La Costa d'Avorio

By Emilio Salgari

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Title: La Costa d'Avorio

Author: Emilio Salgari

Illustrator: Giuseppe Gamba

Release date: October 20, 2025 [eBook #77094]

Language: Italian

Original publication: Genova: A. Donath, 1898

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA COSTA D'AVORIO ***


   [Illustrazione: Ad un cenno di Kalani tutti quei panieri
   furono precipitati nel vuoto.... (Pag. 224).]

                             Emilio Salgari


                                La Costa
                                d’Avorio


                               Avventure

                 illustrate da 18 disegni, fuori testo

                              di G. Gamba



                                 Genova
                           A. Donath, editore
                                  1898




                         _Proprietà Letteraria_

               53-98. — Firenze, Tip. di Salvadore Landi,
                   direttore dell’_Arte della Stampa_.


   [Illustrazione: Già l’enorme bocca si apriva sul disgraziato
   portoghese, quando si udì echeggiare una seconda detonazione.
   (Pag. 10).]




CAPITOLO I.

Sulle rive dell’Ousme


— Ci siamo?...

— Aspetta un po’, amico. Sei impaziente di provare la tua carabina?

— Desidero ardentemente di vedere uno di quei mostruosi animali allo
stato libero. Non ho veduto finora che dei piccini e nei serragli
d’Europa.

— Bada che sono formidabili.

— Con un cacciatore abile quanto sei tu non ho paura, e poi non credo
che quelle masse enormi siano tanto leste da gareggiare colle mie
gambe.

— T’inganni, Antao. Non sono trascorse due settimane, che un povero
minaloto del Gran Popos, spintosi qui a cacciare quegli animalacci, è
stato tagliato in due.

— Nè più nè meno d’un biscotto?...

— Non lo credi?...

— Ho i miei dubbi, Alfredo.

— Allora ti dirò, Antao, che quel minaloto era un servo della fattoria
del signor Zeinger, quell’ottimo alemanno che abbiamo visitato la
scorsa domenica.

— Quel minaloto doveva essere lesto come una lumaca grigia del paese
degli Ascianti.

— Tutt’altro, amico mio. Era un gran diavolo di negro, agile come una
scimmia, ma l’animalaccio, che era stato solamente ferito, si precipitò
sul disgraziato cacciatore e prima che questi potesse giungere alla
riva lo tagliò in due.

— Ecco una storia che non aumenta di certo il mio coraggio.

— Vorresti tornare alla mia fattoria?

— Sì, ma rimorchiando un ippopotamo. Non sono venuto in Africa per
farmi divorare vivo dalle zanzare della costa entro una stanza, ma per
visitare questi paesi e cacciare i grossi animali.

— E per aprire una fattoria portoghese.

— Non ancora, Alfredo. I miei commerci col Brasile mi hanno fatto
abbastanza ricco da permettermi....

— Taci!...

— Un ippopotamo?....

— No.... taci!... —

I due uomini che così chiacchieravano, inoltrandosi in mezzo ad una
splendida vegetazione equatoriale, che li riparava dagli ultimi ma
ancora ardenti raggi del sole, erano allora giunti sulle rive d’un
corso d’acqua, largo tre o quattrocento passi ed ingombro d’isolotti
coperti d’alte erbe e da gruppi di piccoli banani, dalle larghe foglie
d’un verde vivo.

Colui che abbiamo udito chiamare Alfredo, si era bruscamente arrestato,
curvandosi verso la sponda che era ingombra di paletuvieri, incrocianti
in tutti i sensi i loro rami e le loro radici sporgenti dal fondo del
fiume, ed aveva girato all’intorno un rapido ma acuto sguardo; mentre
il suo compagno, quantunque ignorasse di cosa si trattasse, si era
levato dalla spalla una corta ma pesante carabina, una di quelle armi
usate per la caccia dei grossi animali.

Il primo rimase parecchi secondi immobile, tendendo accuratamente gli
orecchi e continuando ad investigare, cogli sguardi, le isolette e la
sponda opposta coperta di fitti alberi, poi volgendosi verso Antao,
disse:

— Mi sono ingannato di certo.

— Cosa avevi udito?...

— Mi era sembrato d’aver udito un grido che mi ricordava un certo
uomo....

— Morto forse su questo fiume?...

— Sarebbe stato meglio che fosse morto allora.

— Ma che storia mi racconti?...

— Parlo d’un uomo che da quattro anni mi fa paura.

— A te!... — esclamò Antao, sorpreso. — Eh! via, tu scherzi, Alfredo.
Un uomo che in America si è battuto come un leone e che ora gode fama
di essere il più audace cacciatore della Costa d’Avorio, non può aver
paura di un uomo.

— Eppure ti ripeto che ho quasi paura e temo sempre un tradimento. Ecco
perchè ho lasciato il mio servo Gamani a vegliare in mezzo alla foresta
ed i miei porta-fucili alla fattoria.

— Ma chi è quell’uomo?...

— Un negro.

— Lo si cerca e lo si uccide con una buona fucilata.

— È lontano.

— Si va a trovarlo.

— È potente, Antao.

— Si raccoglie una truppa d’uomini risoluti e lo si va ad assalire.

— Nel Dahomey?...

— Là!... Ecco un nome che fa venire i brividi!... Brutto paese di
macellai feroci. Diavolo!... Vorrei conoscere quest’istoria che ti
mette indosso tante preoccupazioni.

— Te la racconterò, ma più tardi. Ora pensiamo agli ippopotami. Spero
di essermi ingannato su quel grido e che nulla accadrà nella mia
fattoria durante la nostra assenza.

— Vi sono i tuoi uomini che vegliano sul tuo nipotino e sulle tue
ricchezze.

— Taci: ci siamo. —

Alfredo, che aveva continuato il cammino durante quella conversazione,
seguendo sempre la riva destra del fiume, erasi arrestato dinanzi ad un
grande albero del cotone, il quale si curvava verso la sponda e sul cui
tronco si vedevano parecchie profonde incisioni che parevano fatte da
poco tempo.

Il cacciatore l’osservò attentamente come volesse essere certo di
non ingannarsi, poi s’inoltrò prudentemente fra i paletuvieri che si
arrampicavano confusamente su per la sponda, afferrò una fune che stava
legata attorno ad una grossa radice e diede una violenta strappata.

Tosto fra quell’ammasso di rami, di foglie e di radici, si vide
avanzarsi uno di quei pesanti canotti scavati nel tronco d’un albero
col ferro e col fuoco e colle punte assai aguzze, usati sui fiumi della
Costa d’Oro e dell’Avorio.

Alfredo vi balzò dentro invitando il compagno a seguirlo, afferrò due
remi dalla larga pala e spinse la pesante imbarcazione nella corrente,
dirigendosi verso un isolotto coperto d’una fitta vegetazione che si
trovava quasi in mezzo al fiume.

In pochi minuti attraversò la distanza e arenò l’imbarcazione su di
un bassofondo che pareva si collegasse all’isolotto e che impediva
d’accostarsi di più a quel brano di terra.

— Bisogna prendere un bagno? — chiese Antao.

— Non vi sono che due palmi d’acqua, — rispose Alfredo.

— Sono almeno sicure le nostre gambe? Mi hanno detto che sull’Ousme i
coccodrilli non sono rari.

— È vero, ma non osano assalire gli uomini bianchi e poi a quest’ora
dormono. In acqua, amico.

— Una parola ancora. Gli ippopotami non faranno a pezzi la nostra
barca?...

— È probabile, se manchiamo ai nostri colpi, ma procureremo di mandare
le palle a destinazione. Orsù, in acqua. —

I due cacciatori presero le loro carabine e abbandonarono la
imbarcazione, scendendo sul banco.

Alfredo non si era ingannato. Vi era così poca acqua in quel
bassofondo, che a malapena toccava i polpacci dei due uomini.

In pochi istanti attraversarono il banco e giunsero sull’isolotto,
celandosi fra le folte piante che lo coprivano.

Quel brano di terra situato in mezzo all’Ousme, uno dei più notevoli
fiumi della Costa dell’Avorio e che scaricasi nelle paludi di Porto
Novo, non misurava di più di cinquanta metri di circonferenza ed era
così basso, che la più piccola piena doveva coprirlo.

Nondimeno su quell’umido terreno, fertilizzato dagli avanzi vegetali
trasportati durante la stagione delle piogge, erano cresciuti
rigogliosi bambù altissimi dalle lunghe foglie verdi pallide, mangifere
splendide, arbusti acquatici e anche dei mazzi enormi di banani
selvatici, i quali rizzavano arditamente le loro lunghe e larghe
foglie, talune delle quali misuravano tre o quattro metri.

Alcuni pappagalli grigi vi avevano preso domicilio e schiamazzavano
allegramente, spennacchiandosi agli ultimi raggi del sole.

I due cacciatori fecero il giro dell’isolotto per accertarsi che non
vi fosse qualcuno di quei piccoli serpenti chiamati dai naturalisti
_echidni nasicorni_, il cui morso è mortale e che sono così numerosi in
quelle regioni; poi si sdraiarono sotto la fresca ombra di un gruppo di
banani.

— Ed ora, dove sono questi ippopotami? — chiese Antao. — Ho guardato
attentamente il fiume e le sue sponde, ma ti confesso che non ho veduto
nemmeno un coccodrillo.

— Manca mezz’ora al tramonto, — rispose il cacciatore. — Quando il sole
sarà scomparso, li vedrai venire.

— Qui?...

— Sì, Antao. Verranno a saccheggiare questi vegetali.

— Sei certo?...

— Gamani li ha veduti venire per tre notti di seguito.

— Non si mostrano di giorno?

— Dormono in fondo al fiume; sono prudenti mio caro. Accendi la tua
sigaretta e fuma tranquillo come faccio io. —

Il cacciatore aveva levato da una tasca una scatola di sigarette, ne
offrì all’amico, ne accese una, poi si accomodò fra le erbe, mettendosi
la carabina sulle ginocchia.

Quei due cacciatori, che si avventuravano soli sugli isolotti
dell’Ousme ad attendere i mostruosi ippopotami, anche a prima vista
si riconoscevano per due persone appartenenti a nazioni diverse,
quantunque avessero entrambi la pelle bruna, capelli e occhi nerissimi,
distintivi particolari della razza latina.

Colui che abbiamo udito chiamare Alfredo e che sembrava il più pratico
di quei luoghi selvaggi e anche il più intrepido cacciatore, era uno di
quei tipi che s’incontrano così di frequente nelle regioni dell’Italia
meridionale e sulle coste Albanesi.

Era un uomo sulla quarantina, di statura superiore alla media, tutto
muscoli e nervi, dal profilo ardito, reso più fiero da una folta barba
nerissima, dagli occhi vivissimi, lampeggianti e dalla pelle bruna,
dovuta forse più di tutto all’ardente sole dell’Africa equatoriale.

Indossava un vestito di tela bianca stretto alla cintura da una larga
fascia dì lana rossa, come usano portare i pescatori napoletani,
sormontata da una cartucciera, ed un elmetto pure di tela bianca gli
copriva i folti capelli, che il clima della Costa dell’Avorio aveva già
cominciato ad incanutire.

Il suo compagno Antao invece dal nome e dall’aspetto, s’indovinava
appartenere alle razze bianche dei climi ardenti. Era un giovanotto
di ventiquattro o venticinque anni, di statura bassa piuttosto, ma di
corpo robusto, dalla pelle quasi olivastra, dagli occhi grandi, neri,
vellutati e tagliati a mandorla, con due baffettini pure neri ed i
capelli ricciuti, quasi crespi come quelli dei negri.

Portava sul capo l’elmetto, cappello indispensabile in quei climi, ma
invece della giacca indossava una semplice camicia di flanella azzurra,
adorna di rabeschi ai polsi ed al colletto, stretta da una cartucciera
elegantissima di pelle rossa ed aveva i calzoni di velluto olivastro e
grandi uose di pelle gialla con fibbie d’argento.

Entrambi poi erano armati di splendide carabine da caccia, a canna
corta, pesanti, ma capaci di abbattere un elefante con una sola palla
ben aggiustata e dei larghi coltelli da caccia, chiusi in guaine di
cuoio naturale a punta d’acciaio.

Mentre fumavano le loro sigarette conservando un silenzio assoluto, il
sole tramontava rapidamente dietro i grandi boschi.

La luce decresceva a vista d’occhio e le tenebre s’addensavano
frettolosamente nei più cupi recessi della foresta. I pappagalli
grigi, dopo d’aver lanciati gli ultimi e più strepitosi chiacchierii,
cominciavano a tacere; le aquile pescatrici, dopo d’aver fatta
un’ultima volata sulle acque fangose del fiume, erano tornate ai loro
nidi, situati sulle più alte cime dei giganteschi baobab; le scimmie
_subukumbaka_, che fino allora si erano divertite a sollazzarsi fra
i rami dei sicomori saccheggiandoli dei loro fichi, avevano cessato
dall’emettere i loro acuti _hu-ul-hu-ul_ che si odono a parecchi
chilometri di distanza, e in aria cominciavano ad apparire i primi
volatili delle tenebre.

Bande immense di pipistrelli, abbandonati i rami ai quali fino allora
si erano tenuti appesi col capo in giù e le fredde ali avviluppate
intorno al corpo, giungevano da tutte le parti, guidate da qualche
gigante della specie, da qualche cinonittero delle palme o cane
notturno, orrendo volatile dalle ali lunghe un metro e dal corpo lungo
perfino trenta centimetri, dalla testa grossa somigliante a quella d’un
piccolo _bull-dog_, traforata da due occhiacci e dal pelo aranciato sul
petto e sul collo e grigiastro sul dorso e verso la coda.

Dei rauchi brontolii, dei soffi potenti, delle urla acute e degli
scrosci di risa, annunciavano che le fiere abbandonavano i loro
covi per cominciare le loro caccie notturne, ma Alfredo rimaneva
impassibile, come uomo da lunga pezza abituato a quei concerti più
paurosi che veramente terribili. Il suo giovane compagno invece, da
poco sbarcato in quelle regioni, si agitava, tormentava la batteria
della sua carabina, mentre i suoi sguardi si fissavano sulle due sponde
con una certa ansietà.

— Diavolo!... — mormorò ad un tratto. — Ma qui pare di essere in un
serraglio.

— Colla differenza però che le fiere non sono chiuse dentro le gabbie e
che non si farebbero alcuno scrupolo a mangiarti, se lo potessero.

— E Gamani che hai lasciato solo in mezzo alla foresta?... Che domani
non lo troviamo più?...

— Gamani è un coraggioso e sa che tutti questi animali non sono capaci
di arrampicarsi sugli alberi. Si sarà accomodato fra i rami di un
sicomoro e vedrai che lo troveremo vivo.

— Ma i leopardi sono buoni arrampicatori, Alfredo.

— È vero, ma Gamani ha una buona carabina e sa servirsene. Ti dirò
poi....

— Che cosa?... —

Invece di rispondere, il cacciatore si era bruscamente alzato, in preda
ad un’improvvisa emozione. Con una mano tesa verso il compagno, come
per invitarlo a non muoversi, ascoltava con profonda attenzione, senza
osare respirare.

— Hai udito nulla? — chiese dopo alcuni istanti, con voce alterata.

— Assolutamente nulla, — rispose il portoghese, stupito.

— Mi era sembrato di aver udita una lontana detonazione.

— Dove?...

— Verso la mia fattoria.

— Ti sei ingannato, Alfredo.

— Dio lo voglia. Io ho paura di quell’uomo.

— Ma di chi?... Spiegati una volta!...

— Sì.... ma.... guarda laggiù!...

— Cosa vedi?...

— Non hai udito?...

— Uh sordo respiro?...

— Sì, Antao.

— E mi pare di vedere l’acqua agitarsi presso la riva del fiume.

— È la preda che attendiamo.

— Un ippopotamo?...

— Arma la carabina!... Eccolo che si avanza verso l’isolotto.... Non mi
ero ingannato conducendoti qui, lo vedi. —

Il portoghese non rispose ma si accovacciò fra le alte erbe, sotto
la cupa ombra dei banani, armando risolutamente la grossa e pesante
carabina.




CAPITOLO II.

I misteri delle foreste


Alla luce della luna, la quale faceva allora capolino dietro le alte
cime della foresta, facendo scintillare le acque come se fossero
d’argento liquefatto, i due cacciatori avevano scorta una massa
enorme, mostruosa, sorgere presso la riva destra del fiume e avanzarsi
lentamente verso l’isolotto.

Non si poteva ingannarsi sulla sua specie: era un vero ippopotamo,
animali che se sono diventati assai scarsi nelle regioni bagnate dal
Nilo, sono ancora numerosissimi nei fiumi della Costa dell’Avorio, dove
godono una quasi perfetta sicurezza, essendo in generale i cacciatori
negri cattivi bersaglieri e provveduti di armi troppo vecchie per
cimentarsi, con qualche successo, con quei colossi.

L’animale, che era sorto dalle profondità del fiume per cercare la
cena, era uno dei più grossi che Alfredo avesse fino allora veduti.

La luna che lo illuminava in pieno, permetteva ai due cacciatori di
vederlo distintamente, come se fosse giorno.

Quel re dei fiumi, perchè è in realtà un vero re, non trovandosi
alcun altro animale capace di disputargli il potere nelle acque che
frequenta, nemmeno il coccodrillo il quale pare che lo eviti con grande
cura, misurava circa tredici piedi di lunghezza, ossia oltre quattro
metri, ed aveva una circonferenza enorme, superiore di qualche piede
alla misura sopraddetta.

La sua testa, di proporzioni mostruose, carnosa, rigonfia verso
l’estremità, aveva una bocca di due piedi d’apertura e mostrava una
formidabile dentatura, composta di trentasei zanne fra cui quattro
canini lunghi quaranta e più centimetri.

Il mostro, dopo d’aver nuotato alcuni istanti, era salito su di
un banco, mostrando il suo corpaccio di colore bruno oscuro ma con
dei riflessi fulvi e sprovveduto di peli, e le sue zampacce brevi e
tozze; pareva che prima di decidersi ad avanzare, volesse assicurarsi
dell’assenza dei nemici, fiutando replicatamente e molto rumorosamente
l’aria.

— Che massa! — mormorò Antao, all’orecchio d’Alfredo. — Non sarà
difficile sbagliarlo.

— Non tirare sul suo corpo, — rispose il cacciatore. — La sua pelle ha
uno spessore di tre pollici e respingerebbe la tua palla.

— Diavolo!... Sono corazzati quegli animali!...

— Come i vascelli da guerra. Aspetta che si avvicini e cerca di
colpirlo presso gli occhi o sotto le mascelle.

— Povero animale!... Non sospetta che vi sono dei nemici vicini.

— Non rimpiangerlo così presto. Sono animali pericolosi e anche
dannosi. E....

— Che cosa?...

— Mi pare inquieto.

— Che ci abbia fiutati?...

— È possibile, ma non è che a centocinquanta passi e non lo lascerò
fuggire, Antao. Risparmia la tua palla, per ora, e lascia che faccia
fuoco io. —

Il cacciatore si era silenziosamente sdraiato fra le erbe, allungandosi
meglio che poteva ed aveva puntata la pesante carabina, mirando con
grande attenzione.

Ad un tratto fece fuoco. La detonazione fu tosto seguita da un muggito
più forte di quello d’un toro e da un tonfo fragoroso.

Appena la nuvola di fumo fu dissipata, i due cacciatori videro
l’ippopotamo in acqua, dibattersi con furore estremo. Colpito
senza dubbio dalla palla e forse gravemente, il colosso nuotava
disordinatamente all’ingiro, continuando a muggire e rinchiudendo, con
cupo fragore, le potenti mascelle. Pareva che cercasse da qual parte si
nascondevano i nemici per precipitarsi su di loro.

Alfredo, vedendo il compagno alzarsi per puntare la carabina, lo aveva
obbligato a ricoricarsi fra le erbe, dicendogli rapidamente:

— Se ti è cara la pelle, non muoverti. —

Poi aveva ricaricata precipitosamente l’arma, certo di doverla
adoperare una seconda volta.

Intanto l’ippopotamo, reso furioso dal dolore, continuava a dibattersi
sconvolgendo le acque del fiume e facendo rintronare le foreste coi
suoi muggiti. Le sue zampacce facevano spruzzare a destra ed a sinistra
getti di spuma e colla testa sollevava delle vere ondate.

Ad un tratto parve che prendesse il suo partito. Nuotò velocemente
verso l’isolotto e comparve a dieci soli metri dai cacciatori, i quali
erano balzati precipitosamente in piedi colle armi in pugno.

— Fuoco Antao! — gridò Alfredo.

Il suo compagno, quantunque si sentisse invadere da un vivo tremito,
nel trovarsi dinanzi a quell’animalaccio che pareva si preparasse a
tagliarlo in due con un solo colpo delle sue enormi mascelle, fece
rapidamente fuoco, ma gli mancò il tempo di constatare gli effetti
della sua palla.

Con uno slancio di cui non si sarebbe mai creduto capace un animalaccio
così pesante, l’ippopotamo si era scagliato su di lui, urtandolo così
violentemente da farlo cadere a gambe levate.

Già l’enorme bocca si apriva sul disgraziato portoghese, quando si udì
echeggiare una seconda detonazione.

Alfredo, che aveva risparmiata la sua palla, aveva scaricata la sua
carabina nell’orecchio destro del mostro, il quale stramazzò al suolo
fulminato.

— Per tutti i diavoli!... — esclamò il portoghese, che si era
affrettato ad alzarsi. — Un istante di ritardo e mi tagliava in due
meglio d’un pesce-cane.

— Sei ferito? — gli chiese premurosamente il cacciatore.

— No, sono solamente imbrattato del sangue dell’ippopotamo, ma per
tutti i diavoli, credo di aver un certo tremito nelle membra....
Grazie, Alfredo, del tuo pronto intervento che mi ha salvata la vita.

— Bisogna essere prudenti con questi animali, amico mio ed evitare di
trovarsi sul loro passaggio.

— Chi avrebbe creduto che simili masse fossero così leste?...

— Non lo sono in realtà, quando gl’ippopotami non sono irritati, ma
quando sono feriti caricano con veemenza.

— Che corpaccio!... — esclamò il portoghese, che girava attorno
all’enorme animale. — E soprattutto che bocca!... Brrr!... Mi viene
freddo pensando che stavo per provare questi denti!...

— E che denti, Antao!... Guarda questi canini: pesano almeno dodici
libbre ciascuno.

— Sono d’avorio?...

— Sì, ma molto migliore di quello che danno le zanne degli elefanti.
È così duro, che l’urto delle scuri fa scattare delle vere scintille e
conserva la sua bianchezza per sempre. Si adopera appunto per ciò nella
fabbricazione dei denti artificiali.

— È buona la carne di questi animali?

— È deliziosa quanto quella del bue e soprattutto il grasso è molto
pregiato, adoperandosi come burro.

— Allora qui vi è da nutrire una tribù intera di negri.

— Questo animale deve pesare almeno quattordici quintali; puoi quindi
immaginarti quale montagna di carne si può trarne.

— Manderai i tuoi uomini a sezionarlo?

— Certamente, Antao, e domani ti farò assaggiare un piede di questo
colosso, cucinato al forno come usano i negri di queste regioni e sarai
contento di averlo mangiato.

— Ritorniamo?

— Non è prudente riattraversare la foresta di notte e poi spero di
abbattere qualche altro ippopotamo. L’anno scorso alcuni negri avevano
provato a dissodare delle terre ed a piantare delle granaglie su queste
sponde e gli ippopotami si erano radunati in buon numero in questo
tratto di fiume e vi sono rimasti.

— Forse che questi animali cercano la compagnia dei negri?

— Tutt’altro, Antao. Erano qui venuti per saccheggiare i campi
e bastarono poche notti per distruggere i raccolti, obbligando i
coltivatori ad andarsene altrove. Toh!... Odi?... Non m’ingannavo
io. —

Verso l’alto corso del fiume si erano uditi dei muggiti prolungati e
che parevano s’avvicinassero. Di certo parecchi ippopotami stavano
trastullandosi a cinque o seicento metri dall’isolotto, prima di
avventurarsi sotto i boschi in cerca di cibo.

— Che vengano qui? — chiese Antao.

— È probabile che scendano lungo le sponde del fiume, essendo
necessaria una grande quantità di radici e di canne per quei grossi
animali.

— Se si potesse farli venire presto!

— Se noi avessimo degli istrumenti musicali, non tarderebbero ad
accorrere.

— Degli istrumenti musicali!... Scherzi, Alfredo?

— No, Antao. Ti sembrerà strano, ma questi animalacci sono sensibili
alle dolcezze della musica. Il maggiore Denham ha narrato, che mentre
passava colla sua scorta lungo il Mango nel Ganburoo, diede il comando
di suonare la tromba e di battere il tamburo e che subito vide apparire
parecchi ippopotami, i quali si misero a seguire le sponde del fiume
tenendosi a breve distanza dai suonatori.

— Questa è fenomenale.

— Ho esperimentato anch’io questo mezzo, facendo suonare dei flauti
dai miei battitori ed ho constatato l’esattezza dell’affermazione di
Denham.

— Si potrebbe?

— Taci, Antao.

— Cos’hai udito?... —

Il cacciatore, invece di rispondere, gli fece cenno di nascondersi fra
le alte erbe, poi gli additò la sponda opposta.

Alcuni rami si vedevano muoversi lentamente nel luogo segnalato, come
se qualcuno, uomo od animale, cercasse di aprirsi prudentemente un
varco.

La luna che allora erasi alzata e che splendeva proprio sopra il fiume,
permetteva di vedere distintamente quei rami ad agitarsi.

— Una belva! — chiese, Antao sottovoce.

— Od un uomo? — rispose Alfredo, con voce agitata. — Un animale non
prenderebbe tante precauzioni.

— Il tuo servo forse?...

— Gamani non s’inoltrerebbe così, sapendo che noi siamo qui a cacciare.

— Ma chi vuoi che sia infine?

— Chissà!... Forse un traditore.

— Un traditore?... Eh.... Dici?...

— Un compagno di quell’uomo, Antao.... guarda!... —

I rami si erano aperti e la testa d’un negro era comparsa, ma subito si
era ritirata e le piante si erano rinchiuse.

Alfredo era balzato in piedi tenendo in mano la carabina e si era
lanciato verso la riva dell’isolotto, gridando:

— Chi vive?... —

Nessuno rispose, nè alcun rumore si fece udire.

— Sei tu Gamani?... — chiese.

Poi non ottenendo ancora risposta, riprese:

— Parla o faccio fuoco!... —

A quella minaccia si udirono dei rami agitarsi e scricchiolare, come
se venissero precipitosamente allontanati o spezzati, ma nessuna voce
umana si fece udire.

Alfredo non esitò più. Puntò la carabina mirando là dove vedeva
muoversi i rami degli alberi e fece fuoco, ma la detonazione non fu
seguita da alcun grido di dolore, anzi ogni rumore cessò e le piante
ripresero la loro immobilità.

Antao aveva raggiunto prontamente il compagno e gli porgeva la propria
carabina, ma Alfredo fece col capo un cenno negativo.

— È fuggito, — disse poi.

— L’hai mancato?...

— Lo credo.

— Ma chi era?...

— Qualcuno che ci spiava.

— Un negro di Tofa?...

— Temo che sia un dahomeno.

— Un dahomeno qui?... Uno di quei negri sanguinari su questo fiume?

— Sì, Antao.

— Mi sembri agitato, Alfredo.

— È vero, sono inquieto.

— Ma perchè?...

— Sono accadute troppe cose questa notte, per non allarmarmi Antao.
Torniamo alla mia fattoria.

— E gli ippopotami?

— Torneremo domani. Bisogna che io veda Gamani.

— Lo troveremo con quest’oscurità?...

— Conosco questi boschi.

— Ma l’uomo che è venuto a spiarci, non ci tenderà un agguato?...

— Siamo armati e non lo temo.

— Andiamo, giacchè lo vuoi. Apriremo bene gli occhi e terremo un dito
sul grilletto delle carabine. —

Stavano per abbandonare l’isolotto e scendere sul banco per raggiungere
l’imbarcazione che era rimasta arenata, quando in mezzo ai boschi si
udì a rintronare uno sparo.

Alfredo si era arrestato mandando un grido, che aveva qualche cosa
d’angoscioso.

— La carabina di Gamani! — esclamò.

— O del negro che è fuggito? — chiese Antao.

— No, è stata sparata in mezzo ai boschi.

— Avrà fatto fuoco contro qualche leopardo.

— No.... odi?... —

Un’altra detonazione era echeggiata, poi dopo alcuni istanti, un’altra
ancora.

— Sono segnali d’allarme! — esclamò Alfredo. — Vieni, Antao,
vieni!... —




CAPITOLO III.

La scomparsa di Gamani


I due cacciatori, abbandonato precipitosamente il banco, si slanciarono
verso la scialuppa che era rimasta arenata e spintala in acqua con una
scossa vigorosa, vi balzarono dentro, arrancando con grande lena.

Giunti però a trenta passi dalla riva, resa oscurissima dalla cupa
ombra dei grandi vegetali, Alfredo fece segno al compagno di rallentare
la manovra dei remi e alzatosi sul banco, col fucile in mano, lanciò un
lungo sguardo sui rami arcuati dei paletuvieri.

Per alcuni istanti scrutò con somma attenzione quelle piante delle
febbri, in mezzo alle quali poteva benissimo celarsi un uomo senza tema
di venire scoperto, poi riprese il remo e spinse la scialuppa verso la
sponda, ma procurando di non far rumore.

Prima di sbarcare attese ancora qualche minuto, tendendo gli orecchi
per raccogliere il menomo rumore, poi rassicurato dal profondo silenzio
che regnava sulla fiumana, s’aprì il varco fra i paletuvieri, facendo
cenno ad Antao di seguirlo.

— Quante precauzioni, — disse Antao, che pareva sorpreso.

— Sono necessarie, — rispose Alfredo, che legava la scialuppa. — Non
dimenticare che abbiamo degli uomini dinanzi a noi.

— Uno, Alfredo.

— Chi ti dice che fosse solo?...

— È vero, ma noi siamo armati e poi non abbiamo paura dei negri. Ed
ora, come faremo a trovare Gamani, con quest’oscurità?...

— Conosco la via.

— Se segnalassimo a lui che lo cerchiamo sparando alcune fucilate?...

— No, Antao. Bisogna lasciar credere agli uomini che ci spiavano, che
noi siamo rimasti sul banco.

— Ma ci avranno veduti attraversare il fiume.

— Ma ora li inganneremo.

— In quale modo?

— Lo vedrai. Imita la mia manovra. —

Aveva estratto il lungo e solido coltello da caccia ed aveva cominciato
a recidere alcuni rami, riunendoli in un fascio che aveva la grossezza
d’un uomo, poi lo aveva coperto colla propria giacca di tela bianca.
Antao, quantunque non capisse cosa volesse fare il compagno, lo aveva
imitato, vestendo quella specie di fantoccio colla camicia di flanella,
non avendo giacca.

— Ora poniamoli nella scialuppa, — disse Alfredo.

— Mi spiegherai il perchè?

— Te lo dirò poi. —

I due fantocci furono messi uno a prora e l’altro a poppa, poi la
scialuppa fu liberata dalla corda che la tratteneva e abbandonata alla
corrente, la quale la trasportò tosto al largo.

— Seguimi, — disse poi Alfredo. — Cerca di non far rumore e apri bene
gli occhi. —

Si cacciò senza esitare fra le piante, strisciando lestamente fra le
immani radici che coprivano il suolo ed i cespugli che crescevano fitti
fitti fra i tronchi dei grandi alberi, e raggiunse un sentiero aperto
in piena foresta, ma tanto stretto da permettere appena il passaggio ad
un uomo.

Si lanciò innanzi risolutamente, tenendo il fucile sotto il braccio per
essere più pronto a far fuoco, ma evitando con cura estrema di urtare
i rami degli alberi che si curvavano su quello stretto passaggio e
posando con precauzione i piedi, per tema di far scrosciare le foglie
secche o di calpestare la coda di qualche rettile velenoso. Antao
gli si era messo dietro, girando a destra ed a sinistra gli occhi e
volgendosi di frequente, per paura di venire improvvisamente assalito a
tergo.

Dopo le tre detonazioni della carabina di Gamani più nessun rumore
aveva turbato il profondo e misterioso silenzio che regnava nella
foresta, pure Alfredo non pareva tranquillo, tutt’altro. Si arrestava
di frequente per tendere gli orecchi, guardava all’intorno scrutando
le folte e cupe macchie, trasaliva ad ogni foglia secca che crepitava
sotto i suoi piedi e delle parole tronche gli sfuggivano dalle labbra.
Doveva avere un motivo ben grave per essere così inquieto, lui che era
così coraggioso, che nessun pericolo spaventava: così almeno pensava
Antao.

Ad un tratto, verso il fiume rimbombò una fragorosa detonazione, che
pareva prodotta da una di quei grossi e vecchi fucili adoperati dai
negri, armi che contano cinquanta e forse cent’anni di fabbricazione.

— Gamani? — chiese Antao, arrestandosi bruscamente.

— Non è lo sparo d’una carabina, — rispose Alfredo che si era pure
fermato. — So di cosa si tratta.

— Spiegati.

— Sono gli uomini che ci spiavano che sparano contro i nostri fantocci.
Sono contento di averli ingannati. —

Quantunque la loro posizione fosse tutt’altro che lieta, Antao non potè
trattenere uno scoppio di risa.

— Ah!... che superba idea!... — esclamò.

— Imprudente! Vuoi farci fucilare?...

— È vero; mi dimenticavo che siamo diventati della selvaggina pei
negri. Toh!... Un altro colpo!... Quegli stupidi si divertono a
consumare la loro polvere contro la mia camicia e la tua giacca, ora
non m’inquieto. I loro fucili fanno più fracasso che danno e poi questi
negri sono così cattivi bersaglieri che....

— Vuoi finirla? La pelle non ti preme forse? Se tirano male, il caso
talvolta manda una palla a destinazione. Orsù; ora che sappiamo che
i nemici seguono la scialuppa, mettiamoci al trotto e cerchiamo di
raggiungere presto Gamani, poi la mia fattoria. —

Certi ormai di aver fatto perdere le loro tracce a quei misteriosi
nemici che avevano loro preparato l’agguato e convinti di aver dinanzi
la via libera, affrettarono il passo, inoltrandosi sotto centinaia
e centinaia di giganteschi sicomori, di alberi dal legno rosso, di
alberi dal cotone o bombasc, di mangani, di goyavi e di banani dalle
foglie smisurate e cacciandosi lestamente, non senza però incespicare
e urtare, fra miriadi di radici e di liane che formavano talora delle
vere reti inestricabili.

   [Illustrazione: — Da bere, signore.... da bere.... — (Pag.
   24).]

La loro corsa durò venti minuti sempre più rapida, poi Alfredo
s’arrestò dinanzi ad uno spazio aperto, in mezzo a cui giganteggiava
solitario un sicomoro dal nero fogliame, che spandeva all’intorno una
cupa ombra.

— Ci siamo? — chiese Antao, con voce affannosa.

— Sì, — rispose il cacciatore, — ma....

— Lo vedi?

— Fa troppo oscuro e poi si sarà nascosto fra le foglie del sicomoro.

— Odi nulla?

— No, Antao e ciò mi inquieta.

— Chiamalo. —

Alfredo accostò ambe le mani alla bocca formando una specie di
porta-voce e chiamò replicatamente, ma senza gridare troppo forte:

— Gamani!... Gamani!... —

Nessuno rispose a quella doppia chiamata.

— Gran Dio!... — mormorò il cacciatore, con angoscia. Cos’è accaduto di
lui?...

— Sei certo che questo sia il posto? — chiese il compagno.

— Non m’inganno io, Antao. L’abbiamo lasciato ai piedi di questo
sicomoro.

— Che una belva lo abbia divorato?... Quei colpi di fucile....

— Vediamo, se è stato divorato da qualche leopardo o da qualche leone,
troveremo almeno la sua carabina.

— Spero che non l’avranno mangiata.

— Vieni. —

Armò il fucile e strisciò verso l’albero gigante, mentre il suo
compagno sorvegliava i dintorni, temendo che apparissero i misteriosi
nemici.

Giunto ai piedi del sicomoro, il cacciatore guardò fra i rami, ma
faceva troppo oscuro per poter discernere qualche cosa. Ripetè la
chiamata, ma non ottenendo alcuna risposta, fece il giro dell’enorme
tronco esaminando attentamente le erbe che crescevano all’intorno.

Aveva quasi compìto il giro, quando vide a terra qualche cosa di
bianco, semi-nascosto fra le grasse graminacee. Allungò una mano e
raccolse un cappello di foglie intrecciate e che gli era ben noto.

— Il cappello di Gamani!... — esclamò. — Il disgraziato è stato
ucciso!... A me, Antao. —

Il compagno s’affrettò a raggiungerlo e comprese subito la gravità
della cosa.

— Ucciso o rapito? — chiese.

— Rapito!... — esclamò Alfredo, come fosse stato vivamente colpito da
quella riflessione.

Ma poi, crollando il capo, aggiunse.

— Ed a quale scopo?... Rapire un servo?... Qui, quando si odia qualcuno
lo si uccide; la vita d’un uomo vale meno d’una fettuccia o di poche
perle di vetro.

— Ma se l’hanno ucciso non si saranno di certo presa la briga di far
scomparire il cadavere.

— Forse l’avranno gettato nella foresta.

— Cerchiamolo, Alfredo. Non ti sembra che queste erbe siano calpestate?

— Sì, sono curvate in varii luoghi.

— Seguiamo le tracce.

— Ma mi preme giungere alla fattoria, Antao; ho dei tristi
presentimenti. Questo attacco improvviso in mezzo alla foresta, contro
noi che siamo uomini bianchi, troppo temuti dai sudditi di Tofa e dei
reami della costa, mi fa sospettare la presenza dei sanguinari negri
del Dahomey.

— Taci!... —

Un grido acuto, straziante, ma un grido che pareva più emesso da una
donna che da un uomo, era in quel momento echeggiato in mezzo alla
tenebrosa foresta.

— Hai udito?...

— Sì, Antao.

— È un grido di donna.

— Sciagura su noi, Antao!...

— Ti ho detto che è un grido di donna.

— Lo so e perciò ho paura.

— D’una donna?... — chiese il portoghese, al colmo dello stupore.

— Seguimi!... — disse il cacciatore, senza rispondere alla domanda.

Quel grido che pareva lanciato da una persona in pericolo, era
echeggiato a tre o quattrocento metri dal grande sicomoro, in mezzo
alla cupa foresta. Bastavano quindi pochi istanti per giungere sul
luogo dove accadeva qualche grave avvenimento.

Alfredo aveva attraversata rapidamente la radura, ma giunto sul margine
della foresta si era arrestato e pareva poco disposto ad avventurarsi
in mezzo a quel caos di rami, di tronchi enormi e di radici mostruose.

Udendo però echeggiare un secondo grido, più acuto, più straziante del
primo, non esitò più. Tenendo un dito sul grilletto della carabina
per essere pronto ad ogni evento, si slanciò in mezzo alla folta
vegetazione, sempre seguito dal brasiliano.

Scivolando fra le radici ed i rami, quasi senza far rumore, quantunque
fosse profonda l’oscurità sotto la vôlta impenetrabile delle frondi, in
poco meno di mezzo minuto giunse in una seconda radura, ma più piccola
della prima e circondata da altissimi alberi e alla luce della luna
vide una massa oscura che pareva si dibattesse in mezzo alle erbe.

— Cos’è? — chiese Antao, che lo aveva raggiunto.

Un terzo grido, ma un grido di donna sfuggì da quella massa al quale
rispose un urlo rauco e stridente, ben noto al cacciatore della Costa
d’Avorio.

— Indietro, Antao!... — esclamò Alfredo. — Bada alla tua vita. —

Poi si spinse innanzi, tuonando:

— Ci sono io, mio caro ed ho una palla per te!... —

Udendo quella voce umana, un animale si era staccato da quella massa e
con un rapido volteggio si era piantato dinanzi all’ardito cacciatore,
a dieci passi di distanza, saettandolo con due occhi che avevano dei
riflessi giallo-verdastri.

Aprì le fauci armate di lunghi e candidi denti, si battè i fianchi
colla coda, poi si raccolse su sè stesso come fanno i gatti quando si
preparano ad assalire un sorcio e lanciò tre note gutturali, lunghe,
le quali risuonarono paurosamente sotto le vôlte dei grandi alberi,
destando tutti gli echi della gigantesca foresta.

Quell’animale, che la luna illuminava perfettamente, era lungo circa
due metri e rassomigliava ad una tigre o per lo meno ad un gatto, ma
di dimensioni straordinarie. Aveva la testa grossa in proporzione al
corpo, il muso poco sporgente, un collo corto ma robustissimo, una coda
lunga settanta od ottanta centimetri, ed il pelame giallo-rossiccio
che diventava più oscuro sul dorso, macchiato di grossi punti oscuri
ed irregolari e le parti inferiori, compreso il petto e la gola,
giallo-biancastre.

Sentendosi assalire alle spalle, aveva abbandonato la vittima che
forse stava strangolando e dilaniando e si era affrettato a far fronte
al pericolo con un coraggio piuttosto raro nelle fiere, le quali
ordinariamente evitano l’uomo bianco armato.

Il cacciatore, sapendo quale formidabile avversario avesse dinanzi,
si era arrestato e guardava intrepidamente la fiera che continuava
a saettarlo con uno sguardo di collera e d’ardente bramosìa, mentre
avvicinava lentamente alla spalla il calcio della carabina.

— Morte di Nettuno!... — mormorò Antao, rabbrividendo. — Un leopardo
qui!... Preferirei dieci ippopotami a questo feroce mangiatore
d’uomini!... —

Non si era ingannato: era un vero leopardo quello che stava per
scagliarsi sull’audace cacciatore della Costa d’Avorio.

Questi animali sono forse più formidabili dei leoni e forse più arditi
delle tigri indiane. Nessun negro oserebbe affrontarli, quantunque
abbiano una statura ben inferiore dei re delle foreste e siano meno
robusti, ma perchè sanno di quanta agilità e di quanta ferocia sono
dotati.

Sono il flagello dell’Africa tenebrosa, come lo sono le tigri nelle
pantanose pianure delle Sunderbunds del sacro Gange.

Abitano ordinariamente le foreste fitte, dove fanno delle vere
distruzioni di selvaggina, sono voracissimi, divorano specialmente un
numero enorme di scimmie, essendo i leopardi abilissimi arrampicatori,
ma talora scelgono i loro covi in vicinanza dei villaggi e allora guai
ai poveri abitanti.

Divorano prima a quei disgraziati tutti gli animali domestici, osando
inoltrarsi perfino entro le capanne ed in pieno giorno, poi divorano i
proprietarii. Sono così noncuranti dei pericoli, che anche scacciati
ritornano dopo poche ore, entrano nelle abitazioni balzandovi per le
finestre o guastando i malsicuri tetti, strangolano ferocemente le
persone addormentate, uccidono le donne che si recano alle fontane,
rapiscono i bambini. Vi sono taluni leopardi diventati famosi per le
loro distruzioni, nè più nè meno delle tigri antropofaghe dell’India.

Non era quindi da sorprendersi se il portoghese, che aveva atteso a piè
fermo i giganteschi ippopotami, fosse spaventato della presenza di quel
leopardo e se Alfredo, che era così coraggioso e lesto di mano, fosse
diventato estremamente prudente dinanzi a quel formidabile avversario.

La belva, come dicemmo, si era accovacciata come si preparasse a
balzare addosso al cacciatore che la sfidava e che la minacciava colla
canna della carabina, ma tutto d’un tratto si rialzò, spiccò un gran
salto descrivendo una straordinaria parabola e andò a cadere fra i rami
d’un ebano che era lontano dieci passi.

— Morte di Saturno!... Che salto!... — esclamò Antao.

— Guarda la vittima, — disse Alfredo, senza staccare gli occhi
dall’albero.

— Credo che quella donna sia stata uccisa, poichè non la odo più a
muoversi. Vedo una massa oscura distesa fra le erbe.

— È armato il tuo fucile?

— Sì, Alfredo.

— Mettiti dietro di me e sii pronto a passarmelo. Se le due palle
falliscono, siamo perduti.

— Sono pronto.

— Sta bene. —

Alzò la carabina e mirò freddamente il leopardo, che si teneva
imboscato fra i rami dell’ebano ma che pareva pronto, con un
altro grande salto, a piombare addosso all’uno o all’altro dei due
avversarii.

Alfredo mirò a lungo, con calma, cercando di irrigidire i nervi, poi
lasciò partire il colpo.

La detonazione fu seguita da un rauco urlo, poi si vide il leopardo
passare come un lampo attraverso i rami, descrivere un arco e cadere
a dieci passi, ma con un sordo rumore che indicava come le sue potenti
zampe non funzionassero più coll’agilità primiera.

Alfredo aveva fatto un balzo indietro gettando via l’arma scarica e
afferrando di volo quella che gli porgeva Antao.

La puntò rapidamente per prevenire il secondo slancio della fiera, ma
questa non si mosse e si limitò a far rintronare la foresta colla sua
nota stridente e gutturale.

Si era coricata sul fianco destro e pareva che non fosse più capace di
rimettersi in piedi, quantunque le sue zampe posteriori strappassero
furiosamente le erbe d’intorno e cercassero di spingere innanzi la
massa del corpo.

— Ha le gambe anteriori fracassate, — disse Alfredo. — Ora non lo temo
più. —

Fece fuoco la seconda volta a sei soli passi di distanza. Quel colpo
fu mortale: la belva, colpita in piena fronte, fece un ultimo balzo in
aria, poi ricadde come una massa inerte e non si mosse più.

— Alla donna, Antao, — disse Alfredo.

E tutti e due, sbarazzati da quel pericoloso avversario, si slanciarono
verso la povera vittima che giaceva in mezzo alle erbe della piccola
radura.




CAPITOLO IV.

Il fanciullo rapito


Quando giunsero là dove il leopardo si era alzato, videro subito che
non si erano ingannati. La vittima del ladrone delle foreste era
veramente una donna, ma che non doveva però essere una tranquilla
abitatrice di qualche villaggio, poichè appena Alfredo l’ebbe guardata,
non potè trattenere una sorda esclamazione che tradiva una viva
inquietudine ed una profonda collera.

Quella sconosciuta indossava un costume ben noto agli abitanti della
Costa d’Avorio ed intorno a lei si vedevano certe armi non adoperate di
certo dalle donne di Tofa, nè del Grande e Piccolo Popo.

Era una bella giovane di vent’anni, dalle forme assai sviluppate, dalle
braccia muscolose, dalla pelle d’un nero meno carico delle donne della
costa e di statura alta e squisitamente modellata.

Aveva il corpo racchiuso in un giubbetto verde stretto alla cintura
da una cartucciera di pelle, le anche avviluppate in una specie di
gonnellino di seta rossa, i piedi nudi, ma le gambe e le braccia adorne
di parecchi anelli di rame e d’avorio.

Presso di lei stava un casco a due punte, di stoffa bianca e più oltre
un fucile a pietra, una giberna di pelle dorata e un lungo e largo
coltellaccio, una di quelle armi terribili che gli abitanti del Dahomey
chiamano _nyekpeo-hen-to_.

Il carnivoro l’aveva ridotta in uno stato miserando, ma forse gli era
mancato il tempo di finirla. Le robuste unghie avevano squarciata
la spalla destra della povera giovane per una lunghezza di venti o
venticinque centimetri ed i denti avevano straziate le carni della
coscia sinistra, le quali erano ormai coperte di sangue.

— Disgraziata!... — esclamò Antao. — Un momento di ritardo ed era
finita. Fortunatamente non mi sembra che svenuta.

— Fortunatamente!... — disse Alfredo, coi denti stretti. — L’avesse
stritolata questa vipera!...

— Questa povera donna? — chiese il portoghese, stupito.

— Sì, Antao.

— Ma chi è adunque?...

— Chi?... Chi?... Guarda il suo costume guerresco, Antao; questa donna
è una di quelle crudeli amazzoni che formano il corpo reale del feroce
Geletè.

— Del re del Dahomey?...

— Sì, di quell’antropofago.

— Morte di Nettuno!...

— Fuggiamo, amico!... Ormai i miei dubbi sono diventati una realtà! Le
genti del Dahomey ronzano intorno alla mia fattoria e sono guidate da
quel furfante che da due anni mi minaccia delle sue vendette.

— Che si tratti invece d’una spedizione contro il re Tofa?

— No, Tofa non ha nulla da temere da Geletè, perchè è un suo parente
e perchè si sa che è sotto la protezione degli uomini bianchi. Vieni,
Antao.

— Ma non possiamo lasciare qui questa donna in questo stato.

— Ma tu non sai quanto sieno feroci e sanguinarie queste donne; tu non
conosci le amazzoni del Dahomey.

— È una donna, Alfredo.

— È peggio d’un uomo e sarebbe capace di compensare le tue cure
con un colpo di fucile, per regalare la tua testa al suo re. Vieni,
fuggiamo!... —

Il portoghese stava per arrendersi all’invito del suo compagno
quantunque molto a malincuore, quando la giovane donna emise un lamento
così straziante, da toccare il cuore del più spietato nemico.

Antao si era subito arrestato e anche Alfredo, malgrado il suo odio
misterioso verso quella suddita del re del Dahomey, aveva fatto un
volta faccia, come se fosse indeciso fra il fuggire od il tornare.

— L’hai udita? — chiese il portoghese.

— Sì, — rispose Alfredo, corrugando la fronte.

— Non possiamo abbandonare quella disgraziata che potrebbe diventare la
preda d’un altro leopardo.

— Ma la mia fattoria corre un grave pericolo.

— Non lo sappiamo ancora.

— Gamani è stato assalito e hanno fatto fuoco sulla nostra scialuppa.
Cosa vuoi di più?... —

Un secondo gemito, più doloroso del primo, uscì dalle labbra della
giovane donna seguìto da queste parole pronunciate in lingua _uegbè_,
idioma parlato in tutti gli stati costieri del grande golfo di Guinea:

— Da bere, signore.... da bere.... —

I due cacciatori, un po’ commossi da quella invocazione che aveva un
accento straziante, s’avvicinarono alla donna, la quale si era alquanto
sollevata.

Il viso della giovane guerriera nulla aveva dell’ardita espressione
delle amazzoni del barbaro re. Aveva una fisonomia dolce, dai
lineamenti regolari, con un naso quasi diritto invece di essere
schiacciato, come lo hanno le donne di razza negra, una bocca piccola
con due labbra rosse che mostravano dei denti d’una ammirabile
bianchezza. Anche i suoi occhi non erano così grandi, nè così
sporgenti: erano invece tagliati quasi a mandorla, d’un nero lucente,
pieni d’espressione ed intelligenti.

Vedendo appressarsi i due cacciatori, l’amazzone fece istintivamente un
gesto come se cercasse il fucile od il coltellaccio, ma parve subito si
pentisse di quell’atto e tese ambe le mani verso di loro, ripetendo con
voce fioca:

— Da bere.... signori.... —

Alfredo, che comprendeva perfettamente la lingua _uegbè_, prese la
fiaschetta che portava alla cintura, ripiena d’acqua mescolata ad un
po’ di arak e si curvò sulla giovane donna che il portoghese sorreggeva
per impedirle di ricadere, ma poi ritirò la mano, dicendo:

— Sì, io ti darò da bere, ma se mi dirai cosa facevi in questa foresta.

— Te lo dirò.... signore.... lo giuro sul mio _feticcio_[1] ma
brucio.... soffro.... dammi una goccia d’acqua.... —

Il cacciatore, quantunque avesse i suoi motivi per odiare i sudditi
del Dahomey, non era crudele. Comprese che quella povera donna doveva
essere rôsa dalla febbre causatale da quelle atroci ferite e le porse
la fiaschetta, senza più esitare.

Quando la guerriera si fu dissetata gliela restituì, dicendo con voce
raddolcita:

— Grazie, signore.

— Ora parlerai: cosa facevi in questa foresta che è così lontana dal
tuo paese?

— Aspettavo dei guerrieri che si sono recati sulle rive del fiume.

— Cosa cercavano quei guerrieri?... —

La giovane donna ebbe una breve esitazione, ma poi disse, abbassando il
capo:

— Dovevano sorvegliare un uomo bianco che doveva cacciare gli
ippopotami sull’Ouzme.... e....

— Continua.

— Prenderlo vivo o morto.

— Odi Antao? — chiese Alfredo, tergendosi alcune stille di sudore
freddo. Hanno preparato un tradimento. —

Poi rivolgendosi verso la giovane:

— L’uomo che dovevano fare prigioniero sono io, — disse, — e sono io
che ho ucciso il leopardo che doveva divorarti. —

L’amazzone non rispose e chinò il capo sul seno, come se volesse
nascondere il viso.

— Dimmi, — continuò Alfredo, che era in preda ad una viva agitazione.
— Vi sono altri uomini oltre questi boschi, verso le terre del re
Tofa?...

— Sì, — rispose l’amazzone.

— Molti?...

— Sì, molti.

— Cosa devono fare?...

— Sorprendere la fattoria dell’uomo bianco.

— E li guida?...

— Il cabecero Kalani. —

Il cacciatore, udendo quel nome, si era rialzato mandando un urlo di
furore.

— Ah!... Miserabile uomo! Il cuore me lo diceva! Vieni, Antao, vieni o
sarà troppo tardi!...

— Ma questa donna?...

— A me!... —

Il cacciatore si lacerò la camicia, inzuppò rapidamente un pezzo
nell’acqua della fiaschetta, lavò le ferite senza che la giovane
guerriera facesse udire un gemito, riunì con lesta mano le carni,
le fasciò, poi prese il coltellaccio ed il fucile a pietra e li mise
accanto alla donna, dicendo:

— Se qualche animale ti assale, difenditi. Fra breve l’alba sorgerà
e non correrai alcun pericolo. Se vorrai attenderci, ti prometto di
salvarti.

— Grazie, mio signore, — rispose l’amazzone.

Alfredo stava per lanciarsi attraverso alla foresta, quando si arrestò
un istante, poi tornando rapidamente verso la donna, le disse:

— Una domanda ancora. Io avevo lasciato un uomo nella radura vicina,
uno de’ miei servi e non l’ho più ritrovato. Sai dirmi cos’è avvenuto
di lui?

— È stato preso dai miei compagni.

— Lo hanno ucciso?...

— No, l’hanno fatto prigioniero e condotto via.

— Grazie. Andiamo Antao e più lesti dei cervi. —

I due cacciatori abbandonarono l’amazzone che era ricaduta fra le
erbe e si misero a correre per la foresta, seguendo il sentiero che
attraversava la radura del grande sicomoro.

Alfredo non rispondeva più alle domande del suo compagno. Tutta la sua
attenzione pareva rivolta alla sua fattoria, che in quel momento stava
forse per correre un grave pericolo cercava quindi di guadagnare più
via che poteva.

Non camminava, correva come un’antilope, sfondando con impeto
irresistibile i rami che si allungavano sul sentiero e recidendo, con
furiosi colpi di coltello, le liane che gl’impedivano il passo.

Il portoghese, non abituato alle lunghe marcie e tanto meno alle corse
prolungate, lo pregava di tratto in tratto d’arrestarsi per concedergli
un po’ di respiro, ma il cacciatore invece precipitava sempre più la
fuga.

Qualche volta però si fermava, ma per tendere gli orecchi, parendogli
forse di udire in lontananza delle urla e delle detonazioni; poi
correva più di prima, per riguadagnare i passi perduti.

Ad un tratto s’arrestò, dicendo con voce affannosa:

— Hai udito, Antao?...

— Non odo che il sangue che mi sibila agli orecchi e la mia
respirazione disordinata, — rispose il portoghese con voce rotta.

— Mi sembra d’aver udito degli spari....

— Ma siamo ancora molto lontani dalla tua fattoria?

— Tre o quattro miglia.

— Morte di Nettuno! Tanto da scoppiare, se continui a galoppare in
questo modo.

— Odi?... —

Una scarica lontana echeggiò verso il sud, ripercuotendosi
distintamente sotto i grandi boschi, seguita poco dopo da spaventevoli
vociferazioni.

— Eccoli! — urlò Alfredo. — Assalgono la mia fattoria. Corri, Antao,
corri!... Voglio uccidere quel cane di Kalani! —

Entrambi si erano rimessi a correre, facendo appello alle loro forze.
Il cacciatore della Costa d’Avorio, il cui volto ordinariamente era
così tranquillo, aveva assunto un’aria d’odio feroce, faceva paura.

Colla carabina in pugno, arma terribile in quelle mani, gli occhi
scintillanti, i capelli in disordine, avrebbe spaventato qualunque
persona che lo avesse incontrato in quella cupa foresta.

— Avanti!... Avanti!... — ripeteva, con voce strozzata. — Me lo
rapiscono!... Kalani si vendica, ma lo ucciderò!... —

Intanto le detonazioni continuavano sempre più distinte, rombando
sordamente ed a lungo sotto i grandi alberi. Talora erano scariche
nutrite che parevano fatte da una compagnia di truppe regolari ed ora
invece colpi isolati, poi echeggiavano delle urla che parevano emesse
più da belve che da gole umane. Senza alcun dubbio si combatteva
con ferocia attorno alla fattoria e gli uomini che l’abitavano si
difendevano furiosamente.

Già i due cacciatori non dovevano distare più di due miglia dal luogo
della pugna, a giudicarlo dall’intensità degli spari e la grande
foresta cominciava a diradarsi, quando verso il sud, al disopra d’una
cortina d’alberi, si scorse una viva luce che aveva dei riflessi
sanguigni, quindi una gigantesca colonna di scintille che saliva alta
alta, come se volesse confondersi cogli astri.

— Un incendio laggiù.... Alfredo! — gridò Antao.

— Lo vedo, — rispose il cacciatore, con accento disperato. — Kalani si
è vendicato e mi fugge di mano, ma lo raggiungerò, dovessi andarlo a
stanare nel cuore di Abomey. —

Stava per riprendere la corsa, quando un uomo, un negro armato di
fucile, che pareva si fosse fino allora tenuto nascosto sotto un fitto
cespuglio, gli sbarrò il passo, dicendogli:

— Ove vai padrone?...

— Tu.... Asseybo!... — esclamò il cacciatore.

— Fermati padrone, laggiù vi è la morte.

— Non temo la morte io, — urlò Alfredo, con esaltazione. — M’hanno
incendiata la fattoria?

— Sì padrone e l’hanno saccheggiata.

— E mio nipote?...

— Perduto.

— Gran Dio! Ucciso da Kalani?

— No, rapito.

— Da Kalani?...

— Sì, da lui.

— Sono fuggiti?...

— Stanno ritirandosi.

— Ma posso raggiungere ancora quei ladri.

— Non osarlo, padrone. Sono almeno duecento.

— Maledizione su di loro!... Me l’hanno rapito! Povero fanciullo!...
Venite, lo voglio!...

— Alfredo, — disse Antao, arrestandolo. — I rapitori possono ucciderti.
Non precipitiamo le cose e cerchiamo di essere prudenti per ora; i tuoi
nemici possono attenderti presso le rovine della fattoria. Aspettiamo
l’alba, poi vedremo cosa si potrà fare.

— Io non temo nè Kalani, nè i suoi uomini! — gridò Alfredo con furore.
— Vieni Antao, vieni Asseybo!... Noi daremo addosso ai rapitori.

— Ma sono molti, padrone e tutti armati di fucili, — disse il negro.

— I miei uomini si uniranno a noi.

— Temo che siano stati tutti uccisi, padrone. Quando sono balzato dalla
finestra per non venire bruciato vivo, non ve ne erano che due soli
vivi.

— Non importa, siamo in tre e tutti armati. —

Era impossibile trattenere lo sventurato cacciatore, il quale era in
preda ad una esasperazione indicibile. Il portoghese, comprendendo che
se non l’avesse seguito sarebbe partito solo, si decise a cedere.

— Ebbene, andiamo, — disse, — e guai al traditore. —

Alfredo era già partito correndo, sperando di giungere sul luogo
dell’incendio prima della ritirata dei rapitori, ma Antao, accusando
una stanchezza estrema causata da quella lunga marcia, lo costringeva
di tratto in tratto a rallentare la sua fuga.

Sfinito lo era in realtà, ma contava su quei ritardi per lasciare
campo ai dahomeni di ritirarsi, comprendendo che una lotta con quei
negri coraggiosi e sanguinari, almeno pel momento, non era opportuna.
Quei duecento uomini non avrebbero certo faticato a schiacciare i tre
cacciatori, essendo tutti armati di fucile.

Le scariche e le grida erano intanto cessate, ma al disopra degli
alberi si vedevano ancora innalzarsi nuvoloni di fumo dai riflessi
sanguigni e nembi di scintille che il vento notturno spingeva assai
lontane, minacciando di provocare altri incendii nei boschi vicini.

Mezz’ora dopo i due cacciatori ed il negro, lasciata la foresta,
giungevano sul margine d’una prateria, in mezzo alla quale, presso un
piccolo corso d’acqua, sorgeva la fattoria d’Alfredo.

Un orribile spettacolo s’offerse tosto agli sguardi del disgraziato
proprietario e dei suoi compagni.

Del vasto fabbricato e dei suoi magazzini, che poche ore prima
contenevano ingenti ricchezze, non rimanevano che poche muraglie
annerite dal fumo e degli ammassi di rottami, di sotto ai quali
sfuggivano ancora vortici di fumo e delle lingue di fuoco che
lanciavano in aria getti di scintille.

Le palizzate che circondavano i fabbricati erano state in gran parte
abbattute per lasciare il varco agli assalitori, i cancelli strappati
giacevano al suolo, mentre tutto all’intorno si scorgevano casse
sventrate, botti sfondate, animali morti e più oltre parecchi cadaveri
umani ammucchiati alla rinfusa, che stringevano ancora ferocemente i
lunghi e pesanti coltelli, adoperati dai barbari guerrieri del Dahomey.

Alfredo, scorgendo quella desolazione, si era arrestato come fosse
stato pietrificato, poi si era lasciato cadere al suolo ripetendo con
voce soffocata dai singhiozzi:

— Me l’hanno rapito!... Povero fanciullo!... povero fratellino mio!...




CAPITOLO V.

L’odio di Kalani


Alfredo Lusarno, catanese, da dieci anni aveva preso stanza sulla Costa
d’Avorio. Figlio di uno di quegli arditi negozianti di corallo, che
un tempo si spingevano fino sulle coste occidentali dell’Africa per
vendere ai negri del Senegal, della Sierra Leone e della Repubblica di
Liberia i prodotti dei banchi coralliferi di Sicilia e di Pantellaria,
ritraendo grossi guadagni, a ventiquattro anni aveva deciso di
abbandonare l’isola natìa e di visitare i paesi che avevano fatto la
fortuna del genitore.

Spirito irrequieto, avventuroso, avido di emozioni e soprattutto
appassionato cacciatore, non aveva posto indugio ad effettuare
il suo disegno. Con poche migliaia di lire in tasca, ma pieno di
buona volontà, si era imbarcato sul primo postale in partenza da
Marsiglia per le colonie francesi dell’Africa occidentale, visitando
successivamente San Luigi del Senegal, Dakar, Free-Town, Monrovia,
quindi le diverse cittadelle della Costa d’Oro soffermandosi a lungo a
Whydah la stazione più importante e più commerciale di quelle regioni.

Disgraziatamente, o meglio per sua fortuna, un mattino svegliandosi
aveva fatti i suoi conti di cassa e si era accorto che i suoi biglietti
da mille erano quasi tutti sfumati e che non gli rimanevano che poche
dozzine di ghinee ed alcuni risdalleri.

Non si era sgomentato per questo, ma aveva pensato che era giunto il
momento di lasciare i viaggi e di ricostruire la sua modesta fortuna,
così troppo presto sfumata.

Avendo ormai conoscenza delle lingue parlate sulla costa e cognizioni
commerciali sufficienti pei generi che si scambiavano in quelle
importanti cittadelle e anche relazioni d’amicizia, era andato a
offrirsi ad un portoghese che possedeva una importante fattoria a Porto
Novo.

Il bravo portoghese, che aveva avuto occasione di apprezzare l’abilità
e l’energia del siciliano, due qualità necessarie in quelle regioni
per trafficare e farsi rispettare da quei negri, che sono generalmente
ladri e selvaggi, l’aveva subito accolto in qualità di raccoglitore
d’olio di elais, articolo importantissimo, ma che richiedeva fatiche
non poche, dovendo gli acquirenti spingersi nell’interno per visitare i
villaggi negri.

Alfredo Lusarno si era messo a lavorare con infaticabile energia,
spingendosi perfino sulle frontiere del selvaggio reame del Dahomey,
del Benin, nel regno degli Ascianti, nelle due repubbliche del Piccolo
e del Grande Popo, facendo ottimi affari dovunque ed approfittando
anche per dare libero sfogo alla sua passione per le grandi caccie.

Due anni dopo il proprietario della fattoria, uno zio di Antao,
soddisfatto dell’attività del suo agente lo interessava sugli utili, e
quattro anni più tardi il siciliano aveva avuto il piacere di costatare
che la sua modesta fortuna sfumata nei viaggi, l’aveva triplicata in
mezzo all’olio dei negri.

Nel 1874, morto il proprietario, dopo di aver liquidato ogni cosa
e rimesso il ricavato ad Antao Carvalho, legittimo erede, aveva
cominciato a trafficare per proprio conto, fondando una fattoria nello
stato del re Tofa, accumulando rapidamente una cospiqua sostanza.

Ma allora un ardente desiderio di rivedere la città natia ed il
bel cielo d’Italia, l’aveva preso. Si era ricordato d’aver lasciato
in patria dei parenti ed una matrigna, causa non ultima della sua
decisione di andarsene pel mondo a cercare fortuna, ed un giorno si
era imbarcato per l’Europa, affidando la sua prosperosa fattoria ad un
amico fidato.

Brutte sorprese l’attendevano in patria. Dei disastri finanziarii
avevano rovinato suo padre che era morto di dolore, la matrigna era
pure morta poco dopo, ma avevano lasciato un figlio, un bel ragazzino
bruno, ardito, somigliante in tutto al fratello, quantunque nato da
altra madre e che era stato raccolto da alcuni pietosi parenti.

La città natìa non aveva più attrattive per l’intraprendente emigrato e
la sua risoluzione era stata pronta. Aveva preso con sè il fratellino
destinato un giorno a diventare suo erede ed erasi affrettato a
ritornare nella sua fattoria, deciso a non più lasciarla.

Aveva rivolte tutte le sue cure al fratellino che cresceva prospero
e robusto e che amava come fosse il proprio figlio, ma non aveva
trascurato però nè i suoi commerci, nè le sue caccie, diventando uno
dei più ricchi proprietari della Costa d’Avorio e uno dei più audaci
cacciatori, forse il più famoso di tutti.

La sua felicità ormai era completa e Alfredo, tanto ricco da non aver
più bisogno di affaticarsi nei suoi commerci, poteva dedicare le sue
giornate alla sua passione favorita in compagnia di Antao, che si
era deciso di passare parecchi mesi insieme all’ex agente di suo zio,
quando agli ultimi dell’aprile 1878, accaddero inaspettatamente gli
avvenimenti precedentemente narrati.

                             . . . . . . .

La ritirata dei dahomeni era stata così rapida, da far perdere ogni
speranza di poterli ormai raggiungere, essendo quasi tutti i negri
infaticabili camminatori, tali da poter superare i più lesti europei e
da gareggiare perfino coi cavalli.

Uccisi e decapitati i difensori, secondo il loro barbaro uso, rapito
il fanciullo, saccheggiata e poi incendiata la fattoria, si erano
affrettati a raggiungere i grandi boschi del settentrione, forse per
non farsi sorprendere dai guerrieri del re Tofa, sul cui territorio
avevano compiuta l’aggressione.

Non avevano lasciato indietro che due dozzine di cadaveri fra i
quali alcuni corpi di amazzoni, cadute sotto il piombo dei difensori
della fattoria; e delle ricchezze racchiuse nei magazzini non avevano
abbandonato che i barili d’olio d’elais, gran numero dei quali erano
però stati poi distrutti dal fuoco.

