secolo concedesse, non prima ebbe Piero dei Rossi capitano della Lega tolto a Mastino la signoria di Padova, e questi anche perduto Brescia; i Veneziani, cui bastava l’avere frenate le ambizioni dello Scaligero, fecero pace, ed i Fiorentini bentosto poi gli seguitarono, anch’essi paghi di aversi meglio assicurata la possessione delle castella di Valdinievole e di quelle del Valdarno, che per l’addietro erano parte così dello Stato come della diocesi di Lucca, allorchè era questa città, insin dai tempi de’ Longobardi e sotto i primi Imperatori, quasichè a capo della Toscana. D’allora in poi conseguitarono alla Repubblica giorni tristi. Nell’anno 1340 la peste orientale, venuta in Europa per le Crociate e pe’ commerci, entrò in Firenze la prima volta. E fu scritto vi perissero quindici mila persone; preludio a quello tanto maggiore e assai più celebre esterminio il quale avvenne otto anni dopo. Alla peste tenne dietro la carestia; ed in quel terrore volti gli animi a pietà, decretarono il richiamo d’alcuni sbanditi, e parte dei beni posti in comune restituirono alle vedove ed ai pupilli che rimanevano dei ribelli morti: ammenda scarsa alle ingiustizie.[183] E in quello stesso anno Mastino avendo perduto Parma, la quale venne in potestà dei signori da Correggio, fece mercato co’ Fiorentini per la vendita di Lucca, poichè vedeva essergli chiusa a soccorrere questa città la via solita della Lunigiana. Più volte aveano i Fiorentini rifiutato quella compra per poca moneta; ora accettarono il trattato per dugentocinquanta mila fiorini d’oro: ma i Pisani, che temevano sopra ogni cosa vedere Lucca in mano ai troppo già prepotenti rivali loro, strinsero lega co’ Visconti di Milano e altri signori di Lombardia; e insieme con essi rotta la guerra, si afforzarono presso alla stessa città di Lucca. Questa riuscirono ad occupare i Fiorentini con poca gente; ma tosto dipoi avuta la peggio in un grande fatto d’arme, e inferiori per la qualità e per il numero dei soldati e mal serviti di capitano, si trovavano a mal partito. Chiesero aiuto al re Roberto; ma essendo da lui menati in parole senza cavarne alcun soccorso, tuttochè Guelfi, non dubitarono, a suggerimento di Mastino, volgersi al Bavaro il quale era in quei giorni venuto a Trento. Si vidde allora ciò che importasse quel nudo nome d’Imperatore: mandava egli poche diecine (chè altro non aveva) di cavalieri tedeschi: voleva però fosse in Toscana riconosciuto un vicario dell’Impero, il che era disfare e capovolgere ogni cosa; e parte guelfa si risentì, e molti baroni e prelati e ricchi uomini napoletani, a un tratto rivollero il danaro che tenevano depositato nei banchi di Firenze, talchè fallirono molte case, ed ai mercanti fiorentini mancò la credenza, ch’era il nerbo dello Stato. Radunarono contuttociò intorno a Lucca un grande esercito, ma di nessun frutto; dal che il nostro maggior cronista piglia occasione a rilevare come le guerre stieno male alle repubbliche mercatanti, e che i soldati son da condurre non da mandare al combattimento.[184] Aveva egli alle prime guerre che si facevano contro a’ Ghibellini veduto accorrere la città intera; e cavalieri e popolani erano morti in buon numero contro Uguccione a Montecatini, nè alla sconfitta dell’Altopascio mancò il sangue cittadino benchè più scarso: piaceva adesso agli uomini delle botteghe restare a casa e far le spese ai soldati mercenari; del che avevano facoltà, come vedemmo in altro luogo. Le insegne imperiali venute nel campo guelfo non bastarono, e ai Fiorentini avvenne quello che più temevano; i Pisani ebbero al fine di quella guerra la possessione della città di Lucca, la quale tennero ventisette anni. CAPITOLO III. IL DUCA D’ATENE. [AN. 1342-1343.] Le guerre esterne ed i mali pubblici che in città bene ordinata hanno virtù di unire gli animi, viepiù in Firenze gli dividevano, mancando quivi l’accumunarsi nella disciplina delle armi o negli uffici dello Stato; quelle fidate a mercenari, ed una parte dei cittadini essendo esclusi da ogni ingerenza che desse grado nella Repubblica. I grandi erano in Firenze anch’essi popolo quanto alle gravezze che più degli altri pagavano, ma battuti dalle leggi e dai magistrati popolani e dai giudici o rettori chiamati sempre ai loro danni; potenti però tuttavia per l’ampiezza delle possessioni o per l’antica autorità sopra gli uomini del contado, stretti per leghe e parentele co’ signori de’ castelli e in tutta Italia co’ baroni e co’ principi delle città che dipendevano dall’Imperatore.[185] Quindi era il popolo sempre in guardia, e le milizie cittadine bene ordinate e numerose, ognora pronte a quella guerra che sola amassero, contro a’ nobili; onde il sospetto cresceva sempre nei danni pubblici e bastava a fare insorgere questa guerra. In mezzo ai guasti di quel diluvio che fu nell’anno 1333, i grandi avendo in forza loro il sesto d’Oltrarno e il solo ponte che rimanesse, temette il popolo qualche novità, e in mezzo a quelle devastazioni per poco stette non si venisse tra le due parti a civil battaglia. Nell’anno 1340 (e tristo a dire, cessato appena il flagello della peste), era in Firenze, oltre al Potestà e al Capitano del popolo e all’Esecutore, un Capitano della guardia o bargello creato di fresco a fare di quelle che le parti chiamano giustizie: era costui un malvagio uomo di quella casa dei Gabbrielli da Gubbio, d’onde altri uscirono a lui consimili strumenti agli odii cittadineschi, lasciando brutta celebrità. Aveva egli condannato per lievi cagioni uno dei Bardi e uno dei Frescobaldi, le due maggiori tra le famiglie grandi; le quali perciò si congiurarono tutte insieme e co’ Tarlati e gli Ubaldini ed i Pazzi di Valdarno e i Guazzalotri di Prato e i Belforti di Volterra e quanti erano in Toscana avversi agli ordini popolari. Nascevano Piero ed il vescovo Tarlati da una donna de’ Frescobaldi, i Pazzi tenevano case e amistà dentro a Firenze. Al primo annunzio della congiura la città fu in arme; e a que’ di fuori chiusa la via con la prestezza, ed avendo già forzata il popolo molta parte del sesto d’Oltrarno, erano i grandi in cattive strette, allorchè il Potestà, che era Maffeo da Ponte Carali da Brescia, francamente con sua compagnia passato il ponte Rubaconte, comunque ciò fosse con pericolo di sua persona, parlò ai congiurati con savie parole, e con cortesi minaccie gli condusse la notte sotto la sua sicurtà e guardia a partirsi di città; del che fu egli assai commendato. Si venne poi alle condanne; e perchè a procedere contra coloro che aderivano alla congiura ma non si erano scoperti, sarebbe stato troppo gran fascio, bastò avere condannato negli averi e nelle persone, oltre a pochi altri, presso che trenta delle maggiori due casate. Non erano tutti (per quel ch’io mi creda) congiunti di sangue, ma forse consorti, siccome dicevano allora, per carta, di cosiffatte consorterie essendo molto grande usanza, talchè mutavano i casati pigliando quello del più possente. Furono i palazzi di quelle famiglie messi in puntelli nella città e nel contado, e guasti infino a’ fondamenti; fu vietato a’ cittadini tenere castello che fosse meno di venti miglia lungi dai confini del contado o del distretto; posero, invece d’uno solo che era prima, due Capitani della guardia, che uno in città, l’altro nel contado: ordinarono che ogni popolano, il quale potesse, fosse armato di corazza e di barbuta alla fiamminga; furono in tutto più di seimila, e molte balestre. Ed a viemeglio fortificarsi, tolsero il bando agli sbanditi, solo che pagassero certa gabella; ma fu grande male recare in città molti rei uomini e malfattori.[186] Tuttociò era inteso a conservare lo Stato di quelli i quali teneano nelle loro mani la Repubblica, venuta allora a duro passo. Dal principio della guerra una Balìa di venti cittadini popolani fu istituita ad amministrarla con facoltà di levare tasse in quel modo che volessero, o fare guerra o pace o leghe, senza sindacato. Quest’era un porgli sopra le leggi; e in ciò si mostrava la mala costituzione della Repubblica fiorentina, ch’essa era ogni tratto costretta ricorrere a tali balìe o dittature fidate a molti; pessime sempre perchè in esse, tra gli altri vizi, entra il disordine che si ha in animo riparare. I Venti erano di quei popolani grassi, ai quali o ad alcuni tra essi appartenne quasi direi legittimamente per tutto il tempo della Repubblica il governo dello Stato, ma senza formare tra sè un ordine che avesse fermezza alcuna nè continuità, nè a’ grandi casi virtù bastante. Il Comune aveva dugentosessanta mila fiorini d’oro l’anno di rendita assisa (come la chiamavano), ed essi lo avevano indebitato verso i cittadini suoi di quattrocento mila fiorini. Sapevano essere diffamati per mal governo e baratterie, con l’accostarsi all’Imperatore aveano offeso la parte guelfa; e mercatanti com’essi erano, cercavan modo a rassicurare que’ loro amici napoletani che richiedevano i depositi. A queste loro difficoltà parve giungesse molto opportuno Gualtieri di Brienne duca d’Atene e conte di Lecce nella Puglia, ch’essendo già stato (come noi vedemmo) luogotenente pel duca di Calabria nella guerra di Castruccio, aveva lasciato di sè buon nome nella città: veniva da Napoli, ma non però di commissione del re Roberto, con bella compagnia di gente d’arme, a cercare sua fortuna. Era Gualtieri di grande sangue dei reali di Francia, e aveva ragioni nel regno di Cipro; di molta entrata ma bisognoso, piccolo e brutto e barbuto, scaltro e disleale, nutrito in Grecia più che in Francia. Grande favore godeva egli presso ai re della casa di Valois, e quindi ancora presso a’ pontefici che in Avignone dimoravano assai devoti a quella corte. Messi alle strette i Reggitori, e non trovando altro partito, prima lo elessero Conservatore del popolo e Capitano della guardia, poi gli diedero per un anno la capitaneria generale della guerra, e che potesse fare giustizia personale nella città e fuori. Ma egli veggendo la città divisa, e fatto cupido di maggiori cose, cominciò tosto a praticare intelligenze co’ grandi che di continuo cercavano rompere gli ordini del popolo; a’ quali si aggiunsero anche di quei grossi popolani i cui banchi erano in fallimento, e non potendo del proprio, si confidavano di quel d’altri pagare i loro debiti. Da costoro era il Duca visitato segretamente in Santa Croce, dove egli aveva preso dimora, e da essi molto sollecitato: quindi per darsi riputazione di severo e di giusto, e per quella via accrescersi grazia nella plebe, quelli che avevano amministrata la guerra di Lucca perseguitava. Fece ad un Medici e ad un Altoviti mozzare il capo; condannò a morte uno dei Ricci e uno degli Oricellai (così chiamati da una tinta gialla di cui tingevano i loro drappi), a’ quali dipoi fece grazia della vita. Erano quattro delle maggiori famiglie uscite di mezzo al popolo, e assai potenti di parentadi e di ricchezze: i falli apposti ai condannati non avean prove a sufficienza, ed essi chiari per gli alti uffici esercitati nella Repubblica, tenuto avendo anche più volte il Gonfalonierato e alcuni essendo stati dei Venti.[187] A questo modo si rendeva egli nella città molto ridottato; ma i grandi ed il popolo minuto, soliti essere soverchiati dalla prepotenza dei mezzani, a quei fatti molto applaudivano; e quando il Duca cavalcava per la città, la plebe gridava Viva il Signore; quasi in ogni canto e palagio di Firenze aveano dipinto l’arme sua, gli uni per avere da lui favore, gli altri per tema. Quindi parendogli ogni cosa poter tentare sicuramente, fece intendere ai Priori che per il bene della città giudicava necessario gli fosse data signoria libera: ma essi, co’ Dodici buonuomini, e i Gonfalonieri delle compagnie e i Consiglieri, in nulla guisa vollero acconsentire di sottomettere la libertà della Repubblica di Firenze sotto giogo di signoria a vita; il che non fu mai acconsentito nè ad imperatore nè al re Carlo nè ad alcuno suo discendente. Il Duca allora, che si fidava sopra l’aiuto de’ grandi e il favore della plebe, fece pubblicare per la città che nell’indomani egli farebbe parlamento sulla piazza di Santa Croce, per il bene del Comune. Al quale annunzio i Priori ed i principali dei Consigli essendo entrati in grande sospetto, andarono a sera tarda in Santa Croce, per quivi trattare d’accordi col Duca. Una parte della notte si consumò in discorsi, ed alla fine rimase conchiuso che la Signoria sarebbe a lui data per un anno con quella stessa giurisdizione ch’ebbe il Duca di Calabria; il quale accordo si fermò per vallati e pubblici strumenti, avendo il Duca sacramentato conserverebbe il popolo in sua libertà e l’ufficio de’ Priori e gli Ordini della giustizia. La mattina che fu il dì 8 di settembre 1342 il Duca fece armare la sua gente, circa a centoventi uomini a cavallo, e aveva in Firenze da trecento de’ suoi fanti, e quasi tutti i grandi gli erano a’ fianchi: Giovanni Della Tosa ed i suoi consorti erano a cavallo insieme con gli altri con le armi coperte, e l’accompagnarono da Santa Croce alla piazza de’ Priori. La Signoria scese di palazzo, ed essendosi posti a sedere col Duca in sulla ringhiera, uno dei Priori avea cominciato a parlare, alloraquando la plebe ed alcune masnade di quelle venute co’ grandi l’interruppero gridando: _che sia la Signoria del Duca a vita, che il Duca sia nostro Signore!_ I grandi allora presolo a un tratto tra le loro braccia, lo condussero al Palagio; e perchè questo era serrato, forzando la porta, misero il Duca in Palagio ed in signoria, cacciando vilmente i Priori nella sala delle Armi. Quindi per alcuni dei grandi fu tolto via il Gonfalone, e il libro degli Ordini della giustizia stracciato, e poste le bandiere del Duca in sulla torre, e suonate le campane a Dio laudiamo: il Potestà e il Capitano del popolo assentirono al tradimento. Due giorni dopo si fece il Duca confermare signore a vita per gli opportuni Consigli; e mise i Priori fuori del Palagio in una casa privata con poca guardia, levando loro ogni ufficio ed autorità, senza rifare il Gonfaloniere: tolse le armi a tutti quei cittadini, qualunque si fossero, i quali avevano privilegio di portarle. Otto dì poi fece il Duca grande festa e solennità a Santa Croce, ed il vescovo Acciaiuoli sermonando commendava innanzi al popolo le magnificenze del nuovo signore. Per tale modo il Duca d’Atene usurpava il principato. Poco dipoi Arezzo, Pistoia, Colle di Valdelsa, e fuor del dominio della città di Firenze San Gimignano e Volterra, se gli diedero in potestà. Raccoglieva egli intorno a sè tutti i Francesi e Borgognoni ch’erano in Italia, dei quali ebbe tosto più di 800, e molti de’ suoi parenti ed amici vennero di Francia. «Recarono questi in Firenze nuove foggie di vestire, che anticamente era il più bello e nobile e onesto che di niuna altra nazione, a modo di togati romani; ora pigliarono i giovani una cotta ovvero gonnella corta e stretta, che non si poteano vestire senza l’aiuto altrui, e una correggia come cigna di cavallo con isfoggiata scarsella alla tedesca dinanzi, e il becchetto del cappuccio lungo insino in terra per avvolgerlo al capo per lo freddo, e colle barbe lunghe per mostrarsi più fieri in arme; e i cavalieri vestiti d’uno sorcotto ovvero guarnacca stretta, e le punte dei manicottoli lunghe infino a terra, foderati di vaio e ermellini, come per natura siamo disposti noi vani cittadini a contraffare gli stranii oltre al modo d’ogni altra nazione, sempre traendo al disonesto e a vanitade.» Trascrivo parole del vecchio cronista, il quale narra pure, come i fatti del Duca d’Atene essendo rapportati al re di Francia Filippo VI di Valois, dicesse questi a’ suoi baroni: _Albergé il est le pélerin, mais il y a mauvais hostel_.[188] Il re Roberto scrisse al Duca ammonendolo stesse col popolo e conservasse gli ordini popolari, senza di che gli vaticinava non manterrebbe lo stato suo a lungo tempo nella città. Il Duca dipoi fece la pace co’ Pisani, i quali dovessero tenere Lucca per quindici anni, con altri patti che riuscirono poco graditi ai Fiorentini. A’ 15 ottobre creò in Firenze nuovi Priori, senza Gonfaloniere; i più, artefici minuti e mischiati di quegli, che i loro antichi erano stati Ghibellini: ad essi diede un gonfalone tripartito, dov’era l’arme del Duca in mezzo tra l’insegna del Comune e quella del Popolo, e sopra il rastrello dell’arme del re. Con che egli venne a scontentare tutti gli ordini della città; e i grandi, che prima lo avevano fatto signore perch’egli in tutto annullasse il popolo, se ne turbarono forte, massime quando egli ebbe fatto condannare uno dei Bardi, il quale aveva stretto la gola ad un suo vicino popolano che gli diceva villania. Cassò l’ufficio dei Gonfalonieri delle compagnie e ogni altro pel quale fosse la plebe sotto l’autorità dei popolani di maggior conto; il Duca reggendosi co’ beccai, vinattieri e scardassieri, ad essi dando consoli e rettori al loro volere, e disfacendo gli ordinamenti delle Arti, pei quali solevano avere regola i salari; in che era il forte della contesa tra il grasso popolo e il minuto. Fece torre ai cittadini anche le balestre grosse; ed al Palagio del popolo fece nuove antiporte, e ferrare le finestre della sala di sotto, dove si faceva il Consiglio; e volle comprendere intorno al Palagio un grande circuito di grosse mura e torri e barbacani, per fare col Palagio insieme un grande e forte castello, il quale egli cominciò a fondare; lasciando il lavorìo d’edificare il Ponte Vecchio, ch’era di tanta necessità al Comune di Firenze, togliendo di quello pietre conce e legname: disfece le case, ed anche volle disfare le chiese ch’erano dentro a quel compreso per fare piazza, e altre belle case tolse ai cittadini, mettendovi dentro di suoi baroni e di sua gente. Di donne e di donzelle de’ cittadini per sè e per sue genti si cominciarono a fare violenze e molto laide cose; infra le altre, per cagione di donna tolse Sant’Eusebio a’ poveri di Cristo che era alla guardia dell’Arte di Calimala, e lo diè altrui illicitamente. Levò a’ cittadini gli assegnamenti fatti loro sopra le gabelle per i danari ch’essi avevano dovuto prestare per forza a tempo delle guerre di Lombardia e di Lucca, ch’erano più di trecentocinquanta mila fiorini d’oro assegnati in più anni con alcuno guiderdone; e questo fu grande male e rompimento di fede, e molti ne furono diserti. Fermò le paghe dovute a Mastino della Scala per la matta compera di Lucca, talchè gli statichi ne rimasero due anni poi in Verona, e la Repubblica restaurata, per liberarli, dovette pagare centotto mila fiorini d’oro. Recò a sè tutte le gabelle che andavano a più di dugento mila fiorini, senza l’altre entrate e gravezze: fece fare l’estimo in città ed in contado, e fecelo pagare, che montò a più di ottanta mila fiorini; onde i grandi e popolani e contadini, che vivevano di loro rendite, se ne teneano forte gravati, siccome erano i cittadini di continuo con le prestanze; e fece creare nuove e sformate gabelle. Sicchè in dieci mesi e diciotto dì ch’egli regnò signore, gli vennero alle mani quattrocento mila fiorini d’oro solo di Firenze, dei quali mandò tra in Francia e in Puglia più di fiorini dugento mila; perocchè in tutte le terre signoreggiate da lui non teneva più di ottocento cavalieri, e quegli pagava male, che al bisogno della sua ruina se n’avvidde. Costrinse i mallevadori di quello degli Oricellai o Rucellai, del quale sopra abbiamo detto, a farlo tornare con sua securtà dal confine dov’egli era stato mandato a Perugia; ma non serbandogli fede, lo fece impiccare con una catena al collo, acciocchè non potesse essere spiccato, e tolse ai mallevadori cinque mila quattrocentoquindici fiorini d’oro, opponendo che il Rucellai gli avea frodati al Comune in Lucca; i beni di quella famiglia confiscò a sè. Creò nel contado sei potestà con grande balìa di poter fare giustizia, e grossi salari: i più furono delle case de’ grandi, e di quelli che erano stati ribelli e rimessi in Firenze di poco: la qual nuova potestà molto dispiacque a’ cittadini, e più a’ contadini che portavano la spesa e la gravezza. Crudeli e sconce giustizie faceva contro a’ cittadini, e due ne mise a morte barbaramente perchè gli avevano rivelato trattati o congiure fatte contro lui, ma egli credette che lo dicessero per inganno. Potestà era per il Duca messer Baglione dei Baglioni da Perugia, e Conservatore Guglielmo d’Assisi; Simone da Norcia giudice sopra il rivedere le ragioni del Comune, ed era più barattiere di coloro che condannava per baratteria: di suo consiglio erano il Giudice di Lecce ed il Vescovo d’Assisi fratello del Conservatore, il Vescovo d’Arezzo degli Ubertini, e un Tarlati da Pietramala, il Vescovo di Pistoia e quello di Volterra, e messer Ottaviano de’ Belforti; ma questi erano d’apparenza, tenuti da lui per sicurtà delle loro terre. Co’ cittadini aveva di rado consiglio; i Priori erano in nome, ma non in fatto; le sue lettere sottoscriveva _dux et dominus Florentinorum_;[189] ed egli poi si ristrigneva con messer Baglione, e il Conservatore, e Cerrettieri de’ Visdomini fiorentino di casa di grandi, uomini corrotti in ogni vizio a sua maniera. Teneva giostre in sulla piazza di Santa Croce, ma pochi grandi e popolani vi giostrarono; fece sei brigate di gente del popolo minuto, del quale cercava recarsi l’amore, ma poco gli valse. La festa di san Giovanni, fece fare alle Arti al modo antico, senza gonfaloni; e la mattina della festa, oltre a’ ceri usati delle castella del Comune ch’erano da venti, ebbe da venticinque drappi, ovvero palii ad oro, e sparvieri e astori per omaggio d’Arezzo, Pistoia, Volterra, e da San Gimignano e da Colle, e da tutti i Conti Guidi e da Mangona e da Cerbaia e da Monte Carelli e da Pontormo, e dagli Ubertini e dai Pazzi di Valdarno e da ogni baroncello o conticello d’attorno e dagli Ubaldini. A’ 2 di luglio il Duca fermò lega e taglia con Mastino della Scala e co’ Marchesi da Este e col signore di Bologna: e prima l’aveva fatta coi Pisani, la quale molto dispiacque a’ Fiorentini e a tutti i Toscani guelfi, e poco si osservò; perchè non era piacevol mischiato nè buona compagnia, dice il Villani; del quale abbiamo sin qui pigliate in prestito molte parole, come sovente facciamo, perchè l’istoria di Firenze verrebbe ad essere conosciuta male quando gli storici non si conoscessero. Era in Firenze un antico proverbio, il quale diceva: «Firenze non si muove se tutta non si duole.» Non ebbe ancora il Duca regnato tre mesi, e tutti gli ordini della città a lui si erano nimicati; i grandi per non avere riavuto lo Stato, ed i grossi popolani perchè lo avevano perduto, ed i mezzani e minuti artefici perchè il mal governo aveva fatto cessare i guadagni. S’aggiungevano poi le insolenze di signoria francese, gli oltraggi alle donne, e le rapine e crudeltà; cosicchè ad un tratto più congiure si formarono contro al Duca, tutti correndo allo stesso fine celatamente per vie diverse. Dell’una era capo il vescovo Acciaiuoli, quel medesimo che prima avevalo magnificato nelle sue prediche; e con lui erano i Bardi e i Frescobaldi e altri de’ grandi stati rimessi dal Duca, e le famiglie dei popolani i quali, a fine di racconciare loro private fortune, a lui si erano accostati. Avevano essi trattato coi Pisani ed altri di fuori per assalirlo in Palagio; ma egli si provvidde col mutare due volte le guardie e crescere le difese, talchè il fatto andava in lungo. Una seconda congiura, nella quale erano i Donati e i Pazzi ed i Cerchi, voleva porgli le mani addosso quando egli andasse in casa degli Albizzi a veder correre il Palio; ma per sospetto non vi andò. Nella terza si accoglievano in maggior numero di quei popolani che più erano stati offesi, tra’ quali i Medici ed i Rucellai; ma innanzi a tutti un Antonio degli Adimari di casa i grandi. Era questa la congiura più vasta e possente e pronta alle opere: se non che un masnadiere senese comunicava la cosa ad uno de’ Brunelleschi, non per iscoprirla, ma per credere che egli fosse uno de’ congiurati; ed il Brunelleschi, per non essere incolpato, la rivelò al Duca, e a lui condusse il masnadiere: onde che altri furono presi e infine richiesto lo stesso Antonio degli Adimari; il quale, tenendosi sicuro per la grandezza sua, comparve in Palagio, dove anch’egli fu ritenuto. Il che saputosi, molti altri dei principali di ogni sètta o si nascosero o fuggirono, e la città era in tremore. Ma il Duca trovando la congiura contro a lui sì grande, ed egli essendo uomo di piccola levatura e poca fermezza, non sapeva che si fare; ed anzichè correre la terra con la sua gente e col favore del popolazzo minuto, indugiò aspettando altre masnade di fuori e trecento cavalieri che a lui mandava da Bologna Taddeo de’ Peppoli signore o tiranno di quella città. S’appigliò intanto ad un partito, il quale fu a lui cagione ultima di ruina. Fece richiedere trecento dei principali cittadini, sotto colore di volersi nei casi presenti consultare seco loro, e mandò fuori i suoi sergenti per la città con le liste, nelle quali erano compresi molti ancora dei congiurati. Ma la cattura dell’Adimari, ed il sapersi delle masnade che il Duca aspettava, posero grande sospetto negli animi dei cittadini; corse gran voce e dipoi fu scritto che egli volesse, una volta che tutti fossero in Palagio, assicurarsi di loro o con la morte o in altro modo, e disertare la città per indi averla a discrezione. Talchè i richiesti, comunicando gli uni agli altri il sospetto, tutti negarono ubbidire; e scoprendosi l’una sètta all’altra, di grande accordo, e diponendo tra loro ogni ingiuria e malevolenza, deliberarono levarsi in arme contro al Duca. Venuto dunque il dì seguente, che era sabato 26 luglio 1343, giorno di sant’Anna, all’ora di nona quando erano usciti i lavoranti dalle botteghe, certi ribaldi e fanti in Mercato vecchio, com’era ordinato, s’azzuffarono insieme gridando All’arme all’arme; e incontanente tutti i cittadini corsero a sgombrare i cari luoghi, e s’armarono traendo ciascuno a sua contrada e vicinanza, mettendo fuori le bandiere di cheto rifatte con le armi del Popolo, e gridando _Muoia il Duca e i suoi seguaci, Viva il Popolo e il Comune e la Libertà!_ E di presente fu asserragliata la città a ogni capo di via: e quegli d’oltrarno grandi e popolani si giurarono insieme e si baciarono in bocca, facendo sbarre ai capi de’ ponti con intenzione, se tutta l’altra terra di qua dall’acqua si perdesse, di tenersi francamente nel sesto di là; prima avevano mandato chiedendo aiuti ai popoli circonvicini. La gente del Duca, sentendo il romore, montò a cavallo; e chi potè fare in tempo, corsero alla piazza del popolo in numero di trecento; furono gli altri presi, o morti o feriti per gli alberghi e per le vie, e rubati i cavalli e le armi. Uguccione de’ Buondelmonti ed i suoi consorti, i Cavalcanti ed alcuni altri di case di grandi, con dei beccai e scardassieri, andavano verso il Palagio gridando _Viva il Signore lo Duca_; Giannozzo de’ Cavalcanti, montato sopra un desco da tavernai, gridava al popolo che traeva in piazza: _Non andate, chè voi sarete tutti morti_: ma visto ch’ebbero come il fatto andava, se ne tornarono a casa o seguitarono il popolo, eccetto Uguccione rimasto poi nel Palagio insieme co’ Priori delle arti, che ivi si erano rifuggiti. Quelli del popolo, occupate le bocche delle vie che vanno in piazza, e quelle sbarrate, si combatterono lungamente con la gente armata del Duca, finchè la sera medesima non furono questi costretti a fuggirsi dentro il compreso del Palagio, lasciando fuori i cavalli. Amerigo Donati e più altri, co’ loro parenti o amici, assalirono allora le carceri delle Stinche con tanto vigore che, aiutati dai rinchiusi, gli ebbero tutti liberati; e con quell’impeto avviatisi al palagio del Potestà, lo combatterono; insinchè essendosi il Potestà fuggito con grande paura, fu quel palagio saccheggiato, le carte bruciate, la prigione aperta: ruppero poi la camera del Comune ed arsero i libri dov’erano scritti i banditi ed i ribelli; e similmente quelli degli atti della Mercatanzia: altre violenze non si fecero, se non contro la gente del Duca. Allora quelli d’oltrarno, avendo aperte le sbarre dei ponti, valicarono di qua dall’acqua a piedi e a cavallo, e insieme con gli altri, fatti levare i serragli delle vie maestre, liberamente e da più lati e con le insegne del popolo alzate, e grida e plausi, mossero tutti per la città verso il Palagio. Erano più di mille a cavallo, e a piè diecimila cittadini armati a corazze e barbute come cavalieri; «il quale popolo fu molto nobile a vedere così possente ed unito.» Il Duca assalito così fieramente, e non avendo in Palagio che quattrocento uomini, e quasi altro che biscotto, aceto e acqua, tardi cercando guadagnarsi la grazia del popolo, la domenica mattina creò cavaliere Antonio degli Adimari, che non voleva saperne; e poi lasciato lui e gli altri i quali erano in custodia, fece levare le insegne sue di sopra il Palagio, e porvi quelle del Popolo; ma non per questo cessò l’assedio. La domenica notte giunse il soccorso dei Senesi, trecento cavalieri e quattromila balestrieri, molto bella gente, e con loro sei grandi popolani Senesi per ambasciatori. San Miniato inviò dugento fanti ben armati, e Prato cinquecento. Il conte Simone, ch’era dei Guidi da Battifolle, ne condusse quattrocento; e il dì seguente venne grandissima quantità di contadini bene armati, di modo che la città si trovò piena di gente del contado e di cittadini in arme. Da Pisa venivano cinquecento cavalieri; ma perchè essi erano stati richiesti dai grandi senza il consenso del Comune, ne fece il popolo grande mormorio e il Comune gli rimandò; furono assaliti, nel tornarsi, da quelli d’Empoli e di Montelupo e di Pontormo e di Capraia, e presi e morti più di cento. Il Vescovo intanto e altri popolani fecero bandire parlamento, e congregati in Santa Reparata il lunedì seguente, tutti in arme, di grande accordo elessero quattordici cittadini, sette grandi e sette popolani, con grande balìa di riformare la città e fare ufficiali e leggi e statuti; e a far le veci del Potestà deputarono tre cittadini grandi e tre popolani, i quali tenessero ragione sommaria delle violenze e ruberie, ma non avessero altro ufficio. Nè in questo mezzo il popolo si ristava dal combattere il Palagio e andare cercando gli ufficiali del Duca; e quanti poterono per la città rinvenire, o celati nelle case o che fuggivano travestiti, erano uccisi a furore, ed i fanciulli trascinavano i corpi ignudi per la città. I Quattordici ed il Vescovo e gli ambasciatori senesi e il conte Simone si cercavano intromettere e fare accordi col Duca, al quale fine alcuni di loro a parte a parte si vedevano entrare ed uscire dal Palagio, benchè poco piacesse al popolo; nè assentiva questi alcuna concordia, se non avesse nelle mani il Conservatore Guglielmo d’Assisi ed il figliuolo, e Cerrettieri dei Visdomini, per farne vendetta. Ciò il Duca negava, ma infine minacciato dai Borgognoni i quali erano rinchiusi seco, si lasciò sforzare. «Appariscono (dice il Machiavelli) gli sdegni maggiori quando si ricupera una libertà che quando si difende.» Il primo d’agosto in sull’ora della cena i Borgognoni pinsero fuori della porta del Palagio, in mano dell’arrabbiato popolo, il figliuolo del Conservatore, giovinetto di diciotto anni, vestito a bruno dolorosamente; e quei furiosi lo tagliarono e smembrarono in minuti pezzi nella presenza del padre; il quale, pinto fuori anch’egli, ebbe lo stesso governo; e chi ne portava un pezzo in sulla lancia e chi in sulla spada per la città; e vi ebbero de’ sì crudeli e bestiali i quali si dissero avere mangiato le carni crude di quei miseri. Il che fu scampo del Visdomini, che doveva essere il terzo; ma saziati i suoi nemici non lo addomandarono, e si fuggiva poi di città. Il Duca si arrese quel giorno medesimo, e cedè il Palagio, salve le persone, rinunziando ogni signoria o ragione che avesse egli nella città, e a cautela promettendo ratificare ciò quando fosse fuori del contado e distretto di Firenze. Rimase però tre altri giorni per paura; e quando il popolo fu racquetato, uscì di Palagio accompagnato dalla gente dei Senesi, dal conte Simone e da taluni dei maggiori cittadini grandi e popolani, datigli a guardia dai reggitori. Giunto a Poppi, ch’era la principale terra dei conti Guidi, ratificò male a grado la promessa; quindi per Bologna andò a Venezia, ed ivi noleggiate due galere, si tornò in Puglia. Partito il Duca, si disfecero i serragli, s’apersero le botteghe; e i Quattordici cassarono gli atti del Duca, salvo le paci da lui fatte tra’ cittadini, che fu (come scrivono) la sola buona cosa ch’egli facesse: anche gli posero taglia addosso, del che ebbero poi grave dissidio coi re di Francia; e lo fecero dipingere vituperosamente, lui ed i suoi satelliti, nella Torre del palagio del Potestà. Ordinarono che il giorno di sant’Anna fosse come pasqua; e anche oggi si veggono appese in quel dì le bandiere delle Arti in giro attorno al bell’edificio il quale ha nome di Or San Michele.[190] CAPITOLO IV. CACCIATA DEI GRANDI. — PESTE IN FIRENZE. [AN. 1343-1348.] Caduto il tiranno, le terre o città a lui soggette si ribellarono; Arezzo e Pistoia si ridussero a libertà e disfecero i castelli che i Fiorentini aveano fatti, Volterra tornò in signoria dei Belforti, e Castiglione Aretino di nuovo diedesi ai Tarlati: seguitarono l’esempio presso che tutte le altre maggiori terre del dominio della città di Firenze. E come agli oppressi di fuori era stata l’occasione buona, così anche parve essere a quelli di dentro: chiedeano i grandi avere parte negli uffici, poichè erano stati insieme con gli altri a racquistare la libertà; al che assentivano certi grossi popolani, o, come dicevano in Firenze, le _Famiglie_, alcune delle quali avevano tenuto in mano lo Stato e si credevano ripigliarlo con l’appoggio allora dei grandi, coi quali avevano molte parentele: gli altri artefici ed il popolo minuto sarebbero stati contenti che i grandi avessero parte negli uffici, salvo quello del Priorato e dei Gonfalonieri delle compagnie. Si tennero molti ragionamenti «che parvero trattati;» perchè ogni qualità di cittadini faceva parte da sè: ma infine per mezzo del Vescovo e degli ambasciatori Senesi ottennero i grandi d’entrare anch’essi nel priorato. E perchè il numero dei priori pareva scarso a mettervi i grandi, e i Sesti erano mal divisi; quelli d’Oltrarno e di San Piero Scheraggio tra loro due soli pagando oltre alla metà delle gravezze; per queste ragioni divisero la città in Quartieri, e insieme il contado che si partiva, come sappiamo, anch’esso per sesti; aggregando ciascun Piviere o Comune al quartiere che guardava a quella parte della campagna, e facendo nuova descrizione delle poste e delle lire a pagamento, secondo portava la novella partizione.[191] Dopo di che il Vescovo ed i Quattordici elessero diciassette cittadini popolani e otto grandi per quartiere, che insieme con loro furono centoquindici a fare lo squittinio: i quali cessando dal fare per allora nuovo Gonfaloniere, ordinarono fossero dodici Priori; chè tre per quartiere, uno dei grandi e due popolani; e otto Consiglieri, metà grandi e metà popolani, che deliberassero le cose gravi con i Priori, invece di dodici, com’erano prima; e gli altri uffici a mezzo co’ grandi.[192] Compiuto che fu lo squittinio, andò voce per la terra che Manno Donati uomo armigero, ed altri caporali di case possenti, doveano essere dei Priori: onde il popolo si turbò forte e pigliava le armi; se non che udendo gli eletti essere uomini pacifici, si acquetava per allora. Ma gli Ordini della giustizia non essendo riformati, e per l’appoggio che avevano i grandi in Palagio, cominciarono questi a fare violenze ed omicidi ed estorsioni nella città e nel contado; nè bastava loro avere mezzi gli uffici sebbene fossero mille soli ed i popolani venti mila, e mal sostenevano la compagnia degli artefici: dall’altra banda ai popolani grassi piaceva meglio avere colleghi da meno di loro, che non da più e di maggior grado. La città si commoveva di bel nuovo col favore di quell’Antonio degli Adimari chè primo insorse contro il Duca, e di Giovanni della Tosa e di Geri dei Pazzi, i quali erano dal popolo stati fatti cavalieri. Per il che furono essi col Vescovo, il quale era buono uomo ma di poca fermezza, e lo persuasero s’accordasse a che i grandi fossero privati dell’ufficio di Priorato; ma questi udendo il partito che si voleva porre innanzi, e chiamando il Vescovo traditore, si cominciarono a fornire d’armi e di genti e a mandare fuori per aiuti. Sentendosi ciò per la città, molti popolani armati vennero in piazza gridando ai Priori popolani: _gittate dalle finestre, gittate dalle finestre i Priori de’ grandi, o noi vi arderemo in Palagio con loro insieme_. E recata la stipa, mettevano fuoco alla porta, nè a’ Priori popolani bastava l’animo di scusare i loro compagni; talchè alla fine, crescendo la forza e il furore del popolo, convenne a’ Priori grandi uscir di Palagio accompagnati alle case loro sotto scorta con grande paura. Partiti i quali, i Priori rimasti in numero di otto, condussero a dodici come erano prima i Buonomini; rifecero il Gonfaloniere di giustizia, alzando a quel grado uno dei Priori popolani, ed il Consiglio del popolo formarono da settantacinque uomini per quartiere, con gli altri uffici poco mutati da quel che solevano essere innanzi alla signoria del Duca. In quei giorni la Repubblica essendo mal ferma e la plebe sollevata, cadde in pensiero ad un Andrea Strozzi, grosso popolano di molta ricchezza, farsi padrone della città. Vendeva egli il grano alle case sue a minor prezzo degli altri, essendo tempi di carestia; forse da principio a solo studio di popolarità; ma poi cresciutogli il favore, e come era egli naturalmente vano, gli si alzò l’animo a maggiori cose. Tantochè un giorno, che fu agli ultimi del settembre, montò a cavallo e andò per la città raunando intorno a sè ribaldi e scardassieri e minuta gente; nè prima fu in piazza, ch’erano forse quattro mila gridando: _Viva il popolo minuto, e muoiano le gabelle e il popolo grasso_; facendo mostra di volere sforzare il Palagio. Nè si ristavano, benchè molti buonuomini e gli stessi consorti d’Andrea gli ammonissero andarsi con Dio, se dal Palagio non erano cacciati con pietre e balestre, onde alcuno fu morto e molti feriti. E di qui usciti, fecero la stessa prova al palagio del Potestà, sinchè alla fine tra per le preghiere dei vicini e tra per la forza, e dicendo: Noi andiamo dietro ad un pazzo, cominciò la folla a diradare; ed egli sottrattosi con l’aiuto dei parenti, ebbe bando di rubello: sorte men dura di quella che nella Repubblica di Roma era toccata a Spurio Melio in quel conato di signoria, che pare somigli di tutto punto questo d’Andrea Strozzi, essendo anche presso che eguali le condizioni delle due città. I grandi, al vedere questa divisione ch’era tra ’l grasso e il minuto popolo, si rallegrarono molto, e attizzavano la plebe, più che mai afforzandosi ne’ serragli, e mettendo dentro sbanditi e contadini ed altra gente in servigio loro, e più aspettandone di Pisa e di Lombardia. Intanto ai Signori veniva soccorso molto valido da Siena, e alcune milizie da Perugia; il popolo si armava e metteva sbarre: il che alla plebe, che stava pe’ grandi, fu impedimento al radunarsi ed al dividere così le forze dei popolani: la città era tutta in arme e in grande terrore gli uni degli altri; ma quelli che stavano per il Comune erano più forti, avendo il Palagio e la campana e le porte della città, salvo quella di San Giorgio che i Bardi tenevano: sicchè la forza dei grandi non era a comparazione di quella del popolo, se a questo riuscisse di prevenire i soccorsi che i grandi aspettavano dalla parte ghibellina. Stando così tutti in arme ed in gelosia, il popolo del quartiere di San Giovanni, del quale si fecero capi i Medici e i Rondinelli, senza ordine di comune, il dopo desinare del dì 24 di settembre in numero forse di mille uomini assalirono le torri e case di quei degli Adimari i quali erano chiamati Cavicciuli; e cominciato l’assalto e crescendo di continuo la forza del popolo, i Cavicciuli veggendo che non poteano resistere, in poco d’ora si accordarono, e patteggiati si arrenderono, consentendo che fossero poste su’ loro palagi le bandiere dell’arme del Popolo, senza ricevere altro danno per amore dei loro consorti che tenevano col popolo. I Donati e i Pazzi ed i Cavalcanti in egual modo assaliti e soverchiati dalla massa dei popolani che sempre ingrossava, non fecero resistenza venendo a patti; dimodochè tutta la parte della città ch’era di qua dal fiume in breve fu libera da ogni serraglio o fortezza che i grandi avessero, e tutta in mano dei popolani. Restava la forza d’assai maggiore e la difesa più grossa e compatta dei grandi d’oltrarno, dei quali erano principali i Bardi ed i Rossi ed i Mannelli e i Frescobaldi ed i Nerli. Questi ultimi, che avevano di là dal ponte alla Carraia le case loro tra la frequenza di case del popolo, e che erano di minor possa, ben tosto cederono: e il popolo vittorioso, passato il ponte alla Carraia, si volse tutto ad assalire le case dei Frescobaldi, alle quali era stato loro aperto il passo dai Capponi e da altri popolani che abitavano di là dall’Arno. Al quale assalto i Frescobaldi sè conoscendo essere impotenti, si rifuggirono alle case loro chiedendo con le braccia in croce mercè al popolo, che gli ricevette senza fare ad essi alcun male; e i Rossi fecero il somigliante. Al ponte Vecchio ed a Rubaconte più volte erano quei del popolo stati fieramente ributtati, sì forti erano le torri dei Mannelli al ponte Vecchio ed altre di là bene armate di bertesche, ma soprattutte la possa dei Bardi molto valida di gente e di serragli e di fortezze; insinchè per una via che da pochi anni era stata fatta non senza disegno, e che per le case dei Pitti girava alla porta di San Giorgio, non venne fatto al popolo di assalire di sopra e al di dietro le case dei Bardi. I quali veggendosi da tante parti sì aspramente combattere, cominciarono ad abbandonare i loro serragli; e questi essendo dopo contrasto lungo forzati dal popolo sotto alla condotta di un conestabile tedesco; i Bardi, vinti da ogni lato, raccomandandosi alla vicinanza dei Quaratesi e dei Mozzi e di quelli da Panzano che per loro proprio scampo si erano messi col popolo, da essi furono ricevuti, poi trafugati fuori della città. La feccia allora del popolazzo sino alle donne ed ai fanciulli entrò nelle case dei Bardi con tale rapina che era a vedere rabbiosa cosa; dove ciascuno trovò che tôrre, e chi avesse voluto frenare il popolo, era il primo rubato e morto: grande fatica fu difendere le case dei vicini popolani. Poi misero fuoco ed arsero ventidue tra palagi e case grandi e ricche: il danno che i Bardi ebbero tra rapine ed arsioni fu stimato più di sessanta mila fiorini d’oro. Il dì seguente si radunarono più di mille malandrini presso alla chiesa dei Servi, e dicevano volere andare contro alle case dei Visdomini e quelle rubare per compiere la vendetta contro a messer Cerrettieri: ma in fatto volevano, come si seppe dipoi, andare alle case dei ricchi e pigliarsi come poveri la roba loro. Del che informato il Potestà, andò ad essi incontro con le milizie e buona gente a piè ed a cavallo, portando ceppi e mannaie per tagliare, come fecero, piedi e mani ai malfattori; gli altri furono messi in fuga. Vinta così e debellata la parte dei grandi e contenuta la plebe, il popolo montò in grande stato e baldanza, e specialmente i mediani ed artefici minuti; chè allora il reggimento della città rimase alle ventuna Capitudini delle arti. Vennero pertanto a riformare la terra: e col consiglio degli ambasciatori Senesi e Perugini e del conte Simone da Battifolle che aveva in quei fatti prestata opera eccellente, celebrarono in casa i Priori uno squittinio, al quale intervennero duecentosei de’ maggiori cittadini o che sedevano negli uffici, o ch’erano stati chiamati a dar voto insieme a questi nella balía col nome d’aggiunti o, come dicevano, d’arruoti: furono da essi posti a partito tremila trecento quarantasei uomini, ma non rimasero il decimo da imborsare per le tratte che si dovevano fare ogni due mesi degli ufficiali. Ordinarono che fossero otto i Priori, due per quartiere, e un Gonfaloniere di giustizia; che de’ Priori fossero due popolani grassi, e tre dei mediani, e tre artefici minuti; e il Gonfaloniere si mutasse per simile modo dall’una all’altra qualità d’uomini. Si trovò poi che degli artefici minuti erano più che non fosse l’ordine dato; il che addivenne perchè i collegi degli artefici erano stati nello squittinio più forti di voci di quello che fossero il grasso popolo e il mediano. In poco più d’un anno aveva Firenze veduto mutare quattro reggimenti: e la breve tirannia del Duca d’Atene e le susseguenti rivolture questo produssero, che la signoria dal popolo grasso fosse venuta negli artefici e nel popolo minuto, crescendo via via di molto il numero dei nuovi uomini, i quali scendevano in Firenze dal contado e acquistavano cittadinanza, «Piaccia a Dio (scrive il buon Villani) che sia ciò ad esaltamento ed a salute della nostra Repubblica: mi fa temere l’essere i cittadini vuoti d’amore e di carità tra loro, e pieni d’inganni e di tradimenti; ed è rimasta questa maledetta arte in Firenze, in quelli che ne sono rettori, di promettere bene e fare il contrario, se non sono provveduti o di grandi prieghi o di grande utile.[193]» In altro luogo conchiude: «ch’erano male retti dai nobili e peggio dai popolani.» Pei nuovi ordini posti allora i grandi rimasero affatto esclusi da quelli uffici nei quali era il governo dello Stato: sedeano bensì nel Consiglio del Comune, potevano essere dei Cinque della mercanzia, siccome più tardi dei Dieci del mare; e quando veniva nominata una Balía per la condotta d’una guerra o di altro negozio di gran momento, era costumanza di porvi almeno uno dei grandi, che in certi casi andavano anche ambasciatori; aveano luogo nel magistrato di Parte guelfa: tutti cotesti ufficii appartenevano al Comune. Rinnovarono al tempo stesso anche i penali Ordinamenti della giustizia contro a’ grandi, i quali erano stati annullati; mitigandone l’acerbità in questo solo, che dove prima oltre alla pena del malfattore tutta la casa e schiatta di lui era tenuta pagare al Comune lire tremila, ora si corresse che i soli parenti fino al terzo grado fossero tenuti, ma riavendo il danaro quando rendessero preso il malfattore o lo uccidessero. Poco dipoi, taluni delle famiglie maggiori di grandi furono per sospetti mandati chi in qua chi in là a confine: a molti, che avevano pigliato servigi co’ signori di Lombardia o ch’erano andati cercando fortuna in Puglia o altrove, fu comandato tornassero dentro al termine di due mesi sotto pena di ribelli. I libri dei ribelli essendo stati arsi, vennero fatte le nuove liste dove alcuni furono aggiunti, ed altri rimessi in patria ad arbitrio di chi reggeva. I beni donati per antichi servigi ai Pazzi e ad altre famiglie di grandi, furono ad essi ritolti; il che ebbe biasimo dai migliori. I grandi rimasti si ritrassero la maggior parte in contado alle loro possessioni, quivi tenendosi quieti quanto potevano maggiormente. Furono poi levati dal novero de’ grandi e fatti di popolo da cinquecento nobili, uomini della città e del contado, o per la grazia che si avessero acquistata appresso al popolo, o più sovente perchè le case loro fossero venute in depressione da non temerne;[194] e nel contado non pochi, tuttochè avessero sempre titolo di Conti, erano scesi alla condizione di lavoratori della terra. Ma non potevano gli antichi grandi fatti di popolo essere per cinque anni nè de’ Priori, nè de’ Dodici, nè Gonfalonieri di compagnie, nè capitani delle Leghe del contado. E se alcuno dentro dieci anni commettesse maleficio contro ai popolani, fosse in perpetuo rimesso tra’ grandi. Alcuni di quelli che furon fatti di popolo, e vollero essere veramente popolani, mutarono i loro casati, a ciò astretti, o per ingraziarsi; ma poi ripresero gli antichi nomi quando la Casa dei Medici, venuta a capo della Repubblica, ebbe rimesso in istato quelli che prima erano abbassati. Ruinava così dopo cento anni di battaglie la parte dei grandi, scaduta prima e dimezzata con la oppressione dei Ghibellini, i quali serbavano con più costanza e sincerità il decoro della parte loro; poi dimezzata un’altra volta per la cacciata dei Bianchi, e avendo perduto con la morte di Corso Donati il solo braccio che fosse atto a sorreggerla tantoch’ella mantenesse il grado suo nella Repubblica. Veramente le famiglie che ultime furono abbattute, paesane di sangue (quanto è lecito congetturare) e tutte guelfe se altri mai, si erano aggregate alla nobiltà quando era prossima a cadere, cresciute essendo pei commerci:[195] di tali uomini si poteva costituire un patriziato. Ma gli guastavano le aderenze e le superbie baronali, nè si piegarono ai costumi del nuovo popolo di Firenze che gli teneva come stranieri; e dopo averli cacciati via, gli parve essere sollevato, e fatto libero di trattare le cose sue più alla domestica. Allora però venne a scoprirsi e si aggravò di molto quell’altro dissidio, che ne’ traffici è inevitabile, tra’ mercatanti e gli artigiani; o come oggi si direbbe, tra ’l capitale ed il lavoro: ed il popolo minuto, che aveva in uggia la sovranità dei suoi capi di bottega senza alcun freno o contrappeso, andò in traccia di un padrone solo. Inoltre mancò, in città esposta a continue guerre, l’educazione delle armi che presso i nobili risedeva, e mancò al popolo quella tempra del corpo e dell’animo, la quale s’acquista nelle fatiche e nei pericoli, pigliando virtù dalla prontezza al sacrificio, dove occorra, di noi medesimi, ch’è il pregio e l’anima e la forza della militare professione. Chi però guardi alla meschinità ed alla bruttezza delle guerre che nell’Italia si combattevano, dirà che al popolo di Firenze non fu gran perdita il tenersi fuori dai costumi soldateschi, i quali in tutta quella età più aspri erano che generosi. Pure qualcosa venne a mancare a questo popolo ridotto allora tutto ad essere di artigiani; ma poco apparve sinchè durarono i tempi floridi della libertà, quando la vita si espandeva in tanti modi e i cittadini facevano acquisto alla patria loro, per via delle opere dell’ingegno, d’un altro genere di grandezze. I quattro anni che seguitarono ebbe Firenze tranquillo stato, nè fatti accaddero d’importanza se non che in ordine ad altre cose che dipoi vennero a conseguenza, e che in appresso registreremo. Successe lugubre l’anno 1348 per quella feroce nè mai più udita pestilenza, che dall’Oriente venuta, percosse in quell’anno e nei primi susseguenti quasichè tutta l’Europa; distruggendo (come scrivono) tre quinte parti della popolazione, in Firenze centomila, per testimonianza degli autori contemporanei, e per il novero che poi ne fecero insieme il Vescovo e la Signoria. Il che però non si può intendere che fosse dentro alla città sola, la quale tanti non ne aveva, e molti erano fuggiti e credo pochi vi accorressero; ma, come parmi sia di necessità correggere, dentro al contado o al dominio, che era a quel tempo molto angusto. Lamentano anche il peggioramento dei costumi, per quella certa stupidità che invade l’uomo nei grandi mali, e perchè egli si avvezza troppo allo spettacolo della morte, la più comune delle umane cose; e per le subite ricchezze dalle insperate eredità, e pel disciogliersi d’ogni vincolo sia di famiglia o sia di leggi, che allora tacevano abbandonate o insufficienti: non si hanno tratte di Magistrati nei cinque mesi che infuriò il morbo. Scrivono pure come alla pestilenza seguitasse carestia pel difetto delle braccia, e perchè il popolo degli artigiani ridotto a numero molto scarso, e taluni fatti ricchi e godendosi le suppellettili e le robe degli estinti a vil prezzo comperate, si rifiutavano al lavoro chiedendo per esso strabocchevoli mercedi: lo stesso facevano i lavoratori delle terre, gli opranti e i servi parlavan alto.[196] Che molti vizi e corruttele venisser su da quel rimescolamento è troppo agevole figurare, e anche solo basterebbe a dimostrarcelo il Decamerone: ma le migliori virtù passavano tanto più oscure e men lodate quant’esse erano meno rare; e argomento di virtù è a me la stessa severità iraconda dei cronisti, privati uomini e popolani. Narrano essi come per la viltà anche talvolta dei congiunti, molti perissero derelitti; ma poi raccontano altresì come cessato il terrore primo, fosse tornata la sicurezza nel servire gli ammalati, notando che molti degli assistenti campavano, quando i chiusi nelle ville non isfuggivano il morire. Dicono della moneta estorta dai falsi medicanti, ma soggiungono che per coscienza molti anche poi la restituirono. Lasciti grandi ed elemosine vennero fatte co’ testamenti ai poveri di Dio, e la Compagnia di Or San Michele n’ebbe a sè sola fino a trecento cinquanta mila fiorini d’oro; i quali, perchè i mendichi erano quasi tutti morti, tentarono poi la cupidità degli amministratori con brutto esempio e grave scandalo: minori lasciti ma considerevoli ebbero pure due luoghi pii ch’erano stati operosi molto in alleviare i presenti guai, la Compagnia della Misericordia e lo Spedale di Santa Maria Nuova. CAPITOLO V. DELLA CITTÀ E STATO DI FIRENZE. ENTRATE E SPESE DEL COMUNE. Moriva di peste in quell’anno Giovanni Villani statoci guida infino a qui, nè altra migliore avremo noi tra quanti scrissero delle cose nostre. Vedemmo già come fosse egli presente in Palagio, quasi sessanta anni prima, il dì della battaglia di Campaldino; condusse le Istorie infino al termine della vita sua. Giovane insieme con l’Alighieri, formava sè stesso alla grande scuola del secolo XIII; quindi l’alta rettitudine la quale domina i suoi giudizi, e quella compostezza di pensieri arditi e modesti, ch’è indizio non già di buoni tempi e di quieto vivere, ma sì di animi che abbiano sicurezza di sè medesimi e interna pace. Era Giovanni di quei _buoni uomini_ da lui sovente posti in iscena, che fondarono la libertà per essi soli fatta possibile, e la mantennero in mezzo agli urti delle ambizioni, pacati e forti perchè cercavano insieme al proprio il comun bene, e il vero sempre in ogni cosa. Innanzi però di separarci da lui, vogliamo qui trascrivere un ragguaglio ch’egli ne diede accurato molto intorno allo stato di Firenze ed alle forze della città ed alle Entrate e Spese pubbliche. Il quale sebbene risguardi all’anno 1336, serbammo per non interrompere la narrazione, a questo luogo dove incominciano tempi nuovi, risorgendo la città in breve ora da quei mali che dall’anno 36 al 48 l’avevano afflitta. Da molti fu allegata questa che oggi si chiamerebbe statistica di Firenze; massimamente in quella parte la quale spetta alle scuole pubbliche e alla coltura di questo popolo: e più altri lumi sono da trarne circa alla pubblica economia ed alle tasse ed al maneggio della civile amministrazione, materia amplissima agli studi cui può servire l’Istoria nostra. Abbiamo un poco spostato qui l’ordine delle materie per farne a tutti più chiara e agevole la lettura; la quale se a molti non riesca nè ingrata nè inutile, avremo scusa d’avere interrotto in questo luogo con le parole del Villani il nostro racconto. Il Comune di Firenze in questi tempi (1336) signoreggiava la città d’Arezzo e il suo contado, Pistoia e il suo contado, Colle di Valdelsa e la sua corte; e in ciascuna di queste terre avea fatto fare un castello, e teneva diciotto castella murate del distretto e del contado di Lucca: e del nostro contado e distretto quarantasei castella forti e murate, senza quelle di propri cittadini; e più terre e ville senza mura, che erano in grandissima quantità. Troviamo diligentemente che in questi tempi avea in Firenze circa venticinque mila uomini da portare arme da quindici anni infino in settanta, tutti cittadini, intra’ quali millecinquecento cittadini nobili e potenti che sodavano per grandi al Comune.[197] Erano in Firenze da settantacinque cavalieri di corredo: bene troviamo che innanzi che fosse fatto il secondo popolo che regge al presente, erano i cavalieri più di dugentocinquanta: che poichè il popolo fu, i grandi non ebbono stato nè signoria come prima, e però pochi si facevano cavalieri. Stimavasi d’avere in Firenze da novanta mila bocche tra uomini e femmine e fanciulli, per l’avviso del pane che bisognava nella città: ragionavasi avere continui nella città da millecinquecento uomini forestieri e viandanti e soldati; non contando i religiosi e frati e monache rinchiusi, onde faremo menzione appresso. Stimavasi avere in questi tempi nel contado e distretto di Firenze ottanta mila uomini da arme. Troviamo dal Piovano che battezzava i fanciulli (imperocchè ogni maschio che si battezzava in San Giovanni, per averne il novero metteva una fava nera, e per ogni femmina una fava bianca) che erano l’anno in questi tempi dalle cinquantacinque alle sessanta centinaia, avanzando più il sesso mascolino che il femminino da trecento in cinquecento per anno.[198] Troviamo i fanciulli e fanciulle che stanno a leggere, da otto a dieci mila; i fanciulli che stanno ad imparare l’abbaco e algorismo in sei scuole, da mille in mille dugento. E quelli che stanno ad apprendere la grammatica e loica in quattro grandi scuole, da cinquecento cinquanta in seicento. Le chiese in Firenze e ne’ borghi, contando le badie e le chiese de’ Frati religiosi, troviamo essere centodieci; tra le quali sono cinquantasette parrocchie con popolo, cinque badie con due priori e con da ottanta monaci; ventiquattro monasteri di monache con da cinquecento donne; dieci regole di Frati; e da dugento cinquanta in trecento cappellani preti. Trenta spedali con più di mille letta da allogare i poveri e infermi. Le botteghe dell’arte della Lana erano dugento o più, e facevano da settanta in ottanta mila panni, che valevano da un milione e dugento migliaia di fiorini d’oro; che bene il terzo rimaneva nella terra per ovraggio, senza il guadagno de’ lanaioli, e viveanne più di trenta mila persone. Ben troviamo che da trent’anni addietro erano trecento botteghe o circa, e facevano per anno più di cento migliaia di panni; ma erano più grossi e della metà valuta, perocchè allora non ci entrava e non sapeano lavorare lana d’Inghilterra, come hanno fatto poi.[199] I fondachi dell’arte di Calimala de’ panni franceschi e oltramontani erano da venti, che faceano venire per anno più di dieci mila panni, di valuta di trecento migliaia di fiorini d’oro, che tutti si vendeano in Firenze, senza quelli che mandavano fuori di Firenze.[200] I banchi de’ Cambiatori erano da ottanta. La moneta dell’oro che si batteva era da trecentocinquanta migliaia di fiorini d’oro, e talora quattrocento mila; e di danari da quattro piccioli l’uno si batteva l’anno circa venti mila libbre. Il collegio de’ Giudici erano da ottanta; Notai secento, Medici e Cerusichi sessanta; botteghe di Speziali cento,[201] molti altri mercanti, merciai e di molte ragioni artefici. Erano da trecento e più quegli che andavano fuori di Firenze a negoziare.[202] Aveva allora in Firenze centoquarantasei forni; e troviamo per la gabella della macinatura e per gli fornai, che ogni dì bisognava alla città dentro centoquaranta moggia di grano; non contando che la maggior parte de’ ricchi e nobili e agiati cittadini con loro famiglie stavano quattro mesi l’anno in contado, e tali più: l’anno 1280, che era la città in felice e buono stato, volea la settimana da ottocento moggia. Di vino troviamo entra nella città da cinquantacinque mila cogna; e quando vi è abbondanza, circa dieci mila più. Buoi e vitelle l’anno quattro mila, castroni e pecore sessanta mila, capre e becchi venti mila, porci trenta mila. Entrava del mese di luglio ogni anno per la porta a San Friano quattro mila some di poponi. In questi tempi avea in Firenze le infrascritte signorie forestiere, che ciascuna teneva ragione e avea corda da tormentare; cioè il Potestà, il Capitano e difensore del popolo e delle Arti, l’Esecutore degli Ordinamenti della giustizia, il Capitano della guardia ovvero Conservatore del popolo, il quale avea più balía che gli altri. Tutte queste quattro signorie aveano arbitrio di punire personalmente: e più, il giudice della ragione e dell’appellagione, il giudice sopra le gabelle, l’ufficiale sopra gli ornamenti delle donne, l’ufficiale della mercatanzia, l’ufficiale dell’arte della lana: di ufficiali ecclesiastici, la corte del vescovo di Firenze, la corte del vescovo di Fiesole, l’Inquisitore dell’eretica pravità. La città era dentro bene situata e albergata di molte belle case, e al continovo in questi tempi s’edificava a farle viepiù agiate e ricche, recando di fuori belli esempli d’ogni miglioramento: avea chiese cattedrali e di frati d’ogni regola e magnifichi monasteri. Oltre a ciò, non v’era cittadino popolano o grande che non avesse edificato o che non edificasse in contado grande e ricca possessione con belli edifici e molto meglio che in città; e in questo ciascuno ci peccava, e per le disordinate spese erano tenuti matti. E sì magnifica cosa era a vedere, che i forestieri non usati a Firenze venendo di fuore, i più credevano per li ricchi edifici e belli palagi i quali erano tre miglia intorno, che tutti fossero della città a modo di Roma; senza i ricchi palagi, torri, cortili e giardini murati più di lungi alla città, che in altre contrade sarebbono chiamate castella. Insomma, si stimava che d’intorno alla città sei miglia aveva tanti ricchi e nobili abituri che due Firenze non ne avrebbono tanti. ENTRATE DEL COMUNE. Il Comune di Firenze di sue rendite assise ha piccola entrata, come si potrà vedere, ma reggevasi in questi tempi per gabelle; e quando bisognava per le guerre, si reggeva per prestanza e imposte sopra le ricchezze de’ mercatanti e d’altri singolari cittadini, con guiderdoni sopra le gabelle. E in questi tempi queste infrascritte gabelle furono levate per noi diligentemente da’ registri del Comune; e, come potrete vedere, montavano l’anno circa a trecento mila fiorini d’oro, talora più talora meno: che sarebbe gran cosa a un reame, nè il re Roberto ha d’entrata tanti, nè quello di Sicilia nè quello d’Aragona. La gabella delle porte, di mercatanzia e vittuaglia e cose ch’entravano e uscivano della città, fiorini novanta mila dugento d’oro. La gabella del vino a minuto, pagandosi al terzo, fiorini cinquantotto mila trecento. L’estimo del contado, a soldi dieci per lira l’anno, fiorini trenta mila cento. La gabella del sale, vendendo a’ cittadini lo staio soldi quaranta di piccioli, e a’ contadini soldi venti, montava fiorini quattordici mila quattrocentocinquanta: queste quattro gabelle erano deputate alla spesa della guerra di Lombardia. I beni de’ rubelli sbanditi e condannati valeano l’anno fiorini settemila. La gabella sopra i prestatori ed usurieri, fiorini tremila. I nobili del contado pagavano l’anno fiorini duemila. La gabella de’ contratti valeva l’anno fiorini ventimila.