Note di un viaggio in Persia nel 1862

By Filippo de Filippi

The Project Gutenberg eBook of Note di un viaggio in Persia nel 1862
    
This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and
most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions
whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms
of the Project Gutenberg License included with this ebook or online
at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States,
you will have to check the laws of the country where you are located
before using this eBook.

Title: Note di un viaggio in Persia nel 1862

Author: Filippo de Filippi

Release date: May 22, 2025 [eBook #76141]

Language: Italian

Original publication: Milano: Daelli & C, 1865

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nacional de España.)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK NOTE DI UN VIAGGIO IN PERSIA NEL 1862 ***


                                  NOTE
                             DI UN VIAGGIO
                                   IN
                                 PERSIA
                                NEL 1862


                                   DI
                             F. DE FILIPPI

        PROFESSORE DI ZOOLOGIA E DIRETTORE DEL MUSEO ZOOLOGICO;
           MEMBRO DELLA R. ACADEMIA DELLE SCIENZE DI TORINO;
            UNO DE’ XL DELLA SOCIETÀ ITALIANA DELLE SCIENZE.
                               ECC., ECC.


                              VOLUME UNICO



                                 MILANO
                         G. DAELLI & C. EDITORI
                                 1865.




                   PROPRIETÀ LETTERARIA DELLI EDITORI

                    TIP. E STEREOTIP. PIETRO AGNELLI

                        _Via del Morone_, N.º 5.




Nello scorso anno 1862 convenienze diplomatiche e vivi interessi
commerciali aveano indotto il ministero Rattazzi a non più ritardare
l’invio di una ambasciata straordinaria all’imperatore della
Persia, per la quale fin dall’anno precedente eransi date tutte le
disposizioni, ed assunto il più formale impegno. Per quella pompa
esterna che determina presso gli Orientali il grado di rispetto, per
meglio esprimere il grande mutamento politico che aveva d’un tratto
fatto sparire il piccolo reame di Sardegna, e creato il grande regno
italiano, il ministero aveva deciso di rendere la missione più numerosa
di quanto erasi prima stabilito. E poichè la scelta delle persone
poteva farsi con qualche larghezza, volle il governo profittare della
circostanza per limitare la parte diplomatica della missione stessa, ed
ingrossarla con persone che rappresentassero la milizia, le scienze, le
arti.

Il brevissimo tempo che doveva trascorrere fra la definitiva
composizione dell’ambasciata e la partenza, come pure la necessità di
non protrarre questa, onde evitare le grandi difficoltà della stagione
all’epoca del ritorno, non lasciavano agio a concertare programmi, a
radunare mezzi materiali conformi al carattere ed alla responsabilità
dì una vera missione scientifica; ma d’altra parte non poteva essere
indifferente l’acquistare di quel singolare paese che si dovea
percorrere uno o più ordini di cognizioni.

Il personale dell’ambasciata riuscì infine composto nel modo che segue:

_Sezione diplomatica:_ commend. M. Cerruti, inviato straordinario di S.
M. presso lo Schah della Persia; cav. Gianotti, consig. di legazione;
cav. Curtopassi, seg. di legaz.; march. di S. Germano, applicato di
legaz.; O. Bosio, console di S. M.

_Sezione militare:_ conte S. Grimaldi, capitano di cavalleria,
ufficiale d’ordinanza onorario di S. M.; Clemencich, capitano di stato
maggiore.

_Per le scienze e pel commercio:_ Orio di Milano, bacologo ed
economista; Lignana, prof. di filologia comparata nella R. Università
di Napoli; Ferrati, prof. di geodesia nella R. Università di Torino;
Lessona, prof. di storia naturale nella R. Università di Genova; march.
G. Doria.

Infine la mia persona. Come preparatore mi fu accordato il sig.
Ballerini, preparatore del R. Museo di Pavia.

Fotografo addetto all’ambasciata fu dal ministero delegato il sig.
Montabone di Torino, al quale venne pure accordato come ajutante il
sig. Pietrobon.

La tutela medica dell’ambasciata venne dal governo affidata al prof.
Lessona. Il commend. Cerruti prese inoltre con sè altro medico, il cav.
Carretto, in Costantinopoli, prevedendo il caso, realmente avveratosi,
della scomposizione dell’ambasciata dopo la udienza solenne dello
Schah.

Giunti a Costantinopoli, per metterci sotto gli ordini del commend.
Cerruti, vi incontrammo il march. Centurioni di Genova, diretto esso
pure verso la Persia, ed il quale, per l’occasione propizia, ci fu
compagno nel viaggio.

Fra me e i due miei compagni, ai quali, oltre il vincolo dell’amicizia,
mi univa consonanza di studj, venne così stabilito: che, ognuno
registrando quelle osservazioni che per via occorresse di fare, il
march. Doria ed il prof. Lessona attendessero particolarmente agli
animali articolati ed ai molluschi, ed a me fosse riserbata come parte
principale quella che riguarda i vertebrati. Io presi anche l’incarico
delle annotazioni geologiche.

Le note che io ora presento, coll’ordine quasi di un giornale di
viaggio, sono un miscuglio di mie impressioni, di notizie raccolte,
di osservazioni scientifiche. Il mio intento nella forma di queste
note, nell’accozzarvi elementi così diversi, fu di renderle alquanto
leggibili da un publico egualmente alieno dal pretendere i vivi
colori, l’ordinata varietà, le emozioni di un racconto, come lo stretto
tecnicismo, il metodo rigoroso di una relazione scientifica: un publico
ipotetico infine, il che vorrà forse dire nessun publico.

Io devo qui render grazie al prof. Lessona ed al conte Grimaldi per
la bontà colla quale mi animarono all’opera, mettendo anche a mia
disposizione i loro propri giornali di viaggio.

Sovra alcuni animali nuovi o poco noti che verranno mentovati in
queste pagine, io ho già publicata una breve memoria nell’_Archivio
per la zoologia, l’anatomia_, ecc., la cui publicazione è continuata in
Modena dal sig. prof. Canestrini. Altre mie osservazioni sovra diversi
argomenti furono communicate alla R. Academia delle scienze di Torino
in varie sedute dello scorso anno academico.

L’ambasciata italiana si sciolse alla fine di agosto dello stesso anno
1862. Rimase in Teheran la sola sezione diplomatica, per compiere
il trattato di commercio col governo persiano; e la rimanente
maggior parte si diresse in Europa per la via del Ghilan, mentre il
march. Doria coraggiosamente si volgeva, in ulteriori esplorazioni
scientifiche, alle provincie meridionali della Persia. Mi gode l’animo
d’annunciare il recente fortunatissimo arrivo del giovane e ardente
e colto naturalista, il quale ha portato seco una raccolta assai
importante pel numero, per la varietà, per la bellezza degli esemplari,
di pesci e di rettili nell’alcool, e questa in soprapiù della veramente
preziosa collezione entomologica, materia a’ suoi prediletti studj.

  _Torino, novembre_ 1863.




INDICE


  PREFAZIONE                                                   Pag. V

  I. — Addio a Genova. — Stromboli. — Messina. — Le lucciole
    ed i mostri del mare. — Passo d’uccelli. — Milo. — Stormi
    di puffini. — Silivria. — Costantinopoli ed il
    Bosforo. — Addio all’Europa                                 »   1
  II. — Il _Tamise_. — Tributo al mar Nero. — Trebisonda. —
    La _Cerere_. — Pranzo russo. — Hatum. — I delfini. — Una
    scena di distruzione a Balaklava. — Bella serata a bordo.
    — La foce del Rioni                                         »  14
  III. — Poti. — Il lago Paleaston. — Foreste vergini. — Il
    _Phasis_. — Il vello d’oro. — Marani. — La nostra guida
    d’onore. — Modi di viaggiare nel Caucaso. — L’ospitalità
    russa. — Kutais. — Accoglienza dal governatore. —
    Paesaggio delizioso. — Il passo di Suram. — Una
    giostra d’animali. — Mizchetha                              »  25
  IV. — Valore d’un nome geografico. — Gli ultimi giorni della
    Georgia. — Tiflis. — Le colonie tedesche: strana origine
    loro. — Le colonie militari. — Le alte autorità
    nel Caucaso. — Consoli esteri. — Pranzi d’etichetta. — La
    musica europea e la musica asiatica                         »  45
  V. — Il governo russo nel Caucaso. — La scienza in Tiflis.
    — La produttività agricola della Georgia. — Il vino di
    Cachezia. — La produzione serica. — La pastorizia. — Il
    monte Sofalaki. — Escursioni geologiche e zoologiche
    presso Tiflis                                               »  67
  VI. — Partenza da Tiflis. — Kody. — I Tartari del Caucaso.
    — Il ponte rosso. — Salahogly. — Scompiglio della nostra
    carovana. — La valle dell’Akstafa. — Delidjan. — I
    Malacani. — Passo dell’Eschek Maidan. — Il lago Goktscha.
    — La vista dell’Ararat                                      »  83
  VII. — Abbas Mirza, Jermoloff e Paskevitsch. — Erivan e la
    sua cittadella. — L’Ararat e le sue dipendenze. — Alcuni
    tratti della fauna del paese. — Abbozzo orografico degli
    altipiani dell’Armenia russa. — Nachidjevan. — Djulfa       » 100
  VIII. — Il nostro ingresso nell’impero dello Schah. —
    Scacciamento del dragomanno. — Modi di viaggiare in
    Persia. — Le stazioni postali ed i caravanserai. —
    Veicoli. — Il nostro accampamento. — Ordine delle marcie.
    — Forme dell’accoglienza persiana. — Dare per avere. —
    Sicurezze delle strade                                      » 120
  IX. — Tratti orografici della Persia occidentale. — Aridità
    del paese. — Modi di irrigazione. — Carattere della
    vegetazione. — Agricultura persiana. — Mulini e villaggi.
    — Combustibili e viveri. — Clima. — La vita nelle steppe    » 132
  X. — Partenza da Diulfa. — Ghelim Kiayà. — Marend. — Il
    monte del castello. — I _Tepe_ della Persia. — Passo del
    Maschuk. — Soflan. — Solenne ingresso in Tauris. — Nostri
    alloggiamenti. — Ozj forzati. — Bozzetti zoologici. — Lo
    storno roseo                                                » 146
  XI. — Uno sguardo a Tauris. — I _bazar_. — Un _dervisch_. —
    Visite e controvisite. — Vuote gare statistiche. — I
    medici europei in Persia. — Visita al Principe ereditario.
    — Festa in onore della ambasciata italiana. — Successione
    di giorni perduti. — La carovana si ricompone. — Partenza.
    — Lebbrosi. — Da Tauris a Mianeh                            » 165
  XII. — Mianeh e le sue cimici. — Passo del Kaplankuh. — Il
    ponte del pastore. — Un cattivo quarto d’ora. — Cane
    ingannatore e fidi ranocchi. — Sartschem. — Nickbey. — Il
    bastone è moneta. — Le alcate. — Zendian. — I Babi          » 180
  XIII. — Sultanieh. — Cenni zoologici. — _Tepe_ del castello
    reale. — Falso allarme. — Sainkalé. — Bella sezione
    naturale dell’altopiano. — Massi granitici. — Doloroso
    avvenimento. — Importanza geologica della linea dell’Abbar  » 194
  XIV. — Kazvin. — Caccia nel giardino imperiale. — Monticoli
    di lava presso Hissar. — Kyschlak. — Kurdan. — Kerretsch.
    — Vista del Demavend. — Khend. — Accoglienza alle porte di
    Teheran. — Tedgrisch. — La nostra abitazione. — Colonia
    europea. — Servizio postale in Persia                       » 210
  XV. — Teheran. — La cultura publica in Persia. — La
    giustizia. — L’Emir. — Il Sadrazam. — Confronti. —
    Massacro della legazione russa nel 1829. — Guerra
    coll’Inghilterra nel 1856. — Herat. — L’armata. — I
    Turcomanni. — Le febbri a Tedgrisch. — Lo Schah. —
    L’udienza imperiale. — Il ministro degli affari esteri. —
    Dopo l’udienza                                              » 224
  XVI. — Partenza pel Demavend. — Ingresso nell’Elburz. —
    Ilafdscheh. — Valle del Lar. — Ask. — Grande formazione
    di travertino e di conglomerato vulcanico. — Reinah. —
    Abigerm. — Stazione Thomson. — Roccie del Demavend. —
    Salita al gran cono. — Ritorno alla stazione. —
    Precedenti ascensioni e misure del Demavend. — Resto
    di attività di questo vulcano. — Sua probabile epoca. —
    Leggenda del re Zohaq. — Cenni zoologici. — Città
    di Demavend. — Ritorno a Tedgrisch                          » 251
  XVII. — Separazione della nostra ambasciata. — Chi rimane
    in Persia e chi ritorna in Europa. — Carovana della quale
    faccio parte. — Da Tedgrisch a Kazvin. — Da Kazvin
    al passo di Kharzan. — Prima impressione del Ghilan. —
    Rustemabad. — Avventure di viaggio. — Bellezza
    del paese. — Rescht. — Industria serica nel Ghilan. — Il
    Murdab. — Enzeli. — Addio alla Persia                       » 280
  XVIII. — Il mar Caspio. — Sua salsedine. — Carattere
    lacustre della sua fauna. — Antico suo perimetro. — Una
    communicazione diretta fra il mar Caspio ed il mar Nero
    non ha mai esistito. — La guerra agli istmi. —
    Provedimenti del governo russo                              » 305
  XIX. — Lenkoran. — Baku ed i suoi fuochi eterni. — Derbend.
    — Petrowsk. — Burrasca. — Le bocche del Volga. — Astrakan   » 326
  XX. — Prime linee d’una fauna della Persia occidentale        » 341
  XXI. — Carattere della fauna della Persia occidentale, in
    probabile accordo colla formazione recente di quelli
    altipiani, e coi dati geografici dell’Avesta. — Materie a
    ricerche future                                             » 364
  XXII. — La navigazione sul Volga. — Sarepta. — Le due sponde
    sul fiume. — Kasan. — Nishnyi Nowgorod. — Mosca. —
    Pietroburgo. — La Russia                                    » 376




VIAGGIO IN PERSIA




I.

Addio a Genova. — Stromboli. — Messina. — Le lucciole ed i mostri del
mare. — Passo d’uccelli. — Milo. — Stormi di puffini. — Silivria. —
Costantinopoli ed il Bosforo. — Addio all’Europa.


Il regio piroscafo _Ichnusa_ che doveva portar a Trebisonda la missione
italiana in Persia, levò l’àncora dal porto di Genova la sera del 21
aprile. Per quanto fossimo agguerriti contro aspettate emozioni, i
concitati preparativi della partenza fra l’oscurità della tarda sera,
gli urtoni, le grida dei battellieri alla scaletta d’approdo, e dei
marinai a bordo, la confusione momentanea delle cose e delle persone,
cospiravano ad esacerbare il natural tumulto dei nostri affetti; come
la prima scaramuccia nell’animo pur deliberato del coscritto. Poichè
furono disposte alla meglio le nostre celle, risaliti sul ponte,
mandammo ancora un saluto a Genova, e la seguimmo collo sguardo teso,
finchè ogni luce di quel superbo anfiteatro scintillante andò perduta,
come in una nebbia fosforica, nel lontano orizzonte. Questa scena
taciturna, questa lutta di desii e di pentimenti doveva per altro
avere un fine per la legge stessa del cuore umano. La gaja fidente
spensieratezza, prima a ridestarsi negli animi più giovanili, si
trasfuse a poco a poco nei più maturi, e già tutti affratellati eravamo
in balìa di nuovi sentimenti, quando venne sollecita la prima cena a
compiere l’opera salutare. La nuova alba ci trovò rifatti.

Il mare sereno e calmo, la squisita gentilezza degli ufficiali di
bordo, il rivedere qualche capo di terra italiana, e l’isola dell’Elba,
di Pianosa, di Montecristo, soggetti di variopinti discorsi, dalla
grandezza del primo Napoleone ai fochi fatui de’ moderni romanzi
francesi, ci fecero liete e rapide le ore della navigazione.
Passammo assai vicino a Stromboli, l’antica reggia di Eolo; e quella
verdeggiante lingua sparsa di modeste casette, che si protende dalla
base del monte verso levante, sorrise ad alcuni come il possibile
avveramento di un sogno di un’età sfiduciata, di un lungo desiderio
di solitudine perfetta, tranquilla e studiosa. Sullo squarcio del
monte, verso settentrione, vedemmo il celebre vulcanetto, irrequieto,
ostinato e impotente come un genio incompreso. Una massa incerta di
fumo stava sopra il cratere, scossa a brevi intervalli dalle eruzioni
incessantemente ripetute. Alla cadenza quasi regolare di ogni diecina
di minuti, scoppia di là un getto di vapori ed una vigorosa grandinata
di lapilli e bombe, col fragor sordo di una mina che bene non giuochi
per aver sfiatato. Di notte Stromboli è un bellissimo faro naturale,
perchè i fumi, illuminati dalle brage del cratere, simulano un’aurora
boreale che ad ogni eruzione si illumina vivacemente[1]. Le materie
eruttate rotolano a frana pel rapido pendio del cono, e non s’arrestano
ad allargarne la base, ma ricadono nei profondi abissi del mare,
la qual cosa mantiene fra gl’isolani la tradizione che per secreti
canali siano restituite nel focolajo del vulcano. Fin da Stromboli
vedemmo svolgersi dai vapori matutini la bella costiera di Sicilia e
l’eccelso cono dell’Etna, e quindi, passato il faro, venne a spiegarsi
al nostro sguardo l’ampio golfo di Messina. Verso le 3 pomeridiane
del 24 aprile l’_Ichnusa_ gettò l’àncora sotto le mura beanti della
cittadella; antico nido di brutale tirannide, spazzato dal cannone di
Cialdini. Mentre il capitano disponeva pel carico di carbone, la nostra
brigata si sciolse per varie direzioni nella città. Quella popolazione
sicura, animata, chiassosa, quell’aria profumata dai mille giardini
biancheggianti allora dei fiori dell’arancio, lasciarono nell’animo
nostro la più gradita reminiscenza. D’ogni parte, e fin entro le
contrade, s’udivano spari frequenti e disordinati di moschetti, come a
festa rusticana. Era la stagione del passo delle quaglie, della strage
ingloriosa di questi poveri uccelli che sfiniti dal lungo viaggio,
cadono sul lido come corpi morti. Dopo il conguaglio delle imposte,
l’osso il più duro da digerire pe’ nostri fratelli del mezzogiorno sarà
la riforma della legge sulla caccia, dietro i principj dell’uguaglianza
civile, e di una saggia economia dei doni della natura.

Approfittammo avidamente di questa buona sorte per fare una
perlustrazione zoologica di quel porto che vari naturalisti
oltremontani ci aveano decantato per la ricchezza della sua fauna.
Messina è la Mecca dei privati docenti di Germania, che vi accorrono
per lo studio così interessante degli animali inferiori marini,
come ad una surgente inesausta di belle e singolari scoperte. Nè gli
Italiani accennano peranco ad animarsi almeno di salutare gelosia;
chè anzi nella illustrazione delle cose proprie lasciano ora più che
mai tranquillamente il monopolio agli stranieri. Il porto di Messina,
ben riparato da’ venti, con fondo piano, poco profondo, è un immenso
aquario, ove al lusso di una folta vegetazione corrisponde una varietà
grandissima di forme di animali marini; e più ancora sarebbe ove i
pescatori di palemoni non lo rimovessero tanto. Un gran numero di
grosse pelagie riposavano tranquille fra le alghe, insieme ad altre
forme di idromeduse, come _Physophora hydrostatica_, _Hippopodius
luteus_. I ctenofori erano del pari doviziosamente rappresentati dalla
_Beroe Forskalii,_ dalla _Cydippe pileus_, dalla _Callianira exagona_,
dal _Cestum veneris_. Un maschio di _Argonauta_; alcuni belli esemplari
di _Alciope candida_, di _Phyllosoma_, di _Atlanta Keraudreni_; e
moltissimi di _Firola_, di _Carinaria_, compirono il bottino di una
matinata. Fra i pesci ci interessarono particolarmente il _Syngnatus
phlegon_, ed alcuni giovanissimi individui di _Belone_ colle forme di
_Hemiramphus_. Sul vicino mercato, insieme alle solite più communi
specie del Mediterraneo, abondavano, strana coincidenza di nomi, il
pesce spada (_Xiphias gladius_), ed il pesce sciabola (_Lepidopus
argyreus_).

Fin dalla prima nostra partenza da Genova era stato per noi tutti
un grazioso spettacolo notturno la fosforescenza del mare, che
sembra nel Mediterraneo varia nel grado, ma del resto costante, ed
affatto indipendente dalla stagione. La parte principale in questo
fenomeno è dovuto ad una medusa, alla _Pelagia noctiluca_. In miriadi
incalcolabili questi animali lasciano sul far della notte i profondi
recessi del mare per salire verso la superficie, e ad ogni colpo di
ruota, nel solco spumeggiante che il battello lascia dietro di sè,
diventano per pochi istanti luminosi, onde il succedersi continuo e
frequente di bellissimi dischi splendenti di viva luce bianca. Era un
diletto anche pei miei compagni l’adoprarsi con destrezza a coglierne
al rapido loro passaggio; e poscia tutti in circolo, colla testa
chinata verso un bacino, il contemplarne le singolari forme. Mi sarebbe
impossibile il ripetere le celie graziose che scoccavano da’ cervelli
resi dalla circostanza un po’ balzani, e le rimbeccate dei naturalisti,
e le risate pacificatrici. Se non che venne presto a mancare il
soggetto. Le belle pelagie che vedemmo adagiate in sonno diurno nel
letto algoso del porto di Messina, vi stavano come ad un posto di
confine. Oltre lo stretto che prende da quella città il nome, e per
tutto il mare Jonio, vennero a mancare affatto, e più non vedevansi nei
solchi dell’_Ichnusa_ che piccole e rade scintille, dovuto al corpicino
fatto luminoso di piccoli crostacei (_Cyclops_), che più avanti alla
loro volta sparirono. L’aqua del triste ed inospitale _Ponto Eusino_
era affatto buia.

Di giorno qualche schiera di palamite che i soli occhi esperti
dei marinai potevano discernere nell’onda glauca; qualche delfino,
capitombolante presso la nave, come un monello da strada: qualche
sonnacchiosa tartaruga; e null’altro per l’ampia faccia del mare. A
quale umile natura sono ridotti i mostri marini, poichè la scienza
ha purgato anche il poetico regno de’ venti! Però una bella preda
ci è mancata, ed anche un bel tema, che, ornato d’un po’ di frangia,
avrebbe potuto essere il primo successo de’ naturalisti dell’_Ichnusa_.
Il matino del 24 il nostro capitano ed alcuni marinai scorsero di
passaggio un polpo colossale, ma troppo tardi per poter arrestar la
nave, pescarlo, ed offrirlo in tributo alle nostre considerazioni.
All’interesse intrinseco del soggetto sarebbesi aggiunta l’opportunità,
poichè l’argomento dei grandi cefalopodi pelagici, che era già
invecchiato nell’academia di Copenaghen, era stato poco dianzi rimesso
a nuovo nella grande aula del palazzo Mazarini. Senza dubio questo
così detto polpo doveva appartenere alla famiglia delle loligine o dei
calamaj, che comprende i cefalopodi più forti nuotatori, ed in pari
tempo i giganti della loro classe[2].

Il susseguente giorno 26 noi correvamo il pieno mare, ove il Jonio si
allarga per la confluenza dell’Adriatico. Una moltitudine di uccelli
fuggenti le già aduste spiaggie africane per la novella verzura
d’Europa, esausti di forze, cercavano rifugio sulla nostra nave. Fu
uno spettacolo nuovo, per quanto già fossimo abituati nei giorni
precedenti a ricevere di siffatti ospiti. Dal primo mattino alla
tarda sera fu un succedersi incessante di specie diverse, delle quali
risparmio al lettore il lungo catalogo. Ad ogni istante era segnalata
qualche tortora, qualche falco, qualche calcabotta, che cercava rifugio
sulle antenne e sul cordame, o quaglia o beccaccino o piovanello che
svolazzava attorno ai nostri crocchi, e perfino ardiva posarvisi in
mezzo. L’occasione fa il ladro, dice il proverbio: io dirò piuttosto
che ci fece crudeli, risvegliando in noi un cieco furore distruttivo,
del quale io faccio qui per tutti sincera confessione, ed atto di
pentimento. Ognuno dato di piglio al fucile studiava dar prova di
destrezza nel rispondere colla botta più affrettata e più ardita
all’ospitalità che venivano a domandarci quelle innocenti creature. La
vana compiacenza di colpi fortunati non dava tempo ai rimorsi.

Non è qui il luogo di dissertare sull’argomento importantissimo e
tutt’ora pieno di oscurità dell’emigrazione degli uccelli; ma è quasi
naturale il chiedersi come possano sostenersi senza posa, ed alcuni
perfino con ali assai deboli, attraverso lunghi tratti di mare. Fu
osservato che nel viaggio d’autunno, che si fa nella direzione dal nord
al sud, gli uccelli, forse perchè molto pingui in quella stagione,
seguono di preferenza le coste maritime, viaggiano per così dire, a
piccole giornate, e scelgono il passaggio dei piccoli stretti; ma in
primavera prendono il largo e la via più diritta sebbene più faticosa:
la quale circostanza spiega il perchè, nel nostro paese, alcune specie
si facciano vedere, ed anche in grandi stormi, ne’ mesi di marzo ed
in aprile, e non mai, o solo raramente, in autunno[3]. Lo stato di
magrezza degli uccelli prima della nidificazione li rende più agili
e forti al volo, ma lungi ancora dal rapporto cogli spazj che devono
percorrere. Quelli che giungono alle prime stazioni d’Europa sono
tanto stremi di forze da far supporre che molti soccombano per via.
Se non che le risorse della natura vanno anche al di là del nostro
corto intendimento; e dobbiamo creder piuttosto che gli uccelli stessi
più terrestri e silvani possano per qualche tempo esser portati dalle
onde, e non sommersi. Audubon ed altri ornitologi hanno positivamente
osservato questo fatto; ed io pure ho veduto una volta in questo
viaggio pel Mediterraneo la tortorella commune rialzarsi a volo dal
mare sul quale erasi posata per qualche tempo.

Questo straordinario passo d’uccelli, tale veramente pel numero e per
la varietà delle specie, non durò più di un giorno. Il successivo 27
entrammo nell’Arcipelago, passando a breve distanza del capo Matapan
e di Cerigo, stazioni di riposo per gli uccelli più sicure di una
nave sulla quale stavano de’ naturalisti oziosi. Al tocco della
mezzanotte si fece sosta a Milo per la ricerca di un pilota. Surti
di buon matino, chiedemmo indarno un canotto per fare un’escursione a
terra. Le circostanze politiche nelle quali versava allora la Grecia,
foriere della crisi che doveva scoppiare alcuni mesi più tardi, aveano
imposto al nostro governo misure di prudenza anche esuberanti, ed una
fra queste era l’ordine ai capitani della regia marina di evitare ogni
sorta di contatto che non fosse di estrema necessità colle popolazioni
dell’Arcipelago, e di tener lontano dai loro occhi la provocante nostra
bandiera, lasciando perfino in disparte Sira che pur trovasi sul più
diretto nostro cammino, ed ove avremmo potuto prendere il pilota, e far
ad un tempo provista di carbone. Cessammo senz’altro dall’inchiesta,
e dovemmo appagarci di girar da bordo il cannocchiale tutt’all’ingiro.
Il porto di Milo è chiuso in un ampio circo naturale affatto deserto,
ove tutto è arido e nudo, tranne un gruppo di case alla così detta
_marina_, e qualche campo di segala in un piccol tratto di pianura
verso occidente: del resto, fin dove l’occhio poteva giungere, non un
albero, non un arbusto. Tale è la generale fisonomia degli isolotti
disseminati per l’Arcipelago, ai quali nulla è rimasto delle delizie
paradisiache onde li vollero vestiti i poeti, quando ne fecero la culla
e la sede degli dei. Alcuni de’ miei compagni, inconsapevoli degli
ordini governativi, erano scivolati nel canotto che portava un messo
a terra per le trattative col pilota e per qualche provigione. Quando
rivennero a bordo ci raccontarono come gli abitanti di Milo, non punto
scoraggiati dalla recente caduta di Nauplia, ripetessero di stare, come
tutti i Greci, in aspettazione di grandi eventi per la imminente venuta
fra loro di Garibaldi.

Lasciato Milo nel matino stesso del 28, seguimmo la direzione di
Termia, d’Ipsara, di Mitilene. In tutto questo tratto un gran numero
di grosse salpe (_Salpa maxima_) si lasciavano mollemente cullare dal
mare placidissimo, quali ancora riunite in piccoli gruppi di tre o
quattro individui, quali sciolte. Molte ne pescammo per oggetto di
studio assai dilettevole; ed in molte fra esse trovammo alloggiato
un piccolo crostaceo, un _Hyperia_ affine alla _Latreilli_, come un
Diogene in miniatura, più esigente e più furbo del grande filosofo
antico. Salutata infine la ridente isola di Tenedos, si giunse la sera
del 29 ai Dardanelli, ove l’_Ichnusa_ doveva compiere alcune formalità
di _alta polizia_, e rifornirsi di carbone.

Per via avevamo incontrato un grosso vapore turco stracarico di
soldati diretti al Montenegro, a quel paese che è uno dei punti cariosi
dell’impero musulmano. Come di là molti saranno per ritornare, ce lo
disse il nostro console ai Dardanelli, venuto a bordo dell’_Ichnusa_;
e verificammo noi stessi qualche giorno dopo, nelle contrade di
Costantinopoli. I Montenegrini non serbano prigionieri; rimandano
i soldati del Sultano, che le sorti della guerra mettono a loro
discrezione, ma per poter fare in fin della giornata il calcolo delle
prese, ne tengono i nasi, e qualche volta anche le orecchie. Pochi
dì prima un bastimento carico di infelici così mutilati aveva infatti
ripassato lo stretto.

Già verso Tenedos incominciano a farsi vedere stormi di puffini
_(Puffinus anglorum)_, come al limite occidentale del loro piccolo
regno che è il mar di Marmara ed il Bosforo. I Turchi portano a
questi uccelli una singolare pietà, per la tradizionale credenza che
trasmigrino in essi le anime perdute. Ecco ciò che ho visto dei loro
costumi. Volano, come dissi, a stormi, grandi stormi compatti, e con
volo celere e sostenuto vanno e vengono radendo la superficie delle
aque, e tutti gli individui, con ordine perfetto, come ubidissero ad
un comando, fanno vedere alternativamente e di concerto, ora il bianco
della parte inferiore del corpo e delle acute ali, ora il dorso.
Rari sono gli individui staccati, e questi per lo più, incontrato
uno stormo, vi si congiungono. Si tuffano tutti assieme nell’aqua,
lasciando appena sporgere il capo, e tutti assieme ripigliano il volo.
Quando poi il mare è procelloso, gli stormi si scompongono, ed ogni
individuo svolazza a capriccio, per proprio conto, in cerca dei piccoli
animaletti, che le onde agitate portano a galla.

Non appena l’_Ichnusa_ fu entrata nello stretto de’ Dardanelli, il
mare perdette la sua longanime flemma. Un vento freddo di levante surse
propizio a molti bastimenti che lo stavano aspettando a vele tese per
ritornarsene in Europa, assai molesto a noi che, movendo in direzione
opposta, dovevamo vincerlo di fronte. Il capitano stimò prudente
piegar alquanto sulla nostra sinistra, e riparare sotto la protezione
della costiera di Silivria, ove si gettò l’àncora nel pomeriggio del
30 aprile. Silivria era la prima città turca offrentesi in questo
viaggio alla nostra curiosità: ci affrettammo adunque di scendervi, con
tanto maggior sollecitudine in quanto l’Oriente fosse per molti di noi
affatto nuovo. La città è in parte distesa lungo la spiaggia, in parte
su di un piccol colle che si protende verso levante, formando dalla
parte del mare una scarpa scoscesa, quella che ci riparava dal vento.
Tutta la costiera qui è costituita da un’arenaria debole assai recente,
o, come dicono i geologi, _quaternaria_. Le contrade di Silivria
sono tortuose; le case in massima parte di legno, come dapertutto in
Turchia; però quelle in generale meno sucide, queste meno miserabili
di quanto si vegga altrove; la popolazione vi è oltre la metà greca:
la campagna è tutt’attorno ben cultivata. Ci fece impressione il
numero stragrande delle botteghe: tutti in Silivria vendono qualche
cosa, senza che si possa trovare una ragione nel concorso visibile dei
compratori.

Molte cicogne eransi già stabilite nei loro vecchi nidi per entro
la città, rispettate, come dovunque in Oriente, con una specie di
superstizione; e stormi di taccole, svolazzanti attorno ai minaretti,
facevano sentire il loro gracchiare sommesso e quasi dolce. È
singolare come queste due così differenti specie seguano la medesima
distribuzione geografica, e vivano, direbbesi quasi, in tacita
intelligenza, nei medesimi distretti, nel nord d’Europa, nell’Europa
centrale, e nel mezzogiorno, e più verso Oriente fino in Persia.
Dove l’una specie è esclusa, l’altra lo è pure; siccome, per esempio,
accade nell’Italia settentrionale, ove appena si fa vedere di passaggio
qualche cicogna in primavera.

Ma poichè sono entrato in ornitologia, aggiungerò qui altre due
osservazioni. I gabbiani, che vagavano in gran numero attorno a
Silivria, appartenevano alle tre specie communissime _Larus argentatus,
L. fuscus, L. ridibundus:_ le sole, del resto, che vedemmo in tutto
il viaggio fin nel mar Caspio. In un’escursione fatta per la campagna
attorno la città nel matino del 1 maggio, ho notato un passaggio
continuo di un incalcolabile numero di prispoloni (_Anthus arboreus_).
Il sibilo ronzante di questi uccelli risuonava dapertutto nell’aria,
incessantemente, per molte ore consecutive.

Il mare agitato, il cielo nuvoloso, le piovigginate ricorrenti,
avversavano la pesca di animaletti marini di quel litorale; pure
io ed il mio inseparabile amico Lessona vi potemmo raccogliere buon
numero di oggetti interessanti. Fra i crostacei vi predominavano i
communissimi generi delle idotee e degli sferomi; tra i molluschi la
_Cyclonassa neritea_ e la _Nassa reticulata_. La maggior parte degli
esemplari di quest’ultima specie portavano insidenti sul peristoma un
gran numero di individui dell’interessantissima _Coryne vulgaris_. La
mia attenzione fu però attratta in particolar modo da alcuni ammassi
di uova, inviluppati in una sostanza gelatinosa molto resistente, che
li teneva aderenti alle alghe ed alle pietre. Io le riconobbi subito,
al microscopio, come uova di un anellide con diversi gradi di sviluppo
della larva inclusa, e la forma di questa ben diversa da quella delle
larve fino allora conosciute. Le particolarità osservate in queste uova
formarono soggetto di una mia apposita annotazione[4].

Il vento fattosi alquanto più calmo nella notte, ci permise di
rimetterci in cammino. All’albeggiare eravamo già tutti sul ponte per
godere della aggradevole vista di quella costiera, popolata di eleganti
ville e di ombrosi giardini, sempre più spesseggianti col nostro
avanzarsi. Frattanto verso il nostro punto obiettivo si disegnava
sempre meglio nella nebbia lontana una selva di minaretti, e la sponda
asiatica appariva sempre più vicina e distinta sulla nostra destra.
Finalmente Costantinopoli da un lato, Scutari dall’altro, si spiegarono
in tutta la loro magnificenza, e fu una generale esclamazione di
entusiasmo, quando l’_Ichnusa_ passò rasente le maestose mura e i
giardini ed i _kioschi_ voluttuosi del vecchio serraglio. Alle 9 del
mattino sbarcammo infine all’arsenale maritimo presso la stupenda
moschea di Topanhé, ove il personale della legazione italiana stava
aspettandoci.

Rinuncio volontieri a un diritto del quale i _touristes_ sogliono
usare ed abusare, e non scriverò la mia pagina su Costantinopoli, e
non dirò nulla delle impressioni provate, de’ pensieri suscitatimi
da questa città, che un passato fatale, un presente scioperato,
premono sull’abisso di un avvenire tenebroso; di questa vera Babele di
lingue e di costumi, ove tutti i vizj e tutte le virtù dell’Oriente e
dell’Occidente si trovano a contatto, senza mai confondersi, nei mille
anfratti e rigiri di una società artefatta. Vi rimanemmo cinque giorni
di vita affaticata fra la visita delle principali curiosità e dei
monumenti, fra gli ultimi preparativi del viaggio, e l’etichetta della
udienza di congedo che il commendatore Cerruti, fino allora ministro
d’Italia a Costantinopoli, aveva dovuto necessariamente chiedere al
Sultano. In questa circostanza abbiamo avuto noi pure l’alto onore di
essere ammessi all’imperiale presenza di Abdul-Aziz; il quale non si
è tampoco degnato di rivolgerci un solo sguardo, per quanto ci fossimo
fatti per lui belli e lucicanti di ricami e di gingilli[5].

Il nostro capo aveva già tutto disposto con quella operosità, quella
perspicacia che spiccano nel suo carattere, onde alla carovana che gli
era affidata, resa in pochi giorni affrettatamente numerosa, sotto
l’impulso di buone inspirazioni che bisognava seguir subito, nulla
mancasse di quanto poteva rendere meno disagiato un lungo viaggio in
paese deserto e segregato dal consorzio europeo. Quantunque la missione
fosse ben fornita di poliglotti nel suo proprio seno, era necessario un
dragomanno per la lingua persiana; ed il commendatore Cerruti scelse a
tale uffizio un armeno di nome Mehrab, assai versato in quella lingua
per un lungo soggiorno precedentemente fatto in Persia, e che trovavasi
appunto disponibile in Costantinopoli. Dirò poi a suo luogo che cosa
sia stato di lui.

Noi avevamo sperato continuare il viaggio coll’_Ichnusa_, ma un
provedimento del nostro Capo dispose altrimenti, e non senza giusti
motivi. La nave era troppo angusta pel nuovo personale, per l’immenso
bagaglio che stava aspettando in Costantinopoli, e per un carico di
carbone sufficiente ad affrontare un lungo tragitto e gli accidenti
della navigazione nel tempestoso mar Nero. Fu dunque dolorosa necessità
separarci dagli ufficiali dell’_Ichnusa_, che per la squisita loro
cortesia avevano guadagnati gli animi nostri. Tutto era pronto il
giorno 6 di maggio e il segnale della partenza fu dato. Verso le 2
pomeridiane eravamo tutti a bordo del _Tamise:_ alle 4 si levarono
le àncore. Da qui veramente incominciava il viaggio della missione
italiana.

Passando fra una selva di navigli rivedemmo in tutta la sua eleganza,
maestosa e leggera ad un tempo, il nuovo serraglio che tanto onora il
talento di un nostro italiano, l’architetto Fossati: entrammo in quel
Bosforo, del quale ognuno di noi erasi fatta una imagine fantastica
dalle letture di gioventù, ora quasi vinta dalla realtà. Il Bosforo è
un vero paradiso per coloro stessi che hanno l’occhio raffinato alle
sponde del Lario, alla riviera di Genova e di Sorrento; è una scena
sempre bella, sempre varia; un succedersi non interrotto a destra ed
a manca di ville, di giardini, di _kioschi_, di pinete, ove gli avidi
e sfiniti bascià, le sultane, le favorite, i più ricchi negozianti
europei, hanno realizzato un po’ di quel lusso dell’Oriente, che è
sognato dalla letteratura all’_hascisch_. Due ore in questo canale
dalle sponde incantate scorsero per noi come due minuti. Alle 6 eravamo
nel mar Nero allontanandoci dalla terra, mano mano l’oscurità stessa
andava togliendocela di vista.




II.

Il _Tamise_. — Tributo al mar Nero. — Trebisonda. — La _Cerere_.
— Pranzo russo. — Batum. — I delfini. — Una scena di distruzione a
Balaklava. — Bella serata a bordo. — La foce del Rioni.


Il _Tamise_, che ci aveva presi a bordo, uno de’ più grossi bastimenti
delle _Messagéries Impériales_, era già da ventiquattr’ore in perfetto
ordine di partenza, stracarico di passaggeri e di merci. Non avresti
saputo ove posare il piede sul ponte, letteralmente ingombro di ben
seicento passeggeri, turchi la maggior parte, e pel resto circassi,
persiani ed armeni, sdrajati tra involti e fardelli d’ogni natura, ed
ammassi di cenci, che erano stati un tempo cuscini, _burke_, cafetani
o tappeti. Abbiamo dovuto ammirare in questa circostanza due belle
qualità del carattere orientale: la pazienza e la sobrietà. Nessuno
aveva messo un lamento della partenza cotanto ritardata per colpa
nostra, dell’aver subìto un intiero giorno di prigionia nel porto
di Costantinopoli; nè mostrava dolersi dello stivamento fra tanta
confusione. Ognuno poi aveva strettamente calcolate le sue provigioni
di bocca per la durata del viaggio, e s’era così reso affatto
indipendente dal vivandiere di bordo. Molti non avevano per tutto pasto
che pane e cipolle. A noi italiani doveva fare particolar impressione
la quiete, la taciturnità di tanta gente agglomerata. Chi pregava, chi
stava meditabondo o fumando la sua pipa; il conversare nei crocchi era
sommesso: qualcuno appena ripeteva la sua monotona canzone soffocandola
fra la gola e le cavità nasali.

Il tempo aveva continuato propizio anche il dì seguente. Il _Tamise_,
che nella notte erasi inoltrato in alto mare, fin dal matino andava
approssimandosi a terra, e per varj tratti vi scorreva tanto dappresso
da lasciarci godere l’aggradevole vista della sponda asiatica bella
ma disabitata, verdeggiante e boscosa fin sul dosso delle colline,
e, più nel fondo della scena, anche su tutta la catena di monti che
scorre quasi parallela e poco discosta dalla sponda. Alle quattro e
mezzo pomeridiane sostammo ad Ineboli, piccola città ben situata fra
ridenti praterie e grandi macchie e campi ben cultivati; e vi si fece
una prima riversata di turchi e di cenci. Sul fare della notte il mare
volle toglierci dall’illusione nella quale andavamo così placidamente
ingolfandoci, che si dimenticasse di noi. Or dimmi, o lettore, quale
preferisci dei due, il rullìo od il beccheggio? L’uno imprime di fianco
un movimento misto di rotolare e di cullare che rovescia le budella:
l’altro ti solleva di malagrazia, ti lascia sospeso un instante fra
l’asma e le vertigini, e ricadere come ubriaco. Quella notte l’emozione
fu della prima specie. La conversazione erasi fatta gaja ed animata
fra ripetute libazioni di tè, ma poi incominciò a languire: anche i più
loquaci trovarono più commodo il riflettere del parlare; e infine l’un
dopo l’altro brancolando lasciò la sala. Durò breve il silenzio, che di
qua, e di là dal fondo delle celle partivano gemiti e ululati, e voci
sepolcrali chiedenti la carità d’un bicchier d’acqua. Non ho ancora
detto che il _Tamise_ era ad elice. In questa specie di bastimenti il
continuo risuonante tremito della grande spira, riesce, anche in tempo
di calma, tale molestia, da rendere molto preferibili i bastimenti a
ruota: quando poi il mare è burrascoso, l’elice ad ogni ondata messa a
nudo, gira nell’aria con subitanea rapidità, ed imprime al bastimento
sussulti intollerabili.

Verso le due del mattino nuova fermata a Sinope, e nuovo sbarco di
passeggeri, ed anche un momento di sollievo per noi che potevamo
prender fiato, e come ridestarci da un sonno che non avevamo goduto,
solo per riconoscer meglio il nostro stato, e prepararci a soffrir
ancora.

Alle undici il _Tamise_ gettò l’àncora davanti a Samsoun, ad un
miglio di distanza dalla città, resistendo con gran forza di funi
al mare tutt’ora agitato, perchè ivi non è porto, nè tampoco rada,
ma un larghissimo seno compreso fra due liste di terra piane, quasi
invisibili per la distanza, protendentisi per alcune miglia in
mare, coperte di paludi e di boschi, ricche di selvaggina e fomiti
di malaria. Molti barconi accorrevano a gara dal lontano lido, per
aggiungersi ai primi già aggrappati al bastimento, contro il quale
e tutti fra loro dalle onde sommosse venivano urtati come gusci di
noce. Da ogni parte spintoni e grida, ed un gesticolare di energumeni
che si disputavano quali la gamba destra quali la sinistra dei poveri
passeggeri. Se nessuno ne andò colla testa rotta fu vero miracolo.

Samsoun è rinomata pel suo tabacco, il miglior per verità delle varie
sorta di Turchia, tutte più gustate in Europa che non sul luogo di
loro produzione, per quel condimento particolare che in Europa soltanto
acquistano come un effetto combinato della provenienza esotica e di un
tantino di frodo.

A sera il mare imbonì, e si fece nella notte placidissimo. Verso le due
nuova sosta per le stesse ragioni delle precedenti a Kerassoun; poi si
riprese il largo verso Trebisonda, ove arrivammo alle nove del mattino.

Trebisonda, l’antica _Trapezus_, così detta dal piccol piano elevato
a guisa di tavola sul quale venne fondata, è oggi ancora una delle
più importanti città dell’impero ottomano; è l’emporio principale del
commercio fra l’Europa e la Persia. Qui appunto era stabilito dovesse
finire per noi il viaggio maritimo, ed aver principio quello di terra
per la via di Erzerum, prima che le offerte e la spontanea mediazione
del principe Labanoff, ministro di Russia a Costantinopoli, non ci
avesser spalancata la più commoda via del Caucaso. Anche Trebisonda,
malgrado la sua importanza, non ha porto, e solo una rada mal sicura
aperta ai furiosi venti del nord, riparata solo alquanto verso
occidente da un promontorio, all’estremo del quale surge un piccol
forte. Al nostro arrivo trovammo già ancorato un altro battello a
vapore russo mercantile, _Cerere_, sul quale dovevamo passare, per
recarci quindi a Poti. Una lunga fila di case allineate parallelamente
alla spiaggia forma un sobborgo, che, risalendo sul promontorio,
mette per vie ripide ed anguste alla città propriamente detta, la
quale perciò non è visibile dalla rada. Io non mi sento il gusto
di altri viaggiatori ai quali Trebisonda è sembrata bella. Molto le
dona la popolazione varia ed il grande movimento commerciale, e sono
interessantissimi nelle sue adiacenze alcuni monumenti de’ primi secoli
del cristianesimo e dell’antica potenza genovese.

Il paese all’ingiro è a dossi e valloncini, ultime scomposizioni de’
contraforti della grande catena del Kolat. I campi sono bene cultivati,
e nella natura stessa del terreno sta la ragione della sua fertilità.
Esso consta infatti di una trachite facilmente decomponibile, e
contenente numerosi cristallini di pirosseno, ricoperta da potenti
strati di un conglomerato vulcanico, nel quale prevalgono ciottoli
di trappo amigdaloide. Frammenti di questa medesima roccia e di
cristallini pirossenici formano in massima parte la minuta ghiaja del
litorale.

La fauna e la flora marina di Trebisonda sono sommamente povere, una
vera desolazione; del che subito abbiamo dovuto avvederci al solo
percorrer la spiaggia terribilmente battuta dalle burrasche, e lungo
la quale vedesi appena qualche frastaglio di _Ulva lactuca_ lasciatovi
dalle maggiori ondate. Come una vera singolarità trovammo, cercando
e ricercando, una valva di ostrica mezzo consumata dall’attrito.
Le nostre reti adoperate fra le scarse macchie algose pullulanti al
riparo o negli anfratti di qualche masso, appena ci produssero qualche
pesciolino, _Clinus, Gobius_, pochi crostacei isopodi, qualche patella,
qualche attinia: ghiaja, nuda ghiaja dapertutto. Al nostro ingresso
nella rada, dal bordo del _Tamise_, avevamo però veduto nuotanti
placidamente molte belle meduse: la _Cyanea aurita_.

Per tutti i seminati abbondavano strabocchevolmente le quaglie a
grande gioja de’ _Nembrod_ della nostra carovana. Communissimi pure,
sulla spianata del lido, erano l’_Alauda brachydactyla_, e l’_Anthus
pratensis_, questo adorno già della sua livrea estiva[6]. Da Trebisonda
in poi alla volgarissima _Lacerta muralis_ d’Europa è sostituita la
_L. laurica_. Nelle pozzanghere e ne’ canaletti all’oriente della
città abonda, col rospo verde, la _Rana cachinnans_ di Pallas, il
cui gracidar è così diverso da quello della rana commune d’Europa, da
farmi sospettare una reale diversità specifica, la quale, per altro,
non è rivelata all’esterno da alcun carattere sicuro e costante.
Lungo i fossatelli della spiaggia è copiosa eccessivamente l’_Helix
erycetorum_.

Al pomeriggio del giorno 10 ci rechiamo a bordo della _Cerere_. Il
comandante è un uomo piuttosto al di là che al di qua de’ sessant’anni,
tipo _brachicefalico_ puro sangue, decorato di una gran croce bianca
(croce di San Giorgio), premio di 32 anni di servizio nella marina
imperiale. Nel salotto stava allestita la tavola pel pranzo, con grande
apparato di cristallerie, porcellane e fiori finti. Alle cinque siamo
invitati a sedere: risultato al di sotto del mediocre: si aspetta il
formaggio per saziar la fame, ed il formaggio non compare. Abbiamo
poi imparato nel seguito esser sempre buona cautela, a’ pranzi russi,
far attenzione alle prime due portate e _tapper là dessus_. In vero
ce ne sarebbe anche oltre il bisogno, e verrebbe quasi la tentazione
di decantare una sobrietà così ben misurata, e coperta da tanto decoro
esterno, se poi le libazioni del _post pastum_ non oltrepassassero così
di frequente l’estremo limite della temperanza.

Il dì seguente, di buonissimo matino, il comandante, sempre col suo
ordine di San Giorgio (formato massimo), è sul ponte, armato del
suo canocchiale, guardando qua e là in cerca di Batum, ove si doveva
far stazione, come ad uno de’ principali depositi di carbone della
Compagnia russa del mar Nero. Il tempo è bellissimo, la sponda si
distingue chiaramente, ed egli non conosce il suo terreno, e finalmente
si accorge che abbiamo oltrepassato il nostro punto obiettivo, che
siamo anzi non lontani da Poti; quindi ordine di retrocedere. Il danno
però non fu grave, chè arrivammo a Batum ancora in tempo da poter
dedicar una gran parte del giorno ad un’escursione a terra.

Cercammo fra la gente accorsa al nostro approdo qualcuno che volesse
servirci di guida in questa escursione, ma non trovammo alcuno,
dominando nel paese uno strano timore de’ Lasi, che dicono arditi
a spinger le loro scorrerie fino nelle più prossime adiacenze della
città. Sono fiero di poter dire che nessuno di noi si lasciò imporre da
queste voci; ma valeva ben la pena di chiedere quanto fossero fondate.
Il console russo, persona assai gentile, e che parla speditamente il
francese, dopo averci assicurati non correr noi pericolo alcuno, volle
tuttavia che un suo _Cavasso_, due gendarmi ed un facchino ci fossero
di scorta.

La pianura di Batum non è che un’alluvione di un piccolo fiume, i cui
rami, per quanto il terreno lo comporta, sono governati dagli abitanti,
che ne derivano una intricata rete di canali per la coltivazione
del riso. Il terreno basso fa sì che l’aqua si diffonda e ristagni
dapertutto, ed i sentieri, le stradicciuole siano quasi impraticabili.
Sì grande perciò è l’esalazione dei miasmi da render il paese uno
dei più malsani di tutta la costa asiatica del mar Nero. Le risaje
sono necessariamente di quelle che in Lombardia si dicono _da zappa_;
e la seminagione del riso facevasi appunto allora. Esse non formano
veramente grandi regolari spianate, come appunto in Lombardia, ma pezzi
di terra disseminati fra macchie e siepi scompigliate, e labirinti di
boschi paludosi. La vegetazione è dovunque, e sotto tutte le forme
naturali al luogo, lussureggiante al maggior grado. I boschi sono
impenetrabili pei virgulti e le erbaccie che s’intrecciano al piede di
quegli immensi ontani, e pei roveti che dopo esser risaliti pei tronchi
fin alle più alte fronde, ridiscendono a compiere l’inestricabile
viluppo nei vani che ancor rimangono. Ma da una vegetazione così
rigogliosa par che rifugga la vita animale: tutt’all’intorno è un
silenzio triste, una quiete pesante, sepolcrale. Appena qua e là si fa
sentire sommesso e come perduto in quella solitudine il canto ripetuto
e monotono di qualche cingallegra. L’usignuolo, che fra gli ontaneti
in Italia riempie l’aria de’ suoi gorgheggi, qui manca affatto; sono
luoghi da sterpazuole, da scoperagnole, da forapaglie, da caneparole,
da cutrettole, e non se ne vede e non se n’ode alcuna. Nelle risaje
trovammo ancora qualche beccaccino, singolar cosa per la stagione, ed
alcune sgarze. Trovammo pure per la prima volta, sugli arbusti, sugli
alberi isolati, all’aperto, qualche gazza marina, rara e solo di passo
straordinario in Italia, communissima invece in Oriente. Ne’ boschi
verso il lido abbondavano le tortore, della medesima specie d’Europa, e
particolarmente abbondavano sulla spiaggia che dalla città si protende
verso il Nord, ove hanno un asilo sicuro nel fitto intreccio di
rose, roveti, salici, crespini (_Berberis orientalis_), onde tutta la
spiaggia è ricoperta.

Passando presso un rigagnolo ov’erano alcuni pesci, ci adoperammo con
industria improvisata a farne la pesca, e fu quello il solo bottino
zoologico della giornata. Vi trovai le specie seguenti: un _Phoxinus_,
che io credo una buona specie, forse distinta dallo stesso _Ph.
Marsilii_; una piccola lasca, nuova certamente (_Telestes leucoides._
De Fil.); un ghiozzo che poi riconobbi essere il _G. batrachocephalus_
giovane, rimontato dal mare; ed una lampreda nella sua forma di larva,
del tutto simile a quella del commune _Petromyzon Planeri_ d’Europa.
Il prof. Lessona, il quale, col fido nostro aiutante Clemente, avea
atteso nel frattempo alla pesca lungo il litorale, non fu più fortunato
che a Trebisonda. Il lido è invero, come a Trebisonda, affatto nudo,
tutta ghiaia minuta, ed i ciottolini predominanti sono pure di diorite
e di trappo amigdaloide. Solo al lembo esterno, ove si perde l’impeto
de’ marosi, fina sabbia augitica frammista a minuzzoli di una piccola
bivalve (_Venus?_). Non un’alga, non una conchiglia intiera, non
traccia di alcun essere vivente gettato dal mare.

Fra i particolari datici dal console russo di Batum intorno al
commercio ed alle produzioni del paese, uno mi ha particolarmente
interessato, ed è la grande abondanza di delfini nel mar Nero, e
l’importanza del profitto che se ne ricava. La stessa Batum è il
principale centro di estrazione e di commercio dell’olio di delfino,
che viene poi spacciato, come quello di balena, col nome improprio di
olio di pesce. I delfini, così ci ha assicurato, vengono cacciati col
fucile, nel che bisogna aver acquistato una particolare destrezza,
per cogliere l’istante in cui l’animale compia un capitombolo fuori
dell’aqua. Il nostro amico Bosio, tiratore di primo ordine, trova la
cosa del tutto semplice, naturale; io cacciatore modesto e più modesto
naturalista, la trovo appena credibile, come pratica industriale.
Nella traversata di questo mare ci era occorso per verità di incontrar
frequenti volte truppe di delfini, ma senza imaginare che ivi fossero
tanto più frequenti, e tenuti in maggior conto che nel Mediterraneo.

Un fenomeno, o, se volete, un fatto naturale de’ più singolari e
maravigliosi, nel quale i delfini del mar Nero hanno avuta la loro
parte, mi fu raccontato in Pietroburgo dall’illustre Brandt[7], e
merita assolutamente di essere qui riferito. Nel dicembre del 1859
entrò nel seno di Balaklava uno stuolo così smisurato di acciughe,
riunite in una massa così compatta, da renderlo peggio che pieno,
letteralmente infarcito. Questa così incredibile quantità di miriadi
di acciughe era inseguita da una truppa di delfini, ed entrando in
quel seno vi si addensava prigioniera, sia per non saper riprendere la
ristretta bocca d’onde altre sopravenivano senza posa, sia per esser
al di fuori bloccata. La cosa andò a tal punto che si dovette dai
forti posti all’imboccatura del seno tirare a mitraglia sull’esercito
assediante de’ delfini. I pescatori di Balaklava, ed altri accorsi da
Sebastopoli, presero a discrezione in tanta abondanza, finchè ebbero
sale e barili; poi, d’ordine delle autorità, migliaja di carrette
furono messe in moto ad esportare quanto era possibile di quello strano
ingombro. Tutto inutilmente! La massima parte di quelle miriadi di
pesci rimasta in porto passò in putrefazione, e l’aria ne fu talmente
appestata, che la maggior parte degli abitanti di Balaklava dovette
emigrare, e le cornici delle imagini sante e gli utensili d’argento
nelle case annerirono. Sei mesi dopo questo avvenimento lo stesso
professore Brandt, recatosi a bella posta sul luogo, sentì ancora
nell’aria il ributtante odore di pesce fracido, e trovò l’aqua ancora
torbida e fetente. Altra conseguenza fu la completa distruzione,
io quel seno di mare, di ogni traccia di essere vivente. Brandt ha
osservato altresì che alcune parti del corpo di un grandissimo numero
di acciughe eransi conservate per un processo analogo a quello che si
dice di saponificazione de’ cadaveri, e per tal modo si era accumulato
sul fondo un sedimento di avanzi di pesci, che l’aqua stessa rimovendo
portava in parte a galla e rigettava sulla riva. Questo fatto accaduto
in un’epoca tanto recente, a così viva ed irrefragabile testimonianza
di uomini, rappresenta alla fantasia una delle tante scene della
creazione, onde potè aver origine, in alcune località circoscritte, la
violenta distruzione di esseri viventi, e l’accumulazione stipata delle
loro spoglie.

Ritornati a bordo pel pranzo, trovammo che durante la nostra assenza
vi si era stabilita una famiglia russa, la quale, diretta da Poti ad
Odessa, aveva percorso questo piccolo tratto in direzione inversa,
per accapparrarsi il miglior alloggio sul bastimento. Era il conte
Schamarakoff colla contessa sua consorte, i figliuoli, una istitutrice
ed un istitutore, entrambi della Svizzera francese. I modi gentili, la
cultura di questi novelli ospiti della _Cerere_, ci fecero passare una
serata delle più aggradevoli, condita anche da un trattenimento che
nessun di noi certamente sarebbesi atteso in Batum. V’era a bordo un
discreto pianoforte, e l’istitutore svizzero, eccellente pianista, ci
fece gustare alcune delle più belle melodie di Bellini, di Chopin, di
Thalberg e di Beethowen.

Rimanemmo tutta quella notte in porto. Alle sei del matino (12 maggio)
la _Cerere_, voltata la prua verso Poti, rifece di proposito il cammino
che aveva fatto per isbaglio il dì precedente, e dopo tre sole ore di
navigazione ci trovammo alla foce del Rioni, dell’antico _Phasis_. Là,
a quattro _verste_ da terra, la Cerere, troppo grosso bastimento per
cimentarsi in quei bassi fondi, dovette arrestarsi per _trasbordare_,
come si dice in termine marinaresco, su di un altro bastimento più
piccolo e leggero, il carico delle nostre persone, di pochi altri
passaggieri francesi diretti a Nouka, e dell’enorme codazzo di oltre
duecento casse che la missione italiana traeva con sè. Il Rioni spinge
le sue torbide aque in mare appunto per tutto quel tratto che ci
separava dal lido, e vi lascia continui sedimenti, i quali rendono
sempre più difficile questa via di communicazione fra il mezzogiorno
d’Europa e le provincie russe transcaucasiche.

Su quel piccolo vapore venne pure a bordo della _Cerere_, per
complimentare il ministro Cerruti, il governatore di Poti, vecchio
militare che aveva la bontà stampata sulla fisonomia, e parlava
discretamente l’italiano. Ci disse come fosse stato prevenuto del
nostro arrivo, e come tutte le autorità delle provincie che dovevamo
attraversare, avrebbero fatto a gara a facilitarci il viaggio. Pe’
rapporti in cui trovavasi allora il nuovo governo italiano colla Russia
credevamo di essere semplicemente tollerati, e ci siamo invece accorti
che ci era preparata un’accoglienza delle più cordiali, ed alla quale
di ufficiale mancava soltanto il titolo espresso.




III.

Poti. — Il lago Paleaston. — Foreste vergini. — Il _Phasis_. — Il vello
d’oro. — Marani. — La nostra guida d’onore. — Modi di viaggiare nel
Caucaso. — L’ospitalità russa. — Kutais. — Accoglienza dal governatore.
— Paesaggio delizioso. — Il passo di Suram. — Una giostra d’animali. —
Mtzchetha.


Il piccolo vapore _Ackermann_, risalendo per brevissimo tratto
il Rioni, ci sbarcò finalmente a Poti, miserabile posto militare
contrastato fra i Russi ed i Turchi, e finalmente rimasto ai Russi
nel 1829; da troppo poco tempo quindi per aver potuto già svolgersi a
città. Pure ne ha il titolo ed il rango, ed è sede di un governatore,
ed è capitale di una provincia, la Guria. La sua popolazione stabile
non va oltre i 500 abitanti. Tutti gli edifizi, e la chiesa stessa,
sono di legno, tranne il recinto quadrato della vecchia fortezza
turca, il cui muro è abbandonato, come di nessuno conto, all’opera
edace del tempo. V’è una contrada ed una piazza principale; e, fuori
questa, varie case da un sol piano ed isolate sono fra loro disposte
con tal ordine, come avessero a costituire il tracciato di lunghe
contrade rettilinee di una futura città. Vi è un albergo, l’_Hôtel de
la Colchide_, composto di tre distinte casuccie; una principale che dà
sulla piazza, e due capanne, che l’oste avea il coraggio di chiamare
_pavillons_. Oltre la piccola guarnigione v’era allora di passaggio
uno dei battaglioni di una nuova spedizione russa contro il Caucaso
occidentale. Un gruppo di soldati volle onorare la missione italiana
con una rappresentazione di musica e danza nazionale. Due clarinetti,
un triangolo ed un tamburrone formavano l’orchestra, ed accompagnavano
un coro di voci, di carattere selvaggio, originale, non privo di
armonia, nel mentre un soldato, con due staffili ad ogni mano, saltava
e si contorceva grottescamente in cadenza nel mezzo del circolo. Tre
bottiglie di aquavite e tre rubli misero a quella povera gente tanta
lena in corpo, che si dovette, anche per compassione, pregarla di
desistere.

Il terreno all’intorno è fertilissimo, umido ed in gran parte paludoso.
Il così detto lago Paleaston, presso la città, assai probabilmente era
un tempo lo sbocco del Rioni; ora non è che un grande stagno, suddiviso
in bracci e canali da isole e lingue di folti canneti, e communicante
col Rioni per un piccolo canale, e col mare per mezzo di un piccolo
fiume. L’aqua era leggermente salmastra, ma fui assicurato non essere
sempre così: variando le condizioni di quello stagno secondo che lo
spirare dei venti e la marea vi fanno refluire l’aqua del vicino mare;
oppure, agendo in opposta direzione, tanto la respingono dal lido, che
le aque proprie dello stagno abbiano facile declivio.

Non trovammo alcuno degli abitanti che volesse far con noi una partita
di pesca, e fu necessità accontentarci d’adoperare le nostre piccole
reti lungo la sponda. Con mezzi così limitati non potemmo raccogliere
che due specie di pesci: un ghiozzo (_Gobius macropus_, De. Fil.)
ed un pesce-ago (_Syngnatus abaster_ Risso, di cui _S. buccatus_
Rathke è perfetto sinonimo); un piccolo crostaceo (_Palæmon_ sp.),
alcuni giovani e perciò indeterminabili individui di _Anodonte_, una
_Neritina_, la _Paludina achatina_ ed in assai maggior abondanza
la _Melanopsis prærosa._ Questa specie è infarcita di Cercarie
appartenenti a quattro diverse specie, tutte nuove, e per molti aspetti
assai interessanti.

Incomincia a Poti una immensa distesa di foreste vergini; e lo stesso
lago Paleaston ne è presso che circondato. Ciò che avevamo visto a
Batum non era che un preludio di questa imponente scena. Aceri, ontani,
olmi, tigli, pioppi, platani, eccelsi, stipali, co’ rami confusi
della loro corona, fanno una vôlta di denso fogliame che intercetta
i raggi del sole; ed il rovo, la vite selvatica, l’edera, il luppolo,
la vitalba, arrampicandosi per que’ tronchi in fantastiche spire, vi
intrecciano i loro sarmenti, e ricadono decomposti in lunghi cordoni
a ravvinghiarsi ancora cogli sterpi ed i virgulti del terreno: qua
e là tronchi e rami fracidi impigliati fra questo ordito del caos, e
radici serpeggianti allo scoperto rivestite d’una generazione novella
di epatiche, di muschi, di licheni, di funghi; dapertutto un profumo
indefinibile, un silenzio austero, solenne, e solo di quando in quando
uno stormir di foglia per qualche essere invisibile che si ritrae
davanti ai nostri passi. Appena potevamo inoltrarci nella foresta per
un sentiero battuto, o deviare di poco per qualche tracciato che era
stato un sentiero l’anno precedente, ma nel quale i rovi e gli sterpi
stavano riprendendo il loro dominio. Ogni nuovo passo deve essere
aperto dall’accetta.

Per un solco tortuoso di questa bella regione di vergini foreste, il
placido corso del Rioni segna il confine tra le due provincie della
Mingrelia e della Guria che formano l’antica Colchide. Lo stesso
piccolo vapore _Akermann_ che ci aveva sbarcati a Poli, risalendo il
fiume, ci condusse in dodici ore a Marani nell’Imerezia, prima stazione
del nostro viaggio di terra. Presso Marani le grandi foreste si fanno
più spezzate, gli alberi più diradati, e negli intervalli si veggono
praterie naturali, campi cultivati, ma non un villaggio lungo la
sponda, soltanto qualche casolare isolato e raramente qualche brigata
di contadini. Incontrammo, in marcia per una stradicciuola lungo il
fiume, un altro battaglione diretto a Poli, il quale, non appena ci
scorse, volle salutarci colla stessa musica che ci aveva assordati il
giorno prima. Durante questo tragitto non mi si offerse materia ad
osservazioni zoologiche meritevoli di qualche speciale nota. Presso
Poti ho trovato la _Muscicapa parva_, e sul fiume le solite specie
dell’Europa meridionale: _Actitis hypoleuca, Charadrius minor, Sterna
hirundo, Sterna nigra,_ qualche piccolo stormo di anitre, un piccolo
branco di _Otis tetrax_ su di un isolotto, moltissime Meropi (_M.
apiaster_) nidificanti lungo le sponde, ed in gran numero coppie di
tortore. Abonda anche qui, come nelle basse valli di tutta la grande
regione caucasica, il fagiano commune, ma non ebbimo campo di vederne.

Non si può parlare del Fasi e della Colchide senza rammentare la
leggenda del vello d’oro, e la testimonianza di Strabone che alcuni
fiumi del Caucaso travolgessero pagliuzze d’oro, le quali rimaneano
impigliate nelle pelli vellose di montone che vi si distendevano sul
fondo. Vige ancora una simile credenza nella Mingrelia, e si indicano
diversi fiumicelli come particolarmente auriferi. Alcuni ufficiali del
corpo delle miniere del governo russo hanno perlustrato il paese per
ricercare se mai qualche cosa di fondato avesse questa tradizione, ma
ebbero risultati affatto negativi. Nella Guria è un monte chiamato
_Kysyl_, che vuol dire monte dell’oro: ma tutto si riduce ad uno
schisto argilloso contenente innumerevoli cristallini di pirite che
rimangono qualche volta sciolti, ed accumulati dalla pioggia ne’
crepacci del terreno.

Or spero trovar inchinevoli al perdono quegli eruditi che vedono sempre
un’arcana sapienza anche nelle più vuote favole dell’antichità, se,
io profano, oso tentare una spiegazione del mito del vello d’oro,
senza storpiare testi greci, o squarci d’ignorati codici. Il vello
d’oro esiste realmente, ed è ancora al suo posto, aspettante un
novello Giasone e novelli Argonauti: ma non è una cosa da rapire,
è una cosa da occupare, è la Colchide stessa, anzi tutto il bacino
del Rioni. È un paese vasto quanto la Lombardia, inculto, spopolato,
ma predisposto dalla natura a trasformarsi in uno de’ più ricchi e
popolosi del mondo. La Lombardia non è qui tirata in scena come una
misura agraria o geografica: il confronto è spontaneo e conveniente
per ogni lato: le condizioni naturali sono le medesime ne’ due paesi;
con un sopracarico di favori per la bella provincia dell’Asia: una
immensa pianura di antiche alluvioni, solcata da un gran fiume e da
numerosi tributarj, tutt’attorno sollevantesi per gradi a colline, a
monticoli, e via via salendo ad una cresta continua, frastagliata e
nevosa, che forma il limite vero del bacino; abondanti aque da nevi
perpetue, e più abondanti quanto più la terra ne sente il bisogno:
mitissimo clima: terreno risultante dallo sfacelo di roccie cristalline
ricche de’ principj minerali più essenziali per la vegetazione. Ma
l’immenso sviluppo de’ depositi de’ ghiacciaj, a piè delle Alpi di
Lombardia, ha prodotto grandi distese di ghiaja sulle antiche alluvioni
per tutta la pianura; e lunghe liste e grandi isole di sterili argille
ferrigne vi formano i primi rialzi verso i colli. Con queste dure
condizioni del suolo hanno dovuto luttare i primi abitatori della
Lombardia. La fertilità presente di quella bella contrada è il lavoro
pertinace accumulato di una lunga serie di generazioni, è una vera
creazione dell’uomo. Nella grande catena del Caucaso non v’è traccia
di un periodo glaciale; e ne derivano, come immediata conseguenza,
condizioni affatto diverse ne’ bacini che i grandi rami di quella
catena comprendono. — Lo stato primitivo della gran valle del Rioni è
lo stato presente espresso da una magnifica vegetazione spontanea. Il
fondo della valle è tutto limo sabbioso finissimo senza un ciottolo; le
colline sono di arenarie, di conglomerati, di marne, tutte verdeggianti
e boscose. Le immense foreste del piano sono un capitale incalcolabile
da mettere subito a frutto, e da moltiplicarsi coi frutti erogati in
cultivazioni immediatamente produttive. Tutte le condizioni locali
sono favorevolissime allo sviluppo di un completo sistema di canali
irrigatori; e lo stesso Rioni in prima linea dovrebbe fornirvi le sue
aque, troppo scarse ed incerte per l’uso di una regolare navigazione.
I piccoli battelli a vapore che lo percorrono stentatamente, e sotto
la vigilanza dello scandaglio anche nella sua piena ordinaria, sono
per intieri mesi condannati ad una perfetta inazione. I tempi attuali,
i bisogni della civiltà e dell’industria, richieggono ben altri mezzi
di communicazione. Ciò che veramente manca ora alla Colchide è un
porto sicuro e sufficiente; ma il suo litorale è abbastanza esteso
perchè l’arte si possa in qualche sito appoggiare a qualche vantaggio
naturale.

Nessun _ukase_ di nessun autocrata riescirà mai a fare di Poti un
importante scalo maritimo. I continui interrimenti ne allontanano
sempre più il mare, ed accrescono le difficoltà contro le quali deve
ora luttare la navigazione. Il governo russo si è molto preoccupato
del modo di rimuoverle o vincerle, ma non ha fatto che convincersi
dell’impotenza d’ogni mezzo imaginato. Non v’è che una sola cosa da
fare pel vantaggio di Poti: servirsi del Rioni stesso per colmare le
paludi, e prima il lago Paleaston: governare i canali che mettono nel
mare, scemare così la malaria, piaga attuale della regione formata dal
delta di quel fiume, e farne assai meglio di una colonia militare, e di
uno scalo maritimo contro natura, farne una colonia agricola.

È un problema sociale e politico ad un tempo: come ad un paese così
prediletto dalla natura non affluiscano braccia e capitali che pur vi
troverebbero un così pronto e lauto profitto; come mai la non scemata
emigrazione europea si diriga ancora tutta verso occidente alle
lontane Americhe, ove non di raro trova al posto dell’abondanza una
spaventosa miseria. Qui mi pare di sentire l’eterno ritornello della
forza repulsiva del despotismo russo; ma la risposta è tanto ovvia
quanto difficile ad essere accolta in cervelli prevenuti. Le colonie
europee non cercano una particolare forma di governo per quel che possa
avere di intrinseco, ma terre da cultivare, sicurezza delle persone
e delle cose, facilità di smercio dei produtti; e non è proprio detto
che tutti questi beni siano la figliazione diretta ed esclusiva di una
data forma di governo. Ove non è una società fatta da organizzare, ma
una società da creare, la forma transitoria del governo patriarcale è
la sola possibile, ed è quella che rende prospere le colonie tedesche
della Russia meridionale. La sicurezza delle persone e delle proprietà
era preparata in questa parte del Caucaso occidentale dalla virtù
del cristianesimo, che mette sempre, anche nella più rozza barbarie,
germi inestinguibili di civiltà: ed è già a quest’ora tutelata da
una lunga soggezione alla Russia, meglio che dalla lancia cosacca: e
se un poco anche da questa, non è poi tanto male, per l’azione del
presente sull’avvenire. Il valore delle terre, e di terre di loro
natura fertilissime, è minimo. Un vasto possedimento di 76,000 ettari
presso Marani è stato venduto al prezzo di 100,000 rubli: il che vale
quanto cinque franchi l’ettaro. Gli Italiani che mandano già i loro
navigli a caricar grano alle bocche del Danubio, a Odessa, e fino a
Taganrog, dovrebbero essere i primi interessati al successo di nuove
colonie nella Colchide. Non ardisco far voti che vadano essi medesimi a
stabilire queste colonie, quando considero il moltissimo che abbiamo da
colonizzare in casa nostra; ma poi l’ardire mi viene quando mi rammento
d’avere, or fa sei anni, in una cruda giornata d’inverno, valicato
il San Gottardo con una compagnia di robusti montanari genovesi mal
vestiti e sproveduti di tutto, i quali non sfuggirono il pericolo di
restare assiderati sotto un furioso uragano di nevi, che per andare a
consegnarsi come reclute ad una compagnia di speculatori in Brema, e di
là essere spediti, schiavi bianchi, nell’America del Nord.

La stazione postale e militare di Marani od Orpiri, ove arrivammo
dopo 12 ore di navigazione, è un gruppo di poche case disseminate
fra una bella verzura, ed in gran parte nascoste sotto il fogliame di
grandi alberi. Chi vi giunge, come noi, per la via d’Europa, rimane
colpito dalla vista di uomini indossanti la lunga veste del soldato
russo, dalle faccie scialbe, imberbi, e come edematose, dalle braccia
penzolanti, dall’incesso svogliato, dalla voce stuonata. Sono questi
gli scapsi, setta di fanatici religiosi che sottraggonsi vilmente
coll’evirarsi alle insidie della carne. Dalle sparse provincie del
vasto impero il governo russo qui li deporta e ne forma un reggimento
di pena. Sono questi scapsi che fanno il servizio de’ trasporti per
conto del governo, e che doveano condurci a Kutais.

Noi eravamo ospiti attesi. Ce lo fecero sapere due ufficiali che
vennero al nostro sbarco, cioè il colonnello comandante del luogo ed
un capitano, sul quale devo dare qualche particolare. Si chiamava
Romanoff, ed era stato colonnello, ma tolto di quella dignità per
qualche scappata, aveva dovuto riconquistare i suoi gradi, e aveva di
nuovo raggiunto il grado di capitano, ed il principe Orbeliani l’aveva
nominato suo ajutante di campo. Per speciale delegazione del principe,
veniva da Tiflis a mettersi a disposizione del ministro Cerruti per
tutta la durata del nostro viaggio sino al confine persiano; uomo
attivo, intelligente, astuto, loquace, buon compagnone sempre e
particolarmente a mensa, parlante il francese come un parigino. Sua
moglie, una assai bella e colta e spiritosa signora, che ebbimo la
fortuna di conoscere personalmente, vive ritirata a Kutais. Qualche
maligno sorrisetto sotto i baffi in alcuno dei miei compagni che voleva
passare tra i più fini ed avveduti, non tolse che l’opera assidua ed
energica del capitano Romanoff fosse da tutti riconosciuta come di
vera utilità in molte circostanze, ed ove le istituzioni della civiltà
incontrano tanti ostacoli ne’ luoghi e negli uomini.

Il governatore dell’Imerezia aveva disposti, ad agevolare il nostro
viaggio, mezzi non concessi a semplici privati. Affinchè il lettore
possa comprendere il grande servigio che ci hanno renduto, dirò
in poche parole quale sia il modo di viaggiare in Russia, e più
particolarmente nelle provincie del Caucaso.

Chi ha vetture sue proprie è padrone di servirsene: nel caso contrario,
vale a dire nel caso della commune dei viaggiatori, alle stazioni
postali si trova solo la _telega_, veicolo affatto rozzo e primitivo,
di legno greggio, senza molle, intieramente scoperto, ristretto, basso,
appena capace di due persone oltre il conducente, colla sponda quasi
a livello della panchina. Lascio pensare la voluttà di un _touriste_
dell’Europa occidentale, seduto in un simile carruccio, tratto di
gran carriera per una strada sassosa. Nella _telega_ dell’Imerezia,
la distanza delle due ruote anteriori dalle posteriori è tale che
la verticale del sedere cada alquanto al davanti di queste ultime, e
così gli urti vengano in parte elisi dalla elasticità delle stanghe
sottoposte; ma in quella delle altre provincie la panchina sta
direttamente sull’asse delle ruote posteriori, ed allora non v’è
tregua; sbalzi e sussulti violenti ad ogni istante da sentirsi strappar
le budella, da esser lanciati fuori del traino, al quale bisogna
tenersi saldamente colle due mani.

Dopo la _telega_ il veicolo più commune è il _forgone_, simile a
quello che si usa in Europa nel treno militare, ma senza molle. Se
ne possono avere non troppo difficilmente, o da privati, od anche da
alcune stazioni postali. Quindi viene il _tarantass_, vettura coperta,
per lo più senza sedili interni, e colla cassa riposante su due lunghe
stanghe, le quali fanno l’ufficio di molle, tese fra le due ruote
anteriori e le due posteriori. Infine vengono le carrozze propriamente
dette, costrutte nello stile europeo; le quali si possono avere assai
difficilmente, e per lo più alla sola condizione di comperarle, per
quindi rivenderle con grossa perdita alla fine del viaggio.

Nelle provincie caucasiche non vi sono alberghi (e quali alberghi!)
se non a Poti, a Kutais, a Tiflis. Il passaggero non trova ricovero
che alle stazioni di posta: un camerotto perfettamente nudo, ove è
padrone di farsi un letto colle sue proprie robe, e più o meno vicino
un fiume, un rigagnolo, un fosso, un abbeveratojo pei cavalli, ove
lavarsi il viso. Appena nelle nuove stazioni prossime alle maggiori
città si trova qualche tavolazzo, come ne’ corpi di guardia. Altra cura
è quella del vitto. Dal mastro di posta o da qualche suo dipendente si
può aver sempre un _samovar_[8], e non sempre qualche pentola, qualche
bicchiere. Quanto alle proviste il viaggiatore prudente se le assicura
portandole con sè; chè altrimenti potrebbe correr pericolo di lunghi
digiuni forzati. Soltanto lungo lo stradale fra Poti e Tiflis, presso
le stazioni postali, si trova qualche bottega ove provedere vino, tè,
zucchero, aquavite, pane, caviar, pesce salato, lardo, uova. Al di là
di Tiflis, fra le popolazioni tartare, sulle due strade che conducono
l’una a Baku, l’altra ad Erivan, non si trova più nulla.

V’è un altro modo di viaggiare senza dipendere dai mastri di posta;
in veicoli privati, grandi forgoni tirati da quattro cavalli. Il
proprietario aspetta d’aver il suo numero di passaggieri, d’aver
completata la sua piccola carovana, poi si mette in cammino a picciole
giornate, facendo le sue tappe, quando gli viene il capriccio,
all’aperta campagna, ove lascia liberamente pascolare i suoi cavalli.
I passaggieri devono allora essere provvisti di tutto per vivere.
Come ognun vede questo modo di viaggiare costa assai poco in danaro,
enormemente in tempo ed in noja.

Sotto questi auspicj incominciava a Marani il nostro viaggio per le
terre asiatiche. Spiegati i nostri materassi, pernottammo nelle vuote
camere di un fabricato piuttosto bello alla sponda del Rioni; ed alla
prima frescura del matino eravamo tutti a lavarci militarmente al
fiume. Il capitano Romanoff aveva condotto seco una vettura abbastanza
bella e commoda. Una grande berlina da viaggio del governatore di
Kutais, un’altra carrozza, un _tarantass_ e due forgoni stavano
a nostra disposizione. Dopo aver stipulato, e non senza un lungo
tergiversare, coll’unica compagnia di spedizione residente in Marani,
il trasporto dell’immenso bagaglio sino a Tiflis, dopo le lunghe
formalità della consegna, la nostra carovana si pose solennemente in
cammino, che un’ora mancava a mezzogiorno.

Fatta una ventina di verste, per una strada abbastanza buona, il
terreno, approssimandosi ai colli, cambia natura, diventa ghiajoso,
ma non sterile. I grandi alberi cedono a fitti boschi cedui di
castagni, di quercie, di nocciuoli. Alle due pomeridiane eravamo in
Kutais, accolti da varj ufficiali che ci dissero con grande cortesia i
benvenuti, e ci accompagnarono ai nostri alloggiamenti. L’unico albergo
della città era troppo piccolo per ricoverarci e per provedere ai
nostri bisogni.

Qui fa duopo ch’io abbozzi, ancora una volta per sempre, un quadro
dell’ospitalità russa nelle provincie caucasiche, sempre la stessa
dapertutto, e la migliore che può dare l’ordine attuale del paese. Le
autorità locali ci prevengono, facendo sgomberare alcune camere, che,
ripulite, imbiancate e nella più assoluta nudità, sono messe a nostra
disposizione. L’accoglienza, lo ripeto, veste tutte le forme della
cordialità e dell’etichetta; visite, rallegramenti, inchini, strette di
mano, sentinelle d’onore alla porta, ma non un letto, non una tavola,
non un sedile, non un bacino per lavarci, non un chiodo nel muro. Si
calcolava che noi, muniti di tutto per un viaggio in Persia, dovevamo
esser ancor meglio preparati per un viaggio in provincie russe; e da
parte nostra non si poteva pretendere dal paese ciò che il paese non
ha nelle sue proprie costumanze. In ciò la Russia transcaucasica non
è in condizione peggiore di quel che sia una parte del mezzogiorno
della stessa Russia europea, ove il mobiliare della casa, tranne
che presso i grandi signori, e le alte autorità, è ridotto, o, dirò
meglio, mantenuto, alla semplicità de’ tempi patriarcali. Non solo ne
è sbandito quel superfluo che è tanto necessario al molle occidentale,
ma perfino ogni elemento del più ordinario _confort_. Non v’ha più
di un passo per raggiungere l’estremo che è la mitologica semplicità
persiana, alla quale andavamo incontro. Basti dire che un giaciglio
da potersi veramente chiamare un letto, non fu da noi ritrovato
ulteriormente, nel lungo tratto percorso in territorio russo, che nel
viaggio di ritorno, a Mosca.

Ogni città della Russia transcaucasica possiede un _casino (club)_,
al quale è annesso un _restaurant_, ed ove convengono pe’ loro pasti,
pe’ loro divertimenti, ed anche, occorrendo, per qualche piccola orgia
notturna, gli ufficiali dell’ordine civile e del militare. Dapertutto
noi eravamo non solamente ammessi al casino, ma fattine padroni; e là
eravamo serviti della colazione e del pranzo, ai prezzi correnti nel
paese, i quali, e ciò sia detto per sempre e per ogni genere, sono per
lo meno il doppio di quanto si paga nella stessa Inghilterra.

Non appena giunti, senza perder tempo si presero d’assalto i più vicini
_droschki_, e... _pascioll_, di gran carriera, la nostra brigala si
diede a scorazzar per la città. Questi così detti _droschki_ sono
veicoli esclusivi alla Russia, di forma particolare, costante e
immutabile per tutta la estensione del grande impero, come un carattere
nazionale; piccole carrozzette scoperte, basse, senza portiera, capaci
di due sole persone, oltre il cocchiere, colla sponda sporgente attorno
al cuscino di non più di un palmo, tirate da due cavalli attaccati in
modo singolare; uno fra le due stanghe proprie del veicolo, l’altro al
fianco sinistro, come fosse di rinforzo. Per abitudine vanno di gran
carriera, ed i novizj, quali eravamo noi, devono stare molto in guardia
onde non esserne sbalzati fuori, specialmente quando si corre un
terreno disuguale.

Kutais, l’antica _Cotatisium_, è ancora una piccola città, ma assai
graziosa ed in posizione amenissima, alle falde delle colline che si
continuano nel grande sistema del Caucaso. Il Rioni limpido, vivace,
rumoreggiante, ne separa un grosso quartiere, quello precisamente
per il quale eravamo venuti, e che può dirsi un sobborgo. Vi sono
molte case, belle, eleganti, e per lo stile e per l’eccellente
materiale di costruzione tratto dal vicinissimo colle. È una calcarea
grigio-giallognola, così tenera, allorquando è di fresco estratta, da
lasciarsi lavorare con ogni facilità, ma che acquista, per l’azione
dell’aria, una sempre maggiore resistenza. Per tale preziosa qualità la
calcarea di Kutais ricorda la pietra di Viggiù in Lombardia. Col favore
di questa circostanza la città è in continuo sviluppo, ed accenna
a divenire fra breve una delle più belle e forse la più bella delle
provincie caucasiche.

La parte vecchia è, come generalmente, nel centro, e qui pure trovasi
il mercato, o _bazar_, il quale è tutto in legno, e consiste in due
file di botteghe aprentisi sotto due porticati stretti, ineguali,
screpolati e abbruniti dalla vetustà e dalle intemperie. Questo
mercato è ben provisto di generi di consumazione e di manifatture
indigene, tra le quali primeggiano le belle cinture ed i _kangiar_
ricchissimi per ornati d’argento. Quasi nel centro della città è pure
il giardino publico, assai vago ed ombroso. Tra i publici edificj ci fu
particolarmente indicato un palazzo non ancora ultimato, fatto erigere
dalla principessa Woronzoff, per fondare e dotare a tutte sue spese una
casa di educazione per giovani zitelle.

La fama della bellezza delle donne georgiane, non punto smentita
dalla realtà, vuolsi particolarmente sostenuta dalla Mingrelia e
dalla Guria, e solo in grado di poco minore da questa confinante
provincia dell’Imerezia. Perdoni il lettore questa frivolezza; ma
davvero anche i più austeri della missione italiana non sapevano
trattenersi dal lanciare sguardi, che in Europa sarebbersi detti
petulanti, alle curiose imeretine facenti capolino dalle finestre e
riguardanti, per la novità, non meno fissamente le nostre persone. È
singolare l’uniformità del tipo in queste donne: si direbbero tutte
di una famiglia. Grandi occhi neri con fine ma regolari e spiccanti
sopraciglia; naso leggermente aquilino; mento rotondetto, e piuttosto
pronunciato; carnagione rosea. Aggiungi a questo l’elegantissima
acconciatura nazionale del capo, con quel piccolo berretto orlato di
ricami, inclinato alquanto sul fronte, col velo che dal disotto ne
sfugge, per cascar mollemente sulle treccie e sulle spalle. Nè men
bello e caratteristico è il tipo degli uomini, ai quali pure molto dona
il pittoresco costume, il _papach_, grande berretto di denso vello,
le due cartucciere che s’incontrano ad angolo nel mezzo del petto, la
cintura e la daga ricchissima di ornati d’argento a fiorami e rabeschi.
Altri in luogo del _papach_, portano il _koudi_, piccola pezzuola che
sta sull’alto del fronte come una visiera alzata, tenuta in posto da
un nastro che si allaccia sotto il mento. La popolazione del resto è
mista, come in tutte le città del Caucaso; della quale miscela dirò fra
poco.

Com’era di preciso dovere ci portammo a far visita al governatore,
generale Kolioubakine. La sua residenza è un elegante palazzina posta
al lembo orientale della città, sul ciglio di una valle fresca e
verdeggiante di castagni, faggi, carpini, melegrani; sul fondo della
quale serpeggia un ramo del Rioni. Dal loggiato che la domina, questa
bella solitudine, ridente come un giardino naturale, ci toccò le più
delicate fibre del cuore per la sua perfetta rassomiglianza con un
paesaggio subalpino. Ci parve d’esser trasportati nella valle della
Dora presso Torino, in un punto elevato fra Alpignano ed Avigliana.
Il nostro pensiero s’abbandonava a questo accordo fantastico di
realtà e di rimembranze, quando venne a richiamarlo uno strepito di
passi affrettati: e subito dopo ci si presentò il generale con alcuni
ufficiali del suo seguito. Ci accolse con quella squisita urbanità, con
quel tono sciolto ed affabile che trovammo in tutti gli alti funzionarj
della Russia, e che è il frutto di una accuratissima educazione.
Inutile il dire che il generale Kolioubakine parlava francese corretto
e spedito (della qual lingua non comprendeva sillaba un giovane
principe mingreliano del suo seguito). La conversazione fu animata e
varia, e conchiusa coll’assicurazione di efficaci provvedimenti per la
più felice continuazione del nostro viaggio. E veramente ne dovevamo
provare gli effetti.

Sorbito il caffè, passammo dal loggiato nelle belle ed ampie sale:
il generale ci mostrò la sua piccola ma scelta biblioteca, molti
bellissimi disegni del Caucaso; e ci fece vedere il sito preciso sul
quale pochi anni prima era stato assassinato il suo predecessore,
principe Gagarine, da un altro principe della Mingrelia.

Il matino seguente, mentre tutto era disposto per la partenza, e noi
eravamo radunati, lungamente aspettando i cavalli e qualche veicolo di
rinforzo, ecco invece giungere il nostro capitano Romanoff trafelato,
sbuffante, col sudore a goccioloni sol viso abbronzato, e fra sonore
bestemmie nella più perfetta _verve_ francese annunciarci che non si
trovava mezzo di portarci in quel giorno stesso verso Tiflis; che i
castroni di Marani, sprezzando ogni offerta, si rifiutavano a procedere
oltre il termine già raggiunto del loro contratto. Che fare? Perduto
altro tempo in commentare questa difficoltà del tutto inattesa in una
città come Kutais, venne finalmente la soluzione. Fra l’autocrazia d’un
governatore russo, e quella inerente al grado militare, il generale
Kolioubakine ne aveva anche di troppo per imporne a chichesia, e tanto
meglio ai nostri vetturini, i quali, nell’alternativa o della prigione
o di una nuova tangente di rubli, scelsero filosoficamente il secondo
partito. Così potemmo metterci in cammino che già era oltrepassato il
mezzogiorno.

La strada, tosto lasciata Kutais, serpeggia fra boschetti e prati
in dolce pendio per valloncini e colli deliziosi; e si interna nella
valle della Kwirila; altro grosso ramo tributario del Rioni. Di quando
in quando uno squarcio del terreno mette a nudo strati della medesima
calcarea di Kutais, alternanti con marne ora argillose, ora sabbiose,
passanti per gradi alla sottoposta arenaria. Tutti questi strati,
sono sollevati, ed in vari luoghi rotti e profondamente alterati da
emersioni porfiriche. Procedendo, il paese diventa sempre più alpestre
e pittoresco: il fianco de’ monti è rivestito d’un fitto cespugliame di
lauri, di melagrani, di lecci; dapertutto spiccano elegantemente grandi
macchie pavonazzine per gli addensati cespiti dell’_Azalæa pontica_, in
perfetta fioritura. Passiamo presso antichissimi ruderi di un castello
che la tradizione attribuisce al padre di Medea, e più discosto dalla
strada, sull’alto di una rocca, vediamo le pittoresche rovine di una
vecchia fortezza turca. Poi il cammino, sempre più erto, ora scorre
al piede di grandi scogliere, ora sul ciglio di un burrone, o fra gole
dirupate, finchè si giunge quasi d’improviso ad un pianerottolo cinto
da alte montagne e scogli di calcarea bianchissima, ov’è la stazione
postale di Bielagori, nostra tappa della giornata.

Ci avviammo il dì seguente di buon matino al passo di Suram. Dopo
Bielagori la roccia è ancora una calcarea compatta con selce piromaca,
in grandi strati, e di nuovo ricompajono grandi masse di porfido
alcune delle quali profondamente alterate, come _caolinizzate_. Dopo
la stazione postale susseguente, e procedendo sempre verso il culmine
della montagna, la roccia cambia affatto natura. È un conglomerato con
pasta di arenaria e grandi ciottoli, e perfino enormi massi per entro
contenuti in gran copia. Sotto questo conglomerato ricompare un’altra
calcarea ora compatta, ora marnosa, sino a far passaggio ad una vera
marna variegata, ma con predominanza del rosso. Questa marna alla
sua volta prende maggior consistenza, s’indurisce, e diventa una vera
roccia metamorfica con cristalli d’anfibolo; ed infine presso la cresta
del monte, sotto questa serie di roccie, emergono grandi masse di una
diorite granitoide. Il conglomerato, di cui ho detto, contiene pezzi di
tutte le roccie susseguenti, della calcarea, della marna, della roccia
metamorfica, della diorite stessa, e massi talvolta così voluminosi, da
esser perfino difficile lo stabilire se questi massi siano veramente
inviluppati nel conglomerato, oppure roccie in posto che vi sono
compenetrate. Una bellissima foresta di quercie, carpini, frassini,
faggi, e conifere qua e là disseminate, riveste tutto il versante
pel quale si ascende, e fino al passo di Suram, in un abbassamento
della catena del Likhi, la quale, collegando il Caucaso agli estremi
contraforti settentrionali della catena del Bambak, separa il bacino
del Rioni da quello del Kur, ossia l’Imerezia dalla maggiore provincia
detta da’ Georgiani _Karthli_ o _Karthuli_, la quale forma, colle sue
suddivisioni, la massima parte della Georgia attuale.

Superato questo passo di Suram, si scende in un alto piano ove il
terreno è fertilissimo e ben cultivato, avente in qualche luogo
l’aspetto di una torbiera dissodata. Il Kur (_Cyrus_ degli antichi)
scorre presso le falde de’ monti dal lato opposto, che limitano la
valle a mezzogiorno. Tutto il paese prende un aspetto nuovo: bei
villaggi, praterie, campi seminati, grandi armenti di bovini. Facemmo
una breve sosta alla stazione postale, rassomigliante non poco ad uno
di quei grandi cascinali che fanno centro de’ pingui latifondi della
bassa Lombardia. Le stesse montagne alla destra del Kur sono rivestite
di bei pascoli naturali alla loro base e verso le sommità boscose.
Dovevamo pernottare a Jekalkalaki, ove infatti una _telega_ con due
dei nostri compagni ci precorse. Ma il grosso della comitiva, giunta
in ritardo, sul far della notte, a Gori, fu obligata ad arrestarvisi
provvedendo alla meglio alla cena ed all’alloggio. Ne ripartimmo alla
prima luce del matino, che appena potevansi discernere le rovine di
antichi forti, e più lungi biancheggiar nella nebbia le case della
città che fu un tempo grande e popolosa, e sede de’ re georgiani.

Sferzando i cavalli, per riguadagnare il terreno perduto il giorno
inanzi, percorrevamo lietamente il nostro cammino, quando la curiosità
del naturalista e del cacciatore fu scossa da una scena inaspettata,
da una strana giostra di animali a un tiro di fucile da noi. Un lepre
spaventato correva a tutta furia di gambe, inseguito da uno stuolo
di corvi, mossi da inconcepibile istinto di malignità, ed or l’uno,
or l’altro corvo, con rapida vicenda, scendeva a piombo verso il
povero quadrupede, come per punzecchiarlo, ma senza raggiungerlo, e
rialzandosi presto a livello degli altri. Intanto a maggiore altezza
battevano le ali due avoltoi, coll’aria diplomatica d’essere là per la
loro strada naturale, ma in fondo per ispiare se c’era da prender parte
al festino; come due fregate inglesi ove ci sia del torbido.

Raggiunti in breve tempo i nostri compagni a Jekalkalaki, allestita
sollecitamente una _telega_, questa volta facemmo da corrieri io e
Lessona. La strada continua bellissima in una valle fiancheggiata
in gran parte da aride montagne calcaree; ma al suo fondo ampia,
amena, tutta a pascoli e campi coltivati. S’incontra anche qualche
villaggio georgiano, con case sotterranee, circondato di bei giardini,
frutteti e vigne. Ad un certo punto veggiamo sulla nostra sinistra,
sul fianco tagliato a picco di un’alta montagna calcarea, con strati
quasi orizzontali, alcune aperture di caverne, ampie tanto da passarvi
liberamente un uomo; ma appena accessibili da chi possa inforcare un
ippogrifo, o più prosaicamente raccomandandosi a lunga e robusta fune,
si faccia calare dall’alto. In quelle cavità hanno tante volte cercato
rifugio i poveri abitanti nelle irruzioni de’ Tartari. Dapertutto,
nella Georgia, le grotte, le fessure degli scogli, sono state
convertite in asili contro la ferocia delle orde musulmane, ed ove non
era predisposto il lavoro dalla stessa natura, la mano dell’uomo si
rivolse alle roccie meno ribelli; e così si formarono perfino in alcuni
luoghi interi villaggi sotterranei.

Passammo quindi per la piccola città di Mtzchetha, antica capitale
della Georgia, pittorescamente situata sul Kur, a cavaliere di erti
scogli, fra i quali, in un profondo burrone, spumeggia il fiume. Due
chiese di stile maestoso, che prende maggior risalto dalla severa tinta
del tempo, richiudono le tombe dei re georgiani. Poco oltre è l’ultima
stazione postale, nuova, ben costrutta, con camere abbastanza belle, ed
una fra queste, rarità dovuta alla vicinanza di Tiflis, addobbata con
tutto l’apparato di un _restaurant_ europeo.

Noi avevamo preceduto di circa un’ora il resto della carovana,
coll’incarico di far tener pronti i cavalli. Credevamo che,
nell’ignoranza della lingua del paese, la sola nostra presenza bastasse
a far capire al mastro di posta chi eravamo e ciò che da lui si
voleva; ma c’ingannammo, e riesciti vani anche gesti da disgradarne un
mimo da teatro di provincia, ricorremmo all’espediente di ripetergli
all’orecchio: _italianski, français, deutsch_; onde metterlo sulla
strada di trovarci almeno un interprete. Per buona ventura la corta
intelligenza del mastro di posta si risvegliò quel tanto appena
da comprendere ciò che era più essenziale. Fatto cenno colla mano
di attendere, ci condusse poco dopo una donna che parlava anche il
tedesco, per mezzo della quale potemmo spiegarci, e dar l’ordine di
preparar subito cavalli per cinque carrozze attese fra breve. Il mastro
di posta protestò di non aver avuto alcun ordine od avviso preventivo
per un bisogno così straordinario, quindi non aver disponibili per
quel giorno un numero sufficiente di cavalli. Il sito era bello e
noi ci saremmo tanto volontieri rassegnati ad una sosta forzata fino
all’indomani; ma anche qui dovevamo vedere la potenza magica di un paio
di bestemmie in russo, sussidiata da qualche gesto ancora più eloquente
de’ nostri. Giunsero infatti le attese vetture, e con esse il capitano
Romanoff, il quale, sentito il nostro rapporto, si rivolse al mastro
di posta con quel grazioso piglio che il lettore può indovinare, ed i
cavalli spuntarono dal terreno come gli uomini di Cadmo. Convenne per
altro aspettare un’ora, spesa del resto in una refezione della quale
sentivamo bisogno. Alle 4-1/2 pomeridiane di quel giorno 17 maggio
eravamo in Tiflis, all’_Hôtel du Caucase_.




IV.

Valore d’un nome geografico. — Gli ultimi giorni della Georgia. —
Tiflis. — Le colonie tedesche: strana origine loro. — Le colonie
militari. — Le alte autorità nel Caucaso. — Consoli esteri. — Pranzi
d’etichetta. — La musica europea e la musica asiatica.


Il principe di Metternich ebbe a dire una volta che l’Italia era un
nome geografico, non riflettendo quel grande uomo di Stato quanto
acconsentisse sotto questa frase. Per non essere un nome geografico
la Georgia è appunto caduta. Gli scrittori hanno diversamente
considerata questa provincia dell’Asia; quando ristretta alla sola
parte superiore del bacino del Kur, quando invece estesa a tutte le
regioni al di là del Caucaso professanti il cristianesimo. I suoi
confini non sono mai stati in alcun modo precisamente stabiliti,
seguendo essi il vario successo delle armi, non già linee naturali
costanti e indelebili. Due linee di separazione di aque, e due mari,
avrebbero veramente potuto costituirla in unità geografica, ma non la
costituirono mai; chè diverse eterogenee famiglie, fissate nel grande
spazio compreso fra questi limiti naturali, hanno vissuto fra loro in
continua ostilità, senza che mai quella che ne occupava il centro, ed
era pur designata ad esser la predominante, abbia avuto la forza o di
respingere o di assimilar le altre. Così la Georgia non ebbe mai che
incerti confini politici, tracciati al più dalla linea irregolarissima
della separazione delle due religioni, la cristiana e la musulmana,
finchè poi non vennero le stazioni de’ Cosacchi a toglier di mezzo
ogni quistione, ed a formar un’altra linea senza alcun rispetto alle
precedenti. Dell’antica Georgia i Russi hanno fatto la moderna Grusia,
alla quale hanno aggiunte le provincie successivamente conquistate
sugli altri principi del Caucaso, e sulla Persia.

Prima che fosse tutta assorbita nel vasto impero russo, la Georgia
era composta dei seguenti Stati: la Guria, il cui principe aveva il
titolo di Guriel; la Mingrelia, altro principato il cui regnante ha
il titolo di Dadjan; l’Imerezia governata da un re, nella lingua del
paese chiamato _Mephe_; ed infine il regno della Karthli o Karthuli,
la Georgia propriamente detta, suddivisa nelle seguenti provincie:
la Karthli superiore, comprendente la parte più elevata del paese
solcata dal Kur; la Cachezia, verso oriente, tra il fiume e la catena
del Caucaso; la Karthli interna fra la Cachezia e l’Imerezia; la
Karthli inferiore, alla destra della bassa regione del Kur; ed infine,
al di sotto di questa, la Sfomchezia, estremo lembo settentrionale
dell’Armenia, sottomesso al governo de’ re georgiani. Devesi ancora
annoverare tra le provincie della Georgia, al nord della Mingrelia,
la Suanezia, o paese de’ Suani, la quale però ha finito per rendersi
in massima parte suddivisa in distretti indipendenti, governati da
principi proprj, perdendo la religione greca senza sostituzione di
alcun’altra, e lasciando un solo distretto sotto l’autorità del Dadjan
della Mingrelia, e sotto la tutela spirituale di un vescovo greco.

Le altre provincie caucasiche, in massima parte musulmane, non facenti
parte nè della Georgia nè della Russia, tra l’una e l’altra frapposte,
erano, procedendo da occidente ad oriente: la Circassia, l’Abcasia,
la Basiania, l’Ossezia, la Kistia o Kistezia, od anche Mizdsegia, il
Schirwan, ed il Daghestan o Lesghistan[9].

