Alcibiade : scene Greche in dieci quadri

By Felice Cavallotti

The Project Gutenberg eBook of Alcibiade
    
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Title: Alcibiade
        scene Greche in dieci quadri

Author: Felice Cavallotti

Release date: May 6, 2025 [eBook #76035]

Language: Italian

Original publication: Milano: Tipografia Sociale E. Reggiani & C, 1884

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK ALCIBIADE ***


                                 OPERE
                                   DI
                           FELICE CAVALLOTTI

                               VOLUME V.


                               ALCIBIADE

                      SCENE GRECHE IN DIECI QUADRI
                                CON NOTE



                                 MILANO
                 TIPOGRAFIA SOCIALE, E. REGGIANI E. C.
                         _Via Marino, Num. 3._
                                 1884.




                         PROPRIETÀ LETTERARIA.




La mattina del 23 di giugno dell’anno di grazia 1873, pubblicandosi
in Milano il volume delle mie _Poesie_, e nell’aria fiutando che
il medesimo non avrebbe forse incontrato i gusti letterarj della
Regia Procura; avendo, d’altro canto, ritrovato di mio mediocre
soddisfacimento l’alloggio che nel Palazzo di Giustizia alla cella
N. 50 mi era stato per parecchi mesi fornito dal Regio Erario negli
anni di grazia 1870 e 1871, e non nutrendo che un desiderio languido
di ritornarvi: per questi ed altri motivi mi alzai quella mattina con
un prepotente bisogno di andare a prendere un po’ d’aria fresca sul
lago. E col primissimo treno per Arona me ne venni alla bella Meina,
specchiante nel Verbano la verzura de’ suoi clivi e le casette bianche,
pulite: e da Meina — visto e considerato che lì, in riva al lago,
c’erano troppi villeggianti e curiosi — su, per la montagna, a Ghevio,
romito villaggio dell’alto Vergante, — al capo estremo della valle
che la _Tiasca_ spumosa, tortuosa, chiassosa attraversa, correndo ver’
Meina alla foce. Il mio Ghevio, dove bambino venivo, nella casa dello
zio, con mio fratello e mia sorella, e i cugini, a passar le vacanze
della scuola: dove sono i ricordi della mia fanciullezza e il prato ove
piccini si faceano le gare delle corse: e delle corse vincitrice talora
era anche lei — la _bionda vestita di cielo_ — che vidi più tardi per
le vie del mondo un momento rifulgere e sparire:

    _la s’è racchiusa di nubi in un velo_ 
    _la diva bionda vestita di cielo!_ 

il mio Ghevio ove s’andava per greppi e boscaglie e per siepi, in
traccia di funghi e ciclamini, e di nidi e topolini color bianco e
nocciuola; e sempre vi zampilla la _fontanella_ lungo il sentiero
della montagna, che ci vedea su la prim’alba in ispezione furtiva
ai lacciuoli nel prato; e su in alto è la chiesuola con dipinto nel
soffitto l’arcangelo Gabriele, bellissimo, armato di spada, nell’atto
che ammazza il gran drago; il quale attirava la mia attenzione più
profonda mentre il vecchio prevosto facea la predica domenicale: e lì
accosto il piccolo cimitero... che delle memorie più care oggi tanta
parte rinserra...

A Ghevio danno i tralci benigni un vino limpido di collina, secco,
frizzante, brioso: interlocutore non isgradito di discussioni
teologiche fra me e quel parroco molto reverendo, prima che il
_Cantico dei Cantici_ turbasse la cordialità delle nostre relazioni
diplomatiche: di più, vi spira un’aria montanina salubre, che risveglia
gli spiriti, che allarga i polmoni; ma quel giorno parevami anche più
salubre del solito: infinitamente più di quella che per me spirava in
quel momento a Milano. Tanto è vero che, il domani, una lettera di mio
padre avvisavami come qualmente certe faccie di malaugurio si fossero
presentate a chiedere di me a casa mia, e gironzassero tutto il santo
giorno su e giù per via San Zeno, come ai bei giorni del 69, coll’aria
di gente che aspetta amorosamente un debitore. Il terzo dì infine potei
formarmi una convinzione assoluta e precisa dei vantaggi igienici della
gita mia; poichè la Eccellentissima Procura di Milano graziosamente
notificava al tipografo l’ordine di sequestro delle mie poesie e il
mandato di cattura contro il loro indegno papà.

Il mio preciso dovere di suddito benpensante sarebbe stato, lo so, di
andarmi subito a costituire e risparmiare ai vigili tutori dell’ordine
la fatica e la noja di lunghe, pazienti ricerche: prevalse in me il
pensiero ch’essi sono pagati apposta per questo, e l’esercizio del moto
fa bene al fisico; che d’altra parte alla salute delle istituzioni e
del Regno non era rigorosamente indispensabile il completo adempimento
delle benevole intenzioni del Fisco a riguardo mio. — Aggiungasi che
in prigione, come l’esperienza del 69 e del 70 insegnavami, mancano i
comodi necessarj per lavorare: non ci è posto per mettere i libri, non
ci è luce per chiarire le idee, e tutte queste cose mi bisognavano per
iscrivere il mio quarto lavoro drammatico, che andavo accarezzando col
desiderio da più mesi — e che doveva intitolarsi: _Alcibiade_.

                                   *
                                  * *

Come la prima idea di questo lavoro mi sia venuta, e in che ora precisa
del tal giorno del tal mese abbia preso alloggio nel mio cervello,
non saprei: per quanto oggi sia l’uso fra i poeti di non defraudare
il mondo di queste informazioni preziose. Certo — e me lo consentano
i giovani autori che improvvisano drammi storici su le notizie
dell’_Enciclopedia_ — non mi vi accinsi senza un grande rispetto per
il mio eroe: cioè non senza essermi prima ingegnato del mio meglio a
studiarlo coscienziosamente, _intus et in cute_, affinchè dall’_isole
dei beati_ ei non tornasse ad intentarmi processo di calunnia: e dopo
avere risciacquato alle fonti del secolo d’oro di Atene gli studj
di greco prediletti in liceo. Il fatto è che, una volta deciso di
ricondurre il figliuol di Clinia sulle scene, e intrattenermi secolui
un certo numero di settimane, presi le mie disposizioni per non essere
nei colloquj disturbato. E organizzato giù a Meina, in riva al lago,
e dentro la valle, un eccellente servizio... semaforico, per avvisare
a tempo la comparsa di corpi... eterogenei sull’orizzonte, ispezionai
diligentemente il rustico della casa (poichè nei locali ordinariamente
abitati il pericolo di seccature era evidente) per eleggere una stanza
da studio... all’altezza dei tempi e delle circostanze.

Ragion per cui la prima visita fu alla legnaja nella soffitta, sotto i
tetti, dove togliendo via un po’ di legna, e mettendoci un po’ di buona
intenzione della fantasia, il locale poteva benissimo passare per una
stanza d’architettura spartana, un po’ primitiva, di quella che piaceva
tanto a Licurgo. Detto fatto, per le scale tirai su un tavolino e un
pajo di sedie, disposi i libri in bell’ordine simmetrico su la legna
— e soddisfatto meco stesso del mio spirito inventivo, m’immersi per
guadagnar tempo in profonde elleniche meditazioni.

Nè so dir bene quanto durassero: so che di tutte le meditazioni la
più importante fu quella ch’ebbi a fare, a un certo punto, sentendomi
qualche cosa di morbido passeggiare e scivolar tra le gambe, e
trovandomi colla testa in fiamme tutto grondante di sudore come uscissi
allora da una stufa. Nel mio desiderio di solitudine avevo infatti
dimenticato che in quella stanza... non ero solo: e poi io, che volevo
darmi l’aria di pensar tante belle cose, non avevo pensato ch’eravamo a
luglio — il sole della canicola, più rabbioso che mai in quella estate,
batteva a piombo sulle tegole — e per non dare alla Regia Procura la
soddisfazione di prendermi vivo, io le apparecchiavo la ben più dolce
sorpresa di un poeta ribelle cotto arrosto.

Nel mio preventivo, questo non entrava: però ridiscesi le scale — ed oh
gioia! nello scendere mi s’offerse all’occhio un granaio, che serviva
da stanza per l’allevamento dei bachi da seta. Quella destinazione
fu come una rivelazione del genio. Imaginate una stanza rustica,
appartata, a primo piano, abbastanza spaziosa, coll’uscio su una
loggia di legno, prospiciente il cortile, adattatissima all’ufficio di
osservatorio astronomico: dal lato opposto una finestra sul prato che
mette alla valle: finestra alta non più di due metri dal suolo erboso e
morbido — ed ottima, in caso di ricerche indiscrete, per isvignarsela
a respirare il fresco della campagna. Aggiungi l’uscio serrantesi di
dentro con eccellente catenaccio; e le tavole dei bachi da seta per
disporvi in bell’ordine i libri: e il pensiero di quelli industri
animaletti per imitarne il lodevole esempio. Non occorre più dire che
lì fermai finalmente i vagabondi penati.

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                                  * *

E lì in quella stanza, povero baco da seta, per circa due mesi mangiai
la foglia di tutte le astuzie del mio eroe ateniese, e lo condussi al
bosco con tutte le regole dell’arte. Cioè, mi sbaglio, siamo esatti
nelle date, come la moda vuole — e poi quelle date che belle ore
care mi ricordano!: dal 3 al 10 luglio composi la tessera del lavoro
distribuendolo in undici parti o quadri: fattomi ben chiaro il disegno
nella mente, al dì 11 cominciai dalla coda, e scrissi in due dì
l’ultimo quadro: poi feci il 10.º, il 4.º, il 5.º, e via procedendo dal
più facile al meno facile, ultimi i primi due, che mi costarono dose di
pazienza maggiore.

Lavoravo di lena, le mie sei ore filate, dalle sei di mattina a
mezzodì: poi, nel pomeriggio, riscontrar classici, pigliar note, e
leggere le novità che da Milano mi mandavano, al finto indirizzo di
_Luigi Bianco_, mio padre ed il burbero _Pessimista_. Il quale spingea
la tenera amicizia sino alla pazienza di scrivere per me un diario
minuto quotidiano di tutto quanto succedeva laggiù nel mondo dei
viventi all’ombra della mia cara madonnina del Duomo: e ne approfittava
per intercalarvi quelle tali sue opinioni artistiche e _veriste_ —
ancora in germe allora — che più tardi spaventosamente sviluppandosi
doveano contro il mio romanticismo renderlo a tal segno feroce, da
levarmi — lui, il migliore degli amici a quei dì — perfino il saluto
nella via. Esempio di convinzione artistica meravigliosa in un secolo
così scettico come il nostro.

Dopo il pranzo, una giratina per la montagna a prender il fresco della
sera — poi, come tutti i bambini savi, a letto all’ora delle galline.

Mercè questo regime, che consiglio a’ miei giovani fratelli d’arte,
ai trentuno di agosto alle quattro in punto (i minuti primi e secondi
non li ricordo) scrivevo sotto al mio _Alcibiade_ la benedetta parola
_fine_! ch’è quanto dire, a scriverlo, ci avevo speso quaranta giorni
di lavoro utile; — perchè ai primi e agli ultimi di agosto il lavoro
pur troppo ebbe a subire non prevedute interruzioni.

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                                  * *

La prima — e assai dolorosa — fu la morte di Antonio Billia. Oggi gli
anni corrono veloci, la febbre del domani ange i nati da jeri, e i
morti van più in furia che nella ballata del poeta, e i giovani che
vengono su non han più tempo di ricordarli. Ma per chi visse le lotte
di quel periodo febbrile della nostra istoria italiana, che vide dopo
Lissa, Mentana e i fasti della Regìa e i processi al _Gazzettino Rosa_,
le ignominie medicee del processo Lobbia, e Barsanti, fanciullo biondo,
fucilato; e la nazione e la fortuna caccianti a spintoni verso Porta
Pia i ministri del re nell’ora che firmavano la rinunzia di Roma! — ma
chi respirò quell’atmosfera di tempeste, di battaglie, di entusiasmi
e di ire, ma gli antichi _bohèmes_ del _Gazzettino Rosa_ non potranno
mai dimenticarti, povero _Tonio_, — tu il loro impavido avvocato dei
processi quotidiani, il padrino dei quotidiani duelli, l’affettuoso
consigliero, compagno in carcere e fuori di carcere alle gioje, alli
sconforti, alli ardimenti — tu dal cuore buono come d’un fanciullo,
dalla parola tagliente come d’una spada!

Lo chiamavamo tra di noi l’avvocato _Trombone_. Con questo nomignolo
firmava nel _Gazzettino Rosa_ articoli caustici come la pietra. Nel
69, il governo lo mise al forte Bormida, con gli altri redattori,
sotto chiave: ma durante la custodia amorosa, i liberi elettori di
Corteolona e Belgiojoso — il collegio antico di Ruggiero Bonghi — con
ischiacciante votazione lo nominarono deputato.

Stette alla Camera quattr’anni. Amato dagli amici, rispettato dagli
avversari, presto temuto, il _bohème_ del _Gazzettino_ s’era creato
nell’assemblea, ricca in quel tempo d’oratori insigni, una fama di
eloquenza caustica, tutta sua. Era poi l’incubo di Giovanni Lanza,
presidente del consiglio: e la prontezza di spirito non essendo il
forte del medico ministro piemontese, le barzellette di Antonio Billia
lo faceano salire sulle furie.

Ed era stata una sera di barzellette gaje quella che fu, per il povero
Billia, l’estrema. Trovavasi lassù alle acque di Santa Caterina, in
una delle prime sere di quell’agosto 1873: convitato ad un pranzo
nell’albergo, proprio lì a fianco di Sua Eccellenza Visconti Venosta,
ministro degli esteri, avea supplito della sua vena briosa alle risorse
poco divertenti della anemica eloquenza ministeriale. Tutta la sera
intorno a sè tenne desta l’allegria: erano sul suo labbro facezie
argute e cortesi, riboccanti di _humour_, era un fuoco di fila di
motti di spirito, scoppiettanti fra la nota del cuore... i commensali
ridevano, le signore applaudivano...

La mattina dopo era cadavere. 

Avea 37 anni. 

L’ebbi lassù nel mio nascondiglio, due giorni dopo, la notizia
della tua morte, o mio Tonio!... e il momento che mi giunse mi sta
qui innanzi come se fosse ora... Nè quel giorno, nè l’altro scrissi
dell’_Alcibiade_ una riga.[1]

                                   *
                                  * *

Altre interruzioni al lavoro, anzi parecchie me le procurarono
le sollecitudini della R. Procura di Milano. La quale non trovava
nè regolare, nè discreto che io mi fossi reso per la terza volta
latitante, dopo essermi già presa due volte questa libertà nel 69...
ed io d’altra parte, non sapevo come farla persuasa che lo facevo non
già per me, ma nello interesse esclusivo delle patrie lettere. È vero
che su pei giornali io figuravo dimorante in Isvizzera: il difficile
stava nel convincerne il Fisco: e il Fisco se ne era convinto così
bene... che un bel dì — passeggiando fra Ghevio e Pisano a prendere
una boccata d’aria e meditare il miglior modo di far fuggire Alcibiade
sulla barca — m’accorsi di due individui in borghese, innanzi a me, i
quali ogni tanto di sottecchi si voltavano a squadrarmi, come tra loro
si consultassero sull’essere mio. Fossero gli abiti o gli orecchini o
il fiuto o una certa qual pratica da _répris de justice_, lì per lì mi
sovvenni di certa sera del novembre 1869, che latitante in Milano, dopo
averla scapolata liscia per un mese, mi ero lasciato pigliare come un
merlo, da quattro eccellenti persone che mi passeggiavano innanzi, con
aria da gnorri, precisamente a quel modo; e per subitanea associazione
di idee (dicono che i poeti non sono perspicaci!) rallentato il passo
senza farmi scorgere — e rimesso ad altro momento lo studio del metodo
di fuga per Alcibiade — lo ripresi provvisoriamente per conto mio —
pigliando in via precauzionale, mentre quei signori non guardavano, una
scorciatoia di fianco per i campi. L’idea pare non fosse disprezzabile,
perchè avvistisi appena della scomparsa, quei due signori tornarono
sui passi, precipitosi; e giù nella valle incontrai un messo da
Meina che veniva a portarmi l’avviso della comparsa di... uccelli
migratori. Infatto, i due viaggiatori per diporto erano scesi a Meina
la mattina in compagnia di due magnifici carabinieri; e umettata con un
_cicchetto_ la gola, s’erano subito informati della strada per Ghevio.
— Quella visita mi obbligò a trasferire, per un po’ di giorni, i penati
giù nel letto della valle, anzi del torrente, alla Cartiera delli
amici carissimi Bedone e Bertoglio, luogo fresco, un po’ malinconico:
indi ne viene che il mio _Cimoto_ qua e là in qualche scena si lascia
un po' andare alla malinconia. Come piacque finalmente agli incomodi
visitatori lasciar libero il lago e la montagna, sugli ultimi d’agosto
feci ritorno al nido.

                                   *
                                  * *

E come piacque alli immortali Iddii, venne finalmente quella sera del
settembre, che, intorno a un piatto enorme di castagne, cominciai
in famiglia la lettura intima delle gesta e miracoli del mio eroe.
C’erano i miei zii, mio papà, mia sorella... che dormono ora tutti al
camposanto. Il manoscritto era voluminoso anzi che no — e avrebbe, al
solo vederlo, spaventato qualunque spirito forte: ma di quali eroismi
non è capace l’affetto del sangue? Ho bisogno di dire che la lettura
durò due sere — che fu sopportata da anime stoiche — e che l’applauso
di quei cari morti fu entusiastico, unanime?

Ah, quei poveri primi giudici non imaginavano che l’_Alcibiade_ avrebbe
dovuto, al pari del suo papà, andar intorno ramingo, come persona
pregiudicata, per più mesi, prima di essere per grazia ammesso agli
onori della scena!...

                                   *
                                  * *

Fatti i tagli per la scena indispensabili, spedito a Milano il
manoscritto, aspettavo con qualche impazienza i primi giudizj degli
amici... Silenzio su tutta la linea!... Passa un dì, passa un altro:
finalmente Achille Bizzoni in un passo di una sua lettera mi scrive:
«_Pessimista_ m’ha parlato del tuo _Alcibiade_ e ne è entusiasta. Lo
trova troppo lungo per la scena, ma mi accerta ch’è un capolavoro.
Bravo Felice!»

_Laus deo!_ dico fra me... Se il lavoro arriva a contentare... perfino
_Pessimista_, figuriamoci i Milanesi, che son gente ottimista in
generale.

Infatti il lavoro doveva darsi a Milano al _Teatro Manzoni_ in
quell’autunno dalla Compagnia Marini e Ciotti, diretta da Alamanno
Morelli. Il buon Ciotti — il primo impareggiabile _Raul_ de’ miei
_Pezzenti_ — in settembre mi scriveva da Prato: «Fin da ora ti prometto
che nulla sarà trascurato e tutto il nostro buon volere sarà messo in
opera per dividere teco un colossale trionfo.».... Insomma, li auspicj
non poteano esser migliori.

E i giorni passavano... e gli elettori di Corteolona, eleggendomi al
posto del povero Billia, obbligavano la Corte d’Appello a revocare il
mandato di cattura; sicchè potei finalmente rivedere Milano — correre
in Galleria per veder correre il topolino della rotonda — correre al
_Manzoni_ per assistere alle prove del figliolo delle mie viscere.

Quale mortificazione aspettava il mio amore paterno! La signora
Virginia Marini, gentile sempre quanto brava, mi fe’ del manoscritto
un mondo di elogi... ma pareva imbarazzata nel farmeli; Morelli se
ne dichiarava contentone... e mi domandava come avevo passata la
villeggiatura; Ciotti era entusiasta della sua parte di _Alcibiade_...
e non rifiniva di felicitarmi della _Agnese_. Al Caffè Manzoni,
convegno dei comici, dei critici e degli autori in attività ed in
aspettativa, ufficio postale di tutte le chiacchiere di palcoscenico,
mi chiedeano del quando cominciavan le prove con una certa aria
di interessamento, tra benevola e protettrice, che mi faceva
meravigliosamente salire la senapa al naso.... E ogni dì ne passava
uno — e le prove non si vedevano venire... O insomma che era successo?
Solo questo: che, dopo la lettura del lavoro, fra i comici era stato
sentenziato — e la voce era corsa in un attimo per tutti i crocchi
di caffè e di palcoscenico — con grande letizia di certi critici
e degli autori... in aspettativa, — che l’_Alcibiade_ era una cosa
irrappresentabile e che non sarebbe arrivato in là del primo atto...

Soltanto — come il cuore umano è buono di sua natura — nessuno aveva
il coraggio di dirmelo! E poi che io non mostravo la perspicacia di
capirlo — e l’impegno con me era formale — alle prove ci si arrivò...
in linea di filantropia... tanto per farmi toccare con mano quello che
mi ostinavo a non intendere... e rendermi persuaso colle buone, che gli
era proprio per risparmiarmi un disinganno... se giunti a metà della
seconda prova, lì sul palcoscenico, mi si restituiva il manoscritto!

Proprio così. E i giovanetti autori che oggi si lamentano del sol
di luglio e gemono, ravvolti nel manto dei genj incompresi, sulle
difficoltà del riuscire a farsi conoscere, e del fare accettar dai
capocomici il loro primo capolavoro — sono pregati a consolarsi
pensando che quel po’ di mortificazione — _coram populo_ — capitava
a me — dopo che avevo già dato alle scene tre lavori — e tutti tre
confortati dal plauso dei pubblici italiani.

                                   *
                                  * *

Che fare? Rassegnarsi? Ohibò: natura m’ha fatto più testardo del mulo. 

Preso penna, carta e calamajo — scrissi quel dì a Luigi Bellotti-Bon —
nome caro e rimpianto finchè l’arte italiana serbi il culto delle sue
glorie più belle e delle sue tradizioni più gentili.

A Bellotti-Bon — ch’era a Venezia e veniva al _Manzoni_ nell’imminente
carnevale — domandai, nudo e crudo, se era disposto ad assumersi la
recita di un lavoro rifiutato alle prove. Ecco la risposta:

                                       _Venezia, 18 novembre 1873_.

      «Carissimo,

  «Non ti dico che una parola: _Sono a tua disposizione_. Vieni qui —
  e c’intenderemo su tutto — e vedrò contentarti.

  «Avvisami del giorno del tuo arrivo onde possa essere tutto per te.

  «Rimane ben inteso che sarai il mio futuro avvocato presso la
  Comune e mi salverai dalla lanterna... ed io non abuserò della mia
  _onnipotenza_ presso il Tirrrrrrrrannico potere cui sono _venduto_.
  Ciao.

                                                   «_Il tuo affez_.
                                              «LUIGI BELLOTTI-BON.»

Povero gioviale amico!... 

Corsi a Venezia. (Cioè, prima, per mandar via l’umor negro, corsi a
Roma alla Camera a far arrabbiare l’on. Lioy e la maggioranza e il
presidente Biancheri con quel tale affar del giuramento, e a far la
scherma di sciabola con Avanzini del _Fanfulla_ al cospetto dell’ombre
della via Appia). Nella città delle lagune lessi il lavoro a Bellotti —
che volle alla lettura essere solo — finito ch’ebbi, egli mi abbracciò
con trasporto, mi baciò... e: «Quel che ti davano Marini e Ciotti, da
questo momento te l’offro io.»

Di lì a pochi giorni il cartellone del _Manzoni_ annunciava
l’_Alcibiade_ fra le novità della Compagnia Bellotti-Bon N.º 2 — per la
stagione di carnevale.

Cacciato dalla porta, l’eroe greco rientrava dalla finestra.
Finalmente!... ero in porto. Adagio. Mi correggo. Credevo di esserci.

                                   *
                                  * *

Santo Stefano e carnevale eran giunti, la compagnia Bellotti-Bon era
giunta, l’_Alcibiade_ sul cartellone era giunto... solamente le prove
non giungevano... e Bellotti-Bon se mi incontrava parea scansarmi e
girar largo... come si scansa un creditore...

Ahimè! all’ottimo rimpianto artista — giunto appena da Venezia,
entusiasta del lavoro mio — era toccato in proposito udirne di cotte
e di crude. Sapeva, sì, e glie lo avevo detto, che nei dintorni del
_Manzoni_ il mio eroe godeva cattiva reputazione, ma credeva acqua e
non tempesta. Al caffè del teatro, nei crocchi artistici, dappertutto
gli davan la baja. «O come! tu hai preso di quella... roba? Come!
tu butti i denari a quel modo? E fai di questi servizi a Cavallotti?
Così gli sei vero amico? E hai coraggio di far subire ai tuoi artisti
una _corvée_ di quella fatta per un lavoro che non arriva al secondo
atto? Ma non sai che la Marini qua, ma non sai che Morelli là...» Il
pover’uomo avea l’orecchie intronate.

Dubitò di aver preso un abbaglio. Avea sentito una sola lettura alla
sfuggita... e la prima impressione, chi sa, poteva averlo tradito.
Ma la parola meco era spesa — e Bellotti-Bon era gentiluomo in tutto
il rigore del termine. Per levarsi dai fastidi, lasciò Peracchi,
direttore, nelle peste — e andò a Firenze.

Con questi belli auspicj lessi il lavoro alla compagnia. Ci volle tutta
la deferenza personale delli artisti, di Giovanni Emanuel, e della
signora Pia Marchi e di Zoppetti e degli altri, perchè subissero il
supplizio con rassegnazione e non tradissero troppo visibilmente la
impazienza... Io fingevo non vedere e tacevo.

Però allora parve obbligo di coscienza il tentar meco almeno un’opera
di carità; si pregò il buon Lombardi, dirigente il teatro Manzoni di
persuadermi, colle buone, a ritirare il manoscritto spontaneamente.
Ma di far questa parte delicata il buon Lombardi, sapendomi testardo,
non ne volle sapere. Si officiò Emanuel, il protagonista, a darsi per
ammalato. Ma Emanuel, a quei dì non avendo con Bellotti buon sangue,
non istimò di poterlo fare. Così le prove cominciarono... eppure,
per un filo, ancora in _extremis_, di salvarmi mio malgrado, non si
disperò.

Al dì della quinta prova doveva aver luogo nel pomeriggio una
mia partita d’onore con Dario Papa. — La mattina, pregai Riccardo
Castelvecchio — illustre e sempre giovane veterano dell’arte — a venir
meco alla prova, per diriger egli in mia vece, in caso di disgrazia, le
successive — lasciandogli all’uopo _carta bianca_, con procura scritta.
Castelvecchio accettò ringraziandomi, con fratellanza artistica che
riconoscente rammento. Alle quattro, finita la prova, vennero i padrini
sul palcoscenico a prendermi: — appena io partito, gli artisti, per
me inquieti, farsi intorno a Castelvecchio e consultar seco il modo
di risparmiarmi il fiasco imminente. E affetto e desiderio eran
sinceri: perchè la convinzione del fiasco e del dolore che mi avrebbe
dato era intima: indi, per lo meglio, mi si augurava una piccola
ferita leggiera, che mi obbligasse a letto pochi dì e permettesse a
Castelvecchio di far uso de’ suoi pieni poteri: si sarebbe rabberciato
alla meglio il lavoro, levatane la parte di _Cimoto_ che appariva una
grossa stonatura — ed altri tagli _eccetera_, _eccetera_, — tanto
che si potesse arrivare in fin di recita... Ma il calcolo a nulla
approdò... conciossiafossecosachè, proprio in quel momento, a Dario
Papa una magnifica spaccata a fondo con analogo colpo di punta non
riuscissero sgraziatamente in tempo. E quando viceversa riuscite
in tempo le cose a me e toccata a lui contraria la sorte, videro di
ritorno me illeso... Giovanni Emanuel mi buttò le braccia al collo e mi
promise che da quel momento si sarebbe messo a studiar con amore la sua
parte. Imperocchè da quel momento parve che la mia caparbietà avesse il
diavolo dalla sua — e che il contrastar oltre fosse tempo perso.

Infatti le tre che seguirono furono le sole vere prove serie. Tutti gli
artisti dal primo all’ultimo ci posero un impegno, un affetto, uno zelo
di cui serbo il ricordo carissimo. E la sera del 31 gennajo 1874 — dopo
cinque lunghi mesi — finalmente l’_Alcibiade_ andò in iscena...

Il teatro rigurgitava. 

Al prologo cominciarono gli applausi. — Alla fine del lavoro eran
quaranta chiamate.

Al successo entusiastico la esecuzione di tutti concorse: e se Angelo
Zoppetti fu esilarantissimo _Cimoto_ — Giovanni Emanuel del personaggio
di _Alcibiade_ fece una creazione non superata nell’arte.


Trieste e Venezia, per le prime, di lì a poco, ribattezzavano il
successo di Milano: e in una sera non cancellata dalla memoria, l’Atene
dell’Arno conferivagli la cresima.

La Compagnia Ciotti e Marini mi ridomandava il lavoro, e questa volta
pagandolo lautamente, trovò che era rappresentabilissimo.

Infine la Commissione governativa pel concorso nazionale drammatico,
in Firenze residente, assegnava all’_Alcibiade_ il primo premio del
concorso (2000 lire): e il decreto di conferimento del premio, con
analogo mandato di pagamento, portava l’augusta firma di Sua Eccellenza
il ministro... Ruggiero Bonghi!

Oh come il cuore battevami di dolce emozione nel recarmi alla regia
cassa! Erano (parmi ancora vederli!) due bellissimi biglietti bianchi,
da mille... quasi nuovi: e quel che agli occhi non mi sembrava vero,
eran proprio denari dello Stato: così per una volta ho potuto provare
anch’io la ineffabile consolazione di cibarmi alla greppia del
bilancio!

Di quanti soldi per vivere l’arte mi ha fruttato poi — non ne rammento
che m’andassero come quelli in tanto sangue.

Quei denari del governo mi rappresentavano il frutto delle persecuzioni
governative e il frutto di cinque mesi di prove morali — cinque mesi
che per amor dell’arte digerivo in silenzio — io che m’irrito d’una
mosca — mortificazioni, compassioni e repulse!

                                   *
                                  * *

Conclusione morale: pei capocomici ed artisti: ricordarsi che
Ezechiele, Daniele ed Isaia, se le loro profezie fossero tutte come
quelle che si fanno sui palcoscenici alle prove dei lavori nuovi, non
sarebbero quei profeti così in credito che sono, anzi nessuno ai loro
tempi li avrebbe presi per persone di proposito.

Per i giovani autori e miei fratelli d’arte, che sognano i successi
lì a portata della mano, e si impermaliscono di ogni piccolo inciampo:
ricordarsi che l’arte va per sentieri di spine, è battaglia che un dì
vuole i forti ardimenti e le ire — e un altro dì vuol sagrificj di amor
proprio e pazienze da certosino: e quando la meta nella mente ci ride,
bisogna a tempo esser anche filosofi: viene l’ora all’artista che gli
ripaga le amarezze e degli esercizj filosofici gli rifonde le spese.

                                                   FELICE CAVALLOTTI.

  Meina, 1 aprile 1884.




                           ALLA CARA MEMORIA
                                   DI
                               MIO PADRE
                       CHE AMOROSAMENTE CORRESSE
                             LE PRIME BOZZE
                            DI QUESTO VOLUME
                      E NON POTÈ VEDERNE LE ULTIME

                             8 giugno 1875.




PREFAZIONE ALL’EDIZIONE DEL 1875 


«Di tutti i popoli della terra, i Greci son quelli che hanno più
nobilmente sognato il sogno della vita» — _scriveva un dì Goethe. Ma
oggi la vita si è ben lontani dal riguardarla come un sogno. Oggi le
comunicazioni fra l’Olimpo e la terra sono rotte, gli Dei di Omero
non vanno più innanzi e indietro, e la vita publica e la privata
non aspettan più nulla dalle nuvole. Il secolo volge al reale e al
positivo; i sognatori si chiamano matti e sono messi sotto custodia,
per ragioni di sicurezza publica; ai soli poeti in via d’eccezione si
permette ancora qualche volta di sognare — a patto, beninteso, che non
sognino più in là del ragionevole._

_E l’arte, questa grande emanazione della vita, fu invitata anch’ella
colle buone a mutar via. Le venne detto ch’era tempo di cessare dal
far la visionaria e dal correre dietro alle fantasime; che la vita
oramai ha scopi pratici e l’arte deve averli del paro: indi necessità
di mettere la testa a partito, e attendere alle faccende di casa; indi,
legge unica, il vero; e il vero è tutto quello che è, e che cade, tal
qual è, sotto i sensi; ciò che fu è il nulla, cioè un sogno; ciò che
è fuor dei sensi, è fuor del mondo, — e fuor del mondo non vi è che
l’_ideale — _un altro sogno._

_E l’arte, docile, non se l’è fatto ripetere. Messe le anticaglie da
un canto, lasciati alle lor nebbie i fantasmi, si diè a studiare il
presente, a vivere del proprio tempo, a_ palpitare di realtà. _La
scoltura rifiutò i profili ideali e scolpì Napoleone in veste da
camera. La pittura proscrisse i soggetti eroici e mitologici, e ci
regalò dei veri gatti e polli d’India contemporanei, e altre bestie
contemporanee al naturale. Fu ammesso, è vero, in via di grazia, il
cigno di Leda, vista la possibilità di servirsene a uso d’oca, per i
quadretti di roba da cucina._

_Ma la drammatica non si fermò alla zoologia. I più delicati problemi
sociali furono da lei coscienziosamente esaminati; niente le sfuggì
dei varj rami dello scibile, niente dei fenomeni e dei bisogni
della vita reale. La economia privata e publica, a cominciar dalla
questione essenzialissima dei rapporti fra il lavoro e il capitale; la
giurisprudenza sul matrimonio, sulla prole legittima e illegittima,
sugli orfani, sui pupilli, sulle vedove, sui contratti e sulle
donazioni fra vivi e morti; la medicina legale, la psicologia, la
patologia e l’anatomia comparata hanno richiamato la sua più seria
attenzione; non senza il debito riguardo alle leggi relative del
Parlamento, alle sentenze dei tribunali ed ai pareri medici delle
Facoltà._

_Evidentemente, siamo alla pienezza dei tempi. Aver fatto servire a
scopo così concreto e così utile i diletti più puri dello spirito, è
l’ultima parola del progresso._

_Questa è vita piena e vera, di cui nulla si perde nell’aria e nel
vuoto, nelle caligini del passato, nelle nebbie dell’ideale: dove
tutto ci interessa, perchè tutto ci parla direttamente ai sensi, tutto
ci riguarda materialmente, tutto ci richiama alla realtà dell’esser
nostro, delle nostre occupazioni, delle nostre passioni, delle nostre
noje, delle nostre circostanze domestiche e finanziarie: dal profumo
de’ gabinetti agli acri vapori delle sale da ballo, dai cicalecci
eleganti ai battibecchi conjugali, dalla marsina dell’eroe al_ panier
_dell’eroina._

_E a questo patto, e quando da questo ambiente così vero non si esca,
vada pure per qualche onesta licenza. Perchè anche là dentro in quelle
sale la finzione, dicono, qualche volta è di moda, lo spirito non
sempre è di rigore, e il buon senso non sempre è di prammatica. Purchè,
se si manca alla verità, se si manca di spirito, se si manca di buon
senso, gli addobbi e le decorazioni delle scene avvertano sempre che
son mancanze contemporanee. In fondo, la questione così detta del_
realismo _riguarda molto l’attrezzista e il guardaroba. Quando i
personaggi siano vestiti, ed è ciò che importa, alla maniera del mondo
nostro, nulla osta che si facciano dir loro anche delle cose dell’altro
mondo._

_Così il teatro ha progredito, come tutto il resto, in arte. C’è
stata, è vero, qualche protesta nei dietro-bottega dei rigattieri. Le
durlindane di Roncisvalle, gli elmi delle crociate e le mandóle dei
trovatori, raccoltevi a parlamento, protestarono contro l’ostracismo
loro inflitto in nome della verità, e dichiararono formalmente che ai
loro tempi si amava e si odiava come al tempo nostro, e si moriva per
amore e si accoppava per odio come ai dì nostri; soltanto si amava
e si odiava meglio, si moriva con più poesia e si accoppava con più
cavalleria. — Le clamidi e le toghe, intervenute all’adunanza, hanno
energicamente soggiunto che ai loro bei giorni ci erano poltroni
ed eroi come adesso, e tipi drammatici, quali adesso, di furbi e di
ingenui, di magnanimi e di furfanti, di tormentatori e di tormentati,
e nel dramma umano si rideva e si piangeva come adesso — colla medesima
verità — ma più artisticamente di adesso._

_Tutte chiacchiere inutili. La sentenza era segnata. Cilindri e
cravatte fecero l’ingresso trionfale con accompagnamento di pianoforte
— in luogo del romantico liuto — per la festa da ballo dell’atto
terzo, e di colpi d’arma da fuoco — in luogo degli esercizi d’arma
bianca — per la catastrofe dell’atto ultimo. Tutto fu raggiustato,
rimodernato, rimesso a nuovo. L’amore come il delitto assunsero forme
meno fantastiche e maniere più incivilite. Il dolore rispettò le
convenienze: non imprecò più come Prometeo, non pianse più come Ecuba.
Una prosa graziosa, piena di arguzie, di riflessioni filosofiche e di
ammonizioni morali, sostituì i lamenti di Edipo come le invettive di
Ernani, i delirj di Aristodemo come le bestemmie di Francesco Moor._

_Soltanto, in mezzo al nuovo concerto di voci e di suoni moderni,
di amori e di delitti moderni, tra il frastuono delle prediche
che riformano la società e dei colpi di pistola che ne risolvono i
problemi, — tra gli applausi dei buongustai che assaporano le finezze
dell’arte nuova e le beffe dei critici irridenti alle scolastiche
pedanterie dell’antica, — s’ode levarsi tratto tratto qualche eco di
voce solitaria, bizzarra, come portata dal vento di lontano._

_Qua, un poeta dal ritmo strano e dal riso amaro, sardonico, scioglie
un osanna ai semidei della greca letteratura e con entusiasmo li
saluta_ eterni diletti dell’uman genere, — «sempiterna solatia generis
humani!»

_Là, un altro poeta dalle canzoni ancor più strane, e dall’aria
melanconica come le nebbie del suo paese, manda un inno agli echi ed
alle balze del Liakùra: «Ellade vaga! tutto ciò che le Muse finsero,
nel tuo grembo mutasi in vero! Per anni ed anni ancora i fanciulli
impareranno i tuoi fasti e la tua lingua divina. Orgoglio de’ vecchi,
scuola dei giovani, il savio ti onora, a te s’inchina il vate, come
al tempo che Pallade ti svelava gli arcani celesti: mentre il tempo
sperderà le canzoni dei cento menestrelli ond’oggi levasi il grido!»_

_Dàlli ai bestemmiatori!_ 

_È Heine che sta meditando il_ Ratcliff, _in attesa dell’_Intermezzo.
_È Byron che canta il pellegrinaggio di_ Aroldo, _in attesa del_ Don
Giovanni.

_E che!? l’arte antica, questa morta di cui assistemmo le esequie,
leverebbe ancora la testa fuor della lapide del suo sepolcro,
accamperebbe ancora diritti in faccia alle conquiste dei novatori? I
monumenti del genio di questa sepolta, percossi da tanta ala di secoli,
avrebbero ancora un linguaggio per noi, avrebbero ancora attrattive
e fascini per un poeta dei nostri dì? Vi sarebbe ancora là dentro,
in quelle pagine polverose, qualche cosa da cercare, qualche cosa da
ammirare, qualche cosa da imparare?_

_Questo andavo fra me chiedendo un giorno che un critico dal gusto
finissimo, entusiasta della_ Femme de Claude, _della_ Femme de feu _e
della_ Petite marquise, _mi spiegava saviamente le ragioni per cui
ai dì nostri non è più permesso, senza disonorarsi, ad una persona
di spirito, di leggere Omero. E la dimostrazione mi avea convinto e
mortificato: tant’è che coll’animo contrito, ricordatomi di Alcibiade,
il quale le picchiava ai maestri perchè di Omero non ne sapevano,
progettai di scrivere un dramma sopra il figliuolo di Clinia._

_Narro la genesi — non le ragioni del libro. Le quali sono parecchie;
e perciò avevo pensato di preporre, come agli altri lavori miei, così
a questo, una prefazione, lunga, lunga, coi fiocchi, dove appunto si
discorresse degli intenti del lavoro, dal lato storico, drammatico
e letterario, e dell’epoca storica entro cui il dramma si svolge. La
benevolenza de’ critici mi costrinse a vuotare il sacco delle ragioni
innanzi tempo; e tutto quello che io avevo in animo di dire a mia
discolpa mi trovo averlo già detto nella lettera che mandai l’anno
scorso alle stampe.[2] Lettera che, tra parentesi, per caso bizzarro,
fu dai critici giudicata meno cattiva (e non ci voleva molto!) del
dramma che essa studiavasi difendere: forse era più esatto il dirla
più lunga che il dramma non ne valesse la pena: lunga certo abbastanza
perchè io non abbia per giunta a tornarvi sopra e a ripetere le cose
dette già. Tanto più poi, che in quanto la lettera era destinata a
drizzar le gambe a certi critici, essa ha già avuto una efficacia
superiore alle mie previsioni, ed alla quale proprio non mi aspettavo._

_Nella lettera — s’imagini! — facevo la morale agli Aristarchi che
sputano sentenze sui lavori altrui, per mettere in mostra la erudizione
che hanno lì per lì rubato altrove: bene, di lì a qualche tempo, una
bella mattina, un critico scaraventa contro il povero_ Alcibiade
_tre lunghissime appendici ove mi regala dell’ignorante a tutto
pasto, e dichiara il mio dramma un aborto drammatico e storico: e per
dimostrarlo alla presenza de’ suoi lettori, con mia gran mortificazione
mi infigge nientemeno che una lezione completa di storia e di critica
intorno a Pericle, alla sua politica ed al suo secolo: cita Senofonte,
Platone, Aristofane, persino Alcifrone... soltanto la mia lettera non
cita, da cui tutto quanto il materiale della sua lezione di storia —
non un solo ragguaglio eccettuato — era di pianta stato preso! Anzi,
per colmo d’ingratitudine e per far più effetto sui suoi lettori, dal
fondo del suo pozzo di scienza quel signore con sussiego mi rimprovera
di non aver ben digerito i miei studi: sarà; ma se non altro per
avergli fatto tanto comodo, non toccava veramente a lui di dirne
male!..._

_Da quel giorno credo di essere affatto guarito dal ticchio di
difendere i lavori miei._

_Bensì mi è d’uopo il dir qualche cosa della_ forma _in cui
l’_Alcibiade _esce oggi alla luce nella presente edizione, diversa
in qualche parte da quella al publico già nota: m’è d’uopo, cioè,
ricordare, infra i varj intendimenti del lavoro, da me accennati nella
lettera, quello che in ispecie riferivasi alla publicazione del dramma
per le stampe:_

«_Offrire_ agli studiosi _una pittura, dei quadri, delle_ scene, _della
vita greca del secolo d’oro, colta nella sua fase più caratteristica e
culminante: in quel periodo di transizione della guerra peloponnesiaca,
che conservava ancora il riflesso delle grandi memorie antiche e di
tutti gli splendori del secolo di Pericle e aveva già in sè sviluppati
tutti i germi di corruzione, tutti i fenomeni politici che provocarono
la caduta della repubblica d’Atene. Presentar quella vita studiata
nel linguaggio, nelle idee, nelle leggi, nei costumi — nel_ linguaggio
_sopratutto... Perchè la favella viva di un popolo è il prodotto e lo
specchio fedele della sua indole, del suo genio artistico, delle sue
idee — e la verità del linguaggio è necessaria a far vivere i fantasmi
delle età lontane nel mondo della realtà._

_Ed è questa, anzitutto, la ragione per cui, nella edizione presente
non destinata alle scene, una volta libero dalle esigenze di queste,
pensai naturalmente a ristabilire quei più minuti particolari della
vita greca, e tutte quelle forme e locuzioni del linguaggio greco,
che per le necessità del teatro e dei publici nostri avevo dovuto,
alla recita, sopprimere. Non già ch’io riuscissi a sopprimerne tanto,
da risparmiare al mio dramma, quale fu rappresentato, la taccia
che molti gli apposero, di essere una lezione indigesta e nojosa di
lingua, mitologia e archeologia greca: ma coloro che in teatro, tra
uno sbadiglio e l’altro, così lo giudicarono, sono certissimo che, a
maggior ragione, per pietà delle proprie mascelle, si guarderanno con
iscrupolo dal leggere questo volume. Non è dunque per essi che io lo
stampo. Bensì gli studiosi probabilmente apprezzeranno le difficoltà
di conciliare sempre e dovunque le ragioni sceniche colle letterarie
in un tentativo di simil genere: poi che di un modesto tentativo si
tratta e nulla più. E per essi non occorre ch’io mi diffonda sulle
ragioni di questo studio delle forme. L’egregio Mariotti, nelle
note al suo_ Demostene, _disse una cosa non nuova, ma giusta, e non
abbastanza da molti avvertita, quando osservò esistere tra la lingua
italiana e la greca un’affinità di linee e di genio, tutta speciale
ed intima: assai più intima e spiccata che non tra l’italiano ed il
latino. Potrebbesi dire, a spiegazione del fenomeno, succedere delle
lingue lo stesso che della natura, nelle somiglianze ereditarie fra
le generazioni alternate. In quella guisa che i monumenti di Firenze
ritraggono assai più della eleganza attica, che non della maestosa
grandiosità romana, così il nostro aureo trecento, nella semplicità
delle sue grazie native, ricorda assai più gli scrittori del secolo di
Pericle che non quelli del secolo di Augusto. Filosofia delle parole
e dei modi, snodature dei periodi, pieghevolezza, grazia, armonia,
tutto nella favella nostra sembra evitare la maestà asciutta della
lingua del Lazio, per richiamarci «all’idioma gentil, sonante e puro»
di Alcibiade, di Platone e di Demostene. E ciò spiegherebbe anche,
fra parentesi, il perchè latinisti insigni — con riverenza parlando
— riescano, pure a’ dì nostri, stentati e plumbei prosatori italiani,
intanto che la Grecia rivelava a Foscolo e a Leopardi le bellezze più
ascose e il magistero più squisito della lingua dell’Arno._

_Scrutare, qua e là, anche più in sotto della superficie, questa
intima somiglianza di forme e di indole e di modi, qua e là afferrarne
alcuni tratti caratteristici, fu uno naturalmente degli studi di
questo lavoro. Studio uggioso ed inutile, a coloro pei quali è di
moda ostentare un sovrano dispregio di tutto ciò che riguarda la
forma; non inutile per me, che credo la forma essere carne e sangue
dell’idea, e la ispirazione dell’artista non essere_ nulla, _finchè il
magistero delle parole e delle linee non la faccia vivere nel mondo
dell’arte. Oggi, per esempio, dai più si sente e si riconosce la
stretta attinenza fra la questione della lingua e lo indirizzo della
drammatica; intanto io mi irrito quando sento in che gergo l’arte
parli sovente dalle nostre scene, e quando nulla nel suo linguaggio mi
ricorda il genio artistico del mio paese, nulla mi rammenta che quella
è l’arte di menti italiane. E mi domando, se non sia anche questo, per
avventura, uno fra i tanti frutti della sedicente scuola_ realista; _se
l’abitudine di fotografare una società che non è la nostra, e parlante
un linguaggio che non è il nostro, non abbia fatto passare, a poco a
poco, il forestierume dalle parole nelle idee e viceversa; se il vero
ci perderebbe in faccia all’arte qualche cosa ad essere riprodotto,
qui fra noi in Italia, con linee e con parvenze italiane; e se a tanta
invasione di idee e di forme non nostre, non servirebbe di correttivo
il contrapporre, di tanto in tanto, qualche po’ di roba_ nostra, _cioè
lasciataci in legittima eredità dai nostri nonni. Sì, in una parola,
io credo, come dissi altrove, che la influenza classica, associandosi
ai nuovi ideali e alle nuove forme dello idioma, possa oggidì riuscire
benefica anco al mutato indirizzo dell’arte. Gli è forse un pretendere
che questa vada a rinchiudersi e a fossilizzarsi tra gli scaffali delle
biblioteche, o faccia parlare i suoi personaggi in greco? Eh via!
schiudeteli pure all’arte i suoi nuovi orizzonti; mostratele pure,
come il diavolo al Cristo dalla vetta del monte, abbracciando a volo
d’aquila il secolo presente e la società, tutti i novelli dominii a
lei concessi, pur ch’ella adori, con Enotrio, il Satana moderno, il_
vero; _ma quando ella si sarà posta in cammino per quelle regioni del
suo avvenire, non isgridatela se la si fermi tratto tratto per istrada
a interrogare sommessamente il ricordo di qualche canzone antica, o a
dissetarsi all’acque del rivo disceso di lontano insiem con lei dalle
sorgenti della sua terra nativa; perchè il tranquillo suo corso le avrà
insegnato il cammino e impeditole di smarrirsi per via; perchè anco
laggiù ella avrà bisogno di qualche cosa che le parli della sua patria,
di qualche lembo di cielo, fra le nebbie, che le ricordi l’azzurro del
suo paese, di qualche armonia che le favelli la voce cara delle memorie
e del sangue; — se pur volete che anco laggiù in quei paesi ella si
rammenti pur sempre di essere e si conservi sempre_ italiana.

_Punto e a capo. Lascio le metafore, e passo a dir due parole delle
note._

_Le quali erano anch’esse naturalmente una necessità dell’intento
propostomi in questo volume; ch’è quanto dire (e lo dico subito per
risparmiare ai critici arguti e benevoli l’incomodo di malignarvi
sopra) che non ve le ho poste già nella ridicola idea di illustrar me
medesimo, o perchè credessi che il merito del volume valesse proprio
la spesa di tante note. Pensai invece (astrazione fatta dalle note
filologiche e da quelle apposte per giustificarmi da appunti critici)
che valesse la pena di approfittare qua e là delle occasioni offertemi
dal dramma, per guardare, insieme col lettore, un po’ più addentro
nella vita privata e publica, nelle istituzioni religiose e politiche
dell’antica Grecia. So gli anatemi scagliati da Alfonso Karr, in uno
sfogo di santa ira agli eruditi:_ Farisei della scienza, Tartufi delle
lettere: _ma non è al merito di erudito ch’io aspiro. Bensì a quello
assai più modesto di avere, se non con ingegno, studiato almeno con
qualche coscienza l’epoca di cui imprendevo a trattare: dacchè questo
mi parea per lo artista non merito, ma obbligo: e se alla rievocazione
delle età passate, malgrado certi odierni anatemi, è ancora serbato
un posto nell’arte moderna, egli è a questo patto solo, che l’artista
anzitutto studii di immedesimarsi con quell’età; e alla verità delle
passioni — che sono in fondo le stesse in ogni tempo, com’è sempre
la stessa la natura umana — ritrovi gli accenti e le corde nella
verità completa dello ambiente. Allora l’illusione artistica sarà
perfetta; allora le figure che l’artista evocherà saranno vere e vive,
rappresenteranno_ uomini _e non_ nomi, persone _e non_ personaggi; _e
il publico, trasportato con esse nei secoli remoti, s’interesserà e
si commuoverà ai loro casi, nè più nè meno che a quelli della società
contemporanea._

_Se avessi voluto fare dell’inutile erudizione, nulla mi sarebbe
stato più facile del triplicar la mole di questo volume; come certo
mi era facile anco ridur le note a proporzioni minime, se non sapessi
la stizza che destano spesso ne’ libri certi schiarimenti generici,
affatto vaghi e incompleti, i quali sono peggio di nulla; poi che
le nozioni indeterminate generano sempre le nozioni false. Cercai
stringere il molto in poco; essere breve ma possibilmente preciso;
rimandare alle fonti chi volesse studiarne più in là; e sopratutto,
spazzar via, dove mi si affacciavano le idee convenzionali e i
pregiudizi che intorno all’epoca da me descritta ci vennero tramandati
dalle scuole. Ormai la critica storica, ne’ suoi studi sull’antichità,
ha fatto tali e tanti progressi, da lasciarsi ben di lunga addietro
la ingenuità del giovane Anacarsi; ed è anche vero che nell’ardore
delle ricerche innovatrici ella è sovente trascorsa oltre il segno; ma
dal buon Barthelemy, il quale accettava tutto, a occhi chiusi, senza
analisi nè discussione, sulla fede degli scrittori superficialmente
esaminati, a Grote, che occorrendo sagrifica le autorità storiche alla
dimostrazione di tesi ingegnose e preconcette, a Ottofredo Müller,
questo martire illustre della scienza, che spinge lo scetticismo e
l’acutezza dell’analisi fino a negazioni temerarie, per sostituirvi, se
bisogna, ipotesi e affermazioni più temerarie ancora, — la distanza è
abbastanza grande per lasciar posto ad uno spirito di esame, il quale
si contenti modestamente di conciliare le autorità della storia coi
risultati_ certi _e irrefragabilmente acquisiti alle moderne indagini
della critica._

_Detto ciò in generale dello spirito in cui furono scritte le note del
libro, mi rimane ad avvertire una cosa semplicissima, ed è che coloro
ai quali elle paressero soverchie, non hanno a fare altro che saltarle
di piè pari._

_Un’ultima osservazione, infine, mi resta, circa la diversità di
proporzioni e divisioni fra il dramma qual esce ora alla luce, e la
versione per le scene, che il publico dei teatri conosce già. Era
naturale che il lavoro scritto, per la ragione stessa del suo intento,
dovesse pigliarsi colla storia un po’ meno di confidenza di quello
che in teatro si richiede. L’indole del lavoro, abbracciante un intero
ciclo storico, e le esigenze sceniche mi obbligarono qua e là, negli
ultimi quadri in ispecie, a variare e stringere l’azione, cumular
date e circostanze a beneficio del dramma, lasciar nella vita del
protagonista parecchie lacune, che poi, da alcuni di coloro i quali
pur trovavano il dramma già troppo lungo, mi vennero benevolmente
rimproverate. Nel sesto atto, per esempio, della versione scenica,
sono licenze storiche e cronologiche e geografiche evidenti, eppure
sfuggite per un caso curioso all’acume dei critici meticolosi, i quali
me ne scopersero tante altre che non c’erano. La campagna nell’Egeo e
nell’Jonia, la seconda disgrazia di Alcibiade, la sua partenza dalla
flotta di Samo, vi son cumulate colla gita in Tracia, e dalla Tracia
al campo di Egospotamos: due anni, quasi, in un giorno. In compenso
(per quanto, beninteso, si può pretendere da un lavoro povero) l’azione
ci guadagna di rapidità e di interesse, la nuova faccia del carattere
di Alcibiade esce più spiccata dal contrasto immediato, e la presenza
di Timandra aggiunge un elemento drammatico su cui la storia trova a
ridire, ma che al dramma torna comodo ed utilissimo._

_Nel lavoro destinato alla lettura, la ragione di quelle licenze
cessava. Qui perciò gli avvenimenti sono rimessi più a loro posto, il
filo cronologico è più continuo, e diverse lacune son ricolmate. Il
ritorno di Alcibiade ad Atene mostra qualch’altro lato della fisionomia
dell’eroe. La gita in Tracia poi ne presentava ancora qualche altro,
e di più offeriva una occasione opportuna di porre a riscontro dei
costumi della Grecia civile qualche bozzetto di costumi di quella che
potrebbe chiamarsi, per così dire, la Grecia barbara. E dalle scene di
Tracia veniva più naturale e più conforme al vero la transazione alla
scena di Egospotamos. Insomma, la storia è qui un po’ meno bistrattata
e la figura del protagonista ne esce un po’ meno incompleta: che se il
sagrificio fatto alla coscienza storica ritorna a scapito della sintesi
drammatica e dello interesse complessivo del dramma, egli è che tutti
in una volta non si possono contentare. Siccome però, dopo l’esito
dell’_Alcibiade, _qualche compagnia mi domandò di rappresentarlo tutto
completo in due sere, ed io ricisamente m’opposi; così non vorrei che
la publicazione del volume suggerisse a taluno di tentar mio malgrado
l’esperimento. Per risparmiargli l’incomodo ed il fiasco — ora che la
legge guarentisce agli autori il diritto di disporre dei loro lavori,
siano publicati o no — dichiaro qui formalmente che la presente
edizione non è destinata alle scene; che assolutamente non permetto la
recita di questo_ Alcibiade _in dieci quadri; che non riconosco, per
versione da me autorizzata sulle scene, nessun’altra in fuori di quella
che sottoposi al giudizio dei publici, dei teatri italiani e della
Giunta per il concorso drammatico nazionale; e che uscirà anch’essa
alle stampe fra breve, in apposito volumetto della_ Galleria teatrale
_Barbini. Mi pare d’essermi spiegato chiaro._

_E qui finisco, se no a poco a poco il proemio mi piglia anch’esso le
dimensioni della lettera a Yorick: e dopo che in quella rivendicai per
gli autori, contro la critica prosuntuosa e brontolona, il sacrosanto
diritto di non essere annojati, è di stretta giustizia riconoscere il
medesimo diritto anche ai lettori._

  Aprile, 1875.

                                                       F. CAVALLOTTI.




_AI GRECI DI TRIESTE_[3] 


                                               Milano, 9 giugno 1874.

«..... Fra i ricordi, non tutti lieti, della vita dell’arte, questo
dei figli della Grecia terrò sempre lietissimo e caro; esso mi parla
di una terra che la mia mente visita spesso, con entusiasmo di amore,
ne’ poetici sogni: mi parla delle classiche memorie accarezzate negli
studî della fanciullezza, assai prima che io pensassi a chieder loro i
segreti della scena e le emozioni dell’arte.

«Sì, amo, e non da oggi, la Grecia: questa madre del genio e degli
eroi, grande nelle memorie antiche e nelle glorie del secolo presente;
un giorno a Maratona, un altro a Missolungi: — questa terra che alla
moderna Europa ha dato _tutto_ — una mente e una civiltà, le linee di
Fidia e le pagine d’Omero — senza averne in ricambio _nulla_; e della
quale le nazioni colte e superbe, nudrite del suo genio, aspettarono
ai dì nostri le ecatombi gloriose, per degnarsi di accorgersi che
là, in riva all’eterno Egéo, si dibatteva ancora tra i ceppi qualche
cosa di vivo, qualche cosa di somigliante all’anima di una nazione.
Amo la terra che fu la patria di Botzaris dopo essere stata quella di
Epaminonda.

«Ed io saluto con lieto animo il rinato amore dei classici studî,
che da qualche tempo riporta gli ingegni verso i capolavori dell’arte
ellenica; perchè esso non può a meno di rendere alla Grecia — a questa
culla delle Pierie divine — il posto e la importanza che le spettano
nel movimento intellettuale dell’età nostra.

«Oggi, che il senso artistico delle moltitudini si va man mano
snebbiando e liberando dalle anticaglie e dalle formule del pedantismo,
dalle goffaggini del barocco, dai delirj delle nuove scuole, — oggi
si comincia a riconoscere che l’arte greca, calunniata dai sedicenti
novatori, è realmente qualcosa di _meglio_ e di _diverso_ da tutto
ciò; che quest’arte che dicevasi invecchiata, solo perchè si amava
confonderla col _convenzionalismo classico_, il quale non solo è
vecchio, ma decrepito, quest’arte è giovane ancora, come al tempo che
Eschilo e Fidia e Platone ne divinavano le forme e i segreti; e che
le tendenze mutate del gusto, e i nuovi bisogni e le nuove idee hanno
aperto altri mondi ai suoi voli, ma non hanno aggiunto una sola ruga
alla freschezza delle sue linee. Ora si comincia a comprendere che essa
non merita nè il disprezzo, nè i superbi anatemi dei pseudo-innovatori:
perchè essa è più _nuova_ di tutti loro: essa è la imagine, fatta
divina, del _vero_, che è _nuovissimo_, per la semplice ragione che è
_eterno_.

«E prima dell’immenso Shakespeare, per cui il _vero_ non ebbe segreti,
vi è, in ordine di data, un altro _verista_; il primo dei veristi nella
storia delle lettere: il quale chiamavasi Omero.

«A questo nuovo indirizzo dell’arte tentai recare un povero, ben povero
tributo, coll’_Alcibiade_ mio; valgano allo artista, se non le forze
mancate, la coscienza e lo amore e i lunghi studi; ai quali la fronda
dei Greci di Trieste rimarrà, fra tutte le ricompense, la più ambita.

                                                       F. CAVALLOTTI.




ALCIBIADE 




PERSONAGGI 


  ALCIBIADE
  SOCRATE
  ASPASIA, vedova di Pericle.
  TIMANDRA, etéra ateniese.
  GLICERA, giovinetta etéra.
  CIMOTO, parassito.
  TIMONE di Colitta, misántropo.
  LÀMACO, stratégo comandante con Alcibiade la spedizione
    di Sicilia.
  TÉSSALO, CLEONIMO, cittadini ateniesi, nemici di Alcibiade.
  AMÌNIA, CARÌNADE, DIOCARE, TIMARCO, cittadini ateniesi
    dell’ultima classe (_thètes_).
  TRASILLO
  BACCHIDE, EUFROSINE, LAISCA, etére ateniesi.
  FILUMENA, CRITILLA, vecchie ateniesi del popolo.
  MIRRINA, giovinetta ateniese.
  ANTIOCO, EUFEMO, capitani ateniesi subalterni.
  TIDEO, CONONE, stratègi ateniesi.
  DUE GRAMMATICI
  ANDROCLE
  CALLIA, primo arconte (_epònimo_).
  GRAN SACERDOTE degli Eumòlpidi (_gerofante_).
  CINESIA, cittadino spartano.
  ENDIO, èforo di Sparta.
  BRÀSIDA, soldato spartano.
  SEUTE, re dei Traci.
  BERISADE, MEDOSADE, ODRISIO, traci.
  STRATONICA, moglie di Seute.
  ELPINICE, DROSO, ARGIA, donne tracie.
  DUE SOLDATI SIRACUSANI
  UN SERVO
  UN CUOCO
  UN MESSO
  UN BIMBO
  Capitani, soldati e cittadini ateniesi — Soldati siracusani
  Sacerdoti — Guerrieri traci.

EPOCA. — _Il secondo periodo della guerra del Peloponneso, dal 415 av.
l’E. V. (spedizione di Sicilia) al 404 av. l’E. V. (caduta d’Atene)_.

                                 * * *


LE ETÉRE. 

Quanta parte della vita ateniese, quante memorie in questa parola!
In Atene, ove leggi e costumi creavano alla donna di famiglia, nel
chiuso de’ ginecei, posizione poco dissimile da quella che l’Oriente le
assegna ancor oggi nel fondo degli _harem_, — ove il genio del popolo
e il cielo e il clima prepotenti portavano al culto del bello e della
Venere sensuale, — la _cortigiana_ doveva naturalmente invadere ed
occupare essa sola tutto il posto, o quasi, che nella civiltà di un
popolo spetta al sesso più gentile. Un posto ben importante, perchè
potesse esser degno di Aspasia! Gli affetti della famiglia, santi a
Sparta (alla maniera de’ tempi), e santi a Roma, lasciano luogo, fra le
tepide notti del cielo jonico, ad affetti più liberi: le Andromache, le
Penelopi, le Antigoni già sono d’altri lidi e d’altre età; argomento
di meraviglia ai licenziosi figli dell’Attica le mogli spartane,
dominatrici dei terribili mariti, giusta il vanto della sposa di
Leonida; e la storia che scrive in pagine d’oro i fasti delle madri e
delle spose in riva al Tevere e all’Eurota, dimentica e sopprime, come
tampoco non esistesse, la donna di famiglia nel quadro della città e
del secolo di Pericle. Ella ci conserva cinti d’aureola il nome della
madre dei Gracchi e della madre di Bràsida; narra ai secoli la virtù
conjugale di Porzia e di Chelonida; ma non si ricorda in Atene della
donna di famiglia che, tutt’al più, per tramandarci il tipo della
moglie bisbetica e insopportabile, in quella Santippe che il buon
Socrate si teneva per esercitarsi alla virtù della pazienza.

Storici, oratori, filosofi, poeti non ci parlan di donne che non
sian cortigiane. Cortigiana Aspasia, le cui grazie per quarant’anni
governano il genio d’Atene; cortigiana Laide, per cui tutta Grecia
traeva a Corinto, e dalla quale, narra Ateneo, era più difficile
impetrar udienza, che non dal Satrapo Farnabazo; cortigiana Taide, per
cui Alessandro incendiava Persepoli e che Tolomeo re d’Egitto sposava;
cortigiana Glicera, che Arpalo in Tarso fa salutar regina; cortigiana
Rodope, a cui si innalzano in Grecia palazzi, in Egitto piramidi;
cortigiana Frine, che s’offre a rialzare a sue spese le mura di Tebe,
purchè vi si scriva: _Alessandro le distrusse: Frine le rialzò_.
Il costumato Teofrasto dipinge i _caratteri_ d’Atene, e fuorchè
cortigiane, altre donne non cita; l’elegante Alcifrone, il libero
Aristeneto dettan le _Lettere_ e ci intrattengono di cortigiane. Alla
cortigiana Glicera regala Alcifrone le grazie del suo spirito e del
suo stile, domanda Menandro gli estri della sua Musa; colle cortigiane
Teodota e Diotima conversa di filosofia l’austero Socrate nelle pagine
di Senofonte e di Platone; colla cortigiana Leonzia vien filosofando
Epicuro; e alla fortissima Leena, che coi denti si mozza fra’ tormenti
la lingua perchè il dolor non la stringa a rivelare il nome dei
patrioti cospiratori, a questa cortigiana drizza Atene monumenti che ne
attestino la gloria e la virtù.

Tradizioni di tal fatta intorno ad un tal nome di casta da sè lasciano
intendere come ei dovesse suonar ben diverso alle orecchie ateniesi che
non alle moderne orecchie pudiche; certamente, non titolo d’onore, ma
senza confronto men vituperevole d’oggidì: la lingua stessa designava
col dolce nome di _etéra_ — ἑταίρα — ossia _compagna_, _buona amica_,
quelle alunne di Venere, dal nome di Venere _amica_ — (Athen.,
_Deipnos_., XIII, 571) — ad attestare, nella differenza del senso, la
differenza della posizione sociale. Certo è ch’elle erano il perno e
l’anima della giovine società elegante ateniese; e agli scapoli non
solo, ma agli stessi mariti, malgrado i vincoli del matrimonio, poco
o niun biasimo veniva dall’uso comunissimo del trescar pubblicamente
seco loro: gran mercè se non giungevano a vantarsene, come si narra
dello stesso Alcibiade, quando, sposo ad Ipparete, facea di sè esporre
ritratti che il mostravano fra le braccia della meretrice Nemea
(Andocide, _Contro Alcib_., 14); anzi nemmeno per le mogli era questo
motivo di legge sufficiente a spor querela in giudizio e ad ottenere
il divorzio, come Plauto ne fa fede (_Merc_., IV, 6, 3). «_Abbiamo le
etére per il piacere dell’animo, le donne legittime per la procreazione
della prole_» (Demost., C. _Neera_). Però a qual punto spingesse Atene
la libertà del commercio colle meretrici, nulla meglio lo addita di
quel giudizio di àrbitri, portato da Demostene in tribunale, ond’è
risolta la lite tra Stefano e Frinione, disputantisi i diritti sulla
meretrice Neera, col sentenziar la posseggano a vicenda due giorni per
ciascuno (Demost., _Contro Neera_, 46).

Era oblio delle virtù antiche che avevan fatto grande la città? Era
corruzione infiltrata col tempo ne’ costumi? Certamente da altro
punto di vista avea considerato Solone il meretricio, quando per il
primo pensava a regolarlo per legge, e a organizzarlo, confinato ne’
bordelli, sotto la vigilanza dello Stato. Udiam Filemone ne’ _Delfi_ in
Ateneo:

«Solone, tu fosti veramente il benefattore del genere umano! poichè
tu per il primo pensasti a una cosa assai vantaggiosa al popolo e alla
pubblica salute. Sì, a ragione io dico questo, perchè tu considerasti
la nostra città piena di giovani dal temperamento bollente, e che
sarebbero quindi trascorsi ad eccessi punibili. Perciò tu comperasti
delle donne, e le hai poste in luoghi ove, provviste di quanto è a lor
necessario, divengono comuni a quanti le bramano. Eccole nude; perchè
non ti ingannino, ispeziona ben tutto. Vieni; la porta è aperta: paga
un obolo ed entra: qui non si faranno smorfie, non si farà la ritrosa.
Qua, subito, se vuoi, e nel modo che vuoi» (Athen., _Deipn_., XIII,
569).

Così in Atene (vuoi che Solone ne fosse realmente il primo istitutore
o ch’ei ne trapiantasse l’usanza da alcune coste del Peloponneso e
dell’Africa, secondo Engel, _Kypros_., II, 373) — sorgevano i primi
bordelli (πορνεί ἃ παιδισκεῖα): eretti a istituzione di Stato, dacchè
sappiam da Nicandro che Solone pel primo alzò un tempio a _Venere
pandemia_ o _cortigiana_ (Αφροδίτη Πάνδημος, ovvero Εταίρα) col danaro
raccolto dalle donne che presiedevano a que’ luoghi (Athen., _l_. _c_.,
cfr. Albert, ad Hesych. I, 1477).

Pur erano i tempi di Atene austera, e il regno delle _etére_ non era
ancor sorto.

Ma in fuor delle schiave ne’ bordelli serbate, per ragioni di pubblica
igiene, allo ignobile traffico, e dell’altre che privati lenoni, uomini
e donne (πορνοδοσκοί) comperavano e mantenevano allo stesso scopo ed
uso, per trarne lucro in loro apposite case — l’ironia del linguaggio
li chiamava ἐργαστήρια, _luoghi di lavoro_ — (cfr. Demostene, _C_.
_Neer_. 18, 67; Athen. X, 437, f.; Eschin., _C_. _Timarc_., 138;
Plauto, _Cistell_., _Asin_., ecc.) — veniva sorgendo e moltiplicandosi
— da quelle assai distinta — la classe numerosa delle _affrancate_ e
delle _libere_, professanti per proprio conto il culto della Venere
volgare. È per queste propriamente che il popolo, con indulgente
eufemismo, mutava il nome spregiativo di πόρναι, o παλλακαί, in quello
carezzevole di _amiche_ od _etére_: «Dimmi, chiede Socrate a Teodota,
hai tu poderi? — No. — Ma forse hai una casa che ti dà la rendita?
— Non ho casa alcuna. — Ma forse hai schiavi manifattori? — Nè anche
questi. — E di dove dunque ricavi le cose necessarie alla vita? — Se
alcuno fattomisi _amico_ vuol farmi del bene, questo è il mio avere»
(Senof., _Memor_. III, 9). E Antifone: «Avea costui per vicina una
giovine cittadina: appena la vide, che la fece sua amante: cosa tanto
più facile ch’ella non aveva nè tutori, nè parenti: era una ragazza
dalle inclinazioni più virtuose, oneste, d’aurei costumi: insomma quel
che può dirsi veramente una meretrice (_etéra_), diversa da altre che
disonorano un nome _così bello_» (_Antifone_, presso Athen., XIII,
572). E l’autore di questo dramma, leggendo, pensava alla sua ingenua
Glicera.

Del novero di queste cittadine ateniesi che viveano a sé, traendo
frutto da’ proprj vezzi, benchè in umile grado, erano le _auletridi_,
e le _citarede_, e le _ballerine_ (αὐλητρὶδες, κιθαρίστριαι,
ὀρχηστριδης), le quali prestavano a prezzo, ne’ sacrificj e ne’
banchetti, l’opera de’ flauti e delle cetre e delle danze: ma
associavan di regola l’una all’altra industria, vivendo da _etére_,
e facendo spesso delle loro abitazioni il luogo di convegno della
gioventù (Isocr., _Areop_., 48; Luciano, _Dial. delle cortigiane_,
5). Non era banchetto che non fosse rallegrato da queste leggiadre
sacerdotesse di Calliope e di Tersicore: e spesso, tra i fumi del
vino e le armonie de’ suoni, qualche commensale accendéasi per
esse di passione violenta. (Menand., _Tesoro_, pr. Stob., LXIII,
18). E però, molte di costoro, per attrattive di mente e di beltà,
dovettero emergere e salire in fortuna: ed eran di queste, parecchie
fra le _etére_ più in grido, di cui si narrano i nomi e gli aneddoti
in Ateneo. Suonatrice di flauto fu Lamia, la figlia dell’ateniese
Cleanore, che innamorò di sè perdutmente il dominatore d’Atene Demetrio
Poliorcete (Aten., XIII, 577, c.). Pure, generalmente non fu in Atene,
dal grembo di queste, ma dal di fuori che vennero e sorsero quelle
apparizioni veramente meravigliose, come Hermann le chiama (_Bild. des
Griech. Privatleb._, II, 60), le quali, colle grazie dello spirito e
coll’amabilità assai più ancora che coll’avvenenza esercitarono una
influenza così strana e decisiva sulla società del loro tempo, sulle
arti e sui costumi. Forestiere (ξέναι) erano Aspasia da Mileto, e Laide
da Iccara e Frine. Venian per lo più fanciulle, povere e sole, nelle
grandi città, a Corinto e ad Atene, per trovarvi lavoro: ivi i talenti
naturali e la bellezza fermavan sovr’esse gli sguardi: e a poco a poco
travolgevale il vortice. Libere e cresciute all’aperto, — a differenza
delle matrone ateniesi rinchiuse da bimbe in casa, fuor degli occhi
degli uomini, a imparar di conocchia e di cucina, e a vegetare più
tardi ne’ talami fra la custodia di leggi pressochè claustrali, — nella
libertà avean potuto coltivare i ricchi doni di natura e lo spirito;
soltanto nella vita libera delle _etére_, al contatto della società,
poteano omai trovarne lo sviluppo. Così circondate dal fiore di Atene,
disputanti di scienze e di arti con artisti e filosofi, corteggiate
dalle aristocrazie del sangue e del censo, sorgeano datrici delle
leggi del buon gusto e dell’eleganza, raffinatrici di ingegni e di
studii e di ogni senso del bello nelle piacevoli gare, ispiratrici care
alle Muse. Aspasia apriva in Atene la prima sala di conversazione che
rammentin le storie; vi cresceva alunne degne di lei; e là in quel
circolo leggiadro, dove donne virtuosissime come la moglie di Senofonte
non temean di compromettersi frammischiandosi alle _etére_ (Plutarco
in _Pericle_; Cicerone, _De Invent._, I, 99; Quintil., _Instit. Orat._,
V, 19), veniva Pericle a riposarsi dalle cure della repubblica e dalle
burrasche del governo popolare.

Di queste _etére_ di prima classe proverbiali erano il lusso e l’orgie
ed il prodigo fasto, — spesso non discompagnati da cauti risparmj e
da previdenza del futuro, spesso preparanti una squallida vecchiaja.
Talora se n’immischiava, col disinteresse, anco l’amore: e Meneclide
allora piangea morta la bella gioconda Bacchide, che esempio di
amore e di fedeltà, contenta a’ poveri cenci di lui, avea rifiutato i
ricchi doni e l’oro del satrapo (Alcifr., _Lett_., I, 38): più sovente
l’interesse volea la sua parte, e Filumena scriveva a Critone lettere
lunghe come questa: «A che col tanto scrivere e piangere martirizzi
te stesso? Cinquanta monete d’oro mi fan d’uopo, non lettere. Se è ver
che mi ami, mandale: se sei un sordido, non seccarmi altro» (Alcifr.,
_Lett._, I, 40). — Era il tempo che Gnaténa domandava mille dramme per
una notte: e Laide a Demostene chiamato a Corinto dalla fama di lei,
ne domandava diecimila, per udirsi rispondere: _Non compro a sì caro
prezzo una penitenza_.

Sulla fede di Suida pretesero alcuni (Petit, _Leg. Att._, p. 573-576)
che le leggi stesse regolassero il lusso delle _etére_, prescrivendo
loro, per distinguersi dalle matrone, date foggie di vestiario a
colori. In ciò questo solo è di vero, che le leggi, rigorosissime
nel frenare e punire il lusso delle matrone (Polluce, VIII, c. 9) e
punirle se usciano men che modeste e decenti per via — non poneano
alle _etére_ prescrizione o freno di sorta (Diod. Sic., XII, 21;
Eustath. _ad Iliad._, XIX); naturalissimo poi ch’elle si valessero,
quanto più bramavan piacere, tanto più ampiamente di quella libertà: e
all’abbigliamento affatto modesto delle matrone sostituissero lo sfarzo
delle vesti di porpora o tessute in oro, o vagamente ricamate a fiori o
colori smaglianti, e gli artificj del belletto e i ricchissimi monili
e le splendide ricercate acconciature (Luciano, _D’una sala_; Alessi,
presso Athen., XIII, 568 a. e Clem. Al., _Paedag._, III, p. 218); salvo
ai comici di ferirle in pubblico con detti ed epiteti mordaci, e alle
pudiche matrone di invidiarle in segreto.

Cfr. Alcifrone; Aristeneto; Ateneo, lib. XIII; Menandro e Comici greci,
_Frammenti_; Luciano, _Dialoghi delle cortigiane_; Demostene, _Contro
Neera_; Becker ed Ermann, _Bild. des Griech. Privatlebens_; Cl. Bader,
_La femme grécque_; Laitier, _La femme dans la fam. Athen._; Wieland,
_Lettere di Aristippo_, ecc., ecc.


I PARASSITI. 

Questo nome fu lontano dall’avere in origine l’ignobile significato
che ebbe di poi. Fra gli antichi l’epiteto di _parassito_ significò un
ufficio _sacro_ e fu sinonimo di _commensale_. Così chiamavansi (Aten.,
VI, 235 c.) coloro che erano nominati a soprintendere alla scelta
e alla percezione del frumento sacro (οἴ δ’ἐπὶ τήν τοῦ ἵερου σίτου
ἐκλογὴν αἰρούμενοι): e vi era pertanto un _collegio_ ossia _curia_ di
parassiti (καὶ ἤν ἀρχεῖον τι παρασίτων). Per il che era scritto nella
legge del re: «Il re avrà cura che si creino i magistrati: e dalle
varie borgate (_demi_) sian scelti, a norma delle leggi, i _parassiti_:
i quali dai magazzini di grano della rispettiva classe e tribù scelgano
ciascuno un sestiere di orzo, affinchè gli Ateniesi se ne cibino
secondo il patrio costume.»

E in Polluce si legge: «Era ad Atene una certa curia o magistratura
detta _parasition_: come sta scritto nella legge del re»
(_Onomasticon_, lib. VI, cap. 7). Dalla qual legge anco rilevasi che
vi era una casa sacra destinata e consacrata a questa curia che i
parassiti formavano.

Il _parasition_ ebbe dunque il suo nome dal grano (_para sitou_) sacro
di cui vi si deponevano le primizie. E col grano intendevansi in genere
anche tutte l’altre offerte fatte da cittadini al tempio ed agli Dei.

La parola _parassita_, scrive dal suo canto Clearco di Soli, discepolo
di Aristotile, nelle sue _Vite_ (Athen., VI, 335), «la qual designa
attualmente un uomo pronto a condursi secondo il piacere d’altrui,
in altri tempi significava un uomo scelto ad essere commensale dei
sacerdoti: anzi la maggior parte delle città annoveravano fra le prime
dignità quella dei _parassiti_, come alcune le annoverano ancora.»

E in Atene al Cinosargo (ginnasio destinato ai poveri e ai bastardi),
nel tempio di Ercole era affisso ad una colonna questo decreto di
Alcibiade scritto da Stefano figlio di Tucidide: «Che il sacerdote coi
_parassiti_ faccia i sagrificii di ogni mese. I parassiti prenderan
seco un bastardo e un figlio di bastardo secondo l’uso della patria.
Colui che rifiuterà d’essere parassito sarà tradotto ai tribunali.»

Altro decreto affisso a una colonna dell’_Anaceo_ (il tempio di Castore
e Polluce): «Dei due più bei bovi che si saranno scelti, la terza parte
sarà destinata alla celebrazion dei giuochi; gli altri due terzi si
daranno uno al sacerdote, l’altro al parassito.»

E sotto le offerte votive consacrate a Pallene, leggevasi: «Essendo
arconte Pitodoro, i magistrati e i _parassiti_, cinto il capo di
corona d’oro, offersero questi doni.» E altrove: «I parassiti della
sacerdotessa Filea furono Pericle di Pittea e Carino di Gargetto.» E
nella legge del re: «I parassiti d’Acarne sagrificheranno ad Apollo»
(Ateneo, _l_. _c_.; Meursius, _Themis Attica_, II, 35).

Fu molto più tardi che quella designazione di coadiutori e commensali
dei sacerdoti, passò a significare in genere un’altra specie di
commensali assai meno nobile, ma forse altrettanto antica.

Nè si potrebbe meglio spiegare la mutata fortuna del vocabolo che
colle parole di un parassita stesso, in una commedia di Diodoro di
Sinope: «La mia professione è sempre stata gloriosa ed onestissima. La
nostra città che rende grandi onori ad Ercole, fa sagrificii in tutti i
borghi, dando a questo dio dei parassiti per queste cerimonie sacre. E
non li prende già fra i primi venuti; ma sceglie a ciò dodici cittadini
fra i più potenti e ricchi, e di vita intemerata. In seguito di tempo,
alcuni cittadini agiati, volendo imitare ciò che faceasi per Ercole,
s’impegnarono reciprocamente a prendere un certo numero di parassiti
per mantenerli; ma non scelsero già persone veramente ammodo; presero
invece adulatori sempre pronti a colmarli di elogi; di modo che, se
il padrone rutta loro sul naso dopo aver mangiato del rafano e del
pesce stantio, essi lo complimentano per le rose e le violette con
cui ha pranzato. O p... egli vicino all’uno o all’altro? quegli gira
il naso annusando qua e là, e domanda: Dove prendi tu questo profumo
squisito? — È così che i parassiti hanno fatto, di ciò che era onesto e
rispettato, una professione ignobile qual è oggi» (Athen., VI, 239 d.).

Secondo Ateneo, Alessi ed Epicarmo furono i primi che introdussero
nelle loro commedie il carattere del _parassito_, quello cioè che
oggi da noi si intende comunemente con questo nome. Il personaggio di
Epicarmo, nella commedia il _Pluto_, risponde a chi l’interroga: «Io
pranzo con chi vuole: basta invitarmi. Quanto ai festini di nozze, io
ci vado senz’esservi chiamato. Faccio ridere a crepapelle e non manco
mai di lodare il padron di casa che dà il pranzo. Se qualcuno è di
parer contrario al suo, io gli do sulla voce, e mi riscaldo. Infine,
dopo aver ben bevuto e ben mangiato, me la cavo. Non ho schiavo che
m’accompagni colla lanterna, ma cammino traballando e solo fra le
tenebre. Se per caso incontro la ronda, le dico qualche buona parola,
rendendo poi grazie agli Dei che a furia di pugni e di staffilate non
m’abbia accoppato. Giunto a casa m’addormento e non penso più a quel
ch’è stato, fin che il vino è padrone della mia anima» (Athen., VI,
235-6).

Altri volle scorgere il primo tipo del parassito in Omero: «Fra i
Trojani era Podete, valoroso e ricco, figlio di Eezione. Ettore lo avea
per amico e commensale» (_Iliad_., 71): e perciò il poeta lo fa ferire
al ventre da Menelao, cioè da uno spartano, amico della frugalità.

Il caustico Luciano andò ancora più innanzi: e il parassito de’ suoi
dialoghi, che la pretende a letterato, fa di Omero non soltanto lo
scopritore, ma anche il primo panegirista di questa casta rispettabile.
E cita l’elogio del viver parassitico _seduti in fila a convito,
quando le mense traboccano di pane e di carni e il coppier versa
intorno il pretto vino_; e nota che Omero non per nulla il pose in
bocca ad Ulisse, cioè al più savio de’ Greci; e trova maliziosamente
che parassiti di Agamennone eran nientemeno che Nestore e Idomeneo: e
parassito di Achille lo stesso Patroclo (Luciano, _Parass_.): nella
qual citazione è curioso lo scambio tra la classe dei parassiti e
quella dei _donzelli_ o degli _amanti_, secondo il greco costume.

Checchè ne sia delle facezie di Luciano, gli antichi poeti designavano
i parassiti col nome di _adulatori_ (κόλακες). In una commedia di
Eupoli, che reca appunto quel nome, un coro di adulatori così parla:
«Io ho due vesti abbastanza belle che indosso a vicenda, e ne faccio
sempre andar l’una o l’altra al mercato; se vi scorgo qualche sciocco
riccone, subito io gli sono alle coste. Se egli dice qualche parola,
mi sbraccio in elogi, mostro d’andar in estasi a quel ch’egli dice; e
il nostr’uomo si vede così assalito da una quantità di adulatori che
vengono alla sua tavola: e noi andiamo in panciolle a spese altrui.
Là ogni discorso dev’essere adulazione, menzogna: se no, addio tavola:
saremmo messi alla porta» (Athen., VI, 236 f.).

Ma il nome propriamente di _parassito_, usato in questo senso, lo si
incontra la prima volta nel comico Araro, da Ateneo così citato: «Mio
caro, tu sei necessariamente _parassito_ (παράσιτος), poichè non è
forse Iscomaco che ti mantiene alla sua tavola?»

Or ecco il carattere di un parassito, dipinto dal comico Timocle, nel
suo _Draconzio_ citato da Ateneo: «E che? Lascerò che si sparli di
un parassito? Mainò. È la razza d’uomini più utile. Se vi ha qualcosa
d’onesto a fare che possa recar piacere agli amici, il parassito non si
mette ei subito all’opera? Hai una passione? il parassito ti seconderà,
pronto a tutto quel che ti occorre: e persuaso che è un giusto ricambio
ch’ei ti deve per la tavola che gli fornisci. Ma ecco, per finirla,
ciò che prova all’evidenza quanto caso si faccia del parassito. Si
accordano al loro merito le stesse prerogative che a quelli che furono
vittoriosi ad Olimpia, cioè il nutrimento a spese dello Stato: poichè
qualsiasi il luogo in cui si mangia senza pagar nulla, non si deve
chiamarlo il _Pritaneo_?» (Athen., VI, 237 d. e.).

E Antifane nei _Gemelli_: «Un parassita, se ben rifletti, è un uomo che
divide con noi e la fortuna e la vita. Nessun parassita mai desiderò
veder infelici gli amici; al contrario egli non augura che del bene
a tutti. Sa sopportare un trasporto d’ira: se lo pigli a dileggio, ne
ride: è propenso all’amore, burlone, gioviale» (Athen., VI, 238 a.).

Altre simili citazioni degli antichi comici greci intorno a questa
classe di persone ponno riscontrarsi da chi voglia in Ateneo; il quale
prosegue ricordando nomi e aneddoti de’ parassiti più conosciuti ad
Atene nel V e nel IV secolo avanti l’êra volgare, cioè: Titimallo,
Corido, Cherefonte, Filosseno, Ceribione, Grillione ed altri famosi
chi per voracità, chi per la vena inesauribile di facezie, o anche di
impertinenze con cui rallegravano i banchetti dei loro Anfitrioni.

Certo è che una tal classe rappresentava nella vita ateniese del
secolo d’oro un tipo troppo interessante e caratteristico per non
tentar l’estro degli scrittori che più al vivo dipinsero quell’età. Ed
ecco Luciano spendervi intorno le arguzie più sottili della sua Musa;
e qui far le lustre di impietosirsi sulle piccole disgrazie di quei
che vivono alle spalle dei signori (Lucian., XVII), là decantarne le
delizie e mostrar come e qualmente la _parassitica_ è un’arte, anzi la
prima tra l’arti.

«Il primo punto — osserva il suo parassito — è cercare e discernere
chi può essere atto a nutrirti, con chi acconciarti meglio a desinare,
senza avere a pentirti poi. Direm noi che il cambiatore ha un’arte con
cui distingue le monete false dalle buone, e che uno senz’arte conosce
gli uomini quali son falsi e quali buoni? Pure gli uomini è ben più
difficile scernerli che non le monete. L’arte del parassita è dunque
grande, se a tanto arriva. E a saper dire acconce parolette, a far di
quelle cose che ti acquistino la benevolenza di chi ti dà a mangiare,
non ci vuol forse prudenza e conoscenza assai? E nei conviti, l’uscirne
colla miglior porzione ed avere più carezze degli altri che non hanno
quest’arte, credi tu si possa far senza sapienza? E il conoscere le
virtù e vizi delle vivande e degli intingoli, ti pare che sia una
curiosità da poltrone? Eppure il nobilissimo Platone dice: _Chi fa un
banchetto e non si intende di cucina, non può mostrare buon giudizio_.
Arrogi, la parassitica non consiste solo nelle cognizioni ma anco nella
pratica. Le altre arti, anche non esercitate per anni, non periscono in
chi le possiede: ma se le conoscenze del parassito non sono esercitate
ogni giorno, non solo perisce l’arte, ma l’artista. Nelle altre arti
il dolce viene all’ultimo, e la via n’è lunga e scabrosa: il parassita
solo gode dell’arte sua mentre l’impara, e mentre comincia è già al suo
fine... E qual fine utile nella vita è mai il suo! Per me non trovo
nella vita niente più utile del mangiare e del bere, e non si può
vivere senza di ciò» (Luciano, _Parass_.).

E questo è precisamente il parere non solo del parassito di Luciano,
ma anche degli altri suoi degni predecessori, che vivono ancora nelle
lettere del giocondo e pittoresco Alcifrone. E anche qui i parassiti
occupano gran parte di quel quadro di costumi così vivo e così vero;
e si raccontano a vicenda tra di loro le delizie della loro vita.
Sentiamo, per esempio, il rispettabile parassita Misognifo: «Benedetta
la nave che portò da Istica in Atene questo meraviglioso mercadante,
appetto del quale pajon sordidi li più agiati ateniesi! Non pago di
un solo parassito, ci fece venir tutti dalla città: e non solo noi, ma
le cortigiane più sfarzose, le cantatrici più belle, e gli istrioni da
teatro in tal numero che avresti detto non mancarvene pur uno. Egli ama
essere festeggiato da cetre e flauti, il suo conversare è ridondante
di grazie e di veneri: fin nell’aspetto è tutto gioviale: ne’ suoi
discorsi eloquente sì come quegli

    _Cui di néttar la musa i labbri asperse._ 

Anche noi parassiti parliamo alla foggia de’ letterati, chè noi pure
siam nativi dell’Attica, ove uomo non trovi che in cotali ciancie non
abbia buon gusto» (Alcifr., _Lett_. III, 65).

Le rose però hanno le spine, ed era tutt’altro che di sole rose la
vita del parassito: obbligato ora a far ridere senza sempre riuscirvi,
come il povero Filippo del _Simposio_ di Senofonte, ora a rischiar
salve di busse o a servir di zimbello ai capricci e alle burle di
chi lo invitava, e a starsene alla varia fortuna. Taluno pigliava
filosoficamente la sua parte, come il parassita nel _Pitagorista_ di
Aristofane: e si tratta di bever acqua? io sono rana. Ci son erbe o
radici a rodere? io sono bruco. Bisogna far senza del bagno? io sono
il grasso e il sudiciume in persona. Viver l’inverno a ciel sereno? io
sono merlo. Sopportare un calor soffocante e cantare di pien mezzodì?
sono cicala. Non far uso di olio? son polvere arida. Camminare a piè
nudi dall’aurora? sono gru. Non dormire un sol minuto la notte? sono
civetta» (Athen., VI, 238 d.).

Non tutti però avevano la stessa filosofia; e allora venìano i lamenti:
«O Genio cui son toccato in sorte, quanto maligno sei! Se alcun non
mi invita, e’ mi conviene divorar piante selvatiche e conchiglie,
ovvero andar cogliendo erbe od empiere il ventre bevendo all’Enneacruno
(fontana pubblica di Atene). Finchè ero giovine e in gambe, potevo
patir questi disagi; ma ora che son fatto grigio qual rimedio a tanta
sciagura? Una fune d’Aliarto mi occorre e penzolerò davanti alla porta
Dipila, se la Fortuna ad ajutarmi non pensa» (Alcifr., _Lett_., III,
49). È il povero parassito Capnosfrante che si dispera.

Ma udiam quest’altro: «Ribaldo di barbiere!... Anzi che radermi
egualmente tutto il mostaccio, senza mia saputa lo fece a metà,
sicchè restommi la mascella qua pulita, là ispida. Io, ignaro della
malizia, recaimi al solito a casa Pasione, benchè non invitato. Come
li commensali mi videro, dieronsi a fare le più grasse risa del mondo:
ed io non conobbi la cagione di tanto riso se non quando l’un d’essi
mosso ver me, mi tirò pei peli rimastimi. Questi mi strappai tosto non
senza grave dolore: ed ora vo’ pigliar un bastone delli buoni e darlo
sul cranio al mariuolo! Poffar di cielo! Ciò che per burla fanno quei
che ci pascono, ardì fare costui che non ci pasce» (Alcifr. III, 66).
Questi è il parassita Ginnocheronte a cui sale presto la mosca al naso.

«Oh Dio! — grida un terzo, — crudel giornata che fu quella di jeri!
Che non mi fecero soffrir questi ricconi! Essi gareggiarono nel
costringermi a tracannare e a mangiare oltre la capacità del mio
ventre. Questi mi imbottava di salsiccia e quello per forza mi cacciava
un pezzo di pane nelle ganasce; un altro mi riversava nello stomaco,
come in una botte, non vino, ma brodetto di senape e di pesce spremuto
e di aceto. Se il medico Acesilao vedendomi moribondo non mi facea
portar via e non mi soccorreva di rimedj, era finita per me» (Alcifr.,
III, 7). E la umanità avrebbe perduto innanzi tempo il povero parassito
Etoemocóro.

Allora, co’ guai, veniva il pentimento: e insieme il proposito di
mutar vita: «Vo’ pormi a far qualche mestiere: andrò al Pireo: farò
il facchino. Meglio empir la pancia di cipolle e di polenta, ma goder
sicurezza di vita, che gustar manicaretti ed uccelli del Fasi, e ogni
giorno stare in bocca alla morte» (Alcifr., III, 7). Ma più spesso i
propositi li menava il malanno: e un altro pranzo se li portava via.

Tale era, in Atene, il parassito. Mezzo filosofo, mezzo buffone; con
qualche sprazzo di letterato; adulatore di professione, e al bisogno,
impertinente; niente invidioso de’ beni altrui, pur di goderne qualche
briciolo in compagnia: sempre gaudente per istinto, spesso rassegnato
per necessità; pronto a ogni servigio pur di guadagnarsi qualche
dramma od un invito; capace, per far servizio, di parecchie azioni
cattive, e se il caso gli veniva, persin di qualcuna buona. Un faceto
mariuolo, senza l’impossibilità assoluta di cavarne per combinazione un
galantuomo. Tutto sommato, una pasta d’uomo niente peggiore — migliore
forse — de’ suoi figli e pronipoti della nostra età.


CLASSI DI ATENE. 

La popolazione tutta di Atene, ossia dell’Attica, dividevasi in tre
grandi categorie: _cittadini_ (πολῖται); _meteci_ o _trapiantati_ o
_forestieri domiciliati_ (μέτοικοι); (_schiavi_) (δοῦλοι). Ai tempi di
Alcibiade sommavano nell’Attica i _cittadini_, all’incirca, ai 20,000;
i _meteci_ ai 10,000; gli _schiavi_ ai 400,000.

Gli _schiavi_ erano o Greci prigionieri di guerra, o barbari per lo
più di Tracia, di Caria o di Frigia rapiti dai pirati e portati sul
mercato d’Atene; o Ateniesi nati di genitori schiavi. Formavano un ramo
considerevolissimo di commercio; il prezzo ordinario di uno schiavo
variava dalle 300 alle 600 dramme (la dramma valeva 96 centesimi di
franco), però poteva salire anche a prezzi straordinarj di affezione.
Adoperavansi all’agricoltura, alle miniere, alle manifatture, ai
servigi domestici interni; il padrone poteva incarcerarli, incatenarli,
interdir loro il matrimonio, separar il marito dalla moglie; non poteva
però _ucciderli_; la legge, in Atene per essi assai più mite che non
a Sparta ed a Roma, accordava agli schiavi il diritto di querelarsi
dei maltrattamenti ingiusti dei cittadini e dei padroni («_chiunque a
fanciullo, o a donna o ad uomo, siano liberi o schiavi, farà villania
od atto illecito sia accusato ai Tesmoteti..._» Demost., _Contro
Midia_); se trattati dai padroni con eccessivo rigore rifuggivansi
nel tempio di _Teseo_ e di là, come da asilo inviolabile, chiedevano
padrone più umano. Tutti avean diritto di affrancarsi riscattandosi;
talvolta per servigi resi li affrancava la Repubblica: e nei bisogni
urgenti potean essere armati per la guerra.

I _meteci_ o _trapiantati_ — classe intermedia fra gli schiavi e
i cittadini — erano stranieri ai quali il Senato aveva permesso di
venire a domiciliarsi nell’Attica ed esercitarvi qualche industria,
coll’obbligo di pagare una imposta di 13 dramme annue per ogni capo
di famiglia e sottostare agli altri oneri straordinarj, nonchè al
servizio militare. Formavano una sola categoria insiem con loro anche
gli _schiavi affrancati_ o _liberti_. — Eran tenuti in conto di liberi;
poteano esercitar l’arte che loro piaceva, posseder terre e schiavi;
il governo li proteggeva; e questo patrocinio tenea luogo per essi dei
_diritti politici_ dai quali erano esclusi. Perciò dovean scegliersi
tra’ cittadini un _patrono_ (προστάτης) che guarentisse per loro e li
rappresentasse negli atti giuridici. Poteano però in dati casi venir
innalzati al grado di cittadini.

Infine eccoci alla categoria dei _cittadini_, alla quale apparteneasi
o per diritto di nascita, da genitori cittadini ateniesi, — o per
adozione o per conferimento di cittadinanza; che fu onore _ab antico_
da principi ambito e non potea conferirsi se non per decreto popolare
ratificato da 6000 cittadini. Onore caduto in discredito più tardi,
perchè a troppi e immeritevoli conferito (Vedi Demostene, _Contro
Aristocrate e Sintassi_).

La divisione più antica dei cittadini dell’Attica fu quella di Teseo:
il quale liberato il territorio dalle scorrerie de’ pastori e riuniti
in un solo corpo i distretti dell’Attica, ne ripartiva la popolazione
in tre classi: _eupatrìdi_ o _nobili_ (εὐπατρίδαι); _agricoltori_ o
_coloni_ (γεωμόροι) e _meccanici_ o _industriali_ (δημιουργοί). Grandi
disuguaglianze doveano essere tra la prima classe e l’altre due,
sebbene Plutarco (in _Teseo_) ed Euripide (_Supplici_, v. 46 e seg.) ci
presentino Teseo istitutore della eguaglianza politica e lodatore della
democrazia. Infatti Pausania, accennando a questa pretesa istituzione
della democrazia fin dal tempo di Teseo, soggiunge: _simili cose
credevan coloro che prestavan fede a tutto che udivano da fanciulli in
teatro_ (Paus., _Attic_., 1, 3, 2): e dallo stesso Plutarco rilevasi
che considerevoli prerogative erano accordate alla nobiltà ereditaria
degli _eupatrìdi_. Della classe degli eupatrìdi furono i re; indi gli
arconti o re _decennali_ quando l’autorità regia fu limitata a tempo
(753 av. l’E. V.) e quand’essa fu soppressa del tutto (682 av. l’E.
V.) ancora fra la classe degli eupatrìdi si stabilì di scegliere i nove
_arconti annuali_.

Questa preminenza dava agio agli _eupatrìdi_ di opprimere le due
classi inferiori: e le leggi di Dracone (624 a. l’E. V.), favorevoli
all’aristocrazia, la aggravarono: indi turbolenze e lotte intestine
fra le tre classi, dalle quali presero origine e nome le tre fazioni
politiche dei _Pedii_, dei _Diacri_ e dei _Paralii_, ossia degli
abitanti della _pianura_ (i nobili oligarchici); dei _monti_ (i
poveri _coloni_, partigiani di democrazia) e delle _spiaggie_ (i
ricchi _industriali_, fautori di governo misto). A cessar la completa
anarchia, che fu la conseguenza di queste lotte, venne la costituzione
di Solone (594 a. l’E. V.).

Egli sostituì all’antica una nuova ripartizione dei cittadini in
quattro _classi_, secondo il vario ammontare della rendita netta della
loro proprietà fondiaria e della corrispondente cifra d’imposta.

1.ª Classe: i _pentacosiomedimni_ — (πεντακοσιομέδιμνοι), cioè i
cittadini che raccoglievano annualmente 500 medimni o misure di frutti
solidi e liquidi (il _medimno_ corrispondeva a un mezzo ettolitro circa
— 2628 poll. cub. parigini — e al valore di una dramma); e pagavano 120
dramme d’imposta del cinquantesimo.

2.ª Classe: i _cavalieri_ (ἱππεῖς), i quali raccoglievano 300 medimni e
potevano mantenere un cavallo. Pagavano 60 dramme d’imposta.

3.ª Classe: gli _zeugiti_ o _aratori — jugarj_ — (ζευγίται), i quali
raccoglievano annualmente 200 medimni o 150, e possedevano un aratro
(ζεῦγος). Pagavano 20 dramme d’imposta.

4.ª Classe: i _proletarj_ o _thétes_ — _capite censi_ (δῆτες) che ne
raccoglievano di meno od erano nullatenenti.

Di queste nuove quattro classi, la prima sola forniva i cittadini
ammessi all’_Arcontato_ e per conseguenza all’Areopago; e le tre prime
in generale (_pentacosiomedimni_, _cavalieri_, _zeugiti_) fornivano
i cittadini per le altre magistrature. Quelli della quarta classe
infine (_thètes_) concorrevano colle prime tre al diritto di voto nella
assemblea popolare e all’ufficio di giudice (Vedi Plutarco in _Solone_;
cfr. Aristof. scol. _Caval_., v. 627; Polluce, VIII, 129-132; Suida;
Hülmann, _Costituz. di Solone_; Schöman, _Antich. greche_; Grote,
Thiriwall, ecc.).

Così, in luogo della vera _aristocrazia ereditaria_ — base del governo
oligarchico — non si ebbe più che una semplice aristocrazia del
censo — rappresentata dalle prime due classi de’ _pentacosiomedimni_
e dei _cavalieri_ — naturalmente mutabile nella sua composizione e
accessibile alle classi inferiori. Il titolo di _eupatrìda_ continuò
a distinguere la antichità e nobiltà del casato, ma non più come
distinzione ufficiale di casta, iscritta nel diritto pubblico. E alla
democrazia fu spianata la strada — volta che non più la nascita, ma
il patrimonio fu la base — e quindi il _lavoro_ potè essere il _mezzo_
dell’ammissibilità di tutti i cittadini alle più alte magistrature.

Dalle prime tre classi eran forniti per l’esercito i capitani, e i
trierarchi ossia comandanti delle _triremi_, i cavalieri (questi in
ispecie dalla 2.ª) e gli opliti o fanti di grave armatura (in ispecie
dalla 3.ª). Tutti costoro servivano a proprie spese, e a proprie
spese fornivano quelli la trireme, questi il cavallo, quest’altri le
armi. L’ultima classe poi di cittadini forniva la fanteria leggiera e
regolare (arcieri, τοξοται) e gli equipaggi della flotta.




AVVERTENZA 

DI CIMOTO AL PUBBLICO 


    Il _prologo_... io non sono. Io son Cimoto attore, 
      Compagno di Alcibiade — e amico dell’autore: 
    Il qual, tanto per romperla col suo vizio di prima, 
      Scrivendo un dramma in prosa, — lo ha cominciato in rima.
    Quest’è la ragion prima della comparsa mia: 
      Ve n’è un’altra — e ad esporvela lo stesso autor m’invia,
    Pregandomi di volgere sommessa una parola 
      Al pubblico ed ai critici di questa e quella scuola. 
    Descrivendo Alcibiade e Atene de’ suoi dì, 
      E quel ch’era il suo secolo, quand’egli vi fiorì, 
    È natural che parli l’autor de’ tempi suoi 
      Diverso che ai dì nostri non parlisi tra noi: 
    E che di idee più libere sotto il diverso lume 
      Discordi un po’ l’italico dall’attico costume. — 
    Però l’autor, vestendo colla pudica scoria 
      Del dramma le severe nudità della storia, 
    A mostrar quanto avesse serbato a lei rispetto, 
      Illustrava di un mondo di note il suo libretto, 
    Ove cita in appoggio di questo o di quel dato, 
      O d’una o d’altra usanza, l’autore consultato, 
    E per tutte e per singole le prese libertà 
      Invoca il beneplacito di qualche autorità: 
    Omèro, Éschilo, Sòfocle, Eurìpide, Platone, 
      Tucìdide, Plutarco, Diodòr, Gellio, Alcifrone, 
    Aristofane, Andòcide, Pausania e Senofonte, 
      Trogo Pompeo, Cornelio, Luciano ed Antifonte: 
    E l’aureo Teofrasto, e il buon cantor di Téo, 
      E Suìda, ed Aristéneto, Polluce ed Atenéo: 
    Poi, fra’ moderni, Wieland, Meissner, Meùrsius, Grote, 
      Peyròn, Becker, Corsini, ed altre fonti note: 
    E i commenti, — io li ho visti — non finivano lì... 
      Ma il difficile stava nel recitarli qui. 
    Come far? Per l’autore restava una via sola: 
      Pregar pubblico e critici a credergli in parola: 
    E a quelli che non credono, se non vedon lo scritto, 
      O a venirlo a vedere — o a rincarargli il fitto. — 
    Ciò riguardo alla storia: — in quanto al dramma poi 
      (L’autor qui non ci sente — diciamola fra noi) 
    Se sia un dramma possibile — o un dramma che non va, —
      Scommetto che l’autore medesimo nol sa. — 
    Oh, s’ei potuto avesse, con un prodigio strano, 
      Fondere in un sol tipo l’_Antonio_, il _Coriolano_, 
    E il _Cesare_; — e il lascivo eroe babilonese, 
      E il _Don Giovanni_ eterno del novo bardo inglese, 
    Oh, lo so anch’io, che allora, in un battere d’occhi, 
      L’autore un _Alcibiade_ v’avria dato coi fiocchi. 
    Poichè, quale la storia fra i secoli il mandò, 
      Fra i Greci fu Alcibiade un po’ di tutto ciò. — 
    Ma l’èra dei miracoli scomparve: — ed il poeta 
      Tremò, chiedendo indarno scintille alla sua creta, 
    Quando, scossa la polvere delle cecrópie mura, 
      Si trovò _solo_ innanzi la gigante figura 
    Dell’uom, che ai Greci attoniti di un secolo lontano 
      Mostrò tutte le faccie del poliédro umano. 
    Di virtù e vizii impasto, qual vide raro il mondo; 
      Di gloria e delle gioje dei sensi sitibondo; 
    Guerrier prode, audacissimo, — zerbino effeminato, 
      All’orgie, al lusso — e agli aspri stenti del campo usato;
    Libertin dissoluto, capitan savio e austero, 
      Tra i calici il più allegro, tra l’armi il più severo; 
    Matto negli ozii, all’opera calcolator minuto, 
      Nelle passioni ingenuo, nelle sue azioni astuto; 
    Or prepotente, or docile; leal, simulatore, — 
      Nella gloria egoista, nel resto ottimo cuore; 
    Ingannator di donne; nell’arti di Cupido 
      Maestro; e a un casto amore sino alla morte fido: 
    Tribuno e aristocratico; piaggiator della plebe, 
      Ch’ei d’Asia trasse e d’Éllade a insanguinar le glebe; 
    De’ suoi vizj sdegnoso; dall’aura popolare 
      Sbalzato or nella polvere, levato or sull’altare; 
    Per ambizion colpevole, per ambizion virtuoso, 
      Di Aristide men nobile, di Marzio più glorioso; 
    Pronto a mutar costumi, come a mutar di lido, 
      Or dell’ira seguendo, or della patria il grido, 
    E ad alternar fra Bacco, Marte ed Amor le cure, 
      Tranquillo nei dì prosperi, maggior delle sventure. 
    Tale era l’uom — fra i Greci, _segno d’immenso amore_ 
      _E immenso odio_ — che al tumulo strappò l’incauto autore,
    Sperando, almen per l’ombra del Grande che già fu, 
      Non _odio_ e non _amore_... — ma _ascolto_ — e nulla più.




QUADRO PRIMO 

               _Principio dell’anno 415 av. l’Era Volgare
     (2.º della Olimpiade 91.ª, 16.º della guerra del Peloponneso)
            Exeneto agrigentino vinse il premio ad Olimpia._

                                 ATENE.

  Giardini nella casa di Alcibiade.[4] Viali di piante. La scena e
    i viali son decorati di figurine (κόραι) di cera, di legno, di
    argilla e di statue (ἀγάλματα) raffiguranti divinità. Statue
    di Venere e di Amore. Qualche sedile marmoreo lungo i viali e
    qualche tavolo marmoreo con sovrapposti un cratere e dei calici
    di vino. Tratto tratto si odono da lontano concerti di musica.
    È sera. La luna rischiara la scena. Di lontano si scorgono i
    riflessi di sale illuminate.


SCENA PRIMA. 

SOCRATE; ASPASIA,[5] EUFROSINE, GLICÉRA; CIMOTO, più tardi ALCIBIADE. 


(_Aspasia, Eufrosine, Glicera in ricchi elegantissimi
abbigliamenti_[6]; _Glicera è seduta in disparte pensierosa, scambiando
tratto tratto qualche parola con Eufrosine_).

SOCR. Ora dunque, o dotta Aspasia, poi che mi insegnasti il bello
essere unico obbietto dell’amore, tu certo mi sai dire che cosa è
bello.

ASP. Se alcuna cosa è ben fatta per la destinazione che sortì da natura
e ben adatta al bisogno, io questa, o Socrate, chiamo bella.

SOCR.[7] O come saviamente mi insegni! E dimmi allora, perchè abbiam
noi bisogno degli occhi?

ASP. Per vederci, credo. 

SOCR. Se è così, o Giunone[8] Aspasia, io dunque ho gli occhi più belli
de’ tuoi...[9] (_risa fra gli astanti_)

ASP. (_sorridendo_) O come? 

SOCR. Perchè i tuoi guardan solo per diritto: i miei invece, essendo
sgusciati all’infuora,[10] vedono anche per traverso.

ASP. (_ridendo_) Ah! ah! Allora, o Socrate, anche più belli dei tuoi
saranno gli occhi del granchio...

SOCR. Ma nella bocca poi, s’ella è fatta per mordere, sicuramente di
bellezza io cedo alla tua... e ad ogni bocca che sia di donna.

ASP. Grazie dello elogio, figliuol di Sofronisco. Male adunque mi sono
spiegata. Belle io chiamo le cose in cui non soltanto è armonia col
fine che da natura sortirono, ma intima armonia di tutte parti fra
loro. _Questo_ è il bello che amiamo.

SOCR. A meraviglia parli! E certo allora la gobba del mio amico
Glaucone è armonica e bella, poi ch’io so che la sua Eufrosine, qui
presente, lo ama.

EUFR. (_indispettita_) O non avresti, vecchio Sileno,[11] un coccio di
Ténedo da mozzarti la lingua?[12]

ASP. (_sorridente_) Pace, Eufrosine! I gusti sono tanti! Io intesi per
intima armonia quella che tale sembra a ciascuno secondo il vario suo
gusto.

SOCR. Sicchè, se ho bene appreso, una cosa è bella e brutta ad un
tempo, secondo piace ad Eufrosine, o dispiace ad Aspasia?...

ASP. Così è. 

CIMOTO (_a parte_) Infatti Aspasia trova belli i tuoi discorsi ch’io
trovo nojosissimi...

SOCR. (_lo sente, lo guarda con tranquilla ironia, e senza rispondergli
ripiglia il discorso con Aspasia_) Infatti jeri, salendo io con
Cármide i Propilei[13], egli trovò brutto il quadro di Polignòto, che
rappresenta Ulisse scoperto dalla bella Nausicaa.

ASP. Oh, per gli amori![14] Il tuo amico Carmide è un imbecille. Quel
quadro è una meraviglia di Grecia.

SOCR. O vi sarebbe allora una bellezza che bella è, senza distinguer di
gusti?

ASP. Certo. (_Socrate si move per allontanarsi_) Ove vai? 

SOCR. A prendere il mio amico Carmide, perchè tu gli insegni a
riconoscerla.

ASP. Ma tu sai bene, o Socrate, che ciò non si insegna! Perderemmo
tu il tempo, io il fiato, se già a lui, nascendo, non l’insegnarono i
Numi.

SOCR. Che! Di una idea di bellezza forse mi parli in noi anteriore alla
culla? Per Minerva! deve essere così. Io pure or mi rammento d’aver
letto qualcosa di simile.[15]

ASP. E che leggesti, o Socrate? 

SOCR.[16] Non so dove io lessi che l’anime nostre, alate e immortali,
volino, innanzi il nascere, per l’etere immenso... e come la virtù
dell’ali le porta più in alto, nella region degli Dei, ivi contemplan
la bellezza vera, purissima essenza divina: frammiste a’ cori de’
beati, nel corteggio di Giove, si inebbrian di lei, e via per mari
profondi di azzurro, di calma e di luce ne celebrano i santi misteri.
Ma poi che Adrastea le precipita, prive dell’ali, quaggiù sulla
terra, vi prendon dimora ne’ corpi, loro carcere e loro tomba: e qui
ritrovando le imagini riflesse di quella bellezza sì pura di lassù,
confusamente si risovvengono di lei. Ed ecco allora, alla vista di
forme celestiali, subito l’anima trasale, senza saperne il perchè:
contempla l’oggetto vago sì come il simulacro di un Dio; e come a un
Dio vorrebbe offrirgli sagrificii. Una specie di febbre la investe, un
calore ardente la penetra: a quel calore squagliandosi la durezza della
scoria, i germi dell’ali antiche ricominciano a spuntare. E l’anima,
sentendosele crescer d’intorno, si agita irrequieta, come il fanciullo,
quando i denti fan forza per ispuntar dalle gengive: se appena vede
l’oggetto caro, prova una voluttà strana, come fosse lì lì per prendere
il volo: se poi nol vede, subito l’ali piccine le si rinserrano, si
dibatton rinchiuse, e l’anima ne prova le fitte e le punture; indi,
ella dà in ismanie, delira; perde il riposo dei giorni e delle notti;
dimentica averi e famiglia e amici e tutto; solo avida cerca la
persona cara, perchè solo a lei presso trova a’ suoi strazii sollievo.
Questa malattia gli uomini chiamano: Amore — che ha le ali; gli Dei
la chiamano: Amore — che le dà.[17] (_Alcibiade è entrato da qualche
momento in iscena non veduto_)

ASP. (_stringendo a Socrate la mano con effusione_) O Socrate, quando
parli, sei pure il potente ammaliatore!

CIM. Per Giove! o Socrate, tu la sai lunga! A me invece l’avean contata
più corta.

ASP. (_sorridente_) Oh! oh! sentiamo Cimoto. 

CIM. A me avean contato ch’eran gli uomini un tempo un sesso solo,
maschio e femmina insieme: con quattro gambe e quattro braccia e una
testa a due faccie per ciascuno.[18] Ma quando essi ebbero l’impudenza
di dare la scalata al cielo, Giove per castigarli, e un po’ anche per
raddoppiare i suoi sudditi, e co’ sudditi le entrate, li spaccò in
due: da quel dì le parti divise si vanno cercando pel mondo ciascuna
in traccia dell’altra sua metà, per ricongiungersi insieme: e questo
adesso chiamano Amore. Giove poi si riserba, appena gli uomini o
le donne ne commettano qualche altra di grossa, di spaccarli in due
un’altra volta; sicchè allora cammineremo con una gamba sola, come quei
che saltan sugli otri nelle feste di Bacco.[19]

ALCIB. (_che è entrato, come si disse, durante il discorso di Socrate,
cinto il capo di corona di mirto e di piccole bende_[20]_, in atto di
uom mezzo brillo, e si è arrestato a udire la fine delle parole del
suo maestro, a questo punto si avanza_) E allora Giove dovrebbe averla
già cominciata su te (_a Cimoto_) la seconda spaccatura: e s’ei non ci
pensa, m’impegno io, Alcibiade, a farti ballare d’una gamba sola sugli
otri, poichè hai la impudenza di cianciare quando Socrate parla! tu
attento ai discorsi di Socrate, come l’asino al suono della lira,[21]
e i Libetrj al canto di Orfeo![22] (_Cimoto si ritrae sconcertato.
Alcibiade si volge a Socrate_) Ma io, o Socrate, son malcontento di te.
Tu hai le sirene nelle tue parole[23] ed affascini gli animi coi tuoi
discorsi, meglio che Màrsia col suo strumento[24]: io stesso, or ora,
in udirti, sentivo il cuore balzarmi più forte che non se fossi agitato
dalla danza dei Coribanti[25]. Intanto là nella sala portarono indarno
le corone e le bende e i rami di mirto[26], e indarno intonammo,
libando, il peàna: l’allegria dei calici langue, e suonatrici di
flauto e citarède se ne stan mortificate, poi che i fiori più belli
del convito[27] (_Cimoto si mette in mostra, Alcibiade s’interrompe
volgendosi brusco a lui_) — non parlo di te — furono qui attratti dal
tuo loto[28] divino. Io ti sequestro, o Socrate!...

SOCR. Alcibiade!... 

ALCIB. (_trascinandolo via seco_) Vieni, vieni... (_si volge sorridente
e cortese ad Aspasia, Eufrosine e Glicera_) Porto il delfino con
me[29]; così dietro al suo canto, verranno le Nereidi... (_esce
conducendosi Socrate sotto braccio; Glicera è rimasta, dal discorso di
Socrate in poi, in disparte, seduta e meditabonda_)

CIM. E poichè trattasi di bere... anche i Tritoni (_in punta di piedi
s’affretta dietro Socrate ed Alcibiade_).


SCENA II. 

ASPASIA, GLICERA, EUFROSINE. 


EUFR. Hai visto, Aspasia, che disinvoltura? Appena mostrò accorgersi di
me.

ASP. E di lui ti meravigli? 

EUFR. Oh, per Pandróso![30] dopo tanti giuramenti e tante pazzie
ch’egli fece perchè lo ricambiassi d’amore!

ASP. Ragione doppia, poichè lo ricambiasti, di non farne più. 

EUFR. Ma possibile che Venere nol punisca e Giove vindice degli
spergiuri[31] non lo folgori!

ASP. Se lo facessero, te ne dorrebbe! Noi dovrebbe Venere punire,
perchè nostra è la colpa, se il di lei sesso patisce simile onta da
costui. Usato, dovunque assale, a non trovar resistenza, la debolezza
nostra fa costui baldanzoso: e la sua stessa baldanza ora gli agevola e
moltiplica i trionfi.

EUFR. Piglia, piglia esempio, Glicera, tu almeno, finchè se’ a tempo,
da me! Guai se ti lasci accalappiar da costui!... Ma vo’ recarmi nella
sala del convito: e, per la Cipria Afrodìte[32], ch’io non celebri mai
più le sacre sue orgie nel dì delle Adonie[33], se costui non lo pago
della sua stessa moneta. Vo’ farmi sotto i suoi occhi corteggiare da
Eutidemo, e mostrarmi più indifferente e più allegra di lui! (_esce
stizzita_)

ASP. (_la segue sorridendo dello sguardo_) Così devota di Nemesi![34]
Se sempre la faccia fosse garante del cuore!


SCENA III. 

ASPASIA, GLICERA, poi ALCIBIADE in disparte. 


ASP. (_vedendo Glicera sempre seduta e pensierosa_) Sì mesta e
pensierosa la mia Glicera?

GLIC. Penso al discorso di Socrate intorno all’amore. 

ASP. E allora, o io m’inganno, o a qualcun altro insieme tu pensi... 

GLIC. (_vivamente_) A chi? 

ASP. Ad Alcibiade. 

GLIC. (_cercando negare_) Che! 

