La Palingenesi di Roma : (da Livio a Machiavelli)

By Ferrero and Ferrero

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Title: La Palingenesi di Roma
        (da Livio a Machiavelli)

Author: Guglielmo Ferrero
        Leo Ferrero

Release date: February 1, 2025 [eBook #75269]

Language: Italian

Original publication: Milano: Corbaccio, 1924

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA PALINGENESI DI ROMA ***


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                                VOL. II

                          EDIZIONI «CORBACCIO»
                            MILANO MCMXXIV

                 _Proprietà Artistico Letteraria dello
                     Studio Editoriale «Corbaccio»_

                      Copyright by G. e L. Ferrero

                           (Printed in Italy)




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                        GUGLIELMO e LEO FERRERO


                         La Palingenesi di Roma

                        (DA LIVIO A MACHIAVELLI)

              Con un’appendice su: _Che cos’è la Storia?_



                                MCMXXIV

                          EDIZIONI «CORBACCIO»

                                 MILANO




LA PALINGENESI DI ROMA




_AL LETTORE_


_Questo volumetto è destinato a far parte di una Collezione, che
si pubblica nell’America Settentrionale, per cura di un comitato di
professori delle Università; e che si propone d’illustrare gli influssi
della civiltà antica sulla moderna._

_Occupato in altri lavori, mi son fatto aiutare, per la compilazione
di questo, da un giovane collaboratore, che è nell’età delle grandi e
proficue letture._

_L’appendice è per intero opera mia._

  Firenze, 5 maggio 1924.

                                                                G. F.




LA CREAZIONE




I.

L’ANNALISTICA DEI PRIMI SECOLI.


Nel _De Oratore_ di Cicerone Antonio domanda, a un certo punto, se per
scriver di storia sia anche necessario essere un buon oratore, e Catulo
gli risponde:

«È necessario, se si scrive alla maniera dei Greci, ma secondo la
nostra non c’è nessuna ragione di far dell’eloquenza: basta non essere
falsi».

«Non disprezzare i nostri» replica Antonio. «Anche i Greci scrissero in
principio come Catone, come Fabio Pittore, come Pisone. La storia non
era altro che una fabbrica d’annali; e per questo, cioè per conservare
le pubbliche memorie, dalle origini di Roma fino al pontificato di
Mucio, il Pontefice massimo raccoglieva tutti gli avvenimenti dei
singoli anni, li scriveva nell’albo e poneva dinanzi alla sua casa
la tavola, perchè il popolo potesse consultarla. Son quelli che si
chiamano anche oggi annali massimi. E molti seguirono questo stile
lasciando senz’ornarlo soltanto il ricordo dei tempi, degli uomini, dei
luoghi e delle imprese. Perciò come i Greci hanno Ferecide, Ellanico,
e Acusilas, così noi abbiamo Catone, Pisone e Fabio Pittore, che non
sanno come ornare un’orazione (da poco infatti è stata importata presso
di noi quest’arte); e purchè si capisca quello che dicono, credono che
bisogna soltanto ricercare la brevità»[1].

Questo passo ci dimostra che si conoscevano a Roma due modi di scrivere
la storia: uno più antico, e più schiettamente romano, più rigidamente
ufficiale, che non si elevava fino al racconto, ma si contentava
di notare gli eventi, in uno stile diremmo quasi scheletrico se non
stenografico; l’altro più recente, di origine greca, che apparteneva
all’eloquenza, intesa non nel senso stretto, come arte del parlare in
pubblico, ma nel suo senso largo, come arte del buon comporre e del
narrare ornato.

Così infatti Cicerone, un po’ più innanzi, ritratta lo storico oratore:

«Non vedete che la storia è uno dei compiti maggiori dell’oratore,
quello che richiede maggiore ricchezza e varietà di stile... Chi ignora
che la prima legge della storia è di non tacere mai il falso e di dire
sempre il vero, evitando il sospetto di parzialità? Questi fondamenti
sono noti a tutti: i materiali son le cose e le parole. L’esposizione
dei fatti richiede l’ordine dei tempi, la descrizione dei luoghi, e
poichè negli avvenimenti importanti e degni di memoria ci si aspetta
prima di conoscerne il disegno, poi l’esecuzione e il risultato, lo
scrittore deve prima enunciare la sua opinione sul disegno, e poi
narrando l’esecuzione dichiarare non solo ciò che è stato detto o
fatto, ma anche in che modo; e quanto al risultato, elencarne le
cause tutte, o il caso o le prudenze o le temerità dei personaggi;
infine non solo raccontare le imprese, ma se essi eccellono per fama
o per nome, studiarne la vita e l’indole. Lo stile e il genere del
discorso deve essere «fusum atque tractum», scorrevole con una certa
misurata dolcezza; senza quella asprezza e quelle punte maligne proprie
dell’eloquenza forense»[2].

È facile riconoscere nel _munus oratoris_ di Cicerone, quella che noi
chiamiamo la storia artistica, ascritta alla famiglia dei più nobili
generi letterarî, e contrapposta per questo, allora come ora, alla nuda
e asciutta cronaca dei fatti positivi, sollecita solo di raccontare con
una certa minuzia. La storia artistica entrò tardi in Roma, dove per
lunghi secoli la rude annalistica aveva signoreggiato senza rivali,
d’accordo con la tenace diffidenza dell’aristocrazia per tutte le
forme dell’intellettualismo greco. Il maggior numero degli storici
più antichi, di cui la tradizione ci ha trasmesso i nomi, appartiene
all’annalistica. Ma se la storiografia artistica entrò così tardi a
Roma, quando Roma, maturata ormai al dominio da una lunga esperienza
di guerre, di contese politiche, di rivoluzioni, sede di un pensiero
politico e di una direzione morale di valore universale, era già il
centro e il cervello di un vasto impero; quando ci entrò finalmente,
in questa atmosfera satura di una così grande esperienza storica,
generò tre grandissimi scrittori — Sallustio, Tito Livio, Tacito — che
noi dobbiamo studiare, perchè in essi e per essi lo spirito di Roma
ha sopravvissuto alla rovina della civiltà antica, come un elemento
creatore dei tempi nuovi, di cui noi siamo i figli, forse degeneri e
parricidi. Quel che noi dobbiamo agli storici romani, lo dobbiamo a
Sallustio, a Tito Livio ed a Tacito.




II.

SALLUSTIO.


Di Sallustio, purtroppo, l’opera principale, le _Historiae_, è perduta.
Le due opere minori che ci restano, la Giugurtina e la Catilinaria,
figlie della passione più volubile e passeggera, la passione di parte,
non sono storie, sia pure più o meno imparziali; ma piuttosto veementi
libelli politici, nei quali l’amico e l’ammiratore di Cesare, sfoga i
suoi tenaci rancori contro la consorteria di Silla, contro il Senato,
o contro la vecchia nobiltà che aveva avversato così fieramente il
conquistatore delle Gallie. Le due monografie sono state scritte
con scopi precisi: la Giugurtina per dimostrare che il Senato era
stato corrotto da Giugurta nel famoso affare della Numidia, il che,
poco verosimile in sè, risulta falso dalla stessa narrazione di
Sallustio[3]; la Catilinaria per dimostrare che la celebre congiura era
stata macchinata dagli avanzi del partito di Silla: ritorsione in parte
vera, ma non immune da esagerazione, contro quelli che l’imputavano a
Cesare e ai suoi amici.

Su due opere minori soltanto, di polemica più che di vera storia,
dobbiamo giudicare Sallustio; ma poichè sono innanzi tutto due opere
d’arte, senza meraviglia poniamo, nella storia della storiografia
romana, Sallustio come il primo storico romano, di cui ci resti qualche
opera, che sia stato sin dall’antichità e giustamente considerato
un grande scrittore. La sua _brevità_ ora lodata, ora biasimata, già
celebre presso gli antichi, tanto che fu ricordata tra gli altri da
Seneca («obscura brevitas») e da Quintiliano («vitanda illa Sallustiana
brevitas»), e la sua abitudine di collezionare arcaismi, adoprandoli
a fare una tessitura preziosa e ricercata di prosa, in cui si sente il
compiacimento dell’autore, che, quando si rileggeva, doveva divertirsi
a certi effetti di simmetria e alle trovate architettoniche delle frasi
ben composte, lascia trasparire una preoccupazione stilistica, che è
del tutto nuova, e riesce bene, se non cade nell’artificio.

«Sallustio — scrive un francese, che aveva profondo il senso della
bellezza letteraria[4] — non cerca tanto di far conoscere i fatti,
quanto di ostentare il suo ingegno, e ambisce più la lode che
l’istruzione del lettore. Si diverte ogni momento a trovare delle
antitesi riuscite, delle frasi simmetriche, delle metafore e delle
rassomiglianze. Quando i congiurati stanno per essere condannati a
morte, ferma il racconto e comincia a paragonare Cesare con Catone,
contrapponendo a una a una le loro qualità, a membro a membro i
periodi, con una straordinaria veracità e profondità di vedute; tanto
che sarebbe uno scrittore ammirabile se non cercasse troppo di farsi
ammirare. Le frasi corrono con gran velocità, a una a una, non più
raggruppate in battaglioni compatti, e lo spirito è lanciato come
su una china. Ma si sente la maniera, perchè la tecnica è invariata:
quando incontra un assedio, una battaglia, una spedizione, un’azione
qualsiasi, Sallustio scocca una grandine di frasine concise, ugualmente
costrutte».

Ma che forza, non ostante questo difetto! «Il suo stile cammina con
una certa indifferenza sdegnosa; è stringato come quello di Tacito,
pur essendo meno faticoso; è ricco come quello di Livio, ma è anche più
sobrio. «_En arrivant au bout d’une phrase, on est parfois frappé comme
d’un coup subit; ce sont deux mots simples qui, par un rapprochement
nouveau, ont pris un sens accablant_»[5]. Metafore audaci, nascoste in
un verbo, illuminano tutta un’idea. E poi una lunga e furiosa passione
chiusa in una parola, una mescolanza di famigliarità, di poesia, di
eloquenza, e sopratutto quegli sbalzi bruschi e potenti d’invenzione
originale che piacciono più della perfezione liscia: il dono della
creazione».

Ma Sallustio non è soltanto un grande stilista; è anche un moralista
ed un filosofo, il quale nella storia vuol ritrovare i segreti della
fortuna, i piani del destino, le profonde lezioni della vita; tanto
che la sua narrazione, sorretta da una concezione generale del mondo,
come da una intelaiatura, mira a un alto fine morale. Siamo usciti con
lui dalla scarna annalistica per entrare nel pieno splendore del genere
oratorio. Senonchè ci siamo entrati un po’ bruscamente. Non è possibile
non avvertire in Sallustio — ed è uno dei suoi difetti maggiori, pur
non essendo un difetto scevro di grandezza e nobiltà — una sproporzione
tra il fine e i mezzi, tra l’intelaiatura e la tela: fine ed
intelaiatura troppo grandi per i mezzi e per la tela troppo piccoli.

«Io credo che poichè ho deciso di vivere lontano dagli affari pubblici
— scrive nella prefazione della Giugurtina — questa mia grande ed
utile fatica sarà chiamata pigrizia da coloro ai quali pare somma
attività andare mendicando il favore della plebe coi banchetti. E se
essi penseranno in che tempo entrai nelle magistrature, e che uomini
ne siano stati esclusi, e siano arrivati al Senato, conchiuderanno
certamente che io per ragione e non per pigrizia ho cambiato parere,
e che alla Repubblica verrà maggior bene dal mio riposo che dalla
attività di costoro. Perciò io ho spesso udito che Q. Massimo e
P. Scipione ed altri uomini illustri, eran soliti dire che quando
guardavano le immagini dei loro maggiori, l’animo loro si accendeva
di grande coraggio». Chi non potrebbe lodare questo fine nobilissimo?
Ma per assolverlo, non basta raccontare in forma elegante e bella una
guerricciola memorabile, invece che per la gloria delle armi, per gli
odî e i puntigli delle fazioni, che senza scrupoli ferirono, pur di
ferirsi l’un l’altra, financo il corpo della Repubblica.

Con la storia di Catilina, Sallustio assunse il compito di mostrare che
nei tempi antichi «in pace e in guerra si coltivavano i buoni costumi:
e massima era la concordia, minima l’avidità; e il diritto e il bene
eran forti più per la loro natura che per le leggi; e le brighe, le
discordie e gli odî si riservavano ai nemici, mentre i cittadini coi
cittadini gareggiavano di virtù. Magnifici nell’onorare gli dei, parchi
in casa, fedeli cogli amici. Con due arti, il coraggio in guerra e
l’equità in pace, governavano sè medesimi e la repubblica.»[6] Poi
«il destino incominciò ad incrudelire e rivoltò tutte le cose»[7].
Ritroviamo qui — a far da cornice al quadro — quella dottrina della
corruzione dei costumi, opposta alla nostra fede nel progresso
indefinito del genere umano, ma famigliare invece al pensiero antico.
Senonchè la cornice è troppo vasta per il piccolo quadro in cui è
dipinto il tumulto, più clamoroso che pericoloso, suscitato, nella
repubblica, da Catilina. Cosicchè non possiamo dar torto a Quintiliano
quando dice che «Sallustio nella Catilinaria e nella Giugurtina ci
conduce all’una ed all’altra guerra, con dei proemi che sembrano
non aver che fare con il soggetto», e dobbiamo riconoscere che le
sue dissertazioni qualche volta sono un po’ lunghe e gonfie, le sue
digressioni talora appiccicaticce e fuori di posto. Se le _Historiae_
si fossero conservate, non avrebbero, forse, rivelato così ingenuamente
questi difetti, perchè in quella vasta storia di tutta un’età, la
cornice poteva essere adeguata al quadro. Ma sia colpa del caso, che
ci ha fatto conoscere soltanto il Sallustio minore, o difetto inerente
alla mente dello scrittore, cui mancasse un po’ quella virtù così
difficile che è l’equilibrio, per trovare uno storico in cui la cornice
ed il quadro, la visione della vita ed il soggetto, la materia e la
forma si proporzionino, dobbiamo giungere a Tito Livio.




III.

TITO LIVIO.


Tito Livio, famigliare di Augusto, e così grato nella casa del
principe, che a lui fu affidata l’educazione del futuro imperatore
Claudio, figlio di Druso, non ebbe ambizioni politiche, non coprì
cariche, e visse da privato, studiando e scrivendo; fu insieme a
Virgilio e ad Orazio, il terzo dei tre grandi restauratori, che
aiutarono, con la penna, Augusto a ricomporre il mondo romano, disfatto
dalle guerre civili. Livio nacque da una famiglia cospicua. Scrisse,
come è noto, dialoghi, trattati filosofici, ed una immensa storia di
Roma, dalle origini ai tempi suoi, nella quale volle trasfigurare la
rudezza dell’annalistica tradizionale, adornandola e vivificandola con
il colore, il calore e la pienezza fluente della oratoria greca.

Gli storici moderni sono stati severi con Livio, e non possono
approvare il metodo con cui trattò le sue fonti, capriccioso,
arbitrario, ed un po’ negligente, almeno alla stregua del nostro zelo
nel cercare la verità. Senonchè Livio non vuol cercarla, così come noi
l’intendiamo, arrivando alla conoscenza esatta dei fatti, proprio come
sono accaduti. Egli vuole dimostrare con la sua storia (e dimostrarla
con la rappresentazione viva più che con la rigorosa argomentazione,
con il colore più che con l’esattezza, prediligendo il dramma che
sembra alla storia che vuole essere vera) una dottrina generale, una
visione della vita in cui gli spiriti più alti del tempo credevano e
nella quale tutta la storia di Roma entra come un quadro nella cornice:
che la ricchezza e la potenza non sono beni ma pericoli; che Roma si è
corrotta e guasta a mano a mano che il suo impero è ingrandito; che le
generazioni non possono camminare verso la perfezione se non a ritroso
della corrente del tempo. È la dottrina della corruzione, quella già
mescolata, senza grazia e naturalezza, alla storia di Sallustio, ma
ripresa e sviluppata con la grandiosa coerenza necessaria, per dare a
un corpo robusto un’anima sostanziale.

«Io vorrei — scrive Livio nel proemio — che ciascuno tra sè
considerasse ansiosamente con l’animo, che vita, che costumi fossero
i loro (quelli degli antichi), con quali uomini e con quali arti
in pace ed in guerra sia stato fatto e ingrandito l’impero. E come
indebolendosi a poco a poco ogni disciplina, prima i costumi quasi
tralignassero e poi rovinando sempre di più precipitassero fino a
questi tempi, in cui non possiamo sopportare nè i nostri vizi nè
i nostri rimedi. E questo è nella conoscenza delle cose sopratutto
salutare e fruttifero, che tu studi gli ammaestramenti di tutti gli
esempi posti nelle illustri memorie; e di lì impari ciò che devi
imitare per te e per la repubblica, e ciò che devi evitare perchè
brutto negli inizi e nei risultati... O l’amore della mia opera mi
illude, o non fu mai una repubblica più grande, o più saggia, o più
ricca di esempi, ove così tardi entrassero l’avidità ed il lusso, ove
tanto e così largamente fosse onorata la povertà e la parsimonia,
e tale che quanto meno i suoi cittadini possedevano tanto meno
desideravano».

Posto questo proposito, si spiega come, resistendo alla fretta dei suoi
lettori, impazienti di arrivare alla storia recente, Livio incominci
la sua opera rammentando minutamente le origini favolose di Roma,
sebbene, anzi appunto perchè le sa favolose, «Io credo — dice egli
ancora nel proemio — che i primi principî e le cose vicine a quei
tempi non divertiranno la maggior parte dei miei lettori, parendo loro
mill’anni di giungere a queste ultime novità, per cui stanno morendo
le forze di quello che fu il più gagliardo popolo del mondo. Ma io
voglio invece anche questo come premio della mia fatica, che mentre con
tutto l’ardore andrò ripetendo quelle prime cose antiche, allontanerò
il mio pensiero dai mali di questa età; e sarò libero da quella
preoccupazione, che se non può distogliere dal vero l’animo di chi
vive, può però renderlo travagliato. Non è mia intenzione nè confermare
nè rifiutare quel che si raccontò sui tempi della fondazione di Roma,
sebbene le favole vaghe ci abbondino più che le notizie sicure».

Non c’è dunque da meravigliarsi se Livio non si è scervellato, come
gli storici moderni, per scoprire quella briciola di vero che poteva
nascondersi sotto i miti della fondazione di Roma. In quel mondo
lontano e solatio, come quello di una leggenda, Livio si riposa delle
miserie e delle tragedie contemporanee, che sono tristi, perchè vere;
si diverte a giuocare con quegli eroi vestiti di corazze lustrate,
e che han l’aria, attardandosi fra Torquato e Bruto, di pensare con
tristezza al momento della separazione. Egli non cerca d’infonder in
quei personaggi una vita reale, che possa romper l’incanto di quel
dolce e quieto artifizio; ma li toglie di peso dalla leggenda, con
tutto l’ingenuo ingrandimento proprio del mito, che ammette solo santi
o ribaldi; e se per un verso li dipinge così lontani dai moderni,
che non è possibile avere neppur un’illusione di vita, dall’altra li
veste col linguaggio e i costumi del suo tempo, come i pittori del
quattrocento infilavano agli eroi della Bibbia il giustacuore e le
calze lunghe. Così, quei soldati sono oratori espertissimi, che hanno
certo letto i libri di Cicerone sull’arte del dire, e improvvisano
ben composte orazioni, feconde in gradevoli simmetrie ogni volta che
capita, e se non capita spontaneamente, lo storico pensa a facilitare
l’avvento, una buona occasione — e ognuno capisce che di solennità
politiche, religiose o militari ce n’erano fin che se ne voleva. La
narrazione cammina sempre sull’orlo della parodia; ma Livio, che è
un grande artista, non cade, e procedendo sereno, misurato, lontano
dall’amarezza di Sallustio, il quale ricorda gli antichi con irritante
pomposità e li adopra, perchè sono ormai intangibili e lontano, a
maltrattare inutilmente i moderni, ha invece l’aria di dire che non
importa accertare le virtù degli avi, ma che bisogna stimarli in
ogni modo così, perchè ogni nazione ha diritto di avere dei padri
semi-divini. «Si concede all’antichità il permesso di mescolare le cose
umane con le divine, per rendere più venerabili i principî delle città.
E se è lecito ad un popolo consacrar le sue origini attribuendole agli
dei, la Gloria del popolo Romano nella guerra è così grande, che se
egli dice essere Marte il genitore suo e del suo fondatore, le genti
umane devono sopportare pazientemente anche questo, come sopportarono
d’essere signoreggiate da Roma»[8].

Ma questa età dell’oro non dura; non può durare a lungo. La storia di
Livio è stata scritta per dimostrare la tesi, che Roma s’è corrotta
ingrandendo. Al prologo degli eroi tien dietro l’età in cui gli uomini,
ridotti alle giuste proporzioni, peggiorano a mano a mano che la storia
progredisce. Dovremmo quindi entrare nella realtà; ma ci entriamo solo
sino ad un certo punto, perchè anche là dove la storia di Livio non è
più favolosa, i suoi personaggi fanno talvolta pensare a quei Romani
che David dipinse nel «Ratto delle Sabine».

Le figure del quadro infatti, disposte una dietro l’altra, vestite
scrupolosamente con le corazze e gli schinieri, sono ordinate, senza
che i piani si compongano o fondano in file parallele; le facce hanno
una ricercata impersonalità, che rivela l’imitazione delle statue
greche; così come nella carne dei corpi, che è stata dipinta con un
modello di marmo e vuol arrivare a quell’effetto medesimo di plastica
polita.

In Livio si ritrova la stessa stilizzata ricerca del generico. Così
che componendo, a grandi tratti, il carattere della professione e
della carica, egli vi introduce poi volta a volta i suoi uomini e fa
che essi ne rivestano, con le insegne esterne, anche le doti morali e
intellettuali, come, entrando in una stanza ove un gioco di sole sulle
persiane l’abbia bagnata tutta di luce verde, la gente è colorata di
verde. Così abbiamo il tipo del generale, il tipo del senatore, il
tipo del tribuno, mentre la classificazione dei buoni e dei cattivi,
più larga, comprende tutte l’altre classificazioni minori. Ma che
differenza c’è fra Manlio Torquato e Paolo Emilio, il primo agli inizi
e il secondo al termine della storia; se rispetto a ogni circostanza si
comportano allo stesso modo, come se seguissero un protocollo?

Noi non possiamo dire se questa attitudine a generalizzare il tipo,
piuttosto che ad individuare i singoli, fosse comune a tutta l’opera di
Livio, o non piuttosto si ritrovasse soltanto nella parte più antica
della sua storia, quella a cui appartengono i libri giunti fino a noi
e che tratta i tempi in cui gli stampi della tradizione e del costume
erano più forti e gli uomini fatti tutti secondo pochi modelli. Forse,
se potessimo leggere i libri, in cui si raccontavano i tempi di Silla
e di Cesare — pieni di rivoluzioni, e più ricchi di tempre singolari
— vedremmo in quelli un maggior rilievo di uomini meno simbolici. Ma
nei libri che possediamo i personaggi sono come li abbiamo descritti.
E poichè gli avvenimenti procedono in modo già prestabilito dagli
Dei, la storia apparisce quasi una enumerazione di battaglie e di
lotte politiche, sommate le une alle altre in ordine di tempo come
una montagna di pietre, e tutte così simili, che non si distinguono
a colpo. Non sembra che l’intelligenza degli uomini possa influire
su questo corso preordinato dagli eventi: caso mai, contano di più le
virtù e lo zelo religioso, che gli Dei ricompensano con la vittoria.
Dobbiamo dunque concludere che Livio è uno storico freddo e senz’anima?

No, Livio è uno storico vivo, anche se i suoi eroi spesso non sono
tali, perchè con quella sua attitudine a descrivere il tipo più che
il singolo, riesce come nessuno a far muovere le folle. Per questo,
se non è riuscito a vivificare i grandi Romani, è riuscito invece a
rappresentare il popolo romano. Il vero protagonista della sua storia
è il popolo romano: personaggio enorme, che occupa tutta la scena, e
non si compone di tanti singoli ben distinti, così da essere la somma
dei loro caratteri comuni; ma appare come un ente nel tempo stesso
umano e sovrumano, da cui loro caratteri particolari, come uomini che
attingono acqua ad una fontana. In questa potentissima personificazione
del popolo romano sta il fascino incomparabile della Storia di Livio;
perchè questa personificazione è riuscita ad essere nel tempo stesso di
un alto ideale e di un’efficace verità.