Sarebbe del tutto fuori di posto il ritessere qui la storia de’
progressi della Russia in questa regione del Caucaso. Ove non giovarono
le lusinghe valsero le armi. Alle provincie travagliate da guerre
intestine o dalle invasioni de’ Turchi e de’ Persiani, cominciò la
Russia a far assaporare il suo protettorato: a’ principi vanitosi ed
inetti, il fasto della sua corte, de’ suoi gradi militari, delle sue
decorazioni. La storia dolorosa degli ultimi re della Georgia non è che
la peripezia d’una lunga serie di vicende che ha desolato per secoli
quell’infelice paese. La città di Tiflis saliva a prosperità sotto il
regno di Eraclio II, della stirpe de’ Bagrationi, allorquando nel 1795
una poderosa armata, condotta da Aga Mohamed Khan, invase la Georgia.
Lo sventurato re, vinto dai Persiani in un combattimento disuguale,
dovette cercar rifugio, colla massima parte degli abitanti, nelle
alte valli del Caucaso, abandonando la sua residenza al furore del
nemico, il quale vi rimase il tempo necessario per metterla a sacco
ed a rovina. L’anno seguente i Georgiani incominciavano ad escire da’
loro rifugi, a riedificare i distrutti focolari. Una tregua riparatrice
seguiva le vittorie dell’armata russa, che sotto il comando del conte
di Luboff avea conquistato Derbend, il Chanato di Ghandscha, e battuti
i Persiani a Baku: ma fu breve tregua. Alla morte di Caterina II il
corpo del conte di Luboff venne richiamato, e di nuovo i confini
della Georgia furono aperti alla rabbiosa vendetta de’ Persiani.
Gli abitanti e lo stesso re correvano agli antichi rifugi, quando
per loro buona ventura Aga Mohamed fu assassinato da uno schiavo,
e così l’armata invaditrice scomposta. Il re Eraclio morì nel 1798;
gli successe il figlio col nome di Giorgio XIII; il quale, dopo aver
fatta stanza in Telaw, si portò a Tiflis, ove, non avendo più alcun
palazzo suo proprio, fu obligato a risiedere nella casa d’un privato.
Per sorreggersi fra i tumulti dello Stato, e le sanguinose rivalità
di membri della sua stessa famiglia, fu astretto a chiedere un corpo
ausiliario russo; ma come questo non poteva accorrere con prontezza
pari all’urgente bisogno, ebbe frattanto ricorso al mezzo disperato
di assoldare un esercito di 12,000 Lesghi. Questi piombarono sulla
Georgia come una nuova calamità; insultavano, derubavano crudelmente i
miseri abitanti, abbattevano perfino le case, al solo scopo di estrarne
il legno. Dopo undici mesi di una protezione di questo genere, venne
infine il sospirato ajuto della Russia. Il debole re Giorgio morì in
Tiflis il 28 dicembre 1800; ma inanzi la sua morte erasi già sottomesso
al suo potente vicino, giudicando questo essere il solo mezzo di
salute pel suo paese. Così ebbe termine il regno della Georgia, passato
definitivamente alla corona di Russia il successivo 1801[10].

In modo analogo caddero il regno di Imerezia, il principato della
Guria. Come un esempio vivente di questo processo politico che pose la
regione transcaucasica nelle mani della Russia, rimasero ancora due
larve di Stati: la Mingrelia e l’Abcasia, con una pallidissima larva
di indipendenza puramente nominale, ciascuno col suo principe vassallo,
cui non rimane più altra autorità fuori quella di spremere dai sudditi
qualche magra imposta per suo particolar benefizio. Gli altri principi
del Caucaso, i quali non hanno accettato questo vassallaggio umiliante
e per di più effimero, hanno dovuto luttare contro i grossi battaglioni
della Russia. È fresca ancora la sconfitta dell’eroico Sciamyl, e la
completa conquista del Daghestan. Ora le forze poderose del colosso
moscovita sono tutte rivolte al Caucaso occidentale, al paese montuoso
fra il Kuban ed il mar Nero, abitato da popolazioni circasse. Quella
stagione che ne’ grandi Stati europei è spesa in parate militari, in
battaglie simulate, è invece per la Russia, e lo sarà ancora per varj
anni, stagione di imprese sanguinose contro un nemico invisibile,
piccolo, ma pertinace di animo, e potente per difese naturali.

In pochi anni la Russia aggiunse così, all’oriente ed al mezzogiorno,
all’antico regno della Georgia, il Schirwan, il paese di Talysch,
il Karabagh, e fece della sua Grusia una provincia vasta quanto la
Prussia.

In quali condizioni Tiflis sia giunta nelle mani de’ Russi, è facile
imaginare. Per dieci anni la città rimase tutta ingombra di macerie,
miserandi ricordi delle devastazioni persiane; ma poi la fiducia
nel nuovo ordine di cose, pronta e intiera in gente scevra di ogni
sentimento di nazionalità, e solo memore delle passate sventure, gli
incoraggiamenti ed i privilegi accordati a’ riedificatori di case, il
concorso attivo del nuovo governo, la fecero risurgere dalle rovine.
Ora Tiflis è il centro vitale della Russia transcaucasica, ed una delle
più belle e più originali città dell’Asia occidentale.

Le case di stile georgiano con que’ grandi loggiati tutti all’ingiro,
quelle colonnette sottili che si alzano a sostegno della tettoja
leggera e dipinta, e nelle più eleganti, vi accompagnano anche ornati
e festoni di un gusto tutto proprio, rompono la monotonia dello stile
semplice, pesante se si vuole, ma grandioso degli edifici russi. Alla
varietà pittoresca ed affatto caratteristica di Tiflis contribuisce
pure il contrasto fra la parte nuova della città, che si estende lungo
il Kur, e s’erge alquanto sul pendio delle adiacenti colline, e quanto
è rimasto o fu soltanto restaurato della città vecchia, posta nel
centro, separata dalla prima dagli avanzi delle antiche fortificazioni.

Le contrade sono, nella città nuova, spaziose, regolari. La maggiore,
che è somigliante ad un _boulevard_, è quella appunto che si percorre
venendo da Kulais, ed è imponente pe’ belli fabricati di cui è adorna,
come il ginnasio, la gran guardia, il palazzo del governatore generale,
costrutto sulle rovine del palazzo degli antichi re, il caravanserai.
Questa contrada mette ad una bella piazza, nel mezzo alla quale surge
un grande edificio contenente nell’interno il teatro, e tutt’attorno il
nuovo bazar, in due piani, ciascuno con un ordine di botteghe interne
aprentisi verso uno spazioso corritojo che fa il giro dei quattro
lati. Le botteghe in questo bazar sono di negozianti armeni e russi.
V’è un altro bazar di stile orientale nella parte più bassa, presso
la città vecchia, occupato da negozianti georgiani e persiani. Lungo
la contrada principale, e sulla piazza del teatro, si trovano anche
botteghe di francesi e di tedeschi, ma specialmente de’ primi. Vi sono
de’ confettieri, de’ profumieri, de’ parrucchieri, de’ mercanti di
mode francesi, i cui magazzini sono bene forniti di ogni sorta di merci
europee, che si vendono al triplo de’ prezzi che siffatte merci hanno
ne’ luoghi di produzione. I trasporti invero sono assai costosi, le
tasse doganali assai forti: ma i negozianti europei convertono questi
danni in profitti, caricandone ad usura il prezzo della merce. Tutto a
Tiflis è orribilmente caro, molto più caro che sulle stesse rive della
Neva.

Il teatro è aperto gran parte dell’anno con opera italiana, e doppia
compagnia de’ principali artisti; ma perchè ciò sia, il governo lo
fornisce di una dotazione annuale di 40,000 rubli d’argento. Le chiese
sono del solito stile greco, piuttosto belle, ma nessuna eminente per
pregi particolari.

La popolazione ordinaria ha più che raddoppiato in pochi anni, ed
ora si calcola intorno ai 50,000 abitanti. Genti diverse, ciascuna
col suo particolare costume, danno vita alle contrade, alle piazze,
e sovratutto ai mercati. Presso che generale è l’ornamento delle
cartucciere sul petto, della cintura e del pugnale con ricchi
bottoni e piastre d’argento; ma poi si distingue il georgiano dal
grande _papach_ a foggia di turbante, il tartaro dal berettone di
pelo con forma conica, l’armeno dal volgare berretto europeo, dalla
sottoveste di seta o cotone montante fino al collo, e dal soprabito
con lunghe maniche fesse e pendenti. Poi vi sono i Lesghi, i Circassi,
gli Osseti, in minor numero e più avveniticci che parte della vera
popolazione stabile. V’hanno in Tiflis relativamente pochi Europei,
oltre i funzionarj del governo, ed i militari; ma Persiani in gran
numero, specialmente addetti alle costruzioni in muratura, nelle
quali sono abilissimi. Abbiamo sovente incontrato nel seguito del
nostro viaggio piccole schiere di Persiani migranti nella Grusia in
cerca di lavoro, seminudi, scalzi, ed il capo coperto da una calotta
liscia di feltro compatto. I meno miserabili che stanziano in Tiflis
per scopo di commercio, portano il solito berettone. Si calcola che
possano trovarsi annualmente nella Russia transcaucasica almeno 50,000
sudditi dello Schah. Come ognuno può arguire dalle cose dette, si
parlano in Tiflis diversi idiomi, e predominanti naturalmente sono il
georgiano, l’armeno, il tartaro. Quest’ultimo, che è una modificazione
del turco, è pure la lingua convenzionale della piazza, e quella che
serve al commune intendersi fra di loro di genti tanto diverse, press’a
poco come l’italiano ne’ porti del Levante. La lingua russa però,
lentamente, per la sola forza delle cose, senza alcuna particolare
coazione del governo, è in cammino per sovrapporsi a tutte, e già
è diventata la lingua ordinaria nel conteggio, nelle misure, in
alcune trattative dello stesso piccolo commercio; così che le lingue
caucasiche andranno col tempo circoscritte, come il basco odierno, in
chiusi distretti, materia di ricerca agli eruditi futuri.

La nobiltà indigena è strabocchevolmente numerosa, in generale povera,
altiera, tenace della sua lingua e de’ suoi costumi, non curante
de’ beni di superiore civiltà. Pare che il governo russo, dal canto
suo, non si curi di trasformarla, solo concedendo facilmente quei
vani onori de’ quali essa è tanto sodisfatta da non chieder di più.
I principi sono a battaglioni. Nel solo distretto di Gori, Eichwald
asserisce esservene da circa 1500, il che vuol dire più assai che nella
Russia Europea e nella Germania prese insieme. Nessuna maraviglia: ci
avviciniamo alla Persia, ove la sola discendenza di Feth Alì Schah si
calcola di 3,000 principi del sangue.

I soldati non hanno un particolare uniforme che li distingua da quelli
della Russia europea; soltanto gli ufficiali dell’armata del Caucaso si
riconoscono dal portar la sciabola ad armacollo, sospesa ad uno stretto
ma robusto nastro dorato, piuttosto che pendente dalla cintura. Tutti
in estate mettono al largo berretto una sopracoperta bianca.

Il Kur divide Tiflis in due parti: alla sua destra è la città,
suddivisa, come abbiamo detto, in nuova ed antica; alla sinistra stanno
i sobborghi, uno de’ quali, che s’erge fin sopra il colle dicontro alla
città vecchia, è l’_Awlabar_; l’altro, che si protende verso oriente, è
il _sobborgo delle sabbie_. Vi sono due posizioni dalle quali la vista
di Tiflis è veramente magica; l’una è dagli alti colli che sovrastano
alla città nuova, dai quali lo sguardo spazia in tutta la valle;
l’altra è dal ponte Woronzoff che unisce la città nuova col sobborgo
delle sabbie. Il Kur ivi è largo; le sue sponde sono popolate da belle
case, ai lati e di prospetto estendentisi sulle alture delle due catene
di colli, che si ravvicinano per lasciare al fiume uno stretto passo,
una chiusa. Al di là di questa chiusa Tiflis si estende ancora in due
lunghe braccia seguenti le due sponde del Kur secondo gli accidenti del
pendio, finchè poi si decompongono in giardini, ville e poderetti.

Oltrepassato il ponte Woronzoff, e piegando a sinistra, nella
continuazione del sobborgo, la strada mette ad un ampio viale
fiancheggiato da filari di alberi, e più indentro da abitazioni,
tagliato perpendicolarmente da altre strade che servono di sfogo a
nuovi quartieri in costruzione. Questa parte del sobborgo è detta la
vecchia colonia tedesca, perchè infatti abitata in massima parte dalle
prime famiglie tedesche venute, come dirò fra poco, a stabilirsi nel
Caucaso. Lungo questa via si incontrano sulla sinistra alcuni publici
stabilimenti, come le scuole di ginnastica ed il grandioso osservatorio
meteorologico; e si giunge infine al giardino publico, luogo di
convegno, per verità alquanto troppo remoto, rallegrato in determinati
giorni della settimana dalla musica militare.

Questo sarebbe veramente l’estremo lembo orientale della città; ma
io devo condurre il mio lettore alquanto più lungi, nella stessa
direzione, alla nuova colonia tedesca detta anche _nuova Tiflis_.
Essa è veramente segregata dalla città, ed ha tutto l’aspetto d’un
villaggio improvisato. Un altro spazioso viale perpendicolare al fiume,
e per conseguenza anche alla strada che mena alla colonia stessa, dà
accesso alle case allineate regolarmente a destra ed a sinistra, di
stile semplice, modesto, uniforme, separate da cortili o da giardini.
Nell’ordine monotono di queste abitazioni, ma sempre collo stesso
carattere, si distinguono la chiesa e la scuola.

Intrattenutomi a colloquio con alcuni di questi coloni, fin dalle
prime risposte, alla particolare pronuncia mi parvero Svevi; e tali
infatti si dissero quando furono interrogati sulla loro provenienza;
però una famiglia, presso la quale io ed alcuni miei compagni ci
eravamo recati a cercar del latte, era di origine bavarese. Questi
coloni sono da lungo tempo stabiliti presso Tiflis, così che alcuni,
i quali denotavano all’aspetto di essere piuttosto al di là che al di
qua dei trent’anni, vi erano nati. Tutti però conservano religiosamente
lingua e costumi; tanto che il russo parlano assai poco, e solo quanto
possa occorrere a’ più necessarj rapporti sociali. I nitidi utensili,
la agiata semplicità, la pulitezza generale nell’interno delle case,
gli attrezzi rurali e le raccolte provigioni nel cortile o nell’orto,
sono altri evidenti segni esterni dell’origine europea in genere, ed
alemanna in ispecie. A ciò aggiungi il tratto riguardoso, ma urbano;
una certa aria di onestà e bonomia che traspare dalla persona, e si
traduce nelle opere. Alla famiglia che ci aveva somministrato del
latte, e ricoverati per alquanto riposo, non potemmo far accettare la
tenue mercede di un rublo: nella gara de’ rifiuti dovemmo cedere noi,
riprendendo quanto oltrepassava il valore del latte che era di pochi
_kopeki._ L’ignavia de’ Georgiani contribuisce non poco alla prosperità
attuale di queste colonie: sono esse che, oltre ai maggiori produtti
agriculi, provvedono di verdure e di frutta il mercato di Tiflis,
attendono alla fabricazione del vino e della birra, ed alcuni coloni,
abili e industriosi artigiani, profittano del prezzo elevatissimo con
cui vi è rimeritata la mano d’opera.

La storia della fondazione delle colonie tedesche del Caucaso è
talmente strana, che, per quanto possa sembrare fuori del proposito,
merita di essere più conosciuta; ed io la riassumerò in poche
parole[11].

La sollevazione generale del popolo tedesco contro il primo Napoleone,
la guerra combattuta con tanto furore, e coronata infine colla
indipendenza della Germania, aveano avuto il suo naturale ineluttabile
seguito, la miseria, aggravata ancora dalla scarsità de’ ricolti.
Questa calamità generale a tutta Europa colpì specialmente alcune
provincie tedesche. Schiere di mendicanti affamati percorrevano il
Würtemberg; e la desolazione vi giunse a tal punto, che gli spiriti,
esaltati dalla superstizione, credettero giunta ormai la fine del
mondo. Il governo dal canto suo non avea voluto indugiare l’attuazione
di quelle riforme che i tempi rinnovati più urgentemente chiedevano, e
comprese tra queste la riforma del catechismo: ma il basso popolo che
teneva alle vecchie regole della confessione di Augusta, eccitato da
alcuni fanatici, considerò il nuovo lavoro religioso come un flutto
dell’incredulità filosofica, e vi si oppose. Apparvero allora alcuni
scritti ad accrescere l’incendio della reazione superstiziosa, e
primo tra questi l’_Heimweh_ di Stilling, predicante un’emigrazione a
Gerusalemme, ove doveva aver principio _il regno millenario._

Già alcune colonie tedesche, e specialmente sveve, si erano stabilite,
sotto Caterina II, ne’ dintorni di Odessa, e queste naturalmente si
tenevano in communicazione colla madre patria. L’imperatore Alessandro,
il quale voleva seguire il pensiero della sua grande ava, di popolare
di laboriosi alemanni le deserte steppe del suo vasto impero, volle
trar profitto della miseranda sorte de’ contadini del Würtemberg, e
si valse a tal uopo d’una signora di Pietroburgo, della signora di
Krüdener, la quale si portò tra i fanatizzati suoi correligionarj,
disse loro che la vera strada per Gerusalemme era attraverso la Russia,
facendo perfino credere che lo stesso potente imperatore sarebbesi ad
essi congiunto. Si formò allora una prima associazione di emigranti, la
quale, favorita dall’ambasciata russa di Stuttgart, e dalla concessione
del governo del Würtemberg, lieto di liberarsi di uno stuolo di
indomiti malcontenti, si pose in cammino nel settembre dell’anno 1816;
e, per la via di Vienna, Buda e Galatz, si ricongiunse ai compatrioti
già stabiliti nelle vicinanze di Odessa. I nuovi ospiti ebbero cordiale
accoglienza, ma non soddisfatti della chiesa locale, tenevano separate
adunanze religiose, e turbavano la pace della colonia. Verso la metà
del susseguente anno venne un ordine che fissava Tiflis per sede di
quella nuova emigrazione.

L’allontanamento di questa schiera di separatisti non ristabilì la pace
religiosa nel Würtemberg e nel vicino stato di Baden; crebbe anzi,
per nuovi fanatici promotori, il numero de’ dissidenti dalla chiesa
dominante, e col titolo di _armonie_, si costituirono altre numerose
adunanze di pietisti che domandavano ad alte grida di lasciare quella
che essi dicevano la terra di Babele, per recarsi in terra santa.
L’_Heimweh_ di Stilling leggevasi più avidamente della stessa Bibbia;
e chi non credeva ciecamente nel promesso _regno millenario_, era
condannato come un reprobo. Due fratelli, di nome Koch, si fecero capi
di questa nuova emigrazione di _veri credenti_. A ventiquattro anziani
venne affidata la cura delle anime, la amministrazione de’ sacramenti;
i ricchi diedero una parte del loro avere ai poveri; ed in breve una
schiera di 130 famiglie mosse per l’Oriente, noleggiando a tal uopo
quattro battelli sul Danubio. Ma il fanatismo pel _regno millenario_
erasi diffuso come un vasto incendio; poco dopo altre otto società di
emigranti od _armonie_, formanti nel complesso 1400 famiglie, seguirono
la medesima strada, verso la medesima sospirata meta. Dire le traversie
e le disillusioni giornaliere di tanta gente in così lungo e penoso
viaggio, non potrebbesi in poche parole. Speravano trovare in Odessa,
presso le autorità ed i compatrioti, un rimedio ed un compenso a tanti
mali, ma astretti ad una lunga quarantena in Ismail, gli stenti, le
privazioni, ed un tifo orrendo vi portarono tale strage, che nel lasso
di 24 giorni 1200 infelici perirono. I superstiti giunsero in Odessa
affranti di corpo e di spirito, e là furono di nuovo ripartiti fra le
vecchie colonie tedesche; e là pure nuove scissure religiose. Invano
il governatore, generale Jelzoff, tentò persuaderli a fissarsi in
quella provincia: pochi furono quelli che seguirono i suoi consigli.
Cinquecento famiglie, malgrado il disfavore della stagione, le
contrarietà d’ogni maniera in un viaggio lungo fra contrade inospitali,
vollero passare il Caucaso; e fra stenti grandissimi e grandissimi
sforzi e potenti sussidj del governo russo, giunsero nel tardo autunno
in Tiflis.

La prima schiera di emigranti aveva fondata la colonia di Marienfeld;
queste ultime 500 famiglie vennero ripartite a costituire sette nuove
colonie; la nuova Tiflis, Alexandersdorf, Petersdorf, Elisabeththal,
Katharinenfeld, Armenfeld, ne’ dintorni di Tiflis, e più lungi,
nell’antico _Chanato_ di Gandscha, Helenendorf. Se un cieco fanatismo
superstizioso non avesse sconvolto il senno di questi disgraziati,
nessuna compagnia di coloni avrebbe trovato più efficaci ed immediati
provedimenti, maggiore guarentigia per l’avvenire. Ogni famiglia ebbe,
come fondo di primo stabilimento, 100 _rubli_ (argento); ogni persona
un sussidio giornaliero di 10 _kopeki_ per tre anni; esenzione da’
tributi per 15 anni, e solo scorso questo termine, imposto il modico
tributo di 15 _kopeki_ per ogni _dessatina_ di terreno[12].

Venne l’invasione persiana di Abbas Mirza, venne la mortifera epidemia
che poi ha desolato la stessa Europa, ma non furono tanto calamitose
per le giovani colonie tedesche, quanto il crescente tumulto religioso.
La società delle missioni protestanti di Basilea aveva ottenuto di
fondare una casa in Schuschka. Per quanto i dissidenti svevi tenessero
al proprio culto, riescì ad un pastore svizzero, di nome Saltet, di
farsi loro accetto, di prendere sovra di essi una specie di supremazia;
ma Saltet morì dell’epidemia, ed il governo russo, contro le sue
promesse, volle intromettersi negli affari religiosi delle colonie
tedesche affidandone la cura spirituale alla missione di Schuschka,
preponendo ad ogni colonia non un _fratello_, ma un pastore, infino
a che reputò venuto il momento di sottomettere tutti i protestanti
del Caucaso al supremo concistoro di Pietroburgo. L’effetto immediato
di questa misura fu un’esacerbazione del separatismo; i coloni
abbandonarono le loro chiese, per darsi alla segreta entusiastica
lettura del libro di Stilling: non più battesimi, non più nozze, ma
connubbi disonesti, e perfino communanza di donne; e, con sì profondo
pervertimento, il singolare contrasto dell’aspirazione verso la terra
santa, salita al grado del furore.

D’improvviso apparve fra quelle colonie, come inviata dal cielo,
una vecchia di sessantaquattro anni, di nome Spohn. Respinta da
Katharinenfeld, ov’era ancora qualche cervello sano, si portò nella
colonia di Marienfeld, ove le donne pietiste avevano il sopravento,
ed ivi, in convegni notturni, colla parola infuocata, predicando il
_regno millenario_, fu da tutti riconosciuta come profetessa, e con
tale riputazione, già diffusa all’intorno, ritornò a Katharinenfeld,
ove questa volta fu ricevuta in trionfo. Gli sforzi del governo russo
per dominare questa nuova irruzione di delirio superstizioso, le
esortazioni, le concessioni simulate, lo specchio de’ pericoli di un
viaggio a Gerusalemme fra le orde rapaci dei Curdi, a nulla valsero. La
Sphon si proclamava la fidanzata di Gesù, e presentava due giovanetti
quali paraninfi alle sue celesti nozze. Atteggiata ad estasi sovrumana
annunciava che un giorno il Messia sarebbe disceso a prendersi la
sua sposa, e seco portarla al talamo nuziale; che invero questo non
sarebbe stato spettacolo concesso ad occhio mortale, ma che i credenti
avrebbero sentito nelle pure regioni dell’aria il coro celeste degli
angeli. Ciò accadeva nel 1843! Salita al colmo l’impazienza di que’
deliranti, al grido di _Gerusalemme o la morte_, convennero fra loro
che se la terza festa della Pentecoste non fosse giunta la concessione
imperiale per emigrare alla terra santa, sarebbero in ogni modo
partiti. L’acciecamento andò al punto che molti, persuasi di non aver
più bisogno d’alcuna cosa mondana, fecero donazione di ogni loro avere
a connazionali, od anche a Georgiani, ad Armeni, a Tartari.

Un ufficiale del governo, Kotzebue, figlio del celebre poeta, ebbe
incarico di ricondurre quegli smarriti alla ragione; ma ogni sua
cautela, ogni sua premura riescirono a vuoto. Venne il giorno fatale:
Kotzebue fece un’ultima prova, e finì col minacciare in caso di
renitenza l’uso della forza. La profetessa, adorno il capo della corona
nuziale, ed i suoi due giovanetti a lato, presentossi alla turba,
che giubilando si pose al suo seguito. Kotzebue, tentata un’estrema
volta la via della persuasione, ed ancora invano, fece inoltrare i
suoi Cosacchi, e loro comandò di impadronirsi di quella energumena; ma
questa, più che mai delirante, impose loro di arrestarsi; minacciando
vendetta celeste terribile e pronta a chi osasse toccare la sposa di
Gesù. La turba immobile e taciturna aspettava i cherubini dalla spada
infuocata difensori in tale estremo cimento, ma il solenne silenzio
non fece che più distinta la parola del comando e la cadenza del
passo dei soldati. La Spohn fu circondata e presa; a tale atto i suoi
seguaci si prostrarono ginocchioni colla faccia a terra, come tementi
di riguardare ciò che sopra di loro accadesse; ma poscia, l’uno dopo
l’altro alzando il capo, e vista la natura tranquilla, e realmente
avvenuto ciò che alcuni minuti prima credevasi impossibile sacrilegio,
alzò poi anche l’intiera persona, e tutti, come rinvenuti da un sogno,
si lasciarono infine persuadere di tornare alle loro case.

Così ebbe fine, nè doveva altrimenti, questo mostruoso portato
dell’ignoranza e della superstizione. Le menti di que’ poveri
illusi rinsanirono; le forze attive di tanta gente onesta nel fondo,
laboriosa, intelligente per istinto, si riconcentrarono al lavoro
della terra; le colonie prosperarono. Ed a queste colonie formatesi
per la strana causa, e la più strana serie di vicende che ho narrata,
altre posteriormente si aggiunsero al di qua è al di là del Caucaso.
Attualmente la razza tedesca pura entra per una quantità ragguardevole
nel computo della popolazione tanto varia e screziata della Russia
meridionale. La famiglia, il campo, l’officina, la chiesa, fanno per
questi coloni il mondo intiero. Della madre patria non sanno più nulla
o non si curano, o loro basta la coscienza di avervi lasciato ideologi
in esuberanza, per fare anche la loro parte nelle eterne discussioni
del potere centrale, della bandiera, della flotta, degli antemurali del
territorio germanico. Non vi è popolo più del tedesco accomodabile ad
ogni posizione geografica, più desideroso e pago di vita patriarcale,
più colonizzatore.

Assai più numerose e sparse per le provincie caucasiche, e tutt’ora
moltiplicantisi, come il solo mezzo per assicurare le nuove conquiste,
sono le colonie militari, tra le quali è distribuita la massima parte
dell’armata del Caucaso. In queste colonie il soldato, pronto sempre ad
ogni appello, vive tranquillamente colla sua famiglia, e rivolge alla
coltivazione de’ campi, od all’esercizio di qualche arte manovale, il
tempo, sovente assai lungo, che gli rimane libero dal servizio, e così
ritrae dal lavoro delle sue mani, piuttosto che dall’insufficientissimo
salario, di che onestamente campare la vita. Famiglie di soldati
ammogliati sono anche disseminate nelle città e ne’ villaggi, fuori
delle colonie militari propriamente dette. Ogni domenica si tiene in
Tiflis un mercato particolare, ove questi soldati artieri portano le
loro manifatture, consistenti sovratutto in tela, panni grossolani,
scarpe, mobili, armi, che vendono a prezzi proporzionatamente bassi.
Siffatta istituzione che tanto bene si accorda colla natura del paese
e colla relativamente scarsa popolazione indigena, permette al governo
russo di mantenere nel Caucaso con poco dispendio una poderosa armata
pronta ad ogni evento; ma la sua origine non è dovuta soltanto ad un
piano provvidamente premeditato; vi ebbe parte eziandio la necessità
di troncare una causa di diserzioni e di apostasie. Anche sotto la
scorza del soldato, indurita dalla ferula della disciplina, si rimuove
un verme roditore che infragilisce la tempra umana. Ne’ primordj
del dominio russo nella Grusia, e dell’invasione del Daghestan, que’
poveri soldati che da varj anni subivano tutte le privazioni della dura
vita del campo, si trovavano esposti ad un nuovo tranello di guerra,
che abilmente adoperavano contro di essi emissarj persiani; e molti
passavano corpo ed anima al nemico, sedotti dal promesso immediato
guiderdone d’un pajo di mogli. Fu allora che il generale Jermoloff
propose ed ottenne sanzionato il solo espediente efficace suggerito
dal male istesso che si trattava d’ovviare; che fossero spediti cioè
quanto più potevansi nel Caucaso soldati ammogliati insieme alle loro
famiglie. La opportunità di questa misura non tardò a farsi conoscere
negli effetti: le diserzioni diminuirono rapidamente, e finirono per
cessare del tutto.

I soldati ammogliati formano uno de’ cinque battaglioni onde si
compongono i reggimenti di fanteria nel Caucaso, e del pari il corpo
detto de’ Cosacchi della linea, per distinguerlo dai Cosacchi del
Don mandati in distaccamento fino agli estremi confini della Russia
transcaucasica.

Le così dette _stanizze_ sono villaggi improvisati nel terreno che la
Russia va mano mano conquistando attorno al Caucaso, nella continua
guerra alle popolazioni circasse non ancora sottomesse. Il militare
attende alla prima loro fondazione; compie le opere di difesa, i suoi
proprj stabilimenti, e vi pone a guardia una o due compagnie. Poscia
vengono trasportate nel nuovo villaggio famiglie di coloni russi,
al cui sostentamento provvede per tre anni il governo; trascorso
il qual termine, la colonia potendo già vivere coi frutti de’ campi
circostanti, viene emancipata. Il governo russo stringe così i Circassi
col sistema delle _stanizze_, trasportando in pari tempo nell’interno
del vasto impero le famiglie indigene del terreno occupato[13].

Non dirò nulla della società georgiana che non ebbi occasione di
conoscere. Ne’ sedici giorni forzatamente passati in Tiflis pel
ritardo de’ nostri bagagli, dovuto alla mala fede dello speditore
di Marani, ebbimo a fare e ricevere molte visite delle primarie
autorità. Gli alti funzionarj sono, anche in questa segregata parte
dell’impero russo, ben diversi del concetto che se ne fa ciecamente
nell’Europa occidentale; sono in generale poliglotti, assai culti,
e sommamente cortesi nel tratto. Molti appartengono all’importazione
tedesca incominciata fino da Pietro il grande. Il principe Bariatinski,
luogotenente generale dell’imperatore nel Caucaso, con autorità piena
ed assoluta, trovavasi da alcuni mesi in Europa. La sua assenza era
generalmente lamentata non solo da Russi o Georgiani, presso i quali il
principe gode di una immensa popolarità, ma anche dagli altri Europei
e specialmente negozianti, privati de’ frutti della sua splendidezza.
La suprema autorità era provisoriamente affidata al principe Orbeliani,
di stirpe georgiana, devotissimo alla Russia; ma l’amministrazione
effettiva del paese dipendeva quasi esclusivamente da due governatori:
l’uno militare, il generale Minchwitz; l’altro civile, il signor di
Krusenstern, di origine svedese.

Non esistono in Tiflis che tre rappresentanze di Stati esteri; vale
a dire un consolato persiano, uno turco ed un consolato francese.
Quest’ultimo vi era già stabilito sotto il dominio dei re georgiani, ed
assai anticamente, cioè dal regno di Luigi XIV di Francia. La Russia
non vi ammetterebbe ora la fondazione di nuovi consolati, de’ quali
d’altronde non vede la necessità in interessi europei da tutelare; e su
questo punto ha risposto con una recisa negativa alle sollecitazioni
del governo inglese, troppo gelosa contro questa ingerenza estranea,
e sospettosa di questi occhi continuamente aperti sovra ogni sua mossa
nell’Asia. Console di Francia è il barone Finot, nobilissimo carattere,
cuore largo e schietto. Non ci volle più dell’istante della semplice
presentazione per fare di lui un vero e caldo amico di noi tutti.
Dobbiamo particolarmente alle sue instancabili cure se il soggiorno di
Tiflis, prolungato oltre ogni previsione, riescì tanto aggradevole da
far tacere la naturale nostra impazienza di continuare il viaggio.

L’invito alla mensa, che è la forma patriarcale dell’ospitalità,
è divenuto anche, degenerando nella serie de’ secoli, la forma
diplomatica. Non parlerò qui degli amichevoli simposj dal barone Finot,
ove la cordialità viva e schietta sopprimeva l’etichetta diplomatica:
dirò invece che la missione italiana intervenne a due pranzi solenni
dati in suo onore l’uno dal principe Orbeliani, l’altro dal console
di Persia. Il primo, col pretesto di una indisposizione, ma in realtà
per essere ignaro affatto di lingue europee, si fece rappresentare dal
generale di Minchwitz, governatore militare delle provincie caucasiche.
Il pranzo fu dato in una villa privata del suburbio, appartenente ad
un vecchio armeno di 92 anni, che intervenne alle ultime libazioni,
e volle farci capire come fosse lieto dell’onore toccato alla sua
casa. Secondo il costume russo, sovra due tavolini collocati presso
la tavola principale, erano imbanditi prosciutto, sardine, aringhe,
caviar, formaggi, ed altri manicaretti stuzzicanti il gusto, con vini
di Spagna e di Sicilia, e liquori spiritosi; ed i commensali, stando
in piedi, pigliavano alla rinfusa qua e là quanto loro aggradiva. È
questa la così detta _zakuska_, preludio al vero desinare, del quale
fortunatamente ho detto tutto, quando ho detto che era composto secondo
le prescrizioni della sola unica ammissibile, inappuntabile, vera,
universale, cucina diplomatica, che è la francese. Anche da Mirza Abdul
Rahim-Khan, console di Persia, tutto era europeo: l’ammobigliamento
elegante della casa, la maniera del ricevimento, il sontuoso pranzo;
per il che dovrò attender altra occasione per dare qualche cenno della
cucina persiana discretamente singolare.

All’una ed all’altra cerimonia due affatto diversi ed eterogenei corpi
di musica accompagnavano alternativamente il sussurro delle intrecciate
ciancie, «_e ’l vario acciottolio delle scodella_». Dal principe
Orbeliani la banda dello stato maggiore dell’armata ci faceva gustare
bellissimi pezzi del repertorio italiano, eseguiti con precisione
alemanna. Fra l’uno e l’altro, cessato il risonante concerto delle
trombe e dei clarini, ed il rimbombo della gran cassa, sorgeva, come
da un angolo remoto, una voce sottile, stridula, accompagnata da un
misto di cicala e di oboe stuonato, e da ritocchi di tamburrini. Era
un saggio di musica giorgiana della più scelta, monotona, disarmonica,
solo di quando in quando producente qualche effetto per certi
_crescendo_ selvaggi, vibranti in modo caratteristico. L’orchestra
era composta di due pifferi; di una specie di violino panciuto, a tre
corde, tenuto verticalmente; di due tamburrini, e di due timpani; il
cantante era persiano. Terminato il pranzo, gli artisti giorgiani
salirono a raccogliere le nostre felicitazioni, ed a vuotar grandi
tazze di vino; ognuno di noi poscia dovette subire il particolare
saluto di quello che sembrava il musicante capo, ricevere da lui tre
baciozzi in volto, ed il vino d’onore, vuotando d’un fiato una gran
mestola d’argento, che subito dopo i baci venivaci posta forzatamente
alla bocca. Poi venne il turno della danza giorgiana. Gli attori erano
due individui di sesso maschile, che presero posizione nel mezzo della
sala, e piegato all’infuori le ginocchia, protese spasmodicamente le
braccia, il muso in alto e gli occhi stralunati, si misero a girare
sul proprio asse, accompagnando in cadenza la musica collo scalpito
dei piedi. Nessuno ci dirà indiscreti se non abbiamo trovata la cosa di
gusto molto fino.

Altra simile vicenda di musica europea e di musica esotica al pranzo
del console di Persia. Tra le sinfonie del _Guglielmo Tell_, della
_Semiramide_, della _Muta de’ Portici_, magistralmente eseguite
dal’orchestra del teatro, erano intercalate le cantilene monotone
e convulse della musica persiana, col solito ronzio del violino e
del piffero, colle solite botte frementi dei tamburini. Il cantante
era, come si direbbe fra noi, di alto cartello, niente meno che un
cantante di camera dello Schah: ma che ceffo: che musica! La sua voce,
sommessa e più nasale che gutturale sul principio della cantilena,
andava a poco a poco crescendo di forza, ed anche quanto più era
possibile di acutezza; ed allora la bocca mantenevasi spalancata fin
presso il punto di lussazione della mandibola, mentre le vene del
collo facevansi oltremodo gonfie, e tutta la persona era agitata da un
tremito convulsivo, col braccio sinistro posto di traverso davanti alla
faccia, come per ripercuotersi alle proprie orecchie la voce divenuta
tutta gutturale, concitata e rauca. E del resto nessuna traccia di
una melodia qualunque; non il benchè menomo accordo del canto cogli
istrumenti e di questi fra di loro; nessun ritmo, fuorchè nella
cadenza dei tamburini. A questo saggio di musica persiana ho trovato
perfettamente consoni tutti gli altri che nel seguito del viaggio
ho potuto sentire, e perfino le cantilene dei _ferrasch_. La musica
polifonica, l’armonia, non passano il Caucaso; non entrano affatto nel
gusto estetico di queste popolazioni: starei per dire che sono per esse
una vera impossibilità fisiologica. Nè colla miglior volontà del mondo
si può scoprire una melodia qualunque in quella lunga strisciatura di
inflessioni a gruppetti e rabeschi indefinibili. La scala musicale non
ha simboli per fissarla, come non ne ha pel canto degli uccelli.

Per rispetto al senso estetico musicale non v’è transizione tra
l’Europa e l’Asia, come ve n’ha, per esempio, fra i costumi. Quale
differenza enorme fra le canzoni popolari della Russia, le stesse
cantilene de’ Cosacchi, e le nenie monotone e stuonate de’ Georgiani e
de’ Persiani! Una linea, una semplice linea separa due affatto diverse
nature, l’una dotata, l’altra priva di istinto musicale; due regioni,
l’una che ha la musica scritta, l’altra che non l’ha e non la può
avere. È un gran fatto che non deve sfuggire alle meditazioni degli
etnografi. Pel caso possibile che, seguendo la strada battuta ora con
tanta franchezza, essi arrivino un giorno ad ammettere la necessità di
due Adami distinti, l’uno al di là, l’altro al di qua di questa linea,
io mi affretto a prender qui un brevetto d’invenzione d’un pensiero
cotanto peregrino.




V.

Il governo russo nel Caucaso. — La scienza in Tiflis. — La produttività
agricola della Georgia. — Il vino di Cachezia. — La produzione serica.
— La pastorizia. — Il monte Solalaki. — Escursioni geologiche e
zoologiche presso Tiflis.


Cosa voglia fare il governo russo delle sue provincie transcaucasiche
non è chiaro neppure a lui stesso. Protendere un secondo braccio
nell’Asia è già uno scopo che per sè solo compensa grandi sacrificj; e
poichè la gelosa Europa si accontenta del lasciare il colosso moscovita
alle prese colla sua propria conquista, e vede senza commoversi le
steppe unirsi alle steppe, il sistema della lenta assimilazione ha i
suoi grandi vantaggi. Verso le estreme diramazioni de’ suoi immensi
dominj, la Russia spinge chiese, stazioni di Cosacchi, strade e
_droscky_, ed attende che il resto venga da sè. Il suo giogo non pesa
alle popolazioni transcaucasiche, lasciate vivere ciascuna co’ proprj
usi. Prive di una tradizione storica continuata, non hanno idea di
nazionalità, come il cieco nato non ha idea de’ colori: disseminati in
un territorio immenso, ove non sono vene aurifere, ove non allignano il
cotone, l’indaco, il tè, sono lasciati in riposo dalle compagnie degli
speculatori d’Occidente. La Russia, che vede benissimo come da questa
parte abbia tempo a discrezione, vi fa grande risparmio di forza viva.

Base del governo russo nelle provincie transcaucasiche è la tolleranza,
e prima la religiosa; ma intendiamoci bene: una tolleranza alla russa.
Gli Ebrei non vi soffrono le vessazioni alle quali vanno soggetti
ne’ dominj europei dello czar, e se il loro numero in queste parti
dell’Asia non è maggiore, ciò è solo dovuto alla popolazione armena,
formidabile concorrente in tutte le finezze del commercio. I Musulmani
possono con tutta libertà far le loro preghiere, frequentar le moschee,
piangere il loro profeta, seguirne i precetti, alla sola condizione di
non trattare i cristiani come esseri immondi. A Baku l’antico tempio
ghebro è ancora aperto al culto del fuoco, ed è mantenuto nel possesso
di alcune terre adjacenti. Le tribù nomadi de’ Jesidi, adoratori del
genio del male, sono libere di piantar le loro tende, e pascere i
loro magri armenti nelle deserte valli dell’Armenia. In queste sue
provincie del Caucaso la Russia relega, come abbiamo veduto, la setta
degli Scapsi, e quella più numerosa dei Malacani che sono i protestanti
in faccia alla chiesa ortodossa, suddivisi ancora in sette di secondo
ordine.

Ognuno adunque è liberissimo di professare in queste provincie il
culto de’ suoi avi, ma poi, se vuol cambiar fede non è più libero della
scelta. Nessun musulmano può ricevere il battesimo da altre mani che
da quelle di un popo greco. Finchè i protestanti di Basilea potevano
servire a tener in freno i separatisti svevi, furono lasciati in pace,
ma sedate le turbolenze delle colonie tedesche, un ordine del governo
disperse la missione di Schuschka. Pochi sacerdoti cattolici a Kutais
ed a Tiflis tutelano la coscienza di qualche migliaja di cattolici
armeni; ma ove osassero versare l’aqua battesimale sul capo di un
miscredente, la Siberia è là pronta per ingojarli.

Le popolazioni transcaucasiche sono esenti dal reclutamento militare,
ben inteso finchè non piaccia ad un _ukase_ imperiale di altrimenti
disporre: devono però somministrare contingenti di milizie a cavallo
pel servizio interno del paese. Pagano imposte che si possono dire
gravose, per rispetto alla fortuna dei contribuenti, ma che sono
un nulla al confronto delle spogliazioni alle quali per lo addietro
andavano soggette. La sicurezza publica, nella maggior estensione del
paese, e particolarmente presso le città, è sufficientemente tutelata:
la Russia ha mezzi per ciò; se non che la potenza di questi mezzi scema
grandemente agli estremi confini verso la Persia e la Turchia, e nel
Daghestan, presso i covi degli ardimentosi e rapaci Lesghi.

Dell’istruzione popolare il governo russo non si dà quasi alcun
pensiero; ma bisogna esser giusti: non è questo un trattamento
particolare che faccia parte integrante di un piano amministrativo
delle provincie asiatiche: le provincie europee del mezzogiorno sono
poste sul medesimo piede. Generalmente quando giunge una lettera in
un villaggio, resta a sciogliersi la difficoltà di trovare chi la
sappia leggere. La mancanza di scuole elementari è una grave piaga
che le stesse autorità deplorano apertamente. Ho sentito parlare di
tentativi falliti, di scuole fittizie improvisate sul passaggio dello
czar, come i giardini ed i castelli sulla strada percorsa da Caterina
II nella piccola Russia. Nel viaggio che Parrot intraprese all’Ararat
nel 1829, gli fu dato per compagno ed interprete un giovane diacono di
Etschmiadzin, di nome Abovian, il solo che parlasse il russo di quel
dotto seminario. Abovian conversando familiarmente col professore di
Dorpat, fu presto invaso da ardente desiderio di coltura europea, e
tanto fece, che dal governo ottenne i mezzi per recarsi alla medesima
università ove Parrot professava. Vi rimase sei anni, acquistò
profonda conoscenza del tedesco, solida istruzione in varie discipline
letterarie e scientifiche, e con tale corredo ritornato alla sua nativa
Armenia, chiese invano di poter dividere i benefizj dell’educazione
ricevuta fra’ suoi più stretti compaesani. Respinto perfino dal
seminario di Etschmiadzin come contaminato dalle false dottrine
d’Europa, ebbe rifugio in Tiflis, ove fondò un privato istituto per la
educazione dei giovani armeni.

Esiste in Tiflis, come di passaggio ho accennato, un ginnasio. Ivi sul
georgiano, sull’armeno, sul tartaro s’innestano il latino, il russo, il
tedesco ed il francese, e vengono pure insegnati agli alunni i primi
rudimenti delle scienze fisiche. Direi che è il principale istituto
d’istruzione della Grusia, ove non fosse il solo. Appena merita di
essere mentovato un germe abortito di un museo locale, consistente in
un camerotto con quattro piccoli armadj, entro i quali si conservano
pochi campioni di roccie, una dozzina di rettili mummificati ne’ loro
vasi, e qualche oggetto di curiosità.

Il governo russo è largo di mezzi per l’illustrazione scientifica
del vasto impero, ma alla condizione che tutto affluisca al centro. È
in grazia di questo che Tiflis può ancora dirsi un’oasi nel deserto
della barbarie orientale, una colonia della gran metropoli della
scienza russa. Da molti anni è stabilito nel Caucaso, ed ha in Tiflis
il suo quartiere d’inverno, uno dei più celebri geologi viventi, il
sig. Abich. Egli ha ormai perlustrato il paese in tutte le direzioni
raccogliendo un prezioso materiale che ha ordinato in una serie
di classiche monografie, stampate nelle _Memorie dell’academia di
Pietroburgo_. Si deve alla sua mirabile attività, alla sua profonda
dottrina, se la Russia transcaucasica è divenuta, sotto il punto di
vista dell’orografia, della geologia e della paleontologia, uno dei
paesi meglio conosciuti. Quando noi arrivammo in Tiflis, il sig. Abich
ne era partito da pochi giorni pel suo giro annuale, e la fatalità
volle che anche nel seguito del viaggio, ad Erivan, a Nachidjevan, ci
trovassimo sulle orme che egli avea di fresco lasciate. Incontrammo
invece, prossimo a partire pel Kurdistan, un altro naturalista, suo
ajutante di campo, di nazione ungherese, il sig. Bayern, indefesso
raccoglitore; e che ci fu cortese di molte utili indicazioni, e
liberale di varj oggetti del suo emporio.

Non si può parlare della vita scientifica in Tiflis, senza ricordare
i lavori geografici dello stato maggiore dell’armata del Caucaso,
e le ricerche archeologiche del generale Bartolomei; ma poi, come
istituzione permanente, merita un posto d’onore l’osservatorio
metereologico, che è uno dei più importanti del mondo, uno dei
principali della gran rete ideata per cercare qualche luce in questo
campo tenebroso della scienza fisica. Sorto da poco dalle fondamenta, è
grandioso, ben fornito di strumenti e di personale, sotto la direzione
di un dotto alemanno, il sig. Moritz. Quando noi lo visitammo vi era in
costruzione un grande apparato per le osservazioni magnetiche[14].

In più stretto immediato rapporto col benessere di un così vasto
paese sono le istituzioni tendenti a promovere la vera ricchezza,
la produttività agricula. La buona volontà non è mancata al governo
russo; bensì la giustezza del piano fondamentale, il buon uso de’
mezzi largamente disposti. Si profuse il danaro in vane esperienze di
culture esotiche, in premj, in sussidj che poi si lasciarono ingojare
da vulgari astuzie, e si ebbe il duplice danno di simili tentativi
male riesciti: danaro sprecato, e tolto il coraggio per altre più
fruttuose imprese; l’indolenza de’ Georgiani rimase ancora padrona del
deserto terreno. Una società economica esiste in Tiflis di solo nome:
non è aria quella per simili istituzioni di sì poco vantaggio pratico
nella stessa Europa. Di scuola agricula non si pronuncia tampoco il
vano desiderio, e da questa parte il governo può almeno evitare la
sorte sicura di un disperdimento di qualche migliaja di rubli. La
solerzia, l’operosità delle colonie tedesche reagirono ben presto sul
mercato di Tiflis: vi resero più abondanti, ed a miglior prezzo, varie
derrate alimentari; altre nuove, e per esempio i pomi di terra per lo
dianzi sconosciuti, divennero di uso commune; di tutte si accrebbe il
consumo, e con questo il profitto de’ coltivatori. Ove un insegnamento
così vicino, così eloquente, così pratico, ha potuto rimaner sterile,
è tronca ogni speranza alla miglior volontà del legislatore. Bisogna
lasciar il Georgiano alla pastorizia, alle sue piccole industrie
manifatturiere, alle sue vecchie tradizioni agricule, e chiamar dal di
fuori concorso di braccia robuste e intelligenti. Quali mezzi a ciò si
richiedono sanno perfettamente gli economisti; ma finchè la fiducia
in un ordine politico razionale e stabile non sia riescita a vincere
la ripugnanza de’ grossi capitali europei a passare la cresta del
Caucaso, il sistema delle piccole colonie è il solo possibile. Però,
anche per questo sistema, l’azione del governo non si deve più limitare
alle concessioni di terre, a’ sussidj in danaro, a qualche privilegio
temporaneo. In tutti gli altri piani dell’Asia occidentale il terreno,
per la natura minerale, è molto appropriato alla coltivazione, ma le
protratte arsure dell’estate lo isteriliscono: vi manca un elemento che
pure è in abondanza riversato per la china del Caucaso e si dirama come
un capitale perduto nei solchi di aride steppe. — I Persiani, i barbari
Persiani, saprebbero trarne profitto assai meglio di quel che sin qui
abbiano fatto i Russi civilizzatori. La derivazione di canali irrigui
da tante scaturigini, da tanti rivoli o fiumi, da tanti naturali
serbatoj, è di prima necessità per lo sviluppo dell’agricultura
nel Caucaso, e quest’operazione, razionalmente condotta, con quella
grandezza di mezzi di cui il solo governo dispone, può solo fare di
questo immenso paese, quasi improduttivo, il giardino dell’Impero
moscovita.

La vite è qui nella sua culla primitiva, e dalla Mingrelia al Caspio
è frequentissima nelle foreste, maritata naturalmente a quelli alberi
eccelsi; e ne pendono bei grappoli con acini grandicelli, sugosi,
zuccherini, affatto esenti dall’infezione parasita che devasta i
vigneti d’Europa. Essa è pure estesamente coltivata dai Georgiani,
e specialmente nella Cachezia, d’onde proviene il vino più rinomato
del paese. Il liquore di Bacco, senza del quale un Russo non saprebbe
vivere, trovasi dapertutto, ad un prezzo relativamente vile, ed
è quindi di uso affatto vulgare; se non che vulgare del pari ne è
l’abuso, per giustificare il quale si lede perfino la riputazione delle
pure e limpide aque delle sorgenti caucasiche. Queste provincie sono un
paradiso pei Cosacchi mandativi in distaccamento. Frequentava il nostro
albergo in Tiflis, e ci fu presentato come un personaggio singolare, un
capitano di Cosacchi, vero Ercole di corporatura, dalla faccia tosta,
rotonda, gioviale, carico di medaglie militari, non parlante che il
russo, ma non privo di qualche sentore di altre lingue europee. Un
matino, mentre egli dava principio alle sue quotidiane libazioni nel
_buffet_ dell’albergo, da un crocchio dei nostri che lo stava ammirando
surse una esclamazione: che pezza d’uomo! Qualche cosa intese il
Cosacco, il quale rivoltosi a noi, in stentato francese, appoggiando
le parole d’un gesto molto espressivo, soggiunse: _oui.... mais....
du vin.... et.... beaucoup!_ Questo vino di Cachezia non era però ai
nostri palati di un gusto rispondente al lusinghiero suo color rubino;
e se già la virtù della temperanza non fosse stata in noi connaturale,
ce l’avrebbe imposta col suo disaggradevole odore di nafta, contratto
dai recipienti in cui si conserva. Questi sono otri di pelle di capra,
nella concia delle quali si fa entrare la nafta, non saprei bene per
quale scopo. Per le sue qualità proprie il vino di Cachezia sarebbe dei
migliori, e ce ne potemmo convincere gustandone di quello invecchiato
nei fiaschi, ove col tempo aveva perduto l’insopportabile profumo degli
otri.

La Georgia è fatta dalla natura per diventare un centro di produzione
serica rivale della Lombardia. Dapertutto vi potrebbe prosperare
il gelso, e ne fa prova la cresciuta rigogliosa di pochi alberi
solitarj piantati per raccoglierne i frutti zuccherini, più che
per l’allevamento de’ filugelli. Solo in alcune oasi musulmane, a
Nachidjevan, ad Ordubad, e specialmente a Nouka, il raccolto della
seta si mantiene tradizionalmente, ma ancora in quantità relativamente
scarsa. Per questo importante articolo la Russia è sempre tributaria
de’ finitimi distretti della Persia e della Tartaria, quando, lo
ripeto, potrebbe produrne in casa propria in quantità esuberante il
consumo interno. Or sono alcuni anni il governo fece assegnamento
sulle colonie tedesche, e le eccitò a tentare questa coltura per esse
nuova ed esotica. Le colonie prestaronsi infatti; ed un esperimento in
proporzione sufficiente riescì, com’era da aspettarsi, perfettamente
bene. Ma l’autorità volle immischiarsi dello spaccio del nuovo
produtto: la seta ricavata fu spedita a Mosca, ma fra mille pretesti
non venne di là il pagamento che scarso e tardivo.

Come tutti i popoli semibarbari i Georgiani sono piuttosto pastori che
agricultori. Il bestiame è in tutta la Russia transcaucasica abondante,
in rispetto alla popolazione, ma ben lungi da quanto lo permetterebbero
l’estensione del paese e la varietà dei pascoli. Non dirò nulla de’
cavalli, ineleganti di forme, buoni e duri al lavoro; nulla de’ buoi;
nulla de’ buffali, solo notando di passaggio come siano più piccoli
de’ buffali d’Italia, e non limitati soltanto ai piani più bassi ed
umidi, ma portati anche in regioni assai elevate ed aride. Da Tiflis in
poi numerose mandre di camelli da una sola gobba, fanno il più pesante
servizio delle carovane. Le popolazioni cristiane del Caucaso fanno
grandissimo uso delle carni porcine, ed i Georgiani in particolare
ne sono ghiotti, onde il gran numero di majali che essi posseggono in
contrasto colle popolazioni musulmane.

Ma non trascorrerò così di volo sulla razza di pecore che nella
Georgia non solo, ma benanco in Persia, esclusivamente si alleva in
greggie numerose, sparse dapertutto. Appartiene alle razze dalla coda
adiposa, e più propriamente a quella che Pallas ha chiamato _ovis aries
steatopyga_, per la singolare conformazione delle sue parti deretane.
Una gran massa di grasso circonda la base della coda, e la coda
stessa ripiegandosi poscia in alto, incurvata all’apice, sembra quasi
tracciare una divisione della massa anzidetta in due lobi distinti,
in due natiche accessorie. Questa razza, vero dono della providenza
per l’Asia occidentale, è, come il camelo, un animale del deserto.
Vive pazientemente, spelluzzicando le parti meno legnose degli sterpi,
grigi, ispidi, rari, o quel poco di verde che osa spuntare alla loro
base, per valli e dossi, arsi da sette continui mesi di sole; ed è
siffattamente accommodata a sì magro regime, che trasferita in pascoli
più ubertosi intristisce rapidamente. La sua carne è saporita e sugosa
quant’altra mai, incomparabilmente migliore di quella delle communi
razze d’Europa, priva di quel sapore di sego, che più o meno in tutte
queste si risente; e lo stesso grasso, il quale sembra sparire da tutte
le parti del corpo, per concentrarsi nella coda, è ben differente dal
sego ordinario, e può esser accettato per condimento delle vivande
anche da un palato europeo. Non direbbe male chi dicesse che non si
mangia altra carne per tutto l’Oriente, ove è a sì basso prezzo, che il
più povero _ferrasch_ potrebbe regalarsi quotidianamente qualche fila
di _kiabab_ dai friggitori dei bazar.

Non so il perchè alcuni viaggiatori, nel far cenno di questa razza di
pecore, abbiano pronunciato un giudizio sfavorevole sulle qualità della
sua lana. Io l’ho trovata piuttosto rara, ma lunga, e sempre più o meno
morbida, talvolta finissima; e del resto i suoi pregi sono attestati
dai bei tessuti lesghiani, dai scialli di Mesched e di Kerman. Quando
le società così dette d’_acclimazione_ vorranno scendere dalle nuvole
delle utopie per mirar dritto a proposte e, meglio ancora, ad esempj di
vera ed immediata pratica utilità, troveranno questa razza orientale
degna delle loro sapienti cure, come quella che potrebbe prosperare
ove altre razze non allignano, in tanti luoghi deserti del littorale
italiano, in tante arse isole del nostro mare.

Ho raccolto a disegno, in un fascio, argomenti diversi che non sono
dell’uno piuttosto che dell’altro punto del nostro viaggio, a fine di
procedere nel seguito più speditamente, ed ora faccio ritorno a Tiflis
ed alle sue più strette adiacenze.

I colli che sovrastano in largo anfiteatro alla capitale della Grusia,
affatto sterili e nudi, sono costituiti da strati di calcarea marnosa,
di arenarie e di conglomerati del terreno miocenico. Quello che surge
all’oriente della città nuova, a pochi passi dall’_Hôtel du Caucase_,
il così detto monte Solalaki, è una propagine del lato destro della
valle, come una grande sbarra diretta di traverso al letto del Kur.
Tutto lungo il suo culmine scorre una strada, in remotissimi tempi
scavata profondamente nella roccia a scopo di difesa; e per essa si
giunge infatti alle antiche fortificazioni, sovrastanti alla chiusa del
fiume, ov’è il limite fra la città vecchia e la nuova. Dietro questo
culmine è un fresco valloncino chiuso fra pareti dirupate, sul cui
fondo si raccoglie la poca umidità filtrante, e si compone un limpido
rivoletto che scende alla città, inaffiando l’ombroso e pittoresco
giardino del governo, dietro i ruderi del diroccato castello. Un
piccolo canaletto ne è derivato da tale altezza da poter essere rivolto
verso la città nuova, affatto insufficiente però ai bisogni anche di
un solo quartiere. Non si beve in Tiflis che la torbida aqua del Kur,
raccolta in grandi otri di pelle, e riversata nelle case in ampj tini,
d’onde per lo più viene spillata, senza farla tampoco passare per un
filtro; a sempre maggiore glorificazione del vino di Cachezia. Nel
quartiere della vecchia città, immediatamente dietro le rovine delle
antiche fortificazioni, sono pure le surgenti di aqua termale, che
alimentano i tanto rinomati bagni di Tiflis.

Malgrado la sua posizione, la città difetta di buoni materiali di
costruzione. Due sorta di roccie vi sono più communemente in uso:
un’arenaria giallastra grossolana, tenera allo scalpello, poco
resistente agli agenti atmosferici, ed una trachite bigio-scura, la
quale occupa il rango che ha il granito nell’Italia superiore. Entrambi
questi materiali provengono dai corso inferiore del Kur, ma non in
quantità sufficiente alle esigenze di una grande città, e quando si è
proveduto agli edifizj in costruzione, a qualche marciapiede in alcuno
dei luoghi più importanti, non ne rimane più pel lastrico delle strade,
lasciate nel più completo stato di natura; e quale sia questo stato
ognuno può imaginare, sapendo che il fondo del suolo è un tritume
marnoso. Tiflis potrebbe chiamarsi la metropoli del fango e della
polvere. L’alternarsi della pioggia e del vento vi è cosa ordinaria,
specialmente in primavera; piove: e le contrade e le piazze sono
convertite in pozzanghere impraticabili di melma scura semiliquida,
che in alcuni luoghi giunge quasi all’altezza del ginocchio: il cielo è
rasserenato; ed un vento furioso solleva nembi di polvere che toglie il
respiro, e la vista a due passi di distanza.

Il fondo del bacino al cui estremo limite orientale è collocata la
città, è un piano di circa 10 _verste_ di lunghezza, che dalla sponda
sinistra del Kur, dolcemente si eleva a sterilissime colline marnose,
mentre dal lato opposto, a piccola distanza dal fiume, la parete
meridionale del bacino medesimo si innalza con rapido pendio a formar
una catena ritagliata da combe e valloncini trasversali, sul cui fondo
serpeggiano rivi e torrenti, seguiti nel loro decorso da una bella
vegetazione. Anche i più interni monti da questo lato sono in gran
parte rivestiti di pascoli e di cespugli. Questo bacino è una valle di
erosione; la terra vegetale del piano riposa direttamente sulle testate
della formazione miocenica, come distintamente si vede nelle pareti,
per certi tratti verticali, del profondo solco del Kur; mentre nel
riparo de’ valloncini trasversali sonosi conservati avanzi del grande
deposito diluviale che un tempo ha dovuto estendersi dall’uno all’altro
lato della valle.

Molto interessante pel geologo è il monte Solalaki. Esso è costituito
da strati prevalenti di una calcarea marnosa or bigia or quasi nera,
or più or meno fissile, e da altri minori strati irregolarmente
alternanti di arenaria, tutti profondamente sconvolti e screpolati.
Una laumonite cristallina ha compenetrate queste roccie, infiltrandosi
in sottilissimi veli fra gli straterelli della marna; qua e là gli
elementi dell’arenaria sono modificati in terra verde; alcuni rari
frammenti di vegetali sono carbonizzati; le numerose intersecantisi
screpolature di tutta questa massa di strati sono state riempite di
candidissimo spato calcareo. Siffatte alterazioni sono evidentemente
state produtte dall’azione d’una roccia emersa dal seno della terra in
stato di fusione, e con tutta probabilità dal trappo amigdaloide, le
cui masse compajono al lato orientale di questa catena di colli, di cui
il monte Solalaki fa parte.

Il nostro bottino zoologico nei contorni di Tiflis è riescito assai
modesto; ma devo subito soggiungere che assai modeste del pari erano le
nostre aspirazioni. Che potevamo fare dopo Güldenstaedt, dopo Pallas,
dopo Eichwald, in un paese ch’è quasi una continuazione dell’Europa, e
che noi dovevamo semplicemente traversare? Eravamo disposti a trovare
dapertutto vecchie conoscenze, e così fu.

Ecco in breve le principali cose notate sul mio diario. In primo luogo,
quanto ai mammiferi, io mi era proposto di cercare con particolare
attenzione le piccole specie, d’ordinario le più neglette: ma il fatto
più importante che ho raccolto è il fatto negativo della scarsità
sorprendente di pipistrelli, non solo a Tiflis, ma anche nel seguito
del nostro viaggio. Un piccolo _Sorex_, ch’io ebbi dalla gentilezza del
sig. Bayern, e che rinvenni anche più tardi in Persia, non corrisponde
ad alcuna delle specie descritte vagamente da Pallas, e fu da me
registrato col nome di _Sorex fumigatus_.

La stagione molto inoltrata, il passo degli uccelli ormai chiuso,
rendevano meno variato il produtto delle nostre caccie, ma limitandolo
alle sole specie nidificanti, ne crescevano da un altro lato
l’interesse. Ecco in breve le specie da me trovate, e che si possono
ritenere come le più frequenti nelle adiacenze di Tiflis.

_Neophron percnopterus_: ne vidi qualche coppia sul monte Solalaki,
e fin ne’ sottoposti giardini. _Astur palumbarius_, molto commune
al piano, ove fa caccia attiva alle quaglie. _Lanius collurio_,
_L. minor_, frequentissimi; _L. rufus_, piuttosto raro. _Saxicola
oenanthe_, abondante; _S. stapazina_, più rara, sul monte Solalaki.
_Anthus campestris_; _Alauda arvensis_; _A. brachydactyla_; _Emberiza
miliaria_, nel piano; _E. hortulana_, abondantissima fra i cespugli
nei luoghi più elevati; _Euspiza melanocephala_, commune assai in
tutto Oriente; spinge i suoi avamposti fino in Dalmazia e nell’Italia
meridionale. Io ho incontrato qui a Tiflis per la prima volta questa
graziosissima specie, nella sua bella livrea nuziale, che le dà quasi
l’aria di un uccello esotico. La femina modesta e taciturna sta celata
fra i cespugli, mentre a lei vicino il maschio procace, pavoneggiandosi
sulla punta dei rami verticali, riempie l’aria dei melodiosi gorgheggi
di un canto che tiene dell’allodola e del capinero; così caldo d’amore
si lascia avvicinare a mezzo tiro di pistola, ed infine spiega le
ali a volo tremulo e tardo, per posarsi di nuovo a poca distanza. Io
ho trovata frequentemente questa specie anche in Persia, ma ai primi
di agosto le coppie erano già sciolte, gli individui adulti spariti,
ed i giovani più tardi ad emigrare, stanno riuniti allora in branchi
numerosi.

La passera commune nel Caucaso e in tutta la Persia è la _Pyrgita
domestica_, mentre nella Siria è la _P. hispaniolensis_. Molto
frequente pure è la _Petronia stulta_, che sta ordinariamente a terra,
in piccoli branchi, fra le pareti sassose de’ monti al sud di Tiflis.
Il passo delle quaglie era ormai finito; molte però ne erano rimaste
ne’ campi coltivati, presso la nuova colonia tedesca.

Un sentiero poco discosto dalla città, sulla strada di Kutais, devia
sulla sinistra, e termina ad una valletta amena, sul cui fondo scorre,
a versarsi nel Kur, un piccolo fiumicello. Là è il mulino Andreowsky.
Vi giungemmo a caso in una delle solite escursioni, e mentre, presso
l’abitato, stavamo riguardando e titubanti, una donna, china a lavar
pannilini, ci volse la parola: _Avancez-vous, messieurs, vous êtes
chez des Français_. Era infatti una famiglia francese colà stabilita
da varj anni, la quale ci accolse con vera cordialità; e quel luogo,
che noi chiamammo poi il mulino francese, divenne uno de’ convegni
di predilezione nelle nostre caccie. Sovrasta al mulino un arido
monte calcareo, popolato di testuggini (_Testudo ibera_ Pall.).
Più al sud, ad un’ora circa di salita, nel mezzo d’un pianerottolo
verdeggiante, è un piccolo stagno salato, ove trovammo in gran copia
la _Cistudo europæa, var. lutaria_. Frequentissimo per tutti i monti
che da questa parte fanno corona a Tiflis, nei luoghi più rupestri
e sassosi, è lo _Stellio caucasicus_. Corre con velocità anche sugli
scogli verticali, ma non lo direi il più veloce fra i saurj. Quando è
avvicinato dall’uomo, inanzi prender la fuga, lo fissa, e rizzandosi
alquanto sulle gambe anteriori, scuote verticalmente, come in atto di
riverenza, la parte anteriore del corpo. Due cose molto singolari ho
notate in questo saurio: daprima che esso è erbivoro, e come tale unico
rappresentante, nell’antico continente, degli _Iguanoidi_ americani;
poscia che muta colore come il camaleonte, ma, al rovescio di questo,
diventa bruno, quasi nero nell’oscurità, impallidisce alla luce[15]. La
commune lucerta è a Tiflis la medesima osservata già a Trebisonda, la
_L. laurica_ Pall.

Sul monte Solalaki e specialmente ne’ suoi valloncini ho trovato
diverse specie di serpenti, ovvie del pari nell’Europa orientale e
meridionale, e sono _Tyria Dahlii_, la più commune; _Tarbophis fallax:
Cælopeltis lacertina_.

L’unica specie di rana, l’unica di rospo, sono le stesse già notate a
Trebisonda. Stando al risultato delle ricerche fatte sinora, un fatto
importante da notarsi, e che io pure dovrei confermare, sarebbe la
completa assenza di anfibj urodeli in tutta la regione caucasica ed in
Persia. Una sola specie di _Triton_ dell’Asia occidentale, fu raccolta
dall’infaticabile viaggiatore M. Wagner.

Il Kur aprovigiona di pesci il mercato di Tiflis. Abonda in prima
linea il _Silurus glanis_, cattivo pesce, che sarebbe per la sua
voracità da sterminarsi dapertutto, e che ebbe invece, nel furore delle
_acclimazioni_, l’immeritato onore di essere introdutto in Francia.
Molti individui ne vidi raccolti in una peschiera entro la città,
e parecchi fra questi portavano al capo un gran numero di enormi
piscicole (_Piscicola fasciata_. Kol.). Un’unica specie di trota di
questo fiume e de’ suoi affluenti ha tutti i caratteri del _Salar
obtusirostris_ di Heckel. De’ ciprinidi non mi fu dato raccogliere più
di tre specie: un barbio, i cui caratteri corrispondono precisamente a
quelli del _B. lacerta_. Heck. di Siria; una nuova specie di _Abramis_
(_Abr. microlepis_. De F.), ed una communissima alborella, che
Eichwald riferisce al _Cypr. alburnus_. L, ma che deve piuttosto essere
considerata come specie distinta (A_lburnus Eichwaldii_. De F.).




VI.

Partenza da Tiflis. — Kody. — I Tartari del Caucaso. — Il ponte
rosso. — Salahogly. — Scompiglio della nostra carovana. — La valle
dell’Akstafa. — Delidjan. — I Malacani. — Passo dell’Eschek Maidan. —
Il lago Goktscha. — La vista dell’Ararat.


Il 29 maggio l’arrivo de’ bagagli, lungamente attesi, impresse vigore
novello e novello trambusto ai preparativi della nostra partenza da
Tiflis. Già il commendatore Cerruti avea stipulato accordo con alcuni
Malacani, perchè ci facessero da vetturini sino al confine persiano;
il servizio dei trasporti, e perfino de’ _droschki_ nel Caucaso,
essendo quasi per intiero nelle mani di questa setta religiosa. Nuovi
forgoni furono aggiunti alla nostra carovana, poichè d’allora in
poi non dovevamo più separarci dai nostri bagagli, e furono del pari
aggiunte, a liberarci dai tormenti della _telega_, due vecchie carcasse
di vetture rattoppate alla meglio, comperate dal nostro ministro
col previdente proposito di trascinarle, per ogni buon fine, sino a
Teheran. Questo vero _tour de force_ riescì, e corrispose perfettamente
alle mire che lo avevano suggerito. Nell’ordine delle marcie fu
stabilito che i forgoni col grosso intangibile carico de’ bagagli, i
due cucinieri con qualche servo, e cogli utensili di cucina e di tavola
ridutti al più stretto necessario, come per un _diner sur l’herbe_ in
una partita di caccia, ci dovessero precedere sempre di qualche ora e
nella partenza e nell’arrivo alle stazioni. Le tappe furono in tal modo
fissate, che la media del cammino giornaliero fosse press’a poco di
quattro ore nel matino ed altrettante verso la sera.

Finalmente il 3 giugno, assai per tempo, tutto si dispose per la
partenza, fra un’orribile confusione per l’ingombro dei bagagli e dei
veicoli nell’_Hôtel du Caucase_, siffattamente che non prima delle
dieci ore la carovana si potè avviare processionalmente tra la folla
dei curiosi e gli Italiani addetti al teatro, accorrenti a stringerci
la mano. Tutti con vera gioja salutammo il barone Finot, quando ci
comparve a cavallo ed in completo assetto di viaggio, col seguito di
un suo domestico tartaro, e caracollando accanto alle nostre vetture,
dimostrava col fatto esser fedele alla promessa di accompagnarci per
qualche giorno. Noi avevamo pure al nostro seguito, come scorta d’onore
e di sicurezza, un picchetto di militi urbani a cavallo; bene armati,
forti in sella, abilissimi alle più difficili manovre di destrezza,
facevano a gara di quando in quando, e secondo l’opportunità del
terreno, a rallegrarci con quello spettacolo svariato, che in stile di
equitazione si chiama una _fantasia_. Ad ogni stazione dovevamo trovare
un nuovo picchetto di ricambio, ed ai posti principali un uffiziale, in
pieno uniforme, che indirizzava nella sua lingua il complimento d’uso
al nostro ministro.

La strada da Tiflis ad Erivan esce per la città vecchia, segue per un
certo tratto il corso del Kur, col fiume a sinistra, e gli scogli del
monte Solalaki a destra, ma a tale distanza da lasciare frapposto un
pendìo coperto di magri pascoli, ove stava infatti sparsa una numerosa
greggia; e vedevamo roteare sprazzi di fosche ombre, projettate dai
soliti immancabili avoltoj, vigilanti dall’alto, mentre un gruppo
di più famelici, o più immondi o più fortunati, stavano più lungi
spacciando un carcame di camelo. La via quindi ripiega a destra,
dietro il monte, su di un alto piano ondulato, affatto arido, tagliato
da torrenti asciutti, ed anche da una bella oasi, con grandi alberi.
Procedendo, vedemmo sulla sinistra, a non molta distanza, un basso
fondo tutto biancheggiante del deposito cristallino di uno de’ tanti
stagni salati della Georgia, dei quali non si è pensato mai a trarre
alcun profitto. Poco dopo, per una breve salita, giungemmo a Kody,
ove si fece sosta. Kody è un grosso villaggio georgiano, con case
sotterranee, fra boschetti e giardini, in un alto piano molto fertile
e ben coltivato, che mi ha fatto risovvenire i _campidani_ della
Sardegna. I monti che veggonsi a poca distanza verso il nord, hanno il
medesimo aspetto di quelli che avevamo lasciati a Tiflis; e sparsi per
la pianura trovammo molti massi di trappo amigdaloide. Una scorrazzata
alla caccia, mentre si allestiva il nostro pranzo, non fruttò che
tortore e quaglie alla cucina.

Ho visto qui per la prima volta un aratro georgiano in azione, ed ho
contato non meno di cinque paja di buoi e tre di buffali, che facevano
stentatamente il lavoro di un sol pajo di buoi di Piemonte. D’onde
ciò? Non nella profondità del solco, minore anzi di quanto fra noi si
usa; non in una particolare difficoltà del terreno. Ho pensato che i
contadini georgiani hanno bestiame in esuberanza, e che il numero delle
coppie sotto l’aratro sia forse per essi un segno esterno di rango e di
potenza, come il numero delle coppie di cavalli sotto i cocchi sontuosi
de’ sardanapali europei.

Stavamo radunandoci pel desinare, quando la nostra attenzione fu
chiamata da una carrozza arrivante di carriera per la strada alla quale
eravamo diretti. V’era seduto un uffiziale russo, che passando a noi
dappresso si alzò, ed agitando il berretto, emise uno stentoreo _viva
Italia!_ Era il generale Jwanewsky che avevamo conosciuto a Tiflis.

Lasciato Kody, dopo un’ora e mezzo di cammino, valicato un piccolo
dosso, passiamo per Saravan, villaggio tartaro, in bella pianura
ben coltivata, col favore di un fiumicello che la irriga. Un
ufficiale stava attendendoci; e fatto il suo _speech_ di etichetta
al commendatore Cerruti, rimontò a cavallo, e s’aggiunse alla nostra
comitiva.

Uno schizzo d’un villaggio tartaro è presto fatto. Case propriamente
dette non se ne vedono; le abitazioni sono tutte sotterranee, al di
fuori indicate soltanto da piccoli cumignoli di terra, rassomiglianti
più a nidi di termiti che a costruzioni umane, e da piccole porte
quadrate alquanto sporgenti, alle quali vedevamo al nostro passaggio
affacciarsi per curiosità qualche miserabile figura più o meno
antropomorfa, come marmotte alla porta della loro tana. Qualche gruppo
di pali, qualche cumulo di fieno, concorrono a dire: qui abitano esseri
umani.

I Tartari sono buoni agricultori, più industriosi, più duri alla fatica
dei Georgiani. I loro villaggi sono nella state quasi deserti, pel
gran numero di pastori che portano in quella stagione le loro greggie
a’ pascoli montani; e noi abbiamo infatti incontrate soventi volte le
miserabili tende di queste tribù seminomadi. A distanza si distinguono
subito i Tartari per la predilezione del rosso nel vestito delle
donne, le quali portano larghissimi calzoni, una cortissima giubba,
la testa ravvolta fra cenci, scoperto il viso, annerito dal sole e dal
sudiciume.

A differenza de’ Turchi e de’ Persiani, i Tartari scelgono per cimiteri
luoghi affatto appartati e deserti, distanti dalle abitazioni. Anzi
l’incontro di questi campi desolati, irti di pietre con scolpiti
versetti dei Corano, era sulla nostra strada il segnale di qualche
villaggio tartaro lì più o meno discosto, che del resto ci sarebbe
facilmente sfuggito.

La sera di quel giorno 4 giungiamo assai tardi a pernottare a Mouganly.
La stazione postale è così sprovista d’ogni supellettile, che l’ingegno
inventivo de’ nostri servi supplisce colle più strane trasformazioni
de’ più vulgari oggetti, e, per esempio, improvisando de’ candelieri
con delle cipolle. Abbiamo due sole camere per 22 persone; la
providenza però ci soccorre col mandarci una notte fredda.

Il dì seguente assai per tempo io, co’ miei amici naturalisti,
precediamo di qualche ora il rimanente della carovana. Mouganly,
miserabile talpiera, ove la sola stazione postale s’erge fuori dal
terreno, è posta sul ciglio d’una ripa che scende con erto pendio
nell’ampia e fertile valle del Chram, suddivisa dal fiume in isole
verdeggianti e cespugliose. Percorriamo questa valle parallelamente
alla strada, poscia, raggiunti dalle vetture, siamo in breve tratto
al così detto _Ponte rosso_ sul Chram; vecchio ponte grigio, ad arco
acuto, di stile persiano, mezzo rovinato. La località così bella e
pittoresca, gli stormi d’uccelli che s’alzano gridando nell’aria al
nostro arrivo, invogliano tutti ad una breve fermata, e dato di piglio
ai fucili, facciamo un vero fuoco di fila. Nelle screpolature e nei
cavi di quelle vecchie mura annidano gheppj in gran numero (_Falco
cenchris_); molti cadono sotto i nostri colpi, ed altri falconidi
pur ivi sorpresi in convegno, come _Circus æruginosus_, _Pandion
haliaetus_, _Milvus parasiticus_. Il nome di _ponte rosso_ deriva
probabilmente dal colore della roccia alla sponda destra del fiume,
messa a nudo, in un bellissimo taglio naturale. È un porfido rosso
che ha sollevato gli strati di una calcarea simile a quella di Kutais,
contenente avanzi organici, fra i quali chiaramente se ne distinguono
molti di _Inoceramus Cuvieri_. Una breccia porfirica è interposta fra
la roccia eruttiva e la calcarea.

Dal _ponte rosso_ passiamo a rivedere il Kur ingrossato dal Chram e da
altri minori affluenti, alla stazione di Salahogly, grosso villaggio
tartaro sul ciglio della spaziosa valle, nella quale i molti rami
in cui si decompone il fiume, circoscrivono isolotti ricoperti di
grandi salici, pioppi e platani, e fanno umide, paludose e ricche di
folta vegetazione, anche le sponde. Tortore e gazze marine annidano
fra quegli alberi in gran numero. Passando fra i cespugli, lungo un
canale, sento una successione di ripetuti tonfi, come di corpi pesanti
lanciati nell’aqua; e vedo sulle due rive, schierate a centinaja,
grosse tartarughe palustri (_Emys caspica_) immobili; ma che ad ogni
mio passo di qua e di là successivamente si precipitano nel canale.
Non aveva mai trovata precedentemente questa specie, la quale però
ascende fin presso Tiflis; e mi diedi a farne la caccia; ma tentati
inutilmente mezzi più semplici e più diretti, per la profondità del
canale e la prestezza di quelle bestie a tuffarsi, dovetti ricorrere al
fucile caricato di grossi pallini. Io l’ho poi frequentemente rinvenuta
anche nel resto del viaggio, ma sempre lungo le aque correnti, mentre
la commune _Cistudo europæa_ non si trova nel Caucaso che negli stagni,
e specialmente negli stagni salati. L’_Emya caspica_ ha avuto dalla
natura un altro mezzo di farsi rispettare, nell’insopportabile puzzo,
come di aglio fracido, che tramanda dalle parti posteriori.

Un altro villaggio tartaro, Hussein Beglar, sulla sponda sinistra di un
altro fiumicello, l’Akstafa, doveva accoglierci la notte. Ivi neppur
la stazione postale è in muratura; e solo ricovero pei viaggiatori
è una grande tenda calmuca, sostenuta da un gran palo nel mezzo, e
tutt’attorno confitta circolarmente al suolo. Il pavimento fa da sedile
e da tavola da pranzo; e quindi disposti i nostri materassi nella
direzione dei raggi del circolo, ci poniamo a giacere colla testa alla
periferia ed i piedi rivolti al centro, come ciambelle sul quadrante
della fortuna in una fiera campestre.

Il seguente matino domando al nostro capitano Romanoff l’indicazione
della strada per la quale dovevamo avviarci, nell’intento di precedere
le vetture, come aveva fatto il giorno antecedente. Ridendo della mia
dabenaggine egli mi chiede alla sua volta se in queste regioni del
Caucaso accada mai di trovarsi imbarazzati ad un bivio: mi fa cenno col
braccio teso, e mi dice di tirar dritto, che in ogni caso l’ampiezza
della strada e le rotaje mi sarebbero state di guida sicura. Moviamo
allora, io, Doria e Bosio, nella direzione accennata, e fatto qualche
migliajo di passi, ecco lì il bivio che non era tampoco lecito il
sognare; forti però de’ così vicini insegnamenti della nostra guida,
persistiamo nella strada più larga e più diritta, lasciando in disparte
una a manca, più ristretta, e che sembrava terminare ad un casolare
vicino. Dopo una buona mezz’ora di cammino, giungiamo ad uno spazioso
circo fra alture sterili e deserte, percorso da un torrente asciutto.
La strada, sempre chiaramente tracciata anche dai solchi de’ carri,
volgendo a sinistra, attraversa il torrente, sale a ridosso di un
colle, e si dirige obliquamente contro la corrente del fiume. Certi di
essere quivi raggiunti dai compagni, ci disperdiamo, intenti ciascuno
alle proprie ricerche. Scorso un tempo che incominciava a sembrarmi
alquanto lungo, salgo la vetta di un colle, d’onde lo sguardo si
prolungava a sinistra per lo stradale che ci aveva condotti: e da
questa parte nessun essere vivente; a destra dominava per lungo tratto
il corso dell’Akstafa; e qui invece la vista in lontananza di un ponte
sul fiume, mi fa nascere qualche sospetto. Ecco infatti, tendendo da
questa parte lo sguardo, moversi qualche cosa là nel fondo, tra gli
intervalli delle piante; le nostre carrozze, l’una dopo l’altra, sfilar
sul ponte, riascendere per certo tratto la riva destra del fiume,
poscia prendere una via obliqua, sparire, ricomparire, e perdersi
infine alla vista. Noi avevamo dunque smarrito il cammino; del che non
appena accorto, chiamo i compagni; ma, la voce non giungendo ad essi,
ricorro all’espediente di tirar il fucile d’allarme. Radunati infine,
discutiamo il da farsi, ed il partito è presto preso: accelerare il
passo, proseguir la strada, avente la direzione approssimativa del
nostro punto obiettivo, ed affidarci alla fortuna. Quella strada
ingannatrice terminava ad un villaggio tartaro. Bosio, cui il turco è
quasi lingua nativa, ci fa da dragomanno, ed al prezzo di una discreta
somma di rubli, ottiene cavalli ed una guida. Passato a guado il fiume,
per viottoli tortuosi fra i campi, muoviamo di carriera ad incontrar la
via maestra, ed una buona stella ce la fa raggiungere infine nel largo
di un bosco, ove le nostre carrozze avevano fatto sosta, ed i nostri
compagni stupiti di non averci fino allora incontrati, tendevano lo
sguardo per varie direzioni. Le interpellanze, le recriminazioni, le
giustificazioni si intrecciano, e l’episodio finisce con qualche risata
alle nostre spalle.

Qui in questo preciso luogo, ove la nostra carovana si ricompone,
i massi di basalto, onde il suolo è ingombro, ed un aspetto nuovo
nella vegetazione e negli accidenti del terreno, denotano già un
cambiamento nella natura generale del paese. Qui infatti è il limite
fra le popolazioni tartare, sparse fra le steppe di un altipiano appena
ondulato, lungo i solchi del Kur e de’ suoi affluenti, e le popolazioni
armene della sbarra montuosa, che potrebbe adottarsi come limite
geografico fra due contrade diverse; l’una al nord, con prevalente
carattere europeo, l’altra al sud, con prevalente carattere asiatico.

La stazione postale di Uzumdagh od Uzumkala, ove ci arrestiamo alcune
ore, è alla sponda destra dell’Akstafa, al piede di monti rivestiti
di folti cespugli, al margine di campi ubertosi e boschi palustri con
grandi platani, che ricordano alquanto il Rioni. Le lepri vi abondano,
e così le starne (_Perdix cinerea_), le quali sono qui al loro estremo
confine meridionale. Le solite tortore, le solite gazze marine,
incontransi dapertutto, e ne’ boschi della parte montuosa vidi commune,
più che altrove, la ghiandaja d’Oriente (_Garrulus melanocephalus_).
Alcuni del luogo che ci servono di guida alla caccia, asseriscono
trovarsi pure frequenti in questa valle orsi e caprioli.

Risalendo la valle nel pomeriggio, passiamo accanto alla fontana
monumentale, eretta dagli abitanti, in onore del generale Rosen,
antico governatore della Grusia, cui si deve la strada carrozzabile da
Tiflis ad Erivan; e sul far della sera giungiamo al grosso villaggio
armeno di Caravanserai od Istibulak, e prendiamo possesso di quella
stazione postale. Fu buon per noi l’esser stati solleciti, che mezz’ora
dopo giunse per opposta direzione, in una grande vettura chiusa, con
numerosa scorta di cavalieri e folla di valligiani, il patriarca armeno
Matthæus, che dalla sua residenza di Etschmiadzin si recava a compiere
solenni cerimonie del suo rito a Tiflis. Soffermatosi davanti alla
stazione postale, non vi rimase che il tempo sufficiente per sapere
ch’era già occupata da gente di un paese di cui egli forse ignorava
perfino il nome, e per accogliere l’invito d’uno dei notabili del
villaggio, che lo pregava di accettar ospitalità in sua casa.

La matina del 6 giugno un mesto silenzio presiedeva alle disposizioni
della partenza: la consueta vivacità non animava più i nostri crocchi;
eravamo tutti profondamente commossi dal commiato che infine prendeva
da noi il barone Finot. Lo abbracciammo come si abbraccia un amico; e
cercando illusione al nostro dolore, con un affettuoso _a rivederci_,
ci allontanammo affrettatamente. Poco oltre il villaggio, la valle
prende sempre più un carattere alpestre: l’Akstafa spumeggia fra
grossi macigni e il verde de’ rovi e degli ontani, o di qualche lembo
di prato. Fatte alcune _verste_, la strada scorre al piede di grandi
scogli di una calcarea bianca, poscia rasenta una gigantesca parete,
formata da masse di porfido euritico, divise pittorescamente in prismi
o colonne verticali, sovraposte agli strati orizzontali di una marna
arenacea indurita. Dopo una breve sosta a Ciaruslam, arriviamo a
Dilidjan, che gli ultimi raggi del sole indoravano ancora le vette de’
monti.

Dilidjan è una grossa borgata, alla congiunzione di due convalli e di
due strade: una alla nostra sinistra è la strada di Erivan; l’altra a
destra è quella di Alessandropoli; e da questa parte pure è la valle
principale, donde l’Akstafa trae la sua origine. Molte botteghe ben
fornite, allineate a guisa di bazar, una bella chiesa su di un’altura,
ed alcuni cospicui edifizj, concorrono colla posizione all’importanza
di questa borgata.

Due grandi fabricati chiusi, deserti, ma ben conservati, vi furono
costrutti dai Russi ad uso di magazzeni nel 1854, all’epoca
dell’assedio di Kars. L’altezza de’ circostanti monti, ancora
impolverati di neve alla sommità, i bei pascoli sul loro pendìo, le
macchie selvose fra scogli qua e là dirupati, i rivoli cristallini
che al fondo gorgogliano fra le erbe rigogliose, formavano tale un
quadro da trasportarci col pensiero nel cuore della Svizzera, in una
delle più belle sue vallate. L’illusione è cresciuta dallo stile delle
case di legno, allineate sulla strada di Alessandropoli. È questo il
quartiere abitato dai Malacani, una delle tante sette separatesi dalla
chiesa ortodossa, all’epoca del fermento religioso, sotto la tirannia
di Pietro il Grande. Il _knout_ e la Siberia non avendo produtto altro
effetto fuori quello di esacerbare il fanatismo de’ dissidenti, la
grande Caterina si volse a più miti pensieri, e raccolti i Malacani
dispersi nelle varie provincie dell’immenso impero, tutti li relegò
nelle steppe della piccola Russia, presso la _Maloschna_ (fiume di
latte), ove costruirono villaggi, fertilizzarono terreni, divennero
ricchi possessori di armenti. Da queste primitive colonie furono più
tardi smembrate le colonie filiali, quando il torrente moscovita si
rovesciò oltre il Caucaso. Ma la stessa setta de’ Malacani è lungi
dall’essere unita e compatta; le dissidenze, nel suo proprio seno,
andarono quasi al completo abandono del cristianesimo, ed al ritorno
al giudaismo; e queste secondarie sette di Malacani, sono nella Russia
transcaucasica ripartite in diverse sedi. Allevano molto bestiame,
e specialmente buoi e bufali; ma non preparano latticinj, e tutto il
latte consumano nella famiglia, o lasciano alla moltiplicazione degli
armenti. Posseggono terreni, loro concessi dal governo; possono fra di
loro venderli, permutarli, ma non cederli a persona estranea alla loro
setta, nè acquistare terre di altra provenienza. I Malacani di Dilidjan
sono onesti, laboriosi, amanti l’ordine, la nettezza della casa,
credenti a loro modo, ma fervorosamente credenti. Si respira fra questa
gente una cert’aria di rustica agiatezza, di quiete, di rassegnazione
contenta, da movere il cuore più all’invidia che alla pietà.

Alla prima aurora tutto questo incantevole paesaggio alpestre era
animato a festa primaverile. Non mi sovvengo d’aver mai veduto un più
lieto svolazzare di augeletti, da aver mai udito un più vario intreccio
di gorgheggi. Il denso fogliame presso il villaggio risuonava del
melodioso canto del capinero; sulla china de’ monti l’ortolano filava
le sue melanconiche note; dagli sparsi cespugli s’alzava per breve
tratto nell’aria e rimpiombava cinguettando la sterpazuola, mentre
dal fondo de’ burroni rispondeva l’acuto sibilo della cutrettola,
e qua e là sui pianerottoli, netta e staccata la nacchera gutturale
della quaglia. Poi il cardellino, il verdone, la passera, la cincia
codona, la cingallegra, lo storno roseo in branchi, in stormi, movevano
irrequieti per le macchie, pei campi. La passera è anche qui la commune
_Pyrgita domestica_, mentre in Italia la specie sorella della _Pyrgita
cisalpina_, non sale mai a tanta altezza ne’ monti. Una bella cicogna
nera in piena livrea mi passò a mezzo tiro di fucile sulle case del
villaggio, e roteante nell’aria, vidi ancora una coppia della commune
vaccaja (_Neophron percnopterus_).

Già s’apprestavano le vetture, ed io non sapeva staccarmi da questo
amenissimo luogo, creato dalla natura per essere asilo di pace e di
libertà, quando un fragor di catene venne a rompere l’incanto: era
un picchetto di soldati che scortava altri due soldati prigionieri,
tradotti nella fortezza di Erivan. Ecco le miserie umane! Lo sguardo
pieno di stupore di quelli infelici pareva supplicasse quella pietà
che l’inatteso incontro faceva traboccare dal cuore. Di che fossero
colpevoli, non sapemmo nè allora nè poi.

Moviamo ancora assai per tempo a valicare finalmente, pel giogo
dell’Eschek Maidan, la catena del Bambak, che separa la Georgia
propriamente detta dall’Armenia russa; il bacino del Kur dal bacino
dell’Arasse; la natura europea dalla natura asiatica. Dopo breve
tratto, un sentimento di compassione pe’ nostri cavalli, l’aspra
bellezza del sito, l’erto cammino tutto lungo la balza spumeggiante
del torrente di Dilidjan, ci determinano a fare a piedi la salita del
colle.

Le massime alture che fanno corona al passo sono di nudo scoglio
calcareo, e non formano, come nelle Alpi, pittoresche guglie e creste
frastagliate, ma cocuzzoli smussati. La roccia fra la quale è aperta
la strada è ancora lo stesso porfido delle stazioni precedenti, in
qualche luogo penetrato da grossi filoni di serpentina; ed anche qui
il carattere diverso della vegetazione segna l’ordine delle diverse
roccie. Ove la china del terreno lo permetta, sui dossi di porfido,
fra l’erba rigogliosa ed il minuto cespugliame s’ergono quercie e pini
silvestri; ma tra il verde spiccano distinte le aride liste della
serpentina; poscia la vegetazione arborea cessa improvvisamente per
ceder il terreno alla fitta erbetta dei pascoli alpini. Giungiamo
infine alla sommità del colle, ove un prato aquitrinoso manda le sue
filtrazioni pei due opposti versanti. Di là scendiamo ad un gruppo
di casolari che precede di pochi passi il villaggio di Simonowka; e
siamo ancora fra i Malacani. I più solleciti entrano nella più vicina
abitazione, ove trovano tè e latte in copia, a ristoro anche di quelli
che alla spicciolata vanno giungendo.

Ho detto che la cresta del Bambak separa due nature. Non saprei in
quale altra catena, se non nell’Elburz, sia così evidente il contrasto
fra i due versanti, e, partendo da questi, fra i due paesi ne’ quali
vanno perdendosi gli opposti contraforti. La regione nella quale
andiamo discendendo, spetta geograficamente alla Persia, come vi ha
politicamente appartenuto, e si distingue subito per la mancanza
completa della vegetazione arborea spontanea. Da questa parte
dell’Eschek Maidan non spunta più un solo arbusto.

Dopo breve sosta a Simonowka, per radunarci e riprender le vetture, ad
una svolta del cammino si spiega al nostro sguardo l’ampio specchio
del lago Goktscha, ed in breve ne tocchiamo la sponda. Lasciato a
sinistra il villaggio tartaro di Tchubukly, si costeggia il lago fino
ad Helenowko. I Cosacchi di un posto isolato, dominante la strada,
schierati al nostro passaggio, ci rendono il saluto militare. Poco
inanzi il villaggio fissato per la nostra diurna fermata, il nostro
sguardo è attratto dall’isola Sevang, pittoresco scoglio ad una
_versta_ e mezza dalla sponda, sul quale, fra massi di trachite,
sorgono non meno di quattro conventi armeni, oggetti ancora di
singolare venerazione nel paese. La tradizione attribuisce la
fondazione del più antico a San Giorgio, il quale poichè vide compita
l’opera sua, ebbe ad esclamare _Sa-e-wan_; vale a dire: _questo è un
convento!_ d’onde venne il nome di Sevang, dato in origine al chiostro,
da questo esteso all’isola, e dall’isola all’intiero lago.

Il lago Goktscha, o lago azzurro, o lago Sevang, occupa uno dei più
elevati bacini idrografici del mondo antico, la sua posizione essendo
a 5500 piedi sul livello del mare. La lunghezza misura 55 _verste_, e
dalle 10 alle 15 in larghezza; la sua profondità, a mia cognizione,
non è stata peranco scandagliata: però non dev’essere molto grande,
dietro la circostanza che d’inverno tutto il lago è rappreso dal gelo.
Più di trenta piccoli rivi, scorrenti per le conche dei monti, che gli
fanno corona particolarmente al suo lato nord-est, lo alimentano di
pure aque, le quali, singolar carattere di questo lago, non defluiscono
da alcun emissario naturale. Il livello del lago è quindi soggetto
a grandi variazioni, i cui estremi corrispondono alla stagione della
fusione delle nevi in primavera, ed al colmo della siccità estiva. La
sua aqua, limpida come il più puro cristallo, è tuttavia affatto dolce,
perchè le vene montane che vi affluiscono, scorrono per troppo breve
tratto in letti vulcanici, eccessivamente poveri di materie solubili.
Un piccolo fiume, il Sanga, avuto le sue origini dalla catena del
Bambak, passando, ne’ suoi serpeggiamenti, assai vicino alla sponda
occidentale del lago, ne riceve qualche misero tributo, e nel suo
decorso abbevera la città di Erivan, prima di versarsi nell’Arasse.
Anche questo fiume va naturalmente soggetto a grandi magre estive, alle
quali provide lo Schah della Persia, Abbas il grande, facendo scavare
un largo canale che mette lago e fiume in diretta communicazione.
L’esempio fu seguito in epoca recente dal generale Koljubakine,
governatore di Erivan, per opera del quale un altro canale fu derivato
dal lago, due _verste_ al disotto di Helenowko, ad irrigare l’alto
piano dell’Agmangan. Tutto questo è un perfetto nulla in confronto
dei tributi che il lago Goktscha potrebbe dare a rendere fertili le
sterilissime valli e le steppe della sottoposta contrada.

Il lago è circondato da monti, in massima parte vulcanici: i più
elevati sono appunto quelli dianzi accennati, del suo lato nord-est;
la lava, la trachite, il basalte, sono le roccie predominanti. È però
affatto inesatto il considerare tutto il grande bacino del Goktscha
come un immenso cratere. Con tutta probabilità questo bacino è il resto
di una valle limitata da due contraforti del sistema del Bambak, e
chiusa più tardi al sud ed all’ovest da nuovi sollevamenti vulcanici,
ond’ebbe origine quell’immenso gruppo di coni che impartì un così
particolare carattere all’Armenia russa.

Le pareti, le sponde, di questo bacino sono affatto nude, od appena
rivestite di magri pascoli: solo in qualche circoscritta depressione
del terreno un po’ di buona terra vegetale permette qualche coltura. A
questo stato della vegetazione contribuisce l’elevatezza del luogo ed
il lungo intenso freddo che di conseguenza vi regna, e del quale noi
trovammo ancora un residuo molto sensibile il 7 giugno.

Helenowko è ancora un villaggio di Malacani, ma di Malacani dissidenti,
i quali, retrocedendo verso la religione mosaica, santificano il
sabato, e non ammettono il battesimo. Mentre si ammaniva la nostra
colazione alla stazione postale, ci separammo in due partite di caccia:
l’una ad un vicino stagno che avevamo visto in passando, popolato
da un’immensa quantità di uccelli aquatici; l’altra sul lago, verso
un isolotto e macchie di canneti di prospetto al villaggio, ove pure
vedevansi svolazzare stormi di gabbiani, di rondini di mare, di anitre.
La caccia fu profittevole, e le specie prese, o distintamente vedute,
sono le seguenti: _Larus argentatus, fuscus, ridibundus: Sterna
hirundo: Casarca rutila: Oidemia fusca_, quest’ultima sovratutto
abondantissima: _Pelecanus_, che alle dimensioni suppongo esser ii
_crispus: Fulica atra: Ciconia nigra: Totanus calidris: Hialicula
minor: Pandion haliaethos: Sturnus vulgaris: Hirundo rustica: Pyrgita
domestica: Calamoherpe arundinacea: Motacilla flava melanocephala_[16].

Dei rettili una sola lucerta presa sul monte presso Simonowka, distinta
per caratteri affatto particolari; degli anfibj una sola specie di
rana frequente nello stagno presso il lago, ed è la _Rana oxyrhyncha_
(_R. temporaria_ L. Eichw.). De’ pesci del lago due sole specie mi
pervennero tra le mani: quelle che i pescatori del luogo portarono
in copia alla nostra cucina: l’una è una trota che non si distingue
da quella antecedentemente veduta da me a Tiflis e posteriormente
in Persia e sul Caspio, munita di due ordini molto distinti di denti
vomerini, col muso breve arrotondato: l’altra è il _Cyprinus capoeta_
di Güldenstaedt, tipo del genere _Scaphiodon_ di Heckel, o meglio
_Capoeta_ di Valenciennes, che nell’Asia occidentale rappresenta i
_Chondrostoma_ d’Europa[17]. Tutti gli esemplari esaminati di questa
specie portavano infissi sul tegumento, in varie parti del corpo, un
crostaceo parasito del genere _Tracheliastes_, assai probabilmente
nuova specie. Degli animali inferiori menzionerò soltanto alcune
interessanti specie di Irudinee; due _Hæmopis_ che appena si
distinguono pei colori dall’_Hæm. vorax_, e due certamente nuove e
chiare specie di _Clepsine_[18].

Lasciammo Helenowko verso l’imbrunire, e deviando dalla sponda del
lago, ed abbandonando a sinistra un imponente gruppo di coni vulcanici,
percorrendo una campagna desolata, tutta ingombra di pezzi di lava e
di trachite, si giunse, in ora tarda, a pernottare ad Achia. — Il dì
seguente (18 giugno) breve sosta a Suchoi-Fantan, povero villaggio,
mancante perfino di aqua, la quale vi è portata su carri dalla distanza
di 6 verste. La stazione postale è costrutta di trachite. Moviamo
al più presto anche da questa stazione, nell’intento di giungere
in buon’ora ad Erivan; la via è tracciata nel deserto appena qua
e là chiazzato da qualche campicello, ed è siffattamente ingombra
da frantumi di lava e di ossidiana, da rendere assai malagevole il
procedere delle carrozze, fra scosse e sussulti che ci fanno ricordare
il supplizio della _telega_, e mettono a prova la robustezza dei nostri
veicoli.

Fatto un pajo di verste da Suchoi-Fantan, un grido percorre da un capo
all’altro la carovana: l’Ararat, l’Ararat! e spuntava infatti al nostro
prospetto, dall’estremo orizzonte, la sommità nevosa della classica
montagna che nella cosmologia mosaica è la seconda culla del genere
umano; poi tutto a poco a poco si disegnava nettamente sul piedestallo
di una catena montuosa questo cono gigante e solitario, col suo
rampollo a lato.

Trascorsa ancora qualche ora, un’altra voce richiama il nostro sguardo
nella stessa direzione: ecco Erivan; il nostro vetturino lo indica a
dito, dice che è lì presso, eppur non ci riesce vederlo. Effettivamente
la città è in un bacino, e solo dall’orlo sporgono le sommità degli
alberi de’ suoi giardini, di qualche torre, di qualche minaretto; nè
si dispiega allo sguardo del viaggiatore che d’improviso, nello stesso
momento in cui vi si giunge, per una svolta della strada che discende
erta ed orribilmente sassosa. Alle cinque di sera, accolti anche qui
da ufficiali che ci condussero al casino, ov’era predisposta la nostra
stanza, arrivammo nell’attual capitale dell’Armenia russa.




VII.

Abbas Mirza, Jermoloff e Paskevitsch. — Erivan e la sua cittadella. —
L’Ararat e le sue dipendenze. — Alcuni tratti della fauna del paese. —
Abbozzo orografico degli altipiani dell’Armenia russa. — Nachidjevan. —
Djulfa.


Alle condizioni naturali, al carattere asiatico, e propriamente
persiano, della regione al sud dell’Eschek Maidan, risponde la sua
storia politica. La Persia stringeva a mezzodì ed a levante l’antico
regno della Georgia, oggetto per essa di tanta cupidigia, quando
il potente dominio della Russia, sostituito al debole governo dei
Bagrationi, venne ad invertire la proporzione della forza delle due
parti. Dopo varj anni di continue lutte, la Persia dovette infine, nel
1813, cedere alla Russia il Daghestan, il Schirvan, il Karabagh, il
Chanato di Baku, e riconoscere come linea di confine il corso inferiore
del Kur e dell’Arasse, conservando soltanto alla sinistra di questo
fiume i due Chanati di Erivan e di Nachidjevan. Alla piena esecuzione
del trattato non mancava più che la definitiva rettificazione de’
confini, ma la Russia, tutta assorta allora nell’estrema lutta
contro l’impero Napoleonico, lasciava accumularsi dalla parte del
governo persiano la mala voglia di sanzionare con un ultimo atto
le perdite subite. Così passarono anni fra insistenze da una parte,
tergiversazioni diplomatiche dall’altra, e rappresaglie: la Persia
avanzandosi alquanto ne’ paesi ceduti, la Russia facendo altretanto nei
paesi che non le spettavano.