Alfredo, rimessosi dal fiero colpo, si era cacciato fra le fumanti
rovine del suo stabile, sperando di poter salvare qualcuno dei suoi
fedeli servi che avevano opposto una breve sì ma disperata resistenza,
ma non aveva trovato che i loro cadaveri decapitati e mezzo arsi dalle
fiamme. I suoi quattro servi che lo seguivano nelle caccie, il suo
intendente ed i suoi sei schiavi erano caduti tutti al loro posto,
difendendo il padroncino.

— Miserabili!... miserabili!... — ripeteva il povero siciliano, con
voce cupa. — Tutto distrutto, tutti uccisi e il mio Bruno rapito!...
Cosa accadrà del povero fanciullo, nelle mani di quei barbari?...
Ma cos’è che vuol fare di lui quell’infame Kalani?... Si è vendicato
finalmente quel tristo, ma lo ucciderò un giorno, dovessi andarlo a
cercare ad Abomey.

— Coraggio mio povero amico, — diceva Antao. — Lo libereremo un giorno
e puniremo quell’uomo che ti ha rovinato. Metto a tua disposizione il
mio braccio e le mie ricchezze.

   [Illustrazione: La negra vi fu coricata ed Alfredo e il servo
   si misero in cammino.... (Pag. 38).]

— Non è delle ricchezze che io ho bisogno, Antao, ma del tuo braccio.
Questa fattoria non rappresentava che la decima parte della mia fortuna
e non m’importa che l’abbiano distrutta, ma il mio fratellino....
Antao, io fremo pensando cosa possono fare di quel poverino, incapace a
difendersi.

— Udiamo, Alfredo, — disse il portoghese, sedendosi su di un barile e
costringendo l’amico ad imitarlo. — Sii calmo e ragioniamo per vedere
cosa ci convenga fare. I rapitori ormai sono lontani e non potremo
di certo raggiungerli, quindi è inutile per ora metterci sulle loro
tracce. Fors’anche hanno preso le loro misure per impedirci di seguirli
e non siamo in grado di cimentarci in un combattimento contro di loro,
specialmente in mezzo ai boschi.

— Lo so, Antao. Nulla potremmo ottenere inseguendoli.

— Consigliamoci adunque, ma dimmi innanzi a tutto a che cosa si deve
attribuire quest’assalto improvviso.

— Ad una vendetta di Kalani.

— Ma chi è questo dannato Kalani, che odo nominare per la centesima
volta?

— Due anni or sono era un servo ed ora è uno dei più potenti cabeceri
del Dahomey.

— Sta bene, è un furbo che in due soli anni ha fatto un bel salto, una
fortuna che sarebbe sorprendente in Europa ma non in Africa. Perchè ti
odiava?...

— L’avevo preso come servo, perchè era un negro scaltro, intelligente,
energico e credevo anche affezionato, quantunque più tardi fossi
stato informato che invece di essere un nativo del Gran Popo, era un
dahomeno. Essendomi accorto che mi rubava, minacciai di scacciarlo, ma
continuando, un giorno, acciecato dall’ira, lo feci frustare.

Una settimana dopo Kalani improvvisamente scompariva, dopo d’aver detto
ad uno dei miei servi che sarebbe ritornato per vendicarsi. Non ne feci
caso ed ebbi torto.

Quel furfante, ritornato nel Dahomey, si era accaparrata la fiducia di
alcuni capi, poi del re Geletè ed era stato creato, non so per quale
motivo, gran cabecero di Abomey, ossia gran capo e grande sacerdote dei
sacrifici umani e dei feticci.

Un giorno, un negro che veniva da Abomey, mi fece avvertire che Kalani
era sempre smanioso di vendicarsi; più tardi un altro mi consigliava
di tenermi in guardia, poichè il mio servo tentava d’indurre Geletè a
fare una spedizione contro Tofa per farmi schiavo, aggiungendo che era
spalleggiato dal principe Behanzin, il futuro re del Dahomey[2], ma non
credetti nè all’uno nè all’altro. Pur troppo era vero!... Lo hai veduto
ora, Antao.

— Ma cosa ne farà di tuo fratello, quel furfante?...

— Lo ignoro, ma sospetto a cosa mira Kalani.

— Spiegati.

— Non avendo potuto farmi assassinare o farmi prigioniero, ha preso il
mio piccolo Bruno ritenendosi certo che io sarei andato nel Dahomey per
liberarlo.

— Credi che non lo uccidano?... Sono così sanguinarii quei negri?...

— Non lo credo. Se avessi questo timore, non sarei rimasto qui ma mi
sarei subito lanciato sulle tracce dei rapitori e....

— E t’avrebbero ucciso, Alfredo.

— Lo so, ora lo vedo. Ma non abbandonerò mio fratello, Antao, te lo
giuro: io andrò ad Abomey.

— Ed io verrò con te.

— Grazie amico, — disse il cacciatore, stringendo vivamente la mano del
bravo portoghese. — Ti accetto, poichè so che sei un valoroso.

— Ma non possiamo recarci noi due fra quei negri feroci. Cosa conti di
fare?...

— Recarmi prima dal re Tofa. I dahomeni hanno violate le sue frontiere
e potrebbe prestarmi man forte per vendicarmi di Kalani.

— Vuoi un consiglio, Alfredo?

— Parla, Antao.

— Innanzi a tutto andiamo a ritrovare l’amazzone che abbiamo lasciata
nella foresta. Quella donna, che non mi è sembrata così cattiva come le
sue compatriote, può esserci molto utile.

— È vero!... — esclamò il cacciatore, battendosi vivamente la fronte. —
Ed io me l’era dimenticato!... Sì, Antao, andiamo a cercarla; può darci
delle preziose informazioni sui tristi progetti di Kalani.

— Andiamo, — disse il portoghese, alzandosi.

— Ma tu sei stanco, mio bravo amico. Non sei ancora abituato alle
lunghe marcie fra queste foreste così difficili ad attraversare.

— Morte di Saturno!... Le mie gambe mi porteranno egualmente, e
poi, lasciarti andare solo, mentre forse i dahomeni ti attendono per
cacciarti due palle nel petto?... Andiamo, Alfredo!... Guarda!... Le
mie gambe funzionano perfettamente. —

Il cacciatore, che sapeva quanto valeva quel bravo compagno, non
insistette oltre e si misero entrambi in marcia, preceduti dal negro
Asseybo, che aveva piena conoscenza delle vicine boscaglie e del fiume
che le attraversava.

L’alba era già spuntata ed il sole sorgeva fiammeggiante dietro le alte
cime delle foreste che si estendevano ad oriente dell’Ouzme.

Bande di pappagalli grigi cominciavano a schiamazzare sulle alte
cime dei mangani e degli aranci, salutando i primi raggi dell’astro
diurno, mentre fra i fitti cespugli, certe specie di usignoli ma dalle
splendide penne, facevano udire i loro gorgheggi armoniosi.

Delle truppe di scimmie si stiravano le membra indolenzite, emettendo
grida rauche e discordi, mentre altre, più mattiniere, avevano
già cominciati i loro saccheggi, spogliando con rapidità inaudita
i banani ed i datteri delle loro deliziose e zuccherine frutta, o
distruggendo le piccole piantagioni di _mussoa_ dal piccolo grano verde
ed eccellente o di ignami coltivate dai poveri negri della distrutta
fattoria.

Quei formidabili predoni, vero flagello delle terre africane, quasi
sapessero già che più nulla avevano da temere, non si preoccupavano
della presenza dei tre uomini, anzi pareva che li deridessero, facendo
loro boccacce e scagliando dietro di loro le frutta guaste.

Erano per lo più cercopitechi verdi, chiamati anche _abulandj_,
quadrumani alti circa mezzo metro, ma con una coda lunga sessanta e più
centimetri, dal pelame verde grigio inanellato di nero superiormente,
la coda azzurrognola, il muso bruno ma col naso nero ed il mento adorno
d’una vera barba bianca che dà loro un aspetto dei più comici e dei più
stravaganti.

Non mancavano però i cefo, altra specie di cercopitechi, assai numerosi
sulla Costa d’Avorio dove vengono chiamati _muindo_, alti quanto i
primi, ma col dorso olivastro a riflessi dorati, la faccia azzurra
colla barba gialla solcata di nero e la coda rossastra. Visti ad una
certa distanza sembravano vere maschere e salutavano i cacciatori
con abbaiamenti interminabili, alternati a certi strani suoni
paragonabili al rumore che produce una bottiglia quando viene stappata
violentemente. Quantunque il portoghese, pure appassionato cacciatore,
avesse un vivo desiderio di cacciare quei numerosi quadrumani che
sono tutt’altro che cattivi messi allo spiedo, continuava a seguire
i compagni i quali affrettavano il passo per mettersi al riparo dai
raggi cocenti del sole, che in quelle regioni producono sovente delle
insolazioni fulminanti.

Giunti sotto i grandi boschi, Alfredo si orientò colla bussola che
portava appesa alla catena dell’orologio e trovato il sentiero che
conduceva al fiume, vi si lanciò in mezzo, non essendo possibile un
passaggio attraverso i fitti vegetali che lo fiancheggiavano.

Procedeva però con prudenza, temendo che i negri che l’avevano assalito
presso le rive del fiume, non avessero ancora abbandonati quei boschi.
Di tratto in tratto s’arrestava per tendere gli orecchi o mandava
innanzi Asseybo a esplorare certi macchioni che si prestavano per un
agguato, oppure deviava quando trovava qualche altro passaggio.

Tutto però indicava che la grande foresta doveva essere deserta. Gli
uccelli cantavano tranquillamente e le scimmie si trastullavano sugli
alberi senza dare segni d’inquietudine e ciò indicava che nessuno li
aveva disturbati.

Alle 10 del mattino, dopo una breve sosta e un’ultima esplorazione
del negro, Alfredo ed il portoghese giungevano presso il gigantesco
sicomoro sotto il quale avevano trovato il cappello del povero Gamani,
il servo rapito dai dahomeni.

— Ci siamo, — disse Antao.

Alfredo accostò le mani alle labbra e lanciò un fischio prolungato.
Quasi subito, in mezzo al bosco, si udì una voce di donna gridare:

— Eccomi padrone!... —




CAPITOLO VI.

I tenebrosi disegni del cabecero di Geletè


La giovane guerriera, quantunque così malconciata dagli artigli e dalle
zanne del leopardo, aveva abbandonata la piccola radura che si trovava
a tre o quattrocento passi dalla prima e si era trascinata verso il
gigantesco sicomoro, nascondendosi in mezzo ad un fitto macchione che
sorgeva sul margine del bosco.

Udendo il fischio dell’uomo bianco che l’aveva salvata dalla morte,
si era affrettata ad abbandonare il nascondiglio ed a mostrarsi
all’aperto. Quello sforzo doveva però averle causato un acuto dolore,
poichè non potè frenare un lungo gemito.

— Non temere ragazza, — disse Antao, avvicinandosele. — Noi ti
guariremo, è vero Alfredo?

— Sì, — disse il cacciatore, — ma a condizione che parli. —

Poi parlando la lingua dei _uegbè_, disse all’amazzone:

— Noi siamo venuti per curarti.

— Grazie, padrone, — rispose la negra. — Sapevo che gli uomini bianchi
non sono usi a mentire e come vedi t’aspettavo, mentre avrei potuto
fuggire coi miei compatrioti.

— Coi tuoi compatrioti!... Sono tornati qui?...

— Sì, hanno perlustrata tutta la foresta, sperando forse di trovarti.

— E tu ti sei nascosta invece?...

— Sì, padrone.

— Perchè?...

— Perchè tu mi hai salvata la vita e sono tua schiava.

— E mi seguirai sempre?...

— Dove tu vorrai.

— E mi sarai fedele?...

— L’ho giurato sui miei _feticci_.

— Lo vedremo. —

Poi volgendosi verso il suo servo:

— Taglia dei rami e improvvisa una barella. Questa donna per ora non
può camminare. —

Quindi scoprì le ferite dell’amazzone che alla notte aveva medicate
alla meglio, le lavò accuratamente con dell’acqua fresca che scorreva
in un rigagnoletto vicino, le lavò dal sangue che vi si era coagulato
intorno, poi le bagnò con acqua mescolata a rhum e finalmente le
fasciò, sacrificando la seconda manica della propria camicia.

La giovane negra lo aveva lasciato fare senza emettere un lamento, anzi
sorridendo, quantunque dovesse soffrire assai e quand’ebbe finito, gli
disse:

— Grazie padrone; la mia vita, da te salvata, ormai t’appartiene. —

Asseybo aveva allora terminata la barella composta di rami legati con
liane e resa soffice da un alto strato di fresche foglie. La negra vi
fu coricata ed Alfredo ed il servo si misero in cammino, preceduti dal
portoghese, il quale era troppo stanco per caricarsi di quel peso.

— Camminando possiamo parlare, — disse il cacciatore. — Guadagneremo
tempo.

— Cosa vuoi sapere padrone? — chiese la negra, che lo guardava con due
occhi che rilucevano di gioia e di contentezza.

— Dimmi, innanzi a tutto: è potente Kalani?...

— Potentissimo, padrone. È l’anima dannata di Behanzin, il successore
di Geletè.

— È stato lui a organizzare la spedizione contro di me?...

— Sì e l’ha anche guidata.

— Lo sospettavo. Sai che ha rapito mio fratello e che mi ha distrutta
la fattoria?...

— Sapevo che doveva rapire un fanciullo se i suoi soldati non
riuscivano a prendere te.

— Ah!... Lo sapevi?... — esclamò Alfredo.

— Sì, perchè Kalani aveva detto che gli era necessario, quel fanciullo.

— Ma per cosa farne di quello sventurato?...

— So che aveva detto a Geletè che i _feticci_ esigevano un ragazzo
bianco per essere guardati, minacciando in caso contrario la
distruzione del regno e della dinastia.

— E non lo si ucciderà?... — chiese Alfredo, con angoscia.

— No, non crederlo, perchè un guardiano dei _feticci_ diventa una
persona sacra. —

Il cacciatore respirò liberamente, come gli si fosse levato dal petto
un peso enorme.

— Non lo uccideranno? — esclamò. — Tu sei certa?...

— Sì, padrone.

— Ma credi tu che quel ragazzo fosse proprio necessario ai
_feticci_?... O che invece quel miserabile Kalani abbia qualche
sinistro progetto?...

— Lo ha, — disse la negra. — Io conosco assai Kalani, so il motivo del
suo odio verso di te e non ignoro i suoi progetti.

— Parla, ti prego.

— Kalani aveva la certezza di non poterti sorprendere, sapendoti
un uomo capace di tenere testa a cento dei nostri uomini. Credo che
avesse anzi molta paura di trovarsi di fronte a te. Da due settimane
ti sorvegliava, ma non osava assalirti. Avendo appreso che tu dovevi
recarti alla caccia sull’Ouzme, approfittò per assalire la tua fattoria
e rapirti il fratello, affidando ad alcuni uomini coraggiosi l’incarico
di tenderti un agguato in mezzo ai boschi.

— Ma era me che odiava e non quel povero ragazzo. Perchè prendersela
con lui?...

— Per avere poi te.

— Cosa vuoi dire?...

— Kalani è astuto, padrone. Egli sa che non sei uomo da lasciare tuo
fratello nelle sue mani.

— E mi aspetta nel Dahomey?

— Sì, padrone.

— Ha indovinato. Sì, io andrò nel Dahomey a salvare il mio Bruno, ma
andrò anche per uccidere il rapitore.

— Bada, padrone, alla frontiera ti aspetteranno.

— Ma non mi vedranno.

— Cosa vuoi dire?

— Lo saprai più tardi. Prima bisogna che vada a vedere Tofa. —

Due ore dopo, avendo fatte alcune soste per riposarsi, giungevano ad un
gruppo di capanne abitate da una dozzina di negri fra uomini e donne, i
quali avevano già avuto frequenti rapporti colla fattoria d’Alfredo.

Avevano già saputo della disgrazia toccata all’uomo bianco, anzi
avevano udite le scariche degli assalitori ed avevano vedute le fiamme
dell’incendio, senza però ardire di accorrere in aiuto degli assaliti,
essendo quasi sprovvisti d’armi e temendo troppo i dahomeni.

Alfredo ed i suoi compagni furono accolti con franca e cordiale
ospitalità e tutti gli abitanti andarono a gara per essere loro di
qualche utilità, mettendo a disposizione le capanne ed i viveri.

Il cacciatore si limitò a far ricoverare la povera ragazza che soffriva
assai, raccomandandola alle cure delle donne, poi chiese tre di quei
piccoli ma rapidi cavalli che sono piuttosto comuni in quelle regioni
e che derivano da un incrocio di cavalli arabi e delle alte regioni del
Niger.

Rifocillatisi con una terrina di _fu-fu_, il piatto più in uso sulla
Costa d’Avorio, composto d’ignami, di banani, di legumi, di granchi, di
uccelli e di pesci conditi con molto pimento e ridotti in poltiglia e
rinvigoritisi con alcune tazze di eccellente vino di palma fermentato,
i due bianchi ed il negro Asseybo, che era tornato dalla fattoria
portando ai padroni, alcune vesti trovate in uno dei magazzini,
partirono al galoppo, non ostante il calore infernale che versava il
sole.

Antao, messo in buon umore da quel vino che produce una leggera
ebbrezza anche preso in quantità limitata, pareva che non sentisse più
la fatica e chiacchierava per due, cercando di tenere buona compagnia
ad Alfredo che era diventato triste e assai preoccupato.

Anche il negro cercava d’incoraggiare il padrone, assicurandolo che
nessun pericolo poteva correre il padroncino, essendo le persone
addette ai _feticci_ sacre per tutti, perfino all’onnipotente re. Nella
sua gioventù era stato schiavo ad Abomey e ne sapeva qualche cosa di
quel sanguinario ma molto superstizioso popolo.

Intanto i piccoli ma vivaci cavalli divoravano la via, mantenendo un
galoppo rapidissimo. Si erano cacciati in un largo sentiero aperto in
mezzo ai boschi, fatto tagliare da Alfredo per trasportare i prodotti
della sua fattoria a Kotona che è il porto della capitale del piccolo
reame di Tofa.

Superbi alberi si rizzavano a destra ed a sinistra, gli uni pieni
di uccelli, specialmente di piccoli pappagalli grigi e gli altri di
scimmie, le quali eseguivano i più sorprendenti esercizi, senza punto
spaventarsi del passaggio dei tre rapidi corsieri. Ora apparivano
enormi gruppi di splendide palme dalle gigantesche foglie disposte a
ventaglio; ora magnolie colossali coperte di grandi fiori dall’acuto
profumo, o noci di cocco dall’elegante fusto e già carichi di frutta
grosse come la testa d’un bambino; o dei gossipina, veri giganti, che
crescono con rapidità straordinaria, che diventano assai grossi e che
hanno il tronco coperto di gibbosità spinose, o macchioni di aranci
e di limoni che spandevano all’intorno, per parecchi chilometri di
circuito, dei profumi deliziosi.

Di tratto in tratto si scorgevano però delle radure di estensione
considerevole coltivate con grande cura e dove crescevano ignami,
manioca, fagiuoli di varie sorte, certe specie di pomidori assai
gustosi e di quelli steli di grano verde, delizioso, chiamato mussoa.

Quando la grande boscaglia si rompeva, permettendo agli sguardi di
spaziare più oltre, si vedevano gruppi di capanne difese per lo più da
palizzate acuminate o da altissime siepi, rinforzate da datteri spinosi
o da gossipine, ostacoli quasi insormontabili pei negri di quelle
regioni che vanno quasi nudi e che non hanno mai conosciuto l’uso delle
scarpe.

Verso il mezzodì le foreste cominciarono a diradarsi rapidamente per
dar luogo a delle pianure acquitrinose formate dall’Ouzme, esalanti
miasmi mortali per gli europei non abituati a quei climi caldi e umidi,
sede d’un numero infinito di serpenti i quali godono una tranquillità
perfetta, essendo rispettati da tutti gl’indigeni.

Sono però inoffensivi, sebbene siano generalmente lunghi tre metri e
si limitano a distruggere milioni di rospi e di rane, evitando anzi gli
uomini.

In mezzo a quelle pianure acquitrinose si vedevano anche dei campi
coltivati con cura, ma poche capanne, essendo il regno di Porto Novo
pochissimo abitato in proporzione alla sua vastità.

Un’ora più tardi i tre cavalli, che non avevano mai rallentato il loro
galoppo indiavolato benchè il sole segnasse oltre 35° centigradi e
non un alito di vento marino rinfrescasse quella temperatura ardente,
galoppavano sulla riva del lago di Porto Novo. Alfredo poco dopo
mostrava al portoghese un grosso attruppamento di capanne che si
trovava presso la riva di quel vasto bacino.

— Porto Novo, — disse.

— Questi indemoniati cavallucci hanno galoppato come dei veri cavalli
arabi, — rispose il compagno. — Speriamo di trovare il re di buon
umore.

— Se non sarà ubbriaco.

— È un bevitore?

— Come tutti i re negri.

— Ho con me una fiala d’ammoniaca per preservarmi dai morsi dei
serpenti e gliela farò bere tutta, — disse Antao, ridendo. — Gli dirò
che è un elisir lunga vita. Toh! Cos’è quella grande capanna che sorge
lassù, su quel piccolo poggio? Forse qualche villa reale?

— No, Antao, è un tempio ove si adorano i serpenti che vengono raccolti
negli acquitrini da noi prima costeggiati.

— Morte di Nettuno!... Avevo udito narrare queste cose, ma non vi avevo
mai prestato fede, Alfredo. Se non me lo avessi detto tu, direi che si
voleva darmi a bere una frottola colossale.

— In queste regioni si ha una grande venerazione per quei ributtanti
rettili, Antao. A Whydab, per esempio, vi è un grande tempio dove si
custodiscono parecchie migliaia di serpenti, per lo più pitoni a righe
bianche o gialle.

Un grosso numero di guardiani è incaricato di nutrirli e di curarli, e
quando qualcuno di quei rettili riesce a fuggire, i suoi provveditori
si affrettano ad inseguirlo ed a riportarlo nel tempio coi dovuti
riguardi.

— Si direbbero storie dell’altro mondo. E tu mi dici che si adorano?...

— Sì, Antao. Vi sono delle persone che dichiararono di essere
contentissime di venire divorate dai serpenti. Vuoi saperne di più?...
Una donna che io ho conosciuta, un giorno perdette il suo unico figlio
che le era stato divorato da un pitone. Ebbene, lo crederesti?...
Invece di uccidere l’ingordo rettile, lo fece prendere, trasportare nel
tempio di Whydab e lo adorò.

— Morte di Saturno! Che pazzìe!... E nel Dahomey si adorano pure i
serpenti? Mi hanno detto che quel re barbaro ne tiene delle migliaia.

— È vero, ma per dare da mangiare a loro i prigionieri.

— Un modo molto comodo per evitare le spese necessarie pel nutrimento
di quei disgraziati che cadono nelle mani di quell’antropofago.

— Lo sanno i tuoi compatrioti, Antao.

— Cosa vuoi dire?... — chiese il portoghese, stupito ed inquieto.

— È una storia recentissima poichè non risale che all’anno scorso.
Geletè aveva fatti prigionieri alcuni portoghesi e brasiliani, i quali
si erano recati nella sua capitale per cercare di avviare dei commerci
con quegli abitanti. Quel furfante finse dapprima di fare loro buona
accoglienza, ma un brutto giorno, dopo d’averli, con orribili minaccie,
costretti a ballare dinanzi a lui per divertirlo, alcuni li fece
decapitare ed altri gettare in pasto ai serpenti.[3]

— Ah!... Canaglia!... — esclamò Antao, indignato. — E non sono stati
capaci di strangolarlo?...

— Se lo avessero potuto l’avrebbero fatto, liberando in tal modo
l’Africa d’uno dei suoi più ributtanti e più sanguinari monarchi.

— Morte di Urano!... Se potessi vendicarli io, mentre tu ti vendichi di
Kalani.

— Ne succederebbe un altro e forse più feroce: Behanzin, che già
promette di essere peggiore di Geletè. Ci siamo: avanti Asseybo, aprici
la via. —

Il negro si spinse innanzi ed i tre cavalieri fecero la loro entrata
nella capitale del re Tofa.




CAPITOLO VII.

Il re di Porto Novo


Il regno di Porto Novo, sottoposto ora al protettorato della Francia,
anche in quell’epoca era uno dei più importanti e dei più ricchi della
Costa d’Avorio.

Situato fra il territorio di Abeokuta e le frontiere meridionali del
Dahomey, occupava una superficie immensa sebbene non definita verso il
nord, ma non aveva che una popolazione di mezzo milione di abitanti dei
quali oltre sessantamila raggruppati nella capitale.

Gli altri si trovavano dispersi nelle tre principali città di Ketenou,
Adjara e di Kotonu, il porto della capitale, lontano circa quindici
miglia da Porto Novo e in pochi grossi villaggi per poter meglio
difendersi contro le annuali scorrerie dei Dahomeni, intraprese contro
tutti i popoli vicini per fornirsi di schiavi da sgozzare nei sacrifici
umani.

Questo reame è molto antico e si è mantenuto indipendente, quantunque
rinserrato fra popolazioni bellicose, e quantunque i suoi abitanti
derivanti da un incrocio di Anago, di Yoruba e di Dahomeni, non siano
mai stati buoni guerrieri. Anzi si può dire che sono i più indolenti, i
più pigri di tutti quelli che popolano la Costa, come sono i più ladri
di tutti, vizio del resto innato nelle razze negre.

Da molti anni, numerose fattorie, specialmente portoghesi, inglesi,
francesi e tedesche sono state fondate nei centri popolosi, trafficando
soprattutto in olio d’elais, l’articolo più importante e più pregiato
della regione.

La città di Porto Novo, anche nel 1878 era una delle più importanti
di tutta la costa, ma era anche allora una delle più insalubri,
specialmente per gli europei.

Sebbene costruita a circa quindici metri sul livello della vicina
laguna, il suo clima è uno dei più micidiali, non permette un lungo
soggiorno agli uomini di razza bianca.

La città è un ammasso di capanne costruite con una specie d’argilla
rossastra che seccandosi acquista una consistenza incredibile, ma coi
tetti di foglie di palma. Le vie sono strette, luride, interrotte da
buche profonde, prendendosi l’argilla occorrente per le costruzioni,
appunto entro la cinta.

Di notevole non ha che i quartieri commerciali di Sadogo, di Attakè,
di Degue, di Lodja e di Bocu dove si trovano parecchie fattorie, la
missione cattolica e la casa del re.

I tre cavalieri, apertosi il passo fra una moltitudine di persone
d’un nero rossastro, quasi nude, non avendo che un misero e lurido
sottanino, infilarono la via che conduceva alla grande piazza del
mercato, in mezzo alla quale è costruita l’abitazione di Tofa.

Erano però costretti a procedere con prudenza per non cadere entro le
innumerevoli buche che tagliavano la via, tutte piene d’acqua corrotta
nella quale imputridivano carogne d’animali esalanti degli odori
sopportabili solamente pei nasi dei negri.

Un quarto d’ora dopo giungevano senza incidenti sulla grande piazza,
già ingombra di popolo, tenendosi colà il mercato e si arrestavano
dinanzi alla reggia.

Il palazzo del re non era che una modesta casetta bianca colle persiane
verdi, circondata da vaste capanne di paglia e di foglie di palmizio, e
da cortili grandissimi dove si custodivano i _feticci_ ossia gli idoli.

Solo di dietro s’innalzava una specie di palco assai alto, sostenuto da
pali adorni di piante arrampicanti e sul quale si trovavano allineati
una cinquantina di crani umani appartenenti ai nemici uccisi in guerra
dal re.

— Che esposizione! — esclamò Antao, facendo un gesto di ribrezzo. — Non
è di certo incoraggiante.

— Tofa non è più cattivo, — disse Alfredo. — Nel suo Stato ha abolito i
sacrifici umani.

— Non uccide più adunque?

— Sì, ma solamente i condannati a morte, ai quali fa tagliare prima la
lingua, onde non possano raccontare quale pena hanno subìto.

— Ed ai suoi _feticci_ non sacrifica più schiavi?

— No, si accontenta ora di pecore e di montoni. —

Lasciati i cavalli e le armi ad Asseybo, i due europei avvertirono le
sentinelle che vegliavano alla porta, armate di vecchi fucili a pietra,
di annunciare al re la loro visita.

Poco dopo un _larry_, specie di ministro della casa reale, li
introduceva nella sala chiamata pomposamente del trono, la quale altro
non era che una modesta stanza adorna di armi più o meno vecchie e di
pochi tappeti logori.

Il trono non mancava però ed era formato da quattro pali sostenenti
una specie di cupola sormontata da una corona reale di ottone e adorna
d’una grande placca di metallo ove stava inciso _king Tofa_ (re Tofa).

Al disotto di quella cupola, una semplice panca coperta d’un drappo
rosso sgualcito e rattoppato, serviva di sedile a S. M. negra.

Tofa vi si era già accomodato, mentre ai suoi fianchi si tenevano ritti
il _mingau_ o grande capo dei feticci, il primo _larry_ che disimpegna
l’ufficio di segretario ed il secondo _larry_ che è incaricato di
portare il bastone reale col pomo d’argento, segno di potere.

Tofa non aveva in quell’epoca che quaranta o quarantacinque anni. Era
un negro di statura alta, ancora robusto, coi tratti del viso piuttosto
regolari, con due occhi vivi ed intelligenti.

Discendente d’una dinastia di re molto potenti, ma tributari del
Dahomey, era stato il primo a rendersi indipendente e dopo d’aver
scacciati e fatti in parte decapitare i suoi vecchi consiglieri,
nemici acerrimi della razza bianca, aveva aperto il suo porto e la sua
capitale al commercio europeo.

Più intelligente degli altri e meno barbaro, aveva a poco a poco
accordata una certa libertà al suo popolo, ed aveva abolito, come
dicemmo, gli orribili sacrifici umani che distruggevano buona parte dei
suoi sudditi.

Abituato a ritenere gli uomini bianchi come di razza superiore,
vedendo entrare Alfredo, che in altre occasioni aveva già conosciuto,
s’affrettò ad alzarsi, lasciando ricadere la lunga veste di seta rossa
che lo copriva come un ampio mantello e gli porse la mano, dicendogli
cortesemente:

— Sono ben felice di rivederti dopo una così lunga assenza. Quale
motivo ti conduce a Porto Novo? Forse che ti occorre il permesso di
fondare qualche altra fattoria?

— No, — rispose Alfredo. — Un motivo ben più grave ha indotto me ed
il mio amico Antao Carvalho a visitare V. M. Sapete che le vostre
frontiere sono state violate?...

— No, ma è una cosa che succede così di frequente, da parte dei malvagi
popoli che circondano il mio regno, da non preoccuparmene più. So che
dopo d’aver fatta qualche razzìa di uomini e di animali si ritirano.

— Ma questa volta sono state le genti del Dahomey. —

Il re, nell’apprendere quella notizia, si fece più oscuro in viso e
manifestò una viva inquietudine.

— Forse che Geletè vuole muovermi guerra?... — chiese con una certa
trepidanza.

— Non a te, ma l’ha mossa a me. I suoi guerrieri hanno saccheggiata e
poi incendiata la mia fattoria.

— Ciò è grave. Si sono ritirati poi?...

— Sì, subito.

— Ecco una buona notizia, — disse S. M. negra, respirando liberamente.

— Per Voi, ma non per me, poichè ritirandosi mi hanno rapito il mio
giovane fratello.

— Mi rincresce per te.

— Ma non basta che vi rincresca, — disse Alfredo con voce acre. — Sono
venuto perchè V. M. mi aiuti a liberare mio fratello.

— Ed in qual modo?

— Mandando dei messi a Geletè, minacciandolo di rappresaglie in caso
di rifiuto. A V. M. spetta vegliare sugli stranieri che risiedono nel
vostro regno.

— Ma io non ho alcuna influenza su Geletè.

— Siete parenti, poichè entrambi discendete da principi d’Allada,
fondatori del regno di Dahomey.

— Geletè non mi ascolterebbe.

— Lo si minaccia.

— Sono un povero re incapace di far fronte al Dahomey, — disse Tofa,
sospirando.

— Adunque non posso contare sul vostro aiuto?... — disse Alfredo, la
cui collera cresceva dinanzi alla tranquilla indifferenza del re.

— Ohimè!... Nulla posso fare, fuorchè cercare d’indennizzarti del danno
sofferto.

— Non so cosa farne del vostro indennizzo. È mio fratello che voglio
salvare, mi comprendete?...

— Geletè è potente.

— E voi siete pauroso.

— Il mio palco è pieno di crani di nemici da me uccisi.

— Ma Geletè vi fa tremare.

— Sono un povero re, — piagnucolò Tofa.

— Ebbene, andrò io nel Dahomey!...

— E Geletè ti farà uccidere come i portoghesi.

— Concedetemi almeno una scorta.

— Nessuno dei miei soldati ti seguirebbe.

— Sì, a Porto Novo non vi sono che dei poltroni, — disse Alfredo con
amarezza. — Vieni Antao, abbiamo perduto del tempo inutilmente. —

Il re vedendo che il cacciatore stava per lasciarlo senza degnarsi di
rivolgerli più la parola, forse toccato dal dolore e dalla collera di
lui, si era prontamente alzato, dicendo:

— Ma aspetta adunque. Il Dahomey non fugge.

— Cosa volete dire? — chiese Alfredo, che era già giunto presso la
porta.

— Udiamo: cosa vuoi fare nel Dahomey?

— Eh per mille folgori!... Ve l’ho già detto che voglio salvare mio
fratello.

— Conosci la via che conduce ad Abomey?

— No, ma la troverò.

— Odimi: dandoti dei soldati, il secondo o terzo giorno ti
abbandonerebbero, di ciò sono certo, ma ora mi sono ricordato di avere
fra i miei schiavi due uomini del Dahomey che potrebbero servirti di
guida.

— Ecco che cominciate a interessarvi di me. Sono fidati questi uomini?

— Mi sono affezionati ed hanno da molti anni rinnegata la loro patria.

— Dove sono?

— A Ketenou, ma domani saranno qui.

— Aspetterò che vengano.

— Intanto ti offro ospitalità in una delle mie capanne.

— Accetto volentieri e saprò ricompensare V. M.

— Ci rivedremo domani. —

Strinse la mano ad Alfredo ed al portoghese e si ritirò con tutto il
seguito.

Poco dopo però un _larry_ entrava e conduceva i due bianchi in una
vasta capanna situata in uno degli spaziosi cortili del palazzo
reale, mettendo a loro disposizione due giovani schiavi incaricati di
servirli.

Quell’abitazione era, come tutte le altre di Porto Novo, di forma
circolare, colle pareti d’argilla rossastra ed il tetto di foglie
di palma, di forma acuminata e un po’ sollevato, in modo da lasciar
entrare la luce.

Era però pulitissima, ma arredata molto meschinamente, non essendovi
che poche stuoie di foglie intrecciate che dovevano servire da letti,
qualche sgabello e pochi utensili di terra cotta.

Il _larry_, per ordine del re, aveva fatto portare dei viveri, dei
vasi di vino di palma ed un certo numero di deliziose noci di cocco
non ancora mature, le quali contengono un’acqua dolce, assai gradevole,
specialmente in quei climi caldissimi.

Antao, a cui le emozioni della notte non avevano diminuito l’appetito
dei suoi venticinque anni, appena il _larry_ fu uscito, si credette
in dovere di dare uno sguardo ai canestri che racchiudevano i viveri,
tanto più che non aveva piena fiducia nei cuochi e nei provveditori di
S. M. negra.

   [Illustrazione: Nel volgersi per appendere la carabina
   all’arcione, Alfredo vide due negri.... (Pag. 51).]

Infatti Tofa non aveva tenuto conto della qualità di bianchi dei
suoi ospiti, e li aveva provvisti di un pranzo copioso bensì, ma
assolutamente indigeno.

Vi era un pezzo di proboscide d’elefante cucinato al forno, carne che
si vende di sovente sui mercati delle città della Costa d’Avorio,
essendo nell’interno assai numerosi quegli enormi pachidermi; una
coscia di scimmia arrostita nel burro; delle lumache grigie assai
grosse, cucinate in una salsa orribilmente piccante, cibo assai
ricercato e molto apprezzato presso quei popoli, specialmente dai
vicini Ascianti, nella cui capitale Cumassia se ne consumano per
cinquecento chilogrammi al giorno; poi vi erano parecchie dozzine di
atrapas, pallottole di farina di granturco avvolte in foglie e cucinate
al forno e finalmente vi erano parecchie terrine ricolme di canalu,
orribile pasticcio formato di volatili conditi con olio di palma e
molto pimento, esalante un odore sgradevole di materie rancide.

— Ma questo è un pasto d’antropofaghi! — esclamò il portoghese,
arretrando dinanzi alle esalazioni pestifere del _canalu_. — Quel
furfante di re ci ha presi per due mendicanti.

— T’inganni, Antao, — disse Alfredo, sorridendo. — Tofa ci ha mandato
quanto di meglio produce il paese e lui, alla sua tavola reale, non
si fa servire di più! Lascia andare il _canalu_ che non è adatto pei
nostri stomachi e le lumache in salsa che sarebbero però squisite, se
non fossero state condite con una manata di pimento che ti brucierebbe
la gola per una settimana e anche la coscia di scimmia, buonissima ma
che rassomiglia troppo ad un membro umano e attacca il resto. Questo
pezzo d’elefante lo troverai più saporito della coscia di bue o della
gobba dei bisonti e le _atrapas_ surrogheranno benissimo il pane.

— Il pranzo si riduce a modeste proporzioni, ma lo inaffieremo con una
zucca di vino di palma. È un liquido che apprezzo quanto il succo del
vecchio Noè.

— Accomodiamoci ed intanto faremo i nostri progetti.

— Per andarcene nei paesi di quell’antropofago di Geletè?

— Sì, Antao. Ormai sono deciso e pronto a tutto.

— Purchè il re ci mandi le guide.

— Tofa è uomo di parola e poi abbiamo l’amazzone.

— Vuoi condurla con noi?...

— Certo, Antao. Quella ragazza, che ormai sembra affezionata a noi, può
renderci dei preziosi servigi nel suo paese.

— Non ci tradirà?...

— Ha giurato sui suoi _feticci_ e questo giuramento non si rompe in
questi paesi. Non credere del resto, che i soldati del Dahomey siano
affezionati al loro sanguinario monarca. La paura li tiene soggetti,
perchè sanno che basterebbe un sospetto per distruggere dei reggimenti
interi, ma appena possono disertare lo fanno.

Le due repubbliche del Grande e del Piccolo Popo sono state formate in
gran parte da dahomeni fuggiaschi.

— Prenderemo una scorta armata con noi?...

— No, Antao. Sarebbe pericoloso inoltrarsi in parecchi sui territorio
di Geletè. Bisogna evitare qualunque sospetto, giuocare d’astuzia,
fingerci negri o nessuno di noi potrebbe giungere ad Abomey.

— Fingerci negri!... — esclamò il portoghese, stupito. — La nostra
pelle è troppo bianca, Alfredo, per poterli ingannare.

— Forse che non vi sono dei colori?... —

Il portoghese scoppiò in una clamorosa risata.

— Morte di Nettuno!... Dipingermi da negro!...

— Ti ripugna?...

— No, in fede mia, Alfredo. Rido pensando la brutta figura che noi
faremo, imbrattati di nerofumo o di cioccolatto.

— Saremo invece due negri magnifici.

— Ma semi-nudi!...

— Tutt’altro. Saremo vestiti e superbamente, te lo prometto.

— Ma i negri di questi paesi sono quasi nudi, Alfredo.

— È vero ma noi non saremo poveri diavoli di negri.

— Ma che progetto hai?

— Lo saprai a suo tempo. La prudenza mi consiglia di mantenere per ora
la più grande segretezza, poichè un solo sospetto può perderci.

Geletè mantiene qui non poche spie e forse siamo già sorvegliati, ma
sapremo ingannarle. A te e ad Asseybo dò intanto un incarico.

— E quale?

— Di spargere la voce in città che noi andiamo nel paese degli Ascianti.

— Non ti comprendo.

— Mi comprenderai più tardi. T’incarico poi di acquistare una mezza
dozzina di cavalli, delle buone armi, dei viveri e delle casse di merci
di provenienza europea. È necessario che si creda che noi andiamo
a trafficare con quei popoli al di là del Todji e del Volta. Hai
danari?...

— Ho una tratta di tremila sterline da scontare presso la fattoria
inglese del signor Smithson.

— Ed io ho un forte deposito presso la fattoria del tuo compatriota
Souza.

— Devo mettermi all’opera subito? — chiese Antao, dopo di aver
tracannato un ultimo bicchiere di vino di palma.

— È meglio guadagnar tempo. —

S’alzarono e uscirono nel cortile, dove trovarono Asseybo che stava
vuotando una terrina di _canalu_, accoccolato presso i cavalli che
erano già pronti.

Salirono in arcione e passando attraverso uno squarcio della siepe che
circondava l’ampio cortile, s’inoltrarono nella piazza del mercato.

Nel volgersi per appendere la carabina all’arcione, Alfredo vide due
negri che si tenevano semi-celati fra i cespugli della siepe e che lo
guardavano con particolare attenzione.

— Lo dicevo io, — diss’egli, volgendosi verso Antao. — La nostra
presenza in Porto Novo è stata già notata dalle spie di Geletè o di
Kalani e siamo sorvegliati.

— Di già?...

— Sì, Antao, ma saremo più furbi di quelle spie. Separiamoci e questa
sera ci ritroveremo alla capanna concessaci da Tofa. —

Si strinsero la mano e si separarono.

Alfredo lasciò che il compagno ed Asseybo si allontanassero verso il
quartiere di Sadogo, poi ripassò dinanzi alla dimora reale, lanciando
un rapido sguardo verso la siepe.

S’accorse subito che una delle spie era scomparsa.

— Va dietro Antao, — mormorò, — e questo seguirà me, ma vi assicuro che
vi faremo correre. Vedremo se ci seguirete fino alle frontiere degli
Ascianti. —

Risalì il quartiere di Deguè, poi quello d’Odja e di Bocu mantenendo il
cavallo al passo, si recò alla fattoria di Souza a ritirare una somma
ingente, poi assoldati due schiavi visitò parecchie fattorie europee
facendo degli acquisti, quindi verso sera fece ritorno alla capanna con
quattro casse contenenti gli oggetti comperati.

Antao e Asseybo vi erano di già e stavano accomodando un numero
ragguardevole di pacchi, di cassette e di barilotti contenenti viveri,
armi, munizioni e oggetti di scambio ricercati dalle popolazioni
negre dell’interno, mentre gli schiavi concessi a loro dal re stavano
abbeverando mezza dozzina di ottimi cavalli che erano stati radunati
nel cortile e che dovevano servire alla spedizione.

— Hai sparso la voce che noi andiamo nel paese degli Ascianti? — chiese
Alfredo.

— Credo che lo sappiano perfino i ragazzi, — rispose Antao, ridendo.

— Benissimo. Ora possiamo cenare e riposarci. —




CAPITOLO VIII.

La carovana


L’indomani, allo spuntare dell’alba, Alfredo dava il comando della
partenza, dopo d’aver lasciato un ricco regalo a Tofa per compensarlo
dell’ospitalità e delle sue premure.

La carovana si componeva dei due bianchi, del loro servo, dei due
dahomeni che erano giunti nella notte da Katenau e di sei cavalli
carichi di casse e di pacchi ma tutti di piccola dimensione, onde
non imbarazzare gli animali nelle marce attraverso le folte foreste
dell’interno.

I due dahomeni, ai quali era stato affidato l’incarico di occuparsi dei
cavalli recanti il bagaglio della spedizione, erano due negri di alta
statura, dall’aspetto intelligente, d’una robustezza a tutta prova, due
uomini insomma che dovevano rendere dei preziosi servigi nelle selvagge
regioni del loro paese.

Avevano accettato di buon grado di assumersi la pericolosa missione di
condurre i due bianchi nel Dahomey e si erano mostrati soddisfattissimi
delle promesse fatte dai loro nuovi padroni; di renderli cioè più tardi
liberi, con un buon gruzzolo di denaro e delle armi.

Prima che il sole s’alzasse dietro i grandi boschi dell’oriente, la
carovana si trovava già lontana da Porto Novo, diretta al piccolo
gruppo di capanne dove era stata lasciata l’amazzone, essendo
intenzione di Alfredo di condurre con sè anche la giovane negra, sulla
cui affezione sapeva ormai di poter contare completamente.

Nessuna spia pareva che li avesse seguiti, non avendo scorto alcun
negro nè lontano, nè vicino, sul sentiero che percorrevano. Il capo
però non si illudeva e conoscendo la prudenza e l’agilità di quei
selvaggi figli dei boschi, era più che certo di essere stato seguito,
quantunque nulla indicasse che in realtà lo si tenesse d’occhio.

— Temi sempre? — chiese ad un tratto Antao, vedendo l’amico volgersi di
frequente indietro.

— Sì, — rispose Alfredo.

— Pure non si vede nessuno.

— Sul sentiero è vero, ma nei boschi?... Se noi li frugassimo
troveremmo di certo qualcuno di quegli spioni. I negri sono caparbii e
poi i dahomeni hanno troppa paura di Geletè, ma noi li stancheremo.

— Andiamo verso la frontiera degli Ascianti?...

— Sì, Antao, ed entreremo nel Dahomey attraversando la regione dei
Krepi o dei Togo. La frontiera del sud deve essere guardata dagli
uomini di Kalani.

— Saremo costretti a fare un viaggio lungo.

— Quando avremo attraversato le lagune del Piccolo e del Grande Popo
viaggieremo rapidamente. Per ora non dobbiamo mostrare d’aver fretta,
per non destare sospetti nelle spie che ci seguono, ma quando avremo
la certezza di averle stancate o rassicurate sulla nostra direzione,
lancieremo i cavalli al galoppo dall’alba al tramonto. Toh!... Hai
udito?...

— Un fischio in mezzo al bosco?...

— Sì, Antao. È un richiamo dei negri che ci seguono.

— È vero padrone, — confermò Asseybo. — Solamente quelli del Dahomey
sanno fischiare in tale modo.

— Come manderei volentieri una palla nel cranio di quegli spioni. È
noioso viaggiare sapendosi seguiti da persone che possono giuocarci
delle brutte sorprese.

— Oh!... Delle sorprese ce ne prepareranno, ma sapremo evitarle. Non
oseranno però assalirci direttamente, credi a me. Hanno troppa paura
dei fucili degli uomini bianchi. Orsù, al galoppo e cerchiamo di
mantenerli lontani finchè andiamo a prendere l’amazzone. —

I piccoli ma vivaci cavalli, eccitati dai cavalieri e dai due schiavi
partirono al galoppo, sfilando in mezzo alle folte foreste che si
estendevano ai due lati del sentiero.

Tre quarti d’ora dopo la carovana giungeva al piccolo villaggio che
ospitava la povera negra. Questa nel vedere ricomparire Alfredo ed
il portoghese manifestò la più sincera contentezza e apprendendo
che la conducevano con loro, si dichiarò pronta a mettersi in sella,
quantunque le sue dolorose ferite non avessero ancora cominciato a
cicatrizzarsi.

Alfredo si guardò bene però dall’accettare quell’offerta, che poteva
costare la vita alla coraggiosa ragazza.

Fece acquisto di nuovi cavalli, fece improvvisare una comoda barella
stendendovi sopra un materassino acquistato a Porto Novo, la fece
legare ai due animali posti l’uno dietro l’altro, e dopo d’aver
disinfettate e fasciate nuovamente le ferite, fece adagiare la negra.
Per colmo di precauzione la fece riparare da un’arcata di grandi foglie
di banano per preservarla dai colpi di sole, i quali, come già fu
detto, sono pericolosissimi in quelle regioni.

A mezzodì, dopo una modesta refezione, la carovana abbandonava
l’ospitale villaggio, e attraversato a guado l’Ouzme, scendeva
verso le umide e malsane regioni della costa, per girare le sponde
settentrionali della grande laguna di Nokue e raggiungere quindi le
rive del canale costiere che si prolunga fino al lago di Togo.

Il caldo era intenso, ma le foreste erano fitte e proteggevano la
carovana dai raggi solari. Regnava però sotto quei grandi alberi, di
cui alcuni avevano delle proporzioni smisurate, un’aria da serra calda
che faceva zampillare il sudore da tutti i pori, quantunque i due
bianchi si fossero sbarazzati di buona parte delle loro vesti.

Pure che potenza di vegetazione fra quella temperatura ardente!...
Dappertutto si slanciavano in alto tronchi d’ogni dimensione e d’ogni
tinta, che confondevano poi i loro rami e le loro foglie smisurate a
cinquanta, a sessanta e perfino a cento piedi dal suolo.

Miriadi di liane, formanti splendidi festoni e di piante arrampicanti
adorne di grappoli di fiori esalanti penetranti profumi, li
avvolgevano, salendo fino alle più alte cime, per poi ridiscendere e
quindi risalire di nuovo.

Di sotto a quelle piante colossali, altre ne erano spuntate occupando
tutti i più piccoli tratti di terreno, confondendo i loro rami od i
loro tronchi. Meno vivificate dall’aria e dal sole, si erano mantenute
tuttavia ad altezze più modeste, formando una selva inferiore, la
quale intercettava completamente i pochi raggi che potevano penetrare
attraverso la prima vôlta di verzura.

Strani rumori echeggiavano in mezzo a quegli oscuri recessi della
doppia foresta, dovuti per lo più alle numerose tribù di scimmie che
l’abitavano. Di tratto in tratto era uno scoppio di formidabili urla
che risuonavano come degli _hu-u!_... lanciati dalle scimmie _mangabe_,
le quali posseggono tali polmoni da fare udire i loro concerti a
parecchi chilometri di distanza; od uno scoppio di ruggiti paurosi che
si sarebbero potuti scambiare per quelli emessi da una banda di leoni
in furore, e che invece erano lanciati dai cinocefali, bruttissimi e
pericolosissimi quadrumani; oppure erano urla lamentevoli, tristi, o
grida acute, o latrati, o strida prolungate dovute ai colobo orsini,
od ai satanassi, od ai cefi, scimmie molto comuni nelle folte foreste
della Costa d’Avorio.

La carovana però non s’inquietava di tutti quei concerti scordati e
proseguiva la sua marcia sfilando in mezzo a sentieri strettissimi
aperti fra boschi e che Asseybo conosceva, essendosi più volte già
recato nelle piccole repubbliche del Grande e del Piccolo Popo.

La regione che attraversava era deserta, essendo la Costa d’Avorio
poco popolata in proporzione alla sua immensa estensione ed anche
perchè i popoli si sono tutti addensati in prossimità del mare, per
tenersi lontani dalle irruzioni che i dahomeni fanno annualmente per
provvedersi di prigionieri da trucidare nelle feste del sangue.

Qualche piccolo gruppo di capanne talora appariva, ma nascosto nel
più folto della grande foresta e lontano dal sentiero. Quelle piccole
abitazioni di paglia o di foglie erano per lo più situate in prossimità
dei macchioni delle palme d’elais o dei banani o dei cocchi, piante che
somministrano il necessario per vivere a quei frugali abitanti.

Verso le 4 la carovana, che aveva marciato costantemente, giungeva
in mezzo ad una vera foresta di bellissimi alberi che portavano dei
grappoli di frutta della forma d’un cetriolo.

— Ecco qui una foresta che farebbe la fortuna d’una tribù di negri, —
disse Alfredo, che cavalcava a fianco di Antao.

— Cosa sono queste piante?... — chiese il portoghese.

— Noci di calla o meglio _bassè_, come qui si chiamano.

— Ho udito parlare delle proprietà sorprendenti di quelle frutta, ma
non so cosa siano.

— Sono noci molto pregiate infatti e che sono oggetto d’un grande
commercio in queste regioni. Quelle capsule legnose contengono dieci o
dodici frutta di color rosso e grosse come le nostre castagne le quali,
dopo raccolte, si mettono in ceste ripiene di foglie per conservarle
fresche a lungo.

— Ma che proprietà hanno?

— Della coca del Perù, poichè masticandole conservano meravigliosamente
le forze agli uomini che intraprendono dei lunghi e faticosi viaggi.
Ci sono dei negri che con poche di quelle frutta vivono dieci e perfino
quindici giorni, senza indebolirsi per la mancanza d’altri cibi.

— Sono eccellenti?

— Sono d’un sapore amaro ma non sgradevole. So che anche in Europa si
cominciano ad adoperare per fare delle infusioni che chiamano liquori
di noce di kalla invece di galla o di calla come chiamansi qui.

— E quei bellissimi arbusti, d’aspetto grazioso che sorgono laggiù,
cosa sono?...

— Platanieri, delle altre piante che sono molto pregiate qui.
Somministrano delle frutta buonissime e sostanziose e dalla corteccia
abbruciata i negri ricavano una potassa che serve a fare del sapone
pregiato.

Anche le foglie sono adoperate per conservare le provvigioni, avendo
la proprietà di tenere lontani i topi i quali sono così numerosi nei
villaggi dei negri.

— E troveremo anche dei _baobab_?... Sono impaziente di vedere quei
colossi delle foreste.

— Ne vedrai delle centinaia, Antao. Qui sono abbastanza comuni. —

In quell’istante un grido strano, che terminava in un fischio acuto e
che si poteva tradurre per un _uiff_ prolungato, echeggiò nel più folto
della foresta, due o trecento passi più innanzi.

I cavalli, colpiti da un improvviso terrore, si erano subito arrestati,
mandando dei sordi nitriti e serrandosi gli uni addosso agli altri.

— Cosa c’è? — chiese Antao, senza però manifestare alcuna apprensione.

— C’è, — rispose Alfredo che aveva staccata rapidamente la carabina
sospesa agli arcioni, — che abbiamo un vicino pericoloso, mio caro.

— Delle scimmie?...

— Peggio, Antao: un rinoceronte.

— Morte di Nettuno!... Si dice che simili animali sono formidabili.

— Preferirei trovarmi dinanzi ad una coppia di leoni che ad uno di quei
massicci ed invulnerabili animalacci. Hanno una pelle così grossa, da
sfidare le palle delle migliori carabine.

— Pure non possiamo arrestarci qui.

— Andremo innanzi a dispetto di quel disturbatore, Antao. Asseybo!...

— Padrone, cosa desideri? — chiese il servo che era disceso da cavallo
e che si era inoltrato nella foresta, per cercare di scoprire il
pericoloso animale.

— Lo vedi?...

— No padrone e credo che siamo stati corbellati.

— Cosa vuoi dire?

— Che quel grido non era d’un rinoceronte.

— Morte di Giove!... — esclamò Antao. — Questa è strana!...

— Spiegati, Asseybo, — disse Alfredo.

— Dico che qualcuno ha voluto imitare il grido del rinoceronte.

— Ma a quale scopo?...

— Forse per spaventarci. Se l’animale ci fosse, a quest’ora avrebbe
caricata la nostra carovana.

— Credo che tu abbia ragione, — disse il cacciatore, che era diventato
pensieroso. — Tu hai cacciato più volte i rinoceronti e sei in grado di
conoscere meglio di me il loro grido.

— Sì e ti dico che quell’_uiff_ è stato imitato molto bene.

— Che sia stato qualche segnale? — chiese Antao.

— È possibile, — rispose Alfredo. — La conclusione è questa: noi siamo
seguiti.

— Da chi?...

— Dalle spie di Kalani.

— Morte di Urano!... Ancora?... Sono come le mignatte quelle canaglie.

— Bah!... Si stancheranno. Andiamo innanzi e teniamo pronte le
armi. —

La carovana riprese le mosse, quantunque il sole scendesse rapidamente
e l’oscurità cominciasse ad addensarsi sotto le foreste.

Non era prudente accamparsi in piena selva con delle spie alle
calcagna e forse dei feroci animali vicini e Asseybo voleva condurre
il padrone in un luogo scoperto, in una radura. I cavalli si erano
tranquillizzati, tanto più che quel grido non si era più ripetuto ed
avanzavano rapidamente, come se fossero impazienti di lasciare quei
folti macchioni che potevano celare delle insidie.

Già i carnivori cominciavano a lasciare i loro covi per cominciare
le loro caccie notturne e si facevano udire, facendo tremare i
poveri animali. Di tratto in tratto, nelle macchie più fitte, dove
la luce morente dell’astro diurno più non penetrava, si udivano dei
sibili lamentevoli lanciati forse dai grossi serpenti pitoni, od i
sordi miagolii dei servai o gatti delle selve, grandi distruttori di
selvaggina; o le rauche urla dei sanguinari leopardi o le stridule
e beffarde risa delle iene macchiate o brune o le urla lamentevoli,
tristi, paurose, dei lupi striati, animali che si avvicinano molto agli
sciacalli, ma che hanno anche molto del lupo.

Crescendo l’oscurità, Alfredo raddoppiava le sue precauzioni, avendo
da temere gli uomini e le fiere. Asseybo si era messo alla testa della
carovana, Antao si era collocato presso la lettiga dell’amazzone per
essere pronto a difenderla ed il cacciatore si era messo alla coda coi
due dahomeni i quali erano stati armati di ottimi fucili, avendo detto
di sapere adoperare le armi da fuoco.

Alle otto, quando nell’aria cominciavano a svolazzare quei brutti
cinonitteri delle palme o cani notturni, la carovana lasciava i
macchioni e giungeva in mezzo ad una vasta radura dove s’innalzava un
gruppo di colossali sicomori.

— Possiamo accamparci con piena sicurezza, — disse Alfredo. — Se
qualcuno cercherà d’avvicinarsi, potremo facilmente scorgerlo.

I cavalli furono radunati attorno ai sicomori, le casse scaricate e
disposte all’ingiro onde nel caso d’un attacco servissero da barricata
e le tende rizzate, mentre i due dahomeni accendevano due falò per
tenere lontane le fiere e per allestire la cena.




CAPITOLO IX.

L’assalto notturno dei leoni


Alfredo, da uomo prudente e che conosce la vita dei boschi, dopo d’aver
cenato e di aver visitate le ferite dell’amazzone le quali ormai si
cicatrizzavano rapidamente, fece legare i cavalli attorno ad un palo
infisso profondamente nel suolo per impedire che si sbandassero e che
cadessero sotto i denti delle iene, poi in compagnia d’Antao battè le
alte erbe della radura per un vasto tratto, volendo essere certo che
non si nascondessero animali pericolosi.

Rassicurato da quelle precauzioni indispensabili per coloro che
s’accampano in mezzo alle selvagge foreste dell’Africa che sono
pullulanti di fiere, fece radunare una catasta di legna secca per
mantenere i fuochi accesi, poi stabilì i quarti di guardia. Asseybo
ed un dahomeno furono incaricati della prima veglia che doveva durare
fino alla mezzanotte, Alfredo ed Antao s’incaricarono della seconda che
doveva prolungarsi fino alle tre del mattino ed il secondo dahomeno
dell’ultima, la più breve e la meno pericolosa, usando le fiere
rintanarsi ai primi albori.

Asseybo ed il suo compagno, fatto il giro del gigantesco gruppo
dei sicomori e ravvivati i fuochi, si sedettero alle due estremità
del campo col fucile fra le ginocchia, aprendo per bene gli occhi e
tendendo accuratamente gli orecchi.

Un silenzio assoluto regnava sotto la grande e tenebrosa foresta, i
cui alberi pareva che formassero una massa impenetrabile. Solamente
di quando in quando un soffio d’aria che spirava dalla costa, faceva
stormire lievemente le grandi foglie piumate dei palmizi, dei cocchi
e dei datteri spinosi, producendo un sussurrìo strano che si perdeva
rapidamente in lontananza.

Quel silenzio non doveva però durare molto. Dietro le alte cime
della foresta cominciava a diffondersi nel cielo una luce pallida,
annunciante l’imminente comparsa dell’astro notturno e le fiere
non dovevano tardare a lasciare i loro covi per cominciare le loro
sanguinose stragi.

Ad un tratto uno scoppio di risa sgangherate, risuona fra l’oscura
massa degli alberi. È un riso stridulo, che ha qualche cosa di beffardo
e di atroce e che somiglia a quello d’un negro in delirio. Lo ha
lanciato la iena striata, la più codarda ma la più avida e la più
lurida delle fiere.

Quello scroscio non è ancora cessato, che da un’altra parte della
foresta s’alza un concerto di urla lugubri, lamentevoli, monotone.
Sembra che sotto la cupa ombra di quei giganteschi vegetali, due
dozzine di persone vengano spietatamente martirizzate.

Quel gridìo assordante cessa per pochi istanti; poi un urlo più
prolungato echeggia solo e tosto vi fanno coro gli altri, più acuti,
più strazianti. Sono gli sciacalli che si chiamano e che si radunano
per recarsi a cacciare le inoffensive antilopi.

Poi s’odono dei sibili acuti, dei latrati ora sommessi ed ora
strepitosi, delle urla, altri scrosci di risa, quindi uno scricchiolìo
di rami, uno spostarsi di fronde, un susurrìo di foglie secche
precipitosamente calpestate. La tenebrosa foresta pochi istanti prima
così tranquilla, così silenziosa, pare che ora siasi ridestata.

D’improvviso un ruggito potente, assordante come un colpo di tuono,
che pare faccia tremare perfino le foglie degli alberi e le erbe della
radura, scoppia.

Quella voce formidabile che fa rimbombare la foresta e che annuncia,
in colui che l’ha emessa, una forza strapotente, ottiene un effetto
immediato. Tutte le altre urla cessano di botto e più nessun rumore
turba il silenzio della notte.

Il re delle foreste si è fatto udire e tutte le altre fiere, grandi o
piccole, audaci o codarde, si sono affrettate a lasciare il campo al
terribile predatore.

Asseybo ed il dahomeno, che fino allora non si erano mossi, non
ignorando che nè le iene, nè gli sciacalli, nè i lupi striati, nè i
servai avrebbero osato assalirli, udendo quel ruggito che annunciava
la presenza d’un leone, s’erano alzati, gettando degli sguardi inquieti
verso gli alberi.

— Cattivo vicino, — disse il dahomeno, avvicinandosi ad Asseybo.

— Preferirei una banda di iene macchiate, — rispose il servo. —
Fortunatamente i fuochi sono accesi e il predatore non oserà assalirci,
per ora. —

Un altro ruggito, più potente e più prolungato del primo, rintronò da
un’altra parte della foresta, a cui subito rispose il primo.

— Sono due, — disse il dahomeno, la cui voce tremava. — La cosa è grave.

— È vero, — rispose Asseybo, che del pari non era tranquillo. — Vi è un
leone ed una leonessa e sono certo di non ingannarmi.

— Che sia il caso di svegliare il padrone?...

— Aspettiamo ancora. Forse non si sono accorti della nostra presenza.

— Non tarderanno a scoprirci. Hanno un odorato troppo acuto.

— Silenzio ed aspettiamo. —

I due ruggiti erano echeggiati ad un chilometro dall’accampamento,
ma un chilometro è un passo per quelle fiere che hanno uno slancio
poderoso. In pochi istanti potevano mostrarsi sul margine della
foresta.

Passarono pochi minuti, poi i due ruggiti si fecero nuovamente udire
più potenti, più formidabili ed anche più vicini.

Ormai non vi era più da dubitare: le due fiere s’avvicinavano
rapidamente, forse attratte dai due falò che fiammeggiavano sotto i
folti rami dei sicomori.

Asseybo ed il dahomeno avevano armate le due carabine e si erano
riparati dietro alle casse, per mettersi al coperto da un repentino
assalto, quando udirono la voce del padrone.

Alfredo, svegliato bruscamente da quei ruggiti, era strisciato fuori
della tenda, seguìto da Antao.

— Dei leoni? — aveva chiesto.

— Sì, padrone, — rispose Asseybo.

— Che il diavolo se li porti, — disse Antao. — Potevano lasciarmi
dormire tranquillo.

— Si vedono? — chiese Alfredo.

— No padrone, ma non devono essere lontani.

— Che i dahomeni s’incarichino di tener fermi i cavalli e noi penseremo
a quei predatori. —

Fece stringere il cerchio formato dalle casse, vi si misero dietro
tutti e tre ed attesero, con calma, la comparsa dei re delle selve.

I cavalli, già svegliati da quei ruggiti, avevano cominciato a dare
segni di viva inquietitudine. Scalpitavano, nitrivano e cercavano di
spezzare i legami per fuggire dalla parte opposta, non obbedendo più
alla voce ed alle carezze dei due dahomeni.

Anche la giovane negra si era accorta della vicinanza delle formidabili
fiere ed aveva cercato d’alzarsi, ma vedendo i due bianchi in armi,
si era tranquillizzata conoscendo per esperienza il loro coraggio e la
loro valentìa.

I ruggiti erano ricominciati destando tutti gli echi della foresta e
venivano da due parti opposte. Pareva che il maschio e la femmina si
fossero accordati per assalire il campo in due diverse direzioni.

— A me il leone che rugge alla mia destra, — disse Alfredo, con voce
tranquilla. — A te la leonessa, ma non far fuoco se non quando sei
sicuro dei tuoi colpi.

— Costringerò i miei nervi a stare tranquilli, — rispose Antao. —
Che strana impressione mi fanno questi due animali!... Si direbbe che
quando ruggono mi fanno tremare il cuore.

— Sii calmo, Antao. Con simili fiere si giuoca la vita.

— Lo sarò, poichè non ho proprio nessuna voglia di finire nel ventre
della leonessa.

— Scherzi?... Buon segno, amico mio. L’uomo che ride dinanzi alla morte
non ha paura.

— Paura non ne ho, te lo giuro, ma sono i nervi che pare abbiano una
voglia folle di battere una marcia indiavolata.

— Taci!...

— Morte di Nettuno!... che vocione!... M’ha rintronato gli orecchi!...

— Eccoli!... —

Dopo un ruggito più formidabile dei primi, una massa oscura si era
slanciata, con un salto immenso, fuori da un macchione di fitti
cespugli ed erasi fermata nella radura, esponendosi ai pallidi raggi
della luna.

Era un superbo leone dal corpo robusto, dalla testa grossa, dalla
lunga criniera oscura e dal pelame fulvo, uno di quegli animali che
posseggono una tale forza da balzare sopra una siepe portandosi in
bocca una giovenca.

S’arrestò un istante, cogli sguardi fissi sui fuochi che ardevano
sotto la fosca ombra dei sicomori e sferzandosi i fianchi colla lunga
coda terminante in un fiocco, poi lanciò il suo formidabile ruggito di
combattimento che parve una sfida gittata ai cacciatori.

Quasi subito la leonessa, che non doveva trovarsi lontana, fece a
sua volta la comparsa, spiccando una volata di parecchi metri ed
arrestandosi a quindici o venti passi dal maschio.

— Morte di Giove e di Saturno!... — esclamò Antao. — Sono belli da
vedersi, ma fanno tremare le gambe.

— Una carabina di ricambio, — disse Alfredo ai dahomeni, senza
volgersi. — Aspetta, Antao. —

Alzò lentamente la carabina mirando con grande attenzione ed
approfittando dell’immobilità del leone, fece fuoco a sessanta metri di
distanza.

La nuvola di fumo non si era ancora dissipata, che si vide il leone
spiccare un salto in aria, poi precipitarsi verso l’accampamento con
impeto irresistibile.

Asseybo ed Antao si erano prontamente voltati puntando le armi, senza
curarsi della leonessa che si preparava ad assalirli, ma il cacciatore,
con un rapido colpo d’occhio, aveva tutto veduto.

— No, fermi!... — urlò. — Badate alla leonessa!... —

Aveva afferrata rapidamente la carabina di ricambio che gli porgeva uno
dei dahomeni e l’aveva puntata.

Il leone, che doveva essere stato ferito, ma non gravemente, forse
s’accorse del pericolo che correva, poichè invece di scagliarsi contro
le casse, dietro le quali si teneva riparato il cacciatore, col suo
ultimo slancio cercò di piombare addosso ai cavalli che si dibattevano
furiosamente per fuggire.

Aveva però trovato un nemico degno di lui. Alfredo, senza staccare
l’arma dalla spalla, aveva fatto mezzo giro, facendo fuoco a soli sei
passi.