ASP. (_le si appressa e le parla con voce affettuosa_) Perchè
infingerti meco? Tu fosti pensierosa tutto il tempo del convito: e
più d’una volta sorpresi la direzione de’ tuoi sguardi. Glicera, bada!
tu sei una fanciulla poetica e sensibile: la classe di fanciulle più
pericolosa, e più esposta a pericolare. _Tu ami Alcibiade_, e sei
mesta, perchè anche con te egli si finse, nella sua gioviale cortesia,
indifferente.

GLIC. (_abbassa gli occhi, confusa, senza rispondere_). 

ASP. (_ripigliando con far sorridente_) La lezione di Eufrosine ha
giovato molto!... Ecco il destino di noi donne con codesti eterni
ingannatori!...

(_Alcibiade in questo punto, rientrando distratto pei viali, alla
parola_ ingannatori _volge vivamente il capo, vede Glicera e Aspasia
che stan discorrendo, e si arresta_)

ALCIB. (_in ascolto a parte_) (Parla di me?) 

ASP. (_seguendo il filo del suo discorso_) Mille esempj lampanti ne
ammoniscono: invano: ciascuna che non ha provato ancora, si affretta
quanto può a crescere il numero delle ingannate. Ciascuna si lusinga
di aver fascini nuovi che non ebbero le altre; o sogna per sè la
piccola vanità di riuscir meglio di loro; o chiede fra sè curiosamente
che sapor novo avranno le labbra che già ebbero i baci di Taide e
di Mirrina, di Bacchide e di Cesira. Così, come le pecore, matrone e
cortigiane[35], si corrono dietro. Povere folli! Il caso, e nulla più
ha dato ad essi talora le prime vittorie: la curiosità, la vanità o
l’ingenuità nostra procaccian loro le altre!... E poi che le illuse
si son cavate il capriccio dello esperimento, allora invocano come
Eufrosine gli Dei vendicatori, perchè hanno scoperto, un po’ tardi, che
i baci di Alcibiade sono affatto simili a quelli di un altro, e che non
valeva a quel prezzo la pena di accrescere inutilmente i suoi trofei!

GLIC. (_levando lentamente gli occhi su Aspasia_) Ma tu che così ne
parli... li hai provati tu... i baci... di Alcibiade?

ASP. Se avessi voluto! Mi chiese amore — e non l’ebbe. Così m’ami
Adrastea[36] come io resto sola, finora, in Atene, vendicatrice del
mio sesso contro gli inganni di costui, che è più bugiardo di un
Cilicio.[37]

ALCIB. (_sempre in ascolto, in disparte_) Buono a sapersi! 

ASP. (_ripigliando_) Da te, mia cara Glicera, se la quiete dell’anima,
rugiada alle rose del tuo volto, se la tua bella ed allegra giovinezza
ti è cara, da te, Glicera, dipende l’essere tu la seconda.

ALCIB. (_in disparte_) Parla un po’ per tuo conto! 

GLIC. (_con accento, fra mesto e serio, di chi prende una risoluzione
ingrata_) Lo sarò.

ASP. Ebbene, allora, sta in guardia! perchè la sua tristezza non è così
insidiosa come la sua allegria: e nessuno mai seppe meglio nascondere
i suoi disegni sotto la maschera della indifferenza. Dimmi, o Glicera,
che cos’è, infine, questo Alcibiade, perchè tu debba lasciarti tradire
da lui? Egli è prode, non nego: ma son migliaia in Atene prodi al paro
di lui; è bello, ma Autòlico e Càrmide, e Fedro e Critòbulo[38] lo sono
del pari; è ricco[39], generoso, prodigo, d’illustre famiglia[40]:
Callia, Feace e Mègacle[41] pure lo sono. Forse perchè egli è più
dissoluto, più vizioso, più vanitoso di loro? O perchè più di loro
sa mentire e spergiurare all’orecchio di una fanciulla? Tu meriti ben
meglio. O mia Glicera! quanti dolori e disinganni sarebbero a noi donne
risparmiati, se imparassimo per tempo a conoscere l’uomo per quel che
è: il nemico naturale del nostro sesso: e a trattarlo come tale. In
questa guerra, la natura ci ha armate bastantemente all’offesa; come
al toro le corna e l’unghie alla pantera, a noi per assalire diede le
grazie e la bellezza:

    Beltà che brando od asta 
    Non valgono a domar, 
    Che sola a vincer basta 
    Le folgori e gli acciar,[42] 

come un giorno cantava il vecchio Anacreonte. Ma pur troppo, nello
armarci per lo attacco, la natura non pensò alle trincere per
difenderci. La _difesa_, o mia Glicera, è il nostro lato debole: e qui
ne abbisogna supplir coll’arte a quello che non diè la natura.

GLIC. (_con fare ingenuo, sospirando_) Mi difenderò. 

ALCIB. (_in disparte_) Che cara maestra! Preferisco la scolara! 

ASP. (_ripigliando_) I nostri nervi impressionabili, la nostra
imaginazione sempre attiva e sempre accesa, _ecco_ i traditori che il
più delle volte consegnano al nemico le nostre fortezze. Colpire la
fantasia di una fanciulla: è così facile! e di effetto così sicuro!
ed è il piano d’attacco di costui. Colpirla, con non importa che cosa:
col prestigio del valore, dell’audacia o delle stranezze, col fascino
delle vanterie o colla poesia esaltata del sentimento: o col fasto
chiassoso, o coi vizî chiassosi: tutto è buono per noi. Vuoi difenderti
da Alcibiade? Guarda dalle sue sorprese il tuo cervello fantastico;
guardati da’ suoi vanti superbi, dalla sua baldanza artificiosa,
dalla menzogna delle sue parole quando parla d’amore. Mentre egli ti
parla, abbi presente sempre a te che egli è da meno di quel che si
vanta, e che tu sei da più di quel che ti credi. Fuggi, più che la sua
tristezza, la sua aria gioviale, di cui scaltro approfitta per dar
colore di scherzo alle prime audacie del linguaggio, ed estendere a
poco a poco le sue licenze. Che s’egli ti assedia dappresso, ricorri
a qualcuna delle tue occupazioni più favorite, e colla distrazione
di questa scongiura il fascino delle sue parole! Sopratutto infine,
e questo, bada, dei consigli è il più importante... fa di trovarti il
meno possibile sola con lui.

ALCIB. (_in disparte, alquanto ironico_) Oh, oh, la lezione comincia
a farsi pericolosa!... (_tossisce, fa rumore e s’avanza per i viali
cantarellando a mezza voce_)

    «Di unguenti rendere[43] 
      «L’urne odorose 
      «Che giova?! e spargervi 
      «Tanto licor! 
    «Tutto va al nulla! 
      «Dammi le rose, 
      «E una fanciulla 
      «Recami, Amor!» 

ASP. _e_ GLIC. Lui! (_Alcibiade si avanza ilare verso di loro_) 

ASP. (_sottovoce a Glicera_) Te l’avevo detto?! Sta in guardia. Egli ti
cerca.

GLIC. (_sottovoce ad Aspasia_) Rientrerò nella sala. 

ALCIB. (_complimentoso, insinuante, elegantissimo_) Inclita Aspasia,
vezzosa Glicera, sole, ancor qui? Buon per voi ch’è già sera: se no, da
questi alberi v’udrebbero le cicale, messaggiere ed interpreti delle
Muse:[44] e andrebbero ad Urania, ad Erato e a Tersicore a dar ben
cattive informazioni delle loro alunne e del modo ond’elle defraudano
de’ loro sorrisi gli sguardi dei poveri mortali.

GLIC. Non temere per questo, Alcibiade. Stavo appunto per rientrare
nella sala del convito. (_s’avvia per uscire_)

ALCIB. Oh, Venere te ne dia premio! Ti verrò compagno. (_le offre
galante il braccio_)

GLIC. No, no, grazie, Alcibiade. Rimani pure. Rientro sola. (_lo scansa
e fugge via_)


SCENA IV. 

ALCIBIADE e ASPASIA. 


ALCIB. (_ritornando verso Aspasia, fra sè_) (Allora, a noi, inclita
maestra!)

ASP. Ebbene, Alcibiade, famoso cacciatore, par che s’insegua qualche
nuova selvaggina.

ALCIB. (_con fare indifferente ed allegro_) Eh! si passa il tempo!... 

ASP. Infatti, qui siam presso il fiume: e, se non erro, è precisamente
in questi luoghi che il traditore Borea un giorno rapiva la vergine
Oritìa...[45]

ALCIB. (_indifferente, senza guardare Aspasia_)... la quale non se
n’ebbe troppo a male...

ASP. Il prestigio dei vezzi di Eufrósine è svanito ben presto; e il
catalogo de’ tuoi amori vuol essere più lungo di quello di Esiodo[46].
Tu adocchj Glicera.

ALCIB. Chi sa! E s’anco ciò fosse, non certo vorresti darmi torto
od accusarmi di gusto cattivo. Ell’è un fiore sbucciato appena nei
giardini di Venere. Quella età ha fascini strani! e poi, è tanto
innocente!... Non ha le tue arti, nè le tue astuzie, o bella Aspasia...
(_sorridente_)

ASP. Per sua sventura... 

ALCIB. (_vivamente_) Per sua fortuna! vuoi dire. Poi ch’elle non
servono che a sfrondarci la poesia della vita, a inaridir la fonte
delle nostre gioie più pure, ad istrapparci ai nostri sogni più cari...
Povere fanciulle! per evitare il pericolo _incerto_ di un disinganno,
elle affronteran dunque la _certezza_ della noia e del vuoto; per non
correre rischio di essere ingannate, ignoreran dunque per sempre che
cosa sia la voluttà di _credere_; di credere ad una parola entusiasta,
ad un amor febbrile, ad una passione ardente, al sogno di un minuto che
vale mille anni di realtà!... Ma non varrebbe la pena di vivere!...

ASP. (_con accento lento, sardonico_) Infatti... di questi sogni... a
loro spese... tu _vivi_...

ALCIB. (_con forza_) Ed _elle_ vivono! E che! rinunzierei a cogliere
questi fiori leggiadri per ispendere la vita, ch’è sì breve, in imprese
di Ercole, nello assedio di cuori adamantini, esperti in ogni astuzia,
agguerriti contro ogni attacco, parati ad ogni resistenza!? Fossi
pazzo!

ASP. Eppure dicono sian queste, vincendo, le vittorie più dolci e più
gradite...

ALCIB. (_con indifferenza_) Sarà!... 

ASP. Come a dire? 

ALCIB. Io non mi ci son mai provato... e non ho voglia di provarmici... 

ASP. (_sorridendo ironica_) Ed è Alcibiade, il conquistatore di donne
che parla?

ALCIB. Conquistatore o no, lui in persona. Queste battaglie non mi
vanno. Non ci trovo gusto. Esigono una posta troppo alta per me.
Combattere, durar fatiche e sacrificii, colla certezza di vincere,
vada: ma quando di vincere _non son sicuro_, rinuncio alla battaglia
e cedo il campo. (_Alcibiade mantiene sempre il suo accento di
artificiosa indifferenza_)

ASP. (_ironica_) È più prudente. 

ALCIB. Certo. Una prima sconfitta, guai! potrebbe trarmene dietro
delle altre. Le donne queste cose non le tacciono... Più di un cuore
conosco (_getta occhiate espressive sopra Aspasia_), il cui possesso
saria stato il mio sogno, e al quale rinunziai senza colpo ferire,
solo per non urtarmi contro la sua scaltrezza. Imposi ai miei sensi di
star quieti, di non sentir nulla, come a quei soldati che la disciplina
obbliga oziosi sotto la tenda, mentre la tromba tirrena dà il segnale
della pugna.[47] E i sensi obbedirono: benchè di un altro genere, erano
sempre vittorie che riportavo su me: m’abituai a riportarle. Perciò,
ora, son altri cuori che inseguo: e da buon capitano, non sciupo i
miei soldati: non pongo assedio nè ai cuori scaltri, nè alle fortezze
inespugnabili.

ASP. Eh, non è poi detto che tutti lo siano... 

ALCIB. Quasi tutti (_fingendo premura_). Oh, addio, bella Aspasia.
Lasciami inseguir Glicera.

ASP. Non sei cortese, Alcibiade. Che premura! La farfalla già non
fugge: il passero ha il volo più lungo...

ALCIB. Ma il passero a sua volta non deve incantarsi per aria, perchè
il falco potrebbe fargli qualche scherzo.

ASP. (_ridendo_) Oh! oh! sarei io il falco? Paventeresti di me?... 

ALCIB. Di te, bella Aspasia? Oh, tutt’altro. Con te mi sento pienamente
sicuro.

ASP. (_a parte, con dispetto_) (Impertinente!) 

ALCIB. Con te, che sei una di quelle Amazzoni agguerrite di cui parlavo
dianzi, so che non vi è nulla a fare...

ASP. (_dissimulando con soddisfazione ostentata il malumore_) Ah!...
manco male che lo sai...

ALCIB. Quindi il mio spirito come il mio cuore si trovano in perfetta
calma: e ringrazio i Numi che a me ti han fatto conoscere soltanto
nella estate de’ tuoi dì...

ASP. Perchè? 

ALCIB. Perchè se la tua state è così bella e rigogliosa, penso che la
primavera m’avrebbe messo ad una prova troppo dura.

ASP. (_con civetteria_) Tu vuoi dire che anche la estate mia non sia
del tutto scevra di pericoli?

ALCIB. Che non lo sia, tu n’hai la prova in tutti quelli che ti fan
corona. Poichè _tutti_ tu hai incatenato al tuo carro... tutti...[48]
(_Alcibiade fa una breve pausa, Aspasia a quelle parole leva gli occhi
vivamente e con compiacenza su Alcibiade, il quale, senza mostrare
d’accorgersene, termina la frase sospesa_) tranne me.

ASP. (_a parte, con gesto di dispetto_) (Vanitoso!) 

ALCIB. (_complimentoso, galante_) Tutto ciò che Atene ha di più eletto,
vecchi e giovani, ti fan corona. Socrate discute con te di filosofia,
Aristofane ti legge le sue commedie, Euripide le sue tragedie. Ippia ti
sottopone i suoi discorsi e il leggiadro Agatone ti dedica le sue odi.
Alcamene ti consulta sulle sue statue[49] e Polignòto intorno a’ suoi
quadri. Colla bellezza hai soggiogato i cuori; collo spirito esteso il
tuo regno assai più in là che alla bellezza non è dato. Oh! le grazie
della tua mente! nessuna Venere le pareggia. Invano la bellissima Circe
percote della verga magica Ulisse, munito del farmaco del Dio; Ulisse
rimane illeso, Circe per lui non è più una maga, ell’è una donna come
un’altra! Ma quando le sirene lo invitano alle voluttà dello spirito
e gli dicono di sapere tutto quello che fu e che sarà, è allora che
Ulisse non è più padrone di sè, e bisogna che i compagni lo leghino più
stretto all’albero della nave, perchè non si getti nell’onde, dietro al
canto di quelle ammaliatrici...[50]

ASP. Ben trovato il confronto! E allora, io, per Alcibiade, non sono
Circe... e non sono neppure una Sirena.

ALCIB. (_sorridente_) Perchè Alcibiade non è Ulisse... Addio, inclita
Aspasia. (_fa di nuovo per avviarsi_)

ASP. Che fretta!... Eppure, se mal non rammento, fu un tempo che
Alcibiade si _dilettava_ al canto della Sirena... (_accentando le
parole_) Rammento di una certa lettera...

ALCIB. (_vivamente, con sorpresa d’uomo indifferente_) Oh, ancora la
serbi?! Che mi ricordi mai!... Ah, sì, infatti! Io scherzavo allora...
Sapevo benissimo che tutto era inutile...

ASP. Ah!? fu uno scherzo? 

ALCIB. Sì (_coll’accento premuroso di chi si scusa_), ma come vedesti,
innocente...

ASP. (_con dispetto_) Alcibiade tratta molto leggermente gli scherzi
fatti ad Aspasia! Per cui, se la povera Aspasia invece di andar
guardinga, avesse creduto alle parole dette, per _ischerzo_, da
Alcibiade...

ALCIB. (_interrompendola vivamente_) Alcibiade sarebbe stato così
felice da morirne... (_Aspasia si volge sorridente ad Alcibiade,
che subito ripiglia terminando la frase sospesa_) e per questo gli
Dei non lo permisero!... Oh, ma tu me lo perdoni, n’è vero? Tu devi
dimenticare...

ASP. (_con malumore_) Ebbene, Aspasia _non dimentica... gli scherzi..._ 

ALCIB. Perdonali dunque! E se non vuoi perdonare lo scherzo, allora... 

ASP. Allora? 

ALCIB. Metti che fu sul serio, e non farmene una colpa! (_moto di
compiacenza di Aspasia, subito represso dalle parole successive di
Alcibiade_) poichè ora vedi che son savio e ravveduto.

ASP. (_fra sè_) Fin troppo... 

ALCIB. (_incalzante_) Non farmi una colpa, se i tuoi vezzi furono per
un minuto, per un minuto solo, più forti del mio proposito. Non per
nulla le Grazie ti guardarono con occhio sì benigno,[51] e non per
nulla fosti chiamata novella Onfale, e Giunone e Dejanira.[52] Veder
così sovente il tuo viso, udir così sovente la tua voce... era poi
così strano ch’io perdessi la testa... un istante? Quanti la avrebbero
perduta per sempre! Via, perdonami dunque, dimentica... dammi il bacio
fraterno dell’oblio e del perdono...

ASP. Un bacio?! (_ridendo_) Ah! ah! furbo, Alcibiade! 

ALCIB. E che vi è di male o di strano? Un bacio fraterno che suggelli
la pace?... Una Aspasia vi scorgerebbe un pericolo?...

ASP. Oh, al contrario... ma appunto... 

ALCIB. Ma appunto, dopo le tue parole di poc’anzi, tu non devi
negarmelo, se pur non mi serbi rancore. Ed io voglio pace con te. Tu
non puoi negarmelo un bacio, che quanto più sarà cordiale, tanto meglio
proverà che non fai caso di quella mia improntitudine di allora; tu sai
benissimo che ciò che può offrir pericolo per tutt’altra, non ne offre
alcuno per te... _perocchè tu sei Aspasia..._

ASP. Eh, via, adulatore! taci! poichè lo vuoi, ed io non sono
cattiva... sia fatta dunque la pace.

ALCIB. Oh, grazie!... (_Alcibiade con moto di gioia l’abbraccia e
scambia con lei un bacio lungo e appassionato; indi si scioglie mesto
dall’abbraccio, come sovrappreso da un pensiero_) Ah! che peccato,
Aspasia, che il destino ci abbia serbati a non essere altro che amici!

ASP. (_fissandolo con sorpresa_) Perchè? 

ALCIB. Perchè, altrimenti, chi sa che cosa sarebbe stato di noi!
Figurati, Aspasia, noi, come vedi, non ci amiamo: Nemea, invece,
dice di amarmi ardentemente, appassionatamente: e forse lo crede.
Ebbene, se è vero che il bacio è l’alito dell’anima, l’anima di
Nemea non sa amare: perchè di tutti i suoi baci insieme, nessuno mai
fu neppure della metà ardente e appassionato quanto questo tuo...
(_gesto vivissimo di Aspasia_) che è poi un semplice bacio fraterno.
(_Alcibiade fingendo non accorgersi del moto di risentimento di
Aspasia, ripiglia con forza_) _Tu sì_, hai del fuoco!... Addio, addio,
Aspasia!... Ah che peccato!... che peccato! (_esce lasciando Aspasia
non ancora rinvenuta dal dispetto e dalla collera_)


SCENA V. 

ASPASIA sola. 


ASP. L’impudente!... E a che mi irrito?... È Adrastea che mi
castiga[53]!... Ed io facevo la lezione a Glicera!... Servirà a me per
un’altra volta...! (_esce_)


SCENA VI. 

TESSALO _e_ CLEONIMO. 


(_Entran discorrendo, a voce bassa e concitata, fra di loro_) 

TESS. E così dunque... domani Alcibiade parlerà all’Assemblea... e se
non vi ci mettiam di proposito, vedrai che questo odioso giovinastro la
spunterà...

CLEON. Per Ercole, se la spunterà! Gli animi dei giovani[54] sono
tutti per lui. Con quanti di loro ho tastato il terreno, eran tutti
disposti a dare il voto per la spedizione di Sicilia, e per la nomina
di Alcibiade a capitano, insieme a Lamaco e a Nicia...

TESS. (_passeggiando concitato_) Capitano costui! Per i Numi!
Preferirei veder Atene sommersa da un altro diluvio...[55] Ma non tutti
i giovani sono Atene... Parlasti con alcuni dei più attempati?

CLEON. Sì... e qui forse il terreno è migliore per noi. 

TESS. Bisogna dunque lavorarlo: e non perder tempo. Di molti io so
che detestano Alcibiade e la sua insolenza, e che soltanto per paura
esitano a dichiararglisi contro[56]. Questi smetteran le esitanze,
per poco che l’esempio di altri li incoraggi. I presagi infausti
potranno molto giovarci... Per questo importerebbe mandar fra il popolo
qualcuno...

CLEON. Oh, guarda là Cimoto! costui potrebbe fare al caso nostro... 

TESS. Ma non è amico d’Alcibiade costui? 

CLEON. È parassita, e s’adatta a tutti, come il coturno...[57] 

TESS. Chiamalo... 

CLEON. (_avanzandosi verso il fondo dei viali_) Cimoto! Cimoto! 


SCENA VII. 

Detti e CIMOTO, indi ANTIOCO. 


CIM. Che c’è? 

CLEON. (_a Tessalo presentandolo_) Quest’è l’uomo. 

TESS. (_a Cimoto_) Mi conosci? 

CIM. Per Minerva! Sei Tessalo, figliuol di Cimone Lacìade.[58] 

TESS. E tu sei parassita e retore. Come la ti va? 

CIM. Eh! si vive. 

TESS. Non basta. Bisogna viver bene. Mi han detto che hai la parola
pronta...

CIM. Come il ventre... al tuo servigio... 

TESS. Domani c’è l’assemblea popolare allo Pnice...[59] 

CIM. Lo so. 

(_A questo punto Antioco traversa lo sfondo della scena fra le piante.
Udendo nominar Alcibiade si arresta, e sta a sentire il colloquio; poi
si allontana_)

TESS. Alcibiade avrà molti suffragi... 

CIM. Sicuro. 

TESS. E ti par che ciò sia bene? 

CIM. Eh? (È un suo amico...) Benissimo... 

TESS. (_gettandogli una borsa_) Ed io ti dico che ciò è male... 

CIM. (_con premura, afferrando la borsa_) Malissimo... volevo dire...
Infatti (_fra sè_) voleva farmi saltare con una gamba sola...

TESS. E degli augurî e presagi della spedizione che si dice? 

CIM. Finora buoni... 

TESS. Cattivi!... (_con forza_) 

CIM. (_più forte ancora_) Perfidi! 

TESS. Bisogna dunque dirlo al popolo... 

CIM. (_con aria d’intelligenza_) Lo diremo.[60] 

TESS. T’aspetto domattina a casa mia. (_fa cenno a Cleonimo di andar
seco ed escono insieme entrambi discorrendo a bassa voce_)


SCENA VIII. 

CIMOTO solo. 


CIM. To, to! che scopro mai! Dei complotti contro Alcibiade, in
casa sua! E Alcibiade invita questa gente a banchetto! Per Mercurio
portator di guadagni![61] Questo si chiama impiegar bene il denaro...
(_pesa sulle mani la borsa avuta_) e questo, se vogliamo... si chiama
acquistarlo male. Vada per tutti gli scherzi che costui mi ha fatto!
Un giorno per tortelli di latte darmi a rodere ciottoli intrisi nel
miele... un altro, farmi bere, per vino, brodetto di senape...[62]
(_sternuta_) Oh ventre, quanti ludibrj ci obblighi a soffrire! Guardalo
là il burlone... che arriva. Andiamo, andiamo... (_va via riponendo
la borsa mentre stava per contarne il contenuto_), non è onesto contar
questi denari in casa sua. (_esce_)


SCENA IX. 

ALCIBIADE e GLICERA. 


GLIC. (_entra discorrendo con Alcibiade_) Son meste le tue parole come
canto di alcione.[63] Non eri sì mesto poc’anzi, quando m’incontrasti
qui con Aspasia...

ALCIB. (_con aria mestissima, sospirosa_) È necessario portar sempre la
maschera della gioia sul volto per non dispiacere alla bella e poetica
Glicera?[64]

GLIC. Oh, non dissi questo: ma... 

ALCIB. (_mesto sospirando_) Non è sempre il cuore di chi ride di più,
quello che soffre di meno...

GLIC. (_fra sè a parte_) (Infatti, mi par molto mesto. Avrà qualche
affanno segreto. Se Aspasia ha detto il vero, in questo momento
non dovrebbe essere pericoloso. Posso parlargli.) (_si appressa ad
Alcibiade con aria affettuosa_) Ma tu che rimproveravi agli altri di
abbandonare l’allegria del convito...

ALCIB. Io erravo solo, cercando un istante di sollievo e di tregua alla
triste necessità del fingere, fra i silenzi di queste piante, ove tu
certo venisti a confidare agli astri le gioie serene e tranquille della
tua anima. Ebbi torto di sturbarti e rattristarti colla mia compagnia.
Perdona... mi ritirerò, se lo brami...

GLIC. Oh, no, resta pure. (_fra sè_) (Com’è mansueto! E Aspasia
mi diceva di guardarmi dalla sua baldanza!) E qual cosa mai può
contristare Alcibiade? Non sei tu l’uomo cui tutto sorride? Non vai
ricco di successi e di onori fra tutti i giovani della tua età?

ALCIB. Che sono i sorrisi della vita, quando il vuoto è nel cuore? E
di che successi, di che onori mi parli? Le mie corone di Olimpia?[65]
Ma Gerone e Terone e Agésia di Siracusa e Psàumida di Camarina[66] ne
riportarono di uguali e di più belle. Le lodi di Euripide?[67] Ma essi
ebbero Pindaro. Le milizie guidate alla battaglia di Mantinea?[68] Ma
sono gli Spartani che l’han vinta. La fronda di quercia di Potidea?
Ma fu Socrate che la conquistava e fu la sua modestia che me la
regalò...[69]

GLIC. Oh! io udii da Socrate stesso che tu la meritasti... 

ALCIB. E Socrate non ti disse il vero. Fu egli, il prode e generoso
vecchio, che a Potidea mi salvò la vita e le armi: e sua di diritto era
la corona che dinanzi ai giudici volle rinunziare a favor mio...

GLIC. (_fra sè_) (Non è così superbo come voleva farmi credere Aspasia!) 

ALCIB. Dove, dove sono dunque, o Glicera, i miei allori? Forse il
rumore ed il fasto delle stranezze e delle orgie con cui cerco ingannar
me medesimo, e la noja cupa e il disgusto della vita ingloriosa? Ah,
quando l’anima sitibonda va in cerca di affetti e amore non la ravviva
delle sue rugiade, essa non ha ali per la gloria! Ed è ciò che mi
tormenta!...

GLIC. Ma tu scherzi, Alcibiade! Tu sei anzi famoso per la facilità
con cui li muti gli affetti; da che tua moglie morì, ti chiamano...
(_abbassando gli occhi, con reticenza ingenua_) il marito... di tutte
le donne![70] Di amori le donne di Atene non ti lasciarono soffrir
penuria.

ALCIB. Di _amori_ sì, non di _amore_. Nessuna seppe intendermi, nessuna
seppe amarmi com’io volea. Io aveva... io ho... qui e qui... (_si tocca
la fronte e il cuore_) un certo ideale a cui nessuna corrispondeva. Per
questo fui costretto a vagare d’una in altra ramingo, cercando sempre
inutilmente la donna de’ miei sogni... (_con accento mesto_) Triste,
affannosa ricerca, seguita _finora_ da più tristi disinganni...

GLIC. (_fra sè_) (Dopo tutto, potrebbe esser vero. Aspasia è sagace, ma
non deve averlo capito bene costui) A sentirti, Alcibiade, si direbbe
che delle infedeltà tue le donne abbiano per giunta a rendere stretto
conto a te e non tu a loro...

ALCIB. Così è. 

GLIC. Ma io sarei ben curiosa di conoscere questo tuo famoso ideale;
e di sapere _come_ la vorresti, _come_ dovrebbe essere la donna che ti
avesse finalmente a contentare...

ALCIB. (_vivamente_) Come la vorrei?! Oh, anzitutto, si sa, la vorrei
bella: morbide e folte e bionde le chiome, adombranti[71] la fronte
candidissima (_mentre parla, fissa gli occhi amorosamente sopra
Glicera_); brune le pupille come Minerva, umidette e languide come
Citerea[72]; porporine le labbra, che invoglino ai baci; snella la
persona, e sparso il volto non di bellezza severa, ma di dolcezza
ingenua; non di maestà, ma di candore; la vorrei bella, insomma, come
Venere... o... come Glicera...

GLIC. Adulatore!... 

ALCIB. (_con inflessione di voce piana e dolcissima_) E vorrei
che il suo volto fosse lo specchio della sua anima; e che la sua
anima vibrasse, per segreto ineffabile accordo, a ogni più piccola
oscillazione della mia; che non cercasse al mio affetto, come tutte le
altre ch’io conobbi, la soddisfazione di una piccola vanità femminile
o di un semplice piacere dei sensi; ma l’estasi divina di due anime
confuse in una sola; che sapesse insiem colla mia vagar per gli spazii,
e interrogare le mille voci della natura che parlan d’amore; intendere
con me la poesia di questi silenzi, di queste notti serene, di questo
cielo stellato, di questi profumi dei fiori che l’aure ci portano dalle
sponde del ridente Cefiso; e nel tacito volo, venirci spogliando via
via di ogni scoria della terra, di tutto ciò che non è nobile e non è
puro; divinare le vie della gloria e slanciarvisi; e salire, e salire
— verso tutto ciò che è bello, che è grande, verso le regioni calme
e luminose di cui Socrate or dianzi parlava, e celebrarvi insieme
abbracciati, fra voluttà che non han nome, i santi misteri degli dei!
(_mentre parla s’è avvicinato a poco a poco a Glicera e l’ha circondata
di un braccio_).

GLIC. (_è venuta ascoltando avidamente Alcibiade, con trasporto di
ammirazione crescente, quasi affascinata da lui_) Ah!... (_dopo questa
esclamazione di desiderio, di trasporto e di amore, Glicera rimane
lì interdetta, e, quasi pentita d’essersi lasciata involontariamente
dominare dal suo fascino, si stacca vivamente da lui_.)

ALCIB. (_vivamente, con voce affettuosa, ma come fingendo di non
accorgersi dell’impressione delle proprie parole su di lei_) Che hai,
Glicera?

GLIC. Nulla!... (_fra sè, staccandosi da Alcibiade_) (Ha ragione
Aspasia... È un ammaliatore costui. Non bisogna ascoltarle le sue
parole. Pensiamo ad altro...) (_si leva dalla cintura_[73] _un rotolo
di papiro,_[74] _lo apre e lo scorre_)

ALCIB. Che pensi, Glicera? Che leggi? 

GLIC. Perdona... Son pochi versi non finiti, che stavo componendo
quando m’incontrasti. Le tue parole, per richiamo di idee, mi han
ricondotta la mente a continuarli... se permetti...

ALCIB. Oh! che Apollo Liceo[75] e che le Muse mi guardino dallo
interrompere i carmi di una Saffo così leggiadra. È egli lecito
udirli... almeno?

GLIC. E perchè no? Se vuoi aiutarmi a finirli... (_fra sè_) (È men
pericoloso che starlo a sentire).

ALCIB. Oh, io non son poeta... Ma leggi... leggi... 

GLIC. (_leggendo_) 

      «Non credere al fiore, se ostenta all’aurora 
    «Più dolce il profumo, più vago il color: 
    «Son larve fugaci del regno di Flora... 
    «Doman più non hanno nè tinte, nè odor. 
      «Non credere all’albero da l’ombre gioconde, 
    «Nè all’erba, che molle t’invita a giacer: 
    «Mortifero è il sonno che piovon le fronde, 
    «E ascosa è la serpe tra i verdi sentier. 
      «Non credere al cigno, se il cantico l’ange, — 
    «Son canti di morte che all’aura darà: 
    «Non credere al drago se lagnasi e piange... 
    «Chi accorre al suo pianto, ritorno non fa.» 

(_Glicera si arresta, avendo finito la lettura, e guarda Alcibiade che
le si è di nuovo appressato, e vien leggendo seco, di sopra la spalla
di lei_) Va avanti tu...

ALCIB. (_chino dolcemente su la spalla di Glicera, l’occhio fisso sul
papiro, come se leggesse, seguita improvvisando_)

      «Non creder d’astuta Sirena agli inganni, 
    «Nè a donna che troppo ti voglia insegnar, 
    «Se, inquieta pei vezzi che sfrondano gli anni, 
    «Le gioie che invidia — ti insegna a spregiar. 
      «Ma credi alla voce dell’alma segreta 
    «Che a scerner ti insegni fra i cantici e i fior; 
    «Al core che amando diventa poeta, 
    «Al _forte_ che _prega_ — chiedendoti amor. 

(_alle ultime parole, Alcibiade, che aveva già circondato di un braccio
— sul principio dell’improvvisazione — il fianco di Glicera, si trova
alle sue ginocchia. Glicera affascinata dalle parole sue, gli ha già
abbandonata una mano, e si china verso di lui per baciarlo, quando
un ultimo senso di vergogna, nel trovarsi vinta contro sua voglia, di
subito la arresta_.)

GLIC. Ah! (_toglie vivamente la sua mano da quella di Alcibiade; si
copre delle mani il volto, e fugge precipitosa_.)


SCENA X. 

ALCIBIADE solo, poi ANTIOCO. 


ALCIB. (_seguendo ilare dello sguardo Glicera che fugge_) Il nemico
fugge — dunque è vinto. Diamogli il tempo di arrendersi. (_entra
affrettato Antioco_) Oh, Antioco! dove t’eri cacciato? Da un’ora non ti
trovavo più.

ANT. Ero qui poc’anzi... 

ALCIB. Anche tu? Solo? 

ANT. No. Con Tessalo, e Cleonimo e Cimoto. 

ALCIB. A discorrer con loro? 

ANT. A sentire di nascosto i loro discorsi. 

ALCIB. (_sorridendo_) Bel mestiere!... 

ANT. (_serio_) Ve n’è uno peggiore... 

ALCIB. Quale?... 

ANT. Approfittare dell’ospitalità per ordir trame ai danni dell’ospite,
alle sue spalle, in casa sua...

ALCIB. (_indifferentissimo_) Ah, lo sai anche tu che Tessalo e Cleonimo
mi voglion male?

ANT. E te la pigli con tanta indifferenza? E li tieni amici costoro — e
li inviti?

ALCIB. Certo. Per tenerli d’occhio e sorvegliarli più davvicino. E che
cosa hai sentito, demone coricéo?[76]

ANT. Han corrotto Cimoto, che ti aizzi contro la superstizione del
popolo, spiegandogli infausti i presagi...

ALCIB. (_sorridendo_) Tu vedi che se io non li invitavo, non avresti
potuto sentir nulla. Grazie dell’avviso. Mi regolerò. Va, va, nelle
sale — che l’orgia vi è nel punto migliore. Or ti raggiungo.

ANT. Sta in guardia! 

ALCIB. Va, va. Un momento. (_Antioco avviato ad uscire si sofferma_)
Perchè ti sei messo quei calzari?

ANT. E lo domandi? Perchè è la moda introdotta da te. Li ho fatti far
come i tuoi...[77]

ALCIB. (_con impeto_) Scimia!... Ma io sono Alcibiade! — Va, va... e
levali! (_Antioco esce_)


SCENA XI. 

ALCIBIADE solo, poi SOCRATE. 


ALCIB. Così faccian gli Dei che io non abbia mai avversari più
pericolosi! Ah, Tessalo, tu sei furbo! ma il Cretese questa volta è
incappato in un di Egìna...[78] Ci vuol altro che questa gente per
attraversarmi la via!... (_si leva dal seno e spiega un rotolo che si
suppone la carta geografica della Sicilia — e la osserva; in questo
frattempo Socrate è rientrato, e, alquanto in disparte, fermo, le
braccia conserte, con aria tra il grave e l’affettuoso, sta osservando
Alcibiade_) Ecco la Sicilia! il sogno delle mie notti, il mio sogno
di gloria! Oh, Atene vedrà se Alcibiade è buono soltanto a corteggiar
femmine e a far correre cavalli ad Olimpia![79] E conquistata la
Sicilia e aggiunte alle nostre le forze di un’isola sì vasta, ne avrò
più del bisogno per abbattere Cartagine; e caduta questa, tutto il
suo imperio è nostro dalla Libia all’Iberia: e nostra è l’Italia![80]
Che diventa allora la conquista di Grecia? E la guerra contro il
gran re?[81] Atene padrona del mondo per opera di Alcibiade — oh, per
Adrastea! è qualcosa di più degli allori di Pericle e di Temistocle!...
(_a questo punto volgendosi, si accorge di Socrate, che lo guarda
fisso, le braccia conserte_) Socrate! (_con malumore_) tu ancora qui!
che vuoi?

SOCR. (_immobile, calmo, senza scomporsi_) Nulla. Ti guardo. 

ALCIB. Se vieni a ripetermi, come al solito, i tuoi rimproveri e
ammonimenti, non vieni in buon punto.

SOCR. (_calmissimo_) Ti rimprovero io forse, ora? 

ALCIB. Ma tu fai peggio che rimproverarmi. Quando io più m’innalzo
coi desideri oltre le nubi, tu mi trascini sulla terra. Quando parli,
non ti so resistere: e allorchè più sono contento di me, sei capace di
farmi arrossire e sdegnar contro me stesso.[82] Perciò, mio malgrado,
ti fuggo; ti fuggo come le Sirene.[83] Non voglio più sentirti. Non
voglio sentirti. (_fa per allontanarsi_)

SOCR. (_sempre calmo_) Neanco se io ti favelli della gloria?[84] 

ALCIB. (_vivamente soffermandosi_) Oh, di quella sì!... ma non
d’altro...

SOCR. Infatti, se ti dicessero: Alcibiade, che preferisci tu: morir
subito, o, contento degli onori che hai, rinunciar per sempre ad
acquistarne di maggiori, — io credo che preferiresti morire[85].

ALCIB. (_vivissimo_) Certamente!... 

SOCR. E tu vivi, perchè speri divenire maggior di Pericle e di quanti
illustri ebbe mai la Repubblica: ma se un Nume ti dicesse che otterrai
tutto questo, e che sarai padrone di tutta l’Europa; ma che non
passerai in Asia,[86] e _là_ non avrai nome...

ALCIB. Oh, io non vorrei vivere per così poco!... (_con forza_) 

SOCR. E per questo vuoi andare in Sicilia[87] in soccorso a quei di
Egesta...

ALCIB. Certo. Son nostri alleati. È un debito di onore.[88] 

SOCR. Bene! per gli Dei! Soccorrere gli amici ed alleati, è un bel
principio per la gloria. E il disinteresse è virtù cara ai Numi.
Andare, vincere, ritornare — e dire ai cittadini: Abbiam lasciato
laggiù 200 talenti[89] e 1000 morti: ma abbiam vinto e soccorso gli
amici. Ciò è grande![90]

ALCIB. Oh, ma adagio! Quei di Egesta ci faran le spese della guerra. E
poi, non andiamo già per ritornare...

SOCR. (_con fare ingenuo, fingendo sorpresa_) Che? vuoi restarci? 

ALCIB. Sicuro!... e conquistar la Sicilia! 

SOCR. Allora, non parliamo di servigio di amicizia. Perchè questa
parola gli Dei non vogliono che si profani. Ma anche illustrare ed
aumentare lo Stato colle conquiste è una gloria non meno grande. Tu
avrai già pensato che ci vorrà un’armata ben grossa, perchè la Sicilia
è grande, e le sue città sono molte e potenti...

ALCIB. Certo. Più forte è il nemico, maggiore la gloria. È una guerra
più grossa di quella del Peloponneso...

SOCR. (_facendo sempre l’ingenuo_) Oh, che buona notizia mi conti!
Stiam già facendo la pace con Isparta?

ALCIB. Non ancora. (_con baldanza_) Ma la faremo là, in Siracusa. 

SOCR. Ah!... ma non ti pare — scusa sai, di queste cose io non
m’intendo — non ti par egli imprudente affrontare un nemico più grosso
e lontano, se ancora non abbiam potuto vincere questo che abbiam qui
alle porte?[91]

ALCIB. Ma da un pezzo lo avremmo vinto, se i capitani avessero saputo
condur bene la guerra. Se ci fossi stato io!

SOCR. Perciò parmi peccato che tu ti allontani. In ogni modo, meglio
così, se no, senza di te, anche in Sicilia, le cose andrebbero come nel
Peloponneso...

ALCIB. Senza dubbio... 

SOCR. E pregherò quindi, per la salvezza dell’esercito e di Atene, gli
Dei scacciamali, che tengan quieti gli Spartani fino al tuo ritorno, e
là in Sicilia proteggano i tuoi dì...

ALCIB. (_distratto_) Grazie. 

SOCR. (_con fare indifferente_) Anzi, siccome degli Dei bisogna fidarsi
sino a certo punto, sarà bene tu ti tenga a qualche distanza dal campo
di battaglia...

ALCIB. (_con impeto_) Che! ad esser vile mi consigli? Non è Socrate che
parla.

SOCR. Perdona... ma poichè senza di te tutto laggiù andrebbe a
fascio!... E tu convieni che se, dopo conquistata l’isola, non
potessimo conservarla, e vi perdessimo tutte le nostre schiere, questo
sarebbe per Atene peggior danno dell’esservi andati...

ALCIB. Oh questo sì... ma... 

SOCR. E che Atene allora maledirebbe il primo che ebbe l’idea
dell’impresa...

ALCIB. Socrate! 

SOCR. (_senza dargli tempo a parlare, uscendo dalla pacatezza serbata
fin qui e prorompendo con vivacità ed impeto repentini_) Oh, Alcibiade,
prega dunque gli Dei che ti facciano immortale! Se no, che gloria ti
par questa che giuoca la tua vita contro le sventure della tua città?!
E ti parrà gloria, se, teco assente il fiore dei nostri, lo Spartano
che spia le occasioni prendesse d’assalto le nostre mura? E ti sarà
glorioso, essere laggiù, vincendo, capitano di una città serva?

ALCIB. (_fatto pensieroso, impressionato dalla parole di Socrate, si
riscuote_) Ma qui che faccio? E se questa occasione mi fugge, quando la
gloria mi sorriderà?

SOCR. (_con forza_) Non hai altri nemici a vincere, quando Sparta non
fosse? Guardati intorno per Atene e per la Grecia, se nulla qui siavi
da fare, prima di guardar più lontano! Guarda la repubblica cadente, da
che le virtù della repubblica se ne andarono! Guarda le discordie dei
cittadini, le leggi conculcate, da che Pericle governò: l’ingordigia
de’ salarj[92], i rotti e molli costumi che generano l’ignavia nelle
tende e sulle navi: le industrie rovinate dalle ciance del foro e
della Elièa[93], dai mercenarj[94] e dalle feste[95]: le campagne
desolate dall’asta spartana. Tu che agogni essere eroe, comincia ad
essere cittadino! Tu che vuoi vincere il mondo, comincia a vincere te
stesso![96] (_Alcibiade ha gli occhi a terra, fatto mesto, vergognoso
e cogitabondo delle parole di Socrate. Col dorso della mano asciuga una
lagrima involontaria. In questo punto un servo entra_)

SERVO. Alcibiade! questa lettera per te. 

ALCIB. (_prende macchinalmente, senza dir parola, il papiro che il
servo gli presenta, lo svolge e scorre: scosso improvviso dal suo
abbattimento e dalla sua mestizia, dà in esclamazione di gioia_) Ah!...
Glicera!... (_legge concitato_)

      «Sì, credo alla voce dell’alma segreta, 
    «Che a scerner mi insegni tra i cantici e i fior; 
    «Al core che amando diventa poeta, 
    «Al forte che prega — chiedendomi amor!» 

(_smettendo di leggere, con esclamazione vivissima_) Oh, ma ora io non
prego più! (_si rivolge, tornato allegro, a Socrate_) E ci vorrà del
tempo, o Socrate, per riportar questa vittoria che tu dici?

SOCR. Certo... 

ALCIB. In attesa, io ne conosco una, che ne esige assai meno!... O
Socrate!... (_con voce vibrata, mostrandogli lo scritto_) Glicera mi
chiama!... (_fa una pausa, indi sorridente soggiunge a voce piana, e
con accento significantissimo_) Una vittoria alla volta!...

SOCR. (_fa un passo come per trattenere Alcibiade che gli fugge via;
lo segue dello sguardo, e quand’egli è uscito, incrocia le braccia e
scrolla mestamente il capo_) Povera Grecia!...


  CALA LA TELA.




QUADRO SECONDO 

                                 ATENE.

            Luogo elevato e sassoso in vicinanza dello Pnice
                (πνύξ, luogo delle assemblee popolari).


SCENA PRIMA 

DIOCARE, CARINADE, altri quattro o cinque popolani sdraiati, indi
AMINIA.


DIOC. Che furia! (_a Carinade, che arriva correndo, ansante_) Un
uomo di Faléra correr tanto![97] Sembri un di quei che corrono nella
festa delle lampade![98] Il gnomòne ancora segna l’ombra di quindici
piedi...[99]

CARIN. Davvero? Neanche la terza?! E a me parea di aver dormito le tre
notti di Ercole![100] Meglio così! Già due volte, per pochi minuti di
ritardo, fui segnato dalla corda rossa,[101] e il Tesmotéta[102] non mi
volle dar i tre oboli[103] della paga.

DIOC. (_sorridendo_) Ti premono molto i tre oboli![104] 

CARIN. Eh, perchè tu a vender pecore te la fai bene, e te la intendi
co’ sacerdoti. Ma noi, per Cerere! se non ci fossero questi, e i tre
oboli della paga di eliasta,[105] sul mestier solo del falegname ti so
dir io che in giornata non ci si vive! E ancora, ancora, con quelli si
tira là innanzi a stento... le nottole del Laurio in casa mia hanno
una paura maledetta a farci il nido.[106] Oh Giove! quando mai verrà
la rondinella!...[107] Ma non sono io solo che corre... Guarda Aminia
suniese[108] il calzolajo,[109] che viene sbuffando... (_entra Aminia_)
Buon dì, Aminia. Che abbiam di nuovo?[110] Come va?

AMIN. Di male in peggio, alla guisa di Mandràbulo.[111] Scarpe non
se ne vendono, e cause non se ne giudicano. Da tre dì, vado al mio
dicastero, e lo trovo chiuso: e la mia donna, ogni mattina, si dispera,
perchè le torno a casa senza i tre oboli in bocca.[112] Per tutti e
dodici gli Dei![113] Se domani o dopo l’arconte non tien giudizio, non
so come potrò comperarmi da cena...[114] Dovrò ricorrere a quella di
Ecate,[115] e ber del vino delle _nove cannelle_...[116]

DIOC. (_ridendo_) Un vino molto leggiero! Buon per me, invece, nel
tribunale mio si lavora senza perdere un dì: e il bossolo dei voti non
istà un momento in ozio. Ieri n’avremo condannati una ventina...[117]

CARIN. Il guaio è che anco i tre oboli son pochi; una metà basta
appena alla farina, alla legna, al companatico;[118] e tra la tassa
del quarantesimo, e l’uno per cento, e le straordinarie,[119] e
l’altre imposte, e gli interessi della luna nuova,[120] l’altra metà
se la portan via. Intanto costoro che son nelle cariche, e inviati e
provveditori e capitani, che non fan mai niente, si piglian le tre e
le quattro dramme al giorno: e si intascano di soppiatto i doni degli
alleati, e si pappano i tributi[121] e le decime di Minerva,[122] e si
fan nutrire a spese pubbliche nel Pritanéo;[123] e noi, veri Ateniesi,
Cecrópidi puro sangue, figliuoli della terra,[124] che la mercede ce la
siam guadagnata combattendo in campo e sulle triremi, noi che avremmo
ormai diritto di consacrar le armi nel tempio,[125] noi si stenta la
vita ne’ tuguri e nelle torricciuole,[126] e per quella miseria dei tre
oboli par che ne facciano la elemosina!

AMIN. E sì poi che non ci dan nulla del loro! Fa un po’ il conto coi
sassolini:[127] siam seimila giudici, fan circa 150 talenti all’anno;
le entrate della città son 2000 talenti;[128] non ci dan dunque di paga
nemmen la decima parte delle entrate...

CARIN. E il resto dove va? 

AMIN. Lo sai tu?! Va in _ispese necessarie_, come rispondeva
Pericle[129] quando gli domandavano i conti. Va ad ingrassare costoro
che tengono il mestolo dello Stato, e vanno in giro vestiti di porpora,
mentre io porto da tre anni questi cenci rattoppati, che sarebbe ormai
tempo di dedicarli agli Dei.[130] Basta! là in Sicilia voglio anch’io
rifarmi il guscio...

DIOC. Sicchè oggi darai il voto ad Alcibiade?... 

AMIN. Certo. 

CARIN. Anch’io! Quello è un uomo! E che ama il popolo. E con lui se ne
farà del bottino!... Perchè, sai, dicono che la Sicilia è ricchissima...
e ci si bevono dei vini squisiti...

DIOC. Oh, oh! (_guardando entro le scene_) Il sofista[131] Dionisodòro
che vien da questa parte! Eccone uno che dei tre oboli non ha bisogno,
e all’assemblea scommetto che non viene. In poche ore di lezione costui
guadagna delle dramme...

CARIN. E che cosa insegna? 

DIOC. Tutto.[132] Il talento di costoro è una meraviglia. Son
ragionatori incomparabili che ti sanno il dritto e il torto di ogni
cosa, e qualunque cosa tu dica, vera o falsa, con un certo parlare che
loro hanno, te la confutano lo stesso. Ti insegnano a vincere davanti
a’ tribunali tutte le cause, giuste ed ingiuste,[133] e a far comparir
nero il bianco, e bianco il nero...

CARIN. Ma davvero? Per cui, se io non pagassi a Creméte l’usurajo gli
interessi dei debiti alla luna nuova, ed ei mi citasse al tribunale...

DROC. Tu colla scienza di costoro non gli pagheresti più un obolo... 

CARIN. Per Erméte! Chiamalo, chiamalo... 

AMIN. Ohe, chiamalo anche per me... 

DIOC. Dionisodoro! 


SCENA II. 

Detti e DIONISODORO sofista: indi CLEONIMO, TIMARCO ed altri popolani. 


DIONIS. Che vuoi? 

DIOC. Costoro vorrebbero tu insegnassi loro quel certo parlare che tu
sai...

AMIN. CARIN. Sì, sì... _quello! quello!_ 

DIONIS. Ben volentieri. E son tuoi amici costoro? 

DIOC. Certo. 

DIONIS. Allora, la farem per poco: due dramme sole per ciascuno.[134] 

CARIN. Eh? due dramme? O non le ti paion troppe? 

DIONIS. Anzi, niente. 

CARIN. Come? due dramme non sono niente? 

DIONIS. Ma certo. E se vuoi — te lo provo. 

CARIN. Oh! oh! 

DIONIS. Avresti una dramma? 

CARIN. Per farne che? 

DIONIS. Per la prova... 

CARIN. Eccola — ma non sciuparmela, sai. 

DIONIS. (_piglia la dramma e gliela mostra fra le due dita_) Rispondi a
me. Che cos’è questa?

CARIN. Per Minerva! una dramma. 

DIONIS. Se è una, non può esser due. 

CARIN. (_guardandolo attonito_) Eh? mi pare. Fin qui ci arrivo anch’io. 

DIONIS. Ma potrebbe anche _non_ essere _una_ dramma. 

CARIN. Ehi là, dico! Non barattarmela. 

DIONIS. Quetati. Voglio dire che l’_essere_ dell’_uno_ è una cosa
distinta dall’_uno_: perchè il dire _è_ — non è lo stesso che dire
_uno_...

CARIN. Ohe Aminia (_lo richiama che venga a sentir Dionisodoro_), sta
attento come parla bene costui!

DIONIS. E non può essere affatto la stessa cosa dell’uno, poichè
allora il dire che l’_uno è_ — sarebbe lo stesso che dire _uno uno_ — e
uno e uno farebbero due...

CARIN. Ah! certo che fan due... 

DIONIS. E dunque l’_uno_ assoluto — per restar uno e non due — bisogna
che non partecipi dell’_essere_ — perchè dal momento che cominciasse
ad _essere_ — essendo l’_essere_, come hai veduto, un’altra cosa, —
diventerebbero _due_ cose, e non sarebbe più uno. Non ti par giusto?

CARIN. (_guardandolo estatico_) Giustissimo. 

DIONIS. E poi, se l’uno non fosse privo dell’_essere_ e se qualcosa
dell’_essere_ entrasse nel suo _non essere_, allora di _non essere_
diventerebbe un _essere_ — e cioè sarebbe una cosa affatto diversa
dall’uno...

CARIN. E dunque?... 

DIONIS. Dunque l’_uno_ come _uno_ non _è_. — Ci son delle altre cose
oltre l’uno?

CARIN. Eh? (_lo guarda con aria di chi non intende_) 

DIONIS. Mi spiego. Tu mi hai dato questa che dici ch’è una dramma.
Danne qui un’altra...

CARIN. (_gli dà esitante un’altra dramma_) Oh, ma non farmela sparire,
perchè ci voglio bene, io, a questi cùculi del Laurio: son rarità
preziose in casa mia.

DIONIS. Dà qua. Questa dunque è un’_altra_ da quest’_una_ che m’hai
dato...

CARIN. Sicuro ch’è un’altra. 

DIONIS. Se ci son dunque delle _altre_ cose oltre l’_uno_, e se l’uno
come uno non _è_, nessuna di queste _altre_ cose può _essere uno_...

CARIN. Sarà benissimo come dici... 

DIONIS. E neppur due, e neppur tre, perchè la _pluralità_ suppone
l’_unità_, e il _due_ e il _tre_ non sarebbero ancora che l’_uno_
moltiplicato più volte...

CARIN. Certo. 

DIONIS. Dunque se l’uno non è, nessun’altra cosa può _essere_, nè come
_uno_, nè come _più d’uno_...

CARIN. Per cui... 

DIONIS. Per cui, queste dramme non possono essere nè una, nè due, nè
parecchie... e per conseguenza — son niente affatto. (_Risate fra gli
astanti. Dionisodoro volge intorno sguardi trionfanti; indi s’avvia per
allontanarsi_) — Oh addio!... i miei scolari mi aspettano...

CARIN. (_dopo aver guardato stupefatto Dionisodoro, si volta ad
Aminia_) Hai capito tu...?

AMIN. Io no — e tu...? 

CARIN. Io sì, qualcosa ho capito... 

AMIN. Che cosa? 

CARIN. Ch’egli mi porta via le due dramme... (_fa un gesto significante
ad Aminia, poi chiama forte Dionisodoro_) Ehi là, Dionisodoro!
(_Dionisodoro si ferma_) E tutte queste belle cose tu insegni per così
poco?

DIONIS. Oh, queste ancora non le sono che bazzecole, a confronto del
resto. E per due dramme sole!... Vieni, vieni da me; chiassetto d’oro
verso Agnone,[135] la prima casa a destra; vedrai, vedrai...

CARIN. (_a Dionisodoro_) Però scusa. Chiariscimi una cosa che non ho
ben capito. Tu dicevi tuttavia da principio che questa che t’ho data è
una dramma? (_gli ripiglia delicatamente di mano una delle dramme._)

DIONIS. Lo dicevo. 

CARIN. E che questa è un’altra... (_gli ripiglia delicatamente l’altra_) 

DIONIS. Un’altra. 

CARIN. Ma dunque son proprio due! 

DIONIS. Appunto. 

CARIN. E tu dici che due è la stessa cosa che niente? 

DIONIS. La stessa che niente affatto. (_sorridendo di compiacenza,
mentre stende la mano a riprenderle_)

CARIN. Bravo! E allora — poichè è la stessa cosa — ti do niente. (_si
rimette le due dramme pacificamente in tasca e gli volta le spalle.
Grande risata fra gli astanti_)

AMIN. Bravo Carinade! 

DIONIS. Ma pagami la lezione. 

CARIN. Te l’ho pagata! Non è vero, Aminia? 

AMIN. Verissimo. (_Dionisodoro parte incollerito fra le risate.
Sopravvengono Cleonimo, Timarco ed altri cittadini_) Oh buon dì,
Cleonimo... Che faccia scura, Timarco! Sembri uscito dall’antro di
Trofonio.[136]

TIM. Fa conto. È tutta la mattina che gli augurii mi perseguitano.[137]
Mi alzo da letto, e mi buccinan le orecchie;[138] esco di casa e
una dònnola mi attraversa la via; le scaglio dietro tre sassolini
per iscongiurare il malaugurio, e non ho fatti dieci passi in là che
incontro un epilettico furioso... Qualche disgrazia mi sovrasta...

DIOC. Vuoi un consiglio? Sacrifica subito un’agnella bianca e ben
grassa ad Ercole, Apollo e Polluce sgombratori dei mali...[139] Vieni
da me... te ne venderò una che è una meraviglia...

TIM. (_sospirando_) Ci verrò. 

DIOC. Anzi veramente, s’io fossi in te, per essere più sicuro, ne
sacrificherei una per ciascun dei tre Numi... Vieni, vieni da me...

AMIN. Del resto, consolati, non sei solo ad aver cattivi gli augurii...
A me stanotte i topi han bucato il sacco della farina...[140]

TIM. E sei stato dall’indovino? 

AMIN. Sì, certo. 

TIM. Che ti disse? 

AMIN. Che il sacco bisognava farlo rattoppare... e la farina darla a
lui.

DIOC. (_scrolla il capo e fa scoppiettare la lingua in segno di
disapprovazione_) Un’agnella ci voleva...

AMIN. (_battendogli sulla spalla_) Sta cheto. Per oggi contentati. Ne
hai già contrattate tre...

CLEON. Oh, a proposito di presagi, non dite nulla dei lampi e dei
tuoni[141] di stanotte? Mi hanno svegliato mentre sognavo che la statua
della Dea Atenapólia[142] dal Partenone scotendo l’égida minacciava
la città; e la sfinge del suo elmo, mandando fiamme dalla bocca, aveva
disseccato in un attimo il grande ulivo...

TIM. e AMIN. Davvero? 

CLEON. Com’è vero che mi chiamo Cleonimo. Già dice bene qui, Timarco,
qualche malanno per aria ci dev’essere...

CARIN. (_a Cleonimo_) Io, fossi in te, andrei dal vecchio Lampone,[143]
quel che tiene esposte le tabelle presso il tempio di Bacco e spiega i
sogni...[144]

DIOC. (_a Carinade_) Bel costrutto! Se il sogno è di malaugurio,
l’indovino può borbottare _Aski Kataski_[145] fin che vuole, ma già
non glielo cambia... (_a Cleonimo_) Dà retta a me. Sacrifica agli Dei
scacciamali... E la vuoi sapere la causa di questi segni infausti che
della lor collera ci mandano gli Dei?

CLEON. (_affettando aria ingenua_) Che sia la spedizione di Sicilia? 

AMIN. Oh senti questa! 

DIOC. Che! che! — Guarda là in fondo (_addita verso le quinte_). Quella
gente là.

Amin. Ma quel che passa laggiù a piedi scalzi,[146] se non erro, è
Socrate, di Sofronisco alopecense...

Dioc. Lui in persona. Vedilo che tira dritto, gittando occhiate a
dritta e a sinistra con quella sua andatura superba e la sua aria
sardonica,[147] come fosse il gran re; tira dritto e all’assemblea non
viene.[148] Degli affari dello Stato costui non si occupa; professioni
non ne esercita; ma il tempo lo trova per girovagare ozioso[149] nei
quadrivj e nelle botteghe, corrompere la gioventù, scrutar le cose
sotterranee e quelle al disopra delle nuvole,[150] insegnar che il
cielo è un forno che circonda la terra e noi ne siamo i carboni,[151]
che il terremoto è il consiglio dei morti[152] e le nubi e non Giove
son quelle che mandano il tuono e la pioggia, e che Giove e gli altri
Dei non esistono, bensì il turbine[153] e i demonj in vece loro...

CARIN. Tali cose insegna costui? 

DIOC. Ed altre peggiori. E dacchè costoro vanno spargendo che non ci
son gli Dei, alle are fumano più rari i sacrifizii...

AMIN. (_continuando la frase, con accento un po’ canzonatorio
all’indirizzo di Diocare_) Di pecore se ne vendono più poche...[154]

DIOC. E i numi si vendicano con noi. Oh, ma un dì o l’altro a costui
bisognerà pensarci...

TIM. Oh, ve’ chi arriva! Cimoto! 

CARIN. (_chiamando di lontano_) Cimoto! Cimoto! 


SCENA III. 

Detti, e CIMOTO. 


CIM. (_entrando scambia segni di intelligenza, non visto, con
Cleonimo_) Buon dì, cittadini... Quanto manca all’assemblea?

CARIN. Tre quarti d’ora. I Pritani[155] ancora non son venuti... E
anche tu, già, voterai per la spedizione, e per la nomina del valoroso
Alcibiade.

CIM. (_tentennando il capo con accento di chi dice una cosa contro
volontà e persuasione_) Sì...

CARIN. Oh, non ne sei troppo persuaso? Non ti par egli un eccellente
capitano?

CIM. (_c. s._) Sì... peccato che sia così giovane per un’impresa di
quella fatta!... Soltanto ventinove anni...[156]

CARIN. Maggior merito, per Ercole! Così giovane e già così bravo... 

AMIN. E che testa quadra!... 

CIM. (_c. s_.) Sì... 

AMIN. (_vivamente, con malumore_) Negalo un po’, se hai coraggio! 

CIM. Un’ottima testa! Se non fosse così matto, così sventato; e avesse
un po’ d’amore allo studio! Peccato! un giovine così promettente, così
pieno di meriti, ubbriacarsi tutte le notti, e invece di istruirsi
nell’arte del capitano, consumar il tempo fra la crapula e le donne.
Eh! che ne dici tu, Cleonimo?

CLEON. (_con fare ipocrito_) Ah sì, un vero peccato! 

CIM. (_in tutto questo suo dialogo, Cimoto affetta sempre
intenzionalmente un’aria di indifferenza, pure scrutando gli animi
degli astanti, e mirando a far impressione su di loro, senza darsene
l’aria_) Tanto più quando si deve capitanare un’impresa così colossale,
e si tratta di affidargli la vita di migliaia di cittadini... E dir
che questo ragazzo, col tempo e collo studio, avrebbe potuto fare così
buona riuscita...

CARIN. Oh, ma noi, per maggior sicurezza, gli daremo Nicia e Lamaco a
compagni nel comando...

CIM. (_vivamente_) Ben fatto, ben fatto, per Giove! Così un po’ per
volta imparerà l’arte del capitano, senza esporre troppo l’armata a
pericolo...

AMIN. (_fatto improvvisamente attento dalle sue parole, si volge a
Diocare e Timarco, i quali discorrono fra loro_) Ehi! Sentite che dice
costui...

CIM. E senza trarla a rovina, perchè, allora, credo, non francherebbe
la spesa di nominarlo...

CARIN. Oh, certo, non francherebbe la spesa!... 

CIM. (_fingendo sempre di non accorgersi della impressione delle sue
parole sugli astanti_) E un po’ di esperienza a questo giovine farà
bene...

CLEON. Per Minerva! se farà bene!... 

CIM. Perchè di doti naturali ne ha, e l’amor proprio non gli manca:
anzi, è quel che lo rovina... perchè ne ha fin troppo: e ciò lo spinge
a imprender cose troppo superiori alle sue forze...

CLEON. E a credersi un po’ troppo da più di tutti gli altri... 

AMIN. (_vivamente_) Più di tutti noi, si crede? 

CIM. (_fingendo difendere e proteggere Alcibiade_) Fumi giovanili... 

TIM. Che dice costui? 

AMIN. (_più vivamente_) Che Alcibiade si tiene da più di noi![157] Ma
per Ercole! noi non vogliamo! perchè siam noi che lo abbiam portato in
alto...

DIOC. (_con forza_) Certo, che non vogliamo... 

CIM. (_c. s. fingendo proteggere Alcibiade_) Oh, ma vedrete... siccome
di buone doti ne ha, e non gli manca che l’esperienza... così alla
prima sconfitta, laggiù in Sicilia, si correggerà...

CARIN. (_vivamente_) Alla prima sconfitta? 

CIM. Sì, sì... vedrete... Allora imparerà che guidar una guerra è più
difficile del sedur femmine e guidar cocchi, e che dal dire al fare c’è
di mezzo il mare... E siccome di buone doti, per correggersi, ne ha,
così una prima sconfitta di esperimento...

AMIN. Ma che sconfitte! Noi non vogliamo sconfitte! 

CARIN. Ma che esperimento! Noi non siam di quei da Megara! e non siam
uomini di Caria[158] da far esperimenti su di noi...

CIM. Ma via, siete troppo severi! Voler che un giovane inesperto, fin
qui abituato solo a darsi buon tempo, diventi di punto in bianco un
capitano provetto, sicuro della vittoria!... Un giovane galante che
porta per insegna nello scudo un amorino...[159]

CARIN. Ah, si! l’ho vista anch’io quella insegna! ma è una insegna da
donna, e non da capitano quella!

AMIN. E neppure da buon cittadino! I buoni cittadini portano nello
scudo emblemi della patria[160] e non amorini.

CIM. (_coll’accento benevolo di chi cerca scusare_) Leggerezze,
leggerezze di gioventù! Come quella dello spendere e spandere e
introdur la moda dei calzari di lusso all’_Alcibiade_,[161] e portar la
chioma lunga e cicale d’oro nei capelli come le donne[162] e indossar
vesti fastose di porpora ermiónica...[163]

Dioc. Veramente... qui fra noi, diciamo fico al fico,...[164] le son
tendenze da tiranno queste....[165]

CIM. E quell’altra del letto!... Cleonimo, ma sarà poi vera? 

CLEON. A me l’avean contata per certa i soldati che l’hanno vista... Ma
ne contan tante!...

AMIN. Che cosa? che cosa? 

CARIN. Contala, contala! 

CLEON. Che nell’ultima spedizione navale a Fotidea, mentre i soldati
sulla sua trireme stavano a disagio, stipati come sardelle, ei s’era
fatto tagliar nella nave il tavolato, ove acconciarsi il letto, per non
giacere sulle nude tavole, ma su corde ivi distese, da potervi dormir
più mollemente.[166]

AMIN. (_scandolezzato_) Ma è una femmina, e non un uomo costui! 

CIM. Abitudini! abitudini! Per questo, dicevo, non bisogna esiger
troppo... Avete sentito dei presagi?

CARIN. Che presagi? 

CIM. La notizia da Delfo giunta stanotte... 

CARIN. DIOC. AMIN. (_vivamente, con curiosità_) Conta, conta! 

CIM. Uno stormo di corvi scese colà svolazzando nel recinto del tempio
intorno alla nostra palma di bronzo, e a colpi di becco tanto vi
lavorò, fin che vi fece cadere tutti i frutti dall’albero...[167]

AMIN. Davvero?... 

CIM. La notizia è venuta agli Eumòlpidi.[168] E poi... 

CARIN. Poi... cosa? 

CIM. Che giorni son questi? 

CARIN. I giorni delle Adonie. 

CIM. E non ve ne siete accorti venendo qua? Non avete incontrato per
via le processioni funerarie e i simulacri di cadavere esposti? Non
avete udito i gemiti e i pianti delle donne d’in sui tetti?

AMIN.[169] Così scoppiassero dal piangere una volta, che stamattina
m’han rotto il sonno e non m’han lasciato chiuder occhio. Mi volto
sur un fianco per dormire, e mia moglie sbraita saltando ubbriaca per
la stanza: _Ahi! Ahi! Adone!_ — Oh, _sta un po’ zitta_, le dico, _tu
e il tuo Adone insieme!_ e mi volto sull’altro fianco; e lei colle
compagne mi va a ballar sul tetto da far tremare la casa, gridando
tutte a squarciagola: _Ahi! Ahi! piangete Adone! picchiatevi il petto
ch’è morto Adone!_[170] C’è mancato poco non saltassi su furioso, e a
picchiarle, ma proprio in regola, non ci andassi io...

CIM. (_con sussiego_) Religione! rispetto alla religione! Ma dimmi un
po’: credi tu che sia casuale la ricorrenza delle Adonie proprio nel
giorno della votazione dell’impresa? E...

CARIN. (_vivamente_) E se non è, che cosa fare? che cosa fare?[171] 

CIM. E se non è, lo sai tu che significano questa coincidenza e il
presagio dei corvi di Delfo?

AMIN. Che significano? 

CARIN. Sentiamo, sentiamo! 

TIM., DIOC. _e altri popolani_. (_vivissimamente_) Parla, parla,
Cimoto...

CIM. (_assume un’aria grave di mistero e di importanza, mentre tutti
i cittadini che son sulla scena si stringono intorno a lui_) Significa
che...


SCENA IV. 

Detti ed ALCIBIADE. 


ALCIB. (_fermo, in sull’entrare in iscena, ancor distante dal gruppo
che è intorno a Cimoto, chiama a voce forte_) Ateniesi! (_Cimoto resta
interdetto e sconcertato all’udir la voce di Alcibiade_)

CARIN. _ed altri_. Alcibiade!!! 

AMIN. Oh, Alcibiade! bravo! vieni a tempo! Ne abbiam sentite di belle
sul tuo conto. Aspetta un momento, e dopo parlerai!...

CARIN. Sì, sì, aspetta un momento e poi... (_con accento di minaccia
verso Alcibiade; indi si volge a Cimoto_) Su, su, parla, Cimoto...

ALCIB. Una parola sola, e poi taccio. 

CARIN. No, no, aspetta... 

AMIN. Via, dilla presto... 

ALCIB. Avete visto il mio cane? 

CARIN. O che! del suo cane ci domanda il temerario? Siam noi custodi
del suo cane?

ALCIB. Ma la sapete la novità? 

AMIN., CARIN. _ed altri_. Quale? quale? 

ALCIB. Quel mio magnifico cane di Creta...[172] (_fa una pausa di
sospensione_)

AMIN. Sì, sì... quel cane così alto... bianco e nero... 

ALCIB. Proprio quello... che mi costava settanta mine... (_nuova pausa
sospensiva_)[173]

CARIN. Ebbene?... 

ALCIB. Con quella stupenda coda tutta bianca... 

AMIN. (_impazientito_) Sì, sì... ebbene... ebbene...? 

ALCIB. Ebbene... non l’ha più. Glie l’ho tagliata.[174] 

CARIN., AMIN., DIOC. _e altri in coro_. Ah!! 

AMIN. _e_ TIM. Impossibile! 

CARIN. _e altri_. Dov’è? Dov’è? 

ALCIB. (_additando verso l’interno della scena_) Eccolo là... 

CARIN. _e gli altri in coro_. Ah! Ah![175] (_gridando ed esclamando
corrono via tutti in folla precipitosamente nella direzione additata da
Alcibiade, e la scena in un attimo rimane sgombra, non restandovi che
Cimoto, piantato lì solo, confuso e mortificato, — e Alcibiade_).


SCENA V. 

ALCIBIADE e CIMOTO. 


ALCIB. (_seguendo dello sguardo i cittadini che son corsi dietro il
cane, esclama forte_) Ecco i vincitori di Maratona!![176] (_prosegue
a voce più bassa, con inflessione di mestizia_) Povero popolo! come
t’han cambiato! (_si avanza sorridente e calmo verso Cimoto, il quale,
confuso, tien gli occhi a terra_) Ebbene, o Cimoto, par che la coda del
mio cane sia più eloquente della tua lingua!... Però non giudicarli
severamente... Non han tutti i torti costoro... Per che cosa mai le
imposture ridicole di quei che lo ingannano, e i tuoi discorsi e i
tuoi presagi dovrebbero aver più importanza della coda del mio cane?...
(_d’improvviso mutando accento, a voce fredda e calma_) Quanto ti han
dato per recitar questa parte?

CIM. (_confuso, cercando balbettare scuse_) Ma... io... 

ALCIB. (_secco e minaccioso_) Quanto t’han dato? 

CIM. (_intimidito_) Cento dramme. 

ALCIB. (_ritornato calmo_) E la sai la legge? 

CIM. Che legge? 

ALCIB. Chiunque piglia danaro per far danno a un cittadino, infame egli
e i suoi figli...[177] Pena la morte.

CIM. (_spaventato_) Ohimè! 

ALCIB. Sei onesto tu? 

CIM. Per Ercole! se lo sono. Mi offendi a domandarmelo... 

ALCIB. (_pacatissimo_) Ebbene... poichè sei onesto — e la legge
tu la rispetti — e non hai preso che cento dramme — di duecento ti
contenterai... Eccole... (_gli dà una borsa che l’altro prende, dopo
qualche esitanza_) Ma li spiegherò io, a costoro, i tuoi presagi...
Intendi?

CIM. Ho inteso. 

ALCIB. (_imperioso_) E starai zitto... 

CIM. Più zitto di un Areopagìta...[178] 


SCENA VI. 

ALCIBIADE, CIMOTO: e tutti gli altri che ritornano in frotta. Indi, in
disparte, TESSALO.


CARIN. (_mentre rientra correndo cogli altri_) Che cattiveria! povero
cane!

DIOC. Vergogna! 

AMIN. Povero cane! Una così bella coda! 

TIM. Vergogna Alcibiade! Così rispetti le leggi?[179] Che cosa dire di
te?

ALCIB. Ah tu ameresti meglio si dicesse di me che ho rubato, come
Cleone, i danari del popolo?

AMIN. Oh, no, no! 

CARIN. Ben risposto, per Giove! 

ALCIB. (_arringando_) Ateniesi! Glorioso,[180] bellissimo popolo del
magnanimo Erettèo!...[181]

CARIN. (_ad Aminia_) Costui sì, parla bene. Quel villan di Cleone ci
diceva invece: Infingardi! mangia-oboli! mangia-fave![182]

ALCIB. (_arringando a voce alta e forte_) Eucrate,[183] il mercante di
stoppe, governando, lasciò sconfiggere i nostri nella Calcidica[184] e
coi tributi del popolo si arricchì...

AMIN. È vero, è vero! 

ALCIB. Governando Callia, il pecorajo, noi perdemmo Platea, vedemmo
posti i nostri alleati a fil di spada,[185] e Callia, da povero che
era, lasciò un patrimonio...

CARIN. Verissimo!... 

ALCIB. Governando Cleone, il conciapelli, fummo sconfitti dai Beoti
a Tanágra,[186] dagli Spartani ad Amfipoli,[187] e Cleone intascando
i danari degli alleati, rubando cinquanta talenti allo Stato,[188] si
avanzò di che andar in cocchio a tiro due...

AMIN. Ah sì, quel ladro di Cleone! 

ALCIB. Queste belle cose ricordiamo di loro; prego (_con voce solenne_)
gli Dei e le Dee dell’Attica abitatrici[189] e il Pizio Apollo[190]
protettor della città, che di me non si possa giammai ricordar nulla di
più biasimevole di questo: — che ho tagliato la coda ad un cane — e il
cane era _mio!_

AMIN. Bene! 

CARIN. Bravo![191] 

DIOC. _e altri in coro_. Viva Alcibiade! 

ALCIB. Ed ora sapete, che cosa testè mi diceva Cimoto qui presente, il
quale lo seppe dai sacerdoti, intorno ai presagi della spedizione?

AMIN. _e_ TIM. Che cosa? 

ALCIB. Che i Numi manifestamente ci sorridono; perchè la palma di
Delfo, simbolo della potenza e della gloria onde Atene sovrasta a tutti
i Greci[192] (_segni di approvazione fra i popolani_) è rimasta dritta
ed illesa dai corvi: ma i frutti, che ricordano le nostre vittorie
antiche, son caduti, perchè la fama di quelle sta per essere cancellata
da vittorie ben maggiori che ci aspettano laggiù.

TESS. (_entrato in iscena da qualche momento, si avvicina di soppiatto
a Cimoto, parlandogli sottovoce_) Tu hai detto questo, furfante?

CIM. (_guardandolo con disinvoltura_) Sì, sì... 

AMIN. Han detto questo i sacerdoti? È vero, Cimoto? 

CIM. Verissimo. 

TESS. (_minacciando, a Cimoto sottovoce_) Ti pagherò... 

CIM. (_mostrandogli la borsa_) Tralascia. Son già pagato. 

TESS. (_ad Aminia, accostandosegli, sottovoce_) Ma non è ancora una
ragione per eleggere capitano un che sempre si ubbriaca...

AMIN. (_a Tessalo_) Ah, sicuro! (_a voce forte, ad Alcibiade_) Ebbene,
Alcibiade, poichè i presagi son buoni, noi andremo in Sicilia... ma non
ti farem capitano... perchè tu ti ubbriachi troppo...

CLEON. (_accostandosi a Diocare, sottovoce_) E l’affar del letto? 

DIOC. (_forte, ad Alcibiade_) E sei troppo effeminato! Ti fai fare il
letto di corde apposta per dormir comodo sulle triremi!

TESS. (_continuando ad aggirarsi di soppiatto tra la folla, egli e
Cleonimo, e parlando all’orecchio or dell’uno or dell’altro, sempre
cercando non lasciarsi scorgere: s’appressa a Carinade, sottovoce_) E
l’affar dello scudo...

CARIN. (_a voce forte ad Alcibiade_) E pensi troppo agli amori delle
donne! porti fin l’insegna di un amorino nello scudo!...

ALCIB. (_che in questo frattempo non ha perduto d’occhio Tessalo e
Cleonimo_) E null’altro? E null’altro? (_con forza_) Oh, per Giove e
per gli Dei![193] o Ateniesi, eleggetemi subito allora!...

CARIN. (_con compiacenza, ad Aminia_) Eh, com’è franco! Mi piace!... 

ALCIB. (_proseguendo_) ... e cingetemi le corone che il Dio Tebano ci
presenta in segno di libertà![194] Che importa a voi ch’io mi ubbriachi
alle mense, se i miei consigli nell’assemblea, per confession vostra,
furon sempre da savio? Vada pei tanti savii che vi danno consigli da
ubbriaco!

CARIN. _ed altri_. Bravo! 

ALCIB. Purchè le mie opere siano da uomo, che importa a voi s’io
frequento le donne? Furono da donna forse le mie opere a Delio e a
Potidea?

AMIN. _e_ CARIN. No, no! 

TIM. _e_ DIOC. No, no, Alcibiade! 

ALCIB. (_rincalzando_) A voi che importa del sapere come io dorma i
miei sonni, quando queste cicatrici vi rispondono delle mie veglie?

AMIN. È giusto. È giusto. 

ALCIB. Ebbene, sì, sacrifico al figlio di Venere, e porto un amorino
nel mio scudo! Voi però, o Ateniesi, mi siete testimonî che il mio
scudo nessun nemico me lo ha preso, e l’ho sempre riportato dalle
battaglie...

TIM. _e_ CARIN. Sì, sì... 

ALCIB. Invece, il prode Cleonimo, che qui vedo, nel suo scudo effigiò
il terribile Teseo colla mazza, ed Ercole furibondo colla clava...
(_Cleonimo cerca nascondersi tra la folla; Alcibiade lo apostrofa con
voce dolce, ironica_) O buon Cleonimo... dov’è il tuo scudo?

AMIN., CARIN. _e_ DIOC. (_ridendo cogli altri e gridando_) Ah! ah!
l’ha gettato via per iscappare![195] ah! ah! l’ha gettato via! Via,
via dall’assemblea![196] (_Cleonimo confuso si dilegua tra le risa e le
fischiate_)

AMIN. _e_ TIM. Viva Alcibiade capitano! 

DIOC., CARIN. _ed altri_. Sì, sì, Alcibiade capitano! Viva Alcibiade!
(_Tessalo, in disparte sulla scena, fa gesti di rabbia repressa; mentre
le acclamazioni continuano clamorose, entra Timone_)


SCENA VII. 

TIMONE il misantropo, e detti. 


TIMON. (_entra vestito di luridi cenci, con una zappa in ispalla, e
fermo in sull’entrare, posata la zappa a terra e su di essa poggiandosi
colle due mani, grida con voce più forte, così da coprir quella degli
altri_) Viva Alcibiade!

CARIN. Timone il misantropo! 

ALCIB. Timone! 

DIOC. Ora ne sentirem di belle! 

TIMON. Bravo, Alcibiade![197] Coraggio! fatti grande, e cammina sulle
schiene di questa torma di schiavi! fatti grande, perchè tu possa
diventare la peste ed il flagello di costoro, di Atene e della Grecia!

AMIN. Dalli all’insolente! 

DIOC. Addosso al temerario! 

TIM. _ed altri_. Addosso! 

ALCIB. (_con voce tuonante, imperiosa_) Silenzio! E che nessuno lo
tocchi! Lasciatelo parlare! (_tutti ammutiscono_)

TIMON. Vedi, come già ben ti obbediscono! Non così docili obbediscon le
pecore alla verga del mandriano! Possa essere tu sempre ascoltato così,
finchè abbi tratto Atene alla rovina, e la terra, coperta di cadaveri,
si penta — ma sia troppo tardi — di averti portato!

TIM. _e_ DIOC. Ma è troppo! è troppo! 

ALCIB. Silenzio! (_Alcibiade si è fatto scuro in volto e pensieroso: ha
gli occhi a terra_)

TIMON. Lascia ch’io ti abbracci, Alcibiade! Alla folgore di Giove si
son rotti i raggi, ed essa non fa più paura ai tristi ed ai bugiardi
pari tuoi, che non ne faccia il moccolo d’una lucerna mattutina. Giove,
il tonante Giove, ha preso il decotto di mandragora[198] e dorme;
qui s’inganna, si corrompe, si spergiura, ed egli non sente; si fan
scelleraggini, ed ei non le vede; povero bietolone, è diventato cieco,
sordo e barbogio![199] e già in Creta gli preparan la tomba.[200]
Su allegro! una buona notizia ti do. La virtù, la fede, il valore,
l’onore, l’amicizia, il pudor delle vergini sono scomparsi dalla terra;
le donne negano il latte del seno ai loro pargoli,[201] e perfin le
lupe hanno abbandonato nella tana i lupicini. Perciò tu sarai grande,
o Alcibiade! tu che porti nelle tue vene il latte di Sparta![202]
Lascia ch’io t’abbracci! Cresci ed abbindola colle ciance questa
turba di cianciatori! rompi la fede a questo popolo di frodolenti e di
spergiuri!...

AMIN. (_a Carinade_) Lo senti? Parla con te. 

CARIN. (_ad Aminia_) Sta zitto! È con te che parla. 

TIMON. Spoglia a man salva questi usurai, divoratori di paghe!...[203] 

TIM. (_a Diocare_) Questa poi è per te. 

DIOC. (_a Timarco_) Oibò! è per te. 

TIMON. (_proseguendo senza interrompersi_) Calpesta le loro libertà,
porta l’infamia nelle loro famiglie, cambia in meretrici le loro
spose! Trascinali alle guerre, e siano ingiuste, perchè le maledizioni
li seguano: e siano disastrose, perchè nessuno ne ritorni! (_mentre
Timone segue le sue invettive, moti d’ira repressa si scorgono fra i
cittadini_). E quando tutto, anche qui, per opera tua, sia sterminio,
ne sopravviva uno solo — e sia il più giusto — per assassinar te a
tradimento, poi sprofondi maledetto nella terra anche lui! (_Alcibiade
si è riscosso vivamente, ma non dice verbo. Timone, rimessa la zappa
in ispalla, si allontana, traversando la scena. I popolani si agitano e
danno in esclamazioni d’ira_)

CARIN. _e_ AMIN. Dalli allo sfacciato! 

TIMON. Ateniesi! ho un bellissimo fico laggiù nel mio orto a
Colitta:[204] vado a strapparlo per far legna da dar fuoco al
Partenone.[205] Il suo tronco è alto, i suoi rami sono robusti, e le
sue ombre sono amene. Chi di voi bramasse appiccarvisi, fin ch’è a
tempo, s’affretti e venga con me! (_esce sghignazzando_)

CARIN. È troppo, Alcibiade! Egli ha insultato te e noi! 

AMIN. È troppo! Bisogna castigarlo l’impudente! trascinarlo dal
Tesmoteta![206]

TIM. _e altri_. Sì, sì, castigarlo! (_fan per inseguire Timone, già
uscito di scena. Alcibiade li arresta, sbarrando loro il passo_)

ALCIB. Fermate! È già anche troppo castigato, l’infelice, perchè non sa
che odiare! Se volete punirlo di più, pregate i Numi lo faccian vivere
tanto da vedere in me smentite le sue profezie, e Atene vittoriosa,
libera e grande! (_odesi la voce del banditore dall’interno_)

BANDIT. (_di dentro a voce lenta_) «Cittadini ateniesi, all’assemblea!
I Pritani han preso posto, e i purificatori han fatto le lustrazioni.
Avanti, avanti, in luogo purificato!»[207]

CARIN. (_correndo via_) All’assemblea! all’assemblea! attenti alla
corda rossa!

TIM. Attenti ai tre oboli! alla voce della patria![208] 

AMIN. (_correndo via_) All’assemblea! vien la corda rossa! (_I
cittadini tutti corrono via, mentre nello sfondo della scena due servi
pubblici si avanzano tenendo distesa una corda rossa, e mandandosi i
più lenti innanzi, al modo che nelle odierne feste da ballo si usa
per far posto alle coppie che succedono. — La scena rimane vuota,
restandovi soltanto, fuori dello spazio percorso dai servi colla corda
tesa, sul davanti della scena, Alcibiade nel mezzo, Tessalo da una
parte, Cimoto dall’altra_)


SCENA VIII. 

ALCIBIADE, TESSALO, CIMOTO. 


ALCIB. (_avanzandosi verso Tessalo, con voce ironicamente affabile_) E
tu, o Tessalo, non vieni all’assemblea? A te i tre oboli non occorrono,
ma la tua parola oggi potrebbe esservi utile! Tu, che sei uno di quelli
che sanno, fai male, in affari così gravi, a privare il popolo de’ tuoi
consigli!... Dianzi, parlavano tutti: tu solo non hai parlato...

TESS. (_interdetto, confuso_) Io... io... ti ascoltavo... 

ALCIB. (_affabilissimo, con velata ironia_) Ah!... e ti pare che io
abbia detto cose giuste?...

TESS. (_sempre più confuso_) Certo... giustissime... 

ALCIB. (_sempre calmo e affabile_) Anche tuo padre Cimone avrebbe detto
così... Era un uomo giusto e prode tuo padre Cimone... sai... e tu...
(_fa una pausa_)

TESS. (_timidamente_) E io...? 

ALCIB. (_cambiando repentinamente accento, con voce fatta d’improvviso
grave, concitata, severissima_)... tu non meritavi di essere suo
figlio.

TESS. (_risentendosi_) Alcibiade! 

ALCIB. (_rincalzando con forza_) Tu che attacchi nascosto nell’ombra e
alle spalle!

TESS. Alcibiade! 

ALCIB. (_beffardo_) Oh, non andare in collera! Sii prudente! Ai tuoi
simili non conviene lo adirarsi! hai taciuto fin qui, taci ancora!
Men codardo di te, costui (_addita Cimoto che, tra pauroso e curioso,
in disparte sta osservando la scena_) che parlava in pubblico, da
te pagato: egli osava almeno!... Io l’uom dissoluto... e tu... il
virtuoso... l’onesto... (_con iscoppio repentino di voce accennando
Tessalo e levando in alto lo sguardo_) O terra, o Dei![209] guardate
come è fatta l’onestà! (_Cimoto a questo punto, alquanto impaurito,
fa per allontanarsi quatto, quatto. Alcibiade lo richiama_) Cimoto!
(_Cimoto ritorna, un po’ trepidante, verso Alcibiade, fermandosi a
distanza. Alcibiade si avanza verso lui e lo prende per mano_) Scusa,
sai, Cimoto, se dianzi ti ho chiamato onesto per burla! È sul serio
(_con forza_), è sul serio che parlavo! Non vergognarti!... Su la
fronte! Portala alta davanti a costui, perchè tu, nato, — senza tua
colpa — dal fango, hai più coraggio di lui, che nacque eupatrìda, dal
sangue di Cimone! Su la fronte! e resta con me, onesto Cimoto! poichè,
per tutti gli Dei, se tu nol fossi, la infamia non avrebbe nomi per
costui! (_si conduce via Cimoto, mentre getta uno sguardo fulminante di
sprezzo sopra Tessalo annichilito, e si allontana ripetendo a Cimoto_)
Su, su la fronte, onesto Cimoto!


  CALA LA TELA.




QUADRO TERZO 

                    _Anno 415 avanti l’Era Volgare_

                                 ATENE

  Casa d’Alcibiade. Sala da convito sfarzosamente arredata.
    Architettura e mobilio ricchissimi. Colonne e statue: soffitto
    e pareti a dipinti, portiere ad arazzi e tappeti di Persia
    a figure. Mobili incrostati d’oro e d’avorio. Ricche lucerne
    pendenti dalla vôlta. Letti coperti di porpora ed oro, già pel
    convito disposti.


SCENA PRIMA 

ALCIBIADE e GLICERA. 


(_Alcibiade in atteggiamento calmo — Glicera agitata, irritatissima_) 

GLIC. Non fingere! non fingere! Risparmia almeno una nuova menzogna! È
questa la tua fedeltà? Così giurasti d’amarmi?

ALCIB. E il vero giurai. O non abbandonai per te la bellissima
Teódota, la affascinante Gnaténa?[210] Non mi diedi io interamente
a te con tutto l’abbandono di un’anima ardente? Quei dì passati
insieme non trasvolarono sulle nostre teste sereni e lieti come giorni
alcionidei?[211] T’avevo promesso — a te d’ogni amore sdegnosa —
insegnarti nel mondo una felicità sovrumana di cui avessero invidia gli
Immortali... quella promessa, o Glicera... la trovasti bugiarda?

GLIC. Oh! così mai non ti avessi dato ascolto! E quando cessai io
d’amarti?

ALCIB. Troppo, troppo mi amasti! Noi tracannammo troppo avidamente
questa tazza che i Celesti ne porsero: soltanto una rugiada di cielo
potea perennemente da capo ricolmarla: ma le fiamme della tua gelosia
la disseccarono...

GLIC. Non la mia gelosia, la mia dabbenaggine, devi dire. Per essa
or son fatta oggetto di sprezzo e di scherno a colui che diceva di
adorarmi... (_piange_).

ALCIB. Scherno? Disprezzo? Oh Nemesi mi punisca se pur l’ombra di
qualcosa di simile è in me! No, no! Allora ti disprezzerei ch’io
cercassi fingere teco, per prolungare una illusione fugace di qualche
giorno di più. Il nostro fu un sogno di due mesi, di un’ora, — ma
splendido; ma degno di noi; lasciamolo là intatto, e andiamone superbi;
non profaniamolo con una menzogna. Perchè, o Glicera, quando rientrata
nella calma del tuo animo interrogherai te medesima — ti accorgerai
che quel sogno esistette nella tua testa e non nel tuo cuore... (_gesto
vivo di Glicera, di cui Alcibiade finge non accorgersi, proseguendo_)
Tu credesti di amarmi, o Glicera. Consolati. La tua fantasia, non
il tuo cuore fu vinto. Il tuo amor proprio, non la passione in te
parla!...

GLIC. Oh, il perfido! per difender sè stesso accusa me di non averlo
amato! Maledetto l’istante...

ALCIB. (_vivamente interrompendola_) No, no, non mi difendo — e
tu quell’istante non maledirlo! Perchè pochi, troppo pochi sono i
momenti di gioja che sulla terra ne concessero i Numi: non imprecarlo
quel sogno, se ci ha fatto vivere un giorno nella vita; ciò che
_non a tutti_ è dato. E poichè, restando uniti, quel giorno non lo
ritroveremmo mai più, separiamoci a tempo, oggi, affinchè il ricordo
di esso ci segua come una gioia tranquilla e serena; domani il ricordo
potria convertirsi in incubo che ne contristi l’anima e i dì. Incerti
del presente, nessuno è padron del futuro: tanto meno gli amanti:
perciò sta scritto che _gli spergiuri degli amanti sono i soli che gli
Dei non puniscono_.[212] Non rinunziamo ostinati, in traccia di una
gioja che non ritorna a quelle che ne attendono ancora: hai provato
le voluttà di una febbre della mente e dei sensi: Glicera, ti restano
ancora gioje ignote, che io non posso darti: cerca chi ti dia le gioje
del cuore...

GLIC. E così, Alcibiade mi lascia! e così Glicera la bella, la
invidiata Glicera diverrà domani la favola delle sue compagne e di
Atene!

ALCIB. Alla buon’ora, per Ercole! L’_amor proprio_ ora parla! La
parola ti è sfuggita. Io ne aggiungerò un’altra. Tu eri corteggiata
da Carmide, ricco e leggiadro: egli fece per te pazzie d’ogni sorta,
e tu, che lo avresti amato s’ei ne avesse fatte un po’ meno, perciò lo
respingesti. Ora Carmide s’è accorto dell’errore e si mostra gioviale
e guarito: pure, giurerei che del tutto in fondo non l’è: e so che il
tuo cuore, benchè occupato dalla gelosia a mio riguardo — il cuore di
una fanciulla può abbracciar molte cose! — il tuo cuore è più sensibile
alla sua finta indifferenza che non lo fosse alle sue smanie. Ieri
l’altro tu gli scrivesti (_Glicera fa un gesto vivissimo negativo:
Alcibiade tranquillissimo trae un rotolo di sotto la tunica_). Il
tuo servo infedele credendo ingraziarmisi mi portò la lettera. Te
la rendo (_altro gesto, come di protesta, di Glicera. Alcibiade la
tranquillizza_). V’è il suggello ancora. Non la lessi...

GLIC. (_vivissimamente_) Ma potevi leggerla! Ma dovevi leggerla perchè
non vi è nulla di quel che credi... e... (_esibisce la lettera_)

ALCIB. (_calmissimo_) No, no..., nulla io credo: e il ciel mi guardi
dal leggere! Conosco Glicera. Oggi ciò (_additando la lettera_) non è
nulla, lo so: ma domani potrebbe essere qualche cosa. Perciò questo, o
non mai, è il momento opportuno per finir bene il nostro sogno, prima
che il mare e le fortune della guerra ci separino. Oggi te ne duole e
ci lasciamo amici. Domani potrebbe esser tardi per me...

GLIC. E l’avresti meritato... 

ALCIB. Ah, per Giove! Tu ragioni! Quando si ragiona, il cuore è in
calma, o comincia ad esserlo. Approfittane per dar retta ai consigli di
un amico: poi che amico vero io ti sono, e vorrei lasciarti qualcosa
che giovasse alla felicità del tuo avvenire. Se quella lettera
(_additando la lettera che ha consegnato a Glicera e che questa ha
in mano_) è un passo verso Carmide... dà retta a me: non mandarla...
(_gesto negativo di Glicera. Alcibiade prosegue istessamente_) lascia
che io mi allontani, e che, non chiamato, venga egli da te...

GLIC. (_vivamente_) Ma io non lo chiamo affatto!... ma io... 

ALCIB. (_colla massima calma e dolcezza_) Meglio! meglio!... ma dà
retta a me: _non mandarla!_ affretteresti le cose: e se brami conquista
duratura, non precipitar nulla. Carmide è degno del tuo amore: è il
giovine che potrà farti durevolmente felice: non abbi però premura di
farglielo sapere. Verrà il giorno — e sarà giorno avventuroso — che tu
cadrai: perchè anche tu, come dice Omero, non sei fatta nè di quercia,
nè di rupe:[213] ma, anche allora — bada a me — calma, calma! Attenta a
quel che fai!

GLIC. (_asciugandosi una lagrima_) Così con te lo fossi stata!... 

ALCIB. (_calmissimo_) Ti giovi adunque l’esperienza! E amalo, sai,
il tuo Carmide: amalo di un amor sincero e fervido: ma vedi di
nascondergliene la metà. Tutt’al più, di tratto in tratto, lasciagliene
balenare un raggio in tutta la sua vivezza, in tutto il suo ardore: ma
che tosto scompaja: e sia quanto basta perchè egli si inebrii di quel
che possiede, e indovini confusamente quanto più gli manca a possedere.
E sia di te e de’ tuoi vezzi lo stesso che de’ tuoi baci. Lascia sempre
un margine nella realtà, perchè la fantasia a sua posta vi lavori. Non
occorre che egli sappia _tutti_ i segreti della tua bellezza, nè ch’ei
viva sicuro di tutti i tuoi pensieri. Sii economa! sii economa! sempre
gli resti da _sperar qualche cosa_, sempre _qualche cosa a temere_;
perchè _timore_ e _speranza_ sono le due ali d’Amore.[214] Perfino i
tuoi baci, — sono dolci i tuoi baci, o Glicera! — ma perciò appunto
sian rari; e sempre chiesti; perchè il dolce soverchio sazia presto; e
le cose che si hanno senza chiedere, perdono presto di valore.

GLIC. Pur troppo lo vedo! 

ALCIB. (_ripetendo la frase di prima colla stessa inflessione dolce,
piana e calmissima_) Ti giovi l’esperienza! E non essere sempre in
pace con lui: una volta almeno la settimana cercagli querela e sta sul
tuo: perchè il cuore dell’uomo ha bisogno dei contrasti, e il sole non
par mai così bello, come quando ritorna dopo le nuvole della tempesta.
— Poi non istargli troppo ai panni: Licurgo, che se ne intendeva,
affinchè i mariti amasser le mogli, li obbligò a non trovarsi con esse
che molto di rado, e molto alla sfuggita;[215] metti il tuo Carmide
a mezzo regime di Licurgo. E sopratutto infine, se la gelosia ti
affligge, guardati dal lasciarla apparire: essa è la scopa che spazza
l’amore dal cuore dell’uomo: esso lo attira alle infedeltà più che il
latte non attiri le mosche.

GLIC. Per te ora parli... 

ALCIB. (_sorridendo_) Ti giovi l’es... 

GLIC. (_vivissimamente interrompendolo e alzandosi_) Basta!... 

ALCIB. (_alzandosi a sua volta_) E quando un giorno, mercè questi
consigli, ti troverai contenta e felice dello amore del tuo Carmide,
cresciuto alla prova degli anni, quel giorno ringrazierai Alcibiade di
averti procacciato, tuo malgrado, quelle gioje serene e vere, invece
del suo amore malfido e tempestoso; quel giorno, invece di piangere,
ringrazierai la fortuna di averlo conosciuto — e riconoscerai che
Alcibiade... (_fa una breve pausa, le si accosta e le dice all’orecchio
con volto sorridente e voce lenta e pianissima, appoggiando sulle
parole_) fu miglior maestro di Aspasia.

GLIC. (_asciugando un’ultima lagrima, e traendo un sospiro; poi,
riscotendosi risoluta in atto di avviarsi_) Addio! (_voci dall’interno
di convitati che arrivano_)

ANT. _ed altri_ (_dall’interno_) Alcibiade! Dov’è Alcibiade? 

ALCIB. Vengono i convitati. Leggiadra Glicera, vuoi restare con me,
e, come due buoni amici che si lasciano, suggellar meco la pace fra i
calici?

GLIC. (_vivamente_) Io?... Oh Alcibiade! tu sei maestro erudito, e
dopo aver distribuito la sapienza, ti svaghi subito col bicchiere; ma
io sono una povera scolara (_con accento ironico pronunciato_) e ho
bisogno di raccogliermi, per meditare sui profondi insegnamenti! Vedo
le ghirlande pronte: ma se sono una vittima, non è almeno in tua casa
che mi lascerò incoronare di fiori!... Addio!...

ALCIB. Parti? ove vai? 

GLIC. Ove Amore sia meno erudito, meno esperto; s’intenda un po’
meno di proverbj sapienti, e più si inebrj di ignoranze divine; meno
precetti di Licurgo abbia in mente, e in cuore più virtù; dove Amore
sia meno ambizioso di far invidia ne’ sogni agli Dei, e sia nelle
veglie più umano; meno prodigo di consigli e più leale... (_gesto di
Alcibiade che vorrebbe rispondere: Glicera rincalzando non glie ne
dà il tempo_) meno poeta e più generoso!... (_Alcibiade rimane tra
interdetto e confuso, mentre Glicera esce_).


SCENA II. 

ALCIBIADE solo; poi subito ANTIOCO, TRASILLO, altri convitati, indi
CIMOTO.


ALCIB. (_solo, appena uscita Glicera_) Povera fanciulla! Perchè urtar
nella ruota del destin di Alcibiade? Meritavi di meglio!... (_va
incontro ai convitati che entrano_)

ANT. (_entrando, ad Alcibiade_) Fummo puntuali? 

ALCIB. Grazie; grazie, amici. Mi è caro rivedervi e celebrare con
voi l’ultima orgia in Atene. Fra dodici giorni, ai 9 di Munichione
entrante,[216] si salpa per la Sicilia. Il tempo necessario per la
rassegna delle milizie e per gli ultimi preparativi della flotta.
Perciò — da domani — vita nuova. Il buontempone bisogna lasci il posto
al capitano. N’è vero, Antioco, mio compagno d’armi?

ANT. Certamente. 

ALCIB. Sia dunque viva e romorosa di queste ore la gioja — e che Venere
e Lièo le rallegrino de’ loro sorrisi, come se fosser l’ultime del
viver nostro. Perchè posa il futuro sulle ginocchia dei Numi:[217]
e non sappiamo se e quando ci sarà dato celebrare un’orgia simile al
nostro ritorno... Ma Socrate non è con voi?

TRAS. Lo incontrammo nel Pecile,[218] mentre avviavasi a casa... E lo
chiamammo che a noi s’accompagnasse... Non volle...

ALCIB. (_serio, e un po’ triste_) Socrate disapprova l’impresa...
Prevedevo che non sarebbe venuto. E me ne duole...

CIM. (_entrando_) Vengo io per Socrate![219] 

ANT. Oh! Cimoto il parassita! Chi t’ha invitato? 

CIM. (_con sussiego_) Dice il poeta: _Vien da sè Menelao_. 

ANT. Ma _non piacque ad Agamennone_.[220] 

CIM. Piaccio a mia moglie — e basta. N’è vero, Alcibiade, che Socrate
ed io... è lo stesso?

ALCIB. Sii il ben venuto, Cimoto, benchè non sia precisamente lo
stesso...

CIM. Oh, ma tra noi filosofi ci facciam procura. 

ALCIB. Tu filosofo? 

CIM. Certo. E ho sciolto un gran problema: il problema della vita. 

ALCIB. (_sorridendo_) Ah, intendo! 

CIM. I miei complimenti, Alcibiade! Il fumo della tua cucina[221] lo
si vede da porta Dipila[222] e m’ha fatto correre qui: _già il fumo
cerca i più belli_.[223] Alla distanza poi di mezzo stadio manda una
fragranza di anguille di Copaide, di raie arrostite e di beccaccie e di
uccelli del Fasi[224] (_annasando fortemente_) che è una consolazione.
C’è da far risuscitare tutti i morti gloriosi che dormono al
Cerámico...[225]

ANT. (_ridendo_) Dove tu non dormirai... 

CIM. Vi rinunzio!... Uh! uh! che fragranza! (_gira intorno per la
stanza annasando_)


SCENA III. 

Detti, BACCHIDE, LAISCA, EUFROSINE. 


BACCH. (_dall’interno con voce gaja, festosa_) 

    «Viva Bacco, dei cori festanti 
      «E dei balli e dei carmi l’autor!» 

ANT. Oh, l’allegra Bacchide! 

BACCH. (_proseguendo dall’interno e avvicinandosi_) 

    «Qua le tazze! di Bacco si canti, 
      «Il compagno di Venere e Amor!»[226] 

Salve Alcibiade! (_entra_) 

ALCIB. (_movendole incontro_) E che Venere e Bacco dunque ti guardino!
Sempre allegra la nostra Bacchide!

BACCH. Dovrei piangere? per far rider le Parche? 

(_Gli altri convitati circondano Bacchide, e s’intrattengono a
discorrer vivamente con lei, mentre entrano Laisca ed Eufrosine; a cui
Alcibiade va incontro_)

ALCIB. Gentile Laisca, bionda Eufrosine, e a voi pure Venere arrida,
poi che consentiste ad onorare quest’ultimo simposio d’Alcibiade...

LAISCA. I tuoi simposj sono una festa per noi. Atene sarà morta senza
di te.

ALCIB. (_galante_) Oh, no... finchè le Grazie vi abbiano dimora.
(_accennando a lei e alle compagne_)

EUFR. Temevamo esser venute in ritardo. 

ALCIB. Ed io temevo che l’amabile Eufrosine non venisse... 

EUFR. Oh, Eufrosine non serba rancori!... Ho sentito di Glicera...
l’hai già abbandonata anche lei?!

ALCIB. (E perciò non mi serba rancore. Carità femminina!) 

EUFR. (_insistente_) Confessalo!... l’hai già abbandonata?... 

ALCIB. Sì. Ci siamo amati troppo e troppo in fretta. Al contrario di
noi mortali, l’Amore — che è un Dio — per rinforzarsi ha bisogno del
digiuno. Un altro sogno che se n’è andato! La mia anima sorella non
l’ho trovata ancora!...

EUFR. E vuoi durare un pezzo a trovarla, mariuolo!... Povera Glicera!
glie l’avevo predetto!...

ALCIB. (_vivamente_) Oh, ma le fui fedele tutto un mese!... 

EUFR. Molto infatti! 

ALCIB. Eh! il giorno che gli Dei han voluto dare la fedeltà al cuor
d’Alcibiade, glie l’hanno data così! (_si stringono la mano_)

BACCH. Oh, sai, Alcibiade!... A momenti verrà Timandra. 

ALCIB. (_vivamente_) Verrà? verrà? 

BACCH. Me lo ha promesso. Su le prime, quando le ho fatto l’invito a
tuo nome, non voleva accettare.

ALCIB. Perchè? 

BACCH. Perchè la ti conosce appena, non ti ha parlato che una volta
o due in casa mia, e assai di rado ella accetta inviti. Non è una
etéra come le altre Timandra! Ha un cuor d’oro, ma le abitudini
aristocratiche. Quelle volte che vado io da lei, o vien ella da me,
formiamo il pajo più bizzarro a immaginarsi. Io allegra e vispa come
un cardellino sul ramo; lei pensierosa che pare mediti le dottrine di
Eràclito il tenebroso;[227] io alla buona con tutti, lei contegnosa
come una regina. Poi, un carattere!... di que’ caratteri risoluti con
cui non si scherza! Mah, che cuore! Per questo la si fa voler bene...
Oh, ma sai che sul tuo conto le debbono aver dato informazioni non
troppo buone?

ALCIB. (_scherzoso_) Davvero? possibile? 

BACCH. (_maliziosa_) E ci sono anche persone le quali pretendono che
non le sieno tutte calunnie...

ALCIB. (_sempre scherzoso_) Calunnie! Calunnie! 

BACCH. Fra le quali c’è anche una certa piccola Bacchide... 

ALCIB. (_c. s._) Tu?!... ma come dunque...?... 

BACCH. Ma la piccola Bacchide è buona, e senza che tu lo meriti troppo,
ti ha difeso; e gliene ha dette tante e poi tante in favor tuo, che, se
questa volta non l’ha fatta innamorare, giuro alla regina Venere[228]
che non è sua colpa... Basta! a furia di dirne la ho indotta finalmente
a venire...

ALCIB. (_complimentoso a Bacchide_) Venere forma oratori più facondi di
Nestore di Pilo...[229]

BACCH. Oh, parmi aver udito la sua voce... (_guardando verso l’interno
della scena, poi correndo incontro a Timand._) È lei!!! è lei! Vieni,
vieni, Timandra!


SCENA IV. 

Detti, e TIMANDRA.[230] 


EUFR. _e convitati_. Viva Timandra! 

BACCH. (_a Timand. presentandole Alcib._) Ti presento quel buon
soggetto del quale abbiamo discorso.

TIMAND. (_cortese ad Alcib._) Alcibiade, tu hai degli avvocati molto
eloquenti...

ALCIB. E verso i quali (_accennando Bacchide_) non potrò mai sdebitarmi
quanto basti, poi che a tanta eloquenza debbo la fortuna di veder
l’inclita Timandra entro le soglie dei penati miei... Alcibiade segnerà
questo giorno tra i felici, e fra tutti i presagi terrà questo il più
fausto alle sue armi...

TIMAND. Il tuo valore, Alcibiade, e l’amor della gloria, che solo crea
le forti imprese, ti saranno il miglior de’ presagi. Quando parti?

ALCIB. Fra dodici dì, col primo soffiar delle Etesie.[231] 

BACCH. Così presto? 

ALCIB. (_ai servi_) Su, su, ragazzi, servite le mense! (_i servi
portano le mense innanzi ai letti, una per ciascun letto, e sciolgono
quindi le calzature ai convitati che sovra i letti si adagiano —
circolano le vivande — Alcibiade con Timandra, seco discorrendo, va a
prender posto ad uno dei letti, il primo a destra_[232])

BACCH. (_dal suo letto ad alta voce_) Per le due Dee![233] tu fai male,
Alcibiade, a lasciarci! Che mai ti venne in mente di andar in Sicilia,
ad una guerra così lontana?!...

TIMAND. Sarà sempre men trista delle guerre che insanguinan la Grecia.
Tutti di un solo sangue, in Olimpia e a Delfo spargiamo di un solo vaso
d’acqua lustrale gli altari; intanto a Delfo si ostentano i trofei de’
Greci che si scannan fra loro:[234] e i nomi delle stragi fraterne vi
sono scritti col sangue di un milione di Greci: e il Dio siede in mezzo
ai nostri furori. (_con voce mestissima_)[235]

ALCIB. Lode ai Numi, s’io dunque, veleggiando per la Sicilia, recherò i
voti della bella Timandra con me...

CIM. (_ad uno dei servi che portano intorno le vivande_) Ehi là, amico! 

SERVO. Che c’è? 

CIM. Questa è la parte di Prometeo![236] (_mostrando il contenuto del
suo piatto_) Tutti ossi m’hai dato!...

SERVO. Ma è migliore la carne vicina all’osso...[237] 

CIM. Sarà benissimo; ma pesa troppo. Già che è la migliore, mangiala tu
per me. Guarda, io son discreto: m’accontento di questa... (_gli invola
rapidamente dal piatto un grosso pezzo di carne, rimettendovi gli
ossi_).

SERVO. Che fai? Dà qua subito, furfante... quella è la parte mia... 

CIM. No, no, per Mercurio! non far complimenti... Tienla per te,
quella lì è la migliore... Mangiala, mangiala per amor mio! (_si tira
il piatto dinanzi e manda via il servo, che parte minacciandolo coi
gesti_)

EUFR. (_dal suo posto chiamando_) Alcibiade! 

ALCIB. (_dal suo letto, interrompendo il discorrere con Timandra_)
Eufrosine!

EUFR. Per le Grazie te ne prego,[238] fa tacere questo nojoso di
Trasillo! (_additando il convitato che gli giace accanto_) Egli mi
parla sospirando come un mantice da fucina e mi minaccia della vendetta
di Venere,[239] perchè non do ascolto a’ suoi sospiri. Se di sospiri
potesse vivere una fanciulla, e s’ei tenessero posto delle miniere del
Laurio... costui m’avrebbe fatto la più ricca di quante _etére_ sono in
Atene.[240]

ALCIB. (_scherzevole_) Trasillo! Trasillo! tu pigli una via troppo
lunga per riuscire con la vaga Eufrosine!

EUFR. E non sa promettermi che serti di fiori come se anticipasse gli
onori al sepolcro di un morto.[241] Ma digli un po’ se si ricorda di
aver giurato regalarmi[242] per le feste degli Alòi[243] un bel monile
d’oro, e una veste cimbérica collo strascico e una tunica color di
croco?[244]

ALCIB. Il fulgor de’ tuoi occhi e il troppo amore, vezzosa Venere
bisbigliante,[245] fan perder la memoria...

EUFR. Meglio adunque che mi amasse un po’ meno!... Ma anche de’
giuramenti è lecito dimenticarsi?... Vedi!? a ciò non risponde...

CIM. Risponderò io per lui, col tragico Euripide: «_Giurò la lingua...
non la mente giurò._»[246]

EUFR. Ti pigli il malanno... te... ed Euripide! 

BACCH. Chi, chi, ha osato nominar Euripide? 

EUFR. Cimoto! 

CIM. E che male c’è? Povero Euripide! Gli voglio bene io! Gran poeta!
Gran concetti!

    Uom ricco, il qual non tenga in compagnia 
      A mangiar _gratis_ tre persone almeno, 
      In eterno perisca, e mai non sia 
      Che ricompaja della patria in seno![247] 

Che versi! che potenza! che versi! (_parla mangiando avidamente_) 

BACCH. Pregherò (_a Cim._) i corvi che ti mangino,[248] se nomini
ancora quel perfido diffamator delle donne![249]

CIM. Uh! uh! che collera! lo tratti ben male! 

BACCH. Ma sì, per le Tesmòfore![250] difendilo anche se hai coraggio! 

CIM. Che cosa ha scritto poi, in fin dei conti, delle donne?! Che sono
bugiarde, adultere, lascive, traditrici, pettegole, in cui non c’è
nulla di sano, grande sventura per gli uomini, maestre di iniquità,
vipere, peste delle case...[251] Che Giove mi fulmini se in tutte le
sue tragedie ha detto una sola parola di più!

BACCH. E ch’io non offra mai più colombe ad Afrodite, se non ti cavo
gli occhi, brutto muso!... (_alzandosi minacciosa contro Cimoto che fa
atto di scappare_)

ALCIB. (_trattenendola_) Pace, pace! bellissima Bacchide! E tu, Cimoto,
non seguir più oltre, che hai torto. Euripide sulle donne ne ha dette
dell’altre. Fu lui ad insegnare agli uomini il segreto per renderle
fedeli:... non uscire il giorno di casa, senza averle chiuse sotto
chiave; far cambiare di spesso le serrature agli usci, e tener cani
molossi di guardia per la notte...[252]

BACCH. Quel figlio di un’erbivendola![253] Abbasso Euripide! 

LAISCA. Sì, sì, abbasso Euripide! 

EUFR. E le Euménidi furenti se lo portin via... 

ALCIB. No, no... lasciam le Euménidi: poichè elle non amano il
vino;[254] e non si parli altro di Euripide, infelicissimo già tra i
poeti: poichè essere in odio alle Grazie è ben peggio che aver le Furie
nemiche. Pure, non toccherebbe alle Cariti pigliarsela coi figli delle
Muse...

BACCH. Già!... per l’aurea Venere![255] li rispetti molto tu i
figli delle Muse!... tu che, l’anno scorso, hai fatto fischiare
Aristofane...[256]

EUFR. E hai bastonato Taurea che guidava il coro nelle Nubi...[257] 

TIMAND. (_seria_) Vero, Alcibiade? 

ALCIB. (_vivamente_) Oh, non fu odio all’artista! fu ira del veder
posto Socrate in burla! Atene non sa chi sia Socrate; ma il pessimo,
l’insolente Alcibiade non mai soffrirà che in sua presenza s’insulti
colui che i Numi a ragion proclamarono il miglior dei mortali...[258]

BACCH. Ah, dunque Socrate ti preme più di noi... 

ALCIB. (_sorridente, appoggiando sulla parola_) Forse!...[259] Però
Evio Bacco, guidatore dei cori notturni,[260] preservi in teatro i
poeti da altre disgrazie, così come io qui giuro, per il giuramento
grande degli Dei,[261] che Alcibiade d’ora innanzi non batterà più
nessuno, fuorchè i nemici in guerra...

BACCH. No! per Aglauro![262] Ajutami a batter costui, che dice d’amarmi
e fa gli occhietti ad Eufrosine... (_additando il compagno che le sta
al fianco e che le parla calorosamente_)

ALCIB. Tu scherzi, vezzosa Bacchide! unghie di donna non abbisognan
di ajuti. Men terribili di esse le lancie di Ettore e del Pelìde. Ma
io m’accontento della gloria degli eroi di Omero... (_con esclamazione
repentina di entusiasmo volgendosi a Timandra_) Oh Timandra! gli eroi
d’Omero!...[263] Ettore furibondo che insegue Diomede e gli Achei...
_Quello, quello_ (_con forza_) è il mio sogno!... (_recita con enfasi i
versi di Omero, cercando ritornarseli a memoria_)

    «Ettór venia fra i primi, e gli occhi truci 
      «Mettean lampi e paura. E come veltro 
      «Terribile, se insegua velocissimo 
      «Lion fuggente od ispido cignale, 
      «A tergo il morde, e ogni sua mossa spia, 
      «Or le cluni addentando, ora la coscia: 
      «Così innanzi si caccia Ettore i capo —
      «Chiomati Achei, sugli ultimi piombando...[264] 

e... e... (_s’arresta sospeso, come frugando nella memoria_) 

TIMAND. (_vivissima_) Prosegui! 

ALCIB. Maledizione! non mi ricordo più... (_impazientandosi si volge
agli astanti_) Chi ha un Omero? chi mi dà un Omero...

ANT. I grammatici che han scuola qui rimpetto lo avranno... 

ALCIB. Chiamali! 

ANT. Oh, eccoli là sulla porta!... Ehi là! Grillione! (_chiamando
verso l’ingresso_) Vengono correndo! (_intanto Alcibiade passeggia
vivamente su e giù per la sala masticando parole, — gli altri seguitano
a discorrere_)


SCENA V. 

Detti, e due GRAMMATICI. 


1.º GRAMM. Salve, figlio di Clinia! 

ALCIB. (_secco, impaziente_) Hai un Omero? Dallo qua... 

1.º GRAMM. Oh mi rincresce, Alcibiade, non ne ho.[265] 

ALCIB. (_battendolo_) Non hai Omero, e fai il maestro? 

1.º GRAMM. (_dibattendosi_) Ahi! ahi! 

2.º GRAMM. Io l’ho! io l’ho![266] (_interponendosi_) Calmati,
Alcibiade!... Eccolo... (_gli dà un rotolo_)

ALCIB. Ah! (_calmandosi lascia andare il primo maestro che si tasta
indolenzito la persona; strappa bruscamente di mano al secondo il
rotolo, lo spiega, lo sfoglia e a un tratto s’arresta_) Che cosa sono
queste cancellature e queste note in margine?...

2.º GRAMM. (_sporgendo dietro di lui il capo e gettando l’occhio sulle
carte con aria di sussiego e compiacenza_) Ah! sono passi di Omero che
ho corretto e migliorato. Là in margine vedrai le note per dimostrare
i miglioramenti fatti... Già, quel buon Omero qualche volta è un po’
barbaro...

ALCIB. (_guardandolo fra sorpreso e sardonico_) Ah! 

2.º GRAMM. Per esempio, quel passo dove Ettore si distacca da Andrómaca
alle porte Scee, e dopo aver baciato il pargoletto Astianatte, lo
restituisce alla sposa:

    _Ciò detto, pose in braccio alla diletta_ 
    _Consorte il bimbo; ella il raccolse al seno,_ 
    _E lagrimosamente sorridea._[267] 

Ma ti pare! È un controsenso! O piangere o ridere! Per essere più
sicuro, io non l’ho fatta nè ridere nè piangere: e ho tagliato il
passo. «_Ciò detto, andò via._» Eh? (_con aria di soddisfazione
prosuntuosa_)

ALCIB. E lo reciterai così corretto nelle feste Panatenee?[268] 

2.º GRAMM. Sicuro. 

ALCIB. (_velatamente ironico_) E Atene non ti ha ancor dato, a te che
correggi Omero, nessun ramo d’ulivo,[269] nessuna ricompensa?

2.º GRAMM. Finora nessuna... 

ALCIB. È la sorte del genio! E ridi? (_sospirando e guardando con aria
benevola il maestro, che ingannato sulla intenzione di lui, sorride di
compiacenza_) Allora... piglia questa! sfacciato! (_Gli assesta un pajo
di pugni_)

2.º GRAMM. Ajuto! ohimè! 