Il popolo romano, in Livio, si presenta da principio come una
generalizzazione di Appio Claudio; sprezzante le fatiche, giorno e
notte corazzato per ogni battaglia, indifferente alla morte e valoroso
in guerra, semplice di costumi, laborioso in pace, ambizioso di gloria,
scrupoloso di verità, ligio alla fede data, ossequiente dinnanzi
alla Giustizia che lo governa per mezzo di tante leggi, devoto alle
Divinità, che ne ricompensano lo zelo facendolo oggetto di un favore
priviligiato. Religione, patria, lavoro, obbedienza alle leggi, spirito
di sacrificio, sono le virtù che rifulgono in fondo ai secoli dalla
sua vita privata e pubblica. La storia non ha mai visto una luce più
intensa. Lo scrupolo della verità e della giustizia, che fra tutte
le qualità dei romani è la più coltivata, ha l’aria di resistere in
loro, anche quando le circostanze offrono, senza pericoli, allettanti
transazioni. Bisogna vedere che importanza ha un giuramento fatto al
nemico: e con quali tortuose invenzioni i Romani cercano di svincolarsi
senza disonore da queste promesse! Uno dei prigionieri di Annibale,
quando furon mandati in commissione a Roma, per trattare del riscatto,
col giuramento di tornare, appena uscito dal campo ritornò indietro,
toccò le palizzate e si riunì ai compagni, sperando di essere con
questo libero da ogni impegno. Ma fu rimandato ai Cartaginesi. Anche
le cattive azioni di questo Popolo devono esser compite rispettando
rigorosamente la legalità, ossia rendendo omaggio al principio che
quella tale azione non deve essere compiuta perchè illecita.

Ora, siccome un popolo di questo stampo non è mai esistito, Livio
avrebbe l’aria di dipingere in lui uno di quegli eroi puritani,
che vivono solo nelle leggende; così che le gesta di questo popolo
immaginario formerebbero un poema, più che una storia. Senonchè, anche
in mezzo al racconto delle età più antiche e leggendarie, qualche
tratto verace fa intravedere nell’eroe sovrumano un po’ di triste
umanità. Così, sulla bocca del Sannita, si sente forse la voce dello
storico, che riconosce nei grandi eroi il fango per cui si riattaccano
gli uomini.

«Voi deste gli ostaggi a Porsenna e col furto li avete ripresi;
ricompraste dai Galli le città con l’oro, e sono stati trucidati mentre
prendevano l’oro. Ci avete promesso la pace, per ottenere le legioni
prigioniere e ora la fate vana; e compite sempre ogni frode sotto
apparenze di giustizia»[9].

Senonchè anche nella figurazione del popolo romano si osserva quello
che già vedemmo nelle figure degli eroi; così che essa si fa più
umana, di pari passo col procedere della storia. Che la dottrina della
corruzione, fondamento di tutta la storia di Livio, sia filosoficamente
vera, è riprovato per via indiretta dalla vivacità di cui si anima la
storia di Livio, a mano a mano che questa dottrina domina e quasi guida
la narrazione. Pur conservando una certa nobiltà ideale, il popolo
romano si fa vivo a mano a mano che i difetti della ricchezza e della
potenza escono dall’ombra dell’antichità incorrotta: l’indisciplina, la
cupidigia, l’amore del lusso e dei piaceri, la gola e la sensualità,
l’egoismo, l’invidia sopratutto, che distrugge Roma con la guerra
intestina delle ambizioni e delle cupidige insoddisfatte.

«Qui si tratta della fama dei soldati, anzi universalmente di tutto
il popolo romano»[10], dice Servilio rampognando i soldati che si
oppongono al trionfo di Lucio Paolo, «perchè il popolo romano non
abbia fama di invidioso ed ingrato contro tutti i suoi più illustri
cittadini, e non sembri con questo imitare il popolo Ateniese, solito
a perseguitare con l’invidia i migliori. Abbastanza si peccò contro
Camillo, il quale almeno fu offeso prima di aver riconquistato la
città dai Galli. Abbastanza contro Scipione Africano. A Linterno si
trova la casa del vincitore dell’Africa; e Linterno ostenta il suo
sepolcro. Vergogniamoci se L. Paolo, uguale per gloria a tali uomini,
sia loro uguagliato anche per l’ingiurie vostre. Cancelliamo finalmente
questa nostra mala fama, sozza e vilipesa presso le altre genti e
dannosa presso di noi.» Chi non riconosce qui l’eterna malignità della
democrazia? Così gli idillici rapporti fra il senato concepito come un
«consesso di Re» e la plebe, sui primordi obbediente carne da macello,
sempre pronta per il mattatoio delle battaglie, si fanno a poco a
poco torbidi e violenti; quella docile moltitudine di cittadini-eroi
diventa tumultuosa, sediziosa; accecata dai propri interessi non vede
più quelli della comunità; si lascia trascinare dal più ignobile dei
demagoghi e non ascolta le parole dei saggi e dei grandi; passa da
un accesso di furore oceanico in cui pretende rivendicazioni — anche
giuste — coi mezzi più rivoluzionari, ad uno stato di indifferente
incoscienza e di fatalistica sopportazione quando è vessata da un
regime sanguinario, ingiusto e terroristico.

E il Senato perde, se si comincia a passeggiare fra i rostri e a
conversare sotto le colonne, quella regale apparenza che presentava
agli occhi di Cinna. Si vede una moltitudine di patrizi, pieni di
pregiudizi e di altezzosità, egoisti, che si preoccupano di Roma,
per quel che riguarda la loro classe e i loro interessi, ma non hanno
nessun pensiero per i Romani, come se Roma e i Romani fossero due cose
distinte. E le gelosie e le diffidenze reciproche alterano il loro
retto giudizio, e li spingono a operare, in ogni occasione, per secondi
fini.

«Si stabilì un patto con gli Ernici, si tolsero due parti del
territorio, e una metà fu data ai Latini, e l’altra il Console Cassio
voleva dividerla fra la Plebe. Aggiungeva a questo dono alcune terre
le quali, essendo pubbliche, egli biasimava che fossero di privati. E
questo spaventò molti senatori che ne eran possessori, e vedevano in
pericolo le cose loro. Ma erano ancor più inquieti perchè il Console
con queste largizioni si acquistava una potenza pericolosa alla
libertà.»[11]

Così la grandezza romana, idealizzata tutta insieme come una meraviglia
sovrumana, ci apparisce umanissima nei singoli elementi di bene e di
male, che la compongono. Questa è nel tempo stesso la grande bellezza
e la profonda verità dell’opera di Livio, alle quali corrisponde
mirabilmente lo stile. Lo stile di Livio è veramente come un fiume
immenso dalla corrente tranquilla, che scende dal monte sicuro di
arrivare alla foce, trasportando una mescolanza di cose diverse. Nei
momenti solenni, o tragici, è maestoso e lento, quasi per trattenere
il respiro a chi legge e non accontentarlo nella sua impazienza con
piccole frasi rapide; alle volte perde la sua serenità olimpica, si
commuove, si agita come uno stagno in cui sia piombato un macigno; ma
la chiusa degli avvenimenti è spesso composta con poche frasi corte
e succosissime, che appaiono più potenti che mai, appunto perchè, con
grande arte, son collocate dopo un periodare ampio e fertile, in cui
le frasi tendono la mano una all’altra e si allacciano con rotonda
scorrevolezza. In tal modo i due ritmi si sostengono e si analizzano
a vicenda: il primo mette in rilievo quella stringatezza del secondo,
che, dopo un capitolo di Tacito, non sarebbe neppure avvertita; il
secondo drammatizza lo stile per quel variare improvviso di tono, che
sorprende, e ci fa sentire come il primo ritmo fosse armoniosamente
pieno.




IV.

TACITO.


Tra Tacito e Livio abbiamo una fioritura copiosissima di storici.
Citiamo Asinio Pollione, che trattò delle guerre civili; Pompeo Trogo,
che scrisse una storia universale, epitomata da Giustino; Fenestella,
Iginio e Verrio Flacco, contemporanei di Tito Livio. Nel I secolo
Cremunzio Cordo che fece l’apologia di Bruto e Cassio, Valerio Massimo,
Velleio Patercolo, Punico che vivendo accanto a Tiberio, lo comprese, e
ne lasciò una vita imparziale, e fu per questo accusato di adulazione.
Delle quali calunnie la responsabilità più grande pesa proprio su
Tacito, il terzo storico di Roma.

Vissuto durante il primo secolo dell’impero; campione di quella
nuova aristocrazia, cresciuta nelle provincie europee e africane dopo
Augusto, che con Vespasiano sale al Governo, più semplice, più austera,
più disciplinata, più innamorata del romanesimo autentico, che la
nobiltà dei tempi dei Giulio-Claudî, crebbe studiando nell’ambiente
delle scuole di eloquenza; fu pretore, sacerdote quindecenvirale,
propretore e finalmente, sotto Traiano, console. La vetta delle
ambizioni era stata scalata. Dopo lasciò la vita pubblica e scrisse. E
il suo soggetto fu triste.

«Prendo a scrivere un tempo pieno di vicende, tremendo per battaglie
e discordie, per sedizioni, crudele anche in pace. Quattro principi
assassinati: tre guerre civili, molte all’esterno, e per lo più
mescolate. Imprese prospere in Oriente, avverse in Occidente:
sconvolta l’Illiria, le Gallie vacillanti, domata la Brittannia e
tosto abbandonata: i Sarmati e gli Svevi risollevati contro di noi...
L’Italia afflitta da stragi nuove o rinnovate, dopo una lunga serie
di secoli. Città sprofondate o rovinate, nella zona più fertile
della Campania. Roma incendiata, distrutti i templi più antichi,
il Campidoglio stesso arso dai cittadini; profanata la religione,
grandi adulterî, mare pieno d’esuli, scogli intrisi di sangue...
Secolo non però così sterile di virtù da non produrre anche dei buoni
esempi»...[12] «Ma non mai per più atroci stragi del popolo Romano
o per più giusti indizi, si capì che gli Dei avevano a cuore non la
nostra sicurezza ma il nostro castigo.»[13]

Quanto siamo lontani dalla serenità quasi gioiosa di Livio! La vasta
pianura si trasforma in una treggiaia chiusa, seminata di rovi e di
lappe pungenti, sgradevole al piede. Un’afa insopportabile pesa sul
viandante, che aspetta ogni tanto invano dal cielo una ventata salubre,
e una passata d’acqua dalla nuvolaglia turbolenta. Tacito stesso,
ripensando a Tito Livio, ne soffre e lo confessa apertamente.

«Narravano di grandi guerre, di città conquistate, di re vinti e
prigionieri, e i litigi dei tribuni e dei consoli, le leggi agrarie e
frumentarie, le lotte del popolo e del senato. Era un soggetto largo,
spazioso, dove si muovevano con libertà. Ma io sono chiuso in una
stretta carreggiata, e l’opera mia sarà senza gloria.»[14]

Mentre Tito Livio, come si vede da una citazione che Seneca trasse
dalle opere scomparse, si nutre della sua opera concepita nella gioia,
e nella gioia dello scrivere e nell’amore della sua storia moltiplica
le sue forze all’immensa fatica, si sente che il soggetto è antipatico
a Tacito, che le sue previsioni sono dolorose, che lo scrivere gli
costa sforzo e lo attrista. Perchè scrive allora la storia dei tempi
che gli erano così odiosi? Egli stesso ce lo dice.

«Noi raccontiamo questo perchè chiunque leggerà i casi di quei
tempi, da noi scritti o da altri, sappia, benchè si taccia, come
si ringraziavano gli Dei, ogni volta che il Principe esiliava od
assassinava. E come le insegne della prosperità annunziavano le
disgrazie pubbliche.»[15]

Nato fra le follie sanguinarie di Nerone, cresciuto sotto il governo
pauroso di Domiziano, dopo aver temuto e sofferto lunghi anni,
ricordando ancora le favole atroci, che si susurravano nei giardini dei
nobili morituri, quando il silenzio regnava, e non vinta era la paura
dei delatori, Tacito volle, stabilita finalmente con Traiano la pace e
la sicurezza, prendersi una imperitura vendetta, per sè e per tutta la
nobiltà a cui apparteneva; volle dirsi «ho patito, ma questi patimenti
non saranno inutili». Hanno fatto di lui un repubblicano, ma non è
vero nel senso moderno della parola. Per quanto abbia spesso visto la
tirannia dove non c’era, egli non ha mai pensato che una rivoluzione
contro il regime imperiale fosse possibile e desiderabile nè che fosse
necessaria per ricostruire la repubblica, che ai suoi occhi era stata
maltrattata ma non distrutta. Egli non è il censore dell’impero, ma
di alcuni imperatori, di molti vizî, dei costumi contemporanei, della
società, come egli la vedeva, nella sua crescente depravazione, del
senato, che perdeva ogni giorno un po’ della sua autorità, benchè ne
avesse più di quanto sembrava. Tacito è un moralista, che osserva la
depravazione dei suoi tempi e ne soffre; ma che invece di curarla,
come Livio, proponendo loro il modello ideale di una età più antica,
mitologicamente austera, semplice e ricca delle più eccelse virtù,
vuol curare quella cancrena con la pietra infernale dell’indignazione.
La storia è per lui una specie di tribunale del vizio e della colpa,
innanzi al quale egli, giustiziere implacabile, cita i suoi tempi in
forza del codice non scritto della propria coscienza. Egli scrive la
storia perchè «pochi uomini distinguono con il loro senno l’onesto dal
criminale; l’utile dal nocivo. E gli esempi degli altri formano, per lo
più, la vera scuola»[16]. Perchè «il compito principale della storia è
di salvare la virtù dall’oblio e di incutere alle azioni e alle parole
malvagie la paura della posterità».[17]

Un giustiziere, dunque, il quale vuol scrivere la storia _sine ira et
studio_, come egli stesso dice, imparzialmente, sui documenti. A Tito
Livio questa idea, che la storia potesse o dovesse essere scritta a
mente fredda, senza ira e senza amore, non venne mai, poichè scrisse
per ingrandire Roma agli occhi della posterità, con l’entusiasmo e
l’amore, non dubitando di abbellire, o di velare, o anche addirittura
di alterare la verità, quando poteva nuocere alla reputazione del
suo idolo. Per Tito Livio la gloria di Roma non riconosce nessun
obbligo d’imparzialità nello storico, la sua grandezza sta al di
sopra del giudizio della storia. Per Tacito non più. Anche Tacito è un
tradizionalista, come Tito Livio, ligio all’ammirazione degli antichi
esempi nazionali; ma nella sua ammirazione per l’antichità ormai il
momento morale si distacca dal momento nazionale, e si impone, invece
di mescolarsi ad esso, come in Livio. Egli ammira gli antichi, non
perchè erano nel tempo stesso virtuosi e schiavi, ma solo perchè erano
virtuosi; e cercando, ma non trovando, queste virtù nei suoi tempi, non
esita a scrivere storie, che ci appaiono le più terribili accuse contro
Roma e il suo impero, tramandate a noi dall’antichità.

Livio ingrandisce per contrasto la gloria e l’ammirazione di Roma,
con il male che è costretto a raccontare. Tacito accresce l’orrore per
l’impero di Roma anche con i rari esempi di virtù, che inserisce nel
lungo racconto dei vizi e delle colpe. Per quanto tradizionalista,
come la maggior parte dei senatori del suo tempo, Tacito presente,
senza saperlo, il Cristianesimo, e quel prevalere della morale sulla
politica, in cui starà la grande rivoluzione cristiana. È già in un
certo senso cristiana, e non è più romana, almeno al modo di Livio,
la intrepidità con cui questo senatore infama tutto un secolo di
storia dell’impero per castigare un certo numero di imperatori, da lui
giudicati malvagi.

Ma se il giustiziere voleva scrivere la storia _sine ira et studio_,
immolando alla giustizia anche la gloria di Roma, è poi riuscito
ad essere giusto? Noi possiamo rispondere risolutamente di no. La
storia di Tacito è scritta dalla passione, non meno di quella di
Sallustio, anche più di quella di Livio. La sua passione non è, come
in Sallustio, il risentimento politico di un partito perseguitato,
ma l’odio di un’epoca contro un’altra epoca; l’odio che i suoi tempi,
dopo esser riusciti finalmente a conciliare il governo senatorio ed il
principato, sentivano contro i Giulio-Claudi, i quali intorno a questa
conciliazione si erano inutilmente affaticati per tanti anni. Tiberio
e Claudio avevano fallito più per colpa del Senato che propria, ma
la giustizia sommaria della generazione seguente serbava rancore agli
imperatori, in quanto erano un bersaglio più vistoso; e Tacito fu la
penna illustre che soddisfece, eternandoli in uno stile immortale,
con un’arte di scorci potentissima, questi odî. Egli è dunque un
giustiziere sospettoso, inquieto, implacabile, che per lo zelo di
scoprire e bollare il vizio ed il male, lo trova con certezza là dove
proprio nessuno avrebbe avuto soltanto il coraggio di sospettarlo.
Quanti esempi si potrebbero citare!

Egli riferisce, mostrando di approvarla, la diceria che Augusto
«scelse Tiberio a suo successore, non già per amore o per zelo
della repubblica, ma per acquistarsi gloria col paragone di un
principe assai peggiore, poichè ne aveva già intuita l’arroganza e la
crudeltà»[18]. In che modo ha conosciuto Tacito questo riposto pensare
dell’imperatore? E quale altro personaggio avrebbe egli potuto indicare
a successore, associandolo nella suprema autorità? Tacito ci racconta
che non volendo Tiberio e Livia uscire in Roma dopo la morte di
Germanico «Tiberio e l’Augusta tennero Antonia (la madre di Germanico),
chiusa in casa, perchè, dato questo esempio, si vedesse che avola,
madre e zio erano tormentati da uguale dolore.»[19] Non sarebbe stato
più semplice e più umano supporre che restassero tutti e tre in casa
per dolore e per rispetto del morto?

Quando Tacito si è messo in mente che un suo personaggio è perverso,
ogni cattivo pensiero gli è attribuito di autorità, senza che venga
chiarito bene con quali informazioni lo storico sia riuscito a
documentarsi. Così, quando egli afferma che Tiberio «Germanici mortem
inter prospera ducebat» si fonda soltanto sul presupposto, accertato
e riconosciuto, che Tiberio sia uno scellerato e che, quindi, gode
in segreto di quanto è dolore per gli altri. Quando Tiberio ebbe il
governo della repubblica «aggiunse Messala Valerio che si rinnovasse
ogni anno il giuramento di fedeltà a Tiberio, dal quale interrogato
se avesse proposto ciò per ordine suo, rispose che aveva parlato
spontaneamente e che negli affari riguardanti la repubblica egli
si sarebbe consigliato solo con la sua coscienza, anche correndo il
pericolo di dispiacere al principe»[20].

La domanda di Tiberio può spiegarsi come una precauzione abbastanza
semplice e come un riguardo ragionevole usato al Senato. Nè c’è
serio motivo di dubitare che la risposta di Messala fosse vera.
Ma Tacito vede subito nero e sentenzia: «Mancava soltanto questo
genere di adulazione!» Che contrasto, fra il pessimismo sarcastico,
amaro, violento di Tacito, e la serenità grave e composta di Tito
Livio! Modesto non per finta, serio e sincero, dominato da alcuni
pregiudizi che non cerca nemmeno di sradicare, Livio è corrucciato
bonariamente con i suoi tempi, e se ne tiene lontano, senza esagerare
nel suo sdegno. A furia di viver sognando con quei mitici eroi e
quei generali favolosi, egli riesce a sopportare con tanta dolcezza
il male del mondo, che non sa più immaginare un carattere doppio o
un’anima ipocrita, crede per davvero ai discorsi de’ suoi oratori,
senza mai permettersi un sorriso ironico, e ha troppa coscienza della
sua responsabilità per attribuire, senza scorta di documenti sicuri,
qualche pensiero ad un suo personaggio. Tacito invece non riesce a
immaginare una condotta lineare, e un’anima sincera; i suoi personaggi
procedono sempre per vie tortuose, spinti da passioni recondite o da
pensieri segreti, che Tacito conosce a fondo come se fosse il loro
intimo confidente. A questo modo scopre spesso doppiezze ed ambiguità
dove c’è una tranquilla franchezza. Ma egli adopra a dimostrar certe
tesi una divertentissima abilità, interpretando con sottigliezza greca
i documenti, mettendo in luce quelli che gli sono utili e nascondendo i
contradditori, tal quale un avvocato.

È così riuscito ad imporre ai posteri le figure di Tiberio, di
Claudio, di Agrippina, per il loro straordinario risalto, ma le ha
falsificate una dopo l’altra secondo lo stesso preconcetto. Tiberio è
il tipo che incarna meglio quello strano ideale letterario, perchè,
essendo la doppiezza in persona, è ricchissimo di sfumature, di
contrasti, di dubbi, di raffinate perversità, di morbose inquietudini,
cosicchè in qualunque sua azione si possono ritrovare doppi motivi.
Con dei «si credette»... e dei «si pensò»... Tacito fa passare delle
gravi malignità. Ma se si legge attentamente il suo testo, è facile
accorgersi che Tiberio può cambiare fisionomia con facilità, poichè
tutte le azioni ambigue sono mutate in perfide e qualunque opera buona
è messa in conto all’ipocrisia. Ora, secondo Tacito, per nove anni
di seguito Tiberio sarebbe stato assiduamente ipocrita; ossia avrebbe
compiuto buone azioni, pur con ripugnanza. Per provare che queste opere
buone erano fatte ipocritamente e con ripugnanza, Tacito non ci offre
che la propria certezza, e la penetrazione con cui lesse nei pensieri
segreti del principe. In verità Tiberio, come tutte le altre figure,
è un personaggio fantastico, inventato e dipinto dall’odio, combinando
insieme molte deduzioni sottili, ingegnose, ma arbitrarie.

Si spiega così come questo giustiziere, che vuole narrare e giudicare
sui documenti, sia così spesso irresoluto e diffidente. Talvolta gli
accade di non sapersi decidere tra due notizie contradditorie ma
ambedue serie, onde sente il dovere di citare tutte le fonti, che
si contraddicono, lasciando la scelta al lettore. Invece, quando
si imbatte in voci udite durante la giovinezza, che suonino accusa
contro i principi e che lusinghino la sua sospettosità, non resiste
mai, nonostante le sue dichiarazioni d’imparzialità, alla tentazione
di riferirle, dando loro il primo posto fra l’autorità della storia.
«Io stimo indegno della gravità di quest’opera l’andare dietro alle
favole per stuzzicare i lettori, ma non oso nemmeno sfatare ciò che è
stato divulgato e scritto»[21]. Ciò che egli non osa sfatare sono quasi
sempre certe calunnie, che giravano per Roma divulgate da anonimi in
storie scandalose, di cui il pubblico naturalmente era ghiottissimo,
tanto è vero che Tacito prega «coloro che leggeranno quest’opera
a non anteporre quelle divulgatissime ed inverosimili storielle
così avidamente ricercate, alle storie vere — «neque in miraculum
corruptis»[22]. Nè Tacito riferisce soltanto queste storielle, che
avrebbe dovuto respingere sdegnosamente; ma pure avvertendo di non dar
loro gran peso, le racconta in modo che paiono vere, cosicchè spesso è
riuscito ad accreditarle come storiche.

Molte delle favole che si ripetono anche oggi sul conto dei
Giulio-Claudi come verità storiche, ci sono state riferite da
Tacito come dicerie dubbie, come malignità velate, come sarcasmi in
sordina, come supposizioni, raccolte perchè le ritrovava spesso sulla
bocca della gente, ed esposte con un tono pacato, che più ancora
dell’imparzialità, affetta l’indifferenza.

Ma quale è dunque la segreta ragione di questa potenza suggestiva?
L’aver scritto una storia, i cui protagonisti sono degli uomini, e
l’aver saputo descrivere questi protagonisti con la forza drammatica
che un odio potente può suscitare in un grande scrittore di
temperamento, oggi si direbbe, romantico.

Noi abbiamo visto che in Tito Livio il vero protagonista è il popolo,
personaggio pieno di vita, ma anonimo e collettivo, immenso e semplice.
Tutti gli altri personaggi si uguagliano in alcuni gruppi, confondendo
le loro linee personali in un’uniformità generica. Tacito invece,
sulle rovine del popolo, morto come personaggio simbolico, costruisce
gigantesche e isolate figure di uomini, con tanto ardore, che quando i
documenti si ostinano a non rivelargli l’elemento che gli ci vuole, lo
inventa. In altre parole Tacito è un poeta tragico, che ha scritto in
prosa delle storie, le quali appartengono di pieno diritto alla grande
letteratura dell’immaginazione.




V.

SVETONIO.


Per capir bene la svolta a cui arriva, dopo Tacito, la storiografia,
sarà bene che ci rifacciamo un momento da capo.

Gli annalisti arcaici, che non pensarono all’arte, intesero la storia
come uno dei loro tanti doveri civili. Poi, con Sallustio e Livio,
il fine artistico si mescola a quello morale e politico; ma siccome
nella vita dell’uomo si considerava solo la parte sociale e pubblica,
trascurando la privata e vera del tutto, anche la psicologia e la
morale si occupano di lui in quanto è cittadino romano, e perciò sono
generiche e un po’ esteriori. Ma poi a poco a poco l’uomo prevale
anche nella storiografia romana sul cittadino, ed ai tempi di Tacito
si osservano già due correnti. Una, quella impersonata da Tacito,
il quale, pur conservando la nobiltà di intendimenti, e la dignità
stilistica degli antichi, ha già una tesi particolare da dimostrare,
una verità da gridare; e per arrivare ai suoi fini, abbandonando la
tradizione della psicologia e della morale _civile_, basa la sua storia
sulla psicologia e la morale _personale_; — e ridando all’uomo come
uomo una grande importanza ne toglie molto all’uomo come cittadino.
L’altra è quella di cui egli stesso si lagna, che si può considerare
come l’estrema esagerazione della storia personale: la storia
aneddotica, scritta specialmente per divertire, e questa fa capo a
Svetonio.