La palla, meglio diretta della prima, andò a fracassare la spina
dorsale del predatore, il quale, arrestato quasi di volo, andò a cadere
in mezzo ad uno dei falò.

Con pochi colpi di zampe disperse i tizzoni spegnendoli, ma la morte
lo colse e si distese in mezzo alla brace, arrosolandosi le carni e
spandendo all’intorno un nauseante odore di bruciaticcio.

La femmina intanto, resa furiosa per la morte del compagno, si era
scagliata contro Antao ed Asseybo.

Sfuggì alla palla del secondo e andò ad urtare le casse con tale furia,
da rovesciarle le une addosso alle altre. Già stava per gettarsi contro
i due uomini che erano rimasti senza difesa, ma Antao in quel supremo
istante aveva saputo imporre un momento di calma ai suoi nervi.

Vedendo la fiera cadere a due soli passi, le aveva scaricata contro la
carabina, mentre uno dei dahomeni la percuoteva poderosamente con un
grosso tizzone ardente, coprendola di scintille.

Ferita forse gravemente e spaventata da quella pioggia di fuoco, fece
un rapido voltafaccia, attraversò la radura a gran balzi e scomparve
nella foresta salutata da altri due colpi di fucile, ma i proiettili
non parve giungessero a destinazione.

— Morte di Giove!... — esclamò Antao. — Un momento di esitazione e
la mia zucca sarebbe a quest’ora fra le mascelle di quell’indemoniata
bestia.

— E faccio i miei elogi al tuo sangue freddo, — disse Alfredo, che
aveva tremato per l’amico. — Un cacciatore di professione avrebbe
mancato al colpo o si sarebbe dato alla fuga.

— Ci tenevo alla mia pelle, — rispose Antao, sorridendo. — Per
bacco!... Che salti e che attacco!... E dove sarà fuggita la
leonessa?... Le ho scaricata la carabina nella bocca, ma credo di
averle solamente fracassata una mascella.

— Sarà tornata al suo covo.

— Che non ci assalga più?...

— Non oserà ritornare.

— Se nella sua ritirata incontrasse almeno le spie e si rifacesse coi
polpacci di quelle!...

— Si saranno messe in salvo sugli alberi fino dai primi ruggiti.

— Ma il tuo leone si cuoce, Alfredo. Mi rincresce perdere la sua pelle.

— Ormai è rovinata. Lascia che si cucini e riprendiamo il sonno.

— Sarà un po’ difficile riaddormentarsi. Ho ancora i nervi
scombussolati.

— Si calmeranno, Antao. Orsù, cacciati sotto la tenda. —

I due bianchi, certi ormai di non venire più disturbati, riguadagnarono
i loro giacigli di fresche erbe, mentre Asseybo ed il dahomeno
rizzavano nuovamente le casse e riaccendevano il falò spento dal leone.

Il rimanente della notte passò tranquillo. Solamente verso le due del
mattino alcune iene osarono avvicinarsi furtivamente al campo, attirate
dall’odore che aveva sparso il leone nell’arrostirsi l’addome sui
tizzoni, ma bastò un colpo di fucile per costringerle a riguadagnare la
foresta.

   [Illustrazione: ... si vide il leone spiccare un salto in
   aria, poi precipitarsi.... (Pag. 63).]

All’indomani, un’ora dopo il sorger del sole, la carovana si rimetteva
in cammino, impaziente di lasciare quelle pericolose foreste e di
giungere nelle bassure erbose.

Alle 8 del mattino, dopo avere attraversato a guado un grosso corso
d’acqua che serve di scarico al lago Tschibe che trovasi nel cuore del
Dahomey, giungeva sulle sponde occidentali della grande laguna di Nokue
chiamata anche Dennana e proseguiva verso il sud per raggiungere il
canale costiero che passa fra Whydah e la borgatella di Avrekete.

Cominciavano di già i terreni paludosi, quei terreni saturi d’acqua
marina corrotta dai paletuvieri, da avanzi di vegetali d’ogni specie e
che esalano quei miasmi carichi di febbre, così fatali agli europei che
soggiornano per qualche tempo in quelle regioni.

Non si scorgevano che radi gruppi di alberi, per lo più di cocchi,
piante che non possono crescere lontane dall’aria marina, ma
invece giganteggiavano le canne e le erbe palustri le quali talora
raggiungevano altezze incredibili, tali da coprire interamente cavalli
e cavalieri.

Il terreno cedeva facilmente sotto i piedi della carovana, ma Alfredo
contava di attraversare rapidamente quella regione pericolosa per
sottrarre il portoghese, non ancora acclimatizzato, alle perniciose
influenze di quei miasmi. Non voleva fare che una semplice punta nei
paesi del Piccolo e del Grande Popo per meglio ingannare le spie che
lo seguivano, e quindi risalire le frontiere orientali degli Ascianti
e riguadagnare i grandi boschi dell’interno, più pericolosi pei loro
abitanti a quattro zampe, ma più salubri.

Alla sera si accampavano sulle sponde del canale, in uno spazio
scoperto da ogni erba palustre per non venir sorpresi dalle spie e
per non subire l’assalto dei numerosi serpenti che pullulano in quegli
umidi terreni.

La notte però fu tormentosa. Malgrado i fuochi accesi attorno al campo
con erbe fresche per produrre nuvoloni di fumo, veri battaglioni di
moscherini sanguinarii e spietati invasero le tende, gettandosi con
rabbia inaudita sulle carni dei poveri accampati.

Sono incredibili le torture che fanno soffrire quei piccoli insetti.
Le nostre zanzare, in loro paragone, sono nulla. Vi sono moscherini
che vi succhiano il sangue fino che scoppiano e che pare vi strappino
la pelle pezzetto a pezzetto; delle mosche quasi invisibili che dalle
dieci del mattino alle tre pomeridiane non si lasciano vedere, ma
che poi vi piombano addosso a sciami, producendovi delle punture
dolorosissime; altre, chiamate _ibolai_, che hanno dei pungiglioni
così acuti da passarvi i calzoni e che pare vi forino la pelle con
ago infuocato, ma che però non vi fanno soffrire che pochi istanti;
ma ve ne sono poi altre ancora che vi succhiano il sangue e che poi
lasciano nell’invisibile ferita chissà quale veleno, che vi fa soffrire
ventiquattro ore senza tregua.

Antao, non abituato a tutti quei morsi, battagliò inutilmente tutta la
notte contro quei nemici quasi invisibili, borbottando come un ossesso
e solamente verso l’alba potè gustare un po’ di sonno, dopo però di
essersi unto il viso e le mani con olio d’elais per calmare i dolori.

Il giorno seguente la carovana, che si teneva sulla sponda interna del
canale, passava al largo di Godomè e poco dopo di Whydah una delle più
importanti città della Costa d’Oro, tenuta da un cabecero del re di
Dahomey e verso il mezzodì, dopo una rapidissima marcia, attraversato
l’importante corso d’acqua che chiamasi Mono e che pare abbia le
sue sorgenti nelle lontane regioni del Borgu il quale trovasi a
settentrione del paese dei Krepi, varcava le frontiere della repubblica
dei Popos.




CAPITOLO X.

La repubblica dei Popos


La repubblica dei Popos, formata dal Grande e Piccolo Popo è uno
staterello che occupa una porzione della Costa d’Avorio compresa
fra Whydah all’est e la regione dei Togo all’ovest, lungo il canale
costiero che unisce le due lagune di Nokue e di Togo.

Questa repubblichetta, sfuggita miracolosamente ai potenti vicini, è di
formazione quasi recente, poichè non conta che sessanta o settant’anni
di esistenza. Verso il 1815, alcuni minalotos d’Elmina, stanchi della
crudele tirannia di alcuni capi della Costa d’Oro, emigrarono verso
la foce del Mono, fondando successivamente le cittadelle di Grande e
Piccolo Popo, di Sabbe, di Aguè, di Abananquen e d’Abanakwe spingendosi
fino a Porto Seguro e sulle rive della laguna dei Togo, aiutati da
non pochi dahomeni che avevano abbandonato il loro paese natìo per
sottrarsi alle infamie di quei re sanguinarii.

Ben presto lo staterello prosperò, altri negri accorsero per godere
la libertà che non potevano avere nei loro paesi ed oggi si può citare
come uno dei più civili della Costa, quantunque quel minuscolo popolo
molto abbia conservato dei suoi antichi costumi e usi, e si può anche
considerare come il più industrioso, trafficando largamente cogli
europei che vi hanno fondato, nei centri più popolosi, parecchie
fattorie.

La carovana fece la sua entrata nel territorio della repubblica senza
subire alcuna molestia, cosa assai rara in Africa, essendo abituati
i capi a far pagare dei diritti di passaggio sulle terre da loro
dipendenti e quasi sempre disastrosi per le carovane, le quali sono
costrette a lasciare nelle mani di quegli insaziabili tirannelli buona
parte dei loro carichi.

Alfredo però si tenne lontano dalle cittadelle non avendo
nessun interesse a visitarle e si limitò a costeggiare le sponde
settentrionali del canale, per giungere più rapidamente nel Togo.

Il paese non era più disabitato come prima. Si vedeva che la libertà
concessa agli abitanti del piccolo stato e la sicurezza che godevano,
avevano dato buoni resultati.

Popolosi villaggi apparivano sulle sponde del canale e sui terreni
meno paludosi; campi coltivati con grande cura e ubertose praterie
dove pascolavano dei grossi bestiami si vedevano dovunque, mentre sulle
acque scorrevano numerosi canotti montati da negri rumorosi e carichi
di derrate d’ogni specie, diretti verso le cittadelle della Costa od al
Piccolo Popo che dista circa venticinque miglia da Porto Seguro.

— Pare d’essere in un’altra regione ben lontana dalla Costa d’Avorio, —
disse Antao che guardava, meravigliato, quel movimento e quell’attività
insolita nei paesi popolati dai negri.

— È la libertà che godono questi abitanti, che ha dato così buoni
risultati anche in questi paesi esposti all’atmosfera snervante
dell’equatore.

— Ma anche la sicurezza.

— È vero, Antao. Ormai questa piccola repubblica più nulla ha da temere
dalle invasioni dei suoi potenti vicini.

— È sotto la protezione delle potenze europee?...

— Sì, Antao, o meglio sotto la protezione degli antichi forti qui
costruiti dagl’Inglesi, dai Danesi e dai Portoghesi per la soppressione
della tratta degli schiavi.

— Mi hanno detto che una volta queste coste erano assiduamente visitate
dai vascelli negrieri.

— Si calcola che si esportassero centomila negri all’anno, destinati
alle piantagioni americane. Quando però gli Olandesi eressero il
forte d’Elmina, i Portoghesi quello di S. Jago, gli Inglesi quello
di Cape Coast Castle e d’Aura ed i Danesi quelli di Christianburg e
di Friendsburg, la tratta a poco a poco cessò ed ora più nessuna nave
negriera osa comparire su queste spiagge. Alle foci del Vecchio Calabar
però, so che si esportano ancora negri per l’Oriente.

— Bisognerebbe cannoneggiare quei furfanti, ma.... cosa fanno quegli
uomini che s’affannano sulle rive del canale?

— Vedi quegli alberi che sorgono in mezzo a quel campicello tenuto con
grande cura?...

— Quelle palme?...

— Sì, ed infatti sono palme, ma palme che dànno l’olio di elais, le più
pregiate e le più coltivate su tutta la Costa.

— Desidererei vedere quegli alberi famosi, se ne parla ormai tanto.

— Vieni, così ti farò vedere come si ottiene l’olio. —

Lasciarono la carovana che continuava la sua marcia sulla via aperta
fra i terreni paludosi e spronati i cavalli, si spinsero verso la
piantagione di palme, la quale occupava uno spazio ristretto d’una
terra nerastra e molto grassa, a quanto sembrava.

Quelle piante, che formano la ricchezza principale dei reami e delle
repubblichette della Costa d’Avorio, avevano l’aspetto grazioso e
pittoresco delle palme, con grandi foglie piumate e una altezza di
dieci a dodici metri.

Dal tronco pendevano degli enormi grappoli, pesanti almeno dodici
o quindici chilogrammi, cogli acini grossi come noci, alcuni rossi
ed altri, che erano completamente maturi, di colore nerastro, ma a
riflessi rossastri.

— Ecco le palme d’elais, — disse Alfredo, — quelle palme che producono
quell’olio così ricercato dai profumieri europei per la fabbricazione
dei saponi di lusso, ma che qui viene adoperato in luogo del burro.

Come vedi, queste piante non hanno bisogno di grandi cure; basta levare
attorno ai tronchi le erbe cattive. Si adattano a qualunque terreno,
anche a quelli sabbiosi o argillosi e perchè il raccolto sia abbondante
non occorre che dell’acqua e qui ne cade perfino troppa durante la
stagione delle pioggie.

— Producono una sola volta all’anno?

— No, Antao, due. La prima raccolta, che è piuttosto scarsa, la si fa
in novembre e la seconda dal febbraio a giugno ed è la più abbondante.

— E come sono quelle frutta?...

— Sono composte d’una polpa fibrosa, assai grassa e densa, la quale
racchiude un nocciolo contenente una mandorla, che però è piuttosto
difficile a staccare.

— Ma l’olio da dove si ricava?...

— Quello detto di palma si ottiene colla polpa del frutto. Dapprima si
stacca dalla mandorla, la si comprime e la si macera entro una tinozza
e se ne cava una specie di polpa di pomodoro, di odore tutt’altro che
gradevole, ma che pure viene mangiata avidamente da tutti i negri, anzi
si può dire che costituisce il principale nutrimento di questi popoli.

I noccioli invece si lasciano seccare due o tre mesi, poi si levano le
mandorle che sono nere e che hanno il gusto della saponaria e servono
per fabbricare certi saponi, ma in Europa si adoperano per ricavare un
olio finissimo, molto ricercato dai profumieri.

Dalle scorze e dalla polpa si ricava anche, facendole bollire, una
specie di burro verdastro, abbastanza gradevole, il quale contiene
trentuna parte di stearina e sessantanove d’olio di oliva.

— È quello che si esporta in Europa?

— Sì e l’esportazione rimonta al 1817, cioè da quando un inglese
cominciò ad adoperarlo, con grande successo, nella fabbricazione
dei saponi profumati. Oggi se ne manda tanto in Europa che la sola
Inghilterra ne acquista per duecento milioni di lire.

— Morte di Giove!... Che alberi preziosi!...

— Oh!... Ma non credere che i prodotti di questi alberi si limitino
all’olio ed al burro. Colle scorze secche e colla polpa gl’indigeni si
fabbricano certe specie di canne che servono per accendere rapidamente
il fuoco e le adoperano pure per procurarsi un eccellente sapone
nero; colle foglie si coprono le case ed intrecciandole si fabbricano
delle ottime stuoie ed incidendo la cima del tronco dell’albero, si
procurano giornalmente un litro di quel liquore biancastro che fermenta
rapidamente, che è un buon rinfrescante e che tu hai bevuto con molto
piacere.

— Il vino di palma?...

— Sì, Antao.

— E quei negri che lavorano sulla sponda del canale stanno preparando
l’olio.

— Le frutta sono mature ed è giunto il momento di raccoglierle.
Raggiungiamo la carovana o la notte ci sorprenderà lontani dai nostri
uomini. —

Spronate le loro cavalcature, un quarto d’ora dopo raggiungevano
Asseybo il quale marciava alla testa, dinanzi alle mule che portavano
la lettiga dell’amazzone.

Essendo il sole tramontato e non essendo prudente continuare la marcia
fra quei terreni paludosi che potevano celare delle sabbie mobili,
la carovana s’accampò a breve distanza dal canale, in un luogo che
sembrava deserto.

I soliti fuochi furono accesi per cercare di tener lontane le feroci
zanzare, poi essendo tutti stanchi s’affrettarono a ritirarsi sotto le
tende, mentre Asseybo montava il primo quarto di guardia, ma avevano
appena gustata qualche ora di sonno che furono svegliati da un concerto
assordante, da un baccano tale da svegliare anche un ubbriaco.

Erano urla acute, poi ululati che salivano al cielo, poi latrati
rauchi. Tacevano un istante, poi ricominciavano con maggior vigore,
come se presso al campo si fossero radunate dieci dozzine d’animali
dotati di polmoni di grande potenza.

— Morte di Giove e di Saturno!... — esclamò il portoghese svegliato
di soprassalto. — Chi sono queste canaglie che si permettono di farci
simili serenate?... Il diavolo se li porti tutti nel canale!...

— Sono sciacalli, — rispose Alfredo, che si era pure svegliato.

— Pretenderebbero di assalirci?...

— Non oseranno tanto.

— Ma devono essere almeno cento.

— Fossero anche di più, non avrebbero tanto coraggio d’aggredire il
nostro campo. Io credo invece che vi sia qualche carogna presso il
canale e che se la disputino.

— Che se la mangino, ma che lascino tranquille le persone che hanno
sonno. Ieri sera le zanzare ed ora gli sciacalli! Dannato paese!...

— Turati gli orecchi e cerca di riaddormentarti. Bisogna abituarsi a
tutto. —

Antao cercò di mettere in pratica il consiglio del cacciatore, ma senza
riuscirvi, perchè tutta la notte quel diabolico concerto durò, senza un
minuto d’intervallo.

Gli uomini di guardia tentarono a più riprese di spaventare quegli
animali sparando parecchi colpi di carabina, ma senza buon esito.
Pareva che nelle vicinanze del canale esistesse qualche carnaio.

Antao, furioso per non aver potuto chiudere gli occhi un solo istante,
appena cominciò ad albeggiare svegliò l’amico, per andare a cacciare
quegli importuni.

Armatisi delle carabine e chiamato Asseybo che stava facendo l’ultimo
quarto di guardia, si diressero verso il canale che distava sei o
settecento passi dal campo.

All’incerta luce che biancheggiava verso oriente, la quale però si
tingeva rapidamente di riflessi rossastri, scorsero presso le sponde
del canale delle bizzarre costruzioni, disposte su di una lunga fila e
che pareva si prolungasse indefinitamente.

Sembravano tettoie quadrangolari o meglio ancora dei palchi sorretti
da quattro pali e sopra i quali si scorgevano confusamente delle masse
informi, dalle quali pendevano degli stracci biancastri che il vento
mattutino agitava disordinatamente.

Sotto quelle costruzioni si vedevano numerose bande di animali
rassomiglianti ai lupi, lunghi dai sessantacinque agli ottanta
centimetri, alti circa mezzo metro, col corpo robusto, le gambe alte,
il muso da lupo, gli orecchi corti, la coda lunga e villosa ed il
pelame giallo grigiastro a riflessi fulvi.

Tenevano i musi volti verso quegli strani palchi, e ululavano o
urlavano con una costanza incredibile.

— Sono curioso, — esclamò Antao, — di vedere a chi fanno quella
diabolica serenata quei dannati sciacalli.

— Credo d’indovinarlo, — disse Alfredo. — Asseybo, siamo ancora nel
Gran Popo o siamo passati sul territorio del Piccolo Popo?...

— Nel Piccolo, padrone, — rispose il negro.

— Allora so di che si tratta, — disse Alfredo, ridendo.

— Spero che me lo dirai.

— Sì, Antao. Gli sciacalli hanno fatto una serenata ai morti.

— Mille pescicani!... Ai morti?...

— Sì, Antao. Quelle masse nere che vedi coricate su quelle piattaforme,
sono negri morti.

— Ti credo poichè comincio a sentire un certo odore che mi rivolta lo
stomaco. Faremo bene a ritornare al campo.

— Aspetta un po’ che si alzi il sole. Dovrai abituarti a questi odori,
perchè incontreremo molte tombe, essendo numerosi, nel Piccolo Popo, i
negri che muoiono senza aver potuto pagare i loro debiti.

— Cosa vuoi dire? — chiese il portoghese, stupito. — Cosa c’entrano i
debiti dei negri con queste tombe?...

— C’entrano per qualche cosa, poichè i negri esposti in tale modo agli
insulti delle intemperie ed al becco degli uccelli, sono quei poveri
diavoli che non hanno potuto pagare i loro debiti.

Quando un negro muore in questa piccola repubblica, i parenti, prima
di dare onorevole sepoltura al defunto, devono assicurarsi se ha pagato
tutti i suoi creditori.

Se era in regola, si fanno feste in onore del morto, poi la salma viene
sotterrata nella capanna abitata dalla sua famiglia ad una profondità
di circa ottanta centimetri.

— Che piacere per la famiglia!...

— E che miasmi si sviluppano durante i grandi calori! Se invece il
defunto non ha lasciato tanto da saldare i suoi debiti ed i suoi
parenti si trovano nell’impossibilità di raggranellare la somma
necessaria, niente danze, niente fracasso coi _tam-tam_ o coi
_cachere_,[4] niente fiumi di acquavite. Si fa il meno rumore che sia
possibile, si vanno a piantare quattro pali sulle rive del canale,
si uniscono con una piattaforma alta dal suolo un metro e ottanta
centimetri, si avvolge il cadavere in due o tre pezzi di stoffa, ve lo
si colloca sopra col capo un po’ rialzato ed avvolto in una pezzuola
bianca pendente ai lati.

Ciò fatto tutti si allontanano, lasciando la misera spoglia esposta ai
soli brucianti, alle pioggie, ai venti, agli uccelli, alle mosche ed
alle formiche.

— Bel modo di costringere i debitori a pagare i creditori, — disse
Antao. — È un sistema che bisognerebbe adottare dappertutto. Ma, dimmi,
non si toccano più i morti?

— Le leggi del paese proibiscono severamente che vengano levati ed il
fanatismo e la superstizione dànno a quel divieto un carattere sacro.

— Sarà un’onta per la famiglia del defunto.

— Un’onta ed un grande dolore, perchè questi negri credono che i
debitori siano condannati, alla loro uscita da questo mondo, a rimanere
eternamente alle porte dell’altra vita senza mai potervi entrare.

— Un bello spauracchio in fede mia! Ora che ne so abbastanza alziamo
i talloni e lasciamo che quei morti profumino gli sciacalli. Ne ho
abbastanza di questi odori nauseabondi.

— Quest’oggi attraverseremo anche il Piccolo Popo e questa sera ci
accamperemo sulle rive del Sio. Colà non incontreremo altri morti.

— Desidero le grandi foreste, Alfredo.

— Le ritroveremo fra un paio di giorni.

— E spero che caccieremo della grossa selvaggina.

— Anche degli elefanti, Antao.

— E dei rinoceronti?...

— Anche quelli.

— Ripartiamo presto. Il clima della Costa d’Avorio non mi conferisce
troppo e sospiro il momento di ritrovarmi fra il profumo selvaggio
delle grandi foreste. Ma.... toh!... Hai veduto, Alfredo?

— Che cosa?...

— Un uomo sorgere fra le erbe del canale e poi subito a scomparire?...

— Sarà un negro che prende un bagno.

— È sparito troppo presto per crederlo un onesto nuotatore.

— Sarà una delle spie.

— Morte di Urano!... Che ci seguono ancora?...

— Lo sospetto.

— Ciò comincia a diventare seccante. Se ci seguissero anche nel paese
dei Togo?...

— Ce ne sbarazzeremo, — disse Alfredo, battendo sulla canna della
carabina, ma con un gesto minaccioso. — Nei grandi boschi le
ritroveremo presto. —




CAPITOLO XI.

Il «mpungu»


Quando giunsero al campo, i due dahomeni avevano già caricati i cavalli
e si trovavano pronti a partire, mentre l’amazzone, la cui guarigione
era prossima, si era ricoricata nella sua lettiga, su di un fresco
strato di foglie.

Alfredo diede il segnale della partenza e tutti si misero in marcia,
tenendosi però lontani dalle rive del canale per sfuggire ai nauseanti
odori che tramandavano i poveri debitori.

Ve n’era un buon numero di quei disgraziati, poichè numerosi palchi
si vedevano delinearsi verso l’ovest seguendo i capricciosi contorni
delle sponde. Alcune di quelle costruzioni erano state erette anche
in vicinanza della via percorsa dalla carovana ed allora Antao poteva
vedere, non senza un brivido d’orrore, i crani dei negri biancheggianti
fra gli stracci che coprivano bene o male i corpi.

Grandi bande d’avoltoi volteggiavano senza posa sopra quei funebri
palchi e di quando in quando si vedevano calare impetuosamente sopra
quegli scheletri disseccati dal sole e già ripuliti dalle formiche,
cercando avidamente l’ultimo brano di pelle.

Ben presto però la carovana abbandonò i tristi paraggi del Piccolo
Popo, inoltrandosi nella regione dei Togo,[5] vasto paese che si trova
racchiuso fra le frontiere del Dahomey all’est, quelle dell’Ascianti
e del possedimento inglese della Costa d’Oro all’ovest e le terre dei
Krepi a settentrione.

Evitata la capitale dei Togo, onde non perdere tempo, la carovana
costeggiò il lago omonimo che è formato dai due fiumi Haho e Sio, poi
si spinse un po’ verso settentrione accampando nei pressi di Dalawe,
piccola borgata abitata da alcune centinaia di negri.

Il giorno seguente, dopo d’aver attraversato il Sio, uno dei più
considerevoli corsi d’acqua che solcano le regioni della Costa
d’Avorio, Alfredo, credendo ormai di aver ingannate abbastanza le spie
di Kalani sulla sua vera direzione, risalì verso il nord per guadagnare
le grandi foreste del centro, ma obliquando leggiermente verso l’ovest,
come se volesse puntare su Kewe-Ga che è uno degli ultimi villaggi di
frontiera della regione dei Krepi.

Voleva spingersi fino al 7° di latitudine settentrionale per poi
piegare definitivamente verso oriente e rientrare nel Dahomey,
attraversando l’alto corso del Mono, a meno di trenta o quaranta miglia
dalla capitale di Geletè.

Colà era almeno sicuro di varcare le frontiere, senza venire arrestato
dalle genti di Kalani.

Verso il tramonto di quello stesso giorno, la carovana accampava
in mezzo ai grandi boschi, in una regione affatto selvaggia, fra
giganteschi sicomori, bombax, palmizi, platanieri, banani, goyavi,
cedri ed aranci di grandi dimensioni.

Le scimmie, così numerose in quelle regioni, ricominciavano ad
apparire. Primeggiavano sopratutto le scimmie polto, quadrumani che
hanno la testa quasi rotonda ma col muso un po’ sporgente, mani e piedi
grandi, unghie robuste e ricurve, la coda corta ed il pelame lanoso,
grigio rossastro.

Quantunque non siano più alte di trentacinque o quaranta centimetri,
posseggono dei polmoni d’acciaio, poichè lanciano delle grida veramente
spaventose.

Queste scimmie hanno un modo curioso per dormire. Invece di
rannicchiarsi entro qualche cavo o sulle biforcazioni degli alberi,
si aggrappano ai rami coi piedi e colle mani e nascosto il capo sotto
l’una o l’altra ascella, rimangono in tal modo sospesi tutta la notte.

Erano anche numerosissimi i machi orsini, scimmie non più alte d’un
piede, col muso assai appuntito che somiglia a quello dei piccoli orsi,
gli orecchi sottili, il pelame fitto, lanoso, bruno oscuro sul dorso e
grigiastro sul ventre.

Antao che era impaziente di abbattere qualche animale, avendo udito
Asseybo vantare la delicatezza della carne di quelle scimmie, risolse
di approfittare del riposo della carovana per cercare d’ucciderne
qualcuna.

Senza svegliare Alfredo che gustava un po’ di sonno sotto la tenda,
in attesa della cena, s’armò della carabina e si cacciò in mezzo alla
foresta seguito da Asseybo, il quale aveva ricevuto l’incarico di non
abbandonare il giovane cacciatore.

Disgraziatamente gli astuti quadrumani, accortisi della presenza
degli uomini, si erano affrettati ad abbandonare i dintorni del campo,
ritirandosi nei più fitti nascondigli della grande foresta.

— Sono furbe, — disse il negro al portoghese, il quale si sfogava
mandando al diavolo tutte le scimmie dell’Africa. — Sanno che agli
uomini piace la loro carne.

— Non credo che siano così intelligenti come tu dici. Comunque sia,
spero di regalartene qualcuna.

— Ed io te la preparerò arrostita a puntino, padrone.

— Morte di Giove!... Non sarò certamente io che l’assaggerò. Mi
sembrerebbe di diventare un antropofago.

— Se tu l’assaggiassi non diresti così, padrone.

— Può essere, ma te la lascio. Già, si sa, voi altri non siete
schifiltosi e sareste capaci di mangiare anche un vostro simile.

— Io no, ma i dahomeni credo che non si farebbero pregare.

— Oh diavolo!... Forse che i dahomeni sono antropofagi?...

— Un po’ sì, padrone. Il re del Dahomey, lo sanno tutti, tiene alla sua
corte dei cannibali.

— Che istorie mi narri tu, Asseybo?... — chiese Antao stupefatto.

— Ti racconto ciò che ho veduto nella mia gioventù e che i due dahomeni
ti possono confermare. Geletè ha dei mangiatori di carne umana, dei
cannibali ufficiali.

— E chi si dà a loro da mangiare?...

— Qualcuno degli schiavi che si decapitano durante la festa dei
sacrifici umani. Quegli antropofagi devono scegliere le parti migliori
dell’ucciso e mangiarle in presenza del re.

— E col migliore appetito, per accontentare quel mostro umano.

— Certo, ma si dice però che dopo l’orribile cerimonia si affrettino a
sbarazzarsi lo stomaco, prendendo un potente emetico.

— Bel paese che andiamo a visitare. Che non salti il ticchio, a quella
canaglia di Geletè, di far mangiare anche il piccolo Bruno?...

— Non temere per lui. Kalani non può odiare a tal punto il padroncino e
se lo ha destinato a guardiano dei _feticci_, è segno che non vuole che
lo si tocchi. Egli attende il padrone per vendicarsi delle frustate che
ha ricevute.

— Se possiamo averlo nelle mani ce ne daremo ben altre!... Basterà
che....

— Zitto padrone.

— Le scimmie?... —

Invece di rispondere, Asseybo aveva fatto tre o quattro salti indietro
e guardava la cima d’un grande sicomoro con due occhi che esprimevano
un profondo terrore.

— Cosa cerchi? — chiese il portoghese che aveva per precauzione, armata
rapidamente la carabina.

— Zitto, padrone, — mormorò il negro con un filo di voce. — Il
_mpungu_!...

— Che un leone mi mangi vivo, se io ti comprendo.

— Il _mpungu_, padrone. Zitto o siamo perduti.

— Ma io ti dico che non ho paura di nessun _mpungu_ del mondo, dovesse
anche essere il diavolo questo signore _mpungu_.

— Guarda lassù, padrone. —

Il portoghese, che non aveva capito nulla affatto di quanto aveva detto
il negro e che non comprendeva la paura di lui, alzò gli occhi e vide,
a circa otto metri da terra, una specie di nido di grandi dimensioni,
costruito con alcuni grossi bastoni appoggiati alle biforcazioni dei
rami.

— Il nido di qualche grosso uccello forse? — chiese. — Fosse anche
un’aquila, non trovo il motivo di spaventarsi.

— No d’un uccello padrone, ma di una grande scimmia, tanto robusta da
sfidare dieci uomini.

— D’un gorilla?... Diamine, la cosa cambia aspetto e credo che tu abbia
ragione di spaventarti. Ma caro Asseybo, non spira buona aria per noi
qui, se si tratta d’uno di quei formidabili scimmioni. L’hai veduto il
tuo _pum_.... _mpin_.... Lampi!... La tua bestiaccia infine?...

— No ed il nido mi sembra vuoto, ma il _mpungu_ può ritornare da un
momento all’altro e farci a pezzi.

— Prima che ritorni lui, torniamo noi al campo. —

Il portoghese, che aveva udito parlare della forza prodigiosa e della
ferocia di quei mostri villosi, girò lestamente sui talloni e preceduto
dal negro prese la via del campo.

Il sole tramontava rapidamente e l’oscurità si addensava presto sotto
la foresta. Bisognava affrettarsi per evitare dei cattivi incontri ed
anche per non smarrirsi, cosa facilissima in mezzo a quelle migliaia e
migliaia di tronchi ed a quel caos indescrivibile di radici, di liane e
di cespugli fittissimi.

Già i pipistrelli giganti cominciavano a lasciare gli alberi ai
cui rami si erano tenuti appesi durante il giorno, qualche urlo di
sciacallo si era fatto udire, segnale delle fiere che stavano per
abbandonare i loro covi per rimettersi in caccia.

Qualche gazzella passava talora, rapida come un lampo, per andare a
dissetarsi o per raggiungere il suo nascondiglio prima dell’uscita
dei carnivori, mentre le scimmie s’affrettavano a raggiungere le più
alte cime degli alberi per mettersi fuori di portata dagli assalti dei
leopardi.

Asseybo, le cui inquietudini aumentavano col calare delle tenebre,
temendo di essersi troppo allontanato dal campo affrettava sempre
più la marcia, incitando il portoghese a fare altrettanto e girava
all’intorno sguardi spaventati. Un uomo come lui, compagno di caccia
d’Alfredo, non doveva temere l’incontro di un carnivoro; il suo terrore
doveva derivare dalla tema di trovare sulla sua via il mostruoso
_mpungu_.

Ad un tratto s’arrestò, celandosi rapidamente dietro il grosso tronco
d’un albero.

— Hai udito, padrone? — chiese al portoghese, che lo aveva prontamente
imitato.

— Non ho udito nulla, — rispose Antao, il quale aveva armato il fucile.

— È stato spezzato un ramo a breve distanza da noi.

— Lo avrà spezzato qualche animale.

— Temo che sia stato il _mpungu_.

— Al diavolo il tuo _mpungu_. So che è terribile, ma infine abbiamo due
fucili e con una palla piantata nel cuore si uccide anche un elefante.

— Il _mpungu_ non si uccide, padrone.

— Lo vedremo, Asseybo.

— Zitto!... Odi?... —

Uno scricchiolio di rami spezzati e di foglie secche calpestate si era
udito in mezzo ad un macchione di alberi, discosto una cinquantina di
metri. Anche i rami bassi delle piante si udivano a spostarsi, come se
qualche grosso animale cercasse di aprirsi il passo.

— Vi è qualche belva là dentro, — mormorò Antao, alzando lentamente il
fucile.

In quell’istante una massa oscura, non ancora ben distinta, allargò dei
rami e comparve arrestandosi sul margine del macchione. Il portoghese
l’aveva presa rapidamente di mira, ma Asseybo con un gesto rapido gli
aveva afferrato il fucile, abbassandoglielo.

— Non tirare padrone, — gli mormorò con voce tremante. — Il _mpungu_!...

— Morte di Nettuno!...

— Non farti udire. —

La scimmia gigante, forse avvertita della presenza dei due uomini
dal suo olfatto finissimo, si era avanzata di otto o dieci passi, ma
poi si era arrestata in uno spazio scoperto come fosse indecisa se
indietreggiare o avanzare.

Antao che era più vicino, poteva osservare comodamente quel mostro
delle foreste equatoriali che mai fino allora aveva veduto, poichè tali
scimmie non si possono prendere vive, data la loro forza prodigiosa e
la loro ferocia.

Era alta un metro e sessanta e fors’anche di più, statura niente
affatto straordinaria, essendovene talune che misurano perfino un
metro e ottanta centimetri; aveva le spalle larghissime, il corpo
d’una lunghezza sproporzionata, avendo le gambe assai corte, ma
aveva invece le braccia lunghissime e quali braccia!... Parevano due
tronchi d’albero nodosi, ma quei nodi erano costituiti da muscoli
prodigiosamente sviluppati.

Le mani ed i piedi, corti, larghi e grossi, terminavano con unghie
robuste e ricurve, armi formidabili, poichè si dice che con quelle può
sventrare facilmente un uomo o strappargli una spalla!...

La faccia di quel mostro villoso ispirava paura, tanta era
l’espressione feroce e bestiale che vi traspariva. Quegli occhi
piccoli, bruni, infossati, che avevano dei lampi strani; quel naso
depresso, quella bocca larghissima armata di denti lunghi e così solidi
da schiacciare la canna d’un fucile come un semplice bambù; quelle
labbra grosse e quel mento corto, davano alla scimmia antropomorfa un
aspetto ben poco rassicurante.

I gorilla non sono molto numerosi e difficilmente s’incontrano al
di là della zona equatoriale africana, però non sono nemmeno rari,
specialmente nelle fitte foreste della Guinea e del Congo. Pare invece
che manchino affatto nelle regioni orientali del continente nero.

Per lo più vivono in due, maschio e femmina, ma qualche volta se ne
sono veduti cinque o sei uniti. S’incontrano anche dei solitari, i
quali sono dei vecchi maschi e questi sono i più formidabili, i più
feroci.

Si tengono ordinariamente celati nei grandi boschi, preferendo quelli
umidi, ma amano anche gli altipiani rocciosi e le vallate profonde e
poco illuminate. Sono però nomadi ed è raro che soggiornino molto in un
luogo, ma ciò deriva dalle difficoltà che incontrano nel provvedersi
di viveri. Essendo formidabili consumatori di frutta e specialmente
di canne di zucchero selvatiche e di quelle erbe succolenti chiamate
_amomun granum paradisi_, sono costretti a cambiare residenza molto
sovente.

Quantunque appartengano alla razza delle scimmie, stanno più volentieri
a terra che sugli alberi, ma non si creda che quando camminano si
tengano ritti come gli uomini. La loro andatura ordinaria è quella dei
quadrupedi anzichè dei bipedi, però talvolta si mantengono per qualche
tempo in piedi e fanno anche, in quella posizione, dei tratti di via.

Al pari delle grandi scimmie del Borneo, dei _mias_, sono di umore
triste, ma sono però più feroci, più violenti. Se incontrano degli
uomini cercano possibilmente di evitarli e tutt’al più manifestano
la loro inquietudine battendosi fortemente l’ampio petto, che allora
risuona come un tamburo, ma guai se vengono assaliti!... Allora più
nessun pericolo li trattiene; e consapevoli della propria forza si
scagliano risolutamente sugli avversari che hanno osato disturbarli.

Più nulla resiste a loro. I fucili non hanno sempre la vittoria, poichè
quei giganti, se non sono toccati al cuore o nel cervello, possono
sfidare parecchie palle. Colle possenti mani spezzano le più solide
carabine o le schiacciano coi denti; torcono le lancie, spezzano le
scuri e guai all’imprudente che cade nelle loro mani!... Un pugno solo
basta per sfondare il cranio più resistente; un colpo d’unghia è più
che sufficiente per aprire il petto più solido.

I negri hanno una paura immensa dei gorilla e non osano assalirli,
anche se si radunano in grosso numero. Preferiscono piuttosto
abbandonare i loro villaggi ed i loro campi coltivati, i quali non
tardano a venire saccheggiati e distrutti. Non è raro il caso che
qualche vecchio gorilla abbia rapito delle negre per poi strozzarle. Si
narra però che alcune poterono ritornare ai loro villaggi ancora vive,
ma prive delle unghie delle mani e dei piedi state a loro strappate dal
rapitore!...

   [Illustrazione: .... poi le forze improvvisamente
   l’abbandonarono e quell’enorme corpo rovinò pesantemente
   attraverso i rami.... (Pag. 93).]




CAPITOLO XII.

La scomparsa dell’amazzone


Il _mpungu_ che era uscito dalla macchia, come si disse, si era
arrestato su di uno spazio scoperto, come se fosse indeciso fra
l’andare innanzi od il ritornare sotto l’ombra oscura degli alberi.

Il suo udito, che è finissimo, doveva averlo già avvertito della
presenza degli uomini o per lo meno di nemici forse pericolosi e si
era fermato in quella posa che è speciale a tali scimmioni, cioè colle
ginocchia un po’ piegate, il dorso curvo e le braccia penzoloni. Pareva
che ascoltasse con profonda attenzione, mentre i suoi piccoli occhi,
che brillavano in mezzo al pelame quasi nero del suo muso, scrutavano
le piante vicine con inquietudine.

Stette così parecchi minuti, poi si lisciò più volte la folta
pelliccia grigiastra che sul petto era assai lunga, almeno otto o dieci
centimetri, quindi si rimise in cammino, tenendo però il capo volto
verso l’albero sotto il quale si tenevano nascosti Antao ed il negro,
come se avesse indovinato che il pericolo stava da quella parte.

Giunto presso un altro macchione si fermò ancora qualche istante,
fissando sempre l’albero, poi volse le spalle e scomparve
definitivamente sotto la cupa ombra dei macchioni.

— Se n’è andato, — disse Asseybo, respirando liberamente.

— Sì, — rispose Antao, con un po’ di rincrescimento. — Avrei però
preferito che si fosse avvicinato al nostro albero.

— Per farci uccidere?... Era un vecchio maschio e quelli sono
pericolissimi, padrone.

— Come sai tu che era un vecchio maschio?

— Perchè aveva il pelame grigiastro, mentre i giovani lo hanno bruno
più o meno oscuro.

— Spero però di ucciderlo egualmente.

— Non toccarlo, padrone.

— Alfredo non lo risparmierà. Domani mattina andremo a scovarlo. —

Potendo la scimmia gigante ritornare da un momento all’altro, il
portoghese ed Asseybo affrettarono il passo per giungere presto
al campo, onde non accrescere le inquietudini di Alfredo con una
prolungata assenza.

Dopo d’aver fatto parecchi giri e rigiri scorsero finalmente i fuochi
del campo scintillare fra i rami della foresta. A trecento passi
trovarono Alfredo, il quale stava mettendosi in cerca di loro in
compagnia d’un dahomeno, temendo che si fossero smarriti. Informato
dell’incontro del gorilla, malgrado il suo provato coraggio, manifestò
un po’ d’inquietudine.

— È un vicino pericoloso, — disse. — Amerei meglio che fosse molto
lontano.

— Bah! — rispose Antao. — Abbiamo cinque carabine e sapremo metterlo a
dovere, se avrà il ghiribizzo di disturbarci.

— Non ne avremo che due, Antao. Sui negri non bisogna contare, avendo
troppa paura di quelle formidabili scimmie. Speriamo però che ci lasci
tranquilli. —

Cenarono in fretta, avendo deciso di rimettersi in marcia di buon
mattino, poi si coricarono sotto le tende, mentre Asseybo ed un
dahomeno montavano il primo quarto di guardia.

Si erano però appena coricati, quando in mezzo alla foresta si udì
echeggiare una specie di rullo di tamburo, ma assai più sordo, più
monotono.

— Il gorilla? — chiese Antao, alzandosi prontamente. — Questo suono
l’ho udito ancora questa sera.

— Sì, è il _mpungu_, — rispose Alfredo, che aveva impugnata rapidamente
la carabina. — Pare che sia irritato.

— Che voglia assalirci?...

— Non lo credo, ma non bisogna fidarsi. —

S’alzarono ed uscirono dalle tende. Asseybo ed il suo compagno,
spaventati da quel rullo che ben conoscevano, si erano riparati dietro
ai fuochi, puntando i fucili verso la foresta.

— Si vede? — chiese Alfredo.

— No, padrone, — rispose Asseybo, ma pare che non sia lontano.

— Che sia quello che abbiamo incontrato questa sera? — chiese Antao.

— Può essere la sua compagna, — rispose Asseybo.

— È meno pericolosa ma pur sempre formidabile, — disse Alfredo. — Non
spaventatevi e tenetevi vicini ai fuochi. —

Avevano appena pronunciate quelle parole, quando si udì rintronare uno
sparo, seguito poco dopo da un possente ruggito, simile a quello che
manda un leone in furore e da un urlo umano ma che subito si spense in
un gemito strozzato.

— Morte di Nettuno! — urlò Antao. — Chi è stato assalito?... —

Alfredo senza rispondere, aveva raccolto un ramo acceso e si era
slanciato verso la foresta, portando con sè la carabina. Antao ed
Asseybo l’avevano tosto seguìto, per aiutarlo nel caso che l’uomo dei
boschi lo assalisse, mentre i due dahomeni, pazzi di terrore, urlavano
come se venissero scorticati.

La detonazione era echeggiata a soli tre o quattrocento passi dal
campo, era quindi facile giungere sul luogo della lotta. Alfredo,
tenendo nella sinistra il ramo acceso che lanciava in aria scintille e
nella destra la carabina armata, segnava la via e precipitava la corsa,
sempre seguìto dai suoi due compagni.

Si era già allontanato dalle tende quattro o cinquecento metri,
inoltrandosi in mezzo alla foresta che diventava sempre più fitta,
quando alla luce del ramo che non si era ancora spenta, scorse qualche
cosa che luccicava fra le foglie secche e le alte erbe.

Si curvò rapidamente e vide che quell’oggetto era la canna d’un fucile,
ma contorta come se fosse stata una semplice verga di rame.

— È qui che è accaduta la lotta, — disse, gettando all’intorno un
rapido sguardo, per assicurarsi da un improvviso assalto.

— Fulmini di Giove!... — esclamò Antao, che lo aveva raggiunto. —
Questa canna deve essere stata ridotta in così deplorevole stato dal
gorilla.

— Sì, — rispose Alfredo. — Stiamo in guardia, poichè il mpungu può
esserci vicino.

— Ecco il calcio del fucile spezzato, — disse Asseybo.

— Lo scimmione lo ha sgretolato come fosse un biscottino, — disse
Antao. — Che denti!... Quelli dei leoni non devono essere così robusti.
Ma dove sarà il disgraziato proprietario di quest’arma?...

— Lo troveremo presto, — rispose Alfredo. — Badate agli alberi voi; il
_mpungu_ può essersi nascosto fra i rami e può piombarci addosso.

— Non temere, — disse il portoghese. — Ho il dito sul grilletto della
carabina. —

Alfredo si era spinto innanzi dopo d’aver soffiato sul ramo per
ravvivare la fiamma, ma fatti pochi passi si era nuovamente arrestato,
gettando un grido d’orrore.

Ai piedi d’un albero aveva scorto il cadavere d’un negro d’alta statura
ed interamente nudo, ma in quale stato orribile era ridotto quel
povero corpo. Tutta la pelle del viso assieme agli occhi ed al naso
era stata strappata come da un formidabile colpo d’artiglio; il petto
spaccato come da un colpo di scure, mostrava i polmoni ed una spalla
dell’infelice portava le impronte sanguinose di larghi denti.

Quel negro doveva essere stato assalito dalla scimmia gigante e
dopo d’aver perduto il fucile, la cui palla non era di certo bastata
per abbattere il terribile avversario, era stato massacrato a colpi
d’unghie ed a morsi.

— È orribile! — esclamò Antao, che cominciava a perdere la sua audacia
dinanzi a quella prova del vigore mostruoso del _mpungu_. — Simili
quadrumani fanno davvero paura.

— In ritirata, — comandò Alfredo. — Nulla possiamo fare per questo
povero uomo.

— Sì, torniamo al campo, padrone, — disse Asseybo. — Il _mpungu_ può
assalire i nostri uomini.

— Ma chi sarà questo negro?... — chiese Antao. — Qualche cacciatore
forse?...

— Credo invece che sia una delle spie che ci seguono, — rispose
Alfredo. — Se il gorilla non gli avesse guastato il viso, avremmo
potuto facilmente riconoscerlo se era un dahomeno od un costiero.

— Se era una spia ringrazio la scimmia gigante che ci ha sbarazzati da
una di quelle mignatte. —

In quel momento, verso il campo, si udirono urla di terrore, poi due
spari ed un nitrire di cavalli.

— Gran Dio! — esclamò Alfredo. — Cosa succede?...

— Il _mpungu_ ha assalito i nostri uomini, — disse Asseybo,
impallidendo.

— Al campo!... al campo!... —

I tre uomini si precipitarono in mezzo alla foresta cercando di non
smarrirsi in mezzo a quelle migliaia d’alberi, ma dovettero ben presto
comprendere che il ritorno non era facile con quella oscurità, tanto
più che il ramo si era spento.

Udendo delle grida, che parevano mandate dai loro uomini, allontanarsi
verso destra, credettero che il campo si trovasse in quella direzione
e si diressero a quella volta, impegnandosi invece in mezzo ad una rete
inestricabile di rami, di tronchi, di radici enormi e di liane.

Fortunatamente Asseybo aveva scorto dei bagliori sulla loro sinistra
ed immaginandosi che il campo si trovasse invece da quella parte,
s’affrettarono a ritornare.

Non si erano ingannati, poichè pochi minuti dopo giungevano in vista
dei fuochi accesi dinanzi alle tende, ma con loro grande sorpresa non
trovarono i loro uomini che avevano lasciati a guardia della giovane
negra. Anche i cavalli e buona parte delle casse erano scomparse;
solamente due animali, forse perchè più solidamente legati, non avevano
potuto fuggire.

— Morte di Nettuno! — urlò Antao. — Cosa è accaduto qui? —

Alfredo si era affrettato ad entrare sotto la tenda che era stata
riservata alla giovane negra, ma uscì subito, dicendo:

— La donna non vi è più!...

— È impossibile, Alfredo!...

— Ti dico che è scomparsa, Antao.

— Si sarà nascosta nei dintorni.

— Ed anche i dahomeni sono fuggiti, — disse Asseybo.

— I vili!... — gridò Antao. — Ed i cavalli?...

— E le nostre casse, padrone?...

— Possibile che il gorilla abbia portato via tutto?...

— Lasciamo i cavalli e le casse e occupiamoci della donna, Antao, —
disse Alfredo, con voce agitata. — Temo una orribile sciagura.

— Che il gorilla l’abbia uccisa?...

— Forse peggio, Antao. — Temo che l’abbia rapita.

— Ma noi sappiamo dove ha il suo covo.

— Vediamo se è nascosta innanzi tutto. Le sue ferite, non ancora
rimarginate, non devono averle permesso di allontanarsi troppo. —

Stavano per munirsi di rami accesi per mettersi in cerca dell’amazzone,
quando videro comparire i due dahomeni. Quei poveri diavoli parevano
impazziti per lo spavento, poichè tremavano ancora come se avessero
indosso la febbre, ed erano diventati, grigi, cioè pallidi, ed i loro
grandi occhi manifestavano un vivo terrore.

— Padrone!... — gridarono, vedendo Alfredo. — Il _mpungu_!

— Dov’è? — chiese il cacciatore.

— È fuggito.

— Ma cosa è avvenuto?... Spicciatevi, parlate.

— Si è avvicinato al campo per assalirci, noi abbiamo scaricate le
armi, ma poi abbiamo avuto paura e siamo fuggiti. Se l’avessi veduto
come era furibondo!...

— Ma la negra?....

— La donna?... — esclamarono con stupore. — Non è nella tenda?

— No, è scomparsa.

— Allora l’ha rapita il _mpungu_.

— Ma l’avete veduto a rapirla?...

— No, padrone.

— Allora bisogna cercare il gorilla e ucciderlo, — disse Antao. —
Non possiamo lasciare quella disgraziata nelle mani di quell’orribile
mostro.

— Un momento di pazienza, Antao, — disse Alfredo. — Non precipitiamo le
cose, innanzi tutto. Ditemi: quando il mpungu comparve presso il campo,
dormiva ancora la donna?...

— Sì, padrone, — risposero i due schiavi.

— Quando siete fuggiti, l’avete veduta uscire?...

— Non lo sappiamo. Abbiamo avuto tanta paura dei ruggiti del _mpungu_,
che ci siamo dati alla fuga senza più curarci del campo, nè della
donna.

— L’avete almeno ferito il mostro?...

— Sì, padrone, poichè perdeva sangue da una spalla.

— Credete che la donna abbia avuto il tempo di fuggire?...

— Non è possibile, padrone. Il _mpungu_ era a pochi passi dai fuochi.

— Asseybo, — disse Alfredo, volgendosi verso il servo. — Ho fatto
mettere delle torce resinose nelle nostre casse. Guarda se ne trovi
qualcuna.

— Ma dove saranno andate le altre casse?... — chiese Antao. — Ne
avevamo dodici e non ne sono rimaste che quattro.

— Avevate caricati i cavalli? — chiese Alfredo, ai dahomeni.

— No, padrone.

— Ecco un mistero inesplicabile. È impossibile che il gorilla abbia
portata via la donna e le nostre casse.

— Che il gorilla avesse dei compagni?...

— È possibile, Antao.

— Ma i cavalli?...

— Avranno avuto paura e saranno fuggiti dopo di aver spezzate le
corde, ma più tardi li ritroveremo se non cadono sotto le zanne delle
fiere. —

Asseybo intanto aveva trovate alcune torce e ne aveva accese due.
Essendo formate di fibre vegetali imbevute di resina, spandevano
all’intorno una luce abbastanza viva per potersi avventurare anche
sotto quella tenebrosa foresta.

— Voi rimarrete qui, — disse Alfredo ai due dahomeni. — Badate che se
lasciate il campo una seconda volta, vi giuro che non rivedrete nè il
Dahomey nè Porto Novo. Nulla d’altronde avrete da temere, poichè al
_mpungu_ pensiamo noi. Vieni, Anteo; andiamo mio bravo Asseybo. —

Quantunque fossero persuasi che la giovane negra fosse stata rapita
dall’orribile scimmione, perlustrarono i dintorni del campo per
accertarsi che non si fosse nascosta in mezzo a qualche macchia, ma
vedendo l’inutilità di quelle ricerche, si misero risolutamente in
caccia, risoluti a scovare il formidabile avversario.

Asseybo, che aveva maggior conoscenza di tutti dei grandi boschi e che
fino ad un certo punto sapeva trovare una via già prima percorsa, si
era messo alla testa per condurre i due cacciatori sotto l’albero, sui
cui rami aveva veduto il covo del mpungu.

Il momento non era certo propizio per quella caccia pericolosissima,
potendo il gorilla sfuggire facilmente alle loro ricerche colla
sua preda, favorito dall’oscurità, pure i tre animosi uomini non
disperavano della loro riuscita.

— Aspetteremo l’alba per assalire il mostro, — disse Alfredo al
portoghese che lo interrogava, — ma intanto circonderemo l’albero e
se il _mpungu_ si decide a scendere, lo fucileremo a bruciapelo. Non
possiamo azzardare delle palle ad una certa distanza, poichè con queste
tenebre potremmo colpire anche la povera giovane.

— Credi che non l’abbia strangolata?...

— Speriamo che il mostro non abbia sfogata la sua rabbia su quella
donna.

— Ma che l’abbia nascosta nel suo nido?...

— Certo, Antao.

— La situazione dell’amazzone può diventare pericolosa. Se il gorilla
la gettasse a terra?...

— Non l’abbandonerà, Antao, ma cercherà di certo di portarsela seco
nella sua fuga.

— Ed allora se lo uccidiamo mentre si trova in alto, la ragazza cadrà.

— Cercheremo di farlo scendere. È isolato l’albero sul quale avete
scorto il nido?...

— Sì, Alfredo.

— Allora abbiamo la speranza di costringerlo a calarsi a terra. Ci
siamo, Asseybo?... —

Il negro, che si era bruscamente arrestato, non rispose; pareva che
ascoltasse qualche lontano rumore.

— Hai udito qualche grido?... chiese il portoghese.

— Dei nitriti, — rispose il negro.

— Dove?... — chiese Alfredo.

— Laggiù, padrone.

— In mezzo al bosco?

— Sì, ma mi parvero assai lontani.

— Saranno i nostri cavalli che cercano di ritornare al campo.

— Lo credo anch’io, padrone.... Udite?... —

I due cacciatori tesero gli orecchi, ma invece di nitriti udirono quel
sordo rullìo che producono i gorilla quando si battono il petto.

— Il _mpungu_, — disse Alfredo.

— E ci è vicino, — aggiunse Antao.

— Spengiamo le torce ed avanziamoci con precauzione. Non
bisogna allarmare il mostro od è capace di strangolare la povera
giovane. —

Le torce furono spente ed i tre uomini procedendo carponi per non
urtare contro i rami bassi degli alberi, poco dopo giungevano sotto
un grande sicomoro il quale s’alzava isolato in mezzo ad una piccola
radura.

— È lassù, — disse Asseybo, con un filo di voce.

— Sta bene, — rispose Alfredo, con voce tranquilla. Il mostro non ci
sfugge più!




CAPITOLO XIII.

La caccia al gorilla


I tre cacciatori, nascosti fra le alte erbe che coprivano quella
piccola radura, cercavano di scrutare il folto fogliame del grande
albero, sperando di scoprire il mostruoso gorilla o la sua prigioniera,
ma l’ombra proiettata da quell’enorme ammasso di rami e di foglie
era troppo nera per poter discernere qualche cosa. Il nido, o meglio
la piattaforma costruita su due dei più grossi rami, si scorgeva
confusamente a circa sette metri dal suolo.

Asseybo non si era adunque ingannato arrestandosi in quel luogo ed il
mostro doveva trovarsi lassù, poichè di tratto in tratto si udiva la
sua rauca respirazione ed i legni della piattaforma scricchiolare.

Non era però cosa facile costringerlo a scendere, poichè tali scimmioni
ordinariamente non assalgono se prima non vengono feriti, e poi di rado
abbandonano gli alberi sui quali hanno fabbricato il loro covo, non
ignorando forse che la piattaforma è sufficiente a difenderli.

— Per ora non possiamo assolutamente far nulla, — mormorò Alfredo, agli
orecchi di Antao. — Con questa oscurità non è cosa prudente aprire il
fuoco.

— Se provassimo a mandare una palla sotto la piattaforma?...

— Può attraversare i rami e colpire la donna.

— È vero, non ci avevo pensato, Alfredo. Ma che la negra sia proprio
lassù?...

— Se non è stata uccisa, deve trovarsi ancora sulla piattaforma.

— Ma si dovrebbe udire qualche gemito. Essendo ferita, il mostro deve
averla ridotta in tristi condizioni con la sua poca galanteria.

— Frenerà i gemiti per tema d’irritare il bestione.

— Che non vi sia modo di accertarsi se è lassù?... Quella povera
ragazza m’interessa, Alfredo.

— Ti dico che se si trova su quest’albero la salveremo.

— Dimmi, hanno il sonno profondo i gorilla?...

— Perchè mi fai questa domanda?...

— Se fossi certo che il rapitore non si svegliasse, vorrei cercare di
salire lassù.

— Sei pazzo. Antao. Una simile imprudenza non te la permetterò mai.
Accomodiamoci alla meglio fra queste erbe ed aspettiamo pazientemente
l’alba.

— Circondiamo l’albero?

— Sì, tu va’ a coricarti alla mia destra ed Asseybo alla mia sinistra.
Se il gorilla scende, lo vedremo. —

Il portoghese ed il negro si allontanarono strisciando senza far
rumore e si sdraiarono dall’altra parte del grosso tronco, coprendo
la batteria delle carabine per difendere le capsule dall’umidità della
notte.

Le ore passavano lente come se fossero diventate doppie, ma il gorilla
non lasciava l’albero protettore. Lo si udiva però sempre a russare
e qualche volta a voltarsi, facendo scricchiolare le traverse della
piattaforma.

Cosa strana però e che inquietava tutti e tre i cacciatori: l’amazzone
non dava segno di vita. Tendevano sempre gli orecchi sperando di udire
qualche gemito, ma senza alcun risultato.

Alfredo cominciava a temere che la disgraziata invece di essere stata
portata lassù, fosse stata uccisa e poi gettata in mezzo a qualche
folto macchione.

Finalmente verso le tre e mezzo una luce biancastra cominciò ad
apparire all’orizzonte, facendo impallidire gli astri. Essendo l’alba
brevissima in quelle regioni equatoriali, fra pochi minuti ci si doveva
vedere anche sotto la foresta.

Già qualche uccello cominciava a svegliarsi facendo udire un timido
gorgheggio, mentre gl’insetti si levavano a sciami salutando la prima
ondata di luce dorata con acuti ronzii. Una banda di pappagalli grigi
ruppe bruscamente il silenzio che regnava sotto gli alberi, con un
cicalìo assordante.

In alto, verso la piattaforma, si udirono tosto degli scricchiolii, poi
un lungo sbadiglio: il gorilla si svegliava.

Antao ed Asseybo avevano subito raggiunto Alfredo e tutti e tre
guardavano in alto, sperando di scorgere qualche lembo del vestito
dell’amazzone, ma i rami erano intrecciati troppo strettamente per
vedere cosa si trovava sopra la piattaforma.

— Amici miei, — disse ad un tratto Alfredo, con viva emozione. — Temo
che la povera ragazza non si trovi lassù.

— Comincio a crederlo anch’io, — disse Antao, — ma almeno la
vendicheremo.

— Scorgi nulla Asseybo?

— Non vedo che un piede del _mpungu_ sporgere dalla piattaforma, —
rispose il negro.

— Snidiamolo, Alfredo, — disse il portoghese. — Io non me ne andrò da
qui, se prima non avrò la certezza che quella disgraziata non si trova
lassù!

— Non ho alcuna intenzione di risparmiare il mostro, Antao. Tenetevi
presso di me e non fate fuoco se non siete sicuri del colpo od il
gorilla ci farà a pezzi. —

In quel momento si udì in alto un sordo brontolìo ed i rami che
formavano la piattaforma gemettero.

— In guardia, — disse Alfredo, scostandosi dall’albero e puntando in
alto la carabina.

Il gorilla, accortosi della presenza dei tre cacciatori, cominciava
ad irritarsi e manifestava la sua collera battendosi l’ampio petto, il
quale risuonava come un tamburone.

Ad un tratto comparve sul margine della piattaforma, ma per un solo
istante. Quell’apparizione fu rapida, ma bastò ad Antao per farsi
un’idea dell’aspetto spaventoso di quei giganti delle foreste,
allorquando sono irritati.

Il suo pelame grigio ferro era diventato irto come quello di un gatto
in collera; i suoi muscoli poderosi pareva che fossero raddoppiati di
volume, mentre la sua brutta faccia manifestava una collera selvaggia,
ripugnante, con quei suoi occhi infossati, grigi, ma che avevano uno
strano splendore.

— Morte di Saturno!... — mormorò Antao. — È ben brutto quel diavolone
di scimmia. —

Alfredo intanto cercava di scoprire il formidabile avversario per
mandargli una palla nel cranio o nel petto, ma il _mpungu_, non
giudicando forse giunto il momento d’impegnare la lotta, si teneva
riparato nel suo ampio nido, senza mostrare la più piccola parte del
suo corpo.

La sua collera però aumentava di momento in momento. Non si batteva
più il petto coi pugni, ma ora lanciava dei ruggiti, suoni strani che
cominciano con una specie di latrato, che poi si cambiano in un sordo
brontolìo e che finiscono in un ruggito infinitamente più potente
di quello dei leoni e che pare non esca dalla gola, ma dalle ampie
cavità del petto. Talora invece emetteva dei fragori che somigliavano
perfettamente ai rulli prolungati del tuono udito in lontananza.

Per un po’ di tempo il _mpungu_ si limitò a far udire la sua voce, poi
si diede a scuotere furiosamente i rami vicini, facendo piovere sui
cacciatori una vera pioggia di frutta e di foglie, quindi con un salto
immenso si slanciò su di un grosso ramo che si curvava verso terra,
forse coll’intenzione di lasciarsi cadere giù.

Eccolo!... — gridarono Antao ed Asseybo, retrocedendo vivamente.

Alfredo non si era mosso, nè aveva staccata l’arma dalla spalla.
Vedendo il gorilla in piedi sul ramo, col pelame arruffato, gli occhi
in fiamme, le labbra contratte che mostravano i lunghi denti, alzò
rapidamente la canna e fece fuoco.

L’enorme scimmia lanciò un ruggito furioso che echeggiò come uno
scoppio di tuono, ma che poi si cambiò in un grido di dolore che aveva
qualche cosa d’umano, poi abbandonando bruscamente il ramo, con un
secondo salto guadagnò la piattaforma protettrice.

— È colpito! — gridò Antao, passando la sua carabina ad Alfredo.

Delle larghe goccie di sangue, filtrando attraverso i rami incrociati
del nido, cadevano al suolo bagnando le erbe ed una era andata a
colpire il portoghese, lordandogli la camicia.

Alfredo, sempre impassibile, aveva rialzata la seconda carabina per
mandare al mostro una seconda palla, ma non poteva scorgerlo.

— Che sia morto? — chiese Antao, che ricaricava prontamente l’arma del
compagno.

— Non lo credo, — rispose il cacciatore. — Odo i rami della piattaforma
scricchiolare.

— E la ragazza?...

— Credo che non ci resti che vendicarla, Antao.

— Ma troveremo almeno il suo cadavere.

— Bada!...

— Eccolo, padrone!... — urlò Asseybo.

Il gorilla era tornato a balzare sul ramo. Con una mossa fulminea
sfuggì alla seconda palla del cacciatore, ma invece di scendere risalì
più in alto, come se avesse intenzione di rifugiarsi sugli ultimi rami.

Alfredo gettata via l’arma scarica, prese quella di Asseybo e fece
nuovamente fuoco contemporaneamente ad Antao.

La grande scimmia questa volta ricevette le due palle in pieno
petto. Fu vista arrestarsi un istante portandosi una mano sulle
ferite sanguinanti, poi le forze improvvisamente l’abbandonarono e
quell’enorme corpo rovinò pesantemente attraverso i rami del sicomoro,
e schiantandoli venne a cadere, con sordo fragore, quasi ai piedi del
tronco.

— È morto!... — esclamò Antao.

— Sali Asseybo, — disse Alfredo. — Forse lassù vi è il cadavere della
povera ragazza. —

Il negro s’aggrappò ai rami bassi del sicomoro e si mise ad
arrampicarsi lungo il tronco con quell’agilità sorprendente che è una
particolarità delle razze negre. In meno di venti secondi giunse alla
biforcazione dei rami e aggrappatosi ai margini della piattaforma, vi
si issò con un solo slancio.

— Nulla? — chiesero Alfredo ed Antao, con ansietà.

— Nulla, — rispose il negro.

— Non vi è alcuna traccia della ragazza, nemmeno un lembo delle sue
vesti?...

— Non vi sono che dei ciuffi di peli e dei rimasugli di frutta. —

Una sorda esclamazione irruppe dalla labbra del portoghese.

— Nulla!... —

Poi incrociando le braccia e guardando l’amico che pareva immerso in
profondi pensieri, gli chiese.

— Cosa faremo ora?...

— Cosa faremo?... — rispose Alfredo. — Frugheremo la foresta, nè la
lasceremo se prima non avremo trovato il cadavere della giovane negra.

— Torniamo al campo?...

— Più nulla abbiamo da fare qui. Sono impaziente di rivedere i due
dahomeni.

— Temi qualche cosa?...

— Non so, ma da qualche minuto un sospetto mi tormenta, Antao.

— E quale?...

— La inesplicabile sparizione delle nostre casse.

— Morte di Saturno!... È vero, Alfredo. Mi pare stranissima la
sparizione e stento a credere che siano stati i gorilla a portarle via,
specialmente ora che sappiamo che non ve n’era che uno su quest’albero.

— È precisamente per questo che attribuisco ad altri il furto.

— Ma a chi?...

— Alle spie che ci seguivano.

— Uragani e folgori!... — esclamò Antao, colpito da quella risposta. —
Questo sospetto non mi era venuto in mente e temo che....

— Che cosa?...

— Che quel povero gorilla non avesse preso parte alcuna nel rapimento
della ragazza.

— Lo credo anch’io, Antao, ma dai due dahomeni sapremo forse qualche
cosa.

— Ma a quale scopo le spie avrebbero rapito l’amazzone?...

— L’avranno riconosciuta per una loro compatriota, forse avranno
creduto che noi la tenessimo prigioniera per giovarci della sua
conoscenza del Dahomey e l’avranno portata con loro, credendo di
liberarla.

— Torniamo presto al campo, Alfredo. Bisogna dilucidare questo mistero
e se i nostri sospetti sono fondati, dare la caccia ai ladri.

— È ciò che faremo, poichè le casse rubate contengono ciò che
più m’interessa e sopratutto le nostre munizioni e gli oggetti di
scambio. —

Affrettarono il passo rifacendo il cammino percorso, ed un quarto
d’ora dopo giungevano al campo dinanzi al quale, fedeli alla minacciosa
consegna ricevuta, vegliavano i due dahomeni appoggiati ai loro fucili.




CAPITOLO XIV.