Abbas Mirza, erede al trono della Persia, governatore e pressocchè
sovrano assoluto dell’Aserbedjan, principe intraprendente e geloso
della grandezza della sua casa, aveva profittato di questo tempo per
ricomporre l’armata e preparare una riscossa. Coll’opera di ufficiali
inglesi e francesi accrebbe i corpi regolari non solo di numero,
ma anche di intrinseca forza, introducendovi la disciplina europea;
chiamò alle armi un forte contingente di cavalleria; istituì in Tauris
una fonderia di cannoni; tutto operando, per spingere il paese alla
guerra. Alla corte di Teheran il memore Feth Alì stava oscillando fra
la prudenza e l’ardire, fra la paura del suo terribile avversario, e
i continui eccitamenti del figlio. Quando la notizia della congiura
militare scoppiata sul cader del 1825 in Pietroburgo, e della
sollevazione de’ Tchetschenzi nel Caucaso, fecero credere all’ardente
Abbas Mirza esser giunto il momento di romper gli indugi. Il principe
Menschikoff, inviato ambasciatore di pace dal novello autocrate al
sovrano della Persia, fatto accorto dagli immensi preparativi di guerra
visti in Tauris, e dall’accoglienza timidamente ostile avuta dallo
Schah al campo di Sultanieh, ripassò l’Arasse. Giunto ad Erivan fu
trattenuto dal Sardar, e, poscia lasciato libero, sottraendosi per una
studiata via obliqua agli assassini che il Sardar stesso aveva messi
in agguato sul diretto cammino, riescì a portare a Tiflis la notizia di
quanto aveva udito e veduto.

Alla metà del luglio di quell’anno 1826 Abbas Mirza irruppe
improvisamente nel Karabagh, alla testa di 40,000 uomini, sollevando
i Tartari sul suo passaggio, mentre altri corpi marciavano lungo
il Caspio, e gli antichi Chan del Schirvan e di Baku penetrati
nelle già provincie persiane vi eccitavano la insurrezione, ed
il principe Alessandro di Georgia tentava fare altrettanto nella
Cachezia: tutto questo prima che Jermoloff, occupato a sottomettere
i Tchetschenzi, potesse adunare le sue forze, ed opporle al torrente
invasore. Abbas Mirza inviluppò subito colla sua armata la fortezza
di Schuschka, munita di piccola guarnigione, e di soli 4 cannoni, de’
quali due affatto inservibili. Dopo varj tentativi per indurla alla
capitolazione, il 30 luglio i Persiani ne tentarono l’assalto, ma
poi ristettero alla minaccia del comandante, di uccidere i notabili
tartari che aveva nelle sue mani. Infine la fortezza, allo stremo de’
viveri e di munizioni, era sul punto di arrendersi, quando d’improviso
Abbas Mirza dovette levar il campo per portarsi al soccorso del Sardar
battuto dai Russi a Schamchor. L’eroica resistenza del colonnello Reutt
in Schuschka, e l’inazione di Abbas Mirza davanti ad una fortezza che
avrebbe potuto senza danno lasciarsi alle spalle, decisero le sorti
della guerra. Ne’ quarantasette giorni di durata di quell’inutile
assedio Jermoloff ebbe tempo a concentrar le sue forze, a combinare
i suoi piani; e così avvenne che le truppe russe, molto inferiori
per numero alle persiane, rimanessero in ogni scontro vincitrici.
Pasckevitsch sconfisse l’armata di Abbas Mirza ad Elisabetopoli, mentre
Davidoff sulla destra moveva vittoriosa sopra Erivan, Krabbe sulla
sinistra scacciava i Persiani dal Schirvan e da Baku, e Jermoloff nella
Cachezia domava e puniva i Lesghi sollevati alle spalle dell’armata
del Caucaso. La campagna era così felicemente inoltrata, quando un
ordine dell’imperatore Nicolò tolse il bastone del comando dalle mani
di Jermoloff, per confidarlo a quelle di Pasckevitsch, il quale rivolse
allora tutte le sue disposizioni strategiche contro la fortezza di
Erivan, che i Persiani nelle loro poesie popolari decantavano come
inespugnabile. Dopo una serie di gloriosi fatti d’armi, il primo
ottobre, fu aperta finalmente la breccia dal lato del fiume; ed il
reggimento unito delle guardie imperiali, che a lavar la macchia
della ribellione aveva avuta inflitta la nobile punizione di montar
all’assalto, irrompeva animoso sull’erto cammino, quando il presidio
della fortezza, composto di 5,000 uomini, col suo comandante Hussein
Chan, e sette altri dei più notabili Chan della Persia si arrese a
discrezione. Immense provigioni di armi, di munizioni e di viveri, ed
il tesoro del Sardar, compirono il bottino di questa giornata. Aveva
per l’appunto parte a questa fazione, come appartenente al reggimento
delle guardie, il nostro capitano Romanoff, che ci narrò sul luogo i
più importanti particolari dall’assedio.

Colla presa di Erivan la campagna era propriamente finita; non
restava più che raccogliere i frutti della vittoria. Abbas Mirza
si era ripiegato in Choi; tutto il paese sgombravasi davanti alla
truppe russe che marciavano su Tauris. I Serbasi[19], da principio
atteggiati a difesa di questa città, si dispersero al primo apparire
de’ Russi, ed il general Paskevitsch vi fece il suo ingresso trionfale
il 19 ottobre. Stringente era pel governo persiano la necessità
di conchiudere la pace; e già tutto era perfettamente inteso ed
acconsentito dalle due parti, quando Feth Alì Schah, non ancora
penetrato della dura condizione de’ vinti, sorse a richiedere come
atto previo all’esecuzione, la ritirata de’ Russi al di là dell’Arasse.
L’effetto immediato di questa strana pretesa fu l’ulteriore progresso
dell’armata vincitrice. Infine venne conchiuso il 10 febrajo il
trattato di Turkmantschai che cedeva definitivamente alla Russia i due
Chanati di Erivan e Nachidjevan, sgombrava affatto il paese di Talysch,
e fissava in 18 millioni di rubli la contribuzione di guerra da pagarsi
dallo Schah, restando la ricca provincia dell’Aserbedjan occupata dalle
truppe russe fino alla completa esecuzione dei singoli capitoli. Il
riabilitato reggimento delle guardie ebbe l’onore di scortare fino a
Pietroburgo i convogli dei belli e lucicanti _tomani_ spremuti allo
Schah, ed il generale Paskewitsch aggiunse al suo nome il predicato di
Erivanski.

Questo abozzo istorico dà la ragione del particolar aspetto anche
delle opere umane in questo paese che ora forma l’Armenia russa.
La città di Erivan ha conservato tutto il suo primitivo carattere
persiano, col quale fanno contrasto le nuove costruzioni russe. Bella,
spaziosa, imponente è la piazza nella quale, dopo breve tratto, sbocca
la via di Tiflis; a destra un lungo porticato di costruzione moderna,
popolato da mercanti armeni, e dietro questo la vecchia città su
dolce pendìo, colle sue case piccole, mozzate, le sue vie ristrette
ed ingombre di macerie; a sinistra in bel ordine i grandiosi edificj
del governo, e sulla linea di questi il casino ov’erano disposti i
nostri alloggiamenti. Il rimanente della piazza oblunga, rettangolare,
serve da mercato, ed ivi sulla destra, terminata la linea dei portici,
lo sbocco del bazar, alla sinistra un filare d’alberi contornanti
il publico giardino, ed in seguito l’accesso alla grande cittadella.
Anche in Erivan, come in tutte le città dell’Oriente, sono bagni, ed
uno abbastanza bello e grandioso è il bagno armeno, del quale tutti
profittammo. Il bazar grande, solidamente costrutto in muratura ed a
vôlta, di stile persiano, è ben fornito di mercanzia d’ogni genere.

Erivan conta ora da circa 20,000 abitanti, fra Armeni e Tartari, in
proporzioni press’a poco eguali. Sotto il rozzo despotismo de’ Sardar,
gli Armeni duramente governati, formavano la parte minore della
popolazione; ma dopo la vittoria de’ Russi vi refluirono dall’Armenia
turca e dalla Georgia, ove centinaja di famiglie aveva dovuto cercar
rifugio. Venne allora il turno de’ Tartari, i quali, mossi da solo
fanatismo religioso, seguirono in massa la ritirata delle truppe
persiane, finchè l’emigrazione non venne a cessare, in parte per forza,
in parte per la persuazione che dispotismo per dispotismo il nuovo era
di molto preferibile all’antico.

Il dì seguente al nostro arrivo, dopo il pranzo offertoci dal
governatore, ci portammo a visitare la tanto rinomata cittadella. È
un immenso spazio quadrato, circoscritto per tre lati da un fossato
asciutto, e dietro questo da un muro merlato costrutto di fango,
quindi da un altro fosso, dal fondo per gran tratto erboso per un
rigagnolo che nel mezzo vi scorre. La piazza centrale del recinto
è circondata dalle costruzioni russe, come la caserma, i magazzini,
la gran guardia, la chiesa greca; mentre gli edifizj persiani, sono
raccolti verso il lato di mezzogiorno, ove le loro mura s’ergono sulla
scogliera basaltica che discende, difesa naturale, in ripide balze al
Sanga. Questi monumenti persiani ci hanno fatto concepire delle opere
d’arti che avremmo trovati nel seguito del nostro viaggio in città più
cospicue un’alta idea che la realtà poi ha delusa. Nessuno de’ _talar_
da noi visti nelle stesse residenze dello Schah vale la gran sala del
Sardar di Erivan. La vôlta suddivisa da una rete di spigoli e pignoni
e tutta incrostata di specchi; le pareti dipinte da un artista che è
stato certamente il Rafaello della Persia; le due grandi finestrate
opposte, con vetrini colorati fra rabeschi finissimi, e per una di
questo la vista del burrone del Sanga, del giardino oltre il fiume, e
nel fondo dell’Ararat in tutta la sua maestà, hanno prodotta in noi una
profonda incancellabile impressione. La bella moschea, perfettamente
conservata, è sontuosa per mosaici di mattoni smaltati, e, come tutte
quelle della Persia, si distingue dalle moschee turche per l’ampio
frontone, il vaso largamente aperto nel mezzo di esso, e la mancanza
de’ minaretti. Lì presso è l’_harem_ del Sardar ora convertito in
ospedal militare, che trovammo perfettamente governato.

Accadeva una strana avventura, mentre noi sedevamo alla mensa del
governatore. Il professore Lessona, il quale con altri pochi non
v’era intervenuto, passeggiava in compagnia di Clemente lungo il
margine del fosso esterno della cittadella, inseguendo gli agilissimi
scinchi _(Plestiodon Aldovrandi)_ che qui vedemmo per la prima volta,
sollevando pietre, e facendo passare da quei nascondigli diurni nelle
sue boccette quanti poteva trovare di insetti, di millepiedi, di
scorpioni, di que’ falangi _(Solpuga)_ che sono lo spavento anticipato
de’ viaggiatori europei in Oriente. Coll’impassibilità, colla quiete,
ma con quell’ardore interno che i profani deridono con sì imperdonabile
leggerezza, attendeva chino a terra al suo paziente lavoro, quando
un’ombra, in quella deserta e nuda spiaggia, guida d’un tratto il
suo sguardo ad un paio di stivali, e su per questi alla tunica, alla
barba, al berretto bianco d’un sergente russo, non meno di lui fisso
e curioso. — Dopo breve, reciproco interrogarsi degli occhi prese la
parola il soldato, una parola che naturalmente morì nell’aria. Per
farsi meglio capire il sergente si ritrasse, e ritornò pochi momenti
dopo col rinforzo di un altro del suo grado, ed un po’ con gesti, un
po’ colla voce riescì a far capire ai due indiscreti cercatori che
dovevano render conto delle loro azioni in fortezza, e dolcemente
li spinse colle mani. La mano di Lessona corre istintivamente nella
tasca al fido _revolver_, ma corse nel medesimo tempo lo sguardo
alle baionette luccicanti lì presso, ed il pensiero ai cannoni poco
discosti. Convenne cedere e fare qualche passo fino al corpo di
guardia; ma lì nuova pausa ostinata, colla schiena al muro, finchè
Lessona riescì ad ottenere che rimanesse il solo Clemente in ostaggio,
ed egli se ne andasse in cerca d’ajuto, con un _droschki_ che passava
di là opportunamente. In un quarto d’ora la cosa fu chiarita, ed il
sergente persuaso che i due stranieri non erano topografi esploratori.
Naturalmente questa avventura fu argomento nei nostri crocchi alle più
lepide fantasticherie, e compiangemmo il nostro amico per la mancata
forte emozione di almeno un’ora in una prigione russa.

Un caso analogo od inverso, come si vuole, ci toccò il dì seguente.
Mentre i nostri compagni eransi recati a visitare Etschmiadzin, la Roma
Armena, io e Lessona, rimasti in Erivan, ci proponemmo un escursione
zoologica ne’ fossi della cittadella, pel che io aveva ottenuta
una previa esuberante licenza del governatore. Vi andammo adunque,
sicuri di trovare passaggio libero e sgombro; ma giunti alla porta
la sentinella ci attraversa il passo; altri soldati accorrono; e lì
spiegazioni chieste e date dalle due parti nella propria lingua. Dal
primo corpo di guardia siamo accompagnati ad un secondo; e lì pure
gesti e parole inutili, ed una nuova scorta che ci accompagna alla gran
guardia, ove è subito chiamato l’ufficiale di picchetto. Gli rivolgo la
parola prima in francese, poscia in tedesco, e l’ufficiale era uno de’
pochissimi in Russia che non conoscano o l’una o l’altra od entrambi
queste lingue; però egli stesso chiamò un soldato, il quale parlando
il tedesco, ci fece da dragomanno. Esposto il nostro desiderio,
l’ufficiale andò a prendere gli ordini dal comandante, e pochi momenti
dopo tornò coll’aria tutta complimentosa, e, sempre colla scorta del
nostro interprete, ci invitò a seguirlo; e nel tenergli dappresso
per varj andirivieni, la nostra conversazione fu quella che in brevi
parole qui riassumo. — Osservate, dice l’ufficiale; questa è la superba
moschea persiana. — Grazie tante, l’abbiamo già vista. — Bene; entriamo
nella magnifica sala del Sardar. — Vi fummo già jeri, nuove grazie. —
Venite a vedere la finestra d’onde fece il salto la vergine armena. —
La conosciamo, e sappiamo tutta la storia[20]. — Guardate il selciato
di questo cortile: è tutto di granate persiane. — Va bene, ma non
c’importa. — Ah! ho capito, replica l’ufficiale; vi piacerà visitare
l’arsenale; è poca cosa ma ce n’è anche troppo per i Persiani. — Grazie
mille, non fa per noi.

Infine durammo molta fatica a fargli capire che non eravamo militari,
che non domandavamo altro che di esser liberi a cercar serpenti,
lucerte e scorpioni fra le ortiche e le macerie del fosso interno.
— Quando gli fu ben chiara la nostra intenzione, l’ufficiale che
non voleva farci grazia d’un affusto, d’una cartuccia, lasciando
trasparire dalla fisonomia il giudizio ben poco lusinghiero che in
quel momento faceva della nostra dappocaggine, rivolse bruscamente il
passo, lasciandoci per altro sotto la custodia del soldato. Questi era
un polacco arruolato per castigo di atti sediziosi verso il governo
imperiale; e narrandoci come fosse in Erivan, ed aiutandoci a rovesciar
massi e prendere i rettili ancora intorpiditi dalla brezza matutina,
ci fece fare il giro del fossato, e ci aprì infine una porticina sulla
sponda dirupata del Sanga. Raccogliemmo in quella escursione alcune
sanguisughe, lombrici, insetti, crostacei, e varj belli esemplari di
_Typhlops vermicularis, Tyria Dahlii, Plestiodon Aldovrandi, Stellio
caucasicus, Emys caspica_.

Il Sanga spumeggia fra i macigni del suo letto sassoso in un
profondo solco a mezzo giorno della città, e nella densa e rigogliosa
vegetazione erbacea, nelle macchie di pioppi, di salici, di ontani che
ne seguono il corso, mantiene i caratteri della sua origine; è come una
radice del sistema del Caucaso, che si perde nelle steppe dell’Armenia.
Un vecchio ponte di fattura persiana, come lo indica l’acutezza del suo
arco, conduce alla riva opposta, all’ampio ombroso giardino del Sardar,
nel cui mezzo sorge un elegante _kiosco_ vagamente dipinto. Due piccoli
canali, pochi passi al di sopra del ponte derivati con molta arte dai
Persiani, seguono la corrente, poi, aprendosi la valle, deviano per
distribuirsi in benefiche vene fra i campi. Un _Gammarus_, una piccola
Paludina (_Bithynia_), una _Neritina_, un _Ancylus_, abondano fra i
sassi e le conferve nei ristagni lungo la riva; ed abonda pure nelle
fessure del terreno, sotto le pietre, anche all’asciutto ne’ luoghi più
freschi ed ombrosi una _Telphusa_ (_Cancer iberus_. Pall.), che non si
distingue affatto dalla _T. fluviatilis_. Trovammo sempre questa specie
communissima anche lungo i fiumicelli della Persia.

La fauna ornitologica delle adiacenze di Erivan non mi ha presentato
alcun che di particolare; solo ho notato come assai più abondanti
qui che nel paese precedentemente percorso l’_Alauda cristata_, il
_Pastor roseus_ e l’_Upupa epops_. Quest’ultima specie, così diffusa
in Oriente, ha una vera predilezione per la città di Erivan, ove
trovasi dapertutto in quantità straordinaria, sugli spalti della
cittadella, nelle piazze, nelle contrade; mentre in Europa è tra
gli uccelli più cauti e solitari. Frequentissima è sui colli sassosi
a pochi passi dalla città una pernice rossa; la _Perdix (Caccabis)
chucar_, la medesima che per l’Elburz si estende fino alle Indie. Non
ho che poche cose a dire intorno ai mammiferi. Presso il farmacista di
Erivan (il quale è un tedesco, come al solito, in tutta la Russia),
ho visto alcune pelli di _Mustela sarmatica_, di _Capra ægagrus_,
di _Ovis Gmelini_; e fui assicurato esser queste due specie tuttora
assai frequenti sull’Ararat. Da Erivan in avanti per tutta la Persia
è communissimo un piccolo Criceto _(Cricetus phœus)_, il quale
s’introduce nelle case, ove pare tenga luogo del sorcio commune, che
io non ho mai potuto vedere in tutto il viaggio, per quanto cercassi
constatarne l’esistenza. Due individui di questa specie di Criceto
furono appunto presi nel nostro stesso alloggio in trappole da sorci.

La natura del terreno su cui la città di Erivan è costrutta vedesi
chiaramente ne’ tagli lungo il Sanga. È sempre un terreno vulcanico,
ma in cui si distinguono le traccie di varie eruzioni successive. Così,
per esempio, alla destra del fiume, in prossimità del ponte, sono messe
a nudo tre distese di roccie vulcaniche molto nette. L’inferiore è una
roccia basaltica compatta, cinericcia, in grossi banchi orizzontali;
poi su questa riposano le masse prismatiche verticali di un altro
grosso banco di basalto, il quale è un lembo della gran colonnata che a
sinistra forma il rialto coronato dalla cittadella; infine questo lembo
basaltico è ricoperto alla sua volta da una vera lava ancora basaltica,
scoriacea e bollosa.

Dal Sanga al piede dell’Ararat corrono circa 30 verste in un terreno
affatto piano, ed in gran parte coltivato. Come altrove ho detto,
questa classica montagna, che spinge il suo cocuzzolo all’altezza di
13,518 piedi, porta sulla sua base un altro cono filiale, che è il
piccolo Ararat. Secondo la leggenda armena, quell’eccelsa vetta non
è accessibile da piede mortale: e S. Giacomo volendo ostinatamente
vincere il divieto, per raccogliere là su qualche frammento dell’arca
noetica, allo svegliarsi da ogni stazione notturna, trovavasi riportato
al punto dove era partito. Con tutto questo è indubitabile che Parrot
pel primo, e dopo di lui Autonomoff vi salirono: ma nata contesa sulla
realtà del successo di Parrot, non fu a questi possibile riportare la
testimonianza delle stesse sue guide, le quali, piuttosto che portar
offesa alla sacra leggenda, negarono il fatto; ed asserirono che,
per non affrontare il castigo di Dio, aveano fatto credere a Parrot
stesso di essere alla cima del monte, quando in realtà ne erano ancora
lontani. Non fu più creduta, anzi lo è meno l’ascensione fatta da
due Inglesi nel 1861. Infine è partito preso, ed a nessuna condizione
gli armeni si lascerebbero indurre a stampare la parola _Ararat_ sul
bastone alpino del più forte e coscienzioso viaggiatore.

L’Ararat domina tutta l’Armenia, inalzandosi nel centro d’azione delle
forze sotterranee che l’hanno sommossa; forze non per anco del tutto
spente. Non si hanno per verità ragguagli sicuri di vere eruzioni di
là partite in tempi storici; ma i terribili crolli che hanno desolato
l’Armenia in varie epoche, ed anche in epoche recenti, si connettono
senza dubio ad un resto di attività del grande vulcano. Al dire di
Reineggs quelli del 5 gennajo e del 22 febrajo 1785 sarebbero stati
accompagnati da fumi e fiamme. Memorabile su tutti è il terremoto che,
il 20 giugno 1840, da quella massa colossale si propagò per grande
estensione tutt’attorno, recando spavento e danni alla città di Erivan,
rovinando quasi per intiero Nachidjevan, devastando i distretti di
Charaour e di Sourmal. In questa catastrofe il florido villaggio di
Arkouri[21] ed il convento di S. Giacomo, posto in una valle sul pendío
stesso del monte, furono intieramente distrutti e sepolti sotto una
congerie di massi e di tritumi. Tre anni dopo l’avvenimento, il dotto
viaggiatore Maurizio Wagner, raccolse sul luogo stesso il racconto di
alcuni testimonj occulari, tutti concordanti nel riferire che un getto
enorme di vapori e di massi pietrosi sia escito, quel giorno fatale,
con grande impeto del seno del vulcano[22].

Il giorno 12, di buon matino, lasciammo anche Erivan. — La processione
delle nostre carrozze sfila da principio per una campagna arida e
sassosa; ma, fatte poche _verste_, la gran pianura che si distende alle
falde dell’Ararat, fertilizzata dalle aque del Sanga, è perfettamente
coltivata a prati, campi, vigneti, giardini con grandi filari di
pioppi e di salici. Incontriamo sulla via alcuni villaggi armeni, o
piuttosto gruppi di umili casicciuole costrutte dell’unico materiale
architettonico di tutta la Persia, ch’è fango, impastato tutt’al
più con alquanta paglia minutamente tagliuzzata. Alle 9 giungiamo
a Kamerlou, ove la necessità di riparare un’avaría di un nostro
_tarantass_, ci obliga ad una sosta di alcune ore. La stazione è
ombreggiata da un boschetto di grandi alberi, cinto dagli avanzi di
un muricciuolo oltre il quale sono pascoli aprichi solcali da canali,
e sparsi di bellissime _Iris_ in piena fioritura. Ne’ dintorni della
stazione belli e grandi gelsi, dei quali non si trae profitto veruno.
Gli uccelli da me presi in questa giornata, appartengono alle seguenti
specie: _Glareola pratincola, Cuculus canorus, Picus major, Emberiza
miliaria, Ægithalus pendulinus_. Qui trovo inoltre per la prima
volta l’_Hypolais elaeica_, così frequente anche in tutta la Persia.
Lasciate poscia le fertili campagne di Kamerlou, la strada attraversa
aride steppe con fioriture saline. Alla sera giungiamo a pernottare a
Sardarak.

Sorto il giorno seguente alla prima alba, mi valgo d’una concessione
d’un pajo d’ore per fare un’escursione sui colli sassosi situati
dietro il villaggio, d’onde si domina tutta la vallata. Quei colli sono
formati da una calcarea silicifera scura, molto venata di bianco, tanto
ricca di fossili devoniani, e sovra tutto di polipai (_Columnaria,
Cyathophyllum, Favosites_), da esserne quasi per intiero costituita.
Gli strati di questa calcarea alternano con altri di una marna friabile
e corrosa, frammezzo i quali si ergono a guisa di muraglie. Fra
questi massi trovo per la prima volta alcune interessanti specie di
uccelli: l’altisonante _Sitta syriaca_, la _Saxicola aurita_, il cui
volo è così diverso da quello delle altre specie del genere, ed una
_Emberiza_ affine alla _cæsia_, ma da questa chiaramente distinta, e da
me registrata col nome di _Emberiza (Fringillaria) Cerrutii_, in onore
dell’uomo egregio posto a capo della nostra missione[23].

Girando lo sguardo sulla valle sottoposta, dall’alto di uno di questi
colli, si acquista dell’orografia generale del paese una prima idea
che poscia si svilupperà più chiara e costante. Due catene di monti
fiancheggiano l’alto piano che noi percorriamo nella lunghezza;
parallelo a ciascuna ed al loro piede si distende un antemurale formato
da una serie continua di colline affatto nude. La catena di monti che
forma qui il fianco destro dell’altipiano, si distacca dall’Ararat. A
poche verste da Sardarak gli antemurali dei due lati spiccano ciascuno
un contraforte, e i due contraforti incontrandosi formano una sbarra
che separa questo altipiano da un secondo inferiore. Aggiungerò ora
che una simile disposizione affatto caratteristica si riconosce anche
nel seguito. Tutta la regione elevata che dall’Armenia si continua
nella Persia, lungo il versante meridionale dell’Elburz, è una serie
di altipiani, or più or meno estesi, disposti in modo da rappresentare
immense gradinate, limitati ciascuno ai lati da una doppia serie di
rilievi nel modo che ho detto, e l’un dall’altro separati da una sbarra
traversale, che serve di linea di separazione delle aque.

Io avevo intrapreso quell’escursione da solo. Al ritorno mi trovai
impegnato fra due muricciuoli che mi condussero nell’interno del
villaggio, in un labirinto di fango e di focaccie di sterco, nel
quale io non sapeva più discernere i viottoli dagli anditi privati, le
aiuole dai cortiletti. Qua e là sugli accessi di luridi antri, figure
cenciose tendevano verso di me uno sguardo avido e fosco, che indicava
chiaramente di lasciarmi passare per grazia. Tanti giri e rigiri, senza
mai trovare un’escita, due cani che mi s’erano messi alle calcagna,
ed abbaiando chiamavano su miei passi maggior gente e faccie meno
rassicuranti, mi suscitavano crescenti angustie. Quando Dio volle mi
trovai di nuovo fuori del villaggio, e di nuovo salito su di un’altura,
e studiati meglio i punti cardinali, e le traccie ai cumuli di fieno
della stazione postale, mi riescì infine mettermi sulla giusta via e
raggiungere i miei compagni, i quali già erano in pena pel mio ritardo.
Il capitano Romanoff mi fece intendere d’essermi avventurato troppo
imprudentemente, che il paese ove c’innoltravamo non è molto sicuro, e
che Sardarak in special modo è ricetto di ladri.

Oltrepassato l’altipiaoo di Sardarak, per la sbarra di cui ho detto
più sopra, la strada scende ad un secondo altipiano paludoso, popolato
da uno sterminato numero di cicogne, aironi, vanelli, anitre, e lo
costeggia fino a Bascnurascen, villaggio tartaro, ove animatissima
è la vita agricola, grande il moto di armenti e di carri, e tutta la
campagna d’intorno intersecata da una rete di canali, perfettamente
coltivata a campi, a prati, a grandi risaje. Il padrone di questo
villaggio, Hali-bey, dev’esser un Creso dell’Armenia. Nella breve
sosta che vi facemmo, ho trovato frequente l’_Aedon galactotes_
ed un’allodola ancora imperfettamente conosciuta, la _Calandrella
pispoletta_ (Pall.) Fin dalla stazione precedente incominciano a
mostrarsi forme nuove di saurj; l’_Eremias variabilis_, l’_Ophiops
elegans_, il _Phrynocephalus helioscopus_, communissimi da qui in poi.

Ripartiamo sul pomeriggio, passando a guado i rami di un piccolo fiume,
l’Arpatschai, d’onde sono derivati i canali irrigatorj che si diramano
nel piano di Bascnurascen; e quindi, lasciando le risaje sulla nostra
destra, la strada piega su di un’arida steppa che si continua fino
a Keuvrak, nostra stazione notturna. Continua al di là di Keuvrak
la steppa, più mossa, più ondulata, compresa ancora fra due catene
di montagne, ognuna delle quali ha qui come antemurale una serie
di colli marnosi, con strati variegati di rosso più o meno intenso,
che nel taglio, visto dalla strada, appajono per lo più orizzontali,
appartenenti alla formazione salifera (miocenica) di Nachidjevan.
Il loro fianco rivolto verso la valle dell’Arasse è affatto nudo e
bizzarramente solcato dalle aque pluviali; ed ove la strada, piegando
alquanto a sinistra, tocca il piede di questi colli, fa bello
spettacolo un’infinità di sprazzi abbaglianti, pei raggi solari che
si riflettono ne’ cristalli di gesso disseminati copiosamente fra gli
straterelli marnosi.

Il tratto per giungere a Nachidjevan era breve, e fu allegramente
percorso nelle prime ore del matino. Prendiamo alloggio nel miglior
quartiere, offertoci dal colonnello Quartano, capo della polizia del
circolo, vecchietto robusto, secco, vivace, poliglotto, che avevamo
incontrato a Tiflis, ov’erasi trattenuto dopo la nostra partenza di
colà. Nachidjevan è ancora mezzo rovinata dal terribile terremoto del
1840; le sue case sono di fango, con appena qualche rivestimento di
calce ne’ fabricati che servono di abitazione agli impiegati, e pochi
edifizj in muratura. Fra questi primeggia la scuola che trovammo vuota,
per non so quali ferie. Il suo direttore, che era assente, dev’esser un
uomo assai colto, dalla ricca e scelta biblioteca e dalle collezioni di
oggetti naturali che trovammo nel suo ufficio. Il materiale della città
non solo, anche lo stile è tutto persiano; e le contrade strette, ed i
muricciuoli di fango cingenti giardini scompigliati con grandi alberi,
e specialmente salici e gelsi, ed i ruderi di antichi monumenti, fanno
testimonianza della secolare dominazione de’ Khan. Fra questi monumenti
spiccano per l’eleganza e per la mole una porta di una moschea con due
torri ai lati, e lì presso altra torre colossale massiccia, carica di
ornamenti e di iscrizioni del Corano. Ci recò graditissima sorpresa
l’incontrar qui due negozianti lombardi, intenti al raccolto di semente
di filugelli, che incominciava appunto allora; e con sodisfazione vera
potemmo constatare noi stessi il pieno vigore dei bachi e la bontà
dei bozzoli. È la bella razza di Brianza trapiantata a Nouka, e di là
anche ad Ordubad, ed in questo estremo angolo conservatasi immune dalla
epidemia che devasta il suo antico centro di produzione.

Questi nostri compatrioti sericoltori ci regalano di vino del luogo,
talmente squisito, da strapparci un voto di fiducia, in favore della
tradizione armena, secondo la quale Nachidjevan sarebbe stata costrutta
da Noè. È ancora oggetto di venerazione un antro oscuro e corroso da’
secoli, non lungi dalla città, ove si crede riposino le ceneri del
patriarca del genere umano.

Alcuni de’ nostri compagni si determinarono a partire la sera stessa
per Djulfa, a fine di accelerare la formalità del nostro passaggio
sul territorio persiano, e spedire, ove occorresse, un corriere
al _mehmendar_ che doveva essere pronto a riceverci con solennità,
sanzionata da usi e tradizioni secolari. Ci raccontarono poscia come
avessero dovuto lungo il cammino rimaner bene in guardia, colle armi
impugnate, e sostener il coraggio de’ vetturini e degli stessi Cosacchi
di scorta, tementi, al farsi della notte, un attacco di qualche orda
di Tartari o di Curdi, che infestano il paese, fatti audaci dal sicuro
asilo del prossimo confine.

Il seguente mattino (15 giugno) il resto della comitiva si mosse nella
stessa direzione.

Appena fuori di Nachidjevan la strada solca una bassa pianura qua e là
pantanosa, ma ancora in generale ben coltivata; poi riascende su di una
landa affatto sterile, ondulata, rispondente ancora al già descritto
carattere orografico del paese, compresa fra una duplice linea di monti
che si protendono all’incontro dell’Arasse. Le due catene più remote,
colle loro punte, alcune tuttora nevose, presentano tutti i caratteri
di sollevamenti vulcanici; gli antemurali interni che si distendono
alla loro base sono ancora una continuazione della formazione salifera
di Nachidjevan. Lungo il fianco orientale, ch’è il nostro fianco
sinistro, fra la catena vulcanica ed il suo antemurale, s’alzano
cumignoli conici isolati, evidentemente ancora vulcanici. Presso Djulfa
la valle si ristringe; i conglomerati rossi prendono il sopravento
sulle marne, i colli si elevano con fianchi dirupati e cresta così
bizzarramente ritagliata, da produrre in varj luoghi un effetto come di
ruderi di antichi forti. Lungo il letto dell’Arasse ho trovato frantumi
di una bellissima puddinga, che deve certamente considerarsi come una
varietà dell’anzidetto conglomerato; una varietà con cemento omogeneo
siliceo, assai rassomigliante alla bella puddinga silicea di Scozia,
come questa suscettibile di bel pulimento, e molto da apprezzarsi dai
lapidarj. Varrebbe ben la pena di cercare il posto originario di questa
roccia.

Le pernici del deserto (_Plerocles_) di cui io aveva già osservato
qualche coppia nell’aria fino da Sardarak, qui incominciano a mostrarsi
a stormi numerosi, forieri di quelli che dovevamo incontrare ogni
giorno nel seguito del nostro viaggio. Un Cosacco cacciatore ce ne
regala per la nostra cucina, insieme a due _Otis houbara_. — I rettili
presi per via spettano ancora alle già accennate specie _Ophiops
elegans, Eremias variabilis, Phrynocephalus helioscopus, Stellio
caucasicus, Plestiodon Aldovrandi_.

Djulfa, sulla sponda sinistra dell’Arasse, un tempo grosso villaggio,
trovasi ridotta ora a qualche stazione di Cosacchi, a qualche gruppo
di catapecchie e di rovine, il cui colore si confonde con quello del
circostante, sassoso deserto. Lo sguardo del viaggiatore è attratto
dal biancheggiante edifizio della quarantena, per rispetto al luogo,
maestoso ed elegante, e messo là apposta, come per scrivere: qui
cessa la civiltà europea. Ivi raggiungiamo i nostri compagni, e
troviamo cordiale accoglienza dal direttore, di origine tedesca, uomo
di bella presenza, di poche parole, ma assai cortese, e ne’ suoi
tratti manifestante una perfetta educazione. Questo edifizio surge
precisamente sulla sponda sinistra dell’Arasse, assai più elevata
della sponda opposta, e scendente con pendìo ripido al fiume che ne
lambe il piede. Dal loggiato che domina la sottoposta valle, vedesi
di prospetto l’antitesi di un vecchio e cadente fabricato persiano,
che serve di ricovero ai doganieri ed alle guardie di confine; e lì
presso l’accampamento persiano, singolare anzi bello spettacolo per
noi. Tutto il pianerottolo sassoso oltre l’Arasse era animato di nuova
vita; centinaja di cavalli sbandati vagavano al pascolo; giacchi rossi
di militi persiani movevansi d’ogni parte affaccendati: qua e là fasci
di fucili e sentinelle, e più prossimo al fiume un villaggio di tende.
Il direttore della quarantena ci raccontò come tutta quella gente fosse
là radunata per riceverci da quasi un mese, precisamente per tutto il
tempo della nostra fermata in Tiflis ed in Erivan.

Scorsa appena qualche ora, ecco giungere a far omaggio al ministro
d’Italia, con gran codazzo di uffiziali, militi e servi, ed in grande
uniforme, Kuli Khan, il _mehmendar_[24] che ci doveva accompagnare
fino a Tauris. Scambiati gli inchini ed i complimenti, abbastanza
lunghi nello stile orientale, si venne infine a parlare del nostro
passaggio sul territorio persiano; ed il _mehmendar_ dichiarò di non
poterci ammettere ne’ dominj del re dei re, se non in forma solenne,
e rivestiti dell’uniforme del nostro rango. La cosa fu lungamente
discussa, con tutta la serietà di una quistione diplomatica; poi,
assicurato il ministro Cerruti sulla costanza dei casi precedenti, si
decise di ottemperare alle esigenze dell’etichetta persiana. Il mattino
del 16 giugno, in pompa magna, passammo l’Arasse.




VIII.

Il nostro ingresso nell’impero dello Schah. — Scacciamento del
dragomanno. — Modi di viaggiare in Persia. — Le stazioni postali
ed i caravanserai. — Veicoli. — Il nostro accampamento. — Ordine
delle marcie. — Forma dall’accoglienza persiana. — Dare per avere. —
Sicurezza delle strade.


Varcammo l’Arasse alla spicciolata, per adattarci alla capacità della
sconquassata barcaccia che intrattiene sul fiume il governo persiano,
geloso di conservare le difficoltà del passaggio dal territorio russo
sul suo proprio. Il nostro immenso bagaglio ci aveva già in gran parte
preceduti il giorno inanzi, e ci aveva del pari preceduti il nostro
dragomanno Mehrab. Alla sponda destra del fiume stava aspettandoci
uno sciame di soldati e di _ferrasch_[25], gli uni tenenti a mano i
cavalli che dovevamo inforcare pel decoro della cerimonia, gli altri
per farci scorta d’onore. Montati in sella, fummo subito classificati
secondo il nostro valore relativo nell’equitazione. L’alta e la
bassa e la nessuna scuola in confusa miscela, resero discretamente
scompigliata la nostra fila, e quando la voce del comando dei più
esperti incominciava già ad ottener qualche successo, il breve tratto
che ci separava dall’accampamento era già percorso. Kuli Khan stava
aspettandoci, colla sua scorta, in tenuta di parata. Uditi e ricambiati
i complimenti d’uso, scendemmo di cavallo, ed entrammo nella gran
tenda, ove si dovea compiere la seconda parte delle formalità del
nostro ricevimento. Seduti in cerchio su vecchi sedili sgangherati,
ripresero i complimenti e incominciò la circolazione da una bocca
all’altra dell’indispensabilissimo _kalian_, mentre i servi si davano
gran moto a versarci thè, caffè, _sherbeth_, e ad offrirci sovra enormi
bacili di legno frutta e confetture. Così fu fatta definitivamente la
consegna delle nostre persone al _mehmendar_.

Resi liberi infine, ci affrettammo a svestirci dell’uniforme, a
riprender il nostro abito di fatica, ad assettare i nostri particolari
bagagli, a tutto disporre pel nuovo sistema di viaggio che doveva
incominciare all’alba del domani. Principal cura doveva esser la scelta
de’ cavalli, appropriata al nostro vario grado di sicurezza in sella,
essendo nella nostra schiera i due estremi, cavalcatori di prima forza,
ed altri pei quali tutta la pratica precedente non andava al di là
di qualche asinata campestre. I forti, da buoni fratelli, ajutarono
i deboli, anche con un’istruzione accelerata nelle più fondamentali
norme dell’equitazione. Noi eravamo sufficientemente provisti di selle
europee: i cavalli, buoni in generale, sebbene di forme poco eleganti,
provenivano, per offerte che si dicevano spontanee, dalle scuderie
delle primarie autorità di Tauris.

Mentre la maggior parte della comitiva attendeva a questa importante
bisogna, il ministro Cerruti occupato nella sua tenda alle più generali
disposizioni pel viaggio, aveva dovuto muovere qualche rimbrotto al
nostro dragomanno Mehrab, per la sua trascuratezza in eseguire gli
ordini ricevuti. Costui che non avrebbe avuto l’ardire di alzar gli
occhi in faccia ad un’autorità persiana di secondo ordine, era già
guastato dal trattamento affabile e benevolo ch’aveva ricevuto da
noi, e trascese fino a stancare la longanime pazienza del ministro,
e ad accendere il giusto sdegno di uno de’ nostri che trovavasi
presente. Non appena la notizia di questo fatto si diffuse nella
nostra brigata, fu unanime la deliberazione di pregare il commendatore
Cerruti a liberarsi di quell’uomo, dal quale non era più sperabile
utile servigio. Il signor Mehrab, immediatamente e lautamente pagato,
ripassò l’Arasse, per ribattere pochi giorni dopo le nostre orme, ed
accagionare alla missione nuove importunità in Tauris, cessate con
nuovo sacrifizio di danaro. La mancanza del dragomanno stipendiato
non ci fu punto sensibile. Il turco è la lingua parlata per tutto
l’Aserbedjan, e si spende molto bene anche al di là, e questa lingua,
non punto straniera ad alcuni membri della missione, ed allo stesso
ministro, era profondamente conosciuta dal console Bosio, che ben di
buon animo si lasciò acclamare dragomanno ufficioso.

L’effetto di questo malaugurato incidente fu presto mandato in fumo:
la giornata sarebbe stata ancora condita di una discreta dose di
buon umore generale, se il vento, già molesto dal mattino, non fosse
divenuto impetuoso verso la sera, travolgendo densi nembi di arena, e
minacciando ad ogni istante di travolger insieme anche le tende. Ma i
Persiani sanno, e dovemmo imparare anche noi, che con questo elemento
bisogna far conti giornalieri; epperò tutti i congegni delle tende sono
diretti a sfidarlo, ed i nostri _ferrasch_ affaccendati attorno ai nodi
ed ai piuoli, ci assicurarono l’asilo per la notte.

L’ordine che mi sono prefisso in queste note, esige ora che io descriva
il modo di viaggiare in Persia. I semplici privati ottengono facilmente
dal governatore di una provincia qualunque un firmano, e col firmano
una piccola scorta della quale è capo un così detto _golam_, sorta di
guardia nazionale a cavallo, che provede per via a tutti i bisogni
del viaggiatore, e sovratutto all’alloggio per la notte in qualche
abitazione privata; ma le persone rivestite di un carattere publico,
gli ambasciatori de’ sovrani esteri, hanno a guida un _mehmendar_ ed
una scorta più numerosa, e devono subire le noje di lunghi cerimoniali
e di regali enormemente passivi ad ogni stazione principale. Se
l’ambasciata è poco numerosa, come fu dal 1860 al 1861 l’ambasciata
prussiane, di sole quattro persone, gli alloggiamenti sono presi
ne’ villaggi o nelle città che si incontrano sul cammino; in caso
differente, come appunto fu il nostro, il ricovero ad ogni fermata è un
piccolo villaggio improvisato di tende.

Non occorre il dire che solo veicolo possibile in Persia è il cavallo.
Ora su tutte le linee più battute si trovano di tratto in tratto
stazioni di posta, nel linguaggio del paese chiamate _tschaparkhané_,
ove si effettua il cambio dei cavalli, ed ove pure si trova disponibile
qualche cella oscura e sudicia pel riposo, un _samovar_ ed un kalian,
per quella forma di ristoro di cui ogni viaggiatore sente maggior
bisogno in Persia. Ogni _tschaparkhané_ si distingue da un piccolo
cortiletto chiuso fra mura di fango, nelle quali mura sono scavate
piccole nicchie che servono di mangiatoja pei cavalli; una stanza
terrena, ed un’altra superiore alla porta di entrata, costituiscono
quasi dovunque i soli quartieri per gli alloggiamenti.

Oltre i _tschaparkhané_, i quali sono d’ordinario ne’ villaggi, od a
questi molto vicini, s’incontrano in Persia i _caravanserai_, grandi
edifizj, alla costruzione dei quali hanno proveduto con particolar
cura i varj Schah che si sono succeduti nel dominio del paese, od
alcuni di que’ pochi ai quali i Schah permettono arricchirsi, e per
animo pietoso, o, più di soventi, per un contratto interno colla
propria coscienza, vogliono lasciare ai posteri qualche memoria di sè.
Questi edifizj sorgono nella solitudine delle steppe, fra le maggiori
tratte da un villaggio all’altro, e sono una vera providenza pei
viandanti. La loro forma di grandi recinti quadrati, con tronchi di
torre ai quattro angoli, ed un’unica grande porta di accesso, li fa
rassomiglianti a piccoli forti. Ve n’ha che sono costrutti in mattoni
cotti, con un certo gusto architettonico, primeggiando quelli edificati
da Abbas il grande, ma non ve n’ha alcuno che non porti le traccie
del tempo e dell’estrema incuria de’ Persiani; e non rari sono quelli
affatto rovinati ed abbandonati. Nell’interno di questi caravanserai,
ai quattro lati del recinto, sono allineati grandi archi a guisa di
casematte, che servono di stanza ai viaggiatori. Non ci mancarono
occasioni per far conoscenza pratica di questi sucidi asili, ed a suo
tempo darò, all’abbozzo che ne ho fatto, qualche tocco di chiaroscuro.

Ho detto che solo veicolo in Persia è il cavallo; questo per la commune
de’ viaggiatori, cioè per uomini, ed uomini sani. Il commendator
Cerruti ha voluto tentare l’impossibile, e vi è riescito, facendo
trascinare al seguito della caravana due vetturaccie, pel caso che
alcuno di noi cadesse ammalato per via, o per qualche altro accidente
imprevisto: e realmente questa misura ci salvò da gravi imbarazzi in
più di una circostanza. Sebbene non siano in Persia strade propriamente
dette, la natura del paese renderebbe agevole il viaggiare in vettura,
ove si accomodassero i burroni che di quando in quando tagliano la
solita via delle caravane. Più di una volta ci trovammo nella necessità
di far portare le carrozze attraverso passi impraticabili. — Due altre
forme di veicoli indigeni sono particolarmente ad uso delle donne e de’
malati. L’una è il _kegiavé_, sorta di gabbie appajate ed equilibrate
sul dorso di un mulo; l’altra è il _tartaraval_, lettiga chiusa, su due
stanghe legate a due muli, l’uno al davanti, l’altro al di dietro.

Secondo la condizione della perfetta reciprocità, era stato stabilito
che tutte le spese del nostro viaggio, dall’Arasse a Teheran, fossero
a carico del governo persiano; e questo ci aveva muniti di un doppio
sistema di tende, in tal modo che, mentre uno ci serviva di ricovero,
l’altro viaggiava su muli alla stazione del giorno seguente, ove
tutto l’accampamento doveva trovarsi già disposto al nostro arrivo.
Questo accampamento era diviso in due parti, una per noi, l’altro pel
_mehmendar_ e pel suo seguito. Fra le tende minori che ci servivano
di stanza, sorgeva la tenda principale funzionante come sala di
ricevimento e sala da pranzo, adobbata da un grande baldacchino interno
in tessuto serico di Tauris. Sul pavimento erano distesi grossi feltri
stampati a disegni con discreta eleganza, e nella tenda maggiore uno di
que’ tappeti che per la tessitura, la vivacità e la solidità de’ colori
non hanno rivali in Europa. Nell’interno di questa tenda stava disposta
in tre pezzi malamente connessi una vecchia tavola che aveva servito
da chi sa quanti anni alle ambasciate europee, ed all’intorno sedili
scarsamente sufficienti.

Le tende erano sempre erette in prossimità di qualche villaggio. Che
se il nostro modo di viaggiare, le provigioni delle quali eravamo
forniti, potevano anche emanciparci da questa vicinanza, una necessità
assoluta era per noi qualche rivolo, qualche canale ove attinger aqua,
e questi si incontrano in Persia così rari e distanti, da determinare
necessariamente la posizione di ogni luogo abitato ed abitabile anche
temporaneamente. I servi che avevano la cura di preparare il nostro
accampamento, non mancavano mai di scavare presso la tenda principale
un apposito bacino rettangolare, della profondità di un metro
all’incirca, e di guidarvi dal vicino canale un filo d’aqua.

Una forte compagnia di mulattieri era stata assoldata dal governo
persiano pel trasporto dell’immenso materiale della nostra caravana.
Come già avevamo dovuto far nel tragitto per le provincie caucasiche,
i nostri bagagli erano divisi in due parti: i materassi e gli involti,
cogli oggetti di uso giornaliero, viaggiavano con noi; le valigie
e le casse più pesanti erano confidate a’ mulattieri che partivano
separatamente da ogni stazione, precedendo di cinque o sei ore la
caravana. Rimando ad altra occasione l’assolvere un debito di coscienza
verso questi uomini duri alla fatica, intelligenti, sobrj, che sono i
_tscharvadar_ o mulattieri persiani.

L’ordine delle nostre marcie fu discusso a Diulfa tra il commendatore
Cerruti, forte della sua responsabilità, della sua esperienza in altri
lunghi viaggi, ed il professor Lessona, che riuniva alla conoscenza
pratica del clima dell’Oriente, alla fiducia di noi tutti, il carattere
ufficiale di medico della missione. La stagione estiva nel suo corso
ascendente, l’idea preconcetta degli ardori canicolari della Persia,
che però trovammo nel fatto maggiore della realtà, suggerirono la
misura di viaggiare dalle ultime ore della notte alle prime del
mattino. La bontà di questa disposizione, che trovò da principio
qualche animo restio, fu messa fuori di dubio in due circostanze dalla
prova comparativa dell’ordine invertito. Per tal maniera noi giungevamo
alla novella stazione verso le nove del mattino; era presto preparata
la colazione, alla quale succedeva qualche ora di riposo spontaneo e
prescritto, dopo il quale i naturalisti ed i cacciatori mettevansi in
moto fino all’ora del pranzo. La fibra ritemprata in questa vicenda
delle ore diurne, apriva ne’ più giovani e più vivaci della nostra
brigata la vena del buon umore, ed i nostri crocchi sotto la tenda
s’animavano di racconti, di dispute ora scientifiche ora scherzose,
di commenti alle scene persiane delle quali eravamo testimonj, tanto
che le veglie serali si prolungavano fino a dimenticare che il sonno,
al quale era pure riserbato il trionfo finale della giornata, ci
doveva essere inesorabilmente misurato. Verso le due di notte, ad
un cenno del vigile nostro capo, i servi, dato di piglio a bacini
di rame, passavano da una tenda all’altra a batterci la diana nelle
orecchie ed a farci trasalire sui nostri materassi. Superato più o meno
sollecitamente, secondo la varia tempra individuale, questo momento
della nostra vita giornaliera, il più duro e nello stesso tempo il
più comico, raccolte fra i barcollamenti di un sonno tenace le nostre
robe, cercato a tentoni fra l’oscurità e l’intricato cordame delle
tende il nostro cavallo, eravamo finalmente in sella. Alcuni fra i
migliori cavalcatori della brigata, portando un lampione all’estremità
di un’asta, ed intuonando in coro passabilmente stuonato una canzone
napoletana, mettevansi a dare ordine e moto alla caravana. La quale
s’avviava in lunga fila, preceduta da due fantaccini delle milizie
dello Schah, portanti a mano una mazzuola, e seguita dai nostri servi
europei, dalla schiera de’ _ferrasch_, e dal codazzo dei muli carichi
dei nostri materassi, delle masserizie di cucina, e dei piccoli
bagagli. Nella nostra propria fila s’immischiavano il _mehmendar_
ed alcune persone del suo seguito, due delle quali erano per noi di
particolare importanza: l’_abdar_ ed il _kaliandar_. Quello portava
al mezzo la sella due enorme bissaccie contenenti in bottiglie
metalliche una provigione di aqua, questo teneva in mano un _kalian_
munito di lungo tubo di cuojo, e sospeso alla sella un fornello con
carboni ardenti, necessarj ad alimentare la consumazione del delizioso
_tombeki_. Il posto a fianco del _kaliandar_ era in generale il più
disputato ed il più ricambiato fra buoni amici. Un cavallo d’onore
(_Jedäk_), riccamente bardato, era condotto a mano da un palafreniere
dietro la persona del ministro, come cavalcatura di parata negli
ingressi solenni, sebbene anche in queste circostanze il ministro non
abbandonasse il cavallo di viaggio.

Di quando in quando staccavansi dalla nostra fila cavalieri persiani,
ambiziosi di darci una prova del loro valore nell’equitazione colle
bizzarre e grottesche movenze della _fantasia_, nelle quali non ebbimo
a notare che una sola cosa: l’assoluta inferiorità dei Persiani
in confronto de’ Georgiani e dei Tartari. Noi stessi di quando in
quando ci prendevamo il gusto di spinger il cavallo alla corsa,
sopravvanzandoci l’un l’altro, e così, fra esercizj equestri, e
ciancie e canzoni, si rompeva la noja e la trista solitudine di quelle
interminabili steppe.

Dopo una marcia di sei o sette ore, giungevamo alla nuova stazione,
che il biancheggiar delle tende faceva discernere a distanza; lì ci
attendevano i salamelecchi, i complimenti, i doni delle autorità dei
vicino abitato, più o meno sperticati e solenni a norma della relativa
importanza di questo. La popolazione maschile si affollava a farci ala,
descrivendo col culmine del berettone, al nostro passaggio, grandi
archi di cerchio, mentre le donne, schierate dietro i muricciuoli
di fango, ci sbirciavano dai trafori o dai lembi dei pannilini
che tenevano stretti al volto, tanto più tenacemente, quanto più
scarse e grinzose erano le mani, strumenti allora non di modestia o
superstizione persiana. Presso le città, fra la gente che ci veniva
incontro, distinguevasi sempre qualche _dervisch_ seminudo, trafelante,
dagli occhi spiritati, che brandendo un’accetta, in tuono fra il
supplichevole ed il minaccioso, con esclamazioni selvaggie, mettevasi
a seguire dappresso il nostro ministro, finchè non era mandato in pace
con qualche elemosina.

All’ingresso delle principali borgate o delle città, tenevasi pronto
nel mezzo della via un uomo premente col ginocchio un montone,
armata la destra di coltello, e coll’altra mano torcendo il collo
del povero animale, per quindi scannarlo ai piedi del cavallo del
capo dell’ambasciata. Questa costumanza, contro la quale protestò
invano l’animo sensibile del commendatore Cerruti, è senza dubio
una tradizione continuata da’ templi biblici, una forma primitiva di
offerta ospitalità.

I doni che ci venivano recati su grandi bacini di legno, consistevano
ordinariamente in latte naturale, latte acido, miele, frutta, citrioli,
alle quali cose s’aggiungevano, nelle città, pacchi di thè, pani di
zuccaro, ed un profluvio di insipide confetture. Ne avevamo soventi
in tale esuberanza da distribuirne largamente a tutte le persone del
nostro numeroso seguito, perchè ne’ luoghi principali, ove hanno sede
autorità diverse, ciascuna di questa ci portava il suo tributo. Ma
sotto l’aspetto della cortese liberalità cova la gatta; l’apparenza
del dare copre l’avidità, connaturale ai Persiani, del ricevere ad
usura. Questi doni venivano tosto ricambiati non già nella misura del
loro intrinseco valore, ma in ragione del grado della persona alla
quale erano presentati. Un piatto di citriuoli che sarebbesi pagato
pochi schahi sulla piazza, acquistava il valore di alcuni _tomani_ pel
semplice atto dell’offerta ad un ministro di un sovrano europeo.[26]
Le ambasciate diplomatiche non si impegnano mai in un viaggio nella
Persia, senza aver prima ben notate a taccuino, non soltanto la
formalità dell’etichetta orientale, ma anche la distribuzione dei
presenti, ed in questa faccenda le tradizionali costumanze sono
insegnate da un’ambasciata all’altra con tanta fedeltà, da rendere
inutili trattative ufficiali col governo persiano, e da lasciare così
il carattere della spontaneità più naturale a ciò che in sostanza è una
vera tariffa. Senza contare i paoli imperiali, i zecchini olandesi, i
tomani, che il nostro ministro doveva giornalmente distribuire a destra
ed a manca, molte casse del nostro complicato bagaglio contenevano
donativi consistenti particolarmente in armi di lusso, ed erano mano
mano alleggerite, ad ogni visita ufficiale di qualche importanza.

Intorno alla sicurezza personale de’ viaggiatori in Persia, le nostre
idee hanno dovuto modificarsi d’assai da quel che erano al momento
della partenza. Uno straniero non percorre questo paese senza un
firmano, che è quanto dire senza la protezione visibile del governo,
e di un governo al quale non manca una certa idea indeterminata,
colorita di qualche utile ricordo, della potenza dell’Europa, geloso
delle apparenze almeno di un ordine interno, ed anche animato da un
certo punto d’onore verso coloro ai quali accorda l’ospitalità. Un
attentato contro la roba o la vita di un europeo innocente, amico e
come tale riconosciuto, sarebbe subito punito colle pene più strane,
per giustizia sommaria. Nè v’è a temere da parte delle popolazioni
alcuno di que’ terribili scoppj di fanatismo maomettano che hanno
fatto spargere tanto sangue cristiano nella Siria. Un persiano potrà
rifiutarvi da bere nella sua scodella, gettare subito a terra con
disprezzo quella che per caso avesse toccato il vostro labbro; tirarvi
dietro le spalle, con mano timida e furtiva, qualche sassata; ma non
ardirà mai far di più. Il governo, in questa tutela de’ viaggiatori,
è generalmente obbedito, e se qualche corriere, anche in epoca
recente, fu svaligiato ed ucciso, lo fu per ordine segreto del governo
stesso, il quale poi dovette fare le finte più ostentate di ricercare
i colpevoli. La pompa colla quale procedeva la nostra caravana, la
sua forza numerica e quella della sua scorta, erano perciò tutela
esuberante contro ogni tentativo di ladri o di malevoli. Eppure noi
eravamo armati da far spavento; pistole nelle tasche dell’arcione,
pistole in saccoccia, fucili e carabine ad armacollo. Quando il sig.
Hanhart negoziante svizzero stabilito in Tauris, vide questo arsenale,
soggiunse ridendo, che avremmo fatto assai meglio portando al posto
di tutta quella roba del cioccolatte; ed aveva perfettamente ragione.
Le strade non sono infestate che lungo il tratto confinante col paese
de’ Curdi; ma anche nell’emergenza di uno scontro con queste orde
rapaci, le armi non fanno che complicare il pericolo, poichè i Curdi
non attaccano una colonna di viandanti se non dopo averla spiata di
lontano, ed essersi bene assicurati di trovarsi in forza preponderante;
in tal caso la resistenza può essere eroica, ma è quasi sempre fatale.
Un buon fucile da caccia deve bastare al viaggiatore per tutti gli
eventi.

La Persia! Che bello, che pittoresco paese avete percorso; ci
ripetevano i nostri amici al risalutarci vivi e più o meno sani, dopo
sette mesi di assenza. Dedico a questi esclamanti il capitolo che
segue.




IX.

Tratti orografici della Persia occidentale. — Aridità del paese. — Modi
di irrigazione. — Carattere della vegetazione. — Agricoltura persiana.
— Mulini e villaggi. — Combustibile e viveri. — Clima. — La vita nelle
steppe.


La massima parte della Persia è costituita da un sistema di altipiani
collegati colla grande regione centrale del deserto salato, come
propagini irregolari che da questo grande deserto tutt’all’ingiro
si espandono negli spazj rimasti fra i gruppi di monti, i loro
contraforti, e le diramazioni di questi. Nella parte che abbiamo
percorsa, estremo lembo occidentale di quell’immensa regione, compreso
fra le provincie Caspiche, l’Armenia ed il Kurdistan, si può osservare,
nella distribuzione delle montagne e degli altipiani, un certo ordine
predominante. Volendo ora esprimere la cosa in termini assai generali,
si può dire, che la via dall’Armenia russa a Teheran segue una serie
di piccoli altipiani successivi, a gradinate, limitati lateralmente
da due principali sistemi di monti, e rotta da sbarre trasversali, che
formano precisamente i limiti de’ gradini. I confini naturali di questa
regione della Persia, que’ confini che sono tracciati dalle linee di
separazione delle aque, sono a maggior distanza, e veramente si devono
fissare, al lato est e nord, nella linea della Catena contornante il
gran bacino del Caspio, nel Bagrukuh, nel Mokaleschkuh, nell’Elburz; al
sud-ovest nella linea congiungente le scaturigini dei varj confluenti
del Tigri. Lo spazio compreso fra queste due estreme linee laterali,
può considerarsi come un’unità geografica omogenea; è un sistema
di altipiani aridissimi, suddiviso e intersecato dalle numerose
diramazioni di altri monti, nella distribuzione de’ quali si può vedere
ancora una certa regolarità. Un sistema di cui i punti culminanti sono
l’Ararat, il Sahand, e l’Elavund, attraversa longitudinalmente questa
regione della Persia, press’a poco paralella al suo limite occidentale,
e per un certo tratto della sua lunghezza, separa le aque defluenti al
Caspio, da quella che si versano nel gran lago salato di Urmia. Una
grande sbarra, che è un prolungamento dell’Antitauro, taglia questa
regione di traverso, nella direzione prossima di un circolo paralello,
e concorre a formare il limite sud del bacino dell’Arasse; questa
sbarra si estende dal Maschukkuh al gran cono del Savalan. Più al
mezzogiorno una seconda sbarra montuosa è quella formata dal Kaplankuh
e dall’Agdagh, che separa l’Aserbeidjan dall’Irak. Ancora più al sud la
via battuta passa a ridosso di un’altra sbarra trasversale così poco
sporgente da esser appena sensibile; quella che separa le aque del
Zendjanrud da quelle dall’Abhar. Lo stampo di queste grandi divisioni
è pure seguito dagli scompartimenti secondarj interni. Il viaggiatore
il quale per Erivan, Marend, Tauris, Mianeh, si dirige a Teheran, trova
che il suo cammino è per valli longitudinali comprese fra due catene;
quella a sinistra, piuttosto regolare e continua, quella a destra,
or più or meno discosta, irregolare e spezzata. Al piede di queste
due catene laterali, e ad esse parallele, scorrono, come antemurali,
colline per alcuni tratti interrotte, per maggiori tratti continue, e
dalle quali di quando in quando si distaccano piccoli contraforti che
si perdono subito nel piano.

Per renderci ragione della particolare fisionomia del paese, è d’uopo
ora che ci facciamo un’idea della particolare condizione delle sue
montagne, e sovratutto della lunga catena che lo separa del bacino
del Caspio. La catena che dal Bagrukuh si continua nell’Elburz,
aperta soltanto per dar passaggio al Sefidrud, e che circoscrive
all’oriente ed a settentrione la Persia occidentale, non presenta nella
distribuzione de’ suoi rami laterali quell’ordine che in generale
si osserva nelle altre grandi catene del globo, non siegue quella
conformazione tipica, la quale si esprime così chiaramente per mezzo
del paragone colla spina dorsale di un pesce. Essa rivolge verso
gli altipiani dell’Aserbeidjan e dell’Irak, non già una successione
di valli trasversali aperte, ma una serie di muraglie continue
longitudinali, che limitano valli secondarie pure longitudinali,
versanti le loro aque dal lato opposto della catena principale, dal
qual lato soltanto scendono, per la china di numerose valli trasverse,
rivoli e fiumicelli alpini, che dopo breve tragitto vanno a farsi
inghiottire nel Caspio. Quasi tutte le aque di questa grande catena che
dal Bagrukuh si prolunga nell’Elburz, si versano fuori del gran sistema
di altipiani della Persia occidentale, ed ecco la principiale e per sè
medesima evidente causa dell’estrema aridità di questo immenso paese. I
venti continui, gli ardori estivi, una siccità regolarmente continuata
per sei lunghi mesi dell’anno, fanno il resto.

È difficile il trasfonder in chi non l’ha aquistato co’ suoi proprj
occhi un concetto adequato della tristezza, della desolazione di
questo paese; tanto più difficile in quanto che si ha da vincere la
prevenzione dell’antica potenza della Persia, dell’idea di grandezza
e di sfarzo che ciecamente è in noi associata alla parola geografica
_Oriente_. I piani, le colline, le montagne, tutto è sterile,
aridissimo, tristamente monotono da Erivan a Teheran, e questo ancora
non è che l’anticamera del deserto! Grigio è il terreno, uniformemente
costituito da tritume marnoso: grigio è il verde delle erbaccie che
uniformemente lo rivestono, rare, ispide, spinose, crepitanti sotto i
passi, senza un albero, senza un arboscello; grigie del color naturale
della loro sostanza che è il fango delle steppe, sono que’ gruppi
di topinaje cadenti e corrose che hanno nome di villaggi. Non v’ha
conforto allo sguardo che nelle macchie verdeggianti disseminate qua
e là, rare e distanti nello sterminato miserissimo fondo generale del
quadro, oasi disseminate nel deserto, laddove qualche zampillo d’aqua,
qualche fiumicello permetta la coltura del terreno e lo sviluppo
della vegetazione arborea. E qui si vede la lotta industre, pertinace,
mirabile, de’ Persiani contro una ribelle natura. Il terreno, per la
sua composizione minerale, sarebbe dapertutto attissimo alla coltura;
e la causa perenne, costante, indomabile, della sua sterilità, è il
difetto d’aqua. Fra i pochi fiumi che hanno un nome nella geografia
della Persia, pochi ancora sono quelli che meritano questo onore; ed
anzi, sulla strada che abbiamo percorsa, di tali non trovammo che i più
grossi affluenti del Sefidrud: gli altri sono poveri rigagnoli che,
dilatati e decomposti fra le ineguaglianze d’un letto sassoso, vanno
a perdersi fra le ghiaje del deserto, per di più soggetti a grandi
magre estive. Tutti scorrono generalmente in solchi troppo profondi
per poterne derivare canali alla coltivazione delle steppe; e tuttavia
lunghi serpeggiamenti di verzura, spiccanti fra il tetro colore del
paese, segnano all’occhio del viaggiatore il corso naturale di queste
aque. Ove il loro letto si dilati alquanto, là, raccolte e governate
in canaletti, ristagnano in risaje, o circoscrivono e fecondano campi,
giardini, ombrosi boschetti.

Nell’economia delle aque, il povero agricoltore persiano, avrebbe
ben poco da imparare dagli stessi più industriosi popoli d’Europa.
Torturato e spremuto da rapaci esattori, inaffia di sudore i solchi
della messe non sua, e con opera dura, paziente, eppure spesso delusa,
va raccogliendo di lontano il tesoro sotterraneo di qualche venuccia
d’aqua, a magro compenso di quella che il cielo gli rifiuta e che
l’arso terreno gli chiede inesorabilmente.

Fin da’ primi nostri passi nelle steppe della Persia dovetti fare
attenzione a certi cumuli di terra di forma conica, aventi alla
sommità una sorta di cratere, in molti ostrutto, in altri aperto, come
la bocca di un profondo pozzo, allineati in lungo ordine perdentesi
nell’orizzonte. Ognuna di queste linee di coni, non male rassomiglianti
a colossali _talpiere_, dalle radici dei monti si protende nel piano,
e segna la direzione di un canale sotterraneo, che raccoglie le poche
filtrazioni profonde per comporne un canaletto, il quale infine,
sgorgando dall’estremo cumulo come da un antro, si versa direttamente
sui vicini campi. I coni stessi non sono altro che materiale gettato
fuori di tratto in tratto, onde aprire sotterra un corso all’aqua.
In alcuni luoghi ho visto lavoratori intenti a questi scavi, traendo
coll’argano dalla bocca dei pozzi il materiale che altri, educato
alla scuola delle talpe, andava mano mano esportando nel progresso
sotterraneo. La profondità della scarsa vena dell’aqua, e la rozzezza
degli strumenti di lavoro alla quale supplisce la pazienza dei
Persiani, sembrano le cause che fanno ai Persiani preferire questo
sistema a quello dei canali aperti. Queste linee di coni che si
incontrano di quando in quando negli altipiani della Persia, terminano,
come ho detto, ad un antro, dal quale esce un rivoletto d’aqua limpida
e fresca. Qualche volta questo rivoletto si versa in un piccolo stagno
artificiale, circondato di salici, e dal quale l’aqua si diparte per
varj rami alle campagne circostanti. Da questi canali artificiali
dipende la vita dei poveri villaggi sparsi nelle steppe, lontani da
corsi di aque naturali. Che se, come pure accade, la vena dell’aqua
accumulata a sì gravi stenti e con sì pertinace lavoro, venga a mancare
col tempo, ed il canale sotterraneo si renda asciutto, la misera
popolazione del villaggio è obligata a trasportar altrove i suoi
penati. Noi abbiamo infatti incontrato sul nostro cammino più di un
villaggio affatto deserto e rovinato per siffatta cagione.

Io non so veramente se alcuno non abbia mai suggerito ai Persiani un
altro sistema assai più razionale, e che potrebbe cambiare affatto
la condizione di intere provincia; voglio dire lo scavo di pozzi
artesiani. Quanto si può scorgere nella direzione dei rilievi e degli
avvallamenti dell’Elburz, nella disposizione delle roccie stratificate
a’ piedi delle cime nevose di questa catena, infonde le più legitime
speranze sulla riescita d’una simile impresa. L’esempio che fu coronato
d’un così prospero successo nel Sahara algerino, non potrebbe andar
a vuoto nelle steppe della Persia, e qui centuplicherebbe da sè per
quell’intelligeuza, quella destrezza, quella ostinazione al lavoro che
rende i persiani così superiori ai turchi ed agli arabi.

La vegetazione rada e stentata che dalle steppe degli altipiani, si
continua sul dosso arrotondato delle colline e ne’ ritagli fra le nude
roccie a’ piè delle montagne, ritrae il suo particolare carattere da
alcune forme predominanti di piante, fra le quali devonsi annoverare
in prima linea specie di cinaree (_Carduus, Cousinia, Cirsium,
Centauræa_), di salsole, di astragali, di senecionidee (_Achillæum,
Pyrethrum, Artemisia_), di euforbie, di edisaree (_Onobrychis,
Athagi_), di asfodelee, di silene e di lepidii. Non un albero, non
un arboscello nè al piano nè al monte! L’impressione non fugace ma
costante e ponderata che ha produtto in me l’aspetto generale del
paese percorso, è questa; non trovarsi per sì grande estensione,
fin dove l’occhio può giungere, un solo albero che non sia piantato
dall’uomo. A mio senso questa espressione può esser presa alla lettera,
ed è giustificata dalla disposizione sempre visibilmente artificiale
degli alberi stessi. Dapertutto, ove l’uomo ha trovato un po’ d’aqua,
elemento di che la natura è stata così avara all’Asia occidentale,
alla desolazione della steppa succede la più florida vegetazione. Quasi
ogni villaggio è ombreggiato da alberi fronzuti, addensati, in filari,
in boschetti, ora all’aperto ora nei chiusi, è circondato da frutteti
arruffati ma rigogliosi, da ajuole verdeggianti, da campi ubertosi,
bruscamente contornati nel deserto. Gli alberi che maggiormente
abbondano sono i pioppi, i salici ed i platani, e tra i fruttiferi, i
gelsi, i pomi, i ciliegi, i pruni, gli albicocchi, i cui rami cadenti
al peso delle frutta mature, trovammo quasi dovunque traboccare e
pendere all’infuori de’ muricciuoli di fango che ricingono i giardini.
Una pianta estesamente cultivata è pure l’_Eleagnus hortensis_, il
cui frutto farinoso, rassomigliante ad una giuggiola, vedesi in gran
copia ne’ _bazar_, col nome di _ssedschit_. Lungo il letto dei fiumi
si cultiva il riso, ne’ campi raramente il sesamo, più communemente
il ricino, ma per assai maggior estensione il frumento e l’orzo; e
quest’ultimo serve di principale foraggio ai cavalli. A tal fine,
l’orzo mietuto è sul campo stesso tagliuzzato da grandi coltelli
circolari, giranti sul loro asse messo in moto da cavalli, dopo di
che, raccolto fra reti di corda, si porta all’abitazione. Altre piante
diffusamente cultivate in Persia, sono i poponi e specialmente i
cocomeri; ma questa cultivazione richiede un terreno bene innaffiato. I
cocomeri sono uno de’ principali prodotti di questo paese non solo, ma
anche delle provincie caspiche della Russia, ed è veramente incredibile
il consumo che ne viene fatto. Si può dire che per tre mesi dell’anno,
il nutrimento principale de’ Persiani consiste di questo frutto, assai
più succulento e dolce che in Europa, ed il quale dappertutto si trova
in gran copia ed a prezzo vilissimo.

I Persiani sono ghiotti di frutta zuccherine; i loro mercati ne
rigurgitano, e sì grande è le loro abondanza in alcuni luoghi, che
se ne lascia perfino infracidire una gran parte sul terreno. Le
piantagioni di gelsi, relativamente rare in questa parte della Persia
ch’è al sud dell’Elburz, non danno altro produtto che nei frutti,
essi pure assai più dolci che fra noi. Si cultiva anche la vite, ma
questa soltanto presso la città od i più grossi villaggi, ed in modo
affatto particolare, imposto dalle condizioni del clima e dalla penuria
assoluta di legno da pali. I ceppi della pianta sono allineati in
aperta campagna sulle scarpe di grandi solchi irrigati con gran cura,
ed i tralci si estendono liberamente sul terreno a guisa delle zucche.
L’uva che se ne raccoglie è della più bella e della più gustosa che dar
si possa, affatto immune da ogni traccia di crittogama (_Ooidium_),
mentre ne sodo invasi, fino alla completa distruzione dei grappoli
anche in questo paese, i rari pergolati dei giardini. Non si fa vino
in Persia che in assai scarsa quantità, e dai soli Armeni, e questo
vino, forte, disaggradevole, non conviene a palati europei, apprezzanti
appena, ed allora come cosa eletta, quello rinomatissimo di Schiraz.

Da quando in quando, lungo i pochi e miseri fiumi della Persia, si
incontrano mulini, i quali sono di uno stile tutto particolare. Si
presentano come casipole con mura di sassi quasi senza cemento, erbosi
per l’umidità naturale del luogo; di forma prismatica quadrata, senza
finestre, con una sola porticina d’accesso. L’aqua vi è condotta per un
piccolo canale di legno che trapassa nel suo mezzo il tetto, formando
con questo un angolo di circa 45.° Nulla traspare dal di fuori del
mecanismo della macina. Si può facilmente vedere quanto debba costare
ai Persiani il trasporto del grano da’ sili di sua produzione, talvolta
per distanze enormi, ai pochi mulini qua e là disseminati; sì pochi da
non comprendersi come mai possano bastare ai bisogni della popolazione.
Ma ciò che si comprende ancora meno si è come nessuno abbia mai
pensato a rivolgere al servizio de’ mulini un altro motore naturale,
costantemente attivo per tutta l’estensione del paese, voglio dire i
venti che soffiano senza posa.

I villaggi sono labirinti di muricciuoli di fango, dai quali appena
sporgono gli alberi de’ giardini, e le miserabili abitazioni interne,
costrutte dal medesimo materiale, fango, con tettoje piane, che
nelle notti estive, servono di letto. La struttura di questi sucidi
tugurj è studiata in modo da fare il massimo risparmio possibile di
legno e di ferro, da escluderli quasi affatto; quindi le porte e le
finestre sono misurate per numero e per dimensioni al più stretto
bisogno. È inutile il ripetere che le finestre sono tutte rivolte ne’
cortiletti interni o nei giardini. Ad una certa distanza i villaggi
passerebbero inosservati, confusi col colore generale del terreno, ove
la loro presenza non fosse invece tanto chiaramente indicata dalle
piantagioni d’alberi. La grande scarsità di combustibile, fa sì che
il cemento calcareo ed i mattoni cotti siano cose di lusso, fin nelle
città, riserbate ai bazar ed alle moschee. Una strana singolarità è
pur questa, che mentre in Europa i villaggi più floridi sono lungo
le principali vie di communicazione, in Persia è perfettamente il
contrario. Lungo quelle linee, che si dicono strade principali, perchè
più battute dai viandanti, i villaggi hanno in generale l’aspetto della
più squallida miseria, mentre negli angoli più segregati da queste
linee, si trovano i villaggi più popolosi e fiorenti, per quanto la
floridezza è conciliabile colla natura del paese. La ragione di questa
dissonanza è semplicissima. Le vie delle caravane sono pur quelle più
frequentemente battute dalle truppe, dai numerosi cortei dello Schah e
de’ grandi personaggi, i quali, lungi dal lasciare sul loro passaggio
i benefizi del commercio e della vita sociale, impongono ai villaggi
contribuzioni gravissime. È anzi costume, quando lo Schah onora
della sua augusta presenza le provincie del suo vasto impero, che gli
anziani dei villaggi, prossimi al supposto suo cammino, gli si rechino
incontro con offerte anticipate e spontanee, e con felicitazioni di un
prospero viaggio contenenti l’implicito voto che i villaggi, de’ quali
sono rappresentanti, siano risparmiati. Noi stessi non siamo sicuri
di non aver portato con noi qualche piccolo carico di imprecazioni
dai villaggi ove il nostro _mehmendar_ doveva fare le proviste per la
nostra caravana. Rimando ad altra occasione qualche aneddoto curioso su
questa materia.

La povertà estrema della vegetazione arborea, relativamente
all’estensione del paese, toglie si può dire affatto l’uso della legna
come combustibile, ed obliga i Persiani a rivolgere a tal uso lo sterco
de’ cameli e de’ bovini. Veramente questa industria è commune alla
massima parte dell’Asia occidentale, ed all’Egitto, anche in provincie
ove non sarebbe tanto strettamente imposta dalla necessità. A tal fine
lo sterco, commisto collo strame fracido delle stalle, è impastato
a mano sotto la forma di larghe focaccie, e queste sono distese ad
essiccare sulle aje dei villaggi, e perfino, a crescerne l’ornamento,
sui muri delle abitazioni: al qual lavoro attendono particolarmente le
donne. Mi fu assicurato che tal sorta di combustibile dà buon fuoco. In
pochi luoghi soltanto, come, per esempio a Tauris, si accatasta legna
da ardere, e quasi esclusivamente per uso dei pochi Europei che vi
hanno stanza. La somministrazione della legna al consumo giornaliero
nella cucina, non doveva essere la minore delle cure di chi provedeva
ai bisogni della nostra caravana.

Malgrado le tanto sfavorevoli condizioni fisiche della Persia, il tenue
prezzo del lavoro e l’abondanza del bestiame, fanno sì che le derrate
di prima necessità per la vita materiale vi abondino, e siano a prezzi
molto più miti che in Europa. Frutta, riso, pane, polli, montoni, si
trovano ad ogni villaggio di qualche entità, a poco danaro ed in copia.
Il pane è sotto forma di grandi fogli che si fanno cuocere prestamente
e male, impastandoli sulle pareti dei forni, e si pongono in vendita
ne’ bazar su grandi piani inclinati, irti di chiodi. Questi fogli ci
hanno le tante volte servito di tovagliolo, di piatto e di cibo nel
tempo medesimo.

Le esposte condizioni naturali del paese, la sua latitudine, la sua
altezza sul livello del mare, rendono ragione del suo clima. L’inverno
è lungo, rigidissimo nella parte più elevata, appena raddolcentesi alla
posizione di Teheran; e gli abitanti ne approfittano per ammassare
provigioni di ghiaccio; conforto inestimabile a chi, al pari di noi,
viaggia la Persia nei mesi più caldi dell’anno. La breve primavera
è caratterizzata dalle pioggie, il cui benefizio però è rapidamente
disperso dai venti, i quali alla loro volta rattemperano gli effetti
de’ raggi solari in estate, e rendono le notti sarei per dire fredde.
Chi percorre queste contrade nella bella stagione non deve tanto
premunirsi contro il caldo estivo, inferiore alle communi prevenzioni,
quanto contro i salti giornalieri di temperatura, come quello,
per esempio, che accadde a noi di provare, passando da un mattino
sufficientemente fresco, ad un calore meridiano di 34° R. all’ombra. I
venti e il debole potere irradiante del terreno fanno sì che, malgrado
la serenità delle notti, la rugiada sia insensibile, e non dia compenso
alcuno alla vegetazione della mancanza completa della pioggia durante
la stagione estiva. Questa lunga, costante arsura, ed il carattere mite
delle pioggie in primavera ed in autunno, sono appunto tali condizioni
naturali da permettere ai Persiani di costruire le loro case in fango
che altrimenti, all’impeto delle pioggie temporalesche sarebbero in
breve tempo stemperate. Uno spettacolo, si può dir quotidiano, che
l’aridissimo terreno delle steppe percosso da’ cocenti raggi solari
produceva al nostro sguardo, era la fata morgana, spesse volte di
effetto sorprendente.

Rimettendo a miglior occasione le cose da me osservate sulla fauna
della Persia occidentale, vorrei pure dare un po’ di maggior effetto
all’abbozzo che ho rapidamente tracciato della fisonomia del paese,
coll’aggiungervi qualche macchietta caratteristica di esseri animati.
Il silenzio e la quiete del deserto regnano nelle steppe, ed i pochi
animali che vi si incontrano, per la mutezza e pel colore, armonizzano
con quella squallida natura. Il grigio terreo di varie gradazioni,
ora uniforme, ora screziato, è il color generale del loro vestito;
un colore che, volendo poetizzare la frase, direbbesi il colore della
steppa. Scarsissimi sono i mammiferi naturali a questi luoghi: appena
qua e là, stando in agguato, si può vedere qualche spermofilo, qualche
criceto, muovere cauti passi attorno alla sua tana, o nelle prime ore
del matino sorprendere ancora qualche topo saltante _(Dipus)_. Poche
specie di uccelli sono i principali animatori di queste apriche e
sterili lande; e sono specie appartenenti ai due generi delle massajòle
_(Saxicola)_ e delle alcate, o pernici del deserto _(Pterocles)_.
Dapertutto, non appena il sole scaldi il terreno, guizzano come folgori
fra le erbaccie singolari forme di lucertole (_Eremias, Ophiops, Agama,
Phrynocephalus_). Se a questo elenco aggiungiamo la locuste, di poche
specie ma in numero strabocchevole di individui, avremo bastantemente
compiuta l’idea generale del regno delle steppe. La scena è alquanto
più animata alle falde dei monti, da lepri, da qualche branco di capre
selvatiche, da pernici, da grossi lucertoni (_Stellio_), e fra gli
scogli il silenzio è rotto dal sommesso sibilo degli ortolani, e dalla
sonora nota del peciotto di Siria. Presso i terreni cultivati, presso
i boschetti ed i frutteti de’ villaggi, anche la vita animale spiega
d’improviso un carattere affatto differente, nella maggior varietà
delle forme ed eleganza de’ colori. Da queste oasi tutt’all’ingiro
roteano per l’aria sciami innumerevoli di storni rosei, e colombi e
vespieri e gazze marine: ogni passo ne’ campi fa svolazzare branchi di
allodole e di calandre: varie specie di falchi si concentrano pure in
questi luoghi, ove la preda è ad essi più abondante e più facile.

Numeroso è il grosso bestiame domestico in Persia, e per quella che
Darwin ha chiamato elezione naturale, le sue diverse razze si sono
perfettamente accomodate al carattere generale del paese. Il loro
stomaco ha imparato a digerire anche il fusto legnoso delle erbe
delle steppe, e così alla mancanza di pingui pascoli supplisce la
sterminata estensione de’ magri. Queste razze sono le medesime delle
quali ho fatto cenno parlando della Georgia; ed anche qui prevalgono
numericamente le pecore dalla coda adiposa, che formano la base del
nutrimento animale per tutta la Persia, e per di più somministrano la
lana finissima de’ bei tessuti di Mesched e di Kerman. Nella stagione
estiva gli armenti lasciano le stalle, e sono guidati al pascolo libero
in luoghi di elezione per entro le montagne, od anche nelle più ime
valli, non richiedendosi altro, a costituire un pascolo, se non qualche
ruscello poco discosto, ove abbeverare le povere bestie. Numerosissime
mandre di pecore pascenti sugli arsi pendii delle colline e de’ monti,
custodite da pastori nomadi attendati, sono fra i più communi incontri
in queste solitudini. Non parlo de’ cameli che sono qui nel loro regno
naturale, fatti, si direbbe quasi, a bella posta per le steppe, e le
steppe per essi. Anche i buoi ed i bufali trovano il loro sostentamento
per molti mesi dell’anno in questa magra pastura, alla quale si
abbandonano pure i cavalli ed i muli delle caravane, col rinforzo di
qualche giornaliera razione di orzo.

L’incontro di una caravana era una distrazione tutt’altro che
frequente, ma si può dire giornaliera, e sempre gradita per la sua
originalità orientale. La lunghissima fila di cameli procede a passo
lento e misurato, al suono grave del sonaglio appeso al collo di
alcuni ripartiti nella loro schiera con certo ordine, come ne fossero
i regolatori, senza che per altro questo apparente uffizio tragga seco
una diminuzione del carico enorme e voluminoso per tutti. Questo carico
consiste in prima linea di quella specie di tabacco (_tombeki_) che
si consuma così estesamente nel _narghileh_ turco, fratello germano
del _kalian_ persiano, ed in seconda linea di cotone. Ad ogni caravana
trovasi unito un certo numero di passaggeri, e la cosa più curiosa a
vedersi sono i _kegiavé_ ne’ quali oscillano, in cadenza co’ passi del
mulo, certi involti di tela grossolana azzurra a larghe pieghe, con un
pannilino bianco pendente al davanti, che vogliono dire donne persiane.

Questi pochi tratti della fisonomia generale della Persia occidentale
servano ad ajutare la mente del cortese lettore, che avrà la pazienza
di seguire, nelle pagine successive, la processione dell’ambasciata
italiana.




X.

Partenza da Diulfa. — Ghelim kiayà. — Marend. — Il monte del castello.
— I Tepe della Persia. — Passo del Maschuk. — Sofian. — Solenne
ingresso in Tauris. — Nostri alloggiamenti. — Ozj forzati. — Bozzetti
zoologici. — Lo storno roseo.


Il dì susseguente (17 giugno) col primo biancheggiar dell’alba, il
pianerottolo squallido e deserto di Diulfa era tutto animato dal nitrir
de’ cavalli, da grida confuse, da un brulicame di affaccendati. Quando
piacque al cielo, dopo un pajo d’ore, tutto era in compiuto ordine di
marcia. I fidi malacani, che aveano acconsentito a condurre le nostre
due carrozze fino a Tauris, ci precedettero per fare ai nostri occhi le
prime prove della difficile impresa che si assumevano. Stretta la mano
al capitano Romanoff che ripassava l’Arasse, recando seco un fascio
di nostre lettere per l’Europa, s’avviò infine anche l’interminabile
caravana avente alla testa un picchetto di _serbasi_. Doveva esser
un bello spettacolo guardato dall’alto della quarantena russa che
biancheggiava sulla nostra destra, e che in breve perdemmo di vista.

Dopo qualche ora di cammino, la strada (non si dimentichi il valore
di questa parola, quando si tratta della Persia) sale in una valle
orribilmente sassosa, anzi propriamente nel fondo di un torrente
alpestre, ove tale è l’ingombro de’ macigni che riesce assai malagevole
lo studiare fra svolte e balze il passo de’ cavalli. Giunti infine
presso il termine del burrone, all’ombra ospitale di un gruppo di
salici, dal cui piede scaturisce un rigagnolo di fresca e purissima
aqua, mentre prendiamo ristoro dell’arsura di un sole asiatico e
di un cammino faticoso, seduti a crocchio colla testa fra le mani,
pensiamo alla sorte delle povere nostre carrozze ed alla pretesa
più che ardita di far loro superare quel passo che aveva già costato
a noi così gravi stenti. Eravamo in questa sosta angosciosa da una
lunga ora, quando infine, guardando nel fondo della valle, ci vien
fatto di scorgere due baracche traballanti fra un turbine di gente
stretta d’attorno, e mettiamo un gran respiro nel riconoscere le nostre
carrozze più portate che sospinte fra quei macigni, e per quell’erta
via, da gente del nostro seguito e da altra raccolta ad un villaggio a
piè del monte. Poco c’importava de’ veicoli, molto degli oggetti che
ne formavano il carico, poichè tra questi si trovavano gli strumenti
fisici e geodetici. Superata questa difficoltà, mentre la caravana si
ricompone, alcuni di noi ci distacchiamo in avanguardia, per far poscia
nuova sosta in un sito di elezione che troviamo in un pianerottolo
in parte cultivato, ove un piccolo aquedutto si dilata in un bacino
cinto di salici; e qui, dopo tirati alcuni colpi alle tortore ed
ai falchetti (_Falco subbuteo_), abbiamo il divertimento forzato di
dar la caccia ad uno de’ nostri cavalli che sbrigliatosi avea preso,
saltellando capricciosamente, la via dei campi. Raggiunti dal rimanente
della comitiva e ripreso il cammino, dopo breve tratto un’altra
avventura sospende la marcia. Il sole ardente percuote il nostro
povero _mehmendar_ che incomincia a barcollare, poi si rovescia di
sella tramortito. Per buona sorte le vetture non erano molte discoste.
Toccava adunque non a noi, molli europei, ma ad un persiano cader prima
vittima, ed in tutto il viaggio unica, di quel sole che la Persia ha
preso per suo emblema; e rendere così il primo omaggio alla previdenza
del ministro Cerruti di portar al nostro seguito due vetture ad uso di
ambulanza.

Ghelin Kiayà, luogo designato per stazione, ove giungiamo verso le
undici dei mattino, è un villaggio discretamente popoloso, in un
piccolo seno compreso da montagne affatto nude. Le case sono tutte
di fango, con angoli arrotondati, ed i tetti coperti di paglia
confusamente distesa. Kuli Khan tirato fuori dalla vettura cascante
come uno straccio, è ricoverato in una tenda, ove i nostri medici lo
assistono con applicazione al capo di pannilini di aqua agghiacciata,
che presto e fortunatamente lo rimettono in istato di continuare il
cammino.

Le montagne sovrastanti al villaggio appartengono alla stessa
formazione di Diulfa, e constano ancora di puddinga e di arenaria
in strati alternanti, ma la puddinga predominante e più resistente
all’azione continua dell’aria, sporge in grandi scogliere dirupate
che servono di nido ad una moltitudine di colombi selvatici (_Columba
livia_). Queste roccie sono state smosse e compenetrate da un’emersione
trachitica.

Oltre Ghelin Kiayà il terreno, per un gran tratto ancora deserto
e sassoso, è quasi piano; la strada è più nettamente tracciata, e,
singolar cosa, vi distinguiamo chiare impronte di ruote. Ben tosto ci
si apre allo sguardo una valle ampia, ben cultivata, e con frequenti
e dense macchie di alberi; il più bello, il più ridente paesaggio,
da che avevamo lasciato le provincie del Caucaso. In quella valle è
Marend, la prima città persiana che incontriamo sul nostro cammino.
Innanzi giungervi, un gruppo di cavalieri che stava aspettandoci, si
muove di galloppo al nostro incontro. Erano il governatore ed il capo
della religione, con numeroso seguito. Scambiati i complimenti, sotto
gli ordini del conte Grimaldi, ci disponiamo in due ranghi, dietro
il ministro, per dare un certo tono di solennità al nostro ingresso
in Marend; quand’ecco uno spiritato _dervisch_ avanzarsi di furia
alla testa del cavallo del commendatore Cerruti, alzando un’accetta
in gesto minaccioso. Fu un istante di gravissimo pericolo per noi:
chè uno de’ miei compagni, visto quell’atto, aveva già posto mano al
_revolver_, in difesa del ministro. Per buona ventura con pari rapidità
alcuni Persiani accorsero a circondare il _dervisch_, cercando con
esclamazioni supplichevoli di rimuoverlo. Kuli Khan stesso, rompendo
frettoloso la folla, si rivolse a quel mal capitato, e lo acquietò con
una manata di _schahi_. Fummo avvertiti in quell’occasione che altri
simili incontri ci sarebbero occorsi in avvenire, che però non avremmo
giammai avuto da temere alcun male, mentre dall’altro lato l’offesa
recata ad un _dervisch_, avrebbe facilmente attirato su di noi il
furore della popolazione.

La città di Marend non si vede se non quando vi si è nel bel mezzo,
tutte le case essendo nascoste sotto l’ombra di grandi alberi. La
percorremmo nella sua lunghezza, per accampare, nello spazio fra la
città stessa ed il monte che le sovrasta a mezzogiorno, in un piccolo
prato, presso una sorgente di aqua purissima. La giornata è limpida
e serena, l’aria è rinfrescata dai monti ancora nevosi sulle punte
culminanti, ed il florido aspetto di questo _eden_ della Persia
occidentale ci rianima tutti. Se fossi condannato a scegliere il
mio soggiorno nel dominio del Re de’ Re, credo che non mi accingerei
tampoco a cercare un altro angolo di terra da preferirsi a questa valle
di Marend, alla quale ben poco manca per essere veramente deliziosa.
Due catene di monti fanno corona a settentrione ed a mezzo giorno
ad una pianura ampia e verdeggiante, e confondendo ad oriente i loro
contraforti, chiudono da questo lato la valle. La neve che rimane molto
avanti nella state sulle cime de’ monti, alimenta i canaletti con molta
arte diramati a fertilizzare le campagne benissimo cultivate.

Dalla nostra stazione, rivolgendo il dorso alla catena del Maschuk,
veggiamo davanti a noi il solito corrispondente antemurale, qui
interrotto, e nell’intervallo è posta la città che abbiamo precisamente
di prospetto. In questo medesimo intervallo, all’oriente della città,
sorge un monticello di forma irregolarmente conica, il quale da’
circostanti rilievi si distingue per la sua nudità perfetta, e pel suo
color grigio di cenere. Io e Lessona, col nostro fucile ad armacollo,
e colla guida di due soldati, dirigiamo colà appunto la nostra consueta
escursione, e ne ritorniamo col dolore di non potervi consacrare almeno
una settimana di ricerche.

   [Illustrazione: Fig. 1. Il monte del castello a Marend.]

Quel monticello (fig. 1) è detto nel paese monte del Castello di
Marend (_Marend Kalè tepe_), perchè alla sua cima era costrutto
anticamente un piccolo castello, del quale veggonsi ancora le rovine.
Il materiale di cui è formato presso che intieramente, è un limo
compatto, del tutto simile alla terra delle steppe persiane. La sua
forma è quale già dissi, conica, irregolare, e la superficie tutta
solcata e corrosa dalle aque pluviali. La sua dimensione, valutata ad
occhio, ci parve misurare da circa un centinajo di metri in altezza e
trecento in diametro della base. Sul dosso del monticello non spunta
un filo d’erba. Ma il nostro esame fu particolarmente rivolto a certi
tentativi di gallerie e di trincee che veggonsi in varj punti, ed in
particolare ad un antro largamente aperto, a piccola altezza (V. fig.
2) dal lato rivolto verso la città. In questo taglio sono messi a nudo
due distinti straterelli orizzontali, con ghiaja, rottami di stoviglie,
frantumi di ossa, pulviscolo carbonoso, e numerosi frammenti di carbone
vegetale. Il maggiore di questi strati era visibile pel tratto di
quattordici metri; ma le traccie che a qualche distanza, al medesimo
livello, ricompajono nettissime, fanno supporre allo strato medesimo
una grande estensione. Le ossa da noi raccolte nel breve tempo del
quale potevamo disporre, sono tutte di ruminanti, e, tranne qualche
falange, tutte rotte, ed in siffatta maniera da fare attribuire, senza
dubio alcuno, tale rottura all’azione diretta della mano dell’uomo[27].
Esse conservano ancora una forte proporzione di sostanza animale.
Nel fondo dell’antro, che si dirige verso il centro del monticello,
trovammo in parte già smossi, in parte ancora al loro posto naturale,
massi pietrosi di dimensioni maggiori di quelli che veggonsi sparsi
nella campagna circostante, ed uno fra essi evidentemente scavato ad
arte, come per farne un mortajo. Risalendo poscia verso il monte, non
trovammo più che uno straterello di cenere in una piccola trincea, e
pochi frammenti di carbone e di stoviglie moderne affatto superficiali.

   [Illustrazione: Fig. 1. Il monte del castello di Marend.

   a — a strati con frantumi di carbone vegetale, ossa,
   stoviglie.]

Noi eravamo adunque in presenza di uno di que’ _tepe_[28], così
frequenti in Persia, dei quali i viaggiatori hanno soltanto, ed
alla sfuggita, accennata l’esistenza, limitandosi a riportare la
vaga tradizione locale che li considera come luoghi di sacrifizj
degli antichi Ghebri. Eppure sarebbe questa materia del più vivo
interesse scientifico, ora tanto più, da che avanzi consimili di
antiche popolazioni umane in Europa, hanno svelato un nuovo campo di
investigazioni oltre le colonne d’Ercole della cronologia paleografica.
A mia conoscenza Maurizio Wagner è il solo che abbia dato qualche
cenno alquanto particolare de’ _tepe_ della Persia, nelle vicinanze
di Urmia, lo riferisco le sue stesse parole. «Oltre questi naturali
rilievi, si trovano anche colline artificiali di forma regolare, con
sommità appianata, somiglianti alle famose _Mohille_ o _Kurgane_ delle
steppe della Russia meridionale, ed agli antichi monticoli cimiteriali
di Kertsch sul Mar Nero, ma più grandi, di maggior periferia, e non di
forma conica siccome son questi. Siffatte colline, al lago di Urmia,
sono ricoperte di terra vegetale, di prati o di colture. Al disotto
della terra vegetale si rinvengono ceneri, scheletri umani, ossa di
animali, frantumi di stoviglie, monete di rame e di argento, per la
massima parte affatto lisciate ed irriconoscibili. Quelle monete nelle
quali si può ancora scorgere uno stampo, appartengono, pel maggior
numero, all’epoca della dominazione romana, pochissime al tempo degli
antichi Persiani. Noi visitammo due di questi colli presso il villaggio
di Degalu. Si vedono qui gli avanzi di grandiosi scavi; gallerie di
oltre cento passi in lunghezza, colle quali si è voluto senza dubio
andar alla ricerca di supposti tesori. In siffatti scavi si trovano
realmente, sebbene scarse, monete d’argento. Ne’ casi più sfavorevoli
la cenere, che non manca mai, e che viene adoperata a concime delle
campagne, dà qualche compenso alla fatica degli scavatori. Gli
indigeni danno a queste colline artificiali, la cui origine e la cui
significazione non conoscono, nessuna altra denominazione fuori quella
di _tepe_, e le attribuiscono, dietro la dominante tradizione, a
Zoroastro, ai Magi, agli antichi adoratori del fuoco»[29].

Questo brano senza alcun ragguaglio preciso sulla giacitura delle
monete romane e degli scheletri umani, non sparge per verità alcuna
luce sul problema dei _tepe_ della Persia. È lecito perfin dubitare che
i _tepe_ di cui parla Wagner siano della stessa formazione di questo
di Marend e degli altri, pigmei al paragone, che abbiamo incontrati
nel seguito del nostro viaggio, tutti con ogni probabilità anteriori
all’epoca dell’invasione romana in Oriente. Dovrò riprendere in altra
occasione questo argomento; ora mi limiterò a dire che i naturalisti, i
quali intendessero di proposito ad istituire ricerche scientifiche sui
_tepe_ della Persia, dovrebbero fare il più gran conto del monte del
castello di Marend, per la imponente sua mole, e per l’abondanza de’
frantumi di ossa e di stoviglie che vi si contengono.

Ritornati da questa escursione alle nostre tende, vi trovammo ancora
in visita di commiato il governatore, uomo che al grado ed alla
intelligente fisonomia, doveva esser da noi considerato come il
rappresentante della scienza persiana in Marend. Lo interrogammo
sull’argomento che ci aveva presi di tanto interesse, e seppimo da lui
come nessuna tradizione locale fosse congiunta al monte del castello,
e come gli scavi che vi sono praticati abbiano avuto per solo scopo
l’estrazione di buon materiale di concimazione de’ terreni.

I raggi della scienza europea si estinguono nell’atmosfera opaca della
barbarie orientale, ma se vi potessero penetrare, si troverebbero in
molti punti prevenuti da antiche pratiche tradizionali. Liebig potrebbe
aggiungere alla sua bella dissertazione sull’agricultura chinese,
qualche pagina sulle industrie agronomiche dei Persiani.

Il mattino seguente valichiamo la catena del Maschuk, per una via
ripida, nel fondo di un vallone tortuoso che separa due diverse sorta
di roccie. I monti sulla nostra sinistra sono di un conglomerato rosso
di varia struttura, passante per gradi dall’arenaria alla puddinga
con massi enormi, ed hanno forme più arrotondate, cresta meno elevata
de’ monti calcarei che sorgono al lato destro della valle, terminati
da scogli e da aguglie ancora biancheggianti di sprazzi nevosi.
Verso la sommità della catena la valle si allarga, ed il suo fondo è
ricoperto da un immenso deposito di ghiaje e sabbie, che nei solchi
de’ torrentelli, e nelle scarpe qua e là scoscese si veggono in strati
orizzontali: primo saggio di questi sterminati cumuli di tritumi
che dovevamo più tardi osservare nell’Elburz, e che costituiscono un
carattere particolare di queste grandi catene del nord della Persia.
Superato il pendìo, ci si apre un alto piano cultivato ma senza
un solo arbusto, ove le rovine di un grandioso caravanserai fanno
testimonianza della munificenza di Abbas il grande e della forza dei
terremoti dell’Asia. Scendendo per l’opposto versante si percorre
il letto di un torrente ampio e commodo, con aqua limpida, macchie
di pioppi e di salici, poi di nuovo la steppa, ed infine si giunge
al miserabile villaggio di Sofian, presso il quale, in un piccolo
angolo ingombro di piante e intersecato da canali, sono pronte a
ricoverarci le nostre tende. L’allegria del nostro pranzo fu in quel
giorno di nuova specie, un’allegria arrabbiata, condita di bestemmie
innocenti, chè invero non ci aspettavamo di mancare di ghiaccio, di
vino e perfino di buona aqua, a così poca distanza dal grande emporio
di Tauris. Quando, sul far della sera, ecco giungere al nostro campo
un corriere speditoci dal ministro degli affari esteri di Tauris,
con un plico di lettere per noi: le prime lettere da che avevamo
lasciata l’Europa! La gioja febbrile di quel momento, la ressa attorno
al ministro distributore delle lettere, l’avidità dell’esser tutti
assorti nelle memorie affettuose dei parenti e degli amici, il ricambio
delle notizie e dei saluti, si possono più facilmente imaginare che
descrivere. Quel corriere, che parlava discretamente il francese,
aveva faccia da cristiano, ed era infatti un giovane armeno cattolico,
nato a Tauris. Ci disse tante, belle cose del nostro ricevimento per
l’indomani, dell’alloggiamento che ci era preparato, delle feste che si
progettavano per noi. Col pensiero commosso da tante impressioni nuove
e diverse andammo a passare una notte insonne sotto le tende.

Il 20 giugno, di buon mattino, in sole quattro ore di marcia, eravamo
in vista della allora da noi tanto sospirata Tauris; ma l’entrarvi
non doveva essere affare tanto spedito. Dopo una magra colazione
servita alla rinfusa, ci svestimmo de’ polverosi abiti di viaggio per
indossare le brillanti nostre divise, e mentre eravamo affaccendati
a questa trasformazione resa complicata dalla fretta, dall’angusto
spazio, e dalla confusione de’ bagagli, ecco avanzarsi al nostro
accampamento un drappello di cavalieri, fra’ quali distinguiamo con
graditissima sorpresa vestiti europei, ed erano appunto europei che
venivano a farci visita: il console inglese, M. Abot, alcuni svizzeri
e tedeschi, ed un italiano di nome e di famiglia, il sig. Castelli,
residente da lunghi anni in Tauris. Montammo infine in sella, con
questo rinforzo di scorta, per recarci a non più di qualche centinajo
di passi, ove, presso un altro accampamento, stavano aspettandoci le
autorità di Tauris con immenso seguito di servi e di soldati. Tutto
questo turbine di gente, quando fummo a certa distanza, si mosse
al nostro incontro, e ne venne un parapiglia, come di due masse di
cavalleria urtantisi in battaglia, se non che la battaglia era qui
di inchini e di _salamelecchi_, e le due masse si confusero in una,
che disordinatamente unita, fece ancora pochi passi al galoppo, fin
al muricciuolo d’un giardino suburbano, ove s’era aperta, per quella
circostanza solenne una piccola breccia tanto da lasciarci passare
carponi ad uno ad uno. Là mettemmo piede a terra lasciando i cavalli
a’ palafrenieri, ed entrati nel giardino, sotto una spaziosa tenda,
attorno ad una gran tavola stracarica delle solite confetture, ci
ponemmo gravemente a sedere, facendo ala al nostro ministro occupante
il posto d’onore con al suo fianco il governatore di Tauris, generali
persiani ed altri de’ più alti funzionari della provincia. Uno sciame
di servi si diede a portar in giro _scherbeth_[30], thè, e _katian_,
finchè lo stesso nostro ministro alzandosi non venne a dare il segnale
della partenza. Nuova inestricabile confusione per riprender i nostri
cavalli, e compiere infine la cerimonia del solenne ingresso nella
città, fra la siepe di teste e di busti che sporgeva dai muriccioli,
e la folla che in più luoghi ingombrava il passaggio, intanto che il
nostro arrivo era annunciato ai quattro venti dallo sparo de’ cannoni.
Il caracollar de’ cavalli di una turba fattasi cotanto numerosa e
stipata, travolgeva nell’aria un tal nembo di polvere da non vederci
più l’un l’altro, da urtarci ad ogni tratto, da dover studiare più che
il passo il modo di respirare, mentre dall’alto ci sferzava le spalle
un sole ardentissimo. Secondo i nostri più discreti calcoli questi
tormenti dell’etichetta del sito e della stagione, avrebbero dovuto
aver presto un fine, se d’altro non si fosse trattato che di muovere
per la via più diritta, attraverso la città, a’ nostri alloggiamenti.
Ma ci eravamo ingannati. Le autorità persiane che si eran poste a
capo della cavalcata diplomatica, ci imposero il supplizio del giro
attorno alle mura della cittadella, che durò per sè solo oltre un’ora.
Questa cittadella occupa un’immensa area che basterebbe ad una intiera
città; il suo recinto è un muro di fango, rotto da corrosioni, fessure
e scoscendimenti, che appena e malamente potrebbe servire di difesa
contro una popolazione inerme. Dall’orlo del muro sporgono rovine di
case, di castelli e di qualche torre. Infine questo spettacolo non era
tale da produrre in noi un alto concetto della potenza militare della
Persia, ma solo noja e stanchezza. Quando piacque a’ nostri ospiti
fummo condotti al quartiere assegnatoci, il quale era niente meno
che lo stesso palazzo dello Schah, ove ripresero come cosa nuova i
complimenti e le felicitazioni ufficiali, tanto da non lasciarci liberi
di respirare infine a nostro agio se non ad ora assai inoltrata.