[203] La gabella delle bestie e del macello della città, fiorini quindicimila; quella del macello del contado, fiorini quattro mila quattrocento; quella delle pigioni valeva l’anno fiorini quattro mila centocinquanta. La gabella della farina e macinatura, fiorini quattro mila dugentocinquanta. Quella de’ cittadini che vanno di fuori in signoria, valeva l’anno tre mila cinquecento. La gabella delle accuse e scuse, fiorini mille quattrocento. Il guadagno delle monete dell’oro, fatte le spese, valeva l’anno fiorini duemila trecento; quello della moneta de’ quattrini e piccioli, pagato l’ovraggio, fiorini mille cinquecento. I beni propri del Comune e passaggi valevano l’anno fiorini mille secento. I mercati nella città delle bestie vive, fiorini duemila. La gabella del segnare pesi, misure e paci e beni in pagamento,[204] fiorini secento. La gabella della spazzatura d’Orto San Michele e prestare bigonce, fiorini settecento cinquanta.[205] La gabella delle pigioni del contado, fiorini cinquecento cinquanta; quella de’ mercati del contado, fiorini duemila. Le condannagioni che si riscuotono, si ragiona vagliono fiorini ventimila, e gli più anni montano troppo più. L’entrata de’ difetti de’ soldati da cavallo e da piè valeva l’anno fiorini settemila.[206] La gabella degli sporti delle case, fiorini settemila: quella delle trecche e trecconi, fiorini quattrocentocinquanta. La gabella del sodamento di portare l’arme valeva l’anno fiorini milletrecento e soldi venti di piccioli per uno. L’entrata delle prigioni,[207] fiorini mille. La gabella de’ messi, fiorini cento l’anno. Quella de’ foderi di legname che viene per Arno, fiorini cinquanta. La gabella degli approvatori de’ sodamenti che si fanno, valeva l’anno fiorini dugentocinquanta. Quella dei richiami de’ consoli delle Arti, la parte del Comune si fa l’anno valere fiorini trecento. La gabella sopra le possessioni del contado, fiorini......; quella delle zuffe a mani vuote si fa l’anno fiorini.... La gabella di coloro che non hanno case in Firenze, e vale il loro da fiorini mille in su,[208] fiorini..... l’anno. Quella delle mulina e pescaie, fiorini..... Somma da trecentomila di fiorini d’oro e più. SPESE DEL COMUNE. Sono qui notate quelle che appellavano spese ferme, cioè che erano di necessità per anno: il fiorino d’oro valeva tre lire e soldi due di piccioli. Il salario del Potestà e di sua famiglia, l’anno, lire quindici mila dugento quaranta di piccioli. Il salario del Capitano del Popolo e di sua famiglia, lire cinque mila ottocento ottanta. Il salario dell’Esecutore degli Ordini della giustizia contro a’ grandi con la sua famiglia, lire quattro mila novecento. Il salario del Conservatore del popolo e sopra gli sbanditi, con cinquanta cavalieri e cento fanti, fiorini ottomila quattrocento d’oro l’anno: quest’ufficio non è stanziale, se non come occorrono i tempi di bisogno. Il giudice delle appellagioni sopra le ragioni del Comune, lire millecento. L’ufficiale sopra gli ornamenti delle donne e altri divieti, lire mille. L’ufficiale sopra la piazza d’Orto San Michele e della Badia, lire milletrecento. L’ufficiale sopra la condotta de’ soldati, lire mille. Gli ufficiali, notai e messi sopra i difetti de’ soldati, lire dugentocinquanta. I camarlinghi della Camera del Comune e loro ufficiali e massari e loro notai e frati che guardano gli atti del Comune, mille quattrocento. Gli ufficiali sopra le rendite proprie del Comune, lire dugento. I soprastanti e guardie delle prigioni, lire ottocento. Le spese del mangiare e bere de’ signori Priori e di loro famiglia costa l’anno lire tremila secento. I salari dei donzelli e servitori del Comune, e campanai delle due torri, cioè quella de’ Priori e quella del Potestà, lire cinquecento cinquanta. Il Capitano, con sessanta fanti che stanno al servizio e guardia de’ signori Priori, lire cinque mila dugento. Il notaio forestiere sopra le Riformagioni e il suo compagno, lire quattrocentocinquanta. Il cancelliere del Comune e il suo compagno, lire quattrocentocinquanta. Per lo pasto de’ Lioni;[209] torchi e candele e panelli per li Priori, lire duemila quattrocento. Il notaio che registra nel Palagio de’ Priori i fatti del Comune, lire cento. I messi che servono tutte le signorie, per loro salario, lire mille cinquecento. I trombatori, sei banditori del Comune, naccherini, sveglia, cornamusa, cennamelle, trombette in numero dieci con trombe d’argento, per loro salario, lire mille. Per limosine a religiosi e spedali, l’anno, lire duemila seicento. Guardie, che guardavano di notte alle porte della città, lire diecimila ottocento. Il palio di sciamito che si corre l’anno per san Giovanni, e quelli di panno per san Barnaba e per santa Reparata, costano l’anno fiorini cento d’oro. Per ispese in spie e messi che vanno fuori per lo Comune, lire milledugento. Per ambasciatori che vanno per lo Comune, stimati l’anno fiorini cinquemila d’oro e più. Per castellani e guardie di rôcche le quali si tengono per lo Comune di Firenze, fiorini quattromila. Per fornire la Camera dell’arme di balestre, sagittamento e palvesi, fiorini mille cinquecento d’oro. Somma l’opportune spese, senza i soldati a cavallo e a piedi, fiorini quarantamila d’oro e più l’anno. A’ soldati a cavallo e a piedi non ci ha regola nè numero fermo, ch’erano talora più e talora meno, secondo i bisogni che occorrevano al Comune; ma al continuo si può ragionare, senza quelli della guerra di Lombardia, non facendo oste, da settecento in mille cavalieri e altrettanti pedoni continuamente. Non facciamo conto delle mura e de’ ponti e di Santa Reparata (cioè della fabbrica del Duomo), e di più altri lavori di Comune, che non si possono mettere in numero ordinario.[210] CAPITOLO VI. GUERRA CON L’ARCIVESCOVO DI MILANO. — TRATTATO CON L’IMPERATORE CARLO IV. — IL MAGISTRATO DI PARTE GUELFA. — ALBIZZI E RICCI. [AN. 1349-1358.] I nuovi acquisti che la Repubblica in molti anni aveva fatti e componevano il distretto, erano per la cacciata del Duca d’Atene perduti, come noi già notammo; ed a Firenze non rimaneva se non l’antico suo contado, quale forse era anche nei secoli imperiali, ma sgombro però dalle giurisdizioni baronali o dai castelli che d’ogni parte ed a molto piccole distanze erano attorno alla città. Il danno però non si deve credere che fosse quale sarebbe al tempo nostro il farsi piccolo uno stato grande, perchè il nerbo della ricchezza era dentro alla città stessa, componendosi l’entrate quasi interamente di gabelle cittadine: i luoghi soggetti si amministravano da sè stessi, perchè il diritto municipale era tenuto cosa inviolabile; e quel che andasse alla Repubblica, portava il carico della guardia: veramente il maggiore scapito era dei potenti cittadini che risedevano nelle terre suddite o potestà o capitani, o con altro titolo ed ufizio; e vi acquistavano clientele, e avvantaggiavano l’interesse loro. Certamente la potenza della Repubblica fiorentina veniva ad essere menomata di tutto il numero di quei soldati ch’essa imponeva in caso di guerra per ciaschedun luogo del dominio, e questi dovevano tenere in campo a spese loro: ma per tale rispetto avergli amici o averli sudditi veniva quasi all’effetto stesso; e sino a tanto che le città e le altre terre si governassero a parte guelfa o popolare, di cui Firenze stava a capo, avevano queste necessità uguale di difenderla, perchè i nemici erano comuni. Laonde bastava alla Repubblica mantenere nelle terre circostanti le signorie popolari; ed agli acquisti era condotta (quando non fosse dalle ambizioni) più che altro dal bisogno di assicurare quella parte, e di opprimere la contraria. Tollerò quindi pazientemente le fatte perdite, e le sudditanze cercò mutare in amistà, finchè gli umori che in esse nutriva non facessero un’altra volta quei luoghi medesimi cadere sotto alla tutela sua, o alla Repubblica non abbisognasse per sua propria difensione porvi la mano ed assicurarsene. Nell’anno 1349 Colle di Valdelsa tornò in potere dei Fiorentini, i quali ebbero in quella mossa d’un tratto solo anche San Gimignano, nobile terra e cospicua sempre per le alte torri che ivi rimangono in molto numero tuttavia, per gli edifici e per le pitture di cui l’ornarono i buoni artisti che in essa ebbero nascimento:[211] la quale però certo è che venne a decadere, perduto ch’ebbe con l’indipendenza la pienezza della vita, e i vivi impulsi dati agli animi, e il sempre intendere a maggiori cose, dal che i popoli si fanno illustri e poi consumano sè medesimi. Matteo Villani scrive che i Sangimignanesi d’allora in poi dimenticate le contenzioni vissero in pace, badando ognuno a’ fatti suoi: anche Firenze alla sua volta, dopo il corso di altri due secoli, ebbe in sorte la stessa pace. Vedemmo già come la terra di Prato si fosse data in perpetuità al Duca di Calabria per non volere la signoria de’ Fiorentini: ora nell’anno 1350 la comperarono questi per diciassette mila cinquecento fiorini d’oro dalla regina Giovanna di Napoli figlia di quel Duca, bisognosa di moneta e che aveva altro da pensare: al quale mercato diede mano il gran Siniscalco Niccolò Acciaiuoli fiorentino, ch’era ogni cosa in quella corte. E per essere signoria libera, la recarono a contado; diedero l’estimo ai Pratesi, e i privilegi come ai cittadini del Comune di Firenze: gli antichi ordini annullarono ristringendo la giurisdizione dei Rettori cittadini, e tirarono a Firenze presso alla corte del Potestà tutti i giudizi di maggior conto: lo stesso fecero a San Gimignano. In Prato soleva dominare la famiglia dei Guazzalotri;[212] sette di questi, i Fiorentini perchè sapevano dovere essere malcontenti, tratti in Firenze con lieve scusa, fecero tutti decapitare per sola iniqua ragion di Stato. Ma il sangue sparso dei Guazzalotri tosto rimase dimenticato: ebbero infamia i Veneziani da quello più illustre dei signori da Carrara uccisi con tale parità di circostanze che raro incontrasi nelle storie. Avuta Prato, i Fiorentini volsero l’animo a Pistoia. Ribelle non era, perchè la dedizione era stata a tempo; ma ora cogliendo il pretesto delle consuete divisioni, dapprima ottennero porvi guardia di pochi soldati, con che giurassero mantenere lo stato presente; questi, guidati da un leale cavaliere Andrea Salamoncelli da Lucca, stettero contro a certo assalto che per sorpresa e con inganno i rettori di Firenze vollero mattamente dare alla città.[213] Contro alla quale andati poi con oste molto più numerosa (e vi furono tra gli altri duemila cittadini di Firenze sotto sedici pennoni), ebbero Pistoia per accordo nel mese d’aprile 1351; e postavi guardia, riformarono lo stato di quella città, rimettendovi la famiglia dei Cancellieri, ch’erano più guelfi e più amici dei Fiorentini.[214] Il tempo stringeva, e questi avevano buon motivo ad assicurarsi di Pistoia contro a un pericolo soprastante. Un gran delitto si commetteva allora in Italia, e tale fu che ne rimanesse perenne infamia tra le politiche scelleratezze di quella età: Giovanni de’ Pepoli, il quale teneva dal padre trasmessa la signoria di Bologna, vendè per dugentomila fiorini d’oro la patria sua all’arcivescovo di Milano Giovanni Visconti. Era Milano città più atta a nutrire la potenza che a vivere in libertà; di qui la grandezza della casa dei Visconti. Quell’Arcivescovo possedeva tra Lombardia e Piemonte ventidue città; aveva la mano nelle cose di Romagna fin presso a Roma, allora vuota della sedia pontificia; e da Bologna distendeva le armi sue facendo vista di occupare Pistoia, per indi invadere la Toscana. Il trattato d’una lega con Siena e Perugia e con Mastino della Scala, pel quale si tenne congresso in Arezzo, non ebbe effetto per le lungaggini consuete dei Consigli, e per la morte di Mastino: il figlio di lui si strinse invece all’Arcivescovo, il quale aveva già fatto lega co’ Ghibellini di Lombardia e co’ signorotti di Toscana. Ma co’ Fiorentini tranquillava; ed essi contenti d’avere Prato e Pistoia, non si provviddero altrimenti, e non elessero Capitano. Nemmanco avevano posto guardia al forte passo della Sambuca, pel quale ad un tratto Giovanni dei Visconti da Oleggio scendeva in gran forza giù nel piano di Pistoia. Quivi gli giunsero ambasciatori del Comune di Firenze, a’ quali rispose esser egli mandato dal suo signore a mettere pace ed a cessare le divisioni, raddirizzando le cose di tutta Toscana: gli ambasciatori se ne tornarono. E l’Oleggio, che al vedere Pistoia essere ben guardata non ebbe animo d’assalirla, tirando innanzi conduceva l’esercito a Campi e fin sotto alle mura di Firenze: dove stato pochi giorni senza alcun pro, gli convenne per mancamento di vettovaglia, volgendo addietro per la Valle di Marina, andare a porsi nella pianura larga e doviziosa del Mugello; non senza essere infestato molto prima d’entrarvi dai contadini volenterosi ma sprovveduti, che abitavano quella valle. Di qui l’esercito del Biscione (questo nome gli davano per la biscia ch’era l’arme dei Visconti) muoveva contro alla Scarperia, e vi pose assedio: a spalle aveva gli Ubaldini che a lui rendevano sicura la via di Bologna, intantochè i Tarlati e gli altri Ghibellini di verso Arezzo si erano mossi: quell’indomabile vecchio di Piero Saccone, in età allora di ottanta anni o più, disperse l’aiuto dei Perugini ch’era avviato a soccorrere la Scarperia. I Fiorentini, che da principio all’appressarsi dei nemici avevan sospetto di quei di dentro la città, pigliato animo, inviavano quante più genti potessero, ma senza ordine nè capo, alla volta del Mugello: ad un Visdomini e ad un Medici venne fatto penetrare con loro gran lode nell’assediato castello; il quale non bene per anche cinto di mura, ma di fossi e di steccati, resisteva oltre a due mesi, tornando vani i molti assalti che ad esso diedero gli inimici;[215] e nell’ottobre di quell’anno 1351, tanto apparato di forze cadeva dinanzi a un ignobile castello e a una Repubblica disarmata. Ma per questa era la volontà dei popoli, che alla difesa del patrio suolo da sè bastavano; la potenza dell’Arcivescovo non aveva fermezza d’ordini sufficienti nè a comporre uno Stato forte nè a tentare le imprese grandi. I Fiorentini contuttociò si reputavano mal sicuri, se tanta mole di principato si mantenesse in Lombardia: quindi sprovvisti di ogni altro aiuto, i Papi essendo in Avignone e le fortune dei re Angiovini condotte al basso da una rea femmina; veduta ch’ebbero manomessa per l’occupazione di Bologna la compagnia delle città libere delle quali erano essi a capo, deliberarono accostarsi fra tutti i principi a quell’uno, a cui dovesse più dare ombra il veder sorgere in Italia una potenza di quella fatta: ed era questi l’Imperatore.[216] La famiglia dei Visconti aveva nome di ghibellina: ma questo nome già invecchiato, più non valeva che oppressione della vita popolare, senza concetto di unità;[217] l’Italia s’era da cento anni avvezza a fare senza l’Imperatore, e gli stessi Ghibellini veniano in fatto a disconoscere quella suprema autorità che prima era la forza loro. Carlo IV di Boemia voleva scendere in Italia a pigliare la corona, ma senza esercito che lo accompagnasse, era contento di porre in salvo il principio del diritto, rifugio ultimo delle potestà scadute; e si appagava d’ogni omaggio, a lui parendo fare assai quando ottenesse di autenticare le franchigie delle città che si reggevano a repubblica; usato modo anche in Alemagna. Per queste cose ebbe Carlo IV dai suoi taccia di semiguelfo; ed egualmente i Fiorentini quando era caso di mantenere o d’ampliare lo Stato loro, non la guardavano per minuto. Aveano chiamato già nell’anno 1308 il re d’Aragona contro a’ Pisani nella Sardegna, e poi gli vedemmo sotto le mura di Lucca condurre le insegne ai Guelfi odiose di Lodovico di Baviera: ma il patteggiarsi ora con Cesare tirava seco altre conseguenze. Nelle repubbliche emancipatesi dalla imperiale soggezione, il fatto stava contro al diritto: dottrinalmente non rinnegavano esse quell’alta sovranità che i legisti mantenevano e in questo popolo tanto guelfo viveva sempre l’idea imperiale non di possesso ma di giurisdizione; romano infine era l’Impero qual che si fosse l’imperatore, e le due somme potestà si congegnavano per tal modo che l’una all’altra erano necessarie. Le provvisioni della Repubblica troviamo sottoscritte da notari e da cancellieri, i quali s’intitolano _imperiali auctoritate notarius, imperiali auctoritate judex_. Certo che un principe alemanno male si vede come avesse buone ragioni sulla Toscana, dappoichè ebbe essa rinvenuto in sè medesima la sua vita; ma quale si fosse quella imperiale supremazia, valeva però generalmente nella cristianità;[218] e dove manchi o non sia ben ferma l’idea d’un diritto da tutti ammesso e positivo, nè il comandare nè l’ubbidire avranno limite nè certezza, ogni uomo facendo autore sè del suo diritto. Ora ai politici Fiorentini sanare questa illegalità pareva essere cosa buona e da non perderne l’occasione, taluni forse avendo anche nel più segreto pensiero loro di tutte poi accomunare le forze vive della città, togliendo via quelle esclusioni che molti ancora male pativano; ma quindi ebbero incremento, se troppo male non ci apponiamo, le divisioni di nuovo sorte, che poi turbarono la Repubblica. Chiamato da quelli che tenevano lo Stato,[219] era venuto in Firenze a trattare dell’accordo, verso la fine di quell’anno 1351, un tedesco vicecancelliere di Carlo eletto re dei Romani; e dimorato segretamente tutto quel verno in San Lorenzo, dove i commissari del Comune la notte andavano a parlamentare seco, andò la pratica molto innanzi. Ma non si venne a conclusione finchè nell’aprile dell’anno vegnente, fatti certi come l’Arcivescovo, per corruttele e per minaccie[220] nella corte Avignonese, avesse condotto il debole papa Clemente VI a riconciliarsi seco ed assolverlo dalle scomuniche, fino ad investirlo della città di Bologna e a lui mostrarsi molto propenso; i Fiorentini, rimasti soli co’ Perugini e co’ Senesi contro alle forze dell’Arcivescovo, si accordarono per la chiamata di Carlo in Italia, e pubblicarono il trattato.[221] Promise il detto vicecancelliere che dentro luglio verrebbe Carlo in Italia; ed oltre ai patti consueti del fornire cavalieri e del pagare moneta, i Fiorentini si obbligavano a riconoscerlo come Imperatore vero, con che egli assolvesse quei tre Comuni dalla condennagione in che erano incorsi fino dal tempo di Arrigo VII, gli privilegiasse dei dominii e terre che essi avevano acquistate, mantenesse gli statuti della libertà dei detti Comuni; i Priori di Firenze e i Nove di Siena si denominassero vicari dell’Imperatore mentre che fossero in ufficio: promettevano i Fiorentini pagare ogni anno in nome di censo danari ventisei per focolare, tributo di sudditanza che le città istesse riscuotevano dai luoghi minori secondo i patti di dedizione; e gli altri Comuni, quello che era consueto all’Imperatore per antico. Subito poi furono mandati a Praga a Carlo ambasciatori per la ratificazione del trattato: ma tra le poche forze di lui da stare a petto de’ Visconti, e che gli dicevano le concessioni essere grande abbassamento della imperiale maestà; dall’altra banda, per i sospetti de’ Fiorentini che abbreviarono il tempo del mandato agli ambasciatori, ed il troppo famigliare e popolano contegno di questi, che offese Carlo ed i cortigiani suoi;[222] non si poterono accordare. Questo sappiamo da Matteo Villani: ma nell’Archivio di Stato è una minuta di Ratificazione scritta a Praga il dì ultimo di giugno, condizionata però: non si voleva l’Imperatore obbligare a tempo certo per la passata, e intanto chiedeva sicurtà della moneta: il trattato non valesse se prima degli 8 di settembre non fossero giunte le ratificazioni dei Perugini e dei Senesi. Tornò quindi l’ambasciata senza effetto per allora, benchè in Udine rimanessero due di quegli ambasciatori a continuare questa pratica col Patriarca d’Aquileia, fratello naturale di Carlo IV:[223] e i Fiorentini, altro non potendo, fecero pace con l’Arcivescovo. Ma questi ottenne poco di poi nuova grandezza ed inopinata. «La nobile città di Genova e i suoi grandi e potenti cittadini, signori delle nostre marine e di quelle di Romania e del mar Maggiore, uomini sopra gli altri destri ed esperti, e di gran cuore e ardire nelle battaglie del mare, e per molti tempi pieni di molte vittorie, usati sempre di recare alla loro città innumerabili prede, temuti e ridottati da tutte le nazioni che abitavano le ripe del mar Tirreno e degli altri mari che rispondono in quello, ed essendo liberi sopra gli altri popoli e comuni d’Italia; per la sconfitta nuovamente ricevuta in Sardegna dai Veneziani e Catalani, vennero in tanta discordia e confusione tra loro nella città e in tanta misera paura, che rotti e inviliti come paurose femmine, il loro superbo ardire mutarono in vilissima codardia, non parendo loro potere aitarsi, tanto erano con gli animi dissoluti per quella sconfitta e per loro discordie; e non seppero conoscere altro rimedio al loro scampo, se non di sottomettersi al servaggio del potente tiranno Arcivescovo di Milano. E di comune concordia il feciono loro signore, dandogli liberamente la città di Genova e di Savona, e tutta la riviera di levante e di ponente, e le altre terre del loro contado e distretto, salvo Monaco e Mentone e Roccabruna, le quali tenea messer Carlo Grimaldi, che non le volle dare. E a’ 10 d’ottobre 1353, il conte Pallavicino, vicario dell’Arcivescovo, con settecento cavalieri e con millecinquecento masnadieri entrò in Genova, ricevuto come loro signore; e deposto il Doge e il Consiglio, prese la signoria e il governamento delle dette città e distretti; e aperte le strade e procacciate vettovaglie, e fatto prestanza al Comune per armare alquante galee in corso, ebbe fornito il prezzo di cotanto acquisto.[224]» Dopo di che l’Arcivescovo mandò a Venezia a offerire pace pe’ Genovesi che in addietro erano ad essa tanto nemici; ma i Veneziani vollero guerra, e strinsero lega con gli Scaligeri di Verona e co’ Gonzaga di Mantova e i Carraresi di Padova e gli Estensi di Ferrara, tenuti fin qui in soggezione dall’Arcivescovo: e non fidandosi di potere tutti insieme resistere alla sua tanta potenza, si accordarono di fare scendere in Lombardia l’Imperatore. A questo il Papa era consenziente, infino allora essendo stato incerto sempre e mal sicuro in quei molti negoziati ch’ebbero seco i Fiorentini: andò tra gli altri in Avignone Giovanni Boccaccio, singolare ambasciatore alla corte d’un pontefice, su’ primi dell’anno 1354; ma il Papa aveva già corso impegno, e da pertutto fu divulgata la fama che in breve passerebbe l’Imperatore in Italia. Dove era egli appena giunto, che l’Arcivescovo di Milano, moriva, lasciando tante ricchezze e signorie a tre nipoti, esca novella a nuova serie di scelleratezze. Allora concordi diedero il passo all’Imperatore che andava in Monza ad incoronarsi della corona del ferro, egli con soli trecento suoi cavalieri, in mezzo all’insulto delle sfoggiate magnificenze e delle armi che i Visconti dicevano essere a’ comandamenti suoi; ma se entrasse egli nelle città murate, la notte faceano chiudere le porte e vi tenevano buona guardia. Di verso Toscana niuno si mosse ad onorarlo, eccetto che dalla ghibellina Pisa, dove andò Carlo a porre stanza. Sentendo ciò i Fiorentini, per dare ad intendere all’eletto Imperatore e al suo Consiglio che il Comune di Firenze s’apparecchiava alla difesa, e avendo a mente gli assedi che il quarto e il settimo degli Arrighi aveano posti alla città; diedero voce di rafforzare le loro castella, riducendo nei luoghi murati le vettovaglie ed ogni altra cosa di valuta. Poi gli mandarono ambasciatori in compagnia con quelli di Siena, come era convenuto; e insieme fattisi innanzi a Carlo, i Fiorentini esposero l’ambasciata nel modo ch’era loro imposto, dicendo a lui «Santa Corona e Serenissimo Principe,» senza ricordarlo Imperatore o fargli atto di soggezione: del che i baroni e consiglieri intorno a lui pigliarono sdegno con oltraggiose parole; e forse che peggio ne avveniva, se non avesse egli represso quella baldanza de’ suoi. I Senesi per contrario magnificando la imperiale Maestà, a lui offersero senza alcun patto la signoria del Comune: e in questo tempo i Samminiatesi e i Volterrani se gli diedero liberamente. I Pistoiesi, contro al volere dei Fiorentini, avevano mandato in Pisa loro ambasciatori; e quei di Firenze volendo parlare in nome anche dei Pistoiesi, Carlo interpose quelle parole del Vangelo: _ætatem habent, ipsi per se loquantur_. Gli Aretini sostennero la libertà del Comune loro perchè non la manomettessero i Tarlati, i Pazzi e gli Ubertini, i quali erano con l’Imperatore; i Perugini si tennero fuori, come uomini di Santa Chiesa. Lucca richiedeva la libertà sua; ma egli per non offendere i Pisani fu contento di esortare quei cittadini alla pazienza. In Pisa lo raggiunse l’Imperatrice con molti prelati e signori d’Allemagna, e cavalieri in grande numero.[225] Si venne quindi ai negoziati, ch’ebbero poche difficoltà, come propenso che era Carlo ad accettare ogni composizione; e si avevano i Fiorentini procacciato intorno a lui amicizie per danaro, come era usanza in quelle corti.[226] I patti furono quasichè gli stessi in Firenze concordati; ma in luogo del censo di ventisei danari per focolare, che male a grado i Fiorentini voluto avrebbono consentire,[227] si obbligarono essi a pagare in quattro mesi centomila fiorini d’oro, e più quattromila fiorini d’oro l’anno a compensazione di tutto quello a che la città fosse obbligata verso l’Impero, o che fosse di ragione per la città stessa e per le terre del contado e del distretto, o per altro qualsivoglia titolo. Tentato avevano bargagnare sulla somma dei centomila; ma Carlo avuta spia del mandato, benchè la pratica si tenesse in consiglio molto stretto, gli obbligò a dare l’intera somma. I Fiorentini promettevano di rimettere i banditi per cagione d’ubbidienza prestata già all’imperatore Arrigo VII, ed all’incontro Carlo assolveva la città da ogni bando e condennagione contro ad essi pronunciata: manteneva quello che prima era convenuto quanto al riconoscere il Gonfaloniere ed i Priori come vicari suoi: il che importava poi nel fatto signoria libera, la Repubblica essendo così in migliore condizione dei feudatarii dell’Impero, e nell’esercizio della potestà sovrana mantenendo per espressa clausula di trattato le forme usate insino a qui, _mores laudabiles_; e perciò «non si mandino ufficiali se non del popolo e comune, secondo le leggi: siano quelli sindacati con le forme che sono prescritte dagli Statuti: il magistrato dei Priori riceva sommissioni e dedizioni, eccetto dei luoghi soggetti all’Impero.[228]» Un articolo speciale manteneva l’indipendenza del Comune d’Arezzo e il suo territorio. La conferma delle provvigioni qualunque si fossero (tra le quali erano quelle contro a’ nobili) e degli acquisti fatti in più anni dalla Repubblica, fu l’osso più duro,[229] perchè in niun modo l’Imperatore voleva cedere sopra questi punti, attorniato come era egli da Ghibellini e fuorusciti, e bramando qualcosa fare a pro dei grandi che aveano l’animo a lui volto.[230] Durava l’accordo quanto la vita di Carlo; di che le due parti si contentarono egualmente: i Fiorentini per non costituirsi in perpetuo tributarii, e Carlo perchè alienare non poteva, siccome principe elettivo, le ragioni dell’Impero.[231] Nel Duomo di Pisa fu celebrato l’accordo, gli ambasciatori e sindachi del Comune prestando omaggio all’Imperatore e sacramento di fede, _sotto la condizione de’ patti e convenienze_ le quali erano state prima fermate; avendo egli il giorno innanzi con sue lettere patenti accettata una protesta dei Fiorentini, per la quale s’intendesse che il giuramento di fedeltà non obbligava il Comune di Firenze più in là che non fossero obbligati gli altri Comuni di Lombardia e di Toscana, e senza pregiudicare ai privilegi e diritti insino allora esercitati dal Comune di Firenze.[232] Aveva Carlo promesso inoltre di non entrare della persona sua nella città di Firenze o in altra terra murata, nè a dieci miglia intorno alla città stessa, nè mandarvi sue genti armate: ma questo egli disse in voce nel giardino de’ Gambacorti ed in presenza di testimoni, perchè a metterlo per iscrittura non gli pareva dicevole alla imperiale Maestà. L’Imperatrice, che avea bramato vedere Firenze, fu deliberato non ricevere; molti però di quei signori, passando, furonvi albergati sotto cortese e buona guardia. Fatto l’accordo, richiese Carlo i Fiorentini di lega, ed ebbe rifiuto: questo però essi consentirono, che seco andassero «due cittadini, uno grande e uno popolare, con dugento barbute di gente eletta, con l’insegna del Popolo (il giglio ed il rastrello), e senza l’aquila imperiale: ma parve cosa di molto grande e di strana maraviglia, vedere l’insegna del Popolo di Firenze stare a guardia dell’Imperatore.» Il quale per Volterra e Siena andato a Roma, fu incoronato il giorno di Pasqua, 5 aprile 1355, dal Cardinale vescovo d’Ostia; ed appena fatta la coronazione uscì di Roma quel giorno stesso, perchè il Pontefice gli aveva posta condizione che non dovesse ivi albergare. Annullò in Siena l’ordine dei Nove, e di essa diede la signoria al Patriarca d’Aquileia, il quale essendone poi cacciato, Siena ritenne quel reggimento tutto popolare che aveva Carlo istituito. Aveva in Arezzo accomunato la città ai Ghibellini ed ai Guelfi, con prevalenza però di questi. Dipoi fermatosi in San Miniato, tornò a Pisa: questa città dominavano i Gambacorti, di nazione mercatanti e grandi amici dei Fiorentini: da essi accolto ed onorato, alloggiava nelle case loro; ma bentosto nacquero tumulti per operazione della setta che stava contro ai Gambacorti, e vi morirono dei Tedeschi. In Pisa ed in Siena il popolo minuto inclinava per l’Imperatore. Il quale pigliando grande sospetto dei Gambacorti, tre di essi fece decapitare, con sua vergogna ed ingratitudine male trattando quella città dove giacevano le ossa d’Arrigo VII avolo suo:[233] quindi partendosi, e trovate chiuse le rôcche e le città che i Visconti signoreggiavano, fece ritorno in Allemagna.[234] La notizia di questi fatti abbiamo noi molto circostanziata nelle storie di Matteo Villani; imperocchè tutti gli altri dopo lui, o nulla ne scrivono (siccome fece il Machiavelli) o gli toccano alla sfuggita, quasi che fosse tirarsi addosso una straniera dominazione. Marchionne Stefani dice _questo solo, che i Fiorentini_ ebbono privilegi assai; e il Boninsegni lo stesso, aggiugnendo che l’Imperatore _gli assolvè da ogni condennagione_; Leonardo Aretino, di privilegi e di null’altro; il solo Velluti, che ebbe assai parte in quei negoziati, conferma avere l’Imperatore fatto _i priori suoi vicarii e concesso molte cose_. Invece, Matteo Villani si allarga nel difendere il trattato e nello svolgerne le ragioni. Ma non è da credere che andasse senza contrasto in Firenze: dice Matteo che la pubblicazione, quando fu fatta la prima volta, ebbe unanime consentimento; ma intanto aveano dovuto tenerlo segreto per temenza di cittadine discordie; e poi tolsero il mandato agli ambasciatori, i quali dovettero tornare innanzi la conchiusione; ed un notaio che recava parole di Carlo, ebbe in Firenze a capitar male:[235] poi, quando si era venuti in Pisa alla stipulazione, nei Consigli della Repubblica dovette essere più volte posto, nè potè vincersi che a grande stento; ed il cancelliere del Comune, quando gli toccò fare lettura di quel trattato, diede in un pianto e non andò innanzi: il che Matteo crede facesse «con poca sincerità, per accattare benivoglienza dal popolo col mostrare grande tenerezza della libertà pura del Comune.» E quando infine fu promulgato l’accordo, «suonando le campane del Comune e delle chiese a Dio laudiamo, poca gente si ragunò al parlamento, e senza alcuna vista d’allegrezza ogni uomo si tornò a casa:[236]» tanto era entrato bene a fondo in questo popolo di Firenze il sentimento di libertà. Ma sembra a noi molto evidente che tra i politici guidatori della Repubblica fiorentina la parte allora più popolare promuovesse quel trattato: Matteo discorre lungamente la convenienza e le ragioni che persuadevano a conchiuderlo, fondate sul diritto e sull’istoria. Era egli guelfo quanto altri mai, ed amatore del viver libero; ma non si astiene dall’encomiare Carlo di temperanza e di senno, e della buona disciplina che la sua gente mantenne sempre nelle città dove albergava. Riprende coloro che tenevano lo Stato, perchè non si erano nel trattare mostrati duri quanto si conveniva, non concedendo all’Imperatore più in là del giusto e del necessario: ma insieme biasima certi patti «i quali erano assai strani alla libertà del sommo Impero,» nè vuol manomessa la imperiale potestà, mettendo egli il diritto che in essa risiede accanto al diritto della indipendenza cittadina, e mostrando come possano i due diritti stare insieme. Voleva per mezzo della imperiale sanzione autenticare la libertà, siccome volevano i Ghibellini la servitù: questo pensiero troviamo espresso nelle parole di Matteo Villani.[237] Ma un altro fatto di gran rilievo in quegli anni si maturava. La Repubblica era divisa in sè medesima fino al vivo, benchè al di fuori meno apparisse. Dappoichè i grandi furono esclusi l’anno 1343 dal governo dello Stato, questo reggevasi per le Arti senza contrasto nè contrappeso; e le quattordici minori venute a parte degli uffici e prevalendo nelle elezioni per via del numero, ne avvenne che i nuovi uomini e i minuti artefici avessero troppo grande braccio nello Stato, contro alla pratica dei passati tempi. E oltreciò l’essere le maggiori case tra loro unite in consorterie, privava queste di molti uffici per la frequenza dei divieti; il che a’ minori non avveniva, «perchè non erano di consorteria.» Cotesto entrare dei nuovi uomini al governo dello Stato, da più anni dispiaceva ai Fiorentini d’antica schiatta, nati e cresciuti quando le case grandi padroneggiavano la città; e Dante nell’alterezza sua spregiava quella «cittadinanza mista e gli uomini di Campi e di Certaldo e di Signa, fatti al suo tempo già fiorentini e cambiatori e mercatanti; odiando egli sopra ogni cosa la confusione delle persone, principio al male della cittade.» Ma quei che a lui già dispiacevano, erano il nerbo del nuovo popolo: ai registri de’ Priori si trova apposta la qualità degli uomini via via chiamati a risedere nel supremo magistrato, e vi si leggono funaiuoli e calzolai e vinattieri e pizzicagnoli e beccai; «e perchè erano negli uffici, parea loro essere ciascuno un re.[238]» Inoltre venivano molti artefici minuti in Firenze dal contado e dalle terre d’attorno, i quali per favore dei reggenti delle Arti minori entravano nelle borse dei Priori o degli altri uffici, ai quali erano poi tratti: «uomini avventicci, senza senno e senza virtù e di niuna autorità nella maggior parte, usurpatori dei reggimenti con indebiti e disonesti procacci.[239]» — «Era il loro uno grande fastidio, che con maggiore audacia e prosunzione usavano il loro maestrato e signoria, che non facevano gli antichi e originali cittadini.[240]» Per questo entrare dei bassi artefici nei sommi uffici dello Stato pericolavano gli antichi ordini e il grande fascio della comunanza per cui viveva e stava insieme l’intero corpo della Repubblica. Le Arti minori si componevano la maggior parte di operai, ai quali veniva dato il lavoro e le mercedi con certe regole dai mercanti che sedevano nelle maggiori: principalissima quella della lana teneva gran numero di lavoranti sotto la dipendenza sua. Il Duca d’Atene, perchè si reggeva sul favore della plebe, avea manomesso gli ordinamenti delle Arti, dando consoli e rettori ai più abietti anche tra’ mestieri: in quanto però al migliorare la sorte loro aveano incontro i mercanti grossi, ai quali era nulla il tenere la Repubblica se insorgesse la bottega. Di questo però non mancavano le apprensioni; il che appare da una cronichetta di quella età (comunque sembri narrare cose dei tempi nostri), la quale dice a questo modo: «A dì 24 di Maggio 1345 il Capitano di Firenze prese di notte Ciuto Brandini scardassiere e suoi due figliuoli, imperocchè il detto Ciuto volea fare una compagnia a Santa Croce, e fare setta e ragunata cogli altri lavoranti di Firenze. E in questo medesimo dì i pettinatori e scardassieri, udito ch’ebbero che il detto Ciuto era stato preso di notte sul letto dal Capitano, incontanente veruno non lavorò e stettonsi; e non voleano lavorare, se il detto Ciuto non riavessero: e andaronne i detti lavoranti a’ Priori, pregandogli che il detto Ciuto facessero che il riavessero sano e lieto; e tutta la terra misero a bollore, che se la farebbono: e anche voleano essere meglio pagati. Il detto Ciuto fu poi impiccato per la gola.[241]» Per queste cose nel 1346, tre anni dopo alla cacciata dei grandi, si fece decreto che «niun forestiere fatto cittadino, s’egli ed il padre e l’avolo suo non fossero nati in Firenze o nel contado, sotto grave pena non potesse avere ufficio, nonostante che fosse eletto ed insaccato.» E già di prima ai forestieri non oriundi di Firenze e del contado o del distretto era vietato per gli Statuti esercitare avvocheria o comparire in qualsivoglia causa o negozio; essendo soliti a commettere baratterie e corruttele; del che avevasi già esperienza.[242] Ma nel decreto che ora si fece, vediamo sorgere la potenza dei Capitani di parte guelfa che lo promossero, e cercavano per tale modo affievolire il reggimento delle minori Arti. Quel magistrato istituito alla cacciata dei Ghibellini l’anno 1267, aveva sotto all’amministrazione sua incorporati la maggior parte dei possedimenti allora tolti alla parte vinta; doveano le rendite essere usate in Toscana e fuori alla difesa ed ampliazione del nome guelfo, sotto la guardia e ad onore di Santa Chiesa. Frequenti erano perciò gli imprestiti e le somministrazioni di danaro a rafforzare leghe ed a soccorrere le città minori in occasione delle comuni guerre. Manca il decreto d’istituzione; abbiamo bensì in oggi a stampa l’intero testo di quello Statuto quale venne riformato nel 1335 (com’era stato più altre volte); e nel Proemio leggiamo quello essere «lo Statuto della Parte e della università de’ Guelfi e de’ devoti di Santa Chiesa; a onore e reverenza ec., e del santissimo padre e signor messer Benedetto papa XII, e de’ suoi successori e de’ suoi frati Cardinali: ad esaltazione e gloria del serenissimo principe messer Roberto (re di Napoli) ec.; e a grandezza e buono stato del Popolo e del Comune di Firenze, e a mantenimento e accrescimento della detta Parte e devoti di Santa Chiesa e dei loro amici, e a confusione di tutti i nemici.[243]» Così, mentre ai Ghibellini si dava nome di Paterini, quel magistrato ebbe consecrazione religiosa e nazionale, facendosi come il braccio forte di Santa Chiesa; e lo troviamo noi chiamato «la venerabile Parte guelfa.» Un altro luogo dello Statuto (cap. 21) dichiara intendersi ogni cosa «al buono stato ed al riposo del Comune e Popolo di Firenze, e delle singolari persone della detta Parte, che sono una medesima cosa col Comune e Popolo di Firenze.» Così non era propriamente magistrato di Parte guelfa, un magistrato della Repubblica; era un governo da per sè, non del Popolo ma del Comune, ed uno stato dentro allo stato, sebbene posto a munimento del governo popolare che si reggeva su quella parte. Aveva capitani, priori, consiglio di credenza e due consigli generali, che uno di sessanta e l’altro di cento;[244] e notai e cancellieri e sindachi, e una sua propria bandiera con gigli d’oro in campo azzurro, ma che trar fuori non si poteva senza licenza dei rettori e magistrati del Comune: lo stemma però di Parte guelfa era una rossa aquila con sotto a’ piedi un drago verde. Mandava suoi ambasciatori e nunzii ed esploratori _caussâ sciendi nova_: pe’ Capitani di Parte guelfa non era divieto agli ufizi della Repubblica, tranne i maggiori; doveano assistere agli scrutinii che si facevano per i collegi e magistrati.[245] Questi però avevano obbligo di prestare mano forte in tutto a quei della Parte guelfa,[246] la quale doveva alla sua volta aiutare il Comune di Firenze, offerendosi ai rettori quando entravano in officio, con l’ammonirli di osservare e difendere la Parte, ch’è «una cosa col Comune» (cap. 26): lo Statuto fiorentino, con l’ultima rubrica del tomo II, conferma gli statuti e gli ordinamenti che Parte guelfa si aveva dati, e le provvigioni del Comune che ad essa erano relative. I Capitani erano sei, da eleggersi ogni due mesi; «dei più nobili e più degni cittadini di Firenze, veramente e interamente Guelfi — di parole e di fatti — tre grandi e altrettanti popolani, che uno per sesto (cap. 2).[247]» Rimasero i grandi in quel magistrato al modo stesso per cui rimasero nel Consiglio del Comune, sebbene privati de’ sommi uffici nella Repubblica; ma che dominassero la Parte guelfa e che il governo di questa ritenesse tuttavia costumi e genio signorili, appare anche da un capitolo dove con amplissime parole viene stanziato il pagamento di certa pecunia ai cavalieri novellamente fatti; «conciossiachè a così magnifica città si confaccia risplendere per quantità di cavalieri: ma che non fossero più di sei all’anno e due per ischiatta (cap. 39).» Giano Della Bella aveva fatto decretare che le famiglie dove fossero cavalieri s’intendessero di grandi, così privandole degli uffici. Tale era lo spirito delle istituzioni popolari; ma fuori di quelle stava un altro ordine ed un magistrato che aveva rendite e possedimenti, cercando ampliarli d’anno in anno,[248] e che teneva in mano sua le relazioni con gli altri Stati, quanto importassero la conservazione per tutta Italia della Parte guelfa, ch’era il popolo italiano. Ma in quell’ufficio non risiedevano delle antiche famiglie nobili oramai più se non quelle sole che mantenute dal nome guelfo, pur tuttavia partecipavano alle ambizioni cittadine, e si accostavano per le parentele e le aderenze alle famiglie dei grassi popolani che avere solevano i primi gradi nella Repubblica, e delle quali noi troviamo per lo più essere il Gonfaloniere, anche nel corso di questi anni; ed oltreciò, essendo dopo il 48 assottigliate le borse per il grande numero dei morti, non pochi dei grandi vi furono messi per quelli uffici minori ai quali erano essi abili. Tutti costoro male soffrivano la compagnia dei minuti artefici, ma non avevano ad abbatterli strumento o macchina più acconcia del magistrato di Parte guelfa, il cui nome era così addentro nelle viscere di questo popolo; nè in altro modo meglio avrebbero potuto cuoprire in sè medesimi le apparenze d’una congrega d’ottimati: facevano essi a sè strumento, contro al popolo degli artefici, di quelle leggi sopra i Ghibellini che prima il popolo ebbe fabbricate. Io credo avessero tolta norma dal Consiglio Veneto dei Dieci, e che ambissero d’agguagliarsi, quant’era lecito in Firenze, a quei temuti inquisitori. Abbiamo detto come la legge contro a’ forestieri del 1346 fosse «opera e motivo dei Capitani di parte guelfa,» dei quali si vidde allora sorgere la potenza. Questo narra Giovanni Villani all’estremo dell’istoria sua, e dice che fu quasi un principio di rivolgimento nello Stato per le sequele che poi ne vennero.[249] Si tolse quindi un’altra via, ampliando i titoli d’esclusione col decretare che ognuno il quale egli o la famiglia sua, dalla cacciata dei Bianchi nel novembre 1301 in poi, fosse condannato come ribelle o Ghibellino, o fosse chiarito non vero Guelfo e devoto di Santa Chiesa, non potesse, sotto pena di lire mille o cinquecento in certi casi, accettare uffici nello Stato: alla qual pena fossero anco tenuti coloro che eletto lo avevano, e similmente il magistrato de’ Priori, se nol condannassero, quando egli fosse di ciò accusato: bastassero sei testimoni di pubblica fama a comprovare la qualità di Ghibellino: chiunque ardisse proporre in Consiglio o in altro modo promuovere la revocazione della detta legge, perdesse l’ufficio (fosse anche dei Priori), e avesse condanna della stessa somma. La legge è de’ 26 gennaio 1347, della quale abbiamo il testo: Giovanni Villani, che ne diede la sostanza, descrive come a grande stento si ottenesse, per essere molto avversata dai Priori e dai collegi delle Arti: i quali dipoi si crederono annullarla col porre qualche difficoltà nell’accettare i testimoni; «talchè ne fu quasi commossa la terra:» ma la parte dei Capitani prevalse, e la detta legge fu confermata e fortificata in quello stesso anno 47. Alcuni artefici, dei quali uno è nominato dal Villani e di altri abbiamo noi la sentenza, ebbero condanna per Ghibellini in quello stesso anno: nella plebe, e più ancora tra’ nuovi uomini del contado, la dipendenza in che erano essi o erano stati i progenitori loro dalle antiche famiglie nobili, dava appiglio alle condannagioni. Altra riforma dipoi nel 1349, mentre aggrava in qualche guisa la condizione dei Ghibellini, sottopone i giudicati del magistrato di Parte guelfa all’approvazione della Signoria; talchè direbbesi anzi un freno che il governo della Repubblica volesse porre a quel magistrato.[250] Troviamo pure che essendo per la mortalità del 48 recate le ventuna Arti a quattordici, in quello stesso anno 1349 gli Albizzi procacciarono che fossero di nuovo recate alle ventuna, dicendo che avevano «rimesso l’uscio nei gangheri.[251]» Dopo quell’anno si vede come per la guerra con l’Arcivescovo di Milano e per la presenza in Toscana dell’Imperatore, fosse impedito o trattenuto alcun poco per allora lo svolgimento di quel disegno che i partigiani di un governo più ristretto avevano formato sino dal 46; la Signoria, ch’era popolana, e le capitudini o collegi delle Arti contrastavano la soperchianza che il magistrato di Parte guelfa su tutti gli altri si arrogava. Per quanto tenero fosse questo popolo del nome guelfo, riusciva odioso il ricercare uomo per uomo le ultime stille che rimanessero di un sangue ghibellino; cosicchè non si trovava chi gli accusasse, e le prove erano assai difficili. Ma vegghiavano coloro i quali avendosi fabbricata quella sola arme ch’essi potevano, voleano usarla ad ogni modo, fosse anche pure con la violenza. Le cose erano dentro quiete, e fatto è che per la comunanza degli uffici le sètte avevano meno luogo, e la Repubblica prosperava; nè trarre si vuole disperate conseguenze da quella ingenua severità ch’è nei Villani e nel Compagni ed in altri fiorentini, che gli onora come uomini e gli avvalora come istorici. Allora però certi grandi e popolani grassi, pigliando occasione dal male ch’era negli squittini, «piuttostochè farsi a racconciare al meglio le cose con l’abbreviare i divieti per altro modo, ma essi volendo divenire tirannelli e a tutti quanti i cittadini tenere il bastone sopra a capo,» si fecero a dire che gli uffici erano pieni di Ghibellini, e che ne anderebbe la salute della Parte guelfa, nella quale era il fondamento della libertà d’Italia e la difesa contro le tirannie. Una riforma, che abbiamo a stampa del 1354,[252] non avea fatto che dichiarare meglio i titoli d’esclusione, e provvedere che gli ufizi rimasti vacanti, di puri Guelfi si riempissero. Nei primi giorni però dell’anno 1358 i Capitani di Parte guelfa ordinarono una petizione, ovvero proposta di legge, della quale era questo il tenore. Un esordio molto magnifico dichiara essere quella legge «a sicurezza e fortificazione di tutta la massa e corpo dei Guelfi, e ad impedire che incontro ai pii ed ai cattolici non prevalgano quegli empi, che avendo animo di lupo celato sotto pelle d’agnello, con arti fallaci s’adoprano a fine di entrare nel sacro ovile dei Guelfi.» Dipoi statuisce, in primo luogo la confermazione delle antiche leggi: nemmeno gli approvati Guelfi per la legge del 1349 potevano essere, per quindici anni dopo il giuramento fatto,[253] nè priori, nè gonfaloniere di giustizia, nè dei dodici buonomini, nè gonfaloniere di compagnia, nè capitani di Parte guelfa, nè notari d’alcuno dei detti uffici; quelli, che sieno ricevuti Guelfi da ora in poi non abbiano uffici, se non prestino giuramento di osservare gli statuti della Parte. I Ghibellini non sieno riconosciuti Guelfi, se non con le stesse forme per le quali i grandi si facevano popolani. Valgano le leggi fino alla cattura delle persone e alla distruzione delle case; possa ciascuno accusare, sia pure anche donna o figliuolo di famiglia, o uno dei grandi, e per accusa segreta _sine nomine absque aliqua satisdatione de prosequendo_. A comprovarla bastassero sei testimoni di pubblica fama, senza bisogno che fossero approvati dai Priori. I Capitani, sotto pena di cinquecento lire, dovevano prestare mano agli accusatori, notificatori, denunziatori, e quanto era in poter loro dare ad essi aiuto e consiglio; promuovere le accuse ed i processi presso qualunque rettore e ufiziale; e tutto ciò a spese della Parte, il camarlingo dovendo pagare le spese sopra un semplice mandato dei Capitani. Prevalga questa ad ogni altra provvisione, e nel conflitto prevalga quella che più favorisca la Parte guelfa, e più offenda i Ghibellini. Se alcuno faccia motto contro a questa legge (_in iudicio vel extra, etiam in sindacatu aliquid dixerit_) sia condannato, _de facto et sine strepitu et figura judicii_, in tremila fiorini d’oro; e se non paghi dentro tre giorni, gli sia tagliato il capo d’in sulle spalle; ed ogni rettore o ufiziale che non osservi o non faccia osservare questa legge, sia condannato in mille fiorini d’oro, e perda l’ufficio.[254]» I Capitani di parte guelfa per questa legge scelleratissima vennero fatti nel tempo stesso istigatori alle accuse e accusatori e soli giudici, e tolto via da quei giudizi ogni intervento ed autorità dei magistrati della Repubblica. Portata l’iniqua petizione ai Signori ed ai Collegi, non la vollero questi accogliere, nè pure mettere in deliberazione. Ma i Capitani con dugento dei loro seguaci, e col nome innanzi della Parte guelfa, a cui niuno resisteva, tornati in palagio, dissero che non si partirebbero di là innanzichè la petizione fosse vinta: e a questo modo convenne che si facesse. Dipoi si racchiusero insieme nel palagio della Parte, e fecero le borse dei capitani e consiglieri da risedere per molti anni negli uffici di Parte guelfa, scegliendo tra loro sfacciatamente i più malevoli e di peggiore condizione. Procedendo, squittinarono per accusarli e farli condannare settanta cittadini «di nome e di stato e delle migliori case di Firenze, grandi e popolani, eziandio che di nazione e di operazione si trovassero essere veri e diritti guelfi: dopo questo, levato il saggio delle accuse, dovevano insaccare degli altri.[255]» Ma bollendo la città, i Capitani al vedere la commozione ristettero dall’accusare i potenti; e volendo però dare cominciamento al fatto, scelsero quattro dei quali si poteva dire qualcosa, e con accompagnamento di quei soliti dugento andarono al Potestà, exabrupto gli fecero condannare. Subito di poi, benchè avessero animo di fare maggior fascio, ma ritenuti dal mormorio del popolo, fecero lo stesso di altri otto, poi di cinque più. «A ognuno pareva male stare, e molti cercavano con preghiere e con servigi e con doni di riparare alla fortuna loro ch’era in mano dei Capitani.» Ciascuno di questi accusava il suo; «uno dei sei Capitani diceva all’altro: non hai tu alcun nemico? A me consenti di condannare il nemico mio, ed io a te consentirò il tuo; e sei erano i condannati:» in pronto sempre i testimoni. Intanto però tutti gridavano si mettesse rimedio a ciò, e molti consigli se ne tenevano; «ma nessun modo vi sapevano trovare per non derogare al nome della Parte; e i più sospetti si mostravano più zelanti a mantenere la legge insintantochè la pietra cadeva sopra loro.» I due cronisti che a noi trasmisero questi fatti, pongono studio nel protestare come la legge contro ai Ghibellini in sè medesima fosse buona, se non che la era male usata.[256] Quindi i Priori, accorgendosi non potervi per via diretta riparare, e che l’onore e lo stato poteva essere tolto a ciascuno quando a tre Capitani di parte paresse, ma volendo pur fare qualcosa; all’improvvisto ordinarono segretamente co’ loro Collegi una petizione, che fu vinta. Ai Capitani aggiunsero due altri popolani, e decretarono che nessuna deliberazione avesse valore se non fosse concordata da tre popolani: i Capitani grandi non era obbligo che fossero cavalieri, perchè l’ufficio non continuasse in pochi grandi; posero a tutti divieto un anno, e che gli squittini della Parte si dovessero rifare di nuovo e annullare tutti i fatti. Così almeno ebbero molti alcun intervallo da riparare ai fatti loro: ma nondimeno coloro che avevano l’animo e la mente sollecita a rimanere sempre con quell’arme in mano, argomentavano nuovi squittini; e in questo e in altro caso fecero tanto, che lo scandalo cresceva sempre. Ed allora, per andare più lesti al percotere, inventarono quel nome dipoi famoso delle ammonizioni, ch’erano precetti dati senza forma di giudizio, come a notorii Ghibellini, di non pigliare gli uffici: e perchè il modo paresse buono, dicevano: «meglio essere ammonito che gastigato.» Quelli oligarchi così facevano del principio di libertà a sè strumento di tirannia, cui sempre giova porre innanzi un nome grato e popolare siccome era il nome guelfo, e coprire le violenze di una mite appellazione come era quella dell’ammonire. Si trova[257] che essendo fin dal 1353 grande contesa tra le famiglie dei Ricci e degli Albizzi, questi armarono le case loro per sospetti che aveano di fuori; il che ai Ricci essendo rapportato, ed essi pure si armarono. Gli animi erano in sospeso, quando una zuffa essendo nata per lieve cagione in Mercato Vecchio, si temette nascesse guerra tra le due case: poi si trovò che non era nulla; e riposata la cosa, la Signoria cercò fare pace: ma la volontà cattiva tra loro rimase. E l’anno dipoi avrebbono i Ricci dato la prima mossa alle nuove leggi contro a’ Ghibellini, facendo ciò con l’intendimento di battere gli Albizzi, i quali oriundi d’Arezzo, si diceva che fossero Ghibellini di nazione. Questi pertanto si proponevano di contrastare la legge, allorchè un Geri de’ Pazzi, amico falso de’ Ricci, andato una notte a Piero degli Albizzi, il quale era in Casentino, gli disse a qual fine era ordinata la legge, e che si sarebbe detto la combatteva egli per timore non toccasse a lui. Accettò Piero il consiglio e venne in Firenze; e quando andò la petizione, la favoreggiò con gli amici suoi tantochè si vinse: ed egli poi e la famiglia sua rimasero capi della Parte guelfa e per essa crebbero. I Ricci pigliarono la contraria parte, e per alcuni anni si disse la setta dei Ricci e la setta degli Albizzi, tra le quali era la città divisa, ma senza però che si venisse alle armi o che grave effetto ne nascesse; quella dei Ricci venendo ad essere abbattuta facilmente, finchè dipoi non risorse con altro nome a levare in alto un’altra casa più fortunata. Di qui il Machiavelli deduce il filo del suo racconto;[258] ed egli, che scrive l’istoria di corsa, alla contesa tra i Ricci e gli Albizzi ed alla zuffa in Mercato Vecchio attribuisce tutto quel fatto dell’ammonire, scrivendo essere stata invenzione dei due rivali, per così opprimere l’uno l’altro; e paragona la divisione la quale allora ebbe principio, a quelle che furono prima tra’ Cerchi e i Donati, e tra gli Uberti e i Buondelmonti. Ma le fazioni che in antico si combattevano con le armi, «s’inimicavano ora con le fave,[259]» perchè il governo popolare era oggimai costituito. Armate erano tuttavia le case degli Albizzi e quelle dei Ricci, come erano quelle ad ogni pretesto de’ maggiori cittadini; e armate pure noi troviamo quelle dei Bordoni.[260] Ma egli è ben certo che la potenza del magistrato di Parte guelfa ebbe principio subito dopo a che essendo privati i nobili del governo dello Stato, cadeva questo in democrazia, contro alla quale gli ambiziosi dapprima insorsero con l’escludere i nuovi uomini e forestieri, poi col batterli come Ghibellini: il che era stato più anni prima che tra gli Albizzi ed i Ricci fossero nate inimicizie, quanto almeno noi sappiamo. Si noti pure come della contesa tra quelle due case, Matteo Villani in tutto il corso della istoria sua non faccia parola, solo in un luogo accennando agli Albizzi, quasi temesse di nominarli, battuto essendone egli stesso come seguace della contraria parte: ma nemmeno se ne trova fatto ricordo bene espresso nè da Leonardo d’Arezzo, nè da Piero Boninsegni, comunque vissuti in una età oramai sicura da quei timori e dai pericoli. Il Velluti ed il Morelli mettono innanzi i Ricci e gli Albizzi, siccome capi di quelle sètte; ma il derivare i moti pubblici dalle private inimicizie è tutta cosa del Machiavelli. Al fare le leggi contro a’ Ghibellini e alle contese che indi nacquero, dovette essere pure incentivo, benchè taciuto dagli storici, il trattato che si fece nel corso appunto di quegli anni con l’imperatore Carlo IV. Quando Giovanni Villani racconta sotto l’anno 1347 le prime mosse del magistrato di Parte guelfa contro a’ Ghibellini, dichiara egli in solenne modo ciò essere stato per le apprensioni che allora dava alla Parte guelfa l’essere eletto ad imperatore Carlo nipote di Arrigo VII. Dipoi veggiamo la Signoria trattare l’accordo con questo stesso Imperatore, e noi dicemmo con qual mistero pei molti ch’erano a ciò avversi. Nell’aprile del 52 quel trattato ebbe pubblicazione, e qui pure noi vedemmo con quanta grande contrarietà di molti. Dopo di che un’ambasceria andò in Germania per la ratificazione; ed ecco subito le contrarietà in Firenze prevalere ed abbreviarsi il tempo del mandato agli ambasciatori, i quali dovettero fare ritorno a mani vuote, che fu in settembre dell’anno stesso. L’accordo per allora andò a monte, nè altre parole se ne fece negli anni 53 e 54; ma ripigliato nei primi giorni del 1355, a Pisa venne dipoi conchiuso. Allora tacque la Parte guelfa, e le sue leggi non si eseguirono; sinchè alla fine tre anni dopo, e quando era l’Imperatore fuori d’Italia, non si rialzava, con violenza quasi vendicatrice, la tirannia di quel magistrato. Così a me sembrano quei due fatti mostrare in tutta la successione loro quel legamento che pur dovea tra loro essere necessario: e al modo stesso poi noi vedremo rallentare la violenza del magistrato di Parte guelfa, e quasi essere soperchiato, un poco innanzi alla seconda venuta in Italia dello stesso Carlo IV, e ripigliare viemaggior lena dappoichè Carlo si fu partito. Dicemmo noi come la parte che più era popolare, ed alla quale apparteneva Matteo Villani, promovesse quel trattato per cui venivasi ad autenticare il governo delle Arti costituite dopo il 43: quello stesso Imperatore aveva in Siena favoreggiato contro all’ordine dei Nove la formazione di un governo largo. Matteo Villani, che è il narratore solo a noi rimasto di quel trattato, e che n’è grande sostenitore, molto era avverso al magistrato di Parte guelfa; dal quale venne anche ammonito per Ghibellino. Teneva la parte alla quale i Ricci presiedevano: e di Uguccione, ch’era capo di questa famiglia, dice il Velluti,[261] ch’egli «recava a sè i Ghibellini e non veri Guelfi.» Uguccione andò a Cesare in Allemagna ambasciatore la prima volta, e quando tornarono gli altri quattro colleghi suoi, perchè la parte contraria ad essi ed al trattato in Firenze prevaleva, rimase in Udine a cercare se la pratica si rappiccasse. Nei Consigli del Comune mosse il partito del fare accordo con l’Imperatore giunto in Pisa; e andato a lui ambasciatore, e nate essendo difficoltà, venne in Firenze a procurare si conchiudesse a ogni modo, con ampliare a quest’effetto le facoltà agli ambasciatori:[262] alla fine sottoscrisse quel trattato, e fu nel Duomo a prestare omaggio: ma, per contrario, niuno degli Albizzi ebbe la mano in quelle cose. Essi e con loro gli ottimati voleano fare a sè sgabello del nome guelfo, ch’era la forza della Repubblica fiorentina, i popolani a sè appoggio delle imperiali tradizioni, contro all’abuso del nome guelfo: qui stava il nodo della contesa. Ma vero è poi che le due parti, entrambe incerte e come stracche, l’una con l’altra si confondevano; più oramai non dispiegandosi franche e sicure le volontà ed i propositi di ciascuna, com’era al tempo di quelle guerre che prima i grandi ebbero tra loro, e poi la plebe contro a’ grandi. CAPITOLO VII. LA GRAN COMPAGNIA. — GUERRA CO’ PISANI. — SECONDA VENUTA DI CARLO IV IN ITALIA. — IL MAGISTRATO DI PARTE GUELFA: AMMONIZIONI. [AN. 1358-1374.] L’occasione o il pretesto pel quale si armavano allora le case dei possenti cittadini era l’entrata in Toscana della grande Compagnia; di quell’esercito di ladroni, dal quale ebbe tante devastazioni l’Italia, miseria non ultima di quel secolo disordinato. Nel dugento noi vedemmo per alte contese accozzarsi le nazioni; ora guerre da per tutto, ma un combattersi alla rinfusa e senza un perchè di cui l’istoria tenga conto: nulla si fece in quella età che poi disfare non fosse meglio. La Francia invasa e calpestata per cento anni dagli Inglesi, che ad entrambi fu ruina e arretramento di civiltà; in Allemagna l’Impero debole, ed un brulicare d’ambizioni feroci, di principi, di armati vescovi e condottieri: là divisa la nazione pel giure dei feudi e per argomenti di genealogie, come in Italia per le disuguali fortune dei popoli e pei contrasti tra le città. Nella Germania era la guerra fine a sè stessa ed era mezzo al nazionale incivilimento: ma qui tra noi la grassezza della vita e le arti e i commerci facevano un popolo tanto proclive alle discordie, quanto alieno dalle armi; queste avevano di che pagare, fidate ad uomini mercenari; e nelle guerre e nelle stesse civili fazioni vedemmo più volte conestabili tedeschi vivere al soldo della Repubblica e avere in mano le forze sue. Infatti costoro allorchè s’accorsero in Italia essere grande numero, ed i paesani disusarsi ogni dì più dalle armi; pensarono che era meglio unirsi in compagnie vivendo di ratto, anzichè del soldo che spesso mancava; avvisandosi che se a loro venisse fatto di occupare alcuna buona città, le altre tutte facilmente a sè farebbono tributarie. Così gli antichi progenitori loro, gli Eruli e i Goti, erano stati prima a guardia dell’Impero, e poi l’avevano per sè tolto: muovevangli ora le stesse occasioni e le cupidità stesse, ma essendo già in loro cessato l’impeto delle invasioni prime, per anche non erano fatti capaci alle conquiste per via d’eserciti regolari. In Francia una pace fatta con gli Inglesi avea cominciato le vaganti Compagnie: lo stesso in Italia, cessata la guerra del Re d’Ungheria contro alla regina Giovanna di Napoli. Imperocchè avendo quel Re licenziato un duca Guarnieri d’Urslingen tedesco, questi uscito del reame insieme ai soldati ch’erano stati con la Regina e col marito di lei Luigi di Taranto, fece di tutti una Compagnia in numero forse di tremila cavalieri, taglieggiando la campagna di Roma e le altre vicine contrade.