Le tracce dei ladri


Come avevano già sospettato, nè l’amazzone, nè i cavalli erano
ritornati al campo.

I due dahomeni avevano vegliato l’intera notte dinanzi ai fuochi,
ma non avevano udito nè alcuna voce umana, nè alcun nitrito che
annunciasse la vicinanza degli animali, nè alcun altro rumore
che facesse sospettare la presenza delle spie che avevano seguita
costantemente la carovana dopo la sua partenza da Porto Novo.

Interrogati cosa ne pensassero dei sospetti manifestati da Alfredo
e dell’esito negativo della spedizione, si mostrarono concordi
nell’affermare che la scomparsa misteriosa della giovane negra, degli
animali e soprattutto delle casse, si dovesse più attribuire alle spie
che forse si erano nascoste a breve distanza dal campo, che ai gorilla.

Senza dubbio avevano approfittato del terrore dei due dahomeni e
della loro fuga dopo l’improvvisa comparsa del mpungu, per gettarsi
rapidamente sugli animali e sulle casse e quindi internarsi nei folti
boschi.

Quantunque fossero ormai tutti convinti di ciò, pure Alfredo mandò i
tre negri a frugare le macchie vicine, per accertarsi che la giovane
negra non era stata uccisa, quindi assieme al portoghese si mise a
esaminare le alte erbe della piccola radura, per scoprire le tracce dei
ladri.

Essendo il suolo della foresta umido, non permettendo il folto fogliame
degli alberi che i raggi del sole penetrassero, gli riuscì facile
a scoprire, al di là della radura, le tracce dei cavalli che erano
chiaramente impresse sullo strato erboso.

— I nostri sospetti sono giusti, — diss’egli ad Antao che lo seguiva. —
I nostri cavalli non sono fuggiti per paura del mpungu.

— Da cosa lo arguisci?... — chiese il portoghese.

— Se i nostri cavalli fossero stati spaventati, sarebbero di certo
fuggiti in diverse direzioni, mentre le loro tracce sono tutte unite
ma.... toh!... Lo dicevo io? Guarda su questo terreno umido che è
sprovvisto d’erbe.

— Diavolo!... — esclamò Antao, curvandosi. — Se non m’inganno, queste
sono le tracce di due piedi nudi.

— Sì, Antao, — rispose Alfredo, — e qui vedo due altre orme di piedi
nudi, più grandi delle prime.

— Allora non vi sono più dubbi: i negri che ci seguivano ci hanno
derubati.

— Le tracce lo indicano.

— Ma a quale scopo?... Per privarci delle casse.

— È probabile, essendo i negri, in generale, tutti ladri, ma anche
per impedirci di proseguire il viaggio. Forse si sono accorti che noi
cercavamo d’ingannarli.

— Ma vorrei trovare qualche traccia della ragazza.

— Continuiamo le ricerche. —

Il passaggio dei cavalli attraverso la foresta era visibile anche per
degli occhi meno acuti e meno esperimentati di quelli d’Alfredo. Gli
zoccoli avevano calpestato profondamente l’umido terreno ed i corpi,
nel passare, avevano tracciato come un sentiero fra i cespugli ed i
rami bassi degli alberi, spezzando anche i più deboli.

Percorsi cinquecento passi, i due bianchi s’arrestarono mandando un
grido di gioia. In mezzo alle erbe avevano trovato uno di quei piccoli
fiocchi che ornavano la casacca della giovane negra.

— Finalmente!... — esclamò Antao, raccattandolo e mostrandolo con aria
trionfante al compagno. Ora abbiamo la prova che i ladri l’hanno rapita
e mi duole sinceramente di aver ucciso quel povero gorilla.

— Sì, — disse Alfredo, lieto di quella scoperta — ora possiamo dedicare
tutti i nostri sforzi nell’inseguire quegli audaci bricconi.

— Riusciremo a raggiungerli?...

— Lo spero Antao.

— Ma saremo costretti a tornare verso la costa?...

— No poichè le tracce finora si dirigono verso l’ovest ossia verso il
Todji che scorre presso le frontiere degli Ascianti.

— Che quei furfanti abbiano intenzione di recarsi in quel regno a
scambiare i nostri oggetti, prima di tornare in patria.

— È probabile, ma non lasceremo loro il tempo nè di giungere a Teki,
nè ad Anum che sono le prime borgate degli Ascianti. Mentre io seguo le
tracce torna al campo, fa’ caricare sui due cavalli che fortunatamente
ci sono rimasti, le nostre tende e le poche casse lasciateci e
raggiungimi più presto che puoi. —

Il portoghese lieto per quella felice scoperta che chiariva la
scomparsa della giovane negra, non si fece ripetere l’ordine due volte
e tornò precipitosamente al campo, chiamando i negri a piena voce.

In un baleno le tende furono levate, gli arnesi della cucina furono
collocati nel sacco, le casse caricate sui due cavalli e la carovana
si mise frettolosamente in marcia per raggiungere il capo, il quale si
spingeva celeremente innanzi, dietro le tracce.

   [Illustrazione: — Qui, padrone!... Presto, qui, padrone!... —
   (Pag. 102).]

— Sono sempre visibili? — gli chiese Antao, che lo aveva raggiunto a
passo di corsa.

— Sempre, — rispose Alfredo. — Finchè la foresta è così fitta, abbiamo
la speranza di non perderle.

— Ma poi?...

— Se possiamo seguirle fino al Todji non chiederei di più, poichè
allora avrei la certezza che i ladri cercano di spingersi fino ai
mercati di Teki o di Anum.

— Credi che abbiano molte ore di vantaggio su di noi?

— Avranno marciato tutta la notte, ma saranno costretti ad accordare
oggi un po’ di riposo ai cavalli. Forzando le marce, spero di poterli
raggiungere prima di tre o quattro giorni.

— Ma si lascieranno inseguire senza cercare d’arrestarci?...

— Tutto dipenderà dal loro numero. Se sono pochi si limiteranno a
fuggire colla massima celerità, se sono in parecchi cercheranno di
certo di crearci degli imbarazzi o d’impedirci di stringerli troppo
da vicino, ma non siamo uomini da inquietarci. È bensì vero che tutti
i dahomeni sono coraggiosi, ma anche noi non abbiamo certo paura di
loro. —

I due cavalli intanto, vivamente aizzati dai due schiavi, li avevano
raggiunti, quantunque fossero eccessivamente carichi, mentre Asseybo
si era spinto più innanzi dietro alle tracce, essendo più abile del suo
padrone.

La foresta si manteneva sempre assai fitta e solo di quando in quando,
a grandi distanze, si trovavano delle radure. Era un continuo caos di
tronchi, di rami, di foglie, di liane e di radici. Ora erano macchioni
di cedri i cui fiori spandevano all’intorno acuti profumi, o gruppi
immensi di ebani che avrebbero fatto la fortuna di qualche tribù che
avesse voluto approfittarne, o di acajù dal legno non meno prezioso
e non meno ricercato per la fabbricazione dei mobili di lusso, o di
_constiawa_ dai quali alberi si ricava una tintura molto pregiata, di
colore giallo zafferano, di enormi _cauciù_ che danno la gomma e non
pochi _tek_, alberi che raggiungono delle altezze imponenti e dai quali
si ricava un legname così resistente da sfidare perfino le palle di
cannone.

In mezzo a quei vegetali che confondevano reciprocamente le loro fronde
ed i loro rami, si vedevano svolazzare bande di pappagalli grigi e
verdi, di grossi avvoltoi e anche alcune aquile, mentre sui tronchi si
vedevano correre miriadi di bellissime lucertole colla testa gialla, il
corpo grigio ferro e la coda a tre colori ossia rossa, bianca e nera.

Questi animaletti si trovano dappertutto nei paesi della Costa d’Avorio
e soprattutto nelle capanne dei negri dove si vedono, a tutte le ore
del giorno, correre sui soffitti e lungo le pareti, occupati a dare la
caccia agli ospiti pericolosi, ossia agli scorpioni dal morso doloroso,
alle tarantole ed ai terribili ragni-vampiri.

Come si può immaginare, sono animaletti rispettati da tutti i negri per
i servigi immensi che rendono e perciò si propagano straordinariamente.

Non mancavano le scimmie in mezzo a quelle grandi foreste. Di tratto
in tratto, sulle cime di qualche albero fruttifero, si vedevano delle
piccole truppe di quelle scimmie chiamate drilli, quadrumani affini ai
mandrilli, ma non pericolose come questi ultimi.

Sono molto più piccole, non essendo più alte di settanta centimetri,
hanno il pelame olivastro sul dorso, ma biancastro sotto, mentre il
muso è nerissimo e le mani ed i piedi color del rame.

La loro barba, che è folta assai e che poi sale fino sul cranio
formando una specie di cappuccio, dà loro un aspetto comicissimo.

Vedendo passare la carovana s’affrettavano a guadagnare le più alte
cime degli alberi, mettendosi fuori di portata dai loro assalti e di
lassù, manifestavano le loro inquietudini con grida assordanti.

Dopo il mezzogiorno però, la carovana fece l’incontro d’un branco di
scimmie ben pericolose. Stava passando attraverso ad un macchione di
goyavi e di sicomori, quando un ramo di considerevole grossezza cadde
dinanzi ad Antao, il quale per poco non ne ebbe spaccato il cranio.

Il portoghese, furioso, afferrò rapidamente la carabina credendosi
assalito da qualche negro nascosto su qualche albero, ma invece d’un
uomo vide sulla cima d’un’acacia una orribile scimmia che rideva a
crepapelle, come fosse lieta di quel pessimo scherzo che per poco
mandava il brav’uomo all’altro mondo.

Doppiamente arrabbiato, Antao, che si trovava a cinquanta passi dai
compagni, puntò il fucile e senza curarsi se commetteva una imprudenza,
fece fuoco.

Il quadrumane, colpito nel cranio, interruppe le sue risa per mandare
un urlo acuto e piombò al suolo come un sacco di cenci, fracassandosi
le ossa.

Quella scimmia era senza dubbio la più brutta che Antao avesse fino
allora veduta. La sua testa era veramente spaventosa con quelle due
rigonfiature rigate che gli deturpavano le gote, con quella bocca larga
e sporgente, armata di acuti denti, con quella barba arruffata color
arancio vivo e quel cranio piramidale.

Il suo corpo massiccio, robusto, coperto d’un pelame ispido, aveva
tutte le tinte immaginabili. Era verde oliva e nera sul dorso, bruno
chiaro sul ventre e sui fianchi, il petto giallognolo, le mani e gli
orecchi neri ed il naso rosso fuoco.

La sua statura poi oltrepassava il metro, non compresa la coda che era
appena visibile.

— Ehi, Antao!... — gridò Alfredo, vedendo l’amico assorto in una lunga
contemplazione. — Contro chi hai fatto fuoco?...

— Contro la tavolozza d’un pittore, — rispose il portoghese, ridendo.

— Contro una tavolozza?...

— Vieni a vederla e sarai persuaso. —

Alfredo, quantunque fosse certo che l’amico scherzasse, tornò indietro,
ma appena ebbe dato uno sguardo alla scimmia, afferrò Antao per un
braccio, dicendogli:

— Fuggi!... Simili tavolozze sono pericolose, mio caro.

— Ma è una scimmia e non già un gorilla.

— È un mandrillo e questi quadrumani hanno tali denti da farti a pezzi.
Fuggiamo prima che giungano i compagni del morto.

— Non chiedo di meglio, amico, — rispose Antao. — Ne ho avuto
abbastanza del gorilla, per attirarmi ora addosso la collera di altre
scimmie. —

Fortunatamente nessun mandrillo si fece vedere, sicchè poterono
raggiungere tranquillamente la carovana senza essere inquietati.

Asseybo intanto, che precedeva tutti per non smarrire le tracce dei
ladri, aveva trovato un altro oggetto appartenente alla giovane negra,
e cioè la sua fascia rossa che era rimasta appesa ad un ramo basso d’un
grande cedro.

Non si poteva ammettere che l’amazzone l’avesse perduta, avendogliela
veduta attorno ai fianchi, strettamente annodata. Doveva indubbiamente
averla lasciata cadere per indicare il suo passaggio attraverso quella
vasta boscaglia, certa che gli uomini bianchi, derubati dei loro
effetti e dei loro animali, avrebbero seguite le tracce dei fuggiaschi.

Verso il tramonto, sull’opposta riva dell’Aka, fiume che scaricasi
nel lago Anglo, nei pressi di Krikor, fu trovata anche la cartucciera
dell’amazzone pendente da un altro ramo, ma, in modo da poter essere
veduta dal primo individuo che fosse passato per di là.

Accanto alla pianta si scorgevano gli avanzi d’un fuoco e ciò indicava
che i fuggiaschi dovevano essersi fermati colà per preparare il pasto e
per far riposare i cavalli.

— Ora non possiamo più dubitare della fedeltà di quella brava ragazza,
— disse Antao ad Alfredo.

— Sì, — rispose questi. — Mantiene il suo giuramento.

— Però quelle canaglie devono sempre avere un grande vantaggio su di
noi e sarà difficile che noi possiamo raggiungerli.

— Non spero di poterli sorprendere nella foresta, Antao. I nostri
animali sono troppo carichi per poter gareggiare con quelli che ci
hanno rubato, ma a me basta che continuino a fuggire verso l’ovest,
ossia verso gli Ascianti.

— Ma non avremo delle noie in quel paese di barbari?...

— Gli Ascianti non sono più civili dei dahomeni, è vero, ma non osano
molestare gli Europei, dopo che hanno provato la forza delle armi
inglesi.

— Quale pericolo potrebbero correre se ci tendessero una imboscata e ci
massacrassero tutti?... Chi andrebbe a raccontarlo agli Europei della
Costa?...

— È vero, ma una superstizione fortunata rende inviolabile la vita
degli uomini bianchi.

— Forse che gli Ascianti ci credono uomini discesi dal cielo?...

— No, ma in causa d’una profezia che rimonta alla fine del primo quarto
di questo secolo. In quell’epoca i grandi _cumfos_, ossia i profeti
del regno, hanno predetto che giungerebbe un tempo in cui il loro paese
sarebbe stato costretto a cambiare religione, usi e costumi per opera
di uomini bianchi protetti dai _feticci_, aggiungendo che se uno di
quegli uomini venisse ucciso, le più spaventevoli calamità avrebbero
colpito la dinastia ed il suo popolo.

In seguito a quella profezia, per tema di uccidere uno di quegli uomini
protetti dai _feticci_, fu decretata una legge speciale colla quale
si proibisce severamente a qualunque, anche ai re, di sacrificare
qualsiasi europeo che metta i piedi sul territorio degli Ascianti.

— Allora non temo più per la mia pelle.

— Puoi vivere tranquillo, specialmente nella nostra qualità d’italiani
e di portoghesi. Se fossimo inglesi, chissà, potremmo aspettarci
qualche brutta sorpresa.

— Si dice che gli Ascianti non abbiano torto ad odiare gli Inglesi.

— La guerra mossa dall’Inghilterra a quel popolo non è stata giusta,
Antao, e l’odio se lo sono meritato. Non ha avuto altro scopo, si può
dire, che di derubare gli Ascianti della grande quantità d’oro che
possedevano.

Dopo d’aver incendiata la capitale e di aver imposto ai vinti un enorme
tributo di guerra, accorgendosi che gli Ascianti erano ancora ben
forniti d’oro, cercarono altri cavilli per imporne un secondo che colle
minaccie ottennero.

Come puoi immaginarti, gli Ascianti amano l’Inghilterra come il fumo
negli, occhi e se noi appartenessimo a quella nazione, potremmo pagare
cara l’imprudenza di avventurarci sulla riva del Volta. —

In quel momento si vide Asseybo, che si trovava a dieci passi da
loro, cadere al suolo fracassando un ramo che pareva fosse stato
appositamente gettato attraverso quella specie di sentiero, quindi
rialzarsi prontamente, gridando coll’accento del più vivo terrore.

— Fuggite!... Fuggite!... —




CAPITOLO XV.

La caccia ai rapitori


Il negro, i due dahomeni e perfino i due cavalli, presi da un
inesplicabile terrore, si erano dati ad una fuga precipitosa,
quantunque nessun animale fosse comparso dinanzi a loro.

Antao ed Alfredo, credendo che sotto le macchie si celasse qualche
leone o qualche leopardo, invece di seguire i loro uomini si erano
arrestati, armando precipitosamente i fucili, pronti a far fronte al
pericolo.

Con loro non poca sorpresa, non udirono alcun ruggito, nè alcun urlo
che potesse giustificare la paura dei negri e dei due cavalli, nè
videro in alcun luogo muoversi i rami delle macchie.

— Ma cosa avrà veduto Asseybo? — chiese il portoghese, sempre più
stupito. — Eppure quel negro è coraggioso e non si spaventa per un
nonnulla.

— Che abbia scambiato qualche grossa radice nera per un serpente?... —
mormorò Alfredo. — Guardo dappertutto, ma non vedo assolutamente nulla
che possa spaventarci. —

Ad un tratto però udì in aria un acuto ronzìo ed alzati gli occhi, vide
volarsi incontro uno sciame d’insetti un po’ più grandi delle nostre
vespe. Un grido di terrore gli sfuggì:

— Antao!... Fuggiamo!... Le _elovas_!... —

Il portoghese, quantunque si meravigliasse che il compagno avesse tanta
paura di uno sciame di vespe, vedendolo levarsi rapidamente la giacca,
coprirsi la testa ed il viso e quindi fuggire a precipizio, credette
saggia cosa imitarlo, correndogli dietro.

Le vespe però volavano rapidamente e come fossero furiose di
vendicarsi, li perseguitavano senza posa, ronzando attorno a loro e
cercando d’introdursi fra le pieghe delle giacche.

Alfredo, quantunque non potesse vederci bene, cercava dirigersi verso
il luogo ove si udivano le grida dei negri. Pareva che avessero trovato
un ricovero contro gli assalti di quegli ostinati insetti, poichè
urlavano senza posa:

— Qui padrone!... Presto, qui padrone!... —

Attraversato un lembo della foresta, i due fuggiaschi scorsero i
loro uomini ed i due cavalli tuffati in uno stagno che pareva fosse
profondo, poichè non sporgevano che le loro teste.

Alfredo vi balzò dentro senza esitare ed il portoghese, che si sentiva
addosso quelle dannate vespe, gli tenne dietro, mentre i negri, coi
loro cappelli di foglie di cocco, respingevano i piccoli assalitori con
abbondanti getti d’acqua.

Parve che quegli spruzzi riuscissero molto incomodi alle vespe perchè
si affrettarono ad innalzarsi e quindi a volare verso i boschi in
gruppo serrato.

— Se ne sono andate? — chiese Antao, che non sapeva ancora decidersi
a levarsi la giacca protettrice. — Morte di Urano e di Saturno!... Ma
erano idrofobe adunque?...

— L’acqua non fa per loro, — rispose Alfredo. — Fortunatamente i nostri
uomini hanno trovato questo stagno che ci ha salvati.

— Bah!... Convengo che le punture delle api non sono piacevoli,
Alfredo, ma anche senza quest’acqua non ci sarebbe toccato un guaio
serio.

— T’inganni, Antao. Conosci quelle vespe?...

— No, ma mi parvero simili alle nostre.

— Ma tu ignori che veleno terribile iniettano quegli insetti che dai
negri sono chiamate _elovas_. Ti produce un tale dolore, da impazzire o
poco meno e che ti dura due o tre giorni.

Le _elovas_ sono più temute delle mosche _ibolai_, le quali posseggono
dei pungiglioni così acuti da passare perfino i calzoni. Non vi è alcun
negro che osi avvicinarsi agli alberi dove hanno costruito il loro
nido.

— Ma chi le ha disturbate?...

— Io, — rispose Asseybo. — Ho incespicato in qualche cosa che era stata
tesa attraverso il sentiero, forse qualche liana e sono caduto addosso
ad un ramo che era stato appoggiato appositamente al cespuglio abitato
dalle _elovas_. Sentendo muoversi i rami sui quali avevano costruiti i
nidi, temendosi forse assalite, si sono affrettate a darci addosso.

— Un ramo appoggiato appositamente? — chiese Alfredo.

— Sì, padrone, e qualcuno lo aveva collocato attraverso il sentiero,
per far scatenare le _elovas_ contro l’imprudente che lo avesse urtato.

— Ma chi credi che sia, quel «qualcuno?»

— Uno dei ladri che inseguiamo, padrone.

— Furbi, quei furfanti! — esclamò Antao. — Forse speravano che le api
ci cacciassero in corpo tanto veleno, da diventare gonfi come otri.

— Ed immobilizzarci due o tre giorni per sfuggirci, — aggiunse Alfredo.
— Di queste astuzie bisogna attenderne ben altre, ma non ci avanzeremo
che con prudenza. —

Essendo intanto calata la notte, risolsero di accamparsi presso quello
stagno, quantunque non fosse prudente arrestarsi in quel luogo, che
poteva servire di abbeveratoio a tutti gli animali della foresta.
Avevano però la probabilità di ammazzare qualche capo di selvaggina ed
un buon arrosto di carne fresca lo desideravano tutti.

Fu con questa speranza che Antao ed Alfredo, dopo una cena frugale,
essendo a corto di provviste, andarono ad imboscarsi all’opposta
estremità dello stagno, nascondendosi in mezzo a quattro grossi alberi
che potevano proteggerli contro qualsiasi improvviso assalto.

Quell’attesa pareva da principio promettente, poichè appena l’oscurità
cominciò a diventare fitta, una banda di animali sbucò dalla foresta,
correndo allo stagno per dissetarsi, ma era composta esclusivamente di
sciacalli e nessuno dei due cacciatori si sentiva capace di fare onore
ad un arrosto di cane selvatico.

Più tardi, allontanatisi quei notturni predatori, videro avanzarsi
prudentemente un superbo leopardo, ma pareva che si dirigesse verso lo
stagno più spinto dalla speranza di sorprendere qualche vittima che per
dissetarsi. Accortosi però della presenza dei cacciatori e prevedendo
forse che nulla avrebbe avuto da guadagnare in una lotta con loro, con
un grande salto si rintanò nella foresta, andando a cercare altrove
prede meno pericolose.

Non vedendo comparire altri animali, i due cacciatori, ormai disperando
di abbattere qualche succulenta gazzella stavano per tornarsene
al campo, quando alzando gli sguardi sui rami d’un albero vicino,
scorsero parecchi punti luminosi, giallastri, che ora apparivano ed ora
scomparivano.

— Sarei curioso di sapere cosa vi è lassù, — disse Antao. — Che siano
uccellacci notturni?

— Sarebbero volati via, — rispose Alfredo. — Credo invece che lassù ci
sia l’arrosto che cerchiamo.

— Allora saranno scimmie e se sono tali lascio l’arrosto ai tuoi negri.

— No, Antao, non sono scimmie e te lo proverò. —

Il cacciatore puntò la carabina e fece fuoco. Subito si videro quei
punti luminosi balzare attraverso i rami dell’albero, mentre un corpo
precipitava al suolo emettendo un debole grido.

— Non mi ero ingannato, — disse Alfredo. — L’arrosto è venuto, piccolo
sì ma squisito. —

Il portoghese, senza sapere di cosa si trattasse, non volendo essere da
meno del compagno mirò due punti luminosi che brillavano all’estremità
d’un ramo e fece capitombolare un altro corpo.

— Vediamo ora cosa sono, — disse.

Alfredo aveva raccolto le due prede e le guardava con curiosità.
Erano due animaletti grossi come scoiattoli, non essendo più lunghi
di diciotto o venti centimetri, col corpo esile, il pelame corto,
fitto, grigio fulvo sul dorso e biancastro sul ventre e con due orecchi
straordinariamente grandi per degli esseri così piccoli.

— Che animali sono? — chiese Antao.

— _Galangoni_, — rispose il compagno. — Sono animaletti di abitudini
notturne, che vivono ordinariamente sugli alberi nutrendosi d’insetti e
delle gomme delle piante resinose.

— Hanno degli orecchi veramente mostruosi!

— Ma utili per loro, poichè per dormire senza venire disturbati, li
ripiegano chiudendo perfettamente l’udito.

— Quest’arrosto lo serberemo per la colazione. —

Essendo prossima la mezzanotte, i due cacciatori tornarono al campo per
gustare un po’ di riposo sotto la guardia di un dahomeno.

Ai primi albori la carovana, attraversato il Dschawoe in prossimità
delle sue sorgenti, un fiume d’un corso non breve e che va a scaricarsi
nel Volta, si rimettevano in marcia dietro le tracce dei fuggiaschi
che erano state ritrovate, dopo però lunghe ricerche, sull’opposta
riva. Quelle tracce si dirigevano ora in linea retta, verso l’ovest,
in direzione del Volta, fiumana grandissima che forma la frontiera
orientale del potente regno degli Ascianti. Ormai non vi era più da
ingannarsi: i ladri si recavano in qualche cittadella di quel regno
per disfarsi degli oggetti rubati ai due bianchi con maggior profitto,
essendo i villaggi dei Krepi troppo poveri per fare simili acquisti e
sprovvisti specialmente di metalli preziosi.

Alfredo aveva creduto per un momento che avessero avuta l’intenzione di
recarsi a Kpandu, una delle più grosse borgate dei Krepi, situata al
di là del 7° di latitudine settentrionale, ma la linea quasi diritta
che mantenevano le tracce e sempre verso occidente, lo aveva convinto
del contrario. I ladri ormai dovevano mirare ad Abetifi, che è una
delle più importanti città degli Ascianti, celebre pei suoi mercati
settimanali che attirano numerose carovane e molti ricchi negozianti di
Cumassia, la capitale del regno.

Le foreste che si estendevano al di là dello Dschawoe, permettevano
fortunatamente di procedere con maggior lestezza, non essendo ingombre
di liane e di radici. Gli alberi erano riuniti in grandi gruppi, ma
lasciavano qua e là degli spazi liberi abbastanza vasti ed affatto
privi di quegli intricatissimi cespugli che ordinariamente occupano le
radure delle foreste africane.

Asseybo che si manteneva sempre alla testa della carovana, osservava
scrupolosamente le piante vicine alle tracce lasciate dai fuggiaschi,
le quali erano sempre visibili, mantenendosi il suolo umido, ma
non riusciva più a scoprire alcun segnale della giovane negra. Era
da supporre che i suoi rapitori si fossero accorti degli oggetti
lasciati cadere per guidare gl’inseguitori e che ora la sorvegliassero
attentamente.

Sospettando poi sempre qualche nuova astuzia, il bravo negro guardava
attentamente anche il suolo, per tema di porre i nudi piedi su qualche
spino avvelenato nascosto entro terra o di cadere in qualche profonda
buca armata di un palo aguzzo e ricoperta accuratamente in modo da
ingannare perfino le fiere, astuzie ben note ai dahomeni.

Sentiva per istinto che quei furfanti, dopo il primo tentativo di
arrestarli per alcuni giorni colle atroci punture delle pecchie, non
avrebbero tardato a tendere altre insidie e forse più pericolose, per
sbarazzarsi di loro.

I suoi timori, pur troppo, dovevano ben presto avverarsi.

La carovana, dopo una breve fermata sull’opposta riva del Deise, altro
affluente del Volta, erasi da qualche ora messa in marcia, quando
l’olfatto del negro fu colpito da un odore di bruciaticcio, che il
vento portava dall’ovest.

Non era però quell’odore particolare che tramandano le piante
resinose che vengono divorate dalle fiamme, ma un altro più acuto, più
sgradevole e che pareva prodotto da ammassi di carne bruciata.

— Padrone, — disse, tornando rapidamente indietro. — Qualche cosa
succede in mezzo od ai confini della foresta.

— Che quei furfanti abbiano incendiata la boscaglia per costringerci a
retrocedere? — si chiese Alfredo, con inquietudine. — Questo odore di
bruciaticcio può annunciarci un grave pericolo.

— Non sarà facile che questa immensa foresta prenda fuoco come uno
zolfanello, — disse Antao.

— Possono aver incendiati dei macchioni d’alberi resinosi, — rispose
Alfredo.

— Ma si direbbe che mille cuochi stanno arrostendo dei milioni di
costolette. Non senti che odore?...

— Sì, Antao.

— Da cosa provenga?...

— Non lo so.

— Mandiamo Asseybo su un albero. Di lassù potrà forse vedere se è la
foresta che brucia. —

Il negro fu lesto a obbedire. Avendo osservato che un grosso tek
lanciava la sua cima molto più in alto di tutti gli alberi vicini,
aiutato dai due schiavi potè raggiungere i primi rami e quindi issarsi
fino agli ultimi.

Dall’alto di quell’osservatorio il suo sguardo potè spaziare
liberamente sopra tutta la foresta e scorgere distintamente, a meno di
due chilometri di distanza, alcune colonne di fumo che s’innalzavano
presso un largo fiume, il quale tagliava tutto l’orizzonte occidentale.

Pareva però che invece degli alberi bruciassero delle erbe, poichè in
quella direzione non si vedevano che rade piante e nessuna ardeva.

Ad un tratto i suoi sguardi videro avanzarsi fra gli alberi vicini,
come un largo serpente di colore oscuro, il quale minacciava di
tagliare in due la foresta.

— Canaglie, — mormorò. — Ora comprendo tutto. —

Si lasciò cadere di ramo in ramo con rapidità fulminea e giunto a terra
afferrò per la briglia il primo cavallo e si mise a correre, gridando:

— Presto, padrone, o non potremo giungere al fiume prima di tre o
quattro giorni. Frustate i cavalli o sarà troppo tardi. —

Senza chiedere spiegazioni, comprendendo che se Asseybo così agiva
doveva avere le sue buone ragioni, i due europei ed i dahomeni si
precipitarono dietro a lui, bastonando i cavalli per farli galoppare.

Il negro correva sempre, descrivendo un semicerchio, come se volesse
sfuggire un gran pericolo che pareva dovesse venire dal nord-ovest
e gettava intorno sguardi smarriti come se temesse da un istante
all’altro di venire assalito.

— Diavolo d’un paese, — brontolava Antao, che trottava a fianco dei
cavalli. — Si può mai essere un po’ tranquilli? Cosa sta per accadere
ora?... Ieri le vespe ed oggi avremo qualche nuova specie di calabroni
o di pipistrelli!... —

Ad un tratto udirono Asseybo a gettare un grido di trionfo.

— Ehi, negro del malanno!... — urlò Antao. — Sono fuggiti anche i
calabroni?... Se mi fai correre ancora un po’ scoppio o mi prendo un
colpo di sole.

— Presto!... — gridò Asseybo. — Siamo giunti in tempo!...

— In tempo di cosa?... — chiese Antao, che con un ultimo sforzo lo
aveva raggiunto.

— Di passare salvando la nostra pelle.

— Da chi?...

— Guardate!... —

Il portoghese guardò sotto gli alberi, vide e scoppiò in una risata
fragorosa.

— Un gorilla mi strangoli se costui non è pazzo!... — esclamò.

— No, Antao, — disse Alfredo. — Asseybo non è pazzo e se sei ancora
vivo, puoi ringraziare lui solo.

— Ma.... non vedi che sono formiche?...

— Sì, delle formiche, ma che non lascierebbero un brano di carne
nè addosso a te, nè addosso ad un feroce leopardo. Mio caro, siamo
sfuggiti ad un grave pericolo ed ancora una volta i ladri hanno fatto
un buco nell’acqua. —




CAPITOLO XVI.

Le formiche carnivore


Se il portoghese avesse abitato per qualche anno in quelle regioni
equatoriali, non avrebbe di certo riso vedendo avanzarsi, attraverso
alla foresta, quella colonna di formiche che si distendeva come un
serpente gigantesco e tanto meno avrebbe chiamato pazzo il negro,
se avesse conosciuto da quale specie di insetti stavano per venire
assaliti.

L’Africa, al pari dell’America meridionale, è straordinariamente
popolata di formiche di varie specie, quasi tutte assai più grandi
di quelle che abbiamo in Europa e, cosa davvero strana per insetti
di così piccole dimensioni, quasi tutte avidissime di carne e quindi
ferocissime.

Alcune, come le bianche per esempio, che vivono in nidi di forma
piatta che rassomigliano a giganteschi funghi, si limitano a divorare
i legni vecchi delle piante di cotone o le travi delle capanne dei
negri, compromettendo la sicurezza delle abitazioni; altre nere, che si
tengono nascoste nelle sabbie, si accontentano di mordere ferocemente
i piedi dei negri, causando acuti dolori, ma vi sono altre ancora che
vogliono delle vittime da scarnare.

Tali sono le termiti, le più grandi delle specie e le formiche rosse,
le quali si nutrono di carne, cercandola dovunque con una avidità senza
pari.

Guai all’uomo o all’animale che sorprendono addormentati presso i loro
formicai od anche in piena foresta durante le loro peregrinazioni!...
In un momento li coprono, mettono in opera le loro piccole ma
formidabili tenaglie e malgrado la resistenza disperata della vittima
in poco tempo, anzi in pochi minuti, la divorano viva non lasciando
che le ossa, ma così ripulite che il migliore preparatore anatomico non
farebbe di più.

Ma ve ne sono altre ancora bene più formidabili delle termiti, delle
rossastre, delle biancastre, delle formiche acqua bollente, ecc. e
queste sono quelle conosciute dai popoli dell’Africa equatoriale con
nome di _lascicuai_.

Questi insetti sanguinari sono gli zingari della specie, poichè non
hanno dimore stabili, quindi non fabbricano nidi. Errano continuamente
in mezzo alle foreste, marciando in file lunghe parecchi chilometri,
divorando sul posto quanti animali, piccoli o grossi, feroci o
inoffensivi possono sorprendere ed obbligando perfino i negri a
fuggire, quando quei piccoli mostri incontrano sulla loro via dei
villaggi.

Quelle formiche che s’avanzavano attraverso al bosco in fitti
battaglioni, dovevano essere state cacciate in quella direzione dai
negri fuggiaschi, onde cercare di sbarrare la via agli inseguitori e
forse per far loro perdere gli animali.

L’incendio che avvampava in direzione del fiume, bruciando una prateria
di erbe secche, non doveva aver avuto altro scopo e le _lascicuai_, che
hanno una così grande paura del calore da tenersi persino al riparo dei
raggi solari, si erano affrettate a deviare, fuggendo nel bosco.

Fortunatamente Asseybo le aveva scorte a tempo e sospettando un tiro
birbone da parte dei ladri, con quella rapida marcia era riuscito a far
passare la piccola carovana, prima che la via fosse stata tagliata da
quell’esercito di feroci insetti.

— Un ritardo di pochi minuti e noi venivamo arrestati e forse per
parecchi giorni, — disse Alfredo, che si era affrettato ad allontanarsi
da quella fiumana di corpicini nerastri.

— Ma credi che queste emigrazione continui molto?... — chiese Antao.

— Chissà di quanti miliardi di formiche si comporrà quell’esercito. Non
vedi come la colonna si mantiene stretta?...

— Infatti non è più grossa d’un serpente, ma che ordine di marcia!... I
nostri soldati non camminerebbero meglio.

— E guarda come quei battaglioni mantengono una linea rigorosamente
diritta e compatta.

— È vero Alfredo e neppure un insetto si sbanda.

— Gli ufficiali non lo permetterebbero.

— Gli ufficiali?...

— Sì, Antao. Se noi potessimo avvicinarci senza correre il pericolo di
venire assaliti, potrei farti vedere i capi che marciano sui fianchi
delle colonne per impedire qualsiasi sbandamento.

— Oh!... È incredibile!... Quanta intelligenza in insetti così
piccoli!...

— Quegli ufficiali appartengono alle caste guerriere.

— Ma come, forse che le formiche sono divise in caste?...

— Certamente, Antao. Le termiti, per esempio, sono divise in due caste
nettamente distinte che non si possono mai mescolare: le guerriere,
che sono le più forti e le più grandi, incaricate esclusivamente di
difendere i formicai e le industriali che devono solamente occuparsi
dello scavo delle gallerie sotterranee e del fornimento dei viveri.

— È incredibile! — esclamò Antao, al colmo dello stupore.

— Ma vi è di più, amico mio. Certe specie di formiche, oltre queste due
caste ne hanno una terza costituita dagli schiavi.

— Morte di Saturno!... Ma vi sono anche le formiche schiaviste?...

— Sì, Antao e queste sono le formiche chiamate _amazzoni_ e quelle
_color sangue_ che abitano l’America meridionale.

— Ma le formiche schiave appartengono alla stessa specie?...

— Mai più. Quando le _amazzoni_ o le _color sangue_ hanno bisogno
di schiavi, intraprendono delle spedizioni contro le formiche dette
_nero-cineree_, nè più nè meno come fanno i cacciatori di schiavi
dell’Africa centrale. Essendo più forti, vincono facilmente le
avversarie, invadono i loro formicai, non senza però incontrare
là dentro una tenace resistenza, e s’impadroniscono delle larve
_nero-cineree_. Più umane dei cacciatori di negri, non le maltrattano,
nè incrudeliscono contro i vinti, ma se le portano nei loro formicai,
le affidano alle cure di altre schiave, le fanno nutrire al pari delle
altre e quando sono completamente sviluppate le obbligano a lavorare,
ma senza adoperare la violenza.

— E non pensano a ribellarsi, quelle disgraziate prigioniere?...

— Tutt’altro, Antao, poichè fra le diverse caste, tra le quali non vi
è differenza di trattamento, regna una buona armonia invidiabile e le
guerriere e le schiave finiscono coll’amarsi come appartenessero ad una
stessa famiglia.

— Quanto avrebbero da imparare certi popoli da quei piccoli esseri!...
— esclamò Antao. — Si può dire che sono maestri di civiltà.

— Padrone, — disse in quel momento Asseybo. — Prima che le _lascicuai_
s’accorgano della nostra presenza, affrettiamoci a frapporre il fiume
fra noi e loro.

Le erbe della prateria vanno spegnendosi e le formiche potrebbero
deviare ancora.

— Ma ritroveremo le tracce dei fuggiaschi, ora che la cenere le avrà
ricoperte?...

— Se i ladri hanno attraversato il fiume in questo luogo, vuol dire
che esiste un guado da loro conosciuto. Se lo troviamo anche noi, sulla
sponda opposta ritroveremo anche le loro tracce.

— È vero, Asseybo. Andiamo a cercare questo guado. —

L’incendio della prateria, che si estendeva dalle rive del Volta ai
primi alberi della grande foresta, era già cessato in parecchi luoghi
per mancanza di combustibile e si poteva tentare il passaggio senza
correre alcun pericolo. Avvampava però ancora verso il nord, seguendo
il corso del fiume, lanciando in aria nuvoloni di fumo denso e nembi
di scintille, ma i grossi tronchi degli alberi pareva che opponessero
una barriera insuperabile e forse più di tutto era il terreno umido che
impediva alle fiamme di estendersi.

La piccola carovana, che non voleva perdere troppa via per non lasciare
tempo ai ladri di dileguarsi dopo di essersi sbarazzati del bottino,
si avventurò sulla cenere ancora calda che copriva la pianura, ma i
tre negri, che erano scalzi, furono ben presto costretti a salire sui
cavalli per non guastarsi le piante dei piedi.

La traversata si compì senza incidenti e mezz’ora dopo i cinque uomini
ed i due animali si trovavano sulla riva sinistra del Volta.

Questo fiume, che è uno dei più grandi che solcano le regioni della
Costa d’Avorio, quantunque bagni il possedimento inglese, è ancora
oggidì poco conosciuto e non si sa quale sia la lunghezza del suo
corso, nè si conosce precisamente dove abbia le sue sorgenti.

Pare però che venga formato da due considerevoli corsi d’acqua ai quali
furono ultimamente imposti i nomi tedeschi di Schwarger e di Weisser
e che avrebbero le loro sorgenti l’uno nella regione dei Tiebas, verso
il 12° di lat. N e 13° di long. E e l’altro sulla regione dei Gurunssi
verso il 13° di lat. ed il 16° di long.

Si sa che si apre il passo attraverso le regioni dei Dafina, dei
Mandinghi e dei Gamman, che poi piega verso l’est scorrendo lungo la
frontiera degli Ascianti per scaricarsi in mare per un largo estuario,
nei dintorni della cittadella di Ada, una delle più piccole del
possedimento inglese della Costa d’Avorio.

Là dove era giunta la piccola carovana, il fiume aveva una larghezza
considerevole, superiore ai quattrocento metri, ma l’acqua era bassa
e poteva permettere il guado, senza il pericolo di un assalto da parte
dei coccodrilli che sono numerosi su quel corso d’acqua.

— Il passaggio sarà facile, — disse Asseybo, che era sceso sulla
sponda per misurare la profondità della corrente. — Se i ladri lo hanno
attraversato, noi possiamo fare altrettanto.

— Credi che siano passati di qui? — chiese Alfredo.

— Sì, padrone poichè laggiù vedo che il fiume si restringe e
l’acqua sarà tanto alta da affogare un cavallo grande quanto un
elefante. —

I due europei si spogliarono non conservando che le maglie, poi tenendo
nella sinistra le carabine scesero nel fiume dietro ad Asseybo, seguiti
dai due schiavi che conducevano i cavalli.

   [Illustrazione: Era un elefante selvaggio, uno dei più grossi
   e dei più belli.... (Pag. 125).]

Sott’acqua, ad una profondità di un metro, pareva che si estendesse un
banco di sabbie di notevole larghezza, poichè nè a destra nè a sinistra
il fondo non accennava a mancare. Se si prolungava molto innanzi,
vi era la probabilità che la carovana potesse guadare il fiume senza
bagnare le casse contenenti le provviste e le munizioni.

La corrente, che era debole, favoriva la traversata; il negro però
non procedeva che con estrema prudenza e se non dopo d’aver ben
esplorato il fondo con un bastone acuminato, non ignorando quali ospiti
pericolosi ricovera il fiume.

Quelle precauzioni gli salvarono la vita, giacchè nel momento che stava
per varcare un canaletto aperto nel banco di sabbia, mise i piedi su
di una massa ruvida che subito gli sfuggì, facendogli quasi perdere
l’equilibrio.

Immaginandosi di cosa si trattava, fu pronto a retrocedere e fu una
vera fortuna per lui, perchè tutto d’un tratto una coda mostruosa,
armata di grosse scaglie ossee, emerse sferzando l’acqua a destra ed a
sinistra, col fragore del tuono.

— Morte di Urano! — gridò Antao. — Un ippopotamo?...

— Un coccodrillo! — gridò Alfredo. — Fermi tutti!... —

Il mostro, che forse sonnecchiava in fondo al fiume, sentendosi
disturbare, aveva avventato quel poderoso colpo di coda sperando di
abbattere l’importuno; vedendo però che nessuno era caduto sul banco,
cacciò fuori la sua orribile testa, mostrando la sua enorme gola e
battendo le potenti mascelle armate di lunghi denti.

Comprese senza dubbio con quali nemici aveva da fare, perchè subito
s’immerse e contrariamente a quanto si aspettava il portoghese,
s’affrettò ad allontanarsi.

— Ecco un coccodrillo pauroso, — disse Antao, che aveva armata la
carabina. — Mi avevano detto che erano formidabili, ma sembra che
questo non lo fosse affatto.

— Che i coccodrilli siano realmente terribili predatori è vero, sono
però anche eccessivamente prudenti, — rispose Alfredo. — Se ti hanno
narrato che assalgono sempre quando si vedono delle persone vicine,
hanno mentito.

— L’avevo anche letto sui libri di molti viaggiatori.

— Fole, Antao. Questi sauriani si tengono quasi sempre lontani
dagli uomini e si guardano bene dall’assalirli. Non dico però che
se tu cadessi in un fiume popolato da quei bestioni ti lascierebbero
raggiungere tranquillamente la sponda.

— Si dice che è pericoloso attingere acqua nei fiumi da loro abitati.

— È vero, per le donne che sono inermi. Quei mostri le attendono
nascosti presso le rive e quando quelle disgraziate si curvano per
riempire i loro vasi, con un salto le afferrano e le trascinano nel
letto del fiume.

Del resto sono così diffidenti, che basta la vista di un battello
qualunque per metterli in fuga. Se sono molti si lasciano talvolta
anche avvicinare; se sono pochi prendono il largo e difficilmente si
lasciano uccidere.

— Ed il coccodrillo che abbiamo fatto fuggire non verrà, nuotando
sott’acqua, a tagliarci le gambe?

— Non crederlo. Basterà che Asseybo batta l’acqua col suo bastone per
farlo fuggire. —

Il negro, passato il primo istante di sorpresa, si era rimesso in
cammino continuando a frugare il fondo per accertarsi della sua
solidità e per non mettere i piedi su di un secondo rettile che poteva
ammazzarlo con un solo colpo di coda.

Il banco fortunatamente si prolungava attraverso a tutto il fiume e
mantenendosi sempre compatto, sicchè la piccola carovana potè, dopo
venti minuti, giungere felicemente alla riva opposta, la quale era
coperta da alberi altissimi e frondosi.

Asseybo stava per salire il pendìo, quando mostrò ai due europei
un banco semi-nascosto da un gruppo di rocce, sul quale stavano
raggruppati dodici o quindici coccodrilli fra grandi e piccoli,
scaldantisi ai torridi raggi del sole.

— Che magnifica collezione! — esclamò Antao. — Mi sentirei tentato di
sparare qualche palla contro quei mostruosi animali.

— Sarebbe polvere sprecata, — rispose Alfredo. — Le loro scaglie sono
così dure, da far rimbalzare la palla della tua carabina. I soli punti
vulnerabili sono le ascelle e la gola, ma da rettili che ci tengono
alla loro pelle, non mostrano nè le prime, nè la seconda.

— Ma.... guarda, Alfredo!... — esclamò il portoghese, stupito. — Non
vedi tu degli uccelli entrare nelle gole aperte di quei mostri?...

— Sì, — rispose il cacciatore, sorridendo.

— E non chiudono le bocche per mangiarli?... È vero che mi sembrano
piccoli.

— Sono gli amici dei coccodrilli.

— Quegli uccelli?...

— Sì, Antao. Sono i _troichilus_, volatili che mai si separano da quei
formidabili rettili quando questi si tengono a galla e che rendono a
quelle bestiaccie dei buoni servigi, sbarazzando le loro mandibole dei
numerosi insetti che le ingombrano.

— Ed i coccodrilli rispettano quei piccoli volatili?

— Lo vedi come si cacciano impunemente fra le potenti mascelle,
soffermandovisi a lungo.

— Non avrei mai creduto che quei bruti sapessero cos’è la riconoscenza.

— Ah!...

— Cos’hai?...

— Vedi quei piccoli animali che s’avanzano prudentemente sulle sabbie
della riva?... —

Il portoghese guardò nella direzione indicata e vide, a due o trecento
passi, quattro animali grossi un po’ più d’un gatto, ma col corpo
più lungo, le gambe corte, il muso assai acuto, gli orecchi corti ma
larghi, ed il pelame lanoso, lungo, giallo ruggine, a riflessi fulvi
verso la coda.

Procedevano lentamente, procurando di tenersi celati dietro le
ripiegature del terreno, ma di quando in quando si arrestavano per
rimovere le sabbie con un lesto colpo di zampa.

— Dei gatti qui! — esclamò Antao. — Forse dei gatti selvatici?

— No, sono i più fieri nemici dei coccodrilli.

— Quegli animali così piccoli?... Vuoi burlarti di me?...

— Non ne ho mai avuta l’intenzione. Quegli animaletti sono icneumoni e
fanno guerra ai coccodrilli divorando le uova che questi depongono fra
le sabbie onde il sole le faccia schiudere.

— I furbi!...

— Ma quanto sono utili, mio caro. Senza gli icneumoni ben presto
i coccodrilli diventerebbero così numerosi, da rendere i fiumi
dell’Africa inaccessibili anche alle grosse barche. Orsù, lasciamo
quegli animaletti alle loro occupazioni e pensiamo ai ladri o
guadagneranno tanta via da non poterli più raggiungere. Stiamo in
guardia, poichè ora siamo sul territorio degli Ascianti. —




CAPITOLO XVII.

Il regno degli Ascianti


L’Ascianti, che la piccola carovana stava per attraversare per
raggiungere i ladri, è il più vasto ed anche il più ricco regno
dell’Africa occidentale, stendendosi fra il 1° ed il 4° di long. ovest
di Greenwich ed il 6° e l’8° di lat. settentrionale.

Al sud ha per confini i piccoli regni di Akim, di Aspin, di Deukera e
parte del possedimento inglese; all’ovest il fiume Comoe e al nord ed
all’est il fiume Volta e la regione dei Mandinghi.

Questo vasto paese compreso entro i suddetti limiti, si divide in due
parti nettamente distinte che ben poco si rassomigliano fra di loro.

Dalla parte dove scorre il Volta la regione è quasi tutta piana,
pochissimo abitata, attraversata da una sola strada che si chiama del
Nord, frequentata dagli Ascianti che si recano a Serim. Essendo però
ricca di corsi d’acqua, di tratto in tratto s’incontrano delle foreste
che sono abitate da numerosi stuoli di animali selvatici, di antilopi
di varie specie, da gazzelle, da cinghiali, da leoni, da leopardi, da
iene, da scimmie d’ogni genere, soprattutto da quelle nere col lungo
pelo e la barba bianca ed anche da truppe di colossali elefanti.

È in quelle immense pianure che si raccolgono milioni di quintali di
quelle grandi lumache grigie, delle quali se ne fa un consumo veramente
enorme dal popolo e soprattutto dagli abitanti della capitale che ne
mangiano mezza tonnellata ogni giorno.

La parte invece dove scorre il Comoe è montagnosa essendo attraversata
da parecchie catene che percorrono il regno in ogni senso, tutta
coperta di boschi superbi e soprattutto più popolata, essendo il
terreno molto fertile.

È là che si trovano Kumassia, la capitale del regno ora riedificata
dopo che gl’Inglesi la diedero alle fiamme, Wiawoso, Manso, Kintampo e
Bontuku, le città principali e più popolose.

Quantunque gl’Inglesi abbiano cercato tutti i mezzi per dissanguarlo,
l’Ascianti può considerarsi ancora come il regno più ricco della Costa
d’Avorio ed anche il più potente, tale da far fronte a tutti i popoli
vicini.

È anche la regione più salubre di tutta la costa, poichè il suo clima,
sebbene sia molto caldo, non è malsano e forse si deve attribuire
ciò alla quantità straordinaria dei suoi torrenti che scendono dalle
montagne dell’interno.

In certe parti dominano, specialmente nell’estate, le febbri, ma non
sono mortali come a Widah, a Porto Novo, nel Grande e Piccolo Popo e
nei possedimenti inglesi e francesi. Nemmeno attorno alla capitale
l’aria è insalubre, quantunque vi siano paludi e l’atmosfera sia
sovente carica delle esalazioni pestilenziali, emanati da centinaia
di cadaveri umani gettati sui letamai chiamati appetismi, specialmente
dopo le feste del sangue che si fanno anche tuttora, alla morte di un
monarca e durante l’incoronazione del principe successore.

                             . . . . . . .

La piccola carovana, giunta sull’opposta riva del Volta, si trovò in
mezzo ad un’altra foresta che pareva dovesse prolungarsi verso l’Afram,
un grosso affluente di destra, formata per lo più da acacie mimose,
alberi grandi quanto i nostri olmi e fors’anche di più, col tronco
del diametro di due a tre piedi, colla corteccia azzurrognola, coi
rami carichi di foglie lucenti che al calare del sole si piegano l’una
sull’altra come le sensitive e munite all’estremità di certi nodi,
dai quali escono dei piccoli tubi formanti un fiore complicatissimo,
rassomigliante ad un calice e di tinta violetta.

Queste piante, molto apprezzate nel Sudan ma trascurate dai popoli
della Costa d’Avorio, producono gran copia di eccellente gomma, la
quale trasuda dal tronco formando dei globi rossastri che pesano
sovente perfino due libbre, quantunque quella materia sia leggerissima.

Oltre alle mimose vi erano pure macchioni di platanieri, di elais,
d’alberi del cotone di enorme grossezza, di cedri, di datteri spinosi
e di ebani popolati da bande di uccelli chiassosi e dalle penne
variopinte e di scimmie di varie specie; di sicomori, di tamarindi già
carichi di frutta rinfrescanti e di _phavor_, i quali producono delle
frutta simili alle ciliegie ed egualmente saporite.

Asseybo, appena salita la sponda, cercò subito le tracce dei ladri e
fu tanto fortunato di ritrovarle duecento metri sopra il guado, in un
luogo dove era stato acceso il fuoco e dove si vedevano gli avanzi di
foglie mezzo rôse dai cavalli. —

Fu subito deciso di non accordare tregua ai fuggiaschi e quantunque
i due animali si mostrassero molto stanchi per l’eccessivo carico e
pei brevi riposi loro accordati, la piccola carovana si mise subito in
marcia, certa ormai di raggiungere i negri ad Abetifi, avendo notato
che le tracce piegavano leggermente verso il sud-ovest.

Camminarono incessantemente tutto il giorno, spingendo innanzi
gli animali a legnate, ma prima del tramonto si videro costretti
ad arrestarsi sulle rive dell’Afram. Uno dei cavalli era caduto
rifiutandosi ostinatamente di rialzarsi e l’altro non poteva proseguire
per molto ancora.

Essendovi ancora qualche ora di luce, Alfredo ed Antao ne
approfittarono per battere le macchie vicine, colla speranza di poter
tornare al campo con un po’ di selvaggina.

Avendo rimarcato in una radura umida che scendeva verso un corso
dell’Afram, delle tracce di zoccoli che parevano appartenere a delle
antilopi, andarono ad imboscarsi in mezzo ad alcuni folti cespugli, a
circa cinquecento passi dall’accampamento.

Contando di ritornare molto tardi, si erano improvvisato un giaciglio
di foglie fresche ed avevano accese le pipe in attesa che le tenebre
calassero, quando in distanza parve a loro che fosse echeggiata una
detonazione.

Sapendo Alfredo che quella regione doveva essere deserta, non essendovi
villaggi lungo la frontiera, quella detonazione lo fece balzare in
piedi.

— Qualcuno caccia a due o tre chilometri da noi, — disse.

— Sarà qualche Asciante, — rispose Antao.

— No, — disse Alfredo, crollando negativamente il capo.

— E chi vuoi che sia stato a sparare quel colpo?

— I negri che inseguiamo.

— Bah!... Saranno lontani, quei bricconi.

— Qualcuno di loro può essere rimasto indietro.

— A quale scopo?...

— Per cercare di crearci degli imbarazzi.

— Sarebbe una bella occasione per prenderlo e fucilarlo.

— Se non per fucilarlo, almeno per averlo in nostra mano e farlo
parlare. Toh!... Odi?... Un altro sparo e questo molto più vicino.

— Questo colpo di fucile non deve essere stato sparato che ad un paio
di chilometri da noi, Alfredo.

— Antao, vuoi seguirmi?

— Se si tratta di prendere uno di quei furfanti, sono pronto a seguirti
fino nella capitale degli Ascianti.

— Vieni, Antao, ma non commettere imprudenze. —

I due cacciatori lasciarono il loro nascondiglio e quantunque la notte
cominciasse a calare, si misero rapidamente in cammino, seguendo il
corso d’acqua, la cui riva permetteva di avanzarsi più comodamente che
sotto i boschi.

Avevano percorso appena un chilometro procedendo sempre verso l’ovest,
quando udirono una terza detonazione e poco dopo una quarta, ma così
vicine, da far sospettare che il cacciatore si trovasse ad un solo
miglio di distanza.

— Che laggiù si combatta? — chiese Antao. — Mi sembra impossibile che
quel cacciatore trovi tanta selvaggina, mentre qui non vi è nemmeno uno
sciacallo da abbattere.

— Se combattessero si udrebbero delle grida, — rispose Alfredo.

— Ma mi sembra di udire dei fragori, Alfredo.

— Dove?...

— Vengono dall’ovest.... Zitto, ascolta!... —

Il cacciatore si fermò e si curvò verso terra, tendendo gli orecchi
e gli parve di udire realmente come un lontano muggito, somigliante
all’irrompere di una fiumana o all’avanzarsi fragoroso di parecchi
squadroni di cavalleria o di parecchie batterie d’artiglieria.

— È vero, — mormorò, con una certa inquietudine.

— Cosa credi che sia?... — chiese Antao.

— Non lo so, ma si direbbe che una truppa d’animali colossali galoppa
attraverso la foresta.

— Ma quali animali potrebbero produrre tale fragore? Delle antilopi o
dei leoni no di certo.

— Gli elefanti, Antao.

— Morte di Nettuno!... Una banda di elefanti?...

— Sono ancora numerosi in questi paraggi. Vuoi un consiglio?...

— Parla, Alfredo.

— Arrampichiamoci su di un albero ben alto e robusto.

— E se invece tornassimo al campo per mettere in guardia i nostri
uomini?

— Ci mancherebbe il tempo. Su, lesto o verremo stritolati!... —

Non vi era che da scegliere, essendo gli alberi d’alto fusto numerosi
presso le rive di quel corso d’acqua. I due cacciatori s’aggrapparono
ad alcune liane ed in pochi istanti si trovarono in salvo sui grossi
rami d’un bombax, celandosi in mezzo al fitto fogliame.

Intanto il fragore continuava con un crescendo spaventevole. Pareva
che dieci treni ferroviari si avanzassero all’impazzata attraverso
la boscaglia, tutto abbattendo sul loro vertiginoso passaggio. La
terra rimbombava come fosse sollevata da scosse potenti di terremoto,
si udivano gli alberi a schiantarsi e precipitare al suolo come se
venissero svelti da una tromba ed in mezzo a tutti quei fragori si
udivano dei suoni paurosi, dei clamori assordanti che parevano prodotti
da un centinaio di rauche trombe di dimensioni gigantesche.

— Morte di Giove e di Saturno!... — esclamava Antao. — Si direbbe che
un uragano sta per travolgere l’intera foresta. —

D’improvviso si videro delle masse enormi sbucare fra gli alberi
ed avanzarsi all’impazzata, abbattendo, con impeto irresistibile,
le giovani piante, le quali cadevano a destra ed a sinistra come se
venissero falciate da un’arme mossa da una banda di titani.

Era una truppa di enormi elefanti, in preda ad un panico irresistibile,
che fuggiva disordinatamente attraverso alla boscaglia. Quale pauroso
spettacolo offrivano quegli animalacci lanciati al galoppo, colle loro
potenti proboscidi sferzanti gli alberi vicini, per aprirsi il passo in
mezzo a quel caos di vegetali!...

Mescolati confusamente, maschi, femmine e piccini, tutti in preda ad
un inesplicabile terrore, pareva che non avessero che un solo scopo:
fuggire un grave pericolo.

Urtavano furiosamente gli alberi, sradicavano quelli che si opponevano
alla loro corsa, fracassavano i cespugli con mille scricchiolii,
sfondavano colle masse enormi dei loro corpi le liane e le radici,
barrivano strepitosamente formando un baccano assordante e si urtavano
con tale violenza, che i loro corpacci risuonavano come grancasse di
mole smisurata.

Quei cinquanta e più animali passarono sotto gli occhi dei due
cacciatori come una meteora devastatrice, urtando il colossale tronco
del _bombax_ in così malo modo da scuoterlo dalla base alla cima, poi
scomparvero verso l’est fra un clamore infernale dì barriti ed uno
scrosciare d’alberi e di rami.

— Mille morti!... — esclamò Antao. — Ecco uno spettacolo da far tremare
l’uomo più intrepido dei due mondi!...

— Ti credo, — rispose Alfredo. — Pensa cosa sarebbe accaduto di noi, se
quella banda d’animali ci avesse trovato sul suo passaggio.

— Ma chi può aver spaventato quei colossi?...

— Forse dei cacciatori d’elefanti.

— Ma è possibile ammettere che così formidabili animali possano venire
spaventati da pochi uomini?... Non lo si crederebbe, Alfredo.

— Per natura gli elefanti sono timidi, Antao, e non si rivoltano se non
quando vengono feriti.

— Le detonazioni delle armi bastano per metterli in fuga?...

— Talvolta sì, ma quando si vuole farli fuggire basta scagliare contro
di loro delle materie infiammate o dei rami resinosi accesi.

— Ma.... ed i nostri uomini?... Non verranno travolti da quegli
animali?...

— Asseybo li avrà uditi avvicinarsi e si sarà affrettato a mettersi in
salvo coi dahomeni.

— Ed i cavalli?

— Saranno fuggiti, non dubitare.

— Ah!... Come sarei stato contento di aver potuto abbattere uno di quei
giganti!...

— Se si sbandano possiamo incontrarne qualcuno.

— Si dice che la tromba ed i piedi degli elefanti sono così squisiti.

— È vero, Antao, e spero di farteli assaggiare.

— Possiamo scendere?...

— Ormai non corriamo alcun pericolo. Gli elefanti devono essere già
lontani. —

Il portoghese stava per aggrapparsi alle liane che gli avevano servito
a salire sull’albero, quando Alfredo lo arrestò, sussurandogli agli
orecchi:

— Non muoverti: guarda!... —




CAPITOLO XVIII.

Caccia ad un elefante


Antao, udendo quelle parole pronunciate in tuono quasi imperioso, e
comprendendo che stava per accadere qualche cosa di straordinario,
aveva abbandonato prontamente le liane, ritirandosi sul grosso ramo che
gli aveva servito di rifugio.

Alfredo, nascosto in mezzo al fogliame, gli additava silenziosamente un
grande macchione di mimose che stava di fronte a loro. Girò gli sguardi
da quella parte e vide due ombre uscire fra gli alberi ed avanzarsi
prudentemente allo scoperto.

Quantunque la luna mancasse, gli astri proiettavano una luce
sufficiente per distinguere un oggetto od un essere vivente di
dimensioni non troppo piccole ed Antao, che aveva gli occhi buoni, vide
subito di che cosa si trattava.

Quelle due ombre erano due negri di alta statura, quasi nudi, ma
entrambi armati di fucile. Si erano arrestati a breve distanza
dal _bombax_ e curvi innanzi, pareva che ascoltassero con profondo
raccoglimento.

— I cacciatori d’elefanti?... — chiese Antao ad Alfredo con un filo di
voce.

— Non lo so, — rispose l’interrogato.

— O che siano i nostri ladri?...

— Lo sospetto.

— Bella occasione per fucilarli tutti e due.

— E per far fuggire gli altri colle nostre casse e coll’amazzone. No,
Antao, non bisogna far loro sapere che noi siamo così vicini o chissà
dove potremo raggiungerli.

— Ma....

— Taci!... —

I due negri dopo d’aver ascoltato per parecchi minuti, si erano
rialzati e certi di essere soli in mezzo a quel bosco, si erano
scambiati delle parole in lingua _uegbè_, che Alfredo ben conosceva:

— Più nulla, — aveva detto l’uno.

— No, — aveva risposto l’altro.

— Credi che gli elefanti avranno continuata la loro corsa
indiavolata?...

— Hanno avuto troppo paura dei nostri tizzoni infiammati e delle nostre
scariche, per arrestarsi. Sono capaci di continuare la corsa fino
all’alba.

— Allora possiamo sperare che abbiano incontrato i bianchi e che li
abbiano fatti a pezzi.

— Sì, se ci seguivano sempre.

— Non vorrei essermi trovato al loro posto.

— Lo credo, Cobbena.

— Una bella fortuna, se ci fossimo sbarazzati di loro.

— Almeno potremo giungere tranquillamente ad Abetifi e vendere i loro
effetti senza la tema di vederceli giungere addosso.

— Se quella dannata donna non avesse gettata via la sua fascia forse
non avrebbero trovate le nostre tracce, è vero Amadù?

— Se avessimo saputo che parteggiava pei bianchi, non l’avremmo di
certo condotta con noi, credendo di liberare una nostra compatriota, ma
Kalani od il re s’incaricheranno più tardi di infliggerle la punizione
che si merita. Quando ci saremo sbarazzati di quelle casse e avremo
realizzato una bella cifra, ripasseremo il Volta e marceremo su Abomey
quasi senza arrestarci.

— Sì, Amadù. Ormai non ci rimangono più dubbi sulla direzione degli
uomini bianchi. Credevano d’ingannare le spie del re, ma invece
troveranno Kalani pronto a riceverli. Orsù, torniamo. Abbiamo almeno
cinque miglia da percorrere, prima di giungere all’accampamento. —

I due negri, ricaricati i loro fucili e certi ormai che gli elefanti
avessero continuata la loro terribile corsa attraverso alla foresta, si
rimisero in cammino a passi rapidi, allontanandosi verso l’ovest.

Quando Antao non li udì più, chiese ad Alfredo con stupore:

— E tu hai lasciato che se ne andassero, mentre avremmo potuto
fucilarli colla massima facilità. Hai avuto torto, amico.

— No, Antao, — rispose il cacciatore. — I loro compagni, te lo dissi
già, non vedendoli ritornare, si sarebbero facilmente immaginato che
noi li avevamo o uccisi o catturati e sarebbero fuggiti forse verso il
sud, facendoci perdere ogni speranza di poterli raggiungere.

«Ora sappiamo che si recano ad Abetifi e che ci sono poco lontani,
quindi non ci possono più sfuggire. Lasciamo loro credere di essere
stati massacrati dagli elefanti o fatti a pezzi dalle formiche e li
prenderemo più facilmente.

«Penso anzi che abbiamo marciato troppo e che possiamo riposarci una
mezza giornata, per lasciare loro il tempo di giungere tranquillamente
nella cittadella degli Ascianti.

— Hai ragione, Alfredo. Tu sei più astuto di me.

— Scendiamo Antao e andiamo a vedere che cosa è accaduto dei nostri
uomini. —

Si lasciarono scivolare lungo le liane e giunsero felicemente a terra,
mettendosi tosto in marcia per giungere al campo.

Non sapendo quale direzione avevano presa gli elefanti nella loro pazza
corsa, temevano che quella formidabile banda fosse piombata in mezzo
alle tende, uccidendo gli animali e gli uomini, perciò affrettavano il
passo ansiosi di calmare le loro inquietudini.

Già calcolavano di trovarsi a poche centinaia di passi
dall’accampamento, quando videro avanzarsi, correndo, un uomo, che
subito riconobbero pel fedele Asseybo.

— Padrone!... — esclamò il negro, con voce affannata. — Credevo che ti
fosse accaduta una disgrazia. Hai veduto gli elefanti?...

— Sì, ma come vedi siamo entrambi vivi, — rispose Alfredo. — Hanno
distrutto l’accampamento?...

— No, padrone. Ci siamo accorti a tempo dell’avanzarsi di quegli
animalacci e ci siamo rifugiati in mezzo al fiumicello salvando ogni
cosa.

— Cominciavo a essere inquieto per voi.

— Ma il pericolo non è cessato, padrone.

— Cosa c’è ancora?...

— Uno di quegli elefanti, un maschio di statura gigantesca, forse
ferito, si è sbandato e si aggira sulla riva del fiume in preda ad un
furore spaventevole.

I nostri uomini si sono salvati sulla riva opposta ma corrono il
pericolo, di momento in momento, di venire fatti a pezzi.

— Amico Antao, — disse Alfredo, rivolgendosi al portoghese. — Credo che
domani mattina assaggieremo un delizioso arrosto di tromba d’elefante.

— Vuoi assalire quel colosso furibondo?...

— Sì, Antao, se mi aiuti.

— Ma potremo ucciderlo colle nostre carabine?...

— Sì, purchè tu cerchi di colpirlo intorno agli occhi o sotto la gola o
meglio ancora, nelle giunture delle spalle.

— Mi proverò, Alfredo.

— Guidaci, Asseybo.

— Sta’ in guardia, padrone. Quell’elefante deve essere un vecchio
maschio e tu sai che quelli sono terribili.

— Ci avvicineremo con prudenza. —

Il negro, sapendo per prova quanto il padrone fosse audace e abile
cacciatore, non esitò più e si mise in cammino seguendo le rive del
fiumicello.

Ben presto i due bianchi udirono il formidabile avversario. Dei
frequenti barriti, un po’ rauchi, echeggiavano sotto la foresta,
seguiti da strani gorgoglii che parevano prodotti da una pompa che si
scaricava dell’acqua.

Probabilmente l’elefante era stato colpito ed assorbiva fragorosamente
l’acqua del fiume per inondare la ferita.