Svetonio era un uomo di mondo che leggeva molto, osservava molto,
conosceva tutte le persone intelligenti della capitale, e che, essendo
stato segretario di Adriano — l’imperatore intellettuale ed esteta —
ebbe la fortuna di poter leggere dei documenti ignoti a tutti e seppe
sfruttarli con intelligenza. La sua vita dei Cesari è l’opera più
famosa giunta a noi di questo genere nuovo. Svetonio non dispone gli
avvenimenti nell’ordine cronologico, secondo i canoni prestabiliti;
non conosce retorica, non si abbandona a concezioni politiche e
considerazioni generali, nè pretende mai di far lezione. Invece,
nella sua storia abbondano gli aneddoti, raccontati con semplicità,
senza preoccupazioni di fare effetto o di disegnare grandi quadri; i
documenti originali, specialmente le lettere, quando possono illuminare
un personaggio; le facezie e le spiritosaggini che la leggenda gli
mette in bocca e quelle inventate su di lui. Sono enumerati i monumenti
che il personaggio ha costruiti o riparati, i giochi che ha dati al
popolo; e non sono dimenticati mai nè i segni che annunziarono la sua
morte nè i connotati fisici. C’è sempre un ritratto dell’imperatore
dove dall’altezza della statua al colore degli occhi non è saltato un
particolare. Svetonio ci confida senza scrupoli che Cesare rialzava
i capelli sulla testa per nascondere la sua calvizia; che Claudio
sbavava e dondolava il capo parlando; che Domiziano, bello da giovane,
era in vecchiaia afflitto da un ventre enorme, con due gambe magre
e tremanti. La morale civica non ha più importanza rispetto a quella
privata. Anzi lo stesso scopo morale si perde, per lasciar posto alla
curiosità, all’interesse, alla novità; cosicchè Tacito è l’ultimo
grande storico classico e il primo della nuova corrente anticlassica:
altro segno a cui si riconosce l’epoca di transizione. Dopo Svetonio
tutti gli infiniti storici che fiorirono hanno seguito più o meno il
metodo svetoniano. La corruzione era penetrata nelle midolla della
storiografia, e la malattia non tardò a venire.

Eppure, se pensiamo alle centinaia di storici dei quali ci è stato
tramandato il nome, alla scarsezza di quelli che sono giunti a noi
anche con l’opera, e alle lacune dei testi conservati, rispetto al
numero di quelli iscritti, non possiamo non essere profondamente
meravigliati.

Perchè della storiografia, che è forse il genere letterario più
fecondo della latinità, ci sono rimasti così scarsi frammenti? Chi è
responsabile di questa immensa distruzione?




LA DISTRUZIONE




I.

L’IMPERO ROMANO E LA SUA STORIA.


Fra tutti questi frammenti, le Deche di Livio che formano ancora il
frammento più lungo, ci offrono, sui 140 scritti, appena 35 libri.
Il fatto è singolare, perchè l’impero Romano, più o meno forte e
rispettato, come principio di autorità, se non come governo attivo,
continuò con un filo ininterrotto di imperatori legalmente consacrati
ed eletti, ora soltanto in Oriente o in Occidente, ora in Oriente ed
in Occidente, sino al 1806. Di solito, quando un regime continua a
vivere anche solo di nome, non si spegne la curiosità di conoscerne
le origini e di studiarne la storia: la storia appunto che, anche nei
tempi barbari, è la più spontanea espressione di una società, perchè
tutti gli uomini desiderano di tramandare ai posteri le loro opere,
e di conoscere quelle degli antenati; che è anche la più resistente,
perchè è legata dall’interesse al regime costituito in modo che storia
e regime si sostengono a vicenda. Eppure quell’immenso magazzino di
documenti e di pensiero che era la letteratura storica latina, andò
distrutto: perchè? Perchè, se alcuni vollero ancora conoscere nella
statica determinatezza delle cose passate e giudicare certi avvenimenti
memorabili, quasi nessuno più si curò a cominciare dal quarto secolo
dell’era volgare di capire quale era stata l’anima di quei secoli e
di quelle storie, e questa a poco a poco si spense nell’indifferenza
universale?

La distruzione della storiografia antica è uno dei tanti effetti
della rivoluzione cristiana. Come avvenne, è quello che cercheremo di
chiarire.




II.

L’AURORA DELLA MORALE UMANA.


La morale romana fu sempre una morale civica. L’uomo non contava e non
valeva, se non in quanto partecipava alla vita pubblica; le sue virtù
personali eran tenute in conto, soltanto se servivano alla comunità.
Anche certi vizi, quando riuscivano utili alla repubblica, venivan
senz’altro lodati come virtù.

Il Cristianesimo, invece, sostituì alla morale civica la morale
personale, in modo che il cristiano rendeva direttamente conto delle
sue azioni a Dio, e, come cittadino del mondo, non si curava di chi
governasse il suo corpo, non preferiva questo a quel paese, uno
straniero a un compatriota. Un barbaro o uno schiavo, se buoni e
virtuosi cristiani, valevano ai suoi occhi assai più di un romano o di
un senatore, viziosi ed increduli. La giustizia e la reputazione degli
uomini lo lasciavano indifferente. Tutte le guerre spargevano il caro
sangue di uomini a lui uguali.

E allora, veniva fatto di concludere, perchè combattere, se bisogna
amare i nemici come sè stessi, e tendere la guancia sinistra a chi ci
percuote sulla destra?

Se tutte le virtù civiche fortificavano il regno terrestre, a che
servivano per le glorie di quello divino? Perchè ammirare il coraggio,
quando non serviva che ad uccidere e a farsi uccidere, come gladiatori,
per un padrone inutile? Perchè conquistare il mondo e imporgli le
proprie leggi, se soltanto contavano quelle di Dio, alle quali si
deve obbedire non per forza ma per amore? Perchè accumular denari
arricchendo nello stesso tempo lo Stato con la privata avarizia,
se tanto le vere ricchezze stanno nel proprio cuore o nei cieli; se
inutile è pensare al domani, poichè Dio provvederà ai nostri bisogni,
come dà cibo e vesti agli uccelli del cielo? Perchè migliorare la
propria condizione e render sicuro lo Stato, se nella sofferenza sta
la vera gioia, e nel patire l’ingiustizia altrui, si prova l’infinito
godimento di sentirsi migliore?

Esagererebbe chi attribuisse al Cristianesimo soltanto tutto questo
capovolgimento della antica morale. Già in seno al paganesimo le grandi
filosofie universalistiche, come lo stoicismo, avevano incominciato
ad opporre la morale umana alla morale civica. Seneca era arrivato
ad affermare «homo res sacra homini» immaginando una città universale
ove tutti potessero abitare — amici e nemici, padroni e servi, patrizi
e plebei — senza distinzione di nazionalità, di classe e di diritti
politici. Nella stessa storiografia noi abbiamo veduto a Livio, per
il quale il grande cittadino è l’uomo perfetto, succedere Tacito,
che pur essendo tenacemente tradizionalista, giudica gli imperatori
ed i grandi secondo un criterio di morale personale, ossia alla
stregua della loro virtù e dei loro vizi privati. Ma nella filosofia
e nelle storie pagane la nuova morale non si contrappone all’antica:
si sovrappone a lei come una conciliazione, un perfezionamento, un
addolcimento; il cristianesimo invece tronca ogni transazione, spinge
alle ultime conseguenze il principio che importa soltanto l’adempimento
dei doveri verso Dio, dinnanzi a cui tutti gli uomini sono uguali. Ma
così facendo, il cristianesimo compiva una rivoluzione immensa, per cui
la storia di Roma, oggetto fino allora di tanta venerazione, diventava
un’orribile e incomprensibile anarchia.




III.

S. AGOSTINO, LA REPUBBLICA E IL POPOLO ROMANO.


In nessuno scrittore questo rivolgimento, per ciò che si attiene alla
storia della Chiesa, appare così chiaro come in S. Agostino, il quale,
nel _De Civitate Dei_, paragonando appunto la città umana e quella
divina, il Paganesimo e il Cristianesimo, e riferendo, purificate dallo
stile ed approfondite dalla rigorosa dialettica, le opinioni di tutti
i cristiani, e forse anche di molti non cristiani, suoi contemporanei,
altera senza volerlo tutte le manifestazioni della civiltà antica
e riesce a renderle irriconoscibili, quando addirittura non le nega
appieno.

Si vedano, come esempio, i suoi commenti a Scipione, quando, nel
_De Republica_ di Cicerone, il grande generale parla appunto della
repubblica. Scipione — osserva S. Agostino — «definisce concisamente
la repubblica come _la cosa del popolo_. Se questa definizione è vera,
la repubblica romana non esistette mai, perchè non fu mai cosa del
popolo. Scipione, infatti, afferma che il popolo è una moltitudine di
persone unite da interessi comuni e da un diritto accettato da tutti.
Spiega poi nella discussione ciò che intende per diritto, accettato da
tutti, dimostrando come senza giustizia non possa esistere repubblica,
poichè dove non c’è giustizia vera non può esserci diritto... Perciò
dove non c’è la vera giustizia non può neanche esserci una società di
uomini, riuniti dal diritto, e neanche popolo, secondo la definizione
di Cicerone e di Scipione; e se non c’è popolo non c’è nemmeno la cosa
del popolo, ma la cosa di una folla qualunque che non è degna del nome
di popolo. Ora, se la repubblica è la cosa del popolo, dove non c’è
giustizia non c’è repubblica. Infatti la giustizia è la virtù che dà ad
ognuno il suo. E si può chiamare giustizia quella che toglie l’uomo al
vero Dio e lo affida ai demoni immondi? Questo è forse dare a ciascuno
il suo?[23]. Insomma, così conclude a proposito della Repubblica, come
è descritta in Sallustio, la repubblica romana non è stata mai che
un’apparenza: «Omnino nulla erat»[24]. E se non esiste la repubblica
non esiste neppure il popolo romano, quel glorioso popolo romano,
innalzato da Livio a protagonista della sua storia, deità mitologica
soprannaturale, superiore alla censura dei singoli cittadini, i quali
sparivano in lui. Secondo S. Agostino invece, uno Stato non è che una
somma di singoli uomini, pei quali il solo problema serio è la salute
dell’anima. «Cum moltitudo constet ex singulis.... Neque enim aliunde
beata civitas, aliunde homo: cum aliud civitas non sit, quam concors
hominum multitudo»[25].

Così Livio o Sallustio direbbero: sono morti molti soldati, è vero; ma
Roma è riuscita a soggiogare il mondo; e che importano questi sacrifici
umani, quando è stata compita un’opera senza pari? S. Agostino ribatte:
«Una città potente e vittoriosa ha dato ai vinti, non solo le sue
leggi, ma anche la sua lingua, per la pace dell’umanità... È vero; ma
quante guerre ha dovuto scatenare per questa pace; e quanta strage di
uomini ed effusione di sangue spargere sulla terra!»[26].




IV.

S. AGOSTINO E LA CORRUZIONE DEI COSTUMI.


Anche S. Agostino parla a lungo della corruzione dei costumi romani, e
in modo che ricorda il tono di Sallustio e di Tito Livio.

«In che tempo la passione di dominare si sarebbe spenta in quei cuori
superbi, se essa non fosse arrivata, di onore in onore, alla potenza
reale? Poichè non sarebbe stato possibile continuare a crescer di
onori, se non fosse prevalsa l’ambizione, e l’ambizione non poteva
prevalere che in un popolo corrotto dall’avidità e dal lusso. Poichè
l’avidità e il lusso di un popolo sono il frutto della prosperità; la
quale con molta prudenza Scipione Nasica stimava essere pericolosa,
quando non voleva distruggere la più grande, la più forte, la più ricca
città nemica di Roma»[27].

«_O mentes amentes!_ Non siete più stolti, ma ammattiti, siete,
voi che cercate i teatri, li affollate, li riempite, e fate mille
pazzie, mentre l’Oriente piange la vostra rovina, e le più grandi
città sono nel lutto e nell’afflizione per voi, sino alle estreme
lontananze del mondo!... Ebbero più forza sui vostri animi le seduzioni
degli empi demoni, che gli ammaestramenti dei saggi. Per questo non
volete imputare a voi stessi i mali che fate; e quelli che soffrite
li imputate ai cristiani. Poichè nei tempi sicuri non volete la
tranquillità dello Stato, ma l’impunità del piacere; e siete stati
depravati nella prosperità; nè avete saputo correggervi nella sfortuna.
Scipione voleva che foste atterriti dal nemico, perchè non foste vinti
dalla lussuria, e voi pure essendo abbattuti dal nemico non l’avete
repressa; avete perduto il frutto della calamità, e siete diventati i
più infelici, restando i più cattivi di tutti i mortali»[28].

Anche qui, come negli storici latini, si attribuisce la rovina
dell’impero alla corruzione dei costumi. E su questo punto S. Agostino
e gli storici sembrano d’accordo. Ma è facile, addentrandosi nel
pensiero dell’uno e degli altri, accorgersi che l’accordo è apparente.
La rovina dell’impero lascia S. Agostino indifferente; ciò che lo
inquieta è la corruzione dei sudditi; egli è sdegnato perchè la rovina
di Roma non ha corretto i romani, ed anche quest’ultimo ammaestramento
è rimasto inutile; ma ha l’aria di dire che, se la catastrofe generale
avesse migliorato i Romani, questa catastrofe sarebbe stata da lui
benedetta come una grazia del Signore. In certi passi, infatti, S.
Agostino sembra lodare piuttosto i tempi della decadenza che quelli
della gloria, perchè gli sembra che gli uomini siano divenuti un poco
migliori. Questo ad esempio: «Roma, fondata e accresciuta dalle fatiche
degli antenati, fu più sozza nella sua potenza che nella sua rovina,
poichè nella rovina caddero pietre e travi, ma nella corruzione dei
romani caddero i sostegni e le bellezze non dei muri ma dei costumi,
quando i loro cuori arsero di passioni più funeste delle fiamme che
bruciarono i tetti della città»[29].

Sallustio, invece si spaventa perchè «in Roma si cominciarono ad
onorare troppo le ricchezze, e poi la gloria e poi la potenza: e
allora cominciò a mancare ed a impigrire la virtù e si disprezzò come
vergognosa la povertà e l’innocenza. E così la gioventù romana cadde
per le ricchezze nel lusso e nell’avarizia; cominciò ad arraffare e
consumare e disprezzare le proprie cose e desiderare quelle altrui».
Ma lo storico teme, perchè tutti quei vizi enumerati sono dannosi
alla repubblica, perchè con l’ambizione e l’arrivismo i migliori
rimangono soffocati, con lo spreco si consuma il capitale romano, con
le ricchezze è importato l’ozio, con la lussuria la debolezza, con la
cupidigia lo sconvolgimento tumultuoso dell’ordine e della pace.

Con questa opposta concezione della vita e della storia, gli stessi
avvenimenti assumono un aspetto diverso e le stesse opere sembrano
eroiche e scellerate, buone e cattive, ispirate da Dio e dal demonio.
Ecco, ad esempio, come S. Agostino giudica il ratto delle Sabine.

«Per questa naturale tendenza alla giustizia e alla bontà, credo, si
rapirono le Sabine. Non è forse segno della massima giustizia e bontà
insidiare con la frode a teatro le figlie degli altri, per prenderle,
non col consenso dei genitori ma con la forza, e come a ciascuno
capita? Poichè se i Sabini fecero male a rifiutare le figlie domandate,
quanto peggio non fecero i Romani a rapirle? Sarebbe stato più giusto
portare la guerra a quel popolo quando rifiutò di dare le sue figlie in
matrimonio ai suoi vicini, piuttosto che quando venne a riconquistare
le donne rapite»[30]. «E vinsero i Romani per potere estorcere funesti
abbracci dalle figlie, con le mani ancora sanguinose della strage dei
padri. E le figlie non osarono piangere i padri uccisi, per timore di
offendere i mariti; e mentre quelli combattevano esse non sapevano per
chi invocare vittoria»[31].

Livio invece descrive in questo modo il Ratto delle Sabine.

«La Repubblica Romana era già così forte che poteva essere uguale in
guerra a qualunque delle città vicine; ma per la mancanza di donne,
quella grandezza avrebbe solo durato l’età d’un uomo, non essendoci
speranza di prole futura in patria, nè di matrimoni coi vicini»[32].
Perchè Roma potesse seguire la via gloriosa tracciata negli astri,
Romolo risolse, dopo il rifiuto, di violare per una volta la legge,
obbedendo quasi, come Loth, a un comando divino. E spiegò poi «che ciò
si era fatto per la superbia dei padri, che avevano negato i connubi
ai loro vicini; ma che quelle tuttavia sarebbero legittime spose nel
matrimonio e nella comunità di tutte le fortune di Roma e dei figli,
dei quali non vi è per gli uomini cosa più cara. Perciò calmassero
l’ira e concedessero gli animi a coloro ai quali la fortuna aveva dato
i corpi»[33].

E dopo aver vinto i Ceninensi, i Crustumini e gli Antennati che
volevano vendicare l’ingiuria, Romolo portò sopra una barella
le spoglie del duce nemico, le appese ad una quercia sacra sul
Campidoglio, e consacrò un tempio a Giove Feretrio con queste parole:

«O Giove Feretrio, io, Romolo, re vincitore, ti offro queste armi
reali, e ti consacro il tempio che ora ho fondato in questa terra,
perchè nel tempio siano deposte le prime spoglie che i posteri,
seguendo i miei esempi, toglieranno ai re uccisi in battaglia»[34].

Per S. Agostino il ratto delle Sabine non è che una violazione della
morale. Per Livio è il momento sacro e solenne da cui comincia la
storia di Roma, è l’esecuzione di un ordine venuto dagli dèi, è
l’adempimento di una delle tante imprese predestinate, che dovevano
riuscire felicemente, perchè Roma diventasse la dominatrice del mondo.

E questi due contrari punti di vista si ritrovano quando S. Agostino
parla del combattimento fra Orazi e Curiazi, e dice di Virginia
«humanior huius unius feminae, quam universi popoli Romani, mihi fuisse
videtur affectus»[35]. Egli non si lascia esaltare dagli argomenti
inebrianti degli scrittori latini.

«A che mi si obbiettano qui il nome della gloria, il nome della
vittoria? Messi da parte gli intralci di una folle opinione, guardiamo,
pesiamo, giudichiamo a nudo i delitti. E che si dica il conflitto di
Alba come si dice l’adulterio di Troia. Non si troverà mai niente di
uguale, niente di peggio. Tullo vuol solamente «levare in armi gli
uomini impigriti, e le schiere ormai disavvezze ai trionfi». Per questo
vizio, è stato dunque perpetrato il delitto di una guerra fra alleati e
parenti!»[36].




V.

S. AGOSTINO, I GRANDI UOMINI E LA STORIA DI ROMA.


I Cristiani non potevano neppure ammettere che i grandi uomini romani
discendessero da antenati di origine divina, mentre l’inventare ed il
magnificare questa origine ultra umana appariva come uno dei compiti
fondamentali della storiografia, sin dai primi anni, quando i rozzi
cronachisti cercavano di dimostrare, con le loro prose scabrose, che il
popolo romano era il più grande dei popoli.

Ricordate il proemio di Livio?

«Si concede come licenza, all’antichità, che mescolando le cose umane
con le divine, faccia i principî della città più sacri e venerabili.
E quando si conceda ad alcun popolo il diritto di consacrare le
sue origini e di attribuirle agli Dei, tanta è la gloria del popolo
Romano nel fare la guerra, che se egli proclama specialmente Marte suo
genitore ed edificatore, le genti umane devono sopportare anche questo,
così serenamente come sopportano l’imperio di Roma.»

Ma S. Agostino non sopporta «aequo animo» questa ambizione e si
scandalizza quando Varrone «pretende essere utile agli stati, che i
grandi uomini, anche se è falso, si credano discendenti degli Dei,
perchè in questo modo l’animo umano «_velut divinae stirpis fiduciam
gerens_» con più coraggio imprende grandi fatti, opera con più
veemenza, e appunto per quella sua creduta sicurezza riesce con maggior
fortuna».

Ma c’è di più. Siccome molti, nello sconvolgimento del quarto e del
quinto secolo, facevano specialmente responsabili i principî cristiani
della disgregazione generale[37], Sant’Agostino, per dimostrare che
in verità si era sempre stati malissimo, non esita a fare un quadro
terrificante della storia di Roma, in cui si passa da un omicidio a una
strage, a una rivoluzione, a una carestia, ad una guerra disastrosa,
ad un incendio funesto. Quelli che negli storici antichi sono i grandi
secoli di Roma diventano un’età maledetta, donde il cristiano torce lo
sguardo inorridito.

Non si capisce più come i Romani siano riusciti ad attraversare quelle
età così calamitose, senza essere tutti distrutti. Lo Stato, oggetto
per i Romani e per i grandi storiografi di una venerazione religiosa,
diventa per S. Agostino uno scandalo che fa rabbrividire i secoli.

«Ma i cultori e gli adoratori di quei numi, dei quali amano imitare i
delitti e i vizi, non cercano affatto di rendere la repubblica meno
sozza e vergognosa. Basta che viva, dicono, basta che fiorisca per
la forza dell’armi, e per la gloria delle vittorie, oppure — e questo
è ancora meglio — che sia sicura per la pace. Che cosa c’importa del
resto? O piuttosto c’importa sopratutto che ciascuno aumenti sempre
le sue ricchezze, perchè nutrano le quotidiane larghezze, con cui i
potenti si assoggettano i più deboli; che i poveri adulino i ricchi,
per poter mangiare, e che i ricchi, perchè i poveri godano sotto il
loro patrocinio di un ozio tranquillo, abusino dei poveri, facendoli
clienti e ministri del loro lusso; che i popoli applaudiscano, non
a coloro che provvedono al loro vero bene, ma ai dispensatori di
voluttà; che non sia comandato niente di duro, e non sia proibito
niente di impuro; che le leggi impediscano piuttosto di danneggiare
le vigne di un altro che di rovinare la propria vita; che uno sia
condotto dinanzi ai giudici solo se ha attentato alle sostanze, alla
casa, o alla esistenza di un uomo; ma che per il resto ciascuno faccia
quello che voglia, dei suoi, o con chiunque si presti; che abbondino
le prostitute, per tutti quelli che vorranno goderne, ma specialmente
per quelli che non ne possono avere di private; che si costruiscano
grandiosi e ornatissimi palazzi, che i conviti seguano i conviti; e
come ciascuno può e vuole, di giorno e di notte si giochi, si beva,
si vomiti e si fornichi; che risuonino d’ogni parte le musiche delle
danze; ed echeggino per i teatri i clamori di una gioia disonesta
e si esalti il pubblico a ogni genere di crudelissime o turpissime
voluttà... Chi, domando, se non pazzo, può chiamare questo stato
l’impero romano e non la casa di Sardanapalo?»[38].

Questa critica demolisce ad uno ad uno, con una dialettica implacabile,
tutti i miti e i racconti leggendarî, adoprati dagli storici per
esaltare nei romani l’ammirazione delle virtù civiche. Un esempio
curioso è quello di Lucrezia, la quale, per essersi uccisa dopo il
forzato adulterio, volendo provare a tutti che non vi aveva partecipato
segretamente, simboleggia, agli occhi dei romani, la donna esemplare,
per la quale l’onore vale più della vita. S. Agostino invece non
riconosce il sacrificio di Lucrezia e ragiona a lungo, per dimostrare
che Lucrezia ha avuto torto in ogni maniera. Egli dice: se Lucrezia è
stata sempre pura di intenzioni ed ha veramente subita la violenza di
Sestio, perchè allora la celebre Lucrezia ha ucciso questa casta ed
innocente Lucrezia, e l’ha castigata ingiustamente della cattiveria
altrui? E come mai Sestio, che ha subito soltanto l’esilio, è stato
punito meno della sua vittima? Dove è allora la giustizia, se la
castità è punita più che il vizio? Ma se Lucrezia ha invece partecipato
segretamente all’adulterio e si è voluta punire della sua colpa, perchè
gli storici romani la glorificano come la più virtuosa delle donne?
Di qui non si scappa: se non è un’omicida, è un’adultera; se non è
un’adultera, è un’omicida; nè si può sciogliere questo dilemma: se è
un’adultera perchè lodarla? Se è casta perchè quella morte?[39]. Ora
S. Agostino trova la probabile ragione del suicidio di Lucrezia, ma
la biasima, invece di ammirarla come gli antichi. «Ha avuto vergogna
della violenza altrui commessa su di lei, anche se contro la sua
volontà; e romana troppo avida di gloria, ha temuto che continuando
ella a vivere si sospettasse la sua complicità nella violenza che essa
aveva in vita subita. Ella volle infliggersi la morte, per testimoniare
delle sue buone intenzioni agli occhi degli uomini, che non potevano
leggere nella sua coscienza... Non fecero così le donne cristiane,
le quali vivono, pure avendo sofferto simile violenza. Ma non hanno
vendicato su di loro i delitti altrui, e non hanno aggiunto l’omicidio
all’adulterio, e non si sono uccise, arrossendo di sè stesse, perchè i
nemici, desiderandole, le hanno stuprate. Ma per le donne cristiane la
gloria della castità è la testimonianza della loro coscienza dinnanzi a
sè e dinnanzi a Dio; e non domandano di più. Infatti anche se agiscono
rettamente non ottengono di più perchè non possono allontanarsi dalla
autorità della legge divina, malamente evitando l’offesa dell’umano
sospetto»[40].