CONVITATI. (_ridendo_) Ah! ah! 

ANT. Che fai, Alcibiade? (_trattenendolo_) 

ALCIB. Vendico Omero! (_i due maestri spaventati sono scappati via_) —
e mostro a costui che si può ridere e piangere insieme.

TIMAND. (_alzandosi e accostandosi calma e seria ad Alcibiade_)
Alcibiade?! (_Alcibiade la guarda con aria interrogativa_) Tu hai fatto
scrivere sulla colonna che gli Spartani violano i giuramenti...[270] Ma
gli eroi d’Omero li rispettavano! La tua azione è da spergiuro.

ALCIB. (_risentito_) Timandra! 

TIMAND. Gli eroi d’Omero non inveivano contro i deboli. La tua azione
non è da uomo prode... (_esclamazione di risentimento di Alcibiade; ma
la fermezza severa di Timandra lo domina: Timandra gli si accosta e gli
parla a voce più bassa e risoluta_) Per gli Dei! Ritorna Alcibiade!
(_fa cenno ella stessa ad un servo, senza attendere la risposta di
Alcibiade_) Richiama quei due! (_al servo_)... Non abbiate paura!...
(_ai due maestri che rientrano paurosi, spingendosi innanzi a vicenda
e cercando appiattarsi l’un dietro l’altro_) Alcibiade vuol dirvi
qualcosa (_guarda fisso Alcibiade, che l’ha lasciata fare, restando
silenzioso e immobile_)

ALCIB. (_riscotendosi_) Infatti! Passate dal mio maggiordomo.[271] Vi
darà duecento dramme a testa...

CIM. (_interloquendo comicamente serio_...) Per farvi raggiustar le
ossa...

ALCIB. (_con un’occhiata minacciosa lo fa tacere_...) Perchè vi
comperiate un Omero per ciascuno...

I DUE GRAMM. (_vivissimamente_) Oh grazie... 

ALCIB. (_imperiosissimo interrompendoli_) Silenzio!... (_i maestri
s’avviano ad uscire, Alcibiade li richiama della voce_) Ehi! (_i
maestri tornano indietro: Alcibiade soggiunge con voce imperiosa,
rivolto al correttor di Omero, che precede il suo compagno_) Senza
note!

2.º GRAMM. (_si inchina vivamente, e gesticola in segno di promessa
e d’obbedienza: poi nell’andarsene dà sulla voce all’altro maestro
che è già per uscir dalla porta, facendogli la girata del comando di
Alcibiade_) Ehi! (_l’altro maestro si volge alla chiamata_) Senza note!
(_esce col compagno_)


SCENA VI. 

Detti, meno i GRAMMATICI. 


ALCIB. (_si volge a Timandra e le stringe cordialmente la mano_)
Grazie, Timandra!... (_fra sè_) (Strana donna! È curioso! Mi par di
subire un fascino che non ho subito mai!...) (_Odesi in questo punto
uno squillo di tromba dallo interno della scena_)

ANT. Alcibiade! la tromba! a momenti è l’ora della rassegna delle
milizie[272] nel Liceo![273]

ALCIB. Or su dunque, l’ultimo calice! poichè stiam per separarci e
laggiù forse ne aspetta la Parca di lunghi sonni apportatrice.[274]
Si colmino le tazze, e giri nel calice dell’amicizia[275] il vino
puro,[276] la ricompensa che il buon Genio ne dà...[277]

ANT. Che il marino Nettuno[278] propizii alle triremi dia i venti ed i
flutti...

BACCH. E ricco di spoglie e di allori ti riconduca al Pireo! (_Un
dei servi reca un cratere d’oro da cui versa per una canna d’argento
il vin puro. Entran due giovinette suonatrici di flauto e di cetra
inghirlandate. Intanto altri servi portano via le tavole, recano ai
convitati le corone di rose e di mirto,[279] dan l’acqua alle mani,
spargon di fiori e di unguenti il suolo. Portano quindi in mezzo la
seconda mensa su cui vien posto il cratere del vino_)[280]

ALCIB. Al buon Genio![281] (_Alcibiade fa questa libazione, dopo
aver versato una parte del licore a terra; bevuto, passa il calice a
Timandra, e via di seguito in giro_)

CIM. (_quando il calice è giunto a lui_) Al ritorno di Alcibiade! Che
Giove salvatore[282] lo protegga e gli dia gli anni della fenice,[283]
per amor di Cimoto il parassita, il quale al suo ritorno vuol bere
ancora un po’ di questo vino di Chio![284]

ALCIB. (_d’un tratto volgendosi all’udir Cimoto_) Cimoto! in Sicilia ve
n’è del migliore...

CIM. (_sospirando_) Lo so. 

ALCIB. E dicono che le torte di Sicilia, inventate da Gelone,[285] sono
squisite...

CIM. (_mandando di nuovo un sospirone_) Infatti, me l’hanno detto...
E... (_s’arresta, come chi vorrebbe domandar peritante qualche cosa_)

ALCIB. Che cosa? 

CIM. E... a che distanza tirano gli archi dei Siracusani? 

ALCIB. A uno stadio.[286] 

CIM. Per cui... (_con gesto e volto maliziosamente interrogativo_)...
a uno stadio e mezzo... (_Alcibiade lo guarda sorridente_)... due al
più...?

ALCIB. Fa conto! (_Cimoto si allontana correndo per uscire_) 

BACCH. Oh, Cimoto! dove corri? 

CIM. Al Liceo, alla rassegna delle milizie. 

BACCH. Tu? e quando ci vediamo? 

CIM. (_con gravità comica_) Quando?... quando avremo conquistata la
Sicilia!... (_esce con passo e portamento comicamente marziale_)


SCENA VII. 

Detti, meno CIMOTO. 


ALCIB. (_sorridente_) Ecco un eroe! 

EUFR. Ora Alcibiade, devi compiere il rito. Su, su, la canzone del
convito![287]

BACCH. La canzone di Bacco! la canzon delle etére! 

TIMAND. No! quella di Armodio! la canzon degli eroi! 

ALCIB. A me il ramo di mirto![288] (_tiene il ramo di mirto nell’una
mano, mentre declama l’Armodio_)

    Portar voglio il brando di mirto abbellito 
      Siccome già Armodio quel giorno il portò, 
      Ch’ei spense il tiranno, di Palla nel rito, 
      E libera Atene dal giogo tornò! 
    No, Armodio, tu morto non sei! Diomede 
      Ti accolse ed Achille dal celere piè: 
      Con lor dei beati nell’Isole hai sede, 
      E sempre la terra favella di te![289]

(_nel proferir l’ultimo verso, Alcibiade, come improvvisamente
rattristato, si interrompe, getta via il ramo di mirto, e si volge
melanconico a Timandra_) Timandra, non ti pare che la terra abbia già
favellato abbastanza di Armodio? Questo Armodio mi annoja...

TIMAND. A te, figlio di Clinia, il farle cambiare argomento. La Sicilia
ti aspetta...

ALCIB. Oh Timandra! per compir quanto basti a vivere eterno ne’ carmi,
a me manca ciò che Armodio avea... (_sospirando_) Fortunato Armodio!...
Più fortunato che eroe!

TIMAND. Perchè? 

ALCIB. Perchè ebbe una donna che lo amò tanto da sacrificarsi per
lui.[290] Oh! quando si può essere amati così, non costa nulla l’essere
grandi!

TIMAND. E amato non lo sei... tu? 

ALCIB. (_serio_) No. 

TIMAND. Vuol dire che non hai amato mai. 

ALCIB. Timandra!... ti hanno parlato ben male di me. 

TIMAND. Oh, me l’hanno detto, che, mentre amasti Teódota, in prova
d’amore, vincesti per lei tre corone — poi la abbandonasti: era
vanagloria, non amore; che mentre amasti Glicera, ed ella fu inferma,
tu vegliasti un mese al suo letto — poi l’abbandonasti; era rimorso di
coscienza, non amore...

ALCIB. E che cosa è egli dunque, per gli Dei? 

TIMAND. Io... non lo so; ma tu vai in Sicilia, e là visse ad Iméra un
poeta[291] che deve averlo saputo. Sempre, quando son mesta, una sua
pagina antica mi ritorna nel core.

    Amor non è raggio di vampa fallace 
      Che scherza e si muta coll’Iri nel ciel: 
      Amor non è il perfido fanciullo procace, 
      Sleal, se combatte, — se vince, crudel. 
    Magnanimo è Amore: non conta con boria 
      Le povere vittime ch’ei seppe tradir: 
      È forte, e disprezza la facil vittoria; 
      È altero, e per vincere, disdegna mentir. 
    Non calcola l’ore, nè i passi misura, 
      Non veglia agli agguati composto a virtù: 
      Non guarda, non medita, non ciarla, non giura, 
      Va innanzi alla cieca — non cerca di più. 
    Non narra le penne tarpate dell’ali... 
      _Le trova_ e si libra nell’etere e va: 
      Non piange i sognati contesi ideali... 
      Ai sogni li strappa — viventi li fa. 
    E anela alla gloria, bellissima stella, 
      Ma pura, ma scevra d’ogn’empio baglior: 
      E cerca la fronda di quercia più bella 
      Per farne più sante le gioie del cor. 
    È audace, ed un nulla gli mette spavento: 
      È timido, timido, ma tutto sa osar: 
      Mai nulla domanda, di un nulla è contento: 
      Mai nulla promette — ma tutto sa dar. 

(_Timandra dice questi ultimi versi con espressione di voce lenta,
affettuosa, guardando Alcibiade che è venuto avidamente seguendola_)

ALCIB. (_avvicinatosi a Timandra le parla quasi all’orecchio, con
espansione viva ed inflessione lenta, soavissima di voce_) E questo è
il Dio Amore che tu adori? dev’essere ben dolce l’adorarlo con te! —
(_Squillo di tromba_)

ANT. Alcibiade, il secondo squillo!... Alla rassegna! alla rassegna! 

ALCIB. Maledizione! vengo... 

BACCH. Alcibiade, io ho una piccola agnella tutta nera: vo’
sacrificarla alle due Dee, perchè l’anno prossimo celebriam teco il tuo
ritorno e la tua vittoria...

EUFR. Ed io alla cipria Venere immolerò due candide colombe... 

ALCIB. (_esitante a Timandra_) E tu... Timandra...? 

TIMAND. Io...? Io ti seguo... 

ALCIB. Dove? 

TIMAND. In Sicilia. 

ALCIB. Tu! 

TIMAND. Per veder co’ miei occhi se sai fare qualcosa di meglio che
battere i deboli...

ALCIB. (_con voce di rimprovero affettuoso_) Timandra!... per questo?... 

TIMAND. E per recarmi ad Imera a depor teco una corona sulla tomba del
mio poeta...

ALCIB. (_con iscoppio repentino di voce e di gioja interrompendola
e stendendole le braccia_) Oh! per i Numi! Timandra vieni! e non ti
scostar più dal mio fianco!...

ANT. (_a Tim_.) Tu sarai il genio della vittoria! 

ALCIB. Che parli di vittoria?! Laggiù gli allori!... qui... non sono
che un vinto!

(_In proferir queste parole accoglie nelle braccia aperte Timandra, e
la stringe amorosamente al seno_.)


  CALA LA TELA.




QUADRO QUARTO 

                     _Anno_ 415 _av. l’Era Volgare_

                                SICILIA

  Campo di battaglia sulla spiaggia tra Catania e Siracusa — Parte
    appartata del Campo — In fondo il mare — Escursioni.


SCENA PRIMA. 

DUE SOLDATI SIRACUSANI, poi altri SOLDATI. 


(_all’alzarsi della tela entrano fuggendo da parti diverse_) 

1.º SOLD. (_correndo_) Di qua! di qua! Viene Alcibiade! 

2.º SOLD. (_c. s._) Fuggono tutti i nostri?[292] 

1.º SOLD. E alla dirotta. Tempesta Alcibiade nelle prime file. Dovunque
irrompe fa strage. Niente resiste innanzi a lui. Numi! che folgore di
guerra! Di qua! di qua! (_fuggono entrambi_)

ALTRI SOLDATI SIRACUSANI (_traversano sparsi la scena_) Viene
Alcibiade! fuggiamo! fuggiamo! (_escono di scena fuggendo_)


SCENA II. 

CIMOTO. 


(_Entra armato da soldato ateniese di fanteria leggera_ — τοξότης[293]
— _trafelato, sudante per il correre e la pinguedine. Si siede sur un
masso, rasciugandosi il sudore_)

CIM. Auff! Gran brutto mestiere la guerra! Se non ci fosse quel po’
di gloria attaccata, non varrebbe proprio la pena di farsi alunni di
Marte. Non ne posso più. Da due ore non ho preso cibo! (_cava da una
bisaccia ad armacollo[294] una gallina cotta_) e non mi resta che
questo avanzo di stamattina! Uff! Che mestiere! (_addenta la gallina,
poi, tra una boccata e l’altra, ripete:_) Se non ci fosse quel po’
di gloria! e questo po’ di vin di Siracusa! (_cava dalla bisaccia
una fiala e beve, facendo scoppiettar la lingua e assaporando_)...
Che caldo! (_si ripassa la mano sulla fronte asciugandosi il sudore_)
Ecco finalmente come è fatto quello che chiamano il sudor nobile! per
Minerva! mi par lo stesso di quell’altro!... (_continua mangiando e
parlando fra sè, tra un boccone e l’altro_) Vediamo un po’, Cimoto;
tu hai lavorato per la fama, oggi; e puoi essere contento di te. Il
padrone[295] ne ha compiute delle gesta, ma anche tu non hai scherzato!
Già, i Numi non per niente appajano i simili co’ simili![296] Se
mi vedesse la mia Filumena, che mi gridava sempre: «Va a fare il
ramifero,[297] vecchio Cecropone,[298] buono a niente!» — Eh, sì!
il ramifero adesso è diventato un guerriero! Ma!... chi avrebbe mai
indovinato che qua dentro (_si picchia la testa_) ci fosse nascosto
l’istinto della gloria! (_addenta la gallina_) E questa armatura che
aria mi dà! (_si alza, si osserva da capo a piedi con compiacenza,
facendo due o tre passi e piantandosi in atteggiamento marziale_)
Non mi manca più che la corona di quercia del valore e la mia brava
iscrizione sulle Erme...[299] ... Oh! ma l’avrò anche quella... oh!
sì che l’avrò... (_a questo punto è interrotto da un forte starnuto_)
Ecco la prova!... Questo starnuto di buon augurio vuol dire che gli
Dei me l’assicurano...[300] e... (_sternutando di nuovo si ricopre
coll’elmo il capo_) che non bisogna stare scoperti quando si è
sudati... E quando torneremo ad Atene, tutti mi guarderanno a bocca
aperta. — «Mira Cimoto! Come? è quello il parassita Cimoto? che faccia
abbronzita! che portamento marziale!» — E io dritto, serio, marcerò in
capo di fila, facendo le finte di non sentir nulla! Eh, sì, sicuro!
i miei cari Chiechenei![301] Il parassita Cimoto che sotto i portici
e nell’agora[302] vi facea fuggire per la paura di vedervelo venir a
pranzo, adesso, invece, — oh, per Ercole! mette in fuga le falangi
di Siracusa... mette in fuga... (_entrano altri soldati siracusani
fuggendo e traversando la scena_).

SOLDATI SIRACUSANI. Salva chi può! 

(_Cimoto lascia cadere a terra il resto di gallina e scappa precipitoso
con loro._)


SCENA III. 

ALCIBIADE e CIMOTO. 


(_con Alcibiade entrano soldati ateniesi che traversano lo sfondo
inseguendo i Siracusani_)

ALCIB. (_entra dalla parte opposta a quella da cui fugge Cimoto coi
Siracusani — e vedendolo fuggire gli dà sulla voce da lontano, mentre
Cimoto è già per rientrar nelle quinte_) Cimoto! Cimoto!

CIM. (_si ferma di botto udendo la voce di Alcibiade e ritorna
rassicurato verso di lui, mandando un sospiro di sollievo_) Ah!... sei
tu!

ALCIB. Da un quarto d’ora ti cerco. Dove correvi così? 

CIM. Per Giove fuggitivo![303] inseguivo i nemici! (_corre intanto a
raccattare furtivamente il resto di gallina da terra, e se lo ripone
in bisaccia_) Sai che il tuo valore è contagioso e m’ha messo in corpo
un ardore... Guarda come fuggono quelle lepri!... Eh! (_con gesto di
minaccia verso la parte da cui fuggivano i Siracusani_) Se tu non mi
chiamavi...

ALCIB. (_secco e serio_) Basta! basta! Lasciali fuggire! 

CIM. Già, già... poichè lo vuoi... (_minacciando ancora del gesto nella
direzione dei fuggenti_) Ma... l’han scappata bella!...

ALCIB. I nostri han già messo il campo. Va ad avvertir Nicia e Lamaco
che io qui li attendo. (_Cimoto si avvia; Alcibiade lo richiama_)
Aspetta!... Avvicinati. (_gli parla serio, grave, a mezza voce_)
L’equipaggio della mia nave è a terra?

CIM. Sì, almeno tutti i _tranìti_. Gli _zigìti_ e i _talamj_ sono a
bordo ancora.[304]

ALCIB. Dirai al piloto che subito imbarchi anche gli altri e porti la
trireme al largo, pronta alla partenza. Poi mi mandi qui alla spiaggia
uno schifo. (_Cimoto fa segni di stupore_) Nessuno stupore. Di là
ti reca alla mia tenda ad avvertir Timandra... e se vuoi seguirmi...
preparati ad imbarcarti con lei e con me.

CIM. (_sempre più attonito_) Ma... 

ALCIB. (_impazientito_) Che cosa aspetti? Va. 

CIM. Vado... (_osservandolo nell’allontanarsi_) Che sorta di enigma è
mai questo? Dei! che faccia scura! (_esce_)


SCENA IV. 

ALCIBIADE solo, poi TIMANDRA. 


ALCIB. (_con voce di amarezza profonda_) La vittoria è mia... (_si cava
un rotolo di sotto la tunica_) e questo è il compenso!... Dinanzi a me
la Sicilia, l’Italia, Cartagine, la Grecia aperte alle mie armi e alla
conquista, — dietro le mie spalle la calunnia, l’invidia codarda che
mi strappano al mio sogno di gloria mentre sto per tradurlo in realtà.
Combatto per rendere grande Atene... e Atene mi richiama!... Stolto!
e io sognavo di essere più fortunato di Milziade, di Temistocle, di
Aristide, di Cimone! Anch’essi portarono ad Atene trofei... ed Atene li
ricambiò coll’esilio!... Ma essi almeno avean già condotto a termine
grandi cose — la loro gloria era già assicurata — l’ostracismo non
poteva che renderla più luminosa e più pura... (_con gesto e voce di
rabbia stringendo il pugno_) Io... io non ho ancora fatto nulla per
la fama!... È la gloria che mi si strappa! Che cosa è la patria per me
senza la gloria!...[305] (_stringe e spiegazza con moto convulso fra le
mani il rotolo, poi legge, con accento lento, sarcastico, amarissimo_)
«PITÓNICO, DIÓCLIDE, TEUCRO TI ACCUSARONO DI AVER PROFANATO I
MISTERI,[306] MUTILATE LE ERME:[307] E DI AVER SEGRETE INTELLIGENZE
CON ISPARTA[308]. FOSTI DANNATO NEL CAPO E NEI BENI.[309] LA NAVE
SALAMINIA[310] È SPEDITA A RICHIAMARTI SOTTO MENTITO PRETESTO. TESSALO
PORTATOR DEL MESSAGGIO. PROVVEDI A’ CASI TUOI...» (_interrompendo la
lettura_) Onesto Tessalo! La tua mano non poteva mancare qui dentro!
O gli Dei sono ingiusti che a tuo padre, Cimone, disonorano con simile
prole il sepolcro, — o tu, ombra di Cimone[311] perdonami, hai qualche
colpa ignorata da espiare colla ignavia di costui!... No, no, sono
ingiusti i Numi!... (_riprende a leggere, sedendo sur un masso_) «I
SACERDOTI TI HANNO SCAGLIATO L’ANATEMA...»[312] (_interrompendosi
di nuovo con sarcasmo_) Mestiere di questa gente! non sa far altro!
«MA TEANO, LA GIOVINE SACERDOTESSA DI AGRAULO...»[313] (_ancora
interrompendosi mesto_) Povera Teano!...

TIMAND. (_è entrata da qualche tempo in iscena, non vista da Alcibiade;
porta la corazza sopra la tunica femminile, e l’elmo in testa, disotto
al quale le sfuggono i capelli ricadendo sciolti sulle spalle:
ha osservato Alcibiade per alcuni istanti con aria tra il mesto e
l’affettuoso, se gli è avvicinata, e standogli dietro si china su
di lui seduto e gli cinge con un braccio il collo, mentre continua
ella stessa con voce affettuosa e dolce la lettura_)... LA GIOVANE
SACERDOTESSA DI AGRAULO[314] RICUSÒ, DICENDO OFFICIO DELL’ALTARE
BENEDIRE E NON MALEDIRE!»

ALCIB. Timandra![315] 

TIMAND. (_con voce lenta, dolcissima_) Tu vedi, Alcibiade, che _non
tutti_ i sacerdoti bestemmiano i Numi!... Alcibiade, fu santa la
risposta di costei: compenserebbe essa sola il bando d’Atene. M’avean
detto in Atene che un dì tu l’amasti, la giovane Teano...

ALCIB. Io? 

TIMAND. Mi fu detto. Vi è male in questo?... 

ALCIB. Fu il sogno purissimo di un’ora, nel mattino de’ miei dì. Tutta
la sua storia fu... un bacio. Ci vedemmo, ci separammo. Io mossi ad
Olimpia, ai grandi clamori della vita. Ella all’altare. Povero giglio!
Non lo toccai. Era troppo puro per me.

TIMAND. (_con accento di rimprovero_) Sei _cortese_, Alcibiade!... 

ALCIB. O Timandra, perdona! Non il cuore ti offese. Ma tu sei forte, e
la tua anima è ardente come il sole di Grecia. Queste febbri, che sono
la mia vita e la tua, non erano per quel gracile fiore. (_prendendole
una mano, con voce affettuosa_) Era un giglio; tu la rosa superba...

TIMAND. Adulatore... 

ALCIB. (_con voce mesta e commossa_) Povera Teano! Il giorno che
partii, mi dissero ch’ella era inferma, e non potei salutarla. Dal
suo letto di dolore si è ricordata di me. Oh, sì, Timandra, hai
ragione! tutte le maledizioni sacerdotali non valgono questa unica voce
d’amore! La voce d’una fanciulla pietosa... ecco tutto ciò che resta ad
Alcibiade della sua aura popolare e dell’amore di Atene!

TIMAND. Alcibiade, questo scoraggiamento non è degno di te. Oggi mi
hai fatto di te andar superba, quando ti vidi irrompere come leone nel
folto della mischia!... Oh, eri bello, eri grande nella vittoria!...
Siilo ora nella sventura!

ALCIB. (_cupo_) Grande?... Chi sa!... Timandra, ascolta. Mi ami tu
sempre?

TIMAND. Lo chiedi? (_baciandolo in fronte_) 

ALCIB. Ebbene, — là in Atene — te ne ricordi? — fosti tu che chiedesti
di seguirmi. Oggi è Alcibiade che lo domanda a te. — Non ho vergogna di
confessarlo: ma sento che con te affronterei più ardito il mio destino.
Una sorda tempesta rugge qui dentro (_porta la mano alla fronte_):
mille pensieri confusi vi combattono una triste battaglia. Pavento di
me. Timandra, vuoi tu accompagnarmi _ovunque_ io ne vada e dividere
meco la sorte?

TIMAND. Alcibiade, per la prima volta, da che ci demmo promessa
d’amore, hai per me dei misteri. Mi fai temere. Che pensiero è il tuo?

ALCIB. Oh, non domande! per ora. Rispondi. Vuoi tu seguirmi? 

TIMAND. Sì... e dovunque... in capo alla terra... tra le fiamme e tra
le spade...[316]

ALCIB. Grazie! 

TIMAND. (_terminando la frase e poggiando sulle parole_)... fin che
Alcibiade sia degno di Alcibiade.

ALCIB. Più tardi, più tardi lo saprai. 

TIMAND. No, no, per gli Dei Immortali, dimmi... 

ALCIB. (_vivissimo_) Dirti che cosa? Che l’ora del destino di Alcibiade
è suonata e la man di un codardo non la arresterà. Sali sulla mia
trireme. Cimoto ha i miei ordini. Fra breve ti raggiungerò. Va, va
presto! Qui giungono i capi.

TIMAND. Addio. (_si allontana pur volgendosi a guardarlo, e scrollando
mestamente il capo_) Oh, tristi presagi del core!


SCENA V. 

ALCIBIADE solo, poi subito LAMACO, ANTIOCO, EUFEMO, indi soldati
ateniesi.


ALCIB. (_appena uscita Timandra, prorompe con voce tonante di collera_)
Ora della gloria mi fuggi? Venga dunque l’ora della vendetta! (_al
sopraggiunger di Lamaco e degli altri, immediatamente si padroneggia e
va loro incontro colla massima calma_)

LAM. (_entrando precipitoso e impetuoso_) Salve, valoroso Alcibiade!
Nicia è alle navi.[317] Ebbene, che è questo? La nave Salaminia è
ancorata nel porto.

ALCIB. (_calmo_) Lo so. 

LAM. E Tessalo ne è disceso... 

EUF. Con un messaggio per te... del popolo... 

ALCIB. (_sempre calmissimo_) Che mi richiama. Lo so. 

LAM. Oggi! il giorno stesso della vittoria? 

ALCIB. Appunto. E sai tu, prode Lamaco, di che sono accusato? 

LAM. (_concitatissimo_) Ne corre una voce pel campo — ma non può essere
vera...

ALCIB. (_c. s._) Anzi, è verissima. Sono accusato di profanazione de’
misteri e di intelligenze con Isparta.

EUF. _e_ ANT. Che?! 

LAM. (_con impeto_) Ma è un’infamia questa! 

ALCIB. (_colla massima calma_) Oh, buon Lamaco, sotto la vôlta del
cielo vi può star questa... e delle altre! Tu sei un soldato leale
e valoroso: io, più giovine, ho imparato da te come si combattono i
nemici: ma io, forse, conosco gli uomini meglio di te. La tua anima
generosa, che non sa cosa sia invidia, nè menzogna, usa a guardar di
fronte i nemici, ignora che vi sono altri metodi di guerra, coi quali
si va innanzi più presto e si vincono le battaglie più sicuramente
che in campo... Impara, impara, Lamaco!... Non per niente, tu, il più
vecchio, il più bravo... e il più ingenuo dei nostri capitani, sei
rimasto l’ultimo in grado!

LAM. (_impetuoso_) Ma tu che conti di fare? 

ALCIB. Quel ch’è naturale. Ottemperare al richiamo. 

LAM. Ma qui ci son io... qui siamo in molti a difenderti... 

EUF. e ANT. Sì, sì, Alcibiade! 

LAM. Ed io, per gli Dei, posso costringere l’inviato a rifar la sua
strada!

ANT. Se tu parti, anch’io parto... 

ALCIB. No, no, amici, non fate nulla. Tu, Antioco, resta co’ tuoi. Tu,
ottimo Lamaco, non far violenza all’inviato. Ti comprometteresti in
faccia ad Atene. Se vittime ci hanno ad essere, basta una sola.

SOLD. ATEN. (_entrano correndo alla rinfusa_) 

1.º SOLD. Alcibiade, non vogliamo che tu parta! 

2.º SOLD. Se tu parti, partiamo anche noi! 

LAM. Li senti? 

ALCIB. (_forte ai soldati_) No, amici! In nome dell’affetto che ci
lega, seguiamo tutti e ciascuno la via del dover nostro. Io provvederò
alle mie difese. Voi restate alle vostre bandiere. I Numi, testimoni
e campioni della mia innocenza,[318] veglieranno su me! Lasciate agli
accusatori la responsabilità della loro opera — e pregate gli Dei che
essa non pesi su Atene.

VOCI DEI SOLD. Viva Alcibiade! 

ALCIB. Ed ora — venga l’inviato. 

LAM. (_brusco e cupo_) È qui. 


SCENA VI. 

Detti e TESSALO. 


ALCIB. (_movendogli incontro calmo e sorridente_) Salve, Tessalo! Molte
cose sono cambiate, sembra, dall’ultimo dì che ci vedemmo.

TESS. Molte infatti. Alcibiade, il popolo ateniese ti prega di venire a
discolparti delle accuse contenute in questo foglio. (_gli consegna un
rotolo_)

ALCIB. (_sempre sorridente e calmo_) Mi prega?... Il popolo ateniese è
molto cortese con me.[319]

TESS. Oh, esso spera, esso è certo che tu potrai discolparti... 

ALCIB. (_con ironia sempre dissimulata_) Ah! ed è per questa certezza
che mi si obbliga ad abbandonar le schiere! Anche tu, n’è vero,
Tessalo, ne sei certo? E la tua parola non avrà mancato di alzarsi in
mia difesa..

TESS. (_imbarazzato_) Sì..., Alcibiade... 

ALCIB. Bene hai fatto, per Ercole! (_con ironia coperta_) Te ne
compensino i Numi! Vedi qui che cosa mi consigliavano? Lamaco, un prode
guerriero incanutito sui campi della Calcidica e del Peloponneso,
dove tu, o Tessalo, non c’eri; Antioco, il leale ateniese altero
della corona di quercia, guadagnata a Mantinea, dove, o Tessalo, non
ti vidi; tutti costoro che oggi han rotto le coorti di Siracusa su
questo campo dove, o Tessalo, giungesti un po’ tardi, — tutti costoro
mi han consigliato a non partire e han messo le loro spade a mia
disposizione!... Tu (_con calma ironica_) che mi consigli, o Tessalo?

TESS. (_confuso, guardandosi intorno, spaventato dalle facce scure e
minacciose dei capitani e soldati_) Alcibiade...

ALCIB. (_vedendo la sua paura, lo tranquillizza con calma sardonica_)
No... no... rassicurati. Io li ho sconsigliati. A Nicia ed a Làmaco
ho già ceduto il comando e i miei trierarchi[320] hanno ordine di
non obbedir più che a loro. Mi arrendo all’invito... e ti seguo...
(_s’arresta, sospendendo la frase_)

TESS. (_rifattosi d’animo_) Nobile atto!... 

ALCIB. (_completando la frase e poggiandovi sopra_) ... sulla mia nave... 

TESS. (_sconcertato_) Perchè non sulla Salaminia? 

ALCIB. Mi ci trovo meglio! È la mia nave il mio tribunal di
Freatte![321] Tu non hai nulla in contrario, n’è vero, buon Tessalo?
poichè tu non diffidi di me, tu sei certo che io mi discolperò...
(_con ironia dissimulata sempre_) tu sai che non per nulla, innanzi
di bandir l’accusa, avrà imprecato l’araldo a quei che ingannano
i giudici...[322] Va dunque tu innanzi colla Salaminia: ti verrò
dappresso sulla nave mia. Mandai per uno schifo che mi rechi a bordo...
Oh, eccolo già... (_approda il palischermo_) Addio, prode Làmaco!
Antioco, Eufemo compagni d’arme, addio. (_con voce profondamente
commossa_) Triste il lasciarci nel dì della vittoria! Ma lo vuole
Atene... Che le sue Dee venerande[323] vi siano propizie... Addio...
(_Capi e soldati gli fan ressa intorno per istringergli la mano, con
tacito dolore; imbarazzo e rabbia di Tessalo, per forza dissimulata in
silenzio_)

LAM. Non addio! A rivederci, prode Alcibiade! 

ALCIB. Chi sa?... Domandalo al Fato... e a costui. (_Addita Tessalo:
stringe la mano ad altri; poi si avvia allo schifo e vi si imbarca.
Ritto poi, in atteggiamento fiero, sulla poppa del palischermo, si
volge di nuovo agli astanti e chiama ad alta voce_) Tessalo!

TESS. (_facendo un passo verso lui_) Alcibiade! 

ALCIB. Guarda l’orizzonte! Vola un’aquila a sinistra[324] e sta per
sorgere in cielo il Toro.[325] (_con voce tonante, terribile_) Bada a
te! Minaccia tempesta!... Ateniesi! (_ai soldati_) Alcibiade offerse la
sua vita a voi e ad Atene, non agli indegni che tradiscono Atene e voi!
Tessalo ha le parole di miele sulla sua bocca, e il decreto di morte
contro di me nella sua clamide.

MOLTI SOLD. Che?! (_esclamazioni, moti di collera e di indignazione di
Lamaco ed altri_)

ALCIB. (_continuando colla stessa voce tonante, rivolto a Tessalo_)
Tessalo, il giorno che partimmo era il dì delle Adonie, ed erano
infausti (_beffardo_) quel giorno gli augurj! Ricordalo agli Ateniesi;
e di’ a coloro i quali mi vogliono morto, che Alcibiade — per gli Dei!
— MOSTRERÀ LORO DI ESSERE VIVO![326] (_parte sulla navicella_)[327]


SCENA VII. 

Detti, meno ALCIBIADE. 


TESS. (_riscotendosi alle ultime parole di Alcibiade_) Egli fugge e
minaccia! In nome d’Atene, si insegua il ribelle! Si insegua per i
Numi!

LAM. (_brusco e risoluto, fermandolo per il petto_) I Numi?
han fatto anche troppo col darti questa toga che ti protegge.
Prega Crateide,[328] non ti colga di peggio!... (_a voce sorda,
risolutissima, di minaccia_) — e sta zitto! Se fai una parola o un
passo di più... parola di Lamaco... la toga ti vuol servir poco.
(_Tessalo rimane immobile, spaventato dalle parole e dall’accento
risoluto di Lamaco e dal contegno minaccioso dei soldati. Quadro_)


  CALA LA TELA.




QUADRO QUINTO 

                      _Anno 412 av. l’Era Volgare.
      (1. dell’Olimpiade 92.ª — 19.º della guerra del Peloponneso)
           Exagineto agrigentino vinse il premio ad Olimpia._

                                 SPARTA

  Abitazione di Alcibiade. Stanza semplicemente e poveramente
    arredata. Il soffitto a travi greggie: due porte rozzamente
    lavorate a sega, una d’uscita nello sfondo, ed una interna a
    destra.[329] In un angolo per terra un giaciglio o strame di
    foglie, di giunchi e di canne (στιβὰς).[330] In un altro angolo
    qualche anfora e qualche ciotola laconica da bere (κώθων).[331]
    Alla parete armi appese (aste, elmo e scudo). Qualche sedile e un
    tavolo con sopravi papiri, tavolette e stili per iscrivere.


SCENA PRIMA. 

CIMOTO, CINÈSIA spartano. 


(_Cimoto entra infuriato e incollerito parlando con Cinesia_) 

CIM. Non son Cimoto, s’io nol mando a pascer cornacchie[332] quel
tristissimo mariuolo! più ladro di Euribate![333]

CIN. O come l’è stata? 

CIM. Tornavo dalla provvista, lungo la via di Ercole, quando innanzi
al Platanisto[334] mi imbatto in quel briccone di Gilippo tuo nipote.
— «Buon dì, Cimoto! cos’hai lì dentro? — Un po’ di silfio,[335] di
_maza_,[336] e una coscia di montone. — » E il tristaccio guardava
la bisaccia con certe occhiate lunghe, amorose, come adocchiasse i
tonni.[337] Poi mi si mette a discorrere e m’accompagna per via; qui
presso, mi saluta e se ne va. M’avea preso dalla bisaccia il montone...
e messovi invece un sasso. Lo scellerato! il ladro!

CIN. Eh via! calma! dillo al Pedònomo,[338] e agli Efori,[339] che ti
faran rendere la roba o l’indennizzo, e lo castigheranno colle verghe
all’altar di Diana Ortia...[340]

CIM. Lo castigheranno, dici? Mi renderan la roba? Proprio?... 

CIN. Sicuro. Ma come ha fatto a levartela? Non era chiusa la bisaccia? 

CIM. E a doppio giro di corda! 

CIN. O in che maniera l’ha aperta? 

CIM. È quello che non so... 

CIN. (_mostrando sorpresa_) Ma dunque non l’hai visto sull’atto...? 

CIM. To’ sentine un altra! Che sì, se lo vedevo, voleva star fresco! 

CIN. (_indifferente, stringendosi nelle spalle_) Oh, allora è un altro
affare.

CIM. (_sorpreso_) Come? un altro affare? 

CIN. Certo. Non se ne fa più nulla. 

CIM. E perchè non se ne fa più nulla? 

CIN. Perchè tutto è in piena regola. 

CIM. (_con interrogazione comica di sorpresa_) Eh...? cos’hai detto?... 

CIN. Che tutto è in piena regola, (_tranquillissimo come chi dice la
cosa più naturale_) T’ha rubato e non ti sei accorto. La roba è ben
rubata. È una legge di Licurgo! E approvata dall’oracolo!...[341]

CIM. (_dapprima sbalordito, poi si avvicina con serietà comica a
Cinesia_) Ah!... qui, da voi altri..., c’è la legge che assolve i
ladri?

CIN. (_coll’accento di chi dice cosa ovvia, naturalissima_) Quando
rubano bene. E li castiga colle verghe[342] e li obbliga a restituire,
se si lascian cogliere sul fatto. Così si abituano i giovani ad essere
svelti...

CIM. (_con accento comico_) Capisco!... E dimmi: era un onest’uomo...
pare... questo vostro... Licurgo?

CIN. Se era! Per i Dioscuri![343] Il fior degli onest’uomini. Tutte le
leggi nostre più giuste, più savie, le ha fatte lui...

CIM. Oh Minerva Poliade!...[344] dove è mai venuto il mio padrone! 

CIN. Via, via, non pensar altro a Gilippo; e dimmi: Alcibiade verrà
presto oggi a casa?

CIM. (_comicamente brusco_) Non lo so, — concittadino di Licurgo! 

CIN. Eppure ho bisogno di saperlo.... (_contraffacendo la voce a
Cimoto_), concittadino di Solone! Io fui ospite in Atene d’Alcibiade
quand’era nostro prosséno,[345] ed oggi ho bisogno di lui che mi
raccomandi agli Efori per certo affar mio. Dopo le ultime sue vittorie
contro Atene, val più in Isparta una parola sua[346] che una parola dei
re! Per Castore! è un gran brav’uomo il tuo padrone!

CIM. Bella novità! da noi non si ruba...[347] 

CIN. Che in larga scala — lo so. E quelli che non rubano, come
Alcibiade, si condannano e si caccian via. Ma questo non c’entra.
Alcibiade ha rialzato la fortuna di Sparta — e Sparta lo acclama. Tutti
gli vogliono bene: e le donne per via gli lasciano gli occhi dietro...
Sóstrata, la bellissima moglie di Stimodóro, ieri raggiava d’orgoglio
perchè Alcibiade passando aveva fatto un bacio al piccolo Leógora, il
figliuolo suo e di Filurgo...

CIM. Come! come? quella bella giovane bionda è già maritata in seconde
nozze...?

CIN. Oibò! Stimodόro vive ancora, e Filurgo non è suo marito. 

CIM. O come è dunque? 

CIN. È semplicissima. Nicodìce, la moglie di Filurgo, è sterile e vive
divisa da lui: ora Filurgo, bramando aver prole, ed onorata, ricorse
alla moglie di Stimodóro...

CIM. (_con aria comica, mostrando aver capito_) Ah!... e Stimodóro...
senza saperlo... (_ride con aria furbesca d’intelligenza e fa a Cinesia
il segno delle corna_)

CIN. (_coll’accento più naturale e indifferente_) Che! che! Ha
domandato a Stimodóro il permesso.

CIM. (_sorpreso e scandalizzato_) Ma... dunque... è anche... contento!
Tò! Io che credevo quello Stimodóro una persona così rispettabile...

CIN. Anzi rispettabilissima... 

CIM. E cede la moglie a Filurgo...? 

CIN. In prestito, perchè Filurgo non resti senza eredi onorati.
Un servizio tra amici. Che male c’è in questo? È una legge di
Licurgo.[348]

CIM. (_dà uno sbalzo per lo stupore_) Eh...? (_fra sè_) (E la mia
Filumena voleva la portassi a Sparta!)

CIN. Ma sicuro! Eh, le donne non sono qui da noi quel che lassù, da
voi altri, ad Atene. Licurgo, sì, ne ha fatto quello che la donna deve
essere. Voi altre le adoperate per arredi della casa; noi ne facciamo
delle madri di Spartani. Le vostre, rinchiuse da piccole,[349] vengono
su marmottine, non ad altro istrutte che a far di cucina, sorvegliar le
guattere, lavorar di conocchia e di telaio: sicchè per iscambiare due
parole di proposito, vi bisogna andar fra le cortigiane; e imprecate
il rigor delle leggi che vi obbligano a dormir colla moglie almeno tre
volte al mese![350] Intanto, la malizia del sesso, le vostre pudibonde
verginelle la impiegano a fare in privato quel che non possono in
pubblico: e mentre le castigate se appena si mostrino la rara volta
per via non vestite con tutta la decenza, nel fondo de’ ginecei le
si danno a lascivie di ogni sorta, che solo Venere Pandemia[351] le
sa. Le nostre, da giovinette, danzano nude, cantano nude in pubblico,
in cospetto degli uomini:[352] e crescono più caste e più virtuose
delle vostre. Le van libere in giro, si mischiano cogli uomini,
attendono ai loro stessi esercizii, alla corsa, alla lotta;[353] e
lascian la conocchia alle serve e s’intendon di studj e di affari
dello Stato.[354] Voi custodite ad Atene le mogli vostre con sigilli,
chiavistelli, chiavi segrete di Laconia e cani molossi per far paura ai
drudi:[355] ed elle si vendicano, giocando di furberia per tirarseli
in casa:[356] e si ungono d’aglio perchè il marito non pigli sospetto
quando torna dalla guardia delle mura e regalan le carni alle mezzane
nelle feste Apaturie,[357] dicendo che il gatto le ha portate via. Se
poi la moglie è savia, e dolce e casta, e si porta da brava la casa
sulle spalle come le lumache, e ama il marito, e non brama farsi veder
che da lui, — allora il marito ringrazia gli Dei che gli han dato una
moglie così virtuosa... e sbadigliando va da un’etéra a cacciar la
noia del matrimonio. Qui i mariti, invece di annoiarsi, cercano al
matrimonio le illusioni e la voluttà del primo amore: perchè Licurgo
nostro ha provveduto che la luna di miele non la consumin da ingordi: e
colle spose non ponno ritrovarsi che di nascosto, e di sotterfugio, e
soltanto allo scuro.[358] Ma dei figli delle donne vostre, per un che
si chiama Alcibiade, cento si chiamano Clistene, il damerino:[359] i
figli delle nostre... (_con accento di orgoglio e gravità_) si chiamano
tutti — Leonida!

CIM. Leonida? già! già! (_fa colle dita il gesto mimico di chi ruba_)
Hai finito? E con questa parlantina sei di Laconia tu — e stai a
Sparta?

CIN. Sono di Sparta — ma fui un pezzo ad Atene. E Alcibiade ancora non
giunge...

CIM. Sai quel ch’hai a fare? là ci son le tavolette.[360] Lasciagli
scritto quel che vuoi — e torna più tardi...

CIN. Grazie, Cimoto! Perchè infatti il tempo corre ed oggi ho a far
sacrificio[361] (_mostrando una focaccia che ha portato con sè_) e ho
ancora questa focaccia[362] a portar via.

CIM. Bene dunque: va là — e scrivi. 

CIN. (_depone la focaccia: va ad un tavolo ove son tavolette da
scrivere, ne prende una, e postasela sulle ginocchia, vi scrive collo
stilo, voltando le spalle a Cimoto_)

CIM. (_appressandosi alla focaccia — fra sè_) Che bella focaccia!...
(_la guarda con aria golosa; poi data un’occhiata a Cinesia che scrive,
non visto da lui, ne addenta e mangia un pezzo, e mostra alle smorfie
di trovarla assai di suo gusto; poi, ad un tratto, come venutagli
un’idea, prende rapidamente la focaccia, e va in punta di piedi a
nasconderla. — Cinesia, finito di scrivere, si alza_)

CIN. A te mi raccomando — che appena giunge la legga. (_gli dà la
tavoletta_)

CIM. Fidati a me... E adesso tu vai a far sacrificio? 

CIN. Sì. Dalla leggiadra Làmpito, la moglie del vecchio Smicinzione.
Che cara donna!

CIM. Ah! già! capisco! (_ridendo furbescamente_) Anche tu sei di quelli
che hanno chiesto il permesso...

CIN. Io? tutt’altro. Il vecchio vuol mangiarmi tutte le volte che mi
vede...

CIM. E allora?... (_sconcertato_) 

CIN. (_con far naturalissimo_) E allora... siccome il vecchio ha
sessanta inverni suonati, e la vaga Làmpito non ha che venti primavere
— e siccome qui le donne hanno anzitutto ad esser madri, — così il
vecchio è _obbligato_ a consentire che ella abbia da un giovane dei
figli robusti...

CIM. Che restano del giovane? 

CIN. Cioè no, del vecchio. 

CIM. (_sempre più sorpreso_) Per obbligo? 

CIN. Certo. E quindi, se non foss’io, sarebbe un altro.[363] Così i
vecchi, da noi, ci pensano due volte prima di legare alla loro vita
acciaccosa dei fiori sbucciati appena; e se lo fanno, i poveri fiori
non restan sacrificati.

CIM. Bravo! dimmi... anche questa è... una legge di... 

CIN. Licurgo! s’intende. 

CIM. (_con vivacità beffarda_) Ma era una perla questo vostro Licurgo! 

CIN. E che perla!... Oh, addio! me ne vado... (_nello andarsene va
a riprender la focaccia dove l’ha posta, e la cerca_) Dov’è la mia
focaccia?

CIM. (_facendo lo gnorri_) Che focaccia? 

CIN. Quella pel sacrificio, che era qui. 

CIM. Io non l’ho vista. 

CIN. (_insistente_) Ma era qui. 

CIM. E allora il gatto l’avrà portata via. 

CIN. (_incollerito_) Sei tu il gatto!... 

CIM. Come puoi dirlo? M’hai visto forse? 

CIN. Qui non c’eri che tu. 

CIM. (_insistendo e poggiando sulla parola_) M’hai visto? 

CIN. O rendila o ti farò flagellare! 

CIM. (_con sussiego comico_) Dà retta a me. Non farne nulla. Sta alla
legge di Licurgo. Era un onest’uomo sai... Licurgo!

CIN. (_inviperito_) Mariuolo! 

CIM. (_beffardo_) Che perla quel Licurgo! che perla!... 

CIN. Per Castore![364] me la pagherai! (_va via incollerito
minacciando, mentre Cimoto dà in risate_)


SCENA II. 

CIMOTO solo. 


(_va a riprendere la focaccia dal ripostiglio ove l’ha nascosta_) 

CIM. Ancora, ancora, di tutte le leggi di Licurgo questa passa... ma le
altre! Puh!... E Alcibiade servir questa gente! E far quella vita che
fa! un uomo come lui, avvezzo a tutte le delicatezze del lusso! vestir
come costoro, dormir come costoro, mangiar le porcherie che mangiano
costoro![365] per me, già, non ho potuto ancora farci lo stomaco!...
(_mangia qualche boccone della focaccia_) da che son qui, è il primo
boccone da galantuomo che mando giù...: e lo devo a Licurgo. Che
Giove gli perdoni tutte quelle altre stramberie! È vero (_mangiando_)
che questo boccone era destinato per gli Dei... ma già, invece degli
Dei, se lo mangiavano i sacerdoti... dunque è meglio che lo mangi io.
Per quel bene, che han fatto i sacerdoti al mio padrone!... Povero
padrone! Da ieri che è tornato dalla flotta, tutti gli fan festa! ma
egli è tutt’altro che allegro!... L’abbandono di Timandra lo ha reso
ben triste! (_va a riporre il resto della focaccia_) Questo glielo
voglio metter via per lui... se pure lo mangierà: è diventato tanto
sobrio! e vuole che lo sia anch’io!... Qui tutti sono sobrii... e un
dì sì, un dì no, si patisce la fame di quei di Melo.[366] Non ci sono
che i due re che stiano bene!... (_mentre parla seguita a far qualche
cosa: riporre oggetti, metter ordine alla stanza, ecc._) Oh, i re,
quelli sì!... loro qui hanno doppia razione, e su ogni scrofa che
partorisce un porcellino da latte è per i re!...[367] Oh quelli sì!...
Eh, (_sospirando_) quei di Atene erano tempi! Se non era quel briccone
di Tèssalo e compagnia!... Il bel servigio che han reso ad Atene col
farle nemico Alcibiade! Quarantamila uomini e duecentoquaranta navi
perdute in Sicilia; il bravo Làmaco morto in campo, Nicia e Demostene
presi e giustiziati, l’Attica invasa e mezze le isole perdute!...[368]
Bel guadagno! Pensar tutti quei poveri ragazzi lì ad ingrassare i corvi
dell’Etna o a marcir di stenti e di fame in fondo alle Latómie![369]
Povera gente! (_intenerito, asciugando col dorso della mano una
lagrima_) Per essere giusti, a dirla qui, il padrone s’è vendicato fin
troppo!... infin dei conti, Atene è il suo paese!... ma già, gliene
han fatte tante!... trattarlo in quel modo... proprio il dì della
sua vittoria!... Basta, il tempo è galantuomo... (_da qualche momento
Cimoto ha smesso di lavorare, e s’è piantato a chiacchierar tra sè, sul
davanti della scena: ma a quest’ultima riflessione si riscuote_)... e
tu, Cimoto, il tempo lo stai qui a perdere... e Alcibiade (_guardando
fuori_) è qui che arriva... (_pone in assetto in furia alcune cose, e
va incontro ad Alcibiade_) Uh! che faccia scura! pare abbia visto il
lupo!...[370]


SCENA III. 

CIMOTO e ALCIBIADE. 


(Alcibiade entra vestito da capitano lacedemone)[371] 

CIM. Salve, Alcibiade! dacchè s’è saputo il tuo ritorno dalla flotta,
qui l’è una processione di gente. Anche or ora fu qui un tal Cinesia,
tuo ospite antico. Lasciò per te questo scritto.

ALCIB. (_presa la tavoletta, letta e depostala — con accento serio ed
asciutto_) Fra poco verrà alcun degli Efori e Bràsida. Fuor di essi,
rimanda chicchessia.

CIM. Alcibiade! 

ALCIB. Che c’è? 

CIM. (_appressandosegli con voce affettuosa e insinuante e
presentandogli il resto della focaccia_) Tu non mangi mai altro che
maza e zuppa nera. Se oggi hai molto a discorrere, piglia un po’ di
questa che ti ristorerà.

ALCIB. (_brusco e severo_) Porta via!... E sempre non pensi che a
ghiottonerie! Non ti vergogni di ingrassare a quel modo?

CIM. (_sorpreso, mortificato_) O che colpa n’ho io? 

ALCIB. (_severo_) Ma lo sai che la pinguedine è punita a Sparta?...[372] 

CIM. (_sempre più scandalizzato_) Come?!... è punito il diventar
grassi? (_fra sè_) (Questa legge di Licurgo poi non la sapevo!) Ma...
ma io...

ALCIB. Ma tu ingrassi, ti dico! (_minaccioso_) Bada a te!... Va... 

CIM. Vado... (_fra sè allontanandosi_) Anche questa! Proibito diventar
grassi! Perchè lui, Licurgo, sarà stato magro come uno struzzo! O
Minerva Antesignana![373] dove siam mai capitati! (_va via esclamando e
borbottando_)


SCENA IV. 

ALCIBIADE solo, poi ENDIO, éforo. 


ALCIB. (_solo, cogitabondo_) Eccomi ben presto di ritorno!... Città
prese, battaglie vinte! vittorie cadmée![374] Ne reco molti a Sparta
di allori... (_pausa, indi con voce lenta, amarissima_) di quelli che
non piacciono a Timandra!... Perfino agli omicidi dalla patria banditi
vuole la patria concesso nel loro esilio il riposo, e perseguitarli
divieta:[375] che cosa è dunque che mi perseguita qui? (_si porta la
mano al cuore e rimane lungamente e cupamente assorto: entra Endio_)

END. Buon dì, Alcibiade! 

ALCIB. Salve, Endio! 

END. Gli efori e il Senato di Sparta si adunan domani a udir da te il
racconto degli ultimi fatti di guerra e deliberare sulle ricompense.
Venni ad avvisartene.

ALCIB. Grazie. Domani Sparta saprà da me che ad Alcibiade è sufficiente
compenso non avere smentita la fiducia posta in lui. Quanto al racconto
de’ miei fatti sarà breve: Chio, Clazomene, Policna, Lèbedo, Ero, e
Tèo, e Milèto ritolte ad Atene: la flotta ateniese messa in fuga da
Chio a Samo:[376] conchiusa ai danni di Atene l’alleanza difensiva ed
offensiva tra Sparta ed il re.[377]

END. Di già? 

ALCIB. (_secco_) Di già. 

END. E la scitála[378] che ti spedimmo colle istruzioni intorno ai
patti?

ALCIB. (_sempre secco nel discorrere_) Arrivò tardi. I patti
dell’alleanza eran già conchiusi, e... migliori che voi non domandaste.
Alcibiade fa gli affari di Sparta meglio che Sparta non chieda.

END. (_fissandolo serio in volto_) Sei ben superbo, Alcibiade! 

ALCIB. A te. (_gli consegna un papiro arrotolato_) 

END. (_continuando a fissarlo, prende lentamente da lui il papiro,
lo spiega, lo legge — e dà in segni improvvisi di sorpresa e
soddisfazione_) E questo è il trattato che presenterai domani agli
efori[379] e all’assemblea?[380]

ALCIB. (_senza dir parola s’inchina e riprende il rotolo dalle mani di
Endio_)

END. Sparta può essere contenta di te. 

ALCIB. (_asciutto, con fierezza_) Lo credo! Un tempo, anche Atene lo fu! 

END. E la flotta fenicia? 

ALCIB. L’ho fatta avanzare già sino ad Aspendo. Là attende un mio
avviso per procedere oltre e venirsi a congiungere colle navi nostre
in Milèto. Oggi stesso, per mezzo di Brásida, lo spedisco da qui. Al
mio ritorno, subito dopo il plenilunio,[381] le flotte congiunte faran
impeto contro Samo — e in breve avrò finita la guerra.

END. (_calmo, senza troppa espansione_) Gli Dei salvatori facciano vero
l’augurio! e Sparta ti proclamerà suo cittadino, come già fosti suo
ospite. Addio.

ALCIB. (_vivamente, trasalendo_) Cittadino di Sparta?!... (_con
amarezza profonda_) È un bel compenso!

END. Ti offende il titolo?[382] 

ALCIB. Oh no. (_mesto, reprimendo un sospiro_) Penso alla fortuna
degli eventi — e a ciò che questo titolo significava un giorno per me.
Addio. (_Endio si allontana: quand’egli è sulla porta, Alcibiade, che
è immerso in meditazione cupa, si riscuote d’un tratto e lo richiama
indietro_) Endio!

END. (_si sofferma sulla soglia, serio, senza dir parola, con aria
interrogativa_)

ALCIB. Te ne vai? 

END. (_asciutto_) T’ho salutato. 

ALCIB. (_sottolineando le parole_) Sei freddo — oggi. 

END. Io? che vuoi dire? 

ALCIB. (_andando vivamente a lui, gli si pianta di fronte e gli stende
la mano per prendergli la sua_) Endio!... che pensi tu di me?

END. (_freddo, ritirando la propria mano_) Che sei un valente capitano.
Addio. (_esce_)


SCENA V. 

ALCIBIADE solo, poi CIMOTO. 


ALCIB. (_partito Endio, rimane alcuni istanti immobile, cupo,
cogitabondo_) Un valente capitano?... Che ha inteso dire costui?...
Questa parola che era per me un giorno il più bel sogno di gloria,
potrebbe ella forse (_a voce lenta_) sulla bocca di un uomo suonare
anche insulto? La gloria e il disonore avrebbero confuso, scambiato i
loro nomi?... Un... valente... capitano? (_dopo sillabata lentamente,
come ponderandola fra sè, questa frase, rompe in iscoppio repentino
di voce e d’ira_) Ma mi disprezza costui! Per i Numi! Questo spartano
sarebbe forse così superbo perchè egli ha una patria? ma questa sua
patria son _io_ che glie l’ho fatta grande — e che domani posso ancora
ridurla quel che era or fa un anno!... ed egli lo sa! (_dopo una
pausa, calmandosi alquanto, e passeggiando su e giù meditabondo_) La
mia mente ombrosa, malata, si crea sempre intorno inutili sospetti!...
Egli anzi fu cortese con me... Disse che Sparta m’avrebbe fatto suo
cittadino... essa non farebbe suo cittadino un uomo che disprezza!...
(_pausa_) Ma... e se nulla di spregevole è in me, perchè Timandra
mi ha abbandonato? Ella mi amava! «_Ti seguirò dovunque in capo
alla terra, fino a che Alcibiade sia degno di Alcibiade!_...» È un
anno che servo Sparta (_sempre più meditabondo_) ed è un anno che
Timandra mi lasciò!... Non dovevo io dunque vendicarmi? Non fui io
vittima della più nera ingratitudine de’ miei concittadini? E coloro
che mi condannavano, mentre io conquistavo Catania, non ora ad Atene
comandano? Essi, essi sono i veri nemici di Atene![383] Io proscritto
non vado contro una patria ancor mia, ma tento riacquistare quella
che mia più non è.[384] Che disonore in questo? (_riscotendosi_) Se
Timandra mi lasciò... ebbene... ebbe torto! Cimoto...!

CIM. (_entrando alla chiamata_) Alcibiade? 

ALCIB. (_prendendolo vivamente per una mano_) N’è vero che ebbe torto
di lasciarmi, Timandra?... perchè io non vorrei vivere se fossi un
vile... io _non lo sono_ un vile...[385]

CIM. E chi lo disse? 

ALCIB. Chi? Nessuno! per gli Dei!... E nemmeno tu... n’è vero? 

CIM. Io?... Che ti salta in mente? 

ALCIB. Di’, Cimoto furono molto ingiusti gli Ateniesi con me!... 

CIM. Certo!... (_con voce di rammarico_) ma l’hanno anche pagata ben
cara... fin troppo cara...

ALCIB. Tu dici? (_con ansia interrogativa_) Ma avevo ragione! 

CIM. Sì... e per colpa di pochi (_con accento mesto, lagrimoso_) tanta
povera gioventù, là in Sicilia...

ALCIB. (_vivamente insistendo_) Ma avevo ragione!?... (_siccome Cimoto
tace, e serba l’aspetto pensieroso, intenerito, Alcibiade lo afferra
e lo scrolla violentemente, gridando con impeto_) Ma dillo dunque che
avevo ragione!

CIM. Ahi! 


SCENA VI. 

Detti e TIMANDRA, indi ALCIBIADE e TIMANDRA soli. 


TIMAND. (_già da qualche momento affacciatasi velata di nero, sulla
soglia, alle ultime parole d’Alcibiade si scopre il volto e lo
apostrofa con voce vibrata e severa_) E che vuoi ch’egli ti risponda
quello che la coscienza non risponde a te?

ALCIB. _e_ CIM. (_tutti e due con istupore_) Timandra! (_Alcibiade
lascia andar Cimoto. Cimoto, a un segno imperioso di Alcibiade, si
ritira ed esce_)

ALCIB. (_a Timandra affettuoso, ma imbarazzato_) Tu qui? 

TIMAND. (_seria, alquanto ironica_) Giungo, sembra, importuna! I
colloqui delle coscienze non amano testimoni.

ALCIB. E perchè venisti? 

TIMAND. (_con voce bassa e grave, ma vibratissima_) Perchè la misura
del disonore è colma ed è tempo che Alcibiade la getti lungi da sè!

ALCIB. (_cercando ricomporsi in calma risoluta_) Inutilmente allora
venisti. L’Alcibiade d’Atene non è l’Alcibiade di Sparta.

TIMAND. (_con sarcasmo_) Oh, lo so, lo so! e poi, solo in vederti,
lo si comprende! Lo so che dormi sulla nuda terra e bevi acqua e
mangi la zuppa nera![386] Sei ben trasformato, Alcibiade! Colui che
faceva meravigliare Atene delle sue mollezze e delle sue orgie, fa
meravigliare oggi Sparta de’ suoi severi costumi! Lo scapestrato,
l’effeminato, il dissoluto Alcibiade, è divenuto un Alcibiade sobrio,
temperante, costumato, austero... Eppure... (_con forza_) eppure valeva
_assai meglio_ quell’altro... perchè quello almeno era l’Alcibiade
ateniese!

ALCIB. (_risentito_) Timandra! 

TIMAND. Oh, hai torto di rubare alla virtù queste apparenze! Vergognati! 

ALCIB. (_con crescente risentimento_) Timandra!... 

TIMAND. (_incalzante, senza dargli tempo a replicare_) Sì, vergognati
a tua volta, perchè mi hai fatto piangere di vergogna per te! Ah,
tu credi che sia nulla, per una donna che ama, che ha consacrato ad
un uomo tutti i suoi affetti, le sue gioie, i suoi dolori, la sua
esistenza intera, il saper quest’uomo venduto ai nemici del suo paese;
l’udire ogni giorno intorno a sè le imprecazioni al suo nome, vedersi
d’intorno nella sua stessa patria le ruine che egli ha seminato, le
lagrime che egli ha fatto spargere? Lo sai tu che ognuna di quelle
imprecazioni ripiombava sul cuor mio, che ognuna di quelle lagrime
vi scendeva come stilla rovente, che da ognuna di quelle rovine mi
pareva alzarsi una voce e rinfacciarmi come delitto il mio amore — e
domandarne castigo agli Dei?

ALCIB. Cessa, Timandra! Tu sai anche quello che gli Ateniesi han fatto
a me.

TIMAND. Io so che nessuna ingiustizia giustifica il tradimento; ma
tu giustifichi tutti i giorni l’accusa e la condanna di Atene contro
di te. So che eri innocente, e che ora più non lo sei. Potevi essere
Aristide — e non sei più che... Pausania! (_con iscoppio di voce_)
Numi! e costui ama la gloria!

ALCIB. (_rimasto fin qui come oppresso, accasciato dalle parole di
Timandra, a questo punto si riscuote e le parla con voce vibratissima_)
Ma tu che mi accusi, hai tu letto qui dentro? Hai tu indovinato una
sola delle tempeste che vi si scatenarono e mi trabalzarono qui? Ah!
tu credevi che Alcibiade si sarebbe umilmente, docilmente rassegnato
alla condanna ingiusta che lo colpiva! Che ne sai tu se la mia anima
ha la docilità e la rassegnazione di quella di Aristide, per chinarsi
come lui alla sentenza del primo venuto e scriverla sul coccio di mio
pugno?[387] Aristide si cinse di gloria! Lo chiamarono il _giusto_!
Che m’importa! se per essere _gloriosi_ bisogna essere sommessi, se per
essere giusti bisogna curvar la fronte agli ingiusti, — ebbene, che la
giustizia non sia più per me che una fola — e che questa gloria vada
lungi da me!... Mi parlasti di Pausania![388] E sia!... (_con iscoppio
di voce e di rabbia_) Pur che piangano coloro che mi offesero, ch’io
muoja pure come lui! maledetto dalla patria come lui!

TIMAND. (_mutando l’accento severo di prima in accento più mite e
mestissimo_) Eppure non era così, o pronipote di Ajace,[389] o figlio
di Clinia, non era così che morivano i tuoi maggiori!... Là in Atene,
al Ceràmico, dove dormono i morti per la patria, han posto, sai, da che
fosti assente, la lapide pei morti di Coronea.[390] Fra quei morti... è
tuo padre. Passavo dal Ceràmico giorni sono: e su quella lapide recente
(_con voce che va man mano intenerendosi per l’emozione_) fanciulli e
giovinette invocavano i Numi, e spargevano le pie libazioni; intorno vi
pendevano e ciocche di capelli recisi e cento ghirlande votive;[391]
e una turba commossa, riverente, si scopriva a quella pietra modesta,
dove erano scritti da una parte i nomi — il nome di tuo padre! —
dall’altra una epigrafe pietosa. Di quella epigrafe lessi — e serbai a
memoria le parole.

ALCIB. (_in preda a lotta angosciosa, si è gettato a sedere,
nascondendo il volto fra le mani_)

TIMAND. (_con voce lenta, alta, commossa, guardando il cielo_).
«L’étere accolse le anime di questi, ed i corpi la terra. Caddero
presso le porte di Coronea. Questa città e questo popolo di Erettéo
rimpiangono codesti uomini, che pugnando fra i primi morirono,
Ateniesi, figli di Ateniesi. Abbandonando le loro anime, acquistarono
a sè fama di virtù, ed alla patria grande rinomanza.» (_La voce di
Timandra si è venuta man mano esaltando, nel ripetere la epigrafe; alle
ultime parole s’arresta con lunga pausa, fissa lo sguardo su Alcibiade,
e gli si avvicina parlandogli a voce bassa e vibrata_) E a te cosa
porremo?...

ALCIB. Lasciami! lasciami, Timandra! Ho data la mia parola. Lasciami al
mio destino!

TIMAND. (_con voce affettuosa, e man mano affannosa, piangente,
incalzante_) No, no, Alcibiade, tu non sei legato da nessuna parola;
perchè Giove vindice degli spergiuri non accetta gli sconsigliati
giuramenti dell’ira,[392] e ogni parola contro la tua terra è nulla, è
nulla davanti agli Dei! Vieni! vieni meco, Alcibiade. È un anno ch’io
piango per te; ch’io vivo soffocando qui dentro l’angoscia dell’udirti
imprecato da coloro che ti furono cari; costretta, ineffabile strazio,
a far voti agli Dei contro di te, senza poter cessare di amarti;
a maledire ogni tua vittoria, io che andavo sì altera di saperti
prode!... Un dì corse il grido che Atene era salva, perchè tu eri
morto; e colla morte nell’anima, dovetti quel dì mostrarmi lieta, — e
un rimorso e uno spasimo orrendo fu la gioja del dì appresso nell’udir
bugiardo quel grido!... Eppure, cercavo ingannare me stessa, andavo
fra me ripetendo: «_Cessato l’impeto dell’ira, il mio Alcibiade
ritornerà_...» Ma tu non ritornavi! e le sventure attirate dalla tua
collera seguitavano a piombar sopra Atene. Allora lo strazio fu più
forte de’ miei propositi — e lasciai Atene per venire a trovarti ad
ogni costo, per ricondurti ad ogni costo da qui. Oh, vieni, vieni,
Alcibiade, colla tua Timandra; vieni alla tomba de’ tuoi maggiori;
lascia la via del disonore!

ALCIB. (_in preda a emozione vivissima sta per cedere allo scongiuro
di Timandra, e la chiama con affetto, avanzandosi verso di lei, e
stendendole le braccia_) Timandra! (_in questo punto si ode dallo
interno la voce di Brasida_) Ah!

BRAS. (_dall’interno_) Annunziami ad Alcibiade. Devo parlargli... 

ALCIB. (_all’udir la voce di Brasida si arresta come fulminato_)
Brasida! è qui a prender gli ordini! Ho data la mia parola! Ho data la
mia parola! (_a Timandra_) Va! non posso!... o resta con me!

TIMAND. (_a quest’ultima frase d’Alcibiade, dà in un gesto vivissimo
come di indignazione e di orgoglio ferito, e si drizza fieramente della
persona_) Che?!... Addio, Alcibiade! (_s’avvia per uscire con passo
concitato — Alcibiade si è mosso per trattenerla, poi s’è fermato e non
la guarda più: ha gli occhi a terra. Timandra dalla soglia s’è volta
a gettare un ultimo sguardo su di lui; poi, già sul punto d’uscire,
d’improvviso, come chi ha mutato consiglio e presa una risoluzione
repentina, si arresta e incrocia le braccia sul petto, in atteggiamento
di calma risoluta_)


SCENA VII. 

ALCIBIADE, TIMANDRA, poi BRASIDA. 


ALCIB. (_fra sè, gli occhi a terra, senza accorgersi di Timandra_)
Ebbene? mi lascerò spaventare dalle parole di una donna? È donna anche
la coscienza. Poi il dado è gettato: questi Spartani si son fidati
in me. Tradir loro, dopo aver tradito i miei?... Sarei traditore
due volte... basta una! (_a voce forte, ma sempre cupo ed assorto_)
Brasida!

BRAS. (_si affaccia con piglio soldatesco sulla soglia e si avanza
verso Alcibiade. È in costume completo di guerriero spartano: lunga
asta[393] e siéla,[394] scudo di pelli ampio e rotondo a correggie[395]
e recante sull’esterno un_ Λ _iniziale di Lacedemone;[396] veste rossa
sotto la corazza di feltro;[397] calotta di feltro in capo_).[398] Son
qui.

ALCIB. (_senza guardarlo, gli occhi a terra, come vergognoso del
proprio atto, gli stende lentamente col braccio il papiro contenente
l’ordine scritto_) Eccoti l’ordine per la flotta fenicia. Partirai oggi
stesso precedendomi... (_alza lo sguardo su di lui nel consegnargli il
papiro che l’altro prende, salutando militarmente, e in quel punto si
accorge di Timandra, che lo guarda severa, le braccia conserte, quasi
in aria di sfida_) Tu qui ancora?...

TIMAND. (_con calma sarcastica_) M’hai detto di restare!... (_cambiando
intonazione di voce, e assumendo un accento amorevole, si avanza verso
Brasida, mentre Alcibiade rimane visibilmente sconcertato_) Brasida, tu
porti un nome glorioso.[399] Hai molte cicatrici. Quante campagne?

BRAS. (_con accento asciutto, laconico_) Sette. 

TIMAND. Quante corone? 

BRAS. Nessuna.[400] 

TIMAND. Il tuo grado? 

BRAS. Soldato semplice. 

TIMAND. (_vivissima_) Soltanto?... (_fissa severa Alcibiade, che
incontratosi nel di lei sguardo abbassa il proprio; e ripiglia a voce
lenta, rivolta di nuovo a Brasida_) Sparta è ben ingrata con te!... Ami
tu qualcuno?

BRAS. Sparta e la mia donna. 

TIMAND. E la tua donna ti segue? 

BRAS. M’aspetta. 

TIMAND. Quando? come? 

BRAS. (_mostrando e stendendo il proprio scudo, prima in atto
d’imbracciarlo militarmente, poi rivoltolo in senso orizzontale_) O con
questo — o su questo.[401]

TIMAND. (_stringendogli la mano con piglio risoluto, e guardando nello
stesso tempo Alcibiade_) Va! che sei un valoroso!

(_Brasida s’avvia per uscire. — Alcibiade alle ultime parole di
Timandra fa un gesto vivissimo, com’uom ferito nel vivo — poi
visibilmente dominato da interna violentissima lotta, richiama Brasida,
che è già in sulla porta per uscire_) Aspetta!... (_Brasida ritorna
indietro, Alcibiade soggiunge a voce lenta_) Lo porterò invece io
medesimo... Tu parti pure!... (_Brasida saluta militarmente e parte_)


SCENA VIII. 

ALCIBIADE, TIMANDRA, poi CIMOTO. 


(_Uscito Brasida, Alcibiade e Timandra rimangono per qualche istante
a guardarsi l’un l’altro in faccia, muti, immobili. Poi Alcibiade,
coll’occhio sempre fisso su Timandra, e senza proferir parola,
lacera lentamente il foglio. Gesto vivissimo di gioja di Timandra,
alla quale senza dar più tempo di soggiungere altro, Alcibiade
corre vivissimamente incontro, gettandosi nelle sue braccia aperte_)
Grazie, grazie, o Timandra! o mio buon genio!... (_Cimoto, entrato
da un istante, dopo uscito Brasida, ha assistito con segni di gioja a
quest’ultima scena e si stropiccia per contentezza le mani. Alcibiade
in questo punto si accorge di lui e lo chiama_)

ALCIB. Vieni, vieni, Cimoto! (_Cimoto accorre a lui. — Alcibiade
stende un braccio ad collo di Timandra, l’altro a quel di Cimoto e li
guarda entrambi affettuosamente_) Torneremo ad Atene! (_movimento e
grido di gioja di Timandra e di Cimoto, subito repressi da un gesto
significantissimo di silenzio di Alcibiade. Quadro_)


  CALA LA TELA.




QUADRO SESTO 

     _Anno 407 av. l’Era Volgare (6 giugno, ossia 25 di Targelione)
     (2.º della Olimpiade 93.ª — 24.º della guerra del Peloponneso)
             Eubato di Cirene vinse il premio ad Olimpia._

                                 ATENE

  Le Lunghe Mura, Via di Teseo, lungo il muro boreale, conducente dal
    Pireo alla città.[402] Davanti alla casa di Alcibiade.


SCENA PRIMA. 

DIOCARE, AMINIA, CARINADE, altri cittadini da opposte parti. CRITILLA
vecchia, MIRRINA sua figlia, poi ANDROCLE.


CARIN. (_accorrendo, nell’incontrar Diocare_) E così? 

DIOC. (_vien correndo_) È sbarcato ora nel Pirèo. O spiriti, o
Dei![403] che nuvola di gente! che baccano! che fanatismo!

CARIN. E l’hai veduto? l’hai veduto? 

DIOC. Per Giove! E come era commosso! parea gli spuntasser le lagrime! 

AMIN. Stava ritto, esitante sulla prua, mentre tutti l’acclamavano;
e se non era Eurittòlemo suo cugino che gli facea segno dalla riva,
ancora non sapea, per la emozione, risolversi a scendere![404]

DIOC. Sono otto anni che non vedeva Atene! 

CRITIL. (_accorrendo_) Aminia, Aminia, da che parte viene Alcibiade? 

AMIN. (_accennando_) Di qua. 

CRITIL. È lontano? 

AMIN. A st’ora sarà al tempio di Teseo. Mamma Critilla, se vuoi
vederlo, non c’è che aspettarlo qui, dinanzi alla sua casa.

CRITIL. (_a sua figlia Mirrina che l’accompagna_) Sì, sì, Mirrina,
aspettiamolo qui... (_si mette intanto a discorrere con altre donne_)

DIOC. (_ad Aminia_) E non ti pare che, da quando partì, si sia fatto
più magro?

AMIN. Per Ercole, ne ha passate tante! povero giovane! 

CARIN. E dire che in causa di quei calunniatori, ci siam bisticciati
con lui proprio per l’ombra dell’asino![405] e l’abbiam cacciato in
bando a quel modo!...

DIOC. E, per gli Dei, ne abbiam pagato il fio! Se non lo condannavamo,
le cose in Sicilia non sarebbero finite come finirono...[406]

ANDR. (_sopraggiungendo_) Però quella d’essere passato a Sparta non fu
una buona azione...

DIOC. (_ad Androcle_) Avrei voluto veder te ne’ suoi panni che cosa di
peggio avresti fatto..

CARIN. Che ha costui da dire contro Alcibiade? 

AMIN. Chi parla contro Alcibiade? 

DIOC. (_accennando Androcle_) Costui. 

CARIN. Sarà uno de’ calunniatori! Dalli al tristo! 

AMIN. Sì, sì, dalli al sicofante![407] 

DIOC. Dalli al filolácone![408] alla spia! (_Androcle fugge inseguito
dai popolani_)

CARIN. Duecento navi prese, e le isole riconquistate. Si fa presto a
dirlo! E così giovane ancora! Che età avrà Alcibiade?...

CRITIL. Oh, il conto è subito fatto! Ne avea ventinove quando è andato
via; e in quel tempo mi faceva un po’ di corte...

AMIN. Egli t’ha fatto la corte?! (_ridendo_) O care Ore!...[409] Quanti
denti avevi?

CRITIL. Scoppia! — Avevo circa la sua età — ed ero anche più bella di
adesso, una volta...

AMIN. (_canzonandola_) E anche i Milesj una volta eran gagliardi...[410] 

CRITIL. Impertinente! (_andandogli incontro coi pugni chiusi_) 

DIOC. (_interponendosi_) Ma sta zitto, Aminia!... Non la far
arrabbiare! Sicchè, mamma Critilla, quanti anni hai?

CRITIL. Sicchè, dicevo, io ora ne ho trentasette... ne avrà giusto
trentasette anche lui...

DIOC. Mamma Critilla, la sai la storia di Giove quando dormì con
Alcmena?[411]

CRITIL. E di tre notti ne fece una. 

DIOC. Appunto, mamma Critilla, i tuoi anni son come le notti di Giove. 

AMIN. _e_ CARIN. (_ridendo_) Ah! ah! 

CRITIL. Che le cornacchie ti mangino! 

AMIN. Oh! oh! Alcibiade si avvicina! (_suon d’istrumenti e voci di
popolo ancora in qualche lontananza_)

CARIN. (_guardando verso l’interno_) Egli arriva! Egli arriva! (_le
grida e gli evviva vanno appressandosi, molti corrono incontro — la
scena si riempie di popolo_)


SCENA II. 

CIMOTO, soldati del corteo, popolo, FILUMENA, vecchia. — Un bimbo e
detti.


(_Cimoto entra vestito da fante leggero, precedendo nel corteo
Alcibiade. Distribuisce con serietà comica e affettata modestia,
come se gli applausi fossero indirizzati anche a lui, saluti e
ringraziamenti a dritta e a manca_)

DIOC. E chi è quello là che viene davanti? (_guardando colla palma
della mano tesa davanti l’occhio_) Oh Numi! o Mercurio agorèo![412]
guarda, guarda! È Cimoto il parassita! Cimoto vestito da guerriero!

AMIN. (_chiamando e salutando_) Ehi là! Cimoto! Cimoto! 

VOCI DEL POPOLO. Evviva il trionfatore! 

CIM. (_a Diocare e agli altri che gli fan ressa intorno, con aria
di sussiego comicamente modesta, e mimica analoga_) Grazie! Nulla!
Nulla!... non abbiam fatto che il nostro dovere! (_vede sua moglie
vecchia, che gli corre incontro facendosi largo tra la folla e la
chiama andando verso lei_) Mia moglie! O Filumena!

FILUM. O il mio tesoro! il mio amorino! Come ti sei fatto bello! e
abbronzato! (_lo abbraccia_)

CIM. Eh, già! il sole delle battaglie!... E dimmi, o Filumena... (_con
solennità comica fissandola in volto_) mi sei stata... fedele?

FILUM. Oh, te lo giuro, per la regina Venere... 

CIM. (_con forza interrompendola_) Giuralo ancora! 

FILUM. Sì, lo giuro per i misteri santissimi delle Dee! 

CIM. Basta. Ora ti credo... 

FILUM. (_accarezzandolo_) Oh il mio tesoruccio! 

CIM. Ma con voi altre donne non si sa mai! e la casa della virtù è
tanto lontana![413] Sai, Filumena (_con accento grave, paternale_),
che è un gran delitto, in odio ai Numi, mentre il marito lontano sui
campi della gloria espone la vita e conquista la corona del valore, il
preparargli in casa delle altre... corone?

FILUM. Che gli Dei le puniscano quelle donnaccie!... 

CIM. (_sullo stesso tono paternale_) E vedi come punirono le Fedre,
le Menalippe e le Clitennestre! Oggi, o Filumena, tre quarti delle
donne son Clitennestre...[414] Guardati dal malo esempio! e i Numi ti
benediranno, così come io, _reduce Ulisse al dolce antico letto_,[415]
ti benedico, deponendo questo bacio sulla tua casta fronte di
Penelope...

VOCI DEL POPOLO. Eccolo! eccolo, Alcibiade! (_voci vicine; molti si
levano in punta di piedi_)

CARIN. (_drizzandosi sulle punte_) Dov’è? dov’è? 

AMIN. (_additando_) Il secondo a destra, dopo l’arconte. 

CARIN. Ah, vedo! 

CRITIL. (_cercando farsi innanzi e por sua figlia Mirrina in vista_)
Fatti in qua (_alla figlia_), ch’egli ti possa vedere. Aggiustati quel
riccio! Su, alta quella testa! Dritta la persona!

VOCI. Viva Alcibiade! (_Alcibiade spunta col seguito dallo sfondo della
scena_)


SCENA III. 

Detti, ALCIBIADE, col seguito di arconti,[416] strategi, ipparchi,
tassiarchi[417] ed altri ufficiali e soldati; CALLIA primo arconte;
ANDROCLE; un cancelliere, e popolani.


CRITIL. (_a Mirrina_) Lo vedi? È quello là, grande. 

MIRR. Oh Venere! com’è bello! 

UN BIMBO. (_dietro la folla_) Anch’io! anch’io voglio vederlo! 

CIM. (_avanzandosi verso il bimbo, e pigliandone per sè la curiosità_)
To’! guardami! sei contento?

BIMBO. (_guardandolo_) Sei tu Cibìade? 

CIM. Io e lui siam lo stesso. 

BIMBO. Va via! Tu sei brutto! 

CIM. (_indispettito, con aria comica, allontanandosi_) E tu una
marmotta!

BIMBO. (_strillando_) Cibìade! voglio veder Cibìade! 

VOCI DI POPOLO. Viva il vincitore di Sparta! (_Alcibiade fa cenno colla
mano di voler parlare_) Silenzio! silenzio! (_silenzio generale_)

ALCIB. Cittadini ateniesi! Giusta legge fra di voi punisce di morte il
mancator delle promesse al popolo ed al Senato.[418] Vengo a mantenere
una promessa data, partendo, otto anni or sono, a voi, e una promessa
data agli efori di Sparta... (_susurro e movimenti di sorpresa fra il
popolo_)

CARIN. E ALTRI. Oh! oh! 

DIOC. Che mai dice? 

VOCI. Silenzio! 

ALCIB. Promisi ad Atene riportarle le spoglie di Siracusa. Promisi a
Sparta che avrei guidato le sue navi fin dentro il Pireo. Gli Iddii non
permisero che la Sicilia fosse nostra; ma sono cento di Siracusa[419] e
sono cento di Sparta le triremi dalle nostre prese e rimorchiate che al
Pireo navigarono con me. (_scoppio generale e fragoroso di applausi_)

VOCI DEL POPOLO. Viva Alcibiade! Viva il trionfatore! 

ALCIB. Ateniesi, la fortuna che sì a lungo ne separava,[420] sorride
ancora a questa città[421] cara a Nettuno e a Pallade Atenea! Ancora
nostro è il dominio del mare, al quale ci invitano i destini;[422]
nostre ancora quasi tutte le isole e le coste dell’Asia; ancora le
triremi di Atene coprono l’Egèo vittoriose da Creta all’Ellesponto!...
(_nuovi vivissimi applausi_)

VOCI DEL POPOLO. Bravo! evviva!... 

AMIN. (_a Carin._) E neppure una parola ha detto dei torti ricevuti!... 

DIOC. E non una parola della sua condanna! Che cuore d’oro! 

1.º ARC. Alcibiade, sulla colonna di Diofante sta scritto di premiar
come Armodio...

ALCIB. (_fra sè, con sussulto di gioia_) Armodio! 

1.º ARC. ... ed Aristogitone chi per la libertà d’Atene affronta danni
e pericoli.[423] Cancelliere,[424] leggi il decreto.[425]

CANCELL. (_legge_) «Sotto l’arconte Callia, il dì sesto di Targelione
spirante,[426] pritaneggiando[427] la tribù Leontide,[428] in assemblea
convocata dai capitani, così piacendo al popolo e al Senato, Crizia di
Callescro Falereo disse: Il Senato e il popolo riconoscendo i servigi
di Alcibiade figlio di Clinia Scambónide, han rivocato il suo esilio,
gli restituiscono i suoi beni, le sue case, i suoi servi, i suoi
diritti di cittadino: lo nominano capitano supremo delle forze di terra
e di mare:[429] e gli decretano corona d’oro, con bando nelle Panatenée
e nelle Dionisiache,[430] il dì delle nuove tragedie.[431] Il Polemarco
e i Tesmotéti, e i Pritáni e gli Agonotéti[432] sono incaricati del
bando. Disse Crizia di Callescro Faleréo.»[433] (_Alcibiade, terminata
la lettura, s’inchina e riceve dall’arconte la corona d’oro_)

1.º ARC. Alcibiade, i tuoi nemici e accusatori Tessalo, Cleonimo,
Teucro, si sono sottratti a tempo colla fuga alla giustizia del popolo
e delle leggi: costui solo dei calunniatori ci restò fra le mani:
Atene lo consegna a te; scrivi la pena;[434] faranno gli Undici il
resto.[435] (_fa avanzare Androcle legato fra arcieri sciti_)

ALCIB. (_vivamente_) Costui?! (_serio e grave all’arconte_) Sapersi
ridonato all’amore de’ concittadini è al cuor di Alcibiade risarcimento
troppo grande, perchè altri ei ne brami. (_si volge ad Androcle_) Come
ti chiami?

ANDR. Androcle. 

ALCIB. Per gli Dei! M’è nuovo il tuo nome. Sei uno de’ cavalieri?[436] 

ANDR. Oh no... 

ALCIB. Certo però paghi almeno venti dramme di imposta e sei scritto
fra gli opliti?

ANDR. Neppure... 

ALCIB. Ma avrai almeno servito negli arcieri regolari... o sulle
triremi...

ANDR. Non ho i requisiti per appartenervi... 

ALCIB. (_vibrato, con sorpresa_) Come?! Tu non hai nulla, tu non sei
nulla, e sei bastato per rovesciare la fortuna di Alcibiade? (_con
forza_) Oh, per tutti i Numi! è ben umiliante per me!! Degno arconte, è
nella legge che a me spetti la mia quota nel bottino de’ nemici?

1.º ARC. È nella legge.[437] 

ALCIB. Domando adunque che la mia parte sia data a costui: (_additando
Androcle e intanto lo slega egli medesimo_) perchè io _ho bisogno_
che egli sia _qualche cosa!_ perchè se si venisse a sapere che un
simil uomo ha potuto ingannare a mio danno una intera città, senza
guadagnarvi nulla,... la razza dei calunniatori si perderebbe, e
allora, per Ercole, non ci sarebbe più merito nè ad essere onesti, nè
ad essere eroi.

1.º ARC. (_inchinandosi_). Sarà fatto come Alcibiade desidera. (_fa
cenno agli arcieri di lasciar libero Androcle_)

CIM. (_ad Androcle prendendolo in disparte_) Una bella fune di Aliarto
ti ci voleva![438] Che la lezione ti serva, mariuolo, e ricordati quel
che devi alla _nostra_ clemenza!

ALCIB. Ora, Ateniesi, precedetemi nello Pnice. Di molte cose ho a
rendervi conto, prima di ripormi fra pochi giorni in mare; e dobbiam
render l’onore degli elogi funerei ai fortissimi estinti.[439] Io
rientro a sciogliere il voto agli Dei tutelari di questa casa ove
nacqui, dove ebbi il primo bacio di mio padre Clinia. Fra brevi istanti
allo Pnice vi raggiungerò.

VOCI DEL POPOLO. Sì, sì, allo Pnice! 

1.º ARC. Noi, Alcibiade, ti precediamo. 

AMIN. Corriamo allo Pnice a pigliar posto! 

CARIN. E ALTRI. Sì, sì, corriamo! Allo Pnice! (_gli arconti e i capi
salutano Alcibiade ed escono lentamente; i cittadini van via correndo,
Alcibiade ed Antioco restano in iscena_)


SCENA IV. 

ALCIBIADE, ANTIOCO, poi TIMANDRA. 


ALCIB. (_appena uscito il popolo, si volge vivissimamente, a mezza
voce, ad Antioco_) Oh Antioco! hai visto chi c’era presso il tempio di
Teseo?

ANT. Se ho visto! Glicera! E la ti guardava! 

ALCIB. Come s’è fatta bella! Povera Glicera! Mezzo nascosta, là, tra la
folla, colle spalle a una colonna del tempio, la mi fissava in volto
quei suoi grandi occhioni... affè di Giove, non ho avuto coraggio di
sostenerne l’incontro! Sulle labbra pareva errarle un mesto sorriso,
e nell’angolo dell’occhio, ai raggi del sole che la investivano, m’era
parso veder luccicare una lagrima... Povera fanciulla! Dei torti... e
grossi... ne ho avuti con lei...

ANT. (_sorridente_) Poichè lo confessi... è già qualche cosa... 

ALCIB. (quasi fra sè, pensieroso) Mi avesse almeno perdonato!... 

ANT. Del resto, io non solo l’ho vista, ma le ho parlato... 

ALCIB. (_con impeto vivissimo_) Tu! Come! Quando? Che ti disse? Che ti
disse!

ANT. Poi ch’io, vedendola, la salutai per nome, e me le accostai
stendendole la mano, ella la strinse e mi rispose: _Saluta Alcibiade
vincitore, per mio marito Carmide e per me_.

ALCIB. Questo?... (_detta questa parola con impeto vivissimo, soggiunge
subito, lento e con malumore_) È un po’ poco.

ANT. Confessa che sarebbe indiscreto, ne’ tuoi panni, il pretender di
più...

ALCIB. (_sospirando_) È vero! hai ragione! Ma!... Destino!... Foss’ella
almeno felice!

ANT. Mi hanno assicurato che col suo Carmide lo sia. 

ALCIB. Tu dici? Ed io giurerei che non le sono uscito interamente
dall’anima. Quegli occhioni! quella lagrima! quel sorriso! Come s’è
fatta bella! come s’è fatta bella!... (_succede una lunga pausa,
durante la quale Alcibiade sembra vada parlando e pensando fra sè, come
profondamente assorto_)

ANT. Che pensi, Alcibiade? 

ALCIB. (_riscotendosi e riprendendo il far vivace di prima_) Penso
che Amore è un Dio bizzarro ed ingiusto: poichè mi dice il cuore
che nessuna persona al mondo io sarei stato capace di amar quanto
Glicera... ah! (_mentre sta per finire la frase, s’accorge in questa
punto di Timandra, la quale si è affacciata sulla soglia della
casa di Alcibiade: e lo guarda sorridente. Alcibiade corre a lei
vivissimamente, con trasporto affettuoso, e l’abbraccia, intanto
che rivolto sorridente ad Antioco, continua, correggendola, la frase
sospesa_)... se non amassi Timandra! (_mentre bacia di nuovo Timandra,
ancora rivolto ad Antioco, corregge anche l’altra frase di prima_) Non
mi diceva nulla il cuore, sai! Non mi diceva nulla! (_a Timandra_)
Oh mia Timandra! (_in questo punto Cimoto, che era entrato nella
casa d’Alcibiade e poi ne è uscito, conduce Antioco via, facendogli
intendere un po’ comicamente che è meglio lasciar Alcibiade e Timandra
soli_).

TIMAND. Che stavi dicendo ad Antioco, Alcibiade? 

ALCIB. Oh nulla, nulla! Dicevo (_sorridente in viso, e con accento
dolce, poetico, amorosissimo_) che Amore è vita del mondo, è luce di
Olimpo, è fiamma di mille colori, è celeste armonia di mille suoni;
e che il prisma del cuor d’Alcibiade ha una faccia per ognuno de’
suoi raggi e la sua anima ha un’eco per ognuna delle sue note divine;
risponde capricciosa ora all’una, ora all’altra; riflette, cangiandosi,
or l’uno, or l’altro colore, — va scherzando, instabile sempre, di
canzone in canzone, di luce in luce; ma che tutti quei suoni diversi si
fondon pur sempre qua dentro in una armonia ineffabile e sola, e tutti
quei raggi non vi forman che un fascio ed una fiamma sola; l’armonia
della tua voce, o mia Timandra, la fiamma del tuo sguardo, anima mia!
(_abbracciandola con trasporto vivissimo_)

TIMAND. (_affettuosa_) Cattivo! 

ALCIB. Fedele, vuoi dire! 

TIMAND. E di’, sei contento, ora, Alcibiade? 

ALCIB. (_con affetto ed espansione di gioia_) Oh Timandra! mi hanno
parlato di Armodio!

TIMAND. T’ho preceduto nella casa tua, per essere, non veduta,
testimone del tuo trionfo, e gustarne liberamente da sola, nel segreto
dell’anima, tutta la gioia. Questi applausi e questi evviva che
portavano alle stelle il tuo nome, hanno fatto balzare di ineffabile
orgoglio e di voluttà sovrumana il cuore della tua Timandra. Sii
benedetto per quest’ora che mi donasti! (_lo bacia con trasporto_) Era
così ch’io ti sognai!... Sei contento?

ALCIB. Mel chiedi?! È il dì più bello della mia vita questo, e a te, a
te sola, mia Timandra, lo devo...

TIMAND. E al tuo valore. Guarda chi viene. 

ALCIB. Che?! I sacerdoti! (_guardando verso l’interno_) 

TIMAND. Sì, essi: gli Eumòlpidi che vengono a ribenedirti. 

ALCIB. Ah, infatti! per Cerere! dimenticavo che le maledizioni delle
due Dee pesano ancora su di me. È strano! Dal giorno che i sacerdoti
mi hanno maledetto, tutto mi è andato a gonfie vele. Che la loro
benedizione mi avesse a portare il malaugurio?

TIMAND. No, no, Alcibiade, non bestemmiare... 

ALCIB. Io non bestemmio; ricordo. E penso che costoro coi loro anatemi
son riusciti a farmi andare a Sparta, e a trarre Atene ad un pelo dalla
rovina... Oh, eccoli.


SCENA V. 

Detti, il GRAN SACERDOTE (gerofante) degli Eumòlpidi,[440] altri
sacerdoti.


GR. SAC. Alcibiade, noi abbiamo immolato alle Dive del profondo
Tartaro,[441] e alle loro terribili ministre, le Erinni venerande,[442]
un’agnella di pelo nero: gli indizj delle viscere riuscirono fausti, e
l’offerta fu gradita dalle Dee. Perciò ti abbiamo ribenedetto...[443] e
abbiamo maledetto invece i tuoi accusatori...

ALCIB. (_fra sè, a parte_) Non c’è verso! Qualcuno costoro bisogna che
maledicano!... (_si ode un suono lontano_)

GR. SAC. (_in ascolto_) Senti! per essi suonan già l’_aria del
fico_![444] Quanto a te, in segno della ribenedizione, abbiamo gettato
in mare le lapidi su cui furono scritti gli anatemi...[445]

ALCIB. (_con leggera inavvertita inflessione sardonica_) E dite... non
ci sarà pericolo che ritornino a galla?...

GR. SAC. Oh, no. Son di bronzo. 

ALCIB. A ogni buon conto però, se si potesse fare — a mie spese — un
sacrifizio anche a Nettuno, perchè le trattenga ben giù in fondo al
mare...? Se si potesse...

GR. SAC. Oh, si potrebbe... 

ALCIB. In tal caso vi inviterei alla rinnovazion del sacrificio
in casa mia... Preparerei da immolare una magnifica agnella...
(_interrompendosi con inflessione sardonica dissimulata_) o è meglio
una giovenca...?

GR. SAC. Una giovenca. 

ALCIB. (_dissimulando sempre sotto la cordialità l’intonazione
sarcastica_) Bene!... Una magnifica giovenca dalle corna d’oro...
e poichè le libazioni alle Erinni, essendo astemie,[446] avranno
inaridito la gola, si inaffierebbero le viscere e i voti al Nume con
libazioni di eccellente vino di Chio e di Siracusa... Si può fare?
(_sottolineando le parole_)

GR. SAC. Oh, si può fare.[447] (_gli altri sacerdoti fanno anch’essi
segni premurosi di assenso_)

ALCIB. (_sempre cortesissimo nella velata ironia_) A domani adunque, in
casa mia.

GR. SAC. A domani! (_saluta inchinandosi ed esce cogli altri_) 


SCENA VI. 

ALCIBIADE e TIMANDRA, indi SOCRATE. 


ALCIB. (_appena usciti i sacerdoti, dà in iscoppio di risa_) Ah! ah! ah! 

TIMAND. (_che durante la scena coi sacerdoti è sempre rimasta, tacita
spettatrice, in disparte_) Sei ben allegro.

ALCIB. (_prosegue ridendo_) E fui bandito sotto l’accusa d’aver posto i
loro riti in commedia! Per i Numi! non c’era bisogno di Alcibiade!...
(_desistendo dal ridere si volge a Timandra ch’è rimasta pensierosa_)
Tu vedi, Timandra! questi sacerdoti non finiscono di contentarmi:
mangiano troppo, e scrivono troppo! ho bisogno di un Nume, che maledica
un po’ meno, e parli all’anima un po’ più: se tu ne sai l’ara, e tu
guidami ad essa: se sei il suo sacerdote, benedicimi tu! (_in questo
punto Socrate traversa, lentissimo, con aria grave, lo sfondo della
scena_)

TIMAND. (_ad Alcibiade_) Un sacerdote tu cerchi? (_gli addita Socrate_)
Eccolo.

ALCIB. (_volgendosi e vedendo Socrate_) Socrate!... (_corre a lui_) Oh,
finalmente ti ritrovo! (_con voce di affettuoso rimprovero_) Tutti gli
amici oggi mi vennero incontro; tu solo, il più caro, non ti sei fatto
vedere. Ma io di te mi son ricordato, sai!... e ho portato dei doni per
te...

SOCR. (_serio e grave_) Grazie. Dalli a qualcun altro.[448] 

ALCIB. Ma tu verrai oggi meco, e al mio fianco, nell’Assemblea, e
al sacrificio e al banchetto e alla festa! Io voglio che tutta Atene
sappia come Alcibiade onora il suo vecchio maestro — colui che il Nume
di Delfo proclamava il miglior dei mortali.

SOCR. No, no! tralascia. Non posso. C’è troppo rumore, c’è troppo
baccano laggiù. Il posto di Socrate non è dove si grida, ma dove
si soffre. Non è dove si applaudono i trionfatori, ma dove dormono
ignorati i vinti. (_dette queste parole con voce grave, solenne e
mesta, si avvia_)

ALCIB. (_cercando trattenerlo_) Ma dove vai? Dove vai? 

SOCR. (_con calma mesta e severa_) Al Ceràmico, a deporre questa corona
sul cenotafio[449] dei valorosi morti in Sicilia...

ALCIB. (_sopraffatto e mortificato dalle parole di Socrate,[450] dopo
un momento di pausa, si strappa dal capo la corona avuta dall’arconte e
la scaglia con ira a terra; poi, come pentendosi dell’atto, e mutando
pensiero, la raccoglie con gesto vivissimo e la presenta a Socrate,
dicendogli, a capo chino, sena guardarlo in faccia, con voce mesta e
cupa_) Deponvi anche questa! (_Socrate prende la corona, e senza dir
parola, serio, a passo lento, si allontana. Alcibiade e Timandra lo
seguono_). — _Quadro._


  CALA LA TELA.




QUADRO SETTIMO 

      _Anno 407 av. l’Era Volgare.[451] Nel mese di Sciroforione
                            (giugno-luglio)._ 

                            MILETO (_Jonia_)

  Attendamento d’Alcibiade sulla spiaggia presso Mileto. Dalla tenda
    aperta nello sfondo vedesi il mare: e scorgonsi le sentinelle. È
    sera.


SCENA PRIMA. 

TIMANDRA, CONONE, poi EUFEMO, indi CIMOTO. 


(_Prima ch’essi entrino in iscena si odono di lontano alcuni brevi
suoni di campanello, a cui rispondono voci lontane delle scolte_)[452]

VOCE DI SENTINELLA (_lenta e lunga dall’interno, rispondente al suono
del campanello_). Pallade Atenéa!

TIMAND. (_entra in iscena, accompagnata da Conone e discorrendo
secolui, con voce d’ansia e di dolore_) Proprio vero dunque l’annunzio?

CON. Così gli Iddii nol volessero! Eufemo è di ritorno. Da lui saprai
tutto. Eccolo. (_entra Eufemo abbattuto, addolorato, e stringe senza
parlare la mano a Timandra_)

TIMAND. (_con ansia_) Ebbene? 

EUF. Quindici navi perdute, Antioco morto. 

TIMAND. Ma Antioco aveva pur avuto ordine da Alcibiade di non dar
battaglia innanzi il suo ritorno...

EUF. L’amor proprio fu in lui più forte della disciplina. Il terzo
dì che Alcibiade era partito, affidandogli nel frattempo il comando,
impaziente di compiere qualche fatto glorioso di testa sua, navigò da
Samo a Nòzio[453] a provocar Lisandro a battaglia: questi, edotto della
assenza di Alcibiade, fu addosso di repente al temerario con tutta
l’armata:... il resto... lo sai.[454]

CIM. (_esclamando a parte_) Ecco i frutti delle imprudenze! 

EUF. Antioco espiò colla vita, combattendo da eroe, la sua
disobbedienza e la sua folle temerità.

CIM. (_con accento intenerito_) Povero Antioco! 

TIMAND. Sia dunque perdonato alla sua memoria, e si pensi a questo vivo
che oggi ritorna fra noi, e in cui solo ormai riposano le fortune di
Atene! Numi! qual dolore lo aspetta!

EUF. Alcibiade è già di ritorno? 

TIMAND. (_sospirando_) E non sa nulla! e lieto, e pieno di speranze
ritorna! Come dare il funesto annuncio a lui! come darlo all’esercito!

CON. Timandra, nessuno più di te conosce le tempeste di quell’anima:
nessuno più di te sa blandirne i dolori. Parlagli tu.

TIMAND. Silenzio. Queste voci! Egli giunge!... 


SCENA II. 

Detti ed ALCIBIADE, seguito da parecchi ufficiali. 


ALCIB. (_entra affrettato, vivacissimo, raggiante di gioja_) Eccomi,
mia Timandra! Amici! Buone notizie! Tutto, tutto ne sorride, e Atene
di me sarà contenta! Porto denaro e bottino, da Coo, da Rodi e dalla
Caria;[455] porto rinforzi di uomini e di triremi; porto le spoglie
di altre dieci navi spartane prese. Su, su! fra un’ora, seguendo il
corso della vittoria, partirem per Samo a congiungerci alla flotta di
Antioco...

CON. _e_ EUF. Che! 

ALCIB. Siete contenti? Sicuro! E riuniti attaccheremo Lisandro, e così
mi guardi Adrastea, come io spero finire d’un solo colpo la guerra...
Ma che! voi tacete! non mi dite nulla! E mi state lì, come pali,
immobili!... Conone, per i Numi! tu sospiri!

CON. Io? oh no... ma... 

ALCIB. Ma... avresti forse qualche fiamma segreta che ti rincresce di
lasciar qui... a Mileto...? Ah, tu taci!... (_sorridendo, in quel punto
s’accorge anche dell’aria mesta di Eufemo_) Oh, oh, Eufemo! anche tu!
Sta a vedere che il molle clima di Jonia vi ha già resi più donnajoli
di me! Eh via! su allegri! a Samo son fanciulle più belle che a Mileto,
e Amore vi divide con Bacco il suo regno al suono delle canzoni del
buon veglio di Teo![456]

TIMAND. (_fra sè mestamente_) Lo stesso sempre! 

ALCIB. Fra un’ora daremo al vento le vele! Formione! (_chiamando un
servo che porta da bere_) i calici! i calici! Mesciamo il vino ne’
crateri e facciam le libazioni della partenza![457] A te, o Pallade
egidarmata, protettrice della nostra città, consacriamo quest’ora di
speranze gioconde... (_Cimoto in disparte si asciuga una lagrima_) e in
bando da noi ogni tristezza!

TIMAND. (_con voce lenta e grave_) Anche allora che la sventura ne
colpisse?

ALCIB. (_vivamente_) La sventura? Quando la quercia ed il cedro avran
paura del vento, quando il vino di Chio non avrà più profumi, e i
baci di donna amata non avran più dolcezze per me, — allora Alcibiade
temerà la sventura. Benedetta ella sia! Ce la mandano i Numi, affine di
rendere le nostre gioje più sentite e le nostre anime più forti.

TIMAND. (_con voce mesta e grave_) Ebbene, allora sii forte, Alcibiade:
perchè la sventura è venuta; è venuta ancora a battere alla tua soglia!

ALCIB. (_fattosi d’improvviso serio, calmo, imperioso_) Timandra!
spiegati. E se batte... àprile.

TIMAND. (_con voce solenne, commossa_) Prosegui dunque il tuo brindisi,
e propina agli Dei! Udite, o Ateniesi, e tu alza, Alcibiade, ben
coronato il tuo nappo[458] perchè si veda che il tuo braccio non trema
e che il tuo polso non batte più dell’usato frequente. Liba agli Dei
senza battere di ciglio, perchè si veda che sei ancora l’Alcibiade
antico e che Atene è ancor salva fin che le resta la speranza in
te! Dieci altre navi tu acquistasti ad Atene: quindici Antioco ne ha
perdute a lei.

ALCIB. (_in un primo scoppio di voce_) Ah, tu men... (_troncando
a mezzo la parola, senz’altro più aggiungere, d’improvviso
padroneggiatosi con supremo sforzo, si ricompone in calma cupa e
solenne, si fa dare una corona e se la pone in capo, stende risoluto
il braccio facendosi versare nel calice fino all’orlo, alza indi il
calice lentamente, tenendolo alto e fermo qualche minuto col braccio
teso; poi nell’atto di appressarlo alle labbra, addita a Timandra
il suolo su cui non si è versata alcuna stilla di vino e le dice a
voce grave, pacatissima_) Neppure una goccia! (_beve d’un sorso, poi
di nuovo a Timandra, lento e con calma cupa_) Tu vedi, o Timandra,
che il mio polso è sicuro. (_uscendo a questo punto repentinamente
dalla sua calma, gitta con violenza il calice a terra e prorompe con
impeto_) Ch’io non beva mai più da oggi innanzi il vino puro del buon
Genio,[459] finchè io non abbia rovesciato di mia mano il trofeo di
Lisandro!...

TIMAND. Così ti amo, Alcibiade! 

ALCIB. (_con accento concitato, febbrile_) Eufemo, raggiungi gli
avanzi della flotta d’Antioco e portali a me. Conone, tu naviga a Coo
a prendervi di rinforzo le triremi che vi lasciai. Io levo il campo
stasera, e parto per Samo. Raggiungetemi là. (_Cimoto è uscito un
istante e rientra_)


SCENA III. 

Detti e un Messo. 


CIM. Alcibiade, un uomo è giunto da Atene con un messaggio per te. 

ALCIB. Venga. (_va incontro al messo_) Da Atene? E chi ti manda? 

MESSO. Socrate. 

ALCIB. (_sorpreso_) Lui! Quando riparti? 

MESSO. Stasera. 

ALCIB. Avrai la risposta. (_Prende il messaggio e lo congeda_) 


SCENA IV. 

Detti, meno il Messo. 


TIMAND. (_a parte seguendo ansiosa dello sguardo Alcibiade_) Numi!...
che sarà mai? Io tremo.

ALCIB. (_spiegando lentamente il papiro_) Socrate mi scrive? Bizzarro
uomo!... Il dì del mio trionfo, mentre tutti mi acclamavano, egli solo
si tenne in disparte: oggi mi scrive. Si fa vivo soltanto nei giorni
di sventura, costui?... (_legge e dà segni improvvisi di sorpresa,
concitazione, ira, dolore: poi si ricompone forzatamente in calma_)

TIMAND. (_avvicinandosegli e guardandolo ansiosa_) Alcibiade, ebbene? 

ALCIB. (_con calma forzata_) Ebbene... nulla è mutato. Noi partirem
stanotte. (_si volge agli altri_) Andate a dar gli ordini. (_Conone,
Eufemo escono, Cimoto accenna anch’egli di uscire, ma si sofferma
esitante sulla soglia, non visto_)


SCENA V. 

TIMANDRA, ALCIBIADE, e in disparte CIMOTO. 


ALCIB. (_Alcibiade segue gli amici dello sguardo fin che sono usciti,
poi si volge a Timandra_) Quanti dì sono, o Timandra, da che lasciai
fra le ovazioni Atene?

TIMAND. Partimmo alla luna nuova di Targelione. Son sedici dì. 

ALCIB. (_conducendola verso la tenda_) Questa dunque che or si leva
tranquilla dall’onde del mare di Icaro[460] è ancora la luna del mese.
Pare che gli amori del popolo di Atene si mutino più presto della
luna... e che un altro Icaro sia giunto a questi lidi. (_le porge il
foglio a leggere_)

TIMAND. (_leggendo concitatissima_) «Socrate rifiuta i doni di
Alcibiade nei giorni del trionfo per avere il diritto d’essergli
amico nei giorni dell’infortunio. La disfatta di Antioco è qui nota:
i tuoi nemici ne han versata la colpa su te. Il popolo ti ha deposto
dal comando e ti chiama a rendergli conto. Persuaso da’ tuoi successi
che tu devi e puoi vincere sempre, se il vuoi,[461] esso ti imputa
la sventura a tradimento. Gli inviati del popolo son partiti già.»
(_Timandra lascia cadere, affranta di dolore, il foglio_)

ALCIB. (_con accento amarissimo_) Liba dunque ancora agli Dei! Insegui
la gloria! Timandra, sono i vantaggi della gloria, questi!

TIMAND. Ed ora che pensi? 

ALCIB. Aspettar gli inviati forse? Subir lo scorno della destituzione
in faccia a’ miei soldati? Seder umile sopra gli altari, col ramoscello
dei supplici in mano;[462] portar ad Atene, in atto dimesso, questa
fronte, che vi apparve or son pochi giorni cinta del lauro de’
trionfatori? Oh, no, per i Numi! questa soddisfazione non l’avranno!
Gli oboli della paga ai giudici che devono sentenziar di Alcibiade non
son coniati ancora.

TIMAND. (_con accento angoscioso_) Oh Alcibiade! ricordati di Catania! 

ALCIB. Rassicurati. L’ingratitudine e l’invidia mi ritrovano oggi ben
più forte di allora. Allora era la fama che mi rubavano: oggi è di
questa che mi fanno una colpa. Allora mi toglievano un nome: oggi non
possono togliermi più che il comando... o la vita anche; perchè oggi,
se anco morissi, ricorderebbe il mondo che c’è stato un Alcibiade.
Tu vedi che mi basta, e che non ho più bisogno di una colpa per
vendicarmi.

TIMAND. E dunque? 

ALCIB. E dunque questa spada che brillò al sole delle battaglie, ne
faremo un prosaico spiedo da infilzar selvaggina! Atene non la vuole;
non l’avrà più; la cercherà un giorno, e non l’avrà più.[463] (_Nel
discorrere la voce di Alcibiade è calma e ferma: ma d’una fermezza
artefatta e forzata che ha le lagrime in fondo: Alcibiade parla quasi
fra sè. Cimoto dal fondo ascolta e asciuga le lagrime_) Lascerò la
flotta e i compagni d’arme; andrò in luogo dove più nulla di Atene mi
tocchi; dove, se è possibile, non oda nemmeno parlarne... Invece di
inseguire Spartani, inseguirò camosci; vivrò, non più di gloria e di
battaglie... ma di caccia e di pesca, di memorie e di sogni... come un
téssalo pastore. In Tracia o in Persia vado..., in terra che d’ingrati
non sia.[464]

TIMAND. Solo? 

ALCIB. Anche solo... 

TIMAND. Oh, purchè non sia contro Atene, contro le Erinni e contro le
Parche, io ti seguo!

ALCIB. E vieni allora! Traverseremo il campo, fino alla spiaggia,
frammezzo alle coorti che riposano nel sonno... (_Cimoto esce di
scena_) Addio (_guardando fuori della tenda_), compagni di fatiche,
di gloria e di pericoli, coi quali speravo combatter l’ultima pugna!
Addio, limpide noti del cielo di Jonia che ieri ancora sorridevate
al mio destino!... Vedi, o Timandra, la sera com’è serena; le stelle
risplendono nel profondo azzurro, come se illuminassero, non la caduta
di Alcibiade e la fuga di un proscritto, ma la passeggiata felice di
due felici amanti... Non ti sembran beffarde, o Timandra, le stelle?
(_a questo punto la fermezza e l’ironia forzata abbandonano Alcibiade:
e la sua voce, già fatta tremante dall’interna emozione, si rompe in
uno sfogo di pianto_) È troppo! è troppo!

TIMAND. (_accorrendo a lui con voce affettuosa_) Alcibiade!... 

ALCIB. (_rasciuga le lagrime e si leva con impeto, come vergognandosi
del proprio sfogo_) Andiamo! Andiamo! il tempo corre!... in sella e al
lido!

CIM. (_si affaccia di nuovo, serio, mesto, silenzioso sulla soglia_) 

ALCIB. (_con malumore, nel veder Cimoto_) Che vuoi? 

CIM. (_con voce calma, mestamente affettuosa_) I cavalli son pronti. Se
non ti rincresce... ne ho sellati tre.

ALCIB. (_dopo un momento di irresoluzione e dopo aver guardato
Timandra, che collo sguardo lo prega di lasciar venire Cimoto, si volge
a quest’ultimo con voce che vorrebbe esser brusca e non è_) E monta
su dunque!... (_Cimoto rasserenatosi corre innanzi ed esce; Alcibiade
ripiglia con voce lenta e mestissima_) Se devo ormai vivere ozioso,
inutile al mondo, — è giusto che un parassito mi mostri la via!


  CALA LA TELA.




QUADRO OTTAVO 

         _Anno 405 av. l’Era volgare, nel mese di Boedromione.
  (4º della Olimpiade 93.ª — 26º e penultimo della guerra del Peloponneso)
             Eubato di Cirene vinse il premio ad Olimpia._

                  ELLESPONTO (_Chersoneso di Tracia_).

  Corte di Seute re di Tracia[465] a Patti sull’Ellesponto[466].
    Tenda foggiata a sala di banchetto, mensa nel mezzo e sedili
    all’ingiro. Pelli distese qua e là per terra. Sulle mense sono
    posti dei corni per bere: e dei piccoli tripodi, contenenti le
    vivande, uno dinanzi a ciascun convitato. Armi tracie sospese in
    giro (targhe o pelte, sciabole, archi, faretre).


SCENA PRIMA. 

SEUTE re, ALCIBIADE, CIMOTO, BERÌSADE, MEDÒSADE, ODRISIO traci; altri
guerrieri e coppieri traci.


(_Ad eccezione di Cimoto, il solo vestito alla greca, tutti i
convitati, compreso Alcibiade, indossano il costume trace[467]:
berrettoni di pelle di volpe_ (alopéchidi) _coprenti il capo e le
orecchie[468]; tonache scendenti sulle coscie, e, sopra le tonache,
mantelli più corti e screziati_ (zeire); _calzari o coturni di pelle di
cerbiatto ricoprenti i piedi e le tibie; corte sciabole o scimitarre,
alla cintura[469]. I convitati, a differenza dell’uso greco, son tutti
seduti, non su letti, ma sopra scanni; qualcuno accoccolato su pelli
distese per terra. Alcibiade siede alla destra del re. Coppieri traci
portano in giro, versando da bere, grandi corni di vino. Il re, tratto
tratto, fa in piccoli pezzi i pani (grandi e rotondi) e li getta ai
convitati. Il banchetto è sul finire e i fumi del vino cominciano a
riscaldarne l’allegria._[470])

SEUTE.[471] Alcibiade, m’avean raccontato molte cose di te: ma tu
veramente sei maggior della tua fama. Sai tu che noi Traci abbiam
rinomanza di cavalcatori[472] e che il puledro da te oggi domato
parecchi fra i nostri più arditi s’eran provati indarno a salirlo?...

CIM. (_che mangia avidamente al capo opposto della tavola_) Ma tu,
o re, non sai che noi abbiamo vinto alle corse di Olimpia[473] e col
carro e col celéte,[474] e che n’abbiam portato la prima, la seconda e
la terza corona...

SEUTE. Che! per Sabàzio![475] tu così pingue ad Olimpia? 

CIM. Domandalo ad Alcibiade. N’è vero, Alcibiade, che te le ho portate
io le corone?

SEUTE. (_ridendo con gli altri convitati_) Ah, ora meglio ti spieghi!
Ebbene, Alcibiade, la tua vittoria d’oggi val bene l’altra d’Olimpia.
Il vanto più antico del paese nostro — per Mercurio! — [476] è la prima
volta che lo sfronda uno straniero...

ALCIB. Ti sembra, o re Seute, che ancora io sia così straniero in
Tracia? Qui fra voi ospitato, i miei lari, e i beni, e le castella, e
tutte le mie cose son qui.

SEUTE. Nè la Tracia ebbe mai ospite più degno. Anzi, più che ospite!
poichè fra i Traci ed Atene sono vincoli antichi: qui è il granajo
dell’Attica vostra,[477] e fu nostro re Téreo che sposò Progne, la
figlia del vostro re Pandione...[478]

ALCIB. Tristi cose rammenti! Téreo e Progne e Filomela, mutati in
augelli, vanno ancora piangendo a notte scura l’orrida cena per i
boschi di Dàulia.[479] Che giova fra i calici discorrer di delitti
e di sventure! _Non parliamo d’Atene!..._ (_Alcibiade proferisce
quest’ultime parole in modo singolarmente accentato; e come cercando
cacciare una nube di tristezza, ripiglia subito dopo una forzata
ilarità_)

SEUTE. Oh Alcibiade, ma io so qualcos’altro: so che sei nato a
Scambónide,[480] proprio là dove Eumolpo di Tracia[481] segnò con Atene
il primissimo patto di alleanza e fondò i misteri delle Dee: e là, ov’è
la tomba di Eumolpo nostro, ivi è la culla tua. Vero questo, Alcibiade?

ALCIB. Sì: ma a che pro cercare vincoli incerti, se niun vincolo è più
caro agli Dei di quello di ospite ed amico! Re Seute, re Seute, _non
parliamo d’Atene!_

SEUTE. Dell’amicizia nostra dunque si parli... 

CIM. (_a Berisade che gli siede vicino, nel ricevere in questo punto
un pezzettino di pane gettatogli dal re_) O perchè il re mi taglia lui
e mi gitta il pane e la carne, così a pezzettini? mi ha preso per una
formica?

BERIS. Così si usa fra noi.[482] 

CIM. Ah, è il vostro costume!... Bello, bello! E invece, ad Atene, se
tu vedessi come si usa...

BERIS. Come? 

CIM. Ora ti mostro. Dà qua quel pezzo. (_gli addita un grosso pezzo di
carne: Berisade glielo porge. Cimoto se lo prende intero, se lo pone
sulle ginocchia e se lo mangia a grossi bocconi_) Il nostro costume...
vedi, di noi altri Chiechenei,...[483] è questo... (_parla mangiando_)

ALCIB. (_osservandolo, con voce di rimprovero_) Cimoto! 

CIM. (_seguendo a mangiare mentre i convitati ridono_) Eh? 

ALCIB. Che fai? 

CIM. Mostro qui a Berisade i costumi d’Atene. 

SEUTE. (_seguendo il discorso con Alcibiade_) E dunque, Alcibiade,
poichè mi sei ospite e amico, accettane in pegno il cavallo che oggi
domasti; purissimo sangue dei cavalli di Reso.[484]

ALCIB. Grazie, o re! Ma tu violi il costume. So che in Tracia è usanza
pei re non far doni, ma riceverne.[485] Io qui pur troppo non ho di
che ricambiarti il regalo. Solo la spada e il braccio mi restano:[486]
poichè (_con voce cupa e triste_) per altri non m’è dato adoprarli, son
tuoi. Tu sei in guerra co’ Traci della montagna:[487] fa conto ch’io
sia un Trace del piano.

SEUTE. Oh, così il sole del Ponto ti avesse visto nascere, come del più
perfetto fra i Traci mostri aver veramente le virtù...

MEDOS. (_a voce forte, mezzo brillo_) Tranne una, o re, tranne una!...
Alcibiade, da noi si giudicano uomini quelli soli che sono potenti a
molto mangiare e molto bere![488]

BERIS. (_dall’altro capo della tavola_) Medosade, non hai guardato da
questa parte. (_indica Cimoto battendogli sulla spalla_) Questo è un
uomo.[489]

CIM. (_inchinandosi_) Grazie! Lo sapevo. 

BERIS. L’amico qui... (_seguendo a batter forte sulla spalla a Cimoto,
che coi gesti ringrazia modestamente del complimento_)

CIM. (_a Berisade che nel parlare gli batte sulla spalla troppo forte_)
Sì, grazie! Ma un po’ più adagio, se non ti dispiace...