[263] Dipoi essendo il governo della Compagnia venuto alle mani di un cavaliere provenzale dell’ordine degli Spedalieri di Gerusalemme, il cui nome trovo scritto Montreal di Albano, e i nostri lo chiamano Fra Moriale; costui, che aveva l’animo grande alla preda, tirò a sè quanti più fossero per l’Italia uomini d’arme senza soldo, talchè si trovarono seco bentosto settemila paghe di cavalieri, che cinque mila o più erano in arme cavalcanti, con più di millecinquecento masnadieri italiani; e da ventimila ribaldi e femmine di mala condizione seguivano la Compagnia per fare male e «pascersi della carogna.[264]» Le femmine lavavano i panni e cuocevano il pane, Fra Moriale avendo provveduto che avessero macinelle da fare farina; pel quale ordine potè l’oste, che mai non entrava in terre murate, mantenersi in abbondanza. Avevano l’anno 1354 vernato nella Marca; donde accennando verso Toscana, i Fiorentini fecero lega, come solevano, insieme co’ Senesi e Perugini; ma questi che erano i più esposti, vedendo potersi per le offerte di Fra Moriale senza loro danno levare la Compagnia da dosso, diedero a questa il passo e le vettovaglie per danaro, e licenza d’entrare senz’arme nella città loro, e quivi rifornirsi di vestimenta e d’armi e di cose che a loro fossero necessarie. Lo stesso avea fatto il Vescovo di Foligno e poi fecero i Senesi e gli Aretini, patteggiando con la Compagnia; la quale scorreva baldanzosamente per quelle contrade, non risparmiando le biade dei campi pe’ loro cavalli e quante altre cose potessero giugnere, e predando uomini e bestiame. Di là poi scesero nel Valdarno, e indi trapassato San Casciano, fino a sei miglia da Firenze, perchè avevano preso la ferma d’essere con la lega di Lombardia contro all’Arcivescovo di Milano per centocinquanta mila fiorini in quattro mesi, vennero a composizione co’ Fiorentini per venticinquemila fiorini d’oro; e nell’accordo si leggono registrati fino a dugentotrentaquattro uffiziali. Avuta poi la condotta, se n’andarono per Val di Rubbiana alla Città di Castello, avviandosi in Lombardia: e Fra Moriale, con licenza degli altri caporali, accomandò la Compagnia a Currado conte di Lando[265] e fecelo suo vicario, egli recandosi a Perugia e più tardi a Roma; dove per comando di Cola di Rienzo fattogli processo come a pubblico principe di ladroni, e che avea devastato la Romagna e la Toscana e la Marca, gli fu tagliata la testa. Non credo che fosse pura di tradimento e di avarizia cotesta opera del Rienzi; la quale sarebbe stata la migliore (se mai sia lecito ammazzare) che fatta si avesse quell’antiquario della libertà romana, il quale perchè sapeva _lejere li pataffi_,[266] si credè nato a resuscitare la potestà tribunizia in quella Roma che fu deserta quando i Papi l’abbandonarono, e fra le torri armate in guerra dei baroni ghibellini ch’erano in mezzo alla città stessa. Cessata bentosto in Lombardia la guerra, il Conte di Lando condusse nel Regno la Compagnia, dimorata quivi ad agio più mesi per la scioperatezza del re Luigi di Taranto: indi poi tornò nella Marca, e tratto danari da molti e perfino dal possente Bernabò Visconti, si fermò in Romagna, facendo le viste di soccorrere i Signori di quelle città contro ad Egidio Albornoz Legato del Papa, che ivi guerreggiava da più anni. Ma stando al coperto nei loro movimenti, intendevano ai propri loro fatti; e la Compagnia cresceva, molti accorrendovi da ogni parte per vaghezza della preda, non per affrontare nemici in campo. Vivevano senza far danno al paese di ruberie e di prede; perchè tanta era la divisione delle parti e la gelosia de’ popoli contro a’ tiranni, che a ciascuno meglio pareva accordarsi con la Compagnia per danaro che contrastare con quella. Però il Legato contro ad essi bandiva la croce per tutta Italia, ed in Firenze mandò un Vescovo di Narni a predicare l’indulgenza con grande solennità; dove fu tanto il concorso, che non poteva egli resistere a ricevere le offerte ed a porre la mano in capo, e in pochi giorni raccolse da trentamila fiorini d’oro, i più dalle donne e dalla gente minuta. Mandò la Repubblica in Romagna anche suoi soldati, e vi andarono masnade di cittadini e contadini crociati, che furono dugento a cavallo e duemila a piè: in tutto costava al Comune di Firenze più di centomila fiorini, questa che riusciva non altro poi che una beffa. Imperocchè il Legato anch’egli scendeva agli accordi con la Compagnia per cinquanta mila fiorini d’oro, che di sua parte dovè il Comune pagare il terzo: e la Compagnia, passata di nuovo contro a’ Signori di Milano, tornò in Romagna nel mese di giugno del 1358. In fin da quando la Compagnia la prima volta fu in Romagna, i Fiorentini vedendo ch’ella era in parte dove in un dì potea valicare l’Alpe ed entrare nel Mugello, formarono con bell’ordine una nuova milizia di balestrieri, che ottocento dalla città sola, e dal contado e dal distretto in tutto fino a quattromila, dandone secondo l’estimo tanti per cento; e nel distretto ne feciono scegliere a ciascuna comunanza, terra o castello, quelli che si conveniano. Ordinarono pe’ loro soldi certa entrata; e che ogni balestriere, stando a casa apparecchiato ad ogni richiesta del Comune, avesse venti soldi al mese, ed i conestabili quaranta; e quando erano in servigio, fiorini tre al mese. Nella città e nel contado ogni dì di festa si radunavano insieme i balestrieri; e i vincitori aveano premio un bello e ricco balestro marcato del marco del Comune. Col mezzo di questa e di altre buone provvigioni i Fiorentini guardavano i passi dell’Alpe; ed a quello dell’Ostale, ch’era il più aperto, chiamarono anche per accordo gli Ubaldini, i quali vi vennero con millecinquecento dei loro fedeli. Quivi fecero una tagliata per lo spazio d’un miglio e mezzo tra’ due poggi, e sopra la tagliata fecero barre di grandi e grossi faggi a modo di steccato, ed abitazioni pe’ soldati. Per questi buoni ordini salvavano allora da ogni assalto la Toscana: ed allontanandosi la Compagnia, il Conte di Lando, lasciato a condurla un conte Broccardo, passò in Germania, ivi portando il tesoro ch’avea rubato, del quale comprava terre e castelli e riscotendo quelle che aveva impegnate. Appresso era stato con l’Imperatore, mostrandogli come la Toscana era piena di soldati di lingua tedesca, i quali se fossero al soldo del Conte, tutti sarebbero dell’Imperatore. E questi al Conte non si vergognava dare titolo di suo Vicario in Pisa; e fu detto gli desse in occulto maggiore legazione, se a lui venisse fatto di riporre sotto l’imperiale soggezione qualche altra parte della Toscana. Quand’egli tornava di Germania nel mese di luglio 1358 trovò che avevano i Caporali della Compagnia chiesto il passo ai Fiorentini per la Toscana fino a Perugia, dov’erano chiamati. Volevano quelli farli entrare spartiti e per i luoghi a ciò assegnati; il che rifiutato dalla Compagnia, i Fiorentini si provvedevano; ma il Conte scelse venire a patti; così che essendo la Compagnia in Val di Lamone, dovesse per la via di Marradi tagliare l’Appennino presso a Belforte ed a Biforco fino a Dicomano e indi a Bibbiena, il Comune dando loro la panatica per cinque dì, a loro spese. Gli ambasciatori mandati dai Fiorentini erano rimasti con la Compagnia per più sicurtà della condotta, sebbene fossero già rivocati dall’ambasciata. Fermati i patti a questo modo, la Compagnia si mosse con bell’ordine, e prese albergo in mezzo all’Alpe presso Biforco: ma come è uso di gente siffatta quando si sente potere, passando i patti, si toglievano la vettovaglia senza pagare, e se vedevano cose non bene riposte, le rapivano con brutti oltraggi ai paesani. Gli abitatori delle montagne, tra molte loro felicità, hanno invidiabili occasioni: quelli di Val di Lamone e i fedeli del conte Guido da Battifolle s’intesero, e senza porre tempo in mezzo si disposero per quelle vette a loro vantaggio, dove potessero nel trapasso rifarsi dei danni e vendicare gli oltraggi che avevano ricevuti. Il Conte di Lando, affrettandosi prima del giorno, mise sua gente in cammino divisa in tre parti; con l’avanguardia gli ambasciatori, e dietro a sè il conte Broccardo con ottocento a cavallo e cinquecento pedoni e con le cose di più valuta. Era il cammino che avevano a fare aspro e malagevole, essendo la valle quinci e quindi fasciata dalle ripe e stretta nel fondo dov’era la via, la quale si leva dopo alquanto di piano repente ed erta a maraviglia, inviluppata di pietre e di torcimenti; e tale passo è detto le _Scalelle_, che bene concorda il nome col fatto. Per dove cercando i primi passare, furono dai villani assaliti e con le pietre indietro rispinti. Il Conte di Lando, che s’avea tratto la barbuta di testa e mangiava a cavallo, sentendo ciò ch’era cominciato, si rimise la barbuta e fece gridare Arme: di sopra i villani rotolavano grandi sassi, e più ne gettavano con mano sopra la gente del Conte ch’erano nel basso, quasi come in prigione chiusi da altissime ripe. Egli nondimanco, siccome uomo d’alto cuore e maestro di guerra, di subito fece smontare da cavallo un cento d’Ungheri perchè cacciassero i villani dalle ripe: ma poco gli valse; chè gli Ungheri, gravi delle loro armi e giubboni, co’ duri stivali non potevano salire: quelli con le pietre gli ricacciavano nella valle. Allora una grande pietra mossa nella sommità del monte da parecchi villani, scendendo rovinosamente percosse il conte Broccardo, e lui e il cavallo ne portò nel fossato e uccise: per simile guisa molti e morti e magagnati ne furono. Talchè i villani che erano scesi alle spalle dei cavalieri, veggendo che questi per la morte di molti di loro inviliti, per la strettezza non erano abili in alcun modo a mostrare la loro virtù, arditamente gli affrontarono con lance manesche. Il Conte, assalito da buon numero di loro, fe’ con la spada bella difesa; e alla fine non potendo s’arrendè prigione, porgendo la spada per la punta; ed un villano il ferì con la lancia nella testa, chè s’avea tratta la barbuta. I cavalieri, arreso il Conte, smontarono da cavallo; e spogliate l’armi, come ciascuno poteva meglio, su per le ripe e pe’ burroni si diedero a fuggire; e non che gli uomini, ma le femmine ch’erano corse al rumore e ad aiutare i loro mariti almeno col voltare delle pietre, gli spogliavano, e loro toglieano le cinture d’argento e’ danari e altri arnesi. Molti ne furono presi o morti nelle circostanze dai paesani che non si erano trovati alla zuffa: in tutti più di trecento cavalieri e mille cavalli. Il Conte portato per moneta dai villani in luogo sicuro, fu quivi raccolto dal signore di Bologna Giovanni da Oleggio, che lo fece medicare; ma l’infermità fu lunga, egli curandosi alla tedesca e poco regolando sua vita.[267] Essendo così rotta e sbaragliata la retroguardia, le schiere che già erano passate innanzi cominciavano a sbigottire. Ma con esse erano gli ambasciatori del Comune di Firenze, ai quali Amerigo del Cavalletto, che le conduceva, mettendosi intorno co’ suoi caporali, minacciava togliere la vita se il fatto accordo non mantenessero. Gli ambasciatori che nonostante si sentissero in lealtà pure temevano per sè stessi, usando una autorità che non era commessa loro, ai molti armati che erano accorsi a occupare i passi comandarono levarsi da quelli, lasciando libero il cammino; e le due schiere si ridussero quel giorno stesso in Dicomano. Dove abbarrati come potessero con botti ed altro legname stavano in grande sospetto, avuto avviso che il Comune aveva all’intorno dodicimila pedoni, dei quali quattromila erano balestrieri scelti, e quattrocento cavalli; ma più temevano gli Alpigiani, poichè gli avevano assaggiati. Udito in Firenze il romore di quei fatti, i rettori presero consiglio di chiudere i passi, e mandarono per il contado a far gente, che là si trasse da ogni parte per non lasciarli passare. E sebbene uno degli ambasciatori (Manno Donati) venisse in Firenze, ingegnandosi di ottenere che la Compagnia fosse liberata e posta in luogo sicuro, e che i Priori ciò proponessero in tre altri Consigli molto numerosi di richiesti, il preso partito fu ogni volta confermato e dato ordine alla difesa. Erano i colli sopra la Sieve tutti occupati dai balestrieri, e fatte tagliate dovunque le uscite fossero più larghe; grande il numero dei pedoni mandati dal Comune o che per volontà vi erano tratti; gran voglia avea il popolo di levare di terra una volta quella maladetta Compagnia, ed i contadini stavano in appetito di cominciare la zuffa: se fatto si fosse (crede Matteo Villani), in Dicomano senza rimedio si spegnea il nome della Compagnia per lungo tempo in Italia. Ma erano tali uomini tra gli ambasciatori (un Donati, un Medici, un Cavalcanti, un Peruzzi) i quali contavano in Firenze più de’ magistrati, e a loro credettero più che al Comune i capitani mandati a reggere quelle genti; il potestà si trovò essere uomo di poca virtù. Un conestabile tedesco ch’era a’ servigi della Repubblica, andato in Dicomano e quivi ristrettosi insieme con gli ambasciatori, deliberarono trarre fuori a salvamento i rinchiusi e porli a Vicchio; il che era farli signori di tutto il piano di Mugello. Usciti, fecero allargare i passi e rappianare le tagliate e le fosse, ed abbattere le insegne; i cavalieri col Tedesco furono messi alla retroguardia. E avendo fasciata la Compagnia co’ balestrieri del Comune di Firenze, li condussero a Vicchio, facendosi ad essi dare del pane che era mandato pe’ soldati fiorentini: avvenne che non potendosi raffrenare i fedeli dei Conti dall’appiccare la mischia, i balestrieri ebbero comando dagli ambasciatori di saettarli. La moltitudine della gente a piè, ch’era sparta per li poggi, non essendo capitanata e non sapendo cui obbedire nè offendere, non si partiva dalle poste: il che vedendo quei della Compagnia, dopo essersi fermati in Vicchio un giorno e una notte, sull’albeggiare scesero nel piano; ed un aguato di cento Ungheri che si avevano lasciato addietro, avendo colto quei balestrieri che si erano fatti innanzi, ne uccisero più di sessanta. La Compagnia, sotto la guida di uno degli Ubaldini, in quel giorno cavalcando quarantadue miglia, non si fermò finchè si ridusse a salvamento in su quello d’Imola. Gli ambasciatori, fornito il servigio, tornarono a Firenze; e a chi si doleva, soleano rispondere: non cercate più di questi fatti, ma dite che noi siamo i ben tornati. La gran Compagnia vicina a disciogliersi per la mancanza de’ suoi capi, e indi ricomposta da un altro tedesco, Anichino di Bongardo, assaliva un’altra volta l’anno dipoi la Toscana; ma lungamente girando attorno al contado di Firenze, trovò questo essere ben guardato, nè bastò a prendere sua vendetta. Quella volta Bernabò Visconti aveva mandato contro alla Compagnia aiuti al popolo di Firenze; dove anche vennero cavalieri di Puglia in proprio e per comandamento di quel Re amico alla Repubblica. Abbiamo descritte queste cose più a lungo che non si soglia da noi; ma ci spediremo brevemente di un’altra guerra di maggior conto, della quale più ne importa esporre le cause che narrare le battaglie, perchè non fatte con le armi nostre. Durava dall’anno 1343 _una co’ Pisani infinta pace,_ e la mala volontà era continua tra’ due popoli. Pisa ghibellina parea soffocasse dentro terra le ambizioni crescenti ognora dei Fiorentini e i commerci costringeva, tuttochè avessero questi, per la pace, franca l’entrata in Pisa delle loro mercanzie fino a ducento mila fiorini, ed i Pisani in Firenze sino a trenta mila; da indi in su doveano pagare gli uni e gli altri due soldi per libbra. Ma dopo cacciati i Gambacorti, venuto il governo di Pisa in mano della fazione che più era ghibellina, ed avendo obbligo con l’Imperatore di costruire altre navi per la sicurezza del mare infestato di frequente dai pirati, fecero a tutti essere comune la gabella dei due soldi, togliendo via le franchigie: avvisandosi che i Fiorentini ciò pure avrebbero sopportato per l’agiamento del porto e la comodità delle strade. Ma superbia e guasti animi credo potessero più del computo; e la Repubblica decretando che i mercanti fiorentini lasciassero Pisa a un dato termine, s’accordava co’ Senesi perchè tutto il commercio di Firenze andasse al Porto di Talamone, con l’agevolare le strade a quel porto e col disporre le albergherie: avendo altresì fatto divieto al trafficare da Pisa a Siena come da Pisa a Firenze, tantochè i mercanti e vetturali pisani venivano presi e rubati sulla via. Quindi aggravarono il divieto decretando che chi procurasse o consigliasse o in palese o in segreto tornare a Pisa, fosse condannato nell’avere e nella persona. Crearono anche il nuovo ufficio dei Dieci del mare con grande balía, nel quale entravano due de’ grandi perch’era ufficio del Comune, e perchè i grandi per le ricchezze e le aderenze potevano molto nelle cose della mercanzia. Ai Pisani era quell’abbandono inestimabile danno e solitudine della città loro, tanto che vi ebbero congiure per le sofferenze degli artefici e il desiderio che aveva il clero dell’antico reggimento. Allora i Pisani cercarono aiuto dal doge di Genova Simone Boccanegra, del quale erano grandi amici, e n’ebbero sei galere, sperando per quelle chiudere Talamone, e che ogni naviglio fosse menato a scaricare a Porto Pisano. Ma i Fiorentini mandarono in Provenza a fare armare galere; chè prima d’allora non aveva la Repubblica avuta armata nel mare; ed alle mercatanzie loro si procacciarono una via di Fiandra per terra, non curandosi di maggior costo, ed ogni cosa lietamente comportando per mantenere l’impresa.[268] Tentarono anche i Pisani Talamone per mare e per terra, ma lo trovarono ben guardato dai Fiorentini e dai Senesi: lo strano impegno continuava, cercando i Pisani a ogni costo ricondurre in Pisa i commerci, e i Fiorentini disviarli a Talamone: ivi conduceano a forza le navi, le quali andassero non che a Pisa a Corneto ed in altri porti, avendo armate a questo effetto in Provenza dieci altre galere e quattro nel Regno. Con le quali appresentatisi a Porto Pisano, fecero fare la grida che sotto piccolo nolo avrebbono caricate con sicurezza per Talamone le mercatanzie sulle galere del Comune di Firenze; ed i Pisani, per la meglio, mandarono il bando che ogni uomo potesse liberamente navicare a Talamone; e incontanente cominciarono a mandarvi della roba loro, con fare ivi porto. Dei Fiorentini era proposito mostrare ai Pisani che senza loro ed il loro porto potevano fare, ch’era un averli a discrezione, contando forse anche nell’avere a sè aderenti i Gambacorti. Matteo Villani, che non voleva dire il segreto, confessa pure che a cercare sottilmente lo stato in che erano le due città, questa materia aveva dentro più che al difuori non apparisse.[269] Così cercavano le due parti di schermirsi dalla guerra che poi nell’anno 1362 venne a scoppiare subitamente; da chi voluta, mal si direbbe. Ai Fiorentini era cresciuto l’animo ed ai Pisani lo sdegno, avendo i primi acquistata la signoria di Volterra tirannescamente retta da Bocchino de’ Belforti (altri gli chiamano Belfredotti), ma debole sempre contro alle insidie o agli assalti delle maggiori città vicine, per la scarsezza dei traffici e la povertà del suolo, cui non bastavano a difendere il sito altissimo e le rôcche. Avevano i Pisani tentato Volterra, che allora sarebbesi accordata per la meglio ricevere da Firenze il Capitano di guardia e da Siena il Potestà; ma i Fiorentini, cortesemente avendo levati i Senesi da quel gioco, senz’altro discorso occuparono Volterra, e rimeritando le scelleratezze del tiranno per via d’un’altra scelleratezza, fecero a lui mozzare il capo. Così ebbero quella città e quel montuoso territorio, ponendosi come sul ciglio ai Pisani, e di fianco sovrastando ai loro confini e ai luoghi forti ed alle marine. E frattanto Piero Gambacorti con la forza di settecento soldati ungheri era fallito d’un suo disegno per entrare in Pisa, la quale sarebbesi in tal modo ricondotta nell’amicizia dei Fiorentini. Questi avendo allora creato Capitano loro Bonifazio Lupo, nobile di Parma dei marchesi di Soragna, si diedero in fretta a provvedersi di gente; scegliendo uomini volonterosi ed atti alla guerra, che formassero le compagnie, mancato essendo alla milizia ogni miglior modo poichè i cittadini non volevano più saperne. Si era dovuto anche pe’ contadini il servizio personale commutare in una tassa, che essi pagavano con grande loro contentamento, pel mantenimento dei pedoni e soldati forestieri:[270] bene potevano essere chiamati quando era necessità, scontando la tassa, come avvenne in questo tempo; ma era servigio dannoso e disutile: e tutto il nerbo della guerra stava negli Ungheri e Tedeschi.[271] Al modo stesso anche i Pisani facevano gente; e abbiamo registro[272] di ventisei compagnie, la maggior parte di forestieri, le quali sotto varie insegne e nomi diversi furono in quegli anni tenute a soldo dai Pisani. Pareva essere da molto a quelle città quando vedevano per le strade loro passeggiare baroni e cavalieri armati d’ogni nazione: tra gli altri, un Ridolfo ed un Giovanni di Habsburgo vennero l’anno 1365 agli stipendi dei Fiorentini. Le ostilità cominciarono in Val di Nievole presso a Pescia; dove il castello di Pietrabuona tolto ai Pisani furtivamente, questi riebbero per assalto. Di Val di Nievole si portò la guerra tosto in Val d’Era, e ivi l’oste Fiorentina pigliate castella di picciolo conto e fatte arsioni di ville e di casolari e rapina di bestiami, andava all’assalto di Peccioli; quando per dappocaggine o malizia dei consiglieri o commissari che la Repubblica inviava a stare a guardia del capitano, Bonifazio fu deposto da quell’ufficio; egli accontentatosi nobilmente di servire nella qualità di maliscalco sotto a Ridolfo dei Varano da Camerino, che gli aveva tolto il luogo suo. Viveva quegli poi molti anni in Firenze, dov’ebbe cittadinanza, ascritto all’Arte della lana, e benemerito per la fondazione d’uno Spedale in via San Gallo, il quale ritiene anche oggi il suo nome.[273] Ridolfo avuta con lungo e faticoso assedio la terra di Peccioli, e corso anch’egli inutilmente devastando il piano e distruggendo nobili possessioni fino alle mura di Pisa, altro e buon frutto non conseguiva. Nel mare frattanto Perino Grimaldi, condotto dai Fiorentini con quattro galere, facea buona prova; tenendo questi a grande onore umiliare Pisa colà dov’era la forza sua; tantochè avendo occupato per marino assalto il Porto Pisano, si recarono a trionfo le rotte catene che lo solevano tenere chiuso, le quali fino ai giorni nostri restarono appese alle colonne di porfido presso alla porta maggiore del tempio di San Giovanni. Altre due galere aveva mandate in servigio della patria, e a tutte sue spese, Niccolò Acciaiuoli grande Siniscalco del regno di Napoli. Continuava la guerra tutta quella state, nè per il verno cessavano le due parti dall’assalire castelli, avendo i Pisani tentato Barga e Pescia e Santa Maria in Monte e Altopascio, che poi fu preso; mentre i Fiorentini sotto Piero da Farnese nuovo capitano, fidatisi avere Lucca per trattato, da quella furono ributtati per la diligenza dei Pisani. Avevano questi sul principio della guerra (se fede intera prestar si debba al Cronista fiorentino) vuotato Lucca d’abitatori per bando crudele.[274] E in Garfagnana si raccendeva feroce la guerra nella primavera dell’anno 1363, quivi Rinieri da Baschi capitano de’ Pisani avendo rotte due grosse bande di cavalieri e fatto prigioni i due valorosi capitani che avea mandati Piero da Farnese a rifornire le castella e alla difesa di Barga. Ma questi poi ebbe splendida rivalsa presso al Bagno a Vena, dove la battaglia due ore e mezzo fu combattuta pertinacemente con dubbia vittoria: infine Ranieri fu preso con la spada in mano, e seco molti valenti uomini e le insegne dei Pisani. Del che in Firenze fu molto grande e popolare allegrezza, entratovi Piero quasi trionfalmente: e subito quindi correva egli sotto Pisa e fino alle porte, quivi e dappertutto avendo mostrata virtù di soldato e perizia di capitano. Ma egli moriva in quei giorni della peste ch’avea ritoccato di nuovo in Toscana dopo soli quindici anni dalla moría del quarantotto: di lui fu grande e universale compianto, ed ebbe esequie splendidissime, e di mano di Andrea Orcagna una statua equestre di legno che stette infino a questi ultimi anni nel maggior tempio; dove Piero da Farnese fu ritratto sopra un mulo a ricordanza di quando egli, mortogli sotto il destriero e quasi abbandonato dai suoi, montò sopra un mulo da soma e a quel modo compiè la vittoria che a’ Fiorentini fu tanto allegra. Moriva di questa rinnovata pestilenza e al modo stesso come era morto Giovanni, Matteo Villani che la storia sua condusse infino all’ultimo giorno della vita: quando s’apprestava a raccontare l’esequie di Piero il morbo lo colse, e l’istoria fu interrotta, continuata di poi fino alla pace co’ Pisani da Filippo suo figliuolo, più letterato dei suoi maggiori, ma istorico troppo da meno, al breve saggio che egli ne diede. Ma ecco ad un tratto mutare le sorti di tutta la guerra, dacchè i Pisani ebbero condotta ai loro stipendi una compagnia d’Inglesi che aveva nome la Compagnia Bianca. Stava questa in Monferrato contro a Galeazzo Visconti, che molto bramava di levarsela da dosso; era egli avverso ai Fiorentini e amico ai Pisani: avriano potuto i Fiorentini farsi innanzi, molti di loro avendo usanza in Inghilterra e uno tra gli altri essendo guida in Italia della compagnia; ma invece trassero di Alemagna poche altre genti capitanate dal conte Arrigo di Monforte, all’uopo scarse e di minor conto. E gl’Inglesi giunti in Pisa, difilato camminavano inverso Firenze per il piano di Pistoia infino alle porte, guastando al solito case e ville, correndo palii e impiccando asini; finchè ritrattisi all’udire le campane di Firenze suonare a stormo, discesi a Empoli per i poggi, di là per il Chianti si andarono a posare nel Valdarno superiore, quivi occupata la grossa terra e il castello di Figline. Campeggiarono tutto il Valdarno ad agio loro alquanti dì, ed all’Incisa avendo rotta l’oste fiorentina che si faceva loro incontro,[275] un’altra volta si appressarono alle mura di Firenze da opposta parte fino a Ricorboli. Dei Fiorentini era capitano messer Pandolfo dei Malatesti, il quale o che pe’ mali ordini del governo gli paresse necessario, o che a pro suo volgesse in mente consigli malvagi, chiedeva gli dessero giurisdizione di sangue nella città e fuori, e che i soldati giurassero nelle sue mani. Il che negatogli e tumultuando la città che ricordava il Duca d’Atene, male potevane avvenire; quando saputosi che gl’Inglesi con tutta l’oste ricavalcando i poggi del Chianti di là si erano ricondotti a Pisa, cessò la paura e s’acchetarono i sospetti.[276] E già il verno soprastava, nel mezzo del quale non si ristavano quella dura gente degl’Inglesi dal correre e dare il guasto alle terre cercando preda. Con maggior impeto e più ordinata battaglia si raccostarono a Firenze, venuta appena primavera; e più volte ebbero a sè propizia la fortuna delle armi, tenendo stretti nella città i Fiorentini con disagio e con pericolo molto grande; quando ecco si videro i nemici balenare, e Inglesi e Tedeschi tra loro dividersi e insieme combattere, essendo una parte già compra, e l’altra che ai Pisani serbò fede, appresso a Cascina rimanendo vinta in molto grossa battaglia. Ed in quei giorni anche fu preso ed abbruciato Livorno per la maestria di Manno Donati fiorentino, esercitato nelle compagnie e nelle guerre d’Italia, variando servigi, come i nobili spesso facevano, e di rado utile alla patria sua. Così tra le due città rivali erano venute a pareggiarsi le sorti; e il nuovo papa Urbano V già s’era fatto intromettitore ad una pace, che i danni sofferti e le inutili ruine ad ambe le parti egualmente consigliavano, e che Giovanni dell’Agnello, che si era in Pisa levato a doge, promoveva pe’ suoi privati disegni. Fu essa firmata in Pescia, e in Firenze pubblicata non senza dispetto dei minuti popolani il primo settembre del 1364, lasciando le cose appresso a poco tali quali com’erano state innanzi la guerra: tornava meglio alle due città se non l’avessero cominciata.[277] La dimora in Avignone, che ai Papi era stata abbassamento di dignità, veniva a rendersi ogni giorno più, non che odiosa agli Italiani, subietto amaro alla riprovazione di tutti gli uomini religiosi; e Urbano V, benchè francese, non prima assunse il pontificato che pose mente a ricondurlo dove è la sua natural sede. Questo annunziava egli col pigliare il nome d’Urbano. Muovevanlo i danni che ne venivano alla Chiesa, e lo squallore di Roma, e il grido d’Italia, e le rampogne dei buoni; disdegnava la tutela che si arrogavano sul papato i re di Francia, ed ultimamente per le guerre di quel regno parevagli fosse male sicura ivi la dimora: vedeva all’incontro la sudditanza dei popoli al dominio temporale della Chiesa, di già ottenuta per le armi e per le arti dell’Albornoz, abbisognare tuttavia della presenza dei papi, che il nuovo stato costituisse e gli acquistasse la moral forza; si confidava con la presenza sua poterlo difendere dalle oppressioni e dalle rapine dei compri ladroni che si appellavano soldati;[278] sperava domare la potenza di quel Bernabò Visconti che fu insigne per malvagità anche tra gli uomini della casa sua, e che d’ogni erba faceva fascio. Si accordava al fine stesso (comune essendo lo scadimento delle due somme potestà) l’imperatore Carlo IV: credeva questi passando in Italia nel tempo stesso che il Pontefice, meglio rialzarvi l’imperial nome e confortarne l’autorità; prometteva gastigare la prepotenza di Bernabò, che in Italia gli pareva quasi occupare il luogo suo. Così accordati, sbarcò a Genova Urbano V nella primavera del 1367, e dimorato alcuni mesi in Viterbo, a’ 16 ottobre faceva l’entrata solenne e lieta veramente nella desolata Roma, in mezzo al corteggio dei signori e al plauso dei popoli. Già era tra ’l Papa e l’Imperatore e il Re d’Ungheria la regina Giovanna di Napoli e i signori di Mantova e di Padova e di Ferrara conchiusa una lega per l’offesa dei Visconti, alla quale i Fiorentini con molto cauto accorgimento si rifiutarono aderire. Oltre al tenere in gran sospetto quell’amicizia tra ’l Papa e Cesare, pensavano come per sè avessero i Visconti, oltre alla volontà più forte nella propria difensione e alla unità del comando, le forze di quante in Italia erano compagnie, cioè delle sole milizie vere che allora sapessero tenere il campo e mantenessero disciplina. Ma fuori anche di tutto ciò, per sè avevano i Signori di Milano stragrande copia di pecunia, che nelle guerre di quella fatta era ogni cosa; e della quale non saprei dire se fosse Carlo o più avido o più bisognoso.[279] Egli disceso nel maggio del 1368, trovata l’impresa più dura che in lui fossero l’animo e i propositi, fece accordo co’ Visconti per molto danaro e piccioli ossequi o concessioni da loro fatte; e la lega fu disciolta, ed egli con poche armi recavasi in Toscana. Si fermò in Lucca, e di là per Siena andato a Roma, accrebbe quivi lo splendore di quei giorni al Papa magnifici. Di Roma Carlo tornò in Siena, della quale si aveva creduto nell’andata riordinare il governo; ma ora cercando mettere in palagio un suo Vicario, infuriò la plebe, ed ei dovette salvarsi nelle case dei Salimbeni con suo pericolo e vergogna. A Pisa frattanto, avendo Giovanni dell’Agnello perduto lo stato, faceva ritorno l’amico dei Fiorentini Piero Gambacorti, dal quale ottennero essi la conferma degli antichi privilegi e aggiunta di nuovi, cosicchè allora per sempre cessarono dal fare porto a Talamone. Nel tempo stesso Lucca sottratta al dominio dei Pisani ricuperava dopo ventisette anni l’indipendenza; riordinandosi a governo per allora popolare e molto amico ai Fiorentini. Ai quali però non mancavano le solite molestie per la venuta di Carlo: consentiva egli, come vedemmo, fossero libere le città una per una e spicciolate, ma non formassero uno stato di più insieme, e non facessero acquisti di terre senza il beneplacito di lui. Diceva pertanto l’annessione di Volterra essere stata contro ai patti del 55, e grave scandalo gli pareva che la Repubblica si arrogasse dare castella in feudo ai signori del distretto, a sè rendendole tributarie. Ma tali pretese chetarono tosto per pochi danari; e l’Imperatore, che ne aveva da Lucca e da Siena e da Pisa e dai Visconti avuti buon numero, tornò in Germania soddisfatto. Ma lasciava però dietro sè odiosa molto ai Fiorentini la ribellione di San Miniato; non poteva quella terra dimenticare l’essere stata rôcca ai Vicari dell’Imperatore; e molti avendo e possenti nobili usati al vivere ghibellino, le istituzioni popolari male vi sapevano allignare: quelli umori si scopersero alla venuta di Carlo; e i Fiorentini, partito lui, di già si erano accampati sotto alle mura della città, allorchè Bernabò Visconti mandò dicendo si ritraessero, avendo avuto egli dall’Imperatore il vicariato di San Miniato. Ma la Repubblica questa volta prescelse la guerra per non si mettere un padrone addosso, e avendo seco Pisa e Lucca, si credeva essere ben guardata. Ciò nonostante in un primo scontro ebbe la peggio, ed i nemici erano corsi fino alle porte della città, quando i Fiorentini riusciti essendo per tradimento a occupare San Miniato, la guerra si tenne finita in Toscana. Ai presi nobili fu mozzo il capo, e i ragazzi della plebe fiorentina addosso a loro inferocivano. Si disperderono le casate dei Sanminiatesi, e una donna della famiglia dei Borromei, portò a Milano le sue ricchezze.[280] Il Pontefice, che da gran tempo lodevolmente sollecitava le città e i principi dell’Italia a unire insieme gli sforzi loro contro alle straniere Compagnie, si era da ultimo collegato ai Fiorentini; talchè quella guerra si protrasse fiaccamente qualche altro mese in Lombardia, finchè una pace venne conchiusa massimamente perchè il Papa si era tornato in Avignone; dove subito ammalato, venne egli a morte nei giorni ultimi dell’anno 1370. Diremo adesso in quegli anni le interne cose della Repubblica: l’ammonire non cessava, e le sètte degli Albizzi e dei Ricci, palesi a tutti, mantenevano in sospetto la città anche di occulte macchinazioni. Era venuto in Firenze [anno 1360] Niccolò Acciaiuoli, grande Siniscalco del regno di Napoli, uomo di potenza quasi regale, e nuovamente da Egidio Albornoz creato visconte della Romagna riconquistata da quel bellicoso Cardinale nel nome del Papa. L’Acciaiuoli come cittadino di Firenze aveva il suo nome tra gli altri imborsato per la tratta dei magistrati, ma fino allora ogni volta fosse tratto aveva divieto come assente, rimettendosi però la polizza nelle borse. Le quali erano quasi vuote ai giorni della sua dimora in Firenze, e fallare non poteva ch’essendo presente non fosse Priore: le cortesie, le magnificenze, la fama di lui, molti adombravano, impauriti per la libertà se tale uomo sedesse in Palagio: ed egli a togliere i sospetti uscì di Toscana. Occorse in quei giorni che in Bologna l’Albornoz oscuramente accennasse a un ambasciatore fiorentino d’una congiura in Firenze per sovvertire lo stato: il che avendo questi rivelato quindi ai Signori, crebbe il sospetto che si aveva dell’Acciaiuoli, e incontanente fecero provvisione che niun cittadino il quale avesse giurisdizione di sangue o sotto sè città o castella potesse essere all’ufficio del Priorato. Ma veramente una congiura in Firenze si tramava o con Giovanni da Oleggio il quale cacciato di Bologna si era fatto signore d’Ancona, o con Bernabò Visconti, o con lo stesso Albornoz, grande ambizioso che accettava in proprio nome la signoria d’Orvieto e d’altre città papali, ma cauto da non si tuffare in pratiche a lui fatte da un oscuro venturiere. Tale si era un Bernardo Rozzo milanese, che per la promessa di molto danaro disse ogni cosa alla Signoria, e lasciò intendere anche più del vero. Ma intanto un’altra rivelazione era fatta da Bartolommeo de’ Medici, a ciò esortato da Salvestro suo fratello. Aveva egli un trattato con Domenico Bandini e con Niccolò Del Buono, ammoniti di recente: questi volevano dare lo stato ai Ricci; e quanti fossero più o meno intinti nella congiura non si seppe mai, parendo meglio ai reggitori che scuoprire il male mettervi un piede sopra. Il Bandini ed il Del Buono ebbero mozza la testa: un Infangati di antichissima famiglia e seco, di case grandi, Pino de’ Rossi, un Frescobaldi da Sammontana, un Adimari, un Gherardini, un Pazzi, un Donati, due popolani e uno di quei frati i quali stavano in Palagio, ebbero bando della persona e confisca degli averi.[281] Qui nota come fosse in sè divisa, ma sempre viva, la setta dei grandi: quel Manno Donati che si era dato alla milizia, moriva in Padova ai servigi dei Signori da Carrara; un altro Donati e un Gherardini ed un Pazzi in Firenze macchinavano congiure contro allo Stato; ed un altro Pazzi ed un altro Gherardini sedevano accanto ai grossi popolani, e gli troviamo noi Capitani della parte guelfa mentre avvenivano queste cose.[282] Che la Repubblica in quegli anni fosse agitata, si vede pure da questo, che avendosi nell’anno 52, per economia di spesa, cessato dal fare venire in Firenze annualmente un Capitano del popolo, ed ora sentendosi mancamento di chi amministrasse la giustizia in cose politiche, fu quest’ufficio rimesso nell’anno 1366.[283] Quindi anche nascevano i sempre nuovi ordinamenti circa al magistrato della Parte,[284] che di quei moti era principal cagione: s’introduceva per arbitrii dentro alle viscere dello Stato, nulla correggeva, nulla ordinava, odioso a tutti e in sè medesimo impotente. A quel che appare dai registri,[285] le ammonizioni non sarebbero state molte; ma col ferire chi fosse al punto d’essere tratto di magistrato, impedivano i più solenni ordinamenti della Repubblica, miravano a tôrre di mezzo quei nomi i quali fossero più appariscenti. Matteo Villani fu ammonito l’anno 1363, poco innanzi la morte sua; e infine al proemio del libro undecimo, per lui rimasto incompiuto, sembra egli accennare con parole commoventi a’ suoi privati travagli.[286] Ma il figlio suo ciononostante, nei Capitoli ch’egli aggiugneva poco dipoi, si lagna fosse in quei giorni raffreddato l’ammonire, lasciando correre la viltà de’ nuovi uomini che reggevano.[287] Assai notabile attenuazione di quelle leggi contro a’ Ghibellini fu fatta sulla fine dell’anno 1366, Uguccione de’ Ricci sedendo allora nel Priorato, ed in quella settimana nella quale essendo Proposto spettava a lui la prerogativa. I Capitani, ch’erano sei, fossero otto, poi cresciuti fino a nove; due grandi, due delle Arti minori, gli altri cinque grossi popolani; e che uno delle Arti minori intervenga sempre. Che niuno sia condannato nè ammonito senza revisione della sentenza per un consiglio di ventiquattro cittadini guelfi, innanzi ai quali possa difendersi l’accusato. Che l’Esecutore degli ordini di giustizia rivegga per giudizi regolari le condanne fatte in addietro per Ghibellini, non veri Guelfi o sospetti; e i non bene condannati assolva, sicchè non possano altrimenti tradursi in giudizio. Provvede altre cose circa l’ammettere testimoni. Nel marzo seguente fu confermata la provvisione, annullando cose fatte in quell’intervallo dai Capitani di parte guelfa contro alle dette riforme.[288] Donato Velluti, che ebbe parte in quelle cose, molto ampiamente le narra, ma (come suole) confusamente: aggiugne, volevano anche scemare i divieti, più gravosi alle maggiori case, che più avevano consorterie; ma nol poterono mai vincere: dice pure essere allora stati concessi ai grandi quattro dei maggiori uffici di fuori, cioè vicariati o potesterie: questo si ottenne a gran fatica.[289] Sembrano a noi tali ondeggiamenti molto dipendere dalle cose che avvenivano al di fuori. Agli 11 dicembre 1364 esce divieto a qualsivoglia persona o collegio di supplicare al Papa o al Legato suo o al collegio dei Cardinali contro agli statuti della Parte guelfa o alle singole loro parti:[290] ma in quei giorni Urbano V già s’adoperava perchè scendesse in Italia l’Imperatore, che nel maggio susseguente a lui ne andava in Avignone. La riforma del 66 avvenne quando si aspettava in Toscana Carlo IV; il quale indugiava poi di un anno la venuta, nè lui presente era dicevole fare gran pressa contro ai Ghibellini. Dipoi sappiamo Piero degli Albizzi, capo degli uomini della parte guelfa, essere stato gran promotore della lega con Urbano: egli ed i suoi dagli avversari avevano per dileggio appelagione di _paperini_, giocando sul nome quasi che fossero _paterini_. La setta degli Albizzi aveva anche un segno che la distingueva, e i suoi aderenti portavano certa nuova foggia di berrette, la quale usanza era venuta di corte di Roma.[291] Piero degli Albizzi era molto grande appresso al Papa, massime quando (e forse anche in grazia sua e a procacciare la lega) Piero Corsini suo nipote ebbe il cappello di cardinale. Qui noi troviamo le due sètte avvicinarsi per le ambizioni poco sincere dei Ricci, i quali sè conoscevano essere da meno. Piero e Uguccione insieme andarono a papa Urbano ambasciatori in Viterbo; poi Rosso dei Ricci (fratello a Uguccione) fu scelto è vero ad accompagnare come quasi Ghibellino l’Imperatrice, ma questo Rosso troviamo bentosto capitano della lega stretta col Papa contro ai Visconti, e in quella guerra cadde prigione. Dipoi Uguccione mandava Guglielmo suo figliuolo in corte del Legato di Bologna, a cui miravano già i sospetti dei Fiorentini dacchè era il Papa fatto possente nella Romagna; dove ebbe provvisione, e un altro figliuolo benefizi della Chiesa: Albizzi e Ricci pareano fatti una cosa, e Uguccione e Rosso erano divenuti fieri all’ammonire: si rinnovò allora quella provvisione del 59, la quale cassava le assoluzioni ed esenzioni date in addietro ad uomini ghibellini.[292] La Repubblica era in balía dei Capitani di parte guelfa; ad essi andavano le ambizioni. Tra gli altri Benghi, dei Bondelmonti, possente uomo ed assai brigante, che era stato fatto di popolo per servizi prestati in guerra alla Repubblica, si diede agli uomini della parte guelfa per aver sofferta una ingiuria dai magistrati, ed a quella parte vennero seco non pochi grandi. Ma venne tosto un’altra legge a fermare la sovranità della Repubblica nel magistrato di Parte guelfa, chiudendo ogni via a frenarne la potenza o a temperarla per vie legali. Statuiva, niuna provvisione la quale toccasse anche per incidenza ed in via accessoria le leggi e statuti e i privilegi o le proprietà di quella Parte, potersi fare, e fatte, essere _ipso jure_ irrite e nulle, senza che prima fosse consultato il magistrato della Parte stessa, chiamando a tal fine in palagio, Capitani e loro Consiglio; e fatto partito da questi, che desse licenza ai Priori e al Gonfaloniere di dare alla deliberazione corso, e farla passare per gli opportuni Consigli: a qualsiasi contravventore pena di due mila fiorini d’oro, i quali andassero alla Camera Apostolica, e più di essere _ipso facto_ dichiarato e tenuto per Ghibellino, non bene Guelfo e sospetto, in perpetuo, senza speranza di rivocazione, cancellazione o indulgenza.[293] L’anno dipoi, uno dei Priori avendo voluto provvedere per riformagione che nessuna ammonizione valesse quando non fosse approvata dai Signori e Collegi del palagio, tutti gli furono addosso, chi per un rispetto e chi per un altro, tantochè egli corse anche pericolo della testa. Richiesto il dì che uscì dell’ufficio dai Capitani della parte, dovè comparire innanzi a loro con la fune al collo, rendendosi in colpa di ciò che aveva voluto fare; e nientedimeno fu ammonito per sospetto.[294] Alla sopra riferita legge diede il nome Bartolo Siminetti chiamato Mastino; ma di ogni cosa era principale autore Lapo da Castiglionchio, legista di nome assai chiaro in quella età, del quale abbiamo una scrittura intesa a mostrare sè essere nobile d’antico lignaggio, nè potersi quella nobiltà di sangue giammai togliere per ascrizione fatta nell’ordine popolare. Tali concetti stavano in fondo al pensiero di quegli uomini i quali cercavano condurre lo Stato ad una forma aristocratica, siccome aveva fatto Venezia e leggevano essi nelle istorie dell’antica Roma.[295] Ma non volevano però essi, nè certo volevano i migliori cittadini, porsi in sul collo due famiglie ambiziose e prepotenti, e a queste vendere la Repubblica; ed a questo fine insieme convennero quei medesimi che aveano fatta la legge, Simone Peruzzi, Giovanni Magalotti, Lapo da Castiglionchio, Salvestro de’ Medici, che figurarono poi diversamente nei moti successivi: con essi andavano altri molti dei migliori cittadini. Ma perchè era pena capitale ragunarsi più di dodici in luogo segreto, saputa la cosa, ne fu rumore; e convocato un Consiglio di richiesti, in numero cinquecento, Filippo Bastari popolano, che fu tre volte Gonfaloniere, disse arditamente, molti essersi intesi perchè il male avesse qualche efficace provvedimento; e conchiudeva la diceria con queste parole: «noi ci siamo ragunati per essere liberi; eh Signori, dateci la libertà.» Pur nonostante vinceva forse la parte dei pochi (tanto era possente), se gli Albizzi e i Ricci, falsamente collegati, non venivano tra loro a brutte parole rimbeccandosi ingiurie acerbe: talchè disciolto il Consiglio, fu vinto dipoi che a cinquantasei dei principali cittadini, e che già erano in uffizio, fosse balía di provvedere sotto certe condizioni alla salute della Repubblica. Al che molti si crederono bastasse avere escluso dai maggiori uffizi per cinque anni tre Albizzi e tre Ricci, che erano i principali di quelle famiglie. Ma tosto si vidde nel fatto, la cosa cadere sul capo ai Ricci soli, che perderono lo Stato: a Piero degli Albizzi, se fu chiuso il Palagio dei Signori, quello dei Guelfi, dove egli aveva grandissima autorità, gli rimase aperto. Allora fu anche istituito il nuovo magistrato detto dei Dieci di libertà, a difesa delle leggi e a salvaguardia dei cittadini; il quale rimase e fu possente nella Repubblica, secondo i tempi che succederono. Era dei primi che a tale ufficio vennero eletti, Marchionne Stefani, dal quale abbiamo ampio ragguaglio di questi fatti. Di più ordinarono fosse lecito a chiunque patisse offesa d’ingiuria da un più potente di lui, fare petizione che l’offenditore venisse posto tra i grandi; e sebbene poi tra loro si conciliassero, il partito dovesse andare più innanzi: il che a molti peggiori scandali divenne cagione ed a private soperchierie. In Firenze erano i Consoli della Mercanzia di autorità grande, e per tutta Italia molti si stavano ai giudizi loro per la importanza dei commerci di questa città: ai cinque, ch’erano delle maggiori Arti, due furono aggiunti dalle minori; dal che si trova essere scemata l’autorità di quel magistrato. CAPITOLO VIII. GUERRA CON PAPA GREGORIO XI. [AN. 1375-1378.] Mentrechè gli uomini della Parte guelfa tiranneggiavano la Repubblica, questa era venuta in guerra col Papa. Non prima viddero i Pontefici col trasferirsi in Avignone scaduta essere l’autorità ch’esercitavano sull’Italia, voltarono l’animo alla recuperazione dell’antico patrimonio, e tosto si diedero a riconquistarlo con le armi; pare volessero divenire principi dacchè erano meno pontefici. Delle terre della Chiesa parte godevano libertà sotto popolare reggimento, di molte avevano occupate da lungo tempo le signorie alcune famiglie di possenti cittadini, rimasti signori per isforzato consentimento dei Papi medesimi, e oramai come indipendenti; non solevano i Pontefici direttamente esercitare la temporale sovranità, che in Roma veniva ad essi negata, ed era negli altri luoghi dello Stato negletta da loro o contro ad essi via via usurpata. Era quindi un nuovo fatto quel costringere generalmente con le armi i popoli a una sudditanza da prima insolita; ed i Papi scegliendo a quell’uopo Legati stranieri e armi straniere e ferocissime, rendevano odiosa più che mai l’impresa di cui sembravano vergognare, essi tenendosi in disparte di là dalle Alpi; e qui spogliati di gran parte del favore che prima godevano appresso ai popoli dell’Italia. Quindi la politica dei Fiorentini era mutata verso la Chiesa; usati avere intorno a sè o città libere o signori amici e ad ogni modo poco temibili, ora vedevano uno Stato grosso formarsi di membra che prima solevano insieme congiugnersi pel solo vincolo della lega guelfa, della quale erano essi a capo, ed in cui stava la forza loro: Bologna e Perugia di recente soggettate da quelli armigeri Cardinali, poneano minaccia là dove solevano essere difese allo Stato di Firenze, e questo venendo a interchiudere da opposti lati, lo stringevano così da farne (secondo correvano allora i sospetti) pericolare la libertà. I mali umori delle due parti furono palesi tostochè ascese al papal seggio Gregorio XI, anch’egli francese, benigno e pio quanto a sè ma trascurato o connivente ai vizi de’ suoi; del che avevagli dato esempio lo zio di lui Clemente VI. Era in Perugia per Santa Chiesa un abate di Montmayeur, ed in Bologna era Legato il cardinale di Bourges, fieri uomini ed aggressivi e alla Repubblica male affetti, lei avversando come ostacolo frapposto ad ogni divisamento loro. Veramente i Fiorentini, soliti farsi di Santa Chiesa tutela ed arme contro a’ Visconti, oggi temevano come più vicina la potenza dei Legati; ed io credo nel segreto de’ consigli loro per nulla gradissero il ritorno dei Pontefici in Roma, che avrebbe allo stato della Chiesa data fermezza troppo maggiore. Si aggiungevano le interne cause, e in gran numero dei popolani la brama di abbattere quel magistrato che avea per sè l’antica forza del nome guelfo e il vessillo della Chiesa;[296] le parti erano oggimai scambiate, ed i nuovi modi di governo tenuti dai Papi gli facevano sostenitori dei pochi e dei grandi contro a’ popoli e alla libertà. Questa opprimevano i Legati in città amiche ai Fiorentini, usando a tal fine le armi straniere e le fortezze di recente fabbricate nel cuore stesso delle città, permettevano o promuovevano le nefande opere e le scellerate; e fecero (benchè a dirlo mi sia duro) che le coscienze dei più rigidi e timorati, non che la turba dei malevoli ad ogni sorta d’autorità, e quanti erano mantenitori del pensiero ghibellino, allora stessero contro a’ cherici.[297] La Repubblica si era posta già da due anni sulle difese col distruggere quello che fosse rimasto in essere di potenza alla famiglia degli Ubaldini, amici ai Legati della vicina Bologna, e mantenuti, come dicevasi, in istato dagli Albizzi che a quella parte davano mano: degli Ubaldini uno venne ucciso dai suoi fedeli a tradimento; un altro in Firenze per sentenza decollato (come fu detto) contro ragione.[298] Ma le cose peggiorarono quando in Romagna fu Legato l’anno 1375 il Cardinale di Sant’Angelo, di casato Novellet, di leggiero animo e imperito. Era in Firenze stata la peste un’altra volta; cui succedette tanto grave carestia che, nonostante il provvedere dei magistrati e la larghezza che soleva la Repubblica usare in simili congiunture,[299] mancando il grano, fece richiesta al Legato di Bologna permettesse farne tratta da quelle provincie che molto ne erano abbondanti: ma rifiutò questi, il divieto mantenendo con pertinacia, sebbene avesse dal Papa lettere in contrario. Dovè il Comune per altro modo e con grave spesa provvedere, avendo nel costo dei grani, che poi a minore prezzo rivendeva, perduto somma molto ingente, che, al dire d’un cronista contemporaneo, fu lo scampo della libertà.[300] E le aggressioni o le minaccie continuavano: certo aiuto di gente mandato dall’Abate di Perugia ai Salimbeni parve insidia tramata contro alla libertà di Siena, come cercassero i Legati aprirsi ogni via al sovvertimento di Toscana. Quel di Bologna fece poi tregua co’ Signori di Milano; ed ai Fiorentini mandò scritto, non potere egli più sostenere la Compagnia grossa degli Inglesi che aveva a soldo, chiedendo prestito di danaro; e perchè gli fu negato,[301] fece nel mese di giugno che la Compagnia scendesse in Toscana, guastando le terre e occupando le strade, che era un impedire alla città i ricolti e così averla a discrezione. La Compagnia giunse fin verso Prato, ma i Fiorentini per centotrentamila fiorini d’oro patteggiarono col capitano si ritraesse; e questi poi venne più tardi ai soldi loro, veduto ch’erano buoni pagatori. Aveva nome Giovanni Hawkwood, che i nostri chiamano Giovanni Aguto; e lui vedremo più volte poi mischiato ai fatti della Repubblica: dei condottieri in quella età era l’Aguto il più famoso, stato già contro alla Repubblica nella guerra de’ Pisani ed in quella dei Visconti fatta per conto di Samminiato. Costui mentre era intorno a Prato, un trattato si scoperse per dargli la terra; del quale essendo trovati autori un notaro e un prete, condotti in Firenze patirono quivi crudele supplizio:[302] scrivono l’Aguto rivelasse egli medesimo il trattato, e che i due presi lo confessassero. Inoltre dicevano avere il Legato mandato in Firenze ingegneri a disegnare i luoghi forti della città, e a spiare aditi agli assalti. Allora in Firenze furono creati gli Otto della guerra con tanta balìa quanta se ne poteva dare per la condotta delle genti stipendiarie, per la nomina dei capitani e degli ambasciatori, per fare leghe ed ogni altra cosa che importasse alla guerra, salva l’approvazione della Signoria sola, o insieme ai Collegi, quanto alla spesa ed all’osservanza delle leggi e ordini del Comune.[303] Dei quali Otto, perchè rimasero dipoi famosi, gioverà dire essere stati com’era prescritto, uno di famiglia grande, uno delle Arti minori e gli altri sei delle maggiori Arti. Elessero altri otto a fare accatto sui cherici, dicendo la guerra essere venuta per difetto dei pastori: quindi, per forza o per amore, ebbero prestanza di fiorini novantamila; poi cominciarono a mettere in vendita gli arredi delle chiese, poi le possessioni. La Repubblica in tali cose andava spedita, se l’uopo stringesse, o che le ragioni dello Stato a lei sembrassero manomesse: queste andavano sopra ogni cosa, e tanto più osavano quanto che sempre nelle coscienze loro viveva la fede, ed amavano popolarmente la Chiesa quando anche avversassero gli ecclesiastici. Troviamo in più casi questi modi essere praticati, ed è parte che sarebbe da rintracciare minutamente nell’istoria della Repubblica. Sul quale proposito diremo che in Firenze l’Inquisizione era in mano dei frati Conventuali di Santa Croce, perchè nel secolo XIII erano apparsi i Domenicani andare tropp’oltre contro ai Paterini. Ma quando nell’anno 1345 un fra Piero dell’Aquila Inquisitore usava sue armi per fini privati, impedirono a mano armata l’esecuzione d’una sentenza, ed a lui tolsero il diritto di avere sue carceri e d’imporre multe e di far pigliare chicchessia senza licenza dei Priori; altresì frenando negli Inquisitori la facoltà di concedere licenza delle armi a privati cittadini, che si annoveravano a tal fine tra’ famigliari del Santo Ufizio. Avevano anche in vari tempi fatto leggi contro a’ cherici, sottoponendoli al giudizio dei magistrati secolari per le offese recate ai laici, e chi offendesse alcun laico di maleficio criminale fosse fuori della guardia del Comune; inoltre vietando richiamarsi in Corte di Papa e ottenere privilegio di giudici delegati, sotto gravi pene all’appellante e a’ propinqui suoi. Erano di plebe quelli che imponevano tali cose; poichè tra’ più grossi benefiziati molti erano de’ grandi o dei grassi popolani, i quali si facevano dai loro assolvere di violenze o di soprusi recati ai più deboli e impotenti. Laonde poteva la legge essere per sè buona (secondo avvisano i Cronisti), ma offendeva troppo la libertà della Chiesa, ed ebbe biasimo dai più savi. Gregorio XI annoverava pure queste leggi tra’ carichi apposti alla Repubblica di Firenze nel Breve del quale tantosto avremo a favellare.[304] Aveva l’Aguto nel suo discendere in Toscana corso anche le terre dei Pisani e dei Lucchesi e dei Senesi e degli Aretini, costringendoli, com’era usanza, a riscattarsi dalle devastazioni per molto danaro. Siena bentosto entrò in lega co’ Fiorentini (essa temendo anche i Salimbeni), e pose accatto sopra i cherici: v’entrò anche Arezzo, ch’avea alle coste la minaccia dei Tarlati; ma Pisa e Lucca più tardi s’aggiunsero alla confederazione, bensì con patto di non inviare genti a soccorso di chi occupasse i possedimenti della Chiesa.[305] Laonde Firenze, a sè cercando più saldo appoggio e di maggiore riputazione, non temette collegarsi al più antico e più costante dei suoi nemici, Bernabò Visconti. Molti avevano, e massimamente la Parte guelfa, cercato indarno di storpiare quella lega, la quale si trova, nè senza ragione, biasimata da taluno di quelli stessi ch’erano pure dei più caldi per la guerra. Trascrivo alcune parole del Boninsegni, tanto mi sembrano bene esprimere il sentire allora di molti, avvalorato in quello scrittore anche dai fatti che ne provennero. «Fu tenuto allora da molti buoni e savi cittadini che questo fosse de’ rei partiti che il Comune pigliasse a’ nostri giorni; e la esperienza ne fece la prova, perchè benchè i Fiorentini avessino voluto correggere e fare discredenti i prelati superbi, malvagi e ingrati, che allora reggevano e governavano la Chiesa di Dio, non dovevano però in tutto mortificare e disfare lo Stato della Chiesa, con la quale i Fiorentini sono stati d’un animo e collegati contro a’ Visconti di Milano, e con questa collegazione gli avevano sempre tenuti a freno: e però seguì che, disfatto lo stato della Chiesa in Italia, il Conte di Virtù, poi duca di Milano, ne crebbe tanto suo stato, che diè molte brighe e turbazioni e guerre a’ Fiorentini, mancando loro il favore ecclesiastico; e oltre a ciò spese la nostra città in detta guerra tre milioni di fiorini, di che seguì che i nostri mercatanti perderono molti avviamenti e traffichi per lo mondo; e forse per questo seguirono poi le discordie cittadinesche, per le quali il reggimento venne in mano de’ Ciompi e popolo minuto.