Ma S. Agostino appare più radicalmente sovvertitore, quando dà col
piccone proprio sulla pietra angolare di tutta la creazione pagana
della storia: la ragione della grandezza di Roma. Perchè Roma aveva
potuto fondare quel vastissimo e fortissimo impero? Rispondeva la
coscienza pagana: perchè così avevano voluto gli Dei, che avevano
protetto i Romani, in considerazione delle loro virtù religiose e
civiche. La storia di Livio è così viva, perchè è tutta animata da
questa persuasione. Ma S. Agostino entra nell’Olimpo, dove avrebbero
dovuto risiedere gli autori soprannaturali della grandezza di Roma, e
ne fa una strage. Egli incomincia a domandare: quali sono gli Dei che
hanno prodotto la grandezza di Roma?

Certo, risponde, i Romani non oseranno attribuire anche la più piccola
particella di un’opera così gloriosa e così grande «alla Dea Cloacina
o alla Dea Volupia, che così è chiamata dalla voluttà, o a Lubentina
dalla libidine, o a Vaticano, che presiede ai vagiti dei bambini; o a
Cunina che veglia sulle loro cune»[41].

E qui si domanda perchè i Romani abbiano inventato un tale numero di
Dei, ciascuno con le sue funzioni particolari e con la proibizione di
invadere il campo degli altri. «Non è bastato — egli osserva — affidare
a un solo Dio la cura delle campagne, ma si son dati la pianura ed
i campi alla Dea Rusina, i gioghi dei monti al Dio Jugatino, i colli
alla Dea Collatina e le valli a Vallonia. E non hanno neanche trovato
una Dea abbastanza vigilante per poter affidare a lei sola le difese
delle messi. Ma alla semenza del grano, quando è ancora sotto terra,
hanno preposto la Dea Seja, ed al grano quando spiga la Dea Segezia, ed
al grano raccolto e riparato, perchè lo difendesse, la Dea Tutilina.
Perchè non parve loro che Segezia bastasse, dagli erbosi inizi alle
aride reste?»[42].

Nota poi come la stessa pianta di grano è affidata alle cure di
Proserpina, del Dio Nodato, della Dea Volutina, delle Dee Patelana,
Ostilina, Flora, del Dio Lacturno, della Dea Matuta e della Dea
Runcina, quando, finalmente, è tagliata. Ora, dice S. Agostino, a chi
si deve attribuire la grandezza dell’impero romano, se Roma è stata
difesa e sostenuta da una quantità di piccoli Dei talmente attaccati a
un ufficio particolare, che sarebbe stato molto imprudente affidar loro
un compito di ordine generale?

Allora — egli nota, passando agli Dei maggiori — supponiamo che il
merito dell’impero risalga a Giove. «Jovis omnia plena» dicono i
latini; ma come mai allora è assegnata l’aria inferiore a Giunone
e l’etere a Giove? Tutto non è dunque pieno di Giove? Oppure essi
riempiono l’aria e l’etere, e stanno insieme in ciascuno dei due
elementi? Ma allora perchè dare l’aria a Giunone e l’etere a Giove?
E dopo aver dimostrato negli altri grandi Dei tutti i garbugli, che
nascono da queste prime definizioni contradittorie, egli si chiede:
«Ma se invece, come dicono i filosofi, non ci fosse che un Dio solo, il
quale si impersona nei diversi Dei secondo le necessità ed i momenti?
O allora non sarebbe stato più semplice e prudente adorare un solo Dio?
Che parte di lui si disprezzerebbe, venerando Giove stesso?»

E se si teme che si possano adirare quelle parti del Dio che non sono
venerate, o sono dimenticate, non è più vero che egli sia l’anima del
mondo, lo spirito di tutti gli Dei, la vita universale, ma ogni parte
di lui ha la sua vita propria, indipendente dalle altre; perchè se no
sarebbe assurdo che una parte del Dio fosse offesa, quando, adorando il
Dio che le comprende tutte, ogni parte è anche adorata.

Perchè invece, venerando e deificando, per esempio, alcune delle
stelle, non si teme che tutte le infinite stelle non adorate si
vendichino di questa oltraggiosa dimenticanza? In tutto l’universo gli
Dei non venerati ed offesi sono innumerabili, e quindi più numerosi
degli Dei venerati.

«E prima di tutto mi domando, continua S. Agostino, perchè anche
l’Impero non è posto tra gli Dei? E perchè no, se la vittoria è una
Dea? E che bisogno c’è più di Giove, se la Vittoria favorisce e vola
sempre a quelli che vuole far vincere? Con questa Dea propizia, anche
se Giove sta con le mani in mano, o ha da fare altrove, quanti popoli
non si possono conquistare?»[43].

E così, sempre impostando la vita e la morale romana su quella degli
Dei, egli prova che tutti gli Dei sono dei burattini, o dei mascalzoni,
o dei pazzi, o degli imbecilli. Ma ciò che più urta la sua coscienza di
cristiano è l’impassibilità con cui gli Dei contemplano la corruzione
dei romani, senza cercare di migliorarli.

«Perchè la repubblica non perisse, i suoi Dei custodi avrebbero dovuto
dare dei precetti, specialmente sulla vita e sui costumi, a quel popolo
che li venerava, e da cui erano venerati con tanti templi, sacerdoti,
sacrifici, con tante diverse funzioni sacre, con tante solennità
festive e celebrazioni di giorni. Mentre invece i demoni pensavano
solo al loro interesse, non curando come i Romani vivessero, cercando
anzi che vivessero malamente, purchè, sottomessi dal timore, li
onorassero[44].

«E dove era tuttavia quella turba di numi, quando, molto prima che gli
antichi costumi si corrompessero, Roma fu presa e bruciata dai Galli?
Forse i numi presenti dormivano? Allora tutta l’Urbe fu occupata dal
nemico, e rimaneva solo il colle capitolino; ed anche quello sarebbe
stato preso, se le oche, mentre gli Dei dormivano, non avessero
vigilato...»[45].

Ma gli Dei, oltre ad essere dormiglioni e vili sono anche cattivi,
perchè cercano di aizzare invece che di raffrenare le passioni degli
uomini. «Quei numi che hanno aiutato Mario, uomo nuovo e non nobile,
responsabile delle più sanguinose guerre civili, a diventare console
sette volte e a morire vecchio, durante il settimo consolato, in modo
che non cadesse nelle mani di Silla, futuro vincitore, perchè non lo
hanno aiutato a non commettere tanta mole di delitti?»[46].

«E quando Silla, i cui tempi furono così crudeli che si rimpiangevano
quelli di cui volle essere il vendicatore, mosse il campo verso
l’urbe contro Mario, le viscere delle vittime furono tanto favorevoli,
secondo Livio, che Postumio aruspice si dichiarò pronto a subire la
pena capitale, se Silla coll’aiuto degli Dei non avesse compiuto tutto
quanto aveva in animo. Dunque gli Dei non avevano abbandonati i templi
e le are, poichè predicevano gli eventi delle cose, senza darsi la pena
di render Silla migliore!»[47].

«Ma se mi rispondono che gli Dei non li aiutarono, faccio notare esser
molto grave che essi confessino poter gli uomini godere, anche senza
gli Dei favorevoli, di quella felicità temporale preferita fra tutte;
e che gli uomini possano anche, come Mario, fruire della salute, della
forza, della potenza, degli onori, della dignità e della longevità
tutte insieme, contro il volere degli Dei; e che possano, come Regolo,
morire poveri e schiavi, tormentati dalle veglie e dalle torture con
la protezione degli Dei. E se i Romani ammettono questo, sono anche
costretti a confessare che gli Dei non servono a niente e che è inutile
venerarli»[48].

Così, a poco a poco, dopo avere numerato tutti i vizi e le ridicolezze
dei numi, come un buon avvocato che vuole screditare i testimoni
della parte avversa, S. Agostino conclude affermando che gli Dei
sono inutili, e che non hanno partecipato all’ingrandimento e alla
fondazione dell’Impero. La discussione è chiusa con un dilemma
insolvibile, a proposito della grandezza e della decadenza degli
imperi.

«Insomma, o gli Dei sono infedeli, abbandonano i loro amici e passano
al nemico — ciò che non fece Camillo, il quale era solo un uomo,
quando, essendo stato pagato da Roma con ingratitudine per avere
espugnate le città ostili più pericolose, memore della patria,
dimenticò l’ingiuria e salvò Roma una seconda volta. O questi Dei
non sono così potenti come dovrebbero essere, poichè possono esser
vinti dall’ingegno o dalla forza degli uomini. O gli Dei non sono
vinti dagli uomini, ma battagliando fra loro sono vinti da altri Dei,
che proteggono altre città: hanno dunque anche loro delle inimicizie
reciproche, o le sollevano ciascuno per il proprio partito»[49].




VI.

LA FORTUNA DI ROMA E CRISTO.


Ma allora da che cosa è nata, se non è nata dalla protezione degli Dei,
la grandezza romana? Dal caso, dalla fatalità, o dal destino? No[50].
Siamo così arrivati, con tutte le preparazioni necessarie, sulle soglie
della conclusione cristiana. S. Agostino ci rivela subito il fine di
quel tormentoso sillogizzare:

«Vediamo ora per quali virtù dei Romani, e per quale scopo si degnò di
aiutare l’impero ad ingrandirsi il vero Dio, nella cui potestà sono
anche i regni della terra. Appunto per potere discutere _absolutius_
della questione, abbiamo dimostrato nel libro precedente come, per
questo ingrandimento, non abbiano contato nulla quegli Dei venerati con
cerimonie così ridicole, e, al principio di questo libro, come fosse
da eliminarsi la versione del fato, perchè qualcuno, stufo del culto
degli Dei, non attribuisse la grandezza e la difesa dell’Impero romano
a non so quale fato piuttosto che alle potentissime volontà del Sommo
Dio.»[51].

L’Impero romano è stato fondato ed ingrandito da Dio, perchè unificando
il mondo sotto uguali leggi ed in un’unica lingua, preparasse la venuta
di Cristo e rendesse possibile l’espansione della nuova religione.
«La città di Roma fu fondata come un’altra Babilonia e come la figlia
della prima, per mezzo della quale piacque a Dio domare l’universo e
pacificarlo in lungo ed in largo con la comunanza del governo e delle
leggi. Poichè c’erano allora dei popoli forti ed agguerriti che non
cedevano facilmente e che non si potevano vincere se non con gravi
pericoli, grandi devastazioni reciproche e orribile travaglio»[52].

Questa è la dottrina cristiana dell’impero e della sua storia. Senonchè
è facile intendere che questa dottrina spogliava Roma di tutta la
gloria, di cui l’antica storiografia l’aveva illuminata. Roma non ha
virtù, ma vizi, non enumera glorie, ma orrori: ha vinto nonostante
questi orrori e questi vizi, per volere di Dio, per combattere vizi ed
orrori più grandi. Essa è insomma il minor male dei tempi che furono
prima della redenzione; e il cristianesimo le deve, non ammirazione,
ma intelligente compatimento. Così S. Agostino considerò quelle virtù
civiche, per glorificar le quali Livio aveva scritto il suo immenso
poema, come vizi: primo di tutti l’amor della gloria, il pilone
centrale della grandezza romana. «E questo impero potentissimo, col
quale voleva castigare i gravi peccati di molti popoli, Dio lo affidò
a questi uomini, i quali, per amore di onori e di lode, misero nella
gloria della patria la propria gloria e non esitarono ad anteporre
la salvezza della patria alla loro salvezza, vincendo il desiderio di
denaro e molti altri vizi con un solo vizio: l’amor della gloria»[53].
«Poichè chi è saggio capisce subito che l’amor della gloria è un
vizio». Vizio tanto maggiore perchè i Romani «non solo non gli
resistevano, ma cercavano anzi di eccitarlo, pensando che sarebbe
stato utile alla repubblica»[54]. Infatti «senza dubbio è meglio
resistere a questa passione che cedere»[55]. Invece «quella gloria, per
amore della quale ardevano, non è altro che la buona opinione degli
uomini sopra un uomo. È dunque migliore la virtù che non si contenta
della testimonianza degli uomini, ma esige quella della coscienza.
Dice infatti l’apostolo: «Nam gloria nostra haec est, testimonium
conscientiae nostrae»[56].

Perciò il sentimento vero che S. Agostino prova per i Romani delle
grandi epoche, tanto ammirate da Sallustio, da Livio e da Tacito,
è una specie di compassione, come per i disgraziati condannati a
compiere un’opera necessaria ma orrenda, quasi si direbbe per i
carnefici della storia. «Essi amarono la gloria ardentissimamente, per
la gloria vollero vivere, e per la gloria non esitarono a morire...
Stimando vergognoso che la propria patria fosse schiava, e glorioso che
dominasse e comandasse, con ogni sforzo vollero prima farla libera e
poi sovrana». «E così era fra le aspirazioni degli uomini illustri per
coraggio, che Bellona, agitando la sua frusta sanguinante, eccitasse
i miseri popoli alla guerra, perchè vi potesse risplendere il loro
valore... E prima per il desiderio di libertà, poi per quello di
dominio e di gloria compirono grandi imprese»[57].

Nè è più benigno per l’altra passione figlia dell’amore della gloria:
l’ambizione di dominare, regina delle virtù romane, quella che creò
e difese l’impero. S. Agostino, infatti, condanna questa qualità
del popolo romano, accusandolo di essere dominato dalla libidine di
dominare, («ipsa ei dominandi libido dominatur»). E non cessa mai in
tutta l’opera, ogni volta che l’occasione gli si offre, di scapitozzare
questa colonna della civiltà romana, sentendo bene che l’ambizione,
essendo fra tutte le virtù antiche, la più civile e la meno personale,
contradiceva più aspramente che ogni altra tutta la morale cristiana.

«Chi potrebbe dire, egli scrive, quante calamità ha suscitato pel
genere umano questa passione di dominio? Vinta da questa passione, Roma
godeva di aver soggiogata Alba, ed accettava sotto il nome di gloria
la lode del suo misfatto. Perchè, è detto nella Sacra Scrittura, il
peccatore è lodato per i suoi cattivi desideri, ed è benedetto chi
commette l’iniquità. Ma togliamo quel belletto fallace, e questi falsi
colori, per esaminare sinceramente le cose come stanno. Non mi vengano
a dire: il tale è grande perchè ha combattuto con questo e quest’altro
ed ha vinto. Combatte il gladiatore, e la sua crudeltà ha un salario
di lode. Ma per me è meglio essere disprezzato come un vigliacco, che
acquistar la gloria di simile coraggio»[58].

Roma, certo, non avrebbe avuto bisogno di guerreggiare così lungamente,
se tutti gli uomini fossero stati d’accordo con S. Agostino, quando
osservava, che per il mondo era meglio assoggettarsi senza guerre
all’impero Romano: «tanto, dice, per la nostra vita mortale,
così breve, che importa all’uomo morituro vivere sotto questo o
quell’impero, se non è obbligato da quelli che comandano ad azioni
empie od inique?»[59]. Ma ha quasi l’aria di dire che i romani hanno
rifiutato questo semplice e profittevole mezzo di conquista — la buona
volontà dei conquistati — «perchè sarebbe mancato loro la gloria del
trionfo!».

È facile intendere come con questa dottrina della vita, tutta la
storiografia antica, anche quella di Sallustio e di Livio, non avesse
più nessun senso o interesse. Che importavano tutte quelle guerre,
quelle vittorie, quelle lotte civili, se Dio non c’entrava per nulla,
poichè badava solo al risultato, e cioè all’unità dell’impero, come
quella che doveva essere la gigantesca culla del redentore? A che
serviva ormai la dottrina della corruzione, se le virtù civiche,
che Sallustio e Livio opponevano alla corruzione, erano anche esse
corruzione e male? E neppure la storia di Tacito, con quella sua
sollecitudine della morale personale, poteva attrarre il pensiero
cristiano. Dinnanzi a S. Agostino, il quale trova giusto che i buoni
ed i cattivi godano e soffrano ugualmente, perchè secondo la dottrina
cristiana saranno puniti e premiati con equità nella vita oltre
mondana, come grossolana doveva sembrare la giustizia di Tacito, il
quale aveva scritto per punire col suo stilo di storico i cattivi
ingiustamente felici sulla terra, senza neppure sospettare, che secondo
la dottrina cristiana i buoni e i cattivi reagiscono diversamente alle
disgrazie e alle fortune. Infatti come «sotto lo stesso fuoco l’oro
scintilla e la paglia fumiga... e l’olio e la morchia non si mescolano,
quando sono espulse dallo stesso peso del frantoio, così una uguale
disgrazia, se piomba sui buoni li prova, li purifica e li fa splendere,
sui cattivi li tormenta, li rovina e li stermina!»[60].

Tutti i sentimenti, tutte le istituzioni, tutte le credenze romane sono
a poco a poco trasformate ed alterate. La saggezza diventa follia, il
bene diventa il male, quello che era citato ad esempio è ricordato come
un obbrobrio oltrepassato per la felicità degli uomini.

Così la morte, che era stata stimata il peggiore dei mali, fuori che
quando era affrontata per la difesa della patria, diventa una mèta, il
momento desiderabile per l’acquisto della beatitudine perfetta[61].
Viceversa il suicidio, considerato sempre un atto di coraggio, si
giudica ora una viltà ed una follia[62], oltrechè un peccato mortale.
La sepoltura, cerimonia consacrata religiosamente, come la più
importante e la più sacra di tutte le funzioni, perchè era legata alla
vita ultramondana del morto, ora non è più che una dimostrazione di
amore, rispetto al defunto, ed un dovere igienico rispetto ai rimasti.
L’Anima, tanto, è superiore ed indifferente al destino del suo corpo e
al lusso della sua tomba[63].

La storiografia antica è stata vittima di questo immenso rivolgimento
dello spirito del mondo. A poco a poco, a mano a mano che i secoli
passavano, l’indifferenza, l’incomprensione e l’ignoranza stesero
un immenso mantellone di feltro sul passato e la storia ritornò allo
stadio primitivo di molti secoli innanzi. A Carlo Magno, che si faceva
leggere e rileggere il _De Civitate Dei_, le opere di Sallustio, di
Tito Livio e di Tacito non potevano insegnare più nulla, dovevano anzi
riuscire quasi incomprensibili. Importava tutt’al più il ricordo dei
nudi fatti della storia di Roma, come l’aveva conservato nei primi
secoli la annalistica. Le grandi opere di storia sono distrutte; anche
dei grandissimi — di Sallustio, di Livio, di Tacito — solo pochi
brandelli si salvano; si moltiplicano invece le piccole epitomi. E
così quella grande luce intellettuale dell’antichità si ridusse a
una piccola fiammella morente, finchè un rivolgimento del pensiero
umano non la fece divampare di nuovo. È quella che si può chiamare la
risurrezione della storiografia antica.




LA RINASCITA




I.

LA STORIA E L’ANTICHITÀ NELLA MENTE DEL MACHIAVELLI.


Niccolò Machiavelli, dopo il ritorno dei Medici a Firenze, nel 1513,
si era ritirato in villa senza impiego politico, e si consolava della
sua triste vita, partita fra l’osteria e i lavori dei campi, studiando
Tito Livio. Ma ogni tanto faceva una scappata a Firenze, dove trovava
un cenacolo di fedeli ammiratori del Savonarola, amici suoi sin dal
tempo della repubblica, che si radunavano negli Orti Oricellari, e con
essi leggeva commovendosi a quella rievocazione di glorie repubblicane,
le storie di Tito Livio. In questo gruppo il Machiavelli cominciò a
commentare in modo nuovo le decadi ed entrò «in quella via» che non era
«stata per ancora da alcuno pesta».

Perchè, si domanda il Machiavelli, gli uomini ricorrono agli antichi
per tutte le arti e per tutte le scienze, e non li studiano quando
si tratta di politica? Perchè non si ristudiano con intelligenza le
storie? In verità, essi non sanno «trarne, leggendole, quel senso, nè
gustare di loro quel sapore che le hanno in sè»[64].

Siccome gli uomini «nacquero, vissero e morirono sempre con un
medesimo ordine»[65] «gli è facil cosa a chi esamina con diligenza
le cose passate, prevedere in ogni repubblica le future, e farvi quei
rimedi che dagli antichi sono stati usati»[66]. Perciò «ho giudicato
necessario scrivere sopra tutti quelli libri di Tito Livio, che dalla
malignità dei tempi non ci sono stati interrotti, quello che io,
secondo le antiche e moderne cose, giudicherò essere necessario per
maggiore intelligenza di essi»[67].

L’antichità in generale, ed in essa sopratutto Tito Livio, sono adunque
assunti a maestri della politica contemporanea, mentre la politica
contemporanea è adoperata per illuminare nei suoi punti oscuri la
storia dell’antichità. Il metodo era doppio ed era nuovo; e diede
risultati singolari, che dobbiamo studiare, perchè con il Machiavelli
la storia antica rinasce dal suo sepolcro e ridiventa una viva forza
spirituale della civiltà moderna.

Gli amici degli Orti Oricellari che primi lo conobbero, sembrano aver
più ammirato che non capito questo metodo, poichè i commenti liviani
del Machiavelli esaltavano in loro soltanto il fervore repubblicano,
e, come se fossero stati scritti e detti solo per insegnar l’arte
di fondare, ordinare e reggere una repubblica nei tempi moderni,
riempivano quegli spiriti ardimentosi, ma angusti, di invidia e
nostalgia per la fortunata sorella di Roma; li accendevano forse
anche incitandoli a restaurare uno stato repubblicano nella Firenze
medicea (così forse due uditori degli Oricellari, Zanobi Buondelmonti
e Cosimo Rucellai, gettandosi in una disgraziata congiura contro i
Medici, pensarono di avere tradotto in pratica gli insegnamenti di
Niccolò Machiavelli). Ma a torto, perchè il metodo del maestro non
era monopolio della politica repubblicana. L’antichità era vasta,
gli storici numerosi, le Deche stesse oceaniche e multiformi. Nel
mondo classico era lecito studiare con uguale profitto le istituzioni
tiranniche e le istituzioni monarchiche. E il Machiavelli voleva
studiare repubbliche e monarchie, tanto che ritornando da Firenze,
dove aveva commentato Livio negli Orti Oricellari, alla sua campagna,
a quell’Albergaccio di cui parla nelle sue lettere, scriveva il
_Principe_, ossia un trattato sull’arte di fondare e reggere una
monarchia, attingendo anche per questo agli esempi dell’antichità.
«Deve il Principe leggere le istorie ed in quelle considerare le
azioni degli uomini eccellenti, vedere come si sono governati nelle
guerre»[68].

Non tutti gli storici e non sempre i posteri hanno capito la vera
natura di questo eclettismo politico del Machiavelli. Si ripete spesso
che nei _Discorsi_ il Machiavelli condensò la sua dottrina sul governo
delle republiche, e nel _Principe_ quella sul governo dei principati
tirannici, esaltandoli ambedue come i regimi ideali. E poichè le
due opere furono scritte press’a poco nel tempo stesso, questa
contemporaneità gli è stata imputata come atto di mala fede, quasi che
scrivendo il _Principe_, egli avesse rinnegato o tradito i _Discorsi_,
e viceversa. Ma, innanzi tutto, l’opposizione delle due opere è
arbitraria, perchè non è lecito assegnare la teoria della repubblica ai
_Discorsi_ e quella della tirannia al _Principe_, con quel taglio netto
che è d’uso: tra _Il Principe_ e i _Discorsi_ c’è tanta continuità
e coerenza di pensiero, che son quasi un’opera sola. E tu non senti
nessun distacco passando dal primo al secondo.