BERIS. (_ripigliando da capo_) L’amico qui ha mangiato per me, per te e
per altri due...

MEDOS. Ma del bevere io parlo! Alcibiade, tu oggi per Trace non ti sei
distinto. Ti invito alla sfida di Ercole e di Leprea.[490] Vuoi fare un
brindisi meco?

ALCIB. (_cortese sorridendo_) Ah! Il cavallo alla pianura![491] E
perchè no?

CIM. (_a parte_) Già! anche il porco una volta sfidò Minerva...[492] 

MEDOS. (_non ha ben capito le parole di Cimoto, però gli è parso di
sentire un’insolenza, e gli si volta brusco e minaccioso_) Che cosa hai
detto!

CIM. Niente! niente! che sei un uomo! 

MEDOS. (_con aria di soddisfazione, calmandosi_) Ah! (_si volge ad
Alcibiade_) Bevi questo adunque ch’è vin puro,[493] e di Bibli, alla
salute del re nostro. (_si alza mezzo barcollante e gli presenta un
corno enorme di vino. Alcibiade pure si alza: gli altri si stringono
intorno con curiosità_)

CIM. Quel po’ di roba! ma son più di quattro cótile![494] No, no,
Alcibiade! sei matto?

ALCIB. (_sorridendo a Cimoto_) Vuoi per te solo la gloria? (_a
Medosade, freddo_) Dà l’esempio: io ti seguo.

MEDOS. A te, o Seute! ho un fanciullo[495] e due schiave di Mileto: mi
costano duemila cizicéni,[496] e forme più belle mai non vide la Jonia.
Li dono a te.

CIM. (_a parte_) Eh, anche qui non c’è malaccio a fare il re!
(_Medosade tracanna e barcolla sempre più. Alcibiade dopo di lui alza
il corno ricolmo_)

ALCIB. Alla tua salute, o re Seute, e che Sabazio, Marte e Zamolchi
protettori della Tracia concedano alle tue armi la vittoria! (_tracanna
di un fiato: poi depone il corno vuoto, colla tranquillità più serena,
mentre i convitati lo guardano con sorpresa_)

SEUTE. (_e altri convitati_) Bravo, Alcibiade! 

ALCIB. (_tranquillissimo, batte sulla spalla di Medosade stupefatto e
barcollante_) Amico!

MEDOS. Eh? 

ALCIB. Io ho bevuto da Trace... ma son di Grecia: e fui un pezzo a
Sparta. (_Medosade lo guarda senza comprendere_) Il re ha una sposa, e
i Greci onoran le donne. Ti sei dimenticato della regina.

MEDOS. (_sconcertato_) Che?! 

ALCIB. (_freddissimo, sorridendo_) Bevi meco ora questo alla regina!
(_fra la sorpresa dei convitati fa ricolmare ancora i corni, e ne
presenta uno a Medosade che guarda Alcibiade estatico e prende il corno
macchinalmente_)

BERIS. Sì, sì, Medosade, alla prova! Bravo Alcibiade! 

SEUTE. Ma è Bacco Tebano in persona, costui!... 

ALCIB. Alla salute della bellissima Stratónica,[497] la fida sposa del
re! e che Giunone Ilìtia[498] doni al suo talamo le gioie! (_Alcibiade
tracanna, poi depone calmo e sorridente il corno fra gli applausi dei
convitati.[499] Medosade, senza dir parola, con uno sforzo supremo
appressa il suo alle labbra; a metà lascia cadere il corno, barcolla
e stramazza. Alcibiade si guarda intorno, come per vedere se qualcun
altro si avanzi alla sfida, indi, calmo, ripiglia_) La sfida di
Ercole e di Leprèa pare finita... (_fra sè mestamente sospirando_) (Se
Timandra mi vedesse!...)

SEUTE. (_levando il corno a sua volta_) E noi tutti, ora, Alcibiade,
beviamo alla tua! Così ti guardino gli Iddii e ti rallietino i giorni
nelle nostre case ospitali!

CIM. (_a parte_) Case le chiama?! To! to! Le avevo prese per
ispelonche![500] Come ci si sta bene!

BERIS. (_afferrando le ultime parole_) Dove? 

CIM. (_canzonatorio, senza che l’altro se n’accorga_) Nelle vostre...
case ospitali!

CONVIT. Viva Alcibiade! (_Seute e gli altri, meno Alcibiade, che è sul
davanti della scena, tracannano. Poi Seute, quel che resta di licore
nel suo corno lo versa addosso al vicino, e così fanno parecchi altri.
Berisade, che è presso a Cimoto, versa addosso a lui sulla testa il
vino rimastogli nel corno_)

CIM. (_brusco, incollerito, dando uno sbalzo_) Ehi là! cosa fai? 

BERIS. (_grave e dignitoso_) Ti verso il vino che m’è rimasto nel
corno.[501]

CIM. Che ti pigli il malanno! 

BERIS. Non vedi che così ha fatto anche il re? È il nostro costume di
Tracia!

CIM. Ah si?... Allora... aspetta... (_prende rapidamente il proprio
corno per versarne il contenuto addosso a Berisade; ma nell’atto
di buttarglielo addosso se ne pente e invece se lo beve_) Sarà per
un’altra volta.

SEUTE. Alcibiade, noi Traci sappiamo che le anime dei morti dopo
un certo tempo ritornano sulla terra e in altri corpi ripigliano
dimora.[502] Per Zamolchi![503] Tu certo prima di essere un Greco
dovesti essere un Trace! Se resti a lungo fra noi, diverrai l’idolo
delle nostre donne, e romperai i sonni di molti mariti.

ODRIS. Perdono, o re! Tu fai torto alle donne nostre! Alcibiade, non
sai tu nulla delle donne di Tracia?

ALCIB. Ben poco. So che in Eritréa han dato le chiome per farne corda
e trarre alla riva il simulacro di Ercole,[504] e questa fu un’azione
buona: e so che in Dione di Macedonia hanno mangiato a pranzo il poeta
Orfeo,[505] e questa, se vogliamo, fu un’azione cattiva.

ODRIS. Allor sappi anche questo. Noi di Tracia siamo gagliardi e le
nostre mogli sono caste.[506]

ALCIB. (_sorridendo_) Davvero? 

ODRIS. (_continuando_) E quando il marito muore, è gara fra di esse a
scegliere quella che più gli è stata diletta e fedele...

ALCIB. E quando è scelta? 

ODRIS. La si accoppa, perchè tenga al marito compagnia.[507] 

ALCIB. (_avvicinandosi ad Odrisio, a voce più bassa_) Ebbene allora,
amico mio, se anche tu hai mogli e se anch’elle sono caste, vigila!
vigila su di loro!...

ODRIS. (_incollerito, portando la mano all’elsa_) Per il Vento e per la
Scimitarra![508] tu insulti le mie donne e me!

ALCIB. Pace, amico! e consenti alla gioia di Bacco qualche libertà di
parola. Non le ho vedute mai, le donne di Tracia, alla prova...

ODRIS. Bada, io non te n’offra, di prove, una, e umiliante per te... 

ALCIB. L’avrò meritata. L’accetto. 

ODRIS. Re Seute, Alcibiade vorrebbe veder a prova di fedeltà le donne
nostre...

SEUTE. Nient’altro che questo? (_a un servo_) Vengano mia moglie e le
mogli dei convitati.[509]

ALCIB. (_vivamente_) Tua moglie! Ah no! mai! 

SEUTE. Ella sola temerebbe confronti? (_al servo_) Va! (_il servo esce_) 

BERIS. (_a Cimoto_) Ora vo’ mostrarti una delle mogli mie ch’è una
bellezza.

CIM. O quante n’hai? 

BERIS. N’avevo dieci; ma sei non le mi servivano più, e dopo un anno,
le ho restituite ai parenti.[510] Dell’altre quattro, poi, una è un
portento. Mio zio sposandola la pagò a suo padre duecento bei dárici
sonanti: è quel che di meglio mi ha lasciato in eredità.

CIM. Eh? In eredità? 

BERIS. Sicuro: eravam due nipoti soli eredi. Nella ripartizione
dell’asse ereditario, la moglie è toccata a me.

CIM. (_guardandolo attonito_) Ah?... Mi congratulo! 

BERIS. Esse vengono... Guarda, è la terza! 

CIM. (_osservandola nell’interno_) Bella davvero! (_a parte_) Povera
creatura! toccar in eredità a questo bue!


SCENA II. 

Detti, STRATONICA, ELPINICE, ARGIA, DROSO, altre donne. 


STRATON. Addio, Seute. A che ci hai chiamato? 

SEUTE. Da Alcibiade d’Atene, qui presente, lo saprai. (_Stratonica dà
segni di inquietudine: le altre guardano con curiosa avidità Alcibiade
additandoselo fra loro_) Farai quel che egli dice.

CIM. (_a parte, a Berisade_) Così le comanda? 

BERIS. O non è sua moglie? 

CIM. Non è come a Sparta. Là, le mogli comandano ai mariti... 

BERIS. E qui i mariti alle mogli.[511] È più sicuro... 

CIM. Già! e per questo le vi son fedeli? 

BERIS. Certo. Ora vedrai. (_questo breve colloquio fra Berisade
e Cimoto ha avuto luogo rapidamente, mentre Alcibiade e gli altri
scambiano qualche parola colla regina e le altre donne_)

ODRIS. Parlerò io, o re, per Alcibiade. (_ad Alcibiade_) È nel patto?... 

ALCIB. (_inchinandosi_) È nel patto. 

ODRIS. O regina, o donne, sapete di voi che cosa disse Alcibiade di
Clinia, ateniese, qui presente?

STRATON. Che disse? 

ODRIS. Tristi cose! Che le donne di Tracia non sono caste!
(_esclamazioni fra le donne_)

ARGIA. Per le colombe di Citerea! Egli ha detto questo? 

ALCIB. Ma Odrisio!... io non ho... 

ODRIS. Tu non hai libertà di parola, perchè mi hai dato libertà di
prove. È nel patto. Tu taci. (_alle donne_) Egli ha detto questo, e
peggio ancora...

ELPIN. Peggio? Che cosa? 

ODRIS. Che le donne di Tracia sono brutte. 

STRATON. (_con risentimento maggiore di prima_) Alcibiade! 

ELPIN. O l’impudente! Questo è troppo! 

ALCIB. (_a Odrisio cercando difendersi_) Odrisio!... ma... 

ODRIS. Ma tu taci... 

ARGIA. Che Giove gli mozzi la lingua! 

ODRIS. Silenzio! E ha detto ancora... 

TUTTE LE DONNE _ad una voce, indignate_. Come? Come? Ancora? 

ODRIS. Che le donne di Tracia giurano il falso... 

ARGIA. Uh! l’iniquo! 

ELPIN. Vogliam fargli la festa d’Orfeo? 

CIM. (_a parte_) Povero padrone! Quella ci mancherebbe! 

DROSO. Che Zamolchi lo confonda! 

ODRIS. Confonderlo sta in voi! Giurate sull’onor vostro... 

CIM. (_a parte, sogghignando_) Bella garanzia! 

ODRIS. Di dire il vero (_esclamazioni fra le donne:_ Sì, sì!): e
senza riguardo ai mariti, ponga ciascuna in un’urna il nome di colui
ch’ella vorrebbe nel talamo... a compagno...[512]

SEUTE (_alzandosi repente con voce severissima_) Odrisio! 

ODRIS. (_intimidito_) Seute? 

SEUTE. La tua domanda è sleale e temeraria: ringrazia la fortuna che mi
trovi di umor lieto: se no, potrei ricordarmi che s’appressa la festa
di Zamolchi e ch’egli aspetta il suo ambasciatore! Ma poichè osasti
una simile domanda, e voi (_ai convitati_) la consentiste, sia vostra
la pena e sia la domanda più completa. Abbia ciascuna di voi (_alle
donne_) per sempre il compagno ch’ella si avrà scelto, sia o no suo
marito: e senza timore lo scelga!... Paventi la mia collera chi ad esse
oserà torcere un capello!

STRATON. (_come volendo parlargli_) Seute... 

SEUTE. Per tutte io parlo: e anche per te. Sia schietto e libero il
cuore della regina, come quel dell’ultima fra le sue donne. Ho detto.
(_le donne si ritirano in un lato della sala a scrivere i nomi ciascuna
separatamente_)

CIM. Bravo il re! Ora vogliam vederne di belle! Coraggio, Cimoto,
fatti avanti. Che fossi proprio questa volta venuto in Tracia a far
fortuna![513] (_Cimoto si rassetta i capelli e gli abiti, e ripassa
davanti le donne con aria da bellimbusto che cerchi mettersi in
evidenza: i Traci si consultano fra di loro ostentando sicurezza
baldanzosa: Alcibiade passeggia solo su e giù per la sala_)

BERIS. (_con boria a Cimoto_) Ora vedrai come la mia Argia mi è fedele.
La è Penelope in persona.

CIM. Vedremo! E dimmi intanto una cosa... Di che ambasciatore parlava
dianzi il re?

BERIS. Ah, sicuro! Ognun di noi, quando muore, va a ritrovare il nostro
dio Zamolchi: e per tenerci con lui in buoni termini, ogni anno gli
si manda colle debite istruzioni un deputato in ambasciata. Si mettono
in tre colle lancie in resta: poi l’ambasciatore nominato lo si butta
dall’alto, e lo si ripiglia sulla punta delle lancie...[514]

CIM. Brrrrrrrr!!! 

BERIS. Se muore, è segno che Zamolchi ha fatto buon viso
all’ambasceria; se guarisce, è segno che l’ambasciatore è un furfante;
lo si bastona a dovere, e si nomina un altro in sua vece, incaricato di
nuove istruzioni...

CIM. (_lo guarda spaventato_) Ah... sì?... E già... dev’essere un Trace
l’ambasciatore...

BERIS. (_con indifferenza_) Oh anche un forestiero può aver diritto
alla nomina... Purchè acquisti la cittadinanza... Vuoi ch’io te la
faccia avere?

CIM. (_abbracciandolo_) Ottimo cuore! grazie! tralascia! tralascia!
(_le donne frattanto han posto le tavolette in un’urna. Odrisio va a
prenderle_)

ODRIS. Ecco i nomi. 

SEUTE. E tu leggili forte. (attenzione negli astanti) 

ODRIS. (_estraendone una_) La regina! Seute, re. 

SEUTE (_avanzandosi verso la regina e baciandola_) Grazie! Porrò un
segno bianco nella mia faretra.[515] Ero ben certo della tua scelta e
di te.

STRATON. (_con civetteria_) E se io avessi scelto... un altro? 

SEUTE. Idolo mio!... (_riabbracciandola teneramente e baciandola
ancora_) T’avrei fatto tagliar la testa.

STRATON. (_balzando di spavento_) Ma... e il tuo decreto? 

SEUTE (_a voce bassa_). Era per gli altri — s’intende.[516] 

STRATON. (_abbassando la testa fra sè, a parte_) Ho fatto bene! 

ODRIS. (_estrae un’altra tavoletta: fa un gesto e una pausa di
sorpresa, indi con voce di malumore_) Alcibiade!

BERIS. (_e gli altri Traci, guardando con occhio torvo le loro mogli_)
Che!?

CIM. Bene! 

ODRIS. (_estrae un terzo nome; nuovo atto di sorpresa: la sua faccia
si fa scura, e la sua voce tradisce l’ira_) Alcibiade! (_Alcibiade
ha rialzato la testa e rimane immoto, sorridente; i Traci guardano
alternamente con volti scuri ora lui, ora le mogli, Seute si mostra
allegro e ridente_)

SEUTE (_ridendo_). Ah! ah! 

CIM. Benissimo!... Ci ho gusto... Eh già, noi Greci d’Atene!... (_con
compiacenza ed orgoglio fregandosi le mani_) Adesso scommetto che viene
la volta mia!

ODRIS. (_estrae la quarta tavoletta: con voce rotta di collera
repressa_) Al-ci-bia-de!...

CIM. Oh, oh, adesso basta per lui! 

ODRIS. (_non più lento come prima, ma con precipitazione crescente
estrae altre quattro tavolette fino all’ottava ed ultima e le legge
con voce concitatissima_) Alcibiade! Alcibiade! Alcibiade! Alcibiade!
(_all’ultima scaglia l’urna, per ira, a terra. Cimoto, che non ha visto
uscire il suo nome, perde alquanto della sua aria soddisfatta_)

BERIS. _e gli altri_. Che?! (_sbalordimento fra i convitati, che
gettano grugniti sordi di minaccia e sguardi truci di collera verso le
donne ed Alcibiade; questi rimane sempre muto, immobile, tranquillo e
sorridente. Le donne in disparte si mostrano confuse e impaurite_)

CIM. (_fra sè_) A chi troppo e a chi niente! E a sentirle, le
innocentine, volevano fargli la festa di Orfeo!... (_si accosta a
Berisiade che è cupo ed accigliato, e gli batte sopra una spalla_) ...
Eh... come hai detto che si chiama la tua moglie?... Penelope?

BERIS. (_si volta inviperito portando la mano all’elsa. Cimoto scappa_) 

SEUTE (_ad Alcibiade_). Costoro l’han voluto, e tu non hai nulla a
rimproverarti. Figlio di Clinia, la fortuna ti è molto benigna, e il
tuo ginecèo è molto ricco.

ALCIB. (_vivamente_) Oh non già! non già! Nè Alcibiade è da tanto da
aver sì splendido ginecèo, nè la scelta è così facile fra bellezze
sì rare, perch’egli se l’arroghi! Re Seute, tu fa rispettare il tuo
decreto, che nessuno le molesti. Amici, Odrisio ha parlato per ischerzo
e certo elle per ischerzo hanno votato... Tornate allo amplesso delle
vostre donne _fatte prudenti_! e tu, Odrisio (_accostandosegli a voce
bassa_), come t’ho detto, vigila, vigila sulla tua!

ODRIS. (_brusco_) Non ho bisogno del tuo consiglio. 

ALCIB. (_sempre parlando con Odrisio sottovoce e battendogli
amichevolmente sulla spalla_) Te ne darò un altro, allora... (_gesto
interrogativo di Odrisio_) Quando vuoi perdere un uomo agli occhi delle
donne, guardati dal dipingerlo un perfido! non bisogna nelle donne
stuzzicare la curiosità. (_Odrisio con un gesto brusco indispettito
s’allontana, mentre Alcibiade sorride_)

SEUTE. Addio, Stratonica! (_ad un cenno di Seute le donne tutte escono_) 


SCENA III. 

Detti, meno le donne. 


CIM. Una su otto! o fedeltà femminina! (_si accosta ad Alcibiade_) Io,
già, al tuo posto, non sarei stato così generoso...

ALCIB. Dovevo scegliere in presenza della regina? 

CIM. (_senza comprendere la risposta d’Alcibiade_) Ah! la regina!
quella sì è una brava donna!

ALCIB. Sì!... poveretta!... E così innamorata di me... 

CIM. (_attonito_) Eh?... e tu?... 

ALCIB. (_con fare naturalissimo_) E io ho ricusato. Seute è mio ospite,
e Giove ospitale[517] mi guardi, chè io non so fargli offesa. Ma la
regina è donna, ed io non potevo posporla, lei presente, ad un’altra.
Buon Cimoto, se hai da fare con donne, ammazzale, che ti perdoneranno;
ma non ferirle nell’amor proprio, se non vuoi trovar Nèmesi e le Furie
meno terribili di loro.

CIM. Lascia fare! Ci regoleremo! Va là che sei furbo! Se Timandra ti
vedesse!

ALCIB. Non dirle nulla oggi... sai!... 

BERIS. (_guardando verso l’interno_) Alcibiade! qualcuno cerca di te. 

ALCIB. Di me? Se tu, Seute, permetti... (_cenno cortese affermativo di
Seute_) Venga!


SCENA IV. 

Detti e TRASILLO. 


ALCIB. (_al veder Trasillo si fa improvvisamente torvo e scuro_)
Trasillo!

TRAS. (_accorrendo ad Alcib._) Salve, Alcibiade! Da Atene io vengo. 

ALCIB. Ad annunciarmi qualche nuova sentenza contro di me? o qualche
nuova condanna di capitani vittoriosi?[518]

TRAS. No, no, Alcibiade! I tuoi amici d’Atene ti salutano e ti fan
sapere che negli animi del popolo rivive il desiderio di te. Ti pregano
intanto che tu ti adoperi a rialzare la fortuna depressa di Atene,
mentre essi van lavorando al tuo richiamo...

ALCIB. (_serio e scuro in volto_) Questo ti hanno incaricato di
dirmi?...

TRAS. Sì... 

ALCIB. (_si volge a Seute_) Ascolta dunque, o re Seute! Alcibiade
ha combattuto per Atene a Potidea, a Delio, a Mantinea, a Catania;
e Atene in premio lo ha dannato a morte; pure Alcibiade è tornato
a lei, e per lei ha vinto due volte ad Abido, e a Samo, e a Mileto,
e a Cizico: ridonatole il dominio dell’isole e del mare, portate ad
Atene duecento navi in trofeo: e Atene in premio lo ha condannato una
seconda volta!... Ora questa Atene mi manda a salutare!... (_si volge a
Trasillo e la sua voce sarcastica ridiventa grave e cupa_) Ritorna alla
città! e di’ a coloro che ti mandarono, che tu hai visto Alcibiade,
e che le porte dell’Erebo non son così chiuse dietro le spalle dei
morti, come son chiuse le sue orecchie ad ogni voce che gli giunga da
Atene! Di’ loro, che tu hai visto Alcibiade, vestito da Trace, ubbriaco
come un Trace, e che le sue spoglie e il suo volto erano meno cangiati
della sua anima; di’ loro che dall’alto del suo castello egli ha veduto
veleggiar per l’Ellesponto le navi di Lisandro che stan preparando le
sue vendette; di’ che Alcibiade non ha amici in una città di traditori
e di ingrati, ove l’esilio e la morte sono il premio di quelli che
combattono e vincono per lei!...

TRAS. (_annichilito dalla sfuriata di Alcibiade, con voce
supplichevole_) Alcibiade...

ALCIB. Va! va! Annunziami che han profanato il sepolcro di mia madre
Dinòmache, sarai meno male accolto che non portandomi i saluti di
Atene!... Va!... (_con gesto imperioso gli interdice di replicare:
Trasillo si allontana mestissimo e mortificato: Alcibiade lo richiama
in sull’uscire_) Aspetta!... (_Trasillo si ferma in sulla soglia.
Alcibiade evidentemente combattuto nell’interno dell’animo, vorrebbe
dir qualche cosa: ma poi si riprende, e si limita a soggiungere con
voce lenta e cupa, senza guardar Trasillo in volto_) Salutami Socrate!


SCENA V. 

Detti meno TRASILLO. 


CIM. (_è rimasto nel frattempo in disparte con aria pensierosa di
rincrescimento: partito Trasillo, si accosta ad Alcibiade e gli parla
con voce piana, insinuante_) Lo hai accolto molto male... quel povero
Trasillo!... (_Alcibiade non risponde, in preda a interna violenta
lotta; ha il volto scuro, le braccia conserte, lo sguardo a terra.
Cimoto incoraggiato dal suo silenzio, e come cercando di scrutarne
l’animo, prosegue_) È andato via atterrito e mortificato..., e Giove
mi renda cieco, se non mi è parso vedergli cader due grosse lagrime
dagli occhi... Alcibiade, permetti una parola al tuo buon Cimoto?
(_Alcibiade non risponde, nè cambia positura. Cimoto, più incoraggiato,
prosegue_)... Atene ti ha fatto molti torti, ma è pur sempre la terra
dove sei nato: e non tutti i perversi sono Atene. Io so che tu l’ami,
tuo malgrado... Vedi, tu sei più buono che non vuoi parere, e forse già
ti rincresce di esserti lasciato trasportare. (_Alcibiade fa un gesto
vivissimo, come indispettito d’aver lasciato trasparire la interna
commozione_) Qualora i tuoi concittadini, ravvedendosi, pensassero...

ALCIB. (_rompendo bruscamente il silenzio_) Qualora pensassero che le
tue ciancie han finito per un pezzo di importunarmi, per i fulmini di
Giove, avranno detto il vero, se tu mi parli ancora una volta di Atene.
(_Cimoto si ritrae mortificato e addolorato_)


SCENA VI. 

Detti ed EUFEMO. 


BERIS. (_rientrando_) Oh, oh, Alcibiade, ti cercano ancora... 

ALCIB. (_con istizza_) Rimanda chiunque! non vo’ veder più nessuno! 

EUF. (_correndo ad Alcibiade_) Tranne me, Alcibiade!... tranne me! 

ALCIB. Tu qui? (_brusco_) Anche tu da Atene? 

EUF. Non da Atene! Dalla flotta vengo. 

ALCIB. (_sorpreso_) Quale flotta?... 

EUF. Ma la nostra!... I duci ci han dato facoltà di sbarcare... ed io,
sapendoti in questi luoghi, sono corso ad abbracciarti...

ALCIB. (_fatto improvvisamente attentissimo, a voce lenta, interrotta,
che tradisce l’inquietudine_) I duci... vi hanno dato... facoltà di
sbarcare?... E dove?...

EUF. Alla foce di Egospótamo, rimpetto a Lámpsaco. 

ALCIB. Ah!... (_rompe in un grido fortissimo di ira ed angoscia, che
sorprende e spaventa gli astanti; poi prende violentemente per un
braccio Eufemo e gli parla con voce soffocata dalla concitazione_)
E non sapete che a Lampsaco c’è Lisandro appostato in pieno assetto
di battaglia; e se restate ad Egospotamo un giorno solo di più siete
perduti?! Oh Numi! (_con voce rotta, febbrile, tonante di collera_)
E son capitani, questi! Presto!... a me la corazza, le armi! (_Cimoto
dà segni di allegrezza e aiuta Alcibiade a vestirsi, associandosi alle
sue esclamazioni_) Ed è a questa gente che Atene affida le sue navi!
Ma vedi, o Seute, se non ho ragione! se non sono traditori! La mia
spada!... dove sono i duci? (_ad Eufemo, mentre gira impetuoso per la
stanza cercando le armi_)

EUF. (_sbalordito_) A terra! 

ALCIB. Ah! imbecilli! sciagurati! 

CIM. (_ripete con indignazione comica le parole di Alcibiade_)
Imbecilli! imbecilli!

ALCIB. (_pur seguitando a cercare e ad indossar l’armi
precipitosamente, alla rinfusa, fra esclamazioni e voci rotte di
collera_) Cimoto, un cavallo!

CIM. Ce ne sono già pronti![519] (_dando segni di gioia, corre per
andar via, ma prima di uscire, ritorna indietro verso Eufemo e con voce
commossa, che vorrebbe essere brusca, gli dice_) Non meritereste un
corno! (_esce correndo_)

ALCIB. (_mentre si assetta la corazza con precipitazione convulsa_)
Portar la flotta proprio in bocca al nemico! Ma sono venduti a Lisandro
costoro!... Ah! l’elmo... dov’è il mio elmo? (_non trovandolo, ne
strappa in furia uno appeso_)

SEUTE. Che fai?! È il mio quello!... 

ALCIB. (_badandogli appena_) Non fa nulla! (_ad Eufemo_) Su, su,
alla tenda dei duci! In groppa! in groppa! o Atene è perduta! Ah,
sciagurati![520] (_esce correndo, esclamando, bestemmiando e lasciando
tutti attoniti_)

SEUTE. (_dopo ch’è uscito, con ammirazione_) Due Traci come costui, e
conquisto la Grecia!...


  CALA LA TELA.




QUADRO NONO 

   _Anno 404 av. l’E. V., nel mese di Pianepsione (ottobre-novembre)
  (1.º della Olimpiade 94ª — 27.º ed ultimo della guerra del Peloponneso)
            Crocinas di Larissa vinse il premio ad Olimpia._

                            EGOSPOTAMO[521]

  Campo ateniese presso Egospotamo (nel Chersoneso di Tracia). In
    fondo il mare (l’Ellesponto). Tende dei capitani da un lato.
    Scolte nello sfondo, lungo la spiaggia.


SCENA PRIMA. 

ALCIBIADE, EUFEMO, indi ALCIBIADE solo. 


EUF. (_entrano trafelati egli ed Alcibiade_) I duci, credo, stan
banchettando. Attendimi qui. Vado ad annunziarti.

ALCIB. (_gettandosi stanco sopra un masso_) Va, e fa presto.
(_Eufemo entra nella tenda dei duci, Alcibiade rimane solo_) Stan
banchettando![522] e ad Atene frattanto sovrasta la ruina!... Coraggio,
anima mia!... Via da me, inutile orgoglio!... Si pensi ad Atene.


SCENA II. 

ALCIBIADE e CARICLE soldato. 


CARIC. (_venendo dalle tende dei duci, con deferenza rispettosa_)
Salve, Alcibiade! I duci han lasciato ora appunto le mense. Essi ti
pregano di attenderli. Fra brevi istanti saranno qui. (_Alcibiade lo
guarda serio e torvo, senza risponder parola. Il soldato lo osserva_)
Ma tu devi aver corso per ben lungo cammino: sei trafelato, polveroso,
grondante di sudore: sarai sfinito dalla stanchezza e dalla arsura.
Questo è licor pretto di Chio, di quello che bevono i duci: qui, al
campo, la sete non si patisce. Su, Alcibiade, ristorati... (_Alcibiade
non risponde, ma scaglia a terra con moto violento d’ira il corno
che il soldato gli presenta. Càricle rimane a tutta prima attonito e
interdetto: poi tranquillamente va a raccogliere da terra il corno, ne
succhia gli ultimi sgoccioli, e si volge ad Alcibiade con accento calmo
e rispettoso_) Ti sapevo superbo, Alcibiade!... Ma se meco sdegnavi
di bevere, perchè sono un povero soldato, invece di gettarlo, potevi
lasciarlo per me!... (_s’allontana lentamente_)

ALCIB. (_scosso dall’atto calmo e dalle parole calme del soldato_) È
più savio di me!... E così ti prepari, Alcibiade, a vincere l’orgoglio!
Olà!... (_forte al soldato, richiamandolo_)

CARIC. (_soffermandosi_) Che vuoi? 

ALCIB. Come ti chiami? 

CARIC. Càricle, figlio di Agórato, peanéo. 

ALCIB. (_alzandosi e movendo a lui_) Càricle, fosti meco cortese, ed
io, senza volerlo, ti offesi. Ma quel vino... il banchetto dei duci...
mi avevan richiamato pensieri irritanti. Perdonami.

CARIC. (_intenerito, confuso_) Che?!... tu... Alcibiade?... 

ALCIB. (_affabilissimo_) Io Alcibiade, figlio di Clinia, prego te,
Càricle, figlio di Agòrato, a perdonarmi, e ad accettare in segno del
tuo perdono lo scambio delle nostre spade...

CARIC. Ma ti pare! la tua è ricca, di squisito lavoro; la mia, affatto
ordinaria! Il baratto di Glauco e Diomede...[523]

ALCIB. Sarò allora io Diomede; perchè son io che guadagno nel cambio.
L’amicizia d’un valoroso vale ben più che l’oro di quest’elsa.
Accettala dunque... o crederò...

CARIC. Accetto! accetto!... (_fan lo scambio delle spade_) E pregherò i
Numi che ti salvino!

ALCIB. No! no! non pregarli per me! (_con voce tristissima_) Pregali
per Atene che muore!... (_s’allontana da lui_)

CARIC. (_seguendolo dello sguardo, con aria di stupefazione_) Che cosa
dice?... (_guarda alternativamente Alcibiade e la daga avuta da lui,
e scrolla il capo_) L’aria di Tracia gli deve aver dato al cervello...
Peccato!... un così bravo capitano!... (_va via, guardando Alcibiade e
tentennando del capo, mentre Alcibiade si è immerso di nuovo ne’ suoi
pensieri_)


SCENA III. 

ALCIBIADE solo. 


ALCIB. (_cogitabondo, sospirando_) Terra fatale ed ingrata, potevi
risparmiarmi e i tuoi doni e gli oltraggi, se darmi non potevi anche il
dono di odiarti! a che crescermi superbo come la rocca della tua dea,
se umile oggi devo farmi per te! Umile dinanzi a costoro che mi odiano,
perchè in me paventano un rimprovero alla loro ignavia boriosa; umile
perchè la loro vanità non si adombri, e perchè Atene (_con accento di
rabbia, stringendo i pugni_) — giusti Numi! — è in mano loro! Coraggio!
essi vengono!...


SCENA IV. 

ALCIBIADE, TIDÉO, ADIMANTO, CONONE. Altri due capitani, che non parlano. 


TID. Tu qui, Alcibiade!? Non era atteso il tuo arrivo. Comunque, sii
il benvenuto. Se più presto venivi, avresti potuto fare un brindisi con
noi.

ALCIB. (_serio e grave_) In tal caso avrei propinato a Giove Salvatore
e ai Numi caccia-mali, perchè aprissero gli occhi a te, valoroso Tidéo,
e a’ tuoi compagni.

TID. E Giove Salvatore e gli altri Numi avrebbero speso male il tempo:
perchè vin puro bevemmo e non filtro di mandràgora: e i nostri occhi
son benissimo aperti...

ALCIB. Ma non vedono l’abisso sotto i vostri piedi. Ben d’altro, o
Tidéo, che di far brindisi è tempo!...

ADIM. (_freddo_) Di che dunque? 

ALCIB. (_rinforzando la voce_) Di badare alle navi! 

TID. Le navi sono affidate al senno e al valor nostro, e sta pur certo,
Alcibiade, ch’elle sono bene affidate.

ALCIB. E allora salvate Atene con esse! 

TID. (_ironico_) Alcibiade s’interessa alla salvezza di Atene? Sparta
infatti ne serba la memoria...

ALCIB. (_gli sfugge un gesto vivissimo d’ira, ma tosto lo reprime e
parla con calma_) Tidéo!... lasciamo i sarcasmi. Più amaro delle tue
parole, mi è il pensiero dei giorni che alla patria sovrastano. Si
tratta, ripeto, di salvar lei...

TID. Pare difatti, che, senza essere da te chiamati, siam qui venuti
per questo...

ALCIB. (_con impeto_) Così non ci foste venuti mai!... 

TID. (_prontamente interrompendolo, e terminando la sua frase
di prima_)... e che tu, Alcibiade, sii venuto, come Menelao ad
Agaménnone,[524] consigliero non necessario e non cercato...

ALCIB. (_nuovo moto di risentimento e nuovo sforzo per reprimersi: si
avanza vivamente verso Tidéo, gli prende una mano e gli parla a voce
sorda, concitata_) Ma lo sapete che Lisandro è a Làmpsaco?

TID. (_tranquillissimo_) Lo sappiamo... 

ALCIB. Con falangi numerose e con un’armata di duecento navi... 

TID. Tanto meglio!... Sarà maggiore il bottino... Per questo lo
sfidiamo a battaglia fin sotto Làmpsaco ogni giorno, ed egli non osa
uscir da’ suoi ripari...

ALCIB. Ma è bugiarda e ingannatrice questa sua calma! Lisandro
è capitano abilissimo, e non si mostra che per assalirvi
all’impensata!...[525]

ADIM. Venga!... sarà ricevuto!... 

ALCIB. Ricevuto? Ma come, se la flotta vostra è sbandata e gli
equipaggi quasi tutti a terra?[526] Ma come riceverlo, qui, dispersi,
sovra un lido scoperto, lontani da porti e da città a cui appoggiarvi,
vicinissimi ad un nemico vigilante e compatto, esposti a dover
combattere alla sprovvista, per terra, contro forze superiori?

TID. (_con calma sarcastica_) E son qui tutti i consigli di Alcibiade?
e perciò venisti? Affè, mi rincresce ti sii dato tanta pena.

ALCIB. (_con forza_) Oh, non tutti... non tutti!... se io... 

TID. (_interrompendolo vivamente, con ironia_) Se tu guidassi la flotta
— la guideresti meglio di noi — questo vuoi dire?

ALCIB. No, Tideo! chiamo gli Dei tutelari di Atene testimoni, che
nessun pensiero di ambizione è ora in me. Ma se in voi parla l’affetto
della città vostra, uditemi, ve ne scongiuro! Atene vi ha affidato
le sue ultime risorse;[527] delle sue navi, delle sue schiere, tutto
quel che le resta è qui; qui voi non potete dire, come Spartano alle
Arginuse:[528] «PERDUTA QUESTA flotta se ne armerà un’altra!» Perduta
questa, è perduta Atene!... Ascoltatemi. Qui la disfatta vi sovrasta.
(_La voce di Alcibiade si vien facendo ad ora ad ora insinuante,
supplichevole, incalzante, affannosa per l’emozione_) In nome d’Atene,
partite senza indugio da qui. Imbarcate le truppe: allontanatevi da
Lisandro. Portate subito la flotta fra Sesto ed Abido: là tenetela
unita, pronta alla pugna. Lisandro evita la battaglia in mare, perchè,
più forte di fanterie, aspetta di assalirvi per terra; voi datemi un
po’ de’ vostri opliti e di arcieri; con essi, colle mie genti e con un
corpo di Traci, io m’impegno ad attaccare lo Spartano nel suo campo
di Lampsaco, a ributtarlo in disordine sulle navi, e costringerlo ad
accettar su di esse la battaglia, quando più vorrà evitarla e quando
alla disfatta non isfuggirà.[529] Questo io farò, per la tomba di mio
padre lo giuro; ma salvate Atene — per tutti gli Dei! Salvate Atene!

CON. (_a Tidéo, scosso dallo scongiuro di Alcibiade_) Tidéo, il
consiglio di Alcibiade mi par savio e buono...

ALCIB. (_vivissimamente_) Oh, grazie, Conone!... persuadili tu dunque... 

TID. (_ironico_) E chi non sa che l’illustre Alcibiade non può dar
che sapienti consigli a noi, novizj nell’arte della guerra?! Ma alla
buon’ora, Alcibiade, ora ti spieghi più chiaro... è il comando che
vuoi...[530]

ALCIB. (_con forza_) No, non il comando... 

TID. (_beffardo, interrompendolo_) La gloria dunque, che è meglio; e
l’onor della vittoria, in faccia ad Atene, or che la vittoria, mercè
nostra, è fatta sicura...

ALCIB. (_fra sè, a grave stento reprimendosi_) Giusti Numi,
soccorretemi! (_si volge a Tideo_) No, no, Tidéo, sii tranquillo.
Neppur questo. Se questo solo vi toglie di accettare il mio consiglio,
ebbene, colla flotta tragittatemi a Sesto: là scenderò a condurvi la
mia gente e n’abbia il comando un di voi. Io combatterò da soldato...

TID. Per avere di capitano il vanto e non la responsabilità. Tardi ti
prende, Alcibiade, il desiderio di risalir le navi d’Atene. Non dovevi
abbandonarle come un colpevole ed un fuggiasco!

ALCIB. (_in un moto violento di collera porta la mano alla daga_)
Tidéo... bada a te...

TID. (_ponendosi in guardia a sua volta_) Minaccie ora?... 

ALCIB. (_padroneggiandosi con supremo sforzo, ritira la mano
dall’elsa_) Ebbene, no, non minaccie! preghiere! preghiere soltanto.
Poichè, _è per Atene_, ch’io prego. Tidéo, tu ingiurii, ed io _non ti
ho_ ingiuriato. Eppure anche il mio passato non è senza qualche gloria:
tu vedi, io non ne parlo. Eppure Alcibiade non tollerò mai insulto da
persona al mondo: tu vedi, io ti favello cortese. Parlasti di viltà, e
sai che vile non sono. Se tu ami la patria e anch’io l’amo; se tu offri
a lei la tua vita, ed io son pronto a darla al par di te; ma in attesa
di morir per Atene, si tratta di _vincere_ per lei!

TID. La tua vita! l’hai salvata, sottraendoti alla condanna, laggiù, in
Sicilia...

ALCIB. (_frenandosi sempre, ma con voce oramai fatta tremante per
l’interna febbrile commozione, e a volte a volte concitata, angosciosa,
quasi avente in fondo le lagrime_) E fu consiglio di Numi, perchè
io potessi giovare ad Atene in questo dì. Sì, due volte essa m’ha
dato l’esilio; ma a te, Tidéo, a voi Filocle, Adimanto, Menandro,
Conone, essa non ha fatto nulla, perchè vi debba premere di perderla!
(_supplichevole a Conone_) Conone, tu vincesti con gloria alle
Arginuse; tu mi ascoltavi dianzi...

CON. (_abbassando mesto il capo_) Io son solo. 

ALCIB. (_sempre più incalzante supplichevole_) Ma tu, Filocle, hai
pugnato meco a Catania; tu, Adimanto, eri a Cizico con me. Parlate
voi!... Voi tacete! (_con accento di disperazione_) E Lisandro è là!
Dei, qual cecità, qual delirio dunque è il vostro!...

TID. (_imperioso_) E tu dunque tralascia di parlare ai deliranti.
E vanne! che a noi soli spetta qui il comandare[531] ed è nostra la
responsabilità.

ALCIB. (_tuonante, aprendo lo sfogo all’ira_) E cada essa dunque su di
voi, e Nemesi vi faccia sopravvivere tanto, che Atene possa chiedervi
conto delle sue sventure! Prega, o Conone, prega per Atene, perchè oggi
il cielo è ben irato con lei, se ha permesso che le sue sorti cadessero
in tali mani!... (_agli altri_) Oh, sì, rallegratevi, che Alcibiade si
è abbassato a pregarvi; ditelo al mondo, perchè mai più non vi toccherà
così alta ventura, che il superbo Alcibiade lo avete visto supplicare
e piangere dinanzi a voi!... Anime abiette d’invidia e di livore,
no, Alcibiade non vi ruberà nulla della vostra gloria! _Non_ duci, —
_traditori_ di Atene, la gloria del tradimento[532] è tutta vostra!
(_moti d’ira e di minaccia fra i duci. Conone resta in disparte a capo
chino_)

TID. (_sguainando la spada_) Paga tu intanto il fio della impudenza!... 

ALCIB. (_incrocia repentinamente le braccia sul petto, e si pianta
risoluto in faccia a Tidéo, squadrandolo in atto di sfida_) Ferisci!
(_Tidéo s’arresta interdetto, mentre Conone ed altri si frappongono.
Quadro_)


  CALA LA TELA.




QUADRO DECIMO 

    _Anno 404 av. l’E. V. nel mese di Pianepsione (ottobre-novembre)
    (1.º della Olimpiade 94.ª — Terminata la guerra del Peloponneso)
            Crocinas di Larissa vinse il premio ad Olimpia._

                                 FRIGIA

  Capanna presso un villaggio in Frigia (Asia minore).[533] Interno
    della capanna, rustico, poverissimo, con una sola uscita nel
    mezzo ed una apertura o finestra laterale.


SCENA UNICA. 

ALCIBIADE dormente sopra un po’ di paglia; TIMANDRA; poi CIMOTO. 


TIMAND. (_sola, in ascolto, guardando fuori_) Come è scura la
sera, e come fischia il vento per la campagna! Di fuori il lamento
della natura, qui dentro (_guardando Alcibiade_) le tempeste di
un’anima! così grande e infelice!... (_si picchia alla porta_) Ah!...
finalmente!... Chi è là?

CIM. (_dal di dentro_) Io... io... Cimoto... (_Timandra apre; Cimoto
entra con segni di freddo e di stanchezza e va a buttarsi sopra un
sedile_)

TIMAND. (_ansiosa_) Che nuove? 

CIM. Brutte nuove. 

TIMAND. (_additandogli Alcibiade dormente_) Sssss! piano! egli dorme...
Che dici?

CIM. (_a voce abbassata_) Dico che bisogna sgombrar da qui. A Sardi
ho incontrato Brasida spartano. Costui, quando Alcibiade fu a Sparta,
ne ebbe benefizj e gli si affezionò. È venuto in segreto a parlarmi di
lui. Appena, dopo la vittoria d’Egospótamo e la caduta d’Atene, Sparta
seppe che Alcibiade si recava dalla Tracia qui in Persia, domandò al
sátrapo persiano la sua testa: e il sátrapo l’ha promessa.[534] Sparta
non si tiene sicura finchè Alcibiade sia vivo...

TIMAND. (_con amarezza profonda_) Vigliacchi! 

CIM. Povero padrone! eccolo là che dorme, ignaro del pericolo! Ho fatto
venti parasanghe[535] in quattro dì e quattro notti, da Sardi fin qui,
solo, per dirupi e per boscaglie, affrettandomi e ansando... tremavo di
non giungere in tempo.

TIMAND. (_stringendogli la mano con effusione di gratitudine_) Oh,
Cimoto!... Alcibiade saprà ciò che hai fatto per lui: questo anello
intanto ti sia povero pegno della riconoscenza di Timandra... (_si leva
una gemma dal dito_)

CIM. (_serio, commosso_) Tieni il tuo anello. Quello ch’io ho fatto,
l’ho fatto per amore di lui e di te. Il vecchio Cimoto parassita è
morto da un pezzo.

TIMAND. Oh, le due Dee mi puniscano s’io volli farti offesa! Nè già per
compensarti, buon Cimoto, ti pregavo ad accettar questo ricordo.

CIM. Ricordo? La memoria di Cimoto è buona, e non ha bisogno di
questo. Tieni, ti prego, il tuo anello! Tu non sai quello ch’io
debbo a lui. Un giorno, sono undici anni e mi par come oggi... queste
orecchie, abituate a non udire che parole di scherno, udirono per la
prima volta una parola amica di conforto: quella parola era la sua.
E nota, o Timandra, egli non poteva aver molto a lodarsi di me; ma
quel giorno egli mi pose a fronte di quel bel mobile di Tessalo, e mi
fe’ comprendere che innanzi agli Dei, scrutatori dei cuori, un povero
parassita può valere un nobile discendente da Milziade. Oh, tu non
sai, quelle parole che bene m’han fatto! Dividere, io, il disutile, il
disprezzato Cimoto, la mia sorte con Alcibiade! Mi parea d’essere come
l’erba crisópoli, che attaccandosi all’oro ne piglia il colore.[536]
Conobbi sentimenti nuovi per me; Atene cessò di essere per me una
parola... Non dico, che l’appetito non mi serva ancora, e alla corte
di Seute mi son fatto onore: e quanto a coraggio, non ce n’ho colpa
se la natura non m’ha fatto un Tesèo: ma da che vivo con lui, credo
di non essere più una lepre. Venendo qui, ne ho fatti tanti degli
stadj, e di notte, e allo scuro: e lontano, per la nera solitudine,
sentivo gli urli delle bestie feroci: se ne togli un po’ di tremito
alle gambe, sull’onor mio, non ho provato altro. Animo, Cimoto! —
pensavo nel sentirli — si tratta di farsi onore, di salvare Alcibiade,
e... e affrettavo il passo. Sicuro! mi par d’essere diventato perfin
coraggioso... E questo, tutto questo lo devo a lui! Oh, per i Numi,
tieni il tuo anello! tieni il tuo anello!

TIMAND. (_commossa stringendogli la mano_) Leale Cimoto! Ancora ad
Alcibiade furono clementi gli Dei, se tale amico[537] gli serbarono
nella sventura.

CIM. Te pure gli serbarono. 

TIMAND. E poi ch’essi ne vollero avvinti entrambi al suo destino, la
mia... amicizia... la accetti questa... almeno?

CIM. (_commosso ringraziando e asciugandosi gli occhi_) Lo domandi? 

TIMAND. Di’, conobbero a Sardi la via da noi presa? 

CIM. Non credo. Almeno Brasida me l’affermò. Comunque, abbiam quattro
giornate di cammino di vantaggio...

TIMAND. Stasera stessa partiremo con lui... (_guarda con affetto
Alcibiade_) Egli riposa; era sì stanco!... Vegliò tutta la notte!
Silenzio: si agita nel sonno... Qualche sogno lo tormenta... (_Timandra
e Cimoto si appressano ad Alcibiade in punta di piedi e stanno in
ascolto_)

ALCIB. (_nel sonno, con voci lunghe_) Attenti al segnal dello
scudo!...[538] Correte alle navi! Lisandro arriva! Su, su, alle navi!
alle navi!... (_con un lungo lamento_) Oh Atene!

TIMAND. Atene! sempre Atene! Sogna Egospótamo e la orrenda disfatta che
egli indarno previde!... Povera grande anima, quando riposerai? (_si
china su di lui e lo bacia in fronte_) Un mesto sorriso gli sfiora le
labbra... or sembra più tranquillo. O sogni, silenziosi figli della
Terra,[539] aleggiate almen placidi intorno al suo capo!

CIM. Pur converrà destarlo. Le ore passano. 

TIMAND. (_chinandosi sul dormiente, e chiamandolo a voce dolce e
piana_) Alcibiade?!

ALCIB. (_aprendo gli occhi_) Ah!... (_ravvisa Timandra_) Sei tu,
Timandra? Perchè mi destasti?

TIMAND. Cimoto è ritornato... 

ALCIB. (_macchinalmente_) Ah, di già? Addio, buon Cimoto... (_a
Timandra_) Mi hai rotto un bel sogno!... Mi parea veleggiar per
l’Ellesponto, sulla _Pàralo_[540] sfuggita allo eccidio di Lisandro;
e a schiere a schiere le ombre dei prigioni ateniesi trucidati[541]
venìan correndo alla marina, e a me stendevano le scarne braccia
dal lido, domandando vendetta e pietà. Poi, la scena mutavasi: e mi
trovavo al Pireo, tra una folla festante, traendomi dietro le navi
e le spoglie dei vinti Spartani: echeggiavan per l’aria concenti di
tibie e cantici di vittoria: il popolo gridava: _Salute al vincitore
di Lisandro! al vendicatore di Egospótamo!_ E la turba e le voci via
via confusamente si dileguavan lontano, finchè non mi parve più udirne
che una sola: era la voce di Timone il misantropo, che seduto alla
riva, raspando la terra, mi guardava fisso, come quel giorno che per
via mi maledì. Ma la sua voce non era più imprecazione: il suo aspetto
non era più d’uom che odia, il suo sguardo pareva sguardo di amore.
_Timone_, io venivo gridandogli, _ringrazia gli Dei che ti smentirono!
Il giovinastro, che preconizzasti flagello di Atene, n’è divenuto il
salvatore. Timone, riconciliati cogli uomini! la virtù e l’espiazione
esistono ancora sulla terra, e la legge della terra è amore!_ Ed io
correa verso lui, le braccia aperte: — ma Timone già era scomparso, e
il suo volto d’improvviso s’era mutato nel tuo, che mi venivi incontro
bella, radiante... e mi toglievi l’armatura;[542] mi inghirlandavi di
fiori, mi spargevi le chiome di unguenti e di aromi. E mi abbracciavi
e baciavi, ma i tuoi baci eran di fuoco, eran vampa le tue braccia di
neve: e tra quelle fiamme io mi sentìa con lunga voluttà consumarmi,
come nulla più restar dovesse di me... Qui m’hai destato. Fu sogno di
morte, Timandra, questo...[543]

TIMAND. (_abbracciandolo e chiudendogli la bocca_) Oh, non dirlo!
fu sogno di vita! E il vero sognasti, Alcibiade, poichè più vivida e
perenne della fiamma di Vesta, arde qui dentro la fiamma del mio amore
per te...

ALCIB. (_sorridendo affettuoso_) Eppure, Timandra, è quasi sera; siam
già ai primi freddi; Pianepsione è già innanzi, e sai che il tempo in
cui cascano le foglie[544] è quello in cui la madre terra ci manda i
sogni bugiardi fuor dalla porta di avorio...[545]

TIMAND. Cattivo!... E tu allora non badare ai sogni! Che più di sogni
non è tempo. Cimoto è ritornato da Sardi.

ALCIB. Ah, sì, me ne scordavo! Ebbene, buon Cimoto, quali notizie? 

CIM. Buone e cattive. Ad Atene, il popolo, fra il terrore della
tirannide spartana, sommessamente ti rimpiange e ha riposta ogni
speranza in te; i fuorusciti, raccolti in Tebe, aspettano il cenno da
te. Ma i tiranni, di te paventando, dichiararono a Sparta che non mai
in Atene potranno tenersi sicuri, finchè tu sia vivo...[546]

ALCIB. Fin qui, mi pare, han detto giusto. 

CIM. Lisandro esitò sulle prime; poi chiese al satrapo la tua morte; e
il satrapo... per ingraziarsi Sparta... l’accontentò.

ALCIB. (_tranquillissimo_) Resta a vedere se son contento io. Da quando
il decreto?

CIM. Dal dì stesso che lasciai Sardi. 

ALCIB. E quando la lasciasti? 

CIM. Son quattro giorni. 

ALCIB. Sei venuto colle ali di Pégaso. Abbiamo dunque guadagno di tempo. 

TIMAND. Ma le spie e gli sgherri del satrapo e di Sparta sono molti;
importa affrettare la via, prima che le insidie dello Spartano ci
raggiungano...

ALCIB. Ebbene, prima che Sparta veda il pio desiderio compiuto, io
avrò parlato in Persepoli al re Artaserse e mossolo al soccorso di
Atene. Tutta la trama di suo fratello Ciro, per isbalzarlo dal trono
di Persia, è in mano mia. Avviserò il re del pericolo, me gli offrirò
capitano per domar la rivolta, a patto che poi mi ajuti a liberare
la mia città; nè mai il nipote di Serse avrà pagato a miglior prezzo
più grande servigio a un concittadino di Temistocle.[547] (_si volge
a Cimoto_) E così, mio buon Cimoto, tu hai fatto seicento stadj per
venire a portarmi l'avviso...

CIM. Fossero stati altrettanti... 

TIMAND. E di notte ha viaggiato, solo, allo scuro, tra i pericoli...
(_Cimoto si ringalluzzisce all’elogio_)

ALCIB. Anche tu dunque, come la mia Timandra, mi vuoi bene ancora!
Abbandonato da tutti, povero, proscritto, cercato a morte, due persone
dividono spontanee la mia mala ventura: una etéra e un parassito.
Ah, no, non era una baja il mio sogno di Timone! La virtù e la fede
non sono una vana parola! Qua la mano, mio buon Cimoto. E tu, nobile
etéra, porta ben alto il tuo nome, perchè mille matrone della Grecia
dovrebbero inchinarsi innanzi a te. Donna dall’anima più nobile e più
pura non portò mai canestri nelle feste di Cerere![548] Domani all’alba
partiremo per Susa.

TIMAND. Oh, non domani! non domani! Quest’oggi, Alcibiade! questa sera
stessa!

CIM. Sì, sì, Alcibiade! questa sera! 

ALCIB. Questa sera? impossibile. Tu, Cimoto, sei stanco. 

CIM. Oh no... tutt’altro... 

ALCIB. _Sei stanco_, ti dico, dal viaggio; — e tu, mia povera e buona
Timandra (_le prende affettuosamente le mani_), hai vegliato il più
della notte, e jeri hai camminato tanto con me. È miracolo come ti
regga in piedi... Che tu ti ponga oggi in viaggio è impossibile...

TIMAND. Oh, non dir così! sono assai più forte che tu non pensi! E poi,
alla peggio, potrem far sosta a Celène o al Foro de’ Ceramj.[549] Per
noi non vi è pericolo... Ma si tratta de’ tuoi giorni. Te ne scongiuro
per l’amor nostro...

ALCIB. (_serio, calmo, imperioso_) Per l’amor nostro, Timandra, non
una parola di più. Alcibiade, nè ti abbandona, nè può permettere che
tu ti ponga oggi in via. Partiremo domani sull’alba (_vede Timandra
afflitta e le parla con voce ridivenuta affettuosa_). E perchè temer
tanto? La stella che mi ha scorto tra i pericoli sin qui, vorrebbe
essere ben maligna se a questo punto mi abbandonasse. Siam già assai
lungi da Sardi e in luogo deserto, appartato. Senza un tradimento, gli
sgherri del sàtrapo non potrebbero essere qui nè stanotte, nè domani,
nè dopo. Il tuo affetto, e quel di Cimoto, ingrandiscono il pericolo e
vi fan presumere delle forze vostre più che a umane forze non è dato:
ma io non perdonerei a me stesso di aver abusato in tal guisa della tua
abnegazione e della sua. (_le prende con affetto una mano e se la pone
sul cuore_) Senti, Timandra, il cuor mio. Esso traversò tante tempeste,
eppure non battè mai così calmo come oggi. Provo un benessere strano,
indefinibile: qualcosa di ciò che prova il nocchiero vicino a toccare
il porto dopo l’uragano. Un Nume, certo, mi ha mandato quest’ora
solenne. Non ero così calmo, sai, fra le orgie e le dissolutezze
ateniesi; non lo ero, quando sedevo ai danni di Atene nel consiglio
dei capitani di Sparta... (_arrestandosi e facendosi mesto_) Fui molto
colpevole, n’è vero, allora, Timandra?

TIMAND. (_chiudendogli la bocca_) No, taci, Alcibiade! Che pensieri son
questi? Ciò che hai fatto per Atene e questi sacrificj e questi stenti
a cui volontario ti condanni per trar dal fondo delle sue sciagure la
città che ti offese, redimerebbero ben altri falli che i tuoi. Pensa
che Atene fra i suoi mali ti chiama: pensa al tuo avvenire... e...
qualche volta... al tuo amore...

ALCIB. (_con tristezza_) Il mio amore! Oh Timandra, io sento di non
averti mai tanto amato come oggi; eppure viene nella vita il giorno
che anche l’amore più fervido e santo non basta a far tacere la voce
segreta dell’anima!... (_si leva dal petto un pezzetto di papiro lacero
e vecchio_) Vedi, Timandra, questa lettera?

TIMAND. Dei versi d’amore? 

ALCIB. (_baciandola_) Gelosa! Sì, dei versi d’amore, ma che datano da
undici anni!... Furono scritti pochi dì innanzi la funesta impresa di
Sicilia, un giorno che Socrate con rimproveri me ne sconsigliava. Quel
vecchio m’avea fatto quasi piangere di rimorso e di vergogna: ma questa
lettera giunse ed io corsi a dimenticare rimproveri e rimorsi sul seno
di neve della bionda Glicera!... Avessi dato ascolto a Socrate! Ora il
buon vecchio alza egli solo in Atene la voce contro i tiranni, e osa
sfidargli egli solo.[550] Certo, in questi giorni deve aver pensato a
me...

TIMAND. E s’egli fosse ora qui, non sarebbe più per rimproverarti che
si alzerebbe, o Alcibiade, la sua voce... Ah!... (_una vampa entra da
una finestra; Cimoto accorre fuori_)

ALCIB. (_balzando in piedi_) Che è questo? 

CIM. (_accorrendo dal di fuori_) Tradimento, tradimento! siam
circondati! Le guardie di Lisandro son qui, e han dato il fuoco alla
casa.

ALCIB. Morte e inferno! (_con voce cupa_) Son dunque le fiamme del
sogno!... Ombra di Leonida, ecco le armi de’ tuoi figli!... L’arme
a me! (_afferra la daga pendente presso il suo giacilio e la impugna
sguainata nella destra, attortigliandosi la clamide intorno alla mano
sinistra_)[551]

TIMAND. Ferma, Alcibiade! per pietà! dove corri? 

ALCIB. (_gridando_) Lasciami! lasciami!... Cimoto, veglia su lei! (_si
slancia fuori della capanna_)

TIMAND. (_a Cimoto, con accento vibratissimo_) Cimoto! un’arme e
seguimi! (_brandisce un pugnale di Alcibiade e fa per avviarsi fuori
della stanza, mentre Cimoto le è corso innanzi, la daga sguainata_)

VOCI INTERNE DI SOLDATI. Fuggiamo! fuggiamo! 

CIM. Ferma, Timandra! (_guardando fuori_) È inutile; fuggono già. 

TIMAND. (_verso la soglia, guardando fuori con ansia_) Egli torna fra
le fiamme! Numi, vi ringrazio!... (_cade in ginocchio, mentre Alcibiade
riappare barcollante sulla soglia_)

ALCIB. (_dalla soglia, cupo_) Troppo presto ringraziasti i Numi!...
(_cade_)

TIMAND. (_con grido acutissimo di angoscia_) Ah!... lo han ferito!...
(_si slancia con Cimoto a sostenere Alcibiade_)

ALCIB. (_continuando con amarezza la frase di Timandra_) Come feriscono
i vili!... Non osarono attendermi, e una freccia mi colpì di lontano...
Timandra, non piangere. Era scritto ne’ Fati! (_con voce tranquilla_)
Sostienmi, circondami delle tue braccia!... così... ora il sogno è
compiuto... I campi son verdi e le foglie non cascano ancora. Là...
quella corona. (_le addita un angolo della stanza: Cimoto va a prender
la corona; Alcibiade la prende dalle sue mani e la osserva: il suo
volto moribondo componesi a un dolce sorriso_) È la mia prima corona,
la memoria di Potidea... (_con voce fioca e dolcissima, e come assorto
fra sè_)

    E anela alla gloria, bellissima stella, 
      Ma pura, ma scevra da ogni empio baglior: 
      E cinge la fronda di quercia più bella 
      Per farne più sante le gioie del cor....[552] 

(_si cinge colla mano tremante la corona_) Timandra, un bacio!... (_lo
bacia appassionatamente_) Oh, i tuoi baci sono pur dolci, e tu sei
la più bella delle donne di Grecia!... Cimoto, a te la raccomando!
(_additandole Timandra_)... non distaccarti da lei!...

CIM. (_piangendo e singhiozzando_) Oh, mio padrone! mio padrone! 

ALCIB. (_a Timandra piangente che lo sorregge_) Quando tornerai in
Grecia, di’ ad Atene che spirai col suo nome sul labbro... e racconta a
Socrate come son morto!... Addio... ricordati di Alcibiade! (_ricade e
muore_)

TIMAND. (_con angoscia e pianto, china sul cadavere_) Alcibiade!
Alcibiade! (_d’improvviso con accento disperato_) Tornare ad Atene?! E
che cosa è Atene, lui morto, per me?! Cimoto! (_con voce di risoluzione
cupa_) A me gli unguenti e gli aromi! (_aggiusta la ghirlanda sul
capo di Alcibiade e gli compone e ravvia amorosamente le chiome_) Dea
sotterranea che gli inviasti il sogno, ecco, io compio il tuo presagio
ed il rito; abbiti dunque l’olocausto più grande di quanti fumarono
a’ tuoi altari!... (_Le fiamme crescono; Timandra, pur seguitando ad
adornare il cadavere, si volge a Cimoto, con voce calma_) Cimoto,
vanne! Le fiamme incalzano! Ancora un istante, e non sarai più in
tempo...

CIM. (_cupo_) E tu?... 

TIMAND. (_senza guardar Cimoto, sempre intenta amorosamente al
cadavere, con voce calma, soave, quasi di donna per dolore impazzita_)
Io... io compio il sacrificio... ed infioro la vittima... Vanne! Le
fiamme son qui.

CIM. Timandra, hai ben sentito ch’egli mi ha detto di non
lasciarti?[553] (_si avvicina a Timandra, incrocia le braccia sul petto
e le parla con voce lenta, ferma e solenne_) Dal dì che Alcibiade mi
chiamava a sè, egli non offerse mai vittima ai Numi, senza che io ne
avessi la mia parte. Qui si fa un sacrificio in suo onore. Sono il suo
parassita. Ci resto!

(_Cimoto si ravvolge nel suo mantello, ritto e fermo, presso al
cadavere e a Timandra inginocchiata. Le fiamme invadono tutta la
stanza, mentre cala lentamente la tela. Quadro_)


  FINE DELL’_ALCIBIADE_ E DEL VOL. V.




INDICE 


  Introduzione                         Pag. V
  Dedica                                    1
  Prefazione all’edizione del 1875          3
  Ai greci di Trieste                      15
  Alcibiade                                17
  Personaggi                               19
  Le etére                                 20
  I parassiti                              24
  Classi di Atene                          29
  Avvertenza di Cimoto al pubblico         33
  Quadro Primo                             35
  Quadro Secondo                           78
  Quadro Terzo                            122
  Quadro Quarto                           165
  Quadro Quinto                           187
  Quadro Sesto                            224
  Quadro Settimo                          253
  Quadro Ottavo                           263
  Quadro Nono                             296
  Quadro Decimo                           306




NOTE: 


[1] Qualche dì appresso Pessimista, mi scriveva dei funebri celebrati
al povero amico in Milano... «Milano, 17 agosto... L’hanno calato
nella fossa a destra del Cimitero.... al tuo ritorno qui faremo un
pellegrinaggio insieme alla tomba del compianto _Trombone_, che lascia
di sè vera eredità d’affetti... Ogni dì più si sente la sua perdita.
— Che mente acuta! Che costanza indomita e buona! forse in Billia la
giovane democrazia ha perduto il suo Vergniaud.»

[2] _Alcibiade, la critica e il secolo di Pericle_, lettera a Yorick
figlio di Yorick, di F. Cavallotti — Milano, Rechiedei, 1874. — Farà
parte di uno dei volumi successivi della raccolta.

[3] Risposta dell’autore ad un indirizzo della colonia greca di
Trieste, che accompagnavagli, dopo la recita dell’_Alcibiade_ in
quella città, il ricordo affettuoso di una corona di alloro, recante
le parole: τῷ ποιητῇ τοῦ Ἀλκιβιάδου — θαυμασταὶ Ἒλληνης — ἔν Τηργεστῃ,
Μαρτιου, 1874.

[4] L’autore ha supposto la casa di Alcibiade nella parte occidentale e
più amena di Atene, tra i boschetti ombrosi ed olezzanti delle sponde
del Cefiso, presso la via delle _Lunghe Mura_ che conduce dal Pireo
alla città e in vicinanza dello _Pnice_, il luogo delle Assemblee
popolari.

[5] All’epoca in cui è supposta questa scena, era Aspasia — bellezza
matura in sul tramonto, sebbene ancor lottante contro gli insulti
dell’età — da quattordici anni già vedova di Pericle; il quale, come
parente ad Alcibiade dal lato della madre Dinomache, gli fu anche
tutore, dopo che questi a tre anni restò orfano del padre Clinia,
morto alla battaglia di Coronea; e nella casa del quale Alcibiade
era cresciuto, sotto gli occhi e le cure di lui e della sua celebre e
vezzosa compagna. La vita politica e privata del figliuolo di Clinia
provò più tardi che non per nulla egli aveva avuto di tali maestri.

Di Aspasia, che nacque a Mileto, e che tanto affascinò il dominatore
di Atene, da indurlo a ripudiare per lei la prima moglie e da averlo,
fin ch’ei visse, amante e marito — e della sua vita, delle sue grazie,
del suo spirito e della sua dottrina — narra Plutarco nelle vite di
Pericle e di Alcibiade, a cui rimandiamo il lettore. I comici del
tempo la attaccarono: Platone nel _Menesseno_ la collocò sì alto nella
estimazione de’ filosofi, da far porre da Socrate in bocca di lei uno
de’ più stupendi squarci di eloquenza che ci abbia tramandato l’antica
età. Le proporzioni del dramma e le ragioni del protagonismo non
consentirono all’autore che di sbozzare in iscorcio, e in semplici e
fugaci contorni, questa eccezionale figura: quanto appena bastasse a
compiere il quadro storico e a dare ad Alcibiade, maestro in astuzie
d’amore, un avversario degno di lui.

[6] Intorno ai costumi, al vestiario, alle acconciature, ecc., delle
donne ateniesi, rimandiamo lo studioso alle opere moderne più note
che diffusamente ne trattano (Winkelmann, _Opere_; Ferrario, _Cost.
Antico e Mod_.; Becker ed Hermann, _Bild. des Griech. Privatlebens_;
Willemin, _Costumes_; Barthelemy, _Anacarsi_; Guhl e Körner, _Leben
der Griechen_, ecc.) Qui basti accennare, riguardo al lusso speciale
che costumavan le etére, un passo caratteristico di Luciano: «A donna
onesta è sufficiente, per rilevar sua bellezza, o una sottile collana
intorno al collo, o in dito un anello portabile, o ciondolini agli
orecchi, o una fibbia, o un nastro che raccolga la sparsa chioma, e
tanto di ornamento aggiunge alla sua leggiadria quanto di porpora alla
veste; ma le cortigiane la veste tutta di porpora ed il collo fanno
tutto d’oro, cercando di attirare con lo sfoggio e i fregi esterni;
perchè credono che il braccio pare più pulito se vi risplende l’oro;
che il piede se non è ben fatto si nasconde nel sandalo d’oro, e che la
faccia stessa pare più amabile fra tanto splendere d’oro» (Luciano, _Di
una sala_. — Cfr. i dialoghi delle _Cortigiane_ e degli _Amori_).

E in una lettera di Aristeneto, il galante Ippia canzona Filocoro,
perchè vedendo una bella cortigiana riccamente vestita di una tunica
di porpora, la scambia per una matrona e non osa avvicinarla. «Per
Apollo, sei ben ignorante in cose d’amore! Non senti da lontano
l’olezzo degli unguenti ond’è profumata? Nè udisti il suono aggradevole
dei braccialetti dolcemente agitati, come soglion fare queste donne?»
(Aristen., _Lett_., I, 4).

[7] Sul conversar frequente di Socrate colle etére, vedi i passi da me
citati (nella nota sulle _etére_, all’elenco de’ personaggi) di Senof.,
_Memorab_. III, (colloquio con Teodota) e di Platone, _Simposio_,
nel discorso di Socrate con Diotima: nonchè Ateneo, _Deipnos_., V,
218, ecc., XIII. Traendo del resto, non senza trepidanza, alle scene
il meraviglioso filosofo, l’autore non potea trascurare nè le idee
di lui quali ci sono tramandate da’ maggiori fra’ suoi discepoli,
Senofonte e Platone: nè la forma ed il metodo del suo dialogare
divenuti proverbiali. Ben inteso, che delle idee scelse quelle le quali
più pareano convenirgli al quadro; e che le esigenze della scena non
poteano conciliarsi collo sviluppo della forma di dialogo socratica
in tutta la minuzia, spesso nojosa, de’ suoi avvolgimenti, e delle sue
gradazioni e ripetizioni.

Il principio della scena è ispirato da un passo di Senofonte,
_Simpos_., cap. IV; più innanzi il discorso si aggira sopra idee del
_Fedro_ di Platone.

[8] Era uno degli appellativi dati ad Aspasia (Plut. in _Pericle_). 

[9] Di Aspasia abbiamo nell’_Iconografia_ del Visconti l’effigie sola
a noi pervenuta e ritratta da un’erma dissotterrata sulla spiaggia
di Civitavecchia, nel posto dell’antico _Castrum Novum_ e collocata
nel Museo Vaticano (_Icon. gr_., I, tav. XV a.). Essa reca sulla
base il nome ACHACIA: ha la testa coperta di un velo, alla foggia
di matrona greca, e forse è questo abbigliamento che la fece dare
il nome di Giunone: capelli inanellati sul davanti della fronte, in
ricci paralleli e verticali: viso ovale; linee stupende. Cfr. Becq de
Fonquières, _Aspasie_.

[10] Οφθαλμοί ἐπιπόλαιοι. Così traduce anche il Ciampi e l’autore delle
spiegazioni del Museo Capitolino, inducendone che Socrate era losco.
Occhi sporgenti, e naso camuso colle narici larghe, aperte all’insù
(Senof., _Simpos_. IV). Aggiungansi grosse labbra, fronte sporgente
e calvizie in cima della fronte, capelli corti arricciati di dietro,
e barba arricciata scendente, non molto lunga, sul petto, e si ha
l’effigie di Socrate, descritta negli antichi scrittori e pervenuta
sino a noi. Un’erma rappresentante Socrate, del Museo Napoleone, è
citata e descritta dall’Ennio Quir. Visconti nella _Iconografia greca_
(I, pag. 200; tav. XVIII), siccome l’imagine più autentica del grande
filosofo. Vi traspira dagli occhi arguti la finezza dello spirito e
dalla fronte serena l’imperturbabilità del carattere: il movimento
stesso delle labbra sembra avere qualcosa della sottile ironia de’ suoi
discorsi.

Il Visconti nega per altro che Socrate fosse losco: e traduce
l’ὀφθαλμοί ἐπιπόλαιοι per _occhi a fior di testa_.

[11] Socrate veniva spesso paragonato ai Satiri e ai Sileni per la sua
figura (Plat., _Simpos_.; Senof., _Simpos_., III, e altrove).

[12] Modo proverbiale (Alcifr., _Lett_. III, 69). Forse le stoviglie di
Tenedo, spiega traducendo il Negri, avean grido di essere sottili per
modo che i lor frantumi riuscissero taglienti al par di un coltello. Ma
più probabilmente la frase non è che una variante dell’altro proverbio,
_esser mozzato con una scure di Tenedo_, derivato dalla favola di Cicno
e di Tenne (Vedi Conome, _Narr_., XXVIII; Eracl., Pont., _Repub_., VII;
Pausan., _Focid_., lib. X).

[13] _Propilei_: famosi tra’ monumenti maggiori di Atene e dell’arte
greca e del mondo. Erano i vestiboli (προπύλαια) della cittadella a cui
mettevano per cinque grandi porte e per vaste gradinate. Pericle li
fe’ costruire sotto la direzione di Mausicle architetto, spendendovi
intorno da 2200 talenti (quasi 12 milioni di lire). Vedi Pausania;
Plutarco in _Pericle_; Meursius, ecc. Tra i quadri di insigni artisti
che li adornavano, questo di Polignoto è ricordato in Pausania,
_Attic_., 22.

[14] νὴ τοὺς ἔρωτας — esclamazione femminile (Aristen., _Lett._ I, 27). 

[15] Questo vezzo di porre in bocca altrui le proprie idee, riscontrasi
frequentissimo nei discorsi di Socrate in Platone, e caratterizza
l’arguta artificiosa umiltà del suo processo dimostrativo. Così
nel _Simposio_ Socrate declina modesto le lodi di Agatone a’ suoi
ragionamenti persuasivi e per ispiegarli viemeglio «_riferirà il
discorso che ha udito da Diotima, una donna di Mantinea, erudita
in amore e in molte altre cose_.» Nel _Fedro_ Socrate espone al suo
giovine alunno, seduto al rezzo dell’acero famoso, la teoria del bello
e dell’amore: e comincia: «_Il discorso che sto per pronunciare è di
Stesicoro, figlio di Eufemo, nato ad Imera_...»

[16] Platone, _Fedro_. Vedi quivi la dottrina socratica che tentai
compendiare nel presente discorso.

[17] È in bocca di Omero che Platone mette questi due versi da lui
fatti dire a Socrate: «I mortali lo chiamano amore (ἔρως) che ha ali;
ma gli Dei lo chiamano _pteros_ (πτέρος) perchè ha la virtù di darne»
(Plat., _Fedro_).

[18] Platone, _Simposio_. Vedi quivi nel discorso di Aristofane la
comica teoria degli _androgini_ (maschi-femmine), qui da me alquanto
semplificata pei limiti imposti dalla scena.

[19] Eran le feste _Ascolie_; celebrate in onor di Bacco tra i villani
dell’Attica, e così dette appunto da un _otre_ (ἀσκός) che empivasi di
vino e fuori ungevasi d’olio, e sul quale i giovani a gara provavansi a
saltare con un sol piede, dando frequenti stramazzate in terra, di che
nasceva gran riso fra gli spettatori. Chi riusciva a rimanere col piè
fermo sull’otre, guadagnava l’otre e il vino. — Questa usanza ricordata
da Platone, _Simpos_., da Alcifrone _Lett_., III, 61, e dallo Scoliasta
del _Pluto_, lo è anche dai Latini: _atque inter pocula aeti — Mollibus
in pratis unctos saliere per utres_. Virgil., _Georg_., II v. 380.

[20] Cfr. in Platone nel _Simposio_ l’arrivo di Alcibiade. —
L’Ennio Quirino Visconti nell’_Iconog. grec_. (I, tav. XVI) riporta
diverse effigie d’Alcibiade, delle poche pervenute sino a noi: tutte
assomiglianti nelle linee principali benchè ritraenti pallidamente,
e in grado diverso, quella bellezza per la quale Alcibiade andò fra i
Greci famoso e che lo fece chiamar da Platone _il più bello di tutti
gli uomini_ (Plat., _Prim. Alc_.). La prima (XVI, 1 e 2) è una _erma_,
la cui autenticità è attestata dalle prime lettere del nome ΑΛΚΙΒ: fu
scavata sul monte Celio e posta nel Museo Vaticano. Raffigura Alcibiade
adulto: fronte bassa, naso diritto, lineamenti pronunciati, espressione
energica, baffi unentisi alla barba corta e inanellata, e capelli
arricciati. Pare opera di artista volgare: il Visconti la crede una
copia di quella che l’imperatore Adriano aveva fatto porre a Melissa in
Frigia sulla tomba di Alcibiade. — Un’altra testa (XVI, n. 3) è copiata
da una pietra antica del gabinetto di Fulvio Ursino: e riprodotta da
Faber (_Imag. ex bib. F. Urs. n_. 4). È Alcibiade assai più giovane
e bello: baffi leggieri staccati dalla barba nascente, capelli
arricciati. Ha rassomiglianza con una effigie di Mercurio in alcune
medaglie romane e spiegherebbe l’asserto di Clemente Alessandrino, che
molte imagini di Mercurio avessero avuto Alcibiade per modello (_Admon.
ad Gen_., 31): asserto confermato anche da Aristeneto, _Lett._ I, 11.
Un’altra effigie nel Visconti (tav. XVI a. 1 e 2) è presa da un’erma
appena sbozzata, dal Museo Napoleone. Alcibiade vi ha baffi leggieri
e barba arricciata. E un critico si scandalizzò per aver visto sulla
scena Alcibiade coi baffi!

[21] Proverbio greco. Applicavasi alle persone prive di gusto e
di ingegno, insensibili al bello come il somaro all’armonia di uno
stromento. «E non poneva più attenzione a me di quel che l’asino al
suono della lira» (Aristen., _Lett_. I, 17). «La sapienza a lui importa
poco: che ha che far l’asino con la lira?» (Luciano, _Di quei che
stan co’ signori_). «E vedendo un asino trattar la cetra, come dice il
proverbio, scoppia in una risata» (Luc., _Del giorno infausto_).

[22] I Libetrj — scrive Mercero — erano un popolo che non avea gusto
alcuno nè per la musica, nè per la poesia, nè per la scienza: a tal
che ascoltarono senza esserne punto commossi i divini canti d’Orfeo,
che morì nel loro paese. Indi la loro ignoranza diventò famosa e
proverbiale: e diceasi in proverbio: _più ignorante o più rozzo dei
Libetrj_, ἀμουσότερος Λειβεθρίων — (Aristen., _Lett_., I, 27; Mercerus,
nei _Commenti_).

[23] Metafora tutta greca. «_Quante Sirene erano nelle sue parole!_»
ὄσαι ταῖς ὁμιλίαις ᾳὺτῆς σειρῆνες ἐνί δρύντο (Alcifr., _Lett_., I, 38).
«Tu mi rapivi _colla sirena dolcissima de’ tuoi discorsi_, τῇ γλυκείᾳ
Σειρῆνι τῶν λόγων. (Sinesio, _Lett_., 139. E così Aristen., _Lett_.,
II, 19; Procop. Sof., _Lett_., 21).

[24] Plat., _Simpos_. Vedi quivi nel discorso di Alcibiade (la pittura
più artistica e vera che di Alcibiade ci abbia tramandato l’antichità)
ciò che Alcibiade dice del suo affetto per Socrate, e delle virtù di
quest’ultimo, paragonandolo a Marsia per il fascino della parola.

[25] La similitudine è in Platone. _Coribanti_ chiamavansi, com’è noto,
_ab origine_ i sacerdoti di Cibele, che invasati da furor sacro, su pei
monti di Frigia saltavano agitando il capo e percotendo ne’ cimbali,
e comunicavano agli altri la loro mania. Indi usavasi proverbialmente
il verbo κορυβαντιᾶν. — Però che da questi sacerdoti di Cibele
proveniva tutta una casta di frati mendicanti (sul genere di quelli
del Cattolicesimo) che sotto il nome di _questuanti della madre degli
Dei_, Μητραγύρτης, giravano per Grecia, trafficando di oracoli e di
sortilegi, e di porta in porta limosinando per le libazioni a Ecate e a
Cibele, e iniziando alle orgie e ai lùbrici misteri di queste dee. Cfr.
Plat., _Repub_., II, p. 364; Menandro, Ἱέρεια.

[26] Le corone (di viole, o di rose, o di mirto) si recavano nei
conviti solo al levar delle mense, quando stavasi per propinare al
_buon genio_, dopo di che seguivano il peàna e gli scolii (cantati dai
convitati con un ramoscello di mirto in mano) — e le libazioni copiose
(Senof., _Simpos_., II, 1; Ateneo, XV, 685; Plutarco, _Disp. Conv_., 5;
Becker ed Hermann, _Bild. Griech. Privatleb_., I, 181; II, 263).

[27] Tre erano di regola, nel giorno, i pasti degli Ateniesi, il primo
— ἀκράτισμα (detto da Plutarco anche πρόπομα) — cioè l’_asciolvere_,
di buon’ora, al levarsi dal letto: il secondo — ἄριστον — verso
il mezzogiorno; il terzo infine — δεῖπνον (l’Omerico δόρπος) —
verso sera, corrispondeva alla _coena_ dei Romani ed era il pasto
principale. Ma i Greci non usavano mangiare e bere promiscuamente;
durante il pasto, non si beveva vino, e perciò alla cena — δεῖπνον —
tenea dietro la mensa dei bicchieri, cioè il _simposio_ — σιμπόσιον,
πότος — destinato alle libazioni e che appunto cominciava, al levar
della mensa dei cibi, colla libazion del _buon genio_. Sovente questa
seconda parte del banchetto risolvevasi in una vera orgia (κῶμος);
soventissimo ancora il _simposio_ era dato non come una vera e
propria continuazione del banchetto, ma come una riunione a parte,
affatto indipendente dal δεῖπνον, di persone convenute insieme al solo
scopo di bere e discorrere e divertirsi tra i bicchieri. Ravvivati
da concenti musicali, da auletridi e ballerine e saltimbanchi, e da
giuochi e passatempi svariati; spessissimo anche fatti pretesto di
amene discussioni di filosofia e d’arte, ecc., questi simposj offrivano
la pittura più caratteristica e gaja dei piacevoli costumi del tempo.
Senofonte, così vero nella sua semplicità, e il fantasioso Platone,
coi lussureggianti colori della sua tavolozza di poeta, ci lasciarono
dei simposj greci descrizioni che vanno tra i più bei monumenti
dell’antica letteratura. Una pittura abbastanza viva ne fece anche
Alcifrone in qualcuna delle sue lettere, e Luciano ne’ suoi _Lapiti_
una spiritosissima caricatura. Quanto ai pesanti eruditissimi _Simposj_
di Plutarco e di Ateneo, è necessaria la pazienza di un erudito per
affrontarne la lettura.

Nella scena di questo atto trattasi di un simposio sul finire.
Nell’atto terzo l’autore intese a dare un’idea complessiva del convito
ateniese.

[28] Λωτὸς, chiamavano i Greci un albero di legno duro e nero, del
quale faceano flauti di suono dolcissimo: indi poeticamente diceano
_loto_, λωτὸς, il _flauto_. Così in Luciano: «_Com’egli cominciò a
parlare, mi riempì di tanta dolcezza di parole, che mi pareva, o amico
mio, di udir le Sirene, se mai ve ne furono, o i rosignuoli, o l’antico
loto di Omero: sì divine cose diceva_» (Luc., _Nigrino_).

[29] Naso da delfino chiamavano gli Ateniesi quel di Socrate, perchè
schiacciato e colle nari aperte all’insù. — È nota poi la credenza
mitologica intorno al talento musicale dei delfini. E _amatore delle
opere delle Muse_ chiama Luciano il delfino (_Dialoghi Mar_., 8): lode
derivatagli dalla favola di Arione, il famoso citarista di Metimna,
che, buttato in mare dai pirati, fu raccolto da un delfino accorso al
suo canto, e sul dorso di esso, sonando la cetra, venne in salvo al
Tenaro.

    .... _tergo delphina recurvo_ 
    _Se memorant oneri supposuisse novo_. 
    _Ille sedens citharamque tenet pretiumque vehendi_ 
    _Cantat et aequoreas carmine mulcet aquas_. 
                                  (Ovid., _Fast_., II). 

[30] νὴ τὴν πάνδροσον, esclamazione femminile ateniese (Aristof.,
_Lisistr_.) Pandroso, una delle figlie di Cecrope, veneravasi nella
acropoli di Atene e sacrificavasi a lei nello stesso tempo che a
Minerva (_Schol. ad Aeschin_., I, 20; Lycurg., _Fragm_., 34; Meursius,
_Reg. Athen_., I, 11).

[31] Giove _órcio_, vindice degli spergiuri — del giuramento vindice e
custode. — Era uno degli appellativi di Giove (Eurip., _Ippol_., At.,
IV).

[32] _Cipria Afrodite, Pafia Afrodite_ — appellativi della Venere
popolare, o pandemia, spesso invocata nelle esclamazioni delle
etére. Da Cipro e da Pafo ove erano templi famosi, sacri alle orgie
invereconde della Dea (Aristof., _Lisistr_.).

[33] _Adonie_. Queste, di cui si riparlerà nel quadro II, eran
feste celebrate con gran pompa dalle donne ateniesi, principalmente
dalle etére, in memoria del pianto di Venere per la morte del suo
Adone. Le statue dei due divini amanti recavansi in processione su
due letti d’oro tra gemiti e grida lamentose delle donne vestite a
lutto e picchiantisi il petto. In molti luoghi della città esponevasi
il simulacro del cadavere di un giovinetto, raffigurante il morto
Adone. Si portavano in giro vasi di terra con fiori e frutta e si
adornava ogni cosa di fresche lattughe, credendosi che Venere avesse
nascosto sotto quelle il suo amante. La festa poi finiva con allegria,
fingendosi Adone risorto a nuova vita. Si direbbe che qualcosa di
quelle feste sia rimasto nei riti della nostra settimana santa, seguìti
dalla _pasqua_ di risurrezione. — Una descrizione delle feste Adónie
si ha in Teocrito (_Idillio_, XV), la quale appunto ha per titolo
le Ἀδονιάζουσαι: ed anche in Aristof. (_Lisistr_.); e in Plutarco
(_Alcib_.). — Che le meretrici in particolare le solennizzassero si
rileva da Alcifrone (_Lettere_, I, 37), e dal comico Difilo, presso
Ateneo (_Deipn_. VII). — Che però vi partecipassero anche le donne di
famiglia si desume dal passo citato di Aristofane nella _Lisistrata_.

[34] _Son devota di Nemesi:_ προσκυνῶ δε τὴν Νὲμεσιν (Alcifir.,
_Lett_., I, 33). Frase greca proverbiale, accennante a propositi
vendicativi.

[35] Attesta Senofonte che le conquiste d’Alcibiade, non si limitavano
alle cortigiane: ma «_per la sua bellezza anche una quantità di donne
oneste davano la caccia a lui come ad una fiera_.» Ἀλκιβιάδης, δ’ αὕ
διὰ μὲν κάλ. λος ὐπὸ πολλῶν καὶ σεμνῶν γυναικῶν θηρώμενος (Senof.,
_Memorab_., I, 2. Cfr. Pseudo Andoc., _C. Alcib_., 10; Ateneo,
XIII, 4). Pittoresca e notevolissima questa imagine della caccia ad
Alcibiade, quasi caccia alla fiera: imagine che ritroviamo anche in
Platone: «Di dove spunti o Socrate? Dalla caccia di quella leggiadra
fiera di Alcibiade?» (Platone, _Protagora_).

[36] Adrastea (soprannome di Nemesi) puniva il parlare arrogante e
i falli commessi per superbia o presunzione o brame smodate. Perciò
solevasi invocarla nel discorso, e chiederne il perdono, quando stavasi
per esprimere qualche pensiero ambizioso, o per dire o promettere di sè
alcuna cosa che sentisse di smodato elogio o di orgoglio o di temerità.
— _Or dico col perdono che me ne dà Adrastea_, σὺν δ’Αδραστεὶᾳ λέγω
(Eurip., _Reso_). — _Adrastea figlia di Giove, rimovi l’invidia
dalle mie parole_ (Eurip., _ibid_.). — _Adoro Adrastea per quello
ch’io sto per dire_ (Platone, _Repub_., V). — _Così m’ami, così mi
perdoni Adrastea!_ — _Difendimi pietosa Adrastea da un pensiero troppo
ambizioso_, ecc., ecc. — Usavano anche: ὢς σὺν θεῷ εἰπεῖν — _per dirla
col Dio_ — cioè col perdono del Dio, intendendosi appunto Nemesi, il
Dio punitore dei superbi. Vedi in Platone, in Aristeneto, in Luciano
e altrove. Così l’autore della lettera ai Pisoni: _Si tamen hoc de se
cuiquam promittere fas est_ — _Et Deus ultor abest_.

[37] I Cilicj andavano famosi tra’ Greci per falsità: antico proverbio
li chiamava bugiardi. Λόγος ἐστί παλαίος μὴ ῤαδίως Κίλικας ἀληθεύειν —
(Dionys. Antioch., _Epist_., XLVI).

[38] _Autòlico e Critòbulo_ son nominati come bellissimi giovani
ateniesi di quel tempo da Senofonte nel _Simposio; Carmide e Fedro_
da Platone, nei dialoghi che recano il loro nome. E Luciano, facendo
malignamente ritrovar Socrate, nello inferno, vicino ai garzoni più
belli, nomina fra questi «_Carmide, Fedro e il figliuolo di Clinia_»
(Luciano, _Dial. dei Morti_, 20).

[39] Sulla ricchezza d’Alcibiade, vedi Platone (_Primo Alcib_.). Ivi
Platone la fa valutare da Socrate a 300 pletri di terra. (Il pletro
corrispondeva a 100 piedi greci e all’_jugero_ romano: 94 piedi e 5
pollici parigini). 300 pletri di terra potean valer circa una trentina
di mila lire. Ma essa era certo maggiore, perchè Alcibiade aveva case
in Atene, e imprese industriali. La sua fortuna era valutata oltre
100 talenti: ossia quasi seicentomila franchi: ricchezza enorme, se
si tien conto del basso prezzo delle cose e dell’elevatissimo valore
del danaro a quei tempi, in cui un ateniese potea vivere con 3 oboli
(45 centesimi) ed anche con due (30 centesimi) al giorno. Qualche
commentatore invece di 100 talenti attici (d’argento), intende 100
talenti babilonesi: il che porterebbe la fortuna di Alcibiade a quasi
sei milioni di franchi (Lisia, _De bonis Aristoph_., 52; Elian., _Var.
Hist_., IX, 29).

[40] Alcibiade, secondo narra Plutarco (_Alcib_., I), discendeva,
dal lato di suo padre, da Eurisace, che gli ateniesi onorarono di
onori divini, e che fu figlio di Ajace, il Telamonio, re di Salamina,
l’eroe de’ Greci all’assedio di Troja. Il suo avo, Alcibiade il
vecchio, avea con Clistene cacciato i tiranni da Atene e stabilitavi
la democrazia; il suo padre stesso, Clinia, si era coperto di gloria
comandando una trireme contro i Persiani alla battaglia navale di
Artemisio, e cadendo da eroe nella infelice battaglia contro i Beoti
a Coronea. Dal lato poi di sua madre Dinòmache (figlia di Megacle e
cugina germana di Pericle), Alcibiade apparteneva alla famiglia degli
Alcmeonidi, i discendenti di Alcmeone, che organizzò le dieci tribù
d’Atene e che fu figlio dell’argonauta Anfiarao; «dei quali narra la
fama che, agitatori del popolo contro i tiranni, ne avessero esilio,
ma raccolto denaro in Delfo dessero libertà alla patria colla cacciata
dei Pisistratidi» (Demostene, _Contro Midia_). — Demostene, all’opposto
di Plutarco, ma con probabile equivoco, fa discendere Alcibiade dagli
illustri Alcmeonidi per la linea paterna, e per madre «da Ipponico e
da avi chiarissimi per generosi servigi alla patria» (Vedi in Plutarco,
Platone, Pausania, Suida, Meursio, ecc).

[41] _Callia e Megacle_ erano ricchissimi ateniesi di quel tempo, che
diedero fondo colle prodigalità al loro patrimonio; sono nominati
da Aristof. (_Nubi_), Senof. (_Simpos_.), Plutarco (in _Alcib_.).
— _Feace_ era un altro distintissimo giovine ateniese, di illustre
famiglia, emulator d’Alcibiade (Plut. in _Alcib_.). — Luciano volendo
nominare i più ricchi fra i giovinastri scapigliati di Atene, nomina
_Callia_ e _Alcibiade_ (Luc., _Giove confutato_). Del dissoluto
ricchissimo Callia, emulo d’Alcibiade negli scialacqui enormi e nella
vita elegante, si parla anco in Platone (_Protagora_; Ateneo, V, p.
218, c).

[42] Anacreonte, _Ode_ 2. 

[43] Anacreonte, _Ode_ 4. — È singolare come i traduttori di Anacreonte
si siano per lo più divertiti ad annacquare o caricar di fronzoli
l’aurea ed elegante semplicità del poeta di Teo. — A rendere, per
esempio, il testo greco da me tradotto quasi letteralmente in queste
due strofette, il Marchetti, che pur va fra i migliori, impiega
_cinque_ strofe; il Caselli _quattro!_ — Il buon Marchetti poi s’è
scandolezzato della frase di Anacreonte «_Cingimi di rose e portami
una fanciulla_,» e per ingentilire (!), com’egli dice, il pensiero,
facendo che Anacreonte _non parli in generale d’ogni qualunque donna di
piacere_ traduce quella frase così greca, tutta greca, così:

    Figlio di Venere, 
      _Fin ch’io respiro_ 
      Ah! tu circondami 
      Di rose _il crin!_ 
    _Quella poi_ recami 
      _Per cui sospiro_, 
      _Quella ch’è l’arbitra_ 
      _Del mio destin!_ 

Di tutto il corsivo, in Anacreonte non è una parola. Questo è tradire e
non tradurre.

[44] Platone, _Fedro_: «Si dice che le cicale eran uomini innanzi la
nascita delle Muse. Quando il canto nacque colle Muse, parecchi uomini
di quel tempo ne furono così trasportati dal piacere, che la passion
del cantare li fece dimentichi del mangiare e del bevere, e morirono
senza accorgersene. Da essi nacque la razza delle cicale, che ricevette
dalle Muse il privilegio di non aver bisogno di alcun cibo. Dallo
istante ch’elle vengono al mondo, elle cantano senza bere nè mangiare,
sino al termine della loro vita; poi se ne vanno a trovare le Muse
e fanno loro conoscere quelli dai quali ciascuna di esse è onorata
quaggiù: a Tersicore quelli che la onorano nei cori, ad Erato quelli
che la onorano coi canti amorosi, ecc., ecc.»

Eliano scrivendo contro coloro che si cibano di cicale, dice che col
mangiar di questi insetti, si offendono le Muse figlie di Giove. _E
venerate dai poeti, care alle Muse e al biondo Apolline_, chiama le
cicale Anacreonte (_Od_. 43).

Bisogna creder, del resto, che in fatto di musica i Greci avessero dei
gusti speciali, o che le loro cicale fosser diverse dalle nostre, se
Anacreonte e Teocrito ne magnificavano il canto, e se per proverbio
usavasi dire di un musico eccellente, _che canta meglio di una cicala_,
τέττιγος εὑφωνότερος. Luciano volendo magnificare il canto melodioso
di una donna, lo paragona, per dolcezza di melodia, a quello degli
alcioni, delle cicale, dei cigni e degli usignuoli (Luc., _Immagini_).
Anzi è scritto che mentre un poeta greco suonava in pubblico la
lira, rottasegli una delle corde, fortunatamente una cicala saltò
sull’istromento armonico, e occupando il luogo della corda mancante,
rese compita l’armonia!

[45] Favoleggiarono i Greci che Oritìa figlia di Erettéo re d’Atene,
fanciulla di leggiadrissime forme, veduta da Borea mentre stava
cogliendo fiori presso il fiume Cefiso, venisse da lui via rapita per
l’aria, e trasportata in Tracia. Così Apollonio Rodio (_Argon_., I),
e il suo scoliaste. Un’altra tradizione più comune la dicea invece
rapita da Borea, in riva all’Ilisso. — Su questa favola di Oritìa,
vedi Platone (_Fedro_), Pausania (_Attica_), Erodoto (VII), Ovidio
(_Metamorph_., VI), Properzio (_Eleg_., XX), ecc.

[46] «E tu recitandomi da principio l’elenco de’ tuoi amori, lungo come
quello di Esiodo...» (Luciano, _Degli amori_). Suida tra le opere di
Esiodo annovera anche un catalogo di donne in cinque libri γυναικῶν
καταλόγος ἔν βιβλίοις ἕ.

[47] La tromba, introdotta per segnale di battaglia — in luogo
dell’accendere delle faci anticamente usato, — era chiamata dai Greci
_tirrena_, perchè vuolsi che gli Itali pei primi la inventassero
(Eurip., _Fenicie_, At. V; _Reso_, At. V; Eschilo, _Eumen_.).

[48] Alcibiade aveva l’abitudine d’interrompersi spesso, a bella posta,
nel discorrere (Plutarco, in _Alcibiade_).

[49] Intorno al poeta Agatone, vedi Platone (_Simposio_), Aristofane
(_Tesmoforie_). — Alcamene fu scolaro di Fidia, ch’era già morto da
molti anni all’epoca del dramma.

[50] Omero, _Odiss_., lib. X. Cfr. Procopio Sofista, _Lett_. CXVII. 

[51] εὐμενεστέροις ὄμμασιν ἐκείνην αἴ χάριστες εἴδον (Aristen.,
_Lett_., I, 11; Alcifrone, _Lett_.).

[52] Plutarco in _Pericle_. 

[53] Vedi più sopra la nota 33 intorno ad Adrastea punitrice della
prosunzione; dea invocata dianzi da Aspasia ne’ suoi vanti con Glicera,
e ne’ suoi rimproveri di fragilità all’altre donne, ascoltati, dietro
le spalle, da Alcibiade. Al che s’attaglia singolarmente un passo di
Luciano: «Ei pare che Adrastea ti stava dietro le spalle quand’eri
lodato delle accuse che davi agli altri, e la rideva di te, sapendo
benissimo, come Dea ch’ella è, che tu saresti caduto nella stessa
fossa...» (Luciano, _Apologia di quei che stan co’ signori_).

[54] Plutarco in _Alcib_.; Tucidide, _Guer. Pelop_., VI, 24. 

[55] Il diluvio d’Ogige. Ogige fu il primissimo re dell’Attica
(detta dal suo nome anche Ogigia): contemporaneo di Mosè, per quanto
asseriscono Giustino Martire, Eusebio, Cedreno ed altri scrittori.
Sotto il di lui regno avvenne il primo diluvio ricordato dai Greci,
il quale sommerse tutta l’Attica. Cedreno così ne scrive: «Ai tempi di
Mosè fu un uomo grande, della prosapia di Giapeto, che tenne il regno
dell’Attica per trentadue anni: chiamavasi Ogige. Al tempo di lui vi
ebbe un diluvio nella sola Attica: vi perì Ogige stesso e tutta quanta
la regione.» E Taziano, _contra Graecos:_ Μνημονεύεται παρ’Αθηναίοις
Ὄγυγος, εφ’οὔ κατακλυσμὸς ὄ πρῶτος, _è ricordato presso gli Ateniesi
Ogige, sotto il quale avvenne il primo diluvio_. — Accennano a
questo diluvio Platone nel _Timeo_, Stazio nella _Tebaide_, Dionisio
Alessandrino, Agostino nella _Città di Dio_, ecc. L’altro dei due
diluvii ricordati dai Greci fu quello assai posteriore di Deucalione.
Dopo il diluvio d’Ogige, narra Eusebio (_Chron_., I), l’Attica restò
interamente desolata e devastata, e senza altri re, per cento e
novant’anni, fino al tempo di Cecrope, che venne dall’Egitto e fondò
Atene, di cui fu il primo re (Cfr. Meursius, _Reg. Athen_., I, 6).

[56] Tucidide, _Guer. Pelop._, VI, 24. 

[57] Modo proverbiale; e usavasi di persona pronta a mutar partito e
opinioni secondo i tempi e gli eventi. Indi narra Luciano che un Don
Girella di que’ tempi, Teramene, fu soprannominato il _Coturno_, perchè
appunto come il coturno che si calza al piè destro e al sinistro, egli
adattavasi a tutti. Quei di Chio e quei di Cio guerreggiavan fra loro;
ed egli con quel di Chio dicevasi di Cio, con quei di Cio si diceva
di Chio. In fatto era di Cio (Luciano, _Amori_; Schol., _Del giorno
infausto, contro Timarco_). _Più mutabile del coturno_, εὐμεταβολωτέρα
κοθόρνου, è detto di una donna volubile in Aristeneto, (_Lett_. I,
28). E un traduttor francese tradusse: _più incostante del vento_. Oh i
traduttori!...

[58] Ossia del borgo di Lacia. Il nome del borgo nativo usavasi
comunemente apporre dagli Ateniesi, insiem con quello del padre, al
nome proprio delle persone. Spesso aggiungevasi anco il nome della
tribù a cui il borgo apparteneva.

Antichissima era la divisione dell’Attica in quattro tribù (φυλὴ).
Solone la conservò; più tardi cacciati i Pisistratidi e riuscita a
prevalere la parte democratica con Clistene, questi portò le tribù
da quattro a dieci, assegnando a ciascuna di esse un certo numero
di _borghi_ o _demi_ (δημός) sia urbani, ossia d’Atene città, che
suburbani, ossia dell’Attica (Gli urbani corrispondevano ai circondarj,
o quartieri, delle nostre città, i suburbani ai nostri comuni rurali.
Ma _cittadini ateniesi_ eran tutti i liberi nati nell’Attica, sia
nella città che nella campagna). Cento dapprima, poi crebbero sino
a 174 i _borghi_ (δημοὶ) ripartiti fra le dieci tribù, ch’erano le
seguenti, intitolate dai nomi di eroi e di re ateniesi: Acamantide,
Ajantide, Antiochide, Cecropide, Egeide, Eretteide, Ippotoontide,
Leontide, Eneide, Pandionide. Ogni tribù poi contava tre _curie_
o _confraternite_ (φρατρία); ogni confraternita, trenta _classi_
o _genee_. Ma da Clistene in poi, le _fratrie_ e le _genee_ non
sussistettero che come semplici corporazioni famigliari e religiose;
la tribù invece, come complesso di un certo numero di _demi_,
rappresentava la vera suddivisione politica, militare e religiosa.

I cittadini dello stesso borgo chiamavansi l’un l’altro δημοτης, come
noi diciam concittadini o conterrazzani quei che nacquero nel nostro
Comune. (Erod., V, 69; Strabone, IX, 10; Ross, _Demen von Attica_;
Schömann, _De Comitiis Athen._, Praef., p. XV e p. 363; _Antiq. Iur.
pub. graec._, C. XXII, p. 360; Corsini, _Fasti attici_).

Alcibiade era del borgo di Scambonide, appartenente alla tribù Leontide
(Pausania, _Attic_., 38; _Schol. ad Aeschin_., 3, 18).

[59] _Pnice_, πνὺξ, il luogo delle adunanze generali del popolo,
le quali vi si tenevano ordinariamente quattro volte per Pritanìa
(alli 11, 20, 50, 33): onde il popolo ateniese è detto _Pniceo_ da
Aristofane, nei _Cavalieri_. Lo Pnice era uno spianato elevato e
sassoso, stendentesi in semicircolo sul pendio del Licabetto, un quarto
di miglio a occidente della città. In giro il semicircolo era chiuso da
grosse pietre, presso alle quali stavano i seggi pel popolo; di fronte,
sotto un balzo che sporgeva dal colle, era la tribuna o bigoncia degli
oratori, βῆμα, alla quale salivasi per gradini dai due lati. E la
tribuna, da cui dominavasi dello sguardo Atene, prospettava il mare
e l’isola di Salamina; come per invitar gli oratori a più liberi e
vasti pensieri, e ricordar loro continuamente che i destini di Atene
la chiamavano al mare, culla della sua potenza e della sua libertà. —
Sullo Pnice, vedi Suida alla voce _Pnyx_; Barthelemy, _Viag. d’Anac_.,
III, nota VI; Meursius, _Del Popolo d’Atene_; Wordsworth, _Athen and
Attica_.

[60] «_Si tratta d’esser falso testimonio? non si ha che a dirmi
una parola_,» così un parassita, in una commedia di Antifane, presso
Ateneo, VI, cap. IX.

[61] Uno dei numerosi appellativi di Mercurio, col quale era spesso
invocato dai parassiti e barattieri (Alcifr., _Lett_., III, 47;
Luciano, _Timone_). Sui molteplici impieghi e corrispondenti nomi di
Mercurio, cfr. Luciano, _Dial. degli Dei_, 24, e Aristofane in fine del
_Pluto_.

[62] Sui maltrattamenti e le burle d’ogni sorta cui eran soggetti i
parassiti alle mense, vedi Alcifrone, _Lett_., III, 7, 48, nonchè III,
lett. 6, 45, 66, 68, 70. — Cfr. Ateneo, _Deipnos_., lib. VI.

[63] «Che voce è questa, o Socrate, che lontana ci viene dal mare? —
È un uccello marino, detto Alcione, che ha questa voce di pianto e di
lamento: e intorno ad esso contasi un’antica favola. Dicono che una
volta egli era donna, figliuola di Eolo l’Elleno, donzelletta che si
struggeva d’amore e disfacevasi in pianto perchè le morì lo sposo Ceice
di Trachinia, prole dell’astro Lucifero, di bel padre bel figliuolo:
e che di poi essendole spuntate le ali per volere divino, e mutata in
uccello, andò scorrendo il mare in cerca del suo diletto, che ella per
tutta la terra non avea potuto trovare. — E questo è l’Alcione? Io non
ne aveva mai udita prima d’ora la voce. Oh mi lascia veramente un’eco
di pianto nell’anima!» (Luciano, _L’Alcione_). — «L’Alcione se ne
fuggì mandando un lugubre lamento» (Luciano, _Di una storia vera_). —
Ed Euripide: «O augello Alcione che intorno agli scogli del mare canti
il tuo aspro pietoso destino, e piangi ognora lo sposo, io non alato
augello ben t’assomiglio ne’ mesti lai...» (Eurip., _Ifig. in Taur_.).
Vedi ancora sulla tavola di Alcione, Ovidio (_Metamorph_., XI., 411
seg.; _Heroides_, XVIII, 81).

[64] Qualche critico credette ravvisare una contraddizione tra il
carattere affatto ingenuo di Glicera e la sua condizione di _etéra_.
Veda quel critico il ritratto della virtuosa giovinetta _etéra_ in
Antifane (Aten., XIII, 572 a.), quello della dolcissima Bacchide
in Alcifrone (Alcifr., _Lett_., I, 38) da me già citati nella nota
sulle _etére_; e le lodi della leggiadra Pizia in Aristeneto: «Benchè
ella sia etéra di condizione, tuttavia conserva la nativa ingenua
semplicità, e l’indole irreprensibile, e i costumi assai migliori della
di lei condizione: nulla tanto mi fece innamorare di lei quanto la sua
innocenza» (Aristen., _Lett_., I, 12). Altrove nello stesso autore, la
cortigianella Filemazio scrive ai galanti che le fan la corte: «Voi
credete di agevolmente ingannarmi, perchè sono una fanciulla che non
ha alcuna esperienza d’amore e non è ancora iniziata ai misteri di
Venere (ὥς ἐρωτικῶν ἀγύμναστον παῖδα, καί παντελῶς ἀμύητον Αφροδίτης) e
potermi accalappiar più facilmente che non possa il lupo un’agnellina
dormente» (Aristen., _Lett_., I, 14). — E altri esempj, in Menandro e
nei comici della commedia nuova, tralascio.

[65] «Verun altro non fuvvi nè privato, nè re, il quale sette cocchi
mandasse ai giuochi olimpici, fuor che egli solo. Lo aver poi riportato
quivi la prima, la seconda e la quarta vittoria, al dir di Tucidide
e la terza al dire di Euripide, è cosa che supera lo splendore e
la gloria di quanti si studiarono adoperarsi in siffatte contese»
(Plutarco, in _Alcib_.; Andocide, _Contra Alcib_., 26; Tucid., VI, 16;
Isocr., _De Big_., XIV., e Aten., I, 3).

[66] Pindaro, _Odi_. Vincitori d’Olimpia a cui il poeta Tebano dedicò
parecchie delle sue odi.

[67] «_Te canterò di Clinia figlio_, ecc.» (Eurip., _Framm_.; Plut. in
_Alcibiade_).

[68] Spedizione del Peloponneso dell’anno 419 av. l’E. V. Fu la
terza campagna di Alcibiade e la prima in cui egli ebbe un comando
di stratego, e vi acquistò fama di insigni talenti militari. Qui
Alcibiade, naturalmente avveduto nello spiegare a Glicera e nello
_scegliere_ le ragioni della sua modestia, non attribuisce a sè che
impropriamente (come Glicera dee saperlo) il torto della sconfitta
di Mantinea, toccata agli alleati ateniesi ed argivi (418 av. l’era
volgare).

[69] Platone, _Simposio; Apologia_ XVII; Plut. in _Alcib_.; Ateneo,
_Deipnosof._, V, 215 e seg. — Plutarco così narra: «Essendo ancor
giovanissimo si trovò Alcibiade alla spedizione di Potidea. Egli
alloggiò sempre Socrate nella sua tenda, l’ebbe compagno in tutti
i combattimenti e nel giorno della grande battaglia, in cui fecero
entrambi prodigi di valore. Essendo stato Alcibiade ferito e atterrato,
Socrate se gli pose davanti, lo difese, e in cospetto di tutto
l’esercito impedì ai nemici di prenderlo e di impadronirsi delle sue
armi. Il premio del valore era dunque giustamente dovuto a Socrate; ma
i capitani parendo disposti a darlo ad Alcibiade a cagion del lignaggio
di lui, Socrate, il qual non cercava che di accendere in lui viemeglio
il desiderio della vera gloria, fu il primo a dargli il proprio
suffragio, e fu quegli che maggiormente contribuì a fargli decretar
la corona e l’armatura completa, che erano il prezzo d’onore.» Ciò
avveniva l’anno 431 av. l’E. V.

Più tardi, alla battaglia di Delio (423 av. l’E. V.), Alcibiade
ricambiava il beneficio, e combattendo valorosamente salvava Socrate
alla sua volta dai nemici, — come narra Platone nel _Lachete_.

[70] ούκ ὤν ἀνὴρ γὰρ Ἀλκιβιάδης, ὣς δοκεῖ, — ἀνὴρ ἀπασῶν τῶν γυναικῶν
ἔστι νῦν. Così il comico Ferecrate (_Fragm. Comic. Graec,_ edizione
Didot, pag. 114). — All’epoca dell’azione del dramma, la moglie di
Alcibiade, Ipparete — (che d’altronde non ebbe nessuna parte notevole
nella vita di lui, e non è ricordata dagli storici che per la scena
del divorzio) — era già morta durante un viaggio fatto da Alcibiade
ad Efeso, qualche anno prima della impresa di Sicilia (Plutarco, in
_Alcib_., VIII. Cfr. Isocr., _De Bigis_, XVII).

[71] Massima era l’ambizione che le donne greche e le ateniesi in
ispecie, riponeano nella ricchezza e nel color delle chiome, e nella
eleganza delle acconciature. Le portavano per lo più bipartite sulla
fronte e intrecciate e annodate dietro il capo; però i capelli crespi
o ricciuti, per arte o per natura, eran tenuti in gran pregio, giovando
l’increspamento ad adombrare e far piccola la fronte, la cui ampiezza,
come era un pregio per gli uomini, così ascrivevasi nelle donne a
difetto (Aristen., _Lett_.). Fra i colori poi pregiatissimo il biondo:
_aurea_ chiamavano Venere: e quelle che bionde non erano, per lo più
si tingeano. Rileviam da’ frammenti di Menandro ch’ei discacciò di
sua casa una donna la quale facea pompa di chiome artificiosamente
bionde (Clem. Alex., _Paedag_., III). — Eliano scrive della chioma di
Atalanta, ch’ella era _bionda_ e dovea questo colore «_alla natura, non
all’arte, nè alle droghe di che le femmine fan uso per procacciarselo_»
(El., _Var. St_., XIII, 1). — E Luciano: «_Il più del tempo e dello
studio consuman le donne in acconciar le treccie. Alcune con tinture
che hanno virtù di far d’oro i capelli, al sole di mezzodì, a guisa
di bioccoli di lana, li ritingono di un biondo fiorito, scontente
del color naturale. Quelle poi che si contentano_ (notisi la parola)
_della nera chioma, vi spendono la ricchezza de’ mariti e spirano dalle
treccie tutti i profumi d’Arabia. Con istrumenti di ferro scaldati a
leggier fuoco si increspano e inanellano i capelli, che scendendo in
minuti ricciolini fin sopra le sopracciglia lasciano breve spazio alla
fronte: di dietro cascano in grandi anella e ondeggian sugli omeri,_»
(Luc., _Amori_).

[72] Cfr. Anacreonte, _Odi_, 28, 29. 

[73] Siccome le greche non usavan fazzoletti (le idee d’allora
intorno alla pulitezza e alla creanza vietavano ad uomini e a donne di
asciugarsi il sudore e di soffiarsi il naso: la siccità del naso era
riguardata uno fra i pregi principali della bellezza, comunque da un
epigramma di Marziale potrebbe arguirsi che gli antichi si soffiassero
colle dita), così non è strano che elle non usassero nè tasche, nè
borse. Però la fascia o cintura che stringea loro la tunica sotto
le mammelle (_strofio_) serviva ad esse insieme per riporvi le lor
coserelle più care — danaro, biglietti, lettere degli amanti, pegni
dolci e furtivi d’amore, ecc., ecc

Senofonte, nella _Ciropedia_, ricorda pur egli a titolo di lode,
e in prova di moderato vivere, come anche i Persiani a’ suoi tempi
tenessero per cosa sconcia sia lo sputare che il pulirsi il naso: e
ne dà la ragione osservando «che col praticare un vitto temperato e
col faticare, essi disseccavano gli umori del corpo così da potersi
altrimenti dispergere» (Sen., _Cirop_., I, 1).

[74] Plinio (_Nat. Hist_., XIII, c. 10) fa l’invenzione della carta
di papiro posteriore di un secolo circa all’epoca del nostro dramma:
egli la pone cioè ai tempi di Alessandro, ossia quasi intorno all’epoca
medesima che, secondo lui, fu inventata a Pergamo la pergamena pella
biblioteca d’Eumene. Ma che l’invenzione del papiro sia assai più
antica, e nota ai tempi di Alcibiade, si rileva da Erodoto che già
parla del papiro, sotto il nome di βύβλος (lib. V, cap. 8); anzi egli
aggiunge che prima che il papiro (βύβλος) fosse comune, si scriveva già
sopra pelli di capra o di pecora (lib. V, cap. 58): e se ne formava una
specie di libro che diceasi διφθέρα. V’eran di tali libri in pergamena
legati anche alla foggia stessa dei nostri — _tabellae_ (_Pitt. Herc_.,
tom. II, tav.). Quanto ai manoscritti di papiro trovati ad Ercolano,
sono tutti fatti a rotolo — cioè a dire di quelli che i Latini
chiamavano _volumen_.

[75] _Liceo_ o _Licio_, (λυκαῖος) soprannomi, fra i tanti, di Apollo
siccome nato in Licia, nell’Asia minore, o perchè autor della luce
(λυκή) o perchè Latona quando lo partorì, al dir d’Eliano, trasformossi
in lupa (λύκος). — _Sire della licea pendice dal bell’arco d’oro_, lo
chiama Sofocle, nell’_Edipo_: — _Dio liceo fugator della notte_, nella
_Elettra_. Dicevasi perciò anche _licogenete_, figlio della lupa; e
_licigenete_, padre della luce: εὔχεο δ’Απόλλωνι λυκηγένει κλυτοτόξω,
_prega Apollo padre della luce inclito per l’arco_ (Om., _Iliad_., 4).
Ad Apollo Licio consacrò Pisistrato in Atene quel parco che più tardi
divenne il celebre _Liceo_.

[76] Κωρυκαῖος δαίμον. Dicevasi proverbialmente di uomo che inosservato
si insinua e ascolta e spia i discorsi e i fatti degli altri. (Vedi
Alcifrone, _Lett_., III, 26). Intorno alla origine del proverbio si
narra che in Córico, città marittima di Panfilia, era una razza di
gente malvagia, la quale, mischiandosi ai mercatanti, spiava ciò che
essi recavano sulle loro navi, per dove dicevano di voler veleggiare
e quando: poi ne avvertivano i corsali, e questi, colto il momento
opportuno, assaltavan le navi e le predavano. — Vedi Suida, Erasmo ed
altri.

[77] Portava (Alcibiade) una foggia di calzari ricchissimi, diversi da
quelli degli altri; che dal suo nome furon detti _alcibiadei_ (Ateneo,
XII, 534 d. ἀλκιβιᾶδια son detti in Polluce, VII, 89).

[78] Modo proverbiale greco, equivalente al nostro — _da galeotto a
marinaro_ (Wieland, _Aristip_., V, _lett_. 4). I Cretesi avevan fama
di grande furberia; e quei di Egina ancora più. Diceasi anche, per
proverbio, di uomo astuto, che facesse l’ingenuo e lo gnorri: _Pare un
Cretese che non abbia mai visto il mare_ (Aristen., _Lett_., II, 18).

[79] Vedi il discorso di Nicia contro Alcibiade, in Tucidide, _Guerra
Pelop_., VI, 12.

[80] Sui vasti ambiziosi disegni di Alcibiade, vedi Plutarco,
in _Alcibiade_; Tucid., _Guer. Pelop_., VI, 90; Platone, _Primo
Alcibiade_.

[81] _Re_ o _gran re_ chiamavano i Greci per antonomasia il re di
Persia. Vedi Senofonte, _Anabasi_; Aristofane, Plutarco, Demostene,
ecc.

[82] ἐγὼ δὲ τοῦτον (Σωκράτη) μόνον αἰσχύνομαι. ξῦνοιδα γὰρ ἐμαυτῷ
ἀντιλέγειν μέν οὔ δυναμένῳ, ὤς οὔ δεῖ ποιεῖν ἄ οὔτος κελεύει κ. τ. λ.
— Vedi tutto il discorso di Alcibiade nel _Simposio_ di Platone (c. 32
seg.) e Plutarco in _Alcib_. Confronta Platone, _Primo Alcibiade_.

[83] βίᾳ οὔν ὤσπερ ἀπὸ τῶν Σειρήνων ἐπισχόμενος τα ωτα οἴχομαι φεύγων
(Platone, _Simposio_).

[84] «Socrate era quello che aveva maggior ascendente sopra Alcibiade,
e profittando della buona indole di questo giovine sapeva tenerlo
in freno colla forza de’ suoi discorsi, che lo pungevano al vivo,
ne mutavano il cuore e gli faceano persino versar lagrime; ma spesse
volte altresì Alcibiade gli sfuggiva di mano per darsi in balìa degli
adulatori: e allora Socrate a corrergli dietro... Poichè quegli che
corrompeano Alcibiade si prevaleano meno della sua inclinazione ai
piaceri, che non si servissero della sua ambizione e della sua sete
ardente di gloria» (Plutarco in _Alcibiade_).

[85] δοκεῖς ἂν μοι ἐλέσθαι τεθνάναι (Platone, _Primo Alcibiade_, 2). 

[86] Cfr. Platone, _Primo Alcib._, 2. 

[87] «Sul finir della vita di Pericle, gli Ateniesi si eran posti in
capo di conquistar la Sicilia: e sotto pretesto d’inviar di quando in
quando soccorsi d’armi o di truppe alle città oppresse e maltrattate
dai Siracusani, vi si andavan spianando la via; ma chi accese
maggiormente questa brama, chi più fortemente persuase gli Ateniesi
ad andare in Sicilia non alla spicciolata, ma in grosse schiere e d’un
sol colpo, con una flotta poderosa ed invadere e soggiogar quell’isola,
fu Alcibiade, col pascere ch’ei faceva il popolo e sè stesso di grandi
speranze...» (Plutarco in _Alcibiade_).