[306]» Ma vero è poi, che ai Fiorentini quella guerra non parve che fosse da guerreggiare con le armi, nè di una lega tanto insolita altro cercavano che il nome. Giudicarono, siccome avvenne, che la riputazione della possanza di Bernabò avrebbe condotto più agevolmente all’effetto che essi cercavano, quello cioè di rubellare al Papa lo stato, malfermo tuttora per le inclinazioni avverse dei popoli ed il mal governo dei Legati e le mene di coloro che prima solevano avere alle mani loro il governo delle città. Cotesta era guerra meno prode che efficace, e fu dagli Otto proseguita con sagace e appassionata operosità, essi praticando nel segreto co’ partigiani e con gli amici che avevano sparsi per le terre della Chiesa, o man mano guadagnavano; in sè concordi, e senza intralcio d’altrui sindacati, portati a cielo da grande aura di favore popolare, encomiati delle opere loro perchè la città non si credette in altro tempo mai essere stata sì bene servita: gli chiamarono gli Otto Santi. Molto facevano col danaro, ma chi delle terre della Chiesa volendosi rubellare cercava aiuto d’armati, lo aveva. Mandarono attorno per le città una nuova bandiera che avevano fatta fare tutta rossa, con dentro scrittovi Libertà in bianche lettere a traverso: se alcuna terra si volesse dare ai Fiorentini, non l’accettavano. Così molte furono in pochi dì liberate: «poi, alcuno tirannello si levava e rientravavi dentro; pure alla Chiesa era tolta;[307]» e ciò bastava. Città di Castello fu la prima che, levando rumore e soccorsa dai Fiorentini, si ribellasse: seguitarono Perugia, Orvieto, Montefiascone, Viterbo; in questa rientrando quel Francesco Prefetto da Vico, che infino allora i Fiorentini aveano chiamato malvagio tiranno: poi Todi, Gubbio, Civitavecchia, Spoleto; ed in Romagna Forlì dove tornarono gli Ordelaffi, come in Imola gli Alidosi, e i Polentani in Ravenna; poi Fermo ed Ascoli e Macerata nella Marca; poi trenta altre città minori o terre o castelli: la prima cosa era atterrare le fortezze che i Legati dentro vi avevano fabbricato. «Pareva che intervenisse delle terre della Chiesa come d’un muro fatto a secco, che trattone alcune pietre, rovina quasi tutto il resto.[308]» Allora il Papa assoldò in Provenza alcune migliaia di Brettoni, uomini in guerra valorosi, in pace crudeli, per fargli scendere in Italia. Citò a comparire i Signori ed i Collegi, e nominatamente gli Otto della guerra, sotto minaccia delle più gravi censure e pene che allora fossero in casi simili proferite, se rimanessero contumaci. Ma insieme volendo alla conciliazione aprire una via, mandò in Firenze ambasciatori, un Siniscalco di Provenza e un Legista, offrendo lasciare in libertà Perugia e Città di Castello e fare altre cose che a’ Fiorentini piacessero, purchè non andassero più innanzi con la guerra. Per questo si tennero molte pratiche e consigli di richiesti; ed era la pace già deliberata, quando gli Otto, che non la volevano, avendo afferrata un’occasione che in Bologna si era offerta, strinsero i trattati che avevano dentro e vi mandarono gente, sì che la città levata in armi cacciò il Legato: erano ancora gli ambasciatori in Firenze quando giunse la novella, e si fece grande festa decretando fosse quel giorno solenne allora e in perpetuo: tanto più sfoggiavano in cosiffatte dimostrazioni, quanti più erano i contrari. Dei quali fatti in Avignone giunse l’avviso quando erano ivi di già arrivati messer Donato Barbadori, Domenico di Silvestro e Alessandro dell’Antella, oratori del Comune ed avvocati presso al Pontefice. Recitarono, com’era usanza, grave orazione, magnificando l’antico ossequio dei Fiorentini verso la Chiesa e le recenti offese che spinsero la Repubblica a provvedersi contro le ambizioni e il nemico animo dei Legati; per essi venuta in pericolo la libertà, e Firenze suo malgrado cercare a sè ogni via di scampo. Rispose il Papa, avviserebbe: pochi dì poi chiamati a sè con solenni cerimonie gli ambasciatori, fece ad essi leggere il decreto pel quale veniva Firenze interdetta, ed oltre alle pene spirituali volendo ancora contr’essa procedere a gastighi corporali, ordina il Breve che sieno i Fiorentini cacciati da ogni parte del mondo cristiano, ed i beni loro confiscati; e se al divieto non obbedissero, sieno ridotti in servitù, «a fine che il pianto loro sia ai posteri di terrore:[309]» parole gravi come i fatti, ed io vorrei che gli scrittori della Curia si astenessero da tali enfasi di linguaggio. Narrano che il Barbadori uscendo di sala, volto a un Crocifisso che ivi era, a lui appellasse di quella sentenza come a giudice supremo.[310] E trovo scritto che d’Avignone sola fossero cacciati oltre a seicento Fiorentini dimoranti in quella città pei grandi traffici di Provenza, e come banchieri principali o cambiatori nella Corte pontificia. La sentenza ebbe esecuzione in Inghilterra ed in altre parti, sebbene andassero ambasciatori ai re d’Inghilterra e di Francia e di Ungheria per la tutela delle persone e degli averi che i Fiorentini tenevano sparsi in tanti luoghi della cristianità. Da Pisa non furono accomiatati i mercanti che ivi dimoravano, e la città fu interdetta; ma il Gambacorti, che la reggeva, cercando schermirsi col Papa insieme e co’ Fiorentini, inverso a questi batteva freddo; nè le altre città di Toscana si dimostrarono molto vive in quella contesa, nè Lucca nè Siena trovo che fossero interdette.[311] A vie più accendere le passioni bentosto si aggiunsero due fatti crudeli, e inique stragi ed abominazioni commesse da quelle straniere milizie che dal Pontefice assoldate, doveano stare a difesa sua nel suo discendere in Italia. Santa Caterina da Siena e Francesco Petrarca gli avean prima dato miglior consiglio; venisse senz’armi, con la sola croce sarebbe più forte.[312] Per la ribellione di Bologna essendo l’Aguto rimasto fuori della città, fece pensiero di occupare con le sue genti Faenza che si teneva per la Chiesa; le quali entratevi, la città tutta fu messa a sacco, forzate le donne fin dei monasteri e tenute pe’ soldati, le vecchie cacciate fuori di città, costretti gli uomini a ricomperarsi o ad andare tapinando: poi quando l’Aguto credette essersi ben rifatto, vendè la città vuota com’era al marchese di Ferrara; poi vi rientravano i Manfredi, ch’erano soliti dominarla. Nè il cardinale Roberto di Ginevra, venuto al governo della legazione di Bologna, mostrò risentirsi di quel fatto scellerato, e tosto poi adoperò l’Aguto contro a Cesena, che desse mano ad altra opera anche più crudele. Erano in questa città i Brettoni, selvaggi uomini corrivi ad ogni eccesso; talchè alla fine, moltiplicando le offese e vinta essendo la pazienza de’ cittadini, levati su, diedero addosso ai Brettoni sparpagliati, e molti ne uccisero, che fu detto essere qualche centinaio. Era il Legato presso la città in luogo forte, alla Murata, ed era con lui Galeotto Malatesta; ai quali andati i cittadini, ebbero promessa non ne sarebbe altro, e tornassero ai fatti loro. Ma tosto dipoi sopravvenendo le genti dell’Aguto, e ravviatisi i Brettoni, insieme entrarono in Cesena; e qui uccidere a man salva uomini e donne e i bambini nelle culle: erano tutte le vie e le piazze piene di corpi morti nel fango, le chiese di sangue, e su per gli altari uccisero parecchi: tremila o più furono i morti: scampò chi riuscì a fuggirsi della terra, perocchè gli Inglesi più attendevano alla preda, ed i Brettoni alla vendetta.[313] Destava quel fatto pietà commista a odii atroci, e per le città della Toscana si fecero esequie a’ morti in Cesena.[314] Il Papa tacque; ma s’egli dannava con pubblico breve il Cardinal di Ginevra, costui non sarebbe più tardi riuscito a portare scisma dentro alla Chiesa di Dio col farsi eleggere falso papa. La Toscana restò immune da cosiffatte calamità, del che gli Otto s’acquistarono maravigliosa benemerenza con l’accortezza dei provvedimenti. Radunarono quanta più gente dovunque potessero, e l’avviarono a Bologna o su per le Alpi a guardare i passi, avendo anche molto estese le giurisdizioni loro per la Romagna col soggettarsi i signori dei castelli, e le terre fatte libere pigliarsi com’eran soliti in accomandigia. Teneano frattanto a bada il Legato facendo nascere in Bologna un finto trattato di fargli riavere quella città; ivi il governo del Legato aveva per sè la minuta plebe: i Fiorentini si tenevano in devozione i rettori con le grandi provvigioni. Facevano buona guardia, avendovi anche di continuo due commissari, uno dei quali fu il cronista Marchionne Stefani.[315] Comandava allora le genti di tutta la Lega Ridolfo da Varano dei signori di Camerino, reputato capitano, che i Fiorentini, poichè la guerra più era ingrossata, condotto avevano a’ loro stipendi. Si teneva egli chiuso in Bologna, ed alle provocazioni dei nemici rispondeva, non uscire egli perchè non vi entrassero. Giovanni Aguto conduceva guerra lenta, male soddisfatto dello stare ai servigi della Chiesa che non aveva di che pagarlo, poich’ebbe perduta tanta parte dello Stato; ond’egli, scaduto che fu il tempo della condotta, s’acconciò co’ Fiorentini. Il che parve gran ventura, perchè se si fossero insieme congiunte due tanto grosse compagnie, com’era la sua e quella dei Brettoni, sarebbe stato disfacimento d’Italia. Questi avevano in Francia promesso pigliare Firenze, dicendo che se v’entrava il sole, essi v’entrerebbero. Ma non avevano tale condottiero qual era l’Aguto; e due loro capitani già erano stati dagli Otto guadagnati: sicchè tutto quell’apparato grande di guerra andò a scaricarsi in ruberie e in crudeltà sulle infelici terre di Romagna, senza alcun danno ma solamente con grande spesa dei Fiorentini. Aveano i Tarlati allora tentato rientrare in Arezzo con intelligenza di loro amici ghibellini e con la forza dei soldati della Chiesa, tanto ogni cosa era capovolta: ma gli Otto mandarono gente a riparo, e non ne fu altro, a pochi essendo tagliato il capo. Più tardi il vescovo Albergotti avea ritentato dare alla Chiesa quella città; ma fu invano, e dovè fuggirsi.[316] Guerreggiava nella Marca il capitano dei Fiorentini, il quale avendo tolta per sè Fabriano ed essi vietando la ritenesse, egli si voltò alla parte della Chiesa; del che in Firenze fu un gran dire, e la sua imagine fu dipinta per la città in più luoghi col capo all’ingiù, impiccato come traditore: faceva Ridolfo negli Stati suoi dipingere gli Otto della guerra, effigiati con iscrizione di sordido vitupero.[317] Ebbe il comando in vece sua un conte Luzzo o Lucio tedesco della casa di quel conte di Lando verso cui meglio adoperarono i villani delle Alpi quando egli tentava i confini di Toscana: ma il conte Luzzo guadagnava sopra a Ridolfo insigne vittoria; ed i Fiorentini se ne contentarono, molto onorando il conte Luzzo; e lieti che l’altro nuovo loro capitano Giovanni Aguto avesse in Maremma fugate le genti del Papa, e corso con le armi le terre fin sotto Perugia, facendo quivi assai gravi danni. Bolsena, con grave suo danno e ruina, si era data con l’aiuto dei Fiorentini al Prefetto da Vico; il che avvenne sotto agli occhi stessi del Pontefice. Imperocchè Gregorio, avendo cessato allora per sempre il soggiorno d’Avignone, s’era in Italia ricondotto. La navigazione sua fu piena di casi per le traversie del mare; talchè essendosi egli mosso a’ 13 di settembre, non giunse a Corneto prima de’ 4 dicembre, avendo anche fatto in Genova qualche indugio; tuttora incerto com’egli era del tornare, attraversato dai cardinali e dai francesi della Corte, cui troppo piaceva quello starsene appartati in quieta dimora, nè come a Roma posti in alto con gli occhi addosso della cristianità. Quivi alla fine si ricondusse Gregorio XI il giorno diciassettesimo dell’anno 1377. Pigliava dipoi stanza in Anagni, dove lo raggiunsero gli ambasciatori de’ Fiorentini per la pace, richiesti da lui non prima fu egli disceso a Corneto. La Repubblica frattanto, usando la penna di Coluccio Salutati, esortava con la facondia di molto aspre e concitate parole i Banderesi di Roma, non facessero abbandono della libertà, che è cara cosa più d’ogni altra; non si lasciassero trarre all’esca delle curiali magnificenze, a prostrare quella dignità che invano dipoi si crederebbero racquistare al sangue romano. Questo scriveva Coluccio a’ 25 dicembre; ed ai 26 rendendo grazie alla regina Giovanna che si era interposta premurosamente per la pace, protestava esserne la Repubblica desiderosa. Le condizioni dal Papa offerte sin dal principio furono tali, ch’era impossibile accettarle; imponeva l’abbandono de’ collegati, ed una multa che oltrepassava un milione di fiorini: ne aveano offerti gli ambasciatori fino a settecento mila. Ma io non so quale delle due parti fosse meno inclinevole alla pace, entrambi cercando versare sull’altro l’odiosità del rifiuto. Da una lettera di Coluccio (26 ottobre 1377) si vede che il Papa imponeva anche l’andata in Corte, a chiedere perdonanza, di cento uomini fiorentini scelti da lui, e cento delle altre città di Toscana. Laonde Coluccio nelle sue lettere protestava più che mai essere necessario continuare la guerra, a ciò animando i collegati, e al Cardinale di Firenze e a quel di Cosenza molto vivamente denunziando l’avverso animo del Pontefice.[318] A questo modo si protraeva quell’infruttuoso negoziare da oltre sei mesi, quando Bologna fece pace con la Chiesa mantenendo le sue libertà, ma disciogliendosi dalla Lega. Dal che Gregorio pigliato animo, e sapendo essere in Firenze contrari molti a quella guerra, mandava due frati nel predicare valenti, i quali cercassero innanzi al popolo radunato mostrare il buon animo del Papa inverso della città, e persuadere la pace. Parlarono questi, ma nel Palagio e ad una congrega molto numerosa di richiesti dagli Otto medesimi, dei quali la causa doveva essere giudicata: ciò almeno apparisce dal paragone degli scrittori, i quali poi narrano che gli oratori fossero rinviati, con la protesta di mantenere più salda che mai la difesa della libertà dagli Otto propugnata con tanto merito nell’universale.[319] Pare altresì che fosse allora nelle città di Toscana maggiore prontezza che per lo innanzi, o almeno gli Otto vollero fare di tale consenso grande e solenne dimostrazione. Radunati in Firenze gli ambasciatori delle altre città, e in Palagio convitati con molto studio di magnificenza, convennero tutti fare buona guerra, e che ad ogni deliberazione degli Otto dovessero stare le altre città, come se fatte venissero dai propri loro magistrati. Grande era l’animosità dalle due parti; il che veggiamo da un’altra lettera di Coluccio ai Banderesi, dove gli esorta a resistere con ogni sforzo al Pontefice, come avean fatto gli antichi loro progenitori a Brenno e a Pirro e ad Annibale, offrendo in nome della Repubblica e di Bernabò tre mila lance a soccorso loro. Ma peggio fu quando tornati essendo gli ambasciatori ai 4 d’ottobre, ed in solenne radunata esposto quello che aveano fin qui operato, deliberarono i Consigli che si facesse guerra a oltranza; e ad un ambasciatore di Bernabò, che era rimasto in Anagni e offriva trattare nel nome dei Fiorentini, risposero molto risolutamente se ne stesse, e che pace non farebbero, e che ritiravano le condizioni da prima offerte.[320] Gli Otto, che prima venivano confermati di sei in sei mesi, ebbero rafferma d’un altro anno dopo la scadenza; che era mostrare grande proposito e fermo animo alla guerra. Allora trovati dottori canonici, i quali dannassero di nullità l’Interdetto, ordinarono che agli 8 d’ottobre, festa di santa Reparata, si riaprissero tutte le chiese in città e nel contado e nel dominio, celebrandosi i divini uffici come in passato pubblicamente: richiamarono i prelati e i preti semplici che si erano assentati dalle chiese, minacciandoli di gravi multe se non tornassero; gli ecclesiastici che per avere ubbidito si trovassero involti in processo o avessero gastigo dal Papa, fossero difesi a spese del Comune e compensati dei danni sofferti: quanto venissero osservate coteste leggi, noi non sappiamo. A molti pareva non essere giusta la scomunica a quel modo data e per motivi di quella fatta; nè in Firenze mancava forse chi si accostasse alle sètte dei Fraticelli o di altrettali novatori, che in Italia serpeggiarono tutto quel secolo. Delle moltitudini era devoto e sincero l’animo, e l’affetto religioso aveasi aperto sue proprie vie fin dal principio dell’Interdetto. «Parve (scrive il cronista) che una compunzione venisse a tutti i cittadini, e per molte chiese cantavansi laude ogni sera, ed uomini e femmine infiniti vi andavano, e grandi spese vi si facevano: ed ancora s’andava ogni dì a processione colle reliquie, e canti musicali, con tutto il popolo dietro. Ancora si mossero molti giovani nobili e ricchi e si convertieno, e feciono loro conventicole a Fiesole, e facevano limosine, e quivi in digiuni e in orazioni dormivano in sulla paglia e in terra, e convertivano peccatrici, e vestivanle, e monisteri muravano: ed era questa cosa sì dilatata, che ben parea che volessero vincere e aumiliare il Papa, e che voleano essere obbedienti alla Chiesa.[321]» Ma gli Otto pigliarono in sospetto le radunate delle compagnie dei disciplinati che si facevano nelle chiese dei frati, e a questi vietarono sotto gravi pene fare dette radunate[322] dov’erano certo molti di coloro ai quali spiaceva la guerra ed il vivere in contumacia di Santa Chiesa, «e gli obbrobrii e i vituperi e le ingiurie che tutto dì si facevano nelle persone degli ecclesiastici.[323]» Era in Firenze a quei giorni Caterina Benincasa da Siena, che noi veneriamo come santa, mirabile donna nella vita e negli scritti; oratrice inviata privatamente in Avignone dai Fiorentini a Gregorio, e presso lui grande promotrice del ricondurre la Sede in Roma e mantenervela: con la parola e con le lettere fermava l’incerto animo di lui, mostrando il male colà dov’era, senza mai palliarlo per via di timide concessioni, e innanzi tutto ponendo la riforma dei pastori con pio coraggio e con umile severità; avvalorando le riprensioni col sempre tenersi dentro ai termini della riverenza, e temperandole con l’affetto. Scriveva agli Otto e alla Signoria, non s’indurissero nell’orgoglio e nella caparbietà, non mentissero alla coscienza, al Papa andassero coll’ossequio dai figli dovuto al Padre comune; le offese recate a lui e alla Chiesa riuscire in danni alla Repubblica; non guastassero quei buoni semi che già parevale di aver posto nel mite animo di Gregorio.[324] Scriveva al Papa gridando pace: racquisterebbe con la benignità le anime, che sono il tesoro della Chiesa. «Con queste guerre non veggo che possiate avere un’ora di bene; distruggesi quello dei poverelli ne’ soldati, ed impedisce il santo vostro desiderio, il quale avete della riformazione della Sposa vostra, riformarla dico di buoni pastori. — Voi potreste dire, Santo Padre: per coscenzia io son tenuto di conservare e racquistare quello della Santa Chiesa: ohimè, confesso bene che egli è la verità; ma parmi che quella cosa che è più cara, si debba meglio guardare. — Poniamo che siate tenuto di conquistare e conservare il tesoro e la signoria delle città, la quale la Chiesa ha perduto; molto maggiormente siete tenuto di racquistare tante pecorelle, che sono uno tesoro nella Chiesa, e troppo ne impoverisce quando ella le perde. — Procurate che nelle vostre mani, quello che Dio permette per forza, si faccia con amore. — La Chiesa perde e ha perduto li beni temporali per la guerra e per lo mancamento delle virtù; che colà dove non è virtù, è sempre guerra col suo Creatore, sicchè la guerra n’è cagione: ora dico, che a volere racquistare quello ch’è perduto, non c’è altro rimedio se non col contrario di quello con che è perduto; cioè racquistare con pace e con virtù, come detto è.[325]» Dimorò in Firenze santa Caterina quei mesi che furono alla Repubblica i più torbidi, tenendosi ella più accosta alla setta dei Capitani di parte guelfa: ai santi aggradano le città ordinate sotto un principio di autorità, e qui aveva essa dei discepoli e degli amici molto ferventi; e di là erano gli scomunicati. Trovo scritto che a suggerimento di Niccolò Soderini, il quale insieme a Piero Canigiani e a Stoldo Altoviti era dei suoi più devoti, esortasse ella i Capitani a battere con le ammonizioni la parte degli Otto, riprovando però l’abuso che essi ne fecero e i fini privati che a ciò gli movevano.[326] Per le quali cose Marchionne Stefani mostra dubbio animo verso Caterina, e morde i seguaci ch’ella ebbe in Firenze:[327] e quindi gli odii della parte che aveva sua forza nelle Arti minori si dichiararono contro lei, tantochè essendo ella rimasta nella città già insanguinata di guerra civile, venne pur essa cercata a morte. Ma con la Santa si dee credere s’intendessero molto bene quegli uomini di mezzo, i quali sono per conto loro di pacata indole e sensata; e in ogni popolo questi sono il maggior numero, benchè abbiano la minor voce; ma si riscuotono, e alle cose danno sesto, quando esse volgono a ragione. Chi oggi potesse guardare addentro in questo popolo come egli era, io credo verrebbe ad aggiungere qualcosa forse non disutile all’istoria dell’umanità. Gli umori bollivano, e tutti i germi si maturavano a indi produrre quell’intestino commovimento che venne a scuotere la Repubblica. Avevano le ultime temerità degli Otto necessitato il cacciarsi innanzi essi più sempre nella via loro, posti com’erano in aperta guerra col maggior numero dei cherici, e il Papa essendo tornato a Roma, e le città di Toscana divenute ora più vacillanti ed inchinevoli alla pace. Il Papa era stato ricevuto a grande onore dai Pisani nel suo passaggio, e s’adoperava Piero Gambacorti per la conclusione d’un accordo, venuto egli di persona a questo effetto in Firenze. Intanto si era la compagnia degli Otto venuta allora a scompaginare per la morte di Giovanni Magalotti che tra essi aveva le prime parti, onorato cittadino e assai lodato dagli scrittori: fu egli sepolto, nonostante l’Interdetto, in Santa Croce; dove si vede tuttora la lapide di lui, col motto _Libertas_ aggiunto allo stemma di famiglia per concessione della Repubblica.[328] Pigliava il suo luogo Simone Peruzzi, creato mentre era in Anagni ambasciatore: l’esserci entrato cotesto uomo parve agli Otto grave offesa, ed ai contrari gran vittoria. Di già erano le ammonizioni moltiplicate; la Parte guelfa, che stava incontro a quella degli Otto, già cominciando a prevalere: fu grande passo e molto ardito avere ammonito Giovanni Dini, speziale grosso, uno degli Otto; il che annullava tutto il prestigio di cui godevano: al quale atto si credè avere dato mano lo stesso Peruzzi. Così avveniva che alla città stessero in capo due magistrati che la tiravano in contrario senso, avendo entrambi fonde radici, nè solamente nelle passioni degli ambiziosi o dei violenti, ma bene ancora nella natura stessa delle cose, come erano queste per gradi diversi sentite dagli uomini più onesti ancora e temperati. Gli Otto venivano regalati dal Comune a segno di onore (com’era l’usanza) di targhe e pennoni e vasellami d’argento; mentrechè la Parte guelfa onorava nel modo stesso e regalava i Capitani che più andavano franchi e si mostravano più acerbi intorno al fatto dell’ammonire. «Già da più tempo era cominciata addosso agli Otto grande invidia, ed i contrari facevano setta, intendendosi con certi grandi e facendosi forti al palagio della Parte guelfa: nondimeno era tanta la grazia dei detti Otto in tutto il popolo, che poche fave bianche ebbe ne’ Consigli la petizione della loro rafferma, avendola essi stessi anche onestamente contradetta.[329]» Ora quei mesi ultimi dell’anno 1377 viddero a un tempo dagli Otto essere valicato ogni confine agli ardimenti loro; e i Capitani di parte guelfa, moltiplicando le ammonizioni, tirare in senso tutto contrario la Repubblica, la quale dovette bentosto esserne lacerata.[330] Ma ecco ad un tratto le cose volgere alla pace. Gregorio aveva a praticarla mandato in Firenze il Vescovo d’Urbino; e tanto allora prevalevano i nuovi consigli, che la Repubblica lo pregava andasse a Milano, seco inviando ambasciatori perchè insieme operassero che Bernabò volesse farsene mediatore. E questi, parendogli essere occasione buona ad umiliare i Fiorentini, ed amicandosi il Pontefice farsi arbitro in quel dissidio che a tutti i Principi dispiaceva, si recò della persona sua indi a Sarzana; dove convennero gli ambasciatori del Papa e dei Fiorentini, avendone anche mandati il re Carlo di Francia e la regina Giovanna di Napoli a procurare l’accordo. Il quale non era modo a conchiudere, se non che a condizioni dure assai pe’ Fiorentini: restituissero alla Chiesa le giurisdizioni da essi tolte e l’equivalente dei beni venduti; pagassero, in quattro o cinque anni, ottocento mila fiorini d’oro. Già consentivano queste od altre poco dissimili condizioni, tanto essendo il desiderio della pace nella città, che un avviso falso la mise in festa ed in luminarie, talchè ai magistrati convenne frenare quelle allegrezze. Ma giunse invece annunzio certo della morte di Gregorio; per la quale fu il congresso a un tratto disciolto, i Cardinali essendo corsi in Roma al conclave che fu tanto fortunoso, ed origine alla cristianità di lunghi mali. Il nuovo papa Urbano VI, travagliato dallo scisma, non ebbe modo a far valere le condizioni prima imposte; ed ai Fiorentini parve uscire con loro vantaggio dal duro passo cui vedevano condotta essere la Repubblica. Tosto mandarono ad Urbano ambasciatori, prima essendosi assoggettati alla osservanza dell’Interdetto; il quale fu tolto via solamente dopo alcuni mesi, a condizioni poco gravose ai Fiorentini.[331] Questi avevano anche ottenuto l’intento loro; e lo stato della Chiesa, che la guerra aveva disciolto, rimase debole per lo scisma, d’onde i politici avvisavano essersi aperte più larghe vie allo ingrandirsi della Repubblica.[332] CAPITOLO IX. LINGUA, LETTERE ED ARTI IN FIRENZE. PETRARCA, BOCCACCIO. [AN. 1322-1378.] Con la morte dell’Alighieri finivano (a così dire) i tempi eroici dell’istoria di Firenze, e insieme finiva il tempo eroico delle lettere. Tale possiamo noi appellare quello in cui fu concetto il sacro Poema, allora che il popolo ebbe cominciato la sua istoria; e l’alto pensiero forse rimaneva librato in aria fuori del moto vario incessante degli affetti, se l’Alighieri tenuto avesse lo stato in Firenze insieme ai nobili del suo grado. Le lettere attinsero qui forza ed ampiezza dalla vita popolare della quale erano espressione; e diedero esse valore a fatti per sè angusti, ma noti al mondo e celebrati più dell’istoria di grandi regni. Nè ciò avvenne perchè in Firenze a caso nascessero scrittori versati nei retorici artifizi, leggiadri cultori delle grazie della lingua: la lingua fu il primo fatto donde scaturiva poi tutta l’istoria di questa provincia, e da quella ebbero i grandi ingegni potenza bastante a farsi autori di grandi opere. Varcato il mille dell’era nostra e le paure secolari che precedettero a quell’anno, fermati i barbari in Europa e ciascuna gente dentro a’ suoi confini, le nazioni cominciarono allora a sorgere, ed ognuna fece benchè lentamente a sè la sua lingua. L’Italia faceva la propria sua lingua anch’essa in quel secolo, che pure fu quello del nazionale risorgimento: Milano ebbe allora i suoi giorni più gloriosi, Venezia accrebbe il suo dominio, ed essa e Pisa e Genova riaprirono al nome latino la via dell’Asia; Roma fu italiana quando il Papato si emancipava dalla imperiale soggezione; Napoli e Sicilia, esclusi i Greci e cacciati gli Arabi, si ergevano, e quasi che senza nordica invasione, a regni fiorenti. La lingua in Toscana, incerta per anche nei primi due secoli dopo al mille, apparve ad un tratto nella seconda metà del terzo non più fanciulla ma come fatta donna di sè medesima, e imperante con la precoce bellezza sua agli altri dialetti, tra’ quali andava divisa quella che pure in Italia già era lingua della nazione. Variavano questi dialetti non tanto per le varie sorti condotte in Italia dalle signorie straniere, ma più assai per le origini diverse dei popoli che v’erano stati prima che il latino dominasse: dovette il toscano avere fra tutti le migliori condizioni. Gli antichi abitatori della Italia media fondarono Roma, o là entro mescolandosi la formarono; affini di sangue e di favelle cotesti popoli, come aveano allora composto la lingua latina, così dovettero nella italiana poi recare ingredienti meglio omogenei tra sè stessi, e accenti e pronunzie meno dissonanti dalle latine di quel che fosse dove ebbero stanza i Celti o gli Iberi, e dove la lingua dei Romani dominatori trovando plebi parlanti sempre gli antichi idiomi, soffriva maggiore alterazione. In tutti i luoghi tenuti dai Galli mi credo io che la parola latina uscisse rattratta e scorciata da vocali mute e suoni nasali, anzichè intera e dispiegata; questo medesimo noi troviamo avvenire oggi dell’italiana. I Greci di Puglia e di Sicilia, sebbene per linguaggio più accosti ai Romani, pure appartenevano ad una famiglia che per la struttura del pensiero stava da sè; gli Arabi lasciarono almen qualche traccia nella pronunzia dei Siciliani. Se dunque puro tra tutti gli altri dovette riuscire il parlare dei Toscani quanto all’esteriore sua forma; il pensiero mi pare dovesse per le cagioni medesime avere qual cosa di meglio nutrito, sì per la potenza delle tradizioni e sì per averle serbate più vive nel fondo istesso di questo popolo. Gli Etruschi avevano dato a Roma per la maggior parte i riti e i simboli, quelle cose insomma che risguardando a religione, in sè comprendono le maggiori profondità dell’affetto e le altezze del pensiero; niuno gli agguagliava de’ popoli italici in quello che spetta alla filosofia ed alle arti. Reggeasi l’Etruria per federazione libera, che è forma difficile a conservare, nè si conviene ad altri che a popolo maturo ed esperto e molto innanzi in civiltà: la quale forma potè durare dopo anche perduta la politica indipendenza; e le arti fiorirono, allora forse venute essendo al loro massimo incremento: sotto alla dominazione dei Romani Arezzo crebbe, Volterra si mantenne, Firenze nacque, Pistoia emerse dalle acque solite a cuoprire nei secoli antichi le valli Toscane. Poco in Etruria si combatterono le guerre civili e poco altresì quelle dei barbari che più tardi invasero l’Italia: io non so come quel Radagasio, duce poco noto di genti avanzate da eserciti maggiori, venisse a morire nei monti di Fiesole. Non mai la Toscana prestò buon cammino ai grossi eserciti, nè campo adatto a imprese grandi; il suolo magro e impaludato, e posto fuori delle vie battute, fece ai condottieri germanici questa piacere meno di tutte le altre provincie d’Italia; talchè le feudali signorie non vi ebbero mai grande incremento, e la mistura di sangue barbarico dovette qui essere più scarsa che altrove. Il popolo dunque rimase latino più che altro in Italia; e così le lettere pigliarono quivi la forma latina, che è quanto dire latino-greca pel grande impero esercitato dall’arte dei Greci sul pensare degli uomini colti e sullo scrivere dei Romani. Il greco intelletto, fra tutti limpidissimo, congiugnendo in semplici forme il bello ed il vero, metteva sopra una via piana ed ampia la filosofia, le lettere e le arti: serbando fede a quei primi veri che hanno consenso in tutti gli uomini, e frenando le troppo fantastiche divagazioni degli intelletti, quell’arte educava il senso pratico dei Romani; i quali divennero maestri di scienza civile e politica, perchè all’immediata intelligenza dei fatti congiunsero una più vera nozione di ciò che spetti alla interiore natura degli uomini, e meno alterata la tradizione di quelle leggi per cui si regola l’universo. Notammo altrove come la scienza dei Greci e le istituzioni dei Romani tanto più valessero quanto più essendosi lontanate dalle orientali degenerazioni dei veri divini, seguivano meglio il natural lume, ossia quella filosofia perenne la quale sta fuori di tutti i sistemi; dal che avvenne che l’insegnamento cristiano trovasse le menti degli uomini meglio a riceverlo preparate. Poco fece la Toscana parlare di sè innanzi al mille: poi la dominazione potente e simpatica della contessa Matilde chiamava l’antica gente a contrapporsi alla Germanica prevalenza; talchè si può dire questo popolo essere stato fin d’allora guelfo, in quanto ch’egli era difensore degli uomini e delle forme e tradizioni nazionali contro ai nuovi ordini che seco i barbari conducevano. Così la Toscana fu meno feudale e più cittadina: seguiva le parti del romano seggio; cresceva in quelli anni di monasteri e d’abbazie, fondate sovente negli ermi gioghi dell’Appennino, dove riuscivano più benefiche; ma qui non fu grande possanza di abbati che s’agguagliassero ai baroni. Ed in Firenze il vescovado, smembrato forse da quello di Fiesole, non ha istoria nei più antichi tempi: in questa Repubblica troviamo il ceto degli ecclesiastici mantenersi in buona grazia dell’universale, perchè non faceva parte da sè, ma quali che fossero i commovimenti dello Stato, volle e seppe essere cittadino. Tutte queste erano condizioni per cui nel popolo di Toscana la lingua e le lettere pigliassero vita più italiana ed al tempo stesso più religiosa e popolare. Nelle altre genti la poesia, o nacque senza religione, come nel cantare feroce e barbaro dei Niebelungi; o peggio aveva suo principio dalla satira, il che vuol dire dalla negazione; poesia disciolta da ogni freno di costume e spesso incredula fino all’empietà. Ma qui tra noi la poesia nasceva cristiana: l’ode al Sole di San Francesco fu la prima voce modulata che mettesse la lingua nostra, e fu preludio al Divin Poema. Bene ebbe fede nell’idioma volgare colui che osava da una piccola città dell’Umbria chiamare per tutto il mondo gli uomini del volgo a stringersi in grande comunità religiosa: erano i primi anni del forte secolo tredicesimo, che vidde sul fine le città ordinarsi in questa parte d’Italia sotto al governo degli Artefici, e i servi alla gleba divenire contadini, e i _poveri_ e i _deboli_ difesi da una legge più civile usare parola libera e sicura; in tutti gli ordini diffusa la vita, gli affetti possenti, e volti gli animi alle grandi cose. Francesco di Assisi, Tommaso d’Aquino, Bonaventura di Bagnorea e Dante uscirono dall’Italia media; nè altri ebbe azione maggiore di questi sul pensiero e sulla vita durante quel secolo: nel corso del quale il popolo si innalzava, la scienza cristiana compieva l’ordinamento suo, venivano a luce, cristiane di spirito latine di forma, le umane lettere e la poesia. In quella gran lotta che fu tra ’l Papato e Casa Sveva alte passioni teneano eccitate le menti degli uomini; finì la contesa, e indi a pochi anni il nuovo secolo trovò alquanto più circoscritte le ingerenze nel mondo civile di quelle due potestà supreme che, l’una all’altra necessarie, tra sè disputavano l’impero sul mondo. Ma già le nazioni si erano formate, e i popoli ambivano il governo di sè stessi, e i laici entrarono alla partecipazione della scienza. Muovevano allora le contese giù dal basso, dal fondo istesso delle nazioni: ma nei Comuni che si emancipavano, le passioni municipali avevano in cima un alto principio ed un pensiero che risguardava a tutta intera l’umanità. Ciò fu nei primi anni sino alla fallita impresa d’Arrigo VII in Italia; ed in quelli anni l’istoria di Firenze fu grande perchè, capo ed anima delle città guelfe, mostrò essa prima in quel precoce ma tanto più splendido e ammirabile svolgimento suo, mostrò all’Europa quello che fosse il nuovo popolo e quel che valesse. Certo è che i popoli dell’Italia, levatisi innanzi a che si facesse la nazione, furono strumenti a più discioglierla; e di tale colpa si rendeva quello di Firenze più reo d’ogni altro verso i secoli avvenire: ma chi oggi oserebbe a questa e alle altre città italiane fare peccato di quella ampiezza di vita civile, e delle potenti fecondità del pensiero donde ebbe il mondo tanto gran luce? Nasceva una lingua che in sè accoglieva tutto il buon senso greco-latino sorretto e innalzato dal buon senso dei cristiani; sorgevano le arti, manifestazione comprensiva del vero semplice e del bello insieme congiunti, linguaggio sommario e viva espressione del retto sentire di quel popolo, di mezzo al quale usciva il Poeta che cielo e terra scorreva mirando a un solo fine, la rettitudine. Chi guardi al concetto del Divin Poema dirà questo essere opera compiuta, come sarebbe un vasto cerchio che si richiuda in sè medesimo. Gli stessi caratteri ebbe la _Somma_ di san Tommaso, guida interiore dell’Alighieri: e questi due libri mai non furono agguagliati per quello che spetta ad universale comprensione: pigliava il Poeta in germe le idee che il gran Dottore conduceva per tutta l’ampiezza dei filosofici svolgimenti. La vita dell’animo e l’altezza del pensiero Dante ebbe dal secolo nel quale era nato; e il nuovo secolo di già sorto apriva a lui, benchè sdegnoso, nuova esperienza della umanità. Nato e cresciuto in tempi ruvidi, scrittore di lingua per anche inesperta, bene eleggeva egli Virgilio a esterna guida, dietro a lui cercando la poesia nelle virtù riposte che ha in sè la parola, e quella splendente serenità dello stile in che sta il sommo della bellezza. Di pari passo con la poesia, la prosa toscana continuava il moto impresso dagli alti ingegni che la iniziarono; e grande fu il numero dei cronisti, dei traduttori dai libri classici o dalla Bibbia o dai Padri, e degli ascetici moralisti. Erano scrittori popolari, seguaci di quella stessa filosofia perenne che piacque a Leibnizio, che oggi Augusto Conti ed altri seco a noi riconducono, e dalla quale a Dante mai, per quanta in lui fosse l’alterezza dell’ingegno, non cadde in pensiero di menomamente dipartirsi: quella evidente sincerità della frase, quella parola che va direttamente a cogliere il segno, le doti insomma che invidiamo agli autori del trecento, non sono grazie della lingua esterne o casuali, ma sono espressioni di sani intelletti e di dottrine che bene rispondono al comun senso della umanità. In questa Italia, che pure dicono qualcosa recasse nella civiltà moderna, mai non si produssero o poco allignarono quelli intelletti che di sè fanno centro del mondo e di là si mettono a ricomporlo; non le arcane scienze, i paradossi, i sistemi, non il dubbio d’Abelardo, non le temerarie sottilità dello Scoto, non le dottrine dissolutrici, non le troppo rigide, non la superstizione crudele o fanatica: certe infantili credulità, meno disviano dalla dirittura gli umani intelletti, che non l’alterato o incerto giudizio circa alla sostanza delle cose. Vero è che, poco gli ingegni italiani (eccetto quelli di greca origine), ed i Toscani meno degli altri, si aguzzarono in filosofia, paghi di averne in sè medesimi l’idea sommaria e molto credenti alle universali tradizioni: il quale metodo gli condusse fino a Galileo ed alla sua scuola, che nella esperimentazione teneva pur sempre fermo il concetto degli universali, e che le scienze fisiche e le razionali faceva andare di pari passo insieme congiunte in amichevole compagnia. Ma quando i sistemi tennero il campo, e quando l’analisi volle sola dominare tutta la scienza; allora l’ingegno dei Toscani cadde da quell’antica operosità sua, quasi che avesse compiuto l’ufficio che poteva egli prestare nel mondo oramai vôlto ad altre vie. Tale era (secondo pare a noi) la forma del pensiero dei Toscani fino dai primi anni del nuovo idioma; e questo pensiero si esprimeva in un dialetto assai più degli altri accosto al latino, che è dire alla lingua solenne tuttavia della nazione; la qual vicinanza fece che da tutti gli abitatori di questa fosse più inteso naturalmente, e che da quello poi si traesse la lingua scritta via via nelle altre provincie d’Italia, secondo che queste più avanzavano in coltura. Scrivendo il toscano si avvicinavano al latino, compievano quello che in sè aveano d’imperfetto, e correggevano quel che il dialetto loro avea di straniero. I gai cortigiani della Sicilia e i dotti uomini della centrale Bologna, aveano cercato sulla imitazione provenzale foggiare la lingua nobile della poesia; ma questa pure male si annestava in quei due luoghi ai patrii dialetti, nei quali doveano, scrivendo la prosa, necessariamente ricadere: nè mai la lingua comune d’Italia, la lingua dei libri, sarebbe stata o siciliana o bolognese. Ma quando viddero che poteva una provincia d’Italia, senza distaccarsi dal proprio dialetto, levare questo in dignità di lingua bastevole ad ogni genere di scritture, conobbero il fine che altrove cercavano, in Toscana essere ottenuto; e i libri toscani, che già molti erano ed insigni in prosa ed in verso, pigliando corso, diedero nome a quella che poi fu lingua scritta della nazione. Ma questa sorta d’autorità nulla potendo sopra i parlari delle altre provincie, si manteneva insufficiente; e da principio i Toscani stessi poco s’arrischiavano a tanto presumere del loro dialetto. Dante che giovane lo aveva usato nella _Vita Nuova_ senza che paresse a lui di far male, quando più adulto si diede a scrivere il _Convivio_, fece nel principio di quel libro lunga scusa per avere commentato in lingua volgare le Canzoni che aveva composto in lingua volgare. Scriveva egli poco dopo espressamente un altro libro che ha per titolo _De Vulgari Eloquio_, e dettava questo in lingua latina: vitupera in esso i parlari tutti dell’Italia, e più degli altri quello di Firenze, cercando un volgare che sia comune alla nazione, e che distinto dai plebei dialetti di ogni provincia, possa degnamente chiamarsi illustre, curiale, cardinale, aulico, cortigiano. Ma prima occorreva, al nuovo idioma tôrre via quel nome di volgare, per farlo capace di tante insigni prerogative. E qui a me sembra aver Dante confuso talvolta la lingua e lo stile nel concetto di quel libro, al quale non diede giammai compimento, sebbene molti anni poi gli rimanessero di vita. Benchè vi si alleghino a condanna dei dialetti voci triviali e plebee, il discorso di quel libro non viene a fermare le ragioni della lingua, ma dell’eloquenza. «Compose un libretto in prosa latina, il quale egli intitolò _De Vulgari Eloquentia_,» scrive il Boccaccio nella Vita dell’Alighieri: e questi medesimo (cap. 19) dice contenervisi una dottrina dell’_Eloquenza Volgare_, siccome aveva già nel _Convivio_ annunziato essere sua intenzione. Discorre, a guardarvi propriamente, dell’alto stile, a scrivere il quale non vuole si mettano altro che gli uomini eccellenti, nè vuole che in quello si trattino altre materie all’infuori delle ottime e grandissime (Lib. II, cap. 1-2). Questo era il volgare illustre secondo che Dante lo intese; era il linguaggio conveniente ai sommi uomini per le somme cose, nè già una lingua ma una scelta o _pesatura_ (_librata regula_; Lib. I, cap. 18) delle voci o modi che sieno degni di quegli uomini e di quelle cose; era un camminare con passo dantesco per le sommità di un idioma, non già un pigliarlo sin giù dal fondo; era un ristringerlo anzichè ampliarlo. Ma il libro non tratta veramente se non della lingua la quale è propria della poesia; e negli esempi che Dante allega non si esce mai dalle canzoni, adatte sol esse ai più nobili componimenti, siccome afferma egli medesimo. In altro luogo (Lib. II, cap. 3-4), quell’alto stile chiama egli tragico, distinguendolo da quello che è proprio della commedia: questo nome diede egli allo stesso Poema suo, perchè non poteva sempre in esso discorrere di alte cose; e le usuali pure dovendo trattare, vedeasi costretto spesso allo scrivere usuale. Ma il volgare illustre a Dante pareva (e certo a buon diritto) di avere usato nelle Canzoni, pareagli lo avessero usato altri pochi, e tra essi alcuni dei Provenzali. Dal che si vede come per esso, anzichè un idioma, venga egli a porsi innanzi una forma di alto linguaggio per l’alta poesia, la quale forma sia comune alle nazioni di sangue latino, avendo però in ciascuna di esse una espressione tutta sua propria, che sia per l’Italia da Sicilia alle Alpi l’illustre linguaggio dei maggiorenti della nazione. Cotesta forma a lui pareva che fosse trovata pel nostro idioma quanto alle Canzoni, siccome l’aveano trovata pel loro in modo affine i Provenzali. Ma si tenga fermo che sempre innanzi gli sta il latino, signore legittimo dell’alto stile ed eccellente; e il vagheggiato _italiano illustre_ chiama in più luoghi _latino illustre_ (così ha il testo originale), ed in latino scriveva il trattato dell’_Eloquenza Volgare_. A questi concetti fu condotto l’Alighieri (quanto a me sembra) da più motivi. Innanzi a tutti erano la mente altiera e l’indole signorile, e quello intendere alla eccellenza che mai non si appaga delle cose presenti, ma cerca il fine suo nella eternità dell’avvenire o nella effigie ideale del passato. Ma questo sentire, il quale aveva come suo centro nella grande anima del poeta, era comune in qualche parte a quella età informata di scienze divine, e tutta nutrita delle memorie di quella Roma dov’era la cima di ogni terrena grandezza. Quivi anche vedevano gli esempi di quella perfezione dello stile al quale cercavano allora di rinnalzarsi gli scrittori, non bene sapendo nè forse volendo la nuova forma dell’idioma separare dall’antica, che sarebbe stato dannarsi a una sorta d’inferiorità. Avevano essi già una lingua loro, ma non sapevano che vi fosse o non volevano, sebbene lo stesso Dante scriva che il volgare cercato da lui _andava peregrinando e albergando negli umili asili_. In quell’immaturo levarsi che fecero allora i popoli, il risorgimento ch’era nel pensiero e nella espressione pura di esso, non rinveniva sufficiente rispondenza a sè nella vita, non aveva nutrimento di scienza bastante; guardava le cose come fa la fantasia, nè quelle poteva con giusta misura a sè medesimo definire. Quindi è che Dante scrivendo in volgare cercasse il latino, perchè era la lingua della religione e della scuola, e delle altezze a lui note del bello poetico, lingua imperiale e pontificale; nè l’uomo che scrisse il libro _de Monarchia_ poteva pensarlo altro che in latino. Ed egli sempre molto latineggiava e più del dovere nella prosa: la terza cantica del Poema, la quale voleva non fosse _Commedia_, mesce più delle altre alle volgari frequenza di voci latine, che niuna perfezione di concetto nè convenienza di poesia sembra alle volte giustificare. È l’Alighieri certamente il sommo tra gli scrittori di nostra lingua, perchè fu il sommo tra quanti avesse ingegni mai la nostra gente: ma quella lingua che noi dobbiamo tanto ammirare e dalla quale tanto è da apprendere, non possiamo tutta accettare nè fare nostra. Contendeva egli per isforzare la lingua, siccome con la prepotenza del volere sforzava il concetto, a condensarsi in quelle ultime profondità dove riposasse il forte ingegno del pensatore congiunto alla viva immaginazione del poeta. Veramente l’Alighieri fu sempre poeta dove anche tu vegga in lui farsi innanzi il disputante nella Sorbona, poeta dove egli per la coscienza della nobiltà sua troppo ami scostarsi dall’uso comune; ma sembra allora che egli si piaccia di fare violenza alla stessa poesia, cosicchè nei luoghi che molto furono disputati si trovi più spesso la sottilità speculativa della mente che non la sostanza di quella poesia ch’era in lui figlia dell’amore: alcune lezioni forse erano dubbie a lui medesimo, che non pubblicava mentre visse l’intero Poema. A questo volgare illustre ben egli sentiva mancare autorità sufficiente, _mancando in Italia un’aula o curia della quale fosse proprio quello che a tutti è comune_ (Cap. 18). Ma (prosiegue egli) noi pure abbiamo una corte, sebbene ella sia _corporalmente dispersa, perchè le membra di quella che in Germania sono unite da un principe, qui sono congiunte dal grazioso lume della ragione_. Intende egli dunque il linguaggio degli uomini eccellenti, linguaggio di pochi: ma siccome nel concetto di questo volgare illustre ne sembra egli recarlo troppo in su, così nella estimazione dei vivi dialetti mette ogni studio in abbassarli, di essi allegando voci triviali e facendone tal peccato da condannarli tutti insieme siccome indegni ed incapaci dell’alto stile. Ma veramente quel basso e brutto _introcque_, usato una volta dall’Alighieri nel Poema, nè so perchè, non fu mai scritto, ch’io sappia, nè dal Compagni, nè da Fra Giordano, nè dal Villani, nè dal Cavalca, e nemmeno dal Latini, dal Malespini e dal Giamboni, che sono più antichi. Così nel francese, che troppo si pone ad esemplare di ogni lingua, certe parole degli impagliatori di Parigi non si trovano usate mai, non dico nelle Orazioni del Bossuet, ma nemmeno nelle Commedie del Molière. Se in quel giudizio la passione fece trascorrere l’Alighieri, ben fu degno di lui l’accorgersi e giudicare come in Italia mancasse alla lingua dei ben parlanti e degli scrittori quell’uso autorevole che fosse da tutti spontaneamente consentito. Nessuna eloquenza aveva bisogno d’altro idioma che di quel volgare; ma non l’usavano, e i dottori scriveano e parlavano latino ogni volta che voleasi essere autorevoli, latino la Chiesa, latino i Principi e le Signorie: quella di Firenze non s’arrischiò al volgare fin dopo alla metà del secolo XIV. Nè questa Repubblica ebbe mai pubblicità d’arringhe, nè fama di uomini eloquenti: scriveano i cronisti e gli ascetici per uso del popolo e perchè l’affetto a ciò gli spingeva, scriveano la lingua da essi parlata: ma nè il Cavalca, nè il Villani, tanto oggi noti per tutta Italia, credo io che fossero letti da persona fuori dei confini della Toscana, o certamente letti da pochissimi: e Dante medesimo vissuto in esilio, o ignorava che ci fossero, o non gli aveva forse mai letti, e qual valore di lingua avessero non sapeva. Se tutto il fatto della lingua non si voglia ristringere ai nomi delle cose materiali, ne sembra gli uffici a quella prestati da un’autorità comune estendersi a tutte le ragioni del parlare e dello scrivere, conducendo effetti non piccoli sopra il pensiero della nazione. La lingua italiana, ricca d’immagini com’ella è, può spesso mancare di precisione o di evidenza, spettando a chi scrive cercarla da sè, perchè non la trova bene accertata e resa facile da universale consentimento. Ma questo avrebbesi dove fosse stata in Italia un’autorità viva e comune, che oltre al valore ed all’opportunità di certe voci o locuzioni figurate fermasse l’adatto collocamento loro, da cui dipende spesso l’acquistare quelle figure cittadinanza, fatte usuali nazionalmente e chiare a tutti come se fossero voci proprie. E questa lingua, la quale dicono essere fatta per la poesia più che per la prosa, sarebbe riuscita nel discorso andante di sè più sicura, per essere meglio appresso tutti determinata. Inoltre, una lingua non è la stessa quanto alla estensione sua in tutti i gradi della coltura e in tutti gli uomini egualmente; ma certi nomi di cose astratte o modi che vogliono a essere trovati più lungo lavoro e più esercizio della mente e più suppellettile di cose imparate, discendono spesso dai primi gradi negli inferiori, cosicchè divengano comuni almeno quanto loro basti ad essere intesi da tutti gli uomini non affatto rozzi.[333] Il che molto avviene nelle nazioni cristiane per l’opera intermedia del clero e massimamente dei predicatori, costretti cercare ad alti pensieri una espressione popolare, la quale si renda aperta a chiunque non ebbe pratica nelle scuole: ma ciò non può farsi tra noi senza sforzo. Il quale difetto impedisce anche a pro della lingua l’azione unificatrice del teatro, e ciò tanto più in quanto che pigliando vita la commedia dal comune favellare, non sa in Italia dove cercarselo; e riesce magra, o nelle sue finezze, quando anche intesa, gustata poco. Ma se una parte del vocabolario di una lingua la quale abbia avuto il suo letterario e civile svolgimento, formata più in alto, discende nel popolo dei meno colti, riceve anch’essa però dal basso le sue leggi e si arricchisce del parlare figurato che esce (siccome fu detto) ogni giorno dai mercati; perchè d’una lingua sostanza e forma stanno nel popolo, cioè in tutti; e i più addottrinati, che sono i pochi, non sanno altro che scegliere quanto alle figure la parte che ad essi convenga, ed aggiugnervi le voci e i modi necessari a quelle materie che i più ignorano, e cui manca linguaggio nell’uso universale e quotidiano. Laonde una parte, che è senza misura maggiore dell’altra, sale ogni giorno anche dal fondo più triviale a pigliar forma nei sermoni e nelle arringhe solenni e nei libri, sebbene remoti dalla capacità di quegli uomini dai quali quei modi e quelle figure da prima furono generati. E senza di questi sarebbe la lingua degli scrittori angusta e pallida, non avrebbe vita, nè grazia, nè efficacia. Adoprano i Francesi nell’uso più scelto voci figurate, le quali niuno vorrebbe usare nelle galanti conversazioni, se non ne avessero chi le pronunzia e chi le ascolta dimenticata la etimologia. Eppure la lingua veramente cortigiana dei Francesi pigliava l’attuale sua forma in Parigi circa alla metà del seicento, quando la _corte_ e la _città_, divenute arbitre d’ogni cosa, rideano alle spese di tutto il resto della nazione ogni sera nel teatro. Ma è qui da notare come questa lingua fosse, per la natura sua e dei Francesi, capace fra tutte a rendersi popolare. Sappiamo da Cesare che i Galli ebbero indole aperta, facile il discorso; molto facevano conversando, e quel che avean fatto si piacevano di raccontare. Quindi è che appena mutati in Francesi, si dessero a scrivere in grande numero ogni secolo memorie o ricordi personali, genere di storia dove ognuno tesse intorno a sè il filo dei pubblici fatti, più viva delle altre sebbene più scarsamente comprensiva, e tutta propria di quel popolo e di quella lingua. Queste memorie furono certo grande esercizio dove i Francesi pigliarono usanza di scrivere come si parla e leggere come si ascolta. Abbiamo notato due altri generi di composizione dove si ascolta come si legge, che sono il pulpito e il teatro; ma questi pure sembrano quasi avere bisogno della lingua dei Francesi, la quale si alzava nei sacri oratori a un genere d’eloquenza ignoto agli antichi, e che non ha pari tra le altre nazioni. Nè accade dire come al teatro bene s’accomodi l’idioma che ha sede in Parigi, arbitra in Francia d’ogni gusto e d’ogni cultura. Nè altrove che in Roma si formavano la lingua e l’urbanità latina: ma in Toscana erano città e repubbliche libere ed astiose tra loro perfino dell’idioma, e ciascuna di Firenze; la quale non ebbe corte, nè senato, nè fôro; sedeano i consigli a porte chiuse, i parlamenti in piazza, gridavano armati e ubbidienti al cenno di pochi o all’impeto plebeo. I dottori venuti di fuori latineggiavano; tutto il ceto dei Ghibellini aveva in odio questo popolo d’artigiani montati in iscanno, e co’ dileggi si consolava; Dante in esilio chiamava _insensata_ l’arroganza dei Toscani che a sè attribuivano l’illustre volgare. Quindi è che la lingua del popolo di Firenze fin da’ suoi primordi ebbe taccia di plebea; e simile accusa ebbe l’istoria di questa Repubblica perchè ivi non era nè aula, nè curia, ma i pubblici fatti muoveano da quelle botteghe istesse dove si lavoravano i panni e le sete. La fiera puntura dell’esule ghibellino fu poi rinnovata dal buon frate Jacopo Passavanti, il quale dannando anch’egli ciascuno dialetto d’Italia, dà briga ai Toscani ed ai Fiorentini suoi perchè insudiciavano il patrio idioma. Dannaronlo poscia i letterati più risolutamente scrivendo in latino: vivea la contesa malaugurata, ed il Machiavelli con forte discorso a Dante oppone Dante medesimo, a lui mostrando come avessero egli e il Petrarca ed il Boccaccio scritti i libri loro non già in toscano o in italiano, ma in vero e proprio fiorentino. Riprese vigore siffatta contesa, perchè nei tempi del Machiavelli l’idea di nazione con vano e pungente desiderio si provava a porre in discredito ogni boria di provincia, e perchè il secolo inclinava al signorile; tantochè il Tasso proverbia il popolo di Firenze che, stando a bottega, in sè non aveva decoro e pregio di nobiltà. Ma vero è poi che in questo popolo arguto e faceto ed esultante di sè medesimo e licenzioso, gli ardimenti dei motti e delle triviali figure più abbondavano che altrove, pigliando favore dalle grazie della lingua e dalla leggiadra acutezza degli ingegni, i quali si diedero molto a quel genere di componimenti quando le lettere avvilite più non si arrischiavano ai forti subietti. I Fiorentini, fatti ambiziosi di queste più infime particelle d’antico retaggio, si diedero troppo a porle in mostra, e i vocabolari con troppo studio le registrarono; dal che poi venne un ribellarsi contro allo scrivere dei Toscani ed alle più schiette forme della lingua, la quale si fece povera per essere a tutta Italia universale. Ma la poesia dal suo primordio procedette sempre con passo più certo, e fu cosa nazionale; laddove invece la prosa fuori che in Toscana mancando tuttora di coltura letteraria, non ebbe linguaggio che fosse accettato comunemente e divenisse la lingua scritta degli Italiani. Il ch’era in fatto assai più agevole a conseguire nella poesia che tutta lirica da principio, e paga d’esprimere i moti dell’animo, elegge e si appropria di tutta la lingua poco gran numero di parole, di modi e di forme; ma che però essendo eternamente inesauribile nel profondissimo campo suo, a tutti s’appiglia, da tutti è compresa o abbagliatamente divinata, da tutti accolta e consentita. Dai Siciliani ai Bolognesi e indi al Cavalcanti, al sommo Alighieri ed a Cino da Pistoia, progrediva per diritto cammino la lingua poetica della canzone; sole mancavano quelle ultime e non mai superabili squisitezze che diede alla forma Francesco Petrarca [n. 1304, m. 1374]. Quanto alla parlata espressione della poesia, io dico esser egli nel nostro idioma scrittore perfetto; in lui non appare mai l’eccessivo assottigliarsi per essere arguto, nè studio faticoso di pienezza nè di brevità; ma neanche tu scorgi nei suoi migliori componimenti, che sono gran numero, mai nulla di troppo: una mirabile temperanza a lui era maestra di non mai alzarsi verso dove non potesse la dolce sua tempra, senza però abbassarsi mai da quella serena elevatezza che in lui mantennero l’amore e gli affetti virtuosi dell’animo ed una vita nutrita sempre di nobili studi e naturalmente dignitosa. Nato in Toscana e quivi rimasto fino ai nove anni, poi vissuto in casa dei genitori in Avignone dove molti erano Fiorentini, ebbe la favella dall’uso toscano; ma questa può dirsi mettesse in disparte nella vita letteraria, che fu da lui tutta esercitata in latino; e i versi che oggi fanno la sua gloria, o furono scritti nell’età matura, o certamente in quella forbiti. Sono ricordanze d’affetti presenti sempre all’anima del Poeta, che rigermogliano come cosa viva, senza avere però mai la foga che odi bollire nel cuore di Dante; passioni viventi nella fantasia, ma temperate dal freno dell’arte che a sè le richiama per voglia d’esprimerle. Quindi è che lo scrivere e il sentire del Petrarca sempre hanno qualcosa di più generico, nè occorreva a lui pescare giù in fondo nelle attualità dell’idioma: la lingua che aveva imparata dalla culla tornì da sè stesso col pensiero e con lo studio; vagando per tutte le città d’Italia, ebbe egli sempre innanzi agli occhi l’intera nazione: il detto del Foscolo, che la lingua era al Petrarca insieme naturale e forestiera, sta bene ad intenderlo del patrio dialetto che egli usò meno degli altri Toscani; ma che era poi tutta la materia della lingua, cui diede egli forma soprattutto nazionale. In quelle sue Rime non è mai parola o modo che abbia del vecchio e non possa oggi essere usato senza affettazione. In tutta la vita niun altri fu meno di lui fiorentino, niuno fu italiano al pari di lui. Si era egli fatto cittadino dell’Italia perchè non avrebbe in essa voluto d’alcun luogo essere cittadino; nei pubblici eventi non ebbe altra parte che di riprensore dei vizi comuni, egli non guelfo nè ghibellino, senza odii nè punture di passioni che in lui sanguinassero: l’amore per Laura fu il solo fatto della sua vita. Le cose presenti giudicava per concetti generali; snudava le _piaghe mortali_ d’Italia, ma poi s’accorgeva che il porvi le mani sarebbe _indarno_, e sospirava. L’età precedente avea contenzioni furiose ma degne degli alti intelletti; e quindi gl’ingegni più speculativi mischiandosi in quelle, a sè acquistavano quella tempra che viene dall’oprare, e ai loro concetti quella interezza che deriva dall’uso continuo e vivo e pratico delle cose: i grandi uomini erano anche forti cittadini, e il pensiero aveva sostanza nei fatti. Ma nell’Italia del Petrarca, passioni infeconde nei migliori ingegni metteano disgusto di sè medesime; egli con la mente figgendosi tutto nelle memorie dell’antica Roma, di quella cercava risuscitare le lettere; faceva a sè una vita d’uomo letterato: nuova cosa allora, ond’ebbe fama quale forse niun altri godette mai, tranquilla, costante; libera dagli odii o poco tocca dalle offese, delle quali era egli oltremodo sensitivo. E dopo la morte fu egli il poeta dei secoli oziosi, cessati allora quando risorse per tutta Italia universale e vivo l’amore della poesia dantesca. Nessuno mai forse nella esterior vita ci appare beato più del Petrarca, ma tutto aveva egli in sè medesimo le tempeste; natura morbida di poeta, che negli studi solitari s’avvolgeva dentro sè medesima; nè il sì nè il no mai gli suonavano interi nel cuore, e dentro all’animo era un segreto conflitto di cure affannose: intorno a queste scrisse un libro.