Fin dalle prime pagine dei _Discorsi_, il Machiavelli dichiara che
Repubblica o Tirannia fa lo stesso. Imbevuti delle dottrine politiche
del secolo XIX, noi non possiamo più capire questa indifferenza a
scegliere due forme di governo, di cui l’una, secondo noi, deve essere
il male, se l’altra è il bene. Ma il Machiavelli, vivendo quattro
secoli fa, pensava che tutti gli ordinamenti statali hanno dei difetti
e delle qualità. Nella sua teoria della trasformazione dei governi[69],
che anticipa quella di Vico, non si fa illusione sulla bontà di nessun
ordinamento. Crede però che certe situazioni richiedono questo o quel
governo, come più conveniente e adattabile. Esamina così le condizioni
degli Stati e i momenti storici in cui possono fondarsi e reggersi
delle repubbliche o delle tirannie, e avverte «che colui che vuol
fare dove sono assai gentiluomini una repubblica, non la può fare se
prima non gli spegne tutti»[70]. E se vuol fare un Principato «dove è
assai egualità» trova altri ostacoli invincibili. Cosicchè conclude:
«costituisca, adunque una repubblica, colui dove è o s’è fatta una
grande equalità; altrimenti farà una cosa senza proporzione e poco
durabile»[71]. Poco dopo scrive un lungo capitolo sulle congiure
«acciocchè i principi imparino a guardarsi da questi pericoli, e che i
privati più timidamente vi si mettino, anzi imparino ad essere contenti
a vivere sotto quell’impero che dalla sorte è stato loro preposto»[72].
E cita questa sentenza di Tacito: «gli uomini debbono desiderare i
buoni principi e comunque siano fatti tollerarli».

Chi direbbe che questi pensieri sono stralciati dai _Discorsi_ sulla
prima Deca, le cui primizie furono riservate agli ultimi discepoli di
Savonarola, e che passa per un libro repubblicano? E come attribuire
a un teorico della repubblica quella poca stima delle masse che il
Machiavelli esprimeva a Francesco Guicciardini scrivendogli «voi sapete
e sallo ciascuno che sa ragionare di questo mondo, che i popoli sono
vari e sciocchi»?[73]. O quella dottrina svolta pure nei _Discorsi_,
per cui, se si vuol ricorreggere una repubblica, che non regga
più per la corruzione morale e politica, «è necessario venire allo
istraordinario, come è alla violenza ed all’armi, e diventare innanzi
ad ogni cosa, principe di quella città, e poterne disporre a suo
modo»[74].

Il Principato è dunque necessario e quindi legittimo quanto la
repubblica. Non c’è nel Machiavelli parzialità per l’uno o per l’altra,
o contemporanea glorificazione di tutti e due. Benchè la divisione non
sia netta, nei _Discorsi_ si può trovare la teoria della repubblica,
perchè il protagonista è il popolo, nel _Principe_ la teoria del
principato, perchè si parla specialmente dei principi. Infatti
incomincia dicendo: «Io lascerò dietro il ragionare delle repubbliche,
perchè altra volta ne ragionai a lungo»[75], alludendo senza dubbio
ai _Discorsi_. Ma questa è la divisione teorica di due diversi
ordinamenti, non il cozzo di due dottrine contrarie.




II.

LA RAZIONALIZZAZIONE DELLA POLITICA.


Ammesso che tutte le forme di governo _possano essere_ legittime, il
Machiavelli non poteva non affrontare la questione: come si debbano
nella realtà distinguere i governi legittimi dagli illegittimi. Lo
studio degli antichi, massime quello di Tito Livio, lo conduce a
stabilire la nozione di una legittimità di fatto. Il governo legittimo
è quello buono, il quale sa compiere bene l’ufficio suo: «tanto è
difficile e pericoloso, egli scrive senza reticenze, voler far libero
un popolo che voglia viver servo, quanto è far servo un popolo che
voglia viver libero». «Gli uomini nell’operare debbono considerare le
qualità dei tempi e procedere secondo quelli». Il governo migliore è
quello che indovina con più fortuna quali sono i mezzi necessari per
mantenere l’ordine, aumentare la potenza e la prosperità. E chi ci
riesce ha il plauso, qualunque esso sia, nuovo o antico, monarchico
o democratico, aristocratico o religioso, militare o plutocratico.
Senonchè, si potrebbe da questo argomentare che il Machiavelli
disprezza come superflua la legittimità formale e legale dei governi,
per non ammettere che la legittimità del merito; ma si è invece un po’
sorpresi, in principio, trovando vicino a delle teorie così ardite,
una preoccupazione incessante anche della legittimazione formale[76].
Egli sa che un vecchio governo, i cui titoli non siano discussi, è
più solido di un governo fondato dalla forza, anche se ha meno denari
e meno soldati. Egli sa che «nel principato nuovo consistono le
difficoltà»[77] e osserva che «il Principe naturale ha minori cagioni
e minori necessità di offendere»[78]. Ma questa preoccupazione della
legittimità c’è solo perchè la legittimità è una forza di persuasione
che serve più di molti cannoni come elemento di stabilità e di
potenza. Insomma, passando attraverso Livio e gli scrittori antichi, il
Machiavelli arriva quasi di colpo alla razionalizzazione totale della
politica.

Risorgendo dal suo sepolcro, la storia antica rivela dopo tanti secoli
agli uomini la dottrina dello Stato razionale ed umano. Che rivoluzione
fosse questa è facile immaginare. Era la fine del Medioevo. Lo Stato
non è più un pupillo del Pontefice chiamato ad attuare la legge di
Dio sulla terra, secondo la dottrina di S. Agostino; è una creazione
umana inventata dalla ragione per servire e sfruttare le passioni e gli
interessi degli uomini a fini di grandezza e di potenza.

Nel medioevo la Chiesa governava il mondo, e l’impero, se voleva
essere riconosciuto dal popolo, doveva chiedere la benevolenza di Dio.
Nelle dottrine del Machiavelli, lo Stato si serve della religione per
governare con più forza. La religione — dice il Machiavelli — è «cosa
al tutto necessaria a voler mantenere una civiltà»[79]. E aggiunge
ancora «come la osservanza del culto divino è cagione della grandezza
delle repubbliche, così il dispregio di quella è cagione della rovina
di esse. Perchè, dove manca il timore di Dio, conviene che o quel regno
rovini, o che sia sostenuto dal timore del Principe che supplisca ai
difetti della religione»[80]. E si duole, lui Machiavelli in odor di
ateismo e a cui doveva toccar più tardi di esser arso in effige sulle
piazze, che l’Italia rovini, perchè la religione è soffocata dalla
Chiesa. «La quale religione, se nei principî della repubblica cristiana
si fosse mantenuta, secondo che dal datore di essa ne fu ordinata,
sarebbero gli stati e le repubbliche cristiane più unite, e più felici
assai che elle non sono. Nè si può fare altra maggiore congettura
della declinazione di essa, quanto è vedere come quelli popoli che sono
più propinqui alla Chiesa Romana, capo della religione nostra, hanno
meno religione. E chi considerasse i fondamenti suoi, e vedesse l’uso
presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe esser propinquo,
senza dubbio, o la rovina, o il flagello»[81].




III.

LO STATO SUPERIORE ALLA MORALE.


Lo Stato dunque ha una base razionale e sfrutta razionalmente, il
misticismo per dominare. Ma da questo concetto puramente umano del
governo, il Machiavelli giunge ad una conclusione che in Livio non
c’era neppure come germe, alla conclusione che _tutto_ è lecito pel
bene dello Stato, perchè non c’è nessuna legge al disopra di lui, tanto
che il suo interesse stesso diventa la legge.

Il celebre Valentino, divenuto come un simbolo, è per il Machiavelli
il modello di Principe che bisogna imitare. «Chi giudica necessario
nel suo Principato nuovo assicurarsi degli inimici, guadagnarsi amici,
vincere o per forza o per fraude»[82] faccia come il Borgia. Non
bisogna dimenticare che gli uomini e le cose sono come sono e non come
dovrebbero essere: gli uomini malvagi e sciocchi, le cose difficili.
«M’è parso più conveniente andar dietro alla verità effettuale della
cosa che all’immaginazione di essa; e molti si sono immaginati
repubbliche e principati che non si sono mai visti e conosciuti
essere in vero, perchè egli è tanto discosto da come si vive a come si
doverria vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che
si doverria fare, impara piuttosto la rovina che la preservazione sua,
perchè un uomo che voglia fare in tutte le parti professione di buono,
conviene che rovini in fra tanti che non sono buoni. Onde è necessario
ad un principe, volendosi mantenere, imparare a poter essere non buono
ed usarlo secondo la necessità»[83]. La morale si biforca di nuovo
come negli antichi: la civile è altra dalla personale. Se il principe
ha dei vizi privati, pazienza. Fuggire assolutamente deve «l’infamia
di quelli vizi che gli torrebbono lo Stato»[84]; e con questo ha la
coscienza tranquilla. Egli è costretto a fare ciò che la politica
comanda: «non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male,
necessitato»[85]. Perchè «nelle azioni di tutti gli uomini e massime
de’ Principi, dove non è giudizio a chi reclamare, si guarda al fine...
I mezzi saranno sempre giudicati onorevoli e da ciascuno lodati»[86].

La famosa frase è detta; ma una resipiscenza strana fa esitare per un
attimo l’ardito scrittore. A proposito di Agatocle siracusano, giunto
al principato della sua città per mezzo di inaudite efferatezze e di
ignobili tradimenti, il Machiavelli scrive: «Non si può chiamare ancora
virtù ammazzare li suoi cittadini, tradir li amici, essere senza fede,
senza pietà, senza religione; li quali modi possono fare acquistare
imperio, ma non gloria. Perchè se si considerasse la virtù di Agatocle
nell’entrare e nell’uscire dei pericoli e la grandezza dell’animo suo
nel superare e sopportare le cose avverse, non si vede perchè egli
abbia a esser tenuto inferiore a qualsiasi eccellentissimo capitano.
Nondimanco la sua efferata crudeltà ed inumanità, con infinite
scelleratezze, non consentono che sia tra li eccellentissimi uomini
celebrato»[87].

Il fine non giustifica dunque tutti i mezzi?

Che vuol dire questa improvvisa limitazione?

Fu probabilmente un grido strappato alla coscienza morale del
Machiavelli, subito zittito dalla sua infatuazione politica. Infatti,
poco dopo, cercò questi limiti pretesi dalla sua morale. Ma chi scende
un pendio così scosceso non si può fermare. Non trovando i limiti nella
morale, si rivolse alla vita pratica, come se questa potesse offrire
una misura di se stessa. E s’accorse che le crudeltà si dividono in
due categorie: le crudeltà bene usate e le crudeltà male usate. «Bene
usate si possono chiamare quelle (se del male è lecito dir bene) che
si fanno una sol volta per necessità dell’assicurarsi e di poi non vi
si insiste dentro, ma si convertiscono in più utilità dei sudditi che
si può; le male usate sono quelle, quali, ancora che da principio siano
poche, crescono piuttosto col tempo che le si spenghino»[88] cosicchè,
l’occupatore di uno Stato «deve discorrere e far tutte le crudeltà in
un tratto per non avere a ritornarvi ogni dì»[89].

Per dirla più chiaramente: ben usate sono le crudeltà che riescono, mal
usate quelle che esasperano senza risultati.

Quale è, dunque, in politica, il criterio del bene e del male?
L’abilità e il successo. Ci pare che la famosa frase «il fine
giustifica i mezzi», con cui si esprime la politica machiavellica,
possa essere sostituita da quest’altra «il successo giustifica i
mezzi». Chi vince ha ragione. Questo hegelianismo precoce giustifica
tutte le frodi. «Non può, pertanto, un signor prudente nè debbe
osservar la fede quando tale osservanza gli torni contro, e che sono
spente le cagioni che lo feciono promettere»[90]. Finchè ha forza
sforzi. «È cosa veramente molto naturale e ordinaria desiderare di
acquistare, e sempre quando gli uomini lo fanno che possino, ne saranno
laudati e non biasimati, ma quando non possono e vogliono farlo in ogni
modo, qui è il biasimo e l’errore»[91].

Nè si creda che questi consigli siano dati soltanto al Principe il
quale, perchè si è impadronito dello Stato colla violenza, non può
rispettare nessun limite al di fuori della forza propria ed altrui. La
dottrina del Machiavelli è applicata ad ogni governo senza distinzioni,
anche alle repubbliche, se pure in misura minore. Tutte queste massime
offerte alla meditazione dei principi, le ritroviamo nei discorsi
stessi per illuminare coloro che vogliono fondare o debbono governare
delle repubbliche.

I _Discorsi_ cominciano con questo consiglio, a proposito dei luoghi
più adatti per fondare una città. «Non potendo gli uomini assicurarsi
se non con la potenza, è necessario fuggire questa sterilità del paese,
e porsi in luoghi fertilissimi, dove potendo per la ubertà del sito
ampliare, possa difendersi da chi l’assaltasse, e sopprimere qualunque
alla grandezza sua si opponesse»[92].

Questo, rispetto agli Stati stranieri, non vuol forse dire: ciascuno fa
quello che vuole ed il più forte distrugge il più debole?

La politica interna è retta dagli stessi principî. Il Machiavelli
osserva, per esempio: «A coloro che in una città sono preposti per
guardia della sua libertà, non si può dare autorità più utile e
necessaria quanto è quella di poter accusare i cittadini al popolo, o a
qualunque magistrato o consiglio, quando che peccassino in alcuna cosa
contro allo stato libero»[93]. Questa abitudine è utile specialmente
perchè così «si dà via onde sfogare a quelli umori che crescono nelle
cittadi, in qualunque modo, contro qualunque cittadino; e quando
questi umori non hanno onde sfogarsi ordinariamente, ricorrono a modi
straordinari, che fanno rovinare in tutto una repubblica»[94].

Qualche volta le accuse sono false, ma non importa, «perchè _se
ordinariamente_ un cittadino è oppresso, ancora che gli fosse fatto
torto, ne seguita o poco o nessuno disordine in la repubblica».

Così, è giustificato Romolo del suo fratricidio, perchè «uno prudente
ordinatore di una repubblica... debbe ingegnarsi d’avere l’autorità
solo, nè mai uno ingegno savio riprenderà alcuno di alcuna azione
istraordinaria, che per ordinare un regno o costituire una repubblica
usasse»[95].

Il diritto della forza illegale è riconosciuto persino ai cittadini
privati, ma quando, per essere a capo di un esercito, appaiono come dei
piccoli sovrani.

Il capitano che torna vittorioso da una guerra — la gran preoccupazione
del Rinascimento — ha solo due cose saggie da fare: «O subito dopo la
vittoria lasci lo esercito e rimettasi nelle mani del suo Principe,
guardandosi da ogni atto insolente o ambizioso» per non insospettire
il suo signore, «o, quando questo non gli paia di fare, prenda
animosamente la parte contraria, e tenga tutti quelli modi per li
quali creda che quello acquisto sia suo proprio e non del Principe suo,
facendosi benevoli i soldati ed i sudditi; e faccia nuova amicizia coi
vicini, occupi con li suoi uomini le fortezze, corrompa i Principi del
suo esercito e di quelli che non può corrompere si assicuri, _e per
questi modi cerchi di punire il suo signore di quella ingratitudine che
esso gli userebbe_»[96].




IV.

LO STATO-DIO IN LIVIO E NEL MACHIAVELLI.


Quella che balza fuori ad un tratto nell’opera del Machiavelli
dallo studio degli storici antichi e massime di Tito Livio è dunque
la dottrina dello Stato-Dio, la cui prosperità e potenza è lo
scopo supremo al quale ogni altro interesse, anche la religione,
è subordinato. Che Livio sia stato il grande ispiratore di questa
dottrina, non è meraviglia. I suoi annali sono una divinizzazione
di Roma come Stato e come Repubblica, sono la storia di un popolo,
arrivato ad una potenza quasi sovrumana, servendo lo Stato come una
divinità, immolando ogni altro bene, o diritto e aspirazione al suo
bene. In tutto il passato, che egli era in grado di conoscere, il
Machiavelli non poteva trovare un modello più alto, più completo,
più grandioso di Stato, che trova in sè stesso il suo scopo e la
sua perfezione. Ed il modello gli parve così sublime che egli volle
centuplicarlo in un numero infinito di imitazioni spicciole.

Se in Livio questa subordinazione universale allo Stato-Dio poteva
essere giustificata dalla grandezza straordinaria di Roma e dal
meraviglioso destino che l’aspettava, il Machiavelli ne fa la legge
di tutti gli stati, grandi e piccoli, gloriosi ed oscuri. Ogni
repubblichetta ed ogni principato doveva tentare di essere, quanto
poteva, una piccola Roma, innamorata solo di se stessa ed aspirante
alla propria divinizzazione se non in cospetto dell’universo e dei
posteri, almeno nella piccola cerchia in cui doveva vivere e operare.

Senonchè, così facendo, il Machiavelli percorreva con un balzo
formidabile quella che doveva essere la lenta evoluzione di tre secoli;
e trascinava nel suo balzo anche Livio.

Senza dubbio, la concezione medioevale dello Stato e della storia che
aveva avuto in S. Agostino il suo grande filosofo e che poneva in Dio
il termine della perfezione dei singoli uomini come degli Stati, era
al principio del secolo XVI molto indebolita. Se no, il Machiavelli
sarebbe finito sul rogo.

A poco a poco i tempi si incamminavano di nuovo verso la concezione
pagana dello Stato-Dio. Ma lentamente e non con la furia del
Machiavelli, perchè le dottrine e le istituzioni medioevali, per quanto
indebolite, erano abbastanza forti da resistere ancora ai più violenti
attacchi dottrinali dei dialettici razionalisti.

D’altra parte, Tito Livio era lo storico della Repubblica; e con il
Cinquecento incomincia dappertutto, ma in Italia particolarmente, la
decadenza delle repubbliche. Molte repubbliche cadono, e con essa si
affievolisce anche l’ammirazione per lo storico delle Deche, il quale
ebbe nel Nardi — un antico ammiratore e discepolo del Savonarola,
ritirato a Venezia — l’ultimo traduttore.

A poco a poco Livio è considerato come un gonfio e retorico panegirista
di una Repubblica immaginaria, scrittore pregevole per lo stile, ma di
poco merito per la sostanza.




V.

LA REAZIONE CONTRO LIVIO E CONTRO IL MACHIAVELLI.


Per queste ragioni una reazione non tardò a scoppiare contro il
Machiavelli e contro Livio: una reazione a cui fu maestro e guida
l’altro grande storico latino, Tacito, che da lui prese il nome di
«tacitismo» e che fu uno dei movimenti intellettuali più importanti del
secolo XVII[97].

Il Tacitismo fu l’infatuazione e la giustificazione classica della
monarchia, che si veniva consolidando e rafforzando in Europa, a
partire dal secolo XVI. A mano a mano che il medio evo tramonta, ogni
pensiero, ogni teoria, ogni azione politica doveva essere legittimata
dal consenso di uno scrittore classico. La monarchia non sfuggì a
questo destino; volle avere anch’essa il suo maestro, tra i grandi
della antichità, e scelse Tacito. Un’apparente somiglianza dei tempi
fu la ragione di questa scelta. Non aveva Tacito raccontato i primi
travagli della monarchia Romana alle prese con le tradizioni secolari
della repubblica aristocratica? Le monarchie, che nel secolo XVI
e XVII, lottavano contro i residui delle tradizioni teocratiche,
repubblicane e feudali del medio evo, credettero di ritrovarsi in
quella storia, sebbene molte somiglianze fossero più apparenti che
vere, e frequenti fossero le cose inconciliabili.

Nel 1542 Emilio Ferretti, dedicando un suo commento di Tacito ad un
uomo di Stato, perchè ci trovasse norme di governo, scriveva: «Poterit
Cornelii lectio nonnihil in isto concusso orbis motu, simillino eorum
temporum, quae ab illo describuntur, adjuvare consilia tua».

E il Mureto — un altro grande umanista del Cinquecento — osserva:
«Primum igitur considerandum est, republicas hodie perquam paucas esse,
nullam esse promemodum gentem, quae non ab unius nutu atque arbitrio
pendeat, uni pareat, ab uno regatur».

Anzi, il Mureto ammira tanto la politica di Tacito che non sente più
neppure la differenza di molti umanisti per lo stile tacitiano, ed
afferma che anche Tacito scrive bene.

Nella seconda metà del ’500 e prima del ’600 le traduzioni ed i
commenti di Tacito si moltiplicano, e vengon raccolte, con cura
religiosa, le massime sparse nei suoi libri. Si scrivono ad uso dei
prìncipi dei «Taciti, con riflessioni politiche e storiche» cioè
paralleli coi tempi moderni, consigli politici, vagabondaggi storici.
Non solo in Italia, ma in Francia, in Germania, in Olanda, i Tacitisti
dilagano, si dividono in tendenze contrarie, distinguono, reagiscono
magari, ma Tacito è sempre in bocca a tutti, e molti affermano che è il
solo autore grande della antichità.

Così, per esempio, il marchese Virgilio Malvezzi dice che Tacito
può essere molto utile in un’epoca di governi principeschi, come si
studiava Tito Livio, quando c’erano le repubbliche. E Raffaele Dalla
Torre, nel primo capitolo dell’Astrolabio di Stato, polemizza in un
dialogo contro Famiano Strada, il quale affermava col suo traduttore,
C. Papini, che Tacito attacca le frange al racconto, e si basa sul
verosimile ma non sul vero, ha uno stile duro, rotto, troppo pieno di
sentenze e di massime. Scipione Ammirato scrive i famosi «Discorsi
sopra Tacito» che corrono il mondo, citati ovunque come un testo
fondamentale. In Francia anche il Bodin scende in campo per difendere
lo stile di Tacito. «Quis enim non videt dictio Taciti quam sit
elegans, quam tersa et limata?». Giusto Lipsio scrive in vece che
Tacito potrebbe gareggiare con tutti gli scrittori dell’antichità, se
il suo latino fosse puro come quello di Livio e di Sallustio; ma poi
si converte. E se in mezzo alla folla innumerevole degli entusiasti,
tra cui non bisogna dimenticare Amelot de la Houssaye, c’è il piccolo
gruppo di dissidenti, come il Boccalini, con che ardore sorgono a
difendere lo scrittore antico i suoi molto più numerosi ammiratori!
Teodoro Ryck definisce «sogni e chimere politiche» i giudizi su Tacito
del collega italiano. Il Rapin raccomanda a chi vuole fare lo storico
«qu’il ne suppose point de faussetés pour justifier ses conjectures,
et pour faire quadrer les choses au tour qu’il leur donne, comme Tacite
qui jette du poison partout ou comme Paterculus qui repande des fleurs
sur tout».




VI.

IL TACITISMO E LA RAGION DI STATO.


Ma quale è la ragione profonda di questa ammirazione di Tacito, che
è più forte anche dei pregiudizi letterari e stilistici a lui spesso
avversi? Essa deve cercarsi in una specie di falsificazione di Tacito,
per cui l’opera sua ha servito a dare la conferma e giustificazione
classica della dottrina politica della Ragion di Stato, creata dalla
monarchia e dalla Chiesa per attenuare la dottrina machiavellica
dello Stato-Dio. Secondo questa teoria lo Stato non è una _istituzione
assolutamente umana e razionale_, come volevano gli ammaestramenti del
Machiavelli, ma è _anche_ una istituzione umana, ha cioè dei fondamenti
— non tutti — negli interessi e nei vizi degli uomini, e pure dovendo
l’ossequio alla superiore autorità della religione, in certi casi
precisi e delimitati che si fissano sull’autorità degli antichi
scrittori e specialmente di Tacito, ha diritto di violare la legge
morale per il bene pubblico. Questa è la Ragione di Stato.

Tale dottrina cerca, attenuandolo, di conciliare il Machiavelli e
tutti gli interessi, le ambizioni e le passioni che spingevano l’Europa
verso lo stato razionale ed umano, con le istituzioni e le tradizioni
del Medio Evo, che lo volevano strumento d’un ideale religioso.
Essendo un’attenuazione del Machiavelli, deriva da lui e gli somiglia,
nel tempo stesso che gli è avversa. Accade spesso di trovare nei
tacitisti delle frasi che sono puro Machiavelli. Questa, per esempio,
del Lipsio[98]: «Si urbe aut provincia statui meo per opportuna,
quam nisi occupo alius faciet cum aeterno meu metu aut damno: non
praeveniam? Illi volunt, quibus haec talia semper licita et proba, si
cum successu». Gli uomini sono cattivi e pazzi, diceva il Machiavelli.
Per governarli non basta essere leone, bisogna anche essere volpe. E
il Lipsio «interquos enim vivimus? nempe argutos, malos: et qui _ex
fraude, fallaciis, mendaciis constare toti videntur_ (Cic. pro Rosc.
Com.). Ipsi Principes, cum quibus nobis res, plerique in hac classe: et
quidquid leonem praeferant; «Astutam vapido servant sub pectore vulpem»
(Persius Sat.)... «_Per frauden et dolum regna evertuntur_ notat
philosophus (Arist. V. Pol): Tu servari per eadem nefas esse vis? Nec
posse Principem interdum.

«Cum vulpe iunctum pariter vulpinarier»?[99].

E un po’ più in là nel capitolo «Quo modo et quatemus Fraudes
admittendae» dà una definizione della ragion di Stato che parrebbe
estratta dal Principe. «Fraus universe mihi est, argutum consilium a
virtute aut legibus devium, regis regnique bono»[100].