Dallo stesso Plutarco si rileva che Socrate fu contrario alla impresa,
non presagendone nulla di bene: come l’evento provò.

[88] Tucidide, _Guerra Pelop._, VI, 18. — Vedi quivi il discorso di
Alcibiade agli Ateniesi.

[89] Sul valor del talento e sulle monete attiche, vedi atto secondo,
nota 7.

[90] Cfr. col processo socratico di questo dialogo anche il dialogo di
Socrate e Glaucone, in Senofonte (_Memorabili_, III).

[91] Questo spirito irrequieto di intraprendenza, di attività febbrile,
di temerità che trascinava Atene, d’impresa in impresa, non anco uscita
da una guerra in altre guerre più gravi, fu un lato caratteristico
della democrazia ateniese: e il temerario intraprendente Alcibiade
potè tanto sopra di Atene, perchè appunto anche in ciò fu la sintesi
completa del carattere del suo popolo. Così Socrate in questa scena
rimprovera ad Alcibiade di spinger Atene alla guerra di Sicilia,
mentre quella del Peloponneso le sta ancor sulle spalle, — come più
tardi Demostene rimproverava agli improvvidi Ateniesi di pensar a
nuove guerre coi Persiani, mentre avevano il Macedone alle porte:
«_Perchè imaginare nuovi nemici, mentre già li abbiamo palesi?_ τί
τοὺς ὁμολογοῦντας ἔχθρους ετέρο’υς ζητοῦ μὲν; (Demost., _Sulla guerra
persiana_).

[92] _Pigro, ciarliero, avaro, ingordo de’ salarj_, è chiamato il
popolo ateniese in Platone, (_Gorgia_, p. 515). Vedi poi Aristofane
nelle _Vespe_, commedia tutta intesa a flagellare questa brutta piaga
della democrazia ateniese. E Demostene, serbato a vederne a’ suoi
tempi ancor più funeste le conseguenze, sclamava: «Ormai tutto come in
mercato sta a prezzo: ed è scambiato da passioni che già appestarono
e sovvertirono la Grecia. E quali? avara sete di mance; riso per chi
la confessa; perdono per chi è convinto, e tutte l’altre necessità di
corruzione» (_Filipp_., III).

[93] Plutarco in _Pericle_, 9. — Platone, _Gorgia; Repub_., 6. — Cfr.
Peyron, _La politica e l’amministrazione di Pericle_; § 8.

[94] La riduzione del soldo militare (quattro oboli al giorno per
soldato) ordinata da’ demagoghi successori di Pericle per provvedere
alle strettezze dello erario, — in un tempo in cui la introduzione
delle mercedi del foro e dei tribunali e degli spettacoli avea già
sviluppate nel popolo le abitudini dell’ozio e l’avida sete dei pigri
guadagni — ebbe per effetto di disamorare a poco a poco i cittadini
dall’esercizio della milizia. I popolani, certi di guadagnar tre
oboli a casa loro, sedendo nello Pnice, o a teatro o nell’Eliea, meno
facilmente si adattarono a scambiare, per un solo obolo di più, la vita
beata della città con quella dei campi e delle triremi. Nell’impresa di
Sicilia bisognò portar di nuovo il soldo ad una dramma per allettare i
cittadini a pigliar l’armi: e ancora l’aumento non sedusse gli opliti
agiati delle prime tre classi: ossia i veri _opliti di catalogo_ (ἔκ
καταλόγου) iscritti nei ruoli; perchè soli 1500 di questi si contarono
nei 5100 opliti raccolti per quella spedizione: il resto degli
opliti si dovette formare, come la fanteria leggiera, di proletarj
della quarta classe, e alleati mercenarj allettati dall’aumento.
Terminata la spedizione di Sicilia, col disamore dell’armi più e più
crebbe questa piaga de’ mercenarj: di che Isocrate scriveva: «Noi,
mentre vogliamo dominare sopra tutti, ricusiamo di militare, abbiamo
eserciti mercenari composti di uomini esuli disertori, malfattori,
oltraggiatori de’ nostri figliuoli, che abbandonano noi, se altri
dia loro un soldo maggiore. Noi che difettiamo del vitto quotidiano,
prendemmo ad alimentar questi forestieri» (Isocr., _Sociale_, 16).
E Demostene: «Non mi si parli di dieci e ventimila forestieri e di
eserciti mercenarj; voglio milizie cittadine, voglio 2000 uomini dei
quali almeno 500 sieno ateniesi, gli altri sieno pure stranieri; voglio
200 cavalieri, de’ quali almeno 50 siano cittadini» (Dem., _Filipp_.,
I). Se Demostene, osserva il Peyron, volendo formare un esercito di
2000 opliti si contentava di soli 500 ateniesi, che mai erano divenuti
quei 13,000 opliti cittadini, che Pericle al principio della guerra
si riprometteva? Erano registrati nei ruoli, ma per più ragioni si
scansavano dalla milizia (Cfr. Peyron, _La politica e l’amministrazione
di Pericle_, § 8).

[95] Ad Atene i popolani, per andare a teatro, ed assistere agli
spettacoli, non pagavano, ma al contrario ricevevano un obolo per
ciascuno. — «_Ed essendo egli incaricato di distribuire alla tribù
Eretteide il denaro dello spettacolo, io andai a chiedergli la parte
mia_» (Luciano, _Timone_). Indi in Demostene frequentissimi i lamenti
per lo sperpero del pubblico denaro nelle feste: «_Voi_ (Ateniesi) _per
le pubbliche feste ricevete danaro senza che alla repubblica ne derivi
utilità_» (Dem., _Olint_., I). «Create legislatori non leggi, che
n’avete già troppe: anzi sopprimetene parecchie dannose, quelle cioè
che riguardano il denaro degli spettacoli» (_Olint_., III). «Voi popolo
invilito, fiacco, spiantato, siete tenuti schiavi e in nessun conto, e
tanto solo che vi snocciolino il denaro degli spettacoli, ne fate gran
festa...» (_Ibid_). — «E d’onde, Ateniesi, che le feste Panatenee e le
Dionisiache si celebrano sempre ne’ tempi prefissi, e vi si fa tanto
spreco di denari che non si armò mai con altrettanto nessun naviglio e
con tale apparato e moltitudine che mai la maggiore?» (_Filipp_., I. —
Cfr. Demost., _Della distribuzione del danaro_). Vedi il mio opuscolo
_Alcibiade, la critica e il secolo di Pericle_.

[96] Ho modificato nella forma, non già, credo, di molto, nella
sostanza e nel concetto, la sentenza famosa che forma la conclusione
del _Primo Alcibiade_ e il fondo della morale socratica: _conosci te
stesso_. Nel dialogo platonico questa sentenza non è infatti presentata
da Socrate ad Alcibiade, se non come corollario della incapacità di
Alcibiade a governare la cosa pubblica; incapacità di cui Socrate gli
strappa a poco a poco la confessione. Perchè è incapace? Perchè parla
di cose che ignora. Per governar gli altri bisogna prima governar sè
medesimo. Per governar sè medesimo, bisogna prima conoscersi: γνῶθι
σαυτὸν (Platone, _Primo Alcib_., cap. 18, 26; _Protag_., c. 28;
_Filebo_, c. 29; _Carmide_, c. 12).

[97] Plat., _Simpos_., 1. — Quei di Falera (borgo di Atene, della tribù
Antiochide) erano proverbiali per la lentezza con cui camminavano nelle
cerimonie pubbliche.

[98] _E camminiam curvi per la città, come quei che portan le
lampade_ (Aristof., _Lisistr_.) Della festa o gara delle lampade
(_lampadeforìa_) ch’era celebre in Atene, e solennizzavasi, secondo
lo scoliaste di Aristofane, ogni anno il dì 19 del terzo mese attico,
così parla Pausania: «Nell’Accademia è l’altar di Prometeo. Da qui si
partono le persone e van correndo verso la città con fiaccole accese
in mano. La contesa consiste in portar la face così che correndo
rimanga accesa. Se si spegne al primo, egli non ha più parte nella
vittoria, ma gli sottentra il secondo, e se nè questi ancora la porta
accesa, il terzo è vincitore, ma se a tutti si spegnessero le faci,
niuno rimarrebbe vittorioso» (Paus., I, _Attic_. 30. — Cfr. Aristof.,
_Vespe_; Senof., _Finanze d’Atene_, IV; Eschilo, _Agam_.)

[99] Sull’ombra del gnomone, orologio solare (γνώμον, στοιχεῖον),
calcolavansi l’ore. (Ateneo, _Deipn_., I, 8; VI, 42; Aristof. in
_Polluce_, IX, 46; Aristof., _Eccles_., v. 652; Alcifr. III, 4).

I primi orologi solari (Erodoto, II, 109, li dice introdotti in Grecia
dai Babilonesi; Diogene Laerzio invece ne fa inventore Anassimandro,
e Plinio, _Hist. Nat_., 76, il discepolo di Anassimandro, Anassimene
milesio, che avrebbe posto il primo gnomone a Sparta) consistevano in
una colonna drizzata sopra uno spazio piano, su cui segnavansi diverse
linee: e l’ombra della colonna che riflettevasi successivamente su di
esse, segnava le ore. In seguito, e già all’epoca del dramma nostro,
usarono per maggiore speditezza piantar un gnomone o stilo di ferro
sopra una parete o una colonna; e rendea lo stesso servigio. L’ombra
dello stilo accorciandosi o allungandosi col corso del sole indicava
le ore col numero dei piedi di lunghezza. Indi, per chieder l’ora,
usavasi dire _Che ombra fa?_ Naturalmente di buon mattino l’ombra era
lunghissima (Palladio, _De re rustica_, calcola di 29 piedi l’ombra di
un quadrante antico, in gennajo, al levar del sole) e più diminuiva
accostandosi al meriggio, per tornare a crescer poi: sicchè l’ore di
primo mattino e di sera inoltrata eran segnate dal numero di piedi
maggiore. Per altro, sul numero preciso dei piedi, corrispondente fra i
Greci alle singole ore, non si hanno che calcoli approssimativi e molto
incerti; pare, per esempio che il quadrante di Palladio, costrutto pel
clima di Bisanzio, registri la divisione dei piedi in numeri maggiori
probabilmente che non si usasse ad Atene: poichè in Aristofane e in
Menandro, presso Ateneo, vediam fissata di solito per ora della _cena_
in Atene l’ombra di _dieci_ o di _dodici_ piedi: e si sa che ad Atene
la cena (δεῖπνον) aveva luogo ad ora assai tarda, al tramonto del
sole o anche dopo. Vero è che in Eubulo, presso Aten. I, 8, troviam
menzionata come ora di cena un’ombra di _venti_ piedi: che accenna
probabilmente ad un gnomone diviso in 24 piedi.

L’ore poi del giorno erano di due sorta: _equinoziali_ che partivano
il dì civile, come da noi, in 24 parti eguali: e _artificiali_, che
dividevano sempre tanto il dì che la notte in _dodici_ parti, più
lunghe o più brevi quindi, secondo la lunghezza dei giorni e delle
notti nelle varie stagioni. Quest’ore artificiali si designavano
sommandole a tre a tre, ossia si ripartivano in quattro divisioni
eguali di tre ore ciascuna, tanto pel dì che per la notte. Di giorno,
le tre prime ore dal levar del sole dicevansi la _prima_; le tre
seguenti, la _terza_; poi la _sesta_ e la _nona_. Di notte, le prime
tre ore del tramonto dicevansi _prima vigilia_, le tre successive
_seconda vigilia_; poi _terza_ e _quarta vigilia_.

Nella tavola di Palladio sopra ricordata, l’ombra di 15 piedi,
qui accennata nel dialogo, corrisponderebbe appunto alla terza ora
artificiale: vale a dire siamo sul finir della _prima_: e la _terza_ di
cui parla Carinade più innanzi, non cominciava che alla quarta ora dal
levar del sole (Cfr. circa l’ora mattutina dell’assemblea, Aristof.,
_Acarn_.; Eccles.).

[100] _E dorme, come dice il proverbio, le tre notti d’Ercole_
(Alcifir., _Lett_., III, 38). È nota la favola di Giove che giacque
con Alcmena, e per goderne più a lungo prolungò il corso di una
notte a quello di tre: dal qual concubito nacque Ercole (vedi Plauto,
_Anfitrione_).

[101] Con una corda tinta di rosso e distesa due servi pubblici
spingevano alla adunanza i più lenti. Il segno rosso che rimaneva sulle
loro vesti li faceva incorrere in una multa ossia nella perdita dei
tre oboli, come ritardatarii. Parlando dei ritardatarii, così segnati,
Aristofane fa dire a Cremete nelle _Aringatrici_: «_Ed era soggetto di
molto ridere nell’assemblea la gran copia di rosso che si era sparsa
all’intorno_» (Cfr. Aristofane in principio degli _Acarnesi_).

[102] _Tesmotéti_: erano gli ultimi sei de’ _nove arconti_. Quando
l’autorità regia fu circoscritta in Atene dopo la morte del re Codro
(1092 av. l’E. V.), i suoi eredi e successori della sua stessa dinastia
continuarono a tenere sotto il nome di _arconti_ la dignità suprema
dello Stato, con obbligo però di dar conto della loro amministrazione
al popolo (Paus., IV, 5, 10; Elian., _Var. St_., VIII, 5): fino a
che nel 752 av. l’E. V. gli Eupatrìdi, abbattuto l’arconte Alcmeone,
limitarono il potere dell’arconte responsabile, rendendolo da
ereditario elettivo, e da vitalizio temporaneo, circoscritto a _dieci
anni_ (Dion. Alycarn., I, 72). Più tardi infine, nel 682 av. l’E.
V., a prevenire possibili usurpazioni, anche l’ufficio dell’_arconte
decennale_ fu abolito, e i poteri supremi dello Stato che si
concentravano in lui furono ripartiti fra _nove_ magistrati _annuali_,
che conservarono il titolo di _arconti_. Scelti ogni anno per suffragi
tra la classe degli eupatrìdi, essi avevano la direzione generale degli
affari interni ed esterni della città.

Il primo dei nove — ch’era l’arconte per antonomasia e chiamavasi
_arconte epònimo_, perchè dava all’anno il proprio nome — stava a
capo dell’amministrazione civile: contratti, donazioni, successioni,
matrimonj, divorzj, testamenti, tutela degli orfani, ecc. Il secondo,
_arconte re_ o _basileo_, era sommo sacerdote, presiedeva agli affari
del culto; sagrifizi, feste, giudizj di sacrilegio, ecc. Il terzo
arconte, ossia il _polemarco_, aveva il comando supremo delle forze
militari e la direzione delle cose spettanti alla guerra. Gli altri sei
arconti, designati insieme sotto il nome di _Tesmoteti_, istruivano i
processi criminali più importanti, giudicavano in ultima istanza delle
cause civili, e in generale degli affari che non erano di speciale
competenza dei primi tre arconti.

Al tempo di Alcibiade però le riforme democratiche avevano diminuito
di assai questo potere degli arconti. La creazione de’ dieci strategi
avea tolto al _polemarco_ il comando degli eserciti, come i tribunali
degli eliasti limitarono il poter giudiziario dell’eponimo e degli
altri arconti, ridotto ormai a poco più che alla istruttoria e alla
presidenza nei giudizi di loro giurisdizione (Corsini _Fasti attici_,
I; Schömann, _Antich. greche_, I, 412; Hermann, _Antich. polit_., 138;
Meursius, _Arconti_, I, 1).

[103] L’obolo (_attico_) era una piccola moneta in origine d’argento,
ma più tardi di bronzo, del valore di circa 15 centesimi italiani.
Formava la sesta parte di una dramma (attica) ch’era moneta di argento,
del valor di circa 90 centesimi italiani o poco più.

Variano molto i còmputi degli scrittori circa il ragguaglio delle
monete ateniesi. Valutando col Boeckh, ch’è fra i più attendibili, la
lira ateniese, ossia la _dramma_ attica, 92 centesimi di franco, offro
qui, a schiarimento del lettore, alcune indicazioni:

Un _obolo_ valeva 15 centesimi e 33 millesimi. 

L’obolo dividevasi in 8 calchi: ossia il _calco_ valeva qualcosa meno
di due centesimi; e tre calchi formavano il _tricalco_, ch’era piccola
moneta equivalente al nostro cinque centesimi, o poco più. Dividevasi
anche l’obolo in sei denari: ossia il _denaro_ valeva qualche cosa più
di due centesimi e mezzo; e ogni denaro in sette _terunzj_ o _minuti_:
cioè ogni terunzio valeva poco più di un terzo di centesimo.

Due oboli formavano il _simbolo_ o _diòbolo_, la mercede degli
spettacoli. Tre oboli erano il famoso _triòbolo_, la mercede del foro
e degli eliasti = L. 0,46. Due trioboli, ossia sei oboli, formavano la
dramma = L. 0,92. Quattro dramme formavano la _tetradramma_ = L. 3,68,
tipo di monete d’argento, delle quali un buon numero è pervenuto sino
a noi. Le tetradramme, di cui le più antiche furono battute al tempo
di Pericle, hanno, negli esemplari che ancor ce ne restano, la forma
solita quadrata delle monete antiche, e recano da un lato la impronta
di Minerva, dall’altra quella di una civetta.

Cento dramme formavano una _mina_ = L. 92. Sessanta mine, ossiano
seimila dramme, formavano un _talento_ (attico) — moneta nominale —
il quale valeva quindi = L. 5520. E così le entrate di Atene che nel
nono anno della guerra peloponnesiaca salivano alla cifra di 2000
talenti, volevano dire la somma di L. 11,040,000. Somma ragguardevole
se si ha presente il prezzo altissimo del denaro a quell’epoca in cui
il triobolo, ossia i 46 centesimi degli eliasti, rappresentavano una
mercede sufficientissima al vitto quotidiano di un cittadino, e in cui
i provveditori generali della repubblica erano pagati con due, tre o
quattro dramme al giorno (da meno di due a meno di quattro lire).

Oltre le monete attiche, molte altre greche ed asiatiche avean corso
sul mercato di Atene. Così la _dramma di Corinto_ e la _dramma
di Egina_ che valeva L. 1,53; e l’_obolo di Egina_ che valeva in
proporzione la sesta parte, ossia centesimi 25 e mezzo.

Vi era il _bue_, così detto dall’impronta di un bue, che valeva _due
dramme_, ossia un _didramma_; il _core_ che valeva _quattro dramme_,
ossia una _tetradramma_.

Vi era lo _statere_, moneta d’argento, valutato dal Peyron L. 6,12.
Altri fanno lo statere (d’argento) equivalente alla tetradramma.

Lo _statere darico_, ossia il _darico_, era il nostro napoleon d’oro.
Valeva secondo gli uni 20 dramme = L. 18,40, secondo gli altri
25 dramme = L. 23. Il darico era moneta di conio persiano, di oro
purissimo, e recava l’impronta di un saettiere.

Lo _statere d’oro_, secondo il Volaterrano, valeva quanto la mina,
ossia 92 lire.

Il _talento babilonico_ infine valeva un quinto di più del talento
attico, ossia invece di 60 valeva 72 mine = L. 6624.

[104] Perchè la povertà non togliesse i proletarj che esercitavano un
mestiere e del lavoro di esso campavano, dal frequentar le assemblee
del foro e i tribunali; e per servire insieme alle proprie mire
di dominio assicurandosi così contro la fazione che lo osteggiava
l’appoggio delle classi popolari, Pericle assegnò agli intervenienti
alle assemblee la mercede di un _triobolo_ (46 centesimi) per ogni
seduta (μισθὸς ἐκκλησιαστικὸς) e così pure stabilì la mercede di
un obolo, che venne poi anch’essa elevata a tre, per ogni tornata
(μισθὸς δικαστικὸς) a coloro che sedevano giudici nei tribunali o
_dicasteri_ della Eliea. In appresso Pericle completò questo suo
sistema di largizioni che asciugavan l’erario, ma gli cattivavano il
favor popolare, coll’aggiungere anco la mercede di _due oboli_ per li
spettacoli (θεωρικὸν) e il soldo militare. — E la smania di passar
il tempo nei tribunali e nelle assemblee, non tardò a divenire una
caratteristica delle classi povere in Atene, acremente satireggiata
da Aristofane nelle sue commedie e specialmente nelle _Vespe_. In
quella de’ _Cavalieri_ Aristofane chiama il popolo _confraternita di
triobolisti_. Indi Senofonte scriveva: «la _plebe ambir soltanto quelle
magistrature che fruttavanle qualche obolo_,» e Aristotile: «_Mercedi,
ozio e desiderio di assembrarsi esser cose connesse fra di loro_»
(Senof., _Rep. Aten._, I, 3; Aristof., _Polit._, IV, VI): e Socrate
infine chiamar, come vedemmo, il popolo, _chiacchierone ed ingordo di
salarj_ (Plat., _Gorgia_).

[105] _Eliasti_ o _dicasti_ erano i _giudici_ cittadini, ovvero
i nostri _giurati_: e giudicavano così delle cause criminali come
delle civili. Traevano il nome ἠλιασθαί da ἠλιος _cielo_, perchè
giudicavano a cielo aperto. Si sceglievano ogni anno a sorte in numero
di _seimila_, (ossia in ragione di 600 per ciascuna delle dieci tribù)
fra i cittadini di tutte le classi, che avessero raggiunta l’età
di trent’anni. Di questi seimila, che formavano complessivamente
la Eliea, cinquemila venivano, pure a sorte, ripartiti in _dieci
dicasteri_ o _corti di giustizia_ di 500 eliasti ciascuna: gli altri
1000 funzionavano da _giurati supplenti_ pei casi di assenza, morte,
malattia, ecc., durante l’anno. Nei dì di seduta, tutti gli eliasti
convenivano in piazza, ossia nell’_agora_, e là il tesmoteta indicava
a quale dicastéro o corte era assegnata la tal causa, sicchè alla
vigilia del processo gli accusati interessati ignoravano da quali
giudici sarebbero giudicati. Le sedute delle corti di giustizia
si tenevano sotto la presidenza di uno dei tre primi arconti o
di uno dei tesmoteti, secondo la rispettiva sfera di competenza
di quei magistrati; per gli affari militari si tenevano sotto la
presidenza degli strategi. I magistrati presidenti avevano il carico
dell’istruttoria delle cause, su cui il voto dei 500 eliasti, udite le
parti e le difese, decideva (Meyer e Schömann, _Der attische Prozess_).

[106] _Nottole del Laurio, civette del Laurio_ (γλαῦκες λαυριοτικαὶ,
Aristof., _Uccelli_), chiamavan gli Ateniesi, con frase scherzevole,
le monete di argento che recavan l’impronta di una nottola, ed erano
coniate coll’argento delle miniere del Laurion. Negli _Acarnesi_
Aristofane chiama anche _tre cuculi_, κοκκυγές τε τρεῖς, i tre oboli
della paga del foro.

[107] Modo greco proverbiale nato dall’apparir delle rondini come
nunzie della fine dell’inverno e portatrici della bella stagione: con
che significavasi il voto di un mutarsi in meglio della sorte. Così
Mnesiloco invoca l’apparir della rondinella nelle _Tesmoforie_ di
Aristofane.

Ancor oggi la _canzone delle rondinelle_, di cui parlan gli antichi,
viene intonata il primo di marzo, scrive l’Ampère, dai fanciulli
greci, e a Rodi i garzoncelli cantano ancora: «È venuta, è venuta la
rondinella, che mena la bella stagione! Aprite, aprite la porta alla
rondinella!» (Cfr. Ampère, _Poesia greca in Grecia_).

[108] Ossia del borgo o demo di Sunio. Vedi in proposito la nota 55
dell’atto primo.

[109] La mercede di Pericle aveva sedotto in particolar modo,
come accennammo, i cittadini artigiani dell’ultima classe, i quali
trovavano più comodo seder nell’assemblea che sudar nella bottega.
Senofonte fa dire a Socrate nei _Memorabili_ (III, 7) che il foro
riboccava di «_lavoratori, calzolaj, fabbri, agricoltori, mercanti_,
ecc.» E Platone, per bocca ancora di Socrate, annovera fra coloro che
dan consigli alla città nell’assemblea _architetti, fabbri ferraj,
calzolaj, mercanti, nocchieri_, ecc. (_Protag._, X).

[110] Questo chiacchierio sfaccendato dei popolani sciupanti il tempo
in piazza a domandarsi le notizie della giornata, dava terribilmente
sui nervi al buon Demostene. «Mentre Filippo sfida armi, fatiche,
cimenti, non perde occasioni nè tempi, noi Ateniesi invece _impigrire
e sfaccendati per piazza domandarci l’un l’altro: che c’è di nuovo?_
ἡμεῖς δὲ... οὐδὲν ποιοῦντες... καί πυνθανόμενοι κατὰ τὴν ἀγοραν εἴ τι
λέγεται νεώτερον (Dem. _Sulla lettera di Filippo_). E altrove: «_Volete
forse baloccando in giro su per la piazza domandarvi: che nuova c’è?_
περιιόντες... πυνθάνεσθαι κατὰ τὴν ἀγορὰν λεγεταὶ τι καινὸν. Qual
nuova più strana che un uomo macedone debelli gli Ateniesi?» (Demost.,
_Filipp._, I).

[111] «_Come van sempre peggio i fatti miei, alla foggia, com’è il
proverbio, di Mandràbulo_» (Alcifrone, _Lett._, I, 9). Modo proverbiale
originato da certo Mandrabulo, il quale avendo trovato un tesoro,
offerse il primo anno a Giunone Samia una pecora d’oro, il secondo una
d’argento e il terzo una di bronzo, il quarto nulla (Vedi Luciano, _De
merc. conduct._, e Suida).

[112] Usavano mettere in bocca il danaro «_Quando torno a casa, la mia
figliuola, chiamandomi babbo, mi trae i tre oboli di bocca_» (Aristof.,
_Vespe_).

[113] _Per i dodici Dei._ I dodici Dei maggiori, compresi da Ennio nel
suo distico:

    _Juno, Vesta, Minerva, Ceres, Diana, Venus, Mars,_ 
    _Mercurius, Jovis, Neptunus, Vulcanus, Apollo,_ 

avevano nella piazza Ceramica d’Atene un’ara ad essi dedicata, perciò
detta δωδεκάθεον, e invocavansi spesso nelle esclamazioni.

[114] «_Dimmi, o padre, se oggi l’Arconte non terrà giudizio, come mai
ci compreremo noi da pranzare?_» (Aristof., _Vespe_).

[115] A ogni novilunio, cioè al cominciar d’ogni mese, i ricchi usavano
far le lustrazioni, ossia purificar le loro case: e i cibi che si
trovavano avere, per non li buttar via, li esponevano nei trivj, dove
Ecate adoravasi, in offerta a quella Dea; e diceansi: _cene di Ecate_,
o anche appunto _cibi lustrali_. Per lo più consistevano tali offerte
in uova e in cacio. Appena poi gli offerenti partivano, quelle vivande
venivano dai poveri involate. «_Si può interrogar Ecate, se sia meglio
arricchire od aver fame: poichè ella dice che i doviziosi debbono
ogni mese venirle a imbandire la cena, e i poveri rapirla prima che
sia imbandita_» (Aristof., _Pluto_, v. 594 seg. Cfr. Luciano, _Dial.
dei morti_, 1, 22; e il _Tragitto_). Nelle lettere di Giuliano son
chiamate _cene di Ecate_, τῆς Ἑκάλης δεῖπνον, là ove è detto che lo
stesso _Teseo non disprezzò una cena di Ecale, ossia una magra cena,
e contentossi del poco per necessità_ (Giul., _Epist._, 40). Ma Ecale
dev’esser error di copista. — Il comico Antifane, presso Ateneo, VII,
313, chiama scherzosamente _cibi di Ecate_, Ἑκάτης βρώματα, alcuni
pesciolini minutissimi, tanto minuti da non esserci niente da mangiare.

[116] _Le nove Cannelle_, ossiano l’_Enneacrùno_, erano una fontana
pubblica di Atene, che dava acqua da nove bocche. Fu fatta costruire
da Pisistrato e diceasi da principio _fontana di Calliroe_; sotto il
qual nome è ricordata in Tucidide (III, 15). Di essa si servivano gli
Ateniesi per le lustrazioni ed altri usi sacri: e i poveri v’andavano
a bere. «_Se alcun non m’invita, dovrò andar cogliendo erbe ed empiere
il ventre bevendo all’Enneacrùno._» — Così un parassito in Alcifr.,
_Lett._, III, 49. Intorno alla storia di Calliroe e all’altra fontana
nell’Acaja dov’ella venne ad uccidersi e che da lei prese il nome, vedi
Pausania, _Acaja_, 21.

[117] Sulla mania dei giudici ateniesi di condannare, vedi Aristofane,
_Vespe_.

[118] Cfr. Aristof., _Vespe_, v. 301. 

[119] Imposta principale, e pressochè unica, pei cittadini di Atene
(astrazion fatta dalle _liturgie_, cioè spese dei cori, dei giuochi
sacri, delle triremi, ecc., a carico dei ricchi), fu da principio
quella sulla proprietà fondiaria, la quale appunto servì di base alla
ripartizione solonica delle quattro classi. Era del _cinquantesimo_
sull’_estimato_, il quale però diminuiva di classe in classe, rendendo
così l’imposta in parte progressiva. _Prima_ classe: proprietà
fondiaria 6000 dramme (rendita netta 500 dramme, estimo 6000) imposta
120 dramme. _Seconda_ (_Cavalieri_): proprietà fondiaria 3600 (rendita
netta 300 dramme, estimo 3000), imposta 60 dramme. _Terza_ (_Zeugìti_)
proprietà fondiaria 1800 (rendita netta 150, estimo 1000) imposta 20
dramme. Quelli dell’ultima classe pagavano ancor meno o niente, se non
possedevano terra.

Il resto delle entrate della città era formato dal tributo degli
alleati, dalle rendite delle terre pubbliche date a pigione, dai
pedaggi, dazi e tasse di commercio che erano per lo più a carico
degli alleati e forestieri, dalle decime sui fondi sacerdotali, dati a
usufrutto, dalla tassa di protezione che pagavano i meteci (12 dramme
a testa), dalla tassa di tre oboli per ogni schiavo e dal ricavo delle
multe giudiziarie.

Ma cresciuti i bisogni per la guerra del Peloponneso, nè i 400 talenti
(L. 2,208,000) di entrata interna che davano al tempo di Pericle
quelle imposte cittadine, nè gli altri 600 di entrata esterna che si
ricavavano dai tributi sulle città confederate, più non bastarono
ai vuoti dell’erario: e per la prima volta, nel quarto anno della
guerra, i cittadini dovettero imporsi una nuova tassa di 200 talenti
(Tucid., III, 19) aumentando verisimilmente insieme anche il tributo
de’ confederati. Successivamente altre tasse indirette si introdussero,
e così anche quelli dell’ultima classe, che l’imposta solonica non
aggravava, portarono la loro parte di pesi. Qui appunto si citano fra
i nuovi carichi la tassa del _quarantesimo_ introdotta da un Euripide
fratello del tragico e menzionata in Aristof., _Eccles._; quella
dell’_un per cento_ accennata in Aristof., _Vespe_: e le straordinarie
ossiano le _sopradonazioni_ o _giunte_ (ἐπιδοσεῖς) che votavansi
dall’assemblea, in fuori delle consuete, nelle urgenti strettezze dello
erario (Teofr., _Caratt._, XXII; Demostene le chiama προσκαβλήματα, _C.
Timoc._).

Mercè i nuovi carichi e l’aumento dei tributi sui confederati, le
entrate complessive della Repubblica poterono salire, nel decimo anno
della guerra del Peloponneso, quando Aristofane scrisse le _Vespe_
(ossia già sei anni prima dell’epoca di questa scena) alla cifra di
2000 talenti (11,040,000), di cui 800 di entrate interne, e 1200 di
esterne.

Dalla spedizione di Sicilia soltanto comincia la rovina delle finanze
ateniesi; oltrechè la impresa assorbì somme enormi, i disastri che
seguirono, portando le defezioni dei confederati, diminuirono ogni dì
più le entrate esterne: sicchè più tardi, dopo il governo dei Trenta,
si trova Atene in conflitto coi Tebani, perchè non è in grado di pagar
loro due talenti dovuti! Ai tempi di Demostene, perduta gran parte dei
dominj del mare e perduta l’egemonia, le entrate eran scese sino ai
130 talenti: e Demostene si compiaceva che fossero risalite a 300 e 400
(Demost., _Filipp._, IV).

[120] Gli interessi dei debiti si pagavano al novilunio, cioè al 30 ed
ultimo del mese, il qual tempo era detto «_vecchio e nuovo giorno_» ἔνη
καὶ νέα nelle citazioni dei creditori: cioè l’ultimo di una lunazione e
il precursore di un’altra. Vedi Aristof., _Nubi_.

[121] Sui lamenti dei popolani ateniesi contro le concussioni e i
ladronecci dei magistrati e capitani della repubblica, vedi Aristofane
nelle _Vespe_, nei _Cavalieri_, negli _Acarnesi_. A questi lamenti non
v’era altro ad opporre se non che i venalissimi eliasti popolani erano
intinti della stessa pece: chè del resto la corruzione e i brogli e
le ruberie nel maneggio dei pubblici affari e dei pubblici denari —
di cui parlasi in questa e in altre scene del dramma — e che le leggi
soloniche _ab antico_ punivano di infamia e di morte — all’epoca
di Alcibiade erano affatto all’ordine del giorno. Indi Isocrate si
lamentava: _Noi curiam così poco le leggi, che mentre esse puniscono
di morte chi fu convinto di corruzione, noi quelli che spargono
palesemente il denaro, li facciam generali_ (Isocr., _De pace_). Nei
_Cavalieri_ Aristofane fa dire dal demagogo Cleone al salsicciajo: _Io
confesso di esser ladro e tu nol confessi_: e il coro a Cleone: _tu
adocchii i nostri tributi come i pescatori dall’alto di uno scoglio
adocchiano i tonni_: e poi il coro nelle strofe lamentando i tempi
passati: _nessun mai de’ condottieri_ (al tempo degli avi) _chiese
mai di nutrirsi come ora a spese pubbliche_. — Un po’ più tardi udrem
Demostene discorrere de’ suoi tempi per nulla dissimili: «Chi più
offende la patria, o il bifolco e il tapinello che per figliolanza e
domestiche necessità mancarono ai tributi, o chi nelle taglie riscosse
e negli averi degli alleati diede di piglio?... Perchè, o malvagio,
tu che da più di trent’anni maneggi la repubblica e in questo mezzo
la vedesti rubata or da molti capitani, or da molti oratori, non li
accusasti?... Ne volete la ragione? perchè tutti si spartono la preda,
tutti si divorano le esazioni ed insaziabili pelano e scorticano la
repubblica» (Demost., _C. Androz._).

[122] A Minerva i capitani eran tenuti ad offerire — e deponeasi nel
tesoro della Dea sopra l’Acropoli, — la decima parte delle spoglie
prese ai nemici. — «E non son ladri costoro che diedero di piglio nello
erario sacro, nelle decime di Minerva, nelle cinquantesime degli altri
Iddii? Anzi il lor sagrificio è di tutti più orribile, chè non deposero
nell’Acropoli il dovuto denaro» (Demost., _C. Timocr._).

[123] «Era il _Pritaneo_ un luogo sacro nella rocca di Vesta, dove
era perpetuamente acceso il fuoco. Ivi si conservavano le leggi
di Solone, e si forniva vitto quotidiano a coloro i quali avessero
ottimamente meritato della repubblica, o che la città volesse onorare,
onore giudicato grandissimo tra i Greci» (Ast., _Note al Protagora_
di Platone). Era presso i Greci quello che Tito Livio chiamava il
_penetrale urbis_ (XLI, 40), e che noi chiameremmo la _casa del
Comune_, il palazzo municipale. Nel Pritaneo stava l’altare degli
Dei patrono della città e il fuoco appunto vi ardeva perpetuamente ad
imagine del fuoco acceso nelle case private sul domestico altare agli
Dei penati. Oltre alimentarvi coloro ch’eran nudriti a spese pubbliche,
nel Pritaneo la città esercitava l’ospitalità verso i forestieri
illustri, ed ivi pure radunavansi i Pritani, i magistrati, gli
amministratori del Comune. Il Pritaneo insomma era il simbolo esterno
della grande aggregazione, della grande famiglia dei cittadini, e
significava che una città aveva amministrazione propria e indipendente.

Son note le parole con cui Socrate inviperì i suoi giudici, allorchè,
sentenziato colpevole e invitato, a tenor di legge, a dichiarare qual
pena ei credesse applicabile a sè, rispose: _quella di essere nutrito a
spese pubbliche nel Pritaneo_ (Plat., _Apol._, 26).

[124] γηγενέις, αὐτόχθονες, _autóctoni, indigeni, aborigeni, generati
dalla terra_: epiteto quasi di nobiltà che davano a sè stessi gli
Ateniesi.

Sull’orgoglio degli Ateniesi per la loro origine dal suolo, della
quale frequente si vantavano, vedi Platone, _Menesseno_: «Questa
disposizione generosa che vuol la libertà e la giustizia, quest’odio
innato dei barbari è inalterabile e radicato fra noi Ateniesi, perchè
noi siamo di origine puramente greca, e senza mistura coi barbari.
Da noi nessun Pelope, nè Cadmo, nè Egitto, nè Danao, nè tanti altri
veri barbari di origine, greci soltanto per la legge. Il puro sangue
greco scorre nelle nostre vene, senza mistura di sangue barbaro; da
qui nelle viscere stesse della repubblica scorre l’odio incorruttibile
a tutto ciò che è straniero» (_Ibid._); e Aristofane nelle _Vespe_:
«_Attici siamo_ noi, dalle aguzze diretane parti, _di vera nobiltà noi
soli ornati, di questo suolo antichi figli_» Cfr. Luciano, _Anacarsi_,
— dove Anacarsi dà cortesemente la baja a Solone e agli Ateniesi per
questo vanto che si attribuivano di _autóctoni_, ossia _indigeni_. —
Platone, nel _Crizia_, narra, che nella spartizione delle terre che
fecero gli Dei tra di loro, l’Attica, _siccome terra per natura adatta
alla virtù e alla sapienza_, toccò in sorte a Minerva e a Vulcano,
i quali _ingenerarono in essa dei buoni uomini autóctoni_. — Così un
oratore ateniese diceva con boria a Gelone di Siracusa: _Noi siamo il
più antico popolo di Grecia, e soli fra i Greci non mutammo mai patria_
(Erod., VII, 161). — Pericle, nell’orazione funebre, vanta come prima
lode di Atene l’aver sempre avuto gli stessi abitatori (Tucid., II,
36). — E un Ateniese, in Euripide (citato da Plutarco, _De exilio_,
III): _Noi non siamo già un popolo qua trasportato da straniero paese,
ma vi nascemmo autóctoni_. — L’origine vera poi di questo nome può
ritrovarsi nella sottile osservazione di Tucidide, che cioè, mentre le
altre contrade della Grecia, come la Tessaglia, la Beozia, l’Argolide,
per la ricchezza e fertilità del loro terreno, furono continuo oggetto
di contese fra le antiche stirpi guerresche, e quindi più di frequente
soggette al variar degli abitanti, l’Attica invece, il cui terreno
infecondo non destava la gola a nessuno, fu lasciata in pace; e così
«_siccome quella che per la sua sterilità andò lungamente immune da
rivoluzioni, ebbe mai sempre gli stessi abitatori_» (Tucidide, I, 2.
Cfr. Pausan., _Attic._, I, 14).

Vero è che questo vanto di _aborigeni_ attribuitosi dagli Ateniesi
sembra singolarmente guastato dalla opinione che _Cecrope_, il loro
primo re e fondatore, fosse uno straniero venuto nell’Attica con una
colonia dall’Egitto: per cui il vanto di _Cecròpidi_ che Carinade
accoppia all’altro di _autóctoni_, potrebbe a questo posto parere in
bocca sua imprudente od illogico o fuori di luogo. Su di ciò osservo:
che l’antica leggenda attica — _all’epoca del dramma_ — considerava
tuttora anche Cecrope precisamente come un re indigeno od autoctono
(Κέκρωψ αὐτόχθων, Apollod., lib. III), per lo che si favoleggiò di
lui che fosse mezzo uomo e mezzo serpente (simbolo della terra). —
Viceversa, l’opinione che Cecrope fosse egizio (registrata da Suida,
dallo scoliaste di Aristofane, da Tzetzes, da Cedreno), non sorse che
assai più tardi dell’epoca di Alcibiade; e cioè non prima del IV secolo
av. l’E. V., quando si notarono alcuni caratteri di somiglianza tra
la dea Athene e l’egizio Neith e quando i sacerdoti egiziani ebbero
accreditata l’opinione che la Grecia andasse all’Egitto debitrice della
sua civiltà religiosa e politica. (Cfr. Müller, _Orcomenos_, pag. 106;
Vos., _Antisymbolica_, II, p. 415; e Meursius, _Reg. Athen._ Sugli
altri nomi di discendenza con cui gli Ateniesi si chiamavano, vedi più
innanzi la nota 85 su Eretteo).

[125] «_È legge che chi si mostrò valoroso consacri tutte l’armi nel
tempio_», νόμος τὸν ἀριστα είς ἱερὸν πανοπλὶαν ἀνατιθέναι (Syrianus,
_Comm. in Hermog. — Consecrata jam dudum arma deposui_, Calpurn.
Flacc., _Decl._, XV). Altra legge prescriveva che chi avesse per tre
volte dato prova di valoroso in campo, avesse diritto entro trenta
giorni a chiedere quel premio che volesse; e non tanto per cagion
d’onore quanto per aver di che vivere, dispensato dal servizio
militare. _Ter vir fortis militia vacet_ (Calp. Fl., _l. c._). Indi la
frase del _consacrar l’armi_.

[126] Aristof., _Cavalieri_, v. 792. 

[127] I Greci s’aiutavano nel far conti, or colle dita, or con
pietruzze o sassolini (ψῆφος) detti _calculi_ dai Latini, che
distribuiti variamente sul tavoliere rappresentavano le unità, le
decine, le centinaia (Teofrasto, _Carat._, XIV; Alcifrone, _Lett._, I,
26).

[128] Il calcolo è di Aristof., _Vespe_, v. 660, e si riferisce
all’anno 10.º della guerra del Peloponneso. Cfr. più sopra la nota 23.

[129] Aristof., _Nubi_, v. 859. 

[130] Le vesti che si avevano indosso quando si era iniziati
ai misteri, dopochè si erano abbastanza usate, fatte logore ed
inservibili, si consacravano agli Dei. — Aristofane accenna a questa
usanza nel _Pluto_, v. 844.

[131] È superfluo avvertire come, all’epoca del dramma, i _sofisti_
avessero parte grandissima nella vita pubblica d’Atene e nella
formazione del carattere ateniese. I sofisti avevano invaso, può dirsi,
ogni ramo dell’educazione; alla loro scuola si formavano gli oratori e
i magistrati della repubblica. Essi avevano particolarmente contribuito
a sviluppare quella sterilizzante ginnastica dell’ingegno, che punto
curando la sostanza delle idee, si divertiva a giuocar di destrezza
sulle parole; quella smania di parlare per parlare, senz’altro scopo
che di dar prova di una puerile abilità dialettica poggiata sullo
scambio dei vocaboli; quel destreggiarsi pretenzioso e vuoto della
mente non più intesa alla ricerca di un’utile verità morale o di
uno scopo nobile e pratico della vita, ma a dar spettacolo di sè a
sè medesima, in un continuo giuoco di bussolotti del discorso, in
confusioni ridevolmente artificiose tra le idee e i loro segni vocali,
in un fuoco di artifizio di garbugli di parole e _calembourgs_. Qui
giuocar sulla ambiguità delle parole, là sulle apparenti sinonimie;
estendere al senso assoluto il valore accidentale d’una voce; parole
a più significati intenderle in una premessa ad un modo, nell’altra
ad un altro; dare alle parole che unite hanno un senso, lo stesso
disgiungendole e viceversa; tirar conclusioni essenziali dalle più
superficiali analogie — e via dicendo. «E più spicca l’assurdo, —
scrive lo Zeller (_Gesch. der Philos._, II) — più ridicola è la tesi,
più sguaiata è la scipitaggine in che l’avversario è stato preso,
tanto maggiore lo spasso e più sonoro l’applauso degli uditori.»
Sicchè chi aveva in pronto parecchi di questi garbugli di parole era
certo di chiamar gente a sè in piazza, come oggi farebbe un cavadenti
in fiera; e Socrate non per nulla loro affibbiava appunto l’epiteto
di _ciarlatano, ciurmadore_, γὸης (Plat., _Repub._, X). Naturalmente
costoro trovavano spesso anche pan pei loro denti: poichè quelle
abitudini ginnastiche del linguaggio generalizzandosi e addestrando
insieme le menti a vederne a nudo e impararne gli artificj, era facile
trovar nell’uditorio chi ritorcesse i cavilli contro il cavillatore,
ripagandolo della stessa moneta.

Questi che abbiamo accennati erano i distintivi caratteristici
della filosofia _eristica_, onde il nome di _sofista_ nel senso
nobile e antico della parola era venuto man mano assumendo un altro
significato. Filosofia della quale si ponno rintracciar le origini
nelle sottigliezze e quisquiglie idealistiche della filosofia eleatica
di Zenone e di Parmenide, e che ai tempi di Socrate era venuta
specialmente in voga per opera di Gorgia, di Protagora, di Prodico, di
Ippia, o meglio di una turba di loro colleghi di mestiere, che da essi
ritrassero il cavillare sconclusionato e le ridevoli sottigliezze e la
vacuità pretenziosa del metodo, senza possederne lo ingegno. È a questa
filosofia, dominante nei tribunali, nel foro, nelle piazze, che Socrate
opponeva gli attacchi della sua ironia finissima, del suo squisito
senso pratico, di quella sua filosofia informata al culto del retto
e del vero, che Platone e Senofonte ci tramandarono e che al grande
filosofo procacciarono il bel compenso di essere spesso confuso, come
nelle _Nubi_ di Aristofane, con quei medesimi che egli attaccava.

Il sofista da me introdotto a parlare in quest’atto appartiene a
quella categoria più volgare degli _eristici_: egli porta il nome di
uno dei due eristici messi alle strette da Socrate nell’_Eutidemo_;
ma i suoi sofismi (qui naturalmente acconciati alla meglio per servire
ad un piccolo scherzo comico) accennano alle sottigliezze e negazioni
eleatiche sull’_essere_ e sul _divenire_, di cui abbiamo un saggio nel
_Parmenide_ e in altri dialoghi di Platone.

[132] Una caratteristica degli _eristici_ era appunto la loro pretesa
scienza _enciclopedica_. Ed era naturale: le _idee_, le _cose_, per
essi non essendo _nulla_, e le _parole tutto_, niente di più ovvio
dello esercitare la loro arte e i loro sproloqui su qualunque ramo
dello scibile. Per essi non vi poteva essere nè scienza, nè arte
difficile: tutte, per essi, si valevano a un modo, perchè erano tutte
eguali davanti alla loro ciarlataneria dialettica: ed essi quindi
millantavano di essere dotti in tutte. Alludendo appunto a questo
ammasso sconnesso e svariato di cognizioni confuse, Socrate paragonava
ironicamente l’arsenale scientifico d’un sofista — ἔμπορος (Plat.,
_Protag._) — ad un _emporio_. È noto di Ippia che venuto in Olimpia,
oltre al vantarsi di insegnare tutto lo scibile umano, e di disputare
su qualsiasi argomento, mostrava le sue vesti, l’anello, il sigillo, la
profumeria, i calzari, la fascia, e perfino una stregghia, affermando
_tutto quello essere lavoro delle sue mani_ (Platone., _Ipp. min._;
Cicer., _de Orat._, III, 32). Nell’_Eutidemo_, Socrate, presentando a
Clinia i due eristici Eutidemo e Dionisodoro, dice di loro con velata
ironia che essi sono sapienti «in cose non da poco ma grandi; sanno di
guerra quanto s’appartiene a un buon generale, e i modi di schierare e
comandar gli eserciti; capaci anche di mettere uno in caso di aiutarsi
da sè davanti ai tribunali.» — Ma i due sofisti gli dan sulla voce
osservando che queste per loro le sono inezie, a cui non si applicano
che per passatempo: e ch’essi sanno di meglio, e sono in grado
d’insegnare anche la virtù (Plat., _Eutid._, II).

[133] Cfr. Aristof., _Nubi_; Plat., _Eutidemo_, II. 

[134] Di Protagora — un de’ sofisti che andavano per la maggiore — nel
dialogo di Platone che porta il suo nome, è detto ch’ei fosse il primo
de’ sofisti a pigliar una mercede delle sue lezioni (Plat., _Protag._,
II, III, XXIII); altrove nello stesso dialogo, Protagora medesimo dice:
«Io credo poter ajutar chi si sia a diventar un valentuomo, in maniera
condegna alla mercede che io esigo, anzi a molto maggiore. Per il che
appunto alla riscossione della mercede ho posto questa norma. Appena
uno abbia appreso da me, sborsa a un tratto, quando ei voglia, la
mercede ch’io domando; altrimenti, andando a un tempio e giurando quel
prezzo al quale egli stima gli insegnamenti ricevuti, quello depone.»
(_Ib._, XVI). Il che rende inverisimile l’asserzione di Diogene
Laerzio (IX, 52) che Protagora riscotesse da ciascun discepolo cento
mine (circa 8590 franchi) come l’asserto che Protagora fosse il primo
a prender salario è contraddetto dallo stesso Platone, ove narra di
Zenone, il sofista eleate, che s’era fatto pagar le lezioni da Pitodoro
e da Callia anche lui cento mine ciascuna (Plat., _Primo Alcib._, XIV):
lezioni salate.

Comunque sia, all’epoca del nostro dramma, questa retribuzione del
_salario_, era un altro dei caratteri che distinguevano la profession
del _sofista_, da quella dei _filosofi_, come Socrate, Platone,
Aristotile, i quali distribuivano _gratis_ la loro sapienza. _Non
esigeva mercede da nessuno_, dice, di Socrate, Diogene Laerzio
(_Socr._). E perciò Socrate nel _Protagora_ affibbia ai sofisti il
titolo di κάπελος ed ἔμπορος, ossia _mercante al grosso ed al minuto_;
Senofonte chiama i sofisti _gente che vendono la sapienza per danaro a
chi la vuole_ (_Memorab._, I, 6, 13); e Platone e Aristotile accennano
al _pagamento di una mercede_ come ad una specialità distintiva della
professione del sofista (ἔμμισθος θηρευτής è chiamato il sofista da
Platone nel _Sofista_, e χρηματιστής da Aristot., _Soph., El._, I).

[135] Via d’Atene, ricordata ripetutamente in Alcifrone, _Lett._, I,
39; III, 8. — _Agnone_ era un borgo dell’Attica, della tribù Ajantide.

[136] Dalla famosa e tenebrosa grotta ov’era l’oracolo di Trofonio
(presso Lebadia in Beozia) fatta spaventevole a quei che vi entravano
dalle fattucchierie dei sacerdoti, era venuto tra i Greci il proverbio
che usavasi parlando di uomo scuro in faccia e che non ride mai:
_Egli ritorna dell’antro di Trofonio_. Sull’oracolo di Trofonio, vedi
Pausania, _Beot._, IX, 39.

[137] La superstizione e il culto dei presagi e degli augurj e la
fedele osservanza delle pratiche religiose erano anch’esse qualità
_caratteristiche_ del popolo ateniese, nel tempo stesso ch’ei
tollerava sulla scena si deridessero — purchè non si negassero — gli
Dei. Alla superstizione religiosa, Alcibiade dovette in gran parte
il suo primo bando, Socrate la sua condanna di morte. Per accuse di
reato di religione (di aver profanati i misteri, o messo in dubbio
l’esistenza degli Dei, ecc.) furon pure processati e condannati, com’è
noto, il tragico Eschilo, e i filosofi Anassagora, Diagora di Melo,
e Protagora e Prodico di Ceo. Nè dai pregiudizj religiosi andavano
esenti spesso le menti più illuminate, perchè sappiamo di Senofonte
che fu superstiziosissimo, e lo stesso seriissimo Tucidide accenna agli
eclissi come a segni precursori di disgrazie (_Tucid._, I, 23). — Vedi
ancora su questo proposito dello spirito superstizioso e delle pratiche
di superstizione tra gli ateniesi, i frammenti caratteristici che ci
restano di diverse commedie di Menandro, in ispecie del _Superstizioso_
(Δεισιδαίμων) presso Clem., Alex., _Strom._, VII; del _Trofonio_,
presso Stob., 98; del _Misogino_, presso Strab., VII, 297; della
_Sacerdotessa_ (Τέρεια) presso Giustino, _Monarch._, 29, ecc.

[138] Si accennano alcune superstizioni del volgo ateniese. Il buccinar
delle orecchie, l’incontro di una donnola, di un epilettico, di un
pazzo, ecc., eran tenuti per infausti presagi (Teofrasto, _Caratteri_,
XVI; Aristofane, _Eccles_.; Elian., _Var. St_., IV).

[139] Sgombratori o fugatori o _scacciatori dei mali_ ἀποτροπαῖοι,
ἀποπομπαῖοι, ἀλεξίκαια chiamarono i Greci Ercole, Apollo e Polluce
siccome divinità incaricate di allontanar dagli uomini i mali
imminenti. Erano gli _averrunci_ dei Latini. Si sagrificava loro una
agnella; e specialmente ricorrevasi alla lor protezione, se appariva
qualche segno o presagio infausto (Senofonte, _Simpos_., cap. III;
Alcifr., _Lett_., III, 47, 53; Pausan., _Corint_., II, 11; Platone,
_Leggi_, IX, 854, a.).

[140] Superstizione ateniese (Teofrasto, _Caratt._, XVI). 

[141] Scosse di terremoto, e tuoni e lampi — presagi infausti
(Aristof., _Eccles_.; Eschilo, Sofocle, Omero, ecc.).

[142] _Atenapólia_, o _Minerva Poliade_, altro dei soprannomi di
Minerva quale protettrice della città di Atene, ove le era dedicato,
in cima all’Acropoli, il tempio del Partenone. Ivi era la statua della
Dea armata dell’asta e dello scudo, capolavoro di Fidia; alta ventisei
cubiti, tutta d’oro e d’avorio, coperto il capo di un elmo sul quale
era una sfinge (Vedine la descrizione in Pausan., _Attic_., I, 24). In
faccia al tempio era un antico ulivo che la tradizione popolare voleva
piantato dalla stessa Minerva: ed era tenuto per sacro: di ramoscelli
di essi si premiavano i vincitori nelle feste Panatenee (Meurs., _Them.
Att_., II, 36).

[143] Lampone, indovino di Turio, menzionato da Aristofane (_Uccelli_,
v. 521, 988).

[144] «_Vo’ irmene ad alcun di coloro che appo il tempio di Bacco
tengono esposte le tabelle e promettono di spiegare i sogni_» (Alcifr.,
_Lett_., III, 59). — Anche di Lisimaco, nato da una figlia di Aristide,
si narra che con una certa sua tabella interpretava sogni in Atene
presso il tempio di Bacco (Plutarco, _Arist_.). — È nota l’importanza
grande che i Greci annettevano ai sogni; indi il gran numero di sogni
famosi presso gli scrittori, come il sogno di Aristodemo, il sogno di
Socrate, di Alcibiade, di Epaminonda, di Agesilao, ecc.

[145] Sono due di quelle parole magiche che i Greci solevano chiamare
_lettere efesie_ — ἐφέσια γράμματα — delle quali usavano indovini e
ciurmadori per prendere a gabbo la credulità delle donnicciuole e
delle persone superstiziose; sulla derivazione delle quali, e sul
cui significato, osserva il Wieland, sono state scritte con molta
filologia molte cose vane. Diceansi _lettere efesie_ perchè la cintura
e la corona della statua di Diana in Efeso eran tutte sparse di simili
parole e segni cabalistici, con cui gli indovini e preti mendicanti
e mercanti d’amuleti (προβασκάνια) spacciavano di allontanare i mali
spiriti, scongiurar le imprecazioni dei nemici, ecc. Cfr. Platone,
_Repub_., II, 364.

[146] Socrate quasi mai portava sandali (Plut., _Simp._, II; Aristof.,
_Nubi_); austerissimo in tutto il suo vestire. Per altro, come questo
era in lui semplicità virtuosa del costume, e non ostentazione, così
egli era ben lontano dalla rozzezza e dal sudiciume di Antistene e de’
Cinici: e se recavasi in una casa ammodo, vi andava senza ricercatezza,
ma ben vestito — λαμπρά ἠμπίσχετο — (Diog. Laerz., _Socr_.): e così
Apollodoro incontra Socrate che si reca (_Simp_., II) tutto pulito,
_lavato_ e, contro il solito, _calzato di sandali_ — λελουμένον καὶ τὰς
βλαύτας ὑποδεδεμένξν — al banchetto di Agatone.

[147] 

    Ὅτι βρενθύει τ’ἔν ταῖσιν ὀδοῖς καὶ τὼ’ φθαλμὼ παραβάλλεις 
    Κανυπόδητος κακὰ πολλ’ ἀνὲχει κὰφ’ ἤμιν σεμνοπροσωπεῖς. 
                              (Aristof., _Nubi_, v. 362-3) 

[148] Salvo l’esatto adempimento de’ suoi doveri di cittadino, Socrate
astenevasi dalla vita pubblica, dai tribunali e dalle assemblee (Plat.,
_Apol_., I, XIX, XX). Il suo solito _demone_, egli diceva, _lo aveva
sempre trattenuto dallo immischiarsi nelle brighe di Stato_: in fondo
egli sentiva dentro di sè che il campo del suo grande apostolato
era altrove; e che non era già tra le ciancie e i litigi dei venali
Eliasti, nè tra il cozzo delle passioni meno nobili e dei bassi
intrighi disputantisi il campo nell’assemblea, ch’egli poteva sperare
di far udire utilmente per la repubblica i consigli della sua sapienza
e delle sue virtù. — Una sola volta, com’egli potè ricordarlo con
orgoglio davanti a’ suoi giudici, egli prese la parola nelle cose
della repubblica: e fu per opporsi, indarno, alla iniqua condanna dei
capitani vincitori alle Arginuse (_Apol_., XX).

Un’altra missione nella sua città stava innanzi alla mente di quel
giusto. «In un tempo, scrive il Wieland, in cui nessuno sembrava
accorgersi come la depravazione sempre crescente degli antichi costumi
andava approssimando lo Stato alla sua perdizione; in un tempo in
cui il troppo rapido passaggio dall’aurea mediocrità di altra volta
al culmine di potenza e di ricchezza a cui Pericle avea spinta la
repubblica, apriva agli invaniti Ateniesi prospettive così luminose
da farli dimentichi di ogni moderazione, nè più sognar d’altro che
di dominio universale, e illimitato aumento di possessioni e di
tributi; in un tempo in cui un uomo di vista così lucida e di così sano
giudizio, com’egli era, poteva presentir facilmente che una terribile
tempesta si andava formando per piombar sopra Atene, e che ben tosto
sarebbesi presentata l’occasione in cui l’universale penuria di virtù
morali e politiche avrebbe dovuto farsi profondamente sentire colle
più funeste conseguenze; — in siffatto tempo offrir sè medesimo, nei
pensieri e nelle massime, con la voce e con le opere, qual esempio di
tutte le domestiche e civili virtù, per trarre a sè con l’incentivo
delle sue maniere soavi la gioventù della classe più cospicua, e
formarla a poco a poco a pensamenti e principii conformi, questo
innegabilmente era il servizio maggiore che un uomo prestar potesse
alla patria: e l’unico uomo che il _voleva_ e lo _poteva_ era, anzi
fu... Socrate» (Wiel., _Aristippo_, I, lett. 6).

[149] In tutta questa parlata di Diocare, il cointeressato de’
sacerdoti, cerca raccogliere i giudizj e le dicerie che correan per
Atene sul conto di Socrate, a quest’epoca del dramma (415 av. l’E.
V.), cioè nove anni dopo la rappresentazione delle _Nubi_ e quindici
anni prima dell’accusa di Melito: giudizi e dicerie che, accreditate,
checchè se ne dica, e sia pure involontariamente, dalla satira di
Aristofane, avvalorate dalla credulità, dalla ignoranza e dalla sorda
guerra dei demagoghi, dei sofisti, dei sacerdoti e di tutti coloro
che la ironia di Socrate aveva irritato o pei quali la sua persona
era un’accusa e un rimprovero vivente, dovevano preparar lentamente il
terreno a quelle prevenzioni che alla fine presero corpo nel processo e
furono le cause della condanna del grande filosofo.

Il metodo stesso di vita di Socrate, apparentemente ozioso, pareva
fatto apposta per avvalorare i pregiudizi che cominciavano a circolare
tra il popolo in odio suo. Le leggi antiche soloniche, severissime
contro l’ozio, cui comminavan l’infamia (Plut. e Diog. Laerz. in
_Solone_; Erodoto, II; Polluce, VIII, 6), obbligavano ogni cittadino
del terzo e del quart’ordine a esercitare qualche utile ed onesta
professione, o a servire immediatamente la repubblica. Nell’opinione
degli Ateniesi, Socrate (sebben come soldato avesse fatto il suo dovere
a Potidea, ad Anfipoli, a Delio) non faceva nè una cosa nè l’altra:
poichè «ch’ei fosse a vedersi ed udirsi giornalmente per tutti i vicoli
di Atene e per le pubbliche piazze, e ch’egli andasse da una bottega e
da un’officina all’altra a molestar la gente ne’ suoi mestieri con le
sue questioni e sottigliezze — come essi le nomavano — ciò non veniva
riguardato dal basso popolo e neppure dalla massima parte di quei della
prima classe, per una _occupazione_ di veruna specie, e meno ancora
di verun merito» (Wieland, _Aristippo_, II, lett. 28). — Figurarsi
se questa non doveva essere un’arma eccellente in mano di coloro che
quell’apostolato di Socrate molestava, o che la ironia sottile del
_vecchio derisore_ raumiliava.

[150] Come è noto, sono questi i titoli dell’accusa promossa da Melito,
Anito e Liccone, pei quali Socrate fu poi condannato. «Socrate delinque
perscrutando le sotterranee e le celesti cose, e facendo dritto
del torto e insegnando altrui guaste dottrine. — Socrate delinque e
corrompendo i giovani e non credendo i Numi che la città crede, bensì
altre nuove cose demoniache» Plat., _Apol_., III, XI. Confr. Senof.,
_Apologia_, — e le _Nubi_ di Aristofane, ove quelle due precise accuse
(comunque si tenti scagionare Aristofane da ogni responsabilità nella
morte di Socrate) si trovavano già da ventiquattr’anni prima nettamente
formulate.

[151] Aristof., _Nubi_, v. 95 seg. 

[152] Questa fu veramente opinion di Pitagora (Eliano, _V. St_.,
IV, 17), ma il popolo non si occupava di sceverare per sottile quali
fossero veramente le opinioni di Socrate.

[153] Aristof., _Nubi_, v. 379 seg.; 828. 

[154] Confronta in Aristofane i lamenti di una donna ateniese,
venditrice di corone pei sagrificj, contro Euripide, perchè avendo
persuaso gli uomini che non ci son gli Dei, le ha rovinato la sua
industria (Arist., _Tesmof_., v. 450 seg.).

[155] _Pritani_: i reggenti, per turno, del _Senato_. L’assemblea del
_Senato_ (βουλὴ) istituita da Solone a circoscrivere e controllare,
in unione all’_assemblea del popolo_ (ἔκκλησια), l’autorità degli
arconti, constò da principio di 400 cittadini che Clistene portò ai
500. Erano scelti a sorte ogni anno fra tutti i cittadini che avessero
compito i 30 anni, e rappresentavano nello Stato un potere direttivo e
moderatore. Il Senato preparava e dirigeva i lavori dell’assemblea del
popolo, studiava in anticipazione gli affari e le leggi da sottoporre
al suo voto, vegliava all’esecuzione delle sue decisioni; controllava
i conti dei magistrati, compilava i bilanci, ordinava i pagamenti,
accordava gli appalti delle imposte e delle opere pubbliche. Nessuna
legge o misura di iniziativa privata poteva presentarsi all’assemblea,
ed essere ammessa alla discussione, se prima non passava sotto
l’esame del Senato. E al Senato infine si portavano le denuncie di
alto tradimento, circa le quali, se n’era il caso, esso convocava
l’assemblea del popolo, ed esposte le denunzie, deferiva la causa ai
Tesmoteti. Uscendo di carica i Senatori dovevano poi render conto della
propria condotta, e il Senato stesso puniva le colpe dei proprj membri.

Le attribuzioni del Senato non venivano però tutte esercitate da tutti
i senatori insieme. I cinquecento senatori dividevansi in 10 sezioni
da 50 senatori l’una, quanti cioè ne contribuiva ciascuna delle 10
tribù o _file_: e ogni tribù rappresentata dalla rispettiva sezione,
si succedeva per turno, nella reggenza del Senato, durante l’anno, il
quale restava così diviso in dieci periodi amministrativi di 35 a 39
giorni ciascuno. _Pritania_ dicevasi così la sezione dei 50 senatori
della tribù in carica (_Pritani_) come pure il periodo di tempo entro
il quale essi amministravano. E indicavasi nelle leggi, oltre la
data del mese, la Pritania: _il dì ventesimo quinto di Elafebolione,
pritaneggiando la tribù Eretteide_, ecc. (Dem., Corona).

I _Pritani_ presiedean le adunanze del Senato, lo rappresentavano in
permanenza (gli altri senatori essendo liberi di intervenire o no)
e prendevano le decisioni in suo nome: convocavano le assemblee del
popolo nello Pnice, ne formulavano l’ordine del giorno, lo pubblicavano
alcuni giorni prima nell’agora, e presiedevano l’adunanza: il capo
dei Pritani (_epistata_) — tratto pure a sorte ogni dì — dirigeva
le discussioni. Egli custodiva eziandio le chiavi dell’Acropoli, del
tesoro e dell’archivio, e il sigillo di Stato.

Nel periodo dei trentacinque giorni di ciascuna pritania avevano
luogo ordinariamente quattro assemblee popolari: il che dava quaranta
adunanze ordinarie all’anno. I pritani però o gli strategi in casi
urgenti convocavano il popolo anche in adunanza straordinaria.

[156] Alcibiade prima dell’età legale entrò nella vita pubblica
(Andoc., _C. Alcib._). Notisi che ad Atene i cittadini avevano
bensì a venti anni il diritto di assistere all’assemblea, come,
dai diciott’anni, avevano l’obbligo di servire nella milizia: ma
non potevano innanzi i trenta prender la parola nell’assemblea come
oratori, come non potevano prima di quell’età seder nel Senato o nei
tribunali.

Alcibiade nacque, secondo la versione più accreditata, l’anno 450
av. l’E. V., per cui nell’anno della spedizione di Sicilia (415),
all’epoca cioè di questa scena, doveva avere realmente 35 anni. Ma
altri autori fanno Alcibiade più giovane, attribuendogli 40 anni (Corn.
Nep. in _Alcib_.) all’età della morte, avvenuta nel 404: secondo il
qual cómputo all’epoca della presente scena avrebbe avuto appunto 29
anni. Una ragion drammatica mi fece preferire questa seconda versione
all’altra più autentica.

[157] Era questo un tasto debole del popolo ateniese, spesso abilmente
sfruttato da coloro che bramavano eccitarlo contro qualcuno. E
Demostene stesso non si ristava, occorrendo, dal valersene: «_Colui, o
Ateniesi, che crede di disonorarsi rispettandovi, non è degno di mille
morti? Egli farsi maggior del popolo? Oh rabbia!_» (Dem., _C. Midia_).

[158] «_Noi non contiam nulla come se fossimo di quelli da Megara_»
(Alcifr., _Lett_., III, 44; Teocr., _Idill_., XIV). Modo proverbiale
originato dalla risposta che diede ai Megaresi l’oracolo di Delfo, il
quale, da essi interrogato con doni qual popolo fra i Greci sovrastasse
in bravura, rispose qualificandoli come gli ultimi fra i Greci — ὑμεῖς
δέ ὦ Μεγαρεῖς οὔτε τρίτοι οὔτε τέταρτοι, ecc., ecc. — «_Megarenses
neque tertii neque quarti, neque duodecimi, neque in ratione, neque in
numero_.» Vedi Erasmo a questo proverbio. — «_Badate, non è sopra Carii
che voi fate i vostri esperimenti_» (Platone, _Lachete_). I Carii erano
mercenarj che si esponevano senza scrupolo alla guerra. D’essi parla
Strabone, lib. XIV.

[159] Plut. in _Alcib_. E Ateneo, _Deipnos_., XII, 534: «_Jam dux quum
esset exercitus, adhuc formosus esse volebat: itaque scutum habuit ex
auro et ebore confectum, in quo pro insigni erat Amor fulmen vibrans_.»

[160] Plut. in _Alcib_. 

[161] Ateneo, _Deipnos_., XII, 543 d., Plut., _Alcib_.; Tucidide, VI,
16. Vedi la nota 74 dell’atto primo.

[162] Aristof., _Nubi_, v. 980; Tucidide, I, 6. Portavano le donne
ateniesi cicale d’oro appuntate nei capelli, a significare il solito
antico vanto delle origini, siccome di vera stirpe autoctona, nate
anch’esse dal suolo, al par delle cicale. I giovani più ricchi ed
eleganti imitavano la moda femminile.

[163] _Porpora ermiònica_, ricordata da Alcifr., _Lett_., III, 46.
Ermione fu città del Peloponneso. La porpora che vi si tingeva era
celeberrima e vendevasi a enorme prezzo.

[164] _Chiamar fichi i fichi, come dice il proverbio_ — τά σῦκα σῦκα
— Dir pane al pane (Demetr., _Della elocuzione_, 7; Luciano, _Modo
di scriver la storia_). — La quantità dei fichi, onde l’Attica era
proverbiale, forniva al proverbio greco l’imagine più comune.

[165] Sui sospetti contro Alcibiade e sulla tendenza e facilità estrema
degli Ateniesi della sua epoca a sospettar disegni di tirannide, in
ogni minima cosa, vedi Tucid., VI, 15, 28; Aristofane, _Lisistrata,
Vespe_.

[166] Plutarco in _Alcib_. 

[167] Plutarco in _Nicia_; Pausania, _Focid_., X, 15. 

[168] _Eumòlpidi_, ministri del culto di Cerere (_Demeter_) e di
Proserpina nel tempio di Eleusi. Erano in Atene — al pari degli
_Eteobutadi_, che erano i sacerdoti di Minerva — una famiglia
sacerdotale antichissima, derivante il nome da Eumolpo di Tracia, che
fondò i misteri eleusini: o più propriamente da εὔ μελπέσθαι, _cantar
bene_, per il loro ufficio originario di cantar gli inni sacri: onde
il loro antenato Eumolpo fu detto di Tracia, ossia di Pieria, siccome
della patria del canto. Gli Eumolpidi costituivano anche un foro
sacerdotale privilegiato (_gerofanti_): in quanto era ad essi deferita
l’accusa e il giudizio dei delitti di profanazione dei misteri; contro
i quali delitti procedevano col massimo rigore, suggellando la condanna
con terribili maledizioni. Fu dagli Eumolpidi che venne maledetto, come
profanatore dei misteri, Alcibiade (Lisia in _Andoc._; Esichio, a q. v.
Cfr. C. O. Müller, _St. della letter. gr._, cap. 3).

[169] «_Essendo tutti pronti per navigare, non si vedevano già cose di
buon augurio, specialmente nella sacra solennità che allora correva.
Imperocchè correvano appunto in quei giorni le feste di Adone_,
ecc.» (Plutarco, _Alcib._). — Intorno alle feste delle Adonie, la
cui coincidenza coi giorni prefissi alla partenza per la Sicilia, era
tenuta d’infausto augurio, vedi al quadro primo la nota 30.

[170] Aristof., _Lisistrata_, v. 393 seg. Cfr. Teocr., _Idill._, XV;
Alcmano, _Framm. ap. Hephaest._ — Cfr. Menandro, il _Misogino_, pr.
Strab., VII, 297; la _Sacerdotessa_, pr. Giustin. Monarch., 29.

[171] «E poi che avete l’abitudine di chiedere ogni volta all’oratore:
_Che s’ha a fare?_ — τὶ οὔν χρὴ ποιεῖν; — io domanderò: Che s’ha a
dire?» (Demost., _Cherson._) «Sogliono certi, prima ancora di sentir
l’oratore, subito domandargli: _Che cosa fare?_» (Demost., _Filipp._,
IV).

[172] I cani dell’isola di Creta, e specialmente quei di Gnosso, città
cretese, eran famosi e pregiatissimi per grandezza, ardire e vigoria.
Di essi è menzione in Oppiano, _Cyneg_., I; Polluce, V; Alcifr.,
_Lett_., III, 47; Teofilatto, _Lett._, 58. Egualmente reputatissimi
nell’antichità erano i cani di Laconia.

[173] Alcibiade aveva l’abitudine nel discorrere, specialmente in
pubblico, di interrompersi tratto tratto, e far pause improvvise,
il più delle volte a bella posta e per artifizio, come gli venisse
mancando la parola (Plut. in _Alcib_.).

[174] «Avendo egli un cane di meravigliosa grandezza ed avvenenza,
il quale gli costava settanta mine, gli troncò la coda che bella era
oltremodo, e riprendendolo i di lui famigliari e dicendogli come tutti
aspramente il vituperavano per aver fatto ciò, egli ridendo: «_La cosa
va dunque_ — rispose — _come voglio io, perciocchè voglio appunto che
gli Ateniesi parlino di questo, acciò non si mettano a parlar contro di
me di cose peggiori_» (Plutarco in _Alcib_.).

[175] Lo stesso Plutarco in _Alcibiade_ narra di lui che «un giorno,
facendogli il popolo applauso, egli per la gioja si dimenticò di una
quaglia che aveva nella veste; onde quella spaventata volò fuori, e
in vederla il popolo si pose a gridare e inseguirla per prenderla.»
Mi sono valso a mio modo dei due incidenti del cane e dell’uccello,
fondendone insieme e modificandone le circostanze, colla libertà
concessami dalla ragion drammatica.

[176] _I nepoti dei vincitori di Maratona_ — avrei dovuto dire: la
frase sarebbe stata più esatta: ma anche più lunga e meno drammatica.

[177] Il testo preciso e completo della legge, di cui Alcibiade, per le
sue buone ragioni, non dice a Cimoto che una parte sola, e a modo suo,
era questo: «Se alcuno degli Ateniesi riceverà (doni o danaro) o ad
altri ne darà o con promesse si farà corruttore per far danno al popolo
o ad un privato cittadino, qualunque modo o artificio egli tenga,
sia infame egli e i suoi figli e tutto che è suo» (Demost., _Contro
Midia_).

Del resto, nell’opuscolo — _Alcibiade, la critica e il secolo di
Pericle_, — spiegai di già (e la osservazione vale così per questa che
per altre leggi menzionate in quest’atto) come le leggi soloniche, ai
tempi di Alcibiade, benchè vigenti tuttora in diritto, fossero per la
maggior parte cadute, praticamente, in dissuetudine.

[178] Ἀρεοπαγίτου στεγανοίτερος (Alcifrone, _Lett._, I, 13). Modo
proverbiale. — Nel piano legislativo di Solone l’_Aeropago_ era il
sostegno e il conservatore della costituzione dello Stato. Composto
degli arconti usciti di carica, e di condotta irreprensibile, rotti ai
pubblici affari per l’esperienza degli ufficj esercitati, l’Areopago
non soltanto funzionava da supremo tribunale nelle più gravi cause
capitali, ma era anche rivestito di amplissimi poteri censorj e
amministrativi. Vegliava sull’amministrazione dei magistrati, sulle
decisioni delle assemblee, perchè nulla si facesse o decretasse contro
le leggi; soprintendeva alla pubblica disciplina, ai costumi, alla
religione, all’educazione de’ giovani. Puniva i cittadini oziosi, i
dilapidatori, i viziosi, indicava ai giovani le carriere da percorrere,
ricompensava gli esempj di virtù, ecc. Era in breve il rappresentante
degli interessi permanenti, e delle tradizioni politiche, legislative e
morali della repubblica.

Ma Pericle, mirando ad abbattere la fazione aristocratica che
dall’Areopago traeva forza e prestigio, mutilò d’assai i poteri
di questo tribunale. Egli fece passare la legge che toglieva
all’Areopago la cognizione di quasi tutte le cause, deferendole
invece ai seimila giudici della Eliea. La giurisdizione degli
Areopagiti rimase circoscritta alle cause di omicidio premeditato, di
incendio, veneficio, empietà, e qualche altro delitto minore: però
gli Areopagiti continuarono a essere circondati di quel rispetto e
di quella venerazione che incutevano la loro vita austera, l’autorità
morale delle loro persone, e la solennità dei loro riti. Nelle cause
di omicidio l’Areopago si radunava a giudicare di notte, sul campo
di Marte — Ἄρεος πάγος, collina di Marte. — Le due parti, collocate
fra le viscere fumanti delle vittime, prestavan prima il giuramento,
accompagnato da terribili imprecazioni. Agli avvocati era proibito ogni
esordio, ogni digressione dall’argomento, ogni artificio di retorica.
Gli Areopagiti ascoltavano silenziosi, e, istrutta la causa, silenziosi
deponevano i voti in due urne, una di bronzo, detta della morte,
l’altra di legno, della misericordia. A voti pari, l’accusato era
assolto, reputandosi aggiunto in suo favore il suffragio di Minerva.
Dal silenzio e dal mistero con cui gli Areopagiti giudicavano, venne
il proverbio che li riguardava (Meursius, _Areopago_; Schömann, _Antiq.
jur. pub_., p. 298 seg.; Potterus; O. Müller, ecc.).

[179] Porfirio ricorda delle leggi date agli Ateniesi da Trittolemo,
antichissimo tra i legislatori Ateniesi, essersi conservate ad
Eleusi queste tre sole: γονεῖς τιμᾶν. θεούς καρποῖς ἀγάλλειν. ζῶα μή
σίνεσθαι. _Onorare i parenti, offerir frutta agli Dei, non far male
agli animali_ (Porph., _De abst_., IV; Meursius, _Them. Att_., I). I
popolani ateniesi, fanatici delle quisquiglie forensi e dei battibecchi
giuridici dell’Eliea, era naturale avessero le leggi a ogni momento in
bocca — salvo sempre infischiarsene, per loro conto, nella pratica.

[180] «_Nelle adunanze vi sono grate le lusinghe_, dice Demostene agli
Ateniesi» (Demost, _Filipp_., III). «_I vostri demagoghi vi inebbriano
di tante lodi, che ne’ parlamenti vi gustano le adulazioni, e la
repubblica lasciate alle sue estreme miserie_» (Demost., _Cherson_.).
E le adulazioni e le lusinghe erano un tasto di effetto così sicuro
sui vanagloriosi Cecropidi, che Demostene medesimo, il quale lo
rinfacciava, più d’una volta per ispronare il popolo all’opera, era
costretto a ricorrervi.

Però questa piaga popolare era assai più antica di Demostene: già
da un pezzo le lodi smaccate e le carezze colle quali i demagoghi
trascinavano il popolo ateniese a loro posta, avean fornito il soggetto
alla satira sanguinosa del _Demo_ nei _Cavalieri_ di Aristofane:
poichè, per una contraddizione curiosa, questo popolo così tenero del
sentirsi lodare ed adulare, era poi il medesimo che si lasciava dir
sulla faccia improperj d’ogni sorta. E vedi, ad esempio, le orazioni di
Demostene.

[181] Εὔπρόσωπος γὰρ ὄ τοῦ μεγαλήτορος Ἐρεχθῆος δῆμος — _è bello il
popolo del magnanimo Eretteo_ — (Platone, _Primo Alcib_.).

    Δῆμον Ἐρεχθῆος μεγαλήτορος, ὄν ποτ’ Ἀθήνη 
    θρέψε, Διος θυγάτηρ, τέκε δὲ ζεἴδωρος ἂρουρα. 

_Popolo del magnanimo Eretteo, cui Minerva figlia di Giove un
giorno nutrì, e l’alma terra generò_ (Omer., _Il_., II). — Eretteo o
Erittonio, figlio di Minerva Betonica e di Vulcano, fu il quarto dei
re antichissimi di Atene (dopo Cecrope, Cranao ed Anfizione): nato,
secondo la leggenda, dal seme di Vulcano sparso sulla terra (Lucian.,
_Filops_.). Per il primo dedicò a Minerva, sulla rocca, sagrificj, e
tempio e simulacro: e istituì in suo onore le feste Panatenee, ove fu
il primo che corresse sul carro e aggiogasse al carro i cavalli (_Si
dice che Erittonio figlio della Dea primo degli uomini unisse i cavalli
al carro_, Aristid., _Or. in Minerv._; Virgil., _Georg_., III). Si
volle anche che fosse stato il primo ad introdurre in Atene le monete
(Polluce, IX, 6; Plin., VII, 56): e che al suo tempo nascessero le
prime api famose sull’Imetto. Regnò cinquant’anni sugli Ateniesi, che
da lui furon detti _Erettidi_, _o figli di Eretteo, o popolo Erittonio_
(Demost., _C. Mid_. negli oracoli; Eurip., _Medea_, v. 824; Properz.,
II, eleg. 6): come _Cecropidi_ diceansi da Cecrope; e anche _Cranai_, e
_città di Cranao, città Pandionia_, dal re Cranao, e da Pandione, che
fu il figlio e successor di Eretteo. Con questo Eretteo od Erittonio
non va confuso l’altro Eretteo, suo successore e nipote — figlio cioè
di Pandione — che istituì in onor di Cerere i misteri eleusini, e diede
il nome alla tribù _Eretteide_; e sotto il regno del quale i cittadini
mutarono l’antico nome di _Cecropidi_ in quello di _Ateniesi_ (Erod.,
VIII).

[182] Aristofane nei _Cavalieri_, v. 41, chiama con questo
titolo _mangiator di fave_, κυσμοτρὼξ il popolo ateniese. Intorno
all’arroganza del demagogo Cleone, vedi Tucidide; e Aristofane nei
_Cavalieri_.

[183] Volendo annoverare i demagoghi, ossia gli oratori del popolo
che si succedettero, dopo Pericle, nel maneggio delle cose della
repubblica, gli Ateniesi nominavano in ordine di tempo primo Eucrate
negoziante di stoppe, secondo Callia, venditore di pecore, terzo
Cleone conciatore (_il cuojajo Paflagone_ dei _Cavalieri_), al quale
Aristofane nella sua commedia, fa succedere Agoracrito, il salsicciajo,
ma nella storia succedettero Cleofonte, il formaggiajo, e Iperbolo,
fabbricante di lucerne secondo gli uni, vasajo secondo gli altri; il
qual ultimo fu fatto cacciare coll’ostracismo da Alcibiade.

[184] Tucidide, _Guerra Pelop_., II, 79. 

[185] Tucidide, III, 52, 68. 

[186] Tucidide, IV, 96. 

[187] Tucidide, V, 10. Fu nella battaglia di Amfipoli che morì il
demagogo Cleone, comandante degli Ateniesi, e morì anche il comandante
degli Spartani, il prode Brasida.

[188] Aristof., _Tesmof. Cavalieri_. 

[189] καλῶ δε ἑναντίον ὑμῶν, ὤ ἄνδρες αθηναῖοι, τοὺς θεοὺς ἄπαντας, καί
πάσας, ὄσοι τὴν χώραν ἔχουσι τὴν ἀττικὴν, καί τὸν Ἀπόλλω τὸν πὺθιον, ὄς
πατρῶός ἔστι πόλει...» (Demost., _Corona_).

[190] Apollo _Pizio_ — πύθιος — altro dei soprannomi dati a questo
Iddio poichè uccise a frecciate il serpente Pitone, nato dal putrefarsi
— πύθεσθαι — della terra dopo il diluvio di Deucalione; in memoria di
che furono istituiti i giuochi sacri nazionali detti Pizj, celebrantisi
ogni quattr’anni, sul luogo della uccisione, nella pianura tra Delfi e
Cirra:

    _Instituit sacros celebri certamine ludos_ 
    _Pythia de domitae serpentis nomine dictos_. 
                   (Ovid., _Metamorph_., I, v. 446) 

Questo mito di Apollo Pitio e dei serpente da lui ucciso, appare una
imagine poetica e tutta greca del prosciugarsi della terra, dopo
un grande cataclisma, sotto la sferza dei raggi del sole, che ne
disperdono le putride esalazioni. E non per nulla gli antichi, come
osserva l’Ampère, aveano collocato il tempio di Apollo Pitio a Delfo,
al piè delle rupi dette _phedriades_ (_sfavillanti_), che ancora oggi
ripercuotono con tutta forza i raggi solari — ossia le _frecce del
Nume_, che uccisero il mostro.

[191] «_La città lo sta ad ascoltare ammirata, a bocca aperta,
come dicesi che interveniva agli Ateniesi pel figliuolo di Clinia_»
(Luciano, _Scita_).

[192] «_Ad Atene è patrio vanto primeggiar tra i Greci nè soffrir
eguali_ — ἤ (πόλει) προεστάναι τῶν Ελλήνων πάτριον, καὶ μηδὲν τοιοῦτον
περιορᾶν γεγνόμενον» (Demost., _Parapresb_.). «_Agli Ateniesi è patrio
orgoglio non obbedire a nessuno ma prostrar tutti nelle battaglie_
— Ἀθηναιοις πάτριον ἔστι μηδενός ὑπακούειν, ἄ πάντον δὲ κρατεῖν τοῖς
πολέμοις» (Demost., _Sulla lettera di Filippo_). — Vedi in proposito
più sopra la nota 84. Cfr. _Meissner_, II, 35.

[193] νὴ τόν Δία καὶ πάντας τοὺς θεοὺς (Demost., _Cherson_.) μὰ τον δία
καὶ πάντας τοὺς θεοὺς (Demost., _Filipp_., IV).

[194] Plutarco, _Disp. Conviv_., I, 1. — Il Dio Tebano, Bacco. 

[195] La viltà di Cleonimo che gettò via lo scudo, è frequentissime
volte ricordata da Aristofane, nelle _Nubi_, nei _Cavalieri_, nella
_Pace_ e altrove.

[196] Le leggi antiche ateniesi (sebbene ai tempi di Alcibiade i
rilassati costumi le avesser rese gran parte lettera morta) erano
severissime contro i vili. Punito di _infamia_ — e quindi escluso
dall’assemblea e dall’esercizio degli altri diritti del cittadino —
chi avesse in battaglia cedute l’armi. Καὶ νὸμος τὸν αποδόμενον τὰ
ὄπλα, ἄτιμος εἴναι (Syrianus, comm. in _Hermog_.). Punito di carcere
il disertore che usurpasse ufficj di cittadini onorati. Κᾶν ἀστρατεὶας
τίς ὄφλῃ, καὶ τι τῶν αὐτῶν τοῖς ἐπιτίμοις ποιῇ, καὶ τοῦτον δέδεσθαι
(Demost., _C. Timocr_.). «Comanda la legge, scrive Aristotile, fare
opera d’uom valoroso: cioè _non disertar l’ordinanza, non fuggire,
non gittar via l’armi_.» Προστάττει δὲ ὄ νόμος καὶ τα τοῦ ἀνδρειοῦ
ἕργα ποιεῖν, οἴον μὴ λείπειν τὴν τάξιν, μηδὲ φεύγειν, μηδὲ ρίπνειν
τὰ ὄπλα (Aristot., _Ethic. Nicom_., V, 1). E a chi disertasse le
schiere, o fuggisse, o gittasse l’armi, era comminata _la morte_.
Νόμος τὸν λιπόντα τὴν τάξιν ἀναιρεῖσθαι (Syrian. in _Hermog_.; Auct.,
_Problem. Rhet_., XL). Νόμος τὸν καταστείχοντα φυγάδα θανάτῳ ζημιοῦσθαι
(Marcell. in _Hermog_.). Νόμος τὸν ῥίψασπιν θανάτῳ ζημιοῦσθαι
(Sopater in _Hermog_.) — Chi anche soltanto per trascuraggine avesse
perduto lo scudo, era multato di cinquanta dramme: ε’ ὰν τις ε’ ὶπη,
ἀποβεβληκέναι τὴν ἀσπὶδα, πεντακοσίας δρακμὰς ὀφείλειν κελεύει (Lisia
in _Theomnest._). Altre leggi punivano severissimamente oppignorare o
vender l’armi o cederle ad altri (Suida alla voce ἐνέχυρον; Sopater,
Syrianus in _Hermog._, ecc.). — E ai tempi di Alcibiade le risate del
popolo e i frizzi di Aristofane erano la sola punizione di Cleonimo!

[197] Plutarco in _Alcib._ e in _Antonio_. Cfr. Shakespeare, _Timone_,
atto III, e Meissner, sopra l’incontro di Timone, I, 44; II, 280.

[198] «_Il vino irrorando gli spiriti assopisce gli affanni e i
pensieri come la mandragora gli uomini_» (Senof., _Simp._, II).
Da questa virtù di assopimento attribuita alla mandragora venne
in proverbio tra gli antichi _bevere la mandragora, prendere la
mandragora_, per significare dimenticanza del proprio dovere,
lentezza nell’operare, letargia. Così Demostene, nella _Filippica_
V, rimproverando l’assopimento insensato degli Ateniesi in faccia al
pericolo, somigliano, dice, _a chi ha bevuto la mandragora o altra
simile pozione_ — μανδραγὸραν πεπωκόσιν ῇτι φὰρμκαον ἄλλο τοιοῦτον
ἐοίκαμεν ἀνθρώποις.

[199] Luciano, _Timone_. 

[200] Era in Creta la tomba di Minosse con sopravi la iscrizione:
Μίνωος τοῦ Διὸς τάφος. Cancellata dall’ingiuria del tempo la prima
parola, rimasero l’altre: sicchè la tomba di Minosse fu additata come
tomba di Giove: — e la cosa passò tra i Greci in proverbio. Luciano la
ricorda di frequente: «Risvegliati, o figlio di Saturno, da cotesto
sonno profondo!... se non è vero quello che i Cretesi contano di te
e della tua tomba» (_Timone_). «I Cretesi dicono che Giove non solo
è nato ed allevato tra essi, ma ne mostrano anche la tomba» (_Dei
sacrifizj_). «Quei che vengon da Creta contano che lì han veduto una
tomba e sopravi una colonna con una scritta, che dice che Giove non
tuona più, perchè è morto da un pezzo» (_Giove tragedo_).

[201] Le donne greche, nei tempi più antichi, ascrivevano a primo dei
doveri della maternità l’allattare esse medesime i loro bambini (Omero,
_Iliad._, X, v. 83; _Odissea_, XI, v. 446; Euripide, _Ion._, v. 1460).
Ma in Atene ai tempi di Alcibiade questa usanza era scaduta e le poche
donne che allattavano ancora, si provvedevano però anche di una nutrice
(Suida alla voce τροφὸς; Aristof., _Caval._, v. 713; Plut., _Educ. dei
fanciulli_). Rinomatissime erano le nutrici spartane (Plut. in _Lic._).

[202] Alcibiade ebbe per nutrice una donna spartana di nome Amicla
(Plut. in _Alcib._). Gli antenati di Alcibiade erano stati in Atene
_prosseni_, ossia _consoli_ di Sparta e a Sparta la famiglia dell’eforo
Endio, pei vincoli di _prossenia_ che a quella di Alcibiade la
legavano, alternava in ogni generazione il nome di Endio con quello di
Alcibiade (Tucid., VI, 89; VIII, 6). Anzi _Alcibiade_ era esso stesso
un nome laconico, come osserva lo scoliaste di Tucidide (Cfr. Meurs.,
_Misc. Lacon._, III, 8).

[203] Chi vuol leggere esempj d’insolenze ed invettive che il popolo
ateniese si lasciava dire in faccia, persuasissimo in cuor suo di
meritarsele e altrettanto deciso di infischiarsene e tirar innanzi a
modo suo, non ha che a prender in mano i _Cavalieri_ o le _Vespe_ di
Aristofane o qualcuna delle orazioni di Demostene. Ecco la descrizione
del popolo sovrano dello _Pnice_, personificato nel vecchio _Demo_, che
Aristofane nei _Cavalieri_ fa dire da Demostene a Nicia sulla faccia
degli spettatori:

    Un padron ci toccò rustico, strambo, 
    Lunatico, iracondo, mangiafave: 
    Certo Demo Pniceo zotico, sordo, 
    Borbotton, capriccioso, e vecchio allocco 

E Demostene poi, in pieno foro, ne’ suoi trasporti di virtuosa
indignazione, non avea penuria di vocaboli. _Città di schiavi, non
d’uomini nati a maggioranza_ (_C. Androz._); _O Ateniesi assonnati in
istupidezza e codardìa_ (_Ibid._); _cianciatori, imbelli_ (_Olint._,
I); _impigriti nell’ozio, per ignavia degeneri_ (_Ibid._); _popolo
invilito, fiacco, spiantato, derelitto, non più altro che schiavi
e avveniticcia plebaglia_ (_Olint._, III); _bellicosi ne’ consigli,
vigliacchi in guerra_ (_Cherson._); _tutto è qui fra voi codardia_
(_Filipp._, IV); _voi siete, Ateniesi, un vile gentame, plebe pezzente,
inerme, scompigliata, divisa di interessi e di voglie: i capitani
e tutti conculcano ogni vostro decreto: muti e prostituti i vostri
consiglieri: ogni patto indifferente agli affanni della patria... Voi
siete bruzzaglia piena di servitù, perduta nel nulla, e d’ogni vile
beneficiuolo menate gran festa_... (_Sintassi_). — E parmi che basti
per provare... la discrezione di Timone.

[204] _Colitta_, uno dei borghi dell’Attica, appartenente alla tribù
Egeide. Vi nacquero Timone il misantropo e Platone.

[205] _Partenone_, il tempio famoso di Minerva sull’Acropoli: prodigio
dell’arte antica, il genio della Grecia di Pericle parla ancor oggi,
traverso ai secoli, dalle sue rovine.

[206] Timone ha insultato Alcibiade. Ora una legge solonica (abbastanza
trascurata del resto come l’altre) vietava ingiuriar una persona in
pubblico. «Proibì pure (Solone) il dir villania ad alcuno ne’ templi,
ne’ luoghi dove si tien ragione, dove si trattano gli affari pubblici e
dove si fanno spettacoli; e ciò sotto pena di dover pagare tre dramme
a quella persona particolare che fosse svillaneggiata, e due altre
all’erario pubblico» (Plutarco in _Solone_).

[207] Aristof., _Acarnesi_, v. 43-44. — Si purificava innanzi la seduta
il luogo della assemblea spruzzandolo col sangue di un porcellino.
Nelle _Aringatrici_, trattandosi di un’assemblea da burla, Aristofane
al porcellino fa sostituire un gatto: Prassagora dice alle donne: _Il
purificatore porti in giro il gatto_ (Arist., _Eccles._, v. 128).

[208] Naturalmente era in altro senso che l’austero Demostene diceva:
_la voce del banditore è voce della patria_, τῆς πατρὶδος γωνὴ
(Demostene, _Corona_).

[209] ῶ γῆ καὶ θνοὶ — Apostrofe usatissima (Aristen., _Lett._, II, 20;
Demost., _Corona_, e altrove).

[210] Teodota e Gnatena, due delle etére più in voga ad Atene, in quei
dì. Intorno a Teodota, con cui Socrate stesso amava intrattenersi, vedi
Senof., _Memorab._, III, 2; Aten., _Deipn._, V, 220 e. — Ateneo cita
pure Teodota e Timandra, come le due amanti più note di Alcibiade:
Aten., XII, 535, c. XIII, 574, f. 588 d. — Intorno a Gnatena, vedi
Aten., XIII, 558 seg.

[211] ἀλκυονίδαι ἡμέραι — modo proverbiale significante giorni placidi
e sereni. _Alcionj_ o _alcionidei_ chiamavano propriamente gli antichi
i quattordici giorni del solstizio d’inverno, durante i quali gli
alcioni usano deporre le uova in riva al mare: onde il nome stesso
di quell’uccello — παρὰ ἔν τῷ ἁλὶ κύειν — (Ovid., _Metam._, XI, v.
745; Plin., _N. Hist._, X, 47). — Consideravansi come dì fausti ai
naviganti, poichè in questo tempo il mare ritrovasi in perfetta calma:
indi l’uso proverbiale della frase. _Stando amici con noi, ve la
godrete e passerete sempre giorni d’alcione_ (ossia giorni tranquilli)
— ἁλκυονίδας τ’ ἄν ἤγεθ’ ημέρας αεί — (Aristof., _Uccelli_, v. 1594). —
Luciano richiama in proposito la favola di Alcione e di Ceice: «Molto
onore ebbe l’Alcione dagli Dei per l’amore che ella portò al marito:
chè per farle fare il nido il mondo reca alcuni giorni detti _alcionj_,
placidi e sereni in mezzo del verno: ed oggi è uno di quei giorni. Non
vedi come è sereno il cielo e il mare tranquillo e cheto che pare uno
specchio?» (Luc., _L’Alcione_. — Cfr. Alcifr., _Lett._, I, 1; Teocr.,
_Idill._, 7). E il Tasso:

    «De l’alcione al desiato parto 
    È sopito il furor d’orridi venti, 
    Son quete l’onde tempestose, e ’ntorno 
    Sgombre le nubi e serenato il cielo: 
    In sì tranquillo e sì felice aspetto 
    De’ fidi augelli alla progenie arride.» 
              (T. TASSO, _Mondo Creato_, Giorn. V) 

[212] «_Come si suol dire, ai soli spergiuri degli amanti gli Dei
perdonano; perchè il giuramento venereo_ — ἀφροδίσιξς ὄρκος — _non
vale_» (Plat., _Simposio_, c. 10). — «Il piacere è la più bugiarda
di tutte le cose: e come va per proverbio, nei piaceri di Venere, i
quali pur sembrano essere i massimi, anche allo spergiurare è accordato
perdono dagli iddii, appunto come se i piaceri, a guisa di fanciulli,
non avessero pur un briciolo di cervello» (Plat., _Filebo_, c. 41). —
E in Aristeneto una donna così rinfaccia al suo amante la incostanza
maschile: «Fintanto che siete innamorati, voi altri uomini, passate le
intere notti ai nostri usci per terra e senza letto, piangendo chiamate
in testimonio gli Dei, e avete i giuramenti sulla punta della lingua...
Ma tosto che avete a sazietà soddisfatta la vostra libidine, e avete
ridotte le amate or dianzi ad amarvi alla lor volta, allora tronfi
vi ridete del rapito fiore di quelle, e prendete a ludibrio le misere
ch’eran prima l’oggetto delle vostre brame: e dite _che i giuramenti
non arrivano all’orecchio degli Dei_» (Aristen., _Lett._, II, 20). —
E Pavillon, illustrando a sua volta un po’ crudamente la teoria greca
della nullità del giuramento degli amanti:

    Dès qu’un objet cesse de plaire 
      Le commerce amoureux aussitôt doit finir, 
      Le respect des serments n’est plus qu’une chimère 
      La perte du plaisir qui nous les a fait faire 
      Nous dispense de les tenir. 

[213] Modo di dire omerico (ripetuto anche in Esiodo, _Teog._, 35)
di uso proverbiale antichissimo fra i Greci, e più antico, sembra, di
Omero. Οὔ γὰρ ἀπὸ δρυός ἔσσι παλαιφάτου, οὔδ’ ἀπὸ πέτρης. Così Platone:
«_Per dirla con Omero, neppur io sono nato nè di quercia, nè di pietra,
ma d’uomini_» (_Apolog._, 23). — Il Müller lo reputa un detto di
antichissimi cantori pierii: nel quale la quercia e la rupe accennano
alla semplice vita campestre degli autóctoni greci, che credevano di
trarre la loro origine dai monti e dalle selve: e intorno a questi soli
oggetti s’aggirava con innocente semplicità il loro pensiero.

[214] «Veloce è Cupido al venire e all’andarsene; se spera prende
l’ale: se appena dispera, immediatamente gli cadono. Indi la grand’arte
delle etére è in differir sempre il godimento e trattener gli amanti
colla speranza» (Aristen., _Lett._, II, 1). — «Io credo che l’amore
grande nasce quando uno si persuade che tu poco lo curi: se è sicuro
di possederti egli solo, la passione si smorza» (Luciano, _Dial. delle
cortigiane_, 8). — «Che crudele costui! Ma tu stessa, o Violetta, l’hai
guasto col volergli troppo bene e col mostrarglielo. Dovevi non farti
vedere troppo accesa di lui: egli ora lo sa, e se ne tiene» (Luc.,
_ibid._, 12).

[215] Senof., _Repub. Laced._, 1; Plutarco in _Licurgo_ e _Apoft.
Lacon._

[216] Munichione è il decimo mese dell’anno attico, secondo lo
Scaligero (aprile-maggio). Qui cadono in acconcio alcuni cenni sul
_Calendario Attico_.

Gli Ateniesi ebbero da principio un anno lunare di 354 giorni diviso
in dodici mesi successivamente cavi e pieni, nell’ordine seguente: 1.º
_Gamelion_; 2.º _Antesthesterion_; 3.º _Elaphebolion_; 4.º _Munychion_;
5.º _Targelion_; 6.º _Scirophorion_; 7.º _Hecatombeon_; 8.º
_Metagitnion_; 9.º _Boedromion_; 10.º _Memacterion_; 11.º _Panepsion_;
12.º _Posideon_.

Ma col tempo risultando quest’anno lunare in arretrato sul ritorno
periodico delle stagioni, si consultò l’oracolo; il quale ordinò di
regolare i mesi colla luna e l’anno col sole: cioè intercalare il
numero di giorni necessario perchè la durata dell’anno corrispondesse
meglio all’annua rivoluzione del sole. Si stabilì quindi una
intercalazione di un mese di trenta giorni, la quale intercalazione
avesse luogo tre volte in otto anni, ossia per ogni due olimpiadi
(quadrienni): infatti otto anni di 354 giorni con tre mesi intercalati
di trenta, corrispondono appunto ad otto anni di 365 giorni e un
quarto. Per tal modo riconducevasi il primo giorno, il primo mese e
il primo anno di ciascuna olimpiade verso la luna nuova che veniva
dopo il solstizio d’estate. L’_ottaetèride_, ossia periodo di otto
anni, ricominciava infatti verso questa luna e il lunario ateniese
seguiva tutte le variazioni derivanti dalla sua singolare struttura.
Fu questa la riforma dell’astronomo Metone, introdotta nel calendario
civile ateniese appunto all’epoca di Alcibiade e precisamente nel 432
av. l’E. V. (anno 1.º dell’Olimpiade 87.ª): e da quell’epoca il mese
di ecatombeone, ch’era il settimo del primitivo ordine, e cominciava
appunto col novilunio susseguente al solstizio estivo (16 luglio),
diventò il primo mese del calendario olimpico, che fu adottato dalla
maggior parte degli Stati greci. Indi i mesi attici, corrispondenti
ciascuno (secondo i calcoli del Corsini) dal 16 luglio in avanti,
alla seconda metà di un mese nostro, e alla prima metà del successivo,
rimasero così distribuiti:

1.º _Ecatombeone_ (luglio-agosto), _mese della ecatombe_, ossia del
sagrificio. Chiamossi in antico ecatombe un sagrificio di cento buoi,
più tardi un olocausto in genere.

2.º _Metagitnione_ (agosto-settembre), _mese del tragitto_. Si
celebravano in esso le feste di Apollo Metagitnio, commemorative del
passaggio di un popolo dell’Attica da un comune all’altro.

3.º _Boedromione_ (settembre-ottobre), ossia _mese del soccorso_.
Celebravasi in esso la festa _Boedromia_, in memoria del soccorso
recato da Xuto agli Ateniesi, quando questi, al tempo di Eretteo,
furono assaliti dagli Eleusini sotto la condotta di Eumolpo trace,
figlio di Nettuno. Vi si onorava Apollo perciò detto anch’egli
_Boedromio_; e ai 15 di questo mese stesso ricorrevano in onor di
Cerere e Proserpina le feste dei misteri eleusini, la cui celebrazione
durava nove dì.

4.º _Pianepsione_ (ottobre-novembre), ossia _mese delle fave cotte_.
Si cuocevano queste nelle feste, perciò dette _Pianepsie_, istituite in
memoria di Teseo, che tornato salvo da Creta, mangionne per allegrezza
alla stessa tavola co’ suoi compagni. Ricorrevano pure in questo mese
le _Tesmoforìe_, ossia le feste di Cerere tesmofora, celebrate per
sette giorni dalle donne di ingenua nascita, con processioni ad Eleusi,
digiuni e solennissimi riti; e le _feste Apaturie_, o feste delle
frodi, commemorative del duello in cui Melanto campione degli Ateniesi
vinse per inganno Xanto re dei Beoti; duravan tre giorni, nel terzo dei
quali avea luogo la iscrizione dei neonati.

5.º _Memacterione_ (novembre-dicembre), ossia _mese di Giove
tempestoso_ — in onor del quale si celebravano le feste _Memacterie_
per implorare il tempo sereno (Il Petavio mette questo mese in luogo
del _Pianepsione_ dal quale lo fa precedere).

6.º _Posideone_ (dicembre-gennajo), ossia _mese di Nettuno_, onorato
nelle feste _Posidonie_, celebrate con solenni abluzioni, specialmente
in Egina. Ricorrevano pure in questo mese le _Dionisiache rurali_,
ossiano i _Baccanali campestri_, celebrati nella campagna colla
processione del _fallo_ ritto.

7.º _Gamelione_ (gennajo-febbrajo), ossia il _mese delle nozze_, sacro
a Giunone _Gamelia_, auspice e tutrice dei vincoli conjugali.

8.º _Amtesterione_ (febbrajo-marzo), ossia _floreale_. Vi ricorrevano
all’11 del mese le _feste Lenee_, dette anche _Antesterie_ o
_floreali_, e dedicate a Bacco Leneo: le quali duravan tre giorni:
il primo, festa delle _botti_; il secondo, festa delle _coe_ o delle
libazioni funerarie; il terzo, festa dei _chitri_ o delle _pentole_,
perchè in tal dì cuocevansi legumi d’ogni specie in una gran pignatta,
offerta in suffragio de’ morti a Mercurio.

9.º _Elafebolione_ (marzo-aprile), ossia _mese di Diana cacciatrice
dei cervi_. Le si offeriva nella sua festa una torta raffigurante
quell’animale. In questo mese avean luogo le _grandi Dionisiache_,
ossiano i _Baccanali della città_, celebrati in Atene colla massima
pompa e processioni solenni, e gara dei componimenti teatrali.

10.º _Munichione_ (aprile-maggio), ossia _mese di Diana Munichia_, così
detta dal suo tempio famoso in Munichia, borgata e porto di Atene, ove
celebravansi in questo mese le sue feste.

11.º _Targelione_ (maggio-giugno), ossia _mese scaldaterra_. Vi
si celebravano le feste _Targelie_, in onor del Sole e delle Ore,
portandosi in giro le primizie dei prodotti. Ricorreva pure ai 25 di
questo mese la _festa Plinteria_, in onor di Minerva e di Aglauro,
tenuta per giorno d’infausto augurio.

12.º _Sciroforione_ (giugno-luglio), ossia il _mese dell’ombrella_,
la quale veniva portata ai 12 del mese, nelle _feste Scire_ o
_Sciroforie_, in onor di Minerva, da Atene a Sciro, borgo fra Eleusi
ed Atene, ov’era il tempio di Minerva perciò detta _Scirade_, ossia
_dall’ombrella_.

Il mese intercalare poi, che si aggiungeva, come abbiam detto, tre
volte in otto anni, dicevasi _Posideone secondo_.

Dividevasi il mese in _tre decadi_: la _prima_ dicevasi del _mese
cominciante_ o _luna crescente_, ἱσταμὲνος μηνὸς — la seconda del
_mese medio_ o della _luna media_, μεσοῦντος μηνὸς — la terza del
_mese_ o della _luna terminante_, φθίνοντος μηνὸς. Si designavano
progressivamente dall’uno al dieci i giorni della prima decade; _primo,
secondo, terzo_ del mese _entrante_ o _cominciante_ (πρώτη, δευτέρα,
τρίτη ἱσταμὲνος); egualmente quei della seconda: _primo, secondo,
terzo del mese medio_, oppure _primo dopo dieci, secondo dopo dieci_,
ecc. (πρώτη, δευτέρα, τρίτη μεσοῦντος, ovvero πρώτη ἐπί δὲκα ecc).
Giunti alla terza decade, si contava per sottrazione: ossia il 21
diceasi _decimo del mese cadente_, il 22 _nono_ del mese cadente, il
23 _ottavo_, ecc. (δεκάτη, ἐνάντη, ογδόν φθίνοντος). Però talvolta si
contavano anch’essi per addizione e dicevasi _primo dopo venti, secondo
dopo venti_, ecc. (πρώτη μετὰ εἴκαδα, δευτέρα μετὰ εἴκαδα, ecc.). Il
30 ed ultimo del mese chiamavasi ἐνη καὶ νέα, _vecchia e nuova luna_,
ossia tra il finir di una luna e il cominciar di un’altra. Il primo del
mese dicevasi pure νουμηνία, ossia _novilunio_.

Quando il mese era di 29 giorni invece di 30, il 21 invece di chiamarsi
_decimo del terminante_ dicevasi _nono_, il 22 _ottavo_, ecc.

Vedi Scaligero, Petavio, Corsini, Cesarotti, Taylor; Plutarco in
_Solone_, ecc.

[217] Omero, _Odissea_, e altrove. 

[218] _Pecile_, ossia _istoriato_, diceasi un portico famoso di Atene,
ov’erano rappresentate le gesta degli Ateniesi, dipintevi dal pennello
di Polignoto. In questo portico diedero più tardi le lor lezioni i
filosofi che si dissero _stoici_ (στοὰ, _portico_).

[219] Sull’uso del recarsi, specialmente i parassiti, anche non
invitati, ai pranzi ed ai simposj, vedi in Ateneo, _Deipnos._, VI. Ivi
Ateneo cita parecchi di simili casi. In una commedia di Apollodoro
Caristio, un personaggio dice d’invitare il parassito Cherefonte,
perchè _se anche non lo invitasse verrebbe ugualmente_. In un’altra
commedia del medesimo, il parassito va non invitato a un banchetto
nuziale col pretesto di portar degli uccelli alla sposa. Altrove Linceo
di Samo narra ancora di Cherefonte che va ad un convito senz’esservi
chiamato: e siccome egli vi si trova in più del numero normale dei
convitati, i gineconomi lo vogliono mandar via: egli risponde: _Avrete
contato male. Tornate a contare, cominciando da me._ — Pure a lungo
discorre di questa usanza del presentarsi non invitati ai simposj,
Plutarco nelle _Disp. Conviv._, VII, 6: ov’egli la giudica sconveniente
e propria dei soli _parassiti_ od _ombre_: benchè la vediam praticata
anco da filosofi cinici e cirenei (Luciano, _Lapiti_, 12; Aten.,
_Deipnos._, XII, 510): e benchè Plutarco stesso ami derivarla da
Socrate che seco condusse Aristodemo non invitato al banchetto di
Agatone; e più in su, da Menelao che nel 2.º dell’_Iliade_ si presenta
non invitato al convito d’Agamennone. — Ma caratteristico fra tutti,
su questo proposito, è un passo grazioso del cantore jonio Asio di
Samo (citato in Ateneo), ov’egli con gravità omerica descrive, in
tono di parodia, un parassita che accorre sfrontatamente ad un convito
nuziale; che è zoppo, grigio il crine, adora il profumo dell’arrosto
(κνισοκόλαξ), e coperto d’ignobili cicatrici, giunge non invitato e
_a un tratto si pianta fra gli ospiti, siccome un eroe che sorge dal
fango_, ἔν δὲ μέσοισιν — ηρως εἰστήκει. βορβόρου ἐξαναδύς (Aten.,
III, 125 d.; Callini, _Tyrt. As. carm._, ediz. Bachius, p. 142). —
Nell’_eroe_ di Asio, il cui tipo sembra al Müller (_St. lett. gr._, X)
il più antico esempio di parodia, il lettore potrà ravvisare la genesi
del mio Cimoto.

[220] Il noto verso di Omero, nel 2.º dell’_Iliade_, 

    αὐτόματος δέ οἴ ἤλθε βοήν ἁγαθὸς Μενελαος 

«_spontaneo venne_ (al banchetto d’Agamennone) _Menelao valente nella
mischia_» era passato in proverbio e in barzelletta tra i Greci,
applicato in ispecie per ischerzo ai parassiti che venian non chiamati
alle mense. Vedine esempio in Luciano, nei _Lapiti_.

[221] Nel comico Difilo, presso Ateneo, un parassita invitato, guarda
per prima cosa non gli ornamenti e l’architettura della sala, bensì il
fumo della cucina; e si rallegra se lo vede uscir ben alto e ben denso:
ma se lo vede uscir fioco si rattrista, siccome annunzio di un magro
desinare (Aten., _Deipnos._, VI, 236 c).

[222] Porta _Dipila_ o _Triasia_, o _Ceramica_, ovvero il _Dipilon_,
era la porta all’angolo nord-ovest d’Atene, conducente dal Ceramico
interno al Ceramico esterno e ai giardini dell’Accademia, distante
sei stadj. È la sola porta di Atene che tuttora sussista. Seguivano,
dopo quella, a settentrione le porte _Ippadi_ (conducente a Colono),
d’_Acarne_ e _Melitide_ (conducente a Maratona); a levante la porta
_Diomeja_, conducente al Cinosargo, e la porta _Diocari_, che metteva
al Liceo; più innanzi, nella parte di mezzodì bagnata dall’Ilisso,
la porta _Egea_ (sud-est) conducente al tempio di Cerere e al monte
Imetto; e la porta _Falerea_ (sud-ovest) unita, per la via del _lungo
muro australe_, al borgo e porto di Falera. Infine, dopo questa, nella
parte di ponente, bagnata dal Cefisso, la porta del _Pireo_, unita dal
_lungo muro boreale_ al porto di quel nome, al quale conduceva per la
strada di Teseo; indi la porta _Sacra_, che conduceva ad Eleusi e la
porta _Itonia_, e infine da capo la _Dipila_.

[223] Proverbio greco popolare, giunto fino a noi. Un parassita lo
cita nel _Medico_ di Aristofane: τοὺς καλοὺς πειρᾷν κακνὸς (Aten.,
_Deipnos._, VI, 238 c.). — _Opinantur mulierculae pulcherrimum quemquam
fumum persequi_ (Victorius, cap. 21, _Variarum_).

[224] Rinomatissime e ricercate alle mense erano le anguille del
lago Copais, in Beozia. Così pure le _raje_ (βάτις, Arist., _Vesp._,
510; Aten., III, 104) tenute fra i pesci più delicati; e gli _uccelli
del Fasi_, o _fasiani_ (fagiani — φασιανος ὄρνις — Aten., XIV, 654;
Alcifr., III, 7). Dalle rive del Fasi, fiume della Colchide ove
trovavansi in gran copia, gli Argonauti furono i primi a portarli in
Grecia, di dove vennero trasportati in Italia, serbando l’antico nome.

    _Argiva primum sum transportata carina;_ 
    _Ante mihi notum nil, nisi Phasis, erat._ 
                            (Marziale, XIII, ep. 72) 

[225] _Ceramico_ o _palazzo delle tegole_, era un quartiere famoso
della città, che traeva il nome, secondo Pausania (_Attic._,
3), dall’eroe Ceramo, figlio di Bacco e di Arianna; ma molto più
verisimilmente dai lavori in terra cotta (κέραμος, _tegola_) che vi
si facevano. Estendevasi parte fuori e parte dentro della città.
Nel Ceramico esterno, che si stendeva dalla porta Dipila sino
all’Accademia, erano le tombe degli eroi, caduti in guerra per la
patria. «_Ceramicus locus Athenis ubi bello peremptos sepeliebant, et
funebres orationes habebant: statuis passim erectis, quae, quo quique
loco occubuissent, indicarent_» (Suida). Nel Ceramico interno che
dalla porta metteva alla piazza maggiore (_Agorà_), radunavansi il bel
mondo e le meretrici (V. Suida; Meursius alla voce _Ceramicos_; Paus.,
_Att._, 3, 29).

Avendo l’autore supposto la casa di Alcibiade (quadro I, not. 1) a
ponente d’Atene, fuor delle porte, presso la via del Pireo, Cimoto
uscendo dalla porta Dipila, a nord-ovest, per venire a trovar
Alcibiade, doveva appunto attraversare il Ceramico esterno.

[226] Anacreonte, _ode_ 41. 

[227] Eraclito, filosofo di Efeso, era così chiamato per la oscurità
del suo stile e della sua dottrina: della quale Socrate, richiesto un
giorno del suo parere da Euripide, ebbe a dire: «quel poco che riesco a
capirne è buono; e voglio credere che sarà buono anche quello che non
capisco: ma per penetrar quell’abisso ci bisognerebbe un palombaro di
Delo» (Diog. Laerz. in _Socr._ e in _Eracl._).

[228] Il giuramento o l’attestazione per _Venere! per la regina
Venere!_ δέσποινα Ἀφροδίτη — era de’ più usitati fra le etére (Cfr.
Alcifr., _Lett._, I, 32, 36, 39 e altrove; Aristen., _Lett._, I, 23).

[229] Aristen., _Lett._, I, 15; Luciano, _Imagini_; Omero, _Iliade_; e
la poetessa Saffo: «_La persuasione è figlia di Venere_.»

[230] Plutarco in _Alcib._, chiama Timandra la compagna fedele
dell’eroe ateniese che lo assistette al momento della sua morte. Collo
stesso nome la chiama Ateneo, XII, 535 c., il quale la fa anche madre
della famosa Laide di Corinto: più innanzi, al libro XIII, 574 f.,
Ateneo la chiama _Damasandra_ — ma è evidentemente la stessa persona.

[231] Ετησίαι, venti settentrionali spiranti regolarmente ogni anno,
d’estate, nell’Arcipelago, per un determinato numero di giorni. —
Appunto venendo dal settentrione, eran favorevoli alle navi che
uscendo dal Pireo veleggiassero a mezzodì per la Sicilia (Cfr.
Demostene, _Filipp._, I; _Cose del Cherson._) — E Plinio, _Nat.
Hist._: «_Caniculae exortum diebus octo ferme aquilones antecedunt,
quos prodromos vocant. Post biduum autem exortus, iidem aquilones
constantius perfiant, diebus quadraginta, quos Etesias vocant._»

[232] Nei tempi eroici più remoti, secondo vediamo in Omero, usavano
porsi a tavola, come ai dì nostri, seduti: ma all’epoca del dramma
nostro e, in generale, nei tempi storici, dalle guerre persiane in poi,
troviamo ormai dappertutto sottentrata fra’ Greci l’usanza di coricarsi
sdrajati sui letti. Solo faceano eccezione, insiem coi ragazzi, le
matrone e le fanciulle, e in genere le donne di famiglia (ἔλευθεραι),
le quali sedevano a tavola sopra sedie a spalliera (Welcker, _alte
Denkm._, II, 240) e per lo più lontane dai mariti; invece le _etére_ e
le cortigiane in genere, che rallegravano i simposj maschili, usavano
coricarsi anch’esse sui letti a fianco degli uomini (Winckelmann,
_Monum. ined._, 200. Cfr. Alcifr., I, 39).

La forma e disposizione dei letti concordava in complesso coll’uso
dei Latini: soltanto, a differenza di questi, — e contro l’opinione
comunemente invalsa — pare che i letti delle mense, ad Atene, fossero
ordinariamente di soli _due_ posti e non di _tre_. Così opina anche
l’Hermann, arguendolo dal convito platonico, ove Agatone invita
Socrate per suo compagno di letto, dà Aristodemo per compagno di letto
ad Erisimaco, e solo in via di eccezione chiama Alcibiade a seder
terzo fra Socrate e lui. A due a due siedon pure i convitati Greci e
Persiani (ὁμόκινοι) al banchetto di Attagino in Erod., IX, 16: e anche
nelle pitture di vasi antichi questa appare la disposizione numerica
più comune: solo più di rado occorre nelle pitture il caso di letti
occupati da tre e talora anche da un numero maggiore di convitati, fino
a cinque: _Graeci quini stipati in lectulis_ (Cic., _Pison._, 1040):
ciò che per altro l’Hermann attribuisce anche all’angustia dello spazio
offerto dai vasi alle figure.