Questo palazzo sorge sul confine meridionale della città, nel mezzo di
un ampio giardino rettangolare chiuso da un muro. Fu edificato da Feth
Alì Schah, ed è per conseguenza recente; ora per l’incuria connaturale
ai Persiani, e pel cattivo materiale di costruzione, che è in massima
parte fango, trovasi già in uno stato di deperimento assai prossimo
alla rovina. Il corpo principale consta di un ordine di camere terrene,
e di un piano superiore, quello che propriamente serve di abitazione
al sovrano quando recasi in Tauris. Un gran salone o _talar_, sta
sopra il portone d’accesso, ed occupa colla sua grande vetriata la
parte di mezzo, che è pur la maggiore, della facciata rivolta verso la
città. L’interno del salone è ornato nel modo istesso della gran sala
del Sardar di Erivan; colla volta a specchi, e le pareti dipinte con
quadri rappresentanti caccie e battaglie, ed in mezzo alle figure di
questi quadri spicca, colla sua grande barba nera quella di Feth Alì.
Tra questi dipinti ci fece sorpresa il vedere due grandi figure isolate
e simmetriche di due imperatori europei, Alessandro e Napoleone. Due
piccole camere, una per lato, compiono questo piano superiore. Serviva
di stanza al nostro ministro una di queste due camere, ai ricevimenti
ed alla mensa la gran sala: il rimanente personale dell’ambasciata si
distribuì nelle camere al piano terreno. In un’ala laterale di antri
di fango, fu preso il meno rovinato per farne la cucina. Kuli Khan,
sebbene padrone di una delle più belle case della città, rimase con noi
da mattina a sera durante la nostra fermata in Tauris, ed a tal uopo
si fece piantare la sua tenda particolare nel giardino, di fianco al
palazzo. L’ammobigliamento di questo, che per la Persia si può dire
ancora sontuoso alloggio, consisteva de’ nostri materassi e delle
nostre casse; solo nella sala superiore trovammo disposti alcuni vecchi
sedili e qualche tavola sconquassata.

La spianata al davanti del portone d’accesso, secondo lo stile
persiano, era quasi per intiero occupata da una gran fossa quadrata,
ma inetta a mantener l’aqua per lo stato delle sue pareti; la facciata
opposta del palazzo formava uno dei lati di un piccolo giardino interno
chiuso dal suo proprio muro di fango, diviso regolarmente in ajuole
coperte di erbe selvatiche ed arbusti scompigliati. Il grande giardino
circumambiente era piuttosto un bosco denso ed incolto, suddiviso da
viali rettilinei intersecantisi ad angolo retto, con qualche pezza di
vigneto e di prato naturale.

Tale era il nostro alloggiamento in Tauris. Chi è schiavo delle
mollezze europee ci compiangerà; ma chi viaggia privatamente in Persia,
invidierà la nostra sorte. Tre o quattro giorni, necessarj d’altronde
alle interminabili cerimonie ufficiali, potevano trascorrere per noi
abbastanza confortanti e lieti. Ma gli ostacoli che incominciavano
qui a farsi gravissimi, per la speditezza del nostro viaggio, ci
hanno condannati ad una dimora lunga e nojosa oltre ogni previsione.
Noi naturalisti in particolare dobbiamo lamentare un prezioso tempo
perduto. Se nel piano del viaggio fosse stata compresa una fermata
di undici giorni in Tauris, avremmo colta con vero trasporto questa
opportunità per spingere un’escursione al lago di Urmia, od al Saband,
ma la prospettiva della partenza ad un indomani che si trasportava
sempre per impedimenti nuovi ed inattesi, ci ha tenuti presso che
prigionieri, ed ha ristretto le nostre escursioni nel recinto del
giardino reale. Gli ozj di Tauris non hanno lasciato nelle reminiscenze
del nostro viaggio che la vana amarezza di una bella e rara occasione
infruttuosa.

Licenziati i malacani di Tiflis, il governo persiano mise a
disposizione del nostro ministro, pel trasporto delle vetture, cavalli
dell’artiglieria. Bisognava provedere ai cavalli per noi, ed alle
tende, poichè i cavalli e le tende che ci avevano servito da Diulfa,
non dovevano procedere oltre Tauris. Kuli Khan, il quale aveva sempre
mostrato per noi la maggior premura, doveva cedere l’ufficio ad un
altro mehmendar di rango superiore, che il governo aveva scelto nella
persona di un generale, Alì Naghi Khan. Spuntò in noi la persuasione
che non vi fosse da guadagnare nel cambio; e questo sentimento fatto
palese anche col desiderio espresso, della conservazione presso la
nostra ambasciata del primiero _mehmendar_, ha sicuramente potuto
agire in modo sfavorevole sull’animo del _mehmendar_ nuovo, e gli
ostacoli, che si presentavano al progredimento sollecito del nostro
viaggio, furono da noi attribuiti intieramente alla mala voglia di
questi. Supporre in tali circostanze un sentimento di reazione e le sue
naturali conseguenze, non è calunniare un persiano, posto a contatto
con infedeli europei: giustizia per altro vuole che io soggiunga, altra
esser stata la vera causa de’ lamentati impedimenti, da noi conosciuta
più tardi, e siccome a suo luogo dirò.

Reclusi forzatamente in questo recioto, il meglio che potevamo fare,
quando la noja e l’impazienza delle giornaliere contrarietà non ci
deprimevano affatto, era il cacciare nel giardino. La _Testudo ibera_
e lo _Stellio caucasius_, vi sono abbastanza communi; ma qui per la
prima volta trovai da aggiungere alle già raccolte specie di rettili
due scincoidi, cioè l’_Ablepharus ménetriési_, Dum. Bibr. ed una nuova
specie di _Euprepis_ che io ho chiamato _E. affinis_[31]. Quanto
agli uccelli, ecco le specie da me trovate. _Athene noctua, var.
persica; Upupa epops, Pyrgita domestica; Carduelis elegans; Euspiza
melanocephala; Sturnus vulgaris; Acridotheres roseus; Parus major:
Muscicapa luctuosa; Saxicola aurita; S. œnanthe; Hypolais elaica;
Curruca hortensis: Curruca cinerea var. persica._ Quest’ultima specie
nidificante in grande abbondanza nel giardino, insieme all’_Hyp.
elaica_, è del tutto simile alla sterpazola da me veduta a Delidjan,
il cui canto io aveva trovato sensibilmente più melodioso ed argentino
di quello della communissima _Curruca cinerea_ d’Europa, dalla quale
del resto costantemente si distingue per una statura minore, e colorito
meno volgente al fulvo. Queste differenze non mi decidono ancora a
considerare come specie distinta la sterpazola del Caucaso e di Persia,
come non posso seguire l’esempio di coloro che separano specificamente
dalla commune civetta d’Europa quella di Persia, solo perchè di un
colore costantemente molto più pallido.

Di un’altra specie non posso dare che una vaga indicazione.
Passeggiando un giorno senza fucile nel giardino, fui colpito da un
gorgheggio forte e sonoro che metteva un uccello dell’aspetto e della
statura dell’_Acrocephalus turdoides_, posato su di un ramo a pochi
passi da me, d’onde potei contemplarlo a mio agio. Il dì seguente,
ricercandolo appositamente lo rividi e gli diressi un colpo; ma
sgraziatamente l’uccello ferito si perdè nel bosco, nè per quanta
diligenza io facessi mi venne dato rinvenirlo. Non poteva essere
certamente, in luogo cotanto asciutto, la commune specie d’Europa,
dalla quale differiva altresì per il colore più giallastro del petto e
del ventre, e pel canto ancora più altisonante.

Io voglio prendere ora l’occasione di dire qualche cosa del così bello
e così commune storno roseo (_Acridotheres roseus_), i cui branchi
innumerevoli fanno gradita impressione ad ogni viaggiatore in Oriente,
fosse il più alieno dalle emozioni di un naturalista. Il bel contrasto
dell’elegante vivo e delicato roseo col nero vellutino della testa,
delle ali e della coda, le centinaja, le migliaja di individui volanti
di concerto in branchi stipati, fanno di questa specie una delle più
caratteristiche delle campagne dell’Oriente. Questa splendida livrea
è però solo del maschio adulto. I giovani e le femmine hanno una
piuma assai più modesta, grigio di fumo, con appena qualche velatura
di roseo. Io ho visto branchi di individui adulti, ed altri affatto
separati di giovani dei due sessi. Nella buona stagione questi branchi
si scompartono in copie, le quali però rimangono sempre approssimate
in una località di elezione. Nordmann che ha data un eccellente
monografia di questa specie, assicura di aver osservato branchi
i quali passano tutta una estate senza attendere all’opera della
propagazione. Il nutrimento di questi uccelli consiste di insetti, e
specialmente di locuste; ma nella primavera avanzata preferiscono le
frutta e specialmente le ciliege, ed allora ingrassano assai, di una
pinguedine di bel colore roseo. La loro carne, che in altra stagione
è dura e spregevole, diventa in questa tenera e grata quanto mai, e
l’ambasciata italiana ne può fare ampia testimonianza, a salutare
istruzione per chi viaggia la Persia, e deve provedere a tutta la
bisogna del vitto giornaliero. Sul far della sera gli individui che
s’eran dati a pascolare nei campi e ne’ giardini, si appollajano in
grandi branchi sugli alberi, stretti siffattamente gli uni presso gli
altri, da piegare sotto il peso grossi rami. Dall’alto di queste piante
fanno sentire un gorgheggio, un cicalìo continuo e sostenuto, che cessa
poi quasi d’improviso quando il sole sia tramontato. È facile allora il
farne una vera strage, lasciandosi essi avvicinare dal cacciatore, per
poco questo sia cauto, a breve tiro di fucile.

Lo storno roseo è uccello providenziale per l’Oriente, per la quantità
immensa di locuste che distrugge, senza che per altro valga a lottare
con profitto contro il numero sterminato di questi insetti che ne’
deserti hanno le loro covate al riparo di un altro ben maggiore nemico
che è l’aratro. I Tartari e gli Armeni tengono gli storni rosei in
grande venerazione, e benedicono il loro arrivo, quando vedono i
campi minacciati di totale sterminio dalle cavallette. Ancora oggi gli
Armeni hanno fiducia in una sorgente miracolosa che scaturisce ai piedi
dell’Ararat; credono che l’acqua di questa sorgente abbia la virtù di
chiamare gli storni rosei; epperò ne conservano sempre scrupulosamente
una certa provigione che espongono all’uopo nelle minacciate campagne,
e, quando la provigione è esaurita, se ne riforniscono, facendo
apposite peregrinazioni, anche di lontano, alla sacra fonte. In molti
paesi dell’Europa civile, che non hanno nè gli storni rosei nè l’acqua
dell’Ararat, si esorcizzano direttamente, da ignoranti ministri di
superstizione, i bruchi e gli scarafaggi, a scorno dell’impotenza delle
academie d’agricultura.




XI.

Uno sguardo a Tauris. — I _bazar_. — Un _dervisch_. — Visite e
controvisite. — Vuote gare statistiche. — I medici europei in Persia.
— Visita al Principe ereditario. — Festa in onore della ambasciata
italiana. — Successione di giorni perduti. — La carovana si ricompone.
— Partenza. — Lebbrosi. — Da Tauris a Mianeh.


Tauris (_Täbriz_ de’ Persiani), capitale della vasta provincia
dell’Aserbedian, ha conservato ancora, attraverso i secoli, i
terremoti, e l’indomabile incuria musulmana, il suo rango tra le
primarie città della Persia, ma ha perduto e va ogni giorno perdendo
quello che per sì lungo tempo ha tenuto fra le città di tutta l’Asia
occidentale. Chardin la visitò nel 1673. I moderni che percorrono
la linea battuta, in epoca tanto remota, dal viaggiatore francese,
possono ancora verificare ad ogni punto la scrupolosa esattezza
delle sue descrizioni, ma non trovano più in Tauris le 15,000 case,
le 15,000 botteghe nei labirinti de’ bazar, i 300 caravanserai, le
230 moschee, i 500 mila abitanti. Il solo perimetro è rimasto: e
veramente l’estensione di questa città, vista da una delle sovrastanti
alture, non pare all’occhio molto inferiore di quel che sia Parigi
dal _Mont Valérien_, comprendendovi da circa 10,000 giardini, che
sono per verità rinchiusi nella città stessa, e ne fanno parte
integrante. Tra l’ingombro intricato e interminabile delle vecchie
mura di fango stemperato, fra le rovine di antichi monumenti, sorgono
nuove costruzioni di fango, e nuove rovine che sono la città attuale.
Viottoli tortuosi irregolari, pericolosi per le buche profonde che
frequentemente vi si incontrano, tristamente rinchiusi fra continui
muricciuoli di fango, s’intersecano per questa immensa area. Solo
indizio delle abitazioni, nascoste ad ogni sguardo de’ passanti, sono
le porticine lunghesso i muri, ed affinchè attraverso le sconnessioni e
le fenditure delle imposte, l’occhio de’ curiosi non violi i penetrali
gelosamente custoditi, s’alza di contro ad ogni porticina un secondo
sipario interno. Di quando in quando queste vie si aprono in piazzali
dal pavimento ingombro di macerie e di rottami, quando non è di
lapidi sepolcrali, poichè i Persiani hanno per costume di eleggere a
cimiteri le piazze più battute nell’interno delle città. Fra le opere
monumentali sono da annoverarsi la cittadella, della quale ho già detto
nel precedente capitolo, l’arsenale, salito a tanta importanza sotto
Abbas Mirza, ed ora in completo decadimento, le moschee ed i _bazars_.
Sono invero imponenti, maestose, le rovine della grande moschea
distrutta nei terribile terremoto del 1780, tali da far credere essere
stato quello uno dei più grandi e forse il più grande monumento della
Persia moderna.

Come in tutte le città dell’Oriente, così anche a Tauris la vita
si concentra ne’ bazar. È singolare il contrasto fra la solitudine
e la quiete delle vie deserte, e la folla rumorosa de’ mercanti,
de’ compratori, de’ vagabondi che si agita e si urta da mane a sera
in quelle immense interminabili gallerie, dalla volta solidamente
costrutta in mattoni, con larghi spiragli per dare adito alla luce,
e file non interrotte di botteghe ai due lati. I bazar di Tauris
sono dei meglio forniti di tutta la Persia, anche di mercanzie
europee, delle quali fanno particolarmente commercio gli Armeni. Di
quando in quando alcuni rami o svolte di queste gallerie mettono ne’
caravanserai, ove hanno i loro depositi i più facoltosi negozianti, ed
ove sono apprestati alloggiamenti e magazzeni per i grossi mercanti
avveniticci. Alcuni di questi caravanserai sono assai pittoreschi e
grandiosi, con due piani e due ordini di grandi finestre degli edifizi
che circoscrivono uno spazioso cortile adorno di piantagioni e di
fontane. Ne’ caravanserai hanno pure i loro _comptoirs_ ed i loro
magazzeni i pochi negozianti europei. L’abbondanza e la varietà degli
approvigionamenti de’ bazar della Persia, e di questi di Tauris in
particolare, hanno superata la nostra aspettazione. La folla, il nuovo
aspetto delle cose e della gente, fanno sì che un europeo, il quale per
la prima volta s’interna in questi labirinti, facilmente si smarrisce,
e mentre studia la sua via e tende l’occhio in cerca delle sue guide,
è urtato dagli affaccendati del luogo, ed anche da qualche fila di
asini e di cammelli stracarichi, de’ quali non s’avvede se non quando
si sente sospinto al dorso. Qui è la vita publica: qui il governo fa
noti i suoi editti, e dà spettacolo dell’esecuzione delle sue leggi.
Un giorno ci occorse di vedere un povero infelice, con un anello di
ferro passato attraverso le narici, e per una corda passata per questo
anello condotto a mano da due soldati, mentre un agente della polizia
di quando in quando leggeva ad alta voce una sentenza. Il giorno dopo
lo stesso condannato, nel medesimo modo, veniva tradotto ancora per
tutto il bazar, ma colla mano destra penzolante dal collo. L’individuo
era colpevole di furto. Tutti rubano in Persia a man salva, e più i
grandi e potenti che i poveri del basso volgo. Non è dunque il rispetto
della proprietà che si vuole insegnare con pene cotanto strane, ma
soltanto il rispetto della forma, una certa quale grazia, od almeno la
simulazione del diritto, nell’appropriarsi la roba altrui.

Di un’altra curiosa scena fummo testimonj ne’ bazar di Tauris. Un
santone, o _dervisch_, a cavallo, avvolto in un ampio mantello bianco,
dal sorgere al tramontar del sole percorre i bazar, nel solco che
la folla apre rispettosamente davanti a lui, e grida a tutta gola,
di continuo, col semplice intervallo di un respiro, _Alì hò Alì hò!_
L’incontro di questo fantasma, macilento, spiritato, grondante sudore,
ci ba fatta profonda impressione. Seppimo poi che esso mena questa vita
da dodici anni. Alla sera soltanto prende qualche cibo che a gara gli
viene offerto dalla pietà _dei veri credenti_, si sdraja; e sorto di
nuovo col sole, inforca il primo cavallo che incontra e che gli viene
immediatamente ceduto, per ricominciare la sua faticosa missione.

Ne’ forzati ozj di Tauris, i frequenti e geniali rapporti cogli Europei
che vi hanno stanza, sono stati per noi il più grato conforto alla
noja della prigionia ed alla pesante etichetta delle visite uficiali.
Devo qui ricordare con compiacenza in particolar modo i signori
Vlasto, della casa Ralli; il sig. Castelli, di origine genovese, ma
da lunghi anni stabilito in Tauris come facoltoso privato; un medico
tedesco, il Dott. Jurist; e due negozianti svizzeri, i signori Würth
e Hahnart. Le cortesie delle quali ci colmarono, ed i signori Vlasto,
Würth ed Hahnart anche più tardi in Rescht, rimarranno fra le più
gradite reminiscenze del nostro viaggio. Farò grazia al lettore
della descrizione de’ ricevimenti uficiali. La nostra sede era un
andirivieni continuo di autorità, di funzionarj, di parenti e di
amici dell’antico e del nuovo _mehmendar_. Si convenne fra noi una
specie di turno a far ala al nostro ministro in questi ricevimenti. I
discorsi finivano sempre a cadere sul nostro paese, e su quello che
ci ospitava. I Persiani non hanno alcuna idea degli stati europei,
che tutti in massa comprendono sotto la denominazione di _Frengistan_;
solo qualche cosa sanno, e per dura esperienza, della grandezza e della
forza della Russia. Abbiamo avuto per un istante la speranza di poter
raccogliere in questi ricevimenti qualche notizia statistica sulla
Persia, ma alle prime prove lasciammo ogni lusinga, accorgendoci noi
subito come l’esagerazione persiana varcasse ogni limite. Il meno che
i nostri interlocutori facessero si era raddoppiare le nostre cifre,
che per verità noi medesimi spiattellavamo arrotondate con larghissimo
arbitrio, calcolando con chi s’aveva a fare. Noi dicevamo, per esempio,
che la popolazione dell’Italia era di 25 millioni, e subito quella
della Persia diventava di cinquanta millioni; che la nostra armata
contava 500 mila soldati, e l’interloculore persiano soggiungeva
immediatamente che lo Schah dispone d’un millione di armati. Così
per tutto il resto. Da ciò venne l’impossibilità di una qualche cifra
alquanto prossima al vero, fosse pure della sola popolazione di Tauris.
La Persia non è paese da statistiche. Il sig. Castelli per altro mi
disse che pochi anni prima, all’occasione di un orribile carestia che
travagliò il paese, si dovette fare un censo improvisato alla meglio
della popolazione di Tauris, onde provedere all’approvigionamento della
città; e che il risultato ottenuto in quella circostanza diede un cento
mila abitanti all’incirca.

Sono stabiliti in Tauris due medici europei: uno inglese, il dott.
Cornick; l’altro tedesco, il già nominato dott. Jurist. Il principale
loro provento consiste nelle somme annuali pattuite colle poche
famiglie europee risiedenti nella città, o con qualche famiglia
armena. La clientela mobile, oscillante, non riesce loro di alcun
profitto, chè l’avarizia dei Persiani è più forte della cura della
salute. Solo in certi casi di gravi malatie chirurgiche i Persiani
chieggono l’assistenza de’ medici europei, stipulando previamente la
mercede pel caso di fortunato esito della cura. Pei casi ordinarj i
malati ricorrono agli empirici del luogo che retribuiscono di pochi
_schahi_. Anche in Persia ogni europeo è ritenuto come un _Hakim_, vale
a dire medico; e non si può dire quanto lavoro giornaliero toccasse
al nostro bravo Lessona, nel visitare infermi attratti dalla notizia
del passaggio dell’ambascieria italiana. Ad ogni stazione accorrevano
processioni di malati da’ vicini paesi, a domandar consigli dal nostro
medico; consigli, è inutile il dirlo, non solo gratuiti, ma seguiti
dalle somministrazioni caritatevoli dei rimedj della nostra farmacia.
Tutta questa gente sarebbesi senza titubanza allontanata, ove si fosse
posta la condizione di una mercede, anche tenuissima al consulto. Sia
questo un utile avviso pei medici italiani, i quali volessero tentare
la sorte in Persia; sorte che è strettamente legata all’esistenza
di colonie europee, quindi alla residenza nelle maggiori città. La
capitale è naturalmente la città meglio fornita di medici europei,
addetti quali al servizio sanitario dell’armata, quali alle ambasciate
residenti di Russia, d’Inghilterra, di Turchia, oltre l’archiatra dello
Schah, ch’è il dottore Tholosan, di nazione francese.

Tale e sì grande è l’importanza di Tauris che per costante tradizione
ha residenza in questa città, collo splendore di una corte, l’erede
al trono. Il 22 giugno l’ambascieria italiana, in gran pompa, fu
ammessa al ricevimento solenne del figlio primogenito dello Schah, che
pochi giorni inanzi era stato proclamato, fra publiche feste, vicerè
della Persia. È un giovinetto di otto anni, pallido, rachitico, con
grandi occhi neri, fisonomia espressiva, al quale sovrasta un’epoca
terribile per un principe persiano di così gracile struttura: l’epoca
della pubertà. Non dirò delle interminabili cerimonie che precedettero
e seguirono l’udienza. Dopo la presentazione di ogni singolo membro
dell’ambasciata, il ministro Cerruti rivolse al giovine principe queste
nobili parole: La mia età mi dà il diritto, Altezza, di porgervi, non
complimenti ma augurj; ed io vi auguro che possiate mai sempre seguire
le vie dell’umanità e della giustizia, le sole per le quali un principe
sia in grado di compiere il debito suo, di render felici i suoi popoli.
Dopo la visita del principe l’ambasciata si recò dal _Sardar_ che è il
generalissimo dell’armata, una delle maggiori autorità dell’impero,
al consiglio del quale s’affida lo Schah nelle più importanti
deliberazioni di Stato.

Fu quella una vera giornata campale, specialmente per diplomatici
d’occasione, quali eravamo la maggior parte. Il principe rispose
coll’invitarci pochi giorni dopo ad una grande festa nella sua
residenza, astenendosi per altro dall’intervenirvi di persona, e
facendosi rappresentare dalle primarie autorità di Tauris. Il giorno
27, sul cader del sole, movemmo ancora tutti, in abito di gala, al così
dettò palazzo vicereale, affollato di gente, e addobbato con insolita
pompa di lumi, di cristalli e di festoni. Sotto un atrio ornato di
specchi, con un immenso cortile di prospetto, sedemmo in schiera co’
dignitari messi a farci onore, e, dato il segnale, incominciarono i
fuochi d’artifizio nella corte, scomposti ma varj e di bello effetto.
Dopo il turno de’ razzi e delle girandole, venne quello delle mine,
o grandi petardi sotterranei, con scoppj così potenti che tutto il
fabricato ne era scosso, ed ogni colpo staccava in frantumi gli specchi
sovra il nostro capo, tanto che si dovette dare ordine di cessare.
Ma la guerra era dichiarata alle nostre orecchie. Masse di tamburini
e di trombettieri, a tutta forza di braccia e di polmoni, davano a
capriccio negli strumenti, tirandone un frastuono infernale che non
voleva dar tregua. Consumate le machine incendiarie, si presentarono
davanti a noi tre ballerini, due dei quali trasfigurati in donna,
ed intrecciarono danze convulse e barrocche da muovere a noja ed a
nausea. Così il tempo trascorreva senza che si parlasse del pranzo,
che era pure nel programma, e del quale le nostre viscere cercavano
indarno un qualche segno esterno. Finalmente si spalancarono le porte
alle nostre spalle, e fummo introdotti in una sala splendidamente
illuminata, ove era imbandito un banchetto sardanapalesco, con lusso
esagerato di cristallerie di Boemia, e, ciò che più importava, con
sedili e posate, oggetti dei quali i Persiani fanno assolutamente
senza. I personaggi che aveano fatti gli onori della prima parte della
festa, sedettero nostri commensali, e tra questi due andavano distinti
per la conoscenza perfetta di lingue europee: Davoud Khan, smirniotto
di nascita, generale nell’armata dello Schah, parlante speditamente il
buon italiano; e Jahja Khan, il quale, addetto un tempo all’ambasciata
di Pietroburgo, vi aveva appreso correttamente il francese. Il pranzo
fu servito con profusione di vini e di vivande. Tutte le invenzioni
della cucina persiana ci passarono per lo meno sotto gli occhi; pilaw,
o riso asciutto, in tante portate quanti sono i condimenti in uso, di
sole spezie, di sostanze zuccherine, di salse agre, di sughi di carne
di montone, poi citrioli ripieni e carni arrostite sulle bragie, e
tutta questa roba con intermezzi di piatti più o meno europei; tanto
che il pranzo si protrasse assai avanti nella notte. Abbiamo osservato,
in questa circostanza, che anche _i veri credenti_ sanno all’uopo
metter in disparte la disciplina del Corano, e tracannare, senza
tante cerimonie, grandi e ricolmi bicchieri di vino, da disgradarne un
cosacco.

Ma in nessun modo si poteva riescire a fare per noi di Tauris una
Capua, e la nostra pazienza, portata all’estremo, diede libero sfogo
alla crescente energia delle rimostranze onde si affrettassero da senno
i preparativi della partenza. Il nostro nuovo _mehmendar_, Alì Naghi
Khan, colla secca, abbronzita, impassibile sua fisionomia, apertamente
prometteva e riprometteva, sottomano studiando sempre nuovi ostacoli
per trattenerci. I cavalli che ci avevano portati dall’Arasse dovevano
esser cambiati, ed egli trovò modo di farci perdere alcuni giorni nella
scelta de’ nuovi, portandoci a prova ronzini viziosi che gli esperti
della nostra brigata rifiutavano. Quando sembrava che la difficoltà
de’ cavalli fosse superata, e già tutti quelli che ci occorrevano
stavano raccolti e vaganti nel recinto, sorse l’altra difficoltà
delle tende che il _mehmendar_ seppe governar destramente ad ottenere
nuove dilazioni. Questa condotta delle autorità persiane, che tanto
ci inaspriva, dava luogo da parte nostra a commenti e congetture che
finivano quasi tutte a carico del _mehmendar_. La vera causa di queste
tergiversazioni, che si ripeterono ad ogni tratto anche nel seguito
del viaggio, non ci fu nota che assai tardi, tanta era la gelosia del
nostro _mehmendar_ a tenerla segreta. Lo Schah si trovava in quel tempo
a’ bagni di mare ed alle caccie nella provincia dei Mazanderan, e non
era disposto a tralasciare così di subito queste sue occupazioni,
per recarsi in Teheran a ricevere l’ambasciata del re d’Italia. I
suoi ministri scrivevano continuamente al _mehmendar_ di rallentar le
nostre marcie, di trattenerci per via con ogni astuzia, ed in questo
sono stati molto bene serviti da Alì Naghi Khan. Infine lettere del
ministro degli affari esteri, come ultimo espediente, ci esortavano
colle espressioni le più commoventi ad aver cura della nostra salute,
a non sfidare con troppa imprudenza l’inclemente clima della Persia,
a viaggiare a piccole giornate, a lasciar trascorrere il culmine
dell’estate prima di giungere a Teheran, che ci era dipinta come una
fornace fatale agli Europei. —

Pure ogni giorno si avvicinava a quello da noi tanto invocato. Il
piano, l’ordine, la disciplina del viaggio discussi e definitivamente
assentiti, pronte le tende, le cavalcature e le coppie di cavalli
dell’artiglieria pel trasporto delle nostre due vetture, venne infine
il momento di dare un addio a Tauris. La nostra carovana erasi fatta
più numerosa; ma prima di descriverne il cammino devo far qualche cenno
di alcuni individui che ne facevano parte. Era necessario un dragomanno
persiano, in sostituzione del signor Mehrab, ed il nostro ministro
trovò molto opportunamente preferibile l’averne uno di non troppe
pretese, uno, come direbbesi, di buon comando, da potere all’occorrenza
(scusi l’animo sensibile del lettore) trattare col bastone o colla
punta degli stivali. L’individuo scelto a questo ufizio fu Mirza
Alì[32], birbo di svegliato ingegno, che da servitore di bassa sfera
s’era, per industrie d’ogni specie, innalzato di grado, ed avendo
avuto occasione di accompagnare fino a Parigi un mercante di semente
di bachi raccolta a Rescht, aveva discretamente imparato il francese.
Il _mehmendar_ condusse con sè un suo figlio, il quale, senza avere mai
comandato una mezza compagnia, doveva ricevere a Teheran il brevetto di
colonnello: giovinotto di tratto piacevole, di carattere apparentemente
buono, e che sapeva pure balbettare qualche parola di francese. Un
curioso tipo del basso personale del nostro seguito era un palafreniere
del Sardar, di nazione curdo, di nome Khiazembey, allegro, serviziato,
gran bevitore, capace di vuotare d’un sorso una bottiglia di rhum. Per
tutta la strada ci divertì colle sue mattezze, colle sue fantasie,
e con certe canzoni che egli accompagnava con un singolare batter
della dita, così ricche di immagini poetiche e di colorito orientale,
da rincrescermi ora il non averne trascritta la traduzione che me ne
andava facendo l’amico Bosio. Tipo d’altro genere per la instancabile
attività, pel contegno discreto ed onesto come raramente si incontra in
un persiano, per l’ordine scrupoloso in tutte le faccende sue, era un
vecchietto di nome Ismail, che nell’ufizio importante di magazziniere
ci ha resi servigi non mai abbastanza lodati.

Il nostro seguito persiano si era così ingrossato in Tauris, ma era
diminuita, con rincrescimento generale, la nostra propria brigata.
Orio, che aveva ricevuto dal governo italiano lo speciale incarico
di esaminare in Persia la coltivazione del filugello, si valse della
compagnia e dell’ospitalità cortesemente offerta dai signori Vlasto;
e coll’accordo di ritrovarci più tardi in Kazvin, si diresse pel passo
di Massula nella provincia sericola del Ghilan, ove stava appunto per
compiersi il raccolto dei bozzoli.

Salutammo con vera gioja l’alba del 2 luglio, irrevocabilmente fissata
per la nostra partenza. Le 3 del mattino eran di poco trascorse, che
già tutti sfilavamo per le contrade di Tauris, senza neppure attendere
il _mehmendar_ che ci doveva raggiungere più tardi. Appena fuori
della città, si offerse ai nostri occhi lo spettacolo miserando d’un
gruppo di lebbrosi accampati presso la strada, che al nostro passaggio
avanzandosi stendevano la mano implorando pietà con alte e lamentevoli
grida. Era questo il primo e non doveva essere l’ultimo incontro
di questi esseri umani a tale estremo di abbandono e di miseria da
vincere ogni confronto, ogni imaginazione. Luridi, sfigurati dai
patimenti e dal morbo, seminudi, privi di ogni cosa, perfino di tetto,
respinti, come creature maledette, da ogni consorzio umano, prigioni
in uno spazio angusto, ricinto di sassi sconnessi tra il deserto, sul
margine di una strada, attendono dalla carità dei passanti (e di quali
passanti!) qualche raro frustolo di pane. Non esistono sulla faccia
della terra umane creature in più deplorabile stato; e rammentandole in
queste pagine mi si gonfia il cuore di profonda commiserazione.

La strada fuori di Tauris, nettamente e largamente tracciata per esser
molto battuta, passa bruscamente dalla pianura verdeggiante per mille
e mille giardini, ad un terreno aridissimo, disuguale, mosso a grandi
onde che diventano ai lati colline arrotondate, del triste ed uniforme
cinereo del deserto. Gli squarci di queste colline presso la strada
mettono a nudo strati marnosi cinericci per lo più orizzontali, o qua
e colà pochissimo inclinati. Dai due lati, lungo le falde di colline
più lontane e più elevate, veggonsi alcune case e villaggi. Quindi
per qualche tratto si segue il corso di un fiumicello, il Basminsch,
lungo il quale ripiglia la vegetazione, fino ad un bellissimo bosco di
pioppi, nel cui mezzo è un _kiosco_ rovinato dello Schah. Le colline
de’ due lati sembrano poscia congiungersi in bel anfiteatro, nel
quale il serpeggiare di alcuni rigagnoli intrattiene una vegetazione
abbastanza vivace. Dopo cinque ore di marcia giungiamo al grosso
villaggio di Basminsch, presso il quale erano alzate le nostre tende.
Una delle nostre vetture aveva sofferto nel cammino una leggera avaria,
facilmente riparabile con una piccola cintura di ferro. Si manda pel
fabro che, in un villaggio di quella importanza, non doveva certo
mancare: ed eccolo infatti; ma con molta nostra sorpresa, e senza il
benchè minimo imbarazzo da parte sua, come di cosa affatto naturale,
il fabro ci dice che gli manca la materia prima, che non ha neppur
un chiodo. Per fortuna nostra egli era padrone di due tanaglie, ne
comperiamo una, che viene battuta e lavorata all’uopo. Questo fatto
dimostra quanto sia raro e prezioso il ferro in Persia, e spiega tante
particolarità delle costruzioni in questo paese.

Lasciata questa stazione prima dell’albeggiare, siamo ancora nel
deserto. Ci dirigiamo verso una piccola catena di montagne sulla
nostra sinistra, passando rasenti le mura di un grande caravanserai che
trovammo animato da una folla di passaggeri. Più avanti altri lebbrosi,
ed al piè del monte altro caravanserai. La strada qui si fa assai
difficile per le nostre vetture; pure l’erta è superata, e scendendo
pel versante opposto troviamo altri due caravanserai, uno minacciante
rovina, l’altro in rovina completa. Scesi nella valle si dispiega al
nostro sguardo un ampio stagno popolato da una moltitudine di uccelli;
i medesimi che già avevamo visti al lago Goktscha, con di più branchi
di marangoni (_Phalacrocorax_). Fra la strada e lo stagno v’ha un
ampio pascolo paludoso sul quale si distendeva, come un fitto velo, uno
sciame innumerevole di libellule (_Agrion_). La strada continua poscia
in una valle sparsa di monticoli marnosi con strati orizzontali. I più
elevati e più discosti monti sulla nostra destra sono contraforti della
gran cresta del Sahand, che alza di lontano i suoi cocuzzoli nevosi.
Oltrepassato il piccolo villaggio di Haggi-Aga, accampiamo al luogo
detto Udjan, presso un castello reale che deve essere stato un tempo
assai grandioso, ed ora è tutto macerie, con appena qualche fresco
restauro, al suo lato di settentrione, e fra le rovine qualche misera
catapecchia di coltivatori[33].

Il _mehmendar_, il quale, tenero per la nostra salute, voleva
assolutamente che non ci stancassimo, ci fece fare il dì seguente
una marcia di sole tre ore, non oltre il villaggio di Dichmadatsch.
Percorrendo qui i colli aridi e sassosi presso il nostro accampamento,
ho trovato tra il predominante tritume marnoso, ed i soliti ciottoli
porfidici, altri ciottoli di ferro magnetico compatto, in parte
soprossidato, indizio certo di qualche non discosto potente filone;
ricchezza affatto perduta in un paese ove si è ridotto a non aver altro
combustibile che sterco essiccato.

Il 5 luglio facemmo sosta a Karatschemen. La strada che vi conduce
taglia trasversamente una serie di dossi e valloncini, propagini
dei monti che si ergono sulla nostra sinistra; valloncini freschi,
umidetti, con terreno fertile e ben coltivato a cereali, ma senza
un albero, senza un villaggio se non qui e là rarissimi e distanti
dal nostro cammino. Karatschemen è nel seno di una valle ristretta,
compresa fra monti di porfido in gran parte decomposto, e sul cui fondo
scorre un piccolo fiumicello di aque limpidissime. Qui comincio a far
conoscenza co’ pesci degli altipiani della Persia propriamente detta, e
dei quali farò qualche cenno a suo luogo.

La stessa fisonomia del paese, lo stesso serpeggiar della strada per
dossi e vallette, si continua oltre Karatschemen, ed anche, per circa
tre ore di cammino, al di là di Turkmantschai. La roccia in posto è
un’arenaria passante di quando in quando alla puddinga, alternante con
una calcarea silicifera, l’una e l’altra quasi intieramente ricoperte
da un potente deposito di sabbia e minuta ghiaja, tanto che le roccie
solide sporgono qua e là soltanto ne’ fianchi di qualche burrone. Per
un terreno siffatto si estendono le filtrazioni derivanti da vicini
monti, e l’umidità sotterranea permette la coltura de’ cereali. Questo
tratto di paese è considerato come il granaio della Persia.

Turkmantschai è un grosso villaggio, in una valle ben coltivata,
ombreggiata da grandi alberi, ed è luogo celebre negli annali della
Persia, per essere stato qui sottoscritto il trattato che pose fine
alla disastrosa guerra colla Russia, della quale ho tenuto discorso in
uno de’ precedenti capitoli. In questa stazione ebbimo il piacere di
accogliere per qualche ora sotto le nostre tende il signor Hahnart che
vi era di passaggio per recarsi a Rescht. Passeggiando dopo il pranzo
nel villaggio, fummo accostati da un uomo monco delle due mani che
ci chiese qualche elemosina. Interrogato come fosse ridotto in quello
stato, rispose di aver avuto le mani mozzate all’occasione della guerra
colla Russia, in pena dell’essersi portato a vender aquavite nel campo
nemico.

Il 7 luglio, sempre al primissimo albore, riprendiamo la marcia.
Presso il villaggio di Sumai-kociuk, facciamo breve sosta in un prato
ombreggiato da grandi alberi, ove i cucinieri del _mehmendar_ ci
allestiscono prestamente una refezione persiana. Oltre questo villaggio
il paese incomincia a cambiar aspetto per le emersioni porfidiche
che rompono qua e là il terreno, e due ore inanzi giungere a Mianeh,
giganteggiano in nude montagne e scogli dirupati. Gli strati di
arenaria e di calcarea sono da queste eruzioni sconvolti ed alterati.
Talvolta il porfido commune passa ad una varietà con numerosi e grossi
cristalli geminati di feldspato. Dopo aver serpeggiato fra queste rupi,
la strada scende nell’ampio letto di un torrente ghiajoso, lungo il
quale spunta qualche verdura. Lì incontriamo un accampamento di Curdi.
Gli uomini cogli armenti sono a pascoli lontani, e dalle nere tende
escono fanciulli e donne; le quali hanno la faccia scoperta, atteggiata
a maraviglia alla vista di una così imponente schiera di cavalieri in
quella solitudine. La nostra carovana s’era già infatti ingrossata di
drappelli dei notabili di Mianeh venutici incontro alla spicciolata.
In massa compatta, spronando i cavalli, e percorrendo fra un denso
nembo di polvere il lembo settentrionale della città, arriviamo infine
all’accampamento che ci era preparato in un giardino suburbano.




XII.

Mianeh e le sue cimici. — Passo del Kaplankuh. — Il ponte del pastore.
— Un cattivo quarto d’ora. — Cane ingannatore e fidi ranocchi. —
Sartschem. — Nickbey. — Il bastone è moneta. — Le alcate. — Zendlan. —
I Babi.


Mianeh, la più miserabile città della Persia, è collocata in una
pianura fra un circo di montagne, la quale è in massima parte un letto
sassoso, solcato dalle diramazioni di un povero fiume, del Schahrud.
Posta sulla principale arteria di commercio della Persia occidentale,
a’ piedi di un difficile passo montuoso, è una tappa d’obligo per
le carovane, le quali ne scappano al più presto, come da un luogo
infesto. Le sue _cimici_ le hanno data una triste rinomanza, dalla
quale i viaggiatori europei si lasciano invadere al segno di perdervi
la quiete. Io sono dolente e mortificato di non poter correggere questo
strano pregiudizio con osservazioni od esperienze mie proprie, di non
poter aggiungere una parola a quello che già può dire il buon senso di
ogni naturalista, nella quiete del gabinetto. Questo pregiudizio riescì
a portar un po’ di scompiglio anche nella nostra piccola società.
Agli scorpioni, ai falangj, che già ballavano la ridda notturna nella
fantasia di alcuni miei compagni di viaggio, si immischiarono qui le
cimici. Nessuna eloquenza riescì a vincere il ribrezzo irresistibile
onde questi miei amici furono presi all’avvicinarsi delle tenebre. Già
nel loro pensiero tutte le _cimici_ del paese, così avide, come dice
la fama, di sangue straniero, si erano dato convegno per assaggiare
alquanto di quello melato che scorre nelle vene italiane. Però al
mattino cercarono invano sul loro corpo le lividure delle terribili
bestiuole, e così la partita fu saldata con una notte inquieta per vane
paure, in aggiunta alla molestia vera e reale delle zanzare.

Queste così dette _cimici_ hanno un pajo di gambe di troppo per
esser veramente tali: appartengono invece alla famiglia delle
zecche, col nome scientifico di _Argas persicus_. La specie non è
neppure particolare a Mianeh, ma estesa per gran parte della Persia
occidentale. La puntura di questi _Argas_ è invero più dolorosa di
quella delle zecche propriamente dette, e quando attacchino in gran
numero una persona debole e sensibile e già predisposta dalla paura,
possono anche determinare qualche alterazione generale, possono
diventare almeno una causa predisponente alla febbre della malaria, più
nociva in Mianeh di tutte le bestiuole che la natura vi ha poste[34].
Ma siccome i pregiudizj non vanno mai scompagnati, così questi _cimici_
ne hanno originato fra i Persiani un altro stranissimo. Trovandomi io
sulla porta del nostro giardino, ho visto ud uomo del nostro seguito il
quale colla punta di un coltello raschiava del calcinaccio dal muro, e
biascicatolo lo trangugiava. Avendo chiesta spiegazione di quell’atto,
mi fu risposto che così faceva onde premunirsi dagli effetti della
puntura delle _cimici_, contro le quali è opinione generale essere
quella materia sicuro antidoto. Del resto accampati all’aperto, nel
mezzo d’un giardino, noi eravamo per questo solo al riparo dell’attacco
degli _argas_, i quali annidano nelle case. Il desiderio di veder in
faccia queste bestiuoline, e, per noi naturalisti, quello di farne
raccolta, non stette a lungo sospeso, che spontaneamente parecchi
del paese ce ne portarono come oggetti di curiosità per tutti gli
stranieri[35].

Rimanemmo in Mianeh anche gran parte del giorno seguente; e di
questa fermata approfittai, co’ miei due amici naturalisti, per fare
un’escursione nel letto del fiume. Vi trovammo, fra varie specie di
uccelli communi nel tratto fin qui percorso, una sola novità per noi,
il _Merops persicus_, volitante in gran numero insieme al commune _M.
apiaster_. Nel mezzo di questo pianerottolo sassoso sorge un piccolo
monticello isolato, che già a distanza ci si annunciava come un _tepe_.
Direttivi i nostri passi, troviamo che lo è realmente, e sebbene
vero pigmeo al paragone di quello di Marend, è composto dei medesimi
materiali disposti nel medesimo modo, come si vede nel taglio naturale
operato da un ramo del fiume: grossi ciottoloni nel centro della
base, e pel resto ghiaja, sabbia e limo con oscura disposizione quasi
orizzontale, e disseminati per entro frammenti di ossa e di stoviglie.
L’altezza di questo tepe è di circa 8 metri, il suo diametro alla base,
di circa 80.

Lasciammo Mianeh alle quattro e mezza del pomeriggio, curiosi del
risultato di questo primo esperimento di marcia vespertina. Dopo
breve tratto la strada volge nel letto stesso del fiume, le cui aque
raccolte passano sotto un ponte maestoso, di ventidue arcate, ma,
quasi inutile è il dirlo, cadente in rovina. Oltre il ponte incomincia
subito la salita della catena del Kaplankuh, la quale forma qui un
cuneo tra il fiume di Mianeh ed il Kyziluzun che lo riceve. Questa
montagna affatto nuda, senza il benchè minimo arbusto, consta di
strati di marna e di arenaria raddrizzati, sconvolti, e profondamente
alterati da grandi emersioni porfidiche. Il porfido stesso varia assai
nel colore della sua massa, onde i varj colori, or il grigio, ora il
rosso, ora il verde, ora l’azzurrognolo de’ fianchi scoscesi luogo la
strada, e de’ pittoreschi dirupi che scendono ne’ valloni, e qualche
volta in abissi spaventosi, a fianco di essa. Il paesaggio è imponente
di un orrore alpestre affatto particolare, degno del pennello del più
abile pittore di scogli. La strada in alcuni passi è così stretta,
inclinata e sovrastante a precipizj, da incuterci serj timori per le
nostre carrozze; ma come già si erano vinte altre difficoltà, così
fu superata anche questa. Sulla parte più elevata per un gran tratto
la strada è, in modo affatto insolito, regolare e selciata; opera
dello Schah attuale. Nello scendere pel versante opposto, veggiamo,
a picco di un profondo burrone sulla nostra sinistra, le rovine di un
antico castello, secondo la leggenda locale, abitato un tempo da una
principessa persiana, la quale si era invaghita di un giovine pastore
che di giorno guardava i suoi armenti oltre il fiume, ed al far della
sera passava a nuoto la gonfia corrente del Kyziluzun per recarsi
all’amoroso convegno. La leggenda aggiunge che la principessa fece
costrurre a sue spese il ponte sul fiume, per far libero in ogni tempo
il passo al suo diletto. Quel ponte si chiama ancora oggi il ponte del
pastore. Scendendo per questa china veggonsi potenti strati marnosi
sollevati, colle testate sporgenti e corrose. La marna ha qui subito,
per l’azione della pasta fusa dei porfidi, un processo di cottura che
l’ha trasformata in una specie di diaspro porcellana a strati sottili
variopinti, di vaghissimo aspetto, e suscettibile di bella pulitura.
Il ponte è di un solo arco molto acuto, e la sua vôlta è tutta
incrostata da una quantità immensa di nidi di balestruccio (_Chelidon
urbica_), accavallati l’un sull’altro. Il fiume, incassato fra
pareti scoscese, è qui molto profondo ed impetuoso: le sue acque sono
sensibilmente salate, solcando per lunghissimo tratto strati ricchi
di salgemma. Dirigendosi verso il mar Caspio il Kyziluzun squarcia la
catena dell’Elburz, alle cosidette _Fauci Ircanie_, come fa l’Elba
nell’Erzgebirge, e al di là di quella catena prende un altro nome;
quello di Sefidrud.

La catena del Kaplankuh separa il paese nel quale la lingua turca è
predominante da quella in cui si parla il puro persiano, l’Aserbedjan
dall’Irak, la Media dal paese de’ Parti.

Oltre il ponte del pastore la strada risale erta fra nude roccie
marnose, nelle quali sono intercalati banchi di gesso fibroso e
straterelli di salgemma. Ma si giunge ben tosto sull’altura, e
da questa lo sguardo si estende in basso, per valli intersecate
bizzarramente da monticelli marnosi con scarpe frastagliate. A destra
vedesi in lontananza un tale assembramento di questi frastagli lavorati
dalle aque pluviali, che dà sembianza di una grande città formata
di piramidi strette le une presso le altre. L’altura si continua in
un piano affatto deserto, solcato da torrenti paralleli al fiume, e
compreso da serie interrotte di cumignoli arrotondati. Sull’imbrunire
attraversiamo un villaggio ove gli abitanti accorrono ad offrirci latte
in abbondanza. Così ristorati io e Lessona spingiamo allegramente il
cavallo per la via che un mite chiaror di luna rendeva molto bene
distinta, e disputando di cose diverse con quella cordialità che
scaturisce da un’antica e profonda amicizia, senza avvederci andiamo
sempre più allontanandoci dal resto della carovana, che a passo più
lento procedeva unita dietro di noi. Il tempo in questi colloquj
passa rapidamente, ed infine, quando la notte era già inoltrata e
noi avevamo fatto un bel cammino, la solitudine ci scuote. Ove siamo
noi? ci chiediamo a vicenda: ove sono gli altri? Fermi e silenziosi
tendiamo l’orecchio per sentir in distanza lo scalpitar dei cavalli;
ma invano: perfetto silenzio per tutto il nostro aspettare. La cosa
incominciava a prendere un grado crescente di serietà. L’accidente
occorsomi ad Hussein Beglar mi si ripresentava alla memoria, ed
entrambi ci risovvenimmo di aver visto addietro un’apparenza di
biforcazione della strada, alla quale non badammo, tanto eravamo sicuri
della nostra direzione. Già incominciavamo a fantasticare sulla sorte
di due Europei non parlanti una sillaba della lingua del paese, che si
trovassero smarriti fra le steppe della Persia; quando ecco giungerci
all’orecchio, per la via verso la quale eravamo diretti, l’abbajar
d’un cane. Dimenticando l’orrore che hanno i Persiani per questo
fido compagno dell’uomo[36], quella voce fu per noi il segnale che
là, non molto lontano, doveva esser un villaggio, e forse, al tempo
da che eravamo in marcia, quello fissato per nostra stazione, cioè
Sartschem. Continuammo allora il cammino, ma non tardammo ad accorgerci
dell’abbaglio. Quel cane apparteneva ad un accampamento di pastori
curdi, le cui nere tende potemmo distinguere a pochi passi. Un uomo a
cavallo, armato della sua lancia, era lì presso sulla via, e rimase, al
nostro passaggio, affatto immobile. Procediamo per evitare il pericolo
di essere interrogati dal Curdo, e soffermati di nuovo, sentiamo infine
un calpestìo approssimarsi: era uno de’ nostri servi, Clemente, il
quale del resto della carovana non sapeva più di noi. Fatto ancora un
centinajo di passi, ecco altre voci, in quel silenzio che la notte e il
deserto rendevano doppiamente solenne; un gracidar di rane, indizio di
vicini stagni, quindi di acqua, quindi di prossimo villaggio. La nostra
fiducia si rinfranca, ed infatti non è delusa; chè dopo breve tratto
veggiamo muoversi in distanza un lume, lo veggiamo avvicinarsi a noi,
e infine comparir con esso un individuo che dava segno di attenderci,
e fatto cenno di seguirlo, ci conduce per un sentiero di traverso alle
nostre tende. Da quel momento, il gracidar de’ ranocchi è diventato per
noi, in tutto il resto del viaggio, una voce amica, ospitale.

Sartschem è un villaggio, con un grande caravanserai, al margine di
un vasto greto, piano, largo, sassoso, compreso fra piccoli rilievi
allineati e cumignoli aridi costituiti di strati orizzontali di
marna grigio-rossastra, ne’ quali è intercalato qualche strato di
marna indurita, e sono anche disseminati cristalli di gesso. Questi
monticelli mi ricordano quelli già visti nella valle dell’Arasse,
appartenenti alla formazione salifera di Nachidjevan. Tutto il paese
all’intorno è una steppa aridissima. Il nostro accampamento è lontano
dal villaggio, ad un gomito del fiumicello la cui vena si dirama, pel
suo letto ghiajoso, in rivoli qua e là ristagnanti in piccoli guazzi
riboccanti di pesciolini. Questo fiumicello è il Zendjanrud, o fiume
di Zendjan, ed è qui molto impoverito dalle derivazioni superiori, le
quali, dopo essersi diramate in canaletti irrigatorj sui campi lungo la
sponda, si consumano in massima parte per evaporazione. Quel poco che
resta del fiume si versa nel Kyziluzun.

Rimanemmo in questa stazione di Sartschem tutto il giorno 9, che i
naturalisti utilizzarono in escursioni. Nel pianerottolo aridissimo
sul quale erano alzate le nostre tende, tra il fiume ed i monticelli
marnosi che limitano la valle, trovammo sparsi molti cumuli di fango
rassodato, dell’altezza dai 50 ai 60 centimetri, che furono subito
riconosciuti per nidi di termiti, di specie non determinabile per
non esser noi riesciti a trovar negli eserciti immensi di operai e di
soldati, individui adulti. Qui rinvenimmo pure communissima un’assai
interessante specie di onisco, imperfettamente descritta da Brandt
col nome di _Porcellio Klugii_, la quale si trova già nell’Europa
meridionale, in Dalmazia, e si estende, così risulta dalle osservazioni
di Dona, fin nella parte meridionale della Persia occidentale[37].

Sono tanto rari i pipistrelli in Persia, che non prima di questa
stazione di Sartschem ci fu dato ucciderne. La specie era il
_Vespertilio turcomanus_ Ewersm.

Partimmo il dì seguente inanzi l’alba per Nickbey, ove giungemmo verso
le 9 del mattino. Il villaggio ha l’aspetto di una discreta floridezza;
i campi all’intorno sono bene coltivati, ed era appunto animatissimo
al nostro passaggio il lavoro della mietitura. Nel letto del Zendjanrud
molte pezze di terra sono ben coltivate anche a piccole risaje, e poco
oltre il villaggio, nel terreno basso ed umido, nel quale stava appunto
il nostro accampamento, rigogliosa è la vegetazione dei pioppi e dei
salici. Nugoli di zanzare ed il fracasso straordinario dei mulattieri
ci fanno passare una notte perfettamente insonne.

Ma qui accadeva un’avventura che potrà dare un’idea del carattere
de’ Persiani. Il figlio del nostro _tscharwadar_ (mulattiere capo)
aveva, nella notte precedente il nostro arrivo in Nickbey, rubato in
un campo alcuni covoni di orzo, e per sopramercato ne aveva bastonato
il padrone, il quale si recò alle nostre tende, reclamando giustizia
dal _mehmendar_. La sentenza fu che il ladro pagasse immediatamente
il valore dell’orzo, di circa trentasei de’ nostri soldi, sotto
comminatoria di cinquanta colpi di bastone. Il _tscharwadar_
padre, piangendo dirottamente, gridava mercè pel figliuolo, ma non
voleva saperne di metter mano alla borsa, ben fornita d’altronde, e
trarne que’ miserabili tre grani, co’ quali tutto si sarebbe finito
all’amichevole. La sentenza fu eseguita senza pietà, ma in riguardo
alle nostre persone, in un luogo alquanto discosto, non tanto però
che non arrivassero fino alle nostre orecchie gli acuti strilli del
bastonato. Così il padrone dell’orzo non ebbe la roba sua, il ladro
non restituì la roba rubata, e la giustizia persiana fu sodisfatta.
Mezz’ora dopo, il _tscharwadar_ e suo figlio stavano già fumando
tranquillamente il _kalian_.

Questo fatto me ne fa risovvenire un altro che mi venne raccontato
del signor Nicolas, primo dragomanno della legazione francese in
Teheran. Alcuni anni sono egli doveva recarsi a Bender Buschir, per
ricevervi il conte Bourée, ministro di Francia. Passando da Schiraz
il governatore gli fece l’offerta d’un _mehmendar_ che il signor
Nicolas non accettò, allegando gli ordini precisi del suo governo
di pagar tutto lungo il suo viaggio. Il governatore lo indusse ad
accettare almeno la scorta di due _golam_, che poi munì d’un firmano
in tutte le regole. Dopo una faticosa giornata di marcia, la piccola
carovana giunse ad un villaggio, ed il signor Nicolas, consegnate
alcune monete al suo cuoco, gli ordina di comperare tutto quanto
era necessario a far il pranzo; ma ecco, trascorso alquanto tempo,
il cuoco ritornarsene col suo danaro in mano, dicendo che non aveva
potuto trovar nulla, assolutamente nulla. Nell’incalzante pericolo di
rimaner digiuni, il signor Nicolas chiamò a sè l’anziano del villaggio,
gli espose i suoi bisogni, e gli fece vedere il sonante danaro col
quale tutto sarebbe pagato appuntino; ma quegli, stringendosi nelle
spalle, replicò esser il villaggio miserabile, mancante di tutto, non
potere somministrare alcun che di quanto veniva richiesto. Uno de’ due
_golam_, saputa la cosa, si rivolse al signor Nicolas e gli disse: voi
non avete potuto ottener nulla col vostro danaro? Ora lasciate fare
a me: e via, pel villaggio, con un buon bastone. Dopo una mezz’ora
eccolo, il _golam_, con un montone, polli, uova, riso, frutta, miele,
tutto quanto insomma occorreva ad ammanire un buon pranzo. Richiamato
l’anziano, il signor Nicolas gli indicò col dito tutta quella grazia
di Dio, maravigliandosi altamente del mezzo, così contrario alle sue
intenzioni, col quale l’aveva ottenuta; ed alla chiesta spiegazione
di una così inconcepibile condotta, l’anziano non seppe risponder
altre parole di queste: «cosa volete? noi siamo fatti così...» La vera
ragione consisteva nell’interesse del villaggio ad apparir miserabile
più di quanto non lo fosse realmente, per la circostanza della prossima
venuta dell’esattore, col quale bisognava regolar i conti ad un tanto
per cento. Ed in tali occasioni si fa sempre questa comedia: l’esattore
mette avanti pretese esageratissime, appoggiandole colla comminatoria
del bastone, ma col proposito di fingere viscere umane, riducendole
alla metà; ed i contribuenti offrono la metà di quanto sentonsi
disposti a pagare, per fingere alla loro volta di rassegnarsi ad ultimo
sacrifizio, raddoppiando la somma.

Il giorno il ci mettiamo in cammino per Zendian, pe’ deserti
pianerottoli alla sinistra del fiume, le cui inflessioni sono
accompagnate dapertutto da una bella vegetazione. Nelle gole dei monti
che vi deversano le loro aque si distinguono qua e là macchie di alberi
e vilaggi. Vedo più frequenti che nel tratto fin qui percorso stormi di
_alcate_, o pernici del deserto (_Pterocles_), ed in una breve sosta
alcuni miei compagni si dilettano a farne la caccia all’agguato lungo
il fiume, ove da lungi accorrono per abbeverarsi.

Seguendo l’ordine del mio giornale darò qui una succinta notizia
di questi uccelli animatori delle steppe, e così soventi nominati
nelle poesie degli orientali. Le ali acute, robuste, rombanti, i
grossi muscoli pettorali, la carena dello sterno sporgente più che in
qualunque altra specie, ne fanno de’ volatori capaci a vincere il più
veloce falco, e dall’occhio del falco li sottrae il colore delle loro
piume confondentesi con quello delle steppe. Sono assai regolati e
metodici nelle loro abitudini. Ho osservato per via che in generale,
nella stessa ora, tutti volano indirizzati verso un medesimo punto
cardinale. Nelle ore più calde del giorno stanno in riposo. Le loro
zampe con tre dita brevi, e solo un rudimento di pollice, li farebbero
supporre uccelli corridori; camminano invece con passo stentato non più
celere di quello de’ piccioni, simile a questi anche pel modo; e sono
così facile preda della volpe delle steppe (_canis vulpes melanotus_),
guidata alla caccia dalla finezza dell’odorato. Ve n’ha in tutta la
Persia occidentale due sole specie; il _Pterocles alchata_ ed il _Pt.
arenarius_. Quelli della prima specie vanno a stormi più numerosi e
più compatti, emettendo un breve e sommesso gracchiare simile a quello
delle taccole, però sensibilmente più acuto. L’altra specie invece si
incontra in piccole truppe, sovente in sole coppie, e gli individui
tengonsi distanti, come seguentisi l’un l’altro, e la loro voce assai
fioca è paragonabile ad una debole trombetta gorgogliante nell’acqua.
La loro carne è dura ed insipida.

Un’ora inanzi giungere a Zendian, la solita schiera d’onore stava già
pronta a riceverci solennemente. Un grosso drappello di cavalieri, in
vedetta sulla via, non appena ci scorse in distanza, mosse di galoppo
al nostro incontro. Aveva alla testa un principe, giovanetto di 18
anni, nipote dello Schah, che in assenza del padre copriva le funzioni
di governatore della provincia. Poichè ebbe sciorinato il consueto
formulario, colla mano sul cuore e fendenti obbliqui del berettone,
replicati i complimenti dal nostro ministro, tutti di concerto e di
passo più animato, riprendemmo il cammino. Giunti al luogo ove poco
dianzi era appostato quel primo drappello, da un vicino bosco di pioppi
uscì d’improvviso un nuovo e più numeroso sciame di cavalieri festanti,
che si posero ai nostri fianchi, e con bizzarre fantasie e spari
continui ci accompagnarono in città.

Fummo condotti in un giardino ombroso di pioppi e di platani, nel cui
mezzo, al crocicchio di due viali, sorge un _kiosco_ di stile del
tutto originale, fatto erigere dall’avo dello Schah regnante. È di
forma ottagona, ma con quattro de’ suoi lati più grandi, ed a ciascuno
di questi lati maggiori corrisponde una specie di cappella o tribuna
aperta verso l’interno, chiusa dal lato opposto da grandi vetriate
con arabeschi finissimi e vetri colorati. Di siffatte tribune sono due
ordini, uno terreno e uno superiore. Le pareti, le vôlte sono coperte
di pitture in gran parte scrostate; e nel mezzo del _kiosco_ è una
gran vasca, pure ottagona, ad uso di bagno. Ci distribuimmo negli otto
scompartimenti di questo dormitorio, attorno al quale, nelle ajuole
del giardino, stava accampato il nostro seguito. Non appena accasati
fummo subito accorti che ci si preparava in Zendian una ripetizione
delle scene di Tauris, col medesimo pretesto del cambio de’ cavalli;
ma le rimostranze del nostro ministro furono fin dai primi momenti così
energiche, da tagliar corta ogni astuzia, e vincere l’inerzia comandata
e naturale del nostro _mehmendar_. In meno di tre giorni furono
riordinati i preparativi per la continuazione del viaggio.

La storia della Persia serberà a Zendian una pagina sanguinosa. Qui
fu vinta colle armi, e però non distrutta, la setta dei Babi, onde fu
posto a repentaglio estremo il regno dei Kagiari; della quale setta
darò in succinto alcune notizie attinte a fonte autorevolissima.

Viveva in Schiraz, sua patria, un giovane chiamato Mirza Alì-Mohamed,
al qual nome fu poscia aggiunto il titolo di _el Bab_, cioè _la porta_
(_per cui si entra nella perfezione_). Questo giovine di ingegno
ardente, vissuti alcuni anni di vita meditabonda e tutta rivolta
a studj teologici, incominciò verso il 1845 a predicare una nuova
dottrina, sostenendo doversi ristabilire nel Corano alcuni versetti
soppressi; abolire la poligamia; non dover le donne andar velate, ma a
viso scoperto; aver esse il diritto di ripudiar il loro marito, come
il marito ha quello di ripudiar la moglie; doversi proscrivere l’uso
del kalian, ammettere l’uso moderato del vino; infine il trono della
Persia spettar ai Seidi discendenti dal Profeta, non alla regnante
usurpatrice dinasta de’ Kagiari. La fama di Alì-Mohamed el Bab si
diffuse rapidamente; da ogni parte accorrevano turbe per ascoltarlo,
_mollah_ per discutere seco lui della necessità della riforma. Egli
fece allora una domanda formale allo Schah, perchè gli fosse concesso
di esporre la nuova dottrina ai sapienti di Teheran, ma, com’era
naturale, la sua domanda venne respinta. Questa ripulsa non fece che
aumentare i proseliti di Alì-Mohamed; e si incominciò a vedere in
lui il precursore del _Saheb-ez-zeman_, il signore del secolo, che se
ne sta sempre nell’aria, e non si farà vedere a terra che il giorno
della risurrezione. Una donna giovane e bellissima, infervoratasi
dalla dottrina del _Bab_, si recò a predicarla nella città di Kazvin,
e vi fece numerosi proseliti. Questi fatti accadevano tra il 1848 ed
il 1849. Allora i Babi, così si chiamarono i seguaci di Alì-Mohamed,
si credettero abbastanza forti per scendere sul terreno dell’azione
militante, e tentarono impadronirsi del Mazanderan, ma sconfitti dalle
forze regolari dello Schah, si concentrarono nella città di Zendian,
pronti a disperata resistenza; e fu tale infatti; ma la città ribelle,
stretta da regolare assedio, alla fine venne presa d’assalto con
orribile eccidio. In tanto sangue parve ritemprarsi, non estinguersi,
la setta de’ Babi. Perduta ogni speranza di successo da una lotta in
campo aperto, ordivano una congiura contro la persona dello Schah.
All’esecuzione di questo temerario disegno offersero la loro vita due
fanatici settarj, ed atteso lo Schah, nelle vie di Teheran, uno di
essi gli si appressò come in atto di presentargli una supplica, e colto
l’istante che lo Schah stendeva la mano per riceverla, gli sparò contro
una pistolettata, la quale non lo colpì. È facile imaginarsi quale
sorte sia toccata a due cospiratori. Lo Schah miracolosamente salvato,
ordinò vendetta terribile e pronta, sterminio de’ noti o de’ sospetti
Babi. Alcuno de’ più zelanti della sua corte, avendogli susurrato
all’orecchio il nome di alti funzionarj del suo impero macchiati di
babismo, determinò di sottometterli ad una singolare prova, ripartendo
fra di essi l’ingente numero di colpevoli o di sospetti, perchè ne
facessero a gara la più esemplare giustizia. Non bastava a questi
rifatti ministri della volontà suprema del Re dei Re il lavare nel
sangue l’onta del solo dubio: dovevano essi imaginare le più strane
crudeltà, i più atroci tormenti da infliggersi agli sventurati colpiti
di tanta ira; i quali tutti subirono il martirio con tale fermezza
da far impallidire i loro carnefici. Erano fra i Babi giovinetti di
dodici, di dieci anni, che per un certo sentimento di pietà e pel
numero delle vittime designate, si volevano strappare alla tortura ed
alla morte. Si domandava a questi poveretti una confessione qualunque
di non appartenere alla setta; si richiedeva un solo cenno affermativo
alle risposte che venivano ad essi presentate colle inchieste, e tutti
fieramente ricusarono la grazia. La bella profetessa fu bruciata viva.
Alì-Mohamed, arrestato in Tauris, fu sopeso con funi alle mura della
cittadella, e dodici soldati ebbero l’ordine di tirargli addosso.
Dissipato il fumo della fucilata, il _Bab_ non fu più visto; avea
potuto svincolarsi dalle funi e fuggire illeso. I presenti al supplizio
gridavano già al miracolo; ma poco dopo arrestato di nuovo, cadde
moschettato a bruciapelo. Il _babismo_ con un prevalente carattere
politico, serpeggia ancora fra le popolazioni della Persia, innestato
alla massoneria importata di Francia.




XIII.

Sultanieh. — Cenni zoologici. — _Tepe_ del castello reale. — Falso
allarme. — Sainkalè. — Bella sezione naturale dell’altopiano. — Massi
granitici. — Doloroso avvenimento. — Importanza geologica della linea
dell’Abbar.


Il 14 luglio sul pomeriggio, lasciammo il bel chiosco e l’ombroso
giardino di Zendjan, e, fatta breve sosta ed una cena frugale su di
un deschetto erboso presso il villaggio di Diza, arrivammo a notte a
Sultanieh.

Dell’antica grandezza di questa, che fu capitale della Persia, prima
che la residenza degli Schah fosse trasferita ad Ispahan, non rimane
più che l’enorme cupola della sua celebre moschea, torreggiante in un
campo di cadenti abituri, di rovine e di macerie. Distesa sul lembo
delle colline umili aridissime e ritagliate, che formano il lato
sinistro della valle, la città domina una vasta pianura solcata dalle
radici del Zendjanrud che la rendono paludosa nella stagione delle
pioggie, e nella state lasciano ancora qualche sparsa pozzanghera
ad alimento di incolti pascoli. Dal lato opposto sorgono i primi
antemurali della grande catena dell’Elburz.

La pianura di Sultanieh è, per secolare tradizione, un campo favorito
di parate e manovre militari. All’occidente della città, prima di
giungervi per la via di Zendjan, si protende nel piano, a foggia di
lingua sporgente, un piccolo promontorio, sul quale s’innalza un
castello reale, abbandonato alla sorte di tutti gli edifizj della
Persia. Al piede di questo promontorio, sul margine di un piccolo
canale, stavano erette le nostre tende. Il carattere particolare del
sito prometteva un discreto bottino a’ naturalisti, epperò cercammo
di trar profitto alla meglio della fermata che il nostro ministro
acconsentì a prolungar di un giorno, con soddisfazione grandissima del
mehmendar.

Sultanieh è rinomata anche pei suoi ratti; ce lo dissero per via le
nostre guide persiane, stupite di veder gente d’Europa dilettarsi di
questa sorta roba. Non tardammo a riconoscere come questa rinomanza sia
meritata. Tutto il terreno attorno al castello è bucherato da topinare,
e, stando noi fermi all’aguato, scorgevamo qua e là qualche muso far
capolino, e più in distanza alcuni grossi ratti attraversar saltellando
piccoli tratti di terreno e rimbucarsi prontamente. Un colpo di fucile
sciolse immediatamente la quistione zoologica. I famosi ratti di
Sultanieh appartengono ad una specie assai frequente anche nelle steppe
degli Urali, registrata ora fra le marmotte, ora fra gli spermofili
(_Arctomys fulvus o Spermophilus fulvus_ Licht.). Le piante de’ piedi
nude callose, la mancanza di borse alle guancie, le dimensioni, la
fisonomia generale, il fischio acuto e quasi latrante che emette
quand’è stuzzicata, ne fanno decisamente una specie di marmotta. Questa
razza di Persia si distingue leggermente dalla più nordica per colori
alquanto più pallidi, e statura alquanto minore[38]. Ne prendemmo molti
individui con un mezzo assai semplice e divertevole, inondando i loro
sotterranei cunicoli, ed obbligando così la bestia a farsi strada al di
fuori.

Qui ritrovammo pure il communissimo _Cricetus phæus_, ed un’altra
specie del medesimo genere, il _Cr. nigricans_, Brandt, per lo addietro
rinvenuto soltanto nel Caucaso. Una quarta specie di rosicante che
ebbi qui per la prima volta, e che rinvenni abbondantissima anche
nel seguito del viaggio, è un grosso ratto campagnolo, che appena si
distingue dall’_Arvicola amphibius_ d’Europa per un colore alquanto più
volgente al fulvo nei fianchi, e sensibilmente più bianco sul ventre.
I caratteri osteologici sono perfettamente i medesimi. Ora, poichè si
parla di rosicanti più o meno rassomiglianti ai ratti, devo aggiungere
un’osservazione abbastanza curiosa; non aver io trovata traccia, in
tutta la linea percorsa nella Persia, del grosso ratto delle chiaviche
(_Mus decumanus_), che dalle Indie, verso la metà del secolo scorso,
si è diffuso per tutta Europa, ed ora anzi è divenuto pressochè
cosmopolita, e neppure del sorcio comune d’Europa (_Mus musculus_).

Fra gli uccelli presi in questa stazione, devo notare tre specie
non incontrate nelle precedenti, e comuni all’Europa: _Ægia lites
cantianus_, _Vanellus cristatus_, _Cursorius œuropæus_.

Fra i più communi saurj delle steppe è da qui in poi un
_Phrynocephalus_, che io ho fatto conoscere col nome di _Phr.
persicus_, e che è molto bene distinto dal _Phr. helioscopus_ della
valle dell’Arasse. Abonda nelle pozzanghere della pianura una specie di
rana identica a quella trovata precedentemente, a così diverso livello,
al lago Goktscha, e che non si può in alcun modo distinguere dalla
_Rana oxyrhina_ d’Europa[39].

Il rialzo sul quale è edificato il castello reale è un _tepe_
perfettamente identico nella struttura a quello di Marend, distinto
solo per la forma allungata, ed una assai minore altezza. Qui pure,
in alcuni vecchi scavi, ho trovato grossi ciottoli alla base, e pel
resto limo, ghiaja, sabbia, con ceneri, minuzzoli di carbone vegetale,
frantumi di ossa, e pezzi di stoviglie; ed una visibile tendenza alla
disposizione stratificata orizzontale di tutti questi materiali. Questa
stratificazione era sovratutto evidentissima in un piccolo squarcio
verso la metà del promontorio. Singolare affatto è il carattere delle
stoviglie di questo _tepe_. Sono di una pasta per lo più nera, impura e
grossolana al maggior grado, ed anche per l’imperfezione del lavoro si
palesano come opera di un’arte affatto primitiva.

Il piano, ai due lati del promontorio, porta le traccie degli
accampamenti militari che si sono così frequentemente succeduti a
Sultanieh; scavi, rialzi, trasporti di terra, ne hanno sconvolto lo
strato più superficiale; ma in molti luoghi è posto a nudo uno strato
profondo che presenta gli stessi materiali del promontorio, e, ciò che
devesi tener in particolar conto, frammenti di stoviglie del medesimo
già accennato carattere. Questo si può vedere specialmente in un campo
affatto nudo, all’occidente del promontorio, sul quale sono distribuiti
in gran numero piccoli coni crateriformi di fango, che evidentemente
hanno servito di mangiatoie a’ cavalli dell’accampamento, e pozzetti
verticali, d’onde fu tratta la materia di quelle strane costruzioni.
Questi pozzetti sono in massima parte ostruiti da franamenti, ma ve
n’ha la cui interna parete è ancora abbastanza conservata, ed in questi
appunto, come in altri scavi dalla parte opposta del promontorio, al
di sotto di uno strato di limo delle steppe, vario in grossezza dai 50
agli 80 centimetri, veggonsi disseminati i materiali che ho detto. Si
può adunque dedurre da ciò che il deposito del _tepe_ del castello si
continua tutt’attorno nel piano.

_Nephelis persa._ De F. Affine alla _vulgaris_ d’Europa, ma con sei
occhi distribuiti in tre paja. Bruno rossastra, con margini del corpo e
linea mediana del dorso di color più pallido.

_Clepsine beryllina._ De F. Affine alla _bioculata_ per la forma
generale, e pel numero degli occhi, ma con soli 50 segmenti assai più
distinti. Corpo jalino verdognolo, con molte macchiette pigmentali
verdi.

Aggiungerò qui, per ogni buon fine, che in uno di quei pozzetti, al
limite inferiore dello strato di limo, ho raccolto un pezzetto di vetro
iridescente per vetustà, che alla forma si direbbe un manico di un
piccol vaso.

Nelle ore pomeridiane del 15 luglio abbiamo avuto uno spettacolo
meteorologico raro per la stagione e per il paese. Alcuni nuvoloni,
che durante il giorno vagavano isolati, si congiunsero d’improvviso
e rovesciarono un turbine di fitta e violenta pioggia che mise il
nostro campo in orribile scompiglio. Per buona ventura il diluvio
non durò più di venti minuti, ed il sole riapparso nella sua cocente
splendidezza ne dissipò rapidamente ogni traccia. A notte fatta, mentre
stavamo per coricarci, un nuovo tumulto venne a rompere la monotomia
della vita della tenda: un grido d’allarmi: ai ladri, ai ladri, che
avevano dato l’assalto ai nostri bagagli accumulati sul piano dal
lato opposto del castello. Afferrati i fucili in men che nol si dica,
mezzo svestiti, muoviamo confusamente, ma uniti e deliberati, verso
il luogo minacciato, pronti ad una di quelle avventure che avevamo
sognate come parte integrante del nostro viaggio, al muovere da Europa.
Ma l’avventura doveva finire subito ed in modo piuttosto comico: fra
la notte buja e le grida confuse de’ _ferrasch_ e de’ mulattieri,
non era possibile nè vedere nè capir nulla: scappò qua e là qualche
fucilata, e chi ne andò colpito fu un innocente, uno de’ nostri servi
persiani, cui toccarono alcuni pallini in una mano. In breve tutto
rientrò nell’ordine, e noi ci ricoricammo colla curiosità insoddisfatta
di quanto fosse realmente accaduto. Nessuno de’ nostri bagagli fu
tocco; il _tscharvadar_ capo accusò il rapimento di due muli; il
mehmendar simulò con tutta serietà un processo, e confiscò tre cavalli
alla vicina città. Era proprio scritto nel libro del destino che noi
dovessimo andar frustrati dell’emozione di un qualunque fatto d’armi.

Un piccolo incidente in questa nostra fermata a Sultanieh riescì a me
assai molesto; il furto della mia sella. Il 17 luglio, di buon mattino,
la cercammo invano, ove il dì precedente tutti l’aveano veduta, e
dovetti rassegnarmi a continuar la strada in carrozza. La pianura
che percorriamo oltre, non dirò la città, ma le rovine della città,
è ancora in parte coltivata, finchè v’è qualche filo d’acqua; mai
poi sale ad un piano affatto arido, che forma una sbarra traversale,
separante la valle del Zendjanrud, che lasciavamo alle spalle, da
quella dell’Abhar, nella quale dovevamo discendere. Passiamo rasenti
il villaggio di Emirabad, fortificato da un vecchio e cadente muro
di cinta. Poco oltre la campagna deserta è tutta sparsa di piccoli
mucchi di pietre affatto disordinati, senza un piano, senza uno scopo
apparente. È venerata da’ persiani la tradizione che in questo luogo
Alì abbia fatta la sua prima professione di fede, epperò ogni passante
crede suo debito religioso il raccogliere un sasso di terra e porlo
sovra di un altro. Verso le 10 arriviamo alla stazione di Sainkalé.
Il nostro accampamento era preparato sulla sponda sinistra di un
fiumicello, che è appunto l’Abhar, un chilometro all’incirca innanzi
il villaggio. Qui un doloroso avvenimento ci obbligava ad una lunga
fermata.

Uno de’ nostri compagni, il conte Grimaldi, cadendo su di una di quelle
scalette mostruosamente erte che nel chiosco di Zendjan conducono
alla galleria superiore, aveva riportata una forte contusione ad un
gomito. Il male s’era aggravato per via, e già aveva preso il carattere
minaccioso di un flemmone. Qualche riposo era per lui e per la
tranquillità di noi tutti di assoluta necessità.

L’Abhar scorre qui decomposto in un largo letto ghiajoso. La sponda
opposta, corrosa dalle piene intercorrenti del fiume, è per alcuni
tratti tagliata a picco, ed uno di questi tagli presentavasi appunto
dicontro al nostro accampamento. Là rivolsi la mia prima escursione; e
non posso dire la mia sorpresa per quanto mi si offerse immediatamente
allo sguardo. Avanzi di opere umane, affollo identici a quelli de’
_tepe_ di Marend e di Sultanieh, si trovano qui in strati perfettamente
regolari ed orizzontali, in un deposito incontestabilmente naturale, al
disotto del terreno di trasporto, onde è costituito tutto l’altopiano.
La parte nuda, scoscesa, della scarpa (_thalus_) si prolunga qui per un
centinajo di passi: la sua altezza dal livello attuale del fiume e di
4^m, 65. La successione degli strati è rappresentata nell’unito disegno
(fig. 3).

   [Illustrazione: Fig. 3.]

_a_. Terra vegetale, o, per dir meglio, limo delle steppe.

_b_. Ghiaja minuta con numerose e grandi chiazze nere di ferro
idrossidato.

_c_. Straterello di marna giallastra.

_d_. Argilla grigio scura, con molti frammenti di vasi di terra cotta,
minuzzoli di carbone, pezzetti di ossa.

_e_. Ghiaja e sabbia.

_f_. Argilla sabbiosa giallastra alla base, e per tutta la estensione
della scarpa nascosta da franamenti degli strati superiori.

Andando a ritroso del fiume, per circa 250 passi, si incontra un altro
taglio molto netto: la successione degli strati è ancora la medesima,
con leggiere modificazioni (fig. 4).

   [Illustrazione: Fig. 4.]

_a_. Limo delle steppe.

_b_. Ghiaja e sabbia con grandi chiazze nere.

_c_. Argilla con frantumi di stoviglie, di carbone vegetale e di ossa.

_d_. Straterelli di sabbia.

_e_. Banco di argilla.

In questo secondo taglio ho trovato ancora, entro l’argilla, minuzzoli
di carbone, frammenti di ossa e di stoviglie, sebbene assai più rari e
più minuti che nel taglio precedente. Nello stato inferiore d’argilla,
alla profondità di 3 metri, raccolsi ancora un pezzetto di carbone
vegetale, col quale ho potuto benissimo tracciare segni sulla carta.

I frammenti di terra cotta, in questi strati d’argilla, sono di fattura
assai grossolana, di color rosso mattone, senza traccia di intonaco.
Uno scavo fatto eseguire, con strumento imperfettissimo, da uno dei
nostri _ferrasch_, non mise allo scoperto oggetti differenti da quelli
che si palesavano alla superficie della scarpa. Anche qui, come a
Marend, come a Sultanieh, ho cercato invano fosse pur qualche frammento
di armi o di strumenti di lavoro di qualsiasi natura.

Questi importanti fatti che si presentavano così netti e decisi in
luogo così prossimo al nostro accampamento, invitarono il ministro
Cerruti ed altri miei compagni di viaggio a constatarli co’ loro
proprj occhi; e lo fecero col più vivo interesse, riconoscendone tutta
l’importanza.

Devo ora ritornare allo strato di sabbia e ghiaja che ricuopre
l’argilla con frammenti di pentole. Questo strato presenta, come
ho detto, molte grandi macchie o chiazze di color nero, d’aspetto
carbonoso, ma veramente costituite da ferro idrossidato prontamente
solubile nell’acido cloridrico diluito. Esse macchie sono
caratteristiche di questo strato, in massima parte costituito da
tritume porfidico, resistente all’azione del detto acido, e lo faranno
sempre riconoscere anche più avanti, quando lo strato stesso acquisterà
tanta potenza da formare per sè solo le sponde del fiume, e da non
lasciar vedere nulla al di sotto.

Anche in alcuni paesi d’Europa, si trova immediatamente al disotto
della terra vegetale un deposito di ghiaja e sabbia, con grandi macchie
nere di ferro idrossidato del tutto simili a queste di Sainkalé. Citerò
le colline dell’Astigiana, ove questo deposito ricuopre i banchi di
sabbia con ossami di elefante o di mastodonte.

Un altro giorno mi portai ai monti che limitano a sinistra l’alto
piano. Dopo una perlustrazione zoologica che non mi fruttò alcun che
di nuovo, giunsi all’ingresso d’una valletta, posta sul meridiano
stesso del villaggio, per verdeggianti declivi, fra pittoresche balze,
sorridente di alpestre bellezza. Grandi massi di granito ingombrano
il passaggio. Per un sentiero tortuoso ed erto, tracciato fra i
dirupi dal passo degli armenti, mi internai nella valle, sempre più
incantato da quell’aspra e maestosa natura che nessuna penna saprebbe
convenientemente ritrarre. La fedeltà stessa del pennello sarebbe
piuttosto creduta fantasia ossianesca, o si direbbe raffigurante
il teatro della guerra dei Titani a Giove. Que’ giganteschi dirupi
di granito, que’ massi enormi franati sul fondo ed accavallati l’un
sull’altro formano uno spettacolo nuovo ed imponente, onde il pensiero
è sospinto nella notte de’ tempi mitologici. Tutti que’ dirupi, tutti
que’ massi, in ogni loro parte presentano grandi incavazioni, a guisa
di tazze o bacini, toccantisi, confluenti, alcune aperte verso il
cielo, come scodelle o mortai di giganti, altre di fianco, altre
di sotto, come volte di antri. La curva di molti fra questi incavi
è quasi regolarmente sferica, e la superficie pulita, come se ne
fosse nettamente staccata una bomba; ma sul terreno non si trovano
i corrispondenti massi convessi, onde si deve credere che siffatte
bombe siano dell’istesso materiale, dell’istesso granito, caduto in
decomposizione. Qualche sottile venuccia d’acqua scorrente qua e là,
e tosto riassorbita, fa pullulare un po’ di vegetazione, e perfino
qualche tapino virgulto di pruno, di pesco selvatico, di rosa. Grandi
lucertoni (il solito _Stellio caucasicus_) corrono su per que’ massi in
ogni verso. Fra gli uccelli la _Sitta syriaca_, l’_Emberiza Cerrutii_,
qualche _Saxicola_, sembrano padroni del luogo.

   [Illustrazione: Fig. 5. Massi di granito presso Sainkalè.]

Il tempo del quale, per una causa malaugurata, potevamo disporre in
questa stazione, ci permise pure una partita di pesca, asciugando un
piccolo ramo del fiume; e fu molto profittevole. Abbondano qui (come in
tutti i fiumi della Persia occidentale) rappresentanti de’ due generi
_Cobitis_ e _Capæta_ (_Scaphiodon_ Heck). Ne prendemmo un gran numero
di individui da fornire perfino ad esuberanza la cucina, e da porre
molti belli esemplari nello spirito di vino, in una gran scattola di
latta. Questa scattola giunse perfettamente in Torino, ma per mia mala
ventura il suo contenuto fu trovato in completo stato di spappolamento,
e andò così intieramente perduto. Ne attribuisco la colpa alla cattiva
qualità dello spirito di vino adoperato, che io aveva preso in Tauris
da un Armeno. Solo riescii a conservare alcuni esemplari di _Cobitis_
(_C. malapterura_ Val.) riposti in un vaso separato.

La malattia del conte Grimaldi s’era improvvisamente aggravata.
L’infiammazione della parte contusa del braccio s’era diffusa, ed
aveva preso il carattere deciso di un flemmone. Nella notte fra il 18
ed il 19 luglio comparve la febbre, con invasione violenta, e decorso
minaccioso con subdelirio. Quanto ne fossimo costernali ognuno può
facilmente credere! Conveniva prendere una determinazione, premendoci
il tempo, in ragione delle altre molte circostanze che rallentavano il
nostro viaggio; e la necessità impose la determinazione più dolorosa:
separarci. Fu presto trovato nel villaggio stesso di Sainkalé un
ricovero pel nostro malato; si convenne che rimanessero ad assisterlo
Clemencich e Lessona con alcuni servi, sotto la scorta di Abdul Hussein
khan, figlio del mehmendar. Si convenne pure che non appena il conte
Grimaldi avesse potuto senza pericolo sopportare il trasporto in
vettura, ci raggiungesse in Kazvin, ove in ogni caso avremmo dovuto
arrestarci alcun tempo. Il nostro ministro diede anche le occorrenti
disposizioni, affinchè ogni giorno un corriere ci portasse le novelle
del malato.

Con profonda mestizia, col pensiero angosciato dalla minaccia di una
più grande, forse di una irreparabile sciagura, vedemmo aprirsi una
delle nostre tende, ed escirne, fra un cupo religioso silenzio, una
lettiga. L’accompagnammo fino al villaggio, ed ivi con strette di mano
agli amici, che adempivano al pietoso officio di infermieri, più che
colla parola impedita dalla piena del dolore, ci separammo.

All’alba del 21 luglio, volgendo a sinistra sull’altopiano, riprendemmo
la via delle steppe; dominando sempre collo sguardo il letto dell’Abhar
nettamente tracciato da una successione di macchie verdeggianti, di
boschetti e di villaggi. Con alcuni amici io aveva preceduto il resto
della carovana, e giunto al villaggio di Kurremdereh, profondamente
incassato fra due rive scoscese, approfittai di questo vantaggio per
scendere in un burrone, nel quale la sponda molto alta e nettamente
tagliata, lasciava chiaramente scorgere la composizione del terreno.
Il solito strato superficiale di limo delle steppe qui è cresciuto di
grossezza da 1^m, 50 a 2^m, e sotto di esso trovasi disteso, e qui
tagliato, un immenso deposito di sabbia e ghiaja che scende sino al
fondo del vallone. In questo deposito trovo ancora le medesime grandi
chiazze nere caratteristiche, osservate alla stazione precedente. Una
di queste chiazze mi si presenta sensibilmente diversa dalle altre, la
materia nera essendovi come in sottili strati regolari, sensibilmente
inclinati, ed alternanti con altri di sabbia fina, come costituisse
con questi una massa inclusa nella ghiaja. Non potendovi giunger
direttamente per l’erta della scarpa, la natura del terreno, ed un
canale d’acqua che ne lambe il piede, raccolgo di quella sostanza nera,
improvvisando alla meglio una specie di cucchiajo all’estremità di un
ramo. La piccola quantità raccolta, appena bastante per un esame colla
lente, era in grani neri, lucenti, più simili a tritume carbonoso che
al solito ferro idrossidato. Una cosa si può intanto qui rilevare con
sicurezza: la continuità e la crescente potenza de’ due strati che,
alla posizione più elevata di Sainkalé, sono sovraposti all’argilla con
frantumi di pentole.

Da questa breve sosta, in altre due ore di marcia, siamo alla
stazione di Kyrvah, alla sinistra del villaggio, lasciandolo a circa
un chilometro di distanza. L’Abhar scorre anche qui in un profondo
solco, le cui sponde sono ancora costituite dei medesimi materiali,
cioè del solito limo delle steppe, cresciuto ancora di potenza, fino
a costituire uno strato di circa 5 metri, e del solito sottoposto
grande deposito di ghiaja e ciottoli, sempre colle sue caratteristiche
macchie nere. Qui la ghiaja è in massima parte cementata in una specie
di puddinga abbastanza resistente, formante anche massi pittoreschi
staccati dalle sponde, e sui quali sono edificate alcune delle capanne
del villaggio.

Alcuni fatti della più grande importanza risultano adunque dal
collegare queste osservazioni istituite in varj punti del corso
dell’Abhar: 1.º la perfetta continuità dello strato di ghiaja
sottoposto al limo delle steppe, per tutta l’estensione dell’altopiano
tagliato dal fiume: 2.º la crescente potenza di questo strato, e la
crescente grossezza de’ suoi elementi (grani di sabbia e ciottoli),
partendo dal lembo superiore del bacino: 3.º l’esistenza al disotto di
questo strato di un deposito regolarmente stratificato di sabbia fina
ed argilla, con opere dell’industria umana (Sainkalé).

   [Illustrazione: Fig. 6.]

La qui unita figura (n. 6) rappresenta graficamente la coordinazione
delle cose rilevate a’ tre citati punti d’osservazione, 1º. limo
delle steppe; 2.º strato di ghiaja con grandi macchie nere di ferro
idrossidato; 3.º argilla e straterelli intercalati di sabbia fina, con
frantumi di stoviglie, di ossa e di carbone vegetale. La freccia indica
il corso dell’Abhar.

Questi fatti troncano al suo nascere un dubbio che potrebbe insorgere
nella mente di alcuno: se per avventura il deposito di Sainkalé non
sia da considerarsi come di formazione in stretto senso moderna,
affatto locale, come un sedimento dell’Abhar. Ci vuol poco a vedere
che l’azione di questo fiume è assolutamente contraria; che nelle sue
piene corrode le sue sponde, non le rialza; esporta e non deposita.
L’Abhar ha solcato un terreno di trasporto preesistente, terreno
che non è tampoco dovuto all’azione di una corrente diluviale avente
la stessa direzione dell’attuale fiume. Ciò è pienamente dimostrato
dalla crescente potenza degli strati di materie più pesanti partendo
dalle radici del fiume stesso. Evidentemente l’altopiano dell’Abhar
è un bacino, un lago, o meglio ancora un seno ricolmato da tritumi
riversativi dalla grande catena dell’Elburz. Sainkalé trovasi al lembo
superiore di questo seno, ed ivi si è potuto formare tranquillamente
il sedimento di argilla del quale ho detto, sul quale sedimento si è
poscia esteso il lembo assottigliato del gran deposito di ghiaja che ha
ricolmato il seno stesso.

Tutto l’altopiano dell’Abhar è dunque di formazione posteriore alla
diffusione della specie umana. È questo un fatto isolato, o non
piuttosto applicabile a tutti gli altipiani della Persia occidentale,
così strettamente connessi con quello dell’Abhar, come membri di un
sol corpo? Dovrò più tardi riprendere questo soggetto, quando saranno
venuti in scena altre osservazioni concorrenti a dimostrare i grandi
cambiamenti che in questa parte dell’Asia hanno avuto luogo dopo che
l’uomo vi si era già stabilito. Riprendo ora l’itinerario.

Il 22 giugno, dopo una marcia di cinque ore per un ampio deserto,
giungiamo in Sijadehin, grossa borgata, ove stavano ad attenderci
da quattro giorni alcuni notabili di Kazvin. Dopo una giornata
brusca per l’aridità del luogo, pel difetto di buona acqua, pel
vento furiosissimo, ci avviamo alla città. Al piccolo villaggio di
Sultanabad facciamo breve sosta per la colazione, in una casa che gli
abitanti ci lasciarono sgombra per qualche ora, e composta in tutto
di un cortiletto, di una stalla terrena e di un camerotto superiore
perfettamente nudo, col solo addobbo di alcune singolari stampe
religiose appiccicate alle pareti. — Là il commendatore Cerruti ebbe a
ricevere dispacci del conte Gobineau, ministro di Francia in Teheran,
enumeranti le disposizioni che aveva prese pe’ nostri alloggiamenti,
e condite di paterni consigli sul modo col quale l’ambasciata italiana
avrebbe dovuto contenersi. Ripresa la cavalcala, sotto un sole ardente,
incontrati da un nuovo ed assai numeroso corteo d’onore, facciamo
infine il nostro ingresso trionfale in Kazvin.




XIV.

Kazvin. — Caccia nel giardino imperiale. — Monticoli di lava presso
Hissar. — Kyschlak. — Kurdan. — Kerretsch. — Vista del Demavend. —
Khend. — Accoglienza alle porte di Teheran. — Tedgrisch. — La nostra
abitazione. — Colonia europea. — Servizio postale in Persia.


La città di Kazvin è nel mezzo di un’ampia oasi conquistata sul
deserto. Tutt’all’intorno, e per qualche miglia di raggio, l’arida
steppa è stata con mirabile arte e duro secolare lavoro convertita
in un giardino. Per lungo ordine di solchi la vite vi dirama i suoi
sarmenti; alberi delle solite specie vi sono disseminati, tapini e
diradati verso il deserto, sempre più spesseggianti e fronzuti verso
la città, centro dell’oasi. La posizione del luogo permette alla
vegetazione un carattere alquanto più meridionale, e qui infatti
prospera il pistacchio, i cui bei grappoli erano già prossimi alla
maturanza.

Il solito brillante e numeroso corteo d’onore ci guidò in città. Dopo
pochi tratti ci s’aperse dinanzi un viale ampio, diritto, maestoso,
ombreggiato da due filari di annosi sicomori, terminanti ad un ampio
portone, decorato dello stemma dell’impero: un leone minaccioso,
impugnante una sciabola, e col disco raggiante del sole che sembra
spuntargli dalla schiena. Per questo portone, attraversati due ampi
cortili circondati di grandi platani, fummo introdotti in un giardino
e lì nel mezzo in un chiosco reale, assegnato a nostro quartiere. Il
dire delle visite, dei ricevimenti, dei donativi, delle noie infinite
dell’etichetta, sarebbe una pura ripetizione delle cose già narrate.

Qui riabbracciamo Orio, reduce dalla sua spedizione nel Ghilan; ed i
corrieri apportatori delle sempre più confortanti notizie della salute
del conte Grimaldi, ci annunciano l’imminente arrivo della frazione
della nostra schiera lasciata a Sainkalé.

Ed eccola infatti, dopo quattro giorni, salutata con grido generale
di gioia, con festa insolita e commovente, nel nostro campo. Il conte
Grimaldi in piena convalescenza, grazie alle cure dei suoi infermieri
e del suo medico Lessona, aveva potuto percorrere il non breve tratto
di cammino in una di quelle carrozze che la provida ostinazione del
nostro ministro aveva fatto trascinare al nostro seguito. Senza questa
ambulanza gravissimo sarebbe stato il nostro imbarazzo.

Kazvin è senza contrasto una delle più belle città della Persia. La
proporzione del fango e delle rovine vi è assai minore che in Tauris.
Possiede un bazar vasto e ben proveduto, belle moschee, un sontuoso
bagno, un grande serbatojo sotterraneo di purissima aqua, e case
signorili. In una di queste case, molto notevole per la perfetta
conservazione, la freschezza, il buon gusto, fummo introdotti e
lautamente trattati dal padrone, uno dei più ricchi negozianti della
Persia.

Anche qui le nostre caccie furono ristrette ne’ limiti del giardino
ove eravamo alloggiati. Rinvenni ancora la _Testudo mauritanica_, lo
_Stellio caucasicus_, l’_Euprepis affinis_: ma di particolar interesse
mi riescirono gli uccelli. Un immenso nugolo di corvi s’appollajava
la sera sugli eccelsi platani vicini al nostro padiglione. Ne uccisi
sette d’un colpo, e riconobbi il _Corvus frugilegus_, vero paradosso
ornitologico in questa latitudine ed in questa stagione; e non il
solo. Aveano nidificato nel giardino, oltre l’usignolo commune, anche
il _Parus cæruleus_ e la _Ruticilla phœnicura_, due specie che fuggono
i calori estivi della pianura di Lombardia, per far nido o sulle Alpi
od in più nordiche regioni. Un’altra specie per me affatto nuova, e
delle più rare nelle collezioni d’Europa, è la bellissima _Erythrospiza
obsoleta_ Licht. Ne presi vari individui adulti dei due sessi e giovani
dell’anno, fra di loro pochissimo differenti. La loro voce ordinaria è
uno strillo sommesso, rassomigliante a quello della quaglia che frulla,
e questo strillo si ripeteva d’ogni intorno anche da’ platani de’
cortili e de’ giardini vicini al nostro, il che vuol dire che la specie
è commune in questa località.

Il 29 luglio, di buon matino, diamo un addio a Kazvin. Il mehmendar,
sorridendo di compiacenza al desiderio espressogli di non affaticare
troppo il nostro convalescente, ci aveva fatto allestire il campo a
soli tre _farsach_[40], presso il villaggio di Hissar, quasi alle falde
dell’Elburz. Vicinissimo all’antemurale di questa catena, all’oriente
del villaggio, e da questo distante un tre chilometri all’incirca,
surgono due monticelli isolati, che io feci scopo di una mia
escursione, malgrado il sole ardentissimo (avevamo sotto la tenda +36°
c.) Rimasi sorpreso al riconoscervi due monticelli vulcanici, di vera
lava nera e scoriacea, la cui massa è alla superficie tutta spezzata
in grossi frammenti angolosi. Il più grosso di quei monticelli, e
precisamente quello che sta più da vicino all’antemurale della catena,
è un monte gemello, ossia formato da due coni congiunti fin presso la
sommità. Non vidi traccia alcuna di cratere nè di roccie dislocate.
Tutti all’ingiro nel piano sono disseminati frammenti della stessa
lava, il cui nero colore fa contrasto col grigio del terreno: ma
tali frammenti si arrestano a qualche centinaja di passi dalle grandi
masse d’onde furono staccati; sono evidentemente sovraposti al tritume
generale dell’alto piano e non in questo inclusi. I monticelli medesimi
sono incontestabilmente posteriori alla formazione generale delle
steppe.

Ne’ torrenti asciutti che attraversano l’arido piano, i frantumi
arrotolati constano di marna più o meno alterata, indurita e cotta, di
varie sorta di roccie porfidiche, una delle quali è un amigdaloide con
noduli di calcedonia.

Il bottino zoologico non mi ha dato nulla di osservabile fuori
l’incontro fatto qui per la prima volta di una specie di saurj
delle steppe, che, aggiunta alle precedenti, rimane d’ora in avanti
communissima. È l’_Agama agilis_ Oliv.

Il dì seguente movemmo per far sosta a Kyschlak. L’altipiano che
percorriamo è in massima parte affatto arido, e di tale estensione
che verso oriente, e quindi di prospetto al nostro sguardo, si perde
nell’orizzonte. Qua e là, numerosi più che nel tratto antecedentemente
percorso, veggonsi cumignoli conici, coperti della vegetazione delle
steppe, i quali non sono altro che piccoli _tepe_. Trascorsa un’ora
dalla stazione di Hissar, incontriamo sulla nostra sinistra i ruderi
di un piccolo villaggio distrutto: quindi, a poca distanza, procedendo,
altro villaggio più grande alla nostra destra, pure deserto e rovinato,
ma con tutti gli indizj di esserlo da poco tempo. Non durammo fatica
a riconoscere la causa per la quale questo villaggio era stato
abbandonato: l’aqua avea cessato di fluire pel condotto sotterraneo che
vi portava un così essenziale elemento di vita.

A Kyschlak le nostre tende erano state providamente erette presso lo
sbocco di uno di questi canali, d’onde scorreva una ricca vena di aqua
limpidissima e fresca. Mentre da noi si andava pregustando un così
prezioso ristoro ad un’arsura che già toccava l’estremo limite della
toleranza, ecco una frotta di Persiani del nostro seguito precipitarsi
nel canale, ascendere anche la corrente nel suo antro, ravvoltolarsi
nell’aqua, spidocchiarsi, e mandar così in regalo a noi una corrente
di immondizie. Dovemmo adoperar la forza, bastonate e sassate, a
scacciarneli, e far poscia custodire da una sentinella lo sbocco del
canale. Il calore di quella giornata fa il massimo per noi sopportato
in Persia: 34 R. all’ombra.

Lì presso alle nostre tende era un _tepe_, sulla cui cima vedevasi
ancora qualche rudero di antica torre. Le aque pluviali vi avevano
tracciati profondi solchi; ma la mia speranza di trovarvi, come a
Marend, ossa d’animali, carbone e cocci, andò affatto delusa: il _tepe_
non è d’altro costituito che del solito limo grigio e compatto delle
steppe. Ne’ campi circostanti era più che altrove abbondantissima
l’_Alauda cristata_. Qui vidi pure qualche coppia della gazza commune
(_Pica caudata_), e roteanti nello spazio fra il villaggio ed il nostro
accampamento molti falchi (_Milvus ater_).