[334] Mutando luogo di tratto in tratto, piacevagli con le agiatezze della vita sostenere il grado che l’ingegno suo meritava, e cui lo innalzarono le onoranze insolite in quella e in altre età; non troppo i favori dei principi disdegnando nè il praticare spesso nelle corti, egli non esule nè mendico, ma come per fare onore a chi lo albergasse. Poneva talvolta fiducia breve in qualche principe o capo di parte; sperò nel Colonna, sperò nel Rienzi; e quella Canzone (_Spirto gentil_ ec.) che è tra le sue più belle, a quale dei due fosse indiritta non è ben chiaro, tanto son validi gli argomenti da entrambe le parti, quasi da credere che l’avesse prima ideata per animare a pro d’Italia il Colonna, e poi finita quando il Tribuno tentava un’impresa troppo rispondente ai voti ed ai sogni cari all’anima del Petrarca. Vive egli oggi tutto nel Canzoniere, perchè la grande mole di componimenti in lingua latina i quali empierono la sua vita, e quelle medesime lettere alle quali dava egli nome di famigliari, altro non sono che esercitazioni. Ma il secolo suo lodò a buon diritto e ammirò in lui quella virtuosa elevatezza di pensieri e di giudizi che niuno de’ suoi scritti smentisce giammai; ammirò il sapere, pel quale sembrava fare egli rivivere l’antica Italia dalle sue ceneri cercando libri per ogni dove, non senza dare anche mano allo studio delle greche lettere innanzi a lui quasi obliate; ammirò nel suo scrivere quella stessa copia che a noi sembra troppo ridondante, e quell’ozioso tener dietro agli ornamenti delle sentenze e degli esempi ed alle imitate lautezze di frasi per lo più raccolte nei pochi latini che a lui erano familiari. Ma già in Italia sorgeva un secolo a cui piacevano queste cose, cercando la vita dove non erano che memorie, e quella che stava negli scrittori volgari tenendo a vile perchè volgare, e perch’ella era espressione vera non della passata ma della presente Italia, qual’era e quale i tempi ora la volevano. Tardi il Petrarca si fu accorto come la gloria da lui ambita risedesse tutta in quelle rime che da principio aveva egli meno apprezzate, e come non fosse corona vera del capo suo quella ch’egli ebbe giovane ancora e con tanta festa in Campidoglio pel poema latino dell’Affrica, da lui senza danno lasciato imperfetto, e che infine a lui medesimo dispiaceva. Ma quanto grande sia la inferiorità di questo secolo del Petrarca messo a confronto di quello di Dante, si fa manifesto per la differenza che tra essi corre nel concetto dell’amore. Laura è una donna ed il Petrarca un innamorato; l’amore da lui portato alla somma altezza sua e purità, tuttavia è amore co’ suoi affanni e le sue dubbiezze, che «sana e ancide» e si avvolge per isquisite delicatezze nelle infinite sue varietà di casi, per cui l’affetto tra quelle anime virtuose pure ebbe una istoria. Laura santissima riposa sul margine delle dolci acque, mentre «un nembo di fiori cuopre ad essa le vesti leggiadre e il grembo e le treccie bionde:» è bella, ma tu puoi immaginare quella bellezza, puoi ricordare donna veduta o donna pensata, e nella memoria alzare i tuoi sino agli affetti del grande cantore. Ma la Beatrice dell’Alighieri non è propriamente donna, ma visione; non fece tra gli uomini altro che mostrarsi, saluta e passa «e gli occhi non l’ardiscono guardare;» ma egli la vede dentro al cuore ed al pensiero, senza che amore giammai la facesse accorta di lui; nè prima che in cielo, fu mai tra essi conversazione. Le donne di Guido Cavalcanti e di Cino da Pistoia hanno lo stesso carattere, sebbene in questo ultimo già un poco scadente: col vivo lume della bellezza guidavano esse gli amanti loro alle sommità dell’intelletto: questo alto ufficio avea l’amore. Ma il Petrarca nelle ore del pentimento accusa l’amore suo lungo dei «giorni perduti e delle notti spese vaneggiando,» e i giovanili suoi pianti dice «non vuoti d’insania.» A Dante l’amore «nella mente ragionava,» ed era salute a lui e difesa contra ogni suo vaneggiamento. Coloro che aveano formato l’animo e il pensiero nei grandi fatti e nelle contenzioni del secolo XIII, ebbero più forte l’educazione degli affetti, donde poi nasce quella negli uomini delle volontà. Le quali secondo che abbiano maggiore intensità e saldezza, secondo che sieno o vòlte alle grandi, o inceppate nelle minute cose e da ogni nobile ed alto segno disanimate, ne danno ragione dei vari caratteri per cui si distinguono tra sè i periodi della istoria. Nei primi tempi che seguitarono all’acquistata indipendenza e alla libertà fondata, ma insieme all’insorgere vario e irrequieto delle ambizioni cittadine, gli affetti e con essi le volontà degli uomini divenivano incerte e divise, e quindi o guaste o intorpidite; e nei concetti degli scrittori noi troviamo essere meno sicurezza, perchè era in essi minore altezza. L’istoria di Giovanni Villani ebbe continuazione da Matteo, fratello, minore a lui di molti anni. Giovanni ricordava le prime allegrezze nella città di Firenze per la vittoria di Campaldino; aveva educato la sua coscienza di storico in quelle primizie quando si cercavano e si ottenevano le cose giuste, quando le passioni private sparivano confuse in mezzo alle pubbliche e comuni, le quali infondevano alcunchè della grandezza loro nei fatti singoli e nel modo per cui venivano giudicati. Ma invece nei tempi da Matteo descritti guardavasi meno al fine ultimo delle cose e a quella sostanza morale di esse che ne determina il valore; solo fine era l’immediata riuscita, nè più rifulgono da una che dall’altra parte il vero ed il buono. Nelle istorie del minor fratello più non si rinvengono di quelle parole che ti s’improntano nella mente; la lingua col volere essere più dotta era meno viva, ed i costrutti più lavorati non serbano tanto lucida evidenza. In quella medesima età intermedia della nostra lingua, scrittore eccellente fu Iacopo Passavanti di quello stesso ordine domenicano che avea prodotto i sommi autori della età prima. Non ha egli forse chi lo pareggi quanto alla limpida semplicità del dettato, alla costante dolcezza dei suoni ed alla facile egualità di uno stile da porre a modello senza che alcun vizio vi sia da notare. Ma in Frate Giordano è altro calore, procede il Cavalca più alto e sicuro, e in entrambi è vena assai più copiosa. Lo scrivere inappuntabile del Passavanti non è però sempre del pari efficace; io direi quella sua tanta purezza un po’ dilavata, e in me nasce dubbio che fosse a disegno. La bella e copiosa lingua popolare avea taccia di plebea dai molti che avrebbono in Firenze voluto qual cosa di più signorile; ed egli che odiava nei predicatori del suo tempo l’abuso di certe vivezze arrischiate del patrio idioma, si fece uno scrivere a quelle contrario: peccava, mi sembra, di timidità soverchia. Ma era sorto uno scrittore in cui si raccolse tutta la dovizia di questa lingua già pervenuta alla sua massima finitezza, quasi tornita e fatta nitida e scorrevole per molto uso nell’ampio vivere cittadino. Giovanni Boccaccio [n. 1313, m. 1375] non ha scrittore che lo pareggi quanto alla ricchezza e alla proprietà costante delle voci, all’aggiustatezza sempre evidente della frase, alla briosa vivacità del dettato ed alla possente abbondanza d’una vena che in mille rivoli sa dividersi e pronta e facile appropriarsi a molti generi dei più svariati. Bene i vocabolaristi lui fecero primo esemplare della lingua, quanto alle parole e alle locuzioni, e quanto alla scienza dell’uso congiunta a un gusto squisito. Le Cento Novelle amando percorrere diversi argomenti, dovevano ben essere il campo prescelto dall’ingegno del Boccaccio, al quale fu dato in quello spiegare tutta l’agilità sua e farsi mirabile in tutti gli stili, tranne il più eccellente. Ebbe egli facondia che di altrettanta oserei dire non fosse dotato scrittore qualsiasi, a vera eloquenza non pervenne mai. Narra e descrive mirabilmente più che non dipinga; sa essere parco, semplice, piano, quando non abbia fatto a sè proposito del contrario: dove entri l’affetto, si dimostra sempre falso e sforzato e insufficiente. I colli ameni di Schifanoia per lui divengono giardinetti graziosi d’arbusti bene pettinati e di acque zampillanti; la grande, la bella o terribile natura non vidde egli mai, perchè essa nell’animo di lui non capiva. Ci davano a scuola come saggio d’eloquenza le fiere parole di Gismonda di Salerno; nè in quella nè in tutta la novella di Gisippo io scôrsi mai altro che ampolle vuote. L’ambiziosa, ma pure meritamente celebrata descrizione della Peste, vorrei che non fosse in testa a un libro cui non s’addice. La lingua novella era poco scritta nelle altre parti d’Italia dove le pronunzie o smozzicandola o tirandola a suoni estranei e diversi, ad essa impedivano sotto alla penna dello scrittore un franco e facile andamento. Aveva in Toscana invece già molti egregi autori anche nella prosa; ma come spauriti da quel nome di volgare, non credevano capace il patrio idioma di mai agguagliare la dignità dell’antica madre, temendo infangarsi se troppo attingessero dall’uso plebeo. Inoltre, non era per anche arrivata l’arte dello scrivere fino al comporre insieme più idee ciascuna al suo luogo come in ordinanza, altre rilevando e altre adombrando; col fare insomma di quei periodi lavorati che formano il pregio e anche talvolta la maledizione di noi popoli molto côlti. I quali periodi, se abbiano evidenza sufficiente, giovano a dare pienezza al discorso senza nuocere alla speditezza; ma sono anche spesso indizio d’idee incerte e confuse che l’una sull’altra stanno come accavallate, o puzzano almeno d’ambizione letteraria. Dove entra l’affetto, di questi periodi non se ne fa mai, e non sa farne il popolo semplice, del quale sovente udiamo il discorso essere tanto ricco ed efficace. Giovanni Villani ha periodi brevi; ma Dino Compagni, che mira a istorica eloquenza, gli ha spesso intralciati; si appaga il Cavalca di un andare piano, senza ombra d’ambizione. Sentiva il Boccaccio mancare al suo tempo tuttavia qualcosa nello scrivere italiano, che desse esempio di una forma più ampia e svariata e che si appropriasse ad ogni genere di componimenti; pareagli a ragione la nostra favella non essere stata infino a lui nè tutta svolta nè adoprata con uso sapiente. Ma udiva ogni giorno intorno a sè questa lingua essere esercitata mirabilmente da tutto il popolo della città sua; sapeva che nulla o poco assai nella sostanza poteasi aggiugnere a coloro che lui precessero nello scrivere. Fu primo nell’essersi pigliato l’assunto di tutta scrivere questa lingua, in ciò adoprando tale agilità d’ingegno e tale possesso di voci e di modi, che bene può dirsi avere vissuto in mezzo al popolo di quel tempo chiunque abbia letto il _Decamerone_. A mio parere, nello scrivere del Boccaccio il mancamento non era dell’ingegno, ma era dell’animo. A quello sforzato suo periodeggiare, a quelle suonanti cadenze, dovette condurlo certamente anche l’imitazione dell’idioma di Marco Tullio, di cui gli scritti venivano allora in maggior luce. Ma egli è poi vero, che dove non lo tradisca l’ambizione, o dove non diasi a simulare l’affetto, lo stile di lui riesce immune da questi vizi: sono essi però tanto frequenti nel suo scrivere, che di essi il nome suole pigliarsi proverbialmente dal suo. E come quelli che molto sono in lui prominenti e perchè formano la sua speciale caratteristica, la quale, o buona o mala che sia, trae dietro a sè la turba servile degli imitatori, potè il Boccaccio sciupare la lingua dei letterati e degli accademici col periodo latineggiante e con i suoni cantati e falsi e ridondanti, come sono i suoni di chi parla o scrive fuori dell’affetto; perchè l’affetto è sempre armonico nell’esprimersi, ma l’armonia del Boccaccio e dei retori è tutt’altro; non è armonia, ma un saltellare di cadenze scoppiettanti, o un vuoto rimbombo in fine al periodo. Era il Boccaccio di poca bontà e non di animo elevato; la giovinezza di lui trascorse nelle corruttele d’una Corte. Quel pervertimento d’indole che fece a lui scegliere il tempo della peste come occasione al suo libro, dove non sono che balli e canti e risa e motteggi in bocca di donne a cui la morte aveva in quei giorni fatta deserta la casa; quel falso nei tormenti dell’amore che a lui fece provare una poco crudele bastarda del re Roberto, onde ne viene a dire con gravità ridevole nel proemio, di scrivere il libro a consolazione degli amanti afflitti com’esso; quel falso che è in tutto il libro, dove con serietà dottorale sono appellate savie le donne maritate che si procacciano un amante; quel ridurre in fine dei conti a mera e grossolana sensualità l’amore, e poi quelle stesse donne che raccontano in cerchio sedute e ascoltano turpitudini, lodare esse e gli amanti loro di virtù pura e intemerata, _senza che mai nessuna macula d’onestà bruttasse_ quella convivenza delle sette gentili donne e dei tre giovani; questa falsità di pensieri e di affetti, questo pervertimento ch’era nell’anima del Boccaccio, danno anche ragione di quello che è di falso e di pervertito nel concetto che egli fece a sè dello scrivere la lingua sua. Ed è fatto, che non parve ai primi lettori del _Decamerone_ nè per centocinquant’anni poi, che avesse il Boccaccio trovato la forma della prosa italiana. Quei pochi, ma pure ottimi, che nel quattrocento la coltivarono, per nulla seguirono le tracce impresse da lui; ed il suo regno fu decretato allorquando vennero in onore lo scrivere ozioso e i dolci solletichi e i plausi accademici. Egli ed il Petrarca furono allora principi della lingua; ma il Petrarca tenne bene lo scettro dello scrivere la poesia, male il Boccaccio quello della prosa. Nell’anno medesimo in cui moriva il Certaldese, cominciò a dettare le sue lettere santa Caterina da Siena [n. 1347, m. 1380]: fu grave ingiustizia non averla contata tra’ sommi di quella età della lingua. Si discosta ella da ogni forma dove appaia un’arte che sia consapevole di sè stessa; invece dell’arte sta il naturale svolgimento del pensiero, ed ogni cosa piglia suo luogo, e quelle parole hanno più rilievo che aveano avuto prima nella voce più vivo l’accento. Imperocchè quella mirabile giovinetta dettava d’impeto le sue lettere quante volte amore spirava: un solo è il subietto di tutte, se vuolsi, ma è tale subietto che ha in sè l’infinito. Esperta di varie città italiane e di una Corte, è grande conoscitrice del cuore dell’uomo e indovina quello dei più alto locati; ammonitrice severa e ardita, ma sempre umile e cortese, scriveva a papi ed a cardinali, e ai magistrati delle repubbliche, ed a giovani mondani e a donne perdute. Facili sgorgano le parole come da vena abbondante; potrebbe alle volte parere anche troppo, ma era spontanea: fu bene notato come in lei da una proprietà costante e dalle stesse ragioni della etimologia ignote a chi la seguiva, ottenga il discorso quella evidenza cui non pervengono scrittori volgari.[335] Alcune di quelle lettere appartengono all’istoria, s’intravede in altre una fantasia repressa: la misticità prevale in tutte, e spesso trascende e trascorre non di rado. Non la perdonavano all’accesa donna il volgo in parrucca dei letterati; e quel pochino di lingua senese che spunta fuori tratto tratto imbizzarriva i nostri accademici. Per questi motivi fu obliata santa Caterina; ma è grande scrittore, e più veramente nobile e più naturale del Boccaccio. Fra’ molti autori di libri ascetici ne pare una scuola avere una qualche derivazione da santa Caterina. Notiamo, tra gli altri, un Giovanni dalle Celle frate e cittadino che scriveva lettere ai magistrati di cose politiche e di religiose con franco parlare ed elevatezza di concetti.[336] Ebbe grande fama per bontà e dottrina Fra Luigi Marsili, agostiniano, che la Repubblica soleva con riverenza consultare in cose di stato e di religione: Roberto de’ Bardi, teologo, morto in Parigi cancelliere della Sorbona, fece ordinata raccolta dei Sermoni di sant’Agostino. Diversamente celebre fu il cardinale Piero Corsini, che s’immischiò molto nelle cose dello Scisma e fu a’ suoi tempi gran personaggio. Fra gli scrittori di poesia che seguitarono al Petrarca, primo è il Boccaccio che i versi faceva con disinvolta naturalezza e spesso graziosa; nè ultimi certamente Sennuccio del Bene e Buonaccorso da Montemagno pistoiese. Fazio della sbandita famiglia degli Uberti compose un poema più noto che letto, che ha per titolo _il Dittamondo_: non oserei chiamarlo imitazione della _Divina Commedia_, essendo bastato all’Uberti descrivere il mondo delle cose materiali con buono stile nè senza gravità, ma senza anima di poesia: vissuto povero alle corti dei signori Lombardi, moriva in Verona dopo al 1360. Zanobi da Strada, che fu in Pisa coronato dall’imperatore Carlo IV l’anno 1355, male inaugurò la serie dei poeti cesarei: più atto alla prosa, tradusse in bel volgare il libro dei _Morali di San Gregorio_ allora che molti attendevano al tradurre; ma non compì l’opera, andato in Avignone Segretario, nè a lungo vissuto. In Firenze uno Studio fu decretato fino dall’anno 1320, e sappiamo che nel 1334 vi furono condotti Recupero da San Miniato e Cino da Pistoia ad insegnare canoni e leggi. Lo Studio fu aperto nel 1348, non appena cessata la peste. Ottennero da papa Clemente VI ad esso privilegi e facoltà di dottorare in ambe le leggi; e imperiale privilegio da Carlo IV nel 1364. Proibirono agli uomini dello Stato mandare i figliuoli altrove a studio; il ch’era forse principalmente per gelosia di Pisa, che aveva aperto l’anno 1338 la sua celebre Università; ma ordinarono che i dottori si pigliassero da fuori, temendo le brighe a porre innanzi i meno degni; tuttavia più volte vi furono eletti uomini della città stessa, tra’ quali Tommaso Corsini padre del Cardinale, Lapo da Castiglionchio e Donato Barbadori. Aveano molto desiderato chiamarvi il Petrarca, al quale andava inutilmente il Boccaccio con amplissime profferte: questi poi nell’anno 1373 fu scelto alla nuova cattedra eretta per la spiegazione della _Divina Commedia_. Prevenuto dalla morte, non potè compiere il Commento, che solo tra molte sue opere minori può sempre leggersi utilmente, anche ad esempio dello stile. Ma comecchè fosse lo Studio in Firenze, non allignò mai così da farsi università vera: a molti la spesa parea troppo grave; e a città mobile e chiassosa e volta alle arti, gli studi aridi meno si addicevano.[337] La pittura dopo alla morte di Giotto e dei primi suoi scolari parve rimanere nei confini segnati da lui; ma una Compagnia o Confraternita dei Pittori nasceva nell’anno 1350. L’architettura e la scultura progredivano per gli edifizi che la sontuosità privata o la devozione faceano inalzare: la Certosa presso Firenze veniva ornata splendidamente dal gran siniscalco Niccolò Acciaioli negli anni che seguitarono al 1341. L’opera del Duomo continuava lentamente, perchè i moti civili e dipoi la peste più volte l’ebbero interrotta; ma troviamo che nel 1364 furono chiuse le vôlte del tempio. La loggia di Orsanmichele era stata ridotta a chiesa, e dentro e fuori si ornava con magnificenza di sculture e opere in bronzo: Andrea Orcagna fu principale architetto di questa e dell’alta mole soprastante per la conservazione dei grani che la Repubblica teneva in serbo a benefizio pubblico nelle carestie. In Piazza dei Signori la maestosa Loggia che ha nome dallo stesso Orcagna fu innalzata verso l’anno 1376, o per opera del grande artista o sul disegno di lui, che oltrechè scultore insigne fu anche pittore. Quella Loggia era principal ritrovo ai cittadini per la conversazione di cose pubbliche e private. Gridavano ch’era costata troppo, e ne fu gran dire:[338] correa questo popolo a criticare e a motteggiare le grandi opere che faceva. APPENDICE DI DOCUMENTI. Nº I. (Vedi pag. 63.) BREVE DI CLEMENTE IV, DE’ 25 MARZO 1266, AL CARDINALE OTTAVIANO DEGLI UBALDINI PER L’ASSOLUZIONE DELLA CITTÀ DI FIRENZE E DI ALCUNI CITTADINI DALLE SCOMUNICHE INCORSE QUANDO ERA SOTTO LA DIPENDENZA DEL RE MANFREDI. Manfredi era morto e la Parte guelfa vincitrice a Benevento nei 26 febbraio 1266. Anche in Firenze i Guelfi levavano il capo, sebbene vivessero tuttora mescolati coi Ghibellini che avevano a sostegno le armi tedesche. Ma da principio cercando tutti andare di concordia, il Potestà mandava in nome del Comune due ambasciatori al papa Clemente IV, chiedendo l’assoluzione delle scomuniche nelle quali era la città incorsa: questi, nella presenza di due Cardinali a ciò deputati dal Papa, fecero giuramento d’ubbidienza a quanto venisse dal Papa medesimo alla città imposto come atti di penitenza e di filiale devozione. Ma non parve al Papa bastante siffatta promessa; talchè a’ 25 di marzo, e non trascorso intero un mese dalla vittoria, mandava con un suo Breve al cardinale Ottaviano degli Ubaldini ricevesse in ubbidienza la città, quando però avesse in mano l’obbligazione di sessanta mercanti fiorentini i quali pagassero di proprio il denaro in quelle somme che sarebbero poi dichiarate. Noi pubblichiamo questo Breve e gli atti pei quali il Cardinale dava esecuzione al mandato nel giorno seguente. Clemente viveva tuttora incerto di quello che fosse per avvenire in Firenze, dove la mutazione da ghibellina a guelfa non era per anche compiuta. Più tardi egli stesso promoveva l’elezione dei due Potestà Frati Gaudenti che rappresentassero le due parti: seguiva poi la cacciata dei Tedeschi e dei Ghibellini e quei fatti dei quali abbiamo nel testo data contezza. Ma questo primo atto per cui cercava il Papa d’estendere in Toscana l’autorità politica della Santa Sede, ignoto finora, noi pubblichiamo dagli Archivi di Firenze (_Diplomatico_, provenienze _Strozzi-Uguccioni_) essendo tale da fare corredo a quelli pubblicati dal MARTENE. _EXEMPLUM._ In Christi Iesu nomine, amen. Cum venerabilis pater dominus Octavianus, Sancte Marie in Via Lata diachonus Cardinalis, recepisset a Sede Apostolica licteras in hunc modum: — Clemens episcopus, servus servorum Dei, dilecto filio O., Sancte Marie in Via Lata diachono Cardinali, salutem et apostolicam benedictionem. Miserationes et misericordias Domini, que super omnia opera sunt ipsius, et benignitatis eius afluentia circa genus considerantes humanum, in ipsius laudibus delictabiliter iocundamur; Eique a quo est omne datum optimum et omne donum perfectum debitas et divotas gratias exsolventes, de concepta letitia ingenti iubilo exultamus: quod misericors et miserator Dominus, qui nichil eorum que fecit odivit, nolens mortem pecchatorum, set ut magis convertantur et vivant; civitatem et populum Florentinum, qui quasi cum morte fedus pepigerant, diuque a devotione Romane Ecclesie damnabiliter deviarant, condam Manfredi olim principi Tarentino, persecutori eiusdem Ecclesie manifesto, contra eam induratis animis pertinaciter aderendo et aderentes eidem Ecclesie totis viribus impugnando, de sue habundantia pietatis ad penitentiam conterens, ipsos ad devoctionem nostram et dicte Ecclesie, per tue probitatis industriam, misericorditer revocavit. Pridem namque Potestas Consilium et Commune civitatis predicte ad cor, a quo inconsulte ac periculose recesserant, divina gratia inlustrante, reversi, dilectos filios Melliorem de Abatibus, Ginesium, Iacopum de Cerreto et Bonacursum iudices, ambaxiatores suos ad nostram presentiam destinarunt, ipsumque Iacobum suum constituentes sindachum seu procuratorem et nuntium spetialem, ad petendum, ipsorum nomine, absolutionis beneficium ab excomunicationum privactionum et interdicti sententiis, quibus ex eo quod dicto Manfredo contra Ecclesiam prefatam, sicut est predictum adeserant, quodque civitatem Lucanam contra proibictionem predecessorum nostrorum et nostram hostiliter impugnarant, aliisque lighati noscuntur, sufficiens plenum iurandi in animabus eorum, quod nostris et prefate Ecclesie mandatis precise parebunt dedere mandatum. Poro, idem sindachus, coram nobis huiusmodi mandato exibito, in animabus dictorum Potestatis, Consilii et Communis, de parendo ipsorum nomine nostris et Ecclesie predicte mandatis, que sibi per nos aut alios seu alium quotienscumque duxerimus facienda, coram dilectis filiis nostris G. Sancti Georgii ad Velum aureum, et V. Sancti Eustachii diaconis cardinalibus, quibus id spetialiter duximus committendum, ipsorum nomine corporale prestitum iuramentum, et se ipso ac dictis Potestati, Consilio et Communi, ad hec datis nichilominus quibusdam fideiussoribus sindicali et procuratorio nomine obligatis; tam idem sindichus quam ambaxiatores prefati nobis instanter et humiliter suplicarunt, ut predictas excommunicationum, interdicti ac privactionum sententias a predecessoribus nostris ac nobis nec non quibuslibet apostolice Sedis leghatis vel deleghatis eorum, in eosdem Potestatem, Consilium et Commune ac civitatem prefatam, pro huiusmodi causa prolatas, de clementi misericordia que superexaltat iudicio, relaxantes, predictis Potestati, Consilio et Communi absolutionis impendi beneficium faceremus. Verum, licet illius simus Vicarii quam immeriti constituti, qui ut reconciliaret servum Domino, univit hominem sibi Deo, quique omnem hominem salvum fieri et neminem vult perire, set cum sit ei proprium misereri semper et parcere, omni potentiam suam, parcendo ac miserando, maxime manifestat; de dictorum Potestatis, Consilii ac Communis desiderata conversione ghaudentes, eorumque salutem plurimam affectantes, absolutionem queramus, non vinculum animarum; quia tamen nobis et predicte Ecclesie super hiis ab eisdem sindicho fideiussoribus datis ab eo plenarie non est chautum, volentes nobis et ipsi Ecclesie a memoratis Potestate, Consilio et Communi super hiis plenius precaveri; discretioni tue per apostolica scripta mandamus, quatinus, receptis ab eis sexaginta fideiussoribus mercatoribus, quos facilitate conveniendi ac solvendi facultate idoneos tibi esse constiterit, et qui se ipsos principaliter et omnia bona sua mobilia et immobilia, presentia et futura specialiter obligent, quod idem Potestas, Consilium et Commune mandata nostra et ipsius Ecclesie, que ipsis per nos vel per alium aut alios quotiens opportunum fuerit et expedire viderimus faciemus, firmiter et inviolabiliter observabunt, alioquin pecuniarum summas quas per nos seu alios aut alium exigemus vel exigi faciemus ab eis, de propriis bonis solvent; predictas excommunicationum interdicti et privactionum sententias, auctoritate nostra, relaxans, sepe dictos Potestatem, Consilium et Commune, per te seu alium aut alios absolvas, iuxta formam Ecclesie, ab eisdem eos absolutos publice nuntians, et facias ab aliis per loca in quibus expedire videris nuntiari; actentius provisuris, ne aliqui de predicta civitate vel diocesi, in quos pro quavis alia manifesta offensa vel quacumque spetiali vel rationabili causa, excommunicationis sententia est prolata, et spetialiter hii qui sunt in ecclesiis predicte civitatis et diocesis [et] per secularem potentiam procurarunt intrudi, per commissionem absolutionis huiusmodi absolvantur. Ad hec precepta cum idem sindichus nostra et Ecclesie mandata precise iuraverit, sicut superius est expressum, volumus quod a prefatis Potestate, Consilio et Communi simile recipias iuramentum; hoc spetialiter expresso et superadito, quod inter intrinsechos et extrinsechos cives Florentie, infra festum Pentechoste proxime futurum, pax et concordia reformetur; et nisi interim per se convenient et concordabunt ad pacem et ipsam confecerint, ex tunc super eamdem pacem reformandam nostris parebunt precise mandatis. Tu vero super hiis similes cauciones fideiussiones et obligationes recipias ab eisdem. Super hiis autem causis te diligentiam exibere volumus et cautelam, ut fecisse circa hec omnia expedientia, et nichil omisisse de contingentibus comproberis, tibique non possit aliquid per incuriam imputari, set potius tuam circospectam prudentiam possimus exinde dignis in Domino laudibus commendare. Data Peruscii, VIII kalendas aprilis, pontificatus nostri anno secundo. — Et receptis, iuxta formam ipsarum licterarum fideiussoribus obligationibus promissionibus et iuramentis a Potestate, Consilio et Communi, predictis excommunicationum interdicti et privationum sententiis auctoritate domini Pape relaxatis in Potestate, Consilio et Communi, et dictis Potestate, Consilio et Communi absolutis, iuxta formam Ecclesie ab eisdem, prout hec et alia dicuntur plenius contineri in publicis instrumentis; idem etiam dominus Cardinalis, postea receptis ab Homodeo spetiali, filio quondan Guidonis et domino Iacopo eius filio clericho iuramentis fideiussoribus obligationibus et promissionibus ipsas excommunicationum interdicti et privactionum sententias in ipsis Homodeo et Iacopo eius filio spetialiter etiam relaxans, eosdem Homodeum et Iacopum absolvit iuxta formam Ecclesie, ab eisdem sententiis, faciens eos cum salmo penitentiali in ecclesiam reduci, per religiosum virum fratrem Mansuetum Ordinis fratrum Minorum. Facta fuit ista relaxatio sententiarum excommunicationum interdictorum et privactionum pro ipso et de ipso Homodeo et domino Iacopo clericho eiusdem filio, Florentie, in palatio novo Epischopatus; et reducti in ecclesiam Sancti Vincentii per dictum fratrem Mansuetum, ut dictum est superius; anno ab incarnatione Domini millesimo ducentesimo sexagesimo sexto, indictione nona, die septimo mensis aprilis; presentibus testibus ad hec rogatis domino Melliore quondam Renaldi de Abatibus. Benvenuto quondam Bonamentis et fratre Gianni familiaribus dicti domini Cardinalis. Ego Iacobus de Cerreto quondam Ildebrandi, auctoritate imperiali ordinarius iudex publicusque notarius, predictis absolutionibus et relaxationibus sententiarum et excommunicationum, interdicti et privactionum, factis per dictum dominum Cardinalem de Homodeo et domino Iacopo clerico eius filio et pro eis ut dictum est superius, et etiam quando frater Mansuetus eos in ecclesiam remisit, rogatus interfui et ideo subscripsi. Ego Bonaguida Boninsegne, imperiali auctoritate notarius, predictas absolutiones et relaxationes sententiarum et excommunicationum interdicti et privactionum, factas a dicto domino Chardinale, me presente, de Homodeo ed domino Iacobo eius filio clericho, et missionem quam fecit frater Mansuetus de eis in ecclesiam, tam eorum precibus quam de mandato dicti domini Chardinalis scripsi, et in pubblicam formam redegi, ideoque subscripsi. Ego Peruzzius filius olim Soldi de Trebbio imperiali auctoritate iudex et notarius, autentichum huius exempli scriptum per Bonaguidam Boninsegne, imperiali [auctoritate] notarium, et subscriptum per Iacobum de Cerreto quondam Ildebrandi auctoritate imperiali ordinarium iudicem et publicum notarium, vidi legi et quicquid in ipso continebatur de verbo ad verbum hic fideliter exemplavi, et quod supra interlineatum est, silicet ab eisdem, propria manu feci. Ego Iacobus quondam Iohannis Galitii imperiali auctoritate ordinarius iudex atque notarius, autentichum huius exempli vidi et legi, et ea que in ipso continebantur hic fideliter reperi exemplata, ideoque subscripsi. Ego Giunta notarius, filius quondam Bulsecti de Bulsingis de Prato, autenticum huius exempli vidi et legi, et ea omnia que in ipso autentico continebantur per Peruzzium suprascriptum iudicem et notarium hic superius reperi fideliter et legaliter exemplata, ideoque subscripsi, et mee manus signum apposui. Nº II. (Vedi pag. 80.) DISCORSO INTORNO AL GOVERNO DI FIRENZE DAL 1280 AL 1292; D’INCERTO AUTORE. Crediamo al fatto nostro non disutile riprodurre questo Discorso, che fu pubblicato dal P. ILDEFONSO DI SAN LUIGI, _Delizie degli Eruditi_, tomo IX, pag. 256. — A noi non fa caso che già si trovi per le stampe; i materiali per la storia, come diplomi e carte e statuti e testi di legge o di trattati, pare a noi che basti sapere dove siano, e potersi rinvenire da chi prepara l’istoria per via d’indagini, alle quali necessariamente si mettono pochi. Ma questo nostro è tutt’altro assunto, e abbiamo a noi fatto come un obbligo di cercare che se taluno si voglia mettere alla pazienza di leggere questo libro, vi trovi quel più che noi potevamo e sapevamo, perchè egli arrivi a vivere quanto più sia possibile col pensiero dentro a quel popolo e a que’ tempi dei quali scriviamo. In questa Appendice daremo pertanto di quei documenti i quali a noi sembrino atti a un tal fine; daremo alcuni testi di Leggi o Trattati che abbiano importanza capitale, perchè il linguaggio, le voci legali, le formule sono istoria anch’esse; daremo pure, ma con parsimonia, qualche scrittura già pubblicata, e persino qualche più minuto lavoro nostro che romperebbe viziosamente la narrazione quando da noi si fosse posto in corpo all’Istoria. In quanto allo scritto che ora pubblichiamo, è opera d’uno che se ne intendeva, come parve anche al P. Ildefonso, che nella vasta sua Raccolta mostrò buon giudizio. È singolare quel fermarsi che fece l’autore al breve e antichissimo periodo della Repubblica fiorentina che precedè alla istituzione del Gonfalonierato. Ma ciò appunto indurrebbe a credere che abbia egli lavorato sopra documenti che a lui vennero alle mani, in oggi perduti. In quegli Ordini di magistrati, i quali si trovano qui bene descritti, era già il primo fondamento della Repubblica fiorentina. Io descrivo quale fosse il governo della Città di Firenze dall’anno 1280 al 1292, perchè avendo avuto da questo origine quello, sotto il quale fiorì tanto tempo la Repubblica fiorentina, mi persuado che questa notizia sia per essere tanto più grata, quanto maggiormente pare essere stata sin oggi sepolta nelle tenebre dell’oblivione. Seguìta alla fine dell’anno 1279 la pace del Cardinale Latino, restarono nondimeno le famiglie della città di Firenze divise in guelfe, ghibelline e neutrali, distinte in grandi, popolane e plebee. Grandi erano quelle, che o per nobiltà, o per ricchezze, o per numero d’uomini e per mala natura loro insuperbite, non si contentavano del vivere civile; ma angariavano i meno potenti, e poca stima facevano de’ magistrati. Popolane tutte le civili quiete. Plebee tutte le altre. Le prime due avevano parte nel governo, l’ultime no. Governavano la Repubblica queste due sorti di famiglie, valendosi nello stesso tempo d’uffiziali forestieri, ottimo rimedio alle passioni de’ particolari cittadini nell’amministrazione della giustizia. Il supremo Magistrato in principio fu quello de’ Quattordici; a questo poi succedè quello de’ Priori. Gli uffiziali forestieri erano due, la Podestà e ’l Capitano. Il governo riguardava le cose di dentro e quelle di fuori della città. Dentro amministrar la giustizia, provveder le cose necessarie al mantenimento, e consigliar della pace e della guerra: fuori, difendersi da’ nemici, o offenderli. La Podestà fu antichissima in Firenze: dicono che cominciò l’anno 1202. Trovasi molto prima, ed è quella che ne’ tempi moderni chiamossi per nome mascolino, il Podestà, e così chiameremola noi. Il Capitano cominciò l’anno 1250 con nome di Capitano di Popolo, chiamossi dopo Capitano della Massa de’ guelfi, l’anno 1279 Capitano di Firenze e Consigliere di pace, e nel 1282 fugli aggiunto il titolo di Difensore dell’arti ed artefici. L’elezione di questi due uffiziali o rettori i primi tre anni fu rimessa nel Pontefice, perchè egli eleggesse persone non appassionate per Parte guelfa, nè per ghibellina, e desiderosi di conservar la pace, e perchè eglino avessero forza di farlo fu pagato a ciascheduno di loro cinquanta cavalieri armati, e cinquanta fanti, e per lo primo anno per esser più sospettoso, cento degli uni e cento degli altri. Nel resto del tempo sei mesi avanti il loro principio, per i Consigli del Comune si eleggevano gli elettori del Podestà, per quelli del popolo quelli del Capitano, nè furono mai gli stessi elettori se non per caso, perchè ora furono i Priori soli, ora in compagnia di due o più per sesto, talvolta con tutte le Capitudini, alcun’altra delle sette maggiori solamente, ed alle volte avvenne se bene di rado, che i Priori non v’intervennero. Ciascheduno degli elettori proponeva il soggetto ch’egli voleva. Non doveva essere il proposto del dominio nè di luogo vicino a 50 miglia, d’età d’anni 36 almeno, guelfo, cavaliere o dottore e nobile o signore, nè suddito d’alcun principe. Andavano a partito separatamente, e i quattro di più favore si intendevano essere eletti secondo la graduazione de’ voti. Eleggevasi un ambasciatore, che portava la elezione, se il primo accettava, quella degli altri svaniva, se rifiutava, andava al secondo, dopo al terzo ed al quarto, finchè uno di loro accettasse; e non trovandosi, si eleggevano altri quattro. Doveva l’eletto dopo che la presentazione dell’elezione gli era fatta, avere accettato in termine di due giorni, da indi in là s’intendeva avere rifiutato. Accettando dovea ottenere dalla sua patria promessa autentica di non concedere rappresaglia contro il Comune di Firenze, o alcun suddito di esso, o per salario, che non gli fosse pagato, o per condennazione, che al sindacato gli fosse fatta o per qualsivoglia altra causa. Aveva da essere in Firenze quindici giorni avanti a quello che doveva pigliare l’uffizio con tutta la sua famiglia per informarsi degli statuti della città: e quindici ne dovea stare dopo, che tanti erano quelli del sindacato. Subito arrivato dovea o nel Consiglio del Comune, o in Parlamento pubblico giurare sopra il libro degli Statuti serrato l’osservanza di tutti insieme con tutta la sua famiglia; ed il Capitano giurava di più di procurare per quanto potesse il mantenimento della pace e la difesa dell’Arti. La famiglia del Potestà s’intendeva allora così. Sette giudici, tre cavalieri, diciotto notai e dieci cavalli, tra cui quattro armigeri, e teneva venti berrovieri. Quella del Capitano, tre giudici, due cavalieri, quattro notai e otto cavalli, la metà armigeri, ed avea nove berrovieri. I giudici, notai e berrovieri si mutavano, quelli del Podestà al principio di luglio, quelli del Capitano al principio di novembre; dovevano i nuovi venire allora in Firenze, i vecchi partirsene, ognuno di loro sodava per sè e suoi di starsene al giudicato nel sindacato. La famiglia d’alcun di loro non doveva essere dello Stato, nè di Toscana. Il salario del Potestà e della sua famiglia era per tutto il tempo lire 6000, quello del Capitano 2500. I berrovieri avevano lire tre il mese. Abitava il Potestà nel palazzo del Comune; il Capitano in quello del Popolo: cominciava questo l’ufficio il primo di maggio, quello il primo di gennaio; durava l’ufficio loro un anno: l’uno e l’altro cognosceva delle cause civili e criminali. Il Podestà cognosceva tutte le cause criminali; deputava tre de’ suoi giudici per vederle, chiamavansi i giudici de’ malefizi: ognuno di loro abbracciava due sesti: ciascheduno faceva le cause denunziategli, non poteva alcuno denunziare a altro giudice di quello del suo sesto, il reo seguitava il foro dell’attore: i forestieri denunziavano a quel giudice più loro piaceva. Nelle cause leggieri non potevano pigliare accuse, se non dall’ingiuriato o suo parente: nelle gravi da ognuno: l’accusa doveva essere soscritta dall’accusatore, altrimenti era nulla. Non si poteva procedere per inquisizione, se non in caso che l’ingiuriato e suoi parenti richiesti, che accusassero, non volessero, e se il richiederli fosse stato molto incommodo. L’accusatore giurava di proseguire l’accusa, e davane mallevadore per soldi 100. Il reo era citato a spesa dell’attore, se non compariva nel termine, era citato per bando con riservo di tempo, secondo la qualità della causa, della persona e del luogo; se compariva dopo il termine, ma avanti la condennazione pagando soldi 12 per il bando, era libero da esso. Era il reo esaminato, e se delle cose non sapeva scusarsi, rimaneva convinto, nè più poteva difendersene: scrivevasi l’esamine, ed assegnavasegli dieci giorni di tempo a difendersi; del resto i testimoni convincevano, ma sei giorni si avea di tempo a riprovarli, dopo i quali 25 ne aveva il giudice a esaminare e conferire la causa col Podestà ed altri giudici, e quelli finiti, altri cinque a dar la sentenza. Il Capitano aveva nel criminale la cognizione solamente delle violenze, estorsioni e falsità, e de’ maleficj commessi nella sua corte e palazzo, quando però ancora di queste non era data prima querela al Podestà, ma se il Podestà non dava la sentenza fra 30 giorni, poteva pur conoscerle il Capitano, e alla cognizione di esse deputava uno de’ suoi giudici. I contumaci si condannavano e bandivano, pagavasi taglia a chi pigliava banditi, e chi ne pigliava o appostava in modo che alcuno ne venisse nelle forze del Comune, se era in simile o minor bando, era cancellato senza spesa. I nomi di tutti si registravano in due libri, l’uno stava appresso il Podestà, l’altro appresso i Priori. Concedevaglisi alcuna volta salvo condotto, per andare a stare in esercito, alcun’altra tacitamente si comportavano. I Priori de’ popoli erano tenuti a dare in nota i beni de’ banditi che erano ne’ loro popoli, e per il Comune erano fatti guastare. Chi voleva difenderne alcuno col pretendere che fosse suo, dovea depositare lire 500 o più o meno a piacimento del Potestà. Se i contratti che per tale effetto produceva erano trovati fittizi, perdeva il deposito fatto. Le cause civili nella prima istanza erano conosciute per i giudici dei sesti. Ogni sesto aveva la sua Corte ed il Giudice. I Giudici erano cittadini Dottori. Ogni sei mesi si mutavano. Di salario avevano lire 25, in tutto il tempo. Appellavasi al giudice delle Appellazioni, che era forestiero e dottore. Di salario aveva lire 500, stava in uffizio un anno. L’appellazione doveva esser fatta fra due giorni dalla sentenza data, presentata fra otto dall’interposta appellazione, proseguita in 20 e sentenziata fra 15, utili, se però il tempo non fosse prorogato dalle parti. Se la sentenza del Giudice dell’Appellazione era conforme alla prima, era finita la causa, se no, aveva appello al Podestà, che la faceva vedere per i suoi quattro Giudici collaterali, e la sentenza loro stava ferma nè aveva appello. Le cause civili, che cognosceva il Capitano erano le spettanti alla gabella, all’estimo e simili. Uno dei giudici del Capitano era deputato sopra la Camera e gabella, rinvenire le ragioni e far pervenire in comune quello gli fosse stato occupato, e fare che le rendite delle gabelle, che allora tutte si vendevano, legittimamente si facessero ed i denari da’ compratori fossero pagati; l’altro Giudice era posto a riscuotere le condennazioni, libre o imposizioni fatte per il Comune di Firenze. Facevansi ogni volta che n’era il bisogno, imponevansi ad ognuno secondo l’estimo delle sostanze: l’estimo facevasi ordinariamente ogni tre o quattro anni. Gli uffizi de’ Cavalieri, tanto di quelli del Podestà, quanto di quelli del Capitano erano l’andare attorno con i berrovieri cercando chi contraffacesse agli Statuti, nè senza la presenza de’ cavalieri in molti casi si poteva catturare, in difetto loro supplivano de’ Notai, de’ quali era il proprio ufizio l’aiutare i Giudici, a’ quali n’era assegnato certo numero per ciascuno. Il supremo Magistrato de’ Quattordici, chiamato così dal numero degli uomini, era composto di guelfi, ghibellini e neutrali, partecipandone ciascuna parte per rata del suo numero. Eleggevansi per quelli che erano stabiliti per i Quattordici vecchi e per i Richiesti. Tre se ne facevano per il sesto d’Oltrarno, tre per San Piero Scheraggio, per essere i maggiori, di tutti quattro gli altri sesti due per ciascuno: l’ufizio loro era solo di un mese. A questo l’anno 1283, succedè quello de’ Priori delle Arti, che un anno avanti essendo stati eletti con certa autorità, fu dipoi nel mese di maggio data loro tutta la medesima, che avevano i Quattordici, e questi del tutto spenti, tenendosi fino all’anno 1286, lo stesso modo nell’eleggergli, che si faceva già i Quattordici e da quel tempo al 1292 furono eletti per i Priori vecchi, e per le dodici Capitudini maggiori. Dovevano essere matricolati in alcuna delle sette Arti maggiori e guelfi; divieto avevano due anni, durava l’ufizio loro due mesi. Abitavano nel palazzo pubblico, le spese e la servitù avevano dal Comune. Tre giorni della settimana davano udienza pubblica, il lunedì, mercoledì e venerdì. A nessuno potevano parlare, fuorchè di negozi pubblici, a’ quali almeno dovevano essere presenti i due terzi di loro, nè etiam con i parenti loro più stretti potevano ragionare, non essendo però compresi in questa proibizione il loro Notaio, e famigli. Il Notaio si eleggeva da loro per il tempo che stavano in uffizio, il quale scriveva tutti gli atti e deliberazioni fatte da loro. Sei cittadini erano eletti per le sette Capitudini maggiori a sindacare i Quattordici e’ Priori; sei per i Consigli del Comune a sindacare il Podestà; sei per quelli del Popolo a sindacare il Capitano: quasi tutti gli altri ufiziali erano sindacati per il Giudice delle Appellazioni. Mille fanti della Città erano eletti per il Podestà e Capitano e Quattordici, per conservazione e difesa degli uffizi loro, e per alcuni per i Richiesti; dugento n’erano eletti per Oltrarno; Borgo e San Pancrazio avevano il bianco di sopra, il rosso di sotto; in quello d’Oltrarno era dentro un ponticello rosso. In Borgo una capretta nera; in San Pancrazio una branca di lion rosso. Gli altri tre avevano il rosso di sopra, il bianco sotto. Nel rosso di San Piero Scheraggio era un carretto azzurro. In Porta San Piero le chiavi gialle; in quello di Duomo il tempio di San Giovanni. Mutavansi i Gonfalonieri ogni anno del mese di marzo: i gonfaloni erano dati loro nel Parlamento pubblico. Doveano essere presti alla volontà del Podestà e Capitano; se nel medesimo tempo l’uno e l’altro gli comandava, quelli de’ primi tre sesti obbedivano al Capitano, gli altri al Podestà. Doveva ogni gonfaloniere ch’era chiamato far la massa alla chiesa pel suo popolo; e chi non vi compariva era condannato in lire 25. Nessuno poteva servire per sostituto, fuorchè i medici e dottori, e chi aveva più di 60 anni. Ognuno doveva aver dipinto in tavolaccio e l’altre sue armi dell’insegne del suo sesto. Quando erano chiamati i mille, gli altri non potevano muoversi, nè far ragunata d’uomini armati, massime i grandi, fuorchè fra loro vicini e nello stesso vicinato. Questi tre uffizi maggiori. Quattordici o Priori, Podestà e Capitano governavano quasi il tutto insieme con i Consigli. I Consigli erano di più sorti; di Richiesti o Savi, del Cento speciale e generale del Capitano o del Popolo, e generale di 300, e speciale di 90, del Podestà Comune. Quello dei Richiesti, o Savi non durava più d’una sessione, ed era di quel numero e di quella qualità di cittadini che pareva a’ due rettori forestieri, ed a’ Quattordici o Priori che tutti intervenivano in esso. Proponeva il Podestà; trattavasi di negozi di guerra, sentivansi gli ambasciatori, rispondevasi loro, e finalmente in esso si decidevano tutti i principali negozi. Ciascheduno diceva il parer suo, e vinceva quello che era favorito per la maggior parte passando la metà: se alcuno non arrivava a tal numero rimettevasi il negozio ad altro simile Consiglio e con maggiore o minor numero di Richiesti, o ne’ tre uffizi maggiori solamente, secondochè si vinceva. Se si trattava di guerra eranvi ancora chiamati i Capitani della guerra; se di fare imposta nella città, le Capitudini delle Arti o tutte o parte, ed il partito si faceva segreto. Tutti gli altri Consigli duravano un anno, eleggevansi i consiglieri per i tre uffizi maggiori e per alcuni Richiesti di ciaschedun sesto. Per quello del 100 erano eletti 20 consiglieri per Oltrarno, 20 per San Piero Scheraggio, in tutti gli altri sesti quindici per ciascuno. Del Consiglio speciale del Popolo o Capitano, che con altro nome si chiamava di Credenza, erano sei consiglieri per ogni sesto e del generale venticinque; ragunavansi in San Piero Scheraggio l’uno e l’altro nel medesimo tempo: ritiravansi da una parte della Chiesa quelli del generale, il negozio era proposto nello speciale, vinto in esso, si proponeva di nuovo nel generale, intervenendovi ancora quelli dello speciale: di tutti e due Proposto n’era il Capitano. I consiglieri erano popolani in quelli del Comune, ch’erano due, sebbene quasi un solo in essenza, trovandosi rarissime volte essersi ragunati disgiunti. I consiglieri erano grandi e popolani, per il generale di 300 eranne eletti cinquanta per sesto, per lo speciale di 90, quindici; ragunavansi nel palazzo del Comune e Proposto n’era il Podestà. Chi era d’un Consiglio non poteva essere dell’altro, nè insieme potevano essere padre e figliuolo e fratelli carnali. Divieto si aveva un anno dal deposto ufizio. Non era di essi chi non aveva almeno 25 anni. Ne’ Consigli del Podestà sempre intervennero nelle cose gravi le Capitudini delle sette Arti maggiori solamente sino all’anno 1286, da indi in qua delle dodici, che sempre intervennero in quelli del Capitano. Non potevasi proporre in questi Consigli, se non quello ch’era ordinato per i Quattordici, o Priori, i quali tutto esaminavano fra di loro, e trovando il negozio di che si trattava utile e necessario al Comune, commettevano al Podestà e Capitano che lo proponessero ne’ Consigli. I consiglieri avevano a essere nel luogo deputato avanti che il Proposto del Consiglio si rizzasse per proporre, nè potevano partirsi senza sua licenza, finchè non fosse letta la riforma, e fatto il partito sopra l’approvazione di essa; non potevano consigliare o arringare fuorchè sopra la cosa proposta: nissuno poteva rizzarsi per consigliare, o arringare, sinchè il primo arringatore non avesse finito. Non potevasi dar fastidio o impedire alcuno arringante o consulente; nè potevasi alcuno rizzare in Consiglio, o dire o consigliare alcuna cosa se non nel luogo solito e ordinato a consigliare. Ne’ Consigli del Comune non potevano essere più di quattro arringatori, senza licenza del Podestà: negli altri non se ne vede numero certo. Il partito ne’ Consigli si faceva in due modi o palese e scoverto, o segreto; il palese si faceva a sedere e rizzarsi, il segreto colle palle: il sedere e rizzarsi facevasi immediatamente l’uno dopo l’altro. Le palle si mettevano in un bossolo di due corpi, l’uno rosso e l’altro bianco; il sedere e la parte rossa del bossolo favoriva, il rizzarsi e la parte bianca disfavoriva. Nel consiglio del Cento facevasi segreto, nello speciale del capitano prima palese e poi segreto, nel generale palese solamente, in quelli del Podestà palese ed alcuna volta segreto, ed in tutti si vinceva per la metà e uno poi almeno; fuorchè nel derogare agli Statuti, che questo in tutti i Consigli si dovea vincere per i quattro quinti. Per il Consiglio del Cento si potevano statuire lire 100 il mese, le quali i Priori a piacer loro, senza stanziamento d’altro Consiglio che di questo, potevano spendere, non eccedendo però lire 25 per partita. I Consigli del Popolo per sè soli eleggevano gli elettori quasi di tutti gli ufiziali. Quelli del Comune eleggevano i Sindachi, quando n’era il bisogno per gli affari pubblici, commettevano le Imbreviature o Protocolli dei Notai morti, emendavano i danni de’ fuochi e de’ guasti; stanziavano le spese piccole di lire 100 a basso di quella sorte però che secondo gli Statuti si potevano stanziare e deliberavano d’alcune altre cose di non molta importanza; tutti gli altri stanziamenti, provvisioni e riforme dovevano vincersi per tutti i Consigli, passando per ordine dell’uno e dell’altro ed ancora quelle cose che si trattavano per il consiglio de’ Savi o Richiesti, per gli quali il popolo dovesse essere aggravato o con ispese o con altro. Se quello che era proposto in un Consiglio non si vinceva, non si poteva di nuovo proporre in esso, finchè non fossero mutati i Priori, a tempo de’ quali era stata fatta la proposta. Nel medesimo giorno non poteva esser proposto ne’ Consigli del Comune quello ch’era stato proposto nel Consiglio del Popolo. Eravi ancora il Parlamento generale o Consiglio pubblico, nel quale intervenivano i tre maggiori uffizi. Tutti gli altri Consigli e le dodici Capitudini ragunavansi in Santa Reparata ogni due mesi, quindici giorni dopo l’entrata de’ nuovi Priori, facevasi alla presenza di tutto il popolo, erane capo il Podestà. Era lecito ad ognuno del numero delle capitudini o de’ consoli proporre tutto quello ch’egli avesse stimato essere benefizio del Comune. Esaminavansi dopo le proposte da’ Priori se niuna ve ne conoscevano buona o da potersi fare proponendola altra volta ne’ Consigli minori e doveasi vincere come l’altre provvisioni e riforme. Le riforme e provvisioni e deliberazioni de’ Consigli erano distese e scritte a’ libri e rogati de’ sindacati, e le procure che occorrevano farsi per il Comune di Firenze dal notaio delle Riformagioni, il quale doveva essere della provincia di Lombardia di là dal Reno, ma non del luogo donde fosse il Podestà o Capitano. Eleggevasi per il Consiglio del Comune, e durava l’uffizio suo un anno, ma poteva essere raffermato. Le Capitudini delle Arti erano ventuna, oggi, le chiamiamo Consoli. Ciascheduna di esse aveva il Gonfalone entrovi la divisa della sua arte. Erano sottoposte al Difensore o Capitano obbligati a difendere l’uffizio suo, e seguirlo con arme e senza a sua richiesta, giuravanlo in mano sua, e nelle loro era giurata l’osservanza di questo da tutti i loro sottoposti. Eleggevano le sette Capitudini maggiori ogni sei mesi due signori della Zecca; uno era de’ mercatanti di Calimala, e l’altro di quelli del Cambio e due saggiatori dell’oro e dell’argento. I Signori avevano cura che non si coniasse se non buona moneta, e che la forestiera non buona non corresse; e però la libra pisana e la lucchese inferiori alla fiorentina, erano sbandite, siccome ogni moneta piccola di Toscana, e’ fiorini più leggieri d’un grano si tagliavano. Le medesime sette Capitudini insieme con i Priori eleggevano sei cittadini e un uffiziale forestiero sopra l’abbondanza delle vettovaglie. Chiamasi l’uffiziale il Giudice, i cittadini i sei della Biada; l’uffizio de’ cittadini durava due mesi, sei quello del Giudice; facevano questi condurre grano di diverse parti, il più di Romagna e di quello di Siena. Ne’ tempi di gran carestia per non aggiungere afflizione agli afflitti, facevansi ferie per le cause civili. Dodici danai per ogni staio di grano era dato dal Comune a chi ne conduceva a vendere in Firenze di fuori dello Stato; e chi ne conduceva più d’una soma era sicuro per il viaggio e per sei giorni di stanza, per debiti suoi privati e per rappresaglie, che fossero concedute contro la sua Comunità. Il fare rappresaglie era un sequestrare e rattenere tutti gli effetti pubblici e privati di una Comunità e le persone. Concedevansi le rappresaglie contro quelle Comunità, che non amministravano o si pretendeva che non amministrassero giustizia, o al Comune di Firenze o suoi sudditi, e se fra certo tempo non era soddisfatto il creditore, convertivasi l’equivalente in uso suo. Da questo ne nascevano molti inconvenienti e molti disastri nel negoziare, facendo l’una Comunità rappresaglia contro l’altra. Per sfuggirle emendava il Comune di Firenze il danno che pativa alcun forestiero di rubamenti fattigli nella città o contado; i denari però erano pagati, non trovandosi il delinquente, da quella Comunità o popolo nel quale era seguito il delitto. Ma se pure contro il Comune di Firenze erano concedute per causa privata, erano i principali obbligati a dar soddisfazione; se per pubblica si veniva agli accordi, e satisfacevasi, e molte volte usavasi mettere una gabella sopra le robe de’ Fiorentini che passavano per quella Terra, che faceva la rappresaglia, finchè fosse satisfatto a quel debito. I danari che si pagavano o riscuotevano per il Comune di Firenze, passavano tutti per mano de’ camarlinghi della Camera, i quali erano tre; stavano in ufizio due mesi, e proponevano ne’ Consigli gli stanziamenti da farsi per le spese occorrenti. Tutti i pagamenti facevano con il consiglio di due dottori fiorentini a questo eletti ogni due mesi, chiamati avvocati del Comune, registravasi il tutto ne’ libri pubblici per il notaio della Camera, l’uffizio del quale durava quanto quello de’ Camarlinghi. Per i fatti della guerra eleggevansi per i rettori e’ Quattordici o Priori e per i Richiesti per quel tempo, ed in quel numero che a loro pareva, alcuni cittadini de’ principali con nome di Capitani di guerra. Provvedevano questi le cose necessarie per la guerra, intervenivano ne’ Consigli che appartenevano ad essa, e facendosi esercito, parte di loro andavano e parte ne rimanevano nella città; finito il loro uffizio non s’eleggevano altri, se non era il bisogno. Chiamavansi questi nei tempi più moderni i Dieci della guerra. In difetto loro era solito concedersi per i Consigli balía ed autorità al Podestà. Capitano e Priori sopra la fortificazione della città, sue castella e contado sopra il condurre soldati e sopra ogni cosa spettante a guerra per un tempo determinato. Negli eserciti comandava il Capitano generale della guerra, ch’era forestiero e signore, ed eleggevasi solo quando n’era il bisogno per quel tempo che pareva agli elettori. Il modo dell’elezione era il medesimo di quello del Podestà e Capitano. Conduceva seco un numero di cavalieri e di fanti espresso nella sua condotta. Fra i cavalieri ne dovevano essere alcuni di corredo. Pagavansi al Capitano generale della guerra tutti i danari, tanto dello stipendio suo quanto de’ soldati condotti da lui. Ogni soldato dell’esercito gli era sottoposto, due o più de’ Capitani di guerra andavano con esso con titolo di suoi consiglieri, che insieme con lui il tutto deliberavano. Davasegli un notaio pagato dal Comune, che scrivesse tutto quello che gli occorreva. Non essendo Capitano generale di guerra e bisognando cavalcare, per capo della cavalcata o esercito andava il Podestà, non potendo egli, il Capitano del Popolo o Capitani di guerra. Cavalcata ed andata si chiamava quella dove non si spiegavano i padiglioni, esercito dove si spiegavano. Alcuno de’ giudici de’ malefizi del Podestà andava in esercito per amministrare giustizia. I Connestabili e Capitani di fanti e di cavalli erano condotti per i sindachi del Comune, con quel numero di soldati che avevano in ordine. La rassegna de’ soldati facevasi ogni mese, o quando pareva a’ consiglieri, alla presenza del Capitano, per nome e cognome. Gli eserciti erano composti di mercenarii, ausiliari e sudditi, di fanti e cavalieri. I fanti erano pavesari, balestrieri, arcieri e lancieri. I cavalieri erano o alla leggiera o alla grave, ogni soldato a cavallo chiamavasi cavaliere; di corredo addimandavansi quelli di dignità fatti da’ principi e signori. Gli ausiliari erano pagati da chi li mandava. I mercenarii e sudditi dal Comune. I cavalli mercenarii alla leggera avevano fiorini cinque il mese, quelli alla grave nove o poco più o meno. Ne’ sudditi non era altra cavalleria che quella delle cavallate. Le cavallate s’imponevano a chi più aveva il modo, e a’ Guelfi ed a’ Ghibellini ordinariamente per un anno; per tutto il tempo avevano da 40 fiorini a 50. Imponevasi ordinariamente da 500 fino in 2000, secondo i bisogni; a chi era imposto cavallata era obbligato a tenere un cavallo armigero non di maggior prezzo di fiorini 70 nè di minore di 35, con esso doveva andare in esercito quando gli era comandato, o mandarvi altri in suo luogo; per ogni giorno che cavalcava aveva soldi 15, se era cavaliere di corredo o giudice 20. I cavalli tanto degli stipendiati, quanto delle cavallate si bollavano del bollo della città e stimavansi alla presenza degli uffiziali del Comune, del Capitano e de’ soldati; se il cavallo si guastava, moriva, o era ferito, o ammazzato in servizio del pubblico, mandatane la fede tra cinque giorni a’ Capitani di guerra, gli era pagato la valuta del danno, s’era guasto, se morto, dell’intiero prezzo; finchè non gli era emendato non era obbligato a ricomprarne di nuovo, e la paga gli correva come se l’avesse avuto, e dopo pagato aveva tempo alcuni giorni a provvedersene. Non poteva un cavallo essere emendato più d’una volta, e per questo gli emendati si contrassegnavano. Per arrolare ed assegnare i soldati e stimare i cavalli, erano eletti ogni anno sei cittadini. Negli eserciti generali andavano le cavallate di tutti i sesti. Nelle imprese minori andavano d’un sesto solo, o di più alla disposizione del consiglio de’ savi o Richiesti e de’ capitani di guerra, e l’uno e l’altro ogni tanti giorni si cambiavano. L’esercito generale si bandiva più giorni avanti, e due o tre