Eppure, mentre si scrivevano questi pensieri, il Machiavelli era
bruciato in effige, messo all’indice, condannato alla riprovazione
universale, esiliato da qualsiasi libro come autore, che si potesse
citare. I tacitiani raramente lo nominano, anche quando lo confutano,
designandolo con prudenti allusioni. Ipocrisia? Ingiustizia? Si
bruciava l’opera di un uomo riprendendone sotto mano le teorie? No.
La dottrina della Ragione di Stato alla quale Tacito doveva conferire
l’autorità degli esempi antichi è elaborata nel cinque e nel seicento
sotto l’occhio della Chiesa, ma pure avendo affinità con la dottrina
machiavellica dello Stato-Dio, ne differisce sopratutto perchè tenta
di risolvere la questione capitale dei limiti, entro cui è lecito allo
Stato violare la legge morale per il bene pubblico.

Leggiamo, ad esempio, la pagina in cui Lipsio tratta della frode per
ragione di Stato. Egli scrive: «ea triplex; Levis, media, magna. Illam
appello quae haut longe a virtute abit malitiae rore leviter aspersa.
In quo genere mihi est Diffidentia et Dissimulatio.

«Mediam quae ab eadem virtute flecit longius et ad vitii confinia
venit. In qua pono Conciliationem et Deceptionem.

«Tertiam, quae non a virtute solum sed legibus etiam recedit, malitiae
jam robustae et perfectae, uti sunt Perfidia et Iniustitia. Illam
suadeo, hanc tolero, _istam damno_»[101].

Quel grido che era sfuggito un momento alla coscienza del Machiavelli a
proposito di Agatocle e che, poi, l’autore stesso aveva rinnegato, quel
bisogno di un limite al di fuori del puro interesse che il Machiavelli
aveva saputo trovare soltanto nel successo, è qui chiaramente sebbene
forse un po’ sommariamente inciso. Lo Stato ha certe libertà, ma non
tutte.

Posto così il problema, si capisce che, in autori più profondi del
Lipsio, il Machiavelli, le sue dottrine, i tempi in cui aveva vissuto e
che le avevano ispirate, apparissero come nefasti e quasi diabolici.

L’Italia era allora travagliata da un’anarchia di principi e da
quell’esautoramento dei governi, per cui s’era incrostata sulla
Penisola una muffa di tirannelli privi di scrupoli, che applicavano
fino in fondo la teoria dell’Interesse proprio, senza che un limite
morale o un interesse comune frenasse quel reciproco e continuo
distruggersi. Siccome nessun principio di autorità li faceva legittimi,
il Machiavelli osservava: i popoli sono cattivi, i principi birbanti;
chi non bada come può a salvare la roba e la pelle, gli prendono la
prima e gli fanno la seconda; se non l’ammazzo io, mi ammazza lui.
È quindi consigliabile di cominciare per il primo. E diceva: «Un
Principe, e massime un Principe nuovo, non può osservare tutte quelle
cose, per le quali gli uomini sono tenuti buoni, essendo spesso
necessitato per mantenere lo Stato operare contro alla fede, contro
alla carità, contro alla umanità, contro alla religione»; e diceva
pure: «A un Principe non è necessario avere tutte le soprascritte
qualità, ma è ben necessario parere d’averle... Deve, adunque, avere
un Principe grande cura, che non gli esca mai di bocca una cosa che
non sia piena delle soprascritte cinque qualità e paia, a vederlo ed
udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto
religione»[102].

Cosicchè l’interesse dello Stato, di cui era giudice il governo che lo
rappresentava, finiva per giustificare ogni abuso.

La dottrina della Ragion di Stato, che si forma nel cinquecento e nel
seicento, è — come dice uno dei suoi maestri — il Botero «notizia di
mezzi atti a fondare, conservare, ampliare un dominio così fatto». Ma
col Botero stesso, col Possevino, col Ribadeneira, la Controriforma
affermava altresì che la Ragion di Stato è necessaria e utile solo
quando è legittimata dalla Chiesa. Concessa a qualsiasi governo, in
nome d’interessi particolari, senza la Chiesa, la Ragion di Stato
è un principio pericolosissimo. Con questa limitazione essa diviene
privilegio di pochi regnanti legittimi, e non di tutti i governi per
contrari interessi; cosicchè è sottomessa a un principio _al di sopra
e al di fuori_ dell’interesse immediato e individuale; e gli Stati
sono in certo modo regolati nelle loro opere da una legge comune, di
cui la Chiesa è depositaria, e non più soltanto dal proprio comodo.
Insomma, la Ragion di Stato, pur allargando la sfera in cui l’interesse
dello Stato può operare, vuol sempre circoscriverla con precetti e
regole di natura morale e di carattere religioso. Con questa dottrina
la monarchia assoluta cercava di mettere d’accordo le necessità del
suo sviluppo, con le tradizioni religiose e morali ancora forti nella
società del sedicesimo e diciannovesimo secolo. Ma come e perchè essa
ha ricorso, per essere aiutata in questa opera, tra gli scrittori
antichi, sopratutto a Tacito?




VII.

IL TACITISMO E LA FALSIFICAZIONE DI TACITO.


Noi abbiamo visto come Tacito reagisca, nella storiografia romana,
per primo contro quella concezione antica che fa dell’individuo uno
strumento dello Stato, a cui deve sacrificarsi; e per primo cerchi
nella storia non gli stati o i popoli, ma gli uomini; e si sforzi di
studiare psicologicamente l’anima dei suoi personaggi. L’uomo coi suoi
vizi e con le sue virtù, studiati e giudicati quando nascono dentro il
suo cuore, quando si manifestano nei penetrali della sua casa o dinanzi
alle folle, verso la schiava o verso il senato, in ogni attimo di vita,
questo è il suo protagonista.

La sua storia è un drammatico intreccio e un cozzo di uomini ben
diversificati e violentemente distinti. Lo Stato è per lui uno di
questi uomini, che il caso ha posto sul trono: non più. I suoi meriti
o le sue colpe verso il servo hanno per Tacito lo stesso valore che
i suoi meriti o le sue colpe verso lo Stato. In lui, come si disse,
splende già quell’individualismo cristiano, che volle giudicare l’uomo
in quanto è uomo e non in quanto è parte dello Stato, e reagì contro la
tradizione latina che sacrificava i romani a Roma.

Fra tutti gli scrittori antichi, Tacito appare come il meno atto a
giustificare una dottrina come quella della ragion di Stato, che,
sia pure entro limiti precisi, sacrifica pur sempre l’individuo allo
Stato e giustifica la violazione della morale per ragioni di pubblico
interesse. Tacito è uno storico moralista, che perseguita e denuncia
i delitti e i vizi dei grandi, senza ammettere mai, senza neppur
supporre che si possa ammettere l’interesse pubblico come scusa o
giustificazione. Per fondare su solenni esempi antichi una dottrina
della Ragion di Stato, lo storico che poteva e doveva servire era
proprio Tito Livio. E infatti il Machiavelli, pensatore profondo, aveva
fatto testo di Livio più che di Tacito, benchè molti sostengano il
contrario, per creare quella sua dottrina dello Stato-Dio, che era un
po’ l’estrema esagerazione anticipata della Ragione di Stato. Come si
spiega allora questo scambio singolare?

Tito Livio era troppo repubblicano per servir di maestro ai sovrani ed
ai ministri, in un’età dominata dall’istituto monarchico. Tacito aveva
il vantaggio di essere lo storico di Roma in cui più che negli altri
i personaggi rassomigliavano ai sovrani e ministri secenteschi delle
Corti europee. La somiglianza era molto vaga, perchè la casa di Tiberio
e di Claudio non aveva niente a che fare con una corte; ma era tuttavia
sempre maggiore di quella che poteva correre tra l’Europa del secolo
XVII e la Roma della seconda guerra punica.

Nel «Discours critique» che precede la traduzione di Tacito fatta da
Amelot de la Houssaye, è riassunto il commento di Filippo Cavriana
«Sopra i cinque libri di Cornelio Tacito». È citato tra l’altro,
questo passo: «Comme Tacite découvre tout ce que les Princes de
son temps faisoient, les vertus et les vices de nos princes donnent
réciproquement l’intelligence de tout ce que dit Tacite, de sorte
que les mêmes endroits que l’on trouve obscurs la première fois, sont
bien entendus la seconde ou la troisième. Au reste les gens qui auront
fréquenté la cour, ou les armées, pourront expliquer fidelement cet
auteur sans le secour d’aucun interprète»[103].

Tacito è dunque una specie di guida delle corti, l’autore che si
può intendere solo praticandole quotidianamente. Diventato l’autore
familiare dei sovrani e dei cortigiani, Tacito è stato mutato in
un grande maestro della Ragion di Stato, grazie a una persistente
falsificazione, per cui le acerbe sentenze che in Tacito flagellano
il vizio, sono interpretate e commentate come consigli di un’arcana e
profonda saggezza, indicando al sovrano il termine a cui la Ragione di
Stato può condurlo.

Approfittando della serietà e della compostezza che Tacito conserva
anche nei momenti in cui si sdegna, non avvertendo o fingendo di non
avvertire la corrodente ironia che talvolta brucia più di un’invettiva
— l’ironia si può anche prendere sul serio — il seicento interpretò
con una esegesi paziente quei passi in cui il corruccio di Tacito,
per rivoltare i posteri e spargere sui suoi personaggi la cenere
dell’infamia, aveva condensato amare, torbide e cieche accuse, come
aforismi e precetti un po’ arcani della oscura dottrina della Ragion di
Stato.

L’esempio più singolare e istruttivo di questa falsificazione
sistematica è la metamorfosi che il Tiberio di Tacito subisce nella
mente dei suoi maggiori ammiratori del cinque e seicento. Tacito vede
in Tiberio una specie di mostro, di cui egli vuol dipingere l’aspetto
fosco, perchè la posterità ne provi orrore e lo odî in eterno. Il suo
ritratto arcigno e irreale come un simbolo del male e della perfidia,
può star piuttosto nel catalogo delle creazioni romantiche che nella
lista dei personaggi storici, vissuti per davvero. Ad ogni modo la
pittura, che gli attribuisce delitti e vizî immaginari, se è falsa,
è potente, e i tacitisti del cinquecento e del seicento trovando, nel
loro autore, un principe in cui la dissimulazione, la segretezza, la
perfidia, l’ipocrisia, la decisione, si uniscono in una sola fusione;
un Principe, che si impadronisce con l’astuzia del governo e fonda
una dinastia, cominciando la sua carriera con un fratricidio e due
avvelenamenti; un principe che sacrifica il nemico alla propria
vendetta, il potente alla propria diffidenza, il sicario alla propria
prudenza; un Principe insomma che essi, se avessero letto Tacito come
era, avrebbero dovuto tenere per uno dei peggiori uomini, che mai
abbiano tormentato i loro simili, invece di inorridire se ne rallegrano
e lo adottano appunto come un modello, un maestro di quella oscura
Ragion di Stato, che preoccupava tutte le menti. A leggere Tacito gli
uomini del tardo Rinascimento hanno gridato: Ma questo è il Valentino,
è lo Sforza, è uno dei nostri contemporanei condottieri! Tiberio ha
ucciso il cognato venendo al potere? Non poteva fare altrimenti! Tacito
sa benissimo che i principi nuovi si imbattono sempre in difficoltà:
Ragion di Stato. Ha ucciso Germanico? Tacito non ignorava il pericolo
di un generale vittorioso e popolare: Ragion di Stato. Ha lasciato
perir Pisone? Tutti sanno che un sicario, se non si elimina presto e
segretamente, può essere fonte di gravi impicci: Ragion di Stato. E
così mentre Tacito infama Tiberio per delitti che non ha mai commessi,
trasformando persino in avvelenamenti le morti naturali, per quelli
stessi delitti immaginari gli ammiratori di Tacito ne fanno un modello
di saggezza!

Perchè, infatti, nessuno leggeva Svetonio, che era pure storico
dell’Impero? Il Mureto lo spiega con circonlocuzioni complicate,
sostenendo che Tacito, aveva sì, messo a nudo le cattive azioni dei
principi, ma aveva coscienza della loro necessità politica, mentre
Svetonio, limitandosi a raccontare aneddoti un po’ canzonatori, che
non sopportavano trasfigurazioni, dissolveva, col suo indifferente
chiacchiericcio, il mito imperiale più che con delle imprecazioni e
delle invettive. Ma i tacitisti, che non volevano la dissoluzione ma
il rinsaldamento dell’Impero si rivolsero all’altro storico, abusando
del suo stile un po’ misterioso, per inventare il Tacito campione della
Ragion di Stato.




VIII.

QUEL CHE NOI DOBBIAMO AGLI STORICI ANTICHI.


Tanto Livio che Tacito furono dunque interpretati piuttosto
bizzarramente dall’umanesimo. Ma, sia pure attraverso alterazioni,
hanno aiutato il pensiero europeo a ritrovare il concetto dello Stato
umano, che ha una vita e un fine suo, in opposizione all’idea dello
Stato teologico, servo di Dio, strumento di un principio religioso, che
dominò nel medio evo.

Questo concetto dello Stato umano, affermato con anticipazione
profeticamente brutale da Machiavelli che si serve di Livio come
maestro, è ripreso e adottato per mezzo di grandi limitazioni e tagli e
rattoppi e attenuazioni, nel seicento, sotto l’influenza di Tacito con
la teoria della Ragion di Stato, finchè si inserisce definitivamente
nello sviluppo storico della nostra civiltà. Una volta innestato
questo principio si allargò e fiorì sempre più nel seicento e nel
settecento, prima sottomesso al principio teologico che era padrone da
tanti secoli, poi a poco a poco alzando la testa, e assumendo maggior
importanza, e finalmente, con la Rivoluzione Francese, soverchiando il
principio teologico. La Rivoluzione Francese e l’Impero, che amavano le
grandi apoteosi, rinnovarono l’antica venerazione per l’affrescatore
delle prime glorie di Roma. E le trombe romane squillarono ancora
dinnanzi al mondo, per celebrare il trionfo dello Stato degli uomini!

Senonchè dallo Stato umano, che vinse lo Stato teologico tra la fine
del Settecento e il principio dell’Ottocento, sta svolgendosi ora lo
Stato satanico; lo Stato nemico di Dio e degli uomini, della giustizia
e dell’onore, della pace e dell’ordine, della verità e della legalità;
lo Stato criminale, predatore, sanguinario, corruttore, neroniano,
cinico, sofista — e sfrontatamente vano della propria ribalderia,
come di una forza gloriosa. Il melanconico e solitario filosofo
dell’Albergaccio l’aveva intravisto, in quella sua smania di «andar
dietro alla verità effettuale della cosa»; era stato lì per lì tra
abbagliato e inorridito; l’aveva guardato, aveva chiuso gli occhi,
aveva guardato di nuovo. La perversione dei tempi magnifica oggi questa
sua, tra inorridita e ammirante, intuizione dello Stato satanico, come
una mirabile anticipazione di un genio profetico: oltraggio indegno
alla tormentata e nobile figura di quel grande ma ingenuo pensatore
che, disgustato dai suoi tempi, in qualche momento di esasperazione,
aveva dimenticato questo principio elementare di ogni consenso civile:
che più forte è la tentazione e maggiore la facilità di violare una
legge morale, più risolutamente è necessario affermare e sostenere
l’obbligo universale di osservarla: se no «la verità effettuale della
cosa» diventa il vestibolo della più selvaggia anarchia.




APPENDICE




I.

CHE COS’È LA STORIA?


1.

Dopo aver visto come i Romani scrivevano la storia, e con quali occhi
e con quale animo i secoli hanno letto le loro storie, scampate al
diluvio barbarico, non sarà senza interesse studiare come si intenda la
storia da certe chiesuole intellettuali moderne, a cui non spiacerebbe
di potersi vantare maestre di una nuova arte, in confronto al passato.
Un’occhiata alla «Teoria e storia della Storiografia» di B. Croce
basterà per mostrarci i bei progressi che quest’arte, così cara agli
antichi, ha fatto nei secoli del vapore e dell’elettrico!


2.

«Ogni vera storia è storia contemporanea»: con questo paradosso
il Croce apre la sua trattazione. E lo giustifica, argomentando
lungamente. «Anche la storia già formata, — egli scrive — che si
dice o si vorrebbe dire storia non contemporanea o passata, se è
davvero storia, se cioè ha un senso e non suona come discorso vuoto,
è contemporanea e non differisce punto dall’altra (la contemporanea).
Come dell’altra, condizione di essa è che il fatto del quale si tesse
la storia vibri nell’animo dello storico o (per adoperar una parola
d’uso nel mestiere storico) se ne abbiano dinnanzi, intelligibili,
i documenti... E se la storia contemporanea balza direttamente dalla
vita, anche direttamente dalla vita sorge quella che si vuol chiamare
non contemporanea, perchè è evidente che solo un interesse della vita
presente ci può muovere a indagare un fatto passato» (pag. 4).

Il pensiero è abbastanza chiaro, anche se espresso in forma involuta e
imprecisa. Non basta narrare un fatto per dirsi storici; bisogna farlo
presente, come se noi ne fossimo spettatori ed attori; se no si ha
«vuota narrazione... e perciò priva di verità» (pagina 9). «La storia è
un presente; la storia, resa vuota narrazione, è un passato» (pag. 9).

Ciò detto il Croce procede a distinguere, come già aveva fatto
Cicerone, la cronaca dalla storia. Ma non oppone l’annalistica alla
storia oratoria, venuta dalla Grecia. I moderni son persuasi che anche
in questo ordine di scritture ne sanno più degli antichi. «La storia —
egli scrive — è la storia viva, la cronaca la storia morta; la storia,
la storia contemporanea, la cronaca, la storia passata» (pag. 10). Indi
scopre che le fonti da cui scaturisce la conoscenza storica sono due:
la vita e il pensiero che la risuscita e la eterna. «Il documento e la
critica, la vita e il pensiero sono le vere fonti della storia, cioè i
due elementi della sintesi storica...» (pag. 14).

Accettiamo ad occhi chiusi queste dottrine, seguiamo docilmente il
suo autore, e vediamo dove si va a finire. Dopo aver definito quale
è la natura e quali sono gli elementi o le fonti della storia, il
Croce procede a distinguere da questa che è la vera storia, le storie
spurie o «pseudo-storie», come egli le chiama, alla greca. Tra queste
pseudo-storie egli annovera la storia poetica, che definisce così:

«Esempi di tale storia forniscono in copia le biografie affettuose
che si tessono di persone care e venerate; le storie patriottiche...
la storia universale, rischiarata dagli ideali dell’idealismo e
dell’umanitarismo, e quella narrata da un socialista che ritragga
le gesta... del capitalista o l’altra di un antisemita, che mostri
dappertutto, nelle sventure o brutture umane, il giudeo... Nè la storia
poetica si esaurisce in coteste tonalità fondamentali e generiche
dell’amore e dell’odio (dell’odio che è amore e dell’amore che è odio!)
ma passa tra tutte le più intricate forme e le più fini gradazioni
del sentimento; e così si ottengono storie poetiche, che sono amorose,
malinconiche, nostalgiche, pessimistiche, rassegnate, fidenti, allegre,
e quante altre si possano immaginare. Erodoto canta le romanze (!)
dell’invidia degli Dei, Livio l’epos della romana virtù; Tacito compone
tragedie dell’orrendo, drammi elisabettiani in scultoria prosa latina;
e per venire ai moderni e modernissimi Droysen dà forma alla sua
aspirazione lirica verso lo Stato forte e accentratore col narrare la
storia della Macedonia, della Prussia e dell’Ellade; e Grote a quella
verso gli statuti della democrazia simboleggiata in Atene; e Mommsen
all’altra verso l’impero, simboleggiata in Cesare; e Balbo effonde il
suo ardore per l’indipendenza italiana, adoperando a tal fine tutti i
ricordi delle pugne italiche, a cominciare nientemeno da quelle degli
Itali e Etruschi contro i Pelasgi; e Thierry celebra la borghesia
raccontando la storia del terzo stato» (pagg. 26 e 27).

Che Erodoto, Tito Livio, Tacito, Droysen, Grote, Mommsen, Balbo
e Thierry non sieno storici ma falsi storici e poeti, è notizia
che giungerà alquanto inaspettata a molti lettori. Se questi otto
valentuomini, i quali pure godono di una certa rinomanza nel gregge
di Clio, sono dei falsi storici, vorrebbe il Croce dirci il nome e
cognome di uno storico vero? Ma la sorpresa cresce quando il Croce
cerca di distinguere la storia falsa dalla vera, o, come egli dice, la
storia poetica dalla storiografia. La storia poetica si esplicherebbe
«nel surrogare al mancante interesse del pensiero l’interesse
del sentimento» (pag. 26); mentre invece «il valore che regge la
storiografia è il valore del pensiero. Ma appunto per questa ragione il
principio determinante di essa non può essere il valore che si chiama
di sentimento e che è vita e non pensiero; e quando questa vita si
esprime e rappresenta non ancora domata dal pensiero, è poesia e non
storia» (pag. 27).

Il principio, o la fonte, della storiografia o vera storia sarebbe
dunque il pensiero e non la vita, la quale è invece il principio
della poesia. Ma a carte 14 il Croce aveva detto proprio l’opposto.
Ricordate? «Il documento e la critica, la vita e il pensiero sono le
vere fonti della storia». La vita, che a pag. 14 è fonte della storia,
a carte 27 diventa fonte della poesia, e alcunchè di opposto e quasi di
ribelle al pensiero, poichè il pensiero la deve _domare. Domare_ è una
di quelle parole equivoche, di cui la filosofia crociana abbonda con
sua molta lode in un’epoca adorante tutte le confusioni; ma per quanto
equivoca non può dubitarsi che implichi lo sforzo teso a vincere una
resistenza. Difatti il Croce aggiunge più oltre: «per convertire la
biografia poetica in biografia veramente storica bisogna reprimere...
i nostri amori, le nostre lagrime, e i nostri sdegni...; e il medesimo
deve farsi per la storia nazionale e per quella dell’umanità». Mentre
nelle prime pagine la storia è il pensiero che risuscita la vita («la
storia morta rivive» è detto a pag. 15), più innanzi la storia è il
pensiero che combatte, che doma, che mutila la vita, recidendo da essa
il sentimento.

Sin dalle prime pagine del volume si intravede che il Croce ha della
storia, come di molte altre cose, due concezioni contradditorie; o
forse ha una prima concezione che, strada facendo, si muta nella
opposta, illudendosi di esser sempre la medesima. Da principio
egli concepisce la storia come un «eterno presente» ossia come
la vivificazione di quello che fu, quale fu visto e sentito dai
contemporanei. Poi a poco a poco si stacca da questa concezione sinchè,
senza accorgersene, la nega interamente, cercando di dimostrare che
storia e filosofia sono una cosa medesima, ossia la dottrina in azione
del progresso, inteso non «come passaggio dal male al bene, quasi da
uno stato all’altro, ma come passaggio dal bene al meglio, in cui il
male è il bene stesso, visto alla luce del meglio» (pag. 23).

Confronti il lettore il primo e il quinto capitolo; e subito si
accorgerà che questo nega quello, illudendosi di svolgerlo. «La
coscienza storica, in quanto tale, è coscienza logica e non pratica, e
anzi fa suo proprio oggetto l’altra: la storia, _che fu già vissuta_,
è ora in lei pensata, e nel pensiero _non hanno più luogo le antitesi,
che si fronteggiavano nella volontà e nel sentimento_. Per essa non ci
sono fatti buoni e fatti cattivi, ma fatti sempre buoni quando sieno
intesi nel loro intimo e nella loro concretezza; non ci sono partiti
avversi, ma quel partito più ampio che abbraccia gli avversi e che per
avventura è appunto la considerazione storica... La storia non è mai
giustiziera ma sempre giustificatrice» (pagg. 76 e 77).

E ancora: «il vizio della storia negativa proviene dal separare e
solidificare e contrapporre le antitesi dialettiche del bene e del
male... Tutti i fatti e le epoche sono a lor modo produttivi; non solo
nessuno di essi è al lume della storia condannabile, ma tutti sono
laudabili e venerabili» (pag. 78).

E sia pure; ma addio, allora, contemporaneità della storia! La storia
contemporanea consiste appunto nel «solidificare e contrapporre le
antitesi dialettiche del bene e del male». Il presente è proprio un
momento del tempo, in cui un certo numero di antitesi si fronteggiano
nella volontà e nel sentimento; e se nella storia, scritta dopo
qualche secolo, si può trovare «quel partito più ampio che abbraccia
diversi partiti», chi può esser così ingenuo da cercar questo partito
fra i contemporanei, che vivono appunto per odiarsi, combattersi e
sterminarsi? Intorno a che cosa hanno versato tanti fiumi di sangue gli
uomini se non a quelle che il Croce chiama «antitesi dialettiche del
bene e del male, solidificate»; e che la storia dovrebbe per l’appunto
sciogliere? Se gli uomini fossero persuasi che tutti hanno ragione
e tutti meritano almeno una menzione onorevole, se non una medaglia
di bronzo nel concorso della storia, si sarebbero forse patrizi e
plebei, ricchi e poveri, eretici e ortodossi, cristiani e mussulmani,
protestanti e cattolici, aristocratici e democratici, scannati in tanti
secoli con tanto furore? E che cosa resterebbe di tutte le «storie
contemporanee» che si sono seguite?