Asseybo aveva rallentata la marcia e non si avanzava che con estrema
prudenza, temendo di schiantare qualche ramo e di attirare l’attenzione
dell’animale.

Intanto i barriti diventando più potenti e più frequenti, destavano
tutti gli echi della selva. Pareva che perfino le foglie tremassero.

— Ci darà da fare, — disse Alfredo ad Antao. — Quando sono feriti,
non esitano a scagliarsi anche contro un reggimento di cacciatori. Sii
prudente e non scaricare la tua carabina se non sei certo del tuo colpo
o ti farai schiacciare come una nocciuola.

— Provo un certo tremito che non è rassicurante, — rispose il
portoghese, — ma dinanzi al pericolo e trattandosi di salvare la pelle,
passerà! Non udranno i nostri spari, i negri che abbiamo veduto?...

— Bah!... A quest’ora devono essere ben lontani e poi queste masse
di verzura non permettono alle detonazioni di espandersi a grandi
distanze.

— Padrone! — esclamò in quel momento Asseybo. — Eccolo!... —

Presso la riva del fiume, semi-nascosta da un macchione di bambù, una
massa mostruosa giganteggiava, colla tromba tesa innanzi, come se si
preparasse a caricare un nemico od a prevenire un improvviso assalto.

Era un elefante selvaggio, ma uno dei più grossi e dei più belli che
Alfredo avesse veduto fino allora, un animale degno di stare a fronte
dei più colossali _merghee_ delle regioni indo-malesi.

Gli elefanti africani, checchè se ne dica, sono più maestosi di quelli
del continente asiatico e sebbene nelle forme generali siano quasi
eguali, sono un po’ diversi nei particolari.

Generalmente sono più larghi di fianchi, più robusti fors’anche
dei _coomareah_ che sono i più forti ed i più massicci della razza
asiatica; hanno la fronte convessa invece di averla concava, hanno
quattro zoccoli nei piedi posteriori invece di tre, le orecchie più
sviluppate che si riuniscono sopra le spalle e che pendono poi sul
petto e le zanne d’una bellezza straordinaria e d’una mole enorme,
perchè pesano sovente perfino quattrocento libbre, mentre quelle degli
elefanti asiatici di rado sorpassano le cento.

Anche le femmine sono diverse da quelle asiatiche, perchè mentre queste
sono sprovviste di zanne o le hanno appena visibili, le prime le hanno
molto sviluppate, non tanto però come i maschi.

L’elefante che gl’intrepidi cacciatori stavano per affrontare, doveva
essere rimasto indietro in causa di qualche ferita ad una gamba
anteriore, vedendolo alzare di tratto in tratto la destra.

Pareva che non si fosse ancora accorto della presenza di quei nuovi
nemici che contavano di regalarsi un pezzo di proboscide arrostita,
essendosi avvicinato al fiume per bagnarsi la ferita invece di
assalirli, ma non doveva tardare a sentirli trovandosi sottovento.

— Adagio, — aveva detto Alfredo ai suoi due compagni. — È necessario
che ci mostri la fronte o le nostre palle non otterranno altro successo
che quello d’irritarlo maggiormente. —

Si erano nascosti tutti e tre dietro un gruppo di teck, i cui tronchi
colossali dovevano essere sufficienti a difenderli contro qualunque
carica del pachiderma, e di là attendevano il momento propizio per fare
una scarica.

Vedendo però che il colosso non si decideva ad abbandonare il fiume,
Alfredo, che era impaziente di finirla, si risolse a costringervelo.

Raccomandò ai compagni di non abbandonare quel rifugio e strisciò
all’aperto, tenendosi celato dietro una fila di ebani, i quali in caso
di pericolo potevano preservarlo da un attacco furioso.

Giunto a trenta passi dal mostruoso animale, armò risolutamente la
carabina, poi lanciò un fischio acuto.

L’elefante, sorpreso, cessò di colpo dall’assorbire l’acqua per
versarsela sulla gamba ferita, poi risalì lestamente la sponda
camminando a ritroso, quindi si volse emettendo un barrito assordante
che tradiva dell’inquietudine, ma che annunciava anche un imminente
scoppio di collera. Quasi nel medesimo istante due lampi balenarono
dietro ai tronchi dei _tek_, seguìti da due strepitose detonazioni.

Antao e Asseybo, vedendo il colosso presentarsi di fronte, avevano
fatto fuoco.

Disgraziatamente le palle non dovevano essere giunte a destinazione
esatta. Di fatti il pachiderma, invece di cadere lanciò una possente
nota metallica e si scagliò con impeto irresistibile verso gli alberi,
roteando furiosamente la terribile tromba.

— Fuggite!... — aveva gridato Alfredo.

Il portoghese ed il negro non avevano atteso quel consiglio. Spaventati
dall’irrompere di quell’enorme massa, erano balzati fuori dal rifugio,
dandosi a precipitosa fuga attraverso la foresta.

Alfredo aveva veduto ogni cosa ed era diventato pallido. Guai se
non riusciva ad arrestare il furioso animale: i due imprudenti non
avrebbero continuata per molto la loro corsa, non ignorando che
gli elefanti, malgrado la loro mole, possono spiegare un’agilità
straordinaria e gareggiare talvolta perfino coi cavalli.

Balzò rapidamente fuori dagli ebani e si slanciò innanzi mandando alte
grida, per attirare su di sè l’attenzione dell’animale.

Questi, credendo forse di avere i nemici dietro le spalle invece che
dinanzi, fu pronto a volgersi e vedendo a pochi passi il cacciatore, lo
assalì a testa bassa, colle zanne tese e la proboscide alzata.

Alfredo non era fuggito. Facendo appello a tutto il suo coraggio ed a
tutto il suo sangue freddo, si era appoggiato al tronco d’un sicomoro,
tenendo la carabina puntata.

A quindici passi fece fuoco.

Il colosso, colpito alla giuntura della spalla sinistra, s’inalberò
come un cavallo sotto un violento colpo di sproni, poi lanciò un lungo
barrito, ma che aveva qualche cosa di lamentevole, di straziante,
quindi riprese la corsa.

Alfredo era passato prontamente dietro al tronco per evitare le zanne
e la proboscide, poi dietro un altro che gli stava un po’ discosto e
scivolò in mezzo ad un intricato macchione di cespugli.

L’elefante, trasportato dal proprio slancio, continuò la corsa
sferzando furiosamente i tronchi degli alberi, ma ad un tratto le
forze lo abbandonarono e cadde sulle ginocchia, lanciando una nota più
lamentevole e meno possente.

In quel momento Antao e Asseybo, non vedendosi più inseguiti ed avendo
udito lo sparo del compagno, erano ritornati sul campo della lotta.

Avevano ricaricate le armi ed accorrevano in aiuto del valoroso
cacciatore.

Vedendo l’elefante dibattersi in mezzo alle piante e fare sforzi
disperati per rialzarsi, gli si avvicinarono ed a soli dieci passi
fecero una nuova scarica.

Fu il colpo di grazia!... Il povero animale, che era già moribondo,
alzò un’ultima volta la tromba vomitando un getto di sangue spumoso,
poi stramazzò pesantemente al suolo, rimanendo immobile.

— Alfredo!... — gridò Antao, raggiante di gioia. — È morto!... —

Il cacciatore, che aveva allora ricaricata la carabina, balzò fuori dai
cespugli, dicendo:

— Ecco una colazione ben guadagnata e condita con trecento cinquanta
libbre d’avorio per lo meno. Asseybo, puoi preparare il forno per
cucinare un piede di questo povero animale. —




CAPITOLO XIX.

Sulle terre degli Ascianti


Mentre il negro, aiutato dai due dahomeni che si erano affrettati ad
attraversare il fiume coi cavalli, scavava una buca profonda che doveva
servire di forno e facevano raccolta di rami secchi per riscaldarla
per bene, Alfredo, armatosi d’una scure, tagliava a gran colpi i piedi
anteriori del colosso e faceva a pezzi la proboscide.

   [Illustrazione: — Gli uomini bianchi non hanno da fare colla
   giustizia del re! — (Pag. 142).]

Il portoghese da canto suo girava e rigirava attorno a quella montagna
di carne che sarebbe bastata a nutrire una tribù affamata, ammirando
quella testa enorme, quel corpo mostruoso e soprattutto quelle
magnifiche zanne che potevano rendere almeno tremila lire sui mercati
della Costa e ben di più in Europa.

— È una pazzia uccidere questi colossi, — diceva. — Ecco qui parecchie
tonnellate di carne perduta e che saremo costretti a regalare alle
fiere della foresta.

— Vorresti portarti via questa colossale carcassa, Antao? — rispondeva
Alfredo, che si accaniva contro le due zampe. — Ci vorrebbe un treno
ferroviario e poi non credere che tutta questa carne sia succolenta.

I negri la mangiano, ma è coriacea quanto la carne d’un mulo vecchio.
Accontentati quindi di assaggiare i pezzi scelti.

— Dimmi, Alfredo, si uccidono molti elefanti in Africa? Mi pare che
simili mostri debbano fare paura a tutti.

— Che facciano paura, quando sono irritati, è vero, ma l’avidità rende
coraggiosi anche i negri. L’avorio è un articolo troppo ricercato sulle
coste africane, per lasciare in pace questi colossi.

Ti dirò che si è calcolato che in Africa se ne uccidano annualmente dai
sessanta ai settantamila.

— Settantamila, hai detto!... — esclamò il portoghese.

— Sì, Antao e per ottenere sette od ottocentomila chilogrammi d’avorio.

— E solamente per i suoi denti?...

— Solamente, poichè i cacciatori di elefanti non si curano della carne.
Tutt’al più fanno come noi, cioè si accontentano di cucinarsi qualche
piede o qualche pezzo di proboscide per la colazione o pel pranzo.

— Ma continuando queste stragi finiranno col fare scomparire la razza.

— Certo, Antao. In certe regioni, specialmente del sud, gli elefanti
sono già diventati rari e se non si pone un freno a quei cacciatori,
fra venti o trent’anni non se ne troverà più uno in tutta l’Africa.

Devi poi notare, che l’elefante africano si riproduce molto lentamente.
Prima di vent’anni non è atto alla riproduzione e alla femmina
occorrono tre anni prima che dia alla luce il figlio e questo è sempre
uno solo.

In India si segano i denti agli elefanti senza fare agli animali alcun
male, onde non compromettere gravemente la conservazione della specie,
ma qui invece si uccidono, abbandonando le spoglie alle iene ed agli
sciacalli.

— Eppure quali preziosi servigi potrebbero rendere anche questi colossi
del continente nero!

— Questi animali, che sono i più filosofici, i più intelligenti ed i
più tenacemente laboriosi, addomesticati come quelli indiani, sarebbero
d’una utilità immensa per la loro forza prodigiosa. Non ci sarebbe più
bisogno di organizzare quelle numerose e costose carovane d’uomini, per
portare i prodotti delle regioni interne alla costa.

— Pure anticamente i cartaginesi si servivano degli elefanti africani
nelle guerre.

— È vero, Antao ed anche dopo la distruzione di quel popolo se ne
servirono per parecchi secoli i Numidi ed i Romani, ma nell’enorme
scompiglio politico e sociale che nel medio evo sconvolse le
popolazioni d’Europa e dell’Africa settentrionale, si trascurò l’arte
di addomesticare quegli utilissimi animali e da allora più nessuno se
ne occupò.

Quando si penserà a utilizzare ancora gli elefanti, probabilmente la
razza sarà stata distrutta dall’avidità insaziabile dei cacciatori
d’avorio.

— Ma le colonie delle nazioni europee, non hanno fatto alcun tentativo?

— Pare che ora si cerchi di addomesticarne alcuni. La cosa non è
difficile e quali vantaggi ne trarrebbero i coloni, specialmente quelli
delle stazioni interne!... Pensa che i negri portatori più robusti
non possono caricarsi d’un peso superiore ai venticinque chilogrammi,
nè percorrere oltre venti chilometri al giorno, mentre gli elefanti
possono portare parecchie diecine di quintali percorrendo in media dai
sessanta ai settanta chilometri ogni dodici ore.

— Ma il vitto!...

— Se lo procurano loro nelle foreste, quindi quasi nulla verrebbero
a costare. Orsù, il forno è pronto e finchè i piedi e la tromba si
cucinano, possiamo dormire alcune ore. —

Asseybo e i dahomeni avevano sbarazzato la buca dai tizzoni, avendovi
acceso nel fondo un grande fuoco. Avvolsero i pezzi della tromba ed
i due piedi entro grandi foglie di banano unitamente a delle erbe
aromatiche trovate nella foresta e ve li gettarono dentro, coprendoli
con cenere calda e poi con terra.

Livellato il terreno, vi accesero sopra un altro fuoco che dovevano
conservare per un paio d’ore.

Antao ed Alfredo, dopo d’aver assistito a quegli ultimi preparativi,
si ritirarono sotto la tenda che era stata nuovamente rizzata,
addormentandosi profondamente.

Non si svegliarono che verso le sei del mattino, alle insistenti e
rumorose chiamate del bravo Asseybo.

I dahomeni avevano aperto il forno e levati i due piedi ed un grosso
pezzo di proboscide, i quali fumavano sopra una grande foglia di banano
selvatico, spandendo all’intorno un delizioso profumo.

I due cacciatori, ai quali l’aria fresca del mattino aveva stuzzicato
straordinariamente l’appetito, non si fecero pregare per dare l’assalto
all’arrosto.

Antao dovette confessare che quei pezzi del colosso africano potevano
gareggiare coi migliori dei più grassi buoi e dei più grassi maiali. I
negri poi fecero tanto onore a quell’arrosto, da non essere quasi più
capaci di muoversi.

Fortunatamente Alfredo aveva accordato una mezza giornata di riposo,
per lasciare tempo ai ladri di giungere ad Abetifi e per tagliare i due
superbi denti del colosso, non volendoli abbandonare al primo venuto.
Rappresentavano una bella cifra e potevano servire di gradito regalo al
governatore di Abetifi per renderselo propizio e per avere aiuti contro
le spie di Geletè.

Fu verso le quattro pomeridiane, quando il gran calore cominciava a
scemare, che la piccola carovana si rimise in marcia, portando con sè
i due colossali denti che i negri, dopo molto lavoro, erano riusciti a
troncare a gran colpi d’accetta.

Le tracce dei fuggiaschi erano state smarrite forse perchè distrutte
dall’irrompere impetuoso degli elefanti selvaggi, i quali avevano
sconvolto la foresta, ma ormai Alfredo sapeva dove erano dirette le
spie e questo gli bastava.

Essendo munito d’una buona carta e d’una bussola, era certo di giungere
ad Abetifi anche passando attraverso la foresta e poi sapeva che al di
là di quegli alberi doveva estendersi la gran pianura, sulla quale una
città considerevole non poteva sfuggire agli sguardi.

Un’ora prima del tramonto, la carovana ripassava l’Afram e superati
pochi macchioni si trovava sul margine della grande pianura che
doveva estendersi, quasi senza interruzione, fino alla capitale degli
Ascianti, a Cumassia.

Non essendo interrotta che da pochi gruppi d’alberi o da piante
isolate, appena volti gli sguardi verso il sud-ovest, Alfredo ed Antao
scorsero, ad una distanza di otto o dieci miglia, un gruppo di dadi
biancastri, attorno ai quali si stringevano moltissimi coni di colore
oscuro.

— Abetifi? — chiese il portoghese.

— Sì, — rispose Alfredo. — Non è possibile ingannarsi.

— È vero padrone, — dissero i due schiavi dahomeni.

— Siete stati in quella cittadella?...

— Sì, padrone.

— Credete che le vostre bestie possano resistere fino a quelle case?...
È necessario che penetriamo in Abetifi prima dell’alba od i ladri ci
fuggiranno.

— Lo potranno, rallentando un po’ la marcia.

— Sapete se domani vi è mercato in città?...

— Sì, padrone.

— Allora siamo certi di sorprendere quei furfanti. —

Fu concesso un riposo di quattro ore ai due cavalli, durante le quali
ne approfittarono anche gli uomini, prevedendo che non avrebbero potuto
chiudere gli occhi prima dell’indomani sera.

Alle dieci di sera, abbeverati abbondantemente gli animali, essendo
scarsissima l’acqua in quelle vaste pianure calcinate dal sole,
la carovana riprendeva la marcia attraverso a quegli strati d’erbe
disseccate.

Procedevano lentamente, con precauzione, colle carabine armate sotto il
braccio, servendo quelle alte erbe di ricovero ad una grande quantità
di pericolosi animali, a serpenti pitoni lunghi sei e perfino sette
metri che fra le loro formidabili spire stritolano un uomo come se
fosse una semplice pagliuzza; a piccoli serpenti neri che posseggono un
veleno quasi fulminante e contro il quale è vano ogni rimedio; a grossi
ragni della specie dei migali che producono delle ferite gravissime e
talvolta incurabili ed a molti leoni, a leopardi ed a iene macchiate,
le più audaci della famiglia, poichè osano perfino gettarsi contro gli
uomini.

Di tratto in tratto, in mezzo ai gruppi di cespugli che si elevavano
qua e là, si udivano scoppi di risa, dei ruggiti bassi e profondi,
delle urla di sciacalli e talvolta anche quei fischi strani, rauchi,
che annunciano la presenza dei rinoceronti, i più brutali ed i più
irritabili animali della creazione.

I poveri cavalli udendo quel concerto tremavano come se avessero la
febbre ed esitavano a tirare innanzi, ed anche i due dahomeni non erano
tranquilli, ma Asseybo si mostrava calmo sapendo quanto valevano i suoi
padroni.

Verso la mezzanotte, quando le casette della cittadella cominciavano
ad imbiancarsi sotto i primi raggi dell’astro notturno il quale allora
spuntava all’orizzonte, un grosso leone che stava sdraiato in mezzo ad
un cespuglio, presso il quale doveva passare la carovana, s’alzò con un
grande salto, mostrando delle intenzioni poco pacifiche, ma vedendo i
due cacciatori muovere incontro a lui colle carabine spianate, dopo un
momento di esitazione credette miglior partito di prendere il largo.

Con quattro o cinque balzi mostruosi si rintanò sotto un altro
cespuglio e non si mosse più, limitandosi a far udire dei bassi
brontolii.

Più tardi due grosse iene macchiate che stavano appiattate dietro
alcune rocce che si ergevano solitarie sulla vasta pianura, tentarono
di gettarsi improvvisamente sui cavalli nel momento in cui questi
passavano a breve distanza, ma Asseybo appioppò sul muso della più
vicina un così potente colpo col calcio del suo fucile da costringerla
ad una precipitosa fuga, urlando di dolore. La compagna, spaventata da
simile accoglienza, s’affrettò a seguirla con tutta la rapidità delle
sue agili gambe.

Alle tre, quando ad oriente gli astri cominciavano ad impallidire, la
carovana giungeva dinanzi ai primi villaggi di Abetifi i quali formano
una specie di sobborghi intorno alla città.

Più che villaggi erano minuscoli attruppamenti di capanne abbastanza
male costruite.

Quelle catapecchie, di forma conica, dove vivevano nell’interno, alla
rinfusa, persone ed animali domestici, erano tutte fabbricate con
tronchi d’alberi spalmati d’argilla ed avevano il tetto di foglie
intrecciate.

Dinanzi però ad ognuna, per quanto fosse piccola e malandata, si
scorgeva l’_oquiamis duah_ ossia l’albero dio, il quale consisteva in
un piuolo con tre o quattro rami sostenenti un vaso, entro cui cresceva
una pianticella ed in un monticello di terra che i proprietari della
dimora hanno il dovere d’imbiancare tutti i giorni o di tingerlo di
color rosso pallido.

È sotto quel monticello che ordinariamente si nascondono le vittime
sacrificate alle diverse divinità del regno e non è rado che i ricchi
vi nascondano anche dell’oro, ma che nessun ladro però oserebbe
toccare.

— Che strane credenze, — disse Antao, udendo le spiegazioni che gli
dava Alfredo su quelle pentole svariate, contenenti quelle pianticelle
venerate.

— Ma non si accontentano di avere gli _oquiamis duah_, — disse il
cacciatore. — Hanno altri amuleti più stravaganti. Guarda quella
capanna, presso la cui porta vedi quel piuolo alto un metro.

— A cosa serve?... Forse per impalare i miscredenti?...

— No, rappresenta un altro _feticcio_ di molta importanza. Come vedi,
quel piuolo sostiene una pietra che gli Ascianti, in buona fede,
credono sacra e d’intorno vi è un piccolo recinto di fibre di palmizio
che si mantiene accuratamente unto d’olio di palma.

Tutte le volte che i padroni della capanna mangiano, sono obbligati
a deporre su quella pietra una porzione dei loro cibi, con grande
consolazione dei topi o degli uccelli.

— Si vede che gli Ascianti sono amanti dei pali.

— Oh, venerano anche gli alberi che crescono nell’interno della città.
A Cumassia, per esempio, ogni pianta viene rispettata e adorata come
fosse un _feticcio_ ed a nessuno è permesso di tagliarla, anche se i
rami impedissero il passaggio alle persone.

Vi sono poi alcuni alberi che godono tale venerazione, che vengono
tappezzati di offerte consistenti per lo più in pezzi di stoffe più
o meno di valore. Quelle piante sono circondate da palizzata per
proteggerle e se un uragano spezza qualche ramo, il re s’affretta a
sacrificare immediatamente una o più vittime umane. Se poi l’albero
venisse sradicato si fanno dei veri _costumi del sangue_ con grande
uccisione di schiavi[6].

— Morte di Urano!... — esclamò Antao, indignato. — Ma in questi
orribili paesi la vita umana ha adunque meno valore di un albero?...
Che razza di barbari!...

— Vale ancora meno, Antao.

— Ma quante divinità adorano questi popoli, se innalzano a tale onore
perfino le piante?...

— Hanno una grande quantità di dei e tutti sono gli uni più strani
degli altri. I principali però sono _Bassomrù_ grande protettore
dei palazzi del re e che consiste in una scatola di legno adorna
d’oro e contenente piume, pezzi di varii metalli, perle di vetro,
ecc.; _Bassomprak_ che è il protettore del fiume omonimo segnante
la frontiera del regno verso il paese dei Fanti e si festeggia ogni
mercoledì; _Bassomunè_ protettore del lago che si trova a venti miglia
dalla capitale si festeggia alla domenica e forse per tale motivo
chiamato il feticcio dei bianchi; poi _Tano_ che abita i boschi e che
è ritenuto il più cattivo e molti altri rappresentati da pietre, da
piante, ecc.

Ogni persona deve scegliersi un _feticcio_ protettore e il giorno
stabilito per la festa del dio, deve scrupolosamente astenersi dal
bere vino di palma e dal mangiare certi cibi. Trascurando queste
cose, ognuno ha il diritto di ucciderlo ed il suo cadavere deve essere
privato della sepoltura e gettato invece in un carnaio qualunque, a
pasto degli avvoltoi e dei corvi.

— Una religione da pazzi, insomma.

— Se non da pazzi, certo da selvaggi, Antao. —

Erano allora giunti a tre o quattrocento passi dalla città, dinanzi ad
una grande tettoia un po’ cadente, che pareva avesse servito un tempo
di riparo alle carovane provenienti dalle regioni del sud.

Alfredo fece cenno ai suoi uomini di condurre là sotto gli animali, poi
rivolgendosi ad uno dei dahomeni, gli chiese.

— Conosci il _dikero_ di Abetifi?

— No, padrone.

— Sai però dove abita?...

— No, ma sarà facile saperlo.

— Asseybo, — continuò Alfredo volgendosi al servo, — tu andrai con
quest’uomo dal _dikero_ e se sarà necessario anche dall’_assafo oinè_
(capo della città) ed esporrai loro ciò che ci è accaduto, reclamando
giustizia contro i ladri. Dirai loro che noi non siamo inglesi, ma
europei amici della loro nazione.

— Sono pronto a partire, padrone, — rispose Asseybo.

— Non ho ancora finito. Coi negri nulla si ottiene se non vi sono dei
doni. —

Aprì una delle casse, levò una dozzina di fazzoletti di seta rossa,
colore molto apprezzato da quasi tutti i discendenti di Caam, alcune
file di perle di vetro, dei galloni d’oro, un paio di bottiglie di
tafia gelosamente conservate fino allora e fece un pacco che mise in
groppa ad uno dei cavalli, unitamente alle due zanne d’elefante.

— Va’ e cerca di trovare il _dikero_ prima che si cominci il mercato.
Noi ti attenderemo qui, poichè se gli abitanti ci vedessero, la
notizia dell’arrivo di uomini bianchi si spargerebbe tosto ed i ladri
approfitterebbero per prendere il largo.

— Sta bene, padrone, — rispose Asseybo. — Spero di essere di ritorno
fra una mezz’ora. —

Il fedele servo ed il dahomeno s’affrettarono ad allontanarsi, mentre
i due europei, per sfuggire alla curiosità delle persone dei vicini
villaggi, si coricavano fra le casse, sotto la guardia del secondo
schiavo.




CAPITOLO XX.

Il supplizio d’un ladro nell’Ascianti


La mezz’ora era trascorsa, ma nè Asseybo nè il suo compagno erano
ritornati, poi un’altra era pure trascorsa senza che nessuna
nuova fosse giunta ai due europei, di già molto inquieti per
quell’inesplicabile ritardo.

L’alba era sorta e numerosi abitanti dei vicini villaggi ed anche
alcune carovane, provenienti certamente dalle regioni meridionali,
erano passati per recarsi al mercato della città.

Il dahomeno, rimasto di guardia, più di venti volte si era spinto sulla
via per vedere se i due negri si scorgevano, ma alle impazienti domande
dei padroni non aveva risposto che con un desolante: — Nulla. —

Cosa era accaduto dei due messi?... Erano stati sorpresi dai ladri che
forse vegliavano, temendo la improvvisa comparsa dei due europei od il
_dikero_, sospettando in loro due persone pericolose o due spie degli
inglesi, li aveva fatti imprigionare, cosa non improbabile per quei
giudici capricciosi e diffidenti?...

Alfredo che già aveva perduta la pazienza, stava per prendere una
risoluzione decisiva, recandosi in persona dal giudice o dal capo della
città col pericolo di far fuggire i ladri, quando il dahomeno, che era
uscito sulla via per la venticinquesima volta, annunciò il ritorno di
Asseybo e del suo compagno, seguìti da otto negri che portavano due
amache sospese a quattro grossi bastoni formanti un parallelogrammo e
riparate da un piccolo tetto di foglie.

Alfredo, ed Antao si erano affrettati ad uscire sulla via, dove
s’incontrarono con Asseybo, il quale era corso innanzi agli otto
portatori.

— Padrone, — disse con voce lieta. — I ladri sono stati presi!...

— Presi di già! — esclamarono Alfredo ed il portoghese.

— Cioè uno solo è stato preso vivo, poichè un altro che si era
ribellato agli uomini del _dikero_ è stato ucciso ed il terzo è
scomparso.

— E la negra?...

— È in casa del _dikero_.

— In buona salute?... — chiese Antao.

— Guarita completamente delle sue ferite.

— E le nostre casse e gli animali? — chiese Alfredo.

— Sono state ricuperate intatte.

— Ma cosa vengono a fare questi uomini con quelle amache?...

— Te li manda il _dikero_ per condurre te ed il signor Antao a casa sua.

— Ha gradito i regali adunque?...

— Lo puoi comprendere dalla rapidità con cui ha fatto radunare le sue
guardie e piombare addosso ai ladri.

— Andiamo da quel brav’uomo. —

I portatori si erano arrestati dinanzi alla tettoia ed attendevano gli
europei. Alfredo ed Antao salirono in quelle comode amache, i negri si
posero sulla testa, difesa da cuscini bene imbottiti, i quattro angoli
dei parallelogrammi e si misero lestamente in marcia preceduti da
Asseybo e seguiti dai due dahomeni che conducevano l’ultimo cavallo.

Nell’Ascianti quelle lettighe sono grandemente usate, sia per
trasportare i passeggieri, sia per le merci. Si può dire non conoscono
altro mezzo di locomozione perchè, cosa davvero strana, quantunque
posseggano molti buoi e non siano rari, nel loro paese, anche i cavalli
e gli asini, non si servono mai di questi animali e non conoscono poi
affatto nessuna specie di ruotabile.

Gli otto portatori, che procedevano speditamente, in pochi minuti
entrarono in Abetifi, aprendosi faticosamente il passo attraverso una
folla di negri colà radunata pel mercato.

Abetifi è una delle più importanti e più popolose città del regno,
situata a circa ottanta chilometri dal Volta, ed a cento da Cumassia,
che è la capitale degli Ascianti.

Non ha che poche case di legno che servono d’abitazione all’_assafo
oinè_, al _dikero_ ed ai _cumfos_ o sacerdoti incaricati di vegliare
sui feticci; le altre sono semplici capanne circondate però quasi tutte
da giardini e da orticelli, nei quali si coltivano ignami, manioca,
fagioli di varie specie, ananas, popoya e certe specie di pimento assai
forte largamente usato nella preparazione del _fu-fu_.

Ordinariamente la sua popolazione non supera le otto o diecimila anime,
ma nei giorni di mercato il numero si raddoppia.

I due europei, fatti segno della curiosità di tutti i negri affollati
sul mercato, in pochi minuti attraversarono la città e furono deposti
dinanzi ad una casetta di legno, costruita con un certo gusto e
decorata di stuoie variopinte.

Un negro già vecchio, perchè era molto rugoso, ma ancora robusto,
coperto d’una lunga camicia bianca e colle gambe adorne di strani
amuleti o _sumieno_, consistenti in cordoni di fibre di palmizio
annodati ed arricchiti da pallottoline di vetro, da granelli d’oro
traforati, da penne di pappagallo e da ciuffetti di peli, li attendeva
dinanzi alla porta.

Era il _dikero_ in persona, il quale voleva ricevere degnamente i due
europei che erano stati così larghi di doni.

Per darsi l’aria d’un uomo civile, porse la destra ad Alfredo ed Antao
e li invitò a seguirlo, conducendoli in una stanza adorna di stuoie
colorate ammonticchiate contro le pareti, in modo di formare dei sedili
discretamente comodi e da alcuni _feticci_ di terra grossolanamente
plasmata, rappresentanti delle figure umane ma che nella destra
impugnavano una sciabola e nella sinistra una testa ed accuratamente
imbiancati, essendo questa tinta il colore preferito dalle deità
asciantine.

Alcuni schiavi recarono tosto un grande vaso di terra ripieno di vino
di palma affinchè i forestieri, prima di cominciare la conversazione,
si dissetassero, poi quando ebbero bevuto, il _dikero_ con una
amabilità poco comune in quel popolo sospettoso e crudele, diede agli
ospiti il benvenuto, ringraziandoli contemporaneamente dei regali.

— Siamo noi invece che dobbiamo ringraziarti, _dikero_, — rispose
Alfredo in _uegbè_. — Senza il tuo pronto agire, i ladri sarebbero
forse fuggiti.

— Contenevano dei tesori le tue casse?...

— No, — rispose prontamente il cacciatore, che conosceva l’avidità
insaziabile di quei giudici. — Più che gli oggetti racchiusi nelle
casse, mi premeva salvare la giovane negra.

— Non te la ruberanno più, poichè uno dei ladri è stato ucciso, il
secondo è fuggito ma spero che lo ritroveranno ben presto, ed il terzo
è in mia mano e non uscirà vivo da Abetifi.

— Cosa vuoi farne di quell’uomo?...

— Lo uccideremo.

— Non ti chiedo tanto, _dikero_.

— È stato riconosciuto per una spia di Geletè, ed era qui venuto altre
volte per farci forse sorprendere dai cacciatori di schiavi dei Dahomey
e quell’uomo morrà.

— Ma ti ho detto che non è necessario che quell’uomo lo si uccida. A me
basta che rimanga prigioniero presso di te qualche mese.

— È un nemico e morrà, — disse il _dikero_ con incrollabile fermezza.
— Così il nostro re vuole e se disobbedissi, Mensah mi farebbe tagliare
la testa.

— Ma hai tu le prove che sia realmente la spia che tu cerchi?

— No, ma sapremo presto se egli è quello che io sospetto. Negherà,
come ha negato di aver rubato le tue casse, ma l’_odum_ mostrerà se
è veramente colpevole. Ho già dato ordine che la prova abbia luogo
stamane sulla piazza del mercato, dovendo essere pubblica. Vuoi
venire?... Il ladro deve essere già stato condotto sulla piazza.

— Ma dov’è la giovane negra? Vorrei prima vederla.

— Dorme presso le tue casse. Era così stanca che non si reggeva più in
piedi.

— La rivedremo più tardi. Siamo pronti a seguirti. —

Il _dikero_ si era alzato invitando i suoi ospiti a seguirlo. Al
di fuori li attendevano dodici portatori con tre amache seguìti da
parecchi negri armati di vecchi fucili e di lancie, i quali dovevano
servire di scorta al rappresentante della giustizia.

Quegli uomini erano comandati da un corriere del re, giunto forse di
recente ad Abetifi, personaggio molto importante e che col suo costume
dava un’idea del lusso della corte di S. M. Mensah.

Era coperto di piastre d’oro massiccio e d’un peso tale, da rendergli
molto malagevole il camminare, e sul capo portava un casco adorno
di penne d’aquila formanti una specie di ventaglio. In una mano poi
portava un piccolo scettro reale, una specie di spada coll’impugnatura
coperta da un pezzo di pelle di leopardo.

I due europei, il _dikero_ ed il seguito riattraversarono la città
e s’arrestarono sotto una grande tettoia eretta in mezzo alla piazza
del mercato e guardata da alcuni negri armati, i quali respingevano la
folla che si pigiava attorno a quella costruzione, con un’abbondante ed
incessante distribuzione di legnate.

In mezzo alla tettoia vi era il ladro, con la destra chiusa entro
un anello di ferro infisso in un grossissimo macigno e colle gambe
incatenate.

Era un negro ancor giovane, poichè non doveva avere più di venticinque
o trent’anni, dall’aspetto furbo, dagli sguardi intelligenti, ma dai
lineamenti duri, quasi feroci.

Quantunque dovesse essere ormai convinto di non uscire vivo dalle mani
dei suoi nemici, guardava alteramente la folla e scherzava coi suoi
guardiani.

Quando però vide i due europei, manifestò una viva inquietudine ed i
suoi sguardi divennero cupi.

— Ci riconosci?... — gli chiese Alfredo, avvicinandoglisi.

— Sì, — rispose il prigioniero.

— Non credevi di vederci qui così presto.

— È vero. Credevo che le formiche o gli elefanti vi avessero
uccisi. —

Poi, dopo alcuni istanti di silenzio, aggiunse con fatalistica
rassegnazione:

— Ho perduto e pagherò.

— Posso tentare di salvarti, — disse Alfredo.

— È inutile: gli Ascianti sono miei nemici e mi uccideranno, e poi, se
non lo facessero loro, non mi perdonerebbero nè Kalani, nè Geletè.

— Kalani!... Ah! tu conosci quell’uomo?... Era stato lui ad incaricarti
di spiarmi?... —

Il negro non rispose.

— Parlami di Kalani. È vero che non farà male a mio fratello?... È vero
che non si vendicherà su quel povero ragazzo?... —

Nemmeno questa volta il prigioniero aprì le labbra.

— Odimi, — disse Alfredo, con viva commozione. — Io ti strapperò alla
morte, te lo prometto, ma dimmi cosa ne ha fatto Kalani del fratellino
mio.

— Non so nulla, — rispose il negro. — D’altronde fra poche ore sarò
morto. —

Poi si rinchiuse in un silenzio feroce e rimase sordo ed impassibile
a tutte le domande, a tutte le promesse d’Alfredo. Sapendo di morire,
pareva che provasse una gioia crudele delle ansietà dell’uomo bianco.

Il _dikero_ pose fine a quell’interrogatorio che esasperava il
cacciatore, ordinando che si recasse l’_odum_ pel giudizio dei numi.

Questo _odum_ non è altro che la corteccia d’un albero a cui gli
Ascianti attribuiscono delle proprietà miracolose, strabilianti. Serve
ad indicare i veri colpevoli, a torto od a ragione, non importa.

Si dà al reo da masticare un pezzo di quella corteccia, poi gli si
fa inghiottire una grande quantità d’acqua. Se la rigetta e ciò non
succede quasi mai, è dichiarato innocente, ma se la trattiene e ciò
succede quasi sempre, è subito punito, essendo tutti convinti che egli
sia realmente colpevole.

Ad un ordine del _dikero_ il ladro, che non voleva confessare di
essere una spia di Geletè, fu seduto su di uno sgabello, poi il
carnefice, riconoscibile pel suo berretto di pelle di leopardo e pei
due coltellacci pendentigli sul petto, gli diede da masticare il pezzo
di _odum_, ingiungendogli di tenerlo in bocca parecchi minuti, fino a
ridurlo in bricciole.

— Credo che quel povero diavolo sia spacciato, — disse Antao, che
seguiva con curiosità quella strana prova.

— È convinto anche lui di non poter provare il contrario, — rispose
Alfredo.

— E lo uccideranno?

— Non avrà alcun scampo. Se fosse a Cumassia potrebbe avere qualche
speranza di salvarsi, ma qui non vi è alcun luogo inviolabile.

— Forse che a Cumassia vi è un luogo dove i condannati possono salvare
la pelle?...

— Sì, è un piccolo villaggio che si chiama Butama e che è separato
da Cumassia da un piccolo corso d’acqua. Qualunque condannato che
varchi quel ruscello è al sicuro contro la collera di tutti i _dikeri_
e perfino del re, perchè là sorgono le tombe della famiglia reale e
perciò quel territorio è sacro. —

In quell’istante le loro parole furono soffocate da un urlìo feroce,
emesso dalla folla. Il dahomeno aveva bevuto l’acqua e, come era da
aspettarselo, non l’aveva rigettata.

Pronto come il lampo, il carnefice aveva afferrata la vittima pel collo
e secondo l’uso gli aveva trapassato, con un lungo ed acuto coltello,
le gote e la lingua, per impedirle di pronunciare il gran giuramento
del re, formula che le avrebbe dato il diritto di salvare la vita per
un certo tempo e di venire fucilato invece di torturato.

Antao ed Alfredo, spinti dal loro animo generoso, si erano lanciati
verso il prigioniero per cercare di strapparlo alla morte, ma il
corriere del re ed i suoi uomini si erano affrettati a chiudere loro il
passo, dicendo con tono minaccioso:

— Gli uomini bianchi non hanno da fare colla giustizia del re! —

Intanto il carnefice aveva approfittato per piantare nelle spalle del
paziente due lunghe forchette e legatogli una corda al collo, l’aveva
tratto sulla piazza, costringendolo a camminare, mentre la folla gli si
precipitava dietro urlando e ridendo ed agitando dei tizzoni accesi.

— Vieni, Antao, — disse Alfredo. — Ciò è ripugnante. — E presolo per
una mano lo trasse verso la casa del _dikero_, seguito da Asseybo.

— Ma cosa faranno ora di quel disgraziato? — chiese Antao, che porgeva
ascolto alle urla crescenti della folla.

— Lo conducono in giro per la città, costringendolo a ballare in ogni
via.

— Ma se non lo potesse?...

— La folla lo costringerebbe coi tizzoni accesi.

— E poi lo decapitano?...

— C’è del tempo. Gli Ascianti non sono meno crudeli dei Dahomeni e
prima lo tortureranno diabolicamente.

Quando avrà finita la passeggiata, il carnefice avrà tagliato parecchi
pezzi di carne sul corpo di quel disgraziato.

— Ma allora lo ucciderà?

— No, poichè i carnefici sono abili e sanno che se uccidono la vittima
prima che sia giunta l’ora, devono prenderne immediatamente il posto.

— Ma quando finiranno di torturarlo?...

— Non prima di questa sera. A mezzodì gli accorderanno un po’ di
riposo e gli daranno una zucca di vino di palma per rinvigorirsi, poi
lo costringeranno a riprendere la passeggiata e le danze innanzi alle
autorità. Se si presterà volentieri a quei salti, la sua testa non
tarderà a cadere sotto il coltello del carnefice, ma se si rifiutasse,
disgraziato lui.

Prima di perdere la testa, quei mostri gli troncheranno una ad una le
membra.

— Che razza di canaglie!... Il diavolo si porti il _dikero_ e
tutti i suoi negri. Prendiamo le nostre casse ed i nostri animali
ed andiamocene, Alfredo. Rinuncio all’ospitalità di quel selvaggio
sanguinario.

— Non chiedo di meglio, Antao. Preferisco andare ad accamparmi nella
pianura od in mezzo ai boschi. —

Dinanzi all’abitazione del giudice trovarono i due dahomeni e la
giovane negra, la quale attendeva ansiosamente il ritorno dei due
bianchi.

Quando se li vide dinanzi, un vero grido di gioia irruppe dalle labbra
della brava ragazza e fu tale la contentezza d’Antao, nel rivederla,
che non potè fare a meno di abbracciarla.

— Morte di Giove, Venere, Urano e di tutti pianeti del firmamento!... —
esclamò. — Ti giuro, mia povera giovane, che io sono commosso. —

Stava per tempestarla di domande, ma Alfredo gli troncò le parole
dicendo:

— Più tardi, Antao. Pensiamo a prendere il largo prima che il _dikero_
ritorni. —

I due dahomeni e Asseybo bardarono i cavalli che erano stati ricoverati
in una vicina tettoia, dai servi del _dikero_ si fecero consegnare
le casse rubate, le caricarono in fretta sul dorso degli animali e
partirono di corsa seguiti dai due europei e dall’amazzone, la quale
era già perfettamente guarita.

Mezz’ora dopo erano tanto lontani, da non udire più le urla feroci
della popolazione martirizzante la spia di Kalani.




CAPITOLO XXI.

Attraverso la regione dei Krepi


La carovana marciò senza interruzione fino a notte tarda attraverso
alla pianura, spingendo i cavalli ad un mezzo galoppo e non si arrestò
che sul margine della grande foresta, che doveva guidarli alle rive del
Volta.

Uomini ed animali non ne potevano più dopo quella corsa indiavolata
fatta sotto un sole ardente e senza aver mai trovato un palmo d’ombra,
ma i primi erano contenti di trovarsi così lontani da quella città
dei cui abitanti era meglio diffidare, malgrado le premure e l’aiuto
prestato dal _dikero_.

Quand’ebbero cenato e le tende furono rizzate presso i fuochi accesi
per tenere lontane le fiere, Alfredo chiamò attorno a sè tutti,
dicendo:

— Ed ora, parliamo.

— Per Giove!... — esclamò Antao. — Credo che sia giunto il momento
di sciogliere un po’ la lingua. Quella corsa precipitosa non mi ha
concesso di scambiare una parola con questa ragazza.

— Puoi parlare a tuo comodo, Antao, o meglio le parleremo insieme.
Anch’io sono curioso di sapere tante cose che deve ormai conoscere,
essendo stata quattro giorni coi suoi rapitori. È vero Urada?...

— Sì, padrone, — rispose la negra, sorridendo. — Credilo però, padrone,
sono stata rapita contro la mia volontà.

— Ne siamo convinti, — disse Antao. — Se così non fosse, non avresti
gettati nel bosco quei segnali.

— Li avete trovati?... Dunque avevate seguito le tracce dei ladri?

— Certo, Urada. Ma in quale modo ti hanno rapita? — chiese Alfredo.

   [Illustrazione: .... non avendo che una sola mira: quella
   d’impadronirsi della testa di un avversario.... (Pag. 150).]

— Io dormivo sotto la tenda, quando fui svegliata dagli spari dei due
schiavi. Uscii all’aperto per vedere cosa succedeva e mi vidi dinanzi
un orribile _mpungu_.

Spaventata, mi preparavo a fuggire, quando comparvero improvvisamente
tre negri armati di fucili. Il gorilla fuggì ed i negri ne
approfittarono per caricare le casse sui cavalli e rientrare nella
foresta dopo d’avermi gettata nella lettiga.

Seppi più tardi che mi avevano rapita credendo che io fossi una vostra
prigioniera, essendosi accorti che io era una loro compatriota.

Dapprima avevo sospettato di essere caduta nelle mani di alcuni negri
predoni, ma seppi ben presto che erano le spie che vi seguivano da
Porto Novo, attendendo l’occasione propizia per tendervi un agguato o
immobilizzarvi nei boschi.

— Erano spie di Kalani?...

— Sì, padrone, me lo dissero poi. Erano stati incaricati di seguirti,
onde avvertire il loro padrone nel caso che tu avessi marciato verso la
frontiera del Dahomey.

— E di mio fratello, hai udito parlare?...

— Sì e non fecero che confermare quanto io ti dissi. Kalani te lo ha
rapito non per ucciderlo, ma per obbligare te a gettarti nella bocca di
quella lurida iena. Il tuo antico schiavo era certo che tu ti saresti
recato ad Abomey.

— Ecco delle parole che mi tranquillizzano sulla sorte di quello
sventurato fanciullo. Ah!... Kalani spera che io cada nei suoi
agguati?... Sarà lui che cadrà nel laccio che gli tenderò ad Abomey.

— Ma come faremo ad entrare inosservati nella capitale di Geletè? —
chiese Antao. — Non me lo hai ancora detto, Alfredo.

— Ora che abbiamo ricuperate le nostre casse, ti prometto di farti fare
un’entrata trionfale ad Abomey.

— Devono contenere dei talismani miracolosi le tue casse. Mi spiegherai
almeno in cosa consistono.

— È per questo che vi ho radunati tutti attorno a me.

— Getta fuori adunque i tuoi progetti.

— Dimmi, ti piacerebbe entrare in Abomey come ambasciatore?...

— Come ambasciatore!...

— Sì, Antao come un ambasciatore di qualche reame negro, di quello del
Borgu, per esempio, che è confinante col Dahomey.

— Io, un bianco, un europeo?...

— Non saremo più bianchi allora.

— Cosa vuoi dire?... Possibile che la mia pelle sia diventata così nera
da credermi un discendente di Caam?...

— Lo diverrai: ho portato con me tutto l’occorrente per darci sulla
pelle una superba tinta color fuliggine o cioccolata. —

Antao scoppiò in una fragorosa risata.

— Ridi pure, ma ti dico che noi ci dipingeremo così bene, da ingannare
anche Kalani.

— E ci vestiremo anche da negri?...

— Sì, Antao ma da negri d’alto lignaggio. Nelle mie casse vi è tutto
l’occorrente.

— Ecco perchè ci tenevi tanto alle casse che ti avevano rubato!...

— Certo, e soprattutto pei regali che ho destinato a Geletè ed ai suoi
_cabeceri_.

— Ma credi tu, Alfredo, che tale mascherata sarà possibile, senza
destare dei sospetti in quel furfante di Kalani?...

— Vedrai che nessuno più ci riconoscerà! Ho portato con me perfino
delle bellissime barbe nere come portano i ricchi del Borgu e delle
parrucche da negro.

— E cosa andremo a proporre a Geletè?...

— Qualche trattato d’amicizia, un’alleanza difensiva od offensiva per
esempio. Geletè sa che gli uomini del Borgu sono valorosi e si guarderà
bene dal rifiutare e ci riceverà coi dovuti onori.

— Magnifico progetto!... — esclamò il portoghese.

— Ne convieni?...

— Certo, Alfredo.

— Credi possibile la sua riuscita?...

— Ho piena fiducia, ma quando saremo entrati in Abomey, come faremo a
liberare tuo fratello?...

— Lo si vedrà.

— E Kalani?...

— Lo ucciderò, — disse freddamente il cacciatore, mentre un lampo
d’odio gli balenava negli sguardi.

Poi volgendosi verso Urada:

— Hai compreso tutto?...

— Sì, padrone, — rispose la giovane negra.

— Hai delle obbiezioni da fare?

— No, poichè credo che in nessun altro modo potresti giungere ad Abomey
senza allarmare Kalani.

— Ora sono tranquillo.

— E quando faremo la nostra toeletta? — chiese Antao. — Sono impaziente
di vedere quale figura farò tinto di nero.

— Quando avremo varcato il Volta e saremo entrati nel territorio del
Dahomey. Per ora è inutile.

— Padrone, — disse Asseybo, che fino allora non aveva pronunciato una
sillaba. — Vuoi un consiglio?...

— Parla, — disse Alfredo.

— Marciamo a grandi tappe e cerchiamo di giungere ad Abomey nel minor
tempo possibile.

— Perchè dici questo?...

— Uno dei ladri è fuggito e noi non sappiamo se gli uomini del _dikero_
saranno riusciti ad arrestarlo. Può passarci dinanzi ed avvertire
Kalani delle nostre intenzioni.

— Speriamo che l’abbiano preso. Quell’uomo però, solo, forse inerme,
privo d’un quadrupede, non sarà in grado di lottare in celerità con
noi. D’altronde non ci potrà riconoscere.

Ed ora, amici, riposiamo. Domani marceremo verso il Volta e quando
avremo attraversata la regione dei Krepi, diverremo tutti negri. —

L’indomani, dopo una notte tranquillissima, la carovana ripartiva a
marcie forzate, per guadagnare il fiume prima che calasse la notte.

La traversata dei boschi si compì senza difficoltà e senza cattivi
incontri, e verso il tramonto s’accampava sulla riva opposta del fiume.

Nei giorni seguenti marciò, quasi senza interruzione, salvo alla notte
per riposare, attraverso la regione dei Krepi; un vasto territorio
compreso fra il Volta ed il possedimento inglese della Costa d’Avorio
ed il fiume Mono, e che gli Ascianti ed i Dahomeni ben sovente
scorrazzavano per provvedere di schiavi da macellare nelle atroci feste
del sangue.

Questa regione, che da alcuni anni si trova sotto il protettorato della
Germania, era allora abitata da un grande numero di piccoli reami,
assolutamente incapaci di far fronte ai due potenti vicini. I Krepi
occupano la parte settentrionale ed i Togo la meridionale. Pochi sono i
centri popolosi; fuorchè Hpandu, presso il Volta, Waya presso il Todij
a breve distanza dalla frontiera del possedimento inglese, Kpetu sullo
stesso fiume e Atakpam molto al nord, nella regione degli Akposso,
tutti gli altri non sono che piccoli villaggi di nessuna importanza.

In cinque giorni la piccola carovana, dopo d’aver superata la regione
montuosa che si estende dal sud-ovest al nord-est attraverso il 7° di
latitudine e di aver fatto delle brevi fermate nei villaggi di Tota,
di Misahohe, di Pelome e di Togodo, per provvedersi di viveri freschi,
giungevano presso il fiume Mono il quale scorre a poche miglia di
distanza dalla frontiera, e quattro ore più tardi si accampavano sul
territorio del feroce Geletè.

Il Dahomey è un regno che come vastità di territorio e come popolazione
non può competere con quello degli Ascianti, ma come potenza militare
lo supera, essendo i suoi abitanti i più bellicosi di tutta la Costa
d’Avorio.

Fondato circa due secoli or sono, si è mantenuto indipendente fino in
questi ultimi anni e di certo lo sarebbe ancora, se la baldanza e la
ferocia di Behanzin, successore di Geletè, non avesse decisa la Francia
ad invaderlo, mettendo fine ai secolari bagni di sangue, che sotto
varii pretesti, si facevano annualmente nella capitale o nella città
santa di Kana.

La sua superficie è vasta, poichè si estende dal mare al nono grado
di latitudine nord, ossia fino allo spartiacque del bacino del Niger
con quello dei fiumi che si gettano lungo la costa della Guinea
occidentale, e dal paese dei Togo a quello dell’Opara che scaricasi
presso Porto Novo, su una distesa di duecentottanta chilometri
dall’ovest all’est.

Il suo clima è però uno dei più micidiali, e dei più insopportabili di
tutte le regioni della Costa d’Avorio, essendo quella regione proprio
sotto l’equatore, esposta ad una vera pioggia di fuoco che rende
quasi impossibile il soggiorno agli Europei, anche sugli altipiani
dell’interno.

Verso il mare poi è peggiore ancora, poichè le paludi ed i grandi
boschi ne fanno un covo di febbri algide mortali a tutti coloro che non
si sono acclimatizzati, e pericolosissime perfino agli indigeni.

Verso la costa il paese è tutto boscoso, ricco di piante colossali
e di palme d’elais, ma di passo in passo che si allontana, la grossa
vegetazione sparisce, gli altipiani si succedono in forma d’immense
terrazze coperte solamente da un’erba alta due metri, chiamata erba di
Guinea.

È su quegli altipiani che sorgono le città più importanti del regno,
Abomey che è la capitale, Kana detta la città santa dove sorgono le
tombe dei re e dove si fanno i grandi sacrifici umani, Agu, Akpuel,
Doko e Bobek, ma queste quattro ultime si possono considerare, più che
città, grosse borgate.

Sulla costa invece non sorge che Widak, la sola città dove era permesso
agli europei di soggiornare e di trafficare e dove pagavano i loro
contributi al re in bottiglie di rhum e di cognac.

Pochi però erano, prima dell’occupazione francese, i dahomeni che
entravano in questa città e non vi andavano senza manifestare un vivo
ribrezzo, credendola contaminata dalla presenza degli Europei.

Una sola volta all’anno i preti si recavano colà in processione
portando i loro feticci e per sacrificare, alle divinità marittime, una
delle più belle fanciulle del regno, la quale veniva spinta in mare
a pasto dei numerosi pescicani che infestano le spiagge della Costa
d’Avorio.

La popolazione di questo regno, diventato così tristamente celebre
per le sue barbarie, sembra composta di due razze distinte. Quella
inferiore, composta per la maggior parte di schiavi rapiti ai paesi
vicini, caratterizzata da una estrema bruttezza fisica e da un
vero degradamento morale; quella superiore alla quale appartengono
la famiglia reale e la classe dominante, caratterizzata da una
intelligenza svegliatissima e da lineamenti regolari che s’avvicinano
al tipo europeo.

Queste due razze non superano il milione d’anime, di cui i due terzi
sono costituiti dagli schiavi, povere vittime che erano destinate a
venire macellate nelle feste del sangue, quando mancavano i prigionieri
di guerra.

Nazione eminentemente guerresca, il Dahomey ha sempre dato del filo
da torcere ai suoi vicini, ai Togo, ai Krepi ed agli Yoruba. Per
secoli e secoli si è mantenuto non solo indipendente, ma ha respinto
vittoriosamente le aggressioni dei nemici, affermandosi come potenza
militare valorosissima.

Cosa strana, forse unica in tutti i popoli non solo dell’Africa ma del
mondo, la sua forza soprattutto veniva costituita dai suoi reggimenti
di amazzoni, reclutate fra le più belle, le più robuste e le più
crudeli ragazze del regno.

Allevate con estrema cura, rinvigorite con lunghi esercizi militari,
addestrate nelle armi e sottoposte ad una ferrea disciplina, per lunghi
anni quelle intrepide donne mantennero alta la fama guerresca. Erano
loro che entravano in campo quando i soldati dahomeni cominciavano a
piegare e si narra che i loro attacchi erano così irresistibili e la
loro ferocia tale, da assicurare sempre la vittoria.

Il loro numero non ha mai superato le tremila e costituiva la guardia
reale. Il loro armamento consisteva in fucili e larghi coltellacci che
sapevano adoperare con una destrezza spaventosa.

Scaricate le armi, si scagliavano come furie contro le orde nemiche col
coltello in pugno, non avendo che una sola mira: quella d’impadronirsi
della testa d’un avversario da regalare al loro re.

La stirpe reale del Dahomey, cessata pochi anni or sono coll’esilio
di Behanzin successore di Geletè, debellato dalle armi vittoriose del
generale Doods, era una delle più giovani, poichè la sua fondazione non
risaliva che al 1724, nella cui epoca Guagiah-Truda, piccolo principe
di Abomey, ma valoroso guerriero, riusciva a formarsi un vasto regno
riunendo sotto il suo potere i reami di Adrah, Toffoa, Allahda, di Xavy
e di Wydak dopo d’averli vinti.

L’autorità di quei monarchi sanguinari, era però potentissima, anzi
senza limiti.

I personaggi più importanti del regno, non erano, rispetto a loro, che
i primi schiavi; il popolo invece una massa di animali da macellare
di quando in quando, per placare le ire della divinità o dei sovrani
defunti.

Potevano disporre a loro talento della vita di tutti gli abitanti del
regno e dei loro averi e come ne abusavano!... Quando gli schiavi da
sacrificare mancavano, non si peritavano di scegliere le vittime fra i
sudditi, senza che questi mai avessero osato di ribellarsi.

Sul numero degli uomini che macellavano nelle feste delle grandi
usanze, basti sapere che il governatore portoghese dell’isola di S.
Tommaso riusciva a riscattarne, in una sola volta, milleduecento,
destinati a perire in una festa secondaria!...




CAPITOLO XXII.

Assediato in una trappola da elefanti


Prima di avventurarsi sul territorio dahomeno, Alfredo aveva deciso
di accordare un riposo di un paio di giorni alla carovana, per non
rovinare i poveri animali, già molto affaticati da quelle lunghe marcie
compiute sotto un sole bruciante ed in mezzo a mille ostacoli, e per
rinnovare le loro provviste essendo già quasi esauste.

Trovando quel luogo molto boscoso, i due cacciatori speravano di
abbattere alcuni capi di selvaggina per seccarne la carne, temendo
di non trovarne nelle pianure erbose degli altipiani e sapendo di
non poter contare sui villaggi che sono molto scarsi nel Dahomey,
specialmente nelle regioni occidentali.

Essendo il tramonto ancora lontano, dopo un riposo di qualche ora sotto
la tenda, chiamarono Asseybo e s’internarono nella foresta, tenendosi
nelle vicinanze d’un fiumicello per sorprendere la selvaggina che
doveva accorrere per dissetarsi.

La temperatura era ardentissima anche all’ombra di quei grandi alberi
ed eccessivamente snervante essendo umida, ma i cacciatori, quantunque
fumassero come zolfatare e si sentissero zampillare il sudore da tutti
i pori inzuppandosi le vesti, procedevano egualmente, avendo scoperto,
in certi tratti, delle numerose tracce di animali di piccola e grossa
taglia.

Asseybo, che come sappiamo era un abilissimo cercatore di piste, aveva
già rilevato delle tracce di elefanti, di antilopi, di facocheri e
di zebre, animali piuttosto comunissimi in quelle regioni ed i due
cacciatori speravano di non ritornare al campo a mani vuote.

Camminavano da una mezz’ora tenendosi sempre a poche centinaia di
metri dal corso d’acqua, quando Antao, che si trovava dinanzi a tutti,
s’arrestò bruscamente, mandando un grido di meraviglia, seguito poco
dopo dalla «morte» di tutti i pianeti da lui conosciuti.

— Ehi, Antao!... — gridò Alfredo, armando la carabina. Hai scoperto
qualche colossale elefante?...

— Se non è un elefante è un colosso di certo, ma del regno
vegetale. —

Il portoghese si era arrestato dinanzi ad un albero ma d’una mole così
enorme, che mai prima di allora ne aveva veduto uno eguale.

Quel colosso della vegetazione, che si rizzava maestosamente, formando
da solo una piccola foresta, era tale da meravigliare anche lo stesso
Alfredo.

Il suo tronco non aveva più di cinque metri d’altezza ma era così
grosso da averne almeno dieci di circonferenza.

Sopra quell’ammasso di legno si dipartivano dei rami lunghi una
ventina di metri, i quali s’incurvavano verso terra formando una cupola
immensa, forniti di folto fogliame e sostenenti certe specie di capsule
di forma ovoidale, assai accuminate ad una delle estremità e grosse
come la testa d’un uomo.

Una numerosa banda di scimmie della specie dei cercopitechi verdi,
aveva preso stanza fra i rami del colosso, divorando avidamente quelle
grosse frutta che dovevano essere molto deliziose pei palati di quei
coduti quadrumani.

— Un baobab forse?... — chiese Antao ad Alfredo.

— Sì, amico mio.

— Ebbene, Alfredo, non credevo che tali alberi avessero delle
dimensioni così mostruose. Ma guarda che tronco enorme!... Nel suo
interno vi potrebbero danzare venti persone.

— Lo credo, Antao, ma probabilmente la sala sarà occupata da dei
funebri personaggi, ben brutti da vedersi.

— Cosa vuoi dire?...

— Voglio dire che forse l’interno sarà occupato da qualche dozzina di
negri mummificati, essendovi in questi paesi l’abitudine di servirsi
dei tronchi di baobab come di camere mortuarie.

— Sistema niente affatto comodo, se i becchini devono scavare questi
colossi.

— Non così difficile come credi, essendo il legno di questi alberi
molto tenero.

— E non servono a null’altro, questi giganti?...

— Sì, poichè i negri sanno trarre altri vantaggi da queste piante.

— A me sembra che servano solamente alle scimmie, le quali fanno una
vera strage di quelle frutta.

— Sono ricercate anche dai negri. Quelle capsule che vengono
comunemente chiamate _pane di scimmia_, contengono una polpa di sapore
dolcigno e che spremuta ed unita ad un po’ di zucchero, dà una bevanda
gradevole, molto indicata per combattere efficacemente le febbri.

— Buono a sapersi, in questo paese delle febbri.

— Dalle frutta sanno poi ricavare una cenere ricca di soda e che
mescolata ad un po’ d’olio di palma costituisce un buon sapone.
Ma anche le foglie e la corteccia, che godono di virtù emollienti,
sono largamente usate dai negri per moderare l’eccesso della loro
traspirazione.

— È poco per questi giganti. Comunque sia, sono piante meravigliose.

— Ma ve ne sono di più grandi, Antao.

— Più di questa?...

— Alla foce del Senegal si sono misurati dei baobab che avevano
l’enorme circonferenza di cento piedi, ossia di trentatrè metri.

— Morte di tutti i pianeti!...

— Il dottor Livingstone, il celebre esploratore dell’Africa meridionale
e centrale, ha veduto un baobab scavato, nel cui interno vi potevano
stare comodamente trentatrè uomini e Humboldt ne vide una nella
Senegambia, nel cui tronco una tribù di negri teneva le sue assemblee.

— Questi enormi vegetali devono vivere un bel numero di secoli, Alfredo.

— Adanson afferma di aver studiato dei baobab che dovevano contare
cinque ed alcuni seimila anni d’esistenza.

— Corna del diavolo!... Che bella età!... E tu mi hai detto che
quell’albero può essere pieno di mummie di negri?...

— È probabile.

— E si conservano bene?

— Perfettamente, forse meglio delle mummie egiziane.

— Andiamo a vedere, Alfredo. —

S’accostarono all’enorme tronco girandovi attorno per vedere se vi era
qualche strappo nella corteccia, ma la trovarono intatta dappertutto.

Stavano per raccogliere alcune capsule lasciate cadere dalle scimmie,
onde assaggiarne la polpa, quando Asseybo, che si trovava a quindici
passi da loro, nascosto dietro il tronco d’un cedro selvatico, con un
leggiero sibilo li fece accorrere.

— Cos’hai? — chiese Alfredo.

Il negro additò loro un macchione di cespugli, i cui rami si agitavano.
Quasi contemporaneamente udirono dei grugniti che parevano emessi da
una banda di suini.

— Dei porci qui? — chiese Antao, con stupore.

— Credo che siano facocheri, — rispose Alfredo, che pareva esitasse
ad impugnare la carabina. — La loro carne vale una palla, ma vi è
il pericolo di farci sventrare dalle lunghe zanne di quei cignali
coraggiosi.

— Non abbiamo avuto paura dei leoni e dei leopardi e meno ne avremo di
quei signori facachi o facuchi che siano.

— Facocheri, Antao.

— Sia pure. Orsù, una buona scarica là in mezzo.

— Temo che siano molti.

— Meglio per la nostra cucina.

— Ma i sopravviventi alla scarica ci assaliranno.

— E noi li respingeremo.

— Giacchè lo vuoi, proviamo. —

In mezzo al macchione si scorgevano, ad intervalli, dei robusti dorsi
coperti di lunghe e grosse setole e delle code attorcigliate che si
agitavano.

I due cacciatori ed Asseybo puntarono le carabine mirando per alcuni
istanti, poi fecero fuoco.

Il fumo si era appena diradato che videro irrompere dai cespugli dodici
o quindici brutti cignali, di taglia grossissima, armati di zanne
arcuate, lunghe parecchi pollici.

Due caddero dopo pochi passi, ma gli altri, che parevano in preda ad
un furore tremendo, continuarono la corsa, scagliandosi impetuosamente
sugli assalitori.

Alfredo e Asseybo, che si trovavano vicini ai rami del baobab, i
quali, come si disse, si curvavano verso terra, con due salti furono
lesti ad aggrapparvisi mettendosi in salvo, ma il povero portoghese,
che si trovava più lontano e che forse era rimasto scombussolato da
quell’improvviso assalto, si raccomandò alle proprie gambe, fuggendo a
precipizio in mezzo alla foresta.

Sette od otto facocheri s’arrestarono sotto il baobab grugnendo
rabbiosamente e cercando, con salti disordinati, di mordere le gambe
d’Alfredo e del negro, ma altri tre, guidati da un vecchio maschio, si
misero dietro al fuggiasco.

Fortunatamente Antao aveva buone gambe e correva come un daino, girando
attorno ai tronchi per far perdere tempo ai feroci animali, balzando
agilmente sopra le piccole macchie, guizzando in mezzo alle radici ed
alle liane, ma allontanandosi sempre più dai compagni, colla cattiva
prospettiva di smarrirsi fra quelle migliaia di vegetali.

Galoppava da una buona mezz’ora, sempre più inoltrandosi nella
boscaglia e sempre incalzato dagli ostinati cignali, quando tutto d’un
tratto sentì mancarsi il suolo sotto i piedi. Ebbe appena il tempo di
mandare un grido, che si trovò, semi-intontito in fondo ad una larga
buca.

Non potè subito rendersi conto di quanto era accaduto, poichè nel
battere il capo in terra, aveva ricevuto tale scossa, da non sapersi
più raccapezzare.

Gli parve però di sentirsi cadere addosso una massa pesante, quindi
di udire presso di sè un urlo acuto che terminò in un grugnito rauco,
strozzato.

— Morte di Giove ed anche di Febo!... — esclamò, quando si fu un po’
rimesso. — Un passo più innanzi e m’infilzavo come questo dannato
facafuchero o facafocoro che sia. Si vede che sono ancora un uomo
fortunato, dopo tutto. —

Il brav’uomo aveva ben ragione di chiamarsi fortunato, poichè era
miracolosamente scampato al più orribile dei supplizii, cioè alla morte
col palo.

La sua fuga precipitosa lo aveva condotto sopra uno di quei pericolosi
trabocchetti che i negri sogliono scavare per impadronirsi, senza
correre alcun pericolo, dei grossi animali, come gli elefanti ed i
rinoceronti.

Era una buca profonda tre metri, larga e lunga sei, munita nel mezzo
d’un aguzzo palo profondamente impiantato e coperta superiormente da
uno strato di canne di terra e di foglie.

Il portoghese, invece di cadere sul palo e terminare la sua esistenza
come un turco od un persiano, trasportato dal proprio slancio, era
andato a stramazzare in un angolo del trabocchetto; invece sua si era
infilzato il vecchio maschio che gli stava alle calcagna e che ora
presentava il comico spettacolo di un maiale enorme, messo allo spiedo
intero.

— In fede mia che sta meglio su quella punta questo irascibile porco
che io, — disse Antao. — È una vera disgrazia che non vi sia qui della
legna per arrostirlo. —

Il suo buon umore si cambiò però in un subitaneo impeto di collera,
udendo sopra la sua testa dei grugniti furiosi.

— Ancora quegli ostinati maiali!... — esclamò. — Ora vi mando a tenere
compagnia al vecchio maschio. —

Gli altri tre facocheri, che avevano avuto il tempo di trattenersi
dinanzi al trabocchetto, correvano all’impazzata intorno alla buca
grugnendo rabbiosamente, come fossero furibondi per non aver potuto
vendicarsi del disgraziato portoghese.

Di tratto in tratto s’arrestavano allungando i loro brutti musi verso
la fossa e battendo fortemente le loro lunghe zanne che producevano
un rumore simile a quello delle mascelle dei caimani allorchè si
rinchiudono, poi cercavano di avanzarsi sullo strato di canne mezzo
sfondato, ma comprendendo che correvano il pericolo di seguire il
vecchio maschio, s’affrettavano a retrocedere.