prima che si muovesse si cavavano l’Insegne e Gonfaloni di Firenze, e spiegati appendevansi ad un luogo vicino alla città e quivi si faceva la massa. I soldati a piè del contado erano eletti per gli vicari, ed eranne loro capi; i vicari erano de’ migliori cittadini di Firenze. Eleggevansi per i Priori capitani di guerra e Richiesti, quando occorreva per quel tempo che si credeva che fosse per bisognare, mandavasene in tutte le provincie principali dello Stato, o solo in quello che pareva a’ medesimi elettori. I vicari avevano soldi 30 il giorno, i fanti 4, i guastatori 3. Se le cavallate di tutti i sesti andavano in esercito, alcuni de’ fanti del contado restavano a guardia della città sino al ritorno loro, ed i cittadini sospetti il più delle volte per quel tempo si mandavano fuori; se l’esercito si faceva contro i Ghibellini, non cavalcavano i Ghibellini delle cavallate, ma i loro cavalli erano fatti prestare a’ Guelfi. I soldati di guardia delle fortezze erano dello Stato, i castellani cittadini ogni due mesi erano rassegnati per uno de’ cavalieri compagni del Potestà di Firenze; le paghe erano maggiori e minori secondo la qualità del luogo. Per sapere gli andamenti de’ nemici stipendiavasi uno per capo di ricevere e mandare spie. Per l’occasione della guerra o per altre spettanti al Comune mandavansi ambasciadori in diversi luoghi, eleggevangli i Priori, per cosa di molta importanza il Consiglio dei Richiesti; l’istruzioni erano loro date per gli elettori. Gli elettori erano de’ più degni cittadini, o no, secondo il negozio che aveano da trattare, o il personaggio cui erano mandati. In ogni ambasciata di qualche conto andavano cavalieri, dottori e cittadini privati ed un notaio. In quelle di grande importanza andava alcuna volta il Podestà, e l’ambasciata facevasi onorevolissima. In quelle di poco rilievo andava un cittadino privato e talvolta un solo notaio. Giuravano gli eletti per ambasciatori in mano del Podestà di fedelmente trattare i negozi loro imposti, nè per loro ottenere grazia o privilegio alcuno, se contraffacevano erano condannati in lire 1000. Il salario non poteva esser più di soldi 50 il giorno, e questo non si dava se non a chi conduceva seco almeno quattro cavalli, che secondo il numero di essi si eleggeva il salario, ma non andava ambasciadore che almeno non ne avesse due: il Podestà quando andava in ambasciata aveva lire 12 il giorno. I cavalli, che in ambasciata si guastavano, o morivano, erano dal Comune emendati. Mandavasi ambasciadori ancora per negozi di persone particolari e d’altre Comunità, ma pagavansi da quelli in servizio de’ quali andavano. Le lettere pubbliche scrivevansi in latino in nome del Podestà, Capitano e Priori, ed ogni sei mesi era eletto un notaio in Dettatore di esse. Con questa forma di governo si resse la Repubblica di Firenze dall’anno 1280 al 1292, nel quale si cominciò l’elezione del Gonfaloniere. Nº III. (Vedi pag. 259.) ISTORIA COMPENDIATA DI SAN GIMIGNANO. Questo difetto è nella storia, che non si trova quasi mai scritta dai vinti. Quello che si dicesse di Firenze dentro ai castelli e durante la lunga caccia patita da essi, ognuno può agevolmente figurarselo, perchè la vita dei castelli fu argomento favorito di molti racconti, sebbene in Italia meno che altrove. Ma dei piccoli Comuni chi potesse sapere le storie qui solamente nella Toscana, si vedrebbe innanzi come una serie di piccoli drammi, dove non sempre ai Fiorentini toccherebbe la parte migliore. Vero è che in tutti sottosopra le cose medesime sempre verrebbero sulla scena, e ciò tanto più quanto più il campo fosse angusto: ma insomma l’Italia si formò a quel modo, e ha la sua cellula nel Comune, ed i più piccoli ne sono i primi vitali ingredienti. Non è dei più piccoli quello che ora ci cade tra mano, ed è dei più noti. San Gimignano è visitato da molti stranieri; nessun’altra terra o castello di Toscana ritiene più della età di mezzo e meno fu invaso dalle susseguenti: in quelle torri e nelle chiese e nelle case di forti pietrami è pure qualcosa di non ricoperto dal fino intonaco dei tempi moderni; le antiche memorie se ne conservano il possesso, la nuova vita v’è poco entrata. Lo stesso accade generalmente; e per esempio nell’Inghilterra, le città più anticamente monumentali si vanno a vedere con grande rispetto, ma in quelle è sempre nelle strade la gente più rada e pare si muova più lenta che altrove. Di San Gimignano abbiamo origini favolose, le vere ci mancano. È ameno il sito, capace il suolo di molti frutti, mite il clima: natura di luogo in tutto diversa da quella più aspra dove fu posta Volterra, che aveva il dominio di quel territorio. Qui era sorto già un castello, anticamente come noi crediamo, sebbene la prima certa memoria che se ne abbia non salga oltre all’anno 929, nè altra notizia ce ne rimanga per tutto il primo secolo dopo al mille. Le torri però in tanto numero, e antichissime, dimostrano avere quella terra (il come s’ignora) avuto potenza di famiglie nobili assai di buon’ora; tanto non crebbe nei primi tempi la vicina Colle, nè Poggibonsi che era stato castello imperiale. Tenevano i Vescovi la signoria di Volterra, e contro ad essi ebbe a combattere San Gimignano per la sua propria emancipazione, la quale fu intera nei primi anni che seguitarono dopo alla pace di Costanza. Dal 1200 cominciano atti di gente libera, il governo in mano di Consoli, e da principio il Podestà, uno degli uomini della terra stessa. Intanto Volterra anch’essa cercava sottrarsi ai Vescovi, uno dei quali cacciato di sede ebbe soccorso dai Sangimignanesi nemici al popolo di Volterra da cui si erano distaccati. Di qui lunghe guerre che si allargarono in più vasto campo, quando le innumerabili divisioni formarono quella dei Guelfi e dei Ghibellini. Ma in questa lotta San Gimignano si rinforzava e le libertà sue ebbero autentico riconoscimento da Federigo II imperatore l’anno 1241. Era uno di quei Comuni tenuti dai militi, che è dire dai nobili, i quali sapevano meglio intendersi con l’Imperatore; e seco andavano di gran cuore contro al popolo di Volterra. Prevalse pertanto assai tra questi la potestà imperiale; pagavano volentieri a Federigo il feudo solito pagarsi ai Vescovi; i Potestà usarono chiamarsi tali Dei et Imperatoris gratia. Ma ciò non toglieva che al pari degli altri Comuni andassero contro a quella medesima potestà, facendo per l’ampliazione del loro contado guerra ai castelli che n’erano il nido. Seguirono gli anni della gran contesa per cui salivano e scendevano con tanto fragore più volte ciascuna delle due contrarie parti: San Gimignano modificava secondo i casi le istituzioni sue cittadine, piegandole verso alla parte popolare come i tempi volevano. Il popolo era ivi come a Siena rappresentato da un ordine che si chiamò dei Nove, ristretto però nè mai caduto nel maggior numero: quella terra ricordava sempre le origini sue, e manteneva le istituzioni che ad essa erano naturali; troppe torri aveva per essere mai bene guelfa. Correvano allora tempi magnifici a San Gimignano: sorgeva il pubblico Palazzo con altri edifizi, fioriva quella piccola repubblichetta richiesta più volte per ambascerie dalle città e dai signori vicini, di lei più possenti; i suoi magistrati andavano arbitri o pacieri di grandi vertenze. Rimane tuttora in quelli archivi documento dell’ambasceria che Dante Alighieri vi esercitò in nome della Repubblica di Firenze agli 8 di maggio 1299; orava dinanzi al Potestà, che era dei Tolomei da Siena, esortando il Consiglio generale a farsi più vivo e rafforzare la lega toscana, verso alla quale parevano essere le volontà dubbie, secondo le varie parti che dividevano i Sangimignanesi. A procurare la concordia poco di poi venne della persona sua in San Gimignano il Cardinale d’Acquasparta come Legato di Bonifazio VIII; si fece una pace, ma fu presto rotta. Potenti famiglie nemiche tra loro per gelosia di grandezza cittadina si chiamavano guelfi o ghibellini, o bianchi o neri o di quanti altri nomi sa l’odio cuoprirsi; nè mancarono a San Gimignano i consueti ammazzamenti, come in ogni altra delle minori o delle maggiori terre d’Italia. Questo ripetersi da per tutto degli stessi casi, questo inutile rivoltolarsi durante più secoli, viene oggi chiamato da un nobile ingegno bellezza di storia. A noi non pare; anzi agl’Italiani facciamo colpa del non avere saputo men tristo rimedio inventare contro al sonno, malattia dei popoli peggiore d’ogni altra per la parentela che ha con la morte. Ma pure in quella età nascevano grandi fatti, in mezzo ai quali nè il buon diritto alla sua propria indipendenza, nè una gran voglia di mantenerla, bastavano a fare che un piccolo Comune avesse, come si suol dire, voce in capitolo. Scese in Italia Arrigo VII, s’inalzò Castruccio, la Toscana ebbe a difendersi contro al Bavaro e contro al Re di Boemia. San Gimignano, posta in mezzo tra Volterra e Siena e Firenze, volentieri avrebbe cercato sostegno da quella parte cui potesse riuscire più utile amica: tirava da Siena i suoi Potestà e alcune forme di reggimento; ma Siena era instabile, e troppo Firenze pigliava la mano già sopra i vicini. Questa si diede al Duca di Calabria; e San Gimignano, senz’altro pensare, dovè seguitarla. Non ne avesse anche avuto voglia, andava insieme con la corrente guelfa, stava con la Lega della quale Firenze era capo; e questa, come su tutti gli altri aveva la forza che gli difendeva, così anche aveva l’arbitrio a costringerli e una crescente volontà di farsi da tutti ubbidire. Chiedeva di nome gli uomini e il denaro per le taglie che prima aveva essa medesima decretate: di già i rifiuti o le renitenze si chiamavano ribellione. Ma perchè uno Stato indipendente ti serva a tuo modo, è necessario potergli comandare in casa dentro. Il primo d’aprile 1333 una lettera al Comune di San Gimignano gli dava ordine di ratificare nel Consiglio del Popolo certe mutazioni fatte allo Statuto di quella terra, nè so con qual titolo, da tre cittadini Fiorentini: dice la lettera che ogni negligenza all’ubbidire, gli avrebbe fatti incorrere in pena. Era in San Gimignano potente su tutte le altre la famiglia degli Ardinghelli. Se propriamente fossero Guelfi o Ghibellini io non lo so, nè bene credo che lo sapessero essi stessi. A me parrebbe senza calunnia potere affermare che furono Guelfi, quando con quel nome potevano farsi un grande seguito nella terra; ma quando ad essi venne la voglia o parve essere necessità, per mantenere il grado loro, di uscire fuori dai termini della civile eguaglianza, allora di fatto se non di nome furono Ghibellini. Ciò nonostante pare che molto se la intendessero con la Repubblica di Firenze, la quale cercando sopra la Toscana di avere un imperio, gradiva che le comunità inferiori, di nome amiche ma in fatto suddite, dipendessero da pochi, perchè i pochi è sempre più facile guadagnare e mezzi più certi si hanno a tenerli. Il Comune di San Gimignano bandì gli Ardinghelli, ma lì appresso era il luogo di Camporbiano, terra di Marzocco; e gli Ardinghelli di là infestavano i Sangimignanesi tanto malamente, che alla fine questi perduta pazienza, un giorno a bandiere spiegate e sotto alla condotta del Potestà loro e Capitano di popolo, che era un Saracini di Siena, andarono contro a Camporbiano, v’entrarono a forza e l’arsero. Questo alla Signoria di Firenze parve delitto di lesa maestà; citò avanti a sè il Potestà e tutti quelli della cavalcata; nessuno comparve; per il che furono condannati come contumaci in lire cinquantamila, con la comminatoria di essere arsi (così è scritto) il Potestà e centoquarantasette Sangimignanesi. Chiesero grazia, e il Consiglio generale di Firenze con voti centoventitrè contro cinquantuno condonò la pena, con che i fuorusciti fossero rimessi in patria e riavessero i beni loro: ma non andò molto che un’altra volta furono ricacciati. Cedevano innanzi alla comunanza cittadina più forte di loro, fuori trovavano chi gli proteggesse. Al Duca d’Atene si erano accostati malcontenti di tutta Toscana, come a cosa nuova. In Firenze un fuoruscito sangimignanese, capitano dei fanti della Signoria, teneva in guardia il Palazzo: costui ne aperse la porta al Duca, dal quale in premio di tanto servizio fu creato cavaliere: tornata libera la città, fu anch’egli dipinto a vitupero come traditore. San Gimignano al nuovo Duca aveva mandato il numero consueto di venticinque cavalieri e cento pedoni, secondo la taglia; ma perchè non volle consentire subito al richiamo dei fuorusciti, questi dapprima respinti con la forza v’entrarono poi con le armi e col nome del Duca, il quale n’ebbe il governo e prima cosa ordinò di fabbricare un cassero dentro la terra istessa. Tornava questa in libertà dopo alla cacciata del Duca, ma più che mai vessata dalle trame e dagli assalti dei fuorusciti, contro ai quali non avendo possa, ricorse a Firenze. Si aggiunse la peste, dopo alla quale San Gimignano mezzo vuotata d’abitatori e fuori battuta da continui assalti dei suoi medesimi, non valendo più da sè a reggersi, fece il primo atto di formale dedizione alla Repubblica di Firenze, che fu per tre anni, da potersi rinnovare, accomunando le due cittadinanze, con che avessero i Fiorentini la sola scelta del Capitano, quella del Potestà rimanendo sempre libera in mano dei Sangimignanesi. Questi credevano forse con un tale atto e sotto alla guardia della Repubblica di Firenze potere costringere a una convivenza quieta le parti contrarie. Ma fu invano, perchè gli esuli tornati potevano troppo, e dentro aveva il Capitano dei Fiorentini messo innanzi qualche altra famiglia da stare a contrappeso. Il che non fece che più inasprire le inimicizie, perchè i Salvucci per tal modo favoriti poterono tanto, che dietro un’accusa male provata persuasero al Capitano, uomo dappoco, di condannare a morte due giovani degli Ardinghelli: fu eseguita la sentenza in fretta e prima che da Firenze venisse divieto. Peggio sino allora non si era mai fatto: agli Ardinghelli cupidi di vendetta si aggiunsero i signorotti da Picchena, vicino castello, e i Rossi famiglia di grandi, i quali cacciati da Firenze vivevano sulle loro possessioni lì appresso. Insieme ed in arme un giorno entrarono in San Gimignano, ed assalita la casa dei Salvucci, che sulla piazza era delle maggiori, la posero a sacco ed a fuoco. Questi si rifugiarono in Firenze; e allora fu gara tra essi e gli Ardinghelli, quale dei due riuscisse con suo maggiore profitto a dare la terra liberamente in potestà dei Fiorentini, che vi mandarono a buon conto seicento soldati, i quali si tennero al di fuori delle mura. Intanto i negoziati procedevano variamente, finchè agli 11 d’agosto 1353 fu stipulato l’atto di perpetua dedizione, per cui San Gimignano, perduta affatto l’indipendenza, ebbe dai Fiorentini la Potestà; e per l’interna amministrazione del Comune, mutato l’antico ordine, fu posto come a Firenze un magistrato di Priori e un Gonfaloniere: il castello di Picchena, smantellato, andò sotto la giurisdizione del Comune di San Gimignano. Ma prima di accettare in Firenze la sottomissione, avevano aspettato che dugentocinquanta uomini della terra venissero a offrirla personalmente; il partito per l’accettazione passò nei Consigli per un voto solo. Dipoi fu scambio tra le due parti di cortesia: mandò la Signoria un foglio bianco sottoscritto, dove i Sangimignanesi ponessero quelle condizioni che volevano: questi risposero con un altro foglio nel modo stesso: il primo esiste negli archivi pubblici della terra, dell’altro è un ricordo. Con tutto questo però non vollero i nuovi padroni essere da meno di quel che era stato nove anni prima il Duca d’Atene; imposero ai Sangimignanesi l’edificazione di una rôcca in luogo adatto e a loro spese; doveva essere sicurezza contro alle discordie o alle ribellioni, ma era difesa nel tempo stesso contro ai grandi, soliti a vivere fino allora secondo la legge comune e senza divieti o esclusioni. In tutto il resto procederono largamente; il che era una fina arte politica, ma era insieme un riconoscimento del diritto che in Toscana più che altrove godeva il Comune alla sua propria indipendenza, in tutto quello dove non fosse stato questo diritto abbandonato dal Comune stesso per la sua propria conservazione. Promisero anche l’esenzione dai balzelli straordinari e da certe tasse minutamente specificate. Poi mantennero la promessa quanto suole farsi in simili casi, e quanto i bisogni della Repubblica di Firenze concedevano. Allora si andava per via di richieste al Consiglio delle spese; così lo chiamavano in San Gimignano: questo si opponeva e mandava ambasciatori che disputavano e infine pagavano, ma le più volte meno del chiesto. Si mantenevano nelle apparenti relazioni tra’ due Stati queste forme di parità: in cose o di confini o di commerci San Gimignano mandava i suoi ambasciatori a trattare prima liberamente co’ vicini; e abbiamo accordi in tal modo fatti con Siena. Così, finchè non fu distrutto in Firenze il libero stato, San Gimignano ebbe un esercizio di volontà in cose pubbliche, una soddisfazione di certi che sono bisogni dell’animo e dell’intelletto: quello che alla libertà mancasse, trovava compenso di quiete e d’ordine e di sicurezza. Fatto è, che pare la terra in quelli anni prosperasse, perchè gli edifizi più ornati e più belli sorsero nel tempo della soggezione; le chiese nel quattrocento furono abbellite da grande copia di pitture affresco e in tavola dei più celebrati in quella età, come Benozzo Gozzoli e il Ghirlandaio e Antonio Pollaiolo, ai quali si aggiungono senza troppa inferiorità pittori sangimignanesi: fiorivano anche le lettere, e diedero qualche uomo il cui nome non è affatto spento. Ma ciò non faceva che non piangessero i loro antichi liberi tempi, quando il bene come il male potevano farsi da sè medesimi. Nè certo i soprusi mancavano, contro ai quali le terre soggette, ponevano speranza nei Medici: ma questi, una volta che ebbero abbassato chi stava di sopra, non rialzarono però gli altri, ed il comune livello scese molto più basso di prima. D’allora in poi San Gimignano venne sempre a scadere: nei due secoli del principato di casa Medici la popolazione della terra scemò d’un terzo, quella del contado non perdè che il sesto. Opere pubbliche non si fecero, e spesso le antiche furono guaste per incuranza o perchè l’amore delle arti mancava e il gusto era pessimo. San Gimignano si chiama sempre dalle belle torri, ma nel cinquecento erano il doppio di quelle che ora bastano a darle aspetto insolito e quasi fantastico. Il canonico di quella Collegiata Luigi Pecori, pubblicava l’anno 1853 una Storia della patria sua, molto accurata e di buon giudizio. Aggiunse in fine lo Statuto dell’anno 1255, ampliato e corretto nel 1314, le notizie risguardanti le cose ecclesiastiche, i pubblici edifici, i cittadini di qualche nome, le opere d’arte, con assai buon numero di documenti dei quali è ricco quell’archivio. Compose tavole dei prezzi di molte cose e dei salari e delle pene che si pagavano in moneta. Prima di lui Vincenzio Coppi dava la _Storia di San Gimignano_ l’anno 1695, in un bel volume in foglio, con dedica al principe Ferdinando de’ Medici. Abbondano in quella ragguagli minutissimi d’ogni cosa la quale importi o che all’autore paresse in qualche modo importare al decoro della patria sua. Fornito di buone lettere più che di sana critica, mantiene per vera una favolosa origine di San Gimignano, sulla quale nei primi anni del quattrocento Mattia Lupi aveva scritto un poema latino, da lui chiamato eroico, in quattro libri di cattivi versi. Dissi in principio, e ripeto in fine, che vorrei piuttosto sapere il vero del come potè sorgere a qualche grandezza da molto antichi secoli questa terra. Nº IV. (Vedi pagg. 270 e 271.) (_Archivio di Stato Diplomatico_, provenienza _Atti pubblici_). _PROTESTATIO FACTA PER SINDICOS COMUNIS FLORENTIE DOMINO KAROLO ROMANORUM REGI._ In Christi nomine Amen. Anno sue salutifere Incarnationis Millesimo trecentesimo, quinquagesimo quarto Inditione VIIIª die vigesimo mensis Martii. Manifeste appareat omnibus presens instrumentum publicum inspecturis Quod Serenissimus et Invictissimus Princeps et dominus dominus Karolus Dei gratia Romanorum Rex et semper Augustus ac Boemie Rex, de innata Maiestati sue clementia, consensit expresse et de gratia speciali nobilibus et sapientibus viris Domino Barne de Rubeis } militibus Domino Paczino de Strocziis } Domino Loysio de Giamfigliacziis Legum doctori Loysio de Mocziis Uguiccioni de Ricciis et Simoni de Antilla ambaxatoribus, sindicis et procuratoribus Comunis et Populi Civitatis Florentie, ut de ipsorum sindicatu sive procura patet publico instrumento scripto manu mei notarii infrascripti, ac etiam mihi notario infrascripto tamquam publice persone stipulanti et recipienti vice et nomine Populi et Comunis Florentie, quod Iuramentum eidem tamquam Romanorum Regi seu tamquam Imperatori prestandum per dictos Sindicos et pro dicto Comuni, quibuscumque verbis prestetur seu prestitum reperiri contingat, habeat et habere intelligatur infrascriptas reservationes modificationes et capitula, et perinde intelligatur esse ac si in eo seu eius prestatione dicta et infrascripta capitula essent apposita e expressa licet in ipsa figura verborum dicti Iuramenti non apponantur nec exprimantur. Ita quod dictum Iuramentum vires sive effectum non habeat contra dicta infrascripta capitula seu contra sensum ipsorum et ita actum consensum et conventum extitit inter eos. Reservationes autem modificationes et capitula sunt hec, videlicet: In primis, quod vigore Iuramenti prestandi et contentorum in eo, dictum Comune Florentie ad aliud seu ultra vel aliter non teneatur dicto domino Regi quam dictum Comune et alia Comunia Tuscie et Lombardie ab antiquo tenebantur et tenentur Imperio secundum Leges Imperiales et Iura comunia Romanorum Principum. Et quod dictum Iuramentum non deroget nec in aliquo preiudicet aliquibus privilegiis seu benefitiis concessis seu concedendis per dictum dominum Regem dicto Comuni Florentie, seu aliquibus promissionibus gratiis seu benefitiis, cum scriptura vel sine, factis vel fiendis, concessis sive concedendis per dictum dominum Regem dicto Comuni Florentie. Mandans expresse predictus dominus Rex mihi notario infrascripto, quatinus ad maiorem et clariorem predictorum memoriam de predictis publicum conficerem instrumentum. Acta fuerunt predicta per dictum dominum Karolum Regem, Pisis in camera predicti domini Regis, in domibus que dicuntur Giardinum sive viridarium Pieri Andree de Gambacurtis; presentibus testibus reverendissimo in Christo patre et domino domino Niccolao Patriarcha Aquilegiensi et principe honorando et venerabili in Christo padre domino Iohanne Episcopo Olomocensi et magnificis viris Marcardo Agustense, Thederigho Mindense, Vladislao duce Theschinense, Burghardo burgravio Magdeburgense et......... de Lippa, Bustone de Reilhartis ac nobilibus et prudentibus viris domino Dondaccio de Malingniis de Fontana de Plagentia, milite et Leggerio Andreocti Niccoluccii de Perusio, adhibitis et rogatis. Et Ego Angelus ser Andree domini Rinaldi, florentinus civis, publicus Imperatoris auctoritate notarius et iudex ordinarius, predictis omnibus in presenti facie contentis et scriptis dum sic fierent interfui, illaque mandata Regio et rogatu Sindicorum suprascriptorum publice scripsi et signum apposui consuetum. _CAPITULA CONCORDIE INTER DOMINUM KAROLUM ET COMUNE FLORENTIE._ In Christi nomine, amen. Anno sue salutifere Incarnationis Millesimo trecentesimo quinquagesimo quarto, Indictione VIII, die vigesimo primo mensis Martii secundum consuetudinem civitatis Florentie, Serenissimus Princeps et dominus dominus Karolus Dei gratia Romanorum semper Augustus ac Boemie Rex, et infrascripti Ambaxiatores et Sindici Populi et Comunis Florentie asseruerunt se super infrascriptis capitulis, die xxº presentis mensis martii predicti simul conclusisse et concordasse, videlicet: _Quomodo Priores sint vicarii Imperatoris. — Quod Civitas Florentie eiusque comitatus et districtus regantur per Populum et Comune et sub legibus ipsorum etc. — Aliqualis confirmatio sub missionum et aliarum conventionum._ Primo, quod Priores Artium et Vexillifer Iustitie Populi et Comunis Florentie qui pro tempore fuerint toto tempore vite domini Regis Karoli presentis, etiam port Imperiales infulas susceptas, et non alius, sint eius vicarii generales et inrevocabiles tantum tempore vite domini Regis predicti, sicut predicitur, in civitate Florentie et eius comitatu et territorio et districtu, et in omnibus terris et locis que per Comune Florentie seu pro ipso Comuni tenentur, gubernantur, seu custodiuntur: terris vero, si quas de facto et non legiptime occupant ecceptis; super quibus non constituantur vicarii, neque aliquis alias seu aliqui alii constituantur neque sint offitiales ibidem, nisi per Populum et Comune predictum fuerint constituti. Quodque ipsi vicarii sic constituti nichil aliud possint nec aliter, nec sindicentur seu ad rationem administrationis coram predicto populo reddendam teneantur, nisi secundum Statuta ed ordinamenta Comunis Florentie et secundum Leges municipales, consuetudines et mores laudabiles hactenus observatos ibidem, sed sindicentur solummodo per dictum Populum et Comune vel offitiales dicti Comunis ad hoc deputatos seu deputandos secundum formam Statutorum dicte Civitatis. Et quod dicta civitas Florentie terre et loca per dictum Populum et Comune regantur custodiantur et gubernentur sub ea iurisdictione regimine et custodia laudabili ac sub illis magistratibus sub quibus ad presens tenentur et gubernantur seu teneri et gubernari solita sunt per dictum Populum et Comune et sub eisdem iuribus statutis et ordinamentis consuetudinibus et moribus laudabilibus iuste editis et edendis per dictum Populum et Comune seu loca predicta. Quos magistratus dictus Populus et Comune sibi et in locis predictis ad beneplacitum et pro sui libito possit eligere et constituere et iura municipalia et ordinamenta et alia predicta edere et condere cassare et mutare rationabiliter, secundum rerum et temporis exigentiam, ac eadem in tempore preterito iuste potuerint. Et quod in dicta civitate Florentie et locis predictis seu aliquo ipsorum aliqui offitiales cuiuscumque nominis vel conditionis non constituantur mictantur vel fiant, nisi solum per Populum et Comune Florentie, secundum sua ordinamenta consuetudines et mores laudabiles et illa intelligantur statuta iura, ordinamenta et consuetudines et mores laudabiles et laudabilia, iusti et iusta rationabiles et rationabilia que vel qui specialiter non reprobantur a iure. Quodque dictus Rex in submissionibus seu concessionibus dictarum terrarum seu locorum vel alicuius eorum voluntarie factis dicto Populo et Comuni eos non impediat, nec in regimine earundem. Et in terris huiusmodi que se sponte submiserunt eis, dum tamen sint Imperii, earum Incolis non contradicentibus, eos vicarios constituimus modo predicto: salvis tamen iuribus aliorum. Et quod convenctiones et pacta inite seu inita inter dictum populum et Comune ex una parte et dictas terras seu loca vel aliquos eorum ex altera, sicut iuste et rationabiliter procedunt, confirmentur et approbentur per dominum Regem predictum. _Irritatio condempnationum factarum per olim Imperatores._ Item, omnes et singule sententie condempnationes forbannitiones et processus, per quoscunque divos Romanorum Imperatores et Reges predecessores domini Regis predicti, contra Populum et Comune seu singulares eius personas, in civitatem comitatum territorium seu districtum aut loca ipsius, et nominatim contra infrascriptos Comites de Battifolle, de Doadola, Albertum de Mangona et Neronem de Vernio ac eorum subditos late seu lati, facte seu facti, et omnes pene infamie note inhabilitates et defectus, seu etiam amissionis vel privationis bonorum qui vel que ex hijs sequi vel infligi a lege vel ab homine seu alio quovis modo contrahi potuissent, tollantur removeantur et relaxentur, quodque ipsi quo ad bona et omnia alia in integrum restituantur, de gratia speciali domini Regis predicti. _Liberatio Comunis a censibus retroactis._ Item, quod predicti Populus et Comune Florentie, homines ipsorum et loca predicta sint liberi et absoluti ab omni et toto eo ad quod tenerentur Romanorum Regibus seu Imperatoribus vel ipsi sacro Imperio, de censu annuo Imperio sacro solvi debito et consueto, condempnationibus devolutionibus in fiscum, vectigalibus indictis et super indictis et aliis oneribus quibuscumque et hiis similibus provenctibus et obvenctibus, usque in presentem diem; solvendo tamen ad presens pro illis preteritis predictis Iuribus Imperii sacri illam summam pecunie pro qua gratiam domini Regis poterunt invenire. _Dispositio circa census futuros._ Item, quod omnibus redditibus proventibus condempnationibus devolutionibus in fiscum, vectigalibus indictis et super indictis et aliis honeribus quibuscumque et hiis similibus sicut premictitur in quibus domino suo Regi predicto, tamquam Romanorum Regi, teneri potuerunt in futurum, et pro consequendo gratiam et favorem dicte Regie maiestatis, solvant censum annuum aliis Romanis Imperatoribus seu Regibus et Imperio solvi debitum et consuetum. Et quod ultra solutionem dicti census nomine futuri temporis non graventur in persona vel rebus. Quodque dictus Populus et Comune Florentie, toto tempore vite predicti domini Regis, et non alias seu alii omnia predicta et eorum quodlibet, que ipse dominus Rex iuste percipere posset, licite percipere possint et valeant. _Quod contra predicta nil fiat._ Item, quod dominus Rex predictus nichil faciat contra vel ultra predicta et infrascripta. Et si quis adversus indultum Regium contrafecerit, indignationem domini Regis incurrat. _Quomodo privilegia concedantur de predictis._ Item, quod dominus Rex de predictis omnibus que perpetuitatem sapiunt ac de iure concedi possunt, donet eidem Populo et Comuni Imperiale et Regium privilegium duraturum perpetuo: super hiis vero que tractu temporis transient, donet ei privilegium ad tempora vite sue. _Quomodo recognoscatur in dominum, et de prestando iuramento._ Item, quod Comune et Populus Florentinus, iuxta oblationem factam per eos, constituant solepnes Sindicos legiptimum mandatum habentes, qui nomine et vice Comunis et Populi prefatum dominum Regem recognoscant Romanorum Regem et verum dominum ipsorum sicut alie civitates Tuscie et Lombardie ab antiquo tenebantur et tenentur Imperio secundum Leges Imperiales et Iura comunia Romanorum principum; sibique nomine dicti Comunis et Populi prestent fidelitatis debite iuramentum: salvis semper articulis qui superius et inferius expressantur. Sic tamen ut post Imperiales infulas susceptas, iuramentum renovetur. _De quadam protestatione fienda._ Item protestatio admictenda sub literis Maiestatis Regie sonabit in haec verba videlicet: Quod vigore Iuramenti prestandi et contentorum in eo, dictum Comune Florentie ad aliud seu ultra vel infra aut aliter non teneatur dicto domino Regi quam dictum Comune et alia Comunia Tuscie et Lombardie ab antiquo tenebantur et tenentur Imperio, secundum Leges Imperiales et Iura comunia Romanorum principum. Et quod dictum Iuramentum non deroget nec in aliquo preiudicet aliquibus privilegiis seu beneficiis concessis seu concedendis per dictum dominum Regem dicto Comuni Florentie, seu aliquibus promissionibus gratiis seu benefitiis cum scriptura vel sine, factis vel fiendis, concessis sive concedendis per dictum dominum Regem dicto Comuni Florentie. _De modo compositionis solvende._ Item, quod predictus Populus et Comune quantitatem pecunie, ratione preteriti temporis seu Iurium neglectorum, et censum annuum Imperio debitum et consuetum pro futuro tempore, debitis locis et temporibus, teneantur solvere prout apud Regalem fuerit ordinatum: sic tamen quod solutio fiat in Tuscia seu in Venetiis vel Padua. _Quomodo quidam rebelles restituantur._ Item, quod forbanniti exititii seu expulsi de dicta Civitate Florentie, occasione celebris memorie domini Heinrici condam Romanorum Imperatoris Augusti, seu propter obedientiam et adhesionem factam sibi, reducantur ad domus suas et gaudeant possessionibus, prediis et rebus suis, et in eisdem promotione et favore dicti Comunis foveantur. Salvo quod predicta non preiudicent aliis condempnationibus si quas haberent ob alias causas: et etiam sic quod contenta in presenti capitulo fiant absque fraude vel dolo. _Quod Comune Florentie in terris quas detinet non vexetur, etc._ Item, quod dominus Rex non impediet Comune et Populum civitatis Florentie in regimine civitatis Florentie ipsius seu castrorum et terrarum que per ipsum Comune et Populum in toto vel in parte, seu sub eo vel pro eo tenentur, reguntur et custodiuntur seu gubernantur, tempore vite domini Regis predicti, nec ipsam Civitatem seu terras predictas vel aliquam ipsarum in toto vel in parte alicui alii concedet seu dabit, non obstantibus supradictis. Set impetentibus eos vel se, adversus dictum Comune et populum Florentie, ius aut actionem habere contendentibus ministrabit iustitiam citationibus sententiis et aliis processibus iudiciariis ac etiam executione licterali; sed ipse Rex et sui officiales ad quamcunque requisitionem talium impotentium manum armatam vel potentiam non apponet; nec etiam faciet alia precepta penalia circa seu propter relaxationem seu dimissionem vel restitutionem dictarum terrarum seu locorum vel alicuius eorum. _Reservatio Regia, si contrafieret._ Item, si dictus Populus et Comune vel singulares persone adversus prestitam fidem, Iuramentum et obedientiam debitam negligentia quavis, temeritate vel pertinatia excederent, reservat sibi dominus Rex potestatem plenariam penas quascumque reales vel personales infligendi iuxta decretum Regium, secundum delictorum et excessuum qualitatem. _Pro Aretinis._ Item, circa predictas gratias concessiones et indulta, ubi locus extiterit, addi debeat infrascripta clausola que sequitur in hec verba: Salvo quod predicta non vendicent sibi locum in terris et castris Comunis Aretii nec in eorum curiis, que presentialiter pignori tenentur per Comune Florentie; que castra et terras liceat Comuni Florentie predicto retinere, donec ipsum Comune Florentie consecutum fuerit a Comuni Aretii creditum ad quod dictum Comune Aretii tenetur dicto Comuni Florentie. Et facta solutione dicti crediti per dictum Comune Aretii prefato Comuni Florentie ut predicitur, statim ipsum Comune Florentie teneatur et debeat eadem pignora restituere dicto Comuni Aretii. Nº V. (Vedi pag. 275) MATTEO VILLANI. Lib. IV, Cap. 77. — _Come fu offesa la libertà di Roma dai Toscani_. «Vedendo i falli commessi per li comuni ghibellini di Toscana, che liberamente sottomisono la loro libertà al nuovo imperatore, ci dà materia di ricordare per esempio del tempo avvenire, come col popolo romano i comuni d’Italia, e massimamente i Toscani.... parteciparono la cittadinanza e la libertà di quel popolo, la cui autorità creava gli imperadori; e questo medesimo popolo, non da sè, ma la Chiesa per lui, in certo sussidio de’ fedeli cristiani, concedette l’elezione degli imperadori a sette principi della Magna. Per la qual cosa è manifesto, avvegnachè assai più antiche storie il manifestino, che il popolo predetto faceva gli imperadori, e per la loro reità alcuna volta gli abbattea, e la libertà del popolo romano non era in alcun modo sottoposta alla libertà dell’impero, nè tributaria come l’altre nazioni, le quali eran sottoposte al popolo e al senato e al comune di Roma, e per lo detto comune al loro imperadore: e mantenendo i nostri comuni di Toscana l’antica libertà a loro succeduta dalla civiltà del popolo romano, è assai manifesto che la maestà di quel popolo, per la libera sommessione fatta all’imperadore per lo comune di Pisa e di Siena e di Volterra e di Samminiato, fu da loro offesa, e dirogata la franchigia de’ Toscani vilmente per l’invidia ch’avea l’uno comune dell’altro, più che per altra debita cagione.[339]» Cap. 78. — _Di quello medesimo_. «Seguitiamo ancora a dire le cagioni per le quali, oltre a ciò ch’è detto nel precedente capitolo, a’ comuni italiani, senza offesa del sommo impero, è lecito anzi debito il patteggiare con gl’imperatori. L’Italia tutta è divisa mistamente in due parti, l’una che seguita ne’ fatti del mondo la Santa Chiesa, secondo il principato che ha da Dio e dal santo impero in quello,[340] e questi sono dinominati guelfi....: e l’altra parte seguitano l’impero, o fedele o infedele che sia delle cose del mondo a Santa Chiesa, e chiamansi ghibellini.... e seguitano il fatto; che per lo titolo imperiale sopra gli altri sono superbi, e motori di lite e di guerra. E perocchè queste due sette sono molto grandi, ciascuna vuole tenere il principato; ma non potendosi fare, ove signoreggia l’una e ove l’altra, comecchè tutti si volessono reggere in libertà di comuni e di popoli. Ma scendendo in Italia gl’imperatori alamanni, hanno più usato favoreggiare i ghibellini che i guelfi; e per questo hanno lasciato nelle loro città vicari imperiali con le loro masnade: i quali continovando la signoria, e morti gli imperadori di cui erano vicari, sono rimasi tiranni, e levata la libertà a’ popoli, e fattisi potenti signori, e nemici della parte fedele a Santa Chiesa e alle loro libertà. E questa non è piccola cagione a guardarsi di sottomettersi senza patti a’ detti imperadori. Appresso è da considerare che la lingua latina....; e i costumi e’ movimenti della lingua tedesca sono come barbari, e disusati e strani agli Italiani, la cui lingua e le cui leggi e costumi e i gravi e moderati movimenti, diedono ammaestramenti a tutto l’universo, e a loro la monarchia del mondo. E però venendo gli imperatori della Magna col supremo titolo, e volendo col senno e con la forza della Magna reggere gli Italiani, non lo sanno e non lo possono fare; e per questo essendo con pace ricevuti nelle città d’Italia, generano tumulti e commozioni di popoli, e in quelli si dilettano, per esser per controversia quello ch’essere non possono nè sanno per virtù o per ragione di intendimento di costumi e di vita. E per queste vive e vere ragioni le città e i popoli che liberamente gli ricevono, convien che mutino stato, o di venire a tirannia, o di guastare il loro usato reggimento, in confusione del pacifico e tranquillo stato di quella città o di quello popolo che liberamente il riceve. Onde volendo riparare a’ detti pericoli, la necessità stringe le città e’ popoli che le loro franchigie e stato vogliono mantenere e conservare, e non essere ribelli agli imperadori alamanni, di provvedersi e patteggiarsi con loro: e innanzi rimanere in contumacie con gli imperatori, che senza gran sicurtà li mettano nelle loro città.» Lib. V, Cap. I. — _Prologo_. «Chiunque considera con spedita e libera mente il pervenire a’ magnifici e supremi titoli degli onori mondani, troverà che più paiono mirabili innanzi al fatto e di lungi da quello, che nella presenza della desiderata ambizione e gloria: e questo avviene perchè il sommo stato delle cose mobili e mortali, venuto al termine dell’ottato fine, invilisce, perocchè non può empiere la mente dell’animo immortale; ancora si fa più vile se con somma virtù non si governa e regge: ma quando s’aggiugne ai vizi, l’ottata signoria diventa incomportabile tirannia, e muta il glorioso titolo in ispaventevole tremore de’ sudditi popoli. Ma perocchè ogni signoria procede ed è data da Dio in questo mondo, assai è manifesto che per i peccati de’ popoli regna l’iniquo. L’imperial nome sormonta gli altri per somma magnificenza, al quale soleano ubbidire tutte le nazioni dell’universo, ma a’ nostri tempi gli infedeli hanno quello in dispregio, e nella parte posseduta per i cristiani tanti sono i potenti re, signori e tiranni, comuni e popoli che non l’ubbidiscono, che piccolissima parte ne rimane alla sua suggezione: la qual cosa estimano ch’avvenga principalmente dalla divina disposizione, il cui provvedimento e consiglio non è nella podestà dell’intelletto umano. Ancora n’è forse cagione non piccola l’imperiale elezione trasportata ai sette principi della Magna, i quali hanno continuato lungamente a eleggere e promuovere all’impero signori di loro lingua: i quali colla forza teutonica e col consiglio indiscreto e movimento furioso di quella gente barbara hanno voluto reggere e governare il romano impero; la qual cosa è strana da quel popolo italiano che a tutto l’universo diede le sue leggi e’ buoni costumi e la disciplina militare: e mancando a’ Tedeschi le principali parti che si richieggono all’imperiale governamento, non è maraviglia perchè mancata sia la somma signoria di quello.» Nei capitoli sopracitati è istorica filosofia, e, a creder nostro, della migliore. Qui è la dottrina del Machiavelli circa le mutazioni dei regni, e qualche cosa anche di più, senza di che non riuscirebbe quella altro che a sterile empirismo; e qui la retta interpretazione di quella solenne ma spesso travolta e abusata sentenza che ogni potere viene da Dio. Si noti pure come l’appellazione data di barbari ai settentrionali, goffa e sguaiata al tempo nostro e pedantesca nel cinquecento, fosse plausibile tuttavia quando di fresco era cominciato quello che fu a noi risorgimento precoce e rapido anche troppo, e che ad essi era un principiare con passi deboli per allora. E aveva il fatto mostrato sempre, fino dal tempo della invasione, come i popoli germanici a petto agli uomini italiani di quella età fossero incapaci, non che a fare con loro insieme mischiato buono e compagnia, ma nemmeno anche a bene opprimerli. Quel che però giova maggiormente in questo luogo di rilevare, perchè fu troppo dimenticato, è l’imperiale supremazia attribuita alla città ed al popolo di Roma, secondo il giure che fu solenne tra gli Italiani del medio evo, e senza il quale viene a frantendersi nel creder nostro mezza l’istoria. Cotesto giure fu il principio e il fondamento della dottrina guelfa: ma quella pure che l’Alighieri promosse nel libro della Monarchia, non differiva se non in quanto per lui era la monarchia del mondo direttamente trasmessa da questo popolo agli Imperatori; laddove i guelfi diceano il popolo avere concessa e trasmessa l’elezione ai principi dell’Allemagna, non da sè ma per delegazione da lui fatta alla romana Chiesa ed ai Pontefici, investiti per questa via del civil diritto, come essi erano del divino. Era più antica la controversia di quel che sembri a prima vista; ed a togliere di mezzo i Papi che vi si erano interposti, veniva il popolo di Roma originariamente a professare la stessa dottrina che i giuristi più assoluti nell’inalzare e nel difendere le ragioni dell’Impero. Ma rinnegando l’autorità sia dei Pontefici sia del popolo, secondo facevano i moderni ghibellini ed i Tedeschi generalmente, dice bene Matteo nostro, che l’imperiale potestà non era più altro che un _fatto_, o il diritto della forza senza ragione d’autorità. Allorchè papa Leone III l’anno 800, il dì del Natale, dopo la messa, all’improvvista poneva sul capo d’un re Franco il diadema imperiale d’Occidente, e gli vestiva le spalle del manto dei Cesari; quella sorpresa e quasi diremmo quella commedia di tanto pondo, non si vuol credere che avesse altro motivo, tranne il pensiero di trasferire tutta in chiesa di San Pietro quella imperiale investitura, che il popolo di Roma avrebbe data nel Campidoglio. Al diritto di pontefice, supremo capo della cristianità, Leone volle in sè congiungere anche il diritto di naturale e legittimo rappresentante o delegato della città di Roma, togliendo via la controversia con la solenne autorità del fatto. I Pontefici non si arrogarono in quella età, nè più altre dopo, in via giuridica la sovranità di Roma: e il diritto di questo popolo e quello assunto dai Pontefici, e quello proprio degli Imperatori i quali avevano la material forza e la traevano d’Allemagna; questi diritti e questi fatti confusamente s’intramezzarono gli uni negli altri per molti secoli, così com’era e doveva essere ogni diritto in quella età, per le moltiplici tradizioni e la mancanza di norme certe. Questo faceva Leone III; ma poco dopo ecco un altro fatto incontro a quello, e fu manifestazione grande e solenne del fondamento che per sè Carlo voleva dare al nuovo impero attribuitogli. Quando innanzi la morte sua faceva egli la divisione fra tre suoi figli dei possedimenti ch’erano quasi l’Europa intera, al maggior figlio, che dopo lui doveva essere imperatore, assegnò Carlo tutto il settentrione e tutti i popoli di tedesco sangue, sovrapponendo anco nel diritto quella porzione che aveva in sè tutta ormai la material forza, a quelle due che erano assegnate ai due minori fratelli coll’inferior titolo di re, come una grande incubazione che la Germania dovesse fare sulle regioni del mezzogiorno. Questa per lui era la consacrazione della forza, e così egli la intendeva: due re dovevano con autorità minore spartirsi i popoli di latino sangue cui era odioso il nome regio, ed i Tedeschi non bene usciti dal paganesimo e dai boschi, ebbero il titolo imperiale che importava la signoria del mondo. L’ardimento di Leone che s’arrogava un diritto nuovo, e il testamento di Carlo Magno, furono come fonti a due rivi, o a meglio dire, a due torrenti che s’urtavano e incalzavano mischiati insieme nell’alveo stesso. Ma il fatto di Leone non riusciva all’effetto suo senza creare lungo contrasto; e la contesa tra la città ed i Pontefici romani durava quanto l’altra contesa tra essi Pontefici e gl’Imperatori, cioè tutta quanta l’età di mezzo. I signori dei castelli intorno a Roma e nella città stessa, ora col popolo s’intendevano, ed ora al popolo contrastavano come successori dei patrizi di Roma antica, e non s’appellavano o male erano ghibellini. Cola di Rienzo ed il Colonna continuavano sconciamente la divisione che in Roma antica era tra ’l popolo e il senato, ma volevano lo stesso entrambi quanto al negare o contrastare la sovranità pontificale: e in faccia poi agli Imperatori, se il consacrarli si apparteneva al Papa solo come pontefice, una figura di elezione si manteneva nella città di Roma, nè in altro luogo la coronazione sarebbe stata tenuta buona; e comunque i Papi risedessero in Avignone, a Roma andavano Arrigo VII, e Lodovico di Baviera e Carlo IV, a cercare la corona quivi deposta dai primi Cesari. Nè in Costanza Sigismondo fu sacrato imperatore, benchè ivi il Papa fosse presente, e solenne l’occasione quanto altra mai nella cristianità; ma in Roma egli, e poi Federigo III. Dopo del quale essendo Roma caduta già nella condizione di città suddita ai Pontefici, e i nuovi fatti e gli ordinamenti nuovi dovunque venuti a soverchiare l’idea dominatrice del medio evo, perchè i principi e le nazioni aveano titolo da per loro; cessava ben tosto la necessità di accattare da Roma antica l’imperial titolo e la potestà: e Carlo V, nel coronarsi imperatore in Bologna, io non so bene se più intendesse di rinnalzare Clemente VII, o di abbassare la Sede di Roma facendo il Papa uscirne fuori a consacrare sopra alla testa di Carlo V la nuova forma e disusata di quella potenza che egli del tutto riconosceva dalla sua spada e dalla fortuna. Dopo lui nessun altro Imperatore venne in Italia per la corona, chè non avrebbe legato gli animi nella Germania mezza protestante; e la potenza di casa d’Austria stava oggimai ne’ possedimenti. Quelli d’Italia appartenendo al ramo spagnuolo dei successori di Carlo V, la scemata potestà dei tedeschi Imperatori fu agli Italiani poco gravosa: quei di Germania avevano l’alta sovranità dei feudi imperiali, che ad essi davano ingerenze nei minori stati per ogni resto indipendenti; scarso provento ne ritraevano, e nelle guerre di religione un qualche raro sussidio d’armi. Il diritto pubblico del medio evo reggeva tuttora gli Stati d’Europa; ma soverchiato dai fatti nuovi, più non valeva se non a dare qualche pretesto alle aggressioni e ad allungare i negoziati. Per il possesso della Toscana all’estinzione di casa Medici gran tempo prima antiveduta, i principi grossi aguzzarono le armi, e i diplomatici le penne: l’Imperatore metteva innanzi l’antico dominio e le ragioni dell’Impero; ma dopo averla prima assegnata ad un principe spagnuolo, parve giovasse a mantenere quel che appellavano equilibrio darla per ultimo ad un Lorenese. I Medici in quella decrepitezza della famiglia loro, e nel politico abbassamento cui tutta Europa gli costringeva, pure serbarono qualche dignità; e come erano per le origini e per l’ingegno e le tradizioni, si dimostrarono cittadini. Sopra ogni cosa volevan essi l’indipendenza della Toscana, che era oppugnata in via legale dagli scrittori imperialisti; e di tale controversia giova qui dire alcune cose spettanti alla materia nostra. Un libro col titolo _De Libertate Civitatis Florentiæ ejusque Dominii_ fu impresso a Pisa nel 1721, ed a Firenze, ma senza data, l’anno dipoi, regnante ancora il terzo Cosimo. Per le memorie che ne rimangono, da prima sarebbe stato quel libro messo insieme dal senatore Niccolò Francesco Antinori, il quale mandato in gioventù da Cosimo III a studiar legge in Salamanca, fu auditore della giurisdizione e degli studi di Firenze e di Pisa, quindi inviato agli imperatori Giuseppe I e Carlo VI nelle controversie per la successione. Il testo latino che a stampa si legge, è dal Fabroni attribuito a Giuseppe Averani, cui altri aggiungono il senatore Filippo Buonarroti e l’auditore Bonaventura Neri Badia, ternario d’uomini molto insigni: Neri Corsini, ambasciatore in Olanda, a Londra e a Parigi, e che poi fu cardinale, divulgò di questo libro una versione francese. Replicava due anni dopo da Milano, ma pur senza data, Filippo Barone di Spannaghel con due grossi volumi in folio, e ponderosi di molta noia; il frontespizio, che è stranamente lungo, comincia così: _Notizia della vera libertà Fiorentina, considerata nei suoi giusti limiti_ ec. Il privilegio di Carlo IV, che fu occasione al discorso nostro, e un altro simile poi concesso da Roberto imperatore nell’anno 1401, e una pretesa ricompera della sua propria indipendenza, che la Repubblica avrebbe fatta dal primo Rodolfo di casa di Habsburgo già sino da quando fu istituito il priorato l’anno 1282 (sul quale tema aveva scritto molto ampiamente il Borghini);[341] cotesti punti e molti altri vengono in campo nella contesa che inutilmente si combatteva con gli argomenti della legalità. Gli autori toscani sembrano talvolta dimenticare quel nesso che univa all’Impero le città libere del governo loro; le quali chiudevano all’Imperatore in faccia le porte e a lui negavano collegarsi, come si è visto nel caso nostro; ma non sapevano in via giuridica negargli il censo, e lo affrancavano qualunque volta abbisognassero, per loro utile, dell’imperatore. Cessata poi l’opportunità, pareva ai nostri aver fatto troppo, e quindi è che di quell’accordo, che fu di tutti il più solenne, gli antichi storici volentieri tacciono, se pur se ne eccettui Matteo Villani che lo promosse: alla Repubblica ed al principato premeva egualmente non dare armi alle pretensioni, che ogni tratto rinascevano, della imperiale supremazia. Ma il Tedesco, per l’incontro, senza altro discorso chiama ribelli quelle città e provincie, le quali avevano scosso il giogo quando ai lontani Imperatori mancò la forza che lo teneva fermo; nè mai rifina dal predicare la beatitudine che sarebbe stata alle città italiane, vivere suddite ai Tedeschi: si fonda bene egli sul diritto di conquista, ma oblìa che di pari a questo diritto va quello pure di emancipazione. Nella Biblioteca Riccardiana è un esemplare di questo libro con postille marginali d’Anton Maria Salvini. Giuseppe Sarchiani le trascriveva in altro esemplare che è presso di noi, e con esse noi vogliamo por fine al discorso, perchè sieno a edificazione di quelli che credono soli intendersi di libertà, e tanto forse non si aspetterebbero da un letterato degli ultimi anni di casa Medici. Daremo pertanto delle note del Salvini quelle che spettano a politica, omesse altre, le quali sono di mera filologia: la nostra copia fu raffrontata sul volume Riccardiano. «_Non bene libertas pro toto venditur auro_. — Nella tragedia inglese, _Il Catone_ di Addison, Sempronio repubblicante romano così si esprime: Lucio tenero sembra della vita; Ma ch’è vita? non è in piedi starsi, E la fresc’aria trar di mano in mano, O il sol mirare: è libero esser, vita. Allor che libertà è andata, viene Insipida la vita e senza gusto. — » Il dotto uomo pubblicava di tutta questa tragedia una versione o più veramente (com’egli suole) interpretazione in linguaggio famigliare, dove i versi stanno _pro forma_. «Voleva il Tedesco (come si raccoglie dalla sua prefazione) ridurre Firenze alla foggia delle città anseatiche di Germania, oppure in peggiore condizione. Il dipendere dall’Impero (egli dice) non è cosa odiosa; ma gli diranno altri, che odiosa cosa è semplicemente e assolutamente il dipendere. — Un ministro lucchese, essendogli fatto celia del suo piccolo Stato da uno Spagnuolo, disse: la mia repubblica comanda a pochi, ma non ubbidisce a nessuno. — I contadini lucchesi la domenica in albis la domandano la festa della santissima Libertà. Il popolo non c’è più; l’autorità è del Senato fiorentino insieme col Principe. Firenze, Lucca, Siena, tre repubbliche delle quali con sua gloria si regge Lucca. Dice Virgilio: _Aeneadæ in ferrum pro libertate ruebant_; onde si vede che almeno anticamente la libertà non era nome specioso, conforme si dà a credere il Tedesco. — Libertà poi limitata è serva, o libertà non libera, e ridotta a semplice titolo. Libero è un popolo quando può far ciò che vuole in ordine al buon governo, senza domandarne licenza ad altri. La generazione delle repubbliche è quando un popolo con atti possessorj si riduce in libertà, e questa repubblica non si può dir tiranna (come suppone quell’autore teutonico), quando si sottraesse dall’ubbidienza del suo signore; ma il popolo suo sarebbe da principio ribelle, poi col tempo e col possesso continuato di una naturale recuperata libertà, sarebbe giustificato, come le signorie e’ principati (prese in principio per via d’usurpazione) si giustificano col tempo, per fuggire la mutazione de’ dominii. — Gli Svizzeri e gli Olandesi, secondo il discorso dell’opponente, sono repubbliche tiranne; ma _omnis potestas a Deo est_, tanto le repubbliche quanto i principati. — L’Impero romano cadde e si divise in tanti pezzi. I possessori di questi pezzi, ancorchè potessero essere da principio usurpatori, si giustificano per lo lungo possesso; Francia, Spagna, Inghilterra facevano parte dell’Impero romano. »Il nome di Repubblica pare che grammaticalmente importi indipendenza, l’essere indipendente (_autonomos_). Ragion di stato, detta dai Greci _politica_, non volea dire utile del principe, ma utile del popolo. Democrazia e aristocrazia convengono in genere di repubblica, e tutte due s’oppongono alla monarchia, genere di governo disapprovato da Dio ne’ Libri dei Re. Dante, ch’era ghibellino, dice nella _Monarchia_, che tutti i governi si devono ridurre all’unità, e a un centro il quale è, secondo lui ghibellinissimo, l’Impero. La nostra città però si è mantenuta sempre guelfa e divota di Francia, e per lo celtismo si può dire che perdesse la libertà. Luigi Alamanni, poeta del re Francesco I, arringò al popolo perchè si buttasse dalla parte dell’Imperatore Carlo V (veggasi il libretto del Savonarola al gonfaloniere Alamanno Salviati). Il medesimo Savonarola fece gridare a tutti in sua predica, _Christus rex populi Florentini_. Cosimo I fu creato duca dal Senato fiorentino _plenis liberisque suffragiis_ (come sta pubblicamente registrato a lettere di bronzo nella gran piazza); e i suoi successori, nelle monete, dissero D. G., cioè (come ognun vede) _Dei gratia_. Il Casa sapea molto di greco, e prese la forza greca. Il Borghini, buono antiquario, erudito uomo, amante della patria, avrà certamente saputo di greco. Gli altri storici nostri toscani non ne sapeano; i nostri storici latini sì, come l’Aretino, il Poggio, lo Scala. — Le storie romane, senza ricorrere alle greche, non bastano per imprimere sentimenti di libertà e di amor per la patria. Insomma, le antiche storie sono piene di spirito di libertà; le moderne, di servitù per lo più. Tiranno non era quello che facesse crudeltà, o che non piacesse, ma quello che avesse tolta la libertà alla Repubblica; e quantunque il Principe fosse buono e giusto, il Tirannicida n’era premiato, come Armodio e Aristogitone in Atene.[342] _Possideo quia possideo_. Questo titolo giustifica ancora le possessioni degli Stati, che al principio furono usurpazioni; _ne regna et dominia sint in incerto_. È un argomento inutile dei poeti principali italiani il lamento sopra l’Italia, ma disegna un uomo giusto e amatore della patria. I predicatori si sfiatano talora senza frutto, non per questo son vane le prediche. »Cicerone, _de Legibus_, scrive: _Legum interpretes, iudices; legum ministri, magistratus; legum denique idcirco omnes servi sumus, ut liberi esse possimus etc._ La libertà senza governo civile o principesco sarebbe licenza o bestialità. Onde, in questo rapporto, repubblica e principato son tutte due dominii non diversi. Il mio statista, non fate tanto il critico della letteratura: ci conoschiamo; ritrinciatevi[343] nella politica.» Sul frontispizio di quel libro, il quale venne attribuito al barone di Spannaghel, il Salvini scrisse: «Ho udito dire che sia opera di Goffredo Filippi sassone, stato molto a Ginevra, ora a Milano. C’è chi dice che possa essere opera del signor Giuseppe Bini segretario del signore Colloredo Governatore di Milano, il quale Bini me l’ha donata.» Nº VI. (Vedi pag. 316.) PROVVISIONE DEL 27 GENNAIO 1371 DALL’INCARNAZIONE.