3.

Una delle due: o la storia è sempre storia contemporanea e allora deve
«separare, contrapporre e solidificare le antitesi dialettiche del
bene e del male» perchè ogni presente non è che una di queste antitesi
in azione. O deve giustificare tutto e allora non può essere storia
contemporanea; anzi la storia contemporanea deve considerarsi come
pseudo storia o poesia. Impigliato in questa contraddizione, da cui
non riesce a districarsi, il pensiero del Croce si lascia sospingere
dalla sua stessa confusione a conclusioni così paradossali e strane,
da essere quasi ridicole. Questa, ad esempio: che «la storia non è mai
storia della morte sibbene storia della vita»; che «sono da ritenere
false... tutte le storie che narrano la morte e non la vita dei popoli,
degli stati, delle istituzioni, dei costumi, e si contristano, e si
angosciano e lamentano che quel che fu non è più» (pagine 79 e 80).

Questa pagina confonde manifestamente il narrare le rovine e il
disperarsi per esse. Se un moderno scrivendo la storia dell’impero
romano si stracciasse, arrivando ai bassi secoli, i capelli, e
ululasse inferocito ai barbari e ai cristiani, noi potremmo dirgli
di risparmiare il suo tempo e il suo dolore, poichè le sue furie
sono vane o ad ogni modo son cosa sua, che non ci tocca, se pure non
ci infastidisce. Ma non per questo è men vero che l’impero romano,
fiorente nel primo e nel secondo secolo, è stato dal terzo al quinto
secolo a poco a poco distrutto dal di fuori e dal di dentro; e che o
lagrimando o ad occhi asciutti uno scrittore può narrare la storia di
questa distruzione: come, quando, e per opera di chi si compiè. Dir che
la rovina dell’impero romano è una storia falsa, perchè sulle rovine
dell’impero sorsero nuovi stati e nuovi popoli e nuove civiltà, sarebbe
come dire che l’inquilino di quella tal casa, che oggi hanno portato
al cimitero, non è morto, perchè domani un altro inquilino entrerà
nella casa. Nuovi stati sorsero sulle rovine dell’impero romano, perchè
l’impero era stato distrutto; e la sua distruzione fu effetto di un
lungo seguito di azioni che la storia può narrare, come può narrare il
lungo seguito delle azioni che lo crearono.


4.

Andare a caccia di contraddizioni nei libri del Croce è come andar
a caccia di farfalle in primavera. Ma in questo libro si trovano
contraddizioni anche più strane che negli altri libri, forse perchè
egli non è mai riuscito a distinguere bene i due elementi della
storia che sono il pensiero e il sentimento; ed ora li ha confusi
immedesimandoli, ora li ha opposti l’uno all’altro arbitrariamente.

«Condizione dello storico è che il fatto _vibri_ nell’animo dello
storico; o (per adoperare le parole d’uso nel mestiere storico) se
ne abbiano intelligibili i documenti» — ha scritto, come vedemmo,
a carte 4. Sembrerebbe dunque che la storia ritornando a _vibrare_
nell’animo, diventi _intelligibile_. Non c’è storico un po’ esperto,
il quale ignori che spesso accade proprio l’opposto: accade che per
_capire_ un avvenimento, ossia per distinguere chiaramente i motivi
veri che spinsero i personaggi all’azione e i veri effetti che l’azione
generò, è qualche volta necessario, più spesso utile liberarsi dalle
passioni contemporanee, ossia mettersi in uno stato di freddezza,
per cui l’evento non vibrando più nell’animo dello storico, questi
possa osservarlo da tutte le parti, anche da quelle che gli attori
appassionati non videro e _non potevano_ vedere. Per citare un solo
esempio: accade spesso nelle grandi lotte umane (guerre, rivoluzioni,
ecc.) che la parte la quale riuscì vittoriosa, si fosse per lungo
tempo ingannata sulle forze dell’avversario, credendole molto più
grandi che non fossero. Uno storico, il quale voglia capire ciò che
davvero è accaduto, deve rendersi conto di questa illusione; ma dal
momento in cui ha scoperta l’illusione l’avvenimento non può _vibrare_
più nell’animo dello storico come vibrò nell’animo degli autori. La
passione, che generò l’azione, diventando oggetto di fredda analisi, lo
storico deve distaccarsene invece di confondersi con essa.

Dopo aver immedesimato sentimento e pensiero, come se nella storia il
sentire equivalesse a comprendere, con singolare contraddizione, in un
altro punto, il Croce vuol bandire addirittura il sentimento, come un
falsario sistematico, dalla storia, e come se il sentire un avvenimento
volesse dir sempre fraintenderlo. «L’alterazione — egli scrive —
continua e intrinseca a quella storiografia (la poetica) consiste
nello scegliere e connettere i particolari, che si traggono dalle
fonti, secondo un motivo _non di pensiero ma di sentimento_; il che se
ben si consideri, è sostanzialmente un inventarli» (pagg. 28 e 29).
E perchè? Da una esagerazione si casca in una esagerazione opposta.
Qui il Croce suppone che il sentimento falsi sempre la verità e che
il pensiero invece non la falsi mai; il che è un errore di psicologia
manifesto. Il sentimento falsa la verità quando è pervertito, viziato,
in rivolta contro le leggi della natura e della morale; quando odia
quel che è bene e ama quel che è male. Ma quando ama il bene, o odia
il male è spesso più pronto e più profondo nello scoprire il vero del
pensiero. Quante volte il cuore precorre la mente nel divinare quello
che la mente scoprirà dopo, faticosamente! Di quanti sentimenti altrui
ci è difficile renderci conto se non li abbiamo provati, e quante
volte l’essere appassionato è condizione per capire l’altrui passione!
Viceversa, anche il pensiero spesso s’inganna, o adultera la verità per
errore o per malizia. Un cattolico, un protestante, scrivendo la storia
della Riforma, con la passione altereranno sfigurandolo coll’odio il
nemico, ma ciascuno sarà nel vero nel lodare le cose buone della Chiesa
o della Riforma; e l’uno e l’altro capiranno non solo lo stato d’animo
dei propri ma anche quello degli avversari, meglio e più facilmente di
un miscredente, per il quale tutte quelle dispute teologiche non siano
che un fastidioso perditempo.

E del resto se la passione fosse condannata a restar fuori della verità
sempre e in eterno, come potremmo noi scriver la storia? Chi conosce
un po’ quel che il Croce chiama il «mestiere storico» (l’arte, io
direi) — sa che quasi tutti i documenti sono più o meno inquinati dalla
passione.


5.

Anche questa dottrina della storia è un guazzabuglio di contraddizioni,
in mezzo alle quali il pensiero del Croce cerca di reggersi e di
camminare diritto; ma non può, chè non sa dove va, barcolla e ad ogni
passo incespica. La Storia è problema nel tempo stesso più semplice e
più complesso che il Croce non pensi.

La Storia è l’applicazione letteraria di una facoltà dello spirito
umano, poco o punto studiata sinora dagli psicologi e dai filosofi:
_l’intuizione_. Che cosa è l’intuizione? È quella facoltà per cui noi
indoviniamo gli stati d’animo dei nostri simili; i loro pensieri,
i loro sentimenti, le loro inclinazioni, la loro indole, i loro
propositi, le loro virtù, i loro vizi. Non c’è facoltà più comune e
più preziosa di questa. La vita di tutti gli uomini, umili e grandi,
dotti e ignoranti, ricchi e poveri non è, dalla mattina alla sera,
che un esercizio ininterrotto di intuizione psicologica. Noi abbiamo
sempre bisogno di indovinare quel che pensa, vuole, macchina, in quali
disposizioni di animo si trova un certo numero dei nostri simili senza
che essi ce lo dicano — sia perchè non vogliono, sia perchè non sanno e
non possono.

La natura di questa facoltà è molto misteriosa: ragione per cui forse
gli psicologi non l’hanno punto studiata fino ad ora. È una facoltà
mista, a cui partecipa il raziocinio, la memoria, l’associazione,
l’immaginazione; e per la quale noi quasi entriamo a un tratto
negli altri indovinando quel che avviene nella loro coscienza. È una
facoltà innata, perchè tutti ne sono provvisti, come di volontà e
d’intelligenza; ma come di volontà e di intelligenza chi più e chi
meno. L’esercizio e l’esperienza la raffinano e la rafforzano. Quel che
si dice di solito «imparare a conoscere gli uomini e il mondo» non è
che l’esercizio di questa facoltà. Il nascere provvisti di intuizione
pronta, agile, sicura, è una fortuna, perchè questa è tra le armi che
più servono per riuscire.


6.

La Storia non è che una applicazione letteraria, nobile, profonda di
questa facoltà comunissima, di cui tutti gli spiriti son provvisti,
perchè è uno dei tanti cosidetti «organi di relazione». Chi scrive una
storia, grande o piccola, non fa che intuire ed esporre degli «stati
di coscienza» singoli o gregari. I piani, i disegni, le ambizioni, gli
odî, gli amori, le illusioni, gli atti e i fatti dei grandi personaggi
della storia che altro sono se non idee, sentimenti, voleri, propositi,
ossia «stati di coscienza»? E che cosa sono, se non stati di coscienza
gregari, le inclinazioni dello spirito pubblico, le dottrine e le
ambizioni, gli odî e le ammirazioni dei partiti, le tradizioni e
gli interessi delle classi sociali, le aspirazioni, gli orgogli, i
puntigli, gli interessi dei corpi pubblici — parlamento, magistratura,
burocrazia? Che altro è una religione, se non una cristallizzazione di
stati di coscienza, spesso complicatissimi ed oscurissimi?

La storia insomma, come opera d’arte e di pensiero, è una _psicologia
in azione_, il cinematografo interno — se posso adoperare l’immagine
— di singoli uomini e di gruppi: sovrani, capi di religione, generali,
diplomatici, demagoghi, partiti, classi, amministrazioni, sette e via
dicendo. Il Croce si è invischiato in tante difficoltà perchè non ha
capito questa prima ed elementare verità. Senonchè se lo strumento
con cui noi risuscitiamo questi stati di coscienza è quella stessa
intuizione, di cui ci serviamo ogni giorno per indovinare ciò che
i nostri simili pensano e vogliono, il nostro compito è molto più
difficile, quando si tratta di scrivere storie. Gli stati di coscienza
da cui nascono i grandi avvenimenti storici sono complessi, numerosi,
spesso contradditori, spesso legati tra di loro o inestricabilmente
aggrovigliati gli uni negli altri, e in continuo movimento. Chi ci
vive in mezzo, se non è proprio dotato di straordinaria intelligenza,
non vede che frammenti; onde è così difficile scrivere la «storia
contemporanea» a cui il Croce ha voluto per un momento ridurre tutta
la storia, ma inutilmente, perchè dire che ogni storia è «storia
contemporanea» è come dire che l’uomo non capirà mai nulla di ciò che
succede. Quando invece la storia è passata nasce un’altra difficoltà:
gli «stati di coscienza» sono spariti insieme con gli uomini, e di
essi non restano più che segni frammentari e per se stessi morti: i
documenti.

I documenti sono il grande rompicapo di tutti i teorici della storia,
che non riescono a mettersi d’accordo intorno alla loro natura. Ma la
oscura questione si chiarisce semplificandosi, per chi abbia capito
che la storia è intuizione di stati di coscienza, singoli o gregari,
di uomini e di generazioni che furono. Fuorchè nei casi in cui il
documento è la voluta espressione degli «stati d’animo» di qualche
personaggio storico — tali sono, per esempio, le memorie degli uomini
politici, qualche volta le loro lettere o confidenze — il documento
è quasi sempre il rottame, salvatosi a caso, di un _antico mezzo
d’azione_ che per i posteri diventa il segno di uno o più stati di
coscienza — i propositi, le illusioni, le speranze dell’uomo e del
gruppo che se ne serviva. La corrispondenza diplomatica di un ministro,
gli ordini e i bollettini di un generale, i discorsi di un capo di
parte sono stati composti non perchè i posteri sapessero poi quello che
è successo, ma per ottenere quello o quell’altro intento, che allora
premeva a quel tale o tal’altro uomo d’azione. Ma allo storico servono
come mezzo per conoscere ciò che l’uomo d’azione, il suo governo o
il suo partito, voleva in quel momento; per capire la visione delle
cose che lo guidava; i motivi che lo spinsero a quella o a quell’altra
azione.

È facile ora capire la strana e contradditoria natura del documento
storico, intorno alla quale tanto disputano i teorici della storia, e
che i veri storici capiscono a fondo senza aver bisogno di discuterla.
Tre sono le contraddizioni insite nella natura del documento storico.

_a_) La sopravvivenza del documento è _accidentale_ perchè dei
mezzi d’azione si conservano spesso, per servir come segni degli
stati d’animo, quelli che meno servono a capire «gli stati d’animo»
_essenziali_ dai quali l’avvenimento è nato; lo storico deve invece
indovinare questi stati d’animo _essenziali_.

_b_) il documento, appunto perchè è il rottame di un mezzo d’azione
che non serve più, è _una cosa morta_: lo storico deve servirsene per
intuire uno stato d’animo, che è _una cosa viva_;

_c_) il documento è sempre _frammentario_; da questo documento
frammentario lo storico deve cercare di ricavare una intuizione
di stati di coscienza quanto più gli è possibile _totalitaria_,
indovinando quello che nel documento non c’è e non ci può essere,
perchè il documento è per sua natura un frammento.

Chi tenga presente queste tre contraddizioni insite nel documento,
intenderà quanto sia difficile lo scriver la storia e come ai maestri
che salgono in cattedra a insegnare la teoria si addica una certa
modestia nel dare consigli a coloro, che invece di dir come si deve
scriver la storia, la scrivono. Intenderà pure che il cercare una
conclusione certa, appoggiata su documenti inoppugnabili e definitivi,
i quali si possano interpretare in una sola maniera, è quasi sempre
la pretesa di una presuntuosa leggerezza. Intenderà come accada che
ogni storia si rinnovi quando lo storico muta. Intenderà che un mezzo
sicuro e definitivo di provare vera e giusta la interpretazione di un
documento, ossia di verificare l’intuizione degli «stati di coscienza»
che da quel documento piglia le mosse non c’è. Intenderà infine che
la storia si scrive per molti motivi diversi. Si scrive per ricordare
il passato. Si scrive per soddisfare la curiosità. Si scrive per
divertirsi e per divertire, su per giù come si scrivono romanzi. Si
scrive per glorificare o per infamare una dinastia, un partito, una
religione, un popolo, una nazione, un regime politico, una classe
sociale. Si scrive per affilare le armi ad una lotta politica, sociale,
o ad un conflitto armato tra stati. Si scrive per indagare il mistero
dei destini umani, il perchè delle vittorie e delle sconfitte, della
grandezza e della decadenza, delle prosperità e dei rovesci. Il Croce
dice che questo _perchè_ è introvabile. Non importa: a quanti perchè
senza risposta l’uomo cerca risposta!

Questa molteplicità di scopi genera molte famiglie di storie e di
storici, ciascuna delle quali esercita la sua intuizione in modo
diverso. Lo scopo foggia per reazione lo strumento. Alcune tra le
distinzioni che il Croce, brancicando nel buio, tenta di stabilire tra
storia e storia nascono da questi diversi scopi. Non ci sono storie
positive e storie negative, storie vere e storie false, storie poetiche
e storie filosofiche. La storia è sempre storia — cioè intuizione di
«stati di coscienza»: la scriva Tito Livio, o Tacito, o Svetonio, o il
Machiavelli, o il Gibbon, o il Mommsen, o quel tale misterioso storico
— chi sarà mai? — nel quale il Croce ravvisa il vero storico. Ma muta
secondo che è scritta per uno scopo o per un altro. Così quelle che
il Croce chiama storie poetiche o pseudo-storie sono storie dominate
da una forte passione, o politica o religiosa o morale, la quale in
certi momenti può falsare, in altri acuire nello storico la visione
della verità. Tacito ha atrocemente calunniato Tiberio, che fu un
grande imperatore, e si sacrificò per salvare lo Stato; ma se la sua
intuizione ha errato nel raffigurare questo personaggio; e se per
ciò la sua storia è in questo punto difettosa, è pur sempre storia
composta con gli eterni processi che ogni storico ha adoperato, adopera
ed adopererà, perchè non ce ne sono altri. La differenza da storico a
storico sta solo nella maestria con cui ciascuno li adopera, e nello
scopo che si propone.


7.

Alla luce di queste considerazioni molte questioni sul metodo storico,
che da quando la storia si è messa in mente di essere una scienza,
si sono tanto arruffate, si semplificano assai. Non ho tempo qui
di dimostrarlo. Ma non posso tacere una conclusione che è la più
importante, perchè vale a sbugiardare insieme e di colpo tutte le
false autorità che pullulano oggi negli studi storici dalla universale
confusione e ignoranza. La conclusione è questa: che una opera di
storia può essere giudicata da un critico soltanto nella sua forma
letteraria, come è stata composta e scritta; se è viva o no; se si
capisce o se riesce oscura, se piace o annoia. Nella sostanza, ossia
se lo storico abbia adoperato bene o male il processo intuitivo con cui
soltanto si può scriver la storia; se sia nel vero o se s’inganni, no.
Siccome non c’è modo o criterio per verificare inappellabilmente se un
documento è stato o non è stato interpretato rettamente, il critico
può soltanto scoprire o notare i piccoli errori di fatto, in cui a
tutti gli storici accade di incorrere: per giudicare sostanzialmente
una storia il critico _dovrebbe rifarla_ tutta quanta, interpretando di
nuovo i documenti, a modo suo, ossia intuendo in altro modo e legando
tra loro in un ordine diverso gli stati di coscienza di cui i documenti
sono il segno frammentario, accidentale e morto. Al lettore spetterà
poi di giudicare quale delle due interpretazioni lo convinca di più,
e gli sembri più verosimile: giudizio però personale anche questo
e quindi variabile da lettore a lettore, ma sempre posato sopra un
paragone di più storie. Se voglio dimostrare che Tacito si è sbagliato
scrivendo la storia di Tiberio, devo raccontarla di nuovo e in modo
che sembri più persuasiva, perchè più verosimile; senza però presumere
mai di giungere ad una conclusione che sia definitiva, inoppugnabile,
irrevocabile.

Desidera il lettore rendersi conto, come un critico, il quale voglia
giudicare il valore intrinseco di una storia senza rifarla, possa
vaneggiare? Il Croce stesso ci somministra di ciò un curioso esempio.
Il Croce aveva rasentato la verità — che la storia sia intuizione di
stati di coscienza — quando scriveva a pagina 29 e 30: «la fantasia
è indispensabile allo storico: la critica vuota, la narrazione vuota,
il concetto senza intuizione o fantasia sono affatto sterili; e ciò si
è detto e ridetto in queste pagine col richiedere la viva esperienza
degli accadimenti, di cui si prende a narrare la storia, il che importa
insieme elaborazione di essa come intuizione e fantasia; senza questa
ricostruzione o integrazione fantastica non è dato nè scrivere storia,
nè leggerla o intenderla. Ma siffatta fantasia veramente indispensabile
allo storico è la fantasia inscindibile dalla sintesi storica, la
fantasia nel pensiero e per il pensiero, la concretezza del pensiero
che non è mai un astratto concetto ma sempre una relazione e un
giudizio, non una indeterminatezza, ma una determinatezza. Epperò essa
è da distinguere dalla libera fantasia poetica, cara a quegli storici
che vedono o odono il viso e la voce di Gesù sul lago di Tiberiade,
o seguono Eraclito nelle sue quotidiane passeggiate tra le colline di
Efeso, o ridicono i segreti colloquî tra Francesco d’Assisi e il dolce
umbro paese».

Sebbene involuta ed oscura, questa pagina distingue, una fantasia
— chiamiamola così — «_storica_» che ricostruisce ed integra dai
documenti quello che fu; e una _fantasia poetica_ che inventa quello
che non fu mai; concludendo che senza la fantasia «storica» la quale
ricostruisce ed integra, non c’è storia. «_Senza questa ricostruzione
o integrazione fantastica non è dato nè scrivere storia, nè leggerla ed
intenderla_».

Su questo punto non possono esserci dubbi. È chiaro d’altra parte che
quella che il Croce chiama qui, con linguaggio impreciso e barcollante,
«_ricostruzione o integrazione fantastica_» è l’intuizione degli stati
di coscienza passati. Ma in un’altra opera il Croce ha voluto giudicare
l’opera mia e giudicarla non solo nella forma, ma anche nella sostanza,
per negare che essa sia storia. Che cosa ha detto allora? Ha affermato
che non solo la fantasia poetica, ma anche la fantasia storica,
ossia l’intuizione, non può creare storia vera. Il lettore stenterà a
crederlo; eppure è proprio vero che il Croce ha scritto testualmente
così: «Il Ferrero crede che si debba con la immaginazione, o come dice,
con la congettura integrare le fonti là dove il senso critico _vieta
coteste integrazioni e nega che possano mai fornire storia e storia
reale_. Al che il Ferrero, e con lui i suoi difensori, obbiettano,
che, senza le congetture e le immaginazioni, molta parte della
storia rimarrebbe arida esposizione e compilazione di fonti. E tale
sia e rimanga, quando non può essere altro, ossia quando mancano le
condizioni soggettive ed oggettive perchè sorga storia vera e propria;
meglio allora una rassegna di fonti, che un sogno sulle fonti...»

La contraddizione è evidente: «_Il senso critico vieta coteste
integrazioni e nega che possano mai fornire storia e storia reale_». Ma
che altro possono essere queste integrazioni vietate dal senso critico,
se non quelle che la fantasia storica fa in opposizione alla fantasia
poetica, che non integra ma inventa; e che nella «Teoria» erano state
giustamente dichiarate indispensabili allo storico, perchè non sono
altro che la sua facoltà di intuizione?

Ma non poteva accadere altrimenti. Volendo negare che una storia fosse
buona storia senza rifarla, il Croce non aveva altro mezzo che di
negare addirittura il processo creativo della storia — l’intuizione;
ossia, per affermare che io ho perduto il mio tempo a scrivere
«Grandezza e Decadenza di Roma» come i suoi numerosi lettori a
leggerla, che la storia non esiste, non è possibile, è un vano sogno.
Per ammazzare me egli ha sacrificato addirittura Clio e la Storia tutta
quanta; e dopo aver scritto un poderoso volume per scoprire che cosa
sia e come si scrive!

O giovani, che volete darvi alle storie, non ascoltate le false
autorità, che vogliono insegnarvi, senza saperlo, che cosa è e come si
scrive la storia. Leggete i grandi maestri dell’arte, incominciando
dagli antichi. Leggete Tucidide, leggete Sallustio, leggete Livio,
leggete Tacito. Solo chi conosce l’arte può insegnarla: troppo,
questo vecchio precetto del buon senso è stato dimenticato dal secolo
implacabilmente nemico di tutte le arti: della storia come della
guerra, della pittura come della politica.




II.

IL MATERIALISMO STORICO E ROMA ANTICA.


Quando apparve la traduzione francese dei due primi volumi di
«Roma» alcuni, giornalisti d’oltre Alpi, uomini d’ingegno ma un po’
precipitosi nel giudicare, come è spesso quella professione, scrissero,
e con sincera intenzione di elogio, che l’autore aveva studiato
Carlo Marx. Imbattutisi per la prima volta in una storia antica, che
raccontava di commerci, di dissesti, di fallimenti, di usure, e di
altre cose consimili, reputate da molti invenzioni moderne; avendo
sentito dire che Carlo Marx aveva fatto degli interessi economici
l’asse intorno a cui giri la storia universale, s’erano messi in
mente di far onore all’opera, ascrivendola ad una famiglia così
moderna e così illustre. Senonchè è difficile immaginare un più grosso
sproposito, e che sia prova più manifesta di ignoranza totale, sia
in ciò che concerne la storia in genere, sia per ciò che tocca il
materialismo storico. Ragione per cui l’errore fu largamente ripetuto.