Antao raccolse la carabina che era caduta in un angolo, ma quando volle
caricarla, s’avvide che la fiaschetta della polvere erasi spezzata,
spargendo le munizioni sul fondo limaccioso della trappola.

— Morte di tutti i facucheri della terra!... — esclamò, dando un
calcio alla fiaschetta sventrata. — Eccomi in un bell’impiccio!... Se
Alfredo e Asseybo non vengono a liberarmi, quei dannati animali non
mi lascieranno uscire da questa dannata buca!... Uscire!... Credo che
anche senza quei porci non vi riuscirei di certo!... Ma toh!... L’idea
mi pare buona ed il coltello vi può giungere. —

Senza più occuparsi dei facocheri, i quali d’altronde non potevano
giungere fino a lui, si levò la cinghia che gli sorreggeva i calzoni,
poi estrasse il coltello da caccia che pendevagli dal fianco, un’arma
lunga un buon piede e di una tempra eccezionale, quindi la legò
saldamente all’estremità della canna del fucile, formando una specie di
lancia.

— Sbarazziamoci per ora dei porci, — disse. — Poi vedremo se vi sarà il
mezzo di uscire dalla trappola. —

Guardò in alto e vide i tre facocheri riuniti, i quali lo guardavano
coi loro occhietti neri, digrignando i denti e grugnendo.

Allungare rapidamente il fucile e piantare il coltello in mezzo al
ventre del più vicino, fu la cosa d’un istante.

L’animale, trapassato fino alla spina dorsale, mandò un urlo acuto e
piombò nella buca, dibattendosi fra le strette dell’agonia. Gli altri
due, spaventati, fecero un rapido volta faccia e fuggirono a tutte
gambe in mezzo alla foresta.

— Per Giove! — esclamò Antao, ridendo. — Per poco che la continui,
questa buca diverrà la bottega d’un macellaio!... Disgraziatamente è
sempre il fuoco che mi manca.

Orsù, cerchiamo di lasciare l’alloggio, per ora. Più tardi manderò i
due dahomeni a ritirare i viveri. —

Fece il giro della buca, sperando che in qualche luogo il terreno fosse
tanto friabile da permettergli di scavarsi dei gradini, ma s’avvide che
quella trappola era stata aperta fra degli strati di natura rocciosa, i
quali dovevano opporre una resistenza considerevole.

— Diavolo!... — mormorò il disgraziato portoghese, che cominciava a
perdere il suo buon umore ed a diventare inquieto. — Temo di dover
passare la notte in fondo a questa umida tana, in compagnia di questi
due porci.

Chissà se Alfredo ed Asseybo riusciranno a trovarmi, prima che tramonti
il sole. In queste foreste è così facile a smarrirsi!...

Orsù, bisogna rassegnarsi e fare buon viso alla fortuna. D’altronde una
notte passa presto.

Se la fiaschetta non si fosse spezzata e il fondo di questa fossa,
invece di essere così limaccioso fosse stato bene asciutto, avrei
potuto richiamare l’attenzione di Alfredo con delle scariche ma bah!...
Domani mi ritroveranno. —

Le tenebre calavano rapidamente ed al prigioniero non rimaneva altra
prospettiva che di trovarsi un cantuccio per riposare e d’armarsi di
pazienza fino all’alba, certo che Asseybo avrebbe ritrovato le sue
tracce.

Disgraziatamente il fondo della trappola era una pozzanghera e non era
possibile coricarsi su quel fango saturo d’acqua.

— Che debba rimanere in piedi tutta la notte?... — brontolò il
portoghese. — Non sono già nè un’airone, nè un fenicottero per dormire
in piedi. Toh!... non avevo pensato che posso avere un letto abbastanza
comodo!... —

Quella buona idea gli era stata suggerita guardando i due facocheri.
Con non poca fatica riuscì a tirare giù quello che si era impalato, poi
li trascinò tutti e due in un angolo mettendoli l’uno vicino all’altro
e vi si sdraiò sopra, mandando un sospiro di soddisfazione.

— Pare che anche i morti qualche volta possano essere utili, —
disse, ridendo. — Cerchiamo di chiudere gli occhi e di schiacciare
un sonnellino. Speriamo che finchè dormo qualche stupido elefante non
venga a gettarsi nella trappola. —

Il sole era allora tramontato da alcuni minuti e la notte era scesa, ma
una notte oscurissima, non essendovi luna.

Il portoghese, invitato dal profondo silenzio che regnava nella foresta
e vinto dalla stanchezza, non tardò ad addormentarsi profondamente,
come se fosse coricato sul più soffice letto di tutto il Portogallo.

Il suo sonno però, dopo alcune ore, fu bruscamente interrotto da
scrosci di risa sgangherati che scendevano dall’alto.

— Il diavolo si porti la gente allegra! — esclamò il portoghese,
alzandosi di assai cattivo umore. — Pare che si divertano nella
foresta. Che ridano della mia disgrazia?... —

Lasciò il suo comodo giaciglio, sul quale contava di russare beatamente
fino all’alba e guardò verso l’orlo della buca.

— Altro che gente allegra!... — mormorò. — Sono bestie affamate, che
sarebbero ben contente di banchettare col mio corpo. —

Quattro paia d’occhi a riflessi verdastri, che brillavano come
quelli dei gatti, erano fissi su di lui, con un’ostinazione da fare
accapponire la pelle al più coraggioso cacciatore del continente nero.

Ci volle poco al portoghese, per sapere a chi appartenevano. Erano
gli occhi di quattro grosse iene macchiate, le quali, accortesi che in
fondo alla buca vi erano delle prede, si erano affrettate ad accorrere
colla speranza di divorarsele.

Se però la discesa era facile, la salita era difficile e quei
ributtanti carnivori non avevano nessuna intenzione di andarsi a
cacciare in quella trappola.

— L’ingordigia vi tenta, ma la paura di venire a tenermi compagnia vi
trattiene, — disse il portoghese, ormai rassicurato. — D’altronde ho
qui uno spiedo che può servire anche contro di voi. —

Le quattro iene, vedendolo alzarsi, si erano ritirate di qualche
passo, cominciando un concerto indiavolato a base di scrosci di risa,
tutt’altro che gradito per gli orecchi del prigioniero.

Per un po’ Antao pazientò, sperando che le iene si allontanassero,
vedendo però che si ostinavano a rimanere presso l’orlo della trappola,
si rialzò furioso, e salito sui facocheri, vibrò un terribile colpo di
punta all’animale più vicino, squarciandogli il petto.

Le compagne, spaventate da quella brutta accoglienza, s’affrettarono
a sbandarsi, mentre quella ferita, nell’agitarsi fra le ultime
convulsioni, sfondava parte dello strato di canne, precipitando in
fondo la buca.

— Per Giove!... — esclamò il portoghese. — Ecco un altro materasso
che mi permetterà d’allungare anche le gambe. Approfittiamone per
riprendere il sonno. —

Trascinò il cadavere della iena accanto ai due facocheri e si sdraiò
comodamente sul suo letto di morti, ma era destinato che quella notte
non dovesse continuare il sonno.

Aveva appena richiusi gli occhi, che un altro concerto più indiavolato
lo costrinse a riaprirli. Via le iene erano giunti gli sciacalli, ma in
grosso numero e quei furfanti si permettevano il piacere di offrirgli
una serenata così strepitosa, da svegliare anche il più ostinato
dormiglione della terra.

— Orsù!... — esclamò Antao, che perdeva la sua flemma. — Non vi è caso
che mi lascino tranquillo un solo momento. Il diavolo si porti tutte le
bestie dell’Africa!... —

In quell’istante gli parve udire una lontana detonazione echeggiare
sotto i grandi alberi.

— Che sia Alfredo?... — mormorò. — Giungerebbe in buon punto per fugare
questi arrabbiati concertisti. —

Tese gli orecchi, ma le urla degli sciacalli gl’impedivano di ascoltare.

— Mi cercano, speriamo adunque che mi trovino, — disse. — Se questi
furfanti stessero un momento zitti potrei, urlando a piena gola, forse
farmi udire, ma non cesseranno prima dell’alba. Se potessi pagarli con
quattro buoni colpi di spiedo, credo che di simile moneta ne avrebbero
abbastanza per andarsene a tutte gambe. —

Salì sui tre cadaveri cercando di avventare qualche colpo di punta a
quella banda affamata, ma quegli animali erano troppo lesti, e meno
curiosi delle iene, e si tenevano lontani dall’orlo della buca appena
scorgevano l’arma alzarsi verso di loro.

Il portoghese, dopo vari tentativi infruttuosi, dovette rassegnarsi ad
ascoltare, di buona o cattiva voglia, quella seconda serenata.

Per più di un’ora quelle lugubri urla risuonarono nella foresta,
impedendo al disgraziato prigioniero di udire le detonazioni delle armi
da fuoco dei suoi amici, ma poi tutto d’un tratto cessarono.

— Toh!... — mormorò, un po’ inquieto. — Chi può aver interrotto quegli
arrabbiati concertisti?... Che sia giunto qualche maestro armato di
zanne e d’artigli?... La fuga precipitosa degli sciacalli mi mette dei
sospetti, ma prenderò le mie precauzioni. —

Si cacciò dietro ai cadaveri della iena e dei due facocheri che
potevano servirgli di barricata, avendoli messi l’uno sull’altro,
puntò in alto il suo spiedo e stette in ascolto, cogli occhi fissi sui
margini della buca.

Essendo la foresta ridiventata silenziosa, dopo alcuni istanti gli
parve di udire un soffio poderoso, seguìto dallo scricchiolìo di alcune
foglie secche.

— Qualcuno s’avvicina, — mormorò Antao, che si sentiva imperlare la
fronte da alcune gocce di freddo sudore. — Che dopo le iene e gli
sciacalli vengano i grossi carnivori?... Bella notte che mi si prepara
e tutto per colpa di quei dannati porci. —

Tese nuovamente gli orecchi, ma cercando nel medesimo tempo di
rannicchiarsi meglio che poteva dietro ai cadaveri e udì nuovamente
il soffio poderoso e le foglie scricchiolare come sotto una violenta
pressione.

Poco dopo, un oggetto lungo e grosso, di colore oscuro, scese nella
buca, soffiando con tale forza da far rimbalzare l’acqua fangosa.

Il portoghese si sentì rizzare i capelli.

— Dio me la mandi buona, — mormorò, facendosi più piccino che poteva. —
È un serpente od è la tromba d’un elefante?... —

Guardò in alto e vide ferma, sull’orlo della trappola, una massa
gigantesca che spiccava paurosamente fra le tenebre.

Era un elefante di taglia enorme, forse uno di quei vecchi solitarii
che vivono rintanati in mezzo alle più folte foreste e che sono i più
pericolosi di tutti, poichè sono sempre d’un umore intrattabile.

Certo si era accorto della vicinanza dell’uomo ed aveva cacciata la
proboscide nella buca, per cercare d’afferrarlo e scaraventarlo contro
qualche albero.

   [Illustrazione: ... quando tutto d’un tratto sentì mancarsi il
   suolo sotto i piedi. (Pag. 155).]

— Morte di Urano e di Saturno, — mormorò Antao. — Non mancherebbe altro
che mi cadesse addosso!... Mi hanno detto che i vecchi solitari sono
così cattivi, da scagliarsi contro tutti gli uomini che incontrano. Se
la proboscide mi afferra, per me è finita!... —

Vedendo la tromba agitarsi in tutti i sensi e cercare lungo le pareti
della trappola, Antao si gettò a terra, tirandosi addosso il cadavere
della iena. Sperava in tale modo di non venire scoperto, ma ben presto
s’accorse che l’estremità di quella formidabile appendice, cercava
d’insinuarsi fra i cadaveri per afferrarlo.

Pazzo di terrore, si sbarazzò della iena e si rifugiò dall’altra parte
della buca, impugnando il suo spiedo.

Vedendo la tromba a due passi, con uno sforzo disperato le vibrò
un colpo di punta, ma non potè constatare gli effetti di quella
coltellata, poichè ricevette in pieno corpo una scarica di fango e
d’acqua così impetuosa, da ruzzolare colle gambe all’aria.

— Sono morto!... — urlò.

Quasi nel medesimo istante udì echeggiare, a breve distanza, due spari,
seguìti dal barrito formidabile del gigantesco animale.




CAPITOLO XXIII.

L’imboscata dei Krepi


Quando il povero Antao, inzaccherato di fango dai piedi ai capelli, si
rialzò per scuotersi di dosso quel sudiciume, invece dell’elefante,
vide sull’orlo della trappola Alfredo ed Asseybo, che tenevano nelle
mani due rami resinosi accesi.

— Morte di tutti gli elefanti dell’Africa!... — urlò. — Tu Alfredo?...
Un momento di ritardo e ti giuro, amico, che Antao non avrebbe mai
veduto il muso di quel furfante di Kalani, nè quello di Geletè!...

— Ma cosa fai in quella trappola!... — esclamò Alfredo, abbassando il
ramo per vederlo.

— Cosa faccio?... — rispose Antao, che aveva riacquistato subito il suo
buon umore. — Lo vedi, tengo compagnia ai morti.

— Ai morti?... Sei pazzo, Antao?

— Non mi sembra che l’elefante abbia guastato il mio cervello,
quantunque m’abbia fatto provare un così cattivo momento, che non lo
augurerei nemmeno ad un antropofago. Non vedi che sono in compagnia di
tre cadaveri?...

— Ma chi ti ha gettato lì dentro?...

— I facucheri.

— I facocheri!...

— Sì, i facocheri, come li vuoi chiamare.

— E sei lì dentro da ieri sera?...

— E ci sarei rimasto chissà fino a quando, senza di voi.

— Oh!... Disgraziato amico!...

— Lascia andare i compianti e gettami una corda. Sono imbrattato
di fango peggio d’un maiale. Quell’indiavolato elefante aveva una
tonnellata di zavorraccia nello stomaco e mi meraviglio che non
mi abbia accoppato con quella scarica. Auff! Pareva una tromba
marina!... —

Asseybo ed Alfredo si erano affrettati a levarsi le cinture di cotone
che portavano ai fianchi, lasciandole pendere nella trappola. Il
portoghese stava per aggrapparvisi, ma le lasciò subito andare.

— Non sali?... — chiese Alfredo.

— Aspetta un po’, amico, — rispose Antao. — Vi è la bottega d’un
macellaio in questa buca. Che la carcassa della iena rimanga qui a
imputridire non m’interessa, ma i due porci voglio portarmeli via.

— Lasciali andare, Antao. Durante il nostro assedio ne abbiamo uccisi
sei o sette.

— L’assedio?... Oh diavolo!... Io nella buca e voi sul baobab! Non
avrei mai supposto che questi brutti porci fossero così ostinati.
Tenete saldo!... —

S’aggrappò alle fascie e si lasciò tirare in alto. Quando si trovò
fuori da quella trappola, che per poco diventava la sua tomba, forse
per la prima volta in vita sua lasciò in pace i pianeti per lanciare un
interminabile «oh!...» di soddisfazione.

— Grazie, Alfredo, — disse poi, — ma mi dirai almeno come avete fatto a
trovarmi fra questa oscura foresta.

— Te lo racconterò camminando. Affrettiamoci a ritornare al campo,
poichè questa foresta mi pare che pulluli di animali feroci. Abbiamo
già veduto un leone e due leopardi. Ma come sei caduto in quella
trappola da elefanti?... —

Il portoghese s’affrettò a raccontargli la sua avventura, che se da
principio lo aveva fatto ridere, aveva però finito col farlo tremare.

— Se non giungevate voi, — concluse, — quell’elefante non avrebbe
tardato a ridurmi in un ammasso di carne o in una enorme bistecca.

— Ringrazia il caso che ci ha guidati da questa parte ed in così buon
punto, — disse Alfredo. — Povero amico!... Che ore angosciose avrai
passate in fondo a quella buca.

— Non quanto credi, poichè una parte di quelle ore l’ho passata
russando pacificamente. Ma voi, come vi siete sbarazzati dei porci?...

— Abbiamo subìto un vero assedio da parte di quegli animali e che è
durato fino a sera inoltrata, malgrado le nostre frequenti scariche.

Quando potemmo discendere ci mettemmo in cerca di te, temendo che ti
fosse toccata qualche grave disgrazia.

Essendo però le tenebre già calate, ci fu impossibile scoprire le tue
tracce, sicchè ci vedemmo costretti ad avanzare a casaccio, sperando di
udire la tua voce o qualche sparo.

Avevamo marciato tre ore, scaricando di quando in quando le nostre
armi, quando scorgemmo quel vecchio elefante e udimmo il tuo grido. Con
due scariche lo mettemmo in fuga, lanciandogli dietro una torcia per
spaventarlo vieppiù; e il resto lo sai.

— Ed al campo non siete tornati?...

— No, Antao.

— Saranno inquieti per la nostra prolungata assenza.

— Ci crederanno occupati a cacciare i grossi animali all’agguato.
Affrettiamoci, amico; devono essere già le due antimeridiane.

— Ma dov’è il campo?...

— Odo il fiume a scorrere alla nostra destra. Seguendolo non ci
smarriremo.

— Ma i vostri porci dove li avete lasciati?...

— Ne abbiamo appesi due ai rami del baobab per sottrarli ai denti degli
sciacalli e delle iene, in quanto agli altri non troveremo che gli
scheletri. —

Piegando a destra trovarono ben presto il fiume che doveva guidarli
all’accampamento, secondo i loro calcoli. Le sue rive però erano
coperte d’una vegetazione così fitta, da impedire a loro di poterlo
costeggiare, sicchè si videro costretti a rientrare nella foresta, dove
potevano trovare dei passaggi meno faticosi.

Dopo un breve consiglio si erano rimessi animosamente in marcia,
ansiosi di giungere all’accampamento dopo tante ore d’assenza, quando
furono bruscamente arrestati da una grande ombra che s’avanzava
lentamente, muovendo loro incontro.

— Morte di Giove!... — esclamò Antao. — È un altro elefante che viene
a romperci le tasche?... È proprio scritto che questa notte dobbiamo
fare dei cattivi incontri?... Comincio ad averne fino ai capelli, delle
bestie africane.

— Non mi sembra che sia un elefante, — rispose Alfredo, che si era
arrestato dietro il tronco d’un grosso albero. — Stiamo in guardia,
amici, perchè temo che quella massa enorme sia un rinoceronte.

— Od un ippopotamo in cerca di cibo?... — disse Asseybo. — Il fiume è
vicino, padrone.

— Credo che tu abbia ragione. Se si trattasse d’uno di quei bruti
rinoceronti, a quest’ora ci avrebbe caricati.

— Cosa facciamo? — chiese Antao. — Se è un ippopotamo, lasciamolo
pascolare a suo comodo.

— Ma mi pare che si occupi più di noi che delle radici che
costituiscono il suo piatto favorito. Non vedi che si dirige proprio
qui?...

— Sarà un curioso.

— Ma un curioso pericoloso, Antao.

— Lo saluteremo con una buona scarica

— Stiamo prima a vedere cosa farà. Mi pare che non abbia intenzioni
cattive, almeno per ora. —

Veramente quell’ippopotamo, tale almeno doveva essere a giudicarlo
dalla sua andatura pesante ed incerta, pareva che non avesse idee
bellicose, poichè continuava placidamente la sua marcia, semi-tuffato
fra le alte erbe che crescevano sotto gli alberi.

Doveva aver scorto i tre uomini od udite le loro voci, pure continuava
ad avvicinarsi all’albero dietro a cui si tenevano celati, senza però
affrettarsi e con certi movimenti così impacciati che facevano ridere
il portoghese.

— Questa è strana!... — esclamò ad un tratto Alfredo. — Simili animali,
quando sono a terra, evitano l’incontro degli uomini o li assalgono
con furore, mentre questo non s’inquieta. Se continua ad avanzarsi, fra
mezzo minuto sarà qui.

— Vuole farsi fucilare a bruciapelo, — disse Antao, che aveva armata la
carabina.

— Mi sembra però.... Toh!... Guardalo bene, Asseybo. Ti sembrano
naturali le sue mosse?...

— No, padrone, ma mi viene un sospetto.

— E quale?

— Che quell’animale sia gravemente ferito.

— Comincio a crederlo anch’io.

— Ah!... —

L’ippopotamo che da qualche istante si era arrestato, come se le forze
gli fossero venute meno, tutto d’un tratto si era coricato al suolo,
rovesciandosi pesantemente su di un fianco. Pareva che fosse morto,
poichè non si udivano più a scrosciare le foglie.

— È spirato, — disse il portoghese. — Che abbia ricevuto qualche grave
colpo di lancia?...

— È possibile, — rispose Alfredo. — I negri di queste regioni,
assalgono sovente questi mostri, per fare delle scorpacciate di carne
succolenta.

— In tal caso andremo a tagliare un pezzo di quella bestia per la
nostra colazione.

— Sì, ma dopo che ci saremo assicurati della sua morte, — rispose il
cacciatore.

S’avanzò di dieci o dodici passi guardando l’enorme massa che
conservava una immobilità assoluta, poi puntò il fucile mirando la
testa e fece fuoco.

L’anfibio ricevette la scarica, ma non si mosse.

— È morto, — disse Alfredo. — Possiamo avvicinarsi senza timore. —

Si avanzò verso l’enorme cadavere seguito dal portoghese e dal negro e
si misero a girargli intorno per vedere ove aveva ricevuta la ferita.

— Guarda qui, — disse Alfredo. — Mi pare di scorgere una
bucatura. —

Entrambi si erano curvati per meglio vederla, essendo l’oscurità ancora
fittissima, ma d’improvviso videro quel corpaccio alzarsi bruscamente,
mentre si sentivano prendere pei piedi ed atterrare di colpo, prima
ancora che avessero potuto far uso delle armi.

Sette od otto individui erano sgusciati di sotto all’ippopotamo e
si erano scagliati, con rapidità fulminea addosso ai due bianchi
riducendoli all’impotenza, mentre due altri si erano gettati contro
Asseybo che era rimasto un po’ indietro.

Il bravo servo però, non si era lasciato cogliere di sorpresa. Vedendo
sorgere quei misteriosi individui, era balzato prontamente indietro
armando precipitosamente il fucile.

— Canaglie!... — urlò.

Con una palla fece stramazzare il primo avversario colla testa
fracassata, con un poderoso calcio ben applicato mandò il secondo a
gambe levate, poi fuggì attraverso la foresta, inseguito da altri negri
che erano sbucati dai cespugli vicini.

Intanto Alfredo ed il portoghese erano stati in un baleno disarmati
e legati strettamente, senza che avessero avuto tempo di opporre la
menoma resistenza, tanto era stato rapido l’assalto.

— Morte di Giove, di Urano e Saturno — urlò Antao, tentando, ma invano,
di spezzare le robuste liane che lo stringevano. — Cosa significa
quest’aggressione?... Chi sono questi negri che si nascondono sotto la
pelle d’un ippopotamo per prenderci di sorpresa?

— Spero che lo sapremo presto, — disse Alfredo, che aveva ricuperato
prontamente il suo sangue freddo.

Poi rivolgendosi verso i negri che li circondavano, guardandoli in
silenzio, chiese a loro in lingua uegbè:

— Cosa volete voi da noi bianchi?... Non vedete che non siamo negri?...
Sciogliete queste corde e ridateci la libertà od i nostri compagni
verranno qui e vi fucileranno tutti. —

I negri invece di rispondere si guardarono in viso l’un l’altro con una
certa inquietudine, si scambiarono rapidamente alcune parole, poi si
gettarono sui due bianchi e li deposero su di una barella fatta di rami
d’albero intrecciati e solidamente legati.

— Furfanti!... — gridò Alfredo, che cominciava a perdere la sua calma.
— Cosa fate?... —

Nemmeno questa volta i negri risposero. Otto di loro, i più robusti,
afferrarono la barella, la sollevarono sulle spalle e si misero
senz’altro in marcia a passo di corsa, seguiti da tutti gli altri
che erano armati di lancie e che parevano incaricati di proteggere la
ritirata.

— Morte di Nettuno!... — urlò Antao. — Cosa significa questo rapimento,
Alfredo?...

— Non ne so più di te, mio povero amico.

— Ma chi credi che siano questi negri?...

— Dei Krepi senza dubbio.

— Che crepino davvero. Ci hanno proprio teso un agguato.

— Ci aspettavano, Antao.

— Nascosti nella pelle d’un ippopotamo!... L’idea è stata almeno assai
originale.

— Si vede che ci temevano e che non osavano assalirci di fronte.

— E Asseybo, che lo abbiano preso?... —

— Credo che sia riuscito a prendere il largo poichè non abbiamo udito
nessun altro colpo di fucile, anzi mi pare d’aver veduto ritornare
coloro che si erano lanciati dietro di lui.

— Alfredo!... — esclamò ad un tratto il portoghese, con ispavento.

— Cosa vuoi?...

— Ed il nostro accampamento?... Che questi negri l’abbiano assalito?...

— Non avrebbero mancato di saccheggiarlo ed io non ho veduto nè una
cassa nè un cavallo, e poi avremmo udito degli spari.

— Allora questi misteriosi rapitori l’avevano solamente con noi.

— Così sembra.

— Ma cosa vorranno farci?... Ucciderci forse?...

— Non ho questo timore. I negri di queste regioni rispettano gli uomini
bianchi e li temono troppo per osare d’ucciderli. Spero che avremo ben
presto la spiegazione di questo rapimento. —

Intanto i negri continuavano la loro corsa precipitosa attraverso alla
grande foresta. Quei robusti ed infaticabili camminatori, filavano come
cavalli lanciati al galoppo, seguendo un sentiero forse noto a loro
soli, seguìti sempre da vicino dalla scorta armata.

Ad un tratto giunsero sul margine d’una vasta pianura coperta d’alte
erbe. Cominciando a diradarsi le tenebre, Alfredo ed Antao, spingendo
lontani gli sguardi, scorsero verso il nord un ammasso di capanne che
parevano costituissero un grosso villaggio.

— Ci conducono là, — disse Alfredo.

— Dobbiamo essere già ben lontani dal nostro campo, — disse il
portoghese, con inquietudine.

— Almeno sei miglia.

— Come farà a ritrovarci Asseybo?... Spero che non ci abbandonerà.

— Sono invece certo che ci segue per sapere dove ci conducono questi
negri.

— Che venga a liberarci?...

— Per lo meno lo tenterà, aiutato dai dahomeni e dalla ragazza.

— Ma sai che abbiamo alle spalle due dozzine di negri armati di lancie.

— Lo so.

— E che quel villaggio mi sembra ben grosso?

— È vero, ma ti dico che i nostri uomini non ci abbandoneranno. Da
questo lato sono tranquillo. —

In quell’istante si udì in lontananza, verso la borgata, la quale era
ormai perfettamente visibile essendo già spuntato il sole, un fracasso
indiavolato di tamburelli, unito a grida discordi.

Una grossa banda di negri era uscita dal villaggio e muoveva incontro
ai rapitori. Anche quegli abitanti erano però armati, poichè il sole
faceva scintillare numerose lancie.

— Il diavolo mi porti se io ci capisco qualche cosa, — disse Antao. —
Pare che quei messeri festeggino la nostra scorta.

— Saranno lieti dell’esito felice della spedizione. —

La scorta, udendo quel fracasso, aveva risposto con alte grida ed aveva
affrettata la corsa, impaziente di giungere alla borgata, attorno alla
quale si vedevano formicolare masse di negri.

In pochi minuti attraversò la distanza che ancora la separava e
s’arrestò dinanzi alle prime capanne, in mezzo ad una folla di negri
vociferanti, i quali si accalcavano attorno alla barella con tale
impeto da rovesciare quasi i portatori.

Alfredo e Antao si erano alzati guardando tutti quegli uomini ma,
con loro grande sorpresa, non videro su tutti quei volti nessuna
traccia ostile. Parevano anzi tutti allegri e più disposti a venerare
i prigionieri come fossero esseri superiori, che ad usare a loro la
menoma scortesia.

Alcuni anzi, che erano riusciti a rompere le file della scorta, si
erano affrettati ad offrire ad Antao e ad Alfredo delle zucche ripiene
di birra di miglio fermentato, dei banani e delle noci di calla.

— Buon segno, — disse il portoghese, che s’era rassegnato. — Questi
negri mi sembrano assai gentili. Che abbiano intenzione di adorarci?...

— Non ci sarebbe da stupirsi, — rispose il cacciatore

— Disgraziatamente abbiamo troppa fretta e non siamo affatto disposti a
farci adorare.

— Vedremo come finirà questa singolare avventura, Antao. —

La scorta, disorganizzata dal primo impeto della folla, era riuscita,
distribuendo legnate a destra ed a manca, a respingere tutti quei
curiosi ed a fare avanzare la barella.

Fece attraversare ai due prigionieri la via principale della borgata,
aprendosi il passo, con gran fatica, fra la folla e li depose dinanzi
ad una vastissima capanna che sorgeva sulla piazza del mercato, una
costruzione assai barocca, terminante in tre cupoloni e circondata da
un gran numero di statuette d’argilla bianca rappresentanti uomini,
animali e uccelli, probabilmente degli idoli adorati dalla tribù.

Un vecchio negro dai capelli bianchi, dalla pelle incartapecorita,
vestito con una logora sottana adorna di galloni d’oro sfilacciati,
di code di sciacalli e di buoi, col petto ed il collo carichi di
collane di perle turchine ed il capo coperto da un elmetto da pompiere,
tutto ammaccato, si avanzò verso i due prigionieri e pronunciò un
discorsetto, che nè Antao nè Alfredo riuscirono a comprendere.

Dalle sue gesta però s’accorsero che quel minuscolo monarca li trattava
con grande deferenza, anzi con molto rispetto.

— Orsù, morte di Giove e di Saturno!... — esclamò il portoghese. — Ti
dico Alfredo che noi siamo stati rapiti per arricchire la collezione di
feticci del capo.

— Ora lo sapremo, — rispose Alfredo. — È impossibile che qui non si
comprenda l’_uegbè_. —

Si volse verso il re negro il quale pareva che aspettasse una risposta
e lo interrogò nella lingua usata dai negri della Costa d’Avorio.

— Capo, — disse, — noi non comprendiamo il tuo linguaggio, ma qui vi
sarà qualcuno che possa rispondermi.

— Tu parli la lingua dei Popos?... — chiese il vecchio negro con gioia.

— Sì, e sono lieto che tu mi abbia capito. Mi dirai ora il motivo per
cui hai fatto rapire noi che siamo uomini bianchi.

— Perchè voi siete due _fabbricatori di pioggia_. —

Udendo quella risposta, Alfredo non potè trattenere una irriverente
risata.

— Hai capito, Antao? — disse. — Credono che noi possiamo fabbricare la
pioggia.

— Fabbricare la pioggia?... — esclamò il portoghese, stupito. — Cosa
vuol dire ciò?...

— Pare che questi negri abbiano bisogno dell’acqua del cielo per
fecondare le loro terre, arse forse da una siccità troppo prolungata e
che ci abbiano presi credendo, in buona fede, che noi abbiamo il potere
di far accorrere le nubi.

— Bel paese di pazzi!... E così?...

— Vediamo se possiamo far capire a loro che hanno preso un grosso
granchio. —

Si volse verso il capo che attendeva ansiosamente una risposta,
dicendogli:

— Tu hai sognato, vecchio mio. Gli uomini bianchi non hanno mai avuto
questo potere. —

Il negro non parve che si indispettisse per quella risposta, poichè
rispose con tutta calma e quasi sorridendo:

— L’uomo bianco crede che la mia tribù sia avara e che non voglia
compensarlo, ma s’inganna. Noi daremo a te buoi, pecore, burro e birra
di sorgo e di miglio.

— Ti ripeto che gli uomini bianchi non sono mai stati fabbricatori di
pioggia.

— Tu vuoi burlarti di noi. Sappiamo che gli uomini dalla pelle bianca
sanno fare mille cose che noi non possiamo ottenere.

— Ti ripeto che t’inganni.

— No, poichè l’uomo che veniva dai lontani paesi del sole che tramonta,
ci ha detto che voi possedete la magìa di far tuonare le nubi e cadere
la pioggia.

— Di quale uomo parli?... — chiese Alfredo, con viva sorpresa.

— Di un negro il quale è già partito perchè aveva fretta di tornare
nel suo paese, nel Dahomey, ma prima di lasciarci ci aveva detto che
voi eravate accampati sul mio territorio, affermando che solamente
voi avreste potuto salvarci dai danni enormi prodotti dalla siccità
prolungata ed io vi ho fatti prendere e condurre qui. Volete ritornare
nei vostri paesi?... Dateci la pioggia o non lascierete più mai la
terra dei Krepi. —




CAPITOLO XXIV.

I fabbricatori di pioggia


Alfredo si era vivamente alzato in preda ad una inquietudine così viva,
da strappare al portoghese una esclamazione di profondo stupore.

Il cacciatore aveva ormai compreso da chi era partito quel colpo
che aveva lo scopo di immobilizzarlo nella regione dei Krepi, onde
tardasse, più che fosse possibile, la sua marcia verso le frontiere del
Dahomey. Le ultime parole del capo erano state per lui una rivelazione
fulminea, ma d’una gravità eccezionale, poichè si trattava della
salvezza di tutti e soprattutto della perdita del piccolo Bruno.

— Antao! — esclamò, con voce strozzata. — Noi stiamo per perdere il
frutto di tante fatiche e tutte le nostre speranze. Se non troviamo
il mezzo di liberarci presto, alle frontiere del Dahomey troveremo le
genti di Kalani.

— Di Kalani!... — esclamò il portoghese. — Che questi negri ci abbiano
fatti prigionieri per ordine di lui?...

— Non mi hai compreso, Antao. Questi stupidi hanno obbedito, senza
saperlo, ad uno dei nostri nemici, il quale ha sfruttato la loro
ingenuità a nostro danno.

— Spiegati meglio, Alfredo.

— Sai chi era l’uomo che veniva dai lontani paesi del sole che tramonta
e che ha dato da intendere a questi negri che noi eravamo capaci di
fabbricare la pioggia?...

— Non lo so.

— Era una delle spie, quella fuggita dal paese degli Ascianti.

— Morte di Urano!... — esclamò Antao, impallidendo. — Come può aver
fatto a precederci?...

— Io non lo so, ma ormai non ho più alcun dubbio. Per fermarci, onde
avere il tempo di giungere nel Dahomey prima di noi, egli ha suggerito
a questi negri l’idea di tenderci un agguato nella foresta.

— Doveva adunque essersi accorto della nostra presenza in questa
regione.

— Di certo, Antao.

— Il miserabile!... Ma che gambe hanno quei dahomeni?... Ci siamo
avanzati a marcie forzate, galoppando dall’alba al tramonto ed egli ha
potuto giungere qui prima di noi!... Che avesse avuto un cavallo?...

— Lo suppongo.

— E cosa conti di fare ora?... Se quell’uomo giunge nel Dahomey prima
di noi, metterà in guardia Kalani e ci troveremo addosso quelle bande
sanguinarie.

— Certo, Antao. Se non riusciamo ad acquistare prontamente la libertà,
perderemo la vita alle frontiere del Dahomey.

— Ma come faremo a sbarazzarci di queste mignatte?... Noi non siamo in
grado di far piovere.

— Cercheremo d’ingannarli.

— In quale modo?...

— Lo si vedrà; credo però d’avere una buona idea e se riesco a
persuaderli, domani saremo liberi.

— Agisci senza ritardi, Alfredo. —

Il cacciatore si rivolse verso il capo negro che aspettava sempre una
risposta e gli disse:

— Odimi, capo. Noi ti accontenteremo e faremo cadere dal cielo tanta
pioggia da inaffiare abbondantemente la terra e da farti fare dei
raccolti prodigiosi, ma voglio prima sapere una cosa da te.

— Parla, uomo bianco, — disse il negro.

— L’uomo che ti disse che noi sappiamo fabbricare la pioggia, quando è
giunto qui?...

— Ieri mattina.

— Montava un cavallo?...

— Sì, ma l’aveva ridotto in condizioni così miserande, che appena
giunto morì. Lo abbiamo mangiato ieri sera e ti assicuro che era
eccellente.

— Quando è ripartito quell’uomo?...

— Poco prima che i miei guerrieri ti conducessero qui.

— Era giovane?...

— Sì, giovane e robusto.

— Credi che sia già molto lontano?...

— Lo dubito perchè aveva una gamba ferita che lo faceva zoppicare.
Aveva ricevuto un colpo di lancia da non so quali negri e mi parve che
soffrisse assai.

— Grazie, capo, — disse Alfredo, respirando.

— Farai cadere ora la pioggia?... — chiese il negro, con ansietà. —
Il sole minaccia di abbruciare tutti i nostri raccolti e l’acqua manca
nelle fonti, sicchè non sappiamo come abbeverare il nostro bestiame.

— Sì, ma per far venire le nubi mi occorrono molte cose che io qui non
posso trovare.

— I miei sudditi sono tutti a tua disposizione. Ordina e avrai tutto
quello che vorrai.

— I tuoi sudditi non possono trovare certe piante che io solo conosco.

— Ti occorrono delle piante?...

— Sì.

— Per cosa farne?...

— Devo farle bollire in una grande pentola ed il fumo che si alzerà
nell’aria, basterà per far accorrere da tutti i punti dell’orizzonte
delle nubi gravide di pioggia.

— Sai dove trovarle?...

— Sì, nella grande foresta.

— Ti condurremo colà con una scorta numerosa e bene armata.

— No, numerosa. Deve essere composta di soli dodici guerrieri giovani o
le nubi si spaventeranno e non verranno.

— Ed io non potrei venire?... Vorrei imparare anch’io a fabbricare la
pioggia, — disse il capo.

— Verrai anche tu e ti mostrerò come si deve fare.

— Io ti regalerò quattro buoi e tanta birra quanta ne vorrai.

— Grazie capo, ma voglio anche la libertà. Sono atteso al mio paese e
tu sai che i bianchi abitano molto lontani.

— Ti prometto la libertà, ma dopo che sarà caduta la pioggia.

— Voglio anche le mie armi, perchè mi sono necessarie per chiamare le
nubi.

— Le porteremo con noi.

— Allora slegaci, cerca i dodici guerrieri e partiamo subito.

— Fra mezz’ora saremo in cammino, — disse il capo, con viva gioia.

Ad un suo cenno Alfredo ed Antao furono slegati, condotti nella capanna
reale e serviti di birra, di carne di bue arrostita e di focaccie di
sorgo, ma alla porta si erano collocati dieci uomini per impedire a
loro di prendere il largo prima di aver fatto cadere la pioggia.

— Sono curioso di sapere come finirà quest’avventura, — disse Antao,
fra un boccone ed un sorso di birra. — Come faremo a sbarazzarci del
vecchio negro e della sua scorta?...

— Vedrai che tutto finirà bene, — rispose Alfredo. — Noi li condurremo
verso l’accampamento e vedremo allora se sapranno resistere ai fucili
di Asseybo e dei dahomeni. Il mio servo è astuto e chissà che a sua
volta non prepari un’imboscata.

— Lo speri.

— Sono certo che Asseybo ci ha seguìti da lontano, per vedere dove ci
hanno condotti. Egli è d’una affezione a tutta prova.

— Che abbia già avvertito la ragazza ed i dahomeni?

— Non ne dubito, Antao. Egli deve essere tornato all’accampamento per
concertarsi con Urada.

— Staremo attenti per approfittare della paura e della sorpresa di
questi superstiziosi negri che si ostinano a crederci fabbricatori di
pioggia. Strana idea che si sono cacciati in capo.

— Non è da farne meraviglia, Antao. Vi sono molti dei loro sacerdoti
o stregoni che pretendono di essere _fabbricatori di pioggia_, come li
chiamano questi negri.

— Una professione un po’ difficile.

— Ma fruttifera, Antao. D’altronde quei furboni si prendono molto tempo
prima di farla cadere, pretendendo di dover prima cercare delle piante
difficili a trovarsi. Finchè fingono di cercare per mesi e mesi, la
pioggia finisce col venire e si addossano il merito di essere stati
loro.

— Sono dei volponi astuti.

— Che sfruttano abilmente l’ingenuità di questi poveri diavoli di
negri. Ah!... Ecco la scorta!... Partiamo Antao e andiamo a frugare la
foresta. Avremo da ridere. —

Il capo, vestito di gala, coll’elmetto adorno di piume, le braccia e
le gambe cariche di braccialetti d’avorio e di perle di vetro, e con
un sottanino nuovo di color rosso, li attendeva al di fuori, assieme a
dodici giovani guerrieri armati di lancie e di coltelli.

I due bianchi vuotarono un’ultima zucca di birra e uscirono, dicendo:

— Partiamo. —

Prima però di mettersi in marcia guardarono se i guerrieri portavano le
loro carabine e le videro infatti indosso al più giovane della scorta,
unitamente alle cartucciere.

La piccola banda lasciò il villaggio con passo sollecito, sfilando fra
due fitte ali di popolo, il quale però manteneva un silenzio religioso
e s’avanzò fra le alte erbe della pianura, già però quasi bruciate dal
sole.

La traversata di quel terreno scoperto, dove regnava un calore
infernale, essendo appena il mezzodì, si compì senza incidenti e verso
le tre pomeridiane il drappello giungeva nella grande foresta.

Dopo un breve riposo, i due bianchi diedero nuovamente il segnale
della partenza studiandosi di avvicinarsi al fiume, essendo certi che
seguendo il suo corso non avrebbero tardato a giungere in prossimità
del loro accampamento.

Pur camminando, per meglio ingannare il capo e la scorta, fingevano
di cercare le miracolose piante che dovevano servire ad attirare
le nubi, fermandosi di tratto in tratto a frugare certi cespugli, e
mandando alte grida di trionfo quando riuscivano a scoprire qualche
ciuffo d’erbe. Il capo e la scorta, per non mostrarsi meno soddisfatti,
mandavano a loro volta acute urla, con grande piacere d’Alfredo, il
quale era certo, con quel baccano, di attirare l’attenzione di Asseybo
e dei suoi uomini.

Verso sera, i due bianchi che avevano raccolte alcune pianticelle,
diedero il segnale della fermata presso le rive del fiume, in un
luogo che secondo i loro calcoli non doveva essere molto lontano
dall’accampamento.

Il capo negro volendo manifestare la sua gioia pel felice esito
della spedizione, avendolo ormai Alfredo assicurato che all’indomani
avrebbero trovato anche le altre piante, fece fare una larga
distribuzione di birra a tutti, vuotando quasi tutte le zucche che
aveva fatte portare dalla scorta.

Accesi parecchi fuochi e terminata la cena composta di focaccie, miele
di api selvatiche, burro cotto e frutta, si accomodarono fra le erbe
per gustare un po’ di riposo. Quattro guerrieri dovevano però vegliare
per turno per tener lontano le fiere, ma soprattutto per impedire ai
due bianchi di fuggire prima d’aver mantenuta la promessa.

Avevano appena chiusi gli occhi, quando una detonazione improvvisa
venne a spargere l’allarme, facendoli balzare tutti in piedi.

— Un segnale di Asseybo?... — chiese Antao ad Alfredo.

— Lo credo, — rispose questi. — Egli ha voluto segnalare di tenerci
pronti a tutto.

— Che si prepari ad assalire i negri?

— Giungerebbe in buon punto. Il vecchio capo ed i suoi giovani
guerrieri mi sembrano spaventati.

— Stiamo attenti ad afferrare le nostre carabine.

— Il negro che le custodisce non lo lascierò fuggire, Antao. —

Mentre così parlavano, il capo ed i suoi uomini si consigliavano,
a quanto pareva, sul da farsi. Sembravano assai impressionati e
guardavano sospettosamente i due prigionieri.

Forse cominciavano a temere anche loro una sorpresa.

— Uomo bianco, — disse il vecchio negro, avvicinandosi ad Alfredo. —
Hai udito?...

— Sì, un colpo di fucile.

— Chi credi che lo abbia sparato.

— Forse qualche cacciatore.

— Ma i negri di questa regione non posseggono armi da fuoco.

— Può essere qualche negro del Dahomey. Tu sai che i soldati di Geletè
sono armati di fucili.

— È vero, ma Abomey non è vicina. Cosa mi consigli di fare?... —

Alfredo stava per dargli qualche risposta, quando tutto d’un tratto,
in mezzo ad un fitto macchione di cespugli, si vide balenare una luce
intensa, seguita da una detonazione così formidabile che pareva dovesse
crollare l’intera foresta.

I negri della scorta ed il loro capo si sentirono atterrare da una
spinta irresistibile, ma subito si rialzarono fuggendo in pieno
disordine da tutte le parti, gettando via le armi e mandando urla di
pazzo terrore.

Alfredo ed Antao, passato il primo istante di sorpresa, erano pure
balzati in piedi, tenendo però in pugno le loro carabine che erano
state abbandonate sul terreno.

Stavano per fuggire verso il fiume, quando udirono una voce gridare:

— Presto, padrone!... Qui, venite qui!... I cavalli sono pronti. —

Si volsero e videro Asseybo seguìto da uno dei due dahomeni.

   [Illustrazione: Sturò una di quelle bottiglie, bagnò il
   pennello e cominciò a tingere.... (Pag. 178).]

— Tu!... — esclamarono, correndogli incontro.

— E chi volete che fosse stato a far scoppiare quella mina?...

— Una mina?...

— Di due chilogrammi di polvere. Era l’unico mezzo per spaventare quei
negri e metterli in fuga.

— Ci avevi adunque veduti?...

— Vi avevo seguìti sempre, padrone. Spicciamoci prima che i negri
tornino. —

Si slanciarono tutti e quattro attraverso la foresta e giunti in una
radura, trovarono i cavalli già insellati e l’amazzone in arcione.

Senza perdere tempo balzarono in sella e partirono di galoppo,
dirigendosi verso l’est.

Tutta la notte continuarono la fuga precipitosa, ma all’alba si
arrestavano sul margine della grande foresta, a quaranta e più miglia
dal villaggio dei Krepi.

— Credo che ora più nulla abbiamo da temere, — disse Alfredo scendendo
da cavallo. Ci fermeremo qui tutt’oggi per prendere un po’ di riposo e
per trasformarci in africani, onde poter rappresentare la nostra carica
d’ambasciatori del Borgu.

— E quel dannato spione che ci precede?...

— Giungeremo ad Abomey prima di lui, Antao. Ora che so che è zoppo
e senza cavallo, non lo temo più. Quando vorrà rivedere Kalani,
non lo troverà più vivo. Orsù, amico mio, dormi fino a mezzodì, poi
prepareremo la nostra toeletta.

Affranti da due notti quasi insonni, i due bianchi si cacciarono
sotto la tenda che era stata subito rizzata dai dahomeni, e dormirono
profondamente fino all’ora del pasto.

Dopo una buona scorpacciata di carne di facochero secca, diedero
principio alla loro toeletta.

Alfredo aveva fatto racchiudere nelle sue misteriose casse tutto
l’occorrente per ottenere quella trasformazione, così necessaria
soprattutto per lui.

Fece sedere Antao su di uno sgabello improvvisato con alcuni rami, lo
denudò fino alla cintola, senza che il bravo portoghese protestasse,
poi da una delle casse levò alcune bottiglie contenenti dei liquidi di
colore oscuro ed alcuni pennelli.

— Speriamo che quelle bottiglie non contengano dei veleni o dei liquidi
corrodenti, — disse Antao, ridendo.

— Sono stati estratti da vegetali perfettamente innoqui, — rispose
Alfredo. — Quando però la nostra missione sarà terminata, dovrai
consumare del buon sapone, se vorrai ridiventare bianco come prima.

— Così almeno non vi sarà il pericolo di giungere ad Abomey mezzo
bianco e mezzo nero. Temevo che il sudore potesse guastare la mia
toeletta.

— Non dubitare; la tua tinta resisterà all’acqua ed al sudore. Fermo,
amico: lasciati dipingere. —

Sturò una di quelle bottiglie, bagnò il pennello e cominciò a tingere,
deponendo sul viso, sul collo, sul petto, sulle braccia e sulle mani
del portoghese un superbo strato bronzino ma che aveva dei riflessi
rossastri, perfettamente identico al colore della pelle dei negri delle
alte regioni e dei rivieraschi del Niger.

Il portoghese lasciava fare, ma di tratto in tratto prorompeva in
scrosci di risa, ai quali facevano eco quelli di Urada, di Asseybo e
dei due dahomeni.

Essendo quell’operazione stata fatta al sole, bastarono pochi minuti
perchè il gran calore asciugasse la tinta.

Alfredo, che agiva colla maggiore serietà, appese allora agli orecchi
dell’amico due grossi anelli di rame dorato, come usano portare gli
indigeni del Borgu, poi gli mise attorno al collo parecchie file di
perle rosse ed azzurre, quindi gli appiccicò al mento una barbetta nera
piuttosto rada che doveva dargli un aspetto più fiero e gli mise sul
capo un ampio fazzoletto rosso annodato sul di dietro, adorno di alcuni
ricami e che doveva produrre un grande effetto anche nella capitale del
potente Geletè.

— Un negro magnifico!... — esclamarono Asseybo e Urada. — In tutto il
Borgu non se troverebbe uno più fiero, nè più bello.

— Per Giove!... — esclamò Antao. — Quale disgrazia il non possedere uno
specchio, fosse pure da due soldi.

— Forse ad Abomey ne troveremo qualcuno, Antao, — rispose Alfredo. — Ti
basti per ora sapere che sei il più bel negro dell’Africa equatoriale.

— Hai finito?...

— Non ancora. Bisogna pensare a tutto. Infatti che cosa direbbe Geletè,
se tu ti presentassi cogli stivali e le calze?... Occorre essere negri
dai piedi alla testa. —

Con poche pennellate anche le gambe ed i piedi del portoghese furono
dipinti, poi Alfredo gli fece indossare un paio di corti calzoni di
tela bianca stretti alla cintura da una larga fascia rossa, gli mise
sulle spalle un ampio mantello pure bianco adorno di fregi rossi che
rassomigliava ad un _taub_ arabo o sudanese, e gli fece calzare delle
babbucce rosse a punta rialzata.

— Credo ora, — disse il cacciatore, — che tu possa fare una splendida
figura ad Abomey. Geletè non avrà mai ricevuto un ambasciatore simile.
Ora aiutami, Antao. —

Mezz’ora dopo anche la sua toeletta era terminata e la trasformazione
era riuscita così completa, che Antao stesso non l’avrebbe di certo
riconosciuto pel suo amico, se non l’avesse dipinto colle proprie mani.

— È impossibile che Kalani ti possa ravvisare, — disse il portoghese;
stupito. — Tu non sei più un europeo.

— Credi adunque che io possa affrontare quel miserabile, senza il
pericolo di venire scoperto?...

— Sì, Alfredo.

— Allora mio fratello è salvo.

— E Kalani è perduto.

— Oh sì, Antao. Quell’uomo non mi sfuggirà, te lo giuro.

— Quanto impiegheremo per giungere ad Abomey?...

— Fra cinque giorni possiamo essere a Kana, nella città santa del
regno, dove saremo costretti a fermarci finchè piacerà a Geletè di
riceverci nella capitale. Oltrepassato questo bosco non troveremo altri
ostacoli, poichè la grande pianura si estende fino a quelle due città.

— È lontana la pianura?...

— Questa sera possiamo accampare sui margini del bosco.

— Allora partiamo.

— Ma come ambasciatori. Possiamo incontrare, da un istante all’altro,
delle truppe di Geletè e non bisogna suscitare sospetti. D’ora innanzi
marceremo sempre a cavallo come i grandi personaggi del Borgu. —

Avendo consumate parte delle provviste e delle munizioni, le casse
vuote furono gettate nel fiume, sbarazzando quindi i due migliori
cavalli che vennero adornati di fiocchi rossi e di ricche gualdrappe
ricamate in oro.

Anche i negri furono vestiti riccamente, con calzoncini bianchi, fascie
rosse, mantelli arabescati, fazzoletti di seta dai vivaci colori
ed armati di carabine, compresa l’amazzone che doveva assumere le
importanti funzioni d’interprete, potendo passare per un bel giovanotto
del Borgu e di porta-parasoli, essendosi Alfredo provvisto anche di due
ombrelli rossi adorni di frange, distintivo dei personaggi di sangue
nobile e reale.




CAPITOLO XXV.

La Città Santa del Dahomey


Alle 4 del pomeriggio, la carovana si metteva in marcia verso il
nord-est, direzione che doveva condurla nella borgata di Toune e quindi
nella città santa del Dahomey.

La traversata dell’ultimo tratto della grande boscaglia si effettuò
senza incidenti e prima che il sole declinasse, giungeva sul margine
della grande pianura la quale si estendeva a perdita d’occhio verso il
nord e verso l’est, coperta da un’erba assai fitta, alta da un metro a
due, ma già mezza disseccata dagli implacabili raggi dell’astro diurno.

Guardando verso il nord-est, Alfredo ed Antao scorsero distintamente
una serie di altipiani che s’innalzavano in grandi scaglioni o
piattaforme immense, cosparsi di gruppi di punti biancastri indicanti
attruppamenti di capanne. Sui fianchi di quelle alture dovevano esservi
numerosi villaggi.

Anche nella pianura si vedevano sorgere, fra le alte erbe, le punte
aguzze di molti casolari, ma pareva fossero disabitati, poichè nessuna
colonna di fumo si vedeva innalzarsi, quantunque fosse l’ora del pasto
serale.

— È la guerra che qui ferve quasi sempre, che ha scacciati i
proprietari, — disse Alfredo. — Triste paese questo, condannato a
diventare un cimitero immenso, se le nazioni civili non imporranno a
questi re sanguinari di abolire le orrende _feste dei costumi_.

— Credi che le bande del Dahomey abbiano fatto delle scorrerie su
queste terre?...

— Lo temo, Antao. Quando non riescono a sorprendere le popolazioni dei
regni vicini ed a raccogliere schiavi pei sacrifici, si gettano contro
i loro stessi compatriotti delle frontiere. Sono negri al pari degli
altri, uomini eguali agli altri e basta.

— Ma distruggono la popolazione del regno.

— Che importa a Geletè?... Si rifarà più tardi rubando altri schiavi
ai Krepi ed ai Togo, agli Yoruba del Benin, al povero Tofa, alle
repubbliche del Piccolo e Grande Popo o agli Egbas di Abeokuta.

— Che sia capace di fare schiavi anche noi?...

— Non l’oserà, Antao. Geletè è sanguinario, ma non è così barbaro come
si crede e rispetterà gli ambasciatori che appartengono ad una nazione
bellicosa, che potrebbe creargli dei gravi imbarazzi sulle lontane ed
indifese frontiere del settentrione.

— Credi che ti riceverà cortesemente adunque?...

— Porto a lui dei regali che mi costano una somma non lieve, Antao.

— A quel furfante!...

— Ed anche a Kalani ne porto.

— Anche a lui?...

— È necessario per rendercelo propizio. È lui che custodisce mio
fratello e solo da lui potremo avere il permesso di vederlo.

— Ed hai quei regali nelle tue misteriose casse?...

— Sì, Antao.

— Ora comprendo perchè ti premeva acciuffare i ladri.

— Se non riuscivo a riaverle, saremmo stati costretti a tornare a Porto
Novo per ricorrere ai magazzini delle fattorie europee. Nemmeno nella
capitale degli Ascianti sarebbe stato possibile trovare ciò che ci era
necessario. —

Mentre chiacchieravano, Asseybo ed i dahomeni avevano rizzate le tende
sul margine della foresta ed allestita la cena.

I due cacciatori, avvertiti che tutto era pronto, scesero dalle
cavalcature e s’accomodarono presso i fuochi accesi, trattenendosi
molto tardi con l’amazzone e coi tre negri a discorrere dei loro futuri
progetti.

Alle quattro antimeridiane, dopo un sonno di sei ore, non interrotto da
alcun avvenimento, si avventurarono, sulla grande pianura, impazienti
di giungere a Toune ed a Tado.

S’accorsero ben presto di calpestare quella terra inaffiata dal sangue
di tante migliaia di vittime. Ogni qual tratto, in mezzo alle folte
erbe, vedevano alzarsi stormi immensi di corvi e di avvoltoi e vedevano
fuggire branchi di sciacalli e di iene, occupate a spolpare numerosi
cadaveri umani, già imputriditi dall’intenso calore.

Incontravano poi capanne mezze distrutte, alcune abbattute ed altre
semi-divorate dal fuoco, palizzate sfondate, poi altri scheletri
d’uomini ed anche non pochi d’animali.

Pareva che le feroci bande di Geletè avessero fatto delle razzìe in
quei luoghi ed in un’epoca molto recente, forse qualche settimana
prima.

Temendo d’incontrare i razziatori, la carovana evitò di accostarsi
a Toune, grossa borgata che si trova quasi ad eguale distanza fra
i fiumi Mono e Koufo, e cominciò ad avanzarsi con grande prudenza.
Quella seconda notte non accese fuochi, per non attirare l’attenzione
di quelle bande di predoni che potevano catturarla, e saccheggiarla.
Essendo però gli animali feroci numerosi fra quelle alte erbe, e non
potendo tenerle lontane coi fuochi, dovette rifugiarsi in una capanna.

Non ostante quelle precauzioni, il terzo giorno, a quattro o cinque
miglia da Tado, altro popoloso borgo che si trova più al nord di Toune,
fecero improvvisamente l’incontro d’una truppa di dahomeni, la quale
formava forse la retroguardia delle colonne predatrici.

Si erano inoltrati in una boscaglia, quando si videro circondare da
una cinquantina di guerrieri che pareva si fossero fino allora tenuti
nascosti in mezzo ai più fitti cespugli, per piombare addosso alla
carovana all’improvviso.

Erano tutti bei pezzi di negri dalla tinta bronzina a riflessi
rossastri, dai lineamenti più regolari degli abitanti della Costa,
vestiti con una giacca bianca e sottanino dell’egual colore e col capo
coperto da uno stravagante berretto che si rialzava ai lati, in forma
di due corna.

Erano tutti armati di fucili di varii calibri, alcuni moderni ma altri
assai antiquati e di larghi coltellacci dalla lama assai pesante, ma
tagliente come un rasoio.

— Morte di Nettuno!... — esclamò Antao. — Ecco i lupi di Geletè!...

— O meglio i leopardi del Dahomey, — disse Alfredo, arrestando i
suoi uomini che si preparavano ad armare le carabine ed a disporre in
circolo gli animali, onde servissero di barriera ai loro padroni.

I guerrieri dahomeni, quantunque dieci volte superiori di numero e
coraggiosissimi, invece di gettarsi impetuosamente sulla carovana come
insegna la loro tattica, si erano arrestati, guardando con un certo
stupore Alfredo ed Antao, i cui ricchi costumi dovevano produrre un
certo effetto su di loro, e soprattutto i due ombrelli, distintivi di
persone altolocate o di famiglia principesca.

Il loro comandante, un negro di statura gigantesca, che indossava una
lunga camicia di color verde, stretta alla cintura da una larga fascia
rossa, dopo una lunga esitazione si fece innanzi avvicinandosi ad
Alfredo, il quale guardava alteramente tutti quegli armati, senza fare
alcun gesto.

— Chi siete voi e dove vi recate?... — chiese il capo.

— Chi sei tu, innanzi a tutto?... — domandò Alfredo, con tono imperioso.

— Un capo banda delle truppe del re.

— Non è con te adunque che io ho da fare.

— Ma tu non sei del paese.

— E cosa intendi di dire?...

— Che io posso catturarti ed anche ucciderti, se ciò mi aggrada.

— Tu!... — esclamò Alfredo, fissandolo con due occhi pieni di
disprezzo. — I principi del Borgu non sono schiavi tuoi.

— Ah!... Voi siete principi?... — disse il capo, con tuono più umile. —
Ma cosa fate qui, sulle terre del mio re?...

— È a Geletè che vedrò fra due giorni, che devo dirlo.

— Al re!... — esclamò il negro, spaventato.

— Sì, a Geletè.

— E tu ti rechi da lui?...

— E mi attende.

— Potevi dirlo prima ed io non avrei osato arrestare degli uomini che
il re aspetta.

— È sgombra la via che conduce a Kana?... — continuò Alfredo,
coll’egual tono altero.

— Troverai altre bande.

— Che mi fermeranno e che mi costringeranno a lamentarmi con Geletè.

— Non farlo, principe, od il re farà tagliare la testa a tutti noi
della retroguardia. Io ti darò una scorta che ti farà largo.

— Basterà uno dei tuoi uomini. Una scorta numerosa mi sarebbe
d’imbarazzo. —

Il capo si volse verso i suoi guerrieri e fece cenno ad uno di loro di
avvicinarsi:

— Tu condurrai questi uomini a Kana, — gli disse. — Il re li aspetta e
mi risponderai di loro colla tua testa.

— Sta bene capo, — rispose il soldato.

— Buon viaggio, — disse poi, rivolgendosi verso i due ambasciatori. —
Più nessuno vi susciterà ostacoli. —

Ad un suo ordine la truppa si divise e la carovana sfilò fra quei
feroci negri che le presentavano le armi come i soldati europei.

— Morte di Giove!... — esclamò Antao, respirando a pieni polmoni. —
Non credevo che questo incontro terminasse così felicemente; sei un
diplomatico da dare dei punti ai più astuti.

— Ho voluto prendere sul serio la mia parte, — disse Alfredo, ridendo,
— ed ho voluto cominciare con un felice colpo di testa. Non era
d’altronde una cosa così difficile come sembrava, sbarazzarci da quelle
canaglie. In questo paese basta pronunciare il nome del re, per far
tremare grandi e piccoli.

— Ma tu hai detto a quel capo che il re t’aspetta, mentre non è vero.

— Che importa?...

— Se Geletè sapesse che tu hai mentito?...

— Nessuno oserebbe andarglielo a dire, Antao.

— Ma cosa faremo ora di quella mignatta, che il capo ci ha appiccicato
ai fianchi?...

— Del negro che ci serve di salvacondotto?... Quando saremo a Kana, lo
manderemo indietro con qualche regalo pel capo.

— Temo che tu giuochi delle carte pericolose, Alfredo.

— Lo so anch’io, ma non possiamo fare diversamente. È giunto il momento
di giuocare d’audacia per salvare la nostra pelle e mio fratello.

— Quando saremo a Kana, farai avvertire il re del nostro arrivo?...

— Certo, Antao.

— Speri di venire ricevuto?...

— Lo credo.

— Sai che mi sento venire la pelle d’oca, pensando che dovremo
trovarci con quel barbaro sanguinario, a cui un solo sospetto sarebbe
sufficiente per mandarci all’altro mondo?...

— Non temere, Antao. Nessuno potrà sospettare in noi degli europei,
purchè non ti lasci sfuggire uno dei tuoi pianeti morti o vivi.

— Comincerò da quest’oggi a sopprimerli tutti, — disse il portoghese.
— Morte di Net.... Diavolo! Bisognerà che mi tagli la lingua o mi
scapperà fuori sempre qualche pianeta.

— O renderla muta, Antao.

— Bella trovata!... Dinanzi a Geletè fingerò di essere muto.

— E credo che farai bene. —

Mentre così chiacchieravano, cavalcando l’uno vicino all’altro, il
soldato dahomeno, un giovane negro, ma dall’aspetto marziale e dagli
sguardi assai intelligenti, marciava con passo rapido attraverso a dei
sentieri aperti fra la foresta e forse a lui solo noti.

Giunti sulla vetta d’una piccola collina, la carovana raggiunse
un’altra banda di soldati composta d’un centinaio d’uomini tutti
armati, i quali si spingevano innanzi due dozzine di prigionieri fra
maschi e femmine.

Questi disgraziati, destinati molto probabilmente a venire sacrificati
nella prima _festa dei costumi_, procedevano su due file, legati
gli uni agli altri con solide corde e sotto una continua pioggia di
bastonate, date senza misericordia e ricevute con una rassegnazione
inaudita.

Per impedire loro di gridare, i feroci guardiani avevano messo sulle
bocche di quelle future vittime dei bavagli di legno in forma di croci,
che dovevano farli anche crudelmente soffrire, poichè l’estremità
a punta era applicata sulla lingua, in modo che questa non potevano
muoverla in modo alcuno, nè articolare qualsiasi suono.

Alcuni soldati, vedendo la carovana, armarono precipitosamente i
fucili, ma una parola della guida bastò per arrestarli, anzi tutti
si ritrassero precipitosamente per far largo ad Alfredo ed al suo
compagno, i quali tenevano ben alti i loro ombrelli per dimostrare la
loro alta posizione sociale.

— Canaglie!... — borbottò Antao, gettando uno sguardo compassionevole
sui prigionieri. — Se non vi fosse da salvare il ragazzo, vorrei
trattare come si meritano questi soldatacci.

— E credi che io non frema, — disse Alfredo, — che allungava
involontariamente le mani verso la carabina sospesa all’arcione. Ma un
allarme perderebbe noi ed anche il mio Bruno e non dobbiamo commettere
una tale imprudenza. —

Aizzando i cavalli per tema di non sapersi frenare, i due bianchi
sorpassarono ben presto quella colonna ridiscendendo nella pianura, in
mezzo alle cui erbe si scorgevano dei piccoli villaggi.

Ma anche laggiù altri drappelli di soldati s’incontravano di frequente
e quasi tutti avevano dei prigionieri. La guida però apriva dovunque
il passo alla carovana, pronunciando semplicemente il temuto nome di
Geletè.

Alla sera i viaggiatori fecero alto a Tado, un villaggio popoloso
che si trova a dieci miglia dai fiume Koufe. All’intorno si erano
accampate altre bande armate, le quali fecero tutta la notte un baccano
infernale, impedendo ai due bianchi di chiudere gli occhi. Urlavano
a squarciagola, bevevano grandi quantità di liquori per festeggiare
il felice esito della loro triste spedizione, ma anche altercavano di
frequente, adoperando le armi da fuoco.

Quando Alfredo ed i suoi compagni ripresero la marcia, numerosi
cadaveri erano sparsi per gli accampamenti. Alcuni forse erano di
schiavi, ma molti di soldati, uccisi durante quelle risse.

— Auff!... — esclamò Antao. — Ne ho abbastanza di queste canaglie e
sarei contento di giungere a Kana senza la loro pericolosa compagnia.
Finirò per perdere la calma e commettere qualche imprudenza.

— Saremmo costretti ad inerpicarci sugli altipiani attraverso a
boscaglie pullulanti di serpenti, — rispose Urada, che cavalcava presso
di loro, — mentre in breve possiamo giungere sulla via reale che è una
delle più belle di tutto il paese e la più comoda.

— È vero, — disse Alfredo. — Ho udito parlare della bellezza della
strada reale.

— Ma sarà piena di soldati, Antao.

— È probabile, ma cercheremo di lasciarceli dietro.

— Ed assisteremo ad altri orrori.

— Pur troppo, Antao, la prudenza però ci consiglia di chiudere gli
occhi e di non intervenire. Quegli orrori si commettono per volere di
Geletè, e non possiamo suscitare sospetti su di noi. Siamo ambasciatori
e come tali dobbiamo conservare la più stretta neutralità. D’altronde
prima del tramonto giungeremo forse a Kana, è vero Urada?...

— Sì, padrone, — rispose la giovane negra, — e là potrò offrirvi un
comodo alloggio nella casa di mio padre.

— Sei di Kana adunque?...

— Sì, padrone.

— E tuo padre vive ancora?...

— Lo spero.

— Ma chi è tuo padre?...

— Un tempo era un _cabecero_ addetto alla vigilanza delle tombe reali
e che godeva la fiducia del re, ma intrighi di corte e gelosie d’altri
aspiranti a quel posto importante, lo fecero cadere in disgrazia.

— Ah!... Tuo padre era un _cabecero!_... — esclamarono i due bianchi.

— Sì, — rispose Urada, con tristezza.

— Ma tu, figlia d’un capo, perchè sei diventata una semplice
amazzone?... — chiese Alfredo, con sorpresa.

— Per calmare il re la cui collera poteva tornare fatale a mio padre.
Le amazzoni del nostro paese non sono ragazze appartenenti a famiglie
di bassa condizione, come da taluni si crede.