[344] Pubblichiamo per intero questa Provvisione, il che faremo qualche altra volta, dove le forme sieno parte integrante e necessaria a bene intendere il carattere dell’atto istesso. Vogliamo anche poi dare qualche esempio dello stile usato da questa Repubblica, e delle solennità mantenute nelle Provvisioni che l’una con l’altra spesso si disfanno, ma sempre _pro bono et pacifico statu civitatis Florentiæ_. In questa prima è da notare come i Capitani della Parte guelfa, i quali imponevano alla Signoria questa molto singolare deliberazione, la presentassero alla Signoria istessa in forma di umile supplicazione, chiedendo ai Magnifici Signori si degnino promulgare quelle cose che minutamente nella supplica o petizione sono descritte. In Christi nomine, amen. Anno incarnationis eiusdem millesimo trecentesimo septuagesimo primo, indictione decima, die vigesimo septimo mensis ianuarii, in Consilio domini Capitanei et Populi Florentini; — et die vigesimo octavo dicti mensis ianuarii, in Consilio domini Potestatis et Comunis Florentie, — totaliter approbata admissa et acceptata fuit infrascripta petitio et provisio. — Vobis magnificis Dominis dominis Prioribus Artium et Vexillifero iustitie Populi et Comunis Florentie humiliter supplicatur, pro parte Capitaneorum Partis guelfe nec non plurimorum honorabilium civium civitatis Florentie, quatenus, pro bono et pacifico statu dicte Civitatis et securitate status guelforum dicte Civitatis, dignemini, una cum officio Duodecim Bonorum, virorum, deliberare et per solempnia et opportuna Consilia dicti Populi et Comunis Florentie, stantiari reformari et provideri facere, et Universitati guelforum dicte Civitatis, in perpetuum, privilegium concedere: Quod, decetero, perpetuis temporibus, quando, ubi et quotiens, fieret, occurreret vel immineret seu fieri vellet aliquod stantiamentum, provisionem, ordinationem, statutum vel reformationem seu aliam quamcumque dispositionem, per opportuna Consilia dicte Civitatis, que tangerent vel respicerent, principaliter, accessorie vel incidenter, statum, honorem, reformationes, provisiones, statuta, privilegia, potestatem, consuetudinem seu ordinamenta, iura, res vel bona Partis guelfe vel Universitatis guelforum dicte Civitatis, presentia vel futura, vel dicti Populi et Comunis Florentie, edita facta vel concessa in favorem Partis predicte, et seu edenda vel concedenda, seu quod cederet in eorum vel alicuius eorum augmentum vel diminutionem, mutationem, alterationem vel variationem seu additionem; requiratur de necessitate et servari debeant substantiales solempnitates infrascripte, videlicet. Quod domini Priores Artium et Vexillifer iustitie dicti Populi et Comunis, qui pro tempore fuerint, ante omnia, illud quod eisdem videretur reformandum, stantiandum, providendum, variandum, revocandum, addendum vel immutandum vel minuendum, vel aliquid aliud circa predicta vel eorum aliquod disponendum; poni et micti faciant, mandent et precipiant ad partitum et ad fabas nigras et albas inter Capitaneos Partis guelfe et officia priorum et secretariorum dicte Partis et seu duas partes eorum, simul, in palatio Populi et Comunis Florentie congregatorum: an illud sit utile vel expediens dicte Parti et Universitati guelforum ipsius. Et si optineantur per maiorem partem ad minus predictorum Capitaneorum, priorum et secretariorum ibidem astantium (dummodo sint presentes due partes ipsorum Capitaneorum et suorum priorum et secretariorum) illud esse utile et expediens, possit super eo procedi ad ulteriora, secundum reformationem Comunis Florentie, aliter non. Et quod predicti Capitanei, quando et quotiens per prefatos dominos Priores et Vexilliferum vel eorum parte fuerint requisiti, de ponendo vel mictendo dictum partitum, teneantur ea die vel sequenti, sub pena centum florenorum pro quolibet, congregari et seu congregari facere in palatio dicti Populi et Comunis predictos priores et secretarios dicte Partis, et seu duas partes eorum ad minus, et inter eos et dictos priores et secretarios principales et non substitutos, mictere et seu micti facere ad partitum illud super quo, per prefatos dominos Priores et Vexilliferum, requirerentur, sub modo et forma predictis. Et si optineri contingat, ut prefertur, procedatur ad ulteriora ut superius dictum est; non tamen artentur domini Priores vel aliquis eorum ad ulteriora procedere nisi in quantum eis placuerit. Et si non obtineatur, ut prefertur, non possit pro tali requisitione facta per dictos dominos Priores et Vexilliferum per ipsos Capitaneos inter se, Capitaneos et secretarios et priores predictos, ponere dictum partitum ultra tres vices, nisi forsan super eodem, per alios dominos Priores et Vexilliferum subcessores, fuerint iterum requisiti: quo casu servetur in omnibus et per omnia forma predicta. Et quod ultra vel aliter factum reformatum stantiatum provisum vel ordinatum fuerit in predictis vel circa predicta non valeat et non teneat, sed sit nullum et irritum ipso iure. Et quod quilibet contra predicta vel aliquod predictorum veniens vel faciens, quoquo modo, casu vel vice qualibet, incidat in penam florenorum auri duorum milium, applicandorum Camere Apostolice; et nichilominus, ipso facto, sit et esse intelligatur, habeatur et reputetur et tractetur in omnibus et per omnia pro ghibellino, non vere guelfo et pro suspecto Parti guelfe, et ac si, expresse et secundum formam reformationum Cumunis Florentie et Partis guelfe predicte, foret pro ghibellino et non vere guelfo et pro suspecto Parti guelfe ammonitus, absque aliqua exceptione vel reclamatione, et absque spe alicuius restitutionis, cancellationis vel indulgentie. — Super qua quidem petitione — domini Priores et Vexillifer, habita invicem et una cum officio Gonfaloneriorum sotietatum Populi et cum offitio Duodecim Bonorum virorum Comunis Florentie deliberatione solempni; et demum inter ipsos omnes in sufficienti numero congregati, in palatio Populi Florentini, premisso et facto diligenti et secreto scruptinio et obtento partito ad fabas nigras et albas, per viginti octo omnium ipsorum; — providerunt ordinaverunt et deliberaverunt, die XXVII mensis ianuarii anno Domini MCCCLXXI, indictione decima: Quod dicta Petitio et omnia in ea contenta procedant, admictantur firmentur et fiant et firma et stabilita esse intelligantur et sint, et observentur et observari possint et debeant et executioni mandari in omnibus et per omnia, secundum Petitionis eiusdem continentiam et tenorem. — Insieme alla sopra riferita Provvisione pubblichiamo, a più amplia dichiarazione di questa materia, il testo della forma di giuramento alla Parte, il quale doveva prestarsi da quei cittadini che volevano essere ammessi come veri Guelfi. Si legge in due atti de’ 17 e 21 agosto 1357 trascritti nel Registro originale delle Provvisioni di quell’anno, e rogati da ser Piero di ser Grifo da Pratovecchio notaro delle Riformagioni; in ciascuno dei quali precedono i nomi dei cittadini ammessi a giurare, e poi segue: Volentes pro eorum parte, reverenti et humili vicissitudine se habere, gratiam ipsam eis et eorum cuilibet, et eorum et cuiuslibet eorum posteris, filiis et descendentibus, per lineam masculinam factam, — devotis animis et curvatis capitibus, pro se ipsis et quolibet eorum, ac etiam vice et nomine omnium et singulorum eorum filiorum, posterorum et descendentium per lineam masculinam, accettaverunt. Et insuper, dictis nominibus et quolibet eorum in solidum constituti, in presentia dominorum Priorum Artium et Vexilliferi iustitie, Gonfaloneriorum sotietatum et Duodecim Bonorum virorum, et de eorum beneplacito et assensu, promiserunt dictis dominis Prioribus et Vexillifero et michi Petro notario, infrascripto, tanquam publice persone, stipulanti pro Comuni Florentie; et corporaliter iuraverunt, sacrosanctis Evangeliis manutactis: se et quemlibet eorum et eorum posteros, filios et descendentes per lineam masculinam esse perpetuo in futurum vere guelfos de Parte guelfa, et devotos et obedientes Sancte Matris Ecclesie, et sue captholice Partis guelfe; et omnia et singula facere que ad conservationem seu augumentum status guelforum Civitatis predicte, et ad exterminium emulorum cederent seu cedere credent, et se a contrariis abstinere. E pure vogliamo dare qui il testo della citata Riformagione dell’11 dicembre 1364, approvata lo stesso giorno nel Consiglio del Capitano e Popolo e il giorno seguente in quello del Potestà e Comune; la quale proibisce ogni ricorso al Papa che fosse inteso a ottenere sgravio o dispensa dalle leggi e ordinamenti della Parte guelfa. Speriamo, quando che sia, di avere intero il Codice diplomatico di questa Parte con tutte le carte conservate in questo Archivio di Stato, e che ne mostrano la politica importanza. Fundamenta Partis guelforum firmare cupientes, domini Priores Artium et Vexillifer iustitie Populi et Comunis Florentie, instantibus et infrascripta fieri petentibus multis zelatoribus dicte Partis, pro bono publico et comuni securitate status guelforum: habita super infrascriptis omnibus et singulis, invicem et una cum offitio Duodecim Bonorum virorum Comunis Florentie deliberatione solempni, — deliberaverunt, die decimo mensis decembris, anno Domini millesimo trecentesimo sexagesimo quarto. — Quod nullus cuiuscumque condictionis existat, singularis persona, corpus seu collegium quodcumque, per se vel alium, quoquo modo adtentet, aliquam supplicationem Summo Pontifici vel eius locumtenenti seu Apostolice Sedis legato seu sacro Collegio Cardinalium seu alie cuicumque persone porrigere, seu eam scribere vel dictare, super remissione seu suspensione iuramenti seu pene alicuius, Camere Apostolice applicande; seu aliquid aliud facere, cuius vigore liceat, sine metu periurii vel pene dicte Camere applicande, aliquid disponere innovare corrigere vel reformare, contra vel preter formam ordinamentorum seu reformationum Populi et Comunis Florentie, hactenus editorum seu que in futurum edentur, in favorem Partis guelfe, contra ghibellinos seu suspectos dicte Parti (que ordinamenta firmata sunt vel erunt iuramento et adiectione pene dicte Camere applicande); nisi predicta fierent de consensu dominorum Priorum Artium et Vexilliferi iustitie Populi et Comunis Florentie, Gonfaloneriorum sotietatum Populi et Duodecim Bonorum virorum dicti Comunis et Consulum viginti unius Artium civitatis Florentie, nec non Capitaneorum dicte Partis guelfe, Priorum pecunie dicte Partis et Consilii Credentie dicte Partis, vel saltim duarum partium de tribus partibus ad minus cuiuslibet dictorum offitiorum (intelligendo dictos Consules quantum ad predicta, esse unum Collegium seu offitium); posito inter eos ad secretum scruptinium et partitum ad fabas nigras et albas, et obtento partito. De quo consensu appareat singulariter publicum instrumentum, scriptum manu notarii dominorum Priorum Artium et Vexilliferi iustitie, videlicet de consensu eorum et dictorum Gonfaloneriorum et Duodecim et Consulum predictorum: de consensu vero Capitaneorum Partis, Priorum pecunie et Consilii Credentie dicte Partis apparere debeat publicum instrumentum scriptum manu notarii dicte Partis. Si quis vero (quod absit) contra ea que supra dicta sunt aliquid adtentare presumpserit, puniatur pena librarum quingentarum f. p.; et nicchilominus talis contrafaciens ipso facto intelligatur esse et sit ghibellinus et suspectus dicte Parti, et omni offitio et benefitio Comunis predicti nec non etiam dicte Partis privatus et perpetuo remotus. Et nicchilominus eorum nomina et prenomina in libris dicte Partis describantur, tanquam ghibellini, inter alios ghibellinos, ad perpetuam rei memoriam; nec in perpetuum possint exinde abradi vel aboleri, pena incendii, tanquam falsario, abrasori vel cancellatori huiusmodi imminente. Et ex nunc notarius dicte Partis intelligatur habere et habeat mandatum a Capitaneis qui pro tempore erunt, illum seu illos tales ex parte Capitaneorum dicte Partis monendi quod renuptient et abstineant offitiis et ab offitiis supradictis, sub pena remotionis ab offitio. Et intelligatur esse et sit licentia concessa cuilibet de predictis accusandi et notificandi, absque aliqua solutione alicuius gabelle seu diricture seu promissione de prosequendo et sine satisdatione aliqua prestanda, et cursu temporis non obstante. Et quod quilibet rector possit teneatur et debeat super predictis procedere ex suo offitio et ad denunptiationem et notificationem cuiuscunque persone, etiam si sua non intersit, et punire in predictis; privillegio vel immunitate aliqua non obstante nec temporis cursu. Non obstantibus etc., cum clausulis opportunis et penalibus. Nº VII. (Vedi pag. 339.) DISCORSO D’AUTORE INCERTO, SCRITTO L’ANNO 1377 _DEL PRINCIPIO E DI ALCUNI NOTABILI DEL PRIORATO._ (Dal MIGLIORE, _Zibaldone Istorico_, nº 29, e dal BORGHINI _Spogli_, Cod. 43, ambedue nella Magliabechiana, Classe XXV. — _Delizie degli Eruditi_, tomo IX, pag. 274). _Introduzione del Borghini al seguente Discorso._ »Il discorso qui di sotto fu da me trovato in un libro antico, o per me’ dire, vecchio, e tutto intorno alla materia dell’ammonire. Chi se ne fusse l’autore non si vede: ma ben si può dal fatto indovinare, che fussi scritto poco innanzi al caso de’ Ciompi, e da persona che o per avere auti gli antenati suoi ghibellini, o per altra cagione non piccola, stette con gelosia di sè stesso. E dà alcuna notizia del progresso del Priorista; e perchè in quei tempi avevano cognizione di molti particolari, che non possiamo avere oggi noi, è verisimile, ed a me pare, che dia assai presso al segno, e che se ne possa cavare assai di buono.» Nel 1282 si cominciò in Firenze l’officio de’ Priori delle Arti, che al presente sono e trassonsi per più onesto modo, e per avere più cardinali uomini al reggimento, di tre borse de’ Consolati delle maggiori e più orrevoli Arti di Firenze; ciò furono Calimala. Lana e Cambio. Piaqque a’ cittadini l’offizio e ’l modo, e di presente aggiunsono tre Arti, acciò che fussino sei Priori, uno per sesto, ed aggiunsono l’Arte de’ Medici e Speziali, Por Santa Maria e Vaiai. Questi Priori stavono a mangiare e a bere nella casa appresso alla Badia di Firenze; e fu dato loro sei berrovieri e sei messi, perchè potessino richiedere i cittadini. Insino del 1292 seguitò questo Priorato d’uno per sesto, e mettevanvi tutti i buoni cittadini della città, e Grandi e Populani; così di quegli che erano stati Ghibellini, o vero eran tenuti, come delli altri, purchè e’ fussino tenuti buoni, e governarono bene la città, ed accrescerno senza discordia, insino a questo tempo; e non vi aveva artefici minuti, ma pure de’ più notabili ed antichi cittadini e non forestieri. Nel detto tempo, al Priorato che cominciò a mezzo febbraio 1292 e finì a mezzo aprile 1293, si posono gli Ordini della iustizia e feciono il Gonfaloniere della iustizia, ciò fu Baldo de’ Ruffoli, ed allora prese il popolo l’arme della Croce, ed era infra gli altri Priori Giano della Bella, e fecesi l’ordine sopra i Grandi, che non potessino essere de’ Priori, ed altri ordini contro di loro. E così seguitò quel medesimo modo, che i Priori erano delle sopradette Arti e condizioni, salvo che niuno di casa de’ Grandi poteva essere de’ Priori, e così seguitò, salvo che ogni sesto avea avere la sua volta il Gonfaloniere di Giustizia; sì che quel sesto aveva dua Priori, a quella volta. E durò questo stato insino nel 1300, che venne messer Carlo di Valosa con la sua forza. Quegli che si chiamavano di parte Nera rivolsono lo Stato e cacciorno i Bianchi, e levorno lo Stato a’ loro nemici, e poi incominciorno a far Priori loro amici di quella parte Nera, e chi avea avuto nome di ghibellino, o amico de’ Cerchi, e della lor parte Bianca fu levato dello Stato, e’ caporali bianchi cacciati. E per questo modo medesimo erano i Priori comprendendo (o ch’egli venisse fatto, o ch’egli si facesse in pruova) le più volte, il terzo de’ Priori di quella gente che al presente non si chiamano originali guelfi, e così il Gonfaloniere della iustizia quasi delle tre volte l’una era in quella forma, ed alcuna volta poichè si feciono gli Ordini della iustizia ci cadeva alcuno artefice de’ Priori, ma poche volte. Da questo tempo in qua, cioè dalla venuta di messer Carlo, che fu nel 1302, allora chiunque sentiva di bianco o ghibellino non fu più all’offizio del Priorato. È vero che in quello scambio vi fu messa gente nuova, che non vi erano più stati, cioè mercatanti venuti in ricchezza, di nuovo, ma non però artefici minuti; ed alcuna volta feciono due Priori per sesto, e dipoi il Gonfaloniere della iustizia ogni sesto la sua volta, e così durò nel 1315. Ancora nel 1315, che fu la sconfitta a Montecatini in qua ancora hanno più nuove genti nel Priorato che non erano mai stati, salvo che artefici minuti, e così insino alla sconfitta d’Altopascio, ed alla venuta del Duca di Calavria. Allora anco entrò nel reggimento del Priorato gente nuova assai, che non vi erano mai più stati, ma pure artefici minuti non vi aveva. Così durò insino alla venuta del Duca d’Atene che fu nel 1342, e la cacciata nel 1343. Il Duca misse nel Priorato d’ogni generatione d’uomini. I primi Priori, cacciato il Duca d’Atene, grandi e popolani furono dua per sesto. Santo Spirito Zanobi di messer Mannelli per grande, Sandro da Quarata, Niccolò di Cione Ridolfi, Santa Croce Messer Razzante Foraboschi per grande, Borghino Taddei Borghini, Nastasio Tolosini, Santa Maria Novella Ugo di Lapo Spini per grande, Messer Marco de’ Marchi, giudice, Antonio d’Orso, San Giovanni Messer Francesco Trita degli Adimari per grande, Neri di Lippo, Bellincione d’Uberto degli Albizzi. Come questo offizio fu uscito di Palagio, che non vi compiè l’offizio, che i grandi furno tratti di Palagio per difetto di persone che vollono remuovere lo Stato, che erano i quattro grandi; stettonvi 24 dì, e non più i grandi; incontinente si cominciò a mettere nel reggimento artefici minuti, ed erano del continuo due o tre per offizio d’otto Priori, insino a tanto che si misse ordine che ne fussino due per offizio e fussino del quartiere d’onde si chiamava il Gonfaloniere; e da poi in qua n’è due per Priorato. E da questo tempo in qua gli artefici minuti sono stati nel reggimento che prima non erano in tutto l’anno due, e questo ha fatto le divisioni de’ cittadini che ciascuno gli ha messi in uso, sì che sempre sono venuti entrando negli offizii così e più nelli altri, come in quello del Priorato; tanto che ora a’ nostri dì sono de’ Capitani di Parte, e de’ sette della Mercanzia, per ordine, come de’ Priori: e sì in ciascuno offizio ne andò ed oltre a ciò vanno in podesterie e in castellerie più che altre genti. È vero che non hanno però ancora dell’imbasciate. Ora Dio lo perdoni a chi l’ha fatto, che hanno lasciato li antichi cittadini orrevoli per tôrre i vili artefici e forestieri. Il fine si loderà per sè. A chiarire ogni cosa dalla cacciata del Duca d’Atene in qua che fu nel 1343, oltre agli artefici entrati in offizio vi è entrata tutta la comunità della mezzana gente. Mercatanti, che mai i loro passati avevono auto alcuno offizio e sono tanta moltitudine che è impossibile; e questo durò insino nel 1357 che ogn’uomo che era mercatante, si può dire che aveva offizio s’egli era buon uomo, nonostante che per li tempi passati fussino stati tenuti i suoi ghibellini; e veramente ognuno era diventato guelfo d’animo, di volere e di ogni suo pensiero. Poteasi dire che a Firenze non fusse alcuno ghibellino che non fussi antichi nobili rubelli: ma della gente comune mezzana e minore di che nazione si fusse tutti di volontà erano guelfi. Nel 1357 si fece una riformazione a chi fussi tenuto o reputato ghibellino o non vero guelfo, fussi ammonito e non potesse pigliare offizio di Comune, e da poi in qua sino nel 1377 è stato tratto gran quantità degli offizi di quelli che vi erano, e grandissima quantità ne stanno sospesi e con paura, o ghibellini o no che sieno de nazione. Dubitano molti di non esser tratti degli offizii, a posta di quelli che possono operare contro loro; ed assai volte per tema e per paura la ragione.... e ’l Consiglio, per non dispiacere a una delle parti de’ maggiori; e nondimeno il Comune perisce, perchè questi tali che dubitano non osano consigliare per non dispiacere a’ maggiori, e nondimeno è tanta la moltitudine di questa gente mezzana ch’è entrata ne’ sacchi, ch’è impossibile.... A Dio piaccia provvedere a sì buona Città che ciascuno abbia suo dovere, e la maggior parte di questa gente mezzana, sono gente che eglino e’ loro non avevano avuto offizio innanzi la venuta del Duca d’Atene. NOTA INTORNO AI MALESPINI. Abbiamo per gli anni primi dell’Istoria nostra citato il nome del Malespini come si faceva primachè intorno all’autorità di questo nome nascessero dubbi. Furono questi messi in luce da due ingegnosi e dotti tedeschi il signor Arnold Busson e il signor Paolo Scheffer. Daremo intorno a queste due pubblicazioni sommariamente quel giudizio che noi possiamo; imperocchè in quanto alla seconda è a noi vietato di aspettare il libro che il signor Scheffer promette in ampliazione de’ suoi argomenti. Che in quanto ai tempi e al punto di divisione tra i due Malespini corressero errori, già era dimostrato; che in più luoghi la narrazione facesse nascere forti dubbi, che insomma il Libro non presentasse quella evidenza e lucidità di redazione che, per esempio, è nel Villani e che si trova nei libri dei quali sia certo ed uno l’autore; questo i due critici sullodati hanno oramai reso evidente. Già nel cinquecento Vincenzio Borghini e Leonardo Salviati lo avevano presentito: ma oso io dire che si poteva congetturare quasi a _priori_ da chi abbia pratica del come fossero messe insieme coteste cronache di famiglie: queste ingrossavano successivamente da una in altra generazione, sovente i continuatori rifacevano le cose scritte dal primo autore; e a tutto ciò quindi si aggiungevano le alterazioni dei copisti. Questo accadeva più specialmente nelle storie che pretendevano a universalità: quelle messe insieme comunque fosse dai Malespini, è certo che ebbero varie fonti, ciascuna di molto insufficiente autorità. Così che sia obbligo al savio critico di pigliare a discrezione quel che si trova scritto col nome dei Malespini, è più che certo; che i due critici tedeschi molte cose allegassero nelle quali sono evidenti cotesti vizi, cotesto è titolo che hanno essi acquistato alla benemerenza nostra, ed a noi piace renderne ad essi le debite grazie. L’ingegno acuto del signor Scheffer è andato più in là: pare a lui essere cosa certa che tutto il libro dei pretesi Malespini da cima a fondo non sia che un plagio e una falsificazione dei libri del Villani. Già il signor Busson dietro alle critiche da lui fatte credè che potesse un tale dubbio cadere in mente; ma egli lo esclude quanto a sè e allega i suoi motivi per la esclusione. Questi non fermarono il signor Scheffer, che nel modo più assoluto afferma il plagio; e nello scritto da lui pubblicato, presenta sottili confronti di autori ed altre che sono a lui riprove di un tale assunto. Noi francamente dobbiamo pur dire che tanto in là non è giunta la persuasione nostra, almeno fin qui; e che le prove intese a ispirarla, non ci sembrarono sufficienti. La critica, fatta regina del mondo, cerca sempre di estendere i suoi confini, che è brama da re; se non che a volte sdegnando battere la via regia, dà nel sottile e nell’angusto, ponendo fede nella dialettica d’un ragionamento quanta ne ha il fisico nella sicurezza d’una esperienza. Ma in questo caso pure ne sembra che prima di giungere a una intera dimostrazione avranno che fare assai gli eruditi, e il sì e il no combattersi lungamente. Noi domandiamo quale poteva essere il motivo di fabbricare tutta un’istoria pigliando quel tanto che al fabbricatore più garbasse da una storia più vasta e già nota. Domandiamo perchè fermarsi a un certo termine, perchè trascrivere certe cose e non certe altre, perchè dirne tante inutili al fine di una fabbricazione interessata? Che intorno a un fatto che avesse chiamato a molta attenzione si fabbrichi un poco di romanzetto, come lo fabbricava un Pace da Certaldo, o altri per lui su quell’assedio di Semifonte che già destò molto rumore in Firenze, questo s’intende: era tema circoscritto e in fondo al romanzo poteva anch’essere qualche fatto vero. Ma di nuovo affermo (in quanto almeno al mio giudizio) che al fabbricare tutto di pianta quella storia non trovo il motivo; era più agevole dentro a una Istoria già messa insieme aggiungere un brano di cui potesse rallegrarsi la superbia, per esempio, dei Buonaguisi. Oltre ciò credo che non che inutile fosse anche impossibile, quando una volta le Istorie del Villani già erano note. Credo che il plagiario di un libro composto solennemente ed ordinato come è quello del Villani, avrebbe fatta cosa egli stesso più ragionevole e più ordinata; non sarebbe stato tanto rozzo nè tanto barbaro e ignorante in tempi nei quali già in Firenze perdeva credito la leggenda. Insomma, io tengo che dai Malespini al Villani sia la salita bene appariscente agli occhi d’ognuno; dal Villani ai Malespini non veggo una scesa che sia praticabile. Abbiamo scritto in un luogo, che l’Istoria del Malespini pare a noi essere d’importanza, in quanto che in essa troviamo il linguaggio d’un uomo che avea di presenza vissuto in tempi nei quali tuttora i Nobili erano dominanti, ch’avea parlato il loro linguaggio e che l’esprimeva. Cotesto linguaggio non era più vivo, ed anzi il contrario mi pare che fosse proprio nel sangue di Giovanni, il quale teneva il suo spennacchio dalla mercatura e adolescente si era goduto le allegre feste di Campaldino. Aggiungo per ultimo, la lingua pure vale qualcosa, ed il signor Scheffer lo afferma con pari saviezza e modestia. Parve a tutti gl’Italiani e parrà sempre come cosa a tutti evidente, che il dettato del Malespini sia di un altro tempo antico al confronto di quello del Villani; è in questo maggiore la cultura e l’arte nei luoghi che trasse dal primo. Tutte le cose fin qui dette, ripeto che vane riescirebbero nel cospetto di una dimostrazione, la quale avesse fondamento sufficiente di fatti sicuri; saremmo allora noi primi ad accogliere la nuova certezza. Che il preteso Malespini scrivendo avesse dinanzi il Villani, si cercò provare mettendo a confronto alcuni luoghi dell’uno e dell’altro, e intorno a questi molto sottilmente argomentando. In via d’esempio, avendo per fermo che di quei luoghi, molti dovessero testualmente derivare dalla Cronaca di Martino Polono, si mostrò essere nella redazione a lui più vicino il testo del Villani di quello del Malespini, e questi dovere nella giacitura del discorso avere seguíto il Villani prima di giungere al Polono: qui sarebbe lungo tutti ripetere gli argomenti pei quali sembra al dotto critico il contrario essere impossibile. A noi dal riandare come abbiamo fatto col pensiero alcuni almeno di quei raffronti, non uscì fuori tanto assoluta persuasione: potè il Villani a nostro giudizio avere corretto quei luoghi o aggiunto ad essi o tolto qualcosa, potè inserirvi in mezzo qualcosa di sua fattura e di altra origine; certi segreti della composizione pare a noi che sia difficile afferrare così da cavarne sicura una prova tutta da sè sola: inoltre, del testo del Villani non abbiamo fin qui una edizione di sufficiente autorità. Ma fuori ancora di tutto questo, è da pensare che il Polono scrisse in Italia ed anzi in Roma, compilando le notizie tratte da fonti diverse: perchè non potevano i due Toscani molte cose almeno avere attinte a quelle scritture medesime e da esse trascriverle ognuno a suo modo? Ci dà egli il novero degli Autori da lui seguíti, ma più altre cose dovette avere udite in Italia. Trovo, per esempio, l’industria medesima essere adoprata dal signor Scheffer sulle parole colle quali i tre scrittori narrano il fatto già troppo celebre di Canossa, che molti dovevano avere saputo in Roma e in Firenze prima che uscisse la _Cronaca_ Martiniana. Ciò in quanto all’essere il Malespini figliuolo del Villani, non questo di quello. Ma si badi bene che io mi tengo lontano da tanto cieca fede al testo Malespini, da credere all’ordine cronologico di quei racconti, da supporre antica nel modo che a prima vista apparirebbe l’autorità personale di quello scrittore, da fare un gran conto delle belle cose che avrebbe imparate in Casa i Capocci, da credere al nome incerto assai di Ricordano, da non vedere che l’essere questo nome registrato in prima persona, che diventa nella continuazione del discorso poi subito terza, toglie ogni fede a quel pasticcio messo insieme male, talvolta per ignoranza o negligenza, ed anche talvolta per frode, in qualunque tempo ciò fosse avvenuto. Mostrò il signor Scheffer con evidenza le interpolazioni le quali in più luoghi rivengono a fine di ornare di splendida aureola il nome dei Buonaguisi che furono parenti ai Malespini. Cotesto e forse qualche altra minuta bricconeria di quella risma, bene è possibile che avvenisse quando il Villani aveva scritto, e forse in quella copia medesima che fu testo alla prima edizione del Malespini fatta dai Giunti in Firenze l’anno 1568. In queste cose io volentieri sieguo i due benemeriti Scrittori che aprirono un campo nuovo alla critica intorno al testo di quelle Istorie. Ma sia qui lecito a noi dire qualcosa di quello che ci apparve tenendo a confronto i due Scrittori. Non i soli Buonaguisi troviamo a quel modo bugiardamente favoriti; ma le principali famiglie nobili fiorentine sono in più modi magnificate, e sopra tutto la famiglia degli Uberti fatta segno a una adulazione appetto alla quale il fare discendere i Giulii da Venere pare che fosse meno assurda cosa. Venendo dunque al testo che va col nome dei Malespini, e per brevità lasciando stare Nino e Atalante e il re Fiorino e la regina Belisea di dubbio contegno ai tempi di Catilina; troviamo che avesse questi un figlio per nome Uberto Cesare, il quale dopo espugnata Fiesole, andato a Roma fosse per gelosia di Giulio Cesare mandato a Firenze, dove egli ornava la città de’ suoi più belli edifizi. Ma poi destava qui pure invidia al nuovo imperatore Ottaviano Augusto che lo mandò a riconquistare l’Allemagna, dov’egli fu stipite alla famiglia degli Ottoni di Sassonia; seco ebbe nel viaggio figli e mariti delle figlie, dai quali uscirono le famiglie più nobili di Firenze: in quanto ai Lamberti discendono essi da Sarpedonte re in Dardania. Nè qui voglio io continuare tutte le favole che si protraggono in quel testo per molti capitoli e che non furono certo inventate a benefizio dei soli Galigai o dei Bonaguisi, i quali hanno qui luogo anch’essi ma non dei primi. In cima a tutti stanno gli Uberti, che stavano in cima quando facevano guerra contro alla Signoria dei Consoli; nè oso credere che tanto fossero adulati quando vivevano esuli e avevano dimenticata la via del ritorno. Anzi oserei congetturare quelle ciancie essere di più antico tempo come tra ’l 1177 e il 1215, imperocchè nella divisione delle famiglie che avvenne in quest’anno tra Ghibelline e Guelfe, trovo «che parte de’ Malespini si feciono Guelfi, ovvero tutti, per gli oltraggi degli Uberti loro vicini:» ma Guelfi non rimasero fino all’ultimo come si vedrà orora. Con gli Uberti andavano le famiglie che Dante annovera e che il Malespini avrebbe adornato rozzamente di altre grandezze. Costui, chiunque si fosse, ripete e accresce secondo ogni verosimiglianza di nuove menzogne o di nuove fantasie quelle che già erano in corso in certe scritture nella città di Firenze, o quelle che aveva trovate in Roma in casa i Capocci. Ai suoi Malespini si sarebbe contentato di un luogo onesto, ma non tra’ primi, più ambizioso nel magnificare i Buonaguisi. Il nome dunque di Malespini dato agli autori di questo racconto sarebbe dubbio; su di che non voglio formare giudizio, perchè sebbene avvezzo a quei nomi e non corrivo a cancellarli se gli trovo scritti, non sento per essi nè amore nè odio: solamente aggiungo, che se altri fosse che un Malespini, manca la cagione di porre in alto la casa dei Buonaguisi. Quello che a me pare mostrarsi aperto agli occhi di tutti è che lo scrittore dovette amare quei tempi e quelli uomini e quelle grandezze come le amava Dante: registra i castelli da quelle famiglie posseduti e scrive con amarezza concentrata: _oggi tutti per terra_, e poco sotto _ogni cosa guasta_. Giovanni Villani ha le sue favole, ma dentro ad esse frammista più storia e un senso di critica a nostro credere più avanzata. Invece di Attila, qui è Totila, che è sempre un passo verso il vero. Qui pure si trovano i nomi delle famiglie, e in quanto a queste molte somiglianze, varietà assai, composizione affatto diversa; gli Uberti e i Lamberti senz’altro fatti scendere d’Allemagna, com’era in Firenze comune discorso. La decadenza delle famiglie sta espressa qui pure, ma non con lamento nè con dispetto, e invece notando come fossero _oggi di popolo_. Che i Malespini si ascrivessero in alcun tempo mai tra’ popolani a me non consta: invece trovo essere stati tra coloro i quali vennero con Arrigo VII contro Firenze negli anni 1310 e nel seguente, _homines occidendo et capiendo et redimi faciendo, et honestas mulieres violando, et domos comburendo._ (_Delizie degli Eruditi_, tomo XI, pag. 75 e 82.) Cotesta gente a me non pare che si sarebbero dilettati di farsi copisti delle Istorie del Villani. Chiunque si fossero, bene essi piangono in quella Storia i loro castelli abbattuti e le grandezze _tutte per terra_; il Villani si rallegra scorgendo Firenze allora essere _nel suo montare_. Qui a mio credere sta la differenza sostanziale tra quei due Scrittori. Conclusione. Che del Malespini non sia da usare senza discrezione, che vi sia dell’intercalato, che di queste intercalazioni ve ne fossero probabilmente delle molto antiche ed anche poi delle più recenti e forse alcune delle posteriori alle Storie dei tre Villani; che quale si sia la più antica e più originaria e più genuina redazione, derivasse da fonti diverse e male congiunte: tutto ciò io tengo essenzialmente vero. Che tutta l’istoria da cima a fondo sia un plagio del Villani, per alcun modo non posso credere: che il nome di Malespini sia da togliere via, non trovo motivo bastante. L’intero carattere il quale annunzia un tempo più antico, lo spirito feudale che nei Malespini domina sempre come nei Villani lo spirito popolare, la lingua più irta e il fare più incolto: tutti questi motivi mi rendono impossibile a pensare che un plagiario tornasse indietro a questo modo; e sempre aggiungo insino all’ultimo, a qual fine? NOTA INTORNO AL METODO DELLA CRITICA A PROPOSITO DELLA STORIA DI DINO COMPAGNI.[345] Erano in torchio gli ultimi fogli del nostro Libro quando a noi giunse un nuovo scritto dove il chiarissimo signor Scheffer, dopo avere combattuto l’autorità dei due Malespini, si è volto a mostrare col metodo stesso falsa anche la Storia di Dino Compagni. Noi non conosciamo questo lavoro altrimenti che per l’estratto che ne ha dato con molta chiarezza il signor Cesare Paoli nell’_Archivio Storico_ (serie 3ª, tomo XX): quindi non possiamo entrare in materia, nè per alcun modo pigliare in esame gli argomenti del dotto Tedesco. Vogliamo noi dunque solamente discorrere un poco intorno al metodo da lui tenuto, e di cui suole fare la critica uso frequente al tempo nostro. Consiste questo metodo nel seguitare l’autore a cui mirano gli studi del critico, da cima a fondo continuatamente se fosse possibile, e coglierlo in fallo d’errori o bugie e d’ignoranze o di contradizioni, sempre a minuto. Dalla somma di questi peccati ha fondamento la condanna: e in via d’esempio, a Dino istorico si dice sul viso, voi non siete esistito mai. Siffatto abito ha preso la critica, e in questo a noi pare che sia un qualche vizio. Cotesti falli dello scrittore, dovette il critico adoprare non poco studio a trarli fuori: le migliaia dei lettori gli avranno passati senza avvertirli: ed anche scoperti, nessuno gli avrebbe fatti argomento di condanna contro a tutto il libro, massimamente se scritto in secolo tuttora un po’ rozzo, da uomini i quali non si avevano pensato salire al grado e alla dignità d’autori, nè farsi a tanti materia di studio. La grande massa fa ponderosi cotesti argomenti, ma di ciascuno la gravità specifica è sempre la stessa. Intanto però sfido a trovare un racconto storico nel quale non siano di queste dubbiezze; vorrei mi fossero indicati due testimoni e narratori del fatto medesimo, i quali sieno di tutto punto tra loro d’accordo. Accade ogni giorno che un fatto avvenuto sugli occhi di mille ci pervenga oscurato dal contradirsi di quelli stessi che lo hanno veduto, perchè le rapide impressioni che il fatto ha destate entrando confuse, il prima e il dopo non bene si avverte o mal si ricorda: chi si è trovato in mezzo alle pubbliche perturbazioni, sa che egli medesimo non potrebbe essere sempre narratore sicuro, nemmeno di quelle cose nelle quali ebbe una qualche parte. La storia discende da queste fonti, e non saprebbe essere altro che un inganno, chi la guardasse in ciascun fatto separatamente, volta per volta e ora per ora. Nè tutta intera può mai sapersi; e a bene intenderla è mestieri formarsene in mente un giusto concetto, il quale rischiari le cose incerte e spesso mal note a quelli medesimi che primi furono a narrarle. Così nella storia i piccoli fatti non hanno valore prima che un pensiero comprensivo sia intervenuto ad accertarli e abbia poi dato a ciascuno d’essi il proprio suo luogo. Seguire altro metodo sarebbe traviarla, perchè ogni disciplina ha il proprio suo metodo, e in chi la professa induce un certo abito che ad altri studi mal si converrebbe. In via d’esempio, tostochè il chimico ha veduto il suo microscopio mostrargli un corpo, sa di certo quello essere un corpo, ne determina i contorni, lo vede muoversi; non potrà dire altro per allora, ma il fatto rimane e aspetta altri fatti a cui collegarsi; il chimico ha fatto già una scoperta. Ma imporre a tutte le scienze quel metodo stesso che alle fisiche s’appartiene, sarebbe un volere (come in simil caso già disse Bacone) regnare al modo degli Ottomanni strozzando i fratelli. Vorrei pertanto non si adoprasse in ogni cosa il microscopio, ma si tenesse a mente quella sentenza del Goethe, che il troppo guardare nel microscopio o nel telescopio sciupa la vista degli occhi. Chiunque abbia letto con attenzione la Storia del Compagni ha sempre dovuto accorgersi come in certi luoghi la narrazione proceda intralciata, l’ordine dei tempi non sia mantenuto, e in quello dei fatti si trovino inciampi, quasichè lo specchio lucidissimo in cui si riflettono sia rotto o guasto o male commesso. Da ciò ad un tratto si venne a dire, l’Istoria è falsa: ma io discorro in tutt’altro modo. Se istoria non è, dunque è un romanzo, cioè buona o cattiva un’opera d’arte. Ma il romanziere o il novellatore non mai commettono di quei peccati, perchè raccontano una storia della quale sono essi inventori, dipingono uomini che dicono e fanno puntualmente ogni cosa a modo loro. Con questi vantaggi, a non procedere ordinati e a discordare con sè stessi bisognerebbe proprio averne gran voglia; e se la figura che essi medesimi hanno messo insieme uscisse storpiata, avrebbero i fischi. Guardiamo invece se agli errori di sopra accennati sieno possibili altre spiegazioni. Vi sono in primo luogo gli errori dei copisti; scusa consueta e buona sovente: vi sono poi quelle speciali o personali incompetenze cui furono esposti i primi scrittori per questo appunto perchè le cose narrate viddero con passione, e più che mai quando ne furono attori. Lo dirò a un tratto: Dino Compagni, buon uomo e un po’ corto nei suoi politici pensamenti, ma caldo fautore del buono e del retto, era impossibile che scrivesse con la pazienza d’un erudito o con l’accuratezza di uno stenografo, che a volte non basta. Compagno allegro dei primi fondatori d’un governo popolare, devoto a chi aveva saziato le ire contro ai nobili, poi male contento dei nuovi uomini e delle plebi salite in iscanno; guelfo, ma per l’amore dell’ordine pronto ad accogliere un Imperatore, da ultimo impaurito di questo stesso Imperatore, a cui gli pareva che si facesse una pazza e inutile guerra; onesto in ciascuno di questi concetti, ma in tutti accorgendosi avere sbagliato; immaginoso e appassionato, e sempre rigido moralista: è un chiedergli troppo, pretendere che egli desse alla storia l’esattezza d’un registro minuto e impassibile. Si noti poi che le difficoltà risguardano o piccoli fatti da non badarvi o circostanze materiali che l’Autore in quella sua concitazione dimenticava: la sua Storia è tutta composta sopra una serie d’impressioni di cui l’evidenza, la vivacità, la forza sono argomenti della sincerità: lo scrittore nel raffigurare sè medesimo dipinge il suo tempo; e in questo appunto consiste il pregio di Dino Compagni, che ha pochi eguali per questo rispetto. Cotesto uomo scrisse una Storia (se pure egli stesso diede quel titolo al suo lavoro) cioè un racconto delle cose da lui vedute e in parte fatte da un certo tempo a un certo altro tempo; poi finisce in tronco. O nulla di quanto si è fin qui discorso ha ombra di ragione, o quanti siano mancamenti di quel libro (nè sono poi tanti) potranno senza molta difficoltà gravare le spalle di Dino; ed anzi mi pare che sieno cose da non poter essere altro che sue, perchè in lui si spiegano, ma in altri sarebbero falli impossibili a commettere. I primi tempi erano sereni, la libertà giovane e Dino giovane; quando egli inveisce contro i vizi dei concittadini suoi è fiero e mordace, e senza paura. I punti oscuri tutti appartengono a quel periodo agitatissimo di conflitti tra’ Bianchi e i Neri, e soprattutto alla dimora in Firenze di Carlo di Valois. Ora in quei giorni, affermo essere impossibile ad uno scrittore cacciarsi fin dentro alle circostanze più minute, e bene tenere a mente ogni cosa; poi v’entra il velo delle passioni; le quali turbavano la vista dei fatti quando accadevano; poi da ultimo il buon Dino, in quel suo Priorato, può anch’egli avere avuto qualcosa che a lui piacesse più di nascondere che di confessare. Passati quei tempi, l’Istoria corre più tranquilla ma con minor vita, perchè l’Autore più non aveva le mani in pasta, ed era invece tra’ malcontenti e i messi da parte, o aveva paura. Tuttociò riguarda lui medesimo, e così com’egli cessò ad un tratto di scrivere prima che gli finisse la vita, potrebbe, chi vuole, fare congetture non tanto spallate circa le sorti del manoscritto. Il non aversene copia più antica dell’anno 1514, il silenzio intorno a Dino degli antichi scrittori; questi che furono i soli motivi capaci a far nascere qualche dubbio, destarono infine la sottilità dei critici a dare a quei dubbi la forza intera di una negazione. Chi non valuti le prove intrinseche e mi chieda quel che avvenisse del manoscritto in quei dugent’anni, mi stringerò a dire che non ne so nulla. Dino stesso può avere voluto lasciarlo giacere; poi della famiglia, almeno una parte andò raminga: di tutte queste cose ciascuno pensi quello che a lui torna meglio; per me dirò (e, dove osassi, l’affermerei), che quanto ovvii e naturali sono tutti quelli errori in bocca di Dino, tanto è impossibile che l’Istoria intera sia stata inventata in qual si sia tempo dopo a quello cui si riferisce. Il che è tanto vero, ch’io non trovo in quale altro secolo un libro a quel modo potesse nemmeno venire in capo di fabbricarlo. Innanzi al 1514 la Repubblica era sempre viva, sotto altri nomi continuavano gli stessi contrasti, ma non v’era tempo da pensare ai Bianchi ed ai Neri; chi avesse scritto dei fatti loro, avrebbe mostrato senz’altro il viso o d’un Piagnone o d’un Arrabbiato. Più tardi e, in via d’esempio, sotto ai primi Granduchi, il rivangare quelle cose poteva essere un passatempo di qualche pericolo; nè a chi piangeva la libertà, sarebbe stato conforto l’usare di quelle rampogne. I libri che sotto al Principato si sono fatti, non sono che opera d’antiquari; mettere fuori insino all’ultima tutte le glorie di Firenze, fu negli scrittori pensiero unico. Gli studi intorno alla vita interiore dei Fiorentini ed allo stato della Repubblica non cominciarono se non dopo a che l’istoria vera dell’Italia, inaugurata dal Muratori, ebbe preso vita dalle idee politiche che, nate allora, crebbero sempre, e che solamente al tempo nostro può dirsi che siano alquanto mature; perchè il fare insegna pensare, e i nostri tempi sono un grande specchio capace a mostrare e a fare intendere gli antichi. Prima d’ora la Storia di Dino che non si curava se non per amore di stile o di lingua, era difficile inventarla; ed i Romanzi sopra quei tempi gli abbiamo veduti noi medesimi cominciare. E un altro riflesso mostra ciò impossibile. Chi scrive a freddo, o chi si mette a dipingere sopra una tela le cose antiche o le non vedute, fa un’opera d’arte. Ma l’arte non deve mai voler essere troppo vera, in primo luogo perchè non potrebbe, e quindi perchè uscendo fuori della natura sua e abbassandosi, diverrebbe una materiale imitazione o piuttosto una copia cui manca la vita, e cui non si prestano se non le cose che stanno ferme. Il vero dell’arte sta nell’idea la quale deve compenetrare di sè la rappresentazione che l’arte produce. Non può quindi l’arte, nè deve, esprimere alcuna figura la quale si scambi con la realtà: questi (se non vado errato) sono i canoni della critica, dei quali il Lessing fu maestro solenne. Se dunque il libro del Compagni fosse un’opera d’arte, potrebbe esser vero, ma vero idealmente: nulla invece d’ideale è in quei racconti che sono una ripetizione del vero, o ne sono anzi una espressione viva e attuale come uscita da un affetto vario, ineguale, intermittente, quali sono gli affetti dell’uomo; ha qualche cosa in sè di crudo, esce fuori a caso. A questo modo le cose umane si raccontano ma non s’inventano; e indovinare tutti interi e tali quali furono gli affetti e i pensieri, la lingua e il linguaggio di più secoli prima, non fu mai concesso a ingegno nessuno. Fare un romanzo e scrivere _io Dino_, sono due cose che fanno ai cozzi; non è più arte ma una bugia, dentro a cui viene a morire l’arte. Questa ha per campo il verosimile, e si arresta dove le sue ragioni toccano a quelle del vero. Dove il Compagni non sia vero, e come questo gli avvenisse, abbiamo già detto; metteva passione in quel che scriveva, e la passione è negligente sempre d’ogni cosa che non sia lei stessa. Ma si è poi detto essere falso quel libro suo per l’ignoranza di certe cose che un uomo presente doveva sapere, come sarebbe delle leggi e delle usanze che erano proprie della Repubblica Fiorentina. Quanto a me, di falli di tal sorta confesso e dichiaro non essermi accorto, nonostantechè quel libro mi sia stato assai tra le mani, e che un po’ di pratica di quelle faccende io pure dovessi avere acquistata. Non ch’io però creda saperne ogni cosa, il che fa che nei giudizi mi senta obbligo di andare adagio. Si allegano altri errori di fatto, quello, per esempio, tanto predicato, della Cappella di San Bernardo in Palazzo Vecchio, la quale non era al tempo di Dino. Ma bene potevano i Priori nell’antica residenza averne un’altra sotto quel nome; potè, come avviene in cento cronache, chi raffazzonò i luoghi oscuri o mal posti o mal definiti, avere ai Priori di tempo più antico dato la Cappella la quale avevano al suo tempo, o quella essere una postilla entrata nel testo. Cotesti falli non si avvertono, perchè nulla importano l’economia d’un libro; ma che un libro come quello sia d’un uomo del cinque o seicento, io dico e affermo essere impossibile. Nè uomo vi era che sapesse farlo, nè che a ciò avesse motivo bastante, nè l’istoria s’indovina, nè tanto in fondo si conosceva, nè si cercava quando l’Alfieri del Machiavelli fece un Tacito, nè quando il Giordani (che non badava altro che allo stile) cominciò a dire che il Compagni era il nostro Sallustio; e quanta ragione avessero entrambi non voglio io qui sentenziare. Noterò invece un argomento che per me serve a ribadire tutti gli altri. La storia finisce con una profezia solenne, che è una minaccia ai Fiorentini _d’essere presi e rubati dall’Imperatore per mare e per terra_. Quella profezia riuscì falsa; nè so a qual fine un romanziere ce l’avrebbe messa: e che egli si divertisse gratuitamente a regalare al suo autore un falso giudizio e subito smentito a vista di tutti, il solo pensarlo conduce all’assurdo. Nella Storia ho detto che Dino cessava perchè egli vide le sue profezie fallite e i tempi messi per una strada che a lui non piaceva: in questa opinione rimango tuttora. NOTA CIRCA ALL’ATTO DI PROMISSIONE TRA I CONSOLI DI FIRENZE E GLI UOMINI DI POGNA. (Vedi pag. 10.) Nel Capitolo II ho scritto non doversi tener conto di un instrumento pel quale tra i Consoli di Firenze e gli abitanti del castello di Pogna in Valdelsa si sarebbero fatte certe promissioni; e in nota ho accennato alla falsità di quel documento, di cui il giovane Ammirato si era valso in un’aggiunta alla Storia del vecchio Scipione. Dopo avere scritto, mi è venuto fatto di sapere come il documento non è altrimenti falso e che solo per errore di data fu da quello Storico riferito all’anno 1102. Esso si trova a c. 74 t. del Registro XXVI dei _Capitoli_ del Comune di Firenze. La Direzione dell’Archivio di Stato, da cui ebbi la notizia, si è pure occupata di veder bene la cosa; ed è chiaro per l’esame fatto, che il documento deve riportarsi al 1182, ossia al marzo del 1181 secondo lo stile fiorentino. Il notaro che si roga di quell’instrumento è un Bernardo, il cui nome ricorre parimente in due instrumenti dei Conti Alberti, relativi a Pogna, Semifonte e Certaldo, e che hanno la data del novembre 1184. L’instrumento è dato il giorno _quarto non. martii, indictione quintadecima_; ma l’indizione XV corrisponde non al 1102, ma al 1182 stile comune. A queste due evidenti ragioni possiamo aggiungere, che il notaro Iacopo, cui dobbiamo la copia del documento (fatta senza dubbio nella seconda metà del secolo XIII), non è stato così diligente copista da non aver bisogno che nello stesso documento egli medesimo correggesse i propri errori. Uno dei quali, da lui non avvertito, fu appunto quello di omettere nella data _millesimo centesimo primo_ la parola _octuagesimo_. — Nel Registro XXIX della stessa serie de’ _Capitoli_, a c. 79 t., è un’altra copia del medesimo instrumento, fatta sul cadere dello stesso secolo, da un Belcaro, che dice di averla tratta dalla copia del notaro Iacopo, il cui errore nella data fu trascritto fedelmente. FINE DEL TOMO PRIMO. NOTE: [1] TACITO, _Annali_, I, 79. — BORGHINI, _Discorsi_. [2] ZOSIMO. — PAOLO OROSIO. — PAOLINO, _Vita di sant’Ambrogio_. [3] PROCOPIO. — GIORNANDE. — Continuator Marcellini Comitis _in Chronico_. [4] MALESPINI, cap. 42, 56. [5] Nella Cronaca latina del Giudice Sanzanome, la quale finisce l’anno 1231, dove si racconta la guerra dei Fiorentini contro i Fiesolani l’anno 1125, sono due lunghe dicerie dei condottieri delle due parti per animare ciascuno i suoi. Mette innanzi il Fiorentino l’antica origine _de nobili Romanorum prosapia_; e dice, Firenze essere stata edificata _ne relevaretur civitas Fesulana_, pronta agli eccessi e ai malefizi dai primi suoi tempi. Il Fiesolano all’incontro comincia: _viri fratres qui ab Italo sumpsistis originem a quo tota Italia esse dicitur derivata, nobilitatem vestram respicite et antiqui loci constantiam_. Ricorda il sangue versato per mano dei Romani oppressori e il nobile Catilina co’ suoi, che scelsero morire pugnando piuttosto che vivere fuggendo. Erano vive in quella età le tradizioni che i nuovi tempi dipoi mandarono in dimenticanza. [6] Vedi HÖFLER, _Die Teutschen Päpste_. Ratisbona, 1839. [7] Il Malespini ed il Villani scrivono che l’Imperatore venisse da Siena, con errore manifesto, dimostrato anche dall’avere egli assalito la città da quella parte che guarda Bologna. [8] VILLANI, lib. IV, cap. 23. [9] MALESPINI e VILLANI, lib. IV, cap. 25 e seg. [10] _Fiorentini_, _Memorie della Contessa Matilde_. — REPETTI, _Dizionario geografico-storico della Toscana_, art. _Prato_. [11] AMMIRATO, _Stor. Fior_., anno 1102; e sono aggiunte di Scipione Ammirato il Giovane, che secondo ogni verisimiglianza ebbe sott’occhi un documento falso. [12] REPETTI, articoli _Pogna_ e _Semifonte_. Vedi anche la Cronaca latina del Giudice Sanzanome (_Docum. Stor. Ital. ec._), ove è detto avere i Fiorentini a quel tempo (1184) fatto guerra contro al conte Alberto per il castello di Pogna; aggiunge come da quella famiglia, alla venuta di Federigo I, _eiusdem imperatoris assumpto vexillo_, fosse stato edificato lì presso un altro castello fortissimo col nome di Semifonte; distendendosi nel raccontare, ampollosamente come suole, la guerra fatta contro a quest’ultimo. [13] G. VILLANI, lib. IV, cap. 31. [14] Si trovano negli _Annali Pisani, Rerum Ital. Script_., tomo VI; e in OTTONE DI FRISINGA, lib. VII, cap. 19, il quale conferma l’Annalista Sassone. Vedi MURATORI, _Annal_., 1134, 1137. Non facciamo troppo caso di un trattato che i Fiorentini l’anno 1140 avrebbero fatto con certo conte Ugerio, nome ignoto, e ignoti i luoghi che ivi si leggono, ma potrebbero essere in Val di Greve. (AMMIRATO, _Storie_.) [15] Nè di ciò pure è fatto cenno dai cronisti nostri; ma trovasi nella _Cronica_ di Ottone di Frisinga, seguito dall’Ammirato e dal Muratori. [16] AMMIRATO, _Storie_. [17] _Annali Pisani_. [18] G. VILLANI, lib. V, cap. 9. [19] MALESPINI, cap. 77. [20] G. VILLANI, lib. V, cap. 12. [21] AMMIRATO, _Storie_, anno 1197. Sono giunte di Scipione Ammirato il giovane, che ebbe conoscenza, a quel che sembra, dall’atto di lega — RAYNALD, _Annal. Eccles._, tomo I. — MALAVOLTI, _Storie di Siena_, parte I, lib. IV, pag. 44. — FLAMINIO DAL BORGO, _Dissert. Pisan_. 4. [22] _Epist. Innocentii III_, che sta nella Vita di quel Papa; _Rerum. Ital. Script._, tomo III, parte 1. [23] AMMIRATO, _Storie_. [24] Mentre era in piede Semifonte, si diceva: «Firenze fatti in là, chè Semifonte si fa città.» Il quale detto popolare da sè mostrerebbe (se bisogno ve ne fosse) l’idioma parlato già negli ultimi anni del secolo XII avere forma tutta italiana. Ma la Cronaca di quelle guerre, che uscì alle stampe, è scrittura apocrifa. [25] Nel libro dei _Capitoli del Comune di Firenze_, pubblicato l’anno 1866, è l’atto di accomandigia del Comune di Montepulciano, 24 ottobre 1202. [26] RICORDANO MALESPINI, cap. 50. [27] È una procura fatta a’ 15 maggio 1204 nella persona di Tignoso di Lamberto, uno dei Consoli, a comparire avanti al Papa come procuratore del Comune. (AMMIRATO, _Storie_.) [28] «Già eran Caponsacchi nel mercato Discesi giù da Fiesole.» DANTE, _Paradiso_, canto 15. [29] AMMIRATO, _Storie_. Vedi agli anni che sono indicati nel testo. [30] Cap. 132. [31] Cap. 102. — VILLANI, lib. V, cap. 21. [32] Lib. IV, cap. 36. [33] AMMIRATO, anno 1218, 1224. [34] Ivi. [35] SANZANOME, _Cronica_. [36] G. VILLANI, lib. VI, cap. 2. [37] _Chronicon Patavinum_, in Muratori. [38] LAMI, _Antichità Toscane_, lez. 17. [39] Cap. 132. [40] Il Malespini (cap. 137) dà la lunga serie delle famiglie che avevano torri: sarebbero state alcune di esse alte fino a 120 braccia. [41] Le antiche edizioni e alcuni testi del Malespini farebbero credere che a lui, come uomo di un altro tempo, ciò paresse atto di ribellione. [42] L’atto è dei 22 giugno 1251. (_Archiv. Stor._, tomo IV, parte 2, anno 1866, pag. 36.) [43] Archivio di Stato. [44] MALESPINI. — VILLANI. — AMMIRATO. [45] MALESPINI, cap. 155. — G. VILLANI, lib. VI, cap. 62. [46] G. VILLANI, lib. VI, cap. 65. [47] Ivi, cap. 69. [48] _Paradiso_, canto XV. [49] G. VILLANI, lib. VI, cap. 74. [50] G. VILLANI, lib. VI, cap. 75. [51] Così gli altri storici fiorentini. Sono poi da vedere i Documenti pubblicati dal signor Cesare Paoli. (_Bullettino di Storia Patria Municipale_, vol. II, fasc. 2. Siena, 1869.) [52] MALESPINI, cap. 171. [53] Furono morti due dei Cerchi e due presi, che uno si ricomperò per 1200 fiorini, e l’altro si riscattò in questa forma. «Lui con l’arme che aveva addosso per dilegione fu messo in sur una bilancia, e in sull’altra tanta moneta sanese, e cotanto si ricomprò.» (_Cronichetta di Bindaccio dei Cerchi_, sta col Bonincontri, _Hist. Sicula_. — LAMI, _Deliz. Erud._, parte II, pag. 303.) [54] G. VILLANI, lib. VI, cap. 80. [55] MALESPINI e G. VILLANI, lib. VI, cap. 78, 79 e 80. — LEONARDO ARETINO, lib. II. — AMMIRATO, lib. II. — MALAVOLTI, _Storie di Siena_, lib. I, parte 2. — _Cronache Senesi_, che fanno seguito all’_Istoria di Marcantonio Bellarmati._ Siena, 1844. [56] «Come asino sape così minuzza rape; Tal va capra zoppa se il lupo non la intoppa.» MALESPINI, VILLANI, DANTE, _Inferno_, canto X. [57] VILLANI, lib. VII, cap. 9. [58] _Epist. Clem. IV_. [59] MALESPINI, cap. 190. [60] _Cronichetta di Bindaccio dei Cerchi_. (LAMI, _Deliz. Erud._, parte II, pag. 305.) [61] MALESPINI, cap. 183. — VILLANI, lib. VII, cap. 13. [62] G. VILLANI. [63] Lettere di Clemente IV, in Martène _Thesaurum Nov. Anecdot._, tomo II, p. 321 e seg.; e vedi intorno a questi fatti un lavoro molto diligente del prof. BONAINI, _Giornale Storico degli Archivi Toscani_, Vol. II e seg. — Nella Lettera papale dei 12 maggio 1266 è scritto: «Cum igitur (ne, quod absit, novi flores emarceant ex defectu regiminis non suspecti) multorum judicio tam intrinsecis quam extrinsecis civitatis ejusdem (Florentinæ) civibus, utile videatur nostro regi consilio civitatem, nostrâque, saltem ad tempus aliquod, providentia gubernari etc.» — Vedi _Appendice_ Nº I. [64] Il Malespini, presente a quei fatti, riesce più chiaro ma è insieme alquanto più stretto; e nelle parole del Villani sono dubbiezze e forse alcune inverosimiglianze in quanto all’ordine e alla composizione dei Consigli. Vedasi, fra gli altri documenti, quello del 28 agosto 1274, nel registro XXIX dei _Capitoli del Comune di Firenze_ (Archivio Centrale di Stato), a c. 227; e gli altri dei 29 ottobre, 7 novembre 1278, nel detto registro, a c. 356-7. [65] Abbiamo a stampa (_Delizie degli Eruditi_, tomo VII, pag. 203) la descrizione e la stima dei beni e case distrutte e danneggiate dai Ghibellini, che in tutto ammontano a lire grosse 130,736; grande somma per quei tempi, quando si vede una casa avere prezzo di poche lire. [66] In un libro detto del _Chiodo_, e pubblicato dal P. Ildefonso (_Delizie degli Eruditi_, tomo VIII, p. 221), è la lista dei condannati, divisi per sesti e parrocchie. [67] G. VILLANI, lib. VII, cap. 17. [68] Sopra era uno Ospizio dei Cavalieri di San Giovanni, ora Villa di Monsoglio, dove è da supporre che il misero giovane passasse l’ultima sua allegra notte. [69] VILLANI, lib. VII, cap. 35. [70] G. VILLANI, lib. VII, cap. 54. [71] Di questa celebre pacificazione alcuni atti furono pubblicati nell’Appendice al tomo IX delle _Delizie degli Eruditi_, ed un compiuto ragguaglio venne poi dato dal prof. BONAINI, _Giornale Storico degli Archivi Toscani_, tomo III, pag. 174 e seg. L’instrumento originale, sottoscritto di propria mano dal Cardinale e da sei Vescovi, si conserva fra i cimelii dell’Archivio Centrale di Stato, che da pochi anni n’è venuto in possesso. [72] G. VILLANI, lib. VII, cap. 62. [73] Abbiamo nel vol. IX, pag. 270, della più volte citata raccolta del P. Ildefonso, il diploma di Rodolfo per la elezione di due vicari o luogotenenti suoi nella Toscana, da valere anche per un solo; la quale elezione è confermata da un breve di Martino IV, nel primo anno del pontificato suo. [74] G. VILLANI, lib. VII, cap. 79. [75] G. VILLANI, lib. VII, cap. 13. [76] Nelle _Deliz. Erud. Tosc._, IX, 256, è un assai notabile Discorso intorno al Governo di Firenze, ma che vale anche per altri tempi, e può essere utile a consultare in quanto concerne i Consigli e gli Ufizi minori. — Vedi Appendice Nº II. [77] VILLANI e AMMIRATO. [78] «Hic est modus faciendi Exercitum per Commune Florentiæ, inventus per Mercatores Florentiæ, pro meliori et utiliori statu et commodo civitatis, et Artificum et Artium ac totius Mercantiæ civitatis prædictæ. In primis: quod placeat vobis facere firmare omnes et singulas apothecas etc.» — _Delizie degli Eruditi_, tomo XI, pag. 199. [79] Da un cenno che si trova nella _Cronaca_ dello STEFANI (lib. I, rub. 268) appare che allora quando le cavallate doveano uscire dalla città, si mettesse una candela alla porta, e che il mancante alla chiamata avesse pena del piè: ciascuno interpreti queste parole a modo suo. Sulle Cavallate Fiorentine dei secoli XIII e XIV abbiamo un pregevole lavoro del signor Cesare Paoli (_Arch. Stor._, tomo I, parte I, 1865). [80] DINO COMPAGNI, lib. I. [81] G. VILLANI, lib. VII, cap. 131. [82] Dante nel _Purgatorio_, con poetica maravigliosa invenzione e con affetto pietoso, descrive la morte di questo giovine cavaliero, e la scomparsa del suo cadavere ricoperto dalle acque e dalla melma di un torrente. Noi questa battaglia abbiamo narrata in gran parte con le parole tanto vive e colorate del Compagni, o mantenendo la efficace semplicità del Villani. [83] VILLANI, lib. VII, cap. 131. [84] A uno di questi intervenne Dante, che vide uscire patteggiati di Caprona i fanti pisani. [85] G. VILLANI, lib. VII, cap. 89, 132. [86] Vedi, tra gli altri, lib. VII, cap. 145, dove racconta la perdita d’Acri (an. 1291) e le cagioni di essa, «avutane relazione da uomini degni di fede, nostri cittadini e mercatanti, che in quelli tempi erano in Acri.» [87] REPETTI, _Dizionario della Toscana_, art. _Montopoli_. [88] Qui una volta per sempre dobbiamo notare come in Firenze l’anno cominciasse ai 25 di marzo: quel giorno 15 di febbraio era qui dunque tuttora dell’anno 1292, ma noi scriviamo le date secondo lo stile comune. [89] Il prof. BONAINI pubblicava gli _Ordinamenti di giustizia_ del 1293, (_Nuova Serie dell’Archivio Storico Italiano_, vol. I, 1855) con le successive provvisioni per cui vennero afforzati; non che le consulte che in più tempi si fecero a tal fine, con tutti gli atti di queste consulte e i nomi dei cittadini che ivi esposero i pareri loro: tra’ quali due volte a’ 14 aprile del 1301 ed una ai 13 di settembre dello stesso anno, è il nome di Dante Alighieri. Lavoro diligente e utile soprammodo, a cui rimandiamo tra’ nostri lettori quelli che volessero avere contezza più intera e minuta di questo punto capitalissimo nell’istoria nostra. — Lo _Statuto Fiorentino_, compilato l’anno 1415 dall’insigne giureconsulto PAOLO DA CASTRO, e pubblicato in Firenze con la data di Friburgo l’anno 1778, vol. III, in-4, (tomo I, pag. 407-516) comprende questi ordini contro a’ grandi, quali vigevano infino al tempo suo, ed il novero delle famiglie fatte di grandi, con la indicazione dei tempi in cui vennero esse a patire tale condanna. — Vedi anche le _Provvisioni_ o Statuti, pubblicati dal P. ILDEFONSO, tomo IX, pag. 305, sino alla fine del volume: è tra le altre (pag. 341) l’estratto di una _provvigione_ per la quale, _in beneficium popularium et debilium contra magnates_, è vietato al Potestà e al Capitano (dei quali poco si fidavano per essere eglino di case nobili) procedere contro ai malefizi commessi prima della battaglia di Montaperti, a quelli cioè fatti da uomini popolani sotto al governo di parte guelfa. [90] Nello _Statuto Fiorentino_, tomo III, pag. 692, è il registro di oltre quaranta Leghe del contado e distretto di Firenze con la descrizione delle parrocchie e popoli e dei luoghi che le componevano. — Come la Repubblica si governasse verso i Comuni a lei soggetti, si vede, tra gli altri, da un curioso documento (_Registro di Lettere_ del 1308 presso di noi) nel quale vengono ammoniti severamente certi Comuni perchè usavano misure e pesi diversi da quei di Firenze: il che veniva a mostrare _semiplenam devotionem, aut incuriam, aut animorum dissonantiam_, e si temeva che nuocesse ai commerci della Repubblica: adottassero pertanto le misure fiorentine sotto la pena di mille lire. [91] Vedi _Cronaca_ di PAOLINO DI PIERO, nei tomi aggiunti alla collezione degli _Scriptores Rer. Ital._, e l’edizione di Roma 1755. [92] VILLANI, lib. VIII, cap. 8. — MARCH. STEFANI, lib. III, rub. 204. [93] DINO COMPAGNI, lib. I, pag. 12. [94] AMMIRATO, _Storie_, lib. IV, ann. 1295. [95] Lib. VIII, cap. 8. [96] DINO COMPAGNI, lib. I. [97] VILLANI, lib. VIII, cap. 39. [98] DINO COMPAGNI, lib. I. [99] Questi nomi, stando alla _Cronaca_ di PAOLINO DI PIERO, sarebbono esistiti in Firenze sino dall’anno 1297, venuti da Pistoia o nati in quale altro si voglia modo. [100] COMPAGNI, lib. I. — G. VILLANI, lib. VIII. [101] Intorno al tempo di questo confine dato agli uomini delle due parti contradice Dino molto al Villani ed allo