I letti poteano essere anche più di tre: la cena del re Cleomene era
detta _laconica_ perchè non vi erano che tre letti.

I letti (κλίνη), nelle case agiate in ispecie, riccamente lavorati
e listati di porpora, eran fatti più comodi da tappeti e cuscini.
I convitati vi si poneano a giacere appoggiati sul gomito sinistro
(ἐπαγκῶονος δειπνεν, Luciano, _Lessifane_) a cuscini, per lo più
rotondi, che sostenevano il dorso (προς κεφάλαιον), avendo così libero
il braccio destro e la parte inferiore del corpo stesa in lungo e
leggiermente piegata. Per tal guisa trovandosi varj convitati sullo
stesso letto, il primo giaceva sporgendo le gambe lungo il dorso del
secondo, o meglio lungo il cuscino su cui il secondo si appoggiava
(Millin, _Peint. des Vases_; Tischbein, _Recueil_; Ferrario, II, pag.
1041, tav. 144).

Se i cibi venissero come tra i Latini portati in giro e deposti sopra
un’unica tavola nel mezzo dei letti, o se ciascun letto avesse il suo
proprio tavolo, non è ben definito; però questa seconda maniera è,
secondo l’Hermann, più verisimile; e infatti nelle antiche pitture di
simposj vediam posti uno o più piccoli tavoli (_tripodes, trapezai_)
dinanzi a ciascun letto: i quali tavoli (su cui deponeansi quei piatti
che non recavansi in giro) al finir dei cibi venivano dai servi portati
via (αφαιρεῖν τὰς τραπέζας).

Ai convitati — che interveniano al banchetto vestiti in bianco —
ordinariamente era il padrone di casa che assegnava i posti; fra
i quali vi era, come tra noi, distinzione d’onore; «_il posto più
onorifico_, dice Plutarco, _è fra i Persiani quel di mezzo ove siede
il re, fra i Greci il primo_» (in capo dei letti): e il padrone facea
seder presso di sè l’ospite che volea maggiormente onorare (Cfr. Plat.,
_Simp._; Plut., _Disp. Conv._, I, 2, 3).

Prima di porsi a giacer sui letti, i servi toglievan le calzature e
lavavano i piedi ai convitati (Plat., _Simp._, p. 175, 213): al che,
nelle case dei ricchi scialacquatori, invece d’acqua, facevasi uso
di vino e di essenze odorose (Plutarco, _Focione_). — L’ordine del
banchetto ci vien quindi così riassunto da Aristofane nelle _Vespe_
(v. 1210 seg.): «_Fil._ Come debbo coricarmi? — _Bdelic._ Con decoro. —
_Fil._ Come dunque? — _Bdelic._ Stendi le ginocchia e mollemente come
si usa nelle palestre ti adagia sui tappeti. Piglia quindi a lodare
alcuno dei vasi di bronzo che ti son posti dinanzi. Si dà l’acqua
alle mani. Si portano le tavole. Ceniamo. Ci laviamo. Si fanno le
libazioni.»

A tavola non faceasi uso nè di forchette, nè di coltelli. Solo
il cucchiajo (μυστίλη) usavasi pei cibi liquidi; pei cibi solidi
adopravansi le dita; le quali i convitati si ripulivano durante il
banchetto colla mollica di pane, e coll’acqua ch’era data in fin
di tavola; non vi essendo del resto alcun uso nè di tovaglie, nè di
tovagliuoli.

Insieme alle abluzioni alle mani (ἀπονίψασθαι) e al levar delle tavole,
si lavava contemporaneamente il pavimento, spargendolo di unguenti ed
essenze; si distribuivano quindi ai convitati le corone e si chiudeva
colla _libazione al buon genio_ il _pranzo_ propriamente detto,
ossia la mensa dei cibi (Cfr. Aten., _Deipn._, IX, 408 f.; XV, 665
b. Menandro in _Suida_, v. αἴρειν): alla quale succedeva la parte più
importante del banchetto ateniese, ossia la _seconda mensa_ o mensa dei
_bicchieri_. — Ma di questa più innanzi.

[233] _Per le Dee!_ o _per le due Dee!_ (Cerere e Proserpina) — μὰ τὼ
θεώ — Esclamazione ateniese usatissima, propria soltanto delle donne.
Cfr. Aristof., _Eccles._, v. 158; _Lisistr._, v. 111 e altrove.

[234] Cfr. il lamento sulle guerre civili de’ Greci, posto anche da
Aristofane in bocca a una donna ateniese: «Io voglio imprendere a
sgridarvi in comune, e giustamente, perchè voi spruzzando con un solo
vaso d’acqua lustrale gli altari come uniti di parentela, in Olimpia,
a Pilo, a Delfo, mentre avete nemici i barbari, coi vostri eserciti
distruggete gli uomini e le città greche» (_Lisistr._, v. 1128 seg.).

In Olimpia e a Delfo convenivano, com’è noto, i Greci di tutte le
città e di tutti gli Stati per la celebrazione dei giuochi olimpici e
dei giuochi pizj, feste che segnavano un periodo di tregua alle guerre
fra i varj popoli di Grecia. A Delfo poi conveniva la grande adunanza
nazionale dei popoli greci (_Anfizionia_) per celebrar la festa
dell’oracolo in comune (Mejer, _Giuochi Olimp._; Krause, _Giuochi Pizj,
Nemei ed Istmici_; Grote; Meursius; Corsini, ecc.). Un pensiero simile
sulle discordie fraterne de’ Greci è in Demostene: «Gli è vero che dai
Lacedemoni e da noi molto soffrirono i Greci; noi però siam tutti d’un
sangue, abbiam tutti una patria comune» (_Filipp._, III).

[235] Nel recinto del tempio di Delfo erano i tesori votivi dei popoli
e delle città greche e i doni preziosi da esse inviati al Nume in
memoria delle vittorie riportate. I trofei recavano le iscrizioni
dei popoli che li offerivano e delle vittorie che rammentavano; per
esempio: _Brasida e gli Acanzj, delle spoglie degli Ateniesi. — Gli
Ateniesi delle spoglie de’ Corinzj_, ecc. Del numero di queste offerte
votive era la palma di bronzo degli Ateniesi, ricordata nel quadro II
(Vedi Plutarco, _Lisandro_, I; Pausania, _Focide_. Cfr. Barthel., _V.
d’Anac._, IV, c. 22).

[236] Frase greca proverbiale, derivata dalla burla che Prometeo si
permise verso Giove, secondo narrasi in Esiodo. Sagrificò Prometeo
a Giove un bue, e poste dall’una parte le ossa nascoste sotto bianco
adipe (ὁστέα καλύψας ἀργέτι δημῷ), dall’altra le carni e il buono e
il meglio della vittima chiuso nel ventre bovino, disse a Giove di
scegliere quale delle due parti volesse, lasciando agli uomini l’altra.
O che Giove fosse preso alla burla, come Igino racconta e scegliesse
infatti il peggio, o che se ne avvedesse, come finge Esiodo, egli
ne concepì tant’odio verso Prometeo, che dimentico dell’amicizia
fino allora professatagli, volle punirlo in una cogli uomini da lui
protetti (Esiod., _Teogon._, v. 535 seg. Cfr. _Op. e giorni_, v. 48;
Igin., _Poet. Astron._, II, 15). — E Luciano fa dire da Mercurio a
Prometeo, che si lagna del supplizio: «Non hai fatto alcun male tu che
quando avevi l’uffizio di spartire le carni, facesti parti ingiuste e
l’inganno di serbare il meglio per te e di mettere innanzi a Giove,
come disse Esiodo, _ossa nascoste sotto bianco grasso_? Di poi hai
formato gli uomini, maliziosissimi animali, specialmente le donne:
infine hai rubato il fuoco, ecc.» (Luc., _Prometeo_). — Indi per
ischerzo dicevansi _parte di Prometeo_ le ossa. «Se a tavola si trincia
porchetto lattante devi una delle due, o avere per amico lo scalco, o
se no ti tocca la parte di Prometeo, ossa coverte di grasso» (Luciano,
_Di quei che stanno coi signori_).

[237] Il comico Macone, presso Ateneo così parla del parassita
Cherefonte: «Chaerefon carmen emebat aliquando. Ibi cum coquus,
ut narrant, ossibus admodum grave frustum illi forte praecideret;
_Coque_, inquit, _ne hoc adpende mihi osseum_. Ille vero: _At suave
est_, inquit; _ajunt sane, vicinam ossibus, suavem esse carnem_. Tum
Chaerefon: _Utique_, inquit, _o optime: suave illud quidem; sed quod
addiicis molestissimum_ (Aten., _Deipn._, VI, 243 f.).

[238] πρὸς τῶν χαρίτων — Scongiuro femminile (Aristen., _Lett._, I, 11). 

[239] Modo di minaccia cui ricorreano frequentissimo gli spasimanti
inesauditi (Vedi, per esempio, Alcifr., I, 35). Così Orazio invoca
da Venere il castigo all’arroganza di Cloe: — _sublimi flagello-tange
Chloen semel arrogantem._, lib. II, od. 26. — Intorno alle vendette di
Venere, vedi anco Eurip., _Ippol._, v. 545-564; Teocr., _Idill._, I, v.
101.

[240] Cfr. Alcifr., _Lett._, I, 36, 40; Aristen., _Lett._, I, 14. 

[241] Cfr. Alcifr., _Lett._, I, 36. Prima di seppellire i morti e
celebrar loro le esequie usavasi in Atene tener esposto nel vestibolo
della casa per un giorno (e occorrendo, per accertare il decesso, fin
tre giorni) il cadavere lavato, profumato, vestito di ricchi abiti
e inghirlandato di fiori. In una mano gli si poneva una focaccia per
ammansar Cerbero, e nella bocca uno o due oboli per pagar il tragitto
a Caronte (Eurip., _Ippol._; Aristof, _Lisistr., Rane_; Luciano, _Del
Lutto, Dial. dei morti_, 11; Polluce, lib. 8). «E tu dopo d’avermi
spogliato stamattina, dice Blepiro a sua moglie, te ne andasti
lasciandomi come un morto, salvochè non mi inghirlandasti, nè mi
ponesti vicino il vaso dei profumi» (Aristofane, _Eccles._).

[242] «È al valor dei regali che mi fanno i miei amanti che io giudico
il loro amore» (Aristen., _Lett._, I, 14). Intorno ai doni alle etére,
cfr. anche Alcifr., _Lett._, I; Luciano, _Dial. delle cortigiane_, 7,
8, 14; Senof., _Memor._, III, 11.

[243] Gli _Aloi_, detti anche _feste Talisie_, celebravansi ogni
anno dopo il raccolto dei frutti, in onore principalmente di Cerere;
e insieme anche di Bacco e dell’altre divinità, in genere, il cui
favore influiva sull’abbondanza dei raccolti. Di queste feste, siccome
celebrate precipuamente dalle donne, parla Alcifrone (_Lett._, I, 35;
II, 3); ed anche Teocrito (_Idill._, 7); e lo scoliaste di Luciano:
«Haloa festum est Athenis mysteria Cereris et Proserpinae et Bacchi
complectens pro incisione vitium, et gustatione vini aliorumque
fructuum. Philocorus vero ait, ita dictum quod homines tunc in areis
commorarentur.» Infatti ἄλος significa _aja_.

[244] L’abbigliamento ordinario delle donne ateniesi consisteva, com’è
noto, 1.º in una tunica (κιθῶν) o specie di camicia bianca, per lo
più di lino, molto ampia, discendente in ricche pieghe fino ai piedi,
congiunta sopra le spalle con bottoni a fermagli, e allacciata sotto
le mammelle dallo _strofio_, ricca cintura, sovente d’oro; 2.º in una
sopraveste (διπλοίδιον) che dev’essere la stessa cosa coll’ἔγκυκλον
di Aristofane (_Tesmof._, 261), (mal tradotto dal Cappellina per
_mantellino_) della stessa stoffa del _chiton_, ma più breve, spesso
con maniche sin verso la metà delle braccia, adorna al basso di liste
di vari colori; 3.º in un pallio a forma di sciarpa o manto (πέπλον);
4.º in un panno o velo in testa, all’uscire in pubblico (Poll., lib.
7, 14, 15; A. Tazio, _Clit. Leuc._, 1; Aristof., _Tesm., Lisis._ —
Cfr. Becker, Winkelmann, Ferrario, ecc.). La tunica color di croco o
_crocata_ (κροκωτὸς) era veste di lusso; così pure le _cimberiche_,
vesti portate senza cintura (ὁρθοστὰδια) e così chiamate, secondo lo
scoliaste d’Aristof., dal luogo in cui si fabbricavano. Cfr. Arist.,
_Lisistr._, v. 44, 45.

[245] Αφροδίτη ψιθυρς, _Venere bisbigliante_, era altro degli
appellativi sotto cui Venere adoravasi in Atene, secondo la
testimonianza di Suida, dal susurrare che fanno tra di loro a bassa
voce gli amanti: il che appunto diceasi, con parola d’efficacia
mirabile, tutta greca, ψιθυρίζειν. In Teocrito (_Idill._, 1) la voce
ψιθυρίσμα è egualmente adoperata, con isquisita armonia imitativa, a
significare il dolce sibilo o susurro che fa il vento soffiando tra le
frondi degli alberi (Cfr. Teocr. _Idill._, 27; Mosco, _Idill._, 5).
— E vedi senso tutto artistico delle imagini e della proprietà delle
parole: ψιθυρίζειν, diceano i Greci, non solo il susurrio degli amanti
e il dolce bisbiglio dell’aure tra le frondi, ma anche il _calunniare_:
qualche secolo prima che la _calunnia-venticello_ fosse posta in musica
da Rossini.

[246] Eurip., _Ippol._, v. 612: Ἤ γλῶσσ’ ὡμώμοχ’, ἤ δὲ φρὴν ἀνώμοτος.
Questo verso di Euripide era divenuto, come tanti altri dello stesso,
famoso e proverbiale tra i Greci. Solevasi citarlo per ischerzo, quando
trattavasi di non mantenere un giuramento o una promessa. Per esempio,
cfr. Aristof., _Rane_, v. 1471. Che un parassita citasse Euripide si
spiegava poi tanto più facilmente, e per il posar di questa classe
di persone a letterati, e per i varj passi in Euripide interpretati a
favor de’ parassiti.

[247] 

      Ἀνὴρ γὰρ, ὄστις, εὖ βίον κεκτημένος, 
    μὴ τουλάχιστον τρεῖς ἀσυμβόλους τρέφει, 
    ὄλοιτο, νοστου μὴ ποτ’ εἴς πάτραν τυχών. 
              (Ateneo, _Deipn._, VI, 247 c.) 

È da una commedia di Difilo, che Ateneo riporta questi versi, siccome
attribuiti in detta commedia ad Euripide. E il parassita d’Alcifrone,
dopo aver fatto una citazione di poeta, soggiunge con sussiego: «_Anche
noi parassiti parliamo alla foggia dei letterati_» (Alcifr., _Lett._,
III, 65).

[248] _Mandare ai corvi_, ἔς κόρακας (_che tu possa andar tra i
corvi! che i corvi ti piglino_, ecc.), modo proverbiale usatissimo,
significante: _mandar in malora!_ (Cfr. Alcifr., _Lett._, I, 16;
Aristof., _Tesmof._, v. 868; _Vespe_, v. 51; _Nubi_, v. 789; _Caval._,
v. 892. — Vedi Erasm., _ad Corvos_).

[249] Dell’odio delle donne ateniesi contro Euripide, perchè sparlatore
e denigratore di esse nelle sue tragedie, fa menzione ripetutamente
Aristofane nella _Lisistrata_, nelle _Rane_ e altrove. Anzi la
maldicenza di Euripide contro il sesso femminile e la vendetta
di queste contro di lui formano l’argomento dell’altra commedia
di Aristofane, le _Tesmoforeggianti_. Difilo poi, presso Ateneo,
riportando i versi citati sopra alla nota 38, intorno ai parassiti,
mette appunto a riscontro la benevolenza di Euripide verso costoro,
colla sua maldicenza contro le donne: «_E non vedi quanto egli_ —
Euripide — _nelle sue tragedie odii le donne, ed ami per contrario i
parassiti?_» (Aten., VI, 247 b).

[250] _Per le Tesmofore! Per le dee Tesmofore!_ — Cerere e Proserpina
— (Arist., _Tesmof._, v. 282, 1156); lo stesso che l’esclamazione
femminile: _per le due Dee!_ (Arist., _Lisis._, 51), e altre
equivalenti: _Per le Dee venerande! Per Cerere! Così Cerere m’ami!_
(μὰ τὴν Δὴμετρα, Arist., _Acarn._, v. 708); _per le deità eleusine e
pei loro misterj! pei sacri misterj!_ (Alcifr., _Lett._, II, 2, 3).
Cerere e Proserpina avean culto, com’è noto, in Eleusi; e ai loro
riti assistean solo le donne; chiamavansi anche _dee sotterranee_.
— Θεσμοφόρη, ossia _legislatrice_, era propriamente lo speciale
attributo di Cerere, in memoria delle prime leggi e delle prime nozioni
agronomiche date agli Ateniesi da questa Dea.

[251] Eurip., _Ippol._, 616 seg.; _Androm._, v. 943 seg.; Cfr.
Aristof., _Tesmof._, v. 389 seg.; dove egli fa ricordare da una donna
tutte le ingiurie scagliate da Euripide contro il di lei sesso.

[252] Eurip., _Androm._, v. 950. — Aristof., _Tesmof._, v. 415-416. 

[253] Così è chiamato Euripide dalle donne, a cagione della professione
di sua madre, nelle _Tesmof._, v. 387; titolo spregiativo che troviamo
affibbiato di frequente a quel tragico anche nei _Cavalieri_, nelle
_Rane_ e altrove.

[254] Le libazioni alle _Furie_ od _Eumenidi_ od _Erinni_ erano fatte
senza vino — con acqua e mele soltanto; per il che dicevansi in greco
ἀοίνοί, (lat. _inviniae_): come vedesi in Eschilo, _Eumen._, v. 112. Il
Bellotti tradusse: _libagioni astemie_.

[255] _Venere aurea_ (χρυσὴ Αφροδίτη — Om., _Odiss._, IX, 14), _ornata
d’oro_ (πολυχρύσος, χρυσῷ κοσμηθεῖσα, Om., _Inn. a Ven._), _dall’aurea
corona_, dal _trono d’oro_, ecc. — appellativi usatissimi della Dea.
E Luciano: «Omero in tutto il suo poema da capo a fondo dice ch’io son
_l’aurea Venere_» (Luc., _Giove Tragedo_).

[256] Le _Nubi_ fatte in Atene rappresentar da Aristofane nell’anno 424
av. l’E. V. (ventiquattro anni prima della morte di Socrate) fecero
fiasco. Di che lo stesso Aristofane si lamenta nella parabasi della
seconda edizione di quella commedia, ch’egli tornò a dare l’anno dopo,
collo stesso esito; e nella parabasi delle _Vespe_.

Wieland nell’_Aristippo_ (I, lett. 9) fa attribuire da Aristofane
il fiasco delle _Nubi_ alla influenza di Alcibiade, di cui eran noti
l’affetto e la devozione per Socrate suo maestro acremente deriso in
quella commedia, e al timore che Alcibiade stesso seppe incutere in
teatro col suo partito. Certo Alcibiade si trovava un po’ interessato
in causa, per i frizzi frequenti al suo proprio indirizzo nelle
commedie di Aristofane (Cfr. _Vespe_, 44; _Acarnesi_, 716; _Rane_,
1422), e per credersi forse satireggiato egli medesimo nel personaggio
di Fidippide delle _Nubi_: e la popolarità e l’influenza del giovine
_lion_ ateniese assai probabilmente poterono nuocere al successo della
commedia.

Le _Nubi_, del resto, e gli _Acarnesi_, ov’è posto in canzone Lamaco, e
le _Rane_ ove canzonasi Euripide, provano ch’era caduta in dissuetudine
ad Atene l’antica legge che vietava di citare o attaccar alcuno per
nome nelle commedie (Meurs., _Them. Att._, II, 20).

[257] Sulle percosse date da Alcibiade a Taurea, suo anticorégo, in
teatro, vedi Demost., _C. Midia_; Andocide, _Contr. Alcib._, IV, 20;
e Plutarco in _Alcib._ Qui se ne variarono le cause e le circostanze,
collegando il fatto alla rappresentazione delle _Nubi_.

[258] Ἀνδρῶν ἀπάντων Σωκράτης σοφώτατος — _di tutti gli uomini Socrate
è il più savio_ — fu la risposta che l’oracolo di Delfo diede, com’è
noto, a Cherefonte, amico e discepolo di Socrate. Vedi Diog. Laerz. in
_Socr._; e Platone, _Apol._, 5.

[259] Cfr. il modo vivace con cui Alcibiade prende le parti del suo
maestro in Platone, nel _Protagora_, c. 23, e nel _Simposio_.

[260] _Evio, Bromio, Dionisio, guidatore de’ cori notturni, amatore
delle danze_, ecc., appellativi di Bacco (Aristof., _Tesmof._, v. 990,
992; Sofocle, _Antig._, v. 1265; _Edipo Re_, ecc.).

[261] θεῶν μέγας ὄρκος (Om., _Odiss._, 11, v. 377 e altrove). Era il
giuramento per la Stige, ossia per l’acqua di Stige, sacro e tremendo
agli stessi Immortali. «_Siami testimonio la terra, e l’ampio cielo
disopra, e la disotto scorrente acqua di Stige, ch’è il massimo e
tremendissimo giuramento pegli Dei beati_» — così giura Giunone in
Omero (_Iliad._, XV, v. 36-38. Cfr. _Iliad._, XIV, 271 seg.; _Odiss._,
V, v. 184; Apol. Rod., _Argon._, II, v. 291; Esiod., _Teogon._, v.
400).

La favola, raccolta da Esiodo, fa di Stige una figlia dell’Oceano
e sposa di Pallante, che Giove volle onorare ordinando che per lei
giurassero i Celesti. Pausania ricorda con questo nome una fonte in
Arcadia, non lungi dalle ruine di Nonacri; «ivi, egli dice, una parte
della montagna elevasi a picco ad altezza così prodigiosa come non ho
visto mai; e dal sommo di essa stilla perennemente un’acqua che i Greci
chiaman l’acqua di Stige» (Paus., _Arcad._, 17): al che corrisponde
la descrizione che Esiodo fa dell’abitazione della Oceanitide
nell’inferno: «Abita quivi la Dea tremenda agli Immortali, la orribile
Stige: sola, appartata dagli Dei, abita inclite case coperte di sopra
di grandi roccie: e d’ogni intorno sono argentee colonne drizzate fino
al cielo» (_Teogon._, v. 775-779).

Perchè poi la dimora di Stige fu posta nell’inferno, può spiegarsi
colla osservazione di Pausania che l’acqua di quella sorgente arcadica
era mortifera agli uomini e agli animali. La superstizione aggiungeva
che chi fosse accusato, innocente, di qualche grande delitto, e
costretto a bere di quell’acqua, poteva farlo senza averne danno,
provando così la sua innocenza. Che se taluno degli Dei mentiva o
mancava al giuramento dato per l’acqua di Stige, allora Giove mandava
Iride a prendere dell’acqua di quella fonte, e il Nume spergiuro,
costretto a beverne, preso da malore, giaceva ammutolito, senza
respiro, senza poter gustare nettare nè ambrosia, appartato dal
consorzio degli altri Dei per nove anni; finchè nel decimo, guarito,
tornava fra i suoi compagni di Olimpo: «_tale è il grande giuramento
degli Dei per quell’acqua perenne di Stige_» (Esiod., _Teog._,
783-805). Nel qual _grande giuramento_ simboleggiavano gli antichi,
secondo Bacone, la _necessità_: come il solo vincolo che a preferenza
di tutti gli altri, della nascita, della religione, dell’onore stesso,
ecc., — lega i re e i grandi, e mantiene solo la fede dei trattati.

[262] Μὰ τὴν Ἀγλαυρον (Arist., _Tesmof._, v. 533). Esclamazione
ateniese. _Aglauro, Erse_ e _Pandroso_ chiamaronsi le tre figlie
di Cecrope primo re di Atene. Ad esse Minerva diede a custodire il
neonato Erittonio o Eretteo (figlio di Minerva e di Vulcano) rinchiuso
in una cesta di vimini insieme con un serpente postovi a guardia;
sotto proibizione alle tre fanciulle di guardar ciò che nella cesta
si contenesse. Pandroso obbedì al divieto della Dea, ma l’altre due
sorelle, Aglauro ed Erse, prese da curiosità, non seppero resistere
alla tentazione d’aprir la cesta; e alla vista di Erittonio, prese,
per castigo di Minerva, da subita insania, si precipitarono dalla cima
dell’Acropoli in mare. Così Pausania, _Attic._; Apollodoro, lib. III,
e Igino, _Poet. Astron._ Ma Ovidio narra, diversamente, che, delle tre
sorelle, Pandroso ed Erse obbedirono entrambe la Dea; Aglauro sola fu
tratta dalla curiosità ad aprir la cesta — _timidas vocat una sorores
— Aglaurus nodosque manu deducit_. Una cornacchia andò a riferire la
sua disobbedienza a Minerva, che legossela al dito; indi a poco tempo,
infatti, capitato Mercurio ad Atene mentre le vergini vi celebravano
la festa di Minerva, e visto Erse tra quelle, se ne innamorò: avviossi
il Dio alla casa di Cecrope per averla in isposa, e fattaglisi innanzi
per la prima Aglauro, la pregò di interporre per lui buoni officj
presso la sorella: ma Aglauro, per punizione della Dea, presa da amor
per Mercurio, e da gelosia ed invidia della sorella Erse, negossi
alle istanze del Nume e tentò precludergli l’ingresso: e allora il Dio
tramutolla in sasso (Ovid., _Metam._, lib. II). Indi forse non a caso,
in questo punto della nostra scena, Bacchide inquieta delle occhiate
del suo compagno ad Eufrosine, invoca il nome della invidiosa figlia di
Cecrope.

Secondo un’altra versione di Ulpiano (comm. a Demost., _Falsa legaz._),
Agraulo era figlia dello stesso re Eretteo; e nella guerra mossa contro
lui ed Atene dai Traci condotti da Eumolpo, avendo l’oracolo presagito
la vittoria agli Ateniesi ove qualcuno si fosse sagrificato per la
città, Agraulo risaputolo si sarebbe spontaneamente immolata alla
patria gettandosi dall’Acropoli. — Il Meursius (_Reg. Athen._, I, 11)
contesta questa versione: certo però essa spiega meglio il culto di cui
Aglauro era onorata in Atene; ove ella aveva un tempio, e sacerdotesse
dette _Aglauridi_ e misteri e feste a lei sacre — ch’eran le _feste
Plinterie_ (Erod., VIII; Paus., _Attic._; Esichio, ecc.). Nel tempio
e bosco sacro di Aglauro o Agraulo, la gioventù ateniese, all’atto
di entrar nella milizia, si recava a dare il solenne giuramento di
difendere la patria e le sue leggi (Licurg., _Leocr._, I, 77; _Schol._
in _Demost._, ediz. Didot, 438, 15, 17; Plut. in _Alcib._; Meurs.,
_Reg. Athen._, I, 9).

[263] Alcibiade era ammiratore appassionatissimo di Omero — ἴ σκυρῶσ
Ὄμηρον ἐθαύμαζεν (Eliano, _Var. Stor._, XIII, 38): — ammirazione in
cui ebbe a somigliargli più tardi un altro greco famoso, forse non
più grande nè più ambizioso di Alcibiade, ma più fortunato di lui,
Alessandro il Macedone: al quale le lettere andarono debitrici della
famosa edizione omerica della _cassetta_.

[264] Omero, _Iliad._, lib. VIII, v. 337-341. 

Ecco, di questo passo, la versione del Monti, più libera della mia: 

    «Iva Ettorre alla testa, e dalle truci 
    Sue pupille mettea lampi e paura. 
    Qual fiero alano che ne’ presti piedi 
    Confidando un cinghial da tergo assalta, 
    Od un Ilone, e al suo voltarsi attento, 
    Or le cluni gli addenta, ora la coscia: 
    Così gli Achivi insegue Ettorre, e sempre 
    Uccidendo il postremo li disperde.» 

[265] Un critico trovò ultra-inverisimile questa difficoltà per
Alcibiade di procacciarsi un Omero, dei cui poemi non v’era, a suo
dire, libreria di Ateniese che fosse priva. Quel critico si inganna.
Sebbene di Pisistrato e di Ipparco si narri, che coll’assistenza di
Solone, avessero dato opera alla riordinazione dei canti omerici e
vietato ai rapsodi di invertirne l’ordine nella recitazione, tuttavia
l’_edizione_ materiale, completa nel proprio senso della parola,
dell’_Iliade_ e dell’_Odissea_, a Pisistrato e Solone attribuita, non
è positivamente asserita da nessun antico, sino al tardo e straniero
Cicerone: e v’hanno ragioni per revocarla in dubbio. Infatti, il codice
ateniese da essi compilato avrebbe dovuto tenersi prezioso siccome
più vicino all’origine e avente una certa autorità pubblica: e gli
Ateniesi, i quali posero nei loro archivj pubblici le tragedie di
Eschilo, Sofocle ed Euripide, v’avrebbero conservato gelosamente anche
quelle epopee. Ora, al contrario, nè i sei codici omerici posteriori
_delle città_, nè l’ultima famosa edizione della _cassetta_, ordinata
da Alessandro il Grande, offrono alcuna traccia di codesta edizione
ateniese o danno indizio alcuno di aver fatto appoggio su di essa. —
Il vero è che fino all’epoca di quei codici, e cioè fino al quarto
secolo, l’_Iliade_ e l’_Odissea_ vivevano ancora per la massima
parte nella tradizione orale dei rapsodi, e neppure nelle più ricche
librerie non se ne trovavano trascrizioni ordinate e complete che in
un piccolissimo numero di esemplari. Tutt’al più, la maggior parte
dei grammatici e dei privati possedevano trascritti soltanto alcuni
frammenti o rapsodie isolate dei poemi omerici, come l’_Addio di Ettore
ed Andromaca — il valor di Diomede — la morte di Ettore — la strage dei
Proci_, ecc. (Vedi Pope, _Essai sur Homère_, p. 41; Wolf, _Proleg._,
p. 143; Cesarotti, _Ragion. st. crit. su Omero_, I, 5; C. Cantù, _St.
della lett. gr._, cap. 3; Müller, _St. lett. gr._, cap. 5, ecc.). Ciò
può spiegare la risposta del grammatico, e calmar la meraviglia del mio
critico, che Alcibiade non si trovasse ad avere in casa il canto che
cercava: meraviglia che del resto potrebbe applicarsi anche al passo
relativo di Plutarco: oltrechè non è detto che Alcibiade, padron di
varie case in Atene, dovesse proprio avere sottomano, lì nella sala del
convito, i suoi libri e le sue librerie.

[266] L’aneddoto da cui è tratta questa scena è riferito da Plutarco
alla prima giovinezza d’Alcibiade, e da lui così narrato: «Passato
ch’ebbe (Alcibiade) l’età puerile, _portossi ad un precettor di
grammatica, e gli chiese un libro d’Omero_; e dicendogli il precettore
ch’egli non avea niente di Omero, percossolo di un pugno, sen passò
oltre: e dicendogli poi un altro di avere Omero corretto da lui
medesimo, — _E a che_, gli rispose Alcibiade, _ti trattieni tu ad
insegnare a leggere? Atto essendo ad emendare Omero, non ti dai ad
erudire la gioventù?_» (Plut., _Alcib._, 7, e _Apoftegmi_; Eliano, _V.
St._, XIII, 38).

[267] Omero, _Iliade_, VI, v. 482 484. Il Monti, meno letteralmente,
tradusse:

    «Così dicendo, in braccio alla diletta 
    Sposa egli cesse il pargoletto; ed ella 
    Con un misto di pianti almo sorriso 
    Lo si raccolse all’odoroso seno — 

dove, con tutto il rispetto al Monti, e a costo di passare per un
grammatico anch’io, mi permetto di trovare che il _misto di pianti
almo sorriso_ è un’amplificazione di gusto assai discutibile, e assai
lontana dalla squisita semplicità della frase di Omero: _lagrimosamente
sorridendo_, δακρυόεν γελάσασα.

[268] Per legge posta da Ipparco, figlio di Pisistrato, i poemi di
Omero dovean dai rapsodi recitarsi, ogni cinque anni, in Atene, nelle
grandi Panatenee (Licurg. in _Leocr._; Platone, _Ipparco_; Eliano, _V.
St._, VIII, 2).

I _Panatenei_ o _feste Panatenee_, dette anche semplicemente _Atenee_
(ricorrenti nel mese di Ecatombeone, cioè nel primo mese dell’anno, al
solstizio d’estate) furono istituiti ad Atene ne’ tempi più remoti, in
onor di Minerva, dal re Eretteo, e ristabiliti da Teseo, in memoria,
come lo accenna il nome, della riunione in un solo Stato e dentro un
solo recinto di mura, dei popoli dell’Attica che vivevano prima isolati
e dispersi per la campagna (Vedi Isocr., _Oraz. Paneg._, ed _Encom.
d’El._; Lisia, XXI, 1; Licurgo, I, 103; _Scol._ in _Demost._, 740, 1).
Erano di due specie: le _minori_ che si celebravano ogni anno; e le
_maggiori_ (o _grandi Panatenee_) che ricorrevano soltanto ogni cinque
anni. Celebravansi specialmente quest’ultime tra il concorso di tutti i
cittadini dell’Attica con grandissimo sfarzo e solennità; con giuochi
ginnastici (stadio, lotta, ecc.) e corse equestri, e pubbliche gare
poetiche e musicali; e processioni di giovinette delle più cospicue
case di Atene e di cittadini d’ogni classe ed età, recanti in gran
pompa il peplo di Minerva al tempio della Dea. Ogni tribù dell’Attica
concorreva nelle spese a rendere i giuochi più grandiosi, ogni colonia
ateniese vi mandava un bue da sagrificarsi. La sera chiudeasi la festa
con grandi conviti, e distribuzioni di premj, e gara delle fiaccole
(lampadeforia).

Le _grandi Panatenee_, le _grandi Dionisiache_ e le _Lenee_ o
_floreali_ erano le tre solennità dell’anno nelle quali soltanto avean
luogo le gare teatrali delle tragedie e delle commedie (Aristof.,
_Nubi, Pace_, ecc.; Senof., _Simpos._; Ovid., _Metam._, II; Suida;
Meurs., _Panaten._; Corsini, _Fasti attici_, ecc.).

[269] Ai vincitori nelle gare delle feste Panatenee veniva dato in
segno d’onore un ramoscello dell’ulivo sacro a Minerva, che era in
faccia al Partenone (Meurs., _Lect. Att._, IV, 6).

[270] «Gli Ateniesi, per suggerimento di Alcibiade, scrissero
sotto alla colonna laconica che i Lacedemoni non aveano osservato i
giuramenti» (Tucidide, _Guer. Pelop._, VI, 56).

[271] _Maggiordomo_: questa parola ha scandalizzato parecchi. Eppure
l’ufficio precisamente rispondente a questa carica esisteva certo fin
d’allora nelle case de’ ricchi ateniesi; il Settembrini usa anch’egli
senza scrupolo ripetutamente questa parola nella sua versione di
Luciano, I, pag. 415, 426 (_Di quei che stan coi signori_).

[272] Ad Atene quando levavasi un esercito per qualche spedizione, il
capitano (_stratego_) eletto per la medesima recavasi sulla piazza
pubblica accompagnato da un _tassiarca_ od intendente, tenente il
registro dei cittadini adatti a portar l’armi (dai 18 anni ai 60),
i quali eran tenuti a presentarsi tutti indistintamente. Chiamavansi
allora uno per uno ad alta voce, e lo stratego sceglieva fra di essi
i soldati della spedizione. I nomi dei chiamati a militare venivano
affissi alle statue _eponime_, ossia alle statue degli eroi da cui
prendevano nome le singole tribù (Aristof., _Pace, Caval._; Lisia, _C.
Alcib._; Polluce, VIII, 9; Suida; Esichio, ecc.).

[273] Al Liceo, posto in vicinanza della città, avean luogo le rassegne
dei soldati innanzi uscire in guerra e gli esercizii militari. «Per
lungo tempo fummo rovinati e calpestati, andando e ritornando dal
Liceo, coll’asta e collo scudo» (Arist., _Pace_, v. 357; Suida, alla
voce Λύκειον; Paus., _Att._, 18). Il _Liceo_, aperto da Pisistrato,
il _Cinosargo_ e l’_Accademia_ erano i tre ginnasj destinati alla
educazione della gioventù.

[274] τανηλεγὴς θάνατος (Om., _Odiss._, III, v. 238). 

[275] «_Essendo già ben avanti il convito e ormai girando assiduamente
il bicchier dell’amicizia_...» (Alcifr., _Lett._, III, 55). «_Non è
lecito invitare alla stessa mensa quelli che trattano queste brutte
cose e bere con essi la tazza dell’amicizia e stender la mano alli
stessi cibi_» (Luciano, _Conto senza l’oste_. — Cfr. Aristof.,
_Lisistr._, 203). κύλιξ φιλοτησία o anche semplicemente φιλοτησία,
_calice dell’amicizia_, chiamavano la tazza, più ampia dell’altre, che
veniva fatta girare al finir del pranzo tra i convitati e della quale
tutti bevevano, facendosela passare un dopo l’altro; il che diceasi ἔν
κύκλῳ πίνειν, _propinare in circolo_, e fra i latini _bibere a summo_,
cioè a cominciar dal commensale che stava nel luogo più onorevole
a quello che stava nell’infimo. Questa cerimonia significava che i
commensali partivano dalla mensa buoni amici. Il Negri nei commenti
ad Alcifrone fa di essa una propinazione separata e ben distinta
dall’altre libazioni e brindisi; però sembra ch’essa dovesse precedere
immediatamente o coincidere colla libazione al _buon genio_ che segnava
il levar delle mense; di che si dirà più sotto.

[276] ἄκρατος (οἴνος) — Lo si beveva così puro solo appunto nella
libazione del _buon genio_ e in altre libazioni sacre; fuor d’esse,
nei simposj ateniesi, il vino era di rigore beverlo sempre misto
coll’acqua (κεκραμένος). Beverlo puro riteneasi costume de’ barbari:
e appunto _bevere all’uso degli Sciti_ dicevasi il bevere vin pretto
(Plat., _Leg._, I, 637; Aten., X). Una legge di Zaleuco, fra i Locresi,
puniva persino di morte chi avesse bevuto vin puro senza prescrizione
del medico (Elian., _V. St._, II, 37). Del resto anche in tutta Grecia
l’usanza dell’annacquare il vino era generalmente consacrata e fatta
risalire sino ad Anfizione. «_Filocoro dice che Anfizione re degli
Ateniesi fu il primo che imparò da Bacco a temperare mescolandolo
la forza del vino_» (Aten., II, 38 c.). Più diffusamente Filonide,
citato da Ateneo, così spiega l’origine mitica di questo uso: «Poichè
Bacco ebbe trasportata la vite dal mar Rosso in Grecia, moltissimi si
abbandonarono all’intemperanza bevendo il vino puro; per il che gli
uni insanivano come presi dalle furie, gli altri istupiditi dal vino
e dalla crapula cadevano come morti. Or avvenne che mentre alcuni
banchettavano sulla spiaggia del mare, essendo sopraggiunta la pioggia,
i commensali si disciolsero, e il cratere in fondo a cui era rimasto
un po’ di vino, abbandonato lì sul luogo, si riempì d’acqua: di poi
cessata la pioggia e serenatosi il cielo, i banchettanti ritornarono
sullo stesso luogo, e gustando il vino diluito, ne provarono una mite
e niente molesta voluttà. Per il che i Greci quando al banchetto vien
portato in giro il vin puro, invocano, acclamandolo, il buon genio che
lo ritrovò, e che fu Bacco. Quando poi dopo cena vien ministrato il
primo bicchiere di vino diluito coll’acqua, acclamano esultanti Giove
salvatore, largitor della pioggia, siccome moderatore e autore della
gioconda mistura» (Aten., XV, 675 a.). Quest’uso antichissimo durò
fin nei tempi più tardi, e il derogare ad esso non solo, ma il non
metter nel bicchiere più acqua che vino era tenuto come segno di brutta
intemperanza ed estremamente dannoso al corpo ed allo spirito. «_Se
alcuno beve metà vino e metà acqua, è preso da insania; se beve vino
puro, gli si sciolgono le membra del corpo_» (Aten., II, 36). E però le
proporzioni della mistura variavano; ma il più ordinariamente solevasi
mescolare tre parti d’acqua con due od una di vino, o due parti d’acqua
con una di vino. Quando la proporzione era da tre ad una dicessi bevere
alla _maniera delle rane_: ma alcuni vini erano abbastanza forti per
portarla. La mistura veniva fatta già nel cratere, di dove il vino
versavasi nei bicchieri. Indi, allorchè nelle descrizioni antiche
dei simposj si parla di vino, οἴνος si sottintende sempre vino misto
coll’acqua, a meno che non si nomini espressamente il vin puro, ἄκρατος
(Plut., _Conjug. praec._ — Cfr. Becker ed Hermann, _Char._, I, p. 166;
II, p. 280).

[277] Cfr. Aristof., _Vespe_, 525: e lo scoliaste a questo verso: _era
costume al levar delle mense libare al buon genio_. Questa libazione,
fatta di vino puro (cioè non misto coll’acqua come usavasi durante
tutto il pranzo), chiudeva difatti il banchetto propriamente detto, o
mensa dei cibi (δεῖπνον), e dava il segno delle abluzioni, del cinger
le corone e dello asportarsi delle mense; dopo di che succedeansi altri
brindisi e il canto del peana e degli scolii, e si passava alla parte
per i Greci la più importante del convito, la _mensa dei bicchier_
ossia il vero simposio (πότος, συμπόσιον), destinato al bere e spesso
degenerante nell’orgia (Plut., _Disp. Conv._, 5; Senof., _Simp._, 2, 1;
Plat., _Simp._, p. 176; Diod. Sic., IV, 3). Sulla libazione del _buon
genio_, ἀγαθοῦ δαίμονος, scrive più diffusamente Ateneo: «Del vino
puro che vien dato in fin di cena, e che chiamasi il bicchiere del buon
genio, i commensali ne libano un poco, appena quanto basti per gustarne
e ricordare il beneficio del dio. Lo si dà infatti dopo che già sono
sazî, perchè ne beano pochissimo: e mentre lo prendono dalla mensa,
adorano il dio, quasi lo preghino perchè non abbiano a commetter mai
nulla di turpe, nè ad esser mai intemperanti nel bere. E Filocoro dice,
esser sancito per legge, che dopo terminati tutti i cibi venga portato
il vino puro, tanto appena da gustarne e significare la virtù del buon
dio: perocchè si diluiva con acqua il vino che bevevasi prima: e perciò
chiamarono ninfe le nutrici di Bacco. Dopo offerto il bicchier del buon
genio, si usava rimovere le mense, come mostrò con un atto sacrilego
Dionigi di Sicilia: il quale in Siracusa vedendo posta davanti al
simulacro di Esculapio una mensa d’oro, offerse al dio la libazione
del buon genio, e subito la tavola se la fece portar via» (Aten.,
_Deipn._, XV, 693). — In luogo della formula al _buon genio_, usavasi
anche talora l’altra ad _Igea_ (υγιείας), cioè alla _dea della salute_.
Il bicchiere con cui faceasi questa libazione del buon genio o d’Igea,
diceasi _metaniptro_ (Cfr. Aten., 486 f. Cfr. Becker, _Char._, I, 165).

[278] _Marino_ (θαλόττιος, Arist., _Pt._, 396; αλυκός, _Lisis._, 403;
αλιμὲδων, _Tesmof._, 323; Ποντοποσειδῶν, _Pl._, 1050), epiteto di
Nettuno (Ποσειδῶν) specialmente come tale invocato nelle esclamazioni
dagli Ateniesi (_per il marino Nettuno!_). — Dicevasi anche _equestre_
(ἵππιος, _Nub._, 83; _Caval._, 551). Però che gli Ateniesi vantassero
d’aver primamente appreso da Nettuno l’arte della navigazione e
dell’addestrare e guidar cavalli (Vedi Sofocle, _Edip. a Col._, v. 703
seg.).

[279] Le corone, come già si notò, venivano recate soltanto in fine
del banchetto (δεῖπνον) al momento di far la libazione _al buon genio_,
con cui lo si chiudeva e si dava principio al bevere (πότος), cioè alla
seconda mensa, o mensa dei bicchieri. «_La distribuzione delle corone
e degli unguenti serviva d’introduzione al simposio della seconda
mensa_» (Aten., XVI, 685 d.). L’uso delle corone, per liberare appunto
il cervello dai fumi delle libazioni del vin puro, faceasi risalire
a Bacco; «il quale fu reputato buon medico non solo per aver trovato
il vino, soavissimo medicamento, ma altresì per avere insegnato ai
presi dal furor baccanale a coronarsi il capo con l’ellera, e per
aver onorata questa pianta a cagione di sua virtù contraria al vino;
spegnendo l’ellera col suo freddo l’ebbrezza» (Plut., _Disp. Conv._,
l. I, 1). Ma col progredire del lusso, aggiunge Ateneo, si cercò alle
corone, oltre il rimedio contro i fumi dell’ebbrezza, anche il diletto
degli occhi e delle nari: e allora si introdussero le corone di mirto e
le corone di rose, alle quali pure attribuivasi una virtù refrigerante
(Aten., XV, 675 e). Queste eran certo le più usate: e perciò Aristofane
parla del demo _incoronato di rose_ (_Caval._, 966): per contrario in
Ateneo si vedono proscritte dai conviti siccome nocive le corone di
alloro e di viole (Aten., _ibid._); nondimeno quest’ultime dovettero
anch’elle entrar nell’uso, dacchè l’aggettivo ἱοστέᾳανοι, _coronati di
viole_, ricorre frequentissimo come epiteto proverbiale degli Ateniesi
(Arist., _Acarn._, 636; _Caval._, 1322; Pind., _Framm._, 45, 46).
Becker cita anche il giacinto; ma questo dovette usarsi particolarmente
dai Dori. Del resto Plutarco e Ateneo, nei luoghi sopra citati,
discorrono diffusamente delle varie specie di corone adoperate.

[280] L’ordine di questi singoli riti è assai chiaramente e
concordemente descritto in Senofonte (presso Aten., XI, 462, d, e),
in Plutarco (_Conv. Sette Sap._, 5), nel comico Platone (presso Aten.,
XV, 665 b), in Menandro (presso Suida, voce αἴρειν) e in altri autori
comici (Aten., IX, 408 e, f; XV, 685 d, e), ai quali rimandiamo per più
ampj ragguagli il lettore studioso. Vedi anco più sopra la nota 23 — e
cfr. i _Simposj_ di Platone e Senofonte.

[281] Il _buon genio_ o _agatodémone_ (ἀγαθὸς δαίμων, Ἀγαθοδαίμων), era
il dio benefico, la cui protezione assicurava alle case, alle terre,
alla città la prosperità e l’abbondanza; divinità maschia dell’ordine
dei _demoni_ e dei _genj_, rispondente alla divinità femmina dello
stesso ordine, onorata sotto il nome di ἀγαθὴ τύχη, la _buona fortuna_,
alla quale trovasi sovente associata. Così a Lebadia chi voleva
consultare l’oracolo di Trofonio, prima di scendere nel famoso antro
dovea passare alcuni giorni in una cappella dedicata al Buon Genio e
alla Fortuna (Pausania, _Beoz._, 39): e ad Atene le due divinità aveano
pure un tempio in comune. Ai tempi di Plinio vedevansi al Campidoglio
due statue di Prassitele rappresentanti l’una il _buon genio_, l’altra
la _buona fortuna_ (Plinio, _Nat. hist._, 36, 4). Ad Atene era sacro
al buon genio, siccome dio fecondatore dei campi, il primo giorno in
cui gustavasi il vino nuovo (Plut., _Disp. Conv._, VIII, 10). Della
libazione al _buon genio_ che terminava il convito si è detto più
sopra. (Cfr. Becker, _Char._, II, p. 262). Il buon genio avea per
simbolo un serpente e talora anche un fallo, emblemi ordinari della
fecondità. Era il _Bonus Eventus_ dei Romani.

[282] _Giove salvatore_, Ζεύς Σωτὴρ — per il quale spessissimo gli
Ateniesi giuravano, νὴ τὸν Δὶα τὸν σωτῆρα (Arist., _Rane_, 738;
_Pl._, 877) era invocato nelle libazioni in fin di tavola insieme
col buon genio: o più precisamente la libazione a Giove salvatore
susseguiva a quell’altra — e facevansi entrambe colla medesima tazza
(_metaniptride_). Su di che vedi sopra la nota 68 e il passo citato
di Aten., XV, 675 c. E il comico Difilo nella _Saffo_: «_Archiloco,
porgimi quella metaniptride colma, che libiamo a Giove salvatore ed
al buon genio_» (Sulla tazza così detta di _Giove salvatore_ e sulle
libazioni allo stesso, vedi pure Aten., XI, 466 e, 471 d, e; XV, 693 f,
693 a-d).

[283] Modo proverbiale esprimente longevità. Vedi Luciano, _Ermotimo_.
Dicevasi anche nello stesso senso _campar gli anni di Titone_ (Luc.,
_Ermot._; _Dial. dei morti_, 7). Sulla longevità di Titone, sposo
d’Aurora, vedi Aten., I, 6; e Orazio: _Longa Tithonum minuit senectus_.

[284] Era il più pregiato e celebrato tra i vini greci (Aten., IV,
167 e). Altri vini in pregio erano il vino prannio, il vin di Taso, il
vin di Lesbo, di Rodi, di Siracusa, ecc. Sui vini greci e loro varie
specie, vedi Aten., I; Elian., _V. st._, XII, 31.

[285] Di queste torte _recanti il nome del siculo Gelone_ (che fu,
com’è noto, tiranno di Sicilia) parla Alcifr., _Lett._, I, 22. Doveano
essere la stessa cosa che la _torta_ o _focaccia siciliana_, σικελικὸς
πλακοῦς, menzionata in Ateneo, XIV. Queste torte, πλακοῦς, eran di
solito un impasto di farina di segala, cacio e mele (Aten., IX, 17).

[286] Lo _stadio_ era un ottavo di miglio e più precisamente metri
184,26. Due stadj erano il _diaulo_; quattro stadj, l’_ippicon_; dodici
stadj formavano il _dolico_.

[287] _Scolii_ diceansi le _canzoni convivali_ che usavansi cantar alla
fine dei banchetti ateniesi, dopo fatta la libazione al buon genio, e
al recarsi della mensa dei bicchieri. Al qual momento la cetra ed un
ramo di mirto venivan fatti girar pel convito, indi porgere a quello
dei convitati che meglio sapesse dilettar la brigata con una bella
canzone o con una buona sentenza in lirica forma. Su di che Plutarco:
«Canterà fosse alcuno le canzoni usate a cantarsi nei conviti,
appellate _scolia_ (cioè oblique e torte) quando in mezzo è la mensa
con sopravi la coppa da bere, e in testa le corone... Anticamente
gl’invitati cantavano dapprima tutti insieme ad una voce la canzone
in lode a Bacco, poi ciascuno cantava da sè in disparte prendendo
un ramo di mirto: e conveniva cantasse di mano in mano ciascuno che
l’avea. Dopo questo, recavasi intorno una lira, e chi sapea sonare la
pigliava e vi cantava sopra: ma quelli che non intendean di musica la
rifiutavano, e così questa maniera di cantare non comune, nè a tutti
agevole, fu detta _scolion_. Altri dicono che il ramo di mortine non
andava intorno, ma portavasi di letto in letto, e dopo che il primo
del primo avea cantato lo mandava al primo del secondo letto, e questi
al primo del terzo, poi il secondo a quel del secondo: e per questa
varietà e torcimento di quel girare intorno fu la canzone nominata
_scolion_» (Plut., _Disp. Conv._, I. 1. — Cfr. Ateneo, XV, 694 a-d;
Arist., _Vespe_, 1219, dov’è pure corrispondenza fra lo scolio di chi
canta primo e di chi gli tien dietro). Ma opinione molto più credibile
è che nella melodia su cui cantavansi gli scolii fossero ammesse certe
licenze ed irregolarità per le quali si agevolasse la recitazione
improvvisa e donde _curva_ o _torta_ si chiamasse la canzone. I
ritmi degli scolii rimastici mostrano grande varietà, ma in generale
corrispondono a quelli della lirica eolica; solo che l’andamento della
strofa è rotto e ravvivato da slanci intermittenti. Infatti, come
autori di scolii andaron celebri in ispecie i poeti lesbii: Terpandro
(cui Pindaro ne attribuisce la invenzione), Saffo, Alceo: più tardi
si distinsero negli scolii Anacreonte e Prasilla di Sicione: e anche
alcuni poeti corali come Simonide e Pindaro (Ateneo, XV, 694-696).
Aristofane, Diogene Laerzio, Solone ed altri ci trasmisero un certo
numero di scolii della greca antichità. La maggior parte contengono
gioconde regole di vita o brevi ditirambi, invocazioni a Bacco, a
Venere e ad altri numi o lodi degli eroi: ma due di maggior estensione
ed importanza ci pervennero, quello dorico di Ibria cretese, «_La mia
gran ricchezza è la lancia e la spada_, ecc.,» e quello ionico, in
Atene fra tutti celebratissimo, di _Armodio ed Aristogitone_; canzone
patriottica attribuita a Callistrato e commemorante l’eroica morte
dei due giovani ateniesi che liberarono Atene dalla tirannide di
Ipparco e di Ippia, secondo narra Tucidide (VI, 54-59). Su di che più
innanzi. Vedi anche, intorno agli scolii, Ulrici, _Gesch. der hellen.
Dichtkunst_, II, 376 seg.; C. O. Müller, _St. della letter. greca_,
cap. 13.

[288] «_Poscia gli comandai che pigliato in mano il ramo del mirto, mi
recitasse qualche cosa di Eschilo_» (Aristof., _Nubi_, 1364). Sull’uso
del ramoscello di mirto (μυρρίνη) nel canto degli scolii, vedi la nota
sopra, e la canzone di Armodio.

[289] Lo scolio d’_Armodio_, che diceasi anche semplicemente
l’_Armodio_ (Ar., _Vespe_, 1225) attribuito all’ateniese Callistrato,
ci fu conservato da Aten., XV, 695 b. Fu composto verisimilmente
non molto dopo le guerre persiane, poichè ai tempi di Aristofane lo
troviamo come una canzone popolarissima e universalmente gradita ne’
conviti ateniesi (_Vespe_, 1225; _Lisis._, 632; e in Antif. presso
Ateneo: _Si invocava Armodio; si cantava il peana; veniva portata
la gran tazza di Giove Salvatore_, XV, 692 f). Già prima d’altronde
delle guerre persiane, Armodio ed Aristogitone erano stati come eroi
liberatori d’Atene onorati di statue in Atene: era vietato ai servi
portare il loro nome (Liban., _Ap. Socr._): ed era concessa ai loro
discendenti l’immunità dai pubblici pesi (Demost. in _Lettine_).

Dello scolio d’Armodio ecco la versione letterale: 

«Entro a ramo di mirto la spada porterò — come Armodio ed Aristogitone
— quando il tiranno uccisero — e libera per uguaglianza di leggi
(ἰσονόμους) resero Atene.

«Carissimo Armodio, no, non sei morto: nell’isole dei beati dicono che
tu sei, — ove anche il piè-veloce Achille — e, dicono (_ci sia_) il
Tidide Diomede.

«Entro a ramo di mirto la spada porterò — come Armodio ed Aristogitone
— quando di Minerva fra i riti sacri (_le Panatenee_) — l’uomo despota
Ipparco uccisero.

«Sempre di voi due la gloria durerà sulla terra — o carissimo Armodio
e Aristogitone — poichè il tiranno uccideste — e libera (_di leggi
uguali_) Atene rendeste.»

Come il lettor vede, la traduzione mia, ridotta per le esigenze della
scena, comprende le prime due strofe del testo, aggiuntivi i pensieri
principali delle ultime due.

Ai dilettanti di questi studj offro qui un altro tentativo di
traduzione mia, completa e possibilmente letterale:

    Di mirto adorno porterò il brando, 
      D’Aristogitone, d’Armodio al par, 
      Quando il tirannico sir trucidando, 
      Atene a libere leggi tornàr. 
    No, non sei morto, diletto Armodio! 
      Ma dei beati l’isole han te: 
      Dov’è il Tidide Diomede, dicono, 
      Ed anche Achille celere-piè. 
    Porterò il brando mirto-vestito, 
      D’Aristogitone, d’Armodio al par, 
      Quando di Pallade nel sacro rito 
      Ipparco il despota prence svenâr. 
    D’ambo la gloria la terra ognora, 
      O Aristogitone, o Armodio udrà: 
      Come il tiranno svenaste allora, 
      E per voi libera fu la città! 

Cattivi versi, d’accordo: però, se non m’illudo, più fedeli alla
lettera e allo spirito del testo greco che non la notissima versione
del professore Centofanti, la quale va per le scuole:

    _Su, su, ricuoprasi_ di mirto il brando, 
      _Brando_ d’Armodio, d’Aristogitone! 
      _Per lui si sciolsero ceppi fatali_, 
      E Atene _è_ libera con leggi uguali. 
    Diletto Armodio, no, non se’ morto: 
      Ma dei beati vivi nell’isole: 
      E là _magnanimi son teco e lieti_ 
      Diomede e l’_inclito figliuol di Teti_. 
    _Su, su ricuoprasi_ di mirto il brando, 
      Brando d’Armodio, d’Aristogitone! 
      _Che_ Ipparco spensero tiranno _ardito_ 
      Nel sacro a Pallade _solenne_ rito. 
    Di gloria _splendidi_ sarete ognora, 
      Tu caro Armodio, tu Aristogitone: 
      _Per voi si fransero ceppi fatali_ 
      E Atene _è_ libera con leggi uguali. 

Nella qual versione del Centofanti, a parte le parole greche omesse e
le forme cambiate, segnai in corsivo le parole aggiunte e i pleonasmi
del traduttore, di cui nel greco non è traccia alcuna: e che per un
componimento sì breve e caratteristico dell’antica Musa, mi paiono di
là di troppi. In ispecie quel verso di stampo tutto moderno: _Per voi
si fransero ceppi fatali_ — un poeta ateniese non l’avrebbe mai scritto
nè pensato.

[290] Secondo Pausania (_Att._, 2) la cortigiana Leena fu propriamente
l’amante di Aristogitone, ma Ateneo per l’opposto (XIII, 596 f.) la
dice amante di Armodio. Comunque, è noto come ella fu coinvolta nella
celebre congiura dei due amici; e, dopo il primo tentativo fallito
in cui Armodio restò ucciso, fatta porre da Ippia alla tortura,
sofferse con fortissimo animo lo strazio, anzichè rivelare i suoi
complici, finchè per tema che il dolore potesse strapparle qualche
parola, si mozzò da sè stessa coi denti la lingua e la sputò in faccia
agli aguzzini. Quando gli Ateniesi ebbero infine rotto il giogo,
immortalarono il nome dell’eroica cortigiana drizzandole sull’Acropoli
un monumento che raffigurava una leonessa (_leaena_) senza lingua. Vedi
Pausania e Ateneo, _l. c._; Beulè, _L’Acropole d’Athènes_.

[291] Stesicoro: nacque, secondo una tradizione comune, in Sicilia,
ad Imera (colonia mista jonicodorica) poco dopo la fondazione di
quella città, verso il 640 av. l’E. V.; visse sino al 560. Il suo
primo nome era Tisia: fu, dopo Alcmano, il secondo de’ grandi poeti
corali dorici: e la poesia corale, dapprima rinchiusa per lo più
ne’ soggetti mitici e nella forma tranquilla dell’epopea, assunse
con lui forme più schiettamente ed altamente liriche, ispirandosi al
linguaggio appassionato degli affetti. Per questo usò sovente ne’ suoi
canti non solo del grave metro dorico, ma anche dei ritmi patetici e
profondamente appassionati dell’armonia frigia. Si avevano di lui molte
poesie erotiche. In qual pregio fosse tenuto come poeta, in Atene, può
desumersi dal _Fedro_ di Platone, ove Socrate pone in bocca a Stesicoro
la stupenda teoria sull’amore, che fu compendiata nel discorso di
Socrate dell’atto primo, scena prima. E il nome di Stesicoro si
affacciava qui naturalmente non solo perchè di poeta siciliano, ma
perchè l’innamoramento di Alcibiade e di Timandra in questa scena
è appunto quell’_inconro subitaneo delle anime_ di cui Socrate,
ispirandosi a Stesicoro, sul principio del dramma parlò.

[292] Che Alcibiade avesse già condotto, innanzi il suo richiamo, a
buon punto le cose degli Ateniesi in Sicilia, colla presa di Catania,
a lui massimamente dovuta, rilevasi da Plutarco in _Alcibiade_ e
da Tucidide, VI, 48-51. Di un altro fatto d’armi tra Siracusani e
Ateniesi, avvenuto innanzi il richiamo di Alcibiade, e nel quale
egli, con una piccola parte de’ suoi, usando di un felice stratagemma,
volse in fuga i nemici superiori di numero, facendone scempio, è pur
cenno in Polieno (_Stratag_., I, 40. Cfr. Tucidide, VI, 52). — Indi
la supposizione della battaglia, che serve di introduzione a questo
quadro, non parmi una licenza storica così temeraria come a qualche
critico erudito piacque di ritenere.

[293] Delle quattro classi dei cittadini, stabilite ab antico da
Solone, le tre prime in generale (_pentacosiomedimni, cavalieri,
zeugìti_) fornivano all’esercito gli _opliti_ o fanti pesanti, che del
proprio somministravano l’armi. La terza classe in ispecie era quasi
tutta d’opliti; la seconda, poi, come lo indica il nome, forniva in
particolar modo anche i _cavalieri_, somministranti del proprio, oltre
l’armi, il cavallo; della prima classe, come più ricca di censo, erano
per lo più i _trierarchi_ o comandanti delle triremi, somministranti
del proprio la trireme o la galea. Da queste tre prime classi, infine,
uscivano naturalmente gli _strategi_ e gli altri ufficiali dell’armata.

I cittadini poveri della quarta classe (thétes) servivano in piccolo
numero come _arcieri regolari_ (τοξόται): tutti gli altri, cioè la
massima parte, componevano la ciurma della flotta, che era il nerbo
della potenza d’Atene: non ultima questa fra le cause originarie
della democrazia ateniese (Cfr. _Alcibiade, la critica e il secolo di
Pericle_, Opere, IV, 283).

Però i cittadini delle quattro classi non formavano essi soli le
forze militari ateniesi: i _meteci_ (forestieri naturalizzati) e gli
stranieri mercenarj e gli schiavi vi entravano pure in gran parte;
i primi negli opliti di presidio, i secondi come formanti il grosso
delle milizie leggiere irregolari (ψιλοὶ): gli ultimi, completanti i
quadri delle ciurme. Laonde, nei primordj della guerra del Peloponneso,
prendendo per base la enumerazione di Pericle (Tucid., II, 13), le
_milizie di Atene_ si potevano così ripartire:

                       | d’ordinanza (cittadini delle prime
                       |   tre classi dai 20 ai 60 anni)        13,000
                       /             | oplìti cittadini (dai
  _Oplìti_             \ di presidio /   18 ai 20 e sopra i 60
  (fanteria pesante)   |             \   anni)                   3,500
                       |             | oplìti metèci            12,500

  _Cavalieri_ (cittadini della seconda classe)                   1,000

  Arcieri a cavallo (meteci o forestieri)                          200

  Arcieri a piedi      | ἀστικοί — cittadini dell’ultima
  (τοξόται) (fanteria  /   classe (_thétes_)                       400
  legg. regolare)      \ ξενικοί, stranieri (Sciti, Traci,
                       |   Cretesi, ecc.)                        1,200

                       | Piloti, ufficiali delle triremi,
                       /  remigatori per 300 triremi — tra
  Flotta               \  cittadini dell’ultima
                       |  classe, meteci, schiavi e forestieri  48,000
                                                                ——————
                                                                79,800
  Fanti irregolari (ψιλοὶ) — non contati nell’elenco di
    Pericle (_peliasti, frombolieri_, ecc.), tutti stranieri    10,000
                                                                ——————
                                                                89,800

Tale è la cifra più alta cui potessero calcolarsi le forze d’Atene nel
fiore della sua potenza. A queste forze poi venivano ad aggiungersi
tutte quelle degli alleati tributarj.

Gli _oplìti_ o fanti pesanti avean per armi difensive l’elmo, la
corazza, lo scudo, e schinieri coprenti la parte inferiore delle gambe.
Per armi offensive la picca e la spada.

I _cavalieri_ portavano anch’essi corazza, scudo, elmo, lancia e spada. 

I _fanti leggieri_ regolari (τοξόται) portavano arco, elmo e leggiera
armatura.

I fanti leggieri irregolari (ψιλοὶ) erano di quattro specie:
_peltasti_, recanti una lancia corta e un piccolo scudo detto
_pelta; lanciatori_, che gittavano a mano il lanciotto (ἀκόντικον);
_frombolieri_ che scagliavano sassi con la fionda; e _gittatori di
sassi_ a mano.

Preferendo Atene, per accorgimento politico, impiegare ed addestrare i
suoi proprii cittadini nella marineria — (dacchè alla _forza marittima_
appoggiavasi la sua egemonia fra i Greci, e importava che quella
fosse ateniese, nazionale, e non precaria) — e a mala pena bastando ai
quadri della flotta i _thétes_ dell’ultima classe, così ella assoldava
dall’estero tutte le milizie leggiere di cui abbisognava per il suo
esercito. Per queste non v’erano nè ruoli, nè ordinamenti che ne
prescrivessero le armi e gli esercizii: però Atene li prendeva fra i
Greci od i barbari che in uno od altro esercizio si distinguessero.
Ella aveva quindi peltasti traci; arcieri di Creta; lanciatori locresi
e acarnani; frombolieri di Rodo, ecc. (Vedi Tucidide; Senof., _Anabasi_
e _Cose equestri_; Arriano, _Tattica_; Eliano, _Tattica_; Peyron,
note al II e VIII di Tucidide; Boeckh, _Econ. pol. at._, II; Ferrario,
_Cost_., I, ecc.).

[294] I soldati in guerra portavano seco i viveri per tre giorni
— carne salata, cacio, ulive, cipolle, ecc. (Cfr. Arist, _Acarn_.,
197; _Pace,_ 368; Plut., _Focione_). A quest’uopo ogni soldato aveva
una sportella o valigietta di vimini (γυλιον) della forma di un vaso
lungo, e nella estremità molto stretto (Vedi Suida, Pottero, Scol. di
Aristof.).

[295] Non solo ogni comandante, ma anche ogni _oplìte_ aveva seco
in guerra un servo o scudiero (ὑπασπιστὴς) che gli portava lo scudo,
e alle volte lo seguiva nel folto della mischia; benchè, di solito,
innanzi la battaglia, costoro fossero spediti alla custodia dei bagagli
(Eliano, _V. St._, XI, 9; Senof., _Anab_., IV; Tucid., III; Polieno,
_Strat_., II; Eliano, _Tatt_.).

Probabilmente molti di essi erano _meteci_, che seguivano in quella,
qualità il loro _patrono_ (προστάτης): ossia il cittadino dal quale
ciascun meteco (obbligato al servizio militare, ma escluso dai
diritti politici) dipendeva per farsi da lui rappresentare negli atti
giuridici. (De-Leva, _Somm. pop. ant._, p. 211).

[296] ὄμοιον ὀμοίῳ κατά θεῖον ἀεὶ προσπελάζει (Aristen., _Lett_., I,
10). Antico proverbio che Aristeneto ha preso da Platone (_Simpos_.)
e da Aristotile (_Ethic_., VIII) e tutti da Omero: Ὼς αἰεὶ τὸν ὁμοῖον
ἄγει θεὀς ὼς τὸν ὁμοῖον.

[297] _Ramiferi_, o _tallofori_ (θαλλοφόροι) erano bei vecchioni
impiegati a portar i rami d’ulivo nella processione delle Panatenee;
non potendo per la vecchiezza essere impiegati in altro. Indi diceasi
proverbialmente _buono a fare il ramifero_ per significare _buono a
nulla_. «_Saremo derisi per le vie e chiamati ramiferi_» (Aristof.,
_Vespe_, 542. — Cfr. Eust., _Odiss_., 17; Senof., _Simp_., III; Etym.
M.; Esichio, a q. v.).

[298] Cecrope fu antichissimo re di Atene, vissuto parecchi secoli
innanzi la guerra di Troja. Indi in Alcifrone una cortigiana chiama
per ischerno _Cecropone_ per la sua antichità un vecchio rimbambito
(Alcifr., _Lett._, I, 28). E in Aristofane il vecchio imbecille
Filocleone invoca Cecrope (Arist., _Vespe_, 438).

[299] _Erme_, busti di Mercurio, di cui si parlerà più innanzi. La
iscrizione sulle Erme dei nomi dei valorosi ch’eransi distinti in
guerra, era ricompensa militare anticamente pregiata dagli Ateniesi.
«_Al tempo degli avi fiorirono molti generosi e stette ognuno contento
ad una iscrizione sulle Erme_» (Demost., _Ad Leptin_. — Cfr. Eschine in
_Ctesif_.).

[300] Lo starnuto era tenuto fra gli antichi ora per buono ed ora per
cattivo augurio, secondo i casi. Infausti eran quelli della mattina,
fausti quelli del mezzodì. Così in Aristeneto una fanciulla, mentre
scrivendo si lamenta del suo amore infelice, ad un tratto si rallegra
perchè nello scrivere starnutò. «_Oh come a proposito starnutai! il mio
amante penserebbe egli a me in questo momento?_» (Aristen., _Lett_.,
II, 5). — E in Teocrito: «_Fortunato sposo! a te starnutò qualche
fausto genio, quando venisti a Sparta!_» (Teocr., _Idill_., 18). Un
esempio, invece di starnuto infausto, si ha in Teocr. _Idill_., 7.

[301] _Chiechenei_, bocche aperte, spalancate, sbadiglianti;
appellativo derisorio dato da Aristofane agli Ateniesi, per indicare
con una sola caratteristica parola la curiosità senza senso e senza
scopo, la credulità e la balordaggine della plebe; voce tolta dallo
stupido spalancar di becco delle oche, e degli uccelli piccini
all’appressarsi dei maggiori (Cfr. Luciano, _Scita_; Wieland,
_Aristippo_).

[302] _Agora_ era la piazza maggiore di Atene, ove teneasi il
mercato; la quale metteva da una parte a settentrione al Ceramico e
all’Accademia, e a mezzodì ai Portici (_Pecile, Portico Regio_, ecc.).

[303] _Giove fiscio_, ossia _fuggitivo_ (φύξιος Ζεὺς), veniva invocato
dai fuggenti (Vedi Licofrone, _Cassandra_, v. 288, e lo scoliaste a
quel verso). A _Giove Fiscio_ sagrificò Deucalione cessato il diluvio
(Apollod., _Bibl._, 1. II): e di un’ara dedicata a questo nume fa
menzione Pausania (_Corint_., 4).

[304] Le _triremi_, ch’eran le navi da guerra ateniesi (comandate
ciascuna da un _trierarca_) secondo i calcoli del Boeckh (_Econ. pol.
At._, II, 22), portavano ordinariamente da 200 uomini ciascuna. E cioè:
10 soldati di fanteria navale (ἐπιβάται) destinati alla difesa della
nave; 40 opliti (truppe di sbarco o combattenti sopra coperta); e 150
tra uffiziali della nave, marinaj e rematori. Questi ultimi erano oltre
a cento, ripartiti in tre ordini (indi il nome di _trireme_). Nel primo
ordine, il più alto sopra il livello dell’acqua, erano i _traniti_, con
lunghi remi: nel secondo di mezzo gli _zigiti_, nel terzo e più basso
i _talamj_, i quali ultimi remando poco più su del livello dell’acqua,
avean remi assai corti e sceglievansi quindi fra i più deboli di
forza; questi erano spregiati (Ar., _Rane_, 1106) e non adoperavansi
in alcuna fazione. — Questi tre ordini di rematori eran diretti da un
_regolatore_ (κελευστὴς), ch’era sulla nave il primo in dignità, dopo
il trierarca ed il piloto (κυβερνήτης), (Tucid.; Senof., _Rep. At._, I,
2; Peyron, _Note_ a Tucid.).

[305] Circa l’ambizione di Alcibiade e la sua sete di gloria, vedi
massimamente il _Primo Alcibiade_ di Platone già citato: «La gloria,
che tu Alcibiade — gli dice Socrate — desideri più ardentemente di
quello che uomo giammai abbia desiderato alcuna cosa» (_Pr. Alcib._,
124).

[306] I _Misteri di Eleusi_ (o _Eleusinie_): celebri nella antica
Grecia. Potevano dirsi una imitazione de’ misteri di Samotracia,
salva la sostituzione del mito di Cerere e Proserpina alla favola e
ai riti dei Cabiri. Più in su risalendo, può ritrovarsene l’origine
nelle antiche dottrine orfiche dell’immortalità dell’anima e della
metempsicosi, raccolte più tardi e sviluppate dalla filosofia
pitagorica; colle quali dottrine dovettero avere qualche relazione i
riti simbolici egiziani d’Iside e di Osiride, introdotti probabilmente
nell’Attica dall’egiziano Cecrope. E però Cecrope potrebbe riguardarsi
il vero istitutore de’ misteri eleusini: lo stesso Trittolemo, infatti,
a cui Eusebio e Giustino attribuiscono, insieme colla prima seminagione
nell’Attica, l’istituzione dei misteri di Eleusi, sembra vissuto poco
dopo Cecrope, al tempo di Cranao suo successore.

Diodoro Siculo fa invece istitutore de’ misteri Eretteo, quinto
successore di Cecrope, e come lui egizio di nazione: il quale avendo
dall’Egitto portato nell’Attica, afflitta da carestia, gran copia
di granaglie, gli Ateniesi per gratitudine il fecero loro re; indi
dissero Cerere essere venuta nell’Attica con lui; e aver egli perciò
portati seco _dall’Egitto_ i riti della Dea (τὰ μυστήρια ποιῆσαι,
μετενεγκοντα τὸ περὶ τούτων νὸμινον ἐξ Αἰγύπτου.) e instituiti ad
essa in Eleusi i misteri. Ma Pausania negli _Attici_, parlando della
guerra tra Eretteo e gli Eleusini d’Eumolpo riguarda i misteri come
già esistenti a quel tempo; e solo è a notarsi nella versione di
Diodoro la conferma dell’origine egizia od orientale di quei riti,
contemporanea alla venuta delle colonie nell’Attica. Prima d’allora
la religione fra’ Greci consisteva, più che altro, in un superstizioso
timore delle forze della natura: tutt’al più, se anche prima di Cecrope
e di Cadmo gli _Dei tutelari_ di ciascun popolo, i _lari_ e i _penati_
protettori delle famiglie avean vittime e voti, era per assicurarsene
la protezione e calmarne lo sdegno, da cui faceansi provenire tutti
i mali fisici e morali della vita privata e pubblica. La credenza
che Giove fosse il custode dei diritti dell’ospitalità e il punitore
degli spergiuri, e che qualunque omicidio anche involontario fosse
senza tregua perseguitato dalle Eumenidi, era al più tutto quello che
la religione contribuiva di suo allo svolgersi della vita sociale
fra quelle orde elleniche primitive. Ma i nuovi colonizzatori e
legislatori, venendo in Grecia dai paesi orientali, già mansuefatti
alle idee dei governi teocratrici e alla venerazione e al timore delle
caste sacerdotali, non tardarono a sentire il bisogno di puntellare
con quelle idee l’edificio sociale di quelle loro nuove colonie fra
popolazioni indomite e semiselvaggie. Bisognò rinvigorire la fiacca
autorità delle leggi col sostegno della fede, diffondendo la credenza
che gli Dei prendessero immediata cognizione delle azioni degli uomini;
che essi non solo presiedessero alle prosperità e ai mali fisici
presenti, ma che non contenti di punire il malvagio e premiare il
giusto _in questa vita_, citassero anche le anime dei trapassati ad un
tribunale inesorabile, per essere da questo serbate secondo i meriti o
i demeriti ad una nuova vita di delizie o di orribili tormenti. Questa
dottrina, inculcata al popolo con la sola esposizione orale, non poteva
impressionarlo gran che: ma simboleggiata nei _misteri_ e proposta fra
una quantità di apparati incutenti immediato terrore ai sensi, doveva
di necessità agire potentemente sullo spirito di uomini eccessivamente
sensuali e superstiziosi, che nei sotterranei di Eleusi si trovavano
portati, per via di artificiose illusioni, prima nel Tartaro, poi negli
ameni boschetti dello Eliso. — Indi colla venuta dell’egizio Cecrope e
colla instaurazione dei _misteri_ noi vediam prodursi il contatto più
importante e caratteristico fra la _deisidemonia_, ossia il politeismo
materiale, fisiocratico, degli antichi Elleni e lo spiritualismo delle
religioni orientali, egizia, israelitica, ecc. E come in queste, così
pure nei _misteri Eleusini_ il filosofo scopre, allato ad un intento
presunto spirituale e morale, rivolto alla pratica del vero e del
giusto, un intento più materiale e più concreto: la brama di dominio
e di potenza della casta sacerdotale, volta colle arti dell’impostura
ad impadronirsi dell’uomo nella persona, nell’anima e negli averi.
Le ricchezze prodigiose accumulate dai sacerdoti del tempio di Eleusi
provano come l’intento fosse abbastanza riuscito.

I _misteri Eleusini_ erano di due sorta: i _grandi_, τά μεγάλα ossiano
i veri misteri (μυστήρια) consacrati a Cerere; i _piccoli_, τά μικρά,
ossia _inizj_ dei misteri (τελεταὶ) consacrati a Proserpina. I piccoli
celebravansi nel mese di Antesterione, ed erano propriamente una
preparazione ai grandi misteri. Durante i medesimi, i candidati alla
iniziazione, o iniziati di _primo grado_ (detti _misti_, μύστης)
si purificavano nell’Ilisso, si preparavano con digiuni, preghiere,
sacrificj, e sopratutto con offerte alla Dea. Più queste eran ricche e
più probabilità si aveva di essere iniziati, e meno terribili eran le
prove da subirsi.

Questi _misti_, ossia iniziati ai _piccoli_ misteri, dopo cinque anni,
e per somma grazia dopo un anno, potevano essere ammessi ai _grandi_ —
e allora prendevano il nome di _epopti_ (ἐπὸπτης), ossia _ispettori_,
ossia iniziati di secondo grado. La quale iniziazione ai grandi misteri
celebravasi ogni tre anni, d’autunno, poco prima delle Tesmoforie,
nel mese di Boedromione. Durava nove giorni, dal 15 del mese in poi:
le cerimonie avean luogo la notte: e giammai festa sacra fu tanto
solennizzata nella Grecia come questa. Tutto che la scienza e l’arte
avevan potuto scoprire di più meraviglioso era posto in opera per
colpire la fantasia del candidato, già estenuato anticipatamente dai
digiuni, dalle macerazioni e da altre pratiche tendenti a debilitare il
corpo e la ragione. I primi tre giorni, dei nove, si passavano ad Atene
in sacrificj, digiuni, purificazioni, processioni in riva al mare ed
altre cerimonie preparatorie. In una di queste un fanciullino di puro
sangue ateniese era posto vicino alla fiamma del sacrificio e compiva i
riti espiatorj, in nome dei futuri iniziati. — Il quarto giorno, danze
sacre, pantomime rappresentanti il ratto di Proserpina e l’invenzione
dei processi agronomici di Trittolemo. Portavasi da Eleusi ad Atene il
_calato_ (κάλαθος), canestro sacro di Cerere, sopra un carro seguìto
da una turba acclamante a Cerere, _dea nutrice, dea delle messi._
Seguivano vergini, con panieri o _ceste_ (κίστη) di frutta e dolci, che
servivano, insieme col ciceone, a rompere il digiuno commemorativo del
digiuno di Cerere, giusta la formula degli iniziati: «_ho digiunato, ho
bevuto il ciceone; ho preso dalla cesta e dopo aver gustato ho deposto
nel calato; ho ripreso dal calato e riposto nella cesta_.» — Il quinto
giorno, cerimonia delle fiaccole, altra imitazione del rito egizio di
Sais. Gli invitati sfilano a due a due in gran silenzio, con in mano
torcie accese, poi scambiano e si ripassano le torcie di mano in mano.
— Il sesto giorno, la statua di Iacco (figlio di Cerere) inghirlandata
di mirto, veniva portata con gran pompa in processione, dall’Eleusinio
in Atene, per la via sacra, sino all’Anattorio o tempio di Eleusi. Il
calato, il rombo, il fallo, seguono la processione, mentre i sacerdoti
cantano gl’inni a Iacco e la turba acclama: _Iacche! evoè! Iacche!_
— Il settimo, ottavo e nono giorno, detti _mistici_, impiegavansi
nella cerimonia della iniziazione degli aspiranti o iniziati di primo
grado (_misti_). Gli iniziati indossano lunghe tuniche di lino, colle
quali devono essere iniziati. Essi attendono la notte nel Pronao, o
vestibolo, che le porte del tempio si aprano: ed ecco, ad un tratto,
là, in mezzo alla più profonda oscurità, scoppiar tuoni e folgori,
tremar la terra e il tempio tutto, come scrollato dalle fondamenta.
Romori spaventevoli e sibili di serpenti e muggiti s’alzano dagli
abissi; fantasmi e spettri ributtanti e cadaveri insanguinati sfilano
alla luce sinistra dei lampi. Più in là appare Ecate tricipite,
circondata da orrendi mostri. Poi tutto ritorna silenzio e buio; poi lo
squarciarsi come d’una cortina metallica annunzia nuove apparizioni. È
il Tartaro co’ suoi fiumi di fiamma, e i suoi odori sulfurei, i suoi
tormenti e tormentati, Sisifo, Tantalo, Issione, le Danaidi, ecc.
Ma il Tartaro scompare, e alle scene spaventose succedono le scene
gioconde: sono i campi Elisj coi prati smaltati di fiori e il dolce
mormorio degli uccelletti e i boschetti profumati, e le ombre amene,
rallegrate dai cori e dalle danze delle coppie dei beati, dai banchetti
di nettare e di ambrosia, dalle mistiche melodie. Dagli Elisj ecco i
novizi passare ad un sotterraneo illuminato da torcie, ove si svolgono
ai loro occhi le vicende di Cerere, di Proserpina e di Iacco, più o
meno lubricamente, più o meno oscenamente rappresentate. Il novizio
là vede dove Iside nascondesse suo figlio Oro dall’ira di Tifone;
e quello che mostrasse a Cerere la vecchietta Baubo per far che la
dea nel colmo della mestizia si scompisciasse dalle risa; e quel che
contenessero i canestri chiusi delle figlie di Cecrope, ecc., ecc.
Terminato lo spettacolo, i novizj son condotti nel recinto sacro fuori
del tempio: e là trovansi ancora nel buio: quand’ecco ad un tratto
le porte del tempio spalancarsi con fracasso; e nella gran navata,
immenso spazio capace di cinquemila persone, in mezzo ad un mare di
luce e di torcie scintillanti, apparire la statua di Cerere tutta oro
e gemme, circondata da’ suoi ministri in ricchissimi paludamenti. È il
_gerofante_ (ἱεροφάντης) supremo pontefice di Cerere, ed in pari tempo
il gran sacerdote dell’Attica, assistito dal _fiaccolifero_ (δᾳδοῦχος),
dall’_araldo_, o _cerice_ (κήρυξ) recante il caduceo, e dagli altri
sacerdoti. All’entrar degli iniziati nel tempio, l’araldo grida:
_lungi i profani, gli empj e tutti quelli di cui l’anima è macchiata di
delitti_: e commina pena di morte a chi non iniziato sarà sorpreso nel
tempio. Poi ad un segnale dell’jerofante gli Dei olimpici appariscono
nel santuario (_teofanìa_) e da quel punto comincia l’iniziazione,
e gli iniziati son proclamati _epopti_, siccome ammessi alla visione
della divinità. Il gerofante li arringa, promettendo loro, dopo morte,
le voluttà degli Elisi, negate ai profani e invitandoli a giurare
per la triplice Ecate il silenzio più assoluto su tutto ciò che hanno
udito ed inteso, sotto minaccie terribili di morte a chi commettesse
la menoma indiscrezione. Tutti gli iniziati prestano il giuramento, ed
escono dal tempio in gran raccoglimento, per recarsi in processione
all’Eleusinio. Il giorno dopo gli iniziati fan festa e si ricreano
dalle fatiche dell’iniziazione nelle braccia delle cortigiane; il nono
ed ultimo giorno infine si rimandano i pusillanimi che non superarono
le prove, e gli epopti celebrano la iniziazione con ricchissime offerte
al tempio di Eleusi — magnifica gazzarra pei sacerdoti.

(Diod. Sic., lib. I; Callimaco, _Inno a Cerere_; Platone, _Fedone,
Gorgia_; Pausan., _Att_., 38; Giustino, lib II; Meursius, _Gr. fer.;
Eleusinia; Reg. Ath._, lib. II; Wieland, _Aristip_., IV, 1; Maury,
_Hist. des relig. de la Gr. ant._; Robinson, _Antiq. of Greece_;
Barthelemy, _Anac_.; Preller, _Demeter und Persephone_; Cl. Bader, _La
femme grecque_, I, cap. 6; Debay, _Nuits Corinthiennes_, ecc.).

[307] _Erme_ (V. sopra, nota 8), così dette da Ἐρμῆς, _Mercurio_, erano
masse di marmo dell’altezza di un uomo, che nella parte superiore
ritraevano la testa di Mercurio, e nella inferiore terminavano in
colonna tetragona. Di queste Erme ve n’erano molte per le vie, nei
vestiboli delle case private e nei templi, — postevi dai privati o
per ordine dei magistrati. Anzi una via intera in Atene chiamavasi
_delle Erme_ perchè tutta decorata di questi busti. Ipparco, figlio di
Pisistrato, ne aveva fatte por molte nel mezzo delle vie tra la città
e i singoli demi rurali, con suvvi iscrizioni o precetti morali, per
esempio: _cura la giustizia — non ingannar l’amico_, ecc. (Platone,
_Ipparco_, 228 seg.; Tucidide, VI., 27; Suida, Arpocraz. a q. v.).

Questi simulacri di Ermete eran riguardati dagli Ateniesi come custodi
tutelari dei lari domestici, delle vie, della prosperità della città,
della pace pubblica e delle istituzioni; e negli Ateniesi, come bene
osserva l’Houssaye, l’idea religiosa associavasi siffattamente alla
idea politica, che una offesa fatta ad un Dio protettore della città,
come quella che poteva attirar su di essa la collera del Dio offeso,
consideravasi quale un attacco contro la repubblica. — Indi il crimine
di tradimento e di sacrilegio eran fatti sinonimi (Senof., _St. Ell_.,
I; Meurs., _Them. Att_., II, 2. — Cfr. Timeo, _Fragm. Hist. gr._; e
Houssaye, _Hist. d’Alc._, II, 42).

Il guasto di queste Erme, che poco innanzi la spedizione di Sicilia
furono trovate una bella mattina quasi tutte mutilate nella faccia, fu
tenuto in Atene per grave sacrilegio e vi destò un’emozione indicibile,
di cui si valsero i nemici d’Alcibiade, per darne la colpa a lui,
collegandovi anco l’accusa di avere in un’orgia contraffatto i misteri
di Eleusi. Sulla mutilazione di queste Erme, sulle accuse di Pitonico
e Andromaco, Dioclide e Teucro, contro Alcibiade, sulla deposizione
di Andocide e Tessalo contro il medesimo, e sul processo relativo che
provocò, oltre il richiamo e la condanna di Alcibiade, molte esecuzioni
capitali di presunti suoi complici, vedi Tucidide, VI, 28, 53, 60,
61; Andoc., _Or. dei misteri_; Lisia, _Contro Andoc_., 36; Ps. Andoc.,
_Contro Alcib_.; Isocr., _De Big._, III; Plutarco in _Nicia_, 13, in
_Alcib_. 18 seg.; Corn. Nep. in _Alcib_. — Cfr. Grote, tom. XI.

Ma il racconto del coscienzioso Tucidide (VI, 60) intorno al modo con
cui fu ottenuta la propalazione d’Andocide, che formò la base della
accusa di Tessalo, e la accusa di Lisia contro Andocide stesso (c. 36),
danno fondamento a dubitare della verità di quell’accusa riguardo ad
Alcibiade. Infatti Tucidide afferma che «niuno nè allora, nè poi potè
mai nulla affermare di certo sugli autori del misfatto, e gli Ateniesi
medesimi non sapevano se la punizione delle vittime fosse giusta»
(ib.).

[308] Tucidide avverte che gli Ateniesi diedero al fatto delle Erme
_maggior importanza_ del dovere «_giudicandola opera d’una cospirazione
tendente ad innovar lo Stato e ad abbattere il governo popolare_» (VI,
27). Della facilità degli Ateniesi a sospettare per ogni cosa di mene
sovvertitrici contro il governo popolare accennai altrove (V. quadro
II; e _Alcib. e la crit_., Op., IV, 321). A questi sospetti associavasi
sempre naturalmente il sospetto di intelligenze coll’aristocratica
Sparta: indi le accuse di _filolacone_ (amico degli Spartani) e di
cospiratore per introdur la tirannide, dal tempo di Ippia in poi,
suonavano in Atene pressochè equivalenti (Cfr. Plut. in _Cimone_,
18; _Nicia_, 10; Aristof., _Lisis_., 619 seg.; Erod., V, 91). Perciò,
appena si intese, dopo il fatto delle Erme, che un piccolo corpo di
Lacedemoni si era inoltrato fino all’Istmo, si sparse subito la voce
per Atene che esso si avanzasse di concerto cogli autori del sacrilegio
per istabilire la tirannia (Tucid., VI, 61).

[309] Ecco il testo preciso dell’accusa contro Alcibiade assente in
Sicilia, quale ci fu conservato da Plutarco: «Tessalo, figliuol di
Cimone Laciade, accusò Alcibiade figliuolo di Clinia Scambonide di
aver commessa iniquità contro le due Dee Proserpina e Cerere, avendone
contraffatti e mostrati i misteri in sua propria casa a’ compagni
suoi, abbigliato con una veste simile a quella che indossa il Gerofante
quando appunto mostra le cose sacre, ed avendo nominato _Gerofante_ sè
stesso, e Polizione _Fiaccolifero_, e Teodoro _Banditore_, e creati gli
altri compagni _Iniziati_ ed _Ispettori_, contro le leggi e gli statuti
degli Eumolpidi, dei banditori e dei sacerdoti di Eleusi. — Per il qual
delitto il popolo lo ha condannato a morte in contumacia, ha confiscato
tutti i suoi beni, e determinato di più che tutti i sacerdoti e le
sacerdotesse lo abbiano a maledire» (Plut., _Alcib_., 22. — Cfr.
Tucid., 61).

Il Dacier unisce erroneamente nella sua versione il testo dell’accusa
coll’esposizione della condanna, che di quel testo non fa parte.
Comunque sta che Alcibiade fu doppiamente condannato, nel capo e nei
beni (Cfr. anche Isocr., _De Big_., 17; Giustino, V, 1; Diod. Sic.,
XIII, 5; Corn. Nep., _Alcib_.; Senof., _St. Ell_., I, 4).

La pena di morte era difatti la pena inflitta tanto ai traditori o rei
di lesa repubblica quanto ai sacrileghi (Licurgo in _Leocr_.; Hermog.,
_Partit. Sect._, V); pure il rigore di quella duplice condanna parrebbe
eccedere la stessa legge ateniese, che vietava impor doppia pena: «_In
qualunque giudizio una sola pena si dia: o corporale o pecuniaria:
entrambe no_» (Demost. _ad Leptin_.); «_l’Etica condanni il convinto a
pena corporale o pecunaria_» (Demost., _C. Timocr_.): conseguenza della
qual legge era la facoltà di optare fra le pene, data ai rei convinti
(Plat., _Apol_.; Eugraphius, in _Andriam_, Act. III; Meurs., _Them.
Att_., II, 22). Così Socrate e Focione furono puniti di morte e non
colla confisca dei beni. Vuolsi però notare che Alcibiade era stato
condannato a morte dopo la sua evasione a Turio, cioè _in contumacia_,
la morte essendo la pena irrogata di diritto al titolo del crimine:
l’opzione poi era concessa solo agli accusati presenti al giudicio; la
sola parte efficace della condanna di Alcibiade era l’esilio perpetuo,
il divieto di esser seppellito nell’Attica, e la confisca dei beni —
le quali appunto erano le pene stabilite pei colpevoli di sacrilegio o
di tradimento, quando questi non si trovavano in mano della giustizia
(Senof., _St. Ell_., I; Meurs., _Them. Att._, II, 2).

[310] _Nave Salaminia_. La _Salaminia_ e la _Pàralo_ (o il _Paralio_)
erano le due principali triremi ateniesi che stavano sempre allestite
e pronte a salpare per recar dovunque gli ordini e i messaggi della
Repubblica (Tucid., VI, 53), accompagnare, occorrendo, per lo stesso
servizio le spedizioni da guerra (Tucid., III, 77), portar le sacre
ambasciate o _Teorie_ ai principali giuochi e ai templi più venerati
della Grecia, come a Delo, e per tale uffizio chiamavansi anche ambedue
_navi sacre_ (Plat., _Fedone_, 58; Arpocr., Suida). Non eran montate,
per il loro servizio geloso di Stato, che da cittadini liberi (Tucid.,
VIII, 73) ed erano fra le più veloci al corso («_Le due velocissime
navi_ Paralo _e_ Salaminia _stan per sciogliere dal lido come foriere
portando gli inquisitori, i quali devono far noto quando s’abbia ad
uscire in guerra_.» — Alcifr., _Lett_., I, 11; Scol. Aristof., _Ucc_.,
1204). La nave _Paralo_ fu la prima che si salvò con Conone dalla
disfatta di Egospotamo e portò ad Atene la infausta nuova (Senof.,
_St. Ell_., II, 1). La _Salaminia_ (così detta dal suo primo piloto
che fu Nausiteo di Salamina) era la nave, in cui, secondo la tradizione
popolare, Teseo erasi imbarcato per Creta alla spedizione del Minotauro
(Plut., _Teseo_). Sovr’essa gli Ateniesi mandavano ogni anno la
_teorìa_ a Delo a sagrificare ad Apollo, in memoria del sacrifizio
fattovi da Teseo quando tornò a Creta vittorioso; e finchè questa nave
non era di ritorno, non era permesso in città far giustiziare nessun
condannato a morte (Plat., _Fedone_, p. 43). Perchè la _Salaminia_
cogli anni non si sfasciasse, di quando in quando rappezzavasi: sicchè
coll’andar del tempo non serbò più del primo naviglio che la forma.
Era una nave di trenta remi — e fu conservata dagli Ateniesi sino al
tempo di Demetrio Falereo. — Fu essa che portò ad Alcibiade in Sicilia
l’ordine di richiamo (Plut. in _Alcib_. e _Teseo_; Tucid., VI, 61).

[311] Intorno a Cimone, vedi Plutarco e Cornelio Nepote nella sua Vita. 

[312] Questo anatema fu scolpito su una colonna eretta in una delle
piazze della città (Corn. Nep., _Alcib_., 4).

[313] «Avendolo quindi condannato (Alcibiade) per contumacia e
pubblicate avendone le sostanze, determinarono di più che tutti i
sacerdoti e le sacerdotesse lo avessero a maledire: fra le quali
raccontasi che una sola, chiamata Teano, figliuola di Menone,
sacerdotessa del tempio di Agraulo, ebbe il coraggio di opporsi a
quel decreto, dicendo: _di essere sacerdotessa per benedire e non per
maledire_» εὐχῶν, οὐ καταρῶν ἱέρειαν γεγονέναι (Plut., _Alcib_., 22).
— Sui riti delle maledizioni, vedi Lisia, _Contr. Andoc_.; Plut.,
_Arist_., 24, 25; Erodoto, V, 165. — Cfr. Maury, _Hist. des relig. de
la Gr. ant._

[314] Agraulo, sinonimo di Aglauro. Vedi quadro III, nota 53. 

[315] Che una Timandra seguisse Alcibiade allo esercito si rileva da
Ateneo: «Lo stesso (Alcibiade) partito per l’esercito, conduceva seco
in giro Timandra, la madre di Laide Corinzia» (Aten., _Deipn._, XII,
535).

[316] πάν διὰ πυρὸς ἤ ξιφῶν — _anche attraverso i fuochi e le spade!_
— _passar si dovesse anche tra il fuoco e le spade!_ — esclamazione
proverbiale di frequente uso (Diog. Sinop., _Epist_., 30; Cratete,
_Epist_., 6; Chione, _Epist. a Plat_., 17).

[317] Nicia e Lamaco furono i due capitani eletti a colleghi di
Alcibiade nel comando della spedizione di Sicilia. Nicia era abile
capitano, ma prudentissimo sino alla paura; Lamaco audace fino alla
temerità; Alcibiade radunava in sè, da eccellente capitano ch’egli
era, la prudenza del primo e il coraggio del secondo (Plut., _Nicia_;
_Alcib_.; Tucid., VI).

Sul carattere focoso e impetuosissimo di Lamaco, le cui doti
soldatesche appunto lo facevano miglior soldato che condottiero, e il
quale del resto visse virtuoso e povero, e morì in Sicilia da prode,
vedi Aristof., _Acarnesi, Pace_, 1290, seg.; _Rane_, 1039; Tucid., IV,
75; VI, 19, 101; Plut., _Alcib._, 12, 20; Nicia, 14; Elian., _V. st._,
II, 43. — Aristofane stesso che lo canzonò, facendone il tipo d’un
capitan Fracassa de’ suoi tempi, rende omaggio alla sua virtù e ai suoi
meriti verso la patria, nelle _Tesmof._, 841.

[318] «_In prima è probabile che i Numi, fortissimi alleati e campioni,
ci assisteranno_» τούς θεοὺς μεγίστους ἡμῖν ὑπάρχειν συμμάκους κα’
βοηθούς (Demost., _Sulla lettera di Filippo_).

[319] «Mandò (il popolo) ad esso (Alcibiade) la nave _Salaminia_, dando
avvedutamente ordine agli inviati di non mettergli le mani addosso, nè
di fargli violenza alcuna, ma di usar parole moderate, insinuandogli
di venir loro spontaneamente dietro per presentarsi in giudicio,
e render persuaso il popolo della propria innocenza. Usata fu tale
circospezione perchè temevasi altrimenti un qualche tumulto e sedizione
nell’esercito, che trovavasi in paese nemico: _cosa che Alcibiade
suscitar poteva agevolmente se voluto avesse:_ imperocchè per la di
lui partenza i soldati si disanimarono...» (Plut, in _Alcib_., 24). —
E Tucidide: «Mandarono (gli Ateniesi) la nave _Salaminia_, ordinandole
non già di arrestarlo, ma di intimargli che venisse in Atene a
discolparsi. _Così vollero evitare che si eccitasse qualche moto
nelle loro truppe_ di Sicilia od in quelle nemiche, e che partissero
dall’esercito i Mantinei e gli Argivi, i quali, come si credeva, si
erano uniti alla spedizione ad istanza di Alcibiade» (Tucid., VI, 61).

Dinanzi a questa doppia testimonianza di Plutarco e di Tucidide, ci
sembra nel torto il Grote, il quale non crede che Alcibiade avrebbe
potuto così facilmente suscitare una sommossa militare se avesse voluto
resistere all’ordine. Oltre che Alcibiade era forte degli alleati,
venuti espressamente per lui, e a lui devoti, e che formavano il
maggior numero, la popolarità enorme di Alcibiade fra i suoi stessi
concittadini ed il suo ascendente fra i soldati erano notissimi; e i
primi fatti della guerra, sopratutto la presa di Catania a lui dovuta e
la felice riuscita dello stratagemma di cui racconta Polieno (I, 40),
non avevano potuto che accrescerli. — Basta del resto raffigurarsi
le doti geniali del carattere di Alcibiade e la sua arte squisita
di cattivarsi gli animi, per ritenere senz’altro che le simpatie
dell’esercito gli erano assicurate: come lo provò chiaramente la
sfiducia che subentrò alla sua partenza.

[320] _Trierarchi_, capitani di trireme (vedi sopra nota 13).
Volendo alleviare i pesi dell’erario, Atene accollava ai più ricchi
cittadini le spese di alcuni pubblici servizii, detti _liturgie_.
Le liturgie ordinarie erano quattro: la _ginnasiarchia_, per cui
il ginnasiarca provvedeva all’allestimento del luogo pei pubblici
giuochi ginnastici, vitto e paghe dei ginnasiasti, ecc. La _coregia_,
che imponeva al corego una parte delle spese dei cori, nelle gare
teatrali. La _estiasi_: il liturgo, a ciò nominato da ogni singola
tribù, ne allestiva il banchetto pubblico. Infine la _trierarchia_,
ch’era la più onerosa di tutte. Il _trierarca_, che appunto sceglievasi
tra i più ricchi cittadini, era obbligato a montare e corredare di
tutti gli attrezzi una trireme a proprie spese e pagar di suo anche
un complemento di soldo ai marinaj della stessa, oltre la paga che
avevano dallo Stato. Lo Stato non forniva che il corpo della trireme
e l’albero: e malcapitati i trierarchi cui toccavano delle vecchie
carcasse da raggiustare ed armare. I trierarchi quindi nella repubblica
eran tanti quante le triremi o navi da guerra: Senofonte ai suoi tempi
faceva il novero di 400 trierarchi (Senof., _Rep. Aten._; Tucid.,
II, 24; VI, 31). Demostene così cita la legge: «_Nessuno sia esente
dall’armar triremi, fuorchè i nove arconti._ Chi dunque è impotente
al carico di trierarca, paga le taglie di guerra: gli opulenti invece
danno galee e tributi» (Demost., _C. Lept_.). Dal che si rileva che
i cittadini più doviziosi della prima classe (i pentacosiomedimni)
avevano benissimo il modo di soddisfare all’obbligo del servizio
militare — obbligo comune per tutti a cominciar appunto dai più ricchi
(Aristot., _Polit_., V, 2) — anche senza servire nella cavalleria, dove
per cavarsi d’imbarazzo li colloca erroneamente, insieme coi cittadini
di seconda classe, l’Houssaye, a cui quel passo di Demostene sembra
essere sfuggito (Vedi Houss., _Hist. d’Alcib. et de la rep. Ath._, I,
pag. 8, nota 1).

[321] Uno dei tanti tribunali d’Atene, il quale adunavasi in un luogo
appartato del Pireo detto Freatte (da φρέαρ, _pozzo_, perchè ivi era un
pozzo vicino) lungo la spiaggia del mare; e là dinanzi ad esso potevano
venire in sicurezza a discolparsi i cittadini i quali, già sbanditi
per qualche fatto dalla patria, fossero stati, mentre durava ancora il
bando, accusati di qualche delitto nuovo. «L’accusato facendosi presso,
ma non toccando terra, dal bordo della nave si discolpa: i giudici dal
lido odono e giudicano: quegli, se convinto, è sentenziato a castigo
condegno; se immune, ritorna all’esilio» (Demost., _Contro Aristocr_.).
Narrasi che Teucro fosse stato il primo a discolparsi in questa guisa
dell’uccisione di Aiace in presenza di Telamone (Paus., _Attic._, 28;
Poll., VIII, 10; Potter, _Arch_.).

[322] Imprecazione d’uso che precedeva i pubblici giudizj in Atene.
Come è noto, i giudici eliasti e i senatori prestavano giuramento di
esercitare secondo coscienza il loro ufficio: «or quando — prosegue
Demostene — non ira, non furore, non altra rea passione detta a me
giudice il suffragio, io son fedele al giuramento. Fui ingannato? è
iniquo punirmi. Ho mentito a posta? Ne andrò maledetto. _E perciò
l’araldo in ogni adunanza impreca non agli ingannati, ma agli
ingannatori o del Senato o del popolo o dei giudici_» (Demost., _Contro
Aristocr_.).

[323] Le _Eumenidi_, od _Erinni_ vendicatrici (_Furie_), avevano altari
in Atene dai tempi antichissimi, ed eran chiamate per antonomasia le
_Dee Venerande_ come protettrici della città (Vedi Eschilo, _Eumen_.;
Tucidide, I, 125).

[324] Infausto augurio. Reputavasi invece augurio felice se, mentre
faceansi i sacrificj, comparivano aquile volanti a destra (Vedi Omero;
Eschilo, _Agam_.).

[325] «Il mare si va rabbuffando... i venti minacciano metter l’onde
sossopra... e gli intendenti degli astri dicono che stia per nascere in
cielo il Toro. Per lo che coloro che vogliono evitar i pericoli della
burrasca si ritirano in salvo» (Alcifr., _Lett_., I, 10). Le sette
Jadi, che fanno parte della costellazione del Toro, al loro nascere e
al loro tramonto apportano piogge e tempeste.

[326] «In progresso di tempo, sentito avendo (Alcibiade) che gli
Ateniesi condannato aveanlo a morte, _Ma io, disse, mostrerò ben loro
che sono ancor vivo_,» ἄλλ’ ἐγώ δείξω αὐτοῖς ὄτι ζῷ (Plut., _Alcib._).

[327] _Nella recita, per l’effetto scenico, cala la tela a questo
punto._

[328] _Invocar l’aiuto di Crateide_, Κράταιιν σωστρεῖν (ἐπικαλέσασθαι),
starsene al primo danno, prima che non capiti di peggio (Alcifr.,
_Lett._, I, 18). Modo proverbiale, attinto da Omero, dove Circe
ammonisce Ulisse che, invece di vendicare i compagni divoratigli da
Scilla, il mostro marino, preghi Crateide madre del mostro a interporsi
perchè non glie ne siano divorati degli altri (Omero, _Odiss._,
lib. XII, v. 124). Superfluo notare che Lamaco parla sulla spiaggia
siciliana, cioè in vicinanza di Scilla.

[329] Rozze e povere eran tutte le abitazioni spartane; poichè Licurgo
«_cacciò via tutte le arti che troppo squisite erano ed inutili:_»
sicchè «_soltanto_ i mobili di uso continuo e _indispensabile_, come
le tavole e le sedie, erano presso gli Spartani lavorati con perfetto
artificio.» E fra le leggi da Licurgo poste per bandire da Sparta la
sontuosità ed il lusso, «altra ve n’era con cui ordinavasi che ogni
abitazione avesse i palchi fatti colla scure, e le porte lavorate
solamente colla sega, nè che adoprato vi fosse strumento veruno.
Imperocchè Licurgo pensava che una sì fatta abitazione non lasciasse
luogo nè a lusso, nè a magnificenza. Nè v’ha certo alcuno sì goffo
e inconsiderato che in abitazione semplice e triviale portar voglia
letti co’ piedi di argento e coperti di porpora e vasi d’oro ed altre
sontuose suppellettili a queste corrispondenti: ma è necessario che
tutto sia proporzionato e all’abitazione corrispondano gli arredi.
Per una tal costumanza dicesi che Leonida il vecchio, cenando in
Corinto e veggendo il tetto della casa ben laqueato e di grande spesa,
interrogasse l’ospite suo _se presso di loro nascevano i legni lavorati
e riquadrati_» (Plut. in _Licurgo_. — Cfr. Plut., _Reg. apof._, p. 125;
_Lac. ap._, 222; Müller, _Dorier_, lib. IV, c. 1).

[330] στιβάδα chiamavano gli Spartani i giacigli di giunchi e di foglie
su cui dormivano: «fatti da loro medesimi, con rompere colle mani e
senza servirsi di ferro alcuno, le cime delle canne che nascono lungo
le rive dell’Eurota: nel verno poi mescolavano con tali foglie quelle
di una specie di cardi, chiamati licofoni, sembrando che tal materia
avesse un non so che di calido» (Plut. in _Licurgo_ e _Apoft. Lac._).

[331] Il _cóton_ era il bicchiere dei guerrieri spartani: specie di
ciotola di terra cotta, ad una sola ansa. «Molto celebre a Sparta era
quella ciotola detta _cóton laconico_, principalmente per l’uso che,
al dir di Crizia, ne facea la soldatesca: imperocchè quelle acque
che per necessità si beveano, e che al solo vederle erano schifose e
recavan disgusto, nascoste venivano dal color di quel vaso» (Plut. in
_Licurgo_. — Cfr. Scoliaste di Aristof. nei _Caval._ e nella _Pace_;
Polluce, VI, 16; Ateneo, XI, 483; Senof., _Cirop._ — Meurs., _Misc.
Lac._, I, 14).

[332] Vedi quadro III, nota 39. 

[333] Euribate fu ladro astutissimo: messo in prigione, insegnò a
rubare perfino a’ suoi carcerieri. Indi passò tra’ Greci il suo nome
in proverbio. «_Neppure Euribate, quel ladro famoso, osò tanto_»
(Aristen., _Lett._, I, 20). Dicevasi anche _azione da Euribate_,
Εὐρυβάτου πράγμα. «_Questo è un agire da Euribate, non da cittadini,
non da gente onorata_» (Demost., _Corona_). — Ed Eschine: «_Nè
Frinonda_ (altro ladro famoso), _nè Euribate, nè altri degli antichi
furfanti furono prestigiatori e ciurmadori come costui_» (Esch., _C.
Ctesif._) — Cfr. Platone, _Protag._, c. 16; Alcifr., _Lett._, III, 20;
Lucian., _Aless._, 4; ed Erasmo, sulla frase proverbiale, εὐρυβατύεσθαι
(_agire da Euribate_).

[334] _Platanisto_ (πλατανιστάς) era a Sparta il luogo di esercizio
per la gioventù, derivante il nome dagli altissimi e folti platani che
l’ombreggiavano. Il fiume Eurota e il ruscello Euripo vi scorrevano
intorno, formandone come un’isola, alla quale mettevano, per un ponte
ciascuna, due strade: nell’una era il simulacro di Ercole, nell’altra
l’effigie di Licurgo. — Nel Platanisto avevano luogo le manovre e i
combattimenti degli efebi (ossia dei giovani spartani dai diciotto ai
venti anni) (Paus., _Lacon._; Luc., _Ginnas._; Teocr., _Idill._, 18. —
Meurs., _Misc. Lac._, II, 13; IV, 15).

[335] _Silfio_, erba adoperata dai Greci e in ispecie dagli Ateniesi
per condimento comunissimo e quasi indispensabile nelle vivande della
loro cucina. La più credibile opinione moderna è ch’ella fosse l’_asa
fetida_ dei botanici. Specialmente dal sugo condensato, estratto dai
fusti e dalle radici, preparavasi quella specie di gomma resinosa
dai Greci chiamata _silfio_ (σιλφιος) e dai Romani _laserpitium_. Le
alture di Cirene erano coperte di questa pianta, che formava un oggetto
d’esportazione lucrosissimo pei Cirenei (Vedi Ateneo, I, 28 d; IV, 170,
e VII, 311 c; 322 d; XIV, 623 b).

[336] _Maza_ (μᾶζα, o in dorico μὰδδα), specie di pane o di focaccia,
di color nero, fatta di farina di frumento: ch’era, insieme col famoso
_brodo nero_, il cibo ordinario nazionale degli Spartani. Infatti ai
banchetti pubblici (_fidizj_) non mangiavasi altro che maza e brodo
nero. — La maza rimase anche nei tempi posteriori, del dominio romano,
il cibo ordinario delle classi povere di Sparta (Plut. in _Agide_,
in _Alcib._ e _Apoft. Lac._, 230 f; Aten., II, 60; IV, 161; III, 115
a; XIV, 636; Aristof., _Caval._, 1104, 1165; _Acarn._, 834; Lucian.,
_Timone, Navig., Epist. Sat._; Platone, _Repub._, II, 372).

[337] _Osservare i tonni_, θυννοσκοπεῖν, diceasi proverbialmente per
_adocchiare con avidità ed intenzione molto intensa_ qualche cosa.
— Su alte rupi collocavano i pescatori di tonni le lor sentinelle,
a spiar di là attente giù nella marina quando e da che parte i
tonni s’accostassero al lido. Indi l’uso metaforico frequente della
parola: «Tu che hai conturbata la città, — dice il coro a Cleone nei
_Cavalieri_, _e adocchj i nostri tributi come i pescatori dall’alto
dello scoglio adocchiano i tonni_,» τοὺς φόρους θυννοσκοπῶν (Arist.,
_Caval._, 313. — Cfr. Teocr., _Idill._, 3).

[338] «Licurgo volle che i fanciulli fossero governati con ampia
potestà da uno di coloro che sogliono essere eletti ai supremi
magistrati: e a costui fu posto nome di _pedónomo_: e gli diede piena
autorità di raunare insieme i fanciulli e di castigarli severamente,
se avesse veduto alcun di loro far qualche cosa trista. Gli consegnò
pure alcuni di quelli ch’eran vicini a metter barba da portargli dietro
le sferze; acciocchè quando faceva bisogno li potessero castigare»
(Senof., _Rep. Laced._, II). — Alla vigilanza del pedónomo (παιδονόμος)
eran soggetti i giovani fino all’età dei vent’anni e in altissimo onore
era tenuta quella dignità nello Stato (Cfr. Senof., _Rep. Lac._, IV;
Esichio. — Müller, _Dorier_, II, 297).

[339] Nella costituzione data da Licurgo a Sparta (810 av. l’E. V.)
il potere dei due _re_ o _arcageti_ (ἀρχαγέται) (in tempo di guerra
esercitanti con facoltà illimitate il comando supremo dell’esercito;
in tempo di pace investiti del supremo sacerdozio, presiedenti ai
pubblici sagrificj, ai rapporti dello Stato col nume di Delfo, alla
custodia degli oracoli, ai giudizî nelle cause civili, ecc.) trovavasi
già limitato dalla istituzione del Senato (γερουσία), composto di
ventotto cittadini o _geronti_, maggiori dei sessant’anni, eletti
dal popolo a vita tra i vecchi più virtuosi. Il Senato, come potere
amministrativo, discuteva insieme coi re le proposte da presentarsi
all’assemblea del popolo (αλία, ἐκκλησία) — cui prendeva parte a
ciascun plenilunio ogni spartano maggiore dei trent’anni — e le
autorizzava con voto preventivo; come tribunale giudicava con diritto
di vita e di morte in tutte le cause criminali, ed era anche investito
della suprema sorveglianza sui costumi dei cittadini: nel che aveva
molta analogia coll’Areopago di Atene. Però il Senato ed i re che di
esso eran parte, esercitando insieme il diritto non solo di convocare
e sciogliere a proprio grado l’assemblea del popolo, ma anco di
annullarne le deliberazioni, — formavano unitamente un solo corpo, una
sola aristocrazia dominante; ed erano essi stessi il vero perno della
costituzione aristocratica dello Stato. È di fronte al Senato ed ai re
che vediam sorgere in tempi posteriori — come un potere di sorveglianza
e di controllo in _opposizione_ ad essi ed emanante dal popolo, —
il magistrato dei _cinque Efori_ (ἔφοροι). La tradizione volgare
vorrebbe assegnarne la origine alla prima guerra messenica (730-710
av. l’E. V.), dove essi sarebbero stati introdotti dallo stesso re
Teopompo per provvedere al governo nell’assenza dei re partiti per
la guerra. Ma più esatto è il cercare l’origine degli Efori in un
antichissimo magistrato popolare, comune ai popoli dorici, ristretto
in origine alla giurisdizione sui contratti e mercati, il quale, come
è nella tendenza dei magistrati d’origine popolare, si venne man
mano allargando, a spese degli altri poteri di origine opposta. Lo
stesso modo di elezione degli Efori, scelti fra il popolo, e la loro
rinnovazione d’anno in anno e la collisione finale col potere del re,
a cui dovettero giungere tosto o tardi, attesta, contro l’opinione che
vorrebbe farne istitutore il re Teopompo, la vera natura democratica
di questo potere, la cui origine, affine a quella dei _tribuni_ di
Roma, segna l’introdursi di un principio di _mobilità_ nel chiuso
della costituzione stazionaria, aristocratica di Sparta: principio che
riuscirà a scuoterne l’immutabilità secolare e a renderla accessibile
alle successive trasformazioni del tempo. Fatto è che gli Efori, da
semplici soprastanti ai mercanti e giudici nelle cause civili, crebbero
man mano di potere, sino ad esercitare il sindacato ed il controllo
su tutti i magistrati (tranne i geronti) con facoltà di sospenderli
e destituirli, di chiamare in giudizio e di arrestare gli stessi
re. Essi ebbero la sorveglianza sull’educazione della gioventù: e il
diritto di convocare il popolo, raccoglierne suffragi, propor leggi:
assunsero in ispecie l’alta direzione degli affari esteri e degli
affari militari (ricevimento degli inviati dei nemici ed alleati,
invio di ambasciatori, stipulazioni di trattati, dichiarazioni di
guerra, leva di truppe, destinazione dei comandi dell’esercito, poter
disciplinare sul medesimo, istruzioni ed ordini ai comandanti, facoltà
di richiamarli a render conto, ecc.), nei quali casi essi agivano non
tanto in nome proprio, quanto siccome rappresentanti dell’assemblea
popolare. La loro autorità giunse poi al segno da poter condannare a
morte chiunque senza assegnarne i motivi: e da essere pareggiata alla
tirannia (ἰσοτὺραννος, Plat., _Leg_., IV). Le conseguenze di un potere
così esteso, che modificava dalle basi l’antico ordinamento politico
di Licurgo e ne preparava il rovesciamento, apparvero già profonde
nelle lotte civili dell’età di Agide e di Cleomene (Vedi Plut., in
_Lic_., _Agid_. e _Cleom_.; Senof., _Rep. Lac_.; _St. Ell_., 2, 3;
Plut., _Instit. Lac_. — Cfr. O. Müller, _Dorier_, lib. III, c. 6, 7;
Robinson, _Antiq. gr_.).

[340] In una palude della città (Limneo) era il tempio e l’effigie in
legno di Artemide o Diana _Ortia_ (Ὀρθία). Oreste ed Ifigenia recarono,
secondo la leggenda, dalla Tauride a Sparta la statua ed il culto della
dea: detta _Ortia_ od _Ortosia_ da ὄρθιος, _erto_, _diritto_, perchè
il suo simulacro fu ritrovato da due spartani (Astrabaco e Alopèco)
in un campo, avviluppato fra vetrici per guisa che non piegavasi nè
da una parte nè dall’altra. All’atto del ritrovarla i due spartani
furon presi da insania. Raccoltisi i cittadini dei varj quartieri di
Sparta (di Limna, di Cinosuro, di Mesoa e di Pitane) per sagrificare
alla Dea, lo spirito di discordia li invase e vennero a rissa tra di
loro. Gli uni cadono uccisi a piedi dell’altare, gli scampati al ferro
sono spenti da occulto morbo. Su ciò consultato l’oracolo, rispose
doversi sagrificare a Diana vittime. Il barbaro uso durò qualche tempo,
fino a che Licurgo lo abolì, ordinando che in cambio si battessero
all’ara di Diana _Ortia_ a colpi di sferza alcuni fanciulli spartani,
sino a che il sangue ne grondasse. La sacerdotessa presiedeva alla
flagellazione, detta _diamastigosi_, διαμαστίγωσις, tenendo in mano
un piccolo e leggiero idoletto della Dea: se gli esecutori, presi
da compassione, rallentavano i colpi, la sacerdotessa gridava di
non poter più sostenere il peso della statuetta, e allora i colpi
rinforzavano. L’educazione addestrava i giovanetti a fare di questi
supplizj una prova di fortezza morale, gareggiando fra loro a chi
meglio li sopportasse con anima serena e volto allegro. Evidentemente
questo rito era la trasformazione elleno-dorica di un rito straniero,
originariamente di umane vittime, importato dall’Asia Minore (Vedi
sulla _diamastigosi_, e su Diana Ortia, Pausan., _Lacon_., 16;
Plut., _Lic_., 18; _Inst. Lac_., p. 254; Aten., VIII, 350; Luciano,
_Icaronem_. — Cfr. Müller, _Dorier_, lib. IV, 8).