Si reclutano fra le fanciulle rimaste orfane, ma appartenenti alla
classe dominante, fra le ragazze che per malvagità s’imputano di offese
alla casa reale e che s’intende di punire coll’arruolamento e fra le
figlie di coloro che sono caduti in disgrazia. Questo è il miglior modo
per stornare le collere feroci di Geletè e salvare i genitori da una
morte certa.

— È numeroso il corpo delle amazzoni?...

— Conta tremila ragazze, padrone.

— E formano una guardia destinata esclusivamente pel servizio del re?...

— Sì,... ma guarda lassù, padrone, — disse in quell’istante Urada,
indicandogli un attruppamento di punti biancastri, appollaiati sul
margine d’un altipiano che s’alzava al di là del Koufo.

— Kana forse?... — chiese Alfredo.

— Sì, la Città Santa padrone, la mia città natìa, — rispose Urada, con
una viva emozione.

— La rivedrai volentieri?

— Per mio padre.

— E poi ci lascerai, — disse Antao, con un tono di voce che aveva
qualche cosa di triste.

— No, — disse la ragazza, con accento risoluto. — Urada non abbandonerà
gli uomini bianchi, ai quali deve la vita e la libertà.

— Lasceresti il tuo paese senza rimpianti?... — chiese Alfredo.

— Sì, ma con mio padre. Il nostro paese è cattivo, dovunque si
uccide e mio padre, un dì o l’altro, potrebbe venire sacrificato come
tanti altri caduti in disgrazia. Qui non si è sicuri di poter vivere
ventiquattro ore, senza tremare.

— Ebbene Urada, rimani con noi, — disse Antao. — Conto di acquistare
anch’io sulla Costa d’Avorio una fattoria e tuo padre non avrà da
lamentarsi di noi, è vero Alfredo?...

— Sì, Antao, rispose l’amico. Ti abbiamo salvata la vita, Urada, e
penseremo noi al tuo avvenire. —

La conversazione fu interrotta dall’incontro di nuove bande di
guerrieri che conducevano lunghe colonne di schiavi incatenati e gran
copia di bottino, consistente in un numero considerevole di buoi,
destinati forse, al pari di quei disgraziati prigionieri, a cadere
sotto i coltelli dei sacrificatori nelle _feste dei costumi_.

La guida, come già altre volte, aprì il passo ai due ambasciatori,
quantunque quei feroci soldati avessero già preparate le armi per
gettarsi sulla carovana, malgrado gli ombrelli protettori.

Alfredo ed Antao, nauseati dal modo con cui quei bruti percuotevano
a sangue i prigionieri per farli marciare rapidamente, quantunque
quei miseri fossero enormemente carichi di grandi panieri ricolmi di
provvigioni rubate nei loro villaggi, spinsero i cavalli al galoppo per
lasciarsi alle spalle quelle bande di predoni.

Alle 10 del mattino, dopo una marcia rapidissima di quattro ore, la
carovana, che aveva già passato a guado il Koufo, il quale è uno dei
più importanti fiumi del Dahomey, incrociava la strada reale che dalla
capitale del regno mette capo a Widah sulla costa.

Questa strada, che ha una lunghezza di circa ottanta miglia è una delle
migliori, ombreggiata per un grande tratto da splendidi palmizii, ma
è anche una delle più faticose, essendo aperta fra terreni composti,
specialmente sugli altipiani, d’una specie di minerale granuloso che
stanca assai uomini ed animali.

Alfredo, che non voleva affaticare troppo i cavalli, i quali potevano
diventare preziosissimi nel caso che il colpo di mano ideato non
dovesse riuscire e che una rapida fuga diventasse necessaria per
salvare la vita di tutti, concesse un riposo di parecchie ore.

Alle 3 pom., la carovana però ripartiva, volendo giungere a Kana prima
del tramonto, avendo detto Urada che era vietato l’ingresso nella città
dopo calate le tenebre.

Attraversata la palude di Co, allora asciutta, la guida si diresse
verso Vodu, altro grosso villaggio, poi verso le sei della sera faceva
salire ai cavalieri l’ultimo altipiano, su cui si eleva la Città Santa.

Un’ora più tardi, quando il sole cominciava a tramontare dietro gli
altipiani dell’ovest, Alfredo ed i suoi compagni entravano nella città
natìa dell’amazzone.




CAPITOLO XXVI.

Il padre di Urada


Kanna o, meglio ancora Kana, come la chiamano gl’indigeni, per numero
di abitanti è la terza città del regno avendone meno di Widah, ma
viene considerata come la seconda pel titolo che gode, cioè di essere
chiamata la Santa.

È situata sullo stesso altipiano ove giace Abomey da cui dista
solamente tre leghe ed è composta di case dalle mura bianche, e
raggruppate in diverse sezioni formanti altrettanti _salam_, ossia
quartieri.

In questa città i re possedevano due vasti palazzi, distrutti più tardi
dai francesi, di dimensioni colossali, ma più rassomiglianti ad immense
caserme che a vere abitazioni reali e occupati ordinariamente da un
corpo di trecento amazzoni, essendo esse sole destinate a vegliare
sulla sicurezza della Città Santa.

Contava inoltre parecchi templi pieni di _feticci_, informi statue di
legno alle quali gli abitanti offrivano collane di _cauris_, ossia di
conchigliette bianche aventi valore come le nostre monete e bottiglie
di liquori, ma il più celebre era il tempio destinato ai serpenti,
dove si tenevano parecchie centinaia di ributtanti rettili che venivano
nutriti colle carni di poveri schiavi o di prigionieri di guerra.

Il titolo di Città Santa le spettava perchè entro le sue mura si
facevano ogni anno delle _feste dei costumi_, onde placare le collere
dei _feticci_ o dei re defunti.

Il re non vi si recava che in quell’occasione per dirigere in persona
quei massacri spaventevoli, i quali si compivano innanzi alla capanna
sacra, una piccola casetta quadrangolare, costruita con fango secco,
colle muraglie imbiancate e adorne di grossolane pitture di color
rosso, rappresentanti animali fantastici e paurosi.

La carovana, mercè la guida che gridava a piena gola:

«Largo!... Ordine del re!...» fece la sua entrata in città senza
subire alcun ritardo da parte delle amazzoni che vegliavano dinanzi
ai malandati terrapieni circondanti la città, e si accampò sotto un
_apatam_, specie di tettoia, situata di fronte ad uno dei palazzi reali
e destinata ai forestieri d’alta distinzione.

Alfredo, dopo d’aver fatto disporre ogni cosa per passare alla
meglio la notte, essendo troppo tardi per recarsi in persona dal gran
_cabecero_ che funzionava da governatore, chiamò il soldato che stava
respingendo, con vigorose bastonate, alcuni negri che erano accorsi
attirati dalla curiosità e postogli in mano uno stipo che doveva
contenere dei regali, lo pregò di portarlo al capo della città, come
primo presente dell’ambasciata.

— Credi che lo accetterà anche senza il consenso del re? — chiese Antao.

— Non dubitare, — rispose Alfredo. — Quel cofanetto contiene una
grossa collana d’argento che mi costa un migliaio di lire ed il gran
_cabecero_ sarà ben lieto del regalo. In questi paesi sono tutti avidi.

— Conti di fartelo amico?...

— È necessario o dovremo attendere l’ordine del re per chissà quante
settimane. Aggiungi poi che quel soldato ci era di troppo per questa
notte.

— Cosa vuoi dire?...

— Che mi premeva sbarazzarmi di lui fino a domani.

— Per quale motivo?...

— Perchè voglio vedere il padre di Urada. Se egli è vissuto alla corte
di Geletè, può darmi dei preziosi consigli e narrarmi molte cose sul
conto di Kalani.

— E ti fiderai di lui?...

— Urada dirà a lui chi siamo noi e cosa abbiamo fatto per sua figlia
e poi, se è caduto in disgrazia, sarà ben contento di aiutarci contro
Geletè e Kalani.

— Hai ragione Alfredo, io però non oserei recarmi da lui. Se si
accorgono che noi abbiamo delle relazioni con un uomo caduto in
disgrazia, questi negri sospettosi potrebbero allarmarsi.

— Non saremo noi che andremo da lui, Antao. Urada è già partita ed a
mezzanotte lo condurrà qui colle dovute cautele.

— Morte di Nettuno!... Sei più astuto d’un diplomatico!...

— Bisogna esserlo, specialmente in questo paese.

— E domani andremo a visitare il gran _cabecero_?...

— Sì, Antao.

— Speriamo di sbrigarci presto. L’aria del Dahomey è troppo pericolosa
per noi.

— Appena fatto il colpo, fuggiremo senza più arrestarci.

— E da qual parte?...

— Attraverseremo il regno per raggiungere le frontiere orientali che
sono le meno popolate e quasi sempre sprovviste di truppe. Più saremo
lontani dalla capitale, meno avremo da temere e oltrepassato il fiume
Sou potremo riderci dei furori di Geletè.

— E di Kalani.

— Oh!... Kalani allora non sarà più vivo, — disse Alfredo, con voce
cupa. — Quell’uomo morrà presto.

— Ed io ti aiuterò a torcergli il collo, amico mio.

— Silenzio, Antao, non è prudente parlare qui di Kalani. Corichiamoci
fra le nostre casse ed attendiamo il padre di Urada. —

Alfredo ed il portoghese stavano per coricarsi, quando videro tornare
il soldato seguito da quattro amazzoni armate di fucile e da sei negri
quasi nudi che portavano dei grandi canestri.

Venivano da parte del grande _cabecero_, il quale, lietissimo del
regalo ricevuto, mandava agli ambasciatori del Borgu una copiosa cena e
due schiavi per servirli.

Alfredo fece deporre le ceste sotto la tettoia, regalò ad ognuna delle
quattro amazzoni un fazzoletto di seta rossa, poi rimandò tutti dal
_cabecero_ dicendo di non aver bisogno di schiavi avendo i proprii, ed
incaricandoli di ringraziarlo della sua generosità.

Il soldato che li aveva guidati, desiderando forse di prendere parte
alla cena, tentava di rimanere coi due ambasciatori, ma Alfredo, che
voleva sbarazzarsi di quel pericoloso testimone, lo incaricò di portare
al gran _cabecero_ un altro regalo consistente in una fascia di seta
verde ricamata in oro e per consolarlo della perdita del pasto, regalò
a lui una cartucciera di pelle azzurra ed una libbra di polvere da
sparo, ingiungendogli però non ritornare che al mattino seguente.

Il capo della Città Santa si era mostrato generoso verso i due
ambasciatori, segno evidente che la collana d’argento era stata assai
gradita ed apprezzata.

Le ceste infatti contenevano tanti viveri da nutrire quaranta persone.
Vi erano due pentole di _canalu_, dei polli, del bue arrostito, dei
legumi, delle noci di kalla, delle frutta, due bottiglie di ginepro
d’importazione europea, delle zucche ripiene d’una specie di birra
ottenuta col miglio fermentato e parecchie candele di sego.

In una cesta scoprirono perfino due scatole di sardine di Nantes,
acquistate certamente dai negozianti francesi di Widdah, ma il caldo
aveva ridotto il contenuto in tale stato, da riuscire sgradevolissimo
ai palati europei.

Alfredo ed Antao fecero onore ai polli, al bue, alle frutta ed alla
birra, ma abbandonarono il _canalu_ ai due dahomeni, essendo talmente
condito di pimento da non potersi inghiottire.

Vuotato un bicchiere di ginepro e accese le sigarette, si sdraiarono
sulle casse in attesa di Urada e di suo padre.

La piazza era diventata deserta. Gli abitanti che dapprima ronzavano
attorno alla tettoia attirati dalla curiosità, si erano tutti ritirati
nelle loro case, forse dietro ordine del grande cabecero. Solamente
dinanzi ai due palazzi del re vegliavano alcune amazzoni armate di
fucili e di coltellacci, ma erano così lontane da non poter scorgere
una persona che si fosse avvicinata alla dimora degli ambasciatori.

Verso la mezzanotte, Alfredo che si alzava di frequente guardando verso
tutti gli sbocchi delle vie, scorse due ombre umane che si avanzavano
lentamente e con precauzione, tenendosi presso le pareti delle capanne.

   [Illustrazione: — Al re! — esclamò il negro spaventato. — Sì,
   a Geletè! (Pag. 183).]

— Sono Urada e suo padre, — disse ad Antao.

— Benone! — mormorò il portoghese. — La notte è oscura e potremo
riceverli senza che vengano scorti. —

Urada e suo padre si erano arrestati presso l’ultima capanna,
come se avessero voluto prima accertarsi di non essere spiati, poi
attraversarono velocemente la piazza e si cacciarono sotto la tettoia.

Alfredo mosse loro incontro e strinse ad entrambi la mano, poi li
condusse fra le casse che erano state disposte in modo da formare
un piccolo recinto, mentre i due schiavi dahomeni, dietro ordine
del portoghese, si mettevano alle due estremità dell’_apatam_, onde
impedire a qualsiasi persona d’avvicinarsi.

Il padre dell’amazzone era un bel negro d’alta statura, dai lineamenti
quasi regolari, dalla pelle non nera ma abbronzata con certe sfumature
rossastre. Gli anni e forse anche il cruccio della sua disgrazia, gli
avevano incanutiti i capelli e la rada barba che coprivagli il mento e
coperta la fronte di profonde rughe.

I suoi occhi però, intelligentissimi e assai espressivi, erano ancora
vivaci e ripieni di fuoco.

Appena sedutosi diede ad Alfredo e ad Antao il tradizionale saluto
nella lingua del paese, _Yevo oku_, che significa: bianco buon giorno,
saluto usato in qualunque ora, sia pure in piena notte, poi strinse
nuovamente la mano ad entrambi, alla moda europea.

Ciò fatto si sbarazzò dell’ampio mantello di cotonina bianca che lo
copriva dalle spalle ai piedi e offrì ai due europei del tabacco ed una
bottiglia di ginepro, dicendo con una certa malinconia:

— Tiefo Nieneguè è povero, avendo tutto perduto nella sua disgrazia, ma
gli uomini bianchi accettino di buon cuore l’offerta del vecchio padre
di Urada, insieme ai ringraziamenti per tutto quello che hanno fatto
per la sua unica figlia.

— Grazie, — risposero Alfredo ed Antao, dopo che Urada ebbe tradotte
quelle parole, non conoscendo il vecchio negro la lingua _uegbè_.

La giovane amazzone prese poi la parola.

— Ho narrato tutto a mio padre ed abbiamo parlato a lungo del vostro
progetto. Quantunque sia caduto in disgrazia, conta ancora degli amici
ad Abomey e può esservi molto utile coi suoi consigli e coi suoi aiuti.

Egli mi ha giurato che non tradirà il segreto degli uomini bianchi,
anzi che mette la sua vita e le sue forze a disposizione dei salvatori
di sua figlia. Geletè e Kalani sono ormai suoi nemici e sarà ben lieto
di vendicarsi contro di loro della sua immeritata disgrazia.

— Eravamo certi di poter contare su tuo padre, Urada, — rispose
Alfredo. — Noi accetteremo i suoi consigli ed i suoi aiuti, ma
cercheremo di non comprometterlo. Cosa dice del nostro progetto?...

— Che è assai pericoloso ma che con dell’audacia e dell’astuzia si può
riuscire.

— Conosce Kalani?...

— Sì, padrone.

— Sa del fanciullo rapito?...

— Lo ha saputo.

— Dove lo custodiscono?....

— Nella casa dei feticci di Abomey.

— Non correrà alcun pericolo?...

— Nessuno padrone, poichè ormai è considerato come persona sacra.
Se Kalani volesse ucciderlo, Geletè glielo impedirebbe e tu sai che
nessuno oserebbe disobbedire al re.

— Crede tuo padre che Geletè ci riceverà?...

— Sì, ma prima di lasciare Kana dovrete attendere il _recade_ del re.

— Cos’è questo _recade_?...

— L’ordine verbale di Geletè.

— Incaricheremo il gran _cabecero_ di annunziarci al re.

— Vi avverto però che giungeremo ad Abomey in brutto momento.

— Perchè?...

— Perchè in questo mese hanno luogo le _feste dei costumi_.

— Così dovremo assistere a quegli atroci macelli di schiavi. Preferirei
ritardare la nostra partenza per Abomey.

— E faresti male, padrone.

— Cosa vuoi dire?...

— Mio padre mi ha detto che non potresti trovare una occasione migliore
per mettere in esecuzione il tuo audace progetto. Durante le _feste dei
costumi_, se si sparge molto sangue si beve molto ginepro ed in quei
terribili giorni, re, principi, _cabeceri_, sacerdoti, soldati e popolo
sono tutti ubriachi e la sorveglianza è quasi nulla.

— È vero, Urada, — disse Alfredo, colpito da quelle osservazioni. Ho
udito narrare anch’io che durante quei macelli il ginepro scorre a
fiumi e che l’ubriachezza diventa generale.

Chiedi a tuo padre se crede possibile, durante quella confusione,
entrare inosservati nel tempio sacro dei feticci e rapire il fanciullo.

— Lo crede, — rispose Urada, dopo d’aver interrogato il vecchio, — e
aggiunge che potresti vendicarti, con maggiore probabilità, di Kalani.

— Un’ultima domanda. Verrà con noi ad Abomey, tuo padre?

— Sì, ma si fingerà un tuo schiavo e bisognerà che tu lo renda
irriconoscibile. Mio padre vuole aiutarti ed esserti vicino per
consigliarti su quanto dovrai fare.

— È deciso ad abbandonare il Dahomey?...

— Ti seguirà dove tu vorrai condurlo. Ormai più nulla lo trattiene in
questo paese e rinuncia ben volentieri alla sua patria, avendo più da
temere per la propria vita, che la speranza di tornare nelle grazie di
Geletè.

— Verrà adunque con noi e ti prometto, Urada, che non si pentirà di
aver abbandonato il suo tristo paese. Riconducilo nella sua capanna,
premendomi che non lo si veda qui. Uno dei due schiavi vi scorterà, poi
tu ritornerai, avendo bisogno dei tuoi consigli. —

Alfredo regalò al vecchio negro alcune bottiglie di ginepro mandategli
dal gran _cabecero_ della Città Santa, una rivoltella con una scatola
di cartuccie ed ottanta piastre di _caures_, somma non lieve nel
Dahomey, pregandolo di accettare tuttociò per amicizia, poi lo congedò
promettendogli di recarsi, l’indomani notte, a visitarlo.

— Ed ora, — disse, quando padre e figlia si furono allontanati col
dahomeno, — possiamo riposare Antao. Domani andremo a visitare il gran
_cabecero_, per ottenere il permesso del re di recarci ad Abomey.

— Morte di Urano e di tutti gli altri pianeti!... — esclamò il
portoghese. — Ecco avvicinarsi il terribile momento!...

— Ormai non possiamo più tornare indietro e giocheremo risolutamente le
nostre ultime carte.

— Lo credo. Si tratta di salvare il fanciullo e anche la nostra pelle
e ci guarderemo bene di non lasciarla a quell’antropofago di Geletè.
Sarebbe capace di farne dei tamburi per le sue amazzoni. Diavolo!...
Dei tamburi colla pelle di uomini bianchi!... Che onore pei suoi
reggimenti in sottane!...

— Speriamo di farli fare colla pelle di Kalani, Antao.

— Sarà più resistente. Buona notte, Alfredo. —

I due bianchi si ricoricarono fra le casse e malgrado le loro
apprensioni s’addormentarono tranquillamente, come se si trovassero
ancora nel paese dei Krepi o dei Togo.

L’indomani furono svegliati, verso l’alba, da un fracasso indiavolato
che s’avvicinava. Era un insieme di suoni strani, di flauti,
d’istrumenti a corda, di cembali e di voci umane con accompagnamento di
gran cassa.

Antao ed Alfredo, svegliati di soprassalto, s’affrettarono a balzare
fuori per vedere di cosa si trattava. Urada, che era già tornata e che
si trovava in piedi, s’affrettò ad informarli che la banda musicale di
Geletè veniva a prenderli per condurli dal gran _cabecero_.

— Morte di Giove! — esclamò Antao, messo in buon umore da quel
concerto assordante. — Che onore!... Si manda a prenderci colla banda
reale!... Che lusso!... Vediamo almeno questi bravi ma formidabili
musicanti. —

Urada non si era ingannata. Era veramente la banda reale di Kana che si
dirigeva verso l’_apatam_ per condurre, coi dovuti onori, l’ambasciata
dal gran _cabecero_.

Quella banda che formava l’orgoglio del sanguinario re, era composta
d’una cinquantina di artisti negri, preceduti da quattro amazzoni in
assetto di guerra e dal soldato che aveva guidati gli ambasciatori[7].

Venivano primi dieci o dodici _ahpolos_, ossia poeti erranti che
cantavano le lodi di Geletè e che declamavano dei proverbi o le
leggende relative alle gesta eroiche degli antichi monarchi, di Guagiah
Truda fondatore delle dinastie, di Doherthy e di Bahadu; poi seguivano
una dozzina di ragazzi che agitavano delle frutta secche ripiene di
sabbia e di sassolini, quindi dei suonatori di flauti di bambù che
cavavano dai loro istrumenti delle note atrocemente strazianti, di
_dovron_, specie di chitarre formate con mezze noci di cocco ricoperte
con pelle di serpenti e finalmente veniva un negro gigantesco il quale
picchiava furiosamente un _ghedon_ enorme, specie di tamburo formato
d’un pezzo di tronco d’albero scavato ed ornato di sculture di genere
bizzarro.

Quell’orchestra fragorosa fece due volte il giro dell’_apatam_ sempre
preceduta dagli _ahpolos_ che cantavano e danzavano come se fossero
stati colti da un improvviso accesso d’alienazione mentale, poi si
arrestò dinanzi ai due ambasciatori, raddoppiando il fracasso.

Il soldato s’avvicinò ad Alfredo, gli diede il tradizionale buon
giorno, poi lo invitò, assieme ai compagni, a recarsi dal gran
_cabecero_ il quale desiderava vederlo prima di mandare dei corrieri a
Geletè per informarlo dell’ambasciata.

— Andiamo, Antao, — disse il cacciatore. — Sangue freddo ed audacia e
lascia in pace tutti i pianeti del cielo.

— Dirai che sono muto, — rispose il portoghese.

Si fecero condurre i loro cavalli, fecero aprire gli ombrelli, ma
incaricarono uno dei due dahomeni di vegliare sulle loro casse, non
fidandosi troppo dell’onestà molto dubbia della popolazione.

Saliti in sella, si misero in marcia preceduti dai poeti erranti e
dalle amazzoni che gridavano a piena gola: _ago!... ago!_... (largo!...
largo!...) e seguiti dai musicisti.... che si sfiatavano per dare un
saggio della robustezza dei loro polmoni.

Attraversarono la piazza fra due fitte ali di popolo, il quale guardava
con viva curiosità i due ambasciatori, ammirando soprattutto la
ricchezza delle loro vesti e le bardature infioccate, e giunsero in
breve dinanzi ad uno dei palazzi reali, alla cui porta, circondato da
una compagnia di amazzoni, li attendeva Ghathing-Gan, gran _cabecero_
della Città Santa e confidente di Geletè, riparato sotto un monumentale
ombrello verde decorato d’un mostruoso coccodrillo.




CAPITOLO XXVII.

Il cabecero Ghating-Gan


Ghating-Gan era un uomo sulla quarantina, di forme robuste, quasi
atletiche, dalla fisonomia dura, arcigna, quasi feroce, ma anche
astuta, con gli occhi piccoli, neri, penetranti[8].

Per la circostanza aveva indossato una specie d’ampio mantello di
cotonina rossa, annodato alla spalla sinistra e che gli scendeva fino
ai piedi e si era adorni i polsi di braccialetti d’oro e d’argento,
mentre al collo si era appesa la grossa collana regalatagli da Alfredo.

Alla cintura di lana rossa portava quattro code di cavallo, distintivo
di grande importanza nel Dahomey, e che solo il re può concedere ai
suoi più fidati e più grandi personaggi del regno.

Vedendo gli ambasciatori mosse loro incontro, li salutò con molta
grazia, giungendo dapprima le mani, poi avvicinandole al viso e
finalmente allungandole sul petto; Alfredo ed Antao credettero bene
d’imitarlo, guardandosi dallo stendergli la mano per non tradirsi.

Scambiato così il saluto, Ghating-Gan li invitò a seguirlo nel palazzo
reale e li condusse in una vasta sala, certamente in quella del trono,
decorata di grandi parasoli di tutti i colori e di tutte le specie,
adorna di idoli strani rappresentanti mostri d’ogni forma e dinanzi
ai quali erano state deposte delle offerte consistenti in bottiglie
di liquore ed in collane di cauris. In un angolo vi era il trono di
Geletè, un seggiolone enorme che un tempo doveva aver servito a qualche
teatro europeo, ricco di fregi e di dorature e collocato su di un’alta
piattaforma coperta di vecchi tappeti scoloriti.

Ghating-Gan invitò gli ambasciatori a sedersi su alcuni sgabelli che
erano allineati dinanzi alla piattaforma, poi fece servire loro una
bottiglia di un certo liquore limpido e spumante che portava la marca
dello champagne, ma che doveva essere invece abbominevole miscela di
gin, di sidro e di vetriolo. Il gran _cabecero_ però doveva trovarlo
squisitissimo, poichè ne tracannò lui solo più di mezza bottiglia.

Bagnata la gola, Alfredo ebbe la parola ed espose, in lingua uegbè, lo
scopo dell’ambasciata. Si trattava di proporre a Geletè, da parte dei
capi del Borgu, una alleanza offensiva e difensiva contro i bellicosi
Yoruba che devastavano incessantemente le frontiere dei due Stati con
disastrose scorrerie, unitamente ad un trattato di commercio. Alfredo,
che parlava come un vecchio diplomatico, asseriva che un simile
trattato sarebbe stato d’immenso giovamento ai due Stati confinanti
e che i Borgani avrebbero prestato man forte a Geletè anche contro le
incessanti invasioni della razza bianca, marea pericolosa che poteva,
col tempo, compromettere l’indipendenza del Dahomey.

Aggiungeva poi che era incaricato di portare doni di molto valore
al re Geletè da parte dei più cospicui capi del Borgu ed altri
doni pei grandi _cabeceri_, onde cooperassero alla buona riuscita
dell’ambasciata.

Quand’ebbe terminato di esporgli lo scopo della sua missione,
Ghating-Gan fece portare una bottiglia di ginepro, avendo l’abitudine
gli africani di non cominciare le loro _palabre_, ossia conversazioni
d’importanza, se prima non si sono ben bagnati l’ugola, poi disse:

— Ciò che chiedono i capi del Borgu è giusto e lo credo un buon affare
anche pel nostro re, il quale conta più nemici che amici. Le genti del
Dahomey sono fiere e non temono alcuno, ma sanno pure che sono fiere
anche le popolazioni del Borgu e saranno liete di combattere insieme i
Yoruba del Benin, tanto più che noi siamo già scarsi di prigionieri di
guerra da sacrificare nelle _feste dei costumi_.

Gli antenati di Geletè diventano sempre più esigenti e chiedono più
vittime e siamo ora costretti a sacrificare anche i nostri stessi
sudditi per placare le loro ire. Già tre volte quest’anno la terra
tremò, scuotendo perfino le tombe reali, e due volte il fulmine celeste
è caduto sulle capanne di Abomey e ciò significa che i monarchi passati
nell’altra vita, non sono soddisfatti.

I capi del Borgu possono quindi essere certi di poter concludere il
trattato d’alleanza che propongono, ma i loro ambasciatori dovranno
attendere la fine della _festa dei costumi_, non potendo il nostro
re occuparsi per ora di un così importante affare. In questi giorni è
occupato, coi sacerdoti, nei preparativi e nelle preghiere.

— Sia pure, — rispose prontamente Alfredo, — ma noi vorremmo venire
presentati a S. M. Geletè prima che le grandi feste comincino,
rimandando ben volentieri la conclusione del trattato a più tardi.

— Ah!... — esclamò Ghatin-Gan, sorridendo. — Voi siete curiosi di
assistere alle nostre grandi feste!

— È vero, — disse Alfredo.

— Io credo che il nostro re avrà piacere di avervi al suo fianco.

— Lo farete avvertire del nostro arrivo a Kana?...

— Quest’oggi stesso gli manderò uno dei miei corrieri, onde farvi
ottenere un recade che vi permetta di proseguire il cammino per la
capitale.

— Dovremo attendere molto?...

— Il re non prende mai, lì per lì, alcuna decisione. Trattandosi di
ricevere un’ambasciata, farà prima radunare i grandi del regno ed i
principi di sangue reale per consigliarsi, quindi io credo che non
potrete partire prima di otto giorni. In questo frattempo però sarete
miei ospiti nel palazzo reale.

— Grazie, gran _cabecero_, — disse Alfredo, — ma noi preferiamo
alloggiare sotto l’_apatam_. Io e mio fratello siamo assai amanti della
caccia e sapendo che i dintorni di Kana sono ricchi di selvaggina,
rimarremo sotto la tettoia onde poter alzarci a qualunque ora della
notte, senza importunare le vostre genti.

— Fate come volete, ma non rifiuterete i miei viveri ed alcuni schiavi
per servirvi.

— Accettiamo di cuore i viveri, ma per gli schiavi sono inutili
avendo i nostri, i quali conoscono meglio le abitudini dei loro
padroni. —

Ciò detto prese dalle mani di Urada un cofanetto d’acciaio cesellato e
lo porse al gran _cabecero_, dicendo:

— È per S. M. Geletè e contiene i regali dei capi del Borgu.

— Ghating-Gan impegna la sua parola che saranno consegnati al re a nome
dell’ambasciata, — rispose il _cabecero_.

Offrì ancora da bere, poi si alzò. Alfredo comprese che la _palabra_
era terminata e si affrettò ad imitarlo. Scambiarono nuovamente il
saluto, poi l’ambasciata uscì e fece ritorno all’_apatam_, sempre
preceduta dalla banda musicale e da una folla di curiosi.

Appena entrati, le quattro amazzoni intimarono minacciosamente alla
popolazione di allontanarsi, tale essendo l’ordine del gran _cabecero_,
poi ricondussero l’orchestra ed i poeti nel palazzo reale.

— Auff!... — esclamò Antao, appena si trovarono soli. — Ero arcistucco
di dover fare la parte del muto e se la durava ancora un po’, mi
sfuggivano di bocca tutti i pianeti del firmamento.

— Per farci tradire, — disse Alfredo. — Guardati dal commettere simili
imprudenze, in questo regno di barbari.

— Cosa vuoi?... I pianeti sono la mia passione.

— Sì, burlone.

— Ora però spero di poter mettere in opera la mia lingua.

— Parla finchè vuoi.

— Allora permettimi una domanda.

— Venti se vuoi.

— Perchè hai rifiutato l’ospitalità del gran _cabecero_?... Saremmo
stati più comodi nel palazzo reale che sotto questa catapecchia.

— È vero, Antao, ma non avremmo potuto più ricevere il padre di Urada.
Se l’avessimo fatto, il gran _cabecero_ avrebbe potuto nutrire dei
sospetti verso di noi.

— Hai ragione, Alfredo. Io sono sempre stato uno sventato, mentre
tu eri nato per diventare un furbo diplomatico. Hai delle attitudini
veramente meravigliose.

— Sviluppate col continuo contatto dei negri.

— Possibile che i negri siano diplomatici.

— E di gran lunga più astuti di quelli europei, Antao, te lo dico io.
Toh!... Ecco delle provviste che giungono.

— È la colazione che c’invia il _cabecero_, — disse il portoghese. —
Sia la benvenuta. —

Quattro schiavi preceduti da un’amazzone, s’avvicinavano all’_apatam_
portando sul capo delle grandi ceste di vimini che sembravano molto
pesanti.

Le deposero dinanzi alla capanna, poi s’allontanarono frettolosamente.

— Che lusso!... — esclamò Antao, che aveva fatto aprire i canestri.
Oggi abbiamo anche del montone, del capretto e del tabacco. Lasceremo
il _canalu_ ai negri ma attaccheremo questa carne tenera e deliziosa
che sembra arrostita a puntino. Cosa ne dici, Alfredo?...

— Dico che tu cominci a diventare un ghiottone, Antao, — rispose il
cacciatore.

— Pensa, amico, che durante la nostra lunga marcia non abbiamo mangiato
che del pesce secco e del biscotto.

— E la tromba d’elefante, ed i pappagalli, e le scimmie?...

Briccone! Il profumo di questo quarto di montone arrostito ti atrofizza
la memoria.

— Può essere, — rispose il portoghese con aria grave, accomodandosi
davanti ad una cesta. — Orsù attacchiamo!... —

Mentre i due dahomeni assalivano ingordamente il canalu, i due bianchi
e Urada misero a sacco le ceste, facendo onore al montone, alle
_atrapas_, ed alle frutta che inaffiarono con alcuni sorsi di ginepro.

Durante la giornata i due ambasciatori, o meglio Alfredo poichè Antao
doveva fingersi muto dinanzi ai dahomeni, in causa dei suoi pianeti
diventati eccessivamente pericolosi in quel regno, ricevette la visita
di parecchi dignitari, di _cabeceri_ e di _moce_ ossia di funzionari
del re, i quali non miravano altro che a spillare cortesemente regali
ai supposti principi del Borgu e possibilmente a vuotare le loro casse.
Portavano in regalo qualche bottiglia di ginepro o di rhum imbevibile
o qualche capretto, ma se ne tornavano con dei bei fazzoletti di seta
rossa, o con delle cartucciere, o con dei braccialetti di rame dorato.

Fortunatamente le casse di Alfredo contenevano una grande quantità
di quegli oggetti, ma doveva pensare anche ai capi, ai _cabeceri_, ai
_moce_, ai corrieri reali di Abomey e più d’uno lo rimandava colla sua
bottiglia, fingendo di non comprenderlo o facendo dire dai suoi uomini
che dormiva o che stava pranzando.

Alla mezzanotte il padre di Urada, come aveva promesso, fece ritorno
all’_apatam_. Recava la notizia che il corriere del _cabecero_
era partito per la capitale, onde avvertire Geletè dell’arrivo
dell’ambasciata.

— Sono contento di questa notizia ma sono anche inquieto, — disse
Alfredo.

— E per quale motivo? — chiese Antao, stupito.

— Sono parecchie ore che un timore mi tormenta.

— Quale?...

— Che Kalani sospetti dell’ambasciata.

— È impossibile, Alfredo.

— Egli mi attende ad Abomey. Sa che io non sono uomo da lasciargli
nelle mani mio fratello.

— Diavolo!... — mormorò il portoghese. — Ciò può essere vero, ma ormai
è troppo tardi per tornare indietro. Penso però che siamo così bene
dipinti, che nessuno potrebbe sospettare in noi degli europei. Tu poi,
sei assolutamente irriconoscibile.

— Padrone, — disse Urada, — Vuoi un consiglio?...

— Parla, ragazza, — disse Alfredo.

— Manda mio padre ad Abomey ad esplorare il terreno e ad informarsi di
ciò che si dice su questa ambasciata.

— L’idea è bellissima, Urada, ma può tuo padre lasciare Kana?

— È libero e può andare dove gli piace senza chiedere il permesso a
chicchessia.

— Io gli darò uno dei nostri cavalli e dell’oro. Può esserci molto
utile nella capitale, farci avvertire se Kalani ha dei sospetti su di
noi e darmi anche notizie di mio fratello.

— E preparare ogni cosa per poterlo rapire, — aggiunse Urada. — Mio
padre ha conservato delle amicizie in Abomey, può avvicinare dei
dignitari del re e può quindi avere delle informazioni che possono
esserti preziose.

— Accetterà il difficile incarico?...

— Mio padre farà tutto quello che desiderano i salvatori di sua figlia.

— Grazie, brava ragazza. Non ci eravamo ingannati sulla tua
affezione. —

Urada espose al vecchio negro il desiderio degli uomini bianchi.

— Domani all’alba, parto, — rispose egli. — Gli uomini bianchi possono
contare interamente su di me. —

Alfredo, lieto di quella risposta, fece bardare uno dei cavalli,
consegnò al negro un gruzzolo d’oro che poteva scambiare in kauri
ed una rivoltella con cinquanta cariche, arma che poteva essergli di
grande aiuto nella sua pericolosa missione.

Alle due del mattino il negro, dopo d’aver abbracciata Urada e stretta
la mano ai due bianchi e d’aver promesso di far giungere ben presto sue
notizie, lasciava l’_apatam_ per recarsi nella capitale del Dahomey.




CAPITOLO XXVIII.

Il ritorno di Gamani


Tre giorni erano trascorsi dalla partenza del corriere di Ghating-Gan
e del padre di Urada, senza che più alcuna notizia fosse giunta ai
due europei. Pareva che Geletè fosse troppo occupato nei preparativi
della festa dei costumi per pensare all’ambasciata dei capi del Borgu
e che il vecchio negro avesse trovato o dei grandi ostacoli, o nessun
messaggiero da fidarsi per mandare sue nuove.

Alfredo, le cui inquietudini aumentavano, non sapendo a che cosa
attribuire quei ritardi e temendo sempre una sorpresa da parte
dell’astuto Kalani, aveva proposto al cabecero di mandare degli
altri corrieri ad Abomey per indurre Geletè a decidersi a ricevere
l’ambasciata, ma senza alcun risultato.

Non era prudente irritare il feroce monarca, il quale avrebbe potuto
prendersela col _cabecero_ e far tagliare, senza tante cerimonie,
la testa ai messaggeri importuni. Era necessario attendere il suo
beneplacito ed armarsi di pazienza.

La sera del quarto giorno però, quando Alfredo ed Antao, dopo d’aver
cenato, si preparavano a coricarsi, videro un negro attraversare
rapidamente la piazza, come se avesse temuto di esser visto
dalle amazzoni che stavano di guardia dinanzi ai palazzi reali, e
precipitarsi sotto l’_apatam_.

Temendo che fosse qualche importuno, si erano alzati per farlo
allontanare, quando il negro si gettò impetuosamente dinanzi ad
Alfredo, dicendo con voce soffocata:

— Oh mio padrone!... —

Il cacciatore, stupito, lo aveva prontamente afferrato per guardarlo in
viso. Un grido, a malapena frenato, gli sfuggì:

— Gamani!... Tu!... Vivo ancora!...

— Sì, padrone, — rispose il negro, ridendo. — Il tuo fedele Gamani, che
tu credevi morto fra le foreste dell’Ouzmè, la notte che fu incendiata
la tua fattoria.

— Lave dell’Etna!... Gamani!... Ma chi ti ha mandato qui?... Come hai
saputo che noi ci troviamo a Kana?... Parla, spicciati!...

— Morte di Urano, Nettuno e di tutti i pianeti conosciuti ed ignoti!...
— esclamò Antao. — Gamani!... Sei vivo o sei un’ombra?...

— Sono in carne ed ossa, padron Antao, — rispose il negro.

— Ma parla!... — esclamò Alfredo. — Non vedi che io muoio
d’impazienza?... Chi ti ha mandato qui?...

— Un vecchio negro, padre d’una amazzone che è con voi.

— Il padre di Urada!... — esclamarono Antao ed il cacciatore.

— Sì, sua figlia si chiama Urada.

— Ma eri ad Abomey?... — chiese Alfredo.

— Sì, padrone.

— Schiavo di Kalani forse?...

— Sì, ma addetto al tempio dei serpenti e dei feticci.

— E di mio fratello, cos’è accaduto?... Parla, parla Gamani!

— È vivo e porto i suoi saluti a te ed al padrone Antao.

— Ah!... bravo piccino!... — esclamò il portoghese, che era vivamente
commosso. — Si è ancora ricordato di me!...

— Siedi Gamani, — disse Alfredo, spingendo innanzi una cassa. — Tu mi
sembri assai stanco.

— È vero, padrone. Ho percorso le tre leghe che separano Kana dalla
capitale, quasi tutte d’un fiato, per tema di venire ripreso e sono
sfinito. —

Antao sturò una bottiglia di ginepro, riempì una tazza e gliela porse,
dicendogli:

— Bevi questo, poi parlerai. —

Il negro tracannò d’un colpo solo il forte liquore, poi riprese:

— Ho molte cose da raccontare. Sappi innanzi a tutto, padrone, che
tuo fratello sta bene e che non corre alcun pericolo, essendo sotto
la protezione del re e dei sacerdoti. Egli è diventato una specie di
feticcio che lo mette al coperto dalle vendette di Kalani.

— Sa ormai che noi siamo qui?...

— Sì, padrone e vi aspetta presto ad Abomey. Il padroncino è ben
trattato, ma sospira il momento di abbandonare la sua prigione e di
poterti abbracciare.

— Povero Bruno, — mormorò Alfredo, con commozione. — Quali terribili
momenti avrà passati, nelle mani di quei barbari.

— E Kalani? — chiese Antao.

— È sempre potente e gode la fiducia di Geletè e di Behanzin, il futuro
re del Dahomey. Si può dire che tutti tremano dinanzi a lui.

— Si vede che nel Dahomey i bricconi fanno fortuna, — disse Antao. — Se
i miei affari andranno male, diverrò un furfante e verrò qui.

— Ma perchè Kalani ti ha risparmiato? — chiese Alfredo.

— Non lo so, padrone, ma forse per dare un compagno a tuo fratello.
Non è il padroncino che Kalani odia, ma te e lo ha rapito solamente per
poter averti nelle mani.

— Lo avevo sospettato. Quel miserabile era certo che io sarei venuto
nel Dahomey.

— Sì ed aveva mandato numerosi drappelli di soldati verso le frontiere
meridionali, per farti sorprendere ed imprigionare.

— Ed ora, spera ancora di vedermi giungere?...

— Lo teme sempre. Sente per istinto che un giorno o l’altro tu gli
piomberai addosso e vive in continue inquietudini. Sa che tu non sei un
uomo da lasciargli nelle mani il padroncino.

— I suoi soldati, la notte che ci tesero un agguato sulle rive
dell’Ouzmè, ti sorpresero sul sicomoro?...

— Sì, padrone. Avevano circondato l’albero in venti o trenta,
minacciando di fucilarmi come fossi un pappagallo. Ne ammazzai due, ma
poi dovetti discendere per non farmi fracassare le ossa.

Fui legato e condotto verso la laguna, da dove assistetti, impotente,
alla distruzione della tua fattoria ed al rapimento di tuo fratello.

— Ha fatto altri prigionieri Kalani?...

— Nessun altro.

— Ma come hai conosciuto il padre di Urada?...

— Avendo saputo che io ero un servo di tuo fratello, dopo d’aver
ottenuto il permesso di entrare nella casa dei feticci, ieri venne a
trovarmi e mi parlò di voi. Dapprima non lo credetti, anzi sospettai
un tranello, ma ben presto mi persuasi della verità delle sue parole e
tramammo la mia fuga.

Non essendo io strettamente sorvegliato come tuo fratello, potei uscire
dalla capanna dei feticci e abbandonare la città prima che i sacerdoti
se ne fossero accorti.

— E quali notizie rechi da parte del vecchio negro?

— Buone per noi. Domani mattina giungerà il _recade_ del re ed una
scorta per condurvi ad Abomey. Sembra che a Geletè prema di farvi
assistere alle _feste dei costumi_ e che accetti di buon grado le
vostre proposte.

— Cioè quelle dei capi del Borgu, — disse Antao, ridendo.

— Ancora poche domande, poi ti lascierò riposare, — disse Alfredo.

Poi incrociando le braccia e guardandolo fisso, gli chiese con voce
sibilante:

— Credi che io lo possa uccidere?...

— Kalani?... — chiese il negro.

— Sì, lui!...

— Bada, padrone, Kalani è potente quasi quanto Geletè.

— Ti dico che non lascierò il Dahomey se non l’avrò ucciso.

— Sarà una cosa difficile ma non impossibile.

— Potrò adunque vendicarmi di tutto il male che mi ha fatto e liberare
la terra da quel mostro sanguinario?

— Sì, ma bisognerebbe approfittare della _festa dei costumi_, quando
tutti sono ubriachi.

— Me lo ha detto anche il padre di Urada.

— So dove potremo sorprenderlo.

— E tu mi condurrai colà?...

— Sì, padrone; anch’io odio Kalani e sarei ben contento di ucciderlo,
come il popolo di Abomey sarebbe lieto di vederlo morto. Egli è l’anima
dannata di Geletè e di Behanzin.

— Sta bene: lo ucciderò, — disse Alfredo con accento terribile. — Ora
puoi riposarti. —

Gamani, che non si reggeva quasi più, sfinito dalla lunga e rapidissima
marcia, s’affrettò ad approfittare del permesso sdraiandosi su di una
cassa.

Alfredo ed Antao fecero il giro dell’_apatam_ per accertarsi che la
piazza era deserta, poi s’accomodarono anche loro fra le casse, vicini
ad Urada.

L’indomani, ai primi albori, venivano svegliati dalla banda di
Ghating-Gan, la quale si dirigeva verso la capanna facendo un fracasso
tale da svegliare anche un sordo.

Questa volta però era preceduta non da quattro sole amazzoni, ma da
una mezza compagnia ed era seguita dal _cabecero_, da un inviato reale
in alta tenuta, vestito di rosso e armato d’una spada coll’impugnatura
d’oro e adorna del sigillo reale e da otto vigorosi negri i quali
portavano due comode amache, riparate superiormente da una piccola
tenda di cotone azzurro ed infioccata.

Ghating-Gan salutò, con maggiore deferenza del solito, i due
ambasciatori, poi disse:

— È giunto un gran _moce_ col _recade_. Siete attesi ad Abomey, dove
verrete ricevuti cogli onori che spettano alla vostra posizione di
ambasciatori d’una nazione potente e guerresca. —

Il gran _moce_ od inviato del re si fece allora innanzi, s’inginocchiò
posando la fronte al suolo, dovendo parlare in nome del suo potente
signore, poi disse:

— Do ai due ambasciatori il buon giorno in nome di S. M. Geletè e reco
l’ordine di condurli tosto ad Abomey: attendo. —

Alfredo, per mezzo di Urada che serviva d’interprete, fece rispondere
che ringraziava il grande monarca della decisione di ricevere
l’ambasciata dei capi del Borgu, prima che avesse luogo la festa dei
costumi, ma che prima di partire chiedeva qualche ora di tempo per
preparare le sue casse, pregando il gran moce di attenderlo al palazzo
reale.

— Sono agli ordini degli ambasciatori del Borgu, — rispose il _moce_.

Ad un suo cenno le amazzoni, la banda musicale ed il seguito
abbandonarono l’_apatam_ per attendere l’ambasciata dinanzi al palazzo
reale.

— Ma perchè questo ritardo?... — chiese Antao ad Alfredo quando furono
soli.

— Dimentichi Gamani?... — rispose il cacciatore. — Se lo conduciamo
con noi sarebbe finita per l’ambasciata, poichè Kalani non tarderebbe a
riconoscerlo.

— Cosa vuoi farne di lui?...

— Trasformarlo in un magnifico borgano. Gamani ci è necessario,
conoscendo ormai le abitudini di Kalani e la capanna dei feticci
che serve di prigione al mio piccolo Bruno. Affrettiamoci, poi
partiremo. —

   [Illustrazione: — .... Il padroncino è ben trattato, ma
   sospira il momento di abbandonare la sua prigione.... (Pag.
   206).]

Mentre i due dahomeni cominciavano a caricare le casse sui cavalli,
Alfredo prese i suoi vasetti di colore ed in pochi minuti depose sulla
pelle rossastra del suo servo un bello strato di nero intenso, poi
appiccicò sul viso del fedele servo una lunga barba nera.

Attese che la tinta fosse bene asciutta, poi ordinò a Gamani
d’indossare un paio di calzoni rossi fiammanti, di stringersi le
reni con una larga fascia di seta gialla e di gettarsi sulle spalle
un grande mantello bianco infioccato e adorno di rabeschi rossi. Un
ampio turbante che gli nascondeva mezzo viso, bastò per completare la
trasformazione.

— Credo che nessuno più lo riconoscerà, — disse ad Antao, guardando con
viva soddisfazione il negro.

— Stavo chiedendomi da dove era sbucato quest’uomo, — rispose il
portoghese. — È assolutamente irriconoscibile e potrà avvicinare Kalani
senza tema di venire riconosciuto. Ma tu sei un vero artista.

— Se non lo fossi non sarei italiano, — rispose Alfredo. — Siete
pronti?...

— È tutto caricato, — dissero Urada ed i due schiavi.

— Partiamo. —

Alfredo ed Antao salirono a cavallo, la giovane amazzone e Gamani
aprirono i due grandi ombrelli a smaglianti colori e la piccola
carovana si diresse verso il palazzo reale, destando, coi suoi costumi
pittoreschi, l’ammirazione della folla che gremiva la piazza.

L’orchestra diede fiato ai suoi istrumenti con un crescendo spaventoso,
mentre le amazzoni, schierate su due file, presentavano le armi
all’ambasciata, con un insieme ammirabile, facendo poscia due scariche
in aria.

Il gran _moce_ pregò gli ambasciatori di scendere dai loro cavalli e
di prendere posto nelle due amache inviate a loro dal re onde non si
affaticassero durante il viaggio, poi diede il segnale della partenza.

Il drappello, scortato da otto amazzoni e seguito da Urada, Gamani e
dai due schiavi che conducevano i cavalli, si pose in marcia fra le
grida della popolazione ed il fracasso dell’orchestra.

Attraversata la città fra due fitte ali di popolo plaudente, prese la
via reale di settentrione, la quale corre, quasi diritta, fino alla
capitale del regno.

Alfredo ed Antao, comodamente sdraiati nelle loro amache che i
portatori sostenevano, avevano accese le loro sigarette e fumavano
beatamente scambiando qualche parola con Urada o con Gamani che si
erano collocati ai loro fianchi.

La via reale era davvero bellissima, larga tanto da permettere il
passaggio a otto cavalli di fronte, ma composta d’una specie di
minerale granuloso e rossastro che doveva stancare straordinariamente i
portatori al pari dei terreni sabbiosi o ghiaiosi.

Una doppia fila di splendidi palmizii la ombreggiava, mentre al di là
si estendevano immense pianure coperte da un’erba alta assai e fitta
e da gruppi d’alberi, per lo più palme d’elais. Qualche volta però si
vedeva giganteggiare anche la mole imponente d’un baobab.

Il drappello procedeva rapido, malgrado la pessima qualità del terreno.
I portatori, uomini robustissimi ed abituati alle lunghe marcie, si
avanzavano quasi correndo, scambiandosi di mezz’ora in mezz’ora.

Ben presto la regione, che dopo Kana era ridiventata deserta, cominciò
ad apparire popolata. Sparsi sui pendii di quei grandi scaglioni o
sugli altipiani, si vedevano popolosi villaggi e di quando in quando
qualche forte costruito con grossi terrapieni e con alte e robuste
palizzate. Probabilmente quei recinti fortificati dovevano guardare le
vie che dall’est e dall’ovest mettevano capo alla capitale.

I portatori, giunti sull’ultimo altipiano, dopo una faticosa salita
durata quasi tre ore, segnalarono Abomey, i cui bastioni di terra
rossastra si disegnavano nettamente, a meno di due miglia. Urada, che
si trovava presso all’amaca d’Alfredo, mostrò a questi una costruzione
che doveva essere gigantesca e che s’alzava in mezzo alle cinte
bastionate.

— Cos’è, — chiese il cacciatore, con una certa emozione.

— Il palazzo del re, — rispose Urada.

— Credevo che fosse quello dell’uomo che odio.

— Non si troverà lontano, padrone.

— Credi Urada, che quell’uomo si troverà presente, quando verremo
ricevuti dal re?...

— Sì, purchè si trovi ancora in città.

— Temi che non vi sia?...

— L’alta sua carica lo avrà forse costretto ad occuparsi dei
prigionieri destinati alla _festa dei costumi_, e può aver lasciata
momentaneamente la capitale per radunarli.

— Sarei ben contento, per ora, di non trovarmi dinanzi a lui. L’idea
che possa riconoscermi, malgrado io sia pronto a tutto, mi fa gelare il
sangue nelle vene.

— Sei irriconoscibile padrone e poi sono alcuni anni che non ti ha più
veduto.

— È vero, Urada. —

I portatori ed il gran _moce_ acceleravano allora il passo per giungere
in città prima del pasto del mezzodì. La via reale era diventata
piana, essendo aperta sull’altipiano, in mezzo ad una immensa prateria
disseminata di gruppi considerevoli di capanne e di capannuccie, le
quali formavano i sobborghi della capitale.

Di tratto in tratto s’incontravano bande di soldati armati di
fucili e di coltellacci, che traevano in città qualche drappello di
schiavi destinati probabilmente alla _festa dei costumi_. Tutti quei
disgraziati tenevano in bocca il tormentoso bavaglio di legno ed
avevano gli occhi schizzanti dalle orbite. Certamente non ignoravano a
quale terribile sorte erano stati votati.

Di passo in passo che Antao ed Alfredo s’avvicinavano alla capitale del
temuto Geletè, le traccie della sue orrende carneficina diventavano
più numerose. Pareva che i dintorni della città fossero diventati un
immenso cimitero, messo sossopra da un esercito di iene.

Sotto i più grandi alberi si vedevano a dozzine teschi di morti, poi
stinchi, tibie e costole umane, poi scheletri interi non ancora ben
ripuliti dal becco degli uccelli da preda e che esalavano nauseabondi
odori. Erano gli avanzi dei poveri prigionieri sacrificati nelle feste
e poi colà trasportati a pasto delle belve feroci e degli avvoltoi.

Qualche scheletro si vedeva perfino inchiodato al tronco degli alberi
ed Alfredo ed Antao ne videro uno, di alta statura, crocifisso sul
tronco d’una palma con tre lunghe zagaglie e che teneva legato ai polsi
un ombrello di cotone, simile a quello che adoperavano i missionari
della costa, ed un paio di scarpe.

Probabilmente quel martire era stato sorpreso dalle guardie di Geletè
mentre cercava di convertire alcuni abitanti e trattato in quel barbaro
modo per ordine dello stesso re, facendogli appendere, per amara
derisione, le scarpe, distintivo degli uomini bianchi e dei liberi
negri della Repubblica di Liberia.

A duecento passi dalla capitale il drappello fu incontrato da un gran
_moce_ e da due _cabeceri_, scortati da due dozzine di amazzoni in
pieno assetto di guerra. Venivano a salutare gli ambasciatori a nome di
Geletè e per guidarli nell’abitazione a loro assegnata.

Cinque minuti dopo facevano la loro entrata nella capitale del
sanguinario monarca.




CAPITOLO XXIX.

Nella tana del leone


Abomey era la città più popolosa del Dahomey ed anche la più
fortificata, essendo la sede dei monarchi e delle principali forze
dello stato.

Un grande bastione di terra battuta, capace di far fronte a qualsiasi
assalto di soldati negri, ma non di opporre una lunga resistenza ad
una batteria di cannoni europei, la circondava. Alcune breccie, aperte
sopra dei ponti gettati attraverso il fossato, servivano di porte.

La città nulla però aveva d’attraente. Era un ammasso di tuguri dalle
pareti di terra e coi tetti di stoppia, divise in parecchi _salam_,
ossia quartieri con vie strette, sudicie, puzzolenti, dove marcivano
carogne d’animali ed anche gran numero di corpi umani dopo le feste
delle _grandi usanze_ o dei _costumi_.

La sola cosa notevole era la grande piazza del Mercato, un quadrilatero
immenso in gran parte occupato dalla reggia formata da un palazzo di
dimensioni enormi, la cui facciata misurava oltre seicento metri, tutto
traforato da un numero immenso di finestre senza imposte e dall’aspetto
minaccioso. Due vaste terrazze che servivano pei sacrifici umani,
guardate da parecchi pezzi d’artiglieria, lo fiancheggiavano, mentre un
alto e solido muro lo proteggeva ai lati e nella parte posteriore.

Due sole porte, difese da enormi battenti in legno ed in ferro e
guardate giorno e notte da una compagnia di amazzoni, permettevano
l’accesso.

Pure su quell’ampia piazza sorgeva il tempio dedicato ai serpenti e
quello dei feticci, contenente questo un gran numero di divinità le une
più barocche delle altre, mostri informi di terra cotta dorata, o di
legno malamente scolpito, o di avorio, o di rame.

La sua popolazione, comprese le tremila amazzoni che formavano la
guardia reale, ordinariamente non superava le ventimila anime, ma
durante le feste delle _grandi usanze_ si triplicava, accorrendo
curiosi da tutte le vicine borgate, quantunque un non piccolo numero di
quei poveri sudditi del barbaro re più non dovesse tornare alle natìe
capanne.

Alfredo ed Antao a cavallo, fiancheggiati dai loro porta-ombrelli
e preceduti dal gran _moce_, dai _cabeceri_ e dalla scorta armata e
seguìti dai loro uomini, attraversarono la capitale destando fra la
popolazione la più viva curiosità e furono condotti in una grande
capanna circolare, colle pareti di mattoni cotti al sole ed il tetto di
foglie di palma, situata quasi di fronte al palazzo reale.

Per ordine del re vi erano state portate delle sedie, due brande,
un tavolo, dei viveri, delle legna, del vasellame e mandati quattro
schiavi per servire i due ambasciatori.

Il gran _moce_ osservò se nulla mancava, ordinò agli schiavi di tenersi
agli ordini dei due grandi personaggi ospiti del re, minacciando di
far loro troncare il capo alla più piccola disobbedienza, poi salutati
Alfredo ed Antao, fece cenno di volersi ritirare per recarsi ad
informare il suo potente signore.

Alfredo con un gesto lo trattenne, e da Urada gli fece chiedere quando
gli ambasciatori del Borgu avrebbero potuto vedere il re.

— S. M. è troppo occupato per ora per trattare cose tanto importanti,
— rispose il gran _moce_, — ma credo che si degnerà ricevere ben presto
i saluti dei guerrieri del Borgu. Dopo le grandi _feste dei costumi_ si
potrà discutere il trattato d’alleanza.

— Sta bene, — rispose Alfredo. — I rappresentanti del Borgu
attenderanno pazientemente le decisioni del potente monarca del
Dahomey, intanto manderanno a lui i regali dei principi borgani. —

Ciò detto mise nelle mani del gran _moce_ e dei due _cabeceri_ tre
cofanetti di metallo lavorato, che aveva fatto estrarre dalle sue
casse.

I tre dignitari li ricevettero con una specie di venerazione e
s’affrettarono a lasciare la capanna, ringraziando i due ambasciatori.

— Morte di Giove, Marte, Venere, Sat....

— Basta, — disse Alfredo, vedendo che il portoghese stava per
continuare. — Mi hai detto che erano proprio morti pel Dahomey.

— È vero, — disse Antao, ridendo, — ma non ne potevo più. Pensa che
sono muto dalle cinque di stamane e che la mia lingua minacciava di
atrofizzarsi per sempre, se il mio supplizio continuava. Il diavolo
si porti gli ambasciatori, il Borgu, i _moci_, i _cabeceri_ ed anche
quell’animalaccio di Geletè!... Tutte queste cerimonie mi fanno
venire l’emicrania e ti confesso che sarei ben più felice di trovarmi
ancora sulle rive dell’Ouzmè, a cacciare gli ippopotami. Almeno là
avrei potuto far crepare tutti i pianeti mille volte al giorno, a mio
piacimento.

— Sii paziente per un po’ di giorni ancora, mio povero amico, — rispose
Alfredo. — Ormai il più è fatto e in breve rivedremo ancora le rive
dell’Ouzmè.

— Spero che quei ciarlatani dalle code di cavallo ci lascieranno in
pace qualche giorno.

— Sono troppo occupati nelle loro feste, per badare a noi per ora.

— Ma a quell’antropofago di Geletè, cos’hai mandato?...

— Delle collane d’oro, dei braccialetti, degli anelli ed una corona da
re d’argento dorato. Bisogna essere un po’ generosi con Geletè.

— Purchè non paghi la tua generosità tagliando il collo a noi?... Quel
furfante sarebbe capace, ma.... che questi schiavi comprendano ciò che
diciamo?...

— Non aver questo timore, Antao. Puoi parlare a tuo bell’agio, poichè
non comprendono il portoghese e tanto meno l’italiano.

— Sarei più contento che tornassero da Geletè!

— Se li rimandassimo, il re sarebbe capace di farli decapitare.

— Padrone, — disse in quel momento Urada, avvicinandosi ad Alfredo. —
Ho veduto mio padre passeggiare dinanzi al palazzo reale.

— Fallo venire, — disse Antao.

— No, — rispose Alfredo. — Il vecchio è prudente e aspetterà che tutti
questi curiosi che ci spiano si siano allontanati, per venire qui.

— Cacciamoli via, Alfredo. Giacchè Geletè ha messo a nostra
disposizione i suoi schiavi, facciamoli un po’ lavorare.

— L’idea non è cattiva, Antao. —

Urada avvertì gli schiavi del desiderio dei loro nuovi padroni.
Non aveva ancora terminato di parlare che i quattro negri, armatisi
rapidamente di canne lunghe e flessibili, si scagliarono contro la
folla urlando a squarciagola e bastonando senza misericordia.

Bastarono pochi istanti perchè quei curiosi si dileguassero in tutte
le direzioni come un branco di cervi spaventati, anzi Antao ed Alfredo
dovettero intervenire per moderare l’eccessivo zelo dei quattro
schiavi, i quali minacciavano di accoppare due o tre disgraziati che
erano stati travolti dai fuggiaschi.

— Calma, bollenti diavoli, — disse Antao. — Sta bene che percuotiate in
nome del re, ma non vogliamo che storpiate nessuno. Morte di Marte!...
Che gragnuola e che fuga!...

— Ma è stata una gragnuola provvidenziale, — disse Alfredo. — Ecco il
padre di Urada che si avvicina alla nostra dimora.

— Facciamo rientrare i negri o lo accopperanno, Alfredo. —

Il vecchio dahomeno, fingendo di guardare ora il palazzo reale, ora la
vasta piazza ed ora le capanne come un tranquillo curioso, s’avvicinava
lentamente alla dimora degli ambasciatori.

Dopo d’aver girato e rigirato per dieci minuti, sempre più
avvicinandosi, passò dietro la grande capanna e guizzò celeremente
entro la porta, senza quasi essere stato veduto dai curiosi che si
tenevano sugli angoli delle vie.

— Finalmente! — esclamò Alfredo, prendendolo per una mano e
conducendolo entro la dimora.

Il vecchio negro salutò i due bianchi con un amabile sorriso, abbracciò
Urada, poi accomodatosi su di una cassa, accennò a voler parlare.
L’amazzone gli si sedette accanto per tradurre le sue parole.

— Come già avrete saputo, non ho perduto il mio tempo, — diss’egli,
guardando Gamani. — Quel vostro negro vi avrà già detto che io ho
visitato il tempio dei serpenti, dove si trova prigioniero il fanciullo
che cercate.

— Sì, lo sappiamo, — rispose Alfredo. — L’hai riveduto mio fratello?

— Sì, stamane. Volevo bene imprimermi nel cervello la topografia del
tempio, per poter agire con sicurezza quando noi tenteremo il colpo.

— Sta bene il fanciullo?...

— Gode ottima salute e vi aspetta.

— Ah!... Mio povero Bruno!... — esclamò Alfredo, con un sospiro. —
Come gli sembreranno lunghe le ultime ore della sua prigionìa. Credete
possibile la sua liberazione?...

— Sì....

— E troverò colà anche Kalani?...

— So che qualche volta dorme nel recinto sacro, ma non sempre però.

— Si trova in città ora?

— È tornato quest’oggi, dopo d’aver raccolti gli schiavi destinati alla
festa di domani.

— Di domani hai detto?

— Sì, Geletè ha paura ad indugiare. Anche ieri notte la terra ha
tremato e ciò indica che i suoi avi sono malcontenti di lui e che
reclamano nuove offerte di vittime umane. Questa sera si prepareranno
le grandi piattaforme pel getto delle ceste.

— Canaglie, — brontolò Antao.

— Ma dove potrò assalire Kalani?... — chiese Alfredo.

— Ti consiglierei di sorprenderlo a casa sua. Domani sera tutti
saranno ubriachi, anche le sue guardie e potremo introdurci nella sua
abitazione con maggior facilità e ucciderlo.

— È lontana la casa di Kalani?...

— È situata nel _salam_ vicino.

— Allora è necessario che tu non ci abbandoni più per poterci guidare.

— Rimarrò qui e vi attenderò.

— Padrone, — disse in quel momento Gamani, che vegliava presso la porta
della capanna. — Un gran _moce_, scortato da un drappello d’amazzoni,
si dirige a questa volta.

— Cosa vorrà il re da noi?... — chiese Alfredo, aggrottando la fronte.

— Vi manderà l’invito per le feste di domani, — disse il vecchio negro.

Il gran _moce_, giunto dinanzi alla capanna, ordinò alle amazzoni di
salutare militarmente i due ambasciatori che si erano affrettati ad
uscire, poi disse:

— In nome di S. M. Geletè e del principe Behanzin-Aidjeri, invito gli
ambasciatori della potente nazione del Borgu alla festa dei _grandi
costumi_ che avrà luogo domani, dopo i sacrifici notturni. I principi
del Borgu avranno un posto d’onore.

— Grazie, — rispose asciuttamente Alfredo, mentre Antao, dopo udita la
traduzione, aggiungeva:

— Che il diavolo impicchi quell’antropofago di Geletè e tutti i suoi
abominevoli satelliti, per tutti i pianeti del cielo! Se qualcuno vi
piombasse sul cranio, sarebbe un gran bravo pianeta!... —




CAPITOLO XXX.

Le stragi della «festa dei costumi»


Quella notte i due europei ed i loro uomini, non furono capaci di
chiudere gli occhi un solo momento.

Bande di soldati giungevano ad ogni istante sulla vasta piazza,
spingendosi innanzi, fra grida, minaccie e bastonate gli schiavi
destinati ai sacrifici orrendi dell’indomani e facendo salve a polvere
per annunciare agli spiriti irritati dei monarchi, che Geletè si
preparava a mantenere la promessa.

Dietro ai soldati venivano turbe di negri accorsi da tutti i vicini
villaggi, per prendere parte alla distribuzione di vesti e di liquori
che suole fare la corte reale in quelle atroci circostanze.

Quei negri chiassosi, già mezzi ebbri di birra di sorgo, si accalcavano
dinanzi alle due enormi piattaforme che sorgevano ai due lati della
porta principale del palazzo del re, onde essere i primi a decapitare
le sciagurate vittime che dovevano essere gettate sulla piazza.

Prima della mezzanotte fra soldati, amazzoni e abitanti vi erano almeno
ventimila persone stipate sulla piazza, in attesa dello spuntare del
sole, momento indicato pel principio delle esecuzioni pubbliche.

Diciamo pubbliche, poichè nel palazzo reale dovevano essere già
cominciate quelle private che si fanno ordinariamente di notte.
Infatti, fra tutti quei clamori, dalle numerose finestre dell’enorme
palazzo, di quando in quando uscivano delle urla acute, strazianti,
che facevano fremere di sdegno Alfredo e andare in furia l’ottimo
portoghese, il quale si sfogava distribuendo legnate all’impazzata ai
negri che si pigiavano contro le pareti della capanna.

— Stupidi!... — gridava il brav’uomo, dimenticandosi di dover fingersi
muto. — Scannano i vostri fratelli e voi applaudite!... Meritereste la
forca degli schiavi, canaglie!... —

Fortunatamente la sua voce veniva coperta da quei clamori sempre più
assordanti e ben pochi facevano caso a lui. Tutt’al più si tiravano da
una parte guardando, con stupore, quell’indemoniato che picchiava con
un vigore non comune e con un’abbondanza straordinaria.

Alfredo, suo malgrado, dovette intervenire per frenare il bollente
amico, temendo che nei dintorni della capanna si aggirasse qualche spia
del re incaricata di sorvegliare il contegno degli ambasciatori.

Quando l’alba spuntò, la vasta piazza era completamente stipata. Una
moltitudine di braccia armate di coltellacci i quali dovevano servire
per decapitare le povere vittime della superstizione, si agitava
burrascosamente.

Quei negri sanguinari chiedevano, con urla formidabili, con scoppi di
veri ruggiti, il principio delle esecuzioni.