Stefani, i quali pongono tutto questo fatto assai più tardi. Noi fummo incerti quale seguire, perchè il Villani, generalmente, è quanto ai tempi meglio ordinato; laddove il Compagni vivo ed ingenuo narratore delle cose dove egli ebbe parte, dispone sovente male la serie degli eventi, o furono questi male disposti da chi sopra una informe copia metteva insieme quella istoria: nè in tutto a questa potemmo aderire, e quello stesso ordine a cui ci attenemmo non è senza qualche difficoltà o dubbiezza. Ma noi lo teniamo sostanzialmente per vero, nè i nostri lettori vogliamo partecipi di quella lunga pazienza che fu da noi posta nel minuto esame dei singoli fatti. Ci avea preceduto lodevolmente in molta parte CESARE BALBO nella _Vita di Dante Alighieri_. [102] VILLANI, lib. VIII, cap. 42. [103] DINO COMPAGNI, in fine al lib. I. [104] G. VILLANI, lib. VIII, cap. 44, 45. [105] L’ambasceria dovette essere andata dopo al 13 di settembre, perchè in quel giorno Dante sedeva e diceva il suo parere in una consulta pubblicata dal Bonaini (_Archiv. Stor. Ital._, nuova serie, tomo I, pag. 82). [106] DINO COMPAGNI, lib. II. [107] Dino veramente scrive il 4 novembre, ma noi seguiamo il Villani con tutti gli altri, perchè la data del 4 non lascerebbe spazio bastante ai fatti posteriori. E così pure fece il Balbo, non senza avere, come noi, molto ondeggiato innanzi di risolversi, perchè in tanta confusione di date rimane sempre uno spazio largo al dubitare. — Crediamo prossima la pubblicazione di nuovi lavori intorno a Dino Compagni del professor Del Lungo, da cui potranno questi fatti avere ulteriori schiarimenti. [108] Giovanni Villani, ch’era presente in Santa Maria Novella, scrive da quel Parlamento essere stata rimessa in Carlo la _signoria e guardia della città_. Ma noi crediamo fossero quelle parole di onore: nè Carlo in Firenze ebbe vera e propria signoria, avendo anzi chiesto più tardi guardare la sola parte d’oltrarno, dove egli dimorava: e i nuovi Priori, scrive il Compagni che furono eletti dai vecchi in palagio. Ma qui pure la narrazione di Dino non riesce chiara abbastanza nè ordinata, senza però che le incertezze importino molto al giudizio dell’istoria. [109] _Dino Compagni_, lib. II. [110] Bindaccio dei Cerchi, nella _Cronichetta di Famiglia_, scrive messer Vieri essere stato tradito da uno dei Frescobaldi, che a lui doveva diciassette mila fiorini e gli voltò contro la furia del popolo. (LAMI, _Deliciæ Erud., Hist. Siculæ,_ part. II.) [111] Parrebbe che fosse reo e che fuggisse questo Pier Ferrante; imperocchè nelle postille dell’Ammirato, le quali sono tratte da documenti, si legge un trattato del mese di marzo susseguente tra lui ed alcuni capi dei bianchi per fare guerra alla città rimettendovi la parte cacciata. [112] _Deliz. Erud._, tomo X, pag. 93. [113] L’atroce giurisprudenza usata in que’ tempi contro ai ribelli e agli sbanditi è da vedere nello _Statuto Fiorentino_, tomo I, pag. 362 e 66 ed in più luoghi. Potevano essere impunemente offesi.... _usque ad mortem etiam per assassinum vel assassinos in quacumque parte mundi_; e gli uccisori avevano premio: chi ricettasse uno sbandito era soggetto a gravi pene. [114] DINO COMPAGNI. — G. VILLANI. — MARCHIONNE STEFANI. — CESARE BALBO, _Vita di Dante_. — PIETRO FRATICELLI, _Storia della Vita di Dante_; Firenze, 1861. [115] DINO COMPAGNI, lib. III. [116] «I Lucchesi erano arbitri e non signori, benchè avessero le chiavi e il dominio perchè dentro nè fuori non entrasse persona che avesse a contaminare nulla — mandavano i bandi da parte del Comune di Lucca — di che sdegnato uno in Mercato nuovo, diè un colpo di una spada al banditore e disse: Porta questo a Lucca e offerilo a santa Zita.» (STEFANI, lib. IV, pag. 35.) [117] G. VILLANI, lib. VIII, cap. 70. [118] _Ricordi_ di FILIPPO DI CINO RINUCCINI. [119] G. VILLANI, lib. VIII. — COMPAGNI, lib. III. [120] _Scipione Ammirato_ riferisce la condanna d’un figlio di Guido e d’un altro Cavalcanti, data nel 1303, ma della quale fu poi sospesa l’esecuzione in grazia di ambasciatori senesi mossi «dalla nobiltà della famiglia e dalla sua devozione alla Chiesa,» sempre però che i Cavalcanti non più si unissero ai Ghibellini. [121] Abbiamo il trattato con gli Ubaldini, dove tra gli altri sottoscritti si legge, ma in copia, il nome di Dante Alighieri. [122] AMMIRATO, _Storie_, an. 1303. [123] DINO COMPAGNI. [124] BALBO, _Vita di Dante_. — FRATICELLI, _Storia della Vita di Dante_. [125] VILLANI, lib. VIII, cap. 82. — COMPAGNI, lib. III. — _Storie Pistolesi_. [126] Vedi, per la istituzione dell’Esecutore, la già citata pubblicazione del prof. BONAINI intorno agli Ordini della Giustizia; _Archivio Storico_, nuova serie, tomo I, 1855. — E lo _Statuto Fiorentino_, tomo I, pag. 407 e segg. [127] VILLANI, lib. VIII, cap. 89. — DINO, lib. III. [128] Il COMPAGNI ha 15 settembre, ed altri altre date: ma noi teniamo per certa quella che si rileva dalla chiamata delle Leghe di contado, secondo abbiamo in un Registro di lettere della Signoria per l’anno 1308, il quale era presso di noi, ed è oggi nell’Archivio di Stato. (Vedi _Archivio Storico_, nuova serie, fasc. II, 1857, articolo del prof. CAPRI.) [129] DINO COMPAGNI, lib. III. — VILLANI, lib. VIII, cap. 96. — MARCH. STEFANI, lib. IV, rub. 264. [130] Tutta questa materia fu ampiamente discorsa dal prof. CAPEI nell’articolo sopraccitato, dove sono i documenti ad essa relativi. [131] DINO COMPAGNI, lib. III. [132] Questo almeno scrisse G. VILLANI, lib. IX, cap. 7. [133] COMPAGNI, lib. III. [134] Ivi. [135] _Iter Ital. Henrici VII_; in MURATORI, _Rer. Ital. Script._, tomo IX, pag. 908. [136] _Iter Ital. Henrici VII_. [137] _Iter Ital. Henrici VII_. [138] DINO COMPAGNI, lib. III. [139] G. VILLANI e DINO COMPAGNI, lib. III. [140] La lista è data dal P. ILDEFONSO (tomo XI, pag. 61). [141] Troviamo che i figli di Dino Compagni essendo falliti nel 1341, s’interponeva per essi in certe vertenze Stefano Colonna, capo dei Guelfi magnati in Roma e in Italia. (_Archivio Storico_, nuova serie, tomo 16, parte I, Documenti relativi al Duca d’Atene). Abbiamo intorno a Dino Compagni un pregevole lavoro del prof. HILLEBRAND (Parigi, 1862). [142] _Iter Ital. Enrici VII_. — VILLANI, lib. IX. [143] Il P. ILDEFONSO (_Deliz. Erud_., tomo XI, pag. 95) pubblicava la Sentenza d’Arrigo VII contro a’ Fiorentini. [144] Abbiamo la lista dei feritori fiorentini a Montecatini. _Deliz. Erud._, tomo XI, pag. 751. [145] Una _Cronaca_ latina di Ser GIOVANNI DI LEMMO, pubblicata dal signor Luigi Passerini (_Docum. di Stor. Ital._, tomo VI, a cura della Deputazione di Storia Patria della Toscana ec.) contiene dal 1299 al 1320, oltre a fatti e contese personali, ragguagli pregevoli intorno alle cose di Pisa e di Lucca e di tutta quella parte di Toscana, della quale sembra per il Lemmi essere centro San Miniato, tanto da far credere che ivi egli avesse o patria o dimora. Il valore principale di quella _Cronaca_ è per gli anni corsi dalla morte d’Arrigo VII infino alla pace fatta dal re Roberto, anche in nome di Firenze, co’ Ghibellini di Pisa e di Lucca. È da vedere, sebbene a noi direttamente non appartenga, come i Pisani, avendo in casa e agli stipendi loro molti cavalieri tedeschi, cercassero da principio difendersi da Uguccione della Faggiuola, che di quelle genti faceva sua forza; come essendosi offerto a Federigo d’Aragona, questi chiedesse innanzi tutto per sè la Sardegna; come poi cedessero ad Uguccione, e come Lucca fosse a lui ribellata per opera di Castruccio. Quanto ai termini della pace, registra il Lemmi quelli che importano specialmente a San Miniato. [146] VILLANI, lib. IX, cap. 76. [147] _Diurnali_ di MATTEO SPINELLI da Giovenazzo, 1258. [148] So i dubbi che sono stati mossi ai giorni nostri circa alla _Cronaca_ di MATTEO SPINELLI, che si disse fabbricata nel cinquecento. Potè a quel tempo taluno averla messa in ordine levigando forse l’antico idioma nel quale fu scritta, ma non inventare la materia e tutto nemmeno rifare lo stile; del che si hanno prove intrinseche, nè le difficoltà sono diverse da quelle che si ritrovano nella maggior parte delle antiche cronache, per lo più messe insieme in più tempi e fatto di pezzi. Ciò pure avvenne in qualche parte anche all’Istoria del Malespini. [149] AMMIRATO, lib. IV. [150] Qui giova trascrivere alcune parole dove un nostro istorico assai più recente dà belle ragioni di questo cercare lontani paesi che da tempo antico faceano gli uomini fiorentini. «La città di Firenze è posta di sua natura in luogo salvatico e sterile, che non potrebbe con tutta la fatica loro dare da vivere agli abitanti, che sono molto multiplicati: e per questa ragione è stata necessaria cosa da uno tempo in qua ai Fiorentini di cercare loro vita per industria; e per questo sono usciti fuori di loro terreno a cercare altre terre e provincie e paesi, dove uno e altro ha veduto da potersi avanzare un tempo e fare tesoro, e tornare a casa: e andando a questo modo per tutti i regni del mondo e cristiani e infedeli, hanno veduto i costumi delle altre nazioni, e fatto in loro abito delle cose vantaggiate, scegliendo d’ogni parte il fiore: e l’uno ha fatto venire volontà all’altro, intantochè chi non è mercatante e che abbia cerco il mondo e veduto le strane nazioni delle genti, e tornato alla patria con avere, non è riputato da niente. E questo amore ha sì accesi gli animi loro, che da un tempo in qua pare che ne nascano naturali a ciò, e è tanto il numero che vanno per lo mondo in loro giovanezza, e guadagnano e acquistano pratica e virtù e costumi e tesoro, che tutti insieme fanno una comunità di sì grande numero di valenti e ricchi uomini, che non ha pari al mondo.... I loro vicini, alquanto di natura di loro terreni più ricchi e più grassi, si sono stati a quella bada di tanto, che basta loro, sanza volere fatica di cercare più.» — (GORO DATI, _Stor. Fior._, pag. 54, 55.) [151] VILLANI, lib. X, cap. 86. [152] Il Machiavelli scrisse la vita di Castruccio senza istorica verità, ma perchè fosse come esemplare a quella idea che egli vagheggiava; e se uno eleggerne pur voleva, meglio Castruccio che il Valentino. [153] Scriviamo il numero dei soldati come si trova nei contemporanei; ma quello delle genti a piedi, incerto sempre, comprende ancora i guastatori ed i saccomanni. [154] G. VILLANI, lib. IX, cap. 214. [155] _Cronaca di Paolino di Piero_. [156] G. VILLANI, lib. IX, cap. 214. [157] Ivi, cap. 219. [158] _Istoria Fiorentina_ di MARCHIONNE STEFANI, lib. VI, rub. 385. — Tra ’l Potestà e il Capitano del Popolo e l’Esecutore degli ordini di giustizia menavano seco oltre a 200 tra giudici e notai e armigeri e donzelli. (_Statuti_, lib. I.) [159] G. VILLANI, lib. IX, cap. 273. [160] FRANCO SACCHETTI, novella 63. [161] Neri Strinati, del quale abbiamo una breve Cronichetta (stampata di seguito alla Storia apocrifa di Semifonte), era insieme col suo fratello Maffeo mallevadore al fallimento degli Scali: «ma perchè io e Maffeo eravamo dei grandi, non potevamo torre azione contro agli eredi di Ghigo di Gofo ch’erano di popolo:» sì erano fatti gli ordinamenti del popolo contro a’ grandi. [162] Storie Pistolesi dal 1300 al 1348. [163] _Deliz. Erud._, tom. XII, pag. 262. [164] _Balìa rebanniendi exbannitos habitos pro Guelfis et qui pro Guelfis habeantur_ [11 ottobre 1325]. Archivio di Stato, _Provvisioni_ di quell’anno. [165] G. VILLANI, lib. X, cap. 2. — COPPO STEFANI, lib. VI. [166] _Istorie Pistolesi dal 1300 al 1348_. [167] VILLANI, lib. X, cap. 86. [168] Il P. ILDEFONSO, tomo XII, pag. 288, pubblicava il testo originale di questa riforma. È anche da vedere il libro settimo delle _Istorie_ di SCIPIONE AMMIRATO, con le pregevoli aggiunte di chi portava il suo stesso nome e casato. [169] È un libro o zibaldone del secolo diciassettesimo, scritto da TOMMASO FORTI notaro fiorentino, intorno agli uffici e magistrati della Repubblica: manoscritto appresso di noi, e si trova in altre Biblioteche. [170] G. VILLANI, lib. X, cap. 118. — Abbiamo per quell’anno 1329 e pei susseguenti il Diario d’un Simone Lenzi biadajolo, del quale un estratto si legge nel giornale filologico _Il Borghini_, an. 1864; ed è pittura circostanziata e molto viva di quei mercati tumultuosi, che spesso conferma le parole del Villani. Per un’altra carestia che fu poi nel 1353 il Comune fece incetta di grano in più luoghi d’oltremare; ma bastò l’annunzio a fare aprire i granai che prima erano tenuti chiusi, rinviliando il prezzo, talchè il Comune vi perdè non poche migliaia di fiorini d’oro. Sul quale proposito io prego gli economisti a considerare le parole di Matteo Villani, le quali mi sembrano con precisione maravigliosa anticipare una dottrina la quale tardò più secoli a farsi norma comune, e in Firenze stessa rinacque appena cento anni fa, ma prima qui che tra le maggiori nazioni d’Europa, perchè l’esperienza ed il senno popolano quivi le avevano prima sparse. «In tali casi occorrono diversi gravi accidenti, e spesso contrari l’uno all’altro. Se grandi compere in così fatta carestia fanno pericolo di disordinata perdita, e certezza non si può avere di grano che di Pelago si aspetta; ma utilissima cosa è dare larga speranza al popolo; chè si fa con essa aprire i serrati granai de’ cittadini, e non con violenza; chè la violenza fa il serrato occultare, e la carestia tornare in fame: e di questo per isperienza più volte occorsa nella nostra città in cinquantacinque anni di nostra ricordanza possiamo fare vera fede.» M. VILLANI, lib. III, cap. 76. [171] G. VILLANI, lib. XI, cap. 1. — L’_Archivio Storico_ dell’anno 1873, disp. II, pubblicava una notizia del signor Gherardi intorno ai danni di quella inondazione ed ai lavori che occorsero. A maestro e governatore di tutti quei lavori elessero Giotto: essendochè a bene e onorevolmente procedere occorresse preporvi un qualche esperto e famoso uomo, e non si trovasse in tutto il mondo persona più adatta di lui. Dolevano alla Signoria le molte assenze di Giotto a dipingere per l’Italia, bramando che un tanto _magnus magister et carus reputandus in civitate, materiam habeat in ea moram continuam contrahendi_; perchè dalla sua scienza e dottrina venga a molti altri insegnamento, e onore non piccolo alla nostra città. (GAYE, _Carteggio d’Artisti_, tom. I, pag. 481.) [172] G. VILLANI, lib. II, cap. 23. [173] _Archivio Storico Italiano_, Nuova Serie, tom. IV, disp. I. [174] «Sono solito a dire che più d’ammirazione è che i Fiorentini abbino acquistato quello poco dominio che hanno, che e’ Veneziani o altro principe d’Italia il suo grande; perchè in ogni piccolo luogo di Toscana era radicata la libertà in modo, che tutti sono stati inimici a questa grandezza. Il che non accade a chi è situato tra’ popoli usi a servire, a’ quali non importa tanto lo essere dominati più da uno che da un altro, che gli faccino ostinata o perpetua resistenza.» (_Ricordi Politici_ di FRANCESCO GUICCIARDINI, Nº 353.) [175] Vedi le _Istorie Pistolesi dal 1300 al 1348_. [176] Abbiamo gli Atti della dedizione nel tomo I dei _Capitoli del Comune di Firenze_, pubblicato dalla Soprintendenza generale degli Archivi toscani, pag. 4, 28. [177] Era proibito contrarre parentela con tali Signori (vedi _Statut. Flor._, lib. III, rubr. 179, tom. I, pag. 380). Ed altra rubrica, lib. III, rubr. 46, tom. I, pag. 262, vieta egualmente che sieno fatti vescovi di Firenze o di Fiesole uomini di famiglie le quali avessero castelli nel contado o nel distretto; così almeno si vuol intendere: e se accettassero uno di quei vescovadi, i loro parenti divenivano ipso facto grandi qualora fossero popolani, e i grandi passavano nella categoria dei sopraggrandi. Nessuno poteva acquistare dall’Imperatore possessioni nella Toscana o diritti, _vel quæ ad Imperium spectare dicuntur_, sotto pena della testa o della confisca; e divieto d’abitare nel territorio della Repubblica, essi e in perpetuo i discendenti loro. (Lib. III, rubr. 86, pag. 302.) È da vedere pure la rubr. 90 del lib. III dello stesso _Statuto Fiorentino_, tom. I, pag. 304, la quale dichiara nullo e soggetto a gravi pene qualunque contratto pel quale sieno trasferiti diritti reali o personali di servitù, di fedeltà o di omaggio o di qualsiasi giurisdizione, eccetto però al Comune di Firenze. I secolari potevano dalla Chiesa fare acquisto di tali diritti, purchè aboliscano immediatamente ogni obbligazione di vassallaggio. Qualunque persona, università o popolo si obbligasse nell’avvenire a servitù o che ad altri la prestasse, s’intenda che abbia perduto la guardia e protezione del Comune di Firenze, nè a lui si mantenga diritto e giustizia, e possa da ognuno essere offeso impunemente nella persona e negli averi, come i ribelli e gli sbanditi. — Vedi anche i _Capitoli del Comune di Firenze_, loc. cit. [178] Alcuni uomini del Valdarno l’anno 1294 chiedono essere liberati _ab omni hominitia et coloneria et ascriptitia conditione_ e _ab omni nexu fidelitatis_; alla quale erano stati ricondotti dalla famiglia dei Pazzi dopo la battaglia di Montaperti, per forza _et per metum_, e con arsioni ed ammazzamenti: i Priori decretarono la libertà di cotesti uomini, e pei Consigli fu approvata. (Estratto dagli _Spogli_ di VINCENZIO BORGHINI, pubblicato dal P. Ildefonso nelle _Delizie degli Eruditi_, tom. VIII, in fine.) — Abbiamo Atti pubblici dove il Comune di Firenze dichiara spettare a lui la tutela dei _poveri_ e _deboli_ e degli _impotenti_. [179] _Quis dominatur apennini? alma domus Ubaldini_; avrebbe detto l’imperatore Federigo II. [180] _Cronaca_, lib. X, cap. 202. [181] DELFICO, _Storia di San Marino_. [182] «La guerra di Mastino voleva il mese più di venticinquemila fiorini d’oro che andavano a Vinegia, senza le spese opportune che bisognavano di qua al nostro Comune, che le più volte senza quelli di Lombardia avevano al soldo più di mille cavalieri, senza quelli che erano alla guardia delle terre e castella che si tenevano per lo nostro Comune.» (G. VILLANI, lib. XI, cap. 91.) [183] G. VILLANI, lib. XI, cap. 114. [184] G. VILLANI, lib. XI, cap. 139. [185] «Il popolo era da’ grandi nelle faccende private oppressato; i grandi avevano le leggi e la ordinazione della Repubblica tutta contra sè diretta.» (DONATO GIANNOTTI, _Della Repubblica Fiorentina_, lib. I, cap. V, pag. 83.) [186] G. VILLANI, lib. XI, cap. 119. [187] Abbiamo nel _Giornale Storico degli Archivi Toscani_, vol. VI, pubblicati ed illustrati dal signor Cesare Paoli i documenti dell’Archivio di Stato relativi al Duca d’Atene. Quello segnato nº 213 alla pag. 231 contiene le accuse contro ai Venti, ma la sentenza è mozza e apparisce poi rivocata. [188] G. VILLANI, lib. XII, cap. 1, 2, 3. [189] Vedi _Archivio Storico_, tom. XVI, parte II, pag. 532. — Donato Velluti, cronista non dispregevole, era stato de’ primi Priori creati dal Duca, e aveva seco grande entratura; ma quando s’accorse ch’egli andava a tirannia, si tenne in disparte: nel corso poi della sua Cronaca, ogni volta che gli avvenga di nominare il Duca, non lo fa mai con ingiuriose parole, mostrando piuttosto usare prudenza, ma poi non essergli troppo avverso. [190] G. VILLANI, lib XII; _Marchionne di Coppo Stefani_, lib. VIII; MACHIAVELLI, lib. II, in fine; AMMIRATO, lib. IX; _Cronaca Senese_ di ANDREA DEI presso il Muratori, tom. XV, pag. 108. — Abbiamo citato la serie dei documenti relativi al Duca d’Atene tratti dall’Archivio di Stato. In questa, oltre gli Atti del suo Governo, sono quelli della Renunzia, e i negoziati che la Repubblica ebbe poi col Re di Francia e col Papa e co’ Re di Puglia, i quali tenevano la parte del Duca. [191] _Deliz. Erud._, tom. XIII, pag. 207. [192] G. VILLANI, lib. XII, cap. 18 e segg. — MARCHIONNE STEFANI. — LIONARDO ARETINO. — MACHIAVELLI. [193] G. VILLANI, lib. XII, cap. 23. [194] Nelle _Delizie degli Eruditi_ del P. Ildefonso, tom. VII, pag. 290, è la supplica di un ser Belcaro di Bonaiuto Serragli da Pogna, il quale, sebbene fosse di famiglia grande, chiede essere di popolo egli ed i suoi, come _debiles et impotentes_. — Il tomo XIII della stessa pregevole collezione contiene da pag. 199 fino al fine molti originali Documenti di Provvigioni fatte dalla Repubblica, sia nella prima Riforma del vescovo Acciaiuoli e dei Quattordici per la quale erano riabilitati i grandi, sia nella rinnovazione delle Leggi contro ad essi e degli Ordini di giustizia nel mese d’ottobre 1343 e nell’ottobre 1344. [195] Il Malespini vidde salire al tempo suo per le ricchezze i Bardi, i Frescobaldi, i Mozzi ed i Rossi che egli distingue dagli antichi grandi. Recenti erano pure i Cavalcanti; e forse non di vecchia data gli Adimari _venuti su di piccola gente_, come scrive l’Alighieri. [196] «Molto rincararono i lavoratori, li quali erano, si potea dire, loro i poderi, tanto di buoi, di seme, di presto e di vantaggio voleano.» MARCHIONNE STEFANI, tom. XIII, pag. 143. — «I lavoratori delle terre volevano tutti i buoi e tutto seme, e lavorare le migliori terre e lasciare l’altre. — Le fanti e i ragazzi della stalla volevano il salario, il meno dodici fiorini l’anno, e i più esperti diciotto e ventiquattro: così le balie e gli artefici minuti manuali volevano tre cotanti che l’usato. — Il Comune avendo bisogno, e perchè vedeva essere il popolo ingrassato ed impoltronito, raddoppiò la gabella del vino alle porte, ed alzò quella del grano e del sale e della carne. Non vollero più fare provvisione pubblica di grano, cessando il lavoro dell’edifizio d’Orsanmichele a tal fine destinato; ma invece ordinarono che tutto il pane vendereccio si facesse dal Comune, e si vendesse a caro prezzo; e quale fornaio ne volesse fare, pagasse ogni staio 8 soldi di gabella.» (M. VILLANI, lib. I, cap. 57.) [197] Il dar mallevadore era ai magnati imposto dagli Ordinamenti di giustizia. [198] Il numero dei battezzati darebbe, secondo i calcoli d’oggi, oltre a centocinquanta mila anime di popolazione alla città, compresi i borghi e le parrocchie le quali andavano a San Giovanni: ognuno però vede come fosse fallace il modo del registrarli. Pare stia bene il conto delle ottocento moggia la settimana per novanta mila bocche. Gli ottanta mila uomini da arme, cioè da quindici a settanta anni, potevano bene essere l’anno 1336 nel contado e distretto, il quale allora comprendeva non piccola parte, com’è detto, della Toscana. [199] Vedemmo già come tutte le lane ed altre cose de’ re d’Inghilterra venissero in mano di mercanti fiorentini, in compenso dei danari che a lui somministravano per la guerra. — Si noti ancora come l’industria, tenendo qui pure l’usate sue vie, mentre s’ampliava e raffinava, andasse stringendosi in minore numero di mani. [200] I panni francesi ed altri venivano a Firenze per le finiture; l’arte del cimare e quelle che servono a dare ai panni l’ultima perfezione, altrove erano sconosciute; e da principio i Fiorentini mandavano in Fiandra dei lavoranti per conto loro che mantenessero il segreto. Venivano anche i panni a tingersi in Firenze, essendo quest’arte sempre ivi molto accreditata, massime per l’uso del guado o indaco, il quale serve anche a fermare il color nero e a dargli lucentezza: della tintura con l’oricello abbiamo detto in altro luogo. Qui è notabile come dal Villani non si tenga conto dell’arte della seta che in Firenze era antichissima; vero è bensì quest’arte essere giunta al colmo nel secolo susseguente, quando l’arte della lana cominciò invece a decadere. [201] Gli speziali ebbero questo nome perchè oltre alle medicine smerciavano anche le spezierie delle Indie. [202] E credo io fossero più, tanti se ne legge di continuo andati chi in qua chi in là per traffici, ed i cambiatori mettevano banchi in molte parti d’oltremonte e d’oltremare, e Avignone ne tirava a sè non pochi, ed a Lione erano case di Fiorentini, ed a Bruggia nella Fiandra più anni rimase lo stesso Giovanni. Ai quali se poi si aggiungano quelli che andavano in signoria di fuori, potestà o giudici, e che menavano seco gran seguito o famiglia; e il frequentare le università fino a quella di Parigi, ed il muoversi di luogo in luogo che facevano i religiosi; poi le frequenti ambasciate, e quello stesso vagare dei soldati mercenari che fu cagione di tanti mali; si vedrà come fosse continuo a quei tempi il conversare dei Fiorentini con molte città d’Italia e fuori. [203] Fu posta quando si edificava il terzo cerchio della città, continuata poi fino ai giorni nostri, e gravosissima, perchè andava fino al sette e tre quarti per cento, facendosi però le stime molto all’agevole. Gravava disegualmente la Toscana, avendo più luoghi pattuito nella dedizione l’andare esenti da quella tassa; privilegi che cessarono quando nel 1814 fece ritorno il principato non come antico e restaurato, ma col diritto della conquista. [204] Oltre al segnare l’oro e l’argento, sembra che le paci tra’ cittadini avessero a guarentigia e solennità il suggello del Comune; il che si fa credere anche per un luogo del Velluti, pag. 29: «Venne poi il Duca d’Atene e ribandì gli sbanditi e costrinse ognuno a far pace; onde i consorti e noi, essendo costretti, rendemmo pace; la quale è sotto grandissime pene, fortificate poi per riformagioni di Comune con altre gravissime pene: e non si trova quasi niuna poi essere rotta, e chi l’ha rotta si è stato diserto; onde per questa cagione e per lo comandamento di mio padre e sua maladizione si è molto da guardare; che se alcuno discendente di loro vivesse, non fosse tocco, se non vuole sè e altrui disertare.» Il segno dei beni in pagamento poteva essere necessario a quei contratti che hanno nome di Anticresi, nei quali i beni essendo ceduti al creditore per certo tempo, non si fa luogo alla voltura; se pure non fosse divietato quel contratto, com’è pei canoni della Chiesa, e che il divieto si osservasse. [205] Ivi erano grani depositati da cittadini, i quali pagavano per la custodia e per gli attrazzi; e il grano sparso rimaneva a benefizio del Comune. [206] Erano penali che dovevano pagare i connestabili che fossero trovati in difetto d’uomini rispetto al numero pel quale erano stati condotti e riscuotevano gli stipendi. — Soccorse in questo come in più altri luoghi a noi l’amicizia del signor Cesare Guasti, e a lui ne rendiamo le debite grazie. [207] Nei libri del 1347, per citar quelli più vicini al tempo del Villani, si trovano versamenti fatti ai Camarlinghi della Camera dal Camarlingo delle Stinche: _de denariis ad ejus manus perventis_. (Archivio centrale di Stato.) [208] Voleano che i più facoltosi del contado dimorassero nella città, dove davano minore sospetto. [209] Si è detto come i Fiorentini fino dal secolo XIII per grandigia custodissero leoni ed altri animali rari, i quali venivano ad essi d’Oriente; costumanza cittadina cessata non prima del passato secolo, quando si venne a ricercare il perchè di ogni cosa. Un lione di marmo che tra le branche teneva uno scudo con entro il giglio, e si chiamava il Marzocco, era una sorta di emblema della Repubblica fiorentina, imitato forse dal Leone di San Marco. [210] Abbiamo (_Deliz. Erud_., tomo XII, pag. 349) una descrizione delle Entrate e Spese tratta da questa del Villani, ma non però affatto inutile pe’ confronti. [211] PECORI, _Storia di San Gimignano_. — Nel libro già citato dei _Capitoli del Comune_, pag. 288 e seg., abbiamo gli Atti della dedizione che San Gimignano aveva fatta l’anno 1345, e altri susseguenti. — Vedi un nostro Compendio dell’istoria di questa Terra, nell’_Appendice_ Nº III. [212] Intorno ai fatti dei Guazzalotri e di Prato vedi anche (per quanto gli si debba credere) il frammento di Cronaca di Luca da Panzano; _Giornale storico degli Archivi Toscani_, tomo V, pag. 61. [213] Donato Velluti, Gonfaloniere di giustizia, ebbe grande mano in tutta quella faccenda; e per l’inganno che v’era stato e il molto male commesso, non trovò prete che lo assolvesse; finchè tornato da Napoli il vescovo Acciaiuoli, quattro anni dopo lo assolvè, pensando ch’era stato a fine di bene, e perchè Firenze non andasse sotto tirannia. (VELLUTI, _Cronaca_.) [214] Aveano ordinato un anno innanzi le cose spettanti al governo della Valdinievole; intorno a che vedi il libro dei _Capitoli_, in più luoghi. [215] I Cronisti fiorentini tacciono di un soccorso di Senesi venuti alla difesa della Scarperia, che primi entrarono nella terra. Questo narra il senese Agnolo di Tura (_App_. Muratori, _Scriptor. Rer. Ital._, tomo XV, col. 126, 127), il quale però aggiugne in onta de’ Fiorentini cose che parvero incredibili al senese annotatore Benvoglienti. [216] Donato Velluti era in Siena ambasciatore per fare lega contro al Visconti; «ma veggendo noi ambasciatori non essere sufficienti i Comuni di Toscana a tanto uccello senza l’appoggio d’altrui, si ragionò si mandasse al Papa, trattasse perchè l’Imperatore venisse in Italia: di che rapportato il detto ragionamento in Firenze, quanto che nella prima faccia fosse dubbioso e gravoso, purnondimeno veggendo l’appoggio di Puglia essere debole, si prese di mandare al Papa.» Questi aveva promosso l’elezione di Carlo IV, e di per sè era già inclinato a farlo scendere in Italia. [217] «Se alcuno guelfo divien tiranno, conviene per forza che diventi ghibellino.» (MATTEO VILLANI.) [218] Nelle campagne i nostri vecchi dicevano sempre: un Dio, un Papa, un Imperatore; e non si tenevano obbligati alla milizia napoleonica, perchè non era l’imperatore vero. [219] «Essendo messer Ramondino Lupo da Parma capitano di guerra in Firenze molto servitore dell’Imperatore, fece sentire all’Imperatore de’ ragionamenti si faceano; di che l’Imperatore subitamente mandò un suo ambasciatore, grande prelato, a Firenze» — «ed essendo deputati certi nostri cittadini, tra’ quali io fui, a ragionare con lui, dopo molti ragionamenti, si fecero certi capitoli ec.» (VELLUTI, _Cronaca_.) [220] Il Corio narra come l’Arcivescovo essendo chiamato dal Papa in corte, mandò innanzi un suo siniscalco a fare gli alloggi; il quale pigliò in affitto quante case potè avere nella città d’Avignone, e stalle da porvi molto gran numero di cavalli, dicendo sempre non bastavano per la compagnia che l’Arcivescovo condurrebbe seco: parve troppa ai cardinali, e fu pregato non si muovesse. [221] MATTEO VILLANI, lib. III, cap. 7. [222] Scrivono che uno degli ambasciatori dicesse a Carlo, che promoveva sempre novelle difficoltà: _Voi filate molto sottile_. (M. VILLANI, lib. III, cap. 30.) [223] Nelle istruzioni agli ambasciatori (Libro di _Consulte_, nell’Archivio di Stato) è ingiunto loro di fermarsi a conferire dovunque fosse il detto Patriarca, e «dirgli ogni cosa.» — Questo abbiamo dalla cortesia del signor Luigi Passerini, che tanto sa delle cose nostre. [224] M. VILLANI, lib. III, cap. 86. [225] Nelle edizioni di Matteo Villani si legge quattromila, che sono troppi. Ranieri Sardo, _Cronaca Pisana_ (_Archiv. Stor._, VI, par. 2), dice essere venuti con l’Imperatrice mille cavalieri, e indi qualche altro centinaio mandati dai Signori di Lombardia. [226] «A noi pareva che al Patriarca bastassero duemila fiorini d’oro, al Cancelliere trecento fiorini o poco più, ec.» (_Istruzioni agli ambasciatori_; Archivio di Stato.) — Un documento _in forma brevis_ (stampato con altri spettanti a quel fatto dal signor Giuseppe Canestrini: _Archiv. Stor._, Appendice VII, pag. 406) dà facoltà agli ambasciatori di essere larghi di doni ai ministri e consiglieri di Carlo IV, e questi si vede che accettarono _grato animo_. [227] «La moneta, che dare gli si dee per via di censo per anno, vorremmo che fosse la minore quantità che si potesse; e piuttosto una quantità determinata, che discendere a censo di 26 danari per focolare.» (_Archiv. Stor._, Appendice VII, pag. 405.) Nelle istruzioni agli ambasciatori si trova pure: «Offerte generali farete, non obbligatorie; — dicano con quanta difficoltà si è qua ottenuto di condiscendere alle modificazioni nuovamente fatte.» [228] Testo del Trattato (vedi _Appendice_ Nº IV.) — E nelle istruzioni agli ambasciatori: «in quella parte dove toccate delle terre le quali volontariamente si sono sottomesse a questo Comune, che non le vuole confermare, operate almeno quanto potete che ci faccia suoi vicarii, allegando che ha fatto il simile a molti altri.» [229] A’ nove di marzo, undici giorni avanti alla conclusione, si vede ch’erano alle rotte e discorrevano già d’armarsi; più giorni innanzi Niccolò Alberti aveva proposto si cercasse aiuto dal Papa e dal Legato della Romagna. (Libro di _Consulte_, nell’Archivio di Stato.) Matteo (lib. IV, cap. 73) sgrida i reggitori del non avere fatto abbastanza fondamento sul Papa, il quale aveva già stipulato con l’Imperatore che nello scendere in Italia mantenesse governo libero in Firenze. Aggiugne il Villani che le lettere papali, di cui potevano i Fiorentini valersi, rimasero in Cancelleria per non avere gli ambasciatori pagato i trenta fiorini d’oro che ci volevano per la spedizione. [230] Donato Velluti accenna con parole molto espresse ad una promessa la quale al tempo dell’imperatore Carlo IV sarebbe stata _fatta ai Grandi intorno al fatto degli uffici e degli schiusi guelfi_; promessa cioè di modificare gli Ordinamenti di giustizia, e le esclusioni dai magistrati. I Velluti erano antichi grandi, ma l’affermazione di Donato non poteva essere in tutto senza fondamento, e qualche cosa dovette ai grandi essere almeno fatta sperare, a Pisa, forse dagli ambasciatori. [231] Il Diario del Graziani perugino (vedi _Archiv. Stor. Ital._, tomo XVI, parte 1ª, pag. 176) aggiugne tra i patti: «Nella città de Fiorenza debiano continuo tenere uno offiziale per lo Imperatore, el quale officiale sia sopra alle appellazione, e che debia avere la mitade de tutte glie bande che entreronno in Comuno.» Tuttociò è manifestamente falso, ma si pone a mostrare le gelosie per cui gli scrittori d’una città si compiacevano abbassare le altre, fossero anche le più amiche. [232] _Archiv. Stor._, Appendice, vol. VII, pag. 405. — Nelle istruzioni agli ambasciatori (Archivio di Stato): «Il sacramento pareva troppo largo, ma si farebbero riserve innanzi al giuramento; e quando fossero autenticate per lettere di Cancelleria, basterebbe perchè il sacramento non avesse più vigore.» Abbiamo il testo delle riserve autenticate per lettere di Cancelleria, e confermate il giorno avanti a quello del trattato dalla persona dello stesso Imperatore in Pisa, com’era chiesto in Firenze. — Vedi lo stesso _Appendice_, vol. IV, in principio. [233] Ranieri Sardo (Cronaca citata), narrati i fatti di Carlo in Pisa, lo accomiata con queste parole: _Iddio gli dia delle derrate ha date a noi_. — Vedi anche le _Istorie Pisane_ di Raffaello Roncioni. (_Archiv. Stor._, tomo VI, parte I.) [234] _De Imperatore habeo hæc nova: quod die dominica proxime elapsa applicuit Cremonam, et ibi extra portam retentus fuit per duas horas et ultra; et interim multum examinate fuerunt gentes sue, quarum tercia pars forte intrare potuit civitatem cum eo et sine armis, et relique remanserunt extra cum omnibus armis: et die sequenti ivit Sunzinum, ubi valde plus retentus fuit similiter extra portam, cum simili examinatione et receptione dictarum suarum gentium: postea transivit per territorium Pergami per Valcamonicam et per Voltolinam versus.... Sueviam in Alamannia, semper cum magna festinantia, absque quo aliqua vice esset visitatus vel visus ab aliquibus dominis Mediolani: die et nocte equitans ut in fuga_. (Lettera alla Signoria, da Ferrara 27 giugno 1355; in _Archiv. Stor._, Appendice, vol. VII, pag. 408.) [235] VELLUTI, _Cronaca_. [236] MATTEO VILLANI, lib. IV, cap. 70-75. [237] Vedi _Appendice_, Nº V. [238] MARCHIONNE DI COPPO STEFANI, nelle _Deliz. Erud_., tomo XIII, pag. 112. [239] MATTEO VILLANI, lib. IV, cap. 69. [240] GIOVANNI VILLANI, lib. XII, cap. 72. — E MATTEO VILLANI, lib. II, cap. 2. «Ogni vile artefice della comunanza vuol pervenire al grado del priorato e de’ maggiori uffici del Comune, ove s’hanno a provvedere le grandi e gravi cose di quello, e per forza delle loro capitudini vi pervengono; e così gli altri cittadini di leggiere intendimento e di novella cittadinanza, i quali per grande procaccio e doni e spesa si fanno a’ temporali di tre in tre anni agli squittini dal Comune insaccare: è questa tanta moltitudine, che i buoni e gli antichi e savi e discreti cittadini di rado possono provvedere a’ fatti del Comune, e in niuno tempo patrocinare quelli, che è cosa molto strana dall’antico governamento dei nostri antecessori e dalla loro sollecita provvisione. E per questo avviene, che in fretta e in furia spesso conviene che si soccorra il nostro Comune, e che più l’antico ordine e il gran fascio della nostra comunanza e la fortuna governi e regga la città di Firenze, che il senno e la provvidenza de’ suoi rettori. Catun intende, i due mesi che ha a stare al sommo ufficio, al comodo della sua utilità, a servire gli amici o a disservire i nemici col favore del Comune, e non lasciano usare libertà di consiglio a’ cittadini.» [241] Frammento di _Cronaca_ stampato nella edizione di Donato Velluti. Firenze, 1731, pag. 148. [242] Rubr. 10 degli _Ordinamenti di Giustizia dell’anno 1293_. (_Archiv. Stor._, Nuova Serie, tomo I, pag. 58.) [243] _Giornale Storico degli Archivi Toscani_, vol. I, anno 1857. — Il Comune di Firenze aveva in Roma anche nell’assenza del Pontefice tre col titolo di protettori, ai quali nell’anno 1354 erano stanziati dal Consiglio del Capitano e Popolo Fiorentino 480 fiorini d’oro. (Carte del signor Giuseppe Canestrini a noi gentilmente comunicate.) [244] Stando a Lapo da Castiglionchio (_Discorso_, ec.; Bologna, 1753, in-4, pag. 128), in prima origine il Consiglio Generale sarebbe stato di quaranta, grandi e popolani. [245] _Statut. Flor._, tomo II, lib. 5, rubr. 5, pag. 491. [246] _Statut. Flor._, tom. I, pag. 145; e _Statuto di Parte Guelfa_, cap. 21, nel _Giornale Storico degli Archivi toscani_, vol. I. [247] Nell’intervallo però tra il 1335 e il 58 i Capitani troviamo essere ridotti a quattro, che due grandi e due di popolo. — Per una riforma del 1323 i nuovi Capitani sarebbono eletti da quelli che uscivano: coteste cose però variavano ad ogni tratto, e Lapo da Castiglionchio dice che erano essi eletti dal maggior consiglio della Parte e dal consiglio segreto dei 14. (Discorso, ec., pag. 128.) Abbiamo pure una deliberazione del 1316, per la quale i Capitani eleggono i cento consiglieri della Parte, dei quali sono ivi anche i nomi. — Tutto ciò mostra come il governo della Parte guelfa mantenesse le forme strette che si convengono ad un reggimento di oligarchi; e tali erano essi veramente. [248] Vedi cap. 16 degli _Statuti di Parte Guelfa_. «Come ogni anno si spenda in possessioni e in case la maggior quantità di pecunia che avere si potrà.» [249] Parole che accennano a una esperienza lungamente fatta, e quindi si deve gli ultimi capitoli di Giovanni credere opera di Matteo. [250] G. VILLANI, lib. XII, cap. 72, 79, 93. — _Deliz. Erud._, tomo XIII, pag. 314 a 28, e 339. [251] VELLUTI, _Cronaca_, pag. 106. [252] _Deliz. Erud._, tomo XIV, pag. 231. [253] Giuravano, _devotis animis et curvatis capitibus_, fare ogni cosa a conservazione dello stato e parte dei Guelfi, e _ad exterminium æmulorum_. [254] _Deliz. Erud._, tomo XIV, pag. 249. [255] Alcune parole di Matteo Villani (lib. VIII, cap. 31) ci danno a credere ch’egli stesso fosse di già segnato in quella lista. [256] M. VILLANI, lib. VIII, cap. 31, 32, e MARCHIONNE STEFANI, lib. IX, pag. 15. [257] MARCHIONNE DI COPPO STEFANI, lib. IX, rubr. 665, pag. 8. [258] La _Cronaca_ di Marchionne rimase inedita fino al passato secolo, ma era nota nel cinquecento. [259] _Cronaca_ di G. MORELLI. [260] Avendo essi a quel tempo inimicizia co’ Mangioni loro vicini, gli assalirono una sera dopo cena; ed una loro donna uccisero, che stava sull’uscio a pigliare il fresco; pel quale misfatto ebbero bando dalla città. E noi troviamo questi Bordoni immischiati prima con Corso Donati e poi col Duca d’Atene: ma sapevano rendersi popolari, e nell’anno 1311 quella famiglia ebbe privilegio di esenzione dalle gravezze. [261] _Cronica_, pag. 109. [262] _Archivio_, detto Libro di _Consulte_. — In esse troviamo Piero degli Albizzi e due Strozzi che andavano seco, dar voto tra gli altri più qualificati cittadini a cui spettavasi per ufficio. Ma i loro nomi stanno tra gli ultimi che abbiano luogo in que’ registri; e nei pareri da essi dati nulla è di notabile, come in cosa giudicata, e dove pare che le sentenze, l’una dall’altra poco difformi, non si dessero senza circospezione. [263] G. VILLANI, lib. XII, cap. 113. [264] M. VILLANI, lib. III, cap. 89, e lib. IV, cap. 14 e seg.; e GRAZIANI, _Cronache di Perugia_ (_Archivio Storico_, tomo XVI, parte II); AMMIRATO, _Storie Fiorentine_. [265] Di Landau, e dice lo Stefani ch’egli era del lignaggio di Wittemberg. [266] Leggere gli epitaffi o iscrizioni. — _Vita di Cola di Rienzo_, scritta in dialetto romanesco da TOMMASO FORTIFIOCCA. [267] M. VILLANI, lib. VIII, cap. 72 e seg. [268] In Firenze l’arte della lana non lavorava per non avere più il porto a Pisa. (_Cronaca Senese_ in MURATORI, _S. R. I_., tomo XV, pag. 170.) [269] M. VILLANI, lib. VIII, cap. 37. — _Cronaca Pisana_ in MURATORI, _S. R. I._, tomo XV; e _Cronaca_ di RANIERI SARDO in _Archiv. Stor._, tomo VI. [270] Di tale provvedimento scrive LEONARDO ARETINO (lib. VII): «Questo certamente non fu altro che fare la propria e domestica moltitudine diventare vile, vedendo altri difendere le sue sostanze, e loro non imparassino a difendere sè medesimi e le loro patrie.» — MATTEO VILLANI si lagna che fosse necessità in questa guerra empire le file con la viltà delle _vicherie_, o milizie del contado. [271] Erano prima venuti gli Ungheri in Italia per le guerre contro la regina Giovanna di Napoli. Tornava poi contro a’ Veneziani il re Lodovico l’anno 1356 fin sotto Trevigi. Del modo d’armarsi e di campeggiare di quella nazione, della moltitudine dei cavalli e dei cavalieri, e fin del vitto ch’essi usavano, è un bel ragguaglio in MATTEO VILLANI (lib. VI, cap. 53-54). [272] Era la Compagnia del Cappelletto famosa in quei giorni: poi novera il Tronci le Compagnie dell’Aquila Bianca, dell’Aquila Balsana, delle Chiavi, del Grifon Bianco, del Grifon Staccato, del Leone di rissa, dei Pappagalli, del Pontedera, degli Spiedi, della Tavola Rotonda ec. (_Annali Pisani_, an. 1357.) [273] Quivi i soldati oltramontani ch’erano al soldo del Comune di Firenze avevano prima disegnato un altro Spedale pei malati della loro gente, come ne avevano uno in Pisa fondato da quelli che ivi dimorarono dopo la morte di Arrigo VII. (PASSERINI, _Storia degli Stabilimenti di Beneficenza_ ec., pag. 217.) [274] MATTEO VILLANI, lib. XI, cap. 16. [275] Vedi anche il frammento della Cronaca di messer LUCA DA PANZANO. (_Giornale Storico degli Archivi Toscani_, tomo V, pag. 70.) [276] ANTONIO PUCCI, che in ottave descrisse l’istoria di questa guerra contro Pisa, quanto a Pandolfo n’esce con dire: _ch’egli ebbe animo perfetto; e contra sua voglia, per non avere genti, dovette starsi nelle castella; e che dipoi chiese licenza non senza cagione._ (Cantare V, ottav. 30, 46. _Deliz. Erud._, tomo VI.) — Il Pucci fu autore anche del _Centiloquio_, pubblicato dallo stesso P. Ildefonso, vol. III. IV, V; ma non è altro che l’istoria di G. Villani rattratta in terza rima con buona lingua e cattivi versi. [277] F. VILLANI, continuazione del lib. XI di Matteo. [278] Contro ad essi Urbano V l’anno 1366 stringeva lega, egli per conto dello Stato della Chiesa, col Comune di Firenze e col popolo Romano e più altre città e Signori d’Italia. Andarono a questo effetto in Avignone Giovanni Boccaccio e Francesco Bruni: i negoziati per la lega e altri documenti che risguardano Urbano V sono da leggere nell’_Archiv. Stor._, tomo XV, e Appendice VII. Vedi anche il _Diario di un Anonimo Fiorentino_ del secolo XIV nel vol. VI dei _Documenti di Storia Italiana_, pubblicati dalla Deputazione di storia patria. [279] Aveva per milleseicentoventi fiorini data in pegno ad un mercante fiorentino la sua corona imperiale, che andando a Roma recuperava col danaro dei Senesi. — _Cronaca Senese_ di NERI DI DONATO, citata dal Sismondi, che espone a lungo i fatti di Siena e le mutazioni di quella Repubblica. [280] Vedi anche BONINCONTRI, _Annales Samminiatenses_ in MURATORI, _S. R. I._, tom. XXI. [281] Lo Stefani aggiunge un Brunelleschi ed un altro Adimari; noi diamo i nomi dalla Provvisione che ci ebbe comunicata il signor Canestrini, e che l’Ammirato aveva letta in originale. Per quello che spetta all’Acciaiuoli è da notare che Matteo Villani appare a lui molto devoto. [282] AMMIRATO, an. 1358. [283] Vedi AMMIRATO agli anni 1352-66, che sono postille di Scipione Ammirato il Giovine. Sarebbe mancata in quegli anni la persona del Capitano ma non cessato l’uffizio; nelle Provvisioni si vede il Consiglio del Popolo ritenere sempre il nome di Consiglio del Capitano. [284] Una Provvisione de’ 31 maggio 1359 annulla le fedi o attestazioni che taluni si avevano procacciate di buoni guelfi: una somigliante, scrive Gio. Morelli, averne avuta i maggiori suoi. Altra Riforma del 1361, 24 aprile, ordina: che agli scrutini dei maggiori uffici assistano quelli tra’ Capitani di Parte che siano di popolo, ed i Capitani che siano dei grandi agli scrutini per gli uffici dai quali non siano esclusi i magnati e gli uomini del contado (_comitatini_): che i Capitani grandi intervengano al Consiglio del Potestà cioè del Comune, ed i popolani intervengano al Consiglio del Capitano cioè del Popolo. Da un altro documento della Parte guelfa (12 dicembre 1366) apparirebbe che gli scrutini pe’ maggiori uffici della Repubblica fossero tenuti almeno per qualche tempo nel Palagio della Parte; ivi registrandosi le spese fatte «occasione scruptinei fiendi de Prioribus Artium et Vexilliferi iustitiæ, Gonfaloneriorum sotietatum et XV bonorum virorum in Palactio dictæ Partis de præsenti anno.» [285] Alcuni ne ha dati il P. Ildefonso ed altri ne abbiamo nel _Diario di Anonimo Fiorentino_, vol. VI dei _Documenti di Storia Italiana_. [286] «Come (restituire) il perdimento della libertà che tutte cose sormonta? Di quello che poco dire non si può, è meglio il tacere: e qui far fine si dee, e dar luogo a chi molto può e poco fa, et a molti offende. Anime tribolate, se potete, datevi in viaggio pace e buon piacere.» [287] FILIPPO VILLANI, cap. 65. [288] Provvisione dei 3 novembre e 8 dicembre 1366 e 26 maggio 1367. [289] VELLUTI, _Cronaca_, pag. 106, 111. [290] «Chi supplicasse, venga immediatamente scritto nei libri della Parte come Ghibellino ed inabile ad ogni ufficio; e il notaio della Parte intanto subito lo ammonisca: chi cancellasse dai libri quel nome sia punito come falsario coll’incendio delle sue case.» [291] «Quando ero fanciullo che uscivo dall’abbaco, circa 1363, ricordomi gridarsi da’ fanciulli dell’abbaco, quando uscivano: _Vivano le berrette_, che tanto vuol dire quanto: viva la portatura di uomini degni; _Muoiano le foggette_, che tanto voleva dire quanto: muoiano gli artefici e uomini di vil condizione. E nel 1378 si rivolse tal detto, e dicevasi: _viva le foggette, e muoiano le berrette_.» (_Ricordi_ di GINO CAPPONI.) [292] Provvisione degli 11 luglio 1371. [293] Provvisione del 27 gennaio 1371 (stile fiorentino). — Vedi _Appendice_ Nº VI. [294] P. BONINSEGNI, pag. 606. [295] «Fosti voi colui che ordinaste e dettaste quella utile legge e riformagione di Comune, che non permette che contro a Parte si faccia alcuna riformagione senza certa grande solennità.» (Lettera di BERNARDO DA CASTIGLIONCHIO a Lapo suo padre, pubblicata insieme al Discorso.) [296] «Per certo i Fiorentini voleano del tutto rompere.» (_Cronaca di Bologna_ in MURATORI, _S. R. I._, tomo XVIII, pag. 498.) [297] È da vedere ampiamente svolto il concetto ghibellino risguardo al dominio temporale della Chiesa nel _Chronicon Placentinum_, in MURATORI, _S. R. I._, tomo XVI, col. 528 e seg. [298] Il BONINCONTRI, _Annales_, pag. 23, scrive la distruzione degli Ubaldini avere destata la nimicizia del Legato contro ai Fiorentini. [299] «Negli anni 1346-7 essendo stata in Firenze grande carestia e mortalità e tremoti, novantaquattro mila persone avrebbero avuto il pane dal Comune.» (GIOVANNI VILLANI, lib. XII, cap. 73.) — E d’un’altra carestia poco sentita in Firenze vedi _M. Villani_, lib. III, cap. 56. [300] _Cronichetta d’incerto_, tra quelle stampate dal Manni; Firenze, 1733; pag. 102. [301] L’anonimo autore della _Cronaca Pisana_ (_S. R. I._, tomo XV, pag. 1067) scrive, il Papa avere chiesto aiuto di danaro alle città di Firenze, Pisa e Siena, le quali erano seco in Lega; ma gli furono date parole: «che se prima le città di Toscana avessino mandato al Papa ottomila fiorini, il Papa non avrebbe fatto pace con i Signori di Milano, e la Toscana sarebbe rimasa in pace.» [302] Andando a morte, furono attanagliati per le vie della città e da ultimo sepolti vivi col capo all’ingiù, che dicevano propagginare. Questo barbaro modo di pena, riferito nella _Cronichetta d’incerto_ (Firenze, 1733, pag. 203), e dal Monaldi nel _Diario_ (con le _Storie Pistolesi_, Firenze, 1733) è tra le accuse ai Fiorentini date nel Breve di Gregorio XI. (RAYNALDI, _Annales_, tom. VII, pag. 278.) Quivi e dal Monaldi è detto il prete essere monaco. — Abbiamo il processo di quei due pubblicato dal signor Alessandro Gherardi (_Archivio Storico Italiano_, Serie 3ª, tomo X, parte I, pag. 1 a 23). [303] Il signor Alessandro Gherardi pubblicava tutta quella parte degli Atti del Comune la quale risguarda a questa guerra e al magistrato degli Otto, preceduta da una sua _Memoria_. (_Archivio Storico_, tomi VI e VII, Serie 3ª.) [304] G. VILLANI, lib. XII, cap. 43, 58, e MARCHIONNE STEFANI, lib. VIII, rubr. 616 e 628. — Mentre fu in Roma Urbano V, la Signoria ebbe cura di sospendere per sei mesi ogni statuto che andasse contro alle ecclesiastiche libertà; ed assegnava compensi ai Frati mendicanti e agli Spedali per le gabelle pagate alle porte della città, con altri provvedimenti che l’Ammirato registra sotto gli anni 1367-68. [305] TOMMASI, _Storia di Lucca_ (_Archiv. Stor._, tomo X, pag. 254). — Pisa rifiutava la lega a’ 5 dicembre 1375 (RONCIONI, _Istorie Pisane_ in _Arch. Stor_., tomo VI, parte I, pag. 921), ma v’entrava con le altre a’ 12 marzo 1376: bensì una lettera di Coluccio Salutati (_Colucii Epistolæ_, tomo I, pag. 84) non ha i Pisani ed i Lucchesi tra’ collegati ai quali sono in quella lettera assegnate le rate che ognuno doveva pagare per le spese della guerra; e in quanto a queste due città è da vedere la lettera ai Lucchesi di santa Caterina che ha il n. 206 nella edizione del Gigli. E pure la _Cronaca Pisana_ di _Ranieri Sardo_ (_Arch. Stor._, tomo VI, parte II, pag. 289 a 94); e la _Cronaca Senese_ di NERI DI DONATO, in MURATORI, _S. R. I._, tomo XV, pag. 245 e seg. [306] DOMENICO BONINSEGNI, _Storia Fiorentina_, pag. 367-68. [307] MARCHIONNE STEFANI, lib. IX, pag. 144. [308] D. BONINSEGNI, pag. 565. [309] RAYNALDUS, tomo VII, pag. 278. [310] Si legge pure (MARCHIONNE STEFANI, rubr. 836, tomo XV) che «essendo al Concistoro il Papa co’ Cardinali, e cominciato a leggere il processo, un prete ch’era colla moltitudine a vedere, gli si diè il mal maestro (_epilessia_). Messer Donato cominciò a gridare: guardatevi dinanzi, chè il Santo Padre vegga. Ogni uomo si cessò; egli si trasse innanzi, e non disse Santo Padre, ma — Messere, guardate come li vostri famigli e clientoli cominciano a stramazzare per la ingiusta sentenza, innanzi ch’ella sia letta; pensate che seguirà, letta: eh perdio non date sì ingiusta sentenza, come questa è! — con tanto ardire e franco animo che ogni uomo si maravigliò; ed il Papa turbato delle parole, se non fosse stato raffrenato, gli avrebbe fatto villania. Donato gridava, che la morte era acconcio a soffrire per non tacere la ingiusta condannagione contro al Comune di Firenze; e molto prima avea rimediato con umiltà infino a quello punto, quanto uomo avesse potuto fare.» [311] _Cronaca Pisana_ in MURATORI, _S. R. I._, tomo XV, pag. 1071; e vedi gli altri sopracitati. — Bonnaccorso Pitti giovinetto fu tra’ Fiorentini imprigionati in Avignone. (Vedi la sua _Cronaca_.) [312] «La gente che avete assoldata per venire di qua, sostentate e fate sì che non venga, perocchè sarebbe piuttosto guastare che acconciare. Guardate, per quanto Voi avete cara la vita, Voi non veniate con sforzo di gente; ma con la croce in mano, come agnello mansueto.» (SANTA CATERINA, Lettera VI a Gregorio XI.) — PETRARCA, _Apologia contra Gallorum calumnias._ [313] Sull’eccidio di Cesena vedi _Scritture sincrone_ (_Arch. Stor_., Nuova Serie, tomo VIII, parte II, 1858): e vedi intorno a questi fatti, S. ANTONIN., _Chronicon_; e BALUZIO, _Vitæ Paparum Avenionensium._ [314] _Cronaca Senese_ in MURATORI, _R. I. S._, tomo XV. [315] Scrive la _Cronaca di Bologna_ in MURATORI, _S. R._, tomo XVIII, pag. 511 e seg.: «I Fiorentini tutto faceano per torsi la briga d’addosso e darla a noi, come di continuo aveano fatto: aveano a male la pace che noi trattavamo colla Chiesa, ma non era in loro danno; e la libertà che essi ci diedero, co’ nostri cattivi cittadini fu favoreggiata per modo che Dio ne guardi i cani.» [316] Abbiamo una lettera di Coluccio Salutati dove in nome della Repubblica esorta gli Aretini ad estirpare le radici di quel male e a procedere senza misericordia contro gli autori di esso; ed in un’altra dello stesso giorno (8 settembre 1377) gli rimprovera perchè avessero incautamente rimosso la scure pendente sul collo del Vescovo, e lasciatolo fuggire. Tuttociò in ampie altisonanti parole, molto ammirate in quella età. (_Epist_. COLUCII; Firenze, 1741; tomo I, pag. 104.) [317] BONINCONTRI, _Annales_, in MURATORI, _S. R. I._, tomo XXI, pag. 27. [318] _Epistolæ_ COLUCII, tomo I, pag. 58 a 82. «Recordetur Regnum Dei non esse cibum et potum, sed iustitiam, pacem et gaudium in Spiritu sancto ec.» In queste parole sembra a me che la rettorica di Coluccio pigliasse colore dalla eloquenza della Senese, le cui Lettere dovevano in Firenze essere divulgate. [319] BONINSEGNI, pag. 588. [320] Lettera di Coluccio a Ruggero Cane, 22 ottobre 1377. [321] STEFANI MARCHIONNE, lib. IX, rubr. 757. [322] D. BONINSEGNI, pag. 581; e _Cronichetta d’incerto_ ec, pag. 211. [323] CAPPONI GINO, _Tumulto de’ Ciompi_, pag. 227. [324] SANTA CATERINA, lettere 197, 198, 199. — Vedi anche la lettera 207 a Niccolò Soderini. [325] Lettera 2 a Gregorio XI; e vedi pure la lettera 6. [326] «Fu sì grande il numero di coloro che furono riformati (ammoniti), che tutta quasi la città per tal cagione gridava; ma la Santa Vergine nè ciò fece nè volle farlo, anzi sommamente se ne dolse, e di più comandò e tosto disse a molti e fece dire ad altri, che pessimamente facevano a stender le mani a tanti e di tal condizione; nè dovevano di ciò ch’era stato fatto per ottener la pace, valersi per gli odii loro tanto ingiustamente ad una domestica guerra.» (_Vita di Santa Caterina da Siena_, per Fra RAIMONDO DA CAPUA.) [327] _Vita di Santa Caterina_ di Fra _Raimondo da Capua_, ediz. del Gigli, tomo I, pag. 452-53. — CAPECELATRO, _Vita della medesima_. — TOMMASÉO, _Lettere di Santa Caterina_. — MARCHIONNE STEFANI, lib. IX, rub. 773, pag. 179. [328] Vedi oltre allo Stefani il _Diario_ del Monaldi pubblicato con le _Istorie Pistolesi_ (Firenze, 1733). — Il Magalotti, essendo una volta dei Priori, aveva tentato imporre un freno alle violenze dei Caporali di Parte guelfa. (P. BONINSEGNI, pag. 607.) [329] D. BONINSEGNI, pag. 580-81. [330] Vedi _Appendice_, Nº VII. [331] Pagarono centocinquanta mila fiorini d’oro, ed altri scrive dugento mila. (STEFANI MARCHIONNE, lib. X, pag. 15.) [332] «La Chiesa divisa fa per il Comune nostro e per la nostra libertà mantenere; ma è contro all’anima, e però non vi si debbe dare opera, ma lasciar fare alla natura.» (_Ricordi_ di G. CAPPONI.) — «La vicinità della Chiesa è stata ed è grandissimo ostacolo; la quale per avere le barbe tanto fondate quanto ha, ha impedito assai il corso del dominio nostro.» (_Ricordi_ di FRANCESCO GUICCIARDINI, nº 353.) [333] Questo si vede nella lingua inglese, dove generalmente le parole astratte e certe derivazioni più sottili vengono dal latino, perchè insegnate e propagate da scuole latine; l’idea più semplice esprimendosi tuttavia con voce germanica. Le scuole poste dai Romani cominciarono la coltura del popolo inglese fino dai tempi di Agricola; ed il re Alfredo più secoli dopo sapeva di latino, e anche di greco, quando nulla ne sapevano i suoi Germani: così la lingua inglese si formava tedesca di origine, latina di scuola. [334] «_De secreto conflictu curarum suarum_.» «Nè sì nè no nel cuor mi suona intero.» [335] TOMMASÈO, _Lettere di Santa Caterina da Siena_. Quattro volumi, Firenze, G. Barbèra, 1860. [336] _Lettere del Beato Giovanni dalle Celle_. — _Lettere di Santi e Beati Fiorentini_. [337] MATTEO VILLANI, lib. I, cap. 8 e 90. — AMMIRATO, _Stor. Fior.,_ an. 1334. — PREZZINER, _Storia dello Studio fiorentino._ [338] MARCHIONNE STEFANI, lib. XII, rub. 946. [339] Il Boninsegni, che trasse ogni cosa dal Villani, rinchiude il discorso in queste parole: «Chi cercherà bene, troverà che Roma e tutte l’altre terre di Toscana sono libere da ogni sommessione imperiale, perchè in lei fu il principio dello Imperio.» _Storia Fiorentina_ del BONINSEGNI, pag. 437. [340] In questo luogo è oscurità, dipoi vengono parole inutili: alcuni però dei punti che abbiamo dovuto noi porre sono colpa della fallace lezione, la quale deturpa e toglie senso alcune volte alle Istorie dei tre Villani. Sarebbe tempo cessasse questa vergogna della inerzia nostra, e che uno al certo tra’ più insigni documenti di que’ secoli non fosse a luoghi un geroglifico. [341] _Discorsi_ di VINCENZIO BORGHINI, tomo II. [342] Chi si sarebbe mai figurato che Anton Maria Salvini fosse un uomo feroce? [343] Ritrinciarsi, _se retrancher_. Abbiamo _trincèa_, non da _trinciare_, ma da _tranchée_, parole che sono tutte dello stesso parentado; ed il Salvini per uso suo fece quest’altro equivalente. [344] Le provvisioni che si pubblicano in quest’Appendice son tratte dagli originali Registri, esistenti nell’Archivio di Stato di Firenze; e alcune di esse furon trascritte in un Codice di Nº 749 già appartenuto al Magistrato dei Capitani di Parte ed ora conservato nel medesimo Archivio. [345] Riproduciamo questa _Nota_ qual’era nella edizione prima e solamente con poche aggiunte che allora non furono in tempo alla stampa. D’allora in poi molti hanno continuata questa benedetta controversia intorno alla Storia di Dino Compagni, e i nostri lettori ci sapranno grado se noi ci asteniamo dal ripigliarla per nostro conto: qual cosa vorremmo potere dire del breve esame che ne ha fatto il dotto signor prof. Hegel, ma non è permesso a noi di lodarlo perchè egli inclina verso le opinioni nostre. Dunque ce ne stiamo a quello che prima fu detto da noi. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK STORIA DELLA REPUBBLICA DI FIRENZE V. 1/3 *** Updated editions will replace the previous one--the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg-tm electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG-tm concept and trademark. 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It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life. Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg-tm's goals and ensuring that the Project Gutenberg-tm collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg-tm and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation's EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state's laws. The Foundation's business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation's website and official page at www.gutenberg.org/contact Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg-tm depends upon and cannot survive without widespread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine-readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. Many small donations ($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt status with the IRS. The Foundation is committed to complying with the laws regulating charities and charitable donations in all 50 states of the United States. Compliance requirements are not uniform and it takes a considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up with these requirements. We do not solicit donations in locations where we have not received written confirmation of compliance. 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Hart was the originator of the Project Gutenberg-tm concept of a library of electronic works that could be freely shared with anyone. For forty years, he produced and distributed Project Gutenberg-tm eBooks with only a loose network of volunteer support. Project Gutenberg-tm eBooks are often created from several printed editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper edition. Most people start at our website which has the main PG search facility: www.gutenberg.org This website includes information about Project Gutenberg-tm, including how to make donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to subscribe to our email newsletter to hear about new eBooks.