Lasciato Kyschlak, piegando alquanto a sinistra, ci avviciniamo
all’Elburz, ove la nuova stazione ci era apprestata in una delle
più deliziose oasi della Persia. Passiamo rasenti il villaggio di
Meschinabad, ombreggiato da grandi alberi, fra i quali sotto forma di
una moschea attrae il nostro sguardo la magnifica tomba dell’Imam-zadé.
Il cammino ci conduce ove l’antemurale dell’Elburz, che avevamo fino
allora seguito a distanza, si decompone in rami formanti il fianco
di una valle pittoresca, ascendente per balze e chine di una bellezza
affatto inattesa verso la catena centrale. I ruscelletti che scendono
da questa valle vi sviluppano una vegetazione così diffusa, così varia
e lussureggiante, da vincere quella stessa della valle di Marend; e
vanno poscia a perdersi nell’Abi-Schür (fiume salato), che termina alla
sua volta perdendosi nel deserto. Il bel villaggio di Cinan, circondato
di densi frutteti e macchie di grandi alberi, ci si presenta come un
luogo di elezione per farvi sosta; ma procediamo oltre, e, dopo breve
tratto, eccoci ad un ampio torrente asciutto, chiuso fra due sponde
dirupate, unite una volta da un ponte ora del tutto rovinato, e che il
governo persiano non ebbe cura di ripristinare.

Passato questo torrente non senza gravi stenti, arriviamo a Kurdan,
altro villaggio non meno ricco di giardini e di boschi ombrosi, e lì
troviamo preparato l’accampamento. La giornata fu in gran parte spesa
alla caccia delle lepri e delle quaglie abondanti nelle circostanti
campagne. Verso sera immensi sciami di storni rosei vennero ad
appollajarsi sugli alberi vicini alle nostre tende. Ne facemmo una vera
strage, che ogni colpo in quelle masse compatte ne faceva cadere una
grandinata.

Il 1.º agosto pernottammo in Kerretsch, importante villaggio ancora
alle falde dell’Elburz, lambito da un fiumicello che trae dal villaggio
stesso il nome di Kerretschrud, ed è un altro affluente del fiume
salato. Un grandioso castello reale avrebbe potuto offrirci asilo,
ma vi si erano già stabiliti un alto funzionario di Tauris, ed uno
fra le milliaja di Mirza o principi del sangue che felicitano la
Persia. Trovammo perciò le nostre tende piantate nel giardino stesso
del castello, all’ombra dei pioppi e de’ platani. Eccettuando il
doloroso accidente occorso al conte Grimaldi le condizioni sanitarie
dell’ambasciata erano state in generale corrispondenti ai bollettini,
consolanti pe’ nostri amici e pe’ nostri parenti, che ad ogni
opportunità di corriere venivano spediti in Europa. Qui incominciavano
ad insinuarsi fra noi i primi germi de’ mali proprj del paese. Lo stato
di malessere di uno de’ nostri servi si spiegò in decisa e violenta
febre periodica. Io medesimo fui colto da una strana affezione, da un
accesso di asma notturno, che si rinovò nel seguito varie volte per
intervalli irregolari.

Prima della novella alba muoviamo anche da questa stazione,
impegnandoci subito nel guado del fiume, reso difficilissimo dalle
ineguaglianze del suo letto, dai macigni e dall’oscurità. La luce del
crepuscolo matinale ci rischiara bentosto la via, lunghesso le falde
dell’Elburz, in un terreno affatto arido, screpolato, disuguale,
limitato, alquanto più lungi sulla nostra destra, da piccoli dossi
allineati nella medesima direzione della catena d’onde si direbbero
staccati. Dopo circa due ore di cammino, eccoci di nuovo ad
un’interruzione della parete antemurale dell’Elburz, per la quale da
lungi si presentano al nostro sguardo le cime de’ più interni monti,
e fra queste gigante e maestoso il cono del Demavend, biancheggiante
di perpetue nevi. Un gran fascio di luce solare, scappando fra questo
cono e la più vicina sommità de’ monti vassalli, si projetta nelle
alte regioni dell’aria, e cresce l’incanto di quella stupenda scena
della natura. I primi arrivati s’arrestano a raccoglier le espressioni
di maraviglia de’ sopravegnenti. Fin da questo punto, ed anche più
avanti, nelle adiacenze di Teheran si può notare come l’asse del cono
del Demavend, non sia affatto perpendicolare al piano orizzontale della
sua base, ma sensibilmente inclinato verso occidente. Per l’alveo di
un altro torrente asciutto parallelo ai precedenti, la strada sale
quindi sull’opposto più elevato piano, ricco di bella vegetazione,
e conduce al florido villaggio di Khend. Con alcuni amici io aveva
precorso il resto della comitiva, e già eravamo alle prime case, quando
ad una svolta vediamo un drappello festante di cavalieri, fra i quali
distinguiamo cinque splendide uniformi come di ufficiali europei.
Grande emozione provammo nell’udire queste parole nella nostra bella
lingua: «Voi siete della missione italiana? lasciatevi dunque salutare
da vostri compatrioti: ov’è il ministro?» Erano cinque colonnelli
italiani al servizio della Persia, i signori Pesce, Giannuzzi,
Andreini, Barbara e Materasso. Ricambiati i saluti frettolosamente, ma
con piena effusione di cuore, e sul cenno che il ministro seguiva a
qualche distanza da noi, spronarono i cavalli al suo incontro. Pochi
minuti dopo eravamo tutti riuniti in un piccolo padiglione da caccia
dello Schah, chiuso fra quattro mura, ove dovevamo soffermarci pel
resto della giornata. Gli ufficiali italiani rimasero alcun tempo fra
noi: e venuto infine l’ora del commiato, col proposito di rivederci
il domani alle porte di Teheran, riepilogammo la soddisfazione viva
e naturale di quell’incontro, e le scambievoli offerte, in cordiali
strette di mano.

Ai primi albori (3 agosto) lasciammo Khend: in pochi minuti quella
bella oasi scomparve alle nostre spalle, e con trotto sostenuto,
variato soltanto, per frequenti tratti, da vere giostre al galoppo,
ci avviammo alla capitale dell’impero Persiano. Passando vicino ad
una bottega ombreggiata da un gruppo di alberi, solitario nella vasta
steppa, alla vista di un samovar fumante, ci colse la tentazione di
alquanto ristoro; ma il thè ci fu sdegnosamente rifiutato, che le
nostre labbra impure non dovevano profanare le tazze ove bevono i
fedeli credenti di Alì. V’era lì accanto un mucchio di poponi e di
cocomeri, e questi furono lasciati a nostro arbitrio, per sottintesa
concessione niente affatto lusinghiera alla nostra natura di uomini.
Dopo due ore di questa lieta cavalcata eravamo già in piena vista di
Teheran. Le mura, le torri, le lucenti cupule delle moschee, gli alberi
del giardino imperiale, si disegnavano nettamente al nostro sguardo;
ma dovevamo veder Teheran senza entrarvi. A pochi minuti di distanza
dalla città, nella deserta pianura, v’ha l’_Aspidivan_, ampio recinto
ad uso di arena per la corsa de’ cavalli. Lì scendemmo di sella, per
ricoverarci nello ampio loggiato che serve di palco alla corte dello
Schah, nell’occasione degli spettacoli, ed in questo loggiato attendere
lunghe ore il declinare del sole, e l’apprestamento delle pompe colle
quali l’ambasciata del re d’Italia doveva essere accolta nella sede del
Re dei Re. —

Da oltre un’ora, vestiti delle nostre brillanti divise, ed impazienti
come chi è in pieno diritto di esserlo, tendevamo inutilmente lo
sguardo al lontano brulicame di gente che andava mano mano adunandosi
per noi; quando infine venne dato il cenno della partenza. Movemmo
questa volta in ischiera perfettamente ordinata, col nostro ministro
alla testa, da prima quasi in linea tangente la cerchia di Teheran,
poi convergendo subito a sinistra, verso la non lontana catena dei
monti. Per la campagna deserta, sassosa, disuguale, stavano distribuiti
forti e numerosi drappelli, e l’uno dopo l’altro, all’avvicinarsi della
nostra colonna, s’accostava; quindi, compiute le formalità del saluto,
vi si aggiungeva. Oltre le principali autorità della capitale, ciascuna
seguita da un brillante corteo, v’era il personale delle legazioni
di Francia, d’Inghilterra, di Turchia, v’era il drappello de’ nostri
compatrioti, e folla di spettatori; e tutta questa massa di gente
inviluppata fra un denso nembo di polvere, galoppava confusamente,
preceduta da lacché dello Schah, e seguita da squadroni di cavalleria.
Giunti a _Kas’r Kadgiar_ (castello de’ Kagiari), scendemmo di
sella, per compiere la vera formalità del ricevimento sotto un ampio
padiglione entro il recinto del giardino. Lì attorno ad una grande
tavola stracarica di confettura e di frutta, assistemmo alle cerimonie
ricambiate fra il commendatore Cerruti ed il ministro degli affari
esteri dello Schah. Circolavano frattanto ricchissimi _Kalian_, bacili
di thè e di _scherbeth_: e di tanto tramestio noi profittavamo per far
la prima conoscenza cogli addetti alle legazioni europee. Compiuta
questa solennità riprendemmo la nostra marcia, lasciando a _Kas’r
Kadgiar_ gran parte de’ cortei che ci avevano fino là accompagnati. Nel
percorrere l’ampio letto di un torrente, ci fu di graditissima sorpresa
il veder staccarsi dal piede di un gruppo di alberi tre signore
elegantemente vestite all’europea, agitanti verso noi, in segno di
festa, candidi fazzoletti: erano le signore Pesce, Andreini e Gianuzzi,
che ebbimo poi la fortuna di conoscere personalmente. Infine riescimmo
alla residenza per noi fissata in Tedgrisch, che già annottava.

Tedgrisch è uno dei villaggi disseminati nella zona di oasi che si
distende a’ piedi dell’Elburz, a due ore da Teheran, in una valle
aprica, limitata a settentrione dalla parete montuosa, ed a mezzodì
da una serie di collinette o meglio ondulazioni aridissime, che vanno
mano mano decomponendosi e morendo nel deserto in cui è fabricata la
città. La neve che rimane assai avanti nell’estate sulle più alte cime
de’ monti, e della quale vedemmo ancora qualche avanzo, fa scaturire
al loro piede numerose surgenti, che raccolte e distribuite con arte
mirabile, permette lo sviluppo della cultivazione sotto molteplici
forme. Secondo gli accidenti del piano la steppa è tutta intersecata
da filari, da macchie, da giardini, da boschetti, da campi di grano,
di sesamo, o di trifoglio. In più luoghi la vegetazione arborea è
stupenda. Fra il verde biancheggiano ville o gruppi di case, costrutte
con ricercatezza, alcune perfino con qualche lusso. Ov’è una moschea
e qualche bottega, là si dice essere un villaggio, come il nostro di
Tedgrisch, come Rustemabad, Sultanabad, Niaveran. Lo Schah, che ha
sparsi nell’immensa estensione de’ vari dominii, in ogni villaggio di
qualche importanza, chioschi e castelli, ne ha pure anche qui in gran
numero. Ma non bastano le case in questa privilegiata zona. I ministri
europei prendono in affitto un giardino, e vi stabiliscono le loro
tende per tutta la calda stagione. La sola legazione d’Inghilterra
pensa a provedersi di una villa in muratura, che noi trovammo in
corso avanzato di costruzione. La vita sotto la tenda è, durante i
calori estivi, e per nostra propria esperienza, preferibile a quella
dei casolari di commune stile in Persia. Ogni legazione europea ha
per sè un vero accampamento, le cui tende sono aggruppate con studio,
all’ombra di grandi alberi. Presso la tenda principale è scavato un
bacino di forma rettangolare, costantemente pieno di aqua, ad uso
di bagno, e così insidioso che nell’oscurità più d’uno di noi vi
ebbe a cadere, credendo camminare al sicuro sul terreno. Fra questi
accampamenti si distingueva per la magnificenza quello della legazione
inglese, ove un’immensa tenda indiana in fitta e robusta stoffa,
serviva per sala da ricevimento, ed avrebbe all’uopo perfettamente
servito per sala da ballo.

La nostra abitazione, per verità una delle migliori reperibili
nelle adiacenze di Tedgrisch, ci era stata procurata, contro un
molto rispettabile prezzo di affitto, dal nostro zelante protettore
conte Gobineau. Si imagini il lettore un recinto circondato da un
muricciuolo di fango, che lo suddivide nell’interno in scompartimenti
secondarj, communicanti fra loro per breccie irregolari. Tutto questo
recinto poteva chiamarsi un giardino, o meglio un boschetto inculto,
selvaggio, di alberi addensati e cresciuti quasi solo in lunghezza
per cercar la luce dall’alto. Alcuni viali rettilinei tra filari di
maggiori alberi, o sotto un pergolato, stabilivano le communicazioni.
In questi scompartimenti erano distribuite alcune capanne di due o
tre camerette cadauna, costrutte di fango un po’ meglio impastato e
lavorato di quello del muro di cinta. Imposte scassinate ne guernivano
gli ingressi; alle finestruole neppure traccia di vetri, che son cose
di lusso pel luogo e per la stagione.

Nella meno informe fra queste capanne e nella più spaziosa camera fu
stabilito l’officio del nostro ministro; e lì presso, sotto una tenda,
si dispose una gran tavola improvisata alla meglio, pel pranzo. In
linea con questa tenda erano la immancabile fossa rettangolare, ed
un’altra buca nel cui fondo gorgogliava una copiosa surgente di aqua
limpidissima e fresca. Il mobiliare che trovammo al nostro arrivo,
non consisteva che in alcuni tappeti distesi sul pavimento, concessi
provvisoriamente dal governo, e che dovemmo ricambiare con altri
comperati dal nostro ministro. Si mise presto mano al corredo delle
masserizie portate con noi per sì lungo cammino dall’Europa, rimaste
fino allora intatte. Mediante certi letticciuoli elastici, mediante le
nostre casse, ci accasammo, lo deve dire, abbastanza bene, anche per un
lungo soggiorno.

Il giorno medesimo del nostro arrivo, nella tarda sera, ebbimo la
visita del conte Gobineau, ministro di Francia in Teheran, il quale
si affrettò a fornirci i primi insegnamenti elementari sul nostro
contegno, e fra gli altri questo: che nessuno di noi avesse ad escire
senza scorta, non per scansare oltraggi che non avevamo a temere, ma
per la debita considerazione della nostra dignità. Altro sollecito
avviso, per verità utilissimo, fu che nessuno di noi facesse di
suo capo acquisti di curiosità persiane, delle quali saremmo stati
facilmente allettati. Il conte de la Roche Chouart, _attaché_ alla
legazione francese, si offrì graziosamente a nostro mentore in queste
faccende. Una persona di rango non si reca a’ _bazari_, ma riceve in
sua casa i mercanti, i quali poi, colla ciera la più innocente, cercano
affibbiare da prima tutti gli scarti, poi ad una ad una cavano le cose
migliori, chiedendo sempre il doppio, il triplo del prezzo che sono
disposti a ricevere. Ci separammo colla testa piena delle più cordiali
offerte, e ripromettendoci un’eccellente compagnia da questo centro di
società europea.

Il conte di Gobineau è uomo ancora nel vigor dell’età, di ingegno
irrequieto, amante di varia ed accelerata cultura, e conosciuto nel
mondo letterario per le sue relazioni di viaggi alla Terra-Nuova, in
Persia e specialmente per la sua opera sull’_ineguaglianza delle razze
umane_. Noi lo trovammo tutto intento allo studio della letteratura e
della filosofia persiana, sotto la scorta di un sapiente _mollah_; e
siffattamente preso di entusiasmo da trovare arcane bellezze in ogni
cosa di gusto persiano, perfino nella musica.

Un po’ alla volta, ne’ giorni susseguenti, facemmo conoscenza del
personale delle legazioni di Turchia e d’Inghilterra. Ministro
dell’impero ottomano era Haider effendi di bell’aspetto, perfettamente
educato alle forme più scelte, e parlante con grande facilità il
francese. Ministro d’Inghilterra da un anno o poco più era il signor
Allison, del pari assai cortese persona. La diplomazia inglese in
Oriente si esprime anche nel decoro delle rappresentanze diplomatiche
negli Stati ove il liocorno non è assunto dominatore. Il personale
delle legazioni vi è più numeroso, meglio retribuito, e circondato
di tutti gli emblemi dell’agiatezza e della potenza. Lo componevano
il signor Fane, il signor Watson ed il signor Thomson, segretari.
Il dottore Dickson, assai dotta e garbata persona, vi era addetto in
qualità di medico.

Noi avevamo già avuta per via la notizia del riconoscimento del regno
d’Italia da parte del governo russo; ma la communicazione officiale non
ne era peranco pervenuta alla legazione dello czar in Teheran, e tale
circostanza impedì ogni rapporto diretto tra il nostro ministro colla
legazione di Russia, il cui accampamento trovavasi a poche centinaja di
passi da Tedgrisch. Il signor Anitchkoff trovò modo di farci esprimere
il suo rincrescimento, e gli addetti alla legazione russa, che
frequentemente incontravamo nelle tende delle altre legazioni, usavano
con noi tratti così cortesi, da non renderci accorti del difetto della
vernice diplomatica. Noi ci trovavamo quasi ogni giorno a contatto or
con l’una or con l’altra legazione, ma in forma privata: l’etichetta
esigendo assolutamente che le visite officiali non fossero fatte e
rendute se non dopo il solenne ricevimento dallo Schah.

Il dottore Tholosan, archiatro, che appena ebbimo tempo di conoscere
personalmente, alcuni officiali, e tra questi i cinque colonnelli
italiani de’ quali ho detto più sopra, qualche negoziante, qualche
operajo, due sacerdoti lazzaristi, uno francese, l’altro italiano di
Liguria, il padre Varese, ecco, oltre il personale delle legazioni,
la colonia europea di Teheran. E qui sento il bisogno di soddisfare
ad un sentimento di riconoscente amicizia verso un’altra persona,
che, sebbene eliminata dalla sfera officiale, ha prestati a me e ad
altri miei compagni servigi così segnalati, con sì franca e costante
cordialità, da rimanerne perenne in noi la memoria; devo rammentare
il signor Nicolas, primo dragomanno della legazione di Francia,
profondo conoscitore della lingua e della letteratura persiana, che
per dissapori sempre più inacerbiti col signor conte Gobineau avendo
chiesto ed ottenuto un congedo, faceva i suoi preparativi di partenza
per l’Europa. Il nome del signor Nicolas dovrà ricomparire in queste
pagine.

Le frequenti giornaliere visite ricevute e ricambiate, gli inviti a
pranzi come di famiglia, le geniali conversazioni, ci facevano quasi
dimenticare per lunghe ore di essere tanto lontani dall’Europa, ed
alleggerivano la crescente oppressione della nostalgia, che in tutti
più o meno acerbamente si faceva sentire. Si animò in questi ozj di
Tedgrisch la nostra corrispondenza co’ parenti e cogli amici lontani.
Non esistono in Persia offici postali, come nei paesi più civilizzati,
ma il ricambio delle lettere coll’Europa si fa con soddisfacente
regolarità col mezzo di corrieri del ministro degli affari esteri, e
delle legazioni di Francia e d’Inghilterra, per la via di Trebisonda e
Costantinopoli, e della legazione di Russia, per la via di Rescht. Il
tratto da Teheran a Trebisonda, che dalle carovane ordinarie è percorso
in quaranta giorni almeno, lo è da’ corrieri in soli tredici giorni,
trottando di continuo dieciotto ore nelle ventiquattro, non perdendo
tempo ne’ _tschapark hanè_ che lo strettamente richiesto pel cambio
de’ cavalli. Vi sono de’ viaggiatori anche europei che riescono a
sopportare una così dura marcia. Il mio amico Doria, nel suo viaggio di
ritorno in Europa, ne fece vittoriosamente prova.

Le notizie che ci pervenivano sull’epoca del ritorno dello Schah,
e quindi del nostro solenne ricevimento, erano incerte; però
s’accordavano in generale nel farci presumere circa una ventina di
giorni di aspettazione. I contorni di Tedgrisch non presentavano alcun
particolare interesse per ricerche scientifiche; si organizzò adunque
prontamente, in questo intervallo, un’escursione al Demavend, la
quale venne felicemente compita, come in seguito narrerò. Intanto alla
spicciolata ognuno di noi volle far la sua visita alla vicina capitale
dell’impero persiano.




XV.

Teheran. — La cultura publica in Persia. — La giustizia. — L’Emir —
Il Sadrazam. — Confronti. — Massacro della legazione russa nel 1829. —
Guerra coll’Inghilterra nel 1856 — Herat. — L’armata. — I Turcomanni. —
Le febbri a Tedgrisch. — Lo Schah. — L’udienza imperiale. — Il ministro
degli affari esteri. — Dopo l’udienza.


Teheran è posta nel deserto, a breve distanza dalla catena dell’Elburz,
nello spazio tra le ridenti oasi del Schemran e le rovine della biblica
Rages. L’italiano Della Valle, il pellegrino che la visitò sullo
scorcio del secolo decimosettimo, la chiama la città de’ platani; la
descrive come grande, ma poco popolata, intersecata da ruscelli, ricca
di giardini e di frutteti. Già anticamente, in varie riprese, l’aveano
scelta a loro temporanea sede alcuni re della Persia; ma al rango
di capitale del vasto impero non salì che verso la fine dello scorso
secolo, col surgere della nuova dinastia. Aga Mohamed khan vi costruì
nuovi aquedotti, bazar, moschee, palazzi, e pago infine dell’opera sua
trasferì nella rifatta città la residenza dei Re de’ Re, abbandonando
l’antica sontuosa metropoli di Ispahan. Una sola costante legge governa
in Persia le capanne ed i palazzi, gli umili villaggi e le grandi
città; tutto è predestinato alla rovina sin dalla fondazione, ed i
Persiani non riparano, ma ricostruiscono.

Io non farò la descrizione di Teheran, rimandando il lettore a
quanto ne scrissero i viaggiatori e più recentemente, colla maggiore
accuratezza, il sig. Brugsch[41]. La fisonomia generale di questa
città non è gran fatto diversa da quella delle altre città persiane:
il materiale di costruzione vi è il medesimo: fango, puro fango: le
contrade sono strette, sudicie, irregolari, estremamente polverose
in estate, e fangose nella stagione della pioggia. Un’alta muraglia
di fango ed un gran fossato asciutto la ricingono, e vi danno accesso
sei porte, che dal tramonto al surgere del sole rimangono gelosamente
chiuse. Alcuni gruppi di casolari, presso le porte, formano i suburbj,
uno dei quali, dal lato del Schemran, trovammo intieramente stemperato
da una pioggia diluviale e da una innondazione dell’anno precedente.

Nell’ampia distesa di casipole e muricciuoli di fango surgono, qui più
che altrove, opere monumentali della moderna arte persiana, costrutte
in buoni mattoni cotti, con eleganti mosaici di mattoni smaltati. Le
porte fiancheggiate di torri, le moschee, i bazar, sono per una certa
magnificenza di stile, per le decorazioni, per la freschezza, quanto
di più bello si può vedere in tutti i dominj degli Schah. La porta
del nord, detta la porta dell’impero, e lì presso il mausoleo che
racchiude la testa del Khan di Khiva, furono i primi bei monumenti che
si offrirono al mio sguardo nella visita fatta alla città. Da questo
lato si trova il più importante dei quattro quartieri, nei quali la
città stessa è divisa. Oltrepassata quella porta si percorre una strada
lunga e diritta, regolarmente selciata, rasente il muro di cinta del
giardino dello Schah, ed a questo muro sono attaccate in lungo ordine
molte cassette vetrate, nelle quali arde di notte una candela, tutto
il contorno della residenza imperiale essendo illuminato, quando il
resto della città è nelle tenebre. Per quella strada si giunge a una
grande piazza, circondata di frontoni maestosi, che servono d’accesso
a’ bazar, a’ caravanserai, al palazzo dello Schah e de’ suoi ministri.
Nel mezzo di questa piazza sta quella che da noi si direbbe la gran
guardia: una batteria di cannoni di diverso calibro, ed uno fra essi
di enormi dimensioni, con gruppi di soldati quali in sentinella, quali
accosciati fumando tranquillamente il kalian.

Il giardino dello Schah è imponente pel lusso della vegetazione,
per maestosi viali, per grandi piscine, per la pulitezza, l’ordine,
l’eleganza che domina dappertutto, e rivelano arte, gusto, costumanze
d’Europa. Il direttore, infatti, è un francese. Non mi accingo tampoco
a descrivere l’interno del palazzo, la favolosa ricchezza de’ troni,
l’addobbo sontuoso di alcune sale, contrastanti in singolar modo colla
nudità, colla decadenza de’ fabricati imperiali che avevamo fino allora
visti. Varj grandiosi edifizj, tutti press’a poco del medesimo stile,
co’ loro grandi talar prospicienti l’immenso giardino, compongono
questa residenza del Re de’ Re. Alcuni servono d’abitazione a’ grandi
di corte, altri al ricevimento de’ dignitarj nelle varie solennità;
altro infine chiude il tesoro reale, indescrivibile assembramento di
perle, di rubini, di smeraldi, di diamanti, della più rara bellezza,
per un ammontare che vien calcolato oltre 1,250,000,000 di franchi.

Da questa parte della città, presso la porta dell’impero, trovasi
il collegio, istituzione europea, che la volontà dello Schah attuale
mantiene, che un altro regnante può distruggere, senza che ne rimanga
tampoco la memoria nell’indifferenza del paese. È una specie di
istituto politecnico, nel quale ad una quarantina di allievi si dà
una istruzione elementare nella fisica, nella chimica, nella mecanica,
nella topografica, nella lingua francese. Naturalmente vi sono addetti
professori europei, ma già si manifesta e si traduce in effetto
l’intenzione di sostituire loro a poco a poco professori persiani. Un
italiano, il signor Focchetti, vi tenne per alcuni anni la catedra
di fisica e di chimica, ed ha lasciato buon nome e desiderio di sè,
non solo fra i pochi suoi connazionali, ma fra gli altri Europei
e le istesse più intelligenti notabilità persiane. Noi trovammo in
costruzione un grandioso fabricato nel quale sarà ben tosto trasferito
il collegio che lo Schah ha intenzione di chiamare a nuova vita.

L’Inghilterra tiene lo sguardo fiso sopra Herat, e pel resto si appaga
del grande sfogo che aprono alle sue manifatture i bazar persiani. La
Russia pure inonda la Persia delle sue merci, e contiene la politica
dello Schah colla salutare paura. Fino dai tempi del primo Napoleone, e
della spedizione del generale Gardanne, Parigi è, nel concetto generale
de’ Persiani, il centro del _Frengistan_; e la Francia spiega ancora la
prevalente influenza ne’ consigli dello Schah. La maggior parte degli
officiali europei al servizio della Persia sono francesi. A Parigi il
governo persiano mantiene una cinquantina di allievi, perchè abbiano
ad istruirsi nell’industria manifatturiera, nelle arti dell’ingegnere,
nella medicina. Qual profitto essi ne traggano la loro patria non cura.
Non appena vi abbiano fatto ritorno, l’harem ed il kalian riprendono
il loro pernicioso dominio, e svanisce perfino quella vernice parigina
che ingentilisce il vizio. Pure ciò che è buono nella natura dei
Persiani è ottimo: e questo è l’ingegno aperto, vivace, che li rende
atti ad apprendere con mirabile facilità ogni arte, ogni industria,
ove la memoria, i sensi, e la destrezza fisica abbiano la parte
prevalente. I lavori che i Persiani, per tradizione secolare, e con
strumenti imperfettissimi, riescono a fare, sono veramente stupendi.
Non si perverrà forse giammai ad imitare in Europa le tanto apprezzate
sciabole del Korassan, mentre, sotto la direzione di abili officiali e
capi officine francesi, la fabricazione delle armi da tiro, anche di
precisione, sul modello europeo, ha preso, nell’arsenale di Teheran,
rapido sviluppo. Dal 1861 è teso un filo telegrafico, che, partendo
da Teheran, si biforca a Kazvin, per terminare con un estremo a
Tauris, coll’altro a Rescht. Il primo stabilimento, o, come direbbesi,
l’impianto di una novità così inconcepibile alla scienza orientale,
fu naturalmente affidato ad Europei; ma in sì breve spazio di tempo
il servizio del telegrafo è già intieramente passato a funzionari
persiani, e procede nel modo più regolare.

Non sia giudicata frivola cosa quest’altra prova del singolare ingegno
imitativo dei Persiani, ch’ebbe con profitto grandissimo suo e dalla
scienza il mio amico Doria. Durante il suo viaggio nelle provincie
meridionali della Persia, vennegli in pensiero di addestrare a ricerche
naturali il suo cuciniere, giovinotto di non ancora venti anni, nativo
di Schiraz, di nome Kerim, ed in breve riescì a sviluppare in lui
un talento straordinario, un perspicace senso pratico, una decisa
passione per tutti gli artifizi delle collezioni zoologiche. Condottolo
seco alla sua nativa Genova, bastarono poche lezioni del bravo e
compianto preparatore De-Negri a fare per soprapiù del giovane Kerim
un tassidermista abilissimo. Così il marchese Doria si è assicurato un
prezioso ajuto, che ogni naturalista ha ragione di invidiargli.

La cultura dello spirito è molto più apprezzata dai Persiani che
dai Turchi. Tengono la suprema gerarchia del sapere i _mollah_, che
sono i dottori del Corano, ed i conservatori sacri delle tradizioni
storiche e filosofiche. Poi vengono i _mirza_, o letterati communi,
e di questi grande è il numero. Senza che il governo se ne curi gran
fatto, l’istruzione elementare è più diffusa in Persia che in alcune
provincie della stessa Europa; se non che l’islamismo è un irremovibile
ostacolo a ciò che ne scaturiscano que’ frutti che essa virtualmente in
sè racchiude. Quasi tutti coloro che al vestito si palesano superiori
all’umile plebe sanno leggere e scrivere, e portano abitualmente nelle
saccoccie del vestito un astuccio con penne e calamaio, ed un rotolino
di carta alla cintura. Quasi ad ogni moschea si trova annessa una
scuola (_madrassèh_), ove, sdrajati sovra rozzi tappeti, vedi ragazzi
intenti a deciferare scritture, a tracciare scarabocchi sulla carta.
Nelle città, ne’ villaggi, si incontrano molto frequentemente crocchi
di uditori intenti alla lettura entusiastica de’ novellieri e de’
poeti, onde la Persia mena giustamente sì gran vanto. Tra le botteghe
de’ bazar se ne trovano alcune di librai. La stampa si fa col mezzo
della litografia. Nè mancano giornali: uno è pubblicato in Tauris dallo
stesso nostro primo mehmendar Kulikhan; l’altro in Teheran, sotto la
personale alta direzione dello Schah e de’ suoi ministri, e questo è
adorno di disegni, o, come direbbesi tra noi, illustrato.

I Persiani riconoscono la supremazia degli Europei in tutto quanto si
riferisce al benessere materiale della vita, compiangendo però i vani
bisogni in cui si sono avviluppati, e la conseguente complicatezza
delle industrie per sopperirvi; ma in fatto di teologia, di filosofia
e di letteratura, essi tengono gli Europei per bambini, o, senza
cerimonie, per barbari. Rompendo l’ordine del mio diario, intercalerò
qui un saggio abbastanza curioso della filosofia naturale de’ Persiani.
La scena è in un caravanserai di Kazvin, ove ci troviamo io e Lessona
in compagnia del sig. Nicolas, in crocchio con vari notabili della
città. Mentre l’ottimo dragomanno disputava cogli altri del crocchio,
in lingua persiana, io e Lessona, che non comprendevamo verbo,
stavamo badando ad uno scalpellino che lì presso lavorava un masso di
bellissima trachite rosea; e raccoltone alcune schegge le esaminavamo
colla lente.

«Che fanno que’ signori?» domandò uno dei Persiani del crocchio al sig.
Nicolas.

«Guardano di quali elementi il buon Dio ha composta quella pietra.

«Che necessità di guardare? Lo diremo noi: quella pietra è fatta di
aria, di aqua, di terra e di fuoco.

«Questa è scienza antiquata e morta. Noi Europei sappiamo da quasi un
secolo che l’aria, l’aqua, la terra, non sono elementi, ma sostanze
composte, e che il fuoco non è una sostanza particolare.

«Se accettate la discussione su questa materia, noi siamo pronti, e vi
convinceremo del vostro errore:»...... — e via di seguito, dissertando
con un miscuglio di Aristotele e di Maometto d’uno in altro argomento;
asserendo che la terra non si muove, che è portata sulle corna di
un bue, e questo riposa su di un pesce; che è assurdo ammettere
l’esistenza degli antipodi; e concludendo sempre che quella è la vera,
la sola scienza.

Al sentir di queste belle cose, io e Lessona non potevamo tenerci
dal farne, ridendo, le alte maraviglie; se non che venne tosto ad
ammorzarle una triste riflessione. La scienza che è di sua natura
incoercibile come l’etere, indefinitamente progressiva, che non conosce
confini, e meno ancora contrasti di nazioni, procede forse nel nostro
stesso paese senza spinte retrogade, senza inciampi di strane zavorre?
Non abbiamo anche fra noi consorterie di dotti ignoranti, i quali
per rifiutare altrui il diritto del libero esame, incominciano dal
respingerlo essi medesimi, come un incommodo peso? Che per cullarsi in
beato ozio sotto le ali oscuranti di qualche Aristotele di provincia,
convertono perfino in danno permanente quelle che pur sarebbero glorie
storiche della nazione? Buona gente del resto, che non domanda altro
che di esser lasciata vivere, e a chi dà rende incensi a larga mano.
Ma ahimè, per l’incessante proclamarla quella che non è punto, la loro
scienza non diviene la sola, la vera, la intangibile, meglio che nol
sia quella de’ dottori delle moschee.

Più che al diretto comando degli Schah ha contribuito al rifiorire
di Teheran un Cavour della Persia, un ministro riformatore di rara
intelligenza, che ha lasciata nella storia contemporanea del suo paese
una pagina incancellabile, e la cui tragica fine è ancora materia de’
racconti popolari, ed universalmente compianta. Un figlio di un povero
cuoco di Kermanschah, di nome Mirza Taghi, addetto al servizio del
principe ereditario Nasr-ed-din Mirza, riescì pei suoi talenti, per
la sua operosità, per l’energia del suo carattere, a guadagnarsi i
favori e la confidenza del suo signore, ed a vincere i nemici insurti a
disputare a questi, alla morte di Mohamed Schah, il trono della Persia.
Portato allora egli medesimo al rango supremo di gran Visir, col titolo
di Emir, ottenuta in isposa una sorella dello Schah, Mirza Taghi khan
tutto pose in opera onde riparare le devastazioni della sfasciata
amministrazione precedente, contenere l’avidità spogliatrice de’
governatori e de’ grandi di corte, ordinare i diversi rami del publico
servizio e sovratutto la finanza, nel tempo medesimo che intraprendeva
con prodigiosa attività grandi opere publiche, ponti, strade, bazar,
caravanserai. Ma i rovesci della fortuna sono violenti in Persia, ed
anche per quest’uomo straordinario doveva suonare l’ora fatale. Un
intrigo di corte, abilmente ordito da feroci rivali, da coloro che
sotto quella mano di ferro aveano dovuto cessare da inveterati abusi,
riescì a far credere allo Schah che l’Emir minacciava l’ordine dello
Stato. La memoria degli antichi servigj, l’evidenza de’ nuovi, gli
stessi vincoli del sangue, non valsero a salvarlo. Fu allontanato dalla
corte ed esigliato in una sua villa presso Kaschan, ove non tardò a
raggiungerlo l’ultimo scoppio dell’ira imperiale. L’infelice trovavasi
nel bagno quando gli giunse un messo dello Schah accompagnato dal
carnefice, colla sentenza di morte. L’Emir aveva libera la scelta del
genere di supplizio: gli fu proposto l’avvelenamento con una forte dose
di oppio, ma egli rifiutò. Si fece aprire le vene nel bagno stesso,
e mentre la vita gli andava mancando ebbe ancora la forza d’animo di
scrivere col dito intriso del suo sangue la sacra esclamazione de’
Musulmani: _la allah ill’allah_; non v’è altro Dio che Dio.

Mirza Aga kan che gli succedette nella carica di gran Visir, col
titolo di Sadrazam, fu appena più fortunato coll’aver salva la vita.
Straordinariamente ricco, intraprendente, amante del lusso, padrone
di un sontuoso palazzo nella capitale, di castelli e di terre, dovea
necessariamente suscitare l’invidia e la gelosia dei cortigiani, che lo
accusarono di impinguare i suoi forzieri a danno dello Stato. L’accusa
prese corpo al sopravenire di una crisi annonaria e di una gran penuria
di danaro; ed anche in questa circostanza il despotismo dello Schah si
manifestò in tutta la sua forza. Il Creso persiano dovette sottostare
a taglie enormi, poi infine venne esigliato a Yezd, spogliato dei suoi
possedimenti; e la carica di gran Visir fu abolita.

Da questo esempio, e da altri che ho dovuto narrare nelle pagine
precedenti, si può avere un’idea del modo con cui si amministra in
Persia la giustizia. Tutto il codice è compendiato in un sottinteso
articolo, che si potrebbe esprimere così: la vita e la proprietà de’
Persiani sono in facoltà del sovrano. L’arbitrio, il solo arbitrio,
determina la procedura, la sentenza, il genere e la specie della pena.
De’ carnefici accompagnano dappertutto la persona dello Schah, ed
il capo di essi è una vera dignità in corte. La prigione costerebbe
troppo. Tutte le pene sono pecuniarie o corporali: le prime oscillano
tra la multa e la confisca, ad arbitrio ed a profitto del sovrano; i
gradi delle seconde sono l’esiglio, la bastonatura, le mutilazioni,
la morte, e tanti tormenti quanti se ne possono imaginare. Ma anche
su questa materia non mancano riflessioni e confronti. Ad ogni scoppio
di barbarie musulmane tutta Europa si commove. Noi eravamo in Tiflis,
allorquando i giornali ci portarono la novella del supplizio di
sessanta Turcomanni, che allora aveva avuto luogo sulla piazza d’armi
di Teheran. Quegli infelici, legati tutti in fila, servirono per alcune
ore di bersaglio a’ battaglioni che si facevano successivamente sfilare
loro dinanzi, a tutto tiro di fucile. A tanto orrore noi fummo sul
punto di credere che l’ambasciata italiana non avrebbe proceduto oltre:
ma in seguito, ben ponderate le circostanze, si venne a conchiudere
che la sorte di sessanta ladroni, colti in istato di guerra, non
avrebbe incontrato nella stessa Europa altro diverso trattamento
che nel tempo, nel luogo, ed in una semplice più legale formalità;
differenza sproporzionatamente minore che non sia quella del relativo
stato di civiltà ne’ due paesi. Bisogna ammettere ne’ nostri giudizj
sulla Persia circostanze molto attenuanti. Quel paese è, di confronto
coll’Europa, arretrato di dieci secoli, ma gli orrendi supplizj de’
Babi, che non mi bastò l’animo di descrivere pel minuto, sono ancora
un pallido raffronto ai tormenti co’ quali, or fa appena un secolo (nel
1757), per sentenza di tribunali, in una metropoli del mondo cristiano,
tredici carnefici, per dodici ore continue, fecero scontare a Roberto
Damiens il delitto di aver attentato alla vita di Luigi XV. La tortura
e la ruota non sono peranco sparite dalla memoria de’ contemporanei;
il supplizio alla bocca del cannone fu trovato molto speditivo ed
esemplare, in certe circostanze, anche da propagatori di civiltà; e
fanno raccapriccio le inumane torture colle quali, or sono pochi anni,
gli agenti del governo delle Indie spremevano ai contribuenti morosi
il pagamento delle imposte, onde altre grida di pietà e di sdegno
risuonarono nella Camera de’ communi di Londra.

Con sì largo e terribile arbitrio in chi comanda, col sentimento morale
così ottuso nelle masse, convien dirlo, a minor onta della natura
umana, gli eccessi del potere da una parte e i delitti dall’altra, sono
molto più rari in Persia di quanto generalmente si creda. Le punizioni
sono strane e violente, ma almeno pronte ed esemplari, ed il più delle
volte applicate a veri e riconosciuti colpevoli. Nelle grandi occasioni
però, quando occorre agire sull’istante, e colpire le masse con grandi
esempi, le vittime si pigliano alla cieca e per categoria.

Al principio del 1861 la gran neve caduta ed il pessimo stato delle
vie di communicazione aveano reso impossibile il regolare trasporto de’
grani per i centomila ventricoli della capitale, e la carestia vi prese
terribili proporzioni. Un giorno, migliaja di donne furibonde, scoperto
il volto in segno di disperazione, circondarono minacciosamente lo
Schah che ritornava dalla caccia, gridando pane e giustizia. Ma il
pane non si crea per volontà di despota; bensì qualche atto clamoroso
al quale dare il nome di giustizia si può sempre improvvisare, e lo
fu in questa circostanza. Sua Maestà fece semplicemente strangolare il
Kelantar, o capo della polizia della città, e trascinarne il cadavere,
per le vie di Teheran, a coda di cavallo; fece bastonare i Ketkodà, o
capi de’ quartieri, e l’insurrezione s’acquietò, come avesse mangiato.

Un altro tumulto popolare accaduto in Teheran, in epoca più remota,
e che finì col massacro della legazione di Russia, è raccontato in
qualche libro con alcune varianti da quanto mi venne riferito sul luogo
da persone degne di fede, e tra di loro concordi fin ne’ particolari.
Ecco il tragico avvenimento. Dopo la pace di Turkmantschai era stato
spedito a Teheran, come ministro residente dello czar, il signor di
Gribojedow, con numeroso personale, conformemente al rango, ed alla
circostanza della pace succeduta ad una grossa guerra. Fra i sudditi
dello czar, abitanti in Teheran, e sui quali naturalmente si estendeva
il diritto di protezione del suo ministro, v’era una donna armena,
che era stata a forza chiusa in un harem. Le insistenti domande e
le proteste del sig. di Gribojedow, onde la donna fosse consegnata
alla legazione, non avevano avuto altro effetto che di esacerbare
il fermento della plebe, irritata già dalle conseguenze della guerra
disastrosa che era stata allora suggellata con una pace invisa. Sul
rifiuto ostinato delle autorità locali, il ministro russo mandò i
Cosacchi del suo servizio a strappare la donna all’harem. Il tumulto
salì per questo fatto al colmo; e lo stesso capo della religione, che
fino allora s’era efficacemente adoperato a calmare gli animi, fè cenno
che ormai ogni freno fosse tolto. La plebaglia furibonda si portò in
massa contro la residenza della legazione russa; dalle imprecazioni
passò alle minacce ed all’attacco. La porta chiusa, e fortemente
appuntellata, era sul punto di cedere sotto gli urli della moltitudine,
quando partì di là una scarica di fucilate. In pochi istanti l’onda
inferocita degli assalitori invase l’interno della casa; ed impegnatasi
la lutta corpo a corpo, cinquanta persone, componenti la legazione,
fra le quali lo stesso ministro, ed alcuni fedeli servi persiani,
dopo un’eroica difesa, rimasero scannati. Solo riescì a sottrarsi alla
strage un giovane segretario, arrampicatosi sui tetti, e raccolto dalla
carità di un _mollah_, che lo tenne celato nel sacro inviolabile asilo
del suo proprio harem. Quanto le conseguenze di questo fatto dovessero
presentarsi terribili al governo persiano, ognuno può imaginare. Un
principe del sangue fu immediatamente spedito a Pietroburgo a chieder
umilmente perdono a’ piedi dello czar, e ad offrire pronta riparazione.
La quale fu fatta ampia e clamorosa, con solenne apparato di inchieste
e scena finale di centinaja di nasi, di lingue, di orecchie, e di teste
cadute sotto il coltello del boja. Una seconda ambasciata russa non
tardò molto a giungere in Teheran, accolta con pompa straordinaria.

Altro episodio, in cui del pari figura una donna tra i personaggi
principali, avrebbe potuto avere conseguenze funeste pel governo
persiano, quand’anche non fosse contemporaneamente concorsa al medesimo
effetto un’altra complicazione politica molto più grave. Mirza Haschim,
caduto in disgrazia dello Schah per la sua famigliarità colla legazione
britannica, aveva dovuto infine ricoverarsi definitivamente sotto la
protezione di questa; e dal sig. Murray era stato nominato agente
consolare a Schiraz. Mentre il prevedibile conflitto dava luogo ad
uno scambio di note e di proteste aspre ed energiche fra il ministro
inglese ed il governo persiano, lo Schah fece rapire la moglie del
Mirza, sua parente, accusata non solo di leggerezza in conversare
cogli Inglesi a viso scoperto, ma perfino di rapporti scandalosi
col ministro. Invano il sig. Murray si fece a reclamare, pe’ lesi
diritti internazionali, la restituzione immediata della donna: lo
Schah intervenne personalmente nella questione, scrivendo di suo pugno
al ministro britannico, e caricandolo delle più basse contumelie.
La misura era colma, e l’offeso ministro mandò al governo persiano
un’ultima ingiunzione: che fosse fatta giustizia a’ suoi reclami, che
lo Schah ritirasse l’ingiurioso scritto, od altrimenti egli avrebbe
abbassato lo stemma della sua nazione. Spirato invano l’ultimo termine
concesso a queste riparazioni, la legazione inglese abbandonò Teheran,
ed il sig. Murray scrisse al governatore di Bombay, invitandolo a
far un’imponente dimostrazione armata davanti Bender Buschir. Questo
avveniva nel dicembre 1855. Poco dopo una poderosa armata persiana
invase il territorio di Herat, e si impadronì della città. Il governo
inglese che per vendicar il grave oltraggio fatto, per una frivola
causa, alla sua bandiera, avrebbe dovuto muovere guerra alla Persia,
fu così tratto d’imbarazzo, e, per la nuova causa sopragiunta, troncò
ogni titubanza. Una flotta di 47 navigli, con 5000 marinai ed 8000
soldati, sotto gli ordini del commodoro Leeke e del generale Outram,
si portò nel golfo persico. Le truppe sbarcate bombardarono Bender
Buschir, che si arrese dopo quattro ore di fuoco; quindi, procedendo,
vinsero ancora in varj scontri i Persiani, ed attaccarono la fortezza
di Mohammerah, la quale, sebbene difesa da 13,000 uomini e da numerosa
artiglieria, fu presto evacuata. Malgrado l’enorme sproporzione delle
forze, la vittoria seguiva il vessillo inglese. Ma le vere difficoltà
di questa guerra non sarebbero incorse che più tardi, coll’avanzarsi
nella regione montuosa, e già erano pronti a salpare da Bombay
nuovi rinforzi, quando giunse la notizia al generale Outram che,
per mediazione dell’imperatore dei francesi, un trattato di pace fra
l’Inghilterra e la Persia era stato sottoscritto il 4 marzo (1887) in
Parigi, da lord Cowley e da Ferruk khan. Le ratificazioni non si fecero
a lungo aspettare, ed il signor Murray fece di nuovo trionfale ingresso
in Teheran.

Il miserabile piccolo canato di Herat sarà ancora per molti anni un
pomo di discordia, un punto obbiettivo delle rivalità e della strategia
politica della Russia e dell’Inghilterra, veggenti nel lontano avvenire
la possibilità di trovarsi un giorno di fronte a contrastarsi il
predominio nelle più ricche contrade dell’Oriente. Il possedimento di
Herat è poco meno d’una quistione di vita per la Persia: e per quella
che si chiama in Europa legitimità di aspirazione, non le dovrebbe
esser contrastato. La Persia ha necessità di quella posizione per
dominare le gole dei monti aperte alle invasioni dei Turcomanni nel
Korassan meridionale; e la Russia ve la spinge sottomano, nell’intento
di allontanare sempre più l’influenza inglese, e predisporsi una facile
via che le forze della Persia non saprebbero mai difendere, quando
venga il giorno di stendersi verso le Indie. L’accorta Inghilterra
giuoca l’altra partita, favorendo le ambizioni del suo alleato Dost
Mohamed, sultano del Cabul, nelle cui mani Herat sarebbe un’opera
esterna coprente i confini occidentali de’ suoi propri possedimenti.
Perciò fin dal 1853 era stato conchiuso un trattato fra la Persia e
l’Inghilterra, per il quale il governo persiano rinunciava ad ogni
pretesa di sovranità sopra di Herat, obligandosi a non invadere questo
territorio se non in quanto fosse strettamente richiesto per difenderne
l’indipendenza dagli attacchi effettivi del Cabul. Fu appunto la
violazione di questo trattato che obligò l’Inghilterra a ricorrere alle
armi, siccome ho narrato. Il trattato di Parigi conferma essenzialmente
la clausola del 1853, ed aggiunge che alla minaccia di una lutta
colle forze di Dost Mohamed, la Persia non abbia ad intervenire se non
dopo aver esperimentati i buoni officj dell’Inghilterra verso il suo
alleato, officj che l’Inghilterra stessa obligavasi ad interporre.
Fu anche contemplato il caso di Mirza Haschim, e stabilito che
l’Inghilterra, conservando la sua protezione ai Persiani che già aveva
assunti al suo servizio, si obligava a non estenderla ad altri, fuorchè
nel caso che un simile diritto fosse più tardi stato accordato dal
governo persiano ad altre potenze.

L’occasione non tardò per metter a prova il trattato di Parigi.
Noi eravamo appunto in Teheran, quando vi era giunta da poco la
notizia che Dost Mohamed era di nuovo penetrato con forze imponenti
nel territorio di Herat, e stringeva d’assedio la città. Fra i varj
pretesti dell’invasione v’era pur quello, probabilmente vero, che
Ahmet, khan di Herat, fosse creatura dello Schah. La Persia non s’era
per anco rifatta dall’infelicissima spedizione contro i Turcomanni,
epperò non poteva opporre al sultano del Cabul che una debole armata
di 18,000 uomini, sotto il comando del vecchio Murat Mirza, zio dello
Schah, e governatore del Korassan; ma risovvenutosi in buon tempo degli
accordi stipulati col governo inglese, domandò formalmente l’esecuzione
dell’art. 6 del trattato di Parigi. Il sig. Eastwick fu spedito sul
teatro della guerra, come incaricato d’affari del governo inglese,
ma non si diede tampoco la pena di vedere Dost Mohamed, e si limitò a
scrivergli onde impedisse dalla sua parte il passaggio de’ Turcomanni
sul territorio persiano. Herat fu assalita e presa, ma il suo
conquistatore, già gravemente ammalato all’incominciar della campagna,
morì qualche giorno dopo la vittoria.

L’esercito persiano consta di 80 battaglioni di fanteria, ciascuno
nominalmente dagli 800 ai 1000 uomini, ma effettivamente aggirantesi
intorno alla metà di queste cifre: di 4 reggimenti di cavalleria
regolare, e 2 di artiglieria. In caso di guerra questa armata può
esser rafforzata da un numero indeterminato di uomini di cavalleria
irregolare. Ho già riferite altrove le cure dell’attivo ed intelligente
Abbas Mirza, per introdurre in quest’armata la disciplina, o piuttosto
l’istruzione europea. Nasr-ed-din, lo Schah regnante, continua
questa tradizione. I nostri compatriotti, colonnelli istruttori, si
dimostravano molto contenti de’ successi delle loro fatiche, della
facilità colla quale i battaglioni della fanteria persiana aveano
imparate le mosse e le manovre di campo, tanto da non rimanere in ciò
molto al disotto delle truppe d’Europa. La piazza d’armi di Teheran
biancheggiava di tende pei battaglioni che vi erano adunati in campo
d’istruzione; e fino a Tedgrisch perveniva il suono delle fanfare,
il rullo dei tamburi, il rumore della moschetteria degli esercizj
giornalieri. Il conte Grimaldi, il capitano Clemencich, che formavano
la sezione militare della nostra ambasciata, invitati un giorno dai
colonnelli italiani ad una gran manovra, ne rimasero soddisfatti oltre
ogni aspettazione. Però quella che veramente si chiama organizzazione
dell’esercito è ancora tutta da creare: e la truppa persiana, che può
fare abbastanza buona figura ad una rivista, è intieramente sfasciata
in una campagna guerresca. Il servizio che suol dirsi delle intendenze
e delle ambulanze è affatto negletto, ed il soldato deve provedere da
sè alle necessità ed alle contingenze quotidiane, anche sul teatro
dell’azione; ond’è scomposto ogni ordinamento delle fila, quando
appunto maggior ne sarebbe il bisogno. S’aggiunga a tutto questo che
gli officiali europei sono semplici istruttori; hanno il comando dei
battaglioni sul campo delle manovre, ma fuori di là, quando venga il
caso di far valere il profitto di questa istruzione, i soldati che
hanno imparato ad ubbidire, passano sotto gli ordini di officiali
indigeni, che non sanno comandare. Per questo complesso di circostanze
non solo l’esercito persiano è stato e sarà costantemente battuto da
corpi sproporzionatamente inferiori di truppe europee, ma ebbe perfino
a subire una totale ignominiosa sconfitta dalle orde indisciplinate de’
Turcomanni.

Queste orde, rapaci per indole e per odio, non lasciano tregua ai paesi
limitrofi della Persia, ed or qua or là piombano d’improviso sulle
carovane, sui villaggi, e fin sulle città popolose del Mazanderan e
del Korassan saccheggiano, rubano armenti, e traggono seco prigioni i
miseri abitanti, che poi vendono come schiavi sui mercati di Khiva e
di Bukhara. Il governo persiano decise finalmente una grande spedizione
militare onde infliggere loro una tremenda lezione.

Nel 1860 un esercito di 24,000 uomini, sotto il comando del governatore
del Korassan, irruppe sul territorio turcomanno, senza incontrare
alcuna resistenza, chè le popolazioni, a modo barbaro, andavano mano
mano ritirandosi verso l’interno, e concentrandosi. Così senza colpo
ferire i Persiani giunsero alla città di Merve, che era stata del pari
evacuata, e se ne resero facilmente padroni. Il principe Hamza Mirza,
comandante in capo, spedì corrieri allo Schah apportatori di tanto
liete novelle, che furono accolte nella capitale con grande entusiasmo
e fuochi di gioja. Dopo un successo così inatteso credettero i Persiani
non aver altro a fare che raccogliere i frutti della vittoria, ma
quando i Turcomanni ebbero maturati gli artifizi, ed assalirono
infine i Persiani, le sorti della guerra mutarono a precipizio, ed
alla spensieratezza degli illusi seguì un generale irrefrenabile
spavento. Hamza Mirza con pochi battaglioni riescì a trovare uno
scampo, rientrando nel Korassan, tutto il resto dell’armata fu preso.
Gli officiali di questa armata erano tutti persiani puro sangue, fatta
eccezione di un solo europeo, del sig.^r de Bloqueville, francese, che
di officiale avea il rango e l’uniforme, non però l’autorità, e traeva
seco invece un completo apparato fotografico, onde prender vedute
di paesi intieramente sconosciuti agli Europei. Anche il sig.^r de
Bloqueville cadde nelle mani de’ Turcomanni, e fu tenuto prigioniero,
finchè non venne riscattato al prezzo di 8,000 tomani (96,000 franchi),
che lo Schah sborsò della sua cassa privata. Io ebbi il piacere di fare
la sua conoscenza nell’abitazione del signor Nicolas presso Tedgrisch,
e di sentire da lui narrare le strane vicende di questa guerra.

La dissoluzione dell’armata invaditrice fu così rapida e completa
come non occorse mai per nessuna armata in Europa. Per avanzarsi
sul territorio nemico, attraverso il deserto, i Persiani dovevano
pensare da prima ad assicurarsi l’aqua, ed a tal fine aveano deviato
in un antico canale abbandonato il piccolo fiume di Herat, ma furono
crudelmente delusi, perchè il fiume venne assorbito dalle sabbie. Qui
incominciarono i disastri. Un gran numero di cavalli venne a morir
di sete, ed anche de’ Persiani molti, rompendo ogni ordine, vaganti
in cerca di aqua, erano fatti prigionieri alla spicciolata, all’esca
di qualche scodella d’aqua, che i Turcomanni offrivano agli smarriti,
alla condizione di deporre le armi. L’armata persiana, già a mezzo
sfasciata, si trovò al Mourgab, dietro il quale stavano accampate le
masse de’ Turcomanni: ma, tentato invano il guado del fiume, dovette
pensare a ripiegarsi su Merve. Su questa circostanza aveano abilmente
calcolato i Turcomanni; ed infatti, improvvisamente deviando il corso
del fiume, lo riversarono sulla ritirata de’ Persiani; ed allora la
disfatta fu compiuta. La sola cavalleria già ridotta dalle precedenti
perdite, potè salvarsi: la fanteria fu tutta presa, e quasi si direbbe
pescata. Il fatto accadeva nella notte fra il 2 ed il 3 ottobre.

Il signor de Bloqueville fatto prigioniero appunto in questa
circostanza, ebbe ne’ primi giorni a soffrire ogni sorta di privazioni
quando i Turcomanni stessi mancavano di tutto; ma poi la sua condizione
andò migliorando; il ricovero ed il vitto gli vennero apprestati con
discreta larghezza, e l’apparente generosità de’ suoi padroni andò fino
a permettergli, e procacciargli anzi, sotto buona scorta, il passatempo
della caccia. Il clima, i disagi, i patimenti morali alterarono la
sua robusta salute, e le cure verso di lui raddoppiarono. La ragione
di questo trattamento non è quella che forse per la prima s’affaccia
al pensiero del lettore; non è un sentimento di umanità, è un calcolo
raffinato. Il signor de Bloqueville vivo era una mercanzia di valore,
ed il fatto lo ha comprovato; morto non era che un essere immondo da
lasciar a pascolo degli avoltoj. Peggiore assai fu la sorte del povero
Hamza Mirza, malgrado la sua parentela collo Schah. Chiamato a rendere
conto del mal governo e della precipitata fuga, entrò carico di catene
in quella Teheran che nella sua fantasia orientale si era rappresentata
plaudente alle sue vittorie; e fu spogliato de’ suoi gradi e delle sue
immense ricchezze.

L’esito di questa disastrosa campagna fu doppiamente fatale, la Persia
non si potrà così presto rifare delle perdite subite, mentre dall’altro
canto l’ardire de’ Turcomanni crebbe a dismisura. Nella vicenda delle
rappresaglie qualche abbastanza severa lezione toccò anche a costoro,
e già ho accennato a quella sessantina di fucilati sulla piazza d’armi
di Teheran, ma questi esempi non produssero alcun salutare effetto,
od effetti contrarj. Bisogna aggiungere inoltre che fra i Turcomanni
ed i Persiani lo stato permanente di ostilità è invelenito dall’odio
religioso fra sunniti e sciiti.

Era intenzione di noi naturalisti di comprendere la gita al Demavend
nel nostro viaggio di ritorno in Europa, ed allora, poichè già eravamo
sul cammino, fare un’escursione nel Mazanderan, e raggiungere il
battello a vapore russo ad Astrabad; ma coloro ai quali communicammo
questo progetto, e specialmente i nostri compatrioti residenti in
Teheran, ce ne disuasero affatto, in vista delle continue scorrerie de’
Turcomanni nella parte Orientale di quella provincia, e del pericolo
che vi corrono particolarmente gli Europei, dopo che l’esempio del sig.
de Bloqueville ne aveva tanto rialzato il valore sul mercato.

Adunque, siccome ho detto già altrove, profittammo del lasso
presumibile di tempo, che ancora ci separava dalla udienza dello Schah,
per fare subito un’escursione al Demavend. Eravamo già nel ritorno
presso l’ultima tappa, quando ci venne incontro uno de’ nostri servi,
colla guida di un soldato, recante un biglietto del cav. Gianotti per
sollecitarci, coll’annuncio che la solenne cerimonia doveva compiersi
il giorno 18. Ci trovavamo già naturalmente in misura, epperò non
ebbimo che a proseguire del nostro passo. Giunti alla nostra residenza
di Tedgrisch, fummo dolorosamente sorpresi dal vederla convertita
in ospedale. Quattro de’ nostri compagni giacevano a letto colti da
febre intermittente, con predominante carattere gastrico. Fu quello
il segnale che la stagione delle febri incominciava, e che si doveva
pagar il tributo all’inesorabile clima. Volendo pur cercare un fomite
di miasma in quell’aridissima regione, non poteva rinvenirsi altrove
che nel rigagnolo scorrente presso il muro della nostra residenza. Un
canaletto derivatone dall’alto per l’irrigazione de’ campi metteva di
quando in quando il rigagnolo all’asciutto, ed allora ne’ bacinetti,
fra le balze del suo letto sassoso, rimaneva stagnante l’aqua, d’onde
esalavasi fortemente il tanto caratteristico odor di palude. Dovrei
insistere sulla realtà di questa causa febrifera pel fatto che la febre
onde quasi tutti, a diversi intervalli, fummo colti, scemò quando fu
ridata l’aqua al rigagnolo, e si riaccese quando ne fu tolta di nuovo.

Frattanto, nella tema che non giungessimo in tempo, il comm. Cerruti
aveva ottenuto di far differire di due giorni la nostra udienza dallo
Schah. Il matino del 20 agosto gran tramestio nelle nostre celle, onde
esser tutti pronti in abito di gala per l’ora convenuta. Anche gli
appena convalescenti fecero forza a loro stessi: rimase condannato
al letto il solo atletico, e tanto caro a noi tutti marchese di S.
Germano, pel quale incominciava allora una lunga iliade di febri
persiane, non vinte che assai tardi nel clima benefico della sua
patria. Ci occorreva un dragomanno di rango, e mancandone la nostra
ambasciata, convenne accettarne uno della legazione di Francia. Il
dragomanno titolare di questa legazione vivendo ritirato, come ho detto
altrove, in aperta scissura col conte Gobineau, questi offerse il suo
cancelliere sig. Querry, che fu bene accetto al nostro ministro. È
a sapersi che nelle solenni udienze dello Schah, ed anche in quelle
del Sultano a Costantinopoli, l’etichetta richiede assolutamente che
la communicazione fra il sovrano e l’ambasciatore straniero si faccia
col mezzo di un interprete, anche quando i due personaggi principali
potrebbero intendersi direttamente.

Una ventina di cavalli delle scuderie dello Schah piuttosto
modestamente bardati, uno stuolo numeroso di _ferrasch_ e di soldati,
erano già raccolti all’ingresso della nostra abitazione. Alle 10
ore montammo in sella, e la lunga processione, preceduta da un forte
picchetto di guardie, sfilò al non lontano castello di Niaveran, ove lo
Schah stava aspettandoci. Ma ora è bene farci un’idea dell’altezza del
personaggio al quale andavamo a far riverenza.

Se il decantarsi grande vuol dire esserlo, non v’è certamente grande
nazione al mondo quanto la Persia, non v’è tanto sublime regnante che
sia all’altezza di colui che siede sul trono di Dario e di Ciro. Schah
significa re, ma propriamente il sovrano della Persia ha il titolo di
_Schahynschah_, ossia Re dei Re, parola che il linguaggio araldico
d’Europa non ha saputo tradurre altrimenti che _imperatore_. È però
sottinteso che in questo titolo si abbiano a mentalmente compendiare
tutti gli altri, che nel discorso non si potrebbero recitar di fila
senza perder il flato. L’elenco di questi titoli non corrisponde, come
pe’ sovrani europei, ai vari dominj che riuniti hanno costituito il
reame o l’impero, ma è una litania magniloquente di appellativi di
grandezza, in stile orientale. Eccola, quale Chardin si è preso il
gusto di trascriverla:

«_Il più alto dei viventi — Surgente della maestà — Surgente della
grandezza, della potenza, e della gloria. — Capo dei grandi re, il cui
trono è la staffa del cielo. — Agente del cielo nel mondo — Centro
del mondo — Oggetto de’ voti di tutti i mortali. — Dispensatore dei
buoni e grandi nomi. — Signore delle sorti. — Capo della più sublime
setta dell’universo. — Sedente sul trono imperiale del primo essere
temporale. — Il più grande, il più luminoso. — Principe de’ fedeli.
— Nato e uscito dal trono che è l’unico trono della terra. — Re del
primo ordine. — Monarca de’ sultani e de’ comandanti dell’universo. —
Ombra di Dio massimo sparsa sulla faccia delle cose sensibili. — Primo
nobile e della più antica nobiltà. — Re, figlio di re, discendente dai
più nobili re. — Sovrano, figlio di sovrano, discendente dai più nobili
sovrani. — Imperatore di tutti i tempi e di tutti gli esseri corporali.
— Signore delle rivoluzioni e del mondo. — Padre delle vittorie. —
Principe della potenza sovrana. — Dispensatore delle corone e de’
troni._»

Nas’r-ed-din, attuale Schah di Persia, appartiene alla stirpe
turcomanna de’ Kagiari, originaria di Astrabad, la quale, nelle guerre
civili che desolarono la Persia, nella seconda metà del secolo scorso,
erasi già fatta indipendente, e regnante sul Mazanderan, quando nel
1793 Aga Mohamed Khan, l’eunuco, giunse ad impadronirsi del trono di
Persia. Nas’r-ed-din, quarto Schah di questa dinastia, successe a suo
padre Mohamed nel 1848 nella giovanissima età di dieciotto anni. È
uomo di bella corporatura, di aspetto intelligente e piacevole, con
due grandi baffi neri e due grandi sopraciglia, che gli artisti suoi
sudditi dipingono con tale esagerazione da spiccar soli nell’ovale
del viso. La caccia forma la prediletta sua occupazione, ed in questo
esercizio spiega tutto il fasto e la potenza d’un sovrano d’Oriente.
Lo seguono dignitari di corte, l’archiatro Tholozan, e milliaja di
ferrasch e di soldati, quelli per ammirare la sua veramente grande
destrezza, questi per stendersi in catena e muovergli incontro la
grossa selvaggina, della quale soltanto l’imperiale Nembrod si diletta.
Relativamente all’ampiezza ed alle tradizioni del potere degli Schah
Nas’r-ed-din è di animo buono e mite, inclinato alla giustizia,
favorevole agli Europei. Assai culto egli stesso nella sua nazionale
letteratura, apprezza per istinto la scienza straniera che gli si
manifesta per immediate utili applicazioni, e vorrebbe trapiantarne i
germi nel suo impero: infine è per la Persia un principe civilizzatore.

Attorno alla villa imperiale di Niaveran stava accalcata, al nostro
arrivo, una folla immensa di curiosi, contenuta da due battaglioni
scelti, bene armati di fucili moderni, in assetto di parata, che
in doppia fila al nostro passaggio ci fecero gli onori militari con
precisione europea. Scesi di cavallo, ci accolse dapprima una gran
tenda, ove i ministri dello Schah ed altri personaggi, fra i quali
l’immancabile Iahja Khan, compierono il prologo della cerimonia con
inchini, saluti, felicitazioni, colle libazioni consuete di thè e di
_scherbeth_, e la consueta circolazione de’ kalian. De’ Persiani i
soli militari portavano un uniforme semieuropeo: le altre dignità,
non avendone alcuno, vestivano la lunga tunica in tessuto ricamato a
fiorami. Tutti sfoggiavano al petto la stella dell’ordine del leone
e del sole: il ministro degli affari esteri inoltre portava pendente
al collo da un nastro cilestro il distintivo supremo del ritratto
dello Schah contornato di brillanti; ed impugnava, come emblema del
suo rango, un bastone con gran pomo tempestato di preziosi giojelli.
Entrammo poscia tutti nel cortile del castello, ove ci salutò il rullo
de’ tamburi, ed il presentar delle armi di altri soldati disposti
in quadrato. Lì il mastro della cerimonia, nel mezzo della corte,
rivolgendosi all’unica sala superiore o talar, quella precisamente
ove stava attendendoci lo Schah, pronunciò ad alta voce non so quali
parole; poi salimmo noi stessi, per un’angusta ed erta scaletta, alla
sala d’udienza. Bisogna che io ricordi qui che i Persiani stanno in
casa co’ piedi scalzi ed il capo coperto, e che questa tenuta è di
assoluto rigore alla corte. Non permettendoci il nostro costume di
cavar gli stivali, lasciammo invece a piè del talar le soprascarpe
delle quali ci eravamo appositamente calzati; e tenemmo noi pure, ben
s’intende, il nostro cappello in testa. Il Re de’ Re stava in piedi,
quasi nel mezzo della sala: a’ suoi lati, ed a certa distanza da lui,
stavano parimenti in piedi i ministri e le altre dignità persiane:
noi ci schierammo lungo il lato della porta d’ingresso. Un magnifico
tappeto, un gran cuscino ricamato, alcune sedie a bracciuoli in legno
dorato, formavano tutto il mobiliare della sala.

Prima nostra impressione fu lo stupore per l’abbagliante ricchezza
del vestito dello Schah. Indossava egli una tunica di velluto
azzurro ricamata a grandi rabeschi di brillanti: sul berettone o kolà
scintillava una gran rosa di magnifici brillanti: tutta l’impugnatura e
tutto un lato del fodero della sciabola erano d’oro coperto d’un fitto
mosaico ancora di grossi brillanti: alla sua cintura luccicava uno dei
più grossi diamanti conosciuti al mondo, il famoso _deria-i-nur_ (mare
di luce).

Il nostro ministro cominciò un discorso che il sig. Querry andava
traducendo periodo per periodo. Parlò delle antiche relazioni
dell’Italia colla Persia[42], e del bene di riannodarle, ora che
l’Italia era risurta tutta unita a nuova potenza; parlò dell’alta
stima del re Vittorio Emanuele per sua maestà imperiale, e della prova
solenne che gliene dava coll’inviargli il gran collare del suo ordine
supremo dell’Annunciata. A questo punto il cav. Gianotti s’avanzò colle
insegne dell’ordine che lo Schah si pose ad osservare con visibile
compiacenza, consegnandole poscia al suo ministro degli affari esteri.
Rispose lo Schah rallegrandosi delle nuove condizioni d’Italia, e
mandando felicitazioni al suo re.

Il commendatore Cerruti fece in seguito la presentazione dei componenti
l’ambasciata, declinando di ognuno i titoli e gli offici, sui quali lo
Schah domandava di mano in mano nuovi schiarimenti. Quando si venne
al prof. Lignana, qualificato come professore di lingue orientali
(la parola filologia comparata sarebbe stata incompresa): «Di lingua
araba» soggiunse lo Schah. «Non di questa sola, rispose il ministro, ma
anche di persiano.» All’udir questo, lo Schah rivolse direttamente la
parola al nostro collega, il quale rispose con franchezza ed in buona
lingua persiana, riportando dall’augusto esaminatore un sorriso di
approvazione. Venne poi il turno del sig. Montabone. Lo Schah, sentendo
come fosse distinto fotografo, espresse il desiderio di vedere i suoi
lavori e di farsi egli medesimo ritrarre. Infine chiuse l’udienza lo
Schah stesso, esprimendo il suo interessamento per la nostra salute,
dicendo che non ci aveva ricevuti subito al nostro arrivo per lasciarci
ben riposare, che però ogni giorno aveva voluto avere nostre notizie.
Di questa accoglienza, e sovratutto dell’esteriore persona dello Schah
Nas’r-ed-din, ci è rimasta assai gradevole impressione.

Passati poscia nuovamente sotto la tenda a ricevere i complimenti per
l’alto favore di sua maestà imperiale disceso sovra di noi, il ministro
degli affari esteri chiese alla sua volta una particolar contezza dei
membri dell’ambasciata. Egli aveva un qualche sentore degli avvenimenti
pe’ quali s’era fatto il regno d’Italia, ma li interpretava alla
persiana; sapeva cioè che uno Stato piccolo ma forte, col quale la
Persia era già stretta in patto d’amicizia, s’aveva un dopo l’altro
uniti altri Stati, e volle sapere anche quali di noi appartenevano
allo Stato forte primitivo, quali invece ai paesi che egli pensava
conquistati.

Il commendatore Cerruti sodisfece immediatamente l’onesta curiosità
indicandoci uno per uno. Ma qui bisognava vedere il diverso contegno
del ministro persiano, secondo che il presentato era, come diciamo noi,
delle antiche provincie, oppure delle nuove: al primo rispondeva il
buon uomo con un inchino in aria compunta ed ossequiosa, al secondo con
ridere sgangherato ed un dar colla mano tagli obliqui al vento, come,
sarebbe a dire: «Ah! te l’hanno fatta! ti sei lasciato prendere!» Le
idee di una volontà nazionale, di una forza conquistatrice diversa da
quella del cannone, della sciabola e della corda, non entreranno mai in
un cervello persiano.

Ritornammo alla nostra abitazione discretamente stanchi, ma più e meno
contenti di questa fazione diplomatica: contentissimi poi coloro pei
quali era così raggiunta la fase culminante del viaggio.

La coda di questa cerimonia doveva essere una frotta di vampiri, ossia
dei più o meno titolati anche di seconda e terza sfera, del seguito
dello Schah, che piombarono a Tedgrisch, a ricevere dalle mani del
nostro ministro, sotto l’apparenza di regalo, la tassa convenuta
tradizionalmente in simili occasioni. Non mancò il buffone di corte,
non mancò neanche il boja, il quale almeno, in compenso di una bella
manciata di tomani, ci portò a regalare un sacchetto di nocciuole.

Noi eravamo stati, fin dal primo giorno del nostro arrivo, in contatto
giornaliero colle legazioni europee, ma in forma privata. Dopo
l’udienza imperiale le visite ripresero in forma solenne, le quali
però, in grazia dei nostri precedenti rapporti, e di quella cordialità
che lega subito europei di diverse nazioni in un paese come la Persia,
ha consistito semplicemente nel vestir l’abito di spada. E prima e
dopo l’udienza quasi ogni giorno alcuno di noi era convitato agli
accampamenti di Francia, d’Inghilterra o di Turchia, o addetti a queste
legazioni sedevano al nostro desco, a subire gli intingoli di _monsù_
Martin; ma poi venne anche il turno dei pranzi diplomatici. Infine
anche nelle steppe e sotto la tenda, od in capanne di fango, abbiamo
fatto un discreto sciupio di cravatte bianche e guanti gialli.

Più animato si fece anche il ricambio delle visite coi nostri
compatrioti; e fu come una festa di famiglia quel giorno in cui
sedettero essi alla nostra mensa colle loro gentili signore. Parlammo
della patria lontana, delle vicende che l’avean fatta risurgere, delle
lutte che l’avvenire le teneva ancora preparate. Ma se la nostra
presenza era per essi una consolazione, era pure un tormento, come
quella che faceva loro sentire più acuta la spina della nostalgia.
Del resto, ben retribuiti, tenuti in considerazione dalle autorità
persiane, la vita materiale trascorrerebbe loro abbastanza agiata. Alle
occupazioni, non punto gravose, del loro officio, altre aggiungono
per elezione. Il colonnello Pesce, abilissimo fotografo, ha radunato
un prezioso _album_ di vedute della Persia, molte delle quali
rappresentanti grandiosi monumenti dell’antica Persepoli. Il colonnello
Andreini si diletta di collezioni di oggetti naturali, ed il museo
di Torino deve alla sua liberalità un buon numero di belli esemplari.
Possano queste poche righe giungere loro come un saluto, ravvivar la
memoria dei pochi giorni passati insieme nelle oasi del Schemran, e la
speranza di rivederci presto sotto il cielo della commune patria.




XVI.

Partenza pel Demavend. — Ingresso nell’Elburz. — Hafdscheh. — Valle
del Lar. — Ask. — Grande formazione di travertino e di conglomerato
vulcanico. — Reinah. — Abigerm. — Stazione Thomson. — Roccie del
Demavend. — Salita al gran cono. — Ritorno alla stazione. — Precedenti
ascensioni e misure del Demavend. — Resto di attività di questo
vulcano. — Sua probabile epoca. — Leggenda del re Zuhaq. — Cenni
zoologici. — Città di Demavend. — Ritorno a Tedgrisch.


Grazie alle sollecite disposizioni del nostro ministro, ai consigli ed
alla cooperazione attiva de’ signori Fane e Watson, segretari della
legazione d’Inghilterra, in meno di due giorni tutto fu allestito
per la nostra escursione al Demavend. La brigata riescì composta di
me, Lessona, Orio, Ferrati, Clemencich, Doria, Centurioni, e del sig.
Champain, capitano del genio dell’armata delle Indie, gentile e colto
signore, ospite del signor Alison. Mirza Alì fu incaricato del doppio
uffizio di dragomanno e di _golam_.

Il 9 agosto sul meriggio, muoviamo pieni di lena dal nostro quartiere
generale di Tedgrisch, verso oriente, per viottoli e campi, lunghesso
le falde della grande parete del Schemran, fin dove questa si abbassa
per aprire un varco, deviando alquanto verso il nord, e spiccando un
contraforte verso mezzogiorno, che, decomposto in una zampa d’oca di
colline aridissime di tritume marnoso, va perdendosi nella steppa.
Passando a ridosso di questo contraforte raggiungiamo ben presto la
strada di Teheran, per la quale ci impegniamo nella salita della
montagna. Giunti sull’altura, ecco aprirsi al nostro sguardo una
valle profonda, ben cultivata, con alberi e villaggi, e per un pendìo
assai ripido vi scendiamo. La sponda opposta della valle è scoscesa, e
lambita da un fiumicello, e nell’ampio taglio che si presenta a noi di
prospetto vedesi in basso un’emersione porfidica; per tutto il resto
calcare marnoso, che a contatto del porfido diventa screziato. Più in
basso, seguendo alquanto il corso dell’aqua, la scarpa è tagliata in
un immenso deposito di tritume. Lì, passando il fiumicello su di un
ponte in muratura, dopo breve ascesa si giunge a Sinak, bel villaggio
fra campi e prati e filari di piante, oltrepassato il quale si passa
di nuovo su di un ponte, il ramo principale del Dschadscharud, limpido,
vivace, rumoreggiante fra grossi massi di puddinga. Tutt’attorno, come
in ampio anfiteatro circoscritto da pittoreschi scogli, i zampilli, i
rivoletti che si portano al fiume, animano la vegetazione. Eravamo in
questo punto entrati nell’Elburz, e da questo punto non si presentano
più al nostro sguardo che nude gigantesche rupi, e nelle valli freschi
verdeggianti pascoli.

Dopo una mezz’ora di cammino nella valle, riprendiamo la salita lungo
il ciglio di un profondo burrone nel cui fondo, rotto da cascatelle,
scorre un altro piccolo affluente del Dschadscharud. Qui si incontra
ancora puddinga alla base, e sovra di essa strati inclinati di marna
argillosa alternanti con altri di calcarea, i quali, più resistenti
alla corrosione, sporgono a guisa di muraglie. Probabilmente queste
roccie spettano alla formazione carbonifera. Eravamo saliti così ad
una nuova altura, ad un altro scalino dell’Elburz, e già annottava;
ma un bel chiarore di luna ci illumina la via e tutta la scena
dintorno. Passiamo presso il villaggio di Kubad sepolto fra grandi
alberi, in un profondo vallone sulla nostra sinistra, e giungiamo
infine alla stazione di Hafdscheh, ove prendiamo alloggio nel castello
del Sadrazam. La notte fresca, serena, chiara, ci lascia scorgere
distintamente il bel paese che si domina dal terrazzo, le case sul
pendìo del monte, e la popolazione che si è posta a dormire sui tetti.
Inanzi radunarci per la partenza, il mattino seguente, profittammo
fin della prima luce per spartirci in piccole scorrerie ne’ dintorni,
e deliziarci all’aspetto di una natura così differente dalla triste
monotonia delle steppe. Tutto il villaggio apparteneva all’infelice
Sadrazam, del quale mi è occorso far cenno nel capitolo precedente. Il
castello è principesco, solidamente costrutto di pietra da taglio e di
mattoni, in vari grandiosi corpi connessi fra loro per ampie gradinate
a terrazzi e giardini, sull’erto fianco del monte, d’onde lo sguardo
scende pei vari accidenti di una valle pittoresca. I pianerottoli, le
convalli, i burroni circostanti, sono rivestiti di bella vegetazione,
con folto cespugliame e grandi alberi in dense macchie od in filari
intersecanti campi cultivati e prati naturali.

Gli uccelli da me visti in questa breve escursione sono:

_Pica caudata, Pyrgita domestica, Euspiza melanocephala_ (giovani in
branchi numerosi), _Hirundo rustica, Chelidon urbica, Parus major;
Muscicapa grisola, Luscinia lusciola, Ruticilla phœnicura_, e, come
novità, un’altra specie non descritta per lo addietro, la quale per
vari caratteri, e specialmente per la livrea e pei costumi, deve formar
il tipo di un genere apposito nella famiglia delle _Saxicolinæ_. È la
mia _Irania Finoti_.

Da Hafdscheh, ripigliando la salita, la strada serpeggia per lungo
tratto sul culmine di un immenso dosso tutto costituito da tritumi
incoerenti e massi di varia mole frammisti senz’ordine, ricolmante una
profonda valle, e solcato a’ suoi lati dalle aque torrentizie. Più
oltre procedendo, qua e là ai lati del nostro cammino, si scorgono
altre convalli ingombre da formazioni di ugual natura. È un fatto
meritevole di particolare attenzione la grande potenza di questi
depositi di tritumi nell’Elburz, perchè nelle Alpi simili formazioni
di trasporto sono dovute in parte principale all’azione dei ghiacciaj,
mentre nell’Elburz si cercherebbero invano le traccie anche remote
di un periodo glaciale, come non riescì al sig. Abich il trovarne nel
Caucaso.

Dopo una breve discesa che ci conduce in un piano che sembra un letto
di torrente, pieghiamo sulla destra, ove il piano si allarga come ad
anfiteatro, e di là s’incomincia la salita di un monte calcareo, per
un sentiero angusto tortuoso ed erto, fra dirupi e burroni. La nostra
marcia è resa ancor più difficile dall’incontro di una carovana lunga e
spezzata di muli, carichi di carbone del Mazanderan. Varie interessanti
specie di uccelli mi si offrono in questo tratto di strada: di nuovo
l’_Irania Finoti_, una _Saxicola_ o meglio _Dromolæa_ di nuova specie,
nettamente caratterizzata (_Dr. chrysopygia_ De F.), la _Fringilla
nivalis_, il _Serinus pusillus_, frequente in numerosi branchi, e
nell’istesso modo frequente una _Otocoris_ che io ho chiamata _O.
larvata_, l’_Emberixa hortulana_, la _Cotyle rupestris_ e la commune
_Saxicola oenanthe_ in gran numero.

Valicata quest’altura scendiamo nella valle del Lar, nella quale
troviamo stabilita una famiglia di pastori nomadi. Le aque del fiume,
limpide come cristallo, si diramano in un ampio letto fra isolotti
e praticelli. La _Ferula_ del galbano, in piena fioritura, copre,
specialmente verso la sponda sinistra del fiume, lunghe liste di terra,
colle grandi foglie e gli steli oltre l’altezza d’un uomo. Oltrepassata
questa valle e tagliato un altro ramo del fiume, incassato in un
profondo solco, ridiscendiamo al Lar, il cui ampio letto è rivestito
di giunchi e pingui pascoli. Le bellezze di una natura alpestre e
selvaggia si spiegano sempre più col nostro avanzare. Ci si presenta
qui in tutta la sua mole l’eccelso cono del Demavend, ma non ancora
la roccia di questo gran focolaio vulcanico; i monti che rinchiudono
la valle sono sempre di calcarea grigia. Il sole indorava ancora le
alte cime circostanti, quando i nostri _ferrasch_ ci allestivano
le tende per la notte presso il casolare solitario di Hanlar-khan
unico per grande estensione in queste valli. Potei dunque profittare
dell’ultimo ritaglio del giorno per un’escursione attorno al nostro
campo. Il terreno è tutto bucherato da una piccola specie di _Arvicola_
ch’io ho chiamata _A. mystacinus_. Molte specie di uccelli hanno qui
il loro convegno estivo: _Serinus pusillus, Carpodacus erythrinus,
Saxicola oenanthe, Pratincola rubetra, P. rubicola, Phyllopneuste
trochilus, Anthus arboreus, A. aquaticus, Coturnix dactylisonams,
Aegialites minor, Totanus ochropus_. Seppi dagli abitanti del casolare
essere qui frequenti l’_Argali_, la _Capra ægagrus_, ed il _Tihu_
(_Ammoperdix griseogularis_). Tra i rettili devo indicare l’immancabile
_Stellio caucasicus_, ed una piccola lucerta, assai ovvia anche
a più elevato livello, e che, malgrado il ventre rosso di fuoco,
non si può distinguere dalla commune _Lacerta muralis_ d’Europa,
mancante al piano. Copiosa vi è pure la rana commune. Il Lar abonda
straordinariamente di trote, tanto che ne ebbimo ad esuberanza pel
nostro desinare. Il pieno disco della luna surse a vestire di nuovo
incanto questa scena maestosa. Conversando e passeggiando fino ad ora
assai tarda, malgrado le fatiche della giornata, passammo una notte
deliziosa. Il termometro segnava +11° C.

Il mattino seguente (11 agosto), per la sponda destra della valle,
ricca di profonde cristalline surgenti, seguiamo il corso del fiume,
quindi lo passiamo a guado, ove, dalla sinistra della valle, vi
affluisce un rivo di aqua lattiginosa, probabilmente per contenere
in sospensione del caolino. Di lì attraversiamo un ampio pascolo,
circondato da una gran curva del fiume, ed animato da numerosi armenti
e da tende della tribù nomade de’ Curdi Biati, che, guidata da Hanlar
khan, sorta di principe vassallo, lascia ogni anno in estate la
pestifera steppa paludosa di Veramin, per riparare alla fresca ubertosa
valle del Lar. Questi Iliati non sono rapaci come i Curdi del confine;
le loro donne tengono il viso scoperto, e mostrano i tratti d’un bel
tipo. Mentre le pecore e le capre pascolano sul pendio de’ vicini
monti, il piano verdeggiante è di preferenza riserbato ai cavalli. Il
nostro Mirza Alì, che avevamo perduto di vista, ci raggiunge guidando
un bellissimo puledro che egli dice aver acquistato al prezzo di 14
tomani, e che al prezzo medesimo cede o finge di cedere volontieri
al capitano Clemencich. Al ritorno, quando già eravamo ad una sola
marcia da Teheran, il puledro scompare, e Mirza Alì giura e bestemmia
che gli fu rubato, che non gli sarebbe possibile il ricuperarlo; ma
una comminatoria secca ed energica del nostro amico, una minaccia
pronunciata con tutto il tono di volerla mantenere, fanno sì che
l’innocente Mirza Alì ribatta la strada, e riprenda felicemente
il puledro ai ladri, ossia lo sleghi dal nascondiglio ove l’avea
trafugato.

Oltrepassato questo pascolo, ove il Lar si ripiega verso il Demavend,
rinchiuso in un profondo burrone, incontriamo per la prima volta la
roccia vulcanica. Essa forma una corona di monti depressi attorno
al gran cono, ed è tutta screpolata a grossi frantumi angolosi,
ingombranti anche i circostanti campi, onde è reso molto difficile il
nostro cammino. Da questo luogo si può rilevare come un lembo della
massa vulcanica si estenda oltre il fiume, in un avvallamento della
montagna calcarea: fatto importante che si collega ad altri osservati
nel seguito, e si riferisce ad una delle ultime grandi fasi di questo
centro vulcanico. Codesti monti sono parte di una immensa corona che
circonda il cono proprio del Demavend, come Somma circonda il Vesuvio.
Qua e là, per grandi breccie in questa corona, scappa fuori un enorme
ventaglio di tritumi vulcanici.

La linea che battiamo quasi sempre senza traccia alcuna di strada
o di sentiero, è un grande arco di cerchio alla base del Demavend.
Inanzi giungere ai monti che sovrastano ad Ask, il nostro progredire
è fatto straordinariamente difficile, per l’ingombro di enormi frane.
Quindi valichiamo un dosso di grossolano conglomerato vulcanico,
per scendere ancora nel solco del fiume, dalle cui pareti s’erge una
bella vegetazione che ci preannuncia un luogo popoloso. La discesa
è così difficile che alcuni di noi, ed io fra questi, reputiamo
prudente il farla a piedi; ma giunti in basso eccoci ad un ruscello
d’aqua fortemente ferruginosa, sì grosso che per guadarlo mi è forza
risalire a cavallo. Da questa parte lo stesso cemento della puddinga è
ferruginoso a notevole altezza sull’ima valle. I monti del lato opposto
del fiume sono pure di conglomerato vulcanico. Una grande scogliera di
basalto prismatico s’erge dirupata a dominare il sentiero che ci porta
ad Ask.

Ask è una piccola città, capo luogo del distretto del Laridjan,
rinomata in tutta la Persia per le sue aque minerali, salino-termali,
solforose, ferruginose, che in larghe vene, come produtti dell’azione
vulcanica, zampillano da molti punti nelle sue adiacenze, e nella città
stessa. Quantunque il paese abondi naturalmente dei migliori materiali
di costruzione, la città è quasi per intiero formata del solito
fango, qui non più di necessità, ma di inconcepibile elezione. Le sue
case, fra le quali ve n’ha di grandi e signorili, sono in modo assai
pittoresco accavallate sulla sponda sinistra che scende per erto pendio
al fiume, spumeggiante nel profondo, fra dirupi di travertino. Pel
declivio delle stradicciuole anguste, tortuose, quasi impraticabili,
che mettono all’unico ponte gettato ove il burrone del fiume è più
angusto e scosceso, andiamo a prendere quartiere al di là del ponte,
in un abituro isolato. La scelta di questo sito non poteva essere più
favorevole, e per godere dell’incantevole orrida bellezza della valle,
e per osservare i tagli naturali delle sponde, ne’ quali sta scritta la
storia delle ultime fasi di questa contrada vulcanica.

Il travertino, in istrati irregolari e grandi mammelloni occupa il
fondo della valle. È in massima parte compatto o leggermente cavernoso,
ma passa per gradi a’ due stati estremi di tufo e di alabastro, e
contien anche straterelli di gesso cristallino candidissimo. Esso è
stato sepolto da un immenso deposito di sabbia e ciottolame vulcanico,
che ha dovuto, un tempo, ostruire la valle. Seguendo per breve tratto
la corrente del fiume, ove questa forma un angolo, si vede la parete
sinistra della valle tagliata a picco, per un’altezza (misurata ad
occhio) dai 200 a 250 metri. Tutto questo taglio è nella puddinga
e nella ghiaja vulcanica, con disposizione in strati orizzontali.
Risalendo dal lato opposto ad un centinajo di passi dal ponte, si
arriva ad altro taglio elevato e scosceso nello stesso deposito di
sabbia e ghiaja vulcanica, ora incoerente ora cementata, e qui si può
vedere benissimo la transazione del travertino alla ghiaja, in modo che
gli strati superiori del travertino sono sabbiosi, gli strati inferiori
della sabbia sono più o meno solidificati da cemento calcareo. In
questi strati veggonsi eziandio copiosamente sparsi cristalli isolati
di gesso, a dimostrar sempre più il legame fra il travertino e il
deposito incoerente che lo ricuopre.

La roccia solida in posto, che costituisce i monti del lato destro
della valle, è una calcarea grigia, compatta. In faccia alla città,
oltre il ponte, ove una grande scogliera scoscesa forma un piccolo
seno, anche le frane della roccia calcarea sono state legate da cemento
di travertino. Più verso il nord, dicontro all’angolo del fiume, si
può vedere un piccolo promontorio della stessa roccia calcarea grigia
inviluppata da una gran crosta di travertino, che ha riempita anche una
fessura, a guisa di un piccolo filone.

Chiunque guardi la posizione di Ask, le nude e verticali pareti della
valle, il burrone sul quale è gettato il ponte, deve necessariamente
acquistar la convinzione che qui la massa del travertino, la cui
recente formazione non potrebbe mettersi in dubio, con tutto quanto
le sta sopra, è stata spaccata sotto un violento parossismo della
forza vulcanica, onde venne aperto un nuovo passaggio alle aque del
Lar. Questa spaccatura gira per grande tratto intorno alla base del
Demavend, e in generale segna il limite fra il circo proprio del
vulcano e quello più esterno delle montagne calcaree, però non senza
che lingue di roccie vulcaniche si sovrapongano alla calcarea alla
destra del fiume, e inversamente propagini de’ monti calcarei passino
alla sua sinistra.

Il giorno 12 lasciamo Ask di buon mattino, nell’intento di portarci a
pernottare al piede del cono proprio del Demavend. Fuori della città
si entra subito in una scura gola, aperta nel conglomerato vulcanico, e
nelle cui pareti gli abitanti hanno scavate molte grotte, alcune delle
quali sono chiuse da imposte. Poscia la via ripiega a destra sul monte,
erta e difficile, fra l’ingombro di massi enormi, che ci incutono serie
apprensioni sul passaggio de’ nostri muli col voluminoso carico delle
tende e delle provvigioni. Questo monte è dello stesso conglomerato,
con varia tenacità del cemento, onde lo sporgere orrendamente confuso
delle masse che hanno più resistito alle corrosioni delle aque
meteoriche. Vinta la salita si giunge ad un altopiano ben coltivato,
e quindi a Reinah[43], gruppo di case ombreggiate da grandi alberi.
Mirza Alì, tutto fiero di farci vedere un _echantillon_ di donne
persiane, ci mette in attenzione della decantata bellezza di queste che
avremmo incontrate nel villaggio. Accorsero infatti, allo scalpitar
della carovana le donne, che non avean pensato a coprirsi il viso;
ci guardarono il tempo necessario a soddisfar la loro e la nostra
più discreta curiosità, poi fuggirono a precipizio. Mirza Alì aveva
ragione.

Oltre Reinah il cammino, girando sempre attorno alla base del Demavend,
attraversa dossi arrotondati, propagini de’ monti marnosi-calcarei
separati dalla massa principale dalla grande spaccatura del Lar. La
roccia eruttata dal vulcano ha invase le depressioni fra questi dossi.
In più luoghi si vedono anche breccie e puddinge vulcaniche con cemento
ed incrostazioni di travertino.

Eran le 9 dello stesso mattino quando scendemmo di cavallo ad Abigerm.
Lì, in praticelli a’ piè dell’erto pendìo del monte, ombreggiati da
filari di salici, fumano le surgenti termali che danno il nome al
villaggio. Il getto principale si versa immediatamente in un bacino
cinto da un muricciuolo, d’onde l’aqua trascorre in rigagnoli ed
in vaschette a certe costruzioni che hanno più l’aspetto di tumuli
che di celle da bagni. Alcune donne nude stavano lavando pannilini,
ed al nostro approssimarsi si posero frettolosamente un cencio sul
capo, e fuggirono al villaggio. La temperatura dell’aqua, allo sbocco
della sorgente, era di +63,5° C. Dovemmo far sosta per l’asciolvere,
per aspettare i muli co’ carichi più pesanti, e sovratutto per fare
gli ultimi preparativi per la salita. Mirza Alì spedito al prossimo
villaggio in cerca di guide, di alcune delle quali, già sperimentate
nell’ascensione de’ Prussiani e degli Inglesi, avevamo il nome scritto,
ritornò con alcuni uomini di mala voglia, i quali, forse per caricare
la mercede da pattuirsi, esagerarono la difficoltà dell’impresa, la
lunghezza del cammino, ed insistevano onde si pernottasse in Abigerm.
Tenemmo consiglio, e riescì felicemente a trionfare la fermezza del
capitano Champain; onde si deliberò di partir subito, e passar la notte
nel circo interno del Demavend, a’ piedi del gran cono. Mentre noi
eravamo affaccendati a semplificar i bagagli, onde non portar lassù con
noi se non le provvigioni e gli equipaggi di prima necessità, le guide
persiane si raccolsero in numero di dieci, prepararono bastoni, e certe
scarpe di strana foggia, formate da pezzi di pelle di capra con trafori
nel lembo, pei quali si passa una correggia che stringe il piede come
in una borsa. Sottometto questo modello di scarpe all’approvazione de’
club alpini; dirò intanto che pochi di noi si decisero ad adottarlo.

Partimmo ad una mezz’ora dopo mezzo giorno. Passato il villaggio di
Abigerm la salita si fa subito molto erta, in un vallone le cui pareti
sono di strati fortemente inclinati e ripiegati di arenaria e di
marna alternanti (del terreno carbonifero?). La vegetazione arborea
s’arresta al villaggio; continua invece una svariata e rigogliosa
vegetazione erbacea. Incontriamo un’altra surgente ferruginosa, di
sapore sommamente piccante e stitico. La ripidezza della valle e
tutta la difficoltà del cammino crescono col mutar della roccia, col
passare ad un potente deposito di conglomerato vulcanico che sporge in
erte scogliere, ed ingombra il terreno di frane; quindi si incontra
la roccia vulcanica massiccia, tutta rotta in massi angolosi, sui
quali si perde ogni traccia di sentiero: è questa la roccia che forma
la corona basale del Demavend. Alle 5 scendiamo dall’orlo dirupato
di questa corona nell’immenso circo da me già paragonato a quello
del monte Somma, orribilmente ingombro di frantumi angolosi, eppure
non spoglio di verdura. Vi trovammo infatti una mandra di cavalli al
pascolo. Piegando sulla sinistra andammo a cercare un posto conveniente
per passarvi la notte, e dopo varie esplorazioni ci riescì trovare due
ajuole rettangolari, circoscritte da informi muricciuoli formati co’
massi tolti dall’interno: testimonianza sicura che già qui, prima di
noi, altri europei aveano fatta stazione. Qui dunque ci arrestammo.
D’ogni intorno gorgogliavano rivoletti e cascatelle, od allo scoperto
o ne’ profondi vani fra i massi petrosi. Il nostro cuoco si diede ad
ammannire un parco desinare, i nostri _ferrasch_ a preparar l’unica
tenda della quale potevamo disporre, essendo caduto e morto per via un
mulo che portava l’altra. Alcuni di noi, ed io precisamente fra questi,
dovettero rassegnarsi a passar la notte, come dicono i Francesi, alla
_belle étoile_. Pieni di lena passammo una lietissima sera, e non ci
coricammo prima di aver ad una voce battezzato questo sito col nome di
stazione _Thomson_. Preghiamo i viaggiatori futuri, e sovratutto chi
farà la carta del Demavend, a conservarlo, in memoria del primo europeo
che toccò la sommità di quell’eccelso cono.

Qualche _touriste_ ha cercato lasciare più stabile memoria di sè.
Sulla parete verticale di un masso prossimo all’accampamento io
trovai scolpite queste lettere A B P, come principio di una iscrizione
incompiuta. Non mi riesce interpretare questo enigma con alcuno de’
nomi a me noti de’ visitatori del Demavend. Quel masso intanto starà
come un segnale della stazione Thomson.

   [Illustrazione: Fig. 7. — Veduta del Demavend e del nostro
   accampamento alla stazione Thomson. Da un disegno del capitano
   Champain.]

La notte fu molto fredda: al mattino il termometro segnava ancora -3°
C, e d’ogni intorno brillavano croste e stallattiti di ghiaccio. Per
buona sorte eravamo bene proveduti di mantelli e di coperte. Più che il
freddo riescì molesta a me la rarefazione dell’aria, a quell’altezza di
3,600^m; ond’ebbi a provare un grave insulto di asma notturno.

Io ho sempre parlato fin qui di roccie vulcaniche in genere, senza mai
pronunciare alcun nome particolare, evitando perfino di servirmi della
parola spicciativa _lava_ che adoperano i viaggiatori quando parlano
del Demavend. Egli è che in fatti sulla strada da noi percorsa, non si
incontra in alcun luogo una vera lava, come quella, per esempio, che
io ho trovata presso Hissar, o come quella eruttata da vulcani attivi
d’Europa. La sola distinzione netta e precisa che si possa fare delle
roccie onde è costituita la gran massa del Demavend, è quella delle
due categorie che hanno per tipi rispettivi il basalto e la trachite,
presentanti ciascuna varietà secondarie di struttura, di colore, di
diverse proporzioni de’ minerali elementari. Le roccie basaltiche,
ben caratterizzate anche dalla presenza dell’olivina, hanno la pasta
ora compatta ora cristallina, e contengono in varie proporzioni
cristallini feldspatici, fino ad assumere la vera struttura porfidoide,
come, per esempio, accade del basalto prismatico di Ask. Le roccie
trachitiche presentano due estreme varietà ben distinte di colore,
l’una bianca, con struttura più cristallina, e mica nera, l’altra
rossa, con struttura più compatta, e mica color tombacco: l’una varietà
si fonde nell’altra per tutti i possibili passaggi. Il nome di lava
si potrebbe tutt’al più adoperare per indicare la crosta di trachite
rifusa, leggermente scoriacea e bollosa, sulla quale si cammina per
lungo tratto in salire alla sommità del cono. Nella collezione di
saggi di roccie fatta in Persia dall’insigne botanico russo Buhse,
e scientificamente descritta da Grewingk[44], si parla di pomici, di
lave, di pietra picea, che possono tutt’al più riferirsi a qualche rara
ed affatto isolata varietà di roccie delle suaccennate due categorie.

Altri autori parlano di pomici del Demavend, Kotschy specialmente, il
quale per di più segna nella sua carta, al lato nord-ovest intorno
al cratere, grandi monticoli e scarpe di lapilli e frantumi di
questa sostanza. I saggi di Buhse sono stati raccolti sulla strada
medesima da noi percorsa, e fino alla base del monte presso Abigerm.
Per quanto io facessi particolare attenzione alle roccie sul nostro
cammino, non mi venne mai dato di trovare alcun frammento paragonabile
veramente, e pei caratteri e pel modo di formazione, alle vere pomici
dei vulcani d’Italia. Gli stessi saggi di Buhse che io ho visti nel
Museo mineralogico dell’Academia delle scienze di Pietroburgo, non
mi sembrano esattamente determinati come pomici. Alcuni pezzi di
assai apparente aspetto pumiceo raccolti dal prof. Lessona intorno al
cratere, uno fra gli altri coperto da bellissimi cristallini di ferro
oligisto, sono frantumi di trachite profondamente alterata da soffioni
solforosi: vi si possono infatti distinguere colla lente minuti
cristallini, anche della caratteristica mica, sfuggiti all’azione di
vapori alteranti. Io credo perciò che, fino a nuova più sicura prova
del contrario, si possa mettere in dubio l’esistenza di vere pomici al
Demavend, per quanto la produzione di questa sostanza sia ne’ vulcani
legata coll’esistenza delle roccie trachitiche.

È impossibile determinare in una semplice escursione, e per un solo
lato del Demavend, l’ordine di successione delle emersioni trachitiche
e basaltiche. Il solo fatto che mi sia risultato ben chiaro è questo:
che le prime sono prevalenti nel cono centrale, le seconde nella corona
basale del vulcano. È pure da notarsi, come assai importante che, nel
perimetro di questa corona, le roccie eruttive riposano generalmente
sovra conglomerati, i cui frammenti sono ancora delle stesse roccie
basaltiche e trachitiche. In alcuni luoghi, come per esempio presso
Ask, il basalto è compreso fra due depositi di conglomerati. Questo
prova che l’aqua ha avuto una parte molto importante nelle dejezioni
del Demavend, come in generale di tutti i vulcani.

All’alba del 13 agosto incominciò la salita vera del cono. Avevamo
avuta la previdenza di far tener pronti alla stazione Thomson i nostri
muli, i quali ci giovarono per circa un’ora di cammino, frammezzo
alle frane, infinchè l’erta cessò dall’esser praticabile anche da muli
persiani. La superficie del cono è assai ineguale, ma i rilievi e gli
avvallamenti hanno una visibile disposizione come di raggi che partono
dalla sommità, e si allargano verso la base. Gli avvallamenti, non
occorre il dirlo, sono letti di neve. In qualche sinuosità più riparata
ne avevamo già viste alla base alcune pezze isolate; queste crescono
naturalmente di numero e di estensione coll’altezza, così che, verso la
sommità, imponenti distese di nevi perpetue occupano tutto lo spazio
tra le coste del monte. Seguimmo da principio per lungo tratto una
cresta, poi scendemmo in un gran letto di lapillo trachitico, onde il
procedere era fatto ancora più faticoso. Da questo passammo su di una
crosta scoriacea di trachite rossastra che si continua fin presso la
sommità del monte, come una gran colata fluita dal cratere.

L’effetto della rarefazione dell’aria non tardò molto a farsi sentire
in alcuni di noi. Da prima si arrestò una delle nostre guide di Abigerm
presa da vomito, poi Doria; ed infine, a quattro quinti della salita,
dovetti io pure rinunciare con profonda invidia a dividere co’ miei
compagni la gloria di toccare la cima del grande vulcano. I sintomi
che ebbi a provare furono nausea, vertigini, affanno di respiro, ed un
sonno invincibile non appena m’arrestassi a prendere alquanto riposo.
Dovetti quindi cedere e ridiscendere alla stazione, accompagnato da una
delle guide.