— Morte di tutti i pianeti!... — esclamò Antao, che dall’alto d’una
cassa, spingeva gli sguardi su quelle masse tumultuanti. — Ma questi
non sono esseri umani, sono dei leoni in furore assetati di sangue!...
Ci vorrebbe qui il mio amico Conshelloz con la sua batteria di cannoni
per mitragliare a dovere questi negracci. Ma dov’è quel gaglioffo di
Geletè, il gran beccaio ed i suoi aiutanti?...

— Comparirà presto, — rispose Alfredo che si teneva al suo fianco.
— Vedo che le amazzoni si sono disposte in forma d’immenso triangolo
dinanzi al palazzo e ciò indica che Geletè sta per venire.

— E noi, rimarremo qui?...

— Verranno ad offrirci un posto d’onore.

— Io lo rifiuterò. Non posso assistere tranquillo a questi massacri.

— Ti guarderai bene dal rifiutare un invito del re, Antao. Una risposta
negativa o scortese, equivarrebbe alla perdita della nostra vita.

— Siamo ambasciatori.

— Ma nelle mani del più feroce e del meno scrupoloso dei monarchi
africani. Guarda!...

— Cosa vedi?...

— Un drappello d’amazzoni guidato da un corriere del re, che si avanza
verso la nostra capanna.

— Vengono a prenderci?

— Sì, Antao.

— E dovremo accettare l’invito!

— È necessario, Antao, — rispose Alfredo, con voce grave.

— E Kalani?...

— Spero che non ci riconoscerà.

— Lo troveremo presso Geletè?...

— Lo temo. Hai le pistole?.

— Le ho nascoste sotto la giacca.

— Sii pronto a tutto: stiamo per giuocare una carta terribile.

— Morte di Nettuno!...

— Sii calmo, amico.

— Lo sarò, te lo prometto, Alfredo.

— Te lo domando pel mio Bruno, — disse il cacciatore, con voce commossa.

Il portoghese gli prese la destra e gliela strinse in silenzio.

In quel momento il corriere del re e le amazzoni erano giunti dinanzi
alla capanna. Come Alfredo aveva previsto, venivano ad invitare i
principi del Borgu, in nome del re, affinchè assistessero alla grande
cerimonia in onore dei defunti monarchi del Dahomey.

Ad un cenno del cacciatore, Urada e Gamani aprirono i due grandi
ombrelli, mentre i due dahomeni si collocavano dietro i due
ambasciatori portando in ispalla i fucili, ma col calcio in aria e la
bocca verso terra.

Le amazzoni formarono un cerchio attorno a loro e l’ambasciata
attraversò la piazza lentamente, aprendosi faticosamente il passo fra
la folla che si accalcava sul suo passaggio.

Giunta dinanzi ad una delle due grandi piattaforme, il corriere del re
condusse Alfredo ed il seguito sulla più elevata, facendoli accomodare
su di alcuni scanni che erano coperti di pelli di leone, poi si coricò
dinanzi a loro come per far comprendere alla folla che quelle persone
erano sotto la protezione del potente e temuto monarca.

Intorno ai due ambasciatori ed ai loro servi si erano intanto seduti,
ma ad una certa distanza, i grandi dignitari del regno, cabeceri
insigniti di una, due, tre e perfino quattro code di cavallo, gran moci
e comandanti di truppe.

Alfredo ed il portoghese avevano gettato un rapido sguardo su tutti
quei negri impettiti e orgogliosi, che si pavoneggiavano nelle loro
larghe e variopinte vesti ricamate d’oro, credendo di scorgere fra di
loro Kalani, ma non lo videro.

— Meglio così, — disse Alfredo a voce bassa, rivolgendosi ad Antao.

— Che sia col re? — chiese questi.

— Lo credo.

— Allora ci sarà lontano.

— Lo vedremo sull’altra piattaforma. Il posto del re è là, poichè vedo
che stanno aprendo il grande parasole reale.

— È una vera cupola; i nostri fanno una ben meschina figura nel
paragone. —

Alcuni _cabeceri_, aiutati da una mezza dozzina di negri, avevano
portato l’ombrello reale e l’avevano aperto per riparare dagli ardenti
raggi del sole S. M. negra.

Era di dimensioni veramente gigantesche, di stoffa rossa con frange
bianche e su di un lato si vedeva dipinto un mostruoso coccodrillo
colle mascelle aperte, lo stemma della casa reale del Dahomey.

Quasi subito i clamori della folla si spensero ed un silenzio profondo,
che aveva un non so che di pauroso, successe come per incanto.

— Cosa sta per succedere? — chiese Antao ad Alfredo.

— Sta per comparire il re, — rispose il cacciatore.

— Il gran macellaio!...

— Taci, imprudente. —

Una porta aperta nella grossa parete della cinta e che comunicava colla
piattaforma si era aperta e S. M. negra era comparsa, seguìta da una
dozzina di _cabeceri_ e di _gran moci_ e da uno stuolo di stregoni e
di guardiani dei templi, recanti i feticci prediletti di Geletè, dei
mostri di creta dorata che avevano le bocche aperte, dei serpenti pure
di creta dorata di dimensioni enormi e certi fantocci che volevano
rassomigliare ad esseri umani ma che invece del capo avevano dei becchi
d’uccelli di rapina.

Il feroce monarca aveva il viso quasi interamente nascosto da una
specie di turbante di seta verde ricamata in oro ed il corpo avvolto in
un ampio mantello di seta bianca, stretto alla cintura da una fascia di
lamine d’oro.

Si tenne un momento ritto in mezzo alla piattaforma, guardando la folla
che stipava la piazza, poi si sedette su di un gran seggiolone coperto
da un arazzo giallo, mentre ai suoi piedi, si sdraiava, su di un
cuscino, Behanzin, il futuro re del Dahomey ed anche l’ultimo.

Ad un tratto Alfredo, che teneva gli sguardi fissi sul palco reale,
strinse fortemente un braccio d’Antao.

— Cos’hai? — gli chiese il portoghese, stupito.

— Guardalo!...

— Chi?... Il re?...

— No, Kalani!... — rispose Alfredo, coi denti stretti.

Un negro d’alta statura, coperto da un ampio mantello di cotone
bianco adorno di serpentelli dipinti in rosso e col capo irto di penne
d’uccelli di rapina, si era avanzato fino all’orlo della piattaforma.

Era un uomo dai lineamenti arditi, dallo sguardo vivo, penetrante,
intelligente e dalla carnagione assai cupa. Si capiva anche a prima
vista che non apparteneva alla razza dahomena, ma si capiva pure che
quel negro doveva possedere una energia ben superiore ai suoi snervati
compatrioti delle regioni del sud. La sua voce, potente come quella
d’un leone, echeggiò nella vasta piazza, dominando il fracasso della
banda reale e le grida degli _ahpolos_ celebranti le truci imprese del
sanguinario monarca.

Kalani invitava i capi tribù ed i capi dei _salam_, ossia dei quartieri
delle varie città dei Dahomey, a deporre ai piedi del re il dono cui
erano obbligati ad offrire in segno di sudditanza.

Tosto Alfredo ed Antao, dal loro elevato posto, videro avanzarsi
attraverso la piazza, strisciando nella polvere come tanti serpenti,
oltre cento negri, ognuno dei quali portava seco un sacchetto di tela
contenente il dono.

Salirono, sempre strisciando e tenendo la testa china al suolo, come se
fosse loro vietato di guardare in viso il monarca, le gradinate della
vasta piattaforma e andarono a deporre le offerte dinanzi al trono,
ritirandosi poi dietro ai _cabeceri_, ai _moci_ ed ai guardiani del
tempio.

Kalani aveva ripresa la parola, rivolgendosi alla popolazione ed alle
amazzoni schierate dinanzi alle due piattaforme. Parlava con aria
da ispirato, cogli sguardi fissi sul sole che allora si mostrava, in
tutto il suo splendore, sugli ultimi altipiani. Avvertiva gli abitanti
dei Dahomey delle lagnanze dei defunti monarchi per la scarsità dei
sacrifici umani, delle loro tremende minaccie di mandare a soqquadro il
regno e della decisione presa dal potentissimo Geletè di raddoppiare
il numero delle vittime onde calmare gli sdegni dei fondatori della
dinastia, e quindi la necessità d’intraprendere altre guerre coi popoli
vicini per avere un gran numero di prigionieri da macellare. Terminò
promettendo, in nome del re, una grande spedizione guerresca nei paesi
dei Krepi e dei Togo e contro gli Jesa di Ckiadan, da intraprendersi
dopo i raccolti.

Poco dopo, mentre il sanguinario capo dei sacerdoti si rinvigoriva lo
stomaco tracannando una mezza bottiglia di ginepro, datagli dal re, le
amazzoni allargavano le loro file per lasciare uno spazio sufficiente
alle esecuzioni.

Venti schiavi, tutti uomini, colla testa adorna di penne d’uccelli
e le braccia e le gambe coperte di numerosissimi anelli di rame,
furono condotti sulla piazza. Quei disgraziati erano tutti capi di
tribù, fatti prigionieri un mese innanzi al di là del Mono. Parevano
rassegnati al loro triste destino, poichè non opponevano alcuna
resistenza ai soldati che li spingevano verso la piattaforma reale,
anzi mostravano una calma ammirabile.

Quei venti capi erano destinati a recarsi dai defunti monarchi del
Dahomey per avvertirli, che d’ora innanzi, Geletè avrebbe meglio
osservate le feste dei _grandi costumi_ e che avrebbe sacrificato un
maggior numero di vittime.

Prima che se ne andassero all’altro mondo a trovare i defunti, il
re ordinò che si rinvigorissero con un bicchiere di ginepro e che
si consegnasse a loro una fila di _cauris_ (circa lire 2,50) per
provvedersi di che mangiare lungo il viaggio ed una bottiglia di _rhum_
di tratta per dissetarsi, poi fece cenno al carnefice di cominciare le
esecuzioni.

Fu l’affare di pochi istanti. Il gran giustiziere del re, un negro
gigantesco che doveva essere dotato d’una forza prodigiosa, in pochi
istanti, colla sua larga e affilatissima sciabola, aveva fatto cadere
al suolo le venti teste.

Antao nauseato, aveva fatto atto d’alzarsi per prorompere forse in
invettive contro il sanguinario re, a rischio di compromettere la
propria vita e quella dei compagni, ma Alfredo, con un gesto imperioso,
l’aveva costretto a riprendere subito il suo posto.

— Un gesto solo basta per perderci tutti, — gli mormorò all’orecchio. —
Se vuoi farci assassinare, alzati e parla.

— Non commetterò mai simile imprudenza, Alfredo, — rispose il
portoghese, — ma queste atroci esecuzioni mi fanno diventare idrofobo.

— E credi che io sia tranquillo?... Darei dieci anni di vita per
balzare alla gola di Geletè e di quella canaglia di Kalani. Queste
scene mi fanno orrore, eppure sono costretto a frenarmi per salvare la
nostra vita e quella del piccolo Bruno.

— Non mi muoverò, Alfredo. —

Intanto i sacrifici in grande erano cominciati dinanzi alla piattaforma
reale. Dopo la decapitazione di quei venti capi, erano stati
sacrificati sessanta buoi, dodici cavalli ed un coccodrillo, poi una
banda di sessanta negri fra uomini e donne.

Il sangue che usciva da quell’ammasso di corpi, scorreva per la piazza,
arrossando i piedi di quelle migliaia di spettatori, mentre un odore
nauseante si espandeva in aria, quell’acre odore che si sente nei
macelli.

Il popolaccio ed i soldati applaudivano freneticamente l’abilità
del gigantesco carnefice e guazzavano in mezzo a quel sangue come
se fossero diventati tigri. Con urla spaventevoli, reclamavano nuovi
sacrifici per placare gli spiriti irritati dei defunti monarchi.

Geletè non si faceva pregare. Ad un suo ordine nuove truppe di schiavi
terrorizzati venivano spinti, a legnate, a pugni, a calci, in mezzo
al vasto triangolo formato dalle amazzoni e nuove teste rotolavano a
destra ed a manca.

Al grande giustiziere del re si erano uniti altri due carnefici e le
pesanti ed affilate lame cadevano senza misericordia, mietendo le file
di quei disgraziati prigionieri di guerra, mentre altri, forse gli
aiutanti, raccoglievano le teste formando ai due lati della piattaforma
due orribili piramidi.

Ad un tratto si fece un profondo silenzio. Sulla cima delle muraglie
del palazzo reale erano saliti dei robusti soldati portando delle
grandi ceste, specie di panieri che avevano una sola apertura dalla
quale si vedeva uscire una testa umana.

In ognuna di quelle ceste era stato rinchiuso un povero negro,
destinato a soddisfare le brame sanguinarie del popolo.

— Gran Dio?... — esclamò Antao, inorridito. Cosa sta per succedere?...

— Il re sta per lanciare i suoi regali al popolaccio, — rispose Alfredo.

— Dei regali viventi che quelle canaglie si affretteranno a fare a
brani.

— A decapitare, Antao, poichè ogni testa si può cambiare con una
bottiglia di rhum o di ginepro o una fila di cauris. Sarà l’ultimo
sacrificio per oggi. —

I soldati intanto avevano deposti sul margine del muraglione quelle
cinquanta o sessanta ceste. Le vittime che vi stavano rinchiuse
dimenavano disperatamente la testa e mandavano urla di terrore, ma si
trovavano nell’assoluta impossibilità di reagire, avendo le braccia e
le gambe strettamente imprigionate.

Ad un cenno di Kalani tutti quei panieri furono precipitati nel vuoto,
schiacciandosi contro le pietre della piazza. Allora accadde una scena
mostruosa. La folla, come se fosse improvvisamente impazzita, si era
scagliata con impeto irresistibile su quelle ceste. Quei truci negri
avevano impugnati i loro coltellacci e si disputavano ferocemente
le teste delle vittime che per loro rappresentavano una solenne
ubriacatura.

In pochi istanti i panieri furono sventrati, i poveri schiavi, vivi
o moribondi o morti in causa della caduta, furono strappati fuori e
decapitati e le teste sanguinanti furono tosto cambiate contro file di
cauris e bottiglie di ginepro o di rhum di tratta.

Era il segnale dell’orgia. Dalla piattaforma reale Geletè, Kalani, i
_cabeceri_ ed i _moci_ gettavano sul popolo, per vedersele disputare,
pezze di tela, file di cauris e bottiglie di liquori, mentre sulle
piattaforme venivano portate casse di bottiglie di ginepro.

Il re, i suoi ministri, i cortigiani, i soldati ed il popolo si
ubriacavano per chiudere solennemente la prima giornata della _festa
dei costumi_, mentre sulla piazza sanguinante si dibattevano, fra le
ultime convulsioni, le vittime.....

   [Illustrazione: Il carnefice aveva fatto cadere al suolo le
   venti teste. (Pag. 222).]




CAPITOLO XXXI.

La spedizione notturna


Era calata la notte da qualche ora, ma la capitale del Dahomey era
ancora in orgia.

Sulla grande piazza ove erano state scannate tante vittime, e nelle vie
adiacenti, la folla beveva e danzava furiosamente attorno a dei falò
giganteschi, al suono dei più barbari e più strani istrumenti che si
possa immaginare.

La birra di sorgo, il ginepro ed il rhum di tratta scorrevano a fiumi,
ma quegli insaziabili bevitori non ne avevamo mai abbastanza. Vuotati
dei barili, altri se ne portavano accanto ai fuochi, e danzatori e
suonatori ricominciavano la gazzarra.

Dovunque si udivano a echeggiare urla, spari d’armi da fuoco e dovunque
scoppiavano risse furibonde che terminavano a colpi di coltello, di
lancia o di fucile, ma chi si occupava dei morti?... Era molto se
lasciavano ancora in vita i feriti.

Nell’ampio palazzo reale l’orgia doveva aver raggiunto il colmo.
Tutte le strette finestre, che avevano l’aspetto di feritoie, erano
illuminate e da quelle uscivano pure urla e canti di gente già ebbra
e spari d’armi. Di tratto in tratto delle palle uscivano e sibilavano
per la piazza abbattendo qualche negro e qualcuna delle amazzoni che
intrecciavano danze dinanzi alle piattaforme.

Era Geletè che si divertiva a mandare quei pericolosi regali ai suoi
fedelissimi sudditi o che provava qualche nuovo fucile, ricevuto in
regalo dai capi della costa.

Mentre la popolazione tutta della capitale, il re, i ministri,
i soldati e le amazzoni continuavano la gazzarra con crescente
animazione, una piccola truppa d’uomini, che era uscita quasi di
nascosto dall’_apatam_ dell’ambasciata, attraversava rapidamente le vie
meno frequentate e meno illuminate, tenendosi rasente le pareti delle
capanne.

Era composta d’Alfredo, d’Antao, di Gamani, dell’amazzone e di suo
padre. Nessuno portava lo splendido costume dei borgani, ma tutti erano
armati di fucili.

Chi li avesse veduti, avrebbe potuto crederli un piccolo gruppo di
soldati del re incaricati di mantenere l’ordine nei quartieri più
lontani della città o di eseguire qualche segreta missione.

Passarono dinanzi a parecchi falò, senza rispondere all’invito dei
bevitori e delle danzatrici di arrestarsi per vuotare un bicchierino
e scomparvero fra un dedalo di viuzze oscure e assolutamente deserte,
arrestandosi in una piccola piazza coperta da sette od otto gigantesche
palme.

— Ci siamo, — aveva detto il padre di Urada, arrestandosi, in un luogo
dove maggiore era l’oscurità.

— Dove si trova?... — chiese Alfredo, con una viva emozione.

— Dietro a quella muraglia, — rispose il dahomeno, indicando un’alta
e massiccia parete che univa le grandi capanne occupanti i due angoli
della piazza.

— Sei certo di non ingannarti?

— Oh!... Certissimo.

— I sacerdoti veglieranno però nella stanza del mio Bruno!...

— Stanno gozzovigliando nella capanna centrale che contiene i feticci
più pregiati ed a quest’ora saranno tutti ubriachi, avendo io veduto
introdurre nel recinto due casse piene di bottiglie di ginepro mandate
dal re.

— Sì, — disse Gamani, che aveva osservata attentamente la muraglia.
— Il padroncino deve trovarsi dietro a questa cinta, nella piccola
capanna sacra.

— Allora andiamo a torcere il collo ai sacerdoti ed a liberare il
ragazzo, — disse Antao. — Mi vendicherò su quelle canaglie delle
terribili emozioni fattemi provare quest’oggi dal gran macellaio Geletè
I.

— Sì, affrettiamoci, — rispose Alfredo. — Finchè dura l’orgia della
popolazione non abbiamo da temere di venire importunati, ma è meglio
sbrigarsi presto. Hai la fune, Gamani?...

— Sì, padrone.

— Sei capace di giungere sulle muraglia?...

— Sì, purchè abbia un punto d’appoggio qualunque.

— L’avrai. —

Si appoggiò contro la parete piantandosi per bene sulle gambe e
inarcando la robusta schiena, poi disse ad Antao:

— Sali che io non cederò. —

Il portoghese, con un solo slancio, si trovò sulle spalle dell’amico.

— Ci sono, — disse.

— Manca molto alla cima?...

— Meno di due metri, Alfredo.

— Tocca a te, Gamani. —

Il negro, agile e lesto come tutti quelli della sua razza, s’arrampicò
rapidamente su quei due corpi, posò i piedi sulle spalle del
portoghese, poi si slanciò in alto aggrappandosi all’orlo superiore
della muraglia.

Issarvisi sopra, mettersi a cavalcioni, sciogliere la fune a nodi che
portava stretta attorno al corpo e gettare un capo ai compagni, fu
l’affare di un solo momento.

Alfredo fu pronto a salire ed a raggiungerlo, gettando uno sguardo
nell’interno della cinta.

Quantunque l’oscurità fosse profonda, vide delle palme che formavano
dei grandi gruppi, parecchie grandi capanne disposte in semi-cerchio ed
alcune più piccole che stavano disseminate lungo le muraglie.

Tutte quelle abitazioni erano oscure e parevano disabitate, ma una, la
più vasta e la più lontana, era illuminata ed anche abitata, poichè vi
si sentivano voci rauche, grida, scrosci di risa e canti.

— Sono i sacerdoti che vuotano le bottiglie del re, — disse Gamani ad
Alfredo. — Credo che non ci daranno alcun disturbo.

— E la capanna abitata da Bruno?... La vedi, Gamani?... — chiese
Alfredo, con ansietà.

— È quella laggiù, — rispose il negro, indicandogli una piccola
costruzione, col tetto piatto, che si rizzava fra quattro grandi
sicomori. — La riconoscerei fra mille.

— Ah!... È là, il povero ragazzo!... E forse ci aspetta da
parecchie notti e chissà fra quali ansie!... Ma noi questa notte lo
salveremo. —

Intanto Antao, Urada e suo padre, dopo d’aver fatto il giro della
piazza per essere certi di non essere stati spiati, li avevano
raggiunti.

Gamani lanciò la fune dall’altra parte della muraglia e pel primo si
calò nel recinto, nascondendosi sotto la cupa ombra d’un albero di
dimensioni gigantesche. Alfredo e tutti gli altri, nel più profondo
silenzio, lo seguirono.

— Finalmente!... — mormorò Antao, che non poteva stare zitto due
minuti. — Se quei beoni non lasciano le bottiglie, rapiremo il nostro
piccolo Bruno. Che bella sorpresa per Kalani!... Creperà di rabbia.

— Non gli rimarrà il tempo, — disse Alfredo, con voce sorda. — Dopo
Bruno mi occuperò di lui. Guidaci, Gamani.

— Perlustriamo prima i dintorni, — consigliò il padre di Urada. — Se
qualche sacerdote ci scorge darà l’allarme ed allora più nessuno di noi
uscirebbe vivo di qui.

— Quanti sacerdoti vi sono nel recinto?... — chiese Alfredo.

— Ordinariamente ve n’erano dodici, — rispose Gamani.

— Anche se ci sorprendono, non saranno tanti da darci dei fastidi.

— Tanto più che saranno ubriachi, — aggiunse Antao.

— Andiamo a perlustrare il recinto, Gamani, — disse Alfredo. — Questo
luogo ti è famigliare?

— Sì, padrone, — rispose il negro.

— Voi ci aspetterete qui, — continuò il cacciatore, rivolgendosi ad
Antao, Urada ed al vecchio. — Sorveglierete la fune affinchè non ci
venga tagliata la ritirata.

— Nessuno si avvicinerà senza il mio consenso, — disse il portoghese. —
Morte di Giove!... Il primo che mi capita fra i piedi lo mando a tener
compagnia ai defunti monarchi di questa grande macelleria.

— Silenzio ed aprite gli occhi. —

Alfredo e Gamani abbandonarono l’ombra cupa delle palme e tenendosi
nascosti dietro ad un filare di cespugli, si diressero verso la capanna
principale, dalle cui finestre, che erano assai basse, si poteva vedere
comodamente quanto succedeva nell’interno.

Procedevano cauti, tenendosi curvi verso terra e girando dovunque gli
sguardi per timore che vi fosse qualche sacerdote in sentinella dinanzi
alle capanne contenenti i _feticci_, ma pareva che per quella notte
i guardiani del sacro recinto si occupassero più delle bottiglie di
ginepro regalate dal re che delle divinità protettrici del regno.

Giunti presso la grande capanna, Alfredo e Gamani, dopo essersi
assicurati che al di fuori non vi era alcuno, guardarono cautamente
attraverso una finestra. Alla luce d’una lampada fumosa, che spandeva
all’intorno dei riflessi sanguigni, scorsero sette od otto negri adorni
d’orpelli d’ogni specie, sdraiati attorno ad una stuoia, mentre altri
tre o quattro, probabilmente ubriachi, russavano in un angolo della
stanza.

Quei sacerdoti trincavano allegramente le bottiglie del re, ridendo
e schiamazzando. Dovevano averne bevute già parecchie, poichè non
erano più in grado di mantenersi ritti e di quando in quando cadevano
sconciamente a terra, non risollevandosi che dopo molte fatiche.

— Bah!... — disse Alfredo a Gamani. — Questi ubriachi non sono più
in caso di opporre resistenza e non ci saranno d’impiccio. Ci sono
tutti?...

— Mi sembra che non manchi alcuno, — rispose il negro.

— Allora affrettiamoci a salvare il mio Bruno. —

Tornarono rapidamente verso i compagni informandoli del felice esito
della loro perlustrazione e certi di non venire inquietati da quegli
ubriaconi, si diressero senz’altro verso una piccola capanna, entro la
quale doveva trovarsi il ragazzo.

La capannuccia era chiusa da una specie di cancello coperto da stuoie,
che impediva di vedere nell’interno, ma Alfredo, che in quel momento
decisivo si sentiva tanto forte da sfondare una parete, con uno strappo
violento lo scardinò, gettandolo a terra.

Senza attendere che Gamani accendesse la lanterna che aveva portato con
sè, il cacciatore si slanciò nell’interno, chiamando:

— Bruno!... Bruno!... Svegliati!... Siamo noi!... —

Invece di udire la ben nota voce del fratello, udì una voce minacciosa
che chiedeva:

— Chi viene a disturbare Ahantu?...

— Morte di Urano e di Nettuno!... — esclamò Antao. — Chi è che ha
parlato?... —

Alfredo si era arrestato come fosse stato fulminato, ma il suo stupore
fu però di breve durata. Strappò a Gamani la lanterna, impugnò una
pistola e s’avanzò risolutamente nella capanna coll’arma tesa, pronto
ad abbattere qualsiasi ostacolo.

Un negro, col capo coperto di penne d’uccelli di rapina ed il corpo
avvolto in un ampio mantello di cotonina rossa a disegni strani che
somigliavano a teschi di morto incrociati con ossa umane, si era
bruscamente alzato da un lettuccio formato da stuoie sovrapposte.

Nella destra teneva uno di quei lunghi e larghi coltellacci usati dai
dahomeni.

Vedendo entrare quegli sconosciuti, con un balzo repentino si gettò in
fondo alla capanna sfondando, con un urto irresistibile, la leggiera
parete di vimini e si slanciò all’aperto fuggendo attraverso i viali
del recinto e urlando con quanta voce aveva.

Alfredo, Antao e Gamani, passato il primo istante di stupore, gli si
erano lanciati dietro minacciando di ucciderlo se non si arrestava,
ma il negro, che pareva fosse impazzito per lo spavento, continuava a
fuggire come un cervo, girando e rigirando attorno alle capanne ed ai
tronchi degli alberi.

— Fermati, non vogliamo farti male!... — gridavano Alfredo e Gamani,
mentre il portoghese, furibondo, giurava su tutti i pianeti di
scorticarlo vivo se non cessava dall’urlare.

Finalmente, dopo una lunga corsa, il sacerdote si cacciò in una
capanna. I due bianchi e Gamani credettero di poterlo raggiungere
e costringerlo al silenzio, ma si erano ingannati, poichè
quell’indemoniato aveva già dato l’allarme e che allarme fragoroso!...
Armatosi d’una specie di mazza, si era messo a percuotere, con una foga
diabolica, una grande lastra di metallo che pendeva dal tetto della
capanna, facendo un tale fracasso da svegliare anche un ubriaco. Pareva
che tuonassero dei piccoli pezzi d’artiglieria.

Gamani, con un pugno poderoso, aveva mandato a gambe levate
quell’ostinato, ma ormai tutti gli abitanti del recinto e dei dintorni
dovevano aver udito quella campana di nuova specie.

— Siamo presi!... — aveva esclamato Antao, impallidendo. — Ma prima
scorticherò vivo questo birbante!...

— Non ci hanno ancora in mano, — disse Alfredo. — Prima che gli
abitanti siano qui, noi avremo superata la muraglia. Gamani, lega ben
bene quest’uomo.

— È già legato, padrone, — rispose il negro. — Credo anzi che non si
muoverà per un bel po’, poichè non dà segno di vita.

— Meglio così: orsù, in ritirata.

— E Bruno?... — chiese Antao.

— Andiamo a frugare le capanne prima, ma temo che non si trovi più
qui. Forse Kalani l’avrà condotto seco, ma lo ritroveremo Antao, non
dubitare o meglio li troveremo tutti e due. —

Abbandonarono precipitosamente la capanna e si slanciarono attraverso
ai viali. Avevano veduti alcuni lumi dalla parte opposta del recinto e
s’affrettavano, per tema di venire sorpresi dai sacerdoti che stavano
vuotando le bottiglie del re.

Ai piedi della muraglia s’incontrarono con Urada e suo padre. Un breve
e rapido dialogo s’impegnò fra il vecchio ed Alfredo.

— Nulla?...

— Nulla; il ragazzo è scomparso. Credi che si trovi da Kalani?

— Lo sospetto, — rispose il vecchio.

— Come potremo saperlo?...

— Interrogando uno dei sacerdoti.

— Ma è stato dato l’allarme.

— Portiamone via uno e andiamo ad interrogarlo in un posto sicuro.

— Hai ragione: a me Gamani!... Vieni Antao!... Voialtri salite intanto
sulla muraglia. —

Stava per slanciarsi attraverso ai viali per piombare addosso ai
sacerdoti che erano già usciti dalla capanna e che s’avanzavano fra le
piante, tentennando e sorreggendosi l’un l’altro per mantenersi un po’
ritti, quando Urada lo trattenne, dicendogli:

— Odi, padrone?... —

Alfredo ed i suoi compagni si erano arrestati. Al di là della muraglia
si udivano delle persone a schiamazzare ed interrogarsi reciprocamente.

— Hanno dato l’allarme, — dicevano alcune voci.

— Che sia scoppiato il fuoco?...

— Che i sacerdoti corrano qualche pericolo?...

— Che i feticci sieno sdegnati pei sacrifici di quest’oggi?...

— Bisogna andare a vedere.

— Andate ad avvertire i soldati.

— Morte di papà Giove e di tutti i suoi figli!... — esclamò Antao,
rabbrividendo. — Vedo la mia testa nelle mani dei macellai di
Geletè!...

— Non è ancora perduta la nostra testa, — disse Alfredo, con voce
risoluta. — Nè Kalani, nè Geletè ci avranno così facilmente nelle loro
mani. —

Poi volgendosi verso Gamani:

— È tutto chiuso il recinto?...

— Vi è una sola porta che di notte si chiude.

— Ebbene, seguitemi.

— Ma cosa vuoi fare, Alfredo? — chiese Antao.

— Lo saprai. Per ora sgominiamo i sacerdoti. —




CAPITOLO XXXII.

L’incendio del recinto sacro


I guardiani dei feticci, strappati alle loro libazioni dallo
spaventevole fracasso prodotto dal loro compagno, si erano affrettati
a lasciare la capanna per vedere di che cosa si trattava, ma non erano
usciti tutti. Cinque di loro, probabilmente incapaci di tenersi in
piedi per aver voluto fare troppo onore alle bottiglie del re, erano
rimasti sdraiati sulle stuoie e forse si erano subito riaddormentati.

D’altronde nemmeno quelli che si erano risoluti ad uscire, si trovavano
in migliori condizioni, poichè s’avanzavano attraverso i viali
puntellandosi gli uni cogli altri e descrivendo delle serpentine molto
accentuate. Qualcuno anzi era già caduto fracassando la lanterna che
portava e si arrabattava, ma invano, per rimettersi in piedi.

Alfredo, Antao e Gamani incontratisi con quei sette od otto ubriachi,
li caricarono con impeto irresistibile, tempestando a destra ed a manca
pugni formidabili che risuonavano come colpi di gran cassa su quelle
teste lanute.

Bastarono cinque secondi per mandare a gambe levate i sacerdoti di
Geletè; i pugni avevano completato gli effetti troppo alcoolici delle
bottiglie reali.

— Morte di Nettuno!... — esclamò Antao, quando li vide tutti a terra
e nell’assoluta impossibilità di fare un movimento, tanto li avevano
storditi quella scarica di scapaccioni. — Cosa facciamo ora di questi
ubriachi?... —

Alfredo, invece di rispondere, s’abbassò rapidamente su quell’ammasso
di corpi, afferrò un braccio e tirò fuori il più piccolo ed il più
magro di tutti. Era un negro assai giovane, poco più d’un ragazzo.

— Tieni questo, Gamani, — disse al servo — e non lasciarlo finchè te lo
dirò io. Deve venire con noi.

— Nessuno me lo strapperà di mano, padrone.

— Ora spogliamo questi sacerdoti e copriamoci coi loro mantelli.

— Noi?... — chiese Antao, stupito.

— Zitti!... Affrettiamoci, se vi preme la pelle. —

In meno di mezzo minuto i sacerdoti furono spogliati e le loro vesti ed
i loro orpelli furono indossati dai due bianchi e dai loro compagni.

Avevano appena terminato di camuffarsi, quando udirono picchiare
furiosamente al portone della cinta. Pareva che una vera folla
si pigiasse al di fuori, attirata dalla campana d’allarme di quel
malaugurato negro.

— Aprite!... — si urlava.

— Sono giunti i soldati!...

— Spicciatevi!...

— Sangue di Urano!... — esclamò Antao, impallidendo. — I soldati!...
Povere le nostre teste!...

— Silenzio, — ripetè Alfredo. — Agite senza perdere tempo!... —

Poi volgendosi verso il padre di Urada ed alla ragazza, disse
rapidamente:

— Entrate in qualcuna di quelle capanne e portate qui alcuni idoli, i
più venerati possibilmente. —

Poi mentre il vecchio e la giovane s’affrettavano ad obbedire senza
chiedere spiegazione, si volse verso Antao, dicendogli:

— Tu va’ ad incendiare quel gruppo di capanne. Sono costruite di
giunchi e arderanno come zolfanelli.

— E se vi sono dentro dei negri ubriachi?...

— Tanto peggio per loro. Affrettati: stanno per abbattere il portone.
Io intanto vado a mettere fuoco a quella capannuccia. —

Intanto che agivano, la folla, impaziente di non ricevere risposta
dai sacerdoti, temendo forse che fossero stati assassinati o che i
_feticci_ stessero per venire rubati, aveva assalito il portone per
irrompere nella cinta. Picchiava furiosamente, urlava e per spaventare
i supposti ladri o assassini, sparava colpi di fucile.

Fortunatamente il portone, costruito con grosse tavole e rinforzato da
traverse, teneva duro, ma non poteva però opporre una resistenza lunga
a quei continui urti.

Già alcune traverse erano cominciate a cadere, quando i due bianchi ed
i loro compagni si ritrovarono riuniti. Le capanne avevano preso subito
fuoco e le fiamme, trovando un buon elemento, divampavano rapidamente,
lanciando in aria i primi turbini di scintille.

Alfredo s’impadronì d’un _feticcio_, una specie di leone di creta
coperto di carta dorata, Antao d’un mostriciattolo metà uomo e metà
bestia pure coperto di carta dorata, Urada e suo padre di due strani
volatili colla testa da serpente e si slanciarono tutti verso il
portone seguiti da Gamani che teneva ben stretto il suo prigioniero, il
quale doveva figurare come un compagno ferito.

— Gridate più che potete che è scoppiato il fuoco, — disse Alfredo a
Urada ed a suo padre, — e seguitemi senza curarvi della folla. —

In quel momento il portone, sotto un’ultima e più vigorosa spinta,
cadeva al suolo sfasciato. Alfredo ed i suoi compagni si precipitarono
verso la folla atterrita, tenendosi stretti i feticci per nascondere il
viso, mentre Urada, il vecchio e Gamani urlavano a squarciagola:

— Al fuoco!... Al fuoco!... Salvate i _feticci_!... —

I negri, vedendo i loro sacerdoti si ritrassero prontamente da un
lato per lasciarli fuggire e porre in salvo le divinità, poi si
precipitarono confusamente nell’interno del recinto fra clamori
assordanti, cercando di combattere il fuoco che minacciava di
distruggere tutte le capanne sacre.

I falsi sacerdoti, che ridevano in cuore loro della splendida riuscita
della gherminella che li salvava dalle più terribili vendette, appena
si trovarono fuori dalla folla, la quale d’altronde non si occupava
più di loro, si cacciarono in mezzo ad un dedalo di oscure viuzze,
galoppando furiosamente.

Sull’angolo d’una via Antao si sbarazzò del suo mostriciattolo,
mandandolo a frantumarsi contro la porta d’una capanna, mentre Alfredo
faceva volare in un’ortaglia il suo leone, poi il vecchio e Urada si
liberarono pure dei loro volatili frantumandoli contro il tronco d’un
albero. Gamani però si teneva ben stretto il prigioniero, minacciando
di strangolarlo se mandava un solo grido.

Dopo mezz’ora di corsa attraverso a viuzze deserte, a ortaglie e
terrapieni, il vecchio negro, che si era messo alla testa per guidarli,
s’arrestava in un orticello abbandonato, cinto da un’alta siepe e dove
si trovava una capannuccia quasi sventrata, col tetto sfondato.

— Qui non correremo alcun pericolo, — disse. — Quest’abitazione e
quest’orto appartenevano ad un mio parente morto due anni or sono e più
nessuno è venuto ad abitarvi.

— Siamo lontani dal nostro _apatam_? — chiese Alfredo. — Sono inquieto
pei miei uomini.

— In un quarto d’ora possiamo giungervi.

— Desidererei che i due negri ed i cavalli si concentrassero qui.

— Perchè Alfredo? — chiese Antao.

— Per essere più pronti a lasciare la città.

— Ma Bruno?...

— Questa notte lo salveremo.

— E Kalani?...

— Questa notte lo ucciderò.

— Ma se non sappiamo ancora dove si trovano?...

— Ce lo dirà il prigioniero.

— Parlerà?...

— Ve lo costringeremo. Dopo quanto è accaduto questa notte, noi non
possiamo rimanere qui ad aspettare che Geletè si risolva a riceverci.
Un solo sospetto può costare la vita a tutti noi.

— L’ambasciata adunque ha finita la sua missione, — disse il
portoghese, ridendo. — Geletè andrà in furia di vedersi burlato dai
famosi principi del Borgu.

— E ci farà inseguire, Antao, ma mentre i suoi soldati ci cercheranno
verso il nord noi fuggiremo verso l’est e quando avremo attraversato
l’Okpa, potremo ridercene dei furori di Geletè.

— Padrone, se tu lo vuoi, io vado ad avvertire i due schiavi di venire
qui, — disse Gamani.

— No, andrò io, — disse il vecchio negro. — Conosco meglio di tutti
la via e certe scorciatoie deserte per le quali farò passare i cavalli
senza che alcuno s’accorga della fuga dell’ambasciata. Urada basta per
servire d’interprete nell’interrogatorio del sacerdote.

— Allora partite senza indugio, — disse Alfredo. — Sono già le undici e
vorrei, prima dell’alba, trovarmi lontano da Abomey. Questa notte tutti
sono in orgia e ci sarà facile lasciare la città inosservati.

— Fra mezz’ora sarò di ritorno, — concluse il vecchio negro.

Poi aggiunse, con aria misteriosa:

— Chissà?... Posso recare qualche notizia su Kalani. —

Mentre il negro si allontanava, Gamani aveva trascinato il prigioniero
sotto la capanna ed aveva accesa la lanterna che aveva portata con
sè. Il povero sacerdote era più morto che vivo, credendo che i suoi
rapitori si preparassero ad assassinarlo.

Urada, già istruita da Alfredo, aveva subito cominciato
l’interrogatorio.

— Se ti preme salvare la vita, tu parlerai, — gli aveva detto. — Questi
uomini, che sono nemici di Geletè, sono terribili e se ti ostinerai a
tacere ti scorticheranno vivo, mentre se parlerai ti regaleranno tanto
oro da comperare diecimila _cauris_. —

Il giovane sacerdote, udendo parlare d’oro, ebbe un sorriso da ebete,
ma i suoi occhi mandarono un lampo di cupidigia. Come tutti i suoi
compatrioti doveva essere venale.

— Guarda quest’uomo, — continuò Urada, indicando Alfredo che era
allora entrato assieme ad Antao. — È il fratello del ragazzo dalla
pelle bianca, che Kalani teneva prigioniero nel recinto sacro. Mi
comprendi?...

— Sì, — rispose il sacerdote.

— Quest’uomo che non è un negro come ti sembra, ma un bianco, vuole
riavere suo fratello che Kalani gli ha rapito e lo avrà, dovesse
uccidere Geletè e mandare un esercito di europei a distruggere il
Dahomey. Se tu ti ostinerai a tacere e ti rifiuterai ad aiutarlo, fra
un mese Abomey verrà presa d’assalto dagli uomini bianchi e data alle
fiamme.

— Ma sa il re del pericolo che corre il suo regno? — chiese il
sacerdote, con voce tremante.

— Lo saprà domani: intanto comincia tu a parlare, se vuoi risparmiare
al Dahomey questo disastro.

— Cosa devo fare?...

— Dire dove è stato condotto il fanciullo dalla pelle bianca, che fino
a ieri si trovava prigioniero nel sacro recinto.

— Ma io lo so.

— Allora ce lo dirai.

— Si trova nella casa di Kalani.

— Da quando?...

— Da stamane.

— Perchè l’ha condotto nella sua casa?...

— Aveva dei timori. Un negro che veniva dai paesi dei Krepi lo aveva
avvertito che degli uomini bianchi avevano lasciato il regno degli
Ascianti per venire qui a rapire il ragazzo. —

Udendo la traduzione di quelle parole, Antao e Alfredo si erano
guardati in viso con stupore e con inquietudine.

— Chi può averci traditi?... — chiese il portoghese. — Nessuno poteva
sapere che noi eravamo venuti dal paese degli Ascianti.

— Urada, — disse Alfredo, che era in preda ad una viva agitazione. —
Domanda spiegazioni su quel negro. Bisogna sapere chi è quel negro, per
metterci in guardia da questo nuovo e gravissimo pericolo. —

La risposta fu pronta.

— È un negro che aveva seguiti gli uomini bianchi da Porto Novo, —
aveva detto il sacerdote.

— Morte di Saturno!... Ora comprendo tutto!... — esclamò Antao. — È lo
spione che ci ha fatti imprigionare dai Krepi.

— Quello che è sfuggito ai soldati del giudice, — aggiunse Alfredo.
— Non credevo che quel briccone potesse giungere vivo fin qui. Amici
miei, il pericolo ingrossa e se restiamo qui ancora domani, non
risponderei più delle nostre teste. È necessario questa notte rapire
Bruno o nessuno di noi lascierà più mai la capitale del Dahomey.

— Ma ne avremo il tempo, Alfredo?

— Ora lo sapremo. —

Si rivolse verso Urada e la istruì su quanto doveva chiedere al
prigioniero. La brava ragazza s’affrettò a obbedire.

— Tu devi dirci altre cose ancora che ci preme di sapere, — disse al
prigioniero. — Bada di non ingannarci, poichè noi non ti lasceremo
libero, nè ti daremo l’oro promesso se non quando avremo le prove che
tu avrai detto la verità.

— Sono pronto a parlare, — rispose il sacerdote. — Sono troppo giovane
per morire ed amo l’oro.

— Dove sarà a quest’ora Kalani?...

— Dal re.

— Credi che si fermerà presso Geletè tutta la notte?...

— No, poichè prima dell’alba deve partire per Kana onde portare, sulle
tombe dei defunti monarchi, le teste recise quest’oggi.

— Quante persone vi sono nella casa di Kalani?...

— Due schiavi e due soldati.

— I quali avranno festeggiati i sacrifici di quest’oggi colle bottiglie
del padrone.

— Tutti bevono in tale occasione.

— Gamani, — disse Alfredo, — lega ed imbavaglia quest’uomo e se opporrà
resistenza accoppalo con due pugni. Lo porteremo con noi e se non avrà
mentito, riceverà il premio promesso. —

Avendo Urada tradotto quell’ordine, il prigioniero disse:

— Sono pronto a seguirvi, poichè so che gli uomini bianchi mantengono
sempre le loro promesse. Se vi avrò ingannati, mi ucciderete. —

In quell’istante, al di fuori, si udirono degli scalpitii che
s’avvicinavano rapidamente. Antao ed Alfredo si erano precipitati
nell’ortaglia temendo di venire sorpresi dai soldati di Geletè, ma
tosto emisero un grido di gioia.

Erano il vecchio negro e i due dahomeni coi cavalli.

— Ho mantenuto la parola, — disse il padre di Urada, muovendo
sollecitamente verso i due bianchi. Abbiamo abbandonato l’_apatam_
senza che alcuno se ne accorgesse.

— La popolazione bivacca sempre nelle vie? — chiese Alfredo.

— Non finirà l’orgia prima di domani. Tutti sono ubriachi, compresi
i soldati e le amazzoni, ma ho potuto sapere egualmente dove si trova
Kalani.

— Dal re, è vero!...

— Sì, ma prima dell’alba tornerà a casa, dovendo poi partire.

— Lo so e sarà là che noi lo aspetteremo. Sapreste guidarci, per vie
poco frequentate, alla casa di quel miserabile?...

— Sì, facendo il giro delle ortaglie.

— Allora partiamo subito. Quando il sole sorgerà, Kalani sarà morto e
noi saremo lontani da Abomey.




CAPITOLO XXXIII.

La morte di Kalani


Pochi istanti dopo Alfredo, Antao ed i negri lasciavano la capanna
diroccata per recarsi all’abitazione del loro mortale nemico.

Erano saliti tutti a cavallo, avendo abbandonato le casse vuote o
semi-vuote nell’orticello, onde essere più liberi ed in grado di poter
operare una precipitosa ritirata fuori dalla città, nel caso che il
colpo di mano non dovesse riuscire.

Tutte le armi erano state caricate per essere pronti a respingere
qualsiasi attacco, sia da parte della popolazione che delle truppe.

Il vecchio negro, che aveva inforcato uno dei più robusti quadrupedi,
guidava il drappello facendolo passare fra ortaglie e capanne
disabitate, volendo evitare, fino che lo poteva, l’incontro degli
abitanti, per non destare delle curiosità pericolose. Dietro a lui
venivano i due bianchi sempre camuffati da sacerdoti, poi Gamani,
il quale si teneva sul dinanzi della sella, ma ben stretto, il
prigioniero, quindi Urada ed i due dahomeni i quali tenevano le
carabine in pugno.

Quella parte della città, che doveva essere la meno abitata, era oscura
e silenziosa, ma in lontananza si scorgevano i falò attorno ai quali
beveva e danzava la popolazione e si udivano le urla scordate di quegli
ubriachi, accompagnate sempre dai suoni selvaggi dei barbari istrumenti
musicali.

Pareva che l’orgia avesse raggiunto il più alto grado, poichè i clamori
talvolta erano così assordanti, che Antao ed Alfredo penavano assai a
udirsi.

— Che gole!... — esclamava il bravo portoghese. — Sfido io che quei
cantori abbiano sempre sete!... Berrebbero tutta l’acqua del Koufo, se
i loro sacerdoti fossero capaci di tramutarla in tanto ginepro.

— Quest’orgia colossale favorisce i nostri progetti, Antao, —
rispondeva Alfredo. — Non potevamo scegliere una notte migliore per
tentare l’audace colpo.

— Allora anche Kalani sarà ubriaco.

— Sì, e sarà peggio per lui.

— Vuoi proprio ucciderlo?...

— L’ho giurato la notte che m’incendiò la fattoria e che mi rapì Bruno
e manterrò la parola. Quel mostro è l’anima dannata di Geletè e di
Behanzin, e liberando il Dahomey della sua presenza risparmierò la vita
a migliaia d’infelici.

— È vero, Alfredo. Quel Kalani è il capo dei macellai.

— È lui che ordina i massacri poichè è lui il capo dei sacerdoti.

— Furfante!... Gli farò vomitare sangue e rhum insieme. Ma dove lo
attenderemo?

— A casa sua.

— Entreremo nella sua abitazione?...

— Sì, ma dopo d’aver legati e ridotti all’impotenza i suoi uomini.

— E se non venisse?...

— Verrà: il prigioniero ha detto che deve partire per Kana ed il padre
di Urada ha confermata la notizia. —

Mentre così chiacchieravano, il vecchio negro continuava ad inoltrarsi
fra ortaglie e viuzze deserte ed oscure, procurando di tenersi sempre
lontano dalle vie illuminate dai falò.

Dopo d’aver fatto fare al drappello dei lunghi giri, s’arrestò dinanzi
ad un’alta palizzata formata però di sottili tronchi d’albero, la quale
pareva che racchiudesse un vasto giardino.

— Ci siamo, — disse.

— Da Kalani?... — chiese Alfredo.

— Sì: questo è il suo giardino e laggiù vi è la sua casa.

— Dov’è l’entrata?...

— È qui vicina, ma vi saranno i due soldati a guardia.

— Li ridurremo all’impotenza. Noi siamo sacerdoti, quindi ci sarà
facile avvicinarli. —

Ad un suo cenno scesero tutti da cavallo, incaricarono Gamani e Urada
di guardarli e di sorvegliare il prigioniero, poi seguirono il vecchio
negro.

Voltato un angolo della cinta, si trovarono dinanzi ad un cancello
già aperto, ma guardato da due negri armati di fucile, i quali però
pareva che non avessero bevuto meno degli altri, perchè si tenevano
entrambi appoggiati alla palizzata, come se le loro gambe li reggessero
a fatica. Vedendo tuttavia avvicinarsi quel gruppo di persone si
raddrizzarono, tentennando e chiedendo chi fossero.

— Guardiani dei feticci che cercano Kalani, — rispose il padre di Urada.

— Il padrone è ancora dal re, — dissero.

— Tornerà questa notte?...

— Lo aspettiamo per accompagnarlo a Kana. —

In quel momento Alfredo, Antao ed i due schiavi, che si erano
avvicinati, si scagliarono d’un colpo solo sui due soldati,
afferrandoli per la gola onde impedire loro di gridare e con due pugni
sul capo, abilmente dati, li mandarono a cadere l’uno sull’altro.

— Imbavagliateli e spogliateli, — comandò Alfredo.

— Perchè spogliarli? — chiese Antao.

— I nostri dahomeni si metteranno qui in sentinella, dopo che avremo
occupata l’abitazione. Se Kalani non vedesse le due guardie potrebbe
insospettirsi ed invece d’entrare prendere il largo. —

   [Illustrazione: Entrambi erano caduti a terra, rotolandosi pel
   pavimento. (Pag. 245).]

I due schiavi furono lesti ad eseguire quegli ordini, poi afferrarono
i due negri e li trasportarono sotto una tettoia che si trovava in un
angolo dell’ortaglia, semi-nascosta da un gruppo di palme.

Intanto il padre di Urada si era recato ad avvertire la figlia e Gamani
ed aveva fatti entrare i cavalli, facendoli nascondere, assieme al
prigioniero, sotto la tettoia.

— Urada rimanga a guardia dei prigionieri e dei cavalli, — disse
Alfredo. — Uno dei vostri schiavi rimanga in sentinella dinanzi al
cancello per avvertirci dell’arrivo di Kalani e gli altri mi seguano.

— Andiamo a occupare la casa? — chiese Antao.

— Sì.

— Allora prepariamoci a scaricare un’altra tempesta di pugni. Bisogna
picchiare, ma senza far fracasso. —

Alfredo ed i suoi compagni, attraversata rapidamente l’ortaglia, si
erano arrestati dinanzi all’abitazione di Kalani.

Era una costruzione massiccia, che somigliava un po’ al palazzo reale,
ma di gran lunga più piccola, con numerose finestre somiglianti a
feritoie ed il tetto piatto.

Tutto all’intorno la ombreggiava una doppia fila di maestosi sicomori,
i quali dovevano nasconderla o quasi, agli occhi dei vicini abitanti.

Alcune feritoie del pianterreno erano illuminate e da quelle uscivano
delle voci umane assai allegre, alternate a rumorosi scrosci di risa.
Probabilmente anche gli schiavi del capo dei sacerdoti festeggiavano,
con del ginepro o con della birra di sorgo, la grande giornata.

Alfredo, prima di entrare, guardò attraverso una di quelle feritoie
e vide quattro negri ed una donna seduti attorno ad un rozzo tavolo
coperto d’una stuoia, sul quale stavano alcuni vasi, numerose tazze e
qualche bottiglia rovesciata.

Quei poveri diavoli, approfittando dell’assenza del temuto padrone,
facevano un po’ di gazzarra, bevendo e ridendo.

— Quegli schiavi non sono tali da opporre resistenza, — disse Alfredo
ad Antao, che lo interrogava. — Tra pochi minuti, mio fratello sarà fra
le mie braccia. Armate i fucili e seguitemi. —

La porta era aperta, non occorreva quindi forzare l’entrata. I cinque
uomini s’inoltrarono in punta dei piedi, per piombare d’improvviso
addosso ai servi. Attraversarono dapprima una stanza oscura, procedendo
con precauzione per tema di urtare contro qualche ostacolo poi,
dopo d’aver percorso uno stretto corridoio, irruppero nella camera
illuminata puntando i fucili, mentre il vecchio negro gridava, con voce
minacciosa:

— Chi si muove è uomo morto!... Ordine del re!... —

I quattro schiavi e la negra si erano precipitosamente alzati
rovesciando i vasi e le tazze, ma vedendo quei cinque fucili puntati
e udendo quelle parole erano ricaduti sui loro sedili, tremando di
spavento, mentre la loro tinta da nerastra diventava grigia, cioè
pallida.

— Tutti a terra!... — disse il vecchio. — Nessuno opponga
resistenza!... —

I cinque schiavi caddero in ginocchio, balbettando:

— Non uccideteci. —

Gamani ed il dahomeno, che avevano portato con loro delle corde e
dei fazzoletti, imbavagliarono e legarono le braccia e le gambe a
quattro, mentre il padre di Urada interrogava il quinto, minacciando di
fracassargli il cranio se avesse tardato a rispondere.

— Dov’è il tuo padrone?... — gli chiese.

— Dal re, — balbettò lo schiavo.

— Tornerà questa notte?...

— Sì perchè deve partire prima dell’alba.

— Tarderà molto?...

— Non lo credo. Noi lo aspettavamo per seguirlo.

— Dove si trova il fanciullo dalla pelle bianca che Kalani ha qui
condotto?...

— Nella stanza del padrone.

— Chi veglia su di lui?...

— Nessuno.

— Dorme?...

— Poco fa dormiva.

— Guidaci subito da lui. —

Gli fece cenno di precederlo, mentre Antao s’impadroniva d’una specie
di torcia di fibre vegetali imbevuta d’olio d’elais.

Il negro, che era più morto che vivo per lo spavento, li condusse in
un secondo corridoio il quale saliva al piano superiore e s’arrestò
dinanzi ad una porta, dicendo:

— È qui. —

Alfredo ed Antao, in preda ad una viva emozione, si erano precipitati
innanzi, aprendola impetuosamente.

In mezzo ad una stanzuccia quasi spoglia di mobili, ma colle pareti
coperte di belle stuoie dipinte a vivaci colori ed illuminata da una
lampada d’argilla, su di un grande cuscino giaceva un bel ragazzo
dalla pelle assai abbronzita, dai capelli neri e ricciuti, dal profilo
ardito, che rassomigliava moltissimo a quello d’Alfredo, e dalle labbra
vermiglie. Poteva avere dieci anni, ma il suo corpo, assai sviluppato,
poteva adattarsi ad uno di tredici o di quattordici.

Quel giovanetto dormiva tranquillamente, come si fosse trovato in piena
sicurezza invece che sotto il tetto del più feroce e vendicativo uomo
del Dahomey. Solamente le sue nere e sottili sopracciglia che si erano
incrociate, dimostravano che qualche pensiero o qualche cattivo sogno
turbava un po’ il suo sonno.

Alfredo gli si era precipitato sopra mandando un grido di gioia,
l’aveva afferrato fra le robuste braccia e se l’era stretto al petto
coprendolo di baci ed esclamando con voce rotta:

— Bruno!... Mio Bruno!... Ti rivedo finalmente, fratellino
mio!... —

Il ragazzo, svegliato bruscamente, aveva aperti i suoi grandi occhi
neri guardando, come trasognato, quell’uomo che se lo stringeva al
petto come fosse impazzito ed istintivamente aveva fatto un gesto come
per respingerlo, ma ad un tratto aprì le braccia e le rinchiuse attorno
al collo del fratello, gridando:

— Alfredo!... Sogno io?... No.... vedo anche il signor Antao!...
Fratello!... Signor Antao!...

— Morte di tutte le stelle del firmamento!... — tuonò il portoghese,
che non trovava più alcun nome dei suoi pianeti favoriti, tanta
era la sua commozione. — Qui, fra le mie braccia, fanciullo mio!...
Morte del Dahomey!... Sono tutto scombussolato!... Toh!... Che strano
fenomeno!... I miei occhi sono bagnati!... —

Il bravo giovane aveva strappato il ragazzo dalle braccia d’Alfredo e
se l’era stretto al petto, tempestandolo di baci, mentre Gamani, che
pareva fosse impazzito per la gioia, gli ballava intorno, gridando:

— Il padroncino!... Il padroncino!... Oh Gamani è contento di vederlo
libero!...

— Silenzio!... — esclamò ad un tratto il padre d’Urada, che si era
avvicinato ad una feritoia. — Ho udito il fischio d’allarme di mia
figlia.

— Ci segnala l’avvicinarsi di Kalani, — disse Gamani.

— Kalani!... — esclamò il ragazzo, con accento di terrore. — Alfredo,
fuggi o ti ucciderà.

— Fuggire io!... — disse il cacciatore, rizzando fieramente l’alta
statura. — Sarò io che ucciderò Kalani, mio Bruno. —

Poi, volgendosi verso il suo schiavo e verso Gamani:

— Scendete nell’ortaglia e appena Kalani sarà entrato chiudete il
cancello onde non ci sfugga. —

Prese il giovane fratello, se lo alzò fino alle labbra e lo baciò,
quindi lo ricoricò sul cuscino, dicendogli:

— Rimarrai qui con questo negro mio amico, il quale veglierà su di te.
Qualunque cosa accada, non ti muoverai.

— Ma cosa vuoi fare, fratello?...

— Compiere un giuramento che feci la notte che ti rapirono. Silenzio ed
aspetta il mio ritorno. —

Fece cenno ad Antao di seguirlo, mentre il padre di Urada imbavagliava
e legava lo schiavo che li aveva guidati in quella stanza.

I due bianchi scesero a pianterreno, trascinarono gli schiavi in un
corridoio vicino, poi si misero in osservazione alle feritoie.

Kalani era allora entrato nell’ortaglia e s’avviava verso la sua casa,
scortato dalle due sentinelle che aveva trovate dinanzi alla cancellata
e che di certo non sospettava che fossero nemiche.

Indossava ancora il costume di gran sacerdote che aveva sfoggiato al
mattino per comandare la festa del sangue e pareva che fosse molto
alticcio, poichè il suo passo era incerto, tentennante. Doveva aver
bevuto parecchie bottiglie con Geletè, Behanzin ed i gran _cabeceri_.

Attraversò l’ortaglia canterellando fra i denti, salì i tre gradini,
passò la stanza oscura ed entrò in quella illuminata, gridando:

— Schiavi dannati, entra il padrone!... Accorrete, se non volete che
faccia scorticare la vostra vecchia pelle. —

Ad un tratto arretrò. Aveva scorto i vasi rovesciati e le sedie gettate
a terra. Diffidente per natura, sospettò forse qualche tradimento,
poichè aprì il mantello mettendo la destra sull’impugnatura del largo e
pesante coltello che usano portare i dahomeni.

Non ebbe però il tempo di estrarlo: due uomini armati di fucile erano
improvvisamente entrati.

Alfredo si avanzò verso il miserabile che era rimasto immobile, come
pietrificato e strappandosi di dosso il mantello di sacerdote, gli
chiese con accento terribile:

— Mi riconosci, Kalani?... —

Il negro aprì la bocca come se volesse rispondere, ma nessun suono
gli uscì. Cogli occhi sbarrati, schizzanti dalle orbite, guardava il
suo mortale nemico senza essere capace di fare un gesto. La sua pelle
era però diventata orribilmente grigiastra, mentre i suoi lineamenti
esprimevano un terrore impossibile a descriversi.

— Tu non mi aspettavi, è vero Kalani? — disse Alfredo con ironia. —
Ora che mi hai conosciuto, preparati a morire, poichè la notte che tu
hai assalito la mia fattoria e assassinati i miei negri, ho giurato di
ucciderti e manterrò la promessa. —

Kalani, dinanzi a quella minaccia, ebbe un lampo di suprema quanto
inaspettata energia.

Estrasse il largo coltello e balzò indietro per riparare nell’altra
stanza, ma andò a urtare contro i due dahomeni che lo avevano
silenziosamente seguito e che furono lesti a respingerlo coi calci dei
fucili.

Vedendosi accerchiato, il miserabile volle tentare uno sforzo
disperato. Fece appello a tutta la sua audacia e col coltello alzato si
scagliò come una belva addosso ad Alfredo, sperando di sorprenderlo.

Antao aveva gettato un grido e si era gettato innanzi, ma il cacciatore
l’aveva preceduto. Lesto come una tigre, aveva evitato il colpo
mortale, poi aveva afferrato l’avversario pel collo.

Entrambi erano caduti a terra, rotolandosi pel pavimento. Antao ed i
due dahomeni si erano gettati addosso a loro per cercare di uccidere il
negro, ma la tema di colpire il cacciatore li faceva esitare.

Ad un tratto Kalani mandò un urlo di fiera ferita ed allargò la
stretta, mentre Alfredo si rialzava prontamente, tenendo in pugno
il largo e pesante coltello dell’avversario, lordo di sangue fino
all’impugnatura.

Il capo dei sacerdoti, l’anima dannata di Geletè, si rotolò due volte
pel pavimento, lasciandosi dietro una larga striscia di sangue, poi
rimase immobile. Il cacciatore aveva mantenuto il suo giuramento,
spaccandogli il cuore.

— È morto, — disse Antao, che si era curvato su Kalani.

— I miei negri sono vendicati, — rispose Alfredo con voce cupa. — Orsù,
fuggiamo!... —

   [Illustrazione: Fuggivano a precipizio, senza arrestarsi....
   (Pag. 247).]




CONCLUSIONE


Un quarto d’ora dopo, ricompensato il prigioniero che li aveva guidati
alla casa di Kalani, Alfredo, Bruno, Antao, Urada, suo padre, Gamani ed
i due dahomeni, abbandonavano la capitale, galoppando verso l’est, onde
frapporre fra loro ed i soldati di Geletè il Sou.

Fuggivano a precipizio, senza arrestarsi, temendo di vedersi alle
spalle le sanguinarie bande del despota, il quale non doveva tardare
di certo a fare inseguire l’ambasciata, la cui fuga misteriosa doveva
avergli fatto nascere dei sospetti, specialmente dopo la morte di
Kalani.

Galopparono quasi tutto il giorno seguente, non facendo che delle
brevissime soste per accordare un po’ di riposo ai cavalli e non si
risolsero a pernottare se non quando si trovarono nei dintorni di Akpa.

I giorni seguenti continuarono quella fuga indiavolata attraverso i
terreni paludosi del Dahomey centrale, attraversando successivamente il
Sou e l’Akpa, i due principali affluenti dell’Ouzme, arrestandosi solo
un giorno a Keton, una delle ultime borgate del regno di Geletè, poi si
gettarono nei paesi degli Egbas.

Solamente allora si permisero il lusso di procedere con più calma e con
frequenti fermate, non avendo ormai più da temere alcun inseguimento da
parte dei dahomeni, formando gli Egbas una popolazione indipendente,
una federazione di tante piccole repubbliche che godono una civiltà
relativamente avanzata.

Mantenendosi presso le frontiere del Dahomey scesero lungo le rive
della Zeava fino all’altezza di Pokra, poi ripiegando verso l’ovest
rientrarono in Porto Novo, ventiquattro giorni dopo la loro partenza
da Abomey. La loro fermata presso il loro amico Tofa fu breve, avendo
Alfredo risoluto di dare un addio alla Costa d’Avorio per tornarsene in
patria, essendo ormai possessore d’una ingente fortuna ed Antao di far
ritorno al Portogallo per curare le numerose _fazende_ che possedeva a
Santa Caterina.

Il 24 luglio, dopo d’aver accordata la libertà ai due dahomeni
che li avevano serviti con tanta affezione e di averli largamente
ricompensati, Alfredo, Bruno, Antao, Gamani, Urada e suo padre
s’imbarcarono su di un veliero che partiva da Kotonou diretto a
Monrovia, la capitale della repubblica negra di Liberia.

Quattordici giorni dopo, Alfredo, suo fratello ed il fido Gamani
prendevano posto sul piroscafo che fa il servizio mensile coll’Europa,
mentre Antao s’imbarcava pel Portogallo conducendo seco Urada, per
la quale provava già qualche cosa più d’una semplice affezione, ed il
padre di lei.

Il bravo e coraggioso portoghese aveva però promesso di fare tutti
gli anni una scappata in Italia per vuotare, in compagnia del valente
cacciatore della Costa d’Avorio, una bottiglia di quell’eccellente vino
dell’Etna che conosceva di fama.

Antao ha mantenuto fedelmente là promessa e ancora oggi, nella stagione
invernale, si reca a Catania a trovare l’amico ed il giovane Bruno, ma
non giunge però solo.... Lo accompagna l’ex-amazzone del feroce Geletè,
divenuta, da parecchi anni, la signora Urada Carvalho.




INDICE


  CAP. I       Sulle rive dell’Ouzme                   Pag. 1
   »   II      I misteri delle foreste                      8
   »   III     La scomparsa di Gamani                      14
   »   IV      Il fanciullo rapito                         22
   »   V       L’odio di Kalani                            30
   »   VI      I tenebrosi disegni del cabecero di Geletè  37
   »   VII     Il re di Porto Novo                         43
   »   VIII    La carovana                                 52
   »   IX      L’assalto notturno dei Leoni                59
   »   X       La repubblica dei Popos                     66
   »   XI      Il «mpungu»                                 74
   »   XII     La scomparsa dell’amazzone                  81
   »   XIII    La caccia al gorilla                        89
   »   XIV     Le tracce dei ladri                         94
   »   XV      La caccia ai rapitori                      101
   »   XVI     Le formiche carnivore                      108
   »   XVII    Il regno degli Ascianti                    116
   »   XVIII   Caccia ad un elefante                      122
   »   XIX     Sulle terre degli Ascianti                 128
   »   XX      Il supplizio d’un ladro nell’Ascianti      136
   »   XXI     Attraverso la regione dei Krepi            144
   »   XXII    Assediato in una trappola da elefanti      151
   »   XXIII   L’imboscata dei Krepi                      161
   »   XXIV    I fabbricatori di pioggia                  171
   »   XXV     La Città Santa del Dahomey                 180
   »   XXVI    Il padre di Urada                          189
   »   XXVII   Il cabecero Ghating-Gan                    198
   »   XXVIII  Il ritorno di Gamani                       204
   »   XXIX    Nella tana del leone                       212
   »   XXX     Le stragi della «festa dei costumi»        217
   »   XXXI    La spedizione notturna                     225
   »   XXXII   L’incendio del recinto sacro               232
   »   XXXIII  La morte di Kalani                         238
  CONCLUSIONE                                             247




NOTE:


[1] Informi divinità, rappresentanti per lo più mostri o persone
orribili, burlescamente camuffate, che i negri della Costa adorano.
Generalmente sono di legno o di creta.

[2] Questo Behanzin è lo stesso che intraprese la guerra contro i
francesi, perdendo il trono e la libertà.

[3] Storico.

[4] Bottiglia di vimini contenente dei sassolini ed adorna di
conchiglie bianche.

[5] Questa regione è ora un possedimento della Germania.

[6] Storico.

[7] Anche Behanzin ci teneva assai alla sua orchestra e si dice che
provasse un gran dolore, quando le armi vittoriose del generale Doods
la mandarono a rotoli.

[8] Questo Ghating-Gan prese parte attiva anche nella guerra contro
i francesi guidati dal generale Doods. Fu questo cabecero che fece
arrestare, nel 1890, i negozianti francesi di Widhah, tenendoli
prigionieri per novantatrè giorni, minacciando ad ogni istante di
decapitarli e facendoli sovente maltrattare dai soldati.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA COSTA D'AVORIO ***


    

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