[341] πυΘώχρηστοι, _emanate dall’oracolo_, solevano chiamare gli
Spartani, a titolo di vanto, le loro leggi, ossia rétre (ρήτραι):
dappoichè, per procacciare alle medesime autorità ed obbedienza,
circondandole del prestigio religioso, Licurgo le avea poste — alla
maniera di Mosè — sotto gli auspicj del Nume di Delfo, l’oracolo
nazionale dei Dori, siccome ivi trasmessegli dallo stesso Dio. «E
chiamò (Licurgo) le proprie ordinanze col titolo di _rétre_ (ossia
_detti_, _responsi_) per far credere che fossero state dettate da
Apollo medesimo e che fossero piuttosto oracoli che leggi» (Plut.
in _Lic_.). «Avendo (Licurgo) fatta alcuna legge, prima portatala in
Delfo, consultava s’ella fosse utile. La sacerdotessa, corrotta con
denari, sempre rispondeva che sì. Perciò i Lacedemoni per paura del
Dio ubbidirono alle leggi di Licurgo non altrimenti che ad oracoli»
(Polien., _Strat_., I, 16). Così Tirteo nella _Eunomia_, citato dallo
stesso Plutarco: «_Avendo udito la voce di Febo, da Pito riportarono i
messi nella patria gli oracoli e le certissime parole del Dio_» (Plut.
in _Lic_.; Tirt. ediz. mia, _Opere_, III, p. 79). Nel qual passo di
Tirteo si allude ai _Pizj_, ossia ai quattro ambasciatori che i re ed
il Senato di Sparta solevano spedire all’oracolo, e per l’intermediario
dei quali i sacerdoti di Delfo conservarono come una specie di continua
sorveglianza sulla costituzione lacedemone (Cfr. anche Senof., _Rep.
Lac_., 8; Erod., I, 65: Pausan., _Lacon_., 2; Cic., _Divin_., I, 43;
Val. Mass., I, 2; Giustino, III, 3).

[342] ἐθίζουσι αὐτοῦς καὶ κλέπτεν καὶ τὸν ἀλόντα κολάζουσι πληγα’’ς
(Eracl. Pont., _Polit_.) — La famosa legge spartana sul furto,
troppo spesso travisata dal pregiudizio volgare, non era, in fondo, a
Sparta, se non una parte naturalissima dell’educazione militare della
gioventù, in perfetta armonia, del resto, colle abitudini e colle idee
di una stirpe conquistatrice, costretta a vivere, come i Dori nella
Laconia, continuamente sulle difese, a guisa di esercito accampato fra
popolazioni assoggettate colla forza dell’armi: e a fare dell’abilità
e maestria in ogni arte della guerra la preoccupazione suprema dello
Stato. A ciò son intese dalla prima all’ultima tutte le leggi di
Licurgo, questa compresa, di cui Senofonte così parla: «Del cibo volle
Licurgo che ogni fanciullo maschio avesse tanto da non esser gravato di
soverchio, ma piuttosto che imparasse a soffrir qualche poco la fame.
Nondimeno acciocchè non fossero molestati dalla fame oltre il dovere,
concedette loro di potersi pigliare quel che faceva loro bisogno,
ma non senza arte ed industria: permettendo solamente di rubar tanto
quanto bastasse a sfamarsi. E son sicuro ch’ei permise questo non ad
altro fine se non acciocchè chi non aveva altro modo di procacciarsi
il vitto, con questa sorta di industria lo si acquistasse. Perchè è
manifesto che colui il quale disegna di rapir alcuna cosa, bisogna
di necessità che la notte vegli, il giorno tenda insidie ed inganni:
e così egli ammaestrava i fanciulli a divenire più accorti, e per
conseguenza più bellicosi. Ma, dirà alcuno, per qual ragione adunque,
se egli pensava che il furto fosse un certo che di bene, ordinò che
quel tale che veniva colto in fatto si castigasse acerbamente? Perchè,
a parer mio, gli uomini castigano coloro che non fanno bene anco le
altre cose che vengono loro insegnate; ancor essi punivano costoro
che erano colti in fatto, quasi non sapessero rubar bene» (Senof.,
_Rep. Lac_.). Ancor più spiccata appare l’indole affatto militare di
quella legge da un passo dell’_Anabasi_, ove Senofonte tien consiglio
di guerra coi capi dell’esercito: «Sarà miglior consiglio tentar di
occupare, se ci vien fatto, celatamente e senza che i nemici se ne
accorgano, una qualche parte non custodita del monte. E parmi altresì
che qualora fingiamo di assalirli da questa parte, troveremo il
restante del monte sprovveduto... Ma a che parlo io di cose da far
di soppiatto? mentre sento, o Chirisofo, che voi Lacedemoni, quanti
siete del primo ordine (τῶν ὁμοίων), sin da fanciulli vi esercitate
al rubare, e che non è turpe appo voi ma necessario il procacciarsi
di furto quello che la legge non vieta: laonde poi, affinchè rubiate
_quanto più è possibile e vi sforziate di rimaner celati_, è legge
fra voi di esser battuti qualora siate sorpresi rubando. Or dunque,
ti è data una bella opportunità di mostrare la tua educazione, avendo
cura che non siamo sorpresi mentre prenderemo di furto la via dei
monti» (Sen., _Anab_., VI, 4). — E Plutarco: «Furano i giovinetti
ogni sorta di cibo sul quale possan metter le mani, ben esperti a
tendere destramente insidie a quei che dormono o che la guardano con
trascuranza: ma se colti sul fatto, oltre le percosse, n’hanno in pena
lo star senza mangiare» (Plut., _Lic_., _Apoft. Lac_.; Sesto Empir.,
_Contr. Mathem_., III, 24; Aul. Gell., II, 18). Importa anco por
mente all’idea debolissima che della proprietà avevasi fra un popolo
ove delle cose dei vicini, di uso più comune, era lecito servirsi per
il bisogno del momento, come di cose proprie, anche senza permesso del
proprietario (Plut., _Apoft. Lac._), per poter apprezzare al giusto
valore quella usanza; usanza derivata probabilmente dall’originario
metodo di vita delle tribù doriche sui monti della Tessaglia, ivi
costrette a procurarsi il sostentamento lottando di continuo coi
fortunati possessori della parte piana e produttiva della contrada. La
designazione d’altronde delle cose che poteano esser oggetto di questo
esercizio di destrezza, limitata su per giù a quel tanto di cibi che
ogni spartano, in caccia o in guerra, aveva già il permesso di prendere
dalle provvigioni del suo compagno, toglie alla legge in massima parte
il carattere attribuitogli dalle nostre moderne idee (Cragius, _Rep.
Laced._, lib. III; Meurs., _Misc. Lac._; Müller, _Dorier_, lib. IV, c.
5; Peyron, _I pari di Sparta_, ecc.).

[343] I _Dioscuri_, o i _Gemelli_ — Castore e Polluce, i due figliuoli
di Leda e fratelli di Elena — detti anche _Dei Salvatori_ (Διόσκουροι,
Σωτῆρες, σωτῆρες ἄνακτες) — perchè venivano invocati, in soccorso,
come liberatori dai mali, nelle burrasche, nelle gravi malattie, nelle
pestilenze, nelle battaglie, e in generale da chiunque versasse in
pericolo imminente di morte (Teocr., _Idill._, 22; Eurip., _Oreste_;
Teognide; Omer., _Inni_; Paus., _Lacon._; Oraz., lib. 1, od. III;
Artemidoro, _Onirocrit._, II, 42). Onorati a Sparta di specialissimo
culto, per essi i Lacedemoni solevano giurare ed esclamare. La qual
esclamazione spartana — _per i Dioscuri!_ — forma preciso riscontro
alla esclamazione ateniese _per le due Dee!_ La formula infatti
dell’esclamazione era la medesima: _per le due Divinità!_ (νὴ τὼ θεὼ in
dorico ναὶ τὼ σιὼ): solo che per esse ad Atene intendevansi Cerere e
Proserpina, a Sparta i due gemelli di Leda (Aristof., _Pace_, v. 214;
_Lisistr._, v. 142; e lo Scoliaste, _ibid._; Plut., _Apoft. Lac._;
Meurs., _Misc. Lac._, II, 8).

[344] ὤ πολιὰς Αθηνᾶ (Elian., _Var. Stor._, II, 9), oppure
semplicemente ὤ πολιὰς, o _Poliade!_ (Lucian., _Pescat._, 21). — Così
chiamavasi Minerva in Atene, siccome protettrice della città (Cfr.
Arist., _Nubi_, 602; Paus., _Arcad._, 47).

[345] Ogni Stato greco usava tenere nella principale città degli altri
Stati greci un _prosseno_ (πρόξενος) od _ospite pubblico_: quel che
noi diremmo oggi un console; il quale era cittadino della città in cui
abitava, ed adempiva gratuitamente al suo uffizio. Così, per esempio,
il prosseno di Sparta, in Atene, era non uno spartano, ma un ateniese:
egli esercitava l’ospitalità verso i viaggiatori spartani che fossero
venuti in Atene, li indirizzava ed assisteva del proprio credito
nelle loro commissioni ed interessi, procurava loro tutti i comodi
che dipendessero da lui, dava alloggio agli inviati di Sparta, ecc.
Avveniva spesso che un prosseno, siccome partigiano della città da lui
rappresentata, la sovvenisse nascostamente di consigli e informazioni
politiche; così i Mitilenesi, prosseni di Atene, la avvertirono
segretamente che Mitilene macchinava una defezione (Tucid., III, 2).
Che i maggiori di Alcibiade fossero stati _prosseni_ di Sparta si
desume da Tucid., VI, 89: e più avanti Tucidide parla degli «antichi e
stretti vincoli di ospitalità che legavano Alcibiade coll’eforo Endio,
cosicchè la loro famiglia in grazia dell’ospitalità ebbe anche il nome
laconico: quindi questo si chiamava Endio di Alcibiade» (Tucid., VIII,
6. — Cfr. Tucid., I, 29; II, 85; Senof., _St. Ellen._, IV; Eustaz. in
_Iliad._, 3).

[346] Intorno all’autorità ed all’influenza politica acquistatasi in
breve da Alcibiade a Sparta — influenza a cui conferiva in parte anche
l’assenza del re Agide, vedi Plutarco in _Alcib._; Tucid., VI, 93;
VIII, 8.

[347] Rigorosissime ad Atene le leggi contro il furto. Dracone lo
puniva di morte indistintamente a pari del sacrilegio e dell’omicidio:
Solone statuì contro il ladro la multa del doppio, se il derubato
ricuperava il suo; se nol ricuperava, la multa del decuplo, tanto pel
ladro che per ciascun dei complici: senza pregiudizio del carcere:
mantenuta la pena di morte contro chi rubava ad un privato al di sopra
di 50 dramme o rubava nei ginnasi pubblici per l’importo di 10 dramme:
lecito a chiunque uccidere il ladro notturno: e chi avesse denunziato
tre ladri, riceveva un premio (Plut. in _Sol._; Eschine, _C. Timarco_;
Demost., _C. Timocr._; Aul. Gell., XI, 18. — Meurs., _Them. Att._, II,
1).

[348] Egli è certo, nota il Müller (_Dorier_, t. II, 280) che «il
matrimonio a Sparta lo si concepiva sotto una certa naturale nudità,
e senza adombrare di alcun velo di sorta lo scopo essenziale del
medesimo.» Leonida parte per le Termopili e dice per tutto addio a
sua moglie: «_Rimaritati a uomo da bene e partorisci molti figli_.»
Acrotato torna a Sparta vincitore, e le donne lo accompagnano in
trionfo gridandogli: «_Gioisci colla tua Chelidonia e genera a
Sparta prodi figliuoli._» Procrear figli, e robusti: ecco il primo
dovere di ogni spartano e di ogni spartana, perchè di soldati e non
d’altro abbisogna la città; e però a questo mirano _tutte_ le leggi
spartane sul matrimonio; e le prescrizioni sul ratto delle mogli,
sull’accoppiamento clandestino, ecc., per ringagliardire l’amor fisico
degli sposi; e le pene severe contro i celibi, contro le nozze immature
o tardive, o malassortite; e la trasmissione, in dati casi, dei diritti
matrimoniali.

«Ordinò (Licurgo) che mentre fossero nel fior della età si maritassero:
giudicando che questo dovesse giovar grandemente al perfetto generar
dei figliuoli. E se per avventura accadeva che qualche vecchio avesse
la moglie giovane, vedendo che per lo più elleno erano custodite
diligentissimamente, anco in questa parte ordinò certe cose diverse
dagli altri. Perchè volle che questo vecchio conducesse a sua moglie
qualcuno che gli paresse eccellente di animo e di corpo e di lui ne
ricevesse figliuoli. Ma se ci era chi non volesse abitar colla moglie,
e nondimeno bramasse di aver figliuoli onorati, determinò anco questo,
che costui, appostando una donna feconda e generosa, e persuaso il
marito di lei a consentire alle voglie sue, potesse a questo modo
allevarsi poi dei figliuoli. Ed altre cose molte concedette di questa
maniera. Per il che le mogli vengono ad aver due case, e li lor mariti
acquistano fratelli alli propri figliuoli, i quali partecipano insieme
del nascimento e della gagliardia: ma sono esclusi dalla roba. A questo
modo, tenendo diversa opinione dagli altri nel generar figliuoli,
ognun vede come egli facesse gli uomini di Sparta più eccellenti di
grandezza, di corpo e di forze» (Senof., _Rep. Lac._, 1). E Plutarco:
«Era lecito a valentuomo che fosse preso da affetto per alcuna donna
saggia e modesta e feconda di bella prole, il persuadere colui che
l’aveva in isposa a concedergli di usare con esso lei, onde produrre e
ingenerare in quel fruttifero campo figliuoli buoni e valorosi, che de’
buoni e valorosi fossero consanguinei e fratelli» (Plut. in _Licurgo._
— Cfr. Theodor., _Graec. aff._, 9).

Il Meursio, nella _Themis Attica_, I, 7, cita un passo di Sopatro (_in
Hermog_.), da cui arguisce che anche in Atene fosse lecito agli uomini
prestar ad altri la propria moglie — _juxta leges atticas licebat
viro uxorem suam alteri fruendam tradere_ — ma Sopatro non cita che
un esempio eccezionale ed isolato, e se si fosse trattato di un uso
generale, se n’avrebbero altre testimonianze, nè Senofonte l’avrebbe
notato come legge affatto speciale e caratteristica di Sparta.

[349] κατάκλειστοι, _rinserrate_, son chiamate da Saffo e da Callimaco
le fanciulle joniche, siccome appunto cresciute, a differenza delle
doriche, nella più rigorosa clausura domestica (Saffo, _Framm_.,
15, ediz. Wolf). E sembra infatti che le vergini attiche fossero
custodite e chiuse negli appartamenti a loro riservati (_talamo_ o
_partenone_, παρθενών) proprio letteralmente sotto chiave «ὀχυροῖσι
παρθενῶσι φρουροῦνται» (Eurip., _Ifig. Aul_., 738); come appare anche
dal consiglio di Focilide: «Custodisci la vergine nei talami _ben
rinserrati_ (πολύκλειστοις) e non permettere che prima delle nozze la
si lasci vedere innanzi alla casa» (Focil., v. 203). E in Aristeneto
una fanciulla innamorata si lamenta: «A che amore combatte con una
verginella inesperta, _ancor rinserrata nel talamo e circondata di
sentinelle?_» (ἔτι θαλαμευομένη ἔτι φρουρουμένη)? (Aristen., _Lett._,
II, 5). Dall’oscurità del παρθενὼν non uscivano le fanciulle che
in quelle poche solennità o feste religiose a cui erano chiamate a
prender parte (come _portatrici di canestri_ nelle processioni, ecc.):
ed erano quelle le rarissime occasioni in cui potea capitar loro di
innamorarsi di un giovane. — Maggiore, ma non di molto, era la libertà
concessa alle maritate o matrone (ἐλευθέραι). Anch’esse abitavano nella
parte più remota della casa un appartamento riservato o _gineceo_
(γυναικωνίτις) separato affatto dall’_androne_ o appartamento degli
uomini (ἀνδρωνίτις): e nel gineceo, di cui l’accesso era vietato
rigorosamente a qualunque uomo che non fosse stretto congiunto (Corn.
Nep., _Pref._), doveano le matrone vivere appartate e ritirate,
poichè _le porte dell’atrio della casa sono il confine segnato alla
matrona_ (Menand. pr. Stob., _Serm_., 74:) e non le è permesso varcarle
senza soffrirne nell’onore e nella fama (Eurip., _Troad_. 642). Però
rarissime volte poteano uscir di casa il giorno, in date occasioni, e
sempre soltanto col permesso del marito (Aristof., _Tesmof_., 790): nè
poteano viaggiar di notte fuorchè in carrozza, precedute da uno schiavo
recante una fiaccola (Plut. in _Sol._). Uscendo poi dovevano avere
il volto coperto di un velo densissimo (Eur., _Ifig. Taur._, 372),
essere accompagnate da eunuchi e da schiave (Terenz., _Eunuc._; Teofr.
_Carat_.), e modestissimamente vestite. Al che rigorosamente vegliavano
in Atene appositi funzionarj detti _ginecònomi_ (γυναικόνομοι): i quali
punivano di multa le matrone che uscissero di casa in toeletta appena
men che modesta e decentissima; e i nomi di esse, scritte su tavolette,
venivano affissi al platano, destinato a quest’uso, nel Ceramico
interno, cioè nel corso più frequentato della città (Polluce, VIII,
9; Aten., _Deipn_., VI, c. 9). — Pel resto, intorno alla educazione
e la vita domestica delle donne di famiglia in Atene vedi Aristof.,
_Lisistr._, v. 507 seg., _Eccles_., v. 214, _Tesmof._, v. 414 seg., v.
789 seg.; Senof., _Econom_., VII; Eschilo, _Coef_.; Sofocle, _Edipo
a Col_., _Elettra_, _Antigone_; Eurip., _Oreste, Fenisse, Ifig. in
Aul., Ifig. in Taur., Jon, Eracl._; Plut. in _Solone_ e in _Licurgo_;
nei _Prec. matrim_.; e nelle _Quest. rom_.; Demost. in _Evergete_;
Aristot., _Repub_., ecc. — Cfr. Becker ed Hermann, _Char_., II, 250
seg.; Limbourg-Brouwer, _Hist. de la Civilis. des Grecs_, IV; Meiners,
_Gesch. des weiblichen Geschlechts_, tom. I; Wieland, _Aristippo_, tom.
I, Müller, _Dorier_, lib. IV, c. 2, 4; Cl. Bader, _La femme grecque_,
t. II, c. 1; Gauvet, _Organisation de la famille à Athènes_ (nella
_Revue de legistation_ 1845); Fouquières, _Aspasie_, cap. 9; Lasaulx,
_Gesch. und. Philos. der Ehe bei den Griechen_; Van Stegeren, _De
conditione domestica et de conditione civili foeminarum atheniensium_;
Fickler, _Die griech. Frauen im histor. Zeitalter_; Barthel., _Anac._,
t. IV, c. 20; Whiston, _Matrimonium_ (Smith’s _Dictionn_.); Robinson,
_Antiquities_, ecc.

[350] Plutarco, _Solone_, 20. 

[351] Due Veneri distinguevano i Greci: la _celeste_ od _Urania_
(Ἀφροδίτη οὐρανία) e la _popolare_ o _volgare_ o _Pandemia_ (Ἀφροδίτη
πάνδημος). La prima, più antica e senza madre, figlia del cielo,
presiedente all’amor puro e virtuoso, del bello e dell’onesto,
all’amore dell’anime; la seconda, più giovine, figlia di Giove e di
Diana, presiedente all’amor sensuale e lascivo, all’amore dei corpi.
Luciano distingue una terza Venere, la _Venere degli Orti_ (ἤ ἔν
κήποις). Nei sagrificj alla Venere celeste era vietato il vino; e ad
essa come a quella degli Orti sagrificavasi una giovenca. Il re Egeo,
padre di Teseo, implorandola per aver prole, dedicò per il primo alla
Venere _Celeste_ tempio e culto in Atene. Alla Venere _Pandemia_,
altrimenti detta Venere amica o _etéra_ o _meretrice_ (ἐταίρα, πόρνη
Ἀφροδίτη), dea tutelare delle cortigiane — il culto della quale fu
introdotto in Atene da Teseo, e a cui Solone dedicò nella città il
primo bordello — offerivasi in sagrificio una bianca capra. Secondo
altri la giovenca offerivasi a Minerva, e a Venere Celeste le colombe.
— Vedi la distinzione caratteristica delle due Veneri in Platone,
_Simp._, c. 8, 9. Cfr. Senof., _Simp._, 5; Aten., XIII, 559, 569, 572;
XIV, 659; Polem. _ad Tymaeum;_ Alcifr., _Lett_., III, 64; Luc., _Dial.
delle etére_; Stobeo, _Eclog. Physic._, I, 272; Pausan., _Att_., 14,
22; Cicerone, _De nat. deor_., III, 23.

[352] «Tolte alle fanciulle le delizie, il vivere all’ombra ed ogni
sorta di effeminatezza, Licurgo le assuefece a lottar ignude non men
che i fanciulli, e a saltare ed a cantare in certe sacre solennità
alla presenza dei giovani che n’erano spettatori... La nudità poi di
quelle fanciulle non era già cosa che avesse del turpe, stando sempre
quivi il pudore, nè luogo avendovi l’incontinenza: ma produceva un
costume semplice e schietto ed una forte emulazione intorno alla
buona simmetria e complessione della persona: ed a quel sesso per
sè medesimo imbelle gustar faceva pensieri non bassi ed ignobili,
partecipe vedendosi anch’esso della gloria che ambiva. Erano queste
cose anche incentivi ai maritaggi, voglio dire la pompa che faceano
quelle fanciulle, _il mostrarsi spogliate_ (ἀποδύσεις) e il tenzonare
sotto gli occhi dei giovani, tratti da necessità amorose» (Plut. in
_Licurgo_). Questa descrizione delle danze delle vergini spartane
(danza _cariatide, bibasi_, ecc.) fu dal Savioli parafrasata nei
notissimi versi:

    «Sparta, severo esempio 
    Di rigida virtude, 
    Trasse a lottar le vergini 
    In su l’arena ignude: 
    Nè di rossor si videro 
    Contaminar la gota: 
    È la vergogna inutile 
    Dove la colpa è ignota. 

Se poi quella nudità (γύμνωσις) dovesse intendersi proprio nel senso
letterale, o riferirsi al più che leggero e cortissimo abbigliamento
delle fanciulle spartane, dette appunto _fenomeridi_ (φαινομηρίδες)
perchè mostravan le coscie (Cfr. Aristof., _Lisist_., 150; Eurip.,
_Androm._, 588; Poll., VII, 55; Ibico, _Framm_.) fu a lungo e
oziosamente discusso dalla critica moderna (vedi Müller, _Dorier_, t.
II; Manso, _Sparta_, t. I, 2; Becker ed Hermann, _Char_., II, 173).
Per altro le parole di Plutarco accennano troppo chiaramente a nudità
vera: e che proprio affatto nude le vergini di Sparta comparissero,
non in tutti, ma almeno in dati esercizj ginnastici, è posto fuor
di dubbio, da Plutarco non solo, ma dalla testimonianza concorde di
altri scrittori dell’antichità (Cfr. Platone, _Leg._, VI, p. 771; VII,
806; Ateneo, XIII, p. 566; Teocr., _Idill._, 18; Marziale, IV, 55). E
Properzio:

    Multa tuae Spartae miramur jura palestrae: 
    Sed mage virginei tot bona gumnasii, 
    Quod non infames exercet corpore ludos 
    Inter luctantes nuda puella viros. (III, 14) 

E Ovidio: 

    More tuæ gentis nitida dum nuda palestra 
    Ludis et es nudis fæmina mixta viris. (_Heroid_., XVI). 

[353] Senof., _Repub. Laced_., 1; Plut., _Licurg_., 14, _Apoft. Lac._,
p. 223; Aristof., _Lisistr_., 1297 seg.; Eurip., _Androm_.; Cicerone,
_Quaest. Tusc_., III, 15. — Cfr. Manso, _Sparta_, I, 2; Müller,
_Dorier_, lib. IV; Meursius, _Misc. Lac_., ecc.

[354] Sull’ingerenza ed influenza delle donne spartane negli affari
dello Stato ai tempi dell’egemonia di Sparta, vedi Aristot., _Polit_.,
II, 6, 5. — Cfr. Plut., _Lic_.; Plat., _Leg_., VII, 805. Il Müller,
parlando del livello elevato della coltura nelle donne spartane,
scrive: «Sta in generale la osservazione che mentre presso gli Jonj
le donne venivano considerate puramente come oggetti sensuali e
come compagne di letto, e gli Eoli al contrario consentivano alla
loro sensibilità un maggiore sviluppo, di cui fanno fede le poetesse
erotiche di Lesbo, tuttavia i Dori, quasi soli, a Sparta come nella
Magna Grecia, apprezzavano nella donna lo sviluppo delle facoltà
superiori dello spirito e dell’intelligenza (νοῦς).» (_Dorier_, lib.
IV, c. 4).

[355] Aristof., _Tesmof_., 414 seg. 

[356] Aristof., _Tesmof_., 479 seg.; _Eccles_., 225. 

[357] _Feste Apaturie_ o _feste delle frodi_, da (ἀπαταω, ingannare).
Vi si commemorava la frode colla quale Melanto, messenio, campione
degli Ateniesi, vinse ed uccise in singolar certame Xantio, re dei
Beoti, che avevano invaso l’Attica; e terminò con quel duello la
guerra. Mentre i due combattevano, comparve alle spalle di Xantio una
larva coperta di pelle caprina: o almeno così finse credere Melanto,
il quale gridò non istar bene che venisse un terzo in soccorso
dell’avversario. Xantio si volse allora indietro per veder che fosse,
ed in quella rimase dall’avversario trafitto. Gli Ateniesi, mostrando
di credere che fosse stato Bacco che si era così travestito in lor
favore, gli istituirono le _feste Apaturie_ che si celebravano nel
mese _Pianepsione_ (parte di ottobre e di novembre) e duravano tre
dì. Il primo dicevasi _giorno della cena_; il secondo, _giorno del
sagrifizio_; mentre celebravasi il quale, molti Ateniesi in ricche
vesti giravano intorno l’altare con tizzoni accesi cantando inni a
Vulcano; il terzo, festa _Cureoti_ (_puellaris_), nella quale avea
luogo l’iscrizione dei neonati sul registro della tribù e della curia a
cui i genitori appartenevano (Platone, _Timeo_, I; Polieno, _Strat_.,
I; Scol. d’Aristof, nella _Pace_; Etym. M.; Suida. — Cfr. Meurs.,
_Graeca feriata_, e _Reg. Athen._, III, 10).

[358] «Considerando (Licurgo), quando la moglie andava a marito, che
alcuni nel principio usavano eccessivamente con esse loro, determinò
che fosse vergogna al marito se egli si lasciava vedere nello
andare o nel partirsi dalla moglie. Onde seguiva di necessità che
accoppiandosi occultamente a questo modo sentissero maggior diletto:
e i parti che ne nascevano fossero più gagliardi che non quando si
trovassero marito e moglie sazii di star insieme» (Senof., _Rep.
Lac._, 1). «Si procacciavan le mogli per via di rapina; e la rapita
consegnavasi alla prònuba, la quale radevale i crini d’intorno al
capo, e messole un pallio da uomo e i calzari, la collocava sopra un
mucchio di strame sola e senza alcun lume; lo sposo poi se n’andava
dentro discioltole il cinto e levatala di peso la trasportava nel
letto. Poichè trattenuto erasi non lungo spazio con lei, se ne partiva
modestamente per andarsene a dormire dov’egli era usato cogli altri
giovani; e così continuava, passando i giorni e le notti coi suoi
coetanei, e portandosi di quando in quando alla sposa tutto circospetto
e guardingo... Così pure la sposa con ogni arte adopravasi affinchè
di nascosto trovar si potessero insieme: e ciò faceano per tanto tempo
che alcuni ebbero figliuoli prima che avessero di giorno vedute le loro
mogli» (Plut. in _Licurgo_).

[359] Clistene, cittadino effeminatissimo e lascivo, satireggiato per
i suoi molli costumi in molti luoghi delle commedie di Aristofane (Vedi
_Lisistr., Tesmof., Rane, Nubi, Uccelli, Cavalieri_).

[360] Adoperavano i Greci per la scrittura le tavolette od il papiro.
Le tavolette (δέλτοι, πίνακες) eran generalmente di avorio e coperte
di uno strato di cera sul quale scrivevasi con una punta o stilo
(γραφεῖον): avean nel mezzo un bottone perchè non si incollassero
insieme nel disporle a foggia di libro. Più comunemente usavano
canne (κλαμοι, γραφεῖς) e calamaio (μελανοδόχον) per iscrivere con
inchiostro di sostanza colorante sul papiro (βίβλος) che rotolavasi in
volumi (διφθέρα), di cui i singoli fogli chiamavansi _carte_ (χάρτης).
Questi rotoli applicati su due cilindretti erano scritti in colonna
dall’alto al basso. Ogni volume segnato con un numero veniva chiuso in
una scatola cilindrica o di forma ottagona; e cavavasi dall’astuccio
mediante un cilindro che vi era attaccato (Polluce, VIII, 16; X, 58-61;
Plut., _Demost_., 29; _Eum._, 1; Erod., V, 58; Demost., _A. Stef_., 2,
ecc. Cfr. Gallus, t. II; Geraud, _Sur les livres dans l’antiq_., ecc.).

[361] Il popolo in Grecia facea sagrificj secondo le proprie forze: i
ricchi sagrificavano animali (bovi, arieti, ecc.), i poveri focaccie di
pasta cotte nel forno, talora anche foggiate colla forma degli animali
che si solevano offerire al Dio. «_Tutti femmo a gara per placare con
sagrifizj il cielo: chi offerse un ariete, chi un becco; il povero una
stiacciata_» (Alcifr., _Lett._, III, 35. — Cfr. Tucid., _G. Pel._, I,
127; Aristof., _Pluto_, v. 138; Erod., II, 47).

[362] κάμμα diceasi dai Lacedemoni una focaccia assai in voga fra di
loro, impastata in ispecie di olio e farina, e avvolta in foglie di
lauro (Aten., IV; Esich.) — Di altre sorta di focaccie, cibi a Sparta
usatissimi, vedi in Meursius, _Misc. Lac_., I, 12.

[363] Intorno a questa ed altre leggi e all’intento generale della
legislazione di Licurgo rispetto al matrimonio vedi più sopra nota 20.

[364] Vedi sopra nota 15. 

[365] «Il popolo (a Sparta) era stupefatto del viver suo (d’Alcibiade)
e di quel suo conformarsi interamente alle usanze di Lacedemonia:
e quelli che il vedevano radersi fin su la pelle, lavarsi con acqua
fredda, mangiar comunemente di quel cibo chiamato _maza_ e servirsi
anch’egli della _broda nera_ usata dagli Spartani, restavan perplessi
e non sapeano darsi a credere che un tal personaggio in casa sua
avesse mai avuto cuoco o veduto mai profumiere o toccata mai veste di
Mileto. Poichè egli avea fra l’altre molte quest’arte principalmente
per cattivarsi gli uomini, l’assomigliarsi cioè e il conformarsi
alle altrui inclinazioni ed usanze, avendo maggior abilità di
cangiar costumi che non ha di cangiar colore il camaleonte» (Plut,
_Alcib_., 23). «Gli storici narraron di lui che nato in Atene città
splendidissima, tutti gli Ateniesi nella splendidezza e nel decoroso
vivere superò; e che fra gli Spartani che poneano la virtù somma nella
sofferenza, così dura vita menò che nella parsimonia del vino e del
trattamento vinse tutti gli Spartani: che fu presso de’ Traci, uomini
vinolenti e dediti alle cose oscene, e che questi ancora in cotali
disordini superò» (Corn. Nep., _Alcib_., 11. — Cfr. Ateneo, _Deipn_.,
XII, 534 d.).

Intorno al vitto austero e ai costumi rigidissimi dell’educazione
spartana, vedi Senof., _Rep. Laced_.; Plut., _Licurg_., 10 seg.,
_Agide_ e _Instit. Lac._, Aristot., _Polit._, IV, 9; Ateneo, IV, 8;
Eliano, _V. St._, XIV, 7; Plinio, _Nat. Hist_., XXXIII, 1. — Cfr.
Müller, _Dorier_, lib. IV; Cragius, _Rep. Lac._; Meurs., _Misc. Lac._;
Manso, _Sparta_.

[366] _Fame melia_ — λιμός Μὴλιος — era frase divenuta proverbiale, per
allusione all’orribile fame sofferta dagli abitanti dell’isola di Melo
ribellatisi ad Atene e assediati da Nicia sin che dalla fame furono
stretti ad arrendersi nell’anno sedicesimo della guerra del Peloponneso
(Tucid., _G. Pel_., V, 85 seg.) — vale a dire nell’anno antecedente a
quello in cui è supposta la presente scena: «_Farete morire gli Dei di
fame melia_» (Aristof., _Ucc._, v. 186).

[367] Senof., _Repub. Laced_., 15. 

[368] Un critico «_erudito_» del mio _Alcibiade_, il signor Stuart,
si scandalizzò altamente ch’io avessi nell’opuscolo «_Alcibiade, la
critica e il secolo di Pericle_,» calcolato a _duecentonove navi e
sessantaquattromila_ uomini il totale effettivo delle forze mandate
da Atene all’impresa di Sicilia: e scorgendovi la prova ch’io ho
scritto l’_Alcibiade_ senza leggere Tucidide, ebbe la bontà fraterna di
consigliarmi lo studio del grande storico ateniese. Infatti Tucidide
«_il quale_, — secondo l’_arguta_ osservazione del signor Stuart —
_ha la pretesa di saperne più del signor Cavallotti_,» enumera in
sole 136 navi e 5100 soldati (lib. VI, 43) le forze ateniesi della
prima spedizione di Sicilia, con Alcibiade, Lamaco e Nicia: e in 73
navi e 5000 soldati il totale della spedizione di rinforzo condotta
da Demostene ed Eurimedonte. Ed ecco come la spedizione di Sicilia, a
detta di Tucidide, cioè a detta del signor Stuart che _dice di averlo
studiato_, non si componeva che di diecimila e cento uomini in tutto;
nel qual numero è veramente un po’ difficile farci stare i 40,000
_uomini_ perduti, di cui parla Cimoto in questa scena: ed ecco come
il signor Stuart, tutto trionfante, conclude che «_la raccomandazione
da lui fattami di leggere Tucidide era tutt’altro che inopportuna._»
C’è però un guaio: Tucidide e gli altri classici antichi non basta
il leggerli bisogna anche _saperli leggere_: cioè leggerli con quel
corredo di studj classici e di cognizioni sull’antichità, che sono
indispensabili per capirli e per non leggerli a rovescio. E a questo
per l’appunto non pensò il mio critico egregio: il quale, essendo stato
poco tempo addietro colto in flagrante d’ignoranza completa intorno
allo storico ateniese, e volendo, pare, liberarsi da quella taccia,
credette ingenuamente che bastasse il mettersi a leggerlo senz’altro,
per poterlo citare con cognizione di causa. E naturalmente lo ha citato
a sproposito: poichè digiuno di studj intorno all’autore che leggeva,
il poveretto, non s’accorse che il calcolo mio (ch’è per lo appunto il
calcolo di un insigne ellenista, il Peyron) era per lo appunto dedotto
dai dati di Tucidide; il poveretto non sapeva che in quella cifra
dei 10,100 _soldati_, Tucidide indica, come è uso indicar sempre, la
sola cifra degli _opliti_, ossia l’effettivo della fanteria pesante
d’ordinanza e non già della forza numerica; che ciascun oplite aveva
seco in guerra un servo (ὑπασπιστης) non contato nei quadri; che ogni
trireme, oltre le truppe di sbarco, portava 200 uomini tra fanteria
navale ed equipaggio: e non sapendo tutto questo, il signor Stuart,
tutto intento a dimostrare che l’impresa di Sicilia era stata proprio
una bazzecola, annunziò al mondo erudito la grande scoperta che Atene
aveva mandato a quell’impresa non già 64,000, ma soli 10,100 uomini,
i quali in Sicilia avran poi dovuto moltiplicarsi come i pesci della
Bibbia, perchè dopo tutte le battaglie e dopo tutti i disastri subìti,
e dopo le grandi stragi che ne vennero fatte, ne rimanessero ancora
«non meno _di quarantamila_» (Tucidide, VII, 75) nell’ultima ritirata
di Nicia! — E così si parla di storia e così si fa la critica da certi
critici _eruditi_ ai giorni nostri!

Ecco dunque la statistica delle forze ateniesi in Sicilia, secondo i
dati di Tucidide, illustrati dal Peyron:

1.ª spedizione con Alcibiade (Tuc., VI, 48): 134 triremi, in ragione di
200 uomini d’equipaggio ciascuna, totale uomini 26,800: 3 navi rodie
da 50 remi, uomini d’equipaggio 100; opliti 5,100; loro servi 5,100;
cavalieri 30; loro servi 30; truppe leggiere 1,300 — totale navi 136,
uomini 38,460.

2.ª spedizione (VI, 94): cavalieri 250; loro servi 250; arcieri a
cavallo 30. — Totale uomini 530.

3.ª spedizione (VII, 42): triremi 73; loro equipaggio 14,600; opliti
5,000; servi 5,000; truppe leggiere 500 — Totale 25,100.

Totale complessivo delle tre spedizioni 64,000 — con buona pace
dell’_erudito_ signor Stuart.

E colla cifra dei 64,000 si spiegano i 40,000 uomini della ritirata,
e i 7,000 prigionieri di cui parla Tucidide (VII, 75, 87); e si
spiega come sulla sua scorta Isocrate (_Sociale_, 29) e sulla scorta
di entrambi Eliano (_V. St_., V, 10) — e sulla scorta di tutti e tre
il mio Cimoto — calcolassero le perdite ateniesi in Sicilia a 40,000
uomini. Isocrate ed Eliano parlano anzi di 40,000 _opliti_ perduti;
è evidentemente un equivoco: gli _opliti_ dell’impresa non erano che
10,100. Ad ogni modo il signor Stuart, che _non sa leggere_ Tucidide,
se l’aggiusti almeno con Isocrate e con Eliano!

[369] Tucid., _G. Pel_., VII, 87; Plutarco in _Nicia_. Le _Latomie_
erano le cave di pietra, dove i Siracusani gettarono accatastati i
prigionieri ateniesi. Esistono ancora presso Siracusa le vestigia
di queste cave; la più vasta delle quali, la Latomia, ora detta de’
Cappuccini, dal convento attiguo, credesi quella appunto in cui gli
Ateniesi furon gettati.

[370] (λύκον εἴδες); _hai visto il lupo?_ (Teocr., _Idil_., 14).
Proverbio greco giunto sino a noi; diceasi di chi avea l’aria stravolta
e taciturna, come succedeva, secondo la tradizione del volgo, a chi
avesse veduto un lupo, o ne fosse stato veduto. «_Non mi avvenga
di vedere nè il lupo, nè l’usurajo_» (Alcifr., _Lett_., I, 26).
Specialissima poi degli Ateniesi era la superstizione contro i lupi:
ed era assegnato fra loro il premio di un talento a chi uccideva
un lupicino, di due a chi ne uccideva uno grande (Scol. d’Aristof.,
_Ucc._, v. 368).

[371] Sulle armi e abbigliamento dei guerrieri di Sparta, vedi innanzi,
note 64-69.

[372] «Una legge de’ Lacedemoni ordinava che nessuno de’ cittadini
dovesse indicar mollezza nel colorito, o tanto fosse pingue di corpo
che men atto paresse agli esercizi: perocchè l’una cosa dimostra
pigrizia e l’altra non denota maschio valore. Di più era prescritto che
ogni giorno gli efebi si presentassero pubblicamente nudi agli efori.
Se venivano riconosciuti di gagliarda costituzione fisica, e negli
esercizi quasi torniti ed intagliati, avevan lode ed approvazione;
ma se in essi discoprivasi alcun membro rilassato o languido per la
pinguedine dall’ozio proveniente, erano condannati e battuti» (Eliano,
_V. St._, XIV, 7).

[373] πρόμαχε Αθηνᾶ (Alcifr., _Lett._, III, 51). — Con un pronome
consimile — Minerva _promacorma_ (προμαχόρμα) — quale soccorritrice
e protettrice d’Atene, vien la Dea designata in Pausania, _Corint._,
34. Da quella sua tutela sopra Atene, Minerva era anche, come si
vide, soprannominata _Poliade_ (πολιὰς, πολιοῦχος), _clavigera_ o
_custode delle chiavi della città_ (κληδοῦχος), _signora della rocca_,
ecc. (Arist., _Cav._, 581, 763, _Tesmof._, 1142, _Nubi_, 602, ecc.).
Altri soprannomi proprj di Pallade: _alalcomenia_ (soccorritrice),
_obrimopatra_ (figlia di padre potente), _persepoli, fobesistrata_
(devastatrice di città, fugatrice di eserciti), _atritonia_
(invincibile), _erganea_ (madre dell’arti), _tritogenia_, dea di _molti
consigli, dagli occhi azzurri, dalla lancia d’oro_, ecc., ecc.

[374] Καδμεία νίκη, _vittoria cadmea_: frase greca proverbiale,
equivalente a quella dei Latini, rimasta nell’uso odierno: _vittoria
di Pirro_. Vittoria acquistata a caro prezzo, sia materiale o morale.
In quest’ultimo senso Aristeneto: «La mia disfatta val meglio della
tua vittoria cadmea: perchè in un combattimento per cosa cattiva il
più infelice è chi vince» (Aristen., _Lett._, II, 6. — Cfr. Platone,
_Leg._, I, 641 c.).

[375] Permetteva la legge di uccidere sul territorio attico gli omicidi
sbanditi che rompessero il bando: non però di ucciderli e nemmeno di
perseguitarli fuor dei confini. «Chi ucciderà o sarà cagione di morte
ad un omicida che s’astiene da’ mercati conterminali (cioè dai paesi
confinanti), dai ludi e dai sagrifici anfizionici, sarà colpevole come
se avesse spento un Ateniese.» «Chi fuor dei confini travaglierà con
persecuzioni o carcere od altra molestia qualche omicida spatriato,
che sia immune da confisca, sarà condannato in multa, come se in paese
fosse venuto a tali eccessi.» Demost., _Contro Aristocr._: «Legge
umana e bellissima! — esclama Demostene nel commentarla. — Pensava
il legislatore che ben convenisse sbandeggiare l’omicida se scampò
trafugandosi: ma ucciderlo ovunque gli parve nefando: perchè l’esempio
inciterebbe gli altri, onde l’unico estremo scampo verrebbe meno ai
raminghi, il posare in terra da loro non insanguinata... E in verità
non è egli atroce che quei fuorbanditi a cui la legge, purchè non
tocchino le cose loro interdette, concede riposata vita, sieno invece
ludibrio di ferocia e si veggano contesa quella consolazione di cure
che tutti, sebbene prosperità ci sorrida, dobbiamo alla sventura,
incerti delle sorti a noi serbate dai cieli?» (Demost., _ibid._ —
Meurs., _Them. Att._, I, 20).

[376] Tucid., _G. Pelop._, VIII, 14-25. 

[377] Tucid., VIII, 18. Il trattato fra la Persia e i Lacedemoni (anno
412 av. l’E. V.), di cui a questo paragrafo Tucidide ci trasmise il
testo, dovette, al pari dei principali successi della guerra, esser
opera massimamente d’Alcibiade; come si arguisce dallo stesso Tucidide
(VIII, 14, 17) e da Plutarco, secondo il quale la voce pubblica in
Isparta attribuiva ad Alcibiade «la prospera direzione della maggior
parte degli affari» (Plut., _Alcib._, 25).

[378] Le _scitale_ (σκυτάλη) in uso fra gli Spartani per la
corrispondenza segreta di Stato, erano bastoncini di legno nero,
rotondo, lungo e levigato. Di due scitale perfettamente uguali l’una si
dava al capitano che partiva per la guerra, l’altra era ritenuta dagli
efori. Volendo questi scrivere una lettera al capitano o viceversa,
che non fosse letta da alcuno, voltolavano intorno alla scitala una
striscia lunga e stretta di cuojo o d’altro, bianca, a foggia di
spirale, e sovr’essa scrivevano; quindi svolta la banda e piegatala
in vari doppi, la davano a portare all’araldo. Il capitano ricevendola
spiegava la striscia, la rigirava sulla sua scitala e così i lineamenti
delle lettere sparsi sulle varie parti della striscia tornando a
combinarsi per la identità del bastoncino, egli potea leggere l’ordine
ricevuto (Tucid., I, 131; Pind., _Od._, VI scol.; Plut. in _Alcib._;
Ttzetzes., _Chil._, IX, c. 258; Suida a q. v.; Auson. _ad Paul._, ep.
23).

[379] Del poter militare e politico degli efori, sopraintendenti
in tempo di guerra alla direzione delle operazioni militari, alla
conclusione dei trattati, ecc., si è accennato sopra alla nota 11
(Confr. su questi poteri militari e politici, Tucid., V, 19, 36; VI,
88; VIII, 12; Senof., _Anab._, II, 6; _St. Ell._, II, 4; III, 1, 2; IV,
2; V, 2, 4; VI, 4; _Rep. Lac._, 11; Plut. in _Lisand., Cleom._).

[380] Si è già notato altrove che nell’esercizio di quella loro
autorità militare e politica, gli efori agivano come mandatari e
rappresentanti dell’assemblea del popolo (ἐκκλησία), alla quale
prendean parte tutti i cittadini, con voto deliberativo, benchè,
sembra, solo gli efori e i magistrati vi avessero diritto a parlare; e
le cui decisioni approvate si promulgavano come decreti dei magistrati.
«Parve agli efori e _all’assemblea esser necessario uscire in guerra_»
(Senof., _St. Ell._, IV, 6). «_Gli efori e il popolo della città_»
(ib., V, 2). «_L’assemblea dei Lacedemoni delibera_» (Tucid., V, 77). —
Cfr. Müller, _Dorier_, lib. III, 5.

[381] Essendo gli Spartani nelle cose di guerra osservantissimi dei
segni celesti, l’accorto Alcibiade, capitano di Sparta, non era uomo da
trascurarli. Una legge di Licurgo vietava uscir ad oste o dar battaglia
innanzi al plenilunio «_perchè credeva non avesse eguale potenza la
luna crescente e la mancante, e che ogni cosa fosse governata dalla
luna_» (Luciano, _Astrol._). — Indi ricordavansi per proverbio le _lune
laconiche_ (λακωνικαὶ σελήναι) (Diogenian., _Cent._, VI; _Prov._, 30) a
proposito del troppo indugiare in una cosa, aspettando l’opportunità.
Ricordavano gli Spartani di Eurota loro re, che per aver voluto dar
battaglia agli Ateniesi, senza osservare quella legge, e sprezzando
i segni astronomici, perdette la battaglia e la vita, e gettossi
nel fiume che da lui prese il nome (Plut., _De flum._). All’epoca
dell’invasione di Dario, Sparta, richiesta da Atene di soccorsi, li
indugiò aspettando il plenilunio: onde gli Ateniesi dovettero pugnar
soli a Maratona (Pausan., _Attic._). Bensì Ermogene riferisce che dopo
appunto la battaglia di Maratona gli Spartani trattarono di abolire
quella legge (Hermog., _De invent._, II); ma nè da Ermogene stesso,
nè altronde si rileva che l’abolizione seguisse effettivamente (Cfr.
Cragius, _Rep. Lac._, III, 12; Meurs., _Misc. Lac._, II, 9).

[382] Gelosissima era Sparta nell’accordar l’ambito onore della
propria cittadinanza: tanto che Erodoto non ricorda se non in via di
eccezione l’esempio di Tisameno e di suo fratello Egia, come dei _due
soli_ stranieri ai quali quell’onore venisse, in un caso di suprema
importanza, conceduto (Erod., IX). Di altri stranieri che nei tempi più
antichi ottenessero la cittadinanza di Sparta, ricordavasi ancora il
solo Tirteo: _al quale l’abbiam data_, diceva re Pausania, _affinchè
non paja e si dica che abbiam avuto un capitano forestiere_ (Plut.,
_Apof. Lac._; Plat., _Leg._, I, 629). La quale osservazione applicavasi
esattamente al caso di Alcibiade (Cfr. lo scoliaste di Tucid. al lib.
I, 77: e il Meurs., _Misc. Lac._, IV, 10). Circa i vincoli antichi di
ospitalità che già univano Alcibiade a Sparta, vedi sopra nota 17.

[383] «_Ibi_ (Spartae) _ut ipse praedicare consueverat, non adversus
patriam sed inimicos suos bellum gessit quod iidem hostes essent
civitatis_» (Corn. Nep., _Alcib._, 4). Così pure nel discorso agli
Spartani, riferito da Tucidide, Alcibiade dice: «Niuno di voi prenda
sinistra opinione di me, perchè, riputato una volta amator della
patria, adesso di conserva co’ suoi capitali nemici vigorosamente
l’assalgo... Esule, sì, io fuggo la nequizia di coloro che mi
cacciarono. I nemici peggiori non sono quelli che come voi recarono
qualche danno al loro nemico, ma bensì coloro che costrinsero gli amici
a diventar nemici» (Tucid., _G. Pel._, VI, 92).

[384] Nello stesso discorso agli Spartani, Alcibiade prosegue: «La
carità di patria io la pongo non dove sono oltraggiato, ma dove con
sicurezza godo della cittadinanza: nè credo di andar adesso contro una
patria ancor mia, ma di riacquistare quella che non è più mia. Giacchè
giusto amator della patria non è quegli che avendola ingiustamente
perduta si astiene dall’assalirla, ma chi per desiderio di lei tenta
ogni modo di ricuperarla» (Tucid., _G. Pel._, VI, 92).

[385] _Alcib._ Io non vorrei neppur vivere se fossi codardo (οὐδὲ ζῆν
ἀν ἐγὼ δεξαὶμην δειλός ὦν). — _Socr._ E ti sembra, n’è vero, la viltà
il maggior dei mali? — _Alcib._ Mi sembra. — _Socr._ Eguale persino
alla morte? — _Alcib._ Eguale (Platone, _Primo Alcib._, p. 115).

[386] Plut. in _Alcib._ — La famosa _zuppa_ o _brodo nero_ (μέλας
ζωμός) formava insieme colla maza (vedi nota 8) il principalissimo
alimento spartano. Che non dovesse essere un cibo delizioso, è lecito
arguirlo dall’aneddoto del tiranno Dionigi di Siracusa, il quale,
per curiosità, avendo ordinato ad un suo cuoco, spartano, di fargli
la zuppa nera, appena assaggiatala, la sputò fuori nauseato: di che
il cuoco gli affermò di non sorprendersi, «dacchè alla zuppa mancava
il meglio dei condimenti: cioè _la fatica nella caccia, il sudore, i
bagni freddi nell’Eurota, la fame e la sete: con tali cose condiscono
i Lacedemoni i loro cibi_» (Plut., _Instit. Lac._, _Lic._, _Agide_;
Stobeo, _Serm._, 29; Cicer., _Tuscul._, V).

[387] Plutarco in _Arist_. — Corn. Nep., _Arist_. 

[388] Intorno a Pausania, re di Sparta, al suo tradimento verso la
patria, alla sua morte ignominiosa, vedi la vita di lui in Cornelio
Nepote; e Tucidide, I, 95, 128-134.

[389] Vedi quadro I, nota 37. 

[390] Alla battaglia di Coronea combattuta dagli Ateniesi contro i
Beozj (447 av. l’E. V.) rimase morto il padre di Alcibiade, Clinia: e
perciò ai morti di Coronea si riferisce l’epigrafe citata da Timandra
in questo punto; la quale propriamente fu tradotta — salve alcune
abbreviazioni e modificazioni mie — da quella di una lapide eretta in
onor degli Ateniesi morti a Potidea, che fu trovata in una pianura
dell’Accademia presso Atene e passò a far parte della raccolta dei
marmi di lord Elgin (Boeckh, _Corpus Inscript. graec._, I, p. 300).
Un’altra epigrafe sui morti nella battaglia di Cheronea (contro Filippo
il Macedone), meno bella, abbiamo in Demostene, _Corona_. Intorno
all’uso delle iscrizioni sui monumenti sepolcrali fra i Greci, vedi
anche Gallus, III, p. 300; Becker, Char., III, 111; Robinson, _Anticq._

[391] Sugli onori e sulle offerte che davano i Greci alle tombe — e
che erano destinati a placare le divinità infernali e i mani degli
estinti, — vedi Esch., _Pers._, _Coef._; Sof., _Elett._, _Antig._;
Eurip., _Elett._, _Alcest._, _Orest._, _If._ in _Taur._; Anacr.;
Om., _Odiss._; Luciano, _Del lutto_, _Caronte_, ecc. Consistevano
in ciocche di capelli, ed erbe e fiori sparsi sulle tombe — rose,
mirti, amaranti, viole, prezzemolo (indi il proverbio _abbisognar di
prezzemolo_, σελίνου δεῖσθαι, Plut., _Timol._, per indicar persona in
punto di morte); in profumi preziosi e in libazioni (ἐνάγισμα, χοαὶ)
di sangue, di vino, di latte fresco, di miele, di acqua. In ispecie
il miele, come _emblema della morte_, θανάτου σύμβολον, raramente
dimenticavasi nelle libazioni: indi il nome di μέλισσαι dato alle
anime dei defunti, e di μειλίχιοι agli dèi infernali. I fanciulli non
ancor giunti all’adolescenza, e i morti sotto l’imputazione di delitti
commessi o di una condotta disonorante, non avean diritto nè alle
libazioni, nè agli altri onori. Queste cerimonie avean luogo il nono e
il trentesimo giorno dopo i funerali del morto; ma rinnovavansi in dati
giorni del mese di antesterione, consacrati ai morti (μιαραὶ ἡμέραι
— Esich.) — e in altri anniversarj detti _giorni nemesj_ (νεμέσια —
Suid.) da Némesi, sotto i cui auspicj si celebravano; nei quali giorni
credevasi che i mani degli estinti abbandonassero per alcuni istanti
le eterne dimore e venissero a raccogliere le lagrime dell’amicizia
(Lucian., _Caronte_). È ad uno di questi giorni che accenna Timandra
in questa scena. — Gli Ateniesi si distinguevano poi fra tutti i Greci
nell’onoranze agli estinti e nell’osservanza delle sepolture. Sappiamo
da Euripide (_Suppl._) ch’essi intrapresero una guerra al solo fine
di ottener sepoltura ai sette duci di Argo, caduti sotto Tebe; ed è
nota la condanna dei capitani ateniesi vincitori degli Spartani alle
Arginuse, puniti di morte per non aver ripescato dal mare e seppelliti
i cadaveri degli Ateniesi morti nella battaglia (Diod. Sic., XIII, 18).
E Demostene vanta gli Ateniesi perchè «soli fra tutti i popoli, agli
estinti per la patria diedero onoranza di tombe e di funebri elogi ad
eternar le gesta dei forti» (Demost., _Ad Leptin._) — Massimi infatti
erano, fra tutti, gli onori ai caduti in guerra, ai benemeriti, pei
grandi servigi, della patria, eguagliati agli dèi (ἰσόθεοι): sui quali
onori funebri vedi Platone, _Meness._; Arist., _Panaten._; Diod. Sic.,
XI, _ecc._

[392] Questa idea religiosa di Timandra trovava un riscontro non solo
nelle idee, ma anche nelle leggi ateniesi, che dichiaravano irrite
e nulle _le cose fatte nell’ira_ (Siriano in _Hermog_.; Sulp. Vict.,
_Instit. Orat_. — Meursius, _Themis Att_., II, 23).

[393] L’asta (δόρυ) era veramente l’arma nazionale laconica; nel cui
maneggio la fanteria spartana primeggiava terribile fra tutti i Greci
(Plut, in _Agesil_.; Procopio, _ep. ad Musaeum_; Greg. Naz., ep.
139). Indi Sparta medesima gloriavasi del titolo: _coronata d’aste_,
δορυστέφανος (Diogen. Laerz. in _Chil_., 1). L’asta spartana sembra
fosse all’epoca del dramma ancor quella dei tempi eroici: lunga, di
frassino o altro legno duro, con punta di ferro. Più tardi Cleomene
sostituì all’asta spartana la _sarissa_ maneggiabile a due mani (Plut.
in _Cleom_. — Cfr. Meursius, _Misc. Lac_., II, 1).

[394] La siela (ξυήλη) era la spada spartana: o più propriamente, a
differenza della spada propriamente detta (ξίφος), la siela non era
che un pugnale di forma ricurva o falcata, e cortissimo: del quale
gli Spartani, usi assalire in ordinanza coll’aste, non si servivano
che al bisogno, quando trovavansi impegnati nella lotta corpo a corpo
(Senof., _Anab._, IV; Poll., I, 10; X, 6; Esich.). Indi, a un ateniese
che scherzava sulla brevità delle siele spartane, dicendole tanto corte
che un cerretano le poteva ingojare, il re Agide rispondeva: _Eppure
con esse noi raggiungiamo i nemici!_ (Plut. in _Licurgo_). E Antalcida
a chi gli chiedeva perchè i suoi concittadini adoprassero pugnali
così corti: _Per poter combattere coi nemici più da vicino_ (Plut.,
_Apoft. Lac_.). Fra gli Ateniesi, la siela spartana era nota, come arma
speciale, sotto il nome di κνῆστις.

[395] Nello scolio di Ibria lo scudo (ἀσπὶς) dei Lacedemoni e in genere
dei Dori è chiamato propriamente λαισηῖον; ch’era una targa fatta di
foglie metalliche e pelli di bue non preparate, sovrapposte le une alle
altre. Gli Spartani attribuivansi l’invenzione di quest’arma: — usavano
servirsene col mezzo di correggie tese e attaccate con anelli; per le
quali correggie (τελαμών) sospendevano, nel portarlo seco in marcia,
lo scudo dietro le spalle; più tardi dell’epoca del dramma, Cleomene
vi sostituì le anse (ὀχάνη) a forma di bracciale (Plut. in _Cleom_.;
Stefano; Meurs, _Misc. Lac_., II, 2).

[396] Eustazio, _ad Iliad_, β’. — Pausan., _Messen_., 28. 

[397] Portavano gli Spartani in guerra tuniche rosse (πυτὰ, φοινικὶδες)
per ornamento militare e per nascondere il sangue delle ferite (Senof.,
_Rep. Lac_.; Plut., _Lic_.; Elian., _V. St_., VI, 6; Esichio; —
Cragius, _Rep. Lac_., III, 6; Müller, _Dorier_, lib. III, 12). Alle
tuniche poi sovrapponevano piccole e strette corazze di feltro, cioè
fatte di lana costipata, macerata nell’aceto, come arguiscono il Peyron
e lo scoliaste di Tucidide al lib. IV, 34.

[398] Il pileo (πῖλος) era la copertura del capo degli Spartani che
serviva loro in battaglia da elmo, a riparo dall’aste e dalle frecce
(Tucid., IV, 34; Festo; Licofr., _Cass_.). Lo portavano nella milizia i
soli cittadini; e coperti del pileo raffiguravansi i due Dioscuri; onde
il loro soprannome di _fratelli pileati_ (Catul., _Epigr._, 38; Paus.,
_Mess_., 27). Il pileo era fatto esso pure di feltro e aveva la forma
appunto di una calotta o propriamente di un mezzo uovo: poichè diceasi
che Castore e Polluce, generati dall’uovo di Giove trasformato in
cigno, si servissero ciascuno del rispettivo mezzo uovo a guisa d’elmo
(Tzetzes; Meurs., _Misc. Lac_., I, 17).

[399] Allude al fortissimo Brasida che sconfisse Cleone e gli Ateniesi
nella battaglia di Amfipoli, dove morì (vedi Tucidide, libro V; Plut.,
_Apoft. Lac._).

[400] Oltremodo avari e parchi di ricompense militari addita Demostene
gli Spartani: «Per piegarvi (o Ateniesi) a lasciare inonorata ogni
azione di merito, mi si contrapporranno i Lacedemoni, maestri di civile
sapienza, ed i Tebani, i quali non concedono siffatte onoranze, eppur
non mancano di valorosi» (Demost., _C. Leptin._). Però come l’infamia
accompagnava i codardi, così la gloria e la riverenza universale
dei cittadini, erano massima ricompensa ai valorosi (vedi Tirteo,
_Elegie_).

[401] ἤ ταύταν ἤ ἐπὶ ταύταν — così apostrofavano, com’è noto, le madri
spartane i loro figli, partenti per la guerra, nel consegnar loro le
scudo: perdere il quale in battaglia era massima infamia (Aristot. pr.
Stobeo, _Serm._, VII; Sesto Empir., _Pirr. Ipotip._, III, 24; Aristen.,
_Lett._, II, 17).

[402] Intorno alla pianta e topografia di Atene, vedasi l’opera, fra le
tante la più completa, del Wachsmuth, _Die Stadt Athen_.

[403] Ὅ Φαῖβ’ Ἄπολλον καὶ θεοὶ καὶ δαὶμονες (Aristof., _Pluto_, v. 81.
— Cifr. Alcifr., _Lett_., I, 20; III, 29).

[404] Plut., _Alcib_., 32; Senof., _St. Ellen_., I, 4. — La esitanza di
Alcibiade a scendere a terra, era giustificata dal fatto che sebbene
egli fosse stato richiamato dal popolo, tuttavia la sentenza di morte
contro di lui non era ancora legalmente annullata.

[405] περὶ ονου σκιᾶς, _per l’ombra dell’asino_ — ossia per una inezia,
per una causa futile, _per una man di noccioli_. Proverbio fra i
Greci usitatissimo, per significare il bisticciarsi o andar in collera
per cose da nulla (Aristof., _Vespe_, 191; Plat., _Fedro_; Luciano,
_Ermot_.; Demost., _Della pace_; Procop. Sof., _Lett_., 33). Demostene,
con arguzia ateniese, fece un dì la storia di questo proverbio
(proverbio più antico di lui, siccome già usato da Aristofane e
Platone) in una pubblica aringa. E cominciò col narrar la favola di due
uomini che facean viaggio insieme, dei quali l’uno conduceva l’asino
dell’altro. Essendo cocentissimo il sole, nacque contesa fra i due per
l’ombra dell’asino, la quale ciascuno di essi voleva godere per sè. Il
padrone dell’asino diceva di aver noleggiato l’opera dell’asino e non
già la sua ombra, l’altro replicava che l’ombra era parte dell’opera.
Qui, Demostene tace: e il popolo a insistere curioso, chiedendo che
narri come la contesa andò a finire: e Demostene subito: _Ah dunque a
parlarvi dell’ombra dell’asino state attenti ad ascoltare; e quando vi
si parla degli affari della Repubblica, non volete saperne!_ (Plut.,
1558).

[406] «_Sic enim populo erat persuasum, et adversas superiores et
praesentes secundas res accidisse ejus_ (Alcibiadis) _opera. Itaque et
Siciliae amissum et Lacedaemoniorum victorias culpae suae tribuebant;
quod talem virum et civitate expulissent.... Nam postquam exercitui
praeesse ceperat, neque terra, neque mari hostes pares esse potuerant_»
(Corn. Nep., _Alcib_., VI). — Cfr. intorno ai mutati sentimenti del
popolo ateniese verso Alcibiade, quali si accennano in questa scena, e
ai trasporti di entusiasmo popolare succitati dal suo ritorno. — Plut.,
_Alcib_., 32; Diod. Sicul., XIII, 68; Senof., _St. Ellen_., I; Aten.,
_Deipnos_, XII, 535 e.

[407] L’azione pubblica era diritto in Atene di ogni cittadino:
concesso a chiunque il trarre un cittadino in giudizio, sotto l’accusa
di delitti contro la religione o lo Stato, d’infrazione alle leggi,
ecc. _Sicofanti_ (συκοφάνται) dicevansi gli accusatori; ai quali, se
non riuscivano a provar l’accusa, era inflitta la multa di mille dramme
(Plat., _Apol_., c. 25; Demost., _C. Timocr_.). Però in origine il
nome (da σῦκα φαῖνειν, _palesare i fichi_) applicavasi propriamente ai
denunziatori dei cittadini che esportassero fichi dall’Attica; poichè
in tempo di carestia, saliti gli alimenti a prezzi eccessivi, una legge
aveva vietato l’esportazione dei fichi e dei prodotti in genere, ad
eccezione delle olive, sotto pena di essere maledetto dall’arconte o
multato in 100 dramme; e non essendo stata in appresso quella legge
revocata, uomini abbietti se ne valsero per denunciare i cittadini
che davansi a quel genere di commercio. In seguito il nome significò
accusatori in genere: quando poi la manìa dei litigi, sviluppando fra
gli Ateniesi la manìa delle denunzie e delle false accuse, moltiplicò
fra di loro la razza dei sicofanti di professione, quel nome diventò
anche sinonimo di _calunniatore_ e di _falso testimonio_ (Isocr., _De
permut_.; Demost., _pro Phorm_.; Scol. in Aristof., _Pluto, Caval._;
Plut., _Solone_; Ulpiano; Suida).

[408] φιλολὰκων, _amico degli Spartani_, epiteto sotto il quale la
sospettosa democrazia ateniese designava quei cittadini ch’erano in
voce di parteggiare segretamente per gli Spartani e di cospirare per
ristabilir in Atene la tirannide. Queste due accuse significavano
pressochè la stessa cosa: poichè gli uomini del partito aristocratico
in Atene erano in generale accusati di simpatizzare per l’oligarchia
spartana e di maneggiarsi a introdurre in Atene gli stessi ordinamenti
politici. L’epiteto poi di _filolácone_ era divenuto, durante la guerra
del Peloponneso, comunissimo e quasi equivalente di traditore (Cfr.
quadro IV, n. 16).

[409] νὴ τὰς φίλας Ὥρας — _per le care Ore!_ (Aristea., _Lett_., I,
11). — Le _Ore_, ossiano le _stagioni_ (perchè ὡραὶ in Omero non vuol
dir altro, e la parola conservò tra i Greci lo stesso significato),
aveano tempj e riti e feste proprie in Atene, Corinto ed altre città.
Le si imploravano nella lor festa annua in Atene, siccome dee autrici
della fecondità o sterilità del suolo, del bel tempo e del sereno; per
aver propizie le stagioni e tener lontana la siccità, la grandine, ecc.
Libavasi ad esse insieme che alle Grazie ed a Bacco (Omero, _Iliad_.,
V; Esiod., _Teog._; Orfeo; Aten., II, 36 d.; 38 c.; XIV, 656 a. —
Casaub., 933. — Pausan., _Attic. Corint_., ecc.).

[410] πάλαι ποτ’ ἤσαν ἄλκιμοι Μιλήσιοι (Aristof., _Pluto_, 1002, 1075;
cfr. _Vespe_, 1060; Sinesio, _Lettere_, LXXXI). Proverbio significante:
_non sei più lo stesso d’una volta; son passati quei tempi_, ecc. Nella
parabasi delle _Vespe_ è il coro dei vecchi ateniesi che adopera,
applicandolo a sè stesso, e rimpiangendo la vigoria degli anni
giovanili, quella frase del proverbio.

[411] Apoll. Rod., _Argon_.; Alcifr., _Lett_., III, 38; Plauto,
_Anfitrione_. Indi l’epiteto di τριέσπερος che in Luciano e in
Licofrone è dato ad Ercole perchè generato in tre sere.

[412] Mercurio o Ermete (Ἑρμῆς) era invocato come loro speciale
protettore dagli usurai, dai trecconi, dai mercanti, dai barattieri e
simil gente. Al che accennano parecchi de’ tanti soprannomi ch’eran
dati a questo Dio: lo si chiamava infatti κερδῶς, _apportator de’
guadagni_ (Alcifr., _Lett._, III, 47); ἐριούνιος, _assai giovevole_,
portator di cose utili (Arist., _Rane_, v. 1144; Omero); ἀγοραῖος
_preside dei mercati_ (Arist., _Cav_., v. 297), nel qual caso gli
si poneva in mano una borsa; στροφαῖος, _astuto_ (Aristof., _Pluto_,
1153); ἐμπολαῖος, _presiedente ai contratti_ (Aristof., _Pluto_, 1155);
δόλιος, _conciliator delle furberie_ (Aristof., _Pluto,_ 1157; _Tesm_.,
1202). Lo si chiamava pure, secondo gli altri suoi vari attributi ed
officj, Mercurio ἀλεξίκακος, _stornator dei mali_ (Aristof., _Pace_,
422); χθόνιος, _terrestre, sotterraneo, guidator delle anime dei morti_
(Sof., _Elet_., 110; Aristof., _Rane_, 1126, 1145; Omero, _Odissea_,
24); ἔναγώνιος, _preside de’ giuochi agonali_ (Aristof., _Pluto_,
1161); δίακονος, _ministro degli Dei_; ἠγεμόνιος, _guida nei viaggi_
(Aristof., _Pluto_, 1559); πυλαῖος, _guardiano delle porte_; νόμιος,
_pastorale_ (Aristof., _Tesm_., 977). Cfr. sui molteplici officj di
Mercurio, Luciano, _Dial. degli Dei; Dial. dei morti_; ed Erasmo.

[413] Allusione proverbiale ad alcuni versi di Esiodo (_Oper._, v. 288
seg.). Così, per esempio, in Luciano: «La casa della virtù sta lontano
assai, come dice Esiodo...» (_Ermot._, 2).

[414] Cfr. in Aristofane: «Nemmeno una delle donne d’oggidì tu potresti
chiamar Penelope; Fedre le puoi chiamar tutte» (_Tesmof._, 549).

[415] Allusione proverbiale al verso di Omero nell’_Odissea_: Ἀσπάσιον
λέκτοριο παλαιοῦ θεσμὸν ἴκοντο. Dello sfoggiar di erudizione dei
parassiti in genere, e del nostro Cimoto in ispecie, si è già accennato
al quadro III, n. 37, 38.

[416] Sugli _arconti_, vedi quadro II, nota 6. 

[417] Dacchè in Atene s’istaurò il governo popolare, il comando delle
milizie fu ripartito fra dieci capitani o _strategi_ (στρατηγοί),
eletti dall’assemblea del popolo a maggioranza di suffragi, uno per
ciascuna delle dieci tribù. È noto il frizzo di Filippo il Macedone,
che diceva di invidiar gli Ateniesi perchè tutti gli anni trovavano
dieci uomini capaci di fare il generale, mentr’egli in tanti anni
non era riuscito a trovarne che uno solo. Tutti i cittadini, anche
dell’ultima classe, meno quelli colpiti d’infamia o morte civile
(ἀτιμία), potevano essere eletti a quella carica, purchè provassero
in apposito esame (δοκιμασία) di possedere i requisiti voluti dalla
legge per l’esercizio di una funzione pubblica (esser nato di genitori
liberi ed ateniesi, aver compiuto i doveri figliali verso di loro,
venerare gli Dei della città, aver servito onoratamente nell’esercito,
non aver commesso azioni disonoranti): e alcuni speciali prescritti
per la carica: aver figli e poderi nell’Attica, non aver liti pendenti
in giudizio, ecc. — Gli strategi venivano eletti, come tutti gli altri
magistrati, per un solo anno; potevano però essere rieletti; avevano
potere eguale, con attribuzioni diverse, e ciascuno di essi, per turno
quotidiano, avea il comando supremo; decidevano adunati in consiglio di
guerra, a maggioranza di voti; in caso di divisione di pareri, a evitar
ritardi nelle risoluzioni, aggiungevasi ai dieci capitani un altro
magistrato, il _polemarco_ (πολέμαρχος), il cui voto era in tal caso
decisivo. Al _polemarco_ spettava pure di diritto il comando dell’ala
sinistra dell’esercito. Gli strategi, insieme col comando supremo delle
forze di terra e di mare e con tutte le attribuzioni inerenti (liste
di leva, congedi, equipaggiamento, tribunali militari, ecc.), avevano
anche il diritto di convocare il popolo in assemblea straordinaria:
diritto non concesso che ad essi ed ai pritani del Senato. Essi erano
poi strettamente responsabili del loro operato in guerra e della
loro gestione all’assemblea. — Quanto al grado di capitano supremo
(στρατηγὸς, αὐτοκράτωρ), che fu dato ad Alcibiade al suo ritorno,
e il quale gli attribuiva la supremazia sugli altri nove strategi,
era un grado affatto eccezionale e non conferito che in circostanze
straordinarie. Per tutto il tempo che durò la repubblica d’Atene,
quattro soli ateniesi ne furono investiti.

Ai dieci strategi erano addetti, uno per ciascuno, e sotto la loro
immediata dipendenza, dieci _tassiarchi_ (ταξίαρχοι), che noi diremmo
_intendenti_, incaricati delle riviste, delle provvigioni, ecc. La loro
giurisdizione limitavasi alla fanteria.

La cavalleria era comandata, sempre sotto gli ordini degli strategi,
da due _ipparchi_ (ἴππαρχοι), i quali avevano alla loro volta sotto i
loro ordini dieci _filarchi_ (φύλαρχοι), uno pei cavalieri di ciascuna
tribù.

Gli ufficiali inferiori traevano poi il nome dalla specie delle armi o
dal numero degli uomini che comandavano. Tali i _chiliarchi_ (che noi
diremmo _colonnelli_), comandanti una chiliarchia (1,000 uomini, oltre
24 subalterni); i _pentacosiarchi_ (grado equivalente a un dipresso al
nostro di _maggiore_), comandanti 512 uomini; gli _ecatontarchi_ (che
sarebbero i nostri _capitani_), comandanti una compagnia, τάξις, di 128
uomini, a ciascuna delle quali era addetto un alfiere o portainsegna,
un trombetta e un furiere; i _tetrarchi_ (che diremmo _luogotenenti_),
comandanti una mezza compagnia o pelottone di 64 uomini, divisi in
4 lochi; i _locaghi_ (_sergenti_), comandanti un loco o squadra di
16 uomini; i _pempadarchi_ (_caporali_), comandanti una pattuglia di
5 uomini (Vedi Tucidide, Erodoto, Senofonte, Plutarco, Demostene,
Polieno, Arriano, Eliano, ecc. — Cfr. Suida, Arpocr.; Potterus,
_Archeol. gr._; Robinson, _Antiq. gr._, Grote, ecc.).

[418] Demostene, _C. Lettine_. 

[419] Ad Abido ed a Cizico, dove Alcibiade sconfisse in due gloriose
battaglie navali (411 e 410 av. l’E. V.) la flotta spartana di Mindaro,
si trovarono a combattere sotto gli ordini di Mindaro e come alleate
di Sparta anche le navi siracusane condotte da Ermocrate (Vedi Senof.,
_St. Ellen._, I; Diod. Siculo, XIII).

[420] «Raunato il popolo, dei mali sofferti Alcibiade non incolpò
che leggermente il popolo stesso, attribuendo la causa di tutto a una
qualche cattiva fortuna e a un demone geloso» (τινὶ τύχη πονηρᾷ καὶ
φθονερῷ δαίμονι) (Plut., _Alcib._, 33).

[421] «Si distese poscia a parlare intorno ai nemici, empiendo gli
Ateniesi di buone speranze» (Plut., _ibid._; Senof., _St. Ellen._, I;
Diod. Sic., XIII, 69).

[422] «Dalle navi, o Ateniesi, dipendono i nostri destini» (Demost.,
_Contro Androz._ — Cfr. il mio opuscolo _Alcibiade e la critica_, Op.,
IV, 283).

[423] «Ricordatevi, Ateniesi, i tempi in cui la gratitudine ai
benefattori della patria era sacra, e la colonna di Diofante, già
rammentata da Formione, nella quale è scritto, e voi lo giuraste, di
premiare _come Armodio ed Aristogitone, chi affronta danni e pericoli
per la libertà_» (Demost., _C. Lett._). Di un decreto simile di
ricompense per grandi servigi in guerra, promulgato in favor di Conone,
e inscritto dal popolo sopra una colonna o _stile_, è pur cenno nella
stessa orazione: «Conone ruppe in mare i Lacedemoni e ne cacciò dalle
isole i magistrati e rialzò le vostre mura, e primo vi fece emuli
di maggioranza a Sparta. Perciò a lui solo di tutti nella colonna
fu scritto: _perchè Conone liberò i confederati di Atene_... Donde i
contemporanei non pur gli concessero immunità dai pubblici pesi, ma a
lui primo, quale ad Armodio ed Aristogitone, posero statue in bronzo:
ben giudicando che non aveva spenta piccola tirannide l’oppressore
della possa spartana» (Demost., _ibid._).

[424] «Sovra tutto impose Solone di pubblicar le leggi innanzi
alle statue degli eroi e consegnarle al cancelliere, il quale nelle
pubbliche adunanze le legga, affinchè ciascuno, dal frequente udirle,
ratifichi sempre il giusto e l’utile» (Demost, _C. Lettine_). E
γραμματεῖς, _cancellieri_ o _notaj_, dicevansi appunto codesti
incaricati della custodia delle leggi e degli atti pubblici, dei quali
avean obbligo, in caso di richiesta, di dar copia e lettura al popolo
ed al Senato. Se ne nominavano tre: uno scelto dal popolo e incaricato
della lettura degli atti; gli altri due, scelti dal Senato e addetti
l’uno al protocollo delle leggi, l’altro agli archivi pubblici.
Venivano scelti ad ogni pritania: e duravano in funzione trenta giorni,
dopo i quali davan conto della gestione. Era, del resto, in Atene una
professione disprezzata dai cittadini e abbandonata ordinariamente ai
δημόσιοι, o servi pubblici, la maggior parte trascelti tra gli schiavi
forniti di qualche istruzione (Polluce, lib. 8; Ulpiano, sulla 2.ª
_Olint._; Libanio, sull’oraz. _Parapresb._).

[425] Il formulario delle leggi e dei decreti (νὸμος, ψήφισμα) presso
gli Ateniesi era comunemente quello che vediamo, con poche varianti
dall’uno all’altro, nei molti esempj citati nelle orazioni di Demostene
e degli altri oratori: e sulla scorta dei quali mi regolai nella
redazione del decreto di cui l’arconte ordina in questa scena la
lettura. Nelle sue formole più complete, il decreto d’ordinario recava
prima il nome dell’arconte epónimo in carica; poi successivamente
e per ordine, la data, la pritania, la designazione di chi aveva
convocato l’assemblea in cui il decreto era stato votato (se i pritani
o gli strategi, o secondo che trattavasi di assemblea ordinaria o
straordinaria); il nome di chi avea proposto il decreto; indi il
disposto del decreto; infine la indicazione dei funzionari incaricati
della esecuzione, e da ultimo la ripetizione del nome dell’autore della
proposta (Vedi Demost., _Corona_; _C. Timocr._, ecc.).

[426] Ossia il 25 di Targelione (Vedi quadro III, n. 7). 

[427] Vedi sulle pritanie, e sull’assemblee del popolo, quadro II, n.
59.

[428] Vedi sulle tribù di Atene, quadro I, n. 55. — Cfr. quadro II, n.
55.

[429] Plut. _Alc_., 33; Senof., _St. Ellen_., I, 4; Corn. Nep., _Alc_.,
6; Diod. Sic., XIII. 69.

[430] Delle Panatenée o feste di Minerva, vedi al quadro III, n. 59.
Le _Dionisiache_ o _Dionisie_ o _Baccanali_ (Διονύσια, Βακχεῖα),
ossia feste di Bacco, celebravansi nell’Attica con maggior pompa
di cerimonie e di riti che in tutte l’altre città della Grecia. Una
turba farneticante di uomini, gli uni travestiti da Satiri, da Pani e
da Sileni, gli altri raffiguranti Bacco, e il suo trionfo dell’India
e le sue gesta, inghirlandati di edera e di pampini, percorreva le
vie, trascinando capri destinati al sacrifizio, agitando in mano
i tirsi, e intrecciando danze disordinate al suon di flauti e di
tamburi, e a canzoni licenziose e alle grida di _Jacco! Jacco! Evoè!_
Dietro costoro venivano i portatori di vasi sacri, e i deputati
delle tribù, e fanciulle (_canèfore_) di distinta nascita recanti
sul capo canestri d’oro, pieni di frutta; indi una schiera di uomini
(_fallófori_) portanti i falli sospesi a lunghe pertiche; poi altri
uomini (_itifalli_) travestiti da donne, inghirlandati e contraffacenti
gli ubbriachi, poi i _licnofori_ o portatori del ventilabro mistico di
Bacco. — La processione, sfilando di notte, fermavasi ne’ campi e nelle
piazze a offerir vittime a Bacco, tra un concorso immenso di forestieri
e popolo accalcato sui tetti e nelle vie, e al chiarore delle migliaia
di fiaccole scintillanti. Durante le Dionisiache era grave delitto dar
molestia qualsiasi a un cittadino, foss’anche un debitore. — Di tali
feste ve n’erano parecchie: _le grandi Dionisìache_ o _Dionisìache
urbane_, fra tutte le più celebrate, si festeggiavano dentro la città,
con pompa affatto eccezionale, nel mese di Elafebolione, tra la fine
di marzo e i primi d’aprile. Le _piccole Dionisìache_ o _Dionìsie
rurali_, _Baccanali campestri_, servivano di preparazione alle prime e
si celebravano d’autunno alla campagna. — Altre feste infine, dedicate
a Bacco, erano le _Dionisie Lenée_, o _Lenée_ semplicemente (ληναῖα),
cioè _feste dei torchi_ o strettoj. Eran dette anche _Antesterie_ o
_floreali_. Festeggiavansi alla campagna, in onor di Bacco Leneo, ossia
_torchiatore_ (λήναιος), nel mese di Antesterione (febbrajo-marzo) e
duravano tre giorni. Il primo di essi, ch’era l’11 del mese, dicevasi
festa delle _botti_ (πιθοιγία), perchè in esso si spillavan le botti;
il secondo festa delle _coe_ o _cogna_ (χοεύς), ossia delle _libazioni
mortuarie_, in cui cioncavasi copiosamente, e chi riusciva a bere la
misura di un cogno aveva in premio un otre e una ghirlanda. Il terzo,
festa dei _chitri_, ossia delle pignatte (χύτροι), in cui offerivansi
legumi cotti entro una gran pignatta, in suffragio dei morti, a
Mercurio sotterraneo.

Le _Panatenée_, le _Dionisìache_ e le _Lenée_ erano le tre solennità
dell’anno in cui avean luogo le gare teatrali delle tragedie e
delle commedie nuove. Concorrevano al premio i tragici e i comici,
presentando le loro composizioni al primo arconte, il quale, dopo
approvatele, assegnava al poeta un coro, la spesa del quale e del
rimanente apparato era a carico dei più ricchi cittadini (vedi
quadro IV, n. 29) e teneasi ad onore grandissimo. Il poeta sceglieva
allora tra gli attori quello in cui avea più fiducia per dargli la
direzione dello spettacolo, e si adoperava di concerto con lui perchè
tutto andasse per il meglio. Venuto il dì della rappresentazione,
la sorte fissava l’ordine in cui i drammi dei concorrenti doveano
rappresentarsi: e finita la recita, cinque giudici a ciò delegati
proclamavano il vincitore in ciascuna delle gare. Tutti i comici e gli
istrioni erano obbligati a ritrovarsi per il tempo di queste gare in
Atene sotto pena di ammenda: come toccò al comico Atenodoro: tanta era
l’importanza che annettevano gli Ateniesi a questi spettacoli, nello
allestimento dei quali si profondevano tesori (Cfr. _Alcib., la critica
e il secolo di Pericle_, Op. IV, 294). — (Vedi Aristof., _Acarn., Ucc.,
Rane_ e scol.; Eurip., _Bacc_.; Demost., _C. Lett., C. Mid., Corona_;
Alcifr., _Lett_.; Corsini, Meursius, Potter, Robinson, ecc.).

[431] Vedi in Demostene, nell’orazione per la _Corona_, intorno al
premio della corona d’oro, per servizi militari o politici, e al bando
della stessa nei giorni delle gare teatrali, l’accusa di Eschine contro
Demostene, il decreto di Aristonico e i decreti di Callia Frearrio e
di Ctesifonte Anaflistio, nonchè la legge ivi citata. «_Se alcuno è
incoronato da un borgo, il bando si faccia nel borgo istesso; ma se la
corona è data dal popolo ateniese o dal Senato, sia lecito pubblicarla
in teatro ne’ Baccanali_» (Cfr. Eschine, _C. Ctesif_., p. 58).

[432] Vedi in Demostene (_Corona_) i decreti citati di Aristonico e di
Callia Frearrio. — _Agonotéti_ diceansi i magistrati sopraintendenti
ai giuochi e agli spettacoli teatrali. Fra le loro attribuzioni
era il bando della corona da conferirsi in occasione dei certami
drammatici, e la facoltà di punire gl’istrioni che negli spettacoli
non rappresentassero convenientemente la loro parte (Demost., _ibid._ —
Cfr. Luciano, _Pescatore_).

[433] Plutarco (_Alcib_., 33) nomina espressamente Crizia figlio
di Callescro, il medesimo che fu poi uno dei trenta tiranni, come
autore del decreto pel richiamo di Alcibiade. Al qual richiamo il
popolo aggiunse in favor di Alcibiade le altre disposizioni, revoca
della confisca, corona d’oro, ribenedizione, ecc., che in Plutarco si
leggono.

[434] Scriveva l’accusatore, o la parte civile, nell’accusa la pena
di cui chiedeva l’applicazione. Vedi, per esempio, in Diog. Laerzio,
l’accusa di Melito: «Socrate delinque corrompendo i giovani, non
credendo i Numi che la città crede, ma sì altre nuove cose demoniache.
_Pena la morte_.» — E in altra legge sul buon costume: «Se un Ateniese
farà oltraggio a un libero fanciullo, lo accusi ai tesmoteti chi ha in
balia il fanciullo, _e scriva la pena_. Se condannato nella persona,
sia ucciso lo stesso dì» (Esch., _C. Tim_.).

[435] Gli _Undici_ (οἴ ἔνδεκα), così chiamati dal loro numero,
erano una magistratura di dieci cittadini, scelti uno per tribù, cui
aggiungevasi per undecimo un cancelliere. Avevano la custodia delle
prigioni e sorvegliavano l’esecuzione dei condannati a morte, che ad
essi venivano dopo la condanna consegnati; avevano pure il diritto
di arrestar le persone sospettate di furto e anche di porle a morte,
se rei confessi, e di trascinare davanti agli eliasti quelli che
ricusavano il servizio militare o che abbandonavano in guerra i loro
posti. Il così detto _servitore degli Undici_ (ὄ τῶν ἔνδεκα ὑπερὲτης)
era il carnefice (Plat., _Fed._, 216; Demost., _C. Midia, C. Timoc.,
C. Lacrit._; Aristof., _Vespe_; Alcifr., _Lett._., III, 22; Lisia, _C.
Agorat._; Esch., _C. Ctesif._, ecc.).

[436] Vedi intorno alle classi d’Atene, e alle cifre rispettive del
reddito e dell’imposte, la nota 3 all’elenco dei personaggi.

[437] Cfr. quadro II, nota 26. — Nei tempi eroici la ripartizione
delle spoglie fu riservata tra i Greci al capitano supremo, che se
ne teneva una parte, e distribuiva il rimanente fra i subalterni ed
i soldati (Omero, _Iliad_., 9; _Odiss_., lib. 9, 14). Al tempo della
guerra persiana, vediam le spoglie prese dai Greci a Platea ripartirsi
fra i soldati, dopo levatane una parte per i templi degli Dei e una
parte per le ricompense ai migliori (Erod., lib. 9; Plut. in _Arist_.).
Più tardi, all’epoca del dramma nostro, benchè la legge attribuisse
ai capitani le spoglie (Siriano in _Hermog_.; Meurs., _Them. Att_.,
I, 11), vediamo i capitani depositarle nel tesoro pubblico, dopo
trattenutane una parte — qualche volta il terzo — per sè e una parte
per i soldati segnalatisi maggiormente (Plut., _Cim., Agesil_.; Corn.
Nep., _Timot., Cim., Agesil_.; Senof., _St.ª Ell., Agesil_.; Polieno,
_Stratag_., ecc.).

[438] Modo proverbiale «Una fune d’Aliarto mi occorre, e penzolerò
appiccato davanti alla porta Dipila, se la fortuna non pensa ad
aiutarmi» (Alcifr., _Lett_., III, 49). — Aliarto, città in Beozia sul
lago Copaide, ove si fabbricavano ottime funi.

[439] L’usanza degli elogi e delle orazioni funebri sembra d’origine
antichissima tra i Greci; Cicerone la riguarda come esistente fra
loro sin dai tempi di Cecrope (_de Legib_., II, 25). Ma la legge che
prescriveva queste orazioni come appendice ai funebri onori, è dallo
scoliasta di Tucidide (II, 35) attribuita propriamente a Solone: vero
è che, prima delle guerre persiane non riscontrandosi di pubblici
elogi funebri esempio alcuno, Dionigi d’Alicarnasso e Diodoro Siculo
ne assegnano al tempo di quelle guerre la introduzione. «_Tardi gli
Ateniesi aggiunsero alla legge dei funebri onori la orazione funebre,
avendo cominciato a recitarla su quelli che per la patria erano morti
o ad Artemisio o a Salamina o a Platea o a Maratona_» (Dion. Alic.,
_Antiq. Rom_., V, 291). Ancor più preciso Diodoro dice l’uso di questi
discorsi introdotto dopo la battaglia di Platea (Diod. Sic., XI,
33): e il Peyron (_note_ a Tucidide) si attiene senz’altro a Diodoro.
Meglio forse il Bulwer (_Atene_, lib. V, c. 3) spiega la discordanza
in questo senso, che l’usanza dei discorsi funebri andò man mano,
dai tempi eroici remotissimi in poi, perdendo d’importanza durante le
piccole gare fra gli Stati greci: ma dopo le guerre persiane quella
usanza fu rinnovata con solennità per la grandezza della lotta e la
dignità e la santità della causa a cui i morti eransi consacrati. Il
primo esempio a noi giunto di discorso funebre ateniese è quello di
Pericle pei morti di Samo: ove i guerrieri caduti per la patria son
_pareggiati agli Immortali_, e li si piangono _così scomparsi dalla
città come se dall’anno fosse tolta la primavera_ (Plut., _Peric_.;
Aristot., _Rhetor_., III, 10). Ma di tal genere d’eloquenza due modelli
perfetti fra tutti rimasero meritamente celebratissimi nell’antichità:
il discorso di Pericle pei morti nella guerra del Peloponneso che
Tucidide udì e ci trasmise (II, 35), e l’altro sullo stesso argomento
che Platone pose in bocca ad Aspasia nel _Menesseno_. Altri esempj,
meno insigni, a noi giunti, sono i discorsi funebri di Lisia sugli
Ateniesi andati in soccorso ai Corinzj, di Demostene pei morti di
Cheronea, e di Iperide pei morti nella guerra Lamìaca. — Caduta poi la
Grecia sotto il giogo dei Romani, e sparita da Atene l’antica dignità
dei costumi repubblicani, le orazioni funebri cessarono di essere
quello che Demostene (_C. Lett._) ricordava come un vanto di Atene,
cioè un onore impartito solo ai fortissimi e ai benemeriti della città;
ma si moltiplicarono per chicchessia, fino a divenire anche in Atene
quel banale e bugiardo esercizio di retorica, che è spesso ai dì nostri
fra noi: tanto che a persona spregiatissima e inferiore ad ogni lode
si dica per proverbio: οὔκ ἐπαινεθείης οὐδ ἔν περιδείπνῳ — _non sarai
lodato neppur con orazion funebre_ — ch’è tutto dire! (Confr. quadro V,
n. 60).

[440] Sugli Eumòlpidi, e dignità sacerdotali, vedi quadro II, nota 72;
quadro IV, nota 14.

[441] Cerere e Proserpina. In quella guisa ch’elle formavano un ciclo
mitico distinto dal resto della mitologia greca, così pure affatto
distinto da quello degli altri dèi dell’Olimpo raggruppati intorno
a Giove, e presiedenti alla _vita_ degli umani, era il culto che
fra i Greci avevano Cerere e Proserpina e in generale tutta quella
categoria di divinità dai Greci venerate sotto il nome di _ctoniche_
o _sotterranee_: Numi presiedenti dall’oscurità profonda, dalle
viscere della terra, ai destini d’_oltre tomba_ ed alla vita futura.
Da codesto isolamento derivò al culto di queste divinità il carattere
di _misteri_, ossia di riti religiosi, a cui nessuno senza speciale
iniziamento poteva assistere: e la dottrina stessa dell’immortalità,
su cui questi riti si appoggiavano, aveva appunto nel mito di Cerere
e Proserpina, adorate al ritorno di primavera fra i misteri d’Eleusi,
la sua simbolica rappresentazione. Proserpina (Persefone) nell’autunno
di ogni anno è rapita alla luce del mondo di quassù e trasportata nel
tenebroso regno dell’Orco (Αἶδης), ov’è assunta all’impero sulle ombre
dei morti; ma ad ogni primavera ella ritorna nel mondo superiore, fra
le braccia di sua madre, la terra (Δῆ μήτηρ, γῆ μήτηρ), splendida di
rinnovata bellezza giovanile; è il ritorno della vita vegetativa nella
vicenda delle stagioni: ma se la dea della morta natura era pur quella
che esercitava il dominio sui trapassati, il suo ritorno alla luce
dovea significare anche per l’uomo una palingenesi, un rinnovamento
di vita. Indi Pindaro celebrando i misteri sacri in Eleusi alle due
Dee «_Beato_, cantava, _chi li ha veduti, e poi discende sotto la cava
terra: egli conosce il fine della vita, e il principio di essa dato da
Dio!_»

[442] 

    .... veggo in supplichevol atto 
    Là un uom seder, sangue la man grondante, 
    Nudo il ferro nel pugno... Dorme 
    Stesa sopra i sedili intorno a lui 
    Una di donne orribilmente strana 
    Torma... Donne non già: Gorgoni dico... 
    Ma nè Gorgoni pur, nè somiglianti 
    Sono a quell’altre che dipinte vidi 
    Rapir le cene di Finéo. Senz’ali 
    Son queste e negre e abominande in tutto. 
    Russan con ributtanti aliti: un tristo 
    Umor cola dagli occhi; il vestimento 
    Qual non lice indossar nè visitando 
    I seggi degli Dei nè dei mortali 
    Le case entrando. Una simil genìa 
    Non vidi io mai: terra non è che possa 
    Di nutrir cotal razza impunemente 
    Senza dolor nè lagrime vantarsi. 
          (Eschilo, _Eumen._, V, 40-59, trad. Bellotti). 

Tale è il terribile ritratto con cui il genio di Eschilo presentava
alle fantasie ateniesi le _Furie_ od _Erinni_, dormenti intorno al
matricida Oreste; persecutrici implacabili, secondo l’idee greche,
di qualsivoglia misfatto anche involontario, e però simboleggianti
non tanto il grado della colpa e del rimorso interno, quanto, e più
propriamente, l’orrore che accompagna ogni delitto, siccome quello
che, per qualsiasi causa commesso, sconvolge sempre l’ordine di
natura (cfr. quadro IV, nota 15). Epperò in Eschilo le Erinni, siccome
ministre dello spettro di Clitennestra, vendicano il matricidio senza
pur chiedere nè delle cagioni, nè d’altro; ma come per una legge
inesorabile del destino, più forte della clemenza stessa dei Numi,
indipendente dai tormenti minacciati ai colpevoli nell’Erebo. «_È
legge che ogni stilla di sangue sparso sulla terra chiami altro sangue:
poichè alla vendetta grida l’Erinni e aggiunge morte a morte_» (Esch.,
_Coef._, 392). Perciò sovr’esse non può nulla, neppure la purificazione
che Apollo ha concesso ad Oreste in Delfo; e della quale appunto esse
si lagnano accusando il Nume come violatore dei _diritti delle Parche_.
Apollo non ha potuto che immergerle per poco in un sonno leggiero da
cui subito, alla chiamata dello spettro dell’ucciso, elle si levano
per inseguire Oreste; ed è infine con Apollo stesso, ch’elle non
esitano di venir a contesa per i propri diritti sul matricida, dinanzi
all’Areopago d’Atene. Ma qui i voti dei giudici si pareggiano, e solo
il voto di Minerva decide a favor di Oreste la lite. Allora tocca a
Minerva placar di nuovo gli sdegni delle Dee defraudate della preda:
finchè da Minerva ammansate, accettano da lei l’invito di fermar dimora
in Atene e promettono di esser sempre benefiche a quella città.

    Sì, con Minerva accetto 
    Qui fermar mia dimora, e mai nè spregio 
    Opporrò nè dispetto 
    A questo suolo egregio 
    D’are cultor... e con benigna mente 
    Che nel futuro vede 
    Qui pregherò che ognor fulgida e pura 
    Luce spargendo il sole 
    Copia produca d’ogni ben natura. 
             (Eschilo, _Eumen._, 922 seg.) 

Ed ecco come le _Furie_ od _Erinni_ (Εριννύες) — le _terribili dive,
figlie della terra e della notte_ (Sofocl., _Ed. a Col._, v. 39;
Esch., _Eumen._, 424), le _ancelle dell’Orco_ (Plut., _De exil._),
_nate dal sangue_ di Urano sparso sulla terra (Esiod., _Teog._, 185),
le dee _inespugnabili, tremende a nominarsi_ (Sofocl., _Ed. a Col._,
124), succhiatrici del sangue dei viventi (Esch., _Eum._, 258, 269),
— si trasformassero in divinità benefiche od _Eumenidi_ (Εὐμενίδες); e
ottenessero culto ed are e sacrifici sotto il nome di _Dee venerande_
(σημναί), protettrici di Atene. Eccole fatte pietose allo stesso misero
Edipo; e là in Colono, nel bosco sacro e nel santuario di quelle Dee
da cui fu sì a lungo perseguitato, Edipo ritrova la pace e la fine
dei suoi patimenti (Sof., _Ed. a Col._). È all’ara delle Eumenidi che
accorsero a cercare misericordia ed asilo Cilone e i suoi complici;
e aver violato l’asilo fu tenuto per massimo sacrilegio verso le Dee
(Tucid., I, 145. — Cfr. quadro III, n. 45; quadro IV, n. 32).

[443] «Decretarono pure (gli Ateniesi) che gli Eumolpidi e i banditori
(_cérici_) ritrar dovessero le maledizioni che contro lui fatte avevano
per commissione del popolo» (Plut., _Alcib._, 33).

[444] Il _cradies nomos_, ossia, tradotto, l’_aria del ramo di fico_
(κραδίης νόμος), era una particolare melodia la quale cantavasi nelle
feste Targelie. (ricorrente nell’Attica, al mese di Targelione, ch’è
appunto il mese in cui avvenne il ritorno di Alcibiade e in cui
qui supponesi l’azione): e s’intonava nel momento in cui, durante
quelle feste, gli uomini colpiti dalle maledizioni (φαρμακοί) erano
discacciati, con rami di fico, dalla città, affinchè questa fosse
purificata. — Il poeta elegiaco Mimnermo, verso il 620 av. l’E. V., ne
fu l’inventore, secondo attesta Ipponatte (Plutarco, _Della musica_,
9). — Esichio, alla voce κραδίης νόμος.

[445] _Iidemque illi Eumolpidae sacerdotes rursus resacrare sunt
coacti, qui eum devoverant: pilaeque illae, in quibus devotio fuerat
scripta, in mare precipitatae_ (Corn. Nep., _Alcib._, 6). Dell’uso
greco di gettare lapidi o masse roventi di ferro in mare, praticato nei
riti delle imprecazioni, si hanno parecchi esempi. Così allorquando
la confederazione jonica strinse in Delo il patto federale, Aristide
lo fece giurare agli altri Greci, lo giurò poi egli stesso in
nome di Atene, e quindi fatte le imprecazioni contro chi lo avesse
violato, gettò in mare, a suggello delle medesime, le masse di ferro
arroventate; a significare che se mai il giuramento degli alleati
non durasse più del ferro, la loro vita dovesse spegnersi così presto
come il calor del metallo nell’acqua (Erod., I, 165. — Cfr. Callim.,
_Inni_).

[446] Vedi quadro III, n. 45. 

[447] Qualche critico erudito, credendo dar prova di gusto fino,
classificò, arricciando con sussiego il naso, questo dialogo del
sacerdote fra le allusioni banali d’attualità, e le solite volgari
tirate contro i preti, a cui ricorrono gli autoruzzi per aver gli
applausi del popolino. Se i preti al dì d’oggi sian sempre su per
giù gli stessi d’una volta, non è questione che mi riguarda; e
proprio non ci ho pensato: ma che il sacerdote mio sia fratello
carnale dei sacerdoti ed indovini di cui, all’epoca del dramma mio,
i comici satireggiavano come proverbiali la rapacità e l’impostura
e l’avidità degli inviti a pranzo e dei succulenti sagrificj — di
questo basterebbe, ad accorgersene, il dare una scorsa al _Pluto_,
o alla _Pace_, o agli _Uccelli_ di Aristofane. Taccio degli altri
comici; e taccio di Luciano. Senza di che, niente potrebbe immaginarsi
di più satirico del racconto che fa ingenuamente il buon Plutarco di
questa stessa palinodia delle maledizioni contro Alcibiade revocate; e
questo obbligavami a porre in iscena cogli altri tipi caratteristici
dell’epoca anche quello dei sacerdoti, il dipingerli diversi da quel
che essi erano, e che Aristofane li dipingeva, mi sarebbe parsa una
_finezza di gusto_... che lascio ai critici _eruditi_ dal _gusto fino_
(Cfr. quadro II, n. 53).

[448] Del disinteresse di Socrate, sprezzatore di regali e di
ricchezze, e del come egli ricusasse in parecchie occasioni i doni e
le liberalità di Alcibiade, è testimonianza in Platone (_Simposio_,
219 e.; Elian., _V. St._, IX, 29; Stobeo, 17). Per i quali rifiuti
Alcibiade diceva di lui, ch’era più difficile il vincerlo coi doni e
coll’oro che non il vincere Ajace col ferro (Plat., _ibid_.).

[449] Vedi quadro III, n. 16. — È superfluo avvertire che i _cenotafj_
(κενοτάφια ossia _tombe vuote_) distinguevansi dai veri sepolcri
(τάφος, τύμβος) o monumenti sepolcrali (μνημεῖον), per questo ch’essi
non contenevano le ceneri del defunto (Eurip., _Elen_., 1255; Callim.,
_Epigr_., 18). V’eran due sorta di cenotafj: quelli innalzati alla
memoria dei morti ch’erano sepolti altrove (Pausan., _Attic_.,
_Messen_.) e quelli dedicati ai morti di cui non si era potuto più
ritrovare il cadavere. Secondo la credenza volgare, le anime dei
morti privi di sepoltura erravano cento anni sulle rive di Stige,
senza poter metter piede nell’Erebo; perciò i cenotafj dovevano por
fine ai loro patimenti (Senof., _Anab._, VI; Tucid., II, 34). Indi la
cura del sepolcro era tanta che quelli i quali trovavansi in procinto
di naufragare si mettevano a bella posta in tasca quant’oro avevano
per trovare più facilmente chi si prendesse il pietoso incarico di
seppellirli (Sines., _Lett._, 4. — Cfr. Alcifr., _Lett._, I, 10). I
cenotafj recavano per segno distintivo un frantume di nave (ι᾽κρίον)
a significare che le persone a cui erano dedicati erano morte lontano
dalla patria (Cfr. quadro V, n. 60; e Robinson, _Antiq. gr._; Becker.
_Char._, ecc.).

[450] Vedi quadro III, nota 49. — Dell’affezione e riverenza di
Alcibiade per Socrate si è già accennato nella scena prima ed ultima
del quadro I e nelle note alle medesime, nonchè nelle note 47-50
del quadro III. Potrebb’essere qui il luogo di toccare la questione
troppo più delicata, della natura dei rapporti fra Socrate ed
Alcibiade, e della taccia rimasta nella volgare tradizione, siccome
una turpe macchia pel nome del grande filosofo. Questione trattata,
pro e contro, da parecchi, e assai superficialmente, a parer mio:
cioè senza prima risalire alla vera origine e al carattere primitivo
dell’amor maschile fra i Greci, considerato come antica istituzione
ellenica; sia che di questa istituzione vogliansi già ritrovare, con
Eschine (_C. Tim._) le traccie nella fratellanza d’armi di Achille e
di Patroclo, o con Luciano (_Amori_, 47) nell’amicizia di Oreste e di
Pilade. Luciano stesso, pur riserbando le sue opinioni un po’ diverse
sulla materia, fa una pittura vivace e caratteristica (_ivi_, 46) di
quel sentimento primitivo; sentimento in cui di certo avevano parte
l’inclinazione _sensualmente artistica_ e il culto tutto proprio de’
Greci per la bellezza fisica, per la giovinezza, per la vigoria: ma
che ciò nullameno l’antica civiltà greca concepiva essenzialmente in
un senso elevato, come un’intima e pura corrispondenza delle anime,
come un vincolo inteso a rafforzare nei giovani il valore e la virtù
col cemento dell’affetto e dell’emulazione (Cfr. Plat., _Simp._, 178 e
seg., _Rep._, III, 403; Senof., _Rep. Lac._, 2, 13; Plut., _Pelop._):
vincolo affatto scevro da ogni idea del turpe vizio che i Greci
conobbero più tardi con quel nome:

    _Pudico amore che a virtù congiunto_ 
    _D’ogni alma esser dovria dolce sospiro — _ 

lo chiama lo stesso Euripide, da Eschine citato (_C. Timarc_.). Vero
è che questa facoltà di _astrazione_ in un sentimento di tal natura,
questa facoltà di intenderlo come un sentimento puro ed etereo, in
quella guisa che appare assai poco spiegabile e molto equivoca alle
idee moderne, così prestava già il fianco agli epigrammi del malizioso
Luciano il quale, vivendo all’epoca della corruzione romana, aveva
le sue buone ragioni di esser incredulo: ma certo essa esisteva
realmente nelle idee e nel costume dell’antica Grecia, se in tempi
già corrotti, potè strappare a Filippo il Macedone, dinanzi ai
cadaveri del battaglione degli amanti tebani, caduti eroicamente a
Cheronea, la famosa apostrofe: _Maledetti coloro i quali sospetteranno
che siffatti giovani potessero mai commettere o subire alcuna cosa
turpe!_ (Plut., _Pelop_., 18). E certo astraevano i Greci da ogni idea
d’amor turpe, allorchè celebravano come affetto sublime e glorioso
l’amor di Achille e di Patroclo, di Ercole e di Jolao, di Armodio e
di Aristogitone (Esch., _C. Tim_.; Plut., _Pelop_.; Plat., _Simp_.,
179), e attribuivano a quell’amore la potenza di _infondere la virtù
nell’animo più ignobile_, e l’amante esaltavano come _uomo divino, più
ancor dell’amato, perchè pieno dello spirito di un Dio_ (θειότερον
γὰρ ἐραστὴς παιδικῶν, ἔνθεος γάρ ἔστι — Plat., _ib_.). È appunto di
quella distinzione fra l’amore onesto dei fanciulli e l’amor turpe che
parla Callimaco (_Framm_., 107) raccomandando il primo coll’autorità di
Senofonte:

    «_Voi che ai fanciulli avete gli occhi ghiotti_ 
    _Se li amaste così come vi dice_ 
    _L’Erchio_ (Senofonte) _di amarli, la città di prodi_ 
    _E valenti garzoni fiorirebbe_» (πόλιν κεύανδρον ἔχοιτε). 

E Callicratide, commentando que’ versi nella disputa degli Amori:
«Con questa intenzione o giovani accostatevi modestamente ai buoni
fanciulli e _non nascondete libidini sotto falsa amicizia, ma adorando
l’amore celeste,_ serbate dalla fanciullezza alla vecchiaia _puri_ e
saldi i vostri affetti: quelli che così amano di nessuna disonestà la
coscienza li rimorde, e dopo la morte vanno celebrati nel mondo» (Luc.,
_Am_., 49). Di fronte ai quali elogi dell’amor puro, appare doppiamente
caratteristica la nota di infamia di cui i Greci stessi segnarono la
criminosa passione del tebano re Lajo per Crisippo, stimmatizzati da
Eschilo e da Euripide come i primi introduttori del vizio abominando
(Cfr. Plut. in _Pelop_.).

Che poi quella distinzione, fra amore e amore, la quale a noi sembra
necessariamente strana, esistesse positivamente non soltanto nelle
idee, ma anco nelle leggi della Grecia antica, in ispecie dei popoli
dorici, ne abbiam documenti in Cicerone, il quale attesta che fra’
Lacedemoni ogni attestato di simpatia era permesso nell’amor dei
giovani, tranne lo stupro («_omnia concedunt in amore juvenum praeter
stuprum_.» — Cic., _De rep_., 4, 4): e in Eliano, che afferma: «l’amore
maschile a Sparta _nulla conobbe di turpe_» (αἰσχρὸν οὔκ οἴδεν. — _V.
St_., III, 12); e documento ancor più irrefragabile in Senofonte:
«Licurgo determinò che se un uomo per bene, acceso della bellezza
di un fanciullo, bramasse farlosi amico virtuosamente, e conversar
seco, si lodasse un tale affetto e si giudicasse questo costume per
onoratissimo. Ma se veniva a luce che alcuno desiderasse il corpo
del fanciullo, questa cosa parendogli sozza fuor di modo, ordinò che
fra’ Lacedemoni gli _amanti si guardassero da usare coi fanciulli
amati, non altrimenti che ne’ piaceri amorosi i padri si guardino de’
figliuoli, i fratelli dai fratelli_» (Sen., _Rep. Lac._, II. — Cfr.
Elian., _V. St._, III, 10): proprio le stesse parole che Alcibiade
adopera nel _Simposio_ di Platone, riguardo a’ proprj rapporti con
Socrate (_Simp_., 219). Un’ultima testimonianza è in Massimo Tirio;
ed è fra tutte la più notevole, perchè ritrae mirabilmente qual parte
avesse in quell’affetto il senso artistico particolare dei Greci: «Non
doveva uno Spartano amare un giovane che _come avrebbe amato una bella
statua_, ἑρᾷν μόνον ᾤς ἀγάλματος καλοῦ. — Infine sappiamo da Plutarco e
da Eliano che lo stupro fra gli amanti era a Sparta notato di perpetua
infamia (Plut., _Istit. Lac_.) e punito coll’esilio e colla morte
(Elian., _V. St_., III, 12).

Naturalmente, che rapporti di tal fatta tra uomo e uomo non fossero,
pure in mezzo all’austerità e _sofrosine_ dorica, affatto immuni da
pericolo e potessero dar luogo ad abusi, queste leggi stesse di Licurgo
lo provano: troppo _tenue muro_, per dirla con Cicerone, separava il
lecito dall’illecito (_tenui sane muro dissaepiunt — Lacedaemoni — id
quod excipiunt_. — _De rep_., 4, 4): e Luciano, che pare la sapesse
lunga, trovando che «_non è cosa piacevole star gli interi giorni
con un garzone e patir le pene di Tantalo_» e che «_Amore va per una
scala di cui la virtù non è che il primo gradino_,» si divertì anche a
dimostrar in che modo il muro facilmente potesse essere scavalcato. Non
è quindi meraviglia se fra popolazioni meno austere delle doriche, e
più dedite ai piaceri, lecito ed illecito si confondessero: e dai molli
climi della Lidia e della Jonia si propagasse nella Grecia in tempi
posteriori la nefanda usanza che Senofonte già ne addita (_Rep. Lac_.,
I, c.) invalsa a’ suoi tempi fra gli Elei, e che le leggi ad Atene
come a Sparta e in altre parti della Grecia vegliavano severamente a
reprimere, fino a che più forte delle leggi divenne la corruzione dei
costumi, foriera della conquista macedone e romana.

Ora che Socrate proseguisse d’intenso affetto Alcibiade, rilevasi
senz’altro dalle numerose testimonianze di Senofonte e di Platone: e
difficilmente si saprebbe, per troppo scrupolo, fare differenza fra
quell’amor maschile che Licurgo (l’ideale della scuola socratica)
iscriveva nelle sue leggi, che Euripide, che Callimaco, che Plutarco
commendavano, e il sentimento che traeva Socrate assiduamente e
_sempre_ e _in ogni luogo_, sulle peste del suo alunno, proprio come
«_alla caccia della bellezza di lui_» fino al punto d’infastidirlo
certe volte di quella sua assiduità (Plat., _Prim. Alc_., 104;
_Protag_., 309). Ma da qui al vizio turpe che fu poi a Socrate
attribuito, correa, come vedemmo, nelle idee greche la stessa
distanza che dalla virtù all’infamia: ed è un fatto incontrastabile
e notevolissimo che quella odiosa accusa contro Socrate non partì da
nessuno dei suoi contemporanei, ma solo da scrittori di data assai
posteriore, viventi in tempi di corruzione, in cui quella infamia
era generalmente penetrata nei costumi. È sulla fede di poche linee
del calunnioso Aristosseno (frammenti 25, 27, 28) che quell’accusa fu
ciecamente riprodotta senz’esame e ben tardi da Cicerone, da Plutarco
e dal caustico Luciano, il quale ci mostra Socrate nell’inferno
alla caccia dei bei garzoni: e altrove scherzando sull’assicurazione
di Platone, che cioè Alcibiade avesse dormito con Socrate sotto la
stessa clamide come dorme un figliuolo con suo padre (Plat., _Simp_.),
tentenna il capo con incredulità maliziosa e objetta malignando che
«_Socrate era un amadore come ogni altro, e se Alcibiade si corcò
con lui sotto la stessa coltre, non se la passò così netta_» (Luc.,
_Amori_). E altrove ancora: «_Socrate giurava di non far cattivi
pensieri quando accostavasi ai garzoni: ma molti temevano che Socrate
spergiurasse_» (Luc., _Storia vera_). Alcuni aggiunsero agli accusatori
Giovenale, in causa d’un suo verso — _Inter Socraticos notissima
fossa cynaedos_ (Sat., II, v. 10), — dove probabilmente, secondo
molti commentatori, l’error di un copista pose _Socraticos_ invece
di _Sotadicos_ — dal nome non di Socrate, ma di _Sotade_, poeta per
lascivie famoso e autore di versi oscenissimi, da Suida qualificati
_versus cynaedos_. Ma per l’opposto, come dissi, sta il fatto che
finchè Socrate visse, e nei tempi a lui più vicini, quell’accusa
non gli fu mossa da nessuno, neppure (ciò che più importa) da’ suoi
stessi nemici. Nè Aristofane nelle _Nubi_, nè Melito nella sua accusa
(Plat., _Apol_.; Diog. Laerz., _Socr_. — Cfr. Senof., _Apol_.) ne fanno
menzione. È vero che Melito accusa Socrate di _corrompere la gioventù_
(ἄδικει δὲ καὶ τος νὲους διαφθείρων), ed anzi è da questa frase
staccata che si credette poter indurre il maggior argomento a sostegno
della turpe taccia. Ma quelle parole non sono se non il commento delle
altre dell’accusa a cui immediatamente si legano, che cioè Socrate
delinque _non credendo gli Dei che la città crede, bensì altre nuove
cose demoniache_ (οὔς μὲν ἤ πόλις νομίζει θεοὺς οὔ νομίζων, ἕτερα δὲ
δαιμόνια καινά) e che ciò sia, che cioè l’imputazione di Melito si
riferisse puramente e solamente alla dottrina religiosa e politica
di Socrate, si rileva in modo irrefragabile, a non dubitarne, dalla
risposta di Socrate stesso: «Rispondi, o Melito: Come corrompo io,
per tuo dire, i giovanetti? Non forse, _siccome dal tenore dell’accusa
scritta_ (ὄτι κατὰ τὴν γραφὴν), insegnando a non credere i Numi che la
città crede, sibbene altre cose demoniache nuove? non di’ tu _ch’egli
è insegnando tai cose_ (ὄτι ταῦτα διδάσκων) ch’io li corrompo? —
Mel. _Al tutto dico così_» (Plat., _Apol_., c. 14). Neppure dunque
la più piccola, la più lontana allusione allo infame vizio; e sì,
Melito non era l’uomo da lasciarsela sfuggire: ed è ben a credersi,
che quei suoi nemici implacabili non avrebbero taciuto in simile
circostanza, se appena appena fosse stato loro possibile di accusare
quell’uomo, il quale erigevasi a modello di virtù e di continenza, di
una impudicizia brutale che le leggi attiche, non meno in ciò rigorose
delle lacedemoni, severissimamente punivano e d’interdizione da ogni
pubblico ufficio e d’infamia e di morte (Eschin., _C. Tim_.; Demost.,
_C. Androz._; Senof., _Simp._, 8). E notisi che Eschine, nella stessa
aringa in cui cita quelle leggi, non solo _nomina Socrate con elogio_,
ma è il primo a confessare per proprio conto di frequentare i ginnasj
e coltivare l’amor puro dei giovanetti e gloriarsene, come di «_segno
d’animo gentile:_» e ricorda in proposito, a titolo di lode, gli
esempj non pur di Achille fra gli antichi, ma fra gli stessi Ateniesi
suoi contemporanei, di uomini liberi e bellissimi fra tutti i Greci,
«_onestamente vissuti e alieni da cosa turpe_, i quali _ebbero amatori
molti e modesti e niuno li vituperò mai_.» Egli è che appunto non di
quell’amore si trattava nelle leggi ateniesi contro l’impudicizia:
e non era già contro di esso che stava scritto: «Se un Ateniese farà
oltraggio a un libero fanciullo, lo accusi ai tesmoteti chi ha in balìa
il fanciullo e scriva la pena. Condannato nella persona, sia ucciso
lo stesso giorno... Se un Ateniese si prostituirà non potrà esser
uno degli arconti; nè fare ufficio sacro; nè giudicare col popolo;
nè esercitare un magistrato, nè dentro nè fuori, nè a sorte nè per
suffragio; nè andare araldo, nè dire il proprio parere; nè entrare
nei pubblici templi; nè portar corona nelle feste solenni; nè andar
nella piazza purificata dall’acqua lustrale. Il trasgressore di questi
ordini, convinto di impudicizia, sarà punito colla morte» (Esch., _l.
c_.).

È evidentemente, ripeto, impossibile lo ammettere che i nemici di
Socrate, i quali lo ricercavano con tanto accanimento di condanna
capitale, non pensassero ad invocare, nelle loro accuse, se appena lo
avessero potuto, come Eschine ben li invocò contro Timarco, simili
articoli di legge: il cui tenore è talmente esplicito, che, posti a
raffronto col testo dell’accusa di Melito, la quale tace completamente
di quel reato, basterebbero questi documenti soli a decidere in favore
dell’innocenza di Socrate.