Il materialismo storico non è una scuola, perchè una scuola suppone
maestri e discepoli, e qui i discepoli almeno mancano; è una pura
dottrina, campata nei cieli della speculazione, un po’ confusa e
nebulosa, come tutto ciò che è uscito dalla mente frammentaria di
Carlo Marx. Nessuno storico l’ha ancora applicata in nessuna opera
di polso. Ma come dottrina si presenta negli scritti del suo autore
e dei suoi discepoli e commentatori in due vesti: più generale la
prima, più particolare la seconda. La dottrina più generale vuole che
i fenomeni della storia, la religione, la politica, il diritto, l’arte
e via dicendo, siano una specie di drappeggiamento sontuoso, sotto cui
si nasconde la greggia ed unica realtà degli interessi economici. Ma
del materialismo inteso così io penso che sia una dottrina puerile,
da non poter essere presa sul serio; immaginarsi se si potranno
trovare le sue «formule» e i suoi «derivati» nell’opera mia! Che
ogni istituzione o associazione umana di qualsiasi natura, politica,
religiosa o intellettuale, debba tenere un libro di conti; che tutte
le relazioni tra gli uomini di ogni specie, dalla famiglia allo Stato
e alla Chiesa, siano regolate anche da una ragione di dare e avere,
non vuol dire, che l’anima di quelle associazioni e istituzioni viva
nel libro dei conti; vuol dire soltanto che, qualunque cosa gli uomini
facciano, pensino o vogliano, hanno bisogno di nutrirsi e di vestirsi;
che il prete deve vivere dell’altare, come il pittore del pennello,
e il matematico delle formule. Più seria è la dottrina particolare e
ristretta, che assume la _trasformazione degli istrumenti del lavoro
a motore occulto della storia_. Inteso così, il materialismo storico
potrebbe essere una dottrina feconda e fare scuola, il giorno che
raccogliesse intorno a sè discepoli valorosi, purchè circoscritta alla
storia dell’Europa negli ultimi due secoli, che sola può comportarne la
applicazione. Negli ultimi due secoli la storia dell’Europa è veramente
condotta da due demiurghi: le dottrine razionali della società e dello
Stato, che minano sotto sotto Dio; le macchine mosse dal vapore e
dall’elettricità, che minano sotto sotto tutti gli antichi ideali di
perfezione. Nessuno scrittore capirà il secolo XIX, sinchè non riesca
a scoprire questi due demiurghi, discesi da due cieli differenti
della storia, all’opera insieme e senza saper l’uno dell’altro. Il
materialismo storico potrebbe studiarne con profitto uno; e quindi
scoprire una parte della verità.

Senonchè questa dottrina non ha posto nè ufficio nella storia antica,
dalla quale il secondo demiurgo è assente; ed è addirittura infantile
di supporre che abbia potuto applicarla proprio l’autore, che ha
indicato nel secolo XIX e nel trapasso della civiltà qualitativa alla
quantitativa, dall’ideale di perfezione all’ideale di potenza, il
maggior rivolgimento della storia universale. Solo questo rivolgimento
ha chiamato in terra, un paio di secoli fa, il demiurgo, che il
materialismo vorrebbe presente in tutti i luoghi e in tutte le epoche;
e le cui formidabili spinte e audacie e crudeltà gli uomini non
conobbero, sinchè la civiltà fu per sua natura qualitativa. Intorno
alla tecnica dei Greci e dei Romani ci somministrano numerose, per
quanto slegate e frammentarie notizie, gli scrittori, le leggi, i
rottami di attrezzi e di macchine — aratri, mulini, telai, forni,
stampi e via dicendo — raccolti negli scavi, e i disegni scolpiti nei
bassorilievi. Ma da secolo a secolo, da paese a paese, non si riesce a
scoprire differenze visibili e quindi progresso, come l’intendiamo noi,
fuorchè nelle macchine di guerra. Gli strumenti della industria e della
agricoltura non mutano, a distanza di secoli; le forze motrici sono
sempre i muscoli umani, alcuni animali, il vento e l’acqua; il vapore è
un gingillo. In tutta la letteratura antica ho trovato una sola pagina,
in cui l’ammirazione del progresso, oggi così fervida, sia presentita:
la prefazione del libro diciannovesimo della _Historia naturalis_, in
cui Plinio il vecchio, raccontando che il Mediterraneo ai suoi tempi è
solcato in ogni verso non più da navi a remo ma da navi a vela, dopochè
l’abbondanza del lino coltivato in Occidente ha fatto della tela un
oggetto di consumo corrente, vanta la velocità delle navi spinte del
vento, i viaggi affrettati, lo spazio vinto, con parole, che un moderno
potrebbe ripetere, ritoccandole appena, del vapore. Ma se gli strumenti
non mutavano, mutavano, e molto, i manufatti da epoca ad epoca; secondo
che la mano di una generazione e di un popolo era più abile o meno, più
arduo o più facile il modello di perfezione a cui i differenti secoli
e le diverse nazioni guardavano, più fino e più rozzo il gusto che
commetteva i lavori e li giudicava.

Immaginare una storia «materialistica» di Roma sarebbe come voler
scrivere una storia cattolica o protestante dei Faraoni. Ma come
è nato allora questo svarione di critici orecchiuti e orecchianti?
Nella storia degli ultimi due secoli della repubblica c’è un paradosso
apparente: più Roma e l’Italia arricchiscono e più sono rovinate; più
si ingrandiscono fuori, e più si indeboliscono dentro. L’aristocrazia
romana si trova padrona di un immenso impero, quando non è più capace
di governare e amministrare una città! Massime nell’ultimo secolo della
repubblica ogni vittoria è una catastrofe. Parecchi storici avevano
visto o intravisto, tra le cause di questo singolare dissolversi per
troppo vincere, gli influssi della cultura greca — arti, filosofie,
industrie, religioni, costumi, lussi, piaceri — sull’antica società
latina, aristocratica, tradizionalista, bigotta e puritana. Ma questa
causa non è la sola, ed è, per dir così, una causa seconda, derivata da
un’altra, meno visibile e più profonda: l’oro delle conquiste. Fenomeno
economico? Per chi cerca nella natura umana la ragione profonda della
storia, questa azione della moneta è un altro esempio della padronanza
e tirannia che tanti oggetti creati dall’uomo a servirlo esercitano
sul loro autore. Che cosa è la moneta? Non è la ricchezza, ma _una
ricchezza_; ossia uno dei tanti beni desiderati dall’uomo, ma in sè e
per sè non dei più necessari, perchè i metalli preziosi, tanto pregiati
per la loro bellezza e rarità, non servono a nulla fuorchè ad ornare,
se non esistono gli altri beni necessari alla vita, che il denaro
acquista. Ad un uomo perduto nel Sahara un pane ed un otre d’acqua
sarebbero più preziosi, che un sacco di monete d’oro.

Senonchè se questo è vero, è pur vero che gli uomini immedesimano la
ricchezza e il denaro, come se il denaro fosse la ricchezza, e di nulla
sono più cupidi che di denaro, sia esso coniato in metallo prezioso
o stampato in vilissima carta, al punto che reputano felice solo chi
ne abbonda — uomini e tempi. Come si spiega questo strano fenomeno?
Per quale ragione questi pezzi di argento e d’oro, queste polizze
baroccamente istoriate che da sè e per sè non potrebbero soddisfare
nessuno dei nostri bisogni, abbagliano l’uomo al punto, che il maggior
numero immedesima in quelli la ragione stessa del vivere? Perchè,
quando intorno sussista una civiltà raffinata e piena di beni svariati,
il denaro è uno schiavo docile, pronto a tutti i servizi; mentre tutte
le altre ricchezze si prestano ai voleri dell’uomo soltanto secondo la
loro natura rigida e limitata. Chi possiede una terra, una casa, una
bottega, un’officina, una merce qualsiasi, ne è nel tempo stesso il
padrone e lo schiavo; perchè può servirsene solamente per i fini e gli
uffici a cui la loro natura destina quelle cose. Se vuol servirsene ad
altri fini ed uffici deve venderli, ossia convertirli in denaro. Chi
possiede denaro, può invece accumularlo o disperderlo, nasconderlo o
ostentarlo, prestarlo o regalarlo, aiutare i suoi simili o corromperli,
convertirlo in sapere, in sfarzo, in piacere o in vizio. Il denaro
è amico e nemico, maestro e lenone, creatore e distruttore, angelo e
demonio. Se l’uomo comanda, il denaro lo servirà nell’una o nell’altra
di queste opposte persone.

Questa sua natura è cagione che nessuna prova sia più ardua e
pericolosa per un singolo uomo, come per un popolo ed una civiltà, che
un’improvvisa abbondanza di denaro. Che cosa accade quando, per una
ragione o per un’altra, il denaro viene improvvisamente ad abbondare
in una nazione, _mentre gli altri beni necessari alla vita, che si
possono comperare con il denaro, non crescono, o diminuiscono?_ Noi
possiamo rispondere facilmente a questo quesito, dopo il diluvio di
falso denaro sotto cui la guerra ha sommerso in sette anni l’Europa.
Coloro, nelle cui mani affluisce questa nuova abbondanza di denaro,
potranno accaparrare una parte assai maggiore dei beni disponibili,
che non prima; e siccome la somma totale di questi non è cresciuta,
dovranno toglierli ad altri che prima ne godevano: a coloro i quali,
per una ragione o per un’altra, non sono stati raggiunti e irrorati
dall’alta marea del denaro... Quindi alterazione violenta delle
fortune; ingiusto e improvviso arricchimento degli uni; improvviso ed
ingiusto impoverimento degli altri. Inoltre — ed è il disordine più
pericoloso — mentre gli impoveriti si ridurranno a vivere strettamente
del necessario, gli arricchiti saranno spinti sempre più al lusso ed al
vizio. Appunto perchè questo pericoloso servitore si offre di servirli
a loro piacere, come angelo o come demonio, gli uomini sono vinti il
più spesso dalla curiosità di vedere come serve un demonio. Quando gli
uomini dispongono di troppo denaro, il loro senno vacilla; cresce il
prezzo dei gioielli, dei vini, delle vesti preziose; sorgono da ogni
parte ville e palazzi; lupanari e bische rigurgitano; danze e feste
tripudiano.

L’ingiusto arricchimento infatua gli uni, come lo immeritato
impoverimento inasprisce gli altri; la disciplina sociale si rallenta;
il rispetto, la parsimonia, lo spirito d’ordine svaporano, si diffonde
l’invidia delle altrui ricchezze, l’odio dei fortunati, una insaziabile
cupidità. Non solo il denaro, passando da una mano all’altra, insegna
l’ozio, la prodigalità, il lusso, la dissolutezza, la vanità, la
ghiottoneria; ma più abbonda, più scarseggia, più ne cresce il bisogno
perchè più rinvilia. I tempi si lagnano di impoverire, quanto più
arricchiscono. Il denaro sembra come volatilizzarsi.

Questo spasimo tetanico, in cui si contorce oggi l’Europa, infettata
dal falso denaro della guerra intriso di tanto sangue, per poco non
soffocò Roma e l’Italia negli ultimi due secoli della repubblica
romana. Non la carta e i torchi litografici, ma l’oro e l’argento
furono allora il veicolo della malattia. L’Italia fu per due secoli
devastata periodicamente da violente maree di oro e di argento,
suscitate dalle guerre, che nei tempi antichi, per le ragioni esposte
nel mio primo volume, snidavano dai ripostigli e trasportavano nel
paese vincitore i metalli preziosi. Soffrì, in quei due secoli,
di tutti i mali che ci tormentano oggi: la carestia crescente con
l’abbondanza, l’alterazione iniqua delle fortune, la depravazione dei
costumi, il tramonto delle tradizioni, l’obliterarsi della disciplina
sociale, le turbolenze politiche e gli odi civili che, via via
esasperandosi, proruppero alla fine in aperte e sanguinose rivoluzioni.

Ed ecco spiegato l’errore di coloro che hanno visto in questa visione
della storia di Roma le formule e i derivati di un materialismo
storico di fantasia, perchè la moneta vi comparisce come il principale
agente del disordine di una grande epoca. Ma questa visione non è
parente del cosidetto materialismo storico neppure in decimo grado.
Vero è invece che la visione è mia. Senza dubbio questo spaventoso e
meraviglioso fenomeno non è stato da me capito con quella pienezza
e rappresentato con quella forza, di cui, dopo la guerra mondiale,
mi sentirei oggi capace; e che spero di trasfondere un giorno in una
edizione definitiva. Ho concepito questa parte dell’opera una ventina
di anni fa, perduto in una pace così universale e profonda, che la
memoria e la nozione stessa del terribile fenomeno si erano perdute;
l’ho concepita, quasi direi, dal nulla e in piena solitudine, perchè
nessuno dei predecessori aveva neppur presentito queste oscure verità
e poteva quindi prestarmi aiuto. Non ostante un intensissimo sforzo
di riflessione e di immaginazione, che ha durato anni, non ho veduto
il fenomeno nella sua pienezza e in tutti i suoi particolari, così
lucidamente come lo vedo ora; e qualche volta l’ho confuso un po’ con
un altro fenomeno, che appartiene alla stessa famiglia ma è diverso:
con la perturbazione che genera l’incremento della ricchezza, quando
è figlia del lavoro. L’opera ha quindi bisogno di qualche ritocco. Ma
sarò io giudicato vittima di un vano orgoglio, se dirò apertamente che,
a mio giudizio, un critico equo e competente, invece di dottrineggiare
fuori di tempo e luogo sul materialismo storico, avrebbe potuto, e
forse dovuto, riconoscere un po’ di merito all’autore, che primo aveva
avuto la visione di un fenomeno di cui si era perduta la memoria, venti
secoli dopo che era avvenuto, venti anni innanzi che, ripetendosi in
un intero continente, si rivelasse di nuovo alla obliviosa noncuranza
degli uomini?


  FINE.




INDICE DEI NOMI


  _Acusilas_, 6.
  _Adriano_, imp., 42.
  _Agatocle_, 96, 114.
  _Agostino_ (santo), 52-82, 92, 104.
  _Agrippina_, 37.
  _Ammirato Scipione_, 109.
  _Annibale_, 22.
  _Antonia_ (madre di Germanico), 35.
  _Augusto_, imp., 15, 29, 35.

  _Balbo C._, 130.
  _Barbagallo C._, 9.
  _Boccalini_, 109.
  _Bodin_, 109.
  _Botero_, 115.
  _Bruto_, 18, 29.
  _Buondelmonti C._, 87.

  _Camillo_, 24, 73.
  _Carlo Magno_, 81.
  _Cassio_, 25, 29.
  _Catilina_, 13.
  _Catone_, 5, 6, 11.
  _Cavriana F._, 119.
  _Cesare_, 9, 10, 11, 21, 43, 130.
  _Cicerone_, 5, 6, 7, 18, 53, 54, 128.
  _Cinna_, 25.
  _Claudî_ (i Giulii), 29, 34, 39.
  _Claudio Appio_, 22.
  _Claudio_, imper. 15, 34, 37, 43, 118.
  _Cordo Cremunzio_, 29.
  _Cristo_, 76, 77.
  _Croce B._, 127-149.
  _Curiazi_ (i), 62.

  _Dalla Torre R._, 109.
  _David_ (pitt.), 19.
  _Domiziano_, 31, 43.
  _Droysen_, 129, 130.
  _Druso_, 15.

  _Ellanico_, 6.
  _Eraclito_, 147.
  _Erodoto_, 129, 130.

  _Fabio Pittore_, 5, 6.
  _Faraoni_ (i), 155.
  _Fenestella_, 29.
  _Ferecide_, 6.
  _Ferrero G._, 9, 147, 148.
  _Ferretti E._, 108.
  _Flacco Iginio_, 29.
  _Flacco Verrio_, 29.
  _Francesco d’Assisi_ (san), 147.

  _Germanico_, 35, 36, 121.
  _Gesù_, v. Cristo.
  _Gibbon_, 114.
  _Giugurta_, 9.
  _Giustino_, 29.
  _Grote_, 130.
  _Guicciardini Fr._, 89.

  _Houssaye_ (de la) _Amelot_, 109, 119.

  _Lipsio Giusto_, 109, 112-14.
  _Livia_, 35.
  _Livio Tito_, 8, 10, 11, 14, 15-27, 29, 30, 31, 32,
    33, 34, 36, 39, 41, 47, 50, 54, 55, 57, 60, 61, 63, 68,
    72, 76, 77, 79, 80, 81, 82, 85, 86, 87, 91, 92, 95,
    103-105, 107-110, 118, 123, 129, 130, 144, 149.
  _Loth_, 61.
  _Lucrezia_, 66, 67.

  _Machiavelli N._, 85-110, 111-116, 118, 123, 124, 144.
  _Malvezzi V._, 109.
  _Mario_, 71.
  _Marx C._, 151, 152.
  _Massimo Q._, 12.
  _Massimo V._, 29.
  _Medici_ (i), 85.
  _Messala V._, 36.
  _Mommsen_, 130, 144.
  _Mucio_ (pont.), 5.
  _Mureto_, 108, 121.

  _Nardi_, 105.
  _Nerone_, 31.

  _Orazi_ (gli), 62.
  _Orazio_, 15.

  _Paolo Emilio_, 20.
  _Paolo Lucio_, 24.
  _Papini C._, 109.
  _Patercolo V._, 29, 110.
  _Pisone_, 5, 6, 121.
  _Plinio_ (il vecchio), 154.
  _Pollione A._, 29.
  _Porsenna_, 23.
  _Posevino_, 115.
  _Postumio_, 72.

  _Quintiliano_, 10, 13.

  _Rapin_, 110.
  _Regolo_, 72.
  _Ribadeneira_, 115.
  _Romolo_, 61, 100.
  _Rucellai C._, 87.
  _Rych Teodoro_, 109.

  _Sallustio_, 8, 9-14, 16, 19, 34, 41, 54, 55, 57,
    59, 77, 79, 80, 81, 82, 109, 149.
  _Sardanapalo_, 66.
  _Savonarola G._, 85, 89, 105.
  _Scipione Africano_, 24, 53, 54, 58.
  _Scipione Nasica_, 57.
  _Scipione P._, 12.
  _Seneca_, 10, 31, 50.
  _Servilio_, 24.
  _Sestio_, 66.
  _Sforza_, 121.
  _Silla_, 9, 21, 72.
  _Strada Fiumano_, 109.
  _Svetonio_, 41-43, 121, 144.

  _Tacito_, 8, 11, 27, 29-40, 41, 43, 51, 77, 80, 81,
    82, 89, 107-110, 111-16, 117-22, 123, 129, 130, 144,
    146, 149.
  _Taine I._, 10, 11.
  _Thierry_, 130.
  _Tiberio_, 29, 34, 35, 36, 37, 38, 118, 120, 121,
    144, 146.
  _Toffanin G._, 107.
  _Torquato Manlio_, 18, 20.
  _Traiano_, 30, 32.
  _Trogo Pompeo_, 29.
  _Tucidide_, 149.
  _Tullo_, 62.

  _Valentino_ (duca), 95, 121.
  _Varrone_, 64.
  _Vespasiano_, 29.
  _Vico G. B._, 88.
  _Virgilio_, 15.
  _Virginia_, 62.




INDICE DELLE MATERIE


  _Al Lettore_                                             _pag_.   1

  LA CREAZIONE.

     I. L’annalistica dei primi secoli                     _pag_.   5
    II. Sallustio                                            »      9
   III. Tito Livio                                           »     15
    IV. Tacito                                               »     29
     V. Svetonio                                             »     41

  LA DISTRUZIONE.

     I. L’Impero romano e la sua storia                    _pag_.  47
    II. L’aurora della morale umana                          »     49
   III. S. Agostino, la Repubblica e il popolo romano        »     53
    IV. S. Agostino e la corruzione dei costumi              »     57
     V. S. Agostino, i grandi uomini e la storia di
            Roma                                             »     63
    VI. La fortuna di Roma e Cristo                          »     75

  LA RINASCITA.

     I. La storia e l’antichità nella mente del
          Machiavelli                                      _pag_.  85
    II. La razionalizzazione della politica                  »     91
   III. Lo Stato superiore alla morale                       »     95
    IV. Lo Stato-Dio in Livio e nel Machiavelli              »    103
     V. La reazione contro Livio e contro il Machiavelli     »    107
    VI. Il Tacitismo e la ragion di Stato                    »    111
   VII. Il Tacitismo e la falsificazione di Tacito           »    117
  VIII. Quel che noi dobbiamo agli storici antichi           »    123

  APPENDICE.

     I. Che cos’è la Storia?                               _pag_. 127
    II. Il materialismo storico e Roma antica                »    151

  _Indice dei nomi_                                        _pag_. 163




NOTE:


[1] _De Oratore_, II, 12.

[2] _De Oratore_, II, 15.

[3] Cfr.: Ferrero e Barbagallo, _Roma Antica_, I, pag. 259.

[4] Taine, _Essai sur Tite Live_. Paris 1874, pag. 343 e sg.

[5] Taine, _Op. cit._, pag. 346.

[6] _Cat._, VII.

[7] _Cat._, VII.

[8] Livio, _Proemio_.

[9] Liv., IX, 11.

[10] Liv., XLV, 38.

[11] Liv., 2, 41.

[12] Tac. _Hist._, I, 2.

[13] Tac. _Hist._, I, 3.

[14] Tac. _Ann._, IV, 32.

[15] Tac. _Ann._, XIV, 64.

[16] _Ann._, IV, 33.

[17] _Ann._, III, 65.

[18] _Ann._, I, 10.

[19] _Ann._, III, 3.

[20] _Ann._, I, 8.

[21] _Hist._, II, 50.

[22] _Ann._, IV, 11.

[23] _De Civit. Dei_, XIX, 21.

[24] _De Civit. Dei_, II, 21.

[25] _De Civit. Dei_, I, 15.

[26] _De Civit. Dei_, XIX, 7.

[27] _De Civit. Dei_, I, 31.

[28] _De Civit. Dei_, I, 33.

[29] _De Civit. Dei_, II, 2.

[30] _De Civit. Dei_, II, 17.

[31] _De Civit. Dei_, III, 13.

[32] Livio, I, 9.

[33] Livio, I, 9.

[34] Livio, I, 10.

[35] _De Civit. Dei_, III, 14.

[36] _De Civit. Dei_, III, 14.

[37] _De Civit. Dei_, III, 4.

[38] _De Civit. Dei_, II, 20.

[39] _De Civit. Dei_, I, 19.

[40] _De Civit. Dei_, I, 19.

[41] _De Civit. Dei_, IV, 8.

[42] _De Civit. Dei_, IV, 8.

[43] _De Civit. Dei_, IV, 14.

[44] _De Civit. Dei_, II, 22.

[45] _De Civit. Dei_, II, 22.

[46] _De Civit. Dei_, II, 23.

[47] _De Civit. Dei_, II, 24.

[48] _De Civit. Dei_, II, 23.

[49] _De Civit. Dei_, IV, 7.

[50] _De Civit. Dei_, V, 1 e 10.

[51] _De Civit. Dei_, V, 12.

[52] _De Civit. Dei_, XVIII, 22.

[53] _De Civit. Dei_, V, 13.

[54] _De Civit. Dei_, V, 13.

[55] _De Civit. Dei_, V, 14.

[56] _De Civit. Dei_, V, 12.

[57] _De Civit. Dei_, I, 1.

[58] _De Civit. Dei_, III, 14.

[59] _De Civit. Dei_, V, 17.

[60] _De Civit. Dei_, I, 8.

[61] _De Civit. Dei_, I, 11.

[62] _De Civit. Dei_, I, 17 e 24.

[63] _De Civit. Dei_, I, 12.

[64] _Discorsi sulla Prima Deca di Tito Livio_. Proemio.

[65] _Discorsi_, I, 11.

[66] _Discorsi_, I, 39.

[67] _Discorsi_, Proemio.

[68] _Principe_, XIV.

[69] _Discorsi_, I, 2.

[70] _Discorsi_, I, 55.

[71] _Discorsi_, I, 55.

[72] _Discorsi_, III, 6.

[73] Cfr. _Discorsi_, I, 2; I, 38; I, 57.

[74] _Discorsi_, I, 18.

[75] _Principe_, II.

[76] _Discorsi_, III, 5. — _Principe_, 3 e 19.

[77] _Principe_, 3.

[78] _Principe_, 2.

[79] _Discorsi_, I, 11.

[80] _Discorsi_, I, 11.

[81] _Discorsi_, I, 12.

[82] _Principe_, 7.

[83] _Principe_, 15.

[84] _Principe_, 15.

[85] _Principe_, 18.

[86] _Principe_, 18.

[87] _Principe_, 8.

[88] _Principe_, 8.

[89] _Principe_, 8.

[90] _Principe_, 18.

[91] _Principe_, 3.

[92] _Discorsi_, I, 1.

[93] _Discorsi_, I, 7.

[94] _Discorsi_, I, 7.

[95] _Discorsi_, I, 9.

[96] _Discorsi_, I, 30.

[97] Sul _Tacitismo_ si può leggere con profitto il bel lavoro di G.
Toffanin, _Machiavelli e il Tacitismo_. Padova, 1921.

[98] Iusti Lipsi, _Polit._, IV, 14.

[99] Iusti Lipsi, _Polit._, IV, 13.

[100] Iusti Lipsi, _Polit._, IV, 14.

[101] Iusti Lipsi, _Polit._, IV, 14.

[102] _Principe_, 18.

[103] _Tacite, avec des notes politiques et historiques par Amelot de
la Houssaye_. Paris, 1724.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA PALINGENESI DI ROMA ***


    

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from the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, the manager of
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forth in Section 3 below.

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or any Project Gutenberg™ work, (b) alteration, modification, or
additions or deletions to any Project Gutenberg™ work, and (c) any
Defect you cause.

Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s
goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg™ and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state
visit www.gutenberg.org/donate.

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
donate, please visit: www.gutenberg.org/donate.

Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of
volunteer support.

Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in
the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not
necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper
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facility: www.gutenberg.org.

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