Prendo dalle relazioni verbali avute sul luogo il giorno istesso, e
specialmente dal giornale del mio amico Lessona il racconto del resto
della salita. Piegando alquanto verso oriente si lascia la roccia
solida per passar ancora sul lapillo, da cui escono qua e là punte e
scogli di trachite; quindi si arriva al passo più pericoloso, al così
detto _Bamsi bend_ (passo del gatto), che è uno stretto sentiero da
indovinarsi attraverso un immenso ripidissimo letto di neve entro un
avvallamento della montagna. All’opposto lato la difficoltà cresce
ancora per lo sporgere della roccia, sotto la quale conviene curvarsi
per passare, dividendo l’attenzione fra la testa ed i piedi; e se un
piede manca, si è irreparabilmente perduti, scivolando nell’abisso. Il
prof. Lessona ed il capitano Champain furono i soli che, governando
prudentemente il bastone, escirono da questo passo senza ajuto delle
guide, mentre altri due non furono salvi che per la prontezza onde
furono soccorsi. Al di là di questo passo l’erta riprende faticosissima
su di una cresta rocciosa, poi di nuovo su di un’erta di lapilli più
ripida delle precedenti. Da questo punto si vede già l’orlo del cratere
tutto giallo di solfo. Succede un nuovo avvallamento occupato da una
gran massa di neve meno erta della precedente, ma non meno pericolosa
in altra ora od in altra stagione, quando, solidificata dal freddo,
non ceda sotto il passo. Qui il prof. Lessona ed il capitano Champain
sentirono contemporaneamente uno scoppio dalla cima del monte, e
videro sollevarsi un denso getto di vapore: l’aria d’ogni intorno era
piena di esalazioni solfuree. — Si compie l’ultimo tratto della salita
nella neve cosparsa di polvere di solfo, o nella roccia incrostata di
solfo. Primo a toccar la sommità (eran le 2 pomeridiane) fu Orio, che
fece sventolar il fazzoletto sulla punta del bastone, gridando _viva
Italia_. Fu immediatamente raggiunto dal capitano inglese, poi dagli
altri. Mirza Alì, ed alcune guide che soffrivano della rarefazione
dell’aria, s’arrestarono più in basso, in una caverna scavata nello
solfo.

Il cercine del cratere ha la figura di un’elisse, il cui maggior
diametro, dall’ovest all’est, misurerebbe, all’occhio del prof.
Lessona, trecento metri, l’altro ad esso perpendicolare, forse cento.
All’est ed all’ovest vi sono due depressioni, al nord e al sud due
rialzi. Tutto il cercine era coperto di neve, meno che dalla parte tra
l’est ed il sud, ove tutta la apparente sua massa era purissimo solfo.
L’interno era un piano di neve e di ghiaccio sul quale nessuno osò
avventurarsi. Quando i miei compagni vi arrivarono vi si vedeva ancora
dalla parte verso l’est un vano circolare che in breve si chiuse: era
forse di là partito il getto di vapore osservato poco prima.

Il barometro del capitano Champain si era guasto per via: quello del
prof. Ferrati invece, perfettamente conservato, giunse felicemente
alla cima. I miei amici vi si promettevano la vista delle selve
del Mazanderau e, più lungi, del Caspio: non videro invece, verso
il nord, che uno sterminato mare di nebbia, al sud-ovest l’immensa
distesa dell’altopiano iranico, dalle altre parti nubi e vertici di
montagne, che dal basso sembravano giganti e di lassù pigmee. Rimasero
sull’orlo del cratere un’ora, spesa anche in parte nelle osservazioni
barometriche; scrissero i loro nomi su di un foglietto che fu riposto
in una bottiglia, e questa, ermeticamente chiusa, abbandonata colà,
come documento ai futuri _touristes_.

Alle 3-1/2 le guide instavano onde si discendesse precipitosamente.
Una nuvoletta avea ravvolta per un istante tutta la brigata, altre
maggiori accennavano di seguirla ingrossando, ed il pericolo era
imminente di non poter discernere più, nel fitto della nebbia, il
buon cammino. La discesa fu senza inconvenienti. Alcuna delle nostre
guide, sui piani inclinati di neve, si lasciava scivolare in basso.
Mirza Alì per discendere in questo modo, s’accoppiò stranamente con un
altro persiano, ma presto rotolarono entrambi, e furono ben fortunati
di poter riprendere il cammino più lento ma più sicuro della roccia.
Io medesimo, avendo incautamente ceduto alla seduzione di questo mezzo
accelerato, corsi pericolo estremo di vita.

Alle ore sei eravamo tutti radunati alla stazione Thomson, lieti
del successo, ed il nostro amico prof. Ferrati lietissimo di poter
intervenire autorevolmente nella discordia delle cifre dell’altezza del
Demavend. Al desinare, mancandoci il vino che avevamo espressamente
lasciato ad Abigerm, un po’ d’aqua tinta di rhum ne tenne le veci al
_toast_. Lì pernottammo di nuovo, e il dì seguente fummo di ritorno ad
Ask così per tempo da passare in quell’interessante località tutta la
giornata.

L’unica via per la quale si possa ascendere il Demavend è quella che
abbiamo seguita; per tutto il resto del perimetro del gran cono l’erta
è impraticabile, od almeno non fu ancora tentata. Ho già detto come
il Demavend, visto dai contorni di Teheran, si presenti col suo asse
sensibilmente inclinato verso ovest, come se la sua base fosse stata
sollevata verso oriente. La posizione di Ask corisponde appunto alla
elevazione del piano di questa base, onde viene che da qui la retta
applicata sul pendio, in un piano verticale all’orizonte, formi con
questo un angolo più acuto che non altrove. È importante l’osservare
subito che a questa parte del monte corrisponde pure la grande
spaccatura che aprì il corso alle aque del Lar: sulla quale circostanza
dovrò tornar fra poco.

Quasi ogni anno i montanari di Reinah e di Abigerm salgono alla cima
del Demavend per raccogliervi solfo, e si racconta che non rari siano
i casi di pagare colla vita l’avidità del guadagno: ma per lungo
lasso di secoli nessun viaggiatore europeo aveva ardito affrontar una
simile impresa. Doveva naturalmente toccare ad un figlio della bionda
Albione il dare il buon esempio, e ad altri poi seguirlo. Il paese che
sotto varj aspetti è ancora una terra incognita, le difficoltà d’ogni
genere che vi si incontrano, il rango di quella montagna fra le più
elevate del globo, la sua stessa natura, le misure discordi ottenute
in varie riprese della sua altezza, fanno sì che, negli annali de’
viaggi, la salita del Demavend sia ancora adesso un fatto meritevole di
registrazione. Ecco in breve, ed in ordine cronologico, le notizie che
ho potuto raccogliere sulle ascensioni e sulle misure ipsometriche di
questo grande vulcano.

1837. Nel settembre. Taylor Thomson è il primo europeo che si cimenti
alla salita del Demavend, portando seco un barometro, ma essendo la
sommità del monte ravvolta tra le nebbie s’arresta ad una caverna
alcune centinaja di metri più in basso, e quivi prende le sue misure
termometriche e barometriche. Ainsworth su queste misure calcolò
approssimativamente l’altezza del Demavend in 13,793 piedi parigini.
Humboldt invece, sui dati medesimi, arriva ad una cifra assai più
elevata: 18,400 p. p.

1838-39. Il capitano Lemm è spedito in Persia dal governo russo,
per accompagnare un invio di doni allo Schah ed al governatore del
Korassan, e coll’incarico di determinare l’esatta posizione geografica
de’ principali punti sulla sua strada. Dalla sua tabella estraggo
queste altezze, misurate trigonometricamente da Teheran.

Teheran: casa della legazione russa 3,579. p. p. sul livello del mare.

  Cima del Schemran   12,247. —
  Cima del Demavend   18,846. —

1843. Kotschy, dalla metà di giugno ai primi di agosto, percorre in
varie direzioni la base ed i contorni del Demavend, specialmente per
ricerche botaniche. Agli ultimi di luglio intraprende la salita del
cono: ne dà una minuta ed esatta descrizione, ed assai belli disegni.
Percorre l’orlo del cratere in 378 passi. La sua relazione, stampata
molti anni più tardi (_Mittheilungen di Petermann_, 1859), è quanto di
meglio finora fu scritto sul Demavend.

Kotschy non prese misure ipsometriche. All’occasione della stampa della
sua relazione sentenziò esser molto esagerata la cifra dell’altezza del
Demavend data dagli Inglesi; giudicando ad occhio da esperto alpigiano,
com’egli stesso dice, e dalla natura della vegetazione, concede tutt’al
più un maximum di 15,000, p. p.

1852. Czarnotta, ufficiale montanistico austriaco al servizio del
governo persiano. La sua ascensione (in agosto) è qualche cosa di
romanzesco. Abbandonato dalle sue guide passa una notte solo, privo di
coperte e di provigioni, alla distanza di due ore dal cratere, sotto
una buffera di gelo che gli intirizzisce le membra, e fa discendere il
termometro a -17 R. (!!). Dopo stenti infiniti arriva alla sommità e
passa una seconda notte a poca distanza dal cratere. Incontra individui
estranei che sembrano attentare alla sua vita; le stesse sue guide che
più tardi lo raggiungono, dopo averlo derubato de’ suoi istrumenti
e delle sue pistole, non dimostrano più miti intenzioni. Tratta
per la sua salvezza, gettando a quella gente quanto danaro aveva.
Ritornato a Teheran poche settimane dopo muore di tifo. (Vedi ancora le
_Mittheilungen di Petermann_, 1859).

1854. Renold Thomson, fratello dell’altro citato più sopra, e lord
Kerr, salgono il Demavend, ma per mancanza di istrumenti nè fanno
osservazioni nè publicano relazione alcuna.

1858. Gli stessi, in compagnia del sig. di S. Quintin, addetto alla
legazione francese, e del sig. Castelli (di Tauris), ripetono la salita
con un eccellente ipsometro ad ebullizione di Casella. Questo sig.
Thomson è il medesimo che ebbimo la fortuna di conoscere personalmente
ne’ nostri frequenti convegni colla legazione inglese. Il suo rapporto,
publicato nel giornale della società geografica di Londra, è molto ben
redatto. Il risultato dell’osservazione fatta in questa circostanza
darebbe al Demavend un’altezza di 20,192. p. p.

1859. Il sig. Beguer, segretario della legazione russa, ed il sig.
Barthelemy francese, morto poco dopo a Teheran, ribattono il medesimo
cammino, e toccano la punta del Demavend, ma non fanno osservazioni.

1860. Il barone Minutoli, il sig. Grolman, il sig. Brugsch della
ambasciata prussiana, accompagnati dai signori Watson, Fane e Dolmage
della legazione inglese, intraprendono l’ascesa del Demavend verso la
fine di luglio, essi pure muniti di un ipsometro ad ebullizione, mentre
il sig. Nicolas, stando al piede del vulcano, alla stazione di Abigerm,
istituisce contemporaneamente osservazioni di confronto. I dati
ottenuti conducono ad attribuire al Demavend un’altezza di circa 20,000
p. p.

1861. La spedizione russa del Caspio, sotto la direzione del sig.
Iwastschinzow, determina l’altezza del Demavend mediante osservazioni
trigonometriche alle due stazioni dell’isola Aschuradah, nella baja
di Astrabad, e dello sbocco del fiume Tedjen presso Ferhabad. La media
ottenuta è di 17,326 p. p. al disopra del livello del mare generale.

1862. La sezione dell’ambasciata italiana. Le misure barometriche del
nostro collega com.^e Ferrati intervengono molto a proposito fra tanta
discordia di cifre. Sebbene per la natura stessa del metodo siano
da ritenersi come semplicemente approssimative, esse hanno su tutte
le altre precedentemente prese il grande vantaggio di esser state
confrontate con osservazioni barometriche e termometriche eseguite nel
giorno stesso ed alla stessa ora, alla stazione russa di Aschuradah,
sul Caspio, presso la base al nord del Demavend, con istrumenti
regolati, come quelli medesimi del Prof. Ferrati, all’osservatorio
meteorologico di Tiflis.

Ecco ora le cifre datemi dall’egregio collega, come esprimenti altezze
sul livello medio dell’oceano.

  Teheran                 1240  metri
  Ask, presso il ponte    1795    »
  Abigerm                 2275    »
  Cima del Demavend       5670    »

È un errore soventi ripetuto ne’ libri che il Demavend serva di faro
ai naviganti del Caspio. Non potrebbe essere tutt’al più che un faro
diurno ed a ciel sereno, poichè non getta mai fuoco, ed il languido
persistente suo lavoro vulcanico si manifesta ora soltanto con fenomeni
secondarj. Il suo cratere attuale è sproporzionatamente piccolo in
confronto della immensa mole del cono; e nessuna conosciuta memoria
storica accenna a masse fuse di là eruttate. Quella colata di trachite
scoriacea, di cui ho fatto cenno, è ben poca cosa al paragone della
massa compatta attraversata da potenti _dicche_ onde tutto il cono è
formato. La sommità del monte è una solfatara attiva. Lo solfo che
incessantemente vi si sublima, accompagnato da soffioni di vapori
aquei, è in fiori ed in minuti cristalli, inquinato da gesso. Vi si
trova anche, nella trachite alterata da questi soffioni, qualche
sublimazione di ferro oligisto. Alla stessa causa interna, onde è
alimentata la solfatara della sommità, si collegano le surgenti termali
e solforose della base.

L’attività vulcanica del Demavend è manifesta eziandio da terremoti.
Morier ha fatto una relazione di quelli del 1805, e del giugno del
1815; il quale ultimo, come risulta pure da un rapporto di Bell, ha
cagionato gravi sconvolgimenti. Alla base del monte verso occidente,
sulla strada da Amol a Teheran, tra Karu e Balkulum, Bell ha visto,
come effetti di questo terremoto, rovine di edifizj, ponti distrutti,
i cui pilastri non si corrispondevano più. Molti villaggi pure furono
sconquassati, e le strade fatte impraticabili per due anni dopo
l’avvenimento.

Abbiamo precedentemente veduto: 1º che la formazione di travertino
di Ask, e la ingente massa di tritume e conglomerato vulcanico che
vi sta sopra, si debbono considerare come di formazione recente; 2º
che il burrone del Lar, circuente per gran tratto, a sud-est, la base
del Demavend si è aperto nel travertino stesso. È molto probabile che
il medesimo terremoto, per forza del quale si è fatta questa grande
spaccatura, abbia sollevata da questa parte la base del vulcano, ed
inclinatone l’asse verso occidente. Aggiungerò pure come sia antica
tradizione, tuttora vigente in Teheran, che il Demavend abbia cambiato
di forma.

L’età moderna di questo vulcano si desume anche da altri dati. È
impossibile non vedere una continuità di processo tra la formazione del
travertino del burrone di Ask, e le aque solforose-termali che sgorgano
da questa parte in sì gran copia; fra il ruscello d’aqua ferruginosa
che si passa arrivando ad Ask da Teheran, ed il cemento ferruginoso
fino ad assai notevole altezza della puddinga vulcanica a’ piè della
quale scorre il ruscello stesso.

Devesi poi fare particolare attenzione a questo, che, per quanto
risulta dalle mie osservazioni, nè le tanto caratteristiche roccie
del Demavend, nè altre roccie vulcaniche in istretto senso, trovansi
rappresentate nel tritume generale degli altipiani della Persia
occidentale; per il che sarebbe da concludersi che le formazioni
vulcaniche dell’Elburz sono posteriori alla dispersione de’ tritumi
onde quegli altipiani furono costituiti. Abich ha osservato la stessa
cosa nel Caucaso e nell’Armenia. Certamente poi la ingente mole del
Demavend non è surta tutta in una sol volta, ma prima si formò la
corona basale, poscia il cono centrale. Nel tratto percorso della base
di questo monte, io ho quasi dapertutto osservato che le masse eruttive
delle roccie, e specialmente delle basaltiche, riposano sovra strati
più o meno potenti di conglomerato vulcanico.

Ho accennato più sopra alla mancanza di un attendibile documento
istorico di lave roventi eruttate anticamente dal Demavend. Un qualche
dato della antica maggiore attività del vulcano sembrami tuttavia
trasparire dal velame della leggenda mitologica del re Zohaq, ancora
oggi tanto popolare fra gli abitanti del nord della Persia, e così
poeticamente narrata dal loro immortale Firdusi. L’empio Zohaq, nato
ne’ deserti dell’Arabia, erasi legato in patto infernale con Arimane,
e coll’ajuto di questi aveva ucciso il proprio padre, per usurparne la
corona. Il genio del male che, sotto forma di un bel giovinetto, erasi
posto al suo servizio, e lo nutriva di sangue, gli chiese un giorno
di potere imprimer sulle di lui spalle un bacio, come segno e mercede
della sua fedeltà. Non appena le labbra infuocate di Arimane toccarono
le spalle del suo signore, spuntarono da queste due neri serpenti,
che nessun arte valse a distruggere, e che si dovettero satollare
di cervella umane. Zohaq, eletto poscia re dagli Irani, stendeva sul
paese da oltre un secolo il suo terribile scettro, ed ogni giorno gli
erano immolate due vittime umane; quando il fabro Kawe, al quale erano
stati presi sedici figliuoli per farne pasto ai serpenti, sul punto
di vedersene tolto ancora uno, chiamò gli Irani all’insurrezione. Un
giovine eroe, Feridun, nato nelle aspre gole del Demavend, intraprese
la lutta col potente Zohaq, e, fattolo prigioniero, lo rinchiuse
nell’immensa interna spelonca di quella montagna, ove carico di catene
_strepita_ e _mugge_ il vinto tiranno. Come segno che doveva annunciare
tutt’all’intorno la vittoria, Feridun accese, sulla sommità del
Demavend, _un fuoco di gioja_. Ogni anno, l’ultimo giorno di agosto,
nella città che trae il nome dal grande vulcano, la festa commemorativa
della caduta del re Zohaq è celebrata con grandi clamori, corse
tumultuanti di cavalli, e fuochi[45].

Ora se anche in questa, come in ogni altra leggenda tradizionale,
è lecito ricercare qualche fondamento di reale, due cose fermano
l’attenzione: la fiamma accesa da Feridun sulla cima del Demavend,
probabile indizio di materie ignee eruttate, o di vapori illuminati
dalle bragie del cratere ora da secoli estinto; e gli strepiti, i
muggiti dell’incatenato Zohaq, alludenti a rumori di vera attività
vulcanica, piuttosto che all’impeto de’ soffioni attuali. Non può a
meno anche di far impressione alla mente l’analogia fra la leggenda
persiana ed il mito greco di Encelado fulminato da Giove, e chiuso
nelle viscere dell’Etna.

Non lascerò Ask senza aggiungere qualche cenno sulla fauna di questa
parte culminante dell’Elburz. Due sole specie di rettili ho trovato
attorno alla corona del Demavend, la _Lacerta muralis_, varietà del
ventre rosso di fuoco, e lo _Stellio caucasicus_. Quest’ultima è
quella che si porta a maggior altezza, ma non fino a passare nel
circo attorno al cono centrale. Il carattere alpino della fauna
ornitologica già dianzi osservato, si fa sempre più evidente. La
_Sitta syriaca_ riempie la solitaria vallata di Ask delle sonore
sue note. La _Pyrgita domestica_ qui scompare, ed è sostituita dalla
_Pyrgita montana_ abbondantissima ne’ campi e negli orti attorno alla
città. Nel pianerottolo di Reinah trovai ancora la tortora commune
(_Turtur auritus_), e stormi di _Fregilus graculus_. Il _Serinus
pusillus_, l’_Otocoris larvata_, la _Petrocincla saxatilis_, salgono
fino all’orlo della corona del Demavend. Nel circo al di là di questa
corona si trovano: la _Ruticilla tithys_, l’_Accentor alpinus_, ed il
_Pyrrhocorax alpinus_; e fin qui sale del pari la pernice (_Caccabis
chucar_), il cui chiocciare ripercuotevasi al mattino per que’ dirupi.
Uno stormo di ventisette individui passò a tiro di fucile sulla nostra
stazione la mattina stessa dell’ascesa del cono. Una moltitudine di
avoltoi (_Vultus fulvus_) vedevasi costantemente roteare per l’aria al
disopra de’ pascoli.

Nella sua escursione al Demavend Kotschy racconta aver visto un branco
di venti capre selvatiche, o, come egli dice, stambecchi, scendere
dalla sommità del monte, e mettersi a pascolare tranquillamente fra i
muli della sua piccola caravana. — La gente del seguito avea già data
mano al fucile, ma ne fu trattenuta da Kotschy stesso, che voleva da
una parte evitare il pericolo di ferire invece d’una capra uno de’
muli, dall’altra era curioso di studiare da vicino il contegno di
quelle così circospette bestie. Ad un tratto le capre presero a fuggir
precipitosamente sui greppi inaccessibili a piede umano. Causa di
questo improvviso spavento fu una grossa tigre che Kotschy ebbe agio
di osservare a circa 500 passi di distanza. La fiera che al dir di una
guida era salita dalla parte di Ask, rimase accosciata alcuni minuti,
poi, all’aspetto del fumo dell’accampamento e della gente, si allontanò
di nuovo.

La mattina del 15 agosto, tenuto consiglio per la scelta del cammino
di ritorno, prevalse la proposta di non ribattere quello stesso che
avevamo fatto in venendo, ma di passare per la città di Demavend. Dal
punto di vista delle collezioni zoologiche questa scelta fu infelice.
Io calcolava su di abondante caccia delle specie osservate ne’ giorni
precedenti, e il calcolo, col mutar delle condizioni del paese, andò
fallito.

Lasciata adunque Ask, ribattuta per un certo tratto la strada medesima
per la quale eravamo venuti, giunti al bivio, lasciammo la via di
ponente, scendendo ancora le pittoresche balze fra grandi frane e
pianerottoli erbosi del sistema del Demavend, finchè si giunse al Lar,
ad un ponte in muratura; reso da due anni impraticabile per guasti
che, secondo il costume persiano, lungi dal riparare prontamente si
lasciarono progredire. La rapida corrente si passa su di un ponte
posticcio. Al di là del fiume, prima di impegnarci in una gola fra
roccie calcaree, si incontra, sulla destra del cammino, l’ultima
propagine del Demavend: una lingua di roccia basaltica, separata dalla
sottoposta calcarea, dal solito conglomerato vulcanico, e che cessa
bruscamente. La località è interessante perchè anche qui si può vedere
chiaramente come i frantumi delle roccie caratteristiche del Demavend,
non si estendano oltre le frane della base propria del vulcano. Di là
il cammino continua per lungo tratto chiuso fra monotoni ed aridissimi
dirupi calcarei, con appena qualche po’ di vegetazione lungo un
povero ruscello. Varcato il giogo sul quale s’inerpica il sentiero,
si discende in una valle trasversale aprica, tutta cultivata; e qui
si vede succedere alla calcarea un’arenaria rossa compatta di grana
finissima. Si valica di nuovo un colle formato di strati di calcarea
marnosa indurita, in massima parte di vaghissimo color turchesino, per
ridiscendere ancora in una valle più ampia, benissimo cultivata, con
macchie e filari di alberi, e popolata di armenti. Nel fondo, tra il
denso fogliame dei boschetti e de’ giardini, spuntano le torri e le
cupole smaltate delle moschee della città di Demavend: meta sospirata
dopo una marcia di otto ore.

Il nostro golam-dragomanno ci condusse pei viottoli tortuosi della
città all’estremo opposto, in una casa qualunque che egli si era
prefissa senza che si potesse concepire alcuna ragione della scelta.
Il nostro cuoco era già intento ad ammannire il pranzo, e noi a trovar
qualche posto in quell’orribile catapecchia ove distendere i nostri
materassi, quando supragiunse il padron di casa a lagnarsi di questa
violazione della sua proprietà, e ad intimarci di sgombrare. Mirza Alì
non fece altro, in nostra presenza, che applicargli subito una buona
razione di scappellotti e di calci, e mandare invece lui, il padrone, a
cercarsi un altro asilo per quella notte.

La città di Demavend porta nel mio giornale una nota particolare per
l’abondanza e la squisitezza delle frutta, ed in ispecie dei sugosi e
dolci cocomeri.

Lasciandola alle nostre spalle, il dì seguente, attraversammo da prima
il bosco che la ricinge ad occidente, quindi ancora i bei campi che
formano la ricchezza della città, per salire, dopo breve tratto, sui
colli che da questo lato limitano la valle. Non tardammo ad avvederci
del molto brutto cambio che avevamo fatto mutando strada, lasciando i
fantastici dirupi, le erbose valli, le ridenti oasi del Dschadscharud
e del Lar, per una interminabile successione di grandi onde di colline
marnose orribilmente nude, monotone e tristi. Ad ogni salita movevasi
l’animo nostro alla fiducia di vedere di colassù mutar l’aspetto del
paese, ma invano: un nuovo avvallamento, una nuova salita dello stesso
inesorabile carattere. Dopo lunghe ore di un cammino siffatto, eccoci
finalmente ad un po’ d’aqua nel fondo di un valloncino, e al di là
ad un piccolo caravanserai ove facciamo sosta per la colazione. Vi
trovammo due mercanti diretti alla capitale con stoffe e pelli del
Mazanderan, e traenti seco a spettacolo publico due belli animali
vivi: un grosso babbuino grigio (_Cynocephalus hamadryas_), ed un
giovane leone mansuetissimo, che i due mercanti aveano avuto a Schiraz.
Oltre il caravanserai la strada continua ancora a ridosso di colline
marnose aridissime, rotte però qua e là da masse di melafiro, con vene
e rognoni di mesotipo. Poco prima di scendere ai Dschadscharud, sulla
sinistra del cammino, si può vedere un taglio del terreno cogli strati
marnosi sollevati ricoperti dal tritume generale, i cui frammenti sono
adagiati non già in posizione orizontale, ma secondo l’inclinazione
degli strati sottoposti, onde si dovrebbe inferire che il sollevamento
di queste colline si è compiuto dopo la dispersione del tritume
generale stesso, e forse per opera della emersione del melafiro.

Sul far della sera arriviamo infine all’ultima stazione, al greto del
Dschadscharud, la cui rapida corrente ha qui l’importanza di un vero
fiume, quantunque diretta a farsi tutta assorbire nel deserto. Alziamo
le nostre tende fra una capanna di poveri coloni ed il ponte che, per
caso raro in Persia, era in perfetto stato di conservazione. Il vino
che ci era mancato sul Demavend ci soprabondava qui, ed il proposito
di non riportare a casa che bottiglie vuote è puntualmente eseguito.
I brindisi, gli evviva, le canzoni patrie, risuonano per quella nuda e
squallida solitudine, finchè ci regge il fiato ed il _Bordeaux_ non ci
aggrava le palpebre. Il mattino seguente una breve e lieta cavalcata ci
ricongiunse ai nostri compagni in Tedgrisch.




XVII.

Separazione della nostra ambasciata. — Chi rimane in Persia e chi
ritorna in Europa. — Carovana della quale faccio parte. — Da Tedgrisch
a Kazvin. — Da Kazvin al passo di Kharzan. — Prima impressione del
Ghilan. — Rustemabad. — Avventure di viaggio. — Bellezza del paese. —
Rescht. — Industria serica nel Ghilan. — Il Murdab. — Enzell. — Addio
alla Persia.


La durata del soggiorno nella capitale della Persia era pe’ singoli
componenti la ambasciata italiana misurata dagli ufficj rispettivi, ed
a ben pochi poteva cader in mente il prolungarla per suo particolar
diletto: il desiderio più forte e più generale era scapparne al più
presto. — Lo stesso giorno dell’udienza imperiale si incominciò
a parlare, nel nostro campo di Tedgrisch, della separazione. Il
ministro Cerruti, cogli addetti alla sezione diplomatica, aveano
ancora da sostenere la gran lutta contro l’ostinazione persiana,
onde conchiudere un trattato di commercio che potesse giovare alla
tanta compromessa industria serica in Italia; ma gli altri avendo
compiuto al loro ufficio di fare da comparsa all’augusta presenza del
re de’ re, pensarono subito alle disposizioni pel ritorno in Europa,
ciascuno essendo libero della sua linea, in conformità alle proprie
inclinazioni, agli stretti legami di famiglia, ad altri impreteribili
doveri di ufficio. Premeva sovratutto il raggiungere i piroscafi russi
in stagione ancora favorevole alla libera navigazione del Volga.
A noi naturalisti il soggiorno di Tedgrisch non presentava alcuna
attrattiva: il nostro tempo vi era assolutamente perduto. Il marchese
Doria che per la sua età e per la sua posizione sociale era libero
di seguire gli impulsi del suo ardore per la scienza, avea divisato
di esplorare le provincie meridionali della Persia, unendosi al sig.
conte de la Rochechouart, della legazione di Francia, che stava appunto
per recarvisi; a me ed a Lessona importava il poter rimanere per
qualche tempo in riva al mar Caspio. Fu data opera adunque a rifare i
particolari bagagli, a disporre le cavalcature, l’accompagnamento, i
necessari firmani del governo, ed i passaporti russi, che ci vennero
con assai cortese sollecitudine rilasciati dal sig. di Anitschkoff. I
sigg. Paulow e dott. Bretschneider, addetti alla legazione russa ebbero
anche la gentilezza di fornirci istruzioni, indirizzi, e commendatizie.
Una volta decisa la partenza, ci separammo in piccole brigate. Primi a
lasciar Tedgrisch furono i professori Lignana e Ferrati ed il marchese
Centurioni, ultimi il conte Grimaldi, il capitano Clemencich, il
fotografo sig. Montabone ed il dott. Orio; convegno generale ad Enzeli
per raggiungere il piroscafo russo il 12 settembre.

Io e Lessona, col preparatore Ballerini, approfittammo della gentile
offerta dei sig. Nicolas, il quale doveva ritornare in Francia colla
sua famiglia, cioè colla sua signora e due bambine, l’una di due anni,
l’altra di due mesi. Il signor Nicolas si era già mostrato per noi un
vero e schietto amico, e volle porre il suggello a questo carattere
facendoci godere i vantaggi della sua lunga esperienza del paese, della
sua padronanza delle lingue orientali, dell’ottimo suo cuore. Dobbiamo
a lui se questo viaggio, intrapreso colla qualità di semplici privati,
senza lusso di scorte e di tende, potè condursi al termine senza
incagli ed anzi con tutti quegli agi della vita giornaliera che sono
compatibili colla natura della Persia e dei Persiani.

La nostra partenza era definitivamente fissata pel 28 agosto. La
piccola carovana del sig. Nicolas che da Gezer doveva fare una punta su
Teheran, per riescire poscia a Khend, si mise in moto fin dal mattino;
noi, avendo a percorrere una linea più breve e più diretta, dovevamo
raggiungerla verso sera. Affaccendati a’ tanti minuti preparativi del
viaggio, un solo pensiero ci aveva fin qui dominati: lasciare infine le
tristi inospitali steppe della Persia, rivedere l’Europa, riavvicinarci
ai nostri cari. Ma sedate le distrazioni e le fatiche di tante cure
materiali, col farsi più vicina e più certa l’ora della separazione
de’ nostri compagni, sentimmo più che mai quanto questi fossero nostri
amici, quanto costasse al nostro cuore il rompere le abitudini di una
lunga convivenza, che, nata dalla sorte commune e dalla disciplina,
erasi fatta immediatamente spontanea e simpatica. La nostra contentezza
fu adunque assai conturbata, e per me si aggiunse un’altra circostanza.
Fin dal mattino mi aveva preso un legger mal essere che io attribuiva
alle fatiche de’ preparativi del viaggio, ed alla commozione morale.
Sul mezzo giorno, quando il carico dei bagagli era pronto, pronte
le cavalcature e le guide, e ce ne avvertivano con ripetute grida e
gesticolazioni i nostri _ferrasch_, quando noi prendevamo commiato
dall’ottimo ministro Cerruti, e da’ nostri amici diplomatici, il
male crebbe rapidamente. I miei compagni, che mi leggevano in volto
i brividi della febre, mi assalirono di consigli e di istanze per
farmi rimanere; mi schierarono dinanzi le conseguenze possibili di una
inconsiderata ostinazione, la minaccia di restar per forza relegato
in qualche villaggio. Io dal mio canto rifletteva che rinunciando al
l’opportunità presente del viaggiar lento in carovana, mi sarei più
tardi trovato nella necessità di un viaggio accelerato da corriere, che
sarebbe stato per me incomportabile. Decisi adunque di partire ad ogni
costo, ribellandomi questa volta alla stessa autorità del ministro. Il
marchese di S. Germano ed il console Bosio vollero accompagnarci. Il
primo, a metà circa del cammino rinovati i saluti ed i buoni augurj,
volse il cavallo, ed in breve ci sparì di vista; Bosio continuò
cavalcando al mio fianco, e ad ogni tratto insistendo amichevolmente
per ricondurmi con lui a Tedgrisch. Arrivammo a Khend a sera inoltrata.
La famiglia Nicolas si era stabilita nel medesimo casino imperiale
di caccia che ci aveva accolti un mese prima nella nostra andata a
Teheran, ed era già in pena pel nostro ritardo. Affranto dalla violenza
della febre mi gettai su di un materasso, lasciando che i pietosi miei
amici mi coprissero ben bene di mantelli. Il mattino seguente venne
la crisi e l’accesso finì, ma io mi sentiva ancora troppo debole per
sostenere una lunga marcia a cavallo. Si ritardò adunque la partenza
oltre il pomeriggio. Nel frattempo il sig. Nicolas m’avea trovato nel
villaggio un vecchio _kegiavé_, e fattolo riparare convenientemente
mi vi adattò abbastanza bene, ponendovi a far contrappeso valigie,
attrezzi, ed un supplemento di sassi. Preso definitivo congedo da
Bosio ci ponemmo in marcia per Kerretsch, ove giunti a notte, ci fu
dato ricovero in uno degli scompartimenti del castello dello Schah,
grandioso ma cadente ed affatto nudo.

Dirò ora come fosse composta la nostra carovana. Il _tartaravan_ ove
stava la signora Nicolas colle sue bambine ne formava il centro; noi
gli stavamo dappresso: nostra guida era un _golam_ di bell’aspetto, e
vestito con qualche eleganza: due servi persiani soltanto ci seguivano;
un ragazzotto che aveva lo speciale incarico di attendere alle bambine,
e con esse dovea continuar fino a Parigi, ed un cuciniere, un mezzo
_cordon bleu_, altrettanto abile quanto lesto, che in un’ora o poco più
dal nostro arrivo alla tappa giornaliera, ci faceva trovar allestito
un pranzetto molto _confortable_. V’erano infine cinque mulattieri
o _tscharvadar_, il cui abbigliamento completo consisteva di una
sdruscita camiciuola di tela azzurra, in una calotta di feltro, e in
un pajo di ciabatte. Costoro seguivano a piedi vigili e snelli a tutti
gli accidenti della carovana, correndo or qua or là a ricondurre muli
in linea, a stringer funi, a rimettere carichi in equilibrio, facendo
così tutto il cammino a zig zag. E con tanto sciupìo di forze, il
loro giornaliero nutrimento altro non era che qualche frusto di pane
secco e qualche spicchio di cocomero. Si direbbe che si avessero preso
l’assunto di dare una mentita alle leggi fisiologiche della dietetica
animale.

Il 30 agosto, lasciammo Kerretsch di buon mattino, e, fatta breve
sosta ad un _tschaparkhaneh_, si giunse alle quattro pomeridiane a
Kassemabad, povero villaggio abitato da agricultori curdi. Il _golam_,
che ci aveva preceduti di una mezz’ora, ci fece trovar sgombra una
delle meno miserabili case, composta di una camera, d’una stalla
abbandonata, di una tettoja, e d’uno spazioso cortile, il tutto, non
occorre il dirlo, di rozzo fango. Nella camera il solo mobile era una
specie di vasca di fango bizzarramente ornata con frantumi di specchio.
Attraverso una parete stava l’arma inseparabile del Curdo, una lancia,
ma non vedevasi chi l’avesse a portare. Quella casa era abitata da una
vecchia e da una giovine rimasta vedova da poco tempo. Costei, come le
donne curde in generale, portava il viso scoperto, bello, pienotto,
con due grandi occhi, e, per barbaro vezzo, una stella incisa nella
cute fra le sopraciglia, ed un altra sul mento. Nella notte io fui
preso di nuovo dalla febre, aggravata questa volta dalla complicazione
di un accesso di asma, simile a quelli provati nell’escursione al
Demavend, ma di tale forza che io credeva morirne, e andava pregando
il buon Lessona, che mi sorreggeva, onde mi aprisse le vene. Questo
insulto d’asma fortunatamente cessò verso il mattino, nè ebbe mai
più a rinovarsi in seguito. La febre continuava, ma ben adagiato e
ben coperto nel _kegiavé_, potei rimettermi senza ritardo in viaggio
cogli altri, e perfino ristorarmi per via di quel sonno che mi era
mancato nella notte. La marcia fu assai lunga, fino ad Abdullahbad, ove
prendemmo alloggio in un’abitazione abbastanza pulita. Da qui in avanti
le febri mi lasciarono per vari giorni libero e così ristabilito in
forza da poter rimontar a cavallo.

Il primo settembre assai per tempo facemmo il nostro ingresso in
Kazvin, col proposito di prenderci un riposo di due giorni. Il
nostro _golam_ si era recato come corriere dal governatore onde
farci assegnare un alloggio; il governatore stava in colloquio col
_kelantar_ o capo della polizia della città, il quale, al sentire
il nome del sig. Nicolas, suo antico conoscente, rispose subito che
l’alloggio era bell’e fissato in sua casa ed a tal fine spedì al nostro
incontro, alla porta della città il suo proprio figliuolo apportatore
del cortese invito. Mirza Assad-Ullah, _kelantar_ di Kazvin, è il
più schietto onest’uomo da noi conosciuto in Persia: il suo volto,
i suoi tratti, spirano sentimenti umani e cordialità sincera. Ci
accolse con ogni dimostrazione di festa, pose a nostra disposizione
la sua casa, una della più grandi e signorili della città, ci fece
ammannire un lauto pranzo, e solo dopo vive e ripetute istanze del sig.
Nicolas, acconsentì a lasciar a noi la cura del nostro vitto. Questi
due giorni di riposo furono per noi di gran conforto. Il suntuoso
bagno, onde va tanto rinomata la città di Kazvin, era a pochi passi
dalla nostra abitazione, ed a noi pungeva non la vana curiosità,
ma l’imperioso bisogno di una radicale lavatura del corpo, sotto la
spazzola e l’insaponata nello stile orientale. Ma i bagni persiani sono
gelosamente chiusi agli infedeli europei, e dopo Tauris, ove ci era
aperto un bagno armeno, avevamo dovuto rinunciare a questo benefizio
così prezioso in Oriente, non per la sola polizia, ma ben anco per
l’igiene del corpo. A costo di far torcere il naso al benigno lettore
io devo aggiungere che noi eravamo tormentati dai pidocchi, da quella
specie particolare del Levante che annida di preferenza ne’ panni, e
sotto il calore del letto trafigge la pelle di sì acute punture da non
lasciar riposo. Col mutar delle camicie e delle flanelle si cacciano
i vecchi pidocchi, ma poi ne sopragiungono di nuovi. Mirza Assad-Ullah
pregato istantemente di procurarci l’accesso al bagno, fu da principio
sorpreso e quasi spaventato della prova alla quale erano messi i
suoi sentimenti e quasi i suoi doveri di ospite; ma infine cedette, e
ci promise il per noi tanto desiderato ristoro. A notte, quando gli
abitanti di Kazvin si erano già ritirati nelle loro case, eccolo il
buon uomo, colla faccia atteggiata alla grande responsabilità che si
tirava sulle spalle, invitarci a seguirlo ma cautamente, in silenzio,
come malfattori che s’accingano al delitto. La timida fiammella d’un
lampione c’era di guida fra le tenebre. Per via e davanti alla porta
del bagno alcune ombre immobili erano senza dubio fidi del _kelantar_
messi a custodia degli sbocchi delle vie. Entrammo così furtivamente
nel bagno, e gli scarsi lumicini sotto quell’immensa vôlta, il profondo
silenzio, le affrettate manipolazioni de’ lavatori, davano al complesso
di quella scena un non so che di grave e di terrifico.

Il mattino seguente ebbimo il divertimento di veder il _kelantar_
nell’esercizio delle sue funzioni. Accosciato fuori della porta della
sua casa, coll’inseparabile kalian, avea davanti una piccola schiera
di suoi dipendenti che uno per volta, avanzandosi verso di lui, gli
facevano il rapporto del giorno precedente, ricevevano i novelli
ordini, e se ne andavano. Di registrazioni, di archivii, di protocolli
non v’è in Persia neppur la stampa, nè è questa la più grave magagna
del paese.

Il nostro gentile ospite ci volle accompagnar fino alla prima stazione,
a soli tre _farsach_ da Kazvin, ad Aga Baba, villaggio chiuso da
un’alta muraglia di fango, con bei pascoli e vigneti. Presso il
villaggio è un piccolo _tepe_ rivestito della solita vegetazione delle
steppe; noi vi eravamo appunto in cima, quando, pensando sempre a
queste curiose formazioni, mi suggerì di interrogare Mirza Assad-Ullah
sulla tradizione che a sua notizia vi fosse congiunta nel paese. Mi
rispose essere credenza generale che siano monticoli fatti inalzare
dalla regina Semiramide, per contemplar da quelle alture la sua armata.
Da Aga Baba la strada sale a poco a poco per immense scalinate, ed
il paese assume un carattere sempre più montuoso completamente arido,
fuorchè per brevi tratti ed isolati, ove trapeli dal terreno qualche
venuccia d’aqua. La roccia dominante è il porfido, in qualche luogo
attraversato da vene e filoni di dolomite. Giungiamo sul mezzodì a
Kharzan, gruppo di miserabili catapecchie sul passo della catena che
separa l’Irak dal Ghilan, e lì prendiamo stanza nel _tchaparkhanéh_.
Il meno schifoso rifugio, ossia una specie di terrazzo coperto sovra
la porta, era già occupato da un altro viaggiatore che all’aspetto
si poteva prendere per uno straccione qualunque, ed era invece
niente meno che un principe del sangue. Ci impossessammo adunque,
la famiglia Nicolas della meno sucida stanza terrena, io co’ miei
compagni dell’altra che appena sarebbesi potuta chiamare stalla.
Mentre eravamo in attesa del pranzo, ecco giungere un altro viandante
in abito europeo: era il dott. Küsten sassone, medico a Rescht,
diretto a Teheran, col quale passammo assai aggradevolmente una buona
mezz’ora[46]. Poi ecco nuovi avventori: un mollah con un suo compagno.
Il povero mollah raccontava singhiozzando come fosse stato poco dianzi
aggredito da quattro mariuoli che lo aveano spogliato di tutto il suo
avere, una cinquantina di tomani, e per di più fieramente bastonato.

Il mattino seguente era freddo e nebbioso da lasciarci appena
discernere fra que’ nudi greppi il tracciato della via che scende,
subito dopo Kharzan, con ripido pendìo, di tratto in tratto rotta
e tortuosa tanto da obbligare la signora Nicolas a smontare dal suo
_tartaravan_. Quando la cresciuta brezza montana venne a dissipar la
nebbia, si aprì al nostro sguardo uno stupendo paesaggio alpestre. Alla
sinistra del sentiero scogliere verticali concedenti appena un angusto
passo ai viandanti, e grandi squarci con pendii ripidi e sassosi fino
alla cima del monte; a destra un vallone profondo con gole e burroni
laterali dominati da potenti dirupi salienti a creste e guglie più
lontane. Il carattere nuovo di questo versante s’appalesa subito dagli
arbusti che scappano dai fessi delle roccie, o già riuniti in macchie
vestono qua e là i clivi meno erti, e chiusi pianerottoli. Il frequente
chiocciar delle pernici, gli stormi che s’alzano strepitando a volo,
non appena alcuno di noi esca dal sentiero battuto, ci svegliano una
potente tentazione di sostare a far un po’ di caccia, ma vinse il
bisogno di guadagnar tempo. Dopo due ore circa di questo cammino eccoci
al fondo, ad un letto di un torrente abbastanza ampio, oltre il quale
surge un caravanserai. Da qui in avanti le sponde de’ torrenti e de’
rivi sono segnate da grandi liste cultivate a canne (_Arundo donax_.)
Si giunse poscia al Scharud, le cui aque limpidissime dopo breve
tratto s’intorbidano d’improviso, per l’affluenza di torrenti montani.
Costeggiamo il fiume, e presso un gran ponte solidamente costrutto, in
un piccolo spazio ombreggiato da uno scoglio, fra i salici, i giunchi
ed i tamarici, ci ristoriamo con una buona refezione. Oltrepassato il
ponte, la strada non incontra più il fiume che in qualche suo angolo.
La vegetazione si fa sempre più rigogliosa. Quella graziosa specie
di piccola pernice che i Persiani chiamano _tihu_, e che è tanto
frequente anche al sud dell’Elburz, qui pure è abondantissima, e ne
uccidiamo senza scostarci dalla strada. Un vento impetuoso, surto
quasi d’improviso, ci molesta grandemente, ed a questo si aggiunge
l’altra difficoltà di un rivo profondo, gonfio di aqua, attraversante
il cammino, e che passiamo a guado non senza gravi stenti. Ed eccoci
infine in una valletta aprica, cinta da poggi verdeggianti, al
villaggio di Mendjl. Qui incomincia veramente la ricca vegetazione del
Ghilan; qui cresce già l’ulivo. Un bel caseggiato di stile europeo sul
pendìo di un colle, appartiene ad una compagnia russa che vi esercita
l’industria dell’estrazione dell’olio. Il nostro _golam_ ci procura
alloggio in una casa nel centro del villaggio.

Il porfido che forma la sommità de’ monti lasciati il mattino, cessa
ad un’ora di distanza da Kharzan, e gli succedono potenti masse
stratificate di arenaria e di puddinga con grossi elementi, rotte
ancora di quando in quando da emersioni porfidiche. Questi monti,
discostandosi, comprendono la valle del Schahrud, ma alle loro falde si
estende d’ambo i lati una serie di colline di formazione più recente,
costituite da strati di arenaria e di marna alternanti, in direzione
quasi orizontale, o parallela all’inclinazione generale della valle
stessa.

Dopo Mendjl il cammino, internandosi da prima in un bosco d’ulivi,
si dirige al fiume principale del Ghilan, al Sefidrud (fiume bianco)
che si varca sovra un bel ponte nuovo di sette archi, costrutto ove
la valle si ristringe, e il fiume s’impegna in una forra dirupata.
La roccia delle erte scogliere ad ambi i capi del ponte è un porfido
con fitti cristallini feldspatici, impastante massi di varia mole,
ora angolosi ora rotondati, di altre roccie, tanto da prendere qua e
là l’aspetto d’un conglomerato. Procedendo nella direzione del fiume,
succedono al porfido strati alternanti e sconvolti di calcarea, di
marna, di arenaria e di puddinga del terreno carbonifero: sottili
straterelli di litantrace si presentano infatti in alcuni tagli. Qua
e là queste masse stratificate sono rotte da guglie e _dicche_ di
porfido.

La bellezza del paese, la pompa della vegetazione crescono col
progredire nella valle del Sefidrud. Fra le spesseggianti macchie de’
melagrani, de’ pruni, de’ cornioli, de’ frassini, spiccano i bei fiori
persichini del _Paliurus aculeatus_; fronzuti oliveti si estendono
lungo il letto del fiume, e su per le vallette che vi scendono; i
fianchi più elevati dei monti sono rivestiti da boschi di cipressi e
di tuje; il fondo della valle è tutto pascoli e risaje, intersecato
da folte siepi, ombreggiato da grandi alberi. Qual contrasto col
regno delle steppe del versante opposto dell’Elburz! L’umidità del
terreno, le sorgenti, i ruscelli che s’incontrano ad ogni passo
scendenti da quelle balze montane, ne danno ampia ragione. Sulla destra
del Sefidrud tutta la china di un monte è scompartita in scaglioni
regolari, cultivati in risaje colle aque di un canale diramantesi dal
vertice. Il grosso villaggio di Rudbar che attraversiamo è in un vero
giardino, e al di là il sentiero percorre un gran bosco di annosi
ulivi stracarichi di frutti. Dopo circa sette ore di cammino che non
ci sembrarono troppo lunghe in sì ridente e vario paesaggio, facciamo
sosta a Rustemabad, ove non è possibile trovare meno orrendo ricovero
che nel _tchaparkhanéh_. Anche là, come a Kharzan, un principe del
sangue, specie più che vulgarissima in Persia, ci aveva preceduti, ed
occupava la tettoja (non oso dir camera) sovra la porta. L’unica scura
cameraccia terrena che serve di sala pei viandanti, fu occupata dalla
famiglia Nicolas; per me e pe’ miei compagni fu spazzato alla meglio
un pollajo ove stendiamo i nostri materassi. La vasta pianura tra la
strada ed il fiume, tutta siepaglie, fratte e boschi, intersecanti
prati aquitrinosi, risaje e canneti, mi ricorda la valle di Batum. In
un’escursione ornitologica dopo il pranzo ebbi a notare le seguenti
specie europee, non rinvenute per lo addietro in Persia: _Cuculus
canorus, Gecinus viridis, Sitta cœsia, Orites caudatus, Coccothraustes
vulgaris, Fringilla cælebs, Columba palumbus_.

Il seguente mattino (7 di settembre), all’ora fissata per la partenza,
muli e mulattieri se ne stavano ancora tranquillamente al pascolo
lungi dal villaggio, nè accennavano a moversi di là per una ragione
che, venuta in chiaro ben tosto, ci pose in estrema agitazione. Le
stemperate pioggie de’ giorni precedenti aveano ingrossate le aque
de’ torrenti e de’ fiumi, ed un altro Schahrud, a poca distanza
da Rustemabad, sulla strada di Rescht, avea rotto il ponte e reso
impossibile il passaggio. Tutte le notizie che il signor Nicolas
si faceva premura di raccogliere confermavano questo per noi grave
disastro. Due grandi carovane stavano lì coi loro carichi a mucchio,
accampate ne’ vicini prati, condannate con gravissimo loro danno ad
aspettare un qualche provedimento lontano ed incerto che stabilisse
il passaggio. Si pensi ora allo spavento di cui fummo invasi noi
stessi, al pericolo imminente di perdere l’occasione, quasi certamente
ultima nell’anno, del corso regolare dei piroscafi russi del Caspio
e del Volga! A consolare la signora Nicolas, Lessona cercava di
farle comprendere come un inverno a Rustemabad potesse anche passare
discretamente, ma la sanguinosa celia moriva a fior di labra, e nel
pensiero v’era tutt’altro. Mentre stavamo tormentando il cervello in
ricerca di qualche espediente, venne il _tschapar,_ ossia il mastro
di posta, a dirci che se avessimo avuto fiducia in lui, ed un po’
di coraggio, egli sentivasi in grado di condurci sul buon cammino al
di là del Schahrud, tagliandolo fuori, e passando invece a guado il
Sefidrud. La proposta venne subito accettata, e dopo altra perdita
di tempo nel raccogliere i muli, movemmo all’azzardosa impresa. Dopo
breve cammino per la via battuta, la nostra guida ci fece volgere a
destra, e scendere attraverso campi e boscaglie al greto del Sefidrud,
ove questo essendo molto largo, le sabbie lasciano spazio al fiume per
dilatarsi nei suoi serpeggiamenti. Uno stormo di avoltoi (_Neophron
percnopterus_) vi stavano spacciando un cadavere di cavallo, e si
alzarono a volo a due buoni tiri di fucile. Prima la guida cercò il
guado, e superatolo seguimmo felicemente il buon esempio. Così ci
trovammo alla destra del fiume, ma il nostro cammino essendo sulla
sinistra, lo guadammo una seconda volta, dopo aver percorso un lungo
tratto sulla sabbia. Fra un passaggio e l’altro avevamo compreso
lo sbocco del Schahrud, e così la difficoltà che ci aveva atterriti
qualche ora prima era superata. Non fu per altro impresa tanto facile,
perchè l’aqua giungeva al petto dei muli, e la forza della corrente,
oltre all’essere una resistenza da vincere, produceva un’illusione
ottica che tendeva a farci pericolare. I nostri mulattieri furono
mirabili di buon volere e di fermezza. Salimmo così sulla riva
sinistra per una foresta vergine ove, attraverso i pantani, gli alberi
abbattuti, ed ingombri d’ogni natura, riesciva difficile il trovar il
passaggio ai muli, e più ancora al _tartaravan_, ma poi dopo lunghi
andirivieni riescimmo sulla buona via. Non erano per altro ancora
finite le peripezie di questa marcia. Dopo una mezz’ora di cammino,
eccoci ad una nuova rottura della strada, ove questa fa un angolo
in cui, fra macigni sconnessi, scendono le aque delle pioggie da un
piccolo burrone. Lì il _tartaravan_ non poteva passare che vuoto,
ond’io per far la mia parte mi avvicino alla portiera e prendo nelle
braccia la bambina lattante della signora Nicolas; ma in quel mentre
il mio cavallo dà un salto di groppa ed esce nella boscaglia, passando
con forza sotto un fronzuto paliuro, le cui forti ed acute spine
mi trafiggono e lacerano orrendamente il viso; le braccia, tutte
consacrate al carico che mi era affidato, non potevanmi servire di
difesa alcuna. Fortunatamente Lessona era lì pronto col suo astuccio
chirurgico, e con liste di taffetà mi suggellò le molte ferite,
acconciandomi la faccia come un luogo da affissi.

Ho voluto narrare alquanto per disteso queste vicende per far vedere
in qual condizione si trovi la strada da Rescht a Kazvin, che è pure
la principale arteria dell’immenso commercio che la Persia intrattiene
necessariamente colla Russia. Ma, come si vedrà in seguito, questa è
ancora una vera strada trionfale al confronto del tratto da Rescht al
mare.

La giornata era scura, di quando in quando piovigginosa, ed allo
stato del terreno vedevasi chiaramente che molta aqua era caduta ne’
precedenti giorni. Il caravanserai di Imamzadeh-hascem, ove facemmo
tappa, è un grosso edifizio quadrato in solida muratura, e coperto di
tegole. Nell’interno non vi sono stanze, ma casematte allineate per tre
lati dello spazioso cortile che noi trovammo convertito in uno schifoso
pantano di melma nera alta fino al ginocchio, così che l’andare ed il
venire dalle nicchie non ci era possibile che a dorso di cavallo od a
spalla d’uomo. Lì, in un antro sudicio ed umidissimo, dovemmo bivaccare
tutti assieme.

Bisogna passare alle regioni intertropicali per vedere una vegetazione
più rigogliosa, più splendida di quella che da Rudbar in avanti
domina in tutta la vallata del Sefidrud, anzi, a vero dire, per tutta
l’estensione delle provincie caspiche della Persia[47]. La mitezza del
clima, l’abondanza delle pioggie, ed anche senza queste, la frequenza
delle fontane, de’ ruscelli che le grandi giogaie di separazione degli
altipiani versano in queste provincie, ne fanno la più bella gemma
della corona del re de’ re. Il carattere di questa vegetazione non è
gran fatto diverso da quello della valle del Rioni, però meno monotono.
La parte piana del Ghilan è in massima parte occupata da foreste
vergini, ma più spezzate e più varie; quali folte, impenetrabili,
quali diradate, con grandi alberi facenti ombrello ad un ricco tappeto
del più fresco ed intenso verde. Gli aceri, i pioppi, le quercia, gli
olmi, gli ontani, sui quali s’arrampicano i rovi, la vite, la smilace
eccelsa, costituiscono il folto di queste belle foreste, dal quale
si distaccano pel loro particolare aspetto esotico grandi acacie e
gleditschie. Da Imamzadeh-hascem a Rescht tutto il paese si direbbe
un continuo sontuoso parco. Il gelso è pure abondantissimo, qua e là
in filari o più soventi in grandi siepi fra le boscaglie naturali ed i
campi per lo più cultivati a risaje. In questi campi s’incontrano sorta
di capanne isolate in massima parte costrutte di vimini, che servono le
une per temporaneo magazzino di riso, le altre per bigattiere.

La via molto fangosa per le pioggie de’ giorni precedenti, è per
lunghi tratti regolare, larga più dell’ordinario, fiancheggiata da
canali, come una strada campestre della bassa Lombardia. Avevamo di
poco oltrepassato Duschambe Bazar, quando vedemmo venirci incontro una
brigata di cavalieri in abito europeo: erano i signori Hahnart, Moltoni
e due fratelli Vlasto, i quali, non appena ci scorsero, spronarono i
cavalli per venirci ad offrire a gara l’ospitalità in Rescht. Fu una
vera festa di saluti e di felicitazioni; ma la nostra promessa era
già data al sig. Hahnart fino dal nostro passaggio in Tauris; ed il
sig. Nicolas aveva già accettato l’invito del console russo. I nostri
compagni Ferrati, Lignana e Centurioni che ci aveano preceduti da tre
giorni ed erano del pari stati ospiti del sig. Hahnart, s’erano già
diretti ad Enzeli, col progetto, che poi non poterono eseguire, di fare
una corsa col piroscafo russo fino ad Astrabad.

Rescht, capitale della provincia del Ghilan, si distingue dalle città
degli altipiani della Persia dall’essere le sue case costrutte in
muratura e coperte di tegole, privilegio che essa deve alle frequenti
e diluviali pioggie; ma questo non vuol dire che vi abbia a difettare
l’ordinario inevitabile corredo di rovine e di macerie. Il suo bazar,
molto ben fornito, non è in anditi chiusi, come nelle altre città,
ma consiste di botteghe allineate l’una presso l’altra nelle contrade
più centrali. Si vede subito da queste botteghe quanto vi sia animata
l’industria della seta, in che infatti consiste il principale produtto
dell’intiera provincia.

L’argomento della cultura del filugello nel Ghilan è stato molto
bene e compiutamente esposto dal nostro compagno Orio, in un’adunanza
dell’Associazione agraria di Torino il 19 gennajo 1863. Come ho detto
altrove egli aveva visitata la provincia nella stagione del raccolto
serico, e l’avea trovata immune dalla terribile epidemia che devasta
le bigattiere d’Europa, al che non reputa indifferente il modo di
educazione dei bachi, presso che all’aria libera, in capanne isolate
dette _tilimbar_, aperte in basso, chiuse in alto da viminate.
Il Ghilan è ancora una località sulla quale fare assegnamento per
la provigione di semi di bachi nelle attuali critiche circostanze
d’Europa; e sotto questo aspetto il trattato conchiuso dal ministro
Cerruti in Teheran, scopo della nostra ambasciata, è veramente utile
all’Italia. In forza di questo trattato l’esportazione dalla Persia di
semente di bachi da seta, per lo addietro vietata con tanto rigore, è
libera agli Europei per quattro anni, contro una modica tassa[48].

La trattura della seta si fa nel Ghilan in modo affatto rozzo e
primitivo. Il filatore dà moto all’aspo con un piede, e mette nella
bacinella bozzoli a sorte, quanti vengono sotto il pugno, senza previa
scelta delle qualità, senza cura del numero, onde nasce che la seta
persiana sia tra quelle di minor prezzo. Una compagnia di filatori
italiani che tentasse la prova di stabilirsi colà ed introdurvi que’
metodi ne’ quali i Lombardi sono maestri, troverebbe, non v’ha dubio,
ampio compenso alla sua industria.

Dal sig. Hahnart abbiamo trovato un’accoglienza così amichevole che ci
ha messi subito, come direbbero i Francesi, _à notre aise_; abbiamo
trovato tutti i ristori della vita materiale, e larghe offerte per
quanto ci potesse occorrere anche pel seguito del nostro viaggio. Fu
pure una grande sodisfazione il conoscervi personalmente il signor
Moltoni, addetto a quella casa commerciale, nostro compatriota
di Valtellina, ed il sig. Würth, fratello dell’altro che avevamo
conosciuto in Tauris. Le due case Hahnart e Vlasto fanno in Rescht il
commercio della seta che spediscono principalmente in Europa per la via
di Tauris e di Trebisonda, minore al paragone essendo la quantità che
mandano direttamente in Russia per la via del mar Caspio. La seta viene
spedita in piccole balle strettamente involte da pelli d’agnello.

Il giorno 9 settembre nel fare alcune proviste per la città, mi
occorse assistere allo spettacolo di un _tazieh_, sorta di dramma
religioso, che ha per tema la persecuzione e la morte di Alì. In una
gran piazza stava radunata una folla compatta, gli uomini e le donne
in due distinti scompartimenti. Sotto un tendone disteso fra due
alberi stavano gli attori, un uomo e due ragazzi: quello declamava
gesticolando con enfasi, questi interloquivano. Di quando in quando
gli spettatori davano tutti uniti in dirotti scoppii di pianto, fra
i quali principalmente si facevano sentire gli strilli acuti delle
femmine; poi di nuovo questi pianti cessavano tronchi, e ricominciavano
gli attori. Sebben Rescht sia una delle città persiane nelle quali
maggiormente domini il fanatismo religioso, nessuno ci molestò o fece
atto d’intoleranza della profanante presenza di infedeli europei. È
singolare come i Persiani abbiano le lagrime pronte a volontà. Nelle
loro cerimonie funebri, ed anche nelle publiche, ricorrenti a battuta
d’almanacco, non fingono di piangere, piangono davvero. Incomincia
per essi, nel mese che corrisponde al nostro giugno, una quaresima di
lutto, il _moharrem_, durante la quale giornalmente i fedeli persiani
si recano alla moschea a piangere in memoria di Alì e de’ suoi figli
Hussein ed Hassan, primi e legitimi eredi della autorità del profeta.
Ho dimenticato di dire a suo tempo come questa circostanza fosse
appunto fra le tante invocate dal _mehmendar_, per ritardare il nostro
arrivo a Teheran, col pretesto che essendo appunto allora stagione di
lutto generale e sacro, il governo non avrebbe potuto accoglierci con
que’ segni di giubilo e quelle onoranze che pure avrebbe voluto. Molte
volte Abdul Hussein Khan, il quale durante il viaggio amava conversare
famigliarmente con noi, alzandosi d’improviso, e troncando un discorso
il più delle volte faceto od anche alquanto licenzioso, ci salutava e
diceva: — Ora devo andare a piangere.

Lo stesso giorno 9 arrivarono in Rescht a marcie forzate anche gli
altri nostri compagni partiti da Tedgrisch sei giorni dopo di noi, ed
accettarono il cortese invito de’ fratelli Vlasto. Dal canto nostro
tutto era disposto onde precederli ad Enzeli; ed a tale scopo avevamo
già noleggiato, pel giorno appresso, nuovi muli e nuovi mulattieri
del paese, i soli che siano in grado di fare il servizio da Rescht a
Piribazar. Volevamo così approfittare anche della compagnia del sig.
Würth che doveva consegnare a bordo del piroscafo russo una spedizione
di balle di seta. Era pure convenuto di riprendere il viaggio di
concerto col sig. Nicolas, per la cui signora fu improvisata una specie
di barella portata da due uomini scortati da altri di ricambio. Altre
due persone s’erano aggiunte alla nostra carovana: il console russo
sig. Zinowiew, ed il sig. Weinberg, giovane diplomatico.

Preso commiato dai nostri urbanissimi ospiti, pagato un piccolo
tributo ad un posto di doganieri appena fuori la città, ci trovammo
impegnati in un orribile bosco paludoso. Quanto ci avean detto delle
strane incredibili difficoltà di questo cammino era la stessa verità.
Sentiero propriamente detto non ve n’è: la miglior strada, quando
la si possa seguire, è un fiumicello tortuoso dall’aqua presso che
stagnante. Il resto è fango vischioso e tenace o melma semiliquida ove
i muli s’approfondano da non escirne spesso che a stenti grandissimi.
Queste povere bestie sono dotate di un singolare istinto nel trovar i
passi possibili, e l’attenzione di chi sta loro in groppa è abbastanza
occupata nell’evitare di farsi arrotare una gamba contro un albero,
o di dar del naso nel sarmento di una vite, o ne’ forti aculei delle
gleditschie. Così si continua per due lunghe ore fino a Piribazar. E
questo è pure uno de’ più importanti sbocchi al commercio persiano, e
da qui passa, per non dire altro, quasi tutto il ferro che si adopera
ne’ vasti dominii dello Schah.

Al luogo detto Piribazar due soli caseggiati, uno per deposito di
merci, l’altro per spaccio di frutta e di pane, surgono in riva ad un
canale navigabile, lungo le cui sponde stanno allineati alcuni barconi
in attesa del carico. Ne noleggiamo due: l’uno cioè per le casse e per
le valigie, l’altro per le persone. Quel canale, d’aqua perfettamente
stagnante, serpeggia in un bosco di salici ed ontani, e sbocca nel
Murdab[49].

È questo un’immensa laguna, separata dal mar Caspio per mezzo di un
gran cordone litorale, intersecata da lingue e da isole di canneti,
particolarmente presso i margini. Nell’entrarvi pel canale, di
Piribazar si naviga appunto per luogo tratto in un più ampio canale
o braccio fra due sponde di questa natura; poi si esce al largo,
lasciando ancora ai lati ed all’indietro sempre più rare e distanti
isolette di canneti, finchè lo specchio delle aque si dispiega allo
sguardo nella sua massima estensione, come un gran lago tranquillo,
limitato all’estremo orizonte da una sottile striscia indistinta. Così
all’aperto, se il vento è favorevole, si spiega la vela e si ritirano
i remi nella barca. Ma ove pel diradarsi de’ canneti è lasciato
lo spazio libero all’aqua, sottentra alla vegetazione emersa delle
canne la vegetazione sommersa de’ potamogeti, delle ninfee, delle
castagne lacustri, che inalzano le loro foglie sino a fior d’aqua, a
costituire immensi banchi, ove l’aqua è sì poco profonda, e così fitto
è l’intreccio delle erbe, da starvi a pascolo innumerevoli stormi di
uccelli. V’erano, al nostro passaggio, millioni di aironi (_Buphus
bubulcus_) e branchi numerosissimi di mignattaj (_Ibis falcinellus_).
Resta ancora la massima parte dello stagno affatto libera e navigabile
in tutti i versi; ed era infatti solcata da navicelle veleggianti,
dirette da varii punti verso Enzeli, ove approdammo alle sei del
pomeriggio. La cortesia russa, della quale avevamo avute già tante
prove, non si smentì in questa circostanza. Il sig. Zinowiew ci volle
suoi ospiti, in una piccola casa che egli appigionò a tal uopo. Sebbene
preso dalle febri, alle quali però aveva finito per abituarsi, egli era
in continuo moto a indovinare i nostri desiderii, a dar provedimenti
pel vitto, pe’ preparativi della partenza, a stendere commendatizie per
le autorità russe sulla nostra linea, aiutato in ciò dal sig. Weinberg,
gentilissima persona, col quale dovevamo viaggiare sino ad Astrakan.

Enzeli è una piccola città sul cordone litorale, presso l’interruzione
o la bocca che mette il Murdab in communicazione col mare. La linea
delle case, elegantemente spezzata dal verde fogliame degli aranci, è
verso lo stagno, lungo il quale scorre appunto la strada principale,
sorta di _quai_, ove mettono i pochi e scuri viottoli delle più interne
abitazioni, e con una lunga fila di barche appoggiate alla sponda.
Di prospetto è un gruppo di isole, ed una fra queste, la maggiore,
riccamente vestita, e con varie case fra le boscaglie, presenta un lato
tutto canneti e salici, parallelo alla sponda della città, limitante
così un largo canale d’aqua affatto stagnante, che seguendo sempre
la costa si prolunga verso occidente, diramandosi ivi per un vero
arcipelago di isolotti di canne, giunchi e salici. Il resto della gran
lingua litorale dietro la città è arido, sabbioso, ed a rialzi ondati,
o veramente a piccole dune assai inuguali, colla scarpa quasi a ridosso
delle case, e col versante opposto dolcemente inclinato verso la
spiaggia del mare. Per queste dune sono sparsi rari ed isolati cespiti
di melograni e di giunchi. Sulla spiaggia marina verso la bocca del
Murdab v’è un edifizio a foggia di rotonda, acuminato in una specie di
torre, che serve di caserma per una compagnia di artiglieri. Un pajo
di cannoni di grosso calibro difendono il canale dal mare allo stagno,
il qual canale, per quanto stretto e poco profondo, permetterebbe
ancora il passaggio anche alle grosse navi, con grande sollievo del
commercio. Ma la Persia esercita con ostinata gelosia i suoi piccoli
diritti maritimi, ed obliga i piroscafi russi ad ancorarsi a grande
distanza dal lido. L’anno precedente uno di questi piroscafi portava
una machina a vapore per l’arsenale di Teheran, nè essendo possibile
farne lo scarico sui battelli in mare, il comandante voleva entrar nel
canale, ma gli fu risposto colla minaccia di esser colato a fondo dai
cannoni della costa. Fortunatamente il telegrafo sciolse la vertenza.
L’autorizzazione chiesta a Teheran venne sollecita: e la nave entrò nel
Murdab a deporre direttamente a terra il suo carico.

Un’industria particolare ad Enzeli è quella del pane biscotto che è
veramente di qualità superlativa. Ognuno di noi pensò a provederne pel
seguito del viaggio.

I due giorni passati in questa città furono per noi aggradevolissimi;
i naturalisti ed i cacciatori vi troverebbero sempre a spendere molto
bene il loro tempo. Però devo aggiungere che gli infedeli europei vi
sono visti di mal occhio, ed anche provocati con atti di sprezzo e
peggio. Due volte, nel passar pe’ viottoli fra i giardini lungo la
spiaggia maritima, fui salutato a sassate tirate da mano invisibile,
che per buona ventura non mi colsero.

Grande è la varietà degli animali che popolano le fitte boscaglie,
i canneti, le spiaggie del Murdab. Alla prima oscurità della notte
udivamo surgere quasi di concerto, dall’isola a noi di prospetto,
gli urli confusi de’ sciaccali vaganti famelici in cerca della preda;
grandi stormi di anitre calavano al pascolo, e di qua, di là vedevansi
gallinelle palustri col loro tardo volo radere i canneti, o passar da
un’isola all’altra.

La caccia fatta al mattino in battello, e poscia lungo la riva del
mare, fu molto abondante. Noterò particolarmente le seguenti specie:
_Eudromias asiaticus, Totanus calidris, Totanus glareola, Xenus
cinereus, Tringa cinctus, Tringa Temminckii, Gallinago scolopacinus,
Ardea cinerea, Egretta alba, Egretta garzetta, Hydrochelidon hybrida,
Hydrochelidon leucoptera, Hydrochelidon nigra_: tutti gli individui
di queste tre specie in livrea di gioventù. La piccola testuggine
lacustre (_Cistudo europæa_) abonda così smisuratamente lungo la riva
dello stagno, nella stessa città, da esserne in alcuni luoghi, durante
le ore calde, letteralmente ricoperta la spiaggia, e sifattamente che,
per scappar all’avvicinarsi dell’uomo, le testuggini sono obligate a
montare l’una sull’altra.

Il sig. Zinowiew volle procurarci nel dopopranzo il divertimento d’una
partita di pesca, con due barche, in una delle quali eravamo noi,
ed un abile pescatore in piedi sulla prora munito del suo sparviere,
nell’altra bolliva il _samovar_, e stavano i servi intenti a versarci
il thè. Il produtto fu di alcune grosse ed eccellenti _lucioperche_,
imbanditeci la sera stessa a cena. Il Murdab non ha alcuna propria
specie di pesci; tutte sono communi al mar Caspio, per quanto
la qualità dell’aqua sia differente. Quella dello stagno è quasi
dapertutto affatto dolce, soltanto salmastra presso Enzeli; quella del
Caspio è salata, sebbene in assai diverso grado ne’ varii suoi punti,
intorno al qual argomento dirò fra poco.

Il giorno 11, sulla sera, giunsero anche i nostri compagni rimasti
in Rescht: eravamo così tutti radunati e pronti alla partenza. Il
piroscafo russo che doveva prenderci a bordo era atteso il dì seguente
davanti ad Enzeli; e noi di tratto in tratto correvamo alla spiaggia
per spiare verso oriente qualche colonna di fumo che lo annunciasse: ma
per tutto quel giorno il nostro attendere fu invano. Una buona novella
si diffuse nella nostra brigata il mattino seguente: il piroscafo era
giunto nella notte, e stava solitario all’àncora ad un tiro di cannone
dalla sponda. Era la _Tamara_, comandata da un capitano tedesco,
il sig. Müller. Molte barche movevano dalla città a caricarvi merci
e specialmente enormi balle di cotone; e ci affrettammo noi pure a
spedirvi il carico de’ nostri non pochi bagagli. Il mare era tranquillo
affatto, e ci prometteva felice navigazione; non così il bastimento che
servendo quasi esclusivamente al trasporto di mercanzie, tiene per mero
soprapiù un qualche posto per una mezza dozzina di passaggieri: e noi
eravamo quattordici, non contando le due bambine del sig. Nicolas. Il
capitano al riceverci fece le sue scuse del non poterci offrire un più
conveniente asilo, aggiungendo che un numero così grande di passaggieri
era qualche cosa di affatto insolito pel tratto dalla Persia a Baku.
Ci allogammo alla meglio, parte nel piccolo salotto, parte nel piccolo
spazio sul ponte dalla parte di prora, altri infine sulle balle di
cotone ond’era ingombro tutto il maggior spazio restante. Poco dopo il
mezzo giorno la _Tamara_ salpò, e noi mandammo un saluto _sans regrets_
al caro lido della Persia che andava dileguandosi da’ nostri occhi. Da
questo momento ci consideravamo in Europa.

Il mar Caspio è a tutto rigor di termine e di pieno dritto un lago
russo. Lungo la deserta e quasi sconosciuta sponda orientale del
paese de’ Kirgisi e de’ Turcomanni, s’incontrerebbe appena qualche
barca peschereccia, o nave di pirati. La Persia è condannata dalla
sua inerzia ed anche, per formalità, dal trattato di Turkmantschai,
a non aver su questo mare che piccole barche pel cabotaggio: la
grande navigazione è dunque tutta in mano della Russia, la quale vi
intrattiene una marina di guerra esuberante al bisogno, ed ha concesso
ad una società privata il privilegio de’ trasporti de’ passaggeri
e delle merci. La navigazione mercantile si estende fra i due punti
estremi di Astrakan ed Astrabad. Solo nella buona stagione, cioè da
maggio a settembre, vi sono due regolari corse mensili fra questi due
punti con stazione intermedia e cambio di bastimenti a Baku, e fermata
agli scali di Petrowsk e Derbent sulla prima linea di Lenkoran, Astara
ed Enzeli sull’altra. Per meglio assicurarsi questa linea, nel 1841
la Russia prese possesso di due isolotti al porto di Ashuradah presso
Aslrabad, e vi impiantò una forte stazione maritima. Fuori degli
indicati limiti di tempo la navigazione del Caspio non è più regolare,
ma dipende dallo stato del mare e de’ venti; e nel cuor dell’inverno
le corse fra Baku ed Astrakan sono sospese affatto. Anche nella buona
stagione, in caso di mare grosso che impedisca davanti ad Enzeli un
sicuro ancoraggio, i piroscafi russi filano diritto senza arrestarvisi.
Da questo si comprenderanno le nostre inquietudini di Rustemabad, e la
nostra gioja di trovarci infine sulla linea d’Europa bene o male poco
importava, purchè sicuramente.




XVIII.

Il mar Caspio. — Sua salsedine. — Carattere lacustre della sua fauna. —
Antico suo perimetro. — Una communicazione diretta fra il mar Caspio ed
il mar Nero non ha mai esistito. — La guerra agli istmi. — Provedimenti
del governo russo.


Noi avevamo dunque raggiunto il Caspio, questo mare anomalo: mare per
l’estensione e la natura delle aque, lago per l’isolamento, e sovra
tutto per la fauna. Per quanto potesse sembrare temeraria pretesa lo
spigolare in un campo ove già aveano mietuto uomini come Güldenstaedt,
Pallas, Eichwald e Baer, stava fra i più vagheggiati progetti del
nostro viaggio quello di passare qualche tempo sulle rive di questo
mare, e visitare alcuno dei suoi grandi stabilimenti di pesca. La
fauna ittiologica del Caspio ha ancora bisogno di qualche ritocco,
ed i naturalisti possono sperare ancora di trovarvi qualche angolo
inesplorato nel mondo secreto degli animali inferiori. Ma le febri
che mi perseguitavano, e quelle che sulla sponda stessa di questo
mare colsero il mio inseparabile compagno Lessona, ci consigliarono ad
affrettar il viaggio verso la nostra patria. Tuttavia i giorni passati
alle stazioni di Enzeli, di Baku e di Astrakan non andarono affatto
perduti, ed il poco che ho potuto vedere mi ha posto in grado di meglio
apprezzare gli importanti lavori degli academici di Pietroburgo, pe’
quali venne aggiunto il suggello della scienza alla ragione della
forza, che fa del Caspio un lago russo.

La superficie libera di questo mare è all’incirca il triplo di quella
dell’Adriatico[50]; ed è noto da gran tempo che il suo livello medio
è inferiore a quello del vicino mar Nero, di 81,4 piedi, ossia metri
26,40. Per la massima parte del suo perimetro è limitato il Caspio
da aride steppe e pianure sabbiose: soltanto al sud ed al sud-ovest
la spiaggia sale per scaglioni alle grandi catene del Mazanderan,
del Ghilan, e del paese del Talysch. Sono, al paragone, affatto
insignificanti i rilievi della sponda orientale, come la piccola catena
che attraversa la penisola del Magynschlak, il promontorio Tük-karagan,
e più al sud, presso il Kara-bogas, i monti Tschagadan e Balchan.

Nessuna isola sorge in mezzo a questo mare. Un numero immenso di
isolette di sabbia sono allineate presso la sponda al nord, ed altre
presso la costa orientale, tra le quali le due maggiori Tschelekän e
Ogurtschinsk, importanti per la caccia delle foche, e la prima ancora
più per l’altro cospicuo produtto della nafta.

L’Atrek e l’Embla, con altri minori fiumi intermedi provenienti dalle
steppe turaniche, quindi procedendo l’Ural, il Volga, il Kuma, il
Terek, il Kur congiunto coll’Arasse, e da ultimo il Sefidrud, portano
il tributo di una immensa massa di aque, a quanto pare non peranco
sufficiente a compensare l’evaporazione dall’ampio specchio di questo
gran mare chiuso, il quale, per conseguenza, va lentamente ma di
continuo, diminuendo di estensione.

Si deve aggiungere che stando ad alcuni fatti il mar Caspio andrebbe
soggetto ad una periodica vicenda del suo livello, intorno alla quale
però si ha difetto di precise osservazioni. Questa vicenda, attribuita
da alcuni a periodiche oscillazioni di inalzamento e di abbassamento
del fondo del mare, e delle circostanti sponde, sarebbe piuttosto
dipendente da una causa meteorica[51].

La salsedine del Caspio ha una origine evidente. La quantità di
sali che molti e grossi fiumi versano continuamente in questo ampio
bacino chiuso, e che per evaporazione vi si concentrano, risulterebbe
immensa anche solo prendendo quest’aqua affluente nella composizione
dell’ordinaria aqua dolce. Aggiungasi ora che l’aqua di alcuni tra
questi fiumi contiene sali in proporzione assai maggiore. L’Arasse,
per esempio, sbocca nel Kur e quindi nel Caspio, dopo aver lavato il
terreno salifero dell’Armenia; un piccolo fiume, l’Atrek, sboccante
presso Asterabad, mena aqua salmastra, ed io ho trovata l’aqua del
Kyzil-uzun, ramo principale del Sefidrud, al ponte del pastore presso
Mianeh, così sensibilmente salata da non essere potabile.

A questa crescente salsedine del Caspio si è attribuita la estinzione
(in parte almeno contradetta) di alcune specie di molluschi delle
quali non si trovano che i vuoti nicchi. Tutta la creazione organica
di questo mare è minacciata di estinzione in un avvenire più o meno
remoto; e ben fondati sono i timori che agitano il governo russo per
la sorte delle grandi pescaje caspiche rappresentanti, fra gli annui
profitti demaniali del vasto impero moscovita, la grossa cifra di circa
cinquanta millioni di franchi. Non è infatti da dubitarsi menomamente
che per l’accumularsi incessante dei sali l’aqua di questo mare,
separata dalla grande circolazione oceanica, non finisca per divenire
impropria al mantenimento della vita. Non si può a questo proposito
fare altra quistione che del tempo. Per buona sorte questa è stata
sciolta dall’illustre Baer in modo da dissipare i timori della presente
umana generazione: la soluzione pratica della questione ha mitigato il
rigore della sentenza teorica.

Il dotto academico di Pietroburgo ha dimostrato che, entro un certo
limite di tempo, la media generale della salsedine del Caspio non
cresce sensibilmente, perchè l’eccesso de’ sali invece di rimaner
uniformemente distribuito in quella immensa massa di aqua, è portato
dalle correnti verso la sponda orientale, ne’ seni e ne’ golfi,
ove i continui venti ed il calore ardente di estati senza pioggie
promovono una rapida evaporazione. Il golfo scitico, il Karabogas,
questo immenso estuario quasi circolare che s’interna nelle steppe, e
communica col mare per un piccolo stretto, agisce come un ampio bacino
di concentrazione, a tal punto che il sale vi si deposita continuamente
sul fondo. La stessa concentrazione, meno rapida però, ha luogo in
altri seni verso il nord, come nel Karasu, e nel Mertewyi Kultuk.
Hanno così origine degli stagni saturati che la continua formazione dei
cordoni litorali tende a separare a poco a poco dal resto del mare. Con
tutta probabilità questa è l’origine da attribuirsi a’ laghi salati
chiusi nella pianura nella provincia di Astrakan alla sinistra del
Volga; ed in tal modo l’affluenza incessante de’ sali nel mar Caspio è
controbilanciata in gran parte da una continua perdita.

Al dire di Plinio e di Plutarco l’aqua del mar Caspio era dolce e
potabile quando per di là passarono Alessandro e Pompeo: che tale sia
stata quell’aqua in origine è opinione sostenuta anche fra i moderni,
da Buffon e da Goebel. Hommaire de Hell invece le attribuisce un grado
di salsedine superiore a quella stessa dell’Oceano. Tutti potrebbero
aver ragione ancora oggi, secondo il luogo ove si prenda l’aqua per
l’assaggio. La distribuzione dei sali per la vasta estensione di questo
mare va soggetta a grandi mutazioni, secondo i luoghi, e secondo la
direzione e la forza dei venti. Ho accennato ora alla concentrazione
dell’aqua del Caspio in alcuni seni della sua sponda orientale. Le
correnti dei fiumi si spandono invece assai lungi in pieno mare. Noi
abbiamo trovata, per esempio, l’aqua perfettamente dolce e potabile a
60 miglia di distanza dalle bocche del Volga, quando la terra non era
per anco in vista. L’aqua lungo la spiaggia ad Enzeli, presso lo sbocco
del Murdab, era appena salmastra, ed entro il Murdab stesso, per poco
si deviasse dal canale che dà in mare, perdeva ogni sapore salino.
Questo ordine cambia intieramente colla direzione dei venti; così,
per esempio, un forte vento del sud spinge l’aqua salsa fin presso
Astrakan.

Tolto il Karabogas, il mar Caspio si divide in due bacini: quello
settentrionale non ha più di 19 metri di profondità[52], e l’aqua
vi è quasi dolce per gli sbocchi del Terek, del Volga, dell’Ural e
dell’Embla: nell’altro al sud la profondità cresce rapidamente, e nel
suo mezzo gli scandagli non arrivano a toccare il fondo. Questo secondo
bacino è diviso ancora in due parti da una linea congiungente la punta
di Apscheron ed il capo Krasnodowsk.

Il signor de Baer volendo far rinovare l’analisi dell’aqua di questo
mare dovette inanzi tutto vincere la difficoltà della conveniente
scelta del luogo, ove la composizione di quest’aqua potesse
rappresentare la media generale; e questo luogo fu determinato presso
il promontorio Tük Karagan, ove è più costante la miscela dell’aqua del
bacino settentrionale con quella del bacino meridionale. Il campione
d’assaggio fu preso alla superficie, mancando il signor de Baer di un
apparato per attinger aqua nel profondo. Ecco il risultato dell’analisi
instituita dal signor Mehner[53].

  Cloruro di sodio             8,9504
     »    di potassio          0,6510
  Solfato di magnesia          3,2610
     »    di calce             0,5592
  Bicarbonato di magnesia      0,2034
     »    »   di calce         0,3730
  Aqua e perdita             986,0000
                          ———————————
                            1000,0000

Questo risultato è molto importante. La forte proporzione di solfato di
magnesia è un carattere affatto proprio e caratteristico dell’aqua del
Caspio, e contribuisce per sua parte a mostrare sempre più come questo
mare non possa essere tenuto in conto di uno smembramento dell’Oceano.

Il nodo di tutte le questioni che si agitano intorno al Caspio sta
nella sua fauna. Il prospetto seguente è fondato sulla pregevole
monografia del signor Eichwald, alla quale ben poco hanno aggiunto
le ricerche posteriori. Una rivista generale, una nuova critica
delle specie, e sovratutto de’ Salmonidi e de’ Ciprinidi, è lavoro
da raccomandarsi caldamente ai naturalisti russi, ma qualunque abbia
esserne il frutto nell’interesse della zoologia pura, il risultato
generale che già si ottiene coi materiali attuali non potrà essere
mutato. Ecco adunque l’elenco degli animali del Caspio.

_Phoca caspica_ Nils. Molto abondante specialmente lungo la spiaggia e
sugli isolotti della costa orientale.

_Accipenser huso._ L. (Bieluga).

_Acc. Güldenstaedti._ Brandt (Ossetr).

_Acc. stellatus._ Pall. (Sevriuga).

_Acc. pygmæus._ Pall. (Sterlet)[54].

_Silurus glanis._ Lin.

_Cobitis_ (_Acanthopsis_) _tænia._ Lin.

_Cob. caspia_ Eichw. (Specie incerta)

_Esox lucius._ Lin.

_Trutta Sieb_..... Nell’inestricabile confusione e forse miscela reale
delle specie del genere _Salmo_ ristretto da Cuvier, è impossibile
determinare, senza apposito studio e confronto d’un gran numero di
esemplari, se nel Caspio se ne trovino una o più specie, e cosa sia
veramente il grosso salmone di questo mare. Pallas registra come specie
del mare stesso e de’ suoi fiumi le seguenti: _Salmo nobilis_, _S.
spurius_, _S. hucho_, _S. fario_, tutte da rivedersi e da confrontarsi
colle specie dell’Europa centrale. Io dirò soltanto che tutti gli
esemplari da me esaminati, alcuni anche grossissimi, aveano due ordini
molto bene distinti di denti vomerini. Eichwald conferma la frequenza
nel Volga e nell’Ural, proveniente dal mare, della specie anomala,
_coregonoide_, descritta da Pallas col nome di _Salmo leucichthys_,
che si trova anche nell’Obi e nel Lena, ove rimonta dall’Oceano artico.
Questa specie è da assoggettarsi a nuovo esame.

_Clupea pontica._ Eichw. Beschenka de’ Russi. Con questa specie è ormai
riconosciuta identica la _Cl. caspia_ del medesimo autore.

_Atherina caspia._ Eichw.

_Ath. pontica._ Eichw. O queste due specie sono da riunirsi in una
sola, oppure la seconda trovasi anche nel Caspio, avendola io rinvenuta
communissima a Baku. Gli esemplari che si conservano ora nel museo di
Torino mancano della fossetta anale caratteristica della prima specie,
ed in tutto si conformano alla descrizione data da Eichwald della _Ath.
pontica_.

_Perca fluviatilis._ Lin.

_Lucioperca sandra._ (L.)

_L. volgensis._ (Pall.)

_L. marina._ Cuv. (_Pesca labrax._ Pall.)

_Gobius batrachocephalus._ Pall.

_G. sulcatus._ Eichw.

_G. affinis._ Eichw.

_G. caspius._ Eichw.

_G. nasalis._ De Fil. (Archivio di zoologia ecc., Modena, 1863)[55].

_Benthophilus macrocephalus._ (Pall).

_Cyprinus carpio._ L.

_Tinca vulgaris._ Cuv.

_Capæta Sevangi._ De Fil.[56].

_C. Güldenstaedti_. De Fil. (_Scaphiodon capœta_. Heck).

_C. nigra_. (_Scaph. niger_. Heck).

_Chondrostoma regium_. (Chondrochylus. Heck.[57] _Cypr. nasus_ iuxta
Pallas?)

_Barbus mustaceus_. (Pall.)

_Leuciscus rutilus_. L.

_Abramis brama_. (L.)

_A. vimba_. (L.)

_A. ballerus_. (L.)

_A. sapa_. (Pall.)

_A.? persa_. (Pall.)

_A. (Blicca) laskyr_. (Güld.)

_Pelecus cultratus_. (L.)

_Aspius rapax_. Ag.

Sarebbero da aggiungersi qui altre specie non sufficientemente definite
da Eichwald, co’ nomi usitatissimi ma di così incerto significato, di
_Cypr. idus, C. erythrophtalmos, C. orfus, C. cephalus, C. gristagine,
C. leuciscus_, ecc.

_Syngnatus caspius_. Eichw.

_S. nigrolineatus_. Eichw.

_Petromyzon fluviatilis_. L.

_Astacus leptodactylus_. Esch.

_Gammarus_.... Tre distinte specie, non ancora sufficientemente
studiate, abbiamo raccolto di questo genere, ad Enzeli ed a Baku, a
due delle quali potrebbe convenire la frase troppo succinta colla quale
Eichwald contrasegna il _Gam. caspius_ di Pallas, differenti però tra
loro notevolmente pei caratteri delle antenne.

_Idotea acuminata_. Eichw. Del mar nero. La sua presenza nel Caspio è
soltanto dallo stesso Eichwald supposta[58].

Pe’ molluschi ommetto le specie fossili, e mi attengo al catalogo di
Eichwald.

_Paludina vivipara_, (delle bocche del Volga).

_P. variabilis_. Eichw.

_P. (Bithynia?) pusilla_. Eichw.

_Rissoa (Bithynia?) caspia_. Eichw.

_Neritina liturata_. Eichw. (_N. danubialis_. Ziegl.)

_Dreissena polymorpha_. V. Ben.

_Mytilus edulis_. L. Accennato vagamente da Eichwald come trovantesi
nei Volga: probabilmente confuso con qualche varietà della specie
precedente.

_Cardium Eichwaldii_ Reeve (_C. edule_. Eichw. non Lin).

_C. rusticum_. L.

_Didacna trigonoidea_. (Pall.)

_D. crassa_. Eichw.

_Monodaena caspia_. Eichw.

_Adacna edentula_. (Pall.)

_A. plicata_. Eichw.

_A. laeviuscula_. Eichw.

_A. vitrea_. Eichw.

_A. colorata_. Eichw. Delle foci del Don, ed anche probabilmente,
secondo Eichwald, di quelle del Volga.

_Nereis noctiluca_. Pall. Eichwald stesso non è sicuro della presenza
di questo anellide nel Caspio. Lo scintillare fosforico di questo mare
nelle notti estive è attribuito, anche secondo il nominato Eichwald, ai
piccoli gammari. Aggiungerò a tale proposito che per quanto io facessi
attenta osservazione nelle notti passate su questo mare, dall’undici al
venticinque di settembre, non mi venne fatto di scorgere alcuna traccia
di fosforescenza.

_Alcyonella?_... Attorno ai rami semifracidi del fondo del Murdab
rinvenni colonie di briozoi, aventi il carattere delle Alcionelle
nel modo di aggregazione degli individui. Le circostanze non me ne
permisero un accurato studio. Fra queste colonie si costruisce il nido
un piccolo ragno che del pari non potei convenientemente esaminare,
sebbene con ogni probabilità debba considerarsi come affatto nuovo, e
molto interessante pe’ suoi costumi.

_Tubularia (?) caspia_. (Pall.); specie troppo imperfettamente
conosciuta, sebbene, al dir di Eichwald, non rara.

Direi che è impossibile il non essere subito e vivamente colpiti dal
carattere affatto lacustre di questa fauna, se il fatto non avesse
dimostrato che qualche volta anche l’evidenza non si vede; se la
pluralità degli autori, tenendo conto soltanto di pochi titoli molto
dubiosi non avessero saltato di piè pari la discussione degli altri
assai più validi per numero e per autenticità, che spogliano il Caspio
del diritto legitimo ad ogni parentela coll’oceano. La sorpresa cresce
quando si vede uno dei giudici più autorevoli, il signor Ehrenberg,
ancora affatto recentemente, prendere la difesa di quella usurpata
dignità, e sostenere che il Caspio conserva ora, come ha avuto fino
dall’origine, il più deciso carattere di mare. Non soltanto vi manca
assolutamente ogni rappresentante di grandi tipi pelagici, come di
plagiostomi, di cefalopodi, di echinodermi, di polipi veri, ma perfino
non vi è penetrata alcuna specie, anche fuorviata, di pesci marini
viaggiatori, come sono gli scomberoidi così abondanti nel vicino
mar Nero. Pel contrario nessuna delle specie che abbiamo registrate
può ritenersi come esclusivamente marina; e quelle stesse che sono
state dagli autori citate come tali, non fanno punto eccezione. Così
le foche si trovano anche nel lago Baikal, la cui aqua è affatto
dolce. Un molto bello e grosso individuo di _Lucioperca marina_ cadde
nelle nostre reti in un canale del Murdab, ove l’aqua era del pari
sensibilmente dolce. Si citano i Latterini (_Atherina_) e gli Aghi
(_Syngnathus_); ma i primi sono così poco esclusivamente marini, che
noi ne abbiamo nelle aque dolci d’Italia, e dei secondi io ho trovato
una specie nel lago Paleaston presso Poti. Il _Gobius batrachocephalus_
che trovasi pure nel mar Nero, fu da me pescato anche in un ruscello
presso Batum; il _Benthophilus marocephalus_, pure commune al mar
Nero, si trova anche nel Murdab, in siti ove l’aqua può dirsi dolce. La
_Clupea pontica_ risale il Volga in banchi enormi. Il _Cardium edule_
del Caspio è differente dal vero _C. edule_ degli autori, il quale
d’altronde entra nel Tamigi fino all’altezza di Gravesend: specie del
genere _Adacna_ si trovano anche negli sbocchi del Volga, del Don, del
Dnieper e del Dniester. La presenza nel Caspio di una _Idotea_ e di
una _Nereis_ è talmente dubiosa, che non se ne può fare conto veruno.
Quanto alla _Tubularia (?) caspia_, essa è in primo luogo troppo
imperfettamente conosciuta, ed in secondo luogo non potrà mai figurare
come un tipo esclusivamente marino, dopo la scoperta di una Tubularia
(_Cordylophora_) d’aqua dolce.

L’esame microscopico del fango preso collo scandaglio in varj punti dal
fondo del Caspio, ha rivelato al sig. Weisse ed al signor Ehrenberg
una moltitudine di forme nuove, e date come veramente marine, di
politalamj, di poligastrici, di diatomee. Il fatto è certamente molto
interessante; ma la diffusibilità di questi organismi microscopici può
essere altrimenti spiegata che per mezzo della continuità dell’ambiente
ordinario della loro vita. Non sarà certamente il celebre autore della
monografia sulla polvere alisea (Passatstaube) che vorrà contrastare la
possibilità della diffusione di questi minutissimi corpuscoli pel gran
veicolo dell’atmosfera.

Vengono ora le alghe. Il signor Eichwald ne cita tre specie marine
nello stretto senso della parola: cioè _Ulva intestinalis_, L.
_Chondria obtusa_, Agd. _Polysiphonia fruticulosa_ Grew, le quali sono
veramente frequentissime nel Caspio. Anzi con ogni probabilità non
saranno queste le sole specie di alghe marine di quelle aque: ma noi
conosciamo, per un numero esorbitante di esempj, con quanta varietà di
mezzi avvenga la diffusione delle piante anche per grandi distanze, in
siti affatto isolati.

La fauna del Caspio adunque è senza contrasto una fauna di carattere
lacustre: ma possiamo far di più. Paragonandola con altra più
anticamente conosciuta, possiamo asseverare che è una fauna danubiana,
con aggiunta di poche specie proprie destituite di uno stampo locale
deciso; specie sedentarie, per le quali si può ammettere la possibile
circoscrizione ad un lato soltanto di un gran bacino. Altre poche
specie aggiunte hanno invece uno stampo asiatico, come sono quelle
del genere _Capoeta_, com’è pure il _Barbus mystaceus_ così ben
caratterizzato dallo straordinario sviluppo del terzo raggio osseo
della pinna dorsale. Se facciamo attenzione ai soli pesci, possiamo
stabilire approssimativamente le seguenti proporzioni: su circa 45
specie, di tipo essenzialmente marino nessuna; communi al Danubio 28;
proprie del Caspio 7; communi al mar Nero 5, tutte trovantisi anche
in aque dolci; di origine asiatica e trovantisi anche nei fiumi della
Persia 5. L’_Astacus leptodactylus_, la _Neritina liturata_ (da non
distinguersi dalla _danubialis_), ed anche la _Dreissena polymorpha_,
concorrono a dar alla fauna del Caspio il carattere danubiano, o meglio
ancora inversamente alla fauna del Danubio il carattere caspico.

Adunque coloro che intendono tracciare la storia fisica della
grande regione nella quale questo mare è incluso, devono più che il
Ponto Eusino aver di mira il Danubio. Da Pallas in poi si ripete
ad ogni occasione che il mar Caspio ed il mar Nero sono stati un
tempo congiunti. Questa espressione è per lo meno inesatta. Una
communicazione diretta fra i due mari parmi si possa ricisamente
negare: un’antica communicazione fluviale molto indiretta è forse
ammissibile, ma non è di questa che s’intende parlare, che altrimenti
l’espressione non avrebbe portata alcuna.

Il perimetro del mar Caspio è molto diminuito da quanto era
anticamente; ed una gran parte del suo primitivo fondo trovasi ora
all’asciutto. Su questo riguardo le antiche osservazioni di Pallas
hanno ricevuto piena conferma dai lavori più recenti di Murchison e
di Baer. Sull’epoca nella quale le aque del Caspio rientrarono nel
bacino attuale, le opinioni sono diverse. Pallas, fondandosi su molto
oscuri ed incerti documenti istorici, sostenne che le aque del Caspio
bagnassero ancora, nel IV e V secolo, un gran tratto di quella che ora
è pianura asciutta all’occidente; ma d’altra parte chiari e positivi
dati che si trovano in Erodoto escludono ogni dubio che fin dai
tempi di questo scrittore il Caspio fosse ridotto già all’estensione
attuale. Baer con nuovi argomenti, tra’ quali è importante quello del
tempo immensamente lungo che il Volga ha dovuto impiegare a scavarsi
l’attuale suo letto, concorre a dimostrare che il ritiramento del
Caspio si è effettuato in tempi anteriori ad ogni testimonianza umana;
in epoca da chiamarsi storicamente antica, sebbene geologicamente
moderna.

Depositi per lo più incoerenti, con strati di conchiglie di specie
identiche a quelle che vivono tutt’ora nel Caspio, occupano una grande
estensione di terreno nella Russia meridionale e nelle confinanti
regioni dell’Asia. Essi prolungansi molto avanti nel nord, fin oltre
Saratow, per tutta la pianura solcata dalle aque del placido e quasi
dormiente Volga. Ad oriente, girando attorno l’alto piano dell’Ust
Urt, si estendono, senza limiti ben definiti, per il vasto deserto
de’ Kirgisi e de’ Turcomanni; ad occidente occupano le steppe de’
Calmucchi, ed oltrepassando l’istmo si fanno vedere ancora lungo le
sponde del mar di Azow. Questi depositi costituiscono quella che i
signori de Verneuil e Murchison hanno chiamata formazione caspica
superiore, perfettamente sincrona col pleistocene dell’Europa
occidentale.

Al di sotto di essi occupano un’assai maggior estensione altri
sedimenti, che sono marne di varie qualità, e pietre calcaree in strati
regolari, orizontali, o poco dislocati, ricchissimi di conchiglie
d’aqua dolce o salmastra, di specie poco numerose, ma in numero
veramente strabocchevole di individui. Domina fra queste roccie una
calcarea, non d’altro costituita che da frammenti di conchiglie o
nicchj intieri cementati: è la roccia chiamata calcarea delle steppe,
o calcarea Aralo caspica. Le conchiglie univalve (paludine, rissoe,
limnee, neritine) sono sproporzionatamente scarse al confronto delle
bivalvi, cardiacee e mitilacee. Le specie tutte affatto differenti da
quella che abitano ora il mar Nero, sono invece grandemente analoghe
a quelle che ora vivono nel mar Caspio ed allo sbocco de’ maggiori
fiumi della Russia meridionale: tanto analoghe che per un buon numero
di esse la differenza specifica è ridotta a pochissimo od a nulla. È
questa la formazione caspica inferiore, equivalente al pliocene del
bacino del Mediterraneo. Dalle falde dell’Hindu-kho e de’ monti della
Tartaria, per tutta l’immensa pianura aralo-caspica, questa formazione
si prolunga verso occidente dalle steppe del Don fin nella Bessarabia.
Sono troppo note le belle ricerche di Dubois de Montperreux, di
de Verneuil, di Murchison sull’estensione e la giacitura di questa
formazione, perchè sia d’uopo riepilogarle qui nei loro particolari.
Mi basterà soltanto aggiungere che, al disotto della calcarea delle
steppe, si distendono in Crimea altri strati fossiliferi, ricchi di
specie marine affatto differenti da quelle dell’attuale mar Nero, e che
ben a ragione i geologi, di commune consenso, riferiscono al periodo
miocenico.

La così detta calcarea delle steppe segna il limite
occidentale-meridionale, il solo positivamente determinato, di un
immenso mare interno che all’epoca pliocenica occupava una gran
parte dell’Europa orientale e dell’Asia. Dalla natura degli esseri
organici, dalla grande estensione della superficie evaporante, e da
quanto si rileva dei bacini residui, si può dedurre che l’aqua di
questo mare fosse appena salmastra. Il ponto Eusino, il Caspio, il
mar d’Aral, il lago Balkasch ed una moltitudine di altri piccoli
laghi disposti a rosario come per raggiungere a nord-est il mar
glaciale, sono considerati da Humboldt come membra staccate di questo
sterminato mar interno, che estendevasi fino a communicare direttamente
coll’Oceano artico. Già qualche cosa di ciò aveva balenato alla
mente perspicacissima di Pallas, quando, al proposito dell’estensione
geografica dell’Accipenser huso, lasciava scritto: _dicuntur etiam
(cum reliquis accipenserum speciebus) pullulare in vastis lacubus
magnae Tatariae deserti: Aral, Balkasch, Alak-Tughul, quos olim
cum mari caspio per plana communicasse verosimile est._ Tutte le
osservazioni posteriori sono venute in appoggio di questo pensiero
di Pallas, amplificato da Humboldt: ma non abbiamo un solo veramente
valido argomento che accenni ad una communicazione diretta di questo
gran mare interno col mare generale: le specie veramente pelagiche
ne sono affatto escluse. Come già ho fatto osservare, nessuna specie
genuinamente mediterranea si trova ora nel mar Caspio, o negli altri
grandi laghi salati del medesimo originario sistema: e dall’altra parte
non vi si riscontra alcuna forma marina boreale, e per esempio, alcuno
de’ tanti copiosi gadoidi dell’oceano Artico[59]. A questi caratteri
negativi della fauna si aggiungano i positivi delle particolari specie
di storioni, di ciprinidi (_Abramis, Petecus_), di cardiacei e di
mitilacei (_Dreissena_); ed emergerà sempre meglio l’indipendenza,
l’isolamento di questo gran mare interno europeo-asiatico.