Solo alcune espressioni amorose nei dialoghi di Platone si
presterebbero ad essere fraintese (come le fraintese di fatti Cornelio
Nepote in _Alcib_.) da chi non abbia una chiara idea di quelle teorie
sull’amor delle anime, su le attinenze fra la bellezza fisica e la
bellezza spirituale, sull’amore inteso come il bisogno di produzione
nella bellezza secondo il corpo e lo spirito, — che formano una delle
parti più caratteristiche e più elevate della filosofia socratica
(Senof., _Simpos_., 8; Plat., _Simp_., 209 seg.; _Fedr.; Prim. Acib_.;
_Rep_., III, 403). Un bel corpo, diceva Socrate, promette sempre una
bell’anima: e se questa non l’è, bisogna che sia stata negletta: indi
Massimo di Tiro (_Dissert_., 9) distingue elegantemente dalla lubrica
passione di cui molti antichi filosofi si macchiarono, il virtuoso
affetto che Socrate portava a’ suoi discepoli, sopratutto ad Alcibiade,
del quale soleva dire che egli era nato per la salvezza o lo sterminio
della Grecia, secondo che nel suo spirito sarebbe prevalso il suo buono
o il suo mal genio: per cui studiavasi di sviluppare in lui l’amore
del bello e del buono e di distorlo cogli amorevoli rimproveri dagli
eccessi di ambizione e dalle voluttà (Cfr. quadro II, nota 52). Nello
stesso ordine di idee Plutarco narra come Socrate raccomandasse sovente
a’ suoi discepoli di guardarsi nello specchio, affinchè se eran belli
procurassero non macchiare quella bellezza con nessun vizio: se brutti,
si applicassero a riparare alla bruttezza colle virtù (Diog. Laerz.,
_Socr._).

Che se infine da nessuno dei dialoghi di Platone si può indurre alcun
fondamento alla calunnia scagliata contro Socrate — abbondano invece
le positive affermazioni in contrario, e nei dialoghi stessi, e quel
che più monta, negli scritti di Senofonte, fra tutti i discepoli di
Socrate il più veridico e il più coscienzioso. Nessuna testimonianza
più esplicita di quella che Senofonte nei _Memorabili_ (I, 2, 3) rende
all’austerità dei principj e dei costumi di Socrate; e nulla di più
severo ed acerbo delle rampogne con cui Socrate ivi cerca appunto
distogliere Crizia dall’amore impuro di Eutidemo, di ciò svergognandolo
siccome di vizio «_servile, laido, bestiale_,» e per cagion di tal
vizio, paragonando Crizia _ai porci_ (_Mem_., I, 2). Di che Senofonte
aggiunge che Crizia legossela al dito, e prese tal odio a Socrate, che
giunto al potere se ne vendicò: per credere poi che Socrate potesse
bruttarsi di un costume ch’egli non si peritava di qualificare in altri
a quel modo, bisognerebbe inventare un Socrate tutto diverso da quello
che la storia ci tramandò, e fare di lui il tipo del più sfacciato
tra gli impostori. E leggansi ancora, se non bastasse, in Senofonte,
gli altri rimproveri di Socrate a Critobulo per distoglier lui pure
dall’immondo vizio (_Memor_., I, 3); e la ragione che Socrate ci dà nel
_Simposio_ senofonteo dell’amor puro delle anime e dell’amor sensuale;
e quello esaltare come figlio di Venere celeste, vituperar questo come
_costume da servo_; lo si oda narrare come Giove di quanti mortali amò
solo la bellezza fisica, li lasciò mortali com’erano, ma di quanti amò
i pregi dell’anima li fece tutti immortali; e all’asserto di Agatone,
che un esercito d’amanti sarebbe fortissimo, lo si oda contraddire
affermando che quelli che son usi a non aversi più riguardo tra loro,
non ponno arrossire di commettere viltà in faccia un dell’altro; lo
si veda ammaestrar Callia a meritarsi l’amor di Autolico, studiando
con qual’arte Temistocle facesse libera la Grecia, e con quale Pericle
facesse grande Atene; — intendasi in Platone stesso, nel _Fedro_,
la confutazione di Socrate contro Lisia intorno all’amore — e nel
_Filebo_ la sua definizione della voluttà — e nel _Simposio_ la solenne
testimonianza che Alcibiade gli rende, — e si converrà di averne
di testimonianze, troppo più del bisogno, per concludere senz’altro
alla assoluzione del più grande e virtuoso tra i filosofi antichi nel
processo d’immoralità intentatogli dai posteri.

Su codesta questione dei rapporti fra Socrate ed Alcibiade, cfr.
Gesner, _Socrates sanctus pederasta_; Cooper, _Life of Socrates_;
Mendelshon, _Fedone_ (nella vita di Socrate); Hecker, _de Alcib.
moribus_; Schweighauser, _Mores Socratis_; Houssaye, _Hist. d’Alcib_.;
Wieland, _Aristippo_, ecc.

[451] Storicamente questa scena che qui vien supposta ancora nel cuor
della state del 407, cioè dentro il mese immediatamente successivo
al ritorno di Alcibiade in Atene, dovrebbe invece riferirsi a un sei
mesi circa più tardi, cioè a Posideone di quell’anno (dicembre 407
— gennaio 406). Alcibiade partì da Atene per la nuova campagna di
guerra, quattro mesi dopo il suo ritorno trionfale, cioè agli ultimi di
Boedromione (ottobre) del 407: e ottobre e novembre erano scorsi nelle
prime operazioni di guerra contro le isole nemiche di Andro, di Rodi,
di Coo; intanto la flotta spartana erasi rannodata, sotto gli ordini
di Lisandro, ad Efeso, e lì presso avvenne in dicembre la disfatta di
Antioco, di cui qui si parla. Qualche settimana dopo, nel gennaio 406,
Alcibiade caduto di nuovo in disgrazia, rifugiavasi in Tracia.

[452] A determinate ore di sera e di notte, negli accampamenti greci,
gli ufficiali di ronda (περὶπολωι) facevano la visita del campo e
dei posti delle sentinelle (φυλακαὶ). Per assicurarsi che queste non
dormissero, l’uffiziale portava seco un campanello (κώδων), al suono
del quale la sentinella doveva rispondere, dichiarando la parola
d’ordine o di riconoscimento. Indi κωδωνίζειμ, _scampanellare_,
diceasi il far la ronda. La parola d’ordine era data dallo stratego:
Senofonte nell’_Anabasi_ ne ricorda parecchie, _Giove salvatore, Ercole
condottiero; Giove salvatore e la Vittoria; spada e pugnale,_ ecc. Più
tardi Ificrate abolì il campanello e stabilì che della parola d’ordine
la prima metà fosse data dall’uffiziale, l’altra metà dalla sentinella
(Senof., _Anab_., I, VI, VII; Tucid., IV; Ulpiano in _Demost_.,
_Parapresb_.; Arist., _Rane_, ecc.).

[453] Nózio, piccola rada dell’Jonia, tra Colofone ed Efeso, presso
alla foce del Caistro e quasi rimpetto all’isola di Samo, della quale
isola la flotta ateniese aveva fatto in questa campagna la base delle
sue operazioni, come gli Spartani se l’erano fatta di Efeso.

[454] Senof., _St. Ellen_., 1, 5, 6; Diod. Sic., _Bibl_., XIII, 71-73;
Plutarco, _Alcib_., 35; Corn. Nep., _Alcib_., 7. Essendo Alcibiade
nella nuova campagna navale ancorato colla flotta nella rada di Nózio,
trovavasi in grandi angustie per penuria di danaro. Mentre la flotta
spartana comandata da Lisandro era fornita di tutto a larga mano
dall’oro persiano, e i nocchieri della medesima toccavano quattro
oboli di paga, forniti dall’erario di Ciro, quei della flotta ateniese,
che a stento potevano averne tre soli, cominciavano alto a mormorare;
molti disertavano; il malcontento cresceva ogni giorno; e lo Spartano,
che vi faceva assegnamento, tirava in lungo a bella posta la guerra.
Alcibiade ben vide che bisognava uscirne al più presto. Decise quindi
una spedizione per recarsi a prelevare dalle città alleate del litorale
di Jonia e di Caria il danaro che occorrevagli a pagar gli arretrati
delle truppe, visitare nello stesso tempo le fortificazioni che lo
stratego ateniese Trasibulo stava costruendo a Focea sul golfo ermeo
e concertarsi secolui sul modo d’affrettar le operazioni. Si avviò
quindi a quella volta, lasciando la cura delle navi ad Antioco, il
quale era bensì, dice Plutarco, buon pilota, ma uomo inconsiderato
e prosuntuoso. A costui commise espressamente di non dar battaglia
in sua assenza, neppur se i nemici fossero venuti a provocarlo. Ma
Antioco, trasgredito il comando, con la sua propria trireme e un’altra
del corpo della flotta, s’inoltrò sin dentro il porto di Efeso,
rasentando le prode delle navi nemiche, con gran petulanza tanto di
fatti che di parole. Lisandro, da prima, uscì fuori con poche navi ad
inseguirlo; ma vedendo gli Ateniesi venir in soccorso di Antioco con
altre navi, mosse pur egli tutte le sue. Così vennero a battaglia; le
navi spartane in compatta ordinanza, e le ateniesi uscenti alla sfilata
fuor di Nózio una dopo l’altra e andando qua e là sparse finchè perdute
quindici galere voltarono le spalle. Lisandro prese quelle navi e
molti prigioni, e rimasto ucciso nella mischia Antioco stesso, drizzò
in Nózio il trofeo e fe’ ritorno ad Efeso. Gli Ateniesi si ridussero
a Samo. — Così Plutarco e Senofonte raccontano il fatto che originò la
seconda disgrazia di Alcibiade: e del quale, come dell’altre operazioni
di guerra, si modificarono qua e là in questo quadro le circostanze di
luogo e di tempo, a seconda delle esigenze drammatiche.

[455] Diod. Sic., _Bibl._, XIII, 73; Plut., _Alcib._, 35; Senof., _St.
Ellen._, 1, 4.

[456] È noto che Anacreonte — il cantore di Bacco e degli Amori — era
nativo dell’isola di Teo, e visse lungamente alla corte di Policrate
tiranno di Samo.

[457] _Libazioni della partenza:_ vedine esempio in Tucidide, nel
racconto della partenza della flotta ateniese per la impresa di
Sicilia: «... Come le navi furono piene della gente, lo squillo della
tromba intimò silenzio e si fecero le preghiere consuete innanzi la
partenza... quindi per tutta l’armata si mesceva il vino nei crateri,
e i soldati non meno dei capitani libavano con tazze d’oro e di
argento... Poichè ebbero cantato il peana e terminate le libazioni,
salparono...» (Tucid., _Guer. Pel._, VI, 32). E in Omero, alla partenza
di Telemaco: «Legati i remi ai fianchi della celere nave, incoronarono
di vino puro le tazze e libarono agli Dei immortali sempreviventi, ma,
sopra tutti, alla figlia occhi-azzurra di Giove» (_Odiss._ β. 430 seg.
— Cfr. Virgil., _Aen._, III, 118).

[458] _Coronare la tazza_, κρατῆρα ἐπιστέφειν, diceasi il _ricolmarla
fino all’orlo_: come appunto era uso di rigore nelle libazioni, perchè
sarebbesi riguardato come insulto agli Dei il propinare ad essi con
tazze non colme, ossia offrir libamenti che non fossero _interi e
perfetti_ (τέλειον καὶ ὄλον). (Aten., XV, 674). E _coronate di vino_,
ἐπιστεφέας οἴνοιο (Omer., _Odiss._ β 431 — cfr. Aten., I, 3 d.)
diceansi le tazze dei libamenti, così ricolme; però che il licore
sporgesse in su dell’orlo a guisa di corona. _Coronarono le tazze colme
di vino puro_, στήσαντο κρητῆρας ἐπιστεφέας οἴνοιο (Om., _l. c._).
— _Coronò di vino le tazze d’oro_, κρυσέους κρητῆρας ἔστεψε (Eurip.,
_Jon._) — «_Crateras magnos statuunt et vina coronant_» (Virg., _Aen._,
I). — «_At pater Anchises magnum cratera corona — Induit implevitque
mero_» (Virg., _Aen._, III). — «_Coronatus stabat et ipse calyx_»
(Tibul.).

[459] Aristof., _Vespe_, 525. 

[460] _Mare di Icaro_ o d’Icaria diceasi quel tratto dell’Arcipelago
che si stende fra l’isole di Patmo, di Icaria e di Samo, e le coste
della Caria, dalla foce del Meandro e da Mileto al golfo di Iaso e ad
Alicarnasso. — Fu reso celebre dal volo di Icaro che gli diede il nome.

[461] Fu lo stratego Trasibulo, il maggior nemico che avesse Alcibiade
nella flotta, che si affrettò a portar ad Atene la nuova del disastro
di Nózio, e accagionandone l’incuria di Alcibiade, lo trasse di nuovo
in disgrazia del popolo. Di che Plutarco scrive: «Se mai fu alcuno
a cui la sua propria gloria abbia portato ruina, questi fu certo
Alcibiade. Perocchè grande essendo questa sua gloria, ed essendo ei
riputato pieno di coraggio e di prudenza per le belle imprese che fatte
egli avea, se per sorte non ne avesse condotta alcuna a buon fine,
si sospettava che ciò fosse perch’egli non vi si fosse applicato con
tutta volontà, non potendo credere alcuno che egli non avesse potuto;
ma tenendosi per sicuro che a lui non dovesse andar fallita veruna cosa
che venisse da lui con premura intrapresa» (Plut., _Alcib._, 35). E
Cornelio: «_Nihil enim eum non efficere posse ducebant. Ex quo fiebat
ut omnia minus prospere gesta ejus culpae tribuerent, quum eum aut
negligenter aut malitiose fecisse loquerentur: sicut tum accidit. Nam
corruptum a rege cepere Cymen noluisse arguebant_» (Corn. Nep., _Alc._,
7. — Cfr. Senof., _St. Ell._, I, 4, 5; Diod. Sic., XIII, 73, 74).

[462] Ramoscello dei supplici, κετῶν ἐγχειρίδιον (Esch., _Suppl._,
22), κλαδος ικτήριος (Sof., _Ed. re_, 3), ἰκετηρία (Aristof., _Pluto_,
383), ecc. Usavano i _supplici_ (ἰκέται), ossia le persone imploranti
dagli Dei o dagli uomini soccorso o compassione o grazia o asilo,
siccome colpite da sventura o da persecuzioni o sbandite dalla patria,
o ricercate di pena per delitti commessi, seder presso gli altari
tenendo in mano un ramoscello verde di olivo o di lauro, avvolto
in fascie bianche di lana. Il supplice toccava con questi rami le
ginocchia del Nume o del mortale di cui implorava il favore. «Veggo
nel sacro antro un uomo inviso a Dio, bruttato di sangue, _sedente in
atto supplichevole, stendendo le mani, e protendendo un alto ramo di
olivo, coronato di larghe fascie di lana candidissima_» (Esch., _Eum._,
40 seg.). «_Supplice degli Ateniesi, sedea presso gli altari pallido
colla rossa sua veste_» (Arist., _Lisistr._, 1140). «_Io veggo uno che
siederà sopra l’altare tenendo in mano il ramo dei supplici insieme
coi pargoli e la moglie_» (Aristof., _Pluto_, 382 seg.). — All’ara
di Minerva sull’Acropoli andarono a sedersi supplichevoli, cercando
scampo, Cilone e i suoi compagni proscritti dagli Ateniesi (Tucid., I,
126. — Cfr. Omero, _Iliad._ α; Esch., _Suppl._; Eurip., _Supp., Jon,
Alceste, Eracl._, ecc.).

[463] Più tardi — troppo tardi — gli Ateniesi dovevano pentirsi
d’essersi un’altra volta privati della spada di Alcibiade (Plut.,
_Alcib._, 38). Quanto agli Spartani, essi stessi confessarono che la
vittoria di Nózio era da principio in sè stessa ben poco o nulla, ma
divenne _tutto_ per loro, poichè trasse seco la caduta di Alcibiade e
tolse ad Atene il più formidabile de’ suoi difensori (Plut. _Lisand._,
5).

[464] Senofonte celebra i Persiani siccome severissimi contro
l’ingratitudine. «Puniscono essi quel peccato per cui gli uomini
si odiano l’un l’altro sommamente, senza citarsi in giudizio, che è
l’_ingratitudine_: e se vengono a conoscere che alcuno, potendolo fare,
non abbia mostrato prova di essere grato, gli danno aspro castigo.
Perciocchè pensano che gli ingrati non fan conto nè degli Dei, nè dei
parenti, nè della patria, nè degli amici» (Senof., _Ciropedia_, I, 1).

[465] I Traci, che da Teiras discendente di Giapeto furono chiamati
_Teíres_ (Joseph., _Ant. Iud_., I, 6) e poi _Traci_ (Θρήικες, Θρᾶκες),
occuparono anticamente un vasto paese che comprendeva una parte della
Macedonia e la regione stendentesi da occidente ad oriente tra il
fiume Strimone e il Ponto Eusino; e da settentrione a mezzodì, fra la
catena del monte Emo e il mar Egeo. Quest’era la Tracia propriamente
detta (ossia l’odierna Romelia): però sotto il nome generico di Traci
si chiamarono dai Greci anche i popoli a settentrione dell’Emo, fra
l’Emo e il Danubio, come i Geti confinanti cogli Sciti, i Treri, i
Triballi, ecc. (Erod., V; Strab., VII; Tucid., II). Erano divisi in
varj popoli. Gli uni, come i Bessi, crudeli e feroci, assai temuti e
poco noti, non vivevano che di rapina. Gli altri, truppe mercenarie,
prestavano soccorso a chi li chiamava, e sotto la condotta di un capo
della loro nazione, servivano indifferentemente partiti contrari —
come gli Svizzeri dell’Evo moderno. Tali gli Odomanti, di cui parla
Tucidide, che fornivano truppe agli Ateniesi: tali quelli che abitavano
le montagne, e gli _autónomi_ (Dii, Triballi, ecc.), di cui Sitalce
compose il suo esercito: tali ancora tutti quei corpi di Traci che
erano al servizio d’Atene, di Lacedemone, e dei re di Macedonia e
d’Asia. Infine, i terzi, retti a forma monarchica, eran governati da
re. Dai tempi delle guerre di Troja vedonsi menzionati Reso e Polti
re di Tracia; poco dopo, uno dei figli di Teseo sposò la figlia di un
re di Tracia. La migrazione dei Traci in Asia di cui parlano Erodoto,
Strabone ed Eusebio ci dà il nome di alcuni antichi re traci. Omero
ne nomina parecchi del Chersoneso e delle altre parti della Tracia:
e Reineccio cita gli autori che ne fan conoscere altri (Tucidide, II,
V; Polib., V; Erodoto, I, III, VII; Strabone, VII; Euseb., _Chron_. —
Freinshem., _Supp_., Q. Curio, I, 5).

Ma questo fatto, come quelli che riferisce Diodoro Siculo (lib. III)
delle conquiste di Bacco nella Tracia e di alcuni re di questa nazione,
appartengono a tempi mitici o tenebrosi; solo alcuni secoli dopo si
può tener dietro alla dinastia di questi re, quando cioè la Tracia
propriamente detta, sotto la potenza del re degli Odrisj, si stendeva
dall’occidente all’oriente, dal fiume Strimone sui confini della
Macedonia al Ponto Eusino: e dal settentrione al mezzodì, dall’Emo al
mar Egeo, abbracciando dal lato del mare tutta la costa da Abdera sino
alla foce dell’Istro o Danubio (Tucid., II, 96). Di questo reame degli
Odrisj faceano parte, a occidente lungo lo Strimone, i varj popoli
dei Peoni di cui parlano Omero (_Iliad_., X, 428), Tucidide (II, 96),
Euripide (_Reso_); ad oriente, verso il mar di Marmara, i Tinj, i
Tranipsi, i Melandepti, su cui Seute rivendicava la sua signoria (Sen.,
_Anab_., VII, 2).

Si vedono, è vero, comparire qua e là altri re traci; ma sia che la
loro potenza si limitasse in breve contrada, sia che non fossero che
capi di tribù barbare, sono appena nominati nella storia. Solo il regno
degli Odrisj, la più considerevole delle dinastie di Tracia, fornisce
una successione di re che faccia parte della storia greca e romana.
Teres o Tyres (Erod., VII) ne fu il fondatore (da non confondersi con
Tereo noto per la favola di Progne e Filomela).

[466] _Patti_, allo sbocco dell’Ellesponto sulla Propontide, a circa
150 stadj da Egospótamo. Castello di Tracia ove si recò Alcibiade, dopo
lasciata la flotta, secondo Diodoro Siculo (XIII, 13).

Gli altri storici nominano invece altre località della Tracia. Plutarco
(_Alc._, 36) dice che Alcibiade rifugiossi ad una sua rocca presso
Bisante (sulla spiaggia nord-ovest della Propontide, oggi mar di
Marmara). Cornelio Nepote narra ch’ei recossi a Perinto (pure sulla
spiaggia settentrionale della Propontide, ma ad Oriente di Bisante) e
vi fortificò tre castella: Borno, Bizia, Macrontichos. Senofonte (_St.
Ell_., I, 5) dice semplicemente che Alcibiade recossi ai suoi castelli
del Chersoneso. — Tenendo conto di questa indicazione di Senofonte,
l’autore qui prescelse la lezione di Diodoro, essendo Patti più vicino
all’Ellesponto e ad Egospotamo, vicinanza richiesta dall’ultima scena
del quadro.

[467] Intorno al costume trace, cfr. i ragguagli abbastanza concordi
di Erodoto sull’abbigliamento dei Traci strimonj nella spedizione
di Dario, e di Senofonte sull’abbigliamento dei Traci di re Seute:
«I Traci poi combattevano portando alopéchidi (ἀλωπεκεας) in capo,
tonache (κιθῶνας) sul corpo, e al disopra delle tonache indossando
saj o mantelli variopinti (ζειράς ποικίλας); sui piedi e sulle tibie,
calzari di pelle di cerbiatto (πέδιλα νερβῶν); per armi, giavellotti
e pelte e sciabole corte» (Erod., VII, 75). «Era tanto il freddo
che l’acqua portata alla cena agghiacciò, e così il vino nei vasi:
e allora si fece manifesto per qual motivo i Traci portano pelli di
volpi sulla testa e sulle orecchie, e tonache non solamente sul petto
ma anche sulle coscie, e vesti fino ai piedi quando cavalcano, invece
di clamidi» (Senof., _Anab_., VII, 4). Le alte calzature dei Traci in
pelle di cerbiatto, coprenti metà delle gambe, son chiamate _embadi_
(ἐμβαδες) in Polluce (IV, 25). — Questi ragguagli concordano anche col
vestiario di un bassorilievo raffigurante il trace Orfeo e descritto
da Heuzey nel _Diction. des Antiq. gr. et rom._ (Paris, 1873), dove
il poeta trace porta appunto alla foggia nazionale gli alti calzari di
pelle, e l’alopechide, una sciabola curva alla cintura, e al di sopra
della tonaca un mantello ch’è probabilmente la _zeira_ (ζειρὰ) di cui
parla Erodoto. — Delle armi eran sopratutto nazionali la pelta, scudo
piccolo e leggiero, a forma di mezzaluna, o, secondo altri, di foglia
d’edera; il giavellotto (_pugnabant jaculis Thraces_. Ovid., _Ibis_, v.
135) e l’arco, nel cui maneggio, stando a cavallo, erano celebratissimi
(Plut., _Alc_., 37). Tucidide ricorda popolazioni tracie, di là
dall’Emo, tutte di arcieri a cavallo; e Traci montanari (Dii) armati di
daga (Tucid., II, 96). Atene aveva corpi mercenari di _peltasti_ traci,
armati di pelta e daga (Tucid., IV, 28; VII, 27). Omero (_Iliade_,
X, 428) nomina i traci Peoni «_dai curvi archi_.» Euripide poi così
descrive l’esercito dei Traci del re Reso: «Molti erano i cavalieri,
molti i peltasti, e molti gli arcieri; seguiva una gran turba di armati
alla leggiera, portanti la lunga tunica (στολή) tracia» (Eurip.,
_Reso_, v. 311 seg.). Cfr. anche l’armamento dei Traci di Perseo in
Plutarco (_Paolo Em_.).

[468] L’uso del berrettone di pelle di volpe (ἀλωπηκις), ch’era come
l’elmo nazionale dei guerrieri traci e serviva a proteggerli dai geli
del loro clima, si perpetuò fino a’ dì nostri in quelle contrade:
anzi sembra che di là venisse trasportato nel costume di alcune armi
speciali degli eserciti europei. L’alopechide degli antichi Traci aveva
la forma di un elmo antico a punta; la coda della volpe penzolava a
guisa di criniera dietro il collo insieme colle due zampe posteriori
dell’animale, che al bisogno servivano di giugulari per allacciar
l’alopechide sotto il mento. — Così osservasi nel bassorilievo citato
sopra di Orfeo, e in una pittura di vaso antico raffigurante Reso re
dei Traci.

[469] L’uso delle sciabole, o scimitarre, era comune ai Persiani,
agli Sciti e ai Traci, come si vede da Erodoto (_Polym_.) e da
Ammiano (Cfr. le note 3 e 44 a quest’atto). Quanto alle ragioni di
prudenza e vigilanza che doveano consigliare ai Traci di Seute questo
sedersi armati, anche a tavola, vedi più sotto la nota 55. Così pure
degli Sciti, viventi alla stessa guisa dei Traci, una vita nomade
e battagliera, in lotte continue fra tribù e tribù, Luciano fa dire
a Solone: «Fra noi (Ateniesi) è bensì vietato portar ferro in città
senza bisogno e uscir armati in pubblico, ma voi Sciti siete scusabili
se vivete sempre colle armi alla mano, perchè non abitate tra ripari;
le insidie sono facili, i nemici molti, e siete sempre sul sospetto
che mentre dormite non vengano ad assalirvi sul carro ed uccidervi.
La scambievole diffidenza, il vostro vivere sciolto e senza legge, vi
fa sempre necessario il ferro, per averlo pronto alla difesa» (Luc.,
_Ginnas._, 34).

[470] Intorno ai costumi e agli usi dei Traci nel banchettare, cfr.
specialmente Senofonte nell’_Anabasi_ (VII, 3). — La cena data da Seute
a Senofonte e ai suoi compagni d’armi, e da Senofonte ivi narrata, ebbe
luogo nel 401 av. l’E. V., anno della spedizione del giovine Ciro: e
quindi poco più di tre anni prima dell’epoca della presente scena, che
supponesi sulla fine del 405. Vi è quindi completa contemporaneità di
costumi.

[471] Superfluo avvertire che questo Seute è il medesimo di cui parlano
Senofonte (_Anab._, VII) e Tucidide (II, 101).

[472] Per il senso storico e drammatico delle prime scene di questo
quadro, giova richiamarsi al passo di Plutarco (_Alcib._, 23) citato
al quadro V, n. 37, intorno alla facilità camaleontica di Alcibiade
nello adattarsi secondo i vari paesi ai più opposti costumi. E
Cornelio Nepote: «Vantarono di lui (Alcibiade) che, in Atene, città
splendidissima, vinse tutti nello splendore e nel fasto della vita:
indi espulso, fra i Beoti, più prestanti in robustezza di corpo che
in acume di ingegno, nessuno potè eguagliarlo in fatiche e in vigoria
di membra; poi tra i Lacedemoni, usi ai disagi, nel regime di vita
durissimo e in rigidezza di costumi tutti i Lacedemoni vinse; _fu
anche fra i Traci, uomini vinolenti e dediti ai piaceri venerei, ed
essi pure in tali cose superò_; andò tra i Persiani, fra i quali è
somma lode la bravura nella caccia, e il vivere lussurioso: e ne imitò
siffattamente i costumi, da destare fra essi stessi l’ammirazione»
(_Alcib._, 2). — Ateneo ripete le stesse cose, con qualche altro
particolare applicabile a questa prima scena del quadro: «... _in
Thessalia vero_ (Alcibiades) _cum alendis equis et aurigationi vacaret,
peritiorem illius artis fuisse_ (dicunt) _quam Aleuades_. Spartae
vero patientiae et constantiae studens, Spartanos omnes superavit; _in
Thracia rursus Thracas meri potui antecelluit_» (Aten., _Deipn._, 534).
— Ed espertissimi _in gittar freccie e cavalcare_, son detti i Traci
da Plutarco (_Alcib._, 37). — E _allevatori e addestratori di cavalli_
(ἱπποπόλοι) son chiamati da Omero (XIII, 4. — Cfr. Luciano, _Icarom_,
11; Strabone, VII, 3; Eurip., _Reso_).

[473] Quadro I, n. 62, 63, 64. — Quattro furono, com’è noto, i grandi
giuochi della Grecia; gli _Olimpici_, i _Pitici_, i _Nemei_ e gli
_Istmici_. Celebrati come feste nazionali, accessibili a tutti i
popoli greci, da queste solenni radunanze si può ripetere la invenzione
della parentela delle schiatte (cfr. quadro III, scena 4; e Aristof,
_Lisist._, 1128 seg.) o l’albero genealogico degli Elleni, che fu
poi universalmente accolto come un trovato dei sacerdoti di Delfo
dell’ottavo secolo, e valse più di tutto a cementare il sentimento
della unità nazionale fra i Greci. Infatti Archiloco, il poeta
nazionale dei giuochi olimpici, fu il primo, verso il 700 av. l’E. V.,
ad usar la voce _Elleni_ come denominazione generale (Framm. 54).

I giuochi _Pitici_ ab antico si celebravano ogni quattro anni nella
Focide, nella pianura tra Delfi e Cirra, in onore di Apollo che
ivi uccise il serpente Pitone. Euriloco Tessalo cogli Anfizioni,
nella guerra sacra contro i Cirrei, profanatori del tempio delfico,
dopo l’eccidio di quel popolo, li ripristinarono con nuovo lustro e
nuove gare musicali, cui furono poscia aggiunte le gare ginniche ed
equestri e dei carri. Aveano luogo durante l’adunanza di primavera
del consiglio degli Anfizioni: ai vincitori in origine davasi un
premio di danaro (_agone pecuniario_, χρηματίτης), poi si sostituirono
le corone d’alloro (_agone coronario_, στεφανίτης), dal quale le
Pitíadi si cominciarono a contare — fissando la prima Pitíade numerata
all’olimpiade 49ª (581 av. l’E. V.).

Dei giuochi _Nemei_ la leggenda attribuiva l’origine ai funebri
celebrati dai sette duci di Argo con Adrasto, sotto Tebe (1336 av. l’E.
V.), nella selva Nemea, per la morte del fanciullo Archemoro, figlio
del re dei Nemei. Ercole li rinnovò e fece rifiorire, dopo ucciso
il leone Nemeo; ma la prima Neméade famosa, da cui si cominciarono a
contare le altre, ebbe luogo nella olimpiade 72.ª (490 av. l’E. V.)
dopo la battaglia di Maratona, ad onore dei Greci in essa caduti. Però
n’era funebre il rito: si celebravano in un bosco di cipressi (presso
Nemea nell’Argolide); quelli che vi presiedevano indossavano negre
vesti: e ai vincitori davansi in premio corone di apio verde, simbolo
funereo. Ricorrevano nel secondo e quarto anno d’ogni olimpiade.

I giuochi _Istmici_ furono istituiti, secondo la leggenda, da Sisifo re
di Corinto, in commemorazione di Melicerta gettatasi, per disperazione
del figlio spento, col piccolo Ino in mare. Celebravasi il funebre
agone all’istmo di Corinto, dove era fama che un delfino avesse recato
il cadavere di Melicerta. Più tardi, infestato l’istmo dai ladroni, i
giuochi decaddero: finchè Teseo, liberata la contrada, li ristabilì,
dedicandoli a Nettuno, a cui fu eretto sull’istmo un tempio famoso.
Laonde, secondo Plutarco, celebraronsi i giuochi in due forme: di notte
per Melicerta, secondo il rito di Sisifo, e avean forma più di funebri
sagrifici che di spettacoli; di giorno, in onor di Nettuno, secondo
il rito di Teseo; e davasi ai vincitori alternamente o una corona di
pino, albero sacro a Nettuno, o di apio secco come funereo ricordo
della madre di Ino. — Ricorrevano il primo e secondo anno d’ogni
Olimpiade: e che ai tempi di Solone questi giuochi rifiorissero, lo
prova la legge che accordava 500 dramme attiche ai vincitori di Olimpia
(_olimpiònici_) e 100 ai vincitori dei giuochi istmici (_istmiònici_).

Ma sopra tutti celebratissimi i _giuochi Olimpici_ poteano dirsi il
più splendido e vero compendio della vita nazionale dei Greci. La
leggenda ne chiamava primo istitutore Ercole: il quale inseguendo
dal monte Menalo la cerva sacra di Diana, per le foreste di Arcadia,
giunse agli Iperborei, ed ivi raggiunta la belva, ne riportò, in segno
di vittoria, l’olivastro, affrettandosi nel ritorno alla celebrazione
dei sagrifici nell’Elide, ad Olimpia. Decaduti ai tempi della guerra
trojana, dovevano tornare a rifiorire col ritorno dei discendenti
di Ercole, ossia colla invasione dei Dori nel Peloponneso; infatti
Licurgo, insiem con Ifito re dell’Elide, secondo la tradizione, li
rinnovò: il rinnovamento fu sancito dall’oracolo dorico di Delfo, e
vi accedettero, un dopo l’altro, tutti i popoli della Grecia. Però le
olimpiadi non cominciarono a contarsi che un secolo dopo, a datare
dall’anno 776 (primo della prima olimpiade) in cui Corebo di Elea
riportò il premio dei giuochi. Si celebravano ogni quattro anni verso
il solstizio estivo nella magnifica vallata dell’Elide intorno a Pisa,
bagnata dall’Alfeo, rallegrata di ombre dal bosco sacro dell’Altis,
superbo di templi, di altari e di portici e di statue e di trofei: e
torreggiante fra quel popolo di marmi, il miracolo di Fidia: il _Giove
Olimpico_. Prima che cominciassero i giuochi, alcuni inviati degli Elei
bandivano una tregua sacra: e tutte le ostilità cessavano in Grecia per
tutto il tempo ch’era necessario per andare ai giuochi e ritornarne.
Duravano i giuochi cinque giorni dall’11 del mese (cioè dal 1 luglio)
in poi: al 16 terminavano con sacrificj e banchetto e processione;
e colla proclamazione dei vincitori (_Olimpiònici_), ai quali veniva
dai giudici delle gare (_Ellenodici_) conferito il premio della corona
d’ulivo (κότινος). — _Olimpìade_ chiamavasi il periodo dei quattro anni
dall’una all’altra solennità.

I giuochi ginnastici consistettero dapprima soltanto nella _corsa a
piedi_ (δρόμος) sullo stadio, di cui gli stadiódromi dovean percorrere
l’intera lunghezza (un ottavo di miglio): poi si istituì la corsa del
_diaulo_ o doppio stadio; e infine del _dólico_, in cui i dolicódromi
correan dodici volte lo stadio. Alle corse si aggiunse più tardi il
_pentatlo_ o _quinquerzio_ (riunente cinque esercizi: salto, gitto del
disco e del giavellotto, corsa e lotta) e il _pancrazio_, esercizio
di lotta e pugilato. Più tardi ancora, nel 680, si introdussero i
giuochi equestri, delle corse a cavallo (κέλης) od in cocchio (ἄρμα),
biga o quadriga. La corsa dei cocchi precedette naturalmente quella
degli uomini a cavallo, come anche nella milizia greca l’uso dei carri
precedette quello della cavalleria, ed era la parte più splendida dello
spettacolo: che se la rarità dei cavalli e la spesa del mantenerli
rendeva questa gara accessibile alle sole persone di ricchissimo censo
(e fu celebre vanto di Alcibiade l’aver corso nei giuochi con sette
carri), — le altre gare erano aperte così al ricco come al povero e al
plebeo, e vietavano il monopolio della gloria.

A noi è appena dato di comprendere l’estrema importanza che annettevano
i Greci alla vittoria in questi giuochi: e nulla di più caratteristico
degli onori tributati dai varj popoli ai vincitori. L’Ateniese
acquistava diritto ad un seggio presso i magistrati nel Pritaneo; lo
Spartano a un posto eminente in campo, vicino al re. Il vincere in
Elide conferiva celebrità per tutta la vita, più gloriosa ad un Greco
che non ad un Romano aver gli onori del trionfo (Cic., _Pro Flac_.,
31): onore agognato dai capitani più illustri e dai re. E il premio,
una ghirlanda d’olivastro! Ma le acclamazioni della Grecia adunata,
la pioggia di fiori, il banchetto appartato pel vincitore, le canzoni
di Archiloco e di Pindaro che lo immortalavano, il pubblico registro
che ne iscriveva i nomi a memoria dei posteri e li ricordava nelle
date degli eventi, il privilegio di una statua nell’Alti, il diritto
di ritornare alla propria città passando per una breccia nel muro,
a significar che di mura non abbisognava la città che possedeva tali
cittadini; il primo posto nei pubblici spettacoli, la gloria, in breve,
diffusa per ogni angolo di terra dove giungesse la civiltà greca —
quest’era propriamente la corona d’ulivo del vincitore di Olimpia!

E queste splendide radunanze altrettanto libere a tutti i Greci (onde
il loro nome di _panegirìe_ o _adunanze universali_) quanto gelosamente
interdette a ogni straniero, non solo rammentavano periodicamente ai
Greci le comuni origini e il nome nazionale, non solo alimentavano
in ogni classe l’emulazione e il desiderio della gloria; ma erano
potenti fattori di progresso intellettuale. Poichè in tempi in cui
la pubblicità era nulla, e quasi nulli i mezzi per diffondere le
utili cognizioni, dovettero considerarsi per grande beneficio queste
solennità che attiravano a Olimpia e magistrati e guerrieri e filosofi
e artisti e il fior degli ingegni da ogni parte della Grecia: indi le
radunanze olimpiche divennero anche palestre dell’arte e delle lettere:
e fu visto allora Erodoto leggere in Olimpia le sue storie e dal suo
labbro pendere la Grecia! (Pindaro e _Scol_.; Tucid., VI, 16; Isocr.,
_de Big_.; Pausania, ecc. — Corsini, _Dissert. Agon._; Meier, _Giuochi
Olimp_.; Krause, _Pizj, Nem., Ist_.; Bulwer, _Atene_; Scaligero,
Dodwell, Grote, Gilles, ecc.).

[474] Il _celete_ (κέλης) dianzi nominato, ossia _cavallo da sella
per le corse_, sembra fosse lo stesso che fra i Latini il _pullus
desultorius_ (Sveton.), dai cavalieri detti _desultores_ (ἀναβάται),
perchè correndo con due cavalli a dorso nudo destramente saltavano
dall’uno all’altro. Al che accenna Omero ove descrive il naufragio
di Ulisse che per salvarsi dal furore dell’onde si slancia sopra una
tavola come se _balzasse rapidamente sul dorso al celete_, κέληθ’
ὤς ἵππων ἐλαύνων (_Odiss_. έ. 371). E Aristofane, dove introduce
Strepsiade a lamentarsi degli scialacqui di suo figlio Filippide, che
getta i danari in cavalli ed in bighe — ἱππάζεται καὶ ξυνορικεύεται
(Aristof., _Nubi_, 15) — sembra che accenni ai puledri celeti e alle
bighe per le corse di Olimpia (Cfr. Pind., _Olimp_. e Scol.). Delle
vittorie equestri di Alcibiade alle gare di Olimpia, celebrate da
Euripide e da Plutarco, si è già accennato al quadro I.

[475] _Sabazio_ (Σαβάζιος), nome col quale Bacco era chiamato dai Traci
(Aristof., _Vespe_, 9, 10; _Ucc_., 873; _Lisis._, 388. — Cicer., _De
legib_., II, 15).

[476] Dei Numi greci, veneravano i Traci specialmente Marte, Bacco
(Sabazio) e Diana: i loro re poi veneravano in particolare Mercurio,
da cui pretendevano trarre l’origine e giuravano per lui (Cfr. l’autore
del _Viaggio d’Anten._, c. 92).

[477] «Noi Ateniesi più d’ogni altra gente consumiam viveri stranieri
e da niun altro emporio ne tiriamo quanto dal Ponto; chè quel paese
non solo di biade è ricchissimo, ma inoltre Leucone (re di Tracia) ne
sgravò di tasse il trasporto in Atene: e con questa franchigia compensa
i beneficii nostri» (Demost. in _Leptin_.). «Nessuno è così semplice da
credere che Filippo non adocchi i porti d’Atene, i suoi arsenali, il
naviglio, le miniere, le entrate, la gloria, ma per un po’ di miglio
e di spelta custoditi nelle spelonche di Tracia, si accontenti di
svernare in quel baratro» (Demost., _Filipp_., IV).

[478] Notissima la favola di Tereo re di Tracia, che sposò Progne
figlia del re ateniese Pandione; e della trasformazione di Tereo in
upupa, di Progne in rondine, e di Filomela sua sorella in usignuolo.
— E a quel rapporto mitico di parentela fra i Traci e gli Ateniesi
sembra infatti alludere Seute, anche in Senofonte (_Anab_., VII, 2),
malgrado che il Tereo della leggenda avesse regnato propriamente non
in Tracia, ma nel territorio greco della Focide, secondo Tucid., II,
20, e Strab. VII. Vero è che Seute, in fatto di vincoli fra Atene e
la Tracia, poteva alludere anche alla discendenza del trace Eumolpo
da Eretteo re d’Atene, ed anche a rapporti più reali e più vicini:
cioè la cittadinanza ateniese accordata al figlio di Sitalce re de’
Traci antecessore di Seute e l’alleanza conchiusa fra Sitalce stesso
ed Atene, nel terzo anno della guerra del Peloponneso, cioè ventitrè
anni prima dell’epoca di questa scena (Tucid., II, 29. — Cfr. Aristof.,
_Acarn_., v, 141 seg.). Sulla favola di Tereo, Progne e Filomela (vedi
Pausan., _Attic_., 41, _Focid_., 4; Esiod., _Op._ β e scol., Aristof.,
_Ucc._ e scol.; Fozio, _Narr_., 31; Apollod., III, 14; Ovid., _Metam._,
VI, 423 seg.; Marziale, XIV, ep. 73; Varrone, IV; Igin., _Fab_., 45,
ecc.).

[479] «Dal suddetto Tereo re dei Traci differiva Tereo che sposò
Progne figlia di Pandione ateniese, anzi neppure alla medesima Tracia
apparteneva. Tereo dimorava in Daulia, città del contado ora detto
Focide, e a quei tempi abitato dai Traci, dove appunto le donne
commisero l’attentato contro Iti: ond’è che molti poeti menzionando
l’usignuolo gli danno il soprannome di Daulia» (Tucid., II, 29).

[480] Demo della tribù Leontide (Vedi quadro I, nota 55). 

[481] Sull’epiteto di _Traci_ attribuito a Eumolpo, a Orfeo, ecc.,
vedi avanti, nota 41. «Questo Eumolpo era di Tracia, figlio di Nettuno
e di Chione, che nacque dalle nozze di Borea con Oritìa, la figlia di
Eretteo re d’Atene» (Paus., _Att._, 38): Eumolpo era quindi pronipote
di Eretteo. Indi la leggenda narrava che per rivendicare i suoi diritti
sul regno di Atene, Eumolpo coi Traci avesse invaso l’Attica, venendovi
in soccorso agli Eleusini ribellatisi, mentre vi regnava il secondo
Eretteo. Venuti a pugna presso Eleusi, il re Eretteo e gli Ateniesi,
grazie al sagrificio di Agraulo figlia del re, rimasero vincitori; fu
quindi fatta la pace, e quei di Eleusi si sottomisero ad Atene, a patto
che essi sarebbero rimasti in possesso dei misteri di Cerere e che il
sacerdozio di Cerere e di Proserpina sarebbe riserbato ai discendenti
di Eumolpo (Paus., _Att_., 38; Isocr., _Panaten._; Stobeo, _Serm_.,
38; Igin., _Fab_., 46; Meurs., _Reg.; Ath._, II, 8-10.) Eumolpo poi fu
sepolto nel demo di Scambonide (ove nacque Alcibiade) e il suo sepolcro
vi esisteva ancora al tempo di Pausania, per testimonianza di Pausania
stesso che lo visitò.

[482] «A tutti poi furono portati dei tripodi, ed erano una ventina,
pieni di carni sminuzzate, e insieme colle carni infilzati grandi pani
con lievito. Apponevansi sempre le pietanze primamente a’ forestieri:
e ciò fece Seute pel primo, il quale, pigliando i pani che stavano
dintorno a lui li fece in piccoli pezzi e li gettò a quelli che meglio
gli parve, e così anche le carni, riserbandone per sè tanto solo da
assaggiarne. E questo medesimo fecero anche gli altri (Traci) presso
i quali fossero delle pietanze. Ma un Arcade per nome Aristo, gran
mangiatore, non curandosi punto di quello sminuzzamento, e pigliato in
mano un pane di forse tre chenici e postasi anche sulle ginocchia la
carne, si pose a cenare...» (Senof., _Anab._, VII, 3). Il _chénice_
era quanto bastava al nutrimento di un giorno: come misura cubica
di capacità, equivaleva circa al litro, e come misura di peso al
chilogramma, scarso.

[483] _Chiechenei_ (Κεχηναίοι, Aristof., _Caval_., 1263; Κεχηνότης,
Luciano, _Scita_, 11), ossia _bocche spalancate._ Su questo soprannome
epigrammatico degli Ateniesi, che qui Cimoto, da quel degno parassita
filosofo che è, applica alla valentìa delle proprie mascelle, di cui
è occupato a dar le prove, vedi il quadro IV, nota 10. Strano che il
Cappellina, di solito esatto, abbia così malamente tradotto Κεχηναίων
πόλις per _città degli Sbadati_; aggettivo ch’è appunto il rovescio
dell’idea del vocabolo greco: il quale deriva da χάω, _aprir la bocca_,
ed esprime precisamente, coll’idea dello spalancar di becco dei pulcini
all’appressarsi della chioccia, quell’attenzione stupida, intensa, a
_bocca aperta_, di chi pon mente avidamente a qualche cosa.

[484] Celebrati da Omero: 

      _Han duce_ (i Traci) _Reso, il figlio_ 
    _d’Eroneo: e a lui vid’io destrieri_ 
    _Di gran corpo ammirandi e di bellezza,_ 
    _Una neve in candor, nel corso un vento._ 
                      (_Iliade_, X, trad. del Monti) 

dove, fra parentesi, quest’ultimo verso del Monti, per quanto lodato,
mi sembra nella sua cadenza lenta e pesante, assai lontano dal rendere
la dolcezza, l’agilità e la rapidità pittoresca del verso greco, uno
dei più belli della _Iliade_:

    λευκότεροι χιόνος, θείειν δ’ἀνέμοισιν ὁμοῖοι 

sembra sentir il volo dei cavalli. Virgilio s’appropriò anch’egli
questo verso:

    _Qui candore nives anteirent, cursibus auras_ 

che non val neppur esso quello d’Omero. — Anche Euripide celebra i
cavalli di Reso, _più candidi della neve_, χιόνος ἐξαυγεστεροι, _Reso_,
v. 304.

[485] Sull’usanza rigorosa dei re Traci di pigliar doni anzichè di
darne, «tanto che nulla far si poteva senza donativi» (vedi Tucid., _G.
Pel._, II, 97; Senof., _Anab._, VII, 3). Il dono del re ad Alcibiade è
qui dunque una eccezione: se ne ha per altro un esempio in Senofonte
stesso, nei doni di Seute a Cleanore e Filisco «che Seute avea
guadagnato dando all’uno un cavallo, all’altro una donna» (_Anab._,
VII, 2).

[486] Nel capitolo citato dell’_Anabasi_ — poi che gli altri convitati
ebbero bevuto e fatti i doni al re, Senofonte ritrovasi in imbarazzo
per non aver nulla da donare; e se la cava da pari suo: «Però (avendo
già bevuto oltre il solito), si levò (Senofonte) coraggiosamente e,
preso il corno di vino, disse: «Io, o Seute, ti dono me stesso e questi
miei compagni come tuoi amici fedeli, i quali desiderano di faticare
e pericolarsi in pro’ tuo. Con costoro, se gli Dei lo vogliono, tu
ricupererai l’ampio paese tuo ereditario, ed altri ne acquisterai...»
(Senof., _Anab._, VII, 3).

[487] Dei Traci montanari, contro i quali fu intrapresa la spedizione
di Senofonte in soccorso di Seute, vedi Senof., _Anab._, VII, 4; VII,
2. — Cfr. Tucid., II, 96; Tacit., _Annal._, IV.

[488] «ἄνδρας ἠγοῦνται μόνους — τοὺς πλεῖστα δυνατοὺς καταφαγεῖν τε καὶ
πιεῖν (Arist., _Acarn._, 77). Sulla nomea dei Traci come eccessivamente
dediti al vino e all’ubbriachezza, vedi i passi citati di Cornelio
Nepote (_Alc._, 11) e Ateneo (XII, 534 b); e così pure Ateneo (X, 442
f); Aristofane (_Acarn._, 141); Eliano (_V. St._ III. 13, 15). Indi il
loro carattere insolente, violento e sfrenato (Aten., _ibid._ — Cfr.
Luciano, _Icarom._, 15), pel quale eran venuti in proverbio: e diceasi
θράττειν, _tracizzare_, imitare i Traci, per denotare maniere arroganti
e sboccate (Macrob., _Saturn._). Celebri, del resto, erano i vini della
Tracia e dell’isole ad essa adiacenti, come Lenno: e vino decantato
dai comici e dai poeti era il _biblino_, proveniente da una regione
della Tracia, detta di Biblia o dei monti _biblini_ (Acheo, Filino,
Epicarmo in _Aten._, I, 31 a). Oltre il vino d’uva, i Traci faceano
pure grandissimo uso del vino d’orzo o radici, detto _brito_ o _pino_
(βρύτον, πῖνον) come in Archiloco e in Ellanico, citati da Ateneo (X,
447).

[489] La parola _uomo_ usata in questo senso di virilità e fortezza
— come dall’esempio testè citato di Aristofane (_Acarn._, 77) —
esprimevano i Greci benissimo colla voce ἄνηρ, che significava in senso
proprio il _maschio_ nel rapporto sessuale (opposto alla femmina,
γυνή) e quindi per metafora anche l’uomo veramente fornito di doti
e virtù maschili, il _vir_ dei Latini: a differenza dell’ἄνθρωπος,
corrispondente all’_homo_ nel senso generico di persona, di essere
umano — sia uomo o donna. Noi abbiamo invece una parola sola pei due
distinti significati: e saremmo quindi imbrogliati a tradurre alla
lettera la frase, per esempio, di Erodoto: δῆλον δ’εποιοῦντο ὄτι πολλοὶ
μεν ἄνθρωποι εὶεν, ὀλίγοι δ’ἄνδρες. «_E resero manifesto come molti
siano gli uomini_ (homines), _ma pochi gli uomini_ (viri),» cioè a
dire gli uomini di polso, che per virtù e valore meritino di uomini
veramente il nome.

Nelle arringhe pubbliche o forensi dei Greci, l’ἄνηρ, inteso nel senso
che si è detto, ricorre frequentissimo, come un equivalente del nostro
_cittadino_: ὤ ἄνδρες Αθηναῖοι, ὤ ἄνδρες δικασταὶ, ecc. È un epiteto
onorifico, un qualificativo cortese di dignità, aggiunto alla qualifica
nuda e cruda di _Ateniesi_, di _giudici_, ecc., e affatto proprio e
caratteristico dello stile oratorio greco e della urbanità attica:
tanto che i traduttori antichi, i quali lo voltavano in _signori_
o _messieurs_, potevano dirsi — nel loro ordine di idee — molto più
fedeli di quei traduttori moderni che, col pretesto della fedeltà,
danno di frego a quell’epiteto e lo sopprimono addirittura. Che se
il _Messieurs les Athéniens_ dei traduttori diede una cattiva idea
di Demostene al generale Foy, egli aveva ragione, perchè imaginavasi
Demostene aringante in liberissima repubblica; come mai invece sfuggì
all’acume dell’egregio Mariotti che la nostra lingua forense ha
precisamente una formola rispondente a capello a quella greca, e su cui
il generale Foy non avrebbe trovato a ridire, e che l’ἄνδρες δικασταὶ
di Demostene non è altro che i _cittadini giurati_ dei nostri oratori
della Corte d’Assise? (Cfr. Mariotti, _Oraz. di Demost._ nei commenti,
t. II, p. 244).

[490] Ercole, irritato contro Leprea (perchè questi aveva suggerito
al re Augia di legar Ercole), lo sfidò a vari esercizii: e a lanciare
il disco, e ad attinger acqua, e a chi primo mangiasse un bue: e in
tutte queste prove Leprea restò vinto. Indi vennero a gara chi di loro
potesse bevere di più (ὐπὲρ πολυποσίας ἀγών) e in ciò pure Ercole fu
superiore. Leprea, trasportato dall’ira, sfidò allora Ercole a duello e
cadde morto nel combattimento (Eliano, _V. St._, I, 24).

[491] _Il cavallo vuole il piano_, ἐς πεδίον τὸν ἵππον, diceasi per
proverbio, tra i Greci, di chi proponeva una sfida in ciò che per lui
era più facile, o in cui si sentiva più sicuro di vincere — in quella
guisa che al cavallo è più facile correre sul piano che non sull’erta.
— Così Platone, applicando il proverbio alla potenza di Socrate nel
disputare: «_Tu sfidi i cavalli al piano_ (ἵππεας εἴς πεδίον προκαλεῖ)
_e Socrate alle dispute_ (Plat., _Teetet._, 183. — Cfr. Luciano,
_Pescat._, 9; Erasm., _Adag._). Alcibiade qui applica il proverbio,
per cortesia e finta modestia, ai Traci altrettanto famosi bevitori
che cavalcatori, e allevatori di razze di cavalli esimie, ἱπποπόλοι
(Omero).

[492] ὔς ποτ’ Αθαναίαν ἔριν ἢρισε — _il porco una volta sfidò Minerva_
— (Teocr., _Idill._, 5). Proverbio greco, usato anche fra i Latini —
_sus Minervam_ — a denotare disparità di condizione o di dignità fra
due contendenti che si sfidano.

[493] Gli Sciti e i Traci (tra i quali, del resto, era grandissima
affinità di costumi) avevano in aborrimento l’uso greco di allungare il
vino, e non lo bevevano che puro: indi appunto il bevere vin pretto,
diceasi proverbialmente dai Greci _bevere alla maniera degli Sciti,
all’uso scita_ ἐπισκυθίσαι (Plat., _Leg._, I, 637; Aten., X, 427). E
Satiro, presso Ateneo, dice di Alcibiade che _superò i Traci nel bevere
vin puro_ (Aten., XII, 534). — Sul vin di Bibli, vedi sopra.

[494] La _cótila_, misura di capacità, così pei liquidi che pei solidi,
equivaleva a 27 centilitri scarsi, ossia circa due dei nostri bicchieri
da tavola. Ai servi lacedemoni bloccati a Sfatteria, gli Ateniesi
concedevano al giorno una cotila di vino e un _chenice_ (misura di
quattro cotile) di pane, ch’era la solita razione di un parco vitto
quotidiano (Tucid., IV, 16; Elian., _V. St._, I, 26). Le principali
misure greche di capacità pei liquidi erano la _metreta_, la _coa_ o
il _congio_, il _sestario_, la _cotila_, l’_osibafo_, il _ciato_, la
_conca_, il _mistro_. La _metreta_ (o _anfora_ o _cado_) corrispondente
a circa litri 38,76, valeva 12 coe; la _coa_, o litri 3,23, sei
sestarj; il _sestario_, o litri 0,53, 2 cotile; la _cotila_, o litri
0,27, dodicesima parte d’una coa, valeva 4 osibafi; l’_osibafo_,
sesto di cotila, ossia 7 centilitri scarsi, valeva un ciato e mezzo;
il _ciato_, 2 centilitri e mezzo, valeva 2 conche; la _conca_, o
dodicesimo di cotila, litri 0,0225, valeva 2 mistri, ossia il _mistro_
era all’incirca il nostro centilitro (litri 0,0112).

Le misure di capacità pei solidi erano in gran parte le medesime
(_ciato, osibafo, cotila, sestario_), oltre alcune speciali: il
_chenice_, equivalente a 4 cotile, ossia all’incirca il nostro litro
(litri 1,070); il _medimno_, equivalente 48 chenici, ossia 192 cotile,
ossia litri 51,84, cioè all’incirca il nostro mezzo ettolitro. Un
medimno di frutti solidi e liquidi ragguagliavasi al valore di una
dramma: così una rendita di 500 medimni, ossia 500 dramme, segnava il
censo dei cittadini della prima classe. Vi erano poi parecchie altre
misure forestiere, come lo _stannio_, l’_idria_ (6 coe), l’_elefante_
(3 coe), l’_emitio_ (4 coe), il _cofino_, misura beota (3 coe), il
_maristo_ (6 cotile, o mezza coa), l’_artaba_, misura persiana ed
egizia (1 medimno e 3 chenici), l’_emiciprio_, misura di Cipro (mezzo
medimno), il _dadice_ (6 chenici), la _capide_ (2 chenici), ecc.

[495] Vedi sopra, nota 16, sull’usanza dei doni. — «Mentre poi la coppa
andava in giro, entrò un Trace con un cavallo bianco, e toltosi un
corno pieno, disse: _Bevo, o Seute, alla tua salute e ti dono questo
cavallo_. Un altro conducendo un fanciullo, lo regalò nello stesso
modo, bevendo alla salute di Seute: e un altro, abiti per la moglie,
ecc.» (Senof., _Anab._, VII, 3).

[496] _Cizicéno_ o _statere di Cizico_, moneta d’oro purissimo, coniata
in Cizico (città sulla Propontide) e in uso fra i Traci. — Valeva 28
dramme ateniesi, ossia circa L. 25,75. Era di bellissimo conio e recava
da un lato l’impronta di Cibele, dall’altra un leone. — Il re Seute
nell’_Anabasi_ stipula in ciziceni il contratto con Senofonte per la
paga delle sue truppe. «Promise al soldato un ciziceno (al mese), al
capo di coorte il doppio, al comandante quattro» (Sen., _Anab._, VII,
2).

Sulle monete greche, particolarmente attiche, vedi i ragguagli al
quadro II, nota 7. Giova qui aggiungere che le monete di bronzo
arrivavano fino ai quattro oboli, ossia 64 centesimi di franco (_calco,
semiobolo, obolo, diobolo, triobolo, tetrobolo_); le monete d’argento
cominciavano dalla dramma, ossia 92 centesimi fino alle 5 dramme, ossia
lire 4,60 (_dramma, didramma, tridramma, tetradramma, pentadramma_);
le monete d’oro erano il _darico_ di 20 dramme (lire 18,40), lo statere
d’oro di 25 dramme (lire 23); il _ciziceno_ di 28 dramme (lire 25,75).
Altri pone fra le monete effettive la _mina_ di 100 dramme, benchè
Esichio assicuri che le maggiori monete d’oro fra i Greci pesavano 2
dramme e il loro valore s’aggirava tra le 20 dramme e poco più in su.
Nel qual caso la mina avrebbe già dovuto essere una moneta nominale.

[497] Seute (succeduto a Sitalce, del cui nipote Spardaco era figlio)
ebbe in moglie Stratonica, sorella di Perdicca, re di Macedonia
(Tucid., _G. Pel._, II, 101).

[498] _Ilìtia_ o _Lucina_ — «veneranda Ilìtia» (πτνια Εἰλείθυια —
Arist., _Lisist._, 741, _Eccl._, 369) era chiamata Giunone (Ἤρα)
siccome presiedente ai parti. Chiamavasi anche, come _preside delle
nozze_, Giunone _gamelia_ o _telia_ (Γαμήλιος, Τελεία. — Diod. Sic., V;
Arist., _Tesm._, 973). Giunone dalle _bianche braccia_ (λευκώλενος) è
detta da Omero; _egofaga_ (ἀιγόφαγος), (Paus., _Lac._) o _mangiatrice
di capre_ la chiamavano i Lacedemoni, perchè le erano immolate capre in
sacrificio; e Giunone _Samia_ (Aten., XIV, 655) dicevasi dal suo tempio
famoso nell’isola di Samo, donde volevasi fossero originarii i pavoni,
gli uccelli sacri alla Dea.

[499] Che Alcibiade portasse moltissimo il vino, rilevasi da Platone
nel _Simposio_, dove Alcibiade, dopo aver già bevuto molto, si fa
dare e beve d’un fiato un vaso di vino «_che poteva contenere più di
otto cotile_» (πλέον ἤ ὄκτω’ κοτύλας), vale a dire un paio di litri
abbondanti; il che non gli impedisce di tener poi il suo magnifico e
lucidissimo discorso, così da far dire, quando ha finito di parlare, a
Socrate: «_Io sospetto, Alcibiade, che tu oggi sei stato sobrio: senza
di che non avresti mai parlato così abilmente_...» (Plat., _Simp._,
cap. 31, 38). — Vero è che in questa scena Cimoto si scandalizza non
di otto, ma di quattro cotile sole (1 litro e 8 centilitri): cosa
naturale, perchè qui fra i Traci si tratta di vin puro, e non, come nei
simposj di Atene, di vino misto coll’acqua.

[500] Vivevano i Traci in piccole e povere abitazioni, o più
propriamente capanne, pochissimo elevate dal suolo (_aedificia modice
ab humo elevata_, B. Aub., III, 5) e cinte all’intorno di grandi
palizzate a custodia delle greggie (Senof., _Anab._, VII, 4). Senofonte
stesso non chiama altrimenti che _villaggi_ i paesi traci, ch’eran
formati dei piccoli gruppi di quelle capanne, e chiamavansi dai Traci
col nome di _bria_ (Strab., VII, 6); onde la desinenza dei nomi di
parecchie borgate, _Mesembria, Selimbria_, ecc. Demostene li chiama
addirittura _catapecchie_ o cascinali: «Nessuno sarà così ingenuo da
credere che Filippo sia smanioso delle catapecchie della Tracia (τῶν
ἔν Θάρκῃ κακῶν) — e come si potrebbero altrimenti chiamare Drongilo,
Cabile, Mastira e l’altre terricciuole? — e per conquistarle soffra
freddi, fatiche e pericoli: e non pretenda nè i porti di Atene, nè gli
arsenali, nè le miniere, ecc., ma solo per un po’ di panico e di veccia
serbata nelle spelonche (ἔν τοῖς οἰῥῥοῖς) di Tracia, si accontenti
di svernare in un baratro» (ἔν τῷ βαράθρῳ) — (Demost., _Filipp._, IV,
_Cose del Chers._). — E allo stesso modo ne parla Giuliano: «O Giove,
che gusto vivere nel cuor della Tracia e passar l’inverno nelle sue
spelonche!» (σιροῖς) — (Giul., _Lett., a Jamblico_, 52).

[501] «_Levatosi Seute bevve insieme con lui, poi vuotò il corno sopra
il suo vicino_» (Senof., _Anab._, VII, 3). Suida parla esplicitamente
di questa usanza dei Traci, poco conforme al moderno Galateo, di
versare sulle vesti dei commensali il vino rimasto nella tazza (τὸ
λοιπόν τοῦ οἴνου καταχέουσι κατὰ τῶν ἰματίων τῶν συμποτῶν). Usanza
d’altronde attestata non solo da Senofonte, ma anche da Platone, ove
dice che gli Sciti e i Traci fanno uso del vino puro, e ritengono bella
e beata consuetudine il _versarlo sopra gli abiti_, κατὰ τῶν ἰματίων
καταχεόμενοι — (Plat., _Leg._, I, 637 e).

[502] Le idee degli antichissimi _Orfici_ sulla vita avvenire, e
sui destini futuri delle anime, coltivate fra i Traci di Pieria e
simboleggiate nei misteri di Samotracia, dovettero precedere di molto
lo sviluppo delle dottrine pitagoriche, sulla metempsicosi, ecc., colle
quali più tardi si mescolarono e si confusero. Su questa unione degli
Orfici coi Pitagorici, che il Müller vorrebbe fissare all’epoca della
caduta della lega pitagorica nella Magna Grecia (504 av. l’E. V.) e
sopra le idee generali della poesia orfica, vedi lo stesso Müller (_St.
della lett. greca_, cap. XVI. — Cfr. l’autore del _Viaggio d’Antenore_,
cap. 92).

[503] Notai già altrove (_Alcibiade e la critica_, ecc.) —
contrariamente a ciò che qualche critico erudito si prese il disturbo
di insegnarmi — come Zamolchi fosse da’ Greci riguardato propriamente
come un Dio dei Traci. «Imparai questo incantesimo all’esercito da uno
di quei medici traci, settarj di Zamolchi, i quali si dice che sappiano
anche rendere gli uomini immortali. E diceva quel Trace: Zamolchi
re nostro, il quale è Dio, dice che non conviene curare gli occhi
senza curare il capo, nè il capo senza il corpo, nè il corpo senza
l’anima: ma che questa è la causa per cui ai medici greci sfuggono
molte malattie, perchè ignorano ciò che bisogna curare, ecc.» (Plat.,
_Carmide_, 156 d.) — «E vidi (nell’Elisio) tra i semidei barbari lo
scita Anacarsi, e il trace Zamolchi» (Lucian., _Storia vera_, 2). «Gli
Sciti adorano la scimitarra, i _Traci Zamolchi_, un fuggitivo di Samo
che si riparò tra di loro, i Frigii la luna, gli Etiopi il giorno, gli
Assirj una colomba, i Persiani il fuoco, gli Egiziani l’acqua» (Luc.,
_Giove trag._, 42. — Cfr. Erodot., IV, 159). Fu questo Zamolchi un
discepolo di Pitagora, il quale studiò fra gli Jonj la civiltà greca e
i segreti della scienza di Esculapio; e tornato poscia in patria fra
i Traci, rozzi ed incolti, diede loro più miti istituzioni e leggi
e costumanze; a procacciar credito alle quali, secondo il solito dei
legislatori, insegnò ai Traci che le anime di coloro che le avessero
fedelmente osservate, sarebbero venute, dopo morte, a trovar lui in un
luogo dove ogni sorta di beni le aspettavano. Per il che salito fra i
Traci in grandissima venerazione, un bel giorno si sottrasse di mezzo a
loro e scomparve, ritirandosi a vivere sur un monte, in una spelonca a
tutti inaccessa, e lasciando di sè immenso desiderio fra quei popoli;
i quali perciò lo ascrissero fra gli Dei e il monte reputarono sacro
(Strabone, VII, 3; XVI, 2. — Cfr. J. Boem. Aub., _Mores_, _leges omnium
gentium_, 1. III, c. 5).

[504] «La statua di Ercole ad Eritrea (Jonia) è posta sopra una specie
di zattera: e quei di Eritrea narrano ch’essa venne così da Tiro in
Fenicia, viaggiando per mare. Aggiungono che, entrata la zattera nel
mar Jonio, si fermò al promontorio di Giunone, a mezza strada fra
Eritrea e Chio. Appena da lontano quei di Eritrea e di Chio scorsero
la statua del Nume, tutti si contesero l’onore di trarla a riva e
vi impiegarono tutte le loro forze. Un pescatore di Eritrea, di nome
Formione, che avea perduta la vista per malattia, fu avvertito in sogno
che se le donne di Eritrea consentivano a tagliare i loro capelli e
farne una corda, si sarebbe con essa potuto tirar la zattera a riva.
Ma neppure una delle donne di Eritrea volle obbedire al sogno; indi
alcune donne di Traci, che sebbene nate libere servivano in Eritrea,
sacrificarono le loro capigliature: in grazia di che quei di Eritrea
ebbero in loro possesso la statua di Ercole, e per ricompensare le
donne tracie statuirono che avessero esse sole il diritto di entrare
nel tempio del Dio. Ivi si mostra ancora la corda fatta dei loro
capelli, che vien conservata gelosamente. Quanto al pescatore che ebbe
il sogno, egli ricuperò la vista» (Pausan., _Acaia_, 5).

[505] Notissima la leggenda di Orfeo, poeta trace, nato fra i Libetrii,
e primo istitutore fra i Greci dei riti di Bacco o Dioniso; dei
cui canti la fama salì tant’alto che fu riguardato il primo cantore
dell’epoca eroica e dato per compagno agli Argonauti; e il quale fu
sbranato dalle Ménadi tracie perchè, infastidito delle donne, dopo la
perdita di Euridice, ebbe in dispregio il loro sesso e introdusse il
turpe amor dei fanciulli; o vuoi perchè attirandosi dietro col fascino
del canto e della cetra gli uomini, era causa che questi trascurassero
le loro mogli. — La leggenda aggiungeva che la sua testa recisa e la
sua cetra, dopo l’immane eccidio, venissero gettate nell’Ebro e le onde
di questo ne mandassero armonioso lamento:

              .... _Medio dum labitur amne_ 
    _Flebile nescio quid quæritur lyra, debile lingua_ 
    _Murmurat exanimis; respondent flebile ripae_ (Ovid.) 

poi dal fiume trasportate giù al mare, testa e cetra arrivarono
galleggiando a Lesbo; sì che quell’isola divenne fra tutte «_la più
ricca di canti_,» πασεων ἀοιδοτάτη — e in Antissa, città lesbia, ove fu
sepolta la testa del poeta, gli usignuoli cantavano più armoniosamente
che altrove. Elegante e poetica raffigurazione delle origini di quella
poesia eolia che diede alla Grecia i carmi di Terpandro e di Saffo
e di Alceo (Vedi Ovid., _Metam_., XI, 1 seg.: Pausan., _Beot._, 30;
Plat., _Simp._, 179; _Repub._, X, 620; Stobeo, LXII, 399; Pindaro,
_Pit._, IV; Apoll. Rod., _Argon._, ecc.). — Pausania (_l. c._) indica
Dione città di Macedonia non lungi dal fiume Elicona come il luogo ove
Orfeo fu fatto a pezzi dalle donne, d’accordo in ciò colle opinioni
moderne che spiegano quel curioso titolo di Traci attribuito nelle
leggende ai più antichi cantori della Grecia (Eumolpo, Orfeo, Museo,
Tamiri). Infatti la patria di quella tracia poesia è a ricercarsi
non già fra le popolazioni incolte della vera Tracia, fra i barbari
Odrisj ed Odomanti; ma bensì in quella regione greca di _Pieria_ che
si stende ad oriente dell’Olimpo, a settentrione della Tessaglia,
e tiene il mezzodì della Macedonia. Quivi eran appunto la città di
Libetra, dov’era fama che le Muse cantassero il lamento sulla tomba di
Orfeo: e Omero stesso e tutti gli antichi poeti designano la Pieria,
non la Tracia, come patria delle Muse. E verisimilmente questa stirpe
greca de’ Pierj stendevasi anche in una parte della Beozia e della
Focide, d’intorno all’Elicona beotica e alle falde del Parnasso dove
era Daulia e dove troviamo con Tucidide (II, 29) la sede del tracio re
Tereo: e d’onde con Tereo stesso e con Eumolpo, qualificato pur egli
per _Trace_, fecero irruzione nell’Attica (Strab., VII; VIII; Apollod.;
Scol. Sof., _Ed. Col._; Licurg., _C. Leocr._; Isocr., _Panaten._). Solo
quando i Pierj ebbero a patir più tardi molestie e persecuzioni nella
lor propria contrada dai principi macedoni, si ritirarono nella Tracia
propriamente detta, al di là dello Strimone, dove Erodoto (VII, 12;
cfr. Tucid., II, 99) ricorda i castelli dei Pierj; e là, confondendosi
coi veri Traci, legarono a questo nome dei loro nuovi compatrioti la
memoria dei loro canti e il lustro della loro tradizione poetica, che
era quella nientemeno delle prime origini della poesia greca (Cfr.
Strabone, VII, 7; IX, 2; X, 3).

[506] Ben diversa sembra fosse l’opinione che avevasi delle donne
tracie nella Grecia: «dov’elle venivano per far le serve e qualche
cosa di peggio» (La Bruyère). Così Teofrasto volendo descrivere una
di quelle donne di malaffare «_che appostano i giovani sulla pubblica
via_,» ne fa una donna di Tracia (Teofr., _Caratt._, 28). Si capisce
quindi che il vanto di Odrisio dovesse far sorridere Alcibiade.

[507] Usanza dei Crestonesi, una delle popolazioni di Tracia. «At qui
supra Crestonas incolunt ista agunt: singuli plures uxores habent,
quorum ubi quis decessit, disceptatio magna fit inter uxores acri
amicorum circa hanc rem judicio, quaenam dilecta fuerit a marito
præcipue. Quæ talis judicata est, et hunc onorem adepta, ea a viris et
mulieribus exornata, ad tumulum a suo propinquissimo mactatur, unaque
cum viro humatur: cœteris uxoribus id sibi pro ingente calamitate
ducentibus atque lugentibus: nam id eis summo dedecori datur» (J. Boem.
Aub., _Mores, leges, etc_., III, c. 5).

[508] Μὰ τὸν Ἄνεμον καὶ τὸν Ακινάκην — (Lucian., _Tossari_, 38).
Arma nazionale dei Traci e degli Sciti era la sciabola o scimitarra,
ἀκινάκην (cfr. sopra, nota 3; e Ammiano, XIII; Luciano, _Giove Trag_.)
— e per essa, e per il vento, ritenuti Iddii, solevano giurare; come
sacro era ai Greci il giuramento _per le lancie_ (Giustin., XIII), e
come vedesi in Omero giurar Giove _per lo scettro_. — Del culto degli
Sciti per la scimitarra, accennano Clem. Aless., 25 C., e Ammiano XXXI.
Solano cita un libro di viaggi in Russia, ove degli Sciti, cioè dei
Moscoviti del suo tempo, era detto che conservavano l’antico culto:
_Arcum et gladium ceteraque arma pro diis habent_ (Sol., _note_ a
Luciano).

[509] Circa la sfida dei bicchieri e quella delle mogli — che mi
fornirono l’argomento di questa scena e della precedente — mi riporto
al Meissner che le accenna succintamente entrambe (tom. IV, pag.
297, 301). Pensai giovarmene, colla scorta di Senofonte (_Anab_.), di
Strabone, di Eliano, ecc., per una breve pittura dei costumi traci, e
quanto al carattere di Alcibiade, per la preparazione drammatica delle
ultime scene del quadro.

[510] Leggo in un frammento d’una commedia di Menandro: «Tutti i
Traci in generale e noi Geti in particolare non siamo gran fatto
temperanti... Poichè nessuno di noi conduce in moglie meno di dieci od
undici donne; e molti anche dodici. Che se dopo aver appena condotto
in moglie quattro o cinque donne soltanto, muore, egli vien fra noi
chiamato celibe (ἄνυμφος), infelice, ignaro d’imeneo (ἀνυμέναιος)»
(Men., _Framm._, pr. Strabone, VII, 3. — fr. 8 ediz. Didot). Ed
Eraclide Pontico: «Ciascuno di costoro (Traci) prende tre o quattro
mogli, e ve ne ha pur che ne prendono anche trenta, e le trattano come
serve. Giacciono con esse periodicamente, e la donna lava e serve il
marito, e molte, dopo il congiungimento, dormono sul suolo. E se taluna
ciò mal comporta, i genitori, col restituire ciò che han ricevuto,
ritirano la figlia, perchè essi le maritano ricevendone il prezzo.
Morto il marito, i suoi parenti ne ereditano, come le altre cose, così
anche le mogli» (Eracl. Pont., _Rep_., 27). Che i Traci comperassero le
mogli dai genitori, a caro prezzo, è narrato anche da Erodoto, V, 6. —
E l’Aubano: «Uxorum pudicitiam solicitius custodiunt (Thraces) easque
magno aere a parentibus coemunt, fronte notis quibusdam segnatis:
generosum id judicatur, ignobilitatis argumentum sine his esse.
Nupturae quae prae ceteris specie valeant, prius subtaxari volunt, et
licentia taxaxionis admissa, non minoribus nubunt praemiis. Quas formae
dedecus premit, dotibus emunt quibus conjunguntur» (I. Boem. Aub., _l.
c._).

[511] Eracl., Pont., _Rep_., 27. — E Platone: «Quale maniera di
convivenza cogli uomini prescriveremo alle donne? forse quella per la
quale i Traci si servono delle mogli a coltivar i campi e a pascolare
i buoi e le pecore e ad altri bassi ufficj in cui nulla differiscono
dai servi?» (Plat., _Leg_., VII, 805). A questa condizione servile
delle donne fra i Traci, lo stesso Platone paragona giustamente, nel
passo citato, la condizione non molto dissimile, e di poco migliore,
della donna fra gli Ateniesi, mantenuta anch’essa nella dipendenza del
marito e chiusa in casa ad attendere al lanificio e alle altre faccende
muliebri. — A Sparta invece la posizione della donna era precisamente
il rovescio. Anche a Sparta, è vero, essa amministrava l’interno
della casa, ma in una condizione ben più elevata; e mentre fra gli
Joni vediamo la donna dividere col marito il letto e non la tavola, e
chiamarlo _padrone_, i Dori di Sparta, all’opposto, con una galanteria
affatto medioevale, chiamavano signora e _padrona_, δέσποινα, la
moglie. E la parola non era già una cortesia vuota di senso o una
ironia: ma rispondeva perfettamente all’influenza che avevano le donne
spartane nella vita dello Stato e al loro effettivo predominio sopra
i mariti, pel quale andavano proverbiali. Indi appunto dalle mogli
spartane ebbe origine quel detto: che _ridurre le donne all’obbedienza
era impresa in cui fallì persino il genio di Licurgo_ e a cui egli
stesso dovette rinunziare. «_Le Spartane_, diceva una forestiera alla
sposa del re Leonida, _sono le sole donne che esercitino padronanza sui
loro uomini. — Certo_, ella rispose: _ma sono anche le sole che mettano
al mondo uomini_» (Plut., _Lic_., 14, _Apof. Lac_., e in _Numa_, 3;
Plat., _Leggi_, I, 637; Aristot., _Polit_., II, 6; Esich. (δέσποινα). —
Cfr. Müller, _Dorier_, lib. IV, 4).

[512] Cfr. l’Aubano, ove parla delle donzelle di Tracia: «Thraces...
nec virgines a parentibus et propinquis adservari, _sed quibus libuit
cum viris concumbere sinunt_» (B. Aub., _l. c_.).

[513] _Andar in Tracia a cambiar fortuna_ (come noi diremmo: _andar in
America_). — Maniera proverbiale; ossia citazione dei due versi greci

    ἔγνωκε πλεῖν εἴς τἀπί Θρᾴκης χωρία, 
    ἐχεῖ διαλλαγησόμενος πρὸς τὴν τύχην. 

(_Per far pace colla sorte — Verso Tracia navigò_) che si applicavano
proverbialmente a coloro i quali, perseguitati dalla miseria in patria
o malcontenti della loro condizione, viaggiavano il mondo per cercar
fortuna. Vedine un esempio in Sinesio, _Lettere,_ 43. La scelta della
Tracia, paese povero e senza risorse (tanto che forniva alla Grecia le
fantesche e i mercenari), caratterizzava argutamente la vanità delle
speranze di quei cacciatori della fortuna, non mai contenti del proprio
stato.

[514] «Ad hunc (Zamolxin) mittunt assidue adhuc cum navi quinque
remigum nuncium quempiam ex seipsis sorte delectum, praecipientes
ea quibus semper indigent: eumque ita mittunt. Quibusdam eorum datur
negotium: ut tria jacula teneant; aliis, ut comprehensis ejus, qui ad
Zamolxin mittitur, manibus, pedibusque hominem agitantes in sublime
jactent ad jacula: qui si in praesentiarum exstinguitur propitium sibi
Deum arbitrantur, sin minus, ipsum nuncium insimulant, asseverantes
malum illum esse virum, hoc insimulato alium mittunt, dantes adhuc
viventi mandata» — (B. Aub., _l. c._).

[515] Uso degli Sciti coi quali i Traci confinanti avevano, come si
disse, e come attestano gli scrittori greci, affinità d’indole, di
abitudini e gran parte delle costumanze comuni. Aristeneto lo accenna
in una sua lettera, I, 12. Filarco narra che gli Sciti ogni giorno
innanzi coricarsi si faceano recare la loro faretra e in essa gettavano
una marca bianca o nera, secondo che avean passato una giornata felice
o rattristata da disgrazie. Quando poi uno Scita moriva, si prendeva
la sua faretra e si contavan le marche bianche e nere: e se il numero
delle bianche era maggior delle nere, lo si giudicava beato. Indi passò
la cosa in proverbio (Cfr. Mercerus, _Comm._ in _Aristen._).

[516] Per la lor maniera comoda di interpretare e mantener i patti e
le promesse, venivano i Traci citati dai Greci in proverbio. Eforo
narra che pattuitosi una volta, fra Traci e Beoti guerreggianti,
un armistizio di più giorni, i Traci, malgrado la tregua, di notte
assalirono per sorpresa i Beoti: respinti e rimproverati per aver
violata la fede, risposero di non averla violata affatto, perch’essi
avevano pattuito la tregua per i giorni e non per le notti. Indi venne
fra i Greci il proverbio: _interpretazione_ o _commento da Trace_,
θρακια παρεύρεσις (Strabone, IX, 2). La stessa risposta diede più
tardi il re spartano Cleomene agli Argivi, da lui assaliti nottetempo,
durante una tregua d’armi (Plut., _Apof. Lac._).

[517] _Giove ospitale_ (ξένιος — Esch., Agam., 355) era altro degli
attributi di Giove, siccome punitore di chi violasse i diritti
e i doveri della ospitalità (νὴ τὸν ξένιον, _per l’Ospitale!_ —
cioè, per Giove protettor degli ospiti! — Plat., _Leg._, XII, 965).
Siccome in Giove, del resto, raffigurarono gli antichi lo spirito
unico, universale, motore e produttore di tutte le cose, _et qui
cuncta Creat intelligendo_ (Porfirio) — così a seconda delle varie
funzioni attribuite alla sua potenza fu egli chiamato con varj nomi:
_tot monstra, quot Jovis nomina_ (Arnobio, VII): a tal che v’ebbero
non meno di trecento Giovi. Così, dalla sua influenza sulle azioni
umane, vennero a Giove i soprannomi di _protettor dell’amicizia_
(φιλιος), di _protettor dei supplicanti_ (ἱκέσιος), di _onniveggente_
(διόπτης καὶ κατόπτης), di _onnipossente_ (παγκράτης), di _salvatore_
(σωτὴρ), di _Ellanio_ o protettor della Grecia (Ελλάνιος), di Giove
_re_, ecc. Dalla influenza, invece, sugli elementi gli venivano i
soprannomi di _pluvio_ o _piovoso_ (ὄμβιος, ὔετιος), di _aduna-nubi_
(νεφεληγερέτης), di _aduna-fulmini_, o _tuonante_, o _fulminante_, o
_signor del fulmine_ (ἀστερόπτης, κεραύνιος, βρονταῖος, τερπικέραυνος,
κεραυνοβρόντης, ecc.). Altri nomi gli venivan dai luoghi ov’eran suoi
templi famosi, come Giove _Idèo, Tesprozio, Nemèo, Dodonèo_, ecc.

[518] Allude alla iniqua condanna dei capitani che avevano assunto
il comando della flotta ateniese di Samo in luogo di Alcibiade, dopo
la sua seconda disgrazia (Protomaco, Aristogene, Pericle, figlio del
gran Pericle, Diomedonte, Lisia, Archestrato, Aristocrate, Trasillo ed
Erasinide), e i quali, vincitori della flotta spartana di Callicratida
presso le isole Arginuse (406), furono puniti di morte (meno Protomaco
e Aristogene che si salvarono colla fuga) per aver trascurato di
raccogliere i cadaveri dei morti nella battaglia (Senof., _St. Ellen._,
I, 7; Diod. Sic., XIII). La condanna aveva avuto luogo nel novembre del
406 e quindi pochi mesi prima dell’epoca in cui è supposta la presente
scena.

[519] Narra Senofonte che essendo stato una volta il re dei Traci,
Tere, progenitore di Seute, assalito alla sprovvista dai Tinii,
abilissimi nelle sorprese notturne, — il re Seute, a prevenire il
rinnovarsi di simili sorprese, stavasi in una torre ben custodita e
avea sempre dintorno, già pronti, dei cavalli frenati (Senof., _Anab._,
VII, 2).

[520] «Intanto i capitani Tideo, Menandro e Adimanto, avendo
all’Egospotamo tutte le navi che rimaste erano allora agli Ateniesi,
passavano l’intera giornata senza tenersi in alcun ordine o darsi
veruna cura, siccome quelli che in dispregio avevano il nemico.
Alcibiade però, il quale era dappresso, non si mostrò già in questa
circostanza negligente e trascurato: ma montato a cavallo andò a
ritrovar quei capitani e gli ammonì con far loro vedere che avevan
fatto male a fermarsi in quei luoghi...» (Plutarco, _Alcib._, 36,
_Lisand._, 7; Senof., _St. Ell._, II, 1; Corn. Nep., _Alcib._, 7).

[521] _Egospótamo_ (Αἰγὸς ποταμός, ossia _fiume della capra_),
località sulla spiaggia del Chersoneso di Tracia, alla foce di un
fiumicello dello stesso nome; e posta quasi dirimpetto a Lampsàco
(sulla spiaggia asiatica dell’Ellesponto, non più largo in questo
punto di due chilometri circa) ove era ancorata la flotta spartana
di Lisandro. Circa una ventina di miglia (162 stadj) a mezzogiorno
di Egospótamo, sulla stessa spiaggia europea, là dove l’Ellesponto
si restringe viemaggiormente e non misura più che sette stadj, ossia
meno di un miglio di larghezza era Sesto, una delle migliori città
del Chersoneso, celebre per la torre di Ero e per il poema di Museo;
e un miglio più in giù di Sesto, sulla opposta spiaggia asiatica, era
Abido, la patria dell’infelice amante di Ero. Tra Abido e Sesto gettò
Serse il ponte per traghettare il suo esercito dall’Asia in Europa.
La flotta ateniese (comandata da Tideo, Filocle, Conone, Menandro,
Adimanto e Cefisodoto) era venuta, risalendo l’Ellesponto, da Sesto
ad Egospótamo, per dar battaglia a Lisandro, il quale da Abido aveva
risalito anch’egli l’Ellesponto fino a Lampsaco e si era impadronito
a forza di quest’ultima città (Cfr. Strabone, _Geog._, XIII, pag. 883,
884; Scilace, _Viaggio_; Senof., _St. Ellen._, II, 1; Plut., _Lisand._,
11).

[522] «Gli Ateniesi, tenendo dietro a Lisandro, presero posto in
Eleunte del Chersoneso con centottanta legni. Quivi, mentre erano a
pranzo, ebbero avviso del successo di Lampsaco (assalita e presa da
Lisandro). Onde senza alcun indugio navigano a Sesto. E indi si inviano
per la dritta ad Egospótamo, borgata rimpetto a Lampsaco: e in quel
luogo cenavano» (Senof., _St. Ell._, II, 1).

[523] Notissimo l’episodio omerico di Glauco, un dei duci Trojani,
che in ricordo di antica ospitalità e mutua amicizia, scambiò le sue
ricchissime armi d’oro con quelle del greco Diomede che le avea di
rame.

    Così dicendo, dai corsier discesi, 
    Strinser le destre e si scambiar le fedi. 
    Ma nel cambio dell’armi il senno tolse 
    A Glauco Giove. Aveale Glauco d’oro, 
    Diomede di bronzo; eran di quelle 
    Cento tauri il valor, nove di queste. 

                (Om., _Iliad._, VI, 233). 

Questo scambio, caratteristico dell’antica cavalleria, passò tra i
Greci e poi tra i Latini in barzelletta; e, in tempi meno cavallereschi
e più positivi, le parole d’Omero — χρύσεα χαλκείων (_aurea pro
aeneis_) — erano da’ Greci adoperate, per proverbio, a significare un
baratto ingenuo, da stupido, come stupido appunto è chiamato Glauco da
Marziale: _Tam stupidus nunquam, nec tu puto, Glauce, fuisti_ (Mart.,
IX, epig. 96).

[524] «_Menelao mostrò poco senno in venire consigliere ad Agamennone
senza invito, talchè se ne fece un proverbio_» (Plut., _Disp. Conviv._,
I, 2. — Cfr. Omer., _Iliad._, III, v. 408).

[525] «Riposavano gli Ateniesi (_sulla spiaggia di Egospótamo_)
sperando venire il dì seguente a battaglia. Ma Lisandro volgeva ben
altro in mente... e al levarsi del sole inoltrandosi gli Ateniesi con
tutte le loro navi a fronte distesa e provocando a battaglia, egli,
quantunque tenesse già volte le prore contro di loro e in pieno assetto
di combattimento, ciò nonostante non si avanzava punto; anzi mandò
schifi alle navi che erano più innanzi, con ordine di non muoversi, e
starsene in ordinanza. Quindi, tornati essendo indietro gli Ateniesi
verso la sera, Lisandro licenziar già non volle dalle triremi i soldati
se prima due o tre navi da lui stesso spedite a spiare il portamento
dei nemici, non ritornarono coll’avviso sicuro, che li avevan veduti
discendere sul lido. Nel giorno dopo, nel terzo, e fin nel quarto
rinnovossi la stessa cosa, di modo che molto crebbe l’ardimento degli
Ateniesi, che ad aver cominciarono in vilipendio i nemici, come se
questi così ritirati e ristretti fra loro si stessero per la paura»
(Plut., _Lisandro_, 11).

[526] «Ma Alcibiade (narra proseguendo Plutarco), che trovavasi
ne’ suoi presidj del Chersoneso di Tracia, venne cavalcando al
campo degli Ateniesi, e si diede ad ammonire i capitani primamente
che male accampati si stessero e con pericolo in ispiaggie tutte
scoperte; in secondo luogo che commesso avessero un grand’errore
coll’essersi dilungati da Sesto, d’onde ricevevano le cose che erano
lor necessarie: e dicea che d’uopo era che costeggiando navigasser
eglino sollecitamente alla città e al porto di Sesto allontanandosi
così da’ nemici, che venivano a farsi lor sopra con un esercito
che retto era da un solo comandante, e tutte cose appuntino e
con disciplina immediatamente eseguiva a norma del concertato. A
queste di lui avvertenze i duci non restarono persuasi. Anzi Tideo
ingiuriosamente gli rispose dicendo che non già egli, ma altri eran
quelli che governavan l’armata. Alcibiade pertanto sospettando in essi
qualche tradimento, si partì da loro» (Plutarco, _Lisandro_, 11. — Cfr.
Plutarco, _Alcibiade_, 37), ove soggiunge: «... A quei suoi conoscenti
che lo accompagnavano fuori del campo, egli (Alcibiade) disse che se
stato non fosse così vilipeso da’ capitani, avrebbe costretto fra pochi
giorni i Lacedemoni a venir loro malgrado ad una battaglia navale o a
dover lasciare le navi. Ad alcuni parve ch’egli allora così parlasse
per vana jattanza, e ad altri ch’ei dicesse cose assai probabili, se
conducendo esso dalla parte di terra una quantità numerosa di Traci
esperti in gettar freccie e cavalcare, ad attaccar fosse venuto il
campo di Lisandro. L’effetto comprovò che Alcibiade aveva rettamente
compreso il fallo commesso dagli Ateniesi...» (Cfr. anche Senof.,
_Ellen._, II; Corn. Nep. in _Alcib._, 8. — Diod. Sic., XIII, cap. 19).

[527] ὤς οὔν ὑπὲρ τῶν ἐσχὰτγων ὄντος τοῦ ἀγῶνοπς, poichè si ha da
combattere per le ultime cose, — dice Demostene (_Cherson._, _Filipp._,
IV). E l’Anelli traduce: «_Pugnar per i penati e gli altari._»

[528] Callicrátida, il navarca spartano che comandava la flotta di
Sparta sconfitta dagli Ateniesi nella battaglia delle Arginuse (406
av. l’E. V.) e gloriosamente combattendo vi morì. Il pilota della sua
nave lo aveva prima esortato a non impegnar la battaglia, mostrandogli
che la flotta ateniese era superiore di numero; egli rifiutò dargli
ascolto, reputando vergognoso fuggire in presenza del nemico. Cicerone
così ne riferisce le parole: «_Lacædemonios classe amissa aliam parare
posse: se fugere, sine dedecore non posse_» (Cic., _De Officiis_,
_I_, 48). Senofonte le riferisce alquanto diversamente: «Rispose
(Callicrátida) che _Sparta per la sua morte non riceverebbe danno
alcuno, ma bensì il fuggire sarebbe ignominia per lui_ (ἤ Σπάρτη οὐδέν
κάκιον οἰκεῖται, αὐτοῦ ἀποθανόντος, φεύγειν δὲ αἰσχρόν εἴναι. — Senof.,
_St. Ell._, I, 6; Plut., _Apoft. Lac._; Diod. Sic., XIII, c. 17).

[529] Secondo il racconto di Senofonte (_St. Ellen._, II, 1), Alcibiade
non fece che suggerire ai capitani ateniesi di abbandonare il luogo
deserto e malsicuro dov’erano e di ritornarsene a Sesto «dove avrebbero
avuto la comodità del porto e della città, e dove avrebbero potuto
aspettare al sicuro che gli Spartani si decidessero a combattere.» Il
piano invece che in questa scena Alcibiade suggerisce ai capitani, si
accosta, con alcune modificazioni, alla versione di Cornelio Nepote
(_Alcib._, 8) e di Diodoro (XIII, c. 19). Questa versione, preferibile
nel rapporto drammatico, combina anche colle parole attribuite ad
Alcibiade da Plutarco (_Alcib._, 37) «_ch’egli cioè avrebbe costretto
fra pochi giorni i Lacedemoni a venir, loro malgrado, ad una battaglia
navale o a dover lasciare le navi_:» e non parmi tanto assurda come il
Grate, e l’Houssaye sulla sua scorta, mostrano di credere, affermando
come fanno (Grote, _St. della Gr._, t. XII; Houssaye, _Hist. d’Alcib._,
t. II, p. 382), la impossibilità di operare in presenza della flotta di
Lisandro uno sbarco di truppe sulla costa asiatica, e l’impossibilità
dell’attacco diversivo di terra ferma contro le posizioni spartane di
Lampsaco custodite e fortificate. Nè il Grote, nè l’Houssaye avvertono
che prima di tutto se Alcibiade consigliava agli Ateniesi di scender
giù fino a Sesto, egli è evidentemente di là che egli intendeva operare
lo sbarco, cioè non già presso a Lampsaco, ma presso Abido, a ventun
miglia e più di distanza da Lisandro e dalla sua flotta; e là dove
l’angustia dello stretto rendeva lo sbarco più facile e permetteva alla
flotta ateniese di proteggerlo efficacemente; in secondo luogo, che,
operato lo sbarco, Lisandro non avrebbe più potuto aspettare a piacer
suo, tenendosi sotto mano tutte le forze riunite, l’occasione per lui
più propizia di combattere: ma sarebbe stato costretto, per respingere
in terra ferma la diversione d’Alcibiade contro Lampsaco, a sguernire
le navi in presenza della flotta ateniese operante di concerto; e così
veniva esposto, in caso di un successo di Alcibiade dal lato di terra,
a rimaner preso in mezzo e ad accettar per forza la battaglia sulle
navi. Di più quella diversione di terra ferma era tutt’altro che di
esito così impossibile come il Grote e l’Houssaye la riguardano; perchè
il corpo d’esercito trace che Alcibiade prometteva era un rinforzo
poderoso, e di truppe eccellenti; reso più poderoso dal comando di un
tal condottiero; e l’impresa contro Lampsaco che Alcibiade avrebbe
tentato alla testa di quel corpo non era se non la medesima che era
riuscita felicemente pochi giorni prima, allo stesso Lisandro, il quale
avea preso Lampsaco d’assalto, benchè fortificato e difeso ad oltranza
con tutte le forze; e colla differenza che questa volta Lisandro non
poteva distrarre dalla flotta ed opporre ad Alcibiade se non una parte
delle proprie forze, per la difesa della città. E aggiungasi un’ultima
circostanza importante: che cioè Alcibiade avrebbe operato in paese
amico: perchè Lampsaco, che pure Lisandro avea preso d’assalto «_era
città in lega cogli Ateniesi_» (Senof., _St. Ell._, II, 1).

[530] Cornelio Nepote e Diodoro Siculo lasciano intendere che il
rifiuto dei duci di dar retta ad Alcibiade movesse in loro da un
sentimento di invidia; temendo essi il prestigio di Alcibiade fra le
schiere, e prevedendo che se il piano di Alcibiade riusciva, se ne
sarebbe attribuito a lui tutto l’onore. «Id etsi vere dictum Philocles
animadvertebat, tamen postulata facere noluit, quod sentiebat, se,
Alcibiade recepto, nullius momenti apud exercitum futurum, et si quid
secundi advenisset, nullam in ea re suam partem fore: contra ea, si
quid adversi accidisset se unum ejus delicti futurum reum» (Corn. Nep.,
_Alcib._, 8; Diod. Sic., XIII, c. 19).

[531] «αύτοὶ γάρ νῦν στρατηγεῖν, οὔκ ἐκεῖνον» (Senof., _St. Ell._, II,
1).

[532] Questa parola da me qui posta in bocca ad Alcibiade riassume
l’opinione che poi prevalse in Atene intorno alla disfatta di
Egospótamo: molti scrittori infatti non esitarono ad accusare i
capitani ateniesi di tradimento, e di aver volontariamente date le
navi in preda al nemico. E sebbene l’Houssaye attribuisca questa
accusa al solito vezzo dei popoli di attribuire al tradimento tutte
le battaglie perdute, certo è che la leggerezza e l’inqualificabile
contegno dei generali ad Egospótamo sembravano fatti apposta per
giustificar quell’accusa. Demostene la formula nell’orazione della
_falsa ambasceria_; così pure Lisia (_C. Alcib. min._, I, 38); e più
tardi Plutarco (_Lisand._, 11); e più tardi Pausania: «Egli è certo
che gli Spartani quando si batterono ad Egospótamo corruppero con doni
molti officiali della flotta ateniese, e in ispecie Adimanto» (Paus.,
_Mess._, 17).

[533] Ateneo designa col nome di _Melissa_ il villaggio di Frigia
presso il quale Alcibiade fu assassinato; e narra di aver veduto
egli stesso il monumento ivi erettogli dopo la sua morte, al quale
immolavasi ogni anno un bue, per ordine dell’imperatore Adriano, che
fece anche porre sul monumento la statua di Alcibiade medesimo (Aten.,
_Deipn._, XIII, 574 f.). Aristotele dice dal suo canto che Alcibiade fu
ucciso in Frigia presso il monte Elofos (_Hist. anim._, VI, 29).

[534] Dopo la disfatta di Egospótamo e la caduta di Atene, Alcibiade
— narra Cornelio Nepote — non tenendosi più abbastanza sicuro ove
trovavasi, passò in Asia a Farnabazo, satrapo del re di Persia: «_ma
ogni suo pensiero era volto a liberar la patria:_ e vedeva ciò senza il
re di Persia non potersi fare; onde avrebbe voluto renderselo amico:
e ciò credeva agevolmente potergli venir fatto, quando modo avesse
avuto di presentarglisi. Imperciocchè egli sapeva che Ciro fratello
del re nascostamente coll’ajuto degli Spartani si apparecchiava a
fargli guerra; la qual cosa se egli avesse manifestata al re, vedeva
che gli sarebbe entrato molto in grazia. Mentre stava queste cose
macchinando, Crizia e gli altri tiranni degli Ateniesi mandarono uomini
fidati nell’Asia a Lisandro per avvertirlo che se non avesse tolto di
vita Alcibiade, nulla di quanto aveva egli in Atene ordinato, sarebbe
stabile rimasto. Di ciò commosso lo Spartano, fece sapere a Farnabazo
che i negozj che il re aveva cogli Spartani sarebbero andati vani, se
non gli avesse dato in mano Alcibiade o vivo o morto. Laonde il satrapo
mandò Sisamitre e Bagoa ad ammazzare Alcibiade nel tempo che egli era
in Frigia, e si avviava per portarsi dal re» (Corn. Nep. in _Alcib._,
9, 10. — Cfr. Eforo nei _Fragm. histor. graec._, framm. 126.; Plut,
_Alcib._, 38, _Lisand._, 16).

[535] La _parasanga_ era misura itineraria persiana corrispondente a
30 stadj, e cioè (essendo lo stadio metri 184,26) a circa 6 chilometri
e mezzo. Ventidue parasanghe, ossia circa 122 chilometri, erano la
distanza, secondo il calcolo di Senofonte (_Anab._, I, 2), da Sardi
capitale della Lidia al fiume Meandro, confine della Frigia, da cui non
lunge è qui supposta la capanna di Alcibiade.

Aggiungo qui un cenno sulle principali misure di lunghezza fra i
Greci: le quali erano il _dattilo_ o dito (metri 0,0191); il piede o 16
dattili (m. 0,3071); la _pigma_ o 18 dattili (m. 0,3409); il _pigone_
o 20 dattili (m. 0,3838); il _cubito_ (κῆχυς) o un piede e mezzo (m.
0,460); l’_orgia_, ossia 6 piedi (m. 1,8426); il _pletro_, ossia 100
piedi (m. 30,71); lo _stadio_, ossia 6 pletri o 600 piedi (m. 184,26);
il _diaulo_ o 2 stadj (m. 368,52); l’_ippicon_ o 4 stadj (m. 737,04);
il _dolicon_ o 12 stadj (m. 2210,12).

[536] Di quest’erba, ricordata proverbialmente fra i Greci, fa cenno
Aristeneto (_Lett._, I, 10). La crisópoli, spiega nei commenti lo
Tzetzes, è un’erba le cui foglie si attaccano all’oro puro e prendono
il colore di quello: se l’oro non è puro, non si attaccano.

[537] Che qualcun altro si trovasse con Alcibiade al momento della sua
morte, oltre a Timandra, di cui parla Plutarco, si rileva da Cornelio:
«_Namque erat cum eo quidam familiaris ex Arcadia hospes, qui nunquam
discedere voluerat_» (Corn. Nep., _Alcib._, 10).

[538] Uno scudo di rame levato in alto sulla cima di una picca dalle
navi spartane spedite in esplorazione, fu il segnale predisposto da
Lisandro per uscir colla flotta da Lampsaco e cogliere impreparata la
flotta ateniese ad Egospótamo, nel momento che la maggior parte dei
soldati ateniesi trovavasi dispersa a terra (Plutarco in _Lisandro_,
11; Senof., _St. Ell._, II, 1).

[539] I sogni _figli della Terra_, da questa prodotti per vendetta
contro Apollo (che le aveva ucciso il drago custode degli oracoli di
sua figlia Temide), affinchè predicessero le cose a’ mortali, in luogo
degli oracoli di quel Dio. «Poi che Febo scacciò Temide figlia della
Terra dai divini oracoli, il suolo generò notturni spettri, che a molti
dei mortali le presenti e passate e le future cose palesavano in sogno
sotto l’ombra della terra oscura. Perocchè la Terra, per vendetta della
figlia, avea privato Febo dell’onor dei vaticini» (Eurip., _Ifig.
Taur._, 1259 seg.). «_Veneranda Terra, madre dei sogni dalle negre
ali_» la chiama altrove lo stesso Euripide (_Ecuba_, 70).

[540] Sulla nave _Paralo_, vedi quadro IV, n. 19. 

[541] Circa 200 navi e tremila prigioni ateniesi caddero in mano a
Lisandro per la disfatta di Egospótamo (da cui Conone appena si salvò
colla _Paralo_ e con altre otto navi); tutti i prigioni furono da
Lisandro condotti a Lampsaco e posti a fil di spada (Plut., _Lisand._,
11; Senof., _St. Ell._, II, 1).

[542] «Vivea per caso allora Alcibiade in un certo villaggio della
Frigia, avendo seco Timandra sua concubina; ed ebbe dormendo sì
fatta visione. Gli parve di avere intorno le vesti di Timandra, e
che questa tenendo fra le braccia il di lui capo, gli adornasse la
faccia, dipingendogliela e lisciandogliela come a una donna. Altri
dicono che dormendo egli vide Mageo stesso che gli troncava la testa e
il proprio suo corpo dato alle fiamme: ma tutti asseriscono che egli
ebbe un tal sogno non molto prima del di lui fine» (Plut., _Alcib_.,
39). «_Alcibiades quoque miserabilem exitum suum haud fallaci nocturna
imagine speculatus est. Quo enim pallio amicae suae dormiens opertum
se viderat, eo interfectus, et insepultus jacens, contectus est_» (Val.
Massimo, I, 7. — Cfr. Cicerone, _Divin_., 2).

[543] L’importanza che da Omero in poi avevano i sogni nelle idee
greche popolari intorno alla divinazione (Cfr. quadro II, n. 48)
veniva pur loro attribuita dalla scuola socratica. «_A me di far
questo venne imposto dal Nume e per vaticinj e per sogni e per ogni
mezzo con cui per avventura altra divina sorte comandasse all’uomo di
fare alcunchè_,» così esprimesi Socrate stesso, il gran maestro di
Alcibiade, nell’_Apologia_, 22. Il sogno poi di Alcibiade parmi che
ritrovi un riscontro assai caratteristico nel sogno che Chione, altro
discepolo della stessa scuola, narra in una sua lettera a Platone: «Coi
cantici di vittoria e coi premj ai vincitori destinati abbandonerò la
vita, se prima di partir dal mondo avrò abbattuto la tirannide. Poichè
a me i sagrificj e gli augurj e i vaticinj d’ogni sorta presagiscono
la morte, dopo che avrò compiuto questa impresa. Io stesso n’ebbi una
visione più chiara di quante mai sogliono apparire nei sogni. Pareami
vedere una donna di forme e di statura divina, la quale cingevami di
corona d’ulivo e di bende, e poi mi mostrava un bellissimo monumento,
e mi diceva: _Quando avrai faticato e sarai stanco, o Chione, entra
in questo monumento e riposa_. E però da questo sogno traggo lieta
speranza ch’io sarò per morire di bella morte. Imperocchè nessun
vaticinio dell’anima reputo essere fallace: _tu stesso_ (o Platone)
_avendo ciò affermato_» (καὶ σὺ οὐτῶς ἐγινωσκες) (Chione, _Lett_.,
17) — Dal suo canto Aristotele, l’altro sommo socratide, affermava:
«Quando l’anima per il sonno è isolata dalla compagnia e dal contagio
del corpo, allora si ricorda delle cose passate, discerne le presenti,
prevede le future.» Sentenza che Cicerone ricopiò (_Divin_., I): e
che Aristotele aveva trovato già in Eschilo: «_Quando dormono i sensi_
— _In chiara luce è l’anima_ — _E vede aperto de’ mortali i casi_» —
(Esch., _Eumen_., 109).

[544] Così i sogni di sera come i sogni d’autunno erano ritenuti
bugiardi. «_Folle! che prestò fede a un infelice sogno della sera_
(ὀνείρῳ ἐσπεριῳ), _sogno che lusinga nei tetti i miseri mortali, e per
dileggio in tutto li inganna_» (Quinto Smirneo, _Paralip_., v. 133).
«_Perocchè si dice che i sogni sono mal sicuri e fallaci principalmente
in quei mesi nei quali cadono dagli alberi le foglie_» (Plut., _Disp_.,
_Conv_., VIII, 10). I quali mesi si chiamavano dai Greci con una sola
parola φυλλοχόοι: primo di essi il _Pianepsione_ (ottobre-novembre).
Similmente in Alcifrone: «_Ricordatomi che s’avvicina il tempo in cui
le foglie degli alberi cascano, allora proprio m’avvidi che il sogno
era stato fallace_» (Alcifr., _Lett_., III, 10).

Per contrario reputavansi veritieri i sogni del cuor della notte e
delle ore più vicine all’alba — νυκτός αμολγὸς, _noctis conticinium_.
«_E in core ella gioì, poi che sì chiaro_ — _Quel sogno erale apparso
innanzi all’alba_» (Om., _Odiss_., IV, 841). «_Post mediam noctem visus
quum somnia vera_» (Oraz., _Serm_., I, 10).

[545] «Hanno due porte i debili sogni, l’una fatta di corno e l’altra
d’avorio. Di essi, quei che uscirono per mezzo al tagliato avorio,
portando parole imperfette, lasciano le speranze deluse: quei sogni
invece i quali per i lisci corni escon fuora, questi son che recano il
vero» (Om., _Odiss_., XIX, v. 562). «Ingannò il dormiente l’immagine
d’un sogno uscito dalle fallaci porte d’avorio» (Nonno, _Dionis_.,
XXXIV, v. 89). «La notte spalancava al mondo le due porte dei sogni:
l’una fatta di corni, ed è la porta della verità, ond’escono le vere
voci degli Iddii: l’altra è la porta dell’inganno, dei sogni inutili
nutrice» (Coluto, _Ratto d’Elena_, v. 309). «Ascolta dunque il mio
sogno e giudica se è uscito dalla porta d’avorio o dalla porta di
corno» (Plat., _Carm_. — Cfr. Virgil., _Aeneid_., v. 894).

[546] Vedi sopra, nota 2. — Plutarco anch’egli narra come gli Ateniesi
dopo la caduta della lor città rimpiangessero Alcibiade e di nuovo
rivolgessero le speranze a lui: «Quando Lisandro ebbe tolta loro anche
la libertà, dando la città a governare a trenta personaggi, allora
lamentandosi rammemoravano i loro fatti e la loro cecità: e teneano
per fallo massimo l’avere scacciato la seconda volta Alcibiade, e
aver così privata la città, con maggior loro vituperio, di un forte e
bel capitano. Pure nella presente calamità avevano una qualche esile
speranza che del tutto non fosse per anche spacciata la repubblica
degli Ateniesi, essendo ancor vivo Alcibiade. Poichè si lusingavano
che non avendo egli, neppur la prima volta ch’era in esilio, voluto
viversi in ozio e senza far qualche impresa, tanto meno il volesse
allora: e non volesse, avendo forze bastanti, abbandonar la patria
agli oltraggi dei Lacedemoni e alle violenze dei trenta tiranni. Nè
era già irragionevole che il popolo volgesse in mente tal cose, quando
anche quei trenta stavano per timore spiando sempre con tutta cura i
suoi andamenti... Da ultimo Crizia ammoniva Lisandro... e dicevagli che
quantunque gli Ateniesi mostrassero allora di stare assai placidamente
e modestamente soggetti al governo oligarchico, non gli avrebbe
già Alcibiade, finchè vivesse, lasciati posare giammai in una tale
costituzione» (Plut., _Alcib_., 38. — Cfr. Isocr., _De Bigis_., 16).

[547] Alla corte del re di Persia si aveva bensì qualche sentore degli
avvenimenti che Ciro il giovane preparava nella Lidia per quell’impresa
la quale doveva immortalare i diecimila di Senofonte: ma Ciro stesso
avea avuto cura di far spargere la voce che quegli armamenti fossero
diretti semplicemente contro il satrapo Tisaferne (Senof., _Anab_., I,
1). Però il servizio che Alcibiade disegnava rendere al re mettendolo
al chiaro dei disegni di Ciro sul trono di Persia, e offerendogli
la propria spada, valeva bene il compenso degli ajuti ch’egli se ne
riprometteva per la libertà della sua Atene. Ben diverso da Temistocle,
che bandito riparava in Persia per offrire al re di far serva la
Grecia, la figura morale di Alcibiade in quest’ultima fase della sua
vita, di quanto grandeggia a confronto dell’eroe di Salamina, con cui
il figlio di Clinia ebbe pure tali e tanti punti di somiglianza! — Più
tardi, un altro grande Ateniese, amantissimo anch’egli della sua città,
suggeriva del pari a’ suoi concittadini di ricorrere al re di Persia
per proteggere e soccorrere Atene contro Filippo il Macedone. «_Spedite
dunque_, diceva Demostene, _legati al re e lasciate lo stupido
pregiudizio a voi tanto esiziale ch’egli sia barbaro_» (_Filipp_.,
IV). E il consiglio era savio nella tristezza dei tempi: ché Maratona e
Platea erano già troppo lontane.

[548] Eran queste le feste _Tesmoforie_ (Θεσμοφόρια), istituite da
Trittolemo (cfr. quadro IV, n. 15), o, secondo altri, da Orfeo, in
onor di Cerere _Tesmofora_ o _legislatrice_. A queste feste (da non
confondersi con quelle dei misteri eleusini, benchè formanti parte
dello stesso culto ed ordine di riti) non assistevano se non sole
donne (Arist., _Tesm_., v. 204, 257, 1150); e cioè donne oneste,
matrone (ἐλεύθεραι) — di ingenua nascita (εὐγενεῖς γυναῖκες, Arist.,
_Tesm_., 330): vale a dire che le etére ne erano rigorosamente escluse
(cfr. Iseo, _Oraz_., V). Dovevano le donne prepararsi a queste feste
colla castità e astinenza più assoluta da ogni piacer carnale, per
cinque giorni innanzi le medesime: al qual fine praticavano mille
superstiziose mortificazioni, mettendo in letto delle piante come
l’_agnus casto_ (Elian., _V_. _St_., IX, 36) per ammorzare i desiderj
impuri, ecc. Indi Wieland fa scrivere da Menandro a Glicera: «_Poche
matrone assistono all’arcana solennità delle Tesmoforie con una
coscienza pura come la tua_.» Si celebravano le Tesmoforie in molte
città greche, in ispecie a Sparta, a Tebe, a Megara, a Delo, a Mileto,
ecc. Ma sopratutto Atene ne era rigida osservatrice. Qui cominciavano
alli 11 di Pianepsione, ossia il mese delle _fave cotte_, e duravano
sette dì. I mariti avean obbligo di sovvenire, occorrendo, alle spese
delle donne per queste feste, che Alcifrone chiama _santissime_
(_Lett_., III, 39), e Aristofane «_orgie venerande delle Dee_»
(_Tesm_., 1151). Soprintendeva alle medesime un sacerdote detto
_stefanóforo_, assistito da vergini giovinette, allevate in rigorosa
clausura a spese della città entro un recinto sacro, che diceasi il
_Tesmoforio_. Nel primo dei sette giorni ascendevasi al tempio di
Cerere in Eleusi, portando sul capo i libri della legge: indi era
detto il dì dell’_Ascensione_ — ἄνοδος (Esich.). Il secondo e terzo
erano giorni di preparazione. Nel quarto cominciavansi le solennità;
avea luogo la processione dei _canestri_; i tribunali non giudicavano,
e il Senato non teneva seduta (Ar., _Tesm_., 79). Il sesto era un
giorno di digiuno: perciò detto νηστέια. Le donne passavano questa
giornata sdrajate per terra, in commemorazione di Cerere che, nel
cercar Proserpina, dal gran dolore non prese cibo. Il settimo giorno
chiudevasi la festa con un sagrificio a Calligenia, — deità distinta
da Cerere e da Proserpina, benchè invocata solo nella festa di queste
due dee, e insiem con esse e con Plutone (_Tesm_., 306). — Al cominciar
delle Tesmoforie tutti i detenuti per semplici delitti erano rimessi in
libertà.

[549] _Celene_ e _Foro de’ Ceramj_, città popolose e fiorenti della
Frigia, sulla via di Siria che Alcibiade dovea percorrere per recarsi
a Susa: distanti la prima 28 e la seconda 42 parasanghe (secondo il
calcolo di Senof., _Anab._, I, 2) dalle rive del Meandro presso cui
è qui supposta l’abitazione di Alcibiade. In Celene era una reggia
magnifica del re di Persia, alle sorgenti del fiume Marsia, che prese
il nome dal satiro competitore di Apollo, ivi scorticato da quel Dio
(Apollod., _Argon._, I, 4; Ovid., _Metam._, VI, 383 seg.).

[550] Sul coraggio nobilissimo dimostrato da Socrate in faccia ai
trenta tiranni, nel tempo che durò il loro dominio in Atene, vedi
Senofonte (_Memorab._, I, 2) e Platone (_Apol._, c. 20). Onde con
giusto e santo orgoglio il grande filosofo potè dire di sè, innanzi
ai giudici: «Anche allora — cioè in faccia ai tiranni — io mostrai
di nuovo col fatto, e non a parole, che della morte io non mi curo
nè punto nè poco, ma sommamente mi prendo pensiero di non far cosa nè
ingiusta, nè empia. Perocchè neppur quel governo così terribile potè
costringermi a commettere un’ingiustizia» (Plat., _ibid._).

[551] Plutarco, _Alcib._, 39; Cornelio Nepote, _Alcib._, 10; Giustino,
_Hist. Phil._, V, 8.

[552] Mi capita sott’occhio un altro opuscolo intorno al mio povero
_Alcibiade_, pubblicato ultimamente (A. Tito Persio, sull’_Alcibiade_
di F. Cavallotti — Cagliari, 1875); lavoro di critico egregio, delle
cui censure cortesi non mi lamento, perchè accompagnate a molto
acume critico, a molto senso dell’arte e a soda erudizione. Fra le
censure trovo quella dell’aver fatto morir Alcibiade declamando dei
versi, come nei melodrammi. Forse l’egregio critico li udì declamare;
il vero è che Alcibiade qui nè declama, nè improvvisa; ma mormora
ripetendole nell’agonia, fra le braccia di Timandra, le parole da
Timandra udite nel suo primo incontro con lei (Vedi quadro III, scena
ultima). A me, nella idea che mi son fatto del carattere e delle
passioni di Alcibiade, a me non era parso punto inverisimile che
quella reminiscenza cara e lontana avesse a visitare in quel momento
la memoria del morente; e che la _gloria_ e l’_amore_, cioè le due
grandi e splendide larve di tutta la sua vita, gli si affacciassero,
supreme consolatrici, sul limitare della morte. Timandra è il buon
genio d’Alcibiade; il cuore dell’eroe doveva ricordarlo nell’ultimo
addio di quel giorno che lo ritrovava sulla via del dovere e della
gloria vera, un dì additatagli da lei; indi è la coscienza serena che
gli riporta dal cuore al labbro le primissime parole della donna sua,
mentre l’anima sposa il ricordo di Potidea ad una ultima dichiarazione
d’amore; ma non più l’amore snervante, infecondo; l’amore che purifica,
che eleva e che permette finalmente al moribondo di appellarsi con
orgoglio al giudizio di Socrate.

[553] La ragione drammatica, secondo me, della morte di Cimoto, l’ho
accennata nella mia lettera a Yorick (pag. 97-98). Un’altra ragione
morale e storica potrei accennare colle parole stesse di un critico:
«Siccome la morte di Alcibiade fa evidentemente prevedere anche la fine
di Timandra, chè ormai quei due non potevan esser disgiunti neppur
nel sepolcro, così non avverrebbe in sostanza che una morte sola. Ma
qualchedun altro finisce con Alcibiade; con lui cade irreparabilmente
anche Atene; or dunque anche un cittadino ateniese deve con lui morire,
e questi non potea esser altro che Cimoto» (A. T. Persio, _op. c._):
— il rappresentante nato della plebe ateniese del suo tempo, al pari
di lui ora avversa ed ora amica ad Alcibiade, dal costume corrotto e
dall’anima non del tutto corrotta ancora, ora capace di bassezze ed ora
di eroiche virtù.





Nota del Trascrittore 

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. In particolare il testo
greco è stato trascritto tal quale, e le varianti accentate di numerosi
termini sono state mantenute. Per comodità di lettura è stato aggiunto
un indice a fine volume.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK ALCIBIADE ***


    

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OTHER WARRANTIES OF ANY KIND, EXPRESS OR IMPLIED, INCLUDING BUT NOT
LIMITED TO WARRANTIES OF MERCHANTABILITY OR FITNESS FOR ANY PURPOSE.

1.F.5. Some states do not allow disclaimers of certain implied
warranties or the exclusion or limitation of certain types of
damages. If any disclaimer or limitation set forth in this agreement
violates the law of the state applicable to this agreement, the
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1.F.6. INDEMNITY - You agree to indemnify and hold the Foundation, the
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providing copies of Project Gutenberg™ electronic works in
accordance with this agreement, and any volunteers associated with the
production, promotion and distribution of Project Gutenberg™
electronic works, harmless from all liability, costs and expenses,
including legal fees, that arise directly or indirectly from any of
the following which you do or cause to occur: (a) distribution of this
or any Project Gutenberg™ work, (b) alteration, modification, or
additions or deletions to any Project Gutenberg™ work, and (c) any
Defect you cause.

Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s
goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg™ and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state
visit www.gutenberg.org/donate.

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
donate, please visit: www.gutenberg.org/donate.

Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of
volunteer support.

Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in
the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not
necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper
edition.

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including how to make donations to the Project Gutenberg Literary
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