Passiamo ora al mar Nero. Noi non ci preoccuperemo di un’epoca remota
nella quale il bacino pontico abbia potuto far parte del gran mare
salmastro interno: noi dobbiamo prender il mar Nero al momento in cui
ha avuto un’esistenza distinta ed una fauna marina. Sotto questo punto
di vista il mar Nero è una dipendenza del Mediterraneo, ed appena
si distingue dalla madre patria per un minor grado di salsedine,
e per una molto minore varietà di specie: due caratteri in stretta
relazione fra di loro. Se cerchiamo la ragione di queste differenze,
ci troviamo in faccia ad una fondamentale quistione. Quando il
bacino pontico è diventato un golfo del Mediterraneo, e ne ha presa
la fauna? È nota l’opinione che riferisce l’apertura del bosforo
tracico, e la consecutiva invasione del Mediterraneo nell’attuale mar
Nero, ad un’epoca molto recente, se non storica nello stretto senso
della parola. Aristotele, Strabone, Diodoro Siculo, fanno coincidere
questo avvenimento col diluvio di Deucalione. Dubois de Montperreux
lo riferisce alla fine dell’epoca quaternaria, ed ha consenziente la
massima parte de’ geologi. Malgrado una così rispettabile autorità
è impossibile non vedere nelle traccie della primitiva fauna marina
pontica documenti di una più antica esistenza del mar Nero attuale.
Sono preziose a questo proposito le recentissime osservazioni del
signor Abich[60], il quale ha descritto, lungo le due penisole di
Kertsch e di Taman, un deposito litorale (già vagamente indicato dal
signor di Verneuil), che si inalza dai 12 ai 16 piedi sul livello
attuale del mare, caratterizzato da un gran numero di conchiglie
mediterranee differenti in gran parte da quelle che vivono oggi nelle
corrispondenti regioni del mar Nero stesso, e indicanti, pel numero
delle specie, una fauna molto più ricca dell’attuale di questo mare.
Con ogni probabilità si devono considerare come depositi dell’istessa
natura e della medesima epoca quelli oscuramente accennati da Hommaire
de Hell nella Romelia e nell’Anatolia, ad un’altezza ancora maggiore
sul livello del mare. Questi dati che fanno credere all’esistenza del
mar Nero con una più ricca e più decisa fauna mediterranea fin dal
principio dell’epoca quaternaria o pleistocenea, sono di un gran peso
nella quistione, poichè è forza ammettere la coesistenza, nella stessa
epoca, del mar salmastro interno nel secondo suo periodo, in quello
cioè che ha dato luogo al deposito della formazione caspica superiore.
Il limite fra i due mari doveva esser quello medesimo segnato tutt’ora
dalle frastagliate scogliere (_falaises_) di calcare delle steppe,
che dalla Bessarabia, congiungendosi ai colli litorali della Crimea,
si continuano, colla sola interruzione del bosforo cimmerio, fino
allo sperone occidentale del Caucaso. Due argomenti depongono per la
perfetta separazione de’ due mari: cioè quello già trattato più sopra
della separazione delle due faune, e l’altro, che ora si presenta,
della maggior ricchezza e del più deciso carattere marino della
fauna pontica pleistocenica in confronto dell’attuale, onde è pure da
inferirsi un grado di salsedine delle aque superiore al presente.

Il mar Nero trovasi ora in processo continuo di diluzione o di
_dissalamento_. Una corrente d’escita pel canale del Bosforo scarica
nel Mediterraneo aqua salsa in quantità corrispondenti all’eccesso
del tributo de’ fiumi sull’evaporazione; e questo spiega la povertà
attuale e crescente della fauna marina pontica. Il mar d’Azow che
riceve direttamente gli sbocchi del Don e del Kuban, non ha ora che
aqua salmastra, e va trasmutando rapidamente la sua fauna marina in
una d’aqua dolce. Questa nuova fase del ponto Eusino ebbe principio
dall’epoca moderna, quando per un abbassamento del terreno di una gran
parte della Russia meridionale, il Dniester, il Dnieper, il Don ed il
Kuban versarono direttamente nel mar Nero l’aqua che prima tributavano
al gran mar interno.

A questo periodo corrisponde pure l’abbassamento del fondo del mar
Caspio, le cui espanse aque si raccolsero così nell’attuale più
ristretto perimetro. Per questo movimento del terreno tutto il gran
mar interno andò smembrato nei mari chiusi e grandi laghi dell’Asia
centrale, e la sua fauna si è ripartita non solo in questi bacini, ma
anche nei fiumi dall’Embla al Danubio. Ove questi fiumi ristagnano in
larghi seni, ivi si è mantenuto nella primitiva purezza il carattere
della fauna ora divenuta caspica, come si vede, per esempio, nel
piccolo lago di Ackermann formato dal Dniester. Ristretto una volta
il Caspio ne’ suoi limiti attuali, bastò l’umile rilievo dell’istmo
caucasico, misurato anche soltanto al punto di separazione delle aque
del Manytsch, per dividerlo dal mar Nero.

Pietro il Grande avea già concepito il disegno di metter in
communicazione il mar Nero col mar Caspio per mezzo de’ fiumi,
congiungendo con canali artificiali sia il Don al Volga, sia il Kur
al Rioni; e questo disegno del grande autocrata avea perfin ricevuto
un principio di esecuzione, riescito a vuoto per le vicende politiche
e per la velata ma pertinace opposizione delle autorità locali. Più
recentemente fu ripreso il progetto con un altro piano, studiando
la possibilità di una communicazione diretta fra il Caspio ed il mar
d’Azow per la depressione del Manytsch e del Kuma, ed incominciando
dal vero principio, cioè da una esplorazione di quella contrada che,
per un complesso di circostanze locali, era fino a questi ultimi anni
rimasta una _terra incognita_ nello stretto senso della frase. Il
signor de Baer mise in evidenza tutta la difficoltà di costruzione di
un canale diretto tendente a far confondere le aque de’ due mari, e
conchiuse consigliando l’abbandono del progetto. Il sig. Bersträsser
fondato su posteriori livellazioni de’ signori Ivanow e Nasaroff,
trova pel contrario possibile questa communicazione per mezzo di un
canale alimentato dalle aque convenientemente dirette del Kala-us e del
Kuma, e da grandi serbatoj accumulanti le aque di cui tanto abonda in
primavera la valle del Manytsch.

L’uomo, questo vivente irrequieto, pare si diletti delle più colossali
contradizioni, e vorrebbe a suo talento accommodare la faccia del
globo, congiungere quello che la natura ha separato, separare quello
che la natura ha congiunto. L’ardito esempio del signor di Lesseps ha
suscitata una guerra generale agli istmi, e le millanterie tecniche
hanno rotto ogni freno. Mentre non si ha il coraggio di fare un taglio
fra le due Americhe, la Spagna ha potuto un momento pensare sul serio
a diventare un isola, aprendo un passaggio alle navi dal golfo di
Biscaglia alla baja di Alfaques in Catalogna. Il governo russo ha fatto
bensì studiare diligentemente da’ suoi geometri l’istmo caucasico, ma
non si lascerà indurre così presto a dar mano al piccone. Ed affinchè
i grandi progetti abbiano tempo a maturare, e si possa frattanto
chiarire se il commercio dell’Europa coll’Asia centrale sia veramente
chiamato a riprendere la via del Caspio, v’era una nuova porticina da
aprire e fu aperta. Le pelli e le sete di Bokara, le sete ed i cotoni
del Mazanderan salgono o possono salire il Volga fino a Tzaritzin,
d’onde, per mezzo d’un piccolo tronco di ferrovia, passano nel Don,
e scendono il fiume fino a Taganrog, ove approdano i bastimenti
d’Europa. Le mercanzie europee sono a Taganrog riprese, e col mezzo di
un particolare sistema di rimorchiatori, fatte riascendere il Don sino
alla stazione della ferrovia.

Questi trovati dell’attuale civiltà non bastano a far deviare
il commercio della Persia dall’antica direzione, a sostenere la
concorrenza col primitivo patriarcale sistema delle carovane, e le
sete stesse dagli emporj di Rescht sono ancora spedite direttamente a
Trebisonda, malgrado la via lunghissima di terra, lo scabroso passo di
Massula, i pericoli delle rapine de’ Curdi, e le esazioni delle dogane
turche.




XIX.

Lenkoran. — Baku ed i suoi fuochi eterni. — Derbend. — Petrowsk. —
Burrasca. — Le bocche del Volga. — Astrakan.


Toccata, inanzi l’alba del 14 settembre, Astara, luogo di confine
tra la Russia e la Persia sulla sponda del mare, si giunse di assai
buon matino alla stazione di Lenkoran. Potendo noi disporre di alcune
ore, ci affrettammo a scendere a terra, per far un’escursione alla
città nascosta dietro il fogliame degli alberi, a circa una _versta_
dal lido. Alcuni _droschki_ venuti molto a proposito in cerca di
passaggeri, ci fecero guadagnar tempo. Lenkoran, capoluogo del Talysch,
pare una città improvvisata, e quel poco che vi è in muratura è tutto
nuovo. Un ampio viale tra due file di alberi e di case rammenta
la colonia tedesca di Tiflis, ma serve di quartiere a famiglie di
Malacani, e guida ad una piazza nel cui mezzo surge una bella chiesa di
legno. Da questa si passa ad una seconda piazza che serve agli esercizi
ginnastici, quindi ad una terza circondata da botteghe, che è il bazar,
e poscia ad una quarta maggiore piazza che è il mercato. Quantunque
dì festivo la maggior parte delle botteghe erano appena socchiuse,
ed i mercanti venivano al nostro incontro chiedendoci a gara i paoli
imperiali che dovevamo aver portali dalla Persia, per cambiarli, a
condizioni molto vantaggiose per noi, colla sola moneta circolante in
Russia, vale a dire con biglietti di banco.

Il clima del Talysch, le condizioni tutte del terreno sono ben poco
dissimili da quello del Ghilan, e ne fa prova la bella vegetazione
del piano e quella pure de’ non lontani colli; ma un non so quale
governatore della Grusia ne ha avuto troppo alto concetto, quando volle
tentare nella campagna di Lenkoran la cultura della canna da zuccaro.
I polloni recativi dal Mazanderan germogliarono quel tanto precisa
che valeva a disconsigliare la continuazione dell’esperimento, senza
l’umiliazione d’un fiasco assoluto.

Il seguente matino ci risvegliammo nella rada di Baku, determinali
a bene spendere il nostro tempo ne’ cinque giorni di sosta che ci
erano assicurati. Il signor Nicolas si stabilì colla sua famigliuola
in una casa privata della città; il capitano Clemencich ci abbandonò
sollecitamente, per recarsi nel Caucaso occidentale onde assistere a
qualche fazione militare della campagna che doveva far cadere nelle
mani della Russia quest’ultimo asilo de’ Circassi; noi mantenemmo il
nostro quartier generale sulla Tamara, per quindi trasferirlo sul nuovo
piroscafo atteso da Astrakan.

La città di Baku, conservante l’antico stampo persiano, s’erge su di
un piccolo contraforte d’una catena di colli affatto nudi e sterili.
La circonda un vecchio muro, e le danno accesso, verso terra, due porte
munite di ponte levatojo, ed altra porta dalla rada. Fuori delle mura,
ad occidente, sono allineate lungo la spiaggia alcune belle ed eleganti
case moderne ornate di qualche tentativo di giardino. Due antichi
monumenti colpiscono lo sguardo di chi la guarda dal mare: sull’alto
i minaretti, le cupole, i frontoni dell’antica residenza de’ khan; in
basso, non lungi dalla porta della marina, una gran torre cilindrica,
tozza, nera per vetustà, detta la torre della vergine, dalla leggenda
che le è connessa di una donzella la quale, astretta dal padre ad un
inviso connubio, di là si precipitò in mare. Nel piano fuori delle
mura, a nord est, è il sobborgo o meglio la città nuova, con strade
rettilinee intersecantisi ad angolo retto, sede de’ principali mercanti
e di alcuni offizi del governo, quello delle poste compreso.

Baku ha appartenuto agli schah del Schirwan, finchè alla morte dello
schah Nadir, nel 1748, scomposto il regno, riescì a costituirsi centro
di un canato indipendente. Al principio di questo secolo il dominatore
Hussein Kuli Khan, della stirpe de’ Kagiari, tentò riunire in una lega
commune, contro l’invasione russa, i varj principotti musulmani del
Caucaso orientale; quando assalito egli stesso nella sua residenza,
ed esperimentata la debolezza delle sue forze, si pensò di meglio
riescire col tradimento. Finse di voler scendere a patti, e chiese
un abboccamento al principe Tsitsianoff, comandante supremo delle
forze russe, per trarlo in agguato ed ucciderlo. Un armeno venuto
in cognizione della congiura ne avvertì il principe, il quale, non
ascoltando che la nobiltà del suo carattere, rispose semplicemente: non
oserà. Andò infatti, e fu trucidato. L’inaudita scelleratezza ebbe la
pronta e radicale punizione che era da attendersi: il conte Goudowitsch
non fece altro che impadronirsi immediatamente del canato a nome della
Russia.

Baku ha una popolazione di circa 10 mila abitanti, la massima parte
persiani. La vita vi è discretamente animata, per essere questa città
uno dei principali emporj del commercio della Russia colla Persia.
Alla porta della marina il piazzale interno, i magazzeni circostanti,
il lido stesso, erano ingombri di ferro delle miniere degli Urali. Il
commercio proprio del luogo consiste in tappeti, seterie, zafferano e
specialmente bitume.

La penisola di Apscheron, che forma la massima parte del circolo di
Baku, è rinomata pe’ suoi numerosi pozzi di nafta, danti un produtto
medio annuale di 300 mila _pud_[61]. Di questa preziosa sostanza
si hanno diverse sorta: la nafta solida, picea, chiamata _kir_; la
vischiosa, la liquida o petrolio. Quest’ultima è la sorta prevalente
presso Baku, mentre all’opposta sponda del Caspio, all’isola di
Tschelekan, è la prima, ossia la nafta picea che si estrae quasi
esclusivamente. Il _kir_ viene poscia spedito in Russia, a Bokara ed in
Persia, per farne terrazzi, come si pratica dell’asfalto in Italia ed
in Francia, che in vero fra questi due bitumi non esiste differenza che
di nome.

Sono altresì rinomati da secoli i fuochi di Baku, ossia i getti
continui di gas infiammabile, simile affatto per la natura e per la
origine al così detto gas delle paludi, al _feu grisou_ delle miniere
di litantrace. Non v’ha dubio che si debba collegare la formazione
di questo gas a quella stessa della nafta, ed è molto interessante il
fatto osservato dal sig. de Baer che, nella penisola di Apscheron, in
corrispondenza delle surgenti gasose, la nafta è liquida[62].

La sera stessa del nostro arrivo fummo cortesemente invitati da un
officiale della marina russa al singolare spettacolo delle fiamme del
mare, del quale però mi tenne defraudato un nuovo accesso di febre. A
circa un’ora di distanza, al sud della città, presso gli scogli della
sponda, gorgogliano veementi getti gasosi trascinanti seco alquanto
petrolio che in sottilissimo velo si diffonde sull’aqua. Il contatto
d’una face accesa fa sollevar d’intorno turbini di fuoco agitati
in balìa delle onde, ed i miei compagni si dilettarono di scorrervi
frammezzo, col battello guidato dalle braccia nerborute dello stesso
capitano Müller, esponendo le barbe ed i capegli alla sommità ripiegate
delle spartite fiamme.

Il dì seguente sul tramonto, noleggiati alcuni _droschki_, ci recammo
a visitare il famoso tempio degli adoratori del fuoco, a 12 verste
dalla città, presso il villaggio di Sarochani. La strada percorre una
campagna ondulata, deserta, che non ha nulla da invidiare alle più
aride steppe della Persia: solo qualche rara pezza di stentato verde
si presenta allo sguardo nel fondo di qualche remota valletta. Poco
oltre uno stagno, aU’ultima luce del giorno biancheggiante ancora di
incrostazioni saline, vedemmo già comparire in distanza nel vasto piano
alcune fiamme solitarie, e, dopo breve tratto, i nostri cocchieri
si arrestarono alle tetre mura di un grande fabricato che d’ogni
intorno diffondeva nell’aria una pallida luce giallastra. Li ci fu
spalancata una porta, ed attraversando un cortile ove in una fossa,
come in una fornace, soffiava un impetuoso getto di fuoco, entrammo
nel sacro recinto. È questo una scura ed angusta cella, nel cui mezzo
arde su di un altare di fango una fiammella eterna, mentre un secondo
altare applicato al muro, dicontro alla porticina di ingresso, è
adorno delle strane cianfrusaglie del rito. Il sacerdote, un indiano
spiccato dalla metropoli ghebra di Bombay, non si fece aspettare; diede
qualche tocco di campanello sul limitare del tempio, e si rivolse,
come a cosa d’abitudine, a ripetere davanti a noi la cerimonia della
sua religione. Incominciò dal soffiare in una grande chiocciola
di tritone, traendone il noto suono cupo e penetrante di questo
strumento, poi fra genuflessioni, gesticolazioni incomposte, e vario
maneggio degli oggetti sacri dell’altare, brontolò le sue preghiere,
nelle quali non potemmo intendere chiaramente che il ripetuto nome
di Brama. La rappresentazione durò un quarto d’ora, all’incirca, e fu
chiusa coll’offrire a ciascuno di noi dello zuccaro candito su di un
piattellino, sul quale noi, alla nostra volta, depositammo tanto da
fare un pajo di rubli. Ci fece sorpresa il trovare, tra i varj oggetti
posti alla rinfusa sull’altare, un crocifisso, e fatto interrogare su
di ciò il ghebro, che pure intendeva discretamente il russo, ci rispose
che egli teneva in venerazione anche il Cristo, come un gran santo;
la qual cosa ci confermò nell’opinione essere il nostro uomo anche un
tantino impostore.

I fuochi di questo tempio sono eterni, od almeno di durata indefinita,
però le più antiche memorie storiche intorno ad essi non vanno oltre
il decimo secolo: anzi Massudi, scrittore arabo di quel secolo appunto,
ne parla come fossero in epoca a lui prossima improvvisamente apparsi,
dopo una eruzione dal terreno[63]. Una della nostre guide, nel cortile
stesso del tempio, si fece a scavare la terra colle sole mani, sino
alla profondità di circa due palmi, ed approssimando poscia alla fossa
un foglietto di carta acceso, ne fece sollevare una fiamma spenta di
nuovo col riversare nella fossa la sabbia circostante. Gli abitanti
dei dintorni sono affatto liberi dalle cure per l’alimento de’ loro
focolai: un tubo piantato nel terreno sino a pochi piedi di profondità,
dà la fiamma sull’istante, duratura a norma de’ bisogni ed anche ad
arbitrio.

Il terreno intorno a Baku risulta per intiero della così detta
formazione caspica inferiore di cui ho fatto cenno nel precedente
capitolo: però gli strati furono molto sensibilmente sollevati, tanto
da costituire da soli i colli e le sponde qua e là dirupate del seno
di Baku, come della massima parte dell’intiero perimetro del Caspio.
Ne’ tagli naturali del terreno al sud della città si distinguono,
procedendo dal basso, i seguenti strati fra loro connessi da passaggi
insensibili dell’uno all’altro.

1.º Marna sabbiosa e sabbia finissima zeppe di conchiglie (_Bithynia,
Dreissena, Monodacna_).

2.º Aggregato friabile di conchiglie de’ medesimi generi.

3.º Calcarea intieramente composta di grossi frammenti di conchiglie,
e nicchj intieri determinabili, per la massima parte di cardiacei: una
vera lumachella infine, solida e cavernosa, eccellente materiale di
costruzione, e d’onde infatti è fabricata la città.

Nelle dislocazioni, senza dubio repentine e violenti, di questo
terreno, gli strati della calcarea rimasero fratturati più del
sottoposto sedimento incoerente, fino a trovarsi in diversi luoghi da
questo discordanti, colle testate disordinatamente sporgenti.

Il giorno 17 settembre giunse da Astrakan l’atteso piroscafo che doveva
dare il cambio alla Tamara. Era il Bariatinski, magnifico bastimento,
con ampio e elegante salone sul ponte, avente per tetto un secondo
ponte a commodo di chi volesse godere il fresco notturno. Ci occupammo
il dì seguente del trasbordo delle nostre robe, e dell’assestamento
delle nostre celle, mentre andava a poco a poco formandosi il carico
del bastimento, e nuovi passeggeri giungevano ad occuparlo. Venne
così a comporsi nel salotto una eletta società, in massima parte
di ufficiali russi, e di una signora che allo spirito sciorinato in
purissima lingua francese, alla considerazione ond’era circondata,
palesava la distinzione dei suo rango, come ne’ tratti dei viso le
traccie d’una passata bellezza. Era la contessa Freigang, moglie d’un
generale, antico capo della stazione navale di Baku, ed ora trasferito
ad altra sede nell’interno dell’impero.

Il Bariatinski avea portato i giornali di Mosca e di Pietroburgo
accumulati da due settimane, pieni di gravissime notizie per noi.
Gli ufficiali russi, con visibile commozione al saperci italiani,
gareggiavano nel tradurle e nel commentarle, esprimendo anche in questa
circostanza la profonda simpatia pel nostro paese, e la ammirazione
per la grande personalità di Garibaldi che abbiamo sempre e dapertutto
incontrate in Russia. Mancano le parole ad esprimere la costernazione
e lo stupore onde fummo compresi al racconto del nuovo estremo cimento
della nostra patria, e della fatalità che lo volle scongiurato col
sangue sui campi di Aspromonte!

Coll’animo straziato ed il pensiero travolto ne’ turbini di un
imprevedibile che la distanza de’ luoghi rendeva più tetro, rimanemmo
ancora tre giorni nella rada di Baku. La matina del 22 giungemmo in
faccia a Derbend. Il signor Alessandro Dumas, che già era stato tema
principale delle nostre conversazioni colla signora contessa Freigang,
venne ancora alla nostra memoria. In Torino, pochi giorni prima della
nostra partenza, conferendo con me e con Lessona, trasfondendoci,
collo splendido colorito della sua parola, le sue impressioni di
viaggio ne’ paesi stessi che avremmo dovuto percorrere, ci aveva fatto
promettere di visitare questa così singolare città, e la gran muraglia
e la porta di ferro. Era quindi per noi quasi lo sciogliere un voto lo
sbarcare: ma il mare era grosso, e molta la distanza dal lido, ed il
capitano da noi interrogato rispondeva che non poteva assicurarci poi
la possibilità del ritorno a bordo. Questo bastò per farci rientrar
subito nei limiti di quella prudenza che era stata fino allora la
nostra scorta, e restar paghi di rimirare la città dal ponte del
bastimento. Il panorama era per verità stupendo. Le case di stile tutto
orientale, stipate sull’erto pendio del monte ed allineate da strade
l’una sull’altra parallele fra loro ed alla spiaggia, la muraglia che
s’inerpica sul monte, e ricingendo strettamente la città la isola dal
circostante rupestre deserto, danno a Derbend un tale carattere, che
descritto colla fedeltà della prospettiva può sembrare ancora fantasia
di romanziere[64].

Sul far della sera fu ridato il moto alle ruote, ed inanzi l’alba si
gettò l’ancora a Petrowsk, per rimanervi buona parte del giorno. È
questa una piccola città affatto nuova, con belle case, ed un forte
che domina la spiaggia. I magazzini, ed un grande molo che trovammo
in costruzione molto inoltrata, lasciano credere che il governo russo
voglia farne la principale stazione navale del Caspio, qui soltanto
essendo possibile, per tutta la sponda occidentale di questo mare, un
simulacro di porto. Dietro la città surge un monte col dosso prolungato
così regolarmente da rassomigliare ad un piccolo Iura. In distanza, in
un valloncino, appicciccata alla roccia come un nido d’aquila, vedesi
la città lesghiana. La sponda presentasi qui ancora costituita della
stessa calcarea di Baku.

Era giorno di mercato, e la piazza vedevasi animata di cenciosi Lesghi
dalla truce fisionomia, di soldati russi, ed anche di qualche elegante
gonnella. Incontrato un carro di pescagione che andava al peso publico,
lo seguii da vicino, finchè la merce fu riversata in grandi corbe.
Erano tutti lucci, tinche e carpe. Ecco i bei pesci marini del Caspio!

Nella sera, quando ancora stavamo seduti alla tavola del pranzo, e
il Bariatinski avea preso il largo, fummo assaliti da una violenta
bufera. Il fischio orribile del vento, l’impeto delle ondate sui
fianchi della nave, il forte rullìo, il tumulto dei passaggeri sbattuti
sul ponte, il passo concitato e le grida del capitano e de’ marinai,
producevano un baccano infernale. Fu prudenza l’ardire del capitano di
avvicinarsi alla costa e gettar l’ancora, e così fummo salvi. Il giorno
dopo, dileguata rapidamente la tempesta, vedemmo tutta la gravezza
dell’incorso pericolo. Il capitano stesso ci assicurò che in tanti
anni di navigazione sul Caspio non s’era mai trovato così prossimo
al naufragio. Tre valigie erano state svelte da una furiosa ondata
e gettate in mare, un gran numero di colli avea sofferto avaria, ed
una donna piangeva dirottamente i suoi rubli di carta macerati. Il
Bariatinski avea ripreso felicemente il suo corso, quando visto in
distanza un segnale d’allarme deviò prontamente a quella volta. Era un
bastimento mercantile, che veniva da Astrakan, diretto a Petrowsk, e
sbattuto dalla burrasca, avendo perduto l’albero maestro ed il timone,
ebbe la buona ventura d’esser preso a rimorchio e ricondotto al punto
d’ond’era partito.

La matina del 25 eravamo già pervenuti ai bassi fondi, ove le grosse
navi corrono pericolo d’arenarsi. Alcuni anni prima, infatti, il
piroscafo Costantino, incappatovi a 60 verste dalla spiaggia, rimase
condannato all’immobilità per due intieri mesi, co’ suoi passaggeri a
bordo. Dopo questo avvenimento il governo russo ha fatto costrurre dei
piccoli rimorchiatori che ricevono il carico de’ piroscafi corrieri,
e lo trasportano ad Astrakan. Dovemmo adunque passare noi medesimi,
colla folla stipata degli altri passaggeri, e l’ingombro dei colli
e delle mercanzie, quali su di un grande barcone piatto, quali sul
rimorchiatore stesso, che trascinò eziandio per altre cinque leghe il
Bariatinski vuoto, e il bastimento salvato. La terra non era peranco in
vista, e già potevamo bevere l’aqua dolcissima del Volga.

Dopo alcune ore il verde dei canneti che spuntano già in distanza,
qualche isolotto a fior d’aqua, sparse navi ancorate, fra le quali
un bastimento da guerra impegnato nelle sabbie, poi qualche capanna
di doganieri e di pescatori, ci annunciarono il gran delta del fiume.
Alle due pomeridiane fummo accostati dalla barca della dogana, ed un
commissario montò a bordo per le perlustrazioni del suo officio. Quanto
ci aveano detto del rigore e delle vessazioni delle dogane russe fu
pienamente smentito, e noi in particolare fummo trattati con tutti i
riguardi che si usano verso i diplomatici, cioè col non aprire tampoco
le casse e le valigie di nostra pertinenza.

Eravamo frattanto entrati nel braccio principale tra gli ottanta in cui
si decompone al suo sbocco il maggior fiume d’Europa; e il dì seguente,
allo spuntar del sole, approdammo ad Astrakan.

Alcuni de’ miei compagni si occuparono immediatamente delle
disposizioni per continuare il viaggio. Lessona prostrato dalla febre
avea bisogno urgente di riposo e di un asilo almeno tranquillo per
qualche giorno, e questo fu subito trovato a pochi passi, chè la scelta
dell’albergo non era imbarazzante. Questa città così grande, così
commerciante, così ricca, non ne conta più di tre, tutti di infima
classe. Fidandoci dell’esterno entrammo in quello che poteva passare
per il meno sucido, ove ci furono aperte quattro camerette anguste come
celle da prigione, colle pareti di semplici assite, ed il mobiliare
composto in tutto di due sedie, di un tavolino, e di un canapè duro,
appena largo e non tanto lungo quanto la persona, senza nè cuscini nè
coperte. Per buona ventura avevamo ancora qualche materasso di scorta,
e la fibra temprata da sei mesi all’abbandono di ogni mollezza.

Astrakan, come del resto la massima parte delle città sul Volga, è
formata di due parti: d’un gran sobborgo con case di legno lungo
il fiume, e della città con spaziose lunghe contrade rettilinee,
eleganti case in muratura, di stile severo e maestoso, e belle botteghe
riccamente fornite di mercanzie d’Europa.

La via principale del sobborgo scorre parallela al fiume, e nello
spazio frapposto sta il folto delle abitazioni, degli emporj, e
degli officj delle compagnie di navigazione. Questa parte della città
vive della vita della principale arteria commerciale della Russia,
e dell’affluenza della pesca del Caspio. La quantità di minuto pesce
che si consuma fresco sul luogo, o secco e salato viene spacciato a
prezzo vilissimo per grande estensione di paese, è ancora un nulla al
paragone dell’immenso produtto degli storioni, delle aringhe e delle
foche, che viene qui preparato e convertito in generi del grande
commercio, con grande profitto anche delle saline erariali. Stanno
allineati in gran numero sulla riva grandi barconi, vivaj riboccanti di
pesci, fra i quali è sovratutto da segnalarsi il delizioso sterletto,
pienamente meritevole del pregio in cui è tenuto dai sibariti russi.
Il pesce morto che si espone sui banchi del mercato, relativamente in
assai scarsa quantità, e solo pel consumo giornaliero, è poco meno
che sprezzato. I grossi storioni che affluiscono a questo centro di
manipolazione vengono subito sventrati e fatti a pezzi. La carne, e
specialmente la musculatura del dorso, è acconciata col sale e seccata;
le ovaia, spogliate degli inviluppi membranosi e salate in barili,
danno il caviar (_ikra_), di cui si fa uso così esteso, così generale
e quasi prescritto all’antipasto (_zakuska_). I lunghi rigorosi
digiuni del rito greco concorrono in gran parte a mantener viva la
consumazione dell’immensa quantità di materia alimentare che le grandi
pescaje caspiche versano annualmente sul mercato. Un produtto di grande
importanza, un vero monopolio di Astrakan, è la colla di pesce, tanto
ricercata, come sostanza di prima necessità in diverse industrie. Le
foche, provenienti in massima parte dai banchi e dalle isole della
sponda orientale del Caspio, danno un cospicuo provento nel grasso
e nelle pelli. L’aringa o _beschenka_ (_Clupea pontica_), rimonta il
Volga in banchi talmente enormi da suggerire e quasi render scusabile
lo scialaquo che si fa di tanta abondanza col non tener conto che
dell’olio. Si può calcolare la preda ordinaria annuale di questo pesce,
nella parte inferiore del Volga, a 50 millioni di teste. Il consiglio
di non lasciar andare tutta dispersa una così ingente massa di buona
sostanza alimentare non fu ascoltato che tardi e soltanto in assai
ristretta misura. Gli eccitamenti del signor de Baer non ottennero
qualche effetto se non durante la guerra della Crimea. Nel 1855 10
millioni di aringhe salate (200,000 _pud_) furono messe in commercio,
con grande profitto de’ privati e del publico erario, e rappresentarono
un capitale di 153,600 rubli; mentre la stessa quantità di pesca
semplicemente manipolata per l’estrazione dell’olio, non avrebbe dato
che 10,000 _pud_ di questa sostanza, per un capitale di 10,000 rubli.

Il produtto della grande pesca alla quale attendono non meno di 4,000
barche, fu per la provincia di Astrakan, nel 1861 il seguente.

  Beluga (_Accipenser huso_)   35,500  teste
  Osotr (_A. Güldenstädtii_)   50,000    —
  Sevringa (_A. stellatus_)   200,000    —
  Ikra (_caviar_)               8,000   _pud_
  Colla di prima qualità          600    —
  Fasci musculari dorsali         600    —
  Foche                        50,000  teste

La provincia di Astrakan occupa una superficie di 185,550 verste
quadrate, con una popolazione stabile di 550 mila abitanti (50,000
nella sola città principale), ed altrettanto di popolazione mobile,
di Tartari, Kirgisi e Calmucchi dati alla pastorizia. Il terreno è
piano, sabbioso, solcato dalle inumerevoli diramazioni del Volga,
che ristagnano in molte paludi. Facendo anche una larga parte alle
steppe della parte occidentale della provincia, popolate dalle tribù
de’ Calmucchi, una grande estensione del terreno è di sua natura
fertilissima, eppure inculta per difetto di braccia. Scarsa è la stessa
produzione del riso per rispetto al grande consumo che fanno di questo
genere gli orientali, ed alla vastità del terreno irrigabile[65].

La produzione del bestiame è invece considerevolissima. Quella de’ soli
cavalli ascende al numero di 230,000 teste, numero che sarebbe forse
raddoppiato ove si tenesse calcolo delle immense mandre allevate dai
Kirgisi nomadi, e che in una parte dell’anno passano nel vicino governo
di Orenburgo, o fra le tribù indipendenti. V’hanno inoltre

  Buoi         500,000
  Montoni    1,500,000
  Capre        610,000
  Camelli       30,000
  Porci         50,000

La provincia di Astrakan comprende anche non meno di 140 laghi salati,
de’ quali uno solo, quello di Elton, per verità il maggiore, potrebbe
somministrare tutta la quantità di sale che può occorrere a metà della
Russia.

Nel 1861 le saline di questa sola provincia produssero 5,500,000 _pud_
di sale, smerciato a 35 _kopecki_ il _pud_; oltre 80,000 _pud_ di
solfato di soda per le vetraje.

Importante è anche il produtto delle pelli, specialmente de’ montoni.
Quelle che si conoscono in Europa col nome appunto di Astrakan,
provengono però in massima parte da Bokara.

Rimanemmo in Astrakan tre giorni; e qui incominciammo a rincivilire,
rientrati ormai nell’ambiente della società europea. Fummo accolti dal
governatore, signor Deshayes, di stirpe francese, con ogni maniera
di cortesia, invitati a pranzo, e ad un convegno, nelle splendide
sale della sua residenza, della più eletta società di Astrakan. Era
un concerto di beneficenza, nel quale i primi onori toccarono alla
consorte stessa del governatore, molto gentile e avvenente dama,
che eseguì deliziosamente, colla sua voce pura e soave, alcune belle
melodie del genio italiano.

La febre di Lessona avea preso un tale aspetto di gravezza da incuterci
molto serie apprensioni, ma poi una forte dose di chinina data a
tempo restituì talmente le forze da render possibile la continuazione
immediata del viaggio, calcolando anche sui lunghi giorni che dovevamo
passare sul Volga, in condizioni certo non più disagiate di quelle
che ci offriva l’albergo di Astrakan. Ci liberammo degli oggetti più
pesanti e voluminosi divenuti ormai inutili, lasciandoli in regalo ad
un povero savojardo che aveva fatto presso noi l’officio di servitore e
di interprete, e trovavasi balestrato in questa estrema parte d’Europa,
come disertore dell’esercito sardo. Il 28 passammo sul piroscafo
_Likoi_, riunendoci ancora all’ottima famiglia Nicolas, dalla quale non
dovevamo separarci che a Berlino.




XX.

Prime linee d’una fauna della Persia occidentale.


Mentre la flora persiana è stata in questi ultimi anni così
compiutamente illustrata, per le ricerche di Boissier, di Kotschy, di
Koch e di Buhse, lo stesso non può dirsi della fauna. Non manca per
verità una somma di fatti negli scritti di Güldenstädt, di Pallas,
di Ménétriés, di Eichwald e di Brandt sulle confinanti provincie del
Caucaso e del Caspio, nelle osservazioni parziali di alcuni viaggiatori
francesi, e nelle monografie ittiologiche di Heckel e del conte
Keyserling, ma un lavoro d’insieme che esprima il carattere vero della
fauna di questo così singolare e per vari aspetti così interessante
paese, è ancora tutto da farsi.

Il riassunto che ora presento delle mie note è assai lontano dal
riparare a questa lacuna della scienza. Tuttavia la costante cura di
profittare di ogni ritaglio di quel tempo che mi era così scarsamente
misurato, e la cooperazione de’ miei compagni di viaggio, mi inspirano
la fiducia che l’abbozzo della fauna persiana che ora compare per la
prima volta, possa, per quanto necessariamente povero ed incompleto,
formare un piano generale che potrà essere molto arricchito, ma non
sconvolto, dagli ulteriori lavori di naturalisti fruenti di migliori
condizioni delle mie.

Aggiungo nell’elenco dei vertebrati per me raccolti o veduti, sulla
linea percorsa dalla ambasciata italiana, anche le specie raccolte dal
mio amico Doria nelle provincie meridionali della Persia; facendo voto
che questo giovane, istrutto, ed infaticabile naturalista possa fra non
molto ridurre a compimento il lavoro ch’egli si era proposto, come di
sua predilezione e di tutta sua competenza, voglio dire l’illustrazione
del ricchissimo materiale entomologico che sta nelle sue mani.


_Mammiferi_.

Quel pochissimo che è riferito dalla commune de’ viaggiatori sugli
animali dell’Asia occidentale, riguarda particolarmente i grossi
mammiferi che più vivamente colpiscono l’attenzione volgare, e che
sono materia alle nobili caccie dei grandi. Chi al pari di noi non può
spingere le sue escursioni lungi dalla via battuta dalle carovane deve
appagarsi di un’assai più modesto bottino. Le poche specie incontrate
per via, o delle quali ho potuto constatare la esistenza dietro spoglie
di provenienza accertata, si riducono alle seguenti:

  =Vespertilio= (_Vesperus_) =mirza=. De Fil.

  =V.= _serotino affinis, sed rictu longiore. Supra
  cofeino-grisescens, vellere longo, nitore sericeo, subtus
  griseo-fulvus. Alis et auriculis aterrimis._

  Affine al _Vespertilio serotinus_, ma distinto pe’ colori, e
  pel muso più allungato, di modo che la distanza dall’angolo
  dell’orecchio alla punta del naso è maggiore dell’altezza
  dell’orecchio stesso, mentre nel serotinus è subeguale.

  Ecco le principali misure:

      Dal cubito alla punta dell’ala spiegata        0^m,135
      Da un cubito all’altro, cogli omeri distesi    0^m,076
      Dall’ano al muso                               0^m,085
      Dall’angolo dell’orecchio alla punta del naso  0^m,021
      Altezza dell’orecchio                          0^m,015

  Zendjan, Kazvin.

  =V. turcomanus=. Eversm. Sartschem. Zendjan.

  =V.= (_Pipistrellus_) =marginatus=. Rüpp. Raccolto dal M. Doria
  nella Persia meridionale.

  =Serex= (_Crocidura_) =fumigatus=. De Fil.

  =S.= _cauda elongata, crassa, inter pilos procumbentes setis
  longissimis verticillatim dispositis. In regioni mento-jugulari,
  utroque latere, verrucis piliferis quatuor. Supra fusco plumbeus,
  subtus cinereus._

  È affine al _S. araneus_ ma se ne distingue pel colorito, per il
  primo falso molare relativamente più sviluppato, per la coda molto
  più lunga, come dal confronto seguente:

      _S. araneus_. Lunghezza del corpo     0^m,071
                       —      della coda    0^m,034
      _S. fumigatus_.  —      del corpo     0^m,062
                       —      della coda    0^m,042

  Un altro carattere, che però non si può riconoscere che negli
  esemplari conservati nell’alcool, consiste nella presenza in questa
  specie di quattro bitorzoletti portanti ciascuno un lungo pelo, ad
  ogni lato della regione mentogolare, lungo la mandibola.

  La descrizione data da Pallas (_Zoographia Rosso-Asiatica_) del _S.
  Güldenstædtii_, può convenire anche a questo nostro, il quale però
  ha le orecchie così distintamente sviluppate, da non poterglisi
  applicare la frase _auriculae vix a vellere emergentes_. Se poi il
  _S. Güldenstædtii_ rassomiglia tanto al _S. leucodon_, da formare
  con questo una specie medesima (GIEBEL _Die Saugethiere_ pag. 902),
  allora le differenze col _S. fumigatus_ sarebbero ancora maggiori.

  Ebbi di questa specie un individuo in Tiflis dalla gentilezza del
  signor Bayern, naturalista e raccoglitore indefesso, ed altri due
  mi furono recati di fresco uccisi in Teheran.

  =Ursus arctos=. L. Nel Caucaso e nell’Elburz.

  =Mustela sarmatica=. Pali. Erivan.

  =Lynx cervaria=. Tem. Caucaso.

  =Felis chaus=. Güld. Provincie caspiche.

  =F. pardus=. Lin. Ghilan. Mazanderan.

  =F. tigris=. Lin. _ibid_.

  =Cynailurus jubatus=. Wagn. Mazanderan.

  =Hyœna striata=. Zim. Annovero questa specie sulla testimonianza
  generale, non solo dei persiani da me interrogati, ma anche di
  un naturalista, del signor Bayern, che mi raccontò il caso di un
  individuo ucciso pochi anni prima nella città stessa di Tiflis,
  presso la posta dei cavalli.

  =Canis aureus=. L. Commune nel Ghilan.

  =C. lupus=. L. Commune nell’Elburz. Incontrato da noi presso
  Kazwin.

  =C.= (_Vulpes_) =corsae.= L. Dovunque.

  =C.= (_Vulpes_) =melanotus=. Pall. Frequente anche nelle steppe. La
  sua pelliccia è un importante articolo di commercio.

  =Lepus timidus=. Varietà più piccola e più pallida della commune di
  Europa. Assai frequente alle falde dei monti.

  =Dipus jaculus.= (Pall.) Communissimo dovunque, nelle steppe[66].

  =Merlones tamaricinus=. (Pall.) Dall’Armenia, per tutta la Persia
  occidentale. Preso anche a Schiraz dal marchese Doria.

  =Arctomys fulvus= (_Spermophilus fulvus_. Licht. _Sp. concolor_.
  Geoffr.) Communissimo particolarmente a Sultanieh.

  =Cricetus nigricans=. Brandt. Trovato a Sultanieh.

  =Cr. phœus=. Pall. Communissimo dall’Armenia per tutta la Persia
  occidentale. S’introduce anche nelle case.

  =Cr. isabellinus=. De Fil. Per la distribuzione generale de’
  colori, la qualità del pelo, le proporzioni del corpo e della coda,
  molto rassomigliante al precedente, ma di assai maggiore statura, e
  colorito sensibilmente diverso.

  Dalla punta del naso alla radice della coda 0^m, 15; (nel _Cr.
  phæus_ 0^m, 095 al massimo); lunghezza della coda 0,028.

  Superiormente grigio isabellino, alquanto più chiaro sui
  fianchi: la metà inferiore del corpo bianco candido, i due colori
  bruscamente distinti, sovratutto ai lati del collo. Preso a Teheran
  dal marchese Doria.

  =Mus sylvaticus=. L. La sola specie del genere osservata nel nostro
  viaggio (Sainkalè. Teheran). Portata anche da Schiraz dal marchese
  Doria.

  Il risultato negativo delle mie apposite ricerche mi farebbe
  concludere per la mancanza assoluta nella Persia occidentale non
  solo del _Mus musculus_, ma anche del _M. decumanus_. È questo
  un fatto molto singolare, in quanto che quest’ultima specie si è
  diffusa per tutta Europa venendo dall’Asia centrale, per la via
  di Astrakan e del Volga, in grandi schiere, nel 1727, rasentando
  quindi i confini della Persia, ma lasciandola privilegiata col non
  stabilirvi colonie.

  =Arvicola amphybius=. L. =var persica=. Molto commune nei luoghi
  che sarebbero appropriati al _Mus decumanus_, lungo i rigagnoli ed
  i canali, fin ne’ giardini e nelle case. Si distingue, in confronto
  colla razza ordinaria di Europa, per il colore che passa al fulvo
  sui fianchi, ed al bianco nelle parti inferiori. I caratteri
  osteologici sono assolutamente i medesimi.

  =Ar. mystacinus=. De Fil.

  =A=. _arvali affinis, sed auriculis et mystaceis longioribus, cauda
  breviore, facile distinguendus_.

  Affine all’_A. arvalis_, da cui però si distingue per le orecchie
  molto più grandi e più sporgenti dal pelame; pei mustacchi misti
  di peli bianchi e neri, i primi, assai più lunghi, adagiati ai lati
  del capo vanno fino al lembo esterno del padiglione dell’orecchio;
  per la coda molto più breve, tanto da misurare sei volte la
  lunghezza dell’intiero corpo.

  Colore superiormente grigio di sorcio, inferiormente più chiaro.

  Questa specie è abbondante nella valle del Lar.

  =Antilope= (_Gazella_) =subgutturosa=. Güld. In piccole schiere
  nelle steppe, particolarmente presso Kazwin.

  =Ovis Gmelini=. Blyth. Sui monti. Ararat. Elburz.

  =Capra ægagrus=. Gm. Pure sui monti dal Caucaso all’Erburz. Assai
  frequente.

  =Sus oper=. L. Communissimo nelle foreste del Ghilan e del
  Mazanderan.


_Uccelli._

La stagione nella quale percorremmo le provincie del Caucaso e della
Persia occidentale, fra il passo di primavera compiuto, ed il ripasso
autunnale non per anco incominciato, era la più sfavorevole per
collezioni ornitologiche, come quella che scemava la ricchezza e la
varietà delle prede, e dava una predominanza di individui giovanissimi,
o con piuma logora od in muta. Sotto altro e miglior punto di vista
questa circostanza ci riesciva pel contrario assai propizia, il
carattere locale della fauna ornitologica di un paese esprimendosi
meglio nella stagione della nidificazione che nelle altre dell’anno.
Noi non abbiamo fatto che raccogliere la specie che venivano quasi
ad offrirsi ai nostri colpi sulla nostra strada, ma anche questa
sfavorevole circostanza fu compensata dal concorso che mi prestarono
alcuni miei compagni di viaggio, e specialmente il cav. Bosio,
cacciatore insuperabile. Ho dunque fiducia che il catalogo seguente
possa dare un’idea sufficientemente adeguata del carattere della fauna
ornitologica del paese percorso.

  =Gyps fulvus=. (L.) Specie commune dapertutto nelle regioni
  montuose, e più che altrove attorno al Demavend.

  =Neophron percnopterus= (L.) Raro in Persia al sud dell’Elburz,
  frequenti nel Caucaso e nel Ghilan.

  =Falco lanarius=. Schleg.

  =F. communis=. Schleg. Riconobbi queste due specie tra i falconi
  allevati per la caccia. Due individui femmine di _F. communis_,
  uccisi a Tauris ed a Zendjan, sono in livrea corrispondente
  a quella figurata da Schlegel nel suo _Traité de fauconérie_,
  sotto la denominazione di _Faucon tiercelet sors au plumage de
  cresserelle_.

  =Hypothriorchis subbuteo=. (L.) Ucciso presso Marend.

  =Cerchneis cenchris=. Naum. Communissimo nelle regioni caucasiche.
  In numero stragrande nidificante al così detto _Ponte rosso_ sul
  Kram.

  =Pandion haliætus=. (L.) Regioni caucasiche. Ghilan.

  =Milvus ater=. (Gm.) Molto commune nelle regioni caucasiche e
  nell’Armenia. Preso anche in Persia (Kyschlak). Volteggia nell’aria
  attorno ai villaggi.

  =Astur palumbarius=. (L.)

  =Accipiter nisus=. (L.) S’incontrano di frequenti, ma anche questi
  più nelle valli del sistema del Caucaso che in Persia. Entrambi
  queste specie veggonsi allevate per la caccia.

  =Micronisus badius=. (Gm.) Bender-Abbas (Doria).

  =Circus œruginosus=. (L.) Ucciso ne’ contorni di Tiflis.

  =Athene noctua=, var. =persica=. (L. Bp.) Assai frequente in
  Persia. Si distingue dalla commune razza di Europa, per colori
  appena più pallidi.

  =Caprimulgus=. Sp. Un solo individuo di questo genere vidi una sola
  volta in Kazvin; non mi fu dato di prenderlo.

  =Cypselus apus=. L. Dapertutto, però non molto frequente.

  =Chelidon urbica=. (L.) Molto commune nei siti rupestri alla base
  dei monti.

  =Cotyle rupestris=. Scop. Sui monti dirupati attorno al Demavend.
  Anche a Bender Abbas. (Doria).

  =C. riparia=. L. Trovata molto copiosa a Mianeh.

  =Hirundo rustica=. L. Dapertutto ma assai meno abbondante che in
  Europa.

  =Coracias garrula=. L. Coppie solitarie di questa specie trovammo
  in tutto il paese percorso.

  =C. indica=. L. Da Ispahan in avanti, nella regione delle palme.
  (Doria).

  =Merops apiaster=. L. Communissimo dovunque.

  =M. persicus=. Pall. Ucciso a Mianeh ed a. Nickbey. Molto più raro
  del precedente.

  =M. viridis=. Lin. Bender Abbas, ov’è communissimo. (Doria).

  =Upupa epops=. Molto diffusa, particolarmente nell’Armenia, presso
  i luoghi abitati.

  =Halcyon smirnensis=. (L.) Schiraz (Doria).

  =Alcedo hispida=. L. Presa una sol volta a Nickbey.

  =Muscicapa luctuosa=. Tem.

  =M. albicollis=. Tem. Nei giardini di Tauris.

  =Butalis grisola=. (L.) Nei giardini alle falde dell’Elburz.
  (Kurdan, Tedgrisch, Hafdscheh).

  =Erythrosterna parva=. (Bechst.) Ne uccisi un solo individuo a
  Poti. Il marchese Doria trovò questa specie molto commune ne’
  contorni di Teheran in primavera.

  =Lanius minor= Gm.

  =L. rufus= Bris.

  =L. collurio= L. Incontrati dovunque, più frequenti per altro nelle
  regioni caucasiche.

  =Ægithalus pendulinus=. (L.) Armenia (Kumerlou) Persia (Mianeh).

  =Parus major= L. Raro dovunque, nei giardini.

  =P. cœruleus= L. Trovato nidificante ne’ giardini di Kazvin.

  =Sitta syriaca=. Ehr. Frequente ne’ siti rupestri non troppo
  elevati, dall’Armenia per tutta la catena dell’Elburz.

  =Troglodytes europœns=. Cuv. Ghilan.

  =Cinclus aquaticus= Bechst. Lungo i fiumicelli montani presso
  Teheran, e nel Ghilan.

  =Crateropus Salvadorii=. De Fil.

  _Supra griseus inconspicue olivascens. Plumis capitis et dorsi
  late, colli laterum stricte brunneo nigrescenti flammulatis,
  cœeteris plumis scapo nigrescenti. Gula alba. Pectore abdomineque
  griseis pallidioribus, illo nonnihil in cervino vergenti.
  Rectricibus alarum inferioribus pallide cervinis. Rectricibus supra
  transversim obsolete brunnescenti striolatis. Plumulis frontalibus
  tantum rigidis. Rostro fusco corneo, pedibus pallidis._

  _Longit. tot. 0^m, 24, longit. tarsi 0^m, 027, Corporis longitudine
  caudæ longitudine œguali._

  Questa specie porta il nome del distinto ornitologo italiano conte
  T. Salvadori.

  È communissima nella regione delle palme, dopo Schiraz, in
  branchetti. Vola colle ali distese quasi immobili. (Doria).

  =Ixos leucotis=. Gould. Frequente sulla costa del Golfo persico.
  (Doria).

  =Turdus merula=. L. Trovato in Persa una sol volta, nel nostro
  giardino a Tedgrisch.

  =Petrocincla saxatilis=. (L.) sull’Elburz. (Ask, Kharzau).

  =Ruticilla phœnicura= (L.) Ne rinvenni alcune nidiate nel giardino
  reale di Kazvin.

  =Cyanecula suecica= L. _var. (C. leucocyana._ Br.) Nella Valle del
  Lar.

  =Erythacus rubecula=. (L.) Ne’ boschetti presso Khend e nel Ghilau.

  =Lusciola luscinia=. (L.) Ne’ giardini di Zendian e di Kasvin.

  =Irania= n. gen.

  _Ex Saxicolinis._

  _Rostrum mediocre, apice subincurvo; carina inter nares prominula._

  _Alae elongatae: remigibus pogonio interno lato, integro: prima
  (spuria) tectrices externas longitudinae aequante, secunda longa,
  quintam subaequante, tertia et quarta longioribus._

  _Cauda elongata, subquadrata._

  _Tarsi graciles, elongati. Digiti ut in Saxicolis, sed halluce
  digito interno breviori._

  =Irania Finoti=. De Fil.

  _Supra griseo-olivacea, in dorso infimo uropygioque sensim
  griseo-plumbea. Remigibus fuscis, apice subtilissime
  cervino-pallido limbatis; tectricibus alarum macula hujus coloris
  terminatis; anulo orbitali, regione parotica, colli lateribus
  rufescenti tinctis; loris gulaque albescentibus; abdomine
  medio crissoque albis; pectore ochraceo et coeruleo inconspicue
  transversim undato. Tectricibus alarum inferioribus, lateribusque
  abdominis fulvo-ochraceis. Cauda nigrescenti, subtilissime
  transversim colori obscuriore lineata. Pedibus nigris._

  Questa specie porta il nome del barone Finot, console di Francia
  in Tiflis, che ha lasciato nell’animo de’ componenti la missione
  italiana in Persia la più grata ricordanza, tante furono e così
  vigili e così continue e così schiettamente cordiali le cortesie
  prodigate a tutti ed a ciascuno durante il nostro soggiorno in
  quella capitale delle provincie Russe Transcaucasiche.

  Essa fu da me trovata piuttosto frequente nella gita al Demavend,
  ad Hafdscheh da prima, quindi nella valle del Lar. Sta ne’
  pianerottoli montani fra i cespugli o fra le più rigogliose piante
  erbacee, d’onde cacciata piglia un volo basso, incerto, breve, e
  tosto ripiega le ali per nascondersi ancora tra le fronde, così che
  non riesce agevole l’ucciderla.

  =Saxicola oenanthe.= (L.) Dell’intiera classe è questa la specie
  più diffusa in tutte le steppe della Persia.

  =S. deserti.= Rüpp. Bender Abbas. (Doria).

  =S. aurita.= Tem. Uccisa a Sardarak e ad Udjan.

  =S. stapazina.= Tem. Tiflis.

  =S. leucomela=. Pall. Contorni di Teheran.

  =Dromoloea chrysopygia=. De Fil.

  _Capite, collo, dorso supremo cinereo plumbeis; dorso infimo
  fuscescente; uropygio tectricibusque caudae (elongatis)
  albescenti-flavidis, sensim in rubiginoso vertentibus; collo
  infimo, pectoreque supremo, cinarescentibus, caeterum infra
  sordide alba; crisso laevissime rubiginoso tincto; remigibus fusco
  cinereis, secundariis extus rubiginoso marginatis; rectricibus
  fulvo rubiginosis, versus apicem nigris, limbo extremo denuo
  rubiginoso._

  Il nero sul fondo rosso della coda è esteso per la terza parte
  delle timoniere laterali, ma nelle due mediane per la metà.

  Nelle parli più elevate e sassose de’ monti che fanno corona al
  Demavend. Rara.

  =Pratincola rubetra=. (L). Valle del Lar.

  =P. rubicola= (L.) Turkmanschai.

  =P. Hemprichii=. Ehr.[67] Marend. Udjan.

  =Accentor alpinus= (Gm.) Demavend.

  =Curruca hortensis=. (Penn.) Tauris.

  =C. atricapilla= (Bris.) Delidjan.

  =C. cinerea= _var_. =persica=. Da Delidian in avanti, communissima.

  =Sylvia Doriæ=. De Fil. _Habitus, magnitudo, rectricum pictura ut
  in S. conspicillata, sed rostro breviori, digitis rubustioribus.
  Supra grifeo isabellino, tectricibus caudæ rufescentibus: subtus
  alba. Pectoris lateribus pallidissime grisescenti, abdomine infimo
  pallidissime isabelline adumbratis._

  Molto abbondante tra i bassi cespugli del deserto salato, intorno a
  Yezd. Sta sempre a terra, colla coda alzata. (Doria).

  =Drymoica gracilis=. Rüpp. Presa dal marchese Doria nei giardini di
  Schiraz.

  =Phyllopneuste trochilus= (L). Valle del Lar.

  =Ficedula elaica=. Lindm. Communissima dall’Armenia fino a Teheran
  nei giardini e nei boschetti.

  =Œdon galactodes=. (Tem.) Diffusa come la specie precedente,
  quantunque meno commune.

  =Acrocephalus= sp. Tauris.

  =Calamoherpe arundinacea= (Bris) Helenowko.

  =Motacilla alba=. L. Dapertutto, ed appena si distingue dalla
  commune nostrale pel bianco delle cuopritrici alari più esteso,
  in modo da formare una gran macchia bianca, come nella _M.
  dukunensis_.

  =M. boarula=. Penn. Trovata a Delidian, e nell’Elburz lungo un
  piccolo affluente del Lar.

  =Budytes flavus= (_melanocephalus_) (Licht.) Di questa specie non
  rinvenni che la razza dalla testa nera, dall’Armenia in avanti, nei
  siti umidi, erbosi.

  =Anthus aquaticus=. (L). Nei pascoli dell’alta valle del Lar.

  =A. pratensis=. (L.) Trebisonda. Tiflis.

  =A=. (_Agrodomus_) =campestris=. (Bechst). Tiflis. Valle del Lar.

  =Galerita cristata= (L.) Molto abbondante dapertutto, specialmente
  presso i villaggi.

  =Certhilauda desertorum=. Stanl. Bender Abbas (Doria).

  =Alauda arvensis=. L. Dovunque, nei campi coltivati.

  =Calandrella brachydactyla=. Nè luoghi deserti, dovunque.

  =C. pispoletta.= Pall. Armenia (Basc-Nurascen).

  =Otocoris larvata=. D. F.

  _Habitus Otocoridis penicillatae, sed paullulo minor; capitis et
  colli parte antica intense nigra, lunula frontali tantum et macula
  gulari parva triangulari albis._

  Questa specie è affine all’_O. penicillata_ di Gould, ma se ne
  distingue per la grande maschera nera (nel maschio adulto) che
  occupa la parte anteriore del capo e del collo, appena rotta da una
  sottile lunula frontale, e da una piccola macchia triangolare sulla
  gola, di color bianco. Le piumette allungate laterali del capo sono
  in tal modo disposte da far sì che i ciuffetti caratteristici del
  genere siano doppj come nell’_O. bilopha_.

  La frase troppo succinta colla quale Bonaparte nel suo _Conspectus
  avium_ caratterizza l’_Alauda albigula_ di Brandt, potrebbe anche
  applicarsi a questa nuova specie, ma gli esemplari originali
  dell’_A. albigula_ da me osservati nel museo di Pietroburgo non
  differiscono per nulla dall’_O. penicillata_.

  L’_O. larvata_ si trova sui monti che circondano il Demavend. Vive
  a terra in piccole truppe, e prendendo il volo fa sentire un sibilo
  breve, risonante, alquanto modulato[68].

  =O. penicillata=. Gould. Ne ebbi vari individui presi nei
  contorni di Teheran dal colonnello Andreini[69].

  =Melacorypha calandra=. (L.) Nei campi coltivati, dapertutto.

  =Emberiza hortulana=. L. Abbondante nel Caucaso, più rara
  nell’Elburz.

  =E. Cerruti=. De F. V. la nota a pag. 113.

  =Cynchramus miliaris=. (L.) Dovunque, nei campi coltivati.

  =Euspiza melanocephala=. (Scop.) Communissima nelle valli
  cespugliose, e ne’ campi a’ piè dei monti.

  =Pyrgita domestica=. (L.) Dappertutto.

  =P. montana.= (L.) Ask, a piedi del Demavend, ove tien luogo della
  specie precedente.

  =Petronia stulta.= Bp. Molto commune nelle regioni caucasiclie, nei
  siti rupestri alla base de’ monti.

  =Montifringilla nivalis= (L.) Sul Demavend.

  =Fringilla cœlebs=. L. Vista soltanto nel Ghilan (Rustemabad).

  =Linota cannabina=. (L.) Nè pianerottoli attorno il Demavend.

  =Carduelis elegans=. Steph. Tauris.

  =Serinus pusillus.= (Pall.) Nelle valli attorno al cono del
  Demavend, in branchi numerosi.

  =Carpodacus crythrinus= (Pall.) Alta valle del Lar.

  =Erythrospiza obsoleta.= (Licht.) Ho trovato questa specie
  piuttosto copiosa nidificante ne’ giardini di Kazvin. Il colonnello
  Andreini ne ha uccisi parecchi individui a Teheran; e per contrario
  non ebbi ad incontrare l’altra specie affine (_E. rhodoptera_.
  Licht.) che dall’estremo lembo della Persia occidentale tocca i
  confini d’Europa.

  =Chlorospiza chloris= (L.) Trovata soltanto nelle regioni
  caucasiche (Tiflis, Delidian).

  =Coccothraustes vulgaris= Bris. Visto soltanto nel Ghilan
  (Rustemabad).

  =Sturnus vulgaris=. L. Commune dappertutto ne’ villaggi.

  =Acridotheres roseus.= (Bris.) Estremamente commune nel Caucaso,
  nell’Armenia, nella Persia occidentale, si fa sempre più raro verso
  Oriente.

  =Oriolus galbula.= L. Raro. Ne uccisi due soli individui: l’uno a
  Tedgrisch, presso Teheran, l’altro ad Hagi Baba presso Kazvin.

  =Fregilus graculus=. L.

  =Pyrrhocorax alpinus=. Viell. Ne vidi branchi numerosi alle falde
  del cono del Demavend.

  =Corvus monedula=. L. Commune nel Caucaso e nell’Armenia: più raro
  in Persia.

  =C. frugilegus=. L. Ne uccisi d’un sol colpo sette individui di
  uno stormo numerosissimo che veniva sulla sera ad appollajarsi nel
  giardino reale di Kazvin.

  =Corvus corax=. L. Avuto dal signor colonnello Andreini in Teheran.

  =Pica caudata=. Ray. Al sud dell’Elburz vista rare volte: piuttosto
  ovvia nel Ghilan.

  =Garrulus melanocephalus= Gené. Nelle regioni subcaucasiche
  (Uzumkalè, Delidian).

  =Picus maior=. L. Armenia (Kamerlou).

  =P. khan=. De Fil.

  _Occipite, cervice, dorso, fuliginoso-nigris: vertice coccineo:
  fronte, gula, collo antico, summoque pectore, griseo-cervinis: alis
  fuliginoso et albo variis: regioni scapulari late alba; remigibus
  omnibus maculis magnis albis; rectricibus nigris, extimis maculis
  lateralibus albis, ad apicem flavescentibus: superciliis, collo
  laterali, albis: pectore, abdomine toto, eodem colore, laeviter
  griseo flavescenti tinctis; crisso coccineo: maculis nonnullis
  indistinctis coccineis in regione pectorali: vitta laterali
  nigrescenti a loro per oculum ducta, et alia intense fuliginosa ab
  angulo oris usque ad pectus descendente._

  Il genere de’ Picchj non può essere che assai scarsamente
  rappresentato in un paese ove la vegetazione arborea è così rara ed
  in sparse oasi come nella Persia. Io ne ho visto un solo individuo
  che non mi riuscì di prendere, nel giardino reale di Tauris, ed un
  secondo che fu da me ucciso a Tedgrisch, presso Teheran, quello sul
  quale è fondata la presente nuova specie. La quale deve stare in
  un medesimo gruppo coi _P. syriacus, assimilis_ ed _himalayensis._
  Da tutti si distingue per le macchie bianche sulle ali grandi, più
  grandi del nero interposto; dal _P. syriacus_ in particolare pel
  becco alquanto più depresso alla base, per il collo anteriormente
  ceciato, e colla striscia nera laterale ben separata dal nero del
  dorso per il bianco interposto.

  =Cuculus canorus=. L. Armenia (Kamerlou,) Ghilan (Rustemabad).

  =Columba palumbus=. L. Trovata soltanto, e più volte, nelle foreste
  del Ghilan.

  =C. œnas=. L. Ne uccisi parecchi individui nella pianura di Suram
  (Caucaso).

  =C. livia.= Bris. Communissima nelle steppe della Persia, lungo
  gli aquedotti sotterranei, negli spiragli dei quali si rifugia. Ne
  uccisi molti individui, tutti colla parte inferiore del dorso di
  color bianco.

  =Turtus auritus.= Ray. S’incontra dappertutto ove siano boschetti o
  filari di alberi.

  =Pterocles arenarius=. Pall.

  =P. chata=. Pall. Su queste due specie animatrici delle steppe,
  vedi pag. 189.

  =Phasianus colchicus=. L. Frequentissimo nelle foreste lungo il
  Rioni, lungo il Kur ed alle sponde del Caspio.

  =Francolinus vulgaris=. (?) Steph. Se alla razza tipica, oppure a
  quella inalzata al rango di specie da Bonaparte, col nome di _F.
  tristriatus_, spetti il Francolino di Persia, non potrei dire. La
  specie non si trova che nella provincie meridionali. Il marchese
  Doria che ne uccise molti nel suo viaggio, non ne raccolse le
  spoglie.

  =Tetraogallus caucasicus.= Pall. (_Kepkederreh_ de’ Persiani) sulle
  catene del Caucaso e dell’Elburz tiene il posto del _Tetrao tetrix_
  nelle Alpi. Ne ebbimo un individuo di fresco ucciso sui monti
  presso Diulfa.

  =Perdix chucar=. Abbondantissima da Erivan in poi, sulle montagne.
  Ne incontrai molti branchi alla base del cono del Demavend ed a
  Kharzan.

  =Ammoperdix griseogularis=. (Brdt.)[70]. È il _Tiku_ de’ Persiani.
  Straordinariamente abbondante nelle valli alle falde dell’Elburz.

  =Starna cinerea=. (L.) Non oltrepassa i monti settentrionali
  dell’Armenia. Presa ad Uzumkalè.

  =Coturnix dactylisonans=. Meyr. Assai copiosa dappertutto, nei
  campi coltivati.

  =Otis tarda=. L. Frequente nelle steppe del Caspio.

  =O. tetrax=. L. Ne vedemmo una copia su di un isolotto sabbioso
  lungo il Rioni.

  =O. houbara=. Gm. Due individui assai malconci, di fresco uccisi,
  di questa precisa specie, non dell’affine _O. Macquenii_, ci furono
  regalati in Djulfa da un cacciatore tartaro.

  =Oedicnemus crepitans=. Tem. Sui greti di Mianeh e di Sainkalè.

  =Cursorius œuropœus=. Lath. Ucciso nel piano di Sainkalè!

  =Glarcola pratincola.= (L.) Erivan, Sultanieh, Sainkalè.

  =Œgialites cantianus=. (Lath.) Sultanieh.

  =Œ. fluviatilis.= Bechst. Assai commune ne’ letti sabbiosi de’
  fiumicelli.

  =Eudromas caspius=. (Pall.) Lungo la spiaggia del Caspio ad Enzeli.

  =Vanellus cristatus= M. et W. Nei pascoli a Kamerlou ed a
  Sultanieh.

  =Gallinago scolopacinus=. Bp. Nelle paludi presso Enzeli.

  =Pelidna minuta=. Leisl.

  =P. cinclus=. L. Trovati entrambi abbondanti sulle spiaggie
  sabbiose presso Enzeli.

  =Totanus calidris=. L. Visto in varj luoghi: ad Helenowko, a
  Sainkalè, nel Murdab.

  =T. glareola=. (L.) Enzeli.

  =T. ocropus=. (L.) Mianeh-Saìnkalè.

  =Xenus cinereus=. (Güld.) Ucciso presso Enzeli.

  =Ibis falcinellus.= (L.) In grandi truppe nel Murdab.

  =Ardea cinerea=. (L.) Mianeh.

  =Egretta alba=. (L.).

  =E. garzetta=. (L.).

  =Buphus bubulcus=. (L.) Uno sterminato numero di individui di
  queste tre specie, e dell’ultima sopratutto, pascolavano nel grande
  stagno del Murdab.

  =Ciconia alba=. Bris. Commune dappertutto.

  =C. nigra=. L. Vista soltanto nel Caucaso. (Delidian).

  =Gallinula porzana=. L. Trovata commune a Veramin in primavera dal
  marchese Doria.

  =G. chloropos=. L. In gran numero nè canneti del Murdab.

  =Fulica atra=. L. Abbondantissima in uno stagno presso il lago
  Goktscha.

  =Casarea rutila.= (Pall.).

  =Oidemia fusca=. (L.) Vidi queste due specie abbondantissime nel
  lago Goktscha, ed in uno stagno fra Basminsk ed Udian.

  =Phalacrocorax carbo.= (L.)? Nello stagno dianzi accennato, è nel
  Murdab.

  =Ph. pygmœus=. (Pall.) Nel Murdab.

  =Pelecanus crispus=. (=?=) Bruch. Lago Goktscha.

  =P. onocrotalus=. L. In truppe numerose presso Astrakan.

  =Sylochelidon caspia.= (Pall.) Mar Caspio.

  =Hydrochelidon hybrida=. (Pall.)

  =H. leucoptera=. (Tem.)

  =H. fissipes= (L.) Trovasi questa specie straordinariamente
  abbondanti presso Enzeli. Ne uccisi molti individui tutti in livrea
  di gioventù.

  =Sterna hirundo=. L. Mianeh. Enzeli.

  =St. minuta=. L. Mianeh. Enzeli.

  =Croicocephalus ridibundus.= (L.) Lago Goktscha. Murdab.

  =Larus argentatus= (_leucophæus_). Licht.

  =L. fuscus= (_fuscescens_) Licht. Trovati entrambi nel mar Caspio,
  presso Baku.


_Rettili_.

  =Testudo ibera=. Pall. Communissima dovunque ne’ giardini, nei
  boschetti, ed anche nei luoghi sassosi ed aridi presso le aque.

  =Cistudo europea=. Schöpf. Negli stagni salati della regione
  caucasica, e nel Murdab. Straordinariamente abbondante ad Enzeli.

  =Emys caspia=. Schweig. Communissima dovuuque lungo le aque limpide
  e correnti.

  =Gymnodactylus caspins.= Eichw. Nelle provincie caspiche. Il
  marchese Doria ne ha portato un esemplare da Hamadan.

  =Stenodactylus guttatus.= Cuv. Bender Abbas. (Doria).

  =Varanus arenarius=. Geoffr. Molto commune nella pianura di
  Veramin. Ne ebbi un bel esemplare dal colonnello Andreini.

  =Stellio caucasicus=. Eichw. Molto frequente ne’ luoghi sassosi e
  montani, anche a notevole altezza sull’Elburz.

  =St. nuptus.= De Fil. _Stellio carinatus_ Dum. (1851). Io
  ho descritto fin dal 1843 questa specie, col nome di _Agama
  nupta_[71], dietro un esemplare raccolto a Persepoli dal signor
  Osculati. Questo nome specifico non fu da me scelto per sola
  bizzaria di contrasto col nome generico, ma anche per indicare
  la connessione fra i due generi _Agama_ e _Stellio_ che veniva
  stabilita dalla coda, nè completamente embriciata, nè completamente
  verticillata di questa nuova specie. La _folidosi_ omogenea del
  dorso fu interpretata da me come carattere prevalente di _Agama_.

  Gli esemplari portati parimenti da Persepoli dal marchese Doria mi
  hanno convinto della convenienza di trasportare definitivamente
  questa specie fra gli _Stellio_. Un carattere importantissimo
  sfuggito all’egregio erpetologo parigino, consiste nell’essere lo
  squame dorsali e caudali finemente pettinate, il quale carattere si
  trova, sebbene in minor estensione, anche negli _Stellio vulgaris_
  e _caucasicus_.

  =Agama=. (_Podorrhoa_ Fitz.) =agilis=. Oliv. Molto ovvia nelle
  steppe da Kazvin a Teheran, ed anche nelle provincie meridionali.

  =A=. (_Eremioplanis_ Fitz.) =Lessonæ=. De Fil.

  Questa nuova specie che porta il nome del mio amico e compagno di
  viaggio Lessona, fu trovata dal marchese Doria presso Ispahan.
  È affine assai per tutto il complesso de’ caratteri all’_A.
  mutabilis_, ma se ne distingue facilmente per le squame del capo e
  del dorso tutte distintamente carenate. Superiormente grigiastra,
  con fascie brune-trasversali, rotte da una macchia chiara nel
  mezzo del dorso, e da altre macchie longitudinali sui fianchi.
  Inferiormente bianco perlacea.

  =Phrynocephalus helioscopus=. (Pall.) Nelle steppe dell’Armenia.

  =Phr. persicus=. De F.

  _Nares rotundatæ distantes_. _Notei pholidosis valde heterogenea,
  mucronibus hinc et inde fasciculatis in cervice, in dorso, in
  caudae et artuum parte supera. Squamae foemorales et humerales
  laeves._

  _Griseo rufescens, maculis lateralibus angulatis fuscis. Ad
  latera colli maculae duo amplae pallide indigotinae, rubiginoso
  marginatae; gula lineis cinereo-azureis vermiculatis adspersa._

  Questa specie si distingue dal _Phr. helioscopus_ (Pall.) pe’
  seguenti caratteri: 1.º Per le squame spiniformi sporgenti
  distribuite a fascicoli su tutte le parti superiori del corpo,
  e formanti lungo la parte mediana del collo una piccola cresta
  longitudinale; 2.º per le squame de’ femori e delle coscie non
  carenate; 3.º per le narici separate da una serie di 5 squame (da
  due sole nel Phr. helioscopus); 4.º pel contorno del muso più
  ottuso; 5.º infine pe’ colori. Dal _Phr. varius_, Eichw.[72] è
  pure differente per gli accennati due ultimi caratteri ed inoltre
  per le squame labiali superiori ed inferiori uguali, per le squame
  marginali della palpebra inferiore assai sporgenti ed acute. A
  maggior ragione poi si distingue dalle altre specie del genere, le
  quali hanno le squame del dorso fra loro poco disuguali e tutte,
  adagiate. Del rimanente eccone una più particolare descrizione:

  Testa larga; corpo assai depresso, grosso. Gli scudetti delle
  regioni frontale ed occipitale grandicelli, rilevati, quelli della
  regione supraorbitale notevolmente più piccoli e più appianati.
  Piastrelle labiali superiori ed inferiori in numero di 20 per
  ogni lato, tutte subeguali e senza pori. Molti fascicoli di squame
  spiniformi con tendenza a disporsi in serie lineari longitudinali
  alla parte anteriore del corpo, ed in gruppi circolari alla parte
  posteriore. Nel mezzo della regione cervicale una piccola cresta
  longitudinale. Questi fascicoli di squame spiniformi si trovano non
  soltanto sul dorso, ma alla regione timpanica, ai lati del collo,
  sulla regione omerale, sulle estremità posteriori, sulla base della
  coda. Il _Phr. persicus_ è il più irto di tutti i Frinocefali sino
  ad ora conosciuti.

  Un grigio terreo alquanto rossastro costituisce il fondo generale
  della parte superiore; un bianco sporco volgente un poco al roseo
  occupa tutta la parte inferiore o terrestre dell’animale. Da
  questa parte la sola gola offre delle linee vermicolate formanti
  un marezzo grigio-azzurro. La parte superiore del capo è senza
  macchie. Ai lati del collo trovansi due grandi macchie di color
  indaco cinerognolo, e contornate di un sottile lembo ruggine
  che l’azione dell’alcool fa sparire prontamente. Quattro macchie
  angolari brune trovansi per ogni lato del dorso e due simili alla
  base dalla coda; alle quali poi seguono altre macchie più numerose
  e più arrotondate. Altre poche macchie brune trasverse trovansi
  sulle gambe.

  La descritta livrea è affatto costante, e costituisce quindi un
  ottimo carattere di questa specie, la quale è diffusa a profusione
  nelle campagne deserte da Sultanieh a Teheran.

  =Phr. Olivierii=. Dum. Bibr.

  Molti esemplari furono raccolti nelle provincie meridionali dal
  marchese Doria.

  =Eremias variabilis=. Fitz. Estremamente abbondante nelle steppe
  dall’Armenia per tutta la Persia.

  =E. pardalis= Licht. Più raro assai della precedente.

  =Lacerta viridis=. _var. strigata_. Eichw. Ovvia nelle regioni
  caucasiche (Tiflis, Lenkoran). È una razza costante, assai prossima
  al rango di vera specie.

  =L. Brandtii=. De F.

  _Habitus Lacertae muralis._

  _Narium scutellis posticis duobus; squamulis temporalibus
  latiusculis; scutellorum abdominis seriebus decem._

  _Supra grisee-olivacea nigro maculata; maculis nonnullis azureis
  prope regionem axillarem; suttus pallide glauco-viridis, regione
  anali et caudae parte infera igneo colore suffusis._

  Specie distintissima per lo straordinario numero delle serie degli
  scudetti ventrali. Due scudetti formano il contorno posteriore
  delle narici, uno de’ quali sarebbe il naso frenale di Duméril e
  Bibron. Pori femorali 16-18 per ogni lato.

  Collare poco distinto: una piastrella mediana piuttosto grande,
  le laterali che vanno presto impiccolendosi fino alle proporzioni
  delle squame ordinarie del collo, così che appena si possono
  contare tre piastrelle ad ogni lato della piastrella maggiore
  mediana.

  Presa a Basminsk, prima nostra stazione dopo Tauris.

  =L. Taurica=. Pall. Frequente al piano, da Trebisonda, per le
  provincie del Caucaso, fin nell’Armenia. Non vista più oltre.

  =L. muralis.= Latr. Rara, e solo nei luoghi elevati (valle del
  Lar).

  =Ophiops elegans=. Mènètr. Communissima nelle steppe dell’Armenia
  per tutta la Persia occidentale, al di qua e al di là dell’Elburz.

  =Plestiodon Aldovrandi=. Dum. Bibr. Mollo commune da Erivan a
  Diulfa: sembra però che non oltrepassi, verso Oriente, la valle
  dell’Arasse.

  =Euprepis affinis=. De F.

  _Supra cinereo-olivaceus, lævissime aeneo micans; subtus perlaceus.
  Dorso seriebus quatuor parallelis longitudinalibus macularum
  nigrarum, sensim in regione pelvica evanescentium. In utroque
  latere fascia latiuscula nigra supra et subtus late albo limbata._

  Questa specie è affine all’_Eup. septemvittatus_ dell’Abissinia,
  al quale perfino rassomiglia non poco nella distribuzione de’
  colori, se non che gli scudetti del capo non sono punto contornati
  di nero. Le squame del dorso presentano ciascuna tre piccole
  carene divergenti e così poco rilevate da essere difficilmente
  riconoscibili.

  Io ho raccolta questa specie a Kazvin.

  Il Marchese Doria l’ha portata anche dalla Persia meridionale.

  =Ablepharus Ménétriesii=. Dum. Bibr. Piuttosto rara. Trovato a
  Tauria ed a Kazvin.

  =Anguis fragilis.= L. Io rinvenni questa specie a Tiflis. Il
  marchese Doria mi assicura averla veduta anche a Teheran.

  =Pseudopus Pallasii=. Opp. Questa specie, non deve mancare anche
  negli alti piani della Persia: io però non la incontrai che una
  sola volta, nelle provincie caucasiche (Hussein Beglar).

  =Typhlops vermicularis=. Merr. Piuttosto frequente ad Erivan ne’
  siti umidi.

  =Eryx jaculus=. _var_. Teherana. Jan.

  Merita d’essere distinta come varietà dall’_E. jaculus_ d’Egitto.
  Color del fondo nocciuola; distribuzione delle macchie un po’
  differente che nel tipo della specie; esse sono assai irregolari,
  isolate fra loro o tutt’al più confluenti a due a due; le più
  grandi stanno sul dorso, le minori sui fianchi; tutte son formate
  da striscie nerastre parallele decorrenti sui margini delle squame.
  Circa gli scudetti laterali della testa, poco differisce dalla
  specie tipica. In ambedue gl’individui esaminati s’osservano 4
  scudetti o grandi squame in linea retta fra il nasale e l’occhio;
  nella specie non sono più di 3 e poste assai irregolarmente.
  Scudetti che formano il cerchio dell’occhio 11, 12; nel tipo son
  quasi sempre 10. Sopralabiali 12, cioè: due o tre di più che non
  nella specie tipica.

             Dimensioni        Museo di Torino    Coll. Doria
      Lunghezza totale                46"                 56"
           —    della coda             5"        (mozzata) 3"
           —    scudetti addominali  191                 185
           —       —     caudali      25             —    14

  Serie longit. di squame 45; prima dell’ano 28, dopo 22; alla metà
  della coda 10.

  =Eirenis collaris=. (Ménétr.) Trovato a Tiflis, ad Erivan, ed anche
  nella Persia meridionale.

  =Tyria Dahlii.= (Fitz.) Tiflis. Erivan.

  =Tarbophis fallax.= (Fitz.) Tiflis.[73].

  =Periops caudolineatus.= (_Zamenis_. Günth. Cat. of the snakes
  in the Brit. Mus. p. 104). Per la sua forma deve essere separato
  dai _Zamenis_ ed andare riunito al gen. _Periops_. Fra i molti
  individui esaminati è rimarchevole la varietà _nera_ che trovasi
  nella collez. Doria e fu raccolta a Teheran. Si osservano anche
  differenze notevoli, probabilmente dovute a diversità di sesso.
  La maggior parte degli individui hanno le squame con carene
  assai visibili; in altri invece si rimarca appena una leggiera
  convessità in mezzo alle squame. Negli uni le macchie del dorso
  sono grandi, subrotonde e sono circondate addirittura dal color
  del fondo; negli altri sono più piccole, ovali e contornate da
  un orlo bianco-giallastro. Su tutti però si osservano le striscie
  nere longitudinali che cominciano alla parte posteriore del corpo e
  continuano su tutta la coda.

  =P. parallellus=. Geoff. var Schiraziana, Jan.

  Differisce dagli esemplari dell’Egitto per le macchie del dorso
  subrotonde; quelle che alternano sui fianchi sono d’ordinario
  ovali o subrotonde non mai allungate e rettangolari. Inoltre
  negli individui d’Egitto i prefrontali stanno a contatto col
  frontale, mentre in quelli di Persia sono separati da tre piccoli
  scudetti; questa particolarità è così costante nei molti esemplari
  da me veduti, che può essere ritenuta per un buon carattere per
  distinguere dalle altre la varietà della Persia.

  =Psammophis Doriæ=. Jan.

  Rassomiglia grandemente al _Ps. moniliger_ e precisamente a
  quella varietà che mi fu communicata dal museo di Leyda come il
  tipo del _Choridoson sibiricum_. Differisce nondimeno da tutti i
  _Psammophis_ per la singolar struttura del nasale che consta di
  tre scudetti: l’anteriore è il più grande e riceve in un angolo
  rientrante il foro della narice; dietro ad esso stanno gli altri
  due sovrapposti, dei quali l’inferiore è piccolo ed il superiore
  è assai lungo ed arriva sino alla metà del frenale al quale
  sovraincombe. Gli altri suoi caratteri soqo: 1 preocculare, 3
  postoculari, 5-6 temporali; 9 sopralabiali di cui il 4º, 5º e 6º
  toccano l’occhio; 11 sottolabiali di cui il 6º è il più grande.
  Squame liscia in 17 serie longitudinali. La tinta generale del
  corpo è bianco-giallognola con tre serie longitudinali di punti
  neri sul dorso, ciascuno dei quali occupa l’apice di una squama;
  sulla testa vi hanno delle fascie longitudinali nerastre come
  nel _Ps. monigiler_. L’esemplare è lungo 65" 5''', la coda 15".
  Contansi 178 addominali e 79 caudali doppi.

  =Zamenis viridiflavus=. var.

  =Z. rhodorachis.= Jan.

  Questa specie fu da Günther ritenuta come una varietà del _Z.
  florulentus (Z. ventrimaculatus_ Günth. Cat. of the Snakes in the
  Brit. Mus. p. 106). Egli la descrive così: «Var. C. Olive, without
  cross bands, a broad rose coloured band along the whole back;
  form and structure of head shields completely the same as in the
  following varieties» _(florulentus)_. — Essa però è non solo sempre
  priva delle macchie trasversali che distinguono a prima vista il
  _Z. florulentus_, ma ha costantemente 19 serie, e non 21 come le ha
  quest’ultima specie.

  =Spalerosophis.= n. gen.

  Appartiene alla famiglia dei Colubridi ed ha alquanto l’aspetto
  dei _Periops_, ma se ne stacca pei seguenti _Caratteri generici_.
  Parte anteriore della testa coperta superiormente da 20-25 _piccoli
  scudetti irregolari che stanno al posto degli internasali_ e dei
  _prefrontali_; ad essi tengon dietro un frontale, due sopraoculari
  e due parietali. Occhio interamente circondato da 10-13 scudetti
  di varia forma, che gl’impediscono di toccare i labiali. Rostrale
  troncato all’apice, a sei angoli ben decisi. Nasale diviso. Frenale
  e temporali sostituiti da piccole e numerose squame. Labiali sup.
  14-15, inf. 15-17. Due paia di inframascellari. Squame piccole,
  liscie, convesse, disposte in 41-43 serie longitudinali. Anale
  intero. Caudali doppi. Denti della mascella superiore lisci, uguali
  in grandezza, senza intervallo _(Isodonta)_.

  =Sphalerosophis microlepis.= Jan.

  Color del fondo quasi di camoscio (o meglio caffè al latte).
  Superiormente notansi delle macchie nerastre rettangolari strette e
  trasversali al dorso, fiancheggiate da altre, longitudinali presso
  il collo, indi più piccole, subquadrate, alternanti; una fascia
  nera corre fra gli occhi e si prolunga fin dietro la bocca. Di
  sotto è di color giallastro senza macchie.

  L’esemplare raccolto da Doria nel Laristan misura 123", la testa
  3" 8''', la coda 24". Dopo 4-5 paja di squame gulari contansi 263
  addominali e 100 caudali doppi.

  Un altro posseduto dal museo di Milano, proveniente a quanto pare
  da Schiraz, è lungo 70", la coda 15". Esso è in tutto eguale al
  primo, sia pel colorito, sia per la folidosi.

  =Tropidonotos hydrus.= Pall. È senza contrasto la specie più
  abbondante in Persia, ed anche la più diffusa, trovandosi dalla
  Russia meridionale, sin nelle provincie meridionali della Persia.

  =Echis carinata.= Merr.

  =Vipera lebethina.= Forsk.


_Anfibj._

  =Rana cachinnans.= Pall. È molto incerto se questa specie
  debba andar distinta dalla commune _R. esculenta_ di Europa. La
  diversa macchiettatura e la diversa voce farebbero propender per
  l’affermativa. Sarebbe allora da riferirsi a questa specie la rana
  commune da Trebisonda per tutta la Persia occidentale.

  =R. oxyrhina.= Steenslr. Probabilmente la vera R. temporaria manca
  nella Persia occidentale. Gli individui da me raccolti presso
  il lago Goktscha ed a Sultanieh presentano tutti i caratteri
  dell’_oxyrhina_.

  =Bufo variabilis.= Pall. S’incontra dovunque siano pozzanghere o
  stagni.


_Pesci._

Avendo già enumerate la specie finora conosciute del Caspio, eviterò
una inutile ripetizione, e farò cenno soltanto de’ pesci degli
altipiani della Persia, e de’ confinanti paesi, lamentando che
il mio bottino ittiologico, per sè stesso non ricco, siasi ancora
assottigliato dalla perdita di una molto bella collezione fatta a
Sainkalè.

  =Gobius macropus.= De Fil.

  _Minor: corpore subcilindrico; pinnis pectoralibus et ventralibus
  valde elongatis; squamis semicircularibus._

      D. 6 — 18. A. 14. V. 12. _Squam. ser. long._ 56. _ser. vertic._ 22.

  Di color pallido, con poche macchiette brune disseminate, e liste
  longitudinali brune sulle natatoje dorsali e sull’anale. Pettorali
  con raggi assai lunghi, arrivanti fino al 3º raggio della 2ª
  dorsale; la ventrale lunga che, distesa sul ventre, oltrepassa
  l’apertura anale. Occhio grande più di un terzo del capo;
  superiormente l’uno quasi contiguo all’altro.

  Dal lago Palestem presso Poti.

  =Cyprinion tenuiradius.= (Heck. Fische Syriens. pag. 159) contorni
  di Schiraz (Doria).

  =Systomus alpinus.= De Fil. (_Syst. albus var alpina_ Heck. op.
  cit. pag. 155). Trovo conveniente convertire in nome specifico
  quello dato da Heckel alla varietà di Persia del suo _Sys. albus_,
  dissonando troppo quest’ultimo nome per una specie di color
  piombino scuro. Portata da Schiraz dal marchese Doria.

  =Barbus lacerta.= Heck. (op. cit. pag. 54. tav. II. fig. 1). Molti
  individui delle sorgenti dell’Eufrate presso Erzerum mi furono
  spediti dal cav. Bosio R. console d’Italia in Trebisonda.

  =B. Cyri.= De Fil. Questa specie del Kur presso Tiflis, fu da me
  confusa colla precedente. (Archivii di zoologia, ecc. tomo II,
  Modena 1863). Mi risulta invece, dopo il confronto col vero _B.
  lucerta_, come affatto distinta per l’occhio notevolmente più
  piccolo, le labbra meno carnose, il 3º raggio della dorsale molto
  più grosso per due terzi della sua lunghezza, e coll’apice molle.

  Dal B. _scincus_ Heck, al quale pure molto rassomiglia, si
  distingue per le squame più piccole.

      D. 2 — 8. A. 2 — 5. _Squam. scr._ 66 13/13.

  =B. miliaris.= De Fil.

  _Microlepidotus: corpore elongato; centro oculi supra, apice
  operculi infra axin corporis. Radio osseo pinnae dorsalis supra
  pinnarum abdominalum origine, margine postico serrato, apice
  molli._

      D. 2/8. A. 2/6. V. 1/8. P. 1/14. _Squam. ser._ 92 18/20.

  Gli occhi superiormente sono fra loro distanti di un diametro
  e mezzo. Fra l’occhio ed il cirro angolare corre poco più di un
  diametro oculare. La pupilla è superiore, l’apice dell’opercolo
  invece è inferiore all’asse del corpo. Il diametro oculare sta
  quattro volte e mezza nella lunghezza del capo; e la lunghezza
  del capo misura altrettante volte la lunghezza totale, compresa la
  coda.

  Finalmente macchiettato di nero anche sul ventre e sulle pinne
  dorsale ed anale.

  De’ fiumicelli presso Teheran.

  =Abramis microlepis= De Fil.

  _Corpore compressiusculo, longitudine altitudinem ter superante._

  _Capite impressione nuchali a thorace distincto. Linea lateralis in
  medio corporis. Squamae exiguae._

      D. 2/9. A. 2/17. _Squam. ser._ 82 15/15.

  La lunghezza del capo misura una volta e mezza l’altezza del corpo.
  La mascella superiore è alquanto sporgente; la bocca piccola. Il
  diametro oculare è uguale ad un quarto della lunghezza del capo.
  La perpendicolare calata dal primo raggio dorsale corrisponde alla
  metà delle ventrali adagiate sul corpo.

  Argenteo, verdastro sul dorso. Una fascia scura longitudinale ai
  fianchi circa al terzo superiore dell’altezza del corpo. Pinne
  bianco-ranciate; la dorsale coll’apice nerastro.

  Del Kur, presso Tiflis.

  Questa specie è molto affine al _Cypr. chrysoprasius_ di Pallas
  (_Zoographia Rosso-Asiatica_, pag. 318), ma se ne distingue per tre
  soli raggi alla membrana branchiostega, come nelle altre specie del
  genere, e per un minor numero di raggi alla pinna anale.

  =Capoeta chebisiensis= (Keys). (_Neue Cypriniden aus Persien pag.
  8_, tav. 11).

  =C. saadi= (Fleck). (Op. cit. pag. 158).

  Esemplari di questa e dell’antecedente specie furono raccolte dal
  march. Doria presso Schiraz.

  =C. umbla?= (Heck). (Op. cit. pag. 70).

  Fra i pesci raccolti a Sainkalé nell’Abhar, e che andarono perduti,
  una specie vi era che pe’ caratteri generali e sovratutto per la
  minutezza delle squame si ravvicina a questa.

  =C. socialis= (Heck). (Op. cit. pag. 115).

  =C. fratercula= (Heck). (Op. cit. pag. 69).

  Le piccole capete così frequenti in tutti i fiumicelli da Tauris a
  Teheran si riferiscono in massima parte a queste due specie.

  =Squalius turcicus.= De Fil. Molto assomigliante allo _Sq.
  cavedanus._ Taglio della bocca obbliquo. Mascella inferiore
  alquanto sporgente. Diametro dell’occhio misurante 5 volte la
  lunghezza del capo: questa subeguale all’altezza del corpo, e
  misurante 5 volte la lunghezza del corpo stesso. Fronte piana,
  larga: il diametro oculare sta 1 3/4 nella distanza fra un occhio
  e l’altro. Perpendicolare del 1º raggio dorsale cadente sulla
  16ª squama della linea laterale. Pinna anale piuttosto alta,
  arrotondata, squame grandi 41 7/3. D. 2 — 8. A. 2 — 9. Dell’Arasse
  presso Erzerum. Avuta dal cav. Bosio.

  =Telestes leucoides.= De Fil.

  _Habitus, corporis proportiones, pictura, uti in Leucode aula.
  Pinna dorsalis ventralibus retroposita._

      D. 2/8. A. 2/9. Ser. squam. 40 7/4.

  Rassomiglia perfettamente ad uno dei pesci più volgari di Lombardia
  e di Piemonte, che è il _Leucos aula_ Bp; ma se ne distingue
  per que’ caratteri che separano il genere _Telestes_ dal genere
  _Leucos_ cioè per avere due ordini di denti faringei, e non già un
  ordine solo. Proprj di questa specie, in confronto delle congeneri,
  sono la forma del corpo assai meno svelta, l’attacco della dorsale
  dietro quello delle ventrali, le grandi squame.

  Ho trovato questa specie in un rigagnolo presso Batum.

  =Phoxinus Marsilii= (?) Heck.

  Nello stesso fiumicello di Batum guizzavano in gran numero dei
  Phoxinus dalla linea laterale distinta e continua fino alla coda,
  e nei quali spiccava un carattere che io non ho mai riscontrato, in
  alcuna stagione, nel commune Ph. levis d’Europa: l’angolo superiore
  dell’opercolo rilevato e di color bianco, d’onde risultavano
  due macchiette laterali bianche marcatissime. È noto che Heckel,
  autore della specie che porta il nome di _Marsilii_, la ha poscia
  ricongiunta al _Ph. lœvis_.

  =Alburnus Eichwaldii.= De Fil. _Cypr. alburnus Lin._ juxta Eichw.

  _Corpore elevatiusculo: longitudine altitudinem quater superante.
  Oculis majusculis._

      D. 2/8. A. 2/12. _Squam. ser._ 50 11/7.

  Corpo più elevato che nelle specie congeneri: la sua altezza sta
  quattro volte nella lunghezza, compresa la pinna caudale. Muso
  acuto; la mascella inferiore poco sporgente. Dorsale posta molto
  all’indietro dell’attacco delle ventrali. Linea laterale che segue
  la curva del ventre. Dorso bruno verdastro chiaro. Una striscia
  nerastra longitudinale equidistante dal profilo del dorso e della
  linea laterale.

  Abbondantissimo nel Kur presso Tiflis.

  =A. iblis.= Heck. Erzerum. Arasse. Eufrate.

  =A. Doriæ.= De Fil.

  Rassomigliante pei colori e per le proporzioni alla specie
  precedente, ma distintissimo per le squame assai più grandi. Sq. 53
  8/4. D. 3 — 7. A. 3 — 9.

  Linea laterale quasi diritta, cioè che lo distingue dal _Leuciscus
  albuloides_. Val. Portato dal marchese Doria dai dintorni di
  Schiraz.

  =Cobitis persa.= Heck. (Op. cit. pag. 164).

  È la specie la più abbondante e la più diffusa di tutti i
  fiumicelli della Persia; e così rassomigliante in tutto alla _C.
  insignis_ Heck. di Siria, da non doversi da questa specificamente
  separare.

  =C. merga.= Krinicki.

  Questa specie, da cui non sembrami punto differire la _C.
  malapterura_ Val, e sarei per dire neppure la _C. tigris_ Heck,
  fu da me trovata ne’ fiumicelli di Sartschem e di Sainkalé, ma in
  scarso numero di individui.

  =Acanthopsis aurata.= De Fil.

  _Habitus Acanth. taeniae, sed corpore longiore, cirris longioribus,
  aculeo infraorbitali cum diametri verticalis oculi prolungatione
  coincidente. Corporis lateribus et abdomine nitide auratis._

      D. 1 — 7. V. 7. P. 8. A. 1 — 6.

  L’altezza del corpo sta 6-1/2 nella lunghezza totale. Cirri
  lunghetti: il mascellare esterno disteso sulla guancia arriva al
  maggiore anteriore dell’orbita. Spina sottorbitale corrispondente
  alla perpendicolare calata dal centro della pupilla. Colori
  distribuiti come nella _C. taenia_; più distinte però sono le
  macchie quadrate nel mezzo del dorso, e fra esse e le macchie
  laterali nebulosità sfumate. Lati del corpo e ventre di un bel
  dorato brillante.

  Trovata in un fiumicello presso Sartschem.

  =Petromyzon.= Molti individui ancora allo stato di larva
  (_Ammocætes_), furono da me pescati in un ruscello presso Batum.
  Rassomigliano in tutto alla commune piccola lampreda d’Europa, (_P.
  Planeri_ sen _Ammocætes branchialis_), colla sola differenza delle
  dimensioni alquanto maggiori. Non avendo potuto rinvenire la forma
  adulta, la specie non mi riesce determinabile.

Qui finisce l’elenco degli animali vertebrali osservati nel nostro
viaggio.

Il ricchissimo bottino entomologico che trovasi tuttora nelle mani del
march. Giacomo Doria non sarà così presto scientificamente ordinato. Il
giovane naturalista che ha troppo gustate le emozioni della vita attiva
per campi inesplorati, le immediate soddisfazioni del ricercatore
felice, è ancora impaziente del tranquillo minuto e duro lavoro del
gabinetto. Per non lasciare però a questo posto una troppo grave
lacuna, darò qui, valendomi delle osservazioni stesse communicatemi
durante il viaggio dal mio amico Doria, un abbozzo che esprima almeno
l’impressione generale del carattere dominante nella fauna entomologica
del paese percorso.

Come nelle altre classi del regno animale, la Persia non offre nulla
di caratteristico in quella degli insetti. Non vi sono tipi particolari
al paese. È la fauna circum-mediterranea nel nord e nel centro; quella
d’Egitto e di Siria, con aggiunte di alcune poche specie indiane, nel
sud, fino alla sponda del golfo persico. Di coleotteri la Persia è
poverissima. I deserti salati, che per i due terzi formano la faccia
del paese, sono poco favorevoli allo sviluppo delle specie. Pochi
Tenebrionidi, Adesmie, Pimelie, Tentirie, abitano quelle immense
desolate pianure. Fra le radici delle salsole, e di altre piante
caratteristiche dei terreni salini sono abbondanti alcuni _Dyschirius_
e specie di Anticini. Quest’ultima famiglia è una delle più riccamente
rappresentate nella Persia. La completa mancanza di foreste e la grande
aridità (si eccettuino sempre il Ghilan ed il Mazanderan), spiegano
la grande scarsità de’ Carabici. Negli altipiani, Doria non ebbe a
trovare una sola specie di _Carabus_, soltanto una piccola _Calosoma_
che di giorno corre sui terreni infuocati del deserto, ed è veramente
caratteristica del paese per la sua grande estensione dalle falde
dell’Elburz fino alle sponde del golfo Persico. Uguale distribuzione
geografica ha il _Metabletus exclamationis_, abbondante del resto anche
in Siria ed a Cipro. Poverissima vi è la famiglia degli Idrocantari,
ed appena mediocremente rappresentata quella de’ Brachelitri. I prati,
così di piano come di monte, che in primavera ricuoprano alcune
più fortunate parti del paese, sono abbastanza ricchi di insetti
florali. Le _Cantharis_, le Litte, le _Mylabris_, le Cerocome, ed
alcuni bei Cleriti, vi sono abbondantissimi. Anzi le _Mylabris_ sono
caratteristiche del paese per eccellenza. Gli Elateridi vi sono in
numero minimo. Non così i Buprestidi, rappresentati dalle belle Iulodis
viventi in famiglia innumerevoli sull’_Alhagi camelorum_, dalle grosse
_Capnodis_ de’ salici, e da molte piccole specie assai interessanti.
Lamellicorni e Cerambicini pochissimi. Fra i primi qualche bel
Rizotrago: straordinariamente commune la _Polyphylla fullo_, e commune
pure qualche bella Cetonia, per esempio la _Oxythyrea cinclella_, che
rappresenta, come in tutto Oriente, la volgare _stictica_ di Europa.
Fra i secondi qualche specie di _Oberea_, _Clytus_, _Leptura_, e la
solita _Aromia ambrosiaca_, ma di grosse specie nulla. La povertà di
queste due ultime famiglie è sufficientemente spiegata nella Persia
dalla mancanza di vecchi tronchi in decomposizione. Meno alcune specie
di Altiche, e la communissima _Coccinella 7-punctata_, di Crisomeline
e Coccinelle vi è grande scarsità. Pochi Curculioniti, ma in compenso
di specie assai interessanti. Grande abbondanza di Ortotteri, ma più
di individui che di specie. La scarsità di aque trae con se una grande
povertà di Neurotteri. In quei grandi deserti sono però numerosissimi
i Formicaleoni, e non rari tumuli di Termiti. Sulle montagne alcune
belle Erebie, e nelle pianure alcune Pieridi ed Antocaridi sono i
più abbondanti tra i Lepidotteri. La Persia è il paese degli Asilidi
e degli Antracidi tra i Ditteri. L’ordine degli Imenotteri poi è
riccamente rappresentato, specialmente dalla specie scavatrici.
Di Emitteri assoluta penuria, eccettuate alcune piccole specie
interessanti, abitatrici de’ paesi sabbiosi.

Un paese arido e monotono quale è la Persia non può offrire copia nè
di specie nè di individui tra i Molluschi. Le poche specie raccolte
nel viaggio furono sottomesse allo studio del giovane e cultissimo
naturalista Arturo Issel, il quale ne ha fatto argomento di una
bella monografia che vedrà fra non molto la luce ne’ volumi della
R. accademia delle scienze di Torino. Il Ghilan deve presentar senza
dubio una fauna malacologica discretamente ricca e svariata, ma noi
non abbiamo fatto che attraversarlo rapidamente. Accenno qui il fatto
singolare del non aver noi trovato nei fiumicelli della Persia alcun
rappresentante de’ generi _Unio_ ed _Anodonta_, e trascrivo, dal lavoro
del signor Issel, l’elenco delle specie viventi terrestri e fluviali
del paese percorso.

  =Melania tuberculata.= Müll. Nelle aque termali di Kerman.
  =Melanopsis mingrelica.= Bay. Poti: pochissimo distinta
    dalla _prœrosa_.
  =M. Doriæ.= Iss. Kerman.
  =Paludina mammillata.= Küst. Poti.
  =Bithynia hebraica.= Bourg. Nel Sanga presso Erivan.
  =B. Uzielliana.= Iss. Kerman.
  =Neritina (Theodoxus) fluviatilis.= (L.) Poti.
  =N. schirazensis.= Parr. Erivan.
  =N. Doriæ.= Iss. Kerman.
  =Succinea Pfeifferi.= Rosm. Armenia.
  =Zonites lucidus.= Drap. Armenia.
  =Helix syriaca.= Ehren. Erivan. Ghilan.
  =H. Langloisiana.= Bourg. Schiraz.
  =H. derbentina.= Andrz. Ghilan.
  =H. Krinickyi.= Andrz. Caucaso. Ispahan.
  =H. atrolabiata.= Kryn. Ghilan.
  =H. stauropolitana.= A. Schm. Ghilan.
  =Bulimus interfuscus.= Mouss. Armenia.
  =B. sidoniensis.= Fer. Ghilan.
  =B. polygyratus.= Reeve. Bender Abbas.
  =B. subcylindricus.= Lin. Dovunque.
  =B. Doriæ.= Iss. Ispahan.
  =B. anatolicus.= Iss. Trebisonda. Erivan.
  =B. Bayerii.= Parr. Ispahan.
  =Id. var. Kubanensis.= Bay. Armenia.
  =B. tridens.= Müll. Ghilan.
  =B.= (=var. attenuatus.= Iss.) Trebisonda.
  =B. Isselianus.= Bourg. Rive del lago Goktscha.
  =B. ghilanensis.= Iss. Ghilan.
  =Pupa armeniaca.= Iss. Erivan.
  =Clausilla canalifera.= Ross. Armenia.
  =C. Duboisii.= Charp. Trebisonda. Armenia.
  =C. foveicollis.= Parr. Transcaucasia. Erivan.
  =C. erivanensis.= Iss. Erivan.
  =C. Lessonæ.= Iss. Ghilan.
  =Cyclostoma costulatum.= Pfeiff. Trebisonda. Erivan.
  =C. glaucum.= Pfeiff. Ghilan.
  =Planorbis complanatus.= Lin. Armenia.
  =Ancylus Janii.= Bourg. Erivan.
  =Lymnæus palustris.= Müll. Kerman.
  =L. limosa.= Lin. Enzeli.
  =L. Filippii.= Iss. lago Goktscha.
  =L. auricularia.= Lin. Kerman (_var. persica_).




XXI.

Carattere della fauna della Persia occidentale, in probabile accordo
colla formazione recente di quelli altipiani, e co’ dati geografici
dell’Avesta. — Materie a ricerche future.


La regione elevata circoscritta dalle ultime propagini del sistema
Tauro-caucasico e dall’Elburz a settentrione ed all’occidente,
dalla linea congiungente le scaturigini degli affluenti del Tigri
a mezzogiorno, ed a levante perdentesi nel gran deserto salato, è
una ben definita unità geografica, alla quale dovrebbe corrispondere
un qualche particolare stampo nella fauna e nella flora, ma questa
corrispondenza non si trova affatto. Sotto l’aspetto della fauna e
della flora, questa regione non è che una provincia di un assai più
vasto regno, che è il regno delle steppe, comprendente la Turania,
ossia la grande depressione Aralo-Caspica. La differenza di livello
fra gli altipiani della Persia occidentale ed il bacino del Caspio,
compensa in parte la differenza della latitudine; ma tra i due paesi
s’interpone, nella direzione quasi di un circolo parallelo, la catena
dell’Elburz, seguita per tutto il suo versante settentrionale dalla
oasi paradisiaca del Mazanderan e del Ghilan. Una grande continua
barriera di questa fatta, comportandosi come le altre catene principali
della superficie terrestre, dovrebbe servire di separazione tra due
faune sensibilmente distinte, eppure non separa nulla. V’è una assai
maggiore differenza nella fauna al di qua e al di là delle Alpi,
all’oriente ed all’occidente d’Europa, che non in quella al nord ed al
sud dall’Elburz.

La fauna della Persia occidentale si distingue prima di tutto per la
grande prevalenza di specie europee. Ma se bene si riflette, un gran
numero di queste specie, e nel caso nostro le più caratteristiche,
sono limitate all’Europa orientale, e sarebbero più propriamente da
chiamarsi specie dell’Asia occidentale, se lasciando noi il vezzo
di far centro del mondo il nostro gabinetto, riferissimo piuttosto
le specie ai loro veri focolaj naturali. La fauna della Persia
occidentale, priva di uno stampo suo particolare, è fondamentalmente
una fauna turanica. Quando io vidi in Pietroburgo la collezione fatta
da Karelin nelle steppe de’ Kirgisi, rimasi colpito dal trovarla in
gran parte costituita dalle medesime forme che io aveva osservate
nella Persia; cioè dalle stesse precise specie, o da specie fra loro
pochissimo differenti.

La Turania forma nell’Asia, dal punto di vista zoologico, il regno de’
Criceti, degli Spermofili, de’ Merioni, de’ topi saltanti (Dipus),
delle Otarde vere, delle Glareole, degli Ophiops, de’ Frinocefali,
degli Ablefari, degli Storioni, e di particolari forme di ciprinidi
(Abramis, Aspius, Pelecus).

Ora se il carattere turanico della fauna della Persia occidentale non è
puro, ciò non dipende dal miscuglio con tipi proprj a questa provincia
dell’Asia, ma da elementi venuti dal difuori, da paesi circonvicini. Ed
è poi di sommo interesse l’osservare come questi paesi abbiano concorso
con tributi differenti: le più orientali regioni dell’Asia con specie
di mammiferi e di uccelli; l’Africa coi rettili; il bacino dell’Eufrate
coi pesci. Infatti la tigre, ed il ghepardo si trovano in questa parte
della Persia al loro estremo confine occidentale; e lo stesso può dirsi
dell’_Otocoris penicillata_, dell’_Ammoperdix griseogularis_, e del
_Tetraogallus_[74]. Alcune specie meno decise, alcune razze locali,
manifestano parimenti ne’ loro tratti distintivi, rapporti della
medesima natura, così l’_Ovis Gmelini_ congiunge ai caratteri del vero
_O. musimon_ la cornatura del vero Argali dell’Altai[75]; le sue corna
cioè sono triquetre, colla faccia anteriore piana, non arrotondata
come nel mufflone? d’Europa. Così il mio _Picus khan_ collega il _P.
syriacus_ coll’_hymalayanus_; la _Motacilla alba_ è rappresentata da
una razza che fa passaggio alla _dukunensis_, e la _Budytes flava_ lo
è dalla razza melanocefala che predomina tanto nelle Indie. La stessa
derivazione orientale si dovrà forse riconoscere per altre specie che
dalla Persia si estendono verso occidente nell’Africa settentrionale,
come per esempio, il _Canis corsae_, la Jena rigata, il Leopardo,
il _Pterocles chata_, ed il _Pt. arenarius_ ecc. Tutto fa credere
che dal principio dell’epoca attuale il movimento estensivo della
specie di mammiferi e di uccelli, nel così detto continente antico,
prevalga nella direzione da oriente verso occidente. Lasciando da
parte gli animali che possono aver subita l’azione diretta o indiretta
dell’uomo, i pochi ma ben constatati esempi di nuove colonie fondate
a nostro propria testimonianza da qualche specie dell’anzidette due
classi, ne danno ampia dimostrazione. È troppo nota, per esempio la
diffusione del _Mus decumanus_. Il _Carpodacus erythrinus_, specie per
rispetto alla stessa Persia affatto orientale, si è da circa trent’anni
stabilito in Finlandia, ove era prima affatto sconosciuto. Tutti i
giornali zoologici hanno parlato in questi ultimi anni dell’emigrazione
del _Syrrhaptes paradoxus_, fin nell’occidente d’Europa, e della
nidificazione avvenuta di queste specie nel Jutland. Non v’ha dubio
che senza la persecuzione de’ cacciatori questa specie sarebbesi
definitivamente stabilita anche in Europa.

Basta soltanto percorrere l’elenco schierato nel precedente capitolo
per vedere quanto siano prevalenti il carattere africano nella fauna
erpetologia della Persia occidentale, ed il carattere siriaco nella
povera fauna ittiologica degli altipiani di questa regione.

Al cospetto di questi fatti si è tentati di credere che la Persia
occidentale abbia preso l’attuale suo assetto dopo che l’ordinamento
dei centri di diffusione delle specie era compiuto, come una terra
nuova e neutra colonizzata poscia da immigrazioni dalle terre vicine.
Si è tentati, dico, e ben riflettendo si trova che cedere a questa
tentazione è accostarsi alla verità.

Lo stampo caratteristico proprio della fauna e della flora è il
vero blasone geologico di un paese. Così, per esempio, quel grande
continente australe che ha preso il nome di Nuova Olanda, lungi
dall’essere una terra nuova, nella quale la creazione organica non
sia ancora pervenuta allo sviluppo che ha raggiunto negli altri
continenti, si deve ritenere come la terra più antica, come quella
che ha conservato ancora al giorno d’oggi il carattere primitivo di
una flora e di una fauna che nelle altre parti del mondo sono state
rinnovate per intiero da’ successivi cambiamenti geologici[76]. In
perfetta antitesi colla N. Olanda è la Persia occidentale. In questa
regione, geograficamente così ben limitata, la mancanza di un qualunque
carattere proprio, locale, nella fauna e nella flora, è una patente di
nobiltà nuova, di nuova origine.

Alla quale conclusione si giunge pure, ed anzi più speditamente,
per un’altra via, per un’altro genere di ricerche. Le poche ma
sufficientemente chiare e nette osservazioni che io ho potuto fare
nel mio viaggio, mettono in evidenza l’epoca recentissima di quelle
fasi geologiche, per le quali questa parte dell’Asia ha presa
l’attuale sua conformazione. È di somma importanza la sezione naturale
dell’alto-piano dell’Abhar, operata dal fiume nelle intercorrenti
sue piene. L’immensa formazione di tritume porfidico e marnoso onde
questo alto-piano risulta, vedesi molto chiaramente, presso Sainkalè,
sovraposta ad un grande deposito di argilla e sabbia in strati
regolari, orizzontali, contenenti in copia produtti dell’industria
umana, come cocci, ossa d’animali artificialmente rotte, frantumi di
carbone vegetale. Si può dire con certezza che l’altopiano dell’Abhar
è di formazione posteriore alla comparsa dell’uomo, quindi all’ordine
attuale di distribuzione delle più caratteristiche forme organiche. Che
gli altri altipiani della Persia occidentale, per la natura del terreno
e per la continuità così strettamente collegati con questo dell’Abhar,
non debbano far causa separata, è opinione talmente sostenibile, che la
contraria non potrebbe essere ricevuta senza molte valide prove.

I tagli del terreno da Sultanieh a Kirwah parlano abbastanza chiaro.
Qui non si tratta di depositi circoscritti, isolati, distinti, ma di
una sola continua formazione, di un terreno di trasporto disteso sul
fondo di tutto l’altipiano. Sull’epoca sua più o meno antica, per
rispetto ad altre formazioni consimili di Europa, si può discutere,
ma già soltanto per la sua estensione e grossezza, in nessun rapporto
con cause locali possibili od anche soltanto immaginabili dell’epoca
attuale, non si può esitare ad applicare la denominazione di terreno
diluviale a tutto il deposito di ghiaja e sabbia disteso in questo
altipiano sotto il limo delle steppe. Non resta più che a cercare
in questo terreno qualcuna di quelle che si chiamano _medaglie della
natura_, come sono i denti di elefante e di rinoceronte, e le accette
di pietra nel famoso terreno di Abbeville. Ora qui abbiamo qualche
cosa di egualmente solenne ed incontrastabile, qui abbiamo gli strati
argillosi di Sainkalè con sì chiare e numerose traccie dell’industria
romana. Anzi riprendendo qui in esame i fatti già esposti, e i diversi
livelli di Sultanieh, Sainkalè, Kurremdereh, e Kirwah, si trova che
il gran deposito di ghiaja e sabbia di questo altipiano ne ha occupato
particolarmente il più basso fondo, assottigliandosi verso i lembi, ove
il terreno era più elevato; ed ivi ricoprendo strati preesistenti, con
avanzi dell’opera umana.

La località di Sainkalè è da prendersi, allo stato presente come punto
di partenza per le questioni che si vorrebbero trattare sul terreno
di trasporto degli altipiani della Persia occidentale. Gli strati di
argilla, con frammenti di carbone vegetale e di stoviglie grossolane,
ivi ricoperti da uno strato di ghiaia e sabbia che si continua e prende
uno sviluppo crescente a livelli inferiori, costituiscono un orizonte
geologico di una chiarezza incontrastabile.

La formazione di questa gran massa di terreno di trasporto, non
potrebbe, a mio avviso, essere considerata come un fatto isolato,
locale, senza contraccolpo in Europa. Io sono ben lontano dall’avere
come dimostrata l’opinione la quale considerasse, per esempio,
l’oramai celebre terreno di trasporto di Abbeville come dovuto a
cause affatto locali; ma ben si può dire che l’opinione contraria
non emerge necessariamente dalla posizione di questo terreno; e lo
stesso può ripetersi di altri depositi corrispondenti, situati a
pochi metri di altezza sul livello del mare. Qualora non intervengano
altre considerazioni in contrario, l’azione della causa che li hanno
produtti, potrebbe imaginarsi ristretta ne’ limiti di determinati
bacini. In Persia la cosa è ben differente: là abbiamo una molto estesa
formazione detritica a grande altezza sul livello del mare. Prendiamo
per ora i soli limiti nei quali questa formazione fu da noi presa in
speciale considerazione; cioè i due estremi di Sultanieh e di Kirwah,
distanti fra loro in linea retta dai 70 agli 80 chilometri. Dalle
osservazioni ipsometriche fatte accuratamente ad ogni stazione dal mio
amico e collega prof. Ferrati, risulta che Sultanieh è all’altezza
di 1860 metri sul livello del mare, Sainkalè 1724, Kirwah 1450. Ora
la causa produttrice di una così sterminata irruzione di aque, come
quella che era necessaria per formare a tanta altezza un tale deposito,
non può a meno che aver avuto un assai esteso perimetro di azione. Ed
anche supponendo questo deposito formato ad un livello inferiore, poi
sollevato lentamente e per gradi, si può subito scorgere che questi
cambiamenti pei quali si costituirono infine al posto e coll’estensione
attuale gli altipiani della Persia occidentale, non possono non aver
spiegata una influenza anche sul clima dell’Europa.

Alla formazione de’ terreni di trasporto dell’Europa centrale ha
contribuito in gran parte l’azione dei ghiacciaj e di correnti parziali
da questi direttamente provenienti. Io ho già avuto occasione di notare
l’enorme sviluppo de’ cumuli di tritumi nell’Elburz, ma la assoluta
mancanza di massi erratici, e di formazioni corrispondenti alle morene.
Io credo che le rispettive antiche condizioni delle Alpi e dell’Elburz
siano veramente rappresentate da’ loro stati attuali: là sulle più
elevate creste nevi perpetue, sulle valli più elevate ghiacciaj residui
dell’antico periodo glaciale, qui invece, come ricordi di antiche
potentissime nevicate poche liste di nevi perenni entro i solchi ed i
valloncini de’ più elevati cumignoli. Soltanto dalla fusione di questi
grandi masse di nevi si potrebbe derivare l’ingente massa di aque
che ha lasciato il deposito diluviale degli altipiani della Persia
occidentale. Perchè il periodo _nevale_ della Persia non potrebbe esser
sincrono del più recente periodo glaciale delle Alpi?

Le osservazioni precedenti determinano l’epoca la cui gli altipiani
della Persia occidentale presero la estensione e la conformazione
del presente: fanno vedere che allorquando entrarono in azione le
cause formatrici di questi altipiani, già in alcune poche parti
abitabili del paese, ed in propagini delle regioni vicine l’uomo si era
stabilito, ed aveva raggiunto tale grado di coltura da saper lavorare
e cuocere le terre. La vita distrutta o cacciata durante il periodo
nevale ricomparve nel ricomposto paese, per immigrazione dalle terre
circostanti.

Qui non mi posso difendere da altri ravvicinamenti. I moderni
commentatori de’ libri sacri de’ Parsi convengono tutti nel riconoscere
nel primo libro dell’Avesta un monumento geografico di grande autorità.
Ora le province nominate in quel capitolo, ed anche ne’ susseguenti,
spettano tutte all’Iran orientale, al paese fra l’Indo, l’Oxus, il
Caspio, ed il gran deserto salato. Una sola provincia ne sarebbe
esclusa, l’Ayriana vaedscha, la creduta patria di Zoroastro, che i
più autorevoli iranologi[77] collocano all’esterno lembo occidentale
e settentrionale della Persia, cioè alle falde dell’Ararat. Della
regione frapposta, corrispondente appunto agli altipiani di formazione
recente, della Media e della Partia, non si fa cenno alcuno. Se
questo frutto degli studi de’ moderni iranologi è così sicuro quanto è
asseverantemente proclamato, ne risulterebbe una singolare coincidenza,
forse non affatto fortuita, fra la carta geologica della Persia
all’epoca immediatamente anteriore all’attuale, e la carta geografica
tracciata sui documenti dell’Avesta.

Un accordo fra l’interpretazione dell’Avesta e l’induzione geologica è
non meno apparente, ed a mio credere veramente fondato, sovra un altro
punto. Abbiamo veduto come, a spiegare la derivazione dell’ingente
massa di aque necessaria al trasporto de’ tritumi per gli altipiani
della Persia, sia forza ricorrere, se non ad un vero periodo glaciale,
di cui non v’ha nelle montagne dell’Elburz alcuna traccia, almeno ad
un periodo corrispondente di grandi nevate, rappresentate tuttora dalle
nevi perpetue sui più eccelsi culmini. Ecco ora nell’Avesta accennarsi
al dominio del gelo, alla desolazione del verno, nella provincia
dell’Ayriana vaedscha, per l’influenza di Arimane nella sua lotta col
genio creatore Ahura-Muzda. È estremamente probabile, a mio senso, che
le parole dell’Avesta, piuttosto che al freddo presente della regione
fra l’Arasse ed il Caucaso, alludano al freddo passato del periodo
nevale che ha dominato anche su tutta la catena dell’Elburz; così che
sotto la forma del mito, la storia avrebbe registrata una delle ultime
fasi geologiche per le quali la Persia occidentale ebbe il presente suo
assetto.

Io vedo perfettamente quanto sia il disaccordo fra queste idee e
l’opinione generalmente dominante sull’antichità rispettiva del periodo
glaciale e dell’origine della schiatta umana; ma io non saprei arrivare
a differenti conclusioni co’ fatti che mi stanno dinanzi alla mente.

Una circostanza da tenersi nel massimo conto si è l’analogia di
composizione fra alcune formazioni di sedimento della Persia,
indubitatamente naturali, e le formazioni reputate umane de’ _Tepe:_
limo, sabbia, cocci, carbone vegetale, ossa artificialmente rotte nelle
une e nelle altre, a Sainkalè, come a Sultanieh, come a Marend. Nuove
ricerche sui _Tepe_ sarebbero del più grande interesse, poichè, siccome
ho già detto, non si hanno intorno ad essi che assai indeterminati
e poco attendibili tradizioni, congetture emesse dietro la prima
impressione, e come alla sfuggita, nessuna ricerca veramente condotta
con metodo e con scopo scientifico. Lo stesso signor Brugsch che, per
la natura stessa degli studj nei quali si è acquistata una così bella
fama, avrebbe potuto addentrarsi di proposito in tale questione, non
fa che riprodurre, accordandole intiera fede, la volgare tradizione
che attribuisce quelle singolari formazioni ai ghebri, ossia agli
adoratori del fuoco e del sole, e le considera come gli altari de’ loro
sacrifizj. Ecco le sue parole.

«Nelle nostre escursioni in Persia, in nessun altro distretto del
paese noi ebbimo ad incontrare _tepe_ in sì gran numero, come in
questo tratto del nostro cammino (presso Rabbat-Kerim, sulla strada
che Teheran ad Hamadan). La ragione di ciò pare sia molto semplice.
Gli altari del sole doveano trovarsi in luoghi elevati, e perciò si
scieglievano nelle regioni montuose alture appropriate come piazze pei
sacrifizj, le traccie de’ quali, secondo la leggenda e le tradizioni,
sono conservate nelle vicinanze di antiche rinomate città. Noi
ricordiamo, a questo proposito, l’altare del sole sul monte dietro Rei,
quello sull’alto dell’Elwend presso Hamadan, e l’_Ateschgâh_ o tempio
del fuoco, presso Ispahan, alla sinistra della strada che da Hamadan
conduce all’antica residenza de’ re persiani. Ove i monti erano troppo
discosti, come nel distretto di cui parliamo, ivi presso le borgate e
le città stesse, venivano erette colline artificiali, sulla cui sommità
erano poscia accesi i sacri fuochi a Mithra (il sole). Noi non abbiamo
tralasciato di salire, all’occasione, di questi _tepe_, per meglio
esaminarli, e ricercarvi traccie dell’opera umana. Queste colline dalla
base piuttosto elittica che circolare, e dell’altezza dai venti ai
trenta piedi, sono terminati da un piano del perimetro dai quindici ai
venti passi, per tutta la sua estensione coperta di frammenti di vasi
in gran parte smaltati, e qua e là ornati di rozzi disegni»[78].

Io non posso contraddire al signor Brugsch se non in un punto,
il quale però sarebbe essenziale. Le sue osservazioni potrebbero
convenire per alcuni _tepe_, e specialmente per quelli sparsi nelle
steppe circostanti a Teheran, ma non per altri, e per esempio per
quello colossale di Marend, posto non solo in una contrada montuosa,
ma anche nel vano lasciato fra due elevazioni naturali. I frammenti
di vasi di terra accennati dal sig. Brugsch non sono nulla di
particolare ai _tepe_, ma si trovano dapertutto: Una cognizione
fondata di queste collinette non si può acquistare se non col
mezzo di scavi. Allora verrà dimostrato che non tutti i _tepe_ sono
identici nella costruzione, nè tutti spettano ad una medesima epoca,
nè tutti forse devonsi attribuire al medesimo modo di formazione. I
_tepe_ che al pari di quelli di Sultanieh e di Marend, racchiudono
strati con frammenti di ossa, cocci, e carbone vegetale, sono essi
pure di fattura umana? E come spiegare in tal caso la inclusione di
que’ materiali con distribuzione stratiforme, nella massa generale
composta di ghiaja, sabbia, e limo delle steppe? Il più volte mentovato
deposito di Sainkalè, sarebbe risultante da un nivellamento di antichi
_tepe_, accaduti prima della diffusione del terreno di trasporto
dell’altipiano?

Questi dati da me raccolti percorrendo rapidamente la linea delle
carovane nella Persia occidentale dimostrano almeno che in questo paese
si racchiudono materiali preziosissimi relativi alle più remote epoche
della storia umana, e fors’anche ai cambiamenti contemporanei nelle
condizioni del clima in una gran parte dell’antico continente. Possano
almeno i risultati apparenti dai pochi ma finora soli fatti messi in
luce, determinare a più ampie ricerche qualche viaggiatore padrone del
suo tempo e delle sue linee di escursione. Una ricca messe scientifica
coronerebbe le sue fatiche. Io non posso che raccomandargli ancora di
prendere la nostra stazione di Sainkalè come punto di partenza. Non
gli sarà difficile il riconoscerla a circa un chilometro all’ovest del
villaggio, ove la sponda destra dell’Abhar e per alcuni tratti tagliata
a picco. Poi non deve essere spenta così presto nella memoria degli
abitanti la ricordanza dell’accampamento dell’ambasciata italiana,
poi infine si troveranno ancora sul posto nel greto dell’Abhar, de’
_Kiökkenmöddings_ ritraenti il carattere di una civiltà tutta moderna,
nelle ossa lavorate dal coltello dello scalco e da denti diplomatici.




XXII.

La navigazione sul Volga. — Sarepta. — Le due sponde del fiume. —
Kasan. — Nishnyi-Nowgorod. — Mosca. — Pietroburgo. — La Russia.


Il passaggio dalla state all’inverno è rapido nel mezzogiorno della
Russia. Noi eravamo ad Astrakan allo spirar di settembre; il sole non
si facea meno sentire che in Italia, e già le compagnie di navigazione
sul Volga faceano gli apprestamenti per l’inverno con una previdenza
che a noi parve eccessiva, ma che trovammo poi nel fatto pienamente
giustificata. Erano quelle, siccome già ci aveano detto, le ultime
corse regolari fino oltre Nishnyi Novgorod; e la loro durata, e la
loro tratta, dipendevano intieramente dal capriccio della stagione,
al quale non era prudenza per noi l’affidarsi. Adunque la mattina
del 29 settembre ci imbarcammo sul _Likoi_, disposti a passar undici
continui intieri giorni sul maggior fiume d’Europa, il bastimento
non era di primo rango, ma almeno eravamo noi i padroni delle celle
di prima classe, mentre sopra coperta v’era folla stipata di donne,
di contadini, di merciajuoli, ma sovratutto di soldati. La stagione
delle corse di piacere, se mai ve ne possono essere sul Volga, da vari
giorni era chiusa: il personale di servizio licenziato, rimanevano
soltanto un cuoco ed un cameriere per tutti i viaggianti di prima e di
seconda classe. I guasti dell’ormai spirata campagna, e per esempio i
vetri rotti alle finestre, erano lasciati stare, fino alle riparazioni
generali del maggio. Le celle non erano tampoco provedute di coperte,
mentre i russi puro sangue, affollati sul ponte, conoscitori del clima
del loro paese, erano già inviluppati nel loro bisunto _touloup_[79].
Il freddo delle notti si fece infatti subito sentire molto vivo, e
ben presto si prolungò nel giorno, sino a rendersi permanente, ed i
nostri mantelli, le nostre coperte erano insufficienti. Le provigioni
non mancavano a bordo: ve n’era ancora un abbastanza grosso avanzo,
e d’altronde sarebbersi potuto ogni giorno rifare. Ma il _sicciäss,
sicciäss_ (subito subito) che l’affacendato cameriere rispondeva ad
ogni nostra ordinazione avea finito per esser da noi tradutto in _fra
due ore_.

Poi v’erano altre dolcezze quotidiane. I piroscafi del Volga non
bruciano altro materiale che legna, e le grandi cataste sul ponte sono
presto consumate. Ogni compagnia adunque, tiene su tutta la tortuosa
linea del fiume, ripartiti a misurata distanza, i suoi depositi, ove
all’arrivo del battello sono già pronte schiere in massima parte di
donne, per rifar la provigione. Tutti i portatori, l’uno dopo l’altro
giunti sul ponte, e precisamente sovra le nostre teste, lasciavano
cadere di piombo il carico, attorno al quale altri s’affacendavano per
ricomporre la catasta, e non è dirsi il fracasso infernale, onde noi
chiusi come in una cassa armonica, avevamo straziati e timpano e nervi!
Questo trattamento ci toccava almeno due volte nella notte, che di
giorno sapevamo evitarlo, passando noi stessi a terra.

Con tutto ciò, e malgrado la tetra monotonia delle sponde del Volga,
la noja era bandita a bordo del _Likoi_. La lettura, il conversare, il
rivolgere il pensiero alle cose vedute, le impressioni nuove che pur
non mancavano e che ciascuno analizzava a suo modo ad alta voce, davano
pascolo al tempo.

Ma principale distrazione era per noi la vista della città lungo
questa grande arteria della Russia. Il giorno susseguente a quello
della nostra partenza approfittammo subito della opportunità di una
fermata di qualche ora per visitar Sarepta, distante circa una versta
dal fiume, nella bassa pianura coltivata, d’onde s’ascende subito ad
un immenso deserto. La città è piccola, raccolta, pulita, con belle
case ed una piazza a guisa di _square_. La sua popolazione di circa
3 mille anime è tutta tedesca. L’industria principale consiste nel
raccolto e nella manipolazione della senape, che poi viene spedita in
tutta la Russia. Vedendo molti passeggeri, che erano scesi con noi,
recarsi difilati e processionalmente alla farmacia, situata appunto
nella piazza, mi prese la curiosità; ed entrato io pure, vidi tutta
quella gente far ricerca di un balsamo che ci si disse godere di
immensa riputazione per tutto il paese all’intorno, come di una panacea
universale. Nessuno passa da Sarepta senza provederne per sè e pei suoi
amici. Ve n’ha di due forme, di unguento e di estratto liquido, ed il
più ricercato era l’unguento.

Altra più caratteristica singolarità di Sarepta è la perpetuazione
tradizionale, rispettata come sacra ed inviolabile, de’ vincoli
ond’eransi in origine legati i fratelli Moravi fondatori della
colonia. In questa isola segregata affatto dal tramestio di cupidigie
e di passioni della grande società europea, vige un sistema di
amministrazione generale dei proventi de’ singoli individui, che molto
rassomiglia alla famosa utopia de’ socialisti francesi.

A breve distanza di Sarepta è Tzaritzin, ove è la stazione del piccolo
tronco di strada ferrata che congiunge il Volga al Don. Il sobborgo
lungo il fiume è una bella fila di case di legno nuove ed eleganti. Qui
termina il governo di Astrakan.

Da Nishnyi Nowgorod fino a Tzaritzin la sponda destra del Volga è alta
e scoscesa, la sinistra invece depressa e piatta, tanto che i russi
chiamano la prima sponda montana, la seconda sponda dei prati, perchè
essendo soggetta alle ricorrenti innondazioni del fiume, è anche più
rivestita di pascoli. Già Pallas avea notata come costante questa
differenza di livello fra le due sponde in tutti i fiumi della Russia
meridionale. La mente perspicacissima del sig. di Baer cercandone
la ragione ha visto in questo caso particolare la manifestazione di
una legge generale, per lo addietro inavertita, che regola ne’ fiumi
la direzione della forza laterale della corrente, quindi la forma
del letto, in dipendenza del moto di rotazione della terra. Risulta
da questa legge che in tutti i fiumi dell’emisfero boreale l’azione
della corrente si esercita particolarmente sulla sponda destra, sulla
sinistra invece nei fiumi dall’emisfero australe. Questa azione è
sovratutto evidente nei fiumi aventi una direzione prossima a quella
di un meridiano, e ciò per ragioni facili ad intendersi, ma si deve
pure ammettere pei fiumi aventi la direzione di un parallelo. Le
osservazioni del signor di Baer hanno la data del 1853, e furono
publicate in Russia nel 1854, cinque anni prima che il signor Babinet,
senza citare alcun predecessore, trattasse questo medesimo argomento,
arrivando alle stesse conclusioni, nel seno dell’istituto di Francia
(_Comptes rendus_, vol. 49, 1859). Il signor di Baer ha in seguito
nuovamente esposte ed estese le sue osservazioni in una classica
memoria che forma il numero VIII de’ suoi _Kaspische Studien_.

Il giorno 2 di ottobre si fece altra più lunga fermata in Saratow,
grande città, con strade dritte, spaziose, intersecantisi ad angolo
retto, e magnifici fabricati, ma così deserta come non vidi mai altra
città al mondo. Per intiere strade, fin dove l’occhio poteva giungere,
non un’anima vivente. Saratow è centro di un governo. Il grande tronco
di ferrovia che la deve congiungere a Mosca, ed infondervi così vita
novella, era in costruzione assai inoltrata, ed ora, mentre scrivo, è
compiuto. Qui lasciammo il Likoi per passare sovra di un’altro molto
più elegante e spazioso battello, il Kasan, appartenente alla stessa
compagnia Samolet, la quale possiede non meno di 36 piroscafi sul
Volga.

Il giorno 5 visitammo la bella città di Simbirsk che due anni dopo
doveva esser intieramente distrutta per mano di quella terribile
ed occulta società di incendiarj che fa vedere fino a qual punto si
sa esser barbari in Russia, quando si vuol esser barbari, e contro
la quale a nulla finora valsero gli occhi d’Argo della polizia di
Pietroburgo.

Il freddo si era frattanto reso molto intenso. Nella notte dal 5 al
6 (ottobre) nevicò a larghe falde, e nella susseguente il termometro
scese a -7° C. Le sponde del nostro battello brillavano di ghiacciuoli.
La campagna era verde e gelata.

Io voleva veder Kasan, una della più importanti città della Russia,
presso l’estremo confine orientale di Europa. Mi era anche di
particolare interesse il far una visita al dottor Nicola Wagner,
professore in quella università, e chieder schiarimenti sovra la sua
scoperta della generazione delle larve in alcuni insetti (Cecidomine),
che trovava affatto miscredenti i naturalisti di Germania, ai quali
era stata communicata. Orio si lasciò facilmente sedurre ad essermi
compagno, e giunti allo scalo ci separammo dalla nostra brigata, che ci
avrebbe aspettati a Nishnyi Nowgorod.

Lungo la sponda del Volga si distende anche qui il solito sobborgo,
con qualche buona taverna, ed una lunga fila di botteghe di legno che
forma un vero bazar. La città è discosta tre verste che percorremmo
celeremente in _droschki_. La strada è da principio alquanto difficile,
ineguale, pantanosa per le ricorrenti piene del fiume, poi si fa larga
e piana fra una campagna vestita di boscaglie paludose; e passato un
altro sobborgo di ville signorili e giardini, si giunge ad un ampio
greto, solcato da’ rami di un piccolo fiume, la Kasanka, e che si
attraversa su di un lunghissimo ponte-terrapieno, terminante alla porta
stessa della città. Prima di giungere a questa ci colpì lo sguardo un
grande tronco di piramide, sorgente, dalla sinistra sponda del fiume.
È un mausoleo eretto in onore di Ivan Vassilievitsch e dei suoi prodi
caduti nella vittoria riportata sui Tartari.

La città di Kasan è grande, popolosa, con belle contrade e grandiosi
fabricati e si presenta assai pittorescamente anche di lontano, colle
sue case affollate su di un piccolo dosso. Gli abitanti sono ancora in
massima parte Tartari, perfettamente assimilati co’ loro conquistatori.
Il sole già prossimo al tramonto non ci permise che la vista esterna
del magnifico palazzo dell’università, della grande colonnata e
dell’atrio. Il prof. Wagner ci accolse cortesemente; mi espose pel
minuto la sua interessante scoperta, oramai confermata; e mi volle
anche fornire materiali affinchè potessi io medesimo, nelle rimanenti
ore di ozio sul Volga, verificarne alcuni particolari. Professor di
fisica alla stessa università è un italiano, il signor Bolzani; ma ci
mancò l’occasione di farne la conoscenza personale, non essendo egli
peranco di ritorno da Londra, ov’erasi recato per la grande esposizione
industriale. Alloggiammo all’albergo Resanoff, albergo di primo rango,
ove però non sono ancora introdotti i letti all’Europea. Il mattino
seguente, dopo altro giro per la città allo scopo anche di provederci
di difese contro il freddo, ritornammo al sobborgo alla sponda del
fiume. Mancava ancora da circa un’ora alla partenza del battello,
e passeggiando noi oziosamente lunghesso la fila delle botteghe,
scortane una di libri, entrammo. Non fu poca la nostra maraviglia nel
trovare quasi null’altro che produzioni della letteratura parigina
contemporanea, edizioni di Hachette e di Levy: qui, presso che alle
porte della Siberia! Per mio conto comperai un libretto di Alfonso
Karr: _la pêche_ che mi ha divertito assai, e per que’ saporiti frizzi
che piovono così spontanei dalla penna dell’autore delle _guèpes_, e
per una sequela di grosse castronerie che il buon Karr si è lasciate
sfuggire.

Dopo altri due giorni di navigazione, raggiungemmo finalmente i nostri
compagni a Nishnyi Nowgorod, la celebre città, ove si tiene la più
grande fiera del mondo. La città propriamente detta, sulla sponda
destra del fiume, elevata tanto da dominar di colassù grande estensione
di paese; vince in bellezza ed in amenità di situazione le altre
città del Volga. Ha un bel giardino publico, spaziose contrade, ed una
grande piazza che dà accesso al Kremlin, o cittadella, ampio recinto
contenente caserme e la residenza del governatore. A piè dell’altura,
in parte lungo il Volga, ed in parte lungo il suo confluente Oka, è
un grande sobborgo abitato particolarmente da mercanti. Una seconda
immensa città, nell’angolo compreso fra i due fiumi, tutta magazzini
e case di legno, scompartita in isolati regolari da lunghe contrade
rettilinee, è popolata soltanto durante la fiera, vuota affatto nel
resto dell’anno. Anche questa ora è diventata un mucchio di ceneri!
Io ed Orio ci recammo subito a far visita al governatore, pel quale
avevamo una lettera di presentazione. Il generale Alexis Odyntzoff ci
accolse colla più squisita cortesia, condita da una certa apparente
ruvidezza militare, e volle assolutamente che sedessimo a mensa colla
sua famiglia. V’erano, oltre la sua signora, due graziose bambine e
due istitutrici francesi. Si parlò della ricchezza del paese, della
grande fiera, e di viaggi. Seppimo in questa occasione che due mesi
prima erano passati per Nishnyi Nowgorod il signore e la signora di
Bourboulon, che erano venuti per via di terra da Pekino; dura impresa
per un uomo rotto alla vita del cavallo e della tenda, mirabilissima
per una donna.

La fiera di Nishnyi Nowgorod si apre ai 29 di luglio, e si chiude verso
la metà di settembre, non ad un giorno assolutamente fisso, potendosi
anche prolungare, come appunto avvenne nel 1862 oltre il termine
consueto. Le nazioni manifatturiere d’Europa vi sono rappresentate,
ma in scarso numero al confronto delle popolazioni asiatiche, de’
Tartari, de’ Kirgisi, de’ Tongusi, de’ Kamtschadali, de’ Mongoli, de’
Cinesi, de’ Persiani. Vi affluiscono tutte le produzioni del mondo
antico, dai tessuti di Manchester e dai giuocatoli di Norimberga,
ai cuoi della Tartaria, ai tappeti persiani, alle pelliccie della
Siberia, al thè della China. Quest’ultimo è anzi uno de’ principali
articoli. Quasi tutto il thè di cui si fa così esteso consumo in
Russia, è portato dalle caravane a questo grande centro di commercio,
sebbene ora vada prendendo piede la concorrenza della via di mare e
degli emporj inglesi. La fiera del 1862 fu delle più animate. Vi si
portarono mercanzie pel valore complessivo di 96 millioni di rubli,
e ne furono smaltite per 95 millioni. Mancando i mezzi ed il tempo
per l’applicazione di un più esatto metodo di statistica, si fece
approssimativamente il calcolo del numero delle bocche dalla quantità
di pane cotto nei forni in eccedenza della consumazione ordinaria, e si
giunse così alla cifra di 60,000 persone accorse alla fiera.

A Nishnyi Nowgorod eravamo finalmente ad uno degli estremi capi della
gran rete di ferrovie dell’Europa centrale. Fra gli impiegati alla
stazione trovammo un nostro compatriota, un genovese, che si adoperò
con molta premura a toglierci da molti imbarazzi, e primo da quello
della regolare consegna dei nostri bagagli.

Scendemmo alla stazione di Mosca al matino del giorno 11, ed ivi stava
aspettandoci un signore prevenuto dal nostro arrivo che, scortici alla
fisionomia, ci accostò rivolgendoci la parola un po’ in francese un
po’ in italiano. Era il signor Billo che ci offriva ricovero nella sua
_pensione_ nel quartiere della grande _Lubianska_. Fu una vera fortuna
per noi il non avere da fare altro che seguire il nostro ospite, il
quale, come un esperto capitano, con cenni e parole monche distribuite
qua e là, diede prestamente tutte le disposizioni che facevano al caso
nostro, e fattici salire in _droschky_ ci condusse di filo alla sua
casa, ove per la prima volta, dopo sei mesi, potevamo riconfortarci
di tutti gli agi di tutte le ricercatezze della vita materiale, non
richieste veramente dalle nostre ordinarie abitudini, ma dallo stato in
cui eravamo ridotti dalle febri persiane. Ne’ tre giorni da noi passati
in questa splendida metropoli il signor Billo fu tutto per noi, e
spinse la cortesia sino a volerci fare egli medesimo da Cicerone.

Le mura di questa immensa città portano scolpita la storia delle grandi
epoche della Russia. Nel 1300 Mosca era tutta compresa nell’angusto
perimetro dell’attuale Kremlin, difesa per un lato dal fiume (la
Moskova), e pel resto da una siepe, finchè in quel medesimo secolo il
gran duca Demetrio Donskoy non la ricinse di mura; le quali dovettero
sostenere numerosi assedj dai Tartari e dai Lituani, e distrutte infine
per le ingiurie degli uomini e del tempo, furono riedificate e munite
di torri sotto lo czar Giovanni III, per opera di architetti italiani.
Questo primitivo recinto fu presto insufficiente, crescendo rapidamente
la popolazione col costituirsi del novello impero: molte case sorsero
d’attorno, poscia tutte rinchiuse in un secondo muro di cinta,
che sussiste ancora e limita la così detta _citè_, (_Kilay-gorod_)
tutt’attorno della quale crebbero ne’ secoli successivi le più recenti
costruzioni che formano la massima parte della Mosca attuale.

Mosca ha veramente uno stampo affatto proprio, nelle costruzioni non
posteriori all’epoca di Pietro il Grande, e sovratutto nelle chiese e
nei conventi: ma negli edificj moderni va sempre più sacrificando il
carattere nazionale alla purezza dello stile, così che si trovano in
questa città le più strane e dissonanti associazioni, dal più mostruoso
barocco, nella cattedrale della Intercessione della Vergine[80],
all’estremo dell’eleganza e della magnificenza nel palazzo imperiale.
Fra le costruzioni moderne si distinguono i sontuosi palazzi dei
così detti baroni dell’aquavite, ossia degli arricchiti nell’appalto
dell’imposta sui liquori spiritosi, che forma una delle principali
rendite della finanza russa. Le case dei privati sono eleganti, ma
generalmente basse, di un sol piano oltre il terreno, il che determina,
per una sì grossa popolazione, la vastità dell’area occupata. Gli
edificj publici sono colossali. La cavallerizza, per esempio, è un
salone, col soffitto piano, avente non meno di 170 metri di lunghezza,
e 44 di larghezza, ove possono manovrare tremila cavalli. L’albergo
dei trovatelli è una città nella città, poichè vi si dà ricetto ed
istruzione a non meno di quindici mila derelitti. Una vera maraviglia,
un vero museo di grandiosi monumenti, è il Kremlin, il vaticano del
culto greco, il cuore di Mosca, come Mosca è il cuore della Russia.
Quattro cattedrali abbaglianti di stendardi ricchissimi, di imagini
sante, di candelabri, di oro e di gemme, il palazzo imperiale, il
palazzo del patriarca, gli arsenali storici della Russia, il tesoro,
sono, ciascuno per sè, un tale stipato assembramento di singolarità
stupenda, da sottrarsi ad ogni descrizione. Non esiste città al mondo
ove le chiese siano tante numerose come a Mosca. Non le ho contate, ma
fui assicurato esservene intorno alle quattrocento, ciascheduna con
molti campanili terminati da una cupola rigonfia, e questa alla sua
punta da una enorme croce dorata. Dal baluardo del Kremlin io rimirava
una sera per l’immensa città questa selva di torri crucigere. La vôlta
del cielo, d’un triste uniforme grigio, andava oscurandosi; solo verso
ponente una gran zona purpurea circoscriveva l’orizzonte. Quando il
sole vi passò nel suo tramonto, le croci dorate delle chiese brillarono
improvisamente di viva luce spiccante dal fondo scuro del cielo, e fu
per alcuni minuti uno spettacolo incantevole, come di un gran fuoco
d’artifizio per tutta la città.

Esiste in Mosca una celebre università, fondata nel 1755, aggrandita
da Caterina seconda, e dotata dal principe Paolo Demidoff di un esteso
dominio lavorato da 3500 servi, e di un forte capitale in danaro
per sopraggiunta[81]. Ha pur sede in questa città una società di
Scienze naturali che è tra le più celebri academie di Europa. Con tali
elementi fa maraviglia la povertà delle collezioni scientifiche, ed in
particolare della collezione zoologica, ove tolti una dozzina di pezzi
capitali che sono un monopolio della Russia (uno scheletro di Mammouth,
per esempio, ad uno di Ritina), il resto, anche numericamente ben poca
cosa, è sformato, cadente, e per di più deturpato da errori madornali
nelle determinazioni sistematiche. Nello spiattellare questa verità
devo aggiungere, che il professore di zoologia nell’università, signor
Bogdanow, non ha alcuna ingerenza nel Museo.

Dall’antica alla moderna capitale dell’impero moscovita, corrono venti
ore di ferrovia.

Lo spettacolo della prospettiva di Newsky che percorremmo per gran
tratto nel recarci all’albergo Klee, fu il preludio delle impressioni
vive e profonde fra le quali passammo otto giorni in Pietroburgo. Non
può entrare nel mio piano il descrivere la magnificenza delle contrade,
de’ palazzi, de’ templi, le multiformi meraviglie d’arte accumulate
in questa città, surta per incanto, ad un cenno del più grande despota
creatore che abbia esistito. Ogni dì le nostre particolari inclinazioni
ci portavano oltre la Newa, a quei stupendi santuarj della scienza
che sono l’osservatorio di Pulkova, il giardino botanico, il museo del
Corpo delle miniere, l’academia imperiale delle scienze. Dovunque fummo
accolti colla gentilezza più squisita ed operosa, ed a me è grato in
particolar modo il ricordare il prof. Besser, il generale di Helmersen,
il colonnello di Kocktscharoff, il prof. Brandt, i signori Strauch e
Moravïtz addetti al museo zoologico, e l’academico Carlo Ernesto di
Baer. Io aveva già avuto la fortuna di conoscere in Milano, sedici anni
prima, questo decano illustre de’ viventi naturalisti, e grande fu la
mia soddisfazione in rivederlo, malgrado le infermità fisiche della
vecchiezza, vivace e robusto di spirito come all’epoca in cui fondava
le basi dell’embriologia.

Ma se rinuncio a descrivere le grandi monumentali opere di Pietroburgo,
non posso trattenere una esclamazione di orrore per le traccie che vi
ha lasciato il genio della distruzione. Tutta Europa fu scossa dalla
notizia del terribile incendio che nel maggio del medesimo anno 1862 ha
ridotto in cenere il gran quartiere dell’Apraxine dvor e del ministero
dell’interno.

Non si può vedere il teatro di questo disastro senza rimanere
soprafatti dal pensiero della potenza del male. È un isolalo immenso,
centro del commercio della metropoli; e le ricchezze distrutte, le
famiglie gettate nella miseria, fanno raccapriccio. Quando io visitai
questo desolato campo di macerie fuliginose vi erano risorte in gran
numero botteghe improvisate, e tutt’attorno era in pieno corso l’opera
della riedificazione. Ma dove si reclutano queste mute invisibili
masnade volanti di furie? Nessuno lo sa, ognuno lo crede a suo modo,
e intanto le fiamme spente in un luogo, divampano in un altro. I
giornali asseriscono che la reazione e la rivoluzione si ribattono in
Russia l’accusa di una così insana e feroce barbarie: noi veramente non
abbiamo udite queste recriminazioni de’ partiti estremi e piuttosto
fummo sorpresi dall’indifferenza generale del paese come di eventi
oramai abituali. Il paese era preoccupato di ben altro.

Il tratto più spiccante nella fisionomia morale del popolo russo è lo
spirito religioso, o per dir meglio l’abbondanza del culto esterno.
Lungo le contrade più frequentate delle città sono di quando in quando
appese al muro imagini sacre con adobbo più o meno vistoso di cerei,
e nessuno passa di là senza far tre inchini e tre segni di croce, od
almeno levarsi molto rispettosamente il cappello. A Mosca una delle
sei porte del Kremlin è la così detta porta santa. L’imperatore stesso
nel passarvi scende di carrozza e si scopre il capo, onde tener vivo in
tutti il buon esempio. Pe’ dimentici o per gl’ignari di questo atto di
riverenza è appostata una sentinella.

In ogni camera abitata sta appesa in un angolo, e molto in alto,
un’imagine sacra, con una lampada ardente; e ciò basta perchè la camera
sia convertita in un vero santuario, e lo starvi a capo scoperto sia
di assoluta prescrizione. Nella sala de’ _Traktyr_ (osterie), ove
conviene il publico, due oggetti sono immancabili: un grande organo
a cilindro che ripete le arie nazionali, e specialmente l’inno allo
Czar, e l’imagine santa nella sua cornice dorata e col suo lumicino
perpetuo. Così il luogo è santificato; un leggero oblio di questa
circostanza fu sul punto di involgerci in una vertenza che avrebbe
potuto avere conseguenze molto serie. Uno de’ nostri compagni, tenendo
il berretto in capo, si facea servir da pranzo nel salotto commune del
nostro albergo in Astrakan, ove stavano seduti, attorno ad una tavola
separata, alcuni giovinotti di civile condizione, ma già riscaldati
dal vino. Scorso qualche tempo noi li vedemmo confabulare tra di loro
in modo assai concitato, di quando in quando accennando al nostro
compagno che stava tranquillamente smaltendo una porzione di _hucha_,
ossia di zuppa di sterletto. Il sig. Nicolas che per caso giunse nella
sala, ed intendeva perfettamente il russo, ci mise in avvertenza delle
esclamazioni di que’ giovinotti diretti contro di noi, per non sapeasi
qual insulto fatto da un italiano al nobile sangue russo. Il nostro
compagno finito il suo pranzo, si era tranquillamente allontanato,
e nullameno la scena prendeva col vuotarsi di nuovi bicchieri un
carattere sempre più minaccioso, tanto che l’oste medesimo impaurito
mandò per un commissario di polizia, il quale accorse prontamente, ma
durò molta fatica ad impedire uno scandalo e ad avviare quei giovani
alle case loro. L’insulto era nella profanazione del luogo pel berretto
in testa del nostro compagno, veduto e giudicato attraverso i fumi del
vino.

L’istruzione publica è tutta nelle mani del governo. Io ho già avuto
occasione di deplorare l’estrema negligenza dell’istruzione elementare,
aggiungo ora che un’epoca riparatrice è surta da poco, ed un grande
salutare movimento per la diffusione delle scuole ne’ villaggi, si è
ridestato in tutti gli ordini della società russa. Le università sono
organizzate militarmente: a ciascuna è preposto un curatore che il più
delle volte è un generale in ritiro; la disciplina vi è rigorosa al
maggior grado; la censura vigile e sospettosa. Fino a questi ultimi
anni il numero degli studenti era determinato per ogni università, e
gli ammessi dovevano sottostar ad enormi tasse, con che l’iscrizione
in un albo universitario era un vero privilegio. Fra le riforme che
segnalarono i primi anni di regno di Alessandro II quella degli studj
fu compresa. Le tasse di molto ridotte, tolto il limite al numero degli
studenti, questi accorsero in folla da tutti gli angoli della Russia
alle università, vi si costituirono in corporazioni, fondarono società
di mutuo soccorso, biblioteche, sale di convegno. La gioventù delle
università è la stessa in tutti i luoghi, facile all’entusiasmo, a
tradurre in atto i primi moti di una nobile passione. Dopo i massacri
di Varsavia nel febbrajo del 61, in tutte le università dell’impero
gli studenti polacchi fecero celebrare un servizio divino in suffragio
delle vittime, e gli studenti russi s’unirono nella mesta cerimonia
ai loro compagni. Pochi mesi dopo una sollevazione di contadini a
Kasan fu domata colla forza delle armi: in segno di compianto gli
studenti raccolti di quella università sparsero di fiori il feretro
de’ caduti. Questi fatti comparvero nelle alte regioni del governo
come preliminari di un movimento che bisognava tosto reprimere. Il
sig. Kovalevski, ministro della publica istruzione che avea secondate
le riforme liberali, cedette il posto all’ammiraglio Poutiatine, per
opera del quale furono ristabilite le tasse annuali d’iscrizione degli
studenti in 50 rubli, richiamati in vigore le più vessatorie discipline
de’ tempi trascorsi. Frutti di queste inconsiderate misure fu una
vera insurrezione degli studenti a Mosca e a Pietroburgo, sciolta
coll’estremo rimedio delle armi.

Tali avvenimenti si eran fatti compiere durante il viaggio in Crimea
dell’imperatore. Al ritorno nella sua residenza Alessandro II fu
vivamente scosso dal trovar chiuse le scuole, gli studenti dispersi
o chiusi in fortezza; e di nuovo l’onda del potere si volse alle
riforme liberali. Un nuovo ministro il sig. Golovnine fu chiamato alla
direzione della publica istruzione.

Un completo riordinamento delle scuole stava appunto elaborandosi al
nostro passaggio per la Russia. Si parlava già di una forte diminuzione
delle tasse scolastiche, e dell’istituzione in tutte le università
de’ privati docenti, fino allora tolerati soltanto alla università
di Dorpat, per concessione all’indole germanica degli abitanti della
Livonia. Le antiche durezze andavano a poco a poco rilasciandosi, la
gioventù ripopolava gli atenei.

La censura de’ libri, per iniziativa stessa del novello ministro,
doveva farsi meno sospettosa ed arcigna. Non possiamo dire se queste
buone intenzioni siano state intese ed obedite. A me recò non poca
meraviglia il trovar sui giornali venuti di Francia o di Germania
un singolare marchio dell’ufficio di revisione. Tutti i fogli sono
regolarmente distribuiti, ma sui periodi che il rigido censore
avrebbe voluto soppressi, si applica uno stampo nero indelebile,
il quale propriamente par che dica: lettore, ecco un brano che ti
deve interessare vivamente; cercalo in ogni modo e leggilo bene.
Accade che de’ giornali portino talvolta delle mezze colonne, delle
colonne intiere di un bel nero, intenso, uniforme, riquadrato con
molta regolarità. A Mosca vidi nella vetrina esterna d’un librajo un
fascicolo di un giornale tedesco sulla Russia: volli comperarlo, ma
il librajo me lo rifiutò pretendendo che io pagassi l’abbonamento
anticipato di un anno. Cercando sodisfar la mia curiosità in
Pietroburgo, i librai ai quali mi diressi soggiunsero che l’opera
era severamente proibita, e non volevano credere che io la avessi
veduta esposta in Mosca. È sempre così: l’arbitrio, il capriccio,
l’intelligenza stessa del revisore fanno veramente la legge. Come mai
gli uomini di Stato della Russia non veggono che la censura dei libri
nuoce perfino all’intento vero pel quale fu istituita; che essendo
misura di governo inefficace e screditata di sua natura, rende popolare
e più audace l’opposizione a tutte le altre!

Ma la Russia è il paese delle grandi contradizioni. Da una parte questo
affanno minuto, geloso, incessante dell’autorità per tener misurata
l’aria vitale all’intelligenza che si spiega, e dirigerne le mosse
a battuta di tamburo, dall’altra favori ed onoranze all’ingegno che
è surto e si impone col prestigio del successo. Nessun altro paese
d’Europa tiene la scienza in maggior estimazione. L’aristocrazia della
dottrina è posta in Russia al medesimo ordine colla aristocrazia
del sangue, e questa non si crede degradata per ciò. Il governo è
larghissimo di mezzi al culto dei severi studi, alla sola implicita
impreteribile condizione che non s’attenti all’ordinamento politico
dell’impero. È una ambizione nazionale il mettersi tra le fila de’
militanti per la scienza: epperò la Russia prende una parte veramente
cospicua al progresso generale in Europa sopratutto delle scienze
fisiche ed etnografiche. Molti de’ suoi dotti più illustri appartengono
ancora all’importazione alemanna, ma la massima parte di essi non
conservano altro segno esterno della loro culla che il suono del nome,
mentre per lingua, abitudini ed affezioni sono perfettamente assimilati
nella nuova patria. La Russia scientifica e la Russia moderna si
confondono nella loro origine dal ferreo antiveggente despotismo
di Pietro il grande, pel quale il paese fu veramente germanizzato.
Nella opinione generale due partiti sono in antagonismo al governo
della Russia, con varia prevalenza; il partito alemanno ed il
partito moscovita, aventi rispettivamente come sede e centro d’azione
Pietroburgo e Mosca, ossia, con espression popolare, la testa ed il
cuore della Russia. Ebbene, continuando il paragone, è facile vedere
che appunto per la divisione del lavoro fisiologico fra questi due
nobilissimi visceri ha potuto crescere con tanto vigore il colossale
organismo della Russia.

Noi trovammo però molto pronunciato un movimento di reazione, così che
le catedre universitarie oramai sono affatto chiuse ai dotti della
vicina Germania. Questa sodisfazione dell’amor proprio nazionale è
tanto più legitima, in quanto che non è congiunta colla pretesa di
una scienza ortodossa russa, diversa da quella dell’occidente, o
colla millanteria narcotica di un primato fittizio. L’importazione
occidentale è cessata, ma i giovani più distinti degli atenei della
Russia sentono vivamente il bisogno di compiere la loro scientifica
educazione col tanto efficace mezzo de’ viaggi, ed annualmente sono
a centinaja quelli che lasciano il loro paese per riprendere la vita
dello studente ne’ principali istituti di Germania, di Francia e
d’Inghilterra. La facilità di apprendere le lingue straniere, ch’è
un carattere particolare delle razze slave, fa sì che nulla rimanga
ignorato ai Russi di quanto si fa di memorabile nei vasto mondo della
scienza.

Fin qui i più grandi lavori de’ Russi sono stati publicati in latino,
in tedesco od in francese, e l’uso della loro lingua fu tutt’al più
riserbato a’ lavori di storia nazionale. Ora dal partito moscovita
puro si vorrebbe cambiato questo sistema, e far adottare la sola lingua
russa anche per le opere di scienze fisiche e naturali. È sperabile che
questo tentativo non riesca, sebbene alcuni abbiano già dato l’esempio.
È troppo presto il pretendere d’imporre all’Europa una nuova lingua
scientifica; non è cavalleresco per parte dei dotti russi il segregarsi
così dai loro confratelli d’occidente, e non è del loro interesse
il rinunciare a quella giusta sodisfazione che consiste nel vedere i
proprj lavori apprezzati oltre i confini del proprio paese.

La veramente grande e generale preoccupazione degli spiriti era
l’emancipazione dei contadini, oramai inapellabilmente decretata con
tutta la forza di una legge organica dell’impero. È noto quale fosse
la loro condizione: veri servi della gleba aveano in usufrutto un
pezzo di terra da cultivare, a condizione di cultivare anche le terre
del padrone, e di prestarsi ad ogni chiamata in schiere (_corvées_),
a certi determinati altri lavori: non poteano possedere, non poteano
abbandonar le loro terre, ed erano esclusi da ogni ingerenza nelle
faccende del commune. I padroni reclutavano pure tra di essi i
contingenti per l’armata. L’importanza de’ possedimenti era misurata ed
espressa dal numero de’ servi che vi erano attaccati.

Il pensiero dell’affrancamento de’ contadini, che aveva balenato
appena nel cervello di qualche solitario moralista, prese maggior
consistenza all’avvenimento al trono dello Czar attuale, che sino
da’ suoi primi atti annunciava un’epoca novella alla Russia; ma le
difficoltà dell’esecuzione apparvero così gravi, la crisi conseguente
così spaventosa, che questa radicale riforma sociale fu ritenuta
come da aversi presente allo spirito, ma da effettuarsi in un’epoca
indeterminata. L’_ukase_ imperiale del 19 febrajo 1861 troncò
gl’indugi; dichiarata la libertà de’ servi, stabilì minutamente le
norme affinchè potessero, a prezzo di danaro, diventare veri padroni
delle terre che aveano avuto in uso fino allora da padre in figlio, in
pari tempo redimendosi dal lavoro obligatorio. Due anni di tempo erano
concessi per la transizione dall’antico al nuovo ordine di cose, per
la stipulazione de’ nuovi patti fra i contadini ed i padroni. Questo
biennio era appunto prossimo a spirare quando noi attraversavamo la
Russia, e non s’era ancora presa alcuna deliberazione, e si vedeva
con terrore l’approssimarsi del termine ultimo. Tutta la società era
cupamente travagliata, tutti gli interessi rovinati. I servi non
volevano accettare l’_ukase_ che in una sola parte: in quella che
li scioglieva dalle prestazioni di lavoro a vantaggio del padrone,
e si rifiutavano a qualunque imposizione per esser mantenuti al
possesso di terre che per lunga serie di anni, perfino da secoli,
essi consideravano già come incontrastabile loro proprietà. Noi
apparteniamo al padrone, dicevano essi, ma la terra appartiene a noi; e
frattanto rifiutavansi ad ogni tributo. Pochi mesi dopo la publicazione
dell’_ukase_ diecimila contadini insursero armati nel governo di Kasan,
per reclamare la proprietà assoluta delle loro terre, senza condizione:
e fu d’uopo d’una vera battaglia per sottometterli. Non è a dirsi lo
stato dei proprietarj in una sì violenta crisi sociale!

Questo grande atto che trasforma intieramente la Russia non fu
imposto da alcuna stringente necessità materiale, fu un omaggio reso
alla scienza sociale, alla scienza d’occidente. La vita trascorreva
pei contadini abbastanza tranquilla e contenta. Quelle medesime
condizioni di isolamento che li rendevano industriosi a proveder
a tutti i bisogni della famiglia, agli alimenti, alle vesti, a’
mobili, agli attrezzi rurali, faceva sommo, a’ loro voti, il bene più
facilmente e più sicuramente conseguibile, la rustica agiatezza della
vita patriarcale. Di raro vedevano i loro padroni; alcuni perfino,
invecchiati sul luogo, non aveano mai vista la faccia del signore
al quale pagavano tributo: tutti infine erano attaccati alle loro
terre dall’affezione per la cosa posseduta. La miseria del contadino
della pingue Lombardia è sconosciuta in Russia: ne’ due mesi che noi
passammo nelle provincie russe al di qua e al di là del Caucaso, non ci
occorse mai di vedere una mano stendersi a cercare l’elemosina. Alcuni
servi della gleba hanno potuto perfino accumulare fortune colossali.
Dall’altra parte i signori, scevri da ogni cura di amministrazione
de’ loro beni, potevano darsi affatto liberamente alle alte cariche
dello Stato, circondarsi degli agi e del lusso del loro rango fin
ne’ posti avanzati dell’estrema Asia, ingolfarsi ne’ fasti olimpici
della vita di corte, o nelle dissipazioni della vita parigina. Ora
tutto è cambiato, e pel momento con una grave perturbazione generale.
Surge pe’ contadini, colla dignità dell’uomo libero, la vera lutta per
l’esistenza; si preparano nel loro prossimo avvenire fortune e procelle
per lo addietro ignorate, nuovi desideri, nuovi più elevati godimenti,
ma anche nuove illusioni. Il perturbamento è ancora più grave nella
classe dei signori, non foss’altro per la sospensione delle rendite
durante la lutta pe’ nuovi accordi co’ servi, e non poche fortune, già
minate dalla crisi finanziaria che travaglia ancora la intiera Europa,
andarono in completa ruina.

L’emancipazione de’ contadini è frutto de’ tempi maturati durante
il famoso raccoglimento della Russia, annunciato dal principe di
Gortschakoff dopo la guerra di Crimea; è sintomo e fomite ad un tempo
di uno spirito novello che agita in Russia tutte le classi della
società; è la creazione del terzo stato; radicale riforma da cui
dipendono tutte le altre, che poi necessariamente trascina dietro di
sè. Fin qui non sarebbe stata possibile in Russia che una rivoluzione
di palazzo, od una sollevazione brutale di quella plebe che si palesa
dalla fiaccola devastatrice come il leone dall’unghia; ora è aperta
l’arena alla pacifica, potente e ferace rivoluzione delle idee. Ferve
il lavoro nelle stesse regioni del governo, e già per nuove leggi
sono informate a più liberali principj l’amministrazione della finanza
publica, l’amministrazione communale, la magistratura. La rottura col
passato è ancora più decisa ed energica in ogni manifestazione della
vita publica. Nelle assemblee della nobiltà raccolte lo stesso anno
1862, a Pietroburgo, a Mosca, a Tver, s’udirono le proposte di stati
generali, e di parlamento nazionale; e coloro che le hanno pronunciate
non furono deportati in Siberia.

Notisi questa circostanza come sintomo assai espressivo della attuale
situazione e dell’avvenire della Russia!


  FINE DEL VOLUME.




ERRORI E CORREZIONI.


Devo riparare ad una ommissione a proposito delle ascensioni
dell’Ararat. La cima di questa colossale montagna fu veramente
raggiunta nell’agosto del 1850 da una spedizione russa avente a
capo il colonnello (ora generale) Chodzko, e della quale facevano
parte il sig. Moritz, direttore dell’osservatorio meteorologico di
Tiflis, il sig. Chanikow che più tardi si rese tanto distinto pel suo
viaggio nel Kurassan, con altri quattro uficiali e sessanta soldati.
Il generale Chodzko rimase sulla cima del monte sei intieri giorni a
fare osservazioni. Non mi è nota la cifra per esso trovata esprimerne
l’altezza del grande Ararat. La quota del piccolo Ararat è a 12,805
piedi inglesi sul livello del mare.

  _Pag._   _linee_                           _leggi_

    1        13       perduto              perduta
    6        18       disertare            dissertare
    9         7       _Paffinus_           _Puffinus_
   21        18       angitica             augitica
   29         4       trarformarsi         trasformarsi
   39        10       Alpigiano            Alpignano
   49        11       tutti                tutt’
   69         9       mezzo                mezzi
   92         3       infioravano          indoravano
   96         4       combe                conche
  101        23       Schach               Schah
  104        16       sinistra             destra
   »         17       destra               sinistra
  165                 I.                   XI.
  183        23       _Cotyle_             _Chelidon_
  188        12       Borè                 Bourée
  213         6       amgdatoide           amigdaloide
  216         8       altre                alte
  227        18       officiali al         officiali europei
                        servizio             al servizio
  229        18       vari                 vani
  237        17       asdirazione          aspirazione
  249        30       regolare             regalare
  255        15       _l’Argali_ (_Copra   _l’Argali, la
                        ægagrus_)            Capra ægagrus_
  258        15       orrizzontali         orizzontali
  273         8       inguinato            inquinato
  278     18-19       applicarmi           applicargli
  293        22       ad orso              a dorso
  298         3       Vürth                Würth
  306        10       sud-est              sud-ovest
  316        10       specia               specie
  329        28       barò                 farò
  348        17       _isabelline_         _isabellino_
  349     22-23       cespugliane          cespugliose
  353        18       _rotundataæ_         _rotundatæ_
  363        11       =Cyclestoma=         =Cyclostoma=
   »         15       =Lymnoen=            =Lymnæus=
   »         16       Engeli               Enzeli
  366        17       _Pteroches_          _Pterocles_
  369        22       orrizzonte           orizonte
  370        34       ingenta              ingente
  375         8       lavorata             lavorate
  379         1       lungò                lungo
   »         31       _Kapische_           _Kaspische_
  387         2       Klec                 Klee




NOTE:


[1] SPALLANZANI, _Viaggio alle due Sicilie_.

[2] Affatto recentemente il mio amico Doria, ritornando dalla Persia,
trovavasi a bordo d’un grosso vapore del Llyod, quando, verso il capo
Matapan, si videro d’un tratto gettati sul ponte del bastimento un gran
numero di calamaj. Era uno stormo che, inseguito forse da qualche pesce
vorace, si saettò fuori dell’aqua, e con tale impeto, che perfino sette
individui caddero sul ponte del comando. Il marchese Doria ne raccolse
parecchi esemplari, nei quali riconobbi una specie finora rarissima
nelle collezioni: la _Loligo (Ommastrephes) æquipoda_ di Rüppell.

[3] Per esempio, la barletta _(Falco rufipes)_, il pett’azzurro
_(Cyanecula suecica)_, la gambetta _(Tringa pugnax)_, il croccolone
_(Gallinago major)_, la marsaiola _(Querquedula circia)_.

[4] Communicata alla regia academia delle scienze di Torino nella
tornata del 3 maggio.

[5] Le mie escursioni zoologiche in Costantinopoli dovettero limitarsi
alle visite de’ mercati, ove trovai portarsi allora in gran copia
mitili esculenti, tonni, palamiti (_Pelamis sarda_), grossi caponi
(_Trigla_, e specialmente _Trigla lyra_), acciughe e latterini. Questi
ultimi (_Atherina hepsetus_), dagli abitanti europei del gran quartiere
di Pera, sono chiamati _eperians_, per una certa rassomiglianza col
vero eperian dell’Oceano (_Osmerus eperianus_), che è tutt’altra cosa.
Vidi anche molti storioni, e fra questi trovai un esemplare di quella
singolare anomalia dell’_Accipenser stellatus_, descritta da Brandt
come una specie distinta, col nome di _A. Ratzeburgi_.

[6] _Anthus rufogularis_.

[7] Vedi anche _Bulletin de l’Académie Imperiale de St. Petersbourg_,
tomo III, pag. 84.

[8] Il _samovar_ è un vaso, per lo più in lamina d’ottone, con doppia
parete, e così costruito che nel centro si pongono carboni accesi,
alla periferia l’aqua da far bollire. È l’utensile di cucina più usato
in tutta la Russia e in tutta la Persia: e converrebbe anche, per la
commodità e per l’economia, ad ogni famiglia in Europa. In Russia se ne
fanno anche di eleganti, pel servizio del tè nelle sale di società.

[9] V. GÜLDENSTÄDT, _Beschreibung der Kaukasischen Länder_, Berlin,
1834.

[10] EICHWALD, _Reise in den Kaukasus_, pag. 85.

[11] Vedi particolarmente KOCH, _Wanderungen in Oriente wahrend der
Jahre_ 1843-44, vol. III.

[12] Un _rublo_ equivale a poco meno di quattro franchi; un _kopek_ a
circa quattro centesimi; una _dessatina_ a poco meno di 110 are.

[13] Sull’organizzazione dell’armata del Caucaso, e sulle operazioni
della campagna del 1862, vedi una serie di interessantissimi articoli
nell’_Italia militare_ dal giugno all’agosto 1863. L’anonimo di quelli
articoli è di una trasparenza cristallina.

[14] Mentre scrivo queste linee vengo a sapere che recentemente è stato
addetto a questo istituto, collo speciale incarico delle osservazioni
magnetiche, il sig. Radde, il celebre perlustratore dell’Amur.

[15] Su questa particolarità, e sulla struttura della cute nello
_Stellio_, ho fatto apposita communicazione alla R. Academia delle
scienze di Torino, nella seduta del 31 maggio 1863.

[16] Trovai qui per la prima volta nell’Asia questa specie
esclusivamente rappresentata dalla sua varietà dalla testa nera,
la quale perciò potrebbe esser considerata come una razza locale,
asiatica, che manda soltanto i suoi avamposti nell’Europa meridionale.

[17] Eichwald (_Reise in den Kaukasus_) descrive tre specie di
pesci del lago Guktscha, che egli denomina _Salmo fario_, _Cyprinus
cupoeta_, _Cypr. barbus_. Le prime due corrispondono certamente a
quelle da me raccolte: dell’ultima non mi riescì trovar esemplari, per
quanta offrissi lauto compenso ai pescatori di Helenowko. La critica
ittiologica era ancora molto bambina pochi anni addietro, e sarebbe
ora assai difficile lo stabilire a quale delle specie descritte da
Pallas e da Eichwald, sugli incertissimi caratteri del colore, si possa
riferire la trota che io ho trovato costante nell’Asia occidentale.
I suoi caratteri corrispondono perfettamente a quelli del _Salar
obtusirostris_ di Heckel, salve alcune variazioni nella forma del muso,
che si rende meno ottuso coll’età.

[18] _Clepsine orientalis_. De F. affine alla _complanata_, ma di
dimensioni sensibilmente maggiori, di corpo più molle, di color molto
più verde.

_Clepsine Leuckarii_, De F. affine per le dimensioni, per le forme e
per la consistenza del corpo alla _Cl. bioculata_, ma perfettamente
distinta dagli occhi in numero di otto, e dal colorito. Il fondo
generale del corpo è un bruno tabacco, con fitte marezzature
giallo-ranciato, sporche ai lati, ed altre simili più rare nel mezzo
del dorso.

[19] Così si chiamano i fanti regolari in Persia.

[20] Non è chi, visitando la cittadella di Erivan, sfugga al racconto
di questo episodio della vita di Hussein Khan. Era nel paese una
zitella armena, decantata per la sua bellezza, e fidanzata ad un
giovane della sua religione. Il Sardar la fece rapire e trarre nel suo
_harem_; ed ivi colmandola di affettuose premure e di ricchi doni,
tentava ogni mezzo per vincerne l’animo restio. Una delle sue notti
angosciose, la giovane prigioniera ode, a piè della rocca, fra il
mormorio del Sanga, un canto noto e caro al suo cuore: e nel delirio
amoroso si precipita dalla finestra, e rimane tramortita a piè delle
mura nelle braccia del suo disperato amante. Le guardie accorrono,
riconducono i due innamorati al cospetto di Hussein Khan, il quale,
commosso da un ardente affetto che oramai disperava poter rivolgere a
lui stesso, accordò ad entrambi immediata libertà.

[21] È generale credenza nel paese che Arkouri sia stato fabricato da
Noè; il quale ivi avrebbe altresì piantata la prima vite.

[22] Vedi _Reise nach dem Ararat_, Stuttgart und Tübingen, 1848.

[23] La descrizione che di questa specie ho data nell’_Archivio di
zoologia_ (vol. III, fasc. 1.º), riguarda alla sola femmina, e deve
perciò esser rifatta. Il maschio mi giunse più tardi con altri oggetti,
in una cassa che io reputavo perduta.

L’_Emberiza (Fringillaria) Cerrutii_, sarà quindi così caratterizzata.

_E. cœsiæ affinis, sed mento et annulo orbitali albis, torque griseo
pectorali nullo, abdomine infimo crissoque cervinis._

MAS. _Capite, colloque postico et laterali, cinereo plumbeis; collo
antico pectore toto summoque abdomine fusco æruginosis; dorso brunneo
rufo, lævissime fusco adumbrato._

FŒM. _Capite, collo postico dorsoque supremo cinereo fuscis; pectore
pallide æruginoso_.

[24] _Mehmendar_ vuol dire ricevitore degli ospiti, ed è sempre un
personaggio di rango, delegato a questo ufficio dal governo persiano.

[25] _Ferrasch_ vale quanto servo. Ogni forestiero di qualche rango ne
deve avere intorno a sè un numero proporzionato al rango stesso.

[26] Il tomano che è la moneta d’oro della Persia, equivale a circa
12 fr., e si decompone in 10 grani, monete d’argento grossolanamente
coniate, e rassomiglianti nella forma a piccoli lupini. Il grano si
divide in due _penabat_, ed il _penabat_ in dieci _schahi_.

[27] A tutti è noto come in certi casi sia difficile, a chi non dispone
di un copioso corredo di materiali di confronto, la determinazione
precisa di frammenti isolati di ossa. Quelli che si prestano ad una
simile operazione tra i pezzi da noi raccolti nel monticello di Marend,
spettano a ruminanti domestici. Di particolar interesse è un grosso
frammento di mandibola co’ molari molto consumati, e che si distingue
per la crescente larghezza della mandibola stessa, partendo dal margine
alveolare, press’a poco come nei majali. In una mia breve memoria
inserita nella _Rivista contemporanea_ (_Agosto_ 1863.), ho creduto
poter riferire questo frammento ad una specie di cervo; ma poscia,
uno de’ più esperti paleontologi dell’epoca nostra, il sig. Lartet, al
quale io aveva communicato un modello di quel frammento, mi scrive che,
a suo avviso, malgrado l’aspetto _cerviforme_ da que’ molari preso per
la consumazione, quel frammento deve riferirsi piuttosto ad un bue di
piccola statura. Rimane sempre il carattere accennato della grossezza
della mandibola, maggiore assai che nelle ordinarie razze domestiche
del bue commune.

[28] Tepe vuol dire in turco monticello, promontorio, ed è
quindi vocabolo assai generico; ma io me ne servirò per indicare
esclusivamente quei monticelli che per la struttura e pel modo di
formazione fanno causa commune con questo di Marend.

[29] _Reise nach Persien und dem Lande der Kurden_, Leipzig 1852, vol.
II, pag. 133.

[30] _Scherbeth_ è aqua raddolcita con sciroppo. Da questa parola viene
senza dubio il nostro _sorbetto_.

[31] Trovai di nuovo questa specie nella bella collezione di
rettili fatta dal mio compagno ed amico marchese Doria nella Persia
meridionale.

[32] La parola _Mirza_ premessa al nome indica un letterato, posta
invece dopo il nome indica un principe del sangue.

[33] Qui, nel pieno di Udjan, come già prima a Marend, ho trovato la
_Pratincola Hemprichii_ di Ehrenberg. Questa specie, dall’Egitto, ove
per la prima volta fu rinvenuta, si innoltra nell’Asia occidentale.
Io l’ho riveduta più tardi a Pietroburgo, nella collezione fatta da
Karelin nel paese de’ Kirgisi.

[34] Da una lettera di Bokara ho appreso che i tre viaggiatori
italiani, sulla cui sorte, mentre io scrivo, si è in tanta angosciosa
trepidazione, hanno avuto molto a soffrire nella Tartaria per le
molestie di certe specie di zecche. Sarebbe mai la specie dell’_Argas
persicus_ estesa fin là?

[35] Un assai pregevole monografia anatomica su questa specie è quella
del signor Heller, publicata nel _Bullettino dell’Accademia di Vienna_,
1858.

[36] Non abbiamo visto in Persia che rarissimi cani, e questi per
lo più levrieri di somma bellezza, che si pagano perfino a prezzi
superiori a quelli de’ più bei cavalli.

[37] Il prof. Lessona farà meglio conoscere questa specie così distinta
pe’ suoi costumi da tutti gli altri oniscidi. Vive nelle steppe, in
profonde gallerie: un individuo adulto si trova ad ogni buco, come
di guardia: i giovani in sul far della sera vagano per la campagna,
e si arrampicano sulle erbe. Attorno all’ingresso della galleria
sono accumulati frammenti terrosi figurati, che io credo esser gli
escrementi stessi dell’animaletto. Potemmo osservare diversi individui
trascinanti pezzetti d’erba alla propria tana.

[38] Isidoro Géoffroy di S. Hilaire ne ha fatto una specie distinta,
col nome di _Spermophilus concolor_.

[39] In queste acque ho pur trovato tre nuove specie di Irudinee.

_Hæmopis incerta._ De F. Parte superiore olivaceo-rossastra, con molti
punti neri in due serie ai lati di una linea mediana alquanto più
chiara: ventre dello stesso colore del dorso, ma più pallido, e senza
macchie.

[40] Il farsach, misura itineraria in Persia, equivale a cinque
chilometri e mezzo.

[41] _Reise der K. preussischen Gesandschaft nach Persien._ 1860-61,
Lipsia due volumi in 8.º grandi.

Questa opera è senza contrasto una delle più importanti finora
publicate sulla Persia, non soltanto per essere la più recente, ma
eziandio per la ricchezza delle descrizioni, delle notizie storiche e
statistiche, e la pompa del’erudizione linguistica.

[42] I Veneziani specialmente aveano avute relazioni diplomatiche colla
Persia, spedite e ricevute ambasciate. Gli atti di queste ambasciate
furono raccolti, per eccitamento del mio amico comm. Cristoforo Negri,
dal signor Guglielmo Berchet, in un bel volume escito alla luce allora
appunto che si stava rivedendo le bozze di questo capitolo.

[43] Alcuni scrivono Rena o Rhaena: ma già non vi sono due autori che
scrivano nel medesimo modo i nomi de’ villaggi persiani.

[44] _Die geognostischen und orographischen Verhältnisen des
noerdlichen Persiens._ Pietroburgo, 1853.

[45] V. _Ritter. Asien._, V, 561. BRUGSCH, Op. cit. I, 293.

[46] Un anno dopo venni a sapere che questo D. Küsten era morto di
febri maligne in Rescht.

[47] A dare una più adequata idea del clima di queste provincie e
specialmente del Mazanderan, aggiungerò che la coltivazione del cotone
vi prospera tanto da esser divenuta uno de’ principali prodotti. Da
alcune prove fatte risulta che la canna da zuccaro vi può vegetar
perfettamente; e presso Sari crescono ancora oggi le palme.

[48] Il risultato delle educazioni fatte sinora in Italia con semente
di Persia riescì in verità scoraggiante per la cattiva qualità de’
bozzoli ottenuti; ma bisogna riflettere che queste prove furono fatte
sotto l’influenza del regime proibitivo, quindi con semente ottenuta
di contrabando, confezionata da’ Persiani stessi, senza buone norme,
e senza scelta di partite. I Persiani non vanno tanto scrupolosi nella
qualità de’ bozzoli: ciò che loro importa è l’averne molti, di brutte
o di belle razze non importa: e ve ne sono infatti delle une e delle
altre. Alcune tavole scelte che io vidi dal sig. Hahnart non erano
per certo inferiori in qualità all’antica e tanto apprezzata razza di
Lombardia.

[49] _Murd’ab_ vuol dire in persiano morta aqua.

[50] L’ammiraglio Smyth calcola la superficie dell’Adriatico in 2493,
quella del mar Nero in 7525 miglia geografiche quadrate (di 15 al
grado). Non conosco misure precise della superficie del Caspio; posso
dire soltanto che Bergsträsser la giudica, come non v’ha dubio che sia,
superiore alle 6000 miglia quadrate.

[51] BORSZCZOW, _Ueber die Natur des Aralo-Caspischen Flachlandes.
Würzburger naturw. Zeitschift_, 1. _Band_.

[52] Il signor de Baer, dal quale ricevo questa notizia, dice 9 braccia
(Faden). Prendo questa parola come equivalente alla sagena russa, la
quale corrisponde a 2^m,134, e trascuro la frazione.

[53] Io aveva raccolto presso Baku da circa 4 litri di aqua da
sottomettere in Torino all’indagine di alcuno dei nostri valenti
chimici: ma i due bottiglioni suggellati che la contenevano mi furono
involati sul battello a vapore da qualcuno che forse ha creduto di fare
un buon bottino di aquavite. Quanta non sarà stata la doppiamente amara
disillusione di questo _voleur volé_!

[54] Lo Sterletto del Caspio si distingue da quello del Danubio per il
muso meno prolungato e la bocca più piccola.

[55] _Minor: corpore compresso; tubulis nasalibus binis exertis supra
maxillam. Squamis rhombeis._

  D. 6 — 21. P. 15. A. 17. V: 12. _Squamis ser. vert. 20. ser.
    longit. 48._

Questa piccola specie è communissima fra le alghe presso Baku, e si
distingue pel corpo molto compresso, come nei Blennii, e per due
tubi nasali prolungati, al di sopra della mascella superiore. Gli
occhi, alquanto rivolti in alto, distano fra loro di mezzo diametro.
La pinna ventrale arrotondata rimane col suo estremo lembo distante
dall’apertura anale per uno spazio uguale alla metà della sua propria
lunghezza.

Le misure e le proporzioni in un esemplare di medie dimensioni sono le
seguenti:

  Lunghezza totale del corpo                               0^m,06
  Distanza dall’apice del muso al lembo dell’opercolo      0^m,015
  Altezza del corpo                                        0^m,012

Colore verdastro sul dorso, più pallido sul ventre, con molte fascie
di colore più scuro irregolari e verticali sui fianchi, onde il corpo
risulta come zebrato.

[56] Il genere _Scaphiodon_, creato da Heckel nel 1843, comprende il
_Cyprinus capoeta_ di Güldenstaedt, che precedentemente avea servito al
signor Valenciennes per la fondazione d’un genere apposito _Capoeta_.
Secondo le buone leggi della nomenclatura il nome generico del
professore parigino deve avere la preferenza, ed io non esito punto a
sostituirlo a quello del compianto ittiologo viennese.

Questo genere è veramente caratteristico della fauna ittiologica
dell’Asia occidentale, e comprende molte specie, il cui numero
verrà forse ridotto quando se ne rifarà un’accurata critica. Veggasi
l’importante opera di Heckel (_Fische Syriens_) e la più recente bella
monografia del conte di Keyserling.

Una specie che è molto abondante nel lago Goktscha fu da me riferita
sull’autorità di Eichwald a quella tipica di Güldenstaedt, ma il
confronto diretto con esemplari di questa posteriormente avuti, mi
rendono persuaso che la specie del lago Goktscha deve esserne affatto
distinta.

Tra le specie del corpo grosso, arrotondato, questa viene in prima
linea, tanto il corpo stesso è quasi cilindrico, mugiliforme. La
larghezza del capo, presa tra i due opercoli sensibilmente rigonfi, è
uguale all’altezza del corpo stesso: la lunghezza misura cinque volte
ed un terzo quella dell’intiero corpo, ed è uguale all’altezza del
corpo istesso, il diametro dell’occhio sta sei volte nella lunghezza
del capo, e da un occhio all’altro corrono tre diametri e mezzo.

Un carattere proprio di questa specie consiste nel terzo raggio della
dorsale che è gracile, liscio, con appena debolissimo indizio di
seghettatura al suo lato posteriore.

Il colore è bronzato cupo sulle parti superiori, volgente alquanto
all’argenteo sul ventre.

  D. 3/9. A. 2/5. Squam. ser. 54 9/8.

Ritengo probabile che questa specie scenda anche al Caspio, ov’io
però non l’ho veduta. Sicura è l’esistenza in questo mare delle due
seguenti, che ebbi a trovare anche nell’Arasse a Djulfa, e delle
quali alcuni individui facevano parte di un’interessante collezione
di pesci di Erzerum, mandatami dall’amico Bosio, R. console d’Italia a
Trebisonda.

[57] Tre individui di questa specie, provenienti dalle sorgenti
dell’Arasse presso Erzerum, mi furono spediti dal predetto signor cav.
Bosio. Non differiscono per nulla dal _Chondrochilus regius_ di Heckel,
se non pel carattere dei denti faringei 6 — 6 e non 7 — 6. Il che vuol
dire semplicemente che questo carattere non può avere per sè solo quel
valore che Heckel gli vorrebbe attribuire: e ciò conferma quanto ebbe
a notare l’illustre mio amico profess. de Siebold nella sua veramente
classica opera sui pesci dell’Europa centrale.

Annovero il _Chondr. regium_ tra i pesci del Caspio, perchè abita
uno de’ grandi fiumi che si versano in questo mare e perchè si può
molto ragionevolmente supporre che a questa specie debbasi riferire
il _Cyprinus nasus_ registrato da Pallas e da Eichwald come un pesce
caspico.

[58] Mentre io stava correggendo le bozze di questo capitolo,
ripassando i numeri del _Bullettino della imp. academia delle scienze_
di Pietroburgo, di fresco giunti in Torino, trovo in una nota del
sig. de Baer l’interessante notizia che fra le specie recentemente
raccolte nel Caspio dal signor luogotenente Ulski (ch’ebbi la fortuna
di conoscere personalmente in Baku), trovasi pure l’_Idotea entomon_.
Questa specie manca nel mar Nero, trovasi invece nel Baltico e nel mar
Bianco, e, secondo le relazioni degli academici Brandt e Schrenk, si
estende fin sulle sponde del Kamtschatka.

[59] Il _Salmo (?) leucichihys_ e la _Idotea entomon_ accennerebbero
per verità ad una antica communicazione del gran mare interno
europeo-asiatico col mar glaciale, ma una semplice communicazione
indiretta per via de’ fiumi, poichè la prima specie è da ritenersi
piuttosto fluviale che marina, e la seconda si trova pure in aqua
dolce, nel lago Wenern in Svezia.

[60] V. _Bulletin de la société géologique de France_, tomo XXI, pag.
259.

[61] Il _pud_ russo equivale all’incirca a 13 chilogrammi.

[62] Non è possibile separare, quanto al processo di loro formazione,
questi così fisicamente diversi produtti che i chimici hanno per lo
addietro compresi sotto la molto vaga denominazione di idrocarburi
naturali: tutti derivano indubiamente da sostanze organiche.

Il Prof. Stoppani di Milano, in una dotta sua memoria publicata nel
_Politecnico_ (vol. XXIII.), ha cercato invece spiegarne l’origine per
la diretta combinazione de’ loro elementi sotto l’influenza delle forze
vulcaniche. Io non mi farò qui a discutere se l’associazione delle
surgenti di gas infiammabile e di petrolio colle salze, e di queste
co’ vulcani veri, sia intima e causale, più che fortuita. Mi pare che
la cosa non sia per anco sufficientemente dimostrata, sebbene i fatti
addotti dal prof. Stoppani siano di molto peso, e ricevano l’appoggio
dell’incontestabile autorità del sig. Abich, il quale ha trovato
nella disposizione de’ vulcani di fango e delle sorgenti bituminose
della penisola di Apscheron uno stretto rapporto colle linee di
dislocazione dovuta alle emersioni trachitiche (_Mem. dell’Acad. Imp.
di Pietroburgo_, tomo VI, 1863).

A mio avviso vi sono qui due generi di fatti da separarsi
assolutamente. Da una parte la formazione e condensazione locale de’
così detti idrocarburi, dall’altra il loro sprigionamento. Quest’ultimo
si potrà concedere all’azione vulcanica od almeno plutonica; ma quando
è così chiara l’origine del gas delle paludi e di quello delle miniere
di litantrace, quando tutti i terreni d’onde scaturiscono emanazioni
infiammabili s’appalesano così ricchi di sostanze organiche (come le
marne terziarie d’Italia, la formazione aralo-caspica, e le stesse
roccie per lo addietro considerate come azoiche de’ distretti del
petrolio nell’America settentrionale) non è più necessario andar
fantasticando in traccia di nuovi misteriosi agenti. Dovunque io mi
sono imbattuto nella formazione della marna azzurra subapennina ho
notato che dalle fratture fresche di questa roccia esala un distinto
odore di nafta. È noto poi il fatto del gas infiammabile imprigionato
nel sale decrepitante di Vieliczka, onde venne al pensiero del prof.
Bianconi un’ipotesi certamente ingegnosa, se non in tutto sostenibile,
sull’origine de’ così detti terreni ardenti.

[63] Koch. _Vanderungen in Oriente_. Vol. III, pag. 250.

[64] Non si può capire per quale strano abbaglio un viaggiatore di
questo secolo, Gamba, abbia potuto scrivere che Derbend è a quattro
verste dal mare!

[65] Dagli immensi canneti del gran delta del Volga si trae un profitto
che potrà sembrare strano, ma che è bene sia conosciuto: la pannocchia,
opportunamente battuta e spogliata dei semi, viene convertita in una
specie di lana vegetale di cui si imbottiscono cuscini e materassi
specialmente pei militari.

[66] I neonati hanno le gambe posteriori non più lunghe delle anteriori.

[67] Questa specie, trovata per la prima volta in Egitto da Ehrenberg,
deve avere una grande estensione geografica verso oriente. Io l’ho
vista rappresentata anche nella collezione fatta da Kareljn nelle
steppe de’ Kirgisi.

[68] Ho qualche dubbio che questa specie da me descritta come nuove
possa non esser altro che l’abito di nozze della _O. penicillata_,
il quale però non è punto descritto dagli autori, e neppure nella
recentissima opera di Jerdon gli uccelli delle Indie.

[69] Questa specie può figurare legittimamente nel quadro delle
sospese. Io l’ho vista in Astrakan in una piccola ma assai interessante
collezione di uccelli di quel territorio.

[70] Questa specie fu descritta contemporaneamente (1843) anche da
Fraser (Proced. Zool. Soc.) col nome di _Perdix Bonhami._ Preferisco la
denominazione di Brandt come quella che esprime un carattere così netto
e deciso della specie, non mentovato da Fraser, e neppur rappresentato
nelle figura che ne diede questo autore nella sua _Zoologia typica_.

[71] Giornale dell’I. R. Istituto Lombardo, tomo 6.º

[72] Nouv. Mém. de la Societé Imp. des Natur. de Moscou Tom. IX. pag.
423.

[73] Le seguenti specie di Ofidii, tutte recate dalle provincie
meridionali della Persia dal marchese Doria, sono state determinate
dall’illustre erpetologo professore Jan, e qui descritte colle stesse
sue parole.

[74] Il _Tetraogallus caucasicus_ si distingue dall’_himalayanus_
pel sottocoda di color nero. Se a quella od a questa specie si debba
riferire il _Kepkederneh_ de’ Persiani, non potrei dire.

[75] Io ho raccolto dalla bocca di alcuni persiani il nome di Argali
applicato anche al mufflone dell’Elburz, od _Ovis Gmelini_. Mi è
mancato l’occasione di studiar bene i caratteri di questa specie, della
quale non posseggo che un cranio regalatomi dal colonnello Andreini.
A Khiva si chiama _arkal_ (notisi l’analogia del nome con _argali_) un
mufflone che il prof. Brandi considera come una specie particolare, ma
che nella rassomiglianza coll’_O. tragelophus_ parmi avere appunto uno
de’ caratteri che Blyth assegna al suo _O. Gmelini_.

[76] Vedi UNGER, _Neuholland in Europa_, Wien.

[77] Vedi particolarmente: SPIEGEL. _Eran, das Land zwischen den Indus
und Tigris_, ecc. Berlin. 1863.

[78] Op. cit. vol. 1, pag. 331.

[79] Il _touloup_ è un soprabito di pelli di montone camosciate,
col pelo rivolto all’indentro. Ve n’ha che sono cuciti con qualche
eleganza, anche a disegni o ricami.

[80] Si racconta che Giovanni il terribile, fatta costruire questa
chiesa nel secolo decimosesto, tanto se ne compiacesse, che esaltando
di lodi l’architetto, gli domandasse se mai fosse possibile inalzare
più splendido monumento. L’architetto (era un italiano) avendo
risposto che sentivasi egli medesimo capace di fare ancora qualche
cosa di meglio, fu subito rimeritato dalla brutale gelosia del tiranno
coll’aver strappati gli occhi, onde la novella chiesa restasse unica
nel suo genere.

[81] Anche gli atti di splendidezza prendono in Russia enormi
proporzioni. Eccone un altro esempio. In questi ultimi anni il
signor Sidonow non legò in morte, ma diede lui vivente la somma di un
millione di rubli (circa quattro millioni di franchi), per fondare una
università in Siberia.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate a
pag. 397-98 sono state riportate nel testo. La notazione ^ indica che
il carattere seguente è in apice.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK NOTE DI UN VIAGGIO IN PERSIA NEL 1862 ***


    

Updated editions will replace the previous one—the old editions will
be renamed.

Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright
law means that no one owns a United States copyright in these works,
so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United
States without permission and without paying copyright
royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part
of this license, apply to copying and distributing Project
Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™
concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark,
and may not be used if you charge for an eBook, except by following
the terms of the trademark license, including paying royalties for use
of the Project Gutenberg trademark. If you do not charge anything for
copies of this eBook, complying with the trademark license is very
easy. You may use this eBook for nearly any purpose such as creation
of derivative works, reports, performances and research. Project
Gutenberg eBooks may be modified and printed and given away—you may
do practically ANYTHING in the United States with eBooks not protected
by U.S. copyright law. Redistribution is subject to the trademark
license, especially commercial redistribution.


START: FULL LICENSE

THE FULL PROJECT GUTENBERG LICENSE

PLEASE READ THIS BEFORE YOU DISTRIBUTE OR USE THIS WORK

To protect the Project Gutenberg™ mission of promoting the free
distribution of electronic works, by using or distributing this work
(or any other work associated in any way with the phrase “Project
Gutenberg”), you agree to comply with all the terms of the Full
Project Gutenberg™ License available with this file or online at
www.gutenberg.org/license.

Section 1. General Terms of Use and Redistributing Project Gutenberg™
electronic works

1.A. By reading or using any part of this Project Gutenberg™
electronic work, you indicate that you have read, understand, agree to
and accept all the terms of this license and intellectual property
(trademark/copyright) agreement. If you do not agree to abide by all
the terms of this agreement, you must cease using and return or
destroy all copies of Project Gutenberg™ electronic works in your
possession. If you paid a fee for obtaining a copy of or access to a
Project Gutenberg™ electronic work and you do not agree to be bound
by the terms of this agreement, you may obtain a refund from the person
or entity to whom you paid the fee as set forth in paragraph 1.E.8.

1.B. “Project Gutenberg” is a registered trademark. It may only be
used on or associated in any way with an electronic work by people who
agree to be bound by the terms of this agreement. There are a few
things that you can do with most Project Gutenberg™ electronic works
even without complying with the full terms of this agreement. See
paragraph 1.C below. There are a lot of things you can do with Project
Gutenberg™ electronic works if you follow the terms of this
agreement and help preserve free future access to Project Gutenberg™
electronic works. See paragraph 1.E below.

1.C. The Project Gutenberg Literary Archive Foundation (“the
Foundation” or PGLAF), owns a compilation copyright in the collection
of Project Gutenberg™ electronic works. Nearly all the individual
works in the collection are in the public domain in the United
States. If an individual work is unprotected by copyright law in the
United States and you are located in the United States, we do not
claim a right to prevent you from copying, distributing, performing,
displaying or creating derivative works based on the work as long as
all references to Project Gutenberg are removed. Of course, we hope
that you will support the Project Gutenberg™ mission of promoting
free access to electronic works by freely sharing Project Gutenberg™
works in compliance with the terms of this agreement for keeping the
Project Gutenberg™ name associated with the work. You can easily
comply with the terms of this agreement by keeping this work in the
same format with its attached full Project Gutenberg™ License when
you share it without charge with others.

1.D. The copyright laws of the place where you are located also govern
what you can do with this work. Copyright laws in most countries are
in a constant state of change. If you are outside the United States,
check the laws of your country in addition to the terms of this
agreement before downloading, copying, displaying, performing,
distributing or creating derivative works based on this work or any
other Project Gutenberg™ work. The Foundation makes no
representations concerning the copyright status of any work in any
country other than the United States.

1.E. Unless you have removed all references to Project Gutenberg:

1.E.1. The following sentence, with active links to, or other
immediate access to, the full Project Gutenberg™ License must appear
prominently whenever any copy of a Project Gutenberg™ work (any work
on which the phrase “Project Gutenberg” appears, or with which the
phrase “Project Gutenberg” is associated) is accessed, displayed,
performed, viewed, copied or distributed:

    This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and most
    other parts of the world at no cost and with almost no restrictions
    whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms
    of the Project Gutenberg License included with this eBook or online
    at www.gutenberg.org. If you
    are not located in the United States, you will have to check the laws
    of the country where you are located before using this eBook.
  
1.E.2. If an individual Project Gutenberg™ electronic work is
derived from texts not protected by U.S. copyright law (does not
contain a notice indicating that it is posted with permission of the
copyright holder), the work can be copied and distributed to anyone in
the United States without paying any fees or charges. If you are
redistributing or providing access to a work with the phrase “Project
Gutenberg” associated with or appearing on the work, you must comply
either with the requirements of paragraphs 1.E.1 through 1.E.7 or
obtain permission for the use of the work and the Project Gutenberg™
trademark as set forth in paragraphs 1.E.8 or 1.E.9.

1.E.3. If an individual Project Gutenberg™ electronic work is posted
with the permission of the copyright holder, your use and distribution
must comply with both paragraphs 1.E.1 through 1.E.7 and any
additional terms imposed by the copyright holder. Additional terms
will be linked to the Project Gutenberg™ License for all works
posted with the permission of the copyright holder found at the
beginning of this work.

1.E.4. Do not unlink or detach or remove the full Project Gutenberg™
License terms from this work, or any files containing a part of this
work or any other work associated with Project Gutenberg™.

1.E.5. Do not copy, display, perform, distribute or redistribute this
electronic work, or any part of this electronic work, without
prominently displaying the sentence set forth in paragraph 1.E.1 with
active links or immediate access to the full terms of the Project
Gutenberg™ License.

1.E.6. You may convert to and distribute this work in any binary,
compressed, marked up, nonproprietary or proprietary form, including
any word processing or hypertext form. However, if you provide access
to or distribute copies of a Project Gutenberg™ work in a format
other than “Plain Vanilla ASCII” or other format used in the official
version posted on the official Project Gutenberg™ website
(www.gutenberg.org), you must, at no additional cost, fee or expense
to the user, provide a copy, a means of exporting a copy, or a means
of obtaining a copy upon request, of the work in its original “Plain
Vanilla ASCII” or other form. Any alternate format must include the
full Project Gutenberg™ License as specified in paragraph 1.E.1.

1.E.7. Do not charge a fee for access to, viewing, displaying,
performing, copying or distributing any Project Gutenberg™ works
unless you comply with paragraph 1.E.8 or 1.E.9.

1.E.8. You may charge a reasonable fee for copies of or providing
access to or distributing Project Gutenberg™ electronic works
provided that:

    • You pay a royalty fee of 20% of the gross profits you derive from
        the use of Project Gutenberg™ works calculated using the method
        you already use to calculate your applicable taxes. The fee is owed
        to the owner of the Project Gutenberg™ trademark, but he has
        agreed to donate royalties under this paragraph to the Project
        Gutenberg Literary Archive Foundation. Royalty payments must be paid
        within 60 days following each date on which you prepare (or are
        legally required to prepare) your periodic tax returns. Royalty
        payments should be clearly marked as such and sent to the Project
        Gutenberg Literary Archive Foundation at the address specified in
        Section 4, “Information about donations to the Project Gutenberg
        Literary Archive Foundation.”
    
    • You provide a full refund of any money paid by a user who notifies
        you in writing (or by e-mail) within 30 days of receipt that s/he
        does not agree to the terms of the full Project Gutenberg™
        License. You must require such a user to return or destroy all
        copies of the works possessed in a physical medium and discontinue
        all use of and all access to other copies of Project Gutenberg™
        works.
    
    • You provide, in accordance with paragraph 1.F.3, a full refund of
        any money paid for a work or a replacement copy, if a defect in the
        electronic work is discovered and reported to you within 90 days of
        receipt of the work.
    
    • You comply with all other terms of this agreement for free
        distribution of Project Gutenberg™ works.
    

1.E.9. If you wish to charge a fee or distribute a Project
Gutenberg™ electronic work or group of works on different terms than
are set forth in this agreement, you must obtain permission in writing
from the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, the manager of
the Project Gutenberg™ trademark. Contact the Foundation as set
forth in Section 3 below.

1.F.

1.F.1. Project Gutenberg volunteers and employees expend considerable
effort to identify, do copyright research on, transcribe and proofread
works not protected by U.S. copyright law in creating the Project
Gutenberg™ collection. Despite these efforts, Project Gutenberg™
electronic works, and the medium on which they may be stored, may
contain “Defects,” such as, but not limited to, incomplete, inaccurate
or corrupt data, transcription errors, a copyright or other
intellectual property infringement, a defective or damaged disk or
other medium, a computer virus, or computer codes that damage or
cannot be read by your equipment.

1.F.2. LIMITED WARRANTY, DISCLAIMER OF DAMAGES - Except for the “Right
of Replacement or Refund” described in paragraph 1.F.3, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation, the owner of the Project
Gutenberg™ trademark, and any other party distributing a Project
Gutenberg™ electronic work under this agreement, disclaim all
liability to you for damages, costs and expenses, including legal
fees. YOU AGREE THAT YOU HAVE NO REMEDIES FOR NEGLIGENCE, STRICT
LIABILITY, BREACH OF WARRANTY OR BREACH OF CONTRACT EXCEPT THOSE
PROVIDED IN PARAGRAPH 1.F.3. YOU AGREE THAT THE FOUNDATION, THE
TRADEMARK OWNER, AND ANY DISTRIBUTOR UNDER THIS AGREEMENT WILL NOT BE
LIABLE TO YOU FOR ACTUAL, DIRECT, INDIRECT, CONSEQUENTIAL, PUNITIVE OR
INCIDENTAL DAMAGES EVEN IF YOU GIVE NOTICE OF THE POSSIBILITY OF SUCH
DAMAGE.

1.F.3. LIMITED RIGHT OF REPLACEMENT OR REFUND - If you discover a
defect in this electronic work within 90 days of receiving it, you can
receive a refund of the money (if any) you paid for it by sending a
written explanation to the person you received the work from. If you
received the work on a physical medium, you must return the medium
with your written explanation. The person or entity that provided you
with the defective work may elect to provide a replacement copy in
lieu of a refund. If you received the work electronically, the person
or entity providing it to you may choose to give you a second
opportunity to receive the work electronically in lieu of a refund. If
the second copy is also defective, you may demand a refund in writing
without further opportunities to fix the problem.

1.F.4. Except for the limited right of replacement or refund set forth
in paragraph 1.F.3, this work is provided to you ‘AS-IS’, WITH NO
OTHER WARRANTIES OF ANY KIND, EXPRESS OR IMPLIED, INCLUDING BUT NOT
LIMITED TO WARRANTIES OF MERCHANTABILITY OR FITNESS FOR ANY PURPOSE.

1.F.5. Some states do not allow disclaimers of certain implied
warranties or the exclusion or limitation of certain types of
damages. If any disclaimer or limitation set forth in this agreement
violates the law of the state applicable to this agreement, the
agreement shall be interpreted to make the maximum disclaimer or
limitation permitted by the applicable state law. The invalidity or
unenforceability of any provision of this agreement shall not void the
remaining provisions.

1.F.6. INDEMNITY - You agree to indemnify and hold the Foundation, the
trademark owner, any agent or employee of the Foundation, anyone
providing copies of Project Gutenberg™ electronic works in
accordance with this agreement, and any volunteers associated with the
production, promotion and distribution of Project Gutenberg™
electronic works, harmless from all liability, costs and expenses,
including legal fees, that arise directly or indirectly from any of
the following which you do or cause to occur: (a) distribution of this
or any Project Gutenberg™ work, (b) alteration, modification, or
additions or deletions to any Project Gutenberg™ work, and (c) any
Defect you cause.

Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s
goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg™ and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state
visit www.gutenberg.org/donate.

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
donate, please visit: www.gutenberg.org/donate.

Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of
volunteer support.

Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in
the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not
necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper
edition.

Most people start at our website which has the main PG search
facility: www.gutenberg.org.

This website includes information about Project Gutenberg™,
including how to make donations to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to
subscribe to our email newsletter